Capitolo due mystery
CAPITOLO DUE
Si fermarono solo quando il clima divenne così caldo da far
imperlare la pelle di sudore durante ogni momento della giornata e della
nottata.
Alfred fece in modo che i Drakkar si spiaggiassero da soli
lungo le rive sabbiose dell’ennesimo grande fiume.
Per la prima volta, il principe vide il comandante
sorridente. Il suo non era più un sorriso che assomigliava a un ghigno
provocante, bensì le sue labbra erano incurvate in maniera veramente rilassata.
Con soddisfazione.
I suoi occhi parevano frugare all’interno della vastissima
foresta che si estendeva attorno a loro, da ogni lato… era immensa, con le
strida di tantissimi animali ignoti che riecheggiavano tra il fogliame di
quegli alberi così alti e strani.
“Avanti, a terra!”, sbottò Alfred all’improvviso,
interrompendo l’incantesimo che l’aveva avvolto per solo qualche istante.
Sigurd e il precettore non si fecero ripetere l’ordine.
Appoggiando i piedi nudi su quel suolo così soffice, il
principe avvertì una strana sensazione, che gli riportò alla mente un sacco di
ricordi pregevoli. Tra lui e quella terra lontanissima da quella in cui era
nato si era già instaurato uno strano legame.
Trascinarono le imbarcazioni sulla riva, impiegando tutte le
forze a disposizione, prima di mettersi a scaricare il magro carico.
“Le pellicce. Assicuratevele a dovere attorno alla vita…”,
era l’ordine costante di Alfred.
Gli altri marinai non posero alcuna domanda, anzi, seguirono
il consiglio con una decisione tale da far sembrare al principe che quella non
fosse la prima volta in cui affrontavano una tale situazione.
Sigurd però non aveva più voglia di mettersi a faticare… la
sua mente, i suoi occhi, il suo corpo; tutto era diventato secondario al
cospetto della favolosa Natura che lo circondava. Gli tornarono alla mente i
versi degli antenati; la Madre Terra, un tempo rigogliosa e fertile… lì, ove
non c’era neanche un filo di vento a turbare le fronde degli alberi altissimi
che si allungavano con coraggio verso l’azzurro del cielo, sembrava che ancora
vivesse qualcosa di andato perduto.
Cos’era Vinland, al cospetto di un mondo così lussureggiante?
Muovendosi cautamente, si staccò dal gruppo di uomini
affaticati e accaldati, per spingersi verso la foresta. Voleva assolutamente
accarezzare il tronco di uno di quei grandi alberi, che di più alti di così non
ne aveva mai visti, e lasciò infine che la sua mano destra percorresse la
corteccia umidiccia del primo che ebbe al suo cospetto.
“Principe”, lo richiamò Alfred, improvvisamente vicino, “il
lavoro ti aspetta. Ma che fai?”, domandò poi, notando che stava accarezzando il
tronco di una pianta.
“La vita, comandante”, rispose distrattamente il ragazzo.
L’uomo gli si avvicinò ulteriormente.
“Come?”, chiese. Il tono burbero era sparito, al suo posto
solo la curiosità.
“Qui c’è vita, comandante”, ribadì Sigurd, “non è come
Vinland, la Terra dei Ghiacci”.
Alfred allungò una mano e gliela pose sulla spalla destra,
con fare paterno. Il principe quasi fremette, avvertendo il contatto; non era
mai successo che l’uomo gli riservasse un tocco gentile.
“Questo è solo l’inizio, ragazzo! La tua avventura inizia
qui”, borbottò.
“E finirà in mare, poiché non sarò mai re…”. Il giovane, con
tono basso e deluso, aveva appena finito di pronunciare quella sorta di
profezia quando il pugno deciso dell’uomo più anziano si infilò tra le sue
costole, piegandolo in due dal dolore.
“Sì, non sarai mai re”, ribadì con rinnovata rabbia il
comandante, per poi infine tornare a urlarlo, quasi fosse un monito da tenere
sempre a mente, “non sarai mai un re!”.
L’equipaggio rise forte, per poi gridarlo a sua volta.
Umiliato e piegato in due, il deluso e spezzato principe
riconobbe che non avrebbe mai più dovuto permettersi di abbassare la guardia.
Alfred era pericoloso e lo voleva morto, non doveva dimenticarsene.
Il precettore lo raggiunse a sua volta, chinandosi a suo
fianco, ma il giovane lo respinse con tono aspro.
“Non dovete asciugare le mie lacrime, Maestro. State al
vostro posto”.
L’anziano, per nulla intimorito, si permise solo di passargli
una pelliccia candida, di lupo artico.
“Non lo farò mai, principe. A te imparare dai tuoi errori. Tuttavia
devo consigliarti, e a quanto pare indossare questa pelliccia qui potrà esserci
di aiuto”. Lui già la indossava, apparendo davvero primitivo.
Senza pudori, Sigurd si slacciò il cencio che portava attorno
alla vita e si coprì le intimità con la pelliccia, come avevano fatto tutti gli
altri. Non era forse quello l’inizio di una nuova avventura? La prima e
l’ultima che gli sarebbe stato concesso di vivere? Ebbene, voleva affrontarla.
Da quando era venuto a contatto con tutto quel verde si era
sentito meglio, poco importava degli affronti e delle premonizioni di Alfred.
Raggiunse quindi i compagni di viaggio, che tra l’altro
detestava, e lavorò alacremente per mettere al riparo le imbarcazioni e
scaricare quel poco che contenevano. Si trattava perlopiù di utensili
provenienti da Vinland, e una parte del magro bottino saccheggiato dopo
l’attacco ai nativi compiuto assieme ai Fratelli.
Esso fu suddiviso in parti più o meno uguali, e a ciascuno
toccò un bel po’ di bagaglio. In seguito iniziò la marcia nella foresta.
L’intrico di rami si destreggiava tra sentieri battuti
sicuramente da altri umani… questo lasciava perplesso il giovane, che guardava
quelle piccole impronte e si chiedeva se quei nativi fossero simili a quelli
più a settentrione. Nel caso fossero agguerriti quanto loro, sarebbe stato
meglio evitare di entrare nel loro territorio.
“Tanti uomini, piccoli di statura”, la voce del precettore
riecheggiò tra i tronchi, riuscendo a emergere tra le strida acute degli
animali selvatici.
“E innocui, se vi comporterete come vi dirò”, proseguì
Alfred, che era in testa alla colonna. Mulinava la spada e tagliava di tanto in
tanto i rami che si abbassavano troppo, minando il sentiero.
“Nessuno di questi nativi ha mai attaccato uno di noi,
durante i precedenti viaggi”, sancì l’amante di Alfred, che era proprio dietro
al principe. Egli infatti si volse un istante verso di lui.
“Non sbagliavo allora a pensare che qui ci siete già stati”.
L’altro giovane rise.
“Io ben due volte, principe. E per ben due volte sono tornato
integro, così come i miei compagni; quindi, se non ci porterai sfortuna tu, ne
usciremo anche questa volta senza difficoltà”.
Punto nell’orgoglio, il più giovane dei due si limitò a
continuare a camminare, senza aggiungere altro.
Quanto detestava quella voce così femminea… Bjorn era il suo
nome, o almeno così Alfred lo chiamava durante i loro amplessi. Biondo,
longilineo, muscoloso, ma dalla voce troppo tenue e floscia, quasi da donna.
Sigurd lo odiava senza neppure sapere il perché, d’altronde
quella era la prima volta che gli rivolgeva la parola. Tuttavia, sperava che
non gliela rivolgesse mai più.
“Non tarderemo molto a incrociare alcuni dei nativi”, tornò a
dire a voce alta il comandante, “mi riferisco ai nuovi, che qui non ci sono mai
stati; non abbiate timore e non dimostratevi in soggezione. Essi sono
totalmente innocui, poi già un po’ ci conosciamo”.
Il principe, notando che il suo anziano precettore faticava
nella marcia, avendolo proprio davanti a lui, si allungò e gli tolse con delicatezza
il bagaglio, prendendolo per sé.
“Mio principe, cosa fai? Posso farcela”, affermò l’anziano,
col fiatone e un po’ sbigottito dall’improvviso gesto di altruismo del suo
protetto.
Il giovane non
rispose, e l’uomo poté solo ringraziarlo mentalmente. Sì, il viziatissimo
principino stava veramente crescendo e migliorando nello spirito.
Sigurd, dal canto suo, aggiunse il bagaglio al suo, già
pesante, e presto si ritrovò ad arrancare.
Bjorn lo superò ridacchiando, e il nobile gli scagliò contro
una mezza imprecazione, di quelle volgari udite proprio dai marinai durante la
lunga navigazione. Solo allora il precettore si volse a dargli un mezzo
scappellotto.
Eppure… tutto era destinato a finire presto, così come quella
marcia infame.
Gli insetti erano diventati fastidiosi, e pure il rumore
provocato dalle bestie che, su quei rami altissimi, lasciavano cadere scarti di
frutti ed escrementi.
All’improvviso il fracasso della Natura si bloccò; scese il
silenzio.
Un rapidissimo sibilo fu l’unica nota stonante in quel
silenzio surreale, ove i vichinghi si erano bloccati sul posto, come
pietrificati. Poco dopo, una scimmia dalla pelliccia nera e bianca capitombolò
giù a terra, a peso morto.
Cadde proprio a pochi passi da Sigurd, e rimbalzando sulla
fitta vegetazione gli finì ai piedi. Una piccola e rudimentale freccia
fuoriusciva dal costato della balzana creatura, di certo opera di qualche
umano.
Per un solo istante, il principe fu tentato di chinarsi verso
di essa e di studiare la fattura di quell’utensile così diverso da quelli
utilizzati dai guerrieri di Vinland, che sapevano usare solo la spada. L’arco e
le frecce erano ritenute armi da nemici.
Quando l’impulso di chinarsi l’ebbe vinta, fece per
abbassarsi verso la scimmia, ma dalla boscaglia emerse improvvisamente una
strana figura; il ragazzo indietreggiò subito, rimanendo colpito e un po’
spaventato da quell’apparizione.
L’uomo era praticamente nudo, solo un lembo di tessuto
copriva le sue intimità, e sembrava a sua volta un po’ perplesso nel trovarsi
di fronte persone così diverse da lui.
Sigurd osservò la sua pelle scura, pensando che in fondo il
sole di quelle latitudini stava rendendo anche lui di un altro colore.
Poco alla volta, altri tre cacciatori si aggiunsero al primo,
sgusciando fuori dall’intrico della foresta con agilità, essendo abituati a
muoversi in quel territorio composto perlopiù da alberi e da lunghe liane.
Alfred allora si mosse verso di loro, scostando il principe
con una mano.
Bjorn, che l’aveva seguito, cominciò a tradurre ai nativi le
parole che il comandante pronunciava… Sigurd rimase ad ascoltare, un po’
sorpreso. Non si aspettava che il suo nemico fosse addirittura capace di
parlare quell’idioma così diverso da quello vichingo.
Successivamente, i cacciatori sorrisero e andarono a
posizionarsi in testa alla colonna vichinga, parlando ogni tanto con Bjorn e
conducendo di fatto la spedizione. Il comandante affiancò il principe per un
solo istante.
“Sono nativi pacifici, questi. Ci porteranno in uno dei loro
villaggi, ci tratteranno bene e poi ci indicheranno la strada che ci porterà
alla nostra destinazione”, gli spiegò.
“Sa parlare quella lingua?”, chiese però Sigurd, ancora
esterrefatto dalla capacità di tradizione di Bjorn. Lo indicò con una mano, per
chiarezza.
Alfred rise piano.
“Bjorn è un giovane pieno di risorse, ma la sua particolarità
è che impara molto in fretta le lingue. È un ragazzo in gamba, dovresti
imparare da lui”. Così dicendo, superò il principe e lo lasciò a osservare le
scene che si stavano susseguendo davanti ai suoi occhi.
Per la prima volta in vita sua, il giovane si ritrovò a
provare invidia per qualcuno.
Gli scuri e tozzi nativi li accompagnarono fino a un loro
villaggio, ove i vichinghi furono accolti con grande calore. Ospitali, le
indigene lavorarono granaglie senza sosta e servirono pasti ai nuovi arrivati,
mentre Alfred ricambiava la loro generosità con alcuni degli oggetti che si era
portato dietro dai drakkar.
Al principe quelle cibarie non piacevano tanto, tuttavia
aveva molta fame e si ingozzò a dovere. La stessa cosa fu per il precettore,
che però non sembrava affatto a suo agio in quelle terre ignote. Era sempre più
silenzioso e non parlava quasi mai. Aveva un aspetto torvo… oppure malaticcio? Sigurd
preferiva non osservarlo troppo, per concentrarsi sul mondo circostante.
Quelli che lo circondavano dovevano essere nemici a tutti gli
effetti, come ogni nativo, però erano così umani… così tanto che i bambini
correvano verso di lui, pacifici e sorridenti, per allungare le mani verso
Thor.
Il piccione era rinato, a stare all’aria aperta; il principe
l’aveva lasciato libero, ma la creatura piumata non si era mai allontanata da
lui. Il suo piumaggio rifletteva i caldi raggi solari di quelle latitudini
remote e sembrava davvero una particella delle antiche divinità rimasta
intrappolata nel corpo di un umile pennuto.
Sigurd era fiero di lui e permetteva ai ragazzini di
sfiorarlo, qualora anche l’animale si mostrasse accondiscendente, senza
ritrarsi al cospetto delle mani allungate.
Il comandante l’avvicinò non appena riuscì a liberarsi della
festante presenza di una decina di bambini.
“L’uccellaccio sta avendo successo”, ironizzò, riferendosi
chiaramente a Thor. Il principe gli riservò uno sguardo strano, quasi
sprezzante.
“Questi nativi sono diversi da quelli settentrionali, e sono
diversi anche da noi. Pare adorino la Natura e le sue creature più graziose”,
si limitò ad affermare.
Alfred rise, mettendo in mostra i suoi denti gialli e
rovinati.
“Questi non conoscono neppure Dio. Hanno dei templi immensi
dove si recano a fare sacrifici… anche umani, ho visto io stesso con questi
occhi”, asserì, poi fece per allungare una mano verso Thor, ma il piccione
svolazzò e andò a posarsi sulla spalla opposta del suo padrone.
“Non sei amato dagli Dei”, disse con sicurezza il principe…
che neanche si accorse dell’aggressività con cui aveva pronunciato quella breve
frase. Era rimasto solo colpito dal netto rifiuto del volatile, eppure quelle
parole erano sbocciate in modo spontaneo dentro di lui… come qualcosa che
andava assolutamente detto.
Rimase col fiato sospeso mentre osservava la grande e callosa
mano di Alfred, ancora all’altezza del suo viso. Essa, infine, non tornò a
cercare il piccione, limitandosi ad abbattersi con fragore contro la guancia
destra del ragazzo.
“Non so che cazzo hai in questa testa vuota…”, imprecò il
comandante, schiumante di rabbia, “…sei tu che ci stai portando sfortuna, con
queste evocazioni delle forze antiche. Prima questo piccione col nome di una
divinità, poi mi insulti con quella lingua del cazzo…”, pronunciò nuovamente
una serie di imprecazioni orribili, “…hai molta merda dentro di te. Devi
spurgarti, e anche pentirti, perché noi abbiamo un solo Dio e i nostri avi ci
hanno lasciato la benedizione del Battesimo. Non ti sarà permesso mai più, al
mio cospetto, di pronunciare frasi di questo genere…”, altre imprecazioni
caotiche, “…se noi siamo giunti fin qui è solo grazie all’infinita potenza di
Dio...”.
Uno sfogo epico, che lasciò interdetto Sigurd.
Con le mani si massaggiava la mascella appena colpita, ferito
nell’animo e nell’orgoglio. Era riuscito a far arrabbiare il vecchio come mai
era accaduto da quando era salpato da Vinland.
Davanti agli sguardi della ciurma e di tutti gli altri
presenti, Alfred tacque interrompendo lo sfogo come se non fosse mai riuscito a
esporre per davvero il nocciolo del suo pensiero. Non disse altro e gli volse
le spalle, ancora schiumante di rabbia, e se ne tornò tra i nativi.
Di nuovo umiliato e rosso in viso, il principe si guardò
attorno e notò che tutti distoglievano lo sguardo da lui… tutti, tranne Bjorn,
che lo osservava poco distante. Quando i loro sguardi si incrociarono, Sigurd
riuscì a scorgere una scintilla di divertimento nei suoi occhi.
“Il comandante ha ragione. Non devi permetterti mai più”.
Il precettore gli si avvicinò poco dopo. Lentamente, con la
voce tremolante. Forse temeva che il suo protetto stesse per esplodere, e in
effetti era così.
Solo e isolato, con Thor sulla spalla a passarsi le piume con
il becco, il giovane di sangue reale era nervosissimo. Udire quelle parole non
gli fece bene.
“Non ho più bisogno della vostra protezione, Maestro. Ritenetevi
congedato fin da ora”, gli ordinò senza guardarlo. L’anziano però non prestò
attenzione alle sue parole, e si mise a sedere vicino a lui.
“Mio principe, sei alquanto cambiato. Questa avventura sta
lasciando un profondo solco dentro di te…”.
“C’è sempre un prima e un dopo”, lo interruppe il giovane,
con arroganza, “solo un anno fa ero ancora un ragazzino che non viveva senza
suo padre. Che non usciva mai dalle stanze adibite appositamente per lui.
Adesso sto diventando un uomo, io…”.
Una lacrima solitaria solcò il suo viso ancora con tratti da
bambino.
“…io voglio diventare un uomo”, concluse, poi, asciugandosi
la lacrima.
Ironia della sorte, essa era finita proprio per solcare il
lembo di pelle arrossata dal colpo ricevuto da poco. Il vecchio sospirò e
l’abbracciò forte.
“Ce la farai, sei sulla retta via. Ma devi sapere che tutto
si ottiene grazie ai valori e allo spirito, così come tuo padre ha fatto
finora. Elogiare divinità ormai dimenticate non ti farà bene e attirerà solo il
male e il malumore del popolo. Per questo non mi sono opposto al ceffone, tutto
qui”, si spiegò.
Il principe però negò vistosamente con il capo, e sgusciò via
dalla stretta paterna, alzandosi a tornando ad allontanarsi.
Il precettore lo osservò con attenzione, senza seguirlo.
“Forse l’errore è stato quello di avergli fatto conoscere la
Storia dei nostri antenati”, mormorò.
Quel suo pensiero espresso a voce però fu inghiottito dal
rumore di una foresta indomita e implacabile.
Lasciarono il villaggio degli indigeni solo il giorno
successivo, riprendendo la marcia alle prime luci dell’alba.
Sigurd aveva preferito dormire all’aperto, per non mischiarsi
agli antipatici compagni di avventura, tuttavia fino a notte inoltrata non era
riuscito a prendere sonno. Era giunto addirittura a pentirsi della sua scelta
arrischiata; infatti, dalla boscaglia lussureggiante emergevano di tanto in
tanto certi suoni… certi versi strani.
Inoltre, una moltitudine di fastidiosi insetti non gli aveva
dato tregua.
Era riuscito solo ad assopirsi quando il suo Maestro l’aveva
raggiunto, e abbracciandolo gli aveva trasmesso di nuovo un po’ di sicurezza.
A seguito di quella notte lunghissima e travagliata, il
mattino successivo non fu facile da affrontare. Di nuovo con molto materiale
caricato sulle spalle, il giovane riprese la marcia restando in fondo alla
colonna, assieme al precettore, e senza rivolgere mai la parola a nessuno.
Da parte sua, Alfred si era comportato come se si fosse
addirittura dimenticato che lui esisteva. Al giovane non era importato molto.
Durante la marcia, con in testa alla colonna alcuni nativi
che la guidavano, non riusciva a distogliere gli occhi dal comandante e da
Bjorn, sempre così vicini… poi, accadeva che li perdeva di vista a lungo, a
causa della distanza, seppur leggera, e si ritrovava a rodersi l’animo.
Il più efferato uomo di Vinland non avrebbe mai alzato una
mano verso il ragazzo che più amava, il biondissimo e intelligentissimo giovane
suo coetaneo. Invece, nei suoi confronti non solo si era sfogato a più riprese
e con violenza, ma aveva continuato a dimostrare disprezzo e a schernirlo con i
suoi uomini.
Senza dimenticare che gli aveva detto più di una volta che
non sarebbe mai diventato re. L’aveva umiliato in tutti i modi, vessandolo e
obbligandolo a far fatica e a comportarsi come il componente più inutile e
villano della sua ciurma di mezzi banditi.
Si accorse così di odiarli, giurando odio eterno a quel
vecchio puzzolente che gli aveva reso tanto amara l’esistenza. Se avesse potuto
fargli del male, l’avrebbe fatto, prima che egli potesse infierire di nuovo.
Anche se… in un certo senso, quel folle rancore pareva
convogliare verso un altro lido opposto. Sapeva bene che Alfred era un ottimo
amante; aveva sentito più volte le dolci parole che sussurrava di notte a
Bjorn, unite ai suoi ansiti colmi di un piacere che a lui era ancora
interamente sconosciuto.
Si ritrovò a immaginarsi al posto del suo nemico e coetaneo…
quelle mani callose sul suo corpo, quelle parole piene di elogi… oh, voleva
meritarsele anche lui.
Un leggero gonfiore alle parti intime gli fece smettere di
pensare a quelle cose, prima che qualcuno potesse notare l’imbarazzante
rigonfiamento sotto la pelliccia.
Camminarono per giorni, quella volta soggiornando sempre
all’aperto, facendo così pentire il principe di non aver tratto piacere dalla
comodità di quella notte ospitale offerta dai nativi.
In ogni caso, proseguendo speditamente la marcia nonostante
la fatica, sembrava che la meta fosse sempre più vicina. Gradualmente la
foresta iniziò a lasciare maggiore spazio agli esseri umani e non era più un
caso eccezionale attraversare qualche ignoto centro abitato.
Adesso un buon reticolo di strade e di sentieri sicuri si
diramava abbastanza distintamente.
Senza ulteriori difficoltà, il gruppo dei vichinghi procedeva
abbastanza speditamente, con Sigurd sempre abituato a ricevere gli sguardi
curiosi delle persone del posto.
Doveva ammettere che aver avuto a che fare con quei barbari
non era stato poi così male; le popolazioni più settentrionali erano perfide e
guerriere, queste invece calme e pacifiche.
Dopo una marcia lunghissima, ove il ragazzo non aveva mai
contato il numero dei giorni di cammino, infine si giunse allo splendore… a ciò
che gli cambiò la vita.
La sola vista della città immensa i cui alti templi
emergevano dalla foresta era stato qualcosa di abbagliante. In una terra
davvero molto estesa dove non esistevano le stagioni e le persone erano tutte
quasi nude, parlavano la stessa lingua e avevano più o meno le medesime
abitudini, be’… pareva il Paradiso.
Il principe bramò allora anche quel luogo così lontano dal
freddo regno di suo padre, piccolo e ristretto, retrogrado e incuneato tra
l’oceano rabbioso e i ghiacci eterni. Se solo avesse potuto, di certo avrebbe
accettato uno scambio. Avrebbe scaricato Vinland subito, immediatamente, su due
piedi.
Solo quando i suoi piedi nudi e ormai callosi cominciarono a
percorrere le strade di quella città sterminata si rese conto di quante persone
ci fossero. Tantissime; innumerevoli.
Ovunque, dimore di ogni genere e mercanti. Ovunque, non c’era
uno spazio libero.
Il chiasso provocato da tutta quella gente era ancora più
elevato di quello prodotto dalle bestie selvatiche della foresta.
Il giovane riuscì presto ad attirare l’attenzione di una
donna, che gli si avvicinò in fretta porgendogli qualcosa. Lui la guardò un po’
stranito e lei rise, lasciando che quella risata sincera percuotesse il suo
petto e facesse ondeggiare i seni prosperosi e nudi.
Senza malizia alcuna, la donna continuò ad allungargli quello
che sembrava un pezzettino di pesce.
“E’ un dono che ti vuole fare, accettalo pure. Non ti hanno
insegnato che è scortese non accettare i regali?”.
Il tono perentorio di Alfred distolse il principe dalla sua
immobilità.
Un po’ timoroso, allungò la mano e afferrò il frammento di
carne. Era la prima volta che il comandante gli rivolgeva la parola e un po’ di
attenzione dopo l’ultima rigidissima sfuriata, quindi aveva timore di incorrere
di nuovo nella sua ira.
Mise in bocca e masticò il boccone, scoprendo che si trattava
davvero di un piccolo filetto di pesce, salato e trattato, oltre che dal gusto
favoloso. Affamato com’era, pensò subito che ne avrebbe accettato dell’altro.
“Grazie”, disse alla donna, con gentilezza, e quest’ultima
gli sorrise, anche se non poteva aver capito la sua lingua. Era fantastico
riconoscere la gentilezza e la bontà di quegli indigeni, sempre ben disposti
verso il prossimo, seppur diverso da loro.
“Piaciuto?”, tornò alla carica Alfred, che gli si era
avvicinato ancora di più. Tuttavia, Sigurd aveva occhi solo per la donna e per
quello che gli stava porgendo, e cioè un bel recipiente colmo di quel pesce
buonissimo che aveva appena gustato.
Fece per allungare una mano, ma lei lo ritrasse e allungò
l’altro suo arto, rimasto libero.
Alfred rise forte, come suo solito.
“Principe, devi pagare se ne vuoi altro”, gli fece notare.
“Pagare? E con cosa?”, gli chiese, un po’ ingenuamente.
Si volse a osservarlo; il maturo comandante non pareva
innervosito, bensì divertito e ben disposto nei suoi confronti. La tempesta si
era quietata.
“Con quello che hai trascinato a spalla fino a ora. Cosa
credi, di aver trasportato tanto peso per nulla? Avanti, falle vedere cos’hai
con te; quando avrà scelto qualcosa che le piacerà, in cambio ti darà altro
pesce”.
Elementare, riconobbe il ragazzo, che seguì alla lettera ciò
che gli era stato detto. Per fortuna non dovette mettersi a togliersi tutto di
dosso, poiché l’indigena parve attratta da un frammento di minerale roccioso
proveniente direttamente da Vinland, e dopo averlo preso con sé gli aveva
offerto subito altro pesce.
Il ragazzo mangiò con gusto, gettandosi sul cibo come un
rapace.
Alfred tornò a ridere.
“Benvenuto a Tlatelolco, mio caro principe! Questo è il
centro del mondo”, e platealmente allargò le braccia, come a voler indicare
tutto ciò che li circondava.
Sigurd si guardò attorno e scorse alcuni dei suoi compagni di
viaggio intenti a loro volta a fare scambi e a nutrirsi. C’era calca e i bassi
nativi parevano concentrarsi tutti attorno ai pallidi stranieri, da poco
entrati in città. Del precettore, nessuna traccia. Non si preoccupò molto per
lui.
“Me ne rendo conto”, fu costretto infine ad ammettere.
Alfred gli posò una mano sulla spalla ormai inscurita
dall’abbronzatura.
“Ragazzo mio, ti ho portato fin qui affinché tu potessi
vedere con i tuoi stessi occhi quanto in realtà è piccolo il mondo di tuo
padre; dimmi ora se tu hai mai immaginato una tal vastità di popoli, di climi,
di verde”, lo interloquì con saggezza.
Sigurd, sincero, scosse il capo in cenno di diniego.
“E ci pensi che, se non fossimo concentrati a vivere in quel
remoto angolo di mondo incastonato tra i ghiacci eterni, avremmo potuto creare
un regno vastissimo, emulando le gesta dei nostri antenati? Invece i nostri
sovrani restano da secoli racchiusi in quel che ritengono un nido, un luogo
protetto, senza degnarsi di ciò che invece li circonda. Il viaggio fin qui
infatti è lungo, ma non impossibile; basta seguire la costa…”.
Thor svolazzò quando notò l’ennesimo spostamento di Alfred,
che tolse la mano dalla spalla del più giovane.
“E’ vero”, tornò a riconoscere il principe, con profonda
convinzione, “infatti se mi sarà concessa occasione, io non commetterò questo
sbaglio. Io… renderò immenso il regno di mio padre”.
Il comandante sorrise.
“Guarda tu stesso questi nativi pacifici. Fanno parte di un
vastissimo impero, che chiamano Messico. Tuttavia, nonostante sappiano
combattere in caso di guerra dichiarata, e lo sappiano fare con grande valore,
non sono capaci di lavorare il ferro, né lo conoscono. Hanno delle frecce,
certo, ma quanto pensi che possano resistere contro le valorose spade forgiate
tra i ghiacci?”.
Il principe annuì nuovamente, interessato da quelle
riflessioni. Comunque, Alfred non pareva intenzionato a proseguire oltre quel
discorso tranquillo e colloquiale. Si allontanò in fretta, forse troppo, e
cominciò a richiamare gli uomini.
Tutti attorno a lui.
Era giunto il momento, a quanto pareva, di radunarsi e di
trovare un punto in cui esporre ciò che si era portato da Nord, tutto assieme,
senza separarsi e perdersi tra la folla.
Solo in quel momento Sigurd riuscì a ritrovare il suo
Maestro; egli era accasciato poco distante, stanco e dall’aria sfinita. L’aiutò
a rialzarsi e se lo trascinò dietro, con i vichinghi di nuovo riuniti e pronti
ad affrontare quell’ennesima ma pacifica avventura da improvvisati mercanti.
Si susseguirono un paio di giornate molto piacevoli. Gli
stranieri dalla pelle pallida e dai capelli chiari avevano attirato subito
l’attenzione, ma in maniera genuina; probabilmente, dovevano averne già
incontrati… quello era di sicuro la certezza che Alfred non aveva mentito a
riguardo.
Era davvero già venuto e tornato da quelle terre così calde,
senza lasciarsi intimorire dal viaggio lunghissimo e ricco di insidie. Lui non
era più un novellino, di certo.
Nonostante i recenti alterchi, tra egli e il principe era
tornata la tregua. Sigurd aveva imparato a convivere con quelle persone piccole
e strane, molto ospitali; aveva dormito sull’ingresso di alcune loro
abitazioni, non fornite di porte. Pareva che in quella città magica non
esistesse il crimine. Si stava semplicemente benissimo.
Durante il terzo giorno di permanenza in quella sorta di
mercato perenne, ove ogni giorno migliaia di venditori e di possibili clienti
si accalcavano lungo le large e calde strade, il principe poté assistere a un
sacrificio rivolto alle divinità locali; un uomo aveva acquistato un volatile
di notevoli dimensioni, dal piumaggio grigiastro, per poi stordirlo e
strappargli il cuore proprio sull’ingresso di casa sua.
Il sangue aveva bagnato il selciato circostante… il principe
si era affrettato a rivolgere lo sguardo verso i suoi compagni, ma tutti
parevano concentrati sugli scambi coi nativi; essi apparivano ingenui, e non
conoscendo in apparenza il valore dell’oro, lo offrivano in buone quantità al
fine di accaparrarsi oggettini inutili provenienti dal Settentrione.
Solo Alfred stava seguendo la scena, sovrappensiero. Quando
il comandante volse lo sguardo verso di lui, il giovane si affrettò ad
abbassarlo. Non voleva che notasse il suo interesse per quel genere di
pratiche.
Comunque… quella ricerca delle divinità tramite il sangue era
qualcosa che lo inebriava. Che gli faceva tornare alla mente tutte quelle
letture che aveva affrontato da bambino.
Come poteva credere in un Dio che gli aveva donato un mucchio
di pietre immerso nel ghiaccio, quando molteplici divinità, con la loro
potenza, erano riuscite a creare qualcosa di così splendido e difficile persino
da immaginare?
A rovinare la magia, giunse la notizia dell’arrivo di altri
uomini pallidi.
Durante il quarto giorno di scambi, molti nativi andarono a
parlare con Bjorn.
La sua preoccupazione crebbe quando sopraggiunsero anche
alcuni nobili locali, ornati di piume e dai corpi profumati. Senza avere la
benché minima idea di quel che stesse succedendo, il principe proseguì i suoi
scambi, tuttavia si accorse che qualcosa era davvero cambiato.
Le persone non offrivano più la loro confidenza, anzi, pareva
avessero iniziato a evitarli.
Alfred infine lo avvicinò e lo prese da parte.
“Principe, è giunta notizia che alcuni uomini bianchi stiano
proprio marciando verso la capitale del Messico. Sono armati di ferro, e
nonostante si stiano proclamando divinità pare siano molto agguerriti”, gli
spiegò.
Sigurd capì che si stava confrontando con lui solo perché si
aspettava una risposta acuta; gli si stava rivolgendo nella stessa maniera con
cui i consiglieri parlavano a suo padre.
“Che si tratti di altri vichinghi? Fratelli, forse?”, riuscì
solo a chiedere, ma il comandante scosse il capo con vigore.
“No, ai Fratelli non è mai interessato il Sud, a loro basta
il predominio delle coste settentrionali. Pescano, fanno la guerra e
commerciano negli schiavi, niente di più. Questi non sono vichinghi…”.
“Non possiamo esserne certi. Ci sono tanti fuorilegge in
giro”, mormorò un po’ incautamente il giovane. Infatti l’uomo parve
innervosirsi.
“I Fratelli sono fuorilegge solo agli occhi di tuo padre,
ricordalo bene”, gli intimò, prima di tornare a rilassarsi, “però hai ragione,
non sappiamo ci chi si tratti. O almeno non lo sapremo fintanto che non avremo
dato un’occhiata…”.
Negli occhi del più anziano balenò una strana luce.
“Concordo”, asserì Sigurd. Alfred allora gli allungò una
pacifica pacca sulla spalla destra, tornando a far agitare Thor, sempre nervoso
quando il comandante era nelle vicinanze.
“Allora, mio principe, si parte. Questa splendida avventura,
condotta in questa splendida città, si conclude qui. Andiamo a vedere coi
nostri occhi chi sono questi visitatori inattesi, che si proclamano divinità”,
proseguì, “ma stai attento al tuo vecchio, non mi pare in vena di riuscire a
riprendere la marcia…”.
Il principe focalizzò il suo sguardo sul precettore; l’uomo
appariva ancora stanco e senza forze. Il viso era troppo pallido e stava a lungo
senza parlare.
Alfred aveva ragione; qualcosa non stava andando per il verso
giusto. Eppure, il suo allievo era così preso da quella nuova avventura da non
preoccuparsi troppo per l’anziano Maestro, che invece avrebbe dato la vita per
lui.
I vichinghi lasciarono la grande città mercato il giorno
successivo. Non aveva più senso restare lì.
La curiosità li spingeva sempre oltre.
I sacchi un tempo pieni di cianfrusaglie ora contenevano oro
e pietre preziose, unite a conchiglie splendide e a piume rare e colorate. Quel
poco che era rimasto era stato donato a chi aveva concesso ospitalità.
Sigurd si era messo in marcia prendendo a braccetto l’anziano
precettore, che in effetti continuava ad avere un’aria alquanto esangue.
Alfred aveva detto che quell’impero immenso era anche colmo
di malattie ignote ai settentrionali; possibile che il vecchio ne avesse
contratta una, e adesso stesse poco bene? Il giovane non poteva saperlo.
Prima di abbandonare Tlatelolco, promise che presto sarebbe
tornato.
L’intrico della foresta avvolse nuovamente gli stranieri,
eppure Alfred scelse di percorrere strade battute e di pietra, ove gli alberi
non erano malvagi e tentatori. Il percorso era pulito e si poteva avanzare
spediti.
Anzi, più si avanzava e più il principe si accorgeva che il
paesaggio stava cambiando; si rendeva lagunare, e le piante perdevano altezza.
Era una sorta di involuzione di quel mondo vastissimo. E più si proseguiva, più
si incontravano nativi molto agitati.
I bianchi, gli estranei di quel mondo che si professavano
divinità, erano sempre più vicini.
Una sera, il precettore malaticcio ebbe la forza per
attaccare Alfred.
“Non ti porterà fortuna, questo voler inseguire la profezia
di questi popoli. Se per loro questa gente venuta dal mare e differente da noi
rappresenta divinità perdute, tanto vale che le seguano loro”, affermò con
sicurezza. Ma il comandante era un uomo coriaceo e deciso, mai sarebbe tornato
sui suoi passi.
“Questa marmaglia è giunta dove nessun altro, a parte me, è
riuscito ad arrivare. Voglio prima vedere di persona questi individui”, aveva
infatti ribadito. Il Maestro allora aveva scosso il capo, sconsolato.
“Io credo che non siano affari nostri”, aveva proseguito, “e
per il ragazzo ormai sta per scadere il tempo che il padre ti ha concesso.
Quello che rimane è giusto il necessario per riprendere il viaggio verso Nord,
senza perdersi in inutili e insensate ricerche”.
Alfred aveva riso, con il suo solito modo di fare sprezzante.
“Vecchio, credi che me ne importi del nostro sovrano? Io sono
libero di fare quel che voglio. Dovrà aspettare il suo pargolo…”.
Il Maestro aveva osservato l’allievo, nella speranza che
intervenisse e provasse a dire la sua. Il principe però non disse nulla, in
fondo non gli importava; ormai amante di quella terra calda, si chiedeva
continuamente se quella che aveva condotto a Vinland era stata veramente una
vita.
Tornare sotto la protezione paterna poteva solo significare
che avrebbe dovuto affrontare di nuovo quella sorta di prigionia tra quelle
grezze e rozze mura di pietra, continuamente sferzate dal vento gelido… no, non
voleva tornare. Se doveva continuare a viaggiare, tanto valeva che lo facesse
in quelle terre ospitali, dove tutto era una scoperta.
E se doveva morire, che Alfred lo gettasse pure nelle acque
tiepide che li circondavano ormai da ogni parte…
Videro infine una colonna umana fiammeggiante di colore e rumorosa
come una tormenta di neve.
Si muovevano uniti e il rumore che provocavano sovrastava
quello della natura… era una sorta di seconda Tlatelolco, solo che questa era
gente in marcia, non a far spesa.
Adesso la foresta non circondava più i vichinghi; essi, come
coloro che stavano venendo loro incontro e seguivano il medesimo tracciato,
solo che provenivano dal senso opposto, erano circondati dal terreno paludoso
che circondava la capitale, Messico.
Quel girovagare aveva portato Alfred a farsi temerario, così
si piazzò in testa ai suoi uomini quando notò che quello doveva essere il
mitico corteo che riaccompagnava gli dei alla loro casa, come narravano i
nativi.
Incrociò le braccia al petto nudo e ricoperto di peli
brizzolati, distaccandosi di qualche passo dai compagni.
Ad avere il coraggio di seguirlo ci fu solo Bjorn, sempre
però standogli alle spalle.
Sigurd osservò l’avanzata trionfante del corteo fintanto che
ai suoi occhi non fu possibile distinguere una figura che spiccava su tutte;
quella del dio. La divinità principale era avvolta in soffici piume e in abiti
lussuosi, ed era adagiata su una grande portantina ornata di oro luccicante e
di altre pietre preziose per i nativi.
Quando fu chiaro che i vichinghi stavano aspettando proprio
lui, quell’individuo alzò una sola mano e all’unisono il corteo si bloccò.
Il principe lasciò che il debole precettore gli si
avvinghiasse a un braccio, con Thor che tornava ad agitarsi sulla sua spalla
destra. Era totalmente concentrato su quello che stava per accadere… anche
perché sembrava che l’essere divino fosse proprio umano. Completamente umano.
Il corteo, quel suo seguito immenso, era composto da
individui dalla pelle pallida come lui, circondati da tantissimi nativi che li
veneravano e li seguivano con una docilità disarmante.
Apparve chiaro fin da subito che l’uomo sulla portantina,
oltre a essere il capo degli stranieri e il dio principale, non aveva alcun
tratto somatico tipico degli uomini di Vinland. La sua pelle era abbronzata, ma
di più rispetto a quella arrossata dei vichinghi. I capelli erano castani, come
la barba. Aveva un atteggiamento austero, da vero essere disceso direttamente
dal cielo.
Alfred ebbe il coraggio di muoversi verso di lui, ignorando
del tutto il resto del seguito. La reazione fu immediata; furono sguainate
spade da parte degli stranieri, e armi rudimentali dai nativi. Tuttavia, la
divinità fece cenno di abbassare ogni arma dedita all’offesa, poi, con una
calma surreale, scese lentamente dalla portantina e si mosse verso il maturo
vichingo.
Gli allungò una mano.
Con gli occhi parve penetrargli la carne; stava studiando
Alfred, e pareva un po’ sorpreso di essersi trovato di fronte a una persona con
la sua stessa carnagione. Infine, il suo sguardo austero e serio si posò sul
suo seguito, concentrandosi sul principe e su Thor, che come al solito era
pigramente appoggiato sulla spalla destra del giovane padrone.
Sigurd rimase esterrefatto da ciò che quello sguardo gli
trasmise… percepì immediatamente un losco sentimento di odio. Quella creatura
era qualcosa di devastante. Di pericoloso.
Non fece in tempo a pensare ad altro, poiché Alfred sputò con
ira contro il palmo teso dello straniero, facendo scoppiare il finimondo.
“Guerrieri di Vinland, fate vedere a un dio quanto siete
forti!”, gridò poco dopo, con tutto il corteo della creatura che insorgeva
urlando e mulinando armi.
Finì tutto in pochi istanti. La mossa del comandante era
stata folle e senza senso.
Soverchiati dai primitivi nativi, le forze di Alfred avevano
cominciato in fretta ad arretrare e a venire massacrate, senza contare che non
erano armate a dovere.
Mezzi nudi, i vichinghi estrassero spade e pugnali e
combatterono con valore, ma quando i bianchi a seguito dell’invasore
cominciarono a produrre esplosioni letali, con uno strano odore di polvere e di
sangue che si mescolavano nell’aria, il panico ebbe il sopravvento.
Molti dei più valorosi abbandonarono la spada e si arresero,
così la breve battaglia ebbe fine.
Sigurd, pietrificato, si era ritrovato a essere il ragazzino
di qualche mese prima, solo e spaurito. Le catene che il mostro gli aveva
inflitto erano state pesanti.
Così, i vichinghi giunsero a Messico da prigionieri, invece
di tornare a casa carichi di orgoglio e di bottino.
“Io credevo… pensavo di far bene, Dio era con noi! Quelle
merde di nativi si piegano come niente… erano quei cazzo di cosi che hanno quei
mostri, a far paura…!”.
Alfred, confuso, per un paio di giorni si lamentò così e
senza sosta. Com’era potuto accadere? In vita sua non aveva mai sbagliato
praticamente nulla. Lui, l’eroe di Vinland che si era avventurato più volte
oltre i confini dell’immaginazione del suo stesso popolo.
Adesso, a causa di quella marmaglia, era schiavo, e con lui
tutti i suoi uomini.
Sigurd era stato il più fortunato, ma solo durante i primi
giorni; come al solito, Thor aveva riscontrato apprezzamento presso gli occhi
del capo straniero. Non era facile che tra un uomo e un animale ci fosse un
rapporto così simbiotico. Tuttavia, questo non era bastato al giovane per non
finire nelle prigioni improvvisate realizzate a Messico.
Là in catene ci giungevano nobili locali e tutte le figure
che avevano tentato di mettere fine alla pantomima del ritorno di una divinità
perduta.
Bjorn, l’unico in grado di comunicare con i civili del posto,
era stato anche l’unico ad aver superato il trauma iniziale e a essersi messo
in azione immediatamente. Grazie alla sua parlantina, era riuscito presto a
ottenere informazioni importanti dagli altri prigionieri; tutti quanti
riferivano che questi stranieri non erano popoli settentrionali, né
meridionali, bensì semplicemente esseri che non erano mai stati avvistati né
conosciuti in precedenza.
Insomma, erano davvero una sorpresa per tutti, come lo erano
le loro armi che sparavano pallottole producendo un gran baccano.
Bjorn poi riferiva, ma il suo stesso amante era nervoso e non
voleva ascoltare nulla.
“Porca puttana”, inveiva, “che si fottano, quel branco di
porci! Io darò fuoco a quei cazzi striminziti che hanno tra le gambe, appena
riesco a liberarmi…”. Non voleva rendersi conto che iniziare a conoscere il
nemico poteva essere l’unico modo per sconfiggerlo.
Questo Sigurd lo sapeva, avendolo letto nelle antiche saghe.
Le rune, nei loro parziali misteri, erano state le porte sulle quali si era
affacciato il suo giovanile bisogno di apprendere.
Il ragazzo era tornato a stare sempre appresso al vecchio
precettore, ancora debole, e non abbandonava mai il suo capezzale. Le catene ai
polsi non gli impedivano di curarsi di lui.
“Usciremo mai da qui?”, domandò al vecchio, mentre il tempo
scorreva, inesorabile.
“Siamo in catene, mio principe. Quando mai un uomo in catene
riesce a fare qualcosa di concreto? Oh, ahimè anche tuo padre ormai si renderà
conto che qualcosa non è andato per il verso giusto…”.
Sigurd sapeva che il vecchio avrebbe immaginato che fosse
morto. Nessun uomo di Vinland sarebbe mai giunto fin laggiù per cercarlo.
L’Assemblea alla fine aveva vinto… presto avrebbe avuto il potere più assoluto
sulla città tra i ghiacci.
Tutti questi pensieri, uniti al fatto che la prigionia era
stancante e demotivante, resero nervoso anche il giovane. Il cibo era scarso e
le guardie straniere erano aggressive.
Avevano portato via ai vichinghi tutte le armi e tutto l’oro
e gli oggetti che avevano con loro, e li trattavano con sputi e urla. Il
ragazzo li odiava.
Ben presto, divenne impossibile anche nutrire Thor; non
veniva portato quasi più nulla, e il principe ingurgitava tutto quello che gli
capitava a tiro… solo allora comprese. Una sera, quando tutto era molto calmo,
allungò il capo verso Alfred, che era sdraiato poco distante.
“Comandante, quanto dista da qui la prima colonia dei
Fratelli?”, chiese, sussurrando. L’uomo, che aveva udito bene, si volse a sua
volta verso di lui.
“Non molto, in realtà. Comunque, nessuno di noi può fare
qualcosa”.
“Se trovassimo un modo per avvisarli, indicando brevemente il
modo per raggiungerci ed evidenziando il nostro pericolo, essi potrebbero
essere ben disposti verso di noi?”, tornò a insistere il ragazzo.
A quel punto, anche gli altri vichinghi origliavano
quell’interessante discorso. Alfred però rise sommessamente.
“E’ vero che tra i Fratelli sono molto stimato per via della
mia intraprendenza”, spiegò, “tuttavia, questo potrebbe non bastare. Sono
individui molto pratici… dei veri bastardi. Senza poter ottenere qualcosa in
cambio, non si muoveranno mai”.
“Potranno imparare nuove rotte meridionali e fare fortuna!”.
“Ragazzo, non possiamo contattarli… lascia perdere e
risparmia le energie”, lo ammonì il comandante.
“Invece sì”, tornò però a insistere il principe, deciso più
che mai, “abbiamo Thor…”. Alcuni risero.
“Un piccione magro non coprirà mai così tanta distanza. E non
si stacca mai da te”, gli fece allora notare Alfred.
“Io invece credo che sia la nostra unica speranza, a questo
punto”, intervenne debolmente il precettore.
“Thor può compiere anche lunghissime distanze, se motivato a
dovere”, tornò alla carica il principe. Tuttavia, ormai era riuscito a
suscitare l’ilarità di chi era riuscito ad ascoltarlo.
“Un cazzo di piccione non capisce… un cazzo, per l’appunto”,
ringhiò Alfred, passando dalla risata alla rabbia che l’aveva caratterizzato in
quegli ultimi giorni umilianti, “non so cosa hai in mente ragazzino, ma qui non
siamo nel tuo mondo fatto di merdose favole per bambini. Hai capito bene? Non
rompermi più i coglioni con merdate di questo genere”.
Sigurd incassò, in silenzio, ma non si demotivò.
Durante la notte pose le sue labbra vicino all’orecchio del
precettore, e riprese a spiegare il discorso che aveva cominciato poco prima.
Parve però che lo stesso anziano fosse molto dubbioso, a riguardo di quel
piano.
“Thor non sa nutrirsi da solo, e il viaggio è troppo lungo.
Senza contare che non potrebbe mai raggiungere una colonia dei Fratelli, poiché
se anche riuscisse a ripercorrere il tragitto che lo riporterà alla piccionaia
ove è nato, probabilmente non attraverserà e neppure si fermerà presso uno dei
piccoli agglomerati vichinghi stanziati lungo le coste”. Un ragionamento che
non faceva una piega.
Il principe batté leggermente il pugno nel pavimento in terra
battuta… si sentiva distrutto e senza più alcuna via di fuga. Era tutto vero;
la sua idea era inutile.
I giorni passarono e il cibo scarseggiò ancora di più. I
corpi perdevano peso, e le menti lucidità.
Solo allora agli stranieri venne in mente di cominciare a
liberare un po’ di posti, nella prigione; prendevano i nativi e li bruciavano
vivi dopo averli umiliati, poi presero anche qualche vichingo, per torturarlo e
poi lasciarlo morire. Probabilmente cercavano informazioni sugli individui di
pelle pallida che avevano trovato tra i Messicani.
Gli unici arditi che li avevano affrontati col ferro tra le
mani.
La situazione divenne così stressante da rendere Alfred una
vera furia… gridava parolacce e insulti contro tutti, i suoi bellissimi occhi
azzurri erano rossi come il fuoco e i capelli e la barba incanutivano in fretta
e in modo definitivo. Era un uomo spezzato nel corpo e nello spirito.
Bjorn soffriva almeno quanto il suo amante, e il precettore
stava male, manco parlava più. Gli altri dell’equipaggio sembravano fantasmi.
L’unico a non aver perso la ragione sembrava proprio il
principe; il futuro sovrano aveva basato tutto sul solo pensiero che poteva
salvarlo, a suo avviso, e ciò consisteva nel potere degli antenati. Alfred in
fondo aveva ragione, poiché quello non era un mondo da favola.
Comunque, le saghe degli antenati erano state per lui lo
spunto per sopravvivere a un’infanzia repressiva, alla non vita che l’aveva
reso un verme, pallido a forza di restare nascosto tra le calde pietre di una
distesa di ghiaccio. Non erano stati tuttavia proprio quegli stessi antenati,
però, a giungere fino a Vinland da terre ormai ignote? Forse direttamente dalla
mitica Asgard, seguendo rotte di cui nel tempo si erano perse le tracce,
finendo dimenticate.
Fin quando i primi vichinghi erano stati pagani, la fortuna
era stata dalla loro parte e il clima era stato clemente. Poi, con il
sopraggiungere delle ultime strambe credenze cristiane, che avevano infettato
il modo di vivere dei celebri Padri, tutto era cambiato in peggio.
Sigurd continuava ad apprezzare Cristo e il Suo messaggio, ma
in quel momento di sofferenza e di indigenza estrema la sua mente lo portava ad
aggrapparsi a quelle ultime idee… a quell’ultimo credo. E lui forse non aveva
con sé una fantastica creatura, che portava il medesimo nome di un dio? Thor, figlio
di un’altra epoca… all’improvviso, il piccione divenne motivo di culto.
Il giovane sacrificava il suo pasto misero per imboccarlo,
come un tempo.
“Thor… in te la salvezza…”, sussurrava alla creatura piumata.
Doveva essere la mente allucinata e provata del giovane a far rendere così
folle la faccenda, eppure sembrava che il piccione capisse. Il dio, un tempo
potente, doveva aver lasciato una parte di sé dentro a quell’esserino
vulnerabile.
Giunse una notte in cui, sfruttando il chiarore di Luna che
riusciva a entrare da una delle feritoie di quel posto squallido, Sigurd riuscì
a impossessarsi di una piccola e leggera pietra.
Il giorno dopo la incise con un’altra, utilizzando tutte le
forze che gli erano rimaste. Solo un paio di rune, che indicavano il bisogno di
aiuto urgente e una rotta da seguire… nient’altro. I Fratelli, qualora fossero
riusciti a mettere le mani su di essa, avrebbero capito immediatamente che
l’unico in grandi di giungere a quelle latitudini meridionali era il loro amico
Alfred, ed era pure in pericolo di vita.
Con la cordicella con cui si era solito assicurare le zampe
all’animale per non farlo volare via, il principe creò un nodo con cui assicurò
la ridotta pietra alla zampetta destra della creatura stessa. Infine, alzandosi
a fatica e muovendosi piano, affinché le catene non facessero troppo rumore,
spinse il piccione al di fuori della feritoia di robuste canne.
“Vai via, Thor, vai e dimostra chi sei…”, sussurrò, ma il
pennuto provò a fare marcia indietro. Allora tornò a spingerlo via come poteva.
“Domina i fulmini e distruggi chi ci vuole far del male…”.
Thor però non aveva alcuna intenzione di andarsene; era
spaventato dal buio e voleva tornare dal padroncino.
“La potenza del vero dio sarà con te. Torna indietro solo
quando sarai tronfio di buone novelle per chi ti ha allevato e cresciuto con
dedizione…”.
Le catene tolsero ogni altra possibile motivazione al
ragazzo, che si lasciò crollare al suolo. All’aperto, il piccione si addormentò
proprio dove il suo padrone l’aveva spinto per l’ultima volta.
Il mattino successivo, Thor non c’era più.
“Un prodigio. Un vero prodigio!”, esclamava di tanto in tanto
il vecchio precettore, giusto per interrompere i lunghi e strazianti silenzi di
una prigionia infame.
Gli stranieri andavano e venivano dalla prigione improvvisata
e portavano via altri membri della spedizione… il tempo scorreva inesorabile,
le catene facevano male e Bjorn blaterava che persino l’imperatore dei nativi
fosse stato fatto prigioniero a sua volta. Era la fine.
Infatti Alfred restava sarcastico, e rideva nel suo solito
modo scostante e irritante.
“L’uccellaccio sarà già morto da qualche parte”, ironizzava.
La sua voce incrinata però lasciava trapelare tutta la sua delusione.
Giunse un giorno in cui nemmeno Sigurd credeva più al
prodigio; a uno a uno, lentamente, i compagni di viaggio morivano di stenti o
venivano torturati e uccisi, senza pietà alcuna.
Lo scorrere del tempo si fece confuso e i pasti non
arrivavano più.
Gli stranieri erano le uniche divinità in quel mondo
splendente ormai in rovina.
“Io l’avevo detto”, aveva iniziato a ripetere il vecchio
malaticcio, che nonostante la sua brutta cera continuava a sopravvivere,
dimostrandosi coriaceo, “inseguire il ritorno delle divinità pagane dei nativi
è stato il più grande errore che si potesse fare”.
Nessuno tra i pochi superstiti osava dargli torto. Tanto
ormai le loro fila si erano così tanto assottigliate da risultare impotenti, e
i loro stessi corpi stavano gettando la spugna.
Quando gli tolsero le catene, il principe non realizzò subito
che era momentaneamente libero. Lercio nei suoi escrementi, e messo nudo,
faticò persino a mettere a fuoco le scure e tozze figure che stavano liberando
tutti i prigionieri rimasti.
Bjorn, che appariva lucido, gli apparve davanti e gli allungò
una mano.
“Avanti, finalmente possiamo uscire da qui”, disse, e il
principe non poté non accettare la stretta ancora salda del nemico.
Una volta in piedi, rimasto solo con il giovane e con Alfred,
gli unici sopravvissuti a quell’incubo, tentò di scuotere anche il suo vecchio
Maestro. L’uomo tuttavia sembrava più morto che vivo.
“Andiamo, dobbiamo capire cosa cazzo sta succedendo”, esclamò
Alfred, spronando gli unici due compagni rimasti a seguirlo verso la via di
fuga. Anche gli altri prigionieri indigeni si stavano dando da fare per
guadagnare l’aria aperta.
Seppur a malincuore, Sigurd abbandonò il vecchio. Non poteva
però perdere quell’occasione di tornare libero, e di capire cosa avesse spinto
i nativi a riprendere in mano la situazione.
Infatti, una volta uscito dall’edificio che lo aveva tenuto
imprigionato per settimane e settimane, il principe notò subito che la città
era piena di giovani indigeni armati e agguerriti. Dei pallidi stranieri
neanche l’ombra.
Bjorn, incurante del fatto che fosse praticamente nudo,
cominciò immediatamente a fare domande a chi pareva esser disposto a
rispondere.
“Tanto non possiamo cavarcela”, intanto spiegava Alfred a Sigurd,
“anche se riuscissimo a scappare da questa dannata città, senza equipaggio ed
equipaggiamento non ce la faremo mai a riprendere il viaggio verso Nord”.
Poco dopo, Bjorn tornò ad avvicinarsi, raggiante.
“Non ci crederete, ma altri uomini bianchi sono giunti a
frotte. Gli indigeni dicono di aver cacciato gli stranieri da Messico, raccogliendo
tutte le loro forze per ribellarsi, e con l’arrivo inatteso di questi altri
uomini armati di ferro tutto è di nuovo in discussione”, raccontò, “e sapete
qual è la notizia più interessante?”.
Di fronte al silenzio dei due compagni, Bjorn sorrise per la
prima volta da quando il principe lo conosceva.
“Si tratterebbe di uomini con le pellicce… così ci chiamano
questi indigeni. Sono vichinghi…”.
Non ci fu bisogno di dire altro. I tre uomini si guardarono a
vicenda e poi si mossero all’unisono verso i grandi templi che svettavano su
quella città lagunare, ove la perfidia e l’avidità degli stranieri avevano
rischiato di cancellare per sempre tutta quella bellezza spontanea e primitiva.
Là, gli uomini sudati e ricoperti di pellicce la facevano da
padrone. Ce n’erano molti, ma tra i tanti spiccava la figura colossale del
Fratello amico di Alfred.
Il comandante, magro e incurante anch’egli del suo corpo
smagrito e seminudo, gli andò incontro barcollando. L’altro lo riconobbe
immediatamente, e ne scaturì un lungo e fraterno abbraccio.
“Alfred, mio vecchio amico! Hai visto? Eri nei guai, e noi
siamo venuti subito a riprenderti”, affermò il colosso, poi parve perdere
euforia e osservò il comandante.
“Per carità, ma cosa ti hanno fatto?”, aggiunse.
Alfred scosse il capo con forza, i capelli lerci si mossero
da tutte le parti.
“Ci hanno tenuti prigionieri, Fratello! Me ne hanno fatte di
ogni… mi hanno portato via il bottino, i miei guadagni, la mia ciurma… i miei
uomini, li hanno torturati e uccisi, altri lasciati a morire di fame…”. Il
comandante parve in procinto di scoppiare a piangere, e Bjorn fu subito a suo
fianco.
“Quelle facce pallide, vero? Sono stati loro?”, ringhiò il
rabbioso Fratello, sempre più scuro in volto. Nel frattempo, i vichinghi più vicini
osservavano e ascoltavano, dandosi di gomito ogni tanto.
“Sono stranieri che si fanno trattare come dei”, cominciò a
spasimare Alfred, “sono peggio del diavolo in persona…!”.
“Li abbiamo già affrontati. Hanno armi che non conosciamo, ma
sono inferiori per forza e per numero, soprattutto ora che gli indigeni sono
contro di loro e combattono assieme a noi”.
“Io… io come farò a tornare a Vinland, umiliato e
sconfitto…”, proseguì Alfred, coprendosi il viso con le mani, apparentemente
incurante delle importanti parole del provvidenziale amico.
“Siamo qui per riportarti verso Nord e toglierti dai guai,
non temere. E quando avremo distrutto queste merde straniere, ti potrai
riprendere tutto ciò che ti hanno portato via”, lo rassicurò il gigante.
A interrompere quella scena in cui i due uomini di maggior
spicco erano al centro dell’attenzione collettiva fu il volo di un uccello… di
un piccione, per l’appunto, che andò subito a posarsi sulla spalla destra di Sigurd,
rimasto finora in disparte e ai margini della scena.
“Il principe…”, cominciarono a risuonare voci tra i
vichinghi, vedendolo ancora vivo. Anche il colosso lo notò, e si staccò da
Alfred per andare a dargli una pacca sulla schiena, che fece volare via il buon
pennuto.
“Per la prima volta sono felice di rivedere un elemento della
nostra casata reale”, disse il Fratello, sorridendo a sorpresa, “tra l’altro
questo piccione è venuto da me, personalmente. Ha fatto tutto lui. È lui che ci
ha portato fin qui…”.
Nel silenzio generale, il gigante osservava il ragazzo con i
suoi occhi grandi e lucidi. Era davvero emozionato. Sigurd, che da quel
soggetto si era atteso solo odio e battutacce, si trovava invece a doversi
ricredere sul suo conto.
“Thor”, mormorò infine il principe, come a chiudere quel
discorso rimasto incompleto. Mancava infatti quell’ultima parola… quell’ultimo
nome.
Un nome che, come per magia, fu ripetuto ad alta voce da
tutti i guerrieri di Vinland presenti, quasi fosse una preghiera,
un’invocazione profonda.
Giunse così la resa dei conti, con i vichinghi che a voce
alta gridavano Thor, il nome del pennuto che li aveva condotti in una terra
calda e accogliente. Lì gli indigeni non solo non erano agguerriti, ma
richiedevano anche un intervento militare e stavano dalla loro stessa parte.
La ricchezza delle abitazioni era ben lungi dalla povertà
delle tende dei nativi più settentrionali, nomadi e abituati al ritmo dei
lunghi e rigidi inverni.
I Messicani erano infatti riusciti a spingere fuori dalla
capitale gli stranieri, ribellandosi all’unisono, ma senza l’arrivo degli
uomini ricoperti di pellicce non avrebbero mai potuto farcela a fermarli per
qualche giorno.
Il Fratello colossale era riuscito a portare con sé guerrieri
amici provenienti da tutte le colonie meridionali, e anche se si trattava in
realtà di qualche centinaio di persone, era pur sempre una cifra che poteva
fare la differenza. Ciò dimostrava anche un’ipotetica unità tra i Fratelli.
Ora, infine, i due schieramenti rivali erano l’uno al
cospetto dell’altro.
Gli stranieri avevano perso gran parte degli alleati
indigeni, che si erano ammassati tutti attorno ai vichinghi, armati fino ai
denti; questi ultimi, però, sapevano bene che gli avversari erano molto
pericolosi.
Anche se provati, quelli che si definivano Spagnoli
imbracciavano i loro rumorosi strumenti di morte, e alcuni di essi montavano
sulla groppa di creature mai viste prima. Erano in inferiorità numerica netta,
tuttavia il loro capo pareva ancora di pietra, oltre che sicuro di sé. Aveva
abbandonato la portantina, e anche se era armato e vestiva una sorta di
luccicante abito di ferro ancora indossava qualche piuma incastonata nel suo
lucente copricapo.
Lo scontro iniziò all’improvviso, con la sola consapevolezza
che ambo gli schieramenti avevano tanto da perdere. Chi avrebbe vinto avrebbe
anche avuto il Messico intero ai suoi piedi. Un Paradiso pieno di ricchezze.
I Fratelli erano avidi e bramosi, gli Spagnoli forse anche di
più.
Al primo impatto tra le truppe, i vichinghi si dimostrarono
più coraggiosi; però, quando cominciarono a risuonare gli echi prodotti dalle
armi inconcepibili degli stranieri, molti nativi cominciarono a perdere
coraggio.
Le creature che portavano in groppa alcuni di quelli che
volevano farsi credere divinità erano aggressive e scalciavano, oltre a
emettere versi rauchi e fastidiosi.
I Fratelli non lasciarono che le armi sconosciute li
soverchiassero; alcuni stramazzarono al suolo, ma tanti altri piantarono le
loro spade nelle gole nemiche. Non era semplice affrontare quegli ammassi di
ferro, tuttavia con le armi erano più abili e più freschi i vichinghi.
Sigurd, che aveva a sua volta preso parte allo scontro, aveva
inizialmente scelto di restare nelle retrovie. Oltre a non essere preparato per
una battaglia così rischiosa e impegnativa, era ancora molto debole a seguito
della lunga prigionia.
Quando notò che le cose non stavano andando per il verso
giusto, circa a metà giornata, non ebbe il coraggio di continuare a tentennare
oltre. I vichinghi erano stanchi e le loro pellicce insanguinate dalla loro
stessa linfa vitale. Molti erano morti, stesi a terra e già freddi; molti altri
erano feriti o morenti.
Le truppe dei Fratelli erano dimezzate, al cospetto di armi
più evolute e di attrezzature ignote.
Il principe, schiumante di rabbia e deciso a non tornare a
cadere nelle grinfie del nemico senza prima aver provato almeno a ferirlo,
superò i compagni che lo precedevano e si lanciò con la spada in pugno proprio
verso il comandante nemico.
Il dio era ancora comodamente adagiato sul dorso della sua
bestia, e appariva imperturbabile. Non aveva ancora combattuto, e nonostante si
trovasse tra le prime linee non aveva ancora sporcato di sangue i suoi ferri.
Lasciava che le armi invincibili facessero tutto da sole.
Il ragazzo mise a frutto tutte le ultime energie che gli
restavano, al fine di riuscire a raggiungerlo… con un paio di balzi gli fu
nelle vicinanze… si fece tutto confuso attorno a lui.
Sapeva di correre incontro alle armi micidiali, che di lui
avrebbero fatto un facile bersaglio, tuttavia era ben conscio che se i Fratelli
fossero stati sconfitti sarebbe morto comunque.
“Mai più prigioniero!”, gridò, sovrastando il clangore della
forsennata battaglia. “Mai più”, ripeté con minor forze, prima di mulinare la
sua spada e di scagliarla verso la figura vicina dello straniero più
importante.
Avvertì poi un forte rumore e altro odore di fumo, infine
qualcosa lo travolse e gli fece perdere i sensi.
Il Walhalla.
Quello era il Paradiso
degli antenati.
Sigurd era tornato a
essere un guerriero possente, anzi, il più muscoloso di tutti. Non si era mai
sentito così potente in vita sua. Peccato che le pellicce che lo ricoprivano
erano sporche di sangue.
Si guardò le mani, e
anche esse erano luride di liquido vermiglio…
“Il tuo sangue è
versato, principe. Ora sei morto”.
Una voce d’oltretomba,
profondissima, squarciò il misterioso vuoto che avvolgeva il robusto e giovane
guerriero.
“Chi sei? Mostrati a
me”, ordinò Sigurd, senza ombra di paura. In quel momento si sentiva
invincibile e bramoso di vita… perché gli stavano dicendo che era morto?
“Io sono il dio che tu
tante volte hai nominato, umile principe mortale”, rispose la voce.
“Tu sei Thor”,
riconobbe allora il ragazzo, la voce finalmente tremolante.
“Lo sono”.
“Thor è morto! Non io”,
lo irrise allora il principe, di nuovo colmo di un’euforia che non aveva nulla
a che vedere con la drammatica e inspiegabile situazione che stava affrontando,
“è da quando sono nato che me lo dicono. Ho chiamato Thor il mio piccione ed
egli ha portato i Fratelli fin da noi, ma questo non è bastato! E non è bastato
perché Thor è morto, altrimenti ci avrebbe aiutato a vincere”.
La voce rise forte, diventando
il rombo di un tuono.
Il ragazzo fu costretto
a tapparsi le orecchie, mentre attorno a lui sembrava che ci fosse un finimondo
di fulmini e di scie luminose.
“Io sono vivo e vegeto;
siete stati voi che mi avete sepolto vivo”, spiegò infine la voce rabbiosa.
“Io ti adoro, ti ho
sempre adorato”, affermò il giovane, serio.
“E per te ho
incastonato una parte di me in un volgare ma intelligente pennuto. E questo non
è bastato, perché tu effettivamente sei morto, misero mortale”, irrise la
divinità, con scherno.
Sigurd ebbe l’istinto
di cercare la spada con le sue grandi mani, ma alla fine lasciò perdere.
“In te ho riposto
fiducia, dio dei miei stivali. Non mi hai mai dato sostegno quando gridavo Thor
in faccia a chi mi voleva far pregare un altro Dio”.
“Ebbene, ora è giunto
il momento per ricompensare la tua fede incrollabile, se lo vorrai”, breve
pausa a effetto, “a te la scelta, infatti…”.
“Scelta?”.
“In ginocchio, umile
mortale! In ginocchio al mio cospetto!”, ordinò all’improvviso la voce, ma il
principe non fece una piega.
A smuoverlo fu solo una
forza superiore, che lo compresse fino a obbligarlo a inginocchiarsi.
“Io di te posso fare
quello che voglio, hai visto? Impara la lezione. Io potrei tenerti qui con me,
assieme agli altri guerrieri più validi che hanno avuto fiducia e creduto nelle
divinità antiche con fermezza e onestà. Ma cosa me ne farei di te, qui e ora?
Ora, che puoi essere il mio strumento più grande? Colui che mi farà rinascere
dalla tomba del tempo, ove sono stato sepolto”.
“Io…”. Sigurd,
inginocchiato, tentennò. “Io voglio tornare alla vita”, disse infine, “voglio
riprendere possesso del mio corpo, e voglio narrare le gesta degli antenati. Voglio
onorare gli dei e combattere nel loro nome”.
Era solo la verità. Le
divinità del passato avevano reso grande il suo popolo e gli avevano permesso
di compiere viaggi lunghissimi per mare, che ormai a Vinland solo Alfred sapeva
compiere con maestria. Era tempo di tornare a elogiare le antiche saghe, e non
quei testi freschi che i preti leggevano nelle chiese. Essi erano pane solo per
i denti degli anziani, che tenevano così a bada le loro famiglie e impedivano
le avventure che avrebbero potuto rinnovare l’apogeo vichingo.
Il dio parve
compiaciuto, infatti la sua voce divenne improvvisamente morbida e leggiadra.
“Vedo purezza nel tuo
cuore, principe”, affermò, “per questo tu tornerai indietro. Tornerai ed io ti
renderò ciò che di più grande esiste su queste misere terre emerse… e non solo.
Il tuo comandante ti ha reso uomo e ti ha promesso che non saresti mai
diventato re, e aveva ragione; tu sarai molto di più…”.
Restò un attimo in
silenzio, poi quell’atmosfera surreale iniziò a scomparire.
In un attimo, il
Walhalla o qualunque cosa fosse iniziò a tremare e a sparire, come risucchiato
in un mulinello di acqua torpida… che strappava tutto, ogni cosa; persino lo
splendido corpo di Sigurd non ne rimase immune.
Ancora inginocchiato,
iniziò a sua volta ad essere dilaniato e deturpato. Il principe gridò di
orrore, e per un’ultima volta la voce riecheggiò chiaramente nella sua mente.
“Ricorda di sacrificare
a me chiunque si sia opposto al mio ritorno. Donami le anime di chi ti ha
rimproverato per aver sempre creduto nell’antico credo. Impiccali agli alberi,
strappa loro l’anima così come io ti sto strappando da questo paradiso proibito…”.
Il principe tornò in sé. Era disteso ove era caduto, sulla
nuda terra. Non appena riuscì a focalizzare con gli occhi, riconobbe subito
Alfred che lo sovrastava.
“Principe”, disse l’uomo, con apprensione. Notando che aveva
aperto gli occhi e si muoveva, si chinò a suo fianco.
“Abbiamo temuto che fossi morto…”.
“Sono vivo e sto bene, invece”, lo rassicurò il ragazzo, per
poi mettersi a sedere. Era in forma e non aveva nulla di dolorante.
Si guardò attorno e vide che c’era aria di baldoria; i
Fratelli esultavano ovunque.
“Abbiamo vinto, principe”, gli gridò Bjorn da poco distante,
notando che stava bene.
Vinto? Sigurd era certo della fine. Possibile che gli
stranieri dalle armi invincibili fossero invece stati sconfitti? Cosa si era
perso mentre era giaciuto a terra, svenuto?
La consapevolezza che quello fosse stato un segnale di Thor
prese possesso subito della sua mente, ancora intorpidita dall’esperienza
strana e sovrannaturale affrontata da poco. Si volse con foga su un fianco, ma
finì per colpire un piccolo corpicino… un ridotto ammasso di piume.
Con ansia, abbassò lo sguardo e notò il suo Thor. Era morto
stecchito, gli occhi ancora aperti.
Il giovane alzò lo sguardo verso Alfred e socchiuse le
labbra, in una smorfia di sincero sbigottimento, ma il più anziano allargò le
braccia.
“Quando la bestia ha calciato, il piccione si è messo tra la
zampa e te. Ha fatto in modo che lo zoccolo duro non dilaniasse le tue carni”,
spiegò.
L’amarezza restò a vegliare nel cuore del ragazzo, che ancora
sconvolto dagli ultimi avvenimenti si limitò a seguire ciò che il suo cuore gli
consigliava di fare. Raccolse infatti il corpicino tra le mani, accarezzandone
le piume, e non andò a festeggiare con i vincitori.
Scavò una buca con le mani, ai piedi di uno dei tanti alberi
altissimi che vegliavano su quell’angolo di mondo.
Lasciò che le unghie si rompessero a causa dello sforzo.
Infine, seppellì il più fedele amico che aveva avuto. Non
c’era tempo per le lacrime o per futili sentimentalismi, tanto ormai aveva
compreso che tutto quello che era accaduto dopo il colpo mortale che aveva
ricevuto altro non era stato che un disegno divino.
Thor il piccione era morto, ma il dio si era liberato di quel
corpo insulso ed era tornato a vegliare su tutti i suoi figli.
Colmo di perentoria decisione, il principe completò la
sepoltura e tornò presso i suoi.
Sigurd non degnò di un solo sguardo gli Spagnoli morti. I
loro cadaveri erano stati deturpati e razziati dagli avidi Fratelli, decisi a
far bottino.
La realtà era cambiata dopo la sua resurrezione, e si sentiva
il Cristo di Thor, e non un figlio di un qualche altro Dio. Per quello gli
umiliati e gli sconfitti stavano bene così, ridotti in quello stato disumano.
Con un tono di voce risoluto richiamò tutti i vichinghi
attorno a sé, per poi farli marciare verso il centro di Messico. Quello era il
vero corteo che rappresentava il ritorno di un dio, e anche i Messicani
avvertirono tutto ciò; si unirono all’unica vera marcia, l’unica che avrebbe
sancito un mondo più vasto e più libero, protetto da una divinità che amava i
suoi figli.
Giunti tra gli alti templi pagani, senza che nessuno potesse
fermarlo, il principe scalò la piramide più alta senza alcuna fretta. Giunto
lassù, gli pareva di sfiorare il cielo.
Immerso in un silenzio tombale, alla fine si accorse che
alcuni tra i Fratelli più temerari, assieme a qualche indigeno, stavano
seguendo le sue orme.
Li attese in cima, con le braccia allargate.
Giunse per primo un nativo di mezza età, seguito da Bjorn, il
traduttore del gruppo. L’uomo cominciò a parlottare frettolosamente, con Sigurd
che lo osservava senza capire e l’altro giovane vichingo che ascoltava con
attenzione.
“Vogliono concederti tutto il potere”, tradusse Bjorn alla
fine del discorso, riassumendo, “la dinastia del loro ultimo imperatore è stata
sterminata dalla furia degli stranieri. Però hanno capito che la divinità che
attendevano, che li avrebbe salvati dalla fine del mondo, sei proprio tu. Ti concederanno
quindi al più presto possibile… il titolo che ti aspetta”.
Le ultime parole erano state mormorate con una delusione e
una rassegnazione tale da ferire il principe, che osservò Bjorn. Quanto si
poteva fidare di lui? Dubitava che avesse mentito nel tradurre, però si stava
appunto dimostrando geloso e invidioso per la piega assunta dagli eventi.
Sigurd non ci pensò oltre e fece un leggero inchino al
cospetto dell’indigeno, che gradì il gesto gentile.
Giunse poi anche il colosso, assieme ad Alfred, e per ultimo
un vichingo che trascinava un prigioniero in catene. Riconobbe immediatamente
lo Spagnolo capo, quello che voleva farsi riconoscere come un dio.
Il giovane sorrise, e con un gesto perentorio indicò la
pietra ove i nativi compivano i loro brutali sacrifici.
Un’infinità di occhi osservavano la scena, tutti fissi sul
principe che faceva legare il dio, dopo averlo spogliato e aver gettato i suoi
preziosi abiti ai presenti più vicini a lui.
Sigurd provava una marea di sentimenti contrastanti, dentro
di lui… da una parte la sua razionalità gli diceva di non eccedere, dall’altra
la sua follia fanatica insisteva affinché si vendicasse di quella lunga
prigionia che l’aveva piegato e umiliato.
Così piantò la propria spada nel mezzo del petto dell’uomo;
fece leva con tutta la forza che aveva, mentre il conquistatore straniero
emetteva le ultime grida disperate… poi strappò il cuore, ancora palpitante, e
lo elevò al cielo.
Tra i nativi si propagò un grido di giubilo. I vichinghi
ancora lo osservavano, interdetti. Solo una voce tremolante e da anziano si
elevò contrò di lui.
“Ti maledico, ragazzino, per quello che hai fatto! Ti ho
educato ai valori della cristianità, e ora ti concedi alla perversione del sangue,
proprio come i pagani…”.
Il precettore, barcollante, era lì tra la folla e urlava
maledizioni senza sosta. Naturalmente rivolte contro il suo pupillo, che ferito
nell’orgoglio ricordò le parole di Thor… ricorda
di sacrificare chiunque si opponga al mio ritorno.
Il Maestro sembrava intenzionato a rimproverarlo, e magari
prenderlo per un orecchio come faceva quando era bambino. Aveva cominciato a
scalare la piramide, imperterrito.
“Portalo da me”, ordinò il giovane al Fratello che aveva
condotto fin lì lo Spagnolo, il cui corpo dilaniato ancora troneggiava su
Messico.
Il guerriero prese il vecchio a braccetto e lo condusse alla
sommità in fretta.
Schiumante di rabbia, egli provò ad avventarsi contro il
giovane allievo, ma il ragazzo lo afferrò con forza al collo e lo spinse verso
l’ingresso del piccolo ambiente dedicato ai sacerdoti e alla preparazione dei
riti. Lì, un paio di corde intessute dai nativi penzolavano giù, come una sorta
di ornamenti votivi.
Senza più forze, il vecchio scivolò a terra, ma il più
giovane aveva già una corda tra le mani e gliela passò attorno al collo,
compiendo uno di quei micidiali nodi che aveva fatto migliaia di volte durante
i lunghi mesi di navigazione verso Sud.
Compiuto il nodo, si limitò a stringere.
Col cappio al collo, l’anziano cominciò a dimenarsi
follemente. Parve che qualcuno tra i presenti sulla sommità della piramide
volesse intervenire, ma un eloquente sguardo di ghiaccio del principe rimise
tutti al proprio posto.
Quando l’anziano fu morto, Sigurd si mostrò alla folla
tornando ad allargare le braccia, per poi alzarle fino al cielo.
“Thor mi ha salvato da morte certa”, urlò, “Thor ci ha
portato alla vittoria totale e inaspettata. Ora ricompensiamo lui, e torniamo
ad abbracciare la fede pagana dei nostri antenati! O popolo intero, miei
guerrieri valorosi, gridate in coro, affinché egli possa sentirci e
compiacersi! Thor! Thor! Thor!”.
I Fratelli risposero prontamente all’inneggio. Erano stati
rifiutati dai chierici di Vinland e costretti all’esilio… seguire le orme degli
antenati forse avrebbe offerto maggiori fortune. Allo stesso tempo, anche se
non avevano capito niente, pure i nativi si lasciarono andare a grida festose.
Erano felici che il loro dio fosse tornato, forte e potente
come mai prima di quel momento.
Gli unici impassibili erano Bjorn e Alfred, che si
scambiavano qualche sguardo per nulla soddisfatto, e questo non sfuggì al
vincente principe. Ma cosa gliene importava, in fondo? Erano solo due uomini,
soli in mezzo a una massa euforica.
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