Indigo

di A_Typing_Heart
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** As the wheel turns ***
Capitolo 2: *** Concealing gold ***
Capitolo 3: *** An ordinary legend ***
Capitolo 4: *** Auris Academy ***
Capitolo 5: *** Lotus blooms ***
Capitolo 6: *** Behind the mask ***
Capitolo 7: *** Fire of Prometheus ***
Capitolo 8: *** A single breath ***
Capitolo 9: *** Born hero ***
Capitolo 10: *** Weaving ties ***
Capitolo 11: *** Starless sailor ***
Capitolo 12: *** The woman on the canvas ***
Capitolo 13: *** Sound of Silence ***
Capitolo 14: *** Suddenly the call ***
Capitolo 15: *** Man of worth ***
Capitolo 16: *** Out of the ashes ***
Capitolo 17: *** Loveless in Tokyo ***
Capitolo 18: *** Somber memories ***
Capitolo 19: *** A new hearth ***
Capitolo 20: *** (De)classified ***
Capitolo 21: *** Marked for fall ***
Capitolo 22: *** Game of terror ***
Capitolo 23: *** Unforgettable nightmare ***
Capitolo 24: *** City on fire ***
Capitolo 25: *** Bone to pick ***
Capitolo 26: *** Long lost comrades ***
Capitolo 27: *** True colours ***
Capitolo 28: *** Wherever the angels are ***
Capitolo 29: *** Inherited Justice ***
Capitolo 30: *** The Eastern, the Western and the Fallen ***
Capitolo 31: *** D's opening gambit ***
Capitolo 32: *** Before the thunder ***
Capitolo 33: *** Hero's essence ***
Capitolo 34: *** Shot in the dark ***
Capitolo 35: *** The next defender ***
Capitolo 36: *** First spin of Samsara ***
Capitolo 37: *** Epilogue: Fade to sky blue ***



Capitolo 1
*** As the wheel turns ***


Nell’ombra, il bambino fissava i soldati che passavano davanti alla sua cella. Lo faceva ogni giorno da quando si trovava lì, e da che si ricordava era sempre stato lì, nel sito militarizzato 3270.

Il suo carceriere attuale si chiamava Haxley: era un uomo con le mani ruvide, gli occhi freddi e un accento pesante. Aveva un odore pungente di sudore misto a deodorante che ricordava un acquitrino e un alito da fumatore, ed era sempre sgarbato con lui.

Si scostò appena dalla feritoia per il vassoio per non farsi accorgere mentre spiava l’uomo che lasciava il suo posto di guardia per la consueta fumata, poi incollò la guancia alla porta seguendolo fino in fondo al corridoio. Con una flessione delle sopracciglia quasi impercettibile si ritirò per sedersi sulla sua brandina.

Il deserto era gelido di notte, quindi il soldato spense la sua sigaretta strofinandola contro il muro di cemento grezzo e si affrettò a rientrare dopo solo qualche tiro. Gli anfibi appesantivano il passo e l’eco nel corridoio spoglio. L’uomo alla guardiola non commentò la velocità della sua fumatina e gli riaprì la porta facendogli un cenno con la testa.

«Ehi, Haxley, hai fame?»

Haxley aveva già superato la porta e tornò indietro di un passo per notare che il suo commilitone aveva un panino avvolto nella carta e delle patate fritte in un cestino.

«Da dove arriva quella roba? Di sicuro non dalla mensa.»

«Cosa pensi, che l’abbiano consegnata a domicilio da Reno? Ne ha portati Walker quando è rientrato dal permesso due ore fa, s’è fatto riempire una borsa termica.»

«Dio benedica quel gran figlio di puttana» commentò sentitamente Haxley, e prese il panino e le patatine. «Non voglio debiti coi canadesi, ma per questa volta…»

L’altro soldato rise di gusto e si mise a sintonizzare la piccola televisione per cercare un canale con segnale stabile.

«È del Maine» gli fece notare per l’ennesima volta.

«E che ho detto io? Canadesi.»

Il soldato scosse la testa e Haxley superò la porta chiudendosela alle spalle. Provato da troppe settimane di pessimo cibo della mensa scartò l’hamburger e ne prese il più abbondante boccone che riuscisse; poco gli importava che fosse appena tiepido e ignorò persino i detestabili sottaceti. In quel momento gli sembrava che non esistesse qualcosa che si accompagnasse meglio a carne e formaggio.

Sfilò davanti alla fila di celle fino a raggiungere il suo tavolo malconcio e la sua sedia scomoda, e su quell’umile trono divorò il cheeseburger come fosse stato lui il prigioniero affamato. Con l’ultimo boccone ancora sotto i denti e la salsa sbavata sulla faccia tentò di sintonizzare anche la sua televisione portatile per poter vedere la partita dei Dallas Cowboys.

«Avanti, piccola» incalzò l’apparecchio. «Fammi vedere quanto sei brava…»

Lo schermo si colorò di immagini e il suo buonumore salì ulteriormente riconoscendo familiari figure in bianco e blu su fondo verde.

«Cazzo, dev’essere il mio giorno fortunato… forse dovrei piazzare una scommessa sulla partita.»

Sedette più comodo possibile con il cestino di patate in grembo ascoltando i commenti del prepartita. Da un momento all’altro la voce del cronista gli rimbombò nella testa assordandolo: si tappò le orecchie e nel gesto brusco il cestino di patatine rovinò a terra. Pochi secondi dopo era tutto di nuovo normale e Haxley si accorse del disastro sul pavimento.

«Di nuovo lui» ringhiò, e si scaraventò via dalla sedia. «EHI, SACCO DI MERDA!»

Si diresse alla cella più vicina e colpì la porta con un pugno furioso.

«Te l’ho detto l’altra volta, sacco di merda! Non fare i tuoi giochetti del cazzo con me, o vengo lì dentro e ti gonfio la faccia a calci!»

Il bambino con gli occhi scarlatti lo fissava dalla finestrella, senza un’espressione sul volto e come sempre non parlò. L’assenza di reazioni era intollerabile per un uomo dello stampo di Haxley, che tempestò la porta di pugni nel vano tentativo di strappargli almeno un sussulto.

«Ehi, Haxley!» fece la voce allarmata del commilitone in fondo al corridoio. «Che succede?»

«Niente… niente» replicò l’uomo, fissando l’impassibile bambino dietro la porta. «Niente, lo stronzetto del diavolo sta facendo uno dei suoi giochetti da pezzo di merda.»

«Devo chiamare il colonnello?»

«Non serve… ora se ne starà buono.»

Haxley tornò al suo tavolo, ribollente di furia frustrata, poi ebbe un’idea degna di un sostenitore convinto del nonnismo qual era lui. Si affrettò a raccattare la patatine nella vaschetta e tornò alla porta della cella, con un sorriso storto.

«Ehi, Sashko… Sashko

Il bambino girò la testa. Per la prima volta la sua faccetta espresse un accenno di stupore nell’essere chiamato per nome.

«Dai, è una buona giornata oggi. Voglio essere gentile con te.»

Posò la vaschetta di patatine davanti alla feritoia per i pasti.

«Ti piacciono le patate, no? Piacciono a tutti» fece lui, tentando di ingolosirlo. «Facciamo un patto: tu te ne stai buono e io ti do queste patate da mangiare. Ci stai?»

Sashko si alzò dalla brandina a terra, sistemandosi l’orlo del camice grigio che indossava prima di avvicinarsi. Osservava il cibo con vivo interesse e Haxley fu sicuro di aver vinto.

«Ho la tua parola allora?»

Il bambino annuì senza guardarlo e il soldato gli spinse le patatine dall’altra parte, dove avide manine se ne appropriarono. Soddisfatto di quella rivincita e pregustandosi la partita in tranquillità tornò al suo tavolo, dove rimase ad entusiasmarsi per un quarto di gioco.

Poi, successe di nuovo qualcosa. Il suo campo visivo divenne completamente nero per qualche attimo prima di tornare normale, divenne nero, poi tornò, e ancora si oscurò. Una rabbia cieca quanto i suoi occhi in quel momento esplose dentro di lui; si alzò scaraventando via la sedia e marciò fino alla porta della cella. Il bambino fissava la finestrella e poté incrociare il suo sguardo.

«Piccolo schifoso, te la sei cercata!» gli urlò contro, e con le mani che fremevano aprì le due serrature metalliche della vecchia porta e la spalancò. «Ti stacco quella cazzo di testa, brutto–»

Un altro momento di buio e Haxley cadde in ginocchio, ciondolò e si accasciò di lato nel momento in cui la sua testa smise di rotolare nel corridoio. Sashko, ansimando, tentò di toccarsi la schiena che gli faceva così tanto male ma non ci riuscì, e con l’affievolirsi del dolore rinunciò a raggiungerla e si strinse le braccia all’altezza dei gomiti.

Osservò il corpo di Haxley, con il sangue che sgorgava a fiotti dal collo, e poi la testa fuori dalla porta. Con i piedini nudi scavalcò le gambe del soldato e uscì dalla cella con circospezione, ma non vide nessuno e non sentì grida o allarmi. Si accovacciò accanto alla testa con gli occhi ancora aperti osservandola con vivo interesse; girava la testolina bruna a destra e a sinistra, rimuginando. Alla fine, la raccolse tenendola dall’orecchio e la portò con sé avviandosi verso la porta in fondo a quel corridoio, da dove veniva un buon profumo.

*

Un altro sorvegliante di Sashko era il soldato Randall. Non era aggressivo e brusco come Haxley, ma era così impettito e parlava in modo così pomposo che il bambino lo trovava il più buffo degli individui della base.

J.T. Randall infatti aveva tutte le ragioni per sentirsi orgoglioso e mostrare con fierezza il badge di accesso dell’esercito: era un soldato dal curriculum brillante, che un tempo si era sentito svilito dall’essere proposto per un misero incarico di guardiano in una remota base militare nel Nevada. Poi, una volta istruito sulla vera natura del luogo e della sua mansione, aveva preso quel lavoro molto seriamente e, nei limiti della segretezza impostagli, si vantava con tutti di avere grandi responsabilità.

Tuttavia Randall, come Haxley, non era preoccupato dai suoi prigionieri: non credeva che indulgere in una partita a carte con i compagni, guardare un film durante il turno di guardia o l’appoggiare il fucile leggermente fuori portata potesse originare il caos e abbattere la tragedia sul mondo come l’apertura del vaso di Pandora.

Quando uscì dal bagno allacciandosi la cintura non pensava che fosse una sera diversa dalle altre duecentoventisei che aveva passato lì, e i suoi pensieri erano tutti rivolti all’imminente permesso che stava per ottenere e alla fidanzata che l’aspettava in tempo per il suo compleanno.

«E mangerò davvero bene» borbottò a se stesso, di ritorno alla sua guardiola. «Barbecue, appena ritorno… con torta di zucca e gelato, patate fritte, maionese e poi finalmente sesso

Dolci fantasie della sua sensuale Jessica lo distrassero dalle scene del film d’azione sul piccolo schermo, facendolo sorridere istintivamente; allungò la mano e recuperò una lattina di caffè nero freddo dal cassetto della sua scrivania. Dalla sua ultima missione in Giappone non era ancora riuscito a fare a meno di farsene spedire periodicamente da conoscenze del luogo. Era una delle ultime e le scorte tardavano ad arrivare, per questo quando a un tonfo seguì uno schizzo di qualcosa sulla sua faccia e sulla lattina si arrabbiò più di quanto fosse sua natura.

«Ehi– Haxley, che cazzo…?»

La sua ira sfumò in paura e le sue imprecazioni in un grido quando capì che cosa fosse stato a schizzare contro di lui: la testa di Haxley aveva sbattuto contro le sbarre e il sangue aveva spruzzato il pavimento, la scrivania, il suo viso e i suoi vestiti. Gridando senza senso il suo nome si precipitò a raccogliere il fucile nell’angolo, si scapicollò nel corridoio imbracciandolo e andò al punto in cui era caduta la testa. Era allarmato, ma proseguì con la circospezione di un soldato navigato: se c’era la sua testa doveva sincerarsi di dove fosse il resto del corpo; e se sopra ci avesse trovato una testa che rideva di lui era ben pronto a farle saltare tutti i denti a pugni.

«Haxley» chiamò mentre avanzava. «Se è uno scherzo del cazzo dillo ora, o ti sparo a vista!»

Non ottenne risposta, ma non se l’aspettava davvero. Che il suo collega avesse preparato una testa simile alla sua, il sangue e un trucco per lanciarla solo per fargli uno scherzo macabro era eccessivo anche per un tardivo Halloween, e Haxley era sprovvisto di senso dell’umorismo.

Si bloccò nel corridoio, sentendo un brivido lungo la schiena. Come avrebbe potuto quella testa essere lanciata da tanto lontano nel corridoio da permettere ad Haxley o qualcun altro di nascondersi dietro la postazione del guardiano in un attimo? Seppe allora di aver già superato l’autore del macabro gesto.

Non fece in tempo a voltarsi. Gridò mentre qualcosa gli squarciava la schiena da sotto in su con tanta forza da sollevarlo da terra, il fucile esplose alcuni colpi consecutivi per riflesso delle dita, e quando J.T. Randall toccò il pavimento era già morto. La sua testa atterrò subito dopo il resto del corpo.

Sashko mise i piedini a terra e il suo sottile gemito fu l’ultimo rumore nel corridoio. Con profonde fitte di dolore alla schiena e il sangue che gli colava lungo le gambe barcollò più in fretta che poté – il sangue rendeva scivoloso il pavimento - fuori dalla porta lasciata aperta.

*

Sul fare del giorno, in una stanza a molte miglia dal Nevada, un telefono dallo squillo discreto suonò nel buio. Il rumore fece inquietare la figura nel letto, che dopo essersi voltata da un fianco all’altro emerse dalle coperte per affrettarsi verso lo scrittoio con un’andatura zoppicante.

«Reiner» disse l’uomo, con la voce ancora impastata.

«Colonnello Reiner, qui Mauden… signore, si tratta di un’emergenza.»

«Lo voglio sperare per te, qui sono le cinque del mattino, Mauden.»

«Mi scuso per questo, signore» replicò lui impaziente. «Ma abbiamo una falla sulla nave, signore.»

L’espressione seria che si dipinse sul viso del colonnello diceva che aveva colto un senso più profondo di quelle parole.

«Quale nave?»

«Sashko, signore.»

L’uomo si raddrizzò appoggiandosi allo scrittoio.

«L’avete ricondotta al porto?»

«No, signore… noi… al momento, non sappiamo quale sia l’attuale posizione della nave.»

Il colonnello digrignò i denti e prese i pantaloni accuratamente piegati con un gesto stizzito.

«Chi è stato? Chi l’ha fatto uscire? O mi darai la testa del responsabile o le prenderò tutte, Mauden!»

Seguì un silenzio imbarazzato, poi con una voce malferma Mauden parlò.

«Veramente, signore… è… Sashko ha già provveduto, signore. Tutti i soldati di guardia sono morti… e… quasi tutti con la testa staccata dal collo.»

«Che cos’hai detto, soldato?» scandì l’uomo, incredulo.

«Tutti, signore. Due soldati erano tornati alticci dal loro permesso e non si sono svegliati quando è stato dato l’allarme… tutti gli altri che hanno cercato di riprenderlo sono morti.»

Reiner rinunciò al goffo tentativo di vestirsi con una mano sola e si afflosciò come un sacco vuoto sulla sedia davanti allo scrittoio. In quanto uno dei pochi a conoscenza delle reali applicazioni e portata del progetto Solomon Reversed comprendeva che per quanto affranto Mauden non aveva la più pallida idea della piaga che avevano lasciato uscire dalla base.

«Per quanto sia pericoloso, ha pur sempre il corpo di un bambino» fece allora, più controllato. «Non può attraversare il deserto del Nevada di notte come fosse un prato fiorito. Chiama truppe dalle basi più vicine, metti una taglia per trovarlo nei centri abitati, ma trovalo. Io parto immediatamente.»

Aspettò a malapena una risposta e agganciò la cornetta. Si alzò con difficoltà ma con uno schiaffo sbloccò il muscolo danneggiato della sua gamba per vestirsi più velocemente possibile, mentre rifletteva con aria grave sul da farsi. Preso il bastone, il cappello e una leggera valigia di effetti di prima necessità aveva una scaletta ben chiara delle azioni da intraprendere – com’era non sorprendente per un uomo con la sua esperienza militare – ma non poté non rammaricarsi che tra tutti i soggetti della base 3270 fosse sfuggito al controllo proprio quello.

*

La nave rollava appena nelle forti correnti del Pacifico, data la stazza imponente. Percival percorse il ponte corridoio infilando la vestaglia, con la mente che correva a dozzine di scenari che potessero giustificare la convocazione del capitano a quell’ora tarda. Non arrivando a niente si affrettò a raggiungere il ponte superiore, quasi deserto.

Il capitano stava ammirando un cielo stellato brillante, libero dall’inquinamento luminoso delle città, seduto su una tovaglia a quadri. Accanto a lui era inginocchiata la sua compagna, con capelli del suo stesso azzurro luminoso ma molto più lunghi. Tra di loro caramelle sparpagliate, frittelline in un piatto, una ciotola di frutta tagliata e una bottiglia: sembravano nel pieno di un picnic notturno.

«Oh! Percival, non stavi dormendo, vero?»

«No» le rispose lui avvicinandosi. «Stavo per andare a letto quando ho pensato di scrivere una lettera a mio fratello. Stavo scrivendo quando Arthur mi è venuto a chiamare.»

Il capitano si girò per rivolgergli un gran sorriso.

«Non c’è bisogno di quella faccia seria, Percival… vieni a sederti. Io e Lyria stiamo aspettando la cometa.»

«Credevo che sarebbe arrivata tra due giorni. Sei sicuro di poterla vedere questa notte?»

«Oh, sì. La sento avvicinarsi» replicò lui, come annunciasse un temporale da tuoni lontani. «Siediti, dai. Abbiamo un po’ di tè al mango qui, e cibo a sufficienza. Non devi perdertela, non passerà per i prossimi centootto anni, dopotutto.»

Percival scrutò il profilo del capitano mentre prendeva posto a un angolo della tovaglia. Non era una novità che se ne uscisse con criptiche affermazioni e ben poche trovavano una spiegazione logica, ma d’altronde aveva davanti una delle creature più potenti al mondo… e anche una delle più misteriose, per quanto lo riguardava.

«Che cosa c’è di speciale in questa cometa, a parte la sua rarità?»

«Oh, è unica nell’universo… in quest’epoca si chiama Solomon, ma un tempo la chiamavano Sharui Avakti, “la lacrima della dea”. Qualche popolo credeva che fosse il punto visibile della ruota del destino, e che vederla significasse che un ciclo era stato concluso.»

Gran sapeva di essere misterioso nell’accennare a certe cose e gli dispiaceva non poter essere totalmente cristallino, ma anche se aveva creato un intero equipaggio per perseguire un nobile scopo non riteneva fosse saggio rivelare loro tutto ciò che lui sapeva.

Sorrise a Percival, che lo guardava senza neanche provare a nascondere l’irritazione che i suoi segreti gli provocavano.

«Dopo il suo passaggio ci sarà un bel po’ di lavoro… questa cometa crea sempre un grande scompiglio quando attraversa il cielo. In un certo senso è davvero la ruota del destino: rimescola le carte del genere umano, si può dire, e cambia il corso della storia… non c’è motivo di pensare che non farà lo stesso anche questa volta.»

Lyria, che teneva il bicchiere di tè con entrambe le mani, annuì con un vago sorriso e gli occhi puntati sul firmamento.

«Non state esagerando? Transiterà per una sola settimana e darà un po’ fastidio agli Auris, tutto qui. Come può questo cambiare il corso della storia?»

Gran si grattò il mento, ma non era in cerca di una risposta quanto invece del modo di formularla.

«Prova a seguirmi» fece dopo un po’. «Metti che ci sia da qualche parte, in una città qualsiasi del mondo, un Auris potente quanto te. Metti che sia giovane e molto spaventato dal suo potere, e convinto di volerlo nascondere per tutta la vita.»

Puntò l’indice verso il cielo.

«Però proprio mentre quel ragazzo vive in questa convinzione Sharui Avakti fa il suo corso, si avvicina alla Terra e scatena il suo potere mandandolo fuori controllo. Tutti scoprono chi è, quanto talento ha… allora un Ribelle e un Civil Hero cercano di persuaderlo a diventare come loro.»

Percival emise un verso scettico, ma aveva capito che cosa intendesse dire: il passaggio della cometa in quel caso avrebbe causato la nascita di un grande eroe che salvava vite o di un Ribelle che avrebbe potuto anche causare immani disgrazie, avendo in entrambi i casi impatto sulla società del paese e forse del mondo. Mettendola in quel modo, per quanto ipotetico, era sensato dire che una cometa poteva cambiare la storia.

«Ho afferrato… ma noi troveremo quello che stiamo cercando, con la cometa?»

«Non c’è dubbio.»

Gran sorseggiò il tè guardando il cielo, ma non aggiunse altro. Lyria invece colse la perplessità di Percival davanti a tanta sicurezza.

«Proprio perché la Sharui Avakti causa tanto caos sappiamo di trovarlo in questa epoca… lui c’è sempre quando passa la cometa!»

Percival non aveva bisogno di chiedere: si era unito all’equipaggio da abbastanza tempo da aver sentito il suo capitano parlare della sua missione svariate volte e sapeva che con “lui” intendevano la creatura che deteneva in sé il Principio della Ruota, il potere innato e unico di condurre qualsiasi cosa al cambiamento, innalzandola alla gloria imperitura o affossandola nella miseria più assoluta senza alcuna ragione di merito.

Avrebbe voluto chiedere se la cometa fosse in qualche modo in grado di rivelare loro dove la Ruota si trovasse, ma mentre stava per aprire bocca Lyria emise un gridolino sorpreso e indicò un punto molto più vicino all’orizzonte di quanto si aspettassero. Sharui Avakti, la lacrima della dea, sembrava una sottilissima linea rossastra, come un graffio sulla pelle del cielo. La vista di quella piccola luce dipinse un’espressione dolce e triste sul viso di Gran e anche Lyria sorrise in modo malinconico, il che non era affatto consueto per lei.

«Che nostalgia…»

«Sì» convenne Gran. «È una visione nostalgica… sembra quasi di tornare a casa dopo tanti anni.»

Percival li guardò prendersi per mano mentre guardavano la piccola scia rossa tagliare il cielo del tropico del Capricorno. Sentendosi di troppo decise che fosse meglio andare a finire quella lettera e fece per alzarsi, ma Gran lo trattenne: aveva posato la tazza e con la mano destra gli aveva afferrato il polso.

«Aspetta ancora un po’, Percival… tra poco la cometa diventerà azzurra.»

«Uhm? Cambia colore?»

«Oh, sì… muta dal rosso all’azzurro durante tutto il suo percorso orbitale…»

«E suppongo che chiederti come tu faccia a saperlo sia da sciocchi» buttò lì Percival, con amaro sarcasmo.

«Non essere così melodrammatico, Percy» fece lui, posando la testa sulla sua spalla. «Non è certo la prima volta che l’umanità vede quella cometa e l’ha descritta con cura ogni volta. Basta sapere dove cercare.»

Era una risposta ovvia e si pentì di aver parlato al capitano in modo così sgradevole a causa della sua frustrazione. Restò con loro, anche se sedeva particolarmente rigido.

«Cambia colore per una reazione di tipo chimico o elettromagnetico?»

«I motivi tecnici potrebbero essere tanti, compresi quelli che hai citato… ma credo sia soltanto perché a lei piace giocare.»

Lyria emise una risatina allegra. Nessun altro parlò, neanche quando la cometa, dopo essersi ingrandita mentre scalava la volta celeste, divenne azzurra. Tutti e tre pensavano, riflettevano, ognuno sul suo principale scopo e rimuginando sui loro timori.

Dopotutto, da qualche parte, la Ruota stava per riprendere a girare.

*

«Capisci che va fatto, vero, Breaker?»

«Sì, certo.»

L’uomo con gli abiti bianchi e i capelli dello stesso colore si fermò nel corridoio dalle piastrelle grigie e aprì la porta di metallo davanti a loro, prima di voltarsi a guardare il ragazzo. I suoi occhi viola chiaro riflettevano la luce scarsa del corridoio con una rifrazione che li faceva sembrare cangianti.

«Hai tutto quello che ti serve?»

«Sì, Emperor-sensei… ma non c’è bisogno di tanta serietà» disse il ragazzo, sorridendo con calore. «Si tratta solo di avere un po’ di pazienza… e io ne ho!»

Il ragazzo passò davanti all’uomo in bianco per poggiare la sua borsa in fondo alla brandina. Emperor dal canto suo era a disagio, come fosse un padrone che si vede costretto ad abbandonare il suo animale domestico.

«Allora ti lascio. Vado a vedere come sta Restless.»

Il ragazzo perse il sorriso, ma annuì.

«Domattina ti farò sapere le sue condizioni.»

«Grazie, Emperor-sensei.»

Lui fece per richiudere la porta di metallo, ma esitò quando l’aveva quasi completamente accostata.

«Breaker, quel tuo cagnolino… se serve, magari io potrei…?»

«L’ho lasciato ai ragazzi… se ne prenderanno cura al posto mio.»

«Ah… bene. Vedo che hai pensato a tutto. Allora buonanotte.»

«Buonanotte, sensei.»

Emperor chiuse la porta, ma non se ne allontanò. Sentì il ragazzo al suo interno aprire la zip e canticchiare a bocca chiusa. Non avrebbe mai smesso di stupirsi della tempra di alcuni dei suoi allievi.

Prese la targhetta di cartone infilata nel supporto d’ottone sulla porta, che recava la scritta “archivio studenti”, e con la penna che si era portato dietro dall’ufficio vi scrisse dietro il nome del nuovo inquilino. Soddisfatto della riuscita su un cartellino tanto piccolo intascò la penna, infilò la targhetta girata e si avviò lungo il corridoio, lasciando scorrere lo sguardo viola sulle finestre e sul cortile fiocamente illuminato. Le luci rosse davano un aspetto sinistro al piazzale dell’accademia, ma servivano da monito agli studenti per ricordare che era severamente vietato uscire con il buio fino a nuova disposizione del loro preside.

Scese le scale senza fretta. L’effetto della cometa iniziava prima del previsto, ma questo era un bene per Restless: le capacità curative amplificate dei soccorritori avevano di certo già rimediato i danni arrecati da Breaker. Non era preoccupato per lui dato che era già in ripresa quando aveva allontanato Breaker dal dormitorio.

Dovrei andare lo stesso?

Non era al suo studente che pensava, ma al magazzino sotterraneo, quello sulle cui scale stava puntando lo sguardo sebbene da quella distanza lo vedesse a malapena. Sapeva che entrarci sotto l’influenza della cometa poteva essere pericoloso… se non addirittura disastroso. Lo sapeva, ma qualcosa dentro di lui lo chiamava. Sentì un formicolio che dal basso ventre salì fino al petto come la schiuma di una bibita agitata. Senza fronteggiare né la ragione né la paura scese a passo più svelto e uscì nel cortile.

Le luci rossastre erano ancora più spettrali viste dal basso, come grandi, inquietanti occhi rossi che lo fissavano mentre camminava dove a chiunque altro non era permesso. Percorse ancora un lungo tratto di strada dopo aver lasciato il piazzale e arrivò in cima alla rampa che scendeva al magazzino numero sette, all’apparenza identico ai molti altri magazzini della scuola interrati nel suo vasto campus. Impaziente, scese alla porta di robusto acciaio temperato, inserì le credenziali necessarie, si lasciò scansionare la retina da uno scanner la cui luce verde fece ancora una volta mutare il baluginio dei suoi occhi lilla in uno sprazzo dorato. Alla fine, con un misto di paura ed eccitazione data dal pericolo, guardò le due porte stagne aprirsi una di seguito all’altra.

La stanza era come la ricordava l’ultima volta che ci era entrato, ormai diversi anni prima: una sala lunga ma con la parete in fondo coperta di pannelli di cassette di sicurezza grandi abbastanza da poterci stipare bauli, disposte su nove righe numerate e venticinque colonne.

Lo sguardo passò sulla cassetta nella fila sette, in alto a destra, che gli apparteneva. Al suo interno i resti di un passato che l’aveva reso celebre, ma anche molto infelice. Scorse la colonna fino a terra, dove trovava la fila zero con la prima cassetta segnata dal doppio zero e ancora una volta lo colpì il medesimo pensiero di circostanza.

Non mi spiego perché numerarle da destra a sinistra alla giapponese e poi scrivere i numeri delle colonne dal basso verso l’alto…

Gli sembrava che il suo amico Kikyo una volta avesse provato a dargli una risposta, ma in completa onestà non la ricordava più. O era stata una risposta sciocca data per dire qualcosa, o lui era molto distratto.

Digitò i tre zeri per aprire quella cassetta, e una fredda voce artificiale gli chiese di dichiarare quale fosse il contenuto. Ulteriore precauzione per chi avesse provato ad appropriarsi dei segreti di qualcun altro, ma dato che la cassetta era sua non c’era alcun problema… se non fosse stato che la voce gli mancò.

«Avanti, Ran, dillo… dillo e mi vedrai di nuovo.»

Emperor rabbrividì al suono di quella voce e, come se si fosse appena svegliato dal sonnambulismo, si chiese che cosa diavolo stesse facendo là dentro. Annullò l’operazione con un tasto e cercò di ricordare come fosse la procedura per non registrare quell’operazione sospesa nel registro interno.

«Ah, non fare così, Ran, combatti… non fare il coniglio, non lasciarlo vincere!»

«Sta’ zitto!» sbottò Emperor, che stava sudando freddo per l’agitazione. «Non parlare, o giuro che do fuoco a tutto il magazzino!»

«Kufu… sono anni che minacci invano di farlo» disse la voce beffarda. «E comunque, non stavo parlando con te, ma con Ran. Non ti intromettere nei discorsi di altri, sii educato, quanto meno.»

«TACI!»

Riuscì a cancellare l’accesso di quella sera dal registro attività mentre la voce ridacchiava, bassa e profonda. Senza neanche osare un’occhiata da quel lato del magazzino girò i tacchi e uscì spedito, tirando un sospiro di sollievo soltanto quando le due porte stagne si richiusero.

Devo essere pazzo ad avvicinarmi a quella cosa infernale…

Nell’aria fredda sentiva il sudore che gli inumidiva la fronte e il collo. Aveva ancora il fiato corto quando salì qualche gradino e sentì la voce ben nota chiamarlo.

«Byakuran!»

Nella luce rossastra che avvolgeva il cortile la figura di Night Hound appariva demoniaca: il cappotto nero come ali a riposo, i lunghi capelli turchesi erano una massa fluida color viola-blu, e il suo viso pallido era reso più affilato e crudele dalla luce impietosa.

«Ah… sei tu.»

«Che cosa facevi qui?»

Dato che era appena risalito dalle scale di un magazzino ad alta sicurezza sarebbe stato stupido negare, ma dato che nemmeno l’amico di lunga data conosceva tutto ciò che vi nascondeva dentro non poteva essere sincero con lui.

«Controllavo che fosse tutto in ordine. Mi era parso di vedere qualcuno in cima alle scale quando sono andato a chiudere Breaker nella cella.»

«Davvero?» fece lui sorpreso, e lanciò un’occhiata alla doppia porta. «Ed è tutto a posto?»

«Sembra di sì. Forse una delle guardie si è solo fermata a controllare che non ci fosse nessuno in fondo alle scale.»

«Capisco. Sì, è possibile» convenne Night Hound. «Mad Horse ha dato disposizione di pattugliare con più cura il cortile interno, nel caso ai ragazzi venisse in mente di sgattaiolare fuori.»

«Ottimo consiglio» replicò Byakuran mentre un cipiglio di rimprovero gli si formava sul viso. «Peccato che qualcuno lo dovrebbe informare che vale anche per il suo pupillo.»

Night Hound si voltò seguendo la linea del suo sguardo e come lui arrivò alla coppia che si avvicinava lungo la strada di mattonelle di cotto. Mad Horse era senza maschera e in abiti civili, con gli scompigliati capelli biondi resi rosati dalla luce falsata. Accanto a lui il suo allievo che non risentiva quasi dell’atmosfera scarlatta: con il costume rosso fuoco e i capelli corti e scuri era solo la sua pelle a cambiare colore.

«Horse, “coprifuoco per gli studenti” significa tutti gli studenti, anche il tuo» lo rimbeccò appena fu abbastanza vicino da distinguergli il sorriso sornione.

«Che ti dicevo, Kyoya?» fece lui ignorandolo del tutto. «Sono sempre viola!»

«Mhh… che strano» commentò sottovoce Kyoya, grattandosi il mento mentre fissava Wing Emperor.

«Di che cavolo state parlando?»

«Gli occhi, degli occhi, Emperor!» sospirò Mad Horse indicandoseli. «È un po’ che ci faccio caso, ma i tuoi occhi hanno una rifrazione strana… nella luce della sera sembrano più chiari, a quella del sole più viola, e allo scanner sembrano dorati… e anche adesso restano lo stesso viola brillante. Ti si riconosce a distanza.»

Byakuran, che ovviamente notava di rado il colore dei propri occhi, ne fu sorpreso e guardò Night Hound in cerca di conferme o smentite. Lo vide annuire.

«Beh, sì. È vero» ammise lui con una certa riluttanza. «E in realtà li ho visti diventare quasi blu a volte. Color indaco, all’incirca.»

Non sapeva come interpretare quell’ennesima stranezza della sua persona, ma decise di ignorarla puntando i suoi occhi – di qualsiasi colore fossero in quel momento – su Mad Horse e il suo allievo.

«E siete usciti in pieno coprifuoco per venire a vedere di che colore fossero stavolta?»

«No, certo, ti abbiamo solo incontrato strada facendo…»

«Quale strada facendo?»

«Ahah… è un interrogatorio?» fece Mad Horse nervoso. «Ho solo pensato di tenere compagnia a Kyoya stanotte… vuole stare sveglio ed essere informato regolarmente delle condizioni di Restless.»

«Mi dispiace, sensei. Non pensavo che fosse un problema» si scusò Kyoya con un accenno di inchino. «Se volete che rispetti il coprifuoco nel nostro dormitorio farò come dite voi.»

Servile come al solito.

Byakuran sospirò e gli diede un colpetto sulla spalla.

«Va bene, vai. Horse, niente giochetti, capito? Niente uscite notturne, niente allenamenti scarica-nervi, o altre scemenze del genere. Il coprifuoco vale per tutti, anche per i classe S.»

«Sì, Capitano, mio Capitano~»

«Allora toglietevi da qui alla svelta.»

«Buonanotte, Emperor~»

«Buonanotte, sensei, grazie.»

Kyoya fece un rapido inchino a Emperor e Night Hound prima che Mad Horse lo trascinasse lungo la strada. Avevano l’aria di chi sta pianificando una marachella e l’aspetti con gioia infantile, ma Byakuran non aveva alcuna prova e poteva solo sperare che la paura della sua reazione – il grande fondamento della disciplina che aveva imposto – bastasse a fargli mantenere quell’impegno.

«Che cosa mi dici, Kikyo?» fece allora, guardando l’amico. «Che ne pensi?»

«Ah… scusa, Byakuran, ma ho già preso il farmaco…»

Night Hound aggrottò le sopracciglia mentre chiudeva gli occhi e stringeva la radice del naso con le dita.

«Nel pomeriggio non riuscivo più a ignorare gli odori di tutti e di qualsiasi cosa. Quel surplus di impulsi olfattivi quasi mi impediva di concentrarmi su suoni e immagini e mi aveva già fatto venire un’emicrania pazzesca.»

«Davvero?»

«Sì, è stata una cosa improvvisa» fece lui riaprendo gli occhi. «Ho pensato fosse meglio prenderlo prima di rischiare lo shock sensoriale.»

«Saggio, ma non mi aspetto nulla di incosciente da parte tua.»

Byakuran diede una pacca amichevole sul braccio dell’amico e si avviò verso l’edificio centrale dal quale era arrivato. Non poteva dire di non essere stato fortunato: il fatto che avesse già assunto il farmaco gli aveva anche impedito di sospettare o scoprire per certo che aveva mentito sulla sua visita al magazzino numero sette. Sì, si era preparato molto tempo prima un’esca da usare per impedire di svelare il terribile segreto della cassetta 000, ma il rischio esisteva comunque e sarebbe esistito finché non si fosse deciso a sbarazzarsene anziché custodirlo.

E dopo quasi quindici anni che tentava di convincersi a liberarsi da quella catena dubitava di riuscire mai a farlo davvero.

«Suppongo che io e te potremo proseguire l’attività senza contenerci» osservò Night Hound quando furono soli nell’ascensore. «Certo, io sono un po’ inutile… forse riducendo il dosaggio…»

«Il dosaggio va bene» lo contraddisse Byakuran in tono incolore. «La Sharui Avakti si farà più forte quando apparirà nitidamente nel cielo, quindi domani con la stessa dose dovresti essere in grado di usare il tuo naso come fai di solito.»

Perso nei suoi molti pensieri alla vigilia di un giorno tanto importante e di una settimana così intensa non fece caso allo sguardo confuso che l’amico gli lanciò.

«Sha… intendi la cometa Solomon, no? Come accidenti l’hai chiamata?»

Byakuran guardò Kikyo in silenzio solo per dipingersi sulla faccia la medesima espressione costernata, che si fece via via più punteggiata di orrore.

«Ah… non… non ne ho idea. Chissà che cavolo ho sentito e ho mischiato questa volta» fece Byakuran, e si massaggiò la fronte. «Perdonami, sono veramente esausto. Sto dando i numeri.»

«È un qualche mantra, quella parola?»

«Sì, sì, infatti» mentì prontamente lui, e sgusciò fuori dall’ascensore all’ultimo piano. «Scusa, Kikyo, ma ho davvero bisogno di dormire. Chissà dove finiremo se domani inizio a dire e fare cose senza senso.»

«Sì, capisco perfettamente.»

In effetti Kikyo trattenne a fatica uno sbadiglio e stiracchiò le braccia.

«Filerò anche io a letto immediatamente.»

«Ottima idea, la copierò.»

«Allora buonanotte, Byakuran.»

«Buonanotte.»

Kikyo gli fece un incerto sorriso e sbadigliò di nuovo avviandosi in fondo al corridoio, verso la sua stanza. Byakuran attese di vederlo sparire all’interno prima di entrare nella sua, la terza porta a sinistra dall’ascensore.

Puntò dritto all’armadio e lo spalancò, vi affondò le mani dentro alla ricerca di vestiti nascosti sotto una pila di costumi e abiti di colore bianco, ma quando li trovò non li indossò.

Fissò lo sguardo sulla parete spoglia come se vi ci fosse scritto qualcosa di interessante e molto lentamente vi si accostò e posò i palmi, l’orecchio e il petto contro il muro. Fece un profondo respiro e spalancò le ali.

Le sue ali bianche e luminose riempivano la stanza e premevano contro le pareti e il soffitto. Sotto l’influenza della cometa sentì nettamente il suo potere aumentare a dismisura; anche a distanza di parecchi uffici riuscì a sentire il battito del cuore del suo amico, la tensione muscolare rilassarsi, il respiro rallentare e le sue cellule aumentare e diminuire specifiche funzioni mentre scivolava verso il sonno. Sapeva che stava per addormentarsi, ma non riuscì a distogliere l’attenzione dalla moltitudine di impulsi che sentiva nel corpo. Gli pareva di poter sentire, se solo vi ci fosse concentrato, il livello di attività di ogni cellula; forse all’apice del passaggio della cometa sarebbe arrivato a sentire la vita stessa pulsare in ogni cellula non solo sua, ma di ogni persona di quell’edificio…

Ahh… questo potere così grande…

Byakuran graffiò leggermente il muro serrando le mani a pugno.

Usarlo a questi livelli… non è difficile credere che dia davvero dipendenza, è una sensazione inebriante…

Faticò a staccare il viso dal muro e lasciò vagare i suoi occhi lilla vacuamente sulla mano; le sue dita tremavano appena.

«Ah… percepire la vita in questo modo… sembra di essere un dio…»

«Vorresti esserlo, Ran?»

La voce profonda nella sua mente era poco più di un sussurro, ma lo spaventò a sufficienza da farlo tornare in sé: le sue ali scomparvero, la sensazione di piacevole formicolio svanì insieme alla sua percezione amplificata. Si ritrovò con il fiato corto e la fastidiosa sensazione di sudore ghiacciato sulla pelle.

Accidenti… devo stare attento, potevo andare anche io in shock sensoriale…

Sospirò per regolarizzare il respiro e si passò la mano dietro il collo, scoprendo con sorpresa che il suo costume dalla schiena scoperta era già slacciato in quel punto. Si accigliò cercando di ricordare se avesse cominciato a spogliarsi prima di controllare se il suo amico fosse andato a dormire.

«Forse sono state le ali» ipotizzò in un sussurro, anche se poco convinto.

«Forse no~»

Si girò di scatto per scandagliare la stanza, ma era vuota. Sospirò e cercò di calmarsi. Sapeva che l’aspettava una settimana problematica e che era appena diventata più complicata. Si spogliò con la sgradevole paranoia di essere osservato e si rivestì in abiti civili gettandosi continuamente occhiate furtive alle spalle.

Riuscì a rilassare la muscolatura e l’animo soltanto una volta messe un paio di strade tra sé e il muro di cinta dell’edificio.

*

Il viottolo nei pressi del ponte era poco illuminato, ma piuttosto vivace. Byakuran era contento di esserci arrivato anche solo per essersi allontanato dalle luci rosse del coprifuoco e dalla sensazione di essere guardato a vista.

Lasciò che l’automobile blu scura ripartisse prima di attraversare la carreggiata e raggiungere il marciapiede di fronte. Una donna dai lunghi capelli neri e lisci e occhi a mandorla molto accentuati dall’eyeliner sbuffò il fumo di una sigaretta mentre lo guardava passarle vicino e mise in mostra dallo spacco dell’abito una lunga gamba sensuale.

«Cerchi compagnia, tesoro?»

Byakuran si fermò e la guardò fisso. Era una bella donna, sia i suoi capelli che la sua pelle erano lisci e lucidi, ma vederla fumare gli diede un presagio difficile da elaborare in modo logico. Allungò la mano per toccarle il braccio e non appena le sfiorò la pelle ebbe conferma dei suoi sospetti.

«Dovresti smettere di fumare» le disse con una sfumatura di rimprovero. «Non ti resta molto se continui così.»

«Eh? Ma che vuoi, rompipalle?» sbottò lei strattonando il braccio. «Vai, togliti dai piedi!»

La donna si allontanò da lui per appoggiarsi stizzita a un palo della luce e non lo degnò più di uno sguardo. Byakuran la guardò a lungo, come se volesse imprimersi i suoi lineamenti nella memoria perché non l’avrebbe più rivista; distolse gli occhi soltanto quando si sentì sfiorare la spalla delicatamente.

«Ciao!»

Era felice di vedere la ragazza con i capelli biondi, ma il sorriso che gli aveva suscitato si spense subito alla vista dei lividi e della ferita sul labbro, nascosti solo in parte dal trucco.

«Cos’è successo, Demi?»

«Oh… niente… un ubriaco mi ha preso per la sua ex mentre ero con un altro uomo» fece lei in tono leggero, come parlasse di un laccio di scarpa spezzato dall’usura. «Sei venuto per Amber? Non c’è, è andata dal dentista. Per qualche giorno non può lavorare.»

Gli dispiacque un po’ di non poter vedere Amber prima della settimana infernale che lo aspettava, ma durò molto poco. Sfiorò il viso di Demi con una carezza leggera.

«Non fa niente. Tu vai benissimo.»

Demi fece una risatina a labbra chiuse e gli prese la mano con fare intimo.

«Di sopra?»

«Di sopra.»

«Seguimi!»

Camminarono mano nella mano per un bel pezzo del viottolo e nel mentre altre donne in attesa scambiarono un sorriso o un cenno con l’uomo dagli occhi viola.

Salite le scale esterne di una palazzina Demi usò la chiave per fargli strada in un confortevole bilocale con un ampio letto con le lenzuola di un color giallo acceso. L’intera stanza era decorata da tende e oggetti in toni accesi di giallo e arancione: riflettevano con la massima sincerità l’allegria e l’energia che contraddistinguevano Demi.

«Ah, è bello caldino qui dentro, vero?» chiese lei mentre gli toglieva di dosso il cappotto. «Sei silenzioso oggi, qualcosa non va? Giornata pesante?»

«Pesante è dire poco…»

«Non preoccuparti, ora c’è Demi qui con te a farti sentire meglio!»

La ragazza passò le mani sul suo petto sopra la maglia e si alzò in punta di piedi per baciarlo; sentì sgradevole la ferita sul suo labbro e ancora più ripugnante l’eco che gli arrivò dal corpo di lei: oltre ai lividi sul viso aveva molte altre brutte lesioni.

Devono averla imbottita di antidolorifici per farla stare in piedi in queste condizioni…

Interruppe quel bacio e la bloccò quando cercò di dargliene un altro.

«Non baciarmi, stai sanguinando dal labbro.»

«Oh, mi spiace… ma non preoccuparti, okay?» fece lei con un certo disagio. «Demi farà lo stesso tuuutto quello che ti piace~»

«Può darsi… ma più tardi.»

Byakuran si sfilò la maglia e nel farlo fece cadere anche il berretto dai capelli bianchi. Senza rispondere a nessuna domanda spogliò Demi con delicatezza, studiò le sue ferite a vista e con le mani. Erano molto gravi, in condizioni normali non sarebbe riuscita neanche a camminare con lesioni simili.

«Stenditi sul letto e chiudi gli occhi.»

«Uh? Che vuoi fare?»

«Non farà male» le fece, rassicurante. «Mi conosci… sai che non sono quel tipo di uomo.»

La giovane bionda si sdraiò supina dopo un’iniziale riluttanza e chiuse gli occhi, le braccia spalancate, lasciandosi inerme con fiducia. Byakuran coprì quei due passi di distanza, salì sul materasso sopra di lei e le coprì gli occhi con la mano mentre le depositava un bacio leggero poco sopra il seno.

Adesso.

Per la seconda volta quella sera le ali bianche si spalancarono; fu difficile trattenerle a una dimensione che non urtasse qualcosa nella piccola stanza. Demi emise un gemito stupito inarcando appena la schiena, ma non si sottrasse e non cercò di spostare la mano per guardare. Quando Byakuran tolse la mano dal suo viso e la baciò sul fianco sia le ali bianche che i molti lividi sulla pelle chiara di lei erano scomparsi. Demi, accortasi della sparizione delle ferite vistose nei punti meno facili da truccare, era sbalordita e senza parole.

«Ma… ma…»

«Possiamo cominciare come al solito?»

«Eh?… Ah…»

La giovane diede un’altra occhiata perplessa alle braccia e alle gambe e si sfiorò il labbro mentre il suo cliente si sdraiava sulla schiena affondando la testa nel cuscino. Con un rinnovato buonumore e un sorriso ancora più smagliante di prima si voltò verso di lui.

«Sicuro di non volere qualcosa di speciale? Per esempio, Demi che fa tuuutto per te, come se fossi un re?»

Byakuran annuì con aria distratta, con un pensiero preciso che gli girava nella mente con tanta insistenza da frustrare i primi approcci di Demi. A quel punto decise di mettere alla prova le sue ali mentre la cometa Solomon ascendeva allo zenith della sua orbita.

«Demi, senti… quella ragazza con quei capelli così lunghi… quella con quell’abito blu.»

«Ah, Fuyumi-chan? Ti ho visto parlare con lei prima… poverina, cerca di lavorare, ma sta così male che ormai non la vuole nessuno, sai, i clienti si sono dati la voce tra loro.»

«Credo di averla fatta arrabbiare.»

«Yue-kun, anche Demi è molto arrabbiata! Continui a pensare a un’altra!»

«Scusami, ma… mi chiedevo se tu potessi convincerla a venire qui con noi.»

La ragazza biondina lo guardava come fosse un alieno mutaforma in piena trasformazione.

«Tu che vuoi due ragazze insieme? Stai bene, Yue-kun?»

«Sto bene, ma… possiamo dire che oggi è un giorno speciale. Direi… che potrebbe essere unico nella mia vita.»

Demi parve confusa da quella vaga spiegazione e recuperò tentennante i suoi abiti, ma poi si studiò la pelle integra e parve capire le sue intenzioni, perché divenne frettolosa e corse fuori dall’appartamento.

Rimasto solo, Byakuran si mise seduto sul bordo del letto lasciandosi andare a un sospiro.

Sto facendo la cosa giusta?

Guarire persone ferite è sempre una cosa giusta.

Sì, ma… continuare a fare questo, a essere un loro cliente… io dovrei fare qualcosa, salvarle da questa vita, non fare come tutti quegli altri uomini…

Sì, questo è disgustoso. Non è degno della figura di Wing Emperor e sistemarsi la coscienza con una cura quando serve è esattamente come essere un medico che dispensa pillole alle ragazze dopo averne approfittato. È immorale, è ripugnante, e tu lo sai.

Byakuran si stropicciò la faccia con le mani nel tentativo di non dare retta a quella voce che sentiva nella testa, quella sua coscienza così rigida, autoritaria e intransigente che così spesso lo rimproverava per ogni singolo comportamento meno che “perfetto”. Essere un giovane uomo ed essere il simbolo dell’eroismo, della purezza, della legge e della difesa dei deboli era profondamente stressante per i contrasti che generava.

Rimase seduto lì, a bearsi dell’oscurità dietro le palpebre e dell’eco lontana delle voci e delle auto in strada, crogiolandosi nel silenzio – seppure, lo sapeva, denso di disappunto – della sua inflessibile coscienza finché la porta non venne di nuovo aperta. Incrociò lo sguardo con la bella donna dai capelli mori, che lo fissò con disgusto come se stesse anche lei giudicando la sua condotta di vita.

«Sei Fuyumi, vero?» esordì lui, raddrizzando la schiena. «È il tuo vero nome?»

«Che te ne importa?»

Non ha ancora digerito quello che le ho detto prima.

«Non è un problema se non vuoi dirmelo. È un bel nome, comunque.»

Byakuran allungò la mano verso di lei. Per diversi secondi lei la guardò e lo fissò in volto senza decidersi ad avvicinarsi al letto o a prendere la mano che le veniva tesa.

«Come fanno tutte le ragazze qui, puoi chiamarmi Yue. Non è il mio vero nome, come immaginerai. Forse ora, senza il berretto, mi hai anche riconosciuto… se è così, ti chiedo di tenere il mio segreto, Fuyumi.»

L’espressione della donna era così tesa che Byakuran ne colse che l’aveva riconosciuto e non sapeva come comportarsi dopo avergli risposto bruscamente prima.

«Perdonami per averti parlato così indelicatamente… ma pensavo che potrei fare qualcosa per te…»

La sua espressione si indurì immediatamente.

«In cambio di che cosa? Questo è il mio lavoro e non posso non guadagnare. Non siamo liberi professionisti.»

«Non mi fraintendere, ti prego. Posso pagare il tempo di tutt’e due… so come stanno le cose per voi. Lo so bene.»

Alla fine Fuyumi si decise a muovere qualche passo e a prendere la mano che le tendeva. Stringendola Byakuran la tirò appena per farla sedere sul letto; vista da vicino aveva splendidi lineamenti e occhi, ma si notavano le tracce di una malattia che andava prolungandosi.

«Resta con noi… so che posso farti sentire meglio.»

Fuyumi gli lanciò un’occhiata incuriosita e altezzosa al tempo stesso; una messinscena più per Demi che per un uomo che al momento attuale la comprendeva meglio di chiunque altro.

«Solo questo?»

«Beh, per questo… e perché sei una donna splendida.»

Fuyumi spostò i suoi lunghi capelli neri in un guizzo di vanità, facendo loro catturare la luce con bagliore violaceo.

«Allora… Yue, hai detto? Allora Yue, cosa ti piace fare? Io non ti conosco ancora.»

«Te lo spiego io!» intervenne Demi. «A Yue-kun piacciono sempre le stesse cose, è uno abitudinario!»

«Non dirlo come fosse una cosa noiosa» protestò debolmente Byakuran. «La routine è una cosa confortante quando hai una vita piena di imprevisti…»

Ma nessuna delle due donne l’ascoltò, prese già a dare e ascoltare istruzioni che riepilogavano le solite serate di Byakuran in quel vicolo cittadino. Con un sospiro si rimise sdraiato sul letto e fu lieto che Demi ricordasse di spegnere quasi tutte le luci sparse nella stanza: gli bastò guardare Fuyumi togliere il suo abito blu per sentirsi arrossire. Aveva un corpo più alto e snello, ma lo stesso seno generoso di Amber che a Demi mancava e che a lui, in completa onestà, piaceva moltissimo.

Per quanto fosse un amante della routine, dei momenti riposanti e si crogiolasse volentieri tra il familiare e il prevedibile, quando scambiò il primo bacio con Fuyumi dimenticò completamente che dividere il letto con due donne era un’esperienza nuova per lui e vi si abbandonò con la stessa pace delle altre volte. Niente più pensieri turbolenti riguardo il lavoro, le circostanze eccezionali, il protocollo di contenimento, la voce nella testa e la cassetta di sicurezza. Per lui quelle ragazze erano molto di più dell’insieme di corpi attraenti e giochi erotici usati sapientemente: sapevano disconnetterlo da ogni sua preoccupazione per una lunga ora di libertà dalle vestigia di Wing Emperor.

*

Quando Byakuran aprì gli occhi nella penombra della stanza seppe che aveva sforato l’orario concordato. Voltò la testa verso la sveglia sul comodino, che Demi definiva “tassametro”, e scoprì di aver passato in quella stanza più di due ore.

Devo sbrigarmi a tornare… meglio che non sappiano che sono stato fuori proprio stanotte.

Demi non era nel letto e lo spiraglio di luce sotto la porta del bagno gli suggerì che stesse per farsi la doccia; venne subito confermato il sospetto dal rumore del getto d’acqua. Guardò invece Fuyumi, addormentata accanto a lui e coperta soltanto a metà. Gli ricordava una statua greca per la sua bellezza e l’armonia delle sue forme. Cercò di sfilare il braccio da sotto di lei senza svegliarla, ma fu inutile: aprì gli occhi già vigili e lo trattenne afferrandogli il gomito.

«Ah… sei sveglia…»

Senza replicare lei si alzò e gli fu sopra a carponi in un secondo.

«Fuyumi, devo tornare… si è fatto tardi per me.»

«Mi hanno detto che cosa fai… mi hanno detto di Sumiko, per esempio.»

Byakuran preferì non replicare alla sua affermazione per non esporsi. Nella luce scarsa che proveniva dalla finestra scorgeva solo forme vaghe del suo viso, ma la vide sorridere.

«I tuoi occhi brillano nel buio, Wing Emperor. Come la speranza.»

«Che cosa vuoi, Fuyumi?»

«Portami via di qui.»

Byakuran sospirò. Non che non volesse aiutarla, ma nel pieno del passaggio della cometa avrebbe avuto tanto di quel lavoro da non avere tempo tanto per lo svago quanto per le sue attività umanitarie.

«Questo è un periodo delicato… voglio dire, questa settimana–»

Si bloccò a metà frase sentendo qualcosa strisciare sulla sua pelle, qualcosa di vivo; sussultò quando capì che quello che si stava avvolgendo intorno al suo braccio era un piccolo serpente e che quello veniva dalla chioma scura di Fuyumi. Una chioma che si stava trasformando in decine di serpenti, facendola apparire come una gorgone.

Byakuran riuscì a malapena ad elaborare la situazione prima che la terrificante visione svanisse e i serpenti tornassero innocue ciocche di meravigliosi capelli scuri.

«So… che cosa succederà questa settimana» sussurrò lei. «Per questo… portami via, Wing Emperor.»

«Sei un’Auris.»

Fuyumi non rispose e non annuì; non ce n’era bisogno. Byakuran prese la sua decisione.

«Vestiti, Fuyumi… ti porto al sicuro.»


 

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Capitolo 2
*** Concealing gold ***


Al ragazzo batteva il cuore un po’ più forte di quanto fosse disposto ad ammettere mentre in ginocchio davanti a un suo coetaneo con indosso la medesima uniforme del liceo lo guardava negli occhi. Prese un respiro profondo e si scostò i capelli neri piuttosto lunghi dietro l’orecchio.

«Il mio cuore grida mentre strappo dalla mia memoria le pagine che abbiamo scritto in due… perché un destino freddo non lascia che stiamo insieme…»

Mukuro prese una pausa, poi snocciolò con più sicurezza le frasi che ormai conosceva a memoria anche se le aveva scritte in un impeto solo il pomeriggio precedente. Il suo compagno di scuola non disse una parola, ascoltando con attenzione senza schiodare gli occhi da quelli blu di lui, e dopo un lungo silenzio sorrise e si sfilò la cuffia dall’orecchio sinistro.

«È perfetta, Mukuro! Metrica perfetta, e con una musica così non è affatto un pezzo da ragazzine! Questo è il tuo masterpiece finora, hai superato persino Helldreaming!»

«Sì, sono soddisfatto anch’io del testo» convenne Mukuro, cercando di mascherare almeno un po’ lo spaventoso picco di orgoglio che sentiva.

«Come la vuoi chiamare?»

«Loveless. È così che si chiama» affermò lui senza esitazione sfilandosi la cuffia dall’orecchio destro. «Allora? La userete per il concorso?»

«Devo farla sentire agli altri, ma io voglio farlo. Questa canzone è una bomba.»

«Lo so» fece con un sorrisetto soddisfatto, mollando ogni maschera di umiltà. «Non presento qualcosa se non sono sicuro di cosa ho fatto.»

«Sì, sì, lo so, lo so… ma senti, quel pezzo famoso?»

«Uh? Di che parli?»

«Lo sai… quella che non hai ancora finito, niente da quel fronte?»

Subaru sedette più comodo contro il muro e spezzò a metà un panino farcito per dividerlo con Mukuro. Lui, come se ciò fosse una consuetudine, lo prese senza ringraziare e rimuginò sulla domanda, accigliato come ogni volta che un discorso andava a parare lì.

«Mh… non riesco ancora a inquadrare il mood di quella canzone.»

«Mh? In che senso?» bofonchiò Subaru mentre masticava.

«Non parlare mentre mangi, ti hanno forse cresciuto i maiali, a te?»

Subaru si limitò a grugnire e Mukuro scoppiò in una breve risata, poi sospirò e guardò il cielo che andava facendosi scuro. La scia rossa della cometa Solomon era un graffio sull’azzurro del cielo.

«Non so spiegare… è come se… sì, come se la musica fosse arrivata troppo presto… come se quella canzone debba essere scritta in un altro tempo della mia vita. Un pezzo che un giorno avrà il suo significato e le parole per esprimerle.»

Subaru si prese il suo tempo per masticare e deglutire.

«Ecco perché tu scrivi le canzoni per me, cazzo, sei un cazzo di poeta

«Subaru, non sono io un poeta, sei tu che sei tale e quale a un cavernicolo… solo, con in mano un microfono anziché una clava.»

«Bella immagine, forse dovrei chiedere a Kotori di farci i costumi in pelliccia per il prossimo video.»

«Di sicuro ti calzerebbe a pennello, ma dubito che il tuo nuovo look piacerebbe ai tuoi fan.»

«Questo è vero» convenne lui, vagamente deluso.

«Non mettere il broncio» fece Mukuro dopo aver staccato un boccone di panino. «Ti faccio sentire un altro pezzo. Non è ancora completo, ma ho un bel brano di musica… sto cercando un calando o un crescendo per la parte finale.»

Subaru e Mukuro consumarono il loro pasto condiviso mentre ascoltavano un altro dei brani incompiuti di quest’ultimo, ma Subaru non ne sembrò affatto entusiasta come lui sperava.

«Sì, bello, ma adesso ho in testa Loveless e quella canzone dell’altro tempo della tua vita. Voglio sentirla» protestò in tono lamentoso. «T’è arrivata la musica, fai arrivare anche il resto dal futuro!»

«Se fossi in grado di fare cose del genere mi farei arrivare dal futuro i migliori pezzi dei prossimi dieci anni e li presenterei come miei oggi, così farei soldi e gloria a palate.»

«Davvero lo faresti?»

«Certo che lo farei.»

«Anche se è scorretto? Insomma, mica li hai scritti tu.»

«Subaru, io ammazzerei qualcuno pur di non passare la mia vita sballottato su un treno per andare e tornare da un maledetto ufficio» sospirò sconsolato Mukuro. «Voglio vivere facendo qualcosa di grande. Voglio che il mio nome sia legato a qualcosa che viva più a lungo di me, e non dentro uno schedario con il mio timbro in calce a documenti di cui non frega a nessuno dopo archiviati.»

Subaru fece un sorriso tiepido, con l’apprensione scolpita nel viso piacente. Mukuro sapeva che i suoi timori erano gli stessi; i suoi genitori speravano che passata la fase giovanile il loro secondogenito si mettesse in testa di lavorare nello studio legale di famiglia. Il ragazzo alzò gli occhi al cielo e Mukuro fece lo stesso: i loro sguardi si incontrarono sulla scia rossa della cometa.

«Sai, Kuro… a volte vorrei essere nato con quel gene Oro di cui parlano gli Auris.»

Mukuro abbassò gli occhi di scatto su di lui, ma non incrociò il suo sguardo: l’amico raccolse la sua borsa e il sacchetto vuoto del panino, avviandosi alla recinzione abbattuta che gli permetteva di infilarsi in quel vecchio parcheggio abbandonato.

«Piuttosto che essere il timbro in fondo a delle carte legali… io combatterei contro la natura stessa. Se solo avessi questa chance…»

Subaru stritolò la carta del sacchetto nel pugno, poi la mise in tasca e sorrise come se nulla fosse accaduto.

«Devo filare a casa. Faccio sentire Loveless ai ragazzi stasera e ti faccio sapere domattina.»

«Subaru, aspetta…»

Subaru si fermò, una gamba già fuori dal parcheggio. Quando incrociò il suo sguardo scoppiò in una risatina nervosa.

«Oh, cielo, Kuro, hai la faccia di uno che sta per dichiararsi… dimmi che non è così!»

Mukuro esitò un momento, poi tese un ghigno.

«Seh, ti piacerebbe, Matsuda-kun

«Non disdegno i tuoi occhi blu, ma sei un po’ piatto in zona tette per i miei gusti!»

Mukuro ridacchiò.

«Convinci i tuoi compagni… voglio che Loveless venga cantata da qualcuno.»

Subaru ritrasse la gamba dalla recinzione squarciata in tempi ignoti.

«Hai mai pensato di cantare tu le tue canzoni?»

Mukuro scosse la testa meccanicamente.

«Non ne sono in grado… perciò, ti prego, Subaru… realizziamo quel futuro» gli disse con la massima serietà. «Quello in cui tu sei un cantante e non un avvocato, e io scrivo per te.»

Subaru gli lanciò uno sguardo stupito, poi sorrise e sollevò la mano alla fronte.

«Sarà fatto, signore! E cominceremo con Loveless e il concorso canoro!»

Mukuro annuì convinto e Subaru se ne andò dal parcheggio, lasciandolo solo con i suoi pensieri.

Il gene Oro…

Il ragazzo alzò gli occhi sul cielo. Il tramonto precoce di quei mesi invernali lo stava tingendo di un bagliore dorato. Intorno a lui c’erano pochi rumori di strade vicine, l’aria era immota; tutto l’opposto dei suoi pensieri tempestosi.

Dopo qualche minuto di nervosa immobilità si alzò in piedi, infilò le cuffie e fece partire la base di Loveless. Era da solo in quel parcheggio, i due palazzi ai lati erano in ristrutturazione e quindi disabitati, quella zona della piccola città di Kokuyo era poco trafficata e priva di negozi che attirassero passaggio: nessuno avrebbe potuto vederlo fare quello che più avrebbe voluto fare.

Chiuse gli occhi concentrandosi solo sulla sua musica, sul testo, e lo cantò con la stessa emozione con la quale l’aveva composto e scritto. Spossato più dal tumulto interiore che dall’esibizione, Mukuro si accovacciò accanto al rottame rugginoso di una macchina con il fiato corto e gli occhi lucidi che guardavano il bagliore dorato del cielo con malcelata rabbia.

Chi potrebbe mai volere questo… essere… uno di loro?

Mentre si toglieva le cuffie si accorse che uno dei rumori di fondo era un messaggio ripetuto dal megafono di un veicolo di sicurezza pubblica: la voce femminile sembrava quasi allegra mentre annunciava l’imminente inizio della diretta nazionale per l’emergenza riguardante la cometa. A Mukuro non importava ma quell’avvenimento gli ricordò che entro un’ora l’asta online a cui aveva partecipato sarebbe finita e non aveva controllato i rilanci. Imprecò sottovoce, raccolse tutte le sue cose e lasciò il suo posto segreto dopo aver controllato che nessuno potesse notarlo sgattaiolare dal buco nella rete.

Dopo dieci minuti era senza fiato, ma finalmente superò il cancello e coprì il vialetto in due balzi buttando un piede per bloccare la chiusura della porta.

«Ehi!» sbottò la ragazza castana quando sentì la resistenza. «Ah, sei tu, Mukuro… che modi sono, mi hai fatto paura!»

«S-scusami… Kazue-oneesan…» esalò lui con il fiatone.

«Non ti sei cacciato nei guai, vero?»

«N-no… ho…»

Esitò per cercare una scusante: in teoria non aveva il permesso di usare il computer nell’ufficio se non per esigenze particolari di studio, figurarsi se poteva usarlo per comprare oggetti online.

«Volevo… tornare presto per dare una mano a Momo in cucina.»

Kazue era una splendida ventenne, una studentessa universitaria di economia e finanza, con lunghi capelli castani, forme invidiabili ben distribuite su una bassa statura che compensava con vertiginosi tacchi sensuali quanto scomodi. Se li stava sfilando nell’ingresso quando gli lanciò quell’occhiata severa e indagatrice.

«Vuoi aiutare in cucina? Tu?»

«Beh, cosa c’è che non va? Sono abbastanza grande da maneggiare un coltello» ribatté lui, non senza fastidio. «O solo perché sono un uomo non posso stare in cucina?»

«Oh, no. Sono solo sorpresa che un ragazzo come te si preoccupi del lavoro casalingo delle tutrici» osservò lei, e parve soddisfatta della risposta. «Bene, Mukuro, sono felice di vedere che inizi a crescere e a pensare al di fuori di fumetti e musica. Diventerai un uomo che vale qualcosa, tra qualche tempo.»

Il ragazzo alzò gli occhi al cielo mentre riponeva le scarpe nello spazio etichettato con il suo nome. La pessima esperienza di Kazue con un padre nullafacente e alcolista le aveva lasciato un pregiudizio spietato sugli uomini che dopo dieci anni non si era ancora ammorbidito, quindi fu sorpreso di sentirsi sfiorare la testa da una carezza fugace.

«Oggi che sono tornata presto aiuterò io in cucina… vai a fare i tuoi compiti, potrai aiutare a sistemare dopo la cena.»

Mukuro annuì passivamente e le lasciò il passo nonostante la fretta. Sua sorella Kazue era lì da così tanto tempo che i ragazzi la rispettavano quasi quanto la signora Kujaku: se era nel corridoio le si cedeva il passo, se era ancora in piedi si aspettava che sedesse e dicesse loro di iniziare a mangiare prima di farlo. Questo atteggiamento aveva contribuito a rafforzare la sua idea di essere la femmina alfa, forse anche più forte della signora Kujaku in virtù della sua imposizione ferrea di educazione e disciplina.

Quando Mukuro fu certo che Kazue non sarebbe uscita a cambiarsi si sentì sicuro e schizzò su per le scale; schivò per un pelo i due gemellini Sora e Ushiro che si rincorrevano al primo piano e guardandosi le spalle come un ladro raggiunse la stanza usata come ufficio dalla direttrice, chiudendovisi dentro.

*

Durante la cena fu molto tranquillo e decisamente allegro: l’essersi aggiudicato il pezzo all’asta senza intoppi l’aveva messo di ottimo umore – circostanza invero rara per Mukuro – e accettò di buon grado di lavare i piatti al posto della tutrice Shizuka. Mentre si arrotolava le maniche per la settima volta maledicendo i capelli che gli finivano davanti agli occhi di continuo Kazue si congedò e subito dopo la marea di ragazzini sotto i dodici anni tirò i remi in barca e lasciò che la sua irrequietezza naturale trovasse sfogo con un gioco di carte e dadi di cui nessuno sembrava sapere per certo le regole.

Il fracasso dei bambini si rivelò utile a Mukuro, che si vide finire un bicchiere in pezzi tra le dita al solo afferrarlo per risciacquarlo dalla schiuma. Perplesso ne studiò i tre grandi frammenti per qualche istante prima di occultarli in fondo alla pattumiera.

Doveva essere uno di quelli sbeccati. È facile che si rompano se il bordo è danneggiato…

Nonostante la cautela, tuttavia, anche quello che afferrò subito dopo andò in pezzi tra le sue dita e il terzo si crepò vistosamente. Con il volto più pallido che mai e un groppo in gola, depositò i cocci nella pattumiera e si tirò i capelli dietro le orecchie mentre ragionava febbrilmente.

Qualcosa non va…

Fu allora, in un attimo di inusuale silenzio dei piccoli, che riuscì a sentire qualche stralcio dalla televisione che nessuno stava seguendo.

«…molto rischiosa, perché le capacità potrebbero andare fuori controllo. Invito tutti gli Auris a non usare il loro potere finché attraverseremo la coda della cometa, o di farlo solo se strettamente necessario e con estrema cautela.»

Mukuro girò di scatto la testa verso la televisione. Era quasi completamente coperta da suo fratello Ryoma – preso a raccontare nei dettagli la sua ultima partita di tennis con un senpai – e non servì a niente cercare di superarlo con lo sguardo. Un nuovo litigio dei bambini copriva la voce e Mukuro dovette trattenersi fisicamente per non gridargli di tacere: si coprì la bocca con la mano e si appoggiò al lavandino con la sensazione che non mancasse molto al vomitarci dentro.

La cometa. È la coda della cometa.

Raddrizzò la schiena senza gesti bruschi e guardò la tavolata di ragazzi. Dai più piccoli – i gemellini – a suo fratello maggiore Isamu, c’erano quindici anni di esponenti della gioventù giapponese con i più disparati problemi famigliari che li avevano portati a venire abbandonati o allontanati dalle famiglie di origine. Attualmente, dodici ragazzi risiedevano nella casa-famiglia Kujaku di Kokuyo. Negli ultimi sedici anni sette giovani erano tornati alle loro case, nove erano stati accolti da parenti lontani e undici erano diventati adulti e indipendenti… negli ultimi sedici anni un totale di trentanove ragazzi erano vissuti dentro quelle mura. Di questi uno solo aveva un problema che poteva essere massimizzato dal passaggio di un corpo celeste.

«Mukuro-chan, che succede?»

Mukuro passò uno sguardo vacuo sul volto della più giovane delle donne che aiutavano la signora Kujaku a mandare avanti la casa famiglia. Momo aveva lunghi capelli molto fini, occhi neri e lineamenti così classici ed eleganti che quando indossava abiti tradizionali veniva puntualmente fermata per una fotografia dai turisti stranieri che visitavano le terme del parco dei ginko, la sola particolare attrazione della zona.

«Sei molto pallido… ti senti male?»

Mukuro si limitò ad annuire e abbassò istintivamente la testa quando lei si sporse per posare le labbra sulla sua fronte per sentirgli la febbre.

«Non sento febbre, ma non hai davvero una bella cera… finisco io di lavare i piatti, tu vai a dormire, riposa!»

«Scusami, Momo. Mi offrirò volontario di nuovo appena starò meglio.»

Lei gli fece un sorriso dolce.

«Ti gira la testa? Vuoi che ti accompagni di sopra?»

«No, ce la faccio da solo» la rassicurò lui, imprimendo alla sua voce un tono stanco e sofferente. «Buonanotte, Momo.»

«Buonanotte, Mukuro-chan…»

Lanciò un’occhiata alla televisione mentre usciva e intravide un uomo dai capelli bianchi che parlava a un microfono, ma non riuscì a cavarne una parola. Imboccò le scale a passi leggeri e rapidi, ma sfiorò il corrimano a malapena.

Devo fare attenzione… oggi non è un giorno normale, e se quello che ha detto vale anche per me devo aspettarmi questo livello di pericolo per tutto il passaggio della cometa… ma quanto tempo è, esattamente?

Mukuro schioccò le labbra per il disappunto verso se stesso: non credeva di essere riuscito a essere così tanto superficiale da prendere completamente sottogamba una vitale minaccia alla sua stessa esistenza. Non si era preoccupato, non si era informato… non era preparato. E uno come lui non poteva permettersi di essere impreparato, perché nessuno l’avrebbe potuto aiutare: aveva solo se stesso, il suo cervello e la sua prudenza. Una qualità che in questa circostanza aveva fallito totalmente.

Emise un altro piccolo schiocco seccato con la bocca quando vide la signora Kujaku ferma davanti all’ufficio con un pacco di ricevute: a pochi giorni dalla fine del mese era pronta a iniziare a compilare i registri delle spese per la contabilità della casa-famiglia. Avrebbe di certo scartabellato e battuto sulla calcolatrice fino a tardi.

Ritirata.

Mukuro salì un altro piano di scale, raggiunse il bagno con la vasca già piena di acqua calda e si preparò a lavarsi prima di andare a dormire. Prima del mattino non avrebbe potuto fare nessuna mossa senza correre immensi rischi.

*

Il trillo della sveglia riscosse solo parzialmente Mukuro dal torpore. Tirò fuori un braccio da sotto la coperta e premette il bottone, ma la sveglia produsse un agghiacciante rumore di plastica infranta e componenti metalliche che schizzavano ovunque. Atterrito Mukuro emerse dal suo caldo bozzolo solo per scoprire che la sua sveglia sembrava essere stata sfracellata da un treno in corsa.

Dannazione!

Purtroppo il rumore era stato troppo e difatti quando guardò nel letto accanto vide un paio di grandi occhi castani guardarlo da sopra l’orlo di una trapuntina rosa.

«Mukurin, che hai combinato?»

«Ho spento la sveglia» rispose lui con la maggiore naturalezza possibile.

«L’hai rotta…»

«Beh, sai… sono quelle cose con la plastica sottile. Costano poco ed è facile romperle.»

L’occhiata che lanciò alla campanella che era finita sul pavimento la diceva lunga sui suoi dubbi e Mukuro preferì sottrarsene il prima possibile: prese il plaid da sopra il suo letto, vi si avvolse come in un mantello e uscì dalla stanza.

Schivò per poco i gemellini e Shintaro che li inseguiva e salutò Ryoma meccanicamente senza quasi farci caso: stava pianificando le prossime mosse e nel mentre cercò di toccare il meno che fosse possibile o più delicatamente riuscisse; quando affrontò le scale si muoveva circospetto come temesse di mettere i piedi su una mina.

«Le brioche al cioccolato sono nostre!»

Un ragazzino dai capelli rossi scivolò lungo il corrimano superandolo e subito dopo un secondo, del tutto identico, fece lo stesso.

«Le mangeremo tutte, Mukuro!»

«Ehi! Non fate gli ingordi!»

«Dovrai levarcele già masticate dallo stomaco!»

Quasi il richiamo del suo ingrediente preferito – il cioccolato – lo distolse dalla sua accurata strategia di autoconservazione. Digrignando i denti si rassegnò a non vedere l’ombra di un dolcetto e continuò a scendere le scale con la rapidità di un anziano malfermo, conquistando una sedia in cucina solo dopo essere stato superato da tutti.

«Buongiorno, Mukuro… come ti senti stamattina?»

«Non bene» disse a Momo, stringendosi la coperta addosso. «Credo che non andrò a scuola oggi.»

Ryoma e quasi tutti i ragazzi più grandi avevano davanti riso, verdure al vapore e tamagoyaki accompagnati da tè verde; i gemelli dai capelli rossi e i bambini più piccoli avevano tutti latte speziato e brioches, donate generosamente da una panetteria sita nella strada adiacente. A Mukuro, invece, Momo servì una scodella ripiena di una sostanza marrone collosa che non riconobbe.

«Ti ho preparato la zuppa d’avena, fa molto bene a chi è malato» gli spiegò Momo con la sua dolcezza. «Ti ho messo un po’ di cacao e di zucchero per farlo più buono!»

Rianimato dalla prospettiva di un sapore dolce a colazione si armò di cucchiaio, pronto – con prudenza – ad aggredire la zuppa dall’aspetto tetro, ma venne privato di quell’innocente entusiasmo dal telegiornale che riuscì a farsi sentire benissimo nel momentaneo silenzio di un gran numero di bocche impegnate a masticare.

«Comincia oggi il transito del nostro pianeta nella coda della cometa Solomon, e ribadiamo che gli esperti hanno garantito che non ci saranno gravi conseguenze sulle telecomunicazioni né su altro genere di apparecchiature elettriche, tuttavia…»

Abbassò il cucchiaio e fissò il televisore: aveva un disperato bisogno di capire che cosa diavolo stava succedendo a causa della cometa e purtroppo vivere in una casa-famiglia rendeva difficoltoso l’accesso a internet persino in un’epoca come quella in cui era nato.

L’urlo acuto di Maya fece sussultare altri oltre a lui, ma quando la guardò vide che la sua eccitazione era tutta per lo schermo: nell’inquadratura era appena apparso un uomo dai capelli bianchi e la targhetta in sovrimpressione recitava “Wing Emperor” mentre sulla seconda riga “Coordinatore Civil Heroes, Direttore dell’Accademia Auris e rappresentante degli Auris alle Nazioni Unite”.

«Neh… che vuol dire Auris?» domandò Shintaro, con la bocca piena di dolce.

«Gli Auris sono quelli nati con un super potere!» gli spiegò uno dei gemelli rossi. «Wing Emperor è l’Auris più forte del mondo, dicono che può guarire all’istante qualsiasi ferita!»

«Ma sarà davvero il più forte? Voglio dire, se sa soltanto guarire come fanno a dire che è forte?»

«Ma quindi…» li interruppe Maya, la bimba compagna di stanza di Mukuro. «Mukurin è un Auris?»

Mukuro si bloccò mentre accostava la tazza di caffè alle labbra, soprattutto perché tutti si erano girati a guardarlo in un silenzio tombale. Il ragazzo deglutì a fatica.

«Perché dovrei esserlo, Maya?»

«Tu rompi un sacco di sveglie.»

«Rompere le sveglie non è un super potere.»

«Non dire scemenze, Maya, gli Auris fanno davvero delle cose fighissime!» esclamò uno dei gemelli, con gli occhi illuminati dall’entusiasmo. «Prendi i Grand, per esempio!»

«I grandi? Vuoi dire gli adulti?» domandò Sora.

«I Grand sono una squadra d’élite!»

«Come pretendi di spiegargli qualcosa?» lo interruppe Mukuro irritato. «Se ogni spiegazione ha parole più difficili della frase precedente? Sono bambini della prima elementare!»

«Scusi, professore» lo scimmiottò l’altro gemello.

Mukuro scambiò un’occhiata seccata coi due gemelli, poi il loro fratello più grande Eisaku sorrise con la sua espressione sempre indulgente mentre si sfilava gli occhiali.

«I Grand sono una squadra di Civil Heroes che non appartiene precisamente a nessun paese, ma viene chiamata in rinforzo dove c’è bisogno di molto aiuto… come per l’uragano dello scorso anno nei Caraibi. Lì intervenne metà della loro squadra e salvarono moltissime vite» spiegò con pazienza, mentre strofinava una lente già lucida a specchio. «Sono molto preparati, e davvero forti. Sono capitanati da un Auris molto potente.»

«Saku-nii, chi sono i Civil Heroes?» squittì Ushiro smettendo di ripiegare il tovagliolo in un improbabile origami.

«Sono…»

Esitò per cercare le parole giuste, abbastanza efficaci e semplici.

«Sono eroi… persone che hanno super poteri e li usano per salvare le persone e combattere i cattivi… sai, se un criminale ha anche lui dei super poteri i poliziotti possono essere nei guai, quindi si chiamano i Civil Heroes» spiegò infine, soddisfatto della semplicità della sua spiegazione. «Se ci sono super tempeste, terremoti, incendi e altri disastri loro possono intervenire meglio e rischiando meno delle persone normali.»

«Wow! Posso fare anche io il Civil Hero?»

Eisaku scoppiò in una breve risata mentre inforcava gli occhiali.

«Penso che saresti una Civil Heroine, ma comunque solo gli Auris possono… tu non lo sei, Ushiro.»

La bambina aveva già gonfiato le guance pronta a lagnarsene, ma Eisaku non ebbe bisogno dell’occhiata allarmata che Mukuro lanciò dalla sua parte.

«E poi è molto difficile diventarlo… si deve frequentare la scuola degli Auris a Mizura, che è lontana da qui, studiare tanto, fare un duro allenamento tutti i giorni e superare degli esami…»

L’interesse per la carriera di Civil Heroine di Ushiro si spense all’istante e lei tornò al suo tovagliolo malconcio. In compenso i gemelli più grandi si misero a discutere dell’addestramento degli allievi Civil Heroes – chiamati classe S – e di quello che si raccontava in rete sulle loro esercitazioni all’Accademia Auris. Mukuro, rassicurato dal fatto che nessuno avesse dato credito alle fantasie di Maya, fece per dedicarsi alla sua scodella di zuppa dolce d’avena quando si rese conto che il suo cucchiaio aveva preso la forma delle dita della mano con cui lo stava stringendo.

Fingendo un improvviso interesse per un certo Civil Hero di nome Sky Flame ficcò le mani sotto il tavolo e provò a raddrizzare il manico senza che nessuno se ne accorgesse.

*

Non essendo mai rimasto a casa da scuola prima d’ora Mukuro non aveva idea di quanto fosse silenziosa la casa-famiglia Kujaku quando tutti i suoi occupanti erano a scuola e le tutrici fuori per commissioni. La casa era quasi spettrale e gli scricchiolii delle assi del pavimento rendevano tutto molto inquietante nonostante fosse pieno giorno.

Scese le scale in fretta e arrivò alla cucina dove arraffò una tazza di caffè tiepido – con la delicatezza che avrebbe riservato a un piccolo animaletto di cristallo di Boemia – prima di appropriarsi del telecomando e iniziare a premere i tasti piano come se dovesse pungolare una coccinella senza ucciderla. Doveva riuscire a trovare una replica della conferenza, era l’unico modo per lui per sapere esattamente che cosa si sarebbe dovuto aspettare dal passaggio della cometa.

Ci volle un buon minuto prima di trovare un canale promettente e si fermò qualche secondo per accertarsi dell’argomento del servizio giornalistico: erano proprio le misure di sicurezza per il passaggio della cometa. Alzò il volume.

«Sono Agashi Izumi di Eri Channel! Permette qualche domanda, Wing Emperor?»

L’uomo a pochi metri dall’inquadratura del cameraman dava loro la schiena lasciata scoperta da un tank top allacciato dietro il collo. Quando si girò l’impatto visivo fu forte: il bianco ottico del suo vestiario sembrava ingrigito al confronto con la sua capigliatura, bianca come neve appena caduta e altrettanto scintillante, che dava l’impressione di avere anche la medesima leggerezza. Con occhi iridescenti color lilla, la pelle chiara e gli abiti candidi era una visione eterea, al punto che quasi Mukuro si sorprese quando parlò.

«Sì, se è una cosa breve» fece con un’inflessione che sembrava voler sottolineare che non era il momento adatto, avvicinandosi alla giornalista. «Siamo nel pieno dell’organizzazione.»

«Può anticiparci quali sono le misure di sicurezza per la visita del presidente francese?»

L’uomo alzò un sopracciglio e tese uno strano sorriso storto.

«Naturalmente no, lo sapete bene.»

Mukuro sbuffò, convinto che non fosse il servizio che credeva; per fortuna aveva perso di vista il telecomando abbastanza a lungo da sentire la domanda successiva.

«Vi aspettate disordini a causa della cometa?»

Il ragazzo, che aveva ficcato la testa sotto il tavolo per cercare il telecomando, si raddrizzò di scatto e colpì di striscio il bordo del tavolo. Si toccò il punto dolorante con un’imprecazione tra i denti, poi con terrore si accorse dell’irrimediabile angolo di sollevamento del tavolo. Rovesciandosi con una strana traiettoria curva – data dalla gamba appena staccatasi – abbatté la cupola di vetro del lampadario e inondò la stanza di caffè, ceramica e vetro frantumato.

Inorridito Mukuro si mise una mano davanti alla bocca, ma non bastò a soffocare una seconda imprecazione più volgare della prima.

Nel mentre, aveva perso un pezzo dell’intervista. L’uomo dai capelli bianchi stava parlando di qualcosa che non era correlato strettamente alla visita del presidente francese.

«Sappiamo bene che molti degli Auris nel mondo non si rivelano per paura di ritrovarsi emarginati… per paura di essere temuti e di essere ripudiati dalle loro famiglie, di perdere il lavoro e tutto quello che hanno. Non vorrei chiedere loro di correre questo rischio, ma devo farlo, almeno devo esortare quanti di loro abbiano poteri pericolosi a riflettere sul da farsi.»

«Ha dei consigli che vuole dare a questi Auris?»

«Noi nell'Accademia sappiamo bene che siamo stati in tanti a perdere tutto per uscire allo scoperto, ma è anche vero che successe in altri tempi… tempi bui in cui non c’erano leggi né diritti, ora è diverso… tuttavia, i cuori delle persone…» iniziò lui, fermandosi con un’espressione cupa. «Comunque se questo dovesse accadere, se doveste trovarvi isolati, voglio dire a tutti che c’è un posto qui con noi… c’è sempre un posto, qui da noi.»

«Credete che la coda della cometa renderà così incontrollabili i loro poteri?»

«La cometa è passata molte volte… sappiamo che succederà, le testimonianze storiche sugli Auris non sono rare come si crede. Voglio consigliare a tutti di non fare uso dei loro poteri, e voglio che sappiano che se questo è al di fuori del loro controllo non dovranno uscire. Se potete prendete un periodo di ferie, evitate il più possibile situazioni in cui potreste arrecare danni a cose o persone.»

«Tch, la fai facile» commentò Mukuro, e guardò i resti del lampadario e il tavolo con aria colpevole. «Non è così facile quando ogni mossa è potenzialmente un pericolo per cose e persone.»

«Il suo collega Mad Horse qualche giorno fa ha accennato a un programma di contenimento, può parlarcene meglio?»

«Sì, certo, è molto importante che si sappia» replicò l’uomo dai capelli bianchi con enfasi. «Abbiamo attivato un servizio speciale che sarà attivo in ogni paese in cui esiste almeno una base dei Civil Heroes, ma anche dove non ce ne sono abbiamo inviato squadre di supporto. C’è un numero che potete chiamare a carico del destinatario per richiedere di essere controllati da noi. Uno dei Civil Heroes può assistervi per evitare che perdiate il controllo, o possiamo tenervi in una struttura adeguata per tutto il passaggio nella cometa. È un servizio del tutto gratuito e completamente anonimo

«Quando dice anonimo, intende dire che…?»

«Non ci interessa come vi chiamate» disse lui guardando direttamente la telecamera. «Non vogliamo sapere dove vivete o dove lavorate. Tutto quello che vogliamo sapere è cosa potete fare, di modo che possiamo proteggervi e proteggere gli altri. Non usiamo questo servizio per arruolare altri Civil Heroes e non diffonderemo informazioni.»

«Prenderà parte anche lei a questo programma di assistenza, Wing Emperor?»

«Sì, certamente. Il coordinamento delle operazioni del soccorso medico è impegnato in questo protocollo al massimo delle sue possibilità, e questo include anche me… ma chiunque altro selezionato per questi compiti di tutela è preparato e affidabile quanto me. Fidatevi di noi.»

Mukuro tornò a guardare gli occhi viola di Wing Emperor – così vividi persino da un vecchio televisore – che sembravano guardare proprio lui. Senza nemmeno capire perché si fidasse si lanciò sullo scrittoio all’angolo, dove la direttrice teneva corrispondenza comune e carta da lettere, e mentre la giornalista ripeteva la seconda volta il numero di telefono per contattare il coordinamento Mukuro se lo scrisse sull’avambraccio sinistro con il pennarello, ignorando il fatto che aveva quasi staccato lo sportello aprendolo di fretta.

«Per favore, quando trasmetterete questo servizio, potreste scrivere il numero in sovrimpressione?» domandò Wing Emperor, che sembrava avere molta premura che quella cosa gli fosse accordata. «È importante che venga visto bene… che le persone che ne hanno bisogno possano scriverlo o fotografarlo, è davvero fondamentale.»

«Certo, Wing Emperor… daremo alla notizia tutta la visibilità necessaria… a nome della cittadinanza la ringrazio per la cura che avete per la sicurezza di tutti anche in questo frangente.»

«Siamo felici che vi sentiate un po’ più al sicuro. Siamo Civil Heroes per questo. Servire la popolazione al massimo delle nostre capacità speciali è la nostra missione.»

Mentre Wing Emperor e la giornalista si scambiavano qualche cortesia di circostanza e “Agashi Izumi, Eri channel news” passava la linea ad altro Mukuro sollevò la cornetta del vecchio modello di telefono grigio e iniziò a comporre il numero con un tale sollievo da avere quasi voglia di ridere.

Poteva non dire a nessuno chi era. Bastava soltanto che si facesse tenere in un posto dove nessuno lo avrebbe visto distruggere mobili e muri come fossero fatti di cartone bagnato per tutto il periodo del passaggio della cometa, e poi sarebbe tornato alla casa-famiglia come se tutto fosse stato sempre normale.

Si bloccò prima di premere l’ultimo numero e abbassò lentamente la cornetta.

Non posso farlo.

Poteva anche non dire come si chiamava o dove viveva, ma lui stava in una casa-famiglia con quattro tutrici e tanti altri fratelli e sorelle. Avrebbero visto tutti che lui non c’era, che era scomparso durante il passaggio di quella maledetta cometa dopo aver distrutto la cucina, e poi…

E poi?

Sarebbe riapparso a dramma concluso, senza poter dire dove era stato. Non avendo alcun parente noto in vita sarebbe stato fin troppo ovvio a tutti i più grandi che lui era uno di quegli scherzi del genoma umano che nascevano con una voglia luccicante intorno all’ombelico. Quella voglia che scompariva in pochi giorni e che era il segno immancabile della presenza di quello che la scienza odierna chiamava gene Oro.

Mukuro si alzò la felpa e guardò il proprio ombelico. Non sapeva più quante volte l’aveva fatto aspettandosi di vedere chissà cosa, immaginando che aspetto doveva avere quella voglia dorata quando era nato, ma le uniche persone che avrebbero potuto dirglielo – i suoi genitori – lo avevano abbandonato… forse proprio dopo averla vista, quella maledizione dorata, quella mutazione che lo avrebbe reso una fonte di imbarazzo.

Non poteva farsi aiutare dai Civil Heroes. Avrebbero saputo comunque tutti quanti che cosa era. Essendo l’unico ad avere quella deviazione lo avrebbero lasciato continuare a stare lì? Avendo visto quanto diventava pericoloso durante il passaggio nella coda della cometa lo avrebbero mandato via, magari in un posto dove vivevano altri pericoli sociali come lui? Non poteva sopportarlo. Doveva pensarci da solo. Doveva stare ancora più attento, solo per un paio di settimane, e tutto si sarebbe risolto.

Mukuro alzò gli occhi blu sul tavolo ribaltato della cucina, chiedendosi come poteva rimediare al lampadario rotto. Decise di occultare i pezzi della tazza, rimettere il tavolo a posto, pulire e raccontare di aver rotto il paralume di vetro con una palla o qualcosa del genere. Per lo scrittoio invece si domandò se non fosse il caso di chiuderlo alla bell’e meglio e sperare che nessuno incolpasse lui anche di quello.

«Bene.»

Cercò di schiarirsi le idee e di farsi coraggio colpendosi sulla faccia come spesso aveva fatto in analoghe situazioni, ma visto che controllava tanto poco la sua forza decise di farlo estremamente piano, come un test di controllo. Sebbene si fosse appoggiato le mani sulle guance più che schiaffeggiato sentì male come se lo avessero colpito con una pallonata.

Imprecò sottovoce guardandosi le mani infastidito. Non aveva mai capito perché fosse dotato di una tale forza mostruosa se non era nemmeno in grado di sopportarla: il suo corpo non era assolutamente più robusto, più resistente o meno soggetto al dolore di quello di chiunque altro, e questo lo aveva obbligato a contenere la sua forza per evitare di danneggiarsi da solo. Non soltanto aveva un potere che non voleva, ne aveva anche uno da idioti, e per giunta male assortito.

Sbuffando contro quelle che dal suo punto di vista erano colossali ingiustizie afferrò il tavolo dal bordo con la punta delle dita, come una persona avrebbe afferrato un delicato abito o disegno a carboncino appena creato, e lo sollevò raddrizzandolo. Trattenne rumorosamente il respiro accorgendosi che una delle gambe era quasi staccata. Sempre con cautela ma senza il minimo sforzo sollevò il tavolo alto sopra la testa con la mano sinistra e con la destra toccò la gamba danneggiata.

«Oh, ma dai, gli dèi ce l’hanno con me o che cosa?» borbottò, indispettito e sconsolato. «Come la sistemo adesso?»

Mukuro sbuffò ancora e si massaggiò la fronte con la mano libera, del tutto ignaro di come dovesse sembrare assurdo a chiunque vederlo strizzarsi le meningi mentre sollevava un tavolo da sedici posti come fosse un ombrellino da borsa.

«Mu… kuro-chan?»

Il cervello, i polmoni e il cuore di Mukuro sembrarono fermarsi tutti nello stesso momento. Girò di scatto la testa e vide che la direttrice della casa-famiglia, la signora Kujaku, e una delle tutrici, Ayaka, erano sulla porta della cucina e lo guardavano a occhi spalancati. Atterrito si girò verso di loro aprendo la bocca per dire qualcosa, ma lo spigolo del tavolo abbatté la credenza a vetro con un gran fracasso. Fece un passo indietro, ma così facendo piantò quello opposto nel televisore. Quello mandò qualche scintilla prima di cadere e schiantarsi a terra. Mukuro aveva la gola del tutto secca e si affrettò a depositare il tavolo, che tuttavia si inclinò dal lato zoppo.

«Mukuro… chan… che cosa…?»

«Non… non sono stato io.»

«È un Auris!» strillò Ayaka, puntandogli l’indice addosso.

«No!»

Mukuro non aveva la minima idea di come poter smentire cosa era, dato che lo avevano appena visto sollevare un enorme tavolo di legno come fosse stato un album da disegno e usarlo per distruggere la cucina, ma le loro espressioni spaventate erano proprio la cosa di cui aveva avuto più paura nella sua vita. Sogni in cui si vedeva cacciare via dalle persone che vivevano con lui erano una costante di tutta la sua esistenza. Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di non vedere mai il giorno in cui il suo segreto veniva mostrato al resto del mondo, e invece era già arrivato.

Non può essere vero… quattordici anni a custodire quel segreto… tutto rovinato da una maledetta cometa!

«Mukuro-chan non può essere un Auris…» mormorò la direttrice, confusa.

«E invece sì! Quando… quando è arrivato… quando era piccolo rompeva di tutto! Abbiamo sempre pensato che fossero stati i ragazzi più grandi, o dato la colpa al fatto che avevamo mobili di seconda mano, ma… Kujaku-san, lo avete visto, proprio adesso!»

Gli occhi della direttrice dissero chiaramente a Mukuro che si era arresa all’evidenza dei suoi sensi. Nessun ragazzino avrebbe potuto sollevare con una mano sola quel tavolo fatto di legno pieno. Pesava più di qualsiasi ragazzino delle scuole medie, più di una donna di statura e corporatura media. Nessun liceale avrebbe potuto spostarlo da solo, anche trascinandolo, figurarsi sollevarlo con una mano e sbatterlo qua e là.

Mukuro si strinse il braccio destro con tanta furia da graffiarsi.

«Mukuro-chan… non ti preoccupare della cucina, i danni saranno sistemati…» gli disse dolcemente la signora anziana, facendo un passo verso di lui. «Ma tu… è per la cometa, vero?»

«Posso controllarlo!» esclamò subito lui. «Si tratta solo di qualche giorno! Posso controllarlo, posso restare a casa in disparte e nessuno lo saprà! Dirò che sono ammalato e…»

Il cuore che prima sembrava fermo batteva ferocemente contro il costato. Sapeva benissimo dove voleva andare a parare quel preambolo. Volevano mandarlo via, sotto sorveglianza dei Civil Heroes, e così tutti quanti avrebbero saputo che lui non era come loro. Che era l’unico diverso, l’unico ad avere quella spaventosa mutazione, che poteva impazzire e sfondare una parete, o lanciare contro di loro un’automobile se solo avesse voluto farlo.

A onor del vero Mukuro stesso non aveva idea di quale fosse il limite della sua forza. Quando era bambino aveva sollevato un’utilitaria con uno sforzo non dissimile dal sollevare un grosso cocomero, ma da allora aveva solo cercato di contenerla, mai di testarla. Dal modo in cui si manifestava quel giorno era intimamente convinto di essere tanto forte che se si fosse impegnato sarebbe riuscito a sollevare un aereo.

«No, non puoi controllarlo» sospirò la direttrice con l’afflizione nella voce e nello sguardo. «Se potessi farlo non avresti fatto tutti questi danni… non c’erano più stati incidenti inspiegabili o danni a cose nuove, mobili rotti, crepe nei muri e porte distrutte… crescendo hai imparato a controllarla…»

«Kujaku-san… non… non mi mandi via… la prego, la prego…»

«È per la sicurezza di tutti… guardati intorno, Mukuro-chan. Tu dividi una stanza con due bambini.»

Mukuro si strinse le braccia contro il petto quasi come se la direttrice stesse cercando di arpionarlo come un grosso, pericoloso cetaceo.

«Wing Emperor lo ha detto più volte, l’ho visto al telegiornale!» esclamò Ayaka, quando l’anziana donna parve incerta. «Ha detto che l’influenza della cometa rende difficile a loro controllarsi, è per questo che ora fa così… potrebbe… Kujaku-san, anche se riuscisse a non far male ai bambini li spaventerebbe a morte! E i danni? Copriamo appena le spese, come ripagheremo altri danni di quest’entità?!»

Quando vide la signora Kujaku annuire Mukuro capì che non aveva alcuna speranza di convincerla a non farlo controllare a vista. Dopotutto era un pericolo per cose e persone, come aveva detto Wing Emperor.

«Allora… che cosa dovremmo fare con lui…?»

Mukuro provò un fiotto d’ira bollente, l’equivalente emotivo di uno spruzzo di lava. Tirò un calcio allo scrittoio e quello andò a sfasciarsi contro il muro, spargendo per l’ingresso pezzi di legno, fogli, penne, inchiostro nero a schizzi e graffette. Le due donne lo guardarono, questa volta decisamente atterrite.

«Non… NON PARLATE DI ME COME SE FOSSI UN RANDAGIO!» urlò loro contro con tutta la voce, tutta la rabbia e tutta la disperazione che aveva. «Non sono un cane che aspetta sotto il portico che voi decidiate se farlo entrare in casa o cacciarlo via a calci! Sono una persona! La stessa persona che avete cresciuto qui dentro per sedici anni!»

«Quel ragazzo… quel ragazzo non avrebbe mai preso a calci dei mobili e non ha mai gridato contro le sue tutrici» disse la signora Kujaku, pallida in volto. «Ora… chiameremo i Civil Heroes. Sii ragionevole, Mukuro-chan.»

Nonostante Mukuro stesso avesse pensato di farsi controllare da loro per paura di combinare esattamente il tipo di guai che aveva combinato, non poté non interpretarlo come un tradimento.

Strinse i pugni e corse verso la porta senza guardare nessuna delle due donne. La spalancò scardinandola, uscendo nel gelido mattino senza voltarsi indietro; corse come fosse inseguito da soldati armati e svoltava in una strada o un’altra solo per evitare il più possibile le persone che lo notavano. Purtroppo non era plausibile che non dessero almeno un’occhiata a un ragazzo che correva a perdifiato e per di più scalzo.

«Ehi!»

Quando Mukuro si sentì apostrofare con quel tono che interpretò come aggressivo sussultò. Era il solito agente con i baffi che vedeva sempre al cabinotto di sicurezza quando passava da quelle parti, eppure in quel contesto la sua mente vedeva in lui solo un nemico.

«Calmati» gli disse lui, notando il suo nervosismo. «Che ti è successo? Da cosa stai scappando?»

«Non si avvicini a me!»

Mukuro alzò le braccia, ma sapeva di non poter nemmeno sfiorare un essere umano o avrebbe rischiato di ucciderlo. Il suo primo istinto quando l’agente tentò di afferrargli il polso fu di balzare indietro fuori dalla sua portata, ma urtò qualcosa di duro con la schiena e si fece male.

«Ahia!»

Il suo gemito fu seguito da un lamento metallico. L’agente guardò qualcosa al di là della sua spalla con stupore che mutava in terrore e alla fine Mukuro si girò appena in tempo per vedere il lampione che aveva urtato schiantarsi sulla carreggiata con un fracasso di vetri e metallo. Purtroppo fu nulla in confronto al fragore dell’auto grigia che per evitarlo andò a impattare a tutta velocità un veicolo parcheggiato. A quel frastuono e alle urla che l’accompagnarono Mukuro si coprì istintivamente le orecchie e strinse gli occhi.

«Dannazione!»

L’agente di polizia accorse per prestare soccorso ai passeggeri dell’auto. Mukuro abbassò lentamente le mani osservando con orrore il disastro che aveva causato: l’asfalto danneggiato, il lampione abbattuto, le due vetture coinvolte avevano vetri infranti e lamiere accartocciate, il veicolo che aveva sterzato stava prendendo fuoco.

Che cosa ho fatto… che cosa ho fatto?

Con il respiro corto per la corsa e per la paura Mukuro voltò le spalle alla devastazione di cui era autore e schizzò via; s’infilò in un vicolo angusto per allontanarsi dall’agente e dal luogo del disastro, e le gambe lo portarono inconsciamente nel posto in cui si sentiva al sicuro. Non poteva fare il giro e rischiare di essere visto, quindi decise di spiccare un salto per passare sopra la recinzione metallica: vorticò scomposto senza alcun controllo aereo del proprio corpo e impattò di schiena sulle lamiere con un’acuta fitta di dolore.

Gli ci volle parecchio per ricollegare la mente a qualcosa che fosse diverso dal dolore della caduta. Quando vi riuscì si rese conto di essere caduto sul cofano della vecchia utilitaria verde che era abbandonata lì da molti anni, la stessa che da piccolo aveva sollevato per testare quanto fosse forte. Da allora aveva nuove ammaccature, più ruggine e meno pneumatici, ma vedere quel triste relitto al momento era quasi confortante: nessuno aveva mai trovato lui e Subaru dentro quel perimetro.

Sono nei guai. Devo… devo pensare a qualcosa. Dove andare, che cosa fare… mi serve un piano.

Sentire il rumore lontano di pale di elicottero lo allarmò. Era vero che non erano mai stati trovati per via della recinzione alta, dell’accesso poco visibile e dei palazzi vuoti intorno, ma era anche vero che se l’avessero cercato dall’alto sarebbe stato facile vederlo.

Mentre il rumore cresceva d’intensità Mukuro balzò giù dal cofano, si buttò a terra e rotolò sotto un vecchio furgoncino con le scritte scollate dal tempo. Pur se facile preda del freddo e della paura, non poteva far altro che aspettare.

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Capitolo 3
*** An ordinary legend ***


Raggomitolato sull’asfalto, senza un giubbotto o almeno dei calzini, Mukuro sentiva freddo a ogni singola cellula del corpo. Gli sembrava di essere lì sotto da ore ed ore; aveva perso il senso del tempo. Sirene si erano avvicinate e allontanate alla zona, mentre non aveva più sentito l’elicottero in volo.

Ormai avranno chiamato la polizia… anzi, i Civil Heroes. Per un super problema una super soluzione, giusto?

Emise una risatina tremante e nervosa alla citazione di un noto slogan pubblicitario per descrivere la sua terribile situazione, ma si irrigidì subito quando sentì un pesante sferragliare molto vicino. Sentendo a malapena le mani le allontanò dal petto e strisciò un po’ più avanti per riuscire a sbirciare fuori dal suo nascondiglio, ma non vide nulla all’interno del parcheggio. Il rumore doveva provenire però da poco distante, forse proprio al di là degli strati di plastica verde sulla recinzione.

«Per favore, allontanatevi dalla zona, signori.»

«In che senso, allontanatevi? Io abito qui!»

«Capisco, signore, ma per il momento sarebbe meglio se si allontanasse» replicò con pazienza una voce maschile. «Stiamo chiudendo la strada, per la sua sicurezza dovrebbe allontanarsi fino a questa sera almeno.»

«Ma c’è stato un incidente anche sull’altra strada, avete intenzione di bloccare un intero quartiere?»

«Non se la prenda con me, io ricevo ordini dai miei superiori… dobbiamo fare dei controlli per delle vecchie tubature, hanno segnalato fughe di gas. Non si lamenti con me se succede qualcosa alla sua macchina.»

Mukuro sospirò di parziale sollievo e strisciò indietro, raggomitolandosi stretto. Non cercavano lui in quel posto e questo era già positivo, ma non poteva restare ancora per molto: il dolore alle estremità gli diceva che non avrebbe resistito ancora a lungo al freddo.

Probabilmente si addormentò per qualche tempo, perché quando riaprì gli occhi la luce era calata e intorno al furgone si era ammassato un sottile strato di neve fresca. Il suo respiro condensava.

È quasi ora… fra poco sarà più buio, e allora…

Mukuro si morse il labbro e si trattenne a stento dal tirare un pugno di frustrazione contro il furgoncino. Anche se fosse riuscito a uscire da lì senza essere visto, dove poteva mai andare? Dove si poteva nascondere? Non conosceva nessuno, non aveva parenti nemmeno lontani, per quanto ne sapeva era solo al mondo… un mondo che era appena diventato ferocemente ostile.

A malapena le sue guance gelate sentirono scendere le lacrime, ma lui alzò la mano per asciugarle e gettare un’occhiata fuori dalla sua buca urbana dal lato che dava sulla recinzione aperta. Quel poco sangue che non era ancora allo stato solido gelò nel momento in cui vide un paio di piedi proprio accanto a lui.

Da dove è arrivato? Da quanto tempo sta lì?

«Adesso basta… riporterai danni molto seri se non vieni fuori subito da lì sotto.»

Lo sapeva. Chiunque fosse l’uomo lì fuori sapeva che lui era nascosto sotto il furgone. Preso dal panico Mukuro annaspò e cercò di pensare a cosa fare.

«Sei incastrato?»

Vide l’uomo inginocchiarsi, con una tuta stretta dello stesso bianco degli stivali, poi apparve il suo viso: un viso pallido dal naso leggermente arrossato dal freddo, capelli candidi quanto la neve che sfiorarono e un paio di occhi viola che gli mozzarono il respiro. Non poteva sbagliare, era Wing Emperor.

«Sei Mukuro-kun, vero?» gli chiese con un tono più adatto a un bambino che a un ragazzo della sua età. «Andrà tutto bene… vieni fuori di lì. Dammi la mano.»

Wing Emperor allungò la mano, avvolta da guanto bianco che copriva tutto il braccio, sotto il furgone. Mukuro rotolò indietro senza neanche un attimo di esitazione sbucando fuori dall’altro lato e si issò in piedi sulla neve con l’ausilio di estremità di cui non aveva alcuna percezione.

Si arrestò dopo pochi passi traballanti quando si trovò di fronte un altro uomo con lunghissimi capelli color turchese, occhi dello stesso colore abbagliante e vestiti neri. Non riconobbe nessun dettaglio del suo stravagante aspetto: se era un altro Civil Hero lui non lo conosceva, dato che non si era mai interessato alla loro attività in un disperato tentativo di negare l’esistenza stessa della sua anormalità.

«Immagino che tu sia il ragazzo senza scarpe che ha causato l’incidente di stamattina» osservò con perspicacia l’uomo dai capelli turchesi.

Mukuro ponderò per un attimo di prendere tempo con qualche insulsa domanda, ma accorgersi di avere Wing Emperor alle spalle mandò il suo cervello in uno stato molto simile a quello che raggiungeva il protagonista del suo videogioco preferito: la Survival Mode, in cui poteva attaccare alla cieca con una forza amplificata ma senza poter usare oggetti, magie e altre tecniche complesse. Senza pensare.

Anche lui smise di pensare. Afferrò l’automobile ammaccata che giaceva da anni accanto al furgone e la sollevò ribaltandola contro Wing Emperor come avrebbe potuto fare un ragazzo normale con un banco di scuola. Lui si sposò fulmineo e il veicolo rotolò più volte spargendo pezzi di vetro, lamiere e plastica per il parcheggio prima di collassare sul cofano di un altro relitto.

Il modo in cui l’Auris più forte del mondo lo guardò gli fece venire i brividi.

«Hound, credo che siamo di fronte a un classe S molto emotivo» disse in tono serio, senza smettere di fissare Mukuro. «È meglio se ti allontani e lasci fare a me.»

«Vacci piano, Emperor… è pur sempre un bambino.»

Wing Emperor annuì e l’uomo chiamato Hound arretrò fino al catenaccio della zona parcheggio, che era stato aperto. In quel momento di ottundimento l’essere definito “classe S” non lo sfiorò nemmeno; Mukuro era intrappolato in una spirale ossessiva di sensi di colpa e terrore delle conseguenze. L’aver causato quell’incidente era una colpa grave abbastanza da scomodare l’Auris più potente del mondo per venirlo a prendere? Era abbastanza grave da farlo incarcerare? L’avrebbero mandato in qualche base super segreta dove venivano contenuti soggetti pericolosi come lui?

Non voleva scoprire le risposte. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per non avere le risposte a quelle domande raccapriccianti. In quel momento esatto decise che non gli importava del mezzo: se non voleva restare imprigionato in una vita grigia e un lavoro da impiegato ancora meno voleva restare chiuso in una cassaforte per sempre.

Afferrò il parafango e sollevò il furgone quasi del tutto.

«Mukuro-kun, metti giù quel furgone.»

«No.»

«Non sono venuto qui per combatterti, quindi per favore calmati.»

«Visto che ne parliamo, perché uno come te è qui?» sbottò con veemenza Mukuro. «Cosa fa qui il re dei mostri?!»

Wing Emperor mutò lievemente la sua espressione risoluta, ma fu per un momento soltanto.

«Tu non sei un mostro, Mukuro-kun… gli Auris non sono mostri. Sono persone con un dono.»

«Sta’ zitto! Non parlarmi come se… come se capissi!»

«Certo che capisco… ho avuto la tua età in un’epoca molto più buia di questa» replicò lui, con il tono più morbido e più solenne. «Ma non sono venuto a punirti. La direttrice della casa-famiglia mi ha chiamato per aiutarti.»

Mukuro allentò la presa sul furgone, ma solo un momento. Alla fine la signora Kujaku aveva davvero chiamato gli Auris e questo significava che ormai non aveva davvero più nulla da perdere. Era già tutto scivolato via come sabbia tra le dita; la sua vita così come l’aveva conosciuta era già finita, un libro chiuso… cosa si parasse davanti a lui restava un mistero.

«C’è qualche possibilità che tu smetta di lanciarmi contro i beni mobili dei cittadini e che ti decida a venire con me senza opporre resistenza?»

«Nessuna» rispose Mukuro, e sollevò il furgone.

«Ti prego, Mukuro-kun… ribellarti in modo violento a me è lo stesso che farlo con un poliziotto. Per la legge non c’è differenza» insistette Wing Emperor, avvicinandosi a lui circospetto. «Metti giù quel furgone adesso, e io ti porterò in un posto dove non potrai fare danni…»

«Non voglio venire con te! Voglio solo… io voglio solo tornare a casa e far finta che non sia successo niente!»

Un fastidioso nodo strinse la gola di Mukuro, che si sentì salire le lacrime agli occhi. Strinse la carrozzeria così forte che ammaccò vistosamente il furgone nei due punti in cui lo afferrava.

«Volevo solo la vita di una persona normale! Volevo le… libertà, e le possibilità di una persona normale!»

«Hai davanti a te tutto il tempo e tutte le occasioni… se ora ti comporterai con responsabilità» fece l’Auris, facendo un altro passo verso il ragazzo. «Rimedieremo a tutto quello che hai fatto… ora…»

«È colpa di quella maledetta cometa!»

Mukuro si stupì di sentire la propria voce così stridula, ma a quel punto non riusciva più a tenersi dentro quello che sentiva e lasciò uscire le lacrime. Aveva troppa paura del passato e del futuro, stava soffrendo fisicamente e psicologicamente, e purtroppo si rendeva perfettamente conto che non aveva nessuna speranza.

Il più forte del mondo… che cosa posso fare io contro l’Auris più forte del mondo?

«N-non volevo fare del male a nessuno… non volevo, io… è questo maledetto potere! La cometa…»

Mukuro lasciò ricadere il furgone, le cui sospensioni si lamentarono per quel trattamento, ed emise suo malgrado un singhiozzo. Quando Wing Emperor gli si avvicinò di scatto cercò di indietreggiare per sfuggirgli, ma il suo corpo era molto lento a reagire e si mosse a malapena; venne immediatamente sollevato e messo seduto sul cofano del relitto automobilistico più vicino. Quello che successe dopo non se lo sarebbe mai aspettato: Wing Emperor passò velocemente le mani lungo le sue gambe, afferrò quelle estremità bluastre che erano i suoi piedi e immediatamente il dolore da congelamento parve diminuire.

Mukuro cercò di asciugare gli occhi per guardare meglio: sulla sua schiena lasciata scoperta dai vestiti eccentrici erano comparse due piccole ali. Non sembravano tangibili, fatte di ossa e piume, parevano più una proiezione a forma di ali fatta di pura luce bianca. Erano molto piccole, se si fosse messo a braccia spalancate l’apertura alare non avrebbe superato l’ampiezza dei suoi gomiti. Gli ricordò moltissimo il portachiavi in edizione limitata che si era aggiudicato la sera prima all’asta.

«Bene, bene» borbottò lui, concentrato ora sulle sue mani. «Nessun danno grave al sistema circolatorio…»

Quando sollevò gli occhi viola dalle sue mani Mukuro poté incrociare quell’intenso sguardo da molto vicino. Aveva un’incredibile profondità, una potenza silenziosa: al ragazzo vennero in mente queste esatte parole.

«Starai bene, ma dobbiamo riscaldarti. Il mio potere può riparare i danni da necrosi, ma non posso creare un effettivo calore.»

«Hai… le ali.»

Il commento gli uscì dalle labbra all’improvviso, con un insolito tono infantile. Wing Emperor lo guardò con espressione stupita prima di emettere una risatina nervosa.

«Beh… sono… Wing Emperor» ribatté in tono incerto. «Vuoi dire che non mi conosci?»

Suo malgrado, Mukuro si trovò a scuotere la testa.

«Ti ho visto per la prima volta stamattina alla televisione… parlavi del contenimento per gli Auris.»

L’Auris più potente del mondo emise una risata breve e spontanea, poi lo prese in braccio. Mentre lo faceva l’eterea forma di grandi ali semitrasparenti apparve alle sue spalle.

«Un ragazzo speciale senza dubbio, Mukuro-kun… beh, eccomi: Wing Emperor, direttore del Coordinamento Nazionale dei Civil Heroes, preside dell’Accademia Auris, insegnante di tecniche di soccorso, rappresentante degli Auris alle Nazioni Unite e, nel corso di queste due settimane, responsabile del protocollo di contenimento per il Giappone» snocciolò lui senza particolari enfasi, come elencasse dati anagrafici per una tessera fedeltà. «Questo è il mio amico e braccio destro, Night Hound. Il suo curriculum è lungo quasi quanto il mio, ma te lo risparmio.»

Mukuro a fatica distolse lo sguardo da Emperor per guardare Night Hound, che lo ricambiò con vivace curiosità e un accenno di sorriso.

«Oh, un ottimo lavoro, Emperor, ma forse avresti dovuto cominciare a parlare dicendogli la cosa più importante.»

Mukuro e Wing Emperor gli lanciarono la medesima occhiata confusa.

«Sarebbe a dire?»

Night Hound sospirò teatralmente mentre si avvicinava a un’auto scura parcheggiata vicino al cancello rimasto a lungo serrato dell’area di parcheggio.

«Dell’incidente, no? Il guidatore e la collega che era con lui sono rimasti leggermente feriti, ma sono già stati guariti dall’unità di soccorso» fece l’uomo, aprendo lo sportello posteriore. «Perciò rilassati, ragazzo… non hai ucciso né menomato nessuno.»

Il sollievo dato da quella notizia gli diede l’impressione di sentire più calore nel corpo e non poté mascherare il profondo sospiro che ne conseguì. Wing Emperor tese un sorriso mentre lo metteva sul sedile posteriore.

«Andrà tutto bene. Le auto si possono ricomprare, i mobili si possono ricostruire e cambiare. I danni alle cose si risarciscono. Sono certo che quando ti scuserai con quelle persone e con la tua tutrice tornerà tutto a posto.»

Una scintilla di rabbia si accese anche in mezzo alla sua ritrovata pace. Dentro di sé credeva ancora che il comportamento della signora Kujaku fosse stato scorretto nei confronti di un ragazzo cresciuto a casa con lei fin dalla più tenera età e che fosse quella la causa diretta della sua sconsiderata fuga, e di conseguenza dell’incidente che aveva provocato.

Io non ho fatto nulla di male… sono sempre stato obbediente, ho sempre rispettato le regole… e a lei non è bastato per fidarsi di me!

Dibattendosi tra il disappunto di essere stato così velocemente screditato dopo una vita di buona condotta e la vergogna di essere stato tanto brusco e violento – seppure a causa del panico – nei confronti delle tutrici, quasi non si rese conto che l’auto viaggiava. Solo quando Night Hound accostò nei pressi di una recinzione dai mattoncini familiari capì dove si trovavano ed ebbe paura di scendere e affrontare la sua famiglia.

Dato che Mukuro continuava a non accennare a muoversi fu Emperor ad aprire lo sportello.

«Coraggio, Mukuro-kun… scendi, siamo arrivati.»

«Non voglio entrare» si ritrovò a dire con un filo di voce.

Wing Emperor gli lanciò un’occhiata confusa prima di lanciare uno sguardo a Night Hound. Lui si fece avanti e si chinò per vederlo in viso; era anche lui molto alto.

«Di che cosa hai paura?»

Mukuro esitò a rispondere e si strofinò forte le mani dalle dita ancora rigide. Dato che il silenzio si prolungava e nessuno sembrava volerlo sollevare dal peso di quella domanda, distolse lo sguardo e fece del suo meglio per spiegarsi.

«Mi… sono comportato in modo… brusco, stamattina. Mi vergogno di vedere la signora Kujaku adesso.»

«Sai, quando siamo arrivati ho parlato con la signora Kujaku» disse Night Hound, il cui tono sembrava quasi divertito. «Mi ricorda moltissimo mia madre…»

«Cosa? Ma se tua madre è una grezzona!» l’interruppe Wing Emperor indignato. «Se lo sognerebbe di essere così a modo, lei!»

«Rozza, si dice rozza, Byakuran» lo corresse lui. «Certo che è una rozza mia madre, intendevo dire che ha lo stesso modo di fare della signora Kujaku: mettere su quell’aria contrita, come se la colpa dei tuoi casini fosse sua perché non ti ha educato a dovere. E ti fa sentire in colpa… no, Mukuro?»

Mukuro annuì rigido. Era proprio il modo in cui si comportava la direttrice: essendo stata una maestra d’asilo prima di trasformare la sua residenza in una casa-famiglia era portata a educare con attenzione i ragazzi che ospitava e cresceva. Considerava un fallimento personale la cattiva condotta dei suoi “figli temporanei”.

«Anche mia madre faceva così, e io di scorribande ne facevo parecchie quando ero più giovane. In realtà lo fa ancora se arrivo in ritardo o mi dimentico di chiamarla in qualche giorno importante.»

Per qualche motivo l’argomento sembrava irritare Wing Emperor, che incrociò le braccia e ostentò un vivo interesse per i resti del roseto che si arrampicava sull’arco di legno nel cortile. Night Hound se ne accorse e fece un fugace occhiolino a Mukuro.

«A mia madre lui non piaceva, credeva che fosse un ragazzino disturbato» gli sussurrò con un sorriso divertito. «E poi lei aveva due gatti, e loro lo odiavano

Alle sue spalle Emperor gli scoccò un’occhiata seccata e Mukuro si ritrovò incomprensibilmente sorpreso. Da quanto vedevano i suoi occhi Wing Emperor, con tutti i suoi titoli, le sue qualifiche e il nome altisonante era molto umano con preoccupazione, stupore, irritazione e sorrisi come qualsiasi altro uomo.

Un uomo qualsiasi, ma con le ali.

Mukuro si decise a mettere i piedi fuori, anche se il contatto con la neve era terribile. Emperor accantonò completamente l’argomento “madre di Night Hound” e gli afferrò il braccio sopra il gomito.

«Sbrighiamoci a entrare… ma attento, non scivolare proprio adesso!»

Si mossero rapidamente per arrivare al cancello e dentro il vialetto, che era stato già spalato da qualcuno dei ragazzi più grandi. Mentre raggiungevano il portico Mukuro lanciò un’occhiata angosciata a Wing Emperor.

«Ehi…»

«Mh?»

«Possiamo… non dire che ti ho rovesciato un’auto addosso?»

«Se non dirai a nessuno il mio nome» rispose lui mentre suonava il campanello.

Mukuro aggrottò le sopracciglia, perplesso, e passò rapidamente in rassegna gli avvenimenti dell’ultima ora. Ricordò allora che Night Hound poco prima l’aveva corretto per un’espressione molto dialettale e l’aveva chiamato Byakuran. Era dunque il vero nome del celeberrimo Wing Emperor? Il suo vero nome era un segreto?

Persino l’apparizione di Momo sulla porta e il suo commosso abbraccio non riuscirono a far passare in secondo piano le sensazioni di curiosità e di paura che il ragazzo sentiva in quel momento. Non per il confronto imminente, non per le conseguenze dell’incidente, non per il periodo di passaggio della cometa: aveva la netta sensazione che il corso della sua vita avesse cambiato binario nel momento stesso in cui aveva incrociato quegli occhi viola.

 

*

 

Byakuran si avvicinò piano al sedile e sbirciò oltre lo schienale. Mukuro dormiva raggomitolato sul fianco, sotto una coperta isolante color argento riflettente e coi capelli scuri scarmigliati sul piccolo cuscino da viaggio. Emise un leggero sospiro mentre alle sue spalle Night Hound gli lanciava un’occhiata.

«Per carità, Byakuran, sembri una neomamma che controlla il neonato ogni cinque minuti» commentò, tornando con gli occhi al plico di carte che teneva in grembo. «Sta bene, sta solo dormendo per via del tranquillante che gli hai dato… ora smetti di fare la spola e riposati anche tu.»

Byakuran esitò e lanciò un ultimo sguardo al ragazzo prima di andare a sedersi di fronte all’amico. Era evidente da come continuava ad alzare gli occhi turchesi dai fogli che aspettava il momento di dirgli qualcosa e Byakuran sperò che fissare fuori dal finestrino bastasse a scoraggiarlo.

Si sbagliava.

«Sei molto preso da quel ragazzo, Byakuran» osservò lui senza sbilanciarsi in emozioni particolari.

«Trovi?»

«Beh, sì. Ti sei persino dimenticato che il decollo in aereo ti fa stare male, di solito.»

L’uomo coi capelli bianchi si toccò istintivamente l’addome e guardò la distesa di luci cittadine sotto di loro, quasi non riuscisse a credere di essere davvero in volo senza essere prima stato male qualche minuto.

«Trovo sempre divertente che Wing Emperor, l’Angelo, abbia paura di volare in aereo.»

«Se sopportassi l’aria rarefatta e la bassa temperatura volerei io stesso da una città all’altra» borbottò Byakuran incrociando le braccia al petto. «Preferirei affidarmi a una macchina volante che conosco bene.»

«Mai considerato di prendere un brevetto di volo da comandante?» buttò lì Night Hound mentre sfogliava con difficoltà due pagine incollate dall’umidità.

«Sei in vena di umorismo stasera, eh?»

«Ho pensato di provare a stemperare il tuo cattivo umore, amico mio.»

Si arrese e chiuse il fascicolo dopo avervi piazzato in mezzo un menù di un ristorante cinese, studiato apposta per fungere da segnalibro.

«Non dovevi rispondere in quel modo a quei ragazzi.»

«Hai sentito o no che cosa gli hanno detto, Kikyo?»

I loro sguardi si incrociarono, ma Night Hound mantenne la calma mentre l’amico iniziava di nuovo ad alterarsi.

«Naturalmente ho sentito… potresti anche valutare l’ipotesi che mi sia reso conto anche meglio di te quali emozioni animavano quei ragazzini, ma tu sei Wing Emperor. Sei un medico, un Civil Hero, un preside e un membro dell’assemblea dell’ONU. Devi controllarti in queste situazioni.»

«Finché avrò vita in questo corpo, Kikyo, io non starò mai più zitto mentre un Auris viene aggredito e insultato per essere quello che è dalla nascita!» sbottò Byakuran, e indicò un punto nel vuoto verso la cabina di pilotaggio. «Quei ragazzi sono stati crudeli con Mukuro… è imperdonabile parlare in quel modo a una persona con la quale si è cresciuti! Sono fratelli, niente dovrebbe cambiare questo!»

Kikyo sospirò ed esitò lunghi secondi.

«Byakuran… per noi… è una cosa diversa.»

«No, non lo è.»

«Abbiamo avuto un’infanzia difficile… nel mondo di oggi, possiamo paragonarla a quella dei bambini che vivono in zone di guerra. Restare uniti per noi era un istinto di sopravvivenza e siamo rimasti insieme perché… siamo stati uniti dal dolore. Eravamo i soli a poterci comprendere. A poterci sostenere l’un l’altro.»

Byakuran strinse il pugno e ricacciò a fatica giù le parole.

«Dei bambini normali in una casa-famiglia non possono capire che cosa significa… sono uniti ai fratelli dai giochi, dalle risate, dagli interessi comuni… non puoi paragonare quei ragazzi a noi, Byakuran. Non puoi aspettarti che sentano per Mukuro quello che tu senti per me, o io per te.»

«Questo lo posso capire» replicò Byakuran, con una rabbia che vibrava sotto ogni lettera che pronunciava. «Ma anche se non darebbero le loro vite per uno dei loro fratelli, la loro ingenuità non gli darà mai il diritto di far sentire qualcuno, chiunque sia, un mostro perché è nato con un dono straordinario.»

«I diversi hanno sempre fatto paura… è istinto. Ciò che non comprendiamo ci fa spesso paura.»

«Questa giustificazione l’ho sbriciolata personalmente più di dieci anni fa, Kikyo, e sono pronto a sbriciolare chiunque altro abbia la bella idea di usarla da paravento di nuovo.»

«Sono dei ragazzini, Byakuran, ti prego… ragazzini viziati, se preferisci chiamarli così, ma pur sempre giovani. Hanno visto un ragazzo che conoscevano da sempre distruggere una stanza e scappare via, hanno visto la loro figura di riferimento chiamare i Civil Heroes, e non un qualsiasi agente di quartiere, per trovarlo… è stato uno shock anche per loro.»

«Questo non li autorizza a–»

«Non li sto legittimando. Li sto solo comprendendo» specificò Night Hound, con un leggero fastidio che trapelava dall’espressione. «Mortificare Mukuro per aver reagito male e aver fatto danni involontari in una situazione di stress elevato non serviva a nulla, ma come comprendo le ragioni di un errore di Mukuro comprendo anche quelle dei suoi fratelli. Come lui, anche loro a mente fredda capiranno di aver sbagliato.»

Byakuran sentì il nervosismo iniziare a placarsi e prese un profondo respiro. Se la stava davvero prendendo troppo, ma non rimpiangeva di aver redarguito quei ragazzi per le loro parole. Era necessaria una reazione affinché riflettessero su quello che avevano detto; esattamente come succedeva alla sua scuola. Una conseguenza a un comportamento sbagliato era l’unica via perché venisse corretto nel tempo.

«È un po’ di tempo che volevo dirtelo, Byakuran…»

«Che cosa?»

«Credo che tu debba fare più attenzione a come reagisci alle cose… a volte ho l’impressione che ti schieri automaticamente dalla parte degli Auris senza neanche provare a capire l’altro punto di vista… quando succede mi metti inquietudine. Mi fai tornare in mente Zakuro.»

Byakuran lanciò un’occhiata inorridita a Kikyo, raggelato da quell’affermazione. Lui alzò le mani allarmato.

«No, perdonami… non intendevo dirlo così. Intendevo dire che mi ricordi… quei discorsi che faceva sugli Auris e sui Plumbei, in cui vedeva sempre solo le ragioni della nostra parte… in questo senso dico che me lo ricordi. Non intendevo nient’altro.»

Byakuran si rannicchiò sul sedile e guardò dal finestrino. Non aveva idea di quale città fosse quel reticolo di luci, ma non vedeva l’ora di tornare a casa.

«Proteggere è la mia natura… io… sento solo che devo proteggere il più debole. E noi… gli Auris… siamo ancora oggi i più deboli.»

Kikyo non replicò a questa triste sentenza e si rimise a sfogliare il plico. Per lungo tempo Byakuran rimase solo con i suoi pensieri che passavano dall’esempio di virtù che sarebbe dovuto essere alle peggiori zone d’ombra dentro la sua mente; scivolò lentamente verso il sonno appoggiando la testa contro il finestrino, ma gli pareva di aver appena chiuso gli occhi quando sentì Kikyo parlare di nuovo.

«Che cosa ne pensi di Mukuro?»

Vagamente intontito Byakuran gli lanciò uno sguardo vacuo, Kikyo reagì con aria confusa.

«Beh? Ti ho chiesto che cosa ne pensi!»

«In… in che senso, scusa?»

«Il ragazzo sembra un ottimo partito… costituzione sana, buona educazione… ottimi voti a scuola, sembra.»

Byakuran scosse la testa e si grattò tra i capelli spettinandosi.

«Kikyo, stai cercando di trovare un marito a Bluebell, o…?»

Kikyo finalmente colse il nocciolo dell’incomprensione e scoppiò in una risata.

«Cielo, non condannerei il mio peggior nemico a sposare Bluebell, mi hai preso per un sadico?»

Emise un’altra risata divertita e gli passò il plico che stava sfogliando.

«No, ho detto “a proposito della questione allievi”, non hai sentito?»

«Ah… no, credo di essermi addormentato per un istante…»

Byakuran prese il fascicolo e iniziò a sfogliarlo mentre si stropicciava un occhio. Il plico era una documentazione molto fornita riguardo a Mukuro: includeva le sue valutazioni scolastiche, le note di merito compilate dai coordinatori della sua classe per gli anni che aveva passato senza punizioni o insufficienze, la cartella clinica che lo attestava in ottima salute. Le date dei documenti più vecchi risalivano ai suoi anni all’asilo e circa intorno al primo anno di età.

Non ha mai avuto famiglia fin da così piccolo…

«Il ragazzo potrebbe essere promettente. Di certo ha una forza impressionante, potrebbe arrivare a equiparare Mad Phoenix, e ha voti ottimi a scuola.»

«Dove vuoi arrivare, Kikyo?»

«Pensavo solo che… beh, è stato un formidabile caso che il nostro volo sia stato fatto atterrare per emergenza a pochi chilometri da Kokuyo e che quindi sia stato proprio tu a essere mandato a recuperare il ragazzo. Mi chiedevo se non potesse essere la risposta dell’Universo alla tua richiesta di trovare un allievo tuo.»

Byakuran aggrottò le sopracciglia.

«Da quando credi nell’Universo, Karma, Dio e cose simili, tu?»

«Strana domanda da parte di uno che prega.»

«Io prego solo nell’eventualità che mi sbagliassi sul nulla dopo la morte e che Luce mi possa vedere e sentire» rispose lui atono. «Non vorrei mai che pensasse che l’ho dimenticata. Vale la pena di rendermi ridicolo.»

«Non ci trovo nulla di ridicolo in un uomo che prega, Byakuran. Tutti crediamo in qualcosa.»

«Non credo in niente.»

«Credi in te stesso, ed è sufficiente per adesso, no?»

«Credo così tanto in me stesso che prego nell’eventualità di sbagliarmi» replicò Byakuran laconico.

Kikyo emise una breve risata.

«Non buttarti giù così, Byakuran. Se ti idolatrassi al punto di pensare di non sbagliare mai saresti un tiranno.»

Byakuran scrollò le spalle.

«Ho fame… quanto manca all’arrivo?»

«Ancora quaranta minuti» rispose Kikyo dopo una fugace occhiata all’orologio da polso. «Senti, visti i suoi trascorsi potrebbe rifiutarsi, ma… potresti parlargli della scuola. Insomma, è da testare, ma a quanto ho visto può avere il potenziale per essere un classe S o un classe A… potrebbe scoprire che gli interessa una vita da Civil Hero.»

«A chi piacerebbe mai?»

Kikyo lo guardò stupito mentre frugava nell’armadietto alla ricerca di uno snack che gli andasse a genio.

«Essere un Civil Hero è una vita dura… bisogna studiare tanto, addestrarsi continuamente, e per quanto tu sia preparato non sarai mai sicuro di poter affrontare le difficoltà del giorno dopo… devi essere sempre disponibile, come un pompiere… come un soldato. Devi combattere le due forze più spaventose della terra: la natura e l’oscurità dell’animo umano… e come se non bastasse…»

Byakuran sospirò e aprì una scatola di moon cake alla marmellata di azuki.

«Essere un Civil Hero prende così tanto tempo e risorse che ti puoi scordare cose come il matrimonio o costruirti una famiglia, se ambisci a fare uno straccio di carriera. Si deve sentire la vocazione per volere una vita come questa.»

Kikyo accolse in silenzio il suo sfogo e Byakuran si ficcò in bocca una, due, tre moon cake di seguito prima di decidersi a tornare a sedersi.

«Quei ragazzini ti hanno turbato così tanto? Di solito ci vuole molto peggio per farti diventare così cupo.»

Byakuran sospirò e continuò a mangiare le moon cake. Quei dolcetti erano senza dubbio la più grande debolezza di un uomo che aveva una vorace golosità, soprattutto nei momenti di forte stress.

«Voglio tornare a casa… e l’ultima cosa che vorrei è avere a che fare con la cometa e le sue conseguenze per le prossime due settimane…»

«Un po’ esaurito, amico mio?»

Sospirò per la terza volta mentre Kikyo, tutt’altro che preoccupato, sorrise.

«C’è molto da fare anche all’Accademia… per i prossimi giorni fai il preside. Bada alla classe S, stai a scuola… Mukuro non ha scelto il contenimento e dopo quel saluto con i suoi sarà confuso e si sentirà a disagio. Stagli un po’ dietro e magari trovi il momento per parlargli di quella possibilità.»

«Possibilità?»

«Di restare a studiare lì.»

«Non deciderà mai di farlo, no?»

Byakuran si sorprese di sentire la propria voce così demoralizzata. Non riusciva a capire perché si sentisse così demotivato; fino a quel momento la difesa dei deboli e il soccorso dei feriti erano stati la sua ragione di vita, le sue regole cardine, la prima e unica priorità. Che ora quelle delicate missioni gli fossero avverse lo trovava quasi insopportabile, come se un padre si fosse trovato a detestare il figlio.

Perché sono così… perché mi sento in questo modo?

Byakuran guardò la scatola di dolcetti, disorientato dai suoi stessi sentimenti.

«Byakuran… ehi. Sei un uomo anche tu… un uomo con una tale pressione addosso ha bisogno di staccare. Lascia che sia il tuo fidato braccio destro a sovrintendere il Coordinamento per il protocollo di contenimento. Tu preoccupati del coordinamento dei soccorsi se hanno bisogno di te e bada alla tua scuola… qualsiasi altra questione diplomatica slitterà comunque al mese prossimo.»

«Non posso permettermi di fermarmi proprio durante il passaggio della cometa.»

«E perché no? Ci sono diversi Auris pericolosi che saranno contenuti nel perimetro della scuola, averti lì sarà una sicurezza per gli studenti e anche per i cittadini… potrebbero verificarsi incidenti come quello di Breaker durante le esercitazioni di questa settimana.»

«È vero… sì, è un rischio concreto…»

Gli occhi viola studiarono il panorama con aria distratta, e difatti Byakuran pensava già febbrilmente a come rendere le lezioni più sicure: vedere il modo in cui la cometa aveva amplificato i poteri normalmente ridotti allo zero di un ragazzo come Mukuro aveva destato in lui preoccupazione riguardo ai suoi studenti.

«Dammi il telefono, Kikyo, per favore.»

«Chi vuoi chiamare?» domandò lui, passandogli il suo cellulare.

«Devo discutere con Mad Horse un paio di cose per la sicurezza del campus… se è possibile vorrei che le sistemasse prima del nostro arrivo a scuola.»

Byakuran digitò il numero sul tastierino e Kikyo sorrise, arraffando una moon cake.

«Ora ti riconosco, Wing Weaver.»

Byakuran scosse la testa, ma non poté nascondere un accenno di sorriso.

 

*

 

Pazzesco!

Mukuro alzò gli occhi dallo schermo e li puntò su Wing Emperor. All’improvviso il suo ridicolo costume bianco attillato passò in secondo o addirittura terzo piano; non poteva che essere così alla luce delle incredibili rivelazioni che il web gli aveva appena offerto.

Aspettando a lungo sul sedile del passeggero il ritorno di Night Hound e di Wing Emperor – impegnati a discutere qualcosa con la sicurezza dell’aeroporto – Mukuro aveva finito per esplorare l’auto in cerca di distrazioni e così aveva notato lo spigolo di un apparecchio sbucare dalla borsa di pelle che Wing Emperor aveva trasbordato dall’aereo. Guardingo si era appropriato del tablet e non trovandovi scansioni delle impronte o password a protezione si era messo a navigare in internet.

Era andato a fare un rapido giro nella prima pagina che si aprì, riguardava le notizie nazionali. Si era preso la briga di dare una scorsa a tutti gli articoli riguardanti la Cometa, l’arrivo del presidente francese per il quale Wing Emperor aveva organizzato la sicurezza, e link dopo link era arrivato sul sito dell’Accademia Auris giapponese.

Non se ne era mai curato prima, ma scoprì cose davvero interessanti. Apprese per esempio che il Giappone – insieme alla Corea, al Canada e al Messico – era uno dei paesi con minore comparsa di Auris in proporzione alla popolazione totale, e che anche per questo motivo vantava una sola accademia preposta. Accademia fortemente voluta e infine fondata proprio da un Wing Emperor ventunenne insieme a un gruppo di altri Auris divenuti come lui Civil Heroes.

Gli stessi Civil Heroes erano stati insigniti di tale titolo in seguito a una legge scritta apposta per Wing Emperor, per poter regolare legalmente il suo immancabile intervento nelle più svariate situazioni di pericolo. In appena trent’anni di vita l’uomo dal discutibile costume bianco aveva rivoluzionato il mondo intero, portando una grossa percentuale di Auris allo scoperto e dando loro un ruolo ammirato e utile nella società, inducendo moltissimi paesi a riconoscere loro diritti e doveri speciali e a promulgare leggi in merito all’uso delle loro capacità e alla loro tutela.

Sembra più una leggenda vivente… come si può fare tutto questo in trent’anni di una vita lunga trent’anni?!

La pagina dell’Accademia riservata al curriculum del suo fondatore e direttore era infinita, Mukuro scorse molte schermate con il dito prima di arrendersi. Aveva afferrato il concetto: aveva tirato un’utilitaria contro l’Auris più potente del mondo che era anche uno dei politici più influenti e amati del globo, nonché rivoluzionario del secolo e – a quanto citava un link intravisto precedentemente – uno dei trentenni più ricchi. Ma certo mettevano tutti in chiaro una cosa fondamentale: i soldi che Wing Emperor guadagnava nei suoi molti ruoli andavano tutti a sostegno della sua scuola, il che la classificava come istituto privato.

Mukuro lanciò un’altra occhiata a Wing Emperor, leggermente chino su un tavolo a indicare qualcosa su un foglio che era uno schema o una mappa. La memoria gli ripropose diapositive di fumetti e vecchi film con supereroi in calzamaglia e mantello e non riusciva a comprendere perché adottare un vestiario così ridicolo: l’eroismo dei Civil Heroes – o piuttosto quello di chiunque – veniva forse meno senza una frase ad effetto e un mantello, se riuscivano a sventare un pericolo? Il valore delle loro gesta era sminuito se le persone venivano salvate da superuomini in blue jeans e maglietta, o in tuta, o in maniche di camicia?

Non senza un goccio di malizia i suoi occhi scivolarono un po’ più in basso sulla figura di Emperor. Non poté non chiedersi con una punta di invidia se avrebbe continuato a indossare costumi così attillati anche quando l’età avrebbe inesorabilmente intaccato quei glutei.

Sfuggì ai risvolti dei propri pensieri mettendo un’insolita enfasi nello sbadiglio che fece stiracchiando le gambe e si rimise allo schermo a curiosare, ma fece solo in tempo a vedere una fotografia di un ragazzo con una bizzarra maschera rossa con il becco che sentì la portiera aprirsi e il cuore gli finì in gola.

«Mukuro-kun, ti ho fatto aspettare troppo?»

Era troppo tardi per nascondere il tablet: Wing Emperor stava fissando proprio lo schermo del dispositivo e Mukuro attese in silenzio la colossale strigliata. Quella non arrivò.

«Sai, è proprio il primo alunno che voglio presentarti quando arriviamo» fece lui sorridendo e ammiccando alla fotografia. «Andrete d’accordo, avete molto in comune.»

«Ne dubito.»

«Vedrai che ho ragione… lui sa cosa significa avere paura della propria forza.»

Wing Emperor fece il giro dell’automobile per mettersi al volante, ma sbucò fuori Night Hound – apparentemente dal nulla, tanto che Mukuro si domandò se avesse un potere di teletrasporto – per bloccargli la strada.

«Che cosa pensi di fare?»

«Guidare, no?»

«Non guiderai mai davanti a me, soprattutto con un ragazzo a bordo.»

«Ma perché, scusa? Ho la patente!»

«E ancora non so come tu sia riuscito ad averla, guidi malissimo

Con sorpresa di Mukuro Wing Emperor non tentò nemmeno di negare; non si mostrò nemmeno oltraggiato dall’accusa.

«Andrò piano, lo prometto!»

«E non arriveremo mai. Neanche per sogno, guido io.»

L’uomo salì al posto del guidatore e Wing Emperor, senza aggiungere parola ma con un broncio da bambino, si accomodò sul sedile posteriore alle spalle di Mukuro.

«Se non mi fai mai guidare come faccio a diventare più bravo?»

«Non ti farò guidare in città finché non sarò sicuro che ti ricordi la segnaletica bene quanto il sistema linfatico.»

Wing Emperor borbottò qualcosa di incomprensibile e Mukuro richiuse la custodia protettiva del tablet per riporlo nella borsa.

«Puoi usarlo, sai? Io non sono bravo con questo tipo di tecnologie» gli disse Emperor, e si sporse in avanti. «Quando ero bambino stavo in una specie di… casa-famiglia anch’io, si può dire. Eravamo tanti bambini radunati in un caseggiato fatiscente, non avevamo nemmeno abbastanza coperte, figurarsi un computer. Voi lo avete a casa tua?»

Mukuro scosse la testa.

«Ne ha uno la signora Kujaku nel suo ufficio… ci tiene i conti. A noi non è permesso usarlo, a meno che non ci serva urgentemente per la scuola.»

«Non è un problema per voi non poter studiare con il computer? Ormai lo usano tutti.»

«Io resto a scuola fino a tardi quando mi serve» spiegò Mukuro, fissando il proprio riflesso nel finestrino fingendo di non sentirsi in imbarazzo. «Visto che sanno che… beh, che sto in una casa-famiglia mi fanno usare la sala di informatica o quella di registrazione quando voglio.»

«Sala di registrazione?»

Night Hound diede un’occhiata fugace a Emperor.

«Era nel dossier che ci ha dato la signora Kujaku… frequenta un liceo musicale, in un corso speciale.»

«Speciale? In che senso speciale? Oh, uno di quei corsi per genietti, Mukuro-kun?»

«Si chiamano corsi avanzati, Byakuran, dovresti saperlo! Dirigi o no una scuola?»

Emperor scoppiò in una risata che aveva un che di cristallino nel suono e fece un buffo gesto con la mano nel tentativo di minimizzare.

«Ma noi la chiamiamo classe S, non è la stessa cosa!»

«Byakuran…»

Entrambi si voltarono verso Mukuro, che aveva ripetuto il nome a mezza voce. Night Hound tornò immediatamente a prestare attenzione alla strada, ma la sua espressione mostrava il suo imbarazzo come se si fosse lasciato sfuggire che il trentenne bagnava ancora il letto.

«È il tuo nome, vero? Ti chiami così.»

Wing Emperor si grattò la testa e sorrise, anche lui con un certo impaccio.

«Una vita fa ero Byakuran, sì. Beh, prima di tutto… prima che stilassero il primo disegno di legge per i Civil Heroes…»

Si appoggiò contro il sedile e guardò fuori, lungo la strada e le luci dei negozi.

«Ma sono tanti anni che nessuno mi chiama così… beh, Hound lo fa, ma solo perché eravamo amici prima che io diventassi un eroe.»

«Non sarai Wing Emperor sempre, no? Tutti i tuoi amici ti chiamano così quando esci con loro?» fece Mukuro, dubbioso. «E… insomma, non dirmi che la tua ragazza ti chiama Emperor, sarebbe imbarazzante in modo osceno!»

«Puoi stare tranquillo, Mukuro-kun. Io sono sempre Wing Emperor, e dovendomi occupare di un’enormità di questioni a scuola, al lavoro e all’ONU non ho tempo né per una ragazza né per essere chiunque altro.»

Mukuro non sapeva che cosa rispondere. Quella sua devozione era ammirevole ma anche un po’ inquietante; a suo parere rasentava il fanatismo, perciò non trovò un commento abbastanza neutrale da fare. Forse temendo di averlo intimorito con la sua seriosità, Byakuran sorrise.

«Non ho nulla in contrario a chi la sera sveste il costume di eroe per essere se stesso… per stare con la famiglia, o semplicemente per fare quello che desidera di più. Ma io, io non ho né l’una né l’altro. La mia famiglia sono gli Auris, quello che desidero è rendere la nostra vita piena di significato e mantenere tutti al sicuro al meglio delle mie capacità. Non ho altri interessi al di fuori di questi, e per adempiere al mio senso della vita è sufficiente essere Wing Emperor.»

«Questa è una grossa idiozia» sentenziò alla fine Mukuro. «Bisogna essere pazzi per volersi martirizzare in questo modo e buttare via le occasioni. Finirà che morirai gonfio di rimpianti come una gallina che non fa le uova.»

Byakuran esibì un’espressione molto stupita, Night Hound lo guardò con curiosità approfittando della sosta a un semaforo rosso. Mukuro scambiò un’occhiata con lui; i suoi occhi turchesi mettevano meno soggezione di quelli viola.

«Sì, beh… è… stupido. Voglio dire, non siete mica dei vecchi decrepiti a cui non resta che aggiustare i casini di questo mondo prima di andarsene. Non avete un… progetto alternativo? Qualcosa che vi piacerebbe essere oltre a questo? O, che ne so, sposarvi e fare bambini?»

«Io li ho dei progetti» replicò Night Hound prima di ingranare la marcia per ripartire. «Ma la strada per realizzare il progetto che io e Byakuran abbiamo avviato anni fa è ancora lunga, quindi questo ha la priorità… suppongo che ciò valga per entrambi.»

Mukuro si girò per guardare dietro: Byakuran sorrideva.

«Ha sempre la priorità.»

«Sì, tutto molto bello, ma sul serio, Byakuran» fece Mukuro sollevando un sopracciglio. «Mio fratello si sta laureando in psicologia e si allena ad analizzare tutti i personaggi che vede nei film, so di che cosa parlo quando dico che è da malati inscatolarsi in un solo ruolo sociale. Siamo fatti per averne tanti, se ti fissi su uno ti spacchi e diventi un pazzo sociopatico che uccide gli studenti e li mangia.»

Byakuran lo guardò sconvolto e Night Hound fece una breve risata.

«Oh, Byakuran, stai attento. Non hai davanti uno dei tuoi soliti bambini adulanti o un povero orfanello spaesato, stavolta… questo ragazzo sa di che cosa parla.»

«Non ne sono così sicuro… credo abbia visto troppi film dell’orrore…»

«Uno che ragiona come te non sa di che cosa parla» replicò Mukuro piccato. «Se lo fai veramente, essere un eroe e basta, prima o poi scoppi… se non scoppi vuol dire che menti e che sei anche qualcosa di diverso.»

Byakuran sembrava costernato da quelle parole e non replicò. Mukuro si accigliò: ebbe la netta impressione che stesse nascondendo qualcosa e in quel momento decise sull’onda di quella sensazione di scavare dentro quella leggenda vivente a caccia dell’uomo che vi si nascondeva dentro.

«Mukuro, se ti pago una parcella fissa a settimana resti all’Accademia Auris a psicanalizzare il mio amico?»

Il ragazzo guardò Night Hound ignorando del tutto il mugolio di protesta di Wing Emperor e annuì.

«Sì, certo.»

«Non hai esitato un attimo, ma è un paziente difficile, sai?»

«Vengo da una casa-famiglia, non c’è niente che non farei per i soldi.»

Night Hound non espresse alcun disappunto per quella frase così materialista e annuì.

«Sì, comprensibile… beh, mentre passa la cometa fai quello che puoi.»

«Kikyo!» sbottò Byakuran, vagamente roseo in volto. «Smettila, guarda che siamo noi a dover badare a lui!»

«Ah-ah, errore, mio caro: sei tu. Io devo fare le cose che tu non farai, te lo sei scordato?»

«Tipo che cosa?» li interruppe Mukuro. «Che cosa fa esattamente il… beh, tutto quello che è lui?»

Night Hound prese a elencare una lunga lista di compiti partendo da quelli riguardanti la scuola, quali presiedere le selezioni per il passaggio da una classe all’altra, organizzare e presenziare a tutti i tornei e le gare interne che servivano come banco di prova per la promozione, dare lezioni personalmente alla classe dei guaritori e guidare le esercitazioni di soccorso, dirigere le riunioni di scrutinio degli insegnanti per le votazioni, per l’amministrazione della scuola, delle operazioni, per il controllo del budget delle classi e per mettere a punto il programma o le sue variazioni. Già questo a Mukuro sembrava molto lavoro e pensare che aveva anche i ruoli ben più pesanti di coordinare i Civil Heroes professionisti e una carica politica gli fece chiedere se avesse mai tempo di dormire.

«Sì, molto interessanti i dettagli di come mi ammazzo di lavoro, ma forse a Mukuro-kun interesserà di più qualcos’altro…»

«No, questo è molto interessante, su internet nessuno sta lì a chiedersi quanto lavoro fai.»

«Può darsi, ma dai un’occhiata lì.»

Mukuro seguì il dito di Emperor guardando fuori dal parabrezza. Senza rendersi conto di avere la bocca aperta abbassò il finestrino dal lato del passeggero e si sporse fuori per vedere meglio.

Anche nel buio un muro molto alto si notava davanti a loro, e correva sia alla sua destra che alla sua sinistra per quelli che sembravano chilometri, illuminato da luci piazzate in cima a distanza regolare. Al di là riusciva a vedere i tetti di un grande edificio di mattoni, così alto da avere le luci rosse di segnalazione per i velivoli. Era più alto di qualsiasi altro palazzo edificato nella piccola città di Kokuyo.

«Fermi lì, per favore.»

Mukuro non rientrò nell’auto quando arrivarono al cancello e un paio di guardie li fermarono, ma a loro bastò illuminare l’interno dell’abitacolo per riconoscere i due Auris a bordo e aprire il cancello per loro.

«Bentornati, Hound-sensei, Emperor-sensei» fece la guardia con un inchino.

«Grazie. Vi faccio portare del tè appena rientriamo, fa freddo stasera.»

«Grazie, Hound-sensei!»

Lui sorrise alla guardia e ripartì, mentre Mukuro – superato il piccolo shock delle guardie armate – faceva i conti con uno shock decisamente più serio: al di là del muro l’Accademia Auris era più simile a un castello. L’edificio in mattoni era alto, imponente e sviluppava in avanti due ampie ali in una forma a ferro di cavallo. Vedeva un centinaio di finestre su quel lato. Nel buio della notte e nelle inquietanti luci rosse del cortile sembrava lo scenario perfetto per un film horror; mancavano giusto tuoni e pioggia scrosciante.

«Per… perché le luci sono rosse?»

«Ah… non sono sempre così, fanno parte del sistema di sicurezza» spiegò Emperor, guardandole dal finestrino. «Se suona l’allarme antincendio o qualsiasi altro allarme per l’evacuazione le luci rosse lampeggiano… le abbiamo usate come luce fissa in questo periodo di passaggio della cometa perché c’è un rigido coprifuoco. Gli studenti sanno che se le luci rosse sono accese non si può lasciare il dormitorio e se sono in biblioteca o altrove devono subito tornare alle loro stanze.»

«Ah… capisco…»

Night Hound parcheggiò l’auto vicino ad altre allineate ai lati del piazzale centrale. Mukuro si prese qualche altro secondo per studiare la facciata molto ben tenuta dell’edificio, poi sentì una mano molto calda toccargli la spalla.

«Vieni fuori di lì, ragazzo.»

Wing Emperor lo aiutò a uscire dal finestrino, dato che era ormai seduto sullo sportello con solo le gambe dentro l’auto. Nel momento in cui mise i piedi a terra gli sembrò di vedere qualcuno guardarlo da una finestra del primo piano, ma appena cercò di vedere meglio la sagoma era scomparsa nel buio del corridoio.

«Mukuro-kun? Qualcosa non va?»

«Uh… no, ho visto qualcuno nel corridoio… ehm, credo.»

Emperor non guardò verso le finestre e si voltò incamminandosi verso l’ingresso. Perplesso, Mukuro non trovò nulla da dire e dopo un’occhiata al punto in cui credeva di aver visto la figura si affrettò a seguirlo. Lui gli impedì di afferrare la maniglia della porta e la tenne aperta per lasciarlo passare.

«Mukuro-kun, devo chiederti di fare estrema attenzione mentre sei qui… l’Accademia è costruita per essere strutturalmente più resistente di qualsiasi altro edificio, ma temo che ciò non valga per le porte, i corrimano, le finestre e il mobilio» disse, battendo la nocca del dito sul vetro. «Devi fare attenzione a muoverti… almeno fino a domani.»

«Perché? Che succede domani?»

«Ti porterò a fare gli esami medici nel nostro reparto infermeria, per sapere se possiamo darti il farmaco.»

«Farmaco?» ripeté Mukuro, leggermente teso. «Che farmaco?»

«Un farmaco Orosoppressore. È stato sintetizzato per casi di poteri pericolosi fuori controllo, e con l’arrivo della cometa lo somministreremo ad alcuni dei nostri studenti… se non avrai reazioni alla somministrazione di prova potrai prenderlo anche tu e potrai controllare la tua forza come in qualsiasi altro giorno della tua vita… beh, quasi.»

«Orosoppressore» ripeté a mezza voce il ragazzo. «Quindi… è vero? Voglio dire… il gene che rende… così la gente…»

Emperor lo guardò con una certa dose di diffidenza che il ragazzo non si seppe spiegare, ma poi sospirò.

«Ormai sembra appurato scientificamente che gli Auris sono tali per via di un gene particolare nel DNA… in realtà è un gene che hanno tutti, ma nelle persone normali è inerte… anzi, si potrebbe dire morto» spiegò Wing Emperor mentre gli faceva strada dentro l’ascensore. «È stato chiamato gene Oro perché il laboratorio che l’ha scoperto era guidato da un ricercatore italiano, e ovviamente in relazione al fatto che gli Auris dopo il taglio del cordone ombelicale presentano una specie di bioluminescenza all’altezza dell’ombelico. Anche il nome Auris viene da Aurum, che è il nome latino dell’oro.»

«Sembra una cosa così figa» commentò Mukuro senza emozione. «Peccato che essere così faccia schifo.»

«E perché mai? È una particolarità come tante. Come avere un occhio di colore diverso dall’altro, le gambe particolarmente lunghe, il metabolismo accelerato o le lentiggini.»

«È una cosa che ti rovina la vita.»

«Mhh… la conosci quell’attrice inglese, Reese Riverdale?»

«Mh, so chi è.»

«Beh, si dà il caso che io la conosca davvero… intendo, di persona» fece lui, appoggiandosi alla parete dell’ascensore mentre guardava la luce passare da un numero all’altro. «Lei mi ha detto che da piccola la prendevano in giro per le lentiggini e sua zia la truccava per nascondergliele… è stato suo padre a dirle che chi ha qualcosa di diverso dovrebbe trovare il modo di sfruttarlo per il proprio bene. Ed è riuscita a farsi scritturare proprio perché era una bambina con delle vistose lentiggini, la sua capacità ha fatto il resto per assicurarle la carriera.»

«Sono molto felice per lei» commentò Mukuro laconico.

«Vale per tutti noi la stessa cosa… siamo nati con qualcosa di diverso. Dovremmo anche noi trovare il modo di sfruttarlo per il nostro bene… e quello di altri, dato che ci è possibile.»

Mukuro puntò su Wing Emperor uno sguardo fortemente scettico.

«Sei davvero sicuro che ti abbia fatto del bene finora?»

Wing Emperor esitò a rispondere. Indugiò nei suoi silenziosi pensieri e tese un sorriso proprio quando le porte dell’ascensore si aprirono.

«Sì… sì, ne sono convinto. Al di là della modestia, ho salvato centinaia, forse migliaia di vite… centinaia di famiglie non hanno dovuto affrontare il lutto prima del tempo… pagherei qualsiasi prezzo per evitare che dei genitori perdano i loro figli, o che dei bambini restino senza madre… il mio tempo libero, ore di sonno, libri da leggere… un prezzo irrisorio per questo risultato, non trovi?»

«Ti diverti molto a fare il padre di tutti, vero?»

«E tu ti diverti a essere diffidente? Come mai sei così ostile verso i Civil Heroes, posso saperlo?»

«Non mi piacciono gli Auris.»

Wing Emperor si fermò di fronte a una porta anonima e lo guardò sorpreso.

«Ma… tu sei un Auris» gli fece notare con voce molto più bassa di prima. «Sei uno di noi, anche se…»

«No, non lo sono» tagliò corto. «Quindi voglio passare illeso la coda di questa cometa e tornarmene a casa. È qui che devo dormire?»

Mukuro aprì la porta della stanzetta scoprendone la sobrietà all’apice della sua definizione – una branda pronta, una sedia, un tavolo e un armadietto di metallo – quando la voce di Emperor, più fredda che mai, gli arrivò alle orecchie.

«Tornare a casa da quella gente perfettamente normale che ti disprezza perché hai mentito loro per tutta la vita?»

Come pugnalato fisicamente alla schiena da quelle parole crude si bloccò a un passo dalla porta. Guardare Wing Emperor nel corridoio gli fece venire i brividi, perché non aveva nulla della figura eroica e gentile che aveva visto fino a quel momento: gli occhi ridotti a fessure erano iridescenti e somigliavano a quelli di un felino in agguato nell’ombra, il suo viso era inciso di disprezzo. Per lui o per i suoi fratelli alla casa-famiglia che lo avevano trattato male?

«I-io ho dovuto farlo, loro–»

«Buonanotte, Mukuro-kun.»

Senza dire altro Wing Emperor chiuse la porta metallica della stanza e lo lasciò solo, nel bagliore rossastro che veniva dal cortile, a muoversi lentamente come stordito da quel repentino cambio di faccia. Si spogliò raggomitolandosi nella branda per proteggersi dal freddo e rimase lì, a occhi spalancati, a rimuginare sulle ultime parole dell’eroe.

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Capitolo 4
*** Auris Academy ***


Il mattino arrivò in una bruma di stanchezza per Mukuro, che era riuscito a dormire molto poco. Intontito si guardò intorno senza capire dove si trovasse: ci mise un po’ a ricordare cosa era successo dopo essersi rincantucciato sotto un furgoncino in un parcheggio abbandonato.

Mise i piedi giù dalla branda e si infilò subito i calzini per conservare quel poco calore che avevano, si alzò e si avvicinò alla finestra. A bocca aperta per lo stupore si affrettò a spalancarla facendola scricchiolare in modo sinistro per il troppo impeto.

Questa finestra non dava sul cortile frontale dove Night Hound aveva parcheggiato la notte prima, ma sul retro: c’erano campi segnati da righe colorate o recintati, scale che scendevano sotto il piano terra, edifici distaccati a perdita d’occhio all’interno delle alte mura dell’Accademia, strade rossastre come le piste di atletica e altre asfaltate su cui vide passare un camion in una direzione e una moto nell’altra.

Questa… non è un’Accademia, è tipo… una città dentro la città!

Ebbe modo di verificarlo in modo traumatico: trovare prima i bagni, poi la mensa e infine l’autobus che lo avrebbe portato all’infermeria – chiamate navette all’interno del campus – richiese l’aiuto di due persone e dell’ampia mappa dell’Accademia attaccata nell’atrio.

«Non scendi, ragazzo?»

Mukuro si riscosse dalla contemplazione della mappa cartacea, sulla quale cercava di riconoscere i punti di riferimento del percorso che stava facendo, per guardare l’autista.

«È l’ultima fermata, dopo questa torno al punto in cui sei salito prima.»

«Cosa?»

Mukuro studiò febbrilmente la mappa, senza capire dove diavolo fosse finito. Si grattò la testa perplesso.

«Sei qui per il programma di contenimento, eh? Non sei il primo che si perde qui dentro.»

«Dove siamo adesso?»

«Questo edificio qui» fece lui indicandolo, «è il sito di stoccaggio… per farla semplice, un magazzino di vecchie attrezzature che andranno smaltite… avanti di là ci sono i campi di addestramento aperti, quello recitato lì è il campo numero due, dove fanno allenamento i classe S, e più avanti ci sono il campo greco, la tomba delle stelle e le rovine.»

Campo greco? Rovine… tomba delle stelle?

«Sono i nomi che danno ai vari campi per ricordarseli… hanno tutti un numero, ma ricordarsi come sono fatti è più immediato» spiegò l’uomo, vedendolo confuso. «Simulano ambienti diversi per addestrare i Civil Heroes a combattere in ogni posto possibile. Il campo greco si chiama così per via delle colonne di pietra, la tomba delle stelle è un cratere artificiale… cose del genere.»

«Ah… ca… capisco» fece lui, e diede una scorsa alla mappa senza la minima speranza di capirla. «Allora dove ho sbagliato? Dovevo presentarmi alle visite mediche all’infermeria…»

«Ah, per quella devi prendere la navetta che ferma davanti all’ala est, dall’altra parte di dove sei salito tu… ma anche se ti riporto indietro non farai in tempo a prenderlo per il secondo giro… ti conviene scendere qui e farti dare un passaggio da chi viene nella direzione opposta alla nostra.»

«Io… okay, farò così… grazie…»

Mukuro scese con la sensazione di ciondolare fuori dall’autobus e girò lo sguardo sugli edifici intorno. Da lì vedeva a malapena l’edificio centrale di mattoni rossastri. Si lasciò cadere sui gradini davanti alla saracinesca chiusa da lucchetti massicci e cercò di calcolare l’ampiezza dell’area considerando la velocità media dell’autobus, il tempo trascorso per il tragitto e la distanza delle mura. Non riuscì a trovare un numero sufficientemente preciso ma valutò che potesse estendersi per un’area grande quanto i quartieri che frequentava di Kokuyo… addirittura, forse, quanto quella sua piccola cittadina.

«Quanto diavolo è grande questo posto?»

«Abbastanza per tenerci rinchiusa una grossa fetta della popolazione Auris della nazione, in effetti.»

Mukuro sobbalzò leggermente nel sentire la voce alle sue spalle e posò gli occhi sulla figura alta e bianca di Wing Emperor. Alla luce del sole i suoi occhi erano di un viola intenso, come fiori di lavanda. Non c’era traccia dell’uomo inquietante della notte precedente quando sorrise, anche se non era un sorriso felice.

«Sei qui per vedere me?»

«No» rispose prontamente Mukuro, ma siccome gli sembrava di essere stato scortese tentò di aggiustare il tiro. «In realtà… stavo cercando di andare in infermeria, ma ho sbagliato navetta… è… un casino questo posto.»

«Sì, è un po’ complicato senza una mappa…»

Stizzito Mukuro gli mostrò la mappa ripiegata e Byakuran si grattò la testa, in imbarazzo.

«Ah… beh, suppongo sia perché sei abituato a una città piccola… sai, io sono cresciuto qui, e per un po’ ho abitato anche a Osaka, e a Tokyo ho frequentato l’università… sono abituato alle grandi aree, alla metro e agli autobus.»

«Sei stato all’università?»

Dimentico del suo pessimo senso dell’orientamento dentro il campus Mukuro lo studiò con curiosità: non si era imbattuto in nulla al riguardo durante la sua ricerca in internet.

«Oh, sì… sono laureato alla Waseda.»

«Che cosa studia un Civil Hero all’università? Pensavo bastasse studiare qui per esserlo.»

«Si può dire così… una volta diplomati qui i ragazzi devono solo sostenere un esame fisico e una prova attitudinale per entrare in forze come Civil Heroes. Non hanno bisogno di lauree, ma… beh, in alcuni casi sono molto utili per sfruttare meglio le nostre abilità. Io mi sono laureato in medicina, per esempio… persone in grado di manipolare fuoco, elettricità, acqua o cambiare stato alla materia potrebbero studiare fisica per avere le conoscenze necessarie a usare il loro potere al massimo e in sicurezza… non è obbligatorio, ma è consigliabile se esistono competenze universitarie affini.»

Mukuro si guardò la mano sentendosi ancora una volta umiliato. Il suo potere non era nulla, era solo un piccolo, glabro King Kong fragile come un omino di marzapane. Nessuna laurea al mondo avrebbe potuto rendere il suo cosiddetto dono più forte, più versatile, più utile. Non serviva ad altro che a rovinargli la vita.

Strinse il pugno e incrociando le braccia appoggiò i gomiti sulle ginocchia. Wing Emperor cambiò espressione.

«Non serve arrabbiarsi, lo sai?»

«Non sono arrabbiato.»

«Sì… lo sei. Lo so» insistette Emperor. «So che maledici il tuo dono… che vorresti solo… potertelo strappare via dal corpo e gettarlo a terra… e lasciarlo lì a morire, se possibile.»

Mukuro stesso non avrebbe potuto spiegare meglio come si sentiva riguardo il suo gene Oro e sapere che proprio lui, il simbolo dell’esistenza stessa degli Auris, lo comprendeva lo fece sentire per la prima volta come se non fosse da solo contro tutto il mondo.

«Lo capisco bene… mi sentivo anche io così quando ero un ragazzo… mia madre è stata uccisa perché era una Auris, e io… erano tempi bui, Mukuro-kun. Tu che vivi in questa epoca, invece, non hai motivo di odiare così tanto la tua vita e quello che sei.»

Wing Emperor gli posò la mano sulla spalla. Anche questa volta era molto calda.

«Noi… quelli della mia generazione hanno combattuto e sofferto perché ragazzi della tua età non dovessero temere per la loro vita e odiare loro stessi per la loro nascita. Questo mondo ci dà già abbastanza sofferenze, Mukuro-kun, non creartene altre.»

Mukuro deglutì a fatica ed evitò di guardarlo.

«Ti fa sembrare proprio vecchio parlare in questo modo… sembra che tu abbia fatto la guerra di Corea.»

«Naturalmente non ho combattuto una guerra come quelle… ma ho combattuto da solo per voi. Per tutti i ragazzi che sono dentro queste mura adesso e per tutti quelli che vi entreranno… ah, un giorno sarà tempo anche per questa storia… ma non ora, non ancora.»

Emperor gli batté la mano sulla spalla con fare incoraggiante e tornò a sorridere.

«Vieni un momento con me? La classe S sta per iniziare l’allenamento al campo due, è quello alle mie spalle. Voglio presentarteli.»

«Non mi interessa conoscerli» borbottò Mukuro, seccato.

«Beh, sai, prima di essere eroi sono persone, e come tali ti potrebbero persino piacere» osservò lui, e lo tirò piano per il braccio. «E poi non si sa mai, potresti raccontare ai tuoi fratelli della casa-famiglia qualcosa di interessante quando tornerai.»

«Oh, lo farò, non temere… tutta Kokuyo saprà che guidi di merda, Byakuran.»

«Linguaggio, ragazzo. Non è permesso questo modo di parlare nella mia scuola.»

Mukuro alzò gli occhi al cielo e si rassegnò a seguirlo verso l’alta recinzione metallica poco distante. Su un pannello era scritto “field n.2” con uno spruzzo di bomboletta rosa e il tutto era corredato da farfalle storte.

«Ah… sì, beh… lo scrisse Yuni, aveva nove anni quando lo fece… ma le ragazze lo trovano grazioso, quindi non lo abbiamo mai cambiato.»

Evidentemente a Emperor era sfuggito che lui non avesse la minima idea di chi potesse essere questa Yuni, perché non ritenne importante o necessario dare ulteriori spiegazioni e gli fece strada dentro il campo. La terra era rossastra, come i campi da tennis del Roland Garros, e lungo la linea si erano accalcati alcuni ragazzi all’incirca della sua età.

Per qualche motivo, quando incrociò lo sguardo con il ragazzo dalla maschera rossa, si fermò di colpo e strinse il braccio di Emperor sotto il gomito.

«Byakuran, forse non è…»

«Non chiamarmi per nome davanti agli altri» lo rimproverò con tatto. «Te l’ho detto che è un segreto, no?»

«Non lo sanno?»

Dimenticata l’inquietudine di quella maschera rossa Mukuro fissò stupito Emperor.

«Non sono i tuoi allievi? Credevo che i classe S fossero i tuoi pupilli, o qualcosa del genere.»

«Sono soltanto i migliori allievi della scuola, quelli praticamente già dentro il quartier generale dei Civil Heroes… curo particolarmente la loro istruzione perché siano pronti all’azione in circostanze pericolose già prima di diplomarsi. Non vedo come per raggiungere questo scopo serva che sappiano il mio nome.»

Mukuro avrebbe voluto ribattere, ma erano ormai vicini al gruppo e non desiderava che sentissero qualcosa che causasse problemi: dopotutto lui era solo di passaggio – di breve passaggio – e non c’era motivo di impicciarsi dei loro affari personali con Wing Emperor o mettere zizzania.

Il gruppetto era composto di cinque persone: un ragazzo dai capelli rossi in tuta antracite stava parlando con un giovane dai capelli castani che indossava una tuta nera e arancione e una fasciatura da boxe sulle mani; dietro di loro si vedevano due ragazze con due abiti a gonna di tulle gonfia del tutto identici tranne per il colore, uno rosa e l’altro giallo; poi in silenzio e con lo sguardo più penetrante che Mukuro avesse visto – dopo quello viola – il ragazzo con il costume rosso e la maschera con il naso a becco. Sebbene potesse sembrare ridicolo qualcosa nella sua postura eretta con le braccia incrociate al petto o nel suo stesso sguardo metteva paura.

Il ragazzo dai capelli castani fu l’unico degli altri presenti ad accorgersi dell’arrivo di una persona sconosciuta insieme al loro insegnante e gli fece un cenno di saluto con la mano. Nonostante l’avversione istintiva per quei ragazzi Mukuro si trovò a sollevare la mano in risposta.

«Ah… suppongo che Restless non si sia ancora ripreso» osservò il preside, scorrendo gli occhi sul gruppetto.

Una delle ragazze, quella con l’abito rosa, fece un passo in avanti con aria grave che stonava con il suo vestiario in maniera sconcertante.

«Lo tengono in osservazione anche oggi… è troppo provato per prendere il farmaco e non può praticamente aprire gli occhi. Ha una terribile emicrania.»

«Certo, capisco… più tardi passerò io stesso a visitarlo.»

«Grazie, sensei.»

Lei gli fece un inchino molto formale e Mukuro rimase basito da quella scena, ma non ebbe il tempo di tentare di elaborarla prima che notasse il ragazzo con la maschera a becco d’uccello: non gli toglieva gli occhi di dosso.

«Parlando d’altro, oggi ruberò qualche minuto del vostro allenamento per presentarvi questo ragazzo» fece Emperor in tono decisamente più leggero, e avvicinò Mukuro spingendolo appena dietro la schiena. «Questo è Mukuro-kun. Starà con noi durante il passaggio della cometa e lo farò studiare nel vostro gruppo… è un po’ pericoloso per stare in una classe normale, ma voi lo saprete gestire.»

«In che senso, pericoloso?» domandò incuriosita la ragazza bionda con l’abito giallo.

«È piuttosto forte, sapete? La cometa gli rende difficile controllarsi e ha combinato qualche guaio dalle parti di casa.»

«Beh, non può aver fatto più danni di quelli che ha fatto Phoenix.» commentò con amarezza il ragazzo con le bende alle mani.

«Ti ho già detto che mi dispiace per la tua console, te la ripagherò.»

Mukuro guardò il ragazzo con la maschera approfittando della sua distrazione. L’altro ragazzo lo aveva chiamato Phoenix, il che spiegava almeno il costume rosso con le decorazioni dorate e la maschera con il becco. Era la prima volta che sentiva la sua voce e se ne sorprese: era una bella voce, gli diede subito l’impressione che si potesse prestare bene al canto.

Seguirono le presentazioni: le due ragazze si presentarono come Wish Love – la ragazza con l’abito rosa che si era tanto preoccupata per il misterioso Restless – e Wish Luck – la sua amica bionda – e lo informarono entusiasticamente di essere nella classe di guaritori che Wing Emperor istruiva; il ragazzo dai capelli castani era quell’eroe di cui aveva sentito parlare alla casa famiglia, Sky Flame; il ragazzo con la maschera si presentò come Mad Phoenix e non aggiunse altro. Per ultimo e assai titubante il ragazzo in tuta coi capelli rossi si avvicinò porgendogli incautamente la mano.

«Io sono Enma Kozato… ehm… piacere di conoscerti.»

«Oh, tu non hai un nome strano?»

«Ehm… sì, in effetti ce l’ho, ma è un po’… come dire…»

«Perché non glielo dici?» l’incalzò Sky Flame. «Quando debutterai ti chiameranno tutti così, non devi vergognarti.»

Enma non sembrava così desideroso di rivelare il suo nome in codice, ma alla fine cedette.

«Gra… Gravity Prince.»

«Poco poco altisonante» commentò Mukuro senza riuscire a trattenersi.

«Eh eh… sì, è un pochino… un po’ troppo, forse?»

«Beh, diciamo che devi essere uno davvero figo per sostenere il peso di un nome del genere.»

Brutale ma sincero, Mukuro si rese conto solo dopo aver parlato di aver detto qualcosa che poteva suonare maleducato, ma non ebbe modo di scusarsi, distratto da qualcosa di strano.

Alcuni sassi sparsi qua e là per il campo avevano iniziato a fluttuare in aria. Guardò Gravity Prince per vedere se era lui a dare una dimostrazione, ma quello era tutto preso in giustificazioni e dubbi riguardo al nome d’arte e non pareva essere preso a fare qualsiasi altra cosa.

Mukuro toccò uno dei sassolini, incuriosito e affascinato, che si spostò come una bolla di sapone impossibile da scoppiare. Lo guardò rapito finché anche il suo corpo non si staccò da terra e prese a galleggiare qualche decina di centimetri dal suolo. Era stupefatto, ma era una sensazione fantastica: era proprio come si era sempre immaginato fosse stare in una capsula nello spazio aperto.

Non aveva il minimo controllo del suo corpo e si trovò lentamente a capovolgersi a testa in giù mentre l’altezza della fluttuazione superava i due metri. Byakuran lo stava guardando con aria divertita, poi anche SkyFlame, il più vicino a Enma oltre Mukuro, prese a levitare e agitò buffamente i piedi.

«Enma! Lo stai facendo di nuovo!»

Enma smise di rimuginare a bassa voce e prestò attenzione a ciò che gli succedeva intorno: posò uno sguardo su SkyFlame, sulle pietre fluttuanti e su Mukuro che continuava a salire, sbiancando in volto; intrecciò le dita fra loro e serrò gli occhi.

«Mi dispiace! Mi dispiace, non volevo, mi succede quando sono nervoso, ti faccio scendere subito!»

Nel giro di un secondo l’annullamento di gravità scomparve, Mukuro sentì il corpo pesante come sempre e prese a precipitare verso il terreno. Sarebbe caduto di fianco da un’altezza paragonabile al balcone del primo piano se Wing Emperor non lo avesse preso al volo con la stessa facilità con cui avrebbe preso il lancio di un bambino che gioca a softball.

«Dobbiamo ancora lavorare sullo stress, Gravity» lo rimproverò bonariamente mentre lasciava che le scarpe di Mukuro toccassero di nuovo terra. «E devi fare attenzione a rilasciare il campo antigravitazionale, Mukuro-kun poteva farsi male a cadere da quell’altezza.»

«Mi dispiace» pigolò Enma, rosso in volto quanto nella chioma. «N-non mi sono abituato all’influenza della cometa, è difficile gestire il rilascio…»

«Sereno, Gravity, non è successo niente… lavoreremo su questo nei prossimi giorni.»

Emperor lanciò uno sguardo allegro a Mukuro; lui notò immediatamente che i suoi occhi viola sembravano scintillare.

«Gravity è qui con noi da poco, è arrivato l’estate scorsa, quindi da poco più di un anno… per qualche settimana abbiamo avuto oggetti galleggianti per tutto il campus, è stato davvero divertente! Avresti dovuto vedere i capelli di Hound, sembrava una banshee!»

Mukuro distolse di scatto lo sguardo dalla risata divertita di Wing Emperor, in imbarazzo come se avesse aperto la porta di uno spogliatoio femminile e senza sapersi spiegare quella sensazione. Si concentrò invece su SkyFlame che stava dando qualche colpetto consolatorio sulla schiena di Enma, che non faceva che scusarsi ripetutamente di una situazione che doveva aver suscitato un gran divertimento quell’estate, a giudicare da come le due ragazze ridacchiavano, e persino Mad Phoenix – che fino a quel momento non aveva accennato neanche l’ombra di un sorriso – aveva girato lo sguardo altrove e si era coperto la bocca con la mano in un fiacco tentativo di nascondere l’ilarità con disinvoltura.

Wing Emperor aveva smesso di ridere ma sembrava costargli moltissimo mantenere quella serietà. Una leggera incrinatura nella voce lo tradì quando parlò di nuovo.

«Beh, bene, ehm… procedete da soli con il riscaldamento e preparate il campo, io tornerò da voi non appena avrò accompagnato Mukuro-kun all’infermeria per il test di tolleranza.»

Tutti quanti guardarono Mad Phoenix come se – Mukuro ne ebbe l’intima certezza – tutti si aspettassero che rispondesse lui per primo o per la collettività degli studenti, ma lui non sembrava essere di quell’avviso. Si fece avanti di un paio di passi.

«Con il vostro permesso, Emperor-sensei, vorrei avanzare una richiesta.»

«Parla, dunque» replicò lui, per quanto sorpreso come tutti.

«Vorrei testare la forza del nuovo arrivato.»

Mukuro si sentì come se gli fosse salito il cuore in gola con un singhiozzo, Wing Emperor alzò le mani come se si aspettasse di dover placcare il suo studente.

«Ah, no, Phoenix, Mukuro-kun è qui solo per il programma di contenimento, non è un nuovo studente dell’accademia…»

«Avete detto che è molto forte, così tanto da essere problematico da gestire.»

«Certo, ma non è preparato, non può combattere con te…»

«Non ho chiesto questo… che non è un guerriero si vede dagli occhi.»

Dagli occhi in che senso?

Mukuro aggrottò le sopracciglia, con la netta sensazione che quell’affermazione fosse un’offesa. Aveva davvero un’aria così spaurita? Dava a una prima occhiata l’impressione di avere paura di quel luogo e di tutto quello che stava succedendo? Mukuro sapeva perfettamente di non essere un coraggioso, ma aveva anche uno straccio di orgoglio che si mise a bruciare a quel commento anche se non se ne sarebbe accorto che tempo dopo.

«Sono prontissimo a incassare un colpo» dichiarò Phoenix risoluto. «Non serve che io contrattacchi, mi basterà per sapere quanto forte sia.»

Wing Emperor non sembrava convinto e scambiò un’occhiata con Mukuro.

«Che ne pensi, Mukuro-kun? Ti senti di farlo?»

«Cosa… dovrei picchiarlo?!»

«Ah… questo non potresti farlo nemmeno volendo» fece il preside un poco a disagio. «Mad Phoenix è il nostro ariete… è in assoluto il Civil Hero più forte che abbiamo in Giappone, parlando di forza bruta, e si addestra qui da noi fin dalla tenera età. È un soldato a tutti gli effetti. Non credo che riusciresti a colpirlo se non volesse lasciartelo fare.»

Mukuro, vagamente indispettito da quell’assoluta certezza, scoccò un’occhiata al ragazzo con la maschera. Lui tese un ghigno e gli si avvicinò stringendogli l’avambraccio. Da così vicino poté vedere per la prima volta la straordinaria bellezza dei suoi occhi: erano di un grigio intenso dal pallido riflesso azzurro, come le acque del lago vulcanico sulle montagne vicino Kokuyo durante i suoi cupi inverni.

Attribuì alla nostalgia di quella similitudine spontanea la leggera fitta al petto che avvertì.

«Ora c’è qualcosa che mi piace nei tuoi occhi» gli disse Phoenix in un sussurro, e lo trascinò qualche passo lontano dal preside. «Fammi vedere se c’è dell’altro in te che possa interessarmi.»

«Phoenix, non è una buona idea, quindi…»

Ma Phoenix ignorò il suo stesso insegnante e si mise in posizione di guardia, pronto a ricevere un colpo. Mukuro non desiderava dare alcuna prova di forza, temeva molto di colpire qualcuno prima di assumere un qualsiasi soppressore che lo aiutasse a limitare quella potenza e Wing Emperor sembrava molto contrariato per quel corso degli eventi. Invece Phoenix non aveva intenzione di lasciarsi scoraggiare dalla sua esitazione né dal mancato supporto dell’insegnante.

«Di che hai paura? Sei in presenza del più incredibile guaritore al mondo» lo pungolò Phoenix con tono canzonatorio. «Se pensi che puoi farmi male lui sistemerà le cose… e vale anche per te, naturalmente. Solo evita di pisciarti sotto, non credo possa fare nulla per il bagnato.»

In quel suo scherno Mukuro ebbe la conferma delle sue precedenti impressioni: aveva davvero percepito la sua paura ed era quella a convincerlo che non fosse un guerriero. Infiammato quel suo fragile orgoglio il ragazzo mise da parte ogni remora e caricò il pugno dietro la spalla; in quel momento Wing Emperor redarguì entrambi ma per l’attenzione che gli prestarono avrebbe anche potuto tacere.

Mentre il pugno si abbatteva su Phoenix a Mukuro passarono per la mente mille pensieri angoscianti e gli sussultò il petto quando impattò la mano del ragazzo mascherato: non aveva mai osato mettere tanta foga nel muoversi e sotto l’influenza della coda della cometa era certo che quel colpo avrebbe potuto abbattere un muro robusto. L’impatto tra pugno e palmo generò il fragore assordante di un tuono, un violento spostamento d’aria mosse i capelli di tutti i presenti e seguì un terribile rumore di trascinamento dato dagli stivali di Phoenix che slittavano sul terreno nudo del campo due lasciando leggeri solchi. Il tallone urtò un ciottolo di poco sporgente, e l’eroe dal costume rosso cadde ruzzolando per altri due metri prima di riuscire a fermarsi.

Un coro di esclamazione di stupore salì dai suoi compagni mentre Mad Phoenix scuoteva la testa leggermente stordito e si rimetteva in una dignitosa posizione inginocchiata guardandosi la mano: le dita – che i guanti lasciavano scoperte – avevano un’angolazione innaturale e si stavano già gonfiando e annerendo: erano rotte.

«Ha rotto le dita a Mad Phoenix!» esalò Sky Flame con occhi spalancati dallo stupore.

«Con un pugno da fermo!» gli fece eco Gravity col medesimo tono tra l’ammirazione e la paura. «È incredibile!»

Mukuro non badò ai loro commenti se non marginalmente e corse da Phoenix. Lui lo radiografò all’istante con quegli occhi grigi ma non disse una parola.

«Mi dispiace! Stai bene? Cioè, sei intero, a parte la mano?»

Phoenix continuò a fissarlo e Mukuro temette di essersi fatto un nemico infliggendogli quell’umiliazione pubblica; la prospettiva di passare tutta la sua permanenza a guardarsi le spalle dalla vendetta di Mad Phoenix era la ciliegina sulla torta di un periodo già complicato.

Il lungo dialogo silenzioso tra gli occhi grigi e quelli blu venne interrotto dall’arrivo di Wing Emperor, il quale prese delicatamente la mano ferita di Phoenix.

«Fammi dare un’occhiata.»

«Emperor-sensei… davvero lui non è uno studente?»

Mentre il bagliore candido delle ali di Emperor si manifestava e le dita del ragazzo si sgonfiavano rapidamente il preside si permise di distrarsi.

«Studia in un’accademia di musica, Phoenix, e come ho detto è qui per il protocollo di contenimento. Appena passata la cometa tornerà a casa, come desidera.»

A quella sentenza Phoenix afferrò il braccio di Mukuro con la mano sana e se lo tirò così vicino che lui poté distinguere persino le pagliuzze grigio scuro intorno alle sue pupille e sentire il calore del suo fiato sul viso. Non era mai stato tanto vicino a qualsiasi persona al mondo da che aveva memoria.

«Tu sei dannatamente forte» gli disse l’eroe, con uno scintillio che poteva essere ugualmente ammirazione o follia. «Non ti sei affatto sforzato per quel colpo, me ne sono accorto! Tu devi essere una specie di mostro, non ho incontrato nessuno finora che avesse una forza simile.»

La parola “mostro” era l’ultima del vocabolario che Mukuro sperasse di sentirsi rivolgere nella vita, ma Mad Phoenix non sembrava attribuirle i connotati negativi che le dava lui. Tuttavia avrebbe preferito troncare quell’imbarazzante incontro, quella vicinanza sconveniente e – potendo scegliere – restare nascosto in una stanza fino alla fine della detenzione.

«Nulla del genere, è la cometa che–»

«Non nasconderti dietro la cometa, Mukuro» l’interruppe il ragazzo con un sorrisetto. «Ho il tuo stesso tipo di potere e so bene a che punto era arrivato con l’influenza della cometa… al tuo stesso punto, ma io mi addestro da dieci anni.»

Basito, Mukuro cercò Wing Emperor come se sperasse di sentirlo smentire con forza. Purtroppo lui fissò la mano di Phoenix che stava controllando accuratamente dopo la guarigione e in tono piatto non poté fare altro che confermare.

«Indubbiamente in te alberga un immenso talento, Mukuro-kun… un potere che se raffinato ti porterebbe dritto nella classe S e dopo il diploma al comando di una squadra di Civil Heroes, date le tue attitudini intellettive. Hai probabilmente tutto quello che si potrebbe raccomandare per una carriera come questa.»

«Devi restare!» esclamò Phoenix, stringendo un po’ di più il suo braccio. «Uno forte come te deve essere un Civil Hero, è un obbligo morale verso il tuo paese! Sei nato per essere uno di noi!»

Mukuro era così agghiacciato che pensò che sarebbe stato meglio se Mad Phoenix avesse cercato di baciarlo o di strangolarlo piuttosto che rivolgergli quelle parole.

«Non ci penso nemmeno! Io voglio tornare a casa… studiare musica, trovarmi un lavoro in quel settore, non ci penso nemmeno a rischiare l’osso del collo per–»

«Mukuro, è normale avere paura. Tutti noi abbiamo paura prima di un intervento, succede sempre e anche ai più esperti.»

Con un sorprendente passaggio a un tono incoraggiante da insegnante – e con suo sommo orrore – Phoenix lasciò il suo braccio solo per prendergli la mano con una confidenza più propria a una coppia di innamorati che a due ragazzi che si erano appena incontrati con il bel risultato di quattro dita sbriciolate.

«Ma questo potere… ti rendi conto di quante vite umane possono essere salvate da qualcuno con una tale forza? Da solo potresti sostenere un palazzo… un ponte… sollevare qualsiasi cosa! Sconfiggere qualsiasi nemico, in un colpo solo!»

Mukuro aprì la bocca per replicare, ma non ne uscì alcun suono. Mad Phoenix si rimise in piedi e tirò la sua mano per fargli fare lo stesso; lui obbedì senza accorgersene preso da mille riflessioni in contemporanea. Purtroppo quel momento di debolezza aprì una breccia e tutti gli altri studenti, contagiati da quello che ormai sembrava essere il loro leader, si unirono al commento entusiastico delle sue capacità e alla lode di quel potere che Mukuro aveva sempre disprezzato per la sua banalità.

In particolare le due ragazze sembravano volerlo convincere che non era obbligato ad andare in prima linea e che avrebbe potuto avere una sua efficacia anche nelle operazioni di soccorso con l’unità medica: Wish Love iniziò a rievocare recenti disastri – come l’alluvione di Haemaki di due anni prima, il crollo dell’Asada Building o il disastro ferroviario di Namiwa di otto anni prima – facendogli notare che in quei frangenti avere un singolo eroe capace di spostare enormi pesi o distruggere massicci ostacoli avrebbe potuto facilitare il soccorso e limitare i danni.

Circondato dai ragazzi vocianti e sorridenti Mukuro iniziò a identificare una sensazione a lui sconosciuta che avrebbe definito calore, se gli avessero chiesto di spiegarla: era come essere un pulcino che trova un nido caldo con altri suoi simili. Si sentì intimorito da una così pericolosa inclinazione a farsi suggestionare e cercò con lo sguardo Byakuran. Dopo che i loro occhi si furono incontrati il preside si fece avanti.

«Okay, ragazzi, basta così, avete giocato abbastanza…» li zittì mentre li allontanava da Mukuro. «Siete qui per l’addestramento, ricordate? Ora preparatevi mentre porto Mukuro-kun in infermeria.»

Byakuran lo tirò verso la strada ma Mukuro si fermò sentendosi afferrare l’altro braccio: Phoenix lo stava fissando.

«Non volevo metterti pressione, ma mentre sei qui… beh, pensaci su. La squadra vorrebbe qualcuno come te… io… vorrei te nella squadra.»

Mukuro avrebbe voluto stroncare quella discussione con un secco rifiuto, ma il modo in cui Mad Phoenix lo guardava non gli permise di farlo. Anche se aveva ogni ragione di ritenersi umiliato e insultato quel ragazzo con gli occhi grigi lo guardava come se non avesse mai visto niente di tanto bello al mondo; era come un bambino che guarda un adorabile cucciolo nella vetrina di un negozio.

Un attimo dopo gli balenarono in mente gli sguardi spaventati di Ayaka e della signora Kujaku, che non sarebbero stati diversi se avessero guardato uno sconosciuto armato. Istintivamente strinse la stoffa sul petto all’altezza del cuore. Gli faceva male ripensare a quegli sguardi impauriti, alla rabbia e al disprezzo che aveva visto sul volto di fratelli e sorelle che credeva affezionati… specie ora che un perfetto sconosciuto lo guardava come se nella vita non avesse atteso altri che lui. Quella vistosa differenza, quel paradosso lo turbava e lo confondeva.

La verità lo colpì all’improvviso con violenza inaudita.

Loro sono tutti come me. Hanno avuto tutti la voglia dorata sull’ombelico… hanno tutti sofferto per essere diversi da come sono quelli normali. Loro… mi capiscono.

Mukuro si morse il labbro inferiore in un tentativo disperato di trattenere la commozione, ma Wing Emperor venne in suo soccorso coprendogli gli occhi come avrebbe fatto a un bambino davanti a uno spettacolo cruento e dirottandolo verso la strada.

«Per favore, Mukuro-kun deve prendere il farmaco prima possibile… sbrigatevi a prepararvi o vi farò fare un addestramento doppio.»

La risposta dei ragazzi fu un lamento generalizzato e Mad Phoenix richiamò la classe all’ordine con insospettabile autorità.

«Avete sentito Emperor-sensei? Sulla linea di centro campo, iniziamo con lo stretching!»

I passi del gruppo si affrettarono verso il centro del campo. Mukuro non riuscì a voltarsi a guardarli un’altra volta e nemmeno riuscì a guardare il preside mentre gli camminava accanto verso la strada. Non gli importava di nascondere le lacrime che erano scese, era certo che le avesse già notate.

Camminarono in silenzio per qualche minuto finché Wing Emperor non fermò un veicolo con un cenno e rimediò loro un passaggio per l’infermeria da un guidatore – un giovane uomo biondo – al quale si rivolse in confidenza. Mukuro non incrociò lo sguardo con nessuno dei due fino al momento in cui scesero davanti all’edificio con la croce verde sulle porte.

«Mukuro-kun… l’incontro con i miei ragazzi ti ha così turbato?»

«Voglio andare a casa.»

Era consapevole di suonare come un bambino capriccioso, ma in quel momento era il suo desiderio più intenso. Era vero che alla casa-famiglia avrebbe trovato gli stessi sguardi di quando era uscito dalla soglia, ma almeno a Kokuyo c’era Subaru. Il suo più caro amico. La sua ultima speranza che la sua vecchia vita non fosse del tutto compromessa.

E se anche Subaru l’ha saputo… se non vuole più vedermi? Se ritorno a casa… e sono solo?

Sussultò quando sentì la mano calda di Wing Emperor sulla schiena.

«Resisti ancora un po’, d’accordo? Solo per il transito della cometa, poi non ci vedrai più… beh, disastri permettendo!»

Mukuro non replicò e non disse niente per tutto il tempo in cui una bella donna coi capelli lunghi gli girò intorno per fare prelievi e registrare battito, pressione e altri valori. Non gli importava di cosa gli stesse facendo, perso com’era nella cupezza delle sue congetture.

«Ci penso io.»

Wing Emperor si avvicinò al letto su cui lo avevano fatto sdraiare, sedette sul bordo e con delicatezza gli asciugò le lacrime dalle guance.

«Mukuro-kun.»

«Che cosa succede… se torno a casa e nessuno mi vuole più?»

Si sentì ancora più infantile di prima, ma il terrore lo attanagliava. Wing Emperor sospirò e gli prese il polso per passargli un batuffolo bagnato nell’incavo del braccio.

«Non succederà, Mukuro-kun… quando tornerai sarà tutto come prima… meglio di prima, perché non dovrai più addossarti il peso di un segreto come questo.»

«E se non mi vogliono più? Se credono che sono un pericolo per i bambini, e…»

«Shhh…»

Mukuro sentì appena l’ago entrare e se non fosse stato per il liquido che dava un’intensa sensazione di calore non sarebbe neanche stato certo di essere stato forato. Con molta delicatezza il preside sfilò la siringa e applicò un cerotto.

«Mukuro-kun, la prima somministrazione ti farà dormire… resterai qui in infermeria fino a stasera, poi ti porterò alla tua camera. Domani farai lezione delle materie comuni con i ragazzi della tua età.»

«Posso tornare qui se succede?»

La sonnolenza si spandeva a ondate sugli occhi di Mukuro e la vista si faceva sfocata, ma riuscì comunque a vederlo sorridere mentre gli accarezzava la testa.

«C’è sempre un posto per un Auris nella mia casa… ci sarà sempre un posto per te. Non piangere più. Non sei solo.»

Mukuro chiuse gli occhi, incapace di tenerli ancora aperti. Un’ultima lacrima calda gli scivolò via dall’occhio sinistro mentre, con un profondo sospiro, scivolava nel sonno.

 

*

 

Quando riaprì gli occhi la stanza era delicatamente illuminata dal sole che passava oltre le tende tirate. Mukuro batté le palpebre con una sensazione di spossatezza e stordimento prima di accorgersi di due vistose novità.

La prima era che la stanza non era la stessa in cui si era addormentato, l’infermeria: non c’erano i molti letti messi in fila e le tende divisorie bianche; anche il letto era più ampio e morbido. La seconda era che anziché la bella dottoressa o Wing Emperor, a vegliarlo seduto su una seggiola con un libro aperto sulle ginocchia e un evidenziatore in mano c’era Mad Phoenix.

Gli occhi grigi si sollevarono dalla pagine quando si accorsero che il paziente si stava mettendo seduto.

«Oh, finalmente sei sveglio, Mukuro» l’accolse lui, tirando un sorriso stanco. «Come ti senti adesso?»

«Io… sono un po’ intontito, ma sto bene… cosa… fai tu qui?»

E dov’è “qui”?

«Hai avuto la febbre alta… una reazione non rara alla prima assunzione dell’Orosoppressore, perciò mi sono offerto di controllarti durante la notte.»

«La… notte? Da quanto tempo sono a letto?»

«Da ieri. Hai dormito tutto il pomeriggio e gran parte della notte. Ti sei svegliato in certi momenti ma eri confuso dalla febbre e ti sei riaddormentato subito. Ora sono le sei e dodici del mattino.»

Mukuro si issò seduto e si accorse di essere svestito a metà: indossava una specie di camicia da notte e sotto la coperta le sue gambe erano nude. Cercò con gli occhi i suoi abiti intorno al letto, ma non ne trovò traccia.

«Ho chiesto a Love di portare i tuoi abiti alla nostra lavanderia… nel dormitorio della classe S» si spiegò alla prima avvisaglia di confusione. «Ti ho portato una tuta. Sono quelle che indossiamo per l’addestramento normale e l’attività fisica… Storm Breaker è alto circa quanto te, ho chiesto in prestito una delle sue.»

Mukuro guardò il fagotto che gli stava porgendo, già temendo un’assurda tenuta attillata e imbarazzante, ma per fortuna si trattava di qualcosa di relativamente sobrio: era la stessa tuta antracite in tessuto tecnico dalle linee arancioni su torace e spalle che aveva visto indossare a Enma Kozato al campo il giorno prima.

«Perché proprio arancione?» domandò mentre la dispiegava per indossarla. «Mi è parso di vedere che lo stemma della scuola ha un fondo viola.»

«Oh, siamo suddivisi per classi…»

«Quindi il vostro anno è arancione? Che razza di scelta di colori è? Di solito si usano verde, blu e rosso per dividere gli anni. Nel mio liceo al secondo anno portiamo la cravatta blu.»

Mentre si infilava i pantaloni – di lunghezza ottimale – vide Phoenix scuotere la testa.

«Noi siamo diversi… all’Accademia Auris i corsi sono divisi in base alle potenzialità degli studenti.»

«In che senso?»

Phoenix chiuse lentamente il libro e sospirò.

«Tu non sai proprio nulla di noi?»

«Beh… no, in effetti.»

Phoenix lo studiò con occhi profondi, ma qualsiasi fosse il suo pensiero non lo espresse.

«I bambini sotto i dodici anni, in pratica delle elementari, frequentano la classe E e indossano l’uniforme bianca alla marinara. Li avrai notati, immagino.»

In effetti Mukuro ricordò gli stuoli di bambini con i cappellini bianchi e i fazzoletti celesti che aveva visto spostarsi nel cortile frontale mentre cercava di raccapezzarsi sulle navette. Annuì.

«Una volta finito il corso sostengono un esame di simulazione, e quello li colloca nella classe successiva in base al merito ottenuto a quell’esercitazione. Nella classe D ci sono i ragazzi con poteri deboli o relativamente non utili per un Civil Hero, o coloro che non desiderano diventarlo o fare uso dei loro poteri fuori dalla scuola. Indossano fiocchi gialli.»

«Ma se non vogliono fare i Civil Hero perché studiano qui?»

«Perché qui non saranno derisi» ribatté Phoenix con naturalezza. «Qui siamo tutti uguali. Siamo tutti Auris, non c’è rischio che possano sentirsi impauriti o emarginati.»

Mukuro tacque a quella rivelazione e una parte remota della sua mente, all’idea di tornare a scuola dopo quel pasticcio a Kokuyo, si chiede se quella cravatta gialla, se pur ridicola, non facesse al caso suo.

«La classe C raduna i ragazzi con prospettive limitate da Civil Heroes, ma che potrebbero volerlo diventare, o lavorare nel campo del supporto. Portano il fiocco blu, e sostengono esami ogni due mesi per un eventuale passaggio alla classe superiore.»

«Oh, quindi si può scalare la gerarchia?»

«Naturalmente si può. Lavorare duramente può migliorare uno studente abbastanza da permettergli di superare i suoi limiti… sono molti a passare alla classe B, è il corso con più studenti. Hanno poteri solidi con buon margine…»

«Fiocchi verdi?»

Phoenix annuì, sorpreso.

«Come lo sai?»

«Hai detto che sono molti… sulla mappa dell’Accademia ho visto tre edifici dormitorio con il segno verde.»

«Bravo, infatti è così. Ci sono tre dormitori per i ragazzi della classe B… e per non nascondere le note dolenti, devo dire che la carriera di molti studenti si ferma in quella fascia. Alla classe A e al loro colore rosso sono ammessi solo i più forti, quelli con poteri raffinati e utili, con padronanza della loro capacità, ottime abilità tattiche e di combattimento, una profonda conoscenza delle procedure di intervento e di soccorso. Molti non arrivano a quel livello neanche dopo l’accademia, al momento della formazione da Civil Heroes professionisti.»

Mukuro aveva finito di vestirsi e senza accorgersene ripiegò la camicia da notte come era uso fare alla casa famiglia, ma aveva occhi solo per Mad Phoenix.

«E… questa è la classe A?»

«Naturalmente.»

«E allora i classe S…»

«I classe S sono il meglio del meglio. In ognuno di questi aspetti. Hanno una preparazione fisica, tattica e strategica migliore, poteri di rango elevato e ottima padronanza. I classe S una volta diplomati devono sostenere un solo esame psicoattitudinale per entrare in forze come Civil Heroes, e siamo già in possesso di una licenza per intervenire qualora nei paraggi siano necessari rinforzi.»

«Davvero?»

Mukuro vide la sua stessa malcelata ammirazione riflessa nello stupore di Mad Phoenix e si affrettò a distogliere lo sguardo e ricomporre la propria espressione. Lisciò la camicia piegata senza motivo, solo per fingersi improvvisamente disinteressato.

«Notevole, Mad Phoenix. Immagino sarai molto orgoglioso della tua squadra.»

«Lo sono. Siamo tutti molto motivati e molto preparati. Un’ottima squadra, in definitiva.»

Non trovando ulteriori difetti da correggere Mukuro abbandonò la camicia da notte sul letto e ripescò le sue scarpe: quelle erano state lasciate accanto al comodino.

«Potrebbe essere anche il tuo orgoglio, questo.»

«Prego?»

«Se tu decidessi di restare riusciresti… sì, se fossi sufficientemente motivato, potresti essere uno di noi. Hai un potere che te lo consentirebbe… se il tuo spirito fosse in grado di incendiarsi di passione per quello che facciamo, aiutare gli altri, tu…»

Mukurò sbatté il piede a terra più forte di quanto volesse, ma non causò il minimo danno alla pavimentazione: il farmaco doveva aver iniziato a funzionare.

«Per favore, basta così. Bravissimi, siete dei veri eroi, ma io non sono come voi. Io sono un egoista e penso solo a me. Quello che voglio è lavorare nella musica, essere ricco e famoso, e soprattutto al sicuro a casa mia.»

Mad Phoenix non rispose finché lui non ebbe infilato la seconda scarpa e incrociato il suo sguardo: aveva messo su un sorrisetto di scherno.

«Oh, io non credo proprio… no, non sei così, Mukuro.»

«Che ne sai? Neanche mi conosci.»

«Un egoista non si preoccupa di ferire gli altri, e a te non importa che questo. Tu sei un eroe, solo che non lo sai ancora.»

Le sue parole e la naturalezza con la quale le snocciolò lasciò Mukuro basito e imbarazzato, ma in parte rinfrancato: era inquietante ma anche di grande sollievo vedere che qualcuno era capace di capirlo, di leggere le sue intenzioni e i suoi pensieri pur senza conoscerlo da una vita.

Nuovamente si sentì ferito dal ricordo della diffidenza di quella che aveva sempre considerato la sua grande famiglia e d’istinto si mordicchiò di nuovo le labbra. Non seppe quanto rimase immerso in pensieri fugaci e confusi; tornò al presente solo quando si sentì toccare la spalla.

«Hai fame, immagino… andiamo a mangiare qualcosa. Ti accompagno io alla mensa.»

«Io… posso uscire?»

«Certo, non sei mica recluso» osservò lui divertito. «Ti hanno spostato al ricovero breve per lasciare libera l’infermeria, ma puoi andartene se ti senti bene.»

Ricovero breve?

Mukuro lasciò la stanza seguendo in silenzio Phoenix, che lo guidò con il libro sotto il braccio lungo un corridoio fino all’ampio ascensore: mentre l’attendevano poté scoprire che la cosiddetta “infermeria” era a tutti gli effetti un piccolo ospedale studiando la mappa delle indicazioni dei piani. Si trovavano al terzo piano contrassegnato dalle diciture centro antiveleni e ricovero breve; il secondo ospitava ambulatori, vaccinazioni, centro prelievi e laboratorio analisi; al primo lesse somministrazioni farmaci, uffici e aule medicina e si domandò se fosse lì che Wing Emperor teneva le sue lezioni. Il piano terra, piano selezionato sul tastierino da Phoenix, era dove era stato portato il giorno prima e comprendeva l’accettazione, l’infermeria e una misteriosa dicitura piscina. Ben più inquietanti erano i piani alti, con traumatologia, fisioterapia e reparto ustioni al quarto e terapia intensiva al quinto.

«Siete… piuttosto attrezzati, vedo» commentò Mukuro, per rompere il silenzio nella cabina.

«Oh, sì. È necessario. Qui ci sono ragazzi con grandi poteri, alcuni fuori controllo, combattimenti ed esercitazioni molto rigide. Ci si può fare molto male, per questo l’ospedale è attrezzato e il personale medico preparato.»

«Qualcuno… ehm, qualcuno è mai morto qui dentro?»

«Che io sappia, no. Una volta, quando la scuola era aperta da poco, è morto uno studente, ma accadde fuori, in città, mentre era in permesso. Fu un incidente automobilistico, una vera disgrazia» raccontò brevemente Phoenix. «Era un bambino della classe E, il preside ne rimase così sconvolto che modificò il regolamento e ora i ragazzi della E possono uscire in città solo accompagnati da un tutore adulto.»

«Bya… voglio dire, Wing Emperor fu accusato di qualcosa?»

«Non sono al corrente dei dettagli, ma penso di no. In questo paese è normale che i bambini facciano spese, vadano a scuola o girino da soli durante il giorno, non vedo perché avrebbero dovuto pretendere che il sensei impedisse ai bambini di uscire o di farlo da soli.»

Le porte si aprirono sul piano terra e la discussione fu interrotta mentre uscivano per lasciare il posto a una ragazza in uniforme con delle terribili bolle bluastre sull’avambraccio che venne portata di sopra accompagnata da un uomo con la divisa viola degli infermieri.

«Centro antiveleni» sentenziò Phoenix dopo un’occhiata. «Viperlance ha di nuovo una giornata storta, sembra.»

«Viper… lance?»

«Stacci lontano, Mukuro… è un attaccabrighe, è continuamente in punizione. È della classe A, e il suo temperamento lo rende un soggetto che è meglio evitare.»

Da come ne parlava e dalla freddezza del suo sguardo Mukuro percepì che non solo non provava simpatia per l’ignoto Viperlance, lo disprezzava. E quell’insolita reazione lo incuriosì.

«Come mai lo detesti?»

«Non lo detesto.»

«Come no, sembra che tu non chieda di meglio che strozzarlo!»

«Non lo detesto, Mukuro, io lo disprezzo. Viperlance è il lato oscuro dei Civil Heroes, una persona a cui non importa degli altri se non sono utili ai suoi scopi… combatte per la gloria personale, per la fama, per la ricchezza che viene da una carica elevata nel Coordinamento, per essere una star. Copertine, interviste, servizi fotografici, pubblicità e merchandising, e una carriera nel cinema: questo spinge quel ragazzo a frequentare questa accademia. E io non posso sopportarlo.»

Mukuro si chiese se potesse azzardare una domanda. Se sarebbe stata una mossa furba dirgli che ai suoi occhi l’eroismo sfegatato di Wing Emperor era malsano, eccessivo, forse addirittura ipocrita… e decise di tacere: non aveva ancora le idee chiare sul suo futuro ed era meglio inimicarsi meno persone possibili nella triste ipotesi che gli fosse stato inevitabile ritornare. Bastò questo ragionamento per sentirsi una persona vile.

Parlarono di tutt’altro quando arrivarono alla mensa e fecero colazione – Mukuro trovò il caffè e la torta particolarmente sontuosi a paragone dello strano intruglio verde che Phoenix deglutì con una manciata di nocciole e mandorle – e subito dopo levarono le tende per evitare l’orario di affollamento degli studenti. Phoenix non si era tolto la maschera nemmeno per mangiare in tranquillità.

Che cosa nasconde?

Gli pareva molto insolito che tenesse la maschera anche per vegliare di notte uno studente ammalato o per mangiare in una mensa semideserta, perciò giunse alla conclusione che ci fosse qualcosa sul suo viso che non voleva che fosse visto. Una cicatrice, forse.

«Senti, Phoenix… mi domandavo, quel tuo costume…»

Ma furono interrotti da Wing Emperor in persona, che uscì da una porta alla loro sinistra e li guardò come se il coprifuoco fosse ancora in vigore e trovasse inconcepibile la loro presenza lì.

«Siete voi… cosa fate qui?»

«Sensei, buongiorno» lo salutò Phoenix con un accenno di inchino. «Ho appena portato Mukuro alla mensa per la colazione e volevo mostrargli la biblioteca e la nostra aula.»

«Ah… vedo che stai meglio, Mukuro-kun. In effetti hai un aspetto piuttosto buono nonostante la nottataccia.»

«Beh… sì, sto abbastanza bene… credo di aver avuto la febbre.»

«Certo, lo so» replicò il preside, quasi sorprendendosi che trovasse doveroso dirglielo. «Sono passato da te tre volte ieri, per assicurarmi che non ci fosse nulla di grave. Purtroppo spesso la prima somministrazione del farmaco LTX provoca reazioni, come febbre, nausea e tremori, per questo chi non lo ha mai preso viene tenuto in osservazione.»

«Ho avuto la febbre anche per il vaccino antitetanica» osservò Mukuro in tono casuale, più come un pensiero tra sé e sé che una comunicazione effettiva.

«Significa che hai una buona risposta immunitaria. Non c’è da preoccuparsi» tagliò corto l’eroe, che aveva un che di sbrigativo nella voce che Mukuro non riuscì a non trovare sospetto. «La biblioteca è questa qui, comunque. Se ti senti bene spero andrai a lezione con i ragazzi della classe S già questa mattina.»

Mukuro diede una risposta distratta e allungò il collo per sbirciare nella stanza. Non che fosse interessato in modo particolare ai libri, ma qualcosa in Byakuran gli faceva pensare che non volesse che i suoi studenti vedessero qualcosa all’interno.

«Permesso~»

Con un’espressione in bilico tra rassegnazione e vergogna – e una punta d’ira per come la interpretò Mukuro – Byakuran si appiattì contro lo stipite e tra lui e gli studenti passò una bellissima donna con lunghi capelli corvini e un tailleur blu molto attillato e sexy. Lei sorrise ai ragazzi e si allontanò nel corridoio con un passo da modella che fece sgranare gli occhi dei due più di quanto avrebbero desiderato ammettere.

«Chi… è quella?»

Phoenix scosse la testa, senza parole. Byakuran, che sembrava affogare nell’imbarazzo, non li guardò mentre dava loro una risposta.

«Lei è… la nuova responsabile della biblioteca… potete chiamarla Aspis.»

«È una Civil Heroine?»

«Beh… no, ma è una Auris e… beh, è il suo primo impiego in una scuola. Non mettetela in difficoltà, d’accordo? Comportatevi bene quando siete in biblioteca.»

Phoenix fece appena in tempo a garantirgli la massima serietà per conto della classe S che il preside infilò in corridoio nella direzione opposta a quella presa dalla donna e scomparve in gran fretta. Mukuro guardò Phoenix e capì che era confuso da quel comportamento.

«L’hai capito, vero?»

«Capito cosa, Mukuro?»

«Che Wing Emperor si stava ripassando la bibliotecaria.»

«Oh, non credo proprio. Wing Emperor non lo farebbe mai, è molto ligio al dovere.»

«Ah, no?» fece lui scettico. «Perché? È un eunuco, per caso? Perché con quel costume attillato non mi è sembrato che lo fosse.»

«Certo che no, solo… è proibito dal regolamento della scuola, non farebbe mai sesso dentro i locali dell’accademia.»

«Tu non hai mai fatto una cosa vietata proprio perché trovavi eccitante che lo fosse?»

Mad Phoenix non replicò e non gli restituì lo sguardo, rimettendosi in marcia verso la tappa successiva della visita guidata. Mukuro sorrise con un certo perverso divertimento: pareva proprio che il tanto decantato preside e il leader degli studenti prediletti non fossero così immacolati e irreprensibili come aveva temuto che fossero.

 

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Capitolo 5
*** Lotus blooms ***


 

Accadde che quel giorno le lezioni della classe S furono spostate per anticipare un’esercitazione, poiché il professore che doveva guidarla sarebbe dovuto partire in serata per assolvere certi doveri riguardanti il protocollo di contenimento. A Mukuro non restò che passare il tempo gironzolando senza meta per i diversi “corpi” dell’immensa Accademia Auris cercando di orientarsi a sufficienza per non perdervisi.

Solo il giorno seguente ebbe modo di scoprire chi fosse il suo vicino di stanza, quando vi si trovò faccia a faccia mentre entrambi lasciavano le loro spoglie sistemazioni. Parvero entrambi stupiti di incontrarsi.

«Oh! Buongiorno!» gli fece il ragazzo con ampio sorriso e occhi color nocciola scintillanti di entusiasmo. «Non sapevo che la stanza accanto fosse stata occupata, sei stato silenzioso!»

«Beh… tu altrettanto, direi.»

«Ahah! Sono abituato a un vicino di stanza facile da irritare, quindi… ah, io sono Yamamoto, Takeshi Yamamoto» si presentò lui offrendogli la mano. «Mi chiamano tutti Storm Breaker, ma anche il nome va benissimo!»

«Ah… Rokudo. Mukuro.»

La sua presentazione fu impacciata e strinse appena le dita intorno alla sua mano. Non era ancora a suo agio anche se il farmaco riduceva notevolmente la sua potenza incontrollata.

«Programma di contenimento?»

«Ah, sì… ma… tu hai un nome in codice, quindi non sei qui per il programma.»

«No, io studio qui da parecchi anni!»

«E perché dormi in questo posto? Non hai una stanza nel dormitorio?»

Yamamoto sorrise e lo scrutò con curiosità; Mukuro ebbe l’impressione che si stesse facendo una precisa immagine di lui in quella breve conversazione.

«Certo, ce l’ho… ma queste erano le vecchie celle di contenimento, dove venivano alloggiati gli Auris problematici prima che l’Orosoppressore venisse sintetizzato… i muri aiutano a limitare gli effetti del gene Oro» spiegò, bussando sulla parete con la nocca. «Soprattutto per chi ha un potere che si espande all’esterno. Siccome è il mio caso e per poco non ho ucciso il mio vicino di stanza mentre dormivo, è più sicuro se resto qui durante la notte.»

Mukuro lanciò un’occhiata vagamente allarmata alle due porte vicine delle loro camere, ma Yamamoto tirò un sorriso sghembo.

«Tranquillo, come ho detto, i muri ti proteggono da me… e ora sto prendendo il farmaco. Dormire qui è solo una precauzione ulteriore, sei perfettamente al sicuro.»

«Sì… scusami.»

«Scusarti di che cosa?»

A Mukuro era venuto spontaneo dirlo, così come gli uscì spontanea la spiegazione.

«So che cosa significa vedersi guardare e parlare come se si fosse la personificazione della morte… come se si fosse mostri bavosi pronti a sbranare chiunque si avvicini. Mi dispiace di aver reagito così.»

Yamamoto lo guardò sorpreso, poi scoppiò in una risata allegra che sfumò in un sorriso gentile e indulgente.

«Non mi conosci e ti ho appena detto di aver rischiato di ammazzare qualcuno senza volerlo, è normale spaventarsi! Ma sei gentile a pensare ai miei sentimenti, sei una persona empatica. Mi piaci, Mukuro!» fece lui allegramente, dandogli un paio di pacche sulla spalla. «Di’ un po’, da dove vieni? Se ti hanno messo qui mi sa che hai un potere assurdo anche tu! Di che si tratta?»

Yamamoto continuò a conversare replicando alle brevi risposte di Mukuro e il suo entusiasmo non era calato di una singola tacca quando arrivarono insieme alla mensa e il “nuovo arrivato” non aveva poi chiarito molto della sua situazione. Avevano appena preso il vassoio per scegliere qualcosa per la colazione quando Mukuro si sentì afferrare le braccia all’altezza dei gomiti: era appena stato preso a tenaglia da Wish Love e Wish Luck.

«Mukuro-san, allontanati dalla vetrina!»

«Vieni a sederti al nostro tavolo, Mukuro-kun, abbiamo preparato il bento!»

«Mh-mh, ci siamo svegliate presto per preparartelo e portartelo in infermeria!» rincarò Love, sorridendo come stesse offrendo un regalo ad un innamorato. «Ma siamo molto felici che tu sia uscito… anche se qualcuno non ci aveva avvisate, molto opportunamente

«Avete detto che stavate preparando per il personale dell’infermeria.»

Mukuro girò la testa di scatto e trovò Mad Phoenix che fissava le due ragazze a braccia conserte; la sua espressione era così truce che temette che avrebbe assistito a una rissa.

«Certo, lo abbiamo fatto anche per loro… ma anche per Mukuro-san!»

«Questa è una manovra sleale, Love! Dirò a Emperor-sensei che cosa state facendo!»

«Oh, perché non lo dici anche a Horse-sensei, Mad Kitten?»

Nonostante indossasse anche quella mattina una maschera – sebbene non quella rossa a becco – fu evidente a tutti che era arrossito a sentirsi chiamare così. Perplesso e confuso Mukuro si lasciò trascinare via fino a un tavolo all’angolo; la vetrina dava sul cortile frontale e da lì si poteva studiare gran parte dei tavoli della sala mensa. Sul ripiano erano già sistemati cinque bento impilati che le due ragazze scoperchiarono e disposero davanti a lui con sfavillanti sorrisi. Mukuro non era mai stato molto popolare con le ragazze della sua scuola media e quelle improvvise attenzioni lo insospettirono.

Lanciò un’occhiata alle loro spalle, notando che Mad Phoenix era preso a parlare a torrente con Yamamoto mentre passavano le teche verso la cassa, e che tutti gli studenti maschi presenti stavano guardando in cagnesco proprio lui. Non appena si degnò di guardare le sue accompagnatrici con più attenzione comprese il motivo di quel picco di gelosia: Luck era sorridente e nonostante i capelli biondi aveva tutti i tratti di un’eleganza tradizionale, Love era graziosa, alla moda con quel velo di trucco rosato e le spille nei capelli bruni. Di certo molti studenti avevano già notato le due ragazze della classe S e non avevano preso bene che l’ultimo arrivato avesse monopolizzato le loro attenzioni.

«Qui c’è anche della zuppa di miso» gli disse Wish Luck spingendo verso di lui una ciotola con il tappo ermetico.

«Non sapevamo cosa ti piace mangiare per colazione, quindi abbiamo fatto un po’ di tutto.»

Più che una colazione sembrava un banchetto: zuppa di miso, pesce grigliato, riso bollito, karaage di pollo, una frittata arrotolata con sopra fiocchi di tonno disidratato, una cotoletta di maiale tagliata a striscioline e piccoli onigiri con umeboshi e salmone. Un bento conteneva solo cibi dolci quali mochi di riso, una fettina di cheesecake con la gelatina gialla e due biscotti con gocce di cioccolato.

Alla casa famiglia sarebbe bastato per sfamarci tre o quattro ragazzi.

«È… impressionante, senza dubbio» commentò folgorato da tanto abbondare mentre prendeva le bacchette nervosamente. «Ma… voglio dire, voi mangiate con me, no? Voglio dire…»

Ma le due ragazze avevano appena preso due piccoli thermos identici diversi solo nel colore giallo e rosa, e due scatoline di cartone con un logo stampato sopra dalle quali emersero due fette di cheesecake e due mochi adorabilmente decorati come la faccia di un panda.

«Questa è la nostra colazione, quindi tu mangia pure liberamente tutto quello che ti va!»

Mukuro scorse di nuovo con gli occhi il banchetto. Era confuso e quasi stordito: chi viene da una casa-famiglia come nel suo caso è abituato a viveri limitati e in particolare la casa della signora Kujaku, essendo retta da fondi personali e donazioni private, faceva economia su tutto cercando di limitare gli eccessi e privilegiando i più piccoli per rare golosità o regali. La sua idea di scorpacciata era farsi portare da Subaru – i cui genitori non lesinavano sulle paghette – a mangiare gelato o torta al triplo cioccolato alla caffetteria circa una volta al mese.

Aveva già l’acquolina e congiunse le mani, ancora indeciso da dove iniziare.

Kami-sama, fa’ che il mio stomaco sia abbastanza grande per provare tutto!

«Oh, dovremmo prendere il tè e il caffè per Mukuro-kun!» esclamò Luck, quasi atterrita all’idea di essersene dimenticata.

«Oh, ce ne siamo dimenticate! Presto, prima che finisca il konbucha!»

Mukuro, che aveva deciso di cominciare da un boccone di pesce, non riuscì a fermarle col solo gesto della mano libera e le ragazze corsero al banco che ospitava thermos e tazze come se stessero muovendo alla conquista di una bandiera nemica.

«Sembra che la corsa all’oro sia iniziata.»

Mukuro guardò Yamamoto sedersi al loro tavolo, ma aveva la bocca così piena di cibo che poté emettere soltanto uno strano verso soffocato che lo fece ridere.

«A te, intendo… vogliono conquistare te» chiarì lui, versando della salsa di soia sulla sua colazione tradizionale. «Sai, le classi S prima di noi erano più numerose. Haru e Kyoko sono del supporto medico, ma non possono muoversi in prima linea se non vengono protette, e non siamo abbastanza per essere operativi da soli… sperano che se resterai prenderai tu il ruolo di support barrier

Mukuro sbatté gli occhi con lo sguardo vacuo: non capiva né di che parlasse né del perché i classe S sembrassero così sicuri che uno sventurato come lui potesse mai diventare parte dell’élite.

«Ah, Haru è il nome vero di Wish Love, e Kyoko di Wish Luck. Di solito si muovono in prima linea solo se Emperor è con loro. Non è il loro tutore, ma Scorpion Kiss è una guaritrice e ricercatrice, non viene mai impiegata sul posto… beh, a meno che non ci sia qualche avvelenamento di massa, immagino…?»

Deciso a non esporsi né in un senso né nell’altro Mukuro glissò sull’argomento per concentrarsi su altro.

«Non so se ho capito come funziona questa storia del tutore.»

«È abbastanza semplice» fece l’altro prendendo un boccone di carne grigliata. «Molti di noi non hanno famiglia o quelle vivono in altre regioni del paese, quindi un Civil Hero diventa responsabile dello studente quando è lontano dai genitori. Risponde di qualsiasi cosa gli succede o di quello che combina, insomma. Di solito è anche l’istruttore personale, ma non sempre…»

«Ma hai appena detto… quelle due non si allenano con Emperor?»

«Come stavo dicendo: sono sotto la tutela di Scorpion Kiss, la responsabile dell’infermeria, ma Emperor-sensei è molto più preparato di lei… Scorpion sintetizza medicine antiveleno, non è un’eroina da intervento.»

Yamamoto si girò a guardare la sala mentre masticava. Mukuro pensò si fosse voltato perché un tale vicino alle porte dei bagni stava sgridando due ragazzi a pieni polmoni, ma il suo sguardo indugiò ovunque tranne che in quell’angolo.

«No, non c’è… ma forse l’avrai vista per la somministrazione, è una bella donna coi capelli lunghi. È l’unica giovane coi capelli lunghi… ah, tranne quella bassina al piano prelievi, ma lei è solo un’infermiera, non è un’Auris…»

Mukuro aveva capito che era la bella dottoressa che gli aveva fatto le visite prima della somministrazione, ma Yamamoto non sembrava interessato alle sue conferme e guardava ancora in lungo e in largo.

«Ah, al momento è un po’ abbandonato anche Sky Flame» aggiunse indicandolo con le bacchette mentre entrava. «Il suo tutore, Reborn, è all’estero quindi ora si allena solo con la classe e Night Hound risponde temporaneamente di lui.»

«E il tuo dov’è?»

Yamamoto esibì un sorriso imbarazzato.

«È quello che sta urlando come un matto.»

Mukuro si spostò sulla panca per vederlo al di sopra della spalla di Storm Breaker. Quel tipo aveva capelli incredibilmente lunghi e stava ruggendo addosso a due ragazzini dal cravattino giallo.

«Beh, se Scorpion Kiss è una specie di medico come Luck e Love… il tuo tutore ha una capacità come la tua?»

Fu una domanda piuttosto insensata dato che Mukuro non aveva la più pallida idea di che cosa valesse a Storm Breaker il suo poetico e altisonante soprannome.

«Non proprio, ma è un ottimo spadaccino, quindi siamo compatibili.»

Le due ragazze tornarono al tavolo, salutarono con allegria il ritorno di Yamamoto e la colazione proseguì con una conversazione molto tranquilla su lezioni, compiti ed esami inframezzata dagli scatti d’ira dell’irritabile tutore di Storm Breaker contro chiunque gli capitasse a tiro.

Solo quando Mukuro ebbe spazzolato buona parte dei bento ed ebbe innaffiato il tutto con una tazza di kombucha si piazzò di fronte biscotti al cioccolato e caffè. Ora che era quasi sazio di cibo era pronto a saziare la sua curiosità.

«Ma, tornando al discorso di poco fa» fece alla prima pausa tra moduli d’esame e gruppi di studio, «cosa significa esattamente “Storm Breaker”? Voglio dire, è legato a quello che sai fare? Perché in effetti non so cosa sia.»

«Ah… ehm, prima voglio chiarire che non l’ho scelto io, il nome» precisò il ragazzo con una vaga agitazione che gli ricordò Enma Kozato. «Comunque, il mio potere è un po’ più particolare del tuo, c’è voluto tempo per capire come funzionasse…»

«Sono certo che lo sia, io sono una scimmia» sbottò Mukuro seccato e incuriosito al tempo stesso. «Quindi?»

«Beh… forse è meglio se te lo mostro, non sono bravo con le parole. Alza la bustina dello zucchero.»

Mukuro tardò un momento a capire che si riferiva allo zucchero che stava per mettere nel caffè, e sollevò la mano che la teneva.

«Sopra la testa, come se la dovessi far vedere a qualcuno all’ingresso» fece Yamamoto, per poi ridere. «Non ti preoccupare, è una scuola per Auris, si vedono cose strane ogni giorno e ci si abitua persino a lampi e boati, nessuno si chiederà che stai facendo!»

Mukuro alzò allora il braccio con la bustina tra l’indice e il pollice. Si chiedeva dove stesse andando a parare e iniziava a provare una certa agitazione. Yamamoto prese un’altra bustina e fece lo stesso gesto.

«Nelle bustine che usiamo qui ci sono cinque grammi di zucchero e più il peso della carta che lo racchiude… non sarà particolarmente d’effetto, ma è per farti capire. Al mio tre lasciamo andare le bustine… le lasciamo solo cadere. Non ti distrarre, eh!»

Mukuro era confuso, ma le due ragazze erano molto prese, come se stessero per assistere a uno stupefacente gioco di prestigio. Alla fine del conteggio lasciarono entrambi la bustina dello zucchero: quella di Storm Breaker cadde sul tavolo, la sua no. Pensò che fosse rimasta sospesa come i sassi sotto l’influenza di Gravity Prince, ma poi si accorse che stava effettivamente cadendo, ma con una lentezza esasperante. Mukuro non credeva di poter essere più stupito di così, mentre le ragazze scoppiavano in un breve applauso.

«È… cosa hai fatto? Non sarai capace di fermare il tempo?»

«Quando ero bambino si pensava una cosa del genere, ma no. La mia è una capacità di rallentamento, influisce sul moto dei corpi, sul momento, hai presente? Io non sono tanto intelligente, studiare fisica abbastanza da capire come funzionava questo potere è stato difficile!»

«Vuoi dire che stai frenando il moto indotto dalla gravità?»

«In questo caso, sì.»

«Puoi rallentare le cose.»

Mukuro continuava a guardare la bustina precipitare lentamente, come se gli fosse caduta sulla luna: era molto simile al movimento dei sassi di Enma. Si chiese con interesse scientifico quanto tempo ci avrebbe messo a toccare il tavolo.

«Posso rallentare i corpi in movimento nel mio raggio d’azione… devo valutare il loro peso approssimativo, la quantità di moto, la fonte della loro spinta… sembra complicato da spiegare ma è semplice da fare con un po’ di pratica… il classico “più facile farlo che spiegarlo”!»

Scambiò la fascinazione di Mukuro per quella dimostrazione per una perplessità, perché Yamamoto tentò un altro esempio.

«Se volessi fermare una motocicletta, per esempio, dovrei calcolare il peso del veicolo e del pilota, la potenza del motore che la spinge e il momento residuo una volta che il mio potere ha fermato i componenti che permettono al motore di dare potenza, ma avendo fatto tanto addestramento so all’incirca quanto sforzo mi serve per frenare una cosa potente come una moto a massima velocità…»

«Hai mai fermato una motocicletta?»

«Certamente.»

Mukuro non avrebbe potuto essere più colpito. La classe S gli sembrava piena di gente incredibile con all’attivo due ragazze guaritrici, un rallentatore di moto e qualcuno che addirittura cambiava la gravità. Non riusciva a spiegarsi come qualcuno di quei prodigi potesse desiderare uno come lui nella loro squadra; lui che non era diverso da un piccolo King Kong. Soprattutto considerando che ne avevano già uno molto più addestrato alla battaglia e al soccorso di quanto lui avrebbe mai potuto essere e che, gli pareva evidente, rispettavano come loro leader.

Questi cupi pensieri offuscarono il suo entusiasmo mentre la busta toccava finalmente il ripiano, ma Yamamoto interpretò diversamente questo cambio di umore.

«Scusami se ti sembro arrogante, ma la classe S ha lavorato tantissimo per mettere a frutto il loro potere… a te deve sembrare una sciocchezza bloccare una motocicletta o un’auto, ti basterebbe una mano per farlo… o forse anche un dito!»

«Tutti abbiamo fatto esperimenti da bambini, lo avrai fatto anche tu, no?» intervenne Love, sorridente. «Racconta! Qual è la cosa più pesante che hai sollevato?»

«Ah… io…»

Alla menzione inconsapevole di automobile a Mukuro tornò in mente lo spaventoso incidente che aveva causato scappando di casa e l’episodio altrettanto mortificante di Wing Emperor e dell’utilitaria. La vergogna lo tormentò tanto da non permettergli di parlare. L’arrivo di Mad Phoenix, che si accomodò sulla panca accanto a lui senza esitazione, lo salvò dall’imbarazzo con una comunicazione sulle lezioni del giorno: calcolo, inglese ed educazione civica.

Non era troppo interessato alle variazioni delle lezioni ma voleva evitare che il discorso tornasse su di lui. Quando aprì bocca, però, il vassoio di Phoenix lo distrasse.

«Che cosa diavolo stai bevendo, Phoenix?»

Lui guardò il bicchierone di intruglio marrone come se non si fosse neanche accorto di averlo appoggiato sul vassoio. Love tese un ghigno divertito.

«Oh, sai, Mad Horse-sensei dà al nostro capoclasse delle strane ricette… questa per cosa è? Per togliere le occhiaie? Per la pelle liscia? Per i capelli luminosi?»

«Che te ne importa di che cosa sto bevendo?» le rispose lui sgarbato.

«Veramente l’ho chiesto io che cosa stavi bevendo…» gli fece notare Mukuro.

Phoenix cambiò del tutto espressione mentre guardava lui.

«C’è dentro della banana, dell’avocado, e acqua infusa di erbe cinesi… purtroppo la banana fa sì che si ossidi velocemente e prenda questo strano colore, ma ha un buon sapore. Vuoi assaggiare?»

«E a che serve?» domandò ancora lui con tono leggero, fingendosi meno interessato di quanto fosse.

«Beh, ci sono molte vitamine, grassi vegetali, e delle sostanze che combattono l’invecchiamento delle–»

«Quindi serve per una pelle liscia e compatta» infierì Love, allusiva.

«Oh, cavolo, non ho preparato l’Aerofield» fece Phoenix, e lanciò un’occhiata all’orologio sulla parete. «Faccio ancora in tempo! Mukuro, sarai con noi per calcolo e inglese, vero? Ci vediamo dopo in classe.»

Phoenix raccolse il suo bicchierone e se ne andò dalla mensa prendendone gran sorsi mentre camminava. Mukuro aveva molte domande sulle materie scolastiche, cosa fosse un Aerofield, perché ogni riferimento a Mad Horse mettesse in imbarazzo Phoenix e perché questi mangiasse come un pappagallino, ma quando aprì bocca ancora una volta chiese tutt’altro.

«Perché non toglie mai quella maschera?»

«Mh… a dire il vero, non lo sappiamo» replicò Yamamoto per primo, pensieroso. «Una volta gliel’ho chiesto, ma non ha risposto… pensavo fosse a disagio e non gliel’ho più chiesto.»

«È il grande mistero di Mad Phoenix!» fece Love sporgendosi verso di lui e sussurrando con fare cospiratorio. «Alcuni dicono che abbia delle cicatrici, ferite che risalgono a prima che Mad Horse lo portasse all’Accademia, ma nessuno studente sa! Mysterious-desu!»

«Lovey.»

Lei sussultò appena, ma quando si voltò stava già sorridendo trasfigurata dalla felicità. Mukuro guardò il ragazzo che l’aveva chiamata e stabilì di non averlo mai visto nei giorni passati lì. Aveva capelli argentati raccolti in un corto codino, occhi verde pallido dall’espressione distaccata e lineamenti morbidi, quasi femminili. Quando infilò degli occhiali da vista nel taschino della giacca Mukuro notò le dita sottili e i molti anelli che le adornavano. Indossava un’uniforme scolastica, in marrone e beige che fece storcere il naso all’ospite: la loro era una divisa così orrenda e antiquata che rimpiangeva la sua giacca verde abete.

«Gokudera-san, ti hanno dimesso! Sono così contenta!»

«Restless Storm.»

Non fu capace di trattenersi: aveva sentito parlare di lui da Wing Emperor e da Mad Phoenix e non aveva potuto fare a meno di fantasticare sull’aspetto e le capacità di quell’eroe che non aveva ancora incontrato e che portava un nome così suggestivo. Gli occhi verdi si posarono su di lui solo per un attimo con lo stesso calore che avrebbero riservato a una mosca sul muro, poi tornarono alla ragazza.

«Scorpion Kiss e quell’idiota di Shamal sono impegnati con delle emergenze ai piani superiori. Chiedono se tu e Luck potete coprire l’infermeria per un paio d’ore.»

«Oh, certamente!»

«Allora andateci subito. Lo dico io al professore.»

«Sì!»

Luck si scusò con i due compagni al tavolo e si affrettò a uscire. Love si trattenne un momento.

«Ci vediamo più tardi, Breaker-kun, Mukuro-san!»

Fece un inchino più profondo del necessario e se ne andò in fretta, neanche l’avessero chiamata per un intervento chirurgico urgente. Restless Storm si incamminò dietro di lei con le mani in tasca e la massima noncuranza per i due ragazzi ancora seduti.

«Sono felice che tu stia bene, Gokudera!»

Per bella risposta questi sollevò la mano e gli mostrò il dito medio; ciò fece fare una risata amara a Yamamoto.

«Avrei dovuto immaginarlo…»

«Che tipo affascinante» commentò Mukuro, sarcastico.

«È irritabile, cupo, scontroso e piuttosto silenzioso… ma non potrei avere un partner più affidabile di lui» fece l’altro mettendosi a chiudere i bento vuoti. «Se dovessi dire il nome di un Civil Hero che vorrei fosse responsabile della mia vita, direi il suo senza pensarci un secondo.»

«Partner? Uhm, in che senso intendi partner?»

Yamamoto si bloccò mentre impilava i bento e gli lanciò un’occhiata esasperata e divertita.

«Mukuro, tu non sai proprio niente di noi, eh?»

Mukuro si spostò i capelli dietro l’orecchio cercandosi una scusa, ma non l’aveva: come poteva spiegargli che era così disgustato dall’essere un Auris da volerne negare la stessa esistenza?

«Beh, i Civil Heroes intervengono quasi sempre a squadre, e ogni squadra spesso deve dividersi in piccole unità di due o tre per perlustrare, soccorrere, pattugliare e altre operazioni… io e Gokudera siamo una di queste unità all’interno della nostra squadra, che se non lo sai si chiama Lotus.»

«… Credevo foste i classe S.»

«In questo ciclo di studi siamo i soli classificabili come classe S, ma fino a due anni fa ce n’era un’altra. Per distinguerle viene dato a ogni gruppo un nome, quelli che si sono già diplomati erano la Vinca Minor. Significa pervinca… sono sempre nomi di fiori.»

Mukuro tese l’angolo della bocca all’idea di sapere di chi fosse questa idea, ma non ne parlò.

«E una volta diplomati che succede?»

«I membri della Vinca erano dodici. Una buona annata, come si dice… ora sono la squadra Vinca Minor alle dipendenze del Coordinamento giapponese. Noi forse non saremo così fortunati.»

«E perché?»

Yamamoto prese un sospiro mentre impilava l’ultimo bento, ma non si alzò dal tavolo.

«Al momento, la Lotus non ha abbastanza membri. Ne sono richiesti minimo otto, e se Enma si prepara in tempo saremo solo cinque. Come dicevo prima, siamo pochi per garantire alle ragazze una difesa continua e quindi non verranno contate come membri attivi.»

«E quindi che cosa vi succederà?»

«La cosa più probabile è che ci divideranno… Haru e Kyoko saranno arruolate nel soccorso medico, e noi cinque saremo smistati in altre squadre a corto di membri o dove le nostre capacità riempiranno una lacuna.»

Nello sguardo di Yamamoto passò un’ombra scura che Mukuro interpretò come preoccupazione o tristezza, ma durò molto poco e riprese a sorridere.

«Vedi, per questo motivo le ragazze sperano che tu voglia restare. Potresti essere la loro difesa nelle missioni operative, e con te diplomato saremmo otto. Saremmo abbastanza da essere una squadra, anche se potrebbero assegnarci un capitano esperto o un altro membro. Vorremmo poter restare insieme… siamo come una famiglia.»

«Dev’essere bello» commentò Mukuro impilando i due bento ancora pieni. «Io sono stato in casa-famiglia per molti anni con molti dei miei fratelli, e gli è bastato sapere che sono un… che sono diverso perché se ne dimenticassero.»

La parola Auris gli restava impigliata in gola senza speranza.

«Mi dispiace se è così… ma Mukuro, permettimi di darti un consiglio. Puoi ignorarlo se pensi che dico stupidaggini o se le mie impressioni sono sbagliate» gli fece Yamamoto con aria grave. «Qui troverai sempre un ambiente familiare, perché siamo cresciuti così… ognuno di noi è più o meno stato emarginato per quello che sappiamo fare e ti comprendiamo. Ma tu non lasciarti incantare. Non cedere alle lusinghe delle ragazze o di altri di noi che potrebbero volerti convincere a restare… di certo quando tornerai qualcuno sarà cambiato, ma tante altre persone non daranno peso al fatto che hai il gene Oro.»

«Tu non hai visto… quelle facce.»

«Certo che le ho viste… per questo te lo dico: c’è chi ci ripensa su e dopo lo shock supera tutto. Troverai ancora fratelli amorevoli e amici a casa tua. Ma qui… per essere un Civil Hero serve dedizione… sacrificio… si deve avere una vocazione. Non è una scelta che si deve prendere alla leggera o per fare piacere a qualcuno.»

Mukuro affondò in un silenzio meditabondo e Yamamoto, dopo aver detto che doveva mettersi l’uniforme, si congedò.

Dentro di sé desiderava credere alle parole di Yamamoto, ma nella sua mente l’odio viscerale negli occhi dei suoi fratelli era vivido; in realtà molto più vistoso di quanto non fosse apparso agli occhi meno coinvolti di Wing Emperor. Posando gli occhi su una coppia di studenti con fiocco e cravatta gialli al tavolo accanto si domandò se non sarebbe stato quello il suo destino alla fine di quella quarantena.

 

*

 

Confuso dagli appunti sparsi sulla scrivania per la riunione degli insegnanti di quella sera e appesantito da una quantità imbarazzante di mooncake al tè verde, Wing Emperor sedeva nel suo ufficio in una bruma di sonnolenza e spossatezza. Spostava fogli per poi rimetterli com’erano, leggeva le scritte senza capirle: alla fine si arrese e appoggiò la testa allo schienale della sedia girevole. Sapeva che era inutile continuare e si chiese se fosse il caso di prendere un caffè o sciacquarsi il viso per tornare lucido.

Si era appena alzato, indeciso fra le due opzioni, quando sentì bussare alla porta dell’ufficio. Perplesso guardò l’orologio da tavolo, uno dei pochi suppellettili della stanza: erano quasi le dieci di sera.

«Sì?»

«Emperor-sensei» disse la voce di donna sconosciuta. «Ci perdoni per l’orario scomodo, ma il suo assistente ci ha detto che potevamo salire a parlare con lei.»

Si accigliò mentre il sospetto prendeva il sopravvento sulla stanchezza mentale e si sentì improvvisamente sveglio e vigile. Avvicinandosi alla porta la sagoma evanescente delle sue ali divenne visibile, ma l’eco che gli rimandarono delle persone al di fuori della stanza lo rilassò e incuriosì: una giovane donna e un’anziana signora non molto in salute che venivano a fargli visita a quell’ora?

Quando aprì riconobbe immediatamente una di loro. La signora Kujaku, la direttrice della casa-famiglia, lo guardò con aria grave e accennò un inchino; insufficiente per l’effettiva disparità di ruolo e prestigio ma il massimo che le consentisse una spina dorsale malridotta.

«Perdonateci tanta maleducazione nel non avvisare del nostro arrivo» si scusò la vecchia signora. «Spero non sia un problema darci udienza per qualche minuto, nonostante l’ora tarda.»

«Io… certo. Entrate, sedetevi» replicò Emperor, dopo un momento di smarrimento. «Posso offrirvi del tè, o…»

«Non servirà, ma vi ringrazio di tanto riguardo» declinò mentre sedeva con aria sofferente sulla sedia. «Ah… ti ringrazio, Momo-chan.»

La giovane donna con lei era visibilmente preoccupata e presentava il rossore agli occhi di qualcuno che ha pianto da pochi minuti, tuttavia sedette sulla seconda sedia con molta eleganza e compostezza. Wing Emperor prese posto, fissando i suoi occhi viola sull’anziana e percependo ancora le vibrazioni del suo corpo.

Discopatia degenerativa lombare… questa donna soffre molto, e non è un disturbo recente.

«Cosa posso fare per voi e per vostra… uhm… nipote?»

«Mi perdoni, Wing Emperor-sensei, sono Momo Kujaku… aiuto zia Kaede alla casa-famiglia.»

Zia?

Forse la donna colse la sua perplessità e annuì.

«È la figlia più giovane del mio fratello più giovane… sono la maggiore di dodici fratelli, c’è una consistente differenza di età tra me e il padre di Momo.»

«Una famiglia con numeri impressionanti» osservò lui, un po’ per trarsi d’impaccio. «Non mi sorprende che sappia gestire una casa-famiglia con tanti bambini di età differenti.»

«È proprio di questo che sono venuta a parlarvi, Emperor-sensei… sapete, non mi sono mai sposata. Non ho mai avuto figli miei, ma per questo mi dedico a ogni bambino ospitato come fosse mio.»

Emperor si raddrizzò sulla sedia e radunò i fogli per fare ordine.

«Sì, io… credo che lei faccia un ottimo lavoro, è evidente che–»

«So che non lo pensate. So che avete pensato male di me quando i ragazzi hanno criticato Mukuro-chan e non ho detto nulla, li avete rimproverati voi con asprezza» l’interruppe lei. «Ma questo è il modo in cui li ho cresciuti, come si crescevano i bambini nella mia epoca: il disappunto della famiglia è la punizione per gli sbagli. Mukuro-chan aveva causato molti guai a tutti e doveva sentire di essere disapprovato per questo.»

La mascella di Emperor si contrasse appena e abbandonò i fogli.

«Con il dovuto rispetto, Kujaku-san, Mukuro è stato biasimato per quello che è, e non per quello che ha combinato. Questo è sbagliato. Non ha scelto di essere un Auris, e l’esserlo non comporta una colpa anche se fosse una scelta.»

«Lo so bene. Non crederete che io non abbia rimproverato i ragazzi per le loro espressioni, mi auguro. Ma mortificare tutti quanti davanti a degli illustri sconosciuti non è la mia maniera di educarli. Ho chiesto loro di scusarsi con Mukuro-chan.»

Momo rovistò prontamente nella borsa e porse al preside tre buste ben gonfie, che lui prese dopo un attimo di esitazione. Facendolo sfiorò le dita della giovane nipote e quella divenne più rosea in volto mentre gli occhi neri scivolavano sulla libreria di testi medici.

«Tra due settimane al massimo Mukuro sarà di ritorno… perché non gliele ha consegnate al rientro a casa?»

Momo guardò la zia con controllata agitazione; sembrava volesse disperatamente parlare, ma la parente non le diede attenzione e lei non disse nulla.

«La nostra speranza era che Mukuro-chan non ritornasse da noi.»

Sulle prime Emperor ebbe l’impulso di alzarsi e sbottare, ma poi una voce più calma e più razionale lo trattenne al suo posto, dentro il suo ruolo di eroe e di preside.

«Per quale motivo? Non sarà più pericoloso dopo il passaggio della cometa. È capace di controllarsi.»

«Non ho paura del ragazzo, l’ho cresciuto io. So che è in gamba, educato e gentile. Sarà un uomo che qualsiasi brava donna vorrà sposare quando sarà grande» l’elogiò l’anziana con vaga tristezza negli occhi. «Ma ormai sono vecchia e affaticata… è tempo di ritirarmi, e non prenderò altri bambini. Ma ho ancora quattro bambini alle elementari e vorrei accompagnarli al diploma prima di andare in pensione.»

«Ha di certo ogni ragione di riposarsi, ma cosa ha a che vedere questo con Mukuro?»

La signora guardò la nipote, che aveva gli occhi lucidi. A Emperor fu evidente che la richiesta della zia l’addolorava sinceramente e non poté non lodarne in silenzio la sensibilità.

Lei prese dalla borsa una quarta lettera, ma questa aveva l’aria di un documento ufficiale e la busta era già aperta. A Emperor bastò leggere poche righe per capire che era un documento legale, per inciso una richiesta di risarcimento danni.

«Non posso coprire quella somma, e… perdonatemi se sarò inopportuna, ma sono venuta qui per il bene del mio caro ragazzo. Lo cresco da quando aveva un anno, è più di chiunque altro figlio mio… è il più caro dei miei bambini. Mukuro-chan è un giovane incredibilmente intelligente, sensei.»

«Lo so.»

«Ha talento per la musica, per la tecnologia, è il migliore della sua classe in molte materie… finora ha reso meno di quanto poteva per causa nostra. Perché bada ai piccoli, non ha una stanza sua né una scrivania per studiare… non ho i soldi necessari a nutrire il suo talento. Ma voi li avete.»

Emperor la guardò a occhi spalancati, scambiò uno sguardo con Momo per assicurarsi che la signora intendesse proprio quello che intendeva dire, e la guardò di nuovo.

«Mi scusi, temo di non seguirla più.»

«Ho chiesto ai ragazzi di usare il computer per me… so chi siete voi, quanto siete importante e quanto siete ricco. Questa immensa scuola, tanto grande da avere un suo codice postale, è su un terreno che vi appartiene. Non potete rimediare a tanta incuria nei suoi confronti, ma potete regalargli due anni di serenità… due anni in cui pensare soltanto a se stesso, a fare progetti per l’università, alla sua musica… e io posso dare quel denaro ai più piccoli, i miei ultimi piccoli, affinché almeno loro possano avere quello che Mukuro e i suoi fratelli maggiori non hanno avuto.»

«Lei… lei… Kujaku-san, ha un’idea di che cosa mi sta chiedendo?!»

«Sì. Vi sto chiedendo di adottare Mukuro-chan.»

Non c’era dubbio che la signora Kujaku dicesse sul serio e la sua convinzione lasciò Wing Emperor senza una risposta. Si limitò a sospirare e a passarsi lentamente la mano tra i capelli, quasi scioccato, e il suo stato mentale non migliorò quando la donna gli allungò un foglio che, una volta spiegato, appariva chiaramente come la richiesta delle documentazioni per l’adozione. Il nome di Mukuro Rokudo e i suoi dati erano già stati scritti con una bella grafia che istintivamente associò alla nipote anziché all’anziana.

«Siete forse l’uomo più potente del mondo… e forse l’Auris più potente del mondo, e vi siete preoccupato di trovare un ragazzo scappato di casa e di difenderlo. A chi altri potrei affidare gli ultimi anni di giovinezza di Mukuro-chan con le migliori speranze, se non a voi?»

«Io… non posso, lo capite? Non posso badare a lui, sono spesso in viaggio, lavoro molto e…»

«Sensei, Mukuro-chan sa usare il vasino da un pezzo, si lava e si veste da solo, e cucina anche. Non gli serve certo che lei lo cresca nel modo in cui l’ho fatto io. Se servisse questo, lo terrei con me… ma a lui serve qualcuno che gli mostri la strada… le tante strade che ha davanti, che gli mostri quello che non ho potuto mostrargli io. Tutto quello che può conquistare un ragazzo con il suo talento.»

Probabilmente la prospettiva di imparare a preparare latte caldo e cambiare pannolini sarebbe stata meno spaventosa della responsabilità diretta del futuro di un ragazzo. Byakuran non aveva mai avuto niente altro, era nato per essere un Civil Hero, per essere Wing Emperor, per abbracciare la causa dei suoi simili e proteggere chiunque.

Come posso insegnare a Mukuro a scegliere quando io non ho mai dovuto fare alcuna scelta?

Lui è un grande Auris. Sarà un ottimo Civil Hero.

Ma non lo desidera. Probabilmente vorrà studiare ancora musica… se fosse così, dovrei solo iscriverlo a un conservatorio rinomato e…

E buttare via la tua migliore occasione di consacrare la tua missione di vita? È tanto tempo che attendi qualcuno con il talento necessario per succederti quando sarà il momento. È tanto tempo che attendi l’occasione di essere anche tu un maestro, uno che può veramente plasmare un Civil Hero d’élite. Un tre stelle.

Wing Emperor, senza dire una parola alle due donne in silenzio, fece scorrere gli occhi sul foglio.

Quasi diciassettenne…

Ma due anni sono sufficienti per creare un Civil Hero da una base così eccellente. Lo sai, l’hai inventato tu il programma. La classe S è il meglio che si possa ottenere prima che arrivi l’esperienza.

Sospirò, profondamente combattuto. Gli occhi neri delle due donne lo fissavano, anche se con vistosa differenza: l’anziana era risoluta a strappargli quell’assunzione di responsabilità, la giovane sembrava tormentata quanto lui. Rifletté che probabilmente condivideva le preoccupazioni della zia ma non desiderava staccarsi da Mukuro.

Con lentezza depose il foglio.

«Tuttavia, Mukuro desidera tornare a casa. È terribilmente spaventato all’idea che lei faccia esattamente quello che sta facendo: lo metta alla porta.»

«C’è molta differenza tra l’abbandonare un figlio e lasciarlo in buone mani» precisò l’anziana, con il primo accenno di sorriso. «Venne lasciato sulla mia porta da sua madre… e anche questa volta verrà lasciato a qualcuno in grado di dargli quello che gli occorre.»

Byakuran si morse il labbro inferiore con una nervosa occhiata al documento legale e alla richiesta. Per qualche motivo sentì salire la commozione all’idea che il ragazzo fosse stato lasciato a una casa-famiglia dalla madre stessa e prese un profondo respiro per arginarla. Non si accorse che Momo aveva notato quella sua reazione; d’altronde la giovane ricompose la sua espressione in un attimo.

«Come gli spiego… il perché?»

«Mukuro è un ragazzo intelligente… se gli dite la verità, capirà.»

«Soffrirà. Non potrà non attribuire alla sua razza la sua decisione.»

«Quando voi farete il vostro dovere come genitore Mukuro-chan saprà come ci si sente a essere il più importante… gli piacerà. Se lo renderete felice capirà che era quella la mia speranza.»

Byakuran si domandò con un certo nervosismo se fosse effettivamente capace di rendere felice Mukuro o chiunque altro avesse meno di ventun anni e per più di qualche ora di reciproca compagnia, ma non gli riuscì di controbattere; un certo pensiero gli aveva illuminato la mente con una nuova risoluzione.

Io ho avuto uno splendido esempio… di come si tira su un ragazzo pur non essendo un suo parente, né fingendo di esserlo. Luce non ha forse fatto lo stesso per me?

Decise di agire d’istinto: prese la penna più vicina e cominciò a compilare la richiesta di documentazione, sotto gli occhi soddisfatti della donna anziana e quelli commossi della nipote. Non incrociò i loro sguardi finché non appose il timbro e la firma manuale occidentale che usava sempre.

«Farò del mio meglio… ma resto dell’idea che Mukuro avrebbe sicuramente scelto di restare con voi fino alla maggiore età.»

«Ne sono certa… e per questo ho deciso di cogliere io questa occasione per lui. Non voglio che appassisca nella città di Kokuyo… è nato per qualcosa di più grande. Che sia un Auris conferma soltanto questa sensazione.»

La donna prese con sé il documento e gli fece un inchino dopo essersi alzata con difficoltà dalla sedia; la nipote l’imitò e il preside le accompagnò fuori dall’ufficio. Al rifiuto dell’offerta di scortarle fino all’ingresso richiuse la porta e sprofondò lentamente in un agghiacciante panico all’idea di aver davvero preso una simile responsabilità.

Non avrei dovuto farlo… è un problema serio, io non posso… uno come me… posso rimediare a ferite orrende e disastri naturali, ma che ne so io di come si fa davvero a sistemare un cuore spezzato? È un ragazzo abbandonato per la seconda volta… nemmeno a me è mai accaduto.

Sentì bussare e siccome era ancora lì fermo aprì senza pensarci, aspettandosi Kikyo che veniva a chiedergli qualcosa per la riunione. Non era lui.

«Sensei, mi dispiace disturbarvi…»

«Ah… Kujaku-san, dimenticato qualcosa?»

Momo lanciò un’occhiata furtiva nel corridoio.

«Ho detto alla zia che mi era caduto il fazzoletto dalla borsa, ma volevo… parlarvi un momento. Da sola.»

«Ehm… di… Mukuro, presumo?»

«Ecco, io… gli… portategli il cioccolato, quando glielo direte. Non lo ammette, ma gli piace così tanto! Lo tira sempre su di morale quando qualcosa non va.»

«Ah… sì, io… grazie di avermelo detto.»

«Avete una classe di musica, qui?»

Byakuran annuì: l’Accademia non avrebbe mai potuto farne a meno, erano molti gli Auris con poteri legati al suono.

«Lasciate che ci vada a qualsiasi ora. Mukuro-chan… si rifugia nella sua musica quando è sconvolto. L’ha sempre fatto… e lo farà anche questa volta.»

Con la sensazione di un terribile nodo in gola Byakuran riuscì solo ad annuire di nuovo. Momo tese un sorriso incerto, gli fece un altro inchino e fece un paio di passi prima di fermarsi.

«Io… non ero d’accordo con la decisione della zia. Pensavo che affidarlo a degli sconosciuti fosse… abbandonarlo… che farlo per dare qualcosa in più ai bambini fosse tradirlo. Ma ora che vi conosco un po’ meglio… so che siete una persona davvero buona. Voi non fingete.»

«Hai pensato che fingessi?»

Quel tono di confidenza gli uscì involontariamente, ma mutò sensibilmente l’atmosfera. Momo si voltò per guardarlo in viso con un sorriso dolce.

«Fino a poco fa… sì. Credevo che il suo interesse per Mukuro fosse enfatizzato… gonfiato dai doveri del suo ruolo… ma mi sono sbagliata. Lei si è commosso per lui… sa che cosa significa essere abbandonati. Vuol dire che può capirlo e che vuole farlo. Avrà cura di lui con la stessa tenerezza con cui l’avrei io?»

«Non so se ne sono in grado, tu sembri capace di una tenerezza straordinaria.»

«Promette di tenere sempre a mente quel bambino avvolto in una coperta blu, che venne lasciato davanti alla nostra porta una sera tardi?»

«Non credo di poter–»

«Se la immagini. Faccia questo sforzo ora, per un attimo… crei quella fotografia nella sua mente, la stessa che abbiamo io e la zia di quella notte.»

Aveva ogni sensazione che fosse una grossa sciocchezza, ma sospirò profondamente e chiuse gli occhi. Ricordava il cancellino e il muretto della casa famiglia, il corto vialetto, le scale di pietra davanti alla porta. Non sapeva quando fosse stato abbandonato, ma l’immaginò in una sera fredda così da rendere più crudele la scena. Creò la luce aranciata del porticato, la pianta, la ringhiera, e il buio ad avvolgere il tutto. Una figura ammantata e indefinita che spingeva il cancellino, raggiungeva la porta e depositava lì la sua creatura, avvolta in una coperta blu scuro.

Nella sua visione la madre non diede una carezza o un bacio al piccolo prima di andarsene e solo il disagio del gelo portò l’infante a lamentarsi; la luce arancione l’illuminò, una signora meno anziana di ora raccoglieva il piccolo, confusa, sotto gli occhi incuriositi di una bambina mora…

Byakuran aprì gli occhi dopo pochi secondi. Momo lo stava guardando, con i suoi occhi neri resi luccicanti dalle lacrime e il sorriso esitante.

«Ricordi questa immagine quando si chiederà che cosa fare… e si avvicinerà alla tenerezza che provo io per Mukuro-chan.»

Si asciugò rapida le lacrime in bilico e si allontanò in fretta, ignorando l’ascensore. Byakuran abbassò il braccio che aveva allungato per bloccarla e si trovò a sospirare ancora. Dubitava molto di essere capace di avvicinarsi al livello di gentilezza e candore di quella ragazza così sensibile, e soprattutto che Mukuro avrebbe trovato le sue attenzioni altrettanto gradevoli.

 

*

 

Da solo nella sala riunioni, Byakuran scorreva gli occhi viola sul foglio con la richiesta di risarcimento; l’aveva già fatto molte volte. Quel gesto meccanico lo aiutava in qualche modo, o almeno così pensava inconsciamente, mentre si dibatteva senza sollievo tra le varie possibilità e il dubbio di essersi sopravvalutato. Solo lo scatto della serratura arrestò l’instancabile oscillare del suo sguardo, ma non alzò il mento dal palmo della mano, non posò il foglio né guardò verso i nuovi venuti.

«Oh, sei già qui, Emperor!»

«Sì.»

«Bene, perché volevo proprio parlare del bambino d’oro!»

«Di chi stai parlando, scusami?»

Era certo di non ingannare nessuno con quella domanda, tanto meno Night Hound, che era uno dei due professori appena entrati.

«Sai di chi sta parlando» fece lui, con un sorriso birbante. «I ragazzi mi hanno detto quanto sono entusiasti che Mukuro sia qui e vorrebbero davvero tanto che decidesse di restare. Mi hanno chiesto di parlarti perché tu lo persuada.»

«Intendi farlo?»

«Naturalmente no.»

«Bene» sentenziò Byakuran, il cui umore peggiorava di minuto in minuto. «Sarebbe un irritante spreco di energie.»

L’altro uomo tolse il cappello, si sedette comodo su una delle sedie girevoli e lo lanciò: quello si infilò roteando sul pomello più alto dell’appendiabiti. Dopo averglielo visto fare centinaia di volte nessuno dei suoi colleghi si impressionava più.

«Kyoya è convinto che riuscirà a farlo restare… e Kyoya ha ottime capacità di persuasione.»

Gli occhi viola si assottigliarono in un’espressione affilata puntandosi su Mad Horse. I suoi capelli di un caldo tono biondo che ricordava il miele erano curati e impeccabili come sempre, gli occhi castani gli ricambiavano lo sguardo senza soggezione come avevano sempre fatto.

«Capacità di persuasione su di te, che resisti a Mad Phoenix quanto un immunodepresso all’MRSA.»

Come ogni volta che si sfiorava l’argomento, Mad Horse fece finta di non sentire il commento del preside.

«Sai, onestamente mi ha un po’ infastidito… è la prima volta che Kyoya non risponde a una mia richiesta per dare la precedenza a qualcun altro.»

«Oh, ha osato addirittura questo?» fece Byakuran volutamente caustico.

«Sì, lo volevo invitare a prendere il tè, ma lui non si è nemmeno fermato nel corridoio. Ha tirato dritto dicendomi che doveva portare Mukuro a vedere il campo dei crateri.»

«Beh, ha fatto bene» rimbeccò l’altro, decidendosi per un approccio più diretto. «Tu abusi fin troppo della sua devozione. Non gli stavi facendo spostare l’archivio, cosa che ho chiesto a te di fare?»

«Non ho assolutamente… eh?» fece lui, e si sporse dall’altro lato del tavolo. «Risarcimento?»

«Eh? Cosa?»

Mad Horse scomparve in un battito di ciglia e l’aria che gli smosse i capelli lo fece voltare: il professore dai capelli biondi era dietro di lui con il foglio dello studio legale in mano.

«Ma è un risarcimento danni enorme! Davvero ha fatto tutto quel tuo ragazzino nuovo?!»

«Puoi non usare termini così ambigui?»

Mad Horse lanciò un’occhiata alla stanza vuota e agli altri due presenti con una certa eloquenza.

«Chi di noi tre dovrebbe pensare che quel ragazzo sia il tuo ragazzo in un senso sessuale o sentimentale?»

«Non usarli e basta» borbottò Byakuran, riprendendosi il foglio bruscamente.

«Beh, ha dei bei capelli mori.»

Night Hound si accorse solo dopo aver corretto la data della riunione sul foglio delle firme che gli altri due lo stavano fissando con sorpresa. Altrettanto stupito scrollò le spalle.

«Si vede che ci tiene al suo aspetto, i suoi capelli sono tenuti con molta cura. Sono sani e lucenti… oh, avanti, Horse, almeno tu dovresti capire che cosa intendo dire!»

«E questo cosa dovrebbe significare?» domandò il preside, seccato.

Night Hound prese posto con apparente noncuranza e gli occhi fissi sulla cartellina con la scaletta dell’ordine del giorno.

«Oh, stavo solo pensando che a te piacciono le donne con i capelli mori… per esempio, la ragazza del Fu Sha a Pechino…»

Byakuran accusò stoicamente il colpo e assunse un’espressione totalmente priva di emozione.

«Chi?»

«Oppure Nishiyama, quella del laboratorio dei tessuti…»

«Al momento non me la ricordo.»

«Che mi dici di Nora Sanders, la segretaria del coordinatore degli Auris americani?»

«Non ho notato i suoi capelli.»

«Avrai notato Aspis, allora… sai, la bibliotecaria che hai assunto tu stesso tre giorni fa.»

Byakuran fissò un angolo del soffitto con la tremenda sensazione che una tagliola gli si stesse chiudendo sulla gola… e che Mad Horse non avesse alcuna intenzione di aiutarlo a salvarsi.

«Sì, in effetti lei è mora, ma questo cosa…?»

«E lo è anche Bohemia.»

Un vago imbarazzo sotto forma di rossore gli invase il volto e non riuscì a fare nulla per mitigarlo, quindi sospirò e affondò la faccia tra le mani in una resa incondizionata. L’immagine di Momo Kujaku dietro le sue palpebre chiuse non fece che peggiorare come si sentiva. Night Hound sorrise soddisfatto e Mad Horse ridacchiò divertito.

«Anche Kyoya ha dei bei capelli mori, devo preoccuparmi per lui?»

«Non credo, Horse, il tuo allievo è ben capace di difendersi.»

«Potreste smettere di parlarmi come se fossi un maniaco sessuale?»

«Forse lo sei, Ran, e l’hanno capito tutti tranne te~»

Byakuran alzò la testa di scatto al suono di quella subdola voce, ma il suo gesto passò inosservato: Kikyo si era alzato per andare a fotocopiare l’ordine del giorno corretto e Mad Horse non lo guardava mentre gli rispondeva qualcosa che lui non recepì. La voce non si ripresentò e quasi pensò di averla solo immaginata, questa volta.

«Comunque, perché ce l’hai tu quel foglio del risarcimento? Spetta a te?»

«Beh… sì» replicò Byakuran, sollevato che il discorso cambiasse argomento. «Cioè, non proprio, ma… insomma, per me non è un problema ripagarlo, e la signora Kujaku non naviga propriamente in buone acque…»

«Dovresti evitare di creare questi precedenti, Emperor» gli fece notare Night Hound, preoccupato. «Se dovessero tutti cominciare a mandarti il conto dei danni dei loro parenti sostenendo di non poterli pagare sarebbe un guaio, nel senso… dovresti spiegare perché lui sì e non gli altri.»

Byakuran non replicò subito. Si domandò per quanto tempo avrebbe potuto tacere su quanto aveva accettato di fare e concluse che non ci sarebbe voluto molto prima che qualcuno si accorgesse dell’arrivo di avvocati e chissà quali altri illustri professionisti per concludere la questione adozione.

«Ehm… ecco…»

Ma la difficile confessione gli venne risparmiata dall’arrivo di Gatling e Utekine, responsabili rispettivamente delle classi A e D. Dopo aver salutato i presenti la rude insegnante della classe A scorse l’ordine del giorno.

«Ci sono un po’ di punti spinosi in elenco, sarà una cosa lunga. Era necessario tenere una riunione del genere così tardi?»

«Domani Night Hound e Horse partono per Tokyo e Nagoya, quindi dobbiamo sbrigarcela prima che vadano.»

«Uhm… servirà un po’ di caffè.»

Utekine si offrì volontario con un poco di incertezza – preparava un tè eccellente ma un caffè molto simile ad acqua colorata – ma il difficile compito di ricordargli quanto fosse scarso con le bevande occidentali fu loro risparmiato da un bussare sulla porta aperta. A Byakuran rimase una sorta di nodo alla gola. Non era strana l’apparizione di Mad Phoenix; era quasi automatico che dove c’era Mad Horse sarebbe comparso anche l’allievo, ma l’ultima persona che si aspettava di trovare lì in sua compagnia era Mukuro. Portavano tre caraffe di caffè; la condensa nella parte superiore suggeriva che fosse ben caldo.

«Ci scusiamo per l’interruzione» esordì Phoenix. «Sapevo che avevate in programma una lunga riunione e… abbiamo pensato di portarvi del caffè.»

«Kyoya!» uggiolò Mad Horse con la solita enfasi. «Sei il mio salvatore!»

Phoenix sorrise e posò una caraffa al centro del tavolo, offrendosi di prendere le tazze per tutti. Byakuran guardò Mukuro appoggiare una caraffa sul ripiano che ospitava la loro macchinetta prima di andargli incontro, con un piccolo thermos in mano e molto nervosismo.

«Mukuro, il coprifuoco è già iniziato… ti prego, non diventare un monello come Phoenix.»

«Io… ero a studiare in biblioteca insieme a Phoenix, non ci siamo accorti di che ora fosse e… lui mi ha detto che non sarebbe stato un problema portarvi qualcosa prima di andare a dormire» si spiegò lui, esitante. «Sono nei guai?»

«No, per questa volta… ma dovete rispettare gli orari. Se non vi punisco gli altri si chiederanno perché vi tratto diversamente.»

Mukuro annuì, ma non aggiunse niente. Byakuran occhieggiò il thermos.

«Cos’hai lì dentro, Mukuro?»

«È per te… Phoenix mi ha detto che tu non bevi il caffè. Ti ho fatto il tè.»

Il ragazzo appoggiò il thermos sul tavolo e si massaggiò il gomito in un gesto ansioso.

«In cucina ho trovato un barattolo con un tè che aveva un buon profumo.»

«Il caffè lo bevo anche… ma di solito con un sacco di aggiunte dolci, nero non mi piace proprio per niente» ammise lui sorridendo, e sgraffignò la sua tazza preferita prima che lo facesse Mad Horse. «Preferisco il tè. Grazie delle tue attenzioni.»

«Grazie a te.»

«Per che cosa?»

«Per…» balbettò Mukuro, lanciando un’occhiata agli altri insegnanti che lo ascoltavano. «Per non aver detto a nessuno di quella cosa.»

La vaghezza di quella frase accese l’interesse di Mad Horse in particolare, ma Byakuran capì che la questione dell’incidente con l’auto lo turbava ancora troppo per raccontarlo. Sorrise con un pizzico di malizia.

«Il tuo segreto è al sicuro con me, tu tieni al sicuro il mio.»

Mukuro annuì.

«Ora filate a dormire subito, non siete scusati se fate tardi a lezione domani mattina… se non siete in classe prima di me mi arrabbierò molto!»

Il ragazzo che si stava dirigendo alla porta si bloccò e lo guardò confuso.

«Io… devo venire a una lezione con te?»

«Non sei curioso di sapere cosa insegno davvero?» buttò lì lui con un sorriso. «Prendila come una specie di…»

Si bloccò all’improvviso. Non era il caso di insinuargli il dubbio con un’espressione vaga come il riferimento al Career Day, il giorno famoso negli USA in cui i genitori parlano dei loro lavori nelle classi dei figli.

«Di seminario, diciamo» concluse allora, e riordinò i fogli. «Ci vediamo domattina alle otto. Buonanotte, ragazzi.»

«Buonanotte, sensei» rispose Phoenix, facendo un inchino.

«Buonanotte.»

I ragazzi uscirono dalla stanza sotto gli occhi attenti di Mad Horse e di una Gatling insolitamente curiosa, che si fissarono su di lui non appena gli studenti furono fuori campo. Ostentando la più completa serenità aprì il thermos e si versò il tè, riconoscendo l’odore fruttato e dolce del Jade Snow.

«Quel ragazzo è appena arrivato!» esclamò Mad Horse con un gesto teatrale del braccio. «Come fai a essere già così complice con lui?! Pensavo fosse di passaggio!»

«Beh, non vuole essere un Civil Hero, se è questo che intendi con “di passaggio”.»

«Non provarci con me, Emperor! C’è qualcosa di non detto fra di voi! Non avrai mica un love interest vero con quel ragazzo?!»

Solo il ghigno divertito di Night Hound – seminascosto dai documenti del bilancio – gli impedì di indignarsi o vergognarsi di quell’insinuazione; l’amico sapeva quale fosse il segreto taciuto e stava divertendosi quanto lui a instillare in Mad Horse il dubbio che qualcuno fosse in grado di avere un rapporto più complice del suo con Phoenix.

Byakuran lasciò che Mad Horse esponesse a un imperturbabile Utekine le sue congetture senza rispondere alle provocazioni finché non arrivarono tutti gli insegnanti convocati alla riunione; dopodiché Night Hound iniziò a esporre il problema al primo punto dell’ordine del giorno.

«Ha dei bei capelli mori, Ran. Niente seno, ma in fondo non ti interessa così tanto, vero?»

Esitò un secondo ad accostarsi la tazza alle labbra, ma poi lasciò che il gusto di albicocca del suo tè dissolvesse il disagio di quel commento nella sua testa.

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Capitolo 6
*** Behind the mask ***


Nei giorni seguenti Mukuro studiò con entusiasmo indecente, scaturito da una verità ovvia per tutti ma finalmente tangibile anche a lui: senza bambini strepitanti intorno, con libero accesso al computer e alla biblioteca e senza incombenze casalinghe riusciva a studiare velocemente e in modo molto più efficace che a casa. Deciso a non perdere quell’occasione d’oro – letteralmente, si può dire – cercò di macinare quanti più moduli di inglese, storia e matematica riuscisse prima della fine del contenimento.

La terza mattina Mukuro si stiracchiò e sbadigliò al cospetto del libro di matematica aperto sulla sua branda. La piccola sveglia che gli aveva dato Phoenix, appoggiata sul pavimento, segnava le cinque del mattino.

Non posso credere di essere così mattiniero… alla casa-famiglia stavo sveglio fino a notte fonda per studiare con un po’ di silenzio…

Sbadigliò ancora e si alzò, lanciando uno sguardo dalla finestra sul cortile reso rossastro dalle luci del coprifuoco; si sarebbero spente entro un’ora restituendo l’intera area al blu lattiginoso prima dell’alba.

Le luci erano accese al piano terra di un edificio al di là di due rettangoli del tutto simili a campi da tennis senza reti. Non distingueva movimenti, ma sapeva che era il dormitorio della classe S e che doveva essere Phoenix sveglio a quell’ora di buon mattino, preso con le sue molte mansioni di capoclasse e assistente di Mad Horse.

Chissà se Byakuran ha un assistente… ma se ne avesse avuto uno sarebbe uno della classe S e me lo avrebbero detto.

Un cupo brontolio dalle parti dello stomaco lo dissuase dal tornare ai suoi libri e pensò che forse avrebbe potuto sgattaiolare alla mensa nonostante il coprifuoco ancora in vigore, quindi infilò la sua mise comoda preferita – jeans, una felpa lunga con una stampa di corvi in volo e stivali – e uscì con ogni circospezione nei corridoi semibui.

Non incontrò nessuno lungo il percorso e quando apparve alla mensa scoprì di non essere il solo tanto mattiniero: alcuni insegnanti che non conosceva erano seduti a un tavolo a bere caffè, mentre il professore della classe A che tutti chiamavano solo “Sparky” era in attesa davanti a una vetrina con il vassoio retto da una mano e un libro aperto nell’altra. Nessuno sembrava in vena di rimproverarlo e andò al solito banco riservato dei classe S.

«Ehm… buongiorno» esordì quando la donna corpulenta lo guardò. «Mad Phoenix mi ha detto che potevo segnare sul suo conto, sono…»

«Rokudo Mukuro-kun, certo!» fece lei, lanciandogli uno smagliante sorriso. «Il preside ha comunicato di mettere le tue spese sul suo conto, quindi stai tranquillo. Che cosa ti posso dare?»

Mad Phoenix gli aveva offerto di accreditare sul suo conto le spese della mensa dato che poteva contare su un tutore più che generoso, ma Byakuran non gli aveva detto nulla al riguardo e si chiese la ragione di tale immeritato privilegio.

Sorridendo, fece la sua ordinazione: alla luce dei molti capitoli di studio macinati negli ultimi giorni pensò di meritarsi una tazza di cioccolata calda, come festeggiavano i buoni voti agli esami lui e Subaru durante i mesi invernali.

Non ho mai preso una cioccolata da solo prima… l’ho sempre presa con Subaru o con mia sorella Rin, quando era ancora a casa con noi.

Quel pensiero, rafforzato dalla desolazione della mensa deserta, lo sprofondò in un senso di solitudine che avrebbe definito vischioso per quanto gli restò appiccicato addosso. Sospirò, chiedendosi se fosse meglio fare colazione a un tavolo o tornare nella sua stanza, quando vide l’ignoto “Sparky” portare via due bicchieri da caffè uno sopra l’altro.

Sorrise.

 

*

 

Mukuro prese più comodamente il grosso sacchetto di carta della colazione e salutò Breaker quando si separarono sul pianerottolo: l’ultimo scese, l’altro salì i due piani che lo separavano dall’ufficio e dalle stanze private di Byakuran.

Nel corridoio non volava una mosca, come si aspettava da un corridoio di uffici e archivi prima delle sei del mattino. Una targhetta dorata recava il nome da Civil Hero più famoso al mondo sulla porta più vicina all’ascensore e fu a quella che andò a bussare piano; lo fece due volte, ma non ottenne risposta.

E adesso come lo trovo? Dubito ci sia una targhetta anche sulla porta della camera da letto.

Sospirò abbattuto e quasi inconsciamente provò la maniglia, scoprendo con stupore che l’ufficio era aperto. Guardò su e giù per il corridoio, tese le orecchie, e alla fine sgattaiolò dentro; si chiuse la porta alle spalle e andò alla scrivania per appoggiarvi il sacchetto.

L’ufficio era bianco e immacolato quanto il suo proprietario: rifletteva il perfetto ordine e candore di Wing Emperor con l’essenzialità delle librerie sui due lati e della scrivania davanti alla finestra. Forse lo schienale alto della sua sedia rifletteva quella sua ombra di arroganza dovuta alla sua importanza per gli Auris del mondo intero. Di gingilli ce n’erano ben pochi: un piccolo mappamondo di vetro, un paio di reggilibri a forma di Buddha del Loto, un orologio da tavolo in argento e una sofisticata boccetta tonda simile a un’anfora con due piccoli bicchierini di porcellana erano le uniche cose non composte da pagine sugli scaffali. Sulla scrivania non c’era computer, ma un raffinato sottomano in pelle bianca e un set da scrittura antico, in ottone, con due penne d’oca infilate nel portapennino e una elaborata boccetta d’inchiostro nero con un pomello d’argento come tappo.

Usa davvero una cosa del genere per scrivere o è solo decorativo?

Incuriosito dagli oggetti antichi tanto quanto da quelli moderni, girò intorno alla scrivania e si sedette sulla sedia di Wing Emperor, sfilando la penna più lunga. Studiò il pennino, che era pulito ma aveva l’aria di essere stato usato nel tempo, poi ricordò che uno dei suoi fratelli maggiori aveva ricevuto un set simile quando si era laureato dopo due anni di studio all’estero.

Magari si usa regalarlo ai laureati, in qualche paese.

Ripose la penna e fece girare pigramente la sedia, che era molto comoda. Avrebbe voluto averne una uguale, ma per com’era abituato a casa avere il vecchio tavolo e la seggiola della sua attuale camera sarebbe bastato a renderlo felice. Mentre girava osservò le piantine sul davanzale, con piccoli boccioli colorati e rigogliose foglie verdi. Erano ben tenute e si domandò se Byakuran le curasse da sé.

Il rumore della serratura arrivò senza preavviso di passi o voci. Mukuro girò sulla sedia ma non si mosse; non sarebbe riuscito a spostarsi né a nascondersi in quella stanza così essenziale. I suoi occhi incrociarono quelli viola del preside, che si allargarono mentre lo fissava con stupore senza proferire parola.

«Ehm, buongiorno.»

«Che cosa fai nel mio ufficio, Mukuro-kun?»

«Beh, ti cercavo, no?»

«A quest’ora antelucana?»

Mukuro si accigliò.

«Che significa antelucana

«Ah… che… è molto presto. Insomma, prima dell’alba» spiegò lui impacciato, e si chiuse la porta alle spalle. «E tra l’altro il coprifuoco non sarebbe ancora finito.»

«Mi hanno detto che si può andare alla mensa e all’infermeria anche durante il coprifuoco, e io sono andato a prendere la colazione.»

«E ti sei perso due piani più in su della tua stanza?»

«Beh, sono andato dal dottore» ironizzò Mukuro, accennando agli scaffali di libri di medicina. «Mi sono svegliato con una strana voce e ho pensato di farmi dare una controllata… noti qualcosa di strano?»

Mukuro aprì la bocca e tirò fuori la lingua. Inaspettatamente Byakuran parve a disagio, fece uno strano gesto con la mano – come se gli ronzasse un’ape vicino all’orecchio – e distolse lo sguardo.

«Ah, silenzio!»

A Mukuro non parve di essere stato irrispettoso – Byakuran non gli era affatto sembrato qualcuno incapace di fare e capire l’ironia – e si trovò confuso e spiazzato da quella reazione. Poi Byakuran lo guardò di nuovo e stiracchiò un sorriso.

«Ah… perdonami, non dicevo a te… è già la terza volta che mi fischia l’orecchio stamattina.»

Il ragazzo accennò un sorriso in risposta e fece per dirgli qualcosa riguardo alla colazione nel sacchetto quando lo vide sporgersi sulla scrivania e sfiorargli il mento con le dita.

«Allora, la tua gola? Già che hai inventato una scusa, fingi fino in fondo.»

«Ma lo sai che la mia voce è normale» osservò Mukuro, accigliato.

«Certo, ma in effetti un rarissimo effetto collaterale dell’Orosoppressore sono delle bolle nella gola, quindi per pura fortuna la tua bugia ha senso… su, apri la bocca, così se me lo dovessero chiedere potrò sostenere la tua bugia con meno imbarazzo.»

Mukuro sospirò e riaprì la bocca controvoglia, lasciando che il medico gliela controllasse per qualche secondo.

«La mia diagnosi è che la tua voce fosse strana per un banale arrochimento mattutino. Capita a tutti, lo causa il rilassamento delle mucose tracheali.»

«Sai, mia sorella sarebbe pazza di te.»

«Tua sorella… Momo?»

«No, parlavo di Hikaru. Si è diplomata quando io ero alle elementari» lo corresse Mukuro, divertito. «Guardava un sacco di serie tv sui dottori e si faceva invitare a qualsiasi festa con universitari iscritti a medicina. Una scena come questa sarebbe bastata a sedurla.»

«Se si è diplomata quando tu eri alle elementari deve avere almeno… ventitré anni. Giovane, ma non troppo, potrebbe funzionare. Presentamela.»

«Nah, non ti odio così tanto.»

Mukuro aprì il sacchetto mentre Byakuran gli lanciava un’occhiata stupita.

«Cielo, è così terribile quella ragazza?»

«Assolutamente sì, è una fanatica. Il tipo di ragazza che se provi a mollarla ti prepara dei muffin ripieni di spilli.»

Gli suscitò un autentico divertimento notare l’espressione turbata con cui il preside si sfiorò la gola immaginando le conseguenze dell’assaggio di una simile prelibatezza rara. Quando tirò fuori l’involto della colazione decise di pizzicarlo ancora un po’.

«Se trovi degli aghi dentro questi croissant alla fragola sappi che li hanno preparati i tuoi addetti alle cucine, io non c’entro. Non saprei neanche dove trovare un ago in questo campus… a malapena riesco a trovare i pagliai.»

Byakuran si accigliò e si avvicinò sbirciando nella busta di carta.

«Hai portato la colazione qui?»

«Storm Breaker mi ha detto che tu hai una stanza a questo piano, ma non so quale. Speravo di trovarti in ufficio e in un certo senso…»

«Oh, Mukuro-kun, raramente mi troverai in ufficio, soprattutto la mattina» fece lui, e ripose tutto nella busta prima che il ragazzo potesse prendere un morso o un sorso. «Sono spesso in giro per il campus, in infermeria o a lezione, anche il pomeriggio normalmente sono al telefono con una decina di persone o controllo i resoconti che mi fanno i rappresentanti dei corsi e i capoclasse… avrai notato che non ho il telefono in questo ufficio.»

«Ehi… che fai con la mia brioche?»

«Non fare quella faccia, non ti sto cacciando via. Vieni a mangiare nella mia stanza, devo parlarti di una cosa.»

«Oh, Byakuran, puoi davvero portarti degli studenti in camera da letto?»

Byakuran si fermò davanti alla porta, restò in silenzio qualche attimo e solo dopo parlò senza voltarsi a guardarlo.

«Non ho detto che la mia stanza fosse la mia camera da letto… e anche se lo fosse stata, chiunque può invitare uno studente in camera da letto. Il peccato sta in quali intenzioni abbia quella persona e la colpa in quale misura egli darà retta alle sue pulsioni.»

Mukuro tacque e seguì il preside nel corridoio, perplesso. La sua era ironia, ma Byakuran rispondeva con una tale serietà a simili argomenti che si domandò se non avesse alle spalle qualche esperienza sgradevole di quel genere. Valutò se fosse il caso di domandarglielo prendendo l’argomento alla larga, ma poi notò qualcosa che accantonò le sue teorie.

«Byakuran, perché sei scalzo?»

Byakuran si fermò con la mano sulla maniglia della porta in fondo al corridoio e si guardò i piedi, come se non ricordasse di essere a piedi nudi.

«Non dovrei?»

«Qui a scuola possiamo entrare dappertutto senza togliere le scarpe, no? E poi fa freddo!»

«Ah, ma io non ho mai freddo. Ho una temperatura naturale di trentasette gradi e mezzo, per sentirmi ghiacciare il naso o le dita la temperatura deve scendere ben sotto gli zero gradi.»

Che invidia.

Stava per dirglielo quando il preside aprì la porta, regalandogli la vista di una stanza che non avrebbe mai ritenuto possibile che appartenesse a Wing Emperor e facendogli dimenticare qualsiasi altro argomento di conversazione.

Le pareti erano decorate fino al soffitto con piastrelle dai motivi geometrici in toni di marrone, porpora, arancio e tocchi di verde chiaro. Le tende che oscuravano le finestre erano color porpora e arancione, mentre l’intero pavimento era coperto da un tappeto geometrico a quatrefoils che sfumava dal marrone cioccolato al giallo nell’angolo più lontano dalla porta. La metà sinistra della stanza era ingombra di coperte colorate sui toni della terra, di arancione, rosso e qualche macchia di verde; un tavolino di legno scuro era attorniato da cuscini dai colori sgargianti – come verde smeraldo, turchese, giallo oro, rosso, magenta – e forme tonde. Una teiera marocchina in argento che fumava dal beccuccio e un singolo bicchiere in vetro arancione con elaborati intarsi sui piedini d’argento suggerirono a Mukuro che Byakuran fosse già pronto per una colazione o che l’avesse già consumata.

«Qui togli le scarpe prima di entrare.»

Mukuro si affrettò a togliere gli stivali, con un’inspiegabile smania di entrare in quel santuario così magnifico. Sul lato destro della stanza c’erano libri impilati con cura su una panca di legno intagliato e una grossa scatola intarsiata. La stanza era carica di colori e forme ma l’arredo che piaceva di più a Mukuro erano le decine di lanterne: ce n’erano alcune grandi e alte, color argento e oro negli angoli della camera con la luce che filtrava da centinaia di piccoli fori; altre erano d’ottone, piccole, con il vetro colorato, altre ancora a forma di stella, sferiche schiacciate o a uovo con vetri di colori diversi erano appese al soffitto. Su tutto aleggiava un odore di menta.

«Questo è… Byakuran, è davvero la tua camera?!»

«È il mio buco» replicò lui, e sedette a gambe incrociate sulle coperte. «Immagino potrei chiamarla “sala relax”. Mi metto qui quando voglio prendere del tè in pace, leggere un libro o…»

Byakuran esitò e spostò la teiera d’argento.

«O fare un pisolino. Spesso dormo qui anziché nella mia camera.»

«È fantastica, altro che buco! Non ci avrei mai creduto che fosse tua, se l’avessi aperta per caso.»

«Non ti aspettavi una camera in stile marocchino, suppongo?»

«Non mi aspettavo tanto colore» rispose Mukuro, perso a guardare le lanterne. «Sei monocromatico, con quei vestiti bianchi, e il tuo ufficio è asettico come l’ambulatorio di un dottore… ma questo è fantastico… ha un sacco di personalità questo posto!»

Mukuro si stiracchiò e si buttò all’indietro sui cuscini: venne abbracciato da morbidezza, colori e atmosfera; avesse avuto lui una camera come quella ci sarebbe rimasto giorni interi senza mai uscire.

«Sono felice che ti piaccia. Night Hound mi dice sempre che non ho il senso della misura, per lui è fin troppo carico questo arredamento.»

«Beh, forse, ma a me piace. Penso che il modo in cui si arreda una stanza privata dica molto della persona che la usa.»

«Trovi?»

Byakuran gli passò il bicchiere della cioccolata e Mukuro si mise seduto per gustare finalmente la sua colazione. Non avrebbe mai osato sperare in tanta comodità, ripensando alla seggiola della sua stanza e alla panca della mensa.

«Quando siamo i soli a usare uno spazio non c’è bisogno di farlo come gli altri si aspettano che sia. Come il tuo ufficio, no? Vuoi tenerlo ordinato e neutro, perché vuoi che le persone che ti vedono come Civil Hero e come insegnante pensino che sei una noiosissima tela bianca senza sorprese e senza macchie.»

Byakuran posò il sacchetto dei croissant sul tavolino e tirò fuori il secondo bicchiere, con uno strano sorriso storto.

«Non è la prima volta che me lo dicono… che sono noioso, intendo.»

«Non ho detto che sei noioso, ma che lo vuoi sembrare. Una persona noiosa non farebbe una stanza come questa… meglio se la bevi, o la cioccolata si fredda.»

Il preside guardò il secondo bicchiere con sorpresa.

«È per me?»

«Beh… sono abituato a bere la cioccolata in compagnia» fece lui scrollando le spalle. «Sembrerà una cosa stupida ma è così.»

«Non lo trovo stupido. Grazie, accetto volentieri.»

Per qualche minuto nella stanza ci fu silenzio interrotto solo dal leggero sorseggiare o masticare della colazione. Per Mukuro godersi una colazione dolce dopo quei duri giorni di drastiche novità, adattamento e studio fu molto piacevole e percepì intimità nel farlo nella stanza privata di Byakuran, una stanza che testimoniava con silenziosa eloquenza la vivacità dell’uomo nascosto sotto il nome di Wing Emperor.

«Non avevi detto di dovermi parlare di qualcosa, prima?»

Per motivi che non comprese Byakuran guardò il suo bicchiere di cioccolata prima di annuire con una certa solennità. Il ragazzo avvertì una leggera stretta allo stomaco e posò il bicchiere.

«Ho voluto aspettare, nel caso di un ripensamento… ma non ce ne sono stati, quindi rimandare non ha senso. Per favore, ascoltami fino alla fine prima di… reagire in qualsiasi maniera.»

Oh, no, che cosa deve dirmi? È qualcosa di orribile di sicuro…

Mukuro restò in ginocchio appoggiato a un piccolo cuscino arancione mentre Byakuran gli raccontava di un’inaspettata visita della signora Kujaku e della nipote Momo al suo ufficio, delle intenzioni della signora di ritirarsi dopo aver accompagnato all’età adulta i piccoli attualmente affidati a lei, e delle sue speranze che qualcun altro si accollasse le spese del talento del suo unico Auris.

Byakuran aveva avuto ragione: Mukuro non poté non credere che la vera ragione di quell’abbandono fosse il suo gene Oro, e anche se era stato lasciato in un posto sicuro non si sentì meno tradito dalla sua famiglia. Sorseggiò la cioccolata senza quasi sentirne il sapore, quindi l’appoggiò di nuovo.

«Mukuro-kun… che cosa pensi?»

«Che cosa pensi che io pensi?»

Sospirò e si sdraiò in mezzo ai cuscini. Non era così inaspettato. Si era immaginato che sarebbe successo qualcosa, che alla casa-famiglia qualcuno avrebbe detto o fatto qualcosa per costringerlo ad andarsene… o che lo avrebbero sopportato giusto il tempo di fargli finire la scuola e spedirlo via a trovarsi un lavoro per mantenersi all’università. Da una parte lasciarlo all’Accademia Auris era un miglioramento di prospettiva rispetto alle sue proiezioni, ma dall’altro era una triste conferma dei suoi timori.

«Non è colpa tua.»

«Perché si nasce così e non dipende da me?»

«Perché sono i tuoi fratelli a sbagliare. Dubitare di te solo per aver saputo che hai un gene diverso dai loro, o invidiarti per questo motivo… non è colpa tua se hanno queste reazioni. Sono certo che nessun adolescente o bambino possa dire con sincerità di non essersi mai messo a urlare per la rabbia, o che non abbia mai colpito o lanciato qualcosa, o abbia preferito scappare fuori o chiudersi in camera anziché prendere parte a una discussione complicata e dolorosa» asserì Byakuran, guardandolo fisso. «Se fosse successo perché avevi rotto qualcosa in casa nessuno avrebbe reagito così… anche se la signora Kujaku è convinta di aver reagito bene, io la penso diversamente. Anche se ero presente avrebbe dovuto rimproverarli per quello che hanno detto.»

«Avrebbe cambiato il loro modo di pensare, se l’avesse fatto?» chiese Mukuro, laconico.

«No, ma avrebbe cambiato quello che sentivi tu» replicò convinto il preside. «Avresti visto che lei era dalla tua parte… e ora saresti più incline a credere nella sua buonafede. Ma l’hai vista tacere mentre quel ragazzino ti chiamava mostro, sai che mi ha mandato a cercarti e che adesso ti vuole lasciare… ora non riesci a credere che lo faccia per il tuo bene.»

Sospirò ancora, gli occhi blu fissi su una lanterna a forma di stella. Difficile negare, anche se aveva sentimenti confusi: non si fidava delle affettuose parole della donna che lo aveva cresciuto, ma il dolore era mitigato e reso fosco dal presagio che lo accompagnava fin dalla sua partenza da Kokuyo e da un senso di colpa immeritato che non sapeva spegnere.

«Non tornerò più a Kokuyo, vero?»

«Credo proprio di no, Mukuro-kun… a meno che tu non vorrai tornarci una volta libero di vivere dove sceglierai tu.»

«Chi si vorrebbe mai esiliare in quel cubicolo?»

Byakuran esitò qualche secondo.

«Forse qualcuno che ci ha vissuto» osservò con un tono insolitamente morbido. «A volte… la terra dove siamo nati chiama più forte di qualsiasi cosa… che siamo stati felici lì oppure no.»

Mukuro lo guardò in viso e si sorprese di vedere i suoi occhi viola distanti, come persi nel ricordo di qualcosa. Del luogo in cui era nato?

Si girò sul fianco e si puntellò sul gomito.

«Byakuran, tu…?»

La domanda gli si spense in gola quando la porta della stanza si aprì e Night Hound si fermò prima di calpestare il tappeto. Non sembrava affatto sorpreso come lo era Mukuro, che si raddrizzò immediatamente.

«Ah, avevo sentito un odore differente… buongiorno, Mukuro. Sei mattiniero.»

«Buongiorno, sensei.»

«Continuate pure. Volevo solo avvertirti che parto ora per l’aeroporto, Byakuran. Ho lasciato il riassunto del bilancio sulla tua scrivania.»

«Ah, grazie, Kikyo… fa’ buon viaggio.»

«Ti chiamo quando arrivo in albergo.»

Kikyo sorrise e fece un cenno con la testa all’indirizzo di Mukuro, che si affrettò a replicarlo. Richiuse la porta senza aggiungere nulla. Mukuro fece per porre quella domanda, ma si bloccò vedendo come il suo sguardo vagava confuso sulla porta chiusa.

«Byakuran?»

«Oh… ah, perdonami, Mukuro-kun. Ero distratto.»

«Sì, lo vedo… ti fa sempre quell’effetto quando Night Hound parte?»

«Beh, sì» ammise lui, lasciandolo basito. «Eh… siamo insieme da sempre… da quando abbiamo memoria eravamo già insieme, da bambini. Siamo passati insieme attraverso… tutto quello che hai letto su internet, e molto altro che il mondo non ha saputo mai. Quando va via senza di me, o io senza di lui, mi sento… un po’ perso.»

«Vi conoscete da così tanto? Raccontami qualcosa!»

Byakuran finalmente lo guardò e sembrava essere stupito e terrorizzato di tanto interessamento.

«Qualsiasi cosa, tipo… una cosa di quando eravate piccoli» insistette Mukuro, deciso a strappargli una memoria privata come fosse una pepita che poteva rivendere. «Un gioco solo vostro, un posto segreto… un tesoro che avete trovato voi due… quelle cose da bambini!»

Il suo sorriso sbiadì velocemente mentre Byakuran diventava – se possibile – ancora più pallido, alzava le mani tremanti e si tappava le orecchie, come se un fantasma stesse sussurrandogli parole terrificanti. Inizialmente pensò che il fischio fastidioso stesse diventando qualcosa di doloroso, poi ebbe il dubbio che quella reazione fosse dovuta a qualcosa che aveva detto.

«By… Byakuran? Che cosa… stai bene? Ehi!» fece, spostandogli le mani. «Mi senti? Byakuran!»

Prendendo un respiro roco, come chi si sveglia da un incubo, Byakuran posò gli occhi su di lui e tornò presente. Guardò in giro per la stanza con il respiro più pesante e dopo aver appurato che non c’era nessuno oltre a loro due si calmò e si liberò con delicatezza dalla stretta delle sue mani.

«P-perdonami, Mukuro-kun… è… il farmaco» fece, stiracchiando un sorriso. «Mi sta dando effetti collaterali fastidiosi… perdonami se ti sembrerò confuso, distante, o se non ascolto… non mi sto occupando del contenimento per via di questo problema di concentrazione.»

«Ah… beh, in effetti in certi momenti sembri un po’ matto.»

Byakuran emise una risata forzata e incerta, ma poi sorrise con più convinzione.

«Non preoccuparti, Mukuro-kun… non ho niente che mi impedisca di occuparmi di te… visto che sembri aver preso la notizia meglio di quanto io stesso sperassi, tanto vale parlarne… vista la mia posizione non dovrebbero esserci problemi per la tua… adozione

A quell’ultima parola Mukuro si bloccò – con il bicchiere con gli avanzi di cioccolato in mano – senza che il suo cervello riuscisse a processare quello che aveva sentito.

«Per la mia che?»

«La signora Kujaku non mi ha chiesto di tenerti qui come tutore… mi ha chiesto di compilare i documenti per la tua adozione ufficiale, in modo che ogni aspetto della tua educazione e del tuo benessere sia sotto la mia responsabilità. Normalmente penserei che sia un’ottima scelta affidare un minore a un uomo ricco, influente, che possiede una scuola privata, la dirige ed è anche un medico…»

Mukuro si accigliò mentre Byakuran parlava, ma poi lui scrollò le spalle.

«Questo se l’uomo non fossi io… io non ho avuto un padre, Mukuro-kun. Non so chi fosse biologicamente mio padre, e quando sono stato accolto da una splendida donna gentile in casa sua lei non aveva marito, pur avendo una figlia dieci anni più grande di me. Non sono di certo capace di fare il padre, quindi… mi comporterò da tutore. A te sta bene?»

«Beh…» esordì Mukuro lentamente, stringendosi le ginocchia al petto. «Io non ne ho mai avuto uno, quindi non so neanche come dovrebbe essere un padre… quindi… non credo che sia un problema…»

«Se non hai aspettative alte c’è qualche possibilità che io possa soddisfarle comunque in qualche modo.»

«Però… tu puoi?»

Byakuran inclinò la testa di lato. Quel gesto gli ricordò Maya, la bambina con cui divideva la stanza, che faceva lo stesso quando era confusa.

«Tu sei… beh, sei quello che sei, no? Hai davvero tempo per occuparti di me?»

Mukuro, che si aspettava qualche abbozzo, qualche frase annaspante e una risposta vaga, fu sorpreso che sorridesse mentre si alzava in piedi.

«Sapevo anche quando ho firmato quel documento che occuparmi di te come genitore avrebbe richiesto tempo. Non ti preoccupare di tutto il resto. Ho bene in mente la scala delle priorità e troverò abbastanza tempo perché tu non sia trascurato. Voglio farti passare due anni felici.»

Byakuran allungò la mano e spettinò vistosamente i capelli del ragazzo con un sorrisetto dispettoso. Mukuro gliela spostò bruscamente con un verso simile a un ringhio e cercò di sistemarseli.

«Non toccarmi i capelli!»

«Nei prossimi giorni pensa a quello che vuoi fare nel tuo futuro» gli disse lui, con l’espressione molto più rilassata di prima. «Puoi restare a studiare qui… diventare un Civil Hero, se lo desideri, o frequentare la sezione D. Un diploma qui, anche in quella classe, ti dà sempre una valida opzione di poter usare i tuoi poteri a scopo lavorativo… ma sono certo che Mad Phoenix è più che disposto a illuminarti su qualsiasi argomento riguardi la scuola e gli Auris.»

«Non ne dubito, ma io…»

«Se non sarai interessato a studiare qui basta che mi dici dove vuoi andare. Gli esami invernali sono vicini, ci sarà qualche accordo da prendere qualsiasi sia la tua scelta…»

«Vuoi dire che posso scegliere di andare dove voglio

Byakuran sorrise e aprì la porta della stanza.

«Non ci potrebbe essere un eroe peggiore di qualcuno che lo diventa per scelta di altri, Mukuro… forzarti a esserlo non è un bene né per te né per la società… so che hai poco tempo, ma fai la tua scelta secondo i tuoi criteri e poi fammi sapere.»

Il preside uscì mentre Mukuro sprofondava in un tumulto silenzioso di pensieri tempestosi, che furono presto interrotti.

«Mukuro, hai intenzione di uscire dalla mia stanza?»

Controvoglia il ragazzo si alzò, raccolse la busta di involti vuoti e uscì, cercando di infilarsi gli stivali goffamente con una sola mano.

«Posso tornarci qualche volta?»

«No» replicò lui sorridendo. «Trova un altro posto per fornicare… cosa che, devo avvertirti, è vietata nei locali della scuola. Quindi trovane uno dove io non possa scoprirti o verrai punito come tutti gli altri che ci hanno provato e sono stati presi.»

Mukuro sbuffò mentre il preside chiudeva la porta a chiave.

«Complimenti, Byakuran. Sei riuscito a rendere noiosa persino una scuola per eroi.»

 

*

 

Mukuro si sorprese di scoprirsi così tranquillo dopo la notizia infausta, tanto che tra un esercizio di matematica e un capitolo di storia tornava a chiedersi se da qualche parte, in fondo a se stesso, non avesse sperato di restare davvero all’Accademia Auris, se qualcosa dentro di lui lo stesse chiamando.

Tirò avanti come nulla fosse, senza rivelare agli altri classe S che cosa sarebbe successo, e tentò con discrezione di carpire informazioni e umori che lo aiutassero a decidere che strada prendere. Come Byakuran aveva profetizzato Phoenix non esitò davanti a nessuna domanda diretta o velata che fosse e snocciolò con dovizia di dettagli episodi accaduti, statistiche, procedure e qualsiasi altra nozione rendesse la sua risposta esaustiva. Dopo un paio di giorni Mukuro sapeva tutto sugli esami, sulla procedura di arruolamento dei Civil Heroes, sulle licenze provvisorie e molte altre cose che neanche immaginava di dover chiedere.

Quel mattino, due giorni prima che la cometa scomparisse per un altro secolo, l’Accademia era un po’ più disabitata ma anche più caotica: una sfilata di automobili entrava nel piazzale e ne usciva mentre familiari o taxi venivano a recuperare gli Auris che avevano aderito al programma di contenimento. Tuttavia Mukuro, seduto alla mensa in una posizione ottimale per controllare l’ingresso principale, non era interessato a quelli che entravano per far salire qualcuno quanto a quelli che abbandonavano l’automobile nel posteggio per entrare nell’edificio.

Aveva appena adocchiato una coppia scesa da un’auto modesta e li seguì con cipiglio di falco da sopra la rivista che teneva aperta fingendo di leggere, scoprendo che uno dei coordinatori dei corsi era lì proprio per accoglierli.

«Che stai leggendo, Mukuro?»

Mukuro sussultò appena, ma si rilassò appena vide l’ormai familiare maschera di Phoenix e il consueto accenno di sorriso.

«Una rivista» replicò lui atono, e lanciò un’occhiata fuori. La coppia e l’insegnante erano scomparsi.

«E perché leggi Josei Hero-hina?» domandò Phoenix, sedendosi al tavolo di fianco a lui.

Persi alla vista i suoi bersagli Mukuro sospirò e guardò il ragazzo, così interessato alla sua rivista che gliela porse.

«Non dovrei farlo?»

«Puoi fare quello che vuoi, Mukuro, ma mi sorprende… è una rivista di eroi per un pubblico di donne» replicò lui, mentre la sfogliava. «Eri interessato ai segreti di bellezza delle eroine o alle foto di Wing Emperor svestito?»

«Emperor è sempre nudo, in pratica. Con quel costume non resta molto da immaginare.»

«Dal tuo tono sembra che ti dispiaccia.»

«Sono un fan dell’immaginazione» replicò Mukuro, infastidito. «Che cosa fai tu qui a quest’ora, Phoenix?»

Phoenix si era fermato su una pagina il cui titolo prometteva ottimi consigli per un sonno più regolare dati da un eroe a Mukuro ignoto, ma i suoi occhi parvero scorrerlo solo superficialmente.

«Un fan dell’immaginazione… significa che sei uno che preferisce fantasticare su una foto piuttosto che guardare un video porno, qualcosa del genere?»

Un certo colorito mutò l’incarnato pallido del viso di Mukuro, ma lui non se ne accorse e per dissimulare l’imbarazzo si spostò i capelli dietro l’orecchio.

«Se lo fosse avresti da commentare?»

«Sì, se vuoi che io commenti qualcosa» replicò lui, passando all’articolo seguente. «E posso commentare anche se non è così, sempre se vuoi che parli.»

«Se sono sarcastici e sprezzanti tienili per te.»

«Anche io sono un fan dell’immaginazione, per metterla nei tuoi termini» fece allora Phoenix, con un sorriso tranquillo. «Ma non penso che chi preferisce il massimo dell’esplicitazione sia da criticare. C’è chi ama mangiare, e chi ama cucinare e poi mangiare. Il piacere è piacere, è diverso per ognuno.»

Mukuro restò a fissarlo diversi secondi, tanto a lungo che Phoenix incrociò il suo sguardo quando l’alzò per indagare sul suo silenzio. Neanche a quel punto disse nulla e si limitò a chiudere la rivista.

«Ma tu davvero spari frasi del genere quando parli con le persone?»

«Beh, a meno che tu non sia in realtà un rospo…»

«Parli sempre di sesso come se fosse un argomento di circostanza come il tempo che fa?»

«Non è un argomento come un altro?» domandò di rimando Phoenix, con sincera sorpresa. «Non sei certo un bambino, non pensavo fosse un tabù… ma se mi dici che ti mette a disagio non ne parlerò più. Perdonami se ti ho irritato… mi succede spesso, con il mio passato non riesco a capire che le persone sono restie a parlare apertamente di sesso se non con persone della loro cerchia intima.»

Qualcosa in quelle parole drizzò le antenne mentali di Mukuro e rimosse del tutto la questione delle persone in visita agli uffici dell’ultimo piano.

«Mpf… per quanto riguarda la cerchia intima, di sicuro tu ci sei. Ho parlato più con te in questa settimana che con uno qualsiasi dei miei fratelli nell’ultimo mese» ammise in tono scontroso Mukuro, spostandosi ancora i capelli dietro l’orecchio. «Ma non è… beh, non è un argomento di cui parlo. Sono un ragazzo strano, crescere in una casa-famiglia con pochi mezzi e dividendo la stanza sempre con qualcuno mi ha reso molto simile a uno cresciuto in collegio cattolico.»

«Non credo ci sia un vero motivo per non parlare di certi argomenti, ma se preferisci così non farò più conversazione al riguardo» promise Phoenix scrollando le spalle. «Ma se col tempo cambiassi idea fammelo sapere, io lo trovo un argomento interessante e non ho molte persone con cui sono libero di parlarne.»

Mukuro tacque, leggermente accigliato. Aveva di nuovo quel presentimento, sempre più netto ogni volta che si ripresentava, che Phoenix stesse cercando di dirgli qualcosa in modo velato… e ormai aveva anche il dubbio di aver colto cos’era quel qualcosa.

«Ma non mi hai ancora detto che cosa fai qui» si ricordò Mukuro all’improvviso. «Hai detto che non frequenti la mensa se non in occasione di colazione e pranzo, e non è ora di nessuna delle due.»

«Beh, frequento la mensa se la persona che cerco si trova lì.»

«Quindi cercavi me?»

«Esatto.»

«Per qualche motivo ragionevole o solo per metterti seduto di fianco a me?»

«Sederti accanto non lo trovi un motivo ragionevole per attraversare un paio di campi ed entrare in una mensa?»

Mukuro scosse la testa e sollevò le mani.

«Okay, questo sta diventando imbarazzante. Dimmi che cosa vuoi o vatti a sedere lì davanti a una distanza sociale accettabile.»

«Che cosa voglio nella vita, che cosa voglio intimamente o che cosa pensavo di ottenere da questa visita in particolare?»

Il mugugno che emise bastò come risposta a Phoenix, che fece una lieve risata prima di alzarsi e mettersi a sedere di fronte a lui dall’altro lato del tavolo. I suoi occhi grigi scintillavano, era evidente che la sua compagnia lo divertiva.

«Ti diverte stuzzicarmi, vero?»

«Sei una persona che mi incuriosisce, Mukuro… sei diverso da quelli con cui ho a che fare di solito, e dai miei amici… cerco di scoprire come sei, perché quello che vedo mi dà immagini contrastanti di te.»

«Potrei dire la stessa cosa.»

Phoenix ne fu sorpreso, e intimamente lo era anche Mukuro: non avrebbe mai immaginato che entrambi si stessero studiando perché proiezioni diverse di loro si sovrapponevano mostrando le dissonanze. Per qualche ragione non si sentì angosciato come spesso gli succedeva quando veniva messo sotto il microscopio.

«Senti, Phoenix… ormai parecchia gente se ne sta andando dalla scuola» fece Mukuro, gettando un’occhiata al cortile. «Il periodo della cometa sta per finire…»

«Sì, lo so. Stai per tornare a casa.»

Bastò guardare il riflesso di Mad Phoenix nel vetro per notare come il suo sorriso scomparve alla pronuncia di quella frase. L’eroe decise di affossare le sue emozioni riprendendo a sfogliare il giornale distrattamente.

«C’è qualche possibilità che tu decida di restare?»

Mukuro sospirò lentamente e si chiese se fosse il caso di anticipare i tempi e parlare a Phoenix dell’adozione, ma poi ricordò che Byakuran gli aveva chiesto il totale riserbo fino a che i documenti non fossero stati firmati e l’intera pratica resa ufficiale. Se aveva visto giusto, questo stava accadendo in quel mentre nell’ufficio all’ultimo piano, perciò restavano poche ore al momento della rivelazione.

«Scusami. Non intendevo insistere» l’anticipò Phoenix. «Solo, mi chiedevo… ti dispiacerebbe se ti scrivessi ogni tanto, quando tornerai a Kokuyo?»

«Scrivermi? Vorresti veramente scrivermi

«Beh, farei anche videochiamate, ma da te vivete all’età della pietra, mi dicevi.»

Mukuro emise una risata nervosa. Ricordava a malapena di averglielo detto in un momento particolarmente cupo di umore, alla fine di una lunghissima sessione di studio nella stanza dei computer accanto alla biblioteca.

«Perché non approfittiamo della confusione e usciamo?»

Phoenix lo guardò con sorpresa e passò lo sguardo sul cortile, ancora piuttosto caotico, prima di tornare a lui. Mukuro si aspettava scuse variabili – dal molto studio, qualche lezione extra, impegni inderogabili come capoclasse – o domande indagatrici sulle sue intenzioni volte a smantellare la sua proposta ribelle dalle fondamenta. Ancora una volta lo sorprese.

«Sbrighiamoci, prima che le guardie al cancello abbiano abbastanza tempo da chiederti il permesso scritto di un tutore che non hai.»

*

Hibari Kyoya – alias Mad Phoenix – non aveva mai visto Kokuyo né l’aveva mai sentita nominare prima di sapere che il ragazzo nuovo venisse da lì, ma dalla meraviglia da bambino che Mukuro aveva sul volto mentre guardava l’ingresso del cinema, le vetrine dei caffè alla moda e l’immenso negozio di musica poté indovinare che era una piccola cittadina; probabilmente una di quelle con una sola scuola, negozietti senza concorrenza con venditori di fiducia e una piccola stazione del treno per arrivare a una qualsiasi città che potesse avere tutto il resto.

Sorseggiò il suo frullato ai mirtilli senza riuscire a trattenere un sorriso mentre guardava gli occhi blu di Mukuro da tanto vicino da vederci riflesse le luci al neon della sala del Pachinko.

È così emozionato… mi ricorda tanto me la mia prima volta su questa stessa strada, ma alto il doppio.

«Che ne dici se quando torniamo ci fermiamo al negozio di musica?» gli propose, e ruotò il bicchiere per mescolare il fondo del frullato. «Sarei felice di regalarti un cd, come ricordo della tua… vacanza, diciamo.»

«Ma tu non devi regalarmi niente» replicò Mukuro, sedendosi meglio sulla sbarra che divideva il marciapiede dalla corsia del filobus. «Sei già stato gentile a offrirmi il frullato e il biscotto gigante.»

«Non preoccuparti, Mad Horse è molto generoso… mi dà più soldi di quanti possa spenderne… a casa non hai molti soldi per te, no? Non mi dispiace regalarti qualcosa che ti piace… sempre ammesso che non ti offenda.»

Mukuro fece una breve risata e scosse la testa.

«Ho bisogno di soldi, ma non mi servono souvenir della mia vacanza… apprezzo la tua generosità, però. Davvero, conoscevo Subaru da due anni quando si decise a offrirmi qualcosa… un gamberetto fritto del suo bento, per inciso.»

Il suo sorriso si raffreddò un poco e rinunciò a bere dalla cannuccia. Mukuro invece decise di dare finalmente fondo al suo frullato con cioccolato e marmellata di albicocca, e con l’aria di goderselo un mondo.

«Hai già nominato qualche volta questo Subaru… chi è, esattamente?»

«Oh… un mio amico… siamo compagni di scuola, ma non siamo nella stessa classe» rispose lui, dondolando i piedi. «È la mia voce.»

Kyoya non afferrò il senso di quella frase, ma l’intrinseca poesia che ci lesse lo turbò un po’ più di quanto preferisse ammettere. Prese un sorso di frullato cercando di trovare un modo poco invasivo di domandare altro, ma poi Mukuro accavallò una gamba sull’altra e si spiegò da sé.

«Voglio dire, la voce delle mie canzoni. Io le compongo e scrivo il testo, la sua band suona e lui le canta. In questo senso Subaru è la mia voce… una voce dal timbro affascinante, è particolare. Sono felice che sia lui a cantare i miei pezzi, so che un giorno sfonderà come cantante e spero si porterà dietro anche me!»

Mukuro ridacchiò.

«Accipicchia, sembra così meschino detto in questo modo.»

«Tutto qui?»

Mukuro gli lanciò uno sguardo corrucciato.

«In che senso, tutto qui? Non ti sembra abbastanza?»

«Subaru-kun è solo il cantante delle tue canzoni?»

«Beh… siamo anche amici… forse l’unico che considero mio amico, a Kokuyo. Lui sa parecchie cose di me…»

Kyoya abbassò il bicchiere e si spostò; la lunga seduta sulla sbarra di metallo iniziava a dargli fastidio e cominciava a farsi tardi, ma voleva finire quella conversazione prima di proporre di tornare verso la scuola.

«Hai altri amici da qualche altra parte?»

«Eh?»

«Da come l’hai detto, sembra che tu abbia solo lui come amico a Kokuyo, ma che tu abbia amici da qualche altra parte.»

«Non ero mai uscito da Kokuyo, prima di venire qui» ammise Mukuro, e si dondolò all’indietro guardando verso il cielo. «Solo una volta sono stato in gita scolastica, siamo andati a visitare un parco naturale in Hokkaido…»

«Quindi… non hai nessun altro amico?»

«Non sono un tipo socievole» commentò lui, scrollando le spalle. «La musica mi basta per alleviare il peso.»

Kyoya puntò i suoi occhi grigi sul viso del ragazzo con tanta intensità che non poté non calamitare i suoi e si guardarono in silenzio per qualche istante.

«Il peso di che cosa, Mukuro?»

«Non sono sicuro di potertelo dire, Phoenix.»

«Perché no? So tenere i segreti.»

«Non temo che tu possa raccontarlo… solo, penso che tu non possa capirlo.»

«Ho un passato difficile anch’io» replicò Kyoya senza esitazione. «Posso capire quanto basta.»

Mukuro scivolò con un movimento fluido giù dalla barriera ed esibì un sorriso che celava perfettamente qualsiasi nostalgia, dolore, tristezza.

«Ne sono sicuro… per questo non credo che capiresti quale peso mi sono portato dietro finora.»

Kyoya incespicò appena mentre scendeva rapidamente per seguirlo e borbottò delle scuse quando urtò la spalla di un uomo che camminava nella direzione opposta.

«Aspetta… prova a parlarmene!»

«Preferisco di no, ma sei gentile a preoccuparti di me.»

«Smettila di imbonire chi cerca di avvicinarti con questi mezzucci» ribatté aspro, affiancandolo. «Li conosco questi trucchi. Ripetere quanto sono gentili, quanto apprezzi le loro attenzioni, ripetere sempre “grazie”… sono tutti metodi per far sentire gli altri a posto con la coscienza, per dare una caramella al loro ego altruista e farli smettere di provare. Servono ad allontanare le persone.»

Mukuro perse il sorriso finto e si accigliò leggermente, ma continuò a guardare avanti ostentando irritazione anziché mostrarsi privato delle sue difese.

«Perché insisti tanto, Phoenix? Dopo oggi probabilmente non mi vedrai più. Potremmo non incontrarci mai più per il resto della vita. Che te ne importa di sapere cosa sento?»

«Ogni persona con cui parlo domani non potrebbe esserci più. Anche io potrei non esserci più, dato il lavoro che faccio le probabilità sono notevoli» ribatté Kyoya, tentando di mantenere calmo il tono della voce. «Ma questo non mi basta a rinunciare a pensieri, sentimenti, emozioni e rapporti umani.»

Mukuro non rispose e Kyoya non insistette, perché sapeva di averlo colpito e che stava riflettendo sulle sue parole. Lo seguì attraversando la strada, passarono davanti al negozio di musica senza che lui lo degnasse di uno sguardo e si fermò all’incrocio con un viottolo stretto che ospitava alcuni distributori automatici, a pochi metri dalla fermata dell’autobus che avrebbero dovuto prendere per tornare a scuola.

«Te lo racconterò… in cambio di una rivelazione di pari importanza.»

Kyoya lo guardò confuso, ma annuì davanti a quell’aria decisa che aveva in viso.

«Che cosa vuoi sapere? Vuoi che ti racconti di quando ero piccolo?»

«Cosa nascondi dietro quella maschera?»

Kyoya se la toccò con le dita facendo un passo indietro, sottraendosi come se si aspettasse d’istinto che Mukuro avrebbe cercato di strappargliela. Sospirò, sapendo di aver tradito di avere un effettivo segreto da difendere.

«Non hai detto che potremmo non vederci mai più? La mia faccia non sarà il tuo più grande rimpianto, spero.»

«Se me la mostri ti prometto che ci rivedremo ancora, anche dopo che il contenimento sarà finito.»

Gli occhi grigi cercarono senza esitazione la menzogna nel blu dei suoi. Era sicuro di trovarla, e restò spiazzato quando non ne scorse neanche una briciola. O aveva di fronte il miglior attore che avesse mai incontrato, o diceva sul serio e aveva intenzione di lasciare aperto uno spazio per comunicare anche dopo il suo ritorno a casa.

Scegliere non fu difficile. Alzò la mano afferrando la leggera sporgenza della maschera sul naso.

«Custodirai il mio segreto come io custodirò i tuoi?»

«C’è un certo romanticismo in questa domanda o lo sento solo io?» domandò Mukuro con un sorrisetto provocatorio.

«Parleremo dei nostri ideali di romanticismo un’altra volta» replicò Kyoya, serio. «Adesso voglio solo la tua parola.»

Mukuro si fece serio e acconsentì con un cenno nervoso.

«Ce l’hai.»

Era evidente che Mukuro fosse nervoso, era incuriosito come tutto il resto del mondo dal segreto sotto la sua maschera. Questo fece tendere appena gli angoli della bocca e poi, con un gesto fluido, Kyoya si sfilò la maschera dall’alto, spettinandosi leggermente i capelli. A occhi chiusi attese qualche commento, che non arrivò.

Sussultò appena riaprì gli occhi trovando Mukuro così vicino da potergli contare le ciglia, anche se provò un bizzarro desiderio di ridere notando che i suoi occhi blu erano quasi strabici per studiarlo da tanto vicino.

«Ma che stai facendo?»

«Sto cercando il segreto» ammise lui, e si grattò la testa facendo un passo indietro. «Qual è il problema?»

«Beh… il naso.»

«Lo vedo il tuo naso, quello che non vedo è il motivo per tenere su la maschera più stupida mai disegnata… ah, scusami, ma è davvero ridicola.»

Kyoya si accigliò, ma decise di sorvolare sul sottile insulto al suo gusto nel design. Incrociò le braccia al petto e inclinò la testa, incapace di capire se Mukuro stesse intenzionalmente fingendo di non accorgersi di niente per fargli piacere o per qualche altro misterioso scopo.

«Il mio naso non ha nulla di strano, secondo te?»

Mukuro si piegò a destra e a sinistra per guardarlo di profilo, si chinò persino per guardarlo dal basso, con il solo risultato di sembrare più irritato e perplesso di prima.

«Mi stai prendendo in giro, Phoenix?»

«Tu mi stai prendendo in giro, Mukuro.»

«Okay, basta» tagliò corto lui, vistosamente irritato. «Se vuoi che la chiudiamo così mi sta bene, non c’è bisogno di trattarmi da idiota.»

Kyoya strinse i pugni e raggiunse in pochi passi Mukuro che si stava dirigendo verso la fermata dell’autobus.

«Non lo vedi che è assurdamente sproporzionato?!»

Mukuro quasi inciampò per quanto bruscamente si fermò a metà di un passo, e si voltò con espressione incredula. Purtroppo Kyoya non vide né la luce di comprensione né la resa che si aspettava di vederci.

«Ma di che accidenti stai parlando?»

«…Del mio naso, Mukuro.»

«Evidentemente c’è un problema di comunicazione da qualche parte» replicò Mukuro, esasperato, e gli posò l’indice sulla punta del naso. «Da dove vengo io “naso” è questo affare qui che sta sulla faccia. Da dove vieni tu che cosa significa?»

Sospirò, un po’ divertito ma esasperato quanto Mukuro.

«Anche da dove vengo io quello si chiama “naso”.»

«Benissimo. “Sproporzionato” che cosa significa da te?»

«Di una misura non corrispondente a uno schema armonico di figure.»

«Oh. Che definizione sopraffina» osservò Mukuro, piuttosto colpito. «Ma sì, concettualmente sono sulla stessa pagina anch’io. Perfetto, la semantica funziona, quindi dev’essere un problema di logica: sproporzionato rispetto a che cosa?»

«Smettila, Mukuro… il mio naso è grande in proporzione al resto della mia faccia. Questo è il problema e per questo motivo lo nascondo.»

Le sopracciglia sottili di Mukuro si incurvarono e i suoi occhi blu vagarono sull’insieme del suo viso per i secondi che seguirono.

«Ma non è sproporzionato per niente, Phoenix… chi ti ha messo in testa quest’idea?»

Una vaga fitta di dolore, una ferita psicologica lontana nel tempo, gli fece portare d’istinto la mano sul petto. Non aveva raccontato a nessuno che cosa gli era stato detto quando era bambino, come nessuno sapeva l’esatta ragione per la quale non svelava mai apertamente il suo viso.

Se non mi fido di lui non posso chiedergli di fidarsi di me…

Prese un respiro profondo e raddrizzò la testa, con grande fatica. Le sue paure irrazionali gli dicevano che doveva nascondere il suo viso.

«L’uomo con cui sono cresciuto… mi trovava disgustoso. Ogni volta che mi vedeva mi rivolgeva delle critiche e mi chiamava con qualche nome crudele. Il suo preferito era “grugno”.»

L’espressione di Mukuro non cambiò quasi per nulla, ma dai suoi occhi percepiva chiaramente la collera che gli montava da dentro. Sentire, se non vedere, la sua reazione gli fu di profondo conforto.

«Tuo padre ti chiamava grugno?»

«Non era mio padre… mi aveva trovato in uno dei suoi campi quando a malapena camminavo, almeno così raccontò a Mad Horse anni dopo. Il mio potere Auris era molto precoce…»

Kyoya si guardò il palmo della mano. Istantanee dei molti lavori inappropriati a un bambino che quelle mani avevano eseguito gli si affollarono alla mente, tanto che dovette chiudere gli occhi per tornare alla calma.

«Normalmente, un potere Auris inizia a manifestarsi intorno ai cinque anni, fino a sette od otto, nel caso di uno sviluppo tardivo… stando a quell’uomo, iniziai a mostrarmi più forte dopo i tre anni… aveva deciso di tirarmi su come un suo lavoratore per la fattoria, ma il mio potere mi rendeva molto più prezioso.»

Mukuro sospirò e allungò le mani, strofinandole sulle sue spalle in un muto conforto.

«È evidente che ti insultava per indebolirti mentalmente mentre crescevi» osservò con buonsenso, ma senza la vena di commiserazione che era abituato a sentire dai pochi che conoscevano il suo passato. «Non avevi niente che non andava e non l’hai neanche ora. Il tuo naso non è un grugno.»

«So che ho un naso grande… me lo disse anche Mad Horse quando mi portò con lui all’Accademia.»

Non era in cerca di menzogne, né di rassicurazioni. In verità la sola cosa che sperava di ottenere da quella trasparenza era la fiducia di Mukuro e una piccola linea diretta tra di loro che potesse sopravvivere alla separazione imminente. Rimase sorpreso di notare tanta irritazione sul suo volto.

«Ma questo non è successo, tipo, dieci anni fa?»

«Quasi undici.»

«Allora, idiota, potresti anche supporre che qualcosa nel tuo fisico sia cambiato» replicò aspro Mukuro. «E che quel naso che una volta era forse grande vada benone adesso che anche la tua testa è cresciuta… vuota all’interno, sembra, ma almeno è a misura normale.»

A questa semplicissima questione Kyoya non aveva mai pensato. Si tastò il naso, quasi si aspettasse un’illuminazione, la coscienza profonda di aver creduto in una bugia. Non l’ebbe, ma almeno gli pareva una possibilità concreta.

«Sei… pensi davvero che il mio naso sia normale?»

«Sai, forse è meglio se ti rimetti la maschera» replicò Mukuro, e si aggiustò la sciarpa intorno al collo. «Il tuo naso è perfetto, e ti potrebbe succedere quello che è capitato a Mad Horse: tutti pensano che sia solo un gran figo e un completo idiota che fa carriera per la sua bella faccia. Se ti mascheri la tua carriera sarà attribuita solo alle tue capacità.»

Mukuro si allontanò e andò a piazzarsi davanti al tabellone degli orari delle corse. Kyoya esitò, confuso nei pensieri e nelle sensazioni; fece per rimettere la maschera, ma poi sorrise e l’infilò in tasca. Raggiunse Mukuro di corsa.

«Davvero è questo il modo in cui fai complimenti a una persona?»

«Quale modo, Phoenix?»

«Con metafore e sarcasmo?»

«Ah, beh, sì. Agli uomini, almeno, con le ragazze sono più cortese.»

Kyoya emise una risata spontanea, liberatoria. Si sentì molto più leggero.

«Grazie, Mukuro… era… una convinzione dura a morire. Mi ci vorrà un po’ di tempo per superarla, ma… se tu non fossi stato così riservato avrei continuato a non capire che cosa mi bloccava» gli disse e si sedette. «D’altra parte, quanto hai insistito è un po’… non è che ti eri preparato un piano per scoprire che cosa nascondeva la mia maschera?»

Mukuro tese un sorrisetto, sedendosi accanto a lui.

«Di niente, Kyoya.»

 

 

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Capitolo 7
*** Fire of Prometheus ***


Seduto sulla sua scrivania Byakuran fece un sospiro alla fine di una spiegazione ininterrotta e dondolò il piede mentre teneva gli occhi fissi sul viso di Kikyo, che alla luce scarsa della sola lampada nell’angolo sembrava più accigliato di quanto non fosse realmente.

Che cosa avrebbe detto come prima cosa? Sarebbe stato scioccato? Arrabbiato? Felice? Byakuran si faceva queste domande da qualche giorno e stava finalmente per avere una risposta.

«Byakuran… hai… pensato bene a questo prima di farlo, o come al solito ti sei buttato spinto dalla tua natura di difensore dei deboli?»

«Mi sono buttato… ma non perché Mukuro aveva bisogno di qualcuno.»

«Non è questa la ragione?»

«No.»

«E puoi dirmi quale, allora?» l’incalzò Kikyo, con un tono calmo ben collaudato.

«Lui non aveva bisogno di qualcuno, se non avessi acconsentito Kujaku-san lo avrebbe riaccolto a casa fino al suo diploma, e poi… tutto sarebbe andato avanti. L’ho preso con me perché… penso di essere io ad aver bisogno di lui.»

Kikyo tacque e fece un passo più vicino a lui.

«Perché? Che cosa ti può dare che non possa darti qualcun altro?»

«Ora sarai sincero su questo argomentino spinoso, Ran?»

Byakuran sorrise, ignorando la voce lontana nella sua testa. In quel momento non poteva scalfirlo.

«Luce aveva circa la mia età di adesso, quando mi trovò nel suo giardino e mi prese con sé» gli rammentò, incrociando le gambe sulla scrivania. «Era sicura di fare la cosa giusta, che poteva fare la differenza per un bambino spaventato e solo come me…»

«Non capisco come questo possa averti convinto ad adottare un adolescente che conosci a malapena. Mukuro non è come te.»

«Non mi conosceva affatto, lei… eppure, è riuscita a diventare così importante… e a regalarmi il periodo più bello della mia vita, e mi permise di capire che cosa volevo diventare, a dispetto di quello che ero agli occhi di chiunque altro» fece lui, con un sorriso nostalgico sulle labbra. «Non ho la pretesa di fare altrettanto bene con Mukuro… ma se posso veramente dargli qualcosa che non può avere dagli altri, so che questo cambierà anche me…»

«Stai cercando una specie di realizzazione trasversale, o che altro?»

«Sto cercando di dare… nello stesso modo in cui Luce diede a me qualcosa che mi è caro ancora oggi. È sbagliato, secondo te?»

Kikyo emise un lento sospiro incrociando le braccia. Conoscendolo come lo conosceva sapeva che stava cercando il modo più delicato di obiettare, ma in quel momento un bussare frettoloso anticipò l’apertura della porta e Mukuro apparve sulla soglia.

«Mi hai fatto chiamare, Bya–oh… chiedo scusa» fece, bloccandosi. «Non pensavo ci fosse qualcuno.»

Byakuran scivolò fluido giù dalla scrivania. Si scoprì incapace di non sorridere mentre gli porgeva un plico di fogli, senza dire una parola; lui si avvicinò per prenderli e li scorse con uno sguardo meravigliato. Era impossibile per lui restare indifferente al modo in cui lo guardò e seppe di aver fatto la scelta giusta, qualsiasi reazione Kikyo avesse avuto.

«Allora… adesso è ufficiale?»

«Sì… è ufficiale… legalmente, sono tuo… beh, tuo padre.»

Mukuro emise una risata nervosa e guardò le firme in calce ai documenti, con uno strano miscuglio di malinconia e allegria nello sguardo. Byakuran sapeva che per lui l’inizio di un nuovo capitolo era anche la conclusione di uno che gli era calzato bene per quindici anni; non proprio lo stesso stato d’animo di quando Luce accolse lui in casa.

«E ora?»

«Ora?»

«Che cosa si fa ora?» domandò ancora Mukuro. «Per esempio… non credo di dover restare nello stanzino, dove andrò a stare? Tu ce l’hai una casa?»

Byakuran scambiò un’occhiata colpevole con Kikyo, che gli fece un cenno d’incoraggiamento. In realtà lui aveva una casa, ma questa era disabitata da anni, e viveva dentro l’Accademia fin da quando era stata costruita. Dubitava che la villa fosse in condizioni adatte a ospitare di nuovo una famiglia.

«In realtà… sì, e no. Ho una proprietà, ma… non è abitata. Io vivo qui, nelle stanze in fondo a questo corridoio.»

Mukuro girò la testa come se potesse guardare le stanze attraverso i muri, poi lo guardò con aria confusa.

«Quindi io devo restare in quella stanza?»

«Beh… in realtà, dipende da che cosa vuoi fare con la scuola… se hai deciso di studiare qui potrai stare nel dormitorio del tuo corso…»

Byakuran ponderò l’idea di riservare per sé uno degli appartamenti destinati al corpo insegnanti e lasciare che Mukuro ci vivesse. Pensò anche che avrebbe potuto trasferire la sua stanza da letto lì e sforzarsi di attraversare un tratto del campus per raggiungere l’ufficio se questo avesse reso più agevole la nuova vita di Mukuro, ma poi il ragazzo si fece serio e lo distolse da quelle riflessioni.

«In realtà… io voglio continuare a studiare musica. Vorrei che mi iscrivessi al conservatorio… non importa se non è vicino, imparerò a gestirmi da solo con gli autobus o il treno.»

Se l’aspettava, ma avvertì comunque un certo dispiacere a quelle parole. Accennò un sorriso, scambiando una fugace occhiata con Kikyo, e si riprese il plico di fogli.

«Lo immaginavo, e avevo già controllato… ce n’è uno molto valido a Furugoma, ci si arriva con un tragitto di quaranta minuti in treno, senza cambi di stazione» spiegò Byakuran, cercando di non far trasparire la minima traccia di delusione dalla voce. «Dovrai alzarti un po’ prima di come eri abituato. È un problema?»

Mukuro scosse la testa.

«Me la caverò» assicurò lui, sorridendo. «Avrei intenzione di studiare di più musica rispetto a prima. Pensavo al piano, ma dovrei esercitarmi molte ore… se non posso averne uno a disposizione prenderò uno strumento diverso.»

Byakuran ridacchiò.

«Mh, sono tuo padre da due minuti e mi hai già chiesto un pianoforte, ho paura per quello che mi chiederai domani!»

«Se non volevi comprarmelo non dovevi dirmi di scegliere la scuola che volevo!» ribatté Mukuro, divertito.

«Non mi intendo molto di strumenti musicali, fammi sapere che pianoforte ti serve per esercitarti. Nel frattempo puoi usare quello dell’aula di musica.»

Byakuran scribacchiò un appunto su un modulo che aveva pronto e ricopiò la firma in fondo a un foglio vuoto con lo schema della lista spese, poi li consegnò a Mukuro.

«I moduli dalli a Mad Phoenix, sa che cosa farne…»

«Che cos’è questa roba?»

«Ne parleremo più tardi, ora ho delle cose da discutere con Hound.»

Mukuro guardò i due insegnanti, confuso, poi ripiegò a metà i due fogli firmati.

«Ah, sì… mi dispiace per l’interruzione. Sai dove trovarmi quando finisci.»

Mukuro accennò un inchino a Night Hound e uscì di fretta dall’ufficio. Pur con ogni dubbio su se stesso e sulle scelte da fare, Byakuran non poteva non sentirsi positivo, emozionato, entusiasta… felice.

Il suo sorriso svanì quando Kikyo andò verso la porta con ogni intenzione di uscirne.

«Dove vai?»

«A farmi una doccia prima di scendere a pranzo.»

«Eravamo nel mezzo di una conversazione, Kikyo.»

«Non occorre continuare… il tuo odore dice molto di più di quanto tu riesca con le parole.»

Byakuran si accigliò. Era un patto di lunga data tra di loro che Kikyo non dovesse indagare i suoi sentimenti e le sue sensazioni tramite il suo prodigioso naso – in grado di captare persino gli odori impercettibili agli umani quali ormoni o addirittura metalli a svariati metri di distanza – ma in quel momento decise di non ricordargli quella promessa.

«E che cosa dice il mio odore?»

«Profumi di glicine» replicò lui, lasciandolo ignaro quanto prima. «È l’odore che hai quando… beh, quando sei felice, Byakuran. È un profumo che sento molto di rado, e se diventare il tutore di Mukuro ne è la causa… io non ho nessuna obiezione da fare.»

Byakuran tornò a sorridere mentre Kikyo lasciava la stanza. Si sentiva veramente felice, come di rado ricordava di essere stato negli ultimi dieci anni. Seppure suonasse infantile avrebbe voluto sedersi a un tavolo della mensa e mettersi a fare progetti con e per Mukuro, immaginare come sarebbe stata la vita d’ora in avanti se avesse preso casa, se si fosse preso pomeriggi liberi, se avesse portato Mukuro con lui in un prossimo viaggio, se, se, se… ma purtroppo l’agenda di Wing Emperor era ancora lì, inflessibile, e densa di appuntamenti.

Con una certa riluttanza ma ancora con un buon entusiasmo per il ritorno, uscì per indossare qualcosa di appropriato per l’appuntamento con il Primo Ministro.

 

*

 

Poco dopo, Mukuro stava nella sua stanzetta. Sdraiato sulla branda nella penombra di un giorno nuvoloso canticchiava un motivetto, uno stralcio che sperava di far diventare un giorno una canzone finita. Ancora l’ufficialità dell’adozione, una speranza infantile che per lui era scomparsa già al suo approdo alle elementari, non aveva sortito effetti: avrebbe richiesto tempo elaborare che cosa davvero significasse avere un padre, seppure uno troppo giovane per essere una figura genitoriale per un ragazzo di diciassette anni.

Mukuro smise di fischiettare, fissando il soffitto con aria assente.

Quanti anni ha Byakuran…? Mi pareva che avesse detto di averne trentuno… se è così…

Sollevò la mano, ma senza usare le dita ottenne un’immediata risposta e la riabbassò.

Io ho quasi diciassette anni, ma lui ha già trentun anni… quindici anni sono pochi, ma… forse non così pochi.

Si sollevò mettendosi seduto. Intorno a quella strana idea iniziò un’insistente brezza di pensieri.

E se non fosse un caso? Se lui non era lì vicino per caso, ma ci fosse venuto proprio per vedere me? Non…

Mukuro sospirò emettendo un sonoro brontolio e si massaggiò la fronte.

«Che idiozie sto dicendo.»

Un leggero bussare alla porta spazzò via definitivamente i residui di quella bizzarra teoria e Mukuro voltò la testa per guardare Phoenix appoggiato allo stipite nel suo vistoso costume rosso. Aveva un curioso sorrisetto sul volto.

«Non sei partito, Mukuro.»

«Da quando ti ho visto senza maschera mi sono innamorato alla follia» rispose lui, portandosi la mano sul petto. «Non sono riuscito a immaginare la mia vita senza i tuoi occhi grigi.»

Un leggero movimento del sopracciglio di Kyoya fu l’unica reazione visibile alla sua ironia.

«Dev’essere successo prima di togliermi la maschera, o io non avrei la zona di scarico ingombra degli scatoloni della tua roba spedita da Kokuyo in data ieri mattina

«Sei un mago nel distruggere la poesia, Kyoya.»

Lui scosse la testa trattenendo una risata.

«Non sono arrabbiato… ma perché non mi hai detto che avevi deciso di restare? Ero davvero dispiaciuto di vederti andar via.»

Mukuro mise i piedi giù dalla branda, girandosi in modo da guardarlo comodamente, e arraffò un sacchettino di noci sgusciate.

«Non potevo dirtelo… Wing Emperor stava curando le pratiche con la mia casa-famiglia e voleva che non ne parlassi finché non fosse stato tutto nero su bianco, il che dev’essere accaduto ieri mentre eravamo fuori in città.»

«Sei proprio un bastardo manipolatore.»

«Ah, sapessi come ho avuto i voti massimi all’ultimo esame di scienze…»

«Mukuro.»

«Dico sul serio, un’operazione magistrale a metà tra Ocean’s Eleven e Mrs Doubtfire» gli assicurò Mukuro masticando una noce. «Superba esecuzione, se posso essere immodesto.»

«Ti sei vestito da vecchia signora per rapinare un caveau?»

«In un certo senso.»

Kyoya emise una risatina divertita e si avvicinò sedendosi sulla branda con lui.

«Quella parlantina incredibile dev’essere il tuo vero superpotere…»

«Mh… ottima groupie, ma pessimo pubblico. Dovevi chiedermi di raccontarti la storia.»

«Sono certo che ne avresti inventata una da Mille e una notte» fece Kyoya, e allungò la mano verso di lui. «Hai qualcosa per me?»

Mukuro guardò la mano con una certa perplessità, poi gli avvicinò il sacchetto.

«No, intendevo qualcosa da darmi.»

Mukuro studiò la faccia di Kyoya per diversi secondi a caccia di un indizio su uno scherzo o un senso della frase, ma non ne colse. Phoenix invece si accigliò.

«Oh! Scusa, Kyoya. Ho lasciato l’anello di fidanzamento negli altri pantaloni.»

La leggera sberla che gli arrivò al lato della testa fu comunque abbastanza forte da far schizzare per terra la noce che stava per mettersi in bocca, e quel rovinoso spreco dei suoi pochi spiccioli su un oltraggio per più grave del colpo ricevuto.

«Ehi! Guarda che le noci costano!»

«Non tirare troppo quella corda con me, Mukuro, potresti scoprire che non ti conveniva» l’ammonì Kyoya con un tono molto pacato. «Restituisci l’anello e comprati altre noci, io mi accontento di un foglio che dovresti avere da darmi.»

Alla menzione del foglio Mukuro ricordò quelli che aveva ricevuto da Byakuran nell’ufficio. Tastò sulla coperta alla cieca e li recuperò.

«Intendi questi? Me li ha dati Byakuran, ma non so che roba siano.»

«Byakuran?»

Ops.

«Wing Emperor» si corresse. «Me li ha dati lui. Come sapevi che li avevo? Che cosa sono?»

Phoenix non indugiò sulla gaffe del nome e scorse i fogli con gli occhi, con un rinnovato sorriso.

«La zona di scarico otto è vicina al nostro dormitorio, è lì che lasciano gli approvvigionamenti per la nostra classe… se portavano lì le tue cose significava che ti avrebbero alloggiato da noi, e infatti…» fece lui, sventolando il modulo. «Questa è la richiesta approvata dal responsabile della classe S, cioè Wing Emperor… e questa qui è la lista spese… già firmata, quindi qualsiasi cosa ci scriverai sarà ordinata subito.»

Kyoya si alzò dalla branda guardando i due fogli come se fossero lettere di splendide notizie dalla famiglia lontana; gli scintillavano gli occhi.

«Sono felice che tu abbia deciso di restare, Mukuro… non sai quanto.»

A vederlo così coinvolto uno strano senso di colpa pervase Mukuro, anche se a rigor di logica lo trovava insensato: sarebbe rimasto nella scuola, ma non aveva mai detto che l’avrebbe anche frequentata, cosa che di certo Phoenix stava pensando. Prima che potesse aprir bocca per spiegarglielo, però, lui si girò di scatto.

«Di solito le stanze vengono assegnate dalla segreteria, a meno che il coordinatore non decida sulla base di preferenze dell’allievo» gli spiegò senza neanche prendere fiato. «Prima di portare questo, perché non vieni a vedere il dormitorio e ti scegli la stanza? La aggiungiamo qui sul foglio che ti ha firmato.»

«Beh…»

«Su, portiamo via le tue cose, così ti trasferisci subito!»

Senza dargli neanche il tempo di replicare Phoenix prese a svuotare il suo piccolo armadio direttamente nello scatolone che si era portato dietro dalla casa-famiglia. Mukuro non poté che rassegnarsi, quindi mise via le noci, infilò le scarpe e raccolse tutti i suoi pochi effetti personali nello zainetto prima di abbandonare per sempre la sua sistemazione provvisoria.

*

Il dormitorio della classe S era un piccolo edificio su tre piani posizionato sul retro del corpo centrale, separato da quello da un paio di campi d’esercitazione: Mukuro lo vedeva da giorni dalla sua finestra, ma non ci si era mai avvicinato. Studiandone la facciata dove si trovava la porta d’ingresso, che era dal lato opposto a quello che aveva potuto osservare dalla stanzetta, notò che l’edificio non era affatto recente come gli altri che aveva visitato ma era stato ristrutturato da uno scheletro più vecchio rendendolo più moderno; le misure e le geometrie di una vecchia locanda giapponese non erano del tutto scomparse.

Notò un’unica finestra aperta all’ultimo piano con tende rosa ai lati del vetro, e si stupì di trovarvi Restless Storm appoggiato al davanzale con una sigaretta accesa tra le labbra. Quando questi si accorse del loro arrivo e del suo sguardo indagatore si accigliò e si ritrasse nella stanza chiudendo la finestra.

«Che individuo scostante, quel Restless» commentò piccato.

«Mh, sì… è un po’ scostante, hai ragione, ma è una persona molto affidabile in caso di necessità. Se mai dovessi trovarti nei guai e fossi con lui, ti consiglio di fidarti al di là di qualsiasi antipatia personale, perché farà di tutto per salvarti.»

Mukuro guardò il profilo di Phoenix, con molte strane idee che frullavano come colibrì nella sua testa.

«Sembra che ti piaccia, dopotutto.»

«Lo stimo molto. Restless Storm è un Civil Hero degno di ammirazione, e non solo per la sua mira infallibile.»

«Per le sue qualità di arredatore, magari.»

Kyoya alzò gli occhi sulla finestra, poi scoppiò in una breve risata e aprì la porta posando la mano sullo scanner.

«Ti riferisci alle tende? Quella non è mica la sua camera, lui sta al primo piano… è la camera di Love, sai, sono fidanzati. Nella classe S lo sanno tutti, ma visto che certe cose sono vietate a scuola per favore non raccontarlo in giro… sarebbe un peccato se i professori decidessero di spostare di dormitorio uno dei due.»

«Sta con Wish Love? Davvero?» gli fece eco Mukuro, incredulo. «Tch, allora è vera la storia che gli stronzi piacciono di più alle ragazze…»

«Non disperare, Mukuro, anche tu hai un lato pessimo che puoi usare a tuo vantaggio» commentò Phoenix in tono divertito. «Le ragazze cadranno come mosche

L’indignazione fu molta, ma Mukuro non ebbe modo di parlarne: furono entrambi accolti dalle feste eccitate di un Akita Inu con una bandana azzurra legata intorno al collo, che prese ad annusare il nuovo venuto con insistenza e un perpetuo movimento della coda arricciata. Il primo istinto di Mukuro fu di sottrarvisi – a causa di un’aggressione subita da un grosso cane del vicinato quando era ancora molto piccolo i cani lo rendevano nervoso – ma più lo guardava più velocemente la sua paura sfumava. Il cagnolino era molto più piccolo del bestione che ricordava, aveva occhietti lucidi, pelo vaporoso, l’espressione simpatica. Era davvero un animaletto grazioso e gli parve innocuo.

«Di chi è questo cane?»

«Oh, lui è Jirou, è il cane di Storm Breaker… in pratica, la mascotte della classe.»

«Non sapevo si potessero tenere animali…»

Mukuro abbassò lentamente la mano e Jirou gliela ricoprì di saliva in un attimo, provocandogli una smorfia disgustata.

«Noi siamo la classe S. Abbiamo privilegi che gli altri non hanno, è un modo per stimolare le altre classi a migliorare: più alto è il grado più sono i loro privilegi.»

«Davvero?»

«I dormitori della classe C sono delle camerate da dieci!»

Mukuro si voltò di scatto verso la cucina: Enma era lì, con la tuta a inserti arancioni, a rimestare con un lungo mestolo di legno dentro un bidoncino di plastica dal quale proveniva un odore di fermentazione molto sgradevole.

«Ah… sto mescolando il mio compost naturale… sai, per le mie piante» spiegò lui, con vago imbarazzo in viso. «Uso i rifiuti organici della cucina e… quando ho finito lo porto fuori, non preoccuparti per l’odore…»

Mukuro adocchiò i vasi di piante aromatiche sul davanzale e il piccolo semenzaio nell’angolo.

Chi l’avrebbe detto che un aspirante Civil Hero potesse avere un hobby tanto tranquillo come il giardinaggio?

«Ehm, cosa dicevi del dormitorio?»

«Sono stato nella classe C per un po’, prima di essere promosso alla classe A e poi alla S… nella C si dorme in camerate da dieci, con cinque letti a castello… si hanno armadi in comune, un comodino, e nessuna scrivania, si usano sale studio comuni per studiare e fare i compiti» raccontò Enma con un tono afflitto inspiegabile. «Gli effetti personali sono limitati, non si può prendere spazio extra…»

«Sembra la mia casa-famiglia… beh, almeno non eravamo dieci per stanza, ma io stavo in camera con una bambina perché non c’era più spazio.»

Il suo pensiero volò a casa, nella stanza che in parte era stata sua, e si chiese se avessero ridistribuito gli spazi ora che non c’era più per mettere le bambine insieme e lasciare Sora in una stanza che era troppo piccola per essere divisa con un liceale.

«Qui andrà molto meglio» commentò Phoenix.

«Questa è una reggia a confronto con gli altri dormitori» convenne Enma.

«Sei stato anche nella A, hai detto? Com’è quello? Dev’essere comodo, in fondo è la classe prima di questa.»

Enma annuì.

«Molto meglio, sì. Le stanze sono grandi e sono divise da due studenti… hai il tuo armadio, il letto, la scrivania, spazio per gli effetti personali, e come da noi ci sono due cucine condivise. Almeno ti puoi fare un bicchiere di latte caldo se di notte non dormi, o un caffè senza andare fino alla mensa.»

Mukuro allora guardò bene la cucina, solo allora davvero cosciente delle potenzialità implicite. Era solo per la classe S, che vantava appena otto componenti. Quel salotto, sulla destra dell’ingresso, arredato con divani, pouf ampi, un grande televisore, una consolle per videogiochi e persino un pianoforte verticale, era solo per quelle otto persone. In confronto alle molte presenze e le poche comodità della casa-famiglia, era davvero una reggia, anche se la sua stanza fosse stata come quella che aveva appena lasciato.

«Dopo puoi esplorare, ma prima vieni su» lo richiamò Phoenix. «Scegli la stanza, così possiamo far portare su le tue cose. Non vorrei che iniziasse a piovere, le hanno lasciate fuori.»

«Serve aiuto?»

«Per ora no, Gravity, ma per portare dentro il resto delle cose magari ci fa comodo passarle dalla finestra.»

«Contate su di me!»

Enma sorrise e tornò a rimestare nel suo bidone di rifiuti organici, mentre Phoenix saliva le scale in fondo e Mukuro lo seguì, con il cagnolino alle calcagna.

Il primo piano aveva conservato una fattura giapponese classica più dell’esterno, con il parquet lucido e le architravi in legno scuro. Sul corridoio si aprivano porte beige prive di maniglia, e una più ampia sul fondo era di colore blu.

«Laggiù ci sono i bagni… antibagno per usare i lavandini, a sinistra per i bisogni, a destra per la doccia» snocciolò in fretta Phoenix. «Su questo piano abbiamo una camera libera… abbiamo parecchi oggetti personali e siamo pochi quest’anno, quindi ognuno di noi ha preso la stanza di fronte alla sua come spazio aggiuntivo, ovviamente il preside ce lo ha permesso.»

Phoenix passò davanti ad alcune stanze. Una di quelle catturò l’attenzione di Mukuro a causa di un paio di stivali pesanti appoggiati accanto alla porta e a un gatto maculato acciambellato su un tappetino per animali. Aveva grandi orecchie, una coda lunga e un mantello che ricordava quello di un leopardo.

«Che bel gatto… è tuo, Phoenix?»

«Mh? Oh, no. Quella è Uri, la gatta di Restless… non la cercare se non è lei a venirti vicino, ha un caratterino un po’ particolare, come il suo padrone… ma se trovi gli altri gatti vai tranquillo, sono dei coccoloni.»

Mukuro si accigliò.

«Quanti ce ne sono?»

«Quattro… uno è marrone chiaro, è di Sky Flame… c’è una micia bianca con il collare a fiocco che è di Wish Luck, e altri due col pelo lungo e tigrati, che sono di Gravity. Sono tutti molto tranquilli e si lasciano prendere in braccio da chiunque.»

«Qui tutti avete animali?»

«È uno dei privilegi dell’essere un classe S, la possibilità di tenere animali… potrai averlo anche tu se lo desideri, in fondo la tua lista spese è stata firmata in bianco» gli ricordò Phoenix. «Questa stanza qui è libera, ma è del tutto vuota, il ragazzo che ci alloggiava era della Lilium e preferiva non tenere mobilio… è rimasta così. Questa è libera e almeno ci sono i mobili standard.»

Phoenix aprì la porta scorrevole senza un rumore e gli fece cenno di entrare. Mukuro, già dell’idea che una stanza valesse l’altra, vi entrò pronto a scrollare le spalle e dare il suo benestare, ma rimase sorpreso.

Era essenziale e semivuota, ma molto spaziosa; tre volte la stanzetta in cui era stato stipato per una settimana. C’era un letto nero senza lenzuoli nell’angolo, una scrivania scura con una sedia da ufficio semplice infilata al di sotto, una finestra molto ampia con la vista sui campi di allenamento e l’edificio centrale e i pannelli scorrevoli chiusi su un armadio a muro. Il pavimento era di legno lucido.

Mukuro guardò tutta la stanza girando lentamente su se stesso e guardò Phoenix, con l’aria confusa.

«Questa è una camera?»

«Ti sembra una stalla?» fece lui divertito.

«Ma è enorme.»

«Le stanze sono ampie… si presume che ogni studente ne abbia una, e che debba tenerci le sue cose.»

Capì immediatamente che Phoenix si stava divertendo ad assistere al suo stupore e che quella era la ragione per cui aveva desiderato essere presente alla scelta della camera.

«Okay, prendo questa.»

«Ottima scelta» fece lui, ed entrò ad appoggiare il cartone dei suoi abiti vicino all’armadio. «Love dev’essere in camera sua se Restless era lì a fumare, le chiedo se può darti una mano a pulire mentre io consegno il modulo e con Gravity sposto le tue cose?»

«Ah… no, non serve.»

«Sicuro? Puliamo le stanze vuote una volta al mese e non lo facciamo proprio a fondo, a essere onesti.»

Mukuro sorrise e scosse la testa, mollando lo zainetto sul materasso.

«Non serve… ci penso io… sono dell’idea che un lavoro fatto bene devi fartelo da solo, in queste cose» ammise con una scrollata di spalle. «Mi basta che mi dici dove posso trovare un secchio, uno strofinaccio e del detersivo.»

Phoenix parve sorpreso, ma il sorriso che fece subito dopo gli ricordò quello visto sul campo numero due: l’espressione di qualcuno che osservava un fenomeno inaspettato e terribilmente interessante.

«Come desideri… ti faccio vedere dov’è il ripostiglio.»

 

*

 

Mukuro fece un gran sospiro e si tastò il bicipite che iniziava a fargli male con una certa insistenza. Sedette sui talloni dando un’occhiata alla stanza intorno a lui, poggiando lo straccio sul bordo del secchio. Era soddisfatto della pulizia profonda: i vetri della grande finestra – i più vistosi trascurati delle pulizie ordinarie – erano lustri, il pavimento che andava asciugandosi era stato ben strofinato anche nelle fessure, l’armadio lasciato aperto era pronto a ricevere abiti senza riempirli di polvere.

Ora resta da rifare il letto, e portare dentro la mia roba…

Mukuro si alzò con le gambe intorpidite e camminò goffamente fino al corridoio, dove Phoenix aveva stipato degli scatoloni arrivati da casa: sapeva che contenevano qualche suo abito, come la sua vecchia uniforme, quei pochi suoi oggetti personali pagati con ore di lavoretti nel vicinato e i libri di scuola. Non ci avrebbe impiegato molto per sistemarli in camera.

Jirou, che era rimasto a guardarlo dalla soglia per tutto il tempo e l’aveva scortato nella spola da e per il bagno a vuotare il secchio, si alzò e corse giù dalle scale all’improvviso. A Mukuro era abbastanza simpatico quel cane, ma liberando la porta gli aveva fatto il più grande favore possibile; l’ultima cosa che voleva fare il suo primo giorno nel dormitorio era calpestare la coda o la zampa al cane di Yamamoto.

Portò dentro le scatole, ben più leggere di quanto Phoenix immaginasse quando aveva chiesto l’aiuto di un modificatore di gravità. Anche solo a vedere quei cartoncini in quella camera poteva dire che sarebbe stata vuota come un appartamento delle vacanze.

Non ho mai avuto così tanto spazio… non so neanche che cosa potrei volere per riempire una stanza tanto grande.

Aprì uno dei pacchi strappando lo scotch e riemersero le sue cianfrusaglie che coprivano i sottostanti libri di testo: il portachiavi con le ali che aveva comprato all’asta online, uno specchio in un fragile astuccio di plastica arancione, un paio di elastici per capelli, una scatola di metallo che una volta contenne delle mentine, un bicchiere di plastica con il coperchio, la scatola del suo lettore mp3 super economico… e scoprì con grande scorno che era vuoto.

Si mise immediatamente a caccia del lettore negli altri pacchi, ma non ne trovò traccia, così come non ritrovò l’anello a testa di drago con la gemma blu che si era pagato a furia di lavare finestre per tutte le persone anziane della città. Accigliato e furioso, rimuginò su chi potesse averlo tenuto e sospettò immediatamente i gemelli che all’epoca ne erano stati profondamente invidiosi.

Quei due miserabili topi di…

Sentì bussare piano prima che la porta scorresse lentamente. Era così sicuro che si trattasse di Phoenix che restò a guardare Byakuran come se fosse appena entrato il fantasma del padre di Amleto anziché un uomo ancora in vita con un vassoio in mano.

«Ciao» fece senza celare affatto lo stupore.

«Ciao, Mukuro» replicò lui mentre richiudeva la porta. «Temo di aver privato Mad Phoenix di una pausa pomeridiana con te, spero che questo non sia troppo indigesto a uno di voi due.»

Mukuro si accigliò senza comprendere il senso di quella frase. Il preside attraversò la camera per posare il vassoio del tè sulla scrivania.

«Il tè era pronto quando sono arrivato, quindi non devi ringraziare me per questo pensiero» l’informò, mentre guardava la stanza con uno strano sorriso malinconico. «Vedo che ormai ti sei sistemato… hai pulito tutto per bene, che bravo.»

Il ragazzo non seppe dire se ci fosse dell’ironia o della semplicistica adulazione in quel commento, perciò preferì non replicare. Con sua sorpresa Byakuran non sedette sul letto né alla scrivania, ma spalancò la finestra e sedette sul davanzale. Dopo aver cercato una posizione che non trovava per le sue lunghe gambe si accontentò di tenerle dalle ginocchia con i piedi uno avanti all’altro.

«Una volta ci stavo più comodo su questa finestra» commentò contrariato, ed emise una risatina guardando fuori. «E la vista non era questa… ma la preferisco ora.»

Mukuro abbandonò la ricerca dei suoi effetti personali tra i panni e si alzò, con gli occhi che scorrevano sulla figura rannicchiata di Wing Emperor sulla finestra.

Non lo aveva mai visto con il suo costume ufficiale, che era molto più elaborato nel tessuto e più aderente rispetto ai suoi abiti riservati al lavoro quotidiano e alle lezioni. Era come una tuta a compressione: strizzato lì dentro ogni suo muscolo era perfettamente godibile alla vista. Lo stivale era diverso, più alto con un tacco quadrato e una forma che faceva sembrare i suoi piedi più affusolati; sul torace si potevano contare le curve di pettorali e addominali grazie a un tessuto bianco aderente come una muta da sub nonostante la schiena nuda dal collo in giù.

Gli occhi di Mukuro indugiarono d’istinto – e non senza vergogna – su quella, sulle sottilissime cicatrici parallele sulle sue scapole, almeno finché lui non si appoggiò al telaio e lo guardò con quegli intensi occhi viola.

«Come mai quella faccia, Mukuro?»

È legale per un Civil Hero vestirsi così in pubblico?

Fece fatica a non sparare fuori quel pensiero, e scrollò la testa come a snebbiarla; a quel punto riuscì a connettere abbastanza da capire che si stava comportando in modo strano.

«Uhm… guardavo il tuo costume, veramente.»

«Oh… sì, è il costume che indosso nelle occasioni formali… ero a colloquio con il Primo Ministro. Sono tornato pochi minuti fa e sono passato di qui senza cambiarmi» fece Byakuran, e si passò la mano sulla gamba. «Che ne pensi, ti piace? È stato realizzato dalla Irie Lab, rifornisce di attrezzature tutti i Civil Heroes del Giappone. Sotto l’aspetto tecnico è un gioiellino…»

Il lato positivo dell’elenco di qualità tecniche di cui Mukuro non capì nulla fu che aveva un motivo innocente di continuare a guardare quella specie di seconda pelle, e indugiò per un paio di minuti sulla sua figura prima di rendersi conto che aveva la bocca asciutta. Si mosse meccanicamente fino alla scrivania e si versò una tazza di tè.

«Ah… sto parlando troppo, vero? Mi dispiace, è che questo nuovo modello mi piace molto, mi infiammo ogni volta che mi chiedono qualcosa sul materiale o…»

Sembra uno spogliarellista. Sì, non stonerebbe affatto se si mettesse adesso a girare intorno a un palo.

«Uhm, Byakuran, non ti senti un po’ a disagio?»

«Mh? Per cosa?»

«Il costume… è così attillato che ti si potrebbe trovare la vena per un prelievo senza togliertelo!»

«Oh, no, affatto… questo tessuto si chiama Blind Star, non è molto resistente in battaglia ma è estremamente confortevole. Anche se è così attillato non limita affatto i movimenti, è come non indossare niente.»

Mukuro sospirò e si passò la mano nei capelli. Decise di non insistere sulla questione; era evidente che Byakuran o non si rendeva minimamente conto di quanto aderente fosse il suo costume – e sarebbe stato poco saggio illuminarlo – o lo sapeva perfettamente e gli andava bene così. Era un’ipotesi molto remota secondo il ragazzo, ma la sola possibilità che Wing Emperor non fosse l’angelo che tutti credevano che fosse accendeva una piccola e ossessivamente curiosa parte di lui.

«Scendi da quel davanzale adesso?» fece Mukuro, e gli allungò la tazza. «Tu hai sempre caldo, ma io no, e fa freddo fuori.»

«Ah… hai ragione, perdonami.»

Il balzello che fece per saltare giù – e atterrare leggero come neve – aveva un che di soprannaturale. Anche se non aveva visto la forma eterea delle sue ali immaginò le avesse usate; nessun uomo normale avrebbe potuto da una posizione di riposo muoversi in quel modo.

Byakuran prese la tazza di tè e invece di sedersi da qualche parte si accovacciò di fronte alla finestra appena richiusa, guardando in alto verso il cielo con un sorriso.

«È curioso che tu abbia scelto proprio questa stanza.»

Mukuro lo guardò sorpreso, poi tornò a dedicare la sua attenzione alla propria tazza di tè e ai mochi di sesamo.

«Non proprio, ho solo preso la prima stanza libera.»

«È una curiosa coincidenza che sia rimasta libera per te, allora.»

Il ragazzo sospirò.

«Se vuoi che questa diventi una conversazione civile dovresti spiegarmi perché lo trovi curioso, Byakuran.»

Il preside si raddrizzò e prese un sorso di tè, poi lo guardò con un sorriso.

«Questa stanza un tempo fu mia. È questo che trovo curioso.»

Mukuro guardò la stanza, quasi si aspettasse di veder trasudare graffiti fatti da Wing Emperor sui muri o apparire mobilio e poster appartenuti a lui.

«Tua? Ma io credevo che tu avessi fatto costruire la scuola dieci anni fa e… forse avevi un ufficio qui? Ci stavano i professori prima della classe S?»

Byakuran scosse la testa e si appoggiò al bordo della scrivania.

«Fu mia in tempi molto più antichi… è storia oscura che non viene raccontata, perché coloro che la resero possibile oggi se ne vergognano, quindi è difficile trovarne resoconti completi su libri o in rete… ma quest’area, tutta la zona che vedi cintata dal muro, era il ghetto degli Auris, quando io ero un bambino.»

Mukuro abbassò la tazza di scatto, tanto che spillò qualche goccia di tè sui pantaloni. Non se ne curò, stupito com’era, e guardò dalla finestra anche se il panorama era molto limitato rispetto a quello godibile dagli uffici di Wing Emperor.

«Oh, sì. Un enorme ghetto… una zona fatiscente della città, senza acqua corrente, senza elettricità, né gas, con palazzi semidistrutti, spesso pericolanti, e cumuli di macerie vecchi di decenni, in cui quelli come noi erano obbligati a cercare di sopravvivere al freddo, alla fame, alle malattie. Eravamo tutti qui dentro… un popolo dentro al popolo… l’oro dentro al piombo.»

Mukuro strinse la tazza calda con le dita, che sentiva ancora fredde, e non replicò. In quel momento un paio di sue profonde affermazioni acquistavano un diverso senso; affermazioni riguardanti una guerra combattuta da pochi per il bene di molti e su un’area “sufficientemente grande da contenere la popolazione Auris del paese”.

«Era la notte del genere umano, Mukuro… quando una società che si dichiara civile permette che un gruppo di esseri umani venga trattato come insetti infestanti è la notte dei tempi, non quando il mondo era popolato di primitivi senza linguaggio e senza etica armati di rami e pietre.»

«Che intendi con… come insetti?»

«Esattamente come insetti… all’epoca eravamo esclusi dalla legge, perché non venivamo considerati “esseri umani”. E allo stesso tempo, non eravamo neanche “animali”. Eravamo meno tutelati dei cani randagi, delle api, dei pesci… ucciderci non era illegale. Entrare nella nostra zona, distruggere le nostre misere case, torturarci e ammazzarci era più legale di una partita a poker con poste in moneta corrente.»

«Non è possibile» si trovò a dire Mukuro, senza quasi riconoscere la propria voce. «Non è possibile, nessun governo potrebbe mai… come si potrebbe guardarti e convincersi che non sei una persona?»

Byakuran accennò appena un sorriso.

«Eppure è così… potevamo essere uccisi anche solo per aver sconfinato, quando uscivamo dal ghetto… e spesso dovevamo. Avevamo bisogno di procurarci delle medicine… cibo, acqua pulita quando non pioveva per tanto tempo… da bambino ho rubato tante volte i vestiti appesi ad asciugare nei giardini. Per me, per gli altri bambini… ho rubato riso, patate, frutta, persino dolci. Avrebbero potuto uccidermi per così poco, e nessuno avrebbe detto nulla se avessero buttato il mio cadavere nel fossato che correva intorno al ghetto.»

«Ma come si fa a pensare di ammazzare un poveraccio perché ruba delle patate? Neanche fossimo in guerra.»

Byakuran emise un sospiro e tese un sorriso un po’ più convinto, sedendosi sull’angolo del materasso.

«La civiltà moderna ha sempre avuto paura di noi, fin dal momento in cui abbiamo iniziato a diventare più di un rara apparizione… la paura e l’ignoranza erano i nostri predatori naturali. Lo sono ancora, lo sono di ogni minoranza della razza umana.»

Il preside smise di parlare, assorto nei suoi pensieri, e sorseggiò il tè. Mukuro, che non aveva la più pallida idea che la realtà degli Auris fosse stata tanto tragica in un tempo non poi così lontano, l’imitò inconsapevolmente. Era quell’atmosfera tossica la ragione per la quale i suoi genitori – chiunque fossero – l’avevano abbandonato in un piccolo orfanotrofio? Contavano che il suo potere restasse occulto e che delle brave persone non Auris gli garantissero una vita serena?

«Ma alla fine… ti hanno ascoltato» ponderò ad alta voce Mukuro.

«Mh?»

«Tutto il mondo è stato a sentire la tua voce, quando hai parlato di diritti e di uguaglianza. Come hai fatto a farti ascoltare, se eravate considerati come scarafaggi?»

«Wing Emperor è riuscito a farsi ascoltare…» fece lui, e si spostò un ciuffo ribelle dalla faccia. «Lui è una creatura perfetta. Perfettamente bella, perfettamente buona, e perfettamente pura. Aveva l’aspetto di un angelo, poteva curare ferite mortali, come se operasse miracoli… è bastato mostrare alle persone che un Auris poteva far loro del bene. Che le poteva soccorrere nel bisogno, difenderle dai pericoli, curare i loro mali…»

Mukuro si accigliò con vaga incredulità.

Sta parlando di se stesso in terza persona, come i matti?

«Quando le persone hanno cominciato a vedere un Auris con le ali intervenire in aiuto di chiunque, anche del più accanito nemico giurato dei Dorati, hanno visto che era un’eccezione. Una singolarità nel teorema che diceva che erano mostri… e alla fine, si sono accorti che non era l’unico» concluse Byakuran con lo stesso malinconico sorriso. «Ma, come si suol dire, puoi illuminare una camera buia con le torce, le candele o le lanterne, ma prima devi accendere il fiammifero.»

Mukuro guardò dalla finestra e si sedette sul bordo della scrivania, dondolando la tazza.

«Fiammifero sa di riduttivo, Byakuran… è qualcosa che fa una fiamma che si affievolisce subito, si spegne e viene gettato via… tu sei ancora qui. Il mondo ascolta ancora la tua voce… direi che pende dalle tue labbra.»

Byakuran emise un mugugno piuttosto neutro; impossibile capire se concordasse o se fosse un tentativo di sminuire l’affermazione.

«Direi piuttosto che sei… Prometeo.»

«Prometeo» ripeté lui con aria assorta.

«Qualcuno che ha rubato qualcosa di riservato alle divinità e lo ha dato ai mortali… agli scarafaggi. Il diritto alla vita è il fuoco che hai rubato per darlo agli Auris.»

E come Prometeo, ora è incatenato a una rupe a sopportare le conseguenze dolorose del suo gesto eroico.

Mukuro gli lanciò un’occhiata e si sorprese che lo stesse fissando con tanta intensità.

«Sembra quasi che tu voglia farmi un complimento, con questa nobile metafora.»

«Sai, penso che tu venga coperto di complimenti fin troppo… apri un qualsiasi magazine per trovare tutti i complimenti che vuoi che vanno dalla tua leadership al tuo corpo ridicolmente scolpito» replicò Mukuro con un voluto accento venefico sulle ultime parole. «Io penso che meriti più ringraziamenti.»

La palese confusione sul volto dell’Auris più potente del mondo lo confuse a sua volta.

«Per che cosa?»

«Dovresti immaginarlo» replicò il ragazzo, piccato. «Che cosa mi sarebbe successo? Se la cometa fosse passata, se le cose fossero le stesse di quando tu eri bambino… se fossi stato scoperto com’è accaduto. Che cosa mi sarebbe successo?»

Byakuran si adombrò immediatamente e fissò gli occhi sul fondo del tè.

«Saresti stato ucciso. Supponendo che tu fossi riuscito ad arrivarci, saresti morto sotto quel furgoncino dove ti ho trovato io… qualcuno ti avrebbe trovato e ucciso… o saresti morto di freddo restando nascosto.»

Il sorso di tè restò come impigliato nella gola di Mukuro e dovette forzarlo a scendere. La sua mente non poté non partorire l’angosciante immagine di se stesso trascinato fuori dal suo nascondiglio e massacrato con le più svariate armi di fortuna tra le mani di persone senza gene Oro – una cruenta declinazione del termine “ucciso”.

Si accorse troppo tardi che quella piccola escursione nella realtà che avrebbe potuto essere lo aveva turbato abbastanza da appannargli leggermente la vista. Fece per versarsi altro tè per nascondere il suo momento di debolezza, ma ormai Byakuran lo aveva visto e si avvicinò a lui.

«Perdonami, Mukuro, ti ho turbato? Mi dispiace tanto… non c’è motivo di angosciarti, non sarebbe mai accaduto oggi… ho combattuto per questo, io, e tutti gli Auris che mi hanno seguito. Ora sei al sicuro.»

«Per questo motivo ti stavo ringraziando, razza di idiota» sbottò Mukuro, sopraffatto dall’imbarazzo. «E togliti, non starmi sempre appiccicato. Neanche tu sei immune a una denuncia per molestie sessuali.»

«Ma non ti sto molestando! Ti ho a malapena toccato!»

«Ma tu ce l’hai il gene dell’umorismo o no?»

Byakuran si accigliò e Mukuro ebbe la netta impressione che si stesse chiedendo se l’umorismo scaturisse da un fattore genetico; alzò gli occhi al soffitto e preferì guardare fuori per sottrarsi a commenti o domande insensate.

Non riuscì a soffocare un’esclamazione di sorpresa quando vide i grossi fiocchi di neve che imperversavano fuori dal vetro. Una vista molto inusuale per lui fuori dal mese di febbraio.

«Oh! Nevica!»

«Ora che è davvero nostalgico…»

Mukuro lo guardò mentre si avvicinava ancora alla finestra, sorridendo.

«Questa costruzione esisteva già quando questa zona fu recintata come ghetto degli Auris, come ti raccontavo poco fa… fu una locanda, più di un secolo fa. Questa stanza c’era ancora trent’anni fa, così com’è, ed era il posto in cui vivevo» raccontò con un sorriso nostalgico, e indicò l’angolo dove avevano messo il letto. «Avevo un mucchio di coperte lì, dove dormivo con altri due bambini… lì c’era una cassapanca che avevo aggiustato con pezzi di legno trovati in giro, e avevo uno sgabellino arrugginito qui, davanti alla finestra.»

«Immagino non ti desse fastidio il freddo neanche allora.»

«Non poco come adesso, ma meno che agli altri bambini… sai, ricordo un giorno molto particolare in cui ero proprio qui… e stava nevicando, come adesso.»

«Quale giorno?» domandò Mukuro, dato che si aspettava che lo chiedesse.

«Il giorno in cui decisi che cosa sarei diventato… il giorno in cui decisi che non sarei rimasto in quella discarica per sempre. Quando decisi che potevo salvare gli altri, e che avrei dedicato la mia vita a fare esattamente questo, a qualunque costo… me ne andai quella stessa notte» aggiunse poi, con stupore di Mukuro. «Il mattino dopo ero fuori dal ghetto, e… la fortuna ha premiato la mia audacia. Ho trovato una delle poche persone a cui non importava che io fossi un Auris, e lei mi ha tenuto con sé. Mi ha salvato dalla paura degli altri.»

«Oh, finalmente racconti qualcosa di davvero interessante, Byakuran! Chi è questa donna? Come si chiama?»

Improvvisamente l’uomo divenne reticente, come se si fosse pentito di aver nominato questa misteriosa donna. Mukuro, però, aveva subodorato una radice dell’uomo dentro l’eroe e non si sarebbe lasciato sfuggire l’occasione di scavarla.

«Avanti, è una storia interessante! Hai appena detto che quasi tutti vi odiavano, quindi com’è che lei ti ha preso in casa? È una Auris anche lei, per caso? Si nascondeva?»

Byakuran sospirò lentamente e inclinò la testa, spostandosi i ciuffi di capelli da davanti agli occhi.

«Sai… l’ho sempre sospettato, ma non l’ho mai saputo per certo… lei non ha mai confermato né negato di essere un’Auris, ma qualsiasi potere avesse io non l’ho mai percepito.»

«Come si chiama?»

«Luce… si chiamava Luce» disse lui, con un’aria così triste che non lasciò dubbi sulla ragione del tempo passato. «È stata mia madre… la mia maestra… e la mia migliore amica.»

Mukuro esitò un momento.

«Non c’è più?»

Byakuran scosse la testa e al ragazzo sembrò che i suoi occhi diventassero lucidi.

«Da tanto?»

«Da troppo tempo» replicò lui, in poco più di un sussurro. «Se ne andò… presto. Troppo presto.»

Il preside posò la tazza di tè sulla scrivania senza neanche un’occhiata.

«Avrei voluto che… vedesse questo. Che vedesse il mondo che ho costruito per noi… per sua nipote…»

Centinaia di immaginarie campanelle squillarono nella testa di Mukuro, che si alzò e si andò vicino. Aveva parlato di un mondo costruito per gli Auris, per il bene della razza bistrattata a cui apparteneva… ma che questa intenzione fosse legata a una specifica persona, o alla nipote della persona in oggetto, era una storia diversa. Non del tutto diversa, ma differente nell’essenza: smuovere le montagne per un ideale era una cosa, farlo per amore di una persona soltanto era un’altra.

«Quindi, questa Luce aveva…?»

Prima che potesse finire la frase la porta venne aperta e Night Hound apparve sulla soglia, di fatto sbriciolando la bolla di atmosfera intima che la solitudine, la neve e i vecchi ricordi avevano creato. Mukuro difficilmente avrebbe potuto essere più seccato di così.

«Eccoti, Byakuran! Ho dovuto seguire il tuo odore per riuscire a trovarti… che cosa fai qui?»

«Stavo prendendo il tè con Mukuro…»

«Sì, e in effetti questo potrebbe essere considerato un affare di famiglia» soggiunse Mukuro piccato.

«Non avrei avuto nulla in contrario, se non avessi fissato una riunione di revisione del budget per le esercitazioni dieci minuti fa.»

Byakuran emise uno strano verso, a metà tra un pigolio qualcosa di decisamente più rauco, e si guardò intorno alla ricerca di qualcosa; Mukuro capì che cosa solo quando Night Hound picchiettò sul proprio orologio da polso.

«Come ho detto, iniziava dieci minuti fa. Se ti sbrighi magari Mammon non se ne torna a casa.»

«Mi dispiace, l’avevo dimenticato! Perdonami, Mukuro, devo scappare… fatti aiutare da Phoenix a compilare la lista spese, immagino vorrai qualcosa di carino da tenere in camera tua. Ne parliamo la prossima volta.»

«Okay» replicò lui incolore.

«Ah… quasi dimenticavo, ero venuto per questo.»

Il preside si fermò e sfilò qualcosa dalla piccola sacca sul fianco del costume, porgendoglielo: era un pacchetto di missive legate insieme da un elastico. Mukuro sgranò gli occhi quando riconobbe l’indirizzo del mittente della casa-famiglia e sull’altra busta il nome del suo amico Subaru.

«Sono state portate a mano con i tuoi bagagli, ma non mi sembrava il caso di lasciarle lì incustodite» gli disse il preside con un sorriso. «Ti lasciamo solo, così puoi leggerle in tranquillità.»

Si accorse appena di replicare ai saluti dei due insegnanti; aveva occhi e attenzioni solo per quelle buste. Una era scritta di certo da Momo, la sua calligrafia perfetta era inconfondibile. La lettera di Subaru era disordinata e stropicciata, e si chiese se fosse stata scritta molto in fretta per allegarla alla spedizione in tempo. La terza era, probabilmente, di qualcuno dei suoi fratelli della casa-famiglia e lo divertì ipotizzare che gli chiedessero autografi e curiosità di prima mano dall’Accademia Auris.

Aveva appena aperto la busta della lettera di Momo quando Phoenix apparve sulla porta.

«Spero ti sia piaciuto il tè… che cosa voleva il sensei?»

«Ah… vedere dove mi ero sistemato, poi ha iniziato a chiacchierare della neve» replicò Mukuro, tenendosi volutamente sul vago. «Piuttosto, riguardo ai lenzuoli per il letto?»

«Eccoli» fece, e gli mostrò i panni piegati che aveva sotto il braccio. «Sistemiamoli subito, che ne dici?»

«Kyoya, voglio sistemare il mio letto da solo.»

«Mh, ragazzo triste… ma se proprio lo desideri, prego.»

Phoenix gli porse i lenzuoli e una federa per il cuscino, con un sorrisetto divertito. Mukuro a malincuore mise le lettere sulla scrivania e li prese per preparare il suo letto. Lo fece rapidamente ma con estrema cura: aveva avuto la netta impressione che Phoenix si aspettasse di doverlo aiutare e voleva mettere in chiaro che – plausibilmente – era un casalingo migliore di loro, o almeno della media degli studenti della sua stessa età.

«Ti hanno insegnato bene al tuo orfanotrofio… non sei un adolescente viziato e buono a niente.»

«Ti sembrava che lo fossi?»

«Sei così preso dai dettagli e dal tuo aspetto che sì, a volte puoi dare l’idea di qualcuno che non ha idea di come si vive la vita senza una governante al seguito» ammise Kyoya, e Mukuro emise una specie di sibilo. «Oh, ti sto facendo dei complimenti. Prendi Mad Horse, per esempio: la sua casa è un disastro, è sempre tutto in disordine e non ha mai imparato a fare niente se non cucinarsi qualcosa. Si fa stirare tutto da altri.»

«Da te?» buttò lì Mukuro con acredine intenzionale.

«Anche, a volte… ma di norma, lo fa la lavanderia» precisò lui in tono leggero. «Non ho tutto questo tempo, sono un uomo impegnato. Frequento un corso avanzato e sono capoclasse, ho molto da fare.»

«Quindi se avessi tutto il tempo che vuoi, gli stireresti i vestiti?»

«È morbosa curiosità o è solo gelosia?»

Percependo in quell’ultima parola un’insinuazione pericolosa, Mukuro reagì allungando il braccio.

«Tu, fuori dalla mia stanza. Stai a dieci metri da me.»

«Oh, la vedo difficile… visto che dormo a meno di dieci metri da te.»

Mukuro lo guardò stranito e afferrò il senso solo quando lui indicò con il pollice la porta accanto.

«Hai la stanza accanto?»

«Esatto» fece lui, con un certo ghigno divertito. «Ma stai sereno, sono molto silenzioso.»

«Tu… tu…»

Mukuro boccheggiò per qualche attimo, causando una risata di Phoenix, prima che riuscisse a riordinare i pensieri. Fissandolo truce indicò con il dito l’altra direzione.

«Quella stanza non è completamente vuota, vero?»

«No, ha un letto, una scrivania e una sedia esattamente come questa.»

Era scioccato. Scioccato, irritato, esasperato, ma anche divertito in un qualche modo contorto; fece un sorriso storto prendendo atto della clamorosa sconfitta e strinse a pugno la mano con cui stava indicando la porta.

È furbo. Non è affatto il diligente capoclasse sempliciotto che può sembrare. Ce la metterà tutta con mezzi come questi…

Phoenix gli ricambiava lo sguardo con un sorrisetto soddisfatto e le braccia incrociate.

«Tu… piccolo perfido bastardo

«Ha la finestra che si incastra, in fondo ti ho fatto un favore davvero.»

Prima che Mukuro mettesse insieme una risposta Yamamoto apparve nel corridoio, con una grossa borsa da palestra tenuta a tracolla e un sorriso allegro al loro indirizzo.

«Non pensavo assolutamente di trovarti anche qui, Mukuro!» esordì, e gli strinse la mano. «Ma non posso dire che non mi fa piacere… benvenuto, di nuovo! Hai preso questa camera?»

«Così pare» commentò lui, fissando il sorrisetto di Phoenix.

«Posso?»

Senza attendere Yamamoto entrò nella stanza e diede un’occhiata in giro commentando il buon odore che aleggiava dopo le pulizie: in effetti non c’era molto altro da vedere.

«Hai bisogno di una mano per sistemare?»

«Ah… no, grazie. Ho solo dei vestiti e dei libri, ma… in effetti non so quanti di quelli mi serviranno» osservò Mukuro, guardando lo scatolone, pensieroso.

«Ti sei sistemato qui, Mukuro-kun?»

Il corridoio si era improvvisamente intasato di tutti gli studenti del dormitorio, con le due ragazze davanti con identici sorrisi ed entusiasmo. Luck aveva in braccio un gatto bianco dal vistoso fiocco e glielo presentò subito come “Lovely”, la sua gattina; inspiegabilmente in meno di un minuto tutti avevano dato una sbirciata dentro la stanza e Mukuro ascoltava le loro proposte di arredamento tenendo in braccio uno dei grossi gatti di Enma, quello fulvo.

«Sarebbe meglio una lampada da terra, per guadagnare spazio sulla scrivania…»

«O prendere una scrivania più grande, questi stupidi banchettini sono ridicoli.»

«Serviranno anche delle tende, o avrai il sole dritto addosso, in estate sarà come stare dentro il forno! Se vuoi te le posso confezionare io, sono brava in questi lavori tessili!»

«Vuoi dare un’occhiata alle nostre camere, per farti venire qualche idea?» gli propose Phoenix dopo un lungo silenzio, e fece un sorrisetto accennato. «Se hai paura di entrare nella mia fatti accompagnare da qualcuno…»

«Piantala, cretino» borbottò lui, e grattò la testolina del gatto. «Non ho bisogno di copiare. Ci penserò su e deciderò man mano che mi serviranno delle cose.»

Una specie di urlo precedette di poco un frastuono di passi pesanti sulle scale, tanto forte da mettere in fuga il gatto rosso che Mukuro teneva in braccio. Guardando in fondo al corridoio scoprì che l’artefice era Sky Flame, della cui assenza non si era sinceramente accorto, che trasportava qualcosa di nero e voluminoso abbastanza da farlo sbandare mentre li raggiungeva.

«E-eccomi, eccomi!» ansimò a fatica, prima di guardare Mukuro con aria afflitta. «Oh, no, sei già qui?»

«Certo che è già qui, Tsuna!» sbottò Enma, facendo capolino dalla camera. «Ci hai messo un’eternità!»

«Mi dispiace, ma c’era un sacco di gente, e non riuscivo a trovare il colore…»

«Ma va bene, vero?» domandò apprensiva Wish Luck, convergendo anche lei nel corridoio.

«È come mi avevate detto di prenderla!»

«Ci hai messo comunque un’eternità» rimbeccò Hibari, e prese il fagotto. «Qui non sapevamo più come prendere tempo!»

Mukuro passava lo sguardo su tutti senza capire assolutamente nulla di cosa stesse succedendo. Alla fine Phoenix, seppure fosse in evidente irritazione con Sky Flame, fece un passo verso di lui e sorrise.

«Mi dispiace che sia stato tutto così precipitoso, ma… la classe S vede raramente un nuovo membro, ed è una tradizione che tutta la classe faccia un regalo al nuovo arrivato» spiegò, con una voce calda che non sembrava neanche la stessa delle sottili pungolate di poco prima. «Quindi, anche se per te dev’essere difficile abituarti a tutto un nuovo ambiente, ti abbiamo fatto il nostro regalo… spero che lo accetterai. Sky Flame ha perso un allenamento per andare a prenderlo… beh, non che sia colpa tua se lui è lento

«Ho già chiesto scusa!» protestò lui.

Mad Phoenix lo ignorò e fece un passo in avanti, mettendo il fagotto tra le mani incerte di Mukuro. Seppure molto riluttante e piuttosto propenso a rifiutare il regalo proprio in virtù del fatto che sapeva di non essere realmente membro della classe S, la curiosità ebbe la meglio e aprì la busta di plastica. Tastò il tessuto soffice e caldo e scoprì di avere tra le mani un piumino nero. Piuttosto perplesso si limitò a guardare i ragazzi della classe S senza proferire parola.

«Vesti quasi sempre di nero, sei quel tipo di persona, no?» fece Phoenix, e batté sulla busta. «E hai sempre freddo, quindi… abbiamo pensato che avresti fatto buon uso di questa, almeno per metà dell’anno.»

Dopo due settimane passate ad ammucchiare coperte sottili e vestiti per riuscire a dormire nella stanzetta fredda, dopo anni passati con due strati di abiti perché a casa non avevano coperte abbastanza calde e numerose per tutti, Mukuro sognò con una passione rasente la lussuria la prima notte sotto una trapunta degna di tale nome, con i piedi caldi anche senza calzini.

«È perfetto… in fondo, per me non è mai abbastanza caldo.»

La notizia che il nuovo arrivato approvasse diede a tutti gran sollievo e un rinnovato buonumore, soprattutto nelle ragazze. L’allegria di Wish Love mise di buonumore persino Restless Storm, che partecipò in via del tutto eccezionale alla preparazione della cena di benvenuto la quale finì per coinvolgere tutta la classe Mukuro compreso.

Discussioni sui piatti preferiti e i più odiati, sulle capacità culinarie dei vari membri e sulla loro golosità accompagnarono la preparazione; aneddoti di studio e di addestramento arricchirono la cena e Mukuro venne iniziato a un complesso gioco – inventato da Sky Flame e Gravity – che la classe faceva dopo ogni festa in dormitorio, sfruttando i tappi di alluminio delle bibite. Gli ci volle un’ora soltanto per farsi un’idea generale delle regole.

Quando gli ultimi si ritirarono era passata la mezzanotte e Mukuro venne convinto ad abbandonare il caos in cucina per riposare, così lasciò Phoenix da solo alle prese con un notevole cumulo di stoviglie. Era contento, in realtà: era la prima volta che qualcuno faceva una tale festa per lui, la prima volta che qualcuno si interessava così tanto a che cosa avesse da raccontare.

Sorrideva quando si mise a letto sotto la sua nuova coperta, finalmente pronto a leggere le lettere spedite da casa in pace e tranquillità, ma quando richiuse i quattro fogli della lettera scritta dai suoi fratelli il suo sorriso era del tutto scomparso.

 

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Capitolo 8
*** A single breath ***


Kyoya sospirò, stanco ma soddisfatto, quando ripose le ultime stoviglie lavate e asciugate nella credenza, restituendo alla cucina del dormitorio il perfetto ordine che i membri si erano impegnati a ripristinare tutte le sere. Sfilò il grembiule che metteva sempre per le pulizie per appenderlo al gancio che recava il suo simbolo – in tutto e per tutto simile a un pulcino rosso – prima di andare a dormire, ma non aveva affatto sonno.

Lanciò un’occhiata dubbiosa al bollitore.

Mh… forse una tazza infuso mi aiuterebbe a dormire. Luck ne ha preso un tipo nuovo la settimana scorsa, al ribes e… mirtillo, forse?

«Kyoya.»

La voce nella stanza che avrebbe dovuto essere vuota fece saltare un gradino al suo stomaco – impresa non facile visto quanto era pieno – ma non lo mostrò mentre si voltava verso il corridoio che portava alle scale. Quando vide Mukuro con quell’aria afflitta il suo sorriso sfumò.

«Qualcosa non va, Mukuro? Pensavo fossi andato a dormire.»

«Io… possiamo parlare un momento?»

Kyoya era insieme curioso e preoccupato da quella premessa.

«È una cosa di un momento per davvero o sarà una questione un po’ più lunga?»

Mukuro abbassò lo sguardo sulle lettere che teneva in mano, poi le ripiegò e scosse la testa.

«Non fa niente. Scusa se ti ho disturbato a quest’ora» disse allora in tono monocorde. «Non è niente che non possa aspettare. Buonanotte, Kyoya.»

Non si aspettava una ritirata immediata da lui, e lo rincorse qualche passo nel corridoio per prenderlo dal gomito.

«Mukuro, aspetta… non volevo dire che è tardi… parliamo» fece trattenendolo, con il tono più morbido che la preoccupazione gli consentisse. «Stavo per fare una tazza di infuso di ribes perché non ho sonno. Siediti con me e parliamo.»

Mukuro lo guardò con l’aria combattuta, occhieggiò di nuovo le lettere, poi annuì.

Sembra molto turbato…

«Brutte notizie da casa?»

«In un certo senso» replicò lui atono.

Dieci minuti dopo l’infuso galleggiava nella teiera riempiendo la stanza di aroma di ribes e more, i due ragazzi erano seduti al tavolo in silenzio e Kyoya leggeva le missive con il permesso inespresso dell’altro. Mentre la lettera della sua tutrice era piena di auguri di felicità e di tenerezza, quella di Subaru – la sua “voce” – era densa di sentite preghiere di non abbandonare il loro sogno musicale, e scriveva che il gruppo aveva accolto entusiasticamente Loveless e che avevano iniziato le prove.

Seppure non poco infastidito dall’intimità che emergeva da quello scritto, dimenticò ogni pena quando i suoi occhi grigi iniziarono a scorrere la lettera scritta in grafia sregolata dai fratelli quasi coetanei di Mukuro. Era una lettera crudele, in cui lo criticavano per aver mentito, per oggetti distrutti in tempi ormai lontani e per quelli più recenti del giorno della cometa, e parlavano degli Auris come di “mostri” e “psicopatici”. Come lauta conclusione aggiungevano che erano felici di non rivederlo mai a casa.

Come si può scrivere qualcosa di così terribile a una persona che era come un fratello fino a pochi giorni prima?

Kyoya alzò gli occhi grigi su Mukuro, che si stava portando la tazza alle labbra senza guardare altro che il sottobicchiere di legno.

«Mukuro, mi dispiace molto che ti abbiano scritto queste crudeltà.»

«A loro piacevano.»

«Mh?»

«I Civil Heroes. Loro erano dei fan dei Civil Heroes… conoscono tutti i vostri nomi, anche. La mattina che sono scappato uno di loro stava parlando di Sky Flame.»

Kyoya ritrovò con gli occhi la parola “mostri” nel testo della missiva.

«Sono degli ipocriti» sbottò Mukuro. «Erano fantastici. Gli Auris erano tutti dei gran fighi, ognuno di quei piccoli bastardi avrebbe dato via il braccio per il gene Oro… quei due stronzi si sarebbero pugnalati alla schiena a vicenda per avere quello che ho io!»

«Sì, Mukuro. Probabilmente è vero» replicò Kyoya pacato. «Ed è il motivo per cui ti hanno scritto questo. Sono giovani… e sono invidiosi. Loro sanno chi siamo, e sanno che cosa rappresentiamo… capiscono che tu hai il dono per poter essere uno di noi, qualcosa che loro non potranno mai essere, per quanto si possano impegnare… per quante braccia possano tagliarsi via.»

Mukuro sembrò turbato dalle sue parole e la voce si spense come la sua rabbia improvvisa.

«A volte questo succede anche qui… quando Enma è arrivato, è stato messo nella classe D. Il massimo che ci si aspettava, e che lui stesso pensava, era che imparasse a smettere di fare galleggiare le cose e le persone quando aveva un picco emotivo» gli raccontò, con un sorriso. «Ma aveva un dono immenso… e con il controllo è arrivato anche il potenziale, che era altrettanto immenso. Passò alla C e poi alla A nel corso di quattro mesi, con due sessioni di esami. Infine, alla classe S.»

«La conosco questa storia.»

«È la tua stessa storia. I compagni della classe D si sono sentiti traditi… credevano che Enma fosse come loro. Che avrebbe nuotato nel loro stesso stagno… e ora lui sta per volare. I tuoi fratelli ti credevano un loro pari, ma non lo sei. Non avrai solo un buon lavoro, una borsa di studio, una carriera, come potranno averla loro… tu sarai un eroe. Qualcosa che non potranno mai eguagliare. Potranno diventare qualcosa di simile solo mettendo a rischio le loro vite in circostanze terribilmente pericolose e avendo fortuna di riuscire.»

Mukuro tacque, ma il modo in cui cambiò posizione sulla sedia lasciò intuire quanto fosse nervoso. Kyoya sorseggiò la bevanda calda, osservandolo in silenzio. Era convinto di sapere che cosa stesse pensando e aveva ogni intenzione di lasciare che arrivasse a trarre da solo una conclusione. Non era qualcosa che poteva scegliere per suo conto.

«Kyoya.»

Accennò un sorriso quando incrociarono lo sguardo di nuovo.

«Tu… Kyoya, tu pensi davvero che potrei diventare un Civil Hero?»

«Il talento ce l’hai… se hai anche una motivazione forte a sufficienza, lo diventerai. Ce l’hai una motivazione?»

«Come salvare i deboli, combattere i cattivi e far trionfare la giustizia? Non sono un eroe, ho il cuore di un coniglio… per non dire di un lombrico.»

Il sorriso a Kyoya venne inesorabilmente storto mentre sospirava. Non sapeva se fosse o no una buona idea parlare tanto francamente di eroismo, dato che significava svilire il brillante immaginario del Civil Hero che ormai albergava nella società moderna… ma Mukuro meritava la verità.

«Mukuro, non ti credevo tanto idealista… senza dubbio Wing Emperor aveva in mente questi alti ideali quando ha fondato i Civil Heroes e questa scuola… ma i cuori non sono uguali e non battono tutti per le stesse ragioni… metaforicamente parlando» si spiegò con una certa cautela. «C’è chi diventa Civil Hero così come si diventa soldati, per prestare un servizio al proprio paese. C’è chi lo fa perché ha un talento unico e questo lavoro è molto ben pagato, chi lo fa per onorare una famiglia che non ha più, o per quella che ha… chi lo fa solo per il prossimo… e chi per la gloria e la fama che ne deriva.»

Kyoya si interruppe per versarsi altro tè e Mukuro si massaggiò il braccio, se possibile più a disagio di prima.

«Tu per quale ragione lo hai fatto?»

«Per la più banale, forse: Mad Horse mi ha salvato e mostrato una vita diversa. Ho pensato che diventando come lui avrei potuto fare lo stesso per altri che ne avevano bisogno.»

«È una nobile ragione.»

«Grazie. E tu perché sei rimasto?»

«Perché… sono rimasto solo» rispose Mukuro, senza guardare dalla sua parte. «Non mi vogliono più a casa… non sono rimasto per qualche nobile intento o dignitosa ragione… non so dove andare e sono rimasto dove mi è stato detto che c’era posto per me.»

Non era sorpreso, non dopo aver letto la lettera: aveva immaginato che sentori della tragedia fossero nell’aria da tempo e che quella fosse la ragione della permanenza di un ragazzo che non aveva la reale motivazione per diventare un eroe.

«Forse non è nobile… ma non è neanche ignobile. Non voler restare soli è comprensibile, Mukuro. È umano e naturale.»

«Invece lo è» ribatté lui duro. «È ignobile. È da deboli, e da vigliacchi. Ho preferito trovare una strada facile, standomene qui dove vengo nutrito e accudito, dove un tutore ricco bada a me, dove tutti mi trattano come fossi una benedizione…»

«Non lo sei?»

«No!» fece lui, quasi gridando. «Quando sono stato scoperto ho distrutto la cucina della casa-famiglia… ho calciato un mobiletto contro la mia tutrice spaventandola, e sono scappato via! Ho abbattuto un palo della luce causando un incidente stradale, delle persone si sono ferite!»

Dopo lo scoppio di Mukuro il silenzio in cucina sembrava più denso. Si passò la mano nei capelli tirandoli indietro e Kyoya, seppur coinvolto nella sua sofferenza, non poté non notare quanto apparisse diverso senza i capelli lunghi ai lati del volto.

«Per essere un cuore di coniglio provi tanto senso di colpa…»

«Chi dice che i conigli non si sentano in colpa a scappare sempre?»

«I vigliacchi veri non solo scappano, ma scaricano anche la responsabilità. Per un vigliacco la fuga è sempre sensata e furba. La situazione è sempre troppo complicata, pesante o pericolosa per occuparsene, oppure non è dipesa da loro e non si sentono obbligati a risolverla… pensano che non sia giusto.»

Mukuro girò lentamente la tazza sopra il sottobicchiere, gli occhi fissi per terra.

«Che cosa stai cercando di dire?»

«Devi scegliere tu, ma se posso offrire uno spunto di riflessione… dovresti provare a capire il punto di vista di Restless.»

«Restless?» ripeté Mukuro, accigliandosi. «Che cosa c’entra Restless adesso?»

«È uno di quei Civil Heroes che hanno scelto questa vita per ripagare un debito» gli svelò Kyoya, senza osare dire di più. «Se pensi di dover ricambiare la gentilezza di chi ti sta nutrendo e accudendo… se pensi che tu debba ripagare i danni che hai causato con le tue mani… potrebbe essere una motivazione sufficiente. Riflettere sugli altri la protezione di cui godi.»

Mukuro non replicò, sospirò soltanto, profondamente assorto in pensieri che Kyoya non osava sperare di comprendere. A malincuore lo guardò alzarsi dalla sedia.

«Grazie della chiacchierata, Kyoya.»

«Ogni volta che vuoi, Mukuro… bussa alla porta, anche in piena notte, se hai bisogno di parlare.»

Kyoya raccolse le tazze vuote, riflettendo che i tempi fossero maturi per mettersi a letto e tentare di lasciarsi sedurre dal sonno, ma un pensiero lo colpì all’improvviso.

«Ah, Mukuro» lo chiamò prima che si allontanasse tanto da non sentirlo. «Per passare alla classe S si deve sostenere un esame fisico… se vuoi fare una prova generale, domattina ci alleniamo tutti al campo due. Raggiungici e vediamo come va.»

Mukuro non rispose, ma riprese a camminare e lo sentì salire le scale fino al piano superiore. Kyoya smise di sorridere e sciacquò sbrigativo le tazze, rimuginando con eccitazione crescente: l’esame per l’ammissione alla classe S era probabilmente il più duro a cui si potesse pensare di sottoporre dei ragazzi, e le possibilità che un ragazzo mai seriamente allenato neanche per lo sport lo superasse erano inferiori a quelle di una bufera di neve in luglio.

Spero solo che fallire la prova non ferirà il suo orgoglio… vorrei così tanto che diventasse veramente uno di noi.

Naturalmente l’omissione di Mukuro non lo aveva ingannato: la sola ragione per la quale un ragazzo poteva essere stato alloggiato nel dormitorio dei classe S senza farne parte era che non fosse iscritto a nessuno dei corsi dell’Accademia e che fosse soltanto una concessione del preside farlo alloggiare con ragazzi che già conosceva. Sapeva fin dal primo momento che non era lì per unirsi davvero alla squadra Lotus.

Infilandosi finalmente sotto le coperte, Kyoya si accorse di non avere la benché minima traccia di sonno e passò il tempo a pianificare una strategia per ammortizzare la batosta che Mukuro avrebbe preso e a programmare un meticoloso piano di allenamento per lui, finché fuori il cielo non iniziò a schiarire.

 

*

 

Mukuro non scese a colazione con gli altri quando li sentì convergere in cucina alle sei del mattino e si avventurò giù solo quando il totale silenzio gli suggerì che fossero usciti tutti quanti per la prima lezione. Trovò sul tavolo un vassoio coperto da una pellicola e un tovagliolo con il suo nome sopra, ma nel suo denso nervosismo il gentile pensiero non riuscì a farlo sorridere.

Consumò la colazione nel silenzio interrotto solo da lontani rumori esterni e immerso nei suoi pensieri. Aveva rimuginato molto sulle parole di Kyoya ma non a sufficienza, dato che continuava a tornarci su.

Sapeva di essere folle a mettersi in testa di tentare una strada tanto pericolosa, soprattutto perché non aveva mai desiderato farlo prima d’ora. Eppure si sentiva realmente fortunato dopo quello che aveva saputo sulla storia non così antica degli Auris e le considerazioni di Kyoya sulle prospettive future dei suoi fratelli.

Hanno ragione… hanno sempre avuto ragione. È un dono.

Girò pigramente il cucchiaio in una sorta di paté di legumi che somigliava a un purè di patate.

Subaru avrebbe voluto questo dono più del prestigio del lavoro dei suoi genitori… è una fortuna. Una fortuna avere genitori che ti mantengono e che ti daranno un lavoro appena finita l’università… eppure, persino lui avrebbe voluto avere quello che ho io.

I pensieri gli lasciarono un po’ di tregua per apprezzare il resto della colazione e una tazza di caffè, e decise di lavare le stoviglie della colazione lasciate dagli altri. Aveva quasi finito quando Jirou, il cane di Yamamoto, lo raggiunse e prese a fargli allegre feste.

«Ehi… ehi, buono!» gli fece lui, vagamente allarmato dalla sua esuberanza. «Ma dov’eri nascosto? Io sono qui da un pezzo, tu dov’eri?»

Per bella risposta Jirou abbaiò facendo una buffa piroetta su se stesso prima di sedersi. Suo malgrado Mukuro fece una risata spontanea.

«Sì, sì… sei carino, in fondo…»

Jirou aspettò la carezza sulla testa prima di partire verso il corridoio, dove sedette e abbaiò ancora. Perplesso Mukuro si decise a seguirlo, perché sembrava che il cagnolino gli stesse chiedendo di fare esattamente questo. La bestiolina schizzò nello stretto spazio a sinistra della scala dove lo aspettò, poi proseguì, scortandolo in un locale lavanderia con tre lavatrici, un’asciugatrice e diversi appendini per il bucato. Uno di questi era carico di soli calzini.

«Eri nella lavanderia?»

Ma il cagnolino era scomparso e solo l’oscillare di una gattaiola nella porta che dava sull’esterno gli fece capire che era da lì che il cane e i molti gatti del dormitorio uscivano e tornavano a piacimento. Comunque, la sortita alla lavanderia fu utile a qualcosa di più che soddisfare la sua curiosità: sulla lavatrice più lontana dalla porta c’era una pila di tute in materiale tecnico con gli inserti arancioni.

Le tute della classe S…

Mukuro si avvicinò e spiegò una delle magliette, notando che una sottile etichetta sull’interno del collo recava il nome del suo proprietario, in quel caso “Sawada, T.”. La ripiegò con cura, e mentre lo faceva notò una tuta diversa dalle altre, con gli inserti in color magenta.

Dovrebbe essere di un’altra classe? Che cosa ci fa qui?

La sfilò dal mucchio e scoprì che l’etichetta recava il cognome di Yamamoto.

«Forse è una tuta vecchia…»

Sapeva che la misura di Yamamoto era adatta anche per lui, e per questo decise di prenderla in prestito; prendere quella tuta vecchia di un colore che non avrebbe – teoricamente – dovuto più usare gli accomodò la coscienza sia per il prestito non richiesto che per la supponenza che avrebbe mostrato a fare sfoggio di una tuta della classe S prima di averla conquistata. Sempre ammettendo che fosse davvero nelle sue possibilità conquistare quel tremendo arancione fluorescente.

Dovette attendere due lunghissime e dolorose ore, che passò a rileggere la lettera dei suoi fratelli e a suonare brani casuali al pianoforte del soggiorno, scoprendo che Restless lo aveva davvero tenuto con molta cura. Fu con riluttanza che abbandonò il conforto della musica e si decise a uscire, diretto al campo numero due.

Individuò da lontano il gruppo della classe S, intento a fare il solito riscaldamento, ma a parte Kyoya tutti gli altri indossavano la tuta a inserti arancioni, anche le due ragazze. Fu una di loro a notarlo per prima e fece segno agli altri di guardare nella sua direzione; tutti agitarono il braccio per salutarlo, tranne Restless.

«Ah… allora sei venuto davvero, Mukuro» lo accolse Kyoya, avvicinandosi.

Mukuro annuì. In quel momento si stava molto pentendo del suo guizzo di orgoglio, o di vergogna, o qualsiasi cosa fosse quello che gli cresceva dentro ogni volta che leggeva quella dannata lettera.

«Solitamente si accede alla classe S tramite simulazioni, torneo o prova cronometrata» gli spiegò Kyoya, apparentemente ignaro dei suoi dubbi. «I tornei si tengono due volte, in settembre e in aprile, e una commissione di insegnanti valuta i partecipanti per una promozione. Questa modalità privilegia chi ha buone capacità combattive, e non è il tuo caso.»

«Come sei incoraggiante, Kyoya.»

«Le simulazioni vengono fatte dai classe B, A ed S in agosto, novembre, febbraio e maggio. Si crea uno scenario, vengono dati degli obiettivi, e dei punti vengono tolti dal totale massimo per ogni errore a seconda della sua gravità» proseguì lui imperterrito. «Ma onestamente, tu non sai niente di procedure e tattica, non hai esperienza di soccorso, né hai idea di quanto pericoloso possa essere un luogo flagellato da un uragano, da un terremoto o da un vasto incendio. Non supereresti una prova del genere.»

«Suppongo che tutto ciò vada a parare al fatto che la prova cronometrata sia la mia unica chance.»

«Sì, ma non per questo è semplice. Difatti, chi entra con la prova cronometrata segue un addestramento intensivo di simulazioni, nonché altri allenamenti mirati.»

Mukuro si massaggiò la spalla, più per dissimulare il nervosismo che per altri motivi.

«Qualcuno di voi è mai entrato con la prova cronometrata?»

«Viperlance è il solo in tempi recenti ad averla superata» ammise Kyoya con un velato fastidio. «Ma come vedi, non è qui. Perché le sue simulazioni sono sempre insufficienti.»

«E i suoi test attitudinali sono gli stessi di un serial killer» commentò Restless, in quel momento seduto sulla schiena di Breaker a mo’ di peso per lo stretching. «È talmente idiota che non prova neanche a scriverci la risposta giusta anziché il mucchio di merda che ha nella testa.»

Mukuro sospirò profondamente, guardando Kyoya dritto negli occhi.

«Se è così difficile avresti dovuto dirmi che non avevo nessuna possibilità.»

«Non hai nessuna possibilità di superarla oggi, ma non significa che non avrai modo di superarla tra due mesi.»

«Due mesi?»

«Se desideri davvero entrare, ti preparerò io» disse con una certa solennità. «Ho già pensato a un programma a grandi linee. Vederti affrontare il percorso oggi mi dirà su che cosa necessiti davvero di lavorare, e lo metterò a punto.»

«Civil Hero, capoclasse e personal trainer» commentò atono Mukuro.

«Puoi fidarti di Phoenix!» esclamò accorato Gravity. «Ha addestrato anche me per i tornei! Sono passato ogni volta alla classe successiva, è un magnifico preparatore!»

«Anche Gokudera si è allenato con Phoenix… ouch!»

Restless indietreggiò costringendo Breaker a chiudersi completamente sulle proprie gambe, spegnendo commenti che riteneva inadatti.

«Restless Storm, idiota.»

Kyoya gli afferrò il braccio, distogliendo la sua attenzione dai due Storm.

«Dammi fiducia. Due mesi, e non avrai più motivo di metterti una tuta della classe A. Due mesi, e nessuno potrà più dirti che hai scelto la strada facile, che prendi senza mai dare… nessuno, nessuno in tutto il mondo oserà mai più chiamarti mostro

Non si illudeva che sarebbe stato facile. Sapeva che accettando, andando avanti con quella prova, avrebbe avuto davanti due – o forse più – mesi d’inferno; non era abbastanza stupido da pensare che un’ora di allenamento al giorno bastasse e per un pigro cronico come lui era già moltissimo lavoro. Sentì il braccio stretto un po’ di più.

«Se ti affliggi così tanto è perché non sei contento di te» gli sussurrò Kyoya. «Ma qualsiasi cosa deciderai di essere tra cinque, dieci, o venti anni… ti sentirai pronto, se scegli di essere pronto adesso

Mukuro capì il senso di quella frase e, deglutendo il suo nervosismo, annuì rigido.

«In che cosa consiste questa prova cronometrata, esattamente?»

 

*

 

«Sei troppo esitante, Mukuro! Non si appianeranno se aspetti abbastanza a lungo, quindi salta!»

Se solo avesse avuto fiato da sprecare gli avrebbe urlato contro un insulto, ma non se lo poteva permettere: stava concentrato sulla serie di travi diverse – a sezione quadrata o circolare, di diverso spessore – inclinate con pendenze che non riusciva a descrivere se non con il termine ingiuste, inframezzate da singoli pali verticali o tavole piatte spaventosamente inclinate, sospese su una sgradevole piscina di acqua fangosa gelata.

Dover affrontare quel percorso così complicato dopo altre sei fasi di tortura era disumano.

Potrei saltare tutto, ma quel palo…

Il palo era troppo piccolo e lui aveva ben poco controllo della sua forza: saltare abbastanza lungo da superare le tre insidiose tavole inclinate che aveva davanti gli avrebbe dato uno slancio difficile da bloccare su una superficie così stretta. Prese una decisione e con uno slancio da fermo abbandonò la trave rotonda su cui indugiava da troppo tempo e rimbalzò sulle tre tavole inclinate senza fermarcisi, in un movimento simile a un fulmine; approdò sul palo per un passo e saltò direttamente sulla tavola successiva, ma quella aveva un’inclinazione maggiore di quanto si aspettasse. Fu inutile ogni sconclusionato movimento alla ricerca dell’equilibrio e con un tonfo acquoso precipitò nella fanghiglia.

Riemergendo dall’acqua gelata boccheggiò: tra lo shock termico e lo sforzo intenso gli sembrava di non risucchiare neanche un singolo atomo di ossigeno. Annaspò nell’acqua fangosa e si aggrappò al bordo, strisciandone fuori; l’aria fredda di dicembre però non gli fu di alcun conforto.

«Coraggio, Mukuro, ricomincia! Restano due ostacoli soltanto, puoi finire la prova!»

«Lasciatemi morire» esalò lui con un filo di voce.

«Ricomincia da capo, Mukuro, forza! Se non fai una figura decente ti butteremo tutti i vestiti fuori dal dormitorio, mi hai sentito?!»

Solo una fiammata di irritazione a quelle parole di Sky Flame lo fece rialzare e marciare all’inizio del percorso, ma si pentì immediatamente della scelta fatta, accorgendosi di quanto fosse molto più difficile ottenere la stabilità avendo gli stivali bagnati e infangati: i piedi scivolavano sul legno della prima trave.

Così non va… non ce la farò con questi stivali, e…

Fu allora che ebbe un’illuminazione folle. Contro ogni logica della sopravvivenza tornò sulla piatta, sicura prima base; ignorò ogni commento e si concentrò sugli ostacoli. Ricordava quali erano i più insidiosi, e credeva di aver capito come fosse meglio affrontarli. Si sfilò gli stivali restando a piedi nudi, calpestò ben bene la sabbia per asciugarsi il più possibile e si prese qualche attimo. Il tempo non era più un problema, dato che sapeva di essere già fuori tempo massimo.

Spiccò un primo salto, un secondo e un terzo scavalcando molti dei punti difficili; superò i pannelli inclinati come aveva fatto prima, ma anziché approdare su quell’infida pendenza la usò come appoggio per spingersi con la mano: il legno produsse un macabro scricchiolio a quell’impatto ma il suo corpo riprese quota, toccò scompostamente con il piede una trave quadrata e atterrò rotolando nella sabbia oltre la zona dei trampolini.

Un boato di esultanza venne dai suoi compagni di dormitorio – le due ragazze stavano lanciando gridolini penetranti come fischi di fuochi d’artificio – e Mukuro avrebbe anche potuto esultare in prima persona, se non avesse avuto già il cuore e la mente sull’ostacolo successivo: una lunga parete, inclinata verso la sabbia sottostante, con piccoli, scomodi appigli che andava scalata senza mai cadere.

Non ho mai desiderato tanto essere un ragno.

Con una testardaggine che andava oltre i limiti fisici del suo stesso corpo Mukuro lo raggiunse e iniziò la scalata, ma dopo due o tre appigli percepì quanto faticoso fosse scalare qualcosa che non era perfettamente verticale e che, anzi, era inclinata come se desiderasse scrollarsi di dosso gli insetti fastidiosi che tentavano di superarla.

Tirò il respiro il più possibile, avanzò di altri due appigli con grande fatica, ma seppe che era troppo lento. Era troppo stanco per andare più in fretta, ma prendersela comoda era sforzare ulteriormente le dita, i polsi, le caviglie, e difatti le dita indolenzite cedettero la presa su un minuscolo appiglio color blu e tutto il corpo piombò a peso morto sulla sabbia al di sotto.

Scosso da tremiti incontrollabili, con i polmoni accartocciati per l’impossibilità di prendere aria a dovere, ferri da calza virtualmente conficcati nella milza e i muscoli delle gambe e delle braccia semi-paralizzati, non riuscì neanche a rimettersi in ginocchio. Riverso nella sabbia ebbe un violento conato che zittì il coro di incoraggiamenti dei suoi compagni di dormitorio, e tossì nel completo silenzio. Subito dopo scoppiò un applauso.

Ah, fantastico… essere lo zimbello della classe mi mancava nel curriculum

«Okay, basta così per questa volta, Mukuro… sette ostacoli in ventuno minuti.»

Kyoya gli si avvicinò e gli mise addosso qualcosa di caldo; quando alzò la testa e si mise in ginocchio con il suo aiuto scoprì che era una coperta marrone piuttosto ruvida.

«Quanto… q-quanto era… il tempo?»

«Per superarla? Dieci ostacoli in diciannove minuti» lo demolì moralmente Kyoya. «Tre degli ostacoli sono studiati per essere uno sforzo lento, come hai notato, vanno superati in non più di quattro minuti. Anche tre, per un margine di sicurezza, gli altri sarebbero da un minuto o anche meno.»

Mukuro tossì ancora, il conato gli aveva irritato la gola.

«Q-quindi è s-stato un di-disastro…»

Mukuro venne investito da un gradevole calore e scoprì che erano le fiamme prodotte dalle mani di Sky Flame a riscaldarlo. I ragazzi si erano raccolti intorno a lui e sorridevano.

«Niente affatto, Mukuro, è stata una prova eccellente» rispose Kyoya, lasciandolo basito. «Tu non sei uno sportivo, non ti sei mai allenato adeguatamente, e arrivare al settimo ostacolo prima di cedere è un risultato magnifico. Devi sapere che buona parte dei classe B, se non hanno un potere che sia sfruttabile, difficilmente completano la prova. Come ti ho detto, anche i classe A non riescono a completarla nei tempi stabiliti.»

«Siamo… siamo sicuri che si possa davvero fare?»

«Beh… come ho detto, Viperlance ci è quasi riuscito, con uno scarto di un paio di secondi, che è un’inezia… ma…»

«Ma?»

«Dicono che Wing Emperor abbia costruito questo percorso» prese la parola Love, con l’aria eccitata di quando parlava di misteri, «e che sia identico a quello con cui è stato addestrato lui dall’esercito giapponese!»

Mukuro fece una strana smorfia, poi scosse la testa.

«Cosa? Aspetta, Wing Emperor è stato addestrato dall’esercito?»

«Dicono di sì, quando era ragazzo… insomma, prima che gli venisse dato il titolo di Civil Hero. Si è addestrato per un paio di anni con l’esercito!»

«Ma come fai a saperlo?»

«Non lo sa» l’interruppe Restless. «Sono sciocchezze che legge sui giornali più insulsi mai stampati.»

«Ma Wing Emperor è scomparso per un paio di anni dalla faccia della terra, quando aveva la nostra età! Dev’essere stato allora che si è addestrato, no, è chiaro come il sole!»

«Oh, e se invece fosse asceso al cielo e avesse imparato tutto quello che sa direttamente dalla dea dorata?»

«Buh, Hayato! Non mi prendere in giro, ti detesto!»

Restless produsse uno dei suoi rari sorrisi spontanei mentre Love cercava invano di pizzicarlo sulla faccia, e in quei momenti a Mukuro pareva di cogliere le ragioni di quella ragazza di volere un fidanzato tanto scostante.

Kyoya lo rimise in piedi di peso, ma le gambe non avevano alcuna intenzione di assolvere la loro funzione di sostegni: i muscoli dolevano e tremavano.

«Non riesco a stare in piedi» sospirò allora, abbattuto.

«È già pazzesco che tu non sia svenuto» osservò Sky Flame, e spostò le fiamme con circospezione perché gli riscaldassero la schiena. «A me è successo tre volte.»

«Forse era più dignitoso del vomito.»

«Mah, forse, ma non te la prendere, Mukuro» lo consolò Enma con una pacca sulla spalla. «Abbiamo provato tutti il percorso, lo facciamo ogni tre mesi come prova personale… sai, per battere i nostri tempi personali e vedere se ci stiamo allenando bene… sappiamo quanto è duro anche per chi si allena da tanto.»

«E tutti abbiamo vomitato la prima volta» aggiunse Restless, che ancora stava cercando di immobilizzare le mani della sua ragazza all’attacco delle sue guance.

«Tu hai vomitato, Restless? Non ti ho visto.»

«Oh, ha vomitato un sacco di volte!» intervenne divertito Breaker. «Per esempio, una volta quando eravamo–»

«Sta’ zitto, Breaker!»

Restless tentò di assestare un calcio alla gamba del suo partner di allenamento ma era troppo lontano e ostacolato dalla sua ragazza. Breaker emise una risata allegra, mentre Kyoya sembrava pensieroso.

«Dobbiamo portarti al riparo… non puoi stare così inzuppato di fango. Devi lavarti, cambiarti e riposare.»

«Ah! Lascia fare a noi, lascia fare a noi!» s’intromise Gravity con entusiasmo. «Io e Tsuna abbiamo un metodo super efficace per trasportare i feriti velocemente!»

«Ed è anche super sicuro?»

«Ma certo che lo è!» fece Sky Flame indignato.

«Vi siete dimenticati di quella volta col manichino? La sua testa è rimasta dov’era e solo il resto del corpo è–»

«Abbiamo perfezionato la tecnica da allora!»

«Va bene… allora lo affido a voi…» sospirò Kyoya, con l’aria ancora preoccupata che non fece sentire Mukuro molto a suo agio. «Veniamo a trovarti all’ora di pranzo… ma Scorpion ti avrà già rimesso in sesto, quindi tornerai in dormitorio con noi.»

Prima che potesse commentare Mukuro si accorse che i lembi della coperta si sollevavano e il suo corpo divenne via via più leggero. Era la stessa sensazione sperimentata il primo giorno sul campo due ad opera di Gravity Prince, e dopo pochi istanti era così leggero che si stava allontanando dal gruppo sospinto dal leggero vento di quel giorno.

«Pronto, Tsuna?»

«Prontissimo!»

Enma acchiappò Mukuro saldamente con un braccio intorno al torace. Sky Flame produsse spettacolari fiammate dalle mani verso terra, tali da spingerlo in aria, dove percorse un ampio semicerchio prima di puntare verso di loro: per quanto incredibile fosse da pensare, con quelle fiamme come propulsori Sky Flame volava. Enma si aggrappò a lui mentre gli passava sopra, con una manovra di certo accuratamente messa a punto, e i tre si alzarono in volo sopra il campo, sopra a vari magazzini, abbastanza in alto da vedere oltre il muro di cinta.

Passata la paura iniziale Mukuro si trovò a sorridere, immaginando che il volo di Wing Emperor doveva dargli una sensazione simile a quella.

 

*

 

In infermeria non trovò Trident Shamal – tutore di Restless che scoprì essere tornato a offrire i suoi servigi all’ospedale cittadino – ma venne accolto dalla visione molto più ammaliante di Scorpion Kiss, l’esperta di veleni fin troppo provocante per lavorare a stretto contatto con degli adolescenti. Informata della prova lei non fece commenti; pulì alcune escoriazioni che si era provocato sdrucciolando qui e là tra tronchi, sbarre di metallo e reti di corda e gli fece trangugiare un intruglio con un’aggiunta di lampone che non rendeva meno sgradevole il gusto generale. Dopo questo a Mukuro fu permesso di ripulirsi prima di riposare in uno dei letti liberi.

Il ricostituente al lampone aveva fatto miracoli dissipando del tutto i dolori ai muscoli dopo poco tempo, ma la stanchezza persisteva e preferiva dormire un po’ per sembrare del tutto ripreso quando sarebbero passati gli altri a trovarlo.

Oh no, di nuovo?

Mukuro sospirò quando, tornato al suo letto, vi trovò sopra una nuova tuta color magenta. Non era mai stato un colore di suo gradimento – troppo acceso per esserlo – ma di certo si stava legando a troppi traumi per fare a meno di detestarlo.

Indossata la tuta, asciugati sufficientemente i capelli e bevuta una tazza di tè caldo portato da Scorpion Kiss si sdraiò a letto e si appisolò quasi all’istante.

Quando si svegliò non gli fu chiaro che cosa lo avesse disturbato, e si sollevò seduto d’istinto prima di capire che cosa non andava: il bicchiere di vetro posato sul comodino si era mosso e tintinnava leggermente contro la piccola brocca dell’acqua. Un boato lontano invase il silenzio dell’infermeria crescendo d’intensità come se un drago ruggente fosse emerso dal sottosuolo e il suo letto iniziò a sussultare.

«Il terremoto!»

Il Giappone non era certo nuovo ai fenomeni sismici, ma Mukuro non aveva mai avvertito una scossa tanto forte da far sussultare un letto con lui sdraiato sopra e rovesciare brocche e bicchieri dai comodini. Tirò via la coperta e abbandonò il letto per raggiungere un riparo sicuro, quando Scorpion Kiss gli venne incontro nel corridoio centrale; lo prese per il braccio e lo spinse in un angolo della stanza opposto all’ingresso.

L’armadio delle medicine si stava spostando in avanti come posseduto da uno spiritello, i lampadari al neon dondolavano e tutti i suppellettili sulla scrivania di Scorpion erano sparpagliati per terra. Il boato era diventato assordante.

«Non muoverti da qui, è un muro portante!» gli gridò Scorpion Kiss, per farsi sentire sopra al frastuono.

La scossa era di intensità spaventosa e sembrava non finire mai. Anche se non lo avrebbe ammesso con anima viva si sentiva il cuore in gola, perché la scossa più forte che avesse mai sentito a Kokuyo era riuscita appena a far oscillare il latte dentro una tazza e dondolare il lampadario della cucina. Scorpion Kiss – come se avesse percepito il suo disagio – si girò a guardarlo e le sue labbra truccate di una tonalità sobria di rosa si mossero, lasciandogli intuire che gli stesse dicendo qualcosa di rassicurante.

Non poteva vedere l’armadio che si stava per schiantare a poca distanza da loro, ma Mukuro sì. Al momento dello schianto non si accorse nemmeno che oltre ad abbassare il capo aveva passato entrambe le braccia intorno alla testa di Scorpion Kiss; se ne rese conto solo alcuni secondi dopo, quando la scossa si fermò.

Nel silenzio quasi assordante dopo quel ruggito cavernoso riuscì a riaprire gli occhi e vide il sangue. Una scheggia di vetro lunga una spanna era piantata per un terzo nel suo avambraccio, e gocciolava sangue sul pavimento. Impallidì nel vedere la ferita che in realtà sentiva a malapena e si trovò con l’agghiacciante consapevolezza che se non avesse fatto quel gesto così insensato il vetro avrebbe colpito il collo o l’orecchio di Scorpion Kiss, con conseguenze gravi o fatali. Paradossalmente, ciò aumentò il suo sgomento.

«Cominci molto bene, bambino di Wing Emperor» disse Scorpion Kiss, quando poté osservare i resti dell’armadio e la ferita sul braccio. «Grazie di avermi protetta… avrebbe potuto ferirmi molto gravemente.»

I complimenti di una donna bella come non ne aveva mai incontrate prima riuscirono a far sentire a Mukuro almeno un vago senso di orgoglio, sepolto sotto il terrore, lo shock e la confusione del momento. Riuscì persino a non rendersi conto di essere stato chiamato “bambino di Wing Emperor”, segno che i professori sapevano tutto.

Scorpion raccolse al volo delle forbici da terra, tagliò la manica della tuta, rimosse il vetro infliggendogli una fitta di dolore tutto sommato trascurabile e usò la stoffa per fissare un tampone di garza sulla ferita.

«Non è niente di grave. Ti basterebbe qualche punto, ma Wing Emperor te lo sistemerà in un secondo senza cicatrici. Dobbiamo evacuare l’edificio subito.»

«Qua… qual è il piano di evacuazione? Non l’ho letto…»

In effetti non aveva fatto nessuna attenzione ai cartelli con la procedura di evacuazione appese in vari punti dei locali pubblici, come la mensa, gli uffici per gli studenti, la biblioteca e alcuni campi di addestramento al coperto.

«Dirigiti al campo undici. Prendi la strada della linea blu e vai sempre dritto. La procedura è evacuare al campo di addestramento, o al cortile frontale. Da qui il campo undici è più vicino.»

«Tu… tu dove vai?»

Scorpion, che si era alzata ed era già a metà strada verso la porta, sorrise.

«Devo evacuare i pazienti ai piani superiori. Tu esci subito di qui.»

Lei corse via e Mukuro scavalcò con circospezione l’armadio delle medicine e attraversò con cautela il pavimento pieno di vetri, dato che le sue scarpe erano rimaste vicino alla sua branda. Uscì nell’atrio dell’accettazione, dove gli infermieri erano in agitazione e quadri e oggetti caduti rendevano apocalittico lo scenario.

Uscendo vide che Stuntman Skull, insegnante delle classi di fascia bassa e tutore di Enma, guidare nell’evacuazione un nugolo di bambini con l’uniforme alla marinara bianca e celeste. Smarrito nel trambusto di rumori e persone che si riversavano fuori dagli edifici, si accodò a loro verso il punto di evacuazione.

«Hound-sensei?» domandò all’improvviso la ragazzina dai capelli azzurri che aveva sgomitato per raggiungere l’insegnante «Hound-sensei dov’è?!»

«Lui sta sicuramente bene, Bluebell… niente chiacchiere e sbrigatevi, raggiungiamo il punto di raccolta subito!»

Mukuro superò il gruppetto mentre la ragazzina faceva domande, allarmato dalla sirena lacerante che stava uscendo dagli altoparlanti. Cercava disperatamente un volto familiare a cui riunirsi, ma non vedeva nessuno della sua classe né Wing Emperor. Superò un gruppo di studenti dalle tute a righe verdi che marciavano in senso opposto, ma prima di poter trovare qualcuno dei suoi compagni o un insegnante che conoscesse un uomo con una divisa nera e un visore sulla testa lo fermò.

«Ci raduniamo al campo otto fra quattro minuti!» gli gridò l’uomo dai capelli biondi, per sovrastare la sirena. «Sei ferito?»

L’uomo gli sollevò il braccio con la medicazione temporanea e per qualche motivo inspiegabile Mukuro scosse la testa.

«Adunata d’emergenza, tutti i classe S e classe A devono radunarsi per l’intervento! Altri dettagli saranno forniti durante lo spostamento!»

«S… sissignore.»

L’uomo gli lasciò il gomito e intercettò una ragazza con la tuta a righe magenta che stava pochi passi dietro di lui. Atterrito, Mukuro guardò la propria tuta identica a quella della ragazza. Deglutì senza riuscire a far sparire la sensazione di terrore che provava e seguì la ragazza verso il punto di ritrovo.

Che cosa devo fare? Non sono iscritto a questa scuola, non… devo andare oppure no?

Lui non aveva nemmeno idea di cosa stesse succedendo, e nella confusione seguì la ragazza della classe A: sarebbe bastato convergere per l’intervento e avrebbe di certo trovato i suoi compagni e Wing Emperor. Lei lo scortò senza accorgersene al campo otto, dove un mucchio di valigette stava venendo distribuito, con sopra dei codici in lettere e numeri. Lei prese senza indugio quella contrassegnata da A-3, mentre un uomo biondo sulla quarantina che non aveva mai visto gli mise tra le mani una A-2.

«Questa andrà bene, muoviti. Stai bloccando la fila.»

Mukuro si affrettò a spostarsi mentre altre tute magenta si ammassavano a ritirare una valigetta come fossero razioni di cibo per affamati. Ai margini del campo – un’area di cemento nudo spoglia – gli aspiranti Civil Heroes della classe A stavano indossando un’uniforme tattica nera e grigia, con una banda color magenta sul braccio. La confusione e il nervosismo erano tali che Mukuro non si preoccupò del fatto che la ragazza che aveva seguito fosse vestita solo a metà, e si avvicinò per rivolgerle la parola.

«Scusami» esordì, scandagliando i dintorni con lo sguardo. «I classe S dove sono?»

«Probabilmente al campo uno. C’è un altro punto di appoggio, e di solito partono da lì quando sono chiamati.»

Oh, no, come sarebbe, il campo uno? Dove diavolo è il campo uno?

Mukuro sospirò e si passò la mano nei capelli, cercando di riordinare i pensieri e decidere che cosa fare. La ragazza lo fissò con occhi viola grandi e grande intensità nello sguardo, una fermezza che in realtà le invidiò molto.

«Sbrigati a vestirti. La tuta per l’allenamento non è adatta alle missioni operative.»

«Mi… missioni operative?»

La ragazza, che era straordinariamente esile con quella tuta attillata, stava indossando dei parastinchi.

«Il terremoto è stato molto violento. Probabilmente ci sono stati gravi danni nel circondario» gli disse mentre allacciava delle protezioni sugli avambracci. «Siamo il primo soccorso, dovremo muoverci in una zona metropolitana tra edifici pericolanti e chissà che altro. Non ti proteggerà adeguatamente.»

«N-no… no, senti, io non dovrei essere qui» sbottò Mukuro, un po’ più brusco e nervoso di quanto desiderasse. «Io sono inutile in una situazione di emergenza, non…»

«Non devi dirlo» lo zittì lei; la sua voce bassa e delicata non smorzava affatto la forza d’animo che emanava. «Non c’è una persona inutile se non una che decide di esserlo. Non importa se il tuo potere non è adatto a trovare i superstiti, a riparare i danni o curare i feriti. Assisti l’ospedale da campo, occupati delle comunicazioni… tieni gli occhi e le orecchie aperti per chi non lo fa. Nessuno è inutile.»

Certo l’argomentazione fu convincente. Vaghi ricordi dei notiziari di tempo addietro, con tremende immagini di distruzione e feriti gli affollarono la mente; ricordava molti commenti di cordoglio dei suoi fratelli più grandi e delle tutrici, e Momo che pregava per le vittime e per la salvezza di chi non se n’era ancora andato.

Il giorno in cui Mukuro decise realmente di diventare qualcosa di più di un ragazzo come gli altri fu il giorno che sarebbe passato alla storia per “il grande terremoto di Higashiki”; il momento esatto fu quando deglutì la sua esitazione e indossò l’uniforme operativa della classe A, deciso a diventare lo strumento – per quanto forse piccolo e indegno – tramite il quale le preghiere accorate di Momo venivano esaudite.

Un frastuono coprì qualsiasi voce nel cortile e un elicottero da carico iniziò ad abbassarsi sul campo otto. Gli studenti della classe A indietreggiarono per lasciare che quello e il gemello al seguito atterrassero sul pianale di cemento e all’abbassarsi della pedana si affrettarono a salire a bordo. Mukuro, nel perpetuo dubbio, seguì ancora una volta la ragazza sul suo stesso elicottero e prese posto in fondo alla panca di destra, pallido come un cencio e con una prepotente sensazione di nausea che non fece altro che peggiorare quando l’elicottero si alzò in volo: era diverso da un aereo, oscillava moltissimo.

«Il terremoto appena verificatosi è uno stimato magnitudo 9.2» annunciò l’uomo biondo che aveva bloccato Mukuro poco prima. «L’epicentro parrebbe essere stato proprio sotto Higashiki, e il ponte sospeso si è spezzato in due.»

Qualche altra faccia oltre a quella di Mukuro espresse sgomento.

«I danni sono ingenti e sicuramente ci sono già vittime» continuò lui, e girò il suo sguardo penetrante su ogni singolo studente. «Non serve ricordarvi, suppongo, che la priorità va data a chi è ancora in vita. Ignorate i corpi, saranno recuperati in fase due.»

Il solo menzionare dei cadaveri e pensare di vederne uno di lì a poco bastò a dare il colpo di grazia allo stomaco di Mukuro. In un riflesso istantaneo aprì la valigetta vuota della sua uniforme tattica ed ebbe nuovamente un conato. Il comandante tacque finché il ragazzo non smise di produrre rumori di indubbia natura molesta.

«Qualche problema?»

«P-perdonatemi» balbettò Mukuro, più pallido persino di Wing Emperor, chiudendo la valigia. «Ho il mal d’aria.»

Tacque e tenne lo sguardo basso per il resto del viaggio, chiedendosi perché mai avesse deciso di salire su quell’aereo mettendosi di sua volontà dentro uno scenario apocalittico come quello che li stava aspettando. Era uno scherzo del destino a dire poco crudele che tra tutte le possibilità gli capitasse un disastro naturale proprio a pochi chilometri.

L’elicottero prese a oscillare di più mentre si avvicinavano allo sconosciuto punto di atterraggio. Mukuro chiuse gli occhi per cercare di controllare il suo delicato stomaco e non si accorse del comandante biondo che gli si avvicinava finché non gli diede un colpetto sul braccio. Riaprì gli occhi e vide che l’uomo gli sorrideva. I suoi occhi di un azzurro freddo erano in realtà molto cordiali.

«È la prima missione, eh?»

Mukuro, incapace di parlare, annuì.

«Sei stato sfortunato… la maggior parte dei ragazzi affronta missioni a basso rischio, quasi noiose, all’inizio. La gran parte non vede un disastro come quello che vedrai tu oggi fino a che non sono ufficialmente dei Civil Heroes diplomati» gli disse con un tono morbido. «Ma il tuo sarà un battesimo del fuoco. Dopo questo saprai di poter affrontare qualsiasi cosa, e quella consapevolezza ti resterà dentro per sempre.»

Il comandante non aggiunse altro, ma rimase vicino a lui a stringergli il braccio fino a che l’elicottero non toccò il suolo. Subito dopo andò ad aprire il portellone e fece uscire tutti gli studenti a piccoli gruppi. Mukuro uscì per ultimo, venne parzialmente accecato dai propri capelli mossi dal vento dell’elica e barcollò a distanza di sicurezza dal mezzo prima di liberarsi la visuale. Restò completamente sconvolto.

Higashiki era una città famosa per certe specialità culinarie, per il festival del tanabata in grande stile e per il suo parco dei divertimenti che attiravano moltissimi turisti. L’antico ponte sospeso sul fiume era stato ristrutturato per essere un gioiello di architettura ed era finito ben presto sulle cartoline della località, come quella che Ayaka aveva portato con sé al ritorno da un viaggio e appuntato vicino all’ingresso della casa-famiglia.

Il ponte raffigurato dalla cartolina era spezzato in due. Il pezzo mancante al centro si era inabissato dentro il vasto fiume al di sotto e restavano visibili solo le punte dei tralicci. Il pilone che Mukuro vedeva alla sua sinistra era vistosamente danneggiato ed era facile immaginare che presto avrebbe ceduto, trascinando con sé almeno seicento metri di strada e tutti i veicoli e le persone sopra di essa.

Non era la sola cosa agghiacciante, perché tutti gli edifici che Mukuro poteva vedere avevano vetri rotti, crepe, alcuni erano parzialmente crollati. La parte peggiore raggiunse il ragazzo solo quando l’elicottero decollò: persone gridavano da ogni parte, impossibile dire quali per le ferite, quali per essere aiutate e chi per coordinare i soccorsi. Dai piani alti degli edifici decine di braccia si agitavano per cercare di essere notate.

Era uno scenario apocalittico come il ragazzo ne aveva visti soltanto nei film, ma non era una finzione. Lui ci si ritrovava proprio nel mezzo, e realizzò in un istante quanto fosse pesante quell’uniforme. Tutte quelle persone che lo vedevano lì si aspettavano che lui le raggiungesse, che le salvasse… e lui non sapeva nemmeno come fare, da dove cominciare. Con il respiro che si accorciava man mano che si accorgeva di nuovi dettagli – i corpi portati dalla corrente del fiume, l’odore acre di combustibile in fiamme – si portò le mani alle orecchie per cercare di allontanarsi mentalmente da quell’angolo di mondo infernale.

Che cosa… faccio qui?

Prima che il suo dialogo interiore potesse degenerare, tuttavia, qualcosa gli urtò lo stomaco abbastanza forte da strapparlo a quell’attacco di panico. Di riflesso l’afferrò e scoprì – dopo un momento di confusione – che si trattava di un casco integrale con un vetro oscurato a coprire il volto.

«Mettilo… ti ho già detto che qui è pericoloso» gli disse la ragazza dagli occhi viola. «Facciamo del nostro meglio… non di più e non di meno. Non risparmiamo neanche un respiro e non avremo nulla di cui pentirci.»

Quelle parole non lo trasformarono in un cuore di leone, ma almeno lo riscossero a sufficienza da fargli tornare la mente lucida. Infilò il casco, guadagnandoci un gradevole isolamento dal fumo acre, ma quando aprì bocca per ringraziare la ragazza lei era scomparsa e fu inutile cercarla tutt’intorno.

Neanche un respiro.

Non esitò oltre. Si guardò intorno e decise di marciare verso la strada che costeggiava il fiume, che era franata insieme all’argine che la reggeva: se il suo dono serviva a qualcosa quel qualcosa era certo verificare chi o cosa ci fosse sotto a imponenti blocchi di cemento e asfalto.

Scese scivolando lungo la spaccatura e scese a pochi metri dall’acqua del fiume; finse di non vedere il corpo dell’uomo che scorreva lentamente nella corrente a faccia in giù, ma deglutì a fatica. Si avvicinò alla prima vettura e sollevò un blocco di asfalto, scoprendo con sollievo che era vuota.

Sollievo che durò poco: quando sollevò il più imponente blocco di muro, staccatosi plausibilmente dall’edificio residenziale ormai diroccato sull’altro lato della strada, notò immediatamente i resti di un uomo anziano schiacciato contro il volante. Con il cuore in gola rimosse altre macerie, scoprendo una donna coperta di sangue scuro sul sedile posteriore, riversa sul seggiolino di un bambino. Mukuro emise un sospiro tremulo.

«Questo… è davvero troppo.»

Tentò invano di strofinarsi l’occhio – aveva dimenticato il casco, leggero com’era – e distolse lo sguardo dal macabro spettacolo solo per lasciarlo scorrere sulla devastazione dell’orizzonte di Higashiki.

Quanti altri morti vedrò oggi?

Un singulto lo fece voltare e quando vide il braccio della donna muoversi si allungò dentro l’auto, convinto che fosse ancora viva, ma era il bambino dentro il suo ovetto a muoversi e lamentarsi piano. Mukuro si sfilò un guanto per controllare il respiro della madre – assente – e poi liberò il bambino di pochi mesi dall’ovetto. Con una buona dose di sollievo constatò che non sembrava ferito.

«Va tutto bene, ci sono io con te» gli disse Mukuro prendendolo in braccio e appoggiandolo contro la spalla. «È passato… il peggio è passato.»

Qualcosa nel tono della sua voce o nella mano che gli strofinava piano la schiena spense il suo piagnucolio e gli diede la concentrazione necessaria per decidere come muoversi.

Devo trovare il punto di soccorso… un ospedale da campo, o qualcosa del genere… una zona sicura per curare i feriti e radunare i sopravvissuti…

Una folata di vento freddo spazzò la riva del fiume, increspando la superficie dell’acqua. Mukuro si fermò un momento a guardare la donna accasciata sul sedile, ma poi puntò deciso in avanti per raggiungere una scalinata sicura sull’argine non collassato. Fare inutili, dolorosi pensieri sul piccolo orfano e su quello che sedici anni prima era un orfano altrettanto piccolo non avrebbe tirato fuori dai guai nessuno dei due.

Si inginocchiò a metà della rampa quando una nuova scossa di terremoto fece tremare la terra: si levarono grida di paura e di allarme; qualche cosa, più lontano, crollò. Il bambino emise un strillo e Mukuro lo cullò mentre si rialzava.

«Tutto okay, tutto okay» gli fece piano, massaggiandogli la schiena. «Onii-chan ti porta subito al sicuro, non piangere.»

Tornò sulla carreggiata, a debita distanza dagli edifici, e seguì l’indicazione verso la stazione centrale, per avvicinarsi ad altri gruppi e individuare il punto di ritrovo. Camminava da qualche minuto quando una camionetta con il logo del soccorso medico sulla fiancata li superò. Sollevato vide un’intera fila di veicoli e sollevò il braccio per fermarne uno; fu il quarto ad accostare.

«Ho un bambino!» disse appena l’uomo alla guida aprì lo sportello. «L’ho trovato in un’auto laggiù, dove è franato l’argine! Potete portarci al punto di soccorso medico?»

«Lo dobbiamo ancora allestire, ragazzo… coraggio, sali.»

Non se lo fece ripetere due volte e balzò a bordo; con più tranquillità e una posizione comoda controllò il bambino. Aveva i vestiti sporchi di sangue, ma nessuna ferita. Gli occhi blu scuro erano limpidi e svegli, sgambettava come se avesse voluto correre fino al campo. Mukuro sospirò e si sfilò il casco con un gran sospiro.

«Sembra che stia bene… grazie a te» osservò l’uomo al volante. «Avrebbero potuto non trovarlo per giorni se non avesse avuto la forza di piangere al momento giusto. Ben fatto, ragazzo.»

Nonostante la devastazione che regnava intorno il solo guardare quel piccolo fagottino pieno di vita – e rendersi conto che era lì grazie a lui – bastò a farlo sorridere, ma quando furono arrivati al grande spiazzo antistante l’orto botanico dove era stato deciso di allestire l’ospedale sorrise più convinto.

A meno che non si sbagliasse di grosso laggiù, più a sud sull’argine, un uomo con un abito bianco e le ali stava parlando a delle sagome familiari; una con i capelli rossi e tre con costumi color rosso, rosa e giallo.

Wing Emperor stava dando istruzioni alla sua classe S.

 

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Capitolo 9
*** Born hero ***


Bastò tirare un paio di corde e quello che sembrava un ammasso informe di paletti coperto da un telone verde si sollevò e assunse l’aspetto che si confaceva alla tenda di un ospedale mobile serio. L’équipe medica iniziò immediatamente ad allestire barelle e materiali e Mukuro fu il primo – con una certa fierezza – ad affidare un paziente a una delle infermiere.

«Come si chiama il piccolo?»

«Uh?» fece lui, preso di sorpresa. «Non lo so, non ne ho idea… l’ho recuperato da una macchina, dove l’argine del fiume è franato.»

«Nessuna indicazione di parentele?»

«So solo che un anziano era alla guida e… sua madre, immagino, era con lui dietro. Ma nessuno dei due era in vita.»

La donna annuì seria e spuntò delle crocette su un modulo stampato. Mukuro immaginò che annotare dove e con chi era qualcuno quando era stato recuperato sarebbe stato utile a trovare i parenti di chi, come il piccolo, non poteva identificare la famiglia o fornire recapiti.

«La tua firma» gli disse lei, e gli porse la penna. «Anche il nome da Civil Hero va bene.»

«Ma io non… non importa.»

Scarabocchiò il suo nome sul modulo e venne congedato, ma Mukuro non sapeva che cosa fare. Aveva trovato Wing Emperor, ma in una situazione del genere uno come lui era un impiccio per la classe S…

«Ehi!»

Un uomo si alzò dal sedile di una jeep e gli si fece incontro gesticolando frettolosamente.

«Ragazzo, porta un messaggio a Wing Emperor, laggiù» gli fece quasi mangiandosi le parole e indicando il gruppetto sulla riva. «L’Unità Volanti non arriverà prima di quindici minuti, forse venti. Deve prendere tempo fino ad allora. Sbrigati, riferisciglielo!»

«S-sissignore» replicò Mukuro, ma quello stava già tornando alla radio installata sul veicolo.

Esitò solo un momento, poi si ficcò il casco con la visiera scura e spiccò la corsa verso la classe S, che avanzava più lentamente verso il ponte: non aveva idea di che cosa potesse essere l’Unità Volanti – se non vagamente per intuito – ma se Byakuran li stava aspettando doveva sapere subito in quali tempi sarebbero arrivati.

Corse veloce, molto più veloce di quanto fosse riuscito a fare durante il percorso – con tutto quell’assurdo misto di ormoni con l’adrenalina come ingrediente principale – e si ritrovò a saltare di slancio un paio di ingombranti ostacoli, come se nella vita l’atletica fosse stata la sua vocazione anziché la musica. Si era avvicinato al gruppo, lo avevano sentito arrivare e stava per aprire bocca quando il suo piede affondò nell’erba catturato da una tana di piccolo roditore e finì per terra con una tragicomica scivolata. Fu una fortuna che indossasse il casco o avrebbe potuto rimetterci il naso con il sordo tonfo che la visiera fece battendo sul terrapieno.

«Che cosa fai tu qui?» domandò Wing Emperor, con un tono gelido. «Questa è una zona rossa, soltanto la classe S e i professionisti possono accedere!»

«Ahia…»

Mukuro si sfilò il casco e si tastò piano la testa e il naso; sembrava tutto in ordine. Non notò subito le reazioni degli altri alla sua apparizione, ma poi vide quanto tutti fossero sorpresi, Byakuran che sembrava aver appena visto un fantasma e un sorrisetto soddisfatto di Kyoya; pareva uno che aveva appena vinto un’azzardata scommessa.

«Che cosa fai tu qui?!»

«Do una mano! Hanno convocato tutti, no?»

«Ma… ma non tu! Non hai la licenza, non hai fatto esercitazioni, e… dove cavolo hai preso un’uniforme tattica?»

«Oh, non essere noioso, Emperor» lo zittì lui, non poco irritato da quell’accoglienza. «La situazione è grave e mi è sembrato sensato venire a dare una mano come posso, no? A proposito, mi hanno chiesto di dirti che l’Unità Volanti non sarà qui prima di quindici o venti minuti.»

La sua espressione cambiò e si fece più concentrata. I suoi occhi fissarono il profilo del ponte e Mukuro fece la stessa cosa: era come lo scheletro di una creatura morente, e suscitava le stesse repulsione e compassione al solo guardarlo.

«Va bene… facciamo quello che possiamo» sentenziò, e guardò gli altri. «Dividetevi come abbiamo stabilito. Chi rimane sotto non stia troppo vicino. Luck, Love, avvicinatevi di ottocento metri, Mukuro resterà vicino a voi.»

Mukuro rimase interdetto quanto le ragazze e i tre si scambiarono occhiate sorprese.

«Mukuro, ascoltami bene… resta vicino a loro. Le ragazze ti diranno se avanzare, se arretrare, e cosa fare. Tu devi solo proteggerle nel caso si verificasse qualche crollo. Non fare di testa tua, e per quanto assurdo possa essere detto da me, non fare l’eroe

«Ma non dirigi una scuola per Civil Heroes?»

«Voglio la tua parola che obbedirai a questi ordini, o ti rispedisco a scuola immediatamente.»

«Ma io…»

«La tua parola, Mukuro!»

Mukuro sospirò e si raddrizzò, spazzando via una macchia di erba e terra dal casco.

«Sissignore.»

Byakuran non fece altro che un rigido cenno con la testa, poi alzò il braccio e spalancò le ali nello stesso momento.

«Muoviamoci, mettiamo al sicuro quelle persone prima dell’arrivo dell’Unità Volanti!»

Wing Emperor spiccò il volo verso il ponte e fu il primo a raggiungere la strada; Gravity prese il volo con la stessa tattica combinata con Sky Flame che avevano usato per portarlo in infermeria e la combo “Storm2” risalì l’argine avvicinandosi dalla strada. A Mukuro bastò osservare per capire che l’accesso era stato bloccato dal rovinoso crollo di un condominio e che per questo gli automobilisti erano bloccati sul ponte spezzato.

«Possibile che Emperor sia l’unico presente in grado di volare?»

«Per questo aspettiamo l’Unità Volanti» fece mesta Luck. «Quella squadra raduna tutti i Civil Heroes volanti della nazione, anche appartenenti a diversi uffici, ma nessuno di loro vive in questa zona. Arriveranno tutti dal comando centrale.»

«Quanto manca ancora?»

«Dieci… quindici minuti, secondo quanto hai detto tu. Sono passati pochi minuti.»

Gli occhi blu di Mukuro scandagliavano il ponte spezzato e il pilastro più vicino al fiume. Aveva dentro un presentimento che cresceva di secondo in secondo, era come un ritmo tribale di tamburi sempre più vicino.

«Quel ponte non ha dieci minuti» si trovò a mormorare. «Ne arriva un’altra.»

Afferrò le due ragazze sopra al gomito nel momento stesso in cui una nuova scossa fece sussultare la terra di Higashiki ancora una volta; un cupo rombo riempì l’aria per pochi secondi che seguirono e poi si esaurì. La città tornò ferma, ma sporadiche nubi di polvere si alzarono tra gli edifici lasciando loro le domande su quanti crolli si fosse verificati e se ci fossero vittime.

«Eek!»

«Mukuro-kun… Mukuro-kun, l’hai sentita arrivare?»

Ma lui non diede risposta: aveva spiccato una corsa disperata verso il ponte.

«Mukuro-san, no!» gli gridò dietro Love. «È pericoloso! Aspettiamo l’arrivo dei Volanti!»

«Quel ponte non ha altri dieci minuti!» le gridò di rimando senza voltarsi.

Ne era sicuro. Come aveva sentito arrivare la scossa di assestamento sentiva anche la fine imminente della resistenza del ponte, e questo poteva voler dire anche quella delle persone che al momento vi erano bloccate sopra. Era sicuro che l’estremità della strada si stesse piegando sotto il peso della sua stessa materia e delle automobili soprastanti. Avrebbe dovuto avvertire Wing Emperor, ma notò che stava lasciando una donna anziana al di là delle macerie dove Restless attendeva per scortare i superstiti al soccorso. La strada si stava rompendo.

«BYAKURAN!»

Come era prevedibile la sua voce non riuscì a raggiungerlo sopra a sirene, rumori di varia origine e grida. Alle sue spalle Wish Luck gridò qualcosa, ma il boato del cemento spezzato e le grida sovrastarono tutto. Una piccola porzione del ponte crollò con le due auto che portava sopra, tuttavia non si schiantò nell’acqua: lo zampino combinato di Storm Breaker e di Gravity lo fece cadere con una lentezza degna del rallenty di un film. Evitarono il fragoroso impatto con l’acqua e Mukuro li vide salirvi sopra per controllare se dentro i veicoli ci fossero persone. Il segno negativo che fecero fu un sollievo; i passeggeri li avevano già abbandonati.

Scosso e con una sensazione di forte nausea si convinse a tornare indietro dalle ragazze – e magari convincerle ad avvicinarsi per ridurre i tempi di soccorso – ma poi notò qualcos’altro. Qualcosa si muoveva sulla scaletta di metallo che saliva lungo il pilone di sostegno. Una persona portava giù una figura piccola e il colore rosa di quella sagoma gli fece pensare che si trattasse di una bambina.

La sta portando giù… la sta portando sotto un ponte che sta per crollare! È pazzo!

Riprese a correre per avvicinarsi e gridargli di togliersi da lì, ma non fece in tempo: un momento dopo il pilone danneggiato da una crepa orizzontale slittò con un rumore scricchiolante terribile e si piantò sul basamento; il brusco movimento fece ondeggiare la strada come un altro terremoto e l’asfalto si spaccò. Non crollò all’istante perché i sostegni metallici della struttura reggevano, ma si piegavano sotto il peso di una costruzione che non era pensata per essere retta dalla metà dei pilastri.

Li schiaccerà come topolini!

Proprio come era accaduto durante la prima scossa quando era caduto l’armadietto delle medicine, Mukuro smise di pensare e agì istintivamente: accelerò, si aggrappò alla scaletta di metallo e la usò come appiglio per spingersi in un salto verticale che gli permettesse di salire sul basamento, e fu felice di riuscirci al primo tentativo. Il metallo si piegò ma i suoi stivali atterrarono proprio sul cemento di fronte ai due civili: un ragazzo in età da liceo proprio come lui e una bambina che gli somigliava molto, probabilmente la sorellina.

«Via di qui, sta crollando!»

Non fece in tempo ad avvicinarsi per spingere via i due: la bambina strillò ma il suo urlo venne coperto dal lamento dell’acciaio e dallo sgretolamento dell’asfalto. La strada, che era ancora attaccata dalla parte del pilone, si stava afflosciando come un vecchio esausto e avrebbe precipitato tutte le auto e le persone nel fiume o in uno schianto probabilmente fatale contro il basamento, dove avrebbe anche stritolato tre topolini.

A Mukuro non passò la vita davanti agli occhi come in film e fumetti, bensì riemerse il volto di Mad Phoenix e le parole che gli aveva rivolto al campo numero due il primo giorno.

Ma questo potere… ti rendi conto di quante vite umane possono essere salvate da qualcuno con una tale forza? Da solo potresti sostenere un palazzo… un ponte… sollevare qualsiasi cosa!

Un ponte…

A malapena si rese conto del suo scatto felino in avanti, a pochi passi dal bordo del basamento. Con le mani in alto non si rese conto del suo enorme azzardo e un attimo dopo tonnellate di metallo e cemento avevano impattato le sue braccia. Un dolore lancinante gli disse che il suo braccio sinistro non aveva retto, che le ossa erano rotte, e che ogni singola fibra del tuo corpo era tesa al massimo della sua tolleranza… ma le rovine del ponte non stavano più cadendo. In qualche modo le aveva fermate, le stava reggendo.

Pesava, pesava più di quanto mai avrebbe potuto immaginare e tutto il suo corpo urlava di dolore come immerso nell’acido, ma i ragazzi erano ancora vivi. Il ponte di Higashiki non stava cadendo, ma Mukuro non si illudeva che potesse durare molto.

«Via… via di qui, adesso!» fece ai due ragazzi, in una specie di ringhio.

«S-sì!»

Non riusciva a vederli, ma il singhiozzare della bambina si allontanò. Non poteva vedere se stavano risalendo la scaletta o se stavano scendendo dal basamento e si chiese se sarebbe riuscito a tenere su il ponte abbastanza a lungo… ma anche riuscendoci, come ne sarebbe uscito? Come poteva lasciare la presa su tonnellate e tonnellate distribuite su svariati metri quadrati senza restarne schiacciato? Non era certo come il tavolone nella cucina della casa-famiglia.

Mukuro si morse il labbro cercando di sopportare il dolore e raggranellare le energie; il peso della struttura aveva piegato tanto le sue braccia da costringerlo a chinare la testa in avanti. Gli pareva che le ossa gli si stessero sbriciolando poco alla volta sotto la pressione della gravità e della sua stessa forza. Si sentiva come se il suo corpo stesse per esplodere come in un videogioco splatter… ma non era un videogioco. Se avesse mollato sarebbe stato il game over definitivo, senza possibilità di riprovare daccapo.

Non fare l’eroe.”

Crollò sulle ginocchia con un profondo dolore, uno così intenso che si mescolò con quello al braccio e i crampi diffusi. Serrò gli occhi e lanciò un grido strozzato con poco fiato rimasto nel tentativo disperato di resistere, ma la sua brillante mente non stava cercando una soluzione. Indugiava sui progetti che avrebbe lasciato a metà con Subaru prima ancora di ascoltare la sua canzone al concorso, sul percorso che avrebbe voluto almeno completare una volta per cancellare quella brutta figura che sentiva di aver fatto con gli altri, sulla lista spese vuota sulla sua scrivania, le lettere lasciate aperte, Momo che avrebbe dovuto pregare per lui questa volta…

D’un tratto il peso sembrò diminuire e il dolore si affievolì un poco.

«Resisti, Mukuro!»

Solo quando distinse la voce di Enma capì che quel fenomeno fisico era spiegabile soltanto con il suo potere: stava alleggerendo il ponte variando la gravità a cui era normalmente sottoposto.

«Resisti! Ci sono persone bloccate nelle auto sopra le nostre teste e al momento tu sei la sola cosa che gli impedisce di inabissarsi nel fiume!»

«C-che… che?!»

«Scusami se ti metto agitazione, ma le cose stanno proprio così!»

Mukuro imprecò e tentò di alzarsi, ma non riusciva a muoversi. Aveva la netta sensazione – quasi una certezza – che la sua spina dorsale si sarebbe spezzata se avesse tentato di alterare il delicatissimo equilibrio raggiunto. Non sapeva come funzionava il potere gravitazionale di Enma, ma gli bastava vederlo al margine del suo campo visivo per capire che era al limite dello sforzo e che non era in grado di aiutarlo più di quanto stava già facendo.

«B-Bya… Byakuran» esalò Mukuro, con la vista che andava offuscandosi. «Dov’è Byakuran…?»

Si stava stancando, il braccio sinistro rotto era una massa informe di dolore e non prendeva più fiato. Si sentiva svenire – o forse morire – e per qualche attimo la sua coscienza fluttuò al di là; quando si riprese era in ginocchio nello stesso punto, con le braccia tremanti abbandonate lungo i fianchi, ma il ponte non gli cadeva addosso.

Il tocco delle mani calde subito dopo lo risvegliò da quella specie di trance, restituendogli le sensazioni del dolore, la paura, e l’esplosione dei rumori del disastro tutt’intorno. Come riemerso da sotto il mare prese a respirare avidamente, pur senza trarne alcun sollievo.

Non era lucido, non poteva sapere di avere un violento attacco di panico in corso, ma Wing Emperor al suo fianco lo capiva perfettamente e per questa ragione lo strinse a sé, attento a non schiacciare il braccio ferito.

«Andrà tutto bene, Mukuro. Ci sono io con te.»

Il suo sguardo era molto fermo, sembrava completamente sicuro di quello che aveva detto e Mukuro capì come mai tutti pensassero a lui in termini tanto assoluti: trasmetteva una sensazione di protezione, stare stretto a lui era come essere dentro un’armatura forte abbastanza da difendere dal crollo del cielo stesso.

Tuttavia, alzare lo sguardo ruppe quella bolla rassicurante con certezze spaventose. Il ponte era retto sopra di loro da quattro immense ali bianche, ma non poteva non accorgersi che quelle cedevano lentamente all’immenso peso dell’architettura più caratteristica di Higashiki.

«B-Byakuran…»

Lui non rispose; chiuse i suoi occhi lilla iridescente per respirare più a fondo e regolarmente e un terzo paio di ali si spalancarono per sollevare il ponte di altri due, tre metri.

«Va’ via, Mukuro… mettiti al sicuro… sbrigati» gli sussurrò.

«E tu?»

«Sbrigati

La realtà colpì il ragazzo come un treno in corsa e non meno dolorosamente: per quanto forte fosse, per quanto fosse miracoloso il suo potere di guarigione, neanche lui poteva sorreggere quel peso o curare le orrende conseguenze dello schiacciamento in cui sarebbe rimasto coinvolto.

Non ce la fa… non ce la farà da solo… resterà schiacciato e lui vuole salvare me!

Byakuran aprì bocca per intimargli ancora una volta di andarsene, ma un paio delle sue ali svanirono e il ponte fece uno spaventoso balzo contro di loro; il Civil Hero si trovò a chinarsi in avanti mentre il cemento l’assediava per conquistare l’ultimo metro fino al basamento.

Byakuran, però, anziché angosciarsi sorrise appena e gli toccò il ginocchio.

«Riparerò… gli strappi muscolari alle gambe… dopo, le mie ali cederanno» gli fece, tra respiri rochi. «Salta via di qui, come un grillo…»

Gli ci volle un secondo – anche se gli parve molto, in quel frangente – per afferrare il senso terribile di quelle parole.

Vuole morire salvando me… mi aveva detto di non fare l’eroe. Me l’aveva detto, e io l’ho ucciso… sto uccidendo Byakuran per la mia debolezza!

Indignato, atterrito e disperato prese una decisione immediata. Scattò in piedi su gambe doloranti e spinse con tutta la rinnovata forza della sua disperazione sul suo braccio sano, riconquistando una ventina di centimetri. Si piazzò di schiena e fissò Byakuran.

«Puoi ancora muoverti… se sarai veloce potrai volar via mentre lo reggo per qualche secondo» gli disse, con una voce ferma che non tradiva il terrore che sentiva dentro. «Tu sei molto più importante di me… per tutti! Devi vivere!»

Il volto di Byakuran si contorse in una smorfia, ma la sua replica fu interrotta da un suono forte e acuto, come di grandi campanelle, accompagnato da un vento forte. Un lampo verde passò ai margini del campo visivo di Mukuro mentre il vento cresceva e tutto a un tratto il ponte si sollevò completamente dalla sua spalla e dalle ali di Byakuran. Dopo un attimo di smarrimento barcollò accasciandosi di lato sul basamento e vide la figura vicina al pilone.

Una donna con un costume verde come l’erba e voluminosi capelli bianchi fluttuava a mezz’aria con le mani in alto, e tre teste di drago eteree come le ali di Wing Emperor mordevano i muri di sicurezza laterali delle carreggiate sollevando l’intera sezione del ponte. La donna aveva sul petto uno stemma – una G dorata su uno scudo azzurro – e sul volto un ampio sorriso rassicurante.

Mukuro si girò verso Byakuran per chiedergli chi fosse, ma seguì il suo sguardo verso l’orizzonte: decine di sagome scure arrivavano in volo sulla città, planavano verso il ponte e ripartivano portando con loro le persone bloccate, raggiungevano superstiti che gesticolavano da tetti e piani sopraelevati… l’Unità Volanti del Coordinamento era finalmente arrivata.

«L’Unità Volanti… eh?»

Mukuro si trovò a ridere a singhiozzo mentre guardava i tre draghi della donna in verde e altri due eroi alati spostare lentamente il colossale segmento fino a farlo adagiare senza danni nel letto del fiume. Il ragazzo cercò di alzarsi per seguire l’operazione, ma la schiena gli diede una fitta micidiale, tanto da farlo finire per terra a contorcersi dal dolore: si sentiva come se lo scheletro stesse andando in briciole.

Una familiare sensazione di formicolio e calore intenso seguì il tocco di Byakuran in alcuni punti della sua schiena e delle gambe.

«Ti avevo detto di non fare l’eroe, Mukuro. Guarda che cosa ti stavi facendo» lo rimproverò lui, rigido come mai. «Stavi per romperti la schiena… per non parlare del fatto che volevi restare schiacciato qui sotto al posto mio.»

«Si insegna con l’esempio, no?» replicò Mukuro, con il dolore al braccio che emergeva più nitido man mano che il dolore generale si affievoliva. «Se tu sei un eroe come pretendi di dire a qualcuno di non fare come te…?»

«Emperor-taicho» li interruppe un eroe con ali semitrasparenti da libellula con riflessi arancioni. «Siete in grado di muovervi?»

«Sì… sto bene, Camaro. Grazie» rispose lui, e si raddrizzò. «Completate voi l’evacuazione?»

«Ce ne stiamo occupando, signore…»

Mukuro incrociò lo sguardo di Camaro: aveva uno sguardo franco e onesto, ne traspariva sincera preoccupazione e nessun tentativo di imbonire il Civil Hero più forte del mondo.

«Il ragazzo… sta bene?»

«Il braccio è messo male… bisogna riposizionare la frattura prima di saldarla» fece lui in tono pratico, da medico alla classe di praticanti. «Me ne occuperò subito… poi tornerò ad aiutarvi. Il punto di soccorso è stato allestito davanti all’orto botanico?»

«Sì, signore, come programmato.»

«Mi ritroverò con voi dopo essere andato dai feriti gravi.»

Camaro annuì e fece un sorriso accennato a Mukuro prima di volare via producendo un sottile ronzio. Byakuran lo prese in braccio e spiccò il volo nella direzione opposta, ma il ragazzo era troppo stremato per ribellarsi: non sarebbe riuscito a camminare fino al campo, non senza l’adrenalina che lo teneva in piedi e gli impediva di sentire il dolore nettamente.

Volando furono a destinazione in meno di un minuto e atterrare vicino ai tendoni verdi fu per Mukuro il sollievo, immaginando già una cura per il suo braccio. Ancora non aveva il coraggio di guardarlo e scoprire in che condizioni fosse, preferiva ignorarlo.

«Ora chiamo Luck… anestetizzandoti il braccio possiamo spostare le ossa senza che tu senta dolore, poi posso–»

Un coro di voci concitate poco distanti li prese entrambi di sorpresa e in un attimo furono accerchiati da persone con in mano microfono, cellulari, registratori e telecamere.

«Eccolo, l’eroe del giorno!»

«È lui!»

«Una domanda, per favore!»

Mukuro si spostò di lato per non ritrovarsi in mezzo all’assalto a Wing Emperor, ma con suo sommo sbalordimento vide che la mandria lo seguì: era lui che cercavano. Byakuran lo raggiunse con l’aria battagliera di una leonessa che difende la progenie mentre una donna – la stessa che Mukuro vedeva spesso al telegiornale seguito a casa Kujaku – gli allungava contro un microfono.

«L’eroe del ponte!» annunciò in tono entusiasta alla telecamera del suo collega. «Un incredibile salvataggio, un’ammirevole dimostrazione di forza! Indossi l’uniforme tattica della classe A, sei uno studente dell’Accademia Auris?»

«Come ti chiami?» saltò su un altro uomo.

«Il protocollo dichiara che le zone critiche di un incidente sono accessibili solo ai professionisti e alla classe S, come giustifichi la tua presenza sul ponte?»

Mukuro avrebbe voluto che gli venisse in mente qualcosa di brillante da commentare, ma non riuscì a spiccicare una parola. Non era neanche sicuro che intendessero complimentarsi, perché forse aveva solo attirato l’attenzione su uno studente a cui non poteva essere permesso di essere presente. Alzò la mano sana davanti agli occhi quando un flash particolarmente luminoso lo abbagliò e indietreggiando trovò solo una parete di tela impermeabile, ma allora Byakuran intervenne.

«Ma che fate? Non vedete che è ferito? Lasciatelo in pace, parlerete con lui quando le acque si saranno calmate!»

«Wing Emperor, un suo commento su questo incredibile salvataggio?»

«Non è il caso che vi complimentiate, la condotta di questo ragazzo è stata estremamente pericolosa per la sua stessa incolumità e un simile azzardo non dovrebbe mai–»

«Mi ha salvato la vita!»

Il gruppo di giornalisti si aprì a sufficienza per mostrargli chi aveva urlato: là dietro il gruppo, in piedi, c’era il ragazzo liceale con la sorellina che gli assomigliava. Lei aveva ancora gli strascichi del singhiozzo disperato di poco prima e il giovane era vistosamente emozionato mentre stendeva il braccio per indicarlo.

«Quel Civil Hero ha salvato me e mia sorella» dichiarò con voce malferma. «Wing Emperor-sama… se… se davvero non avrebbe potuto essere lì… se non sarebbe dovuto venire in nostro soccorso… i-io non posso che ringraziarlo due volte! Io e mia sorella… eravamo lì sotto, il ponte ci avrebbe schiacciati!»

Se solo Mukuro fosse riuscito a staccare gli occhi da quelli del ragazzo si sarebbe accorto dello stupore di Wing Emperor e ne avrebbe dedotto che non si era accorto dei due giovani che avevano cercato salvezza tramite la scala di servizio. Quasi gli mancò il fiato quando lo vide gettarsi in ginocchio e poggiare mani e fronte a terra.

«Grazie infinite!»

Molte idee passarono per la testa di Mukuro mentre una pioggia di flash e un concerto di click si levavano dalla folla di giornalisti. Avrebbe dovuto dire qualcosa. Avrebbe dovuto minimizzare l’importanza del suo intervento, e chiedergli di non essere così formale.

Sì… dovrei dirgli di alzarsi, non ho fatto nulla che… nulla… che…

Ma stava mentendo a se stesso in una modestia volta allo svilimento: aveva davvero fatto qualcosa, per la prima volta nella sua vita non era scappato davanti a una situazione difficile, non aveva scaricato la responsabilità… pur avendone ogni possibilità date dalla legge e dalla sua inesperienza, aveva scelto di agire. Di agire da eroe.

Avvertì il calore delle lacrime che gli scesero scavando righe nella polvere di cemento che gli copriva il viso, ma non poté contenerle in nessun modo; neanche pizzicarsi furtivamente la gamba servì a qualcosa.

«Cielo, ragazzo mio, come sei sensibile…» gli sussurrò Byakuran, e gli strinse la spalla destra leggermente. «Non vuoi dire niente a quel ragazzo?»

Certo gli avvenimenti delle ultime settimane l’avevano reso più sensibile di quanto non fosse mai stato, ma dubitava che uno come Emperor avrebbe mai potuto capire come si sentiva un perfetto vigliacco a essere ringraziato in quel modo per aver salvato delle vite. Si asciugò gli occhi con il dorso della mano.

«Non… non serve che mi ringrazi» fece Mukuro, con una voce arrochita da polvere ed emozione. «Proteggervi… è la mia missione.»

Evitò accuratamente di incrociare lo sguardo con Byakuran, ma intimamente sapeva di essere al momento della svolta. Virtualmente era seduto davanti a una finestra rotta a guardare la neve che cadeva sul ghetto degli Auris.

«Emperor-sama, usa le sue stesse parole! È il ragazzo che si vociferava fosse il suo pupillo?»

«Immagino non possa restare segreto per sempre» sospirò Byakuran. «Questo ragazzo è affidato a me… vive in Accademia e io ne sono il tutore.»

«Con questa forza dev’essere un classe S! Come ti chiami, vuoi dircelo?»

Mukuro si trovò ammutolito come un bambino timido. Aveva vagamente prospettato di iscriversi davvero all’Accademia e di diventare, forse, prima o poi, un Civil Hero. Il nome d’arte era l’ultimo dei suoi pensieri ed era certo che la giornalista si riferisse a un nome in codice.

Ancora una volta la voce di Byakuran gli venne in aiuto, sussurrata all’orecchio.

«Posso?»

Capì senza altre parole che cosa intendesse dire e annuì. La mano di Byakuran accarezzò la sua spalla con un fare incoraggiante mentre sorrideva al quarto potere.

«Indigo… il suo nome è Indigo» annunciò con sicurezza. «Non lo sapeva… anzi, ne dubitava fortemente, eppure è nato eroe… e io lo sentivo.»

«Indigo?» ripeté la donna, visibilmente interdetta. «Indigo e basta?»

«Sai meglio di me che i nomi dei Civil Heroes sono soggetti a… rimaneggiamenti nel tempo, dico bene, Izumi?»

La reporter, principale responsabile della trasformazione di Wing Weaver in Wing Emperor, fece un sorriso più fiero che imbarazzato ai colleghi più vicini.

«Ora basta chiacchiere, sloggiate» fece il Civil Hero, di nuovo brusco. «Questo ragazzo ha bisogno di cure e anche molti altri. Restate fuori dalle zone pericolanti e dall’ospedale da campo.»

Byakuran spinse Mukuro sulla schiena con delicatezza per guidarlo verso uno dei tendoni, ma poi si fermò per scoccare un’occhiata velenosa a un reporter che aveva fatto un cenno non fraintendibile al suo cameraman.

«Vi avverto: se vi fate male nella zona rossa non vi soccorro.»

Mukuro venne spinto in un tendone con delle brande molto vicine tra loro e solo quando sedette su una di quelle Byakuran ammorbidì la sua espressione.

«Non sei stato un po’ brusco, Byakuran…?»

«Sono giornalisti, sono pestiferi… imparerai che se vuoi che facciano come dici devi essere severo con loro, non puoi essere accondiscendente. Sono nati per ficcarsi nei casini, ce l’hanno nel sangue. Non farebbero questo lavoro se non fosse così.»

«Ahi!»

Il solo tocco sul gomito bastò a cancellare l’allegria di quel commento con una fitta di dolore. Byakuran scosse la testa.

«Il tuo braccio è come un pacchetto di grissini calpestati in questo momento» gli annunciò. «Devo riallineare i pezzi prima di saldarli, o ti ritroverai un braccio deformato.»

«Cavolo… e farà male?»

«Non posso fartelo senza un’anestesia, impazziresti di dolore.»

«Davvero?»

«Davvero» confermò lui, e alzò la mano per richiamare l’attenzione di un’infermiera. «Ho bisogno di qualcuno che possa desensibilizzare il braccio del ragazzo per sistemare la frattura, me lo trovi, per favore.»

«Sì, Emperor-sama!»

La donna uscì di fretta e Mukuro, più per distrarsi che per un concreto interesse, pensò che fosse il caso di fare qualche domanda e intavolare una conversazione.

«Ti è mai successo?»

«Di fratturarmi qualcosa? Molte volte.»

«E di saldarle male?»

«Ogni volta che ho subito una frattura scomposta, perché il mio potere tende a riparare le lesioni immediatamente. La volta peggiore mi è successo in entrambe le gambe.»

«E che è successo dopo?»

Byakuran deglutì l’acqua che stava bevendo e gli passò la borraccia.

«La sola cosa che si può fare in quei casi… le ho dovute rompere di nuovo e trattenere il potere il tempo necessario per sistemarle prima di saldarle.»

Mukuro per poco non sputò l’acqua, ma riuscì a deglutire senza danni oltre a una vistosa pelle d’oca: l’idea che qualcuno si rompesse due gambe guarite per aggiustarsi le ossa era qualcosa di agghiacciante. Non poté ribattere, perché in quel momento l’infermiera fu di ritorno con Wish Luck al seguito.

«Mukuro-kun! Stai bene?»

«Decentemente» minimizzò lui accennando al braccio. «Poteva andare peggio.»

«Non sai neanche quanto ci sei andato vicino a quel peggio» commentò caustico Byakuran, e poi guardò la ragazza. «Devi intorpidire il braccio, così lo sistemo per saldarlo. Sbrighiamoci, ci sono molti feriti in arrivo.»

«Subito!»

Per la prima volta Mukuro ebbe un assaggio dei poteri delle soccorritrici della classe S e comprese che non erano in quella classe per caso. A Luck bastò imporre le mani – con le dita che formavano un simbolo simile a quello di un omamori – e il suo braccio smise di esistere in pochi secondi. Era più che informicolito, più che addormentato: era proprio come se si fosse svegliato dopo un intervento di amputazione, non esisteva più. Byakuran poté tastarlo, stirarlo e spingere senza che sentisse neanche il più vago contatto, figurarsi del dolore.

«È stupefacente, Luck… non sento assolutamente niente.»

La ragazza bionda sorrise diventando leggermente più rosea sul viso.

«Ne sono felice… di per sé il mio potere non serve a molto altro, neanche in campo medico, ma almeno serve ad alleviare le sofferenze alle persone.»

«Se fossi stata con me sotto il ponte sarei riuscito a realizzare l’impossibile.»

Intorpidito a quel modo non sentì neanche l’intenso calore quando Byakuran iniziò la sua cura, ma notò l’insistente occhiata che gli stava lanciando e il suo sorriso vagamente malizioso. Poco dopo distinse anche il cenno della sua testa, appena percettibile, e guardò Wish Luck: non lo guardava in volto, ma sorrideva ed era molto più rossa sulle gote.

Un lampo di comprensione gli fece assumere un’espressione atterrita, divenne prima più pallido e poi più rosso. Girò la testa dall’altra parte verso il fondo della tenda dove si affaccendavano delle infermiere, ma prima poté accorgersi benissimo di quanto Byakuran era divertito dalla sua involontaria uscita romantica.

 

*

 

Apparentemente, quella giornata fu lunga una settimana per Byakuran e si rese conto di aver bisogno di riposo soltanto quando – guarita l’ennesima brutta ferita di un sopravvissuto – si sentì toccare la spalla e la prima cosa che vide voltandosi fu che Kikyo gli stava porgendo un elastico per capelli.

«Basta così, Byakuran… prenditi una pausa» gli fece, anche se era il primo a sembrare esausto. «Devi mangiare e dormire qualche ora. Lascia che continuino gli altri guaritori mentre riposi.»

Al comandante del Coordinamento bastò passarsi la mano nei capelli per rendersi conto delle disastrose condizioni in cui versavano e prese l’elastico per legarseli in una corta coda sulla nuca. Kikyo, come ogni volta in quei frangenti, scosse la testa divertito.

«Te li taglierò prima che torni al lavoro.»

«Non servirebbe a niente, si allungherebbero di nuovo… è meglio farlo una volta smantellato il punto di soccorso.»

Non aveva mai trovato una spiegazione concreta di quel curioso fenomeno, ma l’utilizzo ripetuto della guarigione su di sé o su altri aveva l’insolito effetto collaterale di far crescere rapidamente i suoi capelli. La vera stranezza stava nel fatto che le unghie non crescevano nonostante fossero fatte di cheratina come i capelli, né qualsiasi altra parte del corpo presentava alcun genere di variazione. Molte teorie, poche certezze; ma d’altronde era una condizione comune a molti Auris il cui potere combinava effetti apparentemente non correlati al suo funzionamento.

«Come procedono le ricerche?»

«Ah… bene, tutto sommato…» replicò Kikyo con un sorriso incerto. «Sì, ci sono state molte vittime, ma detto tra noi siamo stati fortunati. Con un disastro simile poteva essere infinitamente peggio, e il merito è del vostro intervento sul ponte e dell’arrivo tempestivo dell’Unità Volanti che ha permesso di salvare chi era rimasto bloccato nei palazzi.»

Byakuran annuì. Con l’esperienza che aveva maturato si era reso conto che in quel caso, in proporzione all’immensità dei danni alle strutture, i feriti erano relativamente pochi. Era lieto di sapere che le vittime non erano superiori alle statistiche, per quanto ai suoi occhi ogni giovane deceduto era una promessa infranta, ogni genitore una ferita per una famiglia e ogni anziano un addio ingiustamente anticipato.

«Mh, c’è qualcosa di strano in quel sorriso» osservò Kikyo incuriosito. «Mi dici cosa ti fa sentire questa vaga felicità sotto la tua solita tristezza da calamità naturale?»

«Non annusarmi, Kikyo» replicò lui meccanicamente.

«Non l’ho ancora fatto, ti sto solo guardando» fece l’altro, e aprì la borraccia. «Ci conosciamo da trent’anni, potresti anche considerare l’ipotesi che io capisca cosa pensi anche senza annusare i tuoi ormoni.»

Byakuran sospirò e scribacchiò qualcosa sulla cartella posata sul vassoio.

«Hai ragione, ho un motivo per sentirmi un po’ felice» confessò lui, e schioccò le dita all’indirizzo di una delle infermiere. «La prescrizione per i pazienti della tenda nove è completa, ma vado in pausa, chiedi a Ritmo se c’è bisogno di chiarimenti.»

«Sì, Emperor-sama, grazie.»

Lasciò le cartelle alla donna e si avviò all’uscita seguito da Kikyo, che gli stava lanciando un’occhiata eloquente.

«Ritmo?» fece poi, quando capì che non aveva intenzione di commentare sua sponte. «Stai parlando del Dottor Ritmo, quel vecchio strambo che balla da una corsia all’altra?»

«Proprio quello.»

«Stai scavalcando il tuo secondo in comando per dare la responsabilità a quel pazzo?»

«Quel pazzo è un ottimo medico, oltre ad essere incredibilmente solare come persona» commentò Byakuran senza particolare emozione. «Auburn è… affettato, capisci che cosa intendo dire? Ci tiene di più alla sua reputazione di guaritore e medico che a fare tutto il possibile… insomma, lo hai visto come si è conciato?»

Entrambi lo trovarono immediatamente, fermo davanti alla tenda dei medicinali: alto, con i capelli perfettamente in ordine nel taglio curato, il camice immacolato, camicia stirata e cravatta annodata in modo impeccabile, stava eretto e rigido a dare ordini a medici e infermieri con la cupezza e la solennità di un cardinale tra prelati di campagna. Senza commentare ulteriormente i due uomini si scambiarono uno sguardo eloquente e proseguirono la loro strada, almeno finché Byakuran non deviò nella tenda due anziché puntare al tendone giallo e al lungo tavolo dove una schiera di volontari serviva il pasto.

«Byakuran? È di qua.»

«Voglio solo vedere come sta l’eroe del ponte» fece lui, incapace di non sorridere.

Entrò nella tenda e lasciò correre lo sguardo sulle brande, ma non gli sembrò di riconoscere Mukuro in nessuna di quelle figure. Perplesso fece qualche passo per osservarli più da vicino, poi l’infermiera gli si fece incontro.

«Cercate qualcuno, Emperor-sama?»

«È… dov’è finito Indigo? Il ragazzo con l’uniforme tattica…»

«Oh, non è qui, signore. Ha lasciato la branda quasi subito quando ve ne siete andato, insisteva nel dire che stava bene e non c’era bisogno che occupasse un letto per i feriti.»

«Cosa? Ma… dove… oh, no, no…»

Senza ascoltare la donna uscì frettolosamente e raggiunse Kikyo, che notò immediatamente la sua preoccupazione.

«Che succede?»

«Kikyo, aiutami a trovare Indigo!»

«Indigo?» fece lui, accigliato. «Chi è Indigo?»

«Mukuro, è Mukuro!» sbottò bruscamente Byakuran. «È il suo nome da Civil Hero… ah, te lo spiego dopo, ora aiutami a trovarlo! Non è nella tenda, se n’è andato!»

«Perché mai Mukuro dovrebbe essere qui?»

«S’è messo una tuta della classe A e si è unito a loro per venire qui, stamattina! È rimasto ferito e l’ho medicato, gli avevo detto di restare a riposo, e invece–»

«Calmati, dove vuoi che sia finito? Le ricerche sono sospese per gli studenti. Sarà qui intorno, magari sta cenando insieme agli altri» osservò Kikyo con il suo rassicurante buonsenso. «Nome da Civil Hero, hai detto? Mi sono perso qualcosa di importante?»

«Te lo spiego… mentre mi porti da lui. Usa quel tuo naso per qualcosa di più utile che ficcarlo nei fatti miei.»

 

*

 

Mukuro espirò meccanicamente al momento di tirare con forza la corda, e come era successo per quelli precedenti anche quel modulo si aprì automaticamente assumendo l’aspetto di una tenda malmessa sopra paletti storti. Bastò l’intervento di un paio di addetti esperti perché i supporti venissero fissati dritti e il ragazzo si avvicinò per aiutarli a tendere i tiranti. In pochi secondi anche quella aveva assunto l’aspetto di una robusta tenda pronta a ospitare gli sfollati e i Civil Heroes giunti sul posto per il soccorso.

«Un ottimo lavoro, Indigo!»

Mukuro attese di aver fissato bene il tirante prima di alzare la testa, e vide l’uomo responsabile degli allestimenti delle basi che quel pomeriggio lo aveva reclutato per aiutare quando era andato in cerca di un’occupazione utile. Stava sorridendo.

«Grazie, signore.»

«Sei stato molto utile. Anche se i moduli sono ben progettati occorrerebbero cinque persone per montarne uno, e grazie a te abbiamo potuto impiegarne meno e allestire più velocemente il campo base» spiegò con compiacimento, accennando alla tenda appena montata. «Possiamo continuare da soli, adesso, la seconda squadra ha finito di cenare e può tornare al lavoro.»

«Non è un problema per me continuare finché non finiamo.»

«Ne avremo per un paio d’ore ancora… è meglio se riposi e vai a mangiare qualcosa. Domani sarà un’altra lunga giornata.»

In effetti Mukuro non poteva dire di non sentire la stanchezza: si era svegliato molto presto, aveva affrontato la prova di sbarramento della classe S, era stato catapultato nell’inferno di un disastro naturale e per poco non era morto schiacciato da un ponte crollato, non aveva pranzato e aveva passato ore a montare le tende per il soccorso e allestire le brande all’interno. Se solo si fosse concesso un pasto caldo e di sdraiarsi si sarebbe addormentato all’istante.

«Grazie, signore… se non avete bisogno di me credo seguirò il suo consiglio» rispose allora, accennando un sorriso.

«Rompi le righe, dunque… squadra uno, appena allestite le brande andate a cenare e prendete la vostra pausa!»

Un coro di sospiri e commenti sollevati seguì l’annuncio del loro comandante e la squadra si affrettò a portare dentro brande piegate, pile di coperte, aste di metallo e tende di plastica divisorie. Mukuro si massaggiò il braccio sinistro che sentiva rigido e si avviò verso la bandierina gialla che svettava al centro dell’accampamento.

«Oh, Indigo, un momento.»

«Sì, signore?» fece lui, voltandosi indietro. «Posso ancora essere utile?»

«Desidero scrivere una menzione sul tuo curriculum, per la tua operosità ed efficienza nel servizio al campo base» l’informò il capo allestimenti, accarezzandosi i baffi. «A chi devo indirizzarla? Chi è il tuo responsabile?»

Non senza una buona dose di autocompiacimento Mukuro sorrise.

«Credo che ogni comunicazione al mio riguardo sia da inoltrare a Wing Emperor in persona, almeno allo stato attuale delle cose, signore.»

L’uomo si fece pensieroso, ma poi annuì.

«Sì, immagino sia la scelta più logica, dato che sei uno studente… lascerò al tuo insegnante il mio recapito, qualora dopo il diploma ti interessasse un posto nella Squadra Logistica Operativa.»

Mukuro non aveva ben chiara la struttura interna del Coordinamento Civil Heroes giapponese e conosceva i vari uffici e dipartimenti che lo componevano solo per sommi capi, perciò fu con una certa esitazione che replicò.

«Signore… intende… è sicuro di volere uno come me?»

Il capitano si accarezzò nuovamente i baffi, tesi da un sorriso.

«I giovani Civil Heroes sono ambiziosi e coraggiosi… tendono a prediligere un impiego nelle squadre del Dipartimento Missioni Attive, o in quello medico o nelle squadre speciali di difesa… considerano degradante finire a lavorare nelle unità di supporto come la nostra, pensano che solo chi non ha talento debba rendersi utile montando tende, sistemando brandine e distribuendo viveri… ma tu…»

L’uomo gli diede le spalle, raddrizzandosi con un contegno molto militare.

«Tu hai la forza e il talento, eppure non hai avuto il minimo tentennamento quando ti ho detto che servivano mani per allestire il punto di soccorso. Anzi, hai lavorato alacremente… non mi sarei mai aspettato tanto spirito di sacrificio da uno studente delle classi superiori dell’Accademia.»

«A che cosa servirebbe trovare superstiti e feriti, se il campo non fosse pronto per accoglierli?» osservò Mukuro, interdetto. «È logico che qualcuno debba preparare tutto. Nessuno che si ritenga una forma di vita intelligente potrebbe mai pensare che sia un lavoro secondario.»

L’uomo annuì rigidamente.

«Precisamente. Ti ringrazio molto di… averlo espresso in modo così chiaro.»

«Mi preoccuperò di ripeterlo a chiunque non arrivi a capirlo da solo, signore.»

La squadra due era di ritorno dalla cena e i suoi membri superarono il ragazzo per andare a dare il cambio alla prima squadra. Il capitano diede direttive e congedò Mukuro con un cenno del capo prima di avviarsi nella direzione opposta, con l’aria ancora pensierosa. Il ragazzo non era meno pensieroso mentre si dirigeva al tendone giallo, tanto che il profumo di uno stufato caldo non lo riscosse affatto.

Era difficile prenderne coscienza appieno, ma aveva appena ricevuto un’offerta di lavoro. Era il suo primo giorno nei panni di un Civil Hero e già qualcuno pensava che potesse trovare una collocazione in uno degli uffici del Coordinamento…

Si sentì urtare da qualcosa che fece uno strano singulto; solo guardando per terra si accorse che era stato un bambino a corrergli contro e a sbattergli sulla gamba. Si affrettò a chinarsi e lo rimise in piedi.

«Ehi, tutto okay? Ti sei fatto male?»

Il bambino alzò su di lui un paio di straordinari occhi scarlatti che sembravano più luminosi dell’ambiente crepuscolare che c’era intorno a loro. A parte un cerotto sulla guancia e una benda sulla manina sembrava in perfetta salute.

«Sembri a posto… ti sei perso? Chi stai cercando?»

Il bambino non rispose a parole, ma un poderoso brontolio di stomaco fu sufficiente a strappargli un sorriso.

«Qualcuno ha fame… beh, anch’io. Andiamo a prendere un po’ di pappa prima di trovare i tuoi?»

Non disse ancora nulla, ma non esitò ad afferrargli le dita e lo seguì verso il tendone giallo, almeno finché non si fermò di scatto. Mukuro aveva appena incrociato la ragazza con gli occhi viola e lei gli aveva sorriso, ma purtroppo una sua amica la chiamò distogliendo la sua attenzione dal loro incontro. Gli dispiacque non aver avuto neanche un attimo per dirle un “ciao” e poterla ringraziare di avergli fatto coraggio quella mattina, e ancora di più dopo quell’incrocio di sguardi.

«Oh, eccoti qui!»

Mukuro riconobbe Kyoya più dal modo in cui gli strinse il braccio che dalla voce: se fosse stato possibile guardargli gli occhi senza vedere il resto l’avrebbe riconosciuto lo stesso dal curioso misto di tenerezza, orgoglio ed entusiasmo che aveva imparato ad associare a lui quando era in sua presenza.

«Ti ho cercato ovunque!»

«Sì, ero un po’… ah!»

Mukuro si rese conto che la manina del bambino non gli stringeva più le dita e tutt’intorno non ne vide traccia. Gli sembrò che lo stomaco gli cadesse per terra.

«Dov’è il bambino?»

«Quale bambino?»

«Quello che era qui con me… era piccolino, alto così, e…»

«Oh, era con te? L’ho visto allontanarsi mentre mi avvicinavo, verso quel banchetto là… quello che distribuisce l’acqua.»

Mukuro si voltò da quella parte, ma c’erano quattro file di persone per il cibo e un notevole via vai intorno. Vedere da lontano un bambino così piccolo era piuttosto difficile. Non si sentì del tutto tranquillo avendolo smarrito così.

«Perché era con te?»

«Mi ha sbattuto contro… era da solo e volevo portarlo a mangiare e trovare qualcuno della sua famiglia…»

«La tua natura da chioccia è infallibile… è il secondo bambino di oggi, eh?»

«Uh… come lo sai?»

Kyoya scrollò le spalle.

«È una specie di tradizione che si sappia il nome del primo a essere registrato al campo base e chi lo ha portato… non sappiamo il nome del piccolino ma chi l’ha portato lo conosciamo bene, noi della classe S. Mi sa che se i media scoprono quanto tieni ai bambini finiranno per ritoccarti il soprannome subito.»

«Quindi sai anche questo?»

«Come potevo non saperlo, dopo aver visto la cosa incredibile che hai fatto oggi? Ne stanno parlando tutti qui al campo!»

«Ah… già, in effetti avrei dovuto immaginare che mi avessi visto in diretta, tu…»

«Tutto qui? “Ah”? Non hai altro da dire?»

«Non c’è altro da dire, mi sembra… » fece Mukuro, e scrollando le spalle si mise in fila per la cena. «C’erano persone in pericolo e nessun altro che potesse fare qualcosa in quel momento.»

«Quello che hai fatto è magnifico… e ti assicuro che tutti avranno molto da dire in proposito, a dispetto di quello che dici di pensare… lo sapevo. Io lo sapevo

«Sapevi che cosa, Kyoya?» gli chiese Mukuro, sperando di smorzare il suo entusiasmo con un tono spento. «Sapevi che mi sarebbe finito addosso un ponte e che mi sarei distrutto un braccio prima di farmi salvare da Wing Emperor e da un’Auris con le teste di drago?»

«Sapevo che per te gli altri sono più che ombre. Che avresti avuto il coraggio di difenderli quando ti fossi trovato a dover prendere una decisione» rispose lui, niente affatto avvilito. «Io lo sentivo che tu eri nato eroe. Dovevi soltanto avere l’occasione per scoprirlo da te, Mukuro… ah, no, Indigo

Mukuro sospirò, con più disappunto di quanto ne sentisse realmente.

«Mi chiamerai così da ora in poi?»

«Tutti ti chiameranno così, da ora in poi. Abituatici.»

«Sky Flame lo chiama “Enma”, non “Gravity”.»

Mukuro posò il vassoio sul tavolo mentre attendeva la ciotola di stufato, il riso e l’acqua, e Kyoya si sporse appoggiando leggermente il mento sulla sua spalla e accostando le labbra al suo orecchio per sussurrare con un filo di voce parole che lo raggelarono più dell’aria dicembrina.

«Loro stanno insieme~»

Mukuro girò lo sguardo, ma anche così non riusciva che a scorgere il profilo sfocato di Kyoya. Come nulla fosse successo prelevò il vassoio adeguatamente caricato di cibo.

«Indigo andrà benissimo, Phoenix.»

 

*

 

Byakuran aveva attraversato metà del campo alla ricerca del suo indisciplinato figlio – quanto strano era rendersi conto che sulla carta era questo! – quando raggiunse il tendone giallo della mensa: contava di riuscire a scovarlo lì o quanto meno uno dei suoi compagni di dormitorio che sapesse dirgli dov’era finito; ma di fatto venne trovato lui dal capitano Tsurugi-gatai, il più esperto dei responsabili dell’ufficio logistica e prima scelta per qualsiasi importante allestimento di sedi operative. Lavorando spesso insieme nella predisposizione di presidi medici erano in rapporti piuttosto informali e difatti lo salutò dandogli una leggera pacca sulla spalla.

«Un altro giorno di duro lavoro, Emperor.»

«Per entrambi, Tsuru-san… scusami se sembro scortese, ma sto cercando Indigo, sai, quel nuovo studente che–»

«Certo, gli ho detto poco fa di andare a mangiare e riposarsi» gli fece lui, prendendolo completamente in contropiede. «Ti cercavo proprio per parlarti di lui… ti farò avere una lettera formale ben scritta come da prassi, ma volevo anticipartelo a voce.»

Il cuore di Byakuran sembrò saltare un colpo.

«Che… che ha fatto, Tsuru-san?»

«Che cosa non ha fatto, piuttosto! Voglio dirtelo: è un eccellente lavoratore, e se davvero è un nuovo studente come stavi dicendo prima, hai trovato un’altra gemma speciale per la corona della tua accademia, amico mio.»

Avendo ipotizzato una dozzina di terrificanti scenari in una manciata di secondi si ritrovò spiazzato da quelle buone parole e non seppe che cosa rispondere. Fortunatamente il suo collega non aveva notato la sua perplessità.

«Tentavo di capire come approntare il punto di soccorso con pochi uomini quando quel ragazzo è uscito dalla tenda medica, chiedendo a chiunque che cosa potesse fare. Stava cercando di convincere un dottore a farlo aiutare a prestare il primo soccorso, e quando gli ha detto di nuovo di no l’ho reclutato io» raccontò lui, accarezzandosi i baffi con un gran sorriso. «Non una smorfia né una sillaba per tutto il giorno, Emperor: ha detto “sì, signore” e lavorato con la squadra uno per tirare su le tende e portare dentro le brande, non ha preso un minuto di pausa fino a poco fa. Mai visto un giovane Auris impegnarsi tanto per preparare il campo.»

Ripresosi un poco dallo stupore, Byakuran si trovò a considerare che dopotutto non era affatto un comportamento tanto sorprendente e sorrise.

«Indigo viene da una casa-famiglia privata, di una piccola città. È abituato a predisporre in anticipo, a pianificare e a considerare che cosa può fare per rendere più facile il lavoro degli altri.»

«Qualità che sarebbero molto utili nella mia unità… mi rendo conto che potrebbe desiderare di più, qualcosa di… più glorioso, ma scriverò nella lettera che se volesse mandarmi il suo curriculum lo metterò di certo in cima.»

«Oh… è… molto generoso da parte tua, Tsuru-san… non sei il tipo che fa favori e simpatie, quindi…»

«Non lo sono: ho visto delle qualità molto adatte. Se per una volta potessimo avere qualcuno che non si senta ferito nell’orgoglio a lavorare per me ne sarei felice.»

«Certo, ehm… sì, perché no. Glielo dirò, ma sappi che è un novellino assoluto, quindi anche per il tirocinio dovrai aspettare un anno nel migliore dei casi…»

«Sai meglio di me che per tagliare un diamante in modo superbo servono valide mani artigiane e una lavorazione accurata, no? Si aspetta sempre per un valido Civil Hero.»

Byakuran annuì e il capitano si congedò in modo amichevole, lasciandolo piacevolmente confuso. Non si aspettava certo simili referenze per un ragazzo che a quanto ne sapeva desiderava diventare un musicista… e si rese conto di quanto fosse banale una firma su un pezzo di carta: avrebbero potuto dire che era suo padre e il suo tutore, eppure non lo conosceva affatto.

È stato arrogante da parte mia pensare che saldare i conti mi rendesse come Luce… lei mi ha insegnato molte cose, ed è stato molto più che vestirmi, sfamarmi e darmi un letto. Sono stato sciocco a pensare che iniziare il viaggio significasse raggiungere automaticamente la destinazione…

Riprese la ricerca e non tardò a trovare l’eroe del ponte dentro una delle piccole tende per i Civil Heroes, in compagnia di un vassoio svuotato, di una tazza fumante e di Mad Phoenix. Seppe appena varcato l’ingresso che aveva interrotto qualche conversazione sussurrata, perché anche se non aveva sentito voci da fuori i due avevano l’aria di chi stava ridendo di qualcosa o di qualcuno con una buona dose di complicità che lo sorprese.

Dunque Mad Horse non scherzava.

«Buonasera, ragazzi… ho interrotto qualcosa?»

«No, no» rispose subito Mukuro. «Stavamo parlando di che cosa potrebbero star discutendo i miei fratelli a casa.»

«A questo proposito, ho chiesto che venissero contattati per rassicurare le tutrici sulle condizioni del tuo braccio… quindi puoi stare tranquillo che nessuno si sta dando pena… anche se gli avevo comunque dipinto un quadro più fosco, sembra. Sei in forma più di quanto avessi osato sperare.»

«Oh, sì, è tutto a posto… sono perfettamente funzionante.»

«Sì, l’ho sentito dire…»

«Non da me, lo giuro» fece Phoenix in un sussurro ben udibile sorridendo ironico.

«Togliti dai piedi, Phoenix, vai a molestare qualcun altro… tipo, quelli che raccolgono le stoviglie.»

Senza un fiato e senza smettere di sorridere Phoenix si alzò, raccolse i vassoi della cena e dopo avergli fatto un accenno di inchino con la testa uscì dalla tenda. Non era sicuro delle sensazioni che gli dava quella scena, ma decise di non rifletterci di più.

«Mi pareva di averti detto di riposare…»

«L’ho fatto… per una mezz’oretta.»

«Sono certo di averti detto di non muoverti fino alle sei.»

«Oh… oh, ma… intendevi le sei di questo fuso orario?» fece lui esibendo una realistica espressione interdetta. «Oh, mi dispiace tantissimo, Byakuran… avresti dovuto essere un po’ più chiaro, comunque…»

«Ahah. Piuttosto divertente, Mukuro, ma comincia a preoccuparmi questa tua indole ribelle… Momo non me ne ha mai fatto cenno e questo mi preoccupa ancora di più.»

Mukuro esibì un ghigno divertito ma non replicò prima di essersi sfilato uno degli stivali.

«A me preoccupa che chiami la mia tutrice per nome, c’è qualcosa che dovrei sapere?»

«Non è la tua tutrice, non più. Comunque scrive continuamente per avere tue notizie, se già non lo sai.»

«Manco da due settimane!»

«È già la quinta volta che scrive.»

«Forse dovrei scriverle anch’io e dirle che si guardi dagli uomini ricchi e famosi ancora scapoli.»

Andò a sedersi sulla brandina accanto a lui. Preferiva non raccontargli di quanto fosse fitto quel loro scambio epistolare così all’antica e di quanto in verità trovasse vagamente romantico, in un mondo informatico che cresceva ben oltre la sua capacità di starvi dietro, aspettare un foglio di carta scritto a mano.

«Senti senti, Ran~ è così tenero vedere un pozzo di perversioni come te sollazzarsi con il romanticismo~»

Byakuran chiuse gli occhi e scosse leggermente la testa. Sentiva ancora quella voce ma gli pareva sempre più lontana e meno frequente, quindi confidava che sarebbe sparita presto. A volte quei commenti non voluti causavano distrazione e inspiegabili variazioni di umore viste da fuori e non vedeva l’ora di potersi liberare dei momenti imbarazzanti che ne conseguivano.

«Il braccio è a posto?»

«Un poco rigido» rispose Mukuro togliendo l’altro stivale. «Ma non fa male… è a posto.»

«Io… soltanto due parole, poi ti lascio riposare… ne sentirai il bisogno.»

«In verità sì, sono distrutto…»

Mukuro si bloccò mentre si stiracchiava, con l’aria di chi ha inghiottito un moscerino.

«È raccapricciante come usiamo certi modi di dire, non trovi? Ho rischiato di finire letteralmente distrutto, stamattina.»

Credeva di essere più consapevole di Mukuro di che cosa avesse rischiato, ma preferì non battere ulteriormente quel tasto doloroso anche per lui: aveva rischiato che il ragazzo che aveva adottato con la promessa di proteggerlo finisse la sua vita dopo pochi giorni e in modo terribile. Non se lo sarebbe mai perdonato e la sua lista di peccati imperdonabili era già tremendamente lunga.

«Volevo soltanto dire… che sono… orgoglioso di come ti sei comportato oggi. Hai fatto qualcosa di estremamente stupido, ma per i più elevati motivi… e spero che tu ti sia reso conto che non sei neanche lontanamente un vigliacco e un debole.»

Mukuro distolse lo sguardo e si spostò i capelli dietro l’orecchio.

«Uhm… grazie.»

«Ho solo un punto che voglio mettere in chiaro e spero che non lo dovrò ripetere mai più» asserì poi con un tono molto più rigido. «Quando hai cercato di salvarmi… hai detto che sono più importante di te. Che dovevo sopravvivere perché sono più importante.»

«Beh, sì… è vero.»

«Non devi dire mai più nulla di così insensato» gli intimò, quasi con ferocia. «Wing Emperor è niente più che un simbolo. Come una bandiera… fa sentire unita una nazione, porta con sé la storia che l’ha creata… ma è una bandiera. Se venisse bruciata o strappata qualcuno potrebbe sentirsi offeso o indignato, ma nessuno morirebbe perché una bandiera non venga bruciata. E così dev’essere anche per Wing Emperor.»

Che stai dicendo? Wing Emperor è molto più di questo. Il mondo ha ancora bisogno di Wing Emperor, per molti anni ancora, fino a quando non ci saranno altri di pari importanza per portare avanti la missione nel modo corretto.

«Mi dispiace» replicò Mukuro, guardingo, «ma credo che tu abbia frainteso le mie parole. Certo, sei importante come Wing Emperor… ma io cercavo di salvare un dottore… un insegnante… un uomo che credo che mi piaccia. Che credo piacerebbe a tutti, se lo vedessero come l’ho visto io.»

Troppa confidenza. Lo sapevo che era pericoloso prendersi delle incombenze inutili, come essere amichevoli con gli studenti… essere insegnanti rigidi è un ruolo molto più funzionale per un Civil Hero.

Byakuran chiuse gli occhi, assediato da pensieri contrastanti. Si alzò più bruscamente di quanto avrebbe voluto e si diresse all’ingresso della tenda. Dopo aver bofonchiato qualcosa su un meritato riposo e un saluto incoerente ne uscì e si allontanò senza scambiare una parola con nessuno che non fosse dentro la sua testa.

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Capitolo 10
*** Weaving ties ***


Dispensato dalle mansioni di ricerca come tutti gli studenti, Kyoya si era alzato presto per offrire il suo aiuto ovunque fosse necessario e passò un’ora prima di colazione a spostare i carichi pesanti delle scorte alimentari nelle tende chiuse dietro quella gialla della mensa. Non fu sorpreso di trovare Gravity a fare lo stesso e da lui apprese che mentre le ragazze erano all’ospedale da campo Sky Flame era impegnato ad accendere fuochi e stufette a carbone in punti strategici per permettere agli sfollati del terremoto di riscaldarsi; mentre decisamente più sorprendente fu trovare Restless a rompere decine di uova in un’ampia ciotola e Breaker a occuparsi di servire le porzioni di zuppa.

«Come mai qui, voi due?»

«Ci rendiamo utili come possiamo… ieri sera i volontari hanno servito fino a tardi.»

«Almeno così potranno riposare» osservò Kyoya, annuendo. «È vero. Non ci avevo pensato.»

«Credo siano arrivate le coperte termiche» fece Restless, con gli occhi persi a qualche centinaio di metri da lì.

«Andrò a vedere se hanno bisogno di qualcuno per distribuirle, grazie» fece lui, ma non cercava il carico di kit antifreddo mentre girava lo sguardo intorno. «Per caso hai visto Mukuro?»

«Non è venuto a mangiare, ma l’ho visto andare con Wing Emperor quand’era ancora buio. Forse lo troverai alla tenda medica!»

Il dubbio che si trovasse lì per un fastidio al braccio gli oscurò l’umore, ma riuscì lo stesso a sorridere.

«Ti dispiace darmi un’altra zuppa? Gliela porto, visto che non ha ancora mangiato.»

Kyoya si affrettò a mangiare per liberare velocemente il posto sui tavoli pieghevoli e con il contenitore chiuso della zuppa marciò alla volta delle tende mediche, segnalate da alte bandierine bianche con una croce violetta.

Si affacciò sulla numero sei per trovarvi solo un paio di ragazzini che dormivano profondamente, nella cinque scandagliò le infermiere e i pazienti senza trovare chi stava cercando, e alla numero quattro ebbe fortuna. Individuò immediatamente Mukuro nonostante i capelli legati alti sulla testa e il grembiule bianco e viola dell’Unità Soccorritori sopra l’uniforme tattica: era occupato a leggere la cartella e scegliere con attenzione i medicinali prescritti ai pazienti.

Quell’aria da infermiere in verità gli dona…

Decise di attendere che finisse il suo giro per le medicine prima di offrirgli la zuppa, ma non aveva fatto in tempo a ritrarsi che si sentì toccare la spalla e sussultò. I suoi occhi incontrarono un volto piacevolmente familiare che lo mise a suo agio e lo fece sorridere.

«Buongiorno, Camaro…»

«Ciao, Phoenix… sei ferito?»

«Uh? No, perché?»

Camaro accennò alla tenda medica e Phoenix replicò scuotendo la testa e allontanandosi per lasciare l’entrata libera.

«Sto benissimo… stavo cercando Indigo.»

«Non si è ancora rimesso?»

«Si è rimesso prontamente, direi… ha passato tutto il pomeriggio ad allestire il campo e oggi si è svegliato prima di me per mettersi a lavorare qui» riassunse con un sorriso pieno di orgoglio. «Sta distribuendo le medicine adesso… appena avrà finito cercherò di farlo mangiare, ho il sospetto che sia uno scapestrato proprio come te, Camaro.»

Il giovane emise una risata imbarazzata e si grattò la testa scompigliandosi i capelli corti.

«Te lo ricordi ancora… ma giuro che adesso mi prendo una cura impeccabile di me stesso. Ho preso a cuore le tue raccomandazioni.»

«Sono felice di sentirtelo dire» replicò Phoenix con sincero sollievo. «Mi sono chiesto spesso se ti prendessi cura di te o se ti stessi trascurando. Ero un po’ preoccupato.»

«Non me lo perdonerei mai se un kohai stesse in pensiero per me… specialmente se quel kohai sei tu.»

Kyoya si guardò intorno per accertarsi che non ci fosse nessuno troppo vicino, poi fece un sorrisetto un po’ più malizioso.

«Camaro-senpai, se ti sentisse qualcuno potrebbe farsi una strana idea…»

Camaro rise divertito, senza alcuna traccia di imbarazzo.

«Vedo che ti diverte ancora provare a imbarazzarmi… ma ormai sono un uomo, è diventato più difficile riuscirci…»

«È una sfida?»

«Preferirei che non la considerassi così» fece lui, col sorriso imperturbabile. «Specie se Indigo è quello che io penso che sia.»

Lo sorprese sentire il suo vecchio senpai parlare di tali argomenti; un tempo bastava un vago accenno a una storia romantica – o peggio, erotica – per farlo arrossire e defilare quasi all’istante. Il fatto che avesse una carnagione molto scura aveva reso i suoi rossori quasi leggendari, a quei tempi.

«Oh… no, no. Siamo amici, e sta nella stanza accanto alla mia… è un ragazzo di talento, e ha anche spirito di sacrificio e umiltà. In queste virtù ti assomiglia… quando maturerà la fiducia in se stesso diventerà un diamante, sono sicuro.»

Camaro ponderò con attenzione quelle parole e si prese qualche attimo per replicare.

«Tu sei un ottimo motivatore e allenatore… se la pensi così, aiutalo. Ha coraggio da vendere e ha tutta la mia ammirazione… in un momento meno frenetico passerò all’Accademia a salutarvi tutti e ci terrò a conoscerlo di persona.»

Non ebbe modo di replicare prima che l’altoparlante emettesse tre segnali acustici di fila, simili a lontani fischi. Camaro si voltò a guardare l’altoparlante più vicino e la sua espressione si fece seria.

«Chiamano l’adunata dei Civil Heroes. Vado a sentire qual è il piano per oggi.»

«Non ti trattengo, ma non perché non mi piacerebbe parlare ancora… buona fortuna, Camaro.»

«Grazie. La fortuna non è mai troppa per noi.»

Camaro si congedò con un accenno di saluto e Phoenix fece per tornare alla tenda per vedere se Mukuro si fosse liberato, poi pensò che fosse meglio chiedere a Camaro in quale zona del campo fosse stato alloggiato. L’idea di presentargli Mukuro subito, magari a fine giornata, gli sembrava valida: di certo il senpai era un ottimo esempio di quello che sarebbe potuto diventare… ali escluse.

Fece dietrofront e girò l’angolo, ma si fermò di colpo come se si fosse trovato davanti una palizzata irta di spine. Vide Camaro in piedi tra due tende e con lui una sua conoscenza molto poco gradita. Si tenne in disparte, ma tese le orecchie per ascoltare.

«Un altro grande eroe, no? Un altro babbeo che sarebbe diventato un martire se non fosse stato per la Grand» sillabò Viperlance, sprezzante come solo lui sapeva essere. «Eri qui per lui, no?»

«Sì» replicò lui, sorprendendo Phoenix. «Volevo esprimergli la mia stima e dargli qualche consiglio, visto che sono stato anche io uno studente della classe S.»

«Non è della classe S, è un novellino che si è imbucato» fece l’altro, ancora più inacidito. «Si è mescolato alla classe A ed è venuto qui, ma non è uno studente dei nostri. Ne abbiamo parlato ieri sera, è uno che era venuto per il programma di contenimento.»

«Allora ha ancora più credito per me e più bisogno di qualche suggerimento» rispose Camaro, con un sospiro. «Non so quanto siate informati, ma adesso è della classe S. Phoenix mi ha detto che ha la stanza accanto alla sua.»

Anche da quella distanza Phoenix vide la furia e l’invidia deformare l’espressione di Viperlance.

«Non è possibile.»

«A quanto pare lo è» lo contraddisse l’altro, con fredda compostezza. «E non mi sorprende. Grande potere e grande cuore, una combinazione perfetta, secondo me.»

Camaro fece per avviarsi, ma Viperlance gli afferrò il braccio strattonandolo bruscamente.

«Ti credi molto superiore a me, vero?»

Il membro dell’Unità Volanti guardò in viso lo studente, con un’espressione molto rattristata ma ferma; Phoenix l’avrebbe definita rassegnata.

«In verità, Takihisa, sì… e nulla mi spezza il cuore più che rendermi conto che mio fratello è un arrogante, un invidioso e un vigliacco che cerca solo gloria» gli disse a voce più bassa. «Rendermene conto ogni giorno è l’aspetto più triste della mia vita.»

Viperlance non replicò e Phoenix faticò a elaborare quello che aveva sentito. Anche se lui e Viperlance erano cresciuti insieme all’Accademia fin da piccoli non aveva idea che Camaro fosse suo fratello; sapeva che entrambi facevano “Yamamoto” di cognome ma non era certo una rarità. I loro tratti somatici, poteri, caratteri e rapporti reciproci non lasciavano intuire alcuna parentela tra di loro.

Purtroppo quella riflessione lo assorbì tanto da non notare l’allontanamento di Camaro né Viperlance che gli si avvicinava, e finì per ritrovarselo davanti a brutto muso come sempre.

«Ti interessano i fatti miei, Phoenix?»

«Difficilmente posso pensare a qualcosa di meno interessante, Viperlance» replicò Phoenix, assumendo la sua usuale maschera di indifferenza. «Forse un secchio di esche vive mi emozionerebbe più di te e di tutto quello che ti riguarda.»

«E allora perché stavi origliando?»

«Origliando? Perché, esiste qualcuno che desidera avere una conversazione con te? Il mondo è pieno di sorprese.»

Viperlance gli scoccò un’occhiata così velenosa che quasi poteva bastare a intossicarlo, ma non aggiunse nulla e Phoenix si affrettò a entrare nella tenda medica senza azzardarsi a voltarsi indietro.

 

*

 

La classe S fece rientro a scuola due giorni dopo, lasciando il campo alle famiglie che ancora non avevano un nuovo alloggio e alle unità di ripristino il cui compito era sgomberare le macerie. Era tempo che “gli eroi di tutti i giorni” – medici, infermieri, pompieri, poliziotti, psicologi e assistenti sociali – subentrassero per gestire le conseguenze del disastro: con queste parole Wing Emperor aveva annunciato alla stampa il ritiro delle unità speciali da Higashiki.

Mukuro aveva molto gradito il ritorno al suo letto, alla sua trapunta calda e alle comodità del dormitorio, più di quanto fosse disposto ad ammettere, ma nonostante questo e le terribili scene alle quali aveva assistito – specie da protagonista – aveva la sensazione di essere stato realmente forgiato da un’esperienza tanto dura.

Si svegliò molto presto la prima mattina dopo il rientro, senza usare la sveglia e senza alcuna traccia di stanchezza. Senza alcun dubbio, anche. Raggiunse senza fare colazione l’ultimo piano dell’edificio centrale alla ricerca di Byakuran; naturalmente senza trovarlo in ufficio né nella coloratissima stanza relax. Rimuginando su dove potesse trovarsi e ipotizzando l’infermeria tornò sui suoi passi verso l’ascensore, ma Night Hound uscì da una stanza d’angolo proprio mentre ci passava davanti.

«Oh, Indigo… che fai quassù?»

«Cercavo Byakuran» fece lui, quasi altrettanto sorpreso. «Sai dove potrebbe essere?»

«Certo, nella stanza in fondo.»

«Ci sono appena stato, non c’è nessuno.»

«No, non quella con le lanterne» rettificò Kikyo con un cenno della mano. «Quelle ai lati. Sono tutt’e due stanze sue, una è la camera da letto, l’altra la sua palestra personale… è in una delle due.»

«Oh… invidio molto il tuo naso, Hound-sensei.»

«Credimi, non è nulla di invidiabile… pensa quando senti un odore orribile e moltiplicalo per mille volte, e dimmi se ancora mi invidieresti.»

Mukuro non riuscì a non trovare divertenti gli scenari che immaginò, mentre Hound accennò appena un sorriso e si avviò all’ascensore. Il ragazzo tornò ancora una volta sui suoi passi e decise di tentare la porta sulla sinistra, sebbene non avesse idea di quale fosse, e sperò di non svegliarlo se fosse stata la sua camera.

Indubbiamente quella che gli apparve davanti agli occhi era la sua palestra: se pesi, una trave da ginnastica, un tappetino verde arrotolato in un angolo e gli specchi a parete davano pochi dubbi, ancora meno ne dava Byakuran immerso nei suoi esercizi. Gli salì immediatamente l’urgenza di chiudere la porta e sparire, ma prima che si potesse decidere Byakuran assunse una strana posizione a testa in giù che gli permise di accorgersi di lui.

«Oh, Indigo… come mai qui a quest’ora? Hai bisogno di qualcosa?»

«Ehm… posso aspettare.»

«Ho finito tra qualche minuto. Siediti pure.»

Mukuro esitò un po’, ma poi diede retta a una voce molto remota e chiuse la porta della palestra prima di prendere posto a debita distanza dal suo tappetino viola, mettendosi in ginocchio composto. Da una parte trovava imbarazzante guardarlo, dall’altra però era innegabilmente interessato.

Non ne sono del tutto sicuro, ma penso che sia yoga… non avrei mai pensato che potesse avere interesse per qualcosa del genere, sa tanto di roba per salutisti New Age.

La tenuta da ginnastica di Byakuran non era meno attillata né meno candida del suo costume ufficiale, e ciò non aiutava un giovane adolescente a evitare di far virare inesorabilmente i suoi pensieri verso la malizia. La difficilissima per quanto sconosciuta posizione dello scorpione accentuò ogni singolo muscolo in maniera che non poté non colpire Mukuro, la cui espressione si era gravemente accigliata.

Che sia questo il segreto di quel sedere?

Byakuran si sbilanciò vistosamente in avanti come se qualcuno l’avesse spinto e fece una mezza capriola finendo al di fuori del tappetino sul lucido parquet. Mukuro stava per domandargli se stesse bene, quando la sua occhiata sbalordita gli bloccò la voce in gola.

«C-come, scusa?»

«C-cosa?»

«Il segreto di che cosa?»

Questa volta non ci fu modo di impedire alla sua faccia di diventare rossa come una ciliegia matura, neanche le mani che ci mise sopra servirono a nasconderlo.

«L’ho… d-detto ad alta voce?»

Certo che sì, non legge di certo il pensiero…

Seguì qualche secondo di profondo imbarazzo. Mukuro non sapeva se andarsene o restare, se fingere di non aver detto niente o rattopparla con una bugia, non sapeva neanche se lo faceva sentire peggio guardare a terra o ricambiare lo sguardo perplesso di lui. Alla fine fu Byakuran a rompere la bolla con una risata imbarazzata.

«Immagino possa valere come un complimento, quindi grazie, Indigo.»

«Non intendevo… non… so che cosa volevo dire, ma non questo» farfugliò il ragazzo.

«Penso di aver capito che cosa intendevi dire… e ci sono diverse correnti di yoga. Alcune di queste sono veramente dure, praticarle con costanza rafforza tutti i muscoli del corpo con immensi benefici.»

L’ultima parte della frase lo colpì e si perse in febbrili ragionamenti che lo distrassero persino dal suo imbarazzo. Immagini delle sue spiacevoli défaillances fisiche sul percorso a ostacoli lo assillarono ancora una volta, tanto che dovette scuotere un po’ la testa.

«Può andare bene anche per me?»

«Per te? Lo yoga?»

«Per rafforzarmi… avere più controllo, e… può aiutarmi?»

«Beh, sì. Certamente ti gioverebbe in diversi modi, compreso irrobustire i tuoi tendini… la loro debolezza è la ragione principale dei tuoi dolori ogni volta che usi la tua forza.»

«Allora… puoi insegnarmi?»

Per motivi che non afferrava, Byakuran sembrava aspettarsi una candid camera da un momento all’altro.

«Beh… s-sì, posso, ma… sei sicuro che lo vuoi?»

«Ora che ho deciso di diplomarmi come Civil Hero è importante tutto quello che può darmi più possibilità di non morire prima di avere le rughe» sentenziò Mukuro, che esprimeva per la prima volta il suo proposito. «Sono stato accudito e protetto per sedici anni. Non dico che resterò in servizio per sedici anni, ma abbastanza da ripagare moralmente quello che mi è stato dato e, se vorrà accettarlo, per risarcire Kujaku-san di parte delle spese che ha sostenuto per me.»

«Questo ti fa molto onore, Indigo, però… si può dire che in un certo senso tu sia già in pari. Hai salvato una coppia di fratelli, almeno una dozzina di persone che hanno rischiato la morte quando il ponte è crollato la seconda volta… e hai trovato un neonato, che ti posso dire è stato affidato ai suoi nonni materni di Okinawa e ha due coppie di zii molto felici che sia salvo grazie a te.»

«Naturalmente ne sono felice» saltò su con velata irritazione. «Ma non è soltanto questo… prima… prima pensavo di farlo solo per sdebitarmi… ora voglio farlo perché sentirmi utile mi ha fatto sentire bene. In questi anni… mi sono sentito come se non facessi altro che prendere e basta.»

Byakuran si rimise composto incrociando le gambe sul tappetino e ricompose anche la sua espressione.

«Ma sei consapevole che non è vero, giusto? Momo mi scrive che sei sempre stato uno studente diligente, che hai sempre rispettato le tabelle dei lavori della casa-famiglia e che hai badato ai più piccoli varie volte…»

«Ah» fece lui, irritato. «Avevo dimenticato che ho dovuto recuperare due esami per la mia attività di baby sitting.»

«Quello che voglio dire è che non hai soltanto preso, in questi anni… non trattarti così duramente, Indigo.»

«Perché ora che sono convinto sembra che tu mi voglia far cambiare idea?» sbottò Mukuro, e si calmò solo in parte. «Non ti capisco, Byakuran!»

Sorprendentemente lui non negò e i suoi occhi – quella mattina dal riflesso insolitamente azzurro – scorsero sulla trave da ginnastica mentre sospirava profondamente. Mukuro attese in silenzio nonostante fosse una tortura nella sua irritazione, ma fu premiato.

«Io… mi sono spaventato, Mukuro» confessò senza ancora guardarlo. «Vederti sotto quel ponte a reggerlo da solo… pur forte come sei ti ho visto fragile, ti ho visto in pericolo, e io non stato capace di salvarti. E anche riuscendoci, sarei rimasto schiacciato io… lasciandoti di nuovo solo.»

Non si aspettava una simile intenzione dietro la sua reticenza e il ragazzo rimase senza una replica. Fu difficile incrociare lo sguardo.

«Io ho perso… tante persone che ho amato davvero, e anche le poche rimaste in vita mi sono lontane. Per questo ho sempre tanta paura di separarmi da Night Hound, ho paura di non vederlo tornare… e ora ho paura anche per te.»

Ricadde il silenzio sulla palestra e un bagliore dorato filtrò dalla finestra al sorgere del sole. La nuova luce fece passare gli occhi di Byakuran da blu pervinca a un viola indaco. A Mukuro fece venire in mente una domanda che aveva dimenticato di fargli, ma non la fece: ne aveva una più impellente.

«Conosci Night Hound da tutta la vita… perché dovresti tenere a me tanto quanto a lui? Mi conosci da venti giorni, su per giù… non è molto.»

«Mi conosci da altrettanto tempo, eppure volevi morire per salvarmi la vita.»

Byakuran sollevò le mani e con un cenno l’invitò ad avvicinarsi. Immaginava che cosa volesse e per un momento il suo istinto gli disse di sottrarsi, ma poi si avvicinò lentamente e prese l’iniziativa abbracciandolo per primo. Si sentì stringere sulla schiena da mani calde e si trovò a domandarsi quando avesse abbracciato qualcuno l’ultima volta.

Forse la signora Kujaku, o Momo, quando ero ancora un bambino…

Involontariamente si trovò a chiedersi se prima di venire abbandonato alla casa-famiglia suo padre l’avesse tenuto stretto almeno una volta. Per quanto ne sapeva poteva anche essere figlio di un uomo che non era nemmeno al corrente della sua esistenza, o che non lo aveva mai voluto.

«Sai… vedere te ogni giorno mi rende felice» disse Byakuran a voce bassa. «Mi fa pensare ai giorni delle leggi speciali, a quei giorni bui… e mi ricorda che non esistono più. Vederti mi fa capire che i sacrifici che ho affrontato e i rischi che ho corso non sono stati inutili… perché tu sei un Auris, e non hai conosciuto il terrore che hanno provato quelli della mia generazione. Tu sei la prova tangibile che io ho davvero fatto la differenza.»

Ascoltarlo parlare caricò anche su Mukuro la sua emozione, che si trovò a deglutire due volte prima di riuscire a dire qualcosa.

«Davvero…?»

«Ma non è la sola ragione per cui mi fa felice averti qui.»

«E… le altre quali sarebbero?»

«Quando Luce mi ha accolto in casa aveva la mia età… e… beh, averti adesso mi fa sentire come se stessi seguendo meglio le sue orme… anche se so che lei sarebbe stata in tutto un genitore migliore di me. Sapeva prendersi cura di se stessa e degli altri senza fare un torto a nessuno.»

«Ti prendi buona cura degli altri» replicò Mukuro, e tentò invano di domargli un ciuffetto ribelle al lato del viso, che stava dritto come un’antenna. «Dovresti solo… ritagliare più tempo per te stesso. Non sarai giovane per sempre, e sarebbe un peccato trovare tempo per te solo quando finirà sprecato nel salire faticosamente le scale o arrancare per spostare una scatola da un lato all’altro di una stanza.»

«Immagino sia vero… ma non è ancora il momento di delegare» fece lui sorridendo incerto, e lo lasciò andare con una certa riluttanza. «Lo sarà tra non molto… ma non ancora. Per adesso devo continuare io.»

Mukuro sospirò e si sedette a una distanza socialmente accettabile per una conversazione.

«Questo lo capisco… ma non ti distruggere, Byakuran. Non sei una persona tanto noiosa da potersi dedicare senza rimpianti solo al lavoro.»

«Anche per questo mi piace averti intorno» aggiunse lui, decisamente più allegro. «Sei una delle pochissime persone a non pensare che io sia noioso!»

«Non farmi rimpiangere di averci creduto.»

«Mhh… suonava come una minaccia…»

Mukuro si alzò per lasciare la stanza lasciando volutamente il dubbio su quell’ultimo punto, ma arrivato alla maniglia una voce piuttosto calma lo fermò.

«Ehi, Indigo, aspetta.»

«Cosa?»

«Non vuoi provare?»

Voltandosi lo vide indicare il tappetino arrotolato contro la parete.

«Sono disposto a insegnarti… ti renderà più flessibile, e questo è un bene anche se non si è guerrieri… e poi è molto rilassante. Penso ti potrebbe piacere» aggiunse Byakuran, e si rimise in piedi con un movimento inspiegabile se non con un colpo d’ali invisibili. «E dopo facciamo colazione insieme, che ne dici? Ti meriti una colazione deluxe dopo il tuo scintillante esordio!»

Mukuro, seppur riluttante a iniziare senza una preparazione psicologica, annuì e si mosse meccanicamente per andare a prendere il tappetino verde. Byakuran sorrideva in modo strano mentre stendeva il tappeto e toglieva le scarpe; sembrava tentare inutilmente di sopprimere l’entusiasmo.

«Cos’è che ti eccita tanto, Byakuran? Ti diverte l’idea di vedermi ruzzolare in giro per la palestra?»

«No, no, solo… pensavo… beh, più tardi te lo racconto!»

«No, parla adesso!»

Byakuran ridacchiò.

«Sono curioso di vedere come sarà la tua prima lezione… dopo, a colazione, ti racconto com’è stata la mia prima volta!»

«Prima iniziamo prima finiamo, giusto?» fece lui, mascherando una terribile fame di scoperta. «Fammi da guida, sensei.»

Byakuran si mise in piedi a schiena dritta e Mukuro capì dopo qualche attimo che era la posizione iniziale, quindi si alzò.

«Non è necessario che tu sia così formale in questo contesto, chiamami come fai sempre… ma sei fortunato, sappilo. Non è un privilegio comune essere istruiti da un Mahayogi

«Maha… che vuol dire? È un modo di dire sensei?»

«Sì, si può dire. Il Mahayogi è una persona molto esperta della pratica delle asana, del pranayama e di tutte le pratiche fisiche e spirituali dello yoga.»

«Sei così tanto esperto?»

«Per essere un uomo con i miei numerosi impegni e giovane età, sì, lo sono» riconfermò con un velato compiacimento. «Sei pronto? Cominciamo con qualcosa che ti farà da stretching e poi faremo il Saluto al Sole.»

Mukuro annuì e seguì le istruzioni di Byakuran una per volta, dal respiro all’allungamento di questo o quel muscolo al passaggio tra una posa e l’altra. Aveva condiviso spesso qualche ora – e anche più – di attività con fratelli e sorelle della casa-famiglia, facendo con loro qualche sport, imparando le basi dei loro principali interessi, ma alla fine di quei cinquanta minuti Mukuro si sentiva davvero rilassato, in pace, e al contempo forte nel corpo. Non fosse stato per la prospettiva di una fantastica colazione e di qualche racconto di prima mano da Byakuran avrebbe ricominciato anche subito per salutare la luna, le nuvole o qualsiasi altro corpo celeste.

*

Quando Mukuro rientrò in dormitorio sapeva che non erano previsti allenamenti, ma non si aspettava di trovare tutta la classe accalcata nel soggiorno davanti al televisore. Non mancava proprio nessuno: sul divano centrale erano seduti Phoenix, Luck e Restless, sulle cui ginocchia era seduta Love, Tsunayoshi era sulla poltrona a destra e sul tappeto erano seduti Yamamoto, preso a coccolare il suo cane, ed Enma che spazzolava il suo gatto tigrato grigio. Stavano in silenzio a guardare un servizio del telegiornale sul terremoto di Higashiki con l’aria tesa di chi sta aspettando qualcosa che non vuole perdersi.

«Eccolo!»

Mukuro stava appendendo la giacca nell’ingresso quando sentì il tono eccitato di Luck e si voltò incuriosito solo per trasalire quando scoprì che quello che stavano aspettando era il suo grande momento di gloria: nel video poteva vedersi gesticolare mentre parlava con i due fratelli e nel mentre il ponte che si spezzava.

Un brivido sgradevole gli salì lungo la schiena mentre lo vedeva schiantarsi sulla sua piccola figura e ricordare il dolore di quell’attimo lo portò a stringersi con forza il braccio sinistro. Vederlo da fuori era raccapricciante, molto più che vederlo dai propri occhi.

«Woh!»

«Impressionante» commentò Yamamoto, con gli occhi fissi sullo schermo. «Dal basso noi non abbiamo visto niente… non avevo capito come mai il ponte non fosse caduto in acqua…»

«Ehi, da qui lo riconosceranno tutti» bofonchiò Restless mentre masticava quelle sue patatine alle alghe.

In effetti aveva ragione: qualcuno dei giornalisti era riuscito a inquadrarlo con un obiettivo più potente e il suo viso era perfettamente riconoscibile, anche se impolverato e provato oltre ogni dire. In quel momento si rese conto della portata incredibile di quello che aveva fatto e dell’enorme rischio che aveva corso in quello slancio di altruismo. L’adrenalina lì per lì l’aveva stordito tanto che a distanza di giorni faticava a ricordare nitidamente cosa aveva fatto, detto o visto.

A vedermi da così… sembro… sì, un pazzo. E un eroe. Un eroe pazzo.

Restò in piedi alle spalle dei suoi compagni che commentavano entusiasti e scioccati quanto lui. Vide l’intervento di Enma e poi, dall’alto, la reazione di Wing Emperor che si accorgeva che qualcosa non andava. Lo vide girarsi verso il punto in cui aveva lasciato Mukuro con le due ragazze e lì, non avendolo più visto, doveva essersi reso conto di cosa stava succedendo.

Nel video Byakuran ripeté un tuffo ad ali spiegate, piegò sotto le rovine e le sollevò di nuovo. Era stato il momento in cui aveva perso conoscenza e si era risvegliato pochi attimi dopo, facendo fatica a respirare.

«È angosciante…» commentò Luck mettendosi la mano sul petto. «Anche se so che Mukuro-kun sta bene non posso fare a meno di agitarmi a rivederlo…»

Nessuno contraddisse o minimizzò la sensazione della ragazza e neanche Mukuro avrebbe potuto. Era la parola giusta per definire la sensazione che dava, “angosciante”… però l’inquadratura molto vicina aveva ripreso di nuovo, ora che con il campo libero poteva di nuovo registrare. Byakuran lo stava stringendo per calmare il suo panico, sussurrandogli che cosa avrebbe dovuto fare mentre lui si sacrificava…

Nelle scene che seguirono Mukuro guardò i suoi compagni anziché il video.

Loro che cosa vedono in questa scena? Due eroi che cercano di salvarsi a vicenda o qualcosa di più familiare?

Aveva una grande desiderio di chieder loro che cosa vedessero, se potessero vedere in quel momento qualcosa di più di uno studente inesperto e spaventato e un eroe pronto al sacrificio… perché lui leggeva qualcosa di molto più profondo nel modo in cui si erano guardati e parlati in quelli che credevano essere gli ultimi momenti.

L’inquadratura lunga mostrava l’arrivo dell’Auris vestita di verde e la comparsa delle sue teste di drago, che avevano segnato la fine della loro agonia.

«Quel braccio sembra un budello vuoto, fa veramente schifo.»

«In pratica lo era.»

Restless, che si stava ficcando in bocca altre patatine dopo quello spinoso commento, diede un colpo di tosse. Love si coprì il viso come se Mukuro l’avesse vista guardare video erotici, Luck arrossì quasi altrettanto e Kyoya rise.

«Eri qui, Indigo?!»

«Già, fortuna vostra che non stavate spettegolando su di me.»

«Io stavo giusto per farlo» commentò Kyoya con un sorrisetto.

Mukuro mise su un’espressione seria molto faticosa da mantenere e strinse le dita intorno al collo di Kyoya, che trattenne a malapena un eccesso di risa.

«Dammi una ragione valida per non romperti il collo qui e ora.»

«Senza di me non sopravviveresti a due anni di accademia.»

Mukuro tacque un secondo e gli lasciò il collo.

«Sembra valida» commentò, strappando una risata divertita a Yamamoto. «Ora alza quel sedere dal divano.»

«E dove vuoi che lo metta?» fece lui in tono malizioso mentre si alzava.

«Phoenix, non davanti ai bambini.»

«Non siamo mica bambini!» protestò Enma.

«Da me o da te?»

«Da me, devi decifrarmi quella tavoletta sumera che chiami “appunti di teoria operativa”.»

«Eeh? È davvero questo il motivo?» domandò Kyoya, deluso come un bambino. «E io che pensavo che avessi in mente qualche gioco erotico che non riuscivi più ad aspettare di provare…»

«Se ne avessi non li riserverei a te, Phoenix, mi spiace.»

Kyoya emise un teatrale sospiro scrollando le spalle e lo precedette su per le scale. Mukuro, che si era trattenuto sul primo gradino per ponderare se prendere del tè subito o più tardi fece in tempo a sentire il commento di Restless.

«Come fa Phoenix a rimorchiarli tutti puntualmente? Emette feromoni?»

Tutti? Tutti chi?

Purtroppo nessuna delle repliche fornì un qualsiasi indizio e poi la conversazione virò sul test delle procedure standard delle missioni, lo stesso per il quale Mukuro sperava di prepararsi decifrando gli appunti incomprensibili di Phoenix.

Incuriosito ma frustrato dalla scarsità di informazioni salì rapido di sopra e raggiunse Kyoya, che aveva appena aperto la porta della sua stanza. Vi entrarono e lui si diresse alla scrivania, individuando subito il suo quaderno di appunti fitti fitti.

«A chi?»

Mukuro si stava sedendo sul bordo del letto quando gli arrivò quella domanda apparentemente insensata.

«A chi che?»

«A chi riserveresti un gioco erotico? A una ragazza?» domandò lui, appoggiandosi allo spigolo della scrivania. «Oppure a un uomo più maturo di me?»

Era una definizione estremamente vaga che poteva adattarsi a tutti, ma a balenare nella mente di Mukuro – per un attimo, dietro le sue palpebre chiuse – fu la figura di un uomo vestito di bianco. Per quanto sperasse di non aver mostrato alcuni segno Kyoya tese un sorrisetto quasi insopportabile.

«Un altro uomo, quindi… uno come Wing Emperor?»

«Te ne verrebbe in tasca qualcosa a scoprire con chi pensi di essere in competizione?»

«Oh, può essere… se un costume bianco bastasse a interessarti, per esempio…»

«Più che una fenice sembreresti un albatros» commentò Mukuro, buttandosi di schiena sul letto.

Kyoya rise e si avvicinò con il quaderno in mano. Mukuro lo guardò senza dire una parola, nemmeno quando lui si mise sdraiato sul letto accanto a lui.

«È stato un po’ da bastardo approfittarti di me per scaldare la tua brandina al campo, se non sei affatto interessato…»

«Stai ricamando sul nulla, come hai fatto con quella tua stupida maschera» tagliò corto lui. «Ho solo detto che se avessi delle fantasie erotiche non le farei su di te, non ho detto che ne ho… e non è neanche certo che non succeda esattamente questo. Al momento non ne ho, questo è tutto quello che intendevo.»

Kyoya fissò gli occhi grigi nei suoi con l’aria di chi rimuginava una dozzina di pensieri, ma non ne espresse nessuno. Anche Mukuro ne aveva qualcuno per la testa e decise di buttarli fuori.

«Sei preoccupato per la tua statistica?»

«Mh?»

«Restless pare convinto che tu vada sempre a segno quando ti piace qualcuno.»

Kyoya tacque per qualche secondo e Mukuro si chiese se avrebbe scucito qualcosa sull’argomento.

«Beh, sì. Finora sono andato sempre a segno, come dice Restless. Non ne ho mancato nessuno.»

Mukuro alzò la testa dal cuscino e si puntellò sul gomito.

«Di quanti bersagli stiamo parlando?»

«Te ne verrebbe in tasca qualcosa a saperlo?»

«Hai imbarazzo a dirmelo?»

Kyoya tornò a sorridere e si stiracchiò pigramente, come un gatto lezioso.

«No… ma tu mi vedrai diversamente se te lo dico? Ti metterò in imbarazzo, se il numero è più alto di quello che ti aspetti?»

«Può darsi, ma non vedo come non dirmelo semplificherebbe le cose.»

«Se rispondo posso fare anch’io una domanda scomoda?»

Dovette rifletterci, perché non aveva voglia di mettersi in una situazione spinosa… ma poi si rese conto di essere sul letto della sua camera con un suo compagno di classe a toccare argomenti quantomeno intimi, per cui si era già messo nei guai senza neanche accorgersene.

«D’accordo. Ci sto. Quindi, quanti?»

«Cinque» rispose lui, con un sorrisetto. «Te ne aspettavi meno o di più?»

«Sono sinceramente onorato di rientrare in un novero così ristretto, è come essere invitato in un club esclusivo.»

«Cavolo, non riesco neanche a capire se mi prendi in giro o sei serio…»

«Stavolta sono serio… qualcuno è qui, tra quelli del dormitorio?»

«Oh, no, no… certo che no.»

Mukuro alzò un sopracciglio. Aveva la netta impressione che fosse stato sul punto di aggiungere qualcosa ma che l’avesse taciuta all’ultimo istante. Avrebbe voluto insistere ma non poteva: Kyoya era già passato al contrattacco.

«Ora tocca a me chiedere, vero?»

A malincuore Mukuro accennò un consenso con la testa, ma rimase immobile quando lui l’accarezzò sotto il mento.

«Subaru» scandì, con un’espressione fredda, inquietante da vedere su un ragazzo che aveva sempre tanto calore per lui. «Quel ragazzo… è davvero soltanto la voce della tua musica?»

«Beh… siamo anche amici. Andiamo… andavamo a scuola insieme.»

«E niente altro?»

«Che altro dovrebbe essere? Lo sai che non sono stato con nessuno.»

«Vorresti andarci, con lui?»

«Direi che hai già sforato con le domande scomode.»

Mukuro si aspettava di dover sedare una ribellione, ma Kyoya non accennò a insistere e sospirò soltanto.

«Okay.»

Cadde il silenzio nella stanza e Mukuro fissò il soffitto, rimuginando contro la sua stessa volontà. Volendo essere completamente onesto aveva sempre visto che Subaru aveva un bell’aspetto, era infatti molto popolare e riusciva a essere molto più ammaliante durante le sessioni di prove generali della sua band, con le luci addosso, il microfono nella mano e il costume scelto per l’esibizione… ma dubitava che reggesse il confronto con Kyoya, se avesse indossato più spesso qualcosa di diverso da costumi da Civil Hero e tute.

Mukuro guardò Kyoya, ma solo dal collo in giù.

Non che la tuta non faccia risaltare le sue virtù, ma è così… teatrale.

«Qualcosa non va?» gli domandò lui abbassando il quaderno appena per farne riemergere gli occhi.

Mukuro scosse la testa.

«Lui ti manca?»

«Mh… a volte, sì… non ci vedevamo tutti i giorni, eravamo in classi diverse» cominciò a spiegarla, non sicuro di cosa dire. «Però… avevamo un nostro posto dove andare per non essere disturbati, dove gli facevo sentire la mia musica e ascoltare i miei testi e…»

Mukuro sospirò.

«Mi mancano le ore ad ascoltare musica e a parlarne. Mi manca il tempo che passavo con lui, quando mi sentivo davvero libero.»

Era sincero. Essere un apprendista eroe era già di per sé un lavoro a tempo pieno, con molte ore di studio e tante di allenamento fisico, non aveva avuto più modo e tempo di dedicarsi alla musica. Non aveva più i computer con i programmi avanzati per la composizione, non aveva neanche più la chitarra, che era un bene comune della casa-famiglia. Senza la musica si sentiva menomato.

«Fai sentire a me la tua musica.»

«Uh?»

Kyoya si raddrizzò, mettendosi in ginocchio sul letto.

«Mi hai detto che scrivi pezzi, ma non me ne hai mai fatti sentire» insistette con una traccia di rimprovero nella voce. «Se ti manca parlarne con qualcuno parlane con me. Mi piace la musica.»

«Non ti offendere, ma credo che tu non sia un esperto…»

«Non lo sono, ma posso parlare comunque di qualcosa che mi piace.»

La risposta di Mukuro gli restò impigliata in gola quando Kyoya gli si mise carponi addosso. Il primo istinto fu quello di spingerlo giù dal letto, ma non voleva che si convincesse di essere riuscito a spaventarlo… perché era assolutamente vero.

«Non ci capisco di tecnica musicale… di note, di accordi e cose del genere… ma posso sempre dirti se una musica mi piace o no. Se le parole mi piacciono oppure no.»

Fu uno sforzo concentrarsi sui suoi occhi.

«Kyoya… non provare a prendere il posto di Subaru. Non sei lui, non lo sarai mai.»

Il leggero tremito che attraversò il suo sguardo gli disse che aveva centrato il nocciolo della questione. Senza sorridere alzò la mano e gli pizzicò la guancia con abbastanza forza da strappargli un lamento.

«Non mi sembri stupido, quindi non comportarti come se lo fossi» lo minacciò Mukuro. «Questa è la stessa solfa della maschera! Chi ti ha detto che Subaru è migliore di te? Chi ha detto che è una compagnia più interessante o un amico più divertente? Chi ti ha detto che io lo apprezzo o lo amo più di te?»

Kyoya si liberò della sua presa da granchio reale e si sedette sui suoi addominali mentre si massaggiava la guancia con l’aria di un bambino colto sul fattaccio.

«Non ha senso che tu provi ad assomigliargli o a fare quello che faceva, idiota. Tu sei tu, lui è un’altra persona… per farti voler bene da qualcuno non serve che prendi ogni ruolo possibile nella sua vita. Ti farai solo male e diventerai un veleno, non è sano.»

Kyoya era confuso e mascherò solo in parte il suo stato d’animo, ma rimase in silenzio, come distante dalla stanza e dal suo compagno di scuola. Non accennò una resistenza neanche quando Mukuro lo spostò di peso alzandogli la gamba per toglierselo di dosso, questo più di tutto mise a Indigo una certa preoccupazione.

«Phoenix, ehi…» iniziò titubante, senza sapere bene come proseguire. «Non è… non mi dai fastidio… voglio solo che non fingi. Lo so bene che fingere di essere quello che non siamo è sfibrante.»

Kyoya persistette nel suo silenzio anche mentre Mukuro si girava sul fianco per recuperare gli appunti per la lezione. Un po’ preoccupato si chiese se non l’avesse fatto arrabbiare compromettendo le sue possibilità di studio; molto egoisticamente non pensò affatto che Kyoya potesse avere del risentimento per lui a lungo termine.

Quasi gli caddero i fogli dalle mani quando sentì un paio di braccia passargli intorno al torace e la sua testa appoggiarsi sulla sua spalla sinistra. Non lo stringeva ma si sentì svuotare i polmoni.

Oh, no.

«Hai ragione» gli sussurrò Kyoya molto vicino all’orecchio. «Non posso essere quello che è lui per te… non posso essere tutto per te, o per chiunque altro.»

Kyoya sollevò appena la testa, ma Mukuro non mosse un muscolo.

«Ma vorrei lo stesso sentire le tue canzoni…»

Il fatto che non diventasse più invadente permise a Mukuro di tirare un sospiro di sollievo; riuscì a tirare un sorriso e alla cieca gli diede un colpetto affettuoso sulla testa.

«Appena arriveremo a tiro di un computer» acconsentì lui, con un’occhiata desolata alla scrivania ingombra di soli libri e quaderni. «Ho gli spartiti originali, ma ci lavoravo su dai computer della scuola… molti li ho modificati dopo averli sentiti. Usavo un programma per scrivere musica che la riproduce, così potevo sentire tutti gli strumenti…»

«Non la suonavano i tuoi amici? Subaru e la sua band. Mi pare ne accennasse nella lettera.»

«No, loro… non li conosco di persona. Suonano pezzi loro e di altri compositori, ma quella di cui parlava nella lettera sarebbe la prima che fa suonare ai suoi amici…»

Prima che Mukuro potesse fare mente locale per contare quanti pezzi avesse passato a Subaru perché ne registrasse il vocale la porta slittò di lato e Byakuran apparve sulla soglia. Mukuro si rese conto di essere seduto sul letto con un ragazzo stretto alla schiena e non era la situazione in cui avrebbe voluto mai farsi vedere dal preside o da suo padre; figurarsi da una figura che era un misto delle due.

«Ti disturbo, Indigo?»

«Ah, no, io–»

«Se potessi venire con me un attimo…» aggiunse subito, con un tono da urgenza, senza aspettare alcuna spiegazione. «Ora, per favore.»

«Io… s-sì, certo.»

Kyoya lo lasciò andare ma a Mukuro parve di percepire il labile intento di trattenerlo, solo per un attimo. Seguì Byakuran fuori, ma lui scese le scale e dovette andargli dietro fuori in cortile e a passo svelto verso l’edificio centrale. Iniziava a preoccuparsi.

«Che succede, Byakuran?»

«Ti hanno accennato alla regola dell’Accademia che vieta rapporti troppo intimi, vero?»

«Veramente non me ne ricordo, ma a meno che tu non abbia un cannocchiale puntato sulla mia finestra dubito che tu sia arrivato nella mia stanza per questo.»

«No, infatti, ma mi è parso il caso di fartelo presente… anche se so com’è fatto Mad Phoenix, quindi…»

Il modo in cui lasciò sfumare la frase nel nulla fu una triste conferma delle storie sul conto del suo compagno di classe, e Mukuro si stupì sinceramente di sentirsene toccato. Soprattutto in virtù del fatto che egli stesso poco prima gli aveva confermato un curriculum con fin troppe referenze, per com’era cresciuto lui.

«Ha l’aria di essere un avvertimento» gli fece Mukuro quando capì che Byakuran non avrebbe aggiunto altro sull’argomento.

«Anche le persone con più senso del dovere, responsabilità e integrità hanno il loro punto debole» replicò in tono cauto. «Di solito… più la persona sembra perfetta più è profondo e oscuro quel punto.»

Mukuro sollevò le sopracciglia sorpreso. Aveva tutta l’aria di una confessione personale e non di un attacco verso Mad Phoenix, ma non poté domandare altro: avevano varcato le porte d’ingresso dell’atrio.

«So che è una cosa improvvisa, ma è capitato davvero tra capo e collo, come si dice» disse Byakuran accennando a un bambino che aspettava da solo in piedi di fianco al corridoio del bagno. «Ma oggi più che mai ho bisogno delle tue competenze speciali.»

«Delle mie cosa?»

Byakuran acchiappò il bambino mettendogli le mani sulle spalle e lo sospinse incontro a Mukuro. Il piccolo non aveva più di quattro o cinque anni, non indossava l’uniforme delle classi elementari dell’Accademia ma probabilmente gli sarebbe spettata a tempo debito: la pelle sul suo visino grazioso era in gran parte coperta di squamette lucide e i suoi occhi gialli avevano le pupille verticali. Sembrava per metà un serpente.

«Questo è Ryota… Ryo-chan, questo è Indigo, uno studente della scuola.»

Il bambino non diede segno di voler azzardare una parola e rimase a guardare di sottecchi Indigo come volesse evitarlo e studiarlo allo stesso tempo. Mukuro si chinò istintivamente per osservarlo e poi alzò lo sguardo puntandolo su Byakuran.

«Ryota è il figlio di Aspis… sai, la bibliotecaria» spiegò con posticcia indifferenza lui. «Avevo promesso di badargli io mentre lei è a Tokyo per un corso di aggiornamento fino a dopodomani, ma devo partire urgentemente per un incontro importante per il fondo internazionale per il soccorso medico…»

Mukuro continuò a fissarlo, accigliandosi un poco di più.

«Tu… sei bravo con i bambini piccoli, no…? Momo mi ha detto che li badavi spesso, alla casa-famiglia…»

«Non posso credere che mi stia appioppando i tuoi figli illegittimi.»

«I miei… cosa?! No, io non ho figli!»

«Ho visto come la guardi quella donna» insistette Mukuro.

«Ma che… che vuol dire, scusa?! Come la guardo non ha niente a che vedere con quello che ha partorito cinque anni fa, neanche la conoscevo, allora!»

«E da quanto la conosci

Byakuran lo guardò fisso; difficile dire se fosse più indispettito o imbarazzato dalla piega di quel discorso. Si sporse più vicino.

«Facciamo un patto, Indigo» gli sussurrò col tono di chi non stava negoziando. «Tu non chiederai mai più chi conosco, come e da quanto e io non mi impiccerò di cosa fai con chicchessia.»

Mukuro tese un sorrisetto lezioso.

«Andata» fece in tono allegro. «Ma sappi che ti sei appena impegnato a ignorare qualsiasi cosa faccia con chiunque, e tu saresti il mio tutore

«N-no, aspetta, non era–»

«Ryota-chan, mh? Allora, sembra che staremo un po’ insieme per un paio di giorni!» fece al bambino, più gioviale del suo solito tono per bambini. «Ti piacciono i Civil Heroes?»

«Ehm, Ryota è un bambino un po’… chiuso, in pratica non parla e…»

«Non c’è bisogno che parli» l’interruppe Mukuro, fissando quei suoi strani occhi. «Ci capiremo lo stesso, vero? Io parlo tantissime lingue. Il giapponese, l’inglese, l’elfico, il serpentese, la lingua della brezza e anche… sì, sono sicuro che con il linguaggio del silenzio ci capiremo. Vero?»

Il bambino non replicò e lo guardò con un po’ di stupore che gli cambiava l’espressione. Mukuro sorrise.

«Ah, hai visto? Lo sapevo che lo parlavi bene!»

Con immensa sorpresa di Byakuran Ryota emise una sottile risatina e la sua bocca si allargò in un sorriso. Le squame che aveva sulla pelle del viso non gli impedivano le espressioni facciali e questo rendeva molto più facile capirlo anche senza parole. Allungò la mano verso di lui.

«Ti porto a vedere dove stanno gli studenti migliori, quelli che diventeranno Civil Heroes… mi dai la mano?»

La manina di Ryota era davvero piccola e afferrò due dita di Mukuro, senza esitazione.

«Fa’ buon viaggio, Byakuran, portaci un regalino quando ritorni~»

«A-aspetta, non ti ho detto dove alloggia Aspis! Dovrai pur portarlo a dormire stasera!»

«Dormirà con la classe S, no? Mica può restare da solo in casa tutta la notte.»

«Io… sei sicuro, Indigo…?»

«Lo hai lasciato a me perché so che cosa fare, al contrario di te, no? Lasciami fare» tagliò corto Mukuro. «Lo ritroverai integro e sereno quando tornerai… o tornerà la bibliotecaria. Prendo sul serio le mie responsabilità, lo sai.»

«Sì, uh… beh… grazie. Mi sdebiterò per questo.»

«Lo spero davvero» fece lui mentre spingeva la porta a vetri dell’atrio. «Mi servirebbe un computer.»

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Capitolo 11
*** Starless sailor ***


Anche se la reazione sarcastica di Restless alla vista del bambino era stata bruciante Mukuro trovava più preoccupante la gioia che traspariva dagli occhi di Kyoya quando guardava Ryota, tanto che il giorno dopo non riusciva neanche a concentrarsi sui suoi spartiti – che tentava invano di riordinare da giorni – e continuava a guardare Kyoya di sottecchi mentre stava seduto davanti al bimbo sul pavimento.

Sembra quasi che sia suo. Come se fossi entrato dicendogli che gli ho portato un bambino randagio da tenere a casa.

Un pigolio acuto fece sobbalzare Ryota, ma poi il piccolo sorrise. Uno dei ventidue canarini allevati da Phoenix nella sua stanza accessoria se ne stava bello tranquillo tra le piccole mani e il fatto che l’animaletto non provasse a scappargli rendeva il bambino piuttosto felice, tanto che Mukuro non riuscì a non sorridere a sua volta.

«Stella è una canarina tranquilla» gli disse Kyoya, e mise un semino sull’avambraccio di Ryota per invogliare l’uccellino a spostarsi. «Parla poco, un po’ come te… ma è affettuosa. Tu sei affettuoso?»

Ryota annuì, poi emise un sottile verso di stupore quando Stella saltellò sul suo braccio fino al gomito.

«Anche io lo sono. Accarezzo i miei canarini tutti i giorni quando vado a dargli da mangiare.»

«Non solo i canarini» puntualizzò Mukuro, riordinando accigliato i fogli di un pezzo chiamato Moonlight Children che non ricordava assolutamente di aver composto.

Kyoya gli lanciò un’occhiata con un certo sorrisetto, poi guardò il bambino mentre gli dava in mano dei semi.

«Sì, accarezzo anche lui, ogni tanto… ma mangia da solo, la maggior parte delle volte.»

«Eddai, Phoenix…»

«Beh? Che ho detto? È vero che sono un tipo affettuoso, e a te non dà fastidio.»

«Non sei affettuoso, sei molesto, è diverso.»

Kyoya aveva messo su un’espressione che conosceva già molto bene. Se da un lato avrebbe preferito staccarsi da quel rapporto che si approfondiva troppo velocemente, dall’altro era confortante sapere che per Phoenix era più importante di ragazzi che conosceva da anni, che dedicava a lui il suo poco tempo e le sue preziose attenzioni. Umanamente non si era mai sentito così necessario per qualcuno, neanche quando la signora Kujaku l’aveva lodato e ringraziato per il suo aiuto.

«Sai, Ryo-chan, nella vita ci sono persone un sacco diverse tra loro» iniziò a dirgli, mentre coi semi guidava il canarino sulla sua spalla. «Quelle migliori di solito sono tanto diverse ma un po’ simili a te.»

«Kyoya… non mettergli in testa idiozie filosofiche, che vuoi che ne capisca? Non l’ho capito nemmeno io che stai dicendo.»

Venne completamente ignorato.

«Perché le cose che avete in comune vi terranno uniti, e quelle differenti non vi faranno mai annoiare. E ci saranno persone speciali… che amerai moltissimo.»

Ryota distolse lo sguardo dal canarino e lo puntò su Kyoya.

«A quelle persone dovrai parlare, mi raccomando. Dovrai dire loro che le ami tanto. Bisogna sempre essere chiari sui sentimenti che abbiamo, non sei d’accordo?»

Mukuro sospirò esasperato, ma il bambino annuì con vigore. Pareva che l’unica persona che il piccolo ignorasse puntualmente fosse Byakuran, perché anche se non spiccicava quasi parola a cenni rispondeva a tutti quanti nel dormitorio della classe S. Kyoya gli accarezzò la testa.

«Bravo bambino~»

Mica starà parlando di me con questa cosa sui sentimenti?

Mukuro alzò gli occhi dagli spartiti di sottecchi, ma Kyoya stava mostrando a Ryota come tenere tra le labbra una granaglia per farsi “dare un bacio” dal canarino e non se ne accorse. Da quel pomeriggio nella sua camera non erano più rimasti del tutto soli e non avevano più parlato di qualcosa di personale, se non quando Kyoya aveva letto qualcuno dei suoi stralci di testi dandogli un parere.

Il suo modo di fare lo confondeva: quei gesti affettuosi, quelle moine romantiche erano sincere o erano le sue tattiche per catturare la preda che voleva? Purtroppo quelle sue teorie restavano senza conferme né smentite, perché non sapeva chi facesse parte di quei cinque e non poteva chiedere loro qualcosa. Scoprirsi a rimuginare di nuovo sull’argomento l’indispettì.

Ma anche se potessi, perché dovrei? Lui non mi interessa per davvero… insomma, siamo amici, passiamo del tempo insieme, studiamo insieme… come succedeva con Subaru…

Ma a voler essere onesto con se stesso anche il ricordo di Subaru stava diventando qualcosa di diverso, come se avesse rivisto un film familiare alla luce di nuove competenze tecniche: coglieva sfumature differenti nei dialoghi, nelle espressioni, nei gesti…

Scorse i fogli di spartiti fino a trovare la prima, frusta copia della musica che qualche mese più tardi avrebbe ricopiato nella sua versione nuova, molto vicina alla definitiva di Loveless. Quanto di quel testo era finzione artistica e quanto invece aveva inconsciamente abbellito e infiocchettato dopo esserselo tirato fuori dal petto?

«Cosss’è?»

Sentire quella vocina sibilante lo fece sobbalzare, poi vide gli occhietti dalle pupille verticali di Ryota fissare gli spartiti con curiosità. Gli aveva risposto in rare occasioni con un paio di parole, aveva detto un “ciao” timido quando lo aveva presentato alla classe S, ma era la prima volta che gli sentiva pronunciare una parola con una s e forse era quel sibilo serpentino la ragione per cui non parlava.

«Ah… sono spartiti… è… musica scritta.»

«Musssica» sussurrò, rapito dalle note sul pentagramma.

Stella, la canarina, gli svolazzò addosso e si mise appollaiata sulla testa come se i suoi capelli fini e castani fossero un nido di pagliuzze. Lui non se ne accorse o non le badò, passando il piccolo dito sulle righe.

«Musica. Ti piace la musica?»

Ryota annuì convinto.

«Che ne dici se ti faccio sentire come sono queste note?»

Il bambino annuì, un po’ più incerto, e aggrottò le sottilissime sopracciglia mentre prendeva un foglio dello spartito di Natsu no unmei – finora il solo rinvenuto dal brodo primordiale dei tre che dovevano essere – come se cercasse di capire come dei pallini e delle linee potessero diventare suoni. Mukuro si mise al piano nel soggiorno del dormitorio, sistemò lo spartito pur sapendolo a memoria e iniziò a suonare le note più lentamente per accendere l’interesse del bambino; quando i suoi occhi gialli si fissarono su di lui con grande meraviglia non poté non sorridere.

Dimenticò tutta la sua confusione su Subaru, su Phoenix e sulle sue scelte mentre suonava la vecchia versione di Loveless e si concentrò su come, scendendo di un’ottava e cambiando la seconda chitarra elettrica con un violino, potesse diventare un pezzo dal gusto del tutto nuovo.

 

*

 

Preso dai suoi pensieri più ingombranti, Gran si accorse del nugolo di bambini in uniforme che lo fissava soltanto quando sentì la voce di Lyria salutarli allegra. Stupito guardò verso la scolaresca che in un attimo accerchiò lui, Lyria e Percival che camminava alle sue spalle; questi scosse la testa quando mostrò sorpresa nel vedersi tanto popolare.

«Perché sei così sorpreso? Sei il capitano della squadra Auris più potente del mondo» gli fece notare allora.

«Beh… anche se ne sono il capitano non sono io la Grand…»

Una ragazzina dai lunghi capelli azzurri si fece largo tra i compagni di scuola e lo raggiunse, scoccando al suo indirizzo un gran sorriso e un occhiolino che gli fece venir voglia di ridere.

«Azure-sama, benvenuto all’Accademia Auris!» esordì poi a voce alta e con il tono di una capoclasse. «Sono Bluebell, rappresentante della classe E!»

Gran ricordava solo a grandi linee come fosse strutturata internamente l’Accademia Auris giapponese, ma mentre stringeva molto formalmente la piccola mano di Bluebell Percival gli venne in aiuto.

«La classe E sono i bambini delle elementari» gli soffiò all’orecchio. «Alle medie vengono divisi in D, C, B, A ed S a seconda delle loro capacità, attestate periodicamente con degli esami.»

Il sorriso di Gran si allargò, non tanto per i convenevoli – molto ben gestiti, in verità – di Bluebell quanto per l’affidabilità di Percival: non c’era un’occasione in cui non sopperisse alle sue molte mancanze sotto il profilo sociale.

Bluebell porse secondo la più rigida etichetta il benvenuto della scuola anche a Lyria e a Percival, che gli pareva molto colpito dalla ragazzina. Infatti non esitò molto prima di manifestarlo.

«Prendi molto seriamente il tuo ruolo di capoclasse. Da quanto tempo ricopri questa carica?»

«Questo è il secondo anno, Lord of Flames.»

«Bluebell è il tuo nome da Civil Heroine?»

«No, signore, qui possiamo averne uno solo una volta diplomati o se veniamo assegnati alle classi A o S, che hanno una licenza speciale per l’intervento» spiegò lei, non poco indispettita. «Bluebell è il nome che mi hanno dato i miei genitori adottivi.»

«In questo caso chiamami Percival» replicò l’uomo, con un sorriso incoraggiante che non riservava a molti. «Se non hai ancora un nome usare il mio crea uno sgradevole dislivello. Voi giapponesi siete più abituati a suddividere per categorie di subordinazione, ma in Europa siamo meno rigidi su questo.»

Quell’argomento scalfì un poco l’ostentata serietà della ragazzina, che sorrise con entusiasmo e acconsentì. Gran e Lyria si scambiarono un’occhiata divertita.

«In realtà saremmo venuti per parlare con il vostro preside. Potresti dirci dove trovarlo?»

«Non so se sia qui» rispose lei, dubbiosa. «Ma posso portarvi dal suo vice, Night Hound-sensei! È il mio tutore, sapete, ed è coordinatore dell’ufficio Missioni Strategiche e capitano dell’unità Ostaggi e negoziazioni!»

Gran fu deluso dalla notizia. Aspettava il momento di incontrare Wing Emperor da molto tempo e riteneva che dopo il passaggio della cometa avrebbe potuto dargli informazioni importanti sulla Ruota: solitamente veniva attratta da persone detentrici di talento e potere. Dopo il buco nell’acqua fatto con altri due Auris di livello così elevato da sembrare semidei, ormai l’Angelo d’Oriente era l’ultima pista da seguire per trovare la Ruota prima che travolgesse tutto e tutti lungo il suo cammino.

Bluebell li accompagnò all’edificio centrale, dove per un caso fortuito incontrarono l’uomo che cercavano intento a ritirare dal banco informazioni un plico di schede pinzate con una molletta. La sua espressione si fece sorpresa – quasi spaventata – nell’incrociare lo sguardo del giovane capitano, ma lui non se ne sorprese: solo affari importanti e gravi disastri lo portavano a sbarcare in zone del mondo con coperture mediatiche.

«Questa è una visita davvero inattesa» esordì Night Hound, ripresosi solo in parte. «Che cosa fa lo stupefacente Azure Eternal in una scuola?»

«Volevo discutere di qualcosa con Wing Emperor, ma la tua allieva ci ha detto che forse non è qui.»

Night Hound mise la mano sulla spalla di Bluebell con fare protettivo, quasi i nuovi arrivati fossero venuti a muovere delle accuse verso una bambina combinaguai. Gran continuò a sorridere, ma percepiva che si trovava davanti a un uomo a cui non piaceva molto.

«Ha ragione, Wing Emperor non c’è» confermò lui con una punta di acredine. «È partito per una riunione straordinaria del comitato asiatico per la gestione dei fondi degli uffici Auris. È stato convocato all’improvviso, le recenti alluvioni nella Cina continentale hanno reso evidente che la distribuzione delle sovvenzioni non è più adeguata.»

«Sì, è vero. È l’argomento preponderante delle pagine economiche nell’ultima settimana» commentò Percival, incapace di tenere per sé un’opinione su una questione amministrativa. «Non si era parlato della sua partecipazione, però.»

«Wing Emperor ha così tanti impegni che persino la stampa a volte non riesce a stare al passo.»

«Oh… avremmo dovuto prendere un appuntamento con lui, Gran…»

Gran sorrise a Lyria dandole una fugace carezza sul dorso della mano.

«Capisco… è un problema se diamo un’occhiata in giro per l’Accademia?»

A quella richiesta Night Hound cambiò espressione, mostrando senza esitazione la sua ostilità.

«Per quale ragione, di grazia? L’Accademia Auris è una proprietà privata di Wing Emperor, per quanto possa sembrarvi strano.»

«Non è un’ispezione ministeriale, Night Hound-sensei» tentò di placarlo Gran. «Questa scuola è unica per una serie di ragioni… visto che siamo arrivati fin qui pensavamo di guardare un po’ in giro…»

«Cosa siete venuti a cercare?»

Lyria, allarmata dai toni che andavano degenerando, fece per replicare ma Gran la zittì con un gesto della mano. Anche in lui si era destato qualcosa di più della mera curiosità ricreativa.

«C’è qualcosa da trovare?»

I suoi occhi azzurri fissarono quelli turchesi del Civil Hero giapponese cercandovi dentro le tracce di qualcosa di insolito, ma dopo poco più di un secondo venne bruscamente strattonato indietro.

«Gran, dacci un taglio! Le mie scuse, Night Hound» intervenne Percival, frapponendosi tra loro. «Sono molto interessato a qualsiasi esempio di gestione e amministrazione, e questa scuola assomiglia più a una città. Sarebbe istruttivo vedere come vivono gli studenti qui.»

Lo sguardo del vice preside scavalcò la spalla di Percival per raggiungere una piccola porzione del volto di Gran.

«Mi assumo la responsabilità di controllare che Azure Eternal e Miracle non diano problemi.»

Dopo una breve ma sofferta lotta interiore Night Hound fece loro un rigido cenno di assenso.

«Bene. Ma non dovete disturbare i ragazzi a lezione o durante i loro allenamenti. Non voglio che l’apparizione di quei due li distragga dai loro doveri.»

Gran e Lyria si scambiarono un’occhiata stupita e Lyria si coprì la bocca nascondendo l’inizio di una risata allegra: per loro sentirsi sgridare come bambini scalmanati era quasi un gradevole ritorno al loro tempo di persone qualunque.

La stampa amava chiamarli Azure Twins – perché avevano entrambi chioma e occhi azzurri e un nome d’arte con la parola Azuree con questo nome erano conosciuti in tutte le parti del globo che godessero di mezzi di comunicazione di massa, e anche in qualche remoto angolo in cui erano stati a prestare aiuto… e come tali venivano quasi idolatrati. Era inedito sentirsi rimproverare da qualcuno che sapeva quanto importanti fossero, ma anche confortante a suo modo.

Gli occhi di Lyria mandarono un luccichio che tradiva i suoi pensieri, ma Night Hound comprese che il suo entusiasmo era del tutto innocente come quello di una bambina e il suo cipiglio si ammorbidì.

«Controllerò che non disturbino nessuno. Grazie del tuo tempo» stava dicendo Percival, e scambiò una stretta di mano con il vice preside prima di voltarsi e scoccare un’occhiata da falco a Gran. «Andiamo

Gli Azure Twins fecero un inchino per ringraziare l’insegnante e si affrettarono a seguire le proprie braccia, trascinate via dalla presa ferrea di Lord of Flames.

 

*

 

Mukuro, seduto in disparte per terra con accanto un Ryota dall’aria molto vispa, teneva distrattamente lo sguardo sull’allenamento di Tsunayoshi al campo numero due, dove tentava ancora una volta di superare i limiti della sua manipolazione delle fiamme. Aveva in grembo un plico di fogli di carta musica e una matita con la quale continuava a tormentarsi le labbra alla ricerca di una scintilla di ispirazione: non ne aveva ancora parlato con nessuno, ma aveva in mente di scrivere un pezzo musicale da usare in un video.

Venendo a contatto con la vita all’interno dell’Accademia si era reso conto che le persone al di fuori – per quanto potessero essere interessate ai Civil Heroes – non sapevano quasi nulla di come fosse la reale vita quotidiana di uno studente Auris lì. Chi ne era appassionato conosceva la prassi degli esami e delle licenze, conosceva i Civil Heroes che avevano fatto il loro debutto, ma Mukuro era certo che della mole enorme di lavoro che c’era dietro di loro la gente là fuori non ne sapeva nulla. Come Subaru, che un tempo aveva dichiarato di desiderare di avere l’occasione di essere un eroe piuttosto che vestire giacca e cravatta allo studio legale.

Un improvviso scoppio e l’onda d’urto calda riscossero Mukuro dalle sue fantasticherie; istintivamente avvicinò le ginocchia al petto e con il braccio destro afferrò Ryota con l’intento di spingerlo dietro la propria schiena, solo per bloccarsi con un sospiro. La fiammata di Tsunayoshi era stata improvvisa ma innocua, quindi tranquillizzò un Ryota sorpreso con una carezza sui capelli. Continuava a sorprendersi di come il suo corpo tendeva a proteggere gli altri anche contro la sua stessa salvaguardia.

Forse dovrei pensare a questo come idea centrale per il video promozionale…

Un secondo scoppio fece sussultare in perfetto sincrono lui e Ryota, anche questo senza conseguenze se non il far esplodere l’ira di Tsunayoshi verso se stesso e le sue prestazioni, tanto che lanciò via il casco protettivo con violenza.

«Porca puttana! Faceva schifo!»

«Tsuna, se ti arrabbi ti è più difficile controllarlo» gli fece notare Enma, che si prestava come sempre a fargli da partner. «Prendi fiato, eh? Lo sai che cosa dice sempre Reborn…»

«La potenza detona dalla calma» ripeté lui, ringhiando fuori ogni sillaba. «Parla bene, lui! Usa un’arma per controllare la potenza del suo flusso!»

«Ha ragione, sai?»

Mukuro girò la testa di scatto verso l’angolo opposto del campo, notando nel mentre Ryota fare un piccolo balzello. Dato che iniziava ad affinare capacità serpentine era difficile avvicinarglisi senza che se ne accorgesse, ma gli sbalzi di temperatura dell’allenamento di Sky Flame lo avevano disorientato impedendogli di avvertire l’arrivo di quell’uomo.

Dal basso della sua generale ignoranza sul mondo dei Civil Heroes Mukuro non lo riconobbe, ma l’uomo dai capelli rossi indossava pantaloni neri, una casacca rossa dall’aria comoda ma raffinata e portava con sé una spada alta quanto lui. Il rumore cigolante della rete protettiva gli disse che Phoenix si era raddrizzato.

«Lord of Flames» fece a voce bassa. «Cosa ci fa lui qui?»

«Chi?» fece Mukuro in risposta.

«Fa parte della Grand Crew. Il più potente manipolatore di fiamme al mondo, pare.»

Mukuro lanciò un’occhiata a Phoenix dal basso, notando lo sguardo freddo che di solito riservava a ogni accenno a Subaru.

«E questo tono scettico è per…?»

«Non è scettico. È piuttosto probabile che sia il manipolatore di fiamme più potente al mondo, lo si è visto fare cose più simili a quelle di un dio che di un uomo, si potrebbe dire.»

«E perché non ti piace?»

Phoenix fissò Percival e fece una smorfia sbuffando.

«A lui il rosso sta meglio che a me.»

Mukuro scoppiò in una risata impossibile da contenere. Non riuscì a spegnerla nemmeno quando Phoenix gli intimò di tacere, ma smise quando notò la reazione di Tsunayoshi all’apparizione del nuovo, celeberrimo ospite: era bianco come un cencio e stava balbettando qualcosa di inudibile a quella distanza.

«Ascolta» gli intimò Lord of Flames, con un cipiglio a dir poco feroce. «Non è la calma esteriore il punto, ma quella dentro di te. Quella che a te manca.»

Tsunayoshi, attonito, prese a guardare tutt’intorno come fosse alla materiale ricerca di una calma che potesse essergli caduta in terra.

«Un mio compagno di equipaggio dice che “la forza di un ciclone sta nella perfetta calma al suo centro”, e vale anche per un manipolatore di fuoco: la calma centrale è ciò che dà a una tormenta la forma necessaria per diventare devastante.»

Mukuro non sapeva niente di Lord of Flames, ma si fece immediatamente l’idea che fosse un uomo a cui piaceva spiegare: teneva le braccia incrociate al petto con l’indice sollevato che oscillava, come se indicasse qualcosa su uno schema invisibile.

«Tu non sei calmo non perché sei arrabbiato, ma perché hai paura

Enma scoccò un’occhiata confusa a Tsunayoshi, che per contro serrò i pugni e aggrottò le sopracciglia.

«No, signore, non è vero.»

«Non provarci, ragazzo. Non prenderai in giro uno esperto come me e prendere in giro te stesso non ti aiuterà.»

Mukuro emise un bassissimo fischio.

«È più severo di te, Kyoya» sussurrò.

«Sarà per questo che gli stanno meglio i vestiti?»

«Ma tu non pensi a nient’altro?»

«Invidio molto il suo senso della moda.»

«Beh, facciamo progressi. Almeno ti rendi conto che il tuo fa davvero pena.»

Tuttavia, Mukuro iniziava a essere preoccupato per Tsunayoshi: sembrava ferito, frustrato e molto arrabbiato, tutte sfumature molto difficili da trovare in lui. Percival, però, se aveva notato la sua debolezza non aveva intenzione di lasciare che quella lo fermasse.

«Ci sono manipolatori di ogni elemento tra gli Auris… ma tu e io siamo manipolatori di fiamme. Il fuoco, anche in un stato placido e circoscritto, è sempre in grado di fare del male.»

«Ne sono conscio, signore.»

«Sì, e questo è un bene. Ma invece di rispettarlo per questa sua qualità intrinseca, tu lo temi… e chi teme una belva non sarà mai in grado di domarla. Non è ciò che mi aspettavo da qualcuno che porta il tuo titolo, Sky Flame… è un nome immeritato. Sono deluso.»

L’aria di Tsunayoshi era quella di un ferito a cui viene detto che non sarà più in grado di camminare. In quel momento a Mukuro venne istintivo alzarsi lasciando cadere i fogli e marciò verso di loro fino a piazzarsi proprio nel mezzo. Percival lo fissò come se non capisse da dov’era sbucato.

«Lord of Flames, uh? Davvero altisonante… come il tuo discorsetto di qualche attimo fa, in effetti.»

«E tu saresti…?»

«Indigo.» scandì Mukuro, accigliandosi. «Non so che cosa tu sia venuto a fare qui e non mi interessa, ma non mi piace che tu ti rivolga in quel modo al mio amico. Lui fa del suo meglio, come tutti noi.»

«Ah, certo… Indigo» fece lui, con un accenno di ghigno. «Visto che sei qui, lascia che dia un consiglio a te e al tuo amico: nessuno di voi due fa del suo meglio. Lui ha troppa paura per fare quello per il quale serve un puro coraggio, e tu al suo opposto sei così coraggioso da diventare stupido e farti quasi ammazzare in un crollo prevedibile come il sorgere del sole.»

Con uno zampillo di furia bollente come lava afferrò la casacca di Percival prima che Enma e Tsunayoshi provassero a trattenere il suo braccio, ma lui gli afferrò il polso e con una mossa fulminea lo strattonò. Mukuro si ritrovò seduto per terra, con un ginocchio di Percival contro la schiena, il braccio dietro il collo e la sua mano libera che gli batteva la fronte fastidiosamente.

«Gente come voi non nasce ogni giorno in ogni paese, lo volete capire?! Preservare la vostra vita è un dovere verso di voi e verso gli altri! Imparare a ragionare, sapere quando trattenervi e quando dare tutto, è una capacità imprescindibile che dovete acquisire! Non potete permettervi di essere pavidi né di buttare le vostre vite come fossero gettoni della sala giochi!»

«Che ca… mollami!» gli ringhiò contro Mukuro, bloccandogli la mano.

«Quello che fate non è un gioco e non è per la gloria, è chiaro? Per chi è in pericolo e senza difesa voi siete la speranza! Ogni volta che un eroe muore si spegne una candela in un mondo già tenebroso!»

Percival mollò la presa all’improvviso e Mukuro poté mettersi carponi nella polvere prima di rialzarsi. Aveva una voglia ruggente di riempire di cazzotti quel Lord e fu una fortuna che qualcuno più assennato di lui gli impedisse di provarci. Restless si mise accanto a lui, un passo più avanti, e si piegò in un inchino formale raro da vedergli fare.

«Scusa questo idiota, Percival-sama. È l’ultimo arrivato e non ha idea di che cosa sta dicendo.»

Percival parve sorpreso di vederlo quanto i suoi compagni di classe, ma poi si lasciò andare a un sorriso decisamente più amichevole.

«Non sono arrabbiato» gli assicurò lui. «Non ci vediamo da parecchio, Hayato… ti trovo bene.»

Restless rialzò la testa.

«Sì, sto bene. Accetta le mie scuse per Indigo, passa troppo tempo con Wing Emperor.»

«E questo che cosa vorrebbe dire?!»

Hayato fece un cenno con la mano come a dire che Mukuro si era risposto da sé e Percival scosse la testa, divertito.

«Sì, capisco benissimo.»

«Restless, che cosa pensi di–»

«Chiudi la bocca, Indigo, e vedi di pensare a quello che ti è stato detto» l’interruppe Restless, glaciale. «Percival-sama non parla tanto per sentire il suono della sua voce. Vedi di cavarne qualcosa di buono, tipo il modo di restare vivo finché non potrai bere del sakè.»

La risposta che Mukuro aveva in gola ripiombò giù di colpo quando sentì quella parola. Qualche tempo prima sua sorella Momo gli aveva detto che quando fosse diventato maggiorenne l’avrebbe raggiunto a Tokyo – era là che, allora, entrambi pensavano che sarebbe andato a studiare – e avrebbero festeggiato bevendo insieme il suo primo bicchiere di alcolico. Ripensò al video del telegiornale in cui si era visto più vicino alla morte di quanto avesse sentito di essere sul momento e si rese conto di quanto la morte fosse una presenza attaccata a lui come la sua ombra: a volte sbiadita, a volte nera e perfettamente dettagliata, ma comunque con lui a ogni respiro. Fino alla fine.

All’apparenza incuranti della nebbia scura che aveva avvolto gli altri Auris, Percival invitò Restless a far visita a un certo Rackam sulla Grandcypher e gli chiese di un non meglio indicato prototipo. Il ragazzo lanciò solo un fugace sguardo a Tsunayoshi prima di replicare – aveva accantonato quel progetto, qualsiasi cosa fosse – e incamminarsi con Percival fuori dal campo d’addestramento.

Nel silenzio che rimase fra i tre in piedi e il capoclasse con il bambino poco distante c’erano tutte le tracce di imbarazzo, frustrazione, confusione e un profondo senso di inadeguatezza. Il primo a rompere quella campana fu Tsunayoshi, con un tono stanco e incerto.

«Perché… sei piombato qui così, Indigo?»

«Perché ti parlava come se fossi un codardo. Come se questa fosse una scuola artificieri e tu avessi paura di accendere dei mortaretti.»

«Non è un affare che ti riguarda.»

Mukuro si voltò di scatto verso di lui.

«Come sarebbe, non mi riguarda?»

«Non ti ho chiesto di farmi da cane da guardia.»

«Ma che… che diavolo di problema hai?! Quello stava dicendo che il tuo lavoro non basta pur senza conoscerti e tu lo stavi lasciando sputare le sue sentenze da maestro zen!»

«Ha ragione lui! Non basta, altrimenti non sarei stato qui ad allenarmi!»

«Non lo autorizza a giudicarti! Non hai uno straccio di orgoglio, Sky Flame?!»

«Tu uno straccio di umiltà ce l’hai?»

Mukuro non conosceva quel lato del carattere di Tsunayoshi, ma di certo faceva una pericolosa reazione alchemica con il suo: Enma subodorò il pericolo e si affrettò a deviare il suo amico verso lo spogliatoio mentre le mani di Phoenix acchiappavano le spalle di Mukuro per spingerlo dalla parte opposta.

«Okay, okay… per oggi basta, eh?» gli fece, e sospirò. «Lo tirassi fuori con me tutto questo testosterone non saresti così attaccabrighe…»

«Ah, dacci un taglio, Kyoya.»

«Tu lo ammiri?»

Mukuro si fermò appena superata la linea bianca del confine dell’arena e si girò. Anche Tsunayoshi si era fermato, ma non lo guardava.

«Wing Emperor… tu lo ammiri? Lui, o un altro Civil Hero… hai qualcuno che guardi e non puoi fare a meno di pensare che… vorresti essere come lui? Arrivare al suo livello di… potenza… di esperienza… alla sua perfetta forma? A eguagliarlo sotto ogni aspetto?»

Gli balenò l’immagine di Wing Emperor e della maestosità di cui era avvolto quando era in azione con le sue magnifiche ali spalancate, ma subito dopo il suo sguardo – quasi involontariamente – si posò su Phoenix. Lui sembrò cogliere il significato di quel gesto perché le sue orecchie iniziarono a diventare visibilmente più rosse prima che Mukuro tornasse a fissare la schiena di Tsunayoshi.

«Lord of Flames è… quella stella che mi indica la direzione. Lo è stato fin da quando ero bambino e sono arrivato qui… io… non so spiegare a parole quanto lo ammiro.»

Seguì un momento di silenzio in cui Mukuro si trovò ancora una volta a contemplare l’abisso che esisteva ancora tra lui, aspirante musicista, e i suoi compagni che avevano fatto del controllo e uso del loro potere la priorità della loro vita. A quanto ricordava lui aveva preso a modello soltanto stupefacenti cantanti, eccellenti musicisti e scintillanti idol…

«Non mettermi mai più in imbarazzo davanti a lui, Indigo… so farlo benissimo da solo.»

Tsunayoshi rifuggì la carezza di Enma sulla spalla e marciò spedito verso lo spogliatoio con l’amico dai capelli rossi che gli trotterellava dietro. Mukuro si sentiva devastato; sentiva di aver fallito un altro importante esame morale sulla strada per diventare un Civil Hero. Al contrario di Tsunayoshi però non scappò dalla consolazione che gli offrì Kyoya strizzandogli piano le spalle.

«Ha sempre parlato di lui da quando è qui… è il suo modello… l’uomo che vorrebbe essere un giorno. Non ce l’ha davvero con te, è ferito per essere stato criticato da lui…»

Ponderò varie opzioni, ma non riusciva a immaginare se stesso così ferito dal giudizio di qualcun altro… nessuno che ammirasse allo stesso modo, quindi. Questa mancanza di modello lo fece sentire come se navigasse a sentimento in un mare scuro senza guardare le stelle.

«Tu… ce l’hai un modello?»

«Quando ero bambino ho preso Mad Horse come mio modello» rispose Kyoya, piuttosto prevedibile. «Quando non sapevo cosa fare mi chiedevo cosa avrebbe fatto lui… anche se in realtà non lo conoscevo né capivo abbastanza da sapere che cosa avrebbe o non avrebbe fatto. Ho preso tante strigliate per scelte discutibili.»

Ryota sbucò alle spalle di Mukuro e gli afferrò la mano con le sue; non camminava mai con lui per il campus senza tenergliela. Lui le strinse delicatamente, e anche se erano fredde e sentiva le piccole squame che gli crescevano sulle nocche delle dita provò un senso di intimità in quella ricerca di contatto, un piccolo calore confortante.

«E adesso?»

«Ammiro tante persone… per virtù diverse… alcune ne hanno molte, ma nessuna è perfetta… nessuno fa tutto giusto, e può darsi che anche Lord of Flames possa sbagliare a giudicare un giovane Auris…»

Phoenix lasciò uscire un profondo respiro, con l’aria combattuta.

«Non posso capire davvero Sky Flame, ma… il cuore vince su tutto.»

«Anche se il cuore ammira un tronfio bastardo?» ribatté Mukuro, invelenito.

«L’ammirazione è come l’amore… quando nasce ti porta a non vedere i difetti di chi te l’ha ispirato, finché… anzi, a volte anche se diventassero degli abissi. Che ne pensi, Ryota?»

Il bambino restò aggrappato alla mano di Mukuro ma spinse la testa nella carezza di Phoenix come un gatto.

«L’amore è una masssa di contraddizioni.»

Mukuro e Phoenix si lanciarono un’identica occhiata stupefatta.

 

*

 

Il ritorno di Aspis non cambiò radicalmente le abitudini di Mukuro, perché stando a lei Ryota non era mai stato tanto vivace e la prima richiesta che le aveva fatto era di avere una tastiera. Dopo che la bibliotecaria – con un vestito davvero troppo sexy per una madre, secondo Mukuro – lo ebbe intontito con un misto di entusiasmanti novità del suo pargoletto, ringraziamenti e racconti della sua vita da madre si trovò ad acconsentire a insegnare al piccolo Auris quello che sapeva di musica.

Appena il tempo di liberarsi della donna, uscire in cortile e raccontare a Kyoya quello che riusciva a mettere a fuoco del suo soliloquio e il piccolo Ryota apparve dal nulla e gli si aggrappò alla mano.

«Mamma me l’ha detto!»

Anche se oggettivamente insegnargli musica era rubarsi una fetta del poco tempo che l’addestramento e le lezioni gli lasciavano, quando guardò gli occhi gialli di Ryota così scintillanti di entusiasmo non riuscì a tornare sulla sua decisione un po’ forzata. Gli sorrise.

«Ti è piaciuta tanto la musica?»

Ryota annuì vigorosamente, tanto da spettinarsi i capelli.

«Voglio sssuonare come te!»

«Suonerai molto meglio di me» gli garantì, sforzandosi di ignorare l’aria compiaciuta che aleggiava sulla faccia di Phoenix. «Ho iniziato a studiare musica tardi… sai, la mia era una famiglia povera. Non potevamo avere tutto quello che volevamo… ma la tua mamma ti vizierà tanto, ti vuole bene.»

«Anche tu lo vizi» s’intromise Phoenix, con quel sorrisetto quasi intollerabile.

«Adesso io non ho più problemi… Byakuran mi può dare tutto quello che voglio, forse anche più di quello che ho mai sognato di avere fino ad ora.»

«E quindi puoi viziare altri bambini?»

«Quando si è piccoli è bello avere quello che si desidera» ribatté lui acido. «Non si capisce perché gli adulti non ci danno una cosa o l’altra, e ci si convince che non le meritiamo o che non ci vogliono abbastanza bene… un bambino con una mamma single che fa la bibliotecaria non può ricevere tutto a comando!»

Ryota lo fissava da sotto in su, con l’aria di non capire di che cosa stesse parlando, ed era un bene. Mukuro si pentì di aver tirato fuori quel discorso davanti a lui.

«Mad Horse è uno di quelli che ti ha viziato, no? Non è stato bello crescere così?»

«Lo è ancora, altroché… ma Restless è convinto che quando sarò maggiorenne farò un disastro con le mie finanze perché sono abituato ad avere il mio tutore che sborsa anche senza che io glielo chieda» aggiunse, con l’aria pensierosa di chi non afferra il nocciolo. «Quindi forse anche viziare in questo modo fa dei danni. Non saprei.»

Per quanto Phoenix fosse un amico affidabile e gli fosse caro, non poteva dire di non condividere la linea di pensiero di Restless: spargeva i soldi di Mad Horse tutt’intorno come distribuisse salatini e se continuava a farlo anche con persone decise ad approfittarsene poteva solo finire al verde.

«Trovati un partner affidabile e dai a lui, o lei, la delega sul tuo conto e tutti gli assegni. È meglio.»

Phoenix fece una strana smorfia, quella dei rari momenti in cui non sapeva che cosa fare o dire, e lo guardò.

«Potrei darla a te… sei un partner affidabile?»

Mukuro si fermò – Ryota gli urtò la gamba – e fissò Phoenix negli occhi per lunghi secondi.

«Ci puoi scommettere. Io so amministrare il denaro… ma prenderei quella delega soprattutto per impedirti di spendere un solo centesimo per alimentare quella commedia triste che è il tuo guardaroba.»

Kyoya si accigliò all’istante.

«Se è così tragico perché non vieni con me una buona volta e facciamo shopping insieme? Scegli tu qualcosa che ti piace per me.»

«Nemmeno per idea, è una cosa da fidanzati.»

«Abbiamo dormito nella stessa branda per una settimana, pensi che lo shopping sia più equivoco?»

«Faceva un freddo cane in quella tenda, siamo giustificati.»

«E il mio guardaroba non è abbastanza tragico da giustificarci?»

Mukuro fece per replicare con un secco “no”, ma l’immagine delle sciatte tute da camera di Phoenix e lo stile tremendamente antiquato delle sue combo gilet di lana e camicia lo abbagliarono come fari nella notte. Si passò le mani sugli occhi, esasperato al solo ricordare quel dannatissimo gilet a rombi arancioni e marroni.

«Sì. Sì, maledizione, è tragico abbastanza da giustificare uno stato di calamità» sbottò alla fine. «Quando andiamo? Non posso diventare un eroe… macché, una persona decente se continuerò a permetterti di conciarti in quel modo atroce!»

Phoenix trovò il suo scoppio nevrotico molto buffo e ne rise.

«Che ne dici di domani?»

«Perché non subito?»

Phoenix rise ancora e si accostò al suo orecchio, trattenendolo con la mano dietro il collo.

«Se i miei vestiti sono così brutti dev’essere stata una sofferenza trattenerti dallo strapparmeli…»

Con quel suo sorrisetto ammiccante lo lasciò immobile lì dov’era e riprese a camminare verso il dormitorio. Mukuro non riusciva a capacitarsi di quanto Kyoya sapesse essere malizioso, conturbante e tentatore quando voleva esserlo: se si fosse messo in testa di attaccarlo in quel modo più spesso si sarebbe visto costretto a scappare dal dormitorio alle più improbabili ore del giorno e della notte per conservare la propria virtù, oltre alla sanità mentale.

Con la mano che non rispondeva bene come prima al suo comando prese quella di Ryota.

«Non… tu non diventare come lui. Diventa un ragazzo bello in modo discreto.»

«Che vuol dire, Kuro-nii?»

«Ecco… un giorno te lo spiego meglio. Quando sarai più grande.»

Mukuro non aveva fatto caso ai ragazzi della classe B in allenamento nel campo vicino alla strada e si accorse di loro solo quando lanciarono un grido di avvertimento. Un oggetto non identificato sfrecciava dritto contro di loro, ma prima che Mukuro potesse fare qualcosa di più che spingere Ryota dietro la propria schiena si formò qualcosa davanti a lui: una lastra di luce verde, come un liquido vischioso smeraldino che riempiva scorrendo verso l’alto una lastra trasparente.

Alzò il braccio per proteggersi dal proiettile – una palla di metallo che veniva usata per esercitarsi a evitare i danni in missione – ma quello impattò lo schermo verde e cadde a terra inerme. Mukuro guardò la palla, priva di segni d’impatto, e la totale assenza di schegge o residui del surreale scudo che li aveva difesi.

Solo quando una ragazzina con lunghi capelli azzurri spiccò la corsa verso di loro capì che doveva esserne lei l’artefice.

«State bene? Ti sei spaventato, piccolino? Tieni, prendi una caramella!»

La visita di Lord of Flames aveva fatto sì che quei pochi che non conoscevano la Grand se ne facessero una cultura velocemente, e Mukuro sapeva di trovarsi di fronte ad Azure Miracle, la straordinaria metà dell’altrettanto incredibile Azure Eternal. Come nel suo caso anche i poteri di lei erano immensi e misteriosi, ma ciò che non sapeva ancora era che lei aveva anche un carattere assai misterioso.

«Ecco… oh…»

Lyria alzò lo sguardo su Mukuro, che sentì qualcosa di simile a una scossa calda attraversarlo dalla testa ai piedi. Scambiando il suo stupore e disagio per irritazione alzò le mani a coppa, piene di caramelle e cioccolatini.

«Prendine una anche tu, se ti piacciono! Ne ho sempre tante… eheh!»

«Io… dovrei dare io una caramella a te» replicò Mukuro, ancora stordito dalla strana sensazione che aveva in corpo. «Sei stata tu a bloccarlo, no? Io…»

Voltò la testa per guardare il punto in cui aveva visto la barriera.

«Non ho mai visto niente del genere…»

«Era il mio mirror! Non è molto consistente come difesa, ma protegge bene da un colpo in un punto unico… sono felice di aver fatto in tempo! Potevate farvi molto male, e Wing Emperor non è nemmeno qui…»

«Mukuro!»

Phoenix piombò su loro e prese a scandagliarlo dalla testa ai piedi, tastandogli le braccia come se si aspettasse ferite occulte.

«Stai bene? Ryota, stai bene?»

Ryota stava masticando il cioccolatino che aveva appena scartato e annuì. Il panico era duro ad attecchire su quel bambino, e anche i suoi rari spaventi duravano un battito di ciglia.

«Meno male» sospirò Phoenix, sforzandosi di sorridere. «Grazie di essere intervenuta… mi ero distratto…»

Non parlarle come se io e Ryota fossimo due stupidi cani che ti sono scappati dal cancello!

Si morse la lingua per non dirglielo subito, ma poi l’apparizione di Azure Eternal gli fece dimenticare che cosa ci fosse di così importante di cui lamentarsi.

Emetteva un’aura intensa, era come trovarsi vicino a un grosso magnete o a un qualche oggetto elettrostatico. Confrontata con la sua, la scossa data da Miracle era come essere gentilmente scrollati all’ora di svegliarsi.

«È pericoloso tenere un’esercitazione del genere in un campo così vicino alla scuola e alla strada» osservò, mentre i suoi occhi azzurri seguivano i ragazzi della classe B.

«Infatti è proibito!» sbottò Kyoya, e partì immediatamente all’attacco. «Ehi, voi! Classe B!»

Marciò verso il campo per fermare la macchina spara-proiettili usata per lanciare palloni e altri oggetti contro gli studenti, poi iniziò a snocciolare il regolamento con una tale autorevolezza che la classe B si radunò intorno a lui a prendersi la ramanzina, nonostante Phoenix non avesse alcun potere sugli studenti sotto un altro capoclasse. Mukuro si trovò a scuotere la testa.

«Nee-chan, hai un altro cioccolatino?»

Diede un buffetto di rimprovero sulla spalla di Ryota.

«Ryota.»

«Ah, non c’è problema, non c’è problema!» fece Lyria, allegra, e prese a mostrargli i cioccolatini che aveva nella sua borsetta di stoffa. «Come quello di prima? Un altro gusto? A me piacciono questi al cocco!»

«Questi sono i miei preferiti» commentò Gran, indicando una carta dorata. «Crema di mandorle.»

«Quelli che ti regala sempre Percival! Eheh!»

«Sapete una cosa buffa? Non mi piacevano» confessò, facendo un sorriso a Mukuro. «Gli dissi il contrario per non essere scortese… alla fine ho iniziato a trovarli deliziosi. A volte capita di abituarsi a un sapore al punto da non poterne fare a meno.»

«Credo si chiami “dipendenza”.»

Gran rise, ma per qualche ragione continuava a fissare Mukuro con un’insistenza inquietante. Iniziò a chiedersi se non ci stesse provando con lui e la sola ipotesi bastò a mandarlo nel panico: non gli era mai capitato, se escludeva le avances di Phoenix.

Che stai blaterando? È Azure Eternal, che diavolo gliene può importare di te? Sii razionale!

Aveva appena ponderato quel ragionamento e concluso che era molto sensato quando le dita di Gran sfiorarono il suo mento mentre si avvicinava per fissarlo dritto negli occhi. Avvertì la sgradevole sensazione di una grande mano che gli strizzava le viscere e un calore pulsante irradiarsi da dove lo stava toccando, anche se lui portava dei guanti.

Che… cosa accidenti è questo tizio?!

I suoi occhi erano bizzarri e li stava guardando abbastanza da vicino per accorgersi che non sembravano umani: avevano pupilla e iride come occhi di persone, ma questa era di un azzurro intenso senza sfumature; non c’era traccia di pagliuzze, di sfumature grige, marroni, verdi o di altro colore intorno alle pupille. Erano come spazio vuoto aperto su un cielo senza nuvole…

«Che diamine succede, qui?»

Mukuro si riscosse solo quando, a quelle parole, Gran girò la testa e il contatto visivo si interruppe. Si sentiva confuso, come se fosse stato ipnotizzato… e si domandò se non fosse in grado di farlo.

Phoenix spinse sul petto di Gran facendolo indietreggiare di un paio di passi con una freddezza invidiabile.

«In questo campus ci sono delle distanze interpersonali da mantenere quando si è in pubblico» gli fece notare con un tono che cercava goffamente di mascherare l’ostilità. «Vale anche per voi.»

«Chiedo scusa!» rispose quello con leggerezza, come avesse riposto qualcosa sullo scaffale sbagliato e niente di più grave. «Gli occhi del tuo amico Indigo sono molto interessanti… uno in modo particolare.»

Phoenix inarcò un sopracciglio, ma prima che potesse replicare o domandare Gran li superò e riprese la strada verso l’edificio centrale.

«Buona giornata, classe S. Ciao, Ryota, ci vediamo presto!»

Lyria si trattenne solo per dare al bambino alcune caramelle gommose e andò dietro a Gran; quando lo raggiunse si presero per mano intrecciando le dita come due fidanzati, e come tali camminarono guardandosi e sorridendosi senza dire niente e senza far caso, apparentemente, a nulla di ciò che avevano intorno.

Mukuro sobbalzò quando notò che Phoenix lo stava fissando.

«Che accidenti vuoi? Non sono stato io a–»

«Che cosa intendeva dire riguardo i tuoi occhi?»

«Non… che ne so, a me sembrano due schizzati!»

Phoenix li guardò allontanarsi con un’aria grave che non gli aveva mai visto.

«Sai com’è… dicono che la genialità si accompagni all’eccentricità…»

Mukuro guardò la testa di capelli azzurri di Azure Eternal.

«Qualsiasi cosa siano… mi mettono i brividi.»

Mukuro si strofinò il braccio con la pelle d’oca, mentre Phoenix prendeva la mano di Ryota per tornare al dormitorio in un silenzio meditabondo. Per lui fu difficile scollare gli occhi dalla coppia, ma quando ci riuscì si accorse di respirare meglio. A ogni passo la sensazione residua di quei brividi sbiadiva, ma non il turbamento che provava: era così che diventava un Auris allo zenith del suo potere? Più che trasmettere calore e sicurezza, la loro presenza metteva paura come lo zampettare di un animale sconosciuto sulla pelle.

 

*

 

Byakuran rientrò stanchissimo dal congresso per colpa di molte ore di consiglio aperto fino a tarda notte: le politiche Auris raramente rispettavano formalità come gli orari di riunione, i giorni di festa o la necessità di dormire dei loro membri. Spesso gli incontri incentrati sulle finanze dei vari uffici assomigliavano più a lunghe sessioni di studio prima di duri esami di economia o matematica.

Scese dall’autobus e si avvicinò all’ingresso posteriore, già armato della sua tessera d’ingresso, domandandosi in un picco di egocentrismo perché uno come lui – uno importante come lui – andasse dall’aeroporto alla sua scuola in autobus. Sospirò mentre la sua tessera validava il suo passaggio.

Di solito Kikyo mi viene a prendere… dev’essere impegnato per dimenticarsene. Oppure ho fatto qualcosa che lo ha fatto arrabbiare, ma chissà che cosa.

Per poco non urtò qualcuno mentre cercava di riporre la carta nel taschino e le scuse gli morirono in gola quando incrociò quegli occhi azzurri e brillanti. Occhi quasi altrettanto sorpresi di vederlo.

«A… Azure Eternal?»

«Wing Emperor.»

«Trovato!»

Byakuran guardò Miracle, alle sue spalle, radiosa di gioia. Dietro di lei l’aria molto più seriosa di Lord of Flames, e gli si strinse la gola dolorosamente. La loro presenza in un luogo di solito era collegata a gravi accadimenti o disastri naturali e i suoi occhi viola scandagliarono quello che poteva vedere del campus alla ricerca del minimo segno di guai. L’assenza del suo amico all’aeroporto improvvisamente aveva un senso, anche se non afferrava quale.

«Cosa è successo?»

«Ah… niente, niente! Non preoccuparti!» cercò di tranquillizzarlo la ragazza, ma la sua espressione era pensierosa, come confusa, e continuava a guardargli i capelli. «Non è… successo niente…»

«Eravamo al largo di Mizura e abbiamo avuto un’emergenza, quindi abbiamo attraccato poco fuori dal porto» intervenne Percival. «Siamo qui da un paio di giorni, aspettavamo la riparazione a bordo e il tuo vice ci ha permesso di dare un’occhiata in giro.»

«Il mio… vice… Kikyo?» domandò, passando da un paio d’occhi all’altro. «Quindi sta bene?»

«Sì, certo. Azure Eternal si chiedeva se fosse cambiato qualcosa in modo… permanente dopo il passaggio della cometa Solomon e pensando di trovarti qui siamo venuti per parlarti.»

«Ah… mi spiace, ero al–»

«Sì, ce l’hanno detto. Avete trovato un accordo soddisfacente per i finanziamenti governativi?»

«Uh… sì… cioè, io speravo di accordarci su un sistema più flessibile che tenesse conto delle valutazioni annuali, ma alla fine si è optato per qualcosa di un po’ più semplicistico, una retribuzione basata sulle valutazioni medie dello scorso triennio più un bonus.»

«Hanno proprio paura di consumare le dita dei contabili, eh?»

«Così pare» convenne Byakuran, che non si aspettava di condividere il suo scontento sull’argomento con qualcuno che non fosse Kikyo. «Se non avessi avuto altre faccende di cui occuparmi avrei volentieri puntato i piedi, ma…»

Quando non poté più ignorarla lanciò un’occhiata a Miracle e l’indicò, rivolto a Percival.

«Perché mi sta fissando così?»

Percival non sembrava essersene accorto, preso com’era a indignarsi per l’esito dei consulti finanziari, ma appena la guardò assunse un cipiglio di rimprovero.

«Lyria!»

«Ah! Chiedo scusa… m-ma… gli assomiglia così tanto!»

«A chi?» domandò il preside, confuso.

«Ah, non ha importanza» tagliò corto Azure Eternal, con un sorriso enigmatico. «Avremo un’altra occasione per parlare, spero, ma quando ripasseremo da queste parti manderò un telegramma per prendere un appuntamento. Forse ripasseremo prima della fioritura.»

Suo malgrado Byakuran sorrise.

«Fate una vita nomade… sembra divertente.»

«Gente come noi non può restare ferma… siamo costretti a muoverci» replicò Gran, fissandolo con un’intensità elettrica, come l’aria prima di una tempesta. «Come se fossimo legati a una ruota che, lenta o veloce, non può non girare.»

Byakuran ebbe la netta impressione che il ragazzo stesse testando la sua reazione a una parola o a un concetto, come se volesse scoprire se nascondeva qualcosa… ma nessuna di quelle parole o allusioni, se tali erano, mosse in lui qualcosa se non della perplessità.

Il capitano si congedò con tono cortese ma frettoloso, Miracle lo seguì dopo averlo salutato molto amichevolmente con la mano e Percival chiuse il terzetto dopo aver scambiato con lui una stretta di mano e averlo ringraziato dell’ospitalità. Li guardò uscire dalle mura della sua proprietà con la sensazione di essere sotto inchiesta, ma non sapeva per quale potenziale reato.

Assorto in congetture e ipotesi sempre più zoppicanti camminò a lungo, e si accorse quasi a metà strada che stava percorrendo dei chilometri a piedi senza ragione: si tolse il cappotto, sistemò la scatola che portava con sé sotto il braccio e spiccò il volo con un solo, potente battito d’ali. L’aria era fredda, ma raramente si sentiva bene come quando volava con le sue ali.

Era diretto alla finestra del suo ufficio – che poteva aprire anche da fuori con un piccolo trucco – ma notò una figura con la tuta rossa vicino al dormitorio della classe S e accanto a quella una che era particolarmente familiare, quindi virò in un largo giro e scese a terra vicino a loro.

«Woh! Non farlo mai più, accidenti a te!» l’accolse Mukuro con una nota stridula nella voce.

«Bentornato, sensei» lo salutò più cordialmente Phoenix.

«Come va? È tutto okay qui?»

«Stavamo benissimo senza di te.»

«È successo qualcosa mentre ero via?»

«Sono venuti alcuni della Grand Crew in visita nel campus» gli snocciolò subito il capoclasse. «Gli Azure Twins e Lord of Flames…»

«Li ho visti andare via mentre tornavo… che cos’hanno fatto?»

Phoenix scrollò le spalle.

«Parlato con degli studenti, assaggiato tutto quello che si poteva mangiare nel campus, distribuito dolcetti e caramelle come fosse Halloween… Lord of Flames ha scambiato due parole con Sky Flame e con Restless… ah, Indigo ha cercato di fare a botte con lui…»

Prima che Mukuro potesse indignarsi con Phoenix per la spiata il preside stroncò la sua reazione con un’occhiataccia.

«Che hai combinato, Mukuro?!»

«Niente, Lord of Flames l’ha messo letteralmente col culo per terra» rincarò Phoenix, con un sorrisetto. «E questo è perché non impara a combattere senza impatti… come un delinquente~»

«Dacci un taglio, Phoenix!»

«Potete discutere dopo del vostro programma di allenamento… ora, Indigo, avrei una cosa per te» fece, e accennò alla scatola che portava. «Ti spiace se saliamo? Vorrei mostrartela e dirti due parole.»

La notizia colse di sorpresa i due ragazzi che si scambiarono uno sguardo confuso, ma Mukuro annuì e gli fece strada dentro il dormitorio fino alla sua stanza. Era molto più ordinata di come Byakuran ricordasse di aver mai tenuto i suoi spazi alla sua età.

«Sei molto ordinato, Indigo… che bravo.»

«Sono abituato a sistemare il letto e le mie cose… in casa-famiglia non potevo lasciare i vestiti o i libri in giro e dovevamo rifare il letto prima di andare a scuola.»

Byakuran sorrise e posò la scatola sul letto perfettamente rassettato. Mukuro gli passò alle spalle e si sedette alla scrivania.

«Com’è andato il consiglio?»

«Lungo, duro e terribilmente snervante… ordinaria amministrazione, quando si parla di ridiscutere le sovvenzioni» riassunse brevemente scrollando le spalle. «Ma stamattina prima di prendere l’aereo ho fatto colazione con il rappresentante del ministero Auris della Repubblica Cinese. Yao Lu-Wong.»

La faccia inespressiva di Mukuro tradiva la sua ignoranza in materia.

«È un Civil Hero famoso in Cina, lo chiamano Dragone Blu… recentemente si sta occupando di politica cercando di sostenere gli Auris sul piano delle riforme sociali. Lì se la passano un po’ peggio di noi, sono più simili a soldati… con pochissimi privilegi, corte marziale per diserzione e ancora sottopagati, sai com’è.»

«Capisco. È stata una colazione piacevole?»

«Mi ha chiesto molte cose di te.»

La sua educata indifferenza divenne infantile stupore.

«Cosa? Di me?»

«Sì, come buona parte del mondo e quasi ogni Civil Hero ti ha visto nel servizio girato a Higashiki… mi ha fatto molte domande. Dove ti avevo trovato, che preparazione hai avuto… quando gli ho detto che il giorno del terremoto non eri ancora iscritto e che ti ho incontrato per il protocollo di contenimento è rimasto folgorato!»

Come tante altre volte che si accennava a questi fatti Mukuro distolse lo sguardo come in imbarazzo e farfugliò qualcosa di poco chiaro. Byakuran pensava che fosse un buon segnale che il ragazzo tendesse a minimizzare piuttosto che gonfiarsi come un pavone del suo incredibile quanto illecito debutto: nella prima fase della formazione di un Civil Hero era più confortante un po’ di timore che una pericolosa esuberanza.

«Lu-Wong mi ha fatto promettere che ti avrei convinto a venire a una cena con noi… quindi prima di tornare a casa sono andato a comprarti qualcosina di utile.»

Con un cenno della mano lo convinse ad alzarsi dalla sedia e aprì la scatola, spostando la carta per svelare l’abito in tessuto broccato grigio-indaco scuro. La luce sulla seta evidenziava i suoi decori di fiori e foglie di loto, e i bordi e le asole di cordino lucido in azzurro polvere davano un piacevole contrasto. Lo sollevò per mostrarglielo nella sua interezza.

«Che ne pensi? So che ti piacciono i colori scuri, ho pensato che questo ti stesse bene…»

Lo vide spostare il foglio di carta per rinvenire i pantaloni – anche quelli in tinta azzurro polvere – e delle scarpe adatte, ma non riusciva a decifrare la sua espressione.

«Che succede? Non ti piace?»

«No, io… beh, è piuttosto strano pensare di mettermelo. Non ho mai messo nemmeno uno yukata prima.»

«Davvero? Io trovo belli i vestiti cinesi… ho più vestiti per i miei viaggi in Cina che per la vita civile in qualsiasi altro posto!»

Nonostante l’aneddoto che sperava gli valesse un sorriso o almeno una sua battuta Mukuro non cambiò espressione.

«Non devi metterlo per forza… ho solo pensato che ti potesse piacere. È un vestito elegante… se vorrai accompagnarmi in qualche occasione del genere te ne prenderò degli altri. Magari li sceglieremo insieme.»

Il suo tono era sempre più incerto e alla fine ammutolì, guardando il tessuto dal colore particolare. Quando aveva visto la stoffa nel suo negozio preferito di Pechino aveva pensato immediatamente a lui, ma forse era stato avventato…

«Io… il vestito non è un problema» replicò allora Mukuro, incerto quanto lui. «Il colore mi piace… si vede che è un abito ricercato… solo… non credo che dovrei venire a cena con te.»

«Cosa? E perché mai?»

«Perché… perché non sono nessuno.»

Con un sospiro Mukuro si sedette sul letto, ripiegando i pantaloni quasi distrattamente.

«Non sono un Civil Hero… in realtà non sono neanche un classe S. Non sono in nessuna classe e… ha ragione quel tipo arrogante» concluse con un tono irritato. «Sono un idiota. Dovrei suscitare l’attenzione di qualche persona importante per che cosa? Perché ho rischiato di restare ucciso o perché sono tuo figlio adottivo? Perché non c’è del merito in nessuna delle due.»

Byakuran non replicò subito e sospirò silenziosamente. Ricompose l’abito meglio che poté e sedette accanto a lui.

«Indigo, senti… per quanto gli insegnanti cerchino sempre di parlare ai ragazzi di sicurezza, tutti i Civil Heroes nelle prime missioni rischiano, specie se si trovano in missioni particolarmente pericolose, e quella di Higashiki era di una pericolosità straordinaria…»

«Non ero un Civil Hero.»

«Non lo ero nemmeno io» replicò Byakuran, prima di riflettere. «I Civil Heroes sarebbero esistiti soltanto anni dopo quando feci il mio primo salvataggio azzardato… e se vuoi saperlo, non salvai assolutamente nessuno. Mi buttai a testa bassa, senza pensare, non salvai nessuno e qualcuno dovette venire a salvare me.»

Poteva anche pentirsi di aver raccontato a qualcuno quella vecchia, segreta storia, ma vedere la frustrazione dissiparsi almeno in parte dall’espressione del ragazzo era un traguardo che valeva quel prezzo.

«Almeno tu hai salvato delle persone… il bambino, i due fratelli, e diverse persone che io ho fatto in tempo a guarire, a liberare e a mettere in salvo prima che il ponte cadesse. È stato folle… ma è stato il coraggio di un ragazzo che non vuole più nascondersi. Prendilo come lezione, non come un disonore per cui affliggersi.»

Byakuran gli accarezzò i capelli e visto che non sembrava volerlo mordere lo fece una seconda volta.

«Detto questo, non sei obbligato a venire a cena con Lu-Wong se ti imbarazza… gli dirò che pensi che il tuo posto sia con gli studenti, o qualche altra cosa del genere che fa impressione ai maestri cinesi così attenti alla gerarchia.»

«Posso… pensarci su?»

«Certo che puoi… provati l’abito, comunque» aggiunse lui mentre si alzava. «Anche se non vuoi venire tienilo, ci sarà qualche occasione per indossarlo… io adoro mangiare al ristorante cinese. Faremo una serata a tema, magari.»

Ripose con cura il vestito nella scatola senza chiuderla e andò alla porta, prima che gli venisse in mente qualcosa che forse gli avrebbe risollevato il morale.

«Ah… se quel colore ti piace, potrei farne avere un campione alla Irie… sai, per il tuo costume, quando avrai passato l’esame della classe B.»

Qualcosa di luccicante sembrò passargli davanti illuminando il suo viso, anche se non sorrise. Senza parole, Mukuro guardò il vestito e si limitò ad annuire.

Uscendo Byakuran sorrise, sicuro che l’autostima di Indigo sarebbe salita man mano che dimostrava a se stesso di essere capace di stare al passo con altri studenti, con la classe S… con i professionisti… e infine, trionfando sul nemico, come un vero guerriero.

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Capitolo 12
*** The woman on the canvas ***


Il primo giorno di settembre Mukuro scese le scale del dormitorio ignorando del tutto il cane di Yamamoto che tentava di accoglierlo con il consueto entusiasmo: aveva la sensazione di avere la mente sveglia ma tagliata fuori dal resto del mondo, come un computer senza connessioni internet.

«Indigo, buongiorno! Ti andrebbe del tè al lampone? Ne ho appena fatto!»

Mukuro guardò in faccia Wish Luck per diversi secondi, poi si decise ad annuire. Non pregustava il tè, non sentiva neanche di avere fame o sete, non era concentrato su niente… o almeno, così sentiva di essere.

Seguì la ragazza al lungo tavolo della cucina e sedette dove gli indicò, e allora iniziò a percepire qualcosa che scalfiva il suo nulla interiore: c’era già il vassoio e fu riempito a velocità straordinaria con tè al lampone, una fetta di torta di crêpes al cioccolato e mirtilli, una ciotolina di yogurt greco con mandorle che Phoenix l’obbligava a includere nella colazione e un mezzo pompelmo.

«Oggi è il gran giorno! Sei nervoso?»

All’improvviso Mukuro si risvegliò con la sensazione di precipitare sulla sedia dall’alto di una dimensione in cui le faccende terrene non lo raggiungevano. All’idea che fosse il primo di settembre si sentì stritolare uno stomaco miseramente vuoto e seccare una gola già disidratata.

«No» mentì senza guardare Luck in faccia, e prese il cucchiaino. «Perché dovrei?»

«Perché se non superi l’esame di pratica non importa quante volte tu possa fare quello stupido percorso a ostacoli» aggiunse Restless, che stava spolpando il suo pompelmo con la metodicità e la ferocia di un serial killer. «Non sarai mai un Civil Hero prima di diplomarti.»

«Mukuro ce la farà» gli rispose serafico Breaker, seduto di fronte in attesa di una colazione che non era ancora arrivata. «Non preoccuparti!»

«La preoccupazione proprio non mi tocca… e poi tu che ne sai, scusa?»

«Sono andato a vedere la sua esercitazione Grandi Incendi.»

La notizia sorprese un po’ tutti, ma soprattutto Mukuro. Il suo esame, congiunto ad altri aspiranti professionisti, si era tenuto in un’area nella prefettura di Tochigi a oltre 350 chilometri dall’Accademia, dove una città da dieci milioni di abitanti virtuali veniva data alle fiamme.

L’esame di classe S era una simulazione di salvataggio che faceva impallidire i gradi inferiori per diversi fattori, i più importanti dei quali il numero di persone in pericolo potenziale, la pericolosità del disastro e la vastità dell’area; per questo si tenevano in siti esterni all’area di Mizura.

«Ma che sei andato a fare fino là?»

«Ho fatto anche io l’abilitazione all’area Grandi Incendi… ero curioso di vedere come se la cavava!»

Iniziò a serpeggiare in cucina un silente interesse per la sua prova. Mukuro, tornato stremato dall’esercitazione dopo due giorni, non aveva dato dettagli su quella che era una delle peggiori esperienze della sua esistenza se non un rapido sunto sulle ferite e sulla sua stanchezza. In cuor suo pensò che se non avesse mai dovuto fronteggiare un grande incendio metropolitano sarebbe stato un uomo felice e sarebbe morto ringraziando qualche divinità per la sua vita tranquilla.

Incrociò lo sguardo di Yamamoto e qualcosa nel modo in cui accennò a tendere un angolo della bocca gli fece capire che lui conosceva la paura che incuteva quel terreno in fiamme: il fuoco come una massa vivente e feroce che ruggiva, il crepitio incessante del suo divorare ogni molecola riuscisse a lambire, l’odore di combustibili, plastiche e legno che carbonizzavano, la paura di un’esplosione o di un crollo infuocato a ogni secondo passato a muovere passi cauti sull’asfalto sciolto…

Mukuro chiuse gli occhi per contenere le avvisaglie di un attacco di panico. Nei giorni successivi alla prova ne aveva avuti così spesso che in infermeria Scorpion Kiss gli aveva dato dei farmaci per controllarli. Sentì un braccio passargli sulla spalla e intorno al collo e ancora prima che parlasse aveva già riconosciuto Kyoya dal profumo di cocco del suo bagnoschiuma.

«L’esercitazione Grandi Incendi è una delle più pericolose e impressionanti che ci siano» fece vicino al suo orecchio, a voce leggermente più bassa del normale. «È il terreno di prova più duro. Solo i migliori allievi vengono testati con quella.»

Love, bloccandosi mentre impiattava delle omelette per Yamamoto e Tsunayoshi, annuì con aria solenne.

«Se si hanno dei dubbi sulla valutazione psicologica dello studente non viene chiamato per quel campo! È davvero spaventoso, e molto pericoloso, specie per chi non ha un potere adatto alla situazione!»

«Pensavo si tirassero a sorte» commentò Mukuro, tentando di sembrare convinto nel muovere l’attacco a una torta che al momento non gli faceva proprio sangue. «Voi che esercitazioni avete fatto?»

«Io ho fatto il primo test nella squadra con Hayato!» fece Love, improvvisamente tornata allegra. «Ero l’unità di soccorso e lui la mia copertura! Abbiamo fatto l’esercitazione Tempesta!»

«Appropriato» commentò Mukuro prima di potersi trattenere.

Love ridacchiò e servì finalmente le omelette. Dopo averlo incalzato scoprì che Tsunayoshi aveva fatto un test eseguito di rado ma molto suggestivo quale Tempeste di fulmini, Luck era stata testata nel soccorso in caso di alluvione mentre Enma era stato impiegato nell’esercitazione Magnitudo Dieci. Mukuro trovò da brividi il fatto che la sua prima missione operativa fosse stata proprio un terremoto e sperò con rinnovato terrore che il suo esordio non sarebbe stato un devastante incendio metropolitano.

«E tu?» fece all’improvviso guardando Kyoya seduto accanto a lui. «Non mi sembra che tu me lo abbia mai detto. Che esercitazione hai fatto?»

Lui sorrise in modo enigmatico.

«Io le ho fatte praticamente tutte, col tempo… ma quando ho iniziato io il protocollo era ancora quello iniziale. I tipi di prova sono stati diversificati sette anni fa, con la progressiva costruzione di altri campi di esercitazione. Quando sono stato testato io si simulava una guerra intestina.»

«Una cosa, scusa?»

«Uno scenario di battaglia. Una schermaglia» puntualizzò lui, agitando il cucchiaino mentre parlava. «Sulle montagne… due squadre rappresentavano due eserciti opposti. Ognuno credeva di interpretare i Civil Heroes e doveva prendere gli altri, i Ribelli… valeva qualsiasi strategia o colpo non fosse volutamente letale, o che avrebbe ammazzato qualcuno con buone possibilità.»

Mukuro lo fissava sbalordito. Non aveva parole per dire quanto gli paresse brutale.

«Il test durava due giorni e due notti… e per vincere una squadra doveva prendere tutti gli altri. Si aveva davvero l’impressione di prepararsi per una guerra anziché per salvare delle persone…»

Abbassò il cucchiaino.

«Ma probabilmente usare i poteri Auris degli altri era il metodo più economico di tenere questi test, all’epoca non avevamo ancora così tanti terreni di allenamento diversificati.»

«E hai vinto?»

Kyoya lo guardò, ma sorrise senza rispondere.

«Se vuoi saperlo dovrai chiederlo a Mad Horse… o a Wing Emperor. Ma vorrei che non lo facessi, Mukuro.»

«Col cavolo, ora sono curioso come una scimmia!»

«Se avessi vinto una simile esercitazione a dieci anni ti sentiresti umiliato… se non l’avessi superata ti potresti sentire in colpa per aver passato la tua tranquilla Grandi Incendi, o magari ti chiederesti se ho avuto gli incubi…»

«Oh, taglia la commedia, Kyoya! Sì o no?!»

Phoenix sospirò e fissò gli occhi sulla tazza di caffè nero. Era imbronciato.

«No. Ovviamente no. All’epoca non c’era una valutazione delle strategie usate, dello sforzo, della collaborazione, dei danni evitati come adesso. O si vinceva tutto o si perdeva tutto.»

La notizia sparse un po’ di disagio lungo il tavolo, almeno finché Enma non prese la parola.

«Forse non eri un bravo soldato, ma sei un ottimo Civil Hero… e un… ottimo… capoclasse…»

La voce gli si spense del tutto e prese ad arrossire mentre – palesemente – malediceva la sua intraprendenza. Tuttavia quel commento fece sorridere tutti, Phoenix incluso.

«Sei un bravissimo compilatore di scartoffie, in effetti» commentò ironico Restless. «Scrivi così bene dentro le tabelle. Perfettamente al centro.»

«Mi sono allenato per anni~»

Seguì qualche altro commento dello stesso tono e Luck chiuse il discorso esercitazioni proponendo di andare tutti insieme a vedere le liste che avrebbero esposto i punteggi finali. Dopo un generale assenso e un’ipotesi di festeggiamenti nel pomeriggio si passò a parlare di cinema e Mukuro prese il suo pompelmo per spolparlo con il cucchiaino mentre la mano destra di Phoenix riemergeva per tenere la tazza del caffè; gli occhi fissi su Love che parlava di qualche attore.

Nessuno si era accorto che sotto il tavolo gli aveva tenuto la mano finché non aveva smesso di tremare.

 

*

 

Scoprire di essere passato con il punteggio più alto del gruppo lasciò Mukuro confuso e felice, ma la sua gioia non durò tanto quanto credeva. Mentre da qualche parte i ragazzi si rimettevano comodi dopo un pomeriggio di cinema e sala giochi insieme, il neo classe S confermato Indigo si aggirava al piano più alto dell’edificio centrale, davanti a un ufficio chiuso fino a una stanza coloratissima quanto abbandonata.

Si lasciò cadere tra i cuscini e fissò le lanterne spente appese al soffitto per un po’ prima di ricontrollare il suo cellulare. Nessuna notifica, nessuna conferma di lettura. Troppo preso con l’ennesimo giorno di congresso alle Nazioni Unite il suo tutore non aveva ancora saputo della sua promozione ufficiale alla classe S.

«Cazzo

Mukuro lanciò il telefono via, da qualche parte tra cuscini colorati, e si girò a pancia sotto.

Non vedeva Byakuran di persona dall’inizio di maggio a causa di una crisi diplomatica con l’Europa e la conseguente necessità di riscrivere quasi in toto la Carta dei Diritti. Non aveva più potuto passare del tempo con lui, non lo aveva seguito nella sua preparazione, aveva perso il suo compleanno e la vacanza estiva che dovevano fare insieme in Marocco era sfumata… anche se l’essere partito con Mad Horse e Phoenix per passare due settimane tra spiagge bianche, mare turchese, succhi di frutta tropicale e falò notturni aveva reso almeno quell’ultima ferita un po’ meno dolorosa.

Ma ora sono un classe S… ho scalato le classi dell’Accademia a tempo record, ho dato tantissimi esami pratici e teorici per arrivare qui… e lui non c’è. Lo sapeva che avevo l’esame la settimana scorsa, e mi ha mandato solo qualche messaggio… neanche una telefonata!

Con una specie di ringhio si girò bruscamente e tirò via un cuscino tubolare con un calcio.

«Che cosa devo riuscire a fare per essere più importante delle Nazioni Unite?!»

Quelle parole avevano appena lasciato le sue labbra che si era già pentito di averlo pensato. Era da marmocchi mettersi sullo stesso piano – o persino sopra – alla politica mondiale e alle leggi in tema di una razza intera. Era da arroganti, da piccoli egocentrici, e soprattutto significava negare l’importanza fondamentale del lavoro che Wing Emperor faceva da undici anni.

Mukuro abbandonò la stanza con un umore peggiore di qualsiasi altra volta. Si sentiva in colpa verso Byakuran per aver pensato che dovesse accantonare tutte quelle faccende per concentrarsi non su se stesso, ma sul pupillo che aveva superato qualche esame a scuola e voleva un riconoscimento.

Ma vorrei davvero un riconoscimento.

Negarlo non sarebbe servito a farlo stare meglio. Mentre innaffiava le piantine sul davanzale dell’ufficio di Byakuran non poteva negarlo: avrebbe voluto vedere il suo maestro – suo padre – esprimere almeno un po’ della gioia e dell’orgoglio manifestati dal resto della sua classe.

Persino lei si è congratulata con me…

Per qualche attimo si perse nel pensiero della ragazza della classe A, quella che l’aveva incoraggiato a Higashiki, che gli veniva incontro davanti ai tabelloni e si congratulava con lui, per poi porgergli una mano piccola e liscissima e dirgli il suo nome. Si chiamava Chrome Doll, e l’immagine di una bambola di metallo era particolarmente calzante…

Solo il rumore dell’acqua lo riscosse e raddrizzò il piccolo innaffiatoio: una delle aster di Byakuran era gravemente alluvionata e l’eccesso si stava rovesciando a cascata sul pavimento.

«Cazzo!»

Aprì la finestra e sollevò la pianta verso l’esterno per sgocciolarla, ma il terriccio era completamente fradicio. Ricordò che quando succedeva alle sue piante Enma le tirava fuori dal vaso per asciugare all’aria e mettere dell’argilla asciutta, così tirò la pianta per sollevarla con la sua zolletta di terra.

Forse dovrei chiedere a Enma se quella cosa dell’argilla funziona con questa pianta…

Quando guardò in fondo al vaso per scoprire se conteneva qualche drenante come gusci di frutta secca, argilla o ghiaia rinvenne qualcosa di inaspettato. Così tanto da fargli abbandonare la piantina sul davanzale e dimenticare il disastro fatto sul pavimento.

In fondo al vaso c’era una chiave. Era un modello vecchio con una targhetta in plastica, gialla, e una scritta scolorita dalle frequenti innaffiature della sua ospite floreale. Pur detestando sporcarsi di terra Mukuro non esitò a recuperarla e usò l’acqua rimasta per eliminare il terriccio sulla targhetta.

«Dodici? Dodici che cosa?»

Folgorato da un’intuizione schizzò fuori e guardò lo schema appeso davanti all’ascensore, dove una pianta del piano indicava le uscite di emergenza, i telefoni e gli estintori. Lì le stanze erano contrassegnate da numeri e non dall’utilizzo che ne veniva fatto, e vide il numero dodici.

Avanzò verso gli uffici degli altri coordinatori delle classi e si chiese se fosse la chiave di uno di quelli e perché Byakuran pensasse di nasconderla in un vaso, ma la conta delle porte lo fece fermare davanti a una di vecchio tipo la cui targhetta recitava solo “archivio”.

Il suo cuore iniziò ad accelerare. Che cosa nascondeva Byakuran in un archivio di così segreto da seppellire la chiave in un vaso anziché tenerla al sicuro in segreteria o semplicemente in un cassetto? Era così emozionato che gli caddero le chiavi due volte prima che riuscisse a infilarle e fece scattare la serratura.

La prima cosa che lo colpì fu l’odore: una mescolanza sgradevole di polvere e di qualcosa di sintetico, un odore che gli suscitò la sensazione di nostalgia e di tristezza, come una vecchia soffitta mai svuotata. Accese la luce per avere nuovi indizi.

La stanza aveva due finestre ma erano completamente sigillate dagli scuri di legno. Non c’era altro che una dozzina di scatole di cartone, senza scritte o contrassegni, e una scaffalatura carica di polvere.

Più che un archivio sembra solo un ripostiglio… è una stanza enorme per queste poche cose.

Eppure quelle poche cose sembravano essere così importanti da nasconderle e Mukuro non riuscì a resistere alla tentazione di scoprire almeno a grandi linee cosa fossero. Magari erano libri non più utili messi da parte, vecchi vestiti, o regali degli ammiratori… magari lettere o cartoline, o forse semplici scartoffie. Ma una parte più fantasiosa e avventurosa di Mukuro si stava lanciando in altre congetture: e se fossero stati libri proibiti dalla biblioteca? Se fossero state scatole piene di quei giornalini che gli era capitato di vedere nascoste tra i calzini dei suoi fratelli maggiori? Se avessero contenuto invece dossier segreti di operazioni della sconosciuta gioventù di Byakuran, o una collezione di trofei?

La sua più tenebrosa immaginazione aveva già proposto la visione di svariate ciocche di capelli femminili quando Mukuro si accorse che era un po’ fuori strada, ma non del tutto. Dalla scatola più piccola emersero delle fotografie, un rotolo di pergamena e alcuni oggetti che avevano tutta l’aria di essere ricordi di una capsula del tempo: era la sconosciuta gioventù di Wing Emperor, ma quella prima che la grandezza lo facesse crescere.

Si passò tra le mani uno yo-yo rosso e blu con la frizione e una cannula che, a meno di non sbagliarsi di grosso, era un richiamo per uccelli. C’era un frusto orsetto molto brutto e un cagnolino di plastica con il naso a lampadina.

Sono i suoi giocattoli! Quelli che aveva da piccolo…

Mukuro ficcò le mani avidamente dentro la scatola e prese a esaminare tutto quello che c’era. Rinvenne altri piccoli giocattolini; sembrava che Byakuran avesse una passione per i portachiavi a forma di animale dato che ne aveva conservati almeno due dozzine. Sfogliò un album di carte da collezione, anche di quelle ne aveva tante, più di un centinaio. Sul fondo trovò delle monetine che scoprì essere gettoni di una sala giochi e i resti di un porcellino che, suppose, doveva averle contenute; infine trovò un braccialetto con un nome, una città e una data.

«Un concerto! Ma è incredibile, allora ce l’ha avuta davvero una giovinezza!»

Era curioso di aprire le altre scatole, ma il pacco di fotografie lo attirava molto di più. Si spostò più vicino alla luce – ce n’era solo una sulla parete, quelle sul soffitto restarono spente – e prese a sfogliarle lentamente, studiandone non solo le fattezze di un Byakuran che riconosceva poco ma anche i suoi vestiti, gli edifici intorno, tutte le persone che comparivano nei paraggi e altri cento dettagli. Il suo preferito, però, era che Byakuran sembrava felice in ognuno di quegli scatti.

 

*

 

«Hai trovato un tesoro nascosto in bella vista… sono passato davanti a questo archivio almeno duecento volte.»

Phoenix stava seduto abbarbicato sul davanzale della finestra a sfogliare le fotografie alla luce del giorno, con un sorriso divertito. Mukuro spalancò la seconda finestra provocando una caduta libera di ragnatele di polvere e ragni morti che lo fece ritrarre disgustato.

«Beh… lo teneva chiuso a chiave, comunque…»

Diede qualche colpo di tosse e finalmente, con la luce del giorno che filtrava, diede una bella occhiata alla stanza in sé. Purtroppo non fu edificante, perché le pareti erano solo superficialmente imbrattate di uno strato non uniforme di vernice giallastra, le prese di corrente erano scoperte e dal soffitto pendevano solo fili elettrici dove avrebbero dovuto esserci due punti luce.

«Sembra che fin dall’inizio questa stanza non sia stata finita… non è strano?»

«Non proprio» replicò Kyoya, alzando lo sguardo dalle foto. «Bonificare quest’area è stato molto dispendioso. Pare che fosse un quartiere lasciato al degrado dai tempi della seconda guerra mondiale ed è stato necessario costruire i collegamenti di acqua, elettricità e tutto il resto… hanno costruito gli edifici a zone, e può darsi che per dare priorità ai dormitori gli uffici siano stati finiti un po’ per volta quando servivano.»

«Già… quanto pensi sia costato costruire l’Accademia?»

«Probabilmente nel tempo più di cento miliardi di yen.»

A Mukuro uscì un verso incredulo così stridulo che fece eco sulle pareti spoglie della camera. Phoenix rise di gusto.

«Ha ricostruito un intero quartiere compresi allacciamenti, fondamenta, tutti questi edifici, le strade, le mura… e poi ha fatto rifinire tutto, pareti, pavimenti, infissi, bagni, per non parlare degli arredi delle classi, di uffici, e ha praticamente un piccolo ospedale!»

«Come diavolo ha fatto ad avere tutti quei soldi a soli ventun anni?!»

«Beh, questo è uno dei tanti misteri che la stampa non è mai riuscita a svelare di lui… è risaputo che il terreno della scuola è suo privato, quindi non è stata fondata con sovvenzioni statali, e non sarebbero bastate comunque.»

«Una cifra del genere penso manderebbe in bancarotta il paese.»

«Forse» fece Phoenix facendo spallucce. «Comunque che cosa hai intenzione di fare? Se volevi mostrarmi le foto potevi portarmele giù. C’è altro di interessante?»

«Non ne hai idea!»

Dimentico del costo di costruzione dell’Accademia paragonabile al bilancio di un piccolo stato si lanciò su un altro dei cartoni e ne sfilò un robusto album dalla copertina blu scuro. L’aprì mentre Phoenix si avvicinava.

«Guarda qua!»

«È… Night Hound-sensei?»

«Quando era più giovane! Guarda la data» fece lui indicandogli un angolo del foglio. «Questo album è pieno di ritratti suoi, ma in questi scatoloni ce ne sono decine… aspetta…»

Phoenix sfogliò con riguardo i molti fogli di carta spessa e ruvida e osservò con stupore e meraviglia i disegni a carboncino che contenevano, mentre Mukuro impilava altri album tutti uguali sullo scaffale vicino a lui.

«Sono tutti pieni fino all’ultima pagina! Qualcuno è anche a colori… alcuni sono dettagliati come fotografie, altri sono solo schizzi… credo che disegnasse le persone che incontrava, anche gli avventori della caffetteria o… guarda, qui ha disegnato il pannello dietro» aggiunse, mostrandogli le righe poco precise alle spalle del disegno molto curato della donna con gli occhiali. «Credo fosse una professoressa!»

Phoenix era così impressionato da faticare a parlare, e dovette sfogliare diversi album prima di ritrovare la voce.

«E pensi che li abbia fatti Wing Emperor?»

«Ma che domande fai? Certo che sono suoi!»

«Il fatto che siano qui non significa necessariamente che siano suoi… potrebbero essere stati fatti da un amico d’infanzia… magari qualcuno che glieli ha lasciati, o che non c’è più.»

«Ve’ che sei ottuso forte!» sbottò Mukuro con un’involontaria inflessione dialettale. «A parte il fatto che in tutti questi album c’è qualsiasi persona che appaia anche nelle fotografie più una serie di sconosciuti, tutti tranne Byakuran…»

«Chi lo sa, potrebbe… aspetta, chi…?»

«La prova principale è qui!»

Mukuro sfogliò rapido tutto l’album e fece lo stesso con un altro taccuino: l’autore dei disegni faceva lo stesso piccolo marchio e tracciava la data nell’angolo destro in tutti i fogli, e il simbolo era piuttosto lampante per Mukuro.

«Questa è un’orchidea. Una Phalaenopsis.»

Phoenix rimase perplesso esattamente come prima.

«Ran! Byakuran ha firmato i suoi disegni con metà del suo nome!»

Phoenix scosse la testa e alzò la mano per bloccare un nuovo flusso di spiegazioni.

«Wing Emperor si chiama Byakuran? Sul serio?»

Lui rimase interdetto. In tutto quel tempo era sicuro di aver detto almeno una volta il nome vero di Wing Emperor almeno a Kyoya, ma forse si sbagliava. Con vago imbarazzo si grattò la testa.

«Credevo di avertelo già detto… ma sì. Si chiama così. Si scrive “bianco” e “orchidea”.»

«Oh, beh… allora credo che tu abbia ragione» convenne Phoenix, fissando il simbolo. «Sembra un’orchidea, quindi… potrebbero essere suoi.»

«Sono sicuro che sono suoi.»

«L’hai mai visto disegnare?»

Mukuro scosse la testa.

«Mai… ma ho trovato l’ultimo album… i suoi ultimi disegni sono stati fatti due anni dopo i primi dello stesso album e sono strani… più… brutti, ecco. Più imprecisi, come se non disegnasse da tanto…»

Ci mise qualche minuto a ripescarlo, perché Byakuran doveva aver fatto una scorta o essersi trovato bene con un particolare album da disegno e gli ultimi dieci in linea temporale erano tutti spiralati con la copertina rossa. Lì, dopo sei bellissimi ritratti di una bambina con corti capelli mori che Mukuro riconosceva dalle foto come la nipote di Luce, si susseguivano alcuni schizzi di ritratto lasciati a metà e un incerto volto di una donna dai capelli mossi e chiari che era apparsa in qualche altro album prima dello hiatus.

Phoenix scorse le pagine più volte con gli occhi privi di brillantezza: era il suo sguardo triste.

«Stando alle informazioni confermate… questi bei disegni sono stati fatti prima che sparisse per due anni… e questi, due anni dopo. Qualsiasi cosa abbia fatto della sua vita in quel mentre, non ha disegnato.»

«Love dice che si è addestrato con l’esercito, forse è andata così.»

«Può essere… ma in ogni caso, quando è tornato non era più lo stesso ragazzo. Questi ritratti… è come se non ricordasse più bene com’erano le persone che voleva disegnare, non credi?»

Mukuro guardò ancora la donna dai capelli chiari e in effetti non sembrava esattamente la stessa dell’altro splendido ritratto che la immortalava vicino a una finestra con un fagottino sulle ginocchia. Segni di cancellature indicavano le sue modifiche al mento, al naso, al collo… ma in tutti gli altri non si notava nessuna esitazione.

«Wing Emperor un artista… non l’avrei mai pensato… ma spiega perché siete tanto simili.»

«Stai scherzando? Guarda che roba pazzesca era in grado di fare!»

«Anche tu fai roba pazzesca… guardi dei pallini su delle righe e ne suoni una musica. Per un ignorante come me è magico esattamente come prendere una matita e fissare il volto di qualcuno su un foglio in questo modo!»

Mukuro emise un brontolio. Non voleva addentrarsi in un discorso sulla disparità di talenti.

«Ora, la ragione per cui ti ho chiamato qui.»

«Oh, finalmente» fece Kyoya con un sorrisetto ironico. «Sentiamo.»

Il ragazzo indicò col pollice altri scatoloni che aveva spostato nell’angolo.

«In tutti quelli c’è il suo materiale. Ci sono centinaia di matite, carboncini, gessetti, pennelli… una di quelle è strapiena di tubetti di pittura, ci sono delle tele arrotolate e un sacco di altre cose che non so neanche che cosa siano. Credo che abbia chiuso qui tutto quello che gli era rimasto di ciò che era prima di assumere il ruolo di Wing Emperor… le foto di famiglia, tutta la sua arte, e…»

«Tutto il suo tempo felice.»

«Sì.»

«Cosa hai in mente?»

«Voglio ripulire questa stanza e sistemarla. Voglio tirare fuori tutta questa roba da artisti e metterla in ordine… voglio che al suo ritorno possa entrare qui e vedere ogni oggetto invece che scatole anonime, e che possa sentire quel solletico… quello che sento io quando vedo uno strumento che so suonare.»

Kyoya non replicò e girò lo sguardo sulla camera. Per un attimo Mukuro temette che l’avrebbe persuaso a rimettere tutto a posto e a lasciare che Wing Emperor proseguisse lungo il percorso che si era scelto.

«Servirà un po’ di lavoro» disse invece. «Servirà della vernice per le pareti e delle mascherine per le prese di corrente… sarà immancabile un tavolo da lavoro che sia spazioso. Forse so dove trovarne uno gratis.»

Mukuro sorrise.

«Allora pensi sia una buona idea?»

«Certo che lo penso. Wing Emperor incoraggia i nostri svaghi dicendo ai tutori di autorizzare le spese per gli hobby degli studenti, finché hanno una buona media scolastica… di sicuro lui ha una buona media, quindi merita degli svaghi.»

«Grazie, Kyoya… visto che non abbiamo lezione per due giorni mi metto subito al lavoro. Ti spiacerebbe accompagnarmi più tardi a un negozio dove prendere la vernice e questo genere di cose? Non sono molto pratico di lavori di ristrutturazione, ma…»

«Sei fortunato, perché io me la cavo» l’interruppe lui, che occhieggiava qui e là con aria critica. «Se usa la pittura è meglio se scegliamo una vernice lavabile… per le mascherine, potrebbero essercene in avanzo dai lavori di ristrutturazione degli uffici.»

È già entrato in modalità organizzativa… sarebbe un capogruppo perfetto in qualsiasi lavoro.

«Inizia con lo spolverare e sposta le scatole… chiederò alle ragazze di salire a darti una mano a togliere la polvere da tutta questa roba qui dentro» fece picchiettando uno scatolone. «Spedisco Mad Horse a scoprire dove hanno messo gli avanzi di costruzione, stanno in qualche magazzino qui intorno…»

«Lo spedisci

«Io spedisco Mad Horse anche al Polo Nord se voglio, lo sanno tutti… soprattutto lui. Comunque, io andrò a prendere la vernice… ne prenderò una anche per le finestre, sembrano un po’ rovinate, no? Che colore vuoi sulla parete?»

«Non saprei… forse per la luce sarebbe meglio un bianco. Non sono un disegnatore, non so cosa sia meglio.»

«Ho io il consulente adatto» fece Phoenix, quasi sorpreso dal suo lampo di genio. «Bene, penso di tornare entro un’ora… e porterò del tè per te e le ragazze.»

«Kyoya… non serve che vengano… avranno i loro programmi e ripulire una stanza è un lavoro che so fare bene anche da solo.»

Kyoya gli diede una pacca sulla spalla.

«Lascia che aiutino nel tuo progetto… sono studentesse del soccorso medico. Wing Emperor è il loro maestro tanto quanto il tuo… forse anche di più, non trovi?»

Mukuro non aveva riflettuto affatto su quell’aspetto, ma non ebbe obiezioni a quel punto. Annuì e Phoenix l’abbandonò da solo nella stanza cupa della nostalgia. Prese da uno scatolone uno strofinaccio bianco macchiato delle più impensabili sfumature di colore essiccato e se lo legò in testa per togliersi i capelli dal viso, poi sorridendo prese a spostare i cartoni: li avrebbe sistemati temporaneamente nella sua palestra personale.

 

*

 

Come previsto, alle ragazze non dispiacque unirsi al progetto e passarono la prima giornata a togliere ragnatele grosse come liane dal soffitto ed eliminare parecchi centimetri di abbandono da sopra gli infissi, dai vetri delle finestre e dagli scaffali, poi procedettero a spolverare copertine e bordi degli album, a ripulire gli oggetti e spazzolare con delicatezza i bordi sfilacciati di tele rimosse dall’intelaiatura sulla quale erano state fissate per essere dipinte.

La bellezza della pittura di Byakuran era persino più sbalorditiva della tecnica dei suoi ritratti: erano meno fedeli alla realtà, ma esprimevano molto di più le sensazioni del loro autore. Alcuni paesaggi erano vibranti con i colori mescolati dal pennello direttamente sulle tele e quel tratto attribuiva al giovane Byakuran un’impulsività, una ricerca della non perfezione che Mukuro non gli riconosceva ormai più. Love, invece, trovava che altri suoi scorci fossero innaturalmente carichi di tonalità fredde e che avessero pennellate lunghe e irregolari, come se li avesse dipinti distrattamente o di cattivo umore.

Il ritrovamento più singolare lo fecero dopo che Phoenix tornò dalle sue commissioni e si unì a loro portando come promesso il tè caldo e dei mochi per tutti. Mentre Mukuro sedeva con le ragazze sulla trave di equilibrio pensando solo a riempirsi lo stomaco il loro capoclasse si era offerto di fare un po’ di lavoro e aveva recuperato il rotolo di tela più alto.

Quando lo srotolò emerse un dipinto alto due metri e mezzo circa, che fece trattenere il fiato ai presenti: era sì di una straordinaria bellezza e vividezza, ma Mukuro aveva riconosciuto la donna coi capelli chiari vista in molti schizzi. Con il mochi in una mano e il tè nell’altra si alzò per avvicinarsi.

«È il quadro di quel disegno… aveva disegnato questa donna vicino alla finestra con il bambino in braccio!»

«Doveva essere un disegno preparatorio!» fece Love, con un tono di mistero. «Ha disegnato la scena per andare a colpo sicuro sulla tela! Oh, questo quadro è bellissimo!»

«Chissà chi è» fece Phoenix, srotolandolo completamente sul parquet.

«Potrebbe essere chiunque.»

«Chiunque? No, non si fa un ritratto su una tela così grande di una donna qualsiasi…»

Quando Luck parlò Mukuro si accorse di averla dietro, che guardava il dipinto oltre il suo braccio come se le facesse paura. Appariva triste.

«Chiunque sia, provava qualcosa per questa donna…»

Mukuro si accigliò.

«Come fai a dirlo?»

«Credo… per com’è dipinto il viso… lo sfondo è simile ai paesaggi di prima, con quelle pennellate irregolari… ma la sua figura no, e il viso… beh… è come se… avesse accarezzato il colore, non vi sembra…?»

Dopo averlo studiato più da vicino anche Mukuro si convinse che c’era una cura tutta speciale in quel quadro e sebbene ne avesse cercato tracce simili anche nelle tele che ripulirono dopo non la trovò. Tutti avevano quella domanda in mente e nessuno la risposta, e quando finirono il loro lavoro tutti e quattro lanciarono alla donna bionda un ultimo sguardo prima di uscire.

 

*

 

Dato che le ragazze erano scomparse insieme a Mukuro e Phoenix l’argomento naturale della cena fu dove fossero andati. Visto che non vedeva la ragione di mentire e creare equivoci Mukuro lo spiegò brevemente come fosse un ripasso di poca importanza, ma suscitò la curiosità di tutti. Persino Restless smise di fare l’offeso con Love per ascoltare i segreti dell’archivio del preside.

Il giorno seguente andarono tutti a vedere la famosa “Donna bionda con bambino” di Byakuran e visitarono anche la stanza abbandonata, poi Yamamoto si offrì volontario per aiutare a dipingere. Kyoya aveva comprato della vernice bianca per i soffitti e una lavabile in un particolare color pervinca – addusse la scusa che fosse un colore in esaurimento e che costasse meno, ma Mukuro sospettava gli piacesse quel particolare tono di blu – e quindi i tre rimasero a dipingere la stanza.

Nei cinque giorni successivi andarono quando avevano tempo per completare tre belle mani di vernice bianca e due di lavabile nei primi due metri di parete, e per arieggiare il locale. Il sesto giorno vennero presi in castagna da Night Hound, che ovviamente aveva già scoperto sia l’odore delle vernici che i loro, ma aspettava di trovarli dentro per avere una spiegazione. Dopo un lungo tentennamento Mukuro svelò il suo piano e con enorme stupore della classe S ebbero il permesso di lavorarci fino al coprifuoco di mezzanotte. Il sensei sembrava divertito all’idea che il preside trovasse la stanza pronta – fu lui a usare il termine per primo il termine atelier – e successivamente passò a monitorare i progressi tutte le sere prima di ritirarsi.

Finite le riverniciature di infissi e muri e coperte le prese elettriche, divenne uno sforzo collettivo finire la stanza: Restless si prestò a sistemare le luci – emersero così le sue competenze nel campo dell’elettrotecnica – con delle plafoniere prese da uno dei magazzini della scuola, Luck confezionò a mano delle tende oscuranti per il sole del pomeriggio che si abbinassero al colore azzurro delle pareti.

A sorpresa, Love applicò del nastro adesivo washi tra il bianco e il pervinca dove i ragazzi inesperti avevano fatto un lavoro un po’ grossolano nel verniciare dritto. Le cortesi obiezioni di Indigo sul fatto che il nastro avesse disegni di cagnolini furono messe a tacere con la lapidaria sentenza “a Emperor-sensei piacciono i cani!” e non si azzardò più a commentare, anche se ogni volta che entrava fissava la linea di Akita saltellanti come se avesse una ragione personale per odiarli.

Tsunayoshi ed Enma non parteciparono molto ai lavori, ma passarono diversi pomeriggi liberi a battere i dormitori delle altre classi chiedendo agli studenti se avessero oggetti dei quali volessero disfarsi. Racimolarono una lavagna magnetica, un appendiabiti che ricordava un corallo, una bella lampada a piantana molto adatta a fare luce a una scrivania e uno sgabellino imbottito, un po’ frusto ma comodo.

Il vero jackpot lo fecero bussando alla classe A: gli diedero un divano il cui gemello nella loro sala comune era andato a fuoco in un misterioso incidente e che, rimasto solo, era stato stipato in un angolo scomodo della sala di lettura per fare posto a una coppia nuova. Furono felici di sbarazzarsene e la classe S scoppiò in uno spontaneo applauso entusiasta quando verificarono che si infilava perfettamente tra la scaffalatura degli album e l’angolo dell’appendiabiti.

«Ben fatto, Sky, Gravity» si complimentò Mukuro, mentre ammirava l’effetto.

Il divano era arancione. Accanto al corallo-appendiabiti e davanti alla parete azzurra faceva uno straordinario contrasto. Conoscendo la sua stanza marocchina non dubitava che a Byakuran sarebbe piaciuto.

«Era proprio quello che serviva, qualcosa di comodo dove potersi sdraiare.»

«O dove far sdraiare una modella~»

Mukuro lanciò un’occhiata a Kyoya, che replicò col suo sorriso malizioso.

«Questa è la famosa scrivania?»

Enma non aveva ancora visto il fiore all’occhiello dell’atelier, fatto principalmente da Phoenix con un minimo aiuto di Mukuro, e si avvicinò per mostrargliela.

«Già! Era una vecchia lavagna che qualcuno aveva rotto. Abbiamo riparato l’ardesia con una specie di mastice e sopra abbiamo appoggiato questo vetro… sempre preso dal magazzino, pare fossero i pezzi sostitutivi se si fosse rotto qualcosa mentre costruivano l’infermeria.»

«E queste…»

Enma passò l’indice sul bordo del vetro, che era più piccolo della cornice della lavagna.

«Listelli di legno con un po’ di imbottitura e rivestiti di pelle. Sono comodi per appoggiarci le braccia…»

«E poi evitano che il vetro si muova o subisca contraccolpi se si sbatte contro la cornice» aggiunse Phoenix, e diede un colpo sostenuto al legno. «Visto? È un piano di lavoro robusto.»

«Che spettacolo! Guarda qua… è fantastico, ne vorrei uno anche io!»

Enma fece oscillare il piano.

«Avete pensato a tutto… si blocca se spingo più avanti!»

«Sì, in modo che non si rovesci tutto. Si può mettere piatto o piegare verso la sedia, ma non in avanti.»

«Cavolo, Phoenix… potresti costruire mobili, ma come hai imparato?»

«Prima di passare alla classe S avevo l’hobby di costruirli… anche se in scala piccola» svelò lui, con gran sorpresa di tutti. «Era un esercizio per controllare la mia forza, anche. Se non facessi il Civil Hero mi piacerebbe, però, è divertente costruire oggetti.»

Tutti i presenti accolsero la rivelazione con sorrisi più o meno divertiti, dato che la principale funzione da Civil Hero di Mad Phoenix era distruggere gli oggetti, ma nessuno commentò.

«Beh… a questo punto cosa manca?» fece allora Yamamoto, guardandosi intorno.

«Di importante, una sedia per la scrivania… pensavamo di prenderne una da una delle stanze vuote del dormitorio, quindi è presto fatto…»

«Stasera fisso le mensole da questa parte, e poi possiamo iniziare a spostare le sue cose e sistemarle.»

Solo gli album erano stati ordinati cronologicamente sulla scaffalatura accanto alla porta: avevano lasciato tutti i materiali artistici e le tele nella palestra in attesa di sistemare tutti i mobili.

«Allora direi che fra pochi giorni avremo finito… siamo anche al weekend, possiamo lavorarci tutti!»

«Ehi, che lavoretto!»

Mukuro si girò di scatto verso la voce sconosciuta, ma il giovane fermo sulla porta lo aveva già visto a Higashiki: era il Civil Hero dell’unità Volanti di nome Camaro. La sola cosa che sapeva davvero di lui era che si era diplomato in una classe S precedente.

«Camaro!»

«Camaro-senpai!»

Tutti i presenti lo accolsero con notevole calore, ma nessuno come Phoenix, che dopo averlo salutato e aver posto qualche domanda di circostanza era arrivato – inspiegabilmente – a tenergli il braccio mentre lo invitava a guardare più da vicino la stanza.

«Sì, è stato un lavoro ben fatto, ragazzi… ah, vedo che c’è anche Indigo! Non ci siamo salutati formalmente a Higashiki» gli fece sorridendo, e allungò la mano verso di lui. «Sono Noriyuki. Noriyuki Yamamoto, in arte Camaro.»

«Il nostro senpai preferito» aggiunse Phoenix.

«Scommetto che lo dici a tutti quando li incontri…»

«Questo è offensivo, Camaro-senpai. Molto.»

Mukuro strinse la mano del senpai degli altri classe S con eccessiva forza e gli causò una smorfia, che cercò di trasformare in un sorrisetto.

«A-ah… forse sei abituato a Kyoya, ma io sono un pochino più… fragile…»

«Chiedo scusa.»

Mukuro non era mai stato meno dispiaciuto di qualcosa e Camaro parve accorgersene, perché lanciò a Phoenix un’occhiata in cerca di sostegno mentre si massaggiava la mano furtivamente. Dal canto suo Mukuro non sentì l’ostilità calare di una sola oncia e incrociò le braccia.

«Che cosa ti ha portato così lontano dal Coordinamento, Camaro?»

«Sono passato a vedere come andavano i lavori, Kyoya mi ha detto che avevate quasi finito e…»

Camaro ammutolì davanti all’espressione di Mukuro, e guardò Phoenix come se stesse per rimproverarlo.

«Glielo hai detto?»

«Che venivi? Non ero sicuro che venissi oggi.»

«No, intendevo l’altra cosa.»

«Oh… ehm…»

Camaro aggrottò le sopracciglia e Phoenix esibì il solito sorrisetto di quando voleva farsi perdonare una gaffe, ma poi il Civil Hero si riebbe immediatamente.

«Ah, dato che venivo ho pensato di contribuire anche io e vi ho portato una sedia da scrivania… è usata ma è in buone condizioni, davvero… vieni con me, Indigo, aiutami a portarla su.»

Di certo un Civil Hero operativo non aveva bisogno di aiuto per sollevare una sedia, ma Mukuro capì che intendeva parlargli e lo seguì senza fiatare. Phoenix gli sembrò vagamente compiaciuto da quel corso dell’incontro, ma non capiva come mai.

Non fu una sorpresa scoprire che la famosa sedia era stata lasciata sul pianerottolo. Entrambi la raggiunsero e senza commentarla si fissarono al di sopra del poggiatesta.

«Avevo detto a Kyoya di mettere subito di chiaro le cose con te. Non so perché non lo abbia fatto.»

«In chiaro quali cose, esattamente?»

«Che siamo stati insieme.»

Mukuro sentì come un palla da biliardo cadergli dentro lo stomaco e credette di mascherarlo bene. In realtà era appena impallidito e Camaro lo notò.

«Durante il mio ultimo anno qui, prima del diploma… ma quando me ne sono andato ci siamo lasciati. Non era una storia che pensavamo di trascinare oltre… mi ha dato molto, e io penso di aver lasciato qualcosa a lui, ma ora siamo amici e nient’altro, okay? Non devi sentirti minacciato da me.»

«Minacciato? Io, minacciato da te? Per che cosa?» sbottò Mukuro, riuscendo a stento a tenere la voce bassa. «Non m’importa di te, e per quello che mi riguarda Phoenix può stare con tutti quelli che gli pare. Anche contemporaneamente, se a loro sta bene!»

«Ti prego, non prenderla male… volevo che fosse sincero per evitare che ti sentissi così…»

«Così come?»

«Impreparato. Vulnerabile. Insicuro.»

Davanti al silenzio di un Indigo frastornato Camaro sospirò e si massaggiò la fronte.

«Mi ha parlato tantissimo di te in questi mesi… ci sentiamo per messaggi e quasi sempre racconta di te. Di quello che fai a scuola, di quanto impari velocemente, di come sembri felice quando insegni musica a quel bambino…»

Mukuro deglutì e gli parve di essersi ingoiato la lingua: non riusciva a muoverla.

«Ma mi dice anche di quanto tu sia insicuro nei tuoi panni da eroe… e che gli ricordi me. Anche io ero etichettato come una specie di prodigio, ma avevo molta paura… e al contrario di te ero terribilmente a disagio con le persone. Non parlavo mai con nessuno, finché non ho incontrato Kyoya.»

Non voglio sentirlo. Non voglio stare a sentire tutta la cronaca della loro storia.

«Per questo so come ti senti ora. Lui… quando ama qualcuno lo fa sentire speciale. Forse ora sei arrabbiato, ma–»

«Non so perché pensi che mi interessi qualcosa della tua storia, o della vostra» fece allora Mukuro, libero dal suo freno. «Non sono geloso. Sono infastidito dalle sue abitudini, non dovrebbe essere così espansivo davanti ad altri.»

«Indigo, davvero… non sono tornato qui per tentare qualcosa con lui, o per mettermi tra di voi, sono–»

«Sentimi bene, Camaro» l’interruppe Mukuro, con i pugni serrati nel tentativo di restare calmo. «Mi sono nascosto fino al passaggio della cometa per paura del mio potere. L’ho davvero scoperto e raffinato fino al grado S in meno di un anno, e il prossimo anno mi diplomerò. E per il prossimo festival della musica ci sarà una delle mie canzoni in concorso. Perché se voglio davvero qualcosa me la prendo. Kyoya non fa eccezione… se e quando lo vorrò me lo prenderò, e tu non farai nessuna differenza. Tu o chiunque altro.»

Camaro restò senza parole a fissarlo a occhi spalancati.

«Grazie della sedia. Di’ agli altri che tornerò con del caffè per tutti.»

Detto ciò voltò le spalle a Camaro e scese le scale, anche se si fermò al piano di sotto non appena fu certo di non essere visto: crollò sull’ultimo gradino e si coprì la faccia con le mani.

Me lo prenderò, ho detto? Ma che mi è passato per la testa? Non si può prendersi una persona come si compra una felpa, che diavolo!

«Noriyuki…»

«Ah… hai sentito?»

Mukuro alzò la testa di scatto. Sentiva la voce di Kyoya e di Camaro dalla cima della scalinata.

«Oh, sì, ho sentito.»

«Dovevi dirglielo tu, e molto prima di oggi!»

«Beh, che avevo degli amanti lo sa. Mi ha chiesto quanti sono stati e se qualcuno era della classe S attuale, e sono stato sincero…»

«Hai omesso, Kyoya. Non fare così con lui, lo ferirai.»

«Non voglio farlo e lui lo sa… per me è speciale, Noriyuki. Con lui credo che… sì, credo che se decidesse che vuole me potrebbe durare a lungo tra di noi.»

«Anche se tu farai il Civil Hero e lui no?»

Mukuro si azzardò ad allungarsi per sentire meglio.

«Lui sarà uno splendido Civil Hero.»

«E se non volesse, come Seijuro?»

Chi è Seijuro?

Mukuro ripeté il suo nome mentalmente qualche volta, per ricordarselo. Voleva indagare su chi fosse e sospettava che fosse uno dei cinque ex di Kyoya.

«Sono più maturo di allora… io e Indigo siamo simili e siamo tanto diversi. Nelle proporzioni giuste, penso. So che riusciremmo a restare insieme anche se lui diventasse un musicista e io un Civil Hero.»

«Come lo sai questo?»

Sentì Phoenix emettere una risatina divertita.

«Beh, per diverse cose… e perché Indigo non vuole sesso da me. La relazione con lui non è come le altre che ho avuto…»

«A quanto dice lui non ce l’avete proprio, una relazione.»

«Può dire quello che vuole a te e agli altri… anche a se stesso, forse. Ma io e lui lo sappiamo cos’è successo alle Maldive, e siccome è super-speciale non posso dirlo neanche a te, senpai.»

Al piano di sotto Mukuro arrossì a velocità allarmante e senza far rumore scese velocemente altre due rampe prima di prendere l’ascensore. Una volta dentro si rincantucciò nell’angolo e si coprì la faccia pregando che il rossore defluisse prima di arrivare alla mensa.

Non poteva nemmeno biasimare un cocktail alcolico per ciò che aveva detto a Kyoya mentre erano seduti sulla spiaggia sotto un cielo stellato brillante come uno scrigno di diamanti, e questo era per lui l’aspetto peggiore: non aveva nessuna scusante per aver detto esattamente quello che gli era passato per la testa, per inopportuno che fosse.

 

*

 

Due giorni dopo Mukuro sedeva davanti al pianoforte del soggiorno comune. Dopo tanti giorni di lavoro sull’atelier era strano pensare che fosse già stato finito, ma con l’aiuto di Camaro – che scoprì essere stato chiamato perché anche lui pittore nel suo tempo libero – sistemare gli attrezzi da pittura di Byakuran era stato un po’ più semplice ed ecco, davanti agli occhi emozionati e stanchi di una classe, che lo studio di un artista era stato completato e aveva preso vita; quella sorta di magia che viene avvertita dalle persone sensibili nei luoghi in cui lavora un artista o un artigiano.

Mukuro mosse le mani sulla tastiera suonando la musica di cui Subaru smaniava per sentire il testo, quella che ancora, dopo tanti cambiamenti, gli sfuggiva alla comprensione. Non cercava più di svelare quel mistero e si limitava a suonarlo di tanto in tanto per sentire se fosse il momento delle parole, ma non era ancora il giorno giusto.

«La tua mano sinistra è troppo lenta.»

Si voltò a guardare Restless, con sincero stupore.

«Tu suoni il piano?»

«Mh, sì» fu tutta la sua risposta. «Non stai al passo con la destra.»

«Lo so… non ho mai avuto il piano alla casa-famiglia. Non mi potevo esercitare, quindi ho imparato solo un po’ a scuola.»

Si sentiva un po’ colpevole nei confronti della sua arte: Byakuran aveva disegnato e dipinto con dedizione fino a che le circostanze non lo avevano portato lontano, forse ogni singolo giorno fino all’evento che lo fagocitò. Lui non aveva dedicato così tanto alla sua musica quando ne aveva avuto il tempo, e ora che ne aveva i mezzi non poteva che dedicarvi due o tre ore al giorno, massimo avanzo di lezioni, esercitazioni, allenamenti, compiti, mansioni domestiche e necessità personali.

«Non facevi una scuola per musicisti, o qualcosa del genere? Me l’ha detto Haru.»

«Sì, un liceo musicale… ma siccome non mi potevo esercitare molto ho scelto di studiare teoria musicale e composizione… con la chitarra me la cavo meglio, ne avevamo una nella casa-famiglia e me l’hanno fatta tenere come fosse mia, visto che studiavo musica.»

«E ora dov’è?»

«L’ho lasciata là… non era mia, dopotutto.»

Restless suonò qualche nota con la sola mano sinistra. Aveva le mani adatte a un pianista, con dita lunghe e affusolate che riuscivano a suonare note con tasti distanti fra loro con agilità. I suoi occhi scorsero lo spartito.

«Bella musica. È tua?»

«Sì… di un paio di anni fa, ma non ho mai trovato le parole.»

«Forse non serve. Che ne pensi di rallentarla un po’? Così.»

Restless posò sul piano verticale un barattolo che teneva con la destra per liberarla per suonare. Per qualche istante Mukuro sentì la sua musica con un tempo alterato, ma era troppo stupito dal barattolo e da ciò che conteneva per badarvi davvero.

«Restless… che accidenti è quello?»

Ci volle qualche momento perché Restless capisse a cosa si riferiva, poi scrollò le spalle e lo prese per poi passarglielo.

«Ah, sì. Ti ho preso una rana.»

«Ehm… grazie» fece Mukuro, osservando la ranocchia che saltellava disperatamente contro il vetro. «Che… ehm, che cosa dovrei farne esattamente?»

«Per far tornare il tuo tutore presto.»

Mukuro fissò la ranocchia e quella sembrava guardarlo di rimando come a chiedergli se voleva davvero dare retta al pazzo che l’aveva catturata.

«Nel senso che… se gli telefono e minaccio di bollirla lui torna per salvarla?»

«Tch! Non sai proprio niente! Dammi quella rana!»

Restless gli strappò il barattolo dalle mani e lo guardò come se avesse appena annunciato di non sapersi soffiare il naso da solo.

«Avanti, seguimi, babbeo. Tch, non so perché spreco il mio tempo con te.»

Seppur infastidito era anche curioso, quindi si alzò e lo seguì, scoprendo che la loro destinazione era l’ufficio di Byakuran. Restless entrò per primo, aprì il barattolo e afferrò la rana come un oggetto rituale, iniziando a girare per la stanza fermandosi in qualche punto finché la bestiola non gracidò. Alla fine del giro uscì in corridoio e fece lo stesso con la stanza atelier.
«Ecco. Ora torna, vedrai.»

«Tornerà perché… una rana gracida nella sua stanza?»

«Sì, esatto.»

«Sicuro di star bene, Restless?»

Restless fissò i suoi occhi verdi su di lui, serio come nel corso di una missione.

«Magia popolare, Indigo. Non sottovalutare mai la magia popolare.»

Il suo enigmatico compagno di classe gli restituì la rana e se ne andò, mani in tasca e aria indifferente. Mukuro richiuse l’atelier – non senza il consueto piccolo balzello del cuore alla vista della targhetta, l’ultima cosa che avevano messo – e scese con l’ascensore fino al piano terra. Quando arrivò a una zona erbosa lontana dalla strada liberò la ranocchia dal barattolo.

«Mi spiace per Restless, è un po’ brusco come persona. Grazie dell’aiuto, comunque.»

Parlare con oggetti inanimati e animali non era molto consueto per Mukuro, a meno che non si trattasse dei gatti domestici del dormitorio o di Jirou, ma quel giorno accadde qualcosa di inedito: la rana si fermò dopo qualche balzo, tornò indietro saltandogli sulla punta dello stivale e poi riprese la via fino a sparire nell’erba più alta e bagnata dalla pioggia. Bizzarramente Mukuro interpretò quel comportamento come una stretta di mano amichevole e non ebbe alcun dubbio su questo… come se la rana gli avesse espresso chiaramente le sue sensazioni.

 

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Capitolo 13
*** Sound of Silence ***


Il mattino seguente Mukuro ebbe notizie di Byakuran, che gli fece sapere per messaggio che il lavoro sulla Carta era ultimato e che presto sarebbe rientrato, non appena messe le firme e i timbri voluti dalla burocrazia.

Basito non poté non chiedersi se la rana di Restless avesse fatto la sua magia o fosse solo una vistosa coincidenza, ma non ebbe il tempo di parlarne con l’interessato: appena scese le scale trovò Luck che lo aspettava con in mano il telefono cordless del loro dormitorio.

«Indigo-kun, la segreteria studenti ha passato qui una telefonata per te» gli annunciò sorridendo. «Un ragazzo che dice che ti conosce… Matsuda-kun, ha detto.»

Col cuore sparato in gola dimenticò completamente sia Byakuran che la rana magica; balzò giù dalla scala e prese il telefono.

«Subaru!»

«Sto cercando il mio compositore, ma non sono sicuro di cercarlo nel posto giusto» fece la sua voce meditabonda dall’altra parte. «Ho dovuto chiamare una scuola per supereroi e chiedere di un certo Indigo, ma io cercavo Mukuro.»

«Per quanto strano l’hai trovato… come stai, Subaru?»

Sentire di nuovo la sua voce caratteristica, anche se per telefono, era bello quanto suonare qualcosa dopo giorni di impegni fitti e stanchezza. L’ascoltò raccontare di come stava, di certi problemi di suo padre ormai risolti, di qualche novità a scuola. Lo stupì molto venire a sapere che il liceo aveva messo la sua fotografia nella bacheca degli allievi celebri, anche se la sua fama era arrivata senza alcun merito musicale.

«Non sono sicuro di meritarmelo» obiettò quando Subaru ribadì che era entrato proprio in quella bacheca tanto sospirata. «Insomma, sono famoso perché ho sollevato un ponte, e neanche con così tanta disinvoltura.»

«Ma che cazzo dici, Mukuro? Hai fatto qualcosa di pazzesco! Sono stato super orgoglioso di te! Ho raccontato, tipo, a chiunque che quell’eroe era mio amico, credo che l’ho detto anche alla signora anziana del konbini in fondo alla strada!»

«Questo è imbarazzante.»

«Scherzi? Tornassi da queste parti ti sentiresti come i divi del cinema a Los Angeles. Ti giuro che ho visto dei bambini al parco sollevare lo scivolo di plastica imitandoti!»

Uh, questo non è buono per niente, proprio no.

«Ecco, la prossima volta che li vedi sgridali.»

«E per che cosa?!»

«Perché sollevare un ponte in caduta libera è una pessima idea anche per un Civil Hero, non devono mettersi in testa che sia una cosa figa da fare!»

Luck, che era occupata a preparare onigiri per la serata studio che la classe aveva già pianificato, sorrise. In cerca di un po’ più di privacy Mukuro si allontanò con finta disinvoltura dal tavolo per andare a sfogliare gli spartiti che aveva lasciato sul pianoforte.

«Accidenti, Mukuro, sei invecchiato di botto.»

«Effetti collaterali della paternità.»

«Quale paternità?»

«Ah, te lo spiego un’altra volta.»

Un resoconto di come era finito a badare per giorni a Ryota e di come continuasse a tenerlo saltuariamente e a insegnare musica avrebbe preso tempo, e anche lo spiegare quanto un’esperienza o due in punto di morte mettessero sugli occhi tutte nuove lenti con cui guardare il mondo.

«Come mai mi hai telefonato, Subaru? Mi avevi scritto fino adesso.»

«Sì, ma non mi hai più risposto» fece lui, preoccupato. «Non volevo che mi mollassi proprio adesso.»

«Ma io ho risposto a tutte le lettere che ho ricevuto da Kokuyo» obiettò Mukuro, accigliato. «Luck? Luck, per caso è rimasta qualche lettera per me in giro?»

Wish Luck si voltò dalla cucina e scosse la testa.

«Qui non c’è niente… vuoi che chieda alla segreteria studenti se c’è una busta in qualche altro posto per sbaglio?»

«Ah… no, non fa niente… non preoccuparti. Potrebbe non essere proprio arrivata fin qui.»

Con tutto un altro tono Subaru intervenne, e le lettere non erano più così importanti.

«La “Luck” che hai appena chiamato è mica quella ragazza bionda?»

«Beh, sì. Perché?»

«È carina, ci hai combinato qualcosa?»

«Molte esercitazioni… e nessuna di quelle che stai pensando ora, pervertito

Il versetto deliziato che gli era emerso prima sfociò in un mugugno malmostoso.

«Ma come…»

«Che cosa mi avevi scritto nell’ultima lettera?»

«Eh? Ah, ti avevo raccontato della mia vacanza nelle Filippine.»

«L’ho letta quella» fece Mukuro accigliato. «Ti ho risposto, ho mandato la lettera il diciannove.»

«Di settembre?»

«No, babbeo, era ieri il diciannove di settembre. Di agosto. La tua è arrivata il quindici, mi pare.»

Subaru sospirò profondamente.

«Mi sa che papà ha ragione… non scrivere più se non per raccomandata, Mukuro, credo che qualcuno qui guardi la nostra posta perché sa che ricevo lettere da te. Temo che qualcuno l’abbia presa, spero non ci fosse scritto niente di troppo privato.»

Mukuro ringraziò la sua riservatezza sulle questioni intime che non gli aveva permesso di scrivere i dettagli più scottanti – se tali poteva definirli, dato che non c’era stato neanche un tentativo di bacio – della sua vacanza ai tropici, che era consistita in una settimana passata quasi esclusivamente in una spiaggetta solitaria con Kyoya, succhi di frutta a volontà e tavole da surf. Ricordava di aver parlato del clima, del panorama, del surf che gli era piaciuto molto e forse di quando avevano cucinato il pesce sul fuoco. Niente di compromettente.

«No, direi di no… ma ora ho un cellulare. Per fortuna non ti ho scritto il numero e l’e-mail, me ne sono dimenticato nella lettera.»

«Che fortuna! Su, spara, che ho una penna in mano.»

Gli dettò numero ed e-mail, e in un attimo Subaru aveva mandato numero e tre diverse e-mail in risposta. Ne aveva una per la famiglia e la scuola, una per i suoi amici più stretti e una che dava solo a chi era nella sua cerchia della musica.

«Ah, a proposito! Ti avevo chiamato per questo, non so come ho fatto a scordarmene chiacchierando» fece lui appena finite di elencare le sue e-mail. «Siamo dentro. Per le finali del concorso musicale, Uta no unmei

L’Uta no unmei, chiamato internazionalmente Born to sing contest, era un concorso nazionale prestigioso riservato a studenti delle medie e dei licei. Anche se il voto era dato da un pubblico erano presenti molti esponenti delle case discografiche e ciò la rendeva un’occasione così succulenta che Mukuro non riuscì a non spalancare la bocca per la sorpresa.

«Cosa… in finale?»

«Sì, abbiamo suonato alle selezioni alla fine di giugno! Ci hanno comunicato ieri che siamo dentro per la finale a novembre, a Tokyo!»

«È fantastico, Subaru! Siete… le finali, è pazzesco! Potreste prendere un ingaggio anche senza vincere, è una splendida occasione!»

«Sì che lo è! Beh, tu stavi facendo del tuo meglio, quindi l’abbiamo fatto anche noi!»

Sedendosi al piano Mukuro sentì una piccola fitta al petto, come uno spillo. Era davvero felice per Subaru e i suoi musicisti, ma dall’altro lato si rendeva conto che andare alle finali – e magari vincere – avrebbe aperto loro le porte della carriera musicale… e Subaru avrebbe realizzato il suo sogno, il che era una splendida notizia, ma avrebbe significato per loro prendere strade diverse.

Beh… non è sempre come nei manga. Nella vita reale non è detto che due amici realizzino lo stesso sogno, o che riescano a farlo insieme…

Non senza un po’ di amarezza sorrise.

«È davvero incredibile, Subaru… siete stati bravi. Sono molto felice per la vostra occasione.»

«Vostra? La nostra, vorrai dire! Devi venire anche tu a Tokyo per le finali!»

Fu preso completamente in contropiede e fissò lo spartito che teneva in mano per diversi secondi.

«Io? A fare cosa?»

«Ci siamo presentati con la tua canzone, Loveless! Devi venire a Tokyo per le finali, devi essere con noi… lo so che canti bene, sali sul palco con me e fammi da controcampo!»

Gli attimi che seguirono furono come una violenta e rovinosa implosione nella mente di Mukuro, e quando si riebbe si trovò con la mano sulla bocca e con Luck che lo guardava apprensiva dalla cucina. A giudicare dalla sua espressione doveva essere sbiancato e le fece un cenno nervoso nel tentativo di dirle che era tutto a posto.

«Mukuro, ci sei ancora?»

«I-io… Subaru, non posso cantare con te, sono una mezza schiappa!»

«A quanto so io non prendi le note alte, ma non serve, no? Lascia che prenda io quelle alte, tu mi farai da doppia voce, o da controcampo. Conosci la canzone meglio di chiunque, lo puoi fare anche con poco preavviso, e la finale è a novembre!»

«Io… non lo so» si trovò a rispondere. «Non so se sia una buona idea… ci devo riflettere…»

Subaru sbuffò.

«Certo, si lancia sotto un ponte che crolla ma ci deve pensare per cantare!»

«Non è il caso di farci dell’ironia, sai…»

«Che ironia? Sto facendo pressione psicologica! Volente o nolente tu sarai su quel palco con me, ti convincerò a salirci!»

«Ma non hai bisogno di me, non sono un valore aggiunto» protestò Mukuro, indispettito. «Se vuoi un asso nella manica per la finale perché non trovi qualcuno a scuola che sia bravo per fare da seconda?»

«Ma che sei scemo o fai solo finta? Perché se è finto ti viene bene!» sbottò Subaru altrettanto indispettito. «Non voglio un asso nella manica, voglio te! Non avevamo detto che avremmo inseguito il sogno della musica insieme? Ora possiamo! Non sappiamo come andrà, potremmo perdere e non trovare altre occasioni buone, o… tu potresti voler fare solo il Civil Hero dopo quest’anno di scuola! Per favore, Mukuro, ti prego!»

Aveva ragione. Non aveva preso una decisione su che cosa fare dopo il diploma, anche se aveva lavorato duramente per essere un Civil Hero e continuare insieme alla sua squadra… ma se si fosse profilata davvero una vittoria al Born to sing? Era l’occasione che avevano aspettato fin da bambini. Poteva essere l’ultima… poteva essere la classica ultima occasione dei liceali, quella che “o riesco ora o smetto per dedicarmi a una carriera da adulto”. Quante volte aveva sentito sua sorella Kazue dire quella frase ai diplomandi…

«Io… non posso prometterti niente adesso… devo chiedere al mio tutore se è d’accordo, prima.»

«Ma chissenefrega del tuo tutore, dai!»

«Subaru, per favore» fece lui, più convinto. «Per me ora non è più musica o squallore. Mi si è presentata un’altra strada e non ho ancora deciso… è una scelta importante per la mia vita.»

Seguì un silenzio al di là del telefono e Mukuro temette che riattaccasse.

«Uff… sì, sì. Capisco, hai ragione… ma non ti sto chiedendo di scegliere la musica adesso. Ti sto solo chiedendo di… beh, scegliere me. E la promessa che ci siamo fatti. Se poi vorrai fare la vita di un eroe, o il fornaio, o quello che sia lo rispetterò e saremo ancora amici, ma ci siamo promessi che questo sogno l’avremmo inseguito insieme… e adesso è così vicino che lo possiamo toccare.»

«Prometto che appena sentirò Wing Emperor ti farò sapere subito, d’accordo…? Tornerà presto dall’Europa. Sarà questione di giorni, ma cercherò di telefonargli prima. Va bene?»

«D’accordo, d’accordo… certo sei diventato ostinato, eh!»

«Non sai quanto» gli venne da dire, pensando ai suoi massacranti allenamenti.

Non poteva vederlo, ma dal cambiamento di tono della sua voce capì che Subaru stava di nuovo sorridendo.

«Se hai tempo potrei venire a trovarti prima della finale. Ho paura di non riconoscerti e di cercare di accopparti con l’asta del microfono se sali sul palco senza avvisare.»

Mukuro si trovò a immaginare la scena di Subaru – nella sua fantasia con lo stesso abito di scena usato per lo spettacolo di Komorimatsuri – che brandiva l’asta contro di lui come un pazzo. Subito dopo scoppiò a ridere di gusto.

«Sì, temo sarebbe nel tuo stile!»

«Ricordalo bene quando penserai se venire o no, perché sono sicuro che troverei un’asta da microfono anche lì a Mizura, e prenderò una bella rincorsa per dartela in testa se non verrai!»

Subaru riattaccò senza salutare e Mukuro, basito, rise di nuovo scuotendo la testa. Il suo rapporto con Subaru era cambiato da quando si erano visti l’ultima volta, ma di fondo era rimasta la stessa amicizia, forse era diventata un po’ più frizzante… probabilmente perché ora Mukuro si sentiva meno timido, meno dipendente dalla sua Voce e più affezionato a essa.

Luck non gli chiese dettagli sui frammenti di conversazione che aveva sentito, gli domandò soltanto se fossero buone notizie da casa. Mukuro fu tentato di condividere con lei la gioia che stava iniziando a zampillare dentro di lui man mano che si rendeva conto della portata della loro impresa e ci rimuginò un poco, ma poi abbandonò la sua riservatezza scaramantica e le sorrise.

«Era un mio amico di Kokuyo, Subaru… ho scritto una canzone per lui e la sua band poco prima che passasse la cometa, e questo giugno l’hanno portata a un concorso. Ora sono in finale, suoneranno ancora a Tokyo a novembre!»

«Oh! Che splendida notizia, congratulazioni!»

Mukuro fu sinceramente sorpreso – e anche toccato – dal fatto che la meraviglia e l’allegria di Luck gli sembrassero così autentiche. Dopo una giovinezza di diffidenza non dava ancora per scontato che le persone si rallegrassero per le sue vittorie personali dal profondo anziché per cortesia, ma Luck aveva gli occhi che brillavano.

«Andrai anche tu a Tokyo?»

«Ah… non ho deciso. Ci devo pensare su.»

«Posso sentirla? La canzone che hai scritto per loro…»

«Non credo» rispose Mukuro, pensieroso. «Penso che solo le finali siano aperte al pubblico. Non credo ci siano video dei partecipanti alle selezioni.»

Luck rise appena, avvicinandosi a lui.

«Va bene anche una registrazione tua. O puoi cantarmela tu.»

«Io? No, no» replicò immediatamente, nervoso. «Ho fatto poche lezioni di canto… questo pezzo l’ho scritto per qualcuno con una voce più potente della mia.»

Luck rise di nuovo.

«Sei sempre così perfezionista, Mukuro-kun?»

Mukuro non replicò e fece un cenno che sperava non incriminante con la testa. La risposta onesta era “sì”, ma aveva imparato da qualche tempo che il perfezionismo era un killer silenzioso di anime.

«Forse non dovresti essere così rigido… sì, ci sono cose in cui va cercata la perfezione, ma…»

Suscitandogli un improvviso quanto inspiegabile batticuore Luck si sedette accanto a lui sullo sgabello del piano. Non si era mai seduto così vicino a una ragazza da sentire la gamba contro la sua e secondo l’educazione un po’ antica della signora Kujaku ciò era sconveniente.

«Sono io che te lo chiedo… nessun concorso e nessuna carriera dipenderà dalla mia opinione, no?»

Mukuro si schiarì la gola.

«S-se ci tieni, posso provare, uhm… almeno a darti un’idea di… com’è.»

Lo spartito di Loveless con le parole lo aveva ricopiato in bella qualche giorno prima, pianificando di insegnare da lì a poco a Ryota a suonarne il ritornello. Lo trovò e lo mise davanti agli altri, chiedendosi se con solo pianoforte avrebbe avuto lo stesso genere di impatto.

Beh, è per dare un’idea della canzone… può andare lo stesso…

Tacitò quindi il suo perfezionismo musicale e iniziò a suonare il primo rigo, ma quando arrivò al punto di attaccare con le parole non gli uscì affatto voce. Smise di suonare e sospirò, senza guardare Luck.

«Che succede?»

«Potresti… sederti sul divano, per favore?»

«Oh… perché?»

Per qualche secondo di silenzio Mukuro si chiese se sarebbe riuscito a dirle la verità.

«Non ci riesco se stai così vicina.»

Luck non rise di lui o della sua pudicizia un po’ antiquata. Sorrise e si alzò, andando a sedersi sul bracciolo del divano da dove avrebbe potuto vedere le sue mani sulla tastiera.

«Scusami, sono stata inopportuna a sedermi così vicina…»

«No, io… mi dispiace, sono io un po’…»

«Non c’è niente di male ad essere un ragazzo di quel tipo… è una delle tue peculiarità, Mukuro-kun. Non dovresti scusarti di essere un ragazzo educato alla vecchia maniera» rispose lei, senza traccia di un tono consolatorio o accomodante. «Sono atteggiamenti che piacciono molto ai genitori… e anche a molte figlie, credo.»

Sorrise appena e trovò il coraggio di lanciarle uno sguardo.

«Non sono così tanto all’antica, non farti ingannare… diciamo che ho un piede in un secolo e l’altro in quello attuale.»

Luck scosse appena la testa, ma rinunciò a controbattere. Mukuro riprese a suonare e cercò di fare del suo meglio per una prova generale: se l’emozione di cantare per Luck era abbastanza da bloccarlo non poteva sperare di andare a Tokyo a cantare accanto a Subaru.

 

*

 

L’aria si era fatta abbastanza fredda da apprezzare la scelta di aver portato la giacca. Seduto sul corrimano che divideva il marciapiede dalla pista ciclabile Mukuro aspettava con un leggero disagio in corpo che tentava di smorzare osservando l’andirivieni delle persone o le luci accese della sala giochi vicina, ma non l’aiutò molto.

Questa volta quando guardò di nuovo il gruppetto di clienti davanti a banchetto di dolci vide Luck districarsene e venire verso di lui reggendo una sontuosa crêpe con crema e frutta e un waffle con creme di tre colori di cioccolato e praline.

«Eccoti servito! Fa un profumo magnifico, vero?»

«Grazie… mi dispiace che abbia dovuto pagare tu, ma ho finito i contanti quando sono uscito con–»

«Oh, Mukuro-kun, ti prego!» fece lei, quasi spazientita. «Anche i miei sono persone un po’ all’antica, ma non vuol dire che penso che tu sia un pessimo uomo perché non hai pagato per me!»

Mukuro si chiese quanto fosse radicata nei suoi amici l’idea che lui fosse un ragazzo “all’antica” e fin dove si spingesse questa definizione, ma riuscì lo stesso a sorridere.

«La prossima volta che usciamo offrirò io qualcosa. Love mi ha detto che andate spesso in una caffetteria in centro che fa delle torte strepitose.»

«È vero! Sarebbe bello andarci tutti insieme, una volta! Magari dopo la prossima sessione di esami, per festeggiare, che ne dici? Possiamo proporlo agli altri.»

«Possiamo farlo, io non ho problemi a uscire con la classe» acconsentì Mukuro, esplorando il suo waffle alla ricerca di un buon punto per l’assalto. «Mi sembra che sia Restless ad averne, però.»

«Lo pensavo anche io quando l’ho conosciuto, sai? Era un ragazzino scontroso e si arrabbiava per qualsiasi cosa. Non sopportava niente che lui leggesse come un atto di pietà, e invitarlo a uscire per lui era come se volessimo salvarlo da qualcosa.»

«Era veramente un tipo del genere?»

«Sì, ma poi Haru-chan è riuscita a fare breccia e si è ammorbidito… finge che non gli interessi niente, ma gli piace passare il tempo con la classe, o non lo farebbe. Preferisce ascoltare noi che parlare di sé, ma credimi… lo rende felice sapere che non è più solo e che se ha bisogno qualcuno lo aiuterà.»

Capisco bene questa sensazione… mi sono sentito solo per così tanto tempo che essere qui è come un sogno.

Si guardò intorno ricordando la prima volta che era stato in quel punto della città con Phoenix, una volta in cui gli aveva letto dentro molto facilmente, e poi l’aveva sradicato dalla dipendenza da quella stupida maschera a becco. Quella sera era seduto esattamente nello stesso punto.

«È confortante saperlo. Lo capisco.»

«Però, Mukuro-kun» fece lei, sfumando leggermente il tono. «Non devi essere un Civil Hero per avere questa certezza.»

Abbandonò le insegne al neon e guardò negli occhi di lei. Ci vedeva riflessi i puntolini fucsia delle molte macchinette illuminate della sala giochi.

«Unirti a noi ti ha fatto sentire compreso, perché siamo tutti Auris come te… ma se dopo il diploma tornassi a casa, o facessi l’università, o il compositore… noi resteremmo sempre tuoi amici, e verremmo ad aiutarti sempre, qualsiasi cosa succeda. Lo sai, vero?»

«Cosa stai cercando di dirmi esattamente? Che non dovrei fare il Civil Hero?»

Non la prese come un attacco e si sentì tranquillo, quindi prese un morso di waffle. Era stracarico di cioccolato e dolce, come piaceva a lui. Forse la sua reazione rasserenò Luck che sarebbe stata una discussione senza scontri, perché anche lei prese dalla sua crêpe uno spicchio di kiwi prima di replicare.

«Solo che non perderai nessuno di noi se decidi di non farlo… sai, io non ho mai avuto particolari talenti. Non sono brillante in nessuna materia in particolare, e non ho molta creatività. Quando faccio un pupazzetto o ricamo qualcosa scelgo gli schemi da qualche rivista.»

«Con ottimi risultati» commentò Mukuro, memore delle tende che aveva cucito per l’atelier.

Lei sorrise un po’ incerta.

«È un hobby che ho scelto perché concentrarmi sui fili e sui punti è uno schema simile a quello che uso per usare il mio potere sul corpo umano. Quasi tutti noi usano delle visualizzazioni per controllarsi, e io usai ago, filo e punti per imparare… mi è familiare e per questo mi ci sono dedicata.»

«Non penso che si debba avere passione per cominciare qualcosa. A volte si scopre dopo di amare qualcosa, un po’ come per le persone.»

«Forse è vero… ma semplicemente, voglio dire che non ho mai pensato a una vita diversa da quella nel soccorso medico… tu sì, e per questo non dovresti rinunciarci. Penso che dovresti andare a Tokyo, Mukuro-kun.»

Mukuro deglutì e la guardò mentre prendeva un piccolo morso di dolce.

«Da dove ti esce questa adesso?»

«Nessuno di noi ha delle certezze… men che meno ne hanno i Civil Heroes. Penso che dovresti andarci… forse ti farà chiarezza su cosa vuoi. Hai avuto un assaggio della gloria di un Civil Hero, e se potrai paragonarla con la gloria di un musicista potrai fare una scelta più consapevole…»

Era un’osservazione molto logica e da lei non se l’aspettava. Rimuginandoci su e mangiando gli sembrava sempre più sensato come consiglio.

«E poi, dovresti andarci anche per non avere rimpianti» aggiunse Luck, in tono più allegro. «Cantare una tua canzone in un importante concorso insieme a un tuo caro amico… qualsiasi cosa accada sarà un ricordo prezioso da portare con te.»

Questo commento fece alzare gli angoli della bocca a Mukuro suo malgrado.

«Sei una collezionista di ricordi, Luck?»

«C’è qualche altra cosa che valga la pena collezionare?»

«Anche questa uscita è un ricordo?»

«Lo è di sicuro… un giorno sarai grande, Mukuro-kun. Come Civil Hero o come musicista… e io potrò tenere un ricordo di com’eri prima. Un ricordo che avrò solo io, perché oggi siamo da soli… qualcosa che potrò richiamare ogni volta che sentirò una tua canzone alla radio o quando sarai a salvare le persone in prima linea.»

Mukuro smise di sorridere e la guardò, anche se lei fissava la crema con fragole del suo dolce con un’aria sempre più afflitta.

«Perché parli come se questa fosse l’ultima volta che ci vediamo? Abbiamo ancora un anno di scuola, e poi forse faremo squadra insieme al Coordinamento… l’hai detto tu che qualsiasi cosa succeda resteremo amici, o no?»

Con sommo orrore vide che gli occhi le si facevano lucidi e alla fine una lacrima gocciolò sul suo polso. Allarmato Mukuro scandagliò il manuale mentale di emergenza solo per scoprire che aveva opzioni per ragazzi e per bambini, ma nessuna per una ragazza in lacrime.

«Ehi… che succede? Perché adesso stai piangendo?»

«M-mi dispiace, Mukuro-kun… s-solo, io…»

Si asciugò gli occhi in fretta con l’orlo della manica e tese un sorriso tra i meno convinti che Mukuro avesse mai visto.

«Mi ha… così spaventata vedere le riprese di Higashiki… per la prima volta ho visto davvero i… i limiti di un Civil Hero, anche di uno forte come te… e ho… paura di non… di non vedere il giorno in cui diventerai un idolo.»

Il ragazzo rimase in un silenzio attonito che durò parecchio, abbastanza da permettere a Luck di riprendersi a sufficienza dal suo sfogo.

«Fammi capire un attimo… io finisco quasi spappolato…»

«Oh, ti prego, non dire così!»

«E tu sei quella che ha paura di morire?»

«Se qualcuno così forte come te e come Emperor-sensei rischia la morte come posso aver fiducia io, che sono così fragile?»

«Ma smettila, Kyoko, per favore» sbottò Mukuro. «Abbiamo rischiato così tanto perché siamo forti, e stupidi. Perché ci crediamo così potenti da poter fare una cosa da imbecilli senza morire. Tu non sei così stupida, quindi sopravviverai.»

«In missione non abbiamo sempre il controllo di quello che succede! Non è questione di stupidità o–»

«Ti salverò io, va bene?»

Luck lo fissò, ammutolita. Le sue gote iniziarono a diventare più colorite e Mukuro scrollò le spalle, decidendo che fosse meglio smorzare i toni.

«Visto che sono più forte di te ti farò da scudo. Dopotutto è quello che si deve fare con il soccorso medico, no? Finché ci sarò io non ti succederà niente. Non morirai in missione. Non ti si rovinerà neanche il vestito.»

L’imbarazzo di Luck fu dissimulato da un largo sorriso e Mukuro fu molto felice che almeno questa volta Byakuran non fosse presente alle sue involontarie uscite romantiche. Ripensando a lui però ripensò anche alla sua abilitazione in quel traumatico esame.

«A proposito… del tuo vestito…»

I due si guardarono di nuovo, ma Mukuro aveva in mente qualcosa di troppo serio per badare all’imbarazzo di prima.

«Quella gonnellina del tuo costume è infiammabile. Credo che tu debba prendere seriamente in considerazione una modifica con qualcosa che non si impigli e non prenda fuoco.»

Luck non replicò, ma mentre mangiava la crêpe aveva negli occhi l’aria di chi sta rivivendo nella propria testa tutte le occasioni in cui è passato vicino a una fiamma libera incautamente.

 

*

 

Per tornare a scuola Mukuro e Kyoko presero una strada poco affollata che li portò a passare davanti al negozio d’arte dove avevano comperato alcuni tubetti di pittura per sostituire quelli di Byakuran che il tempo aveva rovinato. Il tema atelier alimentò la conversazione per un buon pezzo di strada, poi cadde il silenzio. Mukuro però, come accadeva con Phoenix, non trovava imbarazzante quel momento.

Attraversarono la strada e il muro di cinta dell’Accademia fece capolino nello spazio tra due palazzine. Il ragazzo si chiese se Byakuran avesse mai pensato di abbattere quel muro o di sostituirlo con una cancellata che la rendesse meno una prigione e stava per domandarlo ad alta voce alla sua compagna, quando lei gli afferrò il braccio e lo strattonò facendolo barcollare.

Nello stesso istante una vettura scura frenava bruscamente molto vicino al marciapiede e i due ragazzi la fissarono, ancora scombussolati dalla brusca manovra del guidatore, mentre il finestrino si abbassava.

«Indigo, cosa fai qui fuori?»

«Co… ma che sei, impazzito?!» sbottò Mukuro riconoscendo Byakuran alla guida. «Ma che manovra da balordi è questa? Potevi mettermi sotto!»

«Non è affatto vero, non ti avrei preso!»

Ma il modo in cui guardò le strisce della segnaletica e l’aria nervosa che gli comparve in volto diedero a Mukuro la certezza che non avesse affatto il controllo che credeva su quell’auto.

«Aveva ragione Night Hound, allora! Guidi veramente da criminale!»

«È colpa sua che non mi fa mai fare pratica!»

«Ti sembra una giustificazione da adulto?!»

Invece che provare a replicare Byakuran inclinò la testa e guardò Kyoko, che stava ancora appesa al braccio di Mukuro, questa volta con l’intento di trattenerlo dall’aggredire il preside se avesse perso le staffe; in realtà non una possibilità così remota.

«Oh? Siete usciti insieme?» domandò con aria sbalordita. «Devo essere stato via più di quanto pensassi…»

«Sei stato via talmente a lungo che qualcuno dei tuoi allievi per poco non si è sposato!» ribatté Mukuro velenoso.

«Siete già avanti o è il primo appuntamento?»

Il sopracciglio di Mukuro si mosse convulsamente, come un segnale di pericolo lampeggiante. Byakuran mordicchiò nervoso l’asta degli occhiali da sole che si era appena sfilato dalla testa.

«È già ora di quel tipo di discorsi…?»

«Non ho bisogno di nessun tipo di discorso da uno che va a letto di nascosto con la bibliotecaria!»

Byakuran accusò il colpo come sempre prendendo un improvviso colore sul viso pallido, ma mise su un broncio da bambino che Mukuro non ricordava di avergli mai visto.

«Che accidenti dovrebbe significare “di nascosto”? Dovrei appendere una circolare nella bacheca studenti per dire con chi faccio qualcosa e quando, secondo te?»

Interdetto, Mukuro non replicò subito e scambiò un’occhiata con una Kyoko attonita.

«Non l’hai negato.»

«Servirebbe a qualcosa? Tanto non ci credi lo stesso» obiettò lui, seccato.

Questo è vero. Quei due sono troppo strani insieme, so che fanno qualcosa.

«Quando rientrate devo parlarti, Indigo. Vieni su nel mio ufficio, se non ti spiace.»

Il primo pensiero andò a una imbarazzante e tediosa ramanzina sul sesso sicuro o qualche altra idiozia che Byakuran ritenesse necessario dirgli sulle ragazze, ma mentre l’auto ripartiva pensò a tutt’altro e guardò Kyoko. Lei doveva pensare la stessa cosa, perché sorrideva.

«Sbrighiamoci, prima che salga in ufficio e veda la chiave!»

Partirono di corsa per raggiungere l’ingresso più vicino, ma Mukuro non era mai passato da quella zona e al bivio successivo provò ad andare dritto, quindi Kyoko lo trattenne per la mano trascinandolo in una stradina stretta sul lato.

«Da qui! Entriamo dal passaggio vicino al laboratorio di chimica, dove scaricano le sostanze!»

Non era sicuro che fosse del tutto lecito per gli studenti passare dai varchi delle zone di carico, ma si fidò della sua scelta e fece bene, perché la guardia alla sbarra era distratta e loro vi passarono a lato senza essere visti. Decisero di separarsi; lei avrebbe avvertito i compagni del ritorno del preside e Indigo avrebbe risposto alla convocazione in ufficio.

Si accorse solo in quel momento, lasciandogliela, che le aveva tenuto la mano per tutta la corsa.

 

*

 

Byakuran fece un sospiro di sollievo quando concluse una manovra di parcheggio goffa nel piazzale dell’Accademia: quella sera gli sembrava di non aver mai guidato peggio in vita sua e decise di insistere con Kikyo affinché abbandonasse l’orgoglio e gli insegnasse. Scese dalla macchina, tirò giù solo la valigia più piccola e una busta che mise sulla spalla e rimandò il trasbordo di quella più grande al giorno successivo.

«Casa, dolce casa» commentò quando guardò l’edificio di mattoni e le molte finestre della facciata.

Viaggiare gli piaceva molto, ma tornare era sempre la parte migliore delle sue trasferte: rivedere le facce familiari, l’edificio tanto caro, la sua stanza colorata, il suo letto, la vista di sempre dalle finestre… ognuna di queste piccole cose gli dava sollievo e calore.

Un po’ meno l’accoglienza di Indigo… ma avrei dovuto aspettarmelo. Sono stato via tantissimo… sarà molto arrabbiato con me. Per il compleanno, la vacanza, l’esame… non era questo che gli avevo promesso.

Arrivato all’ingresso venne accolto da alcuni degli impiegati, che gli chiesero com’era andato il viaggio e se gli servisse qualcosa. Rispose a tutti loro, chiese se c’erano novità degne di nota e se fosse arrivata posta per lui. Gli consegnarono una cartolina imbustata che veniva da Kokuyo e si congedò, filando dritto in ascensore. Guardò con gioia la busta con l’indirizzo del mittente: ricevere posta da Momo era sempre un bel momento per lui e non vedeva l’ora di sapere che cosa aveva da raccontargli. Fece scivolare la busta nel suo borsello insieme al cellulare.

All’apertura della porta si stupì di trovare Indigo ad aspettarlo e lo guardò con così tanto sospetto che Mukuro sbuffò.

«Beh? Che è quella faccia?»

«Ah… io… hai fatto veloce… ho rovinato il tuo appuntamento?»

«Non era un appuntamento. Siamo usciti a mangiare un dolcetto insieme e stavamo tornando quando hai cercato di metterci sotto.»

«Non vi volevo mettere sotto» protestò debolmente Byakuran.

«Quindi se mi hai chiamato qui per parlarmi di mononucleosi, di clamidia, di AIDS, di sesso sicuro, gravidanza precoce o educazione sentimentale non serve.»

Byakuran lo guardò senza riuscire a mascherare la sorpresa.

«Cosa vi insegnano a scuola di questi tempi?»

«Si chiama “educazione sessuale”, forse dovresti presenziare anche tu» tagliò corto Mukuro. «E sinceramente fa un po’ ridere che il preside di una scuola chieda che cosa ci insegnano, visto che dovrebbe saperlo.»

Non poté non sentirsi un po’ colpevole e sospirò deluso.

«Sì, dovrei, ma chi ha il tempo di leggere i programmi di dodici materie per tre annualità di ogni classe di studio?»

«Perché non ti dimetti, allora?» buttò lì lui, scrollando le spalle. «Lascia che pensi qualcun altro a farlo. Occupati della classe del soccorso medico e basta.»

Era troppo stanco per quel genere di discussione, così fece un altro sospiro, più profondo, rinunciando a ribattere.

«Ci penserò… ho una cosa per te, Indigo, poi puoi andare. Niente ramanzine né consigli per adulti.»

«Bambino come sei dubito che tu possa darmene comunque.»

Byakuran alzò gli occhi al cielo e si mosse per entrare in ufficio ad appoggiare le sue cose, ma improvvisamente Mukuro gli si parò davanti. La sua espressione era strana; si era come svegliato e il preside si chiese se e come avesse indovinato cosa aveva nella busta.

«Su, dammelo! Cos’è? Un altro vestito per un invito a cena di qualcuno?»

«No, stavolta no… oh, sei stato invitato a cenare con me da qualcuno di importante, ma questa volta non ti ho portato il vestito per le occasioni mondane.»

Gli diede la busta e Mukuro ci guardò dentro. Cambiò di nuovo espressione e questa volta ci lesse una matura emozione. Fu sicuro che il logo della Irie Lab sul pacco all’interno lo avesse messo sulla strada giusta e incrociò i suoi occhi blu, confusi e innegabilmente speranzosi.

«È quello che penso?»

«È solo un prototipo» fece Byakuran, sorridendo. «Ma perfettamente funzionale. Di altissima tecnologia, il meglio dei laboratori Irie per i Civil Heroes, non ho badato a spese… ma ho scelto io il design, quindi se non ti piace qualcosa e dopo la prova qualcos’altro non ti convince lo faremo cambiare. Questo potrai tenerlo comunque per ricordo o per allenarti.»

Mukuro era senza parole e la sua emozione era tanta che poteva uscirgli dalle orecchie. Byakuran allungò la mano e gli accarezzò la testa; visto che non venne respinto osò passargli il braccio sulle spalle per stringerlo in un breve abbraccio. Ormai era alto quanto lui.

«Congratulazioni per la tua abilitazione, Indigo. Sono molto fiero di te. Hai fatto tutto da solo… non era facile.»

Inaspettatamente Mukuro gli strinse la giacca sulla schiena con la mano libera. Il suo sospiro seguente ne uscì tremante e capì che la sua lunga assenza aveva fatto molto più di rovinare una vacanza e far saltare una festa di compleanno… e se ne vergognò.

L’ho lasciato da solo a superare la parte più difficile del suo addestramento… e avevo promesso di stargli vicino. Sono stato troppo a lungo via per quella Carta dei Diritti… non era così tanto importante.

«Grazie» fece Mukuro dopo un buon minuto di silenzio, con il tono di un raffreddato.

«Ora vai a provare il costume… domani mattina mi farai vedere come ti sta. Mi dovrai anche raccontare un sacco di cose… vieni a fare colazione con me?»

«Okay…»

«Solita ora, va bene?»

«Sì» acconsentì, staccandosi dal mezzo abbraccio. «Allora buonanotte, Byakuran.»

«Buonanotte, Indigo.»

Diversamente dal solito infilò subito l’ascensore e sparì alla vista, ma Byakuran pensò che fosse troppo desideroso di dare una sbirciata al costume per prendere le scale. Un po’ gli dispiacque non vedere la sua espressione quando lo avesse visto e provato, ma ricordava quando lui aveva ricevuto il suo primo costume e il momento in cui lo aveva indossato: quel vestirsi in silenzio, un accessorio per volta, prima di presentarsi al Generale delle armate giapponesi era stato come la vestizione di un samurai.

Era esausto, ma il ricordo di quel giorno importante gli fece apparire l’ombra di un sorriso sulla faccia. Entrò nell’ufficio per lasciare la busta delle sue spese detraibili prima di filare via per una doccia e una dormita, ma mentre la posava sulla scrivania si accorse che non era spoglia come l’aveva lasciata: c’era una composizione di piccole cornici sistemata in un angolo.

Lasciò cadere la valigia con un tonfo e afferrò le cornici bianche incollate insieme in ordine irregolare, fissando le immagini sotto i vetri come se mostrassero le sue nudità fisiche anziché antichi ricordi.

Vide un giovane se stesso conciato in maniera imbarazzante accanto a un giovane Kikyo in attesa in una lunga coda di persone e uno scatto di quando era ancora bambino con Luce, sua figlia Aria e il fidanzato di lei stretti intorno a una torta di compleanno. Accanto, la foto inequivocabile del suo primo giorno di scuola media, con il gakuran nero e la cartella davanti al cancello, e ancora una foto di quando era più piccolo, con il fagottino rosa che avvolgeva per intero una Yuni neonata sulle sue ginocchia. Un’altra foto non ricordava chi gliel’avesse fatta ma lo immortalava da liceale, di profilo accanto a uno dei quadri che il club di arte aveva esposto al festival. Uno dei suoi quadri.

Accarezzò la foto nell’angolo, di un Byakuran adulto e di un ragazzino di nome Mukuro che aveva giurato di aver cancellato quello scatto a tradimento in palestra, con un senso di stordimento misto a calore: si sentiva come se fosse appena rientrato da una camminata nella tormenta di neve e avesse trovato tè caldo e un camino acceso invece della casa vuota che si aspettava.

Subito dopo, però, subentrò la paura.

Tenevo le fotografie insieme al resto della mia roba nello stanzino, come ha fatto a trovarle?

Bastò voltarsi verso la finestra per scoprirlo. La chiave che aveva tenuto sempre in fondo al vaso era stata ripulita, legata a un nastrino argentato e appesa al beccuccio del piccolo innaffiatoio. Posò le foto senza guardare dove, prese la chiave e corse fuori.

Avrà visto le foto… dove le avevo messe? Forse le avevo appoggiate solo sopra la scatola… non lo ricordo… non mi ricordo!

Aveva chiuso quegli oggetti dentro degli scatoloni quando era tornato a casa e aveva saputo che Luce era morta. Li aveva spostati due o tre volte prima che l’Accademia venisse ultimata e una volta là dentro le aveva dimenticate. Non ricordava se era tornato, se aveva preso le foto, o se Kikyo l’avesse mai fatto senza dirglielo.

Si stava quasi convincendo che potesse essere stato Kikyo a fargli trovare la cornice di vecchie foto e che avesse chiesto a Indigo una in cui erano insieme, ma quando raggiunse la porta e vide il cartellino qualsiasi teoria finì gambe all’aria e rimase completamente privo di idee.

«A… atelier?»

Non arrivò vicino alla verità e neanche ci provò. Aveva dimenticato anche il panico e fu senza ansia che aprì la porta con la chiave e accese la luce.

Luci nuove sul soffitto illuminarono la parete di un pallido color pervinca e il soffitto bianco, finestre con le tende lunghe e molto più del mucchio di scatoloni che ricordava di averci parcheggiato anni prima. Entrò con circospezione, senza far rumore, come si trattasse di un luogo sacro… e in un certo senso lo era.

Non posso crederci… ma come…?

Sfiorò il bel piano inclinabile, scorse lo sguardo sul pannello con ordinate file di chiodini ai quali erano appesi i tubetti di pittura. Con un misto di agitazione e felicità andò al ripiano dove erano allineati degli sketchbook e bastò sfogliarne uno per riconoscerli tutti come la sua nutrita collezione di album. Si trovò a sorridere, ma anche a piangere suo malgrado.

«Non ricordavo di averne riempiti così tanti…»

Avrebbe voluto sfogliarne qualcun altro preso a caso, ma le lacrime gli scendevano dagli occhi con tanta insistenza che non vedeva più nitido. Li asciugò più volte con il guanto, arrabbiato, non per la sua emotività ma perché gli impediva di guardare bene. Scoprì il divano arancione, il cavalletto e lo sgabello, e un angolo pieno di vecchie tele arrotolate. Chiunque avesse messo mano a quel posto lo aveva rifinito e sistemato con molta cura per tutto quello che lui ci aveva nascosto…

Nutriva pochi dubbi su chi fosse la mente di quello scherzetto così ben studiato, ma quelli si dissiparono appena tornò al tavolo: sul ripiano di un piccolo carrello per tenere gli strumenti c’erano un gessetto, una creta, un pastello e due matite colorate di diversi marchi e diverso livello di consumo – le matite erano nuove di zecca – ma erano tutte della tonalità indaco.

Byakuran accese la lampada accanto alla scrivania e nello scaffale più vicino spulciò nei blocchi e nelle carte che erano state radunate lì, prendendo alcuni fogli di spessa carta da disegno ruvida color grigio neutro. Il rumore della carta, la forma esagonale del fusto della matita, l’odore leggero del colore ad olio… a Byakuran sembrava di aver passato lo Stargate anziché una semplice porta; era come tornare in un mondo lontano che aveva dimenticato di aver conosciuto.

Sorridendo chinò la testa, mosse la mano in cerchio come a mirare a un bersaglio sul foglio e iniziò a disegnare.

 

*

 

Mukuro rientrò in dormitorio senza attirare troppo l’attenzione degli altri sulla busta: tenne la mano sul logo della Irie e invece annunciò loro che forse a quell’ora aveva aperto l’atelier. Avevano deciso di non cercare di essere presenti per non invadere un momento che poteva essere profondamente toccante, ma dopo l’impegno che ci avevano messo erano tutti impazienti di sapere come avrebbe reagito e fu quello l’argomento di cui iniziarono a parlare Restless e Breaker, mentre Enma teneva gli occhi puntati sulle carote per evitare di amputarsi qualche dito mentre le affettava.

Sgattaiolò senza essere fermato fino alla sua camera e posò la busta sul letto con il cuore che iniziava ad accelerare. Era il prototipo di costume da Civil Hero… quello che forse, un giorno, sarebbe stato famoso come “il costume di prima generazione” di un eroe chiamato Indigo…

Lo sfilò dalla busta e aprì quella sottovuoto in cui era conservato, con un sorrisetto. Aveva lo stesso colore indaco scuro del vestito che Byakuran gli aveva fatto confezionare in Cina e un curioso motivo a linee che creavano triangolini, o stelle se visti in un’ottica più ampia. Sui bicipiti, sulle cosce e lungo la spina dorsale sfumava in una linea argento metallizzato molto chiaro.

Mukuro lo aprì con cura e lo sistemò sul letto. Era già sicuro che il suo costume sarebbe stato un integrale, perché era l’assetto migliore per un Civil Hero da corpo a corpo come lui. Tirò fuori le scarpe che avevano una suola ben spessa per assorbire meglio gli urti e una serie di accessori, che dispose per bene, e poi si spogliò completamente per indossarlo, lentamente e in religioso silenzio.

Gli era largo, ma non vi badò. Infilò gli stivali e camminò con una certa goffaggine fino allo specchio, poi ruotò la valvola posizionata sotto il colletto: anche il suo costume era dotato della nuova tecnologia “sottovuoto”, che permetteva di vestire velocemente e senza fatica un costume che avrebbe poi aderito perfettamente, e così avvenne. Dopo qualche attimo era ben strizzato dentro la sua uniforme, che faceva pressione sui muscoli per sostenerli in lunghi sforzi.

«Wow.»

Non riuscì a non dirlo, perché quello che ammirava nello specchio andava molto oltre la sua immaginazione. La compressione e le sfumature di colore nei punti giusti lo facevano sembrare più robusto di quanto non fosse diventato con l’allenamento. Si chinò per allacciare le chiusure interne del gambale degli stivali – si faceva in un attimo con una serie di clic rapidi – e sorrideva nell’osservare che ognuna delle chiusure aveva una specie di tondo in argento come decorazione.

«È uno spettacolo, Mukuro.»

Mukuro girò la testa per guardare Kyoya fermo sulla porta e lo vide fare un sorriso esitante.

«Vuoi che ti lasci solo?»

«No» replicò, non così seccato dalla rottura del momento. «Anzi, ottimo tempismo. Mi passi quella protezione?»

Phoenix non domandò quale: gli passò la corazza addominale che presentava gli stessi cerchi al centro e l’aiutò a indossarla, poi gli passò i guanti e le protezioni per gli avambracci.

«È stupendo, Indigo. Ti sta divinamente.»

«Grazie.»

«Come te lo senti addosso?»

«Stretto» fu la risposta onesta di Mukuro. «Ma mi ci abituerò.»

«Sì, è una tuta a compressione… dev’essere stretta. Come hai detto tu, ti ci abituerai.»

Mukuro annuì e andò alla busta, perché aveva notato una piccola scatola e pensò di avere ancora un accessorio da mettere da qualche parte. In effetti rinvenne un aggeggio che sembrava un archetto e una piccola cuffia col padiglione in color indaco; non aveva idea di cosa fosse ma le indossò come gli sembrava logico fare e dall’archetto scattò un visore blu scuro davanti ai suoi occhi, con un cursore lampeggiante come uno schermo in attesa. Sfiorò il padiglione e scoprì che era un computer, con delle istruzioni visive su come muovere lo schermo o i cursori con trascinamenti o tocchi delle dita.

Spettacolare! Ma perché Byakuran pensa che mi serva un computer per combattere? Potrebbe anche rompersi…

«Allora, che ne pensi? Ti piace?»

Mukuro non avrebbe potuto fare l’indifferente neanche con tutta la volontà del mondo; aveva un sorriso stampato sulla faccia che non riusciva a ridimensionare.

«Penso che sia una figata!»

«Mh-mh, lo penso anch’io… è costoso, e molto ben fatto… difende bene i punti d’urto, sembra. Bisogna testarlo, comunque. Le protezioni si possono aggiungere o cambiare, sono il costo minore.»

Mukuro si guardò nello specchio e per la prima volta aveva l’impressione di meritare di assomigliare a un eroe. Aveva lavorato molto duramente, e anche Byakuran gli aveva riconosciuto che era un traguardo difficile da raggiungere da solo.

Phoenix si avvicinò e toccò una delle fibbie tonde della protezione addominale, perplesso.

«Ma queste sono un po’ strane. Sono… dei tondi.»

Mukuro emise una risatina sottile.

«Non proprio. Sono tonde, ma… sono semibrevi. Sono note musicali.»

«Eh? Davvero?»

«Sì… e anche questo…»

Indicò con il dito il simbolo argenteo che adornava il colletto. Phoenix lo guardò e sapeva che non avrebbe visto altro che un curioso ricciolo simmetrico sotto due segmenti di spessore diverso.

«È una chiave di contralto… un simbolo che si usa per gli spartiti.»

«Piuttosto poetico, visto di cosa è fatto» commentò lui, sorpreso.

«In che senso?»

«I tessuti della Irie hanno disegni diversi per essere distinguibili… questo motivo è di un tessuto sintetico nuovo, molto costoso. Altamente elastico, molto resistente per allenamento e battaglia. Resiste bene alle temperature estreme e anche ai tagli… il meglio per il combattimento corpo a corpo, il Sound of Silence.»

Mukuro convenne con Phoenix: un nome già molto poetico si sposava bene con i simboli degli spartiti che i designer – o Byakuran stesso, forse? – vi avevano applicato. Trovava qualcosa di romantico nella combinazione tra il colore, il suo nome e quello del tessuto tecnico.

Phoenix sfiorò col dito il disegno sul colletto.

«Chiave di contralto, hai detto… è come la chiave di violino?»

«Sì, diciamo di sì. È ruotata per fare un motivo decorativo, ma sul rigo sembra una B. Serve a leggere le note sulle righe in altezza diversa da quella normale.»

Era chiaro dalla sua espressione che aveva perso Phoenix dopo “una B”. Non poteva biasimarlo, quindi ridacchiò e gli batté la mano sulla testa; sapeva che lo irritava.

«Non abusare della tua sapienza musicale per umiliarmi, Indigo» brontolò lui. «Non è giusto, dopo tutto quello che ho fatto per te.»

«Lo so, lo so… grazie.»

Tirando fuori un coraggio – o forse della sana incoscienza – che non sapeva di avere posò la fronte contro la sua. Il guanto del suo nuovo costume era così sottile che riuscì a sentire che toccava i capelli di Phoenix con le dita.

«Se non fosse stato per te non avrei mai indossato un costume… e questo non sarebbe mai stato realizzato.»

Per la prima volta Mad Phoenix sembrava imbarazzato dalla vicinanza con lui. I suoi occhi grigi guardarono giù, forse il suo mento o altrove ancora, per non incrociare i suoi.

«Senza di te non ci sarebbe nessun Indigo… e forse un bambino e due ragazzi in più sarebbero morti a Higashiki. Senza di te, Kyoya, sarei ancora fragile.»

«Tu sei Indigo… non sono io. Non ti posso dare la forza, né il coraggio, né altro. Ti ho solo indicato la strada e tu ci hai camminato… se proprio mi vuoi ringraziare di qualcosa, parliamo dei miei appunti dei quali abusi senza ritegno!»

Mukuro restò perplesso davanti a quella reazione. Tra tutti quelli che conosceva Kyoya era l’ultimo che credeva potesse cercare di scappare da una discussione seria sui sentimenti. Non si lasciò traviare.

«Kyoya, sto cercando di ringraziarti di quello che hai fatto per me.»

«Non ce n’è bisogno, te l’ho appena detto! Ehi, perché ora non scendi a farti invidiare il costume dagli altri? Sono tutti giù per la cena… scommetto che Restless ti guarderà come un falco pronto alla picchiata, mi sa che è un po’ invidioso della tua forma fisica.»

Mukuro resistette alla sua presa sul braccio.

«Kyoya… perché non vuoi ascoltarmi? Sto cercando di dirti qualcosa di importante!»

Phoenix non lo guardò e la sua stretta si fece più forte. Mukuro percepì la sua paura, anche se non la comprese.

«Questo… non è il momento per parlare. Sei emozionato… ora non ti guardi dentro nel modo più obiettivo. Ti prego, non parlare sull’onda dell’entusiasmo per il costume e il ritorno di tuo padre.»

Allora capì che Kyoya non aveva paura di ricevere i suoi sentimenti, ma di riceverli per poi vederli ritrattati in un momento di maggiore lucidità. Mukuro non si sentiva così entusiasta da venire tratto in inganno nelle sue sensazioni, ma decise di rispettare i tempi di Kyoya come lui aveva rispettato i suoi.

«Se desideri così…» sospirò allora.

«Grazie… di essere così paziente.»

Questa volta si lasciò guidare fuori per raggiungere il resto della classe. Durante il breve tragitto l’irritazione di Mukuro si spense, lasciando il posto a un disagio che sapeva di vergogna nel rendersi conto che aveva già parlato dando a Kyoya delle speranze su una spiaggia delle Maldive; delle speranze che non erano state concretizzate nel modo che Phoenix sognava. Non poteva che biasimare se stesso per la diffidenza che Kyoya gli stava dimostrando.

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Capitolo 14
*** Suddenly the call ***


Non trovare Byakuran in ufficio, nella stanza colorata e neanche nella palestra mise a Mukuro un frizzante brividino lungo la schiena, dopo la domanda che aveva tenuto sulle spine tutti, chi più chi meno, nella classe S: Byakuran era molto arrabbiato per la violazione della sua privacy o era contento di ritrovare un capitolo troppo a lungo accantonato della sua vita?

Beh, qui non c’è ed è la solita ora di colazione… magari potrebbe essere proprio là?

Esitò, combattuto tra l’idea di mettersi comodo nella stanza colorata ad aspettare e andare a soddisfare la sua curiosità – con i rischi che ciò comportava – ma alla fine schizzò indietro nel corridoio e raggiunse l’atelier, la cui porta era solo accostata. C’era la luce accesa. Il ragazzo avvicinò l’orecchio e percepì anche il leggero grattare di una punta sulla carta, a cadenza regolare, come se qualcuno fosse intento a tracciare segni uguali.

Sorride all’idea che potessero essere riusciti a convincerlo a disegnare di nuovo dopo anni e spinse piano la porta, scoprendo Byakuran abbarbicato in una strana posizione sulla sedia e intento a disegnare su un foglio enorme quello che sembrava il panorama di un parco pubblico, con un laghetto, delle panchine e degli alberi dalle fronde cadenti.

Il carboncino gli aveva completamente annerito le dita e aveva sfumature della polvere sul polso e sugli avambracci. Il pavimento era disseminato di fogli accartocciati, ma Mukuro si accorse subito di alcuni ritratti e disegni di nature morte – tra i quali la caffettiera d’argento che teneva nella sua stanza – fissati con le puntine al pannello di sughero sulla parete di sinistra. Fino alla sera prima non c’erano.

Avrebbe fatto meglio a chiamarlo, o a bussare sulla porta per farsi sentire, ma era troppo curioso. Si avvicinò piano e sbirciò sopra la sua spalla: con un gessetto squadrato stava come picchiettando la carta per lasciare i segni sottili e disordinati di un’erba naturale sulla destra del suo parco, il punto più vicino all’osservatore. Secondo la sensazione di Mukuro, la prospettiva era quella di una persona seduta a terra.

«È un posto vero?»

Non lo spaventò quanto temeva. Byakuran sollevò solo la testa di scatto e invece che guardarsi alle spalle guardò dalla finestra, dove potevano vedere alcuni edifici al di là del muro e un cielo dello stesso colore delle pareti. Fece per strofinarsi gli occhi ma desistette quando si vide la mano in quelle condizioni.

«Cielo, che ore sono?»

«Le sette, più o meno… non sarai rimasto qui tutta la notte?»

Byakuran girò piano sulla sedia, mostrandogli un sorrisetto da ribelle non da lui.

«È un atelier ben fatto… senza orologio, silenzioso, senza distrazioni. Era così comodo che non mi sono accorto di passarci tanto tempo.»

Mukuro scosse la testa, seppur sorridendo. Lasciò che il preside andasse a ripulirsi le mani con uno strofinaccio mentre guardava il suo incompiuto panorama del parco. Le parti più dettagliate erano incredibili: vedeva i riflessi nell’acqua, i cigni e le papere si distinguevano bene, c’erano persone con fattezze concrete a passeggio, e alberi in fiore. La nitidezza dei dettagli in un carboncino era sbalorditiva. Non poteva staccarvi gli occhi.

«Manca un lavandino» osservò Byakuran, quasi distrattamente. «Quello serve… lo farò mettere io. Quell’angolo laggiù sembra buono.»

Come se si fosse accorto solo in quel momento di non essere solo guardò Mukuro con vago stupore, prima di sorridergli.

«È stato un lavoro pesante rimettere tutto a posto?»

«Abbiamo lavorato tutti insieme» gli rispose subito lui. «Io, Kyoya e Breaker abbiamo fatto buona parte dei lavori e Restless ha sistemato le luci sul soffitto… Luck ti ha cucito le tende, per il sole del pomeriggio. Ah, il divano lo hanno recuperato Tsunayoshi ed Enma, sono andati in giro a raccogliere quello che agli studenti non serviva più.»

«Manca qualcuno. Love?»

«Oh, lei… ha aiutato a ripulire, e…»

Non voleva parlare di quel nastro washi imbarazzante e decise di parlare di come aveva organizzato gli spazi con cura, ma l’occhiata che aveva lanciato sulla parete doveva averlo tradito, perché Byakuran guardò in su. Era indubbio che fissasse il nastro con i cani.

«Lo ha messo lei il nastro?»

«Sì» si arrese Mukuro, e si spostò i capelli dietro l’orecchio. «Non so che cosa le sia venuto in mente…»

«È carino» l’interruppe lui con l’aria allegra di quando vedeva un cane vero. «A me piacciono i cani. Mi va benissimo così!»

Scosse di nuovo la testa, ma stavolta non sorrideva.

A volte è veramente come un bambino… se voglio farlo felice devo regalargli un cane, questo è sicuro.

Con suo sommo orrore Byakuran si avvicinò di più alla parete, così interessato al nastro decorativo da alzarsi in volo di qualche spanna per vederlo meglio mentre continuava a pulirsi le mani in uno straccio ormai grigio.

«Devo farmi dire dove lo ha comprato…»

Ancora una volta scosse la testa e Byakuran lo vide, ma non se la prese.

«Vedo qualcosa di tenero e di affettuoso nei musetti dei cani, non posso farci nulla. Mi fanno sentire allegro.»

«Non ho niente contro i cani, ma… sicuro di voler comprare un nastro come quello?»

«Certo. Vedi qualche motivo per cui non dovrei farlo?»

In realtà… no. È ciò che gli ho detto di fare… essere se stesso e fare quello che gli piace. Se vuole decorarsi la stanza o le copertine dei bloc-notes con immagini di cani deve farlo.

Scrollò le spalle e il preside sorrise mentre atterrava di nuovo; andò allo scaffale per prendere un blocco e arraffò una gomma morbida e un paio di matite.

«Andiamo a mangiare nella stanza colorata, ti va?»

«Ah… sì, ho lasciato il vassoio sulla scrivania dell’ufficio…»

Byakuran si trattenne nella stanza per accostare la tenda e spegnere la lampada, poi lo seguì con ancora matite e blocco in mano.

«Che cosa vuoi fare con quelli?»

«Pensavo che potevi posare per me mentre mi parli di tutto quello che mi sono perso» fece lui, prendendolo di sorpresa. «Non preoccuparti, non mi serve che resti immobile. So disegnare le persone che si muovono.»

«Uh… io… io?»

«Non ti devi spogliare!»

«Se l’avessi pensato ti saresti trovato un calcio in faccia» sbottò Mukuro, spostandosi dietro l’orecchio dei capelli che erano già lì. «Intendevo, perché disegnare me?»

«Io ho sempre disegnato chiunque, ma lo sai già, no? Hai guardato i miei sketchbook… mi sono divertito a disegnare, visto che abbiamo tempo vorrei farlo. Posso?»

Era improbabile che quei disegni finissero sotto gli occhi di molte persone da ora in avanti, quindi acconsentì anche se in imbarazzo. C’era una possibilità che non facesse troppi collegamenti e capisse qualcosa se, mentre era occupato a disegnare, gli avesse chiesto qualche vaga linea direttiva su come comportarsi con Phoenix.

 

*

 

Purtroppo, Byakuran si dimostrò capace di riuscire a fare praticamente qualsiasi altra cosa mentre disegnava: aveva già riempito un paio di pagine di schizzi di posture di Mukuro e nel mentre aveva preparato il tè, lo aveva versato nelle tazze d’argento, mangiava allegramente e rispondeva a ciò che il suo studente gli diceva senza la minima esitazione. In verità sembrava che si concentrasse meglio sul resto del mondo quando ne disegnava un pezzo.

«È stato furbo da parte di Mad Phoenix farti superare gli esami delle classi inferiori con il torneo. La tua forza non ha rivali sotto la classe A, anche con l’inesperienza non avresti rischiato di perdere.»

Mukuro incrociò le gambe intorno a un cuscino che sembrava un vistoso marshmallow turchese e bevve un sorso di tè alla menta. Prima che riuscisse a trovare un appiglio per ciò di cui avrebbe davvero voluto parlare Byakuran si accigliò, ma non era infastidito per il suo cambio di posizione.

«Anche se avrei voluto essere informato che ti avrebbero esaminato all’esercitazione Grandi Incendi. Mi sarei opposto.»

«Addirittura?»

«Sinceramente, è una prova che premo da tempo per rimuovere per gli studenti, cercando di insistere sul fatto che è molto costosa. Ho ottenuto solo che se ne tenga una sola all’anno.»

«Vuoi… cancellarla? Perché?»

Byakuran sollevò la matita dal foglio e picchiettò la gomma morbida sul foglio con cura.

«È pericolosa. Mentre le alluvioni e i terremoti possono essere controllate con facilità con l’aiuto di Civil Heroes qualificati, i manipolatori del fuoco sono rari e molti non sono né immuni al calore né in grado di soffocare le fiamme che possono invece creare… il fuoco uccide in molti modi, Indigo. Non ero disposto a correre questo rischio per te.»

Immagini delle fiamme accecanti, la sensazione dell’aria bollente che respirava, l’odore di combustibile e di cenere furono rievocati con nitidezza dalle sue parole, ma il tremore durò poco.

«Anche io ho fatto quell’esercitazione. Prima di proporle ai miei studenti le ho provate tutte, e la Grandi Incendi è… l’inferno, davvero. Da fuori attacca il fuoco, da dentro il terrore. Trovo che solo Civil Heroes con esperienza dovrebbero formarsi con una prova del genere.»

«Sì» ammise Mukuro, per la prima volta fuori dalla terapia. «Fa davvero paura. In un certo momento non sono rimasto fermo solo perché avevo ancora più paura che le scarpe finissero sciolte e avrei iniziato a sciogliermi anche io.»

«Mi dispiace tantissimo di non essere stato qui a proteggerti da questo, Indi» gli disse Byakuran, con un tono insolitamente dolce. «Ma sapere che l’hai superata mi ha reso fiero anche perché so che è una prova mostruosa… e sono felice che sia andata così. Ora sai di essere più forte di me.»

Se le orecchie non lo avevano ingannato lo aveva appena chiamato Indi. Mukuro non si sarebbe mai aspettato che Byakuran gli si sarebbe rivolto con un diminutivo. Imbarazzato finse di accorgersi solo ora di una lampada blu spenta e si alzò per accenderla.

«Di te? Non succederà mai.»

«È già successo… il tuo coraggio è molto più grande del mio.»

«Ma di che accidenti parli? Tu sei Wing Emperor, sei stato in tutti i più grandi disastri e i più pericolosi crimini dell’ultimo decennio, no?»

«È facile mettersi davanti a una lama, a una fiamma o prendersi con colpo, quando sai che basta che non sia immediatamente fatale per guarire» obiettò lui con semplicità. «Quando le ossa restano rotte, le ustioni continuano a bruciare e il sangue cola ancora è un altro paio di maniche.»

I suoi occhi viola si alzarono per guardarlo.

«So bene di essere un privilegiato, Indi, non credere… ho moltissime responsabilità, ma ho anche il lusso di non aver paura di morire facilmente come chiunque altro. Per questo motivo mi pento di certe dichiarazioni che feci ai miei primi studenti, quando ero giovane… in cui li incitavo a qualsiasi cosa per il bene superiore. Il bene superiore dovrebbero essere tutte le vite, non solo quelle di qualcuno che è in immediato pericolo.»

«La signora Kujaku dice che è per questo che gli esseri umani invecchiano» replicò Mukuro, con una fitta nostalgica al pensiero della sua tutrice. «Come le carpe che risalgono la cascata per diventare draghi, gli umani invecchiano per diventare saggi.»

«Per lei ha funzionato di certo» commentò Byakuran colpito.

Mangiarono in silenzio, mentre il preside continuava a riempire pagine di schizzi e Mukuro guardava le lanterne, preso da una corrente disordinata di pensieri sui draghi, le correnti, le scelte e la saggezza.

«A proposito della signora Kujaku…»

L’incertezza nella voce di Byakuran fece pensare a Mukuro che fosse il momento. Lo temeva da molto e fu certo che stesse per dirgli che frequentava – o aveva intenzione di iniziare a farlo – sua sorella Momo.

«Si vede che ti ha cresciuto lei… e che c’erano solo tutrici a casa tua.»

Quel discorso non s’incastrava con la sua idea e continuò a provare a farne combaciare le parti come una scimmia ottusa con un pezzo estraneo al puzzle.

«Che vuoi dire?»

«Hai un modo molto femminile di fare diverse cose… non te lo hanno mai detto?»

«Io… che?»

«Per esempio, il modo in cui ti copri la bocca quando sbadigli, o come ti stiracchi… abbassi la testa e stiri le braccia in alto, mentre la maggior parte degli uomini lo fa allargando le spalle in fuori.»

Senza parole per lo stupore Mukuro tentò di richiamare il ricordo di qualche volta in cui lo aveva fatto, con scarso successo.

«Quando ti siedi, poi, tieni sempre le ginocchia vicine come le ragazze» proseguì Byakuran, ignaro dell’effetto devastante delle sue osservazioni, «e se accavalli le gambe metti un ginocchio sull’altro anziché appoggiare il polpaccio o la caviglia come tanti uomini.»

A supporto della sua tesi Byakuran gli mostrò uno schizzo veloce fatto meno di mezz’ora prima. Mukuro deglutì un inspiegabile nodo d’ansia e si spostò i capelli dietro le orecchie.

«N-non è… si… si vede tanto?»

«Anche da questo!» fece lui, indicandolo. «Quando un uomo è in imbarazzo si tocca il collo, le orecchie o si tira indietro i capelli così…»

Abbandonò lo schizzo per passarsi le dita fra i capelli e tirarli indietro, anche se per la sua chioma ribelle non servì a niente.

«Lo fa anche Kikyo… tu invece sposti la ciocca dietro l’orecchio, come fanno le ragazze quando sono nervose!»

«Non… è inquietante! Mi hai scansionato o che cosa?!»

«Ti osservo, no? Sono un medico e sono un ex disegnatore… beh, ora non più ex. Noto istintivamente i movimenti o le pose delle persone, perché le disegnavo e perché a volte tradiscono i sintomi di un problema clinico prima che il paziente se ne renda conto.»

Mukuro non sapeva cosa dire. Si sarebbe volentieri sepolto per sempre sotto il mare di cuscini. Non si era mai accorto di essere così vistosamente diverso dagli altri ragazzi della sua età, e se in qualche occasione gli era capitato l’aveva imputato a un’educazione più vecchia… non a una più femminile.

«Perché quella faccia? Non era mica una critica.»

«Ah, no?» scandì Mukuro con una certa ferocia.

«Parola mia, non lo era! Per qualche ragione gli uomini con degli atteggiamenti più femminili sono considerati più eleganti… e fanno colpo sulle donne timide.»

L’immagine vivida di Wish Luck gli apparve in mente e Mukuro fissò il fondo del tè nella tazza. Avrebbe voluto potercisi annegare dentro tanto era il suo imbarazzo.

«Come lo sai?»

«Beh, Kikyo fa un sacco di cose da donna, compreso truccarsi gli occhi… a scuola lo fa un po’ meno, ma non esce mai senza, te lo giuro, e non l’ho mai visto uscire senza trovare almeno una donna che gli stesse appiccicata tutta la sera… e forse anche dopo, ma non me lo dice.»

Questo dettaglio fece accigliare Mukuro.

«Perché non te lo dice? Non siete amici da una vita?»

«Sì, ma si approfitta del suo naso, quel vigliacco!» sbottò Byakuran, premendo più forte sui tratti a matita. «Si approfitta che non posso sentire gli odori come un segugio e lui invece sa sempre con chi sono stato!»

Un guizzo di infantile perfidia e altrettanto immatura curiosità rianimò Mukuro all’istante, facendogli raddrizzare la schiena e storcere la bocca in un ghigno.

«Quindi Night Hound le conosce?»

«Le conosce tutte quante, e si arrabbia anche quando–»

Byakuran si bloccò e si coprì la bocca col dorso della mano che teneva la matita. Era sbiancato – se possibile visto il suo pallore naturale – e fissava Mukuro come se si fosse appena accusato di un triplice omicidio.

«Ti prego, dimenticatelo!»

«Ma neanche morto! Chi sono queste tutte quante? Quante sono?»

Mise su un cipiglio severo e lo colpì sulla fronte con la matita.

«Abbiamo un accordo su questo. Tu non fai domande e io non faccio domande a te. Non era così?»

«Ma tu hai qualcosa da nascondere, è un accordo impari!»

«Lo hai accettato, però» replicò ostinato Byakuran. «E poi lo è ora, ma hai diciassette anni e mezzo, quasi. Non passerà poi molto prima che anche tu abbia qualcosa da nascondere.»

Non gli andava di addentrarsi sull’argomento Phoenix dopo quella premessa e decise di consolarsi andando all’attacco.

«Aspis è una di quelle?»

Si aspettava una buffa reazione come ne aveva viste diverse finora, ma lo sguardo che gli lanciò era più simile che mai allo sguardo gelido che assumeva quando redarguiva qualcuno nei solenni panni di Wing Emperor. Faceva paura.

«Chiariamo subito questo punto, prima che tu sparga in giro voci poco opportune. Sì, ho dei trascorsi con Yumi, ma no, non c’entro niente con Ryota. È successo quando il bambino era già nato e prima che arrivasse qui. Quando ho saputo che aveva problemi economici ho deciso di assumerla.»

Byakuran osservò con aria critica lo schizzo che stava facendo, ma era ancora alterato.

«Non è più successo niente di significativo tra noi… non voglio che tu o qualcun altro mettiate in giro voci su di noi. Ryota merita di crescere convinto che sua madre lo ami e che sia una donna di principi. Non devono essere le voci di corridoio a dirgli con chi o come Yumi si intrattiene.»

«Non lo direi certo in giro» commentò Mukuro, pungolato da un subdolo senso di colpa. «Sono solo… curioso di sapere che cosa fai. Non parli mai di niente.»

«Parliamo di molte cose, ma non ti parlerò delle mie relazioni intime.»

Mukuro sospirò e posò la testa sulle braccia conserte sul tavolino.

«Non credevo che qualcuno potesse essere più noiosamente serio di mio fratello Eisen, ma mi sbagliavo.»

Byakuran lasciò che un sorriso intaccasse la sua espressione e quando guardò Mukuro per un attimo mentre disegnava rapido il ragazzo sentì che la sua ostilità era svanita.

«Se sono così tante, perché sei sempre da solo?»

«Ma non sono solo.»

«Non esci mai con una di loro, quando le vedi?»

«Di rado, questo sì… ma non sono da solo. Ora ogni volta che torno a casa c’è qualcuno che mi aspetta…»

La mano sinistra si allungò su di lui e Mukuro chiuse gli occhi, lasciandosi accarezzare la testa. Ultimamente gli sembrava che quel gesto stesse diventando ricorrente, ma finché non li avesse visti nessuno non gli dispiaceva.

«Ah, il mio piccolo Indigo» sospirò con un accento ironico. «Come un gattino, non si sa mai se vorrà una coccola o se ti squarterà una mano.»

Lui accennò un sorriso e si lasciò accarezzare, poi un pensiero lo portò ad aprire gli occhi.

«Senti… c’è un motivo per cui mi hai chiamato così, o ti è solo venuto in mente sul momento?»

«Ma certo che c’è un motivo, credevo lo sapessi. Ti ho chiamato così in riferimento ai Bambini Indaco.»

«Ai cosa?»

«Bambini Indaco» scandì Byakuran. «Secondo certe correnti di pensiero, sono bambini speciali… hanno un dono che spesso viene frainteso, e che serve loro per compiere una missione. Queste anime tornano ciclicamente nel mondo e accompagnano l’umanità verso la prossima tappa dell’evoluzione… spirituale e non.»

L’immagine era affascinante, ma cercandovi la risposta alla sua domanda trovò solo perplessità.

«E tu pensi che sia io?»

«Sono sicuro che tu sia un Bambino Indaco. È una delle poche certezze che ho nella mia vita.»

«Non capisco se sei serio o mi stai prendendo magistralmente per il cu–»

«Ehi, linguaggio, ragazzo» l’interruppe lui. «Lo penso davvero. Sei libero di prenderci per pazzi per credere a questa storia, ma il succo della cosa è che questo pazzo crede moltissimo in te.»

Una dichiarazione di fiducia così chiara e diretta lo toccò nel profondo e l’emozione gli impedì di trovare subito la voce per replicare. Non ebbe altro tempo, perché la porta si spalancò facendoli sussultare entrambi mentre Night Hound muoveva solo un passo sul tappeto.

«Byakuran, una chiamata d’emergenza! Degli uomini hanno preso ostaggi dentro il centro commerciale di Mizura, il Coordinamento ha girato la chiamata a noi!»

Byakuran abbandonò la matita sul blocco e si alzò in piedi.

«Quanti sono?»

«La polizia sta monitorando la situazione da fuori. Non sa dire quanti siano i sequestratori, anche se pensano che siano dei Ribelli, e non sa per certo quanti ostaggi abbiano. Parlano di una decina di impiegati, più probabilmente dei clienti» snocciolò rapido Night Hound. «Vado avanti io e cerco di scoprire quello che posso.»

«Raduno la classe S e arriviamo subito.»

Night Hound annuì, ma esitò mentre usciva.

«Se sei d’accordo, porto con me Chrome Doll.»

«Se se la sente, a me va bene.»

Questa volta se ne andò a passo svelto e Byakuran recuperò le scarpe accanto alla porta. Mukuro era ancora stordito dal brusco capovolgimento di eventi.

«Vieni, Indigo… a quanto pare, il tuo debutto non aspetta tempo.»

«Il mio… debutto? Oggi?»

Il preside gli scoccò un’occhiata eloquente.

«Vuoi che chieda a questi sequestratori se possono tornare domani?»

«No, certo che… non intendevo questo, ma…»

«Allora spicciati, chiamiamo i tuoi compagni e andiamo! Questa è la tua prima missione ufficiale, Indigo!»

Deglutendo i suoi dubbi Mukuro si alzò.

 

*

 

Mukuro non sapeva spiegarsi la sensazione di pericolo che provava quando raggiunsero il centro commerciale e superarono il cordone di sicurezza mantenuto a fatica dalla polizia locale. Persone armate con ostaggi suonava meno mortale di grande incendio metropolitano, eppure gli incuteva la stessa paura. O forse anche di più, perché mentre il fuoco era ruggente e luminoso la minaccia a cui andava incontro poteva essere del tutto silenziosa.

«Da questa parte!»

Phoenix fece un gesto per indicare alla classe la direzione per raggiungere il centro operativo, dove si sarebbero ricongiunti a Night Hound e al negoziatore della polizia locale. Mukuro, così preso dal suo presentimento, si guardava intorno alla ricerca di un segnale di allerta e non si accorse di restare indietro alle spalle di Wish Luck.

Che accidenti è quello?

Su Mizura splendeva un bel sole e non c’era vento, eppure lungo il muretto di cemento che divideva il passaggio pedonale dal parcheggio c’era movimento: una specie di strofinaccio nero strisciava furtivo, si fermava e continuava ad avanzare.

Non essere ridicolo, Mukuro… non può essere furtivo, è un oggetto, e…

Eppure era sicuro che quell’oggetto si muovesse senza un apparente motivo e decise di raggiungerlo. C’era la possibilità che un piccolo animale fosse rimasto impigliato in un tessuto gettato via, ma poteva anche essere qualcosa di losco.

La procedura normale prevedeva che i Civil Heroes dovessero muoversi sempre in almeno unità di due membri per ragioni di sicurezza, e la procedura in stato d’emergenza intimava di mantenere un contatto radio o di comunicare con qualsiasi mezzo possibile gli spostamenti ai propri colleghi. Trasgredire quella regola basilare fu una leggerezza che avrebbe pagato cara.

Era chino sul muretto per sporgersi al di là e ritrovare lo straccio deambulante che vi era sgattaiolato dietro quando un colpo lo raggiunse al fianco. Il dolore esplose irradiandosi fino all’angolo più distante del suo corpo come una deflagrazione in uno spazio troppo stretto e Mukuro cadde all’indietro con un grido. Si afferrò la ferita d’istinto mentre i suoi occhi cercavano una fonte di pericolo che giustificasse quel sangue zampillante, ma non ne trovò.

Il suo secondo errore fu guardare la ferita. Il suo corpo era bucato da parte a parte, il sangue sgorgava in una pozza sull’asfalto e questo ottenebrò la sua mente con la paura. Dimenticò le procedure, le strategie e qualsiasi sensatezza davanti al terrore di quella massiccia emorragia, del corpo che non rispondeva come voleva ai comandi, della certezza della morte immediata.

La sua mano annaspò nel sangue come tentasse di afferrarlo per reinserirlo nel corpo, ma non riusciva a parlare: un tremito inarrestabile aveva serrato i suoi denti come un violento attacco di febbre.

«Indigo-kun!»

Riconobbe la voce di Kyoko urlare il suo nome con lo stesso terrore che provava lui, o quasi. In uno svolazzo di abito giallo apparve nel suo campo visivo e controllò la ferita, solo per sbiancare dall’orrore. Emise un gridolino e si abbassò su Mukuro, proteggendogli la testa da un’intesa ondata di calore; voltando appena il viso riuscì a intravedere tra i capelli di Luck e il suo braccio uno scorcio del costume di Sky Flame e il suo guanto protettivo rosso. Aveva sparato fiamme contro qualcosa e a giudicare dalla direzione aveva mirato a ciò che aveva bucato il fianco di Indigo senza esitazione.

«Emperor-sensei!» gridò a perdifiato Luck, alzando la testa. «Sensei!»

Mukuro iniziava a vedere in modo confuso. Aveva la sensazione che tutto il mondo diventasse a tratti una tavolozza di colori mescolati a caso in forme abbozzate, poi tutto divenne bianco in una forma più familiare, e Mukuro si sforzò di sollevare il braccio verso Byakuran. La vista tornò più nitida quando lui gliela afferrò con forza.

«Sono qui, Indigo, tieni duro. Resta sveglio, hai capito?»

Avrebbe voluto rispondere, ma la mandibola era ancora serrata e tentò di annuire. Per tentare di non perdere conoscenza fissò a rovescio il volto di Kyoko, pallido e spaventato, e iniziò a contare i petali dei fiori sulla sua spilla per capelli.

Era tremendo cercare di restare lì, con il dolore, il tremito e la sensazione di bruciare da dentro che gli stava dando la cura di Wing Emperor; avrebbe preferito poter svenire e riaprire gli occhi quando fosse guarito. Forse nei suoi occhi si leggeva questa sua supplica, perché Kyoko gli strinse la mano sporca di sangue e gli sussurrò degli incoraggiamenti.

Infine, dopo un’eternità o quasi, il calore si affievolì e seppe che la cura era finita, ma non si sentiva affatto bene. Byakuran lo aiutò a mettersi seduto, ma sarebbe ricaduto all’indietro se non avesse trovato lì Kyoko a fargli da sostegno. Si sentiva meno vispo dello straccio che aveva tentato di seguire.

«Ha perso troppo sangue, sensei!»

«Ce la farà. Dagli una caramella, subito.»

L’eco degli spasmi gli faceva sentire ancora dolore, il corpo era rigido, non riusciva a pensare lucidamente; però riuscì a domandarsi che diavolo pensassero di risolvere con una caramella. Kyoko scartò qualcosa vicino al suo orecchio, poi la sua mano – senza più il guanto che le aveva imbrattato di sangue – gli mise davanti alla bocca un grosso cubo che sembrava una caramella gommosa, di un arancione acceso.

«Apri la bocca, Indigo-kun… è sufficiente che la tieni in bocca e la mordi un po’. Non provare a inghiottirla subito.»

Fu faticoso obbedirle e sgradevole sentirsi infilare qualcosa dentro a forza, ma si sforzò di assecondarla e mordicchiò. Sapeva di arancia ed era la più grossa caramella che Mukuro avesse mai visto, ma appena andò giù quel sapore leggermente frizzantino si sentì più lucido. Di poco, ma più in forze.

«Indigo!»

In un abbraccio denso di panico Phoenix agguantò sia lui che Luck che lo stava mantenendo seduto, ma prima che potesse aggiungere qualcosa o fare domande Byakuran li richiamò all’ordine. Mukuro si accorse allora che aveva sei ali spalancate tra loro e il presunto nemico che aveva abbattuto uno dei suoi pulcini. Non stupiva che sembrasse così feroce; dopotutto era stato colpito proprio il suo pulcino prediletto.

«Formazione a stella, classe S! Portate via Indigo da qui, raggiungete Night Hound mentre io copro!»

«Lo porto io» fece immediatamente Phoenix, e lo prese tra le braccia. «Sky Flame, Breaker, copriteci ai lati!»

Mukuro non aveva visto Breaker, ma udì la sua voce confermare. Aggrappato a Phoenix e scortato da una Wish Luck che sembrava avere dodici paia di occhi per quanto attentamente guardava intorno, raggiunse una zona sicura con la polizia e Night Hound dopo pochi minuti.

Appena superato un furgoncino della polizia Mukuro vide Restless accovacciato lì sopra, con un fucile a lunga gittata bloccato contro un supporto che aveva sulla spalla, gli occhi fissi sull’orizzonte. Per una frazione di secondo si guardarono e Mukuro credette di scorgere un riflesso viola negli occhi del tiratore.

«Che cosa è successo?!» proruppe Night Hound, strappandosi via dall’orecchio un auricolare.

«Indigo è stato colpito, sensei» gli rispose subito Phoenix. «Emperor-sensei gli ha prestato il primo soccorso, ma…»

«Sto bene» mentì Mukuro, ma il suo bluff fu smentito dalla voce flebile.

«Ha perso molto sangue… credo dovrebbe andare in ospedale, sensei!»

Gli era chiaro che Phoenix voleva solo assicurarsi che stesse bene, ma quella missione era pur sempre il debutto ufficiale di Indigo. Poteva anche non essere niente di sfolgorante come gli esordi di altri famosi eroi, ma non voleva che la sua prima missione finisse con lui ritirato dalla prima linea per una ferita causata da un errore tanto sciocco.

«Non voglio andare in ospedale» mise in chiaro, forzando la voce a uscire più ferma.

«Sta’ zitto, Mukuro» sbottò Phoenix. «Questo lo dirà solo il sensei!»

«Ho detto che sto bene!»

Con uno scatto un po’ goffo si liberò dalla presa di Phoenix e barcollò sui propri piedi, ma anche solo quel piccolo sforzo lo fece sentire di nuovo stanco. Senza pensarci si toccò la pelle risanata dove la tuta era irrimediabilmente aperta. Doveva aver perso davvero tanto sangue da uno squarcio di quelle dimensioni.

Ulteriori battibecchi furono stroncati dall’arrivo in picchiata di Byakuran, che dopo aver dato uno sguardo a Indigo si rivolse al suo vice.

«Indigo è stato attaccato con un Thunderstruck. Facciamoci mandare un’unità d’assalto dal Coordinamento, subito.»

«Un Thunderstruck? Ma che dici?»

Restless, che non era sceso dal furgoncino ma aveva sospeso la sua sorveglianza, a quelle parole alzò di nuovo il fucile e riprese a scandagliare i dintorni. Mukuro non aveva la più pallida idea di che cosa potesse essere quel Thunder-qualcosa, ma dal buco che gli aveva lasciato era propenso a immaginare che fosse una specie di cannone.

«Sono sicuro, Kikyo! Riconosco una ferita da laser freddo quando la vedo!»

La classe S assunse varie sfumature che andavano dall’allerta al terrore, tutti tranne Mukuro.

«Che cosa vuol dire, che diavolo?!»

«Che tu non dovresti stare qui» replicò gelido Phoenix.

«Che nessuno di noi dovrebbe» affermò Love, con lo sguardo diretto al suo fidanzato. «Le armi a laser freddo sono una tecnologia altamente distruttiva. La Irie l’ha elaborata per le armi di supporto ai Civil Heroes, per casi eccezionali… tagliare metalli duri o pietra per liberare persone o passaggi, cose del genere…»

«Mi… hanno colpito con questi laser freddi?»

«In grado di penetrare i materiali più duri del pianeta… e non cauterizzare i tessuti» aggiunse Byakuran, adombrato. «Causa le ferite più mortali che un essere umano sia in grado di infliggere con un’arma… lacera tutto e lascia che l’organismo ripari da sé il danno. Non emette calore, quindi non dà neanche quella parziale cauterizzazione che aiuta a non dissanguarsi.»

«Ma Byaku– Emperor» si corresse nervoso Kikyo, «come hanno avuto delle armi così sofisticate e segrete dei civili?»

«Sempre che siano dei civili…»

Il suo mormorio si perse nei rumori di fondo.

«Aspetteremo le squadre speciali del Coordinamento!» ordinò poi con voce perentoria. «Classe S, il soccorso medico aspetterà qui. Io e Mad Phoenix andremo all’ingresso est e attenderemo. Breaker, Gravity, Sky Flame, all’ingresso di scarico, dove c’è l’unità dei tiratori della polizia. Restless!»

Il ragazzo scese dal tettuccio mentre il resto della squadra si muoveva in fretta e scambiò un’occhiata con Phoenix quando gli passò accanto.

«Voglio credere che non servirà, ma preferisco mettere un cecchino pronto su questo ingresso e sulla cupola. Trova il posto migliore per tenere sotto tiro la più ampia fascia. Mi raccomando, prudenza.»

«Sissignore.»

Restless guardò tutt’intorno e optò per qualche zona sulla sua sinistra. Dopo un momento di esitazione Indigo capì che Byakuran non aveva ordini per lui. Lo vide allontanarsi in volo e, con un senso di sconfitta che rendeva anche più profonda la sua stanchezza, sedette in un angolo.

Thunderstruck…

Abbassò la visiera della sua cuffia computer e fece per toccare i comandi quando vide le strisciate rosse: aveva le mani coperte del suo sangue e ciò lo convinse a togliere subito i guanti, anche se per la verità sembrava uscito da un mattatoio.

Digitò il nome dell’arma e scoprì che il Thunderstruck in particolare aveva tre versioni di compattezza e potenza diverse, ma soprattutto che si trattava di un’arma da tiro. Per questa ragione non era stato in grado di sentire un nemico avvicinarsi: non era successo.

Ma allora…

Luck e Love erano vicine all’ambulanza in attesa e gli davano le spalle. Night Hound parlava con il Coordinamento, preso a diramare l’allerta per il livello di rischio più alto. Sfidando la sensazione di avere il corpo di piombo Mukuro si alzò e corse dietro a Restless.

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Capitolo 15
*** Man of worth ***


Camminava svelto, ma come se non ci fosse nessun pericolo. Portava lo zaino sulla spalla come se stesse solo andando a scuola, ma quando Mukuro raggiunse Restless si trovò la canna nera di una pistola automatica puntata contro il naso.

«Ehi, ehi! Sono io!»

«Sei pazzo ad arrivarmi alle spalle in una missione del genere?»

Contemporaneamente abbassarono l’uno le mani e l’altro l’arma e Mukuro percepì di nuovo quella sfumatura viola, ma quando lo guardò negli occhi avevano il consueto verde tenue. Non sapeva spiegarsi cosa avesse causato quel riflesso.

«Cosa fai qui? Dovresti restartene sull’ambulanza. Hai perso più sangue poco fa di quanto ne abbiamo perso tutti noi della classe S in un anno… prelievi medici inclusi.»

Non aveva bisogno che glielo dicesse qualcuno: si sentiva così fiacco che avrebbe voluto potersene stare sdraiato per giorni, ma il suo orgoglio glielo impediva.

«Il Thunderstruck è un fucile, vero? Un fucile a laser freddo.»

«Sì» replicò Restless, accigliato. «Perché questa domanda?»

«Non ci arrivi? Mi hanno sparato perché ero distante dagli altri! Se ti allontani da solo dal comando potrebbe sparare a te!»

«Non vedo perché. Ti hanno sparato dall’edificio perché credevano ti stessi avvicinando.»

«Non mi hanno sparato dal centro commerciale» scandì Mukuro, irritato. «Il colpo mi è arrivato dalla schiena. Chiunque mi abbia sparato contro mi aveva nel mirino da dietro, quindi un cecchino è fuori dall’edificio e mira su di noi!»

Restless cambiò immediatamente espressione, lo artigliò per un braccio e lo trascinò di corsa in un punto con più oggetti a ostacolare la vista. Con la delicatezza di un rapitore lo spinse per terra dietro un pannello di annunci pubblicitari, per poi accovacciarsi lì accanto e osservare da uno spiraglio.

«Perché non ne hai parlato subito, imbecille?!»

«Perché non mi avete detto che il Thunderstruck fosse un’arma da fuoco!» si giustificò Mukuro, spolverandosi la tuta. «Credevo che qualcuno mi avesse colpito con un potere Auris, o che fosse riuscito ad avvicinarmisi senza che io lo sentissi!»

«Dev’essere vicino… il Thunderstruck è potente, ma non è un’arma per cecchini. È stata studiata per abbattere ostacoli… con un apposito riduttore può colpire a freddo i fili detonatori di una bomba per disinnescarla, o tagliare un vetro senza romperlo, ma non ti avrebbe fatto un buco così grosso.»

Mukuro osservò lo squarcio nella tuta, largo quanto un pancake di Love. E decisamente meno apprezzabile.

«La gittata del Thunderstruck non va oltre i settecento metri… fammi vedere» gli intimò Restless, spazientito. «La schiena, avanti!»

Pur se a rilento gli obbedì e il cecchino della classe S osservò il buco netto del tessuto.

«Per fare un taglio così pulito nel Sound of Silence doveva essere anche più vicino… non è un cecchino, è una sentinella. Si aggirava senza farsi notare per controllare da fuori il perimetro…»

«È una buona notizia o no?»

«Nessuna delle due è una buona notizia, se quello ha un Thunderstruck e io non ho una buona posizione per scovarlo. Togliamoci di qui, andremo in cima al garage per una buona visuale.»

Si alzarono in piedi, ma Mukuro fece appena in tempo a trovare l’indicazione del garage a piani che una strana sagoma informe e un piccolo bagliore azzurrino comparvero accanto all’ingresso del parcheggio sotterraneo. Sentì Restless gridare un avvertimento mentre lo spintonava con forza di lato e solo questo gli evitò di venire colpito da un fascio di effimera luce celeste.

Si trovò faccia a terra, udì un sibilo quasi concomitante all’imprecazione di Restless. Alzò gli occhi e vide un uomo che sembrava una mummia così avvolto in bendaggi neri, che scaricava il calcio di un fucile sopra l’orecchio del suo compagno di squadra. Questi cadde a peso morto, già privo di sensi.

«Restless!»

Ma per quanto rapido avesse cercato di reagire si trovò per la seconda volta in pochi minuti la canna di un’arma da fuoco puntata alla faccia. Restò immobile com’era, carponi sull’asfalto, fissando prima un fucile nero con un meccanismo giallo fluorescente che concentrava il laser freddo e poi un paio di occhi neri incastonati in un volto inciso di sadico entusiasmo.

Forse per un comando dato per sbaglio nella concitazione, forse per impostazione predefinita, il computer nelle sue cuffie lanciò una ricerca facciale.

«Guarda guarda chi c’è qui… Restless Storm» scandì a voce decisamente alta. «E tu… tu sei Indigo, il pupillo del traditore…»

«Traditore? Di che parli?»

«Wing Emperor» ringhiò con rabbia. «Quel venduto, traditore della sua razza!»

«Di quale razza?! Wing Emperor è il paladino dei diritti degli Auris!»

«Ammaestrato per bene, il suo piccolo cane!»

Il computer gli restituì dei risultati della sua ricerca sul visore: lo sconosciuto era un criminale Auris recidivo, un Ribelle conosciuto come Pitch Label. Condannato per qualche aggressione e un tentativo di rapina, era appena uscito dopo quattro anni di carcere speciale.

È un tipo rognoso…

Voleva leggerne meglio la scheda, ma muovere le mani in quel momento poteva essere l’ultimo atto della sua vita.

«Wing Emperor si è venduto al governo, stupido moccioso. E continua a vendergli altri Auris, insegnandogli che per essere liberi devono morire per i Plumbei.»

«I…?»

«I Plumbei, ragazzo, i Plumbei! Gente senza oro, ci arrivi? Gente non come noi!»

Da quando era entrato nel mondo dei Civil Heroes non aveva mai sentito nessuno chiamare Plumbei le persone che non portavano il gene Oro, tuttavia il riferimento alla trasmutazione alchemica gli era chiaro.

«Non lo farebbe mai» replicò in tono duro. «Wing Emperor è una persona buona, non sarebbe capace di vendere nessuno, Auris o no!»

«Lo sta facendo anche ora, con voi stupidi agnellini!»

«Ha sacrificato tutta la sua vita per difendere i deboli! Tu non sai di che diavolo stai parlando!»

Non è una buona idea provocare un uomo armato, non è affatto una buona idea, Mukuro!

Una flebile vocina continuava a dirglielo, ma non riusciva a trattenersi: il ricordo delle sue limitazioni autoimposte, i colori che non voleva mostrare, le passioni che teneva segrete e la pila della sua arte e della sua giovinezza sotto forma di anonime scatole di cartone abbandonate gli martellavano nella testa come bacchette su una batteria durante un concerto rock. Non credeva che potesse esistere un pensiero assordante, eppure eccone uno.

«Se la pensi così allora puoi tirare le cuoia adesso, Indigo, e maledire il tuo maestro egoista dall’aldilà!»

Ebbe un sussulto e alzò la mano in una vana difesa quando lo sconosciuto contrasse il dito sul grilletto, ma si fermò. Con una smorfia di disappunto mosse leggermente la testa verso sinistra, poi abbassò l’arma.

«Sì, ricevuto.»

Le bende nere intorno al suo corpo presero vita strisciando come serpenti e si lanciarono dal suo braccio su Mukuro, che nonostante un tentativo di resistenza ne venne avviluppato. Si trovò incapace di muovere le braccia e imbavagliato, e mugugnò ferocemente un’incomprensibile minaccia quando l’uomo si fece avanti. Quello rise e afferrò la benda dietro il suo collo per trascinarlo di peso lontano da un Restless ancora privo di conoscenza.

«È il tuo giorno fortunato, Indigo. Il capo ti vuole vivo… dopotutto i pesci più grossi si prendono con esche vive, lo sanno tutti!»

 

*

 

Un vecchio ingresso di scarico merci nel sotterraneo era una via libera per entrare e uscire dal complesso, sorvegliato da due uomini che accolsero il ritorno di Pitch Label con una risata di scherno diretta al suo “leprotto legato”. Mukuro fissò tutti, puntando i piedi dove e come poteva per dare tempo al suo visore di scansionare i punti essenziali della loro fisionomia, e prima di ricevere una ginocchiata lancinante in mezzo alle scapole riuscì a ottenere i nomi dei due e di un altro cecchino: erano tutti pregiudicati rilasciati da poco, con una fedina di crimini di furto e aggressione.

La fortuna girò quando Label mollò il suo prigioniero a un tizio due volte più largo di spalle di chiunque Mukuro avesse mai visto, che lo tirò su con un braccio solo e lo portò nella hall dell’ingresso sud come un chihuahua in una borsetta: per quanto umiliante in quel cambio il carceriere sfiorò il padiglione delle cuffie mentre lo afferrava e gli permise di leggere un altro po’ della scheda di Label e trovare una via d’uscita. A testa in giù guardò la sala e individuò proprio quello che sperava.

Diede all’improvviso un brusco colpo di reni, si agitò come un’anguilla in un cesto, abbastanza da sfuggire alla presa non abbastanza salda dell’energumeno. Cadde con dolore sul muretto e rotolò sul fianco finendo nell’acqua della fontana decorativa accanto alla quale il gigante stava passando.

Mi serve tempo… mi serve un po’ di tempo!

Nonostante la sua resistenza venne ripescato dallo stesso uomo, che lo sbeffeggiò con epiteti in un dialetto così stretto che Mukuro capì di essere stato insultato soltanto dal suo tono di voce, e venne scaricato per terra qualche metro più in là.

Il visore cerchiò i volti di almeno una dozzina di donne e una bambina, accucciate insieme vicino a una parete e terrorizzate come gattini braccati da un feroce cane da caccia. Erano gli ostaggi, o parte di quelli, e Mukuro si vergognò di un arrivo tanto scoraggiante: legato come un arrosto di carne non avrebbe certo suscitato in loro la speranza che quell’eroe le avrebbe aiutate.

«Bene, bene… Indigo

Mukuro si girò e riuscì a mettersi seduto per guardare l’uomo che lo aveva chiamato. Era un tipo basso, magro e sgradevole, con una barbetta lucida e una brutta cicatrice vicino a un occhio. Questi fece un ghigno mostrandogli parecchi denti in titanio, tutti dallo stesso lato della cicatrice. Il riconoscimento colse tutti questi elementi ed altri per avviare la sua ricerca.

«Il bambino prodigio… il nuovo» puntualizzò con una smorfia di disprezzo. «Vedo che ti hanno rattoppato subito. È stato doloroso?»

Mukuro non fece neanche un cenno e continuò a fissarlo. Se sperava che implorasse – o ci provasse – per non essere colpito di nuovo si stava illudendo. Pur di prendere tempo era disposto ad aggrapparsi persino alla tortura.

«Ah, scusami…»

L’uomo si avvicinò e con delle unghie lunghe come artigli di tigre incise le bende nere di Pitch Label liberandogli la bocca, poi gli afferrò il mento con forza. La punta di quegli aberranti spilloni gli affondò appena sotto la pelle sulle gote.

«Dicevi? È stato doloroso? Ti sei accorto che stavi per morire?»

Mukuro tacque ancora, poi il visore gli restituì la scheda del suo avversario. Si trattava di un criminale chiamato Hell Cat, molto violento. Poteva intravedere accuse di aggressione, stupro, rapina, furto aggravato, e la lista proseguiva in altre pagine che non poteva scorrere…

«Avanti» disse allora.

«Non ti illudi che finisca presto, vero?»

Ma Mukuro aveva solo dato un comando vocale per continuare a vedere le informazioni, anche se era complicato leggere lo schermo fingendo di concentrarsi solo sulla faccia del criminale. Quello che riuscì a leggere dopo le accuse, riguardo le circostanze del suo arresto, lo fecero sbiancare. Pensava di essere un’esca per Byakuran, ma si era sbagliato di grosso.

Hell Cat passò un’unghia sul lato del suo collo, lasciandovi un graffio sanguinante fine come quello provocato dai bordi di un foglio di carta, prima di alzare il visore per fissarlo negli occhi.

«Mi avete colpito apposta» fece, abbagliato dal piano che aveva finalmente intuito. «Non è perché mi ero allontanato… stavate puntando a me perché così sareste stati sicuri che Mad Phoenix avrebbe fatto da ariete quando i Civil Heroes fossero entrati.»

Hell Cat era colpito, ma anche eccitato dal fatto che qualcuno avesse colto l’acume di quella strategia.

«Sei un moccioso sveglio, eh? Sì, tu eri d’impiccio… ma per fortuna non sei ancora morto… così posso usarti per far perdere le staffe al tuo maestro e convincerlo a piombare qui dentro con l’altro moccioso!»

Hell Cat gli afferrò i capelli bagnati e lo strattonò mentre guardava intorno a sé alla ricerca di qualcosa, borbottando. Mukuro non emise un fiato e guardò le donne, pensando che in realtà se avesse voluto fare pressione su Wing Emperor sarebbe stato più sensato puntare la bambina. Ovviamente non lo sfiorò neanche di striscio l’idea di farglielo notare.

Fu nel cercare con gli occhi la bambina che notò qualcosa che non si aspettava nel gruppetto di ostaggi: tra commesse e cameriere in uniforme e qualche donna più matura c’era una ragazza che conosceva bene. Era la ragazza della classe A che aveva conosciuto il giorno di Higashiki e che continuava a incontrare di tanto in tanto, Chrome Doll.

Si è infiltrata… era lei che ho visto muoversi nel parcheggio?

Il suo potere di disgregare il proprio corpo coscientemente era fenomenale, ma provvisto di un imbarazzante effetto collaterale: non essendo i suoi vestiti parte del suo organismo quando disgregava il corpo li perdeva ed era costretta a recuperarli quando si ricompattava. Quello straccio scuro che aveva visto – ora ne era sicuro – era la tuta che si trascinava dietro. In quel momento indossava un abito civile nero, ma l’assenza delle scarpe e di una borsa lasciavano capire che non era stata presa mentre faceva compere.

Vuole Mad Phoenix! Non deve entrare!

Fece del suo meglio per sillabarlo senza voce mentre fissava i suoi occhi viola scuro, e con suo sollievo lei capì e annuì appena. La vide muoversi con molta prudenza mentre Hell Cat fissava il lucernario.

«Se ti mettessi lassù sull’asta della bandiera con un cappio al collo là fuori si sbrigherebbero a venire a salvarti… è un po’ complicato…» e tese un ghigno raccapricciante, «ma è il mio gioco preferito con gli uomini… quanto resisterai in equilibrio lì sopra, eh, Indigo?»

Afferrò le bende dietro la sua schiena per trascinarlo via quando un oggetto colpì Hell Cat vicino alla tempia. Mukuro guardò la scarpa decolleté blu cadere a terra e poi il gruppo di ostaggi, e il cuore gli sprofondò nelle viscere. Chrome Doll non era la sola ragazza che conosceva tra quelle: sua sorella Kazue era lì, in un completo blu che aveva confuso in mezzo alle giacche in tinta delle cameriere, con la scarpa superstite in mano.

«Prenditela con qualcuno della tua età, bastardo!»

A ogni secondo quell’incubo sembrava peggiorare, come i vagoni delle montagne russe che si lanciavano in discesa libera uno dietro l’altro. Ma per quanto desiderasse negarlo lei era proprio lì, chissà per quale beffardo scherzo della sorte.

Hell Cat mollò Mukuro senza riguardi – il visore scivolò storto davanti agli occhi nell’urto – e puntò la ragazza, per buona misura tagliò di netto la scarpa che gli lanciò con i suoi artigli e la prese per i capelli. Kazue, tutt’altro che dimessa, si agitava e tirava schiaffi come una furia, urlando insulti.

«Falla finita, puttana!»

«Kazue!»

Il braccio ossuto di Hell Cat le passò intorno alla gola strozzando il nome del suo fratellino prima che le salisse alle labbra e i suoi occhi castani lo cercarono con un’espressione che Mukuro non aveva mai visto in quella ragazza così forte: la paura. L’unghia dell’indice del Ribelle fece saltare un bottone della camicetta, poi un altro.

«Hell Cat!» urlò Mukuro, incespicando per sollevarsi anche così avviluppato. «Non osare… non la toccare!»

Purtroppo la reazione dell’eroe fomentò il sadismo di quell’uomo, che fece saltare tutti i bottoni con uno strattone. Il visore lampeggiava ancora sulla scheda di Hell Cat e Mukuro non riusciva a dominare il panico mentre la parola stupro si sovrapponeva al reggiseno bianco di sua sorella.

«Ti ammazzo, Hell Cat! Se vuoi uscire di qui respirando lasciala ora!»

«La conosci, vero? Vi conoscete, voi due» osservò Hell Cat con un ghigno. «Allora la stupro adesso, e dopo ti appendo là di sopra.»

Il mondo al di fuori di quella sala era come scomparso. Per Mukuro non c’era cavalleria sulla strada, non c’erano soccorsi da attendere, e l’unica cosa che riusciva a pensare era liberarsi da quelle dannate bende nere e staccare da Hell Cat tutto quello che sporgeva prima che riuscisse a toccare Kazue. E sotto la mareggiata di furia che aveva in corpo, sentì che le bende si stavano irrigidendo. L’acqua stava facendo il suo lavoro, ma troppo lentamente.

Kazue lanciò uno strillo quando un artiglio le lasciò un graffio sul seno. Mukuro tacque, a denti stretti, tirando le bende come un bestia indemoniata e sentì un leggero strappo. Poi una voce femminile si alzò dal gruppo.

«Prendi me!»

Tre paia di occhi si fissarono su Chrome Doll, che si era alzata e fissava Hell Cat con un’aria spaventata che Mukuro non le aveva visto neanche nel mezzo del flagello di Higashiki. Aveva qualcosa in mente ma non capiva che cosa.

«Perché no? Ma aspetta il tuo turno, ragazzina.»

«Sono la sua fidanzata!» insistette, senza uno sguardo verso Mukuro. «Sono… una studentessa della scuola, come Indigo… sono una Civil Heroine. Se vuoi qualcuno per… ferirlo, allora prendi me!»

Hell Cat guardò verso Mukuro come se cercasse una conferma o una smentita, e con l’aiuto del riconoscimento facciale poteva dare man forte alle mosse di Chrome Doll… anche se fossero servite a prendere un altro minuto e non di più.

«Nagi, no!»

Lei fece un sorriso accennato, tremante.

«Mi dispiace, Mukuro.»

Hell Cat si convinse ad abboccare alla sua proposta, perciò spinse per terra Kazue e prese Nagi Dokuro – questo il nome che il suo visore associava al viso di Chrome Doll – per un braccio, così sottile da aver paura che glielo rompesse con quelle maniere violente. Le si incollò alla bocca baciandola in un modo così ripugnante che dentro Mukuro parve ribollire persino il sangue e qualcosa di strano successe subito dopo: le bende si staccarono dal suo corpo come se qualcuno le avesse tirate da più punti e andarono in pezzi a causa dell’acqua che ne aveva ridotta l’elasticità, come un vecchio copertone.

Era libero ed Hell Cat si accorse immediatamente del pericolo incombente. Si fece scudo con Nagi e le puntò le unghie al collo.

«Non un passo, Indigo, o la tua fidanzatina muore davanti a te!»

Mukuro alzò la visiera, ma anziché fissare gli occhi neri di Hell Cat guardò fisso Nagi.

«Ti do due secondi.»

Impercettibilmente lei fece un segno di assenso con il capo. Per non essere mai stati in squadra insieme riuscivano a comprendersi al volo. Mukuro spostò gli occhi sul Ribelle.

«Due secondi per lasciarla e metterti faccia a terra. Se non lo farai non garantisco per la tua miserabile vita.»

«Hai tu due secondi per–»

Il corpo di Chrome Doll assunse una sfumatura cromata come fosse fatta di metallo e in quell’istante fu finalmente chiaro il segreto dietro il suo nome in codice. Il vestito scivolò ai piedi di un Hell Cat attonito che comprese cosa stava per accadere e i suoi tratti divennero una maschera di terrore.

Era tutto lì, in fondo. Il suo potere non era altro che questo, una forza smisurata, la forza sufficiente per abbattere una minaccia in soli due secondi. Se non adesso, quando avrebbe dovuto usare questo presunto dono? Se non contro un simile individuo, contro chi?

Mukuro fletté le ginocchia e scattò. Non aveva mai provato a farlo con tanto slancio per paura di non controllare il colpo, ma ora non gli importava; non con la paura di sua sorella Kazue impressa nelle pupille come il bagliore del sole.

Il risultato fu un frastuono assordante che squarciò l'aria e mandò in frantumi le vetrine più vicine, nello stesso secondo in cui Indigo passava il braccio attraverso il corpo intangibile di Chrome per abbattere Hell Cat con un lariat agganciato sotto il mento. Il suo verso strozzato si perse nel boato dell’aria che Mukuro aveva creato nel movimento e il corpo volò contro la colonna di fronte prima di accasciarsi sul pavimento di marmo come un marionetta con i fili tagliati.

Stordito, Mukuro si tastò il braccio dolorante, ma risolse che era ancora intatto. Non poteva essere così sicuro che lo stesso valesse per Hell Cat, dato il sangue sulla parete che aveva colpito. Guardò verso il gruppo di donne che stavano rialzando la testa dopo la pioggia di vetro che aveva provocato, ma parevano tutte illese anche se frastornate quanto lui. Nagi, con il corpo nudo, aveva protetto la testa di Kazue che tremava come un gattino bagnato.

Uno scalpiccio di passi pesanti rimbombò dal corridoio vuoto e i due uomini a guardia del vecchio punto di scarico irruppero nella sala armi in pugno, ma la vista del loro capo stramazzato a terra come un sacco vuoto e delle vetrine esplose li fece esitare. Mukuro era troppo distante per pensare di riuscire a colpirli prima che sparassero a lui o alle donne presenti e istintivamente avanzò di qualche passo, sollevò le braccia stringendo i pugni ed emise un grido forte e rauco. Quella specie di ringhio prosciugò le sue scarse energie residue, ma forse per un effetto psicologico o perché lo credevano davvero più veloce dei loro proiettili i due uomini reagirono gettando a terra le armi e inginocchiandosi.

Prima che potessero accorgersi che Mukuro non aveva abbastanza forze per combattere ancora e ci ripensassero il ragazzo li raggiunse, li perquisì sottraendogli caricatori di munizioni e un coltello da caccia e legò le braccia dietro la schiena usando le loro cinture. Infilò il coltello con il suo fodero nello stivale e ficcò armi e caricatori in un sacco preso in un lampo d’ispirazione dal bidone per la spazzatura più vicino.

«Indigo!»

Si avvicinò al gruppo e a Nagi, che lo aveva appena chiamato. Aveva rimesso il vestito nero.

«Portiamole fuori. Ho appena avvisato che usciremo da questo ingresso.»

«Io… sì» sospirò esausto lui.

«Il sensei e la polizia si occuperanno del resto. Portiamole al sicuro.»

«Sì…»

Nagi si avvicinò agli ostaggi per dire loro cosa fare con voce alta e chiara. Avrebbe dovuto farlo lui, ma era esausto e frastornato dal rapido succedersi degli eventi, faticava anche solo a riordinare le idee sul da farsi. Così stanco che quando Kazue piombò su di lui abbracciandolo barcollò e si tenne in piedi a stento. Come intontito sollevò lentamente le braccia per stringere la schiena di sua sorella maggiore che singhiozzava. Non la ricordava così bassa.

«Kazue-neesan…»

«Mu-Mukuro! Mukuro!»

Le accarezzò i capelli che avevano lo stesso odore di sempre, il profumo di miele di un balsamo lucidante che usava da anni. Era così bizzarro consolare la sorella maggiore, quella più grande, più forte e più risoluta di tutte.

«Va tutto bene, onee-san… ti porto via da qui. È tutto a posto.»

Alla giovane donna servì un po’ di tempo per riprendersi, asciugarsi gli occhi e ricomporsi. Mukuro mosse un passo verso la porta e fece scricchiolare i vetri; il pavimento era completamente ricoperto di schegge lucide come diamanti. Prese in braccio Kazue, imponendosi di non cedere alla spossatezza finché non fosse stata in mano al soccorso medico.

«Il pavimento è pieno di vetri e non hai le scarpe… ti porto io fuori, onee-san.»

Con un sospiro tremante e un pallido sorriso lei abbandonò la testa sulla sua spalla e si tenne la giacca chiusa con entrambe le mani.

«Sei diventato un uomo di valore, Mukuro…»

«Se lo dici tu dev’essere vero» accondiscese lui in tono morbido. «Ma cosa ci facevi tu qui a Mizura?»

«Un… colloquio di lavoro… aspettavo in quel caffè che si facesse l’orario dell’appuntamento» spiegò lei, con la voce ancora arrochita. «Avevo comprato le scarpe nuove apposta per fare buona impressione…»

Mukuro sorrise. Ora che il pericolo era passato e un refolo di aria esterna li aveva accarezzati il ricordo di Kazue che lanciava la sua scarpa contro un pericoloso criminale era quasi buffa.

«Ti regalerò io un paio di scarpe nuove… per il tuo stupidissimo atto di coraggio.»

Mentre scendeva le scale degli agenti armati e bardati con elmetti e giubbotti antiproiettile sfrecciarono loro accanto per fare irruzione, e una figura ammantata di bianco passò sopra di loro. Vennero accolti da altri agenti e una donna di mezz’età con la fascia della croce viola del Soccorso Medico degli Auris gli si avvicinò immediatamente.

«È ferita?»

«Superficialmente» replicò Mukuro, «ma prendetevene cura subito, per favore. È mia sorella.»

«Certo, Indigo-san… può camminare?»

«Sì» fece Kazue, con un concreto sollievo nella voce. «Sono ferita sul petto…»

Mukuro la mise giù a pochi metri dall’ambulanza, e subito dopo un lampo di colore rosso quasi lo abbatté. Ora che l’adrenalina era scesa si sentiva uno straccio e quasi desiderò addormentarsi nell’abbraccio di Phoenix, ma durò troppo poco perché potesse anche solo chiudere gli occhi.

«Meno male che stai bene! Cos’è stato quel boato? Sei ferito?»

«No… no, è il sangue della ferita di prima.»

«Sei ferito in faccia!»

Si toccò il viso, ma non sentì niente con i guanti. Poi ricordò le disgustose unghie di Hell Cat e fece un accenno di smorfia.

«Non è niente. Hell Cat mi ha toccato con quelle sue schifose unghie.»

«Hell Cat?» sillabò Phoenix, sbiancando. «Là dentro c’è Hell Cat?»

«Quel che ne rimane… per fortuna io e Chrome Doll siamo riusciti a sistemarlo prima che arrivassi. Voleva attirarti dentro per vendicarsi dell’arresto, o almeno credo.»

Il volto di Phoenix passò dallo shock al disprezzo e lanciò un’occhiata verso la porta.

«Schifosa canaglia! Questa volta l’ha fatta grossa, non se la caverà con pochi anni di galera.»

Probabilmente gli costerà molto di più.

Ma non ebbe il coraggio di anticipargli la morte – o almeno, le gravi condizioni cliniche – di quel Ribelle che aveva già arrestato una volta. Si lasciò condurre da Kyoya al punto di ritrovo, che era dove avevano lasciato Night Hound e il negoziatore della polizia, e venne assalito da due ragazze dai vestiti uguali in giallo e rosa. Le due Wish gli strillarono frasi diverse nelle orecchie strizzandolo a destra e sinistra, sul torace e al collo, come bambine che si litigano una bambola.

«Sto bene… su, sto bene, perché piangete?»

«Potevi morire!» sbottò Luck, con un’espressione buffa tra la rabbia e il pianto.

«Perché devi essere sempre così avventato, Indigo?!» rincarò Love, prendendogli a pugni il petto. «Dovevi restare qui con noi! Al sicuro!»

«Sì, sì, mi dispiace» replicò lui, cercando di non ridere. «Prometto che non capiterà più… ma stammi lontana, Love, prima che Restless mi veda e mi freddi con una fucilata.»

«Non può, è via» disse lei mesta. «Ha preso un colpo alla testa e il sensei lo ha mandato in ospedale per fare un esame di controllo… ma era cosciente quando sono partiti. Ci ha detto che eri con lui, era molto preoccupato.»

«Restless preoccupato per me? Questa sì che è fantascienza, ragazze.»

Riecheggiarono dei colpi da qualche parte dentro l’edificio e i ragazzi fissarono l’ingresso. Mukuro si sentì la schiena come fatta in fibre d’acciaio per la tensione che schizzava alle stelle, poi una comunicazione al centro operativo iniziò con un disturbo di segnale.

«Night Hound, mi ricevi?»

«Che cos’è successo, Emperor?»

«Resistenza, ma è risolta. Ho un ferito grave tra i Ribelli, gli ostaggi rimasti sono illesi» annunciò la voce familiare resa gracchiante dalla radio. «Portiamo i Ribelli fuori dal tuo ingresso.»

«D’accordo, Emperor, siamo pronti.»

Night Hound si lasciò andare a un sorriso quando il poliziotto annunciò la riuscita della missione alla squadra e le ragazze esultarono abbracciandosi. Phoenix gli mise una mano sulla spalla.

«Uno splendido debutto ufficiale, Indigo… vieni, ci sono un po’ di giornalisti laggiù» gli fece con una strizzatina d’occhio. «Non devi riferire dettagli di quanto è successo prima di stendere il rapporto, ma potrai fare qualche dichiarazione di carattere generale, no?»

«Che ne dici di “scusatemi, signori, ma sono stanco morto e impresentabile”?»

«Solo due paroline e leviamo le tende» gli assicurò Phoenix. «Ci mettiamo in borghese e andiamo a mangiare indiano, ti va?»

«Pad thai?»

«Quello è thailandese, ma se ti va andiamo lì! Offre Mad Horse!»

Videro uscire i poliziotti scortando sette Ribelli legati, tra i quali i due che aveva immobilizzato e Pitch Label. Una pioggia di flash superò il cordone di sicurezza degli agenti della polizia metropolitana e Mukuro scrollò le spalle.

«Credo saranno più interessati a quelli che a me… che ne dici se ce ne andiamo adesso?»

«Andiamo a chiedere al sensei se devi rilasciare la tua testimonianza ora o domani al comando di polizia.»

Si avviarono verso il furgone per il trasporto speciale – un mezzo blindato per criminali Auris – e nel mentre Mukuro fece qualche sorriso e qualche cenno di saluto ai molti giornalisti che gli gridavano domande. Era così stanco che desiderava solo sedersi e mangiare fino a scoppiare, e poi si sarebbe messo in contatto con l’ospedale per sapere come stava Kazue.

Girò la testa per guardare verso l’ambulanza e a distanza la vide, seduta su una seggiola pieghevole. Non era ferita gravemente ma temeva che avesse ripercussioni per il trauma, come avevano studiato a scuola nel corso di psicologia di base.

«Possiamo andare, Mukuro!» fece Phoenix tornando verso di lui. «Domani andremo alla centrale di polizia, e possiamo–»

Il sorriso gli si congelò sulla faccia, il corpo ebbe uno spasmo incontrollato e crollò come fosse fatto di gelatina. Un poliziotto che sorvegliava il cordone era più vicino di Mukuro ed ebbe la prontezza di sorreggerlo, ma il ragazzo poté vedere lo stesso degli spilloni simili a spine legnose piantate nella sua schiena.

Nella testa di Mukuro prese a martellare un suono che identificò come una risata. Voltò la testa e scoprì che a colpire Phoenix con quegli aculei era stato uno dei due criminali che si erano arresi nell’area della fontana e che questi rideva sguaiatamente.

«È quello che meriti, Mad Phoenix! I bambini dovrebbero stare a casa a poppare il latte, moccioso di merda!»

Lo scatto di Mukuro non replicò l’impressionante tuono di prima a causa di un corpo più stanco e una posa più scomposta, ma piombò come un falco sul Ribelle scaricando un calcio denso di un primitivo desiderio di vendetta sul suo torace. L’uomo venne sbalzato indietro e rotolò per metri, ma quando si fermò e tossì in cerca di aria Mukuro si era già avventato su di lui per stringergli il collo. Quando aprì la bocca per respirare o supplicare il ragazzo riuscì a vedere una spina spezzata sotto la sua lingua e per buona misura gli scaricò un cazzotto in piena mandibola. Neanche lontanamente soddisfatto alzò il pugno per caricare un colpo molto più pesante.

«Indigo, no!»

Si sentì agguantare il braccio e strattonare indietro. Solo allora il ronzio nelle sue orecchie svanì; si ricollegò al brusio delle persone, al proprio corpo… e si rese conto di cosa stesse facendo.

«Fila via di qui, sparisci» gli intimò Byakuran autoritario. «Ora!»

Lo lasciò lì dov’era e andò a prestare soccorso all’uomo; anche se Mukuro fu tentato di urlargli di non farlo qualcosa lo trattenne quando aveva quelle parole già in gola. Confuso e combattuto tra due nature contrastanti si rialzò alla ricerca di Phoenix, ma poi Luck corse da lui e lo prese per il braccio.

«Sbrigati, Indigo-kun!»

Con le gambe di piombo ma l’ansia crescente che le muoveva come in un basilare meccanismo a vapore corse via con lei ancora una volta; insieme raggiunsero l’ambulanza con a bordo un ragazzo con la tuta rossa.

«Dobbiamo salire, siamo del soccorso medico!»

Il guaritore con la fascia crocesignata sul braccio li guardò perplesso, ma poi gli fece segno di sbrigarsi. Mukuro seguì Kyoko e sedette accanto a lei mentre da fuori chiudevano il portellone e la sirena si accendeva insieme al motore.

 

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Capitolo 16
*** Out of the ashes ***


Di ritorno dalla biblioteca dell’Accademia Mukuro teneva il naso dentro un libro aperto, in parte per scorrerne l’indice trovando le parti interessanti e in parte per evitare di farsi notare dagli altri studenti. Qualcuno non gli badò affatto, mentre altri furono attirati dalla sua cravatta nera a righe dorate e lo seguirono con gli occhi come si osserva uno strano animale che attraversa la strada.

Sentendo una ragazza citare un magazine che negli ultimi giorni aveva venduto solo spalmando le vergogne di Indigo in copertina abbassò il libro e le scoccò un’occhiataccia. La ragazza era molto graziosa, bionda, con addosso l’uniforme nera e il fiocco rosso della classe B, ma non la conosceva e non era l’occasione per rimediare, perché prese sottobraccio la sua compagna di classe e se la diedero a gambe come se Indigo fosse noto per pestare chiunque lo infastidisse.

Irritato tornò a sfogliare il libro mentre camminava e tagliò per la strada più bilanciata tra il breve e il poco affollato, purtroppo ciò lo portò proprio tra le fauci di un predatore che non desiderava incrociare: Viperlance era seduto su una panchina a lato di un campo di allenamento vuoto, con addosso il suo costume che gli dava l’aria di un mezzo rettile verde metallizzato, e fissò gli occhi su di lui non appena girò l’angolo.

«Indigo.»

«Viperlance» replicò lui, intimandogli col tono di non andare oltre a un ostile saluto.

Fece qualche passo senza che l’Auris gli dicesse niente e sperò di passare indenne, ma era un illuso.

«Hai saputo qualcosa dalla commissione disciplinare?»

Sospirando senza far rumore Mukuro si fermò, ma non si voltò. Non aveva voglia di discutere di qualsiasi cosa con lui, tanto meno della sua udienza.

«Il mio caso è all’ordine del giorno. Dovrei avere notizie entro sera, penso.»

«Bene» fece lui con insolita allegria. «Hai già pensato a cosa farai dopo?»

«In che senso?»

«Non potrai più fare il Civil Hero con la strada spianata se ti ritirano la licenza adesso. Dovrai fare tutti gli esami attitudinali ed entrare nel Coordinamento per la via più dura… non dirmi che pensi di riuscirci.»

L’espressione di Mukuro si indurì appena.

«Quello che io penso o non penso di riuscire a fare non è affare tuo, Viperlance. E ora che ci penso, neanche che cosa la commissione decide è qualcosa che ti riguarda.»

Sfoderò il più perfido sorrisetto che riuscisse prima di guardarlo.

«Tu non sei nella mia squadra… e non prenderai certo il mio posto se io me ne vado.»

Avvertì nettamente l’impennata della sua rabbia, ma la dissimulò più rapido che mai.

«Per fortuna no… non so se riuscirei a restare vivo in quella squadra, con delle guaritrici che non sanno curare niente, un cecchino che si fa stendere prima di appostarsi e un leader che si fa colpire alle spalle in modo così idiota.»

Aveva affondato un colpo mortale e lo sapeva: tese un ghigno malvagio mentre Mukuro strinse le dita sul libro tentando di dominare i suoi impulsi, non molto diversi da quelli che aveva avuto verso l’uomo sputaspine. Thornemion – questo il suo nome – era quasi come nuovo dopo l’intervento di Wing Emperor, ma non aveva esitato a sporgere una denuncia per essere stato quasi ucciso da uno studente e Mukuro era convinto che fosse l’ultimo tentativo di vendicarsi infliggendo un altro tipo di dolore a Mad Phoenix.

«Ti avverto, Viperlance, un’altra parola su Phoenix e io…»

«Tu che cosa, uh? Mi sbricioli contro il muro, come hai fatto con Hell Cat?»

Uno spillone immaginario gli si ficcò nella parte del petto che aveva imparato ad associare al senso di colpa.

«Falla finita, ti ho avvertito per la seconda volta.»

Devo allontanarmi da lui prima che combini qualcosa…

Ma i piedi erano incollati alle pietre della strada pedonale, non si muovevano.

«Che cosa dice il tuo mentore, Indigo?» vede lui, un tono insinuante come un serpente che striscia sulla pelle, subdolo. «Approva che tu uccida i Ribelli? È la nuova politica degli Auris, dispensare la pena capitale sul posto, senza processo?»

«Non ho ucciso Hell Cat» ripeté Mukuro, come aveva fatto all’udienza e con la medesima sensazione di stare mentendo. «Minacciava degli ostaggi indifesi. Le sue unghie erano un’arma letale quanto una pistola carica. Ho dovuto prendere una decisione in favore della vita dei civili coinvolti.»

«Che bravo, ricordi ancora la parte dopo una settimana!»

«Non ti chiedo di capire, Viperlance. Dopotutto sei un egoista assetato di gloria» ringhiò, facendo un passo risoluto più vicino a lui. «Il motivo per cui mi detesti è che avresti voluto essere tu lì ad ammazzarlo per finire sulla copertina delle riviste e sui giornali. Non ti importa niente delle donne che erano lì, né se sia etico uccidere o no. Volevi fare una bella figura per i media e davanti a Nagi.»

A quell’ultima parola Viperlance lasciò cadere la maschera, contorcendo i suoi lineamenti con la furia cieca e stringendo le dita sulla gola di Mukuro. Senza muovere un muscolo lo fissò negli occhi senza sbattere le palpebre.

«Non ti uccido perché non potrei prendere il tuo posto nella classe S togliendoti di mezzo» sussurrò in un rantolo rabbioso, «ma nel caso… nello sfortunato caso tu decida di avvicinarti a quella ragazza il discorso cambia.»

Mukuro non replicò e non spezzò il contatto visivo, e Viperlance accennò un sorriso che restò separato dalla fredda collera dei suoi occhi.

«Ti piace quel bamboccio di Mad Kitten, no? Lui te lo puoi prendere. Vi faccio molti auguri.»

Viperlance lasciò la presa sul suo collo e gli batté con finta tenerezza la guancia. Mukuro prese un profondo respiro, ma non riuscì a dominare la furia. Afferrò il collo del classe A dietro la nuca, torse il suo braccio dietro la schiena e lo sbatté per terra così rapidamente che toccò la pietra nello stesso momento del libro che aveva lasciato cadere. Viperlance si dimenò e imprecò, senza risultato.

«Io frequento chi mi pare, tronfio figlio di puttana che non sei altro» fece Mukuro alzando la voce per sovrastare minacce e insulti di lui. «E prima che ti vengano in mente tiri mancini che potresti pensare di tirarmi contro, ti dico una cosa ed è meglio se ascolti attentamente.»

Si chinò, affondando il ginocchio nella sua schiena per il semplice desiderio di fargli male, e si accostò al suo orecchio.

«Se muoio avvelenato tutti sapranno chi l’ha fatto… ma se ti apro la testa al campo greco e ti lascio lì, chi lo dice che non te la sei spaccata da solo contro una colonna?»

Mollò la presa avendo cura di fargli urtare la faccia contro la pietra un’altra volta e si alzò, recuperò con calma il suo libro e si aggiustò il colletto della camicia e la cravatta.

«Se ti sento di nuovo criticare uno qualsiasi di noi classe S, il campo greco sarà la tua tomba.»

Così detto, Mukuro tornò sui suoi passi per il dormitorio, iniziando a leggere la prefazione del libro che aveva preso in prestito.

 

*

 

La stanza del dormitorio chiamata pomposamente “sala di lettura” era incuneata sotto le scale tra la dispensa e la lavanderia, era occupata da due tavoli accostati circondati da una dozzina di sedie e illuminati da molte lampade; ma questione più importante per Mukuro era che la sua finestra dava su un’area ad accesso limitato. Nessuno poteva passare da lì e occhieggiarlo come succedeva a mensa, quindi l’aveva eletta come suo regno durante quella settimana passandovi quasi tutto il suo tempo studiando, ascoltando musica, e soprattutto leggendo.

Mukuro infilò le cuffie con le canzoni dei suoi idol preferiti – tra i quali si infiltrava anche la voce di Subaru con i pezzi degli Echorings – e aprì il libro. Anche questo parlava dello stesso argomento dei molti altri della settimana: la rivelazione dei poteri degli Auris e quelli che venivano chiamati Auris Chimera.

Sfogliò fino al capitolo con quel titolo. Durante l’udienza alla commissione disciplinare non aveva deposto soltanto lui, ma anche molte delle donne presenti al momento del fatto e ovviamente l’unico altro Civil Hero autorizzato, Chrome Doll. Con suo stupore tutte avevano parlato di qualcosa che emanava dal suo corpo, qualcosa di simile a gambi di fiore e boccioli, in movimento come serpenti. Li avevano visti quando si era liberato dalle bende nere di Pitch Label e quando aveva gridato contro i rinforzi di Hell Cat, ed era stata Nagi a dirgli di informarsi sui Chimera.

«Fino ai dodici anni… mh…»

Mukuro dondolò sulla sedia per prendere il suo quadernino sull’unica scaffalatura della stanza e si appuntò quel dato vicino agli altri presi da libri diversi. Secondo la maggior parte dei testi i Chimera combinavano più di un gene Oro – da qui il nome – sviluppando più poteri diversi, plausibilmente ereditati da antenati. Tuttavia, se questa era la spiegazione dei boccioli, la sua esplosione del gene recessivo era veramente tardiva: tutti gli studi confermavano un’età massima di comparsa intorno ai quattordici anni.

Sbuffò sonoramente.

«Non capisco» fece, pur sentendo a malapena la propria voce per via delle cuffie.

Preferiva tenerle tutto il tempo. Da una settimana Gravity e Sky Flame non facevano che discutere ad alta voce, perché la sua reazione violenta all’attacco di Thornemion aveva fatto emergere le loro differenze di prospettiva sulla giustizia e sulla vendetta. Mukuro non riusciva a darsi pace: per l’onta che aveva gettato su tutta la classe e sul suo maestro, per ciò che avrebbero pensato di lui a casa a Kokuyo, per la spada di Damocle che aveva sulla testa nella forma di un ritiro di licenza, e per le discussioni che divampavano tra i suoi compagni.

Mentre la cantante famosa come Selina Tao intonava una delle sue canzoni preferite Mukuro non l’ascoltava: aveva preso a scorrere le ultime notizie su Twitter, ovviamente tutte poco lusinghiere con lui, mentre aspettavano di capire che cosa avrebbe fatto la commissione. Prestava così poca attenzione a quella voce che lo aveva sempre fatto sognare che a malapena si accorse che le cuffie gli venivano sfilate dalla testa.

«Sono tornato, Indi.»

Mukuro girò di scatto la testa e per poco il cellulare non gli scivolò per terra. Fissò Phoenix per un tempo che gli parve dilatarsi nello spazio, come non credesse a ciò che aveva di fronte. Il suo viso aveva delle brutte zone rossastre come uno sfogo allergico, ma il colorito non era più lunare come quando lo aveva visto l’ultima volta. Non indossava il suo costume ma una delle nuove tute da allenamento della classe S – in grigio antracite con il logo dell’Accademia su un gioco di linee dorate sul petto – e il suo sorriso nascondeva male l'amarezza e la tristezza che davano i suoi occhi.

«Kyoya…»

Non fece nemmeno in tempo ad alzarsi dalla sedia: Phoenix lo abbracciò con così tanta forza da fargli sentire dolore alle costole e non lo lasciò andare per diversi minuti in cui non parlò. Per la prima volta in quei duri giorni Mukuro trovò qualcosa che lo sottraesse dal senso di colpa e dall’incertezza, e strinse a sé quel qualcosa.

«Ti prego, non affliggerti per quello che hai fatto» gli sussurrò Phoenix all’orecchio.

«Kyoya… tu sai che cosa è successo?»

«Lo so… Mad Horse mi ha tenuto aggiornato… e per questo ti dico di non tormentarti. Il mondo sta meglio senza un mucchio di feccia come Hell Cat. Al tuo posto non avrei esitato nemmeno io.»

«Tu non lo avresti ucciso.»

«Certo che lo avrei ucciso» ribatté Phoenix con tono glaciale. «È già stato arrestato due volte e se l’è sempre cavata perché le sue vittime avevano troppa paura che la sua banda gliela facesse pagare, o per merito di uno squalo del foro che è riuscito a fargli ridurre la pena per un’inventata sindrome di stress post-traumatico. Quando è uscito di prigione lo scorso anno ho giurato a me stesso che se me lo fossi trovato di nuovo davanti per un altro crimine lo avrei tolto di mezzo.»

Mukuro dubitava molto della sincerità di queste parole. Era sicuro che stesse mentendo per farlo sentire meglio; conosceva troppo bene il senso del dovere di Mad Phoenix per credergli. Voltò appena la testa verso la finestra quando quella tremò per effetto di un colpo lontano che diede un bagliore arancione, ma in una scuola per supereroi era un avvenimento piuttosto ordinario e non bastò a scacciare la nube di pensieri cupi dalla sua mente.

«E se fossi io, Kyoya?»

«Tu cosa, Indi?»

«Forse ho un perverso senso di giustizia dentro di me… forse sono io a essere… un… dark hero

Quel nome era saltato fuori spesso dalle testate nazionali e con suo orrore aveva finito per diventare una tendenza sui social network.

«Tu guardi troppo quel cellulare, Indi.»

«Io… forse ho qualcosa che non va nella testa. Forse non dovevo diventare un Civil Hero. Dovevo dedicarmi alla mia musica.»

Parlarne a qualcuno fu come sputare un orrendo groviglio di capelli intrappolati in gola. Non era riuscito a parlare con i suoi compagni, che tacevano all’improvviso quando arrivava come se stessero parlando continuamente di lui, né al suo mentore che non vedeva da due giorni. Poter affidare a Phoenix quel suo peso gli diede tanto sollievo da aver voglia di lasciarsi andare a un pianto liberatorio.

«Non un’altra parola, Indi» l’interruppe Phoenix. «Non c’è niente che non va in te. Sei umano, per questo provi paura, rabbia e desideri egoistici come la vendetta e l’ambizione, come me, come tutti noi. Io non lascerò che una merda come Hell Cat distrugga la migliore persona che abbia mai incontrato. Voleva vendicarsi di me e se ora parli così avrà vinto lui.»

Phoenix gli diede un leggero buffetto sul viso prima di afferrarlo con entrambe le mani e sorrise, questa volta con molta più convinzione.

«Per me tu sei un eroe che ha fatto quello che chiunque avrebbe voluto che facessi… hai estirpato una pianta infestante che non avrebbe fatto altro che continuare a ricrescere sempre più pericolosa e che… cercava di strangolare me» aggiunse, più esitante. «Se fossi entrato per aprire la strada a Wing Emperor avrebbero anche potuto uccidermi. Mi aspettavano. Quindi… tu sei il mio eroe, per quello che valgono i miei pensieri.»

«Valgono moltissimo.»

C’era qualcosa di strano nell’aria, fra di loro. Non era la prima volta che si ritrovavano soli, che stavano vicini e nemmeno la prima volta che Phoenix gli sedeva sul ginocchio, ma quel pomeriggio era diverso. Quando gli occhi grigi tornarono a guardare i suoi fu come vederli per la prima volta e quell’insolita atmosfera divenne ancora più bizzarra quando Mukuro iniziò a percepire un profumo che gli ricordava la fioritura dei ciliegi.

Era così vivido che si avvicinò per annusare Phoenix, ma non gli sembrava un profumo messo sulla pelle. Si chiese se sentire l’odore delle emozioni delle persone non fosse possibile, in certi casi, anche a chi non aveva le capacità di Night Hound. Ma se lo era, qual era l’emozione che stava sentendo? Era sua o di Phoenix?

Gli fu tutto più chiaro quando Phoenix superò senza indugio la soglia di pericolo e gli baciò le labbra. Mukuro non aveva mai dato un bacio importante a qualcuno ma sapeva d’istinto cosa fare, perché non si ritrasse, non esitò in preda a paura o dubbi. Le macchie sul bel viso di Kyoya non avevano nessuna importanza, quasi stesse baciando più volte, in un crescendo di passione, la sua anima e non il suo corpo fisico.

Che cosa quella porta spalancata fosse andata a interrompere Mukuro se lo sarebbe chiesto per un bel po’ di tempo; di certo spezzò un’atmosfera come non ne avevano mai raggiunte prima e un bacio che i due ragazzi sentivano di aver cercato fin dal primo incontro.

«Reborn-sensei… ma come siete conciato?» esalò Phoenix, ancora a corto di fiato.

Il nuovo venuto infatti non era un classe S come Mukuro aveva pensato, ma il professore che faceva da tutore a Sky Flame, Reborn. Un uomo alto e magro dallo sguardo penetrante, sempre in abito elegante e un cappello la cui tesa quel giorno stava ancora bruciando a causa di una piccola fiammella ostinata. Qua e là sul completo si aprivano delle bruciature e mandava lo stesso odore di cenere e carbone di un caminetto appena spento.

«Mh, contrasti di opinione tra maestro e allievo» minimizzò lui, estinguendo la fiammella con le dita. «A questo proposito, Wing Emperor ti chiede di raggiungerlo in atelier, Indigo.»

La notizia fece appesantire di quintali lo stomaco di Mukuro, che strinse di riflesso le braccia di Kyoya.

«È arrivata la sentenza, probabilmente…»

L’aggressione a Thornemion e quella a Hell Cat che era culminata con la sua morte potevano essere giudicate atti di violenza e abuso di potere, e in quel caso il rischio di finire nel leggendario e temutissimo carcere a vita per Auris non era una possibilità remota quanto la sua ubicazione tra i ghiacci.

Sforzandosi di sorridere guardò gli occhi grigi di Phoenix.

«So che il Golgotha è un po’ fuori mano, ma se venissi a farmi visita di tanto in tanto ne sarei felice…»

«Non possono mandarti laggiù» gli rispose Mad Phoenix con la massima serietà mentre si alzava dalle sue ginocchia. «Se provano a farlo mobiliterò la più imponente arma dei Civil Heroes per te.»

«E quale sarebbe?»

«Lo sciopero.»

A Mukuro salì un bizzarro desiderio di ridere, ma Reborn fece schioccare la bocca in un rumore che esprimeva chiaramente il disappunto.

«Anche tu come Tsuna, eh? Che avete voi ragazzi ultimamente? È tardi per le ribellioni giovanili.»

«Non è una ribellione giovanile» ribatté Phoenix. «Proprio non volete capirlo, vero? Non siamo dei burattini. Pensiamo cose e proviamo sentimenti, e ci facciamo un’idea personale di come e cosa sia un Civil Hero… di cosa sia o no la giustizia. Per quale ragione valga la pena rischiare le nostre vite e per quale no.»

Mukuro fu molto sorpreso che Phoenix potesse rivolgersi in quel modo brusco a un insegnante, dato che li trattava tutti in un modo piuttosto vicino a definirsi devozione. Reborn pareva pensarla allo stesso modo e si tolse il cappello come a controllarvi i danni riportati nello scontro, impossibile da negare, con l’allievo Sky Flame.

«Beh, veditela con il tuo tutore. Io ho già abbastanza grane a rimettere in riga il mio, di studente. Tu è meglio che ti sbrighi.»

Avrebbe tanto voluto prendere per mano Phoenix e portarlo con sé a sentire il verdetto, ma davanti a Reborn non riuscì a mostrarsi così tanto vulnerabile. Alzò il mento ostentando una dignità che non sentiva propria e lasciò la sala di lettura. Attraversando il salotto comune vide Sky Flame ammaccato dopo la scaramuccia con il tutore ma con lo sguardo ancora combattivo mentre Enma gli medicava il ginocchio. Se qualcuno lo vide passare fece finta di niente e non gli vennero fatte domande mentre usciva.

Nell’aria gelida il profumo di ciliegio non si sentiva più.

 

*

 

«La prima neve.»

Byakuran guardava il cielo di un biancore uniforme dalla finestra del suo atelier. Aveva anche lui il sentore che avrebbe nevicato presto, ma la ragazza al telefono non stava propriamente tirando a indovinare. Prese le sue parole per una verità più concreta delle previsioni meteorologiche.

«Perché hai ancora paura, Ran?»

Non erano molte le persone che lo chiamavano così, e quelle non le sentiva spesso. Ormai non era più abituato al suono di quel nome che era stato suo per quasi tutta la sua adolescenza.

«Penso sia normale» replicò allora, guardandosi le dita intrecciate intorno a una matita sopra un foglio del tutto vuoto. «I genitori hanno sempre paura che succeda qualcosa ai loro bambini.»

«Ora è tuo figlio, per te? Non solo per la legge?»

«Penso di sì. Andrei io stesso all’ergastolo nel Golgotha al posto suo, se potessi farlo.»

La voce al telefono esitò un momento per uscirne più allegra di prima.

«La nonna è molto fiera di te.»

«Non potremo mai saperlo.»

«Io lo so» insistette lei. «Hai imparato a sopravvivere, a fare errori, a conviverci e a riscattarli… e dopo aver imparato ad amarti impari ad amare di più. Salvare gli altri combattendo è un modo di dare, ma questo è lo stesso amore di un genitore vero. Non è facile per chi non ha figli provarlo per chi non ha il suo stesso sangue.»

«Yuni, sei un po’ troppo giovane per parlarmi in questo modo, sai?»

La ragazza rise.

«Forse, ma almeno io sto imparando com’è avere un figlio naturale.»

Per un attimo tutte le sue angosce recenti furono sparate fuori dalla mente. Byakuran divenne un unico blocco rigido in una strana posizione sulla sedia.

«Yuni, che stai… vuoi dire che…»

«Stai per diventare zio, Ran~»

La parte del suo cervello che voleva sfuggire a quel trauma s’impuntò sul dettaglio che tecnicamente, se considerava Luce sua madre e Aria sua sorella di otto anni più grande, alla nascita di Yuni era già diventato zio anche se in realtà si era sempre riferito a lei come a una sorellina. Ma non poteva ignorare che la sua giovane sorellina gli stesse dicendo di essere incinta.

«Aspetta un momento, ma chi…?»

Il nome che gli fece subito dopo lo fece trasalire.

«Stai scherzando?! Ma quello è più vecchio di me!»

«Ha trentatré anni!»

«Appunto!»

«Se ti può consolare, ci ho messo quasi due anni a convincerlo che non faceva una cosa sbagliata.»

«Credo di non aver mai sentito niente di meno consolante in vita mia» replicò lui secco. «Yuni, insomma, sei una bambina, non–»

«Studio all’università, Ran.»

«E non dovresti pensare a quello?»

«Non accetterò critiche da te su questo argomento» fece, per nulla arrabbiata o indispettita; piuttosto sembrava divertita. «Ho la stessa età che avevi tu quando hai conosciuto Amber.»

«Che cosa c’entra Amber adesso?»

Atterrito si chiese come Yuni sapesse di Amber e di quando si erano conosciuti intimamente, perché erano diventati amici già al liceo. Era certo di non aver raccontato a una bambina di allora dieci anni alcuna delle sue avventure, e anche se conosceva il potere di quella ragazza non credeva fosse in grado di vedere così a fondo.

«Sento dei passi per le scale. Dev’essere Indigo, devo salutarti.»

«Oh, sì, Indigo sta salendo… ma non ha preso le scale, gran bugiardo~»

«Ma che…»

«A dopo, Ran!»

La comunicazione venne chiusa bruscamente, lasciando Byakuran interdetto. Poteva anche sapere dove Indigo si trovasse e cosa stesse facendo, pur non avendolo mai incontrato?

Che potere sbalorditivo… se l’esercito lo sapesse la vorrebbe assolutamente nelle loro fila. Abbiamo fatto una scelta saggia a tenerlo segreto quando ho fondato l’Accademia.

Aveva appena fatto in tempo a stiracchiarsi che un leggero bussare anticipò l’ingresso di Indigo. Aveva l’aria tutto sommato tranquilla. Forse online era già trapelato qualcosa?

«Mi hai fatto chiamare?»

«Sì, infatti… siediti» l’invitò con un gesto del braccio. «Ero al telefono con l’avvocato che è andato all’udienza in tua vece…»

Mentre si accomodava sullo sgabellino davanti a una tela grezza Mukuro lo guardò sorpreso.

«Quella ragazza è il mio avvocato?»

«Stavi origliando fuori dalla porta?»

«No, ho sentito che parlava con te» spiegò lui, con un’aria confusa. «La ragazza che ha preso l’ascensore insieme a me. Quella con il pancione.»

Byakuran lanciò uno sguardo vacuo al cellulare, poi alla finestra e infine alla porta, al di là della quale avrebbe potuto intravedere l’ascensore. Irritato, divertito ed esasperato tese un ghigno.

«Quell’imbrogliona non è il tuo avvocato, Indi, è mia sorella Yuni» sillabò a voce alta, nel caso fosse in ascolto fuori in corridoio. «Una piccola impudente, una sleale volpe che adora gli scherzi.»

«È scesa al piano di sotto, se vuoi saperlo… ha detto che cercava l’ufficio di Lal.»

«Dice molte cose, se è per questo» abbozzò Byakuran. «Ma come dicevo, prima di parlare con lei ero al telefono con l’avvocato. La commissione ha deciso…»

«Ho evitato il Golgotha?» buttò lì con falsa indifferenza il ragazzo.

«Sì. Ti hanno dichiarato non colpevole per le accuse di eccesso di violenza e abuso di potere.»

In barba all’atteggiamento noncurante Mukuro alzò gli occhi al soffitto e lasciò uscire un singulto, con le mani che smettevano di attanagliare le ginocchia con tutta quella forza.

«Kami-sama, grazie.»

«Se vuoi ringraziare qualcuno penso dovresti cominciare da più vicino… per esempio, da Chrome Doll, che ha deposto a tuo favore con molta convinzione, o quella ragazza del tua casa-famiglia, Kazue. Ha sottilmente detto che se ti avessero giudicato colpevole avrebbero dimostrato di essere dei castratori di Civil Heroes.»

«Sottilmente come?»

«Se ben ricordo ha detto “punendo i Civil Heroes per l’uso dei loro doni in difesa dei bisognosi li castrate impedendogli di fare il loro lavoro”, parola più, parola meno.»

«Non era affatto sottile» commentò divertito.

«No, affatto. Mi piace tua sorella, è una ragazza forte… avrai preso qualcosa di buono anche da lei» osservò il preside, sorridendogli. «Dal canto suo, la tua classe ha inoltrato una lunghissima lettera alla commissione disciplinare… me ne hanno fatte otto copie in più nel caso le avessi perse come un babbeo, vuoi vederla?»

Mukuro rimase perplesso e prese il plico di fogli per scorrerlo con occhi confusi.

«Non mi hanno parlato di questo…»

«Hanno scritto del tuo carattere mansueto e delle tue buone maniere, tanto che penso che la prima parte sia tutta opera di Wish Luck» lo punzecchiò Byakuran, con un sorrisetto. «Poi sono passati ai toni passivo-aggressivi, tirando in ballo principi costituzionali, cavilli legali e… ecco, quella parte.»

Indicò il foglio il cui titoletto era evidenziato in giallo.

«Il tuo buon amico Restless ha pensato di fare lo stesso lavoro del tuo avvocato ripescando tutte le sentenze di casi simili al tuo, imbastendoti una difesa che i muri di questa scuola a confronto sono una tenda di cotone.»

«Mi sembra strano… io e Restless non siamo proprio amici.»

«Se chi ti prepara un lavoro certosino come questo non è tuo amico mi chiedo cosa farebbero quelli che lo sono.»

Mukuro tese un sorriso più accentuato da un lato e richiuse il plico. Non diede spiegazioni su cosa avesse rasserenato il suo sguardo.

«Incorrerò in qualche conseguenza, alla fine?»

«Legalmente, nessuna. La tua licenza è ancora attiva e non ti sono state inflitte restrizioni, né controlli. Sei pulito… ma spero che tu abbia imparato qualcosa da questo tuo debutto burrascoso.»

Mukuro annuì.

«Ho sbagliato a muovermi da solo. È andata bene, ma poteva diventare…»

Byakuran lo guardò con una punta di preoccupazione mentre deglutiva con lo sguardo puntato su un ricordo che lui non poteva vedere.

«Una carneficina. Il mio agire impulsivo poteva far funzionare meglio la loro trappola… e… ferire mia sorella tanto che non si sarebbe ripresa mai più.»

Il ragazzo scosse la testa come a snebbiarla, si alzò e gli consegnò i fogli.

«Cosa posso fare perché non mi ricapiti mai più?»

«Non ti ricapiti più che cosa?»

«Di non sapere cosa fare. Di prendere la decisione sbagliata.»

Byakuran non riuscì a reggere il sorriso e sospirò.

Che questione spinosa, questa… l’errore, la responsabilità… le conseguenze. Un fardello che ogni uomo, Auris o no, porta con sé a prescindere da quanto creda di prepararsi.

«La verità, Indigo… è che per quanta esperienza tu possa acquisire, per quanta sapienza tu possa accumulare e quanto potere tu possa ottenere… sbaglierai. Prima o poi tutti noi sbagliamo… e dobbiamo convivere con le conseguenze dei nostri errori. Ti posso solo augurare che non saranno mai orribili conseguenze.»

I suoi occhi si alzarono sulla parete di fondo, dove la donna bionda col neonato era stata fissata a una cornice di fortuna affinché torreggiasse sul suo atelier. Mukuro aveva seguito il suo sguardo fin lì e, con un’espressione profondamente triste, tornò a lui.

«Lei è una conseguenza?»

«Sì.»

«Chi è?»

«Era Helena Briley… ed è il più grande rimpianto… e il più tragico rimorso che ho.»

Con sorprendente tatto Mukuro gli strinse la spalla in un tentativo di confortarlo.

«È la persona che non sei riuscito a salvare la volta che hanno dovuto salvare te?»

«Una di quelle persone… erano le due persone che avrei voluto salvare a qualsiasi costo» confessò, accennando al quadro con il bambino. «Anche… anche se avessi dovuto lasciar morire tutte le altre per loro due. Egoisticamente, pensavo questo. Sono stato punito perdendoli entrambi.»

Le braccia di Indigo passarono intorno al suo collo e il mento gli si appoggiò sulla testa.

Devo sembrare molto patetico se un ragazzo come lui decide di abbracciarmi…

Ma non gli dispiaceva, anzi: usò quell’abbraccio come un vero salvagente per non affogare nei suoi sensi di colpa.

«Era tuo figlio?»

Gli occhi di Byakuran si fissarono sulla coperta che Helena teneva sempre intorno al suo bambino per l’ingenua paura di una neo mamma di graffiare il suo piccolo con le unghie quando lo prendeva in braccio.

«No» rispose infine, con la voce gonfia di emozione. «Ma avrei voluto che lo diventasse.»

La stretta di Indigo si fece un po’ più forte.

«Mi dispiace, Byakuran…»

Lo sorprese che anche la sua voce suonasse distorta, incerta come quella di un raffreddato.

«Prometto che starò più attento» gli disse piano all’orecchio. «Non è la stessa cosa, ma… adesso hai me. Non mi perderai.»

Byakuran alzò la mano alla cieca per accarezzare i capelli di Mukuro. Quando la lacrima scese lungo la sua guancia riuscì a vedere che la neve cadeva fuori dalla finestra.

 

*

 

Cadde neve tutta la notte e anche il mattino seguente. In un giorno qualsiasi Mukuro si sarebbe rifiutato di muovere un passo fuori dalla porta sfidando trenta centimetri di neve incredibilmente fuori stagione, ma quel pomeriggio teneva un passo stoico sui marciapiedi di un quartiere di Mizura che non aveva mai visto. Un po’ più tranquillo e a suo agio, Phoenix gli trotterellava dietro con l’aria di divertirsi.

«Sai, Indi» gli fece dopo minuti di silenziosa avanzata sulla neve calpestata, «non dovremmo essere qui.»

«Puoi tornartene a casa. Non ti ho chiesto di venire con me.»

«Non mi chiedi perché non dovremmo essere qui?»

«Non serve, lo so già.»

Mukuro proseguì superando un altro incrocio e scivolò; dovette aggrapparsi a un palo della segnaletica per restare in piedi e decise che poteva fermarsi un momento per riprendere fiato e riordinare le idee.

«Mi vuoi dire che cosa cerchi in questo quartiere?»

«Mi vuoi dire che cosa cavolo ci fai fuori dall’infermeria?» ribatté acido Mukuro. «Ti avevano detto di stare in osservazione.»

«Solo la notte.»

«Dovresti lo stesso riposarti!»

«Indi, non entro insieme a te. Ti aspetterò in una caffetteria, va bene?»

«Io non… che cosa accidenti pensi che sia venuto a fare qui?!» sibilò con una voce insolitamente acuta.

«Beh, non vuoi dirmelo, quindi lavoro di logica… non c’è molto da fare, penso, in un quartiere di prostitute… o forse c’è qualche negozio degno di nota che non conosco, qui intorno?»

Mukuro dissimulò il suo imbarazzo sistemandosi la cucitura sulle dita del guanto e riprese a camminare. La destinazione doveva essere ancora un po’ più avanti.

«Sto cercando una donna con cui voglio parlare.»

«Ah… la psicologa della scuola non ti va bene? Almeno è gratis.»

«Spiritoso, Kyoya. Riderei se questo freddo schifoso non mi avesse gelato la scatola della risata.»

Per contro Phoenix ridacchiò. Arrivarono all’incrocio successivo e finalmente Mukuro vide lo squallido bar con l’insegna al neon che diceva “cocktail & strip tease” in caratteri rosa e verdi. Non c’era nessuno lì fuori con quel freddo, se non una donna con corti capelli color platino e la pelle scura di una sudamericana. Lei li adocchiò subito.

«Vi siete persi di ritorno da scuola, ragazzi?»

«Non che non ammiri una donna che sa fare del sarcasmo» la rintuzzò Mukuro, «ma non ci siamo persi. Sto cercando Amber.»

Ma la bionda non sapeva chi fosse. Davanti alle insistenze di Mukuro li spedì a chiedere informazioni al buttafuori del pub, che a sua volta li rimpallò a una signora di un bilocale lì vicino che si occupava degli incassi. Questa “contabile” non ebbe alcuna reazione al nome di Amber e li buttò fuori come insetti infestanti.

«Sei sicuro che sia qui questa donna?»

Al momento Mukuro non era sicuro di niente. Forse Night Hound gli aveva dato indicazioni sbagliate per punirlo di essersi ficcato in affari che non dovevano riguardarlo, o forse aveva capito male un nome, o c’era un altro quartiere di quel genere a Mizura…

Stava per proporre a Kyoya di trovare un posto dove bere qualcosa di caldo e di tornare a casa quando vennero raggiunti da una giovane donna con i capelli rosa fenicottero, la stessa che avevano visto di straforo dentro l’appartamento della contabile.

«Perché state cercando Amber?»

«Credo che lei conosca il mio maestro» rispose Mukuro, intimandosi di non guardare dalla parte di Kyoya per nessuna ragione. «Voglio parlarle di una questione. Dove la trovo?»

La ragazza in rosa fece uno smagliante sorriso; sembrava che le sorridessero anche gli occhi.

«Non la troverete se chiedete di Amber. Qui la chiamano tutti Vanille» gli spiegò lei con un sussurro e l’aria complice. «Su per le scale di sinistra. La prima porta sul lato lungo.»

Riaccesosi l’entusiasmo non sentì neanche più freddo. Ringraziò la ragazza e tornò dove prima stava la donna coi capelli corti a fumare, perché era a pochi passi dalla scala di ferro che saliva. Raggiunse il piano superiore con Phoenix alle calcagna e marciò davanti a una serie di porte tutte uguali, rovinate, molte anche senza il numero.

«Mi stai dicendo che stai cercando una prostituta che conosce Wing Emperor?»

«Veramente io non sto dicendo niente» svicolò Mukuro.

«Indi, aspetta.»

Era quasi arrivato all’angolo e alla porta subito dopo che doveva essere quella che andava cercando quando Phoenix gli afferrò un braccio costringendolo a fermarsi.

«Che cosa vuoi fare?»

«Non mi pare il caso di fare il geloso, Kyoya.»

«Sono piuttosto certo che non la stai cercando perché il tuo tutore te l’ha raccomandata. Non voglio sapere i dettagli, ma se pensi che puoi piombare qui e spaventare una poveretta perché non lo riveda, io–»

Mukuro emise un versetto d’irritazione schioccando le labbra e si liberò dalla sua presa.

«Se volessi questo io sarei capace di prendere a calci Byakuran in persona finché non mi giura che non lo farà più! Che persona pensi che io sia? Minacciare o terrorizzare una donna… io? Se pensi questo di me puoi anche andartene e non rivolgermi mai più la parola.»

Kyoya deglutì e si tirò la sciarpa davanti alla bocca, come se inconsciamente si pentisse di aver parlato e volesse imbavagliarsi.

«Non… ti prego, non volevo dire questo… ma so anche che sei una persona impulsiva, e potresti non accorgerti di spaventarla.»

«Ho solo delle domande da farle. Non m’interessa altro.»

Anche lui si era pentito di avergli risposto così aspramente e gli fece una fugace carezza sul viso ancora deturpato.

«Scendi al pub e aspettami lì… è squallido ma è caldo. Non voglio che tu stia al freddo più dello stretto necessario per tornare a casa.»

«Va bene» acconsentì lui. «Ti aspetto lì… non te ne andare senza di me.»

«Kyoya, un’altra uscita che mi fa sembrare una persona di merda e ti tiro una testata in fronte.»

Phoenix accennò una risata e si allontanò per scendere. Mukuro sospirò, creando una nuvoletta di condensa, e prese tutto il coraggio per bussare.

Una voce dolce dal tono un po’ sorpreso l’invitò ad entrare e aprì la porta superandola senza esitare per richiuderla in fretta: dentro era molto caldo e per il ragazzo fu un sollievo percepire di avere ancora un naso.

L’ambiente era un monolocale con una porticina a lato – ipotizzò fosse un bagno – carico di arazzi e specchi alle pareti, con una moquette marrone o bordeaux; nell’atmosfera di poche lampade che emanavano una luce morbida e dorata i colori erano un po’ falsati. Non lo sorprese trovare nel mezzo della stanza un letto enorme, ma era perfettamente rassettato e pulito, l’aria era permeata di un odore di vaniglia e di sapone da bucato.

Non è proprio così che mi aspettavo la stanza di una… beh, di una prostituta. Credevo fosse disordinata, sporca e che puzzasse.

La donna che l’occupava era in piedi vicino alla porticina e aveva aspettato in silenzio che Mukuro smettesse di guardarsi intorno, poi i loro occhi si incontrarono: entrambi li avevano blu, ma lei aveva una chioma di lunghi e lisci capelli color lavanda che gli ricordavano gli occhi di qualcun altro. Non era molto alta ma aveva un seno prosperoso stretto dentro una vestaglia di raso color oro pallido o forse argento falsato dalla luce.

«È un po’ presto… io attacco il mio turno alle sette, tesoro» fece allora lei, con aria preoccupata. «Ma tu hai l’età per questo? Sembri giovane…»

Il suo sguardo cadde colpevolmente su uno scorcio di pizzo quando lei mosse la vestaglia facendo qualche passo. Sentendosi un cretino di proporzioni astronomiche diede qualche colpetto di tosse tentando di ripristinare la propria voce.

«Oh, è la tua prima volta? Va bene, sai, tutti ne hanno una, non c’è da vergognarsi… su, siediti qui con me.»

Essere preso per mano dalla donna che aveva un qualche trascorso con Byakuran ed essere spinto sul bordo del letto non aiutò la sua voce a uscire più facilmente.

«Non perché sono di parte, ma avere una prima volta con una professionista seria è un’idea intelligente… ti insegnerò come si fa e che cosa non si deve fare, così non combinerai guai con altre ragazze… ma credimi, sarà divertente, niente di barboso come quello che si dice a scuola~»

Gli sembrò che accadesse in meno di un battito di ciglia, e si trovò con le labbra di Vanille – se quella era proprio la donna che era venuto a cercare – incollate alle sue. Con la sensazione di una schiena così rigida da far male e un cuore che si dimenava come un toro infuriato contro le costole Mukuro la allontanò da sé con più forza di quanta volesse.

«Ahi!» protestò lei, massaggiandosi la spalla.

«Perdonami!» fece il ragazzo, atterrito, lasciandole immediatamente le braccia. «Non volevo, Amber, io… stai bene?»

Qualsiasi irritazione svanì dal suo sguardo.

«Come mi hai chiamata?»

«I-io… Amber» ripeté Mukuro. «Sei Amber… no?»

«Chi ti ha detto questo? Io mi chiamo Vanille.»

«Sì, ma… credo che… credo che il mio maestro ti chiami Amber.»

Il viso di Amber si accigliò, si distese e divenne stupito, ma tese un sorriso.

«Sei… oh, cielo, tu sei Indigo! Sei lui, vero?»

Non poteva esprimere quanto fosse sollevato di aver chiarito il punto focale, e le sorrise.

«Sì.»

«Sì, sì, certo… oh, mi hanno parlato di te! Il ragazzo che Ran ha adottato… scusami se non ti ho riconosciuto, non guardo mai la televisione, non sono molto aggiornata…» continuò a parlare lei, allegra. «Ran dov’è? Non è venuto con te?»

Poi d’improvviso smise di sorridere e si stropicciò le dita in grembo.

«Ti ha mandato qui per la tua prima volta?»

«No!» replicò all’istante Mukuro, allarmato. «No, no, lui… non sa neanche che sono qui… veramente, credo che non sappia neanche che so qualcosa di te. Non me ne ha mai parlato.»

«E allora come lo sai? Non mi cerca dallo scorso anno… prima della cometa. Non ti conosceva ancora.»

Mukuro raggranellò tutta la calma e il coraggio e raccontò ad Amber come la telefonata con sua sorella in ascensore gli avesse rivelato il nome di una donna che non era quella del dipinto né di una delle sue parenti prossime e di come Night Hound, messo alle strette il giorno prima, avesse osato dirgli almeno dove trovarla.

«Ed eccomi qui… non sono venuto per incontrarti come prostituta. Ti cercavo perché tu conosci Byakuran… lo chiami con lo stesso nome con cui lo chiama sua sorella. Penso che tu possa parlarmi di una parte di Byakuran che non conosco ancora.»

Amber sorrise e Mukuro si accorse di aver detto qualcosa di ambiguo.

«N-non quella parte, voglio dire…»

«Un ragazzo così timido non può essere venuto fin qui per sapere qualcosa di com’è Ran come amante… no, sei venuto per sapere di com’era prima di Wing Emperor.»

«Lo conosci da così tanto?»

«Da prima che sparisse nel nulla… e ricomparisse con le ali e il titolo di Civil Hero.»

Quasi trattenne il fiato a quelle parole. Amber si appoggiò alla testiera imbottita e gli fece cenno di avvicinarsi. Mukuro dopo una leggera esitazione si avvicinò carponi e si inginocchiò accanto a lei, quasi si aspettasse che iniziasse a raccontare sussurrando una storia di fantasmi.

E in effetti, era misteriosa e inquietante come una storia del terrore.

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Capitolo 17
*** Loveless in Tokyo ***


 

Ripensava ad Amber – e a un’altra dozzina di cose – mentre guardava il paesaggio al di là del finestrino dello shinkansen, almeno finché non si accorse nel riflesso del vetro di un paio di occhi viola che lo guardavano. Girò la testa per guardare Byakuran seduto sul sedile di fronte e si sentì in imbarazzo per il suo sorrisetto che non riusciva ad afferrare.

«Perché mi fissi così?»

«Scusami, sono in modalità genitoriale adesso, e trovo carino il tuo nervosismo.»

«Non so come hai fatto, ma sei riuscito a farmi uno sgarbo con ogni parola in questa frase.»

«Lo so che reagisci sempre con quell’atteggiamento schivo, ma non c’è nessun altro qui» gli fece notare Byakuran, con un gesto delle braccia. «E comunque ti capirebbero… la finale del Born to sing, non è proprio una cosetta da niente, no?»

«Shhh!» gli intimò Mukuro, allarmato come se stesse sbandierando una lista di reati capitali a suo carico.

«Mi dici che hai? Quando ci siamo incontrati era la cosa a cui tenevi di più, no? Volevi studiare musica, e diventare famoso insieme al tuo amico cantante… perché ora sembri in cammino per la forca?»

Mukuro dondolò un po’ i piedi e si fissò la punta degli stivali. Erano nuovi, come quasi tutto il suo vestiario: dopo essere stato designato – con riluttanza del ragazzo – come suo accompagnatore a Tokyo Byakuran aveva insistito perché si desse a un po’ di shopping per il grande giorno.

«Non ho ancora deciso che cosa fare… mi ero imposto di prendere una decisione definitiva prima del concerto… di essere sicuro se sarebbe stata la mia ultima impresa o se mi sarei dedicato ancora alla musica, ma…»

«Ma nessuna legge ti impone di scegliere. Né oggi né mai. Potresti seguire entrambe le carriere, con qualche rinuncia doverosa.»

Mukuro non replicò e finse di grattare via una macchia di qualcosa sul guanto, in corrispondenza della nocca.

«Se non vuoi finire oberato come è successo a me va bene, sai? Tsuru-san ti ha offerto un posto nella sua unità. Comporta minori rischi personali della prima linea, ma come tu stesso hai notato è un lavoro indispensabile per soccorrere adeguatamente i feriti e ospitare gli sfollati. A meno di improvvise emergenze quell’impiego ha orari molto comodi che ti lascerebbero il tempo per la tua musica.»

Non rispose ancora, ma annuì rigido. Aveva quasi dimenticato Tsurugi-gatai e la sua unità; Higashiki sembrava già lontana anni e anni con il susseguirsi di allenamenti intensivi, esami, esercitazioni e il più recente debutto da Civil Hero.

«O forse non è questa la scelta di cui parlavi?»

Quasi controvoglia alzò gli occhi per guardare Byakuran, senza capire se e cosa fosse riuscito a intuire dei suoi dilemmi.

«E di quale?»

«Forse non stai cercando di scegliere tra la musica e i Civil Heroes» proseguì lui, con un tono flemmatico da ragionamento fra sé e sé. «Forse stai cercando di capire se vuoi una vita spalla a spalla con Phoenix o con Matsuda-kun.»

Mukuro strinse le mani incrociandone le dita con fin troppa foga, ma tentò di dissimulare appoggiandosi allo schienale e accavallando le gambe in una posizione che reputò essere abbastanza neutrale.

«Ovviamente» esordì con una punta di acidità, «è circa la stessa cosa. Una carriera nella musica implica che io passerei buona parte della mia vita insieme a Subaru, o nel medesimo contesto. Finiremmo per incrociarci di continuo pur non facendo parte dello stesso staff. Diventare un Civil Hero invece mi schiererebbe molto probabilmente in prima linea insieme a Phoenix e agli altri ragazzi.»

Con sua sorpresa Byakuran scosse la testa.

«Non fare i miei stessi errori, Indi. Se proprio devi fanne di diversi, e meno grossolani di questo… la tua carriera non è il percorso della tua esistenza, okay? Quando ho deciso di diventare un Civil Hero, o almeno quello che ora viene chiamato così, io ho…»

Mukuro drizzò le antenne, ma Byakuran si rese conto di stare scoprendo troppo le sue carte ed esitò; in fondo lui non sapeva che di nascosto la sua cara Amber le aveva già rivelate in sua vece.

«Io ho creduto che non avrei più fatto una vita in cui ci sarebbe stato posto per le persone a cui volevo bene allora… e le ho lasciate indietro. Ho perso molti amici con cui andavo a scuola, e quelli dei club che frequentavo, convinto che avrei diviso la mia strada solo con quelli che percorrevano il mio stesso cammino… come Kikyo.»

«Non capisco dove vuoi arrivare.»

Byakuran si raddrizzò sul sedile, si sporse e gli sfiorò un ginocchio, il punto più vicino che riuscisse a toccare.

«Diventare una rock star oggi non taglierebbe Mad Phoenix e gli altri fuori dalla tua vita… come il diventare un Civil Hero non ha strappato via Momo, Kazue e la signora Kujaku… né Matsuda-kun. Forse diventare un eroe ti consumerebbe molto tempo, ma non significa che non potrai più scrivere una canzone per lui, o che non potrai andare da VIP a un suo concerto…»

Il suo sguardo si ammorbidì.

«Né fare una scelta o l’altra ti renderà meno importante per degli amici autentici. Non basare la tua scelta sulle persone che vorresti tenere vicine: basala su cosa vuoi, e tieni vicino chi vuoi indipendentemente dalla tua carriera.»

Si accorse mentre ascoltava che in effetti aveva ragionato in termini assoluti, come se il fare una scelta escludesse l’altra e tutte le persone legate ad essa. L’idea di non dover perdere qualcuno ma solo decidere quale delle due vite gli sarebbe piaciuta di più lo fece sentire meno nervoso, ma non era in grado di ringraziarlo e quindi gli sorse all’improvviso una domanda che non riuscì a frenare.

«Con quello che sai oggi faresti una scelta diversa?»

L’espressione di Byakuran tradì una certa dose di sorpresa, ma non smise di sorridere.

«Ci sono molte ragioni che mi portarono a decidere e non tutte mi lasciavano la possibilità di ignorarle tanto facilmente… diciamo che ho dovuto farlo, per il bene di molti altri. Non per vanto, ma penso che nel mondo non ci sia un altro che sarebbe riuscito a fare quello che ho fatto io, e forse così ho assolto al vero compito che avevo in questa vita.»

«È un no?»

«Ritornassi oggi a quel giorno, spiegherei le mie ali di nuovo, rifarei gli stessi passi… e raddrizzerei le mie ingenuità, ma non cancellerei Wing Emperor. Il mondo ne aveva bisogno… e anch’io.»

«Ma ne parli come se ti fosse costato tutto il dolore del mondo, Ran.»

Si accorse solo dopo di averlo chiamato di nuovo Ran; da quando aveva parlato con Amber continuava a sfuggirgli quel diminutivo di tanto in tanto. Lui come le altre volte sembrò goderne come del calore di una tazza di tè bollente tenuta tra mani intirizzite, e gli diede un pizzicotto indolore sulla guancia.

«Allora tu curami una volta per tutte» gli fece, raggiante. «Questa sera al concerto mostrami tutta la libertà e la felicità che il mio sacrificio ha reso concrete per te e per centinaia di migliaia di altri giovani Auris.»

 

*

 

Aveva il cuore che martellava, la voce nascosta in una botola in cantina e la convinzione di essersi vestito al buio mentre al di là della quinta una folla di svariate migliaia di spettatori applaudiva e urlava alla performance del gruppo che aveva appena cantato. Gli Echorings erano gli ultimi dei tredici partecipanti alla finale, ma stava per arrivare il loro turno. Gli venne quasi da vomitare quando il tastierista, Isami, gli passò davanti per andare a sistemare il suo strumento sul palco.

«Kuro… ehi, stai bene?»

Sentì la mano di Subaru sulla schiena e fece un profondo respiro per scongiurare quel picco di nausea.

«Non ce la faccio, non… non mi sento pronto. C’è un mare di gente lì fuori.»

«Davvero?»

Subaru sbirciò lo schermo che inquadrava il palco da sopra e abbracciava la distesa dei molti fan del concorso. Erano un mare in moto perpetuo di piccole luci date dai glow stick, ma quell’associazione non fece che aggravare la nausea di Mukuro.

«Io vedo solo la collina di Nakasode. Tu no?»

Per un attimo quel nome piombò nel vuoto di un ricordo perso, ma poi riaffiorò qualcosa di vago.

«La ricordi Nakasode? Abbiamo saltato il concerto di apertura dell’anno e abbiamo preso il treno. Siamo saliti sul primo che partiva, sono anche inciampato…»

D’improvviso fu luce: aveva dimenticato il nome di quella destinazione mai vista e mai più raggiunta, ma ora aveva ben chiaro quale giorno fosse e cosa avevano visto. Ricordare il capitombolo di Subaru appena dentro la stazione lo fece sorridere e lui gli strinse la spalla con vigore.

«Abbiamo visto quel pendio tutto coperto di soffioni…»

«Se la memoria non mi inganna, uno di noi due si è rotolato per il pendio per far volare i semi…»

«Se la memoria non mi inganna tu sei sempre stato quello noioso, quindi ho rotolato io per tutti e due!»

«Perfido» lo rimbeccò Mukuro. «Tu non avevi problemi se rovinavi una giacca nuova, io sì.»

«Tu fai pesare la nostra differenza di classe sociale e io sarei il perfido?» ribatté Subaru, divertito. «Sul serio, Kuro. Ho il ricordo di quella collina inciso nella testa, e quando guardo la folla davanti a me, per me diventano tutti soffioni che si muovono per il vento.»

Mukuro osservò il moto disordinato dei glow stick.

«I soffioni non brillano.»

«Allora non guardarli e basta. Guarda me per tutto il tempo» fece lui con una scrollata di spalle. «Hai sempre cantato senza imbarazzo davanti a me, anche senza base. Segui me, guarda me, io guardo i soffioni e tutto andrà bene!»

Mukuro non poté far a meno di ridere: non aveva alcun senso, né logico né pratico, ma almeno aveva allentato quel nodo alla gola facendolo ridere.

«Sei pronto? Oggi affondiamo il colpo nel nostro sogno dopo una caccia lunga anni!»

Il presentatore dell’evento era sul palco e stava calmando la folla per presentarli. Era arrivato il momento; la tensione era schiacciante, ma Mukuro pensò a Kyoya che aveva così insistito perché andasse, a Kyoko che gli aveva consigliato di non perdere nessuna occasione, e a Byakuran che voleva vedere i risultati di un duro sacrificio. Era sicuro che lui fosse nel mare di soffioni e che la classe S fosse radunata nel salotto davanti alla televisione che trasmetteva il concerto, e paradossalmente a dargli la spinta decisiva per seguire Subaru fu pensare a Restless.

Se non salissi sul palco ora mi prenderei ogni genere di frecciata da Restless per il resto della mia vita.

Per poco non gli venne meno il coraggio quando fu sul palco e il mare che Subaru associava a una distesa di muti fiori ondeggianti ruggì con la carica pregressa di dodici eccellenti gruppi musicali.

Lanciò uno sguardo al batterista che sistemava i piatti alla sua altezza congeniale, il bassista che attaccava il suo strumento, il chitarrista che regolava una corda solo per rimetterla come prima: erano tutti gesti meccanici per far sembrare quell’esibizione una sessione qualsiasi. Anche Subaru si passò il dito sotto il choker nero, e Mukuro sapeva che faceva questo con il colletto di qualsiasi vestito indossasse o collana prima di mettersi a cantare. Erano tutti nervosi, probabilmente più di lui, perché almeno lui non aveva più il terrore di restare intrappolato nel grigiore della mediocrità se avesse fallito.

Quando iniziarono a risuonare le note di Loveless l’eccitazione salì alle stelle: sentirla amplificata e suonata dal vivo con un pubblico entusiasta in sottofondo era tutta un’altra cosa. Strinse il microfono e piantò gli occhi su Subaru, che lo guardò un attimo soltanto prima che attaccasse la strofa.

Non c’era niente nella vita di Mukuro che fosse paragonabile a quell’emozione così potente. Non aveva eguali nell’adrenalina del pericolo, nell’euforia della sopravvivenza, e neanche nella vicinanza umana, o almeno così la percepì in quei tre minuti: tecnicismi, teoria, esercizi erano tutti stati lavati via dalla tempesta di sensazioni dell’esibizione live; fece da controcampo a Subaru dando un effetto più raffinato alla sua voce profonda, fin quando nella sequenza in cui la musica scendeva di volume e si cantava una strofa che lanciava verso il ritornello finale Subaru gli fece un gesto eloquente con il medio e l’indice: voleva che cantassero in due.

Ormai era stato catturato dal flusso degli eventi, l’ansia era dimenticata, aveva dentro solo del fuoco e raccolse senza pensarci quell’opportunità; solo che quando cantò Subaru rimase zitto, a guardarlo mentre sorrideva. Fissò solo i suoi occhi per non finire intimorito dalla platea, cantò quella sequenza con tutta la voce e la tecnica che possedeva, e spianò la strada per un crescendo di Subaru da mettere i brividi persino a lui che lo conosceva così bene.

Alle note conclusive l’arena sembrò esplodere di urla assordanti, così soverchianti che nonostante si trovassero a meno di un metro Mukuro non riuscì a sentire cosa Subaru gli disse ma glielo lesse nelle labbra: grazie.

Ciondolarono eccitati e nervosi sul palco, affiancati dagli altri gruppi in lizza, finché non furono pronti i risultati e vennero annunciati i vincitori: la folla esplose, la musica di Loveless venne sparata in sottofondo e prima che riuscisse a riprendersi dallo shock Subaru si lanciò su Mukuro con tale slancio che sarebbe caduto per non fosse stato per il batterista e il tastierista che si avventarono su di loro dalla direzione opposta; gli Echorings divennero un unico groviglio umano di urla di giubilo e singhiozzi con al centro il loro compositore.

Uno per volta si sciolsero dall’abbraccio collettivo, tutti tranne Subaru, che stringeva Mukuro più di prima.

«Non ti staccare ancora» gli sussurrò all’orecchio con tono acquoso. «Si vede che sto piangendo!»

Nonostante la vanità di Subaru, aveva ancora gli occhi arrossati quando sollevò il trofeo del Born to sing davanti alle telecamere e alla distesa di soffioni più rumorosa al mondo.

 

*

 

Il tour celebrativo degli Echorings fu condotto dal bassista, che raccontò loro di conoscere bene Tokyo perché andava spesso a stare lì da suo padre da quando i suoi avevano divorziato.

La loro guida li portò nel quartiere di Shibuya; Mukuro, che pensava alla città di Mizura come fosse già una metropoli, era impressionato dalla capitale in notturna: sui marciapiedi c’erano centinaia di persone, c’erano una serie di locali illuminati a perdita d’occhio come sulla strip di Las Vegas nei film e in ognuno la musica era alta quanto l’energia degli avventori.

Mukuro era rimasto seduto a riempirsi lo stomaco di soda e pompelmo mentre osservava giovani ragazze con outfit che andavano dal punk al gothic lolita al disco; ragazzi con acconciature ottenute con ore di cure e vestiti di buona fattura, coppie di un decennio più mature con abbigliamento meno appariscente ma più raffinato e, mescolato nel mezzo, qualche pallido pesce rosso come lui.

Quando il bassista decise di prendersi una pausa dalla pista da ballo per scolarsi un altro Tropicana analcolico Mukuro si azzardò a vincere l’imbarazzo e chiedergli se ci fosse qualche ricorrenza che aveva dimenticato.

«Questa è Shibuya, Kuro! È il cuore notturno di Tokyo, qui non si dorme mai!»

Gli chiese se fosse mai stato in una grande città, come Osaka, Nagoya, o altre classiche mete delle gite scolastiche, ma prima che potesse rispondere il ragazzo si aggiustò freneticamente il colletto e il berretto, con gli occhi fissi verso il bancone. Mukuro seguì la traiettoria e adocchiò una bella ragazza con i capelli che sfumavano dal verde smeraldo al biondo e un vestito così attillato da far sembrare il costume di Byakuran una vestaglia informe.

«Scusa, Kuro, ma io e quella ragazza stiamo flirtando con gli occhi da un’ora» spiegò con urgenza. «È ora di muovere l’attacco finale… fammi gli auguri!»

Ma prima che potesse anche solo chiedergli se fosse certo che stesse guardando lui e non il ragazzo del tavolo accanto il bassista prese il volo. Il movimento della clientela glielo coprì alla vista, ma gli permise di vedere Subaru che svuotava un drink di colore ambrato da un bicchiere stretto e alto.

Ho visto un drink al mandarino sulla lavagna, l’avrà provato?

Visto che era da solo si alzò per andargli incontro e chiedergli se l’aveva provato – sapeva bene che Subaru amava gli agrumi e in particolare il mandarino – ma il modo in cui lo vide scostarsi dallo sgabello lo fece fermare. Sembrava confuso, il suo passo disinvolto era impastato e lo vide strofinarsi gli occhi mentre si faceva strada verso la porta.

Sgusciò tra due ragazze con addosso il medesimo vestito e guadagnò l’uscita nella sua scia. Anche se fredda gradì la boccata di aria esterna dopo quel bagno di folla. Si guardò intorno alla ricerca di Subaru, ma fu trovato da lui per primo, che gli prese l’avambraccio.

«Anche tu in cerca di un po’ d’aria? O è per la musica alta?»

La voce era normale e non aveva l’alito che sapeva d’alcol, ma gli occhi del cantante erano come annebbiati. Ma Mukuro era del tutto ignaro delle lusinghe dello spirito in senso liquido e non sapeva se fosse solo l’effetto della stanchezza dopo una giornata campale.

«Vieni un momento con me, Kuro! Restiamo un po’ da soli!»

«Co–»

Uno strattone al braccio lo indusse a seguirlo e stroncò la sua domanda. Il cuore gli batteva all’improvviso più forte e pensieri che non lo avevano mai sfiorato prima iniziarono a rimbombare nella sua testa mentre Subaru gli faceva strada dietro l’angolo e saliva la scala antincendio. Raggiunsero la cima del palazzo, che aveva solo sei piani ed era un piccolo fungo al cospetto delle immense querce di acciaio e cemento di Tokyo.

Subaru gli lasciò il braccio e lasciò andare un verso soddisfatto mentre si stiracchiava.

«Che giornata incredibile! Mi sento come se dovessi svegliarmi da un momento all’altro, tu no?»

Mukuro si appoggiò con i gomiti alla ringhiera e piegò indietro la testa, con un sospiro. Al contrario della piccola, rurale Kokuyo, a Tokyo il cielo notturno era un manto di un nero uniforme.

Subaru lo raggiunse e si appoggiò con gli avambracci, guardando l’orizzonte della città anziché il cielo.

«Meritiamo un momento da soli, stasera» disse lui a mezza voce, lasciando Mukuro in un silenzio circospetto. «È una vittoria mia e tua, questa.»

«È una vittoria degli Echorings. I ragazzi sono stati fantastici.»

«I ragazzi sono venuti dopo» ribatté Subaru, testardo. «All’inizio eravamo solo io e te… e la musica. La tua musica. Ricordo ancora quella che stavi suonando quel giorno.»

Mukuro sorrise. Alle medie aveva quasi monopolizzato la sala musica della scuola visto che a casa non avevano abbastanza soldi da comprargli nemmeno una tastiera per esercitarsi, e quel martedì suonava un pezzo che aveva finito con molte difficoltà. Uno dei suoi primi brani finiti.

«Era Rockstar, vero? Quella che hai modificato.»

Mukuro scosse la testa.

«First an amateur. Era quella la melodia che suonavo quando hai quasi sfondato la porta.»

Con un’indifferenza che aveva dell’elegante Subaru ignorò del tutto la fine della frase.

«Suonavi una favola, per me. Avevo capito il tuo talento subito… quanto ci ho messo per chiederti di scrivere una canzone per me? Due settimane?»

«Tre giorni» lo corresse Mukuro divertito. «Era venerdì, all’uscita di scuola. Mi bloccasti la strada nel cortile e mi gridasti che dovevo scrivere per te e che insieme saremmo arrivati al successo… che imbarazzo. Sembravi il protagonista di un anime.»

«Ma questo è come un anime» rispose lui, un sorriso da un orecchio all’altro. «Con un lieto fine.»

Non aveva tutti i torti. Avevano affrontato l’opposizione dei Matsuda e i problemi di risorse della casa-famiglia, avevano lavorato incessantemente nei loro momenti liberi da studio e incombenze per diventare più capaci, e attraversato fasi di sconforto e sfiducia. Si erano addirittura divisi a causa della cometa… ma alla fine, eccoli lì: di nuovo insieme, in finale in un concorso prestigioso; insieme sul palco ad afferrare il loro sogno con le loro voci.

«Non è un anime, Subaru, e questa non è la fine. È appena cominciato.»

Subaru lo guardò e Mukuro lo ricambiò. Erano vicini abbastanza da poter distinguere le ciglia chiare del cantante una per una. Non seppe dire come successe, ma un momento dopo aveva sfiorato le labbra della sua Voce con le sue; fu talmente rapido che quasi non le sentì, perché Subaru fece un brusco scatto indietro.

Sopraffatto dall’orrore e dalla vergogna Mukuro si nascose la faccia nelle mani e non poté notare che il suo amico sembrava più mortificato di lui.

«Mi dispiace» mugugnò dietro le mani.

«Uh… no… non è… non scusarti» balbettò Subaru.

«Mi dispiace da morire, Subaru.»

«No, dai… davvero… è… sono lusingato, ma… è una cosa cretina da dire?»

Il ragazzo biondo si grattò la nuca girando gli occhi in ogni direzione tranne che verso l’amico, come cercasse un suggeritore che potesse dargli la prossima battuta. Mukuro fece scivolare lentamente le mani via dal viso, ma gli tremavano le dita.

«Non mi dispiace… cioè, mi dispiace che sei maschio… oh, no, sto facendo peggio, vero?»

«Lo so che ti piacciono le ragazze… non dovevo farlo, non so che cosa mi sia passato per la testa!»

«No… sì, senti… non è niente, okay? Non…» si interruppe per fare un profondo respiro. «Non mi era mai successo prima… non so che cosa dire per non ferirti, a parte che non mi ha fatto schifo… non… non volevo reagire così bruscamente, Kuro. Mi dispiace.»

Vincendo una nuova, inaspettata ritrosia Subaru si costrinse ad avvicinarsi e a stringergli la spalla.

«Non fare così, dai… non ti vergognare con me, siamo amici da troppo tempo per avere ancora qualcosa di cui imbarazzarci! Voglio dire, mi hai visto rotolare in mezzo ai soffioni e rialzarmi che sembravo un cuscino di piume squartato. Tieni quel segreto e io terrò questo!»

Nonostante il nervosismo un angolo della bocca di Mukuro si sollevò. Subaru sorrise in modo più spontaneo.

«Siamo una coppia con un’intesa artistica da paura, e siamo anche buoni amici… forse sono egoista a dirlo, ma… vorrei che continuasse così. È un… problema per te?»

Mukuro scosse la testa.

«Io… no, certo che no… mi dispiace di averti messo in questa posizione scomoda, Subaru. Scriverò lo stesso per te… anche se preferissi mantenere più distanza.»

«Ma non voglio! Insomma… sei sempre Kuro, e sei sempre il solito martire» lo rimbrottò Subaru con le mani sui fianchi, tale e quale a sua madre quando lo sgridava. «Ho detto che sta bene, no? Quindi basta lagne, togliti quella faccia cupa e andiamo a bere il tangerine sunset! È al mandarino!»

Mukuro rimise il peso sulle gambe, ma anche quelle sembravano traballanti come le sue certezze.

«Scusami… ma preferisco andare a dormire. Si è fatto tardi, di solito sono già a letto da tre ore.»

«Ma… no, dai! Abbiamo vinto il Born to sing, abbiamo arpionato il nostro sogno come una balena! Stiamo festeggiando qualcosa di speciale…» fece con una voce sempre più incerta. «Ti prego, non andar via così, lo so che sono un cretino e che non so parlare, ma resta…»

Mukuro si sforzò di sorridergli.

«Sei un cretino semianalfabeta» concordò con la consueta punta di sarcasmo, «ma sei il cretino semianalfabeta che preferisco. Bevi un drink al mandarino anche per me.»

«Kuro!»

Ma Mukuro stava già scendendo le scale antincendio con passi frettolosi dall’eco metallica, con l’idea fissa e dolorosa di aver sì, afferrato il suo sogno musicale, ma di averlo freddato subito dopo con un colpo al cuore in un impeto di follia.

 

*

 

La macchinetta produceva un lieve ronzio mentre dispensava infuso bollente color paglierino. Byakuran interruppe il flusso e passò la tazza con la mano sinistra mentre ne posizionava una seconda sotto l’erogatore. Di certo la cosa che gli piaceva di più degli alberghi internazionali era la comodità di servirsi qualcosa di caldo anche da soli quando il bar era chiuso.

«Su, prendila.»

Riluttante Mukuro fissò la tazza, ma alla fine la prese tra le due mani annusandola come un topo che si aspetta veleno.

«Bevi. È camomilla. Aiuta a calmare i nervi, idrata chi ha pianto e risolverà il tuo nodo allo stomaco.»

Byakuran sorrise allo stupore del ragazzo e si riempì la tazza per poi accomodarsi sul tappeto accanto al letto: da lì poteva guardarlo in faccia anche se cercava di sfuggirgli.

«Non c’è bisogno di essere un dottore… ho pianto anch’io un po’ di volte. So come si sta dopo una crisi bella robusta… la camomilla è l’ideale» asserì, e ne prese un sorso. «Ma se si è tristi va bene anche un tè forte.»

«Non servono queste moine. Non voglio parlare.»

«Ma lo farai… forse non ho la soluzione, ma tirarlo fuori è meglio che tenerlo lì. È proprio quello che non vuoi dire che ti fa quel nodo nello stomaco.»

Dopo aver definito il suo approccio “psicocazzate” Mukuro tacque e bevve a piccoli sorsi. Arrivato a metà tazza gli disse che perdeva tempo, che non era successo nulla di importante. Alla fine della prima tazza ne chiese un’altra – con aggiunta di zucchero – e ammise che aveva avuto una piccola “incomprensione” con Subaru.

Ran decise di non insistere e gli fece un’altra camomilla. Quando l’ebbe vuotata aveva vuotato anche il sacco confessando tutto il discorso e quello che aveva definito “tragico errore”. Per rispetto delle sue sensazioni Byakuran non rise, ma lo divertiva come usasse per un bacio improvvisato lo stesso tono disperato di qualcuno che confessa di aver ucciso un tale in uno slancio d’ira.

«So che mi odierai per averlo detto, ma… non mi sembra una tragedia, Indi. Subaru è stato molto gentile con te, non hai rovinato proprio niente.»

«Non si torna indietro da certe cose!»

Lo sorprese molto che Mukuro, di solito così pragmatico, scadesse in idee così puerili sui sentimenti, ma ci rifletté e risolse che probabilmente in barba alla sua filosofia di vita non sapesse ancora nulla dell’amore. Un po’ lo invidiò perché era passato tanto tempo da quando anche lui era animato da una così pura ingenuità.

«Lascia che uno più sciupato di te ti spieghi una cosa» fece con il tono più morbido che gli riuscisse. «Un’amicizia profonda resiste a tradimenti, parole crudeli dette con rabbia… persino a lunghi abbandoni. La confessione di un interesse non corrisposto è solo uno spruzzo di pioggia su una roccia, Indi. La vostra amicizia non l’ha neanche sentita una cosetta come questa.»

«Che accidenti ne sai?! Tu sei un totano!»

Byakuran si accigliò, confuso, e Mukuro approfittò del momento per fingere di grattarsi un sopracciglio mentre si asciugava un occhio.

«Sarebbe come dire che non so cosa provi ora?»

Una specie di grugnito fu la risposta e la prese per una conferma.

«So di che parlo, Indi… quando ero più giovane di te anche io mi sono dichiarato a qualcuno che non mi ricambiava.»

Mukuro lo guardò con un solo occhio aperto.

«Davvero…?»

«Sì, tre volte, a dire il vero. Andai a vuoto ogni volta.»

«Tre volte?» ripeté Mukuro, colpito. «E non hai neanche provato a suicidarti?»

«Nah» fece Byakuran scrollando le spalle. «Se offri un bicchierino a Night Hound te lo racconta tra grandi risate. Adora rivangare quella storia tremenda, è la sua storia da bisboccia, la racconta sempre quando si ubriaca… per fortuna se lui arriva a bere tanto è probabile che nessun altro se la ricorderà il giorno dopo.»

Accostò la tazza alle labbra perso negli offuscati ricordi dell’ultima narrazione di quell’epica storia.

«Mi sa che l’ultima volta la stava raccontando a un diplomatico francese che dormiva appoggiato al tavolo…»

«Night Hound si ubriaca?»

Byakuran alzò un sopracciglio.

«Sarà che lo conosco da sempre ma non so spiegarmi perché tu ti sorprenda. Night Hound è un gran festaiolo, un donnaiolo e un maniaco dell’estetica. All’inizio voleva chiamarsi Splendiferous, e questo era il nome meno vistoso della sua lista.»

«Uhm… in effetti, nelle foto che ho visto era parecchio eccentrico.»

Col pretesto di una goccia sul bordo della tazza Mukuro prese un tovagliolino, asciugò la porcellana e si tamponò l’altro occhio. Erano ancora lucidi, quindi anche se parlava d’altro la sua mente era ancora fissa sul suo enorme dramma interiore. Byakuran si sedette sul bordo del letto.

«Sai… non mi sono mai pentito di quelle confessioni» gli disse con una stretta incoraggiante sul braccio. «Vale sempre la pena di essere sinceri, anche quando siamo certi di non essere ricambiati. Luce diceva sempre che anche se siamo certi che non riusciremo a fare sei volte di fila il sei lanciando un dado, è comunque possibile

Mukuro emise un versetto scettico e svuotò la tazza, l’appoggiò sul comodino e prese a guastare il letto nel pigro tentativo di infilarsi sotto le coperte senza alzarsi.

«Ah-ah-ah, non se ne parla» lo bloccò Byakuran con un colpetto sulla gamba. «Alzati e mettiti le scarpe. Usciamo.»

«Non ci penso nemmeno.»

«È la prima volta che vieni a Tokyo e stai festeggiando una vittoria straordinaria, non ti permetto di sprecare queste occasioni irripetibili per mugugnare sotto la coperta tutta la sera e vergognarti di vivere. Alzati o ti trascino fuori di peso.»

«Non voglio andare. Non voglio vedere Subaru, è imbarazzante.»

«I ragazzi sono a Shibuya, diventeranno genitori di figli all’università prima di passare tutti i locali che ci sono» obiettò lui. «No, no. Niente del genere. Ti porto a Roppongi.»

«Eeh…» fece il ragazzo in tono lamentoso.

«È pieno di night club e di ristoranti, io ci vado sempre quando ho degli incontri ufficiali qui a Tokyo! Sai, è il posto più internazionale, quindi posso portarci anche tutti gli stranieri che incontro. C’è un posto che mi piace in particolare e oso azzardare l’ipotesi che se tu volessi provare un drink alcolico farebbero finta di non sapere la tua età~»

Mukuro lo fissò, ma buona parte della sua apatia era sparita.

«Sei un tutore pessimo.»

«La prima volta che ho bevuto mi ci ha portato il fidanzato di Aria. Avevo sedici anni.»

«Pessimo.»

«Lo so, tu sarai un fratellone e un padre migliore di me sotto molti aspetti» tagliò corto con un sorriso. «Ma sai, è da irresponsabili lasciare che dei minori provino a bere in locali di dubbia fama o con persone poco affidabili. Bere un bicchiere con me è molto meno pericoloso di lasciarti in giro a bere con persone che non conosco e che non ti controllano.»

Mukuro scuoteva la testa, ma aveva un accenno di sorriso sulle labbra.

«Su, andiamo. Un bicchiere e se sei stanco torniamo.»

Mukuro si spostò sul bordo del letto per recuperare i suoi stivali, ma la sua espressione non era ancora serena. La prospettiva gli piaceva, ma qualche altra cosa lo preoccupava ancora.

«Senti… Ran… potremmo… anticipare il ritorno a domattina?»

«Perché dovresti? Anche se non vuoi incontrare gli altri possiamo fare il nostro giorno da turisti prima di rientrare. Conosco un negozio a Shinjuku dove devi assolutamente fermarti prima di andare a casa.»

«Cioè?»

«Si chiama Pyon-ni. Vendono qualsiasi cosa tu possa immaginare a forma di pulcino o decorato con i pulcini.»

«E perché dovrei voler andare in un posto del genere?»

Byakuran scrollò le spalle strategicamente.

«Phoenix non ti ha chiesto di prendergli qualcosa? So che vuole andarci da un sacco di tempo. Come Civil Hero è un’icona di forza, ma come ragazzo è praticamente un cupcake. Adora gli uccellini.»

Mukuro si fece pensieroso mentre si allacciava gli stivali. Byakuran era sicuro che gran parte del suo malessere fosse dovuto non tanto al rifiuto di Subaru ma al senso di colpa di averci provato quando a casa qualcun altro aspettava da tempo di riscontrare da parte sua un briciolo di interesse.

«Conosco un sacco di posti se vuoi prendere qualche regalo per i tuoi amici… domattina a colazione decidiamo dove andare, se hai un’idea di cosa cercare. Piuttosto, che cosa vuoi bere stasera? Scegli bene, perché hai un solo tentativo.»

Ma su quell’argomento sembrava non avere il minimo dubbio.

«Old fashioned, quello con la ciliegia sopra!»

Ran non riuscì a non ridere mentre apriva la porta.

«Vecchio stampo persino in questo.»

 

*

 

Non credeva che un paio di palpebre potessero mai diventare tanto pesanti, eppure riusciva a fatica a tenerle aperte per scrutare le torte sul buffet della colazione.

«Sistemati i capelli.»

Mukuro si limitò a lanciare un’occhiata a Byakuran che gli era di fianco. Che ricordasse non aveva mai fatto le quattro di mattina neanche per studiare; si sentiva una specie di zombie e stando così le cose i suoi capelli erano l’ultima delle sue preoccupazioni.

Spazientito Byakuran glieli sistemò con la mano e per bella risposta lui lo minacciò con la forchetta.

«Fallo di nuovo e te l’inficco nella mano.»

«Non so cosa prendi la mattina per diventare mansueto, ma prendila in fretta.»

Non capiva né il suo tono né la sua preoccupazione, ma obbedì servendosi quattro tipi diversi di pasticcini al cioccolato e due fette di torta, non riuscendo a scegliere tra Sacher e cheesecake. Tornò al tavolo dove un cappuccino schiumoso lo aspettava e iniziò a spazzolare, lento ma sistematico, tutto ciò che aveva davanti.

Notò solo dopo che Byakuran aveva preso caffè nero in una grossa tazza e toast al burro.

«Tu non prendi mai quella roba a scuola» biascicò.

«A scuola non bevo. È la mia colazione post-alcolica.»

Mukuro era sempre stato troppo un bravo ragazzo per avere idea di quanto devastante fosse una sbronza e degli effetti che poteva avere anche una bevuta moderata, quindi ingenuamente non capiva perché ci fosse bisogno di una colazione apposita.

I suoi pensieri – e lo sguardo fisso sul nero del caffè di Byakuran – furono distratti dall’arrivo di un uomo in abiti formali in netto contrasto con una cravatta carnevalesca sui toni del fucsia, che si scusò del ritardo e si presentava con un biglietto da visita: era il signor Konami, agente musicale.

Dapprima Mukuro si emozionò pensando che fosse lì per chiedere di rappresentarlo, ma si emozionò tre volte tanto quando vide chi era la persona che già rappresentava.

«Akemi Nishimasa, in arte Selina Tao» la presentò l’uomo con un sorriso a trentadue denti. «Era una delle star che vengono invitate a dare il voto segreto al concorso Born to sing…»

L’ultima cosa che si era chiesto durante la gara era chi ci fosse dietro il pannello dei giudici segreti, e per fortuna: se avesse saputo di doversi esibire davanti a una delle tre star musicali che preferiva in assoluto gli sarebbe mancato il coraggio di aprire bocca.

«Spero di non avervi dato disturbo chiedendo un appuntamento così presto» si scusò lei mentre sedeva di fronte a un Mukuro stordito dalla meraviglia. «Ho saputo che non sareste rimasti a lungo e Konno ha insistito che era meglio anticipare gli altri!»

«Gli… altri chi?»

Byakuran sapeva che l’avrebbe incontrata, per questo motivo era così preoccupato dei suoi capelli scarmigliati. Decise di aspettare che lei svanisse all’orizzonte prima di strangolarlo.

«Altri idol, ovvio!» saltò su l’esuberante agente. «È molto raro che un compositore sia esterno alla band che suona al concorso, visto che ci sono molti contest per i songwriters, ma–»

«Quello che Konno cerca di dire» l’interruppe lei, per poi fare un sorriso timido al ragazzo, «è che ho adorato ogni parola di Loveless. Sto per compiere ventidue anni e voglio dare più intensità alla mia musica… e ho pensato che tu potessi darmela.»

«Io… io?»

«Sicuramente può» commentò Byakuran, nascondendo un sorrisetto dietro la tazza di caffè. «Ha vissuto con molte figure femminili intorno, sa sicuramente scrivere qualcosa di appropriato per una cantante donna.»

«Non sono sicuro di–»

«Ti prego, Indigo-kun, vorrei più di ogni altra cosa una canzone di amore sofferto come Loveless per il mio prossimo album! Finora ho avuto come target le giovanissime delle scuole medie o del liceo, ma ora…»

Selina Tao gli spiegò come voleva dare maturità alla sua immagine, che desiderava accompagnare le ragazze che erano state sue fan in un’età più adulta, e Mukuro continuava a domandarsi se avrebbe avuto il coraggio di dire che aveva accompagnato anche lui nella sua adolescenza. Non glielo confessò ma quella consapevolezza bastò a prendere una decisione.

«Credo che posso aiutarti a realizzare esattamente l’album che desideri.»

«Oh, magnifico! Indigo-kun, grazie!»

«Uhm… preferirei Mukuro. Insomma… Indigo è un nome che uso per un… certo stile di vita, se capisci cosa voglio dire. Non accetterò che venga usato come cassa di risonanza per quest’altra attività.»

Non ravvisò in nessuno dei due volti della delusione a quella notizia, e questo spazzò via l’idea che l’avessero scelto solo per una questione di marketing data dalla sua fama come Civil Hero. Era una possibilità che avesse comunque della risonanza in tal senso, ma almeno l’idol e il suo agente non avevano puntato dritti a quella.

«Allora siamo d’accordo?» insistette Akemi. «Faremo un contratto a progetto?»

«A progetto… cioè?»

«Scriverai per lei e solo per lei fino all’uscita dell’album… un’esclusiva a tempo determinato, diciamo, e se le vendite ti daranno ragione si può discutere di–»

«Di questo potrete discutere nel dettaglio con l’agente di Mukuro» l’interruppe Byakuran, e intascò il biglietto di Konami con enfasi. «Lo chiamerò in giornata e gli darò il suo recapito, così discuterete di numeri e di date. Il ragazzo ha del talento in molti campi, ma non può discutere i termini di un contratto. E soprattutto tenete a mente che frequenta la scuola ed è un’accademia per Civil Heroes, quindi è impegnato. Non chiedetegli l’impossibile.»

L’agente si dimostrò accomodante sulla questione scadenze, poi ordinarono caffè e tè si trattennero a parlare qualche minuto. Akemi cominciò da un momento saliente di Loveless per poi passare a ogni altro secondo del brano; sembrava averlo rivisto centinaia di volte e ricordava persino ognuna delle mosse altamente scenografiche di Subaru. Questo elogio gli impedì di sentire una sola sillaba di quello che discussero Byakuran e Konami, ma si salutarono in modo piuttosto amichevole prima di congedarsi. Akemi gli strinse la mano con la stessa tenerezza di un’amante e Mukuro rimase con la mano tesa anche mentre lei usciva dall’albergo.

«Ragazze davvero carine, queste idol» commentò Byakuran, abbassandogli la mano a forza. «E tu per essere uno che bacia dei ragazzi resti troppo imbambolato davanti alle donne, sai?»

«Ah, proprio tu parli» fece lui piccato, sedendosi. «Ti ho visto ieri sera, come fissavi quella cameriera.»

«Cameriera?»

«Non fare il furbo! Quella con il neo sul collo!»

«Dimostri ancora una volta di capirne poco di attrazione, Indi. La guardavo, ma non perché mi piacesse.»

«Certo, come no. E per che cosa? Sentiamo.»

«La guardavo perché la conosco. Era la ragazza di Night Hound all’università.»

Per fuggire dall’ennesima riprova che il professore dall’aspetto più equivoco dell’Accademia aveva – come i marinai – una donna in ogni città Mukuro scelse di spostare il discorso sui souvenir.

 

*

 

Se non fosse stato per un breve, lapidario messaggio mattutino Mukuro si sarebbe convinto che Phoenix sapesse della sua scellerata scappatella con Subaru – il suo senso di colpa aveva ingigantito l’incidente fino a queste elefantiache dimensioni – e non volesse più rivolgergli la parola. All’ennesima chiamata il suo compagno di scuola non rispose, dunque cercò di chiamare Tsunayoshi, poi Enma, Yamamoto, e infine per disperazione tentò di chiamare per la prima volta Restless.

Incredibilmente gli rispose al primo squillo.

«Ehi, Indigo.»

«Restless» fece lui sorpreso; era così sicuro di non trovarlo da non avere la risposta pronta. «Io stavo… ciao. Stavo cercando Phoenix, ma non risponde.»

«Non troverai nessuno, sono in punizione.»

«In… punizione? Per che cosa?»

«Sono andati a vedere la diretta del concorso nell’aula multimediale senza il permesso. Lal li ha beccati e ora stanno facendo un’esercitazione, finiscono tra un’ora. Un po’ meno di un’ora.»

Mukuro scosse la testa, sorridendo. Non sapeva se trovarlo divertente o preoccupante.

«Se tu non sei con loro non hai visto il concerto, immagino.»

«L’ho visto» lo contraddisse lui, spiazzandolo. «Ma comodamente seduto sul divano del soggiorno qui in dormitorio. È stato divertente, ma io ho preferito Walk proud dei Ni-iro Tai… senza offesa.»

Non lo sorprese: Walk proud era un pezzo molto più vicino all’hard rock e con un testo meno sdolcinato del suo; decisamente più nelle corde di Restless.

«Non mi offendo, i gruppi finalisti erano tutti eccezionali… se non ti dispiace, puoi dire a Phoenix che lo richiamo quando sono sullo shinkansen?»

«Okay» fece lui, con un vistoso buon umore che non si spiegava. «Ritorni oggi allora?»

Per contro l’umore di Mukuro si rabbuiò lievemente mentre guardava dentro al negozio.

«Sì, prima di cena… se riesco a far smettere Ran. Sta saccheggiando tutto quello che trova con sopra dei cagnolini.»

La commessa stava mostrando a Byakuran qualcosa che pareva un astuccio rigido o un qualche tipo di contenitore con uno Shiba disegnato sopra, il che lo riportò a Yamamoto e al resto della classe.

«Buona fortuna» stava dicendo Restless.

«Ah, piuttosto… ehm, c’è qualcosa che vorreste? Non ve l’ho neanche chiesto prima di partire. Si vede che non sono abituato a viaggiare.»

Restless emise un fonema ben noto che i ragazzi associavano al suo scrollare di spalle. Sentì lo scatto e lo sfrigolio di un accendino con qualche problemino meccanico, poi lo sentì soffiare.

«A quel tonto di Breaker puoi portare quello che ti pare. Una volta gli ho portato un fungo velenoso e lui era contento, se lo è fatto mettere in una scatola apposta per il collezionismo botanico. Un deficiente.»

Mukuro rise e suscitò così l’antipatia di un uomo con la barba malfatta che lo fissò con cipiglio di falco.

«Troverò qualcosa… per le ragazze? Le conosci meglio di me, una è la tua fidanzata.»

Dopo un giro di parole che voleva dissimulare il fatto che avesse una risposta pronta si decise a parlargli di certi strap fatti per coppie di amiche o di fidanzati, che si potevano staccare in due pezzi o ricongiungere per formare un disegno o una scritta completa. Prese nota del nome della marca, poi Restless gli consigliò le “solite cose” per Tsunayoshi ed Enma, vale a dire rispettivamente qualche gadget di videogames e qualche articolo particolare per appassionati di giardinaggio.

«E a te che cosa porto?»

«Non portarmi niente» mugugnò lui con la sigaretta fra le labbra. Schioccava ancora l’accendino. «Non sono il tipo da souvenir. Quando vado in giro io porto solo un portafortuna a Love perché lei ci tiene, e se lo trovo qualcosa da mangiare per gli altri.»

«Beh, d’accordo. Basta che poi non ci resti male» abbozzò Mukuro, con gli occhi fissi su una figura che gli veniva incontro. «Devo andare. Se lo lascio un altro minuto credo che comprerà un cane vero.»

Restless diede in un rumore di naso che era forse una risata improvvisa uscita da dove poteva e con un saluto breve chiuse la chiamata. Mukuro abbassò il telefono e non si alzò dalla panchina mentre Subaru gli si avvicinava con aria incerta.

«Ehm, ciao.»

«Ciao, Subaru.»

«Ti ho cercato come un matto…»

«Sorprendente che mi abbia trovato in una città come Tokyo. Hai anche tu un potere Auris?»

Subaru accennò una risata e sollevò il telefono mostrandogli lo schermo.

«Per fortuna sei famoso… ho seguito i tweet man mano che ti spostavi da un negozio all’altro.»

In un altro giorno della vita avrebbero fatto battute e scherzato su questo argomento, ma non era dell’umore. Non era arrabbiato con Subaru per il suo rifiuto – dal suo punto di vista perfettamente legittimo – ma non era in vena di far finta che fosse tutto normale.

«Che cosa volevi con tanta urgenza? Non hai provato a chiamarmi, mi sembra.»

«No, in effetti ho… pensato che era meglio se ne parlavamo di persona… riguardo a ieri sera.»

«No, devo dirti io una cosa» lo bloccò Mukuro. «Non dare peso a quello che è successo ieri sera. Ero ancora inebriato dal palco, dalla vittoria, e ho leggermente distorto qualche frase che mi hai detto le ultime volte che ci siamo sentiti. Ho avuto l’impressione che ci fosse qualcosa in più, ma l’euforia mi ha fatto reagire a sproposito.»

«Ma a me non dispiace» protestò Subaru. «Cioè… tu sei ancora il mio migliore amico, Kuro, e ammiro un sacco di cose di te. Sei una gran persona, solo che mi disturba che… insomma, che sei maschio mi disturba in quel senso, capisci?»

Suo malgrado gli uscì un risatina.

«Cielo, Subaru, faresti incazzare chiunque tranne me.»

«Ecco, vedi? Per questo tu sei il mio migliore amico: sai che non so spiegare un cavolo, le mie canzoni sembrano filastrocche per bambini ritardati ma tu mi capisci lo stesso! Un altro mi prenderebbe a pugni!»

«Sei fortunato, perché i miei pugni fanno proprio male.»

Subaru rise, sollevato di non incontrare un muro di rabbia, diffidenza e nevrosi.

«Però te lo voglio dire, Kuro. Un po’ l’ho sempre pensato che tu fossi così.»

Il suo sorriso sbiadì sotto qualche strato di robusto panico.

«Si… nota tanto?»

«Non proprio, ma… beh, ti conosco bene» fece lui scrollando le spalle. «E se ti conosco quanto penso, mi sa che so anche chi è l’altro.»

«L’altro?»

«Beh, ieri sera sei scappato via mica per me, no? Ho pensato che magari era perché ti sentivi in colpa per l’altro ragazzo.»

Subaru Matsuda poteva anche essere il più semplice degli esseri umani, con una capacità letteraria da album di figurine calcistiche e con la filosofia di vita della pancia piena che risolve ogni dramma, ma come un altro che conosceva con la fama di idiota anche lui era dannatamente bravo a leggere la gente.

Si spostò i capelli dietro l’orecchio mentre lo guardava da sotto in su.

«E chi pensi che sia questo fantomatico altro?»

«Mi sa che è il ragazzo col costume rosso. Mad Phoenix, si chiama così, no?»

Perplesso restò a guardarlo chiedendosi se Subaru non fosse davvero un segreto Auris che leggeva nel pensiero.

«Ho visto al telegiornale la storia di quel Ribelle, Hell Cat» fece lui in tono di scuse, come se vederlo al telegiornale fosse un’invasione della privacy. «Quando il tuo amico è andato giù con quelle spine velenose tu sei impazzito… e… è una cosa che ho sentito a pelle. Tu sei uno col cuore gentile, per avere quegli occhi da bestia lui doveva essere importante per te.»

Il suo cuore diede un colpetto fiacco, come un pesce moribondo nel fango del suo senso di colpa.

«Voglio incontrare questo ragazzo, che dici? Magari vengo a trovarti su a Mizura per le vacanze invernali!»

«Davvero?»

«Voglio vedere se questo ragazzo è quello giusto per te. Non ti voglio tenere io ma non vuol dire che ti lascio in mezzo alla strada dove può acchiapparti chiunque! No, no. Lo sceglieremo bene.»

«Sembri una quindicenne incinta che cerca una famiglia adottiva per il figlio.»

«Non essere spietato» protestò Subaru. «Di’ almeno una diciassettenne incinta!»

Risero insieme e per la prima volta dalla sera prima Mukuro ebbe almeno la speranza che il loro rapporto tornasse come prima della sua mossa infelice. Si alzò in piedi e gli prese il gomito per farsi seguire mentre si avviava sul marciapiede.

«Mi ricordo male o tuo zio coltiva i bonsai?»

«Sì, lo fa, anche mia mamma. Perché?»

«Sto cercando dei regali per la mia classe. Uno dei miei amici coltiva le piante in una serra, fa il compost con gli scarti di cucina… cose del genere. Ti viene in mente qualcosa che potrei portargli?»

«Mh-mh, credo di sì. Quanto vuoi spendere?»

«Oh» fece Mukuro fermandosi di colpo. «Quasi me ne dimenticavo… scusa, vado a prendere la carta di credito.»

Girò sui tacchi e rientrò nel negozio per recuperare Byakuran.

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Capitolo 18
*** Somber memories ***


 

Percival lasciò il ponte di comando non appena la Grandcypher fu fuori dalle barriere frangiflutti del porto, lasciando nelle sapienti mani di Rackam il timone e le mappe. Parlò con un paio di persone dell’equipaggio mentre si faceva strada e infine, molto prima della cabina dove pensava di trovarlo, scovò il capitano a prua. Aveva gli occhi azzurri abbassati e fissava qualcosa che sporgeva da un certo sacchetto di velluto molto frusto che aveva sempre notato alla sua cintura o nella sua stanza.

«Gran.»

Che ricordasse era la prima volta che lo prendeva di sorpresa in una situazione tranquilla. Lui si affrettò a richiudere il sacchetto e gli fece un sorriso.

«Ciao, Percy… che succede?»

«Non abbiamo trovato niente nemmeno qui.»

Il capitano annuì con aria solenne, ma non era rabbuiato né nervoso come altre volte.

«Eppure abbiamo rivoltato ogni sasso sulla strada fatta da Wing Emperor nell’ultimo anno» insistette lui, infastidito. «Perché Wheel of Fortune non si trova?»

«Perché è nascosto bene. Per questo non è facile trovarlo… neanche le persone che vengono in contatto con lui sanno che cosa sia. Non prima che lui voglia essere scoperto.»

«Ma manca poco! Hai detto tu che il tempo sta per scadere!»

«Probabilmente» fece lui, sul vago e con tono sereno.

«Ti stai arrendendo, Gran? Non mi piace il tuo tono.»

Gran scosse la testa e raddrizzò la schiena.

«So che scovarlo prima della Rivelazione è un ago nel pagliaio… speravo di aver trovato l’imbeccata giusta quando abbiamo conosciuto Wing Emperor, ma… non basta. Non è insieme a lui, ora. Se non riusciamo a capire dove sono stati così vicini non c’è modo di trovarlo. Sarà molto più facile dopo la Rivelazione, comunque» aggiunse semplicemente. «È fin troppo abituato a essere sopra le righe. Dopo la Rivelazione non si potrà nascondere neanche se ci prova.»

«E se è troppo tardi? Se ha già… cambiato qualcosa?»

«La prossima cometa.»

Percival tacque, più frastornato della volta in cui era stato sbalzato in mare da un’esplosione a bordo. Ne aveva fin sopra i capelli delle sue metafore e delle sue risposte più fumose di una fumeria olandese e serrò i pugni.

«Gran, la prossima cometa passerà tra cento anni.»

«Sì, qualcosina in più, ma un secolo buono. Sì.»

«Comincio a stancarmi di queste assurdità che mi propini ogni volta» scandì tentando di mantenere il tono più calmo e il volume più moderato riuscisse. «O mi spieghi che accidenti sta succedendo qui o al prossimo porto mi assicurerò di sbarcare tutte le mie cose e me stesso con loro.»

Gran non era né spaventato da quella minaccia né turbato dalla prospettiva; lo guardò solo con lo sguardo di qualcuno che aveva a lungo atteso e temuto quel giorno.

«Fai sapere a Rackam dove preferiresti scendere. Ti ci porteremo, Percy.»

«Cosa… non hai intenzione di dirmi niente?!»

Il capitano si voltò e si avviò verso le scale che portavano alla sua cabina, con l’atteggiamento imperturbabile che teneva sempre riguardo le faccende più serie.

«Ho intenzione di spiegarti tutto» replicò con sua sorpresa, «ma quando l’avrò fatto desidererai lo stesso andartene.»

Con quella premessa Percival non voleva perdere una parola: corse dietro al suo capitano fino alla stanza che usava come studio – una piccola cabina con uno scrittoio, due sedie, un piccolo tavolino e accatastati vari libri antichi – e attese con impazienza che si facesse portare il tè dalle cucine.

Ingannò a stento quell’angosciosa attesa guardando Gran che apriva alcuni libri e disponeva dei fogli sullo scrittoio, vicino al suo sacchetto di velluto. Infine, col vassoio sul tavolino e il profumo di Earl Grey nell’aria, il capitano smise di sfuggirgli e si sedette.

«Siediti, Percival. È una storia lunga e assurda, e richiederà tutta la tua capacità di credere nell’intangibile… probabilmente, più di quella di cui sei dotato. Nessuno ti muoverà critiche se deciderai che siamo solo pazzi e che puoi sfruttare meglio la tua vita. Se così sarà, ci separeremo senza rancori e ti augurerò ogni bene.»

Percival sedette impettito – pronto a dimostrargli che era più flessibile e aperto di quanto il capitano credesse – e Gran aprì il sacchetto, sfilandone delle fruste carte. Erano riccamente decorate ma il tempo non era stato clemente con la brillantezza dei colori e l’integrità stessa della pergamena.

«Sai che cosa sono i tarocchi?»

«Direi di sì. Carte illustrate che in certe culture erano usate per predire il futuro… ancora oggi qualche ciarlatana coperta di veli e di perline le usa per truffare le persone che–»

«Sai a quando risalgono?»

«Non saprei… forse al Medioevo.»

«La diffusione risale a quell’epoca… ma questo è il primo mazzo di tarocchi mai esistito. Come vedi sono illustrazioni fatte su pergamene più grandi e poi tagliate» spiegò, allungandogliene una. «Risalgono all’VIII secolo… e io so chi le ha disegnate.»

Percival scrutò l’immagine sommariamente e alzò gli occhi su Gran. Aveva l’aria di chi sta per confessare qualcosa di atroce.

«Sono stato io» fece a bassa voce. «Seguendo le indicazioni di un uomo che incontrai allora.»

Percival guardò il ragazzo e poi la carta, senza parlare. Era troppo assurdo persino per scoppiare a ridere e si chiese da quanto tempo quel ragazzo avesse qualcosa che non andava nella testa… ma poi un assemblaggio di stralci di frasi, di bizzarrie che gli aveva visto fare o sentito dire, e tutto ciò che conosceva a menadito come lingue antiche o la storia vecchia di secoli insinuò un dubbio nella sua mente.

«E questo… che cosa avrebbe a che fare con quello che cerchiamo?»

«Tutto» fece lui, e l’invitò a osservare la carta.

Sulla carta era raffigurato un uomo seduto sulla cima di una ruota a raggi, con vesti scure e una spada, una giovane donna da un lato e un giovanetto dall’altro; impossibile stabilire dal disegno chi dei due stesse salendo o scendendo. L’uomo aveva capelli neri e ciò che restava del suo volto erano tratti consunti e tracce di un pigmento rossastro. Le giovani figure laterali erano posizionate in modo che non si vedessero i loro volti.

«Quello è Wheel of Fortune… è l’uomo che stiamo cercando ora. L’uomo che cerco ogni volta che passa la Sharui Avakti.»

«Aspetta… aspetta. Se questo è… non dovrebbe essere morto?»

Il solo fatto innegabile che avesse posto una domanda simile su un uomo vissuto nell’VIII secolo la diceva lunga su quanto la situazione fosse surreale.

«È morto, infatti… e anche io.»

A quell’uscita neanche l’assennato, posato Percival riuscì a contenere un moto di sbigottimento.

«Sono morto nel 788 dopo Cristo, il quattro giugno, ai confini del regno d’Ungheria… mi hanno trafitto alla schiena mentre uccidevo Lyria.»

Percival chiuse gli occhi e si massaggiò la fronte con la mano. Era ben oltre il livello di assurdo che aveva preventivato.

«Di che cavolo stai parlando, Gran?»

«Percy, se volessi giustificare una caccia inesistente o qualche altra bugia ti pare che le sparerei così grosse?»

Questo è vero, non mi spinge certo a restare raccontando cose del genere.

«Ho delle domande» fece allora in un tono che non ammetteva opposizioni.

«Tutte quelle che desideri.»

«Di solito la gente morta resta tale. Perché tu e Lyria no, se è vero quello che mi hai raccontato?»

«Perché i corpi muoiono, ma le anime no» replicò Gran, mentre versava il tè. «Quando il corpo muore l’anima risale verso il Velo Superiore. Una parte alta del cielo, per essere concisi, e lì avviene una specie di… lavaggio. Non posso dirti di più su questo, chi vive qui non dovrebbe saperlo.»

Lord of Flames si accigliò oltre la soglia di pericolo.

«Lo so, Percy, perdonami ma non faccio io le regole… posso spiegare tutto ma non quello che c’è su. Posso solo dirti che la leggenda della Dea Dorata che ha generato gli Auris… non è così distante dalla realtà.»

Percival si aggrappò a quella tazza di Earl Grey come se fosse l’indispensabile ancora per restare nel mondo normale che conosceva fino a dieci minuti prima.

«Non spiega perché siete qui.»

«Lo spiega… Lyria ha perdonato l’ignobile individuo che ero per averla uccisa senza una ragione e ha desiderato salvarlo. Questo suo atto di bontà ha legato le nostre anime insieme… e per questo siamo ancora qui. Ho fatto un voto e lei è obbligata a essere con me fino a che non lo avremo assolto. Siamo morti, ma siamo ritornati… ed è la sorgente misteriosa del nostro potere, l’essere stati lì da dove le anime dei morti non tornano nella stessa forma.»

Sarebbe stato meglio avere qualcosa di più robusto per ingoiare quella storia, ma Percival, senza saperlo, reagì molto meglio di chiunque altro avesse sentito la storia prima di lui.

«Wheel of Fortune» fece allora, con il dito sulla carta. «Lui cosa c’entra?»

«Tutto. Wheel of Fortune mi ha portato a livelli di gloria da far ubriacare un ragazzino povero, poi mi ha rigettato nella polvere, più giù di dov’ero partito.»

«Non mi dirai che è tutta una storia infinita di vendetta!»

«No, ovviamente no. Lo era allora, perché aveva acceso la mia rabbia e l’aveva diretta su Lyria, ma poi ho capito che era un piano preciso, il suo. Stava creando un altro Principio.»

Gran si accorse di aver perso il suo interlocutore e sparpagliò le carte rimaste sul poco spazio del tavolino.

«Disegnai queste per mettere su carta quello che lui mi spiegò dei Principi. Archetipi del mondo, matrici di stampa per ogni anima umana e anima mundi… lui è la Ruota, che sta ferma immobile o gira secondo il capriccio, che porta su, porta giù, o travolge qualsiasi cosa e persona secondo il suo disegno. È la sua natura e il suo scopo: portare il cambiamento, agendo o non agendo.»

La sua spiegazione si stava facendo più fitta, più pressante, come se dopo tanto tempo e tante persone fuggite ai primi segni di pazzia desiderasse che Percival comprendesse, finalmente. Lui era disposto almeno a tentare di esaudire quel desiderio.

«Non chiedermi come lo so, perché è una spiegazione ancora più lunga e complicata… ho parlato con centinaia di negromanti, medium, stregoni e alchimisti per cercare di capire» proseguì indicando una carta. «Ma lui ha fatto questo a me e a Lyria per generare un nuovo Principio. Un’entità superiore all’umano, simile a lui…»

Percival squadrò la carta degli Amanti: un uomo e una donna si prendevano per mano al cospetto di una fonte.

«Lyria e io siamo legati per sempre, dopo quello che è successo… probabilmente lo resteremo anche dopo la morte, quando raggiungeremo il Velo Superiore per l’ultima volta con questa forma. Come gli Amanti dell’archetipo, la matrice di un legame indissolubile tra anime.»

Anche sotto la confusione di quella conversazione Percival riuscì a sentire un fastidio, come se invece di un sorso di tè avesse ingoiato il guscio spinoso di una castagna. Accantonò quella sensazione: aveva questioni più importanti da mettere al loro posto.

«Perché lo fa?»

«Vuole completare la serie… avere tutti gli archetipi, tutti e ventidue.»

«E a quel punto che cosa succederebbe?»

«Lui le definì “matrici del mondo”… e… avere una serie completa di matrici ti permette di stampare un qualsiasi libro, no?»

«Vuoi dire che…»

«Forse è un banale collezionista… o forse quando avrà tutte le matrici cancellerà questo mondo e ne farà uno nuovo. Ha il potere per farlo, Percy» aggiunse accorato. «Credimi, non sono pazzo. Se solo potessi farti vedere quello che ho visto io in tutti questi cicli…»

Fosse stato chiunque altro a propinargli quella favola oscura ne avrebbe ascoltata nemmeno metà, si sarebbe alzato contrariato di essere reputato un babbeo e avrebbe preteso di scendere dalla nave. Se ne sarebbe andato per non voltarsi più indietro.

Ma quello era Gran, il ragazzo conosciuto anni prima, con il coraggio e gli ideali di perseguire la giustizia sociale in ogni luogo, di mettere la vita delle persone davanti a tutto. Il ragazzo che aveva la stima di compagni più adulti di lui, che ogni governo del mondo rispettava, e che era stato felice di accoglierlo quando era poco più che ventenne. Il ragazzo – ci pensò davvero solo in quel momento – che non era invecchiato di un giorno da quando era salito a bordo…

Prese la sua mano con fermezza.

«Non penso che tu sia pazzo, Gran… ma voglio capire a fondo, farmi un’idea mia di che cosa significa. Dovessi leggere tutti questi libri e diari per riuscirci, non me ne andrò finché non sarò certo di aver capito.»

Vide il sollievo sul volto del capitano ed ebbe una fugace apparizione del suo sorriso prima che si sporgesse e lo baciasse sulla bocca, con le dita della mano libera che affondavano nei suoi capelli rossi. La consueta foga del suo bacio, ma di effimera durata.

«Grazie, Percival… non sai che cosa significhi per me poterti dire tutta la verità.»

Percival lasciò che i pensieri peggiori scivolassero da parte per un altro momento di riflessione e abbozzò un sorriso, facendogli una carezza incerta sul viso.

«Come verità ha i suoi risvolti positivi… mi metteva a disagio che sembrassi così giovane. Mi sono chiesto spesso se mentissi sulla tua età.»

«A me non è sembrato proprio che fossi a disagio con me, Percy~»

«Non essere impudente!»

Rise allegro mentre tentava di sfuggire al pizzicotto di Percival, ma lui si sentiva molto meno felice mentre cercava di scappare da pensieri opprimenti. Se quell’assurda storia era vera, se quel capriccio del divino era la fonte del potere dei due Azure, allora molte sue certezze dovevano essere messe in discussione… e la visione della vita e della morte non era tra quelle che lo tormentavano di più.

«Se sei così da allora… immagino che non invecchieremo insieme.»

Gran scosse piano la testa, con uno sguardo carico di tenerezza e velato di malinconia.

«Quand’è così mi terrò abbastanza in forma da prenderti a scudisciate se proverai a ridere di me.»

Se Percival aveva fatto uno sforzo eroico per mantenerla su un piano scherzoso Gran non lasciò che quel sacrificio fosse vano, ridendo con allegria.

«Okay, ma nel dubbio ti troveremo una sedia a dondolo… ah» fece, e scattò dalla sedia per sfuggire a un pizzicotto punitivo, «mi è venuto in mente un posto dove potremmo cercare. Do la rotta a Rackam e poi ti spiego.»

Uscì lasciando la porta aperta e Percival piombò nel silenzio gravoso dei suoi pensieri. Era tutto assurdo, ma le insensatezze di quella coppia sembravano essere più logiche con quei presupposti.

Strinse una mano con l’altra, gli occhi rossi sul fondo ambrato del tè. Dopo una breve e dolorosa lotta interiore ottenne una risoluzione e quando il capitano rientrò sorrise senza sforzo. Poteva ancora restare con lui per tutta la sua vita, e finire per sembrare suo nonno era un piccolo prezzo per così tanto tempo speso insieme.

 

*

 

Si era addormentato, ma dal respiro ancora non regolare vicino a lui capì che doveva essersi disconnesso solo per pochi secondi. Senza aprire gli occhi allungò le braccia e si strinse contro quel corpo caldo e morbido con un profumo di vaniglia che era impresso nella sua memoria.

«Ran?»

«Mh?»

«Perché hai aspettato tanto? Credevo che non saresti tornato più… come l’altra volta.»

Le braccia di Amber lo agguantarono, neanche avesse paura che si alzasse e scappasse via in volo. Di ben altro avviso Byakuran affondò il viso nella piega del collo.

«Scusami se sono stato via tanto» le sussurrò sulla pelle. «Ero passato prima della cometa per stare un po’ con te…»

«Lo so. Demi me lo ha detto» replicò lei con quella fredda punta di gelosia. «E mi ha detto di Fuyumi. È sparita dopo che l’hai vista tu.»

Gli fu più chiaro come mai Amber fosse tanto sorpresa di trovarselo alla porta e perché gli fosse sembrata sull’orlo delle lacrime quando le aveva portato il peluche a forma di Golden Retriever.

«Pensavi che me la fossi portata via e l’avessi sposata, come in qualche favola?»

La sua mano strinse la presa e con le lunghe unghie finte gli graffiò leggermente la schiena.

«Oh, Ran, dopo così tanto tempo dall’ultima volta ormai ne ero sicura… Fuyumi ha anche un bambino piccolo, ho pensato che…»

«Che mi fossi costruito una famiglia così? Sai che non lo farei mai. Devi fidarti di me, Amber.»

«Però l’hai adottato quel ragazzo» insistette lei. «L’ho visto alla televisione. Indigo, lo chiamano.»

Byakuran percepì un’esitazione su quel nome, ma l’imputò alle sue paure.

«Sì, ma è stata… una specie di emergenza.»

Cercando di essere conciso raccontò ad Amber della visita a tarda sera della signora Kujaku e dei suoi propositi di dare a Mukuro un po’ di tempo per essere egoista e ai suoi bambini più piccoli qualche vizio per farli più contenti. Non riuscì però ad aggiungere nulla su Momo, sulla fotografia mentale che gli aveva chiesto e neanche sulle lettere che si erano scambiati successivamente. Temeva che Amber, da sempre una ragazza sregolata con una famiglia complicata – e, da qualche anno, una professione non esattamente ben vista – si sarebbe sentita accantonata in favore di una ragazza più giovane, raffinata e innocente.

«E se l’è presa? Mukuro, voglio dire.»

«All’inizio non l’ha presa molto bene, e…»

Si bloccò mentre parlava e si staccò da lei per guardarla in faccia.

«Come sai come si chiama? In televisione dicono sempre il suo nome da Civil Hero.»

«Sei sicuro?» fece lei, con una vocetta. «Mhh, eppure sono sicura che l’ho sentito da qualche parte.»

Usare il vero nome di un Civil Hero minorenne sui canali d’informazione era una grave violazione quindi era piuttosto sicuro che nessuno lo sapesse, ma era anche vero che era apparso al concorso musicale e molti lo avevano riconosciuto. Non ricordava se fosse stato chiaro a chi si riferissero; ricordava che il presentatore aveva nominato i membri della band, il nome del gruppo e indicando Mukuro come autore del testo e delle parole… ma non era del tutto certo che si capisse quale dei ragazzi fosse Mukuro.

Certo ha l’espressione sfuggente di quando mi diceva che aveva studiato invece di andare in sala giochi… ma come potrebbe mai conoscerlo? Uno come Mukuro non penserebbe mai di passare anche solo davanti a un posto famoso per le prostitute.

A quel punto lei esibì un sorriso furbetto.

«Pensi che abbia insegnato come si fa anche a lui, Ran-chan?»

«Se così fosse gli aprirei la testa come un melone.»

«Aw, sei geloso~»

«No, ma è minorenne, quindi che faccia come tutti gli altri e aspetti la maggiore età!»

Poi il suo momentaneo sprazzo d’ira svanì, lasciando il posto alla calma rassicurante dell’ovvietà.

«Ma non credo lo vedrai mai. Non dirlo ad anima viva, ma ieri mattina era disperato perché gli è scappato di baciare un suo amico d’infanzia e lui ha un altro ragazzo che gli fa il filo a scuola.»

Amber rise e con il dito gli accarezzò la punta del naso.

«Sembrate davvero imparentati… anche tu eri così alla sua età. Timido e romantico.»

Non colse quell’invito a rivangare i primi anni della loro amicizia, ma si perse volentieri per un po’ a guardare in silenzio i suoi occhi azzurri. Fin da allora aveva sempre trovato che avessero una tonalità insolita, una sfumatura che aveva sempre chiamato “azzurro caldo”: non erano blu, né turchesi, né avevano il colore freddo del ghiaccio. Era impossibile trovare una descrizione esatta, anche per un pittore.

«Amber» fece allora, dopo minuti di quella contemplazione, «tanto tempo fa ti ho fatto una proposta e l’hai rifiutata…»

Amber smise di sorridere, ma non di accarezzargli i capelli.

«No, Ran.»

«Perché no?»

«Non è cambiato niente da allora. Tu sei Wing Emperor, la luce di un popolo intero… e io sono sempre una ex tossica e una prostituta.»

Non sopportava che parlasse in modo così sprezzante di se stessa: avrebbe preferito che lo schiaffeggiasse, gli avrebbe fatto meno male.

«Come sei una ex tossica puoi essere anche una ex prostituta.»

«È questo il posto per gente come me, Ran. Mi dispiace che tu speri ancora in qualcosa di diverso.»

Ran si sollevò seduto, fissandola dall’alto in basso, con un fastidio crescente.

«Perché ti ostini tanto, Amber? Ti piace veramente vivere in questo buco a rovesciare boccette di profumo alla vaniglia sulle lenzuola sperando di coprire l’odore di uomini che non volevi conoscere?»

Voci contrastanti tormentavano la sua mente. Riconobbe immediatamente il vecchio Wing Emperor, che gli rimproverava di aver contribuito in modo meschino e disdicevole ai guadagni della sua sventurata compagna di scuola; più difficile fu riconoscere il debole belato della sua parte più fragile che lo implorava di non affliggere Amber con quelle parole crudeli. La frustrazione però ebbe il sopravvento su entrambe.

«Vuoi stare qui perché pensi che te lo meriti, per essere stata una tossica o per non essere riuscita a prendere una decisione assennata mentre non c’ero?» rincarò, e subito ebbe un’altra illuminazione. «O è per me? Pensi che io me lo merito? Che ti ho lasciata sola per diventare l’uomo più importante del mondo e mi merito di tormentarmi pensandoti qui con chissà chi, a subire abusi dai quali non ti posso proteggere, a prenderti malattie che non posso curare?»

Amber era sull’orlo delle lacrime e gli assestò un pugno nel costato. Per sua fortuna non era una ragazza forte né sapeva come tirare un colpo efficace, ma lo accusò lo stesso.

«Ran, non lo capisci?! Se qualcuno ti vedesse mai con me si metterebbero a scavare! Scoprirebbero la riabilitazione, scoprirebbero che lavoro ho fatto, e pensi che la reputazione di Wing Emperor sopravviverebbe?!»

«Amber, dannazione, che cosa cazzo pensi che me ne importi?!»

Amber tacque, interdetta, ma non era l’unica. Ran serrò gli occhi e tentò di non ascoltare quell’oscuro stregone, l’Imperatore cattivo, il tiranno che lanciava il suo giudizio sul popolo come una scure.

Pensi veramente che puoi abbandonare così? Che dopo essere diventato un dio vivente, un simbolo globale, una leggenda, tu possa semplicemente dire al mondo che rinunci per i tuoi capricci? Per una ragione così aberrante come una donna che si è venduta a chiunque? Tutto quello che hai sacrificato sarebbe perso, per una donna che verrà additata per sempre!

«Cosa cazzo me ne frega?!» gridò Byakuran tirando un pugno sul cuscino. «Perché dovete sempre dirmi quello che devo fare e che non devo fare?!»

Amber era senza parole e si stringeva il lenzuolo al petto. Sospirò per cercare di controllarsi, sentendo già i rimorsi per averla spaventata, ma poi riaffiorò un ricordo. Gli sfuggiva il contesto e non ricordava quando fosse accaduto, ma Mukuro gli aveva detto di non distruggersi.

«Voglio solo dire… che sono stanco, Amber… da quando sono stato via, in pratica ho pace con me stesso solo quando sono con te… e poi c’è stato Indigo» aggiunse, con sincerità. «Non lo conoscevo, eppure… stare con lui è come stare con te. Come se anche lui mi conoscesse da prima che… mi mettessero quella maschera.»

«Ran…»

«Per favore… ti ho lasciata sola, e mi dispiace, non sai quanto. Ma non significa che dobbiamo continuare a sbagliarci e a tormentarci per tutta la vita. Vieni via con me, adesso!»

«Sei impazzito, Ran? Prendi qualche medicina?»

«Solo un po’ di serenità in pillole, e ti assicuro che fa miracoli» fece lui in un tentativo di stemperare l’atmosfera tesa che aveva creato. «Ti prego, Amber… Fuyumi l’ha fatto. Vedessi com’è felice adesso.»

«L’hai portata via tu» fece lei con una sfumatura di accusa.

«Era la notte prima che entrassimo nella coda della cometa… e Fuyumi è un’Auris. Stava perdendo il controllo del suo potere e l’ho portata all’Accademia per il programma di contenimento.»

Amber non disse niente, ma mise i piedi giù dal letto, alla caccia dei suoi vestiti sparsi lì intorno.

«Aveva una brutta malattia a uno stadio avanzato. Aveva bisogno di altre cure e le ha avute… ora lavora nella mia scuola e mantiene il suo bambino» proseguì lui. «Sai, Indigo gli insegna musica… è bravo coi piccoli, sono diventati subito amici…»

Amber non lo guardava mentre infilava il reggiseno. Le sfiorò le mani – col bel rischio che si girasse e gli tirasse un ceffone in piena faccia – ma lei lasciò che le agganciasse la chiusura sulla schiena.

«Se può ricostruirsi una vita lei… perché non tu? Tu non hai figli… puoi ancora finire gli studi, o trovarti un lavoro… e pensare a una famiglia che sia più bella di quella dalla quale provieni. Indigo mi ha dimostrato che le scelte migliori sono quelle che si fanno con più paura.»

Si stava infilando i collant e le tremavano le mani. Ran si alzò per recuperare la sua vestaglia, appoggiata su una poltroncina dietro la porta, e tornò a posargliela sulle spalle.

«Non sei… obbligata a stare con me, sai. Ci sono tanti alloggi liberi nell’Accademia, ti posso anche trovare un lavoro se ti aiuta a non sentirti un peso… possiamo essere amici come quando eravamo al liceo, e lasciare che le cose vadano da sé.»

Amber non lo respinse quando la strinse in un abbraccio e poi lo strinse a sua volta.

«E a te… starebbe bene se non stessimo più insieme così?»

Una risposta brutalmente sincera sarebbe stata una negazione, perché quei momenti con Amber lo facevano sentire così libero da sembrare un’altra vita, salvo poi trovarsi sbranato dal codice morale assoluto a cui credeva che Wing Emperor dovesse attenersi.

Solo allora riuscì a capire quanto era stato ipocrita per tutti quegli anni: aveva detto a Mukuro di non sacrificarsi per un simbolo equiparabile a una bandiera, eppure lui si era ucciso come persona per idolatrare quel vessillo.

Quanto sono stato cieco…

«Mpf, certo, io lo dico da anni ma niente, poi arriva il moccioso e gli dai subito retta! Se mi potessi vedere in faccia ti avrei convinto anche io con la mia avvenenza, sai?»

Per la prima volta persino quella presenza subdola non riuscì a turbarlo; anzi trovò divertente quel commento e sorrise.

«Amber… i miei sentimenti non sono cambiati. Per questo posso dirti che anche se mi dispiacerebbe tremendamente se questa fosse la nostra ultima volta insieme, io preferirei sapere che sei al sicuro e che sei felice… o almeno, serena.»

La ragazza lo strinse più forte.

«Voglio fare una cosa per prima, quando mi avrai portata a casa.»

Anche se lo sapeva impossibile avrebbe giurato di aver sentito il cuore fare una capriola.

«Qualsiasi cosa tu voglia.»

«Voglio salutare Kikyo» fece lei, lasciandolo interdetto. «Mi deve ancora una cola dal giorno in cui me l’ha presa per farla scoppiare in faccia a quell’idiota di Yazawa della terza B.»

Byakuran rise; un suono carico di tenerezza più che di divertimento.

«Sei crudele… io te l’ho ricomprata subito, la bibita.»

«Oh, lo so, Ran-chan, e sei stato carino… ma lui ha ancora un debito, e non scapperà.»

Strinse Amber accarezzandole i capelli. Non era proprio la richiesta romantica che si aspettava, ma almeno Kikyo avrebbe smesso una volta per tutte di rimproverarlo sulle sue frequentazioni pericolose nel quartiere della luna crescente.

 

*

 

La porta non faceva rumore e la pioggia scrosciante di quel giorno copriva fruscii e passi leggeri, perciò Mukuro non si accorse dell’ingresso di Phoenix nella sua stanza mentre era preso a ripassare uno schema dai suoi appunti. Quando lo senti tossicchiare per annunciare la propria presenza sollevò il torso – aveva le gambe distese in un meritato stretching – e soffocò molto male una risata.

«Beh?» fece lui.

«Te lo sei messo sul serio!»

«Non me lo hai comprato perché me lo mettessi e ti facessi ridere?»

Phoenix allargò le braccia e si mise in posa mostrando al suo massimo splendore il suo nuovo pigiama preso a Pyon-ni, con dei pantaloni con disegni ripetuti di piccoli pulcini e una maglia bianca con al centro un pulcino grande come un melone che sonnecchiava accanto a uno più piccolo. Mukuro era divertito, ma doveva ammettere che non era così ridicolo come pensava.

«Sai, non ti sta affatto male» ammise, riportando senza fretta le ginocchia al petto. «Con quello addosso sembri avere dieci anni, però.»

«Non mi dispiace… è come rateizzare la mia infanzia. Non mi vergogno di metterlo.»

Phoenix si lasciò cadere seduto sul letto molleggiato e mise i piedi sul bordo del materasso, mostrandogli che aveva messo anche i calzini che gli aveva comprato.

«Dovevo comprarti anche i boxer?»

«La prossima volta che andrai a Tokyo» fece lui con un sorriso malizioso. «Ma solo se ti piacerebbe vedermeli addosso.»

«Mh, chissà» ponderò lui mentre sedeva sul letto dal lato opposto. «Certo potrei restare sorpreso e trovarti meno ridicolo di quanto credo.»

«Ridicolo o no, adoro questo pigiama. Sembra di essere una pecora, è caldo e soffice… vuoi sentire? Lo so che hai freddo» aggiunse ridacchiando.

Lo conosceva troppo bene per non aver capito, ma si lasciò abbracciare lo stesso e appena sentì le mani sulla propria schiena Phoenix si fece più intraprendente; sedette sulle sue gambe e lo baciò sulla bocca senza esitazione, una, due, tre volte prima di sobbalzare.

«Uh… Indi, hai le mani fredde!»

«È vero» ammise Mukuro maledicendo le sue dita da cadavere con uno sguardo accigliato. «Scusa, Kyoya.»

«Non è niente… devo solo scaldartele un pochino~»

Mise le mani sulle sue e le guidò strofinandole sulle proprie gambe. Si sarebbe potuto credere che Mukuro avesse altro a cui pensare durante un bacio e una così sfacciata provocazione, ma si chiese se e dove potesse trovare per sé un pigiama come quello – così lanoso, morbido e caldo – con un colore e un disegno meno imbarazzanti.

Nel corridoio Restless lanciò un’imprecazione e Mukuro sussultò, fissando la parete. Phoenix cercò di richiamare la sua attenzione con un bacio sul viso.

«Sta inseguendo Uri» gli sussurrò per rassicurarlo. «Deve metterle delle gocce di antibiotico in bocca e la sta inseguendo da un’ora perché continua a scappargli.»

In effetti Restless strillò il nome della gatta da qualche parte vicino alle scale e i passi si allontanarono. Mukuro sospirò per calmarsi.

Negli ultimi giorni diventava incredibilmente nervoso quando era con Phoenix e non se lo spiegava. Era effettivamente proibito dal regolamento che gli studenti facessero quel genere di cose, ma non era considerata un’infrazione così grave da compromettere in qualche modo la sua carriera, soprattutto visto che sapeva perfettamente da dove fosse arrivata la nuova ragazza di Byakuran.

Per una breve parentesi l’unico sottofondo furono la pioggia e l’eco del pianoforte che una delle ragazze stava ascoltando nelle stanze vicine, oltre ai rumori dei due ragazzi che stavano pomiciando, poi nel corridoio la voce di Tsunayoshi ruppe la bolla, anche se non stava cercando nessuno di loro. Mukuro aveva artigliato la coperta e inarcato la schiena come fosse lui il gatto che stavano cercando per riempirlo di medicina.

«Indi, sei troppo nervoso…»

«Possibile che in questa città non ci sia un posto più privato dove stare?»

Gli uscì un tono eccessivamente lamentoso, ma era davvero stanco di sentirsi saltare i nervi in quel modo ogni volta che era da solo con Phoenix. Emise un brontolio e si raggomitolò sul fianco destro dando le spalle all’altro.

«Se aspettiamo la sera tardi gli altri dormiranno.»

«Ma qui si sente tutto» protestò con lo stesso tono. «Non voglio che qualcuno mi senta. Ti immagini se Restless sentisse? Quel maledetto tiene fede al suo nome e non dorme mai.»

«Mh… beh, di posti bui e dimenticati da tutti ce ne sono. Campi non usati, magazzini…»

Per tutta risposta Mukuro grugnì il suo dissenso.

«Che ne dici dell’appartamento di Mad Horse?» fece Phoenix con brio. «Mi lascia sempre le chiavi quando se ne va per un po’ di giorni, ed è via fino a martedì.»

«Che?! Non farò l’amore con te nel letto dove scopavi con Mad Horse!»

Inspiegabilmente Phoenix sorrise.

«Non è una questione di privacy, vero?»

«Non ho paura» replicò Mukuro, secco.

«Vuoi un posto romantico per la prima volta?»

Per un attimo gli balenò l’idea di come sarebbe stato se la stanza colorata all’ultimo piano fosse stata sua, ma conoscere quella stanza e non poterne usufruire per un’occasione così importante peggiorò il suo malumore.

«Falla finita.»

«Perché senti ancora il bisogno di fingere con me?»

Phoenix insinuò le braccia intorno a lui e si strinse contro la sua schiena.

«Sai che per me la sessualità è qualcosa di normale, per come sono stato cresciuto… non avevo alcuna particolare pretesa la prima volta, ma se tu l’immagini in un modo e la vuoi così a me sta bene… vuoi che sia romantico? Troveremo il modo» fece lui, rassicurante. «Dimmi, che cosa trovi romantico? Che passiamo una giornata da soli, torniamo al nostro nido per una cena e succede quel che succede?»

Sentiva un nodo allo stomaco e pensò di svicolare quel discorso rinviando un faccia a faccia che per un adolescente in buona salute e sani appetiti aveva rimandato già molte volte, ma se c’era qualcuno che non avrebbe mai preso a ridere i suoi desideri e le sue idee quello era di sicuro Phoenix.

«Sarebbe bello, sì.»

«Sì?» chiese Phoenix, sorpreso. «Ma non è quello che facciamo ogni volta che usciamo?»

«Sì, ma non succede mai niente… anche perché il nostro nido è un fottuto condominio.»

Phoenix rise e lo strinse un po’ di più.

«Che ne pensi se prendiamo una bella stanza lussuosa in un albergo? Torneremo a un nido dove saremo soltanto noi due e nessuno ci verrà a disturbare.»

«Ma che senso avrebbe…? Se prendessimo una stanza in un albergo qui lo saprebbero tutti che cosa siamo andati a farci…»

«Lo vorresti nascondere?»

«No, ma non voglio neanche scrivere un avviso nella bacheca» replicò Mukuro, sempre più pentito di avergli confessato di voler esplorare quelle pulsioni che teneva solo per sé. «Se lo sospetteranno saranno affari loro, io voglio solo che non sia ovvio

«Okay, okay… ho capito» lo blandì Phoenix, accarezzandogli i capelli. «Non ti inacidire, Indi… troveremo qualcosa che ci interessa moltissimo vedere fuori città e chiederemo un permesso, giusto? Sai che Mad Horse sgancia sempre un sacco di soldi e non mi chiede neanche come li spendo, qui a scuola non saprà nessuno dove saremo o se la nostra stanza ha due letti o uno solo.»

Phoenix gli diede un bacio sul viso e si spostò per guardarlo in faccia.

«E la cena? Com’è una cena prima di una notte romantica, secondo te?»

«Non lo so» ammise lui, incerto.

«Caviale e champagne?»

«Non mi piace il caviale» commentò, senza accorgersi che la sua era una battuta di spirito, «ma vorrei del cioccolato. Dei cioccolatini sarebbero fantastici.»

«Ma non li mangi sempre?»

«Perché mi piacciono… tu? Tu che cosa vorresti?»

Phoenix rimuginò un po’ prima di snocciolare qualche piatto che preferiva. Restarono fino all’ora di cena a parlare di dove andare, cosa fosse tassativo e cosa superfluo, di che cosa avrebbero mangiato e bevuto; pianificarono tutto tranne l’atto in sé. Non sapeva quando sarebbe davvero successo, né se sarebbe stato come l’immaginava, ma non vedeva l’ora di scoprirlo.

 

*

 

Per la prima volta in vita sua Mukuro aspettava sul marciapiede al freddo senza neanche farci caso. Beveva a sorsi un caffè di cui non si godeva il gusto, scorreva gli occhi su e giù per la strada senza che niente attirasse la sua attenzione e senza badare a nessuna faccia in particolare, se non le volte in cui incrociava gli occhi di Phoenix che stava diligentemente in fila per il biglietto d’ingresso. Ogni volta che si accorgeva di essere guardato gli faceva un sorriso di tenero scherno che lo costringeva a guardare altrove e bere un sorso che lo distogliesse dall’imbarazzo. L’ultima volta che successe fece solo finta; aveva il bicchiere vuoto.

Si era svegliato in un mondo strano, quella mattina. Aveva aperto gli occhi nello stesso letto, aveva riconosciuto le stesse luci a parete, lo stesso divanetto foderato di rosso, lo stesso scorcio di bagno di marmo e lì accanto lo stesso ragazzo della sua classe, ma per una ragione che non comprendeva vedeva tutto differente.

Gli sembrava di non aver mai guardato davvero il mondo, o forse di averne visto solo la forma e mai l’essenza. Il suo stesso corpo gli pareva muoversi in modo insolito; era come se si fosse svegliato nel corpo di qualcun altro. Preso da questa vivida sensazione di estraneità ciondolava accanto all’ingresso, indugiando pochi secondi sulle facce dei passanti, finché Phoenix non lo raggiunse con i biglietti e un piccolo registratore.

«Ho preso l’audioguida della mostra, così possiamo prendercela con calma» gli annunciò sorridente. «Hai finito il caffè? Non si possono portare le bevande dentro.»

«È finito» fece Mukuro, e gettò il bicchiere vuoto che continuava a tenere in mano.

«…Ti senti bene, Indi?»

«Non lo so» ammise lui, disorientato. «Mi sembra tutto così… è come se non fossi più sullo stesso piano delle persone che vedo intorno a me. È strano…»

«Troppi cioccolatini al brandy» sentenziò Phoenix. «Non per metterti a disagio, ma è probabile che in realtà nove persone su dieci di quelle con cui hai parlato nell’ultimo anno avessero già una vita sessuale, quindi potremmo dire che adesso sei proprio sul loro stesso piano.»

«Mi metti a disagio.»

«Se dobbiamo essere molto sinceri anche tu mi metti ansia, te ne stai lì a guardare in giro come se fossi appena uscito dalla caverna di Platone.»

Mukuro si accigliò.

«Dalla caverna di…?»

«Ah, sì… tu hai fatto un istituto di musica. Beh, più tardi te lo spiego meglio, tu intanto cerca di riprenderti prima che qualcuno decida di farti l’alcol test. Emperor non la prenderebbe molto bene.»

Mukuro si limitò a fare un sorrisetto, ma non disse nulla: aveva promesso a Byakuran che non avrebbe parlato dell’old fashioned che gli aveva lasciato bere a Roppongi. Divise gli auricolari per la guida vocale con Phoenix e si avvicinarono all’inizio del percorso consigliato.

Come scusa per soggiornare fuori città e godersi la loro intimità avevano colto l’occasione dell’inaugurazione di una mostra fotografica più unica che rara, cioè un’esposizione di centinaia, migliaia di fotografie scattate nel corso di quasi un secolo che immortalavano la storia degli Auris in Giappone. Certo si erano precipitati a Komagashi per i loro fini personali, ma non si sarebbero persi un evento così significativo: la storia degli Auris era un argomento di cui i mass media non volevano parlare, tanto da oscurare siti e ostacolare la produzione di reportage sulla storia della ghettizzazione dei Dorati.

La mostra era molto ben organizzata. Le fotografie erano montate su pareti chiare e ben illuminate, brevi sunti della storia parallela dell’epoca corrispondente erano esposte all’inizio della galleria. La ricolorazione delle foto di inizio secolo era molto suggestiva.

«Non pensavo neanche che si potesse ricolorare una pellicola in bianco e nero» osservò Phoenix, che scorreva le foto scattate nel cosiddetto “ghetto di Gion”.

Secondo l’audioguida e le indicazioni, il ghetto di Mizura non era stato uno degli insediamenti Auris più vasti della nazione ma forse – non esistevano censimenti precisi degli Auris all’epoca – quello più densamente popolato, in lizza con quello di Gion, quello di Hakodate e quello di Magoen; quest’ultimo era fuori Tokyo e aveva una sanguinosa storia di ribellioni sedate con lo sterminio dei Dorati rivoltosi e di tutti coloro che risultassero essere loro familiari.

In una sala a parte si potevano visionare le fotografie scattate dopo il passaggio dei brutali squadroni del governo e dopo averle viste Mukuro non poté che approvare l’avviso alle persone sensibili di proseguire con il percorso consigliato.

«Stai bene, Mukuro?»

Lo dovette rassicurare tre volte – sebbene anche Phoenix fosse decisamente più pallido di prima – prima di proseguire con la visita. Attraversarono altri cinquant’anni di storia, poi entrarono in una sala dedicata proprio al ghetto di Mizura. Sorgendo sopra di esso la loro scuola i ragazzi erano incuriositi più che dal resto dell’esposizione; Mukuro sperava di scovare una fotografia che gli mostrasse l’edificio che Byakuran aveva voluto conservare come dormitorio della classe S e, magari, la finestra dalla quale guardava la neve.

Chissà se nel negozio hanno delle copie di qualcuna di queste foto… a Ran piacerebbe rivederla, credo. Sembrava felice quando me ne ha parlato la prima volta.

Ricordava d’aver letto qualcosa sul negozio quando avevano controllato online gli orari della mostra, ma quando si girò per chiedere lumi a Phoenix lui era preoccupato di altro: fissava una bimba da sola che si guardava intorno.

«È la seconda volta che la vedo uscire ed entrare nelle sale da sola» fece Phoenix, e si tolse la cuffia. «Penso si sia persa. L’accompagno al punto informazioni e torno, mi aspetti qui?»

Mukuro annuì e decise di usare quel tempo extra per cercare la foto dell’edificio, perciò iniziò a scandagliarle una per una. Parecchi scatti immortalavano soprattutto bambini e ragazzini e non vedendo neanche un anziano si chiese se all’epoca gli Auris non finissero per morire tutti in giovane età. Questi grevi pensieri però lasciarono spazio all’emozione di poter trovare una fotografia che gli mostrasse proprio Ran quando da bambino viveva lì. Decise che, se davvero esisteva, avrebbe chiesto al fotografo che l’aveva offerta per la mostra di averne una copia.

Ormai non cercava più il palazzo ma frugava nei volti dei bambini. Quando trovò una serie di foto di giovani donne quasi non vi badò e per spostarsi oltre urtò un visitatore.

«Ah! Scusatemi, signore» fece subito, con un inchino profondo. «Non vi avevo visto.»

L’uomo lo guardava sbigottito, come avesse visto un fantasma. Mukuro guardò con preoccupazione quelle sopracciglia brizzolate sollevate, gli occhi bruni fissi nei suoi, le mani quasi scheletriche serrate intorno a un bastone da passeggio. L’uomo indossava un completo piuttosto elegante per una mostra allestita in pannelli di compensato in un’arena sportiva e sembrava più lui il fantasma di un’altra epoca, mescolato a gente in jeans e piumino.

«Io… non è niente, non è niente» abbozzò poi, tirando un sorriso dolente.

«State bene? Sembrate… beh, sconvolto» ammise Mukuro.

L’uomo rise. Fu una risata breve, profonda… alle orecchie di Mukuro suonò artificiale.

«Un giovane franco, non c’è che dire. Sto bene, ma da vicino non distinguo bene i volti. Ho pensato che fossi mio figlio, è un ragazzo alto come te. Sarei stato sorpreso di trovarlo qui… faccende di lavoro a Osaka.»

«Capisco… ehm, scusatemi se vi ho dato fastidio.»

Fece un altro inchino, meno formale di prima, e lo superò per guardare altre foto. Arrivato in fondo alla parete si accorse che l’uomo con il bastone non si muoveva affatto e stava guardando da parecchi minuti la stessa fotografia.

Badò appena all’avviso per i genitori di una certa Kimiko che venne dagli altoparlanti e tornò sui suoi passi, avvicinandosi senza fare rumore all’uomo. Aveva lo sguardo intriso di nostalgia fisso su una delle donne nelle inquadrature e quando Mukuro si allineò con l’altezza degli suoi occhi trasalì. Incurante di recargli ancora disturbo si avventò contro il pannello per vedere da vicino anche se facendolo gli bloccò la visuale.

«Non è possibile!»

A occhi e bocca spalancati stava fissando una giovane donna con i capelli bianchi come la neve, la pelle candida e – se la luce di quel giorno o dell’allestimento non lo stava ingannando – occhi color glicine. La forma del suo viso e delle sue labbra erano le stesse che aveva Byakuran. A fatica chiuse la bocca per deglutire e controllò la data. Non era che una data approssimativa, ma specificava che era una foto fatta in estate uno o due anni prima di quello in cui Byakuran sapeva o credeva di essere nato.

È sua madre? È mai possibile che… eppure, viveva nel ghetto di Mizura almeno due anni prima che nascesse!

Si girò a guardare l’uomo, che non si era mosso affatto. Lo guardava senza sorridere, ma i suoi occhi non tradivano alcuna forma di rabbia o di fastidio… anzi, i suoi lineamenti sembrarono meno contratti, come se si fosse liberato di qualcosa.

«Voi… state guardando questa donna da parecchio.»

«Non avevo la pretesa di nasconderlo.»

«Perché?»

«Credo che tu me lo chieda perché lo sai già» replicò l’uomo, inclinando la testa. «I genitori di mia madre vivevano a Mizura in quegli anni. Ci andavo ogni estate, per la campagna… una volta era più rurale di com’è adesso.»

«Conoscete questa donna? Sapete il suo nome?»

Fosse stato meno eccitato Mukuro non avrebbe osato tanto con uno sconosciuto, ma per una volta fu premiato per la sua impulsività.

«La conoscevo. Si chiamava Sagiko» rispose lui, con un alito nostalgico nel modo in cui trascinò quel nome. «Cognomi, nessuno ne aveva nel ghetto. Gli Auris che ci vivevano erano disconosciuti dalle loro famiglie da generazioni, e in ogni caso non avevano documenti né censimenti.»

«Sagiko…»

Mukuro guardò la foto. La donna aveva un accenno di sorriso anche se non guardava verso l’obiettivo; indossava un abito consunto ma per quanto difficile dovesse essere la sua esistenza sembrava molto più felice di tante persone che il ragazzo conosceva che non vivevano senza cognome in un ghetto.

«Lei è… ecco… sapete dove potrebbe essere adesso?»

«Se c’è un paradiso lei è di sicuro là. Non ho mai incontrato una persona tanto buona nella mia vita così ingiustamente lunga.»

Avrebbe voluto fare mille domande, ma nel breve tempo in cui cercò di ordinarle e dare loro una priorità l’uomo smise di guardare il ritratto e fissò lui.

«Tu sei Indigo, vero? L’allievo di Wing Emperor… suo figlio, anche.»

«Adottivo… sì.»

«Gradirei che mi facessi una cortesia, Indigo, in ricordo di questo fortunato incontro» fece allora l’uomo, chinandosi come a voler rendere più formale la sua richiesta. «Vorrei che porgessi i miei più profondi, assoluti e sinceri ringraziamenti al tuo maestro… per aver raccolto e vinto tutte le sfide che io, alla sua età, rifuggii.»

Confuso da quelle ermetiche parole Mukuro non riuscì neanche a ribattere. L’uomo si raddrizzò.

«Inoltre porgigli i miei migliori auguri di una lunga vita. Te ne sarei molto grato.»

«I-io… c-certo…»

Il distinto signore si sciolse in un sorriso e fece un inchino di saluto a lui, poi lanciò uno sguardo alla fotografia di Sagiko prima di inchinarsi anche a lei. Ebbe l’impressione che i suoi occhi bruni fossero lucidi, ma li vide per un attimo prima che si voltasse.

Completamente sopraffatto Mukuro si coprì la bocca con la mano mentre continuava a fissare la foto con un turbinio di congetture che componevano castelli che poi tornavano una massa informe e si ricostruivano come castelli di carte distrutti e rifatti a velocità surreale.

È davvero lei… è davvero lui!

«Eccomi qui! Trovato qualcosa di… Indi?» lo chiamò Phoenix, titubante. «Ehi, ti senti bene? Che cos’è successo?»

«Io… Kyoya, io credo di aver appena… parlato con il padre di Ran.»

«Ran… di Emperor-sensei?! Davvero?! Dov’è?»

«L’uomo col bastone da passeggio…»

Ma quando fece per indicarlo lungo il percorso delimitato dai cordoni l’uomo era scomparso. Anche dividendosi per avanzare e per tornare indietro non ci fu modo di trovare nessun uomo sulla cinquantina con l’abito di tweed e un bastone di legno scuro.

 

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Capitolo 19
*** A new hearth ***


Gli sembrava che fosse passato un secolo dall’ultimo ricordo che aveva di quella magica combinazione di elementi: il rumore della punta della matita sulla carta, il profumo di Amber mentre stava appoggiata alla sua spalla a guardarlo disegnare e un tiepido sole che faceva riverberare di colore la stanza colpendo le lanterne appese. Sapeva di avere il torneo di graduatoria da organizzare e una bella risma di spese dell’infermeria da controllare, ma si sentiva così in pace lì insieme a lei che non riusciva a convincersi di dover essere altrove.

Amber lasciò il suo fianco per prendere il bicchiere del tè alla menta e si piazzò sul cuscino davanti a lui – un non così sottile invito a ritrarla – e guardò in alto.

«Sai… mi piace questa stanza… mi ricorda la mia durante la scuola. Te la ricordi?»

«Certo che sì.»

Ricordava la camera di Amber, che era cortesia non definire un tugurio. Il precedente inquilino si era divertito a tirare freccette sul soffitto lasciandolo crivellato di buchi e la ragazza per nasconderlo aveva iniziato ad appenderci fili e nastri e legarci qualsiasi cosa le piacesse: ritagli di carta a forma di stella in gran parte, origami, piccoli gadget come animaletti, robottini e bamboline. Quando Byakuran ci era entrato la prima volta si era trovato sotto una volta di stelle e oggettini colorati, tra pareti foderate di immagini e foto prese da qualsiasi tipo di giornale e mobili vecchi ridipinti di rosa chiaro.

«L’avevi chiamata… una volta di stelle e sogni di ragazza

A fatica si trattenne dal ridere.

«Ho davvero detto così?»

«Sì, me lo ricordo benissimo.»

«Si vede che volevo fare colpo, non è da me fare il poeta.»

«Ha funzionato» gli confidò lei in un sussurro. «Mi piacevi già così tanto, quando sei tornato a casa tua quella sera.»

Byakuran tese un sorriso. Avrebbe voluto dire che era la stessa cosa per lui, ma anche se l’aveva sempre trovata carina sapeva bene che a quel tempo il suo cuore e i suoi pensieri erano su un’altra donna, che invece di appendere le stelle le guardava ogni sera da una finestra.

«Sei sempre stato un moccioso complicato, Ran… così tante cose che volevi e che ti piacevano, e non hai mai deciso di prendertene neanche una finché non è stato troppo tardi.»

La matita si fermò sul foglio. La voce era diventata più insistente negli ultimi giorni, da quando Amber era tornata, e non capiva se vi fosse o no una correlazione tra i due fatti. La voce di uomo non era diventata rabbiosa o fredda ma non era neanche vivace e allusiva com’era prima; l’avrebbe definita piuttosto… annoiata.

«Beh, almeno ora non devo sentirti blaterare di doveri e virtù tutto il giorno. Ehi, che ne dici di un nudo~?»

Alzò lo sguardo su Amber. Era così abituato a vederla con abiti succinti, fantasia di leopardo o babydoll di raso che gli faceva ancora uno strano effetto con i jeans e un cardigan lungo di lana in colore azzurro. Assomigliava di più alla freddolosa ragazzina che conosceva anni prima. Tuttavia…

«Bambi,» fece col tono più innocente che riuscisse a forzare, «faresti una posa per me? Per uno schizzo preparatorio…»

Lei sbuffò per trattenere una risata.

«Oh, li conosco i tuoi schizzi preparatori

«Tutta pepe la piccolina~ mi piace~»

Byakuran arrossì fino alle orecchie mentre Amber rideva a crepapelle, e la voce che buttava lì domande e insinuazioni di non differente contesto non aiutava a farlo sentire a proprio agio.

«Amber, dico sul serio! Che palle» sbottò, girando la pagina dell’album così bruscamente da stropicciarla. «Non fare la stronza con me, accidenti.»

«Oh, non fare il permaloso~ scherzavo, no? No?»

Deciso a non guardarla prese a fare delle righe senza una precisa forma in mente. Era infastidito, perché desiderava veramente – ora che era tornato a usare la sua arte come mezzo di elaborazione e celebrazione – realizzare un quadro su tela che ritraesse Amber. Aveva dedicato la più grande e difficile opera della sua giovinezza ad Helena, la donna nella sua più naturale e innocente accezione di madre, e adesso desiderava immortalare Amber, la donna amante, con la sua sensualità delicata.

Non riuscì a tenerle il broncio un secondo di più quando lei allungò il piede – infilato in un calzino a fiocchi di neve molto meno sexy dei suoi soliti collant – e gli coprì la visuale dello schizzo informe sul quale si stava ostinando.

«Scherzavo, Ran-chan~ che posa vuoi? Un nudo?» azzardò lei, con un sorriso malizioso. «Uhm, no… fammi indovinare… un seminudo… qualcosa come…»

Si appoggiò sulle ginocchia, sbottonò il cardigan e lo lasciò scivolare via. La guardò inebetito togliere la maglietta attillata e abbassare i jeans a metà coscia, dove si fermò. Aveva ancora quel ghigno perfido, quello di ogni altra volta che aveva voluto provocargli una reazione.

«Che ne dici di questo?»

Pensò immediatamente che non fosse quello che voleva fissare nella tela, ma era anche vero che nonostante la conoscesse da molto non sapeva ancora in che cosa risiedesse la spinta erotica che gli suscitava. Niente gli vietava di aggiungere quella posa – niente affatto male – al suo album di schizzi. Girò pagina e prese a tracciare rapidamente le linee esterne della figura, ma ogni volta che alzava gli occhi sulla sua modella gli parve che i suoi slip scoprissero sempre più pelle sotto l’ombelico.

«Bambi» fece in tono supplichevole, «ti prego, sto cercando di disegnare, non farmi questo.»

«Questo cosa?~»

«La approvo! La approvo su tutta la linea, Ran! È quella giusta, se proprio devi diventare monogamo prendi lei!»

«Non ho chiesto il tuo parere» borbottò stizzito.

«Uh? Cosa?»

«No, niente» fece, e disegnò più veloce possibile. «Non ti muovere per un minutino, Amber, per favore…»

«Sei sicuro che non vuoi che mi muova? Neanche un dito?»

Questa ragazza mi farà impazzire se non si dà una calmata!

«Speriamo proprio di no, ti serve una così birbante~»

Proprio nel momento in cui stava per dare un’altra risposta sconsiderata qualcuno bussò due volte sulla porta prima di aprirla; Indigo apparve sulla soglia e la sua aria preoccupata divenne stupita quando posò lo sguardo su Amber. Lei non mosse un muscolo per coprirsi e gli sorrise come se la situazione fosse la più normale al mondo.

«Oh… s-scusami, Amber, non sapevo che fossi qui…»

«Non preoccuparti! Sto facendo una posa sexy per Ran-chan~»

«Ehm, sì, questo lo vedo» fece lui, appoggiandosi allo stipite. «Per disegnarla o per altro, Ran-chan?»

«Devo risponderti?» sospirò Ran, sollevando blocco e matita.

«Hai in programma di pubblicare una raccolta di disegni per adulti? Se è così regalamene una copia autografata… da lei, non da te.»

Amber rise, Byakuran si accigliò.

«Te ne vai? Amber è mezza nuda!»

«Che cosa credi, che sia la prima ragazza che vedo in bikini?» fece Indigo seccato, mentre si sfilava uno stivale.

«…Non lo è?»

Ma a dispetto dell’arroganza con cui aveva fatto quella domanda il ragazzo si perse in una panoramica delle sue memorie.

«No, in effetti ne ho vista qualcuna» sentenziò alla fine, «ma Amber è più carina delle altre.»

«Aww, che gentiluomo! Hai sentito come si fa, Ran? Tu non mi dici mai che sono la più carina che hai conosciuto!»

Byakuran non credeva alle sue orecchie e sbatté le palpebre più volte, aspettando che lei desse qualche segnale di ironia. Non ne mandò.

«Ma che… ma le conosci tutte le ragazze che ho visto io, lo sai come sono fatte!»

«Quelle del quartiere della luna, ma le altre?»

«Ma quali altre?»

Amber gli restituì uno sguardo vacuo e si sedette sui talloni senza sistemarsi i pantaloni.

«Ran-chan, vuoi dire che non hai avuto nessuna… ragazza? Insomma, nessuna…»

«Gratis?» completò Indigo con un sorrisetto infido.

«Tu… questa è una conversazione privata, stanne fuori» lo minacciò Byakuran puntandogli la matita contro.

«Se no?» lo schernì lui, e buttò l’altro stivale vicino al primo. «Mi disegnerai a morte?»

«Farò esporre un tuo ritratto nel museo dei Civil Heroes, e ti farò la faccia piena di brufoli!»

Suonava assurdamente puerile, ma Mukuro accusò il colpo.

«Che perfido! Questa è la tua gratitudine per averti sistemato l’atelier e averti fatto riscoprire qualcosa di bello?»

«Questa è la ricompensa per la tua impiccioneria! Ora fuori, prima che mi venga voglia di farlo davvero!»

Indigo riprese le scarpe con un gesto brusco.

«Come se non lo sapessimo che cerchi le prostitute perché ti ricordano tua madre!»

Quell’uscita infelice portò Amber a coprirsi la bocca, ma Byakuran aveva dato a quella frase un senso ben lontano dall’essere un insulto gratuito. E purtroppo aveva dei risvolti persino più preoccupanti.

Appoggiò album e matita da un lato.

«Amber, per favore, rivestiti. Indigo, torna qui!»

«Scordatelo» replicò lui dal corridoio.

«Vieni qui, immediatamente!»

Amber si rivestì mentre continuava a spostare lo sguardo azzurro dall’uomo al ragazzo, angosciata di aver causato qualche disastro incombente. Byakuran le rinnovò l’invito a uscire, con più delicatezza, dicendole di lasciarli soli qualche minuto. Lei uscì mentre l’altro, riluttante, rientrò nella stanza colorata abbandonando le sue scarpe.

«Chiudi la porta, Indigo.»

Quasi lo volesse sfidare il ragazzo chiuse la porta bruscamente, poi incrociò le braccia al petto.

«Chi te lo ha detto?»

La poker face di Indigo scomparve, inquinata dal dubbio.

«Detto che cosa?»

«Mia madre. Non sei il tipo di ragazzo che insulta gratuitamente, tanto meno te la prenderesti con mia madre, dato che neanche so chi fosse. Chi ti ha parlato di lei?»

«Io… tu lo sapevi?»

«Chi, Indigo? È stato Night Hound?»

«Night Hound-sensei sa di tua madre?»

«Vorrei una risposta, non un’altra domanda.»

Indigo mosse qualche passo incerto per avvicinarsi e si inginocchiò sul suo cuscino preferito, quello arancione.

«È… io ho trovato una sua foto alla mostra degli Auris… vuoi vederla?» gli fece, con la voce che tremava appena. «L’ho chiesto al responsabile dell’installazione e… beh, sembra che sono famoso abbastanza da ricevere qualche cortesia, adesso. Mi hanno dato la copia che tenevano da parte.»

«Vuoi farmi credere che qualcuno ha una foto con scritto “madre di Wing Emperor, anno millenovecentoottanta”, o giù di lì?»

«Guardala e dubita, se ci riesci!»

Indigo l’estrasse dalla tasca della giacca dell’uniforme e la schiaffò sul tavolino tra di loro. Lo stomaco di Byakuran sprofondò nel baratro mentre la guardava e la prese per studiarla meglio.

«C’è la stessa data che era all’installazione. L’estate dell’anno prima che nascessi, no? Questa donna era nel ghetto di Mizura un anno prima che tu nascessi, ti sembra una coincidenza?!»

Byakuran scosse la testa. Non dubitava che fosse proprio lei, perché il ragazzo che lo aveva trovato da neonato e tirato su insieme a tanti altri orfani gli aveva detto che era uguale a sua madre. Aveva raccontato di averlo trovato affamato, infangato e debole a piangere sotto il corpo senza vita di sua madre, quindi non dubitava che fosse certo del suo aspetto… ma non avrebbe mai creduto possibile che in quegli anni qualcuno potesse aver scattato una foto proprio a lei.

«È mia madre. Sì.»

«Lo sapevo, insomma… siete… uguali» osservò titubante Indigo. «Non… non sei contento di vedere com’era? Insomma…»

«È la donna che mi ha messo al mondo. E come dicevi poco fa, era una prostituta, come molte delle donne Auris di quell’epoca che avevano la sfortuna di avere un bell’aspetto. Fu la gente del ghetto a dirmelo quando ero bambino. Non è mai stato un segreto per nessuno.»

Il ragazzo di fronte a lui aveva l’aria delusa. Si aspettava forse che fosse felice per una vecchia foto di sua madre.

«Era tua madre, Ran, perché sei così indifferente?»

«Non la conosco, Indigo, per questo sono indifferente» ribatté più brusco di quanto intendesse. «È morta quando ero un neonato, non ho nessun ricordo di lei. Del suo aspetto, della sua voce… del suo odore… non ricordo nulla, e probabilmente neanche significavo niente per lei. Era una prostituta, magari ne aveva fatti altri prima di me e sono finiti morti o venduti alla gente normale, se hanno avuto la fortuna di non avere la macchia dorata.»

«Questa è una cattiveria! Lo so che…»

Indigo si stropicciò il viso con le mani ed emise un ringhio esasperato.

«Lo so che per gli orfani è così! Ci diciamo sempre che i nostri genitori non ci volevano, che siamo stati una seccatura, un incidente di percorso e che erano molto più felici senza di noi! Io immagino sempre i miei genitori con un sacco di altri figli che non sono degli Auris e…»

La sua voce ebbe un’incrinatura improvvisa e tacque per dare un colpetto di tosse.

«E… li immagino felici… che non si chiedono mai dove io sia finito, con figli più piccoli che non sanno neanche che io esisto» proseguì più calmo. «Ed è una crudeltà che mi infliggo da solo da anni. Tua madre non ti ha lasciato, è morta. Non ha scelto di morire come la mia ha scelto di lasciarmi davanti a una porta. Non hai… alcuna base per poter dire che lei non ti volesse.»

Arroccato nella sua rabbia fredda non si rese conto subito di provare un sincero dispiacere nello scoprire che Indigo – il suo Indigo – soffriva in quel modo l’abbandono dei suoi genitori.

Byakuran fissò gli occhi sulla fotografia. Sembrava sorridesse… ma perché? Per quanto gli fosse concesso di ricordare della sua infanzia gli sembrava di non aver mai sorriso. Di non essere mai stato felice in quel ghetto.

«Ascolta, Ran» aggiunse il ragazzo, stringendogli leggermente il polso. «Ho incontrato un uomo che guardava fisso questa foto. Mi ha detto che la conosceva, che si chiamava Sagiko… è questo il nome di tua madre. Lo sapevi?»

«Sagiko…»

Serrò gli occhi, cercando di ricordare qualsiasi cosa. Sperò fino all’ultimo che quel nome suscitasse qualcosa di sopito in lui, ma non accadde e scosse la testa.

«Non credo… no, non mi è mai stato detto. Lì dove l’avevano sepolta non c’era scritto nulla… dopotutto, nessuno di noi sapeva scrivere e leggere.»

«Eppure quest’uomo è sicuro. La conosceva con questo nome, e so che è davvero lei» insistette Indigo, più convinto. «Sagiko è il nome popolare di un’orchidea, l’ho visto su internet. Sono troppe coincidenze per non essere vero.»

«Che cosa pensi che cambi per me, Indigo? Hai trovato una sua foto. Hai scoperto come si chiamava, ma non cambia i fatti: lei è morta.»

«Ma tuo padre no!»

Gli sembrò di contenere qualsiasi reazione a quella scioccante notizia, ma mentre guardava Indigo vedeva muoversi linee degli arazzi che avrebbero dovuto essere immobili. Chiuse gli occhi un momento e cercò a tentoni la tazza di tè abbandonata da Amber lì vicino.

«Cosa te lo fa credere?»

«L’uomo che ho incontrato alla mostra fissava la foto di tua madre. Mi ha detto di averla conosciuta. Mi ha detto che se esiste il paradiso lei dev’essere lì, perché era una donna buona e dolcissima» enumerò lui, contandole sulle dita con enfasi, «e soprattutto per quello che mi ha chiesto di dirti quando ha capito chi ero.»

Rinunciò al suo proposito di bere. Abbandonò la tazza e ficcò le mani sotto il tavolino perché non si accorgesse che gli tremavano. Non poteva credere che solo l’ipotesi di avere effettivamente un padre – qualcuno che si prendesse la responsabilità di averlo generato, quantomeno – lo destabilizzasse a tal punto.

«Mi ha detto di ringraziarti per tutto ciò che hai avuto il coraggio di fare, che lui non ha avuto… e di augurarti una vita molto lunga.»

«Il… coraggio?» ripeté, amareggiato. «Il coraggio di fare che cosa? Scappare dal ghetto? Salvare qualcuno, vestirmi di bianco? Il coraggio di fare cosa?»

Non provava che disgusto. Istintivamente credette all’ipotesi che quello fosse suo padre, o che almeno pensasse di esserlo, ma se tale era non gli aveva lasciato detto nulla di quello che un orfano di più di trent’anni sperava di sentirsi dire da un genitore ancora in vita. Indigo lo guardava con un’espressione di compassione così vivida da farlo sentire un relitto umano.

«Credo si riferisse al… difendere gli Auris. Lottare per la loro liberazione… e occuparti di me. Di qualcuno che non aveva nessuno… capisci… quello che non ha avuto il coraggio di fare con te quando lei è morta.»

«E nel cervello bacato di chi questo dovrebbe essere… di un qualche… sollievo?»

Indigo sospirò e le sue sopracciglia curate si aggrottarono appena. Si stava irritando, ma almeno aveva perso quell’aria di pietà così insopportabile.

«Dovrebbe esserlo. Si pente di non averlo fatto, Byakuran, non è un sollievo che almeno non sei stato il solo a soffrire?» gli fece notare lui, con gli occhi fissi sul tavolo. «Io… non so che cosa darei per… anche solo l’illusione che a mia madre dispiaccia avermi lasciato.»

«Mi dispiace che quel vuoto ti faccia soffrire» gli disse Byakuran, sforzandosi di essere calmo, «ma che tu soffra per i genitori che non conosci non significa che io debba essere felice di una foto su cui piangere o delle parole di pentimento di mio padre. Sempre ammesso che lo sia.»

«La conosceva» ripeté ostinato Indigo.

«Come la conoscevano decine di altri uomini!» sbottò Byakuran, e picchiò l’indice sulla foto. «La vedi? Vestito bianco!»

Interdetto, Mukuro rivolse alla foto uno sguardo vacuo.

«E… con ciò?»

«Nel ghetto le donne e i bambini che erano disponibili per i Plumbei si vestivano con i colori più chiari che avevano! Ci arrivi? Per far vedere che erano puliti e curati! Era una prostituta, okay? Mio padre potrebbe essere chiunque vivesse in questa maledetta città trent’anni fa! Potrebbe essere qualcuno che mi è passato vicino cento volte senza neanche chiedersi mai se fossi suo figlio, e forse neanche ricorda una puttana Auris che si è fatto una volta soltanto in qualche lurido–»

Non terminò la frase: la mano di Indigo gli si schiantò sulla faccia, Byakuran si rovesciò indietro e ribaltò il tavolino urtandolo con il ginocchio. Balbettando versi sconnessi di stupore e indignazione sollevò la testa e trovò il suo studente che lo fissava, con la mano stretta a pugno alzata in aria e occhi lucidi.

«Adesso basta, Ran… non ti permetto… di parlare così di tua madre» soffiò, come se ogni alito uscisse a fatica dal suo torace. «Se non rispetti la sua memoria… manchi di rispetto anche a te stesso.»

Non riuscì nemmeno a trovare qualcosa da dire. Si vergognò molto della sua rabbia cieca, della freddezza che sentiva dentro quando guardava la fotografia. Chiuse gli occhi e sentì scendere le lacrime.

Ho la stessa idea di lei che mi diede Zakuro… ho lasciato che un individuo disgustoso come lui mi incidesse la sua visione di mia madre nella testa… pur sapendo che genere di essere rivoltante fosse…

Indigo abbassò la mano verso di lui e gli asciugò le tracce di lacrime.

«So che ci viene naturale… forse perché pensiamo che perdere dei cattivi genitori faccia meno male che sapere di aver perso qualcuno che ci amava… ma ci feriamo più a fondo, così.»

Byakuran si prese il tempo di qualche profondo respiro prima di riaprire gli occhi. Il ragazzo aveva già il viso arrossato di pianto trattenuto a fatica e tentava di stirare la bocca in un sorriso che appariva come una maglietta appallottolata da mesi in un cassetto.

«Non sopporto che ti svilisci così, Byakuran… solo io posso farti sentire una merda.»

«Chi ti ha dato questo diritto? C’era qualche postilla nel modulo di adozione?»

«Io lo faccio con amore, quindi posso.»

Indigo si rimise in piedi e gli offrì le mani per tirarlo su; Ran ne accettò una per rimettersi seduto e vide che sulla porta – ora socchiusa – c’era Amber che sbirciava dentro e la metà del viso visibile era inondata di lacrime.

«R-Ran-chan…»

Perché nessuno capisce il concetto di conversazione privata?

«Tu non hai una conversazione davvero privata da quando mi hai raccolto!»

Ci mancava anche lui.

«Ran-chan» ripeté Amber, in un eroico quanto inutile tentativo di ricomporsi, «hai… qualche strano complesso emosessuale… sessual-emotivo… con la tua mamma? Per questo vuoi me?»

Perplesso, scambiò un’occhiata con Indigo per capire se avesse afferrato il senso della domanda. Dall’espressione del suo allievo capì che erano ugualmente spiazzati e confusi.

«Lei… mi assomiglia, per caso?»

Entrambi guardarono la foto, che nella concitazione di poco prima era finita sul tappeto vicino alla gamba di Byakuran. Amber, con la sua pelle leggermente dorata, i capelli naturali di colore biondo-castano come miele di bosco e gli occhi azzurri, fisico di curve morbide e atteggiamento spumeggiante, non avrebbe potuto essere più diversa da Sagiko con il suo aspetto diafano ed etereo da fantasma gentile.

«Neanche un po’» le risposero in coro.

 

*

 

L’uomo con il bastone di legno scuro seguiva scrupolosamente i dettami del proprio medico, perciò quale che fosse il clima usciva e faceva sempre una passeggiata di tre chilometri lungo il laghetto artificiale del parco. Si fermava nella sua postazione preferita a dare ai pesci qualcosa da mangiare, salutava la stessa giovane donna che faceva jogging e l’uomo con il suo carretto di dolci tipici e poi tornava prendendo un’altra strada che gli permetteva di guardare la vetrina dell’esposizione permanente di dipinti a olio e del negozio di belle arti, non lontani da una scuola famosa per l’insegnamento delle arti figurative.

Quella mattina indugiò quando posò gli occhi su una bella confezione essenziale di crete marroni. Da che aveva imparato a disegnare da ragazzino le crete nel tono sanguigna erano sempre state le sue preferite. Ponderò che non le usava da qualche tempo, poi decise che era l’occasione buona per tornare all’ovile: le comprò e fece ritorno a casa con un’andatura visibilmente più energica che non aveva nulla a che vedere con gli addensamenti di nubi all’orizzonte.

«Bentornato, signore» l’accolse con calore il maggiordomo Hachiro, prendendogli il cappotto. «Vedo che ha comprato qualcosa da Gaugin, devo passare a saldare?»

«No, no, è una cosetta. Ho pagato subito» fece lui con un gesto della mano. «Ho proprio bisogno di un tè.»

«Sarà pronto fra poco, signore. Avevo iniziato a prepararlo per il suo ospite.»

L’uomo alzò le sopracciglia per lo stupore.

«Ospite? Intendi mio figlio?»

«No, signore, è un suo vecchio amico che è passato a salutarla» fece Hachiro con un sorriso misterioso. «Non lo avrebbe mai rifiutato alla porta, quindi l’ho fatto entrare. È nel soggiorno.»

«Oh… bene.»

Non aggiunse altro come se fosse tutto chiaro, ma non lo era affatto. In realtà la sola persona che venisse con una certa frequenza a salutarlo e che si presentasse al mattino era suo figlio Saburo; non gli veniva in mente alcun vecchio amico che potesse capitare per caso da lui.

Superò l’arco di pietra che separava il corridoio delle cantine dal soggiorno e vide l’ospite. Provò una sorpresa tale che gli mozzò il fiato, ma anche uno zampillo di gioia che non credeva possibile.

«Perbacco! Benny!» esclamò incredulo. «Benny Reiner!»

Reiner indossava abiti civili ma piuttosto formali nel suo colore prediletto, il verde scuro. Distolse gli occhi sempre vivaci dal quadro appeso sopra un ripiano di marmo e tese un sorriso mentre muoveva verso il divano passi resi rigidi dalla vecchia ferita alla gamba.

«Ti trovo bene, Masamune. Sono lieto di vederti in salute.»

«Anche tu lo sei! Cielo, mi sento così vecchio a vederti così energico.»

«Dovresti sentirti vecchio a vedermi così vecchio» lo corresse lui con ironia.

I due uomini si strinsero la mano con l’affetto residuo di un’amicizia di lunga data e Masamune l’invitò a mettersi comodo.

«Grazie» fece Reiner sedendosi con la gamba ferita più distesa. «Perdonami se non ho avvisato prima di venire. In realtà, molto egoisticamente, ho pensato che non avresti avuto la maleducazione sufficiente per sbattermi la porta in faccia.»

«Di che cosa parli, Benny? Sono ben felice che tu sia qui! Fa sempre piacere vedere un commilitone della Compagnia del Bastone» ironizzò lui con un cenno del suo supporto in legno. «E poi non ci vediamo da tanti anni! Suvvia, raccontami qualcosa. Che cosa ti porta di nuovo in Giappone?»

«Affari di cui è meglio che tu non sappia di più, Masamune, mi dispiace» replicò lui, ma il suo tono formale si sciolse con un sorriso accennato. «Come stai? Noto che hai preso qualcosa. È un negozio d’arte il Gaugin?»

Reiner era fin da giovane un uomo d’azione, poco interessato all’arte, alla musica o al cinema. Probabilmente non avrebbero potuto metterlo a dividere la stanza con un ragazzo più diverso da lui di Masamune, che oltre ad arrivare dal Giappone era all’epoca un vero fissato con l’arte e riempiva di schizzi a fusaggine pagine che avrebbero dovuto grondare di appunti di scienze politiche, diritto, geografia e quant’altro.

Memore di questo Masamune ridusse all’osso le notizie sul suo negozio preferito e sullo studio all’ultimo piano che aveva ormai dedicato al suo passatempo.

«Ti invidio molto, Masa. Avere un amore così sincero per qualcosa di così semplice che puoi sempre fare ritagliandoti solo del tempo è una benedizione.»

A quel commento l’amico parve invecchiare improvvisamente, con rughe più visibili intorno agli occhi e una postura più curva. Dovette aspettare che Hachiro servisse loro tè e torta a ridotto contenuto di zuccheri prima di indagare oltre.

«Benedict, qualcosa di grave? Sei venuto per dirmi qualcosa?»

«No, no» rispose lui, con un sorriso incoraggiante. «Solo guai riguardo il progetto di cui sono responsabile. Sono venuto a parlare con un vecchio amico che ho trascurato per troppo tempo, questo è quanto.»

Rincuorato all’idea che non ci fossero cattive notizie sulla sua salute – argomento spinoso dopo la prematura scomparsa di sua moglie due anni prima – servì all’amico tè e torta, parlandogli brevemente delle direttive del suo medico per la sua gamba e per la sua glicemia. Vennero a parlare delle ultime questioni politiche del suo partito, sebbene – mise in chiaro – lui avesse deciso di occuparsi solo della strategia di tutela dei beni culturali, e di suo figlio Saburo che aveva concluso brillantemente gli studi indirizzati alla politica estera.

Reiner posò la tazza sul piattino, con il viso più teso.

«E… lui… scusa se te lo chiedo così, Masa» esordì titubante. «Ma hai… avuto dei contatti recenti con… l’altro tuo figlio?»

D’istinto lo sguardo di Masamune andò al corridoio delle cantine per assicurarsi che Hachiro non fosse abbastanza vicino da sentire. Non lo vedeva, ma non era tranquillo, così posò la tazza e prese il bastone invitando l’amico a seguirlo. Lo condusse di sopra, al suo studio d’arte, che era una stanza dalle grandi finestre, qualche cavalletto allineato lungo una parete e una vecchia, comoda poltrona dove poteva appoggiare la gamba anche a lungo senza risentirne.

«Come mai mi chiedi di Wing Emperor? Sai che non ho mai cercato di parlargli prima d’ora.»

«Io… ho saputo della morte di Minako, naturalmente. Ti mandai un biglietto.»

«L’ho ricevuto, sì.»

«Ho creduto che… dopo la sua morte tu volessi contattare tuo figlio. Che volessi almeno dirgli chi sei.»

«Vorrei farlo» ammise Masamune, stringendo saldo il bastone. «Vorrei scusarmi, e vorrei almeno parlare con lui di persona, sapere se… sentirei qualcosa di Sagiko nella sua voce, o nel suo modo di parlare… o se troverei qualcosa di me in lui.»

Reiner ebbe un leggero fremito, ma l’amico guardava dalla finestra e non lo colse.

«Perché non lo fai, dunque?»

«Non è ovvio? Ora è l’uomo più importante del mondo… uno di quelli più ricchi del mondo. E proprio ora un vecchio politico zoppo si fa avanti per conoscerlo, per presentargli un fratellastro in odore di carriera politica… non potrebbe mai pensare che sono sincero. E se non crede che sono sincero gli farò più male di quello che gli ho già fatto.»

Reiner esitò, poi si avvicinò all’amico.

«Però, Masa, potrebbe anche capire. Se gli dicessi che non l’hai cercato per rispetto a tua moglie ora scomparsa, e che puoi immaginare che le circostanze ti fanno sembrare un opportunista, potrebbe capire la tua lunga attesa e i tuoi dubbi» gli fece notare con pragmatismo. «Dovresti provare. Potresti almeno scrivergli una lettera, che ne pensi?»

«No. No, questo mai» sentenziò Masamune con fermezza. «Uno come lui… chissà quanti altri disgraziati truffatori gli avranno scritto dicendo di essere suo padre, o quanti avranno cercato di fargli credere di essere suoi parenti. Sai come vanno queste cose, quando c’è di mezzo una persona ricca e influente.»

«Ma tu hai la collana di sua madre» ribatté spazientito l’altro. «Hai ancora quel pendente, no? Può essere sufficiente come prova del fatto che quantomeno la conoscevi bene.»

Masamune batté il bastone per terra. Stringeva gli occhi e la mandibola come sopportasse un dolore fisico.

«Perché sei così interessato alla mia storia con Wing Emperor e Sagiko? Molti anni fa mi consigliasti di dimenticare e pensare alla mia vita. Che il passato era passato.»

«Via, amico mio… ero giovane quanto te, e lei era appena morta. A quanto sapevamo allora, anche tuo figlio era morto. Ovviamente ti consigliai di pensare alla tua vita… e ovviamente» alzò la voce quando l’altro fece per ribattere, «quando il ragazzo sbucò fuori con le ali e quell’aspetto tali e quali a Sagiko erano passati quindici anni. Tu eri sposato con un’altra donna, avevi un altro figlio piccolo e una carriera politica: quale amico ti avrebbe consigliato di turbare la tua famiglia e magari anche quella del ragazzo per dire la verità? Oso pensare che tu, fosse capitato a me, avresti scelto la serenità della mia famiglia e la pace della mia nuova vita.»

«Sì… forse avrei dato lo stesso consiglio» ammise a voce bassa. «Ma ho sofferto molto. Ho fatto un torto enorme a Sagiko oltre ad averla privata della sua vita, perché ho ignorato nostro figlio per rincorrere ambizioni politiche che, come tu ben sai, erano di mio padre e non mi appartenevano. Quando finirò questa mia vita non penso che la rivedrò, e a questo punto preferisco così. Mi vergognerei troppo.»

Reiner emise un lungo sospiro. Indeciso sul da farsi, in onore di una vecchia e preziosa amicizia, optò per la sincerità.

«Perdonami se ti sembrerò un opportunista, Masamune… ma avrei davvero bisogno che tu provassi a contattare tuo figlio.»

L’uomo giapponese si voltò di scatto e piantò su di lui i suoi bruni, profondi occhi indagatori.

«Dunque c’era una ragione per la tua visita.»

«Una ragione non esclude il piacere di rivederti» puntualizzò Reiner. «Comunque, è una questione fondamentale. Visto che tu mi confidasti un segreto enorme quando studiavamo insieme, io te ne confiderò uno altrettanto grande, affinché possiamo considerarci amici alla pari.»

«Di che parli, per la miseria? Hai una faccia spaventosa.»

«Nel novembre dello scorso anno qualcosa riuscì a scappare da una base militare in America. Una base sotto la mia supervisione.»

Masamune deglutì.

«Qualcosa? In che senso, qualcosa?»

«Un soggetto parte di una ricerca così segreta che neanche il Vice Presidente lo sa… qualcosa che superò il deserto e in qualche modo anche l’oceano per arrivare fino qui.»

«In Giappone?»

Il militare annuì rigido.

«Non conosciamo le sue intenzioni… ma dovrebbe ancora avere l’aspetto di un bambino. Un bambino con dei poteri enormi… e se è sbarcato qui e si è fermato come la nostra intelligence ritiene, l’uomo che potrebbe sapere dov’è…»

«Un… bambino Auris… la scuola» sussurrò Masamune, sconvolto.

«Sì. L’uomo che potrebbe sapere dov’è quella creatura è tuo figlio, Masa… e purtroppo Sashko è così pericoloso che l’essere Wing Emperor non basta per essere al sicuro da lui.»

Masamune impallidì e puntò uno sguardo vacuo oltre la finestra. Le nuvole si erano disperse e c’era il sole, ma sentiva solo la pelle d’oca di un pericolo nascosto. Non gli sembrava possibile che fino a poco prima fosse stato così allegro per la visita di un vecchio amico e una scatola di crete.

 

*

 

L’esclamazione di stupore di Mukuro uscì così acuta che fece girare tutte le persone nel ristorante, che già aspettavano qualsiasi pretesto per guardare più da vicino una coppia interessante come Wing Emperor e il suo allievo, entrambi nei loro abiti in stile cinese.

«Shhh» gli fece Byakuran, insolitamente nervoso. «Non dare di matto, per favore.»

Il basso omino che rispondeva al nome di Long Su uscì da dietro il bancone laccato di nero e aprì un poco il paravento decorato con una fine pittura di un volo di gru, per nascondere meglio il loro tavolo dal resto dei clienti.

«Long Su, portaci altro tè verde, per favore.»

«Subito, sensei.»

L’omino si allontanò e Mukuro era pronto a riagganciare il discorso scioccante, ma Byakuran lo fermò con un gesto della mano.

«Aspetta, credo che quella sia la nostra zuppa alle uova, per questo ce la porta Seijuro.»

Mukuro si rabbuiò ed evitò di guardare direttamente il giovane mentre scambiava qualche frase di cortesia con Wing Emperor: aveva saputo da qualche tempo che era lui il senpai di Kyoya e suo ex amante, e che era diventato famoso per essere il solo diplomato classe S ad aver rinunciato alla carriera da Civil Hero per fare il cuoco.

«Mhh» bofonchiò Byakuran quando prese un boccone di zuppa. «Non dovrei dirlo proprio io, ma renderlo un Civil Hero sarebbe stato un oltraggio alla gastronomia.»

Pur avendo delle ragioni personali per evitarlo Mukuro si lasciò tentare dal profumo e prese un po’ di zuppa proprio mentre Su riempiva loro la teiera da un grosso bollitore nero opaco. Suo malgrado ammise – almeno con se stesso – che la zuppa era ottima e che Byakuran aveva molte ragioni per considerare il Fu Sha il suo ristorante cinese preferito in Giappone.

«Allora, ci vieni?»

Perso nel connubio tra zuppa di uova e noodles alla salsa d’ostriche era lontano anni luce da quello che Ran gli aveva detto per farlo squittire in quel modo ridicolo poco prima. Lo guardò sbattendo gli occhi, confuso.

«Dove?»

«Alla cerimonia di apertura del mese della pace» ripeté Byakuran, accigliato. «Te l’ho detto prima. Mio padre vorrebbe vedermi lì, se accetto di incontrarlo.»

«Ah, sì… sì» fece, ricollegandosi alla questione importante. «Ma quando hai parlato a tuo padre?»

«Non l’ho fatto. Mi ha mandato una lettera. Me l’ha consegnata ieri mattina un uomo che dice di essere il suo domestico.»

«E me lo dici soltanto ora?! Fammela leggere!»

«Non l’ho portata, è in camera mia» replicò secco, versandosi il tè. «Comunque oserei dire che sei obbligato a venire, perché sei tu la causa di questa bella frittata!»

«Eh? Io? Ma che c’entro io, scusa?»

Byakuran bevve un sorso di tè e fissò lo sguardo sul fondo.

«Nella lettera dice che averti visto gli ha fatto ripensare alla sua decisione di tenersi in disparte. Che parlarti di mia madre e chiederti di riferirmi quei messaggi gli ha dato modo di pensare a certe cose.»

Mukuro sospettava che la lettera fosse meno vaga, ma non insistette.

«Mi ha chiesto se sarei andato alla cerimonia di apertura per il mese della pace… quest’anno si terrà a Osaka, e in quanto politico di quella zona è invitato a partecipare. Non è ironico? Mio padre è un politico.»

«Non direi che è ironico. Piuttosto direi che è un dettaglio chiarificatore.»

Gli occhi di Byakuran scattarono su di lui come volesse fulminarlo, ma Mukuro aveva appreso presto che parlare dei suoi genitori lo rendeva elettroforo come una torpedine e ne era ormai immune.

«Se voleva una carriera politica, o la voleva la sua famiglia per lui, è ovvio che non potesse ammettere di avere un figlio con una donna Auris… una del ghetto. Sarebbe stato scandaloso trent’anni fa.»

Byakuran consigliò con calore un metodo con cui suo padre avrebbe potuto evitare scandalosi figli illegittimi e si sciacquò la bocca con il brodo della zuppa. Purtroppo la rabbia gli rendeva difficile ragionare e comprendere, e Mukuro temeva che non sarebbe riuscito a lavorare sul suo problema prima della cerimonia. Il ragazzo si spostò i capelli dalla faccia con un sospiro.

«D’accordo… vengo con te. Non puoi andare da lui a sbottargli contro come un moccioso, qualcuno dovrà farti comportare più o meno come un adulto.»

«Invece dovrei proprio! Dovrei davvero rovesciargli addosso trent’anni di dolore, capricci e sfuriate che ha pensato bene di evitare!»

«Perché piuttosto non lo perdoni?» buttò lì Mukuro, casualmente come stesse proponendo il colore dei cupcake a una festa di compleanno. «Se lo perdoni si sentirà più libero. Libero di parlare con te, di farti delle domande e di raccontarti di tua madre, e di lui. Se lo perdoni potrebbe ancora essere tuo padre.»

Scelse con cura la chela di granchio che avrebbe mangiato insieme ai noodles, poi sorrise senza avere però il coraggio di guardare dalla parte di Byakuran.

«Io sono stato adottato poco prima che diventassi maggiorenne… sono la prova vivente che non è mai troppo tardi per trovare famiglia… e che non è detto che il padre che ti trovi faccia così schifo.»

Un sopracciglio di Byakuran fece uno scatto in su.

«Sarebbe dovuto sembrare un complimento, per caso?»

«Avanti, Ran… pensa a come potrebbe essere da adesso in avanti se tu avessi un padre che vuole questo ruolo! Tu che hai finalmente qualcuno a cui chiedere qualcosa quando non sai che cosa fare… che puoi studiare i suoi gusti per quando sarà il suo compleanno… una persona a cui puoi presentare Amber!»

Non era da lui andare tanto sul romantico, ma sapeva di non sbagliare a calcare la mano in questo caso: Ran aveva un disperato bisogno insoddisfatto di famiglia, e se c’era una possibilità rendere quell’abisso meno spaventosamente vuoto non l’avrebbe persa.

«Avanti… pensaci» insistette. «Hai passato i trenta, ti stai riprendendo un po’ del tuo tempo, e hai la tua ragazza finalmente con te. Presto o tardi li farete dei bambini, non ti piacerebbe che avessero un nonno?»

«C-che diavolo… Indigo, stai veramente correndo troppo! A malapena si può dire che io e Amber siamo una coppia, parlare di bambini è decisamente prematuro!»

«Ma se stava piangendo come una disperata sulla foto della tua mamma e blaterava che Sagiko fosse un bel nome?»

Dimostrando ancora una volta la sua ottusità dalla vastità insondabile, Byakuran mise su una specie di broncio testardo molto divertente da guardare ma rognoso da gestire.

«E con ciò?»

«Con ciò, babbeo, era un messaggio subliminale per dirti che a lei non dispiace se vuoi chiamare tua figlia come tua madre… e non le dispiace neanche mettertela in cantiere, ci arrivi o no?»

«Questa è un’assurdità.»

«Sono circondato da ragazzine e ventenni da sedici anni! Lo so come fanno, dammi retta!»

Abbattute le porte difensive, la psiche di Byakuran decise di fuggire dalla battaglia.

«E questo cosa c’entra con mio padre? Non devo farlo entrare nella mia vita in previsione di figli che potrei non avere mai!»

«Allora, Byakuran, o prendi questa discussione da uomo o giuro che chiamo tua sorella per farti andare a parlare da adulto con tuo padre» lo minacciò Mukuro, puntandogli le bacchette contro. «I miei erano esempi. Stai pensando a com’è stata brutta la tua vita senza genitori fino ad ora, ma riesci a immaginare come sarebbe se gli dessi la possibilità di essere tuo padre da adesso in poi?»

Byakuran tacque per un po’, mischiando pigramente verdure e funghi nel suo piatto. Mukuro nell’attesa bevve un sorso di tè al gelsomino.

«Non lo so» fece allora Byakuran, passandosi la mano nei capelli. «Tu come… pensi che sarebbe la tua vita adesso se avessi un padre? Un padre… vero.»

Col mento appoggiato contro il pugno Mukuro fece un gesto vago con la mano con cui teneva la tazza.

«Beh, mi sa che non starei qui a dirgli come comportarsi col nonno.»

«Probabile» commentò lui, incolore.

«Ma lo avrei…»

Prese altro tè caldo per cercare di sciogliere un nodo ostinato. Detestava l’idea di dare retta alla psicologa da cui era stato costretto a seguire la terapia dopo l’incidente con Hell Cat, ma sembrava ormai evidente che buttar fuori le palle di pelo fosse meglio che tenersele nello stomaco.

«Avrei un padre vero. Uno a cui potrei chiedere di quando ero piccolo, o della mamma. Uno in cui… potrei cercarmi… capisci che cosa voglio dire?» gli fece esitante; non voleva muovergli una critica. «Avrei davanti un uomo in cui… potrei vedere il mio stesso viso, le mie stesse mani… i miei stessi colori, o le stesse preferenze… forse un musicista anche lui. Capisci che cosa intendo?»

Byakuran aveva assunto l’aria di un bambino che guarda uno scatolone di gattini fradici lungo la strada.

«Indi… davvero per te questo confronto sarebbe così importante? Non ti basta trovare te stesso per essere completo?»

La risposta sincera era “no”. Da che ricordava si era sempre chiesto chi fossero i suoi, aveva sempre provato a immaginare i loro volti dopo aver appurato che non li ricordava, e si chiedeva dove vivessero, che lavoro facessero, se fossero ancora insieme. Si chiedeva da anni se uno dei due fosse stato portato per la musica, o per la matematica. Si chiedeva da tanto se fossero Auris, o chi dei due, o se portassero lo stesso tipo di forza che aveva lui. Nella parte del suo cuore che era ancora radicata nell’infanzia non aveva mai smesso di cercare.

Dal suo silenzio Byakuran capì da solo la risposta.

«Se cogliere questa occasione di conoscere mio padre può darti un sollievo di riflesso, lo farò…»

«Non devi farlo per me.»

«Sei la miglior ragione che mi viene in mente» tagliò corto lui. «Se stai cercando di convincermi a incontrarlo, accetta che ci andrò per questo motivo.»

Mukuro sospirò e incrociò le braccia.

«Ti darebbe tanto fastidio fare qualcosa per te e solo per te?»

«Non stavi blaterando di Amber e di bambini un momento fa?»

Decise di non incaponirsi, convinto che Byakuran avrebbe scoperto da sé i lati positivi di cogliere quell’occasione, e iniziò a punzecchiarlo sulle pose sensuali di Amber. I toni si alleggerirono come l’umore, almeno finché il suo tutore non gli chiese – con troppa vaghezza per risultare naturale – come fosse stata la sua uscita a Komagashi al di là della mostra: lì iniziò a girare gli occhi su chiunque e qualunque pietanza per poter agganciare un discorso diverso, ma non riuscì a scappare.

«Non vuoi parlarmi di Phoenix?»

«Di che… lo conosci meglio di me, che cosa dovrei dirti?»

«Oh, dubito molto di conoscerlo bene quanto te… ora.»

Lo guardò di sottecchi, ma il preside badava ai suoi noodles di pesce senza particolare espressione. Si aspettava di vederci della malizia, ma il suo non era lo sguardo di qualcuno che volesse criticarlo o metterlo in imbarazzo.

«Si vede tanto?»

«No» rispose Byakuran tranquillamente. «Ma io sono un Mahayogi, no? Potrà sembrarti assurdo ma da quando sei tornato dalla tua gita muovi il corpo in modo diverso da prima. Sei più… disteso, e il tuo respiro è più lento. Hai un rapporto più intimo con il tuo corpo, e non ci sono molti eventi che possano farti cambiare così in fretta una confidenza che dura da anni.»

«È… davvero si può capire da questo? Dallo yoga?»

«Non saprei… ma io l’ho capito. È stato piacevole?»

«Non ho neanche un’intenzione che sia una di risponderti!»

«Non voglio mica i dettagli… anche perché tu potresti chiederli a me e io davvero non voglio risponderti» ponderò lui, ripiegando il tovagliolo. «Vorrei solo sapere se sei sereno al riguardo.»

Mukuro ripensò con divertimento alle battute che Kyoya gli aveva fatto sullo yoga per intaccare il suo nervosismo. Gli riuscì più facile guardare gli occhi viola di Byakuran.

«Sì. È stato piacevole… e, per assurdo, lo devo a te.»

«Uh? A me?»

«Non lo avrei mai incontrato se tu non fossi venuto a prendermi a Kokuyo… se non avessi insistito per presentarmi la tua classe… e se non avessi deciso di tenermi con te non ci saremmo mai conosciuti abbastanza.»

Byakuran scosse la testa, ma mentre stava per dire qualcosa si fermò e si accigliò, come sentisse qualche suono innaturale o una voce che lo chiamava da lontano. Non era la prima volta che glielo vedeva fare e gli ricordò l’episodio della sua crisi, quando prendeva l’Orosoppressore che gli causava mal di testa e alienazione a tratti.

«…Ran?»

Schioccò le dita per riavere la sua attenzione, e lui gli sorrise.

«Se la pensi così, sono contento… ma sai… siamo tutti fili in un telaio immenso… a volte siamo tessuti in un ricamo più grande che non vediamo, senza che ne abbiamo coscienza né intenzione.»

«E… con ciò intendi dire che…»

«Che quel giorno non avevo idea di averti presentato il tuo futuro primo fidanzato.»

«Non… okay, non chiamarci così!»

«Fidanzati? Perché no?»

«È… sembra così… definitivo, suona inquietante!»

Byakuran lo stava guardando basito.

«Visto quanto sei all’antica pensavo che per arrivare a quello le cose fossero serie tra di voi.»

«Lo sono… però…»

Se Phoenix l’avesse sentito parlare così ci sarebbe rimasto male, ma a lui quella parola metteva ansia.

«Noi non siamo… non… non ne abbiamo ancora parlato, insomma…»

«Ma tu sei innamorato?»

Mukuro sospirò, affranto. Non avrebbe voluto parlarne prima di aver messo un po’ d’ordine nella sua testa.

«Non lo so… è la prima volta che provo qualcosa per qualcuno. Che sento… delle emozioni così forti da stordirmi… da confondermi. Ho scritto tante canzoni d’amore, ma ho l’impressione di aver parlato a vanvera.»

«Nonostante sia così sconvolgente pensi che non sia amore?»

«E come faccio a saperlo? Sono un adolescente» replicò Mukuro, deluso. «Vorrei avere delle risposte, ma non ne ho. A malapena riesco a pensarci, sembra di sniffare della cocaina ogni volta che inizio a pensarci sul serio: diventa tutto caotico, pieno di colori e non si capisce cosa sia vero e cosa no. Poi rinsavisco.»

Byakuran diede in una risatina a bocca chiusa.

«Non sembra cocaina, quella che ti va su per il naso… più un trip di acidi.»

«E tu che ne sai di… ah, certo. Sei un dottore.»

«E frequentavo persone, da giovane» fece lui, ammiccando. «Ma non devi prenderla male, sai? I sentimenti non si capiscono con la logica. Tu hai una testa analitica, per questo non stai dietro alle tue sensazioni… non è un male, no? Lo hai detto tu che lasciarsi andare fa bene. C’è tempo per capire… ma penso che tu, dentro di te, lo sappia già.»

«Credi?»

«Ti mancava quando è stato in ospedale… cos’hai sentito quando è tornato?»

Mukuro ricordò la sua improvvisa apparizione nella sala di lettura, il suo confortante tono di voce mentre cercava di fargli forza, l’odore inspiegabile di ciliegio e quel bacio inaspettato. Il calore che gli risalì dal ventre era lo stesso che avvertiva dopo una tazza di tè caldo alla fine di un’esercitazione nella neve.

Gli venne naturale sorridere e Byakuran sorrise di rimando. Finirono la loro cena e mentre consumavano un dolce la loro conversazione era concentrata sugli abiti per la cerimonia.

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Capitolo 20
*** (De)classified ***


 

Il pennello frusciava sulla tela mentre Byakuran lo adoperava asciutto per creare un effetto di luminosità diffusa e delicata sulle spalle della donna che stava prendendo forma nel suo quadro. Colse con la coda dell’occhio un movimento della sua modella seduta sul divano color corallo.

«Hai freddo, Bambi?»

Amber scosse appena la testa.

«No, fa caldino qui… è che ho le gambe un po’ addormentate, possiamo fare una pausa?»

«Certo che sì, mettiti comoda. Darò il colore al lenzuolo.»

La ragazza stese le gambe stiracchiandosi come un gatto e le coprì con il lenzuolo di satin bianco che usava per coprire il corpo – dal seno alle ginocchia – durante la posa. Byakuran notò che raccoglieva la sua tazza di caffè dallo scaffale più basso mentre era alla ricerca del colore che somigliava a quello che percepiva nei riflessi del tessuto.

«Ran-chan, dipingimi il lenzuolo di lilla~»

Preso di sorpresa la guardò confuso.

«Ma è bianco.»

«Sì, ma tu fallo lilla. Lo sai che è il colore che preferisco.»

Abbozzò una risposta e prese a cercare il violetto oltremare per una mescolanza. In quel momento ripensò a quando Indigo gli aveva fatto notare i capelli tinti di lilla e il fatto che si fosse scelta un nome come Vanille: lì per lì era rimasto scioccato di scoprire che le bacche di vaniglia non erano affatto bacche – come le aveva immaginate nella sua testa, simili a mirtilli – ma pistilli di una specifica specie di orchidee.

C’erano pochi dubbi su di loro, ormai, o almeno Byakuran non ne aveva. Era convinto che Amber non avesse mai smesso di amarlo, neanche quando lui era invaghito di Helena, e che non avesse mai smesso di sperare in un lieto fine per loro due… e visto quanto si sentiva in pace adesso, con lei finalmente al sicuro lontana da criminali, clienti pericolosi e droghe, si stava convincendo di non aver desiderato altro che quello che aveva ora.

«Sei sicura che non sia un problema, Bambi?»

«Il lilla?»

Byakuran la guardò negli occhi azzurri un po’ spaesati, con l’espressione seria.

«Lo dovrò dire a tutti… e visto quanto sono importante, sarà come dirlo a tutto il mondo.»

«Lo so, Ran-chan… ma lo sapranno comunque prima o poi.»

«Sapranno tutti chi sei e che cosa hai fatto. Ti sta bene che sia così? Non si torna indietro.»

Amber annuì. Sembrava serena e questo diede più tranquillità anche a lui.

«Meglio che sia tu a dirlo prima che qualcuno pensi che ti stai difendendo dalle malelingue.»

«È vero… sono felice che tu capisca. Vorrei poterlo evitare, ma… temo che non potrò mai smettere di essere Wing Emperor. Anche se delegassi i miei doveri, se mi occupassi solo della scuola, o solo del Coordinamento… persino se scomparissi in una foresta tibetana, temo che il mondo non mi permetterà mai di essere soltanto Ran. E questo vuol dire che tu non potrai mai essere una ragazza qualsiasi con il lusso dei segreti.»

«Lo capisco bene… ma tra i due sono io che danneggio te per essere quello che sono.»

«Non dirlo neanche. Sai che mi fa innervosire che tu abbia fatto quella vita e parli come se la vittima fossi io.»

La ragazza mise giù i piedi e gli andò vicino; gli passò la mano sulle spalle mentre guardava l’ombra colorata di se stessa in una forma che ancora mancava di somiglianze sulla tela.

«Va bene così. Ne abbiamo parlato a lungo e abbiamo deciso insieme… ci siamo persi e ci siamo ritrovati. Non perderemo più tempo e affronteremo tutto quello che ci sarà davanti a noi… non può essere peggio di quello che abbiamo affrontato da soli, no?»

Si scambiarono un bacio e Byakuran continuava a sorprendersi ogni volta di quanto lo trovasse normale. Era strano sentire con lei una confidenza – quasi la donna con cui aveva rapporti intimi abbastanza regolari da anni non fosse la stessa che aveva lì di fronte – o quel genere di sentimento tenero, dopo essersi abituato a comportarsi come un cliente. Aveva creduto che servisse tempo per dimenticarsene, per tornare a un rapporto di amicizia, e poi di dover ricominciare da lì. Non era andata come credeva.

Amber interruppe a metà un bacio meno tenero e molto più passionale, con un sorriso incerto e l’aria dispiaciuta.

«Ma non puoi più dormire a casa mia, per un po’.»

«Oh… okay…» fece lui, confuso. «Ma… perché? Ho fatto qualcosa di sbagliato…?»

«Diciamo che non voglio rischiare» l’interruppe lei, più convinta nel sorridergli. «Parlerai ai giornali di me… di noi… non voglio che possano aggrapparsi all’idea che fossi già incinta quando mi hai portata qui.»

Il solo sentire quella parola fece salire un sottile brivido lungo la schiena di Byakuran, ma non fu del tutto sgradevole. Ricordava bene la gravidanza di Aria, dato che era undicenne quando mise al mondo Yuni, e ora viveva quella della sua sorellina anche se in gran parte per via telematica, e associava alla maternità l’aspetto più dolce delle donne che aveva conosciuto e amato.

Si innamorò dell’idea di poter ritrarre Amber durante la sua gravidanza, e poi con il suo bambino come aveva fatto con Helena… e magari di nuovo e di nuovo, con la famiglia che cresceva e poi con l’età che avanzava, per tutto il tempo che avrebbero avuto insieme.

 

*

 

Un fragore di roccia frantumata rimbombò nel campo sedici, uno dei campi più spaziosi e resistenti a disposizione della classe S, e la polvere oscurò la visuale di Phoenix. Con una certa apprensione guardò verso Restless – sdraiato su una cassa di armamenti in una posizione che solo un gatto avrebbe potuto trovare comoda – per coglierne le espressioni: una speranza futile data la sua poker face, ma i suoi occhi di un blu profondo gli confermarono che non perdeva una mossa.

«È vivo» commentò laconico.

«Non dirlo come se ti dispiacesse!»

«Non sono dispiaciuto, sono sconvolto» obiettò lui, senza sbattere mai le palpebre. «È raro che Breaker faccia sul serio in un allenamento ed è ancora più raro che qualcuno non finisca stecchito entro un minuto.»

«Questo lo so anche io.»

Schioccò la lingua impaziente e attese con trepidazione che il polverone calasse, poi fu di nuovo in grado di vedere Mukuro: rotolava sul terreno roccioso dell’arena e scattò via appena i suoi piedi riconquistarono il suolo per schivare un colpo. Era visibilmente affaticato, mentre Breaker riconfermava la sua resistenza ai limiti della sensatezza.

«Forse dovremmo interrompere e…»

Sky Flame si fermò a metà frase per emettere un’esclamazione di sorpresa e puntò il dito verso la battaglia, ma sia Gravity che Phoenix guardavano proprio lì e spalancarono la bocca senza un suono. Dal canto suo Restless fece un ghigno storto.

«Tch, quel bastardo» fu il suo commento.

«L’avete visto?!»

Naturalmente Phoenix l’aveva visto, ma la sua reazione fu lanciarsi al di là del bordo bianco dell’arena per raggiungere i due combattenti. Breaker, comunque, si era accorto dell’accaduto e aveva fermato l’attacco.

«C-che… l’ho… è uscito?» ansimò Mukuro, tenendosi il braccio sinistro dolorante.

«Oh, sì! Era bello grande» commentò allegro Breaker. «Ha la forma di un grosso fiore bianco!»

Phoenix raggiunse Mukuro con meno frenesia e si chinò per aiutarlo ad alzarsi.

«Era un loto bianco, Indi. Si è visto molto bene anche da laggiù.»

Mukuro aveva l’aria di uno che stava per svenire, ma sorrise soddisfatto e si lasciò alzare da Phoenix senza proteste d’orgoglio. Con un borbottio indistinto chiese qualcosa che non capì affatto, ma paradossalmente il più distante Breaker sì e gli rispose.

«Non avevi visto la roccia dietro di te… ho visto come si muove. Credo vada a proteggere automaticamente il tuo punto cieco, ed è geniale! Se riuscirai a svilupparlo per bene nessuno riuscirà più a prenderti alla sprovvista con un attacco alle spalle, nemmeno io! Ah ah!»

«Tu, sempre a dare aria a quella stupida bocca» replicò aspro Restless, appena a tiro di voce. «Non parlare come fossi un samurai leggendario, sei solo un cretino con una spada in mano!»

«Ahah! Okay!»

«Mi stai di nuovo rispondendo senza ascoltare, vero?!»

Breaker si voltò per sorridergli, la spada posata con noncuranza sulla spalla come un’innocua canna da pesca.

«Mh? Hai detto qualcosa, Gokudera?»

«Bastardo» sibilò lui in risposta mentre gli occhi tornavano al loro verde delicato. «Ti spaccherò quella faccia da tonto, un giorno.»

«Mi sa di no, Gokudera» fece lui con enfasi sul nome.

«Restless!»

Phoenix passò loro accanto scuotendo la testa e Mukuro emise una risata sofferente, a corto di ossigeno com’era. Lo fece sdraiare sulla panchina a riprendere fiato e gli rimosse il monitor che aveva legato al bicipite mentre Sky Flame e Gravity gli riversavano addosso una cascata mista di complimenti entusiasti e sincera preoccupazione.

«Saturazione dell’ossigeno molto bassa al punto di manifestazione» sentenziò dopo aver decifrato i puntini sul diagramma. «Anche stavolta. Sembra che emerga più facilmente quando sei a corto di fiato… quindi quando ragioni meno lucidamente.»

«Che dicevo io?» intervenne Breaker, sorridente. «È una difesa automatica, come la mia acqua! Se è così posso davvero aiutarti ad allenarla, Mukuro! Ci divertiremo!»

Ansimando lui espresse dei dubbi sulle “potenzialità ludiche dell’allenamento”, ma accettò di allenarsi ancora con Breaker. Per qualche motivo Mukuro sembrava andare particolarmente d’accordo con lui e a volte a Phoenix questo suscitava qualche incertezza, ma la scacciava rapidamente riconoscendola come una gelosia infondata.

«Vedrai che la controllerai presto! Quando sono arrivato io qui facevo galleggiare tutto solo quando ero nervoso, non riuscivo mai a farlo apposta!»

Mukuro si rimise seduto per parlare a Gravity, ma si guardava le mani con i guanti color indaco.

«Infatti non ci riesco… mi è sempre apparso quando ero in pericolo, o almeno sentivo di esserlo.»

«Forse è perché quando hai paura respiri peggio» osservò Sky Flame saggiamente, supportato dal muto annuire di Gravity. «Si respira meno profondamente, si ragiona poco e si è meno reattivi e più stanchi!»

«Beh… sempre ammesso che i livelli di ossigeno siano veramente la questione principale…»

Purtroppo non esistevano modi scientifici per indagare un potere Auris a meno di non sottoporsi a delle sperimentazioni condotte dal governo, che però avevano la fama di essere poco più umane di quelle di cui avevano fatto parte senza consenso i prigionieri dei campi di sterminio in Europa e in Asia.

Phoenix lanciò un’occhiata intensa a Storm Breaker, in particolare al suo torace. Lui, con quel suo pericoloso potere che andava fuori controllo quando era incosciente, era stato obbligato a sottoporsi a una ricerca approfondita e per quattro mesi era diventato una cavia.

A nessuno era stato spiegato che cosa fosse successo nei dettagli, ma era stato Wing Emperor a ordinare che il ragazzino fosse rimandato immediatamente a scuola e si vociferava – non si era mai sicuri di cosa fosse vero o no quando nella storia c’entravano l’esercito e Wing Emperor – che il preside avesse minacciato il Ministero perché si convincessero a farlo: se solo di sospendere il proprio pubblico impiego o di rivelare qualcosa, nessuno sapeva e molti ipotizzavano.

Non permetterò a nessuno di usare Mukuro come una cavia. Troveremo noi il modo di aiutarlo.

Ma di come potesse applicare questo suo proposito Phoenix non ne aveva idea. Il secondo potere di Indigo era completamente diverso dal suo, assomigliava forse all’acqua difensiva di Breaker, o al potere di alterazione di gravità di Gravity. Sembrava che tutti avessero una proposta o una teoria per lui e il suo allenamento, mentre Phoenix, per la prima volta da che l’aveva conosciuto, si sentiva impotente.

«Per oggi possiamo chiudere qui» fece allora, battendo le mani un paio di volte come usava fare alla fine di una sessione della sua classe. «Andiamo a farci una doccia e riposiamo. Le ragazze vorranno avere le novità appena escono dalla lezione di soccorso.»

Restless commentò qualcosa nel solito tono scontroso e Breaker gli rispose allegramente, ma Phoenix non li ascoltava. Mentre si dirigevano allo spogliatoio fissava la striscia sfumata d’argento lungo la spina dorsale di Mukuro e si rese conto di avere una tremenda paura.

Prima quel nuovo arrivato gli era grato, lo aveva preso come modello di Civil Hero da copiare ed entrambi si erano adagiati sull’idea che questa condizione sarebbe durata forse anni; ma ora scoprivano che quel talentuoso novellino era un Chimera con un secondo potere complementare che se dominato l’avrebbe spinto molto più avanti di Mad Phoenix, colui che solo pochi anni prima era stato il piccolo prodigio dell’Accademia.

Non riuscì a scrollarsi di dosso quella sensazione neanche con l’acqua calda che gli scorreva sulla faccia. Non andò via. Aveva appena chiuso il suo getto per insaponarsi con gesti automatici e la mente era ancora distante, ma uno spruzzo inaspettato lo strappò dal suo limbo.

«Hai preso il volo per la luna, Kyoya?»

Mukuro era nella doccia accanto e gli sorrideva. Era diventato così alto che poteva appoggiare le braccia sul bordo del separatore senza mettersi in punta di piedi; un privilegio che a lui non era concesso con la stessa naturalezza.

Com’è bello con i capelli bagnati…

Abbozzò un sorriso.

«Stavo solo pensando a come aiutarti con il tuo gene Argento» gli fece, poi notò la sua perplessità. «Ah… un po’ di tempo fa si usava chiamarlo così, il secondo potere di un Auris. Ora mi sa che lo chiamano Potenzialità Oro Due, almeno credo… ammetto che non essendo un Chimera ho un po’ trascurato di informarmi.»

«Ahah!» fece Breaker dall’altro lato. «Gene Argento! Non lo sentivo dire da un sacco! Ehi, se uno avesse tre poteri avrebbe un “gene Bronzo”?»

«E un quarto “gene di legno”, come la tua testaccia» lo rimbeccò Restless. «Non esiste un Auris con tre poteri!»

«Ma Prince-sensei dice di averne tre!»

Mukuro si accigliò.

«Chi sarebbe questo? Un professore di qui?»

«Prince the Ripper non è un vero professore… fa parte del corpo insegnanti…» spiegò Phoenix tentando di rimanere rispettoso, «ma… in realtà non insegna niente. Si presta da avversario per alcune esercitazioni ad alto rischio, per il resto lui…»

«Per il resto fa il filo a Viper» concluse per lui Restless.

«Beh, sì. Fa questo.»

«Ma va’» fece Mukuro, colpito. «E ha davvero tre poteri?»

«Sicuramente no» replicò aspro Restless. «Ne ha due, ma se gli chiedi qual è il terzo non vuole rispondere.»

«Magari è una cosa imbarazzante!»

Metà della testa di Sky Flame emerse dal divisorio più a sinistra.

«Tipo che cosa?» s’inserì Gravity, che aveva i capelli rossi completamente divorati da una massa di schiuma.

«Una volta ho letto su Josei Hiro-hina un articolo con i venti poteri Auris più imbarazzanti. Citava un tizio che emetteva una spora fungina dal pene.»

Nessuno si sorprese delle curiose letture di Mukuro, che sembrava apprezzare gli aneddoti sugli Auris delle rubriche più discusse della rivista, ma Enma reagì con un vistoso sobbalzo a quella rivelazione.

«Ma questo non è imbarazzante, è angosciante!»

«Già, ha avvelenato due o tre fidanzate prima che scoprisse come mai aveva quello strano retrogusto di eucalipto.»

Sky Flame fece una smorfia divertita mista a disgusto, Gravity sembrava solo orripilato. Dall’altro lato delle docce Breaker era oscurato da un dubbio che decise di condividere prima che qualcuno glielo chiedesse.

«Scusa, come fanno a sapere che gusto ha?»

Phoenix non riuscì a soffocare del tutto l’ilarità, ma si sforzò per poco: Restless che lanciò la saponetta dritta sulla nuca di Breaker solo per vederla inglobare al volo dall’acqua di cui erano intrisi i suoi capelli permise a tutti di ridere liberamente senza timore di ferire il loro compagno di classe.

 

*

 

Era buio da un pezzo quando Mukuro lasciò il dormitorio, sotto gli occhi ingenui dell’Akita Jirou che lo salutò scodinzolando a più non posso. Fuori era freddo e umido e si sbrigò a raggiungere la sala mensa. Era ovviamente deserta, illuminata da neon a bassa potenza sotto lo scaffale che reggeva i menù del giorno, e una luce estranea lo guidò a un tavolo all’angolo: quello dove si era seduto a mangiare nei suoi primi giorni di programma di contenimento.

«Grazie di essere venuto.»

Mukuro sorrise e si sedette.

«Tanta segretezza farebbe quasi sospettare che sia tu quella fidanzata dentro la classe S.»

Il forzato sorriso di Kyoko era ancora più posticcio nella luce della candelina sul tavolo fra di loro.

«Spero di non crearti problemi con…»

«Ti prego, non lo dire» la fermò con una vena di apprensione nella voce. «Non mi sento ancora pronto a considerarmi preso.»

La ragazza non commentò questa sua uscita e ricadde il silenzio, ma durò poco.

«Beh, come mai volevi vedermi? Volevi condividere con me un muffin rubato?»

Entrambi guardarono il muffin al doppio cioccolato – vanto della pasticceria dell’Accademia – in cui era conficcata la candelina.

«Questo è per te. Sei tu che entri nel club dei Chimera… ed è un club prestigioso dove militare, Mukuro-kun. Non sono molti gli Auris con due poteri, in Giappone si stima che siano uno su diecimila… e come ben sai, gli Auris giapponesi sono una piccola percentuale della popolazione. Potrebbero esserci meno di cento persone con due poteri in questo paese.»

Così dicendo Kyoko spinse il muffin verso di lui con la punta delle dita. Con un sorriso sghembo Mukuro lo spinse nel mezzo, guardandola fisso negli occhi.

«Nessuno ti ha fatto una festa di benvenuto, no? Per questa volta dovremo dividerlo… e credimi che farlo non mi entusiasma. Ci sono persone che conosco che sarei disposto a uccidere per uno di questi muffin.»

La risata della ragazza fu breve e per lo più servì a dissimulare l’amarezza.

«Un potere come il mio non è utile a nessuno. Considerarmi una Chimera è un insulto a persone dotate come voi.»

«A quanto ne so, offro la vista di grossi fiori di loto soffici. Non lo definirei un potere utile, al momento…»

Lei scosse la testa, ma Mukuro non la lasciò replicare.

«Kyoko, ti prego, smettila. Trovo molto irritante il tuo hobby di svilire te stessa senza neanche averne una pallida ragione. D’accordo, non è un potere ad alto potenziale distruttivo, non salverà nessuno da un proiettile in corpo, ma non vuol dire che sia inutile!»

La ragazza tacque, ma era evidente il senso di sconfitta che le aleggiava sul viso grazioso. Mukuro si mise più comodo sulla panca.

«Avevo un fratellino, quando ero più giovane. Si chiamava Yuto, rimase con noi un po’ più di un annetto intanto che suo padre si disintossicava» esordì, come cambiasse del tutto argomento. «Era un moccioso petulante. Aveva una vocetta stridula, era goffo, era maleducato, rumoroso, e a scuola era un disastro. D’inverno aveva perennemente il moccio al naso, d’estate puzzava sempre di pomata perché aveva reazioni allergiche a ogni tipo di becco d’insetto o di polline, o chissà che diamine d’altro.»

«Sembra fastidioso» fece lei; impossibile dire se parlasse del bambino o dei suoi molti problemi.

«Era quasi insopportabile e in pratica l’evitavano tutti… anche io, se solo ci riuscivo. Questo moccioso sembrava avere come unico talento il fischiare acutissimo con dei polmoni da tenore… e credimi, nessuno pensava davvero che fosse un talento; era un’altra delle declinazioni del suo essere una creatura molesta.»

«E…?»

«Beh, un giorno ci fu un temporale spaventoso dalle mie parti. Un fulmine è caduto sulla collina spaccando un albero in due; un boato da panico. Fatto sta che il cane del nostro vicino è scappato per la paura e non si trovava più» proseguì Mukuro, più conciso. «Il nostro vicino era un anziano, faceva fatica a camminare, quindi andammo noi in giro a cercarlo. Non era da nessuna parte e siamo arrivati fino al bosco, e… beh, Yuto andò avanti fischiando, perché così saremmo riusciti a seguirlo se avesse perso l’orientamento. Non ce ne fu bisogno, perché quei fischi assurdamente alti richiamarono il cane che gli venne incontro.»

«È una bella storia, Mukuro-kun, ma forse mi sfugge il significato.»

«Ne sei sicura? Perché io sono convinto che hai capito» la contraddisse lui, quasi minaccioso. «Nessuno di noi pensava che i fischi di Yuto fossero una risorsa. E nemmeno lui. Eppure in quella situazione lo sono stati.»

«Forse» concesse lei, testarda, «ma io sono…»

«Sei una Civil Heroine del soccorso medico avanzato. Trovo che non sia un dettaglio trascurabile.»

Lei aveva la faccia di una bambina che non vuole ammettere l’errore nei suoi compiti. Lui sorrise, si inumidì indice e pollice con la lingua e spense la candelina, sprofondandoli in una penombra più densa.

«Su, fammelo rivedere.»

Kyoko mugugnò una protesta, ma a una seconda incitazione cedette con un buffo brontolio. Lentamente i contorni del suo corpo si fecero più visibili, imbevuti di una morbida luce dorata che sembrava muoversi come il mare calmo dentro la sua pelle, nelle sue iridi, fino ad ogni suo singolo capello biondo. Pulsava, come una grande lucciola.

«Non so perché te ne vergogni» commentò Mukuro, sorridendo. «È bellissimo. Sembri la fatina di Peter Pan.»

Lei scosse la testa, ma aveva un piccolo sorriso in volto. La prima volta che glielo aveva mostrato era successo per caso, perché lei stava emettendo quella bioluminescenza a tarda notte mentre era in cucina a ristorarsi con un tè caldo e Mukuro era rimasto casualmente a studiare nella sala di lettura. Era stato scioccante per entrambi; Kyoko per la paura si era spenta all’istante come una lampadina fulminata e lui non riusciva a capire se stava solo sognando di vedere una sua compagna illuminarsi a mo’ di lucciola. Ne era seguita una conversazione a dir poco esilarante prima che lei ammettesse il suo segreto.

«Con il vecchio costume sembreresti una vera fatina» fece Mukuro, con uno sguardo alla combo pigiama-e-vestaglia giallo chiaro di lei. «Ma quello nuovo è molto più funzionale, non c’è dubbio.»

«Quando ho scelto quello giallo ero appena arrivata qui… ero una bambina con in mente delle streghette che sfidavano il male.»

«Non c’è niente di sbagliato. Credo che bisogna vivere le proprie età… non ci sarà un altro tempo in cui ti sentirai a tuo agio e felice con un vestitino di tulle giallo limone. Probabilmente.»

«Quel “probabilmente” era molto, molto insinuante! Vuoi dire che sarò di nuovo infantile?»

Mukuro tese un ghigno e si sporse più vicino a lei.

«Forse quello che voglio dire» sussurrò, «è che al tuo uomo quel vestito potrebbe anche piacere molto

La luce dorata della ragazza si spense all’istante.

 

*

 

Una brusca sterzata e lo stridio di gomme dell’automobile che non lo investì per un soffio non impensierirono più di tanto il bambino, che ascoltò impassibile lo strillo del conducente. Due fanali di coda rosso scarlatto come i suoi occhi sparirono in fondo alla strada secondaria e fu di nuovo solo nella luce incerta dei lampioni.

Sashko stentava a comprendere il comportamento delle persone. Aveva visto tanti adulti prendersi cura delle piccole personcine – ai suoi occhi, suoi simili – ma sembrava che nessuno si preoccupasse di lui. Molti, in verità, sembravano non accorgersi nemmeno di quella figurina che passava loro vicino, erano immuni all’intensità del suo sguardo e indifferenti alle sue difficoltà.

Sashko si accucciò sul bordo del marciapiede. I suoi piedini scalzi erano feriti e sudici, e anche intirizziti. Cercò di riscaldarli strofinandoli con le manine per diversi minuti, ma ottenne poco più che un teporino che sarebbe svanito troppo presto.

Levò uno sguardo al cielo, una massa nera sopra di lui, ma i suoi sensi ormai sviluppati gli dicevano che l’umidità aumentava. Stava per piovere e lui aveva bisogno di trovare un riparo, quindi si alzò e attraversò la carreggiata che l’auto di prima gli aveva impedito di tagliare fuori dalle strisce pedonali.

Fa tanto freddo qui.

Alitò sulle manine mentre scrutava tutti gli angoli e i buchi, alla ricerca di un posticino dove stare al sicuro.

Attraversare il deserto fuori dalla base era stato difficile, ma allora era ancora in forze ed era riuscito a salire sul vagone di un treno che trasportava bestiame: nascosto nel fieno insieme a un gregge di pecore era stato tranquillo e al caldo fino alla California. Lì i mesi invernali e quelli estivi erano caldi, non aveva dovuto affrontare il freddo finché non si imbarcò di nascosto su un battello che lo portò in una terra dove tutti parlavano una lingua ignota, le lettere erano diverse da quelle che vedeva nella base e – questione più urgente delle precedenti per la sua sopravvivenza – i veicoli andavano in senso contrario.

Ora, però, il suo problema era questa nuova terra con il suo inverno freddo e la città come un formicaio, dove era raro trovare un cortile dove entrare o dei vestiti appesi ad asciugare. In California era molto semplice fare entrambe le cose e avrebbe preferito tornarci, se solo avesse saputo come fare. Non osava partire su un’altra barca per paura di finire in un posto ancora più ostile.

Un improvviso vociare da dietro una porta anonima lo fece sobbalzare e si nascose dietro l’angolo dell’edificio. Aperta la porta un rettangolo di luce sghemba si allungò sul marciapiede con al centro l’ombra di una persona.

«Non m’importa cosa dice quella pazza. Non la porto al concerto se non fa seriamente con me!»

Sashko non capì nulla della frase che uscì di bocca al giovane uomo, ma fissò con interesse il suo grembiule rosso: era quello che portavano gli impiegati di un fast food. Il sacco che infilò nel bidone avrebbe repulso i più, ma il bambino percepì invece un odore di frittura che prometteva nutrimento. Quando la porta si richiuse corse al bidone, ma per frugarci dentro dovette issarsi sul bordo e lasciare che i suoi piedini sporchi penzolassero.

«Fries!» esclamò felice quando ripescò una quantità di patatine fritte invendute e gettate.

La sensazione era quella di aver fatto jackpot con la monetina trovata per terra. Prese ad arraffare patate e avanzi di panino lasciati da chissà chi quando un colpo accompagnato da un rumore metallico fece cadere il bidone e il bambino con lui; rotolò nell’immondizia rovesciata suscitando risate di scherno e fissò finalmente gli occhi sui suoi molestatori.

Uno dei due era pasciuto, con rotoli di grasso strizzati da una tuta verde e teneva in mano un boken, l’altro era più alto e longilineo, in pantaloni e camicia sotto un cappotto nero. Aveva in mano uno strano bastone che Sashko non aveva mai visto; l’avrebbe descritto come uno strano manganello, non conoscendo il tonfa come arma. Qualche passo dietro di loro una donna più vecchia e brutta fumava, avvolta in un giacchetto che la faceva sembrare un grosso fenicottero feroce.

«Oops, marmocchio, abbiamo disturbato la tua cena?»

«Che schifo» commentò la donna. «Quel bambino è lurido, da dove è strisciato fuori?»

«Già, marmocchio… com’è arrivato nella nostra zona un sacco di pulci come te?»

Sashko si accigliò appena. Era in Giappone da pochi mesi e nessuno si prendeva la briga di parlargli, di solito; la sua conoscenza della lingua era limitata ma aveva almeno capito che la donna aveva disgusto per lui. Per il resto, le intimidazioni erano uguali in tutto il mondo – per quanto sapesse lui del mondo intero – e il tono dei due uomini era lo stesso dei suoi carcerieri.

Tacque e cercò di raccattare il suo cibo, sperando che il terzetto sarebbe andato via ridendo di lui e lasciandolo fare, ma si ritrovò tirato su per la felpa. Era molto stanco, infreddolito e affamato, e diventava sempre troppo ottimista quando era stanco di affrontare problemi.

Aprì la bocca per emettere un grido, il suo grido, che di solito riusciva a liberarlo da situazioni complicate come quella. Ma era troppo stanco anche per questo ed emise un lamento acuto che non produsse alcun effetto.

«Che cos’era quello? Sembra quando pesti un topo!»

«I topi gridano di più» commentò l’uomo grasso, ghignando. «Aspetta che lo pesto e vedrai come strilla più forte.»

Non capì una parola, ma le espressioni del viso e l’uomo che infilava un tirapugni color oro sulle grasse dita erano abbastanza chiare per Sashko. Non avrebbe voluto farlo, era rischioso e soprattutto era stancante; difendendosi rischiava di esaurire le forze, svenire sul marciapiede e morire di freddo durante la notte… ma riportare delle ferite nel suo stato di debolezza era un rischio ancora più grande. Doveva proteggersi e sperare di resistere finché non avesse trovato un posto caldo dove strisciare.

Emise un gemito acuto di dolore quando la pelle della sua schiena si lacerò, serrò gli occhi per sopportarlo mentre sentiva voci spaventate coprire quasi del tutto lo strappo del tessuto. Cadde sulle ginocchia quando la mano che lo sollevava venne staccata di netto dal corpo; seguirono urla per pochi secondi e poi con un climax di suoni umidicci raccapriccianti fu di nuovo silenzio.

Sashko aprì gli occhi e vide la mano con il tirapugni il cui dito si muoveva in un riflesso postmortem, ma non guardò verso i suoi aggressori: strinse le braccia e affondò le unghie nella felpa per il dolore.

Dura poco, dura poco… ancora poco…

E aveva ragione. Le ali si raggrinzirono in pochi secondi e caddero dalla sua schiena come frutti passati di maturazione, dandogli quantomeno il sollievo di non sentire più quel dolore paralizzante. Si rialzò con le gambe tremanti, lanciò uno sguardo sofferente al cibo e scappò via prima che i dipendenti del fast food riaprissero la porta e diventassero spettatori dello scempio.

Non andò lontano. Aveva usato troppa energia, non mangiava da troppo tempo. Riuscì a svoltare a un incrocio ma collassò a terra prima di arrivare al successivo. Ansimante, senza forze, guardava la propria manina ancora sporca della salsa di uno dei panini che aveva cercato di recuperare chiedendosi perché non poteva essere come le altre personcine: sorridenti, nutrite, pulite, protette. Sbatté gli occhi per snebbiare la vista, provò a muoversi, ma restò semi-incosciente mentre veniva avvicinato da qualcuno e sollevato dal marciapiede.

«Ma guarda questo poverino» disse la voce di un uomo. «Com’è possibile che sia ridotto in questo modo un bambino così piccolo… ehi, piccolo, mi senti?»

Sashko riaprì gli occhi, più lucido di prima, e si accorse di aver capito che cosa gli stava dicendo l’uomo. Lo guardò in volto e scoprì capelli e pizzetto color zenzero e un paio di occhi azzurro scuro come una sfumatura di inchiostro acquerellato. Erano occhi gentili e li trovò strani, ne fu disorientato.

«Meglio se lo porto dritto all’ospedale» commentò fra sé e sé.

Il cuore di Sashko fece una fiacca capriola: l’uomo parlava inglese.

«Ho fame» disse al biondo, con una vocetta arrochita dallo scarso impiego.

Questi lo guardò con stupore e rise forte.

«Hai fame! Certo, certo. Sei ferito?» gli domandò poi, scrutando il sangue sui resti della sua felpa. «Dove sono i tuoi genitori?»

«Ho fame, signore» ripeté Sashko, appoggiando la testolina sulla spalla dell’uomo. «E ho freddo.»

«D’accordo… uhm… d’accordo» fece lui, più convinto sul da farsi. «Un bagno caldo per il freddo e un pasto. Poi penseremo a dove sono i tuoi genitori. Ho un figlio che ha più o meno la tua età, adora i cheeseburger con il burro di arachidi. A te piacciono?»

Sashko ricordava d’aver mangiato dei biscotti al burro di arachidi in California, ma non ricordava di aver mai mangiato un panino con formaggio, carne e arachidi. In ogni caso annuì: più era consistente il cibo che riusciva a ingoiare più a lungo sarebbero durate le sue energie fino al pasto successivo.

Non conosceva quell’uomo, non poteva sapere per certo che non fosse uno di quelli che lo inseguivano per riprenderlo o che non intendesse fargli del male, ma era stanco. Mortalmente stanco. E, come sempre, la stanchezza lo rendeva ottimista.

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Capitolo 21
*** Marked for fall ***


 

L’Eisen Hotel di Osaka ospitava la cerimonia dell’apertura del mese della pace internazionale e, per come lo vedeva Mukuro, anche le feste di compleanno dell’Imperatore. Neanche nei suoi sogni più arditi di fama come musicista si era visto entrare da invitato in un albergo a tali livelli di sfarzo: tutto marmo, ornamenti dorati, decorazioni ricercate, luci ovunque e ospiti con l’aura indescrivibile che faceva capire il loro rango sociale solo guardandole.

Appena riuscì a distogliere lo sguardo ammirato da una splendida fontana in cui nuotavano delle carpe koi vive e in salute si accorse che il suo tutore non era in vena di commentare l’ambiente o i pesci: continuava a stringere e allentare il nodo della cravatta con occhi che saettavano senza sosta sulla folla di ospiti.

«Ran, dai pace a quella povera cravatta» sbottò spostandogli la mano per aggiustargliela. «È di seta, se continui a torturarla così la rovinerai in una sola sera.»

Byakuran emise un sospiro con l’aria abbattuta di chi si accinge a una straziante cena tra parenti molesti.

«Non sono a mio agio vestito così.»

«E come volevi vestirti, di grazia?» domandò Mukuro, già minaccioso nel tono.

«In occasioni del genere ho sempre messo il mio costu–»

«Dovrai passare sul mio cadavere per presentarti a una festa importante come questa con quel costume da spogliarellista, mi hai sentito bene?»

Byakuran ripeté il medesimo sospiro affranto, lo stesso che continuava a fare a ogni discussione sull’abito sin dal giorno in cui Mukuro aveva dato direttive per la confezione senza interpellare né lui né i due consiglieri che si era portato dietro nelle figure di Mad Horse e Night Hound.

«Non so perché ti lagni tanto. Ti sta splendidamente.»

«Sembro lo sposo che ha sbagliato posto» belò debolmente lui.

«Solo a una capra come te, che non distingue il bianco da un azzurro artico… e dire che sei un pittore! Non lo vedi che è un grigio-azzurro chiaro e non bianco? Fa un bel contrasto con la cravatta color malva» insistette, più accomodante. «Finirai sulla copertina di Josei Hiro-hina anche stavolta, fidati di me… per la rubrica di moda, però, dove non sei mai finito prima d’ora. E lo dovrai a me.»

«Se era questo il tuo scopo, Indigo, temo che tu ti sia dato la proverbiale zappa sui piedi… tu sei molto più alla moda di me e porti quell’abito con molta più disinvoltura. Ci finirai tu sulla copertina.»

In un picco di vanità Mukuro si avvicinò a uno specchio retto dalla statua di una donna e ne studiò l’immagine riflessa. In effetti andava particolarmente orgoglioso dell’abito che si era fatto preparare in quel punto di blu scurissimo con il motivo a spina di pesce, le maniche volutamente corte all’avambraccio e i guanti dello stesso blu elettrico della fascia sul cappello: si trovava elegante ma non formale, il che trovava che rispecchiasse meglio la sua personalità di un abito da gala. Dopotutto, dentro si sentiva ancora un musicista.

«Facciamoci una foto vicini, magari ci stiamo entrambi sulla copertina.»

Byakuran ridacchiò.

«Te la cedo volentieri… ora che passo più tempo con Amber inizio a trovare un po’ troppo accentuato l’interesse delle riviste femminili per il mio sedere.»

«Lieto che tu ti stia unendo a noi nel mondo reale, Ran, e che inizi a capire che la gente ti ha visto sempre per quello che sei stato finora: un eroe con un costume ai limiti della pornografia.»

«Non so se puoi giudicarmi, il tuo è ancora più stretto con la compressione muscolare» obiettò con noncuranza lui, guardandosi intorno. «Non so che aspetto ha… tu lo vedi? Mio padre.»

Mukuro staccò gli occhi dal riflesso e li usò per sondare le file più vicine di ospiti. Dubitava di poter riconoscere l’uomo se aveva optato per un abito più moderno della volta precedente o se l’avesse visto di profilo o di schiena, ma era anche vero che portava un bastone.

«Vediamo… è un uomo magro… è brizzolato e… ha un bastone. Un bastone da passeggio, zoppica.»

«Non è che tu sia un grande osservatore. Se per caso è migliorato e non zoppica più non so come potrei trovarlo» commentò amareggiato Byakuran.

«Che importa?» ribatté piccato. «Ti troverà lui, tu non passi mica inosservato!»

«Tristemente vero… beh, avviciniamoci. Di sicuro troverò qualcuno da presentarti, dovrebbe essere qui anche Yao Lu-Wong… oh, no, passiamo di qua! Non voglio parlare con il Capitano Seagull così presto, quello ti stordisce di chiacchiere e ti dà il colpo di grazia con la noia.»

Mukuro ridacchiò e seguì il suo tutore sgusciando tra due gruppi di persone immerse in conversazione. Mentre vagavano per la grande sala ricevimenti gli snocciolava qualche nome, carica e aneddoto su Auris influenti che erano ben in vista e qualcuno glielo presentò di persona.

Il ragazzo fu felice di poter salutare di nuovo il capitano Tsurugi-gatai dell’ufficio logistica; conobbe Shoichi Irie dell’Irie Lab, Yao Lu-Wong che era un ometto dalla risata potente, l’affascinante rappresentante Auris francese alle Nazioni Unite e una donna, Tsubomi Harada, che Byakuran gli presentò semplicemente come un membro della commissione legislativa dei diritti Auris.

Non appena si fu allontanata con quella falcata lenta e ondeggiante nel suo abito color prugna, Mukuro venne distratto da una cattiva corrente di pensieri dal sussurrare inatteso del preside al suo orecchio.

«Quella era la ragazza di Night Hound qualche anno fa. Te lo dicevo che gli uomini ambigui sono più affascinanti per le donne.»

Mukuro rispose solo con un basso fischio lanciando un ultimo sguardo al suo fondoschiena – messo in risalto a livelli d’illegalità dall’abito a sirena – e puntò nella scia di Byakuran il buffet, ma poi intravide qualcosa dietro un trio di uomini in smoking. Un uomo con un bastone. Afferrò la manica di Byakuran.

«Ran, è lì… ha il bastone.»

Improvvisamente nervoso lui si sporse di lato per sbirciarne la figura; il terzetto si mosse e Mukuro poté vedere che non era lo stesso uomo, e persino il bastone era fatto diversamente, in metallo bronzato. Tuttavia scambiare lo sguardo con quell’individuo gli diede un brivido inquietante, come la carezza di dita viscide sulla schiena.

«No» fece, trattenendo il braccio di Byakuran. «Non è lui, scusami. Mi sono lasciato ingannare dal bastone.»

Reiner non scollò gli occhi grigio ferro dal ragazzo e anche lui mantenne il contatto, come due lupi che volevano stabilire di essere l’alfa. Alla fine fu il passaggio di un anziano a braccetto con una donna più giovane a spezzare quella tensione e i due si voltarono di spalle nello stesso istante.

«Vieni via, Ran. Quell’uomo non mi piace.»

«Perché, lo conosci?»

«No, ma non mi piace comunque» tagliò corto, trascinando il suo tutore verso la zona pesce del buffet. «Tu non lo conosci? Se è qui dev’essere un pezzo grosso di qualcosa.»

«Può essere che abbia sentito il suo nome, ma… c’è anche molta gente che non conosco» ammise lui, a disagio, quasi fosse una sua mancanza. «Ci sono membri delle assemblee legislative, dei politici… persone che non hanno a che vedere con gli organi direttivi o legislativi per gli Auris. Non ho mai lavorato con loro, e non conosco gli assistenti dei ministri.»

Byakuran era voltato indietro per sbirciare ancora l’uomo sconosciuto quando Mukuro ne scovò uno che aveva già incontrato. Gli occhi bruni dell’uomo col bastone di legno incrociarono i suoi e le labbra si piegarono in un sorriso, che il ragazzo ricambiò prima di dare una leggera strizzata al gomito di Byakuran.

«Eccone un altro che non conosci… ancora.»

Quando posò gli occhi viola sull’uomo la sua espressione assunse sfumature incerte, confuse, come doveva essere la sua mente. Mukuro avvertì l’improvvisa tensione dei muscoli del suo braccio e con gentilezza lo spinse più vicino.

«Sei venuto qui per lui… dai!» gli sussurrò incoraggiante. «Salutalo e presentatevi. Il resto andrà da sé.»

«Quale resto?» sibilò Ran, ma si avvicinò comunque all’uomo.

«Wing Emperor» esordì questi, con la medesima espressione nostalgica che riservava alla fotografia della sua amata scomparsa. «Ti aspettavo con ansia. Mi sono domandato fino all’ultimo se saresti venuto.»

Byakuran tuttavia era troppo preso a rimuginare su qualcosa e mordicchiarsi il labbro per replicare. Mukuro un po’ se lo aspettava, quindi si fece avanti e con il suo miglior sorriso offrì un inchino sfilandosi il cappello.

«È un piacere rivedervi, signore. Non abbiamo fatto presentazioni la volta scorsa» esordì spigliato più di quanto aveva fatto con chiunque altro nella sala. «Rokudo Mukuro. Come Indigo mi conoscete già.»

«Sono Mazuya Masamune» replicò lui con un inchino. «Sono mortificato per la mia maleducazione quella volta. Ero convinto di custodire ancora il mio segreto e mantenere l’anonimato.»

«Io penso sia stata un’idea migliore liberarsi di questo peso… vero, Ran?»

Byakuran balbettò qualcosa, preso in contropiede dalla domanda quasi credesse di essere invisibile e impalpabile come uno spettro, ma Masamune lo guardò dritto in faccia con stupore.

«Ran? Il tuo vero nome è Ran?»

«Byakuran» si decise finalmente a dire. «Almeno… è il nome con cui sono cresciuto. Non so se sia quello che mi ha dato mia madre. Nessuno ha saputo dirmi qualcosa di preciso di lei, o di me, a parte che sono nato gli ultimi giorni di ottobre. C’erano appena stati i matsuri autunnali, pare.»

Masamune annuì solennemente.

«Sì. È vero. Il ventotto di ottobre» confermò, lasciandoli entrambi sorpresi. «Mi venne consegnato un messaggio la mattina del trenta: era domenica, e ai tempi a qualche ragazzino Auris veniva permesso di recarsi al tempio per portare via ciò che gli abitanti avevano riservato all’elemosina. Il ragazzino mi disse che Sagiko aveva partorito la sera del venerdì.»

La notizia aveva messo buoni presentimenti a Mukuro, ma la faccia di Ran era un misto pericoloso di dolore e di rabbia mascherata con difficoltà. Capiva come si sentiva, ma le recriminazioni sulle sue azioni dopo la nascita avrebbero dovuto attendere almeno un incontro in un luogo più appartato.

«Almeno abbiamo sempre festeggiato il giorno giusto, eh, Ran? Porta sfortuna sbagliare giorno!»

«Già, è proprio bello che io non sappia cosa sia la sfortuna» fece lui, con un carico di accusa su ogni sillaba.

Non sapeva come arginare la rabbia di Byakuran senza mettere a disagio il loro interlocutore e si chiese se non fosse meglio interrompere precocemente l’incontro, ma Masamune dimostrò che non era un ingenuo e si aspettava di avere a che fare con la furia e le domande di un figlio abbandonato.

«Lo sai bene… nascere in un ghetto Auris era una grande sfortuna allora. Quasi sempre era sinonimo di una vita breve, dura e ingiusta… io lo sapevo, ma non ho avuto il coraggio di evitarti questo dolore. Non mi aspetto di essere perdonato. Non ho perdonato me stesso per tutto questo tempo pur con l’evidenza di aver preso una buona decisione per la mia vita, come potresti farlo tu che ne hai subito le conseguenze peggiori?»

«Dunque che cosa vuoi da me?»

«Byakuran, non pretendo nulla da te, ma prenderò con umiltà qualsiasi cosa potrai decidere di darmi. Anche il tuo disprezzo, se così dev’essere tra di noi…»

Masamune si perse un lungo momento a guardarlo, come ammirasse un capolavoro di lavorazione del marmo, ed emise un sospiro che aveva un che di sognante.

«Lo avevo già visto sui giornali e in televisione… ma guardarti ora è come guardare tua madre. Anche lei quando si arrabbiava con me alzava un sopracciglio più dell’altro… e il viola dei suoi occhi diventava freddo, come succede ai tuoi. È come subire anche la sua ira, ma… per quanto egoistico, questo è quasi una gioia per me.»

«E si arrabbiava spesso, se la ricordi dopo tanto tempo.»

Mazuya risultò quasi eroico agli occhi di Mukuro per reagire ridendo.

«Molto spesso. Era una ragazza che si infiammava subito, ma la sua furia durava poco e spesso la rendeva più adorabile che spaventosa. Puntualmente si scusava di avermi detto qualcosa di sgarbato, anche quando aveva ragione.»

Byakuran rimase spiazzato da quelle parole, e il ragazzo ebbe l’impressione che stessero pensando la stessa cosa.

«Sembra che… abbiate parlato tante volte. Che vi siate frequentati per molto.»

«Infatti. Ho passato l’estate a Mizura per tre anni prima che morisse e non mi vergogno, almeno ora, di dire che le passai con lei. Quasi ogni giorno.»

D’estate… ma se era ottobre, non poteva essere estate…

Mukuro lanciò un’occhiata carica di dubbi a Byakuran, ma lui non lo guardava. Non scollava gli occhi dalla faccia di Masamune Mazuya.

«Dato che sono un medico so piuttosto bene che non potrebbe nascere un neonato sano a fine ottobre con una gravidanza iniziata in estate» osservò, con un filo di freddo sarcasmo nella voce. «Quindi stai facendo finta di essere mio padre o ti sei illuso di esserlo?»

Per la prima volta Masamune sembrò provare rabbia. Serrò le mani sul bastone fino a sbiancarsi le nocche.

«Non osare credere che tua madre fosse il genere di persona che imbroglia il suo prossimo, Byakuran. Era così onesta che non riuscì a mentire nemmeno per evitare rischi per la sua vita e la tua, quando le venne chiesto chi era il padre di suo figlio.»

«Resta una tua prospettiva. Non so che cosa dicesse, e se la vedevi solo per un tempo limitato forse non lo sapevi neanche tu.»

«Ora basta, ragazzo. Non ho alcuna obiezione se deciderai di indirizzare a me tutto l’astio e il risentimento per la vita che ti ho costretto a fare, ma non starò qui a sentirti parlare a vanvera di una donna che non hai conosciuto! Io la conoscevo, e la amavo molto. Non credere a ciò che altri possono averti detto di lei, perché oggi come allora la bellezza e la virtù suscitano invidia.»

L’uomo ammorbidì la sua espressione e tese un sorriso con fatica.

«Tu dovresti saperlo molto meglio di un relitto come me.»

Mukuro non poté evitare di annuire e involontariamente stemperò l’atmosfera tesa: persino Byakuran sollevò suo malgrado un angolo della bocca quando fece quel cenno.

«La spiegazione tecnica, comunque, è molto semplice, se vuoi saperlo» aggiunse Masamune più pacato, frugandosi le tasche interne della giacca. «Andai da lei in febbraio… per il suo compleanno, sai, era nata il giorno del Setsubun… per darle questo. Me lo ridiede quando le cose si complicarono quell’estate e… beh, ora penso sia il caso che l’abbia tu. Avrebbe voluto così, se avesse immaginato questo triste epilogo.»

Masamune estrasse una collana molto fine con un ciondolo composto di una scheggia di turchese e un pendaglio a forma di piuma, in color argento. Byakuran allungò la mano per prenderla e la fissò accigliato, ma Mukuro emise un’esclamazione.

«Ah! Aspetta, è vero! Si vedeva una collana nella foto di tua madre!»

«Era troppo sfocata per distinguerla» obiettò Byakuran.

«Se desideri delle prove posso dartele… a casa ho delle fotografie, delle polaroid di tua madre… ne ho una in cui indossa la collana quando gliel’ho regalata, risale a poco prima che tu venissi concepito… oh, perdonami. Sono stato inappropriato?»

Byakuran strinse la collana nel pugno e sospirando si passò le dita nei capelli. Mukuro conosceva il significato di quella reazione, ma almeno era abbastanza in sé da spiegarsi da solo.

«Io… sono sopraffatto. Sono troppe novità, e… mi sento spaesato.»

«Prenditela con calma, Ran» gli fece Mukuro, con una pacchetta d’incoraggiamento sul braccio. «È uno tsunami emotivo, prenditi tempo per elaborarlo. Mica puoi digerirlo in dieci minuti.»

Masamune convenne col ragazzo su quel punto e l’invitò a parlare ancora di Sagiko quando si sarebbe sentito curioso di sapere, ma gli chiese di tenere la collana che le era appartenuta. Byakuran la intascò con un cenno rigido e i tre forzarono un interesse per il buffet maggiore di quello che i loro stomaci condividevano.

«Questa è una buona occasione per conoscerci come persone, comunque» osservò Masamune, soppesando due tipi di antipasto di pesce. «Sei un medico, hai detto prima… un vero medico?»

«Ho una laurea, se intendi questo. In medicina d’emergenza e traumatologia… ma non ho abilitazione a operare come chirurgo. Per ovvie ragioni.»

«Non mi rende meno fiero, in realtà… tu probabilmente avresti aggiustato la mia gamba meglio di come ha fatto il chirurgo.»

Byakuran lanciò un’occhiata al bastone.

«Com’è successo?»

«Un incidente d’auto, parecchio tempo fa. Cammino con il bastone da quasi vent’anni, ma non mi sono mai lamentato. Poteva andare peggio e avevo colpe pregresse sufficienti per non attraversare la fase dell’ingiustizia» tagliò corto con una scrollata di spalle. «Oh, quello è sgombro? Non è che me ne passeresti uno, Indigo? Quello lì.»

Mukuro passò il bocconcino allo sgombro sul piatto di Masamune, ma Byakuran gli afferrò il braccio. Confuso studiò l’antipastino per trovarvi qualcosa che spiegasse la sua reazione e capì solo dopo che stava guardando la strisciata color ruggine sul polsino della camicia.

«C’è una macchia.»

«Eh? Oh, perbacco» commentò sconsolato Masamune, accorgendosene. «Non me n’ero accorto affatto… colpa mia, mi sono fermato a ritoccare un disegno poco prima di uscire… la mia pigrizia che mi fa toccare fusaggine e sanguigna senza neanche arrotolarmi le maniche!»

Mukuro cadde dal pero a quelle parole per lui senza senso, ma Byakuran guardò l’uomo – ancora sconfortato dalla manica sporca – come se quella fosse una rivelazione più scioccante del fatto che era suo padre perduto.

«Tu… tu sei un artista?»

«Oh, non ho l’ardire di affermarlo, ma di certo era la mia ambizione quando ero giovane come il tuo ragazzo» fece, e accennò a Mukuro. «Ora che sono meno impegnato ho tempo per farlo per passione, senza pretese…»

Non capiva come fosse successo, ma Mukuro colse un’occasione unica per seppellire la tensione, almeno per quel primo incontro.

«Anche Ran è un artista, è un eccellente pittore» s’intromise con un tono vezzoso, con la pretesa di non essere intenzionale. «Fa meravigliosi ritratti. Non so come ci si possa riuscire, se provo a ritrarre qualcuno io sembra un porcospino investito da un’auto.»

«Non ne avevo idea» commentò Masamune, colpito. «Non ho mai letto nulla al riguardo su di te…»

«Non l’ho mai detto alla stampa… e per tanti anni non ho disegnato più. Ho ripreso poco tempo fa.»

«Ritratti… io sono sempre stato scarso in quelli, preferisco ancora i paesaggi… visto che sei qui per la cerimonia, perché non vieni domani mattina a casa mia, qui a Osaka? Mi farebbe piacere mostrarti i miei disegni, se ti interessa, ovviamente.»

«Ecco…»

«Puoi andarci mentre io cerco i souvenir per i miei amici, no?» fece Mukuro, con un’occhiata che gli intimava di non osare rifiutare. «Ti annoieresti con me. Dici sempre che ti annoia.»

«Ehm… s-sì, potrei… passare» tentennò Byakuran, mandando occhiate da lui al padre.

«Bene, bene» si compiacque Masamune, «saremo felici di riceverti, io e il mio domestico – in realtà è un vecchio amico, sai – passiamo mattinate noiose abbastanza da giocare a carte, a volte.»

«Sai che cosa, Ran?»

Il suo tono era così sfrontatamente pretenzioso d’innocenza che Byakuran gli scoccò un’occhiata delle sue più truci. Mukuro replicò esibendo il sorriso più radioso e innocente che riuscisse a forzare.

«Visto che tuo padre passa mattine noiose potreste disegnare qualcosa insieme! È un modo piacevole di passare qualche ora con qualcuno, no? Chiacchierando, bevendo un po’ di tè…»

«Come ti riescono i paesaggi, Byakuran?» domandò lui, con un brillio negli occhi bruni. «Dal mio cortile si gode di scorci interessanti per gli artisti. Vuoi scoprire se sei più bravo del tuo vecchio?»

Per un momento Mukuro ebbe paura che quell’improvvisa confidenza innescasse un brusco rifiuto da parte di Byakuran, ma dopo un silenzio esitante acconsentì e non solo, perché gli chiese su che formato preferisse disegnare. Quando la conversazione si consolidò su carta telata, crete, carboncino e sfumini il ragazzo pensò che fosse sicuro lasciarli soli e annunciando una conoscenza inesistente da salutare si allontanò da loro.

Guardando da debita distanza il suo tutore sorridere mentre parlava a suo padre di qualcosa che avevano un comune fu felice per lui, ma una fitta al petto non gli permise di ignorare la propria miseria nel non avere il minimo indizio su chi fossero i suoi genitori.

 

*

 

Il capo della commissione e il premio Nobel per la pace avevano appena concluso il loro breve discorso, seguito da applausi e una pioggia di flash dalla zona della stampa, e la festa si era spostata alla terrazza dell’albergo. Sulla strada per raggiungerla Mukuro si lasciò superare dagli ospiti rimasti che si accalcavano verso gli ascensori e prese le scale, dove trovò più silenzio e finalmente un poco di privacy per una telefonata. Compose il numero mentre era sul primo pianerottolo e riprese a salire senza fretta.

«Ehi» fece quando ottenne risposta.

«Ehi» gli rispose Kyoya con la tenerezza di quando non c’era nessun altro intorno. «Non mi aspettavo che chiamassi… è successo qualcosa?»

«Come, non te lo aspettavi? Mi avevate chiesto di tenervi informati.»

«Sì, ma pensavamo avresti chiamato domattina… infatti sono andato a letto presto, incredibile, no?»

«Tu, a letto a quest’ora? Sei malato, Kyoya?»

«No, ma sono in compagnia dei miei appunti di storia moderna, lo confesso» ammise Kyoya allegro. «Allora? Come sta andando lì? Ti diverti?»

«È una bella festa. Ho chiacchierato con un po’ di gente importante e visto un’altra ex di Night Hound; quell’uomo ha per ex fidanzate solo donne che potrebbero fare le modelle. Sono invidioso.»

Kyoya sfiatò una risata dal naso e tentò di darsi un tono offeso.

«Ah, molto gentile, davvero.»

«Credimi, saresti invidioso persino tu. Non so se mi ricapiterà mai di vedere un culo così.»

Stavolta rise senza provare a trattenerlo.

«Addirittura? Che peccato esserselo perso.»

«Ti avevo detto di venire con me.»

Non risparmiò una leggera dose di acredine nel rinfrescargli la memoria: l’aveva invitato perché avrebbe voluto davvero averlo vicino nel caso, ora verificatosi, che Byakuran si trovasse a parlare con suo padre e lui restasse solo. Non c’era stato verso di convincerlo.

«Lo so, Indi… ma preferisco così. Dopo la questione di Hell Cat non me la sento di partecipare a feste e cerimonie dove la mia presenza non è necessaria.»

Mukuro sospirò e tacque mentre passava alle spalle di una ragazza dai capelli rossi e abiti sofisticati che aspettava l’ascensore. Si scambiarono una veloce occhiata, ma preso dai suoi pensieri non le ricambiò il sorriso. Iniziava a chiedersi se anche lui, come Byakuran con Amber, sarebbe finito a cercare di mantenere stabili i paletti tra la vita pubblica e quella privata.

«Mi hai chiamato perché sei rimasto da solo?»

«Sì e no… ci spostiamo sulla terrazza dell’albergo e sto salendo. Con le scale» precisò. «Ran credo sia rimasto tutto il tempo a parlare d’arte con suo padre, prima del discorso. Pare sia un artista anche lui, un paesaggista.»

«Oh, quindi sono riusciti a parlarsi civilmente» commentò Kyoya non senza sorpresa. «E tu?»

«Io ho girato un po’ per il salone a guardare gli altri… sarò anche famoso, ma mi sembra che non mi noti nessuno. A parte una giornalista che mi ha chiesto un paio di scatti nessuno mi ha parlato.»

Al di là del telefono arrivarono fruscii, forse delle coperte.

«È normale in questi casi… è la prima volta che vai a un evento mondano ufficiale. Tutti ti guardano mentre tu non guardi dalla loro parte, credimi. Fanno così, ti studiano e inquadrano il tuo atteggiamento. Non sbuffare, non rubare alcolici e non metterti le dita nel naso.»

«Non mi metterei mai le dita nel naso in pubblico, figurarsi se è pieno di gente che morirebbe dalla voglia di fotografarmi mentre lo faccio» ribatté secco Mukuro. «Solo che se va avanti così mi sa che è più produttivo andare a…»

Mukuro si bloccò davanti allo spettacolare, primo scorcio di Osaka dall’alto della terrazza. L’impianto ad elevata tecnologia era trasparente come il vetro, schermava il vento e manteneva il calore come una stanza interna: l’ideale per starsene lassù a guardare i palazzi alti con finestre illuminate, le strade simili a fiumi di luce azzurrina, gialla, o bianca che scorrevano tra monoliti di cemento e vetro con gemme lucenti incastonate in motivi regolari. Come Tokyo, era una visione in notturna mozzafiato.

«Indi? Ci sei ancora?»

«Sì… sono sulla terrazza. C’è una vista pazzesca, Kyoya. Dovresti essere qui a vederla con me e a ridere di quanto sono campagnolo, non sotto le coperte a stordirti di storia moderna.»

«Starei volentieri con te a guardare un panorama, Indi… ma di stringere mani e parlare di politica con gente che conosco appena, proprio non ne sono in vena.»

«Suppongo non servirà a niente insistere… ma sarebbe stato un buon momento per parlare, questo.»

Un rumore di sottofondo gli risultò familiare e capì che Kyoya doveva essere sceso in cucina e aver acceso il bollitore.

«Beh, io sto ascoltando, se desideri parlare.»

Desiderava parlare, in quel modo, in quel contesto? Di quell’argomento? Mukuro soppesò i suoi dubbi e i suoi sentimenti con molta attenzione e Kyoya, quasi lo sapesse, attese in silenzio dall’altra parte che lui fosse pronto.

«Non riesco a smettere di pensare ai miei genitori, Kyoya.»

«Mh… vedere il sensei con suo padre ti ha turbato, vero?»

Mukuro si appoggiò al pannello e fissò gli occhi sulla strada curva davanti a lui: un fiume metropolitano di luce azzurra.

«Era molto più difficile… sua madre viveva nel ghetto e… l’ho trovata comunque. Ho trovato i suoi genitori anche se sembrava impossibile… perché non posso trovare i miei?»

Ora che aveva stappato la bottiglia le sue sensazioni erano libere di scorrere fuori. Serrò le dita con forza mentre un nodo gli si stringeva sotto il pomo d’Adamo.

«Sono… diventato famoso in tanti paesi… ho ancora il nome che mi è stato dato dai miei genitori, quello che mia madre ha scritto nella sua lettera… perché non mi hanno cercato? Perché non… non vogliono dirmi chi sono?»

«Oh, pulcino, ora stai proprio esagerando con le cattiverie autoinferte» lo rimproverò lui con quel tono comprensivo. «Sì, Byakuran ha trovato un padre che si era eclissato… ma tu potresti non averlo. Potresti non avere genitori vivi, o parenti che sapessero della tua nascita… anzi, è probabile che sia così.»

«Probabile per quale ragione? Magari come il padre di Ran anche i miei sono sposati con altri figli e non vogliono scombinarsi la vita!»

«Se così fosse, a che ti servirebbe trovarli? Sarebbero comunque morti per te.»

«Kyoya, tu non capisci! Mia madre ha scritto che sarebbe tornata a prendermi, e non è mai ritornata! È…»

Mukuro si passò la mano nei capelli. Non voleva arrivare al pianto, non in quel posto, in una serata del genere.

«Non riesco a sopportare il dubbio, non capisci?»

«Non riesci a sopportarlo perché speri di vederli tornare. Se accettassi l’idea della loro morte, che è anche una ragione che spiega perché tua madre non sia tornata, quel tarlo smetterebbe di torturarti.»

Mukuro stava per esplodere in un torrente di cose che non avrebbe voluto dire a Kyoya, ma lui l’aveva previsto e lo stroncò prima ancora che parlasse.

«Non fare la drama queen, Indi, per l’amor del cielo! Lo sai che vita ho avuto io, no? Non so chi siano i miei e non ho neanche il conforto di sapere che ho avuto una madre a cui interessasse che io avessi un nome e un posto sicuro dove crescere. Ho accettato l’idea che fossero morti e non mi chiedo mai se mi sbaglio.»

Il senso di colpa si mosse brusco dentro il ventre di Mukuro come un gatto che si arrabatta dentro un sacco.

«E se sbagliassi, Kyoya?»

«Io sono famoso da prima di te, e nessuno ha mai provato a prendersi la responsabilità di avermi messo al mondo. Sono certo di aver ragione, ma se fossero vivi significherebbe che non gli importa di me neanche ora, che non desiderano far parte della mia vita. So che il mio tempo è limitato in questo mondo e non intendo sprecarne un minuto per pensare a qualcuno che non vuole curarsi di me.»

Incurante del suo bel vestito Mukuro si appoggiò di schiena alla barriera e scivolò fino a terra. Da quell’angolo nessuno gli faceva caso tra gli ospiti intenti a brindare e raccolse le ginocchia contro il petto. Aveva notato da qualche tempo che era la sua posizione di conforto, quella che lo faceva sentire meglio quando era così spaesato o provava un malessere che non riusciva a inquadrare.

«Vuoi un abbraccio, Indi?»

«Sì, ma non puoi darmelo.»

«Ho il sospetto che pagherò questa serata di pigrizia per il resto della mia vita» fece Kyoya preoccupato. «Quando saremo vecchi mi tirerai ancora frecciatine su quella sera che non sono venuto a Osaka con te.»

Mukuro ridacchiò e si sentì già più leggero.

«Se quando saremo vecchi sarà questa l’unica cosa che mi verrà da rinfacciarti avremo avuto una vita davvero tranquilla.»

«Dita incrociate! Sai che sono un ottimista, no?»

Si sentiva meglio, ma non lo sorprese: c’era una ragione se Kyoya era il suo più intimo confidente e la persona che cercava quando aveva bisogno di sfogo, e quella ragione non aveva nulla a che vedere con la loro vita sessuale di recente condivisa.

Per stare un altro po’ in sua compagnia gli chiese che cosa stava bevendo e gli raccontò cosa c’era da mangiare alla cerimonia. Una parola casuale detta dal suo ragazzo, abbinata alla vastità di luci notturne di Osaka, diede a Mukuro un’idea per il pezzo che doveva scrivere per Selina Tao.

«Sai… credo che troverò Ran e gli dirò che torno in camera» disse, appena Kyoya smise di parlare. «Ho appena avuto un’idea per la canzone di Selina Tao. Mi metterò a letto a buttare giù due righe, non credo che questa gente importante perderà un’attrazione della serata se me ne vado ora.»

«Prima di spogliarti mandami una foto!»

«Mi vedrai sul giornale la settimana prossima.»

«Allora mandamene una dopo che ti sei spogliato~»

«Mi vedrai a casa la settimana prossima» replicò divertito lui. «Ti richiamo domattina. Byakuran va a trovare suo padre a casa, abita qui a Osaka, e io sarò in giro a fare il turista… da solo.»

«Che palle!»

Mukuro rise, e rise ancora di più quando Kyoya gli chiuse la chiamata in faccia. Gli mandò la buonanotte per messaggio scritto e si diresse all’ascensore, mentre scrutava il groviglio di abiti da sera. Non vedeva Byakuran e non aveva voglia di buttarsi là dentro per cercarlo, magari perdendo l’ispirazione che gli era arrivata.

Mentre scendeva al piano intermedio che ospitava una caffetteria aperta fino a tardi cercò di fissare nella mente un paio di strofe niente male, sussurrandole più volte per non lasciarle scivolare via. Uscì dalle porte automatiche e davanti al banco della caffetteria riconobbe una figura con i capelli bianchi che sorseggiava da una tazza mentre uno sconosciuto giovane con i capelli castani che vedeva di schiena gli parlava.

«Ran, credevo che fossi di sopra…»

Mukuro si fermò a pochi passi da loro, quando il ragazzo castano si voltò a fissarlo: l’uomo con i capelli bianchi non era Byakuran, ma era così somigliante che fu il colore e la foggia dell’abito a fargli notare l’errore prima di qualsiasi altro dettaglio.

«Io… scusatemi, vi avevo scambiato per…»

«Wing Emperor, immagino» rispose l’uomo, cortese e accomodante come non era lo sguardo del suo accompagnatore. «Nessun problema, mi succede spesso in occasioni come questa.»

«Dovresti scusarti con Lucifer-sama come si deve!» gli ringhiò contro il giovane, che doveva avere pochi anni più di lui e parecchie once di rabbia aggiuntive.

«Ma l’ho appena fatto» protestò Mukuro, accigliato.

«Non ce n’è bisogno, Sandalphon, lascialo stare» intervenne l’uomo chiamato Lucifer, pacato. «Sei venuto per bere qualcosa? Se accetti un suggerimento la miscela arabica Altura è molto equilibrata e aromatica.»

«Io… sì, in effetti. Accetto il suo consiglio» fece rivolto alla barista. «Anche se non mi intendo molto di caffè.»

«Lucifer-sama è un’autorità nel campo! Dovresti essere grato di avere un suo consiglio!»

Questo tizio ha qualche problema.

«Sandalphon, non ce n’è bisogno» ripeté paziente Lucifer. «Se ricordo bene, Wing Emperor preferisce qualcosa come il karkadè. Non ci siamo incontrati spesso, comunque. Non si può dire che ci conosciamo.»

Difficile a credersi… a dire il vero è difficile a credersi che non siano fratelli!

Mentre attendeva il suo caffè Altura Sandalphon riprese a parlare con Lucifer e Mukuro, dall’altro lato, lo guardava più spesso di quanto ritenesse educato. Il loro naso era diverso visto di profilo, i capelli di Lucifer avevano un riflesso biondo platino, ma la vera differenza sostanziale era negli occhi, questi celesti come un cielo di primo mattino. La somiglianza era così straordinaria che quasi venne preso dalla smania di risalire alla terrazza e fiondarsi da Mazuya a interrogarlo al riguardo.

Sandalphon era più basso, più esile e aveva un paio di occhi rossi che cambiavano completamente quando passavano dalle occhiate in tralice verso Mukuro allo scambio di sguardi con Lucifer: ebbe la netta sensazione che quell’adorazione andasse oltre la stima o persino l’idolatria. Quando si portò alle labbra la tazza non badò per nulla al sapore, intento com’era a studiare i loro gesti mentre si parlavano.

Stai a vedere che ho trovato un’altra coppia omo…

Lucifer si voltò verso di lui, con quel suo mezzo sorriso sulle labbra.

«Dunque?»

Si irrigidì subito e si chiese con terrore se gli avesse letto il pensiero, o se come Night Hound fosse in grado di indovinare basandosi sull’odore o qualche altra reazione fisica.

«Com’è il caffè? Lo trovi buono?»

«Oh, sì» sparò all’istante, con la maggior disinvoltura possibile. «È delizioso. Equilibrato, come dicevate poco fa.»

Gli occhi celesti dell’uomo spaziarono su di lui in una rapida panoramica, lo stava inquadrando in quella che avrebbe definito “una gentile indagine”.

«Ovviamente tu sei Indigo, l’allievo di Wing Emperor… suo figlio adottivo, anche, mi risulta.»

«Sì, signore.»

«Non voglio risultare scortese dicendoti questo, se ti sembrerò inopportuno me ne scuso» esordì, provocando una smorfia di disappunto sulla faccia di Sandalphon. «Conosco, anche se superficialmente, il tuo tutore da un po’ di anni. Mi ha sempre dato l’impressione di essere una persona rigida. Una che valutava il senso morale come una legge fine a se stessa, l’obiettivo finale, anziché vederlo come una risorsa a cui attingere per fare il bene degli individui.»

Mukuro abbassò la tazza di caffè. La visione di Lucifer non era distante dagli sprazzi che aveva visto di lui all’inizio, soprattutto nei suoi panni ufficiali.

«Lo credevo un uomo freddo, Indigo. Onestamente detto, non trovavo che mi piacesse… gli esseri umani sbagliano, e sono pulsioni e sentimenti a muoverli… e la giustizia e la virtù non sono innati negli uomini. Sono costrutti acquisiti vivendo in comunità… un costrutto senza dubbio utile, e necessario per evitare la legge dell’Homo homini lupus, ma pur sempre innaturale. Avevo la sensazione che estremizzasse fino al torto questi valori.»

Sandalphon annuiva convinto tra un sorso e l’altro di caffè.

«Ma da qualche tempo non vedo più lo stesso uomo. L’ho visto approfittare di ogni pausa per mandare dei messaggi a casa, persino cedere su punti importanti per concludere un’assemblea… l’uomo che conoscevo come Angelo dell’Est avrebbe tenuto inchiodati lì i membri del Comitato per altre due settimane pur di spuntare quello che voleva. Ora l’ho visto annunciare una relazione con una ragazza che era una prostituta… qualcosa che Wing Emperor non sarebbe mai stato disposto a confessare.»

Lucifer diresse a lui un vero sorriso ed era pieno di calore. In verità nonostante la pelle pallida, i capelli color platino, gli occhi azzurro freddo e l’abito grigio gli dessero un’aura gelida il suo sguardo e la sua voce erano una porta spalancata al prossimo, con tutta la cortesia del caso.

«Da quando sei con lui mi appare più… umano. È più sereno insieme a te e… credo dipenda dal fatto che non sente più il peso del mondo su di sé. Qualsiasi cosa tu faccia per lui, la fai molto bene…»

Spostò lo sguardo e il suo sorriso su Sandalphon.

«Spero che tutti, ogni persona che incontro, trovino qualcuno come Sandalphon… qualcuno che con la sua sola presenza, anche senza fare nulla, anche senza rendersene conto, allevii le loro sofferenze» disse, e accarezzò i capelli del ragazzo. «Sono felice che Wing Emperor abbia trovato il suo Sandalphon. Ora che lo vedo per com’è davvero forse potremmo anche essere amici.»

Mukuro indugiò nel silenzio e in un altro sorso di caffè prima di aprire di nuovo bocca; era gonfio di una gioia quasi infantile che non sapeva spiegarsi del tutto.

«Ran è una brava persona… ed è anche divertente quando lo si conosce. Non è affatto anonimo e incolore come vuol fare credere quando veste i panni di Wing Emperor… e gli servirebbe qualche amico in più, se l’impegno non vi fosse di peso, signore. Non è che per caso siete un po’ artista? Trova più facile aprirsi con questo argomento.»

«Non direi, sono più un ricercatore che un artista» ammise Lucifer, quasi gli dispiacesse, «ma penso di essere un buon conversatore. Mi interesso a qualsiasi argomento, perché il mio campo di ricerca è l’essere umano.»

A Mukuro veniva da ridere a immaginare una conversazione tra quei due, ma si trattenne per non dare l’impressione di ridere di lui.

«Beh… se accettate un suggerimento, Ran è un soggetto di ricerca particolare. Lo trovereste interessante.»

L’argomentazione, seppur vaga, parve stimolarlo. Vuotò la sua seconda tazza di caffè con aria assorta.

«Beh, la notte è ancora lunga. Perché aspettare una prossima occasione?» risolse infine, e mostrò la chiave magnetica alla cameriera. «Sul conto della mia camera, per favore… tutti e tre.»

«Grazie» fece Mukuro, sorpreso.

«Domani se siete ancora in città potresti venire con noi al Kasuke Coffee Shop. Anche Sandalphon avrebbe bisogno di qualche amico. A te non disturba, vero, Sandalphon?»

Ogni singolo poro del viso di quel ragazzo urlava che lo disturbava eccome, ma sembrava incapace di contraddire Lucifer persino sulle sue stesse emozioni.

«No, Lucifer-sama…»

«Allora è deciso? Lo accennerò al tuo…»

Lucifer si fermò davanti alle porte dell’ascensore per lanciargli un’occhiata.

«Preferisci che gli ci si rivolga come tuo padre o come tuo tutore?»

Mukuro passò il dito sul ricciolo del manico della tazza e si trovò a sorridere.

«È parte della mia famiglia. Non mi disturba se lo chiamate “mio padre”.»

Lucifer fece un sorriso.

«Lo accennerò io a tuo padre, non appena lo troverò. Buonanotte.»

«Buonanotte.»

Mukuro si appoggiò più comodo al bancone e bevve altro caffè. L’indomani avrebbe chiamato Subaru per dirgli che il testo della canzone di sola musica era finalmente arrivato: mescolando le parole di Kyoya, quelle di Lucifer, il ricordo dell’aroma di menta del tè preferito di Byakuran e seguendo il ritmo accelerato da Gokudera la canzone del futuro gli si stava scrivendo da sola nella mente.

 

*

 

La mezzanotte passò quasi non notata dagli ospiti rimasti sulla terrazza verandata, e quando Masamune Mazuya si congedò Byakuran si ricordò di non essere venuto alla cerimonia da solo. Non vedeva Indigo e lo cercò tra i gruppi immersi in conversazioni più o meno alcoliche, domandò alle persone che lo avevano conosciuto se lo avevano notato, ma fu inutile.

Dov’è quel benedetto ragazzo?

Non saltava all’occhio che per la sua assenza, quindi ritenne probabile che non fosse lì e che forse si era già ritirato per andare a dormire. Ne era piuttosto sicuro, ma un senso di inquietudine lo spinse a dirigersi agli ascensori: preferiva scendere a controllare la stanza prima di pensare a intrattenersi alla festa come nulla fosse successo.

Aveva premuto la chiamata per l’ascensore quando una ragazza con corti capelli rossi, un trucco impeccabile sul viso e agghindata di capi firmati si fermò accanto a lui e gli fece un sorriso. Byakuran si sforzò di essere cortese – gli riusciva meno spontaneo quando era stanco e preoccupato – e le ricambiò il sorriso.

«Prego» le disse quando si aprirono le porte dell’ascensore.

«Grazie.»

Vi entrò dopo di lei e s’informò sul piano a cui scendeva, più basso del suo, e premette entrambi i pulsanti corrispondenti. Normalmente evitava di guardare gli altri occupanti dell’ascensore trovandolo sgarbato in una situazione di vicinanza obbligata, ma si sentiva gli occhi di lei addosso come se il suo sguardo avesse un peso specifico e gli si muovesse sul corpo, quindi le lanciò un’occhiata di sottecchi. Notare che guardava la metà inferiore del suo corpo non lo fece sentire maggiormente a suo agio.

«Tu sei quell’eroe… Wing Emperor, vero?»

Il tono casuale non lo imbrogliò: nessuno che conosceva quel nome poteva pretendere con naturalezza di non essere sicuro di riconoscerlo e di non aspettarsi di trovarlo in un albergo con una cerimonia internazionale in corso: sarebbe stato assurdo come vivere a Beverly Hills, leggere i giornali di gossip e pretendere di non riconoscere una celebrità alla notte degli Oscar.

«Qualcuno lo crede» replicò lui vago.

La ragazza non si lasciò scoraggiare.

«E tu lo credi?»

«La maggior parte del tempo, no.»

Se aveva sperato che le sue risposte insensate la facessero desistere, si era sbagliato di grosso. La ragazza rossa si avvicinò di un passo e il linguaggio del corpo non dava più dubbi sulle intenzioni. Ran gettò un’occhiata al numero del piano che scendeva troppo lentamente.

«Dev’essere un grosso peso essere un uomo così importante… vero?»

Gli sfiorò il braccio in una carezza così voluttuosa che Byakuran la rifuggì spostandosi, ma urtò la parete a specchio a lato della cabina. La rossa era una cacciatrice esperta e nella sua debolezza aveva visto l’opportunità di affondare il colpo; se la ritrovò aggrappata addosso con la gamba che strisciava maliziosamente la sua e le mani con le unghie laccate d’oro infilate sotto la giacca.

«Un uomo del genere ha bisogno di sfoghi…»

«Non… smettila, non toccarmi» l’ammonì lui, spostandole le mani.

«Sei sicuro che non vuoi che ti tocchi?»

Pur con i polsi bloccati in alto lontano dal torace di Byakuran la ragazza si spinse in avanti e lui si trovò nella condizione ancora peggiore di avere il suo seno – già in gran parte godibile a vista – pressato contro il petto. Avrebbe voluto spingerla via, ma non voleva essere brusco con una donna che poteva anche aver bevuto più del consigliabile.

«No… ehi, aspetta… ferma…»

«Sei sicuro di volermi ferma?» sussurrò lei, con un sorriso intriso di malizia. «Lasciami fare, so come alleggerire il tuo carico…»

«Non so che vuoi fare con il resto del corpo, ma chiudile la bocca, Ran… scegli tu come~»

Byakuran quasi non riuscì a sentire la voce di uomo nella sua testa, come se la cabina bloccasse il segnale come quello dei cellulari. D’istinto capì che c’era qualcosa in quella ragazza – nella voce di quella ragazza – che non era normale quando le sue mani rimasero inerti mentre i polsi di lei scivolavano via. Con un sorrisetto molto più perfido che ammiccante bloccò l’ascensore con il pulsante e andò con calma all’attacco della sua camicia.

«Non ci disturberà nessuno… per un po’» gli mormorò lei, così vicina al suo orecchio che lo sfiorò con le labbra laccate di rosso. «Sempre che tu non preferisca fare con calma…»

Era chiaro che non era una donna normale. La paralisi quasi totale del suo corpo, il fatto che non rispondesse ad alcun comando pur non essendo rigido, era un effetto di quella donna. Della sua voce, che continuava a usare per sedurlo con ben altro che giuste parole per pungolare bassi istinti.

Basta! Fa’ silenzio, non toccarmi!

Ma non riuscì a dirlo: anche la sua voce si era piegata alla volontà di quella subdola predatrice dai capelli rossi. Restò impotente ma mentalmente lucido mentre la ragazza gli sfilava la giacca e poi, senza alcuna fretta, la camicia. Come un ragno che intrappola un moscerino, muoveva le sue zampe ben curate per preparare la preda al pasto. Quale che fosse il suo scopo ultimo Byakuran non era così ingenuo da non sapere che cosa stava per fare.

Nel momento in cui sentì la mano sulla fibbia della cintura avvertì nel suo corpo qualcosa di inatteso, ma tuttavia familiare: il ricordo sbiadito del suo potere al massimo della cometa Solomon, la sensazione di percepire la vita di ogni singola cellula e il flusso estraneo che vi scorreva come veleno di vipera.

Le sue ali esplosero dalla sua schiena a un’ampiezza tale da riempire immediatamente anche la comoda cabina dell’ascensore; sbalzarono lui in avanti e la donna dai capelli rossi per terra. Barcollando Byakuran riprese il controllo delle sue membra e si raddrizzò. La sua figura era riflessa centinaia di volte in ognuno dei frammenti di specchio crepati dall’impatto e in un paio di occhi terrorizzati che fissò con astio.

«Tu… sparisci da qui» le sibilò contro. «Se ti avvicini di nuovo a me non sarò così buono da fingere che non sia mai successo.»

Con la mano aperta schiacciò il bottone per sbloccare l’ascensore e il piano successivo era quello dove lui e Indigo erano ospitati. Raccolse la camicia e la giacca e non staccò gli occhi dall’espressione della ragazza fino a che le porte non si richiusero dividendoli.

Il numero sopra la porta scendeva e nel silenzio sepolcrale del corridoio Byakuran lasciò che la rabbia sfumasse e un senso di sgomento ne prendesse il posto. Infilò la camicia, chiuse i bottoni, senza riuscire ad accettare l’incredibile fatto che lui, un uomo, un uomo potente e famoso, avesse subito una molestia di quel tipo. Era inconcepibile; avrebbe accettato più di buon grado l’esistenza di piccoli alieni verdi e ostili.

«Credevi che non sarebbe successo mai più, vero? Beh, come ti accade spesso, ti sbagliavi.»

«Tu… non voglio sentirti» borbottò, infilando la giacca.

«Bella gratitudine per essere intervenuto per salvarti, di nuovo! Preferivi che la lasciassi fare? Ti piaceva l’idea? Non mi sembrava, ma se sei attratto dalle donne dominanti e rosse di capelli non posso definirti a cuor leggero un idiota, in effetti…»

«Ho detto basta!»

«Già, e come la rossa, ti ignoro anche io. Scusami, sopporto mal volentieri gli ordini. Dovresti già essertene accorto~»

Byakuran si fermò davanti alla porta della sua stanza, ma il suo pensiero non andò alla chiave o ad altre impellenze di tipo pratico. Sentiva ancora il riverbero sensoriale di quel potere, qualcosa che non avrebbe mai più dovuto provare dopo il passaggio della cometa.

«Sei stato tu? Quella sensazione…»

«Sai com’è avermi dentro… sai come ti faccio sentire~»

«La cometa è passata da molto tempo» rifletté Byakuran, a mezza voce. «Non è possibile che tu sia ancora così presente dopo tutti questi anni… non senza l’effetto della cometa.»

«Sono stufo di ripetermi, Ran: come accade spesso, ti sbagli.»

Ancora immerso nella sua presa di coscienza lenta e spaventosa, bussò piano alla porta. Era nel corridoio di un grande albergo, ma il suo corpo era teso come se si trovasse ancora in quella foresta coperta di brina. Bussò ancora e il rumore si sovrappose al ricordo di dozzine di anfibi che battevano sul terreno gelato.

Si accorse di aver perso il controllo del suo respiro, che si accorciava man mano che la vividezza dei suoi lampi di memoria aumentava. Gli tremavano le mani e fece fatica a passare la chiave nel lettore della porta, ma poi l’aprì e il fluire di ricordi che voleva lasciare sepolti si interruppe.

Dentro la stanza con le lampade accese Mukuro stava rannicchiato sulla poltrona in una posizione scomposta come un gomitolo aperto e riavvolto alla bell’e meglio, in panni comodi e con un quaderno a pentagramma su un ginocchio, una matita tra i denti, con le cuffie sulle orecchie e molto preso a toccare e scorrere sul touch pad del suo portatile. L’odore di caffè che veniva dalla tazza che aveva vicino aveva permeato la stanza.

Byakuran sorrise e richiuse piano la porta. Il tremore era scomparso e sentiva di nuovo i muscoli a un normale stato di tensione. Non aveva lavato via l’orrenda sensazione che quel tentativo di abuso gli aveva inflitto nel profondo, ma la presenza di Indigo, la sua spensieratezza nel cullare i suoi sogni e le inezie di cui aveva il lusso di preoccuparsi lo facevano sentire sereno; dava la giusta prospettiva al suo operato e alle sue sofferenze. Tuttavia…

Non mi farà male tornare su e bere un goccio in compagnia di qualcuno.

«Fossi in te prenderei le scale, stavolta… almeno ci sono le uscite antincendio per battersela~»

Era una chiara provocazione ma lo ritenne un consiglio valido, quindi andò alle scale e iniziò a salire.

 

*

 

Tre piani più sotto l’ascensore scena del crimine si riaprì e la ragazza coi capelli rossi scese, indispettita alle soglie della furia, tentando di sistemare la sua chioma di un liscio impeccabile prima che chiunque si accorgesse che era meno che perfetta. Tuttavia, non rivolse neanche uno sguardo rapido all’uomo accanto alle porte.

«Sembri stravolta» le disse con confidenza l’uomo. «Non credevo che Wing Emperor fosse un amante così impetuoso, a vederlo.»

«Avevi detto che sarebbe stato facile» sbottò lei, in un buffo acuto sottovoce. «Non ne voleva sapere affatto!»

«Non avrai avuto problemi con le tue doti naturali, no?»

Con un gesto stizzito la donna bloccò le porte che si stavano chiudendo dietro di lei e gli indicò il massacro di specchi nella cabina.

«Dove ti sembra che non ci siano problemi, D.?»

L’uomo chiamato D. sbirciò all’interno, ma il suo sguardo divenne soltanto un po’ più distaccato. Per lei che lo conosceva era il pallido equivalente del risentimento, ma durò poco.

«Quindi un nulla di fatto? Ero certo del successo, schierando una donna bella come te. Wing Emperor ha le sue debolezze con le donne.»

«Solo con delle sciacquette, evidentemente» ribatté lei, ferita nel suo orgoglio femminile più che dal contraccolpo che aveva subito fisicamente.

Con sua sorpresa D. scrollò le spalle.

«Tanto peggio per lui. Poteva crollare con uno scandalo e ritirarsi… ora passiamo al piano complicato, e perderà ogni singola cosa che abbia mai avuto importanza per lui» fece, scendendo di tono sotto il peso del suo rancore, «finché non desidererà altro che riuscire ad uccidersi.»

La ragazza non commentò il soliloquio di vendetta dell’uomo e restò arroccata sulle ferite del proprio ego fino a quando non fece apparire un rotolo di banconote da sotto la tuta della manutenzione che indossava.

«Sei stata brava, Maddy. Vai a divertirti e dimentica questo affronto… almeno per stanotte.»

Con un accenno di sorriso delle labbra laccate, Maddy prese i soldi e si allontanò, facendoli sparire dentro il suo costoso reggiseno di Victoria’s Secret.

 

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Capitolo 22
*** Game of terror ***


Il dormitorio brulicava frenetico come un alveare; una condizione normale prima di una importante esercitazione o, come quel giorno, prima di un evento ufficiale a cui partecipava la classe S. Non diversamente da una mamma diligente Kyoya dispensava il suo aiuto per rintracciare scarpe e camicie disperse, mitigando battibecchi sull’uso “non equo” del ferro da stiro e tenendo d’occhio l’orario per tutti quanti.

«Muoversi, ragazzi, tra mezz’ora dobbiamo essere fuori dall’Accademia!»

Ebbe un coro di risposte che andavano dal panico all’allegria e Restless imprecò alla ricerca di qualcosa che non si degnava di rivelare a qualcuno. Mukuro scese le scale con il telefono all’orecchio e non badò a Sky Flame che prese la corsa al piano di sopra saettandogli accanto.

«Pf, che idiota.»

Con un sorrisetto prese a digitare con una mano sola sullo schermo, ignorando anche il suo capoclasse quando arrivò in fondo alle scale, e svoltò per andare alla lavanderia. Incuriosito Kyoya lo seguì fino lì dentro, dove ebbe una fugace visione della coda leopardina di Uri che scivolava fuori dalla gattaiola.

«Qualcosa di divertente?»

Mukuro lo guardò con sorpresa, ma si riprese senza mostrare alcun tipo di nervosismo.

«Sì, ascoltavo un vocale di Sandalphon. Ogni tanto se ne esce con delle cretinate, e fa ridere perché è convintissimo di quello che dice. Si arrabbia un sacco quando secondo lui qualcuno manca di rispetto al suo maestro.»

«Beh, anche tu lo fai» osservò Kyoya.

«Sì, ma io non penso che non servire Ran per primo in un locale pubblico sia mancargli di rispetto, penso che sia una mancanza di rispetto per tutti i clienti arrivati prima di lui!»

Mukuro aveva occhi brillanti e un sorriso allegro mentre rispondeva per messaggio al vocale ricevuto. Non aveva mai avuto l’occasione di rivolgere la parola a questo Sandalphon o al suo maestro, ma il solo fatto che riuscisse a rendere il suo ragazzo così pimpante bastava per presumere che fossero persone interessanti, non banali. Di certo avevano fatto nascere in lui un certo interesse per il caffè nero che non credeva possibile che attecchisse su un ragazzo così goloso di dolci.

«Ti piace molto questo Sandalphon…»

«Uhm… ha una bella voce. Cerco di convincerlo a cantare per il mio Instagram di lavoro, ma al momento non ne vuole sapere.»

Quella notizia fece scattare un segnale luminoso nella sua stanza di controllo interna: era diventato ipersensibile a chiunque venisse considerato una “voce” da Mukuro. Mentre lui era di nuovo preso a cercare una camicia sua tra quelle sugli appendini Kyoya passò con noncuranza le dita nella sua coda di capelli mori sempre più lunga.

«E… che aspetto ha questo tuo nuovo amico?»

Mukuro si prese il tempo di togliere la camicia dalla gruccia e infilarne le maniche, prima di girarsi con un sorrisetto provocatorio.

«Non è il mio tipo… ma è piccolino, come te~»

Gli picchiettò la testa con la mano per evidenziare subdolamente la differenza di ormai venti centimetri fra di loro, e per bella risposta Kyoya gli piazzò un pugno carico di stizza sul costato a sinistra. Lui l’incassò con un sussulto e forzò una risata.

«Okay, questo era pesante…»

«Picchio forte come il tuo sarcasmo, Indi, ricordatelo.»

Lungi dallo scusarsi ma anche dall’infierire, gli afferrò i fianchi e l’attirò vicino, così vicino e così stretto che il bottone dei suoi pantaloni premeva contro il suo addome. Per riuscire a guardarlo negli occhi dovette piegare il collo in un angolo scomodo, ma non c’era volta in cui Mad Phoenix avesse ritenuto che non valesse la pena di guardare Mukuro in faccia.

«Non hai motivo di essere geloso… e Sandalphon non mi ha così tanto in simpatia. È un po’ più in confidenza con me che con i camerieri solo perché piaccio a Lucifer.»

Kyoya fece un passo indietro, sorpreso e in parte turbato. Non gli aveva mai sentito fare quel nome e sperò di sbagliare persona.

«Lucifer… il ricercatore a capo dell’A.M.R.D.?»

«Del cosa?»

«È un dipartimento speciale degli Stati Uniti… un settore di ricerca scientifica sugli Auris.»

Con il cuore che sprofondava un poco di più a ogni secondo di esitazione attese che facesse mente locale.

«Uhm… beh, ha detto di essere uno scienziato, e se lui parla un giapponese eccellente Sandalphon ha un accento più marcato del suo. Può essere che sia lui, ma non mi ha mai parlato del suo lavoro…»

Phoenix avrebbe voluto che Mukuro avesse letto qualcosa di più giornalistico delle rubriche di Josei Hiro-hina o dei quotidiani nazionali, ma non poteva fargli una colpa di non essersi interessato alla cronaca vera mista a teorie oscure sull’uomo che avrebbe incontrato per caso a una cerimonia ufficiale.

«Tu lo conosci?» gli fece allora Mukuro, incuriosito. «Hai una faccia tremenda, per favore, dimmi che non è il tuo quarto amante.»

«Il mio… ma che farfugli? No, non ci siamo mai presentati, credo di averlo solo visto una volta… a un evento tipo quello, una serata di gala a Los Angeles. Per la beneficenza.»

«Oh, lo hai visto? Assomiglia un sacco a Ran, vero? Ran, con qualche errore qui e là.»

«Si legge parecchio di lui» l’interruppe cupo Kyoya. «Sul Relais, per esempio, o Med Report, e sulle inchieste del trimestrale di approfondimento del Société. È tra i direttori del dipartimento di medicina e ricerca del gene Oro più grande al mondo. È uno dei due scopritori dell’Orosoppressore, quello che abbiamo preso anche noi durante il passaggio della cometa.»

Mukuro era stupito, ma neanche vagamente rabbuiato. Doveva per forza fargli leggere quegli articoli quando fossero tornati dall’inaugurazione.

«Wow, veramente è uno così importante? Non l’avrei detto a vederlo bere caffè tutto il tempo e a parlare con Ran dei giardini delle loro case d’infanzia come due vecchietti alla casa di riposo.»

«Indi… quello è molto più che un Auris in vista, okay? Se è possibile, è la controparte scientifica di Wing Emperor. È importante e riconosciuto sul piano medico e scientifico quanto Emperor lo è come attivista politico e sociale.»

Mukuro lo fissò sbigottito e Kyoya fu sollevato di essere riuscito a fargli inquadrare meglio quella figura misteriosa, ma si sbagliava.

«Hai un’idea così alta di Ran? Guarda che i suoi tempi da rivoluzionario sono già finiti, è invecchiato da dentro a una velocità spaventosa!»

«Sappi che non è solo per le ali che Lucifer viene chiamato “angelo dell’ovest”… viene chiamato così per il suo potere dall’altro lato del mondo. Non è che uno dei rappresentanti Auris degli Stati Uniti e uno dei tre della commissione di ricerca, eppure ha un peso politico enorme… alcuni pensano… beh, queste sono solo dicerie» si autolimitò Kyoya con un sospiro, «ma dammi retta: stai attento a quello che dici e a quello che fai in sua presenza, o sotto gli occhi di quel suo allievo. Non si sa mai…»

Solo a quel punto Mukuro si accigliò, più interessato alle sue spiegazioni.

«Aspetta… che vuoi dire? Che dicerie?»

Kyoya esitò a replicare. Pensava che fosse meglio che Mukuro leggesse tutto e si facesse da solo un’idea, ma il suo sguardo minacciava di tenerlo segregato nella lavanderia anche a costo di perdere l’inaugurazione se non avesse risposto.

La salvezza apparve sulla soglia nella figura di Enma, che entrò di slancio nella stanza e non badò affatto né alla tensione di quel silenzio né al fatto che Mukuro avesse ancora la camicia sbottonata e tenesse le mani sui fianchi del loro capoclasse.

«Com’è possibile che ho cinque cravatte e non ne trovo neanche una? Una di queste è la mia, per caso?» chiese in un uggiolio disperato, sbirciando l’etichetta con i nomi sul retro. «Come sono disordinato, povero me…»

«Non ti angosciare, Enma. Prendi una delle mie, non è così importante» suggerì Mukuro, accennando alle due cravatte nere a righe dorate appese in fondo.

«Davvero? Grazie… mi dispiace, sono così disordinato» ripeté mentre ne prendeva una. «Perdo tutto quanto persino dentro i cassetti! A volte mi chiedo se il mio potere non generi piccoli buchi neri, ma poi inciampo in quello che ho perso e capisco che non è così…»

Mukuro ridacchiò ed Enma riuscì quanto meno a stiracchiare un po’ le labbra.

«Sono contento che abbiamo delle uniformi così belle adesso» aggiunse mentre occhieggiava le camicie bianche, una delle giacche nere e i gilet grigio perla di Tsunayoshi appesi. «Odiavamo tutti quella divisa alla marinara beige e marrone. Nessuno vuole una divisa marrone, no? Era proprio terribile.»

«Il preside l’ha scelta proprio perché era unica…»

La debole argomentazione di Kyoya fu accolta con un’occhiataccia dai due compagni, e non si sentì di controbattere: anche lui la trovava brutta, ma ne conservava un ricordo di affezione legato alla sua promozione alle classi superiori quando aveva undici anni.

«Si può avere un’uniforme unica anche bella» replicò Mukuro dedicandosi finalmente a chiudere i bottoni della sua camicia, «e io l’ho dimostrato.»

«Non smetterai mai di vantarti di averla disegnata, vero?»

«E neanche di averla introdotta andando dritto dal vicepreside» rincarò lui, gonfiandosi di orgoglio come un pavone. «Anche Night Hound odiava quell’uniforme. Ci ha messo trenta secondi ad approvarmi la richiesta di ordine.»

Enma s’informò con stupore e adorazione di ogni sillaba di quella conversazione. Kyoya la conosceva già, ma anche se Mukuro si vantava un po’ troppo di quell’impresa in proporzione a quelle davvero fenomenali che aveva portato a termine Kyoya gli riconosceva un buongusto notevole.

Le uniformi nere – con l’inedita opzione gilet per la mezza stagione e la lunghezza variabile delle gonne femminili – e l’uso di colori meno stravaganti per differenziare le classi avevano ottenuto un largo consenso, al punto da far sbucare dal giorno alla notte una petizione per eleggere Indigo come rappresentante degli studenti non appena si scoprì che era l’autore del cambiamento.

Enma li lasciò soli dopo un minuto, quando la voce di Love chiamò il nome di uno dei suoi gatti in tono troppo allarmato per non dare a pensare che stesse di nuovo grattando il divano. Kyoya avrebbe voluto riprendere la conversazione precedente, ma non trovò un modo di agganciarvisi prima che Mukuro gli lanciasse un’occhiata. Quel genere di occhiata.

«No» replicò subito Kyoya.

«Oh, dai… è noioso. C’è davvero bisogno di noi all’inaugurazione?»

«È il museo dei Civil Heroes, e visto che siamo i prossimi diplomandi dell’unica accademia per Auris del paese direi proprio che dobbiamo.»

Non aveva ancora finito la frase che già aveva le sue mani intorno alla vita. Si lasciò stringere al suo corpo ma non aveva alcuna intenzione di cedere il punto.

«Restiamo qui» gli sussurrò lui, le labbra che gli sfioravano il collo. «Non si accorgerà nessuno che manchiamo.»

Rise, ma la sensazione del suo respiro caldo sul collo gli diede un brivido e la fece uscire più simile a un spasimo.

«Sono il capoclasse della classe S… e tu il figlio di Wing Emperor… si accorgeranno immediatamente che non ci siamo…»

«Ran emerge già abbastanza da solo, io dico che non lo noteranno.»

«Ran sarà il primo a notare che non ci siamo e ti verrà a prendere per le orecchie» osservò Kyoya divertito.

«Oh, no. Forse verrà a prendere te, ma con me non ci prova» asserì lui. «Lo sa che se si azzarda io vado dritto da Amber, e allora sarà lei a prenderlo per le orecchie.»

Kyoya spostò le mani di Mukuro che tentavano di arrivare alla pelle sotto la camicia, ma gli dedicò lo stesso un sorriso malizioso.

«Magari la cosa lo eccita, che ne sai?»

«Essere preso per le orecchie?»

«C’è ogni genere di perversione in questo mondo, no?»

Mukuro emise un versetto divertito e gli afferrò delicatamente i lobi.

«Vuoi provarci?»

«Ma che state combinando?!»

Kyoya emise una risata dal retrogusto amaro. Non si voltò verso Wing Emperor, ma guardò la buffa espressione di Mukuro, irritato per l’interruzione.

«Che ti avevo detto?»

«Che vuoi, Ran?»

«Come sarebbe, che voglio? Avete tutto il maledetto giorno e la notte per pomiciare e voi vi mettete a farlo ora che siamo in ritardo! Avanti, fuori di lì, subito!»

«Sei un meschino, lo sai?» ribatté Mukuro, prendendo con stizza una delle sue cravatte. «Me lo ricorderò la prossima volta che ti aspetto per lo yoga e tu sei ancora nel letto di Amber.»

«È successo due volte» si difese Byakuran piccato, «e non ero nel letto di Amber!»

«Alt, ferma così. Non voglio sapere dove fate sesso voi due.»

Il preside fece un verso indefinibile mentre gli passavano accanto uscendo dalla lavanderia; qualcosa di simile al soffio di un gatto.

«Che stronzo

«E pensa che ti tratto bene perché sei il mio papy» rincarò Mukuro.

Wing Emperor non rispose, ma dallo schianto con cui chiuse la porta si capiva tutta la sua irritazione. Kyoya guardò l’aria soddisfatta di Mukuro mentre annodava la cravatta.

«Sei stato un po’ maleducato, sai?»

«Nah» fece lui tranquillo. «È Ran. Ormai ci conosciamo, lo sa come scherzo con lui. Si arrabbia sempre in quel modo quando lo punzecchi sulla sua vita sessuale, se ne vergogna ancora.»

«E allora non farlo, no?»

«Ma no, è terapeutico. Scherzarci sopra lo aiuta a non prenderla troppo sul serio… ma sai, ha passato oltre dieci anni a cementarsi nel cervello che doveva essere perfetto nel ruolo di Wing Emperor, così nessuno avrebbe potuto recriminargli qualcosa…»

A quel punto qualcosa gli si inceppò.

«Ha appena detto alla stampa che aveva una relazione con una prostituta, in che modo questo sarebbe perfetto?»

«Non lo era, per questo lo teneva nascosto… ma ormai è storia passata, per fortuna. Ha girato pagina, ora il mondo non ha più bisogno di un singolo, potente eroe perfetto che irradia virtù e guidi tutti. Ora ci sono dipartimenti governativi, squadre indipendenti, consigli e cariche politiche per gli Auris… non serve che faccia tutto Wing Emperor. Lui come idolo non serve più.»

«Credi di no?»

Seppe all’istante di aver infuso un tono troppo scettico alla domanda e Mukuro lo sentì bene quanto lui.

«I genitori sono abnegati e devoti quando i bambini sono piccoli, poi quelli crescono e mamma e papà si possono riprendere un po’ del loro tempo e delle loro libertà. Ora il mondo è cresciuto, e anche se è viziato e pretende la totale devozione di Wing Emperor non vuol dire che debba averla.»

In questi termini il pensiero di Mukuro risultò più ridimensionato e fu d’accordo con lui. Il protagonista delle loro speculazione riapparve spronando la classe e pochi minuti dopo, tutti inamidati nelle loro uniformi nere ed eleganti da scuola privata di livello, uscirono in fila indiana e salirono su due vetture per partire, finalmente, alla volta del museo.

 

*

 

Dopo il terremoto Higashiki era risorta dalle proprie ceneri con alcune modifiche intenzionali. Il vecchio ponte simbolo della città era stato ricostruito – a detta delle autorità, ancora più resistente – passando però dal colore bronzato a un denso tono di blu-violetto. Era stato dedicato alle vittime del crollo, ma quella vernice era un inequivocabile tributo silente al giovane eroe che aveva evitato che i morti fossero molti di più con il secondo cedimento.

Mukuro continuava a guardare il profilo del ponte durante la cerimonia del sindaco, che rievocava il terremoto e l’intervento dei Civil Heroes nell’emergenza. Byakuran lo aveva richiamato all’attenzione la prima volta, ma poi aveva lasciato che ripercorresse i suoi pensieri. Dall’espressione che aveva negli occhi di un blu velato era evidente che non stava crogiolandosi nella gloria conseguita o nell’orgoglio dei suoi salvataggi.

Venne il turno del blasonato Civil Hero di dire qualche parola, ma Byakuran decise di restare sul vago e di essere breve: lodò il coraggio e il lavoro coordinato dei Civil Heroes e delle forze dell’ordine, nonché dei volontari che avevano aiutato nelle ricerche e nella gestione del campo, spese due parole per la gente di Higashiki che aveva saputo riprendersi dalla tragedia e dai danni ingenti; parole che per lui erano solo palliativi che le persone erano solite propinare a chi soffriva troppo per poterlo spiegare. Infine, con il cuore un po’ più pesante di quando aveva cominciato, ringraziò il sindaco di aver offerto un edificio cittadino per onorare i Civil Heroes.

«Penso sia ovvio, ma tutti noi preferiremmo che non ci fosse alcun bisogno di noi. Passeremmo volentieri la vita a coltivare fiori o servire caffè, ma sfortunatamente per tutti noi non è così che funziona.»

Quest’ultima nota raffreddò il sorriso istituzionale del direttore museale spedito lì da qualche ufficio del governo, ma strappò qualche cenno di dolente assenso dalle file riservate alle famiglie delle vittime del terremoto e un vigoroso gesto col pugno da un uomo nella fila dei vigili del fuoco. Notare quest’ultimo fece scivolare il suo sguardo poco più lontano e i suoi occhi viola si posarono su un uomo, seduto là tra poliziotti e pompieri, con un bastone di legno appoggiato alla sedia e un vago sorriso.

Che cosa ci fa mio padre qui?

Le ultime parole del sindaco riguardarono il nastro. Con aria sperduta Byakuran si guardò intorno, poi un’assistente lo raggiunse con un paio di forbici per lui. Aveva la sensazione di essersi appena svegliato da un sogno realistico, ma non combinò guai e tagliò il nastro dal suo lato insieme al sindaco senza imbarazzanti difficoltà. Restò per qualche scatto della stampa e poi scese dal palco tagliando controcorrente la folla che si avvicinava alle porte per la prima visita.

Quando fu di fronte a Masamune Mazuya gli venne quasi spontaneo chiamarlo “papà”, ma lo trattenne appena in tempo.

«Masamune» fece allora, forzandosi più distaccato di quanto non sentisse di essere, «che cosa fai qui?»

«Mio figlio partecipa a un’inaugurazione con il sindaco di Higashiki e non dovrei vederlo?»

«Potevi vederlo alla televisione. Viaggiare così tanto non è un problema per te?»

«Via, Byakuran, ho questa stampella da quando avevo la tua età. Non pensare che perché zoppico io sia già un vecchio artritico!»

«Hai ragione. Scusa. Ma comunque è un bel viaggio da Osaka… e hai anche il tuo lavoro. Non era così importante che venissi.»

«Ti ho guardato dalla televisione per troppo tempo, non pensi? Stai tranquillo, non significa che mi precipiterò a vederti mentre salvi la gente da un’alluvione o…»

«Voglio sperarlo» l’interruppe lui con uno sguardo truce. «Avrei voluto che potessi vedere i miei disegni esposti ai concorsi che ho fatto al liceo, ma non c’è bisogno di riparare mettendoti a rischio come un vecchio rimbambito.»

«Cominci a diventare irriverente, ragazzo… stessa vena che avevo io da giovane con mio padre, dopotutto» osservò Masamune, con un sorriso beato. «È stupefacente, non trovi? Non ci siamo mai incontrati, assomigli come una goccia d’acqua a tua madre, eppure porti con te qualcosa di mio lo stesso. La genetica sa essere romantica.»

Byakuran fu d’accordo con il suo pensiero, ma sentiva di stare affezionandosi anche troppo velocemente a quell’uomo, e che questo poteva essere un problema vista la sua posizione in politica. Tanta acqua doveva ancora scorrere sotto i ponti prima che la loro relazione potesse essere mostrata senza danni a qualcuno; per via di Amber, per Sagiko, per la carriera di un uomo di mezz’età… per Indigo, anche, che rischiava di essere la vittima di rimbalzo di un gioco al massacro mediatico.

Rinunciò a qualsiasi contatto fisico con Masamune e il suo sorriso riuscì più posticcio di quanto sperasse.

«Sarebbe troppo sconveniente se visitassimo la mostra insieme?»

«Non vedo perché» osservò Masamune con aria birbante. «Sono membro della commissione che stanzia i fondi per istituti culturali e per la tutela dei tesori nazionali. Sono un habitué dei musei, sarebbe assai più sconveniente se non ne visitassi uno. Ora, la gamba mi sta dando qualche problema con questo tempo umido. Sii gentile, prestami il tuo braccio per affrontare quelle scale.»

Byakuran trattenne le risate solo perché sapeva di essere perennemente osservato dai giornalisti, ma offrì volentieri il braccio perché suo padre vi si aggrappasse mentre saliva i gradini troppo lontano dal corrimano.

«Sei terribile, Masamune.»

«L’ho preso da tua nonna Futaba» dichiarò con fierezza, «che, detto tra noi, mi ha sempre rimproverato di aver prestato orecchio a mio padre e non a lei. Mi ha già intimato quattro volte di portarti a cena, da quando ci siamo parlati all’hotel.»

«È stato appena una settimana fa.»

«Sì, ma lo ha saputo solo venerdì grazie a quella boccaccia di mio figlio Saburo. Povero ragazzo, era convinto che la nonna gli avrebbe dato man forte su di te, e invece lei è ancora più agguerrita di me nel ricucire i lembi della famiglia.»

Byakuran si trovò spiazzato dalle novità. Aveva un fratellastro al quale non piaceva, ma aveva una nonna che voleva conoscerlo il più presto possibile. Una piccola parte di lui sospettò una malizia di quella signora sconosciuta, ma d’altronde la carriera di Masamune non aveva niente da guadagnare dal riesumare una sordida e controversa storia con una Auris del ghetto con figlio illegittimo annesso. La signora aveva vissuto nell’agio dato da tre generazioni di Mazuya in politica e commercio, e il solo che poteva riscuoterne qualche frutto era il membro della famiglia che non voleva neanche sentirlo nominare.

«Perciò» soggiunse Masamune, dopo un sospiro di sollievo per l’ultimo gradino, «se fossi libero per il capodanno, tua nonna ti aspetta a Okayama. Se hai dei programmi con Mukuro, però, ti scuserò con lei.»

Byakuran girò lo sguardo alla ricerca del suo allievo e lo trovò davanti a una teca con i suoi compagni di classe, a ridere di gusto della maschera a becco che era appartenuta a Mad Phoenix. Questi era rosso in viso quanto il suo costume.

Lui mi direbbe di andare… lui desidera terribilmente qualche legame con la sua vera famiglia e pensa che lo desideri anche io. Non mi direbbe di rinunciare per festeggiare un capodanno insieme…

«Non devi rispondere ora» gli fece Masamune, seguendo la linea del suo sguardo fino al ragazzo. «Vorrai parlarne con lui. È giusto… è tuo figlio, anche se solo per mezzo di qualche foglio firmato. All’epoca non chiesi che cosa desideravi, se volevi conoscere la tua famiglia biologica, e scelsi per te. Tu invece devi parlare con lui per tutto ciò che vi riguarda come famiglia.»

Byakuran annuì.

«Per via della riunione d’emergenza del Congresso persi il suo compleanno, mandai a monte il viaggio per le vacanze estive e non rientrai in tempo nemmeno per uno dei suoi esami di livello. Ho già fatto tanti errori e siamo una famiglia da un anno appena.»

«Errori tipici di un uomo impegnato… ma non disperare. Ora ci sei e devi restare per lui.»

Si scambiarono un sorriso esitante, l’espressione di chi sa bene di parlare di un argomento in cui ha principalmente fallito, e lasciarono cadere il discorso mentre dedicavano qualche attenzione alla mostra.

Molti Civil Heroes, tra i quali Night Hound, avevano contribuito con qualche cimelio e nel caso specifico Byakuran riconobbe il distintivo che in tempi ormai obsoleti lui e l’amico dovevano tenere appuntato addosso per non essere respinti dalle autorità durante le operazioni di soccorso.

«Cavolo, non me ne ricordavo neanche più» commentò, chinandosi a vederlo da vicino. «Chissà dov’è finito il mio…»

Accadde in un attimo. Un sibilo acuto riempì la stanza principale del museo e fu coperto dalle grida quando un denso fumo biancastro iniziò ad addensarsi da un lato. Il pensiero di Byakuran corse a un tentativo di furto, ma poi un secondo e un terzo fumogeno si attivarono in altri punti della sala. Spinse suo padre contro la parete per evitare che le persone che si accalcavano verso l’ingresso lo travolgessero.

«Restate calmi, per favore!» gridò, cercando di sovrastare le grida e i rumori. «Dirigetevi all’uscita velocemente ma senza panico!»

Per l’effetto che sortì avrebbe potuto intonare l’ultima canzone degli Echorings, ma poi la folla rallentò. Non si era calmata né aveva smesso di correre; semplicemente i loro movimenti divennero lenti come un video a scorrimento dimezzato. Dall’altro lato della sala Storm Breaker era entrato in azione, e così fece il resto della classe disponendosi nella formazione che avevano studiato per far defluire una folla con il minimo rischio di effetto mandria.

Mentre tutto o quasi era rallentato, il fumo si addensava inesorabilmente.

«Papà, mettiti qui dietro l’angolo» gli ordinò, un cenno verso la colonna più vicina. «Resta a terra, il fumo riempirà prima la parte alta. Appena la folla sarà passata ti porterò fuori in sicurezza.»

«Uh-oh, Ran, abbiamo visite~»

L’allarme della voce di uomo gli fece voltare la testa in cerca di una minaccia e la trovò immediatamente. Una donna dall’anonima tuta nera con il viso coperto da una maschera a gas scrutava il salone dall’alto della finestra a rosone in stile gotico; la figura si fondeva con la massa di fumo denso in modo tale che sembrava nascesse da quella.

«Fate attenzione! Lassù!»

Le persone che visitavano la mostra si stavano riversando fuori dopo aver usato gli studenti come tornelli viventi della metro. Il primo di loro a rompere la formazione fu il più avanzato, Mad Phoenix, che avanzò verso il punto in cui si era acceso il primo fumogeno. Scomparve in una nebbia artificiale densa e si sentì solo tossire.

«Phoenix, non avvicinarti! Dannazione…»

Fortunatamente Byakuran non si era ancora abituato a presenziare cerimonie in qualità di Wing Emperor senza il suo costume, quindi poté spalancare le ali senza dover subire poi il rimprovero di Mukuro su vestiti troppo costosi ridotti a brandelli. Non che ci pensasse con la parte più sveglia della mente, che al momento analizzava solo i rischi di una rimozione forzata del gas con le sue ali.

Poi, il fumo arrivò più consistente alle sue narici e d’istinto si fece indietro coprendosi naso e bocca con la mano. Come medico aveva riconosciuto la sostanza, anche se doveva essere stata mescolata a qualcosa di diverso per espandersi in quel modo e diventare della consistenza nella nebbia fitta.

«Non respiratelo! State indietro, tutti fuori!» gridò ai ragazzi. «Portate fuori tutti quelli rimasti dietro questa linea!»

Avvertì la voce di Gravity incitare suo padre a seguirlo fuori, poi un’esplosione scosse l’edificio e mandò in frantumi i vetri di tutte le finestre. Bastò un’occhiata scioccata a quella più vicina per vedere una colonna di denso fumo nero di combustione alzarsi dal vicino tribunale.

Non è un vistoso tentativo di furto al museo. Siamo sotto attacco!

Avrebbe voluto dirlo, ma riuscì soltanto a tossire con la bocca nascosta nell’incavo del gomito. Stava diventando rischioso per i ragazzi, ma erano gli unici Civil Heroes nel raggio di diversi chilometri…

«Ritiratevi! Lasciate l’evacuazione alla polizia, fate un sopralluogo per quell’incendio e aspettate rinforzi per qualsiasi cosa, è chiaro?! Ora!»

I suoi ordini gettarono gli studenti in un momento di caos in cui ronzarono come api impazzite: Gravity e Luck si scontrarono nell’avvicinarsi a Masamune per aiutarlo, Restless protestò e venne spinto fuori bruscamente da Breaker, Indigo invece non disse nulla e corse dritto dentro il fumo anziché nella direzione opposta.

«Indigo! Che diavolo–»

La tosse si impedì di terminare la frase. Sbatté le ali per cercare di disperdere il fumo e vi riuscì a sufficienza per trovare la sagoma del suo allievo che trascinava via Phoenix privo di sensi. Si avvicinò per aiutarlo, senza scollare gli occhi dalla donna che restava ferma lassù a guardare come facesse parte della decorazione della sala.

«Prendilo e andate fuori. Questo è un gas anestetico, è solo addormentato. Non avere paura.»

«Vieni via di qui anche tu, Ran! Neanche tu puoi combattere in questa condizione!»

Naturalmente sapeva di non essere immune al gas, ma qualcosa lo insospettiva. Un narcotico su vasta scala serviva a prendere molti ostaggi o solo a prendere quelli che sarebbero rimasti dentro più a lungo, come i Civil Heroes? Era molto più logico uscire e circondare l’edificio, o per prestare soccorso dopo l’esplosione… quindi, secondo lui, la minaccia più grande lo aspettava fuori.

Prima che potesse riassumere in poche parole efficaci le sue paure la donna mosse un’offensiva, non per forza muovendosi dalla sua postazione da sentinella: dal fumo emerse qualcosa di luccicante che prese Byakuran in pieno e l’abbatté sul tappeto bordeaux della sala. Oltre al dolore sentì il freddo, o meglio il pizzicore tipico delle ustioni da freddo sulla pelle scoperta.

«RAN!»

Byakuran emise solo un verso sofferente mentre la sua costola si rinsaldava. Purtroppo non fu abbastanza rapido nel calmare il temperamento fumantino di Mukuro, che si era appena impossessato di un’asta su cui erano montate le indicazioni per le diverse sale.

«Come osi venire qui a fare casino, bastarda?» inveì contro la figura. «A ferire i miei amici e a spaventare queste persone… come se Higashiki non avesse avuto problemi più che a sufficienza per questa generazione! Vieni giù di lì a chiedere perdono, o ti butto di sotto io!»

La donna restava imperscrutabile, celata dietro la maschera antigas. Byakuran si rimise in piedi mentre Mukuro prendeva la mira con tutte le intenzioni di tirarla giù dal rosone con un colpo di lancia che avrebbe reso orgogliosi dei campioni di giavellotto, se non addirittura degli spartani.

Un lieve scintillio li avvertì del colpo in arrivo dal banco di nebbia e interruppe il lancio costringendoli a schivare. Byakuran fece un movimento brusco a mezz’aria, più simile al volo dei pipistrelli che a quello di un uccello.

Non sono riuscito a capire cos’era… eppure…

Si appoggiò sul tondino di una colonna per tentare un attacco laterale, per provare a spostarla da quella posizione di vantaggio, ma scivolò in modo goffo. Solo dopo – e troppo tardi – si accorse che era completamente bagnata. Seppe con che cosa era stato mescolato il gas e che cosa stesse brillando prima di venire colpito, ma non bastò a evitare la trappola.

Lo strato di acqua che impregnava la pietra congelò nel giro di pochi istanti. Intrappolò la sua mano e il polpaccio, appoggiati a quella, nella morsa del ghiaccio e per sottrarvisi con un battito di ali si scarnificò metà della mano destra: la pelle venne via come carta velina crespa esponendo la carne viva e sanguinante, il tessuto resistente del suo costume fece la stessa fine e il suo stivale destro restò incastonato come una bizzarra decorazione nello strato di ghiaccio. Imprecando per il dolore planò indietro, vicino all’ingresso, il più distante possibile dal vapore acqueo.

«Ran, sei ferito!»

«Lascia perdere» ribatté subito. «Prendi Phoenix e uscite. Questa donna è pericolosa!»

Dai suoi occhi ribelli capì che non aveva nessuna voglia di obbedirgli, ma Phoenix era il suo aggancio con il buonsenso e guardandolo esanime poco distante da loro quella scintilla di follia scomparve.

«Coprimi» gli fece in un sussurro. «Poi esci anche tu. Qui dentro non vinceremo mai.»

Byakuran annuì, anche se dubitava molto che la donna gli avrebbe permesso di andarsene così facilmente. Si avvicinò di qualche metro, offrendosi silenziosamente come ostaggio in cambio del rilascio dei suoi due allievi. La donna del ghiaccio non fece nulla per impedire ai ragazzi di guadagnare l’uscita, perciò lui dedusse che volesse il pezzo più grosso.

«Chi sei?» le chiese quando furono rimasti soli.

«Non mi hai riconosciuta?»

Grazie al movimento delle ali, alla condensazione naturale e alle finestre rotte il fumo si stava disperdendo. Con cautela Byakuran toccò terra su un piede solo prendendo secondo per secondo abbastanza tempo per rigenerare quel brutto danno alla mano e resistere fino ai soccorsi dal quartier generale.

«Dovrei?»

«Mi conosci da molto tempo, Byakuran… o forse dovrei dire che mi conoscevi molto tempo fa.»

Si accigliò al suono di quel nome. Non erano molti quelli che lo avevano conosciuto come tale e la gran parte di essi erano compagni di scuola che non sapevano quasi niente di lui, tanto meno che fosse un Auris. Tuttavia escludere loro significava dover rovistare in una melma molto più oscura e aberrante, tra individui dei quali avrebbe fatto volentieri a meno.

«Se è così, dovresti dirmi il tuo nome… o mostrarmi la tua faccia.»

«Ora il mio nome è Glacier Queen» annunciò lei, con quella voce distorta dalla maschera era impossibile sapere se gli fosse familiare. «Valuta le tue prossime parole e azioni con prudenza, Byakuran. Da esse dipendono molte vite.»

Il suo pensiero andò subito a Indigo, agli studenti e a suo padre fuori dal museo. Impossibile sapere se stessero bene o se ci fossero minacce incombenti su di loro.

La donna si tolse la maschera con una lentezza che era una tortura di per sé. Ebbe una fugace visione del mento, delle labbra carnose e della pelle chiara, poi venne colpito dietro la schiena da qualcosa che pesava quanto un monolite. Cadde faccia a terra, a malapena cosciente, trovandosi a fissare una scarpa abbandonata poco lontano. Una donna doveva aver perso la sua decollété nera mentre scappava dall’attacco.

«Fragilino, questo imperatore» commentò una voce roca di uomo da un punto fuori dal suo campo visivo. «Lo uccido subito? La mamma ammazzava i gattini più fragili della cucciolata, per non farli soffrire.»

«Segui gli ordini, Roku» fece la donna chiamata Glacier Queen. «Lui deve vivere.»

L’ignoto Roku espresse disappunto con un grugnito e sputò. Stivali dal tacco alto apparvero davanti ai suoi occhi offuscati, poi le ginocchia di gambe sinuose, un seno di proporzioni esagerate su quel fisico snello e infine un volto, quando si piegò fino al pavimento per incrociare il suo sguardo. Trattenne il fiato per lo stupore e gli occhi rossi di lei si strinsero in uno sguardo truce.

«Quindi mi hai riconosciuta» osservò lei con disprezzo. «Il messaggio è stato recapitato, allora. Possiamo andarcene, Roku… dividiamoci. Vado al punto di recupero H.»

«Yessah» fece lui contrariato. «Io al punto C.»

Senza aggiungere altro un paio di piedi pesanti si allontanarono senza fretta alla sinistra di Ran. Da qualche parte in direzione del rosone proseguì la donna con quei tacchi, finché il suono non si interruppe improvvisamente. Stordito dal colpo e spaventato come il bambino che un tempo era stato, Byakuran non riuscì a coordinare il corpo per rimettersi in piedi.

Se c’è Heidi… forse qui c’è anche…

Non osò neanche pensare al suo nome mentre fissava il fumo d’incendio al di là dell’unica finestra davanti ai suoi occhi.

 

*

 

Fuori, nel piazzale di fronte al museo, il cerchio di Ribelli in tuta nera con la maschera che aveva bloccato la classe S per impedire loro di muoversi svanì nel nulla, in un battito di ciglia. Mukuro, che stava davanti a Kyoya ancora privo di sensi per proteggerlo da un attacco che tardava ad arrivare, si guardò intorno ben lontano dal sentirsi sollevato. Dei poliziotti tra i presenti alla cerimonia si avvicinarono all’edificio, uno dei pompieri andò a soccorrere Mad Phoenix, ma nessuno dei Ribelli tentò di impedirglielo.

«Se ne sono andati così?» domandò Enma, perplesso quanto lo era lui.

«Hanno finito» dichiarò Yamamoto, serio.

«Sì. Il diversivo non è più necessario» convenne Restless, i cui occhi divenuti blu scandagliavano intorno alla piazza e sui tetti. «Se ne va!»

«Chi? Chi se ne va?»

Lui stese il braccio indicando il vicolo che passava sul retro del museo.

«La donna che era sulla finestra se la sta filando!»

«Neanche per sogno» sbottò Mukuro serrando i pugni. «Tsunayoshi, vieni con me! Quella stronza ci ha attaccato col ghiaccio, prima!»

«Che cosa vuoi fare, Indigo…?»

«Catturarla, ovviamente! Sbrigati, quella ci scappa!»

«Vengo con voi» si offrì Love, «come supporto medico!»

«Love, tu servi qui» le disse Restless, a bassa voce. «Emperor è a terra. Servite tutt’e due a lui come medici.»

La notizia non contribuì alla serenità di Mukuro, ma in una catena di effetti riuscì a domare la sua impulsività.

«Restless, trova un punto da cui puoi controllare dall’alto. Le andiamo dietro.»

Mukuro guardò Masamune Mazuya solo per un momento, ma gli lesse in faccia un profondo sgomento prima che si lanciasse alla massima velocità consentita dalla sua gamba inferma verso la scalinata. Wing Emperor a terra erano forse le parole più profondamente spaventose da sentire per un qualsiasi Civil Hero in missione e poteva solo immaginare come suonassero cavernose a un padre.

Senza indugiare oltre Mukuro spiccò la corsa, seguito a ruota da Tsunayoshi. Imboccarono la stradina, troppo stretta per permettere il passaggio di un’auto se non una piccola e agile utilitaria, e già si pentiva di non avere il costume: si era abituato troppo bene con tessuti a compressione che lo rendevano più scattante e non ostacolavano i suoi movimenti per complicati che fossero.

Svoltati nella strada principale dopo un centinaio di metri riuscirono a seguire il loro obiettivo solo grazie a una studentessa che li mise sulle sue tracce. Successe ancora all’incrocio successivo, dove un negoziante indicò loro “la donna con la tuta di pelle”.

Sull’aprirsi di uno spiazzo commerciale prima di un ponte pedonale Mukuro posò gli occhi sulla donna e sulla sua coda di capelli neri e lucidi come l’inchiostro fresco.

«Tu! Tu, dove pensi di scappare?!»

Ebbe una visione effimera del suo volto quando si girò verso di lui, un lampo dei suoi occhi rossi e del suo sorriso canzonatorio, poi prese a correre. Mukuro e il compagno ripartirono senza esitazione all’inseguimento attraversando la carreggiata.

«Tsunayoshi, devi colpirla appena la traiettoria sarà libera.»

«Colpirla? Con cosa?!»

«La rallenterò» gli fece Mukuro, con respiro appesantito. «Con il potere che ha sarà per poco, ma se la colpisci la raggiungeremo e la costringeremo a combattere. Insieme la possiamo prendere.»

«Vuoi che le spari delle fiamme contro?!»

«Quella donna manipola il ghiaccio! Nient’altro la toccherà, se lei tocca noi ci farà quello che ha fatto a Ran, ci tirerà via la pelle di dosso come l’incarto di una merendina!»

L’argomento era abbastanza raccapricciante per persuadere Tsunayoshi, che diede un cenno di assenso. Glacier Queen deviò dopo essere passata dietro un gruppo di persone attonite di fronte alle volute di fumo che salivano dall’incendio, ma Mukuro usò una fioriera di pietra come trampolino per saltare al di sopra del manipolo e superarlo.

Sono abbastanza vicino!

Non esitò. Non si chiese se sarebbe riuscito a tirare fuori i gambi dei fiori di loto bianchi o se la sua ossigenazione era scesa abbastanza: toccò con la mano aperta la pietra del sentiero e dieci metri più avanti i boccioli catturarono le lunghe gambe della Ribelle. Forse non si aspettava un potere a distanza da lui o credeva di essere più lontana, ma non era pronta a difendersi. Tsunayoshi, dall’altro lato, era senza giacca e aveva la manica arrotolata fino al gomito, pronto per sparare le fiamme.

«Fallo!» gli gridò a pieni polmoni.

«X-burner!»

La fiammata che si scatenò dal palmo del ragazzo era così densa da non sembrare una massa di fiamme, ma un’onda di lava. Divorò per intero un malcapitato cespuglio in fiore sulla sua strada verso la Ribelle, ma in un attimo carico di sgomento una ragazzina arrivò di corsa e venne investita dall’attacco. Atterrito Mukuro staccò la mano da terra per alzarsi di scatto mentre Tsunayoshi emise un grido di orrore e cessò immediatamente la sua offensiva. Sotto il bagliore residuo del fuoco era sbiancato.

«L’ho presa? Ho… colpito una ragazzina!»

Mukuro avrebbe voluto dirgli che non era così, ma se i suoi occhi non lo avevano ingannato l’aveva presa in pieno prima che le fiamme l’avviluppassero nascondendola alla vista. Quando il fuoco si estinse, però, Mukuro avrebbe preferito di gran lunga che qualche danno ci fosse stato.

Glacier Queen era in ginocchio, ma illesa. Quanto alla ragazzina, era una figura luminescente di color giallo, lo stesso colore del sole e quasi accecante nello stesso modo. Tsunayoshi balbettò qualcosa di incomprensibile, ma Mukuro era meno confuso che mai.

«È una di loro. È il backup di quella donna.»

«Il… che?»

La risata che si levò dalla ragazzina era acuta e stridula, come Mukuro avrebbe immaginato quella di una bambola infernale.

«Che solletico! Che solletico!»

Il corpo della ragazzina stava perdendo luminosità e riacquistava lineamenti umani. Aveva dei corti capelli scompigliati di un biondo sporco, occhi sporgenti, occhiaie evidenti e un corpicino esile completamente nudo dopo che l’attacco aveva bruciato i suoi vestiti. Nulla dell’accaduto negli ultimi trenta secondi e delle conseguenze sembrava turbarla minimamente.

«Solletico con delle dita fredde! Fastidioso» commentò, con un ghigno da brividi. «Lo voglio più caldo di così, Fiammella!»

«Ram» disse piano Glacier Queen alle sue spalle. «Ricorda il piano. Ritirati appena vedrai il segnale.»

Mukuro si accigliò di fredda rabbia e non perse una singola mossa della donna.

«Tsunayoshi, dobbiamo aggirarla e seguire quella bastarda.»

«Scherzi, vero?! Hai visto che cosa ha appena fatto alle mie fiamme?!»

«Sì. Per questo la donna del ghiaccio si è affrettata ad arrivare qui. Nel caso io facessi esattamente quello che ho fatto: correrle dietro con un manipolatore di fiamme di rinforzo.»

La sua mente elaborava velocemente. Allestiva piani con le – poche – pedine a disposizione su un’immaginaria mappa della città di Higashiki, li demoliva e riprovava. Ci mise un paio di secondi, perché era scegliere in fretta quello che imparavano durante le esercitazioni, e prese la sua decisione.

«Sparale di nuovo. Tienila ferma lì e io seguo quella stronza» snocciolò a Tsunayoshi che lo fissava allibito. «Appena sono fuori tiro chiamo Restless. Qualcuno dovrebbe essere in arrivo per darci supporto.»

«È una pessima idea, Mukuro! Tu sei– ferma dove sei!» urlò alla ragazzina, e senza complimenti le scaricò addosso una fiamma anche più convinta della prima. «Sei un bastardo egoista, Mukuro! Stai di nuovo facendo le cose da solo! PHOENIX SI INCAZZERÀ A MORTE!»

Mukuro stava già abbandonando di corsa il parco, ma l’aveva sentito forte e chiaro. Sapeva che aveva ragione, ma lì non c’era nessun altro Civil Hero esperto, non c’era nessuno che fosse abbastanza vicino, perché gli attacchi di Ribelli a fini di terrore erano diventati così rari durante l’apogeo di Wing Emperor da non ritenere necessario dislocare gli eroi come poliziotti di pattuglia. Eppure…

Mukuro non sapeva più dove fosse sparita quella maledetta donna: era in un punto dove si snodavano strade e un ponte, in quattro direzioni possibili. Si fermò e riprese fiato, con uno sguardo verso la zona in fiamme che risvegliava in lui i ricordi dell’esercitazione Grandi Incendi, e ancora più foschi i cadaveri di un centinaio di persone che scorrevano via lungo il fiume poco più di un anno prima.

Questo è terrore… è un attacco terroristico.

Non riusciva a capacitarsene, ma era così. Sfilò il cellulare per chiamare Restless e ottenne una risposta immediata.

«L’hai persa.»

«Sì» ammise lui. «Ma Sky Flame ha bisogno di supporto, è…»

«Nel parco piccolo vicino al fiume. Vedo le sue fiammate» fece Restless. «Ho mandato Gravity e Breaker da lui.»

«Hai visto da che parte è andata la bastarda di ghiaccio?»

«No, ma si sta avvicinando un elicottero… e c’è tetto idoneo all’atterraggio vicino a te. Al di là del ponte.»

Mukuro fu tentato di cercare il punto di osservazione del suo compagno di scuola, ma guardò dove gli suggeriva. Non vedeva l’elicottero in arrivo, ma alcuni alti edifici.

«Quello giallo è il dipartimento di microbiologia dell’università. Il capo dei pompieri mi ha confermato che ha un accesso tramite scala antincendio e che gli elicotteri atterrano lì per delle spedizioni tra laboratori.»

«Ma non possono essere dei nostri? Forse viene dal Coordinamento di Yamabushi.»

«Non è il nostro. Non ha numeri identificativi» tagliò corto Restless. «Neanche uno. È un velivolo ombra, senza contrassegni per non essere identificato. Quel coso ha scaricato qui quella merda stamattina presto e sta per venire a recuperarli.»

Non dubitava di Restless quando era così sicuro di qualcosa durante una missione. Aveva imparato a fidarsi di lui com’era successo a Breaker, a Kyoko e poi a tutti gli altri.

«Vado su e lo abbatto.»

«Vai» lo spronò lui. «Ma con sangue freddo, Indigo. Wing Emperor è sveglio, e appena si accorgerà che non sei qui scoppierà il finimondo.»

Mukuro non replicò e chiuse la chiamata con un sorriso, ma durò poco. Anche se stava bene quella donna di ghiaccio non doveva illudersi che l’avrebbe lasciata scappare via senza ricambiare il favore per conto del suo maestro.

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Capitolo 23
*** Unforgettable nightmare ***


 

I tacchi di Glacier Queen preannunciarono il suo arrivo lungo la scala antincendio del dipartimento universitario di Higashiki. L’elicottero senza numeri si avvicinava all’edificio e lei si affrettò a portarsi vicina alla grande H dipinta in giallo, agitando il braccio per farsi vedere.

Attese poco prima che l’assordante rumore delle pale del velivolo riempisse l’aria; uno sportello laterale si aprì, venne gettata una scaletta di corda e lei l’afferrò piazzando un piede sul piolo. Sorrise, convinta che la missione fosse filata via perfettamente liscia, ma l’elicottero non si sollevava. Prima che potesse chiedere spiegazioni al pilota la resistenza della scaletta le svelò il problema; guardò in giù e il suo cuore saltò un battito.

Indigo stava in piedi alcuni metri sotto di lei, sogghignava, tenendo in ostaggio la scaletta con una mano che bastava a trattenere la spinta del motore di un elicottero. I suoi capelli mori erano agitati dal vento ma ciò non gli impediva minimamente di fissarla con occhi che mettevano paura.

«Dove pensate di andare senza salutare?»

Glacier Queen lanciò un avvertimento che era più un grido sconclusionato, ma non servì ad avvertire nessuno: Indigo diede uno strattone poderoso che fece oscillare la scaletta come una battle rope e scosse il velivolo stesso, facendo cadere giù di peso la donna. Con un ghigno ancora più soddisfatto iniziò a riavvolgerla per avvicinare l’elicottero, come fosse cima di una barchetta da pesca.

«Che dici, Donna Ghiaccio? Taglieranno la scaletta e ti lasceranno qui per salvarsi?»

La donna non rispose alla sua provocazione, ma guardava l’elicottero. Mukuro capì subito che stava per reagire e non era disposto a lasciarla decidere.

L’elicottero era abbastanza vicino. Prese la rincorsa, balzò sul coperchio di cemento di un vecchio condotto e saltò in alto; si aggrappò con ferocia al piede dell’elicottero e lo spinse in basso verso il tetto. Il frastuono delle eliche che andavano in pezzi, l’impatto tra metalli e cemento, urla e il motore stesso furono assordanti, ma durarono poco: il velivolo restò accartocciato sul tetto come un animale colpito a morte che emette un verso sempre più debole di agonia.

Glacier Queen era così sconvolta che non pensò di approfittarne per fuggire o per attaccarlo. Puntò su di lui occhi rossi carichi di incredulità, rabbia e – a Mukuro non sfuggì – paura.

«Ma che cosa sei, tu?»

«Sono stanco di voi, sapete?» fece lui, accentuando un tono annoiato. «Wing Emperor ha usato il guanto di velluto con voi, perché è stato un Auris nei tempi bui e quando vi guarda pensa che poteva essere anche lui così. Un Ribelle.»

Il corpo della donna si stava coprendo di brina. Era pronta a difendersi e presto anche ad attaccare, ma Mukuro non stava sottovalutando niente di lei.

«Da poteri straordinari derivano responsabilità straordinarie. Wing Emperor ne è il migliore esempio al mondo» proseguì il ragazzo, osservando il pattino di stazionamento che aveva in mano con la stessa naturalezza di chi controlla un ortaggio al mercato. «Per quel che mi riguarda, io sono dell’opinione che crimini straordinari richiedano punizioni straordinarie. E quello che avete fatto oggi è abietto in maniera straordinaria. Spero che siate pronti a subirne le conseguenze.»

«Sei pazzo? Se ammazzi un altro Ribelle finirai in prigione» obiettò lei, le sopracciglia arcuate dal disorientamento.

«Tu dici? Sono disposto a provarci.»

«Wing Emperor non ti permetterebbe mai di–»

«Wing Emperor non è qui» scandì Mukuro più forte. «Grazie a te. E credimi, quell’uomo è un idiota, ma è il mio papà idiota. Nessuno può toccarlo e pensare che non gliela farò pagare.»

Non aspettò alcun genere di segnale come accade nei film: appena finita la frase scattò in avanti brandendo il pattino come una lancia e colpì in pieno il torace della donna, producendo lo stesso rumore secco e vitreo del ghiaccio che si spezza. Lei volò indietro e un sottile strato di ghiaccio andò a pezzi come una finestra centrata da un sasso. Ne aveva uno strato che le faceva da armatura.

Questa donna è molto pericolosa… può difendersi oltre che attaccare. Posso solo sperare che non riesca a farlo contemporaneamente!

Riprese con un attacco serrato. Era lo stesso tipo di strategia che cercava quando era in allenamento contro Enma, il cui potere funzionava alla perfezione a determinate distanze dall’obiettivo, o che Breaker usava contro di lui sapendo di essere avvantaggiato dalla sua arma e dalla sua esperienza nelle arti marziali.

Colpo dopo colpo, se era necessario spuntarla così, avrebbe demolito lo scudo di Glacier Queen fino a danneggiarla. Non gli importava se per raggiungere lo scopo avrebbe usato più forza dello stretto necessario, non gli interessava che cosa avrebbe potuto dire la commissione disciplinare. Quella donna e il suo gruppo avevano rovinato un giorno importante, avevano terrorizzato persone già ferite da un evento di eccezionale gravità e inflitto delle sofferenze a Kyoya e a Byakuran, e per tutte queste ragioni non si sarebbe tirato indietro, non avrebbe indugiato: l’ultima volta che aveva esitato a dare un colpo di grazia Kyoya aveva rischiato di restarci secco.

Iniziò a capire in cosa consisteva il contrattacco di una remissiva Glacier Queen quando iniziò a sentirsi le mani intorpidite. Lei approfittò di quel singolo momento di distrazione per attaccarlo con una palizzata di ghiaccio alta tre metri e irta di spuntoni, ma riuscì a evitarla data la larghezza modesta e la ragionevole distanza.

Quella bastarda sta resistendo apposta. È come Yamamoto.

Cercava di incastrarlo in una battaglia di resistenza. Lui avrebbe cercato di rallentare i suoi riflessi, lei di raffreddare il terreno e il suo corpo tramite ogni contatto anche indiretto: il pattino dell’elicottero era brinato come un cancello dopo una nottata di freddo intenso.

«Non sei una novellina, tu» osservò Mukuro lanciando via la sua arma di fortuna. «Dove vi nascondete per imparare a usare i vostri poteri così?»

«Sei un pazzo se pensi che dirò qualsiasi cosa.»

«Per quanto mi riguarda desidero far sì che tu non dica mai più una sola parola.»

Non poteva attaccarla direttamente. Senza tuta avrebbe finito col perdere la pelle come Byakuran, o anche peggio, quindi restava solo un’opzione. Come prima nel parco e forte di quel successo, non temeva di fallire.

Gambi e boccioli verdi emersero dal tetto sotto i suoi piedi come serpenti floreali, alcuni germogliarono in fiori di loto bianco, da altri spuntarono foglie ad ombrello tondeggianti. Era inimmaginabile un risultato simile poco dopo la manifestazione nell’arena di allenamento, ma il tetto della facoltà di microbiologia divenne un immenso giardino di loto i cui gambi e fiori avvilupparono Glacier Queen e i resti dell’elicottero come piante carnivore.

«Dovrei catturarti e farti interrogare… ma detto tra noi, cercherò qualcuno di meno rognoso dentro quell’elicottero» disse Mukuro indicandolo col pollice. «Sai, non avevo molta voglia di venire qui oggi… giornata sfortunata, Ice Girl, ma chi è la causa delle sue disgrazie non ha diritto di piangerle.»

La donna emise un urlo di frustrazione e cercò di congelare tutto quello che la toccava, ma ciò non impediva ai fiori di stritolarla.

«Quando capirai che ti sta usando?! Quando capirai che sta usando tutti noi?!»

Ma dopo aver pronunciato il nome di Wing Emperor il fiore bianco l’avviluppò e Mukuro non riuscì a sentirla più. Deciso a lasciarla al proprio destino si voltò per ispezionare l’elicottero, ma si trovò di fronte una dozzina di individui in tuta nera: gli stessi che li avevano circondati nella piazzetta e che erano scomparsi senza lasciare traccia.

«Ancora voi!»

Ebbe la spiegazione, almeno un’intuizione, della natura di quel potere quando le figure sembrarono raddoppiare prima di attaccare in massa contro di lui come una mandria di bisonti inferociti. Seppe che era opera di un solo Ribelle, ma quella carica lo costrinse a difendersi e accadde in modo automatico: un loto bianco lo chiuse dentro i suoi petali, attutì il colpo ma Mukuro ebbe lo stesso sconquasso di un pappagallo dentro una gabbia che rotola per un pendio.

«Uhh… quel bastardo poteva farmi a polpette con questo scherzo…»

Tastandosi la spalla dolorante ponderò quali strategie avesse a disposizione per contrattaccare da solo un avversario in grado di attaccare da più fronti e una bombola di azoto liquido a forma di donna, ma era più a rischio di quanto volesse ammettere.

«Ahia!»

Spostò bruscamente la spalla che sfiorava i petali del loto e con orrore si rese conto che era brinato. Un lembo di tessuto della sua giacca era rimasto attaccato come era successo alla pelle di Ran sulla colonna ed ebbe la certezza che Glacier Queen era vivace abbastanza da provare a surgelarlo dentro i suoi stessi fiori. Strategia che pareva avere buone probabilità di riuscita, perché la temperatura scendeva rapidamente e le sue scarpe si stavano coprendo di ghiaccio come l’erba del mattino di dicembre.

Mi fa fuori se non esco all’istante!

Mukuro caricò il pugno e colpì i petali gelati, ma l’idrorepellenza dei fiori aveva reso quella combinazione fatale, contrapponendo una leggera elasticità alla durezza del congelamento dell’umidità. Colpì con crescente terrore i punti più sottili alla ricerca di quello più debole, mentre ogni parte del corpo che sfiorava la prigione veniva marchiata da bruciature da freddo.

Sentiva ormai poco le estremità quando la mancanza di ossigeno intervenne e un nuovo fiore di loto emerse all’interno di quello congelato; in una fioritura elegante quanto provvidenziale squarciò il vecchio fiore diventato nemico e fece riemergere il ragazzo alla luce piena del sole.

Guardando più giù vide Glacier Queen scintillante e vitrea, come una scultura di ghiaccio lei stessa, e un altro uomo mascherato di stazza imponente. L’uomo che si moltiplicava le dava man forte, e lui sentiva il proprio corpo a malapena.

«Non sarà così facile farmi fuori» soffiò Mukuro con una nuvoletta di fiato condensato. «Questo è il mio terreno fortunato. Non morirò a Higashiki oggi né mai!»

«Dai aria alla bocca come il tuo maestro» commentò lei sprezzante. «Come dici tu, chi è causa della sua disgrazia non ha diritto di piangerla, ma puoi lo stesso maledire la tua arroganza, Indigo.»

L’uomo si moltiplicò in quattro figure identiche che colpirono con violenza la cisterna fissata sul tetto non lontana dai rottami dell’elicottero. L’acqua inondò il tetto e senza che ne capisse la ragione iniziò a ribollire ed evaporare come una sorgente termale.

«Addio.»

Nel vapore si condensò il ghiaccio con il medesimo brillio che aveva visto dentro il museo. Irrigidito dal freddo non poté far nulla per schivarlo e cercò solo di proteggere il volto nell’impatto, che fu gelido e brutale.

Precipitò nel vuoto verso la strada che correva accanto a un cortile dell’università. Cercò di prevedere il proprio punto d’impatto per concentrare abbastanza loto bianco da atterrare sul morbido, ma girava veloce senza il minimo controllo aereo del proprio corpo. Disorientato, urtò qualcosa molto prima dell’asfalto e si trovò in un volo molto più delicato tra le braccia di qualcuno. Vide il cortile e la strada scivolare sotto di lui, con un sospiro di sollievo, poi guardò i capelli bianchi e le ali con un sorriso, prima di accorgersi che non era Wing Emperor.

«Lu… Lucifer…?»

Lui atterrò con la morbidezza di una piuma davanti a una caffetteria sulla strada adiacente e lo piazzò sotto il getto di un fungo riscaldante piazzato lì per i clienti. L’aria calda gli dava dolore e sollievo al tempo stesso.

«Ti senti bene?»

«Io… sì, ma lassù ci sono dei Ribelli…» fece Mukuro, traballante nella posa e nel parlare. «Stavo combattendo per catturarli, ma mi hanno scaraventato di sotto… bisogna salire lassù e riprenderli prima che spariscano!»

«Non è cosa che debba preoccupare te, né me, ora.»

«Come sarebbe?!»

«Hai i sintomi intermedi dell’ipotermia. Devi restare al caldo, non puoi combattere ora.»

Stava per lanciargli una rispostaccia per la quale la signora Kujaku l’avrebbe bacchettato con l’ombrello, poi vide una figura dal costume scuro con le ali, sei ali di colori diversi, salire fino al tetto. Da lì partì una luce verticale, una sorta di fuoco d’artificio senza esplosione, visibile a chilometri di distanza. Mukuro, perplesso, guardò Lucifer sorridere.

«Sandalphon catturerà chiunque sia rimasto lì anche da solo. Al resto penseranno i Civil Heroes.»

Non riusciva a capire il senso di nulla. Scosse la testa, ma il crollo dell’adrenalina della battaglia non aiutò a restare lucido. Non ricordava di aver visto Lucifer al museo e non capiva allora che cosa fosse venuto a fare a Higashiki. Non era un rinforzo, dato che sulla carta quell’uomo non era un Civil Hero ma solo un rappresentante di una manciata di comitati sugli Auris o di ricercatori scientifici. E ricordò l’aria preoccupata di Kyoya.

«Lucifer… che cosa fa qui? Mi pareva avesse detto che sareste ripartiti la sera in cui abbiamo preso quel caffè… una settimana fa.»

«Sì» rispose lui criptico. «È vero. L’ho detto.»

Rimase lì a contemplare il cielo di Higashiki deturpato dal fumo per qualche minuto senza aggiungere un’altra parola mentre Mukuro si sedeva schiena alla veranda della caffetteria. Lì, a causa dell’ipotermia e di una stanchezza incedente, si addormentò e quando Night Hound lo ritrovò Lucifer non era con lui.

 

*

 

Nel buio della stanza Byakuran scostò la tendina e si avvicinò al letto per sedersi sul bordo con circospezione. Allungò la mano per toccare quella di Indigo posata sulla coperta e lui non si mosse.

Sta dormendo…

Iniziò l’ecolocalizzazione, quella forma del suo potere con cui poteva indagare i danni nei corpi che toccava come un radar. In pochi secondi percepì il corpo nella sua interezza, le “macchie” che associava agli ematomi e gli “strappi” della pelle bruciata dal freddo. Rilasciò una piccola parte del suo potere curativo per guarire lo strato profondo dell’epidermide su quelle ferite, ma non le rimarginò del tutto e lasciò la mano del suo allievo.

«Non finisci il lavoro, Ran?»

«Per le scottature è meglio guarire uno strato ogni due o tre giorni» sussurrò mentre si alzava dal letto. «Si evitano macchie rosse e cicatrizzazioni che si sentono al tatto.»

«La tua premura per come sarà la sua pelle al tatto è personale o altruistica?»

Byakuran non rispose e accostò le tende, ma guardò il profilo di Indigo dallo spiraglio. Il senso di colpa lo graffiava dentro il ventre come una bestia feroce che prova a liberarsi. La sua pietosa performance come eroe all’inaugurazione era forse la sua più vistosa figuraccia in carriera, e anche se i media erano stati clementi concentrandosi sull’imprevedibilità dell’attacco e il livello dei Ribelli lui si sentiva umiliato e inutile.

«Non l’ho protetto… non ho potuto fare niente…»

«Hai preso una gran bella botta. Quel tizio ha la forza bruta di un cinghiale ferito.»

«Per la seconda volta ha rischiato di morire a Higashiki e io non sono riuscito a proteggerlo» sentenziò con rabbia. «E questo davanti a mio padre…»

«Quale delle due ti rende più frustrato, Ran?» domandò la voce, in tono annoiato. «Possibile che tu debba sempre trovare nuovi motivi per svilirti e nuove persone da deludere, nella tua testolina?»

«Non che tu abbia mai avuto qualcuno da deludere. Non puoi capire» commentò lui senza ostilità. «Non è nella tua natura, no?»

«Questo è offensivo! Siamo insieme da tanto, ci tengo ai tuoi sentimenti!»

«Bugiardo.»

Byakuran riaccostò le tendine e si allontanò. Vedendo il bollitore elettrico di Scorpion sulla sua scrivania gli venne voglia di qualcosa di caldo da bere e l’accese. Nella penombra non distingueva le scritte e i colori delle bustine di tisane e tè lì accanto, quindi accese il led strategico sopra il tavolino.

«Non mi aspettavo di rivederla. Credevo fosse morta.»

«Heidi, uh?»

«Quando abbiamo bonificato il ghetto non c’era più. Pensavo fosse morta.»

«Sono passati un po’ di anni da quando siamo andati via a quando siamo tornati. Poteva anche esserlo, no? Non stare sempre a crucciarti. Sei tremendamente tedioso quando ti crucci.»

Byakuran ignorò il finto tono implorante della voce e prese una bustina di infuso al mango.

«Forse nemmeno lui è morto.»

«Per essere sicuro che lo fosse dovevi tagliargli la testa quando ti ho detto di farlo, Ran~»

«Non stava a me farlo. Doveva essere processato… e punito. Non doveva… essere un bambino di sei anni a farlo.»

Byakuran strinse gli occhi cercando controllare i propri pensieri, ma sprofondò nella sua memoria più a fondo. Era come essere lì, al piano terra dell’edificio che era ora il dormitorio della classe S, nell’angolo che ora era la sala lettura. Era una serata calda di prima estate, era andato a indagare la fonte dei rumori che non facevano dormire uno dei piccoli, e si era trovato davanti una scena che non riusciva a dimenticare per quanto tempo passasse: il capofamiglia – come si definiva lui – curvo come un lupo feroce su una ragazza sconosciuta. Una ragazza bionda, che aveva delle scarpine gialle, le calze ricamate strappate, e i resti di un abitino bianco e giallo troppo lussuoso per il ghetto. Una ragazza Plumbea.

«Forse non spettava a un bambino, ma lei cosa credi che pensasse? Che un bambino di sei anni era troppo piccolo per sperare che l’aiutasse?»

«Non tormentarmi, te ne prego» esalò sofferente Byakuran, coprendosi gli occhi.

«Perché no? Credevo ti piacesse torturarti.»

«Non sei divertente… non dimenticherò mai quella ragazza. Non farò mai… abbastanza per cancellare quell’errore.»

«Ecco! Vedi, ti piace torturarti. Che importa, dai! Ha fatto fuori tanta di quella gente senza che tu potessi far qualcosa che non mi pare il caso di riservarle un trattamento di favore. Tanto ormai non ce l’ha più con te, Ran, non ce l’ha più neanche con Zakuro.»

Se si era illuso, dopo tanto tempo, di aver superato il trauma più profondo della sua vita dovette ricredersi: bastò sentire quel nome e di riflesso stritolò la bustina nel pugno.

Detestava avere così tanta paura di lui, che era sì un mostruoso individuo ma uguale in ferocia e metodi ad altri che aveva neutralizzato e catturato all’inizio della carriera. A quei tempi in cui i Ribelli erano ovunque ce n’erano fin troppi di bastardi sadici senza scrupoli con donne e bambini Plumbei come bersagli preferiti.

«Ma se è vivo… se… se Zakuro è ancora vivo… dov’è stato per tutti questi anni? Senza un crimine… senza un minimo sospetto? Uno instabile come lui…»

Ricordava un individuo terribile. Ricordava un adolescente che godeva nell’infliggere dolore e nel minacciarne per suscitare paura. Non poteva dimenticare neanche le sue violenze psicologiche, brutali come quelle fisiche, come quando forzava i membri della sua “famiglia” a picchiarsi se era annoiato, a scegliere chi avrebbe digiunato se c’era meno cibo, o li lasciava fuori dall’edificio con il freddo, la neve o la pioggia per tutta la notte se gli disobbedivano.

«Oggi sarebbe un uomo… avrebbe… quarantacinque anni, circa. Non ce lo vedo a cambiare vita… a fingere di essere un buon amico dei Plumbei, a nascondere la sua natura… non è mai stato capace di mascherare. Era una bestia selvatica.»

«Oh sì, uno splendido esempio di dominio dell’istinto~»

«Un’altra parola su di lui in questo tono di ammirazione e ti vengo a prendere in quel magazzino e ti do fuoco.»

«Scusa~»

Byakuran aprì la bustina, la mise in una tazza a caso e versò l’acqua bollente. L’odore speziato dello zenzero gli fece prudere il naso e ciò lo convinse sul da farsi.

«Devo parlare con Kikyo.»

«Sì, è sempre una buona idea. Lui è più sensato di te.»

Spense la luce e si mosse verso la porta, ma si fermò per lanciare uno sguardo carico di determinazione alle tende che coprivano alla vista il letto di Indigo. Non avrebbe permesso a Zakuro – se davvero era dietro quest’ondata improvvisa di violenza – di osare toccare ciò a cui teneva, Indigo per primo. Avesse dovuto armarsi di nuovo dal magazzino sette e finire ciò che aveva lasciato in sospeso quando era piccolo, l’avrebbe fatto senza esitazioni.

 

*

 

Sprofondato nel cuscino e con le palpebre come sigillate dalla colla Mukuro sentì i passi di Byakuran allontanarsi e il leggero scatto della porta che si chiudeva alle sue spalle. Solo un delicato aroma di frutta restò nell’aria dopo il suo passaggio.

Deve parlare con Night Hound… allora di chi era quella voce? Con chi parlava?

La medicina che Scorpion Kiss gli aveva somministrato per farlo riposare era una spietata carceriera e ostacolava anche i suoi pensieri. Passava dal sonno profondo a dei momenti in cui sfiorava la veglia e riusciva a sentire o a pensare qualcosa, come in quel frangente, ma non era lucido abbastanza da concentrarsi.

Heidi… e Zakuro… chi è questo Zakuro? Ran ne ha paura…

Aveva sete ma non aveva abbastanza energie da svegliarsi e raggiungere il bicchiere sul comodino. Stanco per l’inutile battaglia contro i residui del sonnifero decise di cedere e smise di pensare: avrebbe potuto riflettere quando fosse stato davvero sveglio.

Affondò in un sogno bizzarro. Modellato dalle foto che aveva visto alla mostra il campus dell’Accademia era di nuovo il ghetto degli Auris e il dormitorio era fatiscente, un mostro lugubre emerso dalla discarica. Correva dentro per sfuggire alla pioggia e un ragazzo, alto e magro con l’aria malaticcia di chi cresce tanto e mangia troppo poco, sgridava lui e chiunque gli passasse davanti agli occhi scavati.

La parte più strana di quel sogno era il dolore. Quando quel tizio scaricava su di lui ceffoni e calci gli sembrava di sentire veramente il dolore dei colpi anche se offuscato, come indebolito da un potente analgesico; sentì anche i morsi del freddo quando quello lo gettò fuori nella neve.

Che sogno strano… è… è Ran, quello?

Nella sua realtà Mukuro superava ormai il metro e ottanta di altezza, ma nel suo sogno era piccolo come un bambino: stando in piedi guardava sul suo stesso piano un bambino dentro l’edificio che non avrebbe potuto essere altri che Byakuran con quei capelli bianchi e gli occhi viola spalancati per il terrore e lucidi di lacrime.

Dalla bocca gli uscirono parole dolci, una rassicurazione per lui. L’unico effetto fu di farlo piangere più intensamente, aggrappato al bordo di una porta senza battente. Gli si spezzava il cuore a vederlo così piccolo e fragile, così turbato, ma non riuscì a muoversi da dove si trovava anche se voleva raggiungerlo.

Voglio andare da lui… muoviti… fallo! Muoviti!

Nella sua realtà Mukuro strinse il lenzuolo con la mano ed emise un lieve gemito.

«Vuoi davvero tornare da lui?»

Il sogno era cambiato. Il luogo era sfocato e buio, la figura davanti a lui sedeva con atteggiamento informale su qualcosa di indefinito e la sua veste, nera che sfumava le maniche sul rosso e lo strascico sul blu, gli fluttuava addosso come si trovasse sulla luna. Non ne distingueva i lineamenti, se non un sorriso che trasudava malizia.

Voglio tornare da Ran… chi sei tu? Non mi importa.

Se solo fosse stato più lucido Mukuro si sarebbe reso conto di quanto fosse futile lamentarsi di non riuscire a sintonizzare i proprio sogni sul canale che voleva.

«Non hai sofferto abbastanza? Puoi riposare. Puoi aspettare tutto il tempo che serve… prima di tornare.»

«Voglio stare vicino a Ran» disse Mukuro con una vocina sottile, da bambino. «Ha bisogno di me, voglio andare da lui subito.»

«È davvero così interessante questo Ran?»

La figura si passò le dita sul mento, rifletté a lungo. La scena iniziava a sbiadire, perdendo colore e consistenza; mentre tremava Mukuro ebbe l’impressione di aver già sentito quella voce.

«Mukuro!»

Con un respiro profondo Mukuro spalancò gli occhi nell’infermeria e d’istinto afferrò il polso del braccio che lo stava scuotendo, poi riconobbe il viso preoccupato di Tsunayoshi. Con il fiato corto si guardò intorno, confuso, perdendo rapidamente i pezzi di quello che aveva sognato.

«C-che… cosa c’è?»

«Stavi facendo un incubo… non ti svegliavi» fece Tsunayoshi, avvicinandogli il bicchiere. «Bevi un po’… Reborn dice che spesso gli incubi vengono perché il corpo ha una temperatura troppo alta ed è disidratato…»

Aveva la gola asciutta come sabbia e accettò di bere; vuotò il bicchiere a occhi chiusi per concentrarsi sull’incubo, ma afferrò solo pochi brandelli del suo sogno: un Ran bambino, l’aspetto del ragazzo violento a grandi linee e una figura misteriosa con l’abito che veleggiava sul suo corpo. Aveva l’impressione che fosse importante trattenere quei ricordi, ma ora il suo sogno aveva tanti di quei buchi da risultare incoerente e incomprensibile.

«Ti senti bene, Mukuro…?»

«Sì… sì…»

Mukuro guardò Tsunayoshi stupefatto.

«Che cosa fai tu qui? In infermeria?»

«Tenere impegnata la ragazzina lampadina mi ha bruciato il braccio… mi hanno tenuto qui» rispose lui mesto mostrando il braccio fasciato. «Non so che cosa ti abbiano dato ieri ma era una roba bella forte. Sei andato giù come un morto.»

«Davvero…? Non mi ricordo quasi niente…»

«Eri molto agitato… cercavi di dire a chiunque di un tizio con le ali di Wing Emperor, o qualcosa del genere… Scorpion ti ha dovuto sedare perché non volevi startene sdraiato.»

Mukuro si passò la mano sugli occhi.

«Non me lo ricordo.»

«Eri probabilmente confuso… per l’ipotermia, e l’agitazione.»

«Ma lui c’era… era con me mentre aspettavamo i Civil Heroes.»

«Ti ha trovato Night Hound seguendo l’odore… non c’era nessuno con te» replicò Tsunayoshi cauto. «Ha detto che sei svenuto nella veranda di una caffetteria, ti eri messo sotto uno di quei cosi che fanno caldo ai tavoli esterni…»

«Non mi sono messo io lì, mi ci ha portato lui. L’uomo che sembra Wing Emperor, Lucifer.»

«Okay» fece l’altro, accomodante. «Però aspetta di smaltire quella roba… quando torni lucido puoi parlare con le autorità. Anche io devo ancora lasciare la mia deposizione…»

Tsunayoshi aprì del tutto le tendine che separavano i loro letti e sorrise.

«Sono quasi le sei… che ne dici di un latte al cioccolato?»

«Enma non ti ha messo a dieta?»

Il suo sorriso divenne ancora più luminoso.

«Un latte al cioccolato super segretissimo?»

Iniziava a sentirsi più leggero dopo la battaglia, il sedativo, i sogni contorti e la confusione. Con un accenno di sorriso acconsentì.

 

*

 

Pochi minuti dopo Mukuro teneva la tazza di latte e cioccolato in mano e con le tende tutte aperte poteva vedere Kyoya riposare nel letto di fronte, ricoverato come loro due dopo l’incidente del museo. Nel letto accanto Tsunayoshi aveva la sua tazza su un ginocchio e il quotidiano sull’altro.

«Parlano dei Ribelli… abbiamo dato fin troppo spettacolo, era ovvio che avrebbero titolato su di loro.»

Mukuro distolse lo sguardo dal viso addormentato di Kyoya nel letto di fronte e prese il giornale che il compagno di classe gli stava porgendo. La fotografia ritraeva il museo con la colonna di fumo sullo sfondo, ma l’articolo era incentrato sul picco di rivolte degli ultimi mesi. Il fatto che tre incidenti con dei criminali Auris in sei mesi venissero considerati un’emergenza a Mukuro parve un onore al merito di Wing Emperor e del suo operato degli ultimi anni, ma aveva già imparato che la stampa dimentica facilmente quello che ostacola il sensazionalismo.

«Dicono qualcosa di Emperor?»

«Nella prima pagina non si accenna a lui, se non per il fatto che c’era. Non so cosa dicano nelle pagine interne.»

Mukuro prese un sorso di latte caldo e sfogliò l’interno, focalizzandosi su titoletti ed editoriali. Le pagine due e tre erano incentrate sugli incendi che erano apparsi a focolai isolati dall’altro lato del fiume e facevano le dovute supposizioni su chi e cosa li avesse provocati.

«Quegli incendi» esordì Mukuro pensieroso, «erano lontani dalla nostra zona… c’erano altri Ribelli da quelle parti?»

«Da quello che mi ha detto Breaker ieri, sembra siano stati scoppi isolati… contenitori sotto pressione, corto circuiti, cose del genere… ma è strano, no? Magari involontariamente, ma qualcuno li deve aver causati.»

Mukuro sbatté le palpebre mentre girava pagina e l’immagine di Lucifer gli apparve per quell’attimo. Con rinnovata curiosità scandagliò l’intero giornale fermandosi a ogni nome di Civil Hero scritto in katakana, su ogni foto dell’incidente; trovò persino una fotografia di Night Hound che rimetteva in piedi proprio lui, ma l’articolo parlava della sua battaglia per la cattura di uno o più attentatori e non faceva alcun riferimento a chi lo aveva aiutato.

Perché si nascondono? Erano lì e non vogliono che si sappia…

«Gli incendi non hanno fatto vittime, ma tanti danni» osservò mesto Tsunayoshi. «Avrei voluto fare qualcosa in più… se solo Lord of Flames fosse stato lì avrebbe evitato qualsiasi tipo di danno, di sicuro…»

«Andiamo, Tsunayoshi» brontolò Mukuro, buttando da parte il giornale. «Tu lo idolatri anche troppo! È umano come noi, c’è un limite a quello che può fare come c’è a quello che possiamo noi!»

«Forse… ma avrebbe saputo fare più di me… meglio di me. Ha ragione quando dice che non lo raggiungerò mai.»

«Non lo ha mai detto» gli fece notare lui, seccato. «Ha detto che il tuo titolo è immeritato, o qualche altra cosa da gradasso come questa. Che poi, che significherebbe?»

«Parla del mio titolo… del… soprannomechemihannodatodopoildebutto

Tsunayoshi aveva sparato fuori l’ultima parte della frase così veloce che quasi Mukuro non la capì, e il fatto che enfatizzasse la sua bevuta tanto da rovesciarsi del latte addosso bastò a capire che non voleva parlarne.

«Quale soprannome?»

«Niente di importante, è… una sciocchezza.»

«Se uno della Grand Crew che non avevi mai incontrato prima si prende la briga di ricordarselo col cavolo che è una sciocchezza! Avanti, spara.»

«No, credo che…»

«Tsunayoshi, parla.»

«Mukuro, penso che per la nostra amicizia sarebbe importante se–»

«Penso che per la tua vita sarebbe importante che tu parlassi ora» l’interruppe Mukuro. «O mi alzo da questo letto e ti aggroviglio come un gomitolo passato per le unghie del gatto di Restless.»

Il fatto che Tsunayoshi si fosse preso qualche attimo per pensarci su fece capire a Mukuro che la faccenda doveva metterlo davvero a disagio, ma alla fine cedette con un sospiro tremulo.

«Okay… ma non ridere, va bene? Te l’ho detto che è una scemenza…»

«Lascialo decidere a me.»

Tsunayoshi sospirò ancora, prendendo tempo nella speranza che arrivasse una distrazione fortuita, ma non venne. Allora scrollò le spalle.

«Ci fu un’eruzione sottomarina, qualche tempo fa. Ero da poco nella classe S, ma ci andai perché Reborn credeva fosse una buona esercitazione… io e un altro ragazzo, uno appena entrato nel Coordinamento, avremmo solo dovuto aiutare a evacuare la gente dell’isola di Mangetsu, la più vicina al cratere.»

«Sembra facile» ironizzò lui.

«In teoria lo era… caricare gli abitanti sugli elicotteri secondo i soliti criteri. Al resto avrebbero pensato i Civil Heroes del Coordinamento… ma mentre eravamo lì e cercavamo di comporre due file ordinate per l’evacuazione ci fu un’eruzione esplosiva… insomma, da un altro punto del vulcano sottomarino è scoppiata della lava, e ha sparato in aria una grossa roccia!»

Tsunayoshi mimò la sua grandezza allargando le braccia e per poco non versò del latte nel brusco gesto.

«Stava ricadendo sull’isola, e Mangetsu è piccolina. Mi sa più piccola della città dove abitavi tu, o qualcosa di simile, e puntava proprio sul mercato del pesce dove stavamo radunando la gente… la terra tremava, c’era un rumore che… era come Higashiki durante le scosse.»

Mukuro ricordava il boato della terra in movimento e annuì con aria grave.

«Il mio senpai, quel ragazzo, era convinto di poterla distruggere e la colpì, ma non fece altro che romperla, quindi le rocce cadenti erano aumentate» raccontò il ragazzo, scuotendo la testa. «Tutti gridavano, Mukuro. Il mio senpai scappò via dopo aver combinato quel guaio e io ero lì da solo… tremavo dentro di me, tantissimo.»

«Più che comprensibile» lo supportò lui.

«Avevo paura di morire come tutti gli altri, avrei voluto essere ovunque tranne che lì, come loro… ma indossavo un’uniforme, portavo un nome… mi ero assunto un ruolo, capisci? Una responsabilità. E sono salito sul furgone del trasporto ittico lì vicino. Non vedevo un accidenti, piangevo troppo pensando che non avrei rivisto la mamma.»

Capiva bene cosa doveva aver provato un ragazzino alle soglie della morte, o di quella che credeva tale. Sotto il ponte di Higashiki lui pensava a sua sorella Momo e alle preghiere che offriva alle vittime, temendo di diventare una di quelle.

«E poi, Tsunayoshi?»

Essere incalzato lo riscosse dal suo incanto, o piuttosto dall’incubo di quel ricordo spaventoso. Allungò il braccio fasciato come faceva in allenamento.

«Ho sparato. Con tutta la forza che avevo… e superai qualsiasi livello avessi mai raggiunto prima. La pietra si è sbriciolata del tutto, è diventata tutta cenere e… sembrava che nevicasse. Una neve tiepida e grigia su tutta l’isola. Me lo ricordo come fosse ieri, era tutto così surreale… e io ero vivo, e la gente gioiva e si abbracciava e…»

Gli occhi di Tsunayoshi divennero un po’ lucidi mentre sorrideva a quel ricordo.

«Erano vivi, e io ero vivo, ed era merito mio… avevo fatto una cosa giusta. Per una volta non avevo fatto danni, non avevo preso la decisione sbagliata… ero così felice! Quella nevicata di cenere sembrava la cosa più bella di sempre!»

Mukuro si lasciò intenerire dalla commozione del suo amico e sorrise.

«Sembra fantastico… forse un giorno anche io riuscirò a salvare tante persone senza fare danni e a essere felice. Finora ogni mio intervento è stato incastonato di guai e miseria a non finire, mi sa che porto sfiga.»

Bevve l’ultimo sorso di latte al cioccolato, poi ricordò l’inizio di quella discussione.

«Ma quale sarebbe il nesso tra questo e quello che diceva quel tronfio?»

«Ehm… su… sull’isola di Mangetsu ora… ehm, festeggiano l’anniversario dell’eruzione» replicò Tsunayoshi, vago. «E… festeggiano le ceneri… non proprio, cioè…»

Mukuro sollevò la mano e fece scricchiolare le dita con fare minaccioso.

«S-sì, insomma, festeggiano me. Mi chiamano… dio… il giovane dio delle ceneri gentili.»

La voce di Tsunayoshi si assottigliò fino a diventare una sorta di refolo d’aria pur di non farsi sentire; Mukuro invece era colpito… e invidioso.

Questo sì che è un soprannome fighissimo!

«Che… spettacolo» commentò alla fine, incapace di trattenersi. «Stai scherzando, Tsunayoshi? Chiamassero me in questo modo lo farei stampare sul mio maledetto costume!»

«Oh, non dirlo nemmeno! Enma dice che dovrei usarlo per il merchandise quando sarò Civil Hero, ma…»

«Ha dannatamente ragione!»

«Non ti ci mettere anche tu!»

«Oh, dammi una penna! Un… qualcosa! Mi sta venendo in mente una strofa per una canzone, e… ti secca se lo uso?»

«Non metterci il mio nome!»

«Ti darò i diritti, lo giuro.»

«Non li voglio!»

«Ti prego, starebbe proprio bene, senti: se fossi il dio…»

L’apparizione improvvisa di Enma e la sua rara posizione coi pugni piantati sui fianchi convinse Mukuro che la prova della strofa poteva anche attendere. Non gli era mai successo di vederlo così accigliato.

«Siete belli vispi per essere in infermeria da dodici ore» osservò, e lo sguardo andò sulla tazza di Tsunayoshi. «Ma forse sono gli zuccheri che vi danno energia.»

Mentre il dio delle ceneri gentili cercava di smorzare il suo compagno con delle scuse poco credibili Mukuro si mise a tracciare caratteri appena leggibili sul bicchiere di carta, troppo preoccupato di ricordare una strofa di grande effetto per preoccuparsi dei dettagli di un sogno sempre più immerso nell’oblio.

 

*

 

Byakuran restò incerto fino all’ultimo secondo, e man mano che il treno si avvicinava all’impatto con la barricata delle sue bugie – a ogni possibilità persa di evitare la collisione – si agitava sempre di più. Restò in disparte dopo aver dato i comandi vocali e lasciò che fosse Kikyo, con una maschera di pietra al posto del viso, a sollevare il coperchio della cassetta di sicurezza.

Gli bastò aprire un minuscolo spiraglio per capire e la richiuse di scatto.

«Byakuran, che cosa significa questo?»

«Non l’hai nemmeno aperta…»

«Non ne ho bisogno, dannazione, conosco una cosa sola al mondo che non emette odore!»

Kikyo si voltò verso di lui ma tenne le mani sulla cassetta, quasi temesse che ne uscisse un vampiro e lo mordesse mentre non guardava.

«Per l’amor del cielo, Byakuran… mi avevi giurato di essertene sbarazzato dieci anni fa!»

Avrebbe voluto avere delle buone scusanti, ma non ne aveva neanche una.

«Mi dispiace» disse invece.

«Da quanto tempo la nascondi qui?»

«Da quando abbiamo costruito questo magazzino. È sempre stata qui.»

«Qui? Qui, vicino ai nostri studenti?! Ma sei impazzito?!»

«Non può fare nulla… qui dentro… lo sai quanto è sicuro. È molto più sicuro tenerla sotto chiave che là fuori, dove… dove può essere trovata da qualcun altro.»

«Ascoltami, Byakuran. Ascoltami attentamente.»

Non si era aspettato altro che biasimo da Kikyo per quel tradimento e sentiva di essere trattato con fin troppo riguardo. Indigo, per uno sgarbo di pari misura, gli avrebbe torto il collo.

«Quella cosa non ha un odore. Capisci che cosa intendo? Persino per me non ha nessun odore. Non odora di legno, di qualche genere di metallo, di ossa o di qualsiasi altro materiale. Non odora di sangue, di qualcosa di vivo, ma nemmeno di una cosa morta. Capisci quanto sia… spaventoso che tu tenga qui quella cosa infernale? Non appartiene a questo mondo. Che io sia dannato se capisco a quale, ma sicuramente non è di questo.»

«Lo so» fu il solo, mortificato commento di Byakuran.

«E tu l’hai tenuta qui per tutto il tempo… avevi detto di averla lasciata nel ghetto! Almeno questo è vero?»

«No, io… temevo che lui la trovasse. L’ho portata fuori e l’ho nascosta… non l’ho più ripresa, finché non è successo… della Charlotte.»

L’espressione di Kikyo si indurì di rabbia e sofferenza mescolate, ma non aggiunse altro.

«Perché me lo riveli adesso?»

«Io… credo che non sia la sola cosa che credevamo perduta a non esserlo.»

Kikyo fece per replicare, ma prima pigiò il bottone e rispedì la cassa al di là del vetro antiproiettile. La sola esistenza di qualcosa di cui non poteva spiegare la natura bastava a innervosirlo; neanche tarantole che gli zampettavano sulla schiena avrebbero potuto turbarlo tanto.

«Di che accidenti stai parlando?»

«Kikyo, la donna di ghiaccio che ha attaccato al museo… quella che ha combattuto Indigo… era Heidi.»

Kikyo reagì freddamente. Fin troppo.

«Non è possibile.»

«E perché no? Noi siamo scappati dal ghetto!» insistette Byakuran. «Potrebbe essere scappata anche lei quando era piccola! Sono sicuro di quello che dico, Kikyo, ti prego… ti pare che direi qualcosa del genere se non fossi sicuro?»

Anche solo il gesto con cui indicò la cassetta di sicurezza bastò a ferire Byakuran.

«Dopo quello non crederò mai più a qualcosa che mi racconti senza annusare fino all’ultimo ormone che hai in corpo!»

«Allora fallo! Fa’ come ti pare, ma questi non sono i miei stupidi segreti! Se Heidi non fosse sola, là fuori? Cosa facciamo se c’è anche lui?!»

Kikyo strinse i pugni e si costrinse a inspirare profondamente per recuperare la calma.

«Smettila, Byakuran. Sì, era un ragazzo terrificante, violento e ignobile, ma ora siamo adulti! Pensi che potrebbe arrivare nel tuo ufficio e prenderti a calci senza motivo, come quando eri un bambino? Pensi che siamo ancora così deboli da poter solo guardare se osa alzare un dito sui nostri studenti?»

Un groviglio di emozioni complicate impediva a Byakuran di parlare. Aveva ancora paura, perché nella sua mente Zakuro era ancora alto e imponente come lo vedeva quando era un bambino sottopeso, era ancora potente come poteva esserlo un Auris dal potere distruttivo contro dei bambini che a malapena imparavano che cosa faceva il loro gene Oro. Provava ancora rabbia cieca per i soprusi che aveva subito, per quelli inflitti a Kikyo e agli altri bambini della famiglia, per i crimini orribili che aveva commesso contro gli Auris suoi simili e contro i Plumbei più fragili su cui potesse posare le mani.

Non riusciva a elaborare quella massa di sentimenti. Erano una palla irta di spine piantata nell’esofago; non andavano né su né giù. Con suo grande stupore Kikyo lo strinse in un abbraccio forte, che dichiarava silenziosamente tutta la sua volontà di proteggerlo. Non l’aveva più fatto dopo il giorno in cui avevano iniziato a frequentare la scuola media.

«So che hai paura di lui» gli disse piano, battendo la mano sulla sua spalla. «Ma non lo vediamo da allora… se lo guardi con distacco, vedrai un adolescente magrolino e arrabbiato col mondo, un concentrato di frustrazione senza una guida. Se non lo avessi conosciuto, se lo vedessi ora com’era, proveresti soltanto pietà per lui. Non ti farebbe mai paura.»

«Però, lui…»

«E Heidi non era del nostro nucleo famigliare» aggiunse in tono pratico, sottintendendo che ciò chiudesse la questione. «Era della famiglia di Sayo, ricordi? Raccoglieva solo le ragazze. Giravano al largo da Zakuro e non gli starebbe vicina adesso, di certo.»

«S-sì, ma se invece…?»

Kikyo sospirò platealmente. Fu un tuffo nell’adolescenza così vivido che Byakuran ripensò alla sua camera tappezzata di bozzetti e pagine di riviste e ingombra di scampoli di tessuto come la bottega di un sarto, all’onnipresente gatto bianco della signora Nishinogata e alle numerose ramanzine che aveva ascoltato seduto lì dentro.

«Ti piace veramente preoccuparti per niente! Senti, lo sappiamo com’era Zakuro: un gran pezzo di merda. Lo odiavano tutti. Visto che nel ghetto non lo abbiamo trovato durante la bonifica, nove su dieci che è morto» tagliò corto Kikyo. «Hai provato tu stesso ad ammazzarlo, ed è quasi ovvio che ci abbia provato anche qualcun altro dentro al ghetto… e visto come aggrediva le ragazze di fuori è ancora più probabile che qualche parente inferocito lo abbia trovato e ucciso.»

Non era un’ipotesi da scartare: la giustizia sommaria nei confronti degli Auris era una pratica in voga all’epoca in cui erano scappati e sarebbe rimasta tale per qualche anno ancora. Ora che era adulto e aveva una sua famiglia non dubitava che se Zakuro avesse messo le sue luride mani su Yuni o su Amber lo avrebbe fatto fuori senza cerimonie. Era plausibile che qualcuno l’avesse fatto anni fa.

«Non facciamoci prendere dal panico, d’accordo?» insistette Kikyo, più gentilmente. «Se avremo qualche indizio che Zakuro sia vivo faremo quello che ci riesce meglio: proteggeremo le persone. Fino ad allora risolviamo un problema per volta… e se quella donna è Heidi, è il caso che andiamo a parlare con le ragazze.»

Byakuran annuì e riuscì quasi a sorridere alla prospettiva di rivederle. Si sentiva ancora a soqquadro nell’animo, ma la sua mente avrebbe iniziato a razionalizzare, a smontare i ricordi di Zakuro un pezzo per volta fino a demolire la sua invincibilità.

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Capitolo 24
*** City on fire ***


Il monte Fuji era spettacolare con la figura innevata alle soglie del Natale e facendo da sfondo alla bassa skyline della città di Ukihashi rendeva quel panorama perfetto per un paesaggio. Ran si fermò di colpo mentre il treno ripartiva alle sue spalle e armeggiò con il suo smartphone finché non riuscì a scattare tre o quattro foto di quello scorcio per mostrarle a suo padre. Per quanto gli rodesse un po’, Masamune era molto più bravo di lui con il paesaggio architettonico.

Intascò il telefono nella tasca interna di un giacchetto così leggero che aveva fatto irritare il freddoloso Indigo alla sola vista e si mise alla ricerca dell’indirizzo che Kikyo gli aveva dato. Lo fece chiedendo ai passanti, alla vecchia maniera, perché non era ancora abbastanza in confidenza con la tecnologia per pensare di usarla per trovare un percorso per la sua destinazione. Bastò poco, per fortuna: dopo meno di dieci minuti aveva trovato la stradina e in un altro minuto trovò l’ingresso in angolo di una libreria-café con una piccola vetrina.

Passandovi davanti per arrivare alla maniglia della porta scorse titoli di romanzi indiscutibilmente stagionali come “Innamorarsi a Natale”, “L’inverno di noi due”, “Le nevi d’Irlanda” e un libro molto nostalgico per Byakuran dal titolo “Io e te in dicembre”. Sorrise mentre apriva la porta: da giovane – quella che gli sembrava una vita fa – aveva portato Amber al cinema a vedere il film con lo stesso titolo; era una storia romantica ma ricordava di aver ridacchiato e commentato a bassa voce con lei tutto il tempo.

Ai tavolini dell’area caffè erano sedute tre ragazze insieme, cariche di pacchetti infiocchettati, e un uomo da solo che beveva qualcosa assorto nella lettura. L’unica a notare un avventore di indiscussa fama fu la ragazza con il grembiulino beige da cameriera e una folta capigliatura color rosa tulipano, inconfondibile per lui quanto lo era quella bianca di Wing Emperor per i più.

«Oh!» fece lei, così sorpresa che quasi le caddero gli occhiali.

«Ciao, Usagi.»

«Perline! Byakuran!» esclamò la cameriera, e prese ad agitarsi tutta come non sapesse dove nascondersi. «S-sei… non… che… che cosa fai qui?»

Byakuran si trattenne a malapena dal ridere delle buffe esclamazioni di Usagi; nel tempo le aveva quasi dimenticate e non si aspettava che le avesse mantenute anche dopo aver frequentato la scuola.

«Se prendo qualcosa da bere possiamo scambiare due parole al banco?»

Accennò allo sgabello più angolato e intimo della zona caffetteria. Non sapeva la ragione per la quale sembrasse tanto agitata, ma sapere che era venuto per una chiacchierata le fece recuperare la calma. Con allegria e cortesia l’invitò ad accomodarsi e gli offrì la specialità della casa, che suonava così golosa da imporre un assaggio senza se e senza ma.

Sedendosi all’angolo Byakuran poté notare che sugli scaffali, sugli schienali delle sedie e su diversi accessori da bar al di là del banco c’erano simboli di musetti felini. Un peluche a forma di gatto bianco lo scrutava da sopra il registratore di cassa e indispose leggermente il preside dell’Accademia: era uguale ai due gatti della signora Nishinogata, quei due felini che lo avevano sempre usato come un comodino per saltare su e giù dall’armadio della stanza di Kikyo.

Fin da allora non amava molto i gatti.

«Non ti vedevo da quando venisti a vedere la scuola con i corsi di recupero» gli disse Usagi mentre aggiungeva una quantità immorale di granella e zuccherini sulla panna di quel cappuccino. «Sai, quando abbiamo iniziato a studiare…»

«Sono stato fin troppo impegnato… davvero troppo» ammise Byakuran. «Mi dispiace… vi ho abbandonati di nuovo.»

Usagi gli lanciò un’occhiata che non seppe spiegarsi: lo sguardo spaventato e turbato di una bambina che si vede colta in flagrante.

«Non… non dire così, Byakuran» fece lei con uno sforzo di suonare allegra. «Era un posto così… difficile… e tu vivevi con Zakuro, e… doveva essere orribile. Dopo la morte di Micah nessuno vi ha biasimati per essere scappati via…»

Il pensiero di Micah soffocò il suo entusiasmo per quel cappuccino infarcito di goloserie come uno scroscio di pioggia estiva su un falò da campeggio. Prese il cucchiaino ma non fece altro che rigirarlo tra le nocche della mano destra.

«Cos’è successo… dopo che siamo andati via?»

«Zakuro era molto arrabbiato» rispose Usagi, ma l’attenzione con cui lucidava la zuccheriera gli fece sospettare che celasse qualche dettaglio cruento per non farlo soffrire. «Vi ha cercato per qualche giorno… anche fuori. Anche da noi, pensava che vi foste nascosti in un’altra famiglia… e alla fine ha pensato bene di dire agli altri bambini che vi aveva trovato e ucciso, per fargli paura. Così non sarebbero scappati anche loro.»

Tipico di Zakuro.

Si sforzò di prendere una cucchiaiata di panna e confettini, e lo zucchero sulla lingua lo aiutò a calmarsi. Era molto lontano da quei giorni, il luogo dell’orrore non esisteva più, e lui non era più un bambino indifeso.

«Che ne è stato di lui?»

«Di Zakuro? Mi spiace… non lo so. Nessuno lo sa.»

«Come sarebbe?»

«È sparito dal giorno alla notte» fece lei mentre si versava del liquido rosa e fumante da una piccola caraffa, «o meglio, dalla notte al giorno. Mi sa che sono l’ultima che lo ha visto. Era una notte di agosto e l’ho visto camminare da solo al buio, ma c’era la luna e l’ho visto bene.»

«E dove andava non lo sai?»

«No davvero! No, ho solo pensato che andasse a prendere qualche ragazzino o a rubare qualcosa fuori dal ghetto, come al suo solito. Non è mai più ritornato, ma io non ce lo vedo a vivere insieme ai Plu– voglio dire, i non Auris. E tu?»

«Nemmeno io» ammise Byakuran, che sperava in notizie più concrete sul suo decesso. «Probabilmente qualcuno l’ha fatto fuori. Era forte, ma non antiproiettile.»

«E poi si credeva chissà che! Di sicuro non ha provato a nascondersi e non ha pensato di proteggersi dai Pl– non Auris, e pam! Lo hanno fatto stecchito.»

Sottolineò il colpo immaginario con uno schiaffo sul ripiano e Byakuran sorrise malgrado i suoi pensieri ronzanti come vespe. Prese un sorso di cappuccino misto a cioccolata – quello sepolto sotto la panna montata, il caramello e i confettini – mentre lei svuotava la tazzina di infuso che profumava di lamponi con la convinzione di un vecchio minatore che si scola del whisky.

«Tu, invece, ti sei adattata bene» le disse con più dolcezza. «Sembri felice.»

«Perline se lo sono!» fece lei, mostrando indice e medio in un gesto di vittoria. «Sai, è una città piccola, ma mi trattano tutti bene anche se sanno che sono un’Auris… ho tanti amici che non lo sono! Non avrei mai pensato che si potesse fare senza nascondersi, ma tu l’hai reso possibile!»

Usagi fece una risatina sottile, da topolino.

«Il bambino dei miracoli~»

«Oh, ti prego, non dare ai giornali altri soprannomi per me.»

«Ma Sayo-san aveva ragione, no? Diceva che eri il bambino dei miracoli perché sei figlio di una coppia mista, e hai fatto miracoli per davvero!»

Usagi lo lasciò solo coi suoi pensieri per fare il conto alle ragazze che lasciarono il negozio, poi tornò da lui a parlare. In una mezz’ora fu messo al corrente di tutto quello che aveva studiato alla scuola di recupero, seppe quali erano i suoi libri preferiti, dove aveva lavorato durante quegli anni, venne a sapere tutti i dettagli della sua vacanza a Okinawa di due anni prima e, più sorprendente, che era stato il viaggio di nozze dopo aver sposato un Civil Hero di nome Ricochet.

Era il terzo in comando dell’Unità Volanti del Coordinamento e Byakuran lo conosceva da anni, tuttavia non abbastanza bene da sapere che aveva un figlio piccolo con quella che poteva chiamare sua vicina di casa d’infanzia.

«Eccolo, è Kosuke» gli fece lei entusiasta, mostrandogli la foto di un bimbo paffutello. «Fa un anno a gennaio! Tu non hai figli, vero? Ma ho letto sul giornale che ti sei fidanzato con la ragazza che avevi al liceo~»

«Uhm… non era la mia ragazza al liceo, eravamo amici…»

Desiderava fortemente evitare di entrare nell’argomento Amber con Usagi – per molti versi, considerabile la sua primissima cotta per quanto pura – e decise di passare al contrattacco.

«Ma a proposito di amici… non ho più saputo niente di Heidi» buttò lì, fingendosi curioso in modo innocente. «Non era la tua migliore amica, all’epoca? Che le è successo?»

«Oh… Heidi» fece lei, improvvisamente rattristata. «Non siamo più così amiche… sai, lasciò il ghetto anche lei, qualche anno prima che tu cambiassi le cose. Aveva diciassette anni… anche tu, avete la stessa età, vero?»

Byakuran annuì; anche lui ricordava che gli adulti attribuissero loro lo stesso anno di nascita. Nel ghetto le date di nascita, i rapporti di sangue e gli avvenimenti salienti erano conservati nella memoria dei più anziani e dei capifamiglia.

«Beh, andò via… con un uomo, sembra. Lo incontrava alla radura di tanto in tanto, la notte. Non ha mai detto neanche a me cosa faceva, o chi fosse quel tipo, né che voleva andarsene. Se n’è andata e basta, come Zakuro, e non è più tornata. Poi l’ho vista alla scuola di recupero, nell’ufficio delle iscrizioni, ma non abbiamo frequentato insieme, era più avanzata di me…»

«Quindi Heidi è… viva.»

«Beh, lo era fino a quell’anno!»

«Scusa» fece Byakuran, davanti a quell’aria accusatoria di lei, «solo che… non abbiamo trovato traccia di lei quando abbiamo bonificato il ghetto e censito i presenti… non pensavo che lei avrebbe mai lasciato la famiglia. Vi proteggeva come una tigre.»

«Mhh… beh… è pur sempre una donna… a un certo punto avrà voluto… un… un uomo. Una storia d’amore… forse, per una volta, voleva che qualcuno salvasse lei da una vita che sembrava senza speranze…»

Usagi sospirò profondamente.

«Le sarebbe bastato aspettarti per un altro po’… ce l’hai fatta a salvarci, alla fine.»

La coscienza di Byakuran si dimenò, perché sapeva di non essere diventato il salvatore degli Auris per mero spirito di sacrificio. Se quel giorno di gennaio la Charlotte fosse approdata senza problemi forse persino il “salvatore degli Auris” avrebbe pensato alla propria vita e limitato il suo impegno sociale a qualche corteo e petizione.

La suoneria del suo cellulare interruppe il commento della voce maschile nella sua testa alla prima lettera. Byakuran borbottò delle scuse a Usagi e tastò il giacchetto alla ricerca del telefono, poi rispose al numero che riconobbe come una linea dell’ufficio del Coordinamento.

«Generale!» esclamò la voce agitata dall’altra parte. «Finalmente! Non sapevo dove trovarvi, a scuola non–»

«Mi hai trovato» tagliò corto lui, reso nervoso dall’uso di quel suo titolo. «Che cos’è successo?»

«È la ribellione, Generale! Tokyo! I Ribelli stanno devastando Tokyo!»

Il volume del cellulare era abbastanza alto da permettere a Usagi di sentire nel silenzio del negozio. Impallidendo a quelle parole si affrettò a ripescare un telecomando e accese una piccola televisione piazzata in alto. Non ci fu bisogno di cercare: qualsiasi canale trasmetteva le immagini del quartiere Shibuya devastato, con colonne di fumo verso il cielo, strade intasate di automobili incastrate in un grande tamponamento e abbandonate, e immagini di caos tra persone che fuggivano e Civil Heroes locali che tentavano di mettere in sicurezza le zone intorno agli edifici danneggiati.

Byakuran si alzò dallo sgabello.

«Sto arrivando» annunciò all’uomo dell’ufficio. «Contatta tutti i centri della regione, fai convergere a Tokyo tutti i rinforzi possibili.»

«L’abbiamo già fatto, Generale! Disposizioni del tenente Night Hound, signore» si giustificò lui. «È già sul posto e al momento ha il comando delle operazioni. Il tenente ha richiesto formalmente il supporto della classe S per l’evacuazione e della classe A per il presidio del campo, confermo l’ordine?»

Byakuran chiuse gli occhi per un momento, ragionando febbrilmente. Una vasta area metropolitana, centinaia di migliaia di persone da evacuare. Sarebbero stati necessari vari punti di raccolta e di soccorso. I Civil Heroes esperti andavano impiegati nelle zone difficili e contro i Ribelli, quindi Night Hound aveva ragione: gli studenti avrebbero aiutato.

«Confermalo. Li voglio a Tokyo il prima possibile.»

«Sì, signore! Comunico anche il suo arrivo. Tempo stimato?»

«In elicottero sarò lì tra… ventuno minuti circa. Voglio essere ragguagliato sulla situazione appena tocco terra, è chiaro?»

«Sì, signore. Comunico il tempo stimato al tenente.»

Byakuran interruppe la chiamata mentre sentiva l’uomo girare la sua comunicazione via radio. Lanciò uno sguardo a Usagi, che sorrideva pur con gli occhi pieni di paura: aveva fatto sempre così, anche da piccola.

«Devo andare.»

«Sì… Byakuran?»

Stava lasciando dei soldi per il suo caffè non finito e rimase spiazzato quando lei si aggrappò di slancio alle sue spalle, ma nulla a confronto a come si sentì quando gli diede un bacio sulle labbra. Persino la voce nella sua testa emise solo un’esclamazione di stupore.

«Portalo a mio marito~»

«Ma… che… ma come pensi che glielo dia, Usagi?!» sbottò lui, irritato.

«Vuol dire che non lo farai?»

«Certo che no! Che cavolo» borbottò, mentre attraversava il negozio. «Tuo marito ha persino i baffi!»

L’ultima cosa che sentì prima di chiudersi la porta alle spalle fu una risata di Usagi. Sapeva che era spaventata e preoccupata per il marito, ma quella finta allegria era meglio che sentire le consuete raccomandazioni sul fare attenzione e non fare follie, come se i Civil Heroes fossero tali per un desiderio indomito di morire giovani.

 

*

 

Mukuro avanzava tra le auto abbandonate guardando dentro ogni abitacolo – memore del bimbo che aveva trovato a Higashiki – ma non trovando alcun cadavere né infante abbandonato, questa volta.

Alzò gli occhi verso l’orizzonte quando un improvviso colpo di vento lo investì. Erano conseguenze di una battaglia lontana, della quale arrivavano echi fino lì. Le colonne di fumo e polvere che si alzavano dagli edifici crollati, dai principi d’incendio, dai punti di scontro rendevano ancora più cupo il cielo di quel giorno nuvoloso.

Ebbe un momento di cedimento morale e si appoggiò di schiena allo sportello di un suv di un blu brillante, affondò la faccia nelle mani e sospirò profondamente. Passarono pochi secondi prima che il suo compagno di ronda accorresse.

«Mukuro… che succede?»

Abbassò le mani, ma lo scenario intorno era sempre uguale. Lo stesso terrificante odore di distruzione, la stessa luce filtrata dal fumo, e la stessa desolazione di un film dell’orrore post-apocalittico.

«Sono io che porto sfortuna, Tsunayoshi?» domandò, incapace di mascherare lo sconforto. «Mi era parso di capire che attacchi di Ribelli fossero rari… e moderati, ormai.»

L’aria colpevole di Tsunayoshi non sfuggì a Mukuro mentre gli dava un colpetto di conforto sulla schiena.

«Sono sempre stati lì, i Ribelli. Come i ladri, e gli assassini. Bastava che qualcuno prendesse un po’ di coraggio e facesse qualcosa per convincerli a far qualcosa anche loro… è stato Hell Cat, Mukuro, non sei tu.»

Era sensato, ma a quel punto Mukuro si chiese se l’averlo ucciso non avesse aizzato gli animi dei Ribelli. Se non fosse lui, indirettamente, la causa dell’attentato al museo e di quella guerriglia a Tokyo… e di qualcosa che ancora doveva succedere.

«Non diventare paranoico, okay? Su, proseguiamo.»

Mukuro ignorò la mano tesa di Tsunayoshi, ma gli diede una pacca sulla schiena mentre lo superava.

«Da che parte per mantenere la rete?»

Tsunayoshi chiese via radio la loro posizione e venne loro detto di proseguire prima di svoltare a sinistra, e così tirarono dritto. La perlustrazione a rete durante le esercitazioni era “una gita scolastica a caccia di un manichino”, come la definiva Restless quando era costretto a parteciparvi, ma una perlustrazione alla ricerca di reali sopravvissuti da mettere in salvo era molto più snervante e meno divertente delle passeggiate a distanza che facevano nelle arene cercando buffi sacchi di crusca nascosti qui e là.

Dentro la vetrina del negozio di giocattoli vide solo abbandono e qualche robottino che mandava luci. Se quello fosse stato una panetteria, un’edicola o un qualsiasi altro esercizio forse non avrebbe dato peso alla grata del condizionatore aperta e avrebbe ipotizzato che fosse stata smontata e mai fissata per bene… ma quei giocattoli gli avevano riportato alla mente episodi di cui Kyoya parlava riguardo a quelli che Mad Horse gli portava dai viaggi, e ripensò anche a qualcos’altro che raccontava della sua infanzia.

Fece un gesto per attirare l’attenzione di Tsunayoshi sulla grata.

«Ricordi cosa diceva Kyoya di quando era appena arrivato all’Accademia? Sui posti in cui dormiva.»

Tsunayoshi lo guardò sorpreso e passò gli occhi castani da lui alla grata più volte.

«Pensi che…?»

«Non si sa mai.»

Mukuro si piegò sulle ginocchia e abbassò la testa per guardare nel vano del motore del condizionatore. Dapprima non vide niente di distinguibile, poi un paio di occhi rossi brillanti lo fissarono e lo fecero sussultare. Il suo corpo ricordava ancora la sensazione di pericolo e l’associava agli occhi scarlatti della donna di ghiaccio, ma quella non era lei.

«C’è un bambino qui dentro» annunciò al compagno. «Siamo Civil Heroes, non aver paura. Vieni fuori di lì, ti portiamo al sicuro.»

Ma il bambino non si mosse. Lo scrutava con gli occhi fissi e il corpicino immobile come un topo spaventato. In un altro contesto Mukuro sarebbe stato più accomodante, ma non aveva così tanto tempo e allungò il braccio per tirarlo fuori. Tsunayoshi lo bloccò.

«No, non è… faccio io, vuoi?»

Indispettito ma deciso a sbrigarla il prima possibile gli cedette il posto con una riverenza. Tsunayoshi si abbassò al suo posto e sfoderò un sorriso.

«Ehm, ciao» esordì con il suo tono più amichevole. «Mi chiamo Tsuna… e tu?»

Le migliori intenzioni caddero nel silenzio del bambino. Mukuro iniziò a domandarsi se non fosse in stato di shock e come procedere in quel caso.

«Sono un Civil Hero… vedi? Questo è il mio badge! Anche il mio amico ne ha uno» continuò stoico, «ed è un eroe come me. Se vieni fuori di lì ti portiamo in un posto sicuro e presto troveremo mamma e papà…»

Mukuro si guardò intorno sospettoso alla ricerca di qualcosa che potesse spaventarlo che loro non avevano visto, come in un classico dell’orrore, ma Tsunayoshi aveva un approccio decisamente più spensierato.

«Sei incastrato? Aspetta, ti aiuto a uscire… infilo il braccio, okay?»

Mukuro preferì guardargli le spalle che assistere ai suoi tentativi di estrazione, ma in quella zona sembrava tutto abbastanza tranquillo. I primi Civil Heroes intervenuti avevano dato l’ordine di evacuare quattro quartieri per tentare di isolare le zone dove erano apparsi i Ribelli e lì, auto abbandonate a parte, era tutto nella norma.

«Eccoci qui, sei fuo–ahia!»

Mukuro fece appena in tempo a vedere una piccola scheggia scura sparire dietro una Tanto azzurrina, poi guardò Tsunayoshi che si tastava l’avambraccio. Pensò che fosse ferito, ma non vedeva sangue né squarci nel costume.

«Che è successo?»

«Mi ha morso!» si lagnò Tsunayoshi. «Mi ha morso quando l’ho tirato fuori!»

«Ma che… è un bambino!»

«Ma mi ha morso forte!»

«Hai i guanti protettivi!»

«E allora?» fece lui sulla difensiva, alzandosi con l’avambraccio ancora stretto come sanguinasse copiosamente. «Protegge dal calore, ma è sottile!»

Mukuro alzò gli occhi al cielo e si morse la lingua per evitare di sindacare su quanto potesse essere forte il morso di un bambino così piccolo con ancora i denti da latte. Saltò sopra la Tanto per avere una panoramica più completa.

«Frigni parecchio per essere uno che vuole essere come Lord of Flames! Mi aiuti a riprenderlo o devo farlo da solo?»

«A-arrivo! Certo sai essere meschino a volte, sai?!»

«Ha girato di là, seguiamolo, prima che si metta nei guai scappando da noi!»

Proseguirono lenti, controllando sotto ogni veicolo, dentro gli abitacoli poiché quasi tutti erano aperti, e il bambino non era in vista. Tsunayoshi tentava di richiamare la sua attenzione dicendogli qualche frase rassicurante, ma quello l’ignorava, non lo sentiva o non lo capiva.

Mukuro abbassò la visiera e attivò a comando vocale il rilevatore di calore. Non era l’ideale in un luogo con motori, centraline e fonti di calore di matrice meccanica, ma la temperatura gelida aveva raffreddato le auto e gli permetteva di scandagliare i dintorni con abbastanza chiarezza. Dopo un paio di falsi allarmi vide una forma di calore in movimento sgattaiolare via, dritto verso il fronte da cui venivano i rumori di schermaglia.

«Là!» gridò a Tsunayoshi indicando il punto. «Sta scappando, dobbiamo prenderlo prima che si avvicini alla linea di contenimento!»

Entrambi corsero in avanti; Mukuro era più veloce e lo staccò di parecchio ma non se ne accorse concentrato com’era ad alternare la sua visuale libera al visore termico. Aveva maturato l’idea che fosse un piccolo Auris e il fatto che controllarlo con il visore fosse più facile che con gli occhi rafforzava la sua ipotesi.

Un bambino Auris così piccolo… forse si sta formando ora? Forse il morso a Tsunayoshi era…

La piccola figura svoltò dietro una libreria d’angolo dalla tenda colorata. Mukuro gli andò dietro qualche secondo dopo e vide il piccolo rallentare, fermarsi e accovacciarsi, forse troppo stanco per continuare a scappare.

Un inquietante cigolio fu il solo avvertimento. Mukuro fissò gli occhi in alto, poi accelerò verso il bambino: riuscì appena a toccarlo sulla schiena, premette con tutta la forza sulle dita e lo spinse diversi metri in avanti. L’urlo di Tsunayoshi si confuse con il fracasso dell’impalcatura del cartellone pubblicitario che piombava in strada dalla cima dell’edificio, travolgendo Mukuro lungo la sua corsa.

Forse svenuto qualche attimo, forse disconnesso dal corpo per lo shock, perse contatto con la realtà per una decina di secondi. Quando si riebbe Tsunayoshi stava strepitando qualcosa in contatto radio, ma il suono più forte che avvertiva era il respiro pesante che – si sorprese – apparteneva a lui stesso.

Tirami fuori… tirami fuori di qui… non riesco a muovermi…

Riceveva impulsi confusi dal corpo. Sentiva dolore, non molto, eppure non riusciva a muovere neanche un dito. Mentre il corpo si allontanava la mente sembrava più presente, e si chiese con terrore quale fosse il suo stato.

Guardò Tsunayoshi, che era indicibilmente pallido. Teneva le mani in avanti, come volesse far qualcosa ma non sapesse che fare.

«T-Tsunayoshi… sono… sono ancora intero?»

«C-che dici, c-certo che sei… intero… almeno, fuori…»

«Mi sono di nuovo rotto qualcosa, quindi… ma non sento dolore... non sento quasi niente in…»

Le parole gli morirono in gola mentre il lampo della comprensione chiariva tutto. Sentiva dolore alla schiena, ma non sentiva assolutamente nulla al di sotto di quella. Cercò di muovere le gambe, un piede, un dito, qualsiasi parte, ma non ebbe alcuna reazione. Non sentiva più di avere le gambe e fu ovvio che quella volta a essersi rotta era stata la sua colonna vertebrale. Il panico, gelido e strisciante, si impadronì di lui.

«Tsunayoshi… Tsunayoshi, tirami fuori di qui.»

«Non so se ci riesco, Mukuro, è… questa struttura è pesante, non so se…»

«Tirami fuori di qui, Tsunayoshi, ti prego!»

Non riusciva a fermare il flusso di immagini raccapriccianti nella sua testa. Si chiedeva se fosse possibile per un essere umano vivere a metà, come un lombrico. Si immaginava paralizzato a metà su una sedia a rotelle per il resto della sua esistenza, e nel fiore della sua gioventù niente o quasi avrebbe potuto fargli più paura di una menomazione permanente; non poteva concepire di avere una carriera, un’autonomia, una vita sentimentale felice e una relazione sessuale normale con un corpo morto per metà.

Una risata agghiacciante spezzò la spirale oscura che lo stava tormentando, ma suscitò un altro genere di timore: che non ci fosse all’orizzonte alcun “resto della vita” da affrontare da paralitico. Tsunayoshi scattò in piedi in posa da combattimento.

Mukuro non aveva mai visto il tizio che rideva così sguaiatamente della scena raccapricciante che aveva davanti, ma il solo fatto che ne godesse tanto escluse ogni possibilità che potesse essere un Civil Hero: aveva invece l’aria di un avvoltoio – seppur vestito soprattutto di bianco – pronto a sbranare le carcasse sul campo di battaglia. Con orrore Mukuro si rese conto di essere molto vicino alla definizione di carcassa morente.

«Credevo che fossi morto, Xinia» sibilò Tsunayoshi, fissando l’uomo con disprezzo.

«O sei visionario o ti sbagliavi, giovane Flame… oh, che brutta espressione! È troppo informale rivolgersi così al Dio delle Ceneri Gentili?»

«Tsunayoshi… chi è?» sussurrò Mukuro al compagno senza distogliere gli occhi dal losco individuo.

«Una piaga che cammina, ride e ammazza» rispose il ragazzo, a voce abbastanza alta perché lo udisse anche l’altro. «Xinia è un assassino che ama torturare e ammazzare i bambini… e pensavamo fosse morto in un crollo accidentale tre anni fa. Accadde poco dopo il mio debutto.»

«Non ci fu nulla di accidentale in quel crollo, giovane Flame… fosti tu a tentare di ammazzarmi così.»

«Correggerò quel lavoro grossolano oggi, bastardo!» gli gridò contro. «Ci sei tu dietro a questa farsa?!»

«No, la pensata non è stata mia… l’essere appariscenti non è il mio stile» rimbeccò Xinia, quasi offeso che gli venisse attribuito il piano. «Tuttavia, mi sono molto impegnato perché si arrivasse a questo. Non ho rinunciato ad averti, giovane Flame… devi stare nella mia collezione di fiammelle!»

Mukuro non capiva di che cosa stesse parlando, ma gli era chiaro il succo: un Ribelle con una vena sadica aveva Sky Flame come bersaglio e aveva buttato giù il cartellone o per mettere fuori uso il suo partner o perché sperava che Sky Flame stesso ci restasse sotto.

«Mukuro, per favore, resisti… arrostisco un po’ di polipo per colazione, poi ti porterò da Wing Emperor… sistemeremo tutto. Andrà tutto a posto.»

Tsunayoshi avanzò di qualche passo allargando le braccia e fece esplodere fiamme a ripetizione come fuochi d’artificio verso l’alto e non verso il nemico come Mukuro si aspettava, mentre una lingua di fuoco serpeggiava intorno al suo corpo come avesse una vita propria. Benché Lord of Flames trovasse da criticare per Indigo il controllo delle fiamme di Sky Flame era impressionante, e Xinia sembrava concordare con lui, vista la frustrazione che gli provocava vederlo all’opera.

«Ti divertono le stelline?»

«Vieni a prendere in faccia una di queste stelline, vecchio pervertito» lo provocò Sky Flame, con una dose di cattiveria non da lui.

«Sei spaccone come allora, giovane Flame» commentò Xinia, che con quell’orrendo ghigno come paralizzato sulla sua faccia scarna non lasciava capire con chiarezza le sue emozioni. «Sarà un orgasmo poterti dilaniare con i miei tentacoli.»

«Non mi interessano le tue tendenze sessuali, Kraken» tagliò corto il ragazzo, spostandosi apparentemente senza ragione più alla sinistra, «ma di questo puoi essere sicuro: quando ti sposteranno da qui tu e i tuoi tentacoli sarete storia vecchia.»

Una vena vistosa pulsò sulla tempia di Xinia e dalla sua schiena emersero due, quattro, sei e infine otto tentacoli, pallidi ed enormi, con ventose dotate di un dente acuminato nel centro. Mukuro percepì un netto brivido dietro la nuca e alzò la mano per chiamare rinforzi, ma si accorse di non avere più il visore e la trasmittente sulla testa. Dovevano essergli saltati via quando il cartellone lo aveva centrato, ma dove?

Guardò intorno senza trovare nulla che assomigliasse al suo visore, ma incrociò gli occhi rossi di un bambino raggomitolato sotto l’auto con il logo di un’agenzia immobiliare, alla loro destra. Sky Flame si era spostato per essere certo di poter scattare via al primo attacco e non coinvolgere l’amico né il piccolo nello scontro.

Scontro che iniziò immediatamente quando un tentacolo grigiastro si allungò di oltre dieci metri per tentare di stringersi intorno al più forte degli studenti della classe S, che con una fiammata di propulsione schizzò via. Come Mukuro aveva previsto, verso sinistra.

«Sky Flame a Centro di comando! Sensei, mi senti?»

Da quella nuova distanza e con il rumore che quelle disgustose protuberanze provocavano urtando veicoli e abbattendo vetri non riuscì a sentire alcuna risposta, ma dovette averne avute perché comunicò ancora.

«Codice dodici-dodici, Indigo a terra!» gridò mentre atterrava in equilibrio precario su un tettuccio per poi saltar via di nuovo. «Attacco dei Ribelli! Death Kraken è qui, richiedo autorizzazione al massimo potenziale, la vita dell’unità è a rischio!»

Quel numero riportò Mukuro alla realtà che aveva cercato di ignorare. Il codice dodici-dodici era l’ultimo che chiunque avrebbe desiderato sentire, perché si usava per indicare Civil Heroes in estremo rischio di morte e, all’atto pratico, qualche volta per chiamare un soccorso per persone già defunte: non era solo incastrato sotto pali pesanti, era probabilmente tranciato a metà o quasi.

Immagine raccapricciante… eppure, potrei sentirmi tutto sommato abbastanza bene, se fosse così grave?

Non aveva una risposta e temeva di indagarla, così come temeva di chiedersi perché Xinia non sembrasse affatto impensierito dalle comunicazioni di Sky Flame con la base. Non temeva i rinforzi, o contava che qualcuno lo coprisse mentre faceva i suoi comodi?

Radunò la concentrazione e le forze per cercare di sollevarsi, ma nulla al di sotto del suo ombelico rispose alla chiamata. Ormai era certo di avere la spina dorsale rotta, ma tentò comunque di sollevare la struttura con il braccio. La fitta di dolore alla sua schiena fu così violenta da strappargli un grido e tutto il desiderio di tentare di nuovo.

Quando la vista fu di nuovo chiara dopo quel corto circuito di dolore, Sky Flame aveva smesso di svolazzare. Tendeva un sorrisetto arrogante, di chi non teme niente al mondo; per contro Xinia reggeva quel ghigno posticcio su una faccia accartocciata di rabbia.

«Scusa se ti ho fatto aspettare, Kraken. Ora sono pronto a cancellarti dalla faccia della terra per bene!»

L’attacco su tre fronti di quel mostro, se Mukuro fosse stato costretto a dare la sua opinione, l’avrebbe potuto fronteggiare senza danni soltanto Breaker, il più esperto di loro nel corpo a corpo. Pur non perfettamente, accusando uno sforzo della gamba destra, Sky Flame si difese senza venire ferito dai denti di quegli orrendi tentacoli.

Xinia si era fatto più vicino e nel relativo silenzio di quello stallo lo udì provocare a voce non così bassa.

«Sei diventato spavaldo, giovane Flame! La prima volta che ci siamo incontrati ti sei pisciato addosso!»

«Potrai vantartene all’inferno» gli ringhiò di rimando il ragazzo.

«Lo farò… ma prima sarai nella mia collezione…»

Xinia si leccò le labbra sottili con tale voluttà che Tsunayoshi indietreggiò di un passo con una smorfia che non necessitava di spiegazioni.

«Fatti sotto, ragazzino… ti faccio vedere come si uccide un dio.»

Quale che fosse il curriculum di Kraken, Mukuro non dubitò che fosse forte. Combatteva in allenamento con Tsunayoshi da abbastanza tempo per sapere quanto fosse capace di fare sul serio, e quello che gli vide affrontare nei minuti seguenti era il più serrato e rischioso scontro che avesse mai visto.

La massima velocità di Sky Flame era il minimo richiesto per la sopravvivenza, il suo fuoco era già al limite della tolleranza della sua tuta protettiva: si lanciava in attacchi fulminei e decisi bruciando senza esitazione i tentacoli di Xinia che proteggevano il corpo umano che cercava di colpire, veniva allontanato da contrattacchi che evitava con i suoi riflessi molto allenati, poi così com’era iniziato il primo assalto si concluse.

Sky Flame prese le distanze da Xinia ansimando, e indietreggiò fino a Mukuro che poté notare i guanti già intaccati dalla battaglia e il costume che recava alcuni strappi dai quali si scorgeva pelle lesa e sanguinante. In un attacco di frustrazione tentò di nuovo di alzare la struttura, senza risultato se non il dolore.

«Mukuro, resta fermo. Non devi provare a liberarti» gli disse, con un tono serio che gli mise la pelle d’oca. «Credo che avere quella trave di ferro nella schiena sia la sola ragione per cui sei ancora vivo…»

«Che… che accidenti significa?!»

«La trave ti impedisce di spargere i tuoi organi interni in strada, almeno credo. Quindi resta fermo e non spostarla… non so se arriveranno rinforzi per abbattere questo schifoso, ma ovunque si trovi sono sicuro che Emperor ha sentito il codice e sta arrivando. Resisti, d’accordo?»

«Dovrei essere io a dirtelo! Quel pezzo di merda è un osso duro!»

«Sì. È più forte dell’ultima volta che l’ho affrontato… il mio fuoco è più caldo, ma lui è diventato più resistente.»

Tsunayoshi si tastò i guanti malconci e Mukuro, in qualche modo, capì a cosa pensava: era un gesto che faceva ogni volta in allenamento quando era messo alle strette e se ne usciva sempre con la strategia più azzardata possibile.

«Sembra che con te io non possa vincere senza sacrificare qualcosa, Kraken.»

«Comincia con quello che preferisci, giovane Flame… il resto me lo prenderò da solo!»

«Che avido bastardo… iniziamo con un braccio, vuoi?»

Gli puntò contro la mano destra dal palmo aperto e allungò quella sinistra all’indietro, sincerandosi che Indigo non si trovasse sulla traiettoria, ed emise una fiamma dal bagliore arancione morbido. Era una sua vecchia ma affidabile tecnica quella di appoggiare una fiamma nella direzione opposta allo sparo principale per attenuarne il rinculo.

Mukuro l’aveva visto allenarla con zelo in parallelo ad altri usi della sua fiamma, ma anche Xinia la conosceva e non perse tempo: il suo tentacolo si avvolse intorno al guanto rosso e al braccio, affondando i denti acuminati delle ventose nella carne. Sky Flame gemette ma non perse la posizione, forzò l’apertura delle dita della mano e sparò le fiamme con la massima energia che riusciva a incanalare.

L’esplosione di fiamme fu fragorosa e accecò tutti i presenti. Il calore deformò pali della luce, la scala antincendio più vicina e fece scoppiare vetri e gomme di automobili. Mukuro lanciò un’occhiata atterrita verso l’auto con il logo, ma non vide occhi rossi né piccole figure e sperò che fosse corso via, magari verso il campo base. Quando risollevò gli occhi sui contendenti il suo cuore che si era appena consolato un po’ saltò un battito.

Il tentacolo di Kraken era scomparso, bruciato quasi fino alla base che gli usciva dalla schiena, e altri due con i quali si doveva essere protetto erano anneriti dal fuoco. I suoi capelli viola porpora erano spettinati, come arricciati dal calore immenso, e i suoi occhiali avevano le lenti spezzate. Le vene sulla fronte e sulle tempie pulsavano e digrignava i denti così forte da sentirsi a molti metri di distanza.

«Tu… piccolo… bastardo!»

Sky Flame – constatò con angoscia – non era conciato meglio. Ansimava pesantemente, il braccio steso tremava e gocciolava sangue dal gomito. Tutta la manica e il guanto di protezione erano stati inceneriti dallo scoppio e la pelle era bruciata dalle dita fino al bicipite. Il fuoco di Sky Flame, come aveva detto una volta, era molto più divino del corpo che aveva scelto come contenitore e la sua potenza massima l’avrebbe potuto carbonizzare.

Fu una sorpresa per Indigo e per Xinia sentirlo scoppiare a ridere, anche se era una risata mista di dolore, soddisfazione e derisione per l’avversario tenuti insieme dall’adrenalina.

«Posso sparare un’altra volta con questo braccio prima di perderlo… poi mi resta un altro braccio» enumerò Tsunayoshi con la voce che tremava come tutto il corpo. «Spazzerò via tutti i tuoi tentacoli… e quella tua insopportabile faccia…»

«Non se ti strappo via quelle braccia per primo!»

I tentacoli sani si protesero verso Sky Flame, troppo lento per sottrarvisi. Mukuro tentò di muoversi, ma ancora una volta le gambe non diedero il minimo segno di considerare i suoi desideri.

Fu una frazione di secondo in cui lo vide sfiorare il braccio sano di Tsunayoshi, poi qualcosa accadde: la disgustosa estensione animale di Xinia si contorse e si arrotolò alla cieca contro un espositore luminoso di un negozio, accartocciandolo. L’uomo si strofinava gli occhi e arretrava, confuso da qualcosa che non si distingueva.

«Che diavoleria è questa?! Chi di voi… tu… moccioso! Restane fuori e forse ti lascerò vivere!»

Tsunayoshi scambiò uno sguardo sbalordito con Mukuro, poi entrambi guardarono in direzione di un accesso di tosse prodotta da piccola gola, piccoli polmoni… e Mukuro pensò al bambino dagli occhi rossi.

«Sei tu… avrei dovuto aspettarmelo che il bambino di Wing Emperor riservasse delle sorprese.»

Xinia si era ripreso da qualsiasi problema avesse avuto e lo fissava con un ghigno sadico. Almeno non aveva capito che quel silenzioso bambino era in grado di fare qualcosa di strano alle persone e non lo aveva mirato; forse non lo aveva neanche visto dietro la vetrina del ristorante.

Questa volta i tentacoli strinsero senza esitazione il braccio e il collo di Sky Flame. Il ragazzo gridò mentre veniva schiacciato ed emise fiammate dalla mano per cercare di liberarsi, ma Xinia sembrava deciso a stritolarlo ignorando qualsiasi potenziale rischio per quei due tentacoli: gliene sarebbero rimasti tre, più che abbastanza per uccidere un dio senza fiamme e un Bambino Indaco quasi tranciato a metà.

«Allora, Indigo-kun?» l’incalzò lui ridacchiando. «Perché non lo fai ancora? Prova ad accecarmi di nuovo, a paralizzarmi dal dolore… non ci riesci, vero? Se fossi in grado di farlo per bene l’avresti già fatto prima, così il tuo amichetto si sarebbe abbrustolito il braccio con un po’ più di ritorno economico.»

Sky Flame gridò forte mentre un rumore tristemente familiare comunicava a Mukuro che le ossa del suo braccio erano state rotte dai tentacoli. Indigo prese a pugni l’asfalto, impotente, e gli urlò contro insulti dettati da frustrazione. Era così debole che non aveva neanche intaccato il manto stradale con i suoi colpi, ma non gli impedì di minacciare a vuoto Kraken che si avvicinava a passo deciso.

«Non osare… lascialo stare, Xinia, o ti giuro che ti faccio fuori!»

Xinia scoppiò in una risata acuta e allungò la mano ossuta per afferrare il mento di Tsunayoshi.

«Quando, Indigo-kun? Nella prossima vita in cui avrai le gambe, o come spirito persecutorio? Diventerai un ashura?»

Essere derisi davanti a un nemico che giocava con loro come un gatto con degli insetti troppo menomati per sfuggirgli era orribile, forse anche più del senso di impotenza nei confronti della forza della natura. Xinia ignorò le farneticazioni di Indigo e strinse il braccio dilaniato di Tsunayoshi strappandogli un grido debole.

«Grida di più, giovane Flame! Voglio sentire il dolore di un dio che muore!»

E il giovane dio delle ceneri gentili gridò più forte quando l’orrido tentacolo lo strizzò come un giocattolo di gomma e un altro osso da un punto imprecisato del suo torace cedette con uno schiocco; gridò così forte e a lungo che coprì anche il nome gridato con angoscia da Mukuro.

In quel momento non gli importava di niente. Cercò di usare le braccia, anche se in quella scomoda posizione, per liberarsi; non gli importava se facendolo avrebbe sanguinato a morte, sofferto orrendamente o persino separato le gambe dal resto del suo corpo. Non poteva permettere che Tsunayoshi morisse senza far niente per provare a impedirlo e il pensiero di lasciare Kyoya per questa ragione lo fece esitare solo un secondo.

Xinia notò i suoi tentativi di manovra, ma non fece nulla per impedirli. Scagliò per terra Tsunayoshi a poca distanza da lui come volesse mostrarglielo; questi ruzzolò per inerzia e finì disteso sulla schiena. Il suo braccio destro era carne viva a causa delle sue stesse fiamme, l’altro era ridotto male quanto lo era stato quello di Mukuro dopo aver conosciuto da vicino il ponte di Higashiki. I suoi occhi castani erano offuscati, come se stesse per perdere conoscenza, ma li teneva fissi sul compagno.

«I-Indi… go…»

«Mi dispiace» fu la sola cosa che lui riuscì a dire in un soffio, con la voce che tremava. «Mi dispiace…»

«Devo… farlo fuori… Indigo» sussurrò con pesante affanno. «Lui… colleziona bambini… non posso… lasciare che se ne vada…»

«Non c’è niente che possiamo fare, ridotti come siamo!»

Era frustrante, ma innegabile: Death Kraken, abituato com’era a studiare le prede in anticipo, aveva capito come neutralizzarli in modo efficace. Se la linea di contenimento stesse tenendo, dove fosse Byakuran o quanto lontani fossero i soccorsi non era dato saperlo senza un contatto radio. Mukuro si sentiva solo, spaesato e disperato come il primo pomeriggio nascosto sotto il furgone a Kokuyo e desiderava più di ogni altra cosa un’altra mano che gli offrisse aiuto.

Tsunayoshi diede un fiacco colpo di tosse e con suo sommo orrore sputò del sangue. Lo stritolamento doveva avergli leso qualcosa all’interno e se non avesse ricevuto cure in fretta sarebbe morto anche senza un colpo di grazia.

«C’è… qualcosa» mormorò a quel punto il ragazzo, «ma io morirò… e… forse anche tu…»

Morire non era nei piani di Mukuro, soprattutto non ora che iniziava a sentirsi sicuro di sé, con una carriera musicale che sembrava promettente e una famiglia, degli amici e una relazione.

I suoi occhi blu appena offuscati dalle lacrime si alzarono sulla figura di Xinia, che da una distanza di relativa sicurezza li canzonava chiedendosi se stessero pregando per le loro anime. Notare la disgustosa erezione sotto i suoi abiti fece montare una furia vulcanica dentro Mukuro; si sentiva così rabbioso da pensare di riuscire a staccarsi a metà e andare a riempirlo di pugni anche in modalità lombrico.

Questo bastardo… schifoso… sadico perverso!

La paura della morte scomparve del tutto sotto la marea della collera. Mukuro serrò i pugni.

«Fallo, Tsunayoshi! Seppellisci questo bastardo!»

Tsunayoshi venne scosso da un singulto che forse era la dolorosa conseguenza di un tentativo di ridere. Goffamente si rimise in ginocchio con la posa di una bambola di porcellana in frantumi e il suo corpo iniziò a emanare un calore intenso. Ricordava il calore del fungo riscaldante il giorno dell’attacco a Higashiki e Mukuro, in una speranza molto astratta, si chiese se lui sarebbe apparso anche questa volta per tirarlo fuori dai guai.

Il calore di Tsunayoshi cresceva esponenzialmente, più rapidamente di ogni altra volta in allenamento. Divenne quasi intollerabile stargli così vicino. L’asfalto divenne bruciante com’era durante l’estate, gli occhi gli si seccarono; se non si era mai chiesto prima come doveva essere stare appesi sulle braci ardenti si diede una risposta in quel momento.

«Farai un bel botto, vero, Tsunayoshi…?»

Tsunayoshi tese un angolo della bocca in una risposta eroica al sorriso amaro di Mukuro.

«Oh, sì.»

Mukuro allungò la mano sulla strada. Non poteva salvare Tsunayoshi e neanche se stesso, non poteva abbattere il nemico né limitare i loro danni, ma se le loro vite dovevano finire in quel modo tanto valeva che si accertasse che fossero le ultime vittime di Xinia: rilasciò il suo loto bianco sotto l’asfalto e avviluppò a sorpresa la gamba del Ribelle per assicurarsi che restasse abbastanza vicino da godersi i fuochi d’artificio.

«Ma che–?!»

«Allora fallo bene, Tsunayoshi… non voglio che Lord of Flames abbia da lamentarsi di nuovo.»

Tsunayoshi era avvolto da un bagliore che rendeva difficile distinguerne le forme, ma scorse lo stesso un altro genere di sorriso; un sorriso speranzoso da bambino.

«Spero… lo troverà eroico.»

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Capitolo 25
*** Bone to pick ***


Mukuro chiuse gli occhi mentre i tentacoli superstiti del Death Kraken si allungavano contro di loro e si aspettò dolore, un colpo fatale, forse; ma non venne. Udì invece molti colpi come di armi da fuoco, scoppi molto vicini e l’imprecazione del loro nemico mentre si allontanava da loro.

Il calore intenso diminuì, ma era sempre come essere seduti di fronte a un caminetto con fuoco scoppiettante. Sapeva già che non era successo quello che Tsunayoshi prevedeva, ma non osava sperare nei rinforzi; tenne gli occhi serrati per costringersi a restare in quello stato di accettazione dell’inevitabile, ma per diversi secondi non sentì altro che Xinia, lontano, che rantolava.

Si decise ad aprire gli occhi e vide il nemico così distante da non scorgere la sua brutta faccia con chiarezza, ma vide bene un tentacolo troncato che stava rilasciando uno liquido vischioso.

Sussultò quando si accorse di una figura scura che stava sostenendo il torso di Tsunayoshi, poi vide il cappello, la cravatta accuratamente annodata e la fondina della pistola: era Reborn.

«Che diavolo stavi per fare, razza di buono a niente?»

Indigo aveva sempre mal digerito gli insulti a Tsunayoshi visto che era il più potente di loro in termini di potenza distruttiva e versatilità, ma Sky Flame non parve farsi un cruccio delle parole sgarbate del suo tutore e sorrise, posando la testa contro la sua spalla.

«Reborn…»

Sospirò quel nome con un sollievo e una tenerezza sconfinati, che spensero anche le ultime braci di irritazione di Mukuro. Tuttavia quell’arrendevolezza sorprese anche lo stesso tutore, che sollevò le sopracciglia sotto la tesa del cappello.

«Mi dispiace… non sono ancora forte abbastanza… Reborn…» mormorò Tsunayoshi, e chiuse gli occhi. «Puoi salvare il mio amico per me… questa volta?»

La testa di Tsunayoshi ciondolò in avanti e Reborn la sostenne con la mano che non era sul calcio della pistola. Lo scosse leggermente chiamando il suo nome alcune volte, ma aveva perso conoscenza.

Mukuro scorse gli occhi bruni dell’uomo sotto la tesa del cappello e ne ebbe paura per quanta furia esprimevano anche senza che si contraesse un muscolo sul viso; aveva sentito l’espressione “uno sguardo omicida” ma fino ad allora non credeva che quella forma letteraria si riferisse a qualcosa di reale.

Reborn distese Tsunayoshi a terra e gli appoggiò la testa con la stessa premura con la quale avrebbe trattato un delicato oggetto di cristallo, poi si alzò in piedi raddrizzandosi il nodo della cravatta.

«Certo che lo farò, stupido ragazzo» sentenziò glaciale ad voce alta, per farsi sentire da Kraken più che dal suo studente svenuto. «Figurati se ti lascio soffrire di sensi di colpa.»

«Oh, ne avrà» commentò Xinia. «Quando si sveglierà e gli mostrerò i vostri corpi senza vita affogherà nel senso di colpa… e dopo lo ammazzerò.»

«Tu parli troppo» tagliò corto Reborn. «Hai sempre parlato troppo, Xinia.»

«Ah… ci conosciamo?»

Xinia studiò le fattezze di Reborn per qualche minuto e lui restò immobile mentre veniva scrutato. Mukuro si domandò se non prendesse tempo per l’arrivo di altri soccorsi. Man mano che il corpo si intorpidiva confidava soprattutto in un soccorso medico.

Alla fine Xinia spalancò la bocca nel ghigno più largo esibito quel giorno e rise.

«Ma certo che ti conosco, tu sei del tutorato!»

Xinia enfatizzò la sua scoperta con un battito di mani.

«Sì, sì! Dieci anni fa, mi pare… si chiamava Rainbow, vero?»

«Sì, Rainbow. Tienilo a mente mentre muori.»

Alzò il braccio e sparò sette colpi di fila contro il Ribelle che si trincerò dietro le viscide protuberanze superstiti, che erano solo quattro. I colpi non ferirono il corpo principale ma questo non turbò minimamente il professore dell’accademia Auris, che entrasse una seconda arma e sparò altrettanti colpi. Questi però erano diversi: i proiettili lasciavano un’intensa scia luminosa dorata e a metà strada cambiarono traiettoria, curvando in sette direzioni diverse.

Due colpirono i tentacoli staccandone intere parti come fossero state colpite da un fucile a pallettoni, gli altri trovarono i varchi e colpirono il nemico in pieno. Xinia gridò e barcollò all’indietro, con fori sanguinanti aperti sulla gamba, nel petto, nella spalla e una ferita di striscio all’orecchio.

Mukuro non riusciva a capire che cosa fosse successo. Reborn era forse in grado di manipolare i propri proiettili, o erano fatti di una materia che poteva controllare? In realtà non sapeva nulla di certo sui poteri del tutore del suo amico, come in effetti sapeva poco dei poteri dei tutori di tutti. Si sentì negligente a non aver mai indagato.

L’uomo in completo si sistemò la giacca e avanzò risoluto verso il nemico, che pensò saggiamente di fuggire. Al primo tentativo di scattare però cadde a terra facendo scomparire i tentacoli rimasti dietro la sua schiena, da dove sembravano originarsi come un’obbrobriosa parodia di Wing Emperor.

«D’accordo, d’accordo! Arrestami, mi arrendo!» esclamò Xinia, allungando le braccia dai polsi vicini. «Parlerò del piano dei miei alleati con un tuo supe–»

«Non ho intenzione di arrestarti.»

«Troviamo un accordo che vada bene per tutti e due!» ribatté allarmato il Ribelle. «Ci sarà pure qualcosa che vuoi!»

«No. Mi hai preso Rainbow, e ora quello sciocco ragazzo è la mia sola ragione di vita.»

Lo sparo dell’arma parve riecheggiare nell’irreale silenzio che lo seguì. Mukuro non riusciva a staccare gli occhi dal corpo di Xinia e dal sangue che era schizzato dalla sua testa sulla portiera dell’automobile che aveva alle spalle. Non aveva mai creduto che i Civil Heroes della scuola fossero capaci di assassinare qualcuno, persino un Ribelle disgustoso e infame come Death Kraken, con tanta freddezza.

Reborn tornò sui suoi passi riponendo le armi e si inginocchiò accanto a Tsunayoshi, guardando tutto il suo corpo, in particolare le braccia. Toccò con grande delicatezza e senza repulsione la mano bruciata e scosse la testa.

«Sempre troppo tenero… non fosse stato per Indigo lo avresti ucciso in un colpo solo.»

L’uomo premette l’auricolare sull’orecchio sinistro.

«Emperor, se non vuoi due diplomati in meno quest’anno è meglio se ti dai una mossa.»

«Non vi trovo!» protestò la voce dalla radio. «Vi sto cercando per tutto il quadrante sei!»

«I due idioti hanno sconfinato nel quadrante sette» l’informò, e guardò l’area circostante. «Sono davanti agli uffici dell’assessorato all’istruzione, nei pressi della metro. Sai dove sei inciampato la prima volta che ti sei ubriacato al ristorante cinese?»

«Ho capito, non c’è bisogno di dare i dettagli via radio a tutto il Coordinamento! Che cazzo

Mukuro avrebbe anche potuto ridere di questo, ma non finché restavano in due in codice dodici-dodici. Reborn decise di dedicargli un po’ di attenzione e si piegò sul ginocchio mentre studiava la sua schiena – o qualsiasi cosa ci fosse in quella di così serio da cavargli quell’espressione – e il ragazzo preferì non fare domande che potessero angosciarlo ancora di più.

«Chi è… Rainbow?»

Non intendeva sparare una domanda tanto diretta, ma così gli uscì dalle labbra mentre il cervello si affliggeva sulla sua condizione fisica. Reborn si tolse il cappello solo per rimetterselo come prima, guadagnando circa due secondi di riflessione.

«Mio figlio. Era mio figlio» rispose allora, spiazzando Mukuro. «Dieci anni fa venne preso dal Kraken e ucciso, in Inghilterra. Le leggi erano le stesse che c’erano qui prima di Emperor e nessuno fece niente per punirlo. Rainbow era un Auris, e che gli Auris si ammazzassero l’un l’altro non era un problema.»

“Mi dispiace”, “è terribile” e altre frasi di circostanza Mukuro le scartò a priori. Ormai sapeva che, anche se erano socialmente quelle giuste davanti a una perdita inconsolabile, non erano qualcosa che valesse la pena dire.

«Com’era…?»

Gli parve di scorgere l’ombra di un sorriso, ma poi Reborn si chinò sulla struttura e nascose il viso alla sua vista.

«Era un bambino allegro… e goffo. Inciampava di continuo e faceva cadere sempre qualcosa. Aveva otto anni quando il Kraken lo uccise» aggiunse, abbassando un poco la voce. «Un anno dopo lavoravo qui, cercando di aiutare Emperor a creare la giustizia per gli Auris… e ho trovato Tsuna. Stessa età di Rainbow, stesso sorriso. Stessa goffaggine.»

«Ci vedi tuo figlio in Tsunayoshi?»

Reborn non rispose e si avvicinò al suo protetto, controllandogli le pulsazioni dal collo. Mukuro iniziava a sentirsi davvero esausto con il crollo dell’adrenalina e forse – avrebbe preferito non pensarci – una perdita di sangue lenta ma costante. Posò la testa a terra.

«Se è così glielo dovresti dire… è bello sentirsi parte di una famiglia…»

L’uomo alzò gli occhi al cielo e un attimo dopo piombò vicino a loro la figura bianca di Wing Emperor, imponente con tutte le sue ali in bella mostra. Mukuro fece un sospiro di sollievo nel vederlo, ma quando lui posò lo sguardo sul suo figlio adottivo neanche la fuliggine che gli aveva sporcato il viso riuscì a nascondere l’orrore.

«INDI! Santo cielo, sei… fa male, Indi? Come ti senti?»

Mentre si precipitava a controllare le sue funzioni vitali Mukuro tirò un accenno di sorriso.

«Facciamo che salto il sarcasmo e tu mi dici come sto?»

«Anche questo è sarcasmo! Per la miseria» sbottò con uno strascico acuto nella voce. «Persino in queste condizioni riesci a essere irritante! Da non credere! E tu, perché non hai avvisato?!»

«Te l’ho detto di darti una mossa se non li volevi morti» rispose Reborn, impassibile. «Sei tu che ci hai messo un sacco.»

«Dopo faremo i conti, chiaro? Non accetto questo atteggiamento in una situazione di emergenza» lo rimproverò Byakuran, serio. «Vieni qui e aiutami, Indigo rischia la paralisi se perdo tempo a risponderti!»

«Vuol dire che non sono tagliato a metà?» chiese Mukuro, ancora sveglio ma decisamente meno lucido di prima.

«Non del tutto, ma la tua colonna vertebrale sì. La fortuna è che il metallo che l’ha tranciata ha fatto un lavoro pulito e… con il giusto tempismo posso ripristinarla. Ma Indi, non posso prometterti, anche con tutto il mio potere e l’esperienza, che sarai come prima dopo la guarigione. Danni del genere… il corpo normalmente non è in grado di rigenerarsi. Darò una bella spinta per convincere il tuo corpo a provarci.»

Avrebbe dovuto sentirsi disperato, ma al momento sentiva solo la speranza. Pensava solo alle incredibili capacità di Wing Emperor, quelle che l’avevano reso famoso… e non indugiò su foschi pensieri di un futuro da invalido. Strinse gli occhi quando Byakuran gli annunciò che avrebbe sentito dolore e serrò i pugni quando impose a Reborn di tenerlo immobile al momento dell’estrazione della sbarra di metallo.

«I tessuti hanno iniziato a necrotizzare, Indi. Non possiamo aspettare altro soccorso medico. Tu… resisti e basta. Io farò l’impossibile per te.»

Annuì appena. Avrebbe voluto poter stringere una mano amica per avere un po’ più di forza interiore, ma dovette affrontare la paura da solo quella volta: il conto alla rovescia di Byakuran finì con un tremendo picco di dolore che gli strappò un urlo straziante mentre la struttura gli usciva da carne e ossa, poi iniziò a surriscaldarsi com’era successo a Sky Flame poco prima a seguito del processo di guarigione intensiva di Wing Emperor.

Anche se guariva le lesioni il suo potere non aveva un effetto analgesico e il dolore continuò per alcuni minuti; artigliò l’asfalto fino a farsi sanguinare le dita e solo più tardi diventò quasi tollerabile. Ad aiutare la sopportazione arrivò il sollievo di sentire dolore alle gambe, anche se erano troppo intorpidite per capire se riusciva o no a muovere le dita dei piedi.

«Andrà tutto bene, Indi. Resisti un altro po’, hai tanti vasi recisi… ma sei salvo, ce la farai anche stavolta!»

«Il minimo indispensabile… Ran…» ansimò, ancora sudato per la dolorosa operazione. «Tsunayoshi ha bisogno di aiuto…»

«Lo so. Non l’ho dimenticato» asserì lui, così concentrato da suonare quasi ostile. «Ma rischia meno di te e al momento non sente dolore. Un altro minuto di pazienza.»

La notevole apertura alare di Byakuran venne ritirata mentre il calore del corpo di Indigo scemava, poi voltò il ragazzo sul fianco con delicatezza.

«Ehi… Indi, come ti senti? Senti le gambe? Cosa ti fa male?»

Mukuro si prese qualche istante per provare il suo corpo, come fosse una coscienza installata in un corpo robotico. Riuscì anche a sedersi, con difficoltà.

«Io… mi fa male un po’ tutto… grandioso, eh?»

Emise una risata gonfia di emozione al solo pensiero che le gambe gli facessero male, e poter muovere i piedi era un motivo di gioia abbastanza grande da ignorare il sangue che aveva sparso tutt’intorno. Ancora col sorriso lanciò uno sguardo a Tsunayoshi.

«Lui come sta? Per favore, Ran… tossiva sangue, ho paura che qualche osso l’abbia ferito…»

Byakuran annuì e si spostò verso di lui per analizzarlo con un leggero tocco delle dita. Dall’espressione pareva concentrato ma non preoccupato e Mukuro ne concluse che per quanto malmesso Sky Flame non fosse a rischio con la cura del miglior guaritore del mondo. Reborn, nonostante la pretesa di indifferenza, non scollava gli occhi da ogni singolo movimento del professore.

«Sta bene» lo rassicurò Byakuran. «Ho sistemato una piccola lesione… trasportiamolo al campo e i guaritori sistemeranno la bruciatura e le costole nella posizione giusta in pochi giorni. La sua missione finisce qui.»

«Sì. Lo porto io.»

Reborn raccolse Tsunayoshi dalla strada con le dovute precauzioni, ma in ogni caso non era cosciente per sentire alcun tipo di dolore dalle fratture. Con stupore di Mukuro Byakuran si avvicinò a Xinia e controllò il corpo come se il cranio aperto per metà e lo sguardo vitreo non fossero sufficienti a dichiararlo deceduto.

«Lascia perdere quello sterco, Emperor. Ogni secondo che gli dedichi lo togli a qualcuno molto più degno di lui del tuo aiuto.»

Una lieve flessione delle sue sopracciglia bianche tradì che avesse da ridire su quell’affermazione cruda ma non replicò e abbandonò il corpo dove stava. La sua aria pensierosa svanì quando posò gli occhi su Mukuro.

«Ehi! Che cosa pensi di fare?! Non alzarti!»

«Sono già in piedi, no?»

Beh, più o meno.

Mukuro si aggrappò pesantemente al cartello luminoso del menu – che aveva risentito del calore emesso da Sky Flame nella battaglia – per raddrizzarsi. Era stanco e instabile, ma stava in piedi e questo era un bel po’ di luce sulle nere ombre dell’invalidità permanente. Byakuran gli planò quasi addosso e lo afferrò come dovesse atterrarlo in combattimento piuttosto che sorreggerlo.

«Niente sforzi! È finita anche per te la missione, non puoi fare nessuno sforzo finché non avremo modo di fare degli accertamenti in ospedale!»

«Sì, certo» tagliò corto Mukuro, con un’occhiata fugace al ristorante vicino. «Ma siamo arrivati nel settore sette perché stavamo seguendo un bambino… è nascosto qui da qualche parte, credo. Devo trovarlo e portarlo al campo.»

«Lo cercherò io!»

Mukuro sospirò esasperato, poi mise le mani dentro tutte le sacche appese alla cintura del costume di Wing Emperor. Dopo alcune acute proteste balbettate riuscì ad appropriarsi di una delle grosse caramelle di Yuni e vi affondò i denti: era al gusto di ciliegia.

«Che cosa pensi di fare, eh? Non è un’esercitazione! Ti rendi conto che potevi lasciarci le penne?!»

«Certo» bofonchiò con la bocca occupata da un grosso pezzo di gomma rossa. «Con questa starò meglio. Trovo il bambino e torno al campo base, lo prometto.»

«Troverò io il bambino!»

«Mentre parliamo ci sono persone che sanguinano, Ran. Devi andare da loro, e se ci vado io non sarò di alcun aiuto. Lasciami prendere il bambino e torno.»

«Lo troveranno gli altri Civil Heroes» insistette Byakuran. «Altri copriranno il settore. Non trasformare ogni singola missione in un’altra Higashiki, te ne prego!»

Mukuro aveva chiaro in mente il momento in cui aveva promesso a Ran che sarebbe stato più attento, e sapeva di comportarsi in modo imprudente. Immaginare cosa avrebbe potuto dirgli Kyoko, o il resto della classe, gli metteva addosso un urgente desiderio di non farsi trovare dalla classe S.

«Era in quel ristorante… il bambino. Era nascosto lì» fece, quando riuscì a inghiottire. «Fammi controllare lì. Si nascondeva in uno spazietto, potrebbe essersi messo dentro un mobiletto. Se non lo trovo torno dritto al campo e comunico la sua posizione ad Hound.»

Se non fosse stato per il gracchiare continuo di comunicazioni gravi dalla radio nel suo orecchio Byakuran non avrebbe ceduto, ma in quanto protettivo per natura non riusciva a soddisfare un bisogno egoistico a discapito di molti altri. Lottò contro se stesso accigliandosi e mordicchiandosi il labbro, poi premette l’auricolare.

«Sono Wing Emperor. Sono nel settore sette, raggiungo il fronte quattordici in tre minuti.»

Detto ciò gli scoccò un’occhiata tagliente, minacciosa più di ogni altra.

«Controlla il ristorante e fila dritto da Hound, è chiaro? Se tra cinque minuti non ho notizie da lui sul tuo ritorno vengo qui e ti tramortisco per portarti a casa.»

«Credo che quel bambino abbia cercato di salvarci da Kraken… se fosse sveglio Tsunayoshi vorrebbe essere sicuro che sia salvo quanto lo voglio io» mise in chiaro Mukuro, cercando di suonare più calmo e lucido possibile. «Ora vai. Cinque minuti. Promesso.»

Purtroppo l’effetto delle sue parole non fu forte quanto sperava, perché Byakuran spalancò le ali con la faccia di uno che si era già pentito di un pessimo contratto.

«Sono un idiota a farmi incantare da uno che per lavoro fa il paroliere!»

Spiccò il volo verso oriente senza lasciarlo ribattere. Diviso tra irritazione e senso di colpa diede un altro morso alla caramella e intascò quella rimanente per il bimbo, nel caso lo trovasse entro il tempo limite.

 

*

 

Il fumo era ovunque e strisciava pesante lungo le strade come un fiume di nebbia scura. Stremato il bambino trascinava i piedi uno davanti all’altro, tossiva per liberare le vie respiratorie, con gli occhi irritati cercava un rifugio che potesse salvarlo: si aggrappava a ogni speranza per uscire vivo da quell’inferno e sfuggire al fuoco che lo seguiva dappertutto alla stregua di un predatore che segue l’odore di un piccolo animale.

Inciampò mentre attraversava la carreggiata e rimettersi in piedi gli fu possibile solo alla visione di un distributore di merendine: più veloce che poté lo raggiunse e gli si avventò contro, ma non lo smosse di un millimetro. Lo prese a calci e a pugni, gli urlò contro di lasciargli prendere qualcosa, tentò anche di rompere il vetro con una borsetta che raccolse dal marciapiede: fu tutto inutile e il distributore tenne ben stretti i suoi tesori, lontani dalle sue manine avide.

Vinto dalla fame e dalla stanchezza si accasciò, fissando con occhi vacui una merendina con le nocciole al di là del vetro. Era sicuro che se avesse ceduto al sonno non si sarebbe svegliato più. La città era stata attaccata da qualcosa, era tutto deserto, tutto in fiamme, e lui era un bambino affamato fino alla disperazione e completamente solo.

Era così stremato che quando si sentì agguantare e sollevare agitò appena i piedini in aria.

«Finalmente ti ho trovato! Sono in ritardo di tre minuti, per colpa tua mi prenderò una sgridata da paura!»

Sashko riconobbe il volto del ragazzo che lo aveva spinto via e salvato dal crollo del cartellone, quello che era rimasto incastrato lì sotto. Anche se aveva sempre pensato solo alla propria sopravvivenza e classificato gli altri in base all’utilità o al pericolo che rappresentavano, vederlo in piedi gli provocò lo stesso leggero solletico al pancino che provava quando trovava delle patatine fritte.

«Hai sanguinato dal naso… sei ferito?»

Non lo capiva e non riusciva nemmeno a parlare, ma i suoi occhi gli sembravano gentili come quelli dell’uomo biondo con la barba che lo aveva rimesso in sesto dopo essere stato aggredito. Convinto che potesse fare lo stesso lanciò uno sguardo alle merendine, sperando che capisse.

«Okay… okay, non è il momento delle chiacchiere. Prendi questa…»

Il ragazzo con il costume scuro lo mise sul cofano dell’auto più vicina e gli avvicinò alla bocca qualcosa di rosso, una specie di cubetto. Aveva il colore di certe caramelle che aveva rubato in un negozio in California; non aveva lo zucchero intorno ma l’odore di frutta lo persuase ad attaccarla con i denti. Il succo aveva lo stesso sapore di quelle lunghe caramelle rosse intrecciate che era così facile sgraffignare al luna park, ma doveva essere qualcosa di molto più sostanzioso: le energie gli stavano già tornando.

«Così… continua a masticare» gli stava dicendo il ragazzo. «Va meglio, vero? Continua, mangiala tutta… ci allontaniamo da qui, okay?»

E lanciato uno sguardo preoccupato alla massa di fuoco che proseguiva verso di loro lo sollevò senza sforzo e corse via lungo la strada deserta. Non era in salvo e veniva un po’ sballottato nella corsa, ma quella persona gli dava un senso di sicurezza. Pensò che fosse perché lo aveva già visto salvarlo, e guardare nella sua direzione come se si preoccupasse di lui.

Ci sono anche delle persone buone. Deve essere una persona così.

La caduta improvvisa di un lampione sulla strada interruppe bruscamente i suoi pensieri e la loro fuga; nello spavento Sashko inghiottì intero ciò che restava della caramella. Si toccò la pancia con grande delusione.

«Hai un’altra caramella?»

Il ragazzo lo guardò con stupore, ma lui si stupì di più quando gli rispose nella sua lingua senza esitazioni.

«No… sei straniero? Da dove vieni?»

«California» replicò il piccolo.

«California» ripeté incredulo il ragazzo, prima di imboccare una via secondaria a gran velocità. «E come ti chiami?»

«Sashko. E tu?»

«Mukuro» rispose lui distratto, guardandosi intorno in cerca di punti di riferimento, «ma sono un Civil Hero. Puoi chiamarmi Indigo.»

«Mukuro, ho fame. Tanta fame.»

Non gli rispose, molto preso da qualcosa che guardava in direzione del cielo e che gli faceva aggrottare le sopracciglia. Solo quando cambiò strada lo guardò ancora per un attimo.

«Anch’io. Cerchiamo di tornare presto al campo base.»

Era più difficile del previsto: sembrava che qualsiasi direzione prendessero trovassero fumo e fiamme, e Mukuro imprecò più di una volta cambiando strada di slancio.

L’uomo del fuoco non vuole ancora lasciarmi andare via…

Infine superarono un vicolo inondato dal fumo e dall’odore di plastica bruciata, e Mukuro gli tolse la mano da davanti a naso e bocca. Non riconosceva la zona, ma erano arrivati a un fiume. Il ragazzo scavalcò di slancio il muretto e fece scivolando tutto il pendio erboso dell’argine fino in fondo. Sashko sorrise perché lo aveva trovato divertente.

«Tutta la zona è a fuoco» gli disse in inglese mentre lo portava verso una barchetta dipinta in rosso e bianco. «È pericoloso portarti lì in mezzo. Potrebbe crollare qualcosa, o esserci molto fumo.»

«Cosa facciamo?»

Mukuro lo mise dentro la barchetta e la trascinò con una mano verso l’acqua. Camminò dentro il fiume finché l’acqua non arrivò al suo collo e Sashko si sporse per guardarlo, con la sensazione di sapere che cosa stesse per dire.

«Devi aspettare qui, Sashko. Io cerco una strada per raggiungere gli altri Civil Heroes, e dirò a qualcuno dove ti ho lasciato. Verranno a prenderti e ti porteranno al sicuro al campo base… ma ora il posto più sicuro è questo.»

«Non lasciarmi qui da solo.»

«Devo per forza, per salvarti la vita… fidati, okay? Il fuoco non arriverà qui, e il fumo andrà verso l’alto… nasconditi sotto il telone… così. Andrà tutto bene, Sashko. Ti verranno a prendere presto.»

Il ragazzo gli fece un sorriso gentile e una carezza, e anche se aveva i guanti bagnati Sashko la trovò rassicurante. Si nascose ben bene sotto il telone lasciando solo uno spiraglio per guardare il suo soccorritore raggiungere la riva, strizzare i lunghi capelli dall’acqua e correre su per l’argine.

Con l’ottimismo tipico della sua stanchezza si raggomitolò al riparo del telone impermeabile che lo scaldava un po’ e si addormentò convinto che al risveglio il suo brutto periodo sarebbe finito.

 

*

 

Mukuro tossì nell’incavo del gomito, che non riusciva a proteggerlo dall’aria fuligginosa. Avanzava a passo regolare, schivando le auto abbandonate, tenendosi a debita distanza dagli edifici come aveva fatto durante l’esercitazione Grandi Incendi. Purtroppo il suo incubo peggiore era diventato realtà: si trovava in una missione reale in una metropoli devastata dal fuoco come l’inferno nella sua raffigurazione più classica.

Perché… perché il fuoco avanza controvento?

Proseguiva controvento alla ricerca di una linea di soccorritori o persino una battaglia in corso, qualsiasi luogo in cui potesse trovare un Civil Hero in contatto radio con il campo base o con l’Unità Volanti o la Acquatici. Eppure, le fiamme si muovevano dietro di lui e questa peculiarità mise a Mukuro la paranoia che qualcuno in grado di scatenare fiamme lo stesse seguendo.

Lanciò un grido quando il calore fece scoppiare una gomma pochi metri alle sue spalle, ma lo spavento per il rumore improvviso fu nulla in confronto al terrore di vedere una figura immersa dentro le fiamme che divampavano in fondo al viale. Non era una strana illusione ottica: si strofinò gli occhi e la sagoma era ancora dove l’aveva vista, cioè circondata dalle fiamme e completamente indifferente ad esse.

È… che cos’è… quello?

I manipolatori del fuoco non erano così rari tra gli Auris e quello doveva essere uno di loro. Da quella distanza non era in grado di capire se fosse un amico o un nemico, eppure il terrore gli martellava dentro come un tamburo in un ritmo tribale crescente. Ebbe una rapida rievocazione degli stralci del sogno che aveva fatto in infermeria, ma non restò fermo lì per capirlo o per scoprire se quello fosse un avversario: schizzò via di corsa voltando le spalle al fuoco.

Superò un grande incrocio dove si era verificato un tamponamento, ne raggiunse un secondo e alla sua sinistra scorse una squadra con la fascia crociata di viola: guaritori delle unità di soccorso. Fece appena in tempo a sorridere per il sollievo quando ricevette un colpo allo stomaco forte abbastanza da staccargli i piedi da terra e farlo ricadere, senza fiato e senza alcuna idea di cosa l’avesse colpito. Emise un rantolo e allungò la mano verso i soccorritori.

Vi prego… sono qui… il bambino!

Ma nulla di ciò uscì dalla sua gola. Vide un piede nudo di uomo fare un passo vicino al suo viso, alzò gli occhi vedendo uno stinco e un ginocchio con un cicatrice: l’ultima cosa che vide prima che un altro colpo lo tramortisse.

L’uomo nudo si accovacciò e gli sollevò la testa dai capelli, dondolandogliela e mollandola per controllare che fosse davvero svenuto. Tese un ghigno.

«Finalmente l’ho preso.»

Passò il braccio intorno alla vita del ragazzo e lo tirò su come fosse un tappetino arrotolato, incurante del fatto che strisciasse piedi e mani a terra. Allungò il braccio libero verso un ristorante che faceva angolo con delle graziose vetrine adorne di piante e lanterne decorative gialle, ma poi una mano di donna gli sventolò davanti delle cuffie con il visore blu.

«Non dimenticartene, Zakuro.»

«Sì, sì, non rompere!»

Il proiettile di fuoco colpì il ristorante come una granata e lo fece esplodere in un fragore di vetri, il secondo infiammò un furgone commerciale che si ribaltò ostruendo la strada e il terzo, nella direzione opposta, fece esplodere una stazione di servizio con una colonna di fumo nero e fuoco verso il cielo. Fatto ciò, strappò le cuffie di Indigo di mano alla donna e le gettò dentro le fiamme.

«Contenta?»

«Non lo sono mai quando si usano gli innocenti.»

«Se ti dà così fastidio sei dalla parte sbagliata della guerra, Heidi!»

Glacier Queen sostenne con forza il suo sguardo. Quella ragazza non aveva mai avuto davvero paura di lui, non nel modo in cui a lui piaceva, e ciò lo rendeva irritabile più del solito.

«Tu non capisci… tu combatti una guerra in cui ci sei solo tu, Zakuro. Tu contro tutto il mondo.»

Indifferente a quelle tirate filosofiche fece schioccare le ossa del collo piegandolo all’indietro e in quel momento vide una figura alta nel cielo sorvolare la zona. Tese un ghigno mentre pregustava ciò che sarebbe accaduto nei giorni successivi.

«Non è una guerra… è una caccia. E ho l’esca che volevo per la mia preda.»

 

*

 

L’ultima volta che aveva usato una maschera antigas era una memoria legata a un tempo molto buio. Aveva giurato a Kikyo di non aprire mai più quella cassetta di sicurezza e di non mettere mai più una maschera, ma aveva tacitato ogni protesta dell’amico quando al suo rientro all’ospedale da campo aveva saputo che non c’erano notizie di Indigo.

Sorvolò il settore nove scendendo un po’ di quota, ma il fumo non rendeva facile una ricerca dall’alto. Sulla frequenza differenziata gli arrivavano messaggi dai campi allestiti a Tokyo, dalle squadre d’artiglieria e da quelle di soccorso, ma mentre venivano trovati bambini e altri superstiti nessuno di loro era uno studente della sua scuola.

Ma dove sei? Dove ti sei cacciato, maledizione?

Era difficile restare lucidi in quella spirale crescente di ansia, ma cercò di ragionare come avrebbe fatto Indigo, che si affidava alla logica durante le simulazioni.

Il fuoco viene da sud-est… se si è mosso in avanti verso il fronte seguendo quel bambino dev’essersi trovato molto vicino all’incendio.

Curvò deciso intorno a un palazzo dirigendosi verso il mare, perché Indigo si era diplomato con un’eccellente prova Grandi Incendi e sapeva che avrebbe cercato l’acqua se non fosse riuscito ad avvicinarsi al campo base o aggirare le fiamme.

Si abbassò ancora e rallentò per poter cercare con più attenzione attraverso il fumo. Gli sfuggì un’esclamazione di sorpresa quando vide l’argine del fiume; virò e si mise a sorvolarne il corso. Sentiva di essere sulla pista giusta.

«Se ha trovato il bambino lo ha portato nel posto più sicuro» ragionò ad alta voce scandagliando il fiume con gli occhi. «Non rischierebbe di attraversare la città con le fiamme così imprevedibili.»

«Sempre se lo ha trovato, uhm?»

«Fa’ silenzio» tacitò la voce con insolita fermezza. «Non voglio sentirti.»

La voce gli obbedì senza repliche sarcastiche e senza proteste, e qualche secondo dopo il suo cuore ebbe un sussulto: c’era una barchetta quasi al centro del fiume, l’unica in acqua in quel tratto, ed era coperta da un telo o una coperta: una buona protezione di fortuna contro il fumo.

Trovato!

Piombò in una picchiata quasi verticale e la frenò a pochi metri dall’imbarcazione con una spettacolare apertura alare per poi scendere sulla cima della prua con delicatezza, per evitare di rovesciarla. Abbassò bruscamente la maschera antigas e sollevò il telone; incrociò un paio di occhietti rossi molto vispi appartenenti a un bambino, ma non c’era nessun altro lì. Non senza delusione spostò lo sguardo da un angolino all’altro, quasi Indigo potesse nascondersi tra un’asse e l’altra o tra le spire della cima come un topolino.

«Non… non c’è» esalò, mentre la tensione cresceva ancora. «Indi non c’è.»

Il bambino era sporco e fuligginoso come se vivesse dentro i caminetti, ma gli rivolse un sorriso raggiante. Pur stordito Byakuran fece un passo verso di lui, si inginocchiò e lo toccò sulla testa, sul braccio e su una gamba per controllare il suo corpo, ma per quanto debilitato sembrava in salute e senza ferite.

«Sei… il bambino che era nascosto nel ristorante?»

Il bambino tirò il telone cerato sulle spalle come un mantello.

«Posso andare da Mukuro?» domandò il bambino in un inglese dall’accento americano. «Voglio mangiare con lui.»

Non riuscì a capire del tutto il senso di quella frase, ma il piccolo sembrava tutto fuorché un figlio accudito e nutrito e forse era affamato. Era dai tempi del ghetto che non vedeva un bambino così magro e sudicio.

«Hai incontrato Mukuro?» gli chiese con dolcezza, in inglese.

«Sì. Mi ha dato una caramella nutriente» rispose lui, con il sorriso meno allegro. «Mi ha detto di aspettare qui. Che mi venivano a prendere. Dov’è Mukuro?»

Quanto vorrei saperlo…

Si sforzò di sorridere e gli accarezzò la testa. Provava una smisurata fierezza nei confronti del suo Indigo, che dopo un combattimento brutale e un’orrenda ferita era riuscito a trarre in salvo un bambino in modo intelligente, ma l’incertezza riguardo la sua sorte lo attanagliava.

«Ora sei al sicuro… vieni, metti questa sulla faccia, così il fumo non ti darà fastidio» fece, e gli infilò la sua maschera antigas. «Ti porto dove abbiamo radunato tutti… forse Mukuro sarà lì.»

«Okay!»

Con una maschera troppo grande per lui e la faccia tutta scura per la fuliggine sembrava uno strano alieno. Byakuran lo prese in braccio e spiccò il volo senza smettere di guardarsi intorno nella speranza di cogliere un’apparizione di Indigo per le strade o lungo il fiume. Non vide altro che le conseguenze di violenti scontri e di un incendio a malapena controllabile.

Superò la linea dei pompieri che lavoravano insieme ad alcuni Civil Heroes per limitarne i danni e incrociò due squadre di soccorritori sotto il suo comando, ma dalla radio nessuno confermava lo stato di salute del suo figlio adottivo.

Non fare scherzi, Indigo… me l’hai promesso. Hai promesso che non ti avrei perso.

Solo il benessere immediato del bambino che Indigo aveva così fortemente voluto in salvo impedì a Byakuran di scendere a setacciare ogni strada del quartiere di Minato.

 

*

 

Mukuro galleggiava. Dove non lo sapeva, ma aveva la sensazione che tutto fosse molto lontano da lui, tutto tranne il dolore che aveva al petto, come se fosse schiacciato da qualcosa. Le sue orecchie non sentivano nulla che fosse diverso dal battito del cuore e là, con gli occhi chiusi e senza peso, era come fluttuare nello spazio. Se non fosse stato per quel vago dolore sarebbe stato molto piacevole.

«Mukuro… Mukuro, guardami

Mukuro aprì gli occhi con gran fatica e sobbalzò nel vedere che Kyoya era davanti a lui. La sua faccia era molto seria e preoccupata e sentì le sue mani toccargli il viso.

«Mukuro, resisti… ti prego, resta con me.»

«Lascialo andare, Phoenix

Con sforzo indicibile mosse gli occhi per trovare la fonte della seconda voce e vide Yamamoto in piedi alle spalle di Kyoya. Aveva un’aria strana, un viso privo di espressione che non gli riconosceva, una grande freddezza negli occhi.

«È molto più gentile se lo lasci andare

«Non dire assurdità, non lo lascerò andare così!»

«Lo farai solo soffrire se lo trattieni» insistette lui, posando la mano sulla spalla. «Sai che cosa succede a quelli come noi… alla nostra razza quando perdiamo lo status di persone…»

«Mukuro è una persona, Takeshi! La mia persona!»

Mukuro mosse le labbra per dire qualcosa ma ne uscirono solo bollicine. Yamamoto divenne una figura sfocata, il viso di Kyoya rimase nitido per poco di più, poi spalancò gli occhi, si girò sul fianco e vomitò sul pavimento una quantità d’acqua tossendo tanto da faticare a prendere il fiato.

«Bentornato di nuovo, moccioso. Sei stato via un po’, eri in un bel posto?»

Mukuro non aveva abbastanza ossigeno per sprecarlo a rispondere. Alzò con fatica gli occhi sull’uomo. Mise a fuoco i suoi stivali neri, i pantaloni scoloriti e consunti, la canotta resa più scura dall’acqua sul torace muscoloso e più su verso la sua testa di capelli di un rosso intenso tutti scarmigliati e bagnati, gli occhi castani che lo fissavano con disprezzo, il viso volitivo con una corta barba rasata a lunghezze diverse.

L’uomo che l’aveva braccato col fuoco a Tokyo e torturato per ore e ore non se n’era ancora andato da quel lugubre stanzino dalla finestra sbarrata da assi.

«Certo che sei resistente, piccolo bastardo» gli concesse quasi con ammirazione, e si portò la sigaretta alle labbra. «Ho imparato a torturare nel Golgotha, lo sai? I russi sono torturatori che te li raccomando… forse lo san fare anche meglio del Mossad. Ma di sicuro ci son state spie, terroristi e criminali che han parlato prima di te.»

L’uomo si chinò e l’afferrò per i capelli, trascinandolo di peso attraverso la stanza solo per farlo passare sulla grata di scolo, poi l’abbandonò come un sacchetto di spazzatura. Si avvicinò al tavolo appoggiato contro la parete e fumò con aria rilassata, come se non avesse appena affogato più volte un ragazzo in una vasca d’acqua gelida. Lo sentì sfogliare qualcosa per qualche secondo.

«Senti, non è che ci possiamo risparmiare ‘sto giramento?» gli chiese poi. «Perché sai, non mi piace torturarti così. Io vorrei massacrarti senza preoccuparmi che tu possa parlare ancora. Coprirti di ustioni a partire dalle palle e rispedirti al tuo maestro in una scatola mentre rantoli ancora, una cosetta semplice semplice.»

Il torturatore si accovacciò accanto a lui, lo prese di nuovo per i capelli strappandogli un gemito di dolore e gli affondò con violenza l’ago di una siringa nel collo. Le proteste gli morirono in gola mentre vedeva con la coda dell’occhio lo stantuffo spingergli in circolo il farmaco di colore verde brillante.

«Non me ne sono dimenticato nemmeno stavolta, hai visto? E ne ho di scorte, per giorni… settimane, anche. Tu non hai così tanto tempo da vivere, comunque» aggiunse, e piegò il collo per farlo scricchiolare. «Quindi tu resti il mio giocattolo per tutti i giorni che ti restano se non ti decidi a dirmi tutto quello che sai su Wing Emperor, sulle persone che c'ha intorno, su quello che fa e tutto quello che non dice in giro.»

Quello che chiamava UTX non era lo stesso Orosoppressore che aveva preso durante la quarantena della cometa: questo entrava in circolo velocemente, intorpidiva tutte le sue estremità fino alla paralisi scollegandole dalla sua volontà ma non dalle terminazioni nervose con le quali percepiva il dolore o la temperatura. Quella crudele droga rendeva inermi, ma consapevoli del dolore, della stanchezza, dei disagi e dei bisogni come la fame e la sete. Finalmente aveva chiaro che cosa permettesse al famigerato Golgotha di detenere pericolosissimi criminali Auris con poteri diversi senza che si verificassero continuamente incidenti gravi ed evasioni.

«Allora, ragazzino, te lo chiedo di nuovo: vuoi dirmi che cosa sai o tiriamo avanti? Se vuoi continuare va bene, ma io ti sto facendo giocare da sole quattro ore e non ti chiedo di nuovo se vuoi fermarti prima delle prossime dodici. So che è difficile contare con il cervello senza ossigeno, ti aiuto» aggiunse, e gli sbatté la testa contro il pavimento. «Sei abbastanza duro da reggermi per tre volte il tempo che hai tenuto fino adesso? Perché io sono abbastanza duro da tenerti sotto per dodici ore senza dormire, sta’ sicuro. Non dormo quasi mai.»

Mukuro non rispose, anche se aveva una paura mai provata prima. Il suo sguardo scorse sull’orologio appeso alla parete solo per un attimo, ma il suo carceriere lo notò e fece un sorriso maligno.

«So che cosa stai pensando… lo so, piccola volpe. Stai pensando che se riuscirai a resistere abbastanza i tuoi amici ti troveranno e ti salveranno, vero? Stai pensando che se riuscirai a reggere qualche ora riusciranno a liberarti… ma è un’idea del cazzo, moccioso. Non c’è nessuno là fuori a cercarti.»

«Certo che c’è» rispose Mukuro, chiudendo gli occhi per rievocare il volto di Kyoya. «C’è una persona che mi sta cercando di sicuro. Che mi cercherà qualsiasi cosa succeda.»

«Il tuo maestro? Lui non ti vuole, marmocchio… a lui non interessano quelli come te, o come me. Non gli piace circondarsi di assassini, sai? Si crede molto superiore… per lui siamo come insetti orrendi che gli infestano casa.»

La sigaretta ammaccata si era spenta e la riaccese con le dita.

«È sempre stato così, sai? Da quando ha messo su quella maschera di buonismo fa vomitare anche i maiali quando parla di belle cose e belle persone… eroe? Ma figurarsi. Lui non è un eroe, è solo un… come si chiamano? Uno che calpesta le persone per salire più in alto.»

«Arrampicatore sociale?» domandò Mukuro con un filo di voce.

«Ecco, grazie! Proprio quello, uno schifoso arrampicatore sociale! Farebbe qualunque cosa per il potere e se mi venissero a dire che si è fatto scopare da quelli dell’esercito quando era un bambino crederei anche a quello. Non c’è niente che non farebbe per il potere, compreso fingersi il santo che non è.»

«Tu… tu non lo conosci.»

«Al contrario, moccioso. Lo conosco meglio di chiunque. Quello schifoso piccolo ipocrita, se non era per me era crepato ancora in fasce, e lui… ha provato ad ammazzarmi, ci credi? Era alto quanto una lattina di birra, una specie di pulcino spiumato, e ha provato ad ammazzare me!»

Tirò un pugno sul ripiano di metallo che rimbombò come un tuono.

«E per cosa? Lui ha ammazzato per sopravvivere, come me. Si è preso le donne che voleva con il potere che aveva, come me! Che importa se il suo potere sono i soldi e io avevo la forza? È lo stesso!»

«È una vendetta la tua?»

Non sapeva neanche dove avesse trovato il coraggio per dire qualcosa. Forse era solo la speranza che l’uomo si perdesse a inveire contro qualcosa o qualcuno per un’oretta, come succedeva ad Ayaka quando era arrabbiata con il suo professore universitario.

Con suo sommo terrore lui si alzò dalla sedia e si avvicinò abbastanza da guardarlo dritto in faccia dall’alto. Non sapeva quasi niente di quel tizio – se non che doveva essere il misterioso Zakuro di cui Byakuran aveva paura – ma aveva chiaro che amava il potere che derivava dall’incutere paura alle persone.

«Se ti piace avere la lingua in bocca ti suggerisco di non farmi storie sull’immoralità, moccioso.»

«Voglio capire… solo… capire.»

«Capire. Mh.»

Prese un tiro di sigaretta e tornò a sedersi scomposto sulla sedia.

«Okay. Te lo spiego: nella vita vince chi è più duro, moccioso. Incassare è importante saperlo fare, ma devi ribattere. Io lo faccio. Se prendo un colpo lo incasso, ma lo ribatto. Alla lunga non si permette più nessuno di colpire, e questo ti rende il più duro.»

«E Wing Emperor… ti ha tirato un colpo, è così?»

«Quel piccolo pezzo di merda si è permesso di puntarmi una cazzo di arma alla gola!» sbottò lui, indicandosela con il pollice. «E poi è scappato via! Dopo che l’ho fatto stare nella mia casa, che ho diviso il cibo con lui! Era un neonato quando l’ho trovato, non campava da solo!»

Trovava difficile incastrare quell’uomo sadico nell’idea di un affettuoso allevatore di neonati orfani, specialmente sapendo quanto poco Byakuran ci tenesse a ricordare quella figura. Ma per la prima volta ponderò che l’onestà gli potesse essere nemica.

«Non vi siete… mai rivisti, vero?»

«L’ho rivisto tante volte» lo contraddisse velenoso, come fosse offensivo presumerlo, «ma lui non ha mai notato me. Era un marmocchio quand’è scappato, mi sa che non si ricorda più bene che faccia ho. Ma glielo farò ricordare per bene.»

«Forse ora lui apprezza quello che hai fatto per lui» mentì spudoratamente. «Quando ha visto la vita da un altro punto di vista… potrebbe… aver capito che hai fatto molto per lui. Più di quanto non credesse quando era nel ghetto e guardava a tutto quello che avevano al di fuori.»

Le sopracciglia arruffate di Zakuro si arcuarono pericolosamente. Sentire la porta di metallo spalancarsi accese in Mukuro la speranza di evitare altre torture, ma da lì entrò una donna che conosceva e che non ci teneva a rivedere: era la donna di ghiaccio di Higashiki, Glacier Queen.

Heidi… è così che l’ha chiamata Ran… se davvero era lui che ho sentito e non solo un sogno.

La donna era furiosa ed entrò a passo marziale, ma non ce l’aveva con il prigioniero già una volta suo avversario.

«Zakuro! Che diavolo stai combinando?!»

Aveva la conferma del suo più profondo timore: era prigioniero di un uomo che aveva tiranneggiato un Ran bambino tanto che dopo vent’anni suscitava ancora il terrore.

«Ma che vuoi?»

«Perché Indigo è qui? Sai che lui è…»

Si trattenne all’ultimo secondo e lanciò uno sguardo al ragazzo per terra, a sincerarsi che non avesse capito che cosa aveva sulla punta della lingua.

«Lo sai!»

«E allora? D. mi ha dato il permesso di usarlo. Se non importa a lui perché dovrebbe fregarmene a me?»

«No. È fuori discussione!»

Zakuro strinse il collo delicato di Glacier Queen con una sola mano, più che sufficiente a bloccarla. Il vapore che emanava dal punto di contatto fece capire che il ghiaccio di lei la stava proteggendo dal suo calore, ma Mukuro era confuso: pensava che i Ribelli – Zakuro, Glacier Queen, l’uomo che si moltiplicava, la ragazzina lampadina e anche il Kraken – lavorassero insieme secondo piani comuni, ma quei due sembravano ai ferri corti almeno quanto Phoenix e Viperlance.

«Nessuna donna mi ha mai dato ordini» le ringhiò in faccia. «Hai una bella faccia e un bel culo, ma non bastano a comandarmi.»

«Sei uno schifoso, ottuso maiale» ribatté lei in un sibilo. «Lo eri allora e lo sei oggi. Sei l’unico che merita l’indifferenza di Wing Emperor per davvero.»

Invece di ribattere a parole Zakuro scagliò la donna contro il muro con un gesto del braccio, poi il fuoco avvolse tutto dalla punta delle dita alla metà dei suoi scolpiti bicipiti come un’armatura fiammeggiante.

«Fuori dai coglioni, Heidi. Non è mica la prima volta che brucio la pelle di una bella donna, anche se è uno spreco.»

«Non devi ferire Indigo» ribatté lei, fissandolo senza paura. «Ci sono altre esche. Lui è uno di noi, anche se non lo sa ancora.»

Zakuro rimase perplesso e mandò lo sguardo da lui a lei un paio di volte come se cercasse delle somiglianze fisiche.

«Quindi vuoi lui. Sei venuta fin qui per lui?»

«Maddy mi ha detto che eri qui da solo con lui. Ti conosco abbastanza bene da sapere in quale modo arido e ottuso ragioni, per questo sono venuta» replicò lei brusca. «E non me ne andrò senza il ragazzo. Non mi fido a lasciarlo con te.»

Un inquietante sorriso sghembo rese ancora più nefasta l’espressione di Zakuro.

«Ti piacciono i mocciosi! È per questo che fai la maestra, allora? Ti piacciono giovani…»

«Sei più disgustoso di quanto credessi!»

«A te non frega un cazzo del nostro capo!» le urlò lui spazientito. «E non ti frega più niente di Wing Emperor, no? Che ti frega del marmocchio, allora?!»

Di nuovo Heidi guardò verso Mukuro con paura e lui si convinse che Zakuro fosse lì lì per rivelare qualcosa che avrebbe cambiato tutta la prospettiva su quelle rivolte e sul perché era stato preso come ostaggio. Purtroppo, però, non si era sbottonato a sufficienza perché lui riuscisse a sistemare tutti i tasselli.

«Scelta numero uno, Heidi: combatti per portartelo via, ma sai come finirà se ci proverai.»

Zakuro alzò il pollice per enumerare quella prima opzione, anche se le fiamme a guanto rendevano difficile distinguere i movimenti delle singole dita.

«Scelta numero due: porti fuori il tuo culo da qui da sola e scovi il boss, e lui si viene a riprendere il moccioso se è d’accordo con te. Che ne pensi, eh?»

Non attese una risposta: afferrò il braccio di Glacier Queen – che emanò vapore come effetto dello scontro termico dei due poteri – e la spinse con violenza verso la porta di metallo, per poi spedirla fuori con un calcio ben assestato al ventre. La donna urlò qualcosa contro di lui mentre chiudeva la porta sbattendola e un istante dopo quella e venti buoni centimetri di cemento intorno all’infisso erano ricoperti di uno strato vitreo di ghiaccio biancastro.

«Detesto le donne che si credono forti. Pensano sempre che sia un loro diritto dire qualcosa e ordinare come vogliono che facciamo… e quasi sempre non capiscono un cazzo. Le donne sono esseri stupidi, moccioso, fidati di uno che ne ha viste anche troppe.»

Mukuro era un maschio ed era adolescente, ma non aveva dubbi: aveva già incontrato donne petulanti e donne sagaci e coraggiose, come aveva incontrato uomini forti ed eroici e uomini deplorevolmente stupidi e gonfiati di vanagloria. Fare la conoscenza di Zakuro non era che incoronare il peggiore di questi ultimi.

Purtroppo per lui non era nella posizione favorevole per farglielo notare e non era neanche nella condizione di inculcargli la notizia a suon di calci sulla detestabile faccia. E dire che lo desiderava enormemente.

«Quella stupida stronzetta è sempre stata così: stronza e frigida. Non poteva far altro che creare il ghiaccio fredda com’è, e dire che una scopata le farebbe proprio bene… ma lei niente. Bella per quanto è una rompicoglioni.»

Zakuro lo fissò negli occhi nel silenzio che seguì i suoi commenti su Glacier Queen, poi gli strattonò i capelli per sollevargli la testa e tese ancora quel ghigno storto.

«Che cos’è quella faccia, eh? Ho offeso la tua donna, per caso? Mi sa che voi due la sapete più lunga di quello che penso io.»

Sapeva che avrebbe fatto il proprio interesse a starsene zitto, ma non ci riuscì.

«Essere mia nemica non le toglie il mio rispetto come persona.»

Zakuro rimase sbigottito per un secondo o due, come un fotogramma bloccato; poi esplose in una risata che assomigliava più a un latrato che a un suono umano. Schiaffò la mano – di nuovo libera dal fuoco e del tutto illesa – sulla bocca del ragazzo schiacciandolo per terra e piazzò il ginocchio sul suo ventre con tutto il peso del suo corpo massiccio.

«Cazzo, parli proprio come Wing Emperor, moccioso! E questo mi fa proprio incazzare da morire!»

Incapace di muoversi se non per flettere appena le dita o piegare di poco un ginocchio, Mukuro rimase inerme a guardare con terrore la punta di metallo simile a un cacciavite passargli davanti agli occhi finché non la sentì nel suo orecchio.

Lanciò il grido più disperato della sua vita nel palmo della mano del suo torturatore.

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Capitolo 26
*** Long lost comrades ***


L’ultimo team di ricognizione si presentò a Byakuran quando il cielo era già di un nero uniforme. Non emise un fiato alla vista delle cuffie con visore di Indigo deformate dal calore, aveva la sensazione di avere un grosso boccone di pane secco bloccato in gola.

«Mi dispiace, sensei» mormorò Camaro, artefice del ritrovamento. «Non abbiamo trovato altro… ma non ci arrenderemo. Riprenderemo le ricerche appena schiarirà.»

«È… vicino al fiume che l’avete trovata?»

«Non proprio… era a un paio di chilometri, mi pare, dal fiume. Perché? Ha avuto uno scontro lì?» aggiunse il giovane, accorato. «Hanno trovato qualcos’altro? Posso coprire un’area più grande con la mia squadra! Ditemi dove è stato visto l’ultima volta!»

«Sinceramente… Indigo è rimasto coinvolto nello scontro tra Sky Flame e Death Kraken.»

Il nome di quel Ribelle sanguinario bastò a far impallidire anche la pelle olivastra di Camaro.

«Era lui… ho sentito chiacchiere in tutto il campo sul ritorno di Kraken e sulla battaglia, ma… è… è disperso da allora?»

«Sono arrivato sul posto e gli ho curato una brutta ferita» spiegò Byakuran a fatica, gli occhi fissi sui resti delle cuffie. «Avrei dovuto insistere. Avrei dovuto ordinargli di rientrare immediatamente…»

L’espressione di Camaro s’indurì appena.

«Non lo avete fatto, sensei?»

«L’ho fatto, ma… Indigo diceva che c’era un bambino nascosto lì intorno, il bambino che stavano cercando quando sono stati attaccati dal Kraken… Sky Flame me lo ha poi confermato» aggiunse, prevedendo la protesta del giovane. «Stupidamente… gli ho permesso di continuare per trarlo in salvo, mentre io tornavo a soccorrere i feriti… sono stato un idiota.»

Aveva la gola bloccata da un nodo che neanche una cisterna di camomilla avrebbe potuto alleviare, e le silenziose critiche che leggeva negli occhi del giovane non lo facevano sentire meglio.

«Avete fatto un buon lavoro, Camaro. Riposate… e proseguite domani. Ti ringrazio.»

Camaro lottava contro qualcosa che desiderava dire, ma il rispetto della gerarchia ebbe la meglio e si congedò con un inchino, per poi schizzare via in direzione della tenda blu. Non lo sorprese che puntasse subito all’alloggio degli studenti della classe S e di certo stava per andare a consolare Mad Phoenix; sempre ammesso che ce ne fosse modo.

Byakuran rientrò nella tenda del soccorso medico, ma tutto era tranquillo con quei pazienti. Per lui era sempre così: superate le emergenze immediate e scampato il pericolo di morte per i casi gravi subentravano altri guaritori e medici per le cure a lungo termine, a lui restava da offrire le sue rigenerazioni qui e là e osservare.

Si avvicinò al letto in cui quel bambino salvato da Indigo quasi si perdeva per quanto era piccolo, e non vedendo la sua testolina di capelli scuri sul cuscino quasi il cuore gli mancò un colpo. Poi notò che la coperta faceva un bozzo e la sollevò lentamente: il bambino dormiva infilato sotto la coperta con i piedini sotto il cuscino.

Ma che fa…?

Allungò le mani per girarlo, ma prima che lo potesse sfiorare vide una figura con il costume nero entrare nella tenda, con capelli turchesi spettinati e l’aria sfinita; l’occhio non coperto dalla mano era pesto di insonnia ma non mancò di scrutarlo.

«Lascialo stare, Byakuran… tanti bambini dopo incidenti traumatici dormono nascosti sotto le coperte.»

Aveva ragione, e in quel momento aveva questioni più importanti a cui pensare: rimboccò la coperta assicurandosi che restasse un po’ sollevata di lato per fargli respirare aria non viziata e si avvicinò rapido all’amico.

«Hai trovato qualcosa?»

«No» rispose lui secco. «E questo mi fa sospettare. In quanti disastri siamo stati in prima linea, Byakuran?»

«Troppi.»

«E quanti cadaveri hai visto scomparire completamente senza lasciare neanche un arto o un osso? Quanti ne hai visti carbonizzare senza lasciare un residuo? Neanche un forno crematorio può fare tanto.»

Byakuran chiuse gli occhi e si portò la mano alla fronte, ma prima ancora di sfiorarla quell’accenno di capogiro scomparve. Non sfuggì all’acutezza del suo amico.

«Perdonami. Non volevo essere così crudo…»

«Io… so che non volevi. Sei abituato a parlare così con me, di solito non ci sono nostri familiari tra le vittime di un disastro…»

«E non c’è neanche questa volta» replicò Kikyo con tono sicuro. «Se aveva trovato il bambino e lo aveva lasciato sulla barca, perché non ha chiamato aiuto? Potevi arrivare da lui in pochi minuti, o potevo mandare lì Restless e Breaker, che erano in un settore vicino. Breaker poteva superare il fuoco facilmente.»

All’improvviso Byakuran si sentì come non avesse fiato e fissò le cuffie. Era diventato così pallido che a Kikyo non servì neanche il suo naso per capire che qualcosa non andava.

«Che c’è? Cosa… ti è venuto in mente qualcosa?»

«Io… non… cazzo» imprecò a denti stretti. «Cazzo, cazzo, cazzo!»

Strinse le cuffie tra le mani contro la fronte e si accartocciò come un ragno che muore. Kikyo si abbassò e gli scosse la spalla, impaziente.

«Che c’è? Dannazione, Byakuran, parla!»

«Non le aveva» soffiò dopo una dolorosa pausa. «Quando l’ho lasciato lì e sono partito per Minato non aveva le cuffie… non… non ho controllato che le ritrovasse, o che funzionassero.»

Emise una risata amara e acquosa, mentre una sola lacrima gli scendeva dall’occhio sinistro.

«Non imparo mai… non imparo mai a fare la cosa giusta sotto pressione…»

«Ehi, basta. Non fare così» gli intimò l’amico, scrollandolo. «Se là in alto ci fosse un dio, soltanto lui riuscirebbe a capire quante cose uno come te dovrebbe notare, considerare e fare in un macello come quello di oggi. C’era una situazione di emergenza, quasi tutti gli altri Civil Heroes usano auricolari miniaturizzati dentro l’orecchio: non è così assurdo che tu non abbia pensato al fatto che non potesse comunicare.»

Quando chiuse gli occhi scesero lacrime anche dall’altro lato, ma questa volta sentì il pollice di Kikyo asciugarle.

«Ho detto basta, okay? Ci sono un sacco di cose che non quadrano, e secondo me queste cuffie non significano niente. Anzi, se davvero non le ha raccolte e sono arrivate laggiù, vuol dire che qualcuno ce le ha portate con una ragione.»

«E quale?»

«Il fatto che a scoppiare proprio lì accanto sia stato un distributore di benzina vicino a un discount di detersivi non ti suggerisce niente?»

Byakuran guardò Kikyo con emozioni frullate insieme come l’orrore, la speranza e la paura.

«Vuoi dire che…»

«Tutte sostanze che, se bruciate, liberano esani nell’aria impedendo al più prodigioso Auris cercatore del mondo di trovare la minima traccia dell’odore di un ragazzo» puntualizzò Kikyo indicandosi con entrambe le mani. «E proprio lì, cuffie bruciate e nient’altro. Non ci sono neanche delle tracce di sangue o capelli, qui sopra!»

«Vuoi dire che qualcuno lo ha preso, lì fuori?»

Il panico gli cresceva dentro, accendeva tutti i suoi ricettori e le sue sinapsi in una reazione a catena: il bambino, il fuoco che ignorava il vento e il sequestro di Indigo all’improvviso avevano un senso perfettamente logico.

Kikyo si accorse delle sue emozioni – che in quel momento dovevano bombardarlo con un odore intenso di pere macerate nell’aceto, come definiva lui stesso l’odore della paura del suo amico – e tentò immediatamente di placarlo.

«Non saltare a conclusioni affrettate! È pieno di Ribelli, lì fuori, li hai visti? Poteva essere chiunque!»

«Poteva essere chiunque, ma non lo è. Devo chiamare Yuni, spostati.»

Si alzò scansando l’opposizione fisica di Kikyo e uscì dalla tenda, ma non fece che un passo prima che la più inattesa figura gli si parasse davanti: Yuni era lì al campo, con la tunica che era sua veste “ufficiale” e il suo sgargiante copricapo bianco e nero, e dietro di lei un uomo biondo dall’espressione austera.

«Che… Yuni, che cosa ci fai qui?»

«Sapevo che avresti avuto bisogno di me» gli disse lei senza traccia della consueta allegria ma in tono rassicurante. «Mi sono messa in viaggio stamattina per essere sicura di essere qui in tempo… e di riuscire a darti tutto ciò di cui hai bisogno.»

Una strana, inquietante sensazione strisciava su Byakuran. Certo la presenza di Yuni con quei presupposti era già nefasta, ma l’aria fredda di Tokyo sembrava più densa, l’ossigeno sembrava più pesante da inghiottire e aveva l’impressione che qualcosa si muovesse dentro le ombre.

«Che… che cos’hai visto, Yuni?»

«Ha preso Mukuro, vero? Nella mia visione ti ritrovavi solo in una città di edifici vuoti e lo cercavi.»

Questa volta non era una delle sue burle: era una visione vera, una prodotta da quel gene Oro che avevano sempre cercato di nascondere al resto del mondo che non era pronto per un potere tanto grande.

Byakuran annuì mentre Kikyo usciva dalla tenda alle sue spalle.

«Appartiamoci, Ran. Ho bisogno di tranquillità per trovare Indigo.»

«Sì… sì. Vieni, andiamo là.»

Prese il braccio di Yuni per farle strada in fretta attraverso le tende del soccorso medico finché non raggiunsero la piccola tenda dalla copertura quadrata che era stata allestita per lui. Sospinse la ragazza sulla brandina con le accortezze dovute alla sua condizione.

Quando entrarono prima il fidanzato di Yuni con un ingombrante bagaglio e poi Kikyo fu tentato di cacciarli, ma non lo fece e si spostò quel che bastava affinché riuscissero a stare tutti all’interno.

«Dovrai ascoltarmi con attenzione e non fare domande se non quelle necessarie, Ran. Sono incinta e non posso tenere il canale aperto per molto tempo.»

«Il… canale?»

«Indigo non ha lasciato questo mondo, non ancora» spiegò lei paziente, sfiorandogli la mano. «Ma sta soffrendo molto, e potremmo non avere molto tempo prima che si separi dal corpo.»

Byakuran scambiò una fugace occhiata con Kikyo, così irrigidito da muovere solo gli occhi. Non aveva mai assistito di persona alla Resonance di Yuni e aveva solo idee vaghe di quali fossero i suoi poteri effettivi, ma stava elaborando delle teorie che – probabilmente – erano straordinarie e ancora lontane dalla portata reale di quella ragazza.

«Dammi le cuffie» mormorò Yuni a occhi chiusi. «Sono sue… mi aiuteranno a stabilire un contatto. Lo sai già, ma quando sarò in risonanza non devi toccarmi o la interromperai.»

«Sì.»

Erano passati tanti anni dall’ultima volta ma esperienze trascendentali come quella non si dimenticano mai, e iniziò come iniziò quella volta: la sfera di cristallo che portava come collana prese a brillare mentre le sue mani accarezzavano l’oggetto malridotto, sussurrava piano il nome di Mukuro con la dolcezza di una madre in cerca di un figlio che gioca a nascondino…

All’improvviso, ammutolì e aprì gli occhi, che erano velati e assenti. Kikyo era come pietrificato e Guido non sembrava essere in grado di gestire quella situazione, perciò Byakuran si fece avanti e si sedette sulla brandina assicurandosi di non sfiorarla.

«Yuni… che cosa senti?»

«Nel posto dove si trova adesso fa molto freddo. Sta tremando. C’è qualcuno insieme a lui… Mukuro» chiamò di nuovo dolcemente, «Mukuro, dimmi chi c’è con te…»

La ragazza emise un gemito e strinse le braccia al petto, abbassò la testa e sia Byakuran che Guido fecero il medesimo gesto per aiutarla a raddrizzarsi, trattenendosi prima di toccarla. Byakuran si morse il labbro e allontanò le mani.

Yuni allora sollevò lo sguardo puntandolo su Kikyo, anche se non lo vedeva.

«T-ti prego… basta…»

Kikyo balbettò qualcosa, ma Byakuran gli afferrò il braccio per impedirgli di avvicinarsi e toccarla.

«Non ti preoccupare… non vede te. Non è lei che soffre… è Mukuro che sta guardando qualcuno e sta parlando.»

«Questo è… surreale!»

Avrebbe discusso volentieri di surreale e impossibile con Kikyo una volta riavuto Indigo, ma non prima: lo ignorò e fissò il volto di Yuni cercando di non pensare alla paura che vi vedeva incisa.

«Yuni, devi mantenerti separata, o non potrai dirmi niente! Dimmi che cosa vede… dimmi dove si trova!»

Sebbene la Resonance permettesse a Yuni di connettersi agli umani in tutto il globo quasi come un computer con altri sparsi nel mondo, la sua empatia la portava a una comunione di coscienza troppo profonda: non solo fallire nel distaccamento poteva impedirle di dare alcuna informazione utile per il ritrovamento di Indigo, ma lo sforzo di sopportare emozioni non sue avrebbe potuto incidere sulla salute del bambino.

Byakuran avvicinò una mano alla sua schiena, pronto a toccarla e interrompere tutto se avesse notato delle conseguenze fisiche sulla sorella. Per più di un motivo sperava con tutta l’anima di non doverlo fare.

«Il… il posto in cui si trova è spoglio» articolò poi, col respiro ancora corto. «Ci sono delle luci artificiali… una grata… una porta di metallo rovinata… odore di polvere e di grasso. Come in un vecchio garage.»

Lanciò uno sguardo a Kikyo, ma stava appuntando tutto sul palmare che si portava sempre appresso, digitando con la pennetta a velocità incredibile.

«Il pavimento è coperto d’acqua e anche Indigo è zuppo… il suo battito sta rallentando.»

«Per favore, Yuni… così è troppo vago, ti prego, trova qualcosa! Qualsiasi cosa che sia più facile da trovare!»

«Non riusciamo a muoverci.»

«Yuni… oh, per favore… Indigo, dimmelo, dimmi dove posso trovarti…»

Lo sguardo di Yuni si abbassò verso i piedi di Byakuran, che scioccamente si voltò a guardare, anche se non c’era altro che tela blu scuro: aveva girato la testa perché Indigo, ovunque fosse, stava guardando qualcosa in basso.

Quando parlò la sua voce era più ferma, era più distaccata.

«C’è un topo…»

Byakuran non resse a questa frase e affondò il volto nelle mani per la disperazione. Possibile che non ci fosse un modo per vedere un segno identificativo, un panorama da quadrare, un rumore che desse loro un indizio? Con quei presupposti neanche una squadra di Night Hound sarebbe riuscito a trovarlo presto.

«C’è un dottore per animali.»

«Un… che?»

Byakuran la guardò, basito quanto Night Hound.

«Il topo dice che c’è un dottore per gli animali vicino a quel posto» riferì Yuni, incosciente di quanto sembrasse ridicolo, «e che c’è un gigante di vetro.»

Per qualche secondo i tre uomini si scambiarono occhiate accigliate e perplesse, poi un lampo illuminò Byakuran come un fuoco d’artificio. Come fosse finito in trance anche lui, alzò la mano e strinse con delicatezza la spalla di Yuni; il cristallo si spense e lei tornò in sé un attimo dopo.

«Che fai… Byakuran!» sbottò Kikyo. «Non abbiamo nessun indizio, e…»

«So dov’è.»

Guido si avvicinò a Yuni con un sorriso e le strinse la mano. Lei, dopo averlo ricambiato, guardò il fratello.

«Ti ho aiutato a trovarlo, Ran?»

«Sì. Sei stata bravissima, Yuni. Ora pensa solo a riposare, okay?»

Le sfuggì una risatina da bambina quando le diede un bacio sulla fronte.

«E tu?»

«Io vado a riprendere il mio Bambino Indaco… e a chiudere un conto.»

«Con questo Zakuro?»

Che lei pronunciasse quel nome lasciò di sasso Kikyo e turbò Byakuran; si rialzò dalla brandina fingendo che non fosse nulla più di un favore non reso, scrollando le spalle a mo’ di risposta.

«Mukuro me lo ha ripetuto… in qualche modo sapeva che qualcuno era nella sua testa, e me lo ha ripetuto più volte. Voleva che ti arrivasse questo nome.»

«È un ragazzo intelligente… e tu sei bravissima. Vi ringrazierò in modo appropriato quando torneremo a casa.»

Detto ciò uscì rapido, già progettando non tanto un piano quanto le scuse che sarebbero servite a mitigarne le conseguenze. Kikyo gli fu dietro subito dopo e lo trattenne.

«Aspetta… aspetta, accidenti a te! Sei riuscito a capire? Da che cosa?»

«Non so il punto esatto… ma il gigante di vetro è a Roppongi. Mukuro l’ha visto quando ce l’ho portato, e mi ha detto una cosa del genere. Non distante c’è la clinica veterinaria… è in una zona lì intorno. Sapendo questo lo possiamo trovare, non ci sono molti luoghi abbandonati lì.»

Kikyo rinunciò a controbattere per riflettere accarezzandosi il mento, gli occhi fissi sulla skyline della città. Con sua sorpresa Guido uscì di fretta dalla tenda e per la prima volta fece caso a quanto fosse grande la cassa che portava; le cinghie di cui l’aveva munita non la rendevano molto più maneggevole.

«Byakuran, questa ti appartiene» gli disse, mettendola a terra vicino a lui. «Yuni ha visto un gigante nero insieme a te durante la battaglia che avresti combattuto… e… per qualche motivo ritiene che tu abbia bisogno di questa.»

Byakuran non capiva, ma Guido non sembrava ansioso di spiegarsi o di essere presente quando avrebbe capito da solo e si affrettò a congedarsi.

Sussultò a quel brivido sulla schiena, concreto come una mano che lo toccava da sotto in su, ma Kikyo era a due metri da lui a fissare con curiosità la cassa. Non era lui a toccarlo e poi, abbassando gli occhi sul misterioso contenitore, si rese conto di sapere che cosa conteneva. Lo sentiva dentro le ossa, pulsava nelle sue vene e strisciava sulla sua pelle…

«Non toccarla!»

Kikyo ritrasse la mano dalla cinghia.

«Non toccarla, Kikyo… è meglio se non ci hai niente a che fare.»

«Non sarà… Byakuran, non dirmi che è quell’affare infernale! Che cosa ci fa qui? Perché l’hai portata?!»

«Non l’ho fatto… l’ha portata Yuni. È una fortuna, mi ha risparmiato di tornare a prenderla.»

Kikyo commentò qualcosa, reso balbuziente dall’ansia di persuaderlo a non usarla e dalla paura che gli suscitava anche solo stare vicino alla cassa, ma Byakuran non lo sentì più.

«Mh, lui non vuole che andiamo a divertirci, Ran.»

«Ha soltanto paura di te. È comprensibile.»

«Con chi stai… Byakuran

Non aveva bisogno dei sensi di Night Hound per capire che il suo amico aveva molta paura. Si avvicinò e lo scansò con fermezza ma senza essere brusco.

«Non è il momento delle spiegazioni, Kikyo. Prometto che ti dirò tutto, ma mentre stai qui a guardarmi male Indigo sta nelle mani di Zakuro… sai bene che cosa significa.»

A quella considerazione Kikyo strinse i denti come a voler trattenere a morsi i suoi predicozzi e si fece da parte mentre Byakuran apriva le cinghie della cassa. Forse era solo un rumore dato dal vento, ma gli sembrava di avvertire un respiro vicino alle sue orecchie.

«Fallo, Ran!»

Esitò un attimo e alzò il coperchio, consegnando alla luce qualcosa che aveva sepolto per più di dieci anni. Kikyo deglutì rumorosamente guardando la falce che aveva denominato Fallen Angel: la sua asta aveva l’impatto visivo di un lungo ramo avvolto da un motivo irregolare e caotico di strisce di tessuto nero e finiture dorate. In un altro momento della vita Kikyo l’avrebbe apprezzata per la ricercatezza dei suoi dettagli, ma quella sera storse il prezioso naso.

«È raccapricciante.»

La lama era affilata e arcuata come Byakuran la ricordava: bastò sfiorarla perché i suoi polpastrelli sanguinassero. Con l’altra mano afferrò l’asta tirandola fuori dalla cassa di fortuna e la consegnò all’aria della notte di Tokyo: la cascata di piume viola che l’adornava si animò per quel venticello freddo e le quattro piccole lame curve – simili a macabri boccioli della lama primaria – scintillarono al bagliore della lanterna più vicina. A Byakuran sembrarono una piccola ala di metallo, come la prima volta che la vide.

«Finalmente ci rivediamo, Ran… temevo che riuscissi per davvero a ignorarmi per il resto dei tuoi giorni! Per mia fortuna sei un bambino troppo goloso per resistere a lungo a una tentazione~»

La voce maschile era più nitida e forte ora che aveva in mano la Fallen Angel, ma non se ne stupì. Aveva sempre saputo che era legata a quell’arma, fin dal giorno in cui la trovò con la lama affondata in un cumulo di detriti nel ghetto degli Auris di Mizura. E come allora era leggera nonostante la fattura massiccia; leggera abbastanza perché un bambino denutrito di cinque anni potesse prenderla e trasportarla.

Fece ruotare l’asta intorno alla mano e il semplice movimento circolare della lama produsse un sibilo nell’aria immobile.

«Oh, neanche un preliminare… siamo impazienti, eh?»

«Ho un lavoro da fare» disse Byakuran, gli occhi fissi sulla lama che li rifletteva, «e tu mi aiuterai. Non ti voglio reticente, siamo intesi?»

«I limiti non sono cosa per me… mi piace averli solo per superarli. Bene, Ran, andiamo… forse questa volta mi regalerai davvero la testa di Zakuro.»

Byakuran fissò la città, nella direzione in cui avrebbe trovato il Roppongi Hills non appena si fosse levato in volo verticale.

«Puoi giurarci.»

*

Mukuro tremava e sussultava talmente tanto che si morse la lingua nel vano tentativo di implorare qualche attimo di tregua. Sdraiato sul fianco per terra sollevò a fatica la mano, viola fino al polso, e si domandò se mai sarebbero ritornate normali o se gliele avrebbero tagliate via.

Che cosa stupida… morirò comunque qui, con le mani sensibili o meno.

«Ehi, ragazzo, lo sai che sei davvero troppo duro per essere solo un moccioso?»

Anche se avesse voluto non sarebbe riuscito a rispondere a Zakuro: i muscoli della mascella erano troppo contratti per riuscire ad aprire bocca. L’uomo si avvicinò e l’afferrò per il collo sollevandogli la testa e la schiena nuda dalla pozza di acqua gelata sul pavimento.

«Sono stanco… mi capisci, ragazzo? Sono stanco di te, della tua testardaggine e delle tue domande su quello che io voglio fare a Wing Emperor. Lo capisci che non sono affari tuoi? Se lo voglio torturare e ammazzare son fatti miei e suoi, mica tuoi. Dimmi quelle quattro stronzate che sai e ci liberiamo tutti e due, così posso andare a tampinare Heidi.»

Incapace di articolare dei suoni Mukuro si limitò a distogliere lo sguardo e puntarlo sul muro alla sua destra. Fu una risposta abbastanza eloquente da far infuriare l’uomo.

«Va bene, fanculo se poi la tua amichetta non me la darà più!»

La stretta sul collo gli chiuse completamente l’aria. Tentò di usare quelle escrescenze insensibili e livide per liberarsi senza alcun successo.

«Ho chiuso con le buone maniere, adesso non me ne frega un cazzo se ti lascio le cicatrici… o se ti stacco un pezzo o due!»

La mano sinistra di Zakuro colpì Mukuro sull’addome e un dolore bruciante gli strappò un urlo che rimbombò nel locale spoglio come lo scoppio di un petardo. Mukuro gemette con le lacrime che scendevano dagli occhi e venne attanagliato da un profondo terrore quando vide che gli aveva lasciato sulla pelle una brutta piaga, come se si fosse appena sdraiato su una piastra da cucina ad alta temperatura.

«E adesso facciamo sul serio… qual era la prima cosa? Ah, sì… bruciarti le palle.»

Non seppe neanche dire come riuscì a coordinare decentemente i movimenti con quelle convulsioni date da paura e dolore, le mani insensibili e i residui di UTX in circolo, ma Mukuro riuscì a togliersi la mano dal collo. Si allontanò da lui di quasi un metro prima di scivolare sul pavimento bagnato e si sforzò così tanto di trascinarsi che si accorse solo dopo che Zakuro non lo seguiva perché qualcuno era entrato dalla porta: si accorse dei suoi stivali neri e risalì la sua figura solo fino alle cosce prima che le energie venissero meno e la testa sbattesse impotente per terra.

«Che cazzo fai tu qui? Ti ha chiamato la stronza?»

«Ho ricevuto aspre lamentele in proposito, se è a Glacier che ti stai riferendo con questi scortesi epiteti» replicò una voce sconosciuta, piuttosto pacata. «Ma sono venuto per spostare il ragazzo. Entro mattina riprenderanno le ricerche di superstiti e di Ribelli nascosti e sicuramente arriveranno qui prima di mezzogiorno.»

«Beh, allora dammi una mezz’ora che lo abbrustolisco, poi lo possiamo anche lasciare qui per il finocchio.»

«Apprezzo la buona volontà, ma non ho deciso come disporne. Potrebbe esserci un ruolo più utile per lui, quindi ti prego di contenerti finché non mi sarà chiaro il disegno migliore.»

Sentire quelle parole iniettò la speranza in Mukuro come una fiala di adrenalina. Fu questo che lo portò ad affondare i denti con ferocia nella mano che aveva provato a sollevarlo da terra. Mentre lo sconosciuto gridava più di stupore che di dolore e Zakuro imprecava Mukuro sentì il gusto ferroso del sangue in bocca, ma non cedette e serrò i denti ancora più forte.

A costo di lasciare i denti piantati lì non ti mollo, bastardo!

A costringerlo a mollare fu un colpo fiammeggiante e l’onda d’urto che ne seguì, che lo buttò a terra sulla schiena intontito. Poi, mentre Zakuro si accertava con toni piuttosto tiepidi che l’altro uomo non avrebbe perso la mano, Mukuro si rese conto di non essere ferito o bruciato in faccia.

La lucidità mentale tornò all’improvviso, il dolore del corpo si affievolì e l’intorpidimento della medicina scomparve rapido com’era venuto all’ultima iniezione. Incerto posò le mani a terra e si mise sulle ginocchia, senza incontrare alcun dolore limitante e alcun impedimento dei movimenti.

Posso muovermi… mi posso muovere!

Il bagliore tradì la fiammata in arrivo e Mukuro schizzò di lato schivandolo; studiò lo spazio ristretto in cui si trovava ed elaborò la sua strategia.

«Non provarci!»

Appoggiò le mani a terra per rilasciare il suo loto bianco e intrappolare Zakuro e lo sconosciuto. Ottenne il risultato che sperava, ma si accorse anche del fiore di loto nato dentro la vasca di acqua servita a torturarlo: i suoi petali erano rosa ed era privo di gambi e foglie. Brillava di luce pulsata come Kyoko con il suo secondo gene e non aveva la più pallida idea di che cosa fosse.

Zakuro si dimenò con rabbia, urlando degli insulti in un dialetto molto stretto. Mukuro spalancò la porta di metallo deciso ad andarsene finché sentiva quell’energia e conservava un vantaggio dell’effetto sorpresa, ma questo non durò molto: le fiamme dell’uomo carbonizzarono il suo loto bianco, lasciandolo libero di contrattaccare.

«Vieni qui, bastardo! Odio i mocciosi disobbedienti!»

Non sarà così facile… ma non vuol dire che sia impossibile!

Mukuro fece perno sul piede per voltarsi di scatto e stese il braccio, pronto a combattere per la sua vita. La sua logica lo martellava con la disparità di potere, le sue condizioni fisiche pessime, i rinforzi che Zakuro poteva avere…

Il loto bianco germogliò dal suo braccio per la prima volta e non fu la sola stranezza del suo potere: vide i gambi risalire verso il collo, intrecciarsi come cavi di acciaio intorno al torace e alle gambe, e li sentì stringere. L’intero corpo restò bloccato, la sua testa veniva piegata all’indietro inarcando la schiena e svuotandogli i polmoni con la forza bruta.

Che… cosa… perché?! Chi sta facendo questo?!

Emise un singolo colpo di tosse e cedette alla forza strangolante del suo stesso loto, senza capire come mai gli si fosse rivoltato contro. Molto vicino alla perdita dei sensi sentì la voce dell’uomo misterioso rivolgersi a Zakuro.

«Credevo di averti dato abbastanza UTX.»

«Gliel’ho dato! Doveva tenerlo buono per altre due ore, non so come diavolo abbia fatto!»

Il loto allentò la sua presa e il corpo di Mukuro cadde a peso morto sul pavimento grezzo e polveroso. Le energie se ne stavano andando velocemente com’erano venute, lasciandolo spossato e inerme come prima.

«Credo di sapere cos’è successo» fece lentamente l’uomo. «È… peculiare. Devo rifletterci su.»

«Che vuol dire?! Non puoi controllare uno come quello!»

«Fa’ silenzio, Zakuro. Lo porto via e ti farò sapere cosa deciderò di fare… anzi… chiamo il nostro gentile informatore, mi darà una mano. Tu fai sparire tutto quello che c’è qui che possa condurre a noi.»

L’uomo si allontanò a passi rapidi. Non vedeva Zakuro ma non importava dove fosse, perché non riusciva a muovere neanche le dita: la sua occasione di scappare era sfumata.

Fate presto… se mi state ancora ascoltando, se mi vedete… aiutatemi!

Il pavimento tremò come nei primi secondi del terremoto di Higashiki e Mukuro, ottenebrato, pensò che Zakuro stesse distruggendo qualcosa nella stanzetta delle torture. Uno schianto strappò un’esclamazione volgare all’uomo e anticipò un vento tempestoso all’interno del capannone.

Gli stivali bianchi che atterrarono vicino a Mukuro gli ricordarono il giorno in cui li aveva visti la prima volta da sotto un furgoncino scassato.

«Indi!»

Byakuran si inginocchiò accanto a lui e lo guardò con apprensione; studiò lo stato del suo corpo toccandogli la schiena – se ne accorse dal calore che si diffondeva dalla sua mano – e ciò che scoprì dalla sua investigazione mutò la sua espressione in una furiosa come quella di un animale.

«Ora sono qui, Indi… lasciati andare. Sistemo questo bastardo e ti riporto al sicuro a casa…» gli disse in tono affettuoso, che strideva grandemente con gli occhi fissati su Zakuro. «Lasciati andare. Non soffrire un secondo di più.»

Soffrire? Non hai idea… questo non è niente… niente…

Non riusciva a parlare. Si rese conto di stare sorridendo contro ogni senso logico e chiuse gli occhi, lasciandosi andare a qualcosa che assomigliava al dormiveglia: si fidava abbastanza di Byakuran da sentirsi già al sicuro, ancora una volta strappato con le unghie e con i denti alla morte.

*

Byakuran accarezzò la testa di Mukuro quando chiuse gli occhi e percepì il rallentamento del battito cardiaco e del respiro compatibile con il sonno. Si rialzò appoggiandosi alla falce, ma la sua aria letale e il fatto che stridesse molto con il suo costume bianco e l’aspetto angelico non sembrava stupire Zakuro: questi lo guardava con un ghigno storto e la fronte corrugata dall’ira. Per quanto a lungo potesse vivere non poteva dimenticare i segnali della rabbia di quell’uomo.

«Il figliol prodigo di ritorno! Vieni a salutarmi come si deve, Byakuran.»

«Oh? Zakuro che impara una parabola biblica! Non credevo di vederlo mai, sono sincero.»

Byakuran non reagì a questo commento della voce maschile che nessun altro poteva sentire. Non gli importava di nulla di quanto Zakuro potesse aver visto, fatto o letto nella sua vita se non quello che concerneva Indigo, e a quanto gli aveva svelato la sua analisi medica era più che abbastanza per una sentenza di morte.

«Chi ha architettato gli attacchi dei ribelli?»

«Uh? Neanche due chiacchiere sul personale, nanetto?»

«Una gran faccia tosta, non c’è che dire.»

«A chiamarti nanetto? Mh, beh. In effetti sei cresciuto dall’ultima volta.»

«Soprattutto i muscoli, Ran~»

Byakuran strinse il pugno intorno alla falce e la voce di uomo emise un gemito voluttuoso che ignorò.

«Hai una gran faccia tosta a prenderti il mio figlio adottivo e torturarlo per far soffrire me» replicò a denti stretti. «Se tu avessi coraggio la metà della tua malvagità avresti puntato a me, non a un ragazzo… ma tu non hai coraggio. Non l’hai mai avuto, sei un vigliacco con la voce grossa e un ego costruito sulla violenza.»

Afferrò la falce con le due mani, pronto a respingere qualsiasi attacco improvviso.

«E ogni cosa che esce da quella tua testa è solo fango. Per questo ti chiedo chi altro c’è dietro questo casino.»

«Ehi, ehi! È il modo di parlare a tuo fratello maggiore?»

«Non sei mio fratello.»

«Col cazzo! Mica eri vivo adesso, a fare il figo in tv, se non ti raccoglievo da sotto il cadavere di quella puttana di tua madre! Te lo sei scordato? Eh?»

«Salvare la vita a qualcuno non ti rende meritevole, se lo scopo per cui lo fai è circondarti di schiavi che non hanno altro sostegno oltre a te!»

«Cantagliene quattro, Ran… è l’ultima occasione per sputargli addosso tutti i tuoi drammi di bambino. Non sarete vivi entrambi al sorgere del sole, probabilmente~»

Zakuro aveva più pieghe che mai sulla fronte e lo fissava senza sbattere gli occhi. Byakuran non sfuggì allo sguardo, perché si rendeva conto che Kikyo aveva ragione: non vedeva più in lui il mostro spaventoso che era rimasto inciso nella sua memoria per tutti quegli anni.

Il suo aspetto non era molto cambiato, tuttavia: non dimostrava di avere più di quarant’anni, il suo fisico era molto scolpito, ma aveva gli stessi occhi appesantiti da un riposo insufficiente, i capelli rossi in ricci trascurati, ma la furia e la gioia di fare del male che trasudava da lui erano ancora le stesse.

«Non sarai mai parte della mia famiglia. Questo onore spetta a chi mi ha salvato dalla disperazione, dalla solitudine e a chi mi ha insegnato cosa fare del tempo della mia vita.»

«Ma io l’ho fatto, Byakuran, non l’ho fatto? Non ti ho detto che insieme avremmo cambiato le cose? Che tu e io potevamo fare qualsiasi cosa? Sono stato io a farti scoprire i tuoi poteri!»

«Tu… tu hai quasi ammazzato Kikyo per questa bella scoperta, dannazione!»

La sua voce riecheggiò in modo bizzarro in quell’angolo del capannone e Byakuran capì subito di aver commesso un errore: Zakuro stava cercando di farlo arrabbiare e gli stava dimostrando che poteva riuscirci. Era difficile chiudere fuori il ricordo di quando Zakuro – il capobranco, il loro protettore – aveva picchiato selvaggiamente Kikyo con la sola intenzione di scoprire se Byakuran, messo alle strette, sarebbe riuscito a guarire anche le ferite di qualcun altro.

Non ricordava bene il momento, per quanto fosse traumatico. Parte di quella memoria era ricostruita – parole dello psicologo che anni dopo ascoltò la storia – e così vedeva da fuori il piccolo Auris con le ali, lo guardava singhiozzare terrorizzato mentre provava a salvare l’amico. Dall’alto della sua età non poté non provare pietà per il se stesso di allora.

Così indifeso, così spaventato, così disperato… e non importava a nessuno. Non c’era nessuno a salvarlo… a proteggerlo. Era da solo.

«Ma su una cosa hai ragione, Zakuro» aggiunse più pacato. «Se non avessi reso la mia vita un inferno, non mi sarei mai impegnato così tanto per salvare gli altri. Mi hai fatto desiderare che nessun altro bambino si sentisse abbandonato e disperato quanto me.»

Contro ogni aspettativa, Zakuro esplose in una risata rauca che si trasformò in uno stormo di corvi gracchianti con l’eco del magazzino.

«Divertente! E come credi che si sia sentito il moccioso per ore e ore, mentre lo torturavo in ogni modo che mi veniva in mente? Eh?»

Lanciò un’occhiata fugace a Mukuro, sdraiato alcuni metri dietro di lui. Strinse gli occhi tentando di scacciare le raccapriccianti ipotesi.

«Oh… è doloroso, Byakuran? Dimmi, quanto fa male?» domandò lui, che non si era lasciato sfuggire l’espressione di dolore. «Senti la tua anima che brucia? Eh? Ti senti un coltello piantato nel cuore? Fai fatica a respirare? Vorresti morire? Dai, parla, non riuscivo mai a farti stare zitto da piccolo! Condividi col tuo fratellone questo bel momento!»

«Fa’ silenzio!»

L’onda d’urto scaturita dalle ali sbatté Zakuro con forza contro la parete. Il suo respiro era corto ma non se ne preoccupò.

«Non potresti capire cosa si prova a vedere una persona che ami soffrire neanche se ti strappassi quello schifo di cuore di pietra dal petto!» gridò contro l’uomo dai capelli rossi. «Esseri come te non dovrebbero nemmeno mai nascere, figurarsi sopravvivere!»

Ansimava nel vano tentativo di trattenere una rabbia vecchia di decenni. Due delle sue ali scomparvero lasciandone visibili solo quattro.

«Perché… perché uno come te dev’essere vivo e Luce dev’essere sottoterra? Perché tu sei sopravvissuto e mia madre invece è morta?»

«Perché io te l’ho ammazzata, Byakuran, ecco perché.»

Quella risposta inattesa paralizzò Byakuran.

«Che… che cos’hai detto?»

Zakuro sputò per terra e fece schioccare le nocche della mano.

«L’ho ammazzata io la tua mammina… ma sapevo che cosa faceva, a te t’ho raccolto nel caso fossi venuto col potere suo. Per il fronte di liberazione.»

Dimenticò la pericolosità di Zakuro: abbassò l’arma e si avvicinò di parecchi passi spinto dall’orrore di quella rivelazione.

«Che cosa significa?!»

«Te-l’ho-ammazzata-io» scandì Zakuro, annoiato. «Non che me ne fregasse qualcosa. Un riccone Plumbeo ha offerto un bel po’ di roba utile a chi voleva fare un lavoretto. Quando ho saputo che chiedeva di far fuori una puttana non c’ho pensato su due volte.»

A Byakuran sembrò che tutto intorno diventasse di strani colori, che i suoni si facessero distorti come sotto l’effetto di allucinogeni leggeri. Si toccò la faccia e scorse la mano nei capelli, sopraffatto.

Lui… mi ha sempre raccontato della mamma morta e di me tra le sue braccia… e lui era l’assassino!

«Hai ucciso mia madre… per un compenso?»

Ma le confessioni di Zakuro erano già concluse: ghignava soddisfatto.

«Stai soffrendo, Byakuran? Dai tuoi occhi sembra di sì, e la tua faccia è da venirci sopra.»

«Potevo anche essere clemente, dato che Indigo non riporterà danni permanenti… ma non ti perdonerò per mia madre. Non ti lascerò in vita, questa volta.»

Il commento, o piuttosto il tono vuoto in cui Byakuran lo pronunciò, lasciarono interdetto Zakuro per qualche istante; esitazione che pagò cara.

Byakuran scattò in avanti e affondò il manico della falce tra le gambe di Zakuro. Lui eruppe in un grido strozzato aggrappandosi alla spalla per non cadere, e ostentando la più completa e glaciale indifferenza lui lo spinse per terra. Continuò a rantolare e borbottare bestemmie e insulti, la gran parte nel dialetto della loro zona di origine.

«Sei in assoluto l’essere più aberrante che si possa avere la sfortuna di incontrare, Zakuro. E io ne ho conosciuti di esseri schifosi.»

Byakuran afferrò una seggiola malconcia vicino alla parete, la avvicinò all’uomo rantolante e vi si sedette a cavalcioni. Appoggiando i gomiti sullo schienale di legno e lasciando oscillare la falce avanti e indietro come un metronomo rimuginò su ogni singolo momento nel ghetto. Non voleva perdere neanche un granello di risentimento.

«Fa male, eh? Dovresti saperlo, non era una delle cose che preferivi farci quando ti disobbedivamo?»

«Po… fi… ‘ttana…»

«Sì, inutile mucchio di melma. Sono figlio di una puttana. Una puttana morta grazie a te» puntualizzò Wing Emperor. «E non è intelligente ribadirlo.»

Zakuro tentò di riacquistare la posizione seduta senza riuscirvi. Alzò gli occhi castani su Byakuran che teneva in mano un pacchetto di sigarette, e si tastò a vuoto le tasche. Byakuran sorrise appena e, sfilatane una e presa fra le labbra, usò il suo accendino zippo per accenderla. Non fumava da dieci anni, sebbene lo avesse fatto solo sporadicamente anche allora.

«Mh… non è un po’ stupido che proprio tu usi questo aggeggio per accendere una sigaretta? Eri il re del fuoco, ci dicevi… hai per caso perso il dono?»

«Hai ancora le mani lunghe!»

«Indovina da chi l’ho imparato» lo stuzzicò Byakuran, prendendo un tiro. «Come tutte le cose che mi hai insegnato tu, l’ho accantonata in attesa di incontrare un farabutto così schifoso da usargliele contro senza rimpianti.»

«Ran, è anche meglio di quanto sperassi… non ho fretta di finire, ma non lasciarmi a metà, d'accordo?»

Non temere. Niente lavori in sospeso, stavolta.

Zakuro lanciò un urlo rabbioso e il fuoco scoppiò in una rapida sequenza di detonazioni tutt’intorno a lui. Il frastuono e l’onda d’urto mandarono in pezzi le finestre e fecero saltare la porta in metallo; il bagliore della fiammata serpeggiò in aria visibile anche dalle navi al largo della baia.

Quel che restava delle pareti del magazzino era coperto di fuliggine, qua e là alcuni punti in legno o rivestimenti non ignifughi avevano preso fuoco; il tavolo e le sedie sembravano reduci da un passaggio fugace dentro un forno crematorio.

Zakuro si rimise faticosamente carponi.

«C-cazzo… lo volevo ammazzare più lentamente, quel–»

«Tranquillo, puoi riprovarci.»

Zakuro sussultò sentendo la voce dietro di sé e si girò di scatto. Byakuran stava in piedi con le ali semiaperte di fronte a Indigo. Sollevò la mano che non reggeva l’arma per togliersi la sigaretta dalle labbra: si era spenta.

«Allora, Zakuro, ci arrivi da solo che la differenza tra me e te è abissale o devo spiegarti anche il perché?»

L’uomo si rimise in piedi, pur barcollando, e si allontanò di qualche passo dall’uomo con la tuta bianca. La sua espressione persa suggeriva a Byakuran che non aveva la minima idea di quale fosse stato il suo trucchetto: spaesato guardava la parete pulita dietro di lui, il ragazzo neanche sfiorato dalle fiamme e il suo bersaglio illeso.

Byakuran allungò le dita che reggevano la sigaretta.

«Mentre ci pensi me l’accendi, per cortesia?»

«Vaffanculo!»

«Oh, attento con questi suggerimenti a cuor leggero. Potrei cominciare dal tuo.»

«Che gran classe, Ran, ma si può ancora fare meglio~»

Byakuran scoppiò in una risata spontanea a quel commento della voce e l’idea che fosse uno scherno irritò visibilmente Zakuro; effetto che all’eroe non dispiacque affatto.

Con un gesto noncurante lanciò il mozzicone contro la sua faccia. La reazione fu immediata e prevedibile: lingue di fuoco blu esplosero nella sua direzione in fasci lineari. Afferrò Indigo e li evitò spostandosi con un battito d’ali dal tempismo perfetto, atterrando sul pavimento annerito con leggerezza, senza staccare gli occhi da Zakuro.

Lo conosceva, sapeva quanto fosse preciso il suo controllo del fuoco e fin dall’adolescenza il suo corpo era del tutto immune a qualsiasi danno da calore. Era una spanna al di sopra di qualsiasi altro manipolatore di fiamme, il suo fuoco era capace di uccidere Wing Emperor… ma lui aveva la Fallen Angel.

«Vediamo se il miracolo ti riesce di nuovo!»

Byakuran tese un sorrisetto. Zakuro non aveva ancora capito di essere in svantaggio.

«Oh, i miracoli non mi appartengono più di un tantino, Zakuro… ma capisco che dal tuo punto di vista è meglio ammettere che io faccio miracoli piuttosto che confessare che hai il cervello di una sardina ubriaca.»

«Come ti permetti di parlarmi così?! T’ho raccolto in mezzo al fango! T’ho dato da mangiare e t’ho pure fatto camminare! T’ho insegnato tutto io, dannato finocchio, pisciavi ancora piegato per terra come le femmine se non era per me!»

«Ho insultato le sardine, mi sa.»

Con un gesto stizzito il Ribelle sollevò le braccia e lo attaccò con un’altra tempesta di esplosioni infuocate, questa volta di colore verde vivo. Bastò un fendente della lama per far sì che le fiamme svanissero e vide ancora una volta la faccia sbalordita di Zakuro. Sospirò mettendosi la mano sinistra sul fianco. Se solo non fosse stato furioso con lui avrebbe quasi potuto fargli pena.

«Ancora niente, Zakuro?»

«Non essere così crudele, Ran… come potrebbe immaginare che questo potere invincibile viene da una spaccatura dimensionale?» gli domandò la voce suadente. «E questo non era che l’apertura di uno squarcio dimensionale di un millimetro… pensa che cosa potresti fare con un centimetro in più… lo facciamo insieme? Ti aiuto io ad aprirlo per bene~»

Per qualche secondo si perse suo malgrado a immaginare un potere ancora più grande, un potere come il suo allo zenith della cometa e ancor più; l’immaginò scorrergli dentro attraverso le mani in tutto il corpo fino all’ultima piuma delle ali e ricordò la sensazione di percepire tutto, di essere come un dio…

Si accorse che la mano che stringeva la falce tremava. Si sforzò per fermarla, ma il formicolio nel basso ventre persistette.

Gli ho lasciato troppo spazio.

«È il vuoto d’aria» disse allora Byakuran, con un sospiro che serviva più a riprendere il controllo di se stesso che a umiliare Zakuro. «Il movimento della falce è così forte che creo una zona di vuoto d’aria… come il sottovuoto, no? Il fuoco per quanto caldo e intenso non si propaga senza ossigeno, e se sono in una zona di vuoto… non hai capito un cavolo, vero?»

Dalla sua espressione persa era chiaro che il suo potere non era mai stato sconfitto prima, e che non capisse come potesse essere possibile.

«Uhm… vediamo, come posso spiegarti con parole che puoi capire?»

Il suo basso ventre sembrava il contenitore di un fusto di bibita gassata: formicolava, attraversato da una sensazione effervescente come migliaia e migliaia di bollicine. Conosceva l’eccitazione sessuale ma questa sensazione era diversa. Con un sorrisetto che i suoi conoscenti non avrebbero riconosciuto come suo, fece un gesto eloquente con il dito sul collo.

«Sei un uomo morto, Zakuro. Hai capito adesso?»

«Non mi sottovalutare, Byakuran!»

Con la spinta delle ali Byakuran ancora una volta si avvicinò quasi senza essere percepito dagli occhi di Zakuro e quando gli fu davanti le piume bianche si abbatterono su di lui. Zakuro gridò di dolore e cadde mentre il sangue schizzava ovunque, anche sulla tuta bianca che per anni era stata il simbolo della sua purezza.

La toccò macchiandosi il guanto, assorto.

«Sai… si chiama Sound of Justice. Il mio costume» fece Byakuran, ignorando i singulti di Zakuro a terra. «Shoichi l’ha chiamata così, come un album di un gruppo rock francese…»

Posò gli occhi sull’uomo, che annaspava con le dita tremolanti sulle ferite del petto, borbottando insulti dalla bocca quando non tossiva fuori sangue. Terreo in volto per l’emorragia e scosso dai tremiti dello shock Byakuran faticava a convincersi che in qualche modo quell’uomo un tempo si fosse davvero occupato di allevarlo.

«Non suona come giustizia, questo. Per niente.»

«Oh, andiamo, Ran! Stai ricominciando con i moralismi? Non abbiamo neanche finito!»

Ma gli occhi gli si riempirono di lacrime.

Che cosa direbbe la mamma adesso? Mi odierebbe, se mi vedesse comportarmi proprio come lui?

Si asciugò gli occhi con la mano pulita, frettolosamente, e premette il piede sul cavallo di Zakuro abbastanza forte da strappargli un rantolo. Non era una questione tra lui e la madre, era tra lui e quel mostro assassino. Si aggrappò a quel pensiero.

«Non pensare che abbiamo finito così, Zakuro.»

Il suo potere curativo prese a rimarginare le profonde ferite inferte dalle sue ali, con stupore dell’uomo. Ma la grazia non era scritta nel suo destino: Byakuran interruppe la cura prima della completa guarigione e con tutto il peso del suo corpo, della sua furia e del suo dolore affondò calci finché non fu sicuro di sentire le ossa del bacino frantumarsi sotto gli urli più convinti della giornata.

Puntò la lama sotto il suo collo obbligandolo a ricambiargli lo sguardo.

«B-Byakuran… non… ammazzarmi non ti ridà la mamma» bofonchiò lui, con i brividi che ancora gli rendevano difficile articolare. «T-tu non sei come me… sei Wing Emperor…»

«No, Zakuro… da quando ho preso questa falce ho messo in chiaro che non venivo qui per salvare il mio Bambino Indaco e basta. Venivo a eradicarti dal mondo, e questo… Wing Emperor non me lo permetterebbe. No, hai davanti Byakuran Mazuya…»

Guardò con sussiego l’arma, quasi gli dovesse un onore speciale.

«E questa è Fallen Angel. Suppongo di non avertela presentata la prima volta che l’hai vista.»

Con la sua letale lama sotto il proprio mento non poteva vederne che l’asta, e continuò a guardarlo negli occhi con un misto di paura e di disprezzo. Si chiese se anche lui non avesse quell’espressione quando da bambino subiva le angherie di Zakuro.

Il fatto di scorgere così nitidamente i suoi tratti riportò la sua attenzione al tempo: albeggiava.

«È ora di finirla… dimmi quello che sai, subito, e io…»

«Tu che? Mi lasci vivere… nel Golgotha?»

Zakuro emise una risata intrisa di amarezza e dolore fisico.

«No… ammazzami qui. Lo preferisco.»

«Allora diciamo che se mi dici quello che sai ti ammazzo e ti evito il Golgotha?»

«Non ti lascerò il compitino, Wing Emperor… io non ci sarò, ma gli altri continueranno… e rovesceranno i Plumbei… e te con loro…»

«Il fronte di liberazione… è opera vostra? È l’obiettivo che state perseguendo con questi attentati?»

«Il fronte di liberazione…»

Zakuro pronunciò quelle parole con più amore di quanto ne avesse mai riservato a una persona e sospirò.

«Volevo esserci quando finivi nella polvere… ngh… ma dall’inferno ti guarderò tutto il tempo… e al momento giusto…»

Si interruppe per tossire, ma restò sorridente.

«Al momento giusto… ti tirerò giù per le caviglie di persona…»

«Persino adesso non riesci a trovare un po’ di compassione? A chiedere perdono?»

La risata di Zakuro esplose tra le pareti rimaste del capannone, anche se compromessa dal suo pessimo stato di salute. Lo sguardo che gli scoccò era esattamente come quello che gli scoccava quando pensava di essere stato insultato dai bambini: quello dal quale scappavano a gambe levate per evitare la punizione.

«Il re del fuoco non chiede perdono a nessuno! Figurati a una checca smidollata e inutile come te, a un mentecatto che sente le voci, a un ritardato!»

Mise troppa enfasi su quell’ultima tortura e si fermò a tossire e sopportare un picco di dolore. Byakuran commise la leggerezza di stringere a sé l’arma come se fosse una difesa, ma così facendo non faceva altro che esporsi alla sua influenza nel momento in cui era più vulnerabile: mentre le memorie delle angherie riemergevano dal pozzo dove le aveva relegate.

Non si rese conto di avere il respiro affannoso e irregolare.

«Imperatore, ti fai chiamare ora… se fossi rimasto nel ghetto al massimo t’avrei tenuto come giocattolo che squittisce quando lo schiacci… sei un giochino, una bambola che tutti fottono in un modo o nell’altro!»

«Fa’ silenzio, Zakuro!»

«Stai per piangere? Se crescevi con me almeno diventavi un uomo vero… e invece sei patetico, miserabile… un pisciasotto agghindato… con un giocattolo degno di uno scherzo della natura come te!»

«Fa’ silenzio!»

Accadde in un lampo, così rapidamente da non accorgersene: si trovò a reggere la falce con una mano, con la lama sospesa in aria e uno schizzo di sangue caldo che gli imbrattava la faccia, mentre ne colava anche dal manico.

Zakuro gridava e le sue gambe scalciavano mentre tentava di afferrarsi il braccio che gli era stato tagliato via. Byakuran fece perno sul piede destro facendo oscillare l’arma come un letale pendolo e amputò l’altro, con un taglio netto degno di un laser. Il sangue scorreva e Zakuro urlava imprecazioni sconnesse, agitando i moncherini che gli restavano degli omeri. Restò a guardarlo, impermeabile alla sua agonia, a suo agio col sangue che gli imbrattava i capelli e il corpo.

Girò la falce verso il basso e prese la misura come un golfista che si accinge a un colpo decisivo, ma quando affondò lo fece con le piccole lame ad ala colpendo punti precisi ai lati del collo di Zakuro. Le grida si spensero subito.

«Ooh, quanta eleganza, Ran… sono conquistato~»

Byakuran non mutò espressione mentre si chinava e toccava Zakuro sulla testa. Il bagliore delle sue ali divenne appena più intenso mentre riparava i danni al pancreas dovuti a una perforazione, arginava l’emorragia dagli arti e guariva parzialmente i tagli sul collo. Scostò la mano di scatto quando il momento fu quello giusto: gli lasciò le corde vocali recise e le braccia cicatrizzate in modo che non sarebbe stato più possibile riattaccare le parti mancanti. Zakuro aveva l’ira che scoppiava dalla sua bocca sotto forma di lievi fiammate aranciate, il terrore negli occhi ma nessuna voce per esprimerli.

«Questa è l’ultima volta che mi tormenti, Zakuro. Non sentirò mai più quella tua disgustosa voce dire cose orribili di me e di mia madre… e quelle tue luride mani non si poseranno mai più su un bambino o su una donna!»

Tentò di regolarizzare il respiro: si sentiva scosso fin dal profondo della sua anima.

«Andrai nel Golgotha… e tu sarai lo scherzo della natura.»

Le gambe rispondevano rigidamente alla sua volontà di allontanarsi. Il cuore sprofondò nel torace quando vide che Mukuro era sveglio, seduto contro una colonna portante del capannone, e lo guardava con indicibile tristezza.

«Ran…»

Abbandonò l’arma a terra e si avvicinò per stringerlo. Il ragazzo riuscì a ricambiarlo con poca energia, incurante del sangue che lo imbrattava.

«Mi dispiace tanto, Indi…»

«Andiamo a casa.»

Non desiderava altro che questo: riportare Indigo a casa, tornare alla scuola e da Amber, alla sua stanza atelier, alla routine incredibilmente piena che aveva. Voleva rivedere Indigo con quella bella divisa scolastica che aveva disegnato fino alla fine della scuola, pensare a guardare i suoi piccoli S spiccare il volo e al nipotino che avrebbe presto avuto. Questo, e recuperare il rapporto con suo padre, dividendo con lui il peso di sapere chi avesse effettivamente ucciso la donna più dolce del ghetto di Mizura.

Lanciò un’occhiata alla falce, stranamente silenziosa, mentre guariva le ferite di Indigo lo stretto necessario a limitare il dolore senza lasciare le cicatrici permanenti.

Ma d’ora in poi non c’è più posto per te.

«Mai dire mai, Ran… sia di lezione a entrambi.»

Ran chiuse le ali e guardò Indigo. Vedere quel guizzo vivace e intelligente nei suoi occhi lo rese felice come poche altre volte ricordava di essere stato.

«Riesci ad alzarti?»

«Credo di no… l’UTX è ancora in circolo, non sento le gambe…»

Byakuran rifletté velocemente e annuì.

«Tutto okay. Night Hound è qui vicino che aspetta. Ti lascerò a lui e chiamerà l’unità Volanti per riportarti al campo.»

«Aspetta… tu dove vai?»

«Mi assicuro che quel mostro non scappi di nuovo… aspetterò qui che arrivino le squadre speciali a prelevarlo.»

«Non devi restare qui da solo, Ran! C’erano altri ribelli prima che tu arrivassi… e di là…»

Si interruppe mentre una sirena si accendeva al di là della parete annerita e un lampeggiante verde prese a pulsare. Allertata da Night Hound o dall’esplosione di fiamme, la squadra speciale era arrivata.

Byakuran afferrò la falce in tutta fretta.

«Torno fra un momento, Indi. Un solo momento, e poi andremo a casa.»

Con un battito di ali uscì dal capannone attraverso uno dei molti squarci causati dal fuoco e trovò un’area incolta proprio adiacente. Come già aveva fatto anni prima si mise a cercare una delle grosse tubazioni di scolo risalenti al dopoguerra dove poterla nascondere, e ne individuò una sotto uno strato di fogliame gelato.

«Dunque questo è un addio?»

«Non proprio» ammise Ran, strattonando la rete di protezione. «Tornerò a prenderti per metterti in un posto più dignitoso… ma ora non devono trovarti, e devo portare Indigo a casa.»

«Mhh… priorità, uh? Beh, poco importa.»

Byakuran infilò l’arma più a fondo riuscisse, la coprì con uno strato di rametti e foglie marroni per nascondere il luccichio degli intarsi dorati e richiuse la grata meglio che poté.

«Goditi la vita, Ran… non credere che non tornerò, se vedo che non lo fai~»

Era un congedo insospettabilmente romantico da parte di un’entità perversa qual era, e se solo avesse avuto più tempo e meno preoccupazioni in mente avrebbe potuto trovarlo commovente.

Spiccò il volo per tornare al capannone, ma Zakuro non s’era mosso e Mukuro sedeva contro la colonna, massaggiandosi le gambe per cercare di riprenderne il controllo. Sedette vicino a lui.

«Lasciami fare, Indi.»

Iniziò una terapia ispirata a tecniche di agopuntura che aveva studiato in Cina per velocizzare lo smaltimento del farmaco mentre la squadra speciale, con armi a impulso della Irie Lab spianate, irruppe nel capannone da tre diversi varchi. Fece loro seguito Night Hound, che lanciò uno sguardo imperscrutabile a Zakuro e poi all’amico. Byakuran lo guardò senza parlare e ricevette – con suo stupore – un piccolo cenno di assenso dal suo amico.

Riuscì a sorridere con il cuore un po’ più leggero.

«Lasciamo il resto alle squadre speciali, Indi… al campo ci sono i tuoi compagni che aspettano tue notizie… e un bambino che vuole mangiare con te.»

L’espressione di Mukuro si rilassò come fosse appena stato liberato da una vergine di Norimberga.

«Lo avete trovato…»

«Sì… e sta bene. Stanno tutti bene» lo rassicurò, con una fugace carezza. «Ti porto da loro.»

Prese Mukuro in braccio con delicatezza. Night Hound gli fece un cenno di via libera e Byakuran spalancò le ali. Lanciò uno sguardo a Zakuro, che schiumava rabbia e saliva tentando di divincolarsi dalla presa degli agenti e ringhiava nella sua direzione.

«Ran» gli sussurrò Mukuro. «Non può più fare niente… a te, a me… a chiunque. Lasciatelo alle spalle ora.»

Ancora una volta riconobbe il suo buonsenso e spiccò il volo allontanandosi dal magazzino.

Era finita. Il capitolo più terrificante del suo passato era alla sua ultima pagina e con quella fine avrebbe potuto aprire quello nuovo senza più pesi a schiacciarlo.

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Capitolo 27
*** True colours ***


Note di pianoforte risuonavano nel salotto del dormitorio in una melodia jazz e un profumo di stufato arrivava dalla cucina. Restless sfogliò il giornale sullo schermo del suo e-reader con aria corrucciata.

«Altri quindici arresti per favoreggiamento, ieri… tre Ribelli e una dozzina di idioti che li nascondevano» riepilogò per la comodità di chi lo ascoltava. «Ci credi? Dopo più di due mesi ancora ne pescano.»

«Quelli che prendono danno i nomi di altri. È ovvio che sia così» osservò Mukuro, sorridendo mentre suonava. «Sembra che la notizia che Zakuro sia stato preso abbia convinto parecchi Ribelli che la rivoluzione non sarebbe mai riuscita e che abbiano cantato.»

«Sono dei babbei» sentenziò Restless, e lanciato di lato il reader si stiracchiò. «Noi non faremmo mai così. Se Wing Emperor non ci fosse più noi continueremmo a fare quello che facciamo, non ci arrenderemmo come dei cagasotto.»

«Restless!»

«Che?»

Mukuro fece un cenno eloquente a Sashko e Ryota accanto a lui, che con identiche espressioni vispe ascoltavano la musica e la loro conversazione senza saltare una nota né una sillaba. Restless però scrollò le spalle.

«Dovranno impararle, prima o poi.»

«Non da te e non ora. Non fare il barbaro, Restless, accidenti.»

Si tirò fuori dalla discussione alzando le mani in segno di resa e Mukuro tornò al motivetto jazz che aveva creato di recente. I bambini non distoglievano gli occhi dalle sue mani.

«Bene! Chi vuole provare a ripeterlo?»

«Io!»

Sashko non disse niente, ma i suoi occhietti rossi scintillarono e tese un gran sorriso mentre metteva le mani sui tasti.

«Okay, Bel… comincia tu e poi Ryota continua, va bene?»

Sashko suonò le note sconnesse, ma il motivetto si poteva lo stesso riconoscere. Prese un po’ più confidenza nei righi successivi, poi subentrò il più pratico Ryota: aveva imparato così bene che sospettò di trovarsi in presenza di un piccolo genietto musicale.

«Indi» lo chiamò Kyoya dalla cucina. «È pronto!»

«Oh, sì… provate ancora, ma questa volta cominci tu, Ryota, e Bel ti segue» fece loro, alzandosi dalla panca. «Prendo il tè e arrivo.»

I bambini andavano d’accordo, quindi appena lasciò loro lo spazio si misero seduti più vicini e ridacchiarono per qualche ragione prima di rimettersi a suonare. Mukuro andò alla cucina dove Kyoya stava versando il karkadè in bicchierini di vetro.

«Allora… come va Sashko?»

«Bene, non lo vedi? È silenzioso ma è pimpante. Sta bene» lo rassicurò lui, e li guardò. «Lo sai anche tu, no? Ci si abitua presto a stare meglio quando si viene dal poco.»

Kyoya gli allungò il bicchierino e si mise accanto a lui per parlare abbassando la voce.

«Cambiare il nome basterà davvero a proteggerlo?»

«Uhm… beh, così ha detto il padre di Ran» rispose Mukuro, più esitante. «Non sappiamo quanto sapessero del suo potere… e potrebbe ancora maturare. Bel è piccolo.»

«Qualcuno lo cercherà, prima o poi…»

«Ran ha i diritti di tutore su di lui… e appena le acque si calmeranno lo adotterà, ha detto. Credo che Amber sarà d’accordo, a lei piace Bel. L’altro giorno le dormiva in braccio sul divano.»

Kyoya tormentò un po’ il bicchierino, rigirandolo e strizzandolo.

«Spero sia così…»

«Piace anche a te, vero?»

Senza vergogna annuì.

«Sì… è un bambino che ha bisogno di amore. So come ci si sente a crescere come un oggetto.»

«Aww, quindi anche tu hai bisogno di amore? Vieni qui~»

Mukuro passò il braccio libero dietro la sua schiena e stroncò le sue proteste con un bacio, ma il momento implose quando furono centrati in pieno da uno dei cuscini del divano.

«Prendetevi una stanza, che diamine!» sbottò Restless. «E poi viene a fare le pulci a me sulle parolacce…»

Mukuro raccolse il cuscino dal tavolo e guardò Kyoya sorridendo, senza dire una parola. Non era necessario; lui gli diede un bacio leggero sulle labbra e poi una pacchetta sul braccio.

«Vai e puniscilo.»

Prima che Restless reagisse a quell’ordine tentando la fuga il loto bianco di Mukuro lo aveva bloccato rendendolo un bersaglio indifeso al colpo di ritorno del cuscino.

*

«Che ne dici dell’azzurro chiaro?»

Byakuran aggiunse una manciata di tocchetti di daikon nella pentola prima di guardare verso Amber. Era sommersa di cataloghi e campionari di stoffe, carta da parati e vernici come se le fosse scoppiato addosso l’ufficio di un interior designer.

«Per cosa, Bambi?»

«Il salotto grande, no? Pensa, un divano bello grande, azzurro, magari con un motivo tipo…»

Si fermò per sfogliare un campionario quasi per intero.

«Magari questo, geometrico… insomma, la casa è tua, non è giusto riempirla di fiori come una bomboniera.»

Byakuran trovò tenere le sue accortezze, ma anche buffe.

«Ti ricordi che porto il nome di un fiore, vero?»

«Beh, io mi chiamo Amber, non vuol dire che mi piaccia il legno!»

Lui ridacchiò e si concentrò sul libro che illustrava la tecnica corretta per estrarre la lisca centrale dal pesce e aspettò di individuare il punto d’ingresso della lama prima di risponderle.

«Però se a te piacciono i fiori va bene lo stesso… la sto ristrutturando per viverci con te, dopotutto.»

«Lo so, Ran-chan, però… insomma, non voglio diventare un’erba infestante. La casa poi era di tua madre, no? Cioè, quella che ti ha accolto quando sei scappato…»

«A lei non fai mica un torto. Adorava i fiori, Luce… freschi, secchi o dipinti, li aveva in tutte le stanze, anche in bagno… e in giardino aveva coltivato le rose rampicanti in modo che coprissero tutto il gazebo» le raccontò col sorriso sulle labbra. «Se a te piacciono, mettici i fiori. A me non dispiace, mi ricordano lei.»

Ma Amber era ancora indecisa e decise di mettere da parte quell’idea. Gli mostrò invece il cartoncino con tre sfumature di rosa.

«E per la cameretta? La tua nipotina è femmina, no?»

«Sì, ma… che ne dici di un arancio chiaro?»

«Uh… non rosa?»

«Non è che il mondo sia diviso in rosa e blu, no? Penso solo non dovremmo farci inscatolare fin da piccoli in idee troppo antiquate» spiegò Byakuran, e scrollò le spalle. «Ai bambini piacciono tutti i generi di colori brillanti quando sono piccoli… sono i genitori a dire loro che il rosa e i lustrini sono da femmine… il che è vero, ma è…»

Esitò quando si accorse dell’educata incredulità sul viso di Amber.

«È vero solo perché il resto del mondo ci porta a pensarla così… non trovi?»

«Ran-chan, mi stai dicendo questo perché vuoi dipingere di rosa la tua sala yoga?»

«No!» esclamò lui, indignato. «Anche se… beh, non ci sarebbe niente di male se volessi, no?»

Amber ridacchiò divertita.

«Mi piace tanto il nuovo Ran-chan» fece lei compiaciuta. «A vedere Wing Emperor pensavo saresti stato il tipo di marito che vuole la moglie a casa a cucinare e allevare bambini educati come soldatini e invece sei qui a cucinare per me e a dire che vuoi una sala yoga rosa.»

«Veramente questo non l’ho detto… anche se il rosa è associato al chakra del cuore, è un colore piuttosto riposante…»

«Ti tengo da parte i campioni di vernice rosa… li metto nel catalogo del parquet, tanto vuoi metterlo nella tua sala, giusto?»

Mise i cartoncini di sfumature rosa in uno dei molti plichi sparsi sul tavolo e in quel mentre la porta d’ingresso si aprì. Nessuno dei due si sorprese di vedere Night Hound; era l’unico che entrasse senza bussare.

«Ho riconosciuto tutti gli ingredienti e ancora non ho idea di che cosa tu stia cercando di cucinare, Byakuran» esordì a mo’ di saluto. «Ciao, Amber.»

«Ciao» fece lei allegra. «Come mai qui? Hai sentito odore di curry e sei arrivato per un invito a cena su due piedi?»

«No, perché dovrei rifiutarlo, ho già un impegno a cena.»

Fu così evasivo nel dirlo che Byakuran – anche senza super poteri – subodorò che c’entrasse la bella donna elegante che negli ultimi mesi si era palesata al cancello dell’Accademia circa una volta alla settimana. Si voltò per lanciargli un sorrisetto malizioso e dal modo in cui mise su la sua miglior pokerface dedusse che nascondeva qualcosa.

«E quindi che fai qui? Eri di passaggio mentre andavi all’uscita posteriore?»

Kikyo evitò di specificare anche questo.

«Hanno lasciato un messaggio per te e… pensavo dovessi vederlo con urgenza. E dovrei accennarti una cosa… ti dispiace se ne parliamo fuori?»

Si rivolse criptico ad Amber mentre Byakuran, perplesso, si sfilava il grembiule.

«Perdonami, Amber. Cose da uomini, sarebbe indelicato parlarne davanti a te.»

«Mi sorprende molto che tu e Ran-chan abbiate anche argomenti da uomini…»

Kikyo accusò il colpo, ma l’amico lo trascinò fuori prima che potesse pensare di replicare a una palese ironia. Non lo sorprese: quando era preso da qualche donna diventava incapace di percepire sfumature quali l’umorismo.

«Beh? Che succede, Kikyo?» gli chiese quando furono vicini alla strada, a debita distanza dalla porta. «Hanno lasciato davvero un messaggio?»

«Sì… quel tuo amico di Tokyo, Goathen, ha mandato un’e-mail. Dice che il lotto che gli hai detto di controllare sta per essere ceduto a una nuova società» snocciolò Kikyo, accigliato. «Stai comprando proprietà immobiliari a fini speculativi o c’è qualcosa che dovrei sapere?»

Byakuran sospirò, in parte di sollievo e in parte per l’improvvisa incombenza che gli si presentava.

«Sì. Ho chiesto a Goathen, visto che lavora al distretto di Minato, di farmi sapere se il lotto dietro il capannone dove ho combattuto Zakuro veniva messo all’asta o rimesso in attività in qualche modo… ho nascosto lì la Fallen Angel l’altra volta.»

«Che cosa?!»

«Non potevo lasciare che me la prendessero per farci degli esami per la commissione… è pur sempre un’arma che non ho mai dichiarato di avere, quindi è illegale» puntualizzò Byakuran. «Visto com’era ridotto Zakuro rischiavo che me la portassero via. Quella non deve toccarla nessuno.»

«E l’hai lasciata in un lotto abbandonato?!»

«Sì… era un lotto vuoto, senza autorizzazioni di costruzione. L’ho nascosta in un condotto di scolo…»

«Ma come ti è venuto in mente?!»

«L’ho fatto anche quando ho lasciato il ghetto ed è rimasta lì finché non la sono andata a recuperare per metterla nel magazzino sette. Non l’ha mai trovata nessuno.»

Ovviamente Kikyo pensava che ciò dimostrasse solo che aveva avuto una pessima idea per due volte, ma si sforzò di non ribattere il punto.

«E ora la rimetterai lì?»

«No… io… credo che abbia assolto il suo dovere, e io il mio… andrò a prenderla domani sera, col buio… e la porterò all’area Grandi Incendi. Ora non la usiamo più ed è una zona protetta e molto grande. La nasconderò per bene… non verrà più fuori finché saremo in vita, e per molto tempo ancora, probabilmente.»

«Sarei molto più tranquillo se la distruggessi, Byakuran.»

«Non credo sia possibile, anche se lo volessi… come dici tu, non è di questo mondo, e io non ho neanche lontanamente un potere capace di arrecargli dei danni.»

Kikyo rimuginò in silenzio, cercando una soluzione più soddisfacente, ma si arrese presto.

«L’area Grandi Incendi, eh…?»

«Un’area dismessa non più necessaria per un’arma non più necessaria» confermò Byakuran, sorridendogli incoraggiante. «Questa volta non ti dirò bugie. Intendo metterla laggiù e non riprenderla mai… dopo quello che è successo a Tokyo, la cattura di Zakuro e come hanno reagito gli altri Ribelli, non ci saranno più rivolte.»

«È inquietante che Zakuro fosse diventato come te… un simbolo» specificò Kikyo. «Era a lui che quei Ribelli guardavano per trovare forza nella ribellione violenta… come gli Auris non violenti hanno guardato a te in tutti questi anni.»

Byakuran dedicò a queste parole un sorriso nostalgico.

«Non me ne parlare… è stato così strano dimettermi dal Coordinamento Generale… faccio ancora fatica ad abituarmi a essere solo il capo coordinatore dell’unità di soccorso e ad avere così tanto tempo libero. Ci pensi che fino a maggio non avrò un singolo viaggio in programma? È quasi ridicolo!»

In effetti ne rise, ma era contento di aver seguito il consiglio del suo studente ed essersi preso del tempo prima di essere troppo vecchio, o peggio defunto. Ora passava i giorni a pianificando la ristrutturazione la villa di Luce, imparando a cucinare, dipingendo. Il resto del tempo era con Amber, con Mukuro e con Bel, ed era meglio di qualsiasi vita Wing Emperor fosse mai riuscito a concepire.

Quasi l’avesse evocato con il pensiero Bel arrivò di corsa e prese a saltellargli intorno.

«Posso cenare con Kuro-nii?»

«Oh… di nuovo?»

«Ti prego!»

Kikyo gli lanciò un’occhiata compiaciuta, quasi la sua nuova strana famiglia fosse opera sua. Byakuran guardò Bel nei suoi occhi luminosi da gatto e cercò di mettere su la migliore faccia seria che avesse.

«Okay, ma è l’ultima volta! Io e Amber ti vogliamo a casa per il resto della settimana. Chiaro?»

«Chiaro!»

Bel schizzò via come il disco in una partita di hockey.

«E torna subito dopo cena!» gli gridò dietro.

«Divertente la paternità, eh, Byakuran?»

«Beh… visto da dove è arrivato, non mi posso lamentare se è un po’ scalmanato… pretenderò un po’ più di disciplina quando arriverà all’età della scuola.»

«Penso che ve la caverete, tu e Amber… e poi quando Yuni verrà a trovarti a ristrutturazione finita potrai allenarti con tua nipote. Come l’ha chiamata, hai detto?»

«Comet» ripeté Byakuran, con una vaga smorfia. «Lo so, ma è un retaggio di famiglia… Luce, Aria, Universe… a quanto pare, la mamma di Luce si chiamava Eagle, e sua madre si era fatta cambiare nome in Magnolia. Pare sia la capostipite del matriarcato delle Devino, o come si chiamavano all’epoca.»

«E in quanto un Devino anche tu, devi rispettare l’eredità di famiglia o sei esonerato perché adottivo?» lo punzecchiò Kikyo, divertito. «Come li chiamerai i tuoi figli? Orchid? Feather? Beh, persino Amber rispetta la tradizione delle donne Devino!»

«Micah. Si chiamerà Micah. Che sia maschio o femmina.»

Non dubitava che Kikyo capisse al volo, e così fu. Sorrise con una traccia di tenerezza.

«Ottima idea. L’approvo.»

«Sapevo che l’avresti fatto… e la tua lei? Ne avete parlato?»

Kikyo si indispettì alla velocità della luce; reagì come un gufo a cui si arruffano le penne.

«Non c’è nessuna lei… non… beh, non siamo neanche lontanamente a quel punto della relazione!»

«Oh-oh, senti senti~ e la conosco? Eh?»

«Non ho intenzione di…»

Le sue penne si sgonfiarono di colpo. Ricompose la sua espressione e Byakuran dovette riconoscere che non lo vedeva così emozionato da tempo.

«Sì. Sto uscendo di nuovo con Vera… sai, dopo la rivolta l’ho incontrata a Roppongi, lavora in un–»

«Un piano bar, lo so. Io e Indi l’abbiamo vista quando ce l’ho portato a dicembre…»

«Sì… e, insomma… abbiamo parlato un po’ e ci siamo visti senza pretese. Mi sono sentito particolarmente… a mio agio con lei. Credo sia una buona idea darci una seconda chance.»

«Io credo nelle seconde chance.»

Kikyo sorrise e guardò verso l’appartamento. Amber sbirciava dalla finestra, di certo in ansia perché si attardavano tanto. L’amico gli diede una pacca sulla spalla.

«Siamo uomini molto fortunati, Byakuran.»

«Lo so.»

«Torna alle tue ricette e ai colori… domani sarai via, quindi immagino ci vedremo dopodomani.»

«Sì. Passa una bella serata con Vera… se capita, salutala da parte mia e dille che ora lo conosco il trucco della vodka senza aprire la bottiglia!»

Kikyo scoppiò a ridere e lo salutò, poi si allontanò per salire in macchina. Byakuran fece ritorno verso l’appartamento, assorto nei suoi ultimi doveri – così almeno li reputava – come Wing Emperor: portare in un luogo sicuro la Fallen Angel, seppellirla insieme a tutto ciò che faceva male e che appesantiva il suo viaggio, e guardare solo al futuro.

*

Mukuro si alzò dalla sedia e porse il bicchiere a Sashko – che abbandonò la cotoletta che stava fagocitando come un grosso criceto – perché ci sbattesse la forchetta sopra. Il rumore silenziò le allegre chiacchiere in corso al tavolo, ma il bambino continuò imperterrito finché non lo bloccò con la mano.

«Okay, grazie dell’aiuto, Bel. Basta così.»

Posò la forchetta per riprendere a mangiare con le mani e Mukuro cercò di assumere un contegno formale che strappò un risolino a Kyoko e fece scuotere la testa a Tsunayoshi.

«Miei cari amici e compagni» esordì in un voluto tono pomposo, «siamo riuniti qui stasera per festeggiare la conclusione di un periodo buio e tortuoso che gli adulti tendono a rimpiangere, meglio noto come “anni di scuola”…»

Quasi tutti risero, ma Kyoya gli lanciò un pezzo di cracker. Purtroppo l’idea sembrò divertente a tutti i maschi del tavolo e ognuno di loro gli lanciò qualcosa; apprezzò almeno il fatto che scegliessero qualcosa che non gli sporcasse i vestiti.

«Boo!»

«Ritirati!» esclamò Restless, nascondendo a fatica un sorrisetto divertito.

«Okay, okay, ho capito, sarò breve!» si arrese Mukuro. «Classe S, siamo arrivati alla conclusione della nostra istruzione e alla fine degli esami! Non restano più ostacoli tra noi e la gloria!»

Uno scoppio di applausi irregolari seguì le sue parole e Love emise un urletto di festeggiamento. Quando alzò il bicchiere di limonata tutti lo imitarono e persino Sashko sacrificò una mano – che stava arraffando patatine fritte per riempirsene la bocca – per alzare il suo bicchiere di plastica.

«Classe Lotus, ottimo lavoro! Kanpai!»

«Kanpai!» urlarono in coro tutti i membri della classe.

Tutti bevvero e Mukuro si sedette mentre si servivano da mangiare dall’immenso banchetto preparato per l’occasione. Dopo aver servito una seconda porzione a Sashko e aver preso un sontuoso taco di pesce – opera di Kyoya – decise di parlare ai ragazzi di un’altra questione importante.

«Già che ci siamo, c’è una cosa che vorrei dirvi… qualcuno di voi lo sa già» esordì, e Kyoya gli sorrise incoraggiante. «Tutti vi siete accorti delle assurde nottatacce che ho fatto per finire in tempo il pezzo per Eien Sugiwara, immagino…»

«No, davvero? E io che pensavo che il pianoforte fosse stregato» commentò ironico Restless.

«Beh, dopo il diploma non avrò, spero, questo problema… ho deciso di dedicarmi alla mia carriera musicale.»

Le facce delle ragazze rivelarono un po’ di delusione, Yamamoto ne fu sorpreso, ma tutti sorridevano intorno a lui.

«Davvero? Grandioso!» commentò Breaker, entusiasta. «Le cose ti stanno andando bene, vero?»

«Sì, in realtà… l’album di Selina Tao sta vendendo bene, e Sugiwara è un astro nascente… il mio agente è pronto a prendere ingaggi per me non appena lascerò l’Accademia, quindi dovrei passarmela bene.»

«Dove andrai?»

«Al momento starò qui in un alloggio della scuola… appena sarò ufficialmente scritturato nell’etichetta Trickster riceverò uno stipendio regolare e degli extra a progetto, quindi dovrei essere in grado di pagarmi un appartamento. Penso andrò a stare a Tokyo.»

«Wow! Chissà noi dove verremo impiegati…»

Per buona parte della cena la classe parlò delle possibili dislocazioni della squadra basandosi sugli uffici in cui c’era carenza di personale, e di cosa avrebbero fatto di lì a una settimana, dopo la fine dell’anno ufficiale. Molti di loro sarebbero tornati a casa dalle loro famiglie e Mukuro pensò che forse se la sentiva di fare un’ultima visita a Kokuyo prima di sparire nella capitale…

Poi guardò Kyoya, intento a rifocillare Sashko e Ryota con l’insalata di pollo, e decise che avrebbe passato ogni minuto di quel tempo con lui. Purtroppo non c’era modo di sapere dove sarebbe stato dispiegato e avrebbe potuto essere incluso nell’ufficio di Okinawa così come in Hokkaido, lontano da Tokyo e da lui. Avevano parlato della situazione e deciso di agire con maturità e concentrarsi sull’avvio di una carriera, per poi costruire una relazione.

Sarà difficile separarsi da lui… è più di un anno che siamo sempre insieme, e io non sono abituato a vivere da solo. Sarà malinconico all’inizio…

«Kuro-nii» lo chiamò Sashko interrompendo i suoi pensieri. «Costolette!»

«Hai già mangiato anche l’insalata? Per la miseria…»

Enma fece fluttuare verso di loro il piatto delle costolette alla birra preparate a sorpresa da Restless e gliene servì altre. Il bambino le fissava con quegli occhietti brillanti di entusiasmo.

«Mangia più di Breaker, quel nanetto» commentò Restless, che lo stava guardando. «Sicuro che sia un bene lasciarlo abbuffare così?»

«Sì, mangia un sacco… ma dipende dal suo potere, sembra. Quando deve rigenerare le ali consuma una grande quantità di calorie, quindi mangia moltissimo… quando sono complete l’appetito cala.»

«E questo in che anno capiterebbe? Perché da quando è arrivato ha sempre mangiato così.»

Mukuro si rabbuiò leggermente mentre guardava il bambino rosicchiare le costolette.

«Perché appena sente che le ali sono pronte le spalanca e prova a volare… e poi quando consuma l’energia muoiono e cadono, e siamo di nuovo daccapo.»

«Mocciosi impazienti» fu il commento di Restless prima di mangiare una polpetta.

«E neanche sa volare ancora… beh, probabilmente crescendo anche le ali diventeranno più robuste e durature… almeno lo spero, per lui.»

«Per poco non ci lasci la pelle per salvarlo, sarà utile che diventi forte!»

«Che pensiero meschino, Restless.»

Lui fece spallucce.

«L’universo funziona a entropia. Il minimo che possiamo fare è assicurarci che quello che perdiamo sia almeno pareggiato da quello che otteniamo.»

«Gokudera, basta sciocchezze» lo rimproverò Breaker con il sorriso consueto. «Potrebbero essere gli ultimi giorni tutti insieme per un bel po’ di anni, o gli ultimi di sempre. Sii allegro e niente pessimismo cosmico.»

Mukuro si aspettava una reazione sarcastica al parolone di Breaker o una sbottata sull’uso del suo nome vero, ma Restless si arrese docilmente e promise di non parlare di nulla che non fosse degno di studenti con il futuro radioso.

Questo, più di qualsiasi altra cosa detta o accaduta nelle ultime settimane, fece capire davvero a Mukuro quanto quella classe fosse simile a una famiglia. Una famiglia che stava per separarsi.

*

Gli scheletri degli edifici distrutti dalle fiamme erano spettrali sotto la luce di una luna non completamente visibile. Il luogo aveva l’aura inquietante e sacra di un mausoleo antico, di un luogo lasciato immobile a memoria di un doloroso disastro.

Byakuran camminava lungo una delle strade invase dai detriti rimuginando sull’esercitazione Grandi Incendi e, ancora una volta, pentendosi di non essere stato presente per preparare Indigo a quello che avrebbe trovato o dopo per aiutarlo a superarne le conseguenze psicologiche.

Che paura deve aver avuto a Tokyo quando si è trovato dentro una situazione reale drammatica come l’esercitazione finale… ma si è comportato in modo eccellente. Ormai non è più il ragazzino spaurito che ho portato via da Kokuyo…

Ne aveva tirato fuori un giovane uomo forte, sicuro di sé, e coscienzioso per la sua età. Aveva l’entusiasmo di un ragazzo, ma le virtù necessarie per essere un uomo di statura, uno che avrebbe fatto la differenza in positivo nel mondo anche abbandonando il ruolo di Civil Hero.

Quando gli aveva comunicato le sue intenzioni non era stato molto felice di veder sprecato un così brillante eroe, ma aveva rispettato la sua decisione di dedicarsi alla propria passione. Dopotutto si era sacrificato apposta perché un giorno non dovessero sacrificarsi gli altri.

«Era la sola cosa da fare, vero…?»

«La sola cosa che Ran avrebbe fatto. Qualsiasi altra opzione sarebbe stata un’idea di Wing Emperor, e sai come la penso sulle sue stupide idee.»

Byakuran sorrise nel buio. C’era un alito di vento che muoveva le piume viola della Fallen Angel e creava un lieve sibilo passando nel tortuoso labirinto di pareti, finestre senza vetri e strettoie dell’area.

«Sembrerà una domanda stupida, ma… tu… tu che cosa farai, adesso?»

«Quello che faccio sempre, Ran… osservo e aspetto.»

«Che cosa aspetterai?»

«Il tuo ritorno.»

Si fermò di colpo mentre scendeva da un cumulo franato mesi or sono e guardò la falce. La sua lama splendeva sotto la luna più di qualsiasi altro oggetto visto in chilometri di viaggio.

«Lo sai che non tornerò… ora non ho più bisogno di te, o di un potere così grande…»

«E sentiamo, che cosa mi suggeriresti di fare?»

Il suo tono non era accusatorio, bensì curioso. Byakuran però riuscì a sentirsi in colpa comunque, e immaginava Kikyo sgridarlo per aver provato pietà per un oggetto animato da poteri occulti.

«Non hai… beh… un posto dove ritornare? Dove ti trovavi prima di arrivare nel ghetto di Mizura?»

«Ora che ci stiamo per separare all’improvviso ti importa da dove arrivo, che cosa voglio o che cosa farò? Non so se commuovermi per la tenerezza o se esasperarmi per la tua stupidità.»

«Mentre decidi potresti rispondere.»

La Fallen Angel restò in silenzio così a lungo che Byakuran si convinse che non avrebbe più parlato e riprese la strada. Era vicino al punto in cui riteneva più sicuro nasconderla: nel cuore dell’area, in un posto difficile da raggiungere e il più possibile pericolante in modo da scoraggiare chiunque fosse stato tanto ardito da arrivare in vista.

«Vengo da dove venite tutti voi» rispose a sorpresa la voce maschile. «Dal luogo in cui le anime tornano e ripartono. Un’enorme stazione ferroviaria dello spirito di cui sono una sorta di controllore.»

«Davvero?»

«Mh-mh. Controllo che le anime viaggino all’orario che è stato stabilito per loro.»

«Okay, ora mi stai prendendo in giro. Non è carino da parte tua.»

«Ahah! Come te ne sei accorto? Non mi avevi mai smascherato prima!»

«Conosco persone che parlano con gran serietà quando mentono e sono scherzosi quando dicono la verità. Anche tu sei così, no?»

La voce maschile scoppiò nella risata più fragorosa che gli avesse mai sentito fare.

«Potrei avere un pochino esagerato, sì… ma Ran, ti posso almeno dire che se mi hai trovato in quel cumulo di macerie pochi giorni dopo la morte di quel bambino tuo amico è perché prima della sua morte non ero lì.»

«Che… che cosa? Micah?» domandò lui, sconcertato. «La morte di Micah c’entra in tutto questo? C’entra con te?»

«Si può dire che sia il centro di tutto, mio sciocco ragazzo~ la tua vita non sarebbe mai stata così, e non saresti mai stato felice se lui non fosse morto.»

Nella sua memoria Micah era rimasto impresso come un amabile bambino, più piccolo di lui e infinitamente più dolce e fragile. Il suo sorriso era stampato come una polaroid nella sua testa e bastava chiudere gli occhi per rivederlo con la stessa nitidezza… un bambino che era sempre dietro a lui e a Kikyo, da quel che ricordava. Un bambino che gli aveva sorriso fino all’ultimo istante prima che Zakuro lo buttasse fuori al freddo e lo condannasse a morte, debilitato da una polmonite grave.

«Come… come avrebbe potuto la sua vita rendermi infelice? È stato straziante perderlo!»

«Sì. Ma dovrei raccontarti troppe cose alle quali non sei pronto a credere per dimostrarti la concretezza del mio ragionamento~»

Forse stava girando il coltello nella piaga infliggendogli un’ultima tortura prima dell’abbandono, ma per quanto strano fosse Byakuran sapeva di potersi fidare – il più delle volte almeno – dello spirito dentro quell’arcana arma.

«Oh, una cosa immagino di dovertela dire, però… è da quando mi hai preso a Tokyo che qualcuno ti sta seguendo. E ora è proprio dietro quella parete.»

L’esclamazione di stupore di Byakuran gli uscì spontanea dalla bocca quando qualcosa lo colpì dietro il collo. Barcollò in avanti e puntò l’asta della falce per reggersi in piedi mentre con una mano tastava alla cieca e sfilava qualcosa di estraneo; l’esaminò nella poca luce e capì che era un dardo usato per addormentare gli animali feroci.

No… non devono vedere Fallen Angel… non devono…

Byakuran fece un passo incerto e crollò sulle ginocchia. Provò ad aprire le ali e per la prima volta in vita sua non ci riuscì. I contorni del mondo si facevano foschi e capì di essere appena stato drogato con l’UTX.

«Fa… llen…»

Quando cadde in avanti portando con sé l’arma il cecchino abbassò il fucile di una spanna. Assicuratosi che il bersaglio non si muoveva contattò il resto della sua unità dalla trasmittente.

«Alpha-Foxtrot a India-Tango. Bersaglio neutralizzato. Potete procedere al recupero.»

La voce che sentì nell’auricolare gli impose più rispetto di quello dovuto al suo comandante delle operazioni.

«Il cesto è carico, Alpha-Foxtrot?»

Per scrupolo il cecchino usò il mirino per ricontrollare.

«Affermativo, colonnello Reiner. È carico.»

«Ritirati, Alpha-Foxtrot. Ben fatto, ragazzo.»

«Ricevuto. Passo e chiudo.»

Il cecchino chiuse il collegamento radio e prese con calma a smontare il fucile per riporlo. Aveva quasi finito quando guardò giù verso Wing Emperor, una macchia chiara sul cumulo di macerie fuligginose a un chilometro e mezzo di distanza.

Si sfilò il passamontagna e si passò la mano nei capelli per scompigliarli com’era abituato a fare. Il volto di Viperlance venne attraversato da un sorriso di gioia selvaggia, ai limiti della sanità mentale.

«Peccato che non potrò mai vantarmene con Restless Storm.»

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Capitolo 28
*** Wherever the angels are ***


Night Hound tornò all’Accademia Auris dopo essere stato fuori l’intera notte, a casa di Vera. Era stato un tipo impetuoso nei suoi anni giovanili ma non per questo facile a impegnarsi, e l’essere rimasto a casa di una donna con cui aveva appena cominciato – o ricominciato – a uscire lo elettrizzava e scandalizzava al tempo stesso.

Voleva parlare con Byakuran il prima possibile. Non che l’amico fosse un genio delle relazioni e il disastro che aveva combinato in quegli anni con Amber lo dimostrava, ma Night Hound confidava che parlarne ad alta voce con lui avrebbe aiutato a ordinare le idee e rivedere le priorità.

Si fermò lungo la strada che portava verso gli appartamenti solo perché una curiosa scenetta attirò la sua attenzione: Mukuro camminava all’indietro sul marciapiede mentre un bambino dall’aria familiare con delle ali da pipistrello invece a lui sconosciute svolazzava – il termine volare dava l’idea di un movimento fluido e composto che non era quello – tenendogli la mano. Era come guardare Indigo maneggiare uno strano aquilone.

«Che state facendo?» chiese loro mentre abbassava il finestrino.

«Lezioni di vo– attento!»

Mukuro prese il bambino quando la voce inattesa lo distrasse facendolo abbassare di colpo. Dovevano esserci abituati, perché Night Hound vide della fluidità nel movimento che fece per spingerlo in alto per fargli riprendere quota.

«Stai concentrato, Bel. Concentrato

«Stai insegnando a Belial a volare?»

«Non male per uno senza ali, eh?» se ne compiacque il ragazzo. «Ran non vuole che voli finché non sarà più grande, ma prova comunque a usare le ali ogni volta che le rigenera. Tanto vale che si eserciti, no?»

Personalmente Night Hound non aveva nulla in contrario, anche se capiva che il suo amico era preoccupato per l’incolumità di un bambino fin troppo esuberante.

«Concordo» replicò allora. «Ma fai attenzione… non lasciarlo provare da solo. Se si fa male sai come se la prenderà a male Byakuran.»

«Se se la prende a male gli dirò chiaro e tondo che poteva insegnargli lui. Visto che di ali ne ha sei.»

«Otto.»

«O… otto? Davvero?»

«Arriva fino a otto… ma dice che sono scomode per volare, quindi ne usa sei al massimo. Ha molti segreti ancora da svelare, il buon vecchio Emperor» commentò col sorriso Night Hound. «A proposito, sai dove sia adesso?»

Stava per replicare quando Belial planò in braccio a Mukuro e gli si aggrappò addosso come un cucciolo di koala. Con sommo stupore vide le sue ali di pipistrello diventare pallide e raggrinzite e afflosciarsi come sacchi svuotati.

«Che succede?»

«Oh-oh… tempo scaduto, Bel-chan.»

Indigo offrì un sorriso consolante e una carezza al bambino, che sembrava aver perso gioia ed entusiasmo del volo nell’attimo stesso in cui non fu più in aria.

«Credo che Ran sia a casa con Amber. Non era a scuola fino a venti minuti fa, e avrebbe dovuto tenere l’ultima lezione coi guaritori… quindi o è impegnato a dipingere qualcosa o è Amber che lo impegna, se capisci cosa intendo.»

«Capisco, sì.»

«Stavo portando Bel da lui, ci dai un passaggio?»

Night Hound fece loro un cenno e Indigo salì in macchina; Bel non diede segno di considerare l’idea di mollarlo. All’insegnante fece tornare in mente un certo tipo di piccoli pipistrelli che si aggrappavano al corpo della madre finché non diventavano grandi abbastanza per staccarsi e volare.

In pochi minuti furono a destinazione e Night Hound fu sollevato che le ali di Bel si staccassero con lo stesso rumore di una foglia secca strappata solo dopo essere sceso dalla sua auto. Inspiegabilmente, secondo il suo naso il bambino era felice.

Forse è come perdere un dente da latte, per lui.

Il trambusto portò Amber a uscire dalla porta e lanciò loro un abbagliante sorriso.

«Kikyo, ciao! Ciao, Indi, Bel-chan, vi siete divertiti stamattina?»

«Ho volato!» squillò Bel con quella sua vocetta acuta.

«Ma che bravo~ ora hai fame, quindi?»

«Voglio un panino grande così!»

Bel allargò le braccia e Indigo ne approfittò per prenderlo sotto le ascelle e portarlo dentro sottobraccio come un pacco postale, annunciando che ci avrebbe pensato lui alla merenda. Dagli odori che mandavano avrebbe giurato che Indigo si divertisse tanto quanto il bambino quando erano insieme.

«È bravo coi piccoli, si vede che è abituato ad averne intorno» commentò Amber sorridente, e si spostò i capelli dal viso. «Allora? Tu e Ran vi siete divertiti, invece?»

«Io e… a fare cosa?»

«Ran ha detto che andavate insieme in un locale con la musica dal vivo…»

Non aveva superpoteri noti, ma da come si rabbuiò avrebbe detto che gli aveva letto il pensiero.

«Non eravate insieme, vero? Dov’è andato?» indagò lei minacciosa. «Se è tornato al quartiere della luna crescente, io lo eviro, lo–»

«No… no. Amber, vuoi dire che non è ancora tornato?»

«Tornato da dove?!»

Spazientito ma nel profondo terrorizzato alzò le mani come a voler respingere fisicamente le proteste di Amber.

«Amber, per favore. Lo hai visto o sentito stamattina?»

«No, è da ieri sera che non lo sento… Kikyo, che cosa succede?»

«A che ora? Quando lo hai sentito l’ultima volta?»

Aveva paura. Il cuore gli martellava nel petto ed era una sensazione alla quale non era abituato. L’idea che il suo amico fosse sparito mentre andava a riprendere quell’oggetto infernale era più forte di lui e della sua tempra, lo raggelava per la paura di cosa sarebbe potuto accadere.

«Io… credo… ho letto il suo messaggio stamattina, aspetta…»

Con mani tremanti armeggiò nel cellulare e gli mostrò lo schermo.

«L’ho letto stamattina perché mi sono addormentata, ma…»

Night Hound lesse del messaggio di lei che gli chiedeva come procedeva la serata inviato intorno alle undici, e la sua risposta rassicurante e breve inviata verso l’una. Premettendo che non avesse avuto difficoltà a raggiungere il magazzino e a ritrovare il punto in cui aveva nascosto l’arma, a quell’ora sarebbe dovuto essere all’area Grandi Incendi.

Potrebbe essere rimasto bloccato lì… se Byakuran non può respirare correttamente le sue ali si indeboliscono. Potrebbe esserci stato un crollo, è un’area instabile.

Le restituì il cellulare e scese i due gradini davanti all’ingresso.

«Kikyo… Kikyo, dove vai?!»

«So dove doveva andare stanotte… e non era nessun’altra donna» precisò, per rasserenare almeno in parte Amber. «Andrò a dare un’annusata lì. Può darsi che lo trovi… o che semplicemente abbia perso una corsa di ritorno. Se dovesse tornare mentre sono via telefonatemi, d’accordo?»

«Sì, ma–»

Night Hound chiuse lo sportello e mise in moto con un rombo che fagocitò il resto della frase; fece una brusca inversione colpendo un cordolo e tornò in strada alla velocità più alta che un ragionevole equilibrio tra assennatezza e urgenza suggerissero.

C’era una piccola probabilità che Byakuran non fosse stato in grado di rientrare in volo, data la lunga percorrenza e il freddo dell’aria alta, e che in quel momento si trovasse sul primo shinkansen di ritorno da Tokyo… ma qualcosa dentro Night Hound sospettava. Non avrebbe mai lasciato che amici e famiglia si preoccupassero: avrebbe chiamato, mandato un messaggio, o fatto spedire un telegramma a scuola alla peggio. Era Wing Emperor, chi non l’avrebbe aiutato facendo per lui una chiamata se fosse successo qualcosa al suo già sfortunato cellulare?

Dopo molte ore di chiamate senza risposta e ipotesi sempre più azzardate, Night Hound era arrivato a Tokyo e qui si era fatto guidare dall’odore. Chiudendo gli occhi focalizzò la sua attenzione solo sulle sensazioni olfattive e captò una traccia dell’odore del suo amico davanti alla mappa all’uscita della stazione. Aveva preso il treno per arrivare in città e aveva controllato dove si trovasse il posto.

La stampa non era mai venuta a saperlo, ma Night Hound riusciva a concentrarsi su un odore specifico quando chiudeva gli occhi con un’efficienza e precisione esponenziali: nel buio dietro le sue palpebre l’odore gli arrivava come luce con una forma, un colore e un’intermittenza specifici a seconda delle tracce dominanti.

Isolò una forma bianca fumosa dal pulsare pigro in mezzo al più confuso dei quadri possibili e lo seguì fino al capannone, dov’era molto più forte; poi nel lotto adiacente fino a una rete di protezione strappata da una tubazione. L’odore era intenso: era stato lì da poco tempo e si era trattenuto per almeno qualche minuto.

Ha preso la falce… fino qui è andato tutto liscio.

Per l’area Grandi Incendi non c’erano treni né autobus, trovandosi in un’area privata circondata da un perimetro di terreno roccioso e incolto in mezzo a un bosco. Non era una zona dove era consigliabile che la gente comune andasse durante o dopo le esercitazioni, e la ragione principale erano appunto le architetture instabili dopo essere state consumate da incendi di vastità spaventosa.

Night Hound si aspettava – quasi sperava – di trovare lì il suo amico, magari rimasto scioccamente intrappolato da un crollo o qualcosa di simile, ma quando arrivò quasi al centro dell’arena dove il suo odore era più forte trovò solo il segno di una lama affondata pochi centimetri nel terreno coperto di carboni, un capello bianco intrappolato in una scheggia di legno bruciacchiata e una piccola goccia di sangue asciutto.

Era qui… è caduto…

Sfiorò appena i segni sul carbone misto a cenere con le dita.

Aveva la falce in mano quando è caduto… si vede la forma… ma ora… dov’è?

Seguendo l’odore del sangue intorno alla zona percepì marginalmente la traccia di altri individui. Plausibilmente, tutti maschi. Odore di polvere da sparo, lubrificante per armi e lucido da stivali. Persino lo smalto e il metallo.

«Militari armati… e un ufficiale con le medaglie con sé.»

Mentre camminava in cerchio attorno al punto con le tracce visibili qualcosa attirò l’attenzione dei suoi occhi, acuti non quanto il naso ma più della norma. Si chinò a spostare i residui e rinvenne un filamento di piuma. Annusò. Una piuma artificiale impregnata di un odore pungente che Night Hound non esitò a riconoscere… ma più difficile fu trovarvi una spiegazione.

«Cosa ci fa qui una piuma toccata da Viperlance…? Non mi risulta abbia mai fatto l’esercitazione Grandi Incendi…»

Per scrupolo Night Hound la raccolse e la ripose con cura nelle pieghe di un fazzoletto. La scomparsa di Byakuran avrebbe potuto essere solo un malinteso sui suoi spostamenti, ma solo prima di rinvenire una goccia del suo sangue, i segni di lama per terra, l’odore dei militari e quello di uno studente dell’Accademia su una piuma.

Purtroppo la sola compresenza di Wing Emperor e militari armati rendeva vane tutte le più innocue ipotesi di Night Hound.

 

*

 

Era il quinto giornale che sfogliava, ma le poche pagine dedicate all’inspiegabile assenza di Wing Emperor ai suoi appuntamenti formali non fornivano spiegazioni ufficiali. Masamune Mazuya scorreva quelle pagine piene di nulla con occhi angosciati e cuore pesante da quando Indigo gli aveva telefonato per informarlo che nessuno riusciva a trovare Byakuran.

Mazuya ripose il quotidiano quando arrivò alle notizie locali e prese la tazza di tè verde con una mano e con l’altra un vecchio orologio da tasca. All’interno il meccanismo non funzionava più bene, così lo aveva trasformato in un pendente con le fotografie delle sue più preziose donne: Minako, la sua defunta moglie, e Sagiko, la sua fiamma giovanile.

Era strano tenerle vicine, fronte a fronte. La buona moglie e la più dolce delle perdizioni, la donna di sostegno, comprensione e affetto sincero contro la ragazza che aveva portato il caos, lo zampillo di una gioia e un amore viscerali, l’icona dell’educazione e della compostezza contro quella della sregolatezza e della spontaneità.

«Mie care» mormorò loro affranto, «che cosa posso fare? Mio figlio è forse già con voi?»

Il solo pensiero gli annebbiò la vista e chiuse gli occhi per ricacciare le lacrime. Con un sospiro appesantito tornò a guardare i due volti e li accarezzò col pollice, prima una e poi l’altra.

«Minako cara, se puoi cerca di aiutarmi con nostro figlio… non so più che cosa fare con lui. È così rabbioso da quando te ne sei andata…»

Esitò e sorrise con fatica alla foto di Sagiko, copia di quella che aveva donato alla mostra.

«Tu… sai già che cosa fare, mia cara. Di certo, ovunque lui sia tu sei lì a proteggerlo… nelle ali che gli hai dato.»

L’apertura della porta d’ingresso riscosse Masamune Mazuya, che si asciugò gli occhi col dorso della mano e tentò di ricomporsi, ma non richiuse il medaglione. Entrò suo figlio Saburo col suo passo deciso, sfilandosi la cravatta.

«Com’è andata, figliolo?»

«Molto bene, padre. Credo che il rappresentante Koizumi sia rimasto colpito dalla mia esposizione riguardo il piano di rilancio dell’istruzione pubblica…»

Saburo, come sempre da che era un bambino, era come fatto di vetro: forse di un colore scuro per schermarsi un poco ma pur sempre molto trasparente nelle sue emozioni. Capì dall’energia dei suoi movimenti e dal suo sospiro mentre sedeva sul divano che era molto soddisfatto del suo colloquio con il rappresentante del partito liberal democratico.

Tuttavia si rannuvolò all’istante quando vide il medaglione che suo padre aveva in mano.

«Che cosa stai facendo, padre?»

«Niente più di quello che puoi immaginare, Saburo… bevo il tè verde prescritto dal medico, sfoglio il giornale e parlo con tua madre e Sagiko.»

«Devi togliere quella fotografia da lì» gli ordinò il ragazzo. «Insulti la memoria della mamma tenendo la sua foto insieme a quella di una sgualdrina.»

«Tieni a freno la lingua, ragazzo» ordinò di rimando Masamune. «Sagiko non era una sgualdrina, e in secondo luogo se avessi avuto la forza di parlare di lei quando ci fidanzammo sta’ certo che Minako sarebbe stata la prima a chiedermi di tenere una fotografia sull’altare.»

«La tua prostituta sull’altare con il resto della famiglia Mazuya! Mi vengono i brividi solo a pensarci!»

Saburo si alzò, incapace di controllare la sua rabbia da seduto, e prese a macinare metri intorno ai divani del salotto con le mani tra i capelli.

«Ti ho già detto che non era una prostituta» ripeté l’uomo, più calmo.

«Per favore, padre! Se non fosse morta tragicamente neanche la ricorderesti più oggi, e tu… sull’altare di famiglia, che esagerazione!»

Masamune chiuse il medaglione stringendolo con forza.

«In effetti non sarebbe appropriato» concordò dominando una rabbia nuova per un torto antico, «mettere la foto per onorare Sagiko vicino a quella dell’uomo che volle la sua morte.»

Saburo inchiodò così brusco che le pantofole che aveva indossato entrando mandarono uno stridio come suole di gomma su un campo da basket.

«E questo che accidenti significherebbe?»

«Che mio padre, il tuo amato nonno, decise che era troppo pericolosa per la mia futura carriera e la fece uccidere… per poco non causò anche la morte di suo figlio. Fu un amorevole nonno per te, ma è stato molto spietato con tuo fratello.»

Saburo aveva assunto quell’aria gelida di una rabbia molto superiore alla norma. Lo stesso sguardo insensibile di suo nonno, e sapeva che era in arrivo una stoccata ad arte come l’avrebbe tirata il suo mirabile ma altezzoso padre.

«Quindi ora starà finalmente riposando in pace, visto che non è più qui a dare fastidio.»

«Saburo, ti avverto… non andare oltre.»

«Tu sei andato oltre!» sbottò lui serrando il pugno in aria come ad afferrare un invisibile avversario. «Conoscerlo, portarlo qui a casa… invitarlo a casa della nonna! Che senso può avere conoscere un figlio dopo più di trent’anni?!»

«Sei troppo giovane per capire… e per fortuna tua, privo di figli illegittimi abbandonati a loro stessi» sospirò afflitto Masamune. «Non chiedo che tu capisca, Saburo… solo… quel ragazzo ha il mio sangue, come ce l’hai tu. Non vi chiedo di essere come fratelli che sono cresciuti insieme, solo… abbi rispetto di lui come persona… e di me… come padre che non sa dove si trova suo figlio.»

Saburo tacque e per un momento Masamune si crogiolò nell’idea che il figlio superstite l’avrebbe consolato, o che almeno si sarebbe contenuto per rispettare il suo dolore. Ma si stava solo illudendo.

«E perché mai dovresti soffrire? Quello stava per mollare gli ormeggi! Ha iniziato a lasciare i suoi incarichi con la scusa della famiglia per scappare da qualche parte, e la sua fidanzata non ci stava a perdere lo status di signora Emperor! Probabilmente ora è a leccarsi le ferite all’estero con un’altra prostituta!»

Masamune sbatté la tazzina sul piattino di bambù così forte da romperla a metà.

«Stai parlando del giovane chiamato Wing Emperor. Un ragazzo che alla tua età possedeva una delle proprietà più vaste del Giappone, presiedeva una scuola, dirigeva un intero dipartimento di soccorso e sedeva alle Nazioni Unite a parlare per una razza intera. Ti sembra la descrizione di un uomo che teme un rifiuto o una responsabilità?»

«Stai sottintendendo che lui è migliore di me?»

Masamune fissò gli occhi di Saburo, scuri come quelli di sua madre, i bei lineamenti presi dalla famiglia di lei e le mani da artista uguali alle sue e uguali a quelle di Byakuran. Se glielo avesse fatto notare di certo si sarebbe infuriato.

«Se il tuo primo pensiero davanti a un padre afflitto è parlare di suo figlio scomparso come di un peso, di un inetto e un poco di buono, sì. Byakuran è migliore di te. Lui non parlerebbe così davanti al dolore degli altri.»

Per un momento esilarante quanto fugace Saburo roteò le mani in aria e balbettò con un filo di voce, poi si ricompose.

«Padre… con tutto il rispetto, tu non vedi Wing Emperor con obiettività. Sì, ha fatto cose straordinarie, ma… i suoi metodi sono fin troppo radicali, e anche solo il fatto che in quella sua scuola nessuno possa entrare a controllare che cosa viene insegnato ai ragazzi è una seria minaccia allo Stato stesso… anche Koizumi-san è stato molto diretto nel condannare i metodi e i privilegi di cui–»

«Saburo» l’interruppe Masamune, con una stretta gelida sul cuore, «tu non c’entri con la scomparsa di tuo fratello… vero?»

Ma era la domanda sbagliata, nel momento sbagliato. Saburo scattò afferrando la cravatta che aveva abbandonato sullo schienale del divano e la rimise al collo della camicia, cercando di annodarla con gesti furenti.

«Siamo a questo punto, dunque! Non solo lui è migliore di me, il bambino sopravvissuto diventato eroe, ma adesso io sono un malvagio, un sequestratore… o pensavi a un omicidio, padre? Ora siamo Amaterasu e Susanoo, è così? O addirittura Caino e Abele!»

«Io… perdonami, Saburo, non avrei dovuto…»

«Non avresti dovuto farmi capire quanto ti imbarazza aver cresciuto un figlio così male che non è riuscito a fare altro che laurearsi con ogni lode e farsi assumere come assistente di un capopartito! Che vergogna dev’essere per te non poter vantare un altro fautore di miracoli!»

«Saburo, aspetta!»

Tentò di alzarsi troppo bruscamente e la gamba malandata lo punì bloccandosi con una fitta dolorosa. Si sporse dalla parte opposta per afferrare il bastone e si alzò affrettandosi nel corridoio; Saburo era nell’ingresso che infilava le sue belle scarpe lucide nuove di zecca.

«Saburo, ti prego, lasciami spiegare…»

«Complimenti, padre. Ora di figli ne hai persi due.»

La porta sbattuta alle sue spalle fu il preludio di un fragoroso, schiacciante silenzio dentro casa Mazuya.

 

*

 

Gran aggiustò di qualche grado il sestante per osservare meglio il pallido profilo di una luna diurna e appuntò una cifra sul diario astrologico che teneva da molti anni. Anche se sedeva nella cabina di comando affidata quasi esclusivamente a Rackam non si trovava lì per tracciare una nuova rotta o per prendere il timone.

«Non riesco a capire.»

Con un sospiro si appoggiò allo schienale e guardò la grande mappa conservata sotto il vetro del tavolo. Rackam era solito scribacchiare la rotta, segnarsi i tempi di navigazione stimati e le tappe intermedie con il pennarello sulla lastra per poi cancellare e ricominciare, ma Gran non stava guardando le frecce che giravano intorno all’Africa orientale per scendere fino a Capetown: fissava l’isola principale del Giappone con le sopracciglia corrugate.

«Che cosa è successo…?»

Dopo una breve e confusa riflessione rimise mano all’astrolabio: un globo di vetro attorniato di anelli metallici con incise rune e simboli alchemici, un oggetto antico e prezioso che possedeva da qualche secolo e che ancora non lo aveva deluso. Non lo fece neanche quella volta, poiché le misurazioni erano accurate.

Tracciò un simbolo sul diario astrologico mentre la porta si apriva.

«Scusami, Rackam. Mi serve ancora un po’ di tempo.»

«Resta quanto vuoi, Gran.»

Con sorpresa distolse occhi e mente dai calcoli caotici che stava cercando di decifrare e guardò Percival entrare in cabina. Era in abiti comodi e capelli legati; capitava di rado che si prendesse una giornata del tutto libera da impegni ma Gran era ben felice di attenderne uno anche solo per godersi l’eleganza involontaria di Percival.

L’uomo con i capelli rossi si avvicinò e lo baciò sul viso prima di mostrargli un cestino da picnic che conoscevano bene.

«Guarda che cosa ho trovato al mercato di Port Elizabeth!»

L’aprì rivelando il suo rosso tesoro come fosse un forziere di oro perduto, ma Gran riuscì a partecipare solo marginalmente al suo entusiasmo.

«Fragole…»

«Superbe fragole, non senti che profumo mandano?»

Lo conosceva bene e capì dal cambio di espressione minimo che si era indispettito.

«Perché non rimandi qualsiasi cosa tu stia facendo e andiamo nelle cucine a prepararci una torta? A te piace la crostata con la crema, facciamola insieme.»

«Tu che vuoi cucinare una torta? Hai preso uno scivolone giù a Port Elizabeth?»

Percival appoggiò il cestino per terra e si avvicinò la sedia con un gesto brusco per sedervisi.

«Sono giorni che quasi non ti si vede. Stai a fissare in aria con il sestante e il telescopio, scrivi e consulti vecchi libri, non parli e non mangi con il resto dell’equipaggio…»

Gli prese la mano e gli massaggiò delicatamente le dita, come faceva sempre quando lo vedeva scrivere a lungo. Gran non sentiva un particolare formicolio o disagio, ma ogni contatto con lui era piacevole.

«Che cosa c’è che ti preoccupa? Non vuoi parlarmene?»

«Non so se capiresti, Percy.»

«Cosa puoi dirmi di più strano e contorto del fatto che non muori da sette secoli?»

Il capitano tentò di forzare un sorriso, ma riuscì solo a mandare uno sguardo ansioso all’astrolabio. In realtà non era neanche sicuro di sapere che cosa non andasse.

«Il moto dei corpi celesti si sta alterando… in modo impercettibile per gli esseri umani, senza calcoli astronomici precisi.»

«E questo è rilevante?» domandò Percival, in un composto tentativo di mascherare la sua ignoranza in materia di cosmo.

«L’ultima volta che ho riscontrato queste variazioni la Ruota stava acquisendo potere… ma non è… la sola cosa strana che avverto.»

«E che altro?»

«L’energia di Wing Emperor è così grande che si può percepire anche dal punto opposto del globo. È per questo che ho pensato che lui fosse nelle mire della Ruota» si spiegò Gran con tono cauto. «Ma da qualche tempo la sento indebolirsi… sta come… scolorendosi. Dissipandosi.»

Sapeva che il suo compagno era sempre aggiornato sull’attualità di ogni paese dato che il suo massimo passatempo era leggere giornali in qualsiasi lingua riuscisse a capire anche solo approssimativamente, e la sua reazione fu quella che si aspettava.

«Cosa… è successo qualcosa a Wing Emperor? Per questo non si è presentato ai suoi impegni e ha disdetto tutti quelli in programma?»

«Qualcosa è successo… ma non so che cosa. Forse è malato… forse si sta spegnendo… o forse sta per ascendere.»

Percival lo guardò con occhi persi e confusi.

«Come hai detto?»

«Ascendere. È così che loro… che la Ruota chiama la trasformazione di un’anima mortale in una più pura e potente. Forse il Principio era davvero dentro Wing Emperor e sta per ascendere.»

«E… che cosa comporta questo?»

«Un altro archetipo nella collezione della Ruota, e un altro passo verso quella che potrebbe essere la fine del mondo.»

Percival tacque. Era una reazione inusuale per lui come uomo, ma era quasi la norma nel corso di conversazioni su tali argomenti. Dopotutto la mente umana comprendeva solo in parte gli eventi e i concetti, per la sua stessa salvaguardia aveva delle limitazioni, e Percival non ne era immune solo perché un essere ancestrale lo amava più di tutti gli altri.

«I valori astrali diversi e la scomparsa di Wing Emperor potrebbero essere coincidenze… ma non sono in grado né mi sento di escluderlo. Perdonami se non sono capace di spiegartelo meglio e metto alla prova così la tua fiducia… sei un uomo intelligente e so che vorresti capire invece di accettare per fede, ma…»

«Vorrei comprendere solo per comprendere meglio te, Gran.»

Gli strinse la mano con forza e delicatezza.

«Tu sei ciò in cui io credo… ma che riesca a capirti o no, non cambia la fede che ho in te.»

Percival si sporse a dargli un bacio sulle labbra e Gran sentì salire il dolore fino in gola.

Dio, quanto sarà difficile perderlo…

Si aggrappò alle spalle di Percival per riemergere dal mare di tristezza che l’aveva sommerso al solo pensiero della separazione che li attendeva e fuggì dal buio di quei pensieri ricambiandolo con un bacio molto più bruciante del suo dolce gesto di tenerezza.

Percival non rimase deluso né spiazzato. Spinse via in malo modo il quaderno degli appunti di Gran buttandolo giù dal tavolo e spinse al suo posto il capitano della Grandcypher, senza neanche staccare le labbra dalle sue. Infilò le mani sotto la sua casacca e gliela strappò di dosso con abbastanza foga da far lamentare le cuciture.

«P-Percy» fece Gran appena riuscì a scollare le labbra, «Rackam potrebbe tornare in ogni momento…»

Ma Lord of Flames non sembrava averlo sentito mentre si dava da fare per spogliarlo, tanto che glielo ripeté una seconda volta.

«Rackam è sceso per andare a fare spese a Port Elizabeth mentre io risalivo. Sono venuto subito qui.»

Non dubitò delle sue parole e sorrise, perché conosceva i tempi che il suo equipaggio si teneva per le spese a ogni attracco. Ricambiò con passione libera Percival mentre si arrampicava sul tavolo della mappa e nella concitazione di spogliarlo fece cadere il sestante frantumando lo specchio fisso.

Ce l’aveva da duecento anni, ma non gli passò neanche per la mente di fermarsi per compiangerlo.

 

*

 

In piedi davanti a quel mare di facce in attesa Mukuro non riusciva a trovare la voce per parlare. Scorreva i volti alla ricerca dell’unico che sapeva di non trovarci, ignorando del tutto le aspettative degli studenti lì raccolti per sentire che cosa avrebbe detto il ragazzo prodigio, il Bambino Indaco, l’unico classe S a esserci entrato in così poco tempo e averne conquistato la licenza, il ragazzo così geniale da riuscire a farlo mentre coronava anche il sogno musicale di molti liceali.

Quando incrociò gli occhi grigi di Kyoya smise di errare nella folla e guardò soltanto lui mentre gli sorrideva e gli faceva segno di leggere il foglio. Aveva dimenticato di avere un discorso scritto e lo lesse velocemente, ma non arrivò alla fine prima di abbandonarlo. Non c’era niente lì dentro che si sentisse di dire.

Accartocciò il foglio e il rumore tacitò il mormorio che serpeggiava tra i diplomandi. Sentì gli sguardi su di sé, ma il vuoto che si sentiva dentro era in grado di fagocitare tutto.

«Normalmente a queste cerimonie si parla di duro lavoro, di impegno, di collaborazione e di risultati. Sono stato a tante cerimonie di diploma dei miei fratelli, prima d’ora.»

Guardò verso sinistra, nelle file in fondo. Momo sedeva lì, emozionata, accanto alla signora Kujaku, i suoi fratelli Eisaku e Ryoma e i gemellini Ushiro e Sora. Nella fila davanti, Kazue sfoggiava il suo tailleur migliore e un sorriso raggiante di orgoglio.

«Ma credetemi che chi non si è allenato per diventare un Civil Hero non ha idea di cosa significhino queste parole. Io, che vengo dall’altro mondo, quello che una volta veniva chiamato “dei Plumbei”, ho capito con le cattive la differenza tra noi e loro.»

Nell’angolo a destra Restless gli lanciò un’occhiata priva della noia che l’aveva dominato per tutto il tempo.

«Qualcuno lo sa» precisò Mukuro, desideroso di essere giusto nelle sue considerazioni. «Gli eroi di tutti i giorni. Wing Emperor ha sempre chiamato così i poliziotti, i vigili del fuoco, i soccorritori in mare, e tutti quelli che rischiano le loro vite per quelle degli altri. Loro almeno sanno quanto sia immenso il terrore che si prova davanti alla più feroce manifestazione della forza della natura o della crudeltà umana.»

Esitò, chiedendosi se Byakuran non sarebbe stato contrariato da un discorso simile… ma era la prima volta che infilava più di due frasi di seguito dal giorno della sua scomparsa e sperò fosse utile per sentirsi meno oppresso.

«Gli studenti comuni, come i nostri colleghi fortunati della classe D, restano inconsapevoli del dolore di un osso che si sbriciola, di un’ustione estesa o di una ferita da taglio. Non sanno cosa si prova quando il sangue scorre via e il freddo ti strangola la mente… quando affronti un nemico e non sai se sei in grado di tornare a casa vivo… quando non sai se, come nei film, arriverà in tempo qualcuno a salvarti» proseguì accostandosi di più al microfono. «Questo tipo di… inquietante saggezza non si può spiegare a chi non l’ha provato.»

Tra la folla di studenti qualcuno annuì, altri sembravano contrariati. Chrome Doll, incantevole nell’uniforme da lui disegnata con il fiocco a righe argento, fece un cenno di assenso. Qualche sedia più a sinistra Wish Love strinse le mani in grembo con aria sofferente.

«Tuttavia, pur con tutto ciò che ha comportato, sceglierei di nuovo questa strada se tornassi ai giorni della cometa… perché quando si vede la morte e si prova la paura di essere arrivati alla fine del tempo si impara a godersene ogni secondo.»

Con la mano indicò Kyoko, appena dietro a Love.

«Una crêpe mangiata al freddo ti resta impressa mentre prima si sarebbe persa tra le cose insignificanti. Il tempo trascorso con un animale domestico affettuoso, con i bambini pestiferi di casa, con dei genitori pedanti o fratelli litigiosi. Le piccole cose acquistano tanto peso da riempire le giornate che prima consideravamo perse.»

Sentiva di nuovo qualcosa, sotto la grossa massa di vuoto lasciata da Byakuran. Chiuse gli occhi ripercorrendo momenti della sua vita recente come diapositive proiettate velocemente, e quando li riaprì era così sovraccarico di emozioni che serrò i pugni per contenerle.

«Ma il motivo per cui abbiamo sofferto tanto sono i grandi momenti in cui siamo la sola cosa che sta tra la vita e la morte di qualcun altro. Quando troviamo un disperso, salviamo qualcuno da un pericolo incombente… è in quel momento che capiamo il valore dei nostri sacrifici.»

Un accenno di applauso si levò e Mukuro lo bloccò sollevando la mano. Ci teneva a dire qualcosa di più rilevante.

«Spero che vi rendiate conto che Wing Emperor prova lo stesso senso di orgoglio ogni volta che vede uno dei suoi studenti. Perché la sua sofferenza ha permesso a tutti noi Auris di avere una vita che si possa chiamare tale.»

Parlare di Wing Emperor ebbe un effetto paralizzante sugli studenti e la sola che si mosse in quel momento fu Momo, che si tamponò un occhio con un fazzolettino rosa.

«Per concludere senza dilungarmi ancora» proseguì lui con la voce che iniziava a calare, «mi auguro che ogni volta che proverete rimpianto per le vostre scelte o maledirete il vostro coraggio, che chiamerete stupidità… ripenserete alle persone che i vostri sforzi hanno salvato. E che proteggere voi stessi significa proteggere tutti coloro che aiuterete una prossima volta.»

Quest’ultima frase colpì molto gli studenti, che si scambiarono occhiate sorprese. Enma sollevò furtivamente un pollice per comunicargli la sua approvazione e Tsunayoshi la prese tanto sul personale – dato il suo tentativo di suicidio per l’annientamento di Kraken – che gli assestò un pugno furtivo al fianco. A quella scenetta Mukuro sorrise istintivamente.

«Buona fortuna, diplomati Auris. Quale che sia la strada, godetevi ogni passo del viaggio.»

Questa volta ricevette l’applauso senza interruzioni e Kazue fu la prima ad alzarsi dalla sedia pieghevole per raggiungerlo mentre scendeva dal piccolo palco. Subì i suoi complimenti sulla sua carriera e la sua benedizione per quella musicale che aveva scelto, poi ricevette la visita del resto della piccola famiglia di casa Kujaku.

«Sei sbocciato, Mukuro» gli sussurrò la tutrice mentre lo teneva ingobbito per abbracciarla dall’alto della sua aumentata statura. «Lasciarti andare è stato il sacrificio di cui parlavi prima, per me. Ho fatto la scelta giusta.»

Una punta di dolore emerse da una ferita non del tutto rimarginata per quell’abbandono, ma poi pensò a tutto quello che aveva trovato lì. La strinse un poco più forte.

«Grazie.»

Lasciò la donnina e le tre adulte si misero a parlare di cosa fare per festeggiare. Si defilò per recuperare il tubo che conteneva il suo diploma vicino al microfono e trovò Kyoya proprio lì.

«Non era il discorso che hai preparato, ma è stato molto toccante. Prometto che me ne ricorderò tutti i giorni.»

Mukuro prese il tubo che gli stava porgendo con un nodo in gola. Aveva una voglia disperata di chiedergli di non entrare nel Coordinamento: se avesse perso anche Kyoya dopo Byakuran non sapeva se sarebbe stato in grado di riprendersi.

«È la tua famiglia?» fece lui, guardando il gruppetto. «Mi posso presentare?»

«Fa’ pure» ribatté malmostoso Mukuro. «Quel fesso di Subaru ha raccontato di te a certi suoi amici fidati e discreti, così tutta Kokuyo lo sa. Lo sapranno anche loro.»

Kyoya sorrise, con gli occhi brillanti di quando era molto felice. Vederlo così e sentirsi affossato come una caldera collassata lo faceva sentire in colpa.

«Mi presenterò come tuo amico, non preoccuparti!»

E andò deciso verso il drappello di rappresentanza di Kokuyo, presentandosi per primo alla signora Kujaku con molta formalità. Restless e Breaker stavano parlando con un uomo che doveva essere il signor Yamamoto, Love e Luck erano coi rispettivi genitori, più il fratello maggiore di quest’ultima. Tsunayoshi era intrappolato in un abbraccio espansivo di sua madre ed Enma era occupato a far levitare una ragazzina – del tutto identica a lui – che rideva a crepapelle mentre galleggiava sulle teste dei genitori.

Il vecchio demone ringhiò dall’oscurità quando lanciò uno sguardo alle tutrici e ai fratelli con cui non aveva un singolo tratto genetico in comune. Senza rivolgere un cenno o una parola a nessuno sparì dietro il palco e lungo una stradina pedonale di mattoncini rosati.

Non posso credere che non sia qui neanche adesso!

Non c’era stato per i suoi esami di sbarramento, non c’era stato per le sue esercitazioni e non c’era neanche il giorno del suo diploma ufficiale. Latitando nei momenti importanti Byakuran continuava a riaccendere i dolori di un orfano che non riusciva ad accettare la sua condizione.

Si asciugò gli occhi con rabbia e svoltò l’angolo per puntare dritto al dormitorio, ma andò a sbattere contro qualcosa. O meglio, qualcuno: una mano gli afferrò il braccio per evitargli di incespicare e cadere.

«R-Ran?»

Appena si liberò delle lacrime che gli offuscavano la vista si accorse che non aveva sbattuto contro Ran, ma contro la figura molto simile di Lucifer. La sua presenza ancora una volta inspiegabile e misteriosa non fece germogliare altro che sospetto sul suo stato d’animo turbato.

«Lucifer… che cosa fai qui?»

«Speravo di incontrarti da solo… volevo assistere alla cerimonia, ma temevo che il mio aspetto avrebbe turbato gli studenti.»

«Questo non è il tuo posto.»

La risposta brusca impensierì Lucifer, i cui occhi celesti si intristirono.

«Sono molto dispiaciuto per Byakuran… e per te, Mukuro. La sua scomparsa ha avuto un effetto evidente su di te.»

Non aveva voglia di parlare di Byakuran, tanto meno con lui.

«Senti, se non hai Ran nel baule della macchina non hai niente che mi interessi, comprese le tue impressioni» tagliò corto con buona dose di acredine. «Se sei venuto qui per me hai fatto un viaggio a vuoto. Addio, Lucifer.»

Sfilò accanto all’uomo e si sentì male quando gli arrivò il suo profumo: era molto simile a quello che di tanto in tanto emanava dagli abiti di Byakuran.

«Mukuro, tuo padre non è morto.»

Il ragazzo si fermò, ma non si voltò per paura di ciò che il suo viso avrebbe potuto mostrare.

«Come lo sai?»

«Sono sicuro che non lo è… e che non è scappato abbandonando i suoi cari. Per lui le persone che ama sono tutto, non c’è paradiso in cui riuscirebbe a stare senza di voi.»

«Da quando sai che cosa pensa? Lo conosci a malapena.»

Lucifer si decise a guardare dalla sua parte, pur non trovando altro che la sua schiena.

«Siamo simili non solo nell’aspetto. Siamo fatti nello stesso modo… e io non riuscirei a nascondermi in nessuna parte del mondo, neanche la più bella, senza portare con me Sandalphon.»

«Commovente» replicò gelido Mukuro.

«Byakuran non ti ha abbandonato e non è morto. Non avercela con lui, perché la sua assenza non è una sua scelta.»

Non tollerava oltre quelle mezze verità, quelle allusioni inconsistenti come la bruma. Si voltò di scatto e afferrò Lucifer per la camicia.

«Smettila! Sei venuto fino a qui per torturarmi? Per vedere quanto sto soffrendo?» inveì lui, scrollandolo. «Non mi fido di te, è chiaro? Nessuno ti ha visto, ma io so che eri a Higashiki e non so perché… ma ti giuro…»

Fissò Lucifer negli occhi, che a essere sincero con se stesso non sembravano quelli di un colpevole.

«Se scopro che tu hai a che fare con questo io mirerò dritto al tuo prezioso Sandalphon

Mollò la camicia spingendolo indietro e fu perversamente felice di vedere che le sue minacce a vuoto avevano causato quell’aria spaventata.

«Mukuro… per favore, calmati. Non sono tuo nemico, e il motivo per cui non mi sono fatto vedere a Higashiki è stato per… questioni diplomatiche. Sono pur sempre un esponente del comitato di ricerca degli Stati Uniti. Non volevo essere coinvolto in un’indagine perché non potevo rivelare il motivo per cui ero in Giappone.»

Mukuro emise una risata breve e dura, di scherno e incredulità mescolate.

«E ora? Il tuo governo ti ha mandato a presenziare al mio diploma?»

«No… no, naturalmente. Ma sono venuto perché… Byakuran non avrebbe voluto che tu fossi solo. Sono un ben misero rimpiazzo, questo lo so… ma glielo dovevo.»

«Perché mai tu dovresti dovere qualcosa a Ran? Hai perso a poker con lui?»

Lucifer esitò, ma dal poco che gli era rimasto in testa delle lezioni di psicologia di Night Hound dedusse che non fosse in panico, ma solo indeciso. Aveva forse qualcosa da rivelargli?

«Per favore… non farne parola con nessuno. Non l’ho ancora detto neanche a lui…»

«Detto che cosa?»

Lucifer si guardò alle spalle, guardò persino in su per accertarsi che non ci fosse nessuno affacciato alle finestre soprastanti.

«Io e Byakuran siamo fratelli, Mukuro… siamo figli della stessa donna. Sagiko.»

Mukuro ebbe l’impressione che il terreno oscillasse sotto i suoi piedi come durante il terremoto. Lucifer si fece avanti per sostenerlo, ma il suo primo istinto fu di arretrare.

Suo fratello… un altro figlio di Sagiko? Non può essere, è…

Ma non poteva dirsi con sincerità che fosse assurdo, non quando c’erano così tante somiglianze tra loro che erano riconducibili all’aspetto di Sagiko. Nonostante questo bramava smontare quella teoria che voleva respingere per puro, infantile egoismo: non sopportava che la famiglia di Ran saltasse fuori un pezzo per volta mentre la sua sembrava destinata a restare un mistero per sempre.

«Non è possibile… tu sei americano, come…?»

«Mio padre era un medico e lavorò qui come volontario… all’epoca medici e infermieri fornivano cure volontarie agli Auris, perché non ne avevano diritto. Ebbe una storia con Sagiko e… sono arrivato in questo mondo» si spiegò con un tono insopportabilmente tollerante Lucifer. «Mio padre mi ha lasciato delle lettere nel suo testamento per raccontarmelo… se lo desideri te le mostro.»

Mukuro non indietreggiò quando la sua mano gli toccò la spalla, ma sussultò come fosse un tocco gelido sulla pelle nuda.

«Se fossi riuscito a parlargliene a Higashiki ora conterebbe su di me per vegliare sul suo Indigo Child… io conterei su di lui se mi accadesse qualcosa e Sandalphon restasse da solo.»

«Non ho bisogno di aiuto. Sono autosufficiente… e ora anche legalmente indipendente. Ho bisogno che lui torni, ma non perché deve accudirmi» replicò asciutto Mukuro. «Perché ha una fidanzata che piange, e un bambino piccolo di cui ha promesso di occuparsi. Perché ha una sorella con una nipotina in fasce, studenti a cui insegnare e guaritori da guidare. Io… io non ho più bisogno che mi protegga.»

«Allora perché i tuoi occhi sembrano supplicare che io lo tiri fuori per magia da una tasca?»

Strinse con forza i pugni per trattenere il desiderio di scaricarglieli su quella faccia così familiare.

«Non voglio più parlare con te, Lucifer.»

Partì ancora una volta verso il dormitorio a passi più lunghi e decisi e l’Auris americano non tentò di fermarlo o di seguirlo. Era infuriato, ferito, e si sentiva schiacciato da un’enorme impotenza. Si bloccò in preda a un turbinio di pensieri incoerenti, poi tornò indietro di qualche passo.

«E non ho bisogno che tu faccia magie! Non ho bisogno di nessuno, io! Se scoprissi che Ran è da qualche parte ancora vivo andrei io a riprendermelo, a costo di combattere l’esercito degli Stati Uniti da solo!»

Non aveva nessun secondo fine e neanche un vero e proprio senso quello che gli era uscito dalla bocca, ma se non fosse scappato al dormitorio avrebbe potuto notare quanto Lucifer rimase turbato ad ascoltare il suo sfogo.

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Capitolo 29
*** Inherited Justice ***


«Giù!»

Phoenix si gettò a terra sulla strada per schivare una serie di proiettili esplosivi che fischiarono sopra la sua testa. Lo scoppio dell’auto colpita al suo posto fu così forte da far vibrare tutto il corpo, e i suoi timpani vennero salvati solo dalle mani che avevano istintivamente protetto le orecchie.

«Phoenix, tutto intero?»

L’auricolare era salvo. Phoenix si rialzò rapido e con un balzo laterale si allontanò dal Ribelle che stava per rigenerare le sue pericolose sferette esplosive, che crescevano intorno alla sua mano come un bizzarro grappolo di uva di vetro.

«Coprimi da sinistra, Restless» mormorò, assicurandosi che la mano gli coprisse le labbra.

«Sei coperto. Vai!»

La folla di persone incitanti a meno di cento metri da lì urlava incoraggiamenti e se solo avesse potuto distrarsi dalla battaglia avrebbe urlato loro di andarsene, che non era una gara sportiva.

Scattò verso destra, usò un’auto tamponata come appoggio e saettò a sinistra per usare un palo della luce come trampolino e piombare sul Ribelle scaricandogli un calcio potente sulla spalla destra: aveva notato che le bolle originavano solo dal suo braccio destro e sperò che fosse il suo limite e non una mera abitudine.

Il Ribelle gridò e cadde a terra. Phoenix si protesse il volto aspettandosi la detonazione, ma non venne. Gli bastò un attimo di coraggio per guardarlo e scoprire che la mano era stata inglobata in uno strato di cristallo violaceo che impediva il contatto con la strada o qualsiasi altra superficie. Emise un sospiro di sollievo.

C’è mancato poco…

La ragazza che gli si avvicinò aveva una spettacolare cresta di capelli rossi e viola, un rossetto scuro e un costume iridato che emulava i suoi cristalli. Phoenix accennò un sorriso.

«Eccellente tempismo, Rudra. Ti ringrazio.»

«Mi sono fidata del fatto che avresti atterrato il Ribelle in un colpo solo» si schermì lei, gli occhi fissi sul nemico. «Procediamo all’arresto. Il suo complice?»

Dalla radio arrivò la risposta di un’altra donna dalla voce bassa e monocorde, accompagnata da un caratteristico ronzio.

«Neutralizzato da dodici secondi.»

«L’hai anche arrestato, Ghosthive?»

«Ah. Devo farlo io?»

«Ci sei solo tu lì, Hive! Arrestalo subito!»

«Ricevuto.»

Assicuratasi di questo il suo nervosismo scomparve, e batté le mani una sola volta con vigore, come faceva sempre quando prendeva una decisione.

«Molto bene» annunciò ad alta voce. «Operazione conclusa. Ottimo lavoro, Hemerocallis! Radunatevi per il rapporto!»

Chiuse il canale di comunicazione dell’auricolare e sospirò.

«Ero preoccupata quando mi sono ritrovata a capitanare una squadra composta solo di neodiplomati dell’Accademia Auris… ma siete davvero bravi. Siete all’altezza della vostra fama.»

«Grazie… ma tu riesci a coordinarci molto bene, Rudra. È anche merito tuo se siamo così efficienti.»

La Civil Heroine gli fece un sorriso, ma non commentò. Controllò la solidità delle sue catene di cristallo intorno al Ribelle e vennero raggiunti da Love, poi da Gravity e Sky Flame, del tutto indenni.

La folla urlante si aprì per permettere ai poliziotti di avvicinarsi con il furgone per il trasporto speciale e tentò di seguirlo per raggiungerli, ma un cordone di acqua sinuosa iniziò a serpeggiare a mezz’aria, ammaliante e minaccioso al tempo stesso. Storm Breaker teneva la mano sul pomolo della sua spada e gli occhi fissi sulla massa.

«Non mi piace come sta cambiando la gente» fece in tono grave quando Phoenix gli si avvicinò. «Wing Emperor è scomparso da appena un mese e sembra che tutti abbiano già dimenticato lui e tutto quello in cui credeva.»

Lanciando uno sguardo mesto ai loro presunti sostenitori Phoenix non se la sentì di controbattere. Anche lui aveva la sensazione che l’esistenza di Wing Emperor fosse ancora il fulcro del meccanismo, e che ora che mancava tutto stesse girando nel modo sbagliato. Non si era mai sentito schiavo dei Plumbei prima, ma adesso si sentiva trattato come un buon cane da guardia e temeva il giorno in cui avesse commesso un errore.

«È solo… un periodo di transizione. Ci assesteremo… anche se lui non tornasse…»

Breaker lo guardò e infilò le mani dentro il montsuki blu chiaro che era parte del suo costume.

«Pensi che non tornerà?»

«Penso che non sarebbe sparito così senza una ragione… e… la morte è la ragione per la quale credo che Wing Emperor avrebbe lasciato la sua fidanzata e Indi da soli.»

Breaker aggrottò le sopracciglia in un’espressione austera. Phoenix confidava che almeno lui trovasse qualche speranza da nutrire, ma la realtà era che i classe S non erano ancora pronti a proseguire da soli.

«Ehi, Phoenix» lo chiamò Gravity. «Andiamo alla stazione di polizia per il verbale!»

«Che palle» borbottò Restless, buttando la sua borsa di armi dentro il bagagliaio. «Ci metteremo due ore…»

Due ore? Oh, cazzo!

Ansioso cercò l’orario sul tabellone luminoso all’angolo più vicino e gli sprofondò il cuore nel petto.

«Oh, no…»

«Che succede?» fece Breaker, lanciando un’occhiata confusa al monitor.

«Dovevo prendere il treno cinque minuti fa» sospirò Phoenix. «Indi mi ha chiesto di andare con lui a vedere degli appartamenti… devo chiamarlo, non farò in tempo ad andare.»

«Non sarebbe la terza volta che rimandi?»

Con profondo senso di colpa annuì. Non sapeva come avrebbero potuto costruire una relazione se era già difficile rispettare un semplice appuntamento.

«Passa domani per il rapporto… facciamo noi» gli fece Breaker con un sorriso. «Vai a cambiarti e salta sul prossimo treno.»

«Grazie del pensiero… ma ho dei doveri…»

«Chiediamolo al capitano!»

Con un sorriso smagliante Breaker si avvicinò a Rudra e le espose senza giri di parole la situazione tra Phoenix e il suo fidanzato in due città diverse e l’appuntamento rimandato. Sorprendentemente il capitano sorrise e fece al ragazzo un gesto eloquente.

«Vai, Phoenix. Stenderò io il verbale. Va’ da lui, sbrigati.»

«Grazie! Ti devo un favore!»

Incredulo, corse via raggiungendo la strada parallela non chiusa al traffico e saltò sul primo taxi libero per tornare all’ufficio dislocato del Coordinamento a Nagoya. Era così impaziente che arraffò la borsa e si vestì sul sedile posteriore durante il viaggio.

Non vedeva Mukuro da due settimane e gli sembravano mesi. L’idea che ci fossero circa due ore a separarlo dal momento in cui lo avrebbe baciato di nuovo lo fece emozionare come un bambino.

 

*

 

Il sole pomeridiano colpì brutale gli occhi di Phoenix nonostante la tenda alla finestra. Si schermò con la mano mentre si stiracchiava pigramente e si rimise seduto. L’appartamento era un po’ asettico secondo lui, ma il divano era promosso a pieni voti.

«Mi piace questo panorama.»

Mukuro era in piedi, vestito solo a metà, appoggiato con la spalla al muro accanto alla finestra della cucina e guardava una bella skyline di Tokyo con lo Sky Tree quasi di fronte.

«Che scortese» commentò Kyoya con ironia. «Credevo che parlassi di me.»

«Tu mi piaci sempre… e ti ho già preso, non ho bisogno di decidere.»

«Ma davvero?»

Kyoya si guardò le mani e gliele mostrò di palmo e di dorso.

«Strano, niente anelli» commentò con fasulla sorpresa, «e niente collare, anche. Sicuro che io sia preso?»

«Presto sarà il tempo anche per quello» replicò Mukuro, sincero al punto che Phoenix si chiese se non stesse sognando dopo essersi appisolato. «Ma non ancora… è troppo presto.»

«Certo che è presto… ci siamo appena diplomati, sono in una squadra di prova al Coordinamento di Nagoya e tu non sai ancora se firmare con la Trickster o con la Ubolus… cerchi casa e… ci sono troppi cambiamenti in corso» osservò con delicatezza, alzandosi dal divano. «Che fretta abbiamo? Prendiamoci il tempo necessario per essere certi che vogliamo quello che pensiamo di volere ora.»

«Sono certo di volerti» replicò lui sbrigativo, tirando la tenda. «Ma se faccio tutto subito… te lo immagini Ran quando ritorna? Crederà di essere stato rapito dalle fate e che siano passati dieci anni.»

Quell’uscita poteva essere solo una battuta di spirito nel tentativo di decomprimere il vuoto della sua perdita, ma Phoenix era sicuro che si aspettasse realmente il ritorno di Wing Emperor. Anche se in prima persona lo desiderava altrettanto perché era stato suo maestro e Mukuro teneva molto a rivederlo, non poteva dire di essere ottimista.

«Sì, ma… Indi… promettimi che non metterai la tua vita in pausa in attesa di quel giorno, okay?»

«Ti sembra che lo abbia fatto?» domandò lui con un ritorno al suo tono un po’ brusco. «Sto valutando le mie offerte di lavoro, sto scegliendo un appartamento per vivere da solo… e in realtà ho sentito l’Accademia delle arti dello spettacolo. Visto che non ho dedicato alla musica uno studio accurato nell’ultimo anno e mezzo pensavo di frequentare il loro corso di composizione e teoria musicale.»

Era sorpreso da quella novità mai accennata prima. Girò intorno alla penisola della cucina mentre Mukuro frugava nei pensili per recuperare un barattolo che studiò con sospetto prima di aprirlo e annusarlo.

«Vuoi studiare musica, davvero?»

«Ho scelto la mia strada, e come ha fatto Ran quando era giovane voglio impegnarmi al massimo. Dedicare tutto il mio sforzo e il mio tempo alla musica» decretò con convinzione. «E poi… tu starai a Nagoya per un po’, almeno.»

«Sì… sì, è vero. Potrò chiedere un trasferimento solo dopo un anno… e non so comunque se riuscirò a essere distaccato qui a Tokyo» ammise con una certa amarezza Phoenix. «Purtroppo i Civil Heroes non posso essere pendolari.»

«Per questo ho deciso di perfezionarmi. Se tu non sarai qui che nei tuoi giorni liberi io potrò applicarmi e studiare molto. Posso fare i due anni di corso alla Dotomo, e dopo… beh, siamo nell’epoca digitale. Posso comporre e persino registrare a casa e spedire tutto via internet.»

Si interruppe per emettere un grugnito nello sforzo di infilare il braccio dietro il mobile per inserire la spina di una macchinetta per caffè americano.

«Se sarai ancora a Nagoya posso sempre raggiungerti. Con un corso di teoria e composizione finito ho anche buone possibilità di insegnare musica… e non mi dispiacerebbe. Mi divertivo molto a insegnare a Ryota e a Bel…»

«Aspetta» l’interruppe Phoenix, minaccioso. «Tu volevi scrivere canzoni per gli idol. Hai anche detto che ti sarebbe piaciuto diventarlo tu stesso.»

«Ho quasi diciannove anni, Kyoya. Se avviassi una carriera come idol adesso mi godrei pochi anni di gloria riflessa per quello che sono stato, cioè Indigo… come idol sarei mediocre e mi aggrapperei a una fama che non appartiene a quel mondo. No, preferisco essere il paroliere degli idol che restano nella storia… con canzoni che rimarranno nella memoria dei loro fans per tutta la vita.»

«E sta bene. Ma tu mi hai appena parlato di fare l’insegnante.»

«Non vedo cosa ci sia di male. Se la mia carriera di autore non dovesse prendere quota come spero, o se si rivelasse impossibile mantenere gli impegni a distanza… a me non dispiacerebbe. Aiuterei i musicisti, compositori e cantanti delle prossime generazioni. Insegnare è appagante, non lo hai detto anche tu quando ho superato il secondo esame?»

Ricordava di averlo detto e non dubitava di averlo pensato, ma aveva l’impressione che Mukuro cercasse di evitare il nocciolo della questione.

«Mi sta bene tutto, finché non è un ripiego. Non voglio che rinunci a qualcosa che rimpiangerai perché le mie scelte ti costringono a farlo se vuoi rimanermi vicino.»

Mukuro gli lanciò un’occhiata così seccata che per un attimo si chiese se non avesse frainteso tutto.

«Kyoya, rimanere con te è qualcosa che non rimpiangerò mai. Nel remoto caso che la situazione fosse così complicata da costringermi a mollare la carriera di compositore per riuscire a farlo non esiterò… è soltanto una carriera, per la miseria. Ci sono un sacco di cose che mi fanno svegliare contento, non sono il tipo da uccidermi se non divento il paroliere delle star.»

A ogni parola Phoenix si rilassò sempre di più. Le paure di Love che fosse addirittura depresso sembravano infondate.

«Sono felice di sentirti parlare così» gli confessò con sollievo. «Credevo che… dopo la sparizione di Byakuran ti sentissi depresso.»

«Lo sono stato per un po’. Non è stato un colpo facile da incassare… ma non riesco a convincermi che sia morto. È come se ogni tanto mi sussurrasse che c’è ancora… non che senta davvero la sua voce» puntualizzò, afferrando la tazza di caffè appena colato. «Solo… ritornerà. Me lo sento e basta.»

L’ultima cosa che avrebbe voluto era intavolare un’altra volta quel discorso. Tamburellò le dita sul marmo, indeciso, e acconsentì a un assaggio di caffè senza farvi alcun caso.

«Ehm… forse è una domanda sciocca, ma… la sorella di Byakuran non ha un potere strano?»

«Sì. Night Hound è stato da lei due volte» replicò subito, quasi smanioso di raccontarlo a qualcuno, «per sapere se poteva trovarlo. A quanto pare Yuni percepisce solo un luogo buio, e… al contrario di me quando è successo lo stesso, lui non riesce a sentirla e a risponderle. Non sanno spiegarsi come mai.»

In cuor suo Kyoya concepì una possibilità molto cupa, ma decise di non darvi voce. Mukuro gli lanciò un’occhiata che – a meno che non stesse ricamando di fantasia – sembrava quasi ringraziarlo per quel silenzio caritatevole.

«Ehm, credi che vada bene che ci facciamo un caffè in un appartamento ancora sfitto?»

«Cosa trovi esattamente più inopportuno nel caffè che nel sesso sul divano?»

«Sì, anche quello forse non era il caso» ammise a malincuore Phoenix.

«Mi hanno dato le chiavi e mi hanno detto di venire a vederlo. Devo viverci, quindi mi pare il minimo usarlo come userei casa mia e vedere se è funzionale!»

«Non credo avessero in mente questo quando te le hanno date… a proposito, chi è questo irresponsabile?»

«Mio fratello maggiore Ryoma. Era alla cerimonia, te lo ricordi?» fece lui, allegro. «Anche lui ora vive qui e lavora in un’agenzia immobiliare. Mi ha detto di venire da lui se mi serviva un alloggio in città, e ci sono andato subito. Hanno appartamenti belli lussuosi, no?»

Kyoya scorse uno sguardo critico sul mobilio dell’appartamento.

«Un po’ troppo minimale e moderno per i miei gusti… ma mi piace il divano.»

Mukuro rise, ed era un suono che non si sentiva più così spesso. Con rinnovato entusiasmo chiese la sua opinione su qualche idea che aveva per modificare la disposizione dei mobili e ricavare lo spazio per tastiera, console e computer per lavorare in soggiorno – una stanza dall’acustica ottimale, a detta sua – e per vivacizzare i colori molto neutri dell’arredamento.

«Sai, mi piace» ammise Mukuro quando uscirono di nuovo in strada, levando lo sguardo fino alle finestre dell’appartamento. «Credo che dirò a Ryoma che lo voglio. Hound-sensei mi ha detto di vederne il più possibile prima di decidere, ma… questo mi dà delle belle sensazioni. È un posto dove mi piacerebbe aspettarti.»

Fu colpito da quelle parole, ma non trovò una replica all’altezza e si limitò a prendergli la mano. Anche se erano in pubblico lui non la ritrasse e Phoenix sospirò sentendosi felice. La prima volta che l’aveva convinto a uscire e gli aveva fatto fare un giro a Mizura, la stessa volta in cui avevano quasi litigato per colpa del naso che credeva troppo grande, sperava di instaurare un rapporto di amicizia che restasse nel tempo, per quanto tiepido. Non avrebbe mai immaginato che potessero ritrovarsi fidanzati un anno dopo.

Un allarme di intensità lacerante scoppiò la bolla in cui si trovavano e li riportò bruscamente alla realtà cupa e caotica in cui si trovavano a vivere il loro passaggio all’età adulta. Per un momento Phoenix pensò si trattasse dell’allarme tsunami, ma poi le persone presero a correre lungo il marciapiede o in mezzo alla strada – sfiorando tamponamenti mortali – per allontanarsi dalle vetrine di una filiale di banca.

«Oh, no…»

Purtroppo era come temeva. Le vetrine furono infrante e lunghe, raccapriccianti zampe di ragno, bluastre e con sottile e rada peluria si mossero sul marciapiede. Poi apparve la Ribelle alla quale appartenevano, che era sospesa senza toccare terra e avanzava trasportata dalle zampe che le uscivano dalla schiena. Aveva il volto coperto da una maschera del teatro No’o e due borse rigonfie del suo bottino.

Accanto a lui Mukuro emise un verso disgustato.

«Che schifo mi fanno gli Auris con la roba che gli esce dalla schiena!» commentò, poi si accorse dello scivolone. «Beh, con della roba rivoltante che gli esce dalla schiena!»

«Resta indietro, Indi! Devo assicurarmi che non scappi prima che arrivino i Civil Heroes di Tokyo!»

«No che non devi» replicò lui, trattenendolo. «Non hai giurisdizione qui, e finché quella non minaccia l’incolumità di qualcuno non sei tenuto a intervenire!»

«Non… lasciami! Questo è il mio lavoro, qualsiasi sia la giurisdizione io ho il potere di prevenire o limitare un crimine e devo–»

Un urlo lacerante sovrastò allarme e grida della folla in fuga ed entrambi si voltarono per vedere che la donna ragno aveva trafitto una ragazzina della scuola media con la punta affilata della sua zampa. La sua uniforme alla marinara si stava tingendo di sangue rapidamente mentre tremava e balbettava.

Phoenix non si accorse di niente finché non vide i gambi del loto bianco di Indigo serrarsi come serpenti stritolatori intorno alla donna, e in un battito di ciglia vide quello che avrebbe dovuto essere un ex eroe scaricare un doppio calcio sulla donna trattenendo una delle sue zampe: la strappò di netto causando un getto di liquido vischioso, giallastro e dall’odore nauseante.

Phoenix corse da lui e l’aiutò a tranciare l’arto aracnoide. Prese in braccio la ragazzina, con ancora venti centimetri di zampa conficcata in corpo.

«Il soccorso medico! Subito!»

Sobbalzarono entrambi quando una nuvoletta nera apparve vicino a loro per poi materializzarsi in un uomo sulla cinquantina, in costume con la fascetta delle squadre di ordine pubblico.

«Lasciatela a me! Sono Darkporter, col mio buiotrasporto la porterò in ospedale in un minuto!»

Phoenix non si perse in chiacchiere e gliela affidò, ma neanche il tempo di chiedergli di contattare rinforzi e quello era già svanito con la ragazza riapparendo in fondo alla strada e scomparendo una seconda volta. Mukuro fissava il punto in cui era scomparso definitivamente alla vista.

«Quello sì che è un potere un sacco figo» commentò con una nota d’invidia.

«Non ti bastano i quattro che hai?»

«Non sono ancora così sicuro che gli animali mi dicano effettivamente qualcosa» ribatté lui, seccato. «Ma so che con questo qui non voglio parlare.»

La donna ragno si era rimessa sulle zampe superstiti, ma di certo non sembrava incline a combattere. Phoenix pensò che stesse escogitando un modo per fuggire con i soldi della rapina senza essere bloccata di nuovo dal loto di Indigo.

«Indi, lascia che lo faccia io…»

«Col cavolo. La schiaccio io questa bastarda» ringhiò, facendo scricchiolare le dita. «Sono stufo di loro… questo è il ringraziamento per ciò che Ran ha fatto per tutti loro? È ora di dargli una lezione come si deve.»

«Mukuro, no!»

Ma fu inutile. Il ragazzo che fino a poco tempo prima era Indigo piombò sulla Ribelle con la furia di una bestia feroce e la sbatté sulla strada, dando inizio a un combattimento serrato.

La donna però non era forte né pericolosa abbastanza da arginare Indigo in quelle condizioni mentali: affondò colpi con il groviglio di zampe affilate e gridò a perdifiato a ognuna di quelle che gli venne strappata dalla ferocia dell’ex eroe pupillo di Wing Emperor. Dopo un minuto di immenso dolore si ritrovò priva delle sue otto particolarità, accasciata di lato in una pozza di liquame giallastro ai piedi di Indigo.

«Indi! Ma sei impazzito…» esclamò Phoenix atterrito, cercando di raggiungerlo senza scivolare sulla ripugnante sostanza. «Sei impazzito?! Non sei un Civil Hero adesso, tu davvero non sei tenuto a intervenire… soprattutto così!»

«Veramente la mia licenza temporanea scade il tre di settembre» tagliò corto Mukuro. «Quindi sono abilitato a intervenire fino ad allora. E questa stronza ha trapassato una ragazzina.»

Quando si intestardiva Indigo era più duro del cristallo di Rudra e seppe che non avrebbe capito quanto avesse rischiato scioccamente finché non si fosse calmato.

Fu un sollievo sentire le sirene delle unità d’intervento, ma molto più vicino all’inquietante fu udire un coro unito che gridava a gran voce il nome di Indigo. In qualsiasi altro tempo l’avrebbe reso felice la sua popolarità, ma nel clima attuale di feroce odio verso i Ribelli e sospetto verso tutti gli Auris che non avessero un costume da eroi trovava spaventosa quella manifestazione entusiastica.

Purtroppo il suo intervento aveva reso necessario e inevitabile che venisse steso un rapporto preliminare sul posto, quindi entrambi vennero trattenuti per dieci minuti a dare le loro versioni di ciò che era appena accaduto a tre diversi pubblici ufficiali, un poliziotto e due Civil Heroes. Quando Phoenix si ricongiunse a Mukuro per chiedergli di andarsene in fretta la stampa era già arrivata e fotografava la strada, le zampe annichilite della donna ragno e la Ribelle stessa, legata con delle cinghie a una barella.

«Indi, per favore, andiamo via prima che si metta peggio.»

«È tutto okay, Kyoya… non agitarti. Ora andiamo via.»

Ma Izumi fu più rapida di loro – notevole, considerando che non aveva poteri Auris – e placcò Mukuro prima degli altri, mettendogli il microfono davanti alla faccia. Lui restò disorientato e si coprì gli occhi abbagliati da una pioggia di flash.

«Il ritorno sulle scene pubbliche di Indigo! Vuoi dire qualcosa ai tuoi ammiratori che si auguravano il tuo ritorno nelle fila dei Civil Heroes?» l’attaccò subito lei. «La scomparsa del tuo maestro e padre adottivo ti ha indotto a tornare sui tuoi passi? Raccoglierai la sua eredità?»

«Ah, ma toglietevi di torno» li respinse lui, infastidito. «Andate all’ospedale a vedere se quella ragazzina è viva o morta, se volete qualcosa di cui parlare al telegiornale!»

«Non dirle niente, Indi… sai come sono i giornalisti» gli sussurrò Kyoya, trascinandolo sulla carreggiata opposta. «Potrebbero cambiare senso e tono di qualsiasi cosa tu gli dica… non dargli materiale su cui lavorare.»

Sfilarono veloci dietro il furgone e guardarono la barella che veniva avvicinata per portare la donna dove potesse ricevere cure immediate in sicurezza. Sentì il sibilo, ma Mukuro fu più veloce e bloccò al volo il proiettile: una mela con un segno di morso e marcescente, come ripresa da un bidone della spazzatura pieno da una settimana.

«Devi crepare, schifosa Ribelle!»

«A morte i Ribelli!»

Imbattersi in una piccola falange dei nuovi movimenti anti-Auris nel centro di Tokyo nella zona di un disastro era tra le ultime cose che Kyoya avrebbe voluto per il primo giorno insieme al suo ragazzo dopo la separazione. Un nuovo lancio di frutta mancò di mezzo metro sia i ragazzi che la barella, ma andò a segno sui nervi di Mukuro.

«Che cazzo di problema avete, eh?!»

Il suo grido attirò l’attenzione di molti dei presenti e soprattutto dei giornalisti. Kyoya gli prese il braccio per trascinarlo via, ma lui si divincolò con rabbia.

«È bastato che sparisse per un mese e siete tutti diventati… delle bestie! Siete regrediti come dei primitivi, ad urlare e…»

Per un momento sembrò che tutto quello che aveva nella testa fosse scoppiato, perché la tenne con le mani. Emise un ringhio di frustrazione e si girò bruscamente verso la donna, puntandole il dito addosso.

«Sono stanco di voi! Ci sono uomini e donne morti per rendervi liberi di scegliere e vi comportate come animali! Senza legge, senza rispetto per nessuno, senza un briciolo di empatia!»

Un coro di approvazione si levò dalla frangia neo estremista, ma Mukuro li folgorò con lo sguardo.

«E voi non siete meglio! Ad abbaiare contro i Ribelli urlando di metterli a morte, esattamente come facevate venti anni fa! È quello il mondo che volete consegnare ai vostri figli, eh?! Un mondo in cui ci sono i Noi e i Loro? Non è il mondo che avete chiesto a Wing Emperor di cancellare per sempre?!»

Kyoya alzò le braccia che tremavano nel disperato tentativo di fermarlo, ma non vi riuscì. Non poteva fargli ritirare quello che aveva già detto, e nemmeno in completa onestà poteva dirgli che fosse sbagliato. Anzi, aveva ragione da vendere. Il silenzio che seguì il suo sfogo era surreale, considerando la folla che li attorniava.

«Ora basta. Basta così. È tutto inutile.»

Mukuro strinse i pugni.

«Non siete in grado di proteggere da soli il mondo che Wing Emperor ha creato per voi. Non siete capaci di seguire il suo esempio se non lo avete davanti agli occhi, non sapete seguire le regole e ascoltare il buonsenso» proseguì lui, quasi come parlasse con se stesso. «Vi serve un’autorità superiore. Vi serve un simbolo per ricordarvi che dovete rispettare le regole.»

«Indi…»

Mukuro si voltò e guardò dritto verso Izumi.

«Sarò io quel simbolo. Non vi permetterò di buttare via una vita di sacrifici come se non fossero valsi a nulla. Rispetterete la volontà di Wing Emperor» aggiunse a voce alta, e passò lo sguardo sulla folla. «O incorrerete nella punizione. Il tempo delle parole gentili è finito.»

Flash e domande bombardarono Mukuro e Kyoya venne del tutto ignorato, spinto indietro dall’affannarsi di fotografi e cineoperatori. Sopraffatto si portò la mano sulla bocca, con gli occhi annebbiati dalle lacrime. Tutti i progetti di cui avevano parlato – la casa, l’angolo dove suonare, il corso di composizione, la carriera e la vita insieme – erano stati spazzati via.

Nel suo piccolo metro di spazio nell’immensità di Tokyo, Kyoya si accovacciò con le mani sulla testa e maledisse ogni singola scelta che li aveva portati su quella strada, quel giorno, a quell’ora.

 

*

 

Sedere nell’atelier di Ran in Accademia aveva la stessa amarezza di quando aveva atteso il suo ritorno dal lunghissimo dibattito sulle modifiche alla Carta dei Diritti. Dondolò pigramente sulla sedia girevole sfogliando i suoi album recenti, trovando volti di studenti, ritratti di Amber e persino disegni del cane di Breaker.

Nel silenzio pesante della stanza prese una delle matite dalle lunghe punte e fece un tentativo di disegnare anche lui un cagnolino prendendo spunto da un bicchiere portapenne che Ran si era comprato a Osaka, raffigurante un cucciolo bianco molto peloso con la coda arricciata. Con suo divertimento si accorse che il suo disegno assomigliava più a un porcellino peloso che a un cane.

«Cielo, sono davvero pessimo…»

Con nostalgia tornò alle pagine precedenti studiando le ombreggiature, i tratti che formavano i capelli e riproducevano i punti di luce.

Ran è davvero pieno di talenti. Fare questo dopo così tanti anni di inattività… ha preso così tanti doni dai suoi genitori.

Chiuse gli occhi per un momento sopportando una fitta di dolore non fisico, ma prima di trovarsi a duellare di nuovo con i suoi demoni la porta si aprì.

«Indigo, l’avvocato e l’amministratore sono arrivati… ma penso che–»

«Grazie. Nell’ufficio?»

«Sì, ma Indigo, penso che dovresti ripensarci.»

«Lo farei di certo, se ci fosse qualcun altro. Ma non c’è.»

Sfilò davanti a lui senza incrociarne lo sguardo e andò all’ufficio; Night Hound non si diede per vinto e lo tallonò.

«Non si torna indietro da questo! Sei giovane e… non devi accollartelo, Indigo, Byakuran non vorrebbe mai che capitasse a te!»

«Non sempre possiamo avere quello che desideriamo ed evitare quello che temiamo.»

Aprì la porta e i due uomini, entrambi attempati, si alzarono per accoglierlo.

«Comodi, per favore» fece Mukuro sbrigativo, e andò alla sedia di Ran. «È tutto pronto?»

«Sì, certamente» disse l’avvocato, quello con gli occhiali. «Ho qui tutti i documenti per il trasferimento di proprietà. Come le ho anticipato al telefono, suo padre risulta attualmente scomparso, perciò le firme che sta per apporre trasferiranno le sue proprietà a lei con pieni poteri ma alcune clausole…»

Mukuro sfogliò il documento lungo diverse pagine e cercò di carpirne il più possibile mentre lo leggeva. Il linguaggio legale era così serrato che si trovò a fingere di leggere mentre ascoltava l’avvocato snocciolare tutti i dettagli. Quando smise Mukuro scoprì con frustrazione che gli era uscito tutto di mente subito; ricordava solo le ultime spiegazioni sui conti di sussidio.

«A chi sono affidati attualmente questi fondi?»

L’altro ometto si sorprese di essere chiamato in causa. Il suo sorriso sollevò i suoi baffi alla Poirot.

«Ho qui una lista delle agenzie no-profit autorizzate a gestire ogni singolo fondo… suo padre è un uomo di straordinaria generosità, signore, e sono certo che lei non è da meno…»

Preferì non sbilanciarsi, perciò prese l’elenco senza commenti.

«Per quanto riguarda la scuola? Chi si occupa della gestione delle spese?»

«Le revisioni delle spese sono affidate alla Kawahara e Figli, un ufficio di contabilità molto competente che se ne occupa da quando è stata aperta» intervenne l’avvocato. «Le questioni legali sono affidate allo studio Minami, Tomoe & Shitori che oggi rappresento. Wing Emperor usufruì della nostra assistenza per la causa contro il Ministero della Difesa con ottimi risultati, e da allora si è sempre fidato del nostro studio.»

Mukuro non aveva alcuna idea di quale fosse questa causa contro il Ministero, ma non aveva tempo di approfondire la questione. Lanciò un’occhiata all’orologio.

«Bene, bene. Dopotutto non è che io conosca altri avvocati o uffici, quindi se mio padre si fida di voi lo farò anch’io. Per i fondi… al momento restano invariati. Appena avrò tempo di studiare la lista e controllare le associazioni che hanno richiesto una donazione può darsi che farò delle modifiche.»

«Una saggia decisione, signore» lo elogiò il baffetto. «È bene essere coscienti e consapevoli prima di fare cambiamenti a un sistema funzionante.»

Mukuro li scrutò entrambi. Trovava Baffetto eccessivamente untuoso, mentre Occhiali sembrava nervoso all’idea che potesse decidere di avvalersi di qualcun altro per i servizi legali. Dopotutto aveva ancora un’idea nebulosa di quanto voluminosi fossero gli affari che la sola Accademia Auris portava allo studio legale, ai contabili e a tutte le società che godevano di un contratto con quella.

«Dove devo firmare?»

«Oh, ecco… le mostro…»

Mukuro iniziò ad apporre il suo timbro dove l’avvocato indicava, ma il Baffetto sembrava essere seduto su spine infuocate.

«Sì, signor Nishino?» fece Mukuro senza guardarlo.

«Ehm, io… credo che sia il caso di farle presente che l’amministrazione delle sue proprietà include anche le responsabilità legali per gli studenti… in particolare quelli che abitano qui e non più con le famiglie o presso orfanotrofi.»

Mukuro ebbe un’esitazione di un secondo prima di apporre un altro timbro. Anche se non era saggio chiederne conferme con estranei ciò significava con alta probabilità che anche la custodia di Belial passava sulle sue spalle.

«Sì. Naturalmente» replicò distrattamente. «Non sto facendo questo per spassarmela con i suoi soldi, mi prenderò tutte le responsabilità che erano sue.»

«Ammirevole, signore.»

Firmò le scartoffie e assolse i convenevoli del caso prima di stringere la mano ai due uomini. Sembravano soddisfatti e ritenne di aver operato bene, in virtù del fatto che la sopravvivenza della fortuna di Emperor equivaleva alla sopravvivenza dello studio legale e ai fondi con il relativo amministratore.

Hound, che era rimasto silente in un angolo, esibì un sorriso e aprì loro la porta.

«Grazie di essere venuti… non fate complimenti. Indigo ora è occupato, ma trattenetevi liberamente nella nostra caffetteria e prendete quello che volete prima di tornare al lavoro.»

«Molto gentile, vi ringrazio molto!»

«Ne sarò ben lieto» aggiunse l’amministratore. «Ho sentito che il signor Indigo beve qui una pregevole cioccolata calda, mi azzarderei a provarla…»

Mukuro fece un sorriso sghembo.

«Lo faccia, la prego. È davvero squisita.»

I due uomini uscirono e Night Hound perse il sorriso all’istante. Mukuro fu colpito dalla sua capacità di fingere con naturalezza.

«Indigo, per favore. Ripensaci. Lo hai visto che cos’ha fatto questa vita a Byakuran per tutti questi anni! Vuoi finire così? Buttare nel fuoco i tuoi sogni che si sono avviati già così bene, sfasciare la tua relazione sul nascere e finire per perderti un pezzo per volta?»

«A me non succederà. Non ho intenzione di accentrare così tanti ruoli su di me… e nemmeno ne sarei in grado. Non so niente di come si dirige una scuola, per esempio… come potrei? Mi ci sono diplomato appena un mese fa.»

Un lieve bussare anticipò l’aprirsi della porta. Night Hound non provò neanche a dissimulare lo stupore quando vide Bluebell entrare nell’ufficio: con i lunghissimi capelli azzurri raccolti in una coda alta e l’uniforme nera con la gonna al ginocchio, le calze coprenti e il fazzoletto annodato anziché a fiocco sembrava già una studentessa delle medie.

Mukuro notò l’unico segno della sua vecchia stravaganza quando gli porse un sacchetto del pranzo e una busta: sulle unghie del pollice e indice destro aveva dei brillantini blu.

«Mad Phoenix mi ha detto di portarti il pranzo, o ti saresti dimenticato di mangiare» fece lei notando la sua perplessità. «E tra quarantatré minuti hai l’incontro col Ministro.»

«Ah, prima di allora devi scansionare questo e mandarlo per e-mail a tutti i partecipanti» le disse, scovando due fogli tenuti da una graffetta e passandoglieli. «Te li ho scritti dietro… sai come si fa, no?»

«Pf! Per chi mi hai preso? Certo che so farlo!»

«Allora sbrigati.»

Mukuro aprì il sacchetto per sbirciare che cosa gli avesse mandato Kyoya per pranzo, ma venne distratto dalla fissità dello sguardo di Bluebell.

«Beh? Che aspetti? Una caramella o una stellina sulla lavagna? Vai, non c’è tempo!»

Bluebell parve offesa ma ricompose subito la sua faccia seria da studentessa modello mentre usciva.

«Ricordati di segnare i miei crediti formativi!»

«Ah, sì. Ora che ci penso, fissa un’assemblea dei docenti stasera, Bluebell. Grazie.»

Bluebell si trattenne per guardare Night Hound, con un’intensità straordinaria per una bambina di quell’età.

«Night Hound-sensei, c’è un’assemblea dei docenti stasera. Non mancare, è tassativa.»

Detto ciò fece un lieve inchino e uscì dall’ufficio. Sentirono le sue scarpette correre all’ascensore e Mukuro sogghignò dietro il sandwich di avocado: Night Hound era ancora senza parole.

«Che… l’hai ipnotizzata o che cosa?»

«Inizi a notare che tipo di donna diventerà tra qualche tempo? Fossi uno di quei ragazzini della classe E inizierei a pensarci seriamente. Farà grandi cose quando verrà il suo tempo nella classe S, e anche dopo.»

Non serviva eguagliare il suo potere per capire che Night Hound era sconvolto e colpito dai cambiamenti improvvisi della bambina che aveva dovuto badare come una nipotina indisciplinata. Mukuro guardò ancora l’orario e decise di addentare il sandwich con un po’ di anticipo sull’ora di pranzo.

«Che cosa intendeva l’avvocato prima?» bofonchiò mentre masticava. «La causa contro il Ministero…»

Quelle ultime parole cambiarono l’umore dell’insegnante repentinamente e l’aria si fece più tesa.

«Si riferiva alla causa che coprì Byakuran di oro.»

«Aspetta… aspetta. Vuol dire che la famigerata fortuna di Byakuran deriva da una causa legale?»

«Dalla minaccia di una causa legale. Minacciò di portare al tribunale dei diritti umani l’intero Ministero della Difesa e l’esercito nipponico… per non far sapere al resto del mondo quello che avevano cercato di fare lo riempirono di soldi. Gli diedero tutto quello che chiedeva, compresa l’autorizzazione alla bonifica dell’area del ghetto.»

Mukuro abbassò il panino, basito. Aveva così tante domande che non sapeva quale fare per prima.

«Raccontamelo, ti prego.»

Night Hound lo scrutò per un buon minuto, indeciso. Alla fine si sedette di fronte alla scrivania.

«È una storia vecchia, inizia quando noi frequentavamo il liceo. All’epoca c’era un ufficio dei servizi segreti che aveva il compito di monitorare gli Auris… era un pettegolezzo come se ne sentono molti sui complotti segreti dei governi. Nessuno ci faceva caso, e nemmeno noi quando eravamo ragazzini… ma esisteva. E prese di mira Byakuran.»

E come dargli torto? Un Auris che vola, si rigenera e cura gli altri…

Prese un altro piccolo morso senza replicare.

«Lo sequestrarono una notte quando tornavamo da una serata al cinema… visto che non lo mollavo e stavamo facendo chiasso, presero anche me prima che qualcuno li notasse. Ci portarono in una base militare sull’isola di Mugishima e per giorni testarono le nostre abilità in modi così contorti che non oso raccontare.»

Night Hound accavallò le gambe, quasi a voler sottolineare la sua chiusura sulla questione.

«Ritennero di poter fare un buon uso di noi nella loro unità speciale… ovviamente, un drappello di Auris selezionati al servizio dell’esercito. Illegale sotto molti aspetti anche allora» puntualizzò l’uomo con un sorriso storto. «Ci addestrarono come militari, tenendoci in condizioni di vita degne di una guerra di trincea. Brandine al freddo, poco cibo e acqua, allenamenti estenuanti. Ripetevamo ciclicamente tutti i test sulle abilità… e che tu ci creda o no, il potere di Byakuran cresceva. Cresce costantemente quanto più viene utilizzato.»

«Sul serio?» domandò sottovoce Mukuro, neanche fosse in mezzo a una folla di indiscreti. «È stato quell’addestramento a renderlo… così?»

«Sì, per buona parte. Lo rese più capace di individuare i danni invisibili, più rapido a guarire gli altri e più consapevole dei limiti. Dopo un terrificante test conclusivo in cui, soli, dovevamo sfuggire a cinquanta soldati in un’area impervia per una notte intera, fummo alla fine del tunnel.»

«Siete riusciti a superarlo?»

«Per me fu abbastanza semplice, visti i poteri che ho. Non c’era niente che potessero usare per coprire il loro odore… e non dimenticherò mai quanta eccitazione avevano in corpo quei sadici. Mai.»

«E… per Ran?»

Kikyo esitò e cambiò la gamba che teneva accavallata.

«Non mi parlò mai con chiarezza di cos’era accaduto… ma aveva riportato ferite così serie da rischiare la morte… l’hai vista, vero? Quella falce con le piume.»

L’aveva vista eccome. Era così straordinariamente ammaliante, e strideva così tanto con l’immagine di guaritore e angelo di Ran che non avrebbe potuto non notarla.

«Ran mi disse che fu quella a salvarlo. Non ne cavai mai una spiegazione coerente, perché neanche lui mi seppe dire come fece quell’arma ad arrivargli tra le mani in quella foresta… ma non ha mai cambiato versione: secondo lui è stata quella a trucidare i soldati.»

«Tru-trucidare, hai detto?»

«Sì» confermò lui grave. «L’episodio spaventò i capi del progetto, perché non sapevano spiegarselo. Ci fecero tornare a casa in fretta e furia, ormai due anni dopo il sequestro… forse non sarebbe seguito niente se nel frattempo Luce non fosse morta.»

Il cuore di Mukuro affondò un po’ nello stomaco.

«Oh, no… mentre non c’era…»

«Sì… si ammalò e si spense poco prima del suo ritorno. Byakuran era fuori di sé dal dolore, e credevo che fosse finita per lui… che si sarebbe lasciato morire, o che sarebbe impazzito e morto cercando vendetta…»

L’espressione di Night Hound si rilassò appena.

«Mi sorprese. Cercò una vendetta, ma non una sanguinaria… andò da diversi avvocati fino ad arrivare allo studio Minami, Tomoe & Shitori. Minami era alle soglie della pensione ma era un avvocato agguerrito e raccolse la sfida di presentare per la prima volta una causa legale dove un Auris era il querelante. Il resto, te l’ho già detto prima.»

Mukuro si trovò a sorridere.

«Grazie di avermelo raccontato, Hound-sensei. Ora sono sicuro di aver fatto la scelta giusta.»

«Che cosa?»

«Byakuran era pronto a tornare alla sua vita, ma aveva perso quella che era una madre… e se per quei due anni di sofferenza aveva perso anche la madre tanto valeva che la sfruttasse per qualcosa di così grande da rendere meno dolorosa… o piuttosto, giustificabile quella perdita. È quello che sto facendo io… metto a frutto quell’esperienza per qualcosa di più grande.»

Dal modo in cui sospirò con la faccia tra le mani dedusse che lo scopo di Night Hound non era motivarlo in quella direzione, ma l’aveva fatto. A Mukuro tornò anche la fame e attaccò il sandwich con più entusiasmo.

«Indigo, non era questo il punto…»

«Lo è. Per favore, Hound, è già difficile così… aiutami, non mi ostacolare. Dobbiamo difendere il castello finché lui non tornerà… o finché il mondo non sarà pronto a dividere la responsabilità tra tutti gli abitanti.»

«Entrambe le cose potrebbero non succedere mai.»

«Byakuran lo sapeva, ma non gli ha impedito di iniziare la partita, no? Non possiamo essere così pavidi!»

«Bene. Se è la tua decisione…»

Sfumò la frase con un tono allusivo e lasciò la stanza a grandi passi. Non sapeva se l’aveva offeso o se fosse solo preoccupato come lo era Kyoya, ma nel caso sarebbe andato da lui a parlarne ancora quella sera. Si era assunto il ruolo di simbolo, ma era consapevole di aver bisogno del massimo sostegno che riuscisse a ottenere per brillare come il suo predecessore.

 

*

 

Mukuro sobbalzò e si spostò le cuffie dalle orecchie quando una valigia atterrò sulla scrivania con un tonfo. Si trattava di una valigetta rinforzata con la combinazione, una rudimentale versione di quelle che usavano i Civil Heroes per i loro costumi e accessori. Perplesso, levò gli occhi su Night Hound.

«E questa è…?»

«Questo è l’ultimo segreto di Byakuran. Visto che sei così determinato ad accollarti la sua missione devi guardare qui dentro e capire che cosa ha creato Wing Emperor.»

Ancora confuso sollevò le mani come una resa e le posò sulla valigetta.

«Bene… come vuoi… il codice?»

«Zero, uno, otto. Il vuoto, l’essenza e l’infinito.»

Un’associazione del genere per ricordare un codice era plausibile per chiunque conoscesse il lato Mahayogi di Byakuran. Un lato, secondo Mukuro, apprezzabile quanto l’artista e molto più raro.

Col pollice girò le rotelline e sbloccò la chiusura, ma non aprì subito. Tentò di immaginare l’ultimo segreto dell’uomo più potente del mondo, ma dopo il ritratto di una donna morta, un’amante prostituta, scatoloni di disegni, cancelleria con immagini di cagnolini, tappetini da yoga e una falce letale come quella della Mietitrice in persona non sapeva che cosa immaginare di più scandaloso, spaventoso o insospettabile.

Portò alla luce un tessuto in colore bianco platino con un motivo opaco a esagoni, poi il metallo di una splendida protezione pettorale che mandò un baluginio argenteo. Un costume. Si alzò dalla sedia e lo tirò fuori per ammirarlo in tutta la sua bellezza e ricercatezza: il tessuto non era all’altezza del Sound of Silence ma di ottima resistenza, era incantevole il suo bagliore nella luce.

«È meraviglioso… è suo? Non gliel’ho mai visto mettere…»

Voltandolo si rispose da sé: aveva un’apertura esagonale da sotto al collo alla vita, lasciando scoperto lo spazio necessario per le sue otto ali. Hound assunse un’espressione dura, ma fissava il costume e non il ragazzo.

«Perché l’esercito glielo diede come uniforme da combattimento. Era quella che avrebbe dovuto usare per la guerra… studiato per la difesa in un campo aperto e per attaccare.»

Prese la maschera che era rimasta sotto insieme alle protezioni e gliela mostrò.

«Compresa questa. Loro lo sanno che il potere di Byakuran deriva dall’ossigenazione del suo organismo e gliel’hanno data in modo che potesse respirare in qualsiasi condizione… e che si ricordasse del suo posto.»

«Del suo posto in che senso?»

«Durante la detenzione abbiamo sempre avuto una maschera che ci veniva tolta solo per lavarci e per mangiare. Come manichini senza faccia. Quando non ti vedi più la faccia per due anni è come se non sapessi più chi sei, Indigo… lontano dalla famiglia e da quello che ami, è come perdere l’anima.»

Mukuro riservò uno sguardo animato da sentimenti contrastanti alla maschera con i filtri d’aria, ma l’idea che Byakuran ne avesse portata una per due anni sul viso era peggiore del resto del racconto dell’insegnante. Strinse il costume e scorse la mano lentamente sulla manica.

«Posso prenderlo in prestito?»

«Che cosa pensi di farci? È un vecchio costume. Superato sotto molti punti di vista anche dalla gamma media della Irie.»

«Sì… probabilmente… ma se me lo lasciassi un paio di giorni mi basterebbe. Qualcosa in contrario?»

«Io… no. Credo di no, ma…»

Il pudore era qualcosa di dimenticato già dopo qualche mese di spogliatoi comuni e non si era azzardato a riavvicinarsi a Mukuro dopo l’inizio di una relazione. Prese a spogliarsi lì nell’ufficio.

«Che diamine stai facendo?»

«Penso mi stia. Lo voglio indossare.»

«Per quale maledetto motivo, Indigo?!»

«Il motivo lo sai e non lo approvi… l’occasione, invece, è la conferenza stampa che ci sarà tra poco.»

Hound si accigliò come un falco ma impallidì al contempo.

«Vuoi… indossare il costume di Byakuran per la conferenza stampa sul decreto Emperor 2?»

«Sì. Sta per iniziare una guerra contro il caos e l’odio razziale… anzi, è già iniziata. Quindi questo costume è adatto. Ran lo approverebbe» interruppe la protesta già sulle labbra di Hound. «Lui approverebbe che questo costume venga usato per combattere una guerra giusta.»

«Andrai lì fuori a dire questo in diretta nazionale?»

«Andrò a dire che i crimini dell’odio non saranno tollerati.»

Il costume bianco di Ran non aveva la valvola come quelli più moderni e Mukuro dovette allacciarlo dietro il collo. Lo sentiva più stretto di quello che gli era appartenuto come Indigo e l’apertura sulla schiena era preoccupante per uno freddoloso come lui.

«Per ora può andare» decretò, e sedette per sistemarsi le scarpe e le protezioni. «Per combattere però va modificato… queste protezioni sono pesanti, cavolo.»

«Indigo… Mukuro

Il ragazzo guardò Hound. Superata la costernazione e la rabbia evocata dalla maschera restava solo desolazione, un’arrendevolezza non da lui.

«C’è qualcosa… qualsiasi cosa che io possa dire o fare per fermarti?»

Mukuro assestò una pacca sulla spalla dell’insegnante un po’ più forte del normale, sperando di riscuoterlo da quella stagnazione. Era stato il braccio destro e sinistro di Wing Emperor, aveva costruito in larga misura la sua gloria, e aveva bisogno che mettesse i suoi talenti anche al servizio del suo erede.

«Solo il ritorno di Ran mi fermerà, Hound… quello, o la morte» rispose con un tono delicato che strideva con la forza delle parole. «Non sentirti colpevole… e non sentirti in dovere di salvarmi.»

Hound serrò le dita sulla maschera ma non scollò le labbra. Mukuro si avvicinò alla porta, ma quando vide la propria mano guantata di bianco appoggiarsi sulla maniglia si fermò.

«Come si chiama questo costume?» domandò di getto. «Una volta ogni pezzo aveva un nome, non erano prodotti in serie.»

«Shattered Justice» rispose Hound in un soffio. «Si chiama Shattered Justice.»

Il nome era incredibilmente suggestivo e adatto a un caotico campo di battaglia, ma lui l’avrebbe usata per ripristinare la giustizia sociale che andava sfaldandosi come un fiore appassito. La giustizia lasciata in eredità da Wing Emperor al resto del mondo, a molti altri che avrebbero dovuto tramandarla a loro volta…

Fu allora che decise come si sarebbe chiamata la versione in materiali moderni che avrebbe tratto dalla Shattered Justice. Sorrise e uscì per imboccare le scale. Aveva bisogno di quel minuto di solitudine per ascoltare l’eco dei ricordi di Ran rimasti nella sua tuta prima di affrontare la stampa.

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Capitolo 30
*** The Eastern, the Western and the Fallen ***


«Indigo.»

Mukuro si puntellò sui gomiti e sul ginocchio sano per sollevarsi da terra, ma il suo corpo non rispondeva più in modo naturale alla sua volontà. Gli impulsi del dolore gli rimbombavano dentro come la pallina impazzita di un flipper.

«Hai fatto la voce grossa alla televisione, eh? Com’era? Più poteri ai Civil Heroes, pene più severe per i Ribelli e ronde con diritto di assassinio…»

«Diritto di esecuzione» lo corresse lui con voce sofferente, tenendosi il fianco. «Non significa che si possa uccidere… non… scambio un mondo di Plumbei che uccidono gli Auris con uno in cui gli Auris si ammazzano a vicenda…»

Emise un gemito strozzato quando il Ribelle gli tirò un pugno appesantito dallo sportello di un’automobile – plasmato da un notevole gene Oro in un’armatura approssimativa – e si ritrovò di nuovo per terra con la sensazione di non avere più metà della faccia.

«Ti credi speciale, vero? Non lo sei. Il tuo maestro era qualcosa di speciale, questo sì» ammise l’uomo, contrariato. «Ha fatto un casino, rendendo gli Auris una specie di manovalanza per i Plumbei… ma ha messo le basi per l’insurrezione. Se tu fossi dalla parte degli Auris ti schiereresti con noi per rovesciare il governo.»

«Il dominio di una razza non può funzionare… quale che sia la razza, Iron Mantis.»

L’uomo sollevò il braccio, che si era armato di una pericolosa testa metallica di rastrello. In vita sua Mukuro non avrebbe mai pensato di temere un attrezzo da giardinaggio, ma gli capitò anche questo.

«Tu sei forte, Indigo… se ti schiererai dalla nostra parte adesso ti lascio andare.»

Mukuro guardò l’uomo che fino a due mesi prima militava con profitto nelle fila del Coordinamento di Funbari. Vicecapitano della sua unità e senza una macchia sul libretto di servizio, dalla sera alla mattina si era schierato coi Ribelli, che ora avevano eletto Zakuro – con lo pseudonimo di Lava Rex – loro ideale di rivoluzionario e si facevano chiamare Liberatori.

Quanti altri come lui ci sono dentro il Coordinamento? Quanti altri validi alleati saranno dei nemici domani, o il mese prossimo? Come li trovo prima che esplodano?

Mukuro rifletteva febbrilmente mentre si rimetteva in ginocchio con movimenti cauti. Non disponeva delle capacità diagnostiche di Byakuran, ma era certo di avere un paio di costole fratturate e non era in grado di escludere che il suo ginocchio avesse danni permanenti.

«Non prenderò mai parte allo sterminio indiscriminato dei Plumbei.»

«Non sei furbo, Indigo. Forte, coraggioso, e anche carismatico… ma furbo, no.»

«Più di te, senza dubbio.»

Mukuro fissò gli occhi sul volto di Iron Mantis, che lo ricambiò. La sua aria arrogante si dissipò per lasciare il posto allo stupore, poi al terrore. Indietreggiò di scatto incespicando, agitò le braccia e attaccò a vuoto due metri sulla sinistra di Indigo, poi si portò le dita al collo boccheggiando.

Come se nulla stesse succedendo Mukuro si prese il tempo di rialzarsi con riguardo al suo ginocchio e alle costole, salvo poi trovare una mano che gli offriva sostegno. La prese per raddrizzarsi.

«Era ora, Breaker.»

«Scusami, sono stato bloccato da tre suoi compagni prima di arrivare al condotto dell’acqua…»

Breaker guardò intorno a loro, dove una splendida fioritura di loto rosa aveva adornato l’acqua che si era raccolta nelle crepe create dagli attacchi furiosi di Iron Mantis.

«Molto carino da vedere, Mukuro! Le ragazze adorano questo tuo lato femminile…»

«Fa’ silenzio, Breaker. Non distrarmi.»

Breaker lo guardò in faccia, con l’aria di essere a spasso per shopping e non nel mezzo di una ronda finita in schermaglia.

«Che cosa gli stai facendo vedere?»

«Lo sto strangolando con un grosso groviglio di serpenti neri.»

«Anche le tue illusioni sono gotiche come i tuoi vestiti.»

«Sarebbe gotico se lo strangolassi con un gargoyle di pietra…»

Esitò un attimo, chiudendo solo l’occhio sinistro.

«Ehi, è proprio una bellissima idea…»

«Vuoi che lo stenda, prima che ti esploda l’occhio?»

«Ah, sì. Sì, meglio sbrigarsela» ammise Mukuro. «Enma?»

«Ha finito. Sei l’ultimo.»

«Cavolo, ma davvero? Che performance imbarazzante…»

Breaker avanzò e colpì in pieno torace Iron Mantis con il piatto della sua spada, superando abilmente i punti corazzati della sua armatura; lui strabuzzò gli occhi e si accasciò con gran fragore della ferraglia che il suo potere magnetico non tratteneva più.

«Non posso credere che un vicecapitano sia diventato un Liberatore.»

«Ti sorprende così tanto?»

Chiuse gli occhi per riposarli e si massaggiò la tempia destra. L’uso del nuovo potere illusorio sul campo gli lasciava sempre una fitta che persisteva qualche ora, ma era un gene eccellente, molto raro e sconosciuto a tutti tranne i suoi amici della classe S: un’arma necessaria in una guerra dove i nemici erano travestiti da amici.

«I Liberatori sostengono che gli Auris sono schiavizzati tramite il codice di condotta dei Civil Heroes… che sono pagati e premiati quando sono bravi animaletti, e se qualcuno ha mai avuto l’impressione di essere al servizio dei Plumbei e non dell’umanità verrà colpito in un nervo scoperto.»

«Non capisco come possa essere importante… una vita è una vita. Che sia di un Auris o no ha lo stesso valore e vale la pena proteggerla.»

«Se tutti fossero come te, Breaker, non esisterebbe nemmeno la parola “guerra”.»

Quando Mukuro sentì il segnale di disturbo di un collegamento radio aperto pensò che Restless stesse per urlargli di darsi una mossa, ma gli bastò sentire la prima parola e il suo tono per mettersi in allerta.

«Indigo, spostatevi! Sta arrivando alle tue ore due!»

Si avvicinò a Breaker per fronteggiare la minaccia quando emerse una ragazzina da una strada perpendicolare. Aveva un giaccone di pelle con le fibbie molto più grande di lei, della taglia di un uomo; i lunghi capelli le coprivano quasi tutta la faccia come in un film dell’orrore. Un brivido gli scorse sulla pelle come una scossa elettrica fredda.

«Raggiungeteci subito, tutta la squadra!» gridò sul canale aperto. «È Spectre!»

Spectre era la giovanissima fautrice di immani disastri compiuti in meno di una settimana. Aveva sgominato da sola due squadre del Coordinamento Missioni Attive e pareva che la sua funzione strategica nel Fronte di Liberazione fosse quella di procedere al salvataggio dei membri atterrati dai Civil Heroes.

È venuta per Iron Mantis!

La ragazza non disse una parola; si spostò i capelli dalla faccia pallida e spalancò la bocca che era innaturalmente larga, completamente nera come un abisso. Come avesse aperto un buco dimensionale una forza primogenita iniziò a risucchiare l’aria circostante, foglie, spazzatura; fece svolazzare i capelli lunghi di Mukuro e si intensificò di secondo in secondo attirando oggetti sempre più grandi e pesanti.

Con il ginocchio falese Mukuro barcollò, ma il braccio di Breaker lo trattenne. Si era aggrappato a un lampione per resistere a quel buco nero che inghiottiva ogni cosa riservando loro una destinazione ignota quanto l’aldilà.

«La dobbiamo fermare!» gridò Mukuro per sovrastare il boato di un tornado.

Ma su come potesse fare non aveva nessuna idea. Avrebbe risucchiato chiunque si fosse avvicinato per colpirla, avrebbe ingoiato qualsiasi proiettile, arma di fortuna e persino i suoi fiori di loto rosa sfiorirono dentro l’oscurità. Ogni goccia d’acqua che permettesse di riprovare un’illusione rigenerando i suoi fiori rosa sarebbe sparita là dentro senza dargli tempo neanche di sospirare.

Uno scoppio di fiamme che Mukuro riconobbe come opera di Tsunayoshi divenne un vortice di un calore impressionante, ma senza successo: finì fagocitato senza arrecare danni. In quel momento anche Indigo temette di passare alla storia nel terzo massacro di Spectre.

Non può finire così… non così, non oggi! Pensa! Trova qualcosa… qualsiasi cosa!

Inghiottiva pezzi di auto, scomparve dentro la sua bocca anche una panchina. L’osservava cercando di capire la chiave del potere e trovare una contromisura quando all’improvviso una scintilla anticipò di un secondo una detonazione secca. La ragazza emise un gemito di profondo dolore mentre il suo corpo assumeva angoli anomali come una bambola di porcellana rotta sotto gli abitini. Il vortice si arrestò e del fumo uscì dalla sua bocca.

Agli occhi di Mukuro sembrò cadere al rallentatore sull’asfalto e il sangue era di un rosso brillante; saltava agli occhi come se il resto del mondo fosse in bianco e nero.

Un rumore meccanico precedette la voce di Restless via radio.

«Non ringraziatemi, ho solo esercitato il mio diritto di esecuzione.»

«Go… Gokudera, l’hai ammazzata!» sbottò Breaker nel suo microfono.

«Prima che ammazzasse voi. Il nuovo decreto Emperor 2 mi autorizza a sentenziare un Ribelle che non vuole arrendersi e che non può essere sopraffatto se minaccia la vita di un civile o di un Civil Hero.»

Mukuro sperava che il diritto di esecuzione fungesse da deterrente per i Ribelli senza dover essere materialmente applicato, ma quella speranza era morta nel momento in cui la granata era esplosa dentro il corpo della ragazza. Si rendeva conto che Restless aveva salvato tutti loro, ma saperlo non leniva l’amarezza che si sentiva in bocca guardando una studentessa delle scuole medie sanguinare senza possibilità di salvezza.

«Ti ringrazio, Restless… ottimo lavoro» gli fece, sforzandosi di tenere ferma la voce. «Grazie della tua freddezza.»

«Non è la prima testa che faccio cadere, e non mi preoccupo di collezionarne altre per salvarvi la vita. La tua compresa, ingrato di un idiota!»

Breaker accusò il colpo. Non serviva che parlasse per capire che era troppo affranto per una vita spezzata per gioire di avere salva la sua; stava sicuramente pensando a cosa avrebbe potuto fare per evitare vittime.

Mukuro guardò verso Tsunayoshi, il cui volto era terreo, ed Enma che era stato spettinato dal vortice e non se ne rendeva conto, troppo in soggezione davanti al corpo di una ragazzina della stessa età di sua sorella.

«Ritiriamoci» disse loro con dolcezza. «Siamo vivi… dettate il rapporto agli ausiliari e andate a casa.»

L’auto della polizia ausiliaria – recentemente nominata per assistere le missioni dei Civil Heroes – li raggiunse dalla strada laterale con il lampeggiante blu acceso. Come da accordi, avrebbero pensato loro ad arrestare Iron Mantis e a ripulire il disastro in accordo con le squadre di supporto del Coordinamento.

«Mukuro…» esordì esitante Breaker. «Questo è… non è giusto, non dovevamo…»

«Quello che non dovevamo fare, Yamamoto, era morire qui e lasciare che altre luci scomparissero nel buio» replicò con un tono che sperava essere convinto ma non autoritario. «Per quanto giovane fosse, Spectre era pericolosa. Ha spazzato via due squadre di Civil Heroes esperti… brave persone il cui scopo era proteggere.»

Gli diede una pacca sul braccio, anche se facendolo si fece male alle costole.

«Vai a casa, chiama tuo padre… e porta il tuo cane a fare il bagno da quella toelettatrice carina. Mangia qualcosa di buono. Il senso di colpa diventerà sopportabile.»

La faccia scura di Breaker diceva tutto sul suo scetticismo, ma Mukuro sapeva già dall’episodio di Hell Cat che un esito fatale poteva essere superato solo aggrappandosi alle cose preziose da proteggere.

Fu al pensiero di casa che si sentì un po’ meglio, ma tra lui e il suo luogo felice c’erano di mezzo una seduta di guarigione, la deposizione sulla missione odierna e una riunione di revisione delle strategie di pattugliamento metropolitano alla quale avrebbe inesorabilmente tardato.

 

*

 

Anche se con costole e ginocchio di nuovo integri Mukuro superò la porta di casa sentendosi uno straccio da pavimenti usato, vecchio e malconcio.

Erano quasi le due di notte e la casa era silenziosa. La luce era accesa sopra la penisola della cucina e vide il biglietto incollato sullo sportello del frigorifero, ma era troppo sfinito per pensare di cenare: si sarebbe addormentato dentro il piatto come un bambino. Puntò dritto alle scale e ne aveva salite la metà quando si accese la luce e vide in cima una figurina in pigiama.

«Ciao!»

«Ciao, Bel… che cosa fai sveglio a quest’ora? Mi aspettavi?»

Il bambino scosse la testa.

«Avevo sete.»

«Ti prendo un bicchiere d’acqua» gli disse sorridendo. «Torna a letto, arrivo subito.»

«Lo prendo da solo, grazie.»

Belial scese le scale fino al gradino sopra il suo. Guardò Mukuro con quegli occhi rossi – ancora non avevano capito se quella rifrangenza da gatto fosse o no correlata con i suoi misteriosi poteri Auris – e, inaspettatamente, lo abbracciò stretto.

«Sembri stanco, Kuro-nii. Meglio se vai a letto subito.»

Fu colpito e anche commosso dalla premura che aveva nei suoi confronti, ma prima che potesse ricambiare il suo abbraccio gli sfuggì saltellando in fondo alle scale fino alla cucina.

Forse è arrabbiato con me… non riesco a vederlo sveglio da cinque giorni.

Non senza sensi di colpa si trascinò in bagno per il minimo di pulizia prima di mettersi a letto. Quando si guardava allo specchio, tuttavia, non poteva non provare angoscia: vedeva la stessa tristezza e disarmonia di Byakuran nei primi tempi incisa nei suoi occhi, nei suoi tratti, in quelle lievi rughe tra le sopracciglia… e si rese conto che pur avendo delegato la scuola al collegio docenti e lasciato il Coordinamento del soccorso medico a qualcuno di competente in un solo mese aveva già permesso che i suoi compiti gli strappassero dalle mani quasi tutto il suo tempo.

Diventerò come lui… mi allontanerò da tutti e da tutto. Dimenticherò la musica, e Kyoya… che cosa ne sarà di noi se va avanti così?

Affondò la faccia nell’asciugamano inspirando profondamente il profumo dell’ammorbidente ai fiori di cotone che piaceva a Kyoya. Kyoya, che lo vedeva appena al mattino, svegliandosi quando il suo compagno stava per uscire. Kyoya, che lavorando in un’area diversa con una squadra di professionisti al comando di Rudra non lo incontrava mai prima della fine del turno. Kyoya, che nel tempo che gli restava andava a prendere Belial da Amber o da Aspis e lo accudiva, lo faceva volare e lo sfamava – impresa questa non così semplice – senza aiuto, perché Mukuro era troppo impegnato a essere Indigo.

Quando uscì dal bagno sbirciò nella camera da letto. Kyoya dormiva come un sasso, girato sul fianco; sapeva che era quasi impossibile svegliarlo con rumori ordinari quando dormiva con la bocca leggermente aperta. Sorridendo accostò la porta e aprì quella accanto. Belial si era rimesso nel suo letto sotto la copertina rossa che Love e Luck gli avevano fatto all’uncinetto.

«Non sei ancora a dormire?» gli chiese il bambino. «Kyo-nii dice che ti ammalerai se continui a lavorare tanto.»

«Sono stanco… ma non ho ancora sonno. Mi chiedevo se tu ne avessi.»

«Ora no» replicò lui, studiandolo con curiosità. «Che cosa vuoi fare? Andiamo a volare?»

«No, no… di notte non è il caso… e Kyoya si arrabbierebbe se uscissimo senza dirgli niente.»

«Allora cosa?»

Si sarebbe aspettato della delusione, ma non quella sfumatura di paura. Per la prima volta da quando Mazuya aveva accennato loro che poteva trattarsi del bambino che “certa gente dall’America” stava cercando si chiese se non avesse conosciuto qualcosa di più turpe della prigionia o della fame.

«Io… pensavo che potevo leggerti un altro capitolo del tuo libro… preferisci di no?»

Quella vaga paura lasciò il posto all’entusiasmo – anche se più blando di quello che lo animava all’idea di volare – e con un balzello gli fece posto nel letto. Mukuro si infilò in un letto un po’ troppo corto per lui e prese il libro dal comodino, cercando il segnalino fatto con un origami.

«Oh, Kyoya te ne ha letto tanto in questi giorni…»

«Mh mh! Tra un po’ è finito» rispose Belial, raggomitolandosi contro di lui. «Dopo posso prenderne un altro?»

«Tutti quelli che ti pare.»

Trovò il segno, si schiarì la voce e cominciò a leggergli il settimo capitolo de La balena stellata, sforzandosi di essere teatrale come faceva Kyoya. Si accorse che il bambino aveva smesso di ridacchiare ai momenti divertenti e lo vide con gli occhi chiusi, ma sapendo che a volte li riapriva chiedendo come mai si fosse fermato lesse ancora qualcosa per arrivare alla fine del capitolo.

Si sentì toccare la schiena da una mano e spalancò gli occhi, accorgendosi con sorpresa che dalle finestre entrava la luce del giorno. Spaesato notò che aveva ancora il libro in mano con il dito a tenere il segno e Belial non era più sotto la coperta.

«Buongiorno» gli sussurrò Kyoya, accarezzandogli la schiena e la spalla. «Ti va del caffè?»

Mukuro mugugnò qualcosa stiracchiandosi e calciò il carrellino dei giochi senza volerlo. Aveva dimenticato di trovarsi in un lettino troppo piccolo.

«Mh… è cioccocaffè?»

Kyoya gli mise in mano la tazza con un sorriso soddisfatto.

«Certo che lo è.»

Mukuro si issò contro la testata e ne prese qualche sorso: era caldo, dolce e intenso. Guardò Kyoya che lo fissava con qualcosa di simile alla malizia.

«Che c’è?»

«Oh, nulla… ma mi hai lasciato da solo per metterti nel letto di uno più giovane. Avevi detto che non sarebbe mai successo.»

Mukuro rise.

«Un po’ troppo giovane per me… a proposito, dov’è?»

«L’ho seppellito in giardino» sussurrò Kyoya.

«Sarebbe più convincente se avessimo un giardino, sai? Sul serio, dov’è?»

«Sta facendo i toast per colazione… ha insistito!» si difese quando vide la sua faccia accusatoria. «Avanti, ha sei anni ed è intelligente come ne avesse almeno tre di più, può fare dei toast senza mandare a fuoco la casa.»

«No, se non sa come si usa un tostapane.»

«Ma ci tiene… non sei mai a casa quando lui si sveglia. È felice che possiamo fare colazione insieme oggi.»

Non aveva idea di che ore fossero ma non ebbe il cuore di dire a Kyoya che aveva una videoconferenza con il comitato di supervisione crimini alle otto e mezzo. Gli diede un bacio a stampo.

«Okay… ti spiace andare a controllare Bel? Io faccio una chiamata a Restless, ho dimenticato di dirgli che doveva sostituirmi per una riunione oggi.»

«Quindi sarai a casa prima?»

«Non so se torno prima… ma uscirò più tardi.»

«Magnifico~» flautò Kyoya, con un sorriso raggiante. «Lo dico a Bel!»

Lasciò la stanza in fretta abbandonando anche il vassoio del caffè. Non appena lo sentì arrivare in fondo alle scale Mukuro si districò dalla coperta e si lanciò a riprendere il telefono che aveva lasciato nel bagno. Doveva trovare subito qualcuno che presenziasse alla riunione al posto suo o nessuno dei due al piano di sotto gliel’avrebbe perdonato.

 

*

 

È così che finiscono le leggende?

Sapeva di esserselo chiesto con amarezza e senza darsi risposte per molte volte in tutto quel tempo. La sua mente stordita e offuscata ronzava ostinatamente intorno agli stessi fiori maleodoranti come un’ape in cerca di veleno.

Mosse le dita, gelate e insensibili, senza emettere neanche un gemito flebile. Da giorni non era più capace di articolare suoni per quanto la sua gola era disidratata, ma la vera novità per lui era soffrire il freddo al punto di battere i denti durante la notte.

Me l’hanno portato via…

Strinse i pugni sulla brandina di cotone ruvido e serrò gli occhi; le spalle furono scosse da un singhiozzo senza suono. Non riusciva neanche più a piangere.

La porta si aprì con uno scatto leggero e una figura entrò nella cella con una circospezione insolita per un soldato, anche perché sembrava preoccuparsi più di cosa ci fosse alle sue spalle che del prigioniero. Richiuse la porta senza fare rumore e si sfilò il cappello.

«Byakuran, non fare rumore» gli sussurrò lui, evidentemente ignaro delle sue condizioni di salute. «Sono dalla tua parte… non preoccuparti. Ti tirerò fuori di qui. Andrà tutto bene.»

Byakuran fissò sbalordito Lucifer con la giacca dei soldati della base, poi i suoi occhi stanchi si spostarono sullo strano fagotto che si slegò dalla schiena per appoggiarlo sul pavimento. Era sicuro di cosa contenesse, ma le catene gli impedivano di spostare le mani più vicine per agguantarlo.

Lucifer si inginocchiò vicino a Byakuran e scusandosi in un sussurro gli controllò gli occhi, la bocca e le mani; aprì la sua valigetta e ne tirò fuori un sacchetto di liquido trasparente e dei tubicini, arrotolò la manica malconcia dell’uniforme che portava addosso da troppo tempo e prese a palpare con le dita l’incavo del gomito, il bicipite e l’avambraccio.

«Guarda com’è ridotto… non hai più una vena in grado di tenere una flebo in questo braccio…»

Chiuse gli occhi. Non aveva bisogno che glielo dicessero: era un medico, sapeva fare iniezioni e flebo ed era ben consapevole di essere stato sbucherellato con aghi come una bambola voodoo. E purtroppo il fatto inequivocabile che le sue vene fossero ancora in quelle condizioni confermava che il suo potere non era più suo.

«D’accordo… d’accordo» mormorò Lucifer, riflessivo. «Più difficile del previsto, ma ce la faremo. Byakuran, devo metterti la flebo nel collo… visto che sei un medico immagino tu sappia che cosa comporta, ma fidati di me. Sono un medico ricercatore, se c’è una cosa che potrei fare anche sonnambulo è infilare aghi.»

Al confronto con quello che gli era stato fatto anche solo nell’ultima giornata una flebo nel collo era una preoccupazione insignificante. Non si accorse quasi delle sue manovre, che erano davvero veloci e sicure come quelle di chi pratica ogni giorno.

«Questa è una ricostituente. Ne ho un’altra nella borsa e tempo permettendo te le darò entrambe» disse lui mentre inseriva un tubicino corto nel dispositivo. «Ti sentirai presto meglio. È una soluzione ottimizzata per gli ospedali da campo che devono rimettere in sesto in fretta.»

Lucifer appese la sacca a quello che sembrava un treppiede da fotografo e si assicurò che scorresse adeguatamente. La sua mossa successiva fu aprire la busta di una spugnetta sterile e una bottiglietta di acqua, e il ritmo del respiro di Byakuran accelerò.

«Lo so che hai sete… ma nelle condizioni in cui sei non deglutiresti.»

Impregnò la spugna di acqua e Byakuran guardò con sofferenza le gocce che cadevano sul pavimento. Neanche da bambino aveva mai sofferto la sete, con tutti i modi che si erano inventati per raccogliere l’acqua piovana e la rugiada. Rimpiangeva così dolorosamente i giorni in cui aveva avuto tutto che gli sembrò di sentire l’odore di menta del tè marocchino che aveva bevuto così tante volte nella sua stanza colorata, ingenuamente convinto che ormai i diritti fondamentali fossero dati per scontati anche per lui.

Lucifer gli strofinò le labbra secche con la spugnetta, con grande delicatezza. Qualche goccia spillò dentro la bocca, sulla sua lingua che da giorni sembrava imbozzolata nelle ragnatele, ed emise un sospiro di sollievo.

«Abbiamo due ore prima del cambio della guardia… per allora ti avrò rimesso in condizione di muoverti e usciremo di qui.»

Non osava abbandonarsi a quella promessa con tutta la sua fiducia, ma desiderava così tanto tornare a casa che non poté restare del tutto scettico. Non capiva come potesse Lucifer essere lì quando nemmeno lui sapeva dove si trovava – il solo indizio era che tutti parlavano un inglese non britannico – ma avrebbe dovuto rimandare le domande a quando la sua gola sarebbe stata più efficente.

«Non ho pensato di portare una coperta di emergenza» si rimproverò Lucifer, contrariato. «Sei gelato… non avrai una buona circolazione in questo stato.»

Prese a strofinargli le mani con energia per lunghi intervalli interrotti da qualche secondo di pausa in cui le dita di Byakuran formicolavano tutte, e continuò per diversi minuti. La spugnetta rilasciava un po’ di acqua per volta quando la stringeva con le labbra e si sentiva già meglio, almeno per l’idratazione della gola.

«Ancora un po’?»

Lucifer abbandonò le mani per prendergliela e bagnarla di più e Byakuran ebbe la prima chance da giorni di pronunciare qualche parola.

«Lucifer… cosa… dove siamo?»

«Questa è la base 3270 del governo degli Stati Uniti nel deserto del Nevada. Una struttura di ricerca scientifica del progetto Solomon Reversed.»

«Che… che cos’è?»

«Uno dei tre progetti segreti del governo in cui sono coinvolti gli Auris. Come intuirai dal nome, il Solomon Reversed punta a invertire gli effetti della cometa Solomon e indebolire, o addirittura inibire in modo permanente, il gene Oro.»

Byakuran ripensò alle sue ali che non lo difendevano più, alle ferite che non si rimarginavano e al freddo perpetuo che sentiva. Tutto gli fu chiaro.

«Sono stati loro a portarmelo via…»

«No. No, non temere… non possono farlo. Non sanno ancora distruggere il gene Oro.»

«E se potessero…?»

«Non possono» ribatté Lucifer risoluto.

«Guarda le mie braccia… il mio potere se n’è andato.»

«Sì, ma è solo dormiente. Te lo ripeto: non possono portartelo via per sempre. Non sono ancora a quel punto della ricerca» insistette, ed evitò di guardarlo in volto mentre gli dava la spugnetta bagnata. «Lo saprei. Questa ricerca fa capo a me.»

Stava per mettere in bocca la spugnetta ma si fermò di scatto.

«Cosa… tu?!» sbottò, con la voce arrochita. «Tu mi hai fatto questo?!»

«Ovviamente no. La ricerca fa capo a me, non questa sperimentazione. Io sono un medico, conduco ricerche su campioni e cavie volontarie e bene informate che non vengono detenute. Il mio soggetto che è rimasto più a lungo nella mia struttura è stata una donna che è rimasta tre giorni perché durante la pausa ha mangiato uno snack alle arachidi e non sapeva di essere allergica.»

Byakuran sospirò e con una punta di senso di colpa evitò di replicare, bevendo ancora un poco dalla spugna. Se fosse stato lui a capo di quella sperimentazione non avrebbe avuto alcun bisogno di somministrargli medicine o sostanze di nascosto, ma ci arrivò solo dopo.

«Io… so che cosa scrivono di me. E so che devo evitare i commenti, non posso confermare né smentire neanche una voce sul mio colore preferito, per via del mio contratto con il governo… ma non farei questo a un essere umano. Nemmeno se fosse qualcuno che è detenuto al Golgotha…»

Lucifer esitò, come se stesse prendendo il coraggio per finire una frase.

«Figurarsi se… se farei questo a mio fratello.»

Byakuran tossì quando l’acqua gli andò di traverso e l’ago nella flebo si mosse dandogli una fitta.

«Che cosa diavolo stai dicendo?» sputò fuori tra un colpo di tosse e l’altro.

«Per favore, non alzarti! Non fai scorrere la ricostituente se sollevi la testa!»

«Spiegati!»

Lucifer promise di spiegare tutto se fosse stato calmo, e quando Byakuran acconsentì a sdraiarsi gli raccontò la storia di un medico volontario che a Mizura conobbe una ragazza con quasi la metà dei suoi anni, consumandoci una relazione di qualche mese fino al suo rientro in America. Restò in silenzio a sentire con quale traffico di certificazioni il piccolo Lucifer venne portato negli Stati Uniti e spacciato per bambino abbandonato alla nascita, per poi essere adottato formalmente dal padre biologico.

«Mi scrisse tutto in una lettera quando avevo quattro anni e la lasciò al suo notaio, che me la consegnò dopo la sua morte… poco più di dieci anni fa» concluse il suo racconto di famiglia Lucifer con un sorriso triste. «Pochi anni dopo, tu avevi un’accademia per Auris e ti battevi per i loro diritti. Quando ti ho visto io sapevo che dovevi essere mio fratello… eri nato nel ghetto di Mizura, ci assomigliamo e… hai le ali come me. Come la mamma.»

Sapeva di avere un fratellastro da suo padre, ma non aveva mai pensato di averne dalla parte di sua madre, che era già così giovane quando aveva avuto lui. Invece sembrava plausibile che fosse vero, e in quegli occhi celesti era facilissimo vedere una piccola, tenera emozione che lo convinse che dicesse la verità.

«Sono sempre stato molto fiero di te, Byakuran… non potevo dire a nessuno che eri mio fratello perché avrei avuto un mare di complicazioni per il mio certificato di nascita falso, per la cittadinanza e il mio lavoro… ma ho cercato di prendere esempio da te» confessò esitante. «Mi sono tesserato subito come Auris e ho sostenuto più che potevo la conquista dei diritti civili. A mio modo potevo essere anche io un simbolo… un simbolo di quanto un Auris potesse fare per gli altri anche senza usare il suo potere, la conferma che non si trattava di una razza mentalmente inferiore con mutazioni genetiche.»

Gli sorrise più convinto di quanto avesse mai fatto nella loro conoscenza.

«Hai fatto un buon lavoro, Byakuran. Sei stato coraggioso. Sei stato forte. La mamma sarebbe orgogliosa.»

Byakuran sentiva ronzare pensieri come il traffico su una strada distante. Si massaggiò gli occhi stanchi pur sapendo che non era con quelli che sarebbe riuscito a mettere a fuoco i suoi sentimenti confusi.

«Non dici niente?»

«Io… non so che cosa dire» ammise lui. «È… nell’ultimo anno sono successe così tante cose… ho trovato il mio padre naturale, e anche lui ha un altro figlio… è… una situazione complicata per me e… non sono lucidissimo adesso.»

«Hai un altro fratello? Più grande o più piccolo?»

«Piccolo… ha… credo che abbia sui venticinque anni.»

«Una bella età. Piena di possibilità e di entusiasmo… anche se noi due ce la siamo un po’ persa. Tu avevi una missione e io cercavo di farmi una carriera, subito dopo aver perso papà e scoperto la vera storia della mia vita. Ma possiamo bere qualcosa e parlare di questo quando avremo superato la Golden Wave.»

Byakuran sfogliò mentalmente il suo vocabolario medico alla ricerca del senso di quelle parole, ma non lo trovò. Lucifer non riteneva di doverglielo spiegare perché si era messo a estrarre una siringa dal lungo ago e delle fialette di liquido opaco, di un rosa pallido.

«Lucifer… cos’è la Golden Wave?»

«Quello che sta succedendo là fuori senza di te, Byakuran. Con la tua scomparsa improvvisa molti hanno creduto che tu sia morto e che il Coordinamento parli di allontanamento volontario solo per mantenere le apparenze.»

Ma da quanto tempo sono qui dentro?

Non trovò il coraggio di chiederlo.

«Molti Auris hanno preso a modello Zakuro, quello che chiamavano Lava Rex, e tentano di compiere la sua rivoluzione. Parlano di Aurigarchia, attaccano i Civil Heroes in tutto il paese… lentamente si sta diffondendo fuori dai confini del Giappone. Si autodefiniscono Liberatori.»

«Che… che cosa… Zakuro?!»

«Sì. Scoprire come l’hai ridotto dopo una battaglia di cui non sono stati svelati i particolari ti ha reso un po’ impopolare tra gli aspiranti Ribelli e ha dato loro la spinta a organizzarsi approfittando della tua scomparsa… molte squadre hanno rivendicato su internet di averti ucciso in un agguato.»

Lucifer mescolò il liquido rosellino con della soluzione salina e agitò la siringa.

«Non ti mentirò: troverai il caos là fuori quando tornerai… e troverai il tuo Bambino Indaco che cerca di abbracciare quell’enorme massa impazzita per controllarla.»

«Mukuro… Mukuro sta… ma come? Perché?»

«Perché si è reso conto che il mondo che hai costruito stava crollando miseramente senza di te… e ha raccolto la tua corona per fare il possibile contro l’odio razziale che sta dilagando.»

«Lucifer… Lucifer, da quanto tempo sono scomparso?»

«Quasi due mesi. Oggi è il sette maggio.»

«Il… il sette… di maggio…»

Quasi senza fiato per quella notizia scioccante si sedette di scatto e prese a cercare gli angoli del cerotto con le dita tremanti per togliersi la flebo. Lucifer mandò un’esclamazione confusa e gli spostò le mani tirandole dalla catena.

«Stai giù! Stai sanguinando nella flebo!»

«Non c’è tempo! Portami via di qui, devo tornare a casa! Mukuro non deve fare questo, non deve prendersi le mie responsabilità!»

«Shh, non gridare!» gli sussurrò allarmato Lucifer. «Ti porterò a casa appena sarà possibile, ma ora devi calmarti e stare giù, va bene? Fidati di me. Sono la persona più competente al mondo per il problema che hai ora.»

«Di che stai parlando? Il mio problema è là fuori!»

«Quello è un problema collettivo, Byakuran. Il tuo problema è che il tuo gene Oro è inattivo per via delle sperimentazioni… e per fortuna, nel tuo caso, so esattamente cosa fare per riattivarlo.»

L’urgenza che agitava Byakuran non scomparve del tutto, ma si ridimensionò abbastanza perché Lucifer potesse – con un po’ d’insistenza – rimetterlo disteso.

«Tu… puoi ridarmi le ali?»

«Non le hai perse» ripeté più paziente. «Ma sì, posso riattivarle… perché la mamma le ha date a tutti e due. Riattiverò il tuo gene Oro iniettandoti il mio.»

«Iniettandomi? Credevo che il gene fosse… beh, un gene…»

«Lo è. Ma tra i progetti che curo c’è anche quello della duplicazione, che permette di isolare un gene Oro e innestarlo in un altro Auris come gene secondario… ancora non ho avuto risultati con l’innesto in soggetti senza gene Oro primario, ma non è il tuo caso» tagliò corto lui, facendo schizzare la siringa dall’ago lungo. «Siamo fratelli e il nostro gene Oro è molto simile a quello di nostra madre, quindi credo che funzionerà. Purtroppo non possiamo fare dei test preliminari.»

«Aspetta… che cosa succede se non funziona?»

«Troverò un’altra maniera facendo dei test in un secondo momento. Ma tu adesso devi avere fiducia.»

Lucifer gli scoprì il ventre e Byakuran capì che quel lungo ago doveva penetrare nel suo addome, presumibilmente dove alla nascita la macchia dorata si manifestava.

«La mamma era in grado di curare gli altri, ma non se stessa… io sono in grado di guarire me stesso, ma non gli altri. Tu sei il prescelto con il gene perfetto… con te tutto riesce al meglio. Abbi fede in questo.»

Byakuran serrò le dita intorno alla catena e chiuse gli occhi.

«Vai.»

L’iniezione fu più brusca di quanto prevedesse – più simile a un’iniezione di atropina che a un delicato prelievo di liquido amniotico – ma quel dolore fu eclissato quasi all’istante da un bruciore diffuso in tutto il suo addome: era come avere dei tizzoni ardenti nell’intestino. Trattenne i gemiti di dolore a denti stretti mentre si espandeva, ma poi il dolore diminuì lasciando solo una sensazione di calore che scorreva sotto la pelle, come una rete di ruscelli di acque termali diretti ad ogni angolo del suo organismo.

Quando il dolore fu del tutto scemato e restò solo il tepore – così piacevole dopo il freddo patito nella cella – Byakuran pensò di chiedere a suo fratello quanto tempo ci sarebbe voluto per avere una reazione o per sapere che non ce n’erano state. Non ce ne fu bisogno una volta viste le braccia.

«Ha funzionato» mormorò sbalordito. «Ha funzionato… le mie braccia! I segni delle iniezioni… guarda!»

Lucifer sorrideva, soddisfatto ma non stupito.

«Sapevo che avrebbe funzionato. Abbiamo due varianti dello stesso gene della mamma… è come un virus, sai. Muta da una generazione all’altra lasciando nell’essenza il suo DNA iniziale.»

Veniva da giorni di sofferenza, di denutrizione e insonnia, ma si sentiva pronto a combattere ora che sentiva di nuovo la forza che lo aveva così tante volte protetto e salvato. La forza che era appartenuta in più fragile forma a sua madre era di nuovo con lui, il che era come avere lei a vegliarlo.

Si sorprese di trovare così vivida questa sensazione. Non si reputava un credente dell’altro mondo, non osservava le ricorrenze funebri perché Luce gli aveva passato la convinzione che chi se ne andava sarebbe tornato alla terra, all’aria, al mare e poi dopo molto in un nuovo essere umano; non aveva mai pensato che sua madre o i suoi avi potessero vederlo o proteggerlo dall’altra parte.

Un punto di vista quasi ottuso non credere all’altro mondo quando conosco la Fallen Angel…

E così ricordò il fagotto dalla strana forma abbandonato da Lucifer sul pavimento e lo cercò con gli occhi. Era del tutto coperta ma aveva la sensazione di percepire ugualmente lo scintillio di una lama mortale sotto quei lenzuoli avvolti.

«Lucifer… come dovremmo uscire di qui senza essere visti?» gli domandò con tono cauto, quasi potesse spaventarlo. «Sei arrivato qui con la tua qualifica e una giacca da soldato… ma come mi farai uscire?»

«Con un po’ di assistenza… creerò un diversivo al laboratorio di sopra e tu potrai uscire dalla scala B…»

Lucifer spiegò come intendeva salire a far scattare gli allarmi per le sostanze chimiche, che avrebbero sigillato un compartimento importante costringendo i soldati a fare un lungo giro per raggiungere il laboratorio e guadagnandogli minuti preziosi. Gli disegnò sulla mano le frecce corrispondenti alle direzioni che avrebbe dovuto prendere all’incrocio di corridoi e la scala da salire con la perizia di chi insegnava a un bambino a non perdersi nel bosco.

«Quando uscirai dovrai raccogliere le tue forze e allontanarti in volo il più possibile, poi proseguirai a piedi, nel caso. Devi dirigerti a ovest finché non troverai un piccolo villaggio, sono una trentina di edifici abbandonati vicini a una miniera chiusa. Sandalphon ti aspetta lì con le istruzioni per farti lasciare il paese senza che loro lo sappiano, e una volta in Giappone non oseranno riprenderti. Sei troppo famoso e potente per provarci di nuovo.»

«Non gli ha impedito di prendermi la prima volta» osservò Byakuran, non senza nervosismo.

«Già, ma se gli sfuggi non sapranno come muoversi… non sanno se proverai a inchiodarli come hai fatto con il governo giapponese. Questa sperimentazione viola le leggi sui diritti umani e le leggi speciali sugli Auris, finirebbero in uno scandalo enorme.»

Il vago sorriso di Lucifer scolorì mentre gli stringeva le dita.

«Purtroppo questo significa anche che non avremo una seconda possibilità. Lasciarti scappare per loro è un pericolo per la nazione e se se ne accorgono prima del tempo non c’è nulla che non proveranno per fermarti, a costo di ucciderti.»

«Non è la prima volta che mi capita.»

«E… la cosa peggiore è che non potrò essere con te.»

«Non mi aiuterai?»

«Certo che ti aiuterò. Farò scattare l’allarme in una zona ad alto rischio biologico, e prima che controllino tutte le guardie presenti tu sarai già fuori… il punto è che quando scatterà l’allarme, per la mia incolumità e quella di Sandalphon, io dovrò aver già lasciato la struttura. Secondo il loro registro io sono andato via tre ore fa e non devono vedermi qui ora.»

Byakuran annuì una sola volta. Capiva che cosa rischiava e, al suo posto, avrebbe agito nello stesso modo se le conseguenze si fossero abbattute su Mukuro o su un altro dei suoi cari. Comunque, non sentiva di essere solo. Aveva di nuovo le ali… e aveva la Fallen Angel.

«Sai come togliere la flebo, vero?»

«Certamente» replicò, quasi offeso.

«Mi serviranno dieci minuti per imbastire tutto… poi lascerò subito la struttura. Entro venticinque minuti sentirai l’allarme… esci e segui lo schema, okay? Non ti perdere, o non farai in tempo a uscire prima che sigillino tutte le porte. Vai a ovest.»

«Me l’hai già detto, Lucifer… forse ti sei già calato nel ruolo di fratello maggiore, ma io non ho otto anni e che tu ci creda o no sono stato addestrato dai corpi speciali. So ricordare gli ordini.»

Il viso di Lucifer mostrava ancora quella vaga tenerezza.

«Scusami. È solo che ci tengo molto a rivederti… voglio prendere il caffè con te alla Terrace dove siamo stati con Indigo. Tu non sei venuto quel giorno.»

«Per la fine di giugno» rispose Byakuran. «La mia scuola fa le vacanze estive dal venticinque giugno fino al primo settembre. Per allora avrò sistemato questa cosiddetta Golden Wave e potrò venire.»

Gli parve di scorgere uno sguardo divertito a quelle sue parole salde, ma fu solo un momento mentre Lucifer rimetteva in borsa tutto quello che aveva usato.

«Prenderò le ferie… ma se vuoi che ci sia, porta con te la flebo. Meno tracce lascerò e più possibilità ci sono che non mi arresteranno prima dell’estate.»

Lucifer chiuse la borsa con uno schiocco metallico e raccolse il cappello calcandoselo molto per nascondere gli occhi meglio che poteva.

«Buona fortuna, Byakuran…»

Ebbe l’impressione che stesse per dire qualcos’altro, ma si girò di scatto e lasciò la cella lasciandone la porta accostata. Byakuran rimase l’unico essere umano nella stanzetta senza finestre, ma non era solo.

«Vuoi una flebo anche tu?»

«Oh, stai così bene da fare dell’ironia?» gli chiese la voce maschile, che dava l’idea di essere pimpante come non mai. «E io che credevo ti avrei trovato frignante e depresso come l’ultima volta che hai avuto a che fare con dei soldatini~»

«Sei stato zitto tutto il tempo in questi due mesi.»

«Mh, mi hanno inscatolato in un curioso arnese per capire di cosa fossi fatto e la portata dei miei poteri, quindi ho sonnecchiato un po’. Dovresti ringraziarmi, ora pensano che tu sei quello davvero potente!»

«Grazie per il sottile insulto» replicò stoico Byakuran.

«Non te la prendere~»

Byakuran si alzò su gambe rigide tenendo in alto la sacca della flebo con la mano, ma trovava scomoda la posizione. Il sangue rifluì nel tubicino mentre svolgeva i lenzuoli intorno alla Fallen Angel in fretta.

«Ohi, ohi… non così, più piano, più lentamente~»

«Finiscila.»

Rimise in piedi la falce in tutto il suo cupo splendore e in un gesto irrispettoso che non avrebbe osato mai prima di allora usò una delle sue piccole lame ad ala per reggere in alto la sua flebo.

«Ah, è così?»

«Deve andare giù» si giustificò Byakuran sbrigativo. «Se resto sdraiato avrò capogiri e rigidità muscolare quando suonerà l’allarme, e devo essere reattivo.»

«Ah, mi ecciti quando parli da dottore~»

«Spero che sia pronto anche tu, Fallen Angel.»

«Per cosa, Ran?» chiese educatamente lui.

«Lucifer ha ragione di certo su una cosa: faranno di tutto per riprendermi, e anche se me ne vado c’è la possibilità che ci riprovino. Mi accerterò che non abbiano il coraggio di dare quell’ordine.»

«Ohh… e come lo farai?»

«Come ho fatto in Giappone con i corpi speciali… e anche più in grande. Sai come sono gli americani.»

Un breve silenzio seguì le sue parole e la voce maschile, poi, suonò meditabonda.

«Ma quella volta sono stato io, Ran.»

«Per questo voglio che mi presti di nuovo quel livello di potere… e questa volta lo gestirò. Non sono il ragazzo che ero allora, e non gli permetto di restare impuniti dopo l’affronto che mi hanno fatto…»

Byakuran strinse l’asta dell’arma.

«Non gli perdonerò le vittime di questa Golden Wave, né che abbiano costretto Mukuro a tornare sui suoi passi. Che abbiano fatto preoccupare i miei cari… e che abbiano toccato te.»

«Oh? Me?»

«Solo io posso» replicò Byakuran.

«Oh oh oh, così audace…»

Byakuran rabbrividì. La voce maschile arrivava non dalla sua testa ma dalle sue orecchie, da un punto alle sue spalle. Quando cercò di voltarsi una mano dalle dita fredde afferrò la sua mandibola costringendolo a tenere gli occhi sulla porta e un corpo consistente, concreto, gli si appoggiò contro la schiena e il bacino. Un corpo di uomo.

«Ci sto, Ran» gli sussurrò la figura, il cui respiro sfiorò l’orecchio. «Aspettiamo quell’allarme e poi sapranno come duettiamo bene insieme… e sarà l’ultima cosa che sapranno in questa vita.»

Byakuran non replicò, era troppo scioccato per trovare qualcosa da dire o chiedere: l’entità che viveva dentro quell’arma o che ne aveva la forma ora aveva una manifestazione reale, tangibile, che era incollata a lui e teneva una mano sul suo mento e una sul suo ventre come una trappola che tratteneva una preda.

Attesero minuti lunghi nel silenzio e alla fine l’allarme lacerò l’aria. Un brivido di eccitazione risalì la schiena di Byakuran e la figura maschile alle sue spalle lo strinse con più forza.

«Facciamoglielo vedere~»

La sensazione di concretezza svanì. Un momento dopo Byakuran sentì una straordinaria energia che invece di scorrere dall’arma pulsava dentro di lui, sempre più veloce finché non spalancò le ali: bastò quel gesto per scardinare la porta.

Byakuran uscì dalla cella e marciò a grandi passi nel corridoio. Invece di girare a sinistra andò a destra per essere sicuro di trovarsi più vicino ai laboratori. Neanche fece caso ai pochi soldati che correvano verso il punto in cui era scoppiato il caos; li uccise agitando la falce con più indifferenza di quella che avrebbe provato nello scacciare una mosca.

«Qui dovrebbe andare, che ne dici?»

«Sicuro che verrà giù in un colpo solo?»

«No. Non sono ingegnere.»

Ran spalancò le ali e afferrò la falce con le due mani.

«Ma se rimane in piedi qualcosa posso sempre sbriciolarla al secondo colpo.»

La voce maschile della Fallen Angel rise di gusto.

 

*

 

Correre su per le scale cercando di fare poco rumore non gli era più capitato dall’ultima volta che Mad Horse l’aveva tenuto a casa sua a giocare a un videogame fino a notte fonda durante l’Accademia. Kyoya s’infilò nella camera e Mukuro, dietro di lui, si richiuse la porta alle spalle.

«Quanto tempo abbiamo?»

«Un’oretta, più o meno.»

«Basterà.»

Gettò le braccia al collo di Mukuro prima di baciarlo perché dopo molti giorni passati a vederlo di sfuggita lo desiderava, ma anche per finalità strategiche: gli serviva abbassare quella sua ridicola altezza.

Gli venne quasi da ridere a ricordare di averlo chiamato “stupida giraffa” una volta che si era arrabbiato con lui per una questione di differenza sul livello del mare.

«Che c’è di così divertente?»

«Tutto, spero…»

Per distrarlo definitivamente gli diede un morso leggero sul labbro inferiore, sapendo quanto fosse difficile per lui resistervi. La reazione non si fece attendere: lo baciò con più entusiasmo e gli aprì l’odekake che indossava sempre in casa come una vestaglia. A quel punto si fermò.

«Kyoya, sei veramente senza vergogna.»

«Perché?»

«Senza niente sotto?»

«A che cosa mi sarebbe dovuto servire qualcosa sotto?»

«Accidenti a te» fu l’unica risposta di Mukuro.

Si sentì sollevare dalle gambe e affondò di schiena nel letto; non fece in tempo a dirgli una sola parola che se lo ritrovò addosso con le mani che arrivavano ovunque. Cercò di afferrargli i polsi per rallentarlo ma non ci riusciva, e gli venne da ridere.

«Indi, fa’ piano… c’è tutto il tempo… prendiamocela comoda come la prima volta, mh?»

«La prima volta ci abbiamo messo tre ore» mugugnò lui, con la faccia affondata nel suo addome.

«Come un terzo della prima volta, allora… che dici?»

Pur se un po’ contrariato Mukuro risalì per dargli un bacio sulle labbra.

«Va bene, va bene. Con calma.»

Con un sospirò si puntellò sul ginocchio e si alzò dal letto.

«Allora intanto mi tolgo il costume… vuoi uno show privato?»

Kyoya scattò sul bordo come un gatto all’attacco di un puntino laser e l’acchiappò per la cintura.

«Non toglierlo, è sexy.»

«Kyoya, ti prego…»

Ma non riusciva a nascondere un sorrisetto colpevole. Kyoya lo tirò più vicino tenendolo per la cintura.

«Inherited Justice… ti prego, è sexy anche solo a sentirne il nome… e il bianco ti sta bene addosso.»

Lui sbuffò. Non era ancora capace di accettare di aver avuto la balorda idea di mettersi addosso un costume bianco.

«E sai che altro è sexy dei costumi senza sistema di vestizione? Che ti sta attillato addosso anche mentre faccio questo…»

Gli aprì la cintura con uno scatto e abbassò deciso i pantaloni, ma Mukuro li trattenne con la mano.

«O-okay, questo costume non è un sex toy, non va bene…»

«Sarà il nostro segreto» lo blandì Kyoya. «Non te ne pentirai mai, lo prometto.»

Gli parve di sentire meno resistenza, ma non seppe mai se quell’argomento sarebbe bastato: intravvide un movimento dietro Mukuro e sobbalzò, chiudendosi addosso l’odekake all’istante.

«Bel!»

Anche Mukuro sobbalzò e si affrettò a richiudere la cintura, ma il bambino non fece una piega: si avvicinò a loro tenendo il cellulare di lavoro di Indigo con entrambe le mani e lo schermo era illuminato.

«Ti cercano!»

«Sono occupato!» protestò Mukuro.

«Ma zio Hound ha detto che dovevo portarti il telefono ovunque, anche se dovevo buttare giù una porta» insistette il bambino.

Mukuro imprecò sottovoce e prese il cellulare. Bel puntò i suoi faretti rossi su Kyoya.

«Che fate? Un gioco nuovo?»

«Un gioco molto vecchio. Molto molto.»

«Kyoya» lo rimproverò Mukuro con un’occhiataccia. «Che vuoi, Hound? Spero sia importante, tipo che una o due città siano già bruciate!»

Kyoya ridacchiò sottovoce.

«Posso giocare anch’io con voi?» sussurrò Bel.

«Sei un po’ troppo piccolo per questo gioco, tesoro.»

«E quando divento più grande posso giocare con voi?»

Non riusciva a immaginare un simile scenario neanche con tutto lo sforzo del mondo, ma l’espressione preoccupata di Mukuro lo portò a chiudere il discorso in fretta.

«Se da grande vorrai ancora, tesoro… Mukuro, che c’è?»

Ma lui non gli rispose. Era diventato pallidissimo.

«Non… non muoverti di un millimetro, arrivo in un soffio!»

La loro oretta insieme era l’ultima delle sue preoccupazioni. Mukuro era così agitato che gli tremavano le mani e ci provò due volte prima di chiudere la telefonata. Senza una parola di spiegazione infilò la porta e corse giù dalle scale.

«Mukuro, aspetta…! Ma che ha adesso?»

Kyoya saltò in piedi allacciandosi a dovere l’odekake, agguantò la mano di Belial e si lanciò all’inseguimento del suo ragazzo; era così stravolto che aveva lasciato spalancata la porta di casa.

«Che ha Kuro-nii?»

«Non ne ho idea» replicò lui, irritato. «Metti le scarpe, cerchiamo di seguirlo.»

«Mi piace guardie e ladri!»

Fu una partita ad alto livello, perché dovettero inseguirlo fino all’infermeria. Kyoya aveva il cuore in gola mentre la raggiungeva, temendo che uno dei loro compagni fosse stato colpito, ma quando trovò Kikyo nel corridoio a fargli un sorriso si rasserenò. Con un gesto gli indicò la stanza più vicina dalla quale veniva un lieve singhiozzare e la raggiunse, tenendo forte la manina di Bel nella sua.

Sporgendosi vide Wing Emperor seduto su uno dei lettini con una faccia stanca e i capelli scarmigliati, ma a fare rumore era l’altra figura: avvinghiato a lui Mukuro singhiozzava come un bambino mentre veniva accarezzato sulla testa da Byakuran, che lanciò verso i tre al di là della porta un sorriso incrinato dalla commozione.

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Capitolo 31
*** D's opening gambit ***


Kyoya lanciò un’occhiata a Mukuro, che nascondeva i suoi occhi arrossati in un angolo con la scusa di non soffiarsi il naso davanti a tutti. Byakuran non si aspettava una reazione tanto emotiva da lui ma ne fu felice, perché da un ragazzo con affettività tanto controllata significava molto. Di certo il pianto a singhiozzo di Amber che sarebbe arrivato quando fosse tornata dal lavoro – non aveva dubbi che sarebbe stato spettacolare – aveva un differente peso.

«Tieni» fece Kikyo portandogli una tazza fumante. «Non è il tuo tè marocchino ma questo White Peony ha un aroma di alta qualità.»

«Ti ringrazio!»

Riuscì a districare un braccio dalla posa koala di Belial per prendere la tazza e annusare. Gli si gonfiò in petto un’emozione calda e dolce, perché dopo mesi di segregazione e un paio di giorni di debolezza in balia dell’oceano Pacifico era finalmente al sicuro, con alcuni dei suoi più cari affetti.

«Sono così felice di essere a casa» ammise, e scompigliò i capelli color ebano di Belial.

«Anche noi siamo felici che tu ci sia tornato» replicò Kikyo. «Posso parlare per tutti, lo sento l’odore che aleggia qui dentro. Sembra un giardino in maggio.»

«Dove sei stato?»

Quella domanda ebbe il potere di gettare sul giardino fiorito l’ombra di un temporale in arrivo. Non poteva evitare di rispondere, ma sperava gli avrebbero lasciato il tempo di parlarne prima a Kikyo in forma confidenziale.

«Bel, pensi che potresti portarmi delle mooncake? Forse alla mensa hanno ancora le mie scorte… prendile per tutti, mh?»

«Se è per mandarlo via puoi anche sputare il rospo» commentò Mukuro con il tono nasale di un raffreddato grave. «Questo piccolo demonio perfido sente anche al di là del muro di cinta.»

«Indi» lo rimproverò Kyoya. «Non chiamarlo in questo modo.»

«Folletto maligno?»

«Indi.»

«Serpente infido?»

«Indi!»

«Hiisss» sibilò Bel, con la linguetta di fuori.

«Vedi? Lui si diverte.»

«Vorrei lo stesso quelle mooncake» sottolineò Byakuran. «Quando sono salpato ho promesso che le avrei mangiate appena tornato a casa.»

«Vado!» trillò Belial, saltando giù dal letto.

«Non spazzolare tutta la cucina, hai capito?»

Il bambino non rispose, troppo preso a canticchiare un motivetto mentre saltellava via. Phoenix tornò a guardarlo con apprensione, mentre Mukuro sembrava pronto a giustiziarlo se la risposta non gli fosse piaciuta. Byakuran prese tempo rassettando la piega del lenzuolo, non per mentire ma per trovare le parole più appropriate.

«Io… quello che sto per dire è assolutamente confidenziale. Voglio che non lo diciate a nessun altro… neanche agli altri della vostra classe S, almeno per adesso. Chiaro?»

«È così grave?»

Annuì rivolto all’ex capoclasse e prese coraggio con un’inspirazione profonda.

«Sono stato sequestrato… ero all’area Grandi Incendi e qualcosa mi ha colpito al collo. Sono stato drogato e ho perso conoscenza.»

Con suo stupore Kikyo annuì.

«Lo sappiamo. Ho seguito la tua traccia fino a lì, poi ho captato dei soldati… che cos’è successo dopo?»

Byakuran chiuse gli occhi per isolare il primo tra i risvegli confusi di quell’ultimo periodo.

«Mi sono svegliato in una cella. Sono stato rinchiuso in una base militare ad alta sicurezza nel deserto del Nevada. Credo…» abbassò la voce lanciando un’occhiata alla porta. «Credo che fosse lo stesso posto da cui Sashko è scappato.»

«Sei… stato… a-arrestato?» fece Mukuro, confuso. «Non capisco, che cosa…?»

«No, sono stato sequestrato. Non era un’operazione legale, e non era una prigione. Era un centro per la ricerca. Mi sono stati fatti degli esperimenti e…»

Byakuran si guardò le mani, chiedendosi se avrebbe avuto il coraggio di rivelarlo. Non si era mai reso conto di quanto contasse sul suo potere finché non lo aveva perduto, e non credeva che fosse una parte tanto grande del suo orgoglio.

«Il mio potere… al momento, il mio gene Oro è gravemente indebolito. In verità, ci ho messo delle ore ieri a rimarginare un taglio che mi sono fatto sulla mano con un cardine non smerigliato di una cassa.»

«Che cosa? O-ore? Ore per… un graffio?»

«Sì… sì, è così… è un effetto della sperimentazione. Un progetto che cerca di sviluppare un medicinale in grado di sopprimere il gene Oro per sempre…»

Phoenix e Indigo si lanciarono uno sguardo carico di apprensione.

«Lo chiamano UTX. È il farmaco più vicino a ottenere questo risultato… ed è quello con cui Zakuro ha neutralizzato Indigo a Tokyo per renderlo inerme.»

Il pensiero gli era sopraggiunto all’improvviso e portò con sé oscure ipotesi su come una frangia ribelle disponesse di un farmaco sintetizzato da un laboratorio di ricerca del governo degli Stati Uniti.

«Ma quindi guarirai, no?» insistette Indigo. «Una volta rimosso dall’organismo tornerà tutto come prima, e tu…»

«È possibile» replicò Byakuran cauto. «Ma tu sei stato trattato con l’UTX per un periodo inferiore alle trentasei ore… io per quasi due mesi, e non siamo certi che sia la stessa formulazione.»

Kikyo si accarezzò il mento, annuendo.

«I Ribelli potrebbero aver comprato una partita di farmaco dismesso, un prototipo limitato che al governo non serviva più… o aver comprato informazioni anni fa e aver sviluppato loro stessi quello che hanno usato. Ci sono molte variabili e tutte plausibili.»

Indigo guardò Kikyo, atterrito. Aprì bocca per uno scatto d’ira che trattenne all’ultimo secondo, strinse i pugni e deglutì rumorosamente prima di riuscire a calmarsi.

«P-potresti… non… non essere mai più Wing Emperor?»

Non aveva mai desiderato a tal punto poter rassicurare qualcuno con le sue ali trovandosi nell’impossibilità di farlo.

«Potrei non essere più Wing Emperor… almeno, non quello leggendario che il mondo conosce già. Potrebbe essere questo il mio destino.»

«Non è giusto» replicò con la voce che tremava.

Byakuran allungò la mano per prendere delicatamente il suo polso e lui non si sottrasse nonostante fremesse di rabbia.

«Indi, non preoccuparti… non ricadrà di nuovo su di te. Tornerai alla vita che avevi scelto e in qualche modo sistemerò questo disastro.»

«Non è giusto per te! Il tuo gene Oro ti appartiene, fa parte di te, è… è l’eredità di tua madre! Come osano togliertelo?!»

Phoenix si alzò dal bordo del letto per afferrargli le spalle e placare il suo scatto, ma se uno sguardo fosse stato in grado di uccidere a distanza il suo avrebbe fatto una strage.

Un problema che non sussiste, visto che ho ripulito la feccia per bene.

«È sicuramente scandaloso che abbiano pensato di fare sperimentazioni illegali su esseri umani» intervenne Kikyo, che mascherava la sua furia meglio di Indigo. «Ma Byakuran è vivo, e questa è la più importante delle eredità che gli ha dato sua madre. I tempi sono troppo acerbi per fasciarci la testa per la perdita di Wing Emperor, visto che non sappiamo se il trattamento sarà naturalmente reversibile.»

«Hound-sensei ha ragione, Indi» gli sussurrò Phoenix. «Dopotutto il potere non è del tutto scomparso… potrebbe rinvigorirsi con il tempo.»

«Ora la cosa a cui dobbiamo pensare è… cosa dire alla stampa» ponderò in tono più pragmatico Kikyo. «Non possiamo raccontare che Wing Emperor ha perso il potere. Normalmente avrei parlato di una malattia da curare senza clamore, ma due mesi di appuntamenti mancati e nessuna dichiarazione durante questo caos non sarebbe credibile.»

«Credo che dovremmo dire che è stata opera di Ribelli» propose allora Phoenix. «Qualsiasi missione o bisogno di cure sembrerebbe una bugia dopo così tante conseguenze al suo silenzio. La sola cosa che convincerebbe tutti è una sparizione reale, senza tracce.»

«Ma l’idea che dei Ribelli abbiano rapito Emperor ha già galvanizzato tutti i Liberatori, ed erano solo rivendicazioni senza fondamento!» inveì Indigo, accalorato. «Vuoi che esplodano del tutto e muovano l’attacco qui? Vuoi che diventi la battaglia di Hogwarts?!»

«E come pensi reagirebbe tutto il paese se gli dicessimo che delle persone sono morte perché Wing Emperor era a un ritiro spirituale e si è dimenticato di avvertire il resto del mondo?!»

«Ragazzi… ragazzi, calmi, per favore» belò Byakuran, sconcertato di vederli litigare per la prima volta a causa sua.

«Avete ragione entrambi» li interruppe Kikyo con un tono ben più autorevole. «I Liberatori non devono pensare che siano capaci, se si organizzano, di avere la meglio su Wing Emperor… ma i cittadini non devono sentirsi amareggiati. Quello che ci serve ora è una bella storia.»

«Vuoi raccontare una bugia?»

«Non proprio» fece Kikyo, con un sorrisetto. «Racconterò una storia vecchia… una che non ha mai saputo nessuno, e la adatteremo per spiegare la sua assenza.»

Indigo, Phoenix e Byakuran si scambiarono occhiate di identica perplessità. Per contro, Kikyo si fece serio, girò i tacchi e uscì a lunghi passi.

«Ehi… Kikyo! Dove vai?!»

«Da Restless» rispose lui dal corridoio. «Mi serve sapere come contattare quel Lord of Flames sulla Grandcypher!»

Ai tre rimasti nella stanza rimasero dubbi ancora più fitti.

 

*

 

Piccoli uccellini gialli e arancioni cinguettavano con furia dentro la voliera, ma l’uomo seduto sulla poltrona di vimini appesa si dondolava con un piede ignorandoli del tutto, con gli occhi fissi sul televisore. Su un volto che sperava sarebbe rimasto per sempre associato alle celebrità defunte.

«L’improvvisa perturbazione oceanica avrebbe fatto precipitare il volo diretto verso l’entroterra australiano di poco al largo dell’isola di Ukunue, una riserva naturale protetta alla quale è vietato l’accesso senza permessi di ricerca…»

«Ukunue» ripeté lui in tono di feroce scherno. «Ma per favore.»

«Qui i superstiti avrebbero cercato rifugio ai limiti della vegetazione in attesa di un miglioramento del tempo. Purtroppo la natura selvatica del luogo ha giocato un brutto tiro al gruppo di naufraghi.»

La giornalista passò il microfono a un uomo di mezz’età con un mento volitivo e piccoli occhiali, che ripeté le ragioni della loro scelta di inoltrarsi nella foresta e di come il piano di Wing Emperor di raggiungere la costa in volo al rasserenarsi del cielo fosse stato invalidato da una febbre tropicale.

«L’isola è piena di questi piccoli insetti» spiegò l’uomo, guardando la giornalista e la telecamera alternativamente, «che pungono. Un medico della squadra di soccorso ci ha spiegato che sono andati su Wing Emperor perché ha una temperatura corporea più alta della nostra… per questo ha preso quella febbre così violenta! Non sapevamo che cosa fare.»

«Come avete cercato di risolvere la situazione?»

«Mah… insomma, come si fa con la febbre di solito. Abbiamo cercato di abbassare la temperatura, e di attirare l’attenzione di qualcuno da lontano… scritte sulla spiaggia, messaggi… tutto inutile. Alla fine uno di noi è riuscito a trovare un pezzo di metallo dell’aereo e dopo un po’ di tentativi siamo riusciti a fare un fuoco abbastanza grande.»

«Il fumo ha condotto i soccorsi da voi su Ukunue?»

«Sì, e per fortuna che un gruppo di scienziati era su un’altra isola dell’arcipelago! Sono stati loro a vedere il fumo e contattare la terraferma» precisò l’uomo. «Arrivata la notte pensavamo che non ci avesse visto nessuno, ma poi con la luce è arrivata la guardia costiera.»

«Una storia straordinaria, avvincente come la trama di un film d’avventura e fortunatamente senza alcuna vittima» commentò con entusiasmo la giornalista. «Questa volta Wing Emperor è stato salvato dai suoi compagni di viaggio! Ecco che cos’ha detto in proposito nella sua breve intervista con la stampa rilasciata ieri sera.»

L’uomo in poltrona si raddrizzò appena mentre guardava Wing Emperor nella sala conferenze della sua Accademia Auris schermirsi ribadendo quanto fossero sempre fondamentali la preparazione e il coraggio di soccorritori di ogni razza, e intonando poi una rivoltante serenata sull’importanza di agire per tutti, nei limiti della propria sicurezza, per aiutare.

Furioso come non era da molto tempo e incapace di dominarsi del tutto l’uomo scagliò contro la parete la sua tazza di tè. Gli uccellini si agitarono in un gran fruscio di ali e smisero di cinguettare.

«Oh, non di nuovo, D.»

D. non si degnò di voltarsi verso la donna che emerse dalla stanza accanto: era troppo concentrato sui titoli che rimandavano a speciali sull’incidente di Wing Emperor con ospiti i suoi presunti compagni di disavventure, i ricercatori coinvolti, la guardia costiera australiana e un corredo di medici esperti di malattie tropicali.

«Ti è caduta lontano, questa volta» commentò la donna di fronte ai resti di porcellana e tè Darjeeling.

«Mh? No, stavolta l’ho lanciata di proposito.»

«Devi restare calmo, D.» lo rimproverò lei. «Non possiamo perdere la testa. Non sei tu a dirci sempre di stare concentrati e ragionare freddamente?»

D. la guardò raccogliere il manico della tazza, miracolosamente integro, e sospirare a quella vista come fosse un animaletto agonizzante.

«E poi stai decimando il servizio da tè di Helena…»

«Glielo ha regalato sua zia. Non è che ci tenesse particolarmente, per quello lo usava per gli ospiti maldestri» replicò lui rabbuiato. «Quello blu era il suo preferito. Anche quello con le rose le piaceva. Adorava le rose.»

L’uomo si alzò facendo oscillare la poltrona sospesa.

«Trovami Takihisa, per favore.»

«Credo sia andato fuori a correre.»

«Mi serve subito, Heidi. Per favore.»

Glacier Queen congelò gli avanzi del tè e li sollevò con tutte le schegge di tazza bloccate al suo interno, portandoli via con sé fuori dalla porta. D. poté sentire che li lasciava cadere nella pattumiera prima di far scricchiolare la ghiaia sotto i suoi passi.

Andò alla parete e scrutò con attenzione il mosaico di articoli di giornale, numeri, simboli e lettere in colori diversi che codificavano le pedine del suo gioco. Una partita di scacchi lunga quasi venti anni che si avvicinava a una conclusione. Sfiorò un filo rosso che collegava un simbolo del sole a un nido di uova e all’articolo di una nave affondata.

«Non è grave» disse a se stesso con fermezza. «Reiner e il suo gruppo di babbei non erano nel mio disegno… non importa se hanno fallito. Potevano risparmiarmi una fatica, ma il piano non è compromesso.»

Scorse tra le dita il filo teso sulla mappa, l’unico di colore blu elettrico, fino al simbolo della rosa.

«Mi dispiace, Helena… sarà necessario.»

Sospirò e restò lunghi minuti a decifrare lo schema, a cercare una soluzione che fosse altrettanto efficace, ma non la trovò. Si avvicinò al giradischi e mise su della musica – del blues che Helena aveva molto amato – e attese, ripensando a occhi chiusi ai momenti divisi con lei. Vi si immerse tanto, in lei e nella sua risata, che non sentì Viperlance avvicinarglisi.

«Mi hai fatto chiamare?»

Tornò al presente con un attimo di stordimento. Si ricompose mentre spostava la puntina cessando la musica.

«Sì. Immagino avrai sentito la notizia, Takihisa.»

«Viperlance» lo corresse lui acido. «Se parli del preside, sì. È tornato.»

«Pare che i nostri amici americani non siano stati all’altezza delle loro promesse… mi duole che il tuo lavoro sia stato sprecato.»

«A me no, se vuol dire che posso sparargli di nuovo.»

D. tese un sorriso, ma lo fece scomparire prima di voltarsi a guardare il ragazzo.

«In un certo senso gli sparerai al cuore. Il nostro prossimo bersaglio è quello a cui tiene più di qualsiasi altra cosa…»

Viperlance si accigliò appena.

«La puttana?»

«Indigo» lo corresse lui. «Sai, la maggior parte degli uomini, col tempo, dimentica le donne che ha avuto. A volte, persino quelle che ha amato… ma quando perdono qualcuno che vedono come un figlio è assai più doloroso.»

«Davvero?» fece il ragazzo, sorpreso. «E perché? Non è neanche figlio suo quello!»

«No… ma è il figlio che avrebbe voluto avere. Forte quanto lui, devoto a lui al punto di mettersi in pericolo per proteggere il suo operato… così sciocco da credere, come gli altri studenti, che abbia sempre detto la verità e combattuto per loro.»

«Ehi! Non mettermi nel mucchio, che cazzo!»

Alzò una mano come segno di scuse.

«Il punto è che un uomo dell’età di Wing Emperor e della sua tempra si aspetta un figlio come quello… e ce l’ha molto in anticipo sui tempi naturali, a voler fare un’osservazione più banale. È prezioso per lui, e non serve che tu ne comprenda personalmente i motivi» abbozzò davanti alla minaccia concreta di ulteriori domande. «Portarglielo via sarà come sparargli al cuore… infliggendogli un dolore che non andrà mai via.»

«Se è così ci sto. Dove e quando?»

«Dove e quando, uh…?»

D. si voltò verso la parete e osservò la sua scacchiera, indecifrabile per chiunque tranne lui, alla ricerca della mossa ideale. Alla fine picchiettò su un cartoncino che recava le curve di onde stilizzate.

«Ecco come… apri bene le orecchie, Takihisa. Le tue prossime istruzioni sono dettagliate e devi ricordarle senza scriverle.»

Il suo sguardo non ebbe un attimo di esitazione e si fece un passo più vicino. Con le mani in tasca, gli occhi che scorrevano i fili e un sorriso trattenuto per l’eccitazione di essere vicino a una vendetta personale ascoltò il piano.

 

*

 

Byakuran fissava da ore il grande monitor sulla sua scrivania, cliccando sul mouse con la circospezione di un artificiere che disinnesca un ordigno. Indigo aveva tenuto la maggior parte delle riunioni e delle conferenze tramite quell’aggeggio in diretta dal suo ufficio, ma lui era talmente incapace che ponderò senza sarcasmo di far costruire un balcone dal quale parlare come il Papa alla piazza di San Pietro.

«Oh, no, che ho fatto?» gemette alla vista di un pop-up pubblicitario. «Come si chiude… ma che ca–»

Sobbalzò di spavento quando sentì bussare sulla finestra alle sue spalle e girò sulla poltroncina, quasi raggomitolato, solo per trovare la bizzarra immagine di Lucifer appollaiato su pochi centimetri di davanzale. Il vetro rinforzato e insonorizzato non gli permise di sentire una parola, ma lo vide gesticolare verso la maniglia. Riavutosi dalla sorpresa aprì la finestra.

«Lucifer, ma che cavolo fai qui?»

«Mi hai chiamato tu… sono in anticipo?»

«Intendevo cosa fai alla finestra! Mi hai spaventato!»

«Una deliziosa ragazzina con i capelli azzurri e l’uniforme mi ha detto che potevo passare da qui. Sono stato inopportuno?»

Byakuran sospirò e fece un cenno per invitarlo a scendere dal davanzale.

«Quella è Bluebell… non fidarti di lei. Non so come faccia ma riesce a intercettare ogni ospite che arriva e fa gli onori di casa come fosse il rappresentante della classe S. A quanto pare Indigo l’aveva eletta sua assistente e le ha montato un po’ la testa.»

«Mi è sembrata seria e volenterosa… non è buono?»

«La vorresti un’assistente che fa entrare i visitatori dalla finestra?»

Lucifer si decise a scendere e tese un poco gli angoli della bocca.

«Beh, io ho Sandalphon. Con lui rischio che escano dalla finestra, quindi…»

Byakuran non rispose, ma la sua espressione era così eloquente che Lucifer si lasciò sfuggire una risata.

«Venendo a noi, Byakuran… come ti senti?»

«In realtà non bene» ammise lui. «Sono sempre stanco, anche se adesso i livelli di minerali e vitamine sono nella norma. Ho il sonno leggerissimo e mi sveglio a ogni sospiro di Amber… i sonniferi non hanno nessun effetto. In realtà sembra che nessun tipo di medicina abbia effetto, neanche per il mal di testa.»

«Mh, sì… infatti è così. L’UTX inibisce il gene Oro, ma non è la sola cosa che blocca… dammi il braccio» gli disse, e gli avvolse la fascia per il controllo della pressione. «Un mio collaboratore, quando testammo gli effetti total-body per la prima volta, lo definì “un black out”. Diventò il nome del progetto specifico.»

«Black out in che senso?»

«Disattiva le reazioni che il gene Oro innesca per manifestare la peculiarità genetica che chiamiamo “potere Auris”, ma per fare questo spegne molti recettori, rallenta le ghiandole, e impedisce molti altri processi metabolici. Il rilascio di melatonina, per esempio. Ecco perché non riesci a dormire bene… se mi dici che i nutrienti sono in regola, è il sonno irregolare che ti fa sentire stanco.»

Lucifer valutò che la sua pressione sanguigna fosse adeguata e gli chiese che cosa mangiava di solito. Alla menzione della dieta vegetariana lo guardò sorpreso.

«Quindi è vero che sei vegetariano?»

«Sì… pensavi che non fosse vero?»

«Per una scelta etica o per questioni religiose?»

«Uhm… entrambe e nessuna, forse?» fece Byakuran, pensieroso. «In realtà Luce, la donna che mi ha cresciuto, era vegetariana per un credo spiritualista. Sono semplicemente stato abituato così.»

«Per un po’ abituati diversamente» tagliò corto Lucifer. «L’UTX è smaltito più velocemente con l’introduzione di proteine animali. Visto che non hai un conflitto etico con i carnivori e non vai contro a qualche dio, mangia della carne. Carne rossa, tre volte in una settimana. Non di più, o ti salirà la creatinina.»

«Lo so» replicò Byakuran secco. «La vuoi smettere? Ho due lauree in medicina!»

«Scusa. Non ci pensavo.»

«Avere un fratello maggiore non è affatto divertente.»

Lucifer alzò un angolo della bocca mentre frugava nella sua borsa.

«Scommetto che la persona che ti ha detto che è divertente non ha fratelli.»

Byakuran fece per replicare, ma poi tacque e si accigliò.

«In effetti… Amber ha una sorella

«Ora è tutto più chiaro, giusto?»

Gli porse un flacone da litro di un liquido verde. Byakuran lo prese e lo agitò piano, notandone la vischiosità, ma non seppe identificarlo.

«Che è questa roba?»

«CFC-01289. È una miscela di cellulosa vegetale, estratto di un cactus preistorico chiamato Ambofillus Trinogemia, con Lonicera e Capsicum Chacoense. Il mio team antagonista l’ha preparato per l’espulsione dell’UTX dall’organismo.»

«Ambo…. Capsicum… team antagonista?»

Lucifer emise di nuovo quella breve risata nascondendola dietro la mano, come fosse sconveniente ogni forma di divertimento. Sedette sulla sedia di fronte.

«È il modo in cui organizzo i miei laboratori… ho un team di ricerca che arriva a un prodotto, come l’UTX, in questo caso, e poi nomino una squadra con i più creativi di loro per agire da antagonisti… gli ordino di trovare il modo di renderlo inefficace. Serve ad avere una cura in scenari problematici, e ci spinge a creare nuovi prototipi capaci di aggirare la cura. È il processo della natura… ma lo acceleriamo.»

Byakuran fu molto colpito da quella strategia e gli venne spontaneo pensare a una possibile applicazione nella sua scuola. Decise di proporlo al prossimo collegio docenti, ma la bottiglia misteriosa era ancora lì tra le sue mani e lo distraeva.

«E quindi… che accidenti è questa roba?»

«Si beve. L’Ambofillus lega le molecole alla base della creazione dell’UTX e le porta con sé all’espulsione.»

Byakuran guardò la roba verde con rinnovato entusiasmo.

«Quanto ne devo bere?»

«Una bottiglia ti basterà per una settimana, diciamo. Un bicchiere scarso al mattino, ed è meglio se digiuni un’ora dopo averlo preso.»

«Non posso prenderne un po’ di più per fare prima? C’è solo erba dentro questa roba.»

«Beh… se non dormi con la tua fidanzata, potresti prendere un poco di più» acconsentì Lucifer, sebbene avesse l’aria preoccupata.

«Non… posso dormire con Amber per quale ragione?»

«Uhm… ecco, è un ritrovato assolutamente efficace per smaltire l’UTX, davvero, e relativamente privo di rischi al contrario della caffeina pura… ma… beh, sei un adulto. Non ha senso girarci intorno…»

Byakuran attese, ma seguì solo silenzio.

«Ci stai ancora girando intorno, Lucifer.»

«È afrodisiaco» sussurrò Lucifer, occhieggiando la porta. «Il Capsicum Chacoense è un afrodisiaco molto potente. Se ne assumi troppo in poco tempo ti farà stare davvero male.»

Byakuran continuò a fissarlo per un buon minuto, durante il quale Lucifer sembrava chiedersi se non ci fossero ascoltatori indiscreti dietro la porta dell’ufficio.

«Lucifer… ricordi che cosa mi hai detto ieri al telefono?»

«A cosa ti riferisci?»

«Al fatto che il tuo gene Oro era più resistente all’UTX del mio perché avevi provato su di te tutte le formulazioni del tuo laboratorio.»

«Sì… quindi?»

Ma lo sguardo accigliato che gli rivolse dopo rese inutili le spiegazioni.

«Byakuran, non starai chiedendo a tuo fratello maggiore se ha usato degli stimolanti sessuali?»

«È esattamente quello che ti stavo per chiedere, sì.»

«Questo è… in che modo è rilevante per la posologia?»

«Hai detto che un’alta dose fa addirittura male… qual è la tua soglia di tolleranza?»

Lucifer ricompose la sua espressione meglio che poté, ma non sembrava né rilassato né disinvolto.

«Non più di tre quarti di bicchiere, Byakuran. Questa è la dose corretta per un uomo della tua corporatura per non incorrere in effetti collaterali.»

Byakuran ridacchiò e Lucifer gli lanciò un’occhiata penetrante, ma accennò un sorriso.

«Mi stai prendendo in giro, vero? Qualcosa di divertente allora c’è.»

«Mh, così sembra… piuttosto, c’è una cosa di cui vorrei parlarti, visto che sei qui.»

«Parla, allora» l’invitò lui, guardandolo con curiosità.

Byakuran non sapeva come intavolare l’argomento senza farlo sembrare un’accusa e guadagnò qualche secondo di riflessione recuperando un bicchiere per farsi un’idea del gusto di quell’intruglio verde.

«La rivolta di Tokyo, a dicembre scorso… un Ribelle ha usato su Indigo un farmaco soppressore… era verde come l’UTX e ne aveva lo stesso effetto… sai spiegarmi come potrebbero essere riusciti ad averlo o a crearlo?»

Le possibilità, secondo lui, erano due. La prima era che Lucifer si offendesse per l’insinuazione di quella domanda e decidesse di non replicare. La seconda era che sostenesse – o fingesse – di non saperne niente e non gli desse che ipotesi già avanzate da Kikyo.

«Sì, posso» rispose invece subito. «È la ragione per la quale sono venuto in Giappone in occasione del mese della pace a Osaka.»

«Quando ci siamo incontrati e hai conosciuto Indigo?»

«Sì. Ho colto quell’occasione come una copertura, ma sono venuto qui a cercare un uomo… un uomo che lavorava nel mio laboratorio alla sintetizzazione dell’UTX. Diede le dimissioni per motivi di famiglia, fece il suo ultimo giorno e se ne andò… ovviamente il Ministro della Difesa autorizzò il tutto. Sembrava normale, per quanto sia raro che venga permesso il licenziamento a qualcuno che lavora con ricerche di massima sicurezza…»

«E?» l’incalzò Byakuran, dimentico della bottiglia e del perché avesse un bicchiere in mano.

«Mi accorsi che era stata fatta una copia di tutti i file… e si sforzò anche di nasconderla in modo che non fosse evidente se non a una ricerca specifica. Sapevo che era stato lui… ma Sendaemon era come scomparso. L’FBI non fu capace di ritrovarlo.»

«Sendaemon?»

«Sì, era un uomo giapponese… o piuttosto, di origini giapponesi. Il suo passaporto fu rispolverato qualche tempo fa, prima della rivolta… e quando ho incontrato Indigo in albergo ho avuto un dubbio. Ora sono vicino a confermarlo, visto che mi dici che l’UTX è stato usato su di lui.»

«Un dubbio? Che dubbio? Cosa sai di Indigo?»

«Beh… Indigo assomiglia molto a Sendaemon, Byakuran. Davvero molto… e lui non sa chi sono i suoi genitori, è così?»

Lo stomaco di Byakuran sprofondò come avesse inghiottito il bicchiere di vetro.

«Vuoi… Lucifer, vuoi dire che l’uomo che ti ha rubato i dati potrebbe essere il padre di Indigo?»

«È una possibilità… la somiglianza poteva anche essere casuale, ma il fatto che l’UTX sia apparso nel paese di origine del mio collaboratore e sia stato testato sul ragazzo che gli assomiglia… nella scienza le coincidenze sono coincidenze finché non si prova che non lo sono, ma nella realtà queste coincidenze su nove miliardi di persone e duecento paesi diversi sono più una croce che indica dove scavare.»

Byakuran si coprì la bocca con la mano, con mille pensieri che saettavano qui e là.

«Sai qualcosa di lui…? Della famiglia, del suo passato?»

«L’FBI ha un dossier completo, ma non ho l’autorità di visionarlo… so che era fidanzato ma ha perso la sua compagna in un incidente. Diceva di non avere parenti prossimi in città, e quando si è licenziato abbiamo pensato che… beh, che avesse progetti di matrimonio con una donna di cui non aveva parlato, o che avesse dei parenti alla lontana.»

«Non sai se ha figli, allora.»

«Secondo le mie ricerche, non ne ha… almeno, nessuno che abbia riconosciuto.»

Nel marasma Byakuran iniziò a focalizzare concetti importanti. Prove a sostegno di quella tesi.

«Nel periodo in cui Mukuro è nato c’erano molti immigrati irregolari dagli Stati Uniti e dalla Cina… secondo la legge vagliata nell’autunno 2003 gli immigrati dovevano fare ritorno nel loro paese e richiedere la carta blu, il permesso di asilo.»

Lucifer non replicò e lo lasciò ragionare, con le dita che tamburellavano sul vetro.

«Mukuro è stato lasciato alla casa-famiglia con una lettera che lasciava pensare che i genitori sarebbero tornati a prenderlo… ho sempre pensato che fossero tornati nel paese di origine per questo motivo. Per tornare da lui in modo regolare. Lo fecero molte madri in quel periodo, portandosi i figli o lasciandoli ad amici fidati…»

«Forse la compagna di Sendaemon era la madre di Mukuro ed è morta nell’incidente di cui parlava» ipotizzò Lucifer. «Ma forse… non andò a riprendere il figlio per la più ovvia ragione. Era un Auris… e forse il furto delle ricerche era mirato a correggere quel difetto.»

«Forse stiamo correndo troppo…»

Byakuran era certo che i fatti fossero collegati, ma non era in grado di vedere i fili: troppo sottili, nascosti o forse trasparenti e difficili da individuare senza notarne l’ombra.

«Questo Sendaemon potrebbe essere solo imparentato con Mukuro» ponderò allora, anche se con poca convinzione. «Potrebbe essere… suo zio, per esempio… ho un amico che dice di essere la copia sputata di suo zio e di somigliare pochissimo a suo padre. Gli ho sempre chiesto se fosse certo di essere figlio del fratello giusto, ma non è così improbabile…»

«Come genetista, non posso che acconsentire. Non è improbabile» ammise Lucifer. «Ma a questo disegno mancano troppi punti. Te ne ho parlato perché mi hai fatto domande e… desidero che tuo figlio resti al sicuro. Ma la mia indagine è lontana dalla fine.»

Presi dalle teorie più cospiratorie che i due fratelli nel campo della medicina avessero mai ipotizzato, erano così nervosi da scattare in piedi al bussare di qualcuno sulla porta. Byakuran si prese un momento per inspirare profondamente prima di dare il permesso.

«Oh, è ancora qui, signor Lucifer» disse Bluebell non appena lo vide. «Sensei, tra dieci minuti deve collegarsi per parlare al dipartimento dell’istruzione dell’adeguamento al piano nazionale… ho portato l’elenco.»

Glielo consegnò con un sorriso teso, ma continuava a guardarsi intorno in cerca di qualcosa. Si soffermò sulla bottiglia per un attimo e non la degnò più di alcuna considerazione.

«Indigo vuole che le dica che se non riesce a collegarsi neanche con le istruzioni che le ha scritto è veramente un babbeo.»

Fu un colpo all’orgoglio pensare che le istruzioni erano servite solo a fargli mettere le mani nei capelli, e non osò dirlo alla ragazzina.

«Di’ pure a Indigo che il babbeo non ne ha avuto bisogno» ribatté invelenito. «E che… che cosa stai cercando, Bluebell?»

«Oh! Uhm… ecco… io credo di aver perso il mio cellulare… mi chiedevo se non l’avessi lasciato qui quando ho portato i moduli…»

«Non credo davvero… sei entrata e uscita di fretta. Hai controllato dove hai fatto la stampa? Forse lo hai appoggiato lì.»

«Oh! Può essere! Mi scusi!»

Fece un inchino più per rispetto a Lucifer che a Byakuran e corse fuori. Lucifer sorrideva.

«Qualcosa in quella ragazzina mi ricorda Sandalphon quando l’ho conosciuto.»

«Sì, mi piacerebbe molto sentire questa storia» l’interruppe Byakuran. «Quello che invece non vorrei davvero sentire è Mukuro che mi dice di nuovo che sono un idiota! Aiutami a capire come faccio a fare una conferenza con questo arnese infernale, Lucifer… tu sei capace con queste cose moderne, no?»

L’educata perplessità di Lucifer era per lui l’equivalente dell’indifferenza in quel momento di panico.

«Ti prego, Lucifer, ti prego! Non sai quanto diventi cattivo quando insegna a un impedito!»

Lucifer ridacchiò di nuovo in quel suo modo discreto e si mise dal suo lato della scrivania, mano al mouse.

«Ti sei appena chiamato impedito da solo?»

«A questo punto negarlo sarebbe cieca ostinazione» ammise Byakuran.

Lucifer armeggiò meno di un minuto in scioltezza con il computer nemico e lo lasciò pronto su uno schermo quasi tutto nero.

«Quando è ora clicca qui sul verde, e ti vedrai in questo quadro» gli spiegò gentilmente, indicandogli l’area con il dito. «Qui vedrai dei piccoli riquadri con gli altri partecipanti alla conferenza. Sentiranno tutto e vedranno tutto quello che tu vedi in questo riquadro, va bene?»

«Sei un angelo» gli disse accorato, per poi piegare un sopracciglio. «… Letteralmente.»

«Se hai bisogno di qualcosa per la tua malattia tropicale chiamami» gli fece lui, prendendo la borsa da medico. «Mi farò sentire se scopro qualcosa. Sandalphon sta cercando per mio conto in giro e mi farà rapporti regolari.»

Byakuran annuì e si sistemò l’auricolare – l’unica parte tecnologica di quell’arnese che gli risultasse familiare – mentre Lucifer varcava la soglia.

«Proteggi la tua famiglia, Byakuran… io cercherò di fare lo stesso.»

 

*
 

Mukuro passò accanto alla cucina senza che venisse notato: Kyoya era impegnato a tagliare chili di patate a bastoncino per fare le patatine fritte in casa mentre accanto a lui Bel era in piedi su una sedia a mescolare una salsa densa in una ciotola.

Infilò la giacca appesa vicino all’ingresso e si avvicinò per guardare meglio, scoprendo che quella doveva essere la salsa al formaggio di Kyoya che Belial adorava mettere praticamente su tutto. Mescolava così attentamente che teneva la lingua di fuori e non staccava gli occhi dal mestolo.

«Quanto ci vorrà per la cena?»

«Oh, sei qui… penso ancora un’oretta.»

«Vuoi che prenda qualcosa mentre sono fuori?»

Kyoya lo guardò meglio e notò la giacca.

«Dove vai a quest’ora?»

«A prendere Bluebell… lo so» rispose subito alla faccia agguerrita di Kyoya. «Lo so, ma dice che è al Poppy Pop e che c’è uno strano ragazzo che la segue da un po’… non la posso lasciare da sola, metti che quello sia un pervertito!»

«E se non c’è nessun ragazzo e ci sta provando di nuovo?»

«Ho l’aria di uno che va con le ragazzine?»

Con suo scorno profondo Kyoya si limitò a fare spallucce.

«Il tuo umorismo non fa ridere e la tua gelosia non è tenera» replicò secco. «Torno quando torno.»

«Mukuro, aspetta… non intendevo dire–»

Ma Mukuro si chiuse la porta alle spalle senza aspettare chiarimenti e si avviò, con uno sguardo al cielo che minacciava pioggia. Kyoya aveva qualche ragione di infastidirsi per il comportamento di Bluebell, ma non riusciva a capacitarsi di quanto credito riuscisse a dare a una ragazzina alle soglie della scuola media.

Approfittò di un passaggio verso il cancello ovest di un impiegato della manutenzione elettrica e dall’incrocio del minimarket proseguì a piedi. Osservando le luci notturne ripensò con nostalgia alla prima volta che le aveva viste insieme a Kyoya, e a quanto Mizura gli sembrasse enorme e bellissima, con tutto quello che una persona potesse desiderare di avere a portata di mano.

Non era mai stato al Poppy Pop, una caffetteria molto frequentata soprattutto dalle giovanissime e famosa per i dolci con forme di animali che spopolavano nei post online, ma sapeva dove si trovava: ci passavano davanti quando portavano Belial a rimpinzarsi al fast food che faceva promozioni convenienti e buoni sconto cumulativi.

Quando la raggiunse non notò nessuno che avesse l’aria di aspettare qualcuno o di sorvegliare: la maggior parte dei passanti camminava senza fermarsi davanti alle vetrine del café e le uniche persone che sostavano lì erano tre ragazzine intente a giocare con un’app per gli oroscopi.

Sbirciò dentro, ma scoprì in pochi secondi che non c’erano clienti con i capelli azzurri nel locale.

Ma cosa fa? Non mi avrà fatto uscire con una scusa stupida solo per farmi un dispetto, spero…

Iniziava a essere preoccupato che Bluebell avesse provato a uscire e fosse stata seguita dal ragazzo, o peggio aggredita. Prese il cellulare e le scrisse un messaggio, poi un altro dopo un minuto. Ancora la ragazzina non si vedeva e non rispondeva, quindi le telefonò mentre controllava i negozi vicini e le macchine, nel caso la persona inquietante fosse seduta a bordo di un veicolo.

Sentì quell’assurda musichetta a 16 bit e si fermò di scatto. Veniva da destra, da una stradina buia dove l’unica pozza di luce era gettata da un distributore di sigarette e dall’insegna neon di un esercizio con la serranda abbassata.

«Bluebell?»

La suoneria si spense con il messaggio di segreteria telefonica. Ripeté la chiamata facendo scivolare il telefono in tasca e si inoltrò nella stradina con le mani sollevate in posizione di guardia e pronto a un’imboscata di mille nemici, come Reborn ripeteva così spesso da sembrare ridicolo.

«Bluebell» chiamò ancora, sicuro di avvicinarsi alla suoneria. «Se sei qui fatti vedere… sono io.»

La ragazza non rispose. Mukuro si fermò prima del distributore e per una volta decise di dare retta al suo buonsenso. Era sicuro che il suono provenisse dal cassetto di caduta del distributore, un punto strategico: per infilarci la mano e prenderlo avrebbe dovuto voltare le spalle allo spazio aperto e chinarsi lasciandosi esposto all’attacco.

Indietreggiò senza sbattere le palpebre per non offrire il minimo vantaggio a chi l’aspettava e pensò che appena al sicuro sulla strada avrebbe chiamato Hound – anche se fosse stato a cena con la sua nuova fiamma di lunga data – per scoprire dove fosse la ragazzina.

La via di fuga gli fu bloccata da due biciclette piazzate di traverso. Prima non erano nemmeno lì e ora bloccavano tutta la stradina, ma Mukuro fece appena in tempo a imprecare che una figura piombò su di lui dall’alto. Pur sbilanciato era pronto a reagire e colpì l’aggressore con un colpo a palmo aperto in pieno petto, scagliandolo indietro.

Senza un fiato il corpo del nemico urtò il distributore facendolo cadere e sprofondando in un buio più denso la stradina. Il rumore strappò qualche commento e qualche domanda a chi passava sulla strada del Poppy Pop a pochi metri dall’angolo.

Che… che cosa diavolo è successo?

Con il cuore ancora bloccato in gola Mukuro riprese il cellulare e accese la torcia, avvicinandosi con cautela al distributore rovesciato. Il vetro era rotto e pacchetti di diversi colori erano sparpagliati per terra.

Per primi vide dei piedi con degli stivali in suola di gomma spuntare dal distributore. Allarmato prese la macchinetta dal bordo e la sollevò rimettendola in piedi, poi illuminò il viso del suo aggressore e per poco non gridò: il volto coperto di sangue con gli occhi spalancati e già vitrei era quello di Viperlance, il loro compagno partito per l’estero ancora prima di ritirare il diploma cartaceo.

«No… no, no, no… maledizione!»

Schizzò via e saltò di slancio le biciclette per riemergere in una corsa folle sulla strada principale. Sentì un urlo di donna dietro di lui, vociare, e fu certo che qualcuno doveva aver visto il corpo.

Do troppo nell’occhio così…!

Cercò un posto riservato, un negozio tranquillo o un angolino in cui nascondersi per telefonare a Byakuran a scuola. Aveva appena adocchiato una piccola libreria di soli usati dove sperava di trovare rifugio quando una donna sul marciapiede opposto puntò l’indice su di lui e si mise a urlare.

«Sta scappando! Quel tizio sta scappando!»

Sarebbe stato più saggio fermarsi e spiegare, ma era accaduto tutto così in fretta che Mukuro non era certo di che cosa fosse successo e cosa gli fosse solo sembrato. Se aver ripreso il costume da Civil Hero per una grave emergenza poteva scusarlo di un certo numero di atti di forza in altre circostanze eccessivi, assassinare un ex compagno di scuola per quello che forse era un’aggressione solo per spaventarlo non gli sarebbe stato perdonato altrettanto facilmente.

Svoltò nella prima strada che lo allontanasse dalla donna che l’additava e prese il cellulare, ma mentre correva non riusciva a comporre i numeri. Guardò meglio lo schermo e si trovò di fronte un ragazzo con le lentiggini vagamente familiare che lo costrinse a frenare con un grattare di suole sul marciapiede per non sbattergli contro.

«Ehi! Che stai facendo?!»

Arretrò balbettando qualcosa di sconnesso per sottrarsi alle domande, ma quando si voltò per cambiare strada un uomo con il cappello gli afferrò le braccia di scatto. Gemette, confuso, sentendo una puntura sul bicipite e levò lo sguardo sull’uomo: aveva lineamenti somiglianti ai suoi, i più simili che gli fosse mai capitato di vedere nei volti di migliaia di persone. Lui sorrise.

«Ora dormi.»

L’uomo si calcò di più il cappello e lo spinse indietro, dove il ragazzo lentigginoso lo agguantò con la presa salda di un lottatore di wrestling mentre i suoi sensi si facevano confusi. Ancora una volta perse i sensi e restò inerme alla mercé di sconosciuti.

«Occupatene tu, Iracus…» fece l’uomo sfilandosi i guanti. «Ai dettagli ci penso io.»

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Capitolo 32
*** Before the thunder ***


Mukuro sbatté le palpebre che sentiva pesanti come container carichi. Lentamente ricollegò la mente annebbiata a un corpo intorpidito e si rese conto di avere la faccia appoggiata contro la testata imbottita di un letto, il braccio dietro la schiena e le gambe piegate scomposte sotto la coperta sgualcita.

Per quelle che gli sembrarono decine di minuti tenne gli occhi fissi sulla carta da parati; una curiosa carta a righine azzurre e bianche con un motivo di uccellini. Man mano che riprendeva lucidità riuscì a distinguere meglio le sfumature e le forme, e poi scoprì di riuscire a muoversi un po’: prima spostò il braccio trascinandolo davanti al corpo, poi girò la testa appoggiando la nuca contro il muro e il collo sul bordo imbottito della testata.

Ma dove sono finito?

Il luogo dove si trovava aveva l’aria di una cameretta. C’era una cassettiera che aveva i pannelli in tre diversi toni di blu e i pomelli a forma di stelle, e dappertutto c’erano giocattoli: una bella barchetta a vela in legno, orsetti che andavano da uno grande un metro ai più piccini che sarebbero stati dentro il suo pugno, alcuni peluche di gattini fatti di lana e coniglietti di pezza, un cavallino a dondolo e un trenino di legno che da solo occupava una mensola. Adocchiò anche un carillon chiuso sopra la cassettiera e una tastierina colorata a xilofono.

Non sapeva di chi fosse quella casa, ma quando guardò la finestra pensò che forse non era neanche in Giappone: non aveva mai visto là una finestra curva a quadrati con il davanzale trasformato in una seduta imbottita.

La porta dipinta di blu si aprì senza che Mukuro potesse alzarsi né rimettersi giù fingendo di dormire. La persona che entrò aveva un passo tranquillo e il ragazzo pensò di chiudere gli occhi e fingere di essere ancora incosciente, anche se scomposto come una marionetta buttata a terra.

«Sei sveglio, Mukuro?»

Il ragazzo non diede risposta né alcun segno di aver udito il proprio nome. L’uomo che aveva parlato emise una risatina sommessa prima di sporgersi e spostare la testa di Mukuro dalla parete per appoggiarlo ai cuscini. Gli girò il viso affinché gli occhi semiaperti si posassero su di lui, che prese posto su una sedia dall’imbottitura celeste.

«Come hai fatto a metterti in quella posizione assurda? Se ti tenessi qui sette anni continueresti a tentare di alzarti pur senza sentirti il corpo, ho ragione o no? Ostinato come tua madre, dopotutto… e ribelle, come me.»

Mukuro non provò a dire qualcosa o a reagire, troppo scioccato nel riconoscere l’uomo che gli stava controllando il polso. Era l’uomo che gli assomigliava, e senza il cappello e il trench con il bavero alto era ancora più evidente: avevano gli stessi capelli mori, lisci e lunghi, la pelle chiara, il fisico alto e magro, aveva occhi più scuri e allungati ma le stesse sopracciglia dal disegno lungo, sottile e senza angoli.

«Sembra che tu stia bene… dimmi, ti va un sorso di tè? Devi avere sete.»

Mukuro non replicò, ma l’uomo versò un liquido fumante da un thermos in una piccola tazza orientale. Lo sostenne e lo aiutò a sorseggiare un tè dolce che sapeva di limone, che fu un sollievo per la sua gola asciutta e per lo stordimento che ancora provava.

Mukuro lanciò un’occhiata all’uomo, che sorrideva.

«È passato tanto tempo dall’ultima volta che ti ho dato qualcosa da bere… suona da sciocchi, ma mi sento emozionato come allora.»

«Chi sei?»

La voce gli uscì meno alterata di quanto credesse, solo un poco arrochita. L’uomo posò la tazzina per riempirla ancora.

«Potrei guardarti per ore, lo sai? Le tue ciglia così folte… il naso sottile, le labbra con quell’arco di Cupido così marcato… e le tue orecchie… sono gli stessi di tua madre.»

«Che stai dicendo?»

«Vorrei che ci fosse un modo meno traumatico per dirtelo, ma penso proprio che non esista una maniera facile, quindi perdonami se sarà un piccolo shock… ma sono tuo padre.»

Un piccolo shock?

Fu uno shock enorme per Mukuro; al confronto di quello il passaggio della cometa, il suo incontro con Wing Emperor, il terremoto di Higashiki e persino il punto vicinissimo alla morte a cui era arrivato contro Death Kraken sembrarono trascurabili sul momento.

Eppure non avrebbe dovuto: aveva detto tante volte anche a Byakuran che immaginava spesso i suoi genitori vivi e felici senza di lui, e allora perché l’idea che potesse avere suo padre di fronte gli sembrava così fantascientifica? Aveva desiderato una rivelazione come quella praticamente per tutta la sua esistenza…

Non può essere davvero lui. È troppo giovane per esserlo davvero… o forse no?

L’uomo che aveva davanti aveva davvero un aspetto molto fresco, non gli avrebbe dato più di trent’anni; ma forse era stato un padre adolescente e per questo era stato costretto ad abbandonarlo? O forse sembrava più giovane di quello che era? O più banalmente, non era affatto suo padre. Piuttosto che questo genere di confusione quasi preferiva lo stordimento dei sedativi.

«Non ho un padre.»

«Certo che ce l’hai, Mukuro, tutti ne abbiamo uno. Vivo o morto, consapevole o meno che sia. Nemmeno gli Auris nascono dai fiori, per il momento, almeno.»

Mukuro trovava estremamente irritante quell’aria svagata. Se davvero era suo padre che cosa ci trovava di normale nel sequestrare il proprio figlio e tenerlo drogato per ore o giorni che fossero?

Si puntellò a fatica sul gomito, ma non aveva forza e coordinazione sufficiente per pensare di alzarsi.

«Ah, stai riprendendo sensibilità… molto bene. Perché ti torni la forza però dovrai aspettare qualche giorno, l’UTX è micidiale se viene somministrato per un lungo periodo.»

«Da… da quanto sono qui?»

«Sei qui da quattro giorni, ma ti ho prelevato esattamente una settimana fa.»

Prelevato? Prelevato da dove?

Mukuro si toccò la fronte e grattò tra i capelli con forza, quasi potesse trovare la memoria giusta se avesse frugato abbastanza. Aveva avuto la sensazione di conoscere quell’uomo, di averlo visto con una giacca antivento e un cappello, ma non riusciva più ad afferrare dove fosse successo. In realtà non riusciva a ricordare da dove fosse arrivato.

L’uomo gli afferrò la mano, guardandolo per la prima volta senza sorridere.

«Non ti senti bene? Un po’ di nausea è normale con i sedativi, ma… sei confuso? Sai dove sei?»

Lo sguardo di Mukuro scorse la stanza con attenzione, soffermandosi sulla finestra, sui tanti giocattoli e sui toni di blu e azzurro diffusi in ogni angolo. Questa volta, però, fu sicuro.

«Questa è la mia camera» rispose, quasi sorpreso. «È la mia stanza… vero?»

«Certo che lo è» confermò lui, di nuovo sorridente tenendogli la mano tra le sue. «L’abbiamo preparata per te quando io e tua madre aspettavamo che nascessi… l’ultima volta che sei stato qui avevi ancora un lettino. Non ci torni da molti anni…»

«Non mi ricordo… non… perché non sono tornato?»

«Non ti agitare, Mukuro. L’amnesia temporanea è un effetto collaterale abbastanza comune… è tutto okay» gli fece in tono rassicurante. «Vivevamo qui quando eri piccolo… poi ci siamo trasferiti in Giappone… te lo ricordi? Gli insegnanti ti sgridavano sempre perché…»

Mukuro attese la fine della frase, ma poi una memoria fugace riaffiorò e si guardò i piedi; due sporgenze sotto la coperta decorata a costellazioni.

«Perché dimenticavo di togliere le scarpe…»

«Visto? La tua memoria è tutta lì. Devi solo avere un po’ di pazienza.»

«Non mi ricordo come ti chiami.»

«Questo non è sorprendente… mi hai sempre chiamato papà.»

«Papà…»

Mukuro strinse gli occhi cercando di forzare il vento sulla nebbia che copriva tutte le risposte che cercava.

«Io… mi viene il nome di un fiore…»

Lo sguardo dell’uomo divenne serio e strinse la sua mano con più energia.

«No, no… è il tuo. La mamma ti ha dato un nome facendo un gioco di parole… il “ro” del tuo nome è quello delle rose. È questo il fiore che ti sembra di ricordare.»

«Davvero…?»

«Sì… “mu” di musica, e “ku” da… beh, da Cu Chulainn, l’eroe irlandese. La famiglia di tua madre è irlandese.»

«La mamma… non ricordo la mamma» fece Mukuro, agitato. «Dov’è?»

«La mamma non è più con noi da tanto tempo, Mukuro… ma per aiutarti a ricordarla c’è sempre questo…»

Gli porse un quaderno rilegato in pelle che era posato sul comodino.

«Lo porti sempre con te.»

Mukuro era confuso e aprì il quaderno senza riconoscerlo minimamente. Trovò alcune foto tra la copertina e la prima pagina bianca. Una di quelle immortalava una bella donna con una cascata di capelli biondi e mossi, con occhi blu dalle ciglia folte come i suoi, la stessa bocca ben delineata e il naso più sottile di quello dell’uomo accanto a lui.

Una donna americana… irlandese. Una donna occidentale…

Nella foto indossava una camicetta molto castigata con un fiocco al colletto e un cappello da sole, entrambi di colore azzurro.

«Fu lo stesso giorno in cui scelse il nome… quello in cui scattarono la foto. Io ero ancora in servizio nell’esercito e lo rimasi fin dopo la tua nascita. Affrontò il trasferimento in Giappone da sola… era una donna coraggiosa.»

«Cosa… non sono nato qui?»

«Era il nostro piano» fece lui, con un pallido sorriso. «Doveva recarsi lì e cercare una casa, sapevo che sarei stato trasferito in una base americana in Giappone di lì a un anno e con un bambino in arrivo volevamo essere pronti… ma tu sei nato un po’ in anticipo, e quindi…»

Il padre gli accarezzò il viso.

«Non abbiamo pensato fosse una sfortuna… in Giappone qualcosa si stava muovendo già allora, c’erano più diritti per gli Auris, più tolleranza… e nascendo giapponese non saresti stato obbligato alla leva militare come ero stato io. A Helena non piaceva la guerra.»

Helena… Helena Briley?

Ebbe una fitta penetrante alla tempia sinistra mentre gli sopraggiungevano dettagli che sembravano appartenere a un altro puzzle: un ritratto di grande formato, un atelier da artista e un nastro adesivo con disegni di cani…

Suo padre lo strinse in un abbraccio, tenendogli la mano sulla fronte.

«Stai sforzando troppo… non devi forzare, Mukuro.»

«Non mi ricordo niente della mamma» ammise lui, con le lacrime agli occhi. «Perché non me la ricordo?»

«L’hai persa quando eri piccolo… è doloroso.»

«Voglio ricordarmelo!»

«Sicuro di volerlo?»

Mukuro guardò la fotografia della donna bionda e sentì che qualcosa mancava, che c’era qualcosa di strano in lei. La conosceva, ma non la ricordava.

«Voglio ricordamelo» ripeté ostinato.

«Potrei mostrartelo, allora…»

Mukuro guardò in faccia l’uomo che gli assomigliava, che aveva un’aria grave e si strofinava le mani come se fossero gelate.

«In che modo puoi mostrarmelo?»

«Col mio potere Auris… l’hai preso da me il gene Oro. Lei non lo aveva» spiegò lui, e avvicinò i palmi al suo viso. «Posso mostrarti le mie memorie… ma per ora avrai solo queste. I miei ricordi della mamma… i tuoi arriveranno dopo, quando starai bene.»

Mukuro spostò la coperta e forzò le gambe a piegarsi, mettendosi seduto sul bordo del letto.

«Mostrameli.»

Le mani si posarono sul suo volto e all’istante gli sembrò di precipitare nel vuoto. Prima che potesse provare a gridare si ritrovò sopraffatto da sensazioni e immagini. Vide una festa con coccarde e fuochi d’artificio, con Helena che ballava sul terreno sterrato con l’uomo che chiamava “Damon”. Visse nell’arco di un attimo decine di passeggiate nella campagna in fiore e sere passate a guardare le stelle, lesse un biglietto vecchio di diciotto anni in cui Helena scriveva a Damon, in caserma, che aspettava un figlio. Vide la loro riunione quando era già nato – un fagottino piccolissimo in una copertina leggera – e un bacio dato alla donna bionda prima di superare un terminale dell’aeroporto, poi il buio.

Aprì gli occhi nella stanza azzurra, ansimando leggermente. Si aggrappò ai polsi di suo padre.

«Che… p-perché è finito così all’improvviso?»

«Ti stavi lamentando» spiegò con dolcezza lui. «Ti stavo chiedendo uno sforzo troppo grande… ma non devi correre. Ora l’UTX non ti verrà più dato e lo smaltirai in pochi giorni.»

«Ma… papà, perché mi hai dato l’UTX?»

«Per una questione di sicurezza, figliolo… eri sconvolto e terrorizzato… ma questo… questa è storia per un altro momento. No, non ora… sei ancora troppo debole e confuso. Riemergerà da solo… e allora ne parleremo.»

Damon – Sendaemon, secondo ciò che Mukuro aveva visto sulla busta della lettera nei suoi ricordi – guardò l’orario in un orologio a cipolla che aveva in tasca e sorrise.

«Che cosa ne dici se ti porto giù e mangiamo qualcosa? C’è la tua tata, Heidi. Non te la ricordi? Stava a casa quando tornavi da scuola e ti preparava la cena quando io ero via per lavoro.»

«Io… mi spiace, no…»

«Lei capirà… vieni. Devi mangiare per recuperare le forze… appoggiati a me.»

Mukuro si aggrappò a Damon per sollevarsi e mise con lentezza e difficoltà i piedi uno avanti all’altro fino al corridoio. Quando vide dei fiori freschi in un vaso sul mobiletto del corridoio, tuttavia, si ripresentò la sensazione che i fiori che aveva in mente non fossero le rose.

 

*

 

«Datti una calmata… dann– ahia!»

Kyoya si liberò dalla presa di Mad Horse torcendogli deciso il gomito e ripartì all’attacco della porta, ma venne placcato da Breaker e Camaro, finendo schiacciato sotto il loro peso sul pavimento. Non rinunciò ad azzuffarsi con loro come un gatto inferocito.

«Mollatemi! Che diavolo pensate di fare?! Yamamoto!»

Il caso che fosse il cognome di entrambi li portò a scambiarsi un’occhiata, ma Breaker fu il primo a reagire e gli mise la mano aperta sulla faccia. Sapeva che aveva intenzione di spegnere la sua reattività rallentando gli impulsi trasmessi ai suoi muscoli.

«Non sei di aiuto a nessuno, Phoenix» lo redarguì con durezza. «Indigo è scomparso, Viperlance è morto e tu pensi solo a dare di matto contro qualche giornalista idiota!»

«Hanno detto che Mukuro è un assassino!»

«Mukuro è un assassino» ribatté secco Breaker. «Fin da quando colpì Hell Cat causandone la morte… e dopo la Golden Wave sono molti i Civil Heroes assassini. Piuttosto, prova a pensare che la vittima è il fratello di Camaro-senpai!»

Forse perché quella consapevolezza gli pesò addosso all’improvviso o perché il Rallentamento di Breaker iniziava a fare effetto, Phoenix rinunciò a resistere. Posò gli occhi grigi su Camaro, che celava la sua tristezza nel modo in cui veniva insegnato agli eroi professionisti: senza lacrime, senza rabbia, con un educato, distaccato cordoglio.

«Io… Noriyuki, mi dispiace.»

Non usava il nome di Camaro in presenza di altri per celare la loro confidenza, ma in quel momento non se la sentì di essere formale. Camaro si rimise sulle ginocchia liberandolo.

«So che mio fratello non è nei tuoi pensieri, ora… non preoccuparti. Non dovete fingere… nessuno di voi» fece lui, con un lievissimo tremito di fondo. «Io… le nostre sorelle… e i nostri genitori… tutti sappiamo che in Takihisa qualcosa non andava da tanto tempo. Sappiamo che il suo comportamento è… era… sgradevole, e arrogante, e che aveva atteggiamenti inqualificabili per un Civil Hero. Non sono sorpreso che diate più importanza a Indigo che a lui.»

Kyoya si rimise seduto, lentamente, a causa del potere di Yamamoto.

«Noriyuki, a me dispiace di non aver pensato a te… hai perso un fratello, e io…»

«In realtà… sono affranto perché speravo che crescendo Takihisa avrebbe cambiato mentalità… ma ora anche io sono più preoccupato per Indigo che addolorato per lui.»

Camaro strinse i pugni.

«È… orribile che un fratello maggiore dica questo… ma… i suoi comportamenti alla fine hanno avuto influenza anche su di me. Anche sull’amore che provavo per lui.»

Night Hound uscì a passo di marcia dalla porta e li fulminò tutti e tre con lo sguardo, nonostante fosse stato Phoenix il solo a dare spettacolo.

«Che cosa diamine avete in testa?!»

«Ho… perso il controllo» replicò Phoenix, abbassando gli occhi sugli stivali dell’insegnante. «Mi dispiace.»

«Altroché se lo hai perso! Muovere accuse vaghe e infondate davanti alla stampa è un comportamento che non mi aspetto da un Civil Hero diplomato che voglia dimostrare di meritare un giorno un ruolo di responsabilità!»

Sapeva che avrebbe dovuto tacere, incassare le critiche, scusarsi e andarsene. Ma non ci riusciva.

«Sensei, non vorrai dirmi che tu pensi davvero che Mukuro abbia ucciso qualcuno e sia scappato!»

«Non importa quello che penso io, quando otto testimoni sostengono questa versione della storia.»

«Quelle persone mentono!»

«Quelle persone non mentono» lo contraddisse Night Hound, con lo sguardo confuso che sembrava sostenere l’opposto. «Le ho interrogate io stesso. Ho sentito i loro odori… non mentono. Nessuno di loro mentiva…»

Kyoya si rimise in piedi con il sostegno di Breaker mentre Night Hound si accarezzava il mento immerso nelle sue riflessioni. Mad Horse non fece in tempo a consigliare loro di ritirarsi che l’altro insegnante spinse Breaker sulla schiena e acchiappò Camaro per il braccio trascinandoli tutti nello stanzino degli audiovisivi. Mad Horse, allibito, li seguì e si incastrò con gli altri quattro nella stanzetta ingombra di cavi arrotolati, vecchi registratori, proiettori e casse altoparlanti.

«Nessuno di loro mentiva, e questo in realtà è strano» disse loro Night Hound, tenendo la voce bassa. «Ho interrogato centinaia, forse un migliaio di persone nella mia vita. I testimoni oculari spesso non ricordano bene cosa è successo nei momenti di tensione di un incidente o nel corso di un crimine… la loro mente tende a riempire buchi con elementi circostanti. Per esempio, descrivendo un rapitore, potrebbero inconsciamente riempire i tratti che non ricordano usando quelli del proprio volto.»

«Ma davvero?» fece Mad Horse, affascinato.

«Sì. A volte scambiano i colori con quelli di oggetti nei paraggi. È un meccanismo comune e quando accade, anche se non stanno propriamente mentendo, posso sentire un cambio di odore. La loro incertezza crea agitazione, una smania di trovare la risposta che posso sentire.»

«Non hai sentito questo odore in nessuno di loro, sensei?» domandò Camaro. «Nessuno su otto?»

«Neanche uno.»

«Questo è davvero insolito.»

«Direi sospetto» rincarò Night Hound. «Non ho mai visto otto testimoni descrivere con tanta accuratezza un sospettato in fuga, compresi i vestiti che indossava. E poi… beh, il messaggio di Bluebell.»

«Il messaggio di chi?»

«Bluebell. È una ragazzina della classe E, passa alle classi superiori il prossimo anno…» spiegò Breaker a Camaro. «Quando Mukuro si è occupato della scuola l’ha scelta per organizzare le sue cose. La sera del fattaccio ha mandato un messaggio a Mukuro dicendo che c’era un ragazzo più grande che la seguiva e che stava nascosta in una caffetteria… Kyoya dice che è uscito per andare a prenderla.»

«Ma Bluebell giura di non aver mandato alcun messaggio» rivelò Nigh Hound. «Anzi, ha anche detto di aver perso il cellulare e che è riapparso nello spogliatoio delle ragazze la mattina dopo. Emperor ha confermato che lei gli ha chiesto se l’avesse lasciato nel suo ufficio.»

Kyoya sentì salire una sensazione bruciante lungo l’esofago, come volesse sputare fuoco come un drago.

«Quindi ho ragione! Qualcuno l’ha attirato fuori, questa è una montatura!»

«Oppure Viperlance l’ha attirato fuori per uno scherzo o un’aggressione e Mukuro l’ha davvero ucciso.»

«Sensei, non ci puoi credere davvero!»

Camaro emise un verso scettico dal suo angolino.

«Conoscendo mio fratello, non sarebbe così difficile da credere… a quanto ne so lo aveva preso in antipatia per la sua scalata alla classe S.»

«Noriyuki! Mukuro non avrebbe mai fatto fuori Viperlance, è capace di tener testa a un avversario senza ucciderlo! L’ho addestrato io come Civil Hero!»

Breaker strizzò la spalla di Kyoya come avvertimento.

«Non sei obiettivo, Phoenix, e devi calmarti se vuoi essere di aiuto.»

Scese un momento di teso silenzio e Mad Horse osservava il suo pupillo cercando la cosa giusta da dire, ma fu Night Hound il primo a parlare.

«Anche qui ci sono delle incongruenze… e Mukuro non sparirebbe così. Se gli fosse davvero accaduto di uccidere per sbaglio sotto minaccia sarebbe corso qui, a parlare con me, o con Emperor. Avrebbe chiamato uno di voi per avere aiuto o consiglio. Anche nel caso fosse stato preso dal panico e fosse corso via dal luogo del fatto, è qui che si sarebbe rifugiato.»

«Non andrebbe da nessuna parte senza dirlo a me» sottolineò Kyoya. «Non abbiamo segreti, neanche uno. Non sparirebbe così, neanche se pensasse che è per proteggermi, noi… noi ci amiamo.»

Mad Horse fece un sorriso e gli diede una scrollata sul braccio.

«Anche io non penso che ti lascerebbe così, e che dev’essere successo qualcosa di strano.»

«E qualcosa di strano c’è» fece Night Hound, guardando Camaro. «L’odore di tuo fratello, Camaro… ho sentito il suo odore nel luogo in cui Wing Emperor è scomparso.»

Noriyuki si accigliò e guardò tutti in volto, confuso.

«Cosa… a Ukunue?»

«Nel posto in cui Wing Emperor è stato rapito in marzo, Camaro. Perché questo è successo. E ora è sparito Indigo… e tuo fratello c’entra in entrambi i casi.»

Camaro boccheggiò come un pesce rosso e la sua bella pelle scura assunse una sfumatura malaticcia.

«C-cosa… n-non crederete che lui abbia rapito Wing Emperor?! Non potrebbe mai, è… andiamo, non sarebbe mai stato capace! Uno come lui non arriverebbe neanche a sfiorare Wing Emperor!»

«Forse no, da solo.»

Kyoya fu profondamente addolorato di vedere Camaro così sconvolto, ma non era il tempo del cordoglio e della riflessione. Non per lui.

«Sensei, credi che siano le stesse persone?»

«Non posso escluderlo… ma a muovere la mano di Viperlance è stato sicuramente un altro. Qualcuno di più capace, più organizzato… qualcuno con contatti potenti…»

I suoi occhi parvero illuminarsi di colpo.

«Viperlance ha lasciato la scuola prima del diploma ed è andato all’estero… dove?»

«Uhm… noi… mi dispiace, sensei… non avevamo più contatti diretti con lui. Ho saputo che sarebbe partito perché Chrome Doll mi ha chiesto dettagli…»

«E lei come l’ha saputo?»

Camaro fece un sogghigno denso di amarezza.

«Eh… è l’unica che ha salutato. Era la sua cotta fin da quando è arrivata… ah, mi ha detto che gli ha prestato una di quelle guide per turisti» aggiunse con enfasi. «Un frasario con istruzioni sui taxi, i numeri utili e quelle cose… per New York. Forse è andato in America.»

Kyoya scambiò uno sguardo silenzioso e carico di angoscia con Night Hound. Lui spalancò la porta dello stanzino.

«Quello che avete appena sentito è confidenziale. State tutti lontani dalla stampa finché questa storia non sarà risolta. Camaro, per favore, cerca di sapere se qualche compagno di tuo fratello sa con chi parlasse o chi incontrasse fuori. Breaker, tu… manda Restless su nel mio ufficio… e impedisci a Phoenix di muovere un passo senza il permesso mio o di Emperor.»

Kyoya sentì montare la ribellione dentro di sé, ma Mad Horse gli tappò la bocca.

«Penso io a lui. Non lo perderò per un secondo.»

Detto ciò l’afferrò per la vita buttandoselo sulla spalla come uno zainetto da viaggio e con uno scatto della sua super velocità abbandonarono l’edificio principale dell’Accademia in un battito di ciglia.

 

*

 

Mukuro era seduto sul dondolo in cortile e guardava malinconico i rami del glicine; un cielo di nuvole viola brulicanti di piccole vite ronzanti. Il profumo era dolce e inebriante, l’estate stava per arrivare al trotto, eppure non riusciva a sentire alcuna gioia.

Senza spostare lo sguardo aprì il carillon che teneva in grembo – che aveva scoperto contenere un cavallino – e sprigionò la melodia. Non era una ninnananna, né il classico Per Elisa: suonava una musica che sua madre aveva composto da ragazza e che assomigliava terribilmente alla melodia di un altro tempo che Mukuro aveva fatto sentire al suo amico Subaru.

Credevo di averla scritta io, ma era della mamma… non ricordavo questo carillon e pensavo venisse dal futuro…

Guardò il cavallino girare piano su se stesso.

Sempre ammesso che… che abbia senso parlare di passato e futuro. È tutto collegato, è una matassa intricata…

Chiuse gli occhi e seguì la melodia ancora perfetta, regolarizzando il respiro. Immaginò una goccia di luce scendere in gola e scorrere fino all’addome, il centro dell’essere e dell’energia, e vide la goccia creare un vuoto intorno, come l’occhio di un ciclone…

«Lo stai facendo di nuovo.»

Aprì gli occhi e vide Lady Million – aveva chiamato così la ragazza dai capelli rossi, come il profumo costoso che diceva fosse per lei più importante degli abiti – che gli veniva incontro.

«Quella cosa… che cos’è, meditazione? Tipo yin yoga?»

Dopo un momento di perplessità si accorse di aver incrociato le gambe e di tenere le mani in una posizione particolare, una nell’altra, con il carillon appoggiato nella mano superiore e i pollici uniti al di sopra.

«Io… non so. Forse è una cosa che ho imparato a scuola, ora non mi ricordo…»

«Lo stavi facendo anche ieri quando sono arrivata.»

Si sedette sul dondolo accanto a lui e lo inondò immediatamente di profumo, coprendo persino il glicine in fiore.

«A cosa serve? Ti calma?»

«Io… sì. È per controllare il respiro… controlla il respiro e controllerai la vittoria.»

«Sembra una frase da film di arti marziali… ti piacciono? Ne ho visti tanti» disse lei, controllandosi il rossetto in uno specchio da borsetta. «Spesso ci sono dei bei ragazzi come protagonisti.»

Mukuro si sforzò di sorridere, riuscendo soltanto a far fare alla sua bocca un ghigno storto.

«Tu… conoscevi mia madre?»

«Uh? No… no, non la conoscevo. Ho conosciuto tuo padre poco tempo fa.»

Non sembrava desiderosa di aggiungere dettagli e Mukuro si chiese se non fosse finita anche lei imprigionata con lui in un carcere per oppositori politici.

Richiuse il carillon.

«Combattiamo il sistema dei Civil Heroes perché è sbagliato… vero?»

Lady Million confermò con una risposta secca e prese a sistemarsi capelli impeccabili guardandosi nello specchietto. Damon si avvicinò a loro attraversando il giardino.

«Ah, siete qui… oh, sto interrompendo qualcosa?»

«No» risposero insieme i due.

«Ci dovrei credere? Tu, Maddy, hai l’aria di essere appena stata presa con le mani nella marmellata.»

«Come se potessi mai ficcare la mano nel cibo come un primitivo!»

«È un po’ troppo giovane per te… insomma, aspetta almeno che abbia l’età per la patente.»

«Oh, andiamo, D…»

La ragazza sospirò contrariata e si alzò, allontanandosi lungo il sentiero che tagliava il tappeto di erba smeraldina. Damon prese il suo posto.

«Sei nervoso, Mukuro?»

«Sono triste» ammise lui. «Non riesco a sentirmi felice, anche se sono di nuovo a casa… e non capisco perché.»

«Capisci che manca qualcosa… manca la tua mamma. Tu sai che dovrebbe essere con noi, che avrebbe dovuto guardare tutto il tuo studio nella musica con orgoglio e sostenere il tuo futuro… un futuro che ti è stato tolto da Wing Emperor.»

Mukuro guardò il carillon.

«I miei ricordi devono essere ancora confusi» ribatté allora. «Sono stato nell’Accademia Auris di Wing Emperor da quando mamma è morta… per… gli ultimi sei anni?»

«Sì.»

«Io non ricordo quasi niente di questo tempo…»

«Non rifiutare il dolore, Mukuro! Concentrati su quei ricordi… trasformali in carburante! Recuperali tutti, ora» insistette Damon, e gli strinse il braccio. «Sfogliali come un album… non dimenticarli!»

Mukuro strinse gli occhi ricordando il dolore di un braccio che si rompeva: Wing Emperor lo aveva punito per un linguaggio volgare. Aveva vaghi ricordi di sguardi freddi, di rimproveri, di esercitazioni estenuanti assegnate come punizioni… di una volta che gli aveva strappato la camicia da quanto forte lo aveva scosso. Rabbrividì e si strinse le spalle ricordando un feroce combattimento di “allenamento” in cui era finito con entrambe le gambe fratturate…

«Non dimenticare il dolore. Ti darà la forza e il coraggio quando proverà a ingannarti.»

«Che cosa intendi dire? Come mi può ingannare?»

«Wing Emperor ha imbrogliato tutto il mondo… ha affondato la Charlotte, la nave su cui viaggiava la mamma di ritorno dall’America, per un tornaconto politico. Per far sì che un senatore non potesse tornare al suo seggio e ostacolare una riforma che gli serviva.»

Damon stringeva il suo polso con forza. A Mukuro metteva paura vederlo così, sentiva che qualcosa in lui era come… disarmonico. Una nota stonata in uno spartito familiare e non sapeva spiegarselo.

«Ha ucciso tua madre… e si è preso te, perché sei un Auris forte. Perché eri una pedina potente per la sua scacchiera… vuoi lasciare che sia, Mukuro?»

Lo sguardo deluso che gli lanciò creò nel ragazzo un sentimento a lui sconosciuto: il terrore di deludere un genitore.

«Vuoi davvero… fare finta di niente? Dimenticarlo… lasciando che lui riesca ancora una volta a fingersi un santo? Ora che ha ucciso un ragazzo che voleva parlare dei suoi metodi alla stampa e ha incastrato te, vuoi nasconderti e lasciare che sia?»

Mukuro ritrasse il braccio con uno strattone e si coprì la faccia con le mani. Era troppo confuso, e gli sembrava così irreale che tutto ciò fosse capitato a lui… e che per sfuggire al dolore la sua mente gli nascondesse quasi tutto. Non riusciva a credere di essersi alienato tanto per anni.

«Io… l-lasciami in pace… questo… è troppo per me.»

Seguì il silenzio e Mukuro sentì il dondolo oscillare quando il padre si alzò.

«Tua madre sarebbe dispiaciuta di vedere che suo figlio si fa spezzare dal dolore invece di reagire.»

Damon si allontanò dal dondolo e si guardò la mano, meditabondo. Quando arrivò al portico trovò lì Maddy a fissarlo contrariata.

«Dae» gli fece in un tono che non gli piaceva, «non torturarlo in quel modo!»

«Faccio quello che voglio… e tu hai acconsentito al piano, se ben ricordo.»

«Hai parlato di portare tuo figlio dalla nostra parte, ma questo… questo è un plagio mentale! Lo hai riempito di bugie e –»

«Hai qualcosa da obiettare sui miei metodi?»

«Lui… Dae, è tuo figlio! Perché non gli dici come stanno davvero le cose? Che il sistema è sbagliato perché ci obbliga a combattere o a limitare un dono naturale! Che Wing Emperor supporta questo disequilibrio! È una ragione sufficiente per combattere, e tu cerchi di fargli desiderare una vendetta che non vuole!»

Damon artigliò il collo di Maddy, senza stringere troppo.

«Non ti pago per dirmi cosa fare, né per la tua consulenza… anzi, visto che ne parliamo, perché non fai quello per cui ti ho pagata?» aggiunse lui, e la liberò. «Il ragazzo non è attraente abbastanza per te? Perché sono certo che ci siamo accordati in maniera soddisfacente.»

Lei fece una smorfia.

«Anche questo è sbagliato! Capisco Wing Emperor, ma Mukuro è un ragazzino, e non ha fatto altro che seguire quello che credeva fosse giusto!»

«Se non hai intenzione di adempiere al contratto mi auguro vivamente che tu non abbia già speso i miei soldi… perché li rivoglio tutti.»

Lei restò interdetta, con una smorfia come se si fosse morsa la lingua. Incrociò le braccia e si avviò in giardino verso il dondolo. Damon infilò di nuovo i guanti e sospirò mentre apriva la doppia porta.

«Gestire questi mocciosi è sfiancante.»

 

*

 

Gran riemerse da sottocoperta. Le lampade sul ponte della Grandcypher oscillavano nel vento e facevano danzare ombre sulla mantellina bianca di Lyria e riflessi sulla sua chioma azzurra.

«Lyria… stiamo andando incontro alla tempesta. Vieni giù, Percival ha fatto delle orribili crostatine al cioccolato… sono troppo brutte per perdersele!»

Lyria non rispose con la consueta allegria al suo tentativo di sdrammatizzare.

«Sono preoccupata… sento che qualcosa non va, Gran.»

Gran rimosse metaforicamente la maschera di gioia e si avvicinò a lei. In mezzo a quel vento i loro mantelli sbattevano come le bandiere sui pennoni.

«Che cosa senti, Lyria?»

«Indigo» replicò lei, come lui già immaginava. «La sua aura è… strana. Diversa… è… in disarmonia. Come una canzone soffocata dal segnale di disturbo radio.»

«Indigo…»

Gran rifletté, appoggiando i gomiti all’argano del sistema di sollevamento carichi. Guardando quel ragazzo gli era stato chiaro come cristallo puro che era un giovane destinato a qualcosa di grande e che il suo potere era soltanto il primo germoglio. Aveva visto la scintilla nascosta nel suo occhio destro, un potere ancora immaturo in corso di formazione, come un seme che ha in sé la promessa di un futuro albero.

«La Ruota ha sempre preso tra i suoi raggi soprattutto giovani con il potenziale per essere dei Principi… ma questa volta… non credo che si tratti di lui. Tu che cosa ne pensi?»

Lyria scosse la testa.

«Non è la Ruota a muovere questo cielo. Lo so che non è lui.»

«Troppo pianificato, vero? La Ruota accende le braci, ma di solito lascia che la carne al fuoco ci si butti da sola.»

«Sa quello che fa. Non ha bisogno di forzare… conosce le anime» fece Lyria, e lo guardò con un sorriso accennato. «Più che una scacchiera, la sua sembra un tavolo da biliardo. Dà il colpo iniziale e sta a guardare dove rimbalzano.»

Il sopracciglio di Gran ebbe una contrazione tradendo un fastidio che non riuscì a soffocare.

«Certo hai una bella considerazione di uno che sul suo tavolo ti ha fatta morire.»

«Non avrei voluto una partita diversa da questa!» esclamò lei, con un tono spensierato, come se commentasse il posto perfetto per un picnic. «Abbiamo vissuto tutte le avventure che abbiamo mai immaginato… e anche di più! Continuiamo a incontrare persone fantastiche, e ad aiutare gli altri! Io non avrei voluto una vita diversa!»

Il capitano invece avrebbe voluto una vita diversa: una in cui non aveva ucciso una delle più dolci persone al mondo e le aveva permesso di continuare il suo ciclo. Una in cui anche lui aveva continuato il ciclo e sarebbe finito, oggi, a dividere con Percival una passeggiata verso la vecchiaia.

Contenne l’emozione suscitata dai suoi pensieri dando una carezza sulla testa a Lyria, poi lanciò uno sguardo verso il fronte temporalesco che scaricava fulmini in lontananza.

«Che cosa vuoi fare, Lyria?»

«Uh? Io?»

«So che Indigo ti piace…»

«Uhm… sì, è una brava persona… tratta i bambini con tanta tenerezza, e ha quel piccolo vuoto perché non conosce la sua famiglia… come me, quando ero piccola» rispose lei, senza incrociare lo sguardo della sua metà. «E… e poi…»

Gran ghignò.

«Scrive delle belle canzoni» completò per lei.

Lyria mugugnò qualcosa con una vocina da topolino, poi lanciò un gridolino.

«No expiration date for love è la canzone più bella mai scritta da duemila anni!» piagnucolò lei, stringendosi le mani al petto.

«Ma che ne sai? Non sei così vecchia.»

«Non fare il bullo! Percival mi ha detto di dirgli se fai il bullo con me, sai?»

Gran rise.

«Non mi stupisce… chi altro su questa nave userebbe la parola bullo, se non lui?»

Lyria gli afferrò il braccio. La sua espressione era tornata afflitta.

«Per favore, Gran… non è un piano della Ruota, ma si incrocerà con lui e Indigo potrebbe restare nel mezzo… andiamo a salvarlo, ti prego!»

Gran guardò gli occhi di Lyria, che raramente si erano riempiti di tanta compassione al di fuori delle zone di guerra e massima povertà dei popoli. Puntare dritto alla Ruota significava restare coinvolti nella partita, con tutti i rischi che comportava… ma su una cosa la sua metà femminile aveva ragione: Indigo era una brava persona e gli stava capitando qualcosa di brutto, e loro avevano giurato di non voltarsi mai dall’altra parte se davanti ai loro occhi fossero gravate sventure sui poveri, i deboli e i giusti.

«Facciamo rotta per il Giappone. È là che questa bolla di elettricità statica scaricherà il fulmine» commentò Gran, spingendo Lyria verso coperta. «Io però preferisco Loveless

Non fecero in tempo a mettersi al riparo dal vento che Lyria stava già cantando, stonata come sempre.

 

*

 

Mukuro camminava lungo i muri, passando da una zona d’ombra all’altra. Portava con sé un bizzarro oggetto, stretto tra le mani come un amuleto sacro: un barattolo senza coperchio riempito di acqua sulla quale galleggiava un piccolo loto rosa che pulsava di un luce delicata.

Raggiunse l’ingresso laterale – uno dei sette riservati allo scarico merci – e accelerò il passo sentendosi il cuore in gola. Aveva l’impressione di doverla superare di corsa, ma si ripeté nella mente che non serviva. Stringendo il suo barattolo sfilò davanti alla guardiola come invisibile ai tre addetti alla sicurezza.

Possibile che non ci sia nessun tipo di allarme…? Non sembra affatto come la ricordavo…

Trovò un angolino dietro un magazzino in cui era protetto da sguardi indiscreti e posò con cura il suo fiore per terra, poi prese da una tasca interna una pagina di rivista che Maddy gli aveva dato due giorni prima e la dispiegò. Guardò di nuovo il primo piano di Mad Phoenix, immortalato da un giornalista dopo un’azione quando aveva appena rimosso la maschera rossa e oro che portava. Aveva gli occhi di un grigio chiaro, come di un giorno di pioggia, e a Mukuro mettevano la stessa malinconia. Non sapeva spiegarsi perché.

Sussultò quando il telefono vibrò contro il suo torace e frugò per prenderlo. Non era suo padre a chiamarlo e questo lo tranquillizzò.

«Che c’è?» rispose in un sussurro.

«Sei già dentro?» sussurrò di rimando la voce di Maddy.

«Perché sussurri? Sono io quello che deve far piano.»

«Anche io» ribatté lei. «Tuo padre pensa che sei qui con me! Allora, sei entrato?»

«Sì, sì» fece lui impaziente. «Non mi ha visto nessuno… credo di ricordare questo posto. Penso di sapere dove mi trovo ora.»

«Allora vai, non perdere tempo. Ricordati che tuo padre vuole che tu parli ai Liberatori prima della battaglia, quindi se ritorni fallo prima dell’alba.»

Maddy chiuse la chiamata prima che Mukuro le potesse chiedere cosa intendesse con quel “se ritorni” che a lui sembrava minaccioso. Scrollò le spalle, intascò il telefono e la pagina – dopo averle dato un’altra occhiata – e raccolse il suo fiore per rimettersi in moto.

Anche se conservava ricordi vaghi e in gran parte sconnessi dei suoi anni nella scuola Mukuro si muoveva come se la conoscesse bene e questo gli diede un po’ più fiducia. Riconobbe alcuni dei campi e passando accanto a uno di essi rimase in allarme, come se si aspettasse un attacco proveniente da lì. Non conservava alcun ricordo particolare di quella strada, ma gli sembrava che il suo corpo avesse una sua memoria separata.

La mente ha molti segreti… la mia in particolare.

Si fermò davanti a una casetta a due piani lungo una delle strade residenziali all’interno dell’Accademia. Non c’era alcuna scritta sul campanello e nient’altro che il lampeggiare di un televisore acceso al pianterreno. Non era il dormitorio e Mukuro si accorse solo in quel momento che non aveva senso cercare Mad Phoenix nel dormitorio degli studenti, dato che si era diplomato.

Ma cosa sono venuto a fare qui, allora? E questa casa…

Guardava continuamente la stanza con le tendine a triangoli e gli sembrava strano che non ci fosse una luce accesa. Il corpo prese il controllo e scavalcò il cancello con un balzo, poi raggiunse la porta. Senza esitazione ficcò la mano nei piccoli vasi squadrati fissati alla parete finché non trovò la chiave infilata nella ghiaia di una pianta.

Sapevo che c’era una chiave in un vaso… ma non ricordo di essere mai stato qui!

Mukuro sentiva crescere quella musica dissonante, quelle note stonate che gli facevano credere che fosse finita una pagina diversa in mezzo a uno spartito. Infilò la chiave e girò piano per non fare rumore, poi entrò.

La casa era profumata di bucato e ne scovò la fonte notando una cesta di panni ripiegati su una sedia della cucina. Quell’odore gli era così familiare, gli ispirava una sensazione di nostalgia che avrebbe d’istinto attribuito a sua madre, ma quando affondò il viso in una maglietta a venirgli in mente fu un’immagine di Mad Phoenix. La maglietta che stava annusando era sua, ne era sicuro.

Alle sue spalle la televisione trasmetteva un film a volume molto basso, con due uomini che discutevano di un tesoro. Con circospezione Mukuro posò il barattolo sul tavolo, abbandonò la maglietta e in punta di piedi raggiunse la zona di destra, il soggiorno.

Mad Phoenix era raggomitolato sul divano, sotto una copertina bianca, e dormiva. Sembrava averne bisogno, perché anche nella bassa illuminazione aveva l’aria di aver riposato poco e male per giorni.

Ha i capelli corti…

Sfidando ogni logica strategica Mukuro tese la mano per sfiorargli i capelli: erano più corti, stavano spettinati in tante ciocchette ribelli al contrario del taglio da scolaretto disciplinato che aveva nella foto e nei suoi ricordi. Accorgersi di stare sorridendo lasciò una sensazione di profonda confusione dentro Mukuro.

Questo… non ha senso. Lo conosco, ma era il mio partner di combattimento… e neanche il solo. Era… se non era altro, perché mi fa questo effetto?

Animato da nuove risoluzioni salì le scale più veloce che poteva limitando il rumore e raggiunse il piano di sopra. Andò alla stanza con la finestra che dava sul davanti e vide che era la stanza per un bambino, ma era vuota. L’altra stanza aveva un letto matrimoniale. Trovò poi un bagno con due spazzolini per adulti e uno per un bambino dentro il bicchiere sul lavandino, mentre la quarta porta era uno studio, con libreria, telefono, scrivania e due sedie.

È la casa di una famiglia? Chi… chi vive qui? Mad Phoenix…

Cominciava ad avere un’idea del motivo per cui Maddy era stata così insistente nel convincerlo a vedere Mad Phoenix prima del grande giorno. In cerca di conferme accese la luce sulla scrivania e prese a frugare: trovò stampe di e-mail di appuntamenti, nomi e numeri in liste non meglio definite, ricevute di spese, alcune lettere fascicolate con delle graffette. Le prese e iniziò a scorrerle.

Una donna che si firmava Momo aveva scritto a lui, Mukuro, chiedendogli che cosa avrebbe fatto con la musica e gli raccomandava prudenza. Nella seconda esprimeva una grande stima per il coraggio e la devozione alla causa, e gli chiedeva notizie di “Ran”. Nella terza sollecitava una risposta e gli rinnovava l’invito alla prudenza, parlando di un “periodo burrascoso”. La quarta gli chiedeva di passare alla casa-famiglia non appena avesse potuto, perché voleva consegnargli qualcosa di prezioso e non si fidava a farlo via posta.

«Momo… chi è Momo?»

All’improvviso l’ostilità neanche tanto mascherata di Maddy nei confronti di suo padre iniziava ad avere un senso. Con l’uso di una parola anziché un’altra, di un tono invece di un altro, Maddy gli aveva suggerito di non fidarsi di tutto quello che diceva suo padre e cominciava a capire che riguardava i suoi ricordi: suo padre non faceva che dare spiegazioni per instradare i brandelli di memoria che aveva, giustificava con traumi ed effetti collaterali i suoi vuoti di memoria, ma quelle lettere erano la prima prova concreta che ci fosse qualcosa di celato in quei vuoti.

Abbassò le carte e frugò distrattamente nei cassetti, rinvenendo per lo più scatole di fermagli, punti per spillatrice, monetine, caramelle imbustate singole e, in fondo a uno molto scomodo da aprire da seduti, una scatola di preservativi aperta. Non vi fece quasi caso e chiuse il cassetto con la punta della scarpa.

Però, io ricordo bene la mamma. Ricordo i primi anni della mia vita piuttosto bene…

Il rumore di una cerniera contro il legno gli ricordò che non era da solo in quella casa e i passi di Mad Phoenix risalivano le scale. Si alzò dalla sedia e tese la mano a vuoto prima di ricordare di aver lasciato il barattolo di sotto in cucina.

Scattò appiattendosi dietro la porta, infilò la mano nella giacca stringendo la siringa come il manico di un coltello e rallentò il respiro.

«Mh?»

Phoenix entrò nello studio stropicciandosi gli occhi. Mugugnò qualcosa sulla luce accesa e si chinò per spegnere la lampada, ma si fermò. Mukuro si sporse un po’ e vide che guardava le lettere che aveva sfogliato: non le aveva rimesse insieme e le aveva lasciate in un altro punto della scrivania.

«Cosa… non…»

Phoenix le sfogliò, ma tirò un sospiro di sollievo.

«Ci sono tutte… Bel è di nuovo venuto qui a cercare le forbici…?»

Mukuro si chiese con un po’ di nervosismo se non si sarebbe seduto a rileggerle, perché in quel caso l’avrebbe visto annidato dietro la porta. Senza il suo loto rosa non era in grado di nascondersi alla vista né di ingannarlo con un suono che lo allontanasse o lo distraesse rendendolo vulnerabile. Lo scontro di forza sarebbe stato inevitabile.

Phoenix sospirò ancora, stavolta con una gravità diversa, e ripiegò con cura le lettere. Girò intorno alla scrivania e sedette sulla poltrona girevole, ma aveva gli occhi puntati sul marasma che ingombrava il primo cassetto e ne tirò fuori un quaderno che sfogliò come un antico libro di pergamena. Aveva un sorriso triste e dolce.

«Dove sei sparito, Indi…? La tua canzone non è finita…»

Serrò gli occhi e strinse il quaderno contro il petto. Per un momento Mukuro pensò soffrisse di un malore, ma poi capì che cercava di trattenere il pianto. Respirò a fondo e si strofinò gli occhi.

Prima ancora di accorgersene Mukuro aveva lasciato la presa sulla siringa e aveva spinto la porta per uscire dal suo angolino. Non aveva ancora idea di come gestire il cambio di piani, né il loro incontro, né che cosa avrebbe o non avrebbe dovuto dirgli.

Alla vista di una figura sulla porta Phoenix saltò via dalla sedia, ma poi restò immobile con il quaderno stretto al petto e gli occhi grigi resi lucidi dalla commozione spalancati su di lui. Per diversi secondi restarono in surreali silenzio e immobilità, come una scena bloccata sul mangianastri.

«I… Indi» balbettò alla fine Phoenix. «Che cosa… come…»

Si pizzicò la guancia con una ferocia che fece storcere la bocca a Mukuro, ma ovviamente lo vedeva ancora.

«Sei… sei vero?»

«Se non siamo addormentati nello stesso sogno, direi di sì.»

Kyoya tacque, stavolta per un attimo appena, prima di lanciarsi contro di lui e strizzarlo in un abbraccio che gli bloccò il respiro. Mukuro fece un fiacco tentativo di liberarsi da quella che avrebbe dovuto essere una situazione imbarazzante, ma nel profondo di sé sentiva solo una sensazione di familiarità. Era a suo agio – nonostante tutto – come fosse il suo posto, e quella fosse la sua persona.

«Dove sei stato, Indi…? Eravamo tutti in pensiero, io… ho avuto così paura che ti fosse successo qualcosa di terribile» gli raccontò con la voce gonfia di emozione, soffocata in parte dalla sua giacca. «Ho dovuto mandare Bel a stare con Byakuran e Amber, io… non riuscivo a badare a lui. Mi diceva che ero strano…»

Ma di che cosa sta parlando…? Di chi sta parlando?

Strinse Phoenix a sé per istinto, senza capire perché tra di loro ci fosse una tale intimità senza che ricordasse qualcosa di speciale.

«Che cos’è successo con Viperlance, Indi? Ti ha attaccato?»

Phoenix gli sfiorò il volto con delicatezza, un gesto che gli sembrò strano anche da parte di un amico. Confuso da emozioni che contrastavano coi pensieri e con il sospetto che suo padre gli nascondesse qualcosa Mukuro prese la mano di Phoenix abbassandola.

«Che cosa sono io per te?»

Se gli era parso che fosse in ansia mentre gli faceva domande, quello doveva essere il panico di Mad Phoenix.

«C-che cosa vuoi dire con questo? Non penserai che delle accuse false abbiano cambiato anche solo una virgola!»

Mukuro digrignò i denti. Non sarebbe riuscito ad avere delle risposte chiare se non avesse agito con più circospezione… ma non ricordava niente del ragazzo che aveva davanti, come poteva ingannarlo? Prese una decisione pericolosa, ma non sarebbe riuscito a combattere se non avesse chiarito i suoi dubbi. Infilò la mano nella giacca e gli mostrò la pagina della rivista. Phoenix la prese e la guardò come se non si riconoscesse.

«Mad Phoenix. Io so di avere studiato qui, con la tua classe S, ma… non ricordo quasi niente ora» concluse con tono meno altero davanti all’espressione di Phoenix. «Non… non so che cosa siamo… non so perché piangi perché non sono qui.»

Gli occhi di Phoenix divennero di nuovo lucidi e Mukuro venne stretto in un altro abbraccio, forte e delicato. Inspiegabilmente lui tendeva un incerto sorriso mentre gli scendevano le lacrime.

«È per questo che non sei tornato? È tutto okay, Indi… sei a casa adesso… questa è casa nostra. Tua, e mia. Abbiamo preso un alloggio qui quando siamo entrati nel Coordinamento entrambi…»

L’espressione ostile di Mukuro portò Phoenix ad allontanarsi di un passo e incrinò il suo sorriso.

«Non te lo ricordi proprio per niente? Questo è il tuo studio… hai passato un bel po’ di tempo qui a rivedere numeri e nominativi negli ultimi mesi…»

«Stai… dicendo che noi viviamo qui?» domandò Mukuro, con uno strascico di incredulità nella voce. «Che… tu e io… viviamo qui? Come… come una coppia?»

«Sì, Indi… stiamo insieme… non ti ricordi quando sono tornato dall’ospedale, dopo la faccenda di Hell Cat?»

«Eri in ospedale?» domandò ancora, non ricordando altro che le accuse a seguito di quella faccenda.

«E di Komagashi? Ti ricordi quando siamo andati a Komagashi?»

«C-cos’è successo a Komagashi?»

Iniziava a provare paura sotto quella pioggia di momenti e giorni che avrebbe dovuto ricordare. Si chiese se l’UTX non avesse cancellato completamente alcuni pezzi della sua vita recente e che suo padre non volesse dirglielo per non farlo soffrire per quelle lacune.

O per non farmi cercare quello che ho perso.

«E di Bel…? Di Bel ti ricordi?»

Mukuro cercò con gli occhi nella stanza qualche indizio, come uno scolaretto impreparato all’interrogazione. Phoenix sospirò e strinse la sua mano.

«Non ricordi neanche la spiaggia? La nostra vacanza alle Maldive la prima estate… mi hai detto una cosa sulla spiaggia, una sera. Niente?»

Nel silenzio che seguì si sentì orribilmente colpevole. Come si era sentito quando non ricordava la sua stanza, la sua mamma, e suo padre era così deluso. Ma la delusione di Phoenix era piena di compassione, non di freddezza come se gli avesse voluto fare un torto.

Pian piano, Phoenix iniziò a canticchiare un motivo senza parole. Inizialmente si chiese che cosa stesse cercando di fare, poi capì che gli era familiare come il carillon di sua madre. Provò il desiderio di ballare su quel motivo e in maniera lieve aveva oscillato sui piedi, strappando a Kyoya un sorriso.

«L’abbiamo ascoltata a una festa… e tu l’hai canticchiata tutta la sera. Hai ballato per ore su questa musica… è tutto lì. È ancora tutto lì, non hai perso la memoria…»

Phoenix si avvicinò e gli diede un bacio sul viso che lo fece irrigidire.

«Passerà tutto… tornerai come prima. Troveremo qualcuno che ti aiuterà a ricordare, e per Viperlance… non ti preoccupare. Non è successo niente con Hell Cat, non sarai incriminato per questo…»

Solo l’incessante ripetizione delle parole di suo padre – parole di secca e perentoria condanna – lo trattennero abbastanza da permettere a Phoenix di dire tante parole di consolazione in fila, ma non riuscirono a trattenere il flusso, come uno strato di ghiaccio non congela il movimento nel profondo del fiume: baciò Phoenix mosso da una pulsione disperata e seppe, dal modo in cui lo fece, che non era la prima volta.

Phoenix rimase allibito da quella reazione.

«I-Indi… sei… sicuro di non ricordarti niente?» gli chiese, incerto. «O… avevi questa voglia di baciarmi anche la prima volta che mi hai visto?»

«Non ricordo la prima volta che ti ho visto.»

Lo baciò di nuovo e stavolta non incontrò resistenza. Fu sicuro di conoscere quella sensazione, quell’odore, quella precisa forma sotto le sue mani, e gli fu finalmente chiaro come mai Maddy gli avesse detto di andare e gli avesse dato una fiala di UTX da portare con sé.

Si staccò soltanto per sfilargli la maglietta di dosso e nel mentre lui provò a chiedergli se davvero se la sentisse, ma lo tacitò a metà frase. Infilò le dita sotto l’elastico dei pantaloni della tuta per abbassarli, ma Phoenix lo bloccò dai polsi.

«Mukuro, aspetta… lui… qualcuno sa che sei tornato? C’è un mandato di cattura su di te, e–»

Senza lasciargli finire la domanda incollò la bocca alla sua e Phoenix rinunciò finalmente al buonsenso. Si lasciò prendere in braccio e portare alla camera da letto, senza una sillaba di protesta né un pallido tentativo di resistenza finché non provò a scendere con le mani sui suoi fianchi.

«Aspetta» gli fece con il respiro leggermente affannoso. «Vuoi che faccia la solita cosa? Ti piace da morire, è quella che mi chiedi sempre… magari potresti ricordarlo.»

Non aveva un’idea di quale fosse “la solita cosa”, ma non poteva perdere altro tempo. Gli diede un buffetto sotto il mento.

«Oggi sarà un po’ diverso. Chiudi gli occhi e lasciami un minutino.»

«Oh, spero un po’ di più di un minutino… non fare il taccagno, Indi. Dopo questo brutto scherzo non te la caverai con poco.»

Mukuro lo guardò mentre stava lì con gli occhi chiusi. Gli accarezzò la coscia sinistra lentamente.

«Kyoya, tu mi vorresti anche se non ricordassi più quello che è successo?»

«Ti vorrò sempre… anche se dovessi ripeterti tutto, ogni giorno. Sei la mia persona.»

Quelle parole graffiarono il buio di uno di quei buchi della memoria. Non ricordava dove o in quale condizione, ma soffriva terribilmente e quella frase, quella piccola frase quasi insensata lo aveva sostenuto contro il dolore e la disperazione.

Mukuro deglutì il nodo di commozione che aveva in gola e tirò fuori la siringa dal liquido verde brillante, spingendo fuori l’ago con il pollice. In un gesto fulmineo e deciso la piantò nella coscia di Kyoya affondando lo stantuffo mentre lui emetteva un gemito dolorante.

Neanche davanti a quel comportamento Kyoya riuscì a essere aggressivo contro di lui: si strinse la gamba sopra il punto di iniezione e lo guardò troppo sconvolto per riuscire ad articolare una domanda o un insulto.

«Perdonami, Kyoya» fece Mukuro con un filo di voce. «Lo sto facendo per te.»

«C-che… che cos’è…?»

«L’UTX è sgradevole, lo so… credimi, lo so bene.»

Mukuro si asciugò la guancia, dove una sola lacrima era appena scivolata via.

«La dose che ti ho dato dovrebbe metterti fuori uso per un paio di giorni… per allora sarà tutto finito.»

Kyoya deglutì rumorosamente e annaspò con la mano, ma non riuscì a dire nulla o a stringere il suo braccio. I suoi occhi sembravano terrorizzati mentre lo guardava.

Gli accarezzò il viso prima di baciargli la fronte.

«Lo so… senti tutto intorpidito, come se diventasse sabbia e si sgretolasse. Ma durerà poco, lo prometto… dopo ti sentirai solo molto debole. Non sarai in grado di usare la tua forza per un giorno o due, ma non avrà nessun effetto a lungo termine…»

«Che cosa stai… architettando?»

Gli arti di Phoenix diventarono molli, cadendo in angolature innaturali. Con molta cura lo distese sul letto e lo rivestì.

«Ascoltami bene, Kyoya… perché non avrò tempo di ripeterlo» esordì allora, con la sensazione che il cuore gli battesse fino in gola. «Ci sarà una rivolta mai vista prima… qualcosa di enorme, su scala nazionale. I Liberatori insorgeranno in tutte le grandi città domani mattina.»

Phoenix lo fissava a occhi sgranati, impallidito.

«Loro… sono contro il sistema che impone agli Auris di essere identificati come tali prima di ottenere un lavoro, una carica pubblica… un sistema che gli impone di usare delle doti naturali per il bene comune oppure per niente. Questo è sbagliato.»

Più che spiegare, Mukuro cercava di mettere ordine nelle proprie idee.

«Wing Emperor sostiene questo sistema… e lo difende. I Liberatori vogliono che sia… un mondo libero… e il loro capo vuole Emperor distrutto. Per vendetta contro le vittime della Charlotte.»

«T-ti prego… Indi, no… non capisci? Senza delle regole sarebbe l’anarchia… utilizzatori di poteri sconosciuti che possono usarli per commettere crimini e infrazioni…»

«Sì» fece dopo un breve silenzio. «Ed è… ovvio… ed è l’esca.»

All’improvviso era tutto molto più chiaro. Doveva correre al nascondiglio immediatamente.

«È come fare disegni con le tessere… si mette tutto nel punto giusto, e poi…»

Mimò con le dita il colpo iniziale alla pedina, con lo sguardo perso nel vuoto tra la porta e l’armadio.

«Ha fatto cadere la prima, Zakuro… e tutto si è mosso secondo lo schema. E come nel gioco, tutto diventa chiaro solo quando si avvicina la fine…»

«Mukuro… di che cosa parli…? Che cos’è successo… dove sei stato? Con chi hai parlato?»

«No… non è Zakuro» si corresse, e guardò Kyoya con un brivido lungo la schiena. «Io. Ero io la prima pedina… Zakuro mi ha preso non per caso… il Kraken… il bambino… da quanto tempo ci sta posizionando?»

«Mukuro» sbottò Kyoya con la voce resa impastata dal medicinale, «di che cosa stai parlando? Chi?»

Mukuro si raddrizzò e corse alla porta, fermandovisi con grande sforzo.

«Perdonami, Kyoya! Quando sarà finito tornerò, ma resta poco tempo prima dell’attacco! Devo spostare altre pedine per bloccare il suo disegno!»

«Aspetta... Mukuro, aspetta!»

Kyoya riuscì solo a muovere il corpo in uno scomposto sussulto e non poté fare altro che guardarlo uscire dalla stanza e scomparire nel corridoio buio.

Mukuro, con la mente ancora ingombra di pensieri che andavano dalla ricostruzione di fantasia su un’incantevole spiaggia alla frenesia di correre a riparare a un tremendo errore, attraversò nell’oscurità la casa, prese il suo barattolo e corse fuori mentre un nuovo fiore sbocciava sull’acqua.

Eluse la sorveglianza anche all’uscita e abbassò fatalmente la guardia: una mano gli afferrò il polso facendogli cadere il bicchiere e un’altra affondò le dita sul suo volto sbattendolo contro il muro. Con un solo occhio vide la ferocia dipinta sul viso che assomigliava al suo, mentre la pupilla destra brillava di un blu opalescente.

«Tu e quella stupida mocciosa pensavate di poter giocare contro le mie regole, vero?» gli ringhiò contro. «Siete di duemila anni troppo giovani per poter pensare di fare i giocatori invece delle pedine!»

Il barattolo di fiore di loto, le lettere di Momo, la stanzetta, l’intimità con Phoenix e la vera natura della Liberazione: finì tutto in una nebbia torbida come stralci di un sogno dimenticato al risveglio e quando Damon gli tolse le mani di dosso non ricordava altro che di essere davanti a suo padre.

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Capitolo 33
*** Hero's essence ***


«Che cosa fa lui qui?»

Byakuran si accigliò guardando Phoenix sdraiato sul letto dell’infermeria scrutare torvo Lucifer, che dal canto suo non capiva quel tono ostile.

«Sei stato steso dall’UTX e Lucifer lo conosce bene, ecco perché è qui» tagliò corto. «Possiamo tornare alla questione importante? Hai detto a Scorpion che hai visto Mukuro e hai parlato di una rivolta…»

«Mukuro mi ha detto che i Liberatori hanno un piano su vasta scala! Su un livello nazionale, l’ho detto cento volte a tutti e nessuno mi crede!» sbottò Phoenix. «Mi ha fatto l’iniezione perché non potessi andare a combattere, per paura che mi succeda qualcosa!»

«Deve aspettarsi un combattimento serrato, se teme per la tua incolumità» osservò Lucifer in tono calmo. «Ma come lo ha saputo?»

«Non lo so… non me ne ha parlato chiaramente, ha parlato di un piano… non lo so, un piano dietro tutti gli avvenimenti degli ultimi tempi. Non ha fatto nessun nome, a parte quello di Zakuro… ha detto che era la prima pedina, ma poi ha detto che lui, Mukuro, era la prima pedina. Era molto agitato.»

Lucifer sobbalzò quando Phoenix si girò di scatto verso di lui, con un brusco movimento del braccio che stava tastando alla ricerca di una vena.

«E tu, vuoi spicciarti a darmi qualcosa?! Potrebbe succedere da un momento all’altro e io devo andare a prendere Mukuro!»

«Non c’è niente che ti possa dare che abbia effetto in pochi minuti… neanche in poche ore, in realtà» lo smontò lui riprendendo il braccio. «Se davvero succederà qualcosa dovrai fidarti dei tuoi colleghi. Non potrai essere lì.»

«La caffeina funziona bene per smaltire l’Orosoppressore a rilascio lento» osservò Scorpion Kiss, seduta alla sua scrivania poco lontana.

«Senza dubbio. Ma l’estratto di caffeina necessario per smaltire questo quantitativo della formulazione forte è sui diciotto grammi, ed è una dose che ucciderebbe un uomo adulto con un’alta probabilità… così alta che non la consiglierei se non in caso di pericolo di morte inevitabile e immediata.»

«Scorpion, puoi farmi avere una siringa con la dose giusta di caffeina?»

Byakuran guardò il suo ex allievo, sbalordito e infastidito.

«Hai ascoltato mezza parola di Lucifer o no?»

«Tutte. Ora posso avere quella siringa?»

«Ovviamente no!»

La discussione tra i due sarebbe esplosa se solo il volume della televisione di Scorpion non si fosse alzato a dismisura. Non ci fu bisogno di chiedere perché: un giornalista dal tono agitato annunciava l’attacco di Liberatori nella città di Mito. La ripresa aerea lasciò il posto a un video amatoriale commentato da un altro giornalista, che li informò dello scoppio di una rivolta armata ad Hakodate.

Nel giro di pochi minuti le città colpite da un movimento coordinato di Liberatori includevano Hiroshima, Nagoya, Sapporo, Kanazawa e Tokyo. Byakuran tenne il cellulare in mano; si aspettava la chiamata dal Coordinamento da lì a pochi secondi e già si chiedeva come avrebbe fatto a dislocare i guaritori e i Civil Heroes in modo strategico davanti a così tanti focolai. La strategia del nemico sembrava puntare sul dividere le forze che li avevano schiacciati nettamente nel loro primo tentativo nella capitale.

«Ora posso avere quella maledetta caffeina?!»

Phoenix aveva l’aria sofferente solo a tenersi dritto a sedere, ma il suo sguardo non era affatto indebolito, anzi: era più feroce e determinato che mai, pari a quello di un animale selvatico pronto a combattere per il suo territorio.

«Assolutamente no, Phoenix» replicò Lucifer, con un tono autorevole ma calmo che gli invidiava molto. «Se te la iniettassi moriresti. Ti causerebbe un infarto per fibrillazione ventricolare. Non servirai a nessuno da morto, né oggi né la settimana prossima.»

«Chiariamo subito una cosa» fece lui minacciando un’esplosione di furia a ogni parola. «Non ho la minima intenzione di aspettare qui mentre il Giappone è a ferro e fuoco e Mukuro è nel mezzo di questa tempesta, perciò voglio quella siringa, e la voglio adesso

«Non posso dartela. Nessun medico che abbia un’etica potrebbe accettare di dartela.»

«Dammi quella siringa di caffeina, Scorpion, o andrò sul campo di battaglia senza la minima speranza di sopravviverci!»

«Quell’iniezione non farà altro che ucciderti subito, Phoenix. Cerca di ragionare freddamente.»

«No. Lui ha detto alta percentuale, non certezza. Vuol dire che si potrebbe anche sopravvivere.»

«Onestamente se qualcuno sopravvive a quel dosaggio dev’essere più un miracolo che un–»

«Io credo nei miracoli! Ho incontrato Mad Horse, sono diventato un Civil Hero, ho conosciuto Mukuro! La mia vita è piena di miracoli!» ribatté alterato Phoenix, e allungò la mano tremante. «Voglio quella siringa. Non lo dirò di nuovo.»

Nel silenzio che seguì solo Byakuran poté udire una voce maschile ridacchiare.

«Ne ha del fegato, il ragazzino… non è divertente, questa ossessione che chiamate “amore”?»

Scorpion lasciò uscire un sospiro e andò all’armadietto blindato, armeggiando con la rotella della combinazione.

«Posso farlo, ma te la darò solo se giuri che la userai solo e soltanto se sarai in pericolo mortale e nessun altro può venire in tuo aiuto… solo davanti alla morte certa, lo giuri?»

«Scorpion Kiss, non sono sicuro che dovrebbe farlo» obiettò Lucifer.

«Lo giuro» fece Kyoya, parlandogli sopra per metà.

Scorpion prese una tessera contenuta nell’armadietto e lo richiuse prima di uscire, diretta al laboratorio dei veleni al piano di sopra. Lucifer aveva le sopracciglia arcuate ma taceva la sua preoccupazione, e Byakuran fece un ultimo tentativo.

«Mad Phoenix, a questo punto sono costretto a ricordarti che ignorando i miei ordini commetti reato di insubordinazione. I Civil Heroes, come ben sai, a dispetto del loro nome sono soldati con una precisa catena di comando… e io ne sono ancora al vertice.»

«A questo punto sono costretto a ricordarti che seguirò il mio cuore quando si tratta di qualcuno che amo. Oggi e ogni giorno della mia vita» tagliò corto Phoenix, forzando le gambe a piegarsi per mettere i piedi a terra. «Se davvero non capisci perché mi comporto così fammi imprigionare per insubordinazione, Wing Emperor.»

«Allora… lo capisci, Ran? Tollererai la sua testardaggine oppure è inaccettabile per te?»

Non rispose alla voce maschile nella testa mentre guardava le immagini di devastazione nelle grandi città del paese.

 

*

 

Byakuran fissava il pavimento liscio del modulo di contenimento – simile a un grosso container per spedizioni – ormai da diversi minuti accarezzando distrattamente le piume soffici della Fallen Angel. Ripensando a quanta convinzione aveva nella voce Kikyo quando aveva detto che quella volta era la sua occasione di proteggerlo non poteva che chiedersi come potessero essere amici da sempre ed entrambi credere che l’altro fosse stato quello che proteggeva e sentirsi parimenti in debito.

«Se volessi essere un amico sincero dovresti anche dirgli il vero motivo per cui non mi hai lasciato in quella boscaglia e sei venuto a cercarmi.»

Byakuran si riscosse dai suoi pensieri e guardò la lama.

«E sarebbe?»

«Guardati dentro con onestà, Ran, e dimmelo tu perché sei venuto. Io lo so, ma lo devi vedere da te.»

«Non voglio una guida spirituale e se la volessi non saresti tu.»

«Beh, dobbiamo pur fare qualcosa mentre aspettiamo, no? Abbiamo tutto il tempo per spingerci bene a fondo dentro di te~» disse la voce maschile prima di ridacchiare. «Su, chiudi gli occhi. Respira. È come fare yoga, ma non fermarti ai muscoli… penetra più a fondo.»

Anche se l’istinto gli diceva di non assecondarlo, Byakuran chiuse gli occhi e cercò di focalizzarsi sul respiro. Abituato alla pratica dello yoga ci mise pochi secondi a centrarsi e a liberare la mente allontanando i burrascosi pensieri su ciò che accadeva fuori.

«Bene, ottimo… torniamo a quel giorno, vuoi? Quel giorno di ottobre… era freddo su quella montagna, lo ricordi?»

Lo ricordava. Ricordava perfettamente il freddo sulla pelle, il naso quasi non lo sentiva più mentre correva nella boscaglia cercando di sfuggire allo squadrone militare che partecipava a quell’esercitazione.

Esercitazione? Era niente di più che una caccia alla volpe per la sua bella pelliccia; lo scopo di quegli uomini era spezzare due Auris arroganti come lui e Kikyo, che qualche scellerato al comando voleva mettere nelle loro squadre speciali, neanche fossero loro pari.

«Erano tanti. Almeno venti dietro di te… correvi a perdifiato e avevi paura di voltarti e scoprire che erano vicini… così tanta paura non l’hai mai provata, né prima né dopo di allora.»

«È vero» ammise lui.

«E poi… cos’è successo?»

«Lo sai cos’è successo.»

«Mh mh, lo so. Raccontamelo.»

Byakuran sospirò, senza capire dove volesse andare a parare con quel gioco, ma decise comunque di assecondarlo.

«Ho continuato a correre fino a uscire dal bosco… e sono caduto in una buca. Una trappola.» raccontò a voce bassa, come una storia di fantasmi intorno al falò. «Mi sono rotto la gamba, ma non avevo più energia per curare all’istante un danno come quello… dopo tre giorni di inseguimento era solo la paura che mi faceva muovere.»

«Mh, e poi?»

«Mi hanno raggiunto… si sono messi in cerchio intorno a me. Come i lupi.»

Byakuran deglutì, incapace di continuare, ma nella sua mente il proiettore era ancora in funzione: si rivide al centro di quel cerchio sacrificale, rivide i flash sconnessi dei colpi che subì, momenti di buio a seguito di colpi violenti, insulti e torture inflitte tra incitamenti e risate di scherno. Ai tempi in cui gli Auris erano trattati peggio di ratti infetti era normale tormentarli, abusarli, ferirli. Persino ucciderli.

Nel presente come nel suo ricordo Byakuran strinse con forza il manico della Fallen Angel. Di quello che accadde dopo non c’era quasi alcuna traccia: sapeva di aver gridato forte, di rabbia e di dolore, e quando Kikyo l’aveva svegliato scuotendolo aveva scoperto che tutti i soldati giacevano senza vita con orrendi squarci sul corpo e membra tagliate di netto, presumibilmente dalla sua falce.

Non era stato creduto dall’amico quando gli aveva detto che era stata lei – l’arma – a farlo, ma lui non aveva mai potuto sentire la Fallen Angel parlare.

Byakuran appoggiò la fronte contro l’asta dell’arma e la sentì vibrare leggermente.

«Dunque?»

«Sono venuto a riprenderti in quella radura perché avevo ancora paura… paura che succedesse di nuovo. E di essere troppo debole per impedirlo» rispose senza aprire gli occhi. «Tu potevi salvarmi come hai fatto quel giorno… come hai fatto in Nevada.»

«Oh, sì. La risposta è esatta!» flautò Fallen Angel. «Avevi paura, è vero, ma non di cosa avrei potuto fare se mi avesse preso un altro, come hai detto a Kikyo… hai paura di cosa ti succederebbe se fossi ancora troppo debole per difenderti. Come oggi, dopotutto, no?»

«Si ripeterà questa storia per tutta la mia vita? Ogni volta che penserò di essere qualcuno… di essere importante… mi tratteranno come un oggetto? Verrò usato da cavia, mi verrà ordinato di rischiare la mia vita anche se come oggi non sono in grado di fare quasi niente?»

«È probabile, sì… per questo devi smettere di comportarti così: ti dai un valore smodato quando piaci alle masse e ti svilisci quando le masse criticano, ed è una cosa molto, molto stupida, mio caro. Il valore lo decidi tu. Cosa è retto, giusto, sensato, importante... è tutto una tua scelta, non delle persone francamente discutibili alle quali dai tanto peso. Dipende tutto da te. Tienilo a mente, Ran: tutto.»

«Se dev'essere sempre così… allora…»

Si raddrizzò sulla seggiola e lasciò che lo sguardo intriso di tristezza si fissasse su un punto casuale della parete del container.

«Allora… non sarebbe meglio lasciare che finisca tutto? Che i Liberatori vincano… che il mio sistema venga cambiato. Il mio sistema non funziona bene come credevo… forse è il caso di lasciar tentare qualcun altro.»

«A costo di sembrare un disco rotto, Ran: è tutto una tua scelta~»

«Se volessi farmi uccidere da loro, mi fermeresti?»

«Certo che no, se è quello che davvero vuoi. Ma non lo vuoi. No, hai troppi amori a casa ad aspettarti. Non vuoi morire, anzi, probabilmente non hai mai voluto vivere così tanto~»

«Qualsiasi cosa faccia a te sta bene?»

«Fa’ quello che vuoi, Ran~»

«Anche andare là fuori e soffocare la rivolta in un mare di sangue, per tornare in fretta a casa?»

«Fai~ quello~ che~ vuoi~»

Byakuran tacque, pensieroso, per diversi secondi chiedendosi cosa davvero volesse, cosa desiderasse e cosa assolutamente non volesse. Fu difficile cercare di vedere quei propositi dal proprio punto di vista anziché da quello della società, del Ministero, del suo ruolo… ma alla fine sentì qualcosa che batteva dentro di lui, qualcosa che non era organico: il suo rancore sopito per tutto il dolore e tutte le ingiustizie che si vedeva infliggere da sempre bruciava, batteva, pulsava.

Hanno costretto un uomo che sanno essere inerme a combattere una guerra. È esattamente come se avessero messo un malato grave o un infermo alla guida di un aereo perché combatta anche a costo di schiantarsi contro il nemico. È inumano quello che fanno.

«Cosa sta pensando quella tua testolina bianca, Ran? Sento qualcosa che mi piace gonfiarsi dentro te~»

«Fallen Angel… tu hai il potere di riattivare il mio gene Oro. Fallo adesso.»

«Vuoi affidarti a me? Che tenero sei~»

«Sono furioso, Fallen Angel. Sono stanco di tutto questo… del modo in cui mi trattano. Ho sofferto e ho sacrificato i miei migliori anni perché quei cialtroni che si professano Liberatori potessero smettere di avere paura… e ora loro pensano di affermare i loro diritti comportandosi come bestie. Come Zakuro. E lo fanno ora, quando delle leggi li proteggono persino dalla punizione… è troppo comodo così.»

«E che cosa pensi di fare? Andare fuori e salvare di nuovo tutti, fare un discorso toccante sull’amore e la libertà?»

«No. Voglio andare fuori e insegnargli per quali motivi un eroe versa del sangue.»

Fallen Angel emise una risata sommessa, quasi flautata.

«Sai, credo che questa storia dell’eroe oscuro sarà il punto d’incontro che abbiamo cercato per tutta la vita. Sì, lo farò. Seguirò questo tuo capriccio di furia fino al gran finale.»

L’eccitazione della voce maschile era palese e il manico della falce a Byakuran sembrò diventare più caldo.

«Ora posami a terra, Ran, lasciami spazio di manovra… chiudi gli occhi e abbandonati, come quel giorno nella cella.»

Byakuran obbedì, appoggiando l’arma a terra con un leggero rumore metallico, e sedette contro lo schienale chiudendo gli occhi. Sentì il cuore accelerare il battito mentre il nervosismo saliva.

Non fu del tutto sorpreso di sentire una mano coprirgli gli occhi e piegargli la testa all’indietro, ma fu un’emozione potente come la prima volta.

Cercò di toccare la mano, non per scoprirsi la visuale quanto piuttosto per esplorare quella manifestazione, ma una seconda mano spostò la sua. Sentì dita sottili e affusolate, calde, dalla pelle liscia. Quale che fosse l’aspetto di Fallen Angel dava l’idea di essere giovane. Quand’era bambino gli aveva raccontato una sciocca storia su un mago geloso della sua bellezza che l’aveva trasformato in un’arma, ma non ci aveva creduto neanche allora.

«Impaziente come sempre… per questo c’è un altro tempo e un altro luogo, non temere~»

La mano che aveva trattenuto la sua passò sul suo petto, poi il dito dall’unghia lunga scorse lentamente sul pomo d’Adamo. Quando d’istinto deglutì Fallen Angel rise di nuovo e il fiato caldo che sentì sul collo gli fece venire i brividi sulla schiena e al basso ventre. Lo stesso percorso fece anche quello successivo, molto più robusto, quando sentì quello che sembrava a tutti gli effetti un paio di labbra poco sotto l’orecchio.

«Un altro tempo e un altro luogo, Ran… ma ti prometto che ci sarà.»

La mano libera gli passò sotto il mento inclinandogli di più la testa indietro. Il cuore gli batteva all’impazzata, come se si fosse iniettato la caffeina d’emergenza per davvero, e gli parve dare un vistoso scossone al costato quando sentì il suo alito quasi sulla bocca.

«Adesso è ora di andare, piccolo egoista~»

Ma non lo baciò sulla bocca. Vi soffiò sopra deciso per un breve istante, come dovesse spegnere una candela, ma l’effetto fu più immediato ed esplosivo della volta precedente. Si sentì all’istante forte, vitale, energico; percepiva perfettamente ogni centimetro del corpo, gli sembrava quasi di sentire il livello di ossigenazione di ogni sua cellula… era come essere ascesi a un livello superiore di coscienza, come un guru, come un maestro illuminato.

Byakuran si alzò in piedi e si voltò, ma il container era vuoto a eccezione di lui, della seggiola e della falce, appoggiata a terra. Non esitò oltre e spalancò dieci ali, numero mai toccato in precedenza. Rimase stupito di scoprire che le sue piume eteree erano diventate nere e le sfiorò con le dita, stranito.

«Non ti piacciono, Ran? Trovo che il nero si abbini benissimo con la tua perversione, la tua indecenza e le tue ossessioni~»

«Di questo parleremo in un altro momento.»

Byakuran stese il braccio e la falce si sollevò come attratta magneticamente dalla sua mano, che l’afferrò. Non si sorprese di questo avvenimento, come se fosse perfettamente ovvio che sarebbe accaduto, e si grattò il mento guardando il portellone chiuso dall’esterno. Avrebbe dovuto sfondarlo?

«Forse c’è un modo più semplice.»

«Sarebbe?»

«Hai o no in mano una meravigliosa falce dai poteri che rasentano il divino? Usala, ragazzo mio, usala.»

«Poteri che non conosco, Fallen Angel… quelle tue belle mani potrebbero scrivere almeno un manuale d’istruzioni.»

«Mh, ti sono piaciute le mie mani? E dire che non ti ho fatto proprio niente~»

«La strategia d’uscita, Angel.»

«Quanta fretta, quanta fretta… mh, ricordi quando apristi quel piccolo centimetro e metà del muretto del giardino della tua maestra scomparve? Ti raccontai una storia, allora.»

«Quella dello strato di energia tra questo mondo e quello degli spiriti?»

«Esattamente. È la tua occasione per vederlo… col mio potere puoi muoverti nello spazio riservato ai soli spiriti.»

C’erano di certo altre soluzioni anche senza abbattere la porta, usando ingegno e astuzia, ma la curiosità era troppo forte e la sua mano formicolava. Senza esitare oltre, fidandosi del sesto senso, tagliò l’aria dal basso verso l’alto con la lama. Una luce bianca l’accecò per qualche secondo con un intenso rumore come di un tifone, ma appena il tempo di sollevare il braccio per coprirsi il volto e tutto tacque.

Quando guardò scoprì di essere in uno spazio bianco dalle bizzarre forme: sembrava che gli oggetti del mondo reale lasciassero un’idea confusa della loro esistenza in quel luogo; vedeva le pareti del container come vetro leggermente opaco, le figure dei soldati al di fuori che si muovevano, ma nessun rumore o voce. Si guardò intorno, vedendo le ombre cristalline di elicotteri e grattacieli.

Era surreale.

«Così… questo è il Velo?»

«Esatto. Qui non serve spostarsi come nel mondo fisico, basta che tu strappi il Velo e uscirai esattamente dove vuoi essere.»

«Sembra molto comodo.»

«È una delle molte comodità dell’essere entità spirituali, ma si pagano a caro prezzo… vivere in eterno è così noioso che la morte è preferibile, specie se atroce e sanguinosa.»

«Punti di vista, suppongo.»

«Supponi esatto~ ma sbrigati, Ran, hai un potere spirituale ma il tuo corpo resta sempre mortale. Se resti troppo a lungo sarà consumato dal Velo.»

«Dunque meglio andare… al cuore della battaglia.»

«Vai dove senti pulsare~»

Byakuran squarciò di nuovo il Velo dello strano mondo bianco e si gettò di slancio verso le macchie di colore. Solo quando riemerse nel suo mondo si rese conto di quanto era stato opprimente il breve passaggio nell’altro regno.

Dopo l’attimo di stordimento vide che era nel mezzo del caos: lungo una via centrale della città alcuni Ribelli – tutti muniti della fascia dorata al braccio che contraddistingueva i Liberatori – stavano vandalizzando automobili ed edifici. L’uomo dai capelli bianchi e ali nere assunse un’aria glaciale, immobile come una maschera del teatro No’o, sollevando la falce pronto a uno swing di tutto rispetto.

«L’ora dei giochi finisce qui.»

Fallen Angel rise di gusto prima di lasciarsi oscillare come un letale pendolo contro gli sfortunati rivoluzionari.

 

*

 

Tsunayoshi non riusciva a calmarsi seppure fosse in compagnia di tre Civil Heroes professionisti. Continuava a guardare ansiosamente dietro ogni angolo, a tendere le orecchie per cogliere qualsiasi segnale di nemici in avvicinamento, persino a controllare le ombre in movimento. Era come essere in un livello extreme difficulty di un videogioco dell’orrore, dove gli orribili mostri sarebbero potuti sbucare da qualsiasi angolo buio.

«Sky Flame, non restare indietro.»

«Sissignore!»

Si affrettò a riaggregarsi al gruppetto mentre l’uomo che l’aveva richiamato, Copper Jackal, procedeva alla guida della squadra osservando i negozi abbandonati e controllando gli abitacoli delle automobili alla ricerca di feriti da evacuare. Mentre Enma sollevava con l’alterazione di gravità un veicolo ribaltato un altro professionista, Broken Quantum, attirò la loro attenzione con un gesto della mano.

«Rilevo qualcosa!»

I due compagni si avvicinarono a lui e dai suoi occhi venne proiettato quello che sembrava a tutti gli effetti lo schermo blu di un radar dove pulsava una flebile luce. La bella ragazza nota col nome d’arte di Lucky Cat balzò agilmente su un camioncino parcheggiato e guardò nella direzione che il radar di Quantum indicava.

«Lo vedo, è bloccato dalle macerie di una recinzione!»

Senza esitare Tsunayoshi seguì il compagno di classe e la squadra di professionisti verso il civile da soccorrere: un uomo dalle spalle robuste che giaceva faccia a terra sotto un blocco di cemento staccatosi dal muro. Enma sollevò le mani e il blocco iniziò ad alzarsi lentamente liberando il corpo del civile, che però non si mosse e non disse nulla. Allarmato Copper Jackal si piegò sul ginocchio accanto a lui.

«Ehi, riesci a sentirmi? Resisti, ti portiamo al presidio medico!»

L’uomo posò gli occhi castani su Enma e schiuse le labbra per dirgli qualcosa, ma non ebbe modo di farlo: dopo appena un battito di ciglia una barra metallica acuminata aveva attraversato il petto del Civil Hero dal lato destro.

Tsunayoshi spalancò gli occhi inorridito e fu l’unico consapevole del grido impigliato nella sua gola, mentre echeggiò in modo surreale quello acuto di Lucky Cat. Come già successo in situazioni analoghe, Tsunayoshi si riprese in fretta e la sua mente si svuotò dai pensieri superflui per riscoprirsi lucida.

«Formazione a croce! Dobbiamo capire da dove è venuto l’attacco!»

Enma reagì prontamente e portò la spalla contro la sua per costruire la formazione base che veniva insegnata ai Civil Heroes fin dalle primissime esercitazioni.

«Lucky, non perdere la–»

Quantum allungò il braccio per riportare in formazione la ragazza sconvolta, ma come prima il nemico sembrò apparire anziché arrivare: un uomo robusto abbassò una lama ricurva sul giovane ricognitore. Tsunayoshi non si accorse di aver gridato di rabbia e disperazione mentre scattava in avanti per contrattaccare il nemico mentre altri ne sbucavano come usciti dai loro stessi incubi; grida, rumori metallici, un’esplosione di fiamme e colpi si susseguirono nell’arco di pochi secondi. Il dolore all’addome snebbiò Tsunayoshi dalla furia dell’assalto abbastanza da fargli afferrare la situazione quando posò gli occhi sui volti degli assalitori.

Venne scagliato indietro in modo innaturale, come un piccolo pupazzetto lanciato via da un bambino capriccioso, e quando Enma l’afferrò arrestando la sua corsa comprese che era stato lui a variare il suo peso affinché il colpo l’allontanasse dalla massa di figure armate e minacciose. Ansimando si rimise saldo sui piedi, non del tutto senza sforzo, occhieggiando la dozzina di individui che li fissavano ghignanti ignorando i corpi dei professionisti a terra.

«Che cosa diavolo succede? Da dove sono arrivati così tanti senza che Quantum potesse vederli?»

«Non li ha visti perché non sono mai arrivati… ahia…» fece Tsunayoshi tastandosi le costole. «Sono sempre stati lì… è lo stesso Ribelle che ci ha tenuti bloccati davanti al museo.»

«Cosa… quel…»

«Non erano tanti Ribelli. Quei corpi sono una persona soltanto.»

Non poteva credere ai suoi occhi. Era qualcosa di spaventoso trovarsi contro qualcuno di così forte e privo di scrupoli come un criminale pluriomicida. Pensò con macabra ironia che stava diventando una terribile abitudine quella di trovarsi contro i peggiori assassini in circolazione e mentalmente si ripromise di prendere servizio da Civil Hero nella città più distante possibile da Tokyo.

Questa città mi porta decisamente sfortuna.

«Tsuna… che cosa intendi dire con… una persona soltanto?»

«Probabilmente non lo conosci, fu arrestato prima che tu entrassi in Accademia… io… credo che quello sia Rokumill.»

Il nome appena pronunciato risvegliò una memoria in Enma e lo capì dal suo singulto: non conosceva la sua faccia e i dettagli del suo potere di moltiplicazione ma ricordava perfettamente la sua sinistra fama di torturatore e assassino spietato.

Tsunayoshi non riusciva a credere al proprio karma. Rokumill era stato condannato a trent’anni di reclusione in una prigione di massima sicurezza, anche se aveva evitato il Golgotha per una perizia medica favorevole e questo era risaputo. Non si spiegava come potesse trovarsi lì.

«Credevo… Tsuna, credevo fosse detenuto a Shuugoshima.»

«Sì, è quello che credevamo tutti… almeno fino ad ora.»

I vari corpi che li squadravano scomparvero in una fugace scia dentro una delle forme, quella originale, e anche il civile a terra svanì con loro, lasciando solo i tre eroi caduti in servizio attivo.

«Era tutta una messinscena… un’esca. Aspettava qualcuno che andasse a soccorrere i sopravvissuti per decimare ulteriormente le nostre forze operative.»

«Hai ragione, Enma… e noi ci siamo cascati in pieno.»

«Che cosa facciamo, Tsuna?» sussurrò Enma, avvicinandosi di più a lui. «Combattiamo o cerchiamo la ritirata?»

«Ho un brutto presentimento. Non voglio voltargli le spalle per nessun motivo.»

«Sono con te, non me ne vado da solo.»

«Può darsi che sia solo un falso allarme… Rokumill non è pericoloso per chi può combattere a distanza, i suoi cloni perdono forza e coordinazione man mano che si allontanano dal corpo originale… ma proprio per questo mi chiedo cosa contasse di fare se, come adesso, in un gruppo ci fosse un sopravvissuto in grado di combattere.»

Se la strategia di Rokumill era volta a sterminare le squadre mediche aveva lasciato molto al caso: su un campo così ampio e così incerto, data la scarsa copertura di Civil Heroes e l’assenza di comunicazioni, i medici erano stati concentrati al presidio medico per ridurre il rischio di perderne a causa di difese insufficienti. Comunque la rigirasse, la sua strategia sembrava stiracchiata.

«Le possibilità che potesse finirli tutti insieme, anche con l’effetto sorpresa, erano troppo basse… qualcosa non torna…»

«Pensi che non sia solo?»

«È proprio quello che penso.»

«Avete finito di chiacchierare o no, mocciolosi piccoli bastardi?!»

Rokumill fece un passo verso di loro brandendo un lungo tubo d’acciaio, ma Tsunayoshi parò con la mano protetta dal guanto rosso davanti a sé.

«Non fare un passo o vi arrostisco tutti, tu e i tuoi cloni!»

«Ahah! Perché non ci provi, bambino? Fammi vedere!»

Davanti a un avversario normale non avrebbe mai osato tanto, ma per qualche motivo incomprensibile nella testa di Tsunayoshi rimbombava uno dei mille insegnamenti di Reborn secondo il quale le chiacchiere e le esitazioni erano solo per gli eroi dei fumetti, quelli che potevano morire solo per esigenze di copione.

Senza aspettare di capire se Rokumill stesse bluffando o no sparò una fiammata ad alta intensità contro di lui: la luce arancione avvolse tutta l’area, compresi i corpi inerti dei tre professionisti, e questo diede una fitta sottile al cuore al giovane dio delle ceneri gentili. Fu difficile convincersi che anche loro avrebbero fatto lo stesso per sgominare un avversario potente.

«Ce l’hai fatta?!»

Prima ancora che Enma finisse la domanda Tsunayoshi seppe che non aveva ottenuto il risultato sperato. La colonna di fuoco svanì perdendo di calore in modo anomalo e ci volle qualche attimo ai due per capire che la seconda figura davanti a Rokumill non era un suo clone: il suo corpo, piccolo e magro, era brillante e arancione, come fatto di brace viva, con fattezze sbozzate e un viso privo di dettagli come una statua ancora incompleta.

No! Di nuovo lei!

Mentre Rokumill scoppiava in un’odiosa, sguaiata risata la piccola figura si guardò la mano come se non fosse abituata a vedersela attaccata all’estremità del braccio e il suo colore iniziò a scemare rapidamente, diventando prima arancione vivo e poi rosso brillante, ma sempre privo di dettagli quali occhi e bocca. Infine prese a diventare color ambrato, come la pelle umana, e acquisì una forma precisa.

Non si era sbagliato: era la ragazzina dall’aria stralunata con i capelli corti che aveva fermato le sue fiamme a Higashiki. Sentendosi vagamente colpevole nel vedere il corpo ora privo di abiti Tsunayoshi piantò gli occhi in quelli sporgenti di lei ignorando il balbettio incontrollato di Enma dietro di lui.

«Neh, hai visto, Roku? Hai visto? L’ho fatto, ora ci credi che posso?»

«Non male, ragazzina, ma non montarti la testa. Io sono la rock star e tu sei la spalla!»

«Ehh?!»

Tsunayoshi capì che la coppia di Ribelli era decisamente assortita male, formata da due individui che non si conoscevano, avevano poca affinità tra loro e almeno nel caso della ragazzina anche poca esperienza comparata a due classe S in servizio attivo. Ponderò con una certa fiducia che questo desse loro un vantaggio, ma avevano anche uno svantaggio vistoso: quella coppia era la perfetta nemesi della loro e si rese conto con orrore che probabilmente era stata creata proprio per abbatterli.

Neanche questa volta pensò di lanciare qualsiasi tipo di avvertimento e sparò di nuovo contro la strana coppia, osservando con estrema attenzione per quanto glielo permettesse il bagliore, ma la ragazzina divenne di nuovo arancione brillante mentre le sue fiamme svanivano come illusioni ottiche. Seppe per certo che non aveva bisogno di vedere una fiamma arrivare per assorbirla, quindi non aveva punti ciechi. La figurina si voltò verso lui e gli parlò in tono irritato che non trovava riscontro nel volto quasi privo di fattezze umane.

«Ehi! Che diavolo fai, eh?! Attaccare alle spalle è da vigliacchi!»

«Come se me ne importasse qualcosa» commentò Tsunayoshi, nella febbrile elaborazione di una strategia. «Preferisco essere un vigliacco vivo che un eroe morto.»

«Eh? Eh? E tu saresti un eroe?! Che schifezza di cosa che hai detto!»

«Se volevi affrontare un eroe che parla di coraggio e ideali dovevi trovare Wing Emperor. Io sono sempre stato un pisciasotto.»

Rokumill diede in una potente risata sprezzante, invece la ragazzina sembrava arrabbiata, imbronciata, come una bambina delusa. Il suo colore passò dal rosso scuro della brace morente al colore scuro della pelle.

«Ti si è accesa qualche lampadina, Tsuna?» gli sussurrò Enma all’orecchio.

Scosse la testa appena finché non registrò le parole di Enma, la vera ispirazione di cui aveva bisogno. Quella ragazzina brillava esattamente come il filamento di una lampadina a incandescenza e il suo stomaco si affossò da qualche parte nel fondo del suo addome. Se era veramente in grado di mutare in tungsteno piuttosto che in qualsiasi altro metallo, lui ed Enma erano in un mare di guai.

«Enma, schema Flashdance

Enma esitò solo un momento prima di mettersi alle sue spalle e utilizzare pezzi di metallo e di cemento spaccati per creare una sorta di scudo che lasciava fuori solo il braccio teso di Tsunayoshi. Mentre i due nemici perplessi li osservavano come fossero cani dallo strano comportamento, Gravity abbassò la visiera protettiva del casco studiato per Sky Flame e il fuoco divampò in una fiamma lunga e sottile, concentrata, diretta contro la ragazzina.

Lo schema "fiamma ossidrica" era una novità messa a punto da pochi mesi ed era la prima volta che lo usavano su un vero campo di battaglia, ma non fu un esordio felice. Come se nulla fosse la ragazzina cambiò ancora colore, diventando prima arancione e poi giallo pallido come il sole, ma non si mosse di un millimetro per sottrarsi all’attacco. Sky Flame non l’aveva scalfita, non era neanche vicino a danneggiarla. Superava la temperatura di fusione dell’alluminio, 660° centigradi, senza batter ciglio.

Che coppia micidiale... Rokumill dividendosi in più corpi autonomi e tangibili impedisce ad Enma di concentrare la gravità su tutte quelle copie senza pesare sul suo stesso scheletro... e questa maledetta ragazzina assorbe il calore senza danni! Sono assortiti apposta per affrontare noi!

Pensò a Indigo, alle parole che Phoenix aveva riportato come sue, e si domandò se non fosse stato costretto a fornire informazioni o a studiare una strategia basata su ciò che sapeva… ma il suo cuore, più che la sua testa, non voleva credere che l’amico pianificasse una strategia per annientarli, neanche in uno stato di confusione.

«Ehi, ehi! Questo era forte, Roku, hai visto? Era quasi tiepido!»

«Ridicolo!»

«Ahah! L’aveva detto che mi sarei divertita! Ora lo posso uccidere, Roku?»

«Li dobbiamo ammazzare tutti quanti, ma non c’è fretta, no?»

Enma strinse il suo braccio.

«Tsuna, che cosa facciamo?»

«La sola cosa che nessuno sa che possiamo fare!»

Tsunayoshi ritirò il braccio, prese la mano di Enma e iniziò a correre per allontanarsi dai nemici, sparando colpi a caso per intralciare un inseguimento che sembrava non avessero fretta di iniziare, e quando furono abbastanza distanti da non distinguerne i volti chiaramente si fermò di scatto.

«Vuoi davvero farlo, Tsuna? Qui?»

«Non possiamo preoccuparci troppo dei danni, Enma, o ci faranno fuori! Dobbiamo affidarci al nostro asso!»

«Non c’è tempo per–»

«Se smetti di chiacchierare abbiamo più possibilità! Avanti!»

«S-scusa…»

Con l’aria colpevole scolpita sul viso Enma sollevò le braccia al cielo e i suoi occhi si dilatarono mentre creava un invisibile campo gravitazionale sopra di loro. Tsunayoshi non sprecò un secondo e prese a sparare verso il cielo enormi fiammate a temperature elevate tanto da mettere alla prova i suoi guanti di protezione: quelle venivano attirate dal campo magnetico come da un vortice di vento andando a condensarsi in un nucleo grande come una palla da calcio che cresceva, cresceva e cresceva ancora mano a mano che Sky Flame sparava i suoi attacchi più intensi.

Ebbe presto il fiato corto e la pelle delle mani iniziava a dolergli e a pizzicare come avesse preso un’insolazione, ma insistette con tenacia estrema e con un ultimo, colossale sparo l’enorme sfera di fiamme dapprima si dilatò e poi venne compattata dal potere di Enma raggiungendo l’aspetto di un piccolo sole bianco, abbastanza grande da contenere al suo interno un aereo di linea.

Almeno vi abbiamo tolto quell’aria svagata dalla faccia.

«Come va, Enma?»

«Più o meno come in allenamento… siamo stabili.»

«Farò del mio meglio per tenerli lontani da te. Mantieni la pressione stabile il più a lungo possibile.»

«Mi affido a te, Sky Flame!»

Tsunayoshi accennò un sorriso e scattò in avanti contro il nemico. Era necessario eliminare la minaccia il prima possibile per ridurre al minimo il rischio che Enma perdesse il controllo del nucleo e potenzialmente devastasse la città.

«Woo-hoo! È mio, è mio!»

«Ehi, Wolfram!»

«Eccomi, Fiammella! En garde!»

La ragazzina chiamata Wolfram agitò il dito indice come volesse mimare una spada mentre Tsunayoshi allargava le braccia prelevando fiamme dense color giallo pallido che si dipanavano dal piccolo sole come strappate a forza. Lo schianto tra i due produsse un rumore assordante e roboante al quale si unirono rumori di vetri in frantumi e spaccature nei muri dovuti al calore. Quasi senza poter vedere nonostante la visiera protettiva Tsunayoshi continuò a colpire, attingendo alla riserva di fiamme che tendevano sempre più all’azzurrino man mano che la pressione interna aumentava la loro temperatura.

Wolfram non rispondeva ai colpi e il suo colore era lo stesso delle fiamme, prima giallo, poi bianco e poi azzurrino; ma nemmeno il picco superiore ai 1200° che le scaricò nel ventre con un pugno finale riuscì a scalfirla. Senza fiato Sky Flame si accasciò sulle ginocchia con le mani tremanti, bruciate e senza più la protezione dei suoi guanti distrutti dal calore troppo elevato. Senza poterle trattenere lasciò uscire le lacrime dovute al dolore e all’estrema frustrazione, sfocando l'immagine della carne viva delle sue dita.

Mi dispiace, Enma… non sono riuscito a proteggerti e adesso… adesso sei senza difesa contro questi due mostri!

«Eh? Tutto qui? Dai, stavi cominciando ad andare bene! Ti serve altro tempo? Ti aspetto!»

«Wolfram, questo sacco di immondizia non ha altro da fare, non lo vedi? Non può più usare le fiamme o si distrugge le mani. È finito.»

«Ehh? Ma dai! Che delusione!»

La ragazzina si avvicinò, guardandolo dall’alto in basso con l’aria di chi si è visto rovinare completamente una gita divertente. L’aria giocosa con cui trattava uno scontro mortale metteva a Tsunayoshi brividi fino ad allora sconosciuti, una sorta di vertigine. I suoi occhi erano come uno sconfinato abisso e provò una genuina paura di guardarvi dentro.

Non tentò neanche di difendersi quando lei sollevò il ferro acuminato che aveva già trafitto a morte Copper Jackal.

«Devo ancora cercare per trovare qualcuno che può affrontarmi… uffa!»

«TSUNAAA!»

Tsunayoshi chiuse gli occhi mentre rievocava una cena fatta durante le vacanze a casa sua, con sua madre ed Enma. Una bella serata tranquilla, allegra. Sorrise a quel bel ricordo seppure con l’amarezza di sapere che non avrebbe atteso Enma dall’altra parte per lunghi anni ma per pochi istanti.

L’esplosione di calore e il rumore di metallo lo presero di sorpresa, specie quando invece di acciaio acuminato percepì nettamente un piede sul petto che lo scaraventava all’indietro sulla carreggiata sconnessa. Ruzzolò più volte prima di fermarsi, con un gemito dolorante per le mani gravemente ustionate.

«Mmpf. Non sei davvero degno del titolo che ti è stato dato, Dio delle Ceneri Gentili.»

Tsunayoshi spalancò gli occhi, scioccato all’udire quella voce. Sollevò la testa risollevandosi goffamente sulle ginocchia e posò lo sguardo sull’uomo alto dai capelli rossi, sul suo manto scarlatto e oro che scendeva lungo la schiena, sulla robusta armatura sul torso e sull’imponente spada dalla lama lunga e ondulata. Era in assoluto l’ultima persona che credeva potesse mai correre in suo soccorso, ma il cuore prese a galoppare per l’emozione. Aveva voglia di lanciare un grido trionfante.

«Eh? Chi diavolo è questo imbecille?»

«Lord of Flames, Percival!» affermò lui in tono perentorio, sollevando la sua maestosa spada scarlatta. «Arrendetevi adesso e godrete di una lieve dimostrazione di clemenza.»

«Wooohaa!! Roku, Roku, questo sembra proprio forte!»

«Quanti piccoli fiammiferai avete nei Civil Heroes, eh? Buon per te, Wolfram!»

L’uomo chiamato Percival si accigliò a quell’appellativo e sollevò il mento tradendo la sua indignazione.

«Piccoli fiammiferai, dici…?»

«Ti sei offeso, forse? Eh?» l’incalzò Rokumill, con un ghigno di scherno. «Ho ferito il tuo orgoglio? Devi averne per conciarti in quel modo da idiota!»

«Sono arrabbiato perché mi state facendo perdere tempo» ribatté lui, con una rabbia controllata che vibrava in ogni parola. «Se volete lo scontro sono qui. Non mi tiro indietro. Un guerriero non si tira mai indietro, Sky Flame, mi hai sentito?»

Tsunayoshi sussultò a sentirsi apostrofare da lui e istintivamente annuì, anche se il cavaliere dai capelli rossi non poteva vederlo. Era ancora incredulo e schiacciato da un profondo senso di vergogna: incontrava il suo idolo per la seconda volta e gli mostrava ancora uno spettacolo patetico.

«Io… Lord of Flames, io…»

«Percival

«P-Percival-sama, io… mi dispiace» fu l’unica cosa che riuscì a dire con quel nodo in gola.

«Ti dispiace di che cosa?» replicò lui con voce altera. «È un avversario troppo potente per te. Quelli con cui dovresti scusarti sono i tuoi cari, per i quali non hai voluto combattere fino all’ultimo respiro.»

Tsunayoshi si morse il labbro ricordando di essersi arreso: davanti alla sconfitta inevitabile e ai danni alle sue mani aveva deciso di pensare alla morte e ai rimpianti, senza trasformarli in un disperato appiglio alla vita.

«Ragazzino! Tu, ragazzino coi capelli rossi!»

Tsunayoshi girò la testa verso Enma, che stava sudando copiosamente per mantenere il nucleo ed evitarne il collasso.

«S-sissignore!»

«Rilascia quella sfera, prima che la pressione ti fratturi le ossa.»

«S-signore, non posso farlo! Se smetto di comprimerlo in questo stato potrebbe radere al suolo tutto il quartiere…»

«Non c’è motivo di preoccuparsi. Rilasciala. Ci penserò io.»

L’espressione di Enma era confusa e i suoi occhi rossi vagarono sul viso di Tsunayoshi, che annuì con vigore: se c’era qualcuno al mondo in grado di dominare un tale calore e una simile quantità di fiamme senza devastare se stesso o la città quello non poteva che essere il leggendario Cavaliere Rosso, membro di una delle squadre internazionali più medagliate al mondo. Molto egoisticamente Sky Flame non poteva non essere fuori di sé dalla curiosità di vedere all’opera lo straordinario Civil Hero al quale – ormai l’aveva molto chiaro – non sarebbe riuscito ad assomigliare mai.

Enma abbassò le braccia rilasciando gradualmente la pressione mentre Percival alzava la sua spada: quella sembrò fungere da calamita e attrarre le fiamme azzurrine con la velocità con cui un assetato avrebbe bevuto acqua fresca con una cannuccia: bastarono pochi istanti perché l’enorme nucleo venisse assorbito dalla lama ondulata diventata famosa come Lohengrin.

Il sorriso sicuro di Percival quasi attenuò anche il dolore fisico di Tsunayoshi.

«Avete fatto un buon lavoro, voi ragazzi. State indietro, adesso.»

Enma raggiunse Tsunayoshi nonostante fosse spossato e l’aiutò a sollevarsi con ogni accortezza per le sue braccia ferite per poi allontanarlo dai due Liberatori e da Percival: il palcoscenico doveva essere occupato soltanto dagli attori principali ora che il loro atto era concluso. Quando furono lontani quanto credevano sicuro Enma lo adagiò sul marciapiede e si lasciò cadere stremato accanto a lui.

«Che cosa ci fa qui lui?»

«Non lo so… ma siamo fortunati, Enma… davvero fortunati.»

Tsunayoshi distolse a fatica gli occhi dall’uomo che quasi idolatrava pur senza conoscerlo e lanciò un’occhiata intorno: nulla lasciava pensare che ci fossero altri individui nei paraggi.

«Chissà se è venuto qui da solo o ci sono altri Grand… l’altra volta a scuola era venuto con il capitano e Azure Miracle.»

«Sarebbe fantastico poterli conoscere… e poi, nella situazione critica in cui siamo potrebbero spostare l’ago della bilancia…»

Clangore metallico e vampate di fuoco attirarono l’attenzione dei due ragazzi, che seguirono lo scontro a occhi e bocche spalancati: Lord of Flames, con la possente armatura e la spada di dimensioni proibitive per molti, non era affatto sgraziato come si poteva presumere ed era anzi fluido nell’azione; il manto rosso che seguiva i suoi movimenti faceva sembrare la sua una danza rituale tra le fiamme. La cosa che impressionava di più Tsunayoshi era che si muoveva dentro il fuoco come se non lo temesse affatto, come se corresse sotto la pioggia, come se non esistesse alcuna possibilità di restare ferito.

Ogni fendente scaricava fiamme che deformavano pali della segnaletica, automobili e qualsiasi cosa entrasse nel raggio di pochi metri dalla sua spada. La ragazzina subiva colpi violenti che la scaraventavano a terra o contro muri e oggetti, era diventata azzurrina luminescente e tendeva sempre di più al blu, ma non sembrava che ricevesse davvero dei danni.

Proprio quando Tsunayoshi iniziava a temere che quel corpo metallico fosse troppo persino per Lord of Flames questi usò Lohengrin per sollevare di peso la ragazzina e con un’oscillazione calcolata la scaraventò dritta contro Rokumill che non poté evitarla in tempo: il contatto tra loro produsse un orrendo sfrigolio e l’uomo gridò in maniera così raccapricciante che Enma si coprì le orecchie stringendo gli occhi come avesse sentito unghie sulla lavagna.

Percival dal canto suo si raddrizzò e si spolverò la veste.

«Credevi forse di essere a teatro? Questo è un campo di battaglia» disse in tono severo, da insegnante. «Non ti è consentito distrarti.»

Rokumill non riuscì a replicare nulla di sensato, forse nemmeno l’aveva sentito: emetteva grida acute e singulti cercando di togliersi di dosso Wolfram, ma ben presto i suoi tormenti finirono e cessò di muoversi convulsamente. Percival storse leggermente il naso e fece un passo indietro mentre la ragazzina riacquistava lentamente il suo naturale colore.

«Roku… ma come, Roku, stai morendo? Dovevamo giocare insieme… no?»

«Non può più rispondere» sentenziò Percival. «Faresti una scelta saggia se ti arrendessi ora ed evitassi di raggiungerlo. Sei troppo giovane per perdere la vita per un ideale che a stento puoi comprendere.»

«Hai ucciso Roku? Perché?»

La ragazzina voltò la testa e puntò gli occhi su di lui, l’espressione sul volto in bilico tra furore e follia.

«Io dovevo uccidere Roku. Io dovevo uccidere tutti quanti, tutti, tutti quelli che davano fastidio a Damon. I classe S, tutti i Civil Heroes che trovo… Wing Emperor… Lava Rex, e anche Roku!»

«Damon, eh? Dimmi qualcosa di questo tizio.»

«Damon ha detto che sarebbe stato divertente. Ha detto che potevo uccidere tutti quanti e che se uccidevamo Wing Emperor poi potevo uccidere Roku e tanti altri con la fascia d’oro. Ha detto che avrei ammazzato tante di quelle persone che mi sarebbe venuto a noia il gioco.»

Percival fece una smorfia e si accigliò, afferrando più saldamente la Lohengrin.

«Una creatura immonda si cela dentro quel corpo da bambina, non c’è che dire… ma certo questo Damon ha del talento nel reclutare i suoi mercenari. Dopotutto abbiamo fatto bene a venire.»

«Neh, Spadaccino… mi farai divertire come Roku, eh? Ammazzarti sarà abbastanza divertente, come se ammazzassi due persone?»

«Mpf. Dolente di deluderti, ma non ucciderai più nessuno. Né oggi né mai.»

«Non mi puoi battere! Cosa sei, stupido? Eh, sei uno stupido?! Il mio corpo…» esclamò, e si batté la mano a pugno sulla spalla e sul ventre. «Il mio corpo diventa tungsteno! È resistentissimo alla pressione e alla temperatura, l’hai capito?! Non mi ammazzerai mai!»

«Conosco benissimo il tungsteno. La mia Lohengrin è composta da una lega di tungsteno, quindi ne conosco ogni singola proprietà» spiegò lui, calmo nonostante l’atteggiamento aggressivo di Wolfram. «Ora… ogni grande potere Auris ha il suo punto debole, e voglio scoprire il tuo… dovessi arrivare a fondere la mia spada per arrivarci. Oh, sì.»

Il sorriso sicuro di Percival si allargò davanti all’esitazione di lei.

«Sì, Wolfram. Posso spingere il mio fuoco al punto di fusione del tungsteno… 3442° centigradi, per l’esattezza.»

«Non dire spacconate! Nessuno può arrivarci!»

Enma guardò Tsunayoshi, con l’aria stralunata di chi ha sentito una fitta conversazione in una lingua sconosciuta.

«Quanto ha detto?»

«Ha detto 3442°…»

«Esiste qualcosa che arriva a questa temperatura?»

«Beh… le detonazioni nucleari superano i milioni di gradi, ma qualcosa che si aggiri su quel livello di calore… direi… il mantello terrestre a confine col nucleo del pianeta varia dai 3000 ai 5000 gradi centigradi…»

«Che cosa?!»

Enma boccheggiò e passò lo sguardo da Tsunayoshi a Lord of Flames più volte.

«Ma non può… non è possibile, voglio dire… può?»

«Onestamente non lo so… i membri della Grand sono quasi soprannaturali anche a confronto con gli Auris. Potrebbe anche esserne capace…»

Percival, ignorando i commenti dei ragazzi nonostante li avesse uditi, sollevò la spada e la sfiorò con le unghie metalliche che ricoprivano le sue dita.

«Vediamo, dove eravamo rimasti? Ah, sì. Il tuo punto debole» proseguì l’uomo, con un sorriso lezioso. «Tu riesci a diventare di tungsteno… ma se diventassi completamente di metallo vorrebbe dire che anche il tuo cervello diventerebbe un blocco inanimato, quindi non dovresti più essere capace di controllare il potere e tornare come prima. È un paradosso logico, capisci?»

«E allora?!»

«Mh, forse ti chiedo uno sforzo troppo grande. Immagino che dovrò fartelo capire in modo più diretto.»

Quando le unghie dell’armatura stridettero sulla lama la spada emise un intenso calore e il suo rosso divenne un arancio brillante come se il metallo fosse ancora da battere a martello. I fendenti disegnarono archi luminosi nell’aria mentre si abbattevano sulla ragazza di nuovo trasmutata in tungsteno, che faticava sempre più a muoversi per parare un colpo, schivarlo o reagire in qualsiasi modo. Dopo alcuni minuti di percussione incessante persino il Cavaliere Rosso parve accusare la fatica e i due ragazzi temettero il peggio quando lo videro flettere le ginocchia e appoggiarsi alla spada – ora brillante di bianco azzurrino – piantata in terra: scattarono in piedi per correre in suo soccorso ma poi Wolfram emise un gemito e cadde all’indietro.

Il cielo su di loro venne scosso da un rombo di tuono, improvvisamente divenuto di un grigio tempestoso con nubi illuminate da fulmini: il calore rilasciato era stato così intenso da causare un immediato cambiamento climatico localizzato.

A terra, stesa sulla schiena, Wolfram rimase con gli occhi vacui spalancati sulle nubi di tempesta generate dall’assalto estremo di Lord of Flames, ma non si mosse più né emise un altro suono. Quando i due classe S videro Percival voltarle le spalle rinfoderando la sua spada si sentirono sufficientemente sicuri da avvicinarglisi.

«Lord of Flames!»

«Percival, ti ho detto, ragazzino.»

«Ah, ehm, Percival-sama… che cosa… come hai fatto?»

«Per fortuna non ho dovuto superare la temperatura di fusione. Avrei detestato deformare la mia Lohengrin, non è un metallo che può essere lavorato e aggiustato da un artigiano comune.»

«Come mai ha ceduto così all’improvviso? Sembrava impossibile scalfirla…»

«Ogni potere ha le sue limitazioni. Wolfram non era in grado di tollerare a lungo la stessa temperatura del tungsteno perché al suo interno il corpo restava organico. Se non fosse stato così non sarebbe stata in grado di muoversi, di pensare o di parlare.»

«Capisco… un movimento presuppone un muscolo che si allunga o si accorcia…»

«Esattamente» confermò Percival. «Il potere non serve a niente se non ragionate in battaglia. Finirete per farvi ammazzare.»

Tsunayoshi tese un sorriso incerto, umiliato e felice in egual misura di ricevere una lezione da uno degli Auris che più ammirava, poi ebbe un violento capogiro: l’adrenalina l’aveva abbandonato e si sentiva debolissimo e dolorante. Solo la prontezza di Enma gli impedì di rovinare a terra.

«Devi vedere un guaritore immediatamente! Torniamo al presidio, presto!»

Percival si voltò di scatto avvertendo una presenza e portò la mano all’elsa sospettando l’arrivo di un nemico, ma i suoi occhi rossi intravidero solo un bambino piccolo schizzare via da sotto una macchina abbandonata e sparire di corsa in un vicolo. Si accigliò e ponderò se fosse il caso di seguirlo, ma sentì la voce del ragazzino dai capelli rossi spronare l’amico ferito a camminare e voltò le spalle alla stradina. Senza più esitare li raggiunse e caricò Sky Flame sulla schiena, ridandogli abbastanza energia per mettersi a protestare.

«N-no, P-Percival-sama! Posso camminare, la prego, non deve fare qualcosa del genere!»

«Tch, è pericolosa questa zona, e le tue braccia sono malridotte.»

«Ma le gambe stanno bene!»

«La lingua sembra in forma, non c’è che dire.»

«Ma lei non dovrebbe–»

«Sei irritante, ragazzo! È tua abitudine sindacare ogni favore che ti viene fatto? Accettali e ricambiali a tempo debito, se ci tieni ad avere degli amici!»

Tsunayoshi fece per replicare qualcosa ma poi decise di tacere e sopraffatto dallo sforzo dello scontro si lasciò andare appoggiando la testa contro la schiena del Cavaliere Rosso. La pioggia che aveva appena iniziato a cadere su di loro era più un fastidio che un sollievo per le sue ustioni.

«Mi perdoni, Percival-sama…»

«Non credere che te la caverai con così poco» replicò lui in tono severo. «Per portare il nome di “dio” sei troppo fragile e ingenuo, e sarebbe una macchia sul mio onore se mi voltassi dall’altra parte dopo averti redarguito.»

Tsunayoshi scambiò uno sguardo confuso con Enma.

«Appena sarai ristabilito ti insegnerò come combatte un manipolatore del fuoco degno di questo nome e di quello che ti è stato dato. Se sopravviverai almeno avrai una speranza di diventare un giorno mio vassallo.»

Vassallo? Che cosa sta dicendo?

Nonostante Percival parlasse di cose che a Tsunayoshi sembravano prive di senso, essere insieme a lui lo faceva sentire al sicuro e il suo modo burbero di rimproverarlo gli ricordava tanto Reborn. Questa sensazione lo faceva sentire a suo agio nonostante le pessime figure che aveva fatto di fronte a lui; gli suscitava una nostalgia difficile da spiegare senza usare parole di un certo peso.

Passarono accanto a un corpo, che i due ragazzi riconobbero dal colore del costume: Copper Jackal giaceva a faccia in giù sulla strada. Pur senza parole Percival comprese il loro stato d’animo.

«Eroi caduti, ragazzi. Candele spente come ce ne sono molte e ce ne saranno altre alla fine di questa giornata… anche per rispetto a loro dovete brillare intensamente. Tenete stretto questo dolore… e trasformatelo in determinazione. È l’essenza di un eroe.»

Tsunayoshi chiuse gli occhi lasciando che le lacrime scendessero e finissero sul mantello di Percival. Giurò a se stesso che per onorare quel nome che gli era stato dato avrebbe dato sangue, sudore e lacrime, diventando un giorno un uomo degno di fiducia che avrebbe evitato altre morti così tragicamente inutili.

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Capitolo 34
*** Shot in the dark ***


 

L’esplosione anticipò di poche frazioni di secondo il proiettile che scheggiò il muro e Restless riabbassò la testa sotto il bordo della vetrina ormai in frantumi della caffetteria. La pioggia di colpi teneva in scacco lui e Breaker in quel locale vuoto da diversi minuti senza che riuscissero ad accertarsi di quanti nemici avevano intorno.

«Maledizione!»

«Come siamo messi, Gokudera?»

«Presi per il collo, e belli stretti.»

«Non possiamo restare bloccati qui… dobbiamo trovare gli altri.»

«Lo so, Breaker, non sono un Civil Hero da ieri.»

Breaker guardò verso la vetrina rotta grattandosi la testa.

«Che ne dici se cerco di espormi e rallento i proiettili?»

«No, ti crivellerebbero all’istante.»

«Tu credi? La pioggia può aiutarmi.»

Breaker lanciò uno sguardo al cielo, che si era fatto tempestoso all’improvviso pochi minuti prima inondando la città con un robusto acquazzone.

«Sono proiettili incapsulati al titanio calibro 50. Proiettili per fucili di precisione ad elevata potenza. A meno che non ti dica da dove arrivano non riuscirai a rallentarli, e dubito che potresti farlo tanto da respingerli con la spada. Potrebbe anche rompersi, comunque. Troppi rischi.»

«Ma se mi espongo tu puoi vedere da dove sparano e ricambiargli il favore, no?»

Restless guardò il compagno di squadra con gli occhi dal brillante color turchese. Breaker sorrideva come se non avesse fatto altro che proporre di uscire in un giorno di pioggia per andare al cinema.

«Dacci un taglio, Breaker. Non ti farò morire per togliere me da una situazione di stallo. Ho giurato a tuo padre che ti avrei protetto dalla tua stupidità e questo continuerò a fare anche se mi costasse la vita.»

«E io ho giurato ad Haru che avrei protetto te dalla tua ostinazione, come la mettiamo?»

Restless trattenne una risposta d’istinto e Breaker – che lo conosceva così bene – si accorse dell’emozione che provava e che soffocava con un’espressione infastidita.

«Lei è giovane. Si rifarebbe una vita anche senza di me» replicò con un tremito quasi impercettibile. «Tuo padre sta invecchiando e ha soltanto te. Non permetterò che ti perda.»

Breaker tese un sorriso accondiscendente.

«Pensi che ti chiederebbe di morire e lasciare una ragazza da sola? Non è mica così meschino, mio padre.»

«N-no, certo che no. Lo so benissimo, ma…»

«Mio padre non ha solo me. Ha anche te» fece Breaker, tirandogli una vivace pacca sulla schiena. «Non ti ha adottato legalmente per quel problema, ma per lui sei suo figlio, come me! Me l’ha detto, l’ultima volta che sono stato a casa, che anche tu puoi tornare quando ne hai bisogno. La sua porta è sempre aperta, così ha detto.»

Il modo in cui si aggrottavano le sopracciglia suggeriva a chi lo conosceva che stava trattenendo le reazioni a una forte emozione. Tacque a lungo per dominarle, poi soffiò fuori un sospiro silenzioso.

«Dai, Gokudera… tiriamoci fuori da qui. Chiudiamo questa storiaccia e andiamo a casa… chiediamo ad Haru di venire. Papà sarebbe contento di conoscerla.»

Restless non replicò ma andò alla lunga sacca sottile che aveva appoggiato sul pavimento quando si erano barricati. Al posto delle consuete varietà di fucili da appostamento e da tiro dalla distanza ne sfilò un lungo fucile simile a un moschetto e caricò un proiettile cilindrico prima di tirare il cane indietro. Breaker sorrise più ampiamente alla vista dell’arma.

«Ah, te lo sei portato?»

«Quando combatto per la mia vita non mi affido a niente altro come all’Oliver.»

Oliver – questo il nome dell’arma – era un fucile unico al mondo: studiato da Restless e messo a punto nel progetto da un altro eccellente maestro di armi da fuoco e meccanica era in grado di sparare una serie di proiettili speciali che la Irie creava per gli specialisti del tiro. Il suo aspetto antiquato era solo un cavillo estetico che il ragazzo aveva scelto per una ragione strategica: non dare ad altri cecchini alcuna idea di quanto potesse essere potente la sua arma.

«Ma non credere che basterà. Siamo nella merda comunque.»

«Oh.»

Restless non si mosse di un millimetro e non batté nemmeno le palpebre quando un nuovo proiettile scheggiò il muro. Fissò lo sguardo verso l’alto e con estrema calma sollevò l’Oliver e ne orientò la canna a una media altezza, come un cacciatore intento a prendere di mira un innocuo erbivoro dei boschi. Il secondo proiettile arrivò molto vicino alla sua spalla ma fu Breaker quello più allarmato dall’evento.

«Gokudera, forse è meglio se–»

«Rallenta i corpi in arrivo in un campo visivo di cento gradi dall’orientamento dei miei occhi e da un angolo di traiettoria superiore ai centodieci. E poi zitto, ho bisogno di focus.»

Dopo un momento di stordimento Breaker sorrise, rassicurato dalla fredda mentalità strategica del compagno di squadra, e si concentrò per utilizzare il rallentamento nel modo che gli era stato indicato. Non serviva che Restless spiegasse cosa aveva in mente: se avesse seguito le sue istruzioni il suo intuito gli avrebbe suggerito al momento giusto cosa fare e il piano sarebbe andato in porto. Questo era il modo in cui la coppia Storm2 funzionava.

Nonostante le direttive i colpi erano davvero troppo potenti per essere rallentati sensibilmente senza conoscerne la direzione di arrivo: scalfivano il muro e il pavimento alle spalle di Gokudera restando invisibili all’occhio di una persona comune.

Ma Restless Storm non era una persona comune. Le sue cornee turchesi divennero dapprima blu e poi sfumarono nel viola nel giro di pochi secondi. Non usava quasi mai quel livello del suo potere, che sforzava i suoi occhi al punto di rischiare di danneggiare il modo definitivo i suoi nervi ottici, e proprio questo fece capire a Yamamoto quanto ci tenesse a portarlo fuori da quella situazione pericolosa.

Tre diversi proiettili sfiorarono Gokudera prima che il viola tornasse verde di colpo.

«Trovato!»

Sparò la cartuccia prima ancora di finire di parlare e il proiettile si divise in più colpi con scie dorate fiammeggianti. Restless afferrò la sua sacca per terra e sgusciò fuori dal locale crivellato con Breaker alle calcagna.

Il giovane spadaccino guardò il tetto del palazzo saltare in aria una volta raggiunto dal proiettile Coronal Ejection, chiedendosi se il cecchino fosse stato colpito. Gokudera non si voltò nemmeno un attimo a controllare il suo bersaglio.

«Quel palazzo probabilmente crollerà. È stato un danno serio.»

«Chissenefrega? La tua vita vale molto più di un palazzo, ne demolirei a centinaia se servisse a portarti a casa intero.»

«Di certo volevi dire “la nostra vita”, giusto?»

«Sì, certo.»

Breaker rise, ma prima che replicasse una figura fece capolino dietro l’angolo all’improvviso. Un momento dopo quella si trovò un fucile puntato in fronte e una spada alla gola, ma entrambi i giovani trovarono due sgradevoli lame fredde posate sul collo. Poi si riconobbero a vicenda.

«Squalo!»

«Siete voi, mocciosi? Che diavolo ci fate qui?»

«Siamo venuti per aiutare l’evacuazione» disse Restless, spostando bruscamente la lama con la mano destra infilata nel guanto di pelle. «Che comunque nessuno sta coordinando, sembra.»

«È impossibile farlo, i Ribelli hanno schermato i segnali radio! Nessuno sa che cosa stiano facendo gli altri! Che diavolo state facendo voi?»

«Cercavamo di riunirci al gruppo, un cecchino ci ha intrappolati…»

«Un cecchino?Un cecchino basta per mettervi all’angolo, stupidi mocciosi?!» sbottò lui, a voce così alta da costringere Yamamoto a massaggiarsi l’orecchio. «Un imbecille che vi spara qualcosa addosso basta a fermare Storm Breaker e il miglior cecchino dell’emisfero est del mondo!»

Sputò per terra e si aggiustò il cinturone che reggeva la sua spada.

«E voi sareste la miglior coppia della classe S Lotus! Credete di stare giocando come in esercitazione? Indigo è scomparso, Mad Phoenix è fuori combattimento e Wing Emperor non è qui a pararvi il culo! Non potete permettervi di giocare!»

«Squalo… datti una calmata, dai. Stai esagerando…»

Breaker guardò stupito Restless quando si sentì allontanare da Squalo con uno strattone al gomito e si allarmò quando lo vide puntargli l’Oliver in faccia con il dito sul grilletto. Allungò la mano per abbassare il fucile.

«Restless, ma che diavolo fai?!»

«Non fidarti di lui, Breaker!»

«Ma che ti prende, ora?»

«Valuta molto bene la risposta, Squalo! Come sai che Emperor non è qui a pararci il culo?» domandò brusco all’uomo dai capelli lunghi zuppi di pioggia. «Come sai che non è operativo? Lo sanno solo i tattici di alto grado, io e il resto della classe Lotus perché ce lo ha detto Phoenix.»

Squalo non rispose, lanciando un’occhiata intensa ai due Storm. Breaker si accigliò leggermente e ricambiò lo sguardo con altrettanta intensità e posò la mano destra sull’elsa della spada.

«Non rispondi, Squalo? Non ci vuoi dire come sai che Emperor non sta curando persone qui a Tokyo? E già che ci sei spiegaci anche come sai che Mad Phoenix non è in grado di combattere.»

«Tch… non ti è venuto in mente, idiota, che potrei averlo notato dalla sua vistosa assenza?!»

«E come speri di notare che Emperor non c’è in una città enorme come Tokyo, sotto la pioggia, con la visuale coperta da fumo e ostacoli altissimi in ogni direzione?»

«Tch, ti sembra che ci sia tempo per la paranoia, Restless?! È meglio togliersi di torno, se non ti fidi crepa da solo! Breaker, seguimi, dobbiamo radunarci col resto della mia squadra!»

Squalo mosse un passo e come se avesse occhi dietro la nuca per accorgersi che qualcosa non andava si girò a guardare Breaker che non solo non si era mosso, ma aveva entrambe le mani sulle impugnature delle sue due armi. La sua bocca si tese in un ghigno che strideva con la rabbia che traspariva dallo sguardo.

«Devo rispondere ai tuoi sospetti ridicoli, Restless?»

«Risparmia il fiato. Il bottone della tua uniforme ha risposto per tuo conto.»

Squalo istintivamente guardò non i bottoni sul petto della sua giacca scura, ma quelli decorativi sulla spalla. Non vide nulla, ma era acuto abbastanza da capire di essere caduto in un tranello. Breaker sfoderò le spade mentre il suo tutore si spostava i capelli dalla faccia con un gesto stizzito.

«Ti sei tolto la fascia dorata sul braccio mentre ci venivi incontro, immagino… per finirci, protetto alle spalle dai tuoi amici cecchini e noi tappati dentro un locale dove avresti potuto spazzarci via?»

«Se fosse così vi avrei attaccati subito!» replicò Squalo. «No, quello che volevamo era offrirvi un posto dall’altra parte della barricata, chiaro? Voi due sapete quanto fa schifo la vita per gli Auris e per i Civil Heroes, quindi mollate quel babbeo di Emperor e andiamo! Riscriveremo noi le regole quando sarà finita questa pagliacciata.»

«Squalo, che cosa stai dicendo? Tu sei un Civil Hero, non sei un criminale col gene Oro.»

«Yamamoto… sei così ingenuo da non aver capito che i Civil Heroes sono solo mercenari legalizzati? Dovresti saperlo bene! Il tuo amico è stato assoldato da un paese straniero per sterminare degli oppositori politici!»

Il ragazzo dagli occhi verdi ebbe un fremito della mano che teneva sollevata la canna dell’Oliver.

«Tu, poi… detesti la separazione dei diritti tra Plumbei e Auris! Fa’ qualcosa, per una volta in vita tua fai la differenza!»

Dopo quello scatto rabbioso cadde un inquietante silenzio, turbato solo da echi di battaglia lontani simili a tuoni di temporale. Restless restò fermo, con il fucile puntato contro l’insegnante, senza dire una parola. Breaker tacque con la mente intrappolata da un martellare incessante di ricordi dolorosi e bei momenti con la classe S in egual misura. Dopo una lunga riflessione inconcludente fu la voce di Restless a ridestarlo.

«Che cosa vuoi fare, Breaker?»

«Eh?»

«Che cosa facciamo? Ci schieriamo con loro o combattiamo?»

«Che cosa vuoi dire, Gokudera? Non è il momento degli indovinelli.»

«Voglio sapere che cosa hai intenzione di fare.»

«E tu che cosa hai intenzione di fare?»

Squalo restò a guardare in silenzio e solo lo sguardo che passava da uno all’altro mentre parlavano indicava che li stava ascoltando attentamente.

«Sai bene come la penso. Ti proteggerò a ogni costo, sempre. Se per farlo devo sparare a questo tizio o a un Civil Hero non fa differenza.»

«E se mi schierassi coi Liberatori tu mi seguiresti?»

«Sai che lo farei.»

«Anche se Love restasse dall’altra parte?»

La risolutezza di Restless vacillò appena e Breaker lo percepì dal lieve movimento della mano che reggeva il fucile. Breaker fissò gli occhi del suo compagno di squadra intensamente.

«Sapevo che i nostri cuori stavano dalla stessa parte.»

«Lo sono sempre stati.»

In un lampo le spade di Breaker saettarono nell’aria mentre Gokudera balzava indietro e sfilava un nuovo proiettile speciale dalla cintura per caricare l’Oliver. Le katane si incrociarono con gran fracasso metallico con la spada pesante di Squalo.

Restless aveva il caricatore aperto e il proiettile tra i denti, ma dovette raddrizzare la canna e usarla per deviare un colpo che sarebbe stato letale in zona gola. Gli occhi divennero turchesi e individuò immediatamente l’uomo che aveva sparato, che si stava avvicinando a passo sostenuto con una grossa pistola automatica puntata contro di lui.

«Breaker, a ore sette! Si avvicina a noi senza copertura!»

Squalo scattò di lato in tuffo e quando la pistola dell’uomo sparò fu chiaro come mai: un’ampia fiammata andava dritta contro di loro, così rapida che Restless non riuscì a reagire. Chiuse gli occhi, sentì il calore e l’onda d’urto che lo scaraventò indietro; sentì dolore alla schiena quando cadde sull’asfalto, ma non fu devastante quanto si aspettava. Riaprì gli occhi scoprendo che a limitare i danni era stata una barriera d’acqua piovana alzata da Breaker.

«Gokudera, stai bene?»

«Sono intero, per ora… sei ferito?»

«Sto bene… cough…»

Restless si alzò per primo e offrì all’amico la mano per sollevarsi. Breaker si rimise in piedi con l’aria stordita e i suoi occhi, resi azzurri dall’utilizzo del suo potere acquatico, adocchiarono il nuovo venuto e così fece Gokudera.

Al contrario di Squalo che era stato il tutore di Yamamoto, non avevano la minima idea di chi fosse quell’uomo pieno di cicatrici ma era evidente che era ostile e pericoloso: incedeva a passi regolari degli stivali pesanti, con occhi fissi su di loro e sopracciglia aggrottate in un’espressione rabbiosa, quasi i due ragazzi gli avessero fatto un torto personale da lavare col sangue. Non si sforzò di parlare e sparò nuovamente contro la barriera d’acqua, che si disperse e ricompattò tre volte sotto quella violenta grandinata.

«Via di qui!»

Restless tirò il compagno per il braccio al riparo in una strada laterale e una volta accucciatosi si affrettò a ricaricare il fucile. Sembrava aver perso la sua freddezza e la sua mentalità logica, offuscate dalla paura, e fu una certezza quando i suoi occhi verdi si fissarono in quelli di nuovo castani.

«Li tengo impegnati, ho ancora dei proiettili speciali! Devi trovare Night Hound e dire a tutti che Squalo è dalla loro parte!»

«Neanche per sogno. Non me ne vado.»

«Smettila di fare l’eroe, cazzo! Non lo capisci che fare gli eroi è solo un modo per suicidarsi con la stima degli altri?!»

«Non è una questione di eroismo. Resteremo insieme. Se moriremo oggi, moriremo insieme

«Aggiornati, Romeo e Giulietta non ha un finale romantico, lo sai?!»

«Nemmeno Titanic, per come la penso io» ribatté lui scrollando le spalle. «Siamo una squadra, lo siamo sempre stati. Lo hai detto anche tu.»

Restless non trovò risposte, con la mente paralizzata tra fosche previsioni di che cosa stava per dire e improbabili piani d’azione per scampare alla minaccia.

«Siamo stati insieme sempre negli ultimi dieci anni. È come se fossimo davvero fratelli… non scapperò via abbandonando qualcuno di così importante, e a essere sinceri mi fa incazzare che pensi davvero di convincermi a farlo.»

«Breaker!»

«Sprechi il fiato inutilmente.»

«Che cosa pensi di fare? Quella pistola è troppo potente, a questa distanza non riuscirai a bloccare i suoi proiettili!»

«Gokudera, ricordi cosa ci disse Gatling quando abbiamo affrontato il suo esame a battle royale

Nonostante fosse accaduto anni prima, poco dopo il loro ingresso all’Accademia Auris, di certo non c’era studente in tutta la scuola che non ricordasse nei dettagli il traumatico esame battle royale di Gatling Cannon: a gruppi di venti studenti la draconiana istruttrice imponeva che solo cinque passassero la prova e che per farlo dovevano restare per dieci minuti dentro l’area di combattimento designata.

«Sì, lo ricordo. Disse che combattevamo come una sola persona.»

«Come una sola persona» sottolineò Breaker guardandolo dritto negli occhi. «Conosco Squalo abbastanza da sapere che non è abituato a combattere in squadra. Abbiamo un vantaggio. Mi conosci bene, ci adattiamo perfettamente: usa questo e tira fuori una strategia per vincere.»

«La fai facile, maledizione!»

«Ahah! So quanto sei intelligente, tu ce la puoi fare!»

Restless tacque e scrutò con attenzione l’Oliver, poi controllò le munizioni di cui disponeva: non molte, in verità. Non potevano sostenere uno scontro lungo o una battaglia di pazienza come era solito fare per battere qualcuno più forte di lui.

Dobbiamo giocarcela su un colpo o due al massimo.

Il rischio non piaceva a Restless. Preferiva di gran lunga poter analizzare la situazione, garantendosi il tempo e il margine di sicurezza necessario per valutare le opzioni praticabili e le capacità degli avversari per poi sopraffarli al momento più adatto.

Questa volta si trovavano avversari due eccellenti spadaccini spalleggiati da tiratori dotati di armi formidabili: era una parità essenziale, come l’inizio di una partita a scacchi, mentre Restless si sentiva più sicuro a costruire minuziosamente un vantaggio preventivo… ma non poteva tirarsi indietro, non poteva prendere tempo, informazioni né rinforzi. Doveva vincere con quello che aveva e sfruttando quello che conosceva.

«E io conosco te…»

«Mh?»

«Ascoltami bene. Ho un piano, ma sappi che abbiamo pochi colpi e un solo reale tentativo» fece lui in tono grave. «Dobbiamo ottenere il vantaggio mettendone fuori gioco uno. Se finisco i proiettili finiremo col culo per terra.»

«Allora dobbiamo solo riuscirci» rispose Breaker, con la consueta leggerezza. «Avanti, spiega!»

Sulla strada principale due uomini impazienti aspettavano che i due ragazzi ricomparissero alla vista. Senza abbassare di un solo millimetro la canna spianata della Flamma Orbis l’uomo sconosciuto ai giovani studenti emise una specie di ringhio.

«Dove si sono nascosti quei due scarafaggi?»

«Salteranno fuori.»

«Se demolisco il palazzo facciamo prima.»

«Se lo demolisci ci potremmo mettere delle ore ad assicurarci che siano cadaveri, Blaster!» ribatté Squalo. «Il capo vuole la certezza che gli studenti di Emperor vengano ammazzati tutti! Hai voglia di scavare nelle macerie per recuperare una mano o la testa da portargli come prova?!»

«Che senso ha tutto questo impegno? Wing Emperor sarà comunque morto prima del tramonto… e la sua leggenda sepolta entro domani.»

Blaster lasciò uno sguardo all’altro uomo ma prima che potesse incalzarlo Breaker apparve sollevando un alto spruzzo dalla strada: il colpo sparato d’istinto dall'avversario forò solo un suo riflesso sul velo d’acqua alzato dalla sua spada. Il ragazzo sorrise.

«Grazie di aver aspettato!»

«Sei idiota, Yamamoto? Credi che sia un gioco, o un esame?!»

«Chi lo sa?»

«Dove hai nascosto il tuo amico?»

«Uhm? Non l’ho nascosto.»

Dallo spiraglio tra il suo fianco e e il braccio emerse la canna dell’Oliver che sparò un colpo. Venne schivato grazie ai riflessi rapidi degli altri due e come se fosse suonata la campana di guerra le chiacchiere provocatorie o meno cessarono.

Nello scrosciare della pioggia quattro spade si incrociarono più volte in successione e Storm Breaker offrì una sublime dimostrazione dei motivi per i quali portava quel nome: la pioggia veniva manipolata dal suo potere per alimentare un fluido scudo che saettava sinuosamente intorno a lui e al compagno per proteggerli e sembrava che il temporale non fosse in grado di toccarlo. Restless, che si muoveva insieme a lui per sparare dai più stretti, impensabili e difficili angoli che la sua forma lasciava per l’Oliver, ebbe il fugace pensiero che sembrava davvero Susanoo, il feroce spadaccino dio delle tempeste.

Una fitta all’occhio sinistro lo riscosse da quel pensiero e l’avvertì che la sua vista era al limite.

Ancora un attimo, ti prego… ancora un po’!

Scivolò sul marciapiede bagnato e usò un proiettile come diversivo per coprire la sua difesa mentre si rimetteva in piedi, fu raggiunto di striscio da un colpo sparato da Liger Blaster che Breaker non riuscì a intercettare. Erano agli sgoccioli: Yamamoto era esausto a causa dell’uso di spade, barriera e rallentamento contemporanei e all’Oliver restava un solo colpo.

«Adesso!» gridò Restless, tenendosi il braccio ferito.

Breaker si scrollò di dosso Squalo che stava cercando di spingerlo a terra per finirlo, la sua barriera d’acqua iniziò a precipitare e Restless sollevò il fucile, mentre per un attimo tutto rallentava come un nastro in slow motion.

Aveva il tiro libero su una traiettoria che sfiorava l’orecchio di Breaker al millimetro e avrebbe colpito con danno sufficiente sia Squalo che Blaster. Gli occhi gli facevano male come gli fosse stata lanciata contro una manciata di spilli e premette il grilletto quasi nello stesso istante in cui li serrò, incapace di tollerare oltre.

Un lampo attraverso le palpebre, uno scoppio e l’odore pungente della polvere da sparo, poi solo il silenzio oltre al rumore della pioggia che scendeva di nuovo a ritmo normale. Riaprì gli occhi con molta sofferenza, incerto di cosa avrebbe trovato, confuso da tanto silenzio, ma non riuscì a vedere altro che vaghe ombre e il volto sfocato di Breaker che si girava a guardarlo.

«Restless…»

Anche senza vedere altro che nebbia capì cos’era successo.

«Mi dispiace…» esalò con un filo di voce. «Ho sbagliato.»

«Avete giocato anche troppo» ringhiò la voce bassa e rauca di Blaster. «Ora crepate!»

Restless vide il bagliore dorato e serrò gli occhi preparandosi all’urto; avvertì le braccia di Breaker stringerlo con l’intento di fargli da scudo ma non ebbe tempo di urlargli di spostarsi come avrebbe voluto fare.

Non sentì dolore ma l’urlo di Yamamoto era quanto di più agghiacciante ricordasse di aver udito da lui ed entrambi furono scaraventati sulla strada bagnata. Da così vicino riuscì a vedere l’espressione sofferente che aveva sul volto ma solo sfocata la ferita rossastra sulla sua schiena, lasciata scoperta dal costume a brandelli.

«No!»

«Non frignare, creperete insieme!»

La Flamma Orbis divenne luminescente dall’energia che stava accumulando per sparare il colpo di grazia. Restless cercò a tentoni un proiettile che poteva essergli sfuggito, frugò nelle tasche invano nel disperato tentativo di proteggere la famiglia che lo aveva sempre trattato come una parte di essa; un appiglio che gli permettesse di sperare di tornare a casa, rivedere Haru, suonare il piano, di continuare a vivere… ma non c’era nulla.

Davvero finisce così?

Sentì lo scoppio e istintivamente si piegò sopra Breaker come se potesse fare qualcosa per proteggerlo, ma ancora una volta non fu raggiunto dal colpo che credeva l’avrebbe ucciso.

Una luminosità azzurrina gli fece percepire una barriera di qualche tipo e poi dei colpi esplosi con un rumore familiare da poco distante lo fecero voltare verso destra: c’erano delle figure vicine a loro.

«Ehi, ehi, ehi… ti sembra il posto e il momento per morire, Hayato?»

«Ra… Rackam?»

«Ma come, non mi riconosci neanche? Ah…»

L’uomo si grattò la testa con la mano che non impugnava l’arma da fuoco, preoccupato.

«Ultraviolet, uh? Dev’essere stata dura…»

«Rackam, che cosa ci fai tu qui?»

«Mh, non so. Diciamo che sono ordini del capitano.»

«Così mi fai sembrare un despota, Rackam!»

«Rackam!» lo richiamò la voce autoritaria di Katalina, guardiana del capitano e della sua compagna. «Sfruttiamo l’effetto sorpresa ed eliminiamo la minaccia!»

«Eccomi!»

Rackam caricò una munizione nella sua fedele Benedia e seguì Katalina armata di spada al di là della barriera luminosa. Restless era molto confuso, anche perché credeva che i Grand fossero in Danimarca da qualche settimana.

Voltò la testa e vide la sagoma sfocata di una ragazza dai lunghi capelli azzurri che si inginocchiò vicino a lui. Posò una mano piccola e liscia sulla sua fronte e la sua vista in qualche modo si rimise a fuoco fino a tornare normale.

Quindi, Azure Miracle è anche una guaritrice…

Lyria gli sorrise. Era la prima volta che la vedeva con la tuta bianca da Civil Heroine, e portava una cuffia come quella di Indigo, con i padiglioni colorati.

«Lascia fare a me, Hayato! Il tuo amico starà benissimo!»

Si spostò per avvicinarsi a lui e Hayato si rimise goffamente in ginocchio per fronteggiare il capitano della Grand Crew. Indossava i suoi indumenti da battaglia: una tuta nera con rinforzi scuri sugli stinchi, gli avambracci e le spalle e un mantello bianco dalle bordure dorate.

«Capitano…»

«Ben fatto, Hayato… questo dev’essere il tuo compagno, Storm Breaker. Quello che ti ha fatto rifiutare la mia proposta.»

Hayato annuì. Gran sorrise; non esprimeva alcuna emozione negativa nel rivangare quel suo rifiuto a unirsi alla sua Crew.

«Ecco! Si sveglierà a momenti» annunciò Lyria. «Che fortuna, Gran! Siamo arrivati in tempo per proteggere Hayato e il suo amico!»

Aprì bocca per ridimensionare la parola “amico”, ma ciò che aveva detto poco prima riguardo alla famiglia gli impedì di fiatare. Quando lo vide riaprire gli occhi si avvicinò a lui per aiutarlo ad alzarsi e venne sommerso dalle domande su cosa fosse accaduto.

Lyria li guardò sorridente mentre Hayato spiegava di conoscere Rackam dai tempi in cui aveva accettato quel lavoro in Africa, poi fece qualche passo indietro per lasciar loro un barlume di riservatezza. Gran, però, era concentrato su qualcosa che era lontano dallo scontro di Katalina e Rackam con i due Liberatori.

«Gran? Qualcosa non va? Sei preoccupato per Percival? Starà di certo bene…»

«Perce è forte. Non sono preoccupato per lui» replicò il ragazzo. «Però c’è qualcosa che non quadra…»

«Che cosa vuoi dire…?»

«Lyria… tu, Katalina e Rackam portate i ragazzi al presidio medico non appena i Ribelli saranno sistemati e poi procedete come programmato.»

«Eh? E tu dove vai?»

«Diciamo… che vado a togliermi un dubbio.»

Così detto il ragazzo dai capelli azzurri si allontanò a passo sicuro nella pioggia battente verso il quartiere di Shibuya, dal quale provenivano lontani boati. Il bagliore aranciato di un incendio sembrava volesse indicare ai combattenti il cuore del campo di battaglia.

 

*

 

Wish Love tossì nella polvere sollevata dal passaggio di un’onda d’urto non meglio identificata poco distante e scosse la testa per far cadere i frammenti di un finestrino rotto che le erano piovuti addosso. Strisciò fuori dalla protezione dell’automobile abbandonata e si guardò intorno alla ricerca della compagna che aveva perso di vista: vide il suo guanto nero e giallo emergere da sotto una fioriera e spiccò la corsa per raggiungerla.

«Kyoko-chan!»

«Haru-chan, stai bene…?»

Love non rispose e si affrettò a spostare la fioriera per liberare l’amica. Era un po’ ammaccata su un ginocchio, ma per il resto sembrava del tutto illesa, infatti si alzò subito con il supporto della sua mano.

«Sbrighiamoci, non dobbiamo allontanarci dal gruppo di Camaro-senpai più della portata di voce. Con le radio fuori uso rischiamo di restare da sole in questo caos!»

«Sto bene, rimettiamoci in moto!»

Le ultime parole di Luck furono quasi del tutto sovrastate da un rombo spaventoso accompagnato da un tremito della terra.

«Il terremoto!»

«No! Là!» strillò Luck, indicando alle spalle dell’amica.

Love vide solo per un attimo quello che sembrava un tornado bianco, poi una folata di vento gelido le investì portando con sé un urlo altrettanto agghiacciante. Le due ragazze si guardarono in volto e spiccarono la corsa in direzione dei lamenti.

Appena superata la brina che imbiancava l’aria si bloccarono davanti allo spettacolo raccapricciante di ben sette persone – Civil Heroes – accasciate a terra sull’asfalto con occhi vitrei e pelle resa violacea e bluastra, come fossero deceduti dopo essersi perduti durante una spedizione su un ghiacciaio. L’aria era fredda, condizione irreale in giugno a Tokyo, e la causa di quel fenomeno era la donna coperta di ghiaccio al centro della strada.

Luck afferrò il braccio di Love e anche senza parole capì che l’aveva riconosciuta: era la donna affrontata da Indigo a Higashiki, la donna di ghiaccio che aveva attaccato Wing Emperor al museo per poi scappare. Pur non avendola vista da abbastanza vicino per identificarla Indigo aveva descritto il suo aspetto, lo strato di ghiaccio che la ricopriva come armatura, i capelli corvini e le forme curve molto accentuate.

Gli occhi scuri di Love poi colsero il movimento dell’unica persona ancora mobile nel suo raggio gelato d’azione. Il giovane uomo con il costume grigio e blu era il loro senpai della classe S Vinca Minor.

«Camaro-senpai!»

L’eroe le vide e il suo panico aumentò vistosamente. Sollevò la mano aperta verso di loro.

«Non vi avvicinate! Scappate subito!»

Non si guardarono, non si consultarono, non si fecero nessun cenno d’intesa: entrambe le ragazze schizzarono in avanti, pur se ostacolate dal velo di ghiaccio sull’asfalto, passarono larghe ai due lati opposti di Glacier Queen e raggiunsero Camaro parandosi di fronte a lui. Dal canto suo, la donna di ghiaccio non mosse altro che la testa per seguire il loro movimento.

«Camaro-senpai, ritiriamoci!»

«Più facile a dirsi» fece lui a denti stretti.

«Senpai, pensi di riuscire a mettere in piedi un diversivo? Dobbiamo allontanarci da lei e se possibile ricongiungerci alla squadra di Reborn-sensei!»

«Temo di no, ragazze… sono davvero al limite e a malapena posso muovermi.»

Luck si accorse che sotto la mano sul suo costato una ferita sanguinava. Richiedeva soccorso immediato.

«Love, emorragia!»

«Me ne occupo io!»

Love si inginocchiò per rallentare il flusso sanguigno nella zona lesionata e Glacier Queen non perse una sola mossa del terzetto. Non li sottovalutava e le ragazze ne furono consapevoli al primo sguardo. Camaro, lievemente sollevato dalle cure in corso, tirò il fiato e la fissò prima di coprirsi la bocca con la mano.

«Quel mostro è in grado di congelare l’aria a contatto con il proprio corpo per creare una specie di scudo. A questa distanza si è al sicuro, ma il contatto diretto può congelare un corpo vivente come azoto liquido. Non ho mai visto niente del genere prima, nemmeno nei professionisti c’è qualcuno così potente» sussurrò alle due. «Sono sopravvissuto al primo attacco solo perché ho spiccato il volo… ma non sono un avversario per lei. Dovete lasciarmi qui e scappare subito.»

Love non commentò e con risolutezza alzò lo sguardo sugli occhi rossi di Glacier Queen.

«Siamo del soccorso medico. Non vogliamo lo scontro. Ci lasceresti andare con il ferito?»

«Normalmente lo farei. Non amo infierire con violenza sugli sconfitti e su chi non può arrecarmi danno» rispose lei, con voce distaccata. «Ma oggi non è il giorno per la pietà. Non si può essere pietosi durante una rivoluzione armata.»

Glacier Queen alzò il braccio verso di loro.

«Ma sappiate che questo mi ferisce molto. Colpire qualcuno giovane come voi… che non capisce come eravamo, quanto poco eravamo… non avete colpa di tutto questo. Non siete stati voi a forgiare queste catene.»

La mano protesa di Glacier si mosse quasi involontariamente ritraendosi, poi si allungò ancora. La donna era combattuta probabilmente tra la sua natura non violenta e l’esecuzione della missione con il minimo rischio di fallimento.

«Gli Auris devono essere riconosciuti come persone senza che sia necessario diventare dei soldati» proseguì lei, lanciando uno sguardo ai corpi gelati. «Per non essere costretti a nascondersi i vostri compagni sono stati costretti a morire. Siamo obbligati ad asservire le nostre vite ai bisogni dei Plumbei o resteremo nascosti o biasimati dal mondo. Questa non è libertà.»

Glacier si chinò e passò il dito sul volto del Civil Hero più vicino con la delicatezza di una donna che l’amava.

«Probabilmente tutti questi uomini avrebbero fatto qualche altra cosa della loro vita… ma gli Auris ancora non possono avere una carriera pubblica dichiarando quello che sono. Sono stati costretti a scegliere se nascondersi per sempre o rischiare la vita per i Plumbei. Non perdonerò mai Byakuran per… essere stato egoista. Lui era ricco, e potente… e ha lasciato che gli altri si sentissero soffocati.»

Alla menzione di quel nome Camaro aggrottò le spesse sopracciglia e le due ragazze si scambiarono un’occhiata. La donna conosceva Wing Emperor da prima della fama o Indigo aveva rivelato i suoi segreti?

«Tu… conosci Wing Emperor?»

Glacier Queen si spostò i capelli dietro l’orecchio e lanciò uno sguardo del tutto privo della freddezza mostrata fino ad allora: era lo sguardo di una donna ferita, arrabbiata e sofferente; uno sguardo che le due ragazze interpretarono come quello di una donna tradita da un uomo che amava.

«Certo che lo conosco. Io e lui apparteniamo allo stesso luogo… abbiamo vissuto lo stesso dolore e abbandono… finché non se n’è andato. Da solo… lasciandoci tutti nella miseria della nostra esistenza.»

Camaro emise un suono sofferente mentre cercava di rialzarsi, invano.

«Lui ha trovato la felicità. Wing Emperor si è preso tutto, a noi ha lasciato un corso per imparare a leggere… e niente altro» proseguì lei, aspra. «Non lo perdonerò mai per essersi dimenticato di noi… di quello che abbiamo passato. Ha costruito il suo regno sulle nostre case e non ha neanche lasciato che lo abitassimo. Non voleva intorno nessuno di quelli che lo avevano conosciuto da bambino.»

D’improvviso, come se la rabbia nei confronti di Wing Emperor avesse alimentato la fiamma guerriera dentro di lei, Glacier Queen allungò le mani verso di loro.

«Forse quando perderà di nuovo quello a cui tiene capirà che non può piegare la giustizia per il suo capriccio. La giustizia è un dono sacro che va conquistato, preservato e onorato.»

Il ghiaccio si mosse verso di loro come un’onda burrascosa, in una scia di punte diretta verso di loro con velocità tale da non lasciare quasi tempo di vederla arrivare. Camaro era forgiato da addestramenti e missioni sul campo e reagì quasi senza che il suo cervello necessitasse di elaborare la minaccia; posò le mani sulle schiene delle ragazze e con un labile residuo del suo potere di creare correnti d’aria le spinse di lato. Le fece cadere a terra ma furono fuori dal raggio della micidiale scia, al contrario di lui che venne colpito in pieno: con un grido strozzato venne scaraventato indietro sulla schiena mentre una nuova ferita profonda al torace sanguinava e lì rimase, ormai troppo debole per restare presente a se stesso.

«CAMARO-SENPAI!»

«Un atto nobile ma tragicamente inutile, come gran parte delle nostre vite e delle nostre sofferenze.»

La prima delle due ragazze a riacquistare il controllo di sé fu Love, che balzò in piedi, scavalcò la scia di ghiaccio, raggiunse l’amica e la tirò per il braccio costringendola a seguirla di corsa dentro un supermercato. La portò fino in fondo dentro gli uffici prima di fermarsi: le sembrava di aver corso per chilometri tanto si sentiva il fiato corto.

«Haru-chan, che cosa fai?! Dobbiamo aiutare Camaro-senpai!»

«Non possiamo fare niente per Camaro-senpai, adesso!» esclamò lei, con la voce resa stridula dal nervosismo. «Questa è una di quelle situazioni, okay, Kyoko-chan?! Quelle di cui parlava il sensei! Quelle in cui sei costretto a vincere, a qualsiasi prezzo!»

«Ma se potessimo chiamare aiuto…»

«Kyoko-chan, non possiamo… e lo sai.» l’interruppe Haru, solo poco più calma. «Le comunicazioni sono interrotte… non c’è modo di contattare un’altra squadra e Camaro-senpai non può aiutarci. Siamo sole.»

L’aria cupa che si dipinse sul viso solitamente allegro di Kyoko fece capire all’altra che aveva afferrato la gravità della loro condizione. La peggiore situazione in cui il supporto medico potesse trovarsi: sotto attacco nemico con alleati feriti e nessuna copertura.

«Che cosa facciamo?»

«Non credo ci lascerà scappare… se le voltiamo le spalle probabilmente siamo finite senza scampo.»

«Ma con un potere del genere cosa possiamo fare? Noi non…»

Kyoko si lasciò sfuggire un singulto e strinse l’orlo della gonna del costume con le mani che tremavano. Gli occhi castani chiari si fecero lucidi.

«V-vorrei che Indigo-kun fosse qui» mormorò con voce rotta.

«Lo vorrei anch’io… ma lui non c’è. Non c’è nessuno, e noi ci siamo allenate proprio per questo… per avere una possibilità di spuntarla anche in una situazione così!» esclamò Haru veemente. «So che è spaventoso, e che richiederà tutto il coraggio che abbiamo… ma dobbiamo fare quella cosa.»

Non dubitò che avesse capito che cosa intendesse. Annuì rigida, con il viso pallidissimo. Haru le prese la mano stringendola con vigore.

«Kyoko-chan, sono stata felice di essere tua amica per tutto questo tempo. È stato bellissimo passare il tempo insieme a te e alla classe S, anche nei momenti più difficili… grazie di tutto. Qualsiasi cosa succeda ti vorrò sempre bene.»

«Ti voglio bene anch’io, Haru-chan… e se… se oggi è il giorno» aggiunse con un tremito, «voglio che tu dica a tutti che non avrei voluto una vita più lunga se avesse voluto dire non averli mai incontrati.»

«S-sì… vale lo stesso per me. Diventare vecchia senza aver diviso questi anni con te, e con Hayato, e con gli altri… sarebbe stato tempo sprecato.»

Kyoyo annuì, con la fastidiosa sensazione di avere un grosso boccone di pane stopposo bloccato nella gola. Il tempo per i saluti e le ultime parole era finito, era necessario passare all’azione o quegli ultimi testamenti non sarebbero mai stati uditi da nessun altro: Glacier Queen sapeva dove si erano nascoste e se si fosse stancata di aspettarle sarebbe stato troppo tardi.

«Kyoko-chan, esci dall’altro lato… io le vado incontro, devi arrivarle alle spalle.»

«Ma… se l’attacchi frontalmente tu rischi molto di più, e–»

«È soltanto analisi, non sto cercando di fare l’eroina, sai? Sono più veloce di te, avremo più possibilità di riuscire se attacco io di fronte. Non discutere, per favore, non sappiamo quanto tempo aspetterà.»

«Sì… ma tu…»

Tu sei più preziosa, Haru-chan.

Non riuscì a dirlo e strinse l’orlo della gonna. Non era infiammabile, come Indigo le aveva detto, ma sembrava che non avrebbe fatto alcuna differenza. Provava una terribile amarezza nei suoi confronti, per la sua promessa a cuor leggero di proteggerla sempre sul campo, e per il fatto che non era neanche lì a provarci.

«Io…?»

«Tu… sei più amata, Haru-chan» fece allora, con le lacrime che scendevano. «Tu… hai Hayato… e…»

Haru mise su un broncio prepotente e le tirò uno schiaffo sulla guancia, abbastanza forte da lasciarla senza fiato. La guardò basita mentre si rialzava con gli occhi pieni di lacrime.

«Ah, quando troverò Indigo mi sentirà!» sbottò, sistemandosi ben stretta la coda di capelli castani. «Glielo dirò, eccome! Non può andare in giro a conquistare ragazze e lasciarle da sole, guarda che bel risultato! Uscirsene che tu puoi morire perché io ho un ragazzo e invece quello che ti piace sta con un maschio!»

«Ha-Haru… n-non era questo il punto…»

Haru prese il braccio di Kyoko e la tirò in piedi.

«Andiamo ad abbattere quella maledetta, e quando troveremo Indigo ce ne vanteremo! Ti vedrà con altri occhi!»

Kyoko scosse la testa, senza capire perché l’amica tirasse fuori simili argomenti.

«Ti prego, che… che cosa potrebbe mai cambiare? E poi, perché stiamo parlando di questo ora?!»

«Perché lo ha detto Indigo. Alla cerimonia di diploma» replicò lei, seria. «Le piccole cose riempiono le giornate che sembravano perse, quando conosci la paura della fine di tutto. La paura di morire. Mi sto aggrappando alle piccole cose, come confortare un’amica con un problemi di cuore.»

Kyoko capì che l’amica si sentiva proprio come lei: come se fosse in procinto di essere accartocciata dentro una macchina in demolizione e stesse deliberatamente scegliendo di restare seduta al posto di guida.

«Dividiamoci e attacchiamola… e torniamo alle nostre caffetterie e ai nostri ragazzi del cuore.»

Kyoko non riuscì a replicare a parole, ma annuì. Strinse l’amica in un breve, forte abbraccio e corse dall’altro lato alla serranda per lo scarico merci.

Quando Haru riemerse dall’ingresso frontale vide che Glacier Queen non si era mossa. Non aveva nemmeno provato a inseguirle e credette di capirne il motivo: era convinta che non se ne sarebbero andate lasciando Camaro a terra con la possibilità che fosse vivo. Ebbe modo di ricredersi non appena la bella donna parlò.

«Dunque sei tu l’esca?» domandò, con il viso e la voce congelati come il terreno intorno ai suoi piedi. «Non credere che non ti ammiri. Fronteggiare così freddamente la morte per consentire alla sua amica di scappare e portare notizie al comando generale… vedendoti quel giorno con quell’abitino rosa non ti avrei mai attribuito questo genere di coraggio.»

Nemmeno lei avrebbe mai creduto di avere tanto coraggio davanti a un avversario del genere. Lei, che gridava davanti a ragni pelosi e scappava se vedeva una lucertola. In quel momento ricordò con vividezza le parole di Breaker: la materia di cui è fatto un guerriero si vede quando non c’è vittoria.

«Hai il mio rispetto. Per questo ti ucciderò senza farti soffrire e non seguirò la tua amica.»

«Posso anche essere solo una copertura, ma non vuol dire che starò qui a fissarti e basta!»

«Vuoi combattere? Non fa alcuna differenza, per me» fece lei senza traccia di scherno. «Ti ucciderò comunque con un colpo solo.»

Fu un attimo: lo strato di ghiaccio sopra Glacier Queen si assottigliò come se stesse scivolando via da lei verso il basso e Haru seppe che era in arrivo un’onda di punte simile a quella di poco prima. Scattò di lato e scagliò contro la donna un pacco compatto che lei intercettò con una punta acuminata, sollevando il braccio a protezione istintivamente.

«Che cosa–»

Il pacchetto colpito dal ghiaccio era come scoppiato sparpagliando granelli traslucidi sulla Ribelle e tutt’intorno. Lei li guardò per qualche momento e il suo viso divenne una smorfia di rabbia e di dolore.

«Sale!»

La sentì chiaramente gemere mentre cercava di spolverare via il sale dalla pelle e quello le lasciava vistosi segni rossi sulle spalle come se la scorticasse. La sua osservazione dell’immunità della pelle al freddo non era stata sbagliata e ne fu orgogliosa: qualcosa in tanti anni al fianco di Restless l’aveva imparata.

Haru scattò in avanti nel momento stesso in cui intravide una figura dal costume nero e giallo schizzare nella loro direzione da dietro una vicina auto; purtroppo quella sua occhiata imprudente fu intercettata da Glacier Queen che pur senza vederlo intuì l’arrivo di un colpo alle spalle.

Nei due secondi seguenti accaddero molte cose contemporaneamente: il ghiaccio, reso più lento ma non inefficace dal sale, prese ad avvolgere la Ribelle, Kyoko si avventò sul nemico ma invece di colpirla le afferrò il collo con l’intenzione di bloccare i suoi nervi sensibili, una robusta folata di vento condensata in pochi centimetri ruppe la gelida difesa di Glacier sul petto lasciando scoperto il punto vitale più efficace.

Kyoko lanciò un grido di dolore mentre le sue braccia diventavano rapidamente bluastre. Haru deglutì la paura e scaricò il palmo aperto verso il cuore per arrestare il flusso al muscolo vitale e abbattere il nemico, ma dal basamento di ghiaccio emerse una figura che le bloccò il braccio.

La ragazza lanciò uno strillo – in parte per il dolore del freddo e in parte per lo stupore – alla vista della figura sbozzata nel ghiaccio lucido di una seconda Glacier Queen. Il loro attacco era andato a vuoto e tre delle loro quattro mani erano bloccate dentro il cerchio fatale di contrattacco. Haru tentò di chinarsi per raccogliere un pugno di sale con quella libera, ma non arrivava alla strada per una buona spanna.

La donna guardò prima Kyoko, con le braccia divorate dal gelo.

«Tu sei la prima.»

Kyoko non poté fare altro che lanciare uno strillo mentre la mano della donna di ghiaccio si apriva davanti al suo viso.

 

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Capitolo 35
*** The next defender ***


«Attento!»

Kyoya non badò affatto alla voce di Chrome Doll che tentava di avvisarlo del pericolo e accelerò per sgusciare veloce attraverso l’incrocio, incurante di proiettili d’acqua sparati da qualche contendente delle due fazioni. Gli era già successo svariate volte da quando si era avventurato nella zona rossa ed era come se la sua risolutezza nel proseguire lo schermasse dai pericoli.

Lei lo raggiunse tenendo a malapena il suo passo e ansimando leggermente.

«Phoenix, per favore! Cerca almeno di fare attenzione!»

«Non ti ho chiesto di seguirmi, Chrome!» sbottò lui. «Anzi, sono certo di averti detto almeno tre volte di non farlo!»

«Stai andando da Indigo, anch'io voglio vederlo!» fece lei, più aggressiva. «Dirgli che andrà tutto bene finché saremo uniti!»

«Non si ricorda di te. Non si ricorda di nessuno di noi, dev’esserci qualcuno nei Liberatori in possesso di un potere di cancellazione o di inibizione della memoria… e io lo troverò, e gli riempirò il culo di calci!»

«Sto dicendo che voglio aiutarti! Quindi potresti smettere di trattarmi come se fossi una tua nemica?»

Kyoya si fermò per un attimo e le lanciò uno sguardo. Non disse nulla, ma si rese conto di stare riversando su di lei la sua frustrazione; annuì in modo che lo notasse prima di riprendere la strada. Allungò la mano e prese la sua per aiutarla a saltare sopra una profonda crepa nel marciapiede.

«Ma come farai a trovarlo? È una città immensa, come scopriamo dov’è senza poter comunicare con gli altri? Sempre ammesso che sia davvero qui a Tokyo…»

«So che è qui» affermò lui. «È una rivolta per rovesciare i Civil Heroes… anche se il quartier generale di Emperor è a Mizura, è questa la città con il maggior numero di eroi e dove c’è l’ufficio principale del Coordinamento. Questa è la città che deve cadere assolutamente, e lo dimostra che abbiano attaccato una prima volta.»

«Credi che fosse una prova?»

«Sì. Per scoprire come ci saremmo mossi, e la loro strategia questa volta è stata scatenare focolai nelle città da cui sono arrivati rinforzi la volta scorsa… tranne Mizura. A Mizura pare sia tutto tranquillo.»

«E perché, secondo te?»

«Perché volevano che Emperor e gli altri di stanza a Mizura arrivassero qui come rinforzi. Per questo sono sicuro che Mukuro è qui, come noi.»

«Mi hai convinta» fece Chrome, sbirciando oltre la porta di un negozio devastato. «E come lo troviamo?»

Non fu felice che gli ripetesse la domanda, perché in realtà non lo sapeva. Stava seguendo l’istinto: aveva visto una figura scura sfrecciare nel cielo verso nord, una figura alata che non aveva nettamente identificato, ma qualcosa gli era parso familiare e per questo stava proseguendo nella stessa direzione. La figura sembrava avesse in mano una falce di strana fattura e nell’attimo in cui l’aveva vista l’aveva associata a quella in possesso di Wing Emperor poche ore prima.

«Se Wing Emperor è sul campo Mukuro ci sarà. Potrebbero usarlo come esca, o come ostaggio.»

«Ma non sappiamo dove sia… ho sentito che è ancora indebolito dalla febbre tropicale.»

«Sono sicuro di averlo visto volare in quella direzione qualche tempo fa» confessò Kyoya, riprendendo la strada. «O almeno… quasi sicuro.»

«Quindi può muoversi!»

«Non ha mai avuto la febbre tropicale» le svelò Kyoya, tenendosi più vicino a lei. «Durante la sua scomparsa è stato trattato con l’UTX, il farmaco Orosoppressore che usano nel Golgotha. Non si è ancora ripreso… o almeno, così credevamo.»

Lo stesso farmaco intorpidiva ancora le sue gambe e incespicò, poi svoltò in una stradina, seguito da Chrome Doll come una piccola ombra.

«Phoenix… con tutti questi palazzi lesionati è pericoloso passare in questi vicoli. Potremmo restare bloccati.»

«No, io resterei bloccato. Tu potresti andartene ed eventualmente dire a qualcuno di venire a soccorrermi.»

«Phoenix! Cerca di tutelare almeno un po’ la tua vita!»

Scelse di non replicare perché lei aveva ragione e in un qualsiasi altro giorno avrebbe detto lo stesso a un Civil Hero impulsivo come lui.

Sbucò dall’altro lato felice che la profezia della ragazza non si fosse avverata ma il sollievo durò poco: si trovarono davanti tre persone – due donne e un uomo di mezz’età – con la fascia dorata legata al braccio e l’aria di chi non è capitato in guerra controvoglia. Chrome Doll si nascose alle spalle di Phoenix stringendogli il braccio.

«Ehi, chi c’è qui?»

«Lasciali» disse una delle donne, spostandosi sulle spalle lunghi capelli bruni. «Sono solo ragazzini.»

«Ah, è vero…» rispose l’altra, con una ricercata pettinatura a boccoli.

«Andatevene subito» gli ordinò la prima.

«Falcon, aspetta» fece l’uomo, prima che i due potessero muoversi. «Lei ha qualcosa di strano.»

Hanno riconosciuto il costume.

Le due donne la fissarono e colsero immediatamente il costume che cercava di nascondere stando alle spalle di un compagno in borghese. Si accigliarono e la riccia estrasse una lunga spada sottile simile a un fioretto. Si metteva molto male e lo sapevano entrambi; nessuno dei due era in grado di combattere ed erano in inferiorità numerica. Come se quel pensiero fosse scivolato attraverso la testa di Nagi prima di arrivare a Phoenix, lei gli lanciò uno sguardo mentre estraeva la siringa di caffeina per autoiniezioni.

«No!»

«Se non lo faccio siamo morti.»

«Se lo fai sei morto davvero!»

Invece di preoccuparsi dei nemici Chrome Doll afferrò e bloccò il polso di Phoenix, che indebolito dall’Orosoppressore non riuscì a vincere la sua presa. Quando la Ribelle di nome Falcon si avvicinò a loro per sferrare un attacco – le sue capacità erano misteriose, ma il suo atteggiamento aggressivo non lasciava dubbi – la ragazza si parò davanti a lui facendogli da scudo, ma non mollò la stretta.

Phoenix reagì rapido pur senza il suo potere: passò il braccio libero intorno alle spalle di Nagi e si lasciò cadere all’indietro portandola con sé e schivando la mano della donna che si chiuse a pugno come se avesse cercato di acchiappare una zanzara. Tre profondi fendenti si aprirono nel muro dietro di loro e vedendoli Phoenix fu preso dalla fretta: spinse di lato Chrome e fece schizzare via il coperchio dell’ago con il pollice.

Non c’è nessuno. Se mi uccidono qui non salverò Mukuro, ma con questa c’è almeno una possibilità!

Alzò il braccio per affondare l’ago nella carne ma non riuscì a riabbassarlo come aveva preventivato poiché Falcon gli aveva artigliato l’avambraccio con una presa che sembrava di pietra.

«Che cos’è questa roba?»

«Una medicina?»

«Probabilmente una specie di stimolante da battaglia… non è un normale studente nemmeno lui» osservò la donna. «Possibile che sia…?»

«No, io–»

«È lui, eh?» fece l’uomo, eccitato. «Non è Mad Phoenix?»

«Sembra lui, ma è debole… non ha neanche il costume. Non sono certa che sia lui.»

Pensa… trova qualcosa che vi cavi dai guai! Qualsiasi cosa, pensa, Kyoya, pensa!

La donna coi boccoli si avvicinò di scatto e gli sollevò la t-shirt senza che lui riuscisse a protestare o a provare a fermarla: emise un’esclamazione eccitata e gli indicò il petto.

«Ha le due cicatrici simmetriche! È Mad Phoenix!»

Phoenix non aveva mai detestato tanto la pubblicità fatta agli eroi dalle riviste specializzate in quell’ambito del gossip: se non avessero diffuso i suoi segni particolari avrebbe forse potuto trarsi d'impaccio senza essere costretto a combattere.

Falcon strinse il polso fino a farlo scricchiolare e la siringa gli cadde di mano. Vide che non si era rotta e allungò la mano libera per prenderla e iniettarsela al volo, ma la scarpa di lei gli schiacciò le dita. Chrome si avvicinò brandendo quella che sembrava la gamba rotta di un tavolo e la vibrò contro l’uomo; questi lo bloccò senza danni e la colpì all’addome prima che riuscisse a disgregarsi.

«Chrome!»

«Facciamoli fuori!» suggerì Falcon, eccitata. «Il capo ha detto che c’è una ricompensa speciale per quelli che uccidono i classe S di Wing Emperor!»

Kyoya dette uno strattone per cercare di divincolarsi, ma ottenne solo di essere afferrato con più forza e il polso diede una fitta acuta. In quel frangente fu certo che la sua soglia del dolore risentiva dell’inibizione del suo gene Oro.

La donna coi boccoli si avvicinò con il suo spadino dalla lama sottile.

«Che premio sarà? Soldi?»

«Forse una posizione privilegiata nel nuovo ordine!»

«Io i classe S di Emperor li ammazzo anche gratis.»

Kyoya imprecò sottovoce. Era sopravvissuto alla Golden Wave per finire ammazzato da tre Ribelli uniti alla causa per sfogare della frustrazione personale o per appagare il proprio sadismo?

A peggiorare il tutto, aveva un’orribile sensazione che non aveva a che vedere con lui: non riusciva più a sentire la presenza di Mukuro.

 

*
 

Byakuran emise un lungo sospiro mentre raddrizzava la schiena, adorna di ali nere. Mise dritta anche la falce, la cui lama era lucida e pulita come respingesse – o piuttosto assorbisse completamente – il molto sangue che l’aveva toccata.

«Certo ne hanno radunati tanti di questi disperati…»

«Sono tempi disperati, Ran~»

«Oh? Tempi disperati quelli in cui un Auris può comprare casa, guidare una macchina e andare a scuola? Non farmi ridere. Metà di questi idioti che ho sentenziato non avevano idea di cosa volesse dire disperazione.»

«Mh~ mi piaci così gelido, mi fai salire la voglia di… uh-oh.»

A quel suono Byakuran si voltò e notò la figura in piedi sul cornicione del tetto, riconoscendola immediatamente: Indigo era davanti a lui, con addosso il suo costume in Sound of Silence, i capelli di nuovo corti come li aveva quando lo aveva incontrato la prima volta e l’occhio destro che brillava di un bagliore scarlatto.

«Hail, Wing Emperor… salute a te.»

Nonostante il suo tono canzonatorio l’espressione di Indigo era glaciale e trasudava collera mentre lo scimmiottava con un inchino. Tutta la frustrazione e l’energia che l’avevano animato fino ad allora abbandonarono Byakuran e le sue ali svanirono mentre abbassava la falce.

«Indi! Per fortuna stai bene» gli fece, e mosse qualche passo verso di lui. «Ti stavo cercando… avanti, andiamo a casa! Phoenix è molto preoccupato per te…»

Non riuscì ad andargli più vicino, bloccato alla gamba da uno dei suoi fiori di loto bianco.

«Non osare avvicinarti a me» gli sibilò contro. «Non toccarmi mai più, se ci tieni a tenere tutti i pezzi attaccati, Emperor!»

«Che… Indigo, che cosa stai dicendo?»

«Anche io ti stavo cercando, ma non per lacrimevoli chiacchierate cuore a cuore» proseguì con lo stesso tono carico di rabbia. «Ho dei conti da saldare con te… cose che ti devono essere restituite con gli interessi appropriati.»

Byakuran piantò la lama affilata della falce nelle piastrelle del tetto condominiale e l’abbandonò, avvertendo la sgradevole sensazione di un brutale distacco quando mollò la presa sull’impugnatura fasciata. Spalancò le braccia e fissò il ragazzo negli occhi, che spalancò con grande sorpresa a quel gesto.

«Indi, so che non ricordi… Phoenix mi ha detto che ti hanno fatto qualcosa di strano, e di sicuro qualcuno ti ha manipolato per farti essere qui, oggi, dall’altra parte della barricata. Tu hai combattuto come una tigre per proteggere la Carta dei Diritti e mantenere l’ordine quando io non ero qui…»

Byakuran sentì allentare la stretta alla gamba e l’interpretò come un segno di cedimento di Mukuro.

«Non ricordi di averlo fatto, vero? Eppure tu sei quel simbolo… quello della fedeltà e della devozione. Sei diventato il simbolo del sacrificio, perché hai rinunciato a qualcosa di meraviglioso per schierarti in testa alle file dei Civil Heroes… la gente ti ama tantissimo per questo… anche io ti amo per questo.»

«Ehi, Ran, modera i termini… qualcuno potrebbe pensar male~»

Mentre Fallen Angel commentava Mukuro fece uno scatto in avanti e tirò un calcio sulla faccia di Byakuran scaraventandolo per terra; lui gemette e parò la caduta con le ali nere ma non tentò nemmeno di difendere o evitare il colpo. Il suo potere rigenerante, ripristinato totalmente dall’entità che animava l’arma, riassestò le ossa fratturate del viso quasi all’istante.

Mukuro afferrò il braccio di Byakuran e lo strattonò leggermente.

«Questo è per il braccio che mi hai rotto per aver detto una parolaccia!»

Ma di che parla?

Byakuran non riuscì a elaborare meglio, perché Mukuro torse il braccio di scatto e ruppe l’omero strappandogli un grido. Dominò l’istinto di colpirlo per liberarsi per non ferirlo.

Per sua fortuna venne lasciato e poté riallineare le ossa per poi concedersi il sollievo della guarigione.

«Indi… puoi… per favore, puoi parlare con me… solo un po’?»

«Pensi che qualche discorsetto mi renderà più clemente, Emperor? Ti sbagli.»

«Vorrei solo capire le tue ragioni… perché… non ricordo di averti rotto il braccio. Soprattutto per un motivo simile… tu sei… molto più educato di me in molte cose.»

L’espressione di Mukuro si accartocciò per la rabbia e strinse i pugni.

«Le tue violenze sono così tante da non riuscire neanche a ricordarle?»

«Indi, tu sei il mio prezioso Bambino Indaco… io ricordo ogni secondo passato insieme a te» gli rispose Byakuran con dolcezza. «Per questo non capisco di che cosa parli… vuoi raccontarmi che cosa ricordi?»

Mukuro si mordicchiò il labbro, poi sputò fuori la prima lezione di yoga che ricordava mentre Byakuran l’ascoltava attonito: non c’era una singola cosa che corrispondesse al vero, escludendo la sala dove praticavano e il tappetino verde. Nel suo ricordo Night Hound era anche arrivato poco prima del fattaccio, ma Kikyo non interrompeva mai i suoi allenamenti a meno di emergenze.

«Senti… Indi… forse non mi credi, ma tutto questo non è mai successo… ti sei rotto il braccio a Higashiki. Questo lo ricordi? Ricordi Higashiki?»

Mukuro si toccò la fronte con lo sguardo fisso per terra. Già il fatto che non ricordasse immediatamente la sua prima azione e il suo rischio di morte più alto gli diede conferma che quelli di Phoenix non erano deliri: qualcuno o qualcosa aveva interferito con la sua memoria.

I poteri di manipolazione mentale sono considerati illegali… per legge devono essere dichiarati e soppressi tramite farmaci. Qualcuno nelle fila dei Liberatori può manipolare la mente degli altri… e se è così, chi è venuto a combattere per sua convinzione e chi invece è stato plagiato?

Byakuran guardò il corpo del Ribelle che aveva ucciso poco prima dell’arrivo di Mukuro, con il terrore che gli stringeva la gola come un cappio.

«Ran, non devi preoccuparti di loro… ora è di Indigo che ti devi preoccupare. Devi rompere il flusso che altera la sua memoria.»

«Che?»

Mukuro si accigliò appena guardandolo. Byakuran gli ricambiò lo sguardo ma era concentrato sulla voce, insolitamente seria.

«Sai quando si ingannano le telecamere mandando un video in loop? Più o meno è la stessa cosa in questo caso. Un filmato di false memorie passa nella testa del tuo allievo sopra alla sua memoria vera, e lui non riesce a capire che sotto c’è qualche altra cosa. Devi svegliarlo, Ran.»

Ran liberò la gamba dal loto, fragile come un’erbaccia secca, e si avvicinò ancora a Indigo.

«Forse pensi davvero che nel sistema qualcosa non va… ed è vero, non è ancora un sistema perfetto… ma tu sai che questo non è il modo di cambiarlo, no?»

Mukuro lo fissò e il suo piede indietreggiò sul cornicione. Byakuran non si spiegava quella sua paura e iniziò a chiedersi che tipo di abusi e scorrettezze avessero registrato dentro la sua mente per aizzarlo contro di lui.

«La Liberazione non ci sarà mai. Anche se io morissi… anche se il Coordinamento giapponese venisse rovesciato arriverebbero squadre di Civil Heroes da ogni parte del mondo per soffocare la Ribellione… e il risultato sarà stato solo riaccendere la paura verso gli Auris.»

«Oppure spargeremo la Liberazione ovunque.»

Non è lui a parlare… non ha mai creduto nell’Aurigarchia.

«Indi, rispondi a una domanda» gli fece, colpito da un pensiero improvviso. «Chi ti ha convinto a schierarti con loro? Chi ti ha portato via da me?»

«Non ha alcuna importanza. Quello che è davvero importante è che sono libero… da te, dai tuoi metodi brutali e dal tuo plagio mentale! Io sono stato salvato!»

Mukuro piombò di slancio sulla sua gamba spaccandogli il femore e facendolo crollare a terra. Byakuran allungò la mano d’istinto per raggiungere la falce ma strinse il pugno prima di trovare l’impugnatura: sapeva che correre all’arma avrebbe convinto il ragazzo che non era intenzionato a evitare lo scontro. Venne colpito e pestato come i bersagli dell’Aerofield e mentre proteggeva la testa con le braccia non riuscì a non sentirsi come il ragazzo fragile ed esausto circondato dai soldati sulla montagna.

«È colpa tua… tutta colpa tua! Tutto quello che mi è successo è colpa tua!»

Byakuran non poté replicare sotto quella pioggia di colpi violenti e a malapena registrò quello che gli aveva detto mentre altre ossa cedevano con terribili rumori e fitte di dolore che si piantavano dritte nel suo cervello. Alla fine dell’assalto le ali curarono le ferite e saldarono le fratture sotto lo sguardo furente di Mukuro che ansimava e Byakuran si asciugò con la mano tremante le lacrime sul volto.

«S-sì… sì» esalò l’uomo, rimettendosi in piedi a fatica. «Chiunque abbia fatto questo… di certo… la colpa è mia, in un modo o nell’altro…»

Mukuro scattò e lo strattonò per il colletto della Shattered Justice, ma l’unica reazione di Byakuran fu guardarlo con un sorriso amaro.

«Perdonami se sono stato così pessimo come padre…»

Una fitta attraversò la testa di Mukuro e Byakuran lo guardò stupito dal violento sussulto che ebbe. Lo vide tenersi le tempie con entrambe le mani e accasciarsi con gemiti di dolore; lo sostenne appena in tempo per non farlo finire faccia a terra.

Il cielo sopra la città iniziò ad ammassare rapidamente nubi scure ed elettrificate.

«Indigo… ehi, che cosa succede? Indigo!»

Non ottenendo risposta Byakuran gli impose la mano sulla testa cercando di rilevare la presenza di emorragie o ferite interne, qualsiasi causa fisica di quel dolore acuto, ma non trovò nulla di anomalo: il suo corpo sembrava in forma ottimale e in perfetta efficienza. Non sapendo cosa fare per aiutarlo rimase solo lì, stringendolo, cercando febbrilmente una soluzione a quel dilemma medico.

Non poteva sapere che nel cervello di Mukuro memorie sigillate si dibattevano per riemergere dalle tenebre in cui erano state nascoste e che questa era la ragione del dolore che lo faceva gemere e contorcere.

«Povera piccola anima.»

Byakuran guardò Fallen Angel, sorpreso dal suo tono di voce che mostrava per la prima volta empatia verso il dolore di qualcuno, ma l’entità non aggiunse altro. Mentre la pioggia iniziava a scaricarsi su di loro e a ripulire la Shattered Justice dal sangue il ragazzo smise di lamentarsi.

«Indigo, ti senti meglio? Parlami, dimmi qualcosa!»

Mukuro sollevò la testa, con l’occhio rosso che mandava bagliori anomali, e lo sguardo stralunato: sembrava non vedesse realmente ciò che gli stava di fronte. Una sorta di fumo o piuttosto di nebbia scura si levava da lui, dalla sua schiena e dalle sue mani, e Byakuran la percepì in modo non molto diverso dall’energia pulsante di Fallen Angel. Confuso da questa percezione non si accorse del tremendo istinto omicida che portava con sé.

«Non ti perdonerò mai per quello che mi hai tolto, Wing Emperor!»

La mano di Indigo artigliò il volto di Byakuran e lo scagliò giù dal tetto con una forza impressionante: solo l’istintiva apertura delle ali impedì che il Civil Hero si rompesse il collo sbattendo fatalmente contro il balcone più basso del condominio dirimpetto. I danni riportati, tutto sommato di lieve entità, vennero curati dalle ali mentre il ragazzo piombava giù con la falce tra le mani: quella strana aura scura che lo avvolgeva doveva averlo reso in grado di sollevare la Fallen Angel… o era stato lui a decidere che Mukuro poteva ereditare anche la falce dal suo tutore?

«Angel…?»

La falce non rispose al suo appello, ma Mukuro si fece serio, occhieggiandola prima di lanciare uno sguardo a Byakuran.

«Dove hai preso quest’arma, Emperor?»

«Io… l’ho trovata molto tempo fa. In una zona disastrata.»

«La porti sempre con te quando la situazione è in codice nero… forse la tua classificazione di quattro S include anche questo pregevole giocattolo?»

Byakuran esitò, attendendo di sentire la familiare voce sensuale, ma quella non venne. Quel silenzio lo turbava, ma capì comunque che era il tempo di calare le maschere e che forse Fallen Angel voleva che facesse esattamente questo.

Che danno può farmi confessarlo? Avere un ranking ineguagliato al mondo non ha impedito a queste persone di rivoltarsi contro quello che rappresento…

«In realtà, sì. La mia quarta S mi è stata assegnata per una straordinaria esibizione di potere distruttivo… di cui in verità quella falce è stata l’artefice. Una valutazione del mio potere probabilmente non mi collocherebbe che alla doppia S.»

«Possibile?» domandò lui carico di disprezzo. «La tua vita è soltanto una presa in giro, Emperor? Ogni cosa di te è una menzogna! Non sei potente quanto tutti credono, non sei neanche puro come gli altri hanno pensato per tutto questo tempo! Hai costruito un regno con le menzogne, con i sotterfugi, e hai usato i cadaveri degli innocenti per arrampicarti sul tuo trono!»

Mukuro piantò nell’asfalto la falce che persisteva nel suo silenzio.

«E tu hai affidato le tue speranze a questo fantoccio, madre…? I nostri destini… in mano a uno spaventapasseri?»

Si avvicinò mentre l’aura violacea fiammeggiava non dissimile all’incendio che stava divorando gli edifici, condominio dopo condominio. La mano che si serrò intorno al collo di Byakuran era forte come l’acciaio e quasi altrettanto fredda. Sentendosi già il fiato drasticamente ridotto tentò di liberarsi e questo fece sorridere Mukuro in modo così sadico da mettergli paura.

«Non riesci a respirare, Byakuran? Ti manca l’ossigeno? Non vuoi provare a rifilarmi una delle tue sciocchezze?»

«In… di…»

«Io so il tuo segreto. So che ti serve ossigeno per attivare tutti i tuoi poteri… per questo mi ha mandato a finirti. Non è solo per una vendetta familiare.»

Le dita si serrarono ancora di più e Byakuran prese un filo di aria con un rantolo che suscitò una spontanea risata nel ragazzo. Byakuran lanciò un’occhiata alla falce, ma era troppo distante per poterla afferrare. Emise un gemito strozzato e afferrò il polso di Mukuro, ma sarebbe stato più fattibile spostare un bilico.

«Allora, Ran… o vuoi morire per le tue colpe o non vuoi morire. Scegli, perché la ruota gira, ma tu puoi decidere se restarci sotto o risalirla.»

Byakuran alzò lo sguardo sul viso di Mukuro, sui suoi occhi di diverso colore che non trasmettevano nessuna reale emozione seppure la sua bocca fosse tesa in quel ghigno, e pensò a cosa potesse ottenere con la sua morte. Nel mondo sarebbe stato solo un caos, con un corredo di danni e vittime, che presto o tardi si sarebbe assestato senza cambiamenti degni di nota. Sul personale, avrebbe lasciato Yuni senza più famiglia, con una bimba in fasce. Kikyo si sarebbe sentito in colpa per non essere riuscito a proteggerlo. Amber sarebbe rimasta di nuovo sola, stavolta per sempre a meno che non fosse arrivato un altro uomo a prendere il suo posto.

Questo pensiero lo animò, perché fece esplodere i suoi “sogni normali” come un vulcano: si rese conto che voleva essere l’uomo di Amber per tutta la vita, che con lei voleva dare dei cuginetti a Comet e insegnare loro a chiamare Kikyo “zio”. Voleva dipingere tutti i ritratti delle persone importanti, più e più volte mentre il tempo passava. E voleva che in quei ritratti di famiglia ci fosse ancora Indigo.

Morire qui non mi darà niente… e non riparerà nessun torto.

Byakuran allungò la mano alla cieca, raccolse quello che sentì sotto le dita – sassolini di cemento e asfalto, frammenti di vetro – e lo lanciò sulla faccia di Mukuro con un gesto fulmineo; lui imprecò strizzando le palpebre e allentò la presa abbastanza da permettere a Byakuran di sottrarvisi e di allontanarsi di qualche metro, rimettersi in piedi e prendere avidi respiri.

Si portò la mano alla gola e la massaggiò, pur consapevole che le conseguenze di quello scherzetto le avrebbe sentite per settimane nonostante le sue ali.

«Ecco che ti mostri per come sei, Wing Emperor!»

«Mi dispiace, Indi. Se è possibile uscire vivo da qui mi piacerebbe riuscirci… e vorrei farlo con te.»

«Non contarci!» sbottò lui, aprendo a fatica gli occhi. «Non importa se non ci vedo, ti ammazzerò comunque! A costo di seguire il tuo odore di bugiardo e assassino!»

Di certo non tornerà con me come un bambino ricongiunto alla sua famiglia… ma non voglio ucciderlo… devo trovare il modo di tramortirlo e portarlo al Coordinamento da Kikyo… un modo lui lo troverà per tirarci fuori dai guai.

«Non sarà così facile. Devi ferirlo.»

Byakuran guardò la falce, costernato. Era fuori questione, e non osò contrattaccare il colpo a vuoto di Indigo anche se ne vedeva le aperture nella forma.

«Non puoi continuare a mentire… non… non ti permetterò di continuare ad ammassare corpi e a giustificarti, come hai fatto con la Charlotte!»

Quel commento sulla Charlotte, la più vasta e dolorosa cicatrice dell’anima di Byakuran, lo prese in netto contropiede e non fece altro che fissarlo a occhi sgranati. Forse nemmeno la voce proveniente dalla falce che sentì quand’era bambino l’aveva stupito tanto.

«Non credere che non lo sappia! I tuoi segreti orrendi… io so tutto di te… lo vedo!»

Quasi a sottolineare la sua affermazione la sua iride rossa mandò un baluginio di un istante.

«Il senso di colpa ti striscia addosso come fossi coperto di vermi… come se fossi già cadavere, Emperor!»

«Come… chi ti ha raccontato della Charlotte?»

«Qualcuno che sa cos’hai fatto! Non provare a raggirarmi, Emperor! Hai affondato una nave piena di innocenti perché un politico non ti si potesse opporre!»

«A-affondato…?»

Byakuran tacque e ricompose la sua espressione, posando su di lui uno sguardo serio che intaccò un poco la sicurezza di Mukuro.

«Questa è una vergognosa bugia. La mia natura è sempre stata quella di proteggere, non avrei mai causato un incidente che coinvolgesse degli innocenti… e mai, ti giuro, mai avrei provocato un qualsiasi danno a quella nave.»

Si portò la mano alla gola; gli faceva ancora molto male.

«Ero a Tokyo per incontrare una persona quando la Charlotte è stata squarciata da un’esplosione… un’avaria dei motori, sembra sia stata. È stato ad oggi il giorno peggiore della mia vita, e ce ne sono stati tanti a contendersi questo titolo, Indi.»

«Se non vuoi morire con ancora più dolore ti consiglio di tacere e non rifilarmi altre bugie» gli intimò Mukuro ferocemente.

«Su quella nave c’era Helena. La donna che ho ritratto tante volte… la donna di cui mi ero innamorato, con l’ingenuità e l’intensità con cui si innamorano gli adolescenti» proseguì Byakuran, forzando la voce. «Mi sono precipitato lì a cercarla. Per salvarla…»

Mukuro si tenne di nuovo la fronte, trattenendo a malapena smorfie di dolore, ma non gli scollava gli occhi di dosso nonostante lacrimassero ancora.

«L’ho trovata… ma era nella stiva, che cercava di soccorrere i pazienti dell’infermeria… la carena era diventata una camera di gas. Quando sono arrivato lì non c’era quasi ossigeno e non sono riuscito a portarla via… e poi, c’è stata la seconda esplosione.»

Il fragore, il tuffo sotto la superficie e lo stordimento tornarono in mente come un sogno vivido vecchio di un giorno anziché di diciassette anni.

«Quando sono riemerso dall’acqua sono stato salvato dalla Guardia Costiera… Helena era stata portata via verso l’ospedale, ma non è stato possibile salvarla. Che cosa ne sia stato del suo bambino non l’ho mai saputo… ho sempre sperato che fosse in America dalla sua famiglia, ma sapevo che era tornata con il permesso di asilo. Suo figlio doveva essere con lei sulla Charlotte.»

La gola era il minore dei problemi: il suo vuoto di voce era più dovuto al dolore che non lo lasciava mai al pensiero di quel fagottino. Un bimbo tranquillo che vedeva ogni volta che portava la spesa a Helena per conto del negozio in cui lavorava da ragazzo.

«Helena… hai detto… Helena?»

Qualcosa nello sguardo di Mukuro era cambiato. C’era ancora la rabbia, ma anche la confusione; lo sguardo vacuo di chi non riesce a comprendere.

«Hai ucciso la mamma… perché non potevi averla?»

«Cosa… la mamma?»

Un terrificante pensiero colpì Byakuran, che guardò Mukuro come se non lo avesse mai visto davvero prima di allora. Gli andò più vicino di quanto fosse consigliabile dalla prudenza.

«Guardati dal giovanotto, Ran. È ancora tuo nemico.»

Mukuro reagì al suo tocco lanciando un grido agghiacciante ed emanò un’aura violacea, la stessa inquietante manifestazione di potere arcaico che Byakuran percepiva al tocco della falce. La guardò, ma quella era piantata a terra e inerte, senza dare segno di essere qualcosa di diverso da quello che sembrava a un’occhiata superficiale.

«Cosa gli stai facendo, Fallen Angel?!»

«Non sono io a farglielo» replicò seccata la voce.

Byakuran si trovò di nuovo a sorreggere il ragazzo e come prima cercò la fonte di quel dolore, senza trovarla. Al contrario di prima, però, percepì che il suo corpo si stava deteriorando velocemente, come consumato da mesi di malnutrizione. Non si spiegava un simile peggioramento in pochi minuti.

Per qualche secondo Byakuran provò una strana sensazione. I colori gli sembrarono sbiadire, il crepitio dell’incendio, i rumori di battaglia e la pioggia scrosciante si abbassarono di colpo. Ognuno dei suoi sensi scese al minimo in favore di un innalzamento del sesto – almeno così gli parve – permettendogli di cogliere una presenza ostile vicina.

Guardò Mukuro in preda agli spasmi, perché sentiva che quella presenza era legata a lui, e comprese che cosa la Fallen Angel stesse cercando di dirgli. Non era una semplice riscrittura di memoria: qualcuno teneva la propria energia dentro il corpo di Mukuro per rendere il controllo più saldo. Una misura necessaria, visto che la prima volta era bastato che rivedesse una persona molto amata per incrinarlo.

Byakuran lasciò il ragazzo e si alzò, scandagliando intorno a loro tutti i migliori punti di osservazione sperando di cogliere qualcuno che li teneva d’occhio. I lamenti di Mukuro tacquero e si voltò per controllarlo, ma era scomparso. Un secondo dopo tutto quanto scomparve dalla vista di Byakuran: un pugno poderoso affondò nel suo plesso solare stroncando il suo respiro e irradiando il dolore in ogni cellula del corpo, la vista e la coscienza annebbiati all’istante. Si accasciò addosso a Mukuro, che lo respinse scaraventandolo per terra con noncuranza, come se avesse appena lanciato distrattamente una lattina vuota.

Non respiro… non posso respirare!

Per quanto tossisse e fosse scosso da singulti il diaframma di Byakuran sembrava incapace di tornare a contrarsi e per lui fu come essere di nuovo sott’acqua. Gli fu chiaro che in quelle condizioni le ali non sarebbero apparse, nemmeno quelle di Fallen Angel. Tentò di rimettersi in piedi, ma anche solo raddrizzare la schiena sembrava impossibile con quel dolore. Avvertì chiaramente con l’analisi cellulare di avere un’emorragia interna, ma non poteva fare nulla per guarirla.

«Ci siamo… mamma… papà.»

Si avvicinò a Byakuran inesorabile, a passi lenti ma senza traccia di esitazione.

«Quello che è stato fatto alla nostra famiglia sarà finalmente ripagato… e dopo…»

A quel punto esitò, come un attore amatoriale che dimentica la battuta. Si guardò le mani, spaesato, ma poi l’aura fiammeggiò e prese ancora una volta il controllo di lui: Mukuro gli schiacciò il piede sulla schiena inchiodandolo sull’asfalto.

Byakuran vide la sfocata sagoma scura della falce, ma non era in condizioni di afferrarla.

Se la prendo succederà come le altre volte… ucciderà Mukuro… e lui non deve morire…

Sentì lo stivale di Indigo piazzarsi sul suo collo e seppe che la prossima mossa sarebbe stata romperglielo. A quel danno non sapeva se persino il suo massimo potere avrebbe posto rimedio, figurarsi nelle condizioni attuali se aveva speranza di sopravvivere. Chiudendo gli occhi e serrando il pugno si chiese – per la prima volta per davvero – se Helena non fosse dall’altra parte, e se lo avrebbe biasimato per le sue scelte discutibili.

Poi Mukuro spostò il piede ed ebbe un singulto. Byakuran ne approfittò per spingersi sul fianco, aspettandosi di vedere dei rinforzi in arrivo, ma non fu felice di quello che vide qualche metro alle spalle di Indigo.

Sashko stava in piedi sul blocco di cemento alla base di un cartello stradale, con quattro alette da pipistrello spalancate, il sangue che gli colava da una narice e una salda audacia nei suoi occhietti di un rosso brillante. Il cuore di Byakuran affondò dentro le sue viscere danneggiate. Provò a gridargli di andare via di lì, ma non riusciva a emettere suoni controllati.

Mukuro si riscosse dalla sua inspiegabile paralisi e si voltò per guardare l’assalitore. I loro occhi si incontrarono e per un momento Byakuran osò sperare che l’affetto per quel bambino fosse intatto e forte abbastanza.

«Sei tu... hai fatto tu quella cosa poco fa» fece Mukuro, ostile. «Che cosa diavolo hai fatto esattamente…?»

Per bella risposta Bel saltò giù dal blocco e raccolse da un mare di frammenti di vetro la maniglia di metallo di una porta per brandirla come una mazza da baseball.

«Non fare male a Ran!»

«Sparisci, moccioso. Non mi interessa giocare con te.»

Mukuro ebbe un altro momento di immobilità, poi si portò le mani alle orecchie. Bel emise un gemito mentre il suo orecchio iniziava a sanguinare e qualsiasi effetto su Indigo svanì subito.

«Scappa!» gli ordinò Byakuran, con il poco fiato che aveva ripreso. «Subito!»

Mukuro si girò di scatto tirando un violento calcio al costato di Byakuran, che sentì cedere il polmone. Lo scaraventò indietro di un bel metro e mezzo e tornò a fissare il bambino con aria seria.

«Tu… sei forte. Troppo forte per essere così piccolo… sei pericoloso.»

Byakuran si girò sulla schiena emettendo un verso strozzato che avrebbe voluto essere un avvertimento, ma Mukuro frustrò i suoi sforzi ignorandolo. Allungò la mano afferrando il bambino per il collo e gli strappò di mano la sbarra quando tentò di colpirlo con essa.

«Avresti potuto vivere nel nuovo mondo se non ti fossi messo a difendere questo verme.»

Il bambino boccheggiò graffiandolo sul braccio, ma non superò la protezione del costume in Sound of Silence. Indigo alzò la sbarra con l’intento di colpirlo.

«Adesso, Ran, se ci tieni a salvarli entrambi.»

Non ragionò, a malapena sentì: con un colpo di ali asimmetriche raggiunse l’asta di Fallen Angel estraendola dall’asfalto e l’affondò nel corpo di Indigo senza esitazioni. Mentre il ragazzo lasciava sia il bambino che l’arma improvvisata con un grido di dolore gli passò il braccio sotto il collo.

«Questo… non ti permetterò… di farglielo fare!»

Diede uno strattone alla falce e Mukuro gridò stringendo gli occhi mentre un’esplosione di luce bianca e un rumore assordante come l’ululare del vento di un uragano riempivano l’aria intorno a loro. Un attimo dopo tutto si fece ovattato e Byakuran sfilò la falce producendo un orrendo suono umidiccio. Barcollò all’indietro, ansimando.

Il Velo era spettrale come la volta precedente. Posò lo sguardo sulla figura sfocata, inconsistente del bambino che era rimasto dall’altra parte, chiedendosi probabilmente che cosa fosse successo e dove fossero finiti i due combattenti. Non avrebbe mai voluto che assistesse a una guerra, e ancora meno che vedesse due figure importanti per lui uccidersi a vicenda.

Un gemito seguito da un colpo di tosse distrasse Byakuran dai suoi pensieri. Mukuro era caduto in ginocchio, tenendosi le mani sulla ferita, tremante. Fissava lo sguardo sulla figura bianca con rabbia e con paura: era stato colpito da un avversario che credeva ormai inerme e trasportato in un ambiente mai visto, inquietante, surreale.

«C-cosa… hai fatto… Emperor?»

«Non l’ho fatto io.»

Le ferite interne si stavano lentamente rimarginando, Byakuran lo sentì già dal modo in cui riusciva più regolarmente a prendere il respiro. Ma era consapevole che il Velo era una dimensione inospitale per umani come loro e che restandoci avrebbero solo aggravato le condizioni di entrambi.

«Questa dimensione è fatta per gli spiriti… Fallen Angel ci ha portati qui. L’entità che vive dentro questa falce.»

Mukuro cercò di replicare qualcosa ma tossì sputando un rivolo di sangue e si accasciò con un respiro roco. Byakuran scattò per correre in suo soccorso, ma venne bloccato da mani forti sulle braccia; mani che conosceva già.

«Non ancora, Ran» gli sussurrò la voce. «Per rompere il flusso devi lasciare che si indebolisca ancora. Aspetta… fidati di me, Ran, aspetta ancora.»

«Morirà!» urlò nel vuoto del Velo.

«Ho dell’interesse per la vita del ragazzo… quindi ora sta’ buono e aspetta

Mukuro emise un gemito sofferente tentando invano di puntellarsi sul gomito e Byakuran oppose di nuovo resistenza alla presa di Fallen Angel, senza risultato.

«Mukuro, ti prego, resisti… usciremo di qui tra pochissimo e torneremo a casa» gli disse, senza esserne per nulla certo. «Mi dispiace, Mukuro, non me ne sono mai reso conto!»

Sentì la presa allentarsi e Byakuran depose la falce.

«La Charlotte… la vendetta… credevi che avessi ucciso Helena… che avessi ucciso la tua mamma… perché sei tu, vero? Sei il bambino di Helena…»

Byakuran si inginocchiò e gli sollevò con delicatezza la testa. Ora che aveva finalmente collegato gli elementi notava qualche somiglianza tra di loro: lo stesso naso, le stesse labbra, gli occhi erano molto simili con quel taglio molto occidentale. Troppo poche, comunque, per biasimarsi di non aver capito prima la loro parentela.

«Tu sei Rin… in mia presenza ti ha sempre chiamato così…»

Gli venne spontanea una breve risata tesa e gli accarezzò i capelli.

«Ma lo sei sempre stato… gli altri bambini della casa-famiglia ti chiamavano Mukurin…»

Mukuro tossì debolmente.

«Ho sempre pensato che fossi con tua madre sulla Charlotte… e invece eri a Kokuyo ad aspettare il suo ritorno…»

Lo strinse un po’ contro il suo grembo, con la vista offuscata di lacrime.

«S-se soltanto me lo avesse detto… se me lo avesse detto ti sarei venuto a prendere… e per tutto questo tempo non avresti pensato di essere il figlio indesiderato… e-eri tutto per lei…»

Mukuro posò uno sguardo sorpreso su Byakuran; aprì e richiuse la bocca più volte come sul punto di parlare ma non lo fece. Byakuran attese che si decidesse, ma ci riuscì solo quando le lacrime gli scesero dagli occhi.

«B-Byakuran…»

Il fatto che usasse il suo nome lo emozionò, quasi come se suo figlio neonato avesse pronunciato la sua prima parola.

«Cosa c’è, Mukuro?»

«Puoi… portare un messaggio a Kyoya… per me? Non lo rivedrò più, m-ma…»

«Io… non so se potrò farlo… sono allo stremo e forse, aspettando qui con te, svanirò anche io consumato dal Velo.»

Mukuro sembrò sprofondare nel dolore ed emise un singhiozzo, nascondendo il volto appoggiandosi al torace di Byakuran. Era certo che ricordasse il suo amato compagno, quindi cercò la figura di Fallen Angel per avere da lui un qualche cenno. Non lo vide, se non nella sua forma di arma, e prese da solo una decisione. Prese alcuni lenti e profondi respiri e forzò l’apertura delle ali bianche, seppure fossero solo due e di apertura inferiore ai due metri totali, ma erano sufficienti per il suo intento. Controllando minuziosamente il respiro impose le mani sulla ferita di Mukuro iniziando a rimarginarla.

Man mano che procedeva le ali si rimpicciolivano a vista d’occhio; non aveva mai sperimentato una perdita così rapida di energia e suppose dipendesse dal Velo. Prese a pregare sottovoce che bastasse a salvarlo, che bastasse a farlo uscire dal Velo e restituirlo alla vita che meritava.

«B-Byakuran…»

«Devi vivere.»

«S-sto morendo» esalò con un filo di voce lui. «Lo sento…»

«Devi vivere, Mukuro, non ti azzardare a mollare adesso! Non importa come vivrai, non importa se canterai, o combatterai, o nessuna delle due cose! Devi continuare!»

Con maggior sforzo e tenacia continuò a rimarginare senza preoccuparsi di risparmiare energie per sé: era il figlio di Helena e doveva sopravvivere, non gli importava di sacrificare tutti i suoi progetti e desideri per lui. Era prezioso abbastanza da scommettere i suoi sogni.

«Non devi morire qui… non devi morire perché io ho fallito nel salvare tua madre! Non devi morire perché io sbaglio, sbaglio, e sbaglio ancora! Questa volta no!»

Non era in grado di rimarginare del tutto la ferita, ma ritenne che fosse sufficiente a garantirgli la sopravvivenza per abbastanza tempo da essere curato anche da un medico con le attrezzature standard. Lo tirò su sollevandolo di peso e afferrò l’impugnatura della falce con una mano. Il respiro gli diventava pesante come stesse correndo in alta montagna.

«Non sono stato… la figura della quale avevi bisogno… né quella che Helena avrebbe voluto che fossi per te, ma mi ha reso felice comunque conoscerti… e riconoscerti…»

Con un immenso sforzo sollevò la falce fendendo il Velo e uno scorcio colorato apparve davanti a loro.

«Abbi… abbi cura…»

Non aveva più il fiato per parlare né la forza di spingere Mukuro dentro la fenditura. Le ginocchia ondeggiarono indebolite, poi cedettero e Byakuran si accasciò sul fianco, privo di sensi.

«R-Ran… Ran!»

Mukuro gattonò fino a lui e lo scosse, ma non ottenne risposta. Lo girò sulla schiena e appoggiò l’orecchio al suo petto per sentirne il battito quasi impercettibile.

«Non risponderà, ragazzino.»

Questa volta Mukuro sentì la voce maschile e la riconobbe: era la stessa che aveva sentito parlare con Byakuran quando erano in infermeria. Alzò gli occhi per cercarne la fonte, ma non vide niente se non l’arma posata sullo sfondo bianco.

«Usare tutto il potere residuo per guarirti è stata una pessima mossa… una delle sue molte pessime mosse, in effetti. Non ha neanche cercato di proteggere i suoi sogni, no, ha pensato soltanto ai tuoi.»

Un sospiro mosse lievemente le piume che adornavano la falce.

«Una volta scomparse le ali il Velo ha cominciato a nutrirsi della sua essenza vitale, e tra poco, puff! Svanirà completamente.»

«Nemmeno per idea!»

Mukuro sfidò la sua ferita semiaperta per cercare di sollevare Byakuran, ma era troppo debole per riuscirci. Se quello sproloquio sul Velo era reale allora doveva supporre che stesse divorando anche la sua energia.

«Come si esce da qui?!»

«Perché dovrei dirtelo?»

«Sei idiota?! Ran morirà!»

«Sì… e credo sarebbe più gentile lasciarlo qui.»

«Cosa?!»

Mukuro sentì dei passi alle proprie spalle, ma non riuscì a voltarsi: una mano dalle dita ferree gli teneva la testa in modo che guardasse in avanti. La voce di uomo si accostò al suo orecchio.

«Ran non avrà mai più il potere che ha avuto prima dell’UTX. Non sarà mai più il Wing Emperor capace di salvare chiunque, di curare all’istante, di volare e combattere. Quella figura è morta la notte in cui Ran è stato preso dagli americani e non può ritornare.»

«L’ho appena visto combattere contro di me!»

«Lo stava facendo con un mio gentile prestito, sciocchino~»

Mukuro vide l’altra mano dell’uomo posarsi sul petto di Ran e sfiorargli il collo.

«La domanda è… Ran può vivere senza essere più quel simbolo? Può perdonarsi di essere egoista e vivere per sé stesso? Perché, sai, decidendo di salvare te è come se avesse confessato di non potercela fare.»

«Ran vivrà» rispose ostinato Mukuro. «Ran è un uomo divertente. È una persona che ama la vita anche se la sua è continuamente tormentata… anche piangendo, anche sanguinando lui ricuce gli strappi e lava le macchie. Non cederà.»

Un silenzio meditabondo seguì quell’affermazione.

«Mhh… ma finora aveva sempre avuto Wing Emperor. Quella facciata ridicola lo proteggeva dal vuoto che sentiva.»

Mukuro sbuffò e spinse da parte la mano, chinandosi su Ran. Il cuore batteva ancora, anche se si sentiva a malapena. Con un sorriso incerto gli diede una breve carezza.

«Tu vivrai per te stesso e i tuoi cari, da adesso… hai combattuto fin troppo a lungo.»

Si rialzò barcollando e scavalcò le gambe di Byakuran per dirigersi dov’era deposta l’arma. Quella li aveva portati lì e quella era la chiave per uscire, così si chinò per prenderla.

«Lui non vorrebbe che tu lo facessi… sei così ribelle da disobbedire a tutti e due i tuoi papà, Mukuro~?»

«Sono un adulto. Decido io quali battaglie combattere.»

Con decisione prese l’arma, che gli risultò molto più leggera di quanto credesse.

«Wing Emperor ha fatto la sua parte… ha combattuto per quindici anni. È ora che riposi… Indigo raccoglierà il suo testimone.»

Dall’impugnatura della falce veniva una strana energia, come una lieve corrente elettrica. Il respiro dentro il Velo divenne più facile da prendere e un flusso iniziò a scorrere fuori da lui dentro l’arma e da essa all’interno tramite le sue mani.

L’uomo apparve davanti ai suoi occhi: magnetico, inquietante e affascinante, con un boa di piume viola come quelle della falce. Gli sorrideva con malizia, con una perversa gioia.

«Ahh, sì, sì… tu sei diverso da Ran» gli disse, e si passò la lingua sulle labbra. «Io e te possiamo fare davvero uno spettacolo unico…»

L’uomo si chinò su di lui stringendo le mani sulle sue, il volto così vicino che parlando gli sfiorò le labbra. Dall’arma l’energia scorreva impetuosa come una cascata e Mukuro faticava a trattenerla.

«Tu puoi usarmi come nessun altro uomo potrebbe» gli sussurrò, senza mai sbattere le palpebre su quegli occhi scarlatti. «Non resistermi… accettami e usami~»

«A quale prezzo?» chiese Mukuro a denti stretti.

«Non chiedo la tua anima, non m’interessa… quanto alle forme di intrattenimento… diciamo che sono flessibile sui pagamenti~»

Mukuro distolse lo sguardo dagli occhi rossi solo un istante per guardare Ran ancora incosciente. Non ebbe bisogno di dire nulla: come se avesse percepito la sua arrendevolezza l’uomo scomparve e la falce emise un’enorme fiammata di colore nero e viola; quando si dissipò Mukuro non aveva bisogno di alcuna spiegazione. Fendette il Velo dal basso in alto con un gesto noncurante, afferrò Ran con una sola mano e lo trascinò con sé nella spaccatura colorata.

Riemerse nello stesso punto, con l’incendio più vicino di prima. Bel era ancora lì, da solo, con le ali afflosciate sulla schiena e la faccia sporca di sangue rappreso e fuliggine. Si scambiarono sguardi sbalorditi l’un l’altro.

«Kuro-nii!»

«Andiamo, Bel, sbrigati. Reggiti forte a me, dobbiamo portare Ran da un medico.»

Nonostante l’accaduto di poco prima Bel si aggrappò alla sua gamba, come se ai suoi occhi fosse una persona completamente diversa da quella che aveva provato a ucciderlo. Mukuro aprì un nuovo passaggio nel Velo e ne riemerse nello spiazzo del presidio medico, tra tende chirurgiche bianche e quelle verdi del ristoro.

«Bel, ascoltami bene» disse al bambino che si guardava intorno incuriosito. «Ora devi andare laggiù e metterti a urlare. Sai farlo benissimo, no? Devi portarli da Ran in modo che lo curino.»

«Devo urlare?»

«Sì.»

Mukuro adocchiò una figura facile da distinguere e sorrise.

«Vai da lei. Dalla ragazzina con i capelli azzurri.»

Belial la guardò e poi guardò ancora lui.

«E tu, Kuro-nii?»

«Vado a finire la guerra. Andrà tutto bene, okay?»

Gli diede un buffetto sul mento.

«Tu rimani con Ran finché non ritorno, hai capito? Proteggilo.»

«Okay~»

«Allora fai come ho detto.»

Belial schizzò via – con le ali ormai appassite che svolazzavano come un mantello inquietante – e lanciò uno dei suoi strilli acuti. Mukuro depose a terra Ran con riguardo e si allontanò in una zona al sicuro da sguardi indiscreti, dove si appoggiò di schiena a un container e strinse la falce con due mani.

«Quello sei tu.»

«Mh? Quello chi?»

«Quel bambino sei tu. Avete la stessa vibrazione.»

«Kuahah! Questa poi! Io vibro molto, ma molto più forte di un bambino~»

Mukuro scosse la testa e appoggiò la fronte contro l’asta, chiudendo gli occhi per concentrarsi. Le sensazioni e le percezioni erano amplificate, innaturali: gli sembrava di vedere centinaia di luoghi dal basso e dall’alto, di sentire migliaia di voci come un brusio e il respiro di infinite creature.

«Allora, Kuro~» fece la voce con irritante confidenza. «Ora disponi di tutto il mio potere. Come vuoi usarlo? Andiamo a massacrare tutti i Ribelli? O tutti i Civil Heroes? O magari entrambi e–»

Mukuro spalancò gli occhi all’improvviso. Senza dare spiegazioni alla voce tagliò l’aria e sparì nel Velo, sfuggendo ad Azure Miracle per pochi secondi.

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Capitolo 36
*** First spin of Samsara ***


Kyoko strinse gli occhi gridando quando la mano di Glacier Queen piombò su di lei per congelarla. Un momento dopo l’altra donna gridò di stupore, il ghiaccio che intrappolava le mani delle Civil Heroines andò in pezzi e Wish Luck finì con il sedere a terra. Zampettò scivolando sullo strato di ghiaccio per rimettersi in piedi e restò senza fiato quando vide la figura che si frapponeva tra lei e la sua avversaria. Non era Camaro, né un soccorso arrivato dalla prima linea.

«Indigo-kun!» strillò lei.

«Mukuro» sibilò Glacier Queen, nello sforzo di bloccare la falce di cui era armato. «Che cosa significa questo?!»

«Non toccare Kyoko» le ringhiò contro lui. «Non toccare nessuno dei miei amici, Glacier, o sarà l’ultima cosa che fai!»

Il calcio che le assestò spezzò di netto il blocco di ghiaccio che la teneva stabile e la scaraventò via per diversi metri. Kyoko scambiò uno sguardo con Haru per sapere se era ferita, ma lei lanciò un gridolino di gioia e le fece un cenno incoraggiante.

«Indigo-kun, sei qui!»

Lui non rispose e intrappolò l’avversaria in un groviglio di gambi di loto bianco così intricato da farla sembrare una mummia verde. Glacier si dibatté per un po’, gridando qualcosa di troppo soffocato per essere comprensibile, fino a che non rimase immobile. Mukuro attese qualche altro secondo prima di scoprirle la testa, ma lasciò ben stretti gli altri gambi.

Kyoko si mise sulle ginocchia e vide che Haru stava prestando soccorso a Camaro per la sua emorragia. Lei si sentì inutile anche come soccorritrice, tanto che non aveva il coraggio di guardare in faccia Indigo. Quando si rimise in piedi prese un altro scivolone sul ghiaccio e fu agguantata prontamente da lui prima che cadesse.

«Stai bene, Kyoko?»

A quel punto fu costretta a guardarlo e si accorse del suo occhio che brillava di rosso e dei capelli tagliati, ma per il resto sembrava lo stesso Indigo di sempre. Ai suoi occhi sembrava più bello che mai e forse per questo, forse per la gioia di vederlo, forse per la paura che aveva avuto di morire, lo strinse in un abbraccio forte. La sorprese sentire che la ricambiava con il braccio che non reggeva quella strana arma.

«E-ero così spaventata… credevo che… che…»

«Te lo avevo promesso o no?»

Mukuro le sorrise spontaneo.

«Che ti avrei difeso io sul campo di battaglia… che non ti sarebbe successo niente finché c’ero io. Non ti fidavi della mia parola?»

Si vergognava a dirgli di aver pensato che li avesse abbandonati tutti, così tacque e si asciugò gli occhi, cercando qualcosa di meno accusatorio da dire.

«C-come… come ci hai trovate?»

«Me l’ha detto un’amica» rispose lui in tono misterioso.

Le toccò la spalla e poi le mostrò qualcosa sulla punta del dito: una piccola coccinella gialla con molti puntini neri. L’insetto camminò sul guanto di Indigo e infine prese il volo.

«La migliore amica di Wish Luck poteva essere solo una coccinella gialla, non credi?»

Non era certa di capire come una coccinella sulla sua spalla potesse far sapere a Indigo dove si trovasse e che fosse in pericolo, ma non poté chiederglielo: si era voltato verso Camaro con aria grave.

«Si sta spegnendo.»

Insieme si avvicinarono al senpai e ad Haru, che lavorava alacremente mordendosi il labbro per non scoppiare in lacrime. Camaro era pallido e sembrava quasi che fosse già morto. Mukuro guardò verso l’alto con l’occhio rosso che brillava e Kyoko seguì il suo sguardo vedendo uno stormo di uccelli volare in un cerchio basso su di loro.

«Qualcuno verrà a prendere Glacier Queen e disporrà dei caduti» disse Mukuro, poi mosse la punta della lama della sua falce creando uno squarcio in aria; uno strappo su un ambiente di tende verdi. «Andate. Vi aiuto a sollevare Camaro.»

«A-andare dove?»

«Attraverserete un breve tratto di uno strano posto. Non fateci caso e proseguite, arriverete al presidio medico. Non c’è tempo, ci sono altre vite vicine alla fine e devo intervenire.»

Detto ciò, come fosse la cosa più naturale del mondo come far salire qualcuno in auto, le aiutò a reggere Camaro e ad avvicinarsi allo strappo. Le incoraggiò a saltare dentro e aspettare al campo il suo ritorno, ma quando Kyoko si voltò per chiedergli dove mandargli dei rinforzi Indigo era già scomparso.

 

*

 

«Mad Phoenix posso prenderlo io?»

La donna coi boccoli fletteva lo spadino come un antistress, guardando l’inerme Mad Phoenix come fosse un tortino da tagliare a fette e divorare. L’uomo, invece, sembrava avere occhi solo per Chrome Doll.

«Aspetta… può darsi che ci possano dire dove sono i loro amici… se ne facciamo fuori più di uno o due magari incassiamo meglio, da dividere in tre.»

Chrome Doll si lasciò stringere il braccio e l’uomo le parlò sottovoce, troppo piano perché Kyoya riuscisse a sentire qualsiasi cosa. La vide scoccargli un’occhiata invelenita ma oppose solo una resistenza tiepida quando l’uomo la tirò per le braccia per trascinarla verso l’auto nera lì vicino o il negozio di gacha dietro a quella.

«Cosa diavolo fai… dove la porti?!»

«Phoenix, non ribellarti, ti prego!»

Tentò comunque di divincolarsi dalla stretta di Falcon fissando la siringa di caffeina. Era troppo distante per pensare di raggiungerla con un corpo più debole di quello di un ragazzo normale della sua età per colpa di quel dannato farmaco.

Si voltò verso Chrome Doll e vide che aveva intuito la destinazione: l’uomo aveva intenzione di farla salire sull’auto. Quanto alle intenzioni non dubitava di essere nel giusto con le sue prospettive peggiori.

Un rumore insolito li colse tutti impreparati e portò Falcon a sussultare tanto da affondargli gli artigli nel braccio. Non si mosse un capello ai presenti ma l’ululato era quello del vento forte incanalato in una piccola gola; un bagliore sopra di loro fece istintivamente indietreggiare le due donne e poi il fragore di lamiere distrutte accompagnò quella specie di fulmine che si abbatté sul veicolo nero.

Kyoya trattenne il fiato riconoscendo la figura di Mukuro anche se la vide solo per un battito di ciglia. Un fendente a vuoto di quell’enorme falce che portava con sé scatenò un vento della potenza che avevano conosciuto nelle esercitazioni sulle tempeste tropicali e Kyoya incassò la testa per proteggere gli occhi, ma riuscì a sentire il grido dell’uomo e lo strillo da rapace di Falcon, che mollò la presa su di lui.

Finì faccia a terra ma libero, quindi individuò la siringa di caffeina e strisciò per afferrarla. Fu uno sforzo vano, perché lo stivale di Indigo la centrò in pieno mandandola in frantumi.

«Ehi!»

«Non ti serve più, Kyoya» ribatté la voce di Mukuro, rassicurante e calda come una coperta in quella situazione di tormento. «Ci sono qui io… siete al sicuro.»

Kyoya non sentiva quel senso di dolce abbandono, di fiduciosa arrendevolezza da quando era un bambino e Mad Horse era venuto a prenderlo alla fattoria. Si aggrappò alla mano di Mukuro per alzarsi in piedi e si strinse a lui; dominò la voglia di scoppiare in lacrime liberatorie solo per la presenza di Chrome Doll.

Mukuro intrappolò i tre Ribelli nei suoi fiori di loto bianco senza neanche degnarsi di guardarli, come se le piante agissero di loro iniziativa secondo il desiderio del padrone. Indigo infatti continuava a guardare Kyoya e gli accarezzò il viso con tenerezza.

«Ti avevo detto di stare a casa, Kyoya.»

Quel commento così inaspettato e inopportuno gli fece montare la rabbia: gli tirò uno schiaffo e fu buona cosa per lui che la sua forza se ne fosse del tutto andata.

«Pezzo di deficiente! Mi hai drogato e tu ti sei messo a combattere da solo! Che cosa ti aspettavi, che sonnecchiassi tutto il giorno in attesa che mi chiamassi, eh?!»

«Kyoya… Belial è venuto qui. Ti ha seguito fino a Tokyo ed era in giro a scorrazzare nella zona rossa.»

Ancora una volta gli mancò il respiro e dimenticò completamente la rabbia.

«Oh, no… no, e dov’è? Dobbiamo andarlo a prendere!»

«Sta bene» sospirò esasperato Mukuro, con un sorriso storto. «L’ho trovato e l’ho portato al presidio medico vicino all’aeroporto commerciale. Anche Ran si trova lì, e anche Luck, Love e Camaro. Dovete andare anche voi e aspettarmi.»

«Vuoi che ti prendo a pugni, allora» ringhiò Kyoya.

«Voglio che mi dai retta, accidenti a te.»

«Indigo» li interruppe Chrome Doll. «È molto più rischioso dell’altra volta… faresti meglio a tornare con noi da Night Hound, per riorganizzarci.»

«Lui non va da nessuna parte senza di me!» sbottò Kyoya.

«Lui può combattere, ma tu no! Per la miseria, quanto sei cocciuto!» rispose a tono lei. «Se non la pianti ti stendo!»

Mukuro si allontanò di un paio di passi da loro, con gli occhi fissi sul cielo ancora grigiastro e la pioggia che cadeva. Stringeva le mani sul manico della Fallen Angel.

«Quanto puoi darmene?»

«Tutto quello che serve… e molto di più, nel caso ti venissero idee creative su come impiegarlo~»

«Abbastanza da finire questa storia in un colpo solo?»

«Chi lo sa? Dipende da te, dopotutto… quanto lo desideri?»

«Voglio finire tutto ora» sussurrò, sfiorandosi la ferita aperta nell’addome. «E voglio andare a casa…»

«Allora dacci dentro, ragazzo. Fammi vedere che cosa sai fare!»

Pioveva, e questo era un vantaggio per lui. Aveva un modo per chiudere la storia e – se poteva fidarsi dell’entità dentro la falce – aveva anche la forza per riuscirci.

Chiuse gli occhi per raccogliere la massima concentrazione. Posò il manico della Fallen Angel a terra tenendola dritta davanti a sé, cercò di visualizzare quelle voci, quelle panoramiche molteplici e quei respiri in una grande mappa degli esseri viventi nell’area di Tokyo. Si allungò fino alla baia, poi si estese a sud e a nord lungo le coste e a ovest nell’entroterra, fino a dove riusciva a vedere e a sentire quegli echi.

Non è così grave… dove non arrivo ora, arriverò dal Velo.

Aprì gli occhi e quello rosso brillava come il sole all’ultimo sospiro del tramonto. Vicino ai suoi piedi sbocciarono fiori di loto rosa, uno dopo l’altro; sbocciarono in sequenza e coprirono l’acqua delle strade e dei marciapiedi tutt’intorno come un’ondata rosa acceso. Non sentì lo sforzo, come se fosse la normalità coprire chilometri quadrati di superficie di loto rosa, e presto espanse il suo potere fino agli angoli della città, con fiori che sbocciavano a distanze regolari come piantine di una risaia.

Alle sue spalle, Kyoya e Chrome erano meravigliati e stupefatti.

«È bellissimo!» sospirò la ragazza, affascinata.

«Ma cosa vuoi fare con…?»

Mukuro allargò le braccia cercando di espandere il più possibile il suo raggio di azione e quando non fu più in grado di vedere oltre quella mappatura di esistenze lasciò che i fiori compissero la loro magia… anzi, la sua magia.

«Non combattete più» mormorò.

Non sapeva come controllare di aver compiuto l’impresa, ma l’ipotesi del fallimento non era neanche contemplata nella sua mente. Poi il rombo delle battaglie, le grida e qualsiasi segno di guerriglia scomparve, lasciando solo lo scroscio della pioggia sulla città.

Il primo segnale fu l’auricolare di Chrome Doll che mandò un segnale di collegamento facendola sussultare.

«Ah… sì! Ricevo, Night Hound!» rispose lei al suo archetto. «È… sì… ho capito. Passo.»

Kyoya la guardò in una silenziosa richiesta di informazioni.

«Lo schermo del segnale è sparito… Night Hound sta ricontattando le squadre e le centrali di comando… forse… era un Ribelle caduto a disturbare le comunicazioni.»

«Non è caduto… si è arreso» mormorò Kyoya, e guardò Mukuro con l’aria incantata.

Mukuro sorrise di rimando.

«Avevo ragione su di te» commentò Fallen Angel, compiaciuto. «Sei molto più bravo di Ran. Tu non hai paura del potere… faremo meraviglie, noi due.»

«Andiamo» fece al suo ragazzo e alla sua ex compagna di scuola. «C’è ancora molto da fare… riuniamoci con gli altri.»

 

*
 

Damon, contemplando dall’alto l’infinita distesa di fiori rosa, strinse i pugni e colpì con rabbia il corrimano delle scale antincendio.

«Quello stupido marmocchio!»

«Indigo è più forte di quanto credevi?»

Damon girò su se stesso facendo perno sul tallone e come dal nulla impugnò l’asta di una falce dalla lama di uno scintillante metallo blu zaffiro e decorata da curvature nel filo a forma di luna crescente. Scrutò con sospetto il giovane davanti alla sua lama, un ragazzo dai capelli azzurri come il cielo sereno e l’espressione seria nonostante sorridesse. Riconobbe immediatamente il famoso capitano della Grand Crew, Azure Eternal.

«Che cosa fai tu qui, ragazzino?»

«Dipende da quello che ci fai tu, qui.»

«Se hai intenzione di arrestarmi dovrai avere un motivo per farlo» osservò Damon, raddrizzando la falce. «Hai forse prove che abbia preso parte dalla rivolta?»

«Non mi servono. Non sono qui per la rivolta, o almeno… non principalmente.»

«Dunque?»

«Mi stavo domandando perché qualcuno come te fosse in mezzo alle persone.»

Gli occhi azzurri di Gran diedero un baluginio mentre Damon si sentì come non si sentiva da molto, molto tempo: messo all’angolo.

«Sei curioso di sapere come faccio a essere sicuro di cosa sei?» domandò lui, come se gli avesse letto nella mente. «Anche io avrei delle domande… ad esempio, avete tutti una falce?»

Divenne chiaro che Gran, in modi a lui sconosciuti, era venuto in contatto con il suo arcaico antagonista. La falce con le piume doveva essere in circolazione da molto più tempo di quanto non avesse preventivato; ma non riuscì comunque a immaginare per quale motivo Belial si fosse preso la briga di entrare in contatto diretto con degli esseri umani.

«Sembra che non ti aspettassi che qualcuno sapesse di voi. Mi dispiace di averti turbato, ma dovevi pur venirlo a sapere.»

Gran alzò le braccia e dai palmi delle sue mani si manifestarono dei bagliori azzurri e sferici che divennero via via più intensi fino a diventare quasi abbaglianti.

«Lasciami essere chiaro: stai lontano da chiunque tu sia venuto a incontrare. Voi non dovete immischiarvi con il corso degli umani. Questo è il loro tempo.»

Daemon esibì un tiratissimo sorriso che non si estese al suo sguardo furioso.

«Arrivi tardi per questo. Ho lasciato molto più di quanto credi.»

Sorrise più convinto quando percepì lo stupore di Gran e attaccò senza preavviso quando lui fece per dire qualcosa: la falce produsse un sibilo mentre tagliava l’aria e uno schianto assordante quando impattò la mano avvolta dalla luce azzurra. Non sembrava fare particolare sforzo per bloccarla.

«Non essere ingenuo, non puoi battermi in questa forma!»

«Non m’importa di batterti… resti comunque una forma di vita inferiore.»

In un attimo Gran venne avvolto da una densa nebbiolina violacea. Tentò di afferrare l’arma prima che gli sfuggisse ma non vi riuscì; tossì e si mosse per togliersi da quella cortina che copriva tutti i suoi sensi, appena in tempo per vedere l’uomo dai capelli lunghi che correva verso il cornicione.

L’inseguì con uno scatto rapidissimo e le sue dita protese sfiorarono la sua cappa nera senza riuscire a stringerla mentre quello spiccava il salto nel vuoto. Gran frenò la sua corsa con la punta dei piedi già oltre il filo del cornicione e vide scomparire la figura nel nulla come mai esistita. Nello stesso momento una mano lo tirò indietro dal colletto., aiutandolo a riconquistare l’equilibrio.

«Ah… maledizione.»

Si voltò e guardò la donna dalla voluminosa chioma bianca, il costume verde chiaro e l’aria preoccupata, poi le sorrise.

«Grazie, Tiamat… ma sembra che l’abbiamo perso.»

Lei non disse niente, esibendo un’aria rattristata, ma Gran sorrise raggiante come se avesse portato a termine la sua missione splendidamente e le fece un cenno con la testa.

«Andiamo… riuniamoci a Rackam e agli altri.»

Tiamat sorrise allegra e fece un ampio giro volando intorno a Gran prima di scendere in picchiata fino al secondo piano del palazzo, poi guardò in su ed emise un curioso suono simile a uno scampanellio, fissandolo con insistenza. Il ragazzo, che stava per scendere il primo gradino della scala antincendio, la guardò con un sorriso incerto.

«Insomma, Tiamat, siamo qui per la nostra missione. Non è un picnic.»

La donna volante ripeté lo stesso suono e Gran sospirò.

«Beh, che c’è di male, dopotutto…» si arrese, guardando la distesa di fiori. «La Rivolta dei Dorati è finita.»

Detto ciò scavalcò il corrimano di slancio e si tuffò a testa in giù nel vuoto; precipitò fino al terzo piano prima di rallentare come cullato dal vento e toccò terra con dolcezza accanto a Tiamat. Lei sembrava divertita e lui lo era senza alcun dubbio.

«Grazie… hai ragione, mi sento meglio, adesso» ammise lui, passandosi la mano nei capelli azzurri già scarmigliati dal tuffo dalle grandi altezze. «Però dobbiamo andare da Lyria, sarà preoccupata… ti dispiace se ci sbrighiamo?»

Tiamat annuì sorridendo, afferrò il suo braccio con entrambe le mani e spiccò il volo trascinando con sé il capitano a svariati metri di altezza, volando al di sopra di strade, palazzi e molteplici focolai di incendi. Il volo era eccitante e l’opera di Indigo aveva trasformato la città in un enorme stagno di fiori di loto, che mitigavano la crudezza del panorama di uno scenario di guerra.

 

*

 

Gli occhi color viola si aprirono ancora una volta – contro le più ottimistiche previsioni del loro proprietario – e si fissarono su uno sfondo scuro, verdastro, sopra di lui. La luce era bassa e questo era un bene, i suoi occhi erano già molto sensibili a quel livello di luminosità. Ci volle qualche secondo prima che provasse a muoversi e sentì il corpo scoordinato e intorpidito, prima che sopraggiungesse una fitta di dolore al fianco sinistro che gli fece emettere un lamento roco.

Sollevò la coperta di uno sciatto color beige solo per scoprire che al di sotto era privo di vestiti e che una vistosa sutura spiccava sulla pelle in corrispondenza della sua milza.

«Lascerà il segno…»

La tenda divisoria venne spostata bruscamente e Amber raggiunse la branda, con l’aria devastata di chi non dormiva da giorni.

«Ran-chan!»

«Bambi… ciao…» sospirò lui, e alzò la mano per accarezzarla. «Non puoi capire quant’è bello vederti di nuovo, tesoro…»

Amber gli strinse la mano tenendola contro la guancia, con gli occhi azzurri che le diventarono lucidi.

«Come ti senti?»

«Non sento quasi niente» ammise lui, poi si ricordò gli ultimi momenti prima di perdere i sensi. «Cosa… cos’è successo con la rivolta?»

«È finita, Ran-chan… Mukuro-chan ha pensato a tutto… non so come ha fatto, ma l’ha fatto… in città ci sono già le squadre di ricostruzione…»

Amber sedette su uno sgabellino pieghevole accanto alla branda. Byakuran si guardò intorno, ma non notò altro che la vaschetta d’acqua e gli asciugamani.

«Dov’è la mia… roba?» si corresse all’ultimo. «La mia arma, i vestiti, e…»

«Non lo so… Kikyo ha detto che avrebbe messo tutto nella tua cassetta di sicurezza, quindi penso sia tutto lì.»

Sentì un improvviso vuoto nell’addome, come un gradino saltato, mentre ricordava altri frammenti dell’ultima giornata.

«E Bel? Dov’è Bel?»

«Credo che stia mangiando con Mukuro-chan, alla tenda del ristoro…»

Amber smise di parlare e Byakuran fu dell’idea che volesse dire altro ma ci avesse ripensato. Immaginò fossero brutte notizie e si allarmò.

«Che c’è?»

«Non… non credo che sia il momento migliore» replicò lei, strisciando le ginocchia fra loro. «Sei debole, ti sei appena svegliato… anzi, dovrei chiamare Azure Miracle per controllarti…»

Byakuran le prese il polso al volo quando lei provò ad alzarsi.

«Amber, voglio saperlo adesso. Cos’è successo?»

«Beh… non è niente…» fece lei arrossendo appena. «Non è niente di brutto… i tuoi amici e i tuoi classe S stanno bene, non ti preoccupare…»

Il pensiero andò allora a che cosa potessero aver fatto i piani alti, come sospenderlo o costringerlo a presentarsi davanti alla commissione per aver gestito male la situazione, ma in verità nessuna delle sue ipotesi lo impensieriva tanto da volerla affrontare con più vigore.

«Allora puoi dirmelo anche ora, no?»

Amber si stropicciò le dita e si sedette di nuovo. Strinse le labbra e poi si appoggiò contro il suo petto, con volto girato in modo che non potesse vederlo.

«Mi vuoi sposare, Ran-chan?»

Byakuran restò interdetto, con la mano a mezz’aria con l’idea di accarezzarle i capelli. Solo quando lei glielo ripeté – con un po’ più di incertezza – riuscì a sbloccarsi: le passò le dita nei capelli ed emise una risata incredula.

«Sì che voglio… ma… per la miseria, Bambi… volevo essere io a chiedertelo, come si deve… che umiliazione…»

«Zitto» borbottò lei. «Yogi con la camera rosa.»

Byakuran rise di nuovo nonostante il dolore alla ferita chirurgica. Quando Amber si sentì gli occhi abbastanza asciutti da voltarsi di nuovo a guardarlo, lui la baciò.

Al di là della tenda divisoria Percival scosse la testa, ma Gran gli fece segno di fare silenzio e i due si avviarono fuori. Il sole era tornato sulla capitale.

«Facciamo in tempo a dividerli?»

«No, Perce… la Ruota ha mollato la presa su Wing Emperor il cui potere calava e ha legato a un livello profondo con Indigo, il cui astro era in ascesa… la Ruota ha chiuso il primo giro. Ora non la possiamo più fermare.»

«Abbiamo fallito, allora?»

«Sì… ma quasi me lo aspettavo… fino ad ora non sono riuscito a sventare i suoi piani nemmeno una volta» ammise Gran, scrollando le spalle.

«E… adesso che cosa facciamo? Da adesso in avanti…»

«Osserviamo… e forse avremo un’occasione.»

«Per fare cosa?»

«Quando sarà, lo sapremo.»

Gran guardò verso la tenda gialla e Percival seguì il suo sguardo, trovando Indigo e Mad Phoenix seduti con il piccolo Belial in mezzo a loro che spazzolava dei biscotti come una piccola macchina tritadocumenti.

Ogni volta che il capitano aveva nominato la Ruota si era sempre immaginato figure maschili anche molto differenti tra loro, ma nessuna di quelle era un bambino.

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Capitolo 37
*** Epilogue: Fade to sky blue ***


 

Nella notte tiepida e umida di aprile Byakuran sedeva sul divano di vimini generosamente imbottito, con lo sguardo fisso in alto. Accanto a lui era raggomitolato Belial, gli occhi rossi fissi in cielo e un bastoncino di cristalli di zucchero da leccare nell’attesa.

«Ran?»

Byakuran interruppe la sua contemplazione e si alzò di fretta per guardare Amber. Era avvolta nella vestaglia e aveva il bambino in braccio.

«Che c’è, tesoro? Si è svegliato?»

«No… però… mi sento agitata. Non riesco a dormire» confessò lei. «Non sarebbe stato meglio allontanarci… andare da tua sorella, magari?»

«Bambi, tesoro… non c’è nessun posto più sicuro che sotto le ali di Indigo» la rassicurò lui, accarezzandola sulle spalle. «Siamo al sicuro qui… vedi? Io e Bel-chan siamo le persone che lo conoscono meglio e siamo qui seduti tranquilli…»

«Ma tutti possono sbagliare… e questo… insomma, non è mica un terremoto, o una cosetta così!»

«Mettiti qui con noi… guarderai tu stessa che non succederà niente di brutto. Dammi, tengo io Micah.»

Prese il suo primogenito in braccio. Lui dormiva beatamente e rimase addormentato anche in grembo al padre, mentre Amber si raggomitolava sotto una copertina sull’altro lato del divanetto. In silenzio, la famiglia che abitava la villa che era appartenuta a Luce rimase in attesa con gli occhi al cielo.

A pochi chilometri di distanza svettava la nuova torre panoramica di Mizura, un edificio costruito in onore nel nuovo Patto Indaco con cui il governo giapponese regolava l’uguaglianza sostanziale tra Auris e Clear, com’erano chiamati ora i Plumbei: una torre in colore oro e bianco, con la struttura centrale in color indaco come il ponte di Higashiki. Sulla sommità di quella torre simbolo di un nuova era, Mukuro sospirò.

«Quell’idiota… avevo invitato la popolazione a evacuare l’area nel caso mi fossi lasciato un po’ andare.»

Mukuro abbandonò la prospettiva della falena che volava vicino alla famiglia di Byakuran e tornò presente solo a se stesso. Nel cielo del Giappone la meteora era una scia rossastra che si ingrandiva lentamente, puntando verso la città che avrebbe impattato in otto minuti e poco più.

«Beh, vuol dire che mi toccherà farlo nel modo un po’ più faticoso.»

L’occhio baluginava. Aveva il suo tempo per farlo bene, quindi fece crescere con cura la gabbia di fiori di loto bianco intorno agli edifici della città, trasformando ancora una volta un habitat di cemento in un’idea di Shangri-La.

A cinque minuti dall’impatto era tutto pronto. Respirava in modo regolare, profondo, perfetto.

«Sei l’orgoglio di quel povero idiota, immagino» fece la voce di Fallen Angel. «Quattro anni fa eri un ragazzino terrorizzato dal tuo potere, e ora… guardati! Un meteorite sta per distruggere la tua città e tu sei qui a fronteggiarlo da solo~»

«È un frammento di meteorite.»

«Oh, non sminuirti, Kuro~»

«Ti ho già detto di chiamarmi Indigo. È questo il mio nome… questo è quello che sarà ricordato.»

Mukuro prese la falce e dopo un profondo respiro spalancò le sue sei ali. Non erano di piume come quelle di Wing Emperor, né d’insetto come quelle di Camaro: erano create con l’energia canalizzata della Fallen Angel, irregolari, aguzze, spaventose a vedersi… ma potenti abbastanza da sfidare persino la caduta di un corpo celeste.

«Andiamo.»

Spiccò il volo in una scia violacea, puntando al cuore della meteora con la falce pronta a colpire con tutta la forza che aveva. La città fu illuminata da una luce bianca, come un immenso lampo. Non seguirono esplosioni né schianti e la meteora rossa scomparve, come esistita solo nei sogni. La foresta di loto si ritirò lentamente lasciando Mizura alla sua notte silenziosa e serena.

Amber non si svegliò che qualche ora dopo, trovando il marito con un sorriso sul volto e i bambini addormentati addosso. La città era come il giorno prima, senza un singolo filo d’erba rovinato da un meteorite che solo due o tre anni prima avrebbe devastato chilometri delle isole del Giappone.

Felice dal profondo del cuore si alzò stiracchiandosi e sorrise, determinata a mandare a Indigo un cesto dei suoi cookies al cioccolato come pegno di gratitudine. Mentre il cielo notturno schiariva verso l’azzurro chiaro a est il suo sguardo si posò su un corvo, che spostava gli occhi neri da lei al marito sul divano coi bambini. Amber gli sorrise.

«Grazie, Indigo.»

 

 

 

Indigo finisce, ancora una volta.

Ho riscritto questa storia perché insoddisfatta della prima stesura, convinta che i personaggi (anche se OOC) avessero cose da dire che non erano quelle emerse da una storia tenuta sul binario di un finale scritto prima dell’inizio.

Questa Indigo, invece, mi è vicina al cuore. Scriverla è stato impegnativo ma una soddisfazione. Ora questa storia non è più solo mia, ma anche vostra. Di tutti voi che avete letto fino alla fine.

Grazie per aver condiviso il viaggio con me.

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