Not a simple Disaster

di Lila May
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ten years later ***
Capitolo 2: *** The gasoline guy ***
Capitolo 3: *** Eyes ***
Capitolo 4: *** Slices of life ***
Capitolo 5: *** That Why Not ***
Capitolo 6: *** Melanie ***
Capitolo 7: *** Bed ***
Capitolo 8: *** Flying Pizza! ***
Capitolo 9: *** More than friends ***
Capitolo 10: *** Family ***
Capitolo 11: *** Stumbling block ***
Capitolo 12: *** Intimate revelations ***
Capitolo 13: *** Wedding tie ***
Capitolo 14: *** Erik's weakness ***
Capitolo 15: *** Savior ***
Capitolo 16: *** Waking up in Vegas ***
Capitolo 17: *** Drunk in love ***
Capitolo 18: *** Hello, queen of pancakes ***
Capitolo 19: *** The uniform that brought us together ***
Capitolo 20: *** yearbook of memories ***
Capitolo 21: *** Like an empty bottle of Cola ***
Capitolo 22: *** Cliff edge ***
Capitolo 23: *** Let me play my match ***
Capitolo 24: *** Like you're bathin' in Windex ***
Capitolo 25: *** The flavor of Freedom ***
Capitolo 26: *** Bated breath ***
Capitolo 27: *** Pinwheel biscuits and Honey trees ***
Capitolo 28: *** Everyone deserves a christmas gift ***
Capitolo 29: *** Merry shitty Christmas ***
Capitolo 30: *** End of line ***
Capitolo 31: *** Distance could be destroyed ***
Capitolo 32: *** Where's the good in goodbye ***
Capitolo 33: *** Take me Home, Mark. ***



Capitolo 1
*** Ten years later ***


not a simple DisAsTer

 

Prologue.

Ten years later

 

Esther Greenland camminava frenetica per le strade caotiche di New York, coperta fino alle ossa da un giubbotto di prestigioso cachemere marrone.
I comodi batignolles neri ticchettavano graziosi sull’asfalto rovinato del marciapiede, schivando con destrezza cicche, escrementi, pezzi di vetro, cani senza guinzaglio e macchie dalla dubbia provenienza; i lunghi boccoli color prugna rimbalzavano sulle spalle alte ad ogni passo sicuro, librando nell’aria dicembrina un intenso profumo di donna talmente dolce da mascherare persino il puzzo di benzina proveniente dal traffico.
Sotto le labbra carnose, un piccolo piercing spiccava sovrano in mezzo al pallore perlaceo del volto imbrattato di fard, regalandole un aspetto duro e selvaggio.
Raggiunse la macchina, lanciò la borsa nel sedile del passeggero e mise in moto, poi si infilò nel caos di New York con uno sbuffo divertito. Ci aveva messo un anno ad imparare come funzionavano le strade in quel posto, e anche se a volte si smarriva, ormai poteva dirsi cittadina newyorkese a tutti gli effetti. Si era adattata in fretta, forse troppo, tuttavia gran parte di quell’immensa metropoli le rimaneva ancora sconosciuta.
Era sempre stata una tipa piuttosto malleabile nel rimbalzare contro le novità, consideriamolo pure un piccolo vantaggio caratteriale.
Si fermò al semaforo, e ne approfittò dell’attimo di pausa per ravviare velocemente il trucco. Si passò la punta consumata di un rossetto sulle labbra carnose, marcandole di un intenso rosso ciliegia, poi si sistemò le sopracciglia con un pettinino, in modo da allineare tutti i radi peli che avevano osato ribellarsi alla minuziosa forma datale dall’estetista. Ci teneva ad essere impeccabile: non che avesse chissà quale appuntamento galante, lo faceva per pura soddisfazione personale. Le piaceva mostrarsi bella, fresca e femminile agli occhi vacui di quella città tutta nuova e da esplorare. La sensazione di poter camminare sicura, fronteggiando gli sguardi invidiosi con aria consapevole, la faceva sentire stranamente bene.
Era orgogliosa della donna che era diventata.
Impeccabile, sempre. Il nuovo mantra di vita che aveva adottato da quando era venuta a vivere lì.
Appena il semaforo illuminò il cruscotto di verde, sfrecciò verso un reticolo di strade che se la vecchia Esther Greenland di tredici anni l’avesse anche solo potuta vedere, l’avrebbe osservata con aria sconvolta, scioccata, allibita, chiedendosi ad alta voce come cazzo avesse fatto la futura lei, in un anno soltanto, a capire il funzionamento di una città tanto rognosa quando nemmeno sapeva trovare il bagno di casa sua.
Sorrise al pensiero, mostrando i canini bianchi.
Forse non era cambiata poi così tanto, in fondo.
Prima di tornare a casa si fermò a rifornire l’auto di benzina; avrebbe potuto farlo anche la mattina seguente, prima di recarsi al lavoro magari, ma trovò quel momento adattissimo.
Non c’era fila, solo una berlina nera che faceva il pieno, due uomini appoggiati sopra gli sportelli chiusi che parlavano animatamente di faccende private. Considerando come sarebbe diventato trafficato quel pezzo di paradiso puro, meglio approfittare della pace e fare un pieno senza dover sopportare clacson e code interminabili. Parcheggiò davanti ad un distributore, scese e afferrò la pistola piena di petrolio. Poi cominciò a intasare la macchina di benzina, in attesa che la trasfusione di liquido nero, denso e caldo finisse.
Intanto che i litri venivano rigorosamente segnati sul display, l’orecchio sinistro iniziò a cogliere un po’ della conversazione tra i due ragazzi, che sembravano non essersi minimamente accorti della sua presenza. Capì che stavano parlando della donna di uno dei due, e la curiosità crebbe man mano che l’udito cercava di masticare e ricollegare l’inglese sbarazzino degli americani a quello scolastico che conosceva lei. Erano di spalle,e anche se Esther non riusciva a vedere i volti, poteva comunque notare il colore dei loro capelli. Quello di sinistra sembrava essere castano, quello di destra di un biondo che…
Aggrottò le fini sopracciglia.<< Cristo santo… >>
Allungò il volto, socchiuse gli occhi neri fino a ridurli a due fessure languide e scure.
Sì, aveva già visto quel particolare color ambra. Aveva già visto quelle onde dorate arricciate verso l’alto.
Ritirò il capo e scosse la testa, sorridendoal ricordo improvviso e sfumato di lui, poi pagò con carta e uscì lentamente dal distributore. Prima di rientrare in strada cercò di nuovo quella testa luminosa, quell’oro fuso che mentre il suo cervello tentava ancora di identificare, il cuore già considerava conosciuto. I due uomini, tuttavia, erano già entrati nella berlina, e i vetri erano troppo scuri perché Esther potesse identificarne i volti nascosti al suo interno.
Sospirò e si diresse verso casa, mentre le luci della sera fluivano uniformi sul suo viso pensieroso.
Quella chioma color miele, quella forma dolce e arricciata somigliava tanto a quella di… di lui.
Un alito d’emozione pura le soffiò leggero sullo stomaco, come un vento caldo nel pieno dell’inverno. Si sentì avvampare senza una ragione precisa, e fu costretta a deglutire, le dita che correvano al riscaldamento per impedire al freddo di congelarle le gambe.

 

 

No, Esther, non è lui.
Basta fare la bambina, non hai più tredici anni.

 


__________________________________________________
Nda
eh sì. Eh sì, sono proprio io. Proprio con loro.

E sono tornata più bestia di prim--
ok ripigliamoci.
Ma salve gente! Come andiamo? Dopo decenni ritorno sul fandom di inazuma eleven – con mia grande gioia - per proporvi un'altra delle mie cagate di classe: vi ricordate la mia Disaster Movie? Chi non ha presente di cosa sto parlando, non importa. Fate sempre in tempo a leggerla, al massimo vi faccio un mega riassunto preparatorio (?)
Ebbene, io vi propongo il sequel. Non vi faccio spoiler, ma sarà un groviglio di casini assurdo, la mia mente ne sta già architettando a fiotti. Spero che abbiate intenzione di seguire la vicenda, non credo che riscuoterò il successo della prima Disaster Movie, ma voglio divertirmi con il mio personaggio preferito di sempre, Mark Kruger, ed era una vita che pensavo a questo maledetto sequel. FINALMENTE ho cominciato a scriverlo, speriamo di non doverci passare su i prossimi 4 anni di vita.
La piccola quattordicenne che è in me gioisce male. <3
Se volete recensire fatelo pure, sono sempre ben accetti i pareri.
Adios!

 

Lou

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Capitolo 2
*** The gasoline guy ***


Chapter One.

the gasoline guy

 

Un panno caldo nella destra e una grossa tazza bagnata nella sinistra, Esther stava minuziosamente asciugando la porcellana che solo qualche minuto prima era stata a mollo in una bacinella piena di sapone. Nonostante fosse coperta dalla testa ai piedi, gli spifferi di gelo che entravano dalla stretta fessura della porta in vetro le provocavano intensi brividi al collo. Lei e Mary si scambiarono un’occhiata complice: il riscaldamento di quel bar andava di nuovo riparato, o i clienti avrebbero davvero cominciato ad emigrare alla ricerca di posti più accoglienti e tiepidi.
<< Cazzo, si muore di freddo. >> sbottò l’amica della Greenland, chinandosi sul bancone per pulirlo dalle incrostazioni lasciate dalle tazze il cui ignoto contenuto si era riversato un po’ troppo oltre il bordo.
<< La gente arriva, prende il caffè e se ne va. >>
<< A nessuno va di fare colazione con questo freddo, ti credo. Se vogliono il gelo, possono consumare il caffè anche fuori. O no? >>
<< Sarà la quarta volta in due mesi che ci facciamo mettere a posto il riscaldamento. Non ne posso più di ‘sti idraulici rincoglioniti americani. Nei film fanno tanto i fenomeni… poi dal vivo nemmeno sanno mettere a posto un termosifone. >>
<< Dai, che a natale si va in California. >>
<< Grazie a dio, aggiungerei. >>
Esther posò lo sguardo fitto di mascara sulla schiena mascolina dell’amica. Lei e Mary si conoscevano dalle lontane scuole medie, un arco di tempo lunghissimo anche solo a pensarci. Da adolescenti avevano giocato insieme nella stessa squadra di calcio, accompagnando quell’isterica di Suzette Heartland in tutte le sue folli avventure da femmina alfa, ma avevano cominciato ad interagire tra di loro solo a fine liceo. Ad unirle veramente c’era stato un sogno in comune, quello di poter gestire un bar all’estero, poter creare dolci, regalare alle persone piacevoli chiacchierate e colazioni rigeneranti. Un’ambizione banale, che però le aveva unite e le aveva portate nella caotica e meravigliosa New York city.
La Grande Mela le aveva accolte in un freddo abbraccio, immergendole in una realtà ben diversa dai paesini provinciali in cui erano entrambe cresciute, ma nel giro di breve si erano entrambe sincronizzate al ritmo frenetico di quella nuova vita.
Ora vivevano insieme come due adorabili sposine che condividevano felicemente le spese, i trucchi, i vestiti e lo spruzzino per i vetri, tutto.
Persino i ragazzi, per quelle rare volte che avevano voglia di divertirsi.
E tra poco, anche una vacanza nella bella California, di ben due settimane.
<< Finalmente clienti!>>
La voce ferma della Moore bastò a interrompere il flusso di pensieri della mora, che si riscosse sul posto. Entrambe sfoderarono i loro migliori sorrisi, fissando lo sguardo oltre la porta trasparente.
E poi, la riconobbe.
La testa color biondo ambra fece capolino oltre il vetro appannato di freddo, invadendo gli occhi di Esther con la potenza di uno tsunami dorato.
Cristo, eccolo lì.
Il tipo della benzina, lui.
Come dimenticare quel colore.
Si stupì nel percepirsi ancora tanto nervosa, e si ritrovò a stringere i pugni con forza mentre il ragazzo entrava accompagnato dal soggetto castano.
Non riusciva a staccargli gli occhi di dosso. Il cuore accelerò la sua giovane corsa, minacciando di riempirle il petto di lividi ad ogni battito sconquassante.
<< Salve! >>
Dei due, solo il castano si avvicinò al bancone.
Il biondo rimase sulla soglia, gli occhi nascosti dalla lunga frangia bionda e il capo chino sul cellulare.
Era così bello, maledizione. Indossava una giacca a vento nera, jeans sbiaditi e Converse bianche.
Dio.
Quel modo di vestire emanava un qualcosa di familiare, troppo.
<< Siamo di fretta, ragazze. >> soggiunse il castano, cercando di catturare l’attenzione. << Ce li fate due caffé? >>
<< Cazzo! >> la voce di Mary proruppe nel silenzio imbarazzato del piccolo locale, incrinata di gioia, ma “testa ambrata” parve non farci caso; la luce candida del cellulare proiettava ombre indecifrabili sul volto ben celato.
<< Ma tu sei Erik Eagle! >>
Nel sentire quelle parole, il cuore di Esther ebbe un sobbalzo. Subito si concentrò sul castano, e sorrise a trentadue denti quando si rese conto che era davvero Erik. Proprio il buon, vecchio, passionale Erik Eagle. Grandi occhi neri, capelli castani sollevati verso l’alto. Si era solo alzato, per il resto, era perfettamente identificabile. Ma questo significava che se uno era Eagle… l’altro per forza era… no, no. Non per forza.
Poteva anche non esserlo.
Calmati, cretina.
<< Le ragazze della Tripla C! >> esclamò lui dall’altra parte del bancone. Sembrava felice di vederle, così emozionato nel suo pratico giubbotto verde acqua che lo rendeva goffo e fragile. Note di smisurato affetto continuavano a scorrergli vivide negli occhi intensi. Affetto per loro, per ciò che avevano passato insieme e per come tutto era finito. << Beh, come mai siete in due? Il resto della banda si è smarrito a Fifth Avenue? >>
Tripla C.
La parola d’ordine che fece scattare la mina distruttrice.
Esther colse il biondo sollevare il capo con fin troppa energia, ma prima che quest’ultimo potesse anche solo fissare gli occhi sul bancone, la mora sparì nel magazzino a grandi falcate, chiudendosi la porta alle spalle.
Sentiva il cuore battere energicamente contro il petto, la gola seccarsi per la forte emozione, come un fiore rimasto senz’acqua per troppo tempo.
Si ravviò la coda di cavallo, ricomponendola nervosamente.
Perché non era rimasta lì? Perché non aveva fronteggiato quegli occhi intenti nel posarsi sui suoi? Solo perché il castano si era rivelato essere Erik, non voleva di certo dire che l’altro fosse lui… Mark.
Mark Kruger.
E poi, anche se fosse stato lui, che cambiava?
Si ripresentò al capezzale di Mary solamente quando i due ragazzi si dileguarono dal posto con due bicchieroni di caffè caldi tenuti saldamente tra le mani.
Moore la squadrò attentamente, prima di indicare la porta con sguardo più scioccato che altro. << Hai visto chi era? >>
<< Ho visto eccome! >>
<< Erik! Erik Eagle!Allora è vivo cazzo! Questa sera voglio chiamare Suzette e dirle che il suo ex ex ex ex ex ex - potremmo continuare all’infinito - ragazzo si è presentato da noi con un disperato bisogno di caffeina e figa. Secondo me si trasferisce qui. >>
<< Sempre che non l’abbia già fatto. >>
Le due risero di gusto, prima di riprendere a pulire la cucina.
Poi, la domanda. La fece. Veloce e pesante come un tuono che si riversa contro i grattacieli più alti della città. << Hai visto il biondo? >>
<< Sì. >>
<< Per caso… >>
<< Ti ho già risposto. Sì. >> vMary si voltò verso Esther e le tirò una ciocca arricciata sfuggita alla morsa della coda, le iridi lillà che lasciavano trapelare un guizzo divertito.
Greenland parve vacillare sui suoi sfolgoranti tacchi alti, la prima volta che le capitò in tutta la sua breve vita.
Quel cognome così duro le arrivò dritto al cuore come una stilettata di ghiaccio, affondando nel muscolo pulsante senza alcuna pietà.
Col respiro sospeso a mezz’aria spostò gli occhi sulla porta, poi li riportò su Mary.
Poi sulla porta, di nuovo, oltre i cumuli di neve, oltre le macchine, gli edifici.
Alla ricerca di lui.
Sapeva che si sarebbe dovuta fidare del suo istinto, fin dall’inizio. “Testa ambrata” era davvero Kruger.
Mark, Mark Kruger, lo stesso ragazzo che anni prima l’aveva resa protagonista di un tormentato, infantile amore estivo.
Quanto aveva insistito per averlo. Quanto ci aveva pianto, quanti messaggi letti e a cui lui non aveva mai dato risposta.
E ora spuntava così, dopo un anno di vita nella Grande Mela, nel più improbabile dei lunedì, con tre gradi sottozero, assieme ad un Erik Eagle all’apparenza felice e realizzato.
A chiedere un caffè.
Nel suo bar. Quello freddo che si affacciava timido sulla tredicesima.
<< Era proprio lui, te lo giuro. >>
La conferma di Mary arrivò come una carezza bollente sulla sua guancia congelata dall’emozione.
<< Già... va beh, a volte si fanno di nuovo vivi. >> Esther ritornò alle sue tazze, ancora chiaramente agitata. Chissà come avrebbe reagito la vecchia tredicenne che era stata se avesse vissuto quel momento in prima persona. Sicuramente avrebbe fronteggiato Mark con aria spavalda, invitandolo a farsi avanti.
E poi avrebbe inveito contro di lui.
Per averla abbandonata. Per essere sparito, soprattutto dopo che tra loro c’era stato quel bacio doloroso e appassionato. Forse per lui non aveva significato niente, forse per lui si era trattato di un semplice sfogo, ecco, ma per lei le labbra di Mark avevano significato tutto.
Sorrise, pensando che i motivi che una volta l’avevano tenuta col cuore a cocci ora le provocavano solo divertimento.
Eppure… era scappata lo stesso, quando lui aveva cercato un contatto. Senza nemmeno darsi tempo di riconoscerlo.
<< Non dirmi che ti sei nascosta nel magazzino per sfuggirgli. Se n’è accorto, ti ha guardata. Ma non credo ti abbia riconosciuta, avrà visto solo il tuo grosso culo da balena rinchiudersi oltre le mie spalle. >>
La punta del tacco schizzò improvvisamente in avanti, schiantandosi contro la caviglia di Mary senza alcuna pietà.
<< Non volevo farmi notare troppo. >> sbottò poi Esther, ritirando con raffinatezza la gamba snella dopo che il suo
attacco premeditato andò a segno. << Non ho molta voglia di riallacciarci un legame, sinceramente. >> si passò una mano tra i boccoli, ignorando di proposito l’espressione acida dell’amica. Mentiva. Eccome se mentiva. << Ne di parlarci. Ecco. E lascia stare il mio culo da balena, orba schifosa. >>
<< Beh, potevi almeno dirgli ciao. Per correttezza. >>
<< Perché, lui lo ha fatto? >>
<< Certo! >> Mary sorrise maliziosa, ammiccamento che l’altra ricambiò con una banale smorfia venata d’ansia. Esther Greenland si poteva considerare donna su molti aspetti, troppi forse, ma in quei momenti i suoi ventitré anni appena sbocciati si facevano sentire nel più immaturo dei modi.
<< Dopo che ti sei segregata nel buio, ovvio. Comunque ora che sanno che ci lavoriamo vedrai che tornano. >>
<< Non lui. >>
<< Anche lui. >>
<< Lui non sa tornare. >>
Moore parve freddarsi a quell’ultima frase. Si avvicinò alla mora e le afferrò con dolcezza un polso, ignorando il broncio che mise su l’amica a quel contatto non voluto. << Mi vuoi spiegare bene che cavolo è successo tra voi due che appena lo hai riconosciuto ti sei rintanata nello sgabuzzino? >>
<< Storia lunga. >>
<< Beh, racconta. Sono qui per te. Sono anni che mi sorbisco le tue cazzate, ma questa… questa mi è proprio nuova. >>



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Nda
eccomi qui col primo capitolo di questa storia, signorine. Come andiamo? Io tutto bene, volevo fare un annuncio importante, anzi, due.
Il primo, che questa long è stata scritta fino al capitolo 10 - terminato solo ieri tra l'altro -. Cioè che i capitoli pronti sono molti, quindi non vi preoccupate, che gli aggiornamenti saranno piuttosto rapidi, anche perché non ho intenzione di arrendermi o prendermela comoda per altri quattro anni (?).
Il secondo, che dal 7 novembre al 19 novembre perderò quattro ore di matematica e la prof mi ucciderà sarò negli Stati Uniti. Già, nella patria di Mark Kruger , proprio così. Il sogno di una vita!
Per quell'arco di tempo non penso che mi metterò a scrivere, voglio godermi bene gli USA, quindi lascerò il pc a casa. Per questo motivo, tra pochi giorni pubblicherò anche il capitolo due, e forse forse pure il tre, così vi lascio che siete già entrati “nel vivo” della trama.
Detto questo, come vi è parso questo capitolo? So che è un po' corto (i capitoli iniziali saranno un po' tutti così), non è successo granché, cioè, è comparso Mark OMMIODDIO MAAAARK TI AMOOOOOOOOOH, ma lo vedremo meglio nel prossimo chappy  una piccola curiosità: il titolo, come ben sapete, significa il ragazzo della benzina. In inglese benzina si dice petrol, ma in inglese americano si dice gasoline. Solo questo (?) mi sembrava giusto usare l'inglese degli americani, visto che siamo negli States.
Volevo precisarlo (?)
Fatemi sapere in una recensione che ne pensate, mi farebbe molto piacere!

A presto!

Lila

 

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Capitolo 3
*** Eyes ***


Chapter two.

Eyes

 

Mark le aveva giurato che si sarebbero tenuti in contatto, suggellando quel piccolo patto con un bacio turgido di pioggia e gonfio di passione.
L’aveva schiantata contro il muretto, l’aveva guardata con ardore, troppo per un quattordicenne.
E poi l’aveva fatta sua con un semplice tocco delle labbra.
Era stato bellissimo, magico.
Il miglior bacio che avesse mai avuto, dalla miglior persona che avesse mai potuto incontrare nella sua vita.
Per un breve periodo il biondino dei suoi sogni aveva rispettato la promessa, sottolineando spesso e volentieri quanto le piacesse, quanto le mancasse e quanto sognasse di baciarla ancora e stringerla contro il muro più vicino. Passavano le notti a scriversi, come due rincoglioniti.
Le aveva raccontato del trasloco, di come gli era sembrata New York a prima vista, di come era iniziata male la scuola.
Delle litigate col padre, Johann, e tutto il resto.
Però poi, a nemmeno un mese di conversazione, Mark aveva smesso di mandarle e-mail.
Aveva smesso di chiamarla, scriverle messaggi e intasarla di foto.
Niente più sfoghi, niente più “ti amo”. Niente di niente.
Esther aveva subito pensato ad un problema temporaneo, ma i mesi divennero presto anni, e i messaggi senza risposta si trasformarono in un cumulo di inutili lacrime stroncate nel cuscino.
Aveva creduto di non andargli più bene.
Aveva creduto che si fosse trovato un rimpiazzo migliore, meno noioso, meno brutto, meno sbagliato.
Con un seno della taglia giusta e lunghi capelli profumati di vaniglia.
Per fortuna era riuscita a chiudere tutto in un cassetto, e ad ignorarne il contenuto per il resto degli anni a seguire.
Ma ora il cassetto si era spalancato all’improvviso.
E rivedere Mark Kruger così, dopo tanto tempo… dopo tanti anni di silenzio, mesi di speranze, rassegnazione, lacrime… le aveva smorzato il fiato, letteralmente.
Era passata una settimana da quell’incontro casuale, e da una settimana non smetteva di pensarci.
Mark era diventato un chiodo fisso nella testa, un arrovellamento di pensieri confusi, emozioni strane che le tenevano il cuore in gola e lo stomaco in subbuglio
Il colore fulgido dei suoi capelli sbarazzini, la giacca a vento nera, quella frangia calata sugli occhi… quelle scarpe. Mark.
Mark Kruger.
Cristo.
Quel giorno Mary non c’era. Il venerdì era il suo day-off, e ciò significava che se per caso l’americano si fosse fatto vivo una seconda volta, avrebbe dovuto fronteggiarla tutta sola.
E lei, beh… non era di certo pronta a scontrarsi con gli occhi celesti e orgogliosi del biondo.
Si spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, facendo tintinnare l’orecchino a forma di goccia che penzolava poco più su della spalla.
Il camice rosa antico era ben stretto al corpo, e le maniche della camicetta bianca sollevate fino ai gomiti. Ai piedi portava i suoi fedeli tacchi neri, un tocco di classe che la rendeva giovane e signora al contempo.
Aveva chiamato l’idraulico perché potesse dare un’occhiata al riscaldamento, e lo stava aspettando. Non vedeva l’ora che arrivasse, lei e le colleghe non ne potevano più del freddo polare accumulato dentro quelle quattro mura intonacate di giallo limone.
Ad un certo punto, una testa bionda entrò dalla porta d’ingresso, facendo tintinnare il campanellino.
Esther ebbe un balzo al cuore, mentre si drizzava sui tacchi e pregava con tutta se stessa in un’ ologramma di Mary materializzato accanto a lei per tranquillizzarla. Si portò una mano al piercing, e prese a giocherellarci per scaricare il nervosismo.
Mark.
Lo seguì con lo sguardo fino a quando lui non sollevò la testa dinanzi a lei, con una decisione che la lasciò stupefatta.
Un volto vecchio e segnato dall’età le comparve davanti al naso arricciato.
Tirò un sospiro di sollievo interiore, sentendo gli allarmi dentro di sé spegnersi dolcemente.
No, non era Mark. Che stupida, l’ansia le stava davvero giocando brutti scherzi.
<< Sono l’idraulico. Portatemi da quel fottuto riscaldamento, ora gli diamo una sistemata. >>


 

Passò un’altra settimana, ma ora lavorare al caffè era diventato decisamente più emozionante da quando la temperatura al suo interno era ritornata calda e piacevole.
I clienti si erano riversati al bar in massa, occupando quasi tutti i tavolini presenti, e il loro vociferare sommesso e biascicato aveva reso l’atmosfera ancora più accogliente di quanto già non fosse.
Un intenso profumo di caffè e pancakes sciroppati d'acero impregnava l’aria, facendo brontolare persino gli stomaci di coloro che passavano indisturbati davanti al bar.
Ma che poi si vedevano costretti ad entrare, affamati come leoni
Insomma, il motore aveva ripreso a girare, e le casse ad aprirsi con voracità, bramose di soldi.
Di Mark ed Erik, però, nessuna traccia.
Da ben due settimane.
<< Peccato, ci avevo sperato… >> bofonchiò Mary, i lunghi capelli blu perfettamente raccolti in un ordinato chignon.
<< Meglio così, sai? Chi se ne frega di quei due, oh! >> Esther s’infilò nel giubbotto marrone e raccolse la borsa con un largo sorriso gravido di stanchezza. Il suo turno era finito, e non vedeva l’ora di tornare a casa per riposare; baciò Mary sulla guancia pallida, salutò le altre e passò dal tepore profumato del bar alla morsa gelida dell’inverno newyorkese.
Una spirale di vento le avvolse il collo nudo, ma lei continuò imperterrita ad avanzare.
Camminò tra quei volti tutti estranei ed uguali per minuti che le parvero anni, ignorando gli sguardi dei ragazzi e i commenti acidi delle femmine, quando un viso particolare parve spiccarle subito all’occhio, risvegliandola dal torpore silenzioso in cui era scivolata.
Un viso che conosceva bene.
Fin troppo.
Ma che non le era mai parso tanto diverso come in quell’istante.
Due luminose iridi color del mare le si posarono esattamente addosso, e la guardarono con un misto di stupore, sconcerto e consapevolezza.
Fu quell’ultima sensazione a farla tremare dentro.
Esther si sentì morire. Sentì la paralisi fermarle la circolazione sanguigna, le gambe, le braccia, tutto.
Quello era il viso di Mark, i suoi occhi. La stavano fissando.
Nessuno disse niente per un po’.
Poi lui fece un passo in avanti.
Un altro.
La ragazza rimase immobile sui tacchi a spillo, persa nel bagliore celeste di quelle iridi così chiare, limpide, sincere e leali che tanto l’avevano fatta fremere dieci anni prima.
Non sapeva come interrompere il contatto visivo.
Non ci riusciva, forse non voleva neanche.
Mark le stava venendo incontro e lei si era come imbambolata a guardarlo. Non fece caso a Erik accanto a lui, ne alle persone che lo circondavano.
Era come se esistessero solo loro due. Quello era il loro momento.
Kruger chiuse la distanza tra loro in pochi secondi, e quando Esther si ritrovò a fissargli il collo avvolto da una morbida sciarpa rossa, venne subito invasa dal suo profumo forte. Quello intenso della libertà, della vita che scorre nelle vene, mischiato a quello placido dell’inverno calato sulla città come una cappa protettiva.
Lo guardò, percorrendo con occhio sconvolto i suoi lineamenti forti, cesellati, le gote cinte da due folte basette color miele, i capelli arruffati scossi dal vento.
La frangia troppo lunga gli cadeva a ciocche ribelli sulla fronte corrugata, il naso lungo torreggiava su un paio di labbra sottili e vellutate.
Era cambiato tantissimo, sembrava a malapena lui. Era alto, tanto, e snello.
Lo ricordava fragile.
Lo ricordava diverso. Indifeso, un gambo spezzato sotto il peso di troppe responsabilità.
Dire che un tempo era stata lei quella alta, il “maschione” dalle spalle robuste.
Invece ora doveva ricredersi, al cospetto del corpo di Mark.
Si sentì una misera formichina, e vacillò sui tacchi alti.
<< Esther. >>
Le labbra dell’americano liberarono il suo nome con un sospiro esterrefatto. La sua voce era profonda e arrochita dal freddo, una melodia di suoni intensi.
Tintinnò come il nome più grazioso del mondo.
<< Mark… >>
Eagle si intromise nella conversazione, una smorfia divertita stampata nel volto dai lineamenti scaltri e dolci. << Che ti dicevo, Mark? >>
Il biondo rivolse un sorriso ad Esther, prima di prenderle le mani e stringergliele con un affetto sconcertante. C’era del distacco nelle sue azioni contenute, come se cercasse di trattenere la sorpresa di quell’incontro. La mora arrossì. Mark aveva delle mani stupende. Poteva sentire le sue vene pulsare calde, vive sotto la pelle color rosa. A fatica si reggeva in piedi, tanta era l’emozione. << Non potevo credere alle parole di Erik quando mi ha detto che lavoravi qui. Che eri qui. >> prese fiato, un rantolo febbrile gli sfuggì dalla gola a punta. << Non ti avevo vista l’altra volta. Non in faccia, almeno. Non potevo credere che fossi tu, io... >>
La mora notò come si era fatto pallido, ma come aveva lo stesso tenuto l’accento cantilenante della California.
Sorrise a quel particolare, sentendo l’ansia abbandonarla per lasciare posto alla serenità del momento. Aveva temuto peggio, perché? Non lo sapeva nemmeno lei. L’unica cosa di cui era consapevole in quel momento era di aver davanti il suo grande amore dimenticato, e quello bastava. << Sono contenta di vederti, Mark. >> lo ammise. Era davvero felice di averlo incrociato, finalmente.
Dopo un anno di vita lì.
<< Stavo proprio venendo a verificare con i miei occhi se ciò che aveva detto Erik fosse vero! Ma poi… ti ho incontrata per strada. >>
<< Fratello, dovresti fidarti di più. >>
Mark le lasciò andare le mani per agguantarle con delicatezza le spalle. Poi la avvicinò e la strinse con vigore, come si fa con le cose belle, le cose preziose. Quelle che non sai più lasciar andare, una volta che te le ritrovi per caso. Esther sentì di avvampare mentre sprofondava tra le braccia bollenti dell’amico. Quel movimento inaspettato le ricordò tanto il loro primo bacio, quando si erano chiusi nella camera di Mark, scarna di oggetti a causa dell’imminente trasloco, ma piena di lui ovunque posasse lo sguardo.
<< Mark, cristo, possiamo entrare da qualche parte? Io sto crepando di freddo. >>
Mark sembrò come risvegliarsi da un lungo sonno, e tutti e tre interruppero il momento per andare a ripararsi nel bar più vicino, cercando di sfuggire alla gelida morsa invernale.
Esther lo seguì diligente, camminandogli accanto come se si vedessero ogni singolo giorno.
Come se non fosse successo niente.
Le era mancato.
E non si accorse di avere gli occhi languidi fino a quando non presero a pizzicarle le iridi, dannazione.
Le era mancato da morire.


 

Mark si sporse in avanti non appena Erik si allontanò da lui ed Esther per andare a parlare con un dipendente. Il cappuccio fumante dinanzi alla sua sagoma disegnava volute appannate e intrise di profumo, e il liquido caldo si smosse appena quando il giovane si allungò verso di lei, battendo il gomito contro il tavolo. Era voglioso di sapere.
Esther glielo leggeva negli occhi, quel guizzo di curiosità che lo aveva da sempre caratterizzato brillava fulgido nelle iridi celesti. Era ora delle spiegazioni.
Smise di armeggiare con la fetta di toast imburrato, mettendola da parte.
<< Mi sono trasferita qui. >>
Parve sconvolto da quella notizia. Ma anche contento. Un mischio di entrambe le cose. << Da quanto? >>
<< Un anno, circa. >>
Il biondo tenne la schiena rigida, e gli occhi si fecero scuri sotto l’ombra della lunga frangia. Esther avrebbe tanto voluto passarci una mano, scostargliela dallo sguardo imperscrutabile per ammirarlo meglio. Rendersi conto di quanto fosse cambiato, leggere tutto nella sua pelle, nelle sue smorfie.
Senza bisogno di aggiungere ulteriori parole. E soprattutto, chiedergli il perché di quel silenzio lontano che tanto l’aveva ferita.
Ma non lo fece, ovviamente.
Non era il momento quello.
<< Come mai proprio New York? >>
<< Sognavo di poter aprire un bar all’estero. New York è stata un’occasione che abbiamo colto al volo, ecco. >>
<< Abbiamo? >>
<< Abbiamo, sì! Io e Mary, la ragazza che lavora con me! Faceva anche lei parte della Tripla C--
Vide Mark fare mente locale. Probabilmente non la ricordava. E probabilmente aveva gettato nel dimenticatoio anche lei, prima di riconoscerla in mezzo alla folla qualche minuto fa. Ma perché ora si comportava da mocciosa?
Chiuse in una scatola del cervello il coacervo di pensieri che le frullava in testa da diversi minuti, disturbata del fatto che non avessero smesso di darle tregua neanche un attimo.
<< Condivideva il mio stesso sogno. Viviamo in un monolocale insieme, ce la caviamo, devo dire, anche piuttosto bene considerando che siamo due sceme patentate.>>
<< Good. E questo? >>
Esther batté le ciglia diverse volte, confusa. << Questo cosa? >>
Con un lieve cigolio della sedia, Mark si sporse in avanti, le afferrò il mento e premette dolcemente il pollice contro il piercing, stupito.
Oh Dio.
Esther perse un battito, e un altro ancora. Sussultò, e le guance le si imporporarono di rosso a quel contatto quasi intimo e spavaldo, così inusuale per due ragazzi che erano stati lontani tutto quel tempo. Avrebbe voluto dire qualcosa, qualunque cosa per interrompere tutto, ma non trovò la forza morale per ostacolare tante meravigliose sensazioni sbocciate all’improvviso nel suo petto eccitato.
La lingua le si sciolse in bocca. Era sicura di sembrare una totale scema, agli occhi dei pochi spettatori presenti.
Un bagliore divertito scosse le ridi di Mark, mentre un sorriso carico di malizia gli tagliava il mento maschile. Doveva essersi accorto del rossore dell’amica, tutti dovevano essersene accorti. Esther sbuffò appena; impossibile nasconderlo.
<< Il piercing. Stupendo. Sei diventata una ragazzaccia? Scommetto che vai in giro picchiando tutti quelli che ti fanno arrabbiare. >>
<< T-ti piace? E’ nuovo. Ha sei mesi. >>
<< Ti sta davvero bene. >> Mark le lasciò andare il mento, profondamente colpito da quel dettaglio.
Colpito da lei.
Esther Greenland era cambiata molto in quei dieci anni, e aveva acquistato una bellezza decisamente estrosa. Impossibile non notarla; magari non era la donna più splendida del mondo, vuoi per i tratti grossi, vuoi per l’altezza vertiginosa, o per quel seno troppo grande che le aveva donato sempre più anni di quelli che realmente possedeva. Ma aveva un carisma, una bellezza così prorompente in grado di catturare sempre qualche sguardo, ovunque osasse anche solo mettere tacco. I capelli le ricadevano lunghi sulle spalle eleganti, meno ricci di come li ricordava. Un’adorabile frangia le percorreva metà fronte, mettendole in risalto gli evasivi occhi color ebano.
E quel piercing appena sotto il labbro inferiore. Così piccolo e raffinato.
Quello era la ciliegina sulla torta.
Il tocco del maestro.
Ciò che la rendeva meravigliosa, unica. E dire che lui schifava i piercing, specie sulle donne.
Quando ritornò a focalizzarsi sul suo sguardo, però, colse un’ombra che prima non aveva notato. Sospirò, stendendo la larga schiena sulla sedia di legno. Non aveva bisogno di chiederle che cosa non andasse, per saperlo. Già lo immaginava.
Aprì la bocca per parlare, per spiegarle.
Esther lo capì dal suo sguardo fattosi serio, dalla sua mascella contratta.
Ma Erik interruppe la conversazione con un gesto della mano, facendo capire al compagno che per il momento la cosa doveva finire lì.
Purtroppo.
<< Shit. >> Mark finì il cappuccino in due rapide sorsate - Esther sgranò gli occhi dinanzi a tale superpotere -, estrasse dalla tasca del giacchetto un pezzo di carta e una biro senza tappo, poi iniziò a scrivere qualcosa in fretta e furia, con una calligrafia sbarazzina che la lasciò esterrefatta. La ragazza lo osservò con aria stordita. Non capiva cosa volesse fare, ma la risposta le fu chiara quando cominciò ad intravvedere dei numeri formarsi sotto il pugno chiuso del giovane.
Era il suo contatto di cellulare.
Mark glielo diede con un mezzo sorriso, poi abbassò la voce al minimo, perché potesse sentirlo solo lei. << Esther. >>
<< Sì? >> domandò la mora, alzandosi dal divanetto in pelle che l’aveva ospitata in quel breve lasso di tempo. Afferrò lo straccetto di carta con fare indeciso, prima di leggerne i numeri sbaffati.
Non sembrava molto convinta.
Non lo era. Affatto.
<< Questa volta risponderò. Te lo prometto. >>
Fu un attimo.
Esther sentì un fremito interiore nell’udire quelle parole, percepì la piccola se stessa ribellarsi dentro quei ricordi ancora troppo vividi, si vide sollevare la testa dal cuscino umido di lacrime e correre al cellulare per vedere se il suo grande amore adolescenziale le aveva risposto. Mark sapeva, Mark ricordava ed era intenzionato a darle delle risposte.
Il biondo la lasciò con un rapido abbraccio, prima di infilarsi in mezzo al freddo del crepuscolo insieme ad Eagle. Una debole luce dorata era calata sulle strade nere di New York, illuminando con i suoi tenui raggi solari le infinite finestre del vicino downtown.
Esther non sapeva come sentirsi. Percepiva una calma strana aleggiarle intorno, l’odore acre dell’inverno non era mai stato tanto intenso come in quel momento.
Trascinò i piedi stanchi fino all’auto, si chiuse dentro, confusa.
Mark…
Mark era lì.
Di nuovo con lei.
Intenzionato a ristabilire un legame, e le era parso deciso, nonostante conoscesse molto bene quanto il ragazzo stesso fosse stato l’allegoria della fragilità.
Si rigirò quel numero tra le mani, quel maledetto, fottutissimo numero di telefono che dieci anni prima l’aveva bellamente ignorata per mesi.
<< Basta comportarti da sciocca. E’ adulto anche lui. >>
Lo infilò nella borsa e mise in moto.
Mary doveva assolutamente sapere.

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Nda
eeee niente. Ciao. (?) so di aver detto che avrei pubblicato prima di partire per gli Stati Uniti, ma ho avuto da ottenere un po' di voti entro la data della partenza, e sono dovuta stare sui libri fino all'ultimo. Beh, è stato un viaggio fantastico, probabilmente ci ritornerò u.u.
Come va?
Io bene, a parte il fatto che sto affogando tra inglese, francese tedesco e quella fottuta matematica. By the way, finalmente Mark!
Aspettavo da una vita di poter parlare del mio pucci-pucci, come vi è sembrato? Allora cari tesori di pastafrolla (?), l'aspetto di Mark adulto non l'ho inventato - eh, VOLEVI! -, l'ho preso da una fanart di Mizuhara Aki - forse lo conoscete, è famoso per le sue immagini su Inazuma, ne fa a quantità industriale -, ve la lascio here below.

https://imgur.com/a/Ust26

Enjoy girls. (?)
Detto questo, fatemi sapere che ne pensate del capitolo - e di Mark obv -! Ci sentiamo al prossimo, bye <3

 

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Capitolo 4
*** Slices of life ***


 
Chapter three.

Slices of life
 

<< Ti ha dato il suo numero di cellulare? >>
Mary aprì la porta della doccia per guardare l’amica. I lunghi capelli blu le scivolavano armoniosamente sulle spalle, una cascata scura in forte contrasto con la pelle rosata, e profonde righe di mascara le erano brutalmente colate sotto gli occhi chiari, marchiando le gote umide d’acqua con il loro tratto color pece.
<< Sì. >> Esther si rigirò il foglietto tra le mani con fare annoiato. Erano passati tre giorni dalla chiacchierata al bar, sempre se così la si poteva definire. Aveva pensato di chiamare il caro, vecchio, meraviglioso Mark Kruger più e più volte, ma, temendo di disturbarlo, aveva sempre rimandato al giorno successivo; anche lui avrebbe potuto benissimo farsi vivo, del resto, eh. Il suo numero non era mai cambiato nel corso degli anni, solo i cellulari. Ma forse il signorino nemmeno lo aveva più, il suo contatto.
<< Comunque quando ho fatto tuo nome, non sembrava averti riconosciuta. >>
Mary serrò la porta della doccia con uno scatto che non aveva niente di delicato e femminile, facendo sobbalzare la mora. << Beh, da quel che ricordo io aveva occhi solo per Suzette. Era già un miracolo che si rammentasse di tutti i nostri nomi. >>
<< Suzeeeeette! >>
Le due risero, ripensando a Mark e alla Heartland insieme. Se prima potevano essere più o meno apprezzabili - punti di vista -, ora facevano entrambe una fatica immensa anche solo a partorirli accanto. Erano diventati troppo diversi.
Suzette era cresciuta come quel genere di donna spavalda e testarda che si poteva definire in una sola, potente parola, accompagnata da un solo, potente aggettivo. “Libertà sessuale”. In tutte le sue forme. O almeno, così ricordava Esther; non la sentiva da parecchio, chissà che non fosse cambiata col passare dei mesi. Chissà che non avesse trovato il suo uomo ideale, ne cambiava così tanti che ormai tutti avevano perso il conto, persino lei.
E Mark, Mark sembrava troppo serio per stare con una come l'adorabile Suzette.
Anzi, sembrava semplicemente troppo. Per tutti.
Niente vie di mezzo.
Esther ripensò a quando le aveva toccato il piercing, accompagnando il gesto con uno sguardo malizioso e carico di aspettativa.
Arrossì. Dio, quel contatto le aveva scatenato una vera e propria tempesta nel cervello.
Più ci dedicava un pensiero, più finiva per trovarla la cosa più bella che le fosse mai potuta capitare in quell’anno.
<< Comunque dovresti davvero chiamarlo. >> Mary uscì dalla doccia e si avvolse in un morbido accappatoio color kaki prima che il freddo le potesse accapponare la pelle gocciolante. << Se ti ha dato il numero, significa che vuole le tue attenzioni. >>
<< Non credo ne abbia bisogno. >>
<< Di cosa? >>
<< Delle mie attenzioni. Lo hai visto, Mary? E’… è diventato un bel ragazzo. Ne avrà già molte, di attenzioni. >>
<< Dici? A me sembra normalissimo. >>
<< Io lo trovo assurdamente carino alla follia, invece. >>
<< Senti tesoro, se non lo fai tu lo faccio io. >>
Esther rise ironica a quella battuta. << Non osare. >>
<< Oso eccome, se continui a tenere quel grosso culo per terra ad aspettare in uno squillo. I maschi sono lenti, lui in particolare, mentre tu sei audace, fa la prima mossa, che ti importa del galateo. Altrimenti me lo scopo prima io, sappilo. >>
<< D-domattina… domattina lo faccio. >>
<< L’hai detto. >>
L’ultima cosa che Mary sentì fu la porta del bagno serrarsi con un tonfo secco. Sorrise maliziosa mentre strizzava i capelli nel lavandino, pensando che sì, a volte Esther era proprio una bambina scema e sprovveduta.

 

 

Esther digitò il numero, si portò il cellulare all’orecchio e attese.
Il primo squillo partì, sostituito presto dal secondo.
Era raggiungibile.
Ci fu un terzo suono interrotto, poi ne seguì un altro e alla fine la tanto attesa voce calda di Mark ruppe quella noiosa sequenza, trillando in un saluto nervoso.
Sembrava stesse camminando in fretta, Esther poteva percepire il respiro affannoso del biondo tremolare lievemente contro il suo orecchio teso.
<< Ehi, Mark! >>
<< Ehi, Est! >>
<< Come stai? >>
<< Bene, te? >>
<< Chiamo nel momento sbagliato, Mark? >>
Il biondo esitò un istante, poi le rispose. Probabilmente aveva sorriso. << No, figurati. Ho finito adesso il turno. >>
Buttò uno sguardo all’orologio, che segnava le otto e tredici di mattina.
<< Hai lavorato di notte? >>
Lo percepì annuire appena. << Ti spiegherò tutto. Sei libera oggi? >>
La mora gettò una rapida occhiata a Mary, seduta dall’altro capo del tavolo intenta a risolvere un intricato cruciverba. << Certo che sono libera. >>
<< Perfect. Vediamoci questa sera alla tavola calda della scorsa volta, quello vicino a dove lavori tu, ti va? >>
<< Volentieri! >>
Udì una portiera chiudersi, una chiave infilarsi da qualche parte e il rombo di un motore cominciare a fare da sottofondo alla chiamata. Mark stava tornando a casa. Chissà dove abitava. Era solo o in compagnia? Aveva la ragazza? Non vedeva l’ora di trovare risposta a tutte quelle domande, la curiosità la stava divorando.
<< Alle diciannove lì, ti offro la cena io. Ora devo scappare. Ci vediamo questa sera. >>
<< D’accordo Mark. Alle 19 sarò lì. >>
Riattaccò prima che potesse farlo lui, poi guardò Mary con aria stordita. Moore sembrava soddisfatta della chiamata. Posò il giornalino e fissò i grandi occhi lillà su quelli neri di una Esther ogni secondo più confusa.
<< Mary! Non ho intenzione di scoparmelo ne di farci altro, santo dio. Dobbiamo solo parlare! Due amici che si ritrovano, tutto qui. >>
<< Eppure perché ho la sensazione che ti farai stra bella? Il divano è tutto vostro comunque. >>
La mora ignorò il commento velato di malizia e si sedette accanto all’amica, emozionata. Poi le strinse un braccio con forza, scuotendola per sciorinare il suo visibile stato di euforia. << Non vedo l’ora di rivederlo. E’ così strano aver ripreso i contatti… uscire con lui… si è fatto così grande… >>
<< Lo so tesoro. Lo so. >> Mary la scrutò come a guardarle l’anima. << Che cosa provi, Esther? >>
<< Sconcerto. Mi fa molto strano risentirlo dopo tanto tempo. Però sono felice di sapere che è vivo, sta bene e lavora. >>
<< Già… provi anche altro? >>
<< Beh… >> Esther si strinse nelle spalle, dubbiosa. Certo che provava altro.
Sentiva un nodo allo stomaco, i ricordi riaffiorare alla mente ogni volta che la voce di Mark le perforava le orecchie, l’immagine di lui ora, così bello e diverso, l’immagine di lui una volta, fragile e perso in un mondo che gliene aveva date fin troppe.
Così confuso, superficiale.
E intanto che ci pensava, dentro di sé la curiosità cresceva famelica, aumentando d’intensità ora dopo ora.
Non vedeva l’ora di rivederlo.
​<< Riformulo: provi anche altro? >>

<< Non lo so… >> bofonchiò, annaspando le parole con evidente insicurezza.
Lo avrebbe scoperto quella sera stessa, cosa sentiva.
Per ora, voleva solo uscire con lui e farsi spiegare un paio di cosette.

 

 

<< Sei cresciuta un sacco, Esther. >>
Esther smise di tagliare la morbida bistecca, poi posò lo sguardo su Mark e gli sorrise, imbarazzata dinanzi a quell’affermazione tanto vera quando ingenua. Fuori pioveva, sembrava essere arrivato il diluvio universale. Tremende gocce d’acqua si schiantavano contro la vetrata alla loro destra, eppure tutto sembrava essere così calmo, immerso in una quiete innaturale e deliziosamente tesa. Non sapeva spiegarsi quella strana sensazione. Era da quando avevano messo piede lì dentro che si sentiva così. Serena. Non sembrava affatto un incontro organizzato alla bene meglio dopo dieci anni di silenzio assoluto. Sembrava semplicemente una rimpatriata tra due amici che non si vedono da una settimana circa. Questa cosa le piaceva, rendeva il tutto più naturale, più comodo. O forse era Mark, con la sua felpa aperta sul petto largo, il suo sorriso sincero, a trasformare persino la pioggia più funesta in meravigliose scaglie di arcobaleno. << Grazie. >> gli strinse affettuosamente un polso, rendendosi conto di quanto fosse grosso rispetto al suo. << Dovrei dire lo stesso di te, ma penso tu te ne sia accorto da solo di essere cambiato davvero tanto! >>
Kruger ricambiò la stretta con fare impacciato, poi affogò la timidezza nella birra, dorata come i suoi capelli ribelli.
Quando posò il bicchiere, la mora si sentì trafitta da un’intensa occhiata color tiffany.
Era giunto il momento di parlare.
Sul serio, questa volta.
<< Allora, Mark? >> infilò un pezzo di carne in bocca e lo deglutì in un sol boccone, sostenendo lo sguardo di lui. << Immagino tu abbia delle spiegazioni per essere sparito così, di punto in bianco. >> sperò tanto che quella frase risuonasse dolce e bonaria, ma a giudicare dall’espressione contrita che fece il ragazzo nell’udirla, era passata solamente per impertinente.
Non chiese scusa. In parte doveva ritenersi offesa, e forse lo era ancora nel profondo. Anche se erano passati dieci anni, non aveva dimenticato come si era sentita abbandonata in quei lontani mesi di dolore.
<< Era di questo che ti volevo parlare la scorsa volta, Esther. >>
<< Ti eri dimenticato di me? >>
La carne passò in secondo piano, mentre la mora sentiva formarsi un’urgenza di risposte in fondo al cuore. Urgenza che aveva voglia di essere placata, e non dall’atmosfera. Da lui. << Mi hai cestinata come tutti gli altri? >> senza accorgersene alzò la voce, ignorando le occhiate confuse di alcune persone vicino al loro tavolo.
Mark si interruppe sul nascere di una frase a cui probabilmente non aveva pensato bene. Sembrava dispiaciuto a morte. Desolato da ciò che stava sentendo, come se non sapesse riconoscersi nelle parole della ragazza.
Esther sapeva che, sotto lo sguardo rigido, si stava dando la colpa. Lo conosceva troppo bene, ma non aveva intenzione di fermare i suoi tormenti interiori solamente per farlo sentire meglio.
<< So che è passato del tempo, e sinceramente adesso che sono adulta me ne frego di ciò che è successo, ma hai idea di quanto mi hai fatta soffrire? Mi sono portata la pena dentro fino a sedici anni, prima di sbatterti nel dimenticatoio e farmi una nuova vita lontana dal cellulare. Non è una cosa carina da fare ad una ragazza. Una ragazza che aveva perso la testa per te, poi. >>
<< Lo so, Esther. >> Mark pronunciò il suo nome con rammarico, pensieroso. Doveva essere precipitato nei ricordi, glielo lesse nell’espressione facciale. Era bellissimo, il riflesso della pioggia gli chiazzava la guancia di minuscole perle bianche. << E mi dispiace tantissimo per quello che è successo. Ma non l’ho voluto io. >>
<< Spiegati. >>
Il biondo le prese una mano all’improvviso, facendola avvampare. Esther avrebbe tanto voluto finire la sua bistecca ben cotta, ma quel contatto la distrasse dal suo intento iniziale. Mollò la forchetta, incapace di distogliere gli occhi da quella mano tanto grande stretta sulla sua.
Le dita di Mark erano calde, immense rispetto alle sue.
Sbuffò piano, cercando di non lasciarsi andare all’emozione. La donna che poteva sentire quelle palme lungo tutto il corpo doveva davvero ritenersi fortunata. Ma perché ora pensava a simili stronzate?
<< E’ stata “colpa” di mio padre. A quei tempi non capivo, ero ferito. Non capivo che mi vedeva star male e voleva aiutarmi, seppur con metodi “spartani”. Ma Johann è fatto così. Gliel’ho perdonato. >>
Esther si fece attenta, le mani allacciate si sciolsero sulle tovagliette di carta chiazzate di olio.
<< Dopo diversi mesi di lagne mi ha ritirato il cellulare, perché mi rifiutavo di accettare la mia nuova condizione. Non l’ho mai più riavuto indietro, però in cambio me ne ha comprato uno nuovo. Ho fatto di tutto per riaverlo, te lo giuro. Per riavere indietro la mia vita, i miei amici e te. >> Mark la guardò in modo indecifrabile. Esther storse le labbra carnose a quell’occhiata fitta di pensieri, incapace di trovarne il significato nascosto. << Alla fine, comunque, è stato meglio così. Solo, l’ho capito troppo tardi. >>
<< Che intendi dire? >>
<< Che mi ha permesso di buttarmi. Sperimentare, conoscere nuove persone e farmi una nuova vita. Perdonami, so che ti sei sentita abbandonata, ma non potevo farci nulla, giuro. Col tempo avevo smesso persino di ribellarmi. Appena ho preso la maturità, però, me ne sono andato a fare la mia vita. >>
<< Deve essere stata dura… >>
<< Neanche tanto. Duro è stato dimenticarti, Est. E... beh... sforzarmi di dimenticare tutti gli altri, ecco. >>
<< Mark… >> un sospiro sorpreso morì nella gola della ragazza, bloccandole il fiato. Cercò di dire qualcosa, qualsiasi cosa dinanzi a quell’ammissione tanto potente quanto dolorosa, ma non riuscì a trovare le parole giuste, e rimase zitta.
Si specchiò negli occhi di Mark, e notò che le brillavano le iridi.
Scema, non piangere, o ti si guasta il trucco.
<< Poi i miei si sono lasciati, durante il mio secondo anno di liceo. Non andavano più d’accordo. Mia mamma, la ricorderai, è tornata in California, lasciando me e Marge con Johann. In ogni caso, la prima cosa che ho fatto una volta libero dalla scuola è stato andarla a trovare. >>
Lo vide sorridere nostalgico, e sorrise anche lei. Si sentiva più felice, in pace con la se stessa del passato. Quella dichiarazione era stata un balsamo curativo sulle ferite dell’adolescenza rimaste in parte aperte. Mark non l’aveva mai lasciata, mai sostituita.
Semplicemente, il padre aveva chiuso una porta per indirizzarlo verso un’altra, lenire i danni di quel trasloco avventato, quel brusco cambio di marcia.
Chissà quanto l’aveva pensata, chissà se aveva versato la sua stessa quantità di lacrime.
Lei ci aveva creduto, lui a quanto pareva non era stato da meno.
Forse le cose sarebbero andate allo stesso modo, la distanza incolmabile li avrebbe comunque separati, di questo ne era certa.
Eppure eccoli lì. Uno di fronte all’altro. A parlare.
Dopo dieci anni.
<< Mi dispiace per tua mamma, Mark. >>
<< Figurati, sta da dio. Sono stato da lei un anno e mezzo prima di ritornare a New York, ho rivisto Dylan, Erik, Bobby e gli altri ed è stato un anno stupendo. Questo natale ritorno di nuovo a Los Angeles, you know. >>
Esther spalancò la bocca a quell’informazione, e quasi che non cadde dalla sedia.
Anche lei sarebbe andata in California per le vacanze di natale, insieme a Mary. In una cittadina molto vicina a Los Angeles, forse anche troppo.
Non credeva nel destino, ma aveva imparato a fidarsi molto bene delle coincidenze.
Beh, quella era piuttosto strana, giusto?
Sentì il bisogno di dirglielo, di farci qualche risata su, ma suonava talmente assurdo che rimase zitta, cercando di calmare i battiti del cuore.
La California rimaneva comunque immensa.
Le loro strade potevano incrociarsi come proseguire dritte.
<< Erik è venuto con me, ecco perché te lo sei ritrovato qui. Ha frequentato l'accademia con me. >>
<< Accademia? >>
<< Scusate, posso portarvi altro da bere? >>
Mark la guardò, in attesa che decidesse che altra bevanda prendere. << D-dell’acqua! >> bofonchiò lei, rimasta ancora appesa alle ultime parole dell’americano. Accademia? Accademia militare? Accademia delle arti? << grazie. >>
La cameriera sparì così com’era arrivata, e la mora ripose di nuovo tutte le attenzioni su Kruger, scordandosi completamente della carne ormai fredda poggiata dinanzi a lei.
E della California.
<< Accademia? >>
<< Di polizia! >>
<< C-cosa?! >>
<< Sono un agente, anche se da poco. >> Mark le sorrise, infilò le mani nella tasca del jeans, estrasse il portafoglio e le mostrò un distintivo di un luminoso argento slavato. Pareva aver immagazzinato tutte le luci della città, da quanto era luccicante.
Esther spalancò le labbra e, non sapendo come reagire a quella visione assurda, si limitò a spostare lo sguardo dall'amico al piccolo oggetto intagliato che faceva di lui uno sbirro di New York City. Le sembrava così strano e stupendo che le venne a mancare il respiro. Mark poliziotto.
Meraviglioso.
<< Mark... >> si sporse e lo sfiorò con un dito, guadagnandosi un sorrisetto da parte di lui.
<< Lo so, sembra incredibile anche a me. But at least I did it! >>
<< Sono sconvolta. Complimenti! E di cosa ti occupi? >>
<< Pattuglia, ma siccome ci lavoro da poco, mi fanno fare un po' di tutto. >>
<< La pattuglia è pericolosa. >>
<< Non se sei in coppia con Erik. >>
<< Devo ridere o preoccuparmi ancora di più? >>
<< Te lo farò sapere. >>
<< Di Eagle che si dice? Come sta? >>
<< Come lo hai visto. >>
Esther lasciò andare un sospiro meravigliato mentre Mark riponeva il suo fidato distintivo nella tasca. Che vita turbolenta che aveva avuto.
Doveva mancargli molto la sua città natale, la madre, gli amici, la sua vecchia vita. Ma sembrava aver capito di averne perso una parte, e che quella a New York si prospettava decisamente migliore.
<< Sei forte, Mark. >>
Mark s’irrigidì a quel complimento velato, ma liberò un sorriso. << E tu, Est? Che mi racconti della tua vita? >>
<< Beeeeeeh >> La mora batté le mani e si preparò ad un discorso da oscar, pronta a sciorinare anche i dettagli più inutili della sua esistenza. << Tornata al mio paese ho pensato solo a te >> lo disse senza vergogna, incoraggiata dal largo sorriso di lui. La stava mettendo a suo agio. L’aveva sempre fatto, in realtà. Esther era sempre stata bene al suo fianco, Mark sapeva essere confortante con la sola presenza. << ci sono stata male fino ai sedici anni, poi ho voltato pagina, come ti dicevo. >>
<< Mi dispiace. Non pensare di aver sofferto da sola. >>
<< Assolutamente! Mi sento sollevata, in realtà. In ogni caso, finito il liceo mi sono posta un obbiettivo: realizzare il mio sogno, ovvero aprire una tavola calda all’estero e, ovviamente, gestirla. Mi sono avvicinata a Mary, abbiamo lavorato al ristorante della mamma di Suzette ee >>
Mark esclamò all’udire quel nome, divertito.
<< E, racimolati i soldi, ce ne siamo venute a New York. Dove, ti giuro, non pensavo di rivederti. Anche se, confesso, ti ho pensato molto quando sono arrivata qui la prima volta. >>
<< Capisco. Eppure lavori in un bar. >>
<< Non ti preoccupare, lo farò diventare il ristorante migliore di New York prima o poi. Per te che sei poliziotto, extra sconto sui piatti più buoni! >>
<< Onorato! E come stanno le altre? >>
<< Suzette ha sostituito la madre al lavoro. Daisy è finita all’università, Hellen è scomparsa in Italia e Dell… Dell è sparita con un tizio di trent’anni e non si è fatta più viva. >>
<< Non eravate migliori amiche? >>
<< Boh, è come morta per me. Non la sento da un po' di anni. >>
Mark finì l’ultimo goccio di birra, pensante. << Come ti trovi qui? >>
<< Ora che so che sei un poliziotto e che daresti la vita per me, mi trovo molto tranquilla. >>
Mark scoppiò a ridere ed Esther si ricordò all’improvviso della carne. La portò immediatamente sotto i denti. Che figura ci stava facendo a uscire con lui senza mangiare?
Era Mark che avrebbe sborsato i soldi per pagare la cena. Che senso aveva spendere per una bistecca toccata appena da una viziata che fino a qualche ora prima credeva di star morendo di fame? << Tutto ok! Il freddo è devastante però. >>
<< Ci farai l’abitudine. Con la lingua? >>
<< Solo se gli americani mi fanno la decenza di parlare in modo comprensibile, come stai facendo tu ora. >>
<< Ahah! Ti orienti bene? >>

<< Sulle vie principali sì. Altre strade ho imparato a conoscerle per frequentazione, ecco. Parlando di frequentazione… sei fidanzato? >>
Mark rise a quella domanda spontanea sorta per puro caso. Esther era proprio come la ricordava, svogliata e irruenta, oltreché bella fuori ogni concezione. Quando voleva sapere qualcosa la chiedeva, senza domandarsi se fosse opportuno o meno formulare certe questioni. << Sì, sto con una ragazza. >>
La mora avrebbe voluto provare gioia a quell’affermazione, ma una fitta di gelosia le fece tremare appena il cuore gonfio di contentezza.
Gelosa poi. Perché? Perché il suo amico in dieci anni aveva scelto di accoppiarsi ad una graziosa fanciulla newyorkese?
Almeno non aveva perso tempo, a differenza sua.
Non stava capendo più niente, ma il fatto che Mark appartenesse ad una tipa sconosciuta la incuriosiva ed irritava al contempo. Si passò una mano sui capelli mossi, tirandoseli indietro. << Come si chiama? >>
<< Melanie. Mel. >>
<< Un giorno devi farmela conoscere, la tua Melania. >>
<< Melanie. >>
<< Lei. >>
Mark aggrottò le sopracciglia con un sorriso, consapevole che ad Esther già solo il nome “Melanie” stava altamente sul cazzo. << Why not. E tu mi fai conoscere il tuo? >>
<< Il mio si chiama Brad Pitt. Se hai modo di metterti in contatto con lui fammelo sapere, non sembra essersi ancora accorto di me. >>
Rise, e lei fece una smorfia. Evidentemente la frase detta non voleva affatto risultare simpatica. << Vuoi essere compatita? >>
<< Piuttosto preferirei morire nella mia condizione da single sfigata. >>
<< Eppure sei molto bella. >>
Esther avvampò al complimento, ma il fard nascose il suo lampeggiante rossore, almeno questa volta. Sapeva di esserlo, ma confermato da lui… le fece uno strano effetto. << Già, bella e impossibile. >>
<< Oh oh. >>
<< E non adatta ai terrestri come te, sicuramente. >>
<< Non ti farai mai andare bene nessuno, eh…? >>
<< Brad Pitt sì. >>
<< Posso portare via? >>
Mark fece spazio per permettere alla cameriera di raccogliere i piatti, e solo in quel momento Esther notò quanto la felpa verde militare indossata dal ragazzo stonasse col suo abbigliamento femminile ed elegante.
Evidentemente lui aveva preso quell’uscita come un banale incontro tra amici di vecchia data, il che lo era, in effetti, ma lei l’aveva comunque fraintesa per qualcosa di più, cercando di presentarsi nel modo più impeccabile e perfetto possibile. Perché? Per fare colpo? Lui era pure fidanzato, dannazione.
Si vergognò dei tacchi e delle calze trasparenti, lui non l’aveva minimamente adocchiata.
Mark notò il suo apparente disagio. << Stai molto bene così. >> le disse, alzandosi dalla tavola per poterla ammirare meglio. << Sei davvero bella. >>
<< Grazie… ho sbagliato ad uscire conciata in questo modo, comunque. A volte esagero… >>
<< Non vergognarti. Sei una favola. >>
I due raggiunsero la cassa, pagarono e uscirono. Grazie a dio aveva smesso di piovere, ma il freddo che si era alzato li investì subito col suo gelido ruggito. Il biondo parve non farci caso. Le avvolse amichevolmente le spalle, stringendola a se con una spavalderia che non gli si addiceva poi così tanto, ma che agli occhi della giovane lo rendeva solo più affascinante.
Dio, stare vicino a Mark la agitava come non mai. Si ritrovò a respirare a narici dilatate, scoprendosi in ansia.
Non sapeva se sentirsi imbarazzata per la clamorosa scoperta fatta qualche secondo prima, o in pena per quella continua serie di adorabili contatti.
<< Ti va di fare una passeggiata? Conosco un posto che potrebbe piacerti. >>
<< Volentieri! >>
Si incamminarono verso le luci della città, e Esther non poté ignorare quanto si sentisse stupida in quel momento, imbandita di tutto punto per farsi bella ad occhi che guardavano già un’altra.
Era proprio una cretina.
Una cretina tremenda, che aveva frainteso tutto fin dall’inizio.
Come al solito.

 

_______________________________________________________

Nda
hi peopleeee!
* si calma *
* bugia *
Finalmente eccomi qui, col terzo capitolo di questa strabiliante merda aah. Allora. Innanzitutto vi faccio gli auguri di buon Natale, anche se in ritardo! Io ho passato il mio Xmas day giù al sud e sono felice di essere ritornata a casa, non ne potevo più di parenti e parentini (?). Se vi state chiedendo se ho iniziato i compiti, beh, la risposta è no. AHAHAHAH.
Dunque! Vi spiego un paio di cosette. La prima, perché Mark poliziotto?
Mark poliziotto perché fin da piccola l'ho sempre visto come un piccolo policeman . Per me ha il facciotto da sbirro e ho voluto sottolineare questo mio accorgimento (?) anche in NSD (not a simple disaster, non spaventatevi (?)). Secondo, anche a me piacerebbe diventare poliziotta, in futuro. Quindi tutte le informazioni sparse che troverete dentro questa storia, e che sono attinenti all'argomento “polizia”, sono frutto di ricerche di settimane perché lo faccio anche come conoscenza personale u.u. Per quanto riguarda Esther, ho scelto di tenerla come sorta di cameriera perché lo faceva anche da ragazza, e se leggete la sua descrizione del gioco, viene chiaramente sottolineato questo dettaglio. Detto questo, spero che il capitolo vi sia piaciuto!
Se ci sono errori segnalate pure, non dovrebbero perché ho ricontrollato ma con me non si sa mai. Vi chiedo solo una cosa; ricordatevi di Suzette, perché non è finita qui.
(???)
Detto questo,
a presto!
Lila

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Capitolo 5
*** That Why Not ***


 
Chapter four.

That “why not”


 

Esther se ne stava appollaiata sul divano, un plaid rosso ciliegia ben spiegato sulle ginocchia e un film d’azione alla meravigliosa tv al plasma che lei e Mary si erano potute permettere qualche mese prima raggruppando insieme un po' di dollari dello stipendio.
Si passò una mano sul volto struccato, coprendosi le iridi nere dall’improvviso raggio laser comparso dal nulla cosmico. Non sopportava quel genere di film.
Eppure ne stava guardando uno proprio in quel momento, che diavolo le prendeva?
<< E così ha la ragazza… come l’hai presa questa fantastica notizia? >>
Ah, ecco che le prendeva.
Mark.
Sentì gli occhi intensi di Mary posarsi su di lei, in attesa della fatidica risposta che, lo sapeva, ci avrebbe messo tanto prima di uscirle di bocca.
Finse di non essersi accorta del suo sguardo indagatore e iniziò a fare zapping tra i canali.
Detestava i film d’azione, vero, ma almeno erano sempre meglio di quelli romantici.
Quelli, quelli li odiava proprio.
<< Sono contenta per lui. >> rispose, sollevando le spalle in un gesto di lieve menefreghismo. Ovvio che era contenta per Mark. Provava una lieve soddisfazione nel vederlo finalmente realizzato, sia in campo lavorativo che amoroso, e l'immagine del distintivo argento le riapparve in mente vivida come un'istantanea. Kruger aveva avuto una vita brusca, sferzante, e meritava tutto il bene del mondo dopo le delusioni che avevano tormentato la sua adolescenza. Però da una parte la cosa aveva cominciato a darle un certo... fastidio. Vedere di nuovo gli occhi di Mark, i suoi capelli… rendersi conto di quanto fosse cambiato e quanto fosse diventato bello, le aveva risvegliato un qualcosa che diveniva sempre più allarmante col passare dei giorni.
Si era emozionata a stare vicino a lui. Aveva creduto di poter far nascere qualcosa, quella sera a cena, un semplice interesse dettato dalla curiosità e dalla voglia di sapere… di più.
Ma poi Mark se n’era uscito con l’esistenza di Melanie. E si era imbarazzata tantissimo, nonostante il carattere spigliato l’avesse aiutata a mascherare il disagio. Ma ora perché si era messa a pensare a lui?
Non era di certo venuta a New York per i comodi del ragazzo. Lei era lì per continuare la sua vita normale, Mark era un amico.
Un semplice amico.
Mary non sembrava soddisfatta della risposta, ma non fece altre domande. Esther la ringraziò per quel silenzio comprensivo. Se avesse dovuto spiegarle che cosa sentiva dentro in quel momento, non avrebbe saputo dirglielo.
Si sentiva più confusa di un’ubriaca distesa sotto potenti luci stroboscopiche.
<< Avete parlato di altro? >>
Sorrise, lieta di cambiare argomento.
<< Della sua vita. >>
<< Cosa hai scoperto? >>
<< Che alla fine il padre gli aveva ritirato il cellulare, ecco perché aveva smesso di farsi vivo. >>
Mary parve sollevata da quella piccola novella, ma quando tentò di chiedere altro Esther sciorinò ciò che più la teneva in ansia, fidanzata di Kruger a parte.
<< E che questo natale torna in California a vedere i suoi amici. E la sua famiglia. >>
Silenzio.
Un silenzio che la Greenland accolse dentro di se come un balsamo curativo, mentre cercava di non pensare alla tremenda coincidenza che all’improvviso sembrava aver intrecciato la sua vita a quella di Mark Kruger. Suonava così stupido, così banale… simili cavolate avvenivano solo nei romanzi rosa che tanto piacevano a sua madre, eppure… eppure lei non viveva tra le pagine di un libro sdolcinato, ma a New York, in un appartamento che visto da fuori sembrava una scatola capovolta con le pareti macchiate di smog.
E conduceva una vita reale.
E la coincidenza, dio, era reale anche quella.
Stentava ancora a crederci.
Il largo, stupido sorriso che fece Mary la aiutò a distrarsi, accendendole una fiamma d’irritazione mista a divertimento. << Cazzo, voi due siete fatti per stare insieme. >>
<< Ma smetti. Sei peggio di Suzette! >>
<< Madonna, Dio vi sta mandando mille spunti e voi non sapete sfruttarne neanche uno! Meno male che c’è la Moore, che sa sempre come aggiustare le cose. Andiamo con loro due, no? >>
<< C-che...!--
<< Ragiona: stesso posto, stesso periodo. Infiliamoci nella loro vacanza e via. Sai se alloggiano in hotel? Oppure Mark resta dalla madre? >>
<< E’ con Erik! Alloggerà in hotel, penso. >>
Pensava, e sperava. Ma questo Esther non lo disse. Si accorse di star pendendo dalla bocca dell’amica, illudendosi che quella sottospecie di vacanza si potesse realmente fare. Woah, che sognatrice che era.
In California, a Los Angeles. Con Mark.
Come ai vecchi tempi.
I ricordi si infransero contro le pareti del suo cervello, provocandole brividi di piacere sulla pelle tesa. Le sembrava di star correndo contro il tempo, di star ritornando a dieci anni prima, sentiva il fremito di quell’estate premuto contro il cuore.
Di nuovo tredicenne - gran bell'età -, attaccata alla bocca dell’unico ragazzo che sì, per quanto potesse sembrarle assurdo ammetterlo, l’aveva fatta sentire viva.
Mary si mise in piedi sul divano, infervorata dal lampo di genio che le aveva attraversato la mente proprio in quell’istante. << Non abbiamo neanche prenotato, facciamo in tempo a metterci dove alloggeranno loro. >>
<< Io… non lo so… >>
<< Immagina, su: potrebbe rivelarsi un bel Natale! >>
<< Mark è fidanzato. Non sarebbe normale condividere una stanza d’hotel… ha una ragazza, chi sono io per girare nella stessa camera assieme a lui? >>
Mary cadde sul divano e la guardò con noia andante. Le chiese perché le importasse tanto una cosa del genere, le disse che era solo una stupida vacanza, per divertirsi tra amici.
Esther non ne aveva la minima idea. Non sapeva perché ci tenesse così tanto a quel fatto, si era sempre presa tutto ciò che voleva, ostacoli del genere non l’avevano mai smossa dai suoi obbiettivi primordiali. Ma non voleva mettere Mark a disagio proponendogli una simile assurdità. Avrebbe mai lasciato Mel per spassarsela con due donne praticamente “sconosciute” in un hotel a un passo da casa?
Conoscendone l'indole seria, avrebbe rifiutato con tanto di saluti.
<< Siamo tutti amici, facciamo una bella rimpatriata dai! >> Mary si alzò dal divano, concitata, ed Esther rise nel vederla tanto coinvolta nel piano. L’idea era spettacolare, poter stare così vicino a Mark veniva solo a suo vantaggio. Illudersi che avrebbe accettato una simile occasione la rendeva ansiosa ed euforica al contempo.
<< Se Mark è rimasto in contatto con altri membri della Unicorno che magari sono in zona, ben venga. Ci stai? >>
<< Ci sto. Ma vedrai che lui dirà di no. >>
<< Dirà di sì. >>
<< No. Non si può fare un viaggio del genere insieme. >>
<< Chiamalo cazzo. Così prenotiamo all together. >>
<< Temo sia in servizio… >>
<< Chiamalo lo stesso, se non è in servizio gli romperemo le scatole più tardi, che ti frega. >>
La mora si allungò per prendere il telefono, e dopo aver digitato il numero di Mark se lo portò all’orecchio.
Era emozionata all’idea di poter sentire ancora la sua voce profonda e scivolosa, e dio, avrebbe dato per non provare quelle sensazioni, le sembrava tutto così sbagliato… non poteva credere di esserne di nuovo attratta.
Dopo dieci anni di silenzio, eccola lì, a percepire cose strane nascere dentro di se, sbocciare come germogli verdi e avvilupparle lo stomaco di nervoso. Cose per Mark, cristo. Pregò con tutto il cuore in qualcosa di passeggero, di settimanale.
Eppure aveva la tragica sensazione che sarebbe solo andata peggiorando.
<< Esther? >>
Gioì dentro. Mark si era salvato il suo numero. Mal che fosse andata quella serata, almeno sapeva di poter contare su un contatto diretto con lui.
<< Tutto bene? >>
<< Mark, scusa per l’orario in cui ti chiamo. Sei libero? >>
<< Non ti preoccupare, ora ho un po' di tempo. Dimmi tutto. Come stai? Era da un po’ che non ci si sentiva. >>
<< Sto bene! >> Esther sbuffò quando Mary sollevò gli occhi al cielo, facendole chiaramente intendere che stava perdendo tempo prezioso, e che se non arrivava subito al sodo le avrebbe strappato il cellulare di mano.
Già.
Come se fosse facile chiedere ad un amico che non vedi da dieci anni di andare tutti insieme in California. Bah.
<< Mark, sai, l’altro giorno… mi ero dimenticata di dirti che anche io vado in California questo Natale, e… >>
<< Daiiiii! >> gemette piano la Moore, spronandola a continuare.
Giusto. Doveva accelerare.
Un gioco da ragazzi, no? Quante volte aveva parlato con Mark per permettersi di chiedergli una cosa tanto stupida? Una e mezza?
Invitarlo a letto sarebbe stato molto meno penoso.
<< Ti va di andare tutti insieme a Los Angeles? Come… come una volta? >>
Silenzio. Una pesante lama di debolezza calò sulle spalle di Esther, colpendola bruscamente. L’illusione di un paio di settimane attorno a Mark le si frantumò dinanzi agli occhi, ferendole le nere pupille con mille schegge dolenti.
Dolenti e scontate, il che faceva ancora più male. Si stava comportando proprio come una bambina, stava credendo in cose che si reggevano a stento in piedi da quanto erano assurde.
Ma poi, il “why not” del biondo le arrivò dritto nell’orecchio, riscaldandole il cuore.
<< Mia mamma starà a casa di mia sorella per questo Natale, quindi ho la villa libera. Siete le benvenute. Non penso che a Erik farà dispiacere. >>
Oh, cavoli. A casa sua!
Il dolore di Esther si ricucì all’istante, tornando all’euforia d’origine. La ragazza aveva voglia di urlare di gioia, saltare sul divano, bere e ballare senza mai fermarsi. Ma contenne tutta l'allegria del momento, da vera esperta.
Si portò una mano al petto prominente, nascondendo un sorriso nel ripensare alla stanza mezza vuota di Mark, al bagno e al lungo corridoio che serpeggiava tra le camere. Sarebbe stato emozionante rivedere tutto, rivivere sulla pelle le stesse sensazioni di una volta. << Grazie Mark, sei gentilissimo! >>
<< Ma figurati! Per me è un piacere, più siamo meglio è! >>
Il ragazzo rise.
E lei si lasciò inebriare dalla sua voce cristallina, gonfia di gioia.
<< Ti devo lasciare Est, meglio che rientri. Ci chiamiamo in un secondo momento per accordarci sulla partenza e parlarne meglio, ok? >>
<< Certo! A presto Mark! >>
<< Ciao Est. >>
La chiamata morì con un sonoro “tut”, ma Esther si sentiva tutt’altro che spenta in quel momento.
Dentro le vene percepiva scorrere un’energia indomabile, che l’avrebbe tenuta sveglia nei giorni a venire, in attesa di quel fantomatico Natale che, lo sapeva, sarebbe stato il più meraviglioso della sua vita.
Insomma, quale occasione migliore per riavvicinarsi a Mark?
Rimanevano ancora dieci anni di racconti tra loro, di cose non dette, dieci anni di vita tutta da scoprire. Era ora di riallacciare i rapporti, altro che romanzi rosa!
<< Ha detto di sì. Porca… madonna...! >>
<< Ooooooh, hai visto? Che ti dicevo? >> Mary mostrò i denti in un sorrisetto soddisfatto, orgogliosa di come riuscisse a capire sempre cosa avrebbero detto o fatto le persone ancor prima che queste potessero agire.
<< Ha proprio detto “why not”. >> l’amica continuò imperterrita a raccontare la sua emozionante chiamata di pochi, preziosi minuti, agitata. << Come se il sì fosse già scontato! Ci divertiremo cazzo! Me lo sento. Sarà un Natale strepitoso! >>
<< Già bella mia. Puoi scommetterci. Allora, dove alloggeremo? >>
<< Da lui! >>
Le due ragazze urlarono come stupide adolescenti alle prese col loro primo concerto della vita, in preda a scariche di adrenalina inspiegabilmente eccitanti.
Sarebbe stato davvero un Natale intenso, più Esther pensava alla conferma di Mark più le sembrava di poter racchiudere il cielo intero tra le mani.
Sentiva di star volando.
Non si sarebbe più fermata, non ora.



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Nda
eccomi qui con il quarto capitolo, pipol (?). Ora che sono in vacanza aggiornare sarà molto più semplice. E veloce, visto che ho già i capitoli pronti, per cui meglio approfittarne, almeno fino a quando il linguistico concede! Come va?
Io bene, benissimo. Questo chappy, come avrete capito, è solo di passaggio, infatti è ancorato al quinto, che pubblicherò subito dopo questo per ragioni di completezza altrimenti non ha senso vivere (?) by the way, come vi è sembrato?
Si va in California raga, se pensavate che la storia si sarebbe ambientata tutta a New York, beh, vi sbagliavate di grosso. SI RITORNA ALLE ORIGINIIIIH! Anche se, ad essere sincere, rispedire i miei topi a Los Angeles è na palla enorme. In ogni caso, Los Angeles = Dylan Keith e Bobby Shearer , che non potevano assolutamente mancare. INSOMMA, GLI UNICORNI SONO QUATTRO, O NO?!
Un altro po' e presto inizierà la guerra vera, diffidate di questa placida quiete >.>.
Ho detto tutto quello che dovevo dire. Vi mando un bacio, un pandoro, un Mark Kruger e tanti saluti.
Di seguito troverete subito il prossimo capitolo, so go ahead Unicorns ⇢ ⇢

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Capitolo 6
*** Melanie ***


Chapter five.

Melanie

 

Due giorni esatti dopo la chiamata, i quattro ragazzi si diedero appuntamento all’immenso aeroporto di New York, il John Fitzgerald Kennedy - o JFK, che dir si voglia -. Non partirono insieme, e le due ex giocatrici della Tripla C furono le prime a metterci piede, emozionate di ritornare nella bella California in compagnia di due amici ritrovati per puro caso. Fuori tuonava e pioveva, un tempo che avrebbe immusonito chiunque, ma Esther non riusciva a farci caso; sulla pelle sentiva già il sole tiepido di Los Angeles, le voci allegre miscelate al rombo incessante del traffic jam, le onde del mare che si infrangevano contro gli scogli più alti. Come quello da cui lei e Mark si erano buttati una volta.
Dieci metri di puro terrore, prima di precipitare in acqua e riemergere come due scemi boccheggianti. Era stato il tuffo più bello della sua vita, non tanto per l’adrenalina che aveva provato, ma per la persona con cui l’aveva portato a termine. La persona che nel giro di qualche ora l’avrebbe ospitata nella sua villa, nella sua città, dopo dieci anni di nulla.
Come se non ci fossero mai stati, come se si fossero sempre tenuti in contatto.
Il solo pensiero le provocò una fitta carica di nostalgia, che deliberò con un sorriso raggiante. Tutto stava per ritornare indietro, di nuovo.
Per essere rivissuto una seconda volta, dagli stessi protagonisti di sempre.
Sembrava un sogno, un bellissimo sogno che aspettava di essere realizzato.
Infilate in comode felpe, con gli sguardi eccitati che guizzavano da una parte all’altra, dunque, le due giovani furono le prime a ritrovarsi col biglietto d'imbarco tra le pagine del passaporto. Presero posto nelle prime sedie che trovarono libere, due bicchieroni di caffè caldo saldi tra le mani.
<< Non so perché, ma la parte col metal detector mi mette sempre un’ ansia incredibile. >>
<< Perché sei una criminale, Mary. Una criminale da strapazzo però. >>
<< Shhh. Non è colpa mia se mi porto sempre dietro le cose di metallo. Per fortuna questa volta non avevo niente di “sospetto” addosso. >> Mary affogò l’agitazione in un buon sorso di caffè bollente, ed Esther la imitò, deglutendo il liquido caldo assetata.
Un dolce tepore le abbracciò la gola, costringendola a sospirare di piacere.
Era in ansia, ma non per il metal detector superato senza intoppi. Per Mark. Non vedeva l’ora di vederlo, per quanto fosse sbagliato desiderare ciò; quella notte era rimasta sveglia ad agitarsi sul cuscino, immaginando tutte le possibili cose che sarebbero potute risuccedere in California, come una bambina. Quell’avventura era un libro che si riapriva dopo tanto tempo, la cui trama veniva ripresa di nuovo, perché non era mai stata terminata per davvero.
Come la loro storia.
Stiracchiò le braccia, si osservò i piedi: raramente indossava scarpe da ginnastica, non ci era più tanto abituata, ma doveva ammettere che erano davvero comode. Non le ricordava tanto soffici e morbide contro le pareti dei piedi, un vero paradiso per lei, solita a portare tacchi vertiginosamente alti.
In ogni caso, si confortò pensando che le sue paia migliori erano ben impacchettate dentro la valigia.
Si prospettavano due settimane davvero eccitanti.
Finalmente anche i ragazzi giunsero in aeroporto, ed un Erik più assonnato che altro comparì dinanzi alla loro visuale, facendole sorridere all’unisono.
<< Mornin’ girls. >> mormorò il castano, passandosi una mano tra i capelli resi indecenti a causa della dormita che lo aveva visto protagonista poche ore prima. << Mark è in bagno. Arriva, gli piace farsi desiderare. Peggio delle donne. >>
<< Lo aspettiamo, nessun problema! >>
Esther vide Erik lasciarsi cadere sulla sedia accanto a loro con un sospiro. Sembrava scocciato, le borse sotto gli occhi erano gonfie e ben delineate, ma era comunque palpabile la sua voglia di partire, voglioso di ritornare alla madre patria forse più di loro.
Fissò lo sguardo sugli aerei in pista e si fossilizzò in quella posizione, forse per non prendere ulteriore sonno.
Mary lo imitò, ed Esther pure, tutti in attesa di Mark.
Il biondo non tardò nel farsi presto vivo, e un fruscio di jeans sfregati l’uno contro l’altro avvertì i tre giovani del suo imminente arrivo.
<< Here I am guys. Scusate se ci ho messo tanto. >>
Esther e Mary si voltarono, contente che anche l’ultimo membro della banda si fosse ricongiunto al team, ma la gioia morì loro in gola nel vedere che Mark, purtroppo o per fortuna, non era solo.
Dannazione.
Una ragazza dai lunghi capelli neri sbucò da dietro le spalle grosse di Kruger, il volto tirato di sonno serio e tagliato in due da un naso aquilino molto... molto brutto - per non dire altro -. << Ciao ragazzi. Sono Melanie, piacere. >> scrutò attentamente i due stoccafissi femminili rimasti imbambolati a fissarla, increduli, poi sollevò le spalle con aria menefreghista, quasi irritata da tanto stupore.
La verità era che lei non era assolutamente stata nemmeno pensata per quel viaggio, ecco.
Ne Mary ne Esther vi avevano dedicato un qualche dubbio, niente di niente. Zero assoluto.
E quindi fu uno shock trovarsela davanti tutta d’un pezzo, alle cinque e un quarto del mattino, con una pioggia che minacciava seriamente di abbattere l’aeroporto e disintegrare il mondo intero. Soprattutto perché era scontatissimo che Mark se la sarebbe portata dietro.
Così scontato che per le due ragazze fu come cadere dal pero e schiantarsi contro un pavimento di ferro. Forse avevano sognato un po’ troppo con la testa.
<< Mark mi ha detto che ci sarebbero stati ospiti di sesso femminile. >>
Esther era scioccata, più di Mary, Erik invece nemmeno si era voltato a guardarla. Doveva saperlo da un po’, e questo spiegava molto bene il perché di quella sua aria terribilmente scocciata.
<< Cazzo. >> sussurrò la mora all’orecchio di Moore, i denti stretti di modo che l’imprecazione non potesse fuoriuscirle dalla bocca.
Non sapeva cosa dire, cosa pensare.
Avrebbe semplicemente dovuto aspettarselo, ecco tutto. La colpa era sua, per aver davvero creduto che Mark sarebbe partito senza la sua donna. Che sciocca. << Che naso orrib... >> e si fece zitta all'improvviso quando il biondo le venne incontro con un sorriso.
Vedere la tipa così da vicino le smorzò tutto l'entusiasmo. Tutto.
<< Ciao Est... dormito bene? >> la voce stanca dell'amico in quel momento le diede solo una profonda irritazione, e si risparmiò di rispondergli. Sentì l’impulso di riprendersi a forza la valigia e tornarsene al suo bar-tavola calda-presto ristorante di fama mondiale, eppure rimase immobile, incapace di formulare una sola frase di senso compiuto senza scoppiare di rabbia.
Diavolo, Melanie non ci voleva proprio per niente.
Anzi. Era lei che non ci voleva, che diavolo ci faceva lì? Stava per andare a casa di Mark, insieme alla sua ragazza. Era lei la perfetta sconosciuta, non la tipa dal naso aquilino e le grandi iridi verdi circondate da chili di pesante mascara punk.
E questo le provocò ancora più dolore di quanto già non provasse.
La scrutò con aria fin troppo curiosa, posando gli occhi su quei capelli lunghi, il volto scavato e le unghie laccate di nero che ticchettavano fastidiose contro lo schermo scheggiato del cellulare.
Dannazione, lei era un’intrusa, lei, Mary e persino il povero Erik.
<< Ci divertiremo. >>
<< Ma sì. >> disse, trattenendo una bestemmia. Ma sì un corno. La vacanza era stata progettata perché vedesse come protagonisti Melanie e Mark, lo capì in quel momento, un’evidenza che le si piantò dinanzi con giusta prepotenza.
Fece un passo indietro, si addossò a Mary e si fece piccola come una mosca.
Nel biglietto da visita non stava scritto da nessuna parte Esther. Ne tantomeno quello dell’amica. Perché Mark aveva permesso loro di venire? Per gentilezza? << Ci divertiremo alla grande! >>
Lo vide avvicinarsi alla ragazza, accarezzarle una ciocca di capelli con fare impacciato.
E tutte le sue speranze caddero dall’albero delle illusioni, disintegrandosi al suolo e sparpagliandosi in aria sottoforma di polvere nociva.
Mark era fidanzato e lei era un’intrusa lampante. Si sentì di troppo per tutto il viaggio, ma non seppe dire se per la destinazione in cui avrebbe alloggiato per due intere settimane, o per gli occhi di Melanie; i due smeraldi non la lasciarono muoversi neanche un millesimo di secondo.
E brillavano di rabbia.
Segno che lei, lì, non doveva proprio esserci.

 

__________________________________________________

Nda
Sì, capitolo molto corto eeeeee sì, ora tocca a Melanie di fare la sua comparsa, un applauso (?). Allora, spiego alcune cose e me la filo; Melanie è un mio OC, la ragazza di Mark Kruger, e tenetela bene a mente perché sarà un personaggio non importante, ma fondamentale per lo sviluppo, ehm... esplosivo (?) della trama. Va beh, vedrete. Vedrete vedrete, quanti problemi porterà. La tentazione di lasciare Marky single era forte, ma anche stupida.
Cioè, è molto bello.
Perché dovrebbe essere di tutte? Insomma. A parte che è solo mio ma vbb.
Niente da dire, se trovate errori vorrei che me li segnalaste, ricontrollo diecimila volte ma purtroppo non è mai abbastanza.
Ho finito!
Saluti, e al prossimo chappy!
​Lila

 

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Capitolo 7
*** Bed ***


Chapter six.

​Bed

 

Furono soltanto cinque ore di volo, nonostante gli oltre quattromila chilometri che avevano inizialmente spaventato le ragazze, eppure furono le cinque ore più lunghe e irritanti che Esther avesse mai potuto sopportare in tutta la sua vita.
Non per le continue turbolenze che l’avevano tenuta ancorata al braccio di Erik, non per l’atterraggio orribile che l’aveva fatta sbiancare di terrore, figurarsi.
Ma per Melanie.
Quella ragazza l’aveva piantata sotto chiodo per quasi tutto il viaggio, mentre al suo fianco, un Mark del tutto ignaro della situazione si era disteso sul tavolino per dormire. Evidentemente sapeva chi era e anche che cosa era rappresentata per il suo ragazzo. E sicuramente sapeva anche che non doveva esserci, ma c’era, e doveva farsela andare bene.
Esther non sapeva cosa dire, ne cosa dover imporsi di provare. Da una parte si sentiva un intralcio per la coppia, ma dall’altra, non poteva fare a meno di essere contenta.
Ci aveva riflettuto bene, e non aveva molto senso mantenere il muso, per due semplici fattori. Era in vacanza, con Mark, a Los Angeles. Lui l’aveva invitata ad alloggiare nella sua vecchia casa, non ci aveva neanche pensato due volte. Quindi se proprio Melanie ci teneva a dare scandalo, beh, doveva farlo con Kruger, perché per quanto si sentisse colpevole, lei non c’entrava proprio nulla.
Secondo, non voleva dare a Mark ulteriori preoccupazioni; era stato gentile a volerla ospitare in casa, sembrava contento di averla vicino.
Dopo dieci anni, finalmente insieme. Nello stesso posto che li aveva visti incontrarsi per la prima volta.
Ecco perché, ad un certo punto, scelse di accartocciare le noie e liberare la mente da qualsiasi nodo. Non era una semplice vacanza, quella. Era un tuffo nel passato, e Esther non aveva bisogno di incrociare gli occhi di Mark per sapere che anche lui provava lo stesso.
Fidanzata o meno di mezzo.
Arrivarono a Los Angeles di buon ora; alle undici e trenta erano già in macchina, direzione casa di Mark.
“Vecchia casa di Mark”, anzi.
Mary sorrise emozionata mentre si spogliava della felpa e metteva in bella mostra la sua canottiera piena di strass color rubino.
Era un vero colpo all’occhio, che avrebbe costretto tutti a buttarci su uno sguardo, ma Esther non aveva attenzioni che per la strada. Era immensa, a cinque corsie, più nera di un pozzo senza fine. Non la ricordava tanto ampia, forse perché non aveva mai avuto occasione di uscire da New York. Non prima di quel momento, almeno.
Faceva quasi impressione, ma abbassò comunque il finestrino, cacciando la testa fuori.
L’aria le smosse frenetica i capelli, che le ricaddero con rabbia sul viso. Chiuse gli occhi, godendosi l’insolita sensazione di libertà che le salì fino alla gola.
Fino a quando Mark non la ricacciò dentro con una sterzata degna dell’ultimo film di Fast and Furious, fatta apposta per ribaltarla contro la raccapricciante maglietta di Mary.
<< Dai, Mark! Ma sei scemo o cosa! >>
<< Mi oscuravi lo specchietto con la tua testa enorme. >>
<< Cretino. >>
Ma sorrise nel dirlo, e incontrò i suoi occhi divertiti nello specchietto retrovisore.
Dio, erano stupendi. Tutto era stupendo, persino la maglia orrenda di Mary, che in un secondo momento avrebbe sicuramente condannato al rogo.
<< Da zero a ventidue gradi*! Cavolo, sembra di essere atterrati su un'altra dimensione! >>
<< Spero vi siate portate il costume ragazze. >> Erik finalmente mise via il cellulare, degnando la compagnia della sua prestigiosa attenzione. Sembrava contento, tutto il magone era sparito non appena aveva messo piede fuori dall’aereo. La California pareva aver avuto un effetto molto positivo sui due ragazzi, solo a parlarne si erano emozionati. Doveva essere bello ritornare a casa, dai propri amici, in mezzo alle stesse case di una volta, lo stesso mare, la stessa discoteca. << I ventidue gradi saliranno a trenta se passa il Saint Ana anche quest’anno. >>
<< Che cazzo è? >>
<< Un vento caldo e secco. >> guardò Mary di sbieco, tirandole uno scappellotto. Il primo contatto fra i due, che scoccò nell’aria come una fioca scintilla. << Geografia, sorella. >>
<< Sorry se non sono intelligente come te, eh. Americano medio. >>
<< Oh, Mark! >>
Mark rivolse gli occhi allo specchietto per guardare l'amico.
<< Dylan e gli altri? Informati? >>
<< Certo, sta sera cena tutti insieme. >>
<< Ovvio, ahahah! >>
Esther nascose un sorriso di sorpresa quando Kruger sorpassò l'auto che gli stava dinanzi: forse per la fretta di tornare a casa, forse per l'esaltazione di poter risentire il sole caldo bruciargli i gomiti, ma mai avrebbe scommesso che uno calmo come lui potesse guidare in modo tanto veloce e sicuro. Sembrava che niente avrebbe potuto fermarlo, nemmeno una valanga improvvisa riversa sulla strada.
Era tutto così bello…
Nel posare la visuale davanti a sé incrociò lo sguardo con quello di Melanie. Lei la stava guardando.
E male, fin troppo.
Esther estrasse dalla borsa un paio di occhiali da sole e interruppe il contatto con un sorrisetto strafottente, prima di darle di spalle e ritornare a fissare il paesaggio oltre la finestra.

Non sono fatti tuoi, su. Lasciala pensare quello che vuole. Non permettere a una stupida di rovinarti il Natale più bello della tua vita.


 

Era proprio come la ricordava. Splendida.
La sua casa.
Mark avanzò trascinandosi dietro la valigia, calpestando con passo febbrile il lungo spiazzo erboso al cui lato sinistro si estendeva la piscina; dio, quel buco d’acqua aveva ospitato tante di quelle feste che non si contavano sulle dita. Si fermò davanti al pianerottolo e inspirò piano, poi sollevò il tappetino e prese la chiave.
Se la fece girare tra le dita, emozionato.
Era fredda, lui bollente dalla felicità.
Ritornare in California gli faceva sempre uno strano effetto, e non si trattava di patriottismo; la sua casa rimaneva la sua casa. Ci era nato, gli scorreva nelle vene.
Il sole, il caldo, il mare. Il caos delle strade, le urla della gente.
Faceva tutto parte di lui, ne portava i segni sulla pelle, nel cuore, nella persona che era diventata ora.
New York, New Orleans, Miami…
Nessuna città sapeva farlo sentire tranquillo come Los Angeles.
La sua Los Angeles.
Era difficile da spiegare a parole, e nemmeno servivano in quel momento. Spalancò la porta e rise di gioia.
Nessun posto poteva eguagliare quelle quattro mura che lo avevano protetto da tutto, persino da se stesso. Si perse a contemplare la sala, l’immenso divano color panna, le vetrate ai lati della tv, la moquette bianca su cui batteva un candido raggio di sole che sollevava minuscoli granelli di polvere. Sembrava che tutto fosse rimasto lì, immobile ad attendere in un suo ritorno. Magari definitivo. Sorrise. La casa era vuota, ma traboccava di amore da ogni foto, da ogni ammeniccolo. Sul tavolino in legno vi era un meraviglioso mazzo di rose, e sotto il vaso stava incastrato un biglietto dall’aspetto particolarmente invitante.
Lo prese e lo lesse.

 

Ciao Mark, sono Grace.
Ti lascio la casa libera per due settimane, come sai sono a casa di Marge. Passa a trovarci, mi raccomando, o ti faccio inseguire per tutta la città.
Ti chiedo solo un favore; prima di ritornare a New York, togli le lenzuola da tutti i letti e mettile in lavatrice.
Per il resto, pensa a divertirti.
Bentornato a casa Mark.
- Mamma.


Si morse il labbro inferiore e si infilò il biglietto nella tasca dei jeans, emozionato. Da adolescente avrebbe schifato un simile promemoria, ma ora lo trovava essenziale.
E basta.
<< Meno sentimentalismi, fratello. Siamo venuti qui per fare casino, non per baciare le lettere della mammina. >>
Era stato Erik a parlare. Gli venne accanto e gli passò un braccio intorno alle spalle, poi guardò oltre l’immensa vetrata che stava dietro il divano, la stessa che soleggiava tutto il salotto. Si persero a fissare il mare, ma senza vederlo davvero.
Erano immersi nei loro ricordi, quelli belli, indimenticabili.
Non c’erano parole per descrivere un ritorno del genere. Se non fosse stato per le tre ragazze lasciate sul pianerottolo, sarebbero scoppiati a piangere come femmine.
Melanie fu la prima ad entrare, e nel farlo diede una leggera spallata ad Esther.
La mora tuttavia la ignorò con orgoglio, persa nell’ammirare quella casa che una volta le era sembrata gigante, ma che ora la vedeva come un nido caldo e premuroso. Si avvicinò al camino e afferrò una delle numerose foto che vi erano posate sopra. Era Mark da piccolo, aggrappato al collo del padre.
Era più occhi che corpo, due immense farfalle cobalto coperte in parte da una zazzera color miele illuminata dai raggi del sole.
Era adorabile, ma non bello quanto ora. La rimise giù con un sorriso, adagiandola con delicatezza immane.
Durante il viaggio in auto, Mark le aveva spiegato che quando i suoi avevano divorziato, la madre era ritornata a Los Angeles, ma senza cambiare casa. Non se l’era sentita di abbandonare l’abitazione che aveva visto crescere i suoi pargoli, e quindi se l’era ripresa, cambiandone la mobilia da testa a coda.
Beh, Hanagrace aveva fatto bene: anche per Esther quella villa era simbolo di vecchi ricordi, come quello del bacio, ad esempio.
Decise di non pensarci, di ignorare che se avesse salito le scale avrebbe saputo riconoscere la porta della camera di Mark ad occhi chiusi.
Di sopperire l’immensa voglia che aveva di farlo, di entrare in quella dannata stanza e abbracciare il letto, sentirsi avvolta dalla sua morbidezza.
<< Come dividiamo le camere? >> domandò Melanie, riportando tutti alla realtà col suo tono di voce annoiato e pretenzioso. Sembrava scocciata di essere lì.
Kruger prese la parola. << Pensavo… >> rimuginò qualche secondo, poi si grattò tra i capelli con evidente impaccio. << uhm... io e te nel letto matrimoniale di mia madre, che dici? Tanto c’è--
La fidanzata non gli diede modo di aggiungere altro. Con uno scatto del braccio afferrò la valigia e cominciò a salire le scale con rabbia, fregandosene delle bestemmie nervose di Erik. Quando trovò la camera, la porta si chiuse con un tonfo secco. Quello del “non disturbatemi, o vi ammazzo”.
L'ansimo sconfitto di Mark non sfuggì all’udito di Esther, che aggrottò le sopracciglia con fare sospettoso. Qualcosa non tornava in quella relazione, era piuttosto visibile.
Lei sembrava gelosa, ma non lo voleva tra i piedi.
Lui era innamorato, ma non abbastanza da saperla tenere.
Non aveva avuto bisogno di una lente d’ingrandimento per rendersi conto che qualcosa tra loro non funzionava nel modo giusto, era ovvio a tutti.
Magari avevano solo litigato, perché no. Magari era lei che, in quanto donna, come al solito esagerava e dava spessore alla cosa.
Ma niente toglieva a Melanie il primato di ragazza più confusa del mondo. E poi, era sempre al cellulare.
Non sapeva staccarsi dallo schermo, come un’ossessa.
Si chiese come avesse fatto uno come Mark ad innamorarsi di lei, ma poi decise che non erano fatti suoi, in fondo.
Che forse Melanie era meglio di ciò che voleva dimostrare, che era una donna piena di sentimento e passione. Solo, le piaceva fare la dura.
A chi non piaceva atteggiarsi in quel modo, del resto.
<< Okay >> il biondo prese un respiro e riprese il filo del discorso, infastidito da quella scenata fuori programma. << Erik, tu dormi nella stanza di mia sorella, Mary in quella degli ospiti, è in fondo al corridoio. Potete andare. >>
<< Va bene fratello. Vieni Mary, ti faccio strada. >>
<< Che cavaliere. Le so salire le scale, eh, non ho bisogno del cicerone. >>
E così dicendo si dileguarono oltre le gradinate della villa, portandosi dietro le valige colme di abiti.
Mark aspettò che i due ragazzi si fossero chiusi nelle loro stanze temporanee, poi si avvicinò ad Esther e le sorrise con dolcezza. Una smorfia che poteva voler dire tutto, come poteva non significare nulla, ma che riuscì a disordinare tutti i sensi emotivi dell’amica, dal primo all’ultimo.
Greenland sapeva bene che stanza le era rimasta.
Eccome se lo sapeva, ma quando lui glielo disse, rimase ugualmente sconvolta. Dalla gioia. Il cuore le saltò al collo, battendo furioso contro la giugulare.
<< A te, ospite speciale, lascio l’onore di dormire nella mia camera. >>
Non sapeva cosa dire.
Non c’era bisogno di parole per descrivere una simile opportunità. << Mark… >> si fece avanti per abbracciarlo, timida, ma si bloccò con le braccia a mezz’aria quando incrociò il suo sguardo sfuggente. Aveva il viso tirato di felicità, almeno apparente, ma i suoi occhi brillavano di una luce che…
che lei non seppe decifrare.
Le dardeggiò un’occhiata carica di consapevolezza, una sensazione che le fece tremare il sangue nelle vene, il cuore, lo stomaco, il cervello, tutto.
Lui l’aveva messa lì apposta.
Perché all’interno di quella camera avevano intrecciato le labbra per la prima volta. Avevano provato sentimenti che lei ancora sentiva, nel profondo, e che avrebbe dato per poterli eliminare, ma ogni volta che ci pensava li percepiva svilupparsi, crescere dentro di lei, come una pianta baciata dai raggi del sole.
Smise di fissarlo e salì le scale in fretta e furia.

 

Si arrovellò su quell’occhiata per tutta la giornata.


 

_________________________________________________________________________
Nda

*negli USA si usano i gradi Fahrenheit, non i Celsius come in Italia. Però siccome io non ascolto MAI le lezioni di chimica e fisica, non li so trasformare – looool – e quindi per mettere in pace tutto il mondo userò i gradi, così non sono costretta a riportare sempre la temperatura. In ogni caso, 22 gradi italiani corrispondono a 71,6 gradi Fahrenheit. Ho usato il convertitore di internet, yeee.

E NIENTE, AUGURI KRUGER! mio dolce mr. Freedom. ♥​ Ebbene sì raga, oggi è il 20 Gennaio, e chi mi conosce dal lontano 2014 (?), sa che io ci vedo tanto bene Mark come un piccolo capricornino di Gennaio, e quindi niente, la data gliel'ho scelta io, e siccome quando io parlo detto legge, è vera. (?)

Anyway, parliamo del capitolo! Allora. Se avete letto la precedente storia saprete sicuramente del bacio tra Mark ed Esther. avvenuto a casa di lui. Se non l'avete letto, vi consiglio di farlo,è il capitolo 40, "Where are you Mark". In ogni caso vi basta sapere che è sul letto di Kruger che Esther gli ha fregato un baciettu, eheheheh, ecco perché è così emozionata quando sa che dovrà dormirci.
​Le cause e i perché comunque fanno parte del passato, e non sono importanti per questo sequel.
​ANDIAMO AVANTI.
Unicorns, godetevi questa quiete perché dal prossimo chappy cominceranno i casini, e non saranno pochi. Scopriremo diverse cose su Erik – come al solito, brutte -, accadrannò tante castronerie che vi faranno mettere le mani tra i capelli, vi faranno chiudere la storia e tanti saluti.

Per quanto riguarda Hanagrace, ve la ricordate no? La mamma di Mark! Avrà un ruolo anche lei, faccio solo un appunto.
Non è una modella. No chiariamo sta cosa. Allora, avevo 14 anni quando scelsi di farla modella.
… ero una bambina. Potete già capire la fantasia (?)
NON è UNA MODELLA, lo specifico; se lo fosse, Mark non avrebbe bisogno di lavorare, e mangerebbe torte tutti i giorni, alle Hawaii.
Quindi NON LO E'. So che nella vecchia storia c'era scritto così, ma siccome l'idea è mia, adesso vi chiedo di prendere l'informazione come una cosa dettata dal fatto che ero solo piccolina. La mamma di Mark lavora, ma ancora non ho deciso in quale settore.
Il babbo di Mark, Johann, è un avvocato. Questo era solo un piccolo appunto così, tanto per VIVA JOHANN.
Okay? GOOD. (?)
Se avete voglia lasciatemi un parere, mi farebbe tanto piacere cosa ne pensate!
Lasciate perdere la strafottenza di Melanie, fa così per un motivo, lo capirete più in là.
Baciii belli!

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Capitolo 8
*** Flying Pizza! ***


Chapter seven.

Flying Pizza!


 

E la notte arrivò anche a Los Angeles, portando con se una ventata d’aria fresca che prese a smuovere delicatamente l’erba smeraldina del viale.
Esther stava osservando il paesaggio oltre la vetrata della camera, distesa sul letto che una volta aveva sostenuto il fragile corpo di Mark.
Maledizione, appena aveva messo piede in quella stanza non aveva resistito alla tentazione di gettarsi sul materasso, carezzarne gli angoli morbidi, toccarne le lenzuola profumate di rosa. Quel letto l’aveva chiamata a se, l’aveva costretta a buttarglisi addosso.
Come si fa con un amante che non si vede da una vita.
Si voltò dall’altra parte, dando di spalle alla porta-finestra.
Le sembrava di star vegliando sul suo ricordo più prezioso, in quella posizione fetale. Non poteva credere di essere stesa sul posto che aveva visto il primo bacio tra lei e Mark, un posto intimo, delicato e che all’interno della sua mente si era conservato con la solerzia di un’istantanea ben scattata.
Sentiva di star rivivendo tutto, e per questo arrossì vistosamente quando il suo cervello ripercorse tutti i piaceri che quell’unione le aveva provocato la prima volta che l’aveva provata.
Dieci anni persi a sognare dietro un bacetto innocuo, come si era ridotta.
Persi dietro a Mark, ancora.
Per il resto, la camera era vuota, fredda e resa candida da una recente passata d’intonaco.
Se non fosse stato per quei pochi dettagli che l’amico aveva dimenticato prima di traslocare, sarebbe parsa una stanza come le altre, che non aspettava altro che essere intasata di cianfrusaglie. L’unica cosa a renderla speciale era, appunto, quel letto.
E quel ricordo.
Si concentrò su un poster attaccato al muro, slabbrato ai bordi; rappresentava un drago avvolto dalle fiamme, che ruggiva contro un nemico immaginario.
Chissà perché quella figura.
Chissà cosa doveva significare per Mark.
Ad ogni modo, non ebbe tempo per formularci su altri pensieri, perché delle urla maschili la costrinsero a balzare via dal letto e precipitarsi in corridoio. << Mark? >>
Scese le scale col cuore in gola, in preda ad una strana ansia, ma ciò che le si presentò davanti agli occhi la obbligò a fermarsi al penultimo gradino.
Davanti a lei, stretto in una maglia lilla e un paio di jeans neri, Dylan Keith stava varcando il pianerottolo di casa.
Proprio lui.
In carne, ossa e muscoli.
Era immenso, e teneva i lunghi capelli paglierini raccolti in un’agile coda di cavallo le cui punte gli sfioravano con delicatezza il collo ampio. Sotto le spesse lenti blu degli occhiali da sole, un paio di occhi color nocciola luccicavano di sincera gioia, fissi sul migliore amico. Da quel che ricordava, non aveva mai visto Keith tanto felice, e si lasciò contagiare dal meraviglioso sorriso che gli attraversò la mascella squadrata. << Mark! >> urlò, e lo raccolse tra le braccia come un pulcino ferito.
Mark rise dinanzi a quella dimostrazione d’affetto, e non tentò di liberarsi quando l’amico lo sollevò in aria gridando. Era contento di rivederlo.
Tra tutti gli amici che aveva lasciato in quella fetta di mondo, Dylan era quello più prezioso e speciale.
<< Cazzo Mark, non pesi niente! Melanie ti tiene a dieta? >>
<< Lascia stare, non ne parliamo. >>
Dylan ripose l’amico a terra, poi lo strinse forte, aggrappandosi alle sue spalle con una forza che poteva solo essere dettata dalla felicità di averlo di nuovo accanto a se. E fu proprio dopo aver portato a termine quell'azione che, sollevando le iridi, si rese conto della presenza di Esther sulle scale.
<< Oh. My. God. >> mollò Mark e a grandi falcate si diresse verso di lei, che saltellò sul posto prima di precipitarglisi tra le braccia spalancate. << Ma questa dove te la sei trovata Mark? >>
<< Dylaaaaaan! >>
<< ahahah, my god, come strilla! Eh Mark? >>
<< Lavora a New York. >> fu la semplice risposta di Kruger, che si era appoggiato al camino con un gomito. Si stava godendo la scena; nei suoi occhi cristallini brillava una luce carica di armonia, come se tutti i pezzi fossero tornati al loro posto. Come se fosse bastato avere sotto lo stesso tetto i suoi due migliori amici per far girare il mondo al verso giusto.
Scese anche Erik, che venne strizzato tra le braccia di Dylan, e persino a Mary toccò subirsi le sue smanie appiccicose.
<< E questa gnocca? >>
<< Mary Moore. >>
<< Piacere, Dylan Keith. Ma per te solo Dylan. >> e concluse con un occhiolino smagliante. La Moore arrossì tra i muscoli di Keith, prima di nascondersi dietro le spalle di Esther e sussurrarle all’orecchio una lode all’America che, Greenland ne era sicura, non centrava niente col continente.
Dylan tentò un approccio amichevole anche con Melanie, che la ragazza però respinse con un gesto della mano.
Mark si schiarì la voce. Keith si scroccò le mani. Approccio fallito.
<< Quindiiiiii... dove si va questa sera? >>
Dylan accolse la domanda di Erik come un salvataggio lanciato da Dio stesso. << Cazzo, ho trovato un locale stupendo non molto distante da qui. Fanno una carne da sballo, e le cameriere sono… hanno certi culi che… >>
<< Dylan Keith. Please. >>
<< Oddio Mark, non cambi mai eh? >>
Esther non poté non notare come le personalità dei due ragazzi fossero drasticamente cambiate non appena le loro vite avevano preso percorsi diversi. Dylan era solo uno, ma era come se avesse portato in casa il brusio e l’allegria di mille persone. Mark si era completamente spento con l’andare degli anni, un corpo giovane che aspettava un po’ di felicità a rigenerarlo. Guardava, ma senza vedere realmente. Era sempre sovrappensiero, sempre immerso per metà in una nuvola di dubbi e domande a cui sembrava non trovare risposte.
Eppure, era bellissimo anche con quel fare assorto e sfuggente. I loro sguardi s’incrociarono per un momento, e Kruger le sorrise radioso, chiedendole con un movimento di sopracciglia se fosse tutto okay. Gli fece cenno di non preoccuparsi. Era tutto perfetto.
Erano di nuovo insieme, cazzo.
<< Va beh, muovetevi a cambiarvi, signorine, che questa notte ci divertiremo. Fuck, adoro le rimpatriate fatte per bene. >>
Fu presto fatto.
Quando Esther risalì le scale per recarsi in stanza, giurò di sentire i corpi di Kruger, Keith e Eagle cozzare ancora. E stringersi tutti insieme, forti come il mondo li aveva visti dieci anni prima.

 

 

<< Mark! >>
<< Capitano! >>
Due ragazzi allampanati dalla pelle morena si alzarono da tavola urlando, si fecero largo tra le sedie e si fiondarono sul corpo di Mark, schiantandolo contro il muro. Era impossibile non riconoscerli, maledizione.
Michael e Bobby, proprio loro. Uguali a dieci anni prima, solo, dieci volte più vecchi.
<< Mark, finalmente! >>
<< Erik! >> fu Shearer a gridare, e una volta che ebbe identificato il castano dietro le spalle di Dylan, lo avvolse in un tenero abbraccio di benvenuto.
Rimasero incollati per quelli che ad Esther parvero minuti interi, anche se si trattò di pochi secondi. Doveva essere stupendo ritrovarsi con l'altra metà della famiglia.
Una sensazione in cui non era stata invitata, ma che riuscì ugualmente ad ingobarla e farla sentire parte di quel piccolo nucleo di fratelli che continuavano a strillare come animali in calore, incuranti delle persone che li guardavano allibiti.
<< Cacchio ragazzi, quanto tempo! >>
<< Un anno, se non ricordo male. >> Mark li guardò con ammirazione, soffermandosi su ognuno di loro. Era felicissimo di riaverli tutti al suo fianco, come un tempo. Come gli piaceva ricordare, e cercò di scacciare tutte le cose brutte per godersi al meglio quella serata in compagnia della ragazza che amava, o almeno che credeva di amare, e gli amici di una vita intera.
Sia di Los Angeles che di New York.
Entrarono e presero posto, ed Esther finì senza volerlo tra Kruger e la sua ragazza; insomma, una fantastica posizione per cominciare la serata al meglio. No?
Avrebbe voluto spostarsi, per permettere loro di stare vicini, ma quando vide che Mark sembrava felice di averla accanto afferrò il menù e nascose il volto dietro la lista di pietanze elencata in un’elegante grafia nera. Cercò di ignorare lo sguardo truce che le dardeggiò Melanie, non solo perché era giusto, ma anche perché sentiva di meritarselo; fece finta di nulla, portò il petto in avanti e, dopo essersi schiarita la voce – cosa che non sfuggì a Mary, stretta tra Dylan e Michael - iniziò a scorrere col dito sulle pizze.
Poi, un paio di ciocche bionde le solleticarono amabilmente il collo, accapponandole la pelle di piacere.
Dio.
<< Cosa prendi? >>
Mark si era chinato su di lei, curioso di sapere che cosa avrebbe mangiato per cena.
<< Pensavo… >> Esther trattenne il respiro e si fece di qualche centimetro più in là quando il collo dell'americano cominciò a suscitarle strane reazioni, o meglio, quando lo sguardo di Melanie iniziò a scottarle rabbioso la pelle. La signorina dal naso adunco aveva ragione ad essere gelosa. Ma cosa poteva farci lei se era stato Kruger ad avvicinarlesi per primo? E poi, non stavano facendo niente di male.
Solo parlando di cibo. Certo, se si escludevano tutti i suoi pensieri per il ragazzo, ovvio.
<< Una pizza, tu? >>
<< Quale? >>
<< Semplice. >>
<< Allora anche io. >>
<< Mark >> Esther batté le ciglia più volte, confusa. Se dalle sue sensazioni per lui o dalla sua presenza così vicina, questo non seppe definirlo. << come mai prendi la stessa cosa che prendo io? >>
<< Non mi sembra molto pesante. E poi non ho molta fame, sono venuto solo per loro. >>
<< Che sacrificio Mark. Siamo onorati. >> fu il commento di Michael, i cui occhi castani brillavano sotto la fitta coltre di ricci ribelli che gli scendevano lungo le spalle.
<< Nono, Mark, tu prendi quello che dico io. >> Dylan fece uno schiocco di dita e un’adorabile cameriera si avvicinò sculettando al loro tavolo. Tutti i ragazzi presenti sorrisero, tranne Mark, che si portò una mano davanti alla fronte trattenendo un gemito di sconforto.
Esther scacciò il sospetto che potesse sentirsi male, guardandolo con un sorriso divertito. Non le sembrava molto sensato preoccuparsi per un muso più tirato del normale e due occhietti spenti. Eppure sentiva che qualcosa non andava. Era come se Mark fosse felice, sì, contento. Ma non troppo.
Qualcosa gli impediva di rilassarsi.
<< Cioè, guardati. New York deve essere rimasta senza risorse. >>
<< Dylan >> Mark arrestò il respiro e chiuse gli occhi. << sono in forma, davvero. >>
<< Non si direbbe. >>
<< Dylan. >>
<< Mark. >>
<< I'm okay. Prendo la stessa pizza di Esther. >>
<< Siete pronti per ordinare? >> gracchiò la giovane, perdendosi un momento negli occhi vacui di Kruger prima che la voce di Dylan iniziasse ad elencarle in modo disordinato e veloce.
Esther sorrise nel rendersi corto che il biondo non la cagò pari per tutto il tempo che durò l’ordinazione. Mark sapeva essere stronzo senza volerlo, un talento nascosto che probabilmente nemmeno credeva di possedere.
<< Allora, Mark, Melanie, Erik? >> Bobby iniziò a giocherellare con la forchetta, sorridente. << Che si racconta? >>
<< A New York che clima fa? >>
<< Freddissimo, Michael. >> Mark si sporse dalla postazione e lo tirò per un ciuffo di capelli, costringendolo ad urlare di finto dolore. << Così freddo che ti si gelerebbero le palle. E poi, non potresti più accoppiarti. >>
<< Ah Mark, non ho più donne a letto da un paio d’anni ormai. >>
La cameriera di prima lasciò cinque boccali di birra al centro del tavolo, a cui i ragazzi attinsero come morti di sete. Brillava d’oro, come i capelli di Mark.
Esther si costrinse a non guardarlo, o sarebbe impazzita. Provò invece a concentrarsi su Michael, pensando che fosse una buona idea tirare fuori i vecchi tempi passati alla sede della Unicorn. << L’ultima è stata Dell, per caso? >>
Il riccio scoppiò a ridere come un pazzo, e Dylan lo imitò. << Dell… non credo di aver mai avuto ragazza migliore di lei. >> Poi fece scattare negli occhi un timido bagliore di speranza.
La mora sorrise dentro; era rimasto quello di sempre, all’apparenza presuntuoso e arrogante, ma che dentro nascondeva un carattere timido e pieno di dolcezza.
<< Una di voi due la sente ancora? >> chiese, leggermente nervoso.
<< Ho perso tutti i contatti con lei. >>
Michael rispose con un sorriso malinconico, e affogò la lieve tristezza in un sorso di birra. Come per mascherare il risentimento di non avere più modo di risentirla, minimizzare la consapevolezza che ormai era andata per sempre.
E che lui doveva fare la stessa cosa.
<< Povero Michael. >> fece Erik scuotendo il capo. << Ora sì che gli si possono congelare le palle. >>
<< Davvero. >>borbottò il diretto interessato, inchiodando gli occhi a terra.
<< E Hellen, invece? >>
<< Hellen è in Italia! >> rispose Mary, toccando la spalla di Bobby con fare amichevole. Cercava di fare gruppo unito, integrarsi all’interno di quella piccola famiglia che parlava del passato con molta malinconia, come se volesse riportarlo alla luce. << A studiare. >>
<< A farsi Paolo Bianchi. >> mormorò Erik, trattenendo un grugnito di risata quando incrociò gli occhi divertiti di Mark e Dylan.
<< Allora è proprio disperata. >>
<< Ma è il bellissimo Paolo Bianchi! >> gemette Esther, e Mark emise un grugnito infastidito in risposta.
<< So what, Esther? Chi è che vorrebbe stare con uno come lui, quando ci sono io >> Keith mostrò i denti e sollevò il ginocchio. << Mi arriverà più o meno qui. Lo calpesto senza vederlo. >>
<< Ragazzi, al FFI Paolo Bianchi ci ha battuti, capisco che è italiano ma… rispetto, su. >> fu il commento di Bobby.
<< Cosa dici, Bobby! >> e Mark scattò in avanti, battendo un pugno sulla tavola. Esther rise nel vederlo tanto infervorato, Melanie sbuffò e ritornò al suo adorato cellullare. << Contro la Orfeo eravamo arrivati in pareggio! Non ti ricordi? >>
<< Ah già! Grazie ad Erik, altrimenti quel nano ci faceva il culo. >>
Erik fece finta di salutare un'immaginaria folla acclamante. << Com’era la storia che raccontavi a tutti, Mark? >>
Mark si tappò il naso per imitare la sua voce da ragazzino. << “Signori, non pensate che Erik faccia il lavoro sporco per noi. Non pensate che sia l’unico a fare goal, a difendere, a dare ordini. E’ il nostro giocatore migliore, vero, ma è l’unione che fa la forza”. >>
Scoppiarono delle risate che per poco non frantumarono i vetri del ristorante, e molti dei presenti si voltarono a guardarli straniti.
Chi erano quei pazzi seduti al tavolo? Che avevano da sganasciarsi tanto?
La famiglia migliore del mondo, ecco chi, e dio, non c’era niente di meglio che essere lì tutti insieme, e rendersi conto che erano passati solo gli anni.
Non loro, non quello che c’era stato.
<< Cazzate! >> sbraitò Michael, e tutti rivolsero uno sguardo complice ad Erik, che fece spallucce con nonchalanche.
<< Era ovvio che facevo tutto io. >>
<< Cazzo, era ovvio eccome, ricordo ancora le partite in cui tu facevi goal e io e Mark eravamo in un lato del campo a parlare di fatti nostri. >>
<< Vogliamo ricordare di quando Michael si era messo a mangiare la patatine? >>
<< Eri il nostro cinesino sfruttato Erik. >>
<< Sìììì, il nostro cinesino! >>
<< We love you, Erik. >>
<< Ragazzi! >> la cameriera interruppe il coro di risate e iniziò a posare le varie pietanze ordinate sul tavolo, quando Melanie si alzò con uno scatto improvviso della sedia, facendola cigolare sul pavimento lustrato d’olio. << Devo fare una corsa al bagno, scusate! >> trillò, e nel raggiungere la destinazione urtò apposta contro la giovane cameriera.
Questa perse l’equilibrio e con un urlo disperato gettò non una, ben due pizze sul petto di Esther, che divenne la protagonista assoluta di quell’incidente premeditato.
Gridò e sgusciò via dal tavolo, finendo all’indietro. << Che…! >>
<< Mi dispiace, signorina…! >>
Non poteva credere a ciò che le era appena successo. La signorina l’aveva fatto apposta, di modo che lei potesse rammentare quella serata con vergogna, e non con gioia. Non sapeva dove guardare, se sulle teste voltate degli spettatori, sugli occhi nervosi di Mark o sul seno imbrattato di sugo e olio e… fece una faccia disgustata. Non voleva sapere altro. << Il mio top nuovo…! >> gemette, stringendo i pugni per la rabbia e l'umiliazione. Sentì un furore sordo montarle dentro, e desiderò avere davanti Melanie, per poterle restituire lo stesso favore con una buona dose di schiaffi.
<< Signorina, mi dispiace, mi dispiace così tanto… >> mormorò la cameriera, tirandosi su a fatica e iniziando a pulire il danno che lo scivolone aveva procurato. Dylan la aiutò, sconvolto, e Bobby spinse il tavolo in sua direzione per facilitarle il lavoro.
Un silenzio pazzesco era piombato sulla sala, silenzio che alterò ancora di più i nervi a fior di pelle della Greenland. Meglio che qualcuno la legasse alla sedia, o sarebbe entrata in bagno e avrebbe tirato quel soggetto per i capelli fino a privarla della chioma. Non le importava che fosse la fidanzata di Mark o meno.
Intanto, le aveva macchiato il top e distrutto la serata più bella della sua vita.
Mary si alzò dalla sedia, ma Kruger fu più veloce, e prese un tovagliolo con una rapidità devastante.
Si sporse e lo posò sul petto di Esther, prima di premerglielo delicatamente sulla pelle candida chiazzata di rosso. << Ti sei scottata? >> le chiese mentre con mano ferma iniziava a pulire il disastro che la fidanzata aveva creato.
<< Figurati, è il meno… >> la mora lo guardò negli occhi, e lesse un dispiacere e un disagio enormi, che però in quel momento non la toccarono minimamente. Le mani di Mark erano vicine al suo seno. Troppo vicine, fredde, sudate. Così tanto che giurò di sciogliersi dal piacere, come cioccolata lasciata al sole.
Il sangue le schizzò al cervello dinanzi a quella stupenda consapevolezza, il battito cardiaco accelerò e il respiro le si fece appena più pesante. Le sembrava un sogno.
Toccata, da Mark Kruger. E la cosa che più la rendeva agitata, era che se lui lo avesse fatto per davvero, lei non si sarebbe sottratta per nulla al mondo.
Il biondo continuò a pulire con affanno, fino a quando il fazzoletto non incontrò l’attaccatura del seno. E allora si bloccò così come era partito, arrossì e sfuggì al sorrisetto malizioso che aveva messo su la mora. Lasciò cadere la carta impiastrata di rosso e sollevò le mani a mo' di resa. << Perdonami. Scusa… >> provò a guardarla, ma non ci riuscì. << non avrei dovuto… io… ti chiedo scusa, Melanie è… io… >> basta, perché provava a giustificarsi? Si zittì e si portò una mano tra i capelli, le labbra serrate dal dispiacere.
E forse qualcos’altro. Forse imbarazzo.
Di essere arrivato quasi a toccare il seno di Esther, senza aver minimamente pensato al fatto che potesse averne uno.
<< Tranquillo, Mark. Anzi, grazie. >>
<< Vieni cara, andiamo in bagno, forza. >>
Mary tolse entrambi dal disagio - Mark liberò un sospiro di sollievo - e trascinò l’amica fino al bagno, nel preciso istante in cui Melanie vi stava uscendo trascinandosi dietro un forte odore di detergente.
Kruger seguì la scena con lo sguardo, e quando vide che non accadde nulla di spiacevole si lasciò cadere sulla sedia, le braccia pesanti e il respiro corto dalla rabbia. Sì. Era incazzato nero. Non sapeva cosa dire, Melanie aveva esagerato e stava a lui riportare la situazione ad uno stato di calma, almeno apparente. Che riuscisse a tenere tutti a bada prima che una cosa del genere potesse distruggere l’intera cena.
Non poteva starsene con le mani in mano, fargliela scampare; anche perché di mezzo non ci era finita una persona come tante, ma Esther.
Si sforzò di non pensare a come aveva rischiato di toccarla, e fece per chiamare la fidanzata da lontano, ma Dylan lo fermò afferrandolo per
il polso.

<< Mark, lascia perdere, per favore. >>
Si liberò dalla presa, nervoso.
<< Si è comportata da ragazzina. >> sbottò, incapace di celare il tono irato che aveva preso possesso delle sue corde vocali.
<< Va bene, ma non è il caso di farle il mazzo qui, Mark. Non aggiungere carne al fuoco. Tanto ormai abbiamo capito tutti com’è fatta la tua tipa, continuerà a fare la stronza fino a quando non ti porterà al collasso. >>
Il biondo chiuse gli occhi. Provò a calmarsi, ma quando tutto fu buio rivide il seno di Esther, quello su cui aveva passato il fazzoletto, come un perfetto cretino che non ha idea di come sia fatto un corpo di sesso femminile.
Li riaprì di scatto, rosso in viso. Maledizione.
Che stupido. << E’ lo stesso, non si fanno queste cose. >>
<< Mark, per favore. Parlaci a casa, in un secondo momento, adesso no. >>
Si arrese con un sospiro e le fece spazio con la sedia quando Melanie si accomodò accanto a lui. Prendendo il posto di Esther. La guardò, intimandola con lo sguardo, chiedendo spiegazioni per quel gesto assurdo che solo i bambini si sognavano ancora di mettere in atto, ma lei ebbe persino la faccia tosta di ignorarlo.
Si comportò come se non fosse accaduto nulla, e questo non fece che alimentare la rabbia di Mark.
Provò a rilassarsi, a svuotare la mente. Avrebbe offerto la pizza ad Esther.
Diamine, gli sembrava il minimo per farsi perdonare.

 

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nda
hi unicornsssss. Eccomi qui con il nuovo capitolo, e già che ci sono, ne approfitto per annunciare a tutti voi che sì, DA OGGI PARTONO UFFICIALMENTE I CASINI, YEEEE. *fuochi d'artificio* Casini che ovviamenteh vedranno come protagonisti il mio amato Marky (fate caso al suo umore, è importante per l'andamento della long. NASCONDE QUALCOS--), ma non solo; ci sarà mezza long dedicata alle palle infinite di Erik, che come al solito, gli dai un dito e ti mangia per intero, a Bobby, e anche una piccola parte per il fantasticoso Dylan, che ehi, sembra scemo ma NON LO E'. So stay tuned, che sarà sempre peggio. E i problemi sempre più gravi, direi.
Sarò schietta, avrei dovuto pubblicare il 13 Febbraio, ma avendo la febbre e non avendo una sega da fare, mi sono messa d'impegno per portarvi questo aborto prima del previsto. Apprezzate la dedizione. (?) Come vi è sembrato il capitolo? Ciò che è successo è una cavolata, prendetela alla leggera, più avanti si verranno a scoprire alcune cose un po' meno superficiali.
Anyway, sapete che ho finito di battere la storia? Salvo aggiunte, i capitoli totali dovrebbero essere 33. Vi piacerà. E' piaciuta persino a me (??). Spero di riuscire a postare almeno due volte al mese, o più. In ogni caso, vi dico subito che gli aggiornamenti non saranno lenti, proprio perché, appunto, la long è completa e finita.
Meglio così, no? Disaster Movie m'aveva preso 4 anni di vita. :D
Ho insistito tanto su Erik perché dai, si sa, nella Unicorno l'unico capace di tenere il pallone tra i piedi è proprio Eagle. Fa tutto lui.
TUTTO. A momenti anche il portiere. Ed è inutile che Mark va a dire a tutti i capitani che “è il gruppo che conta” (lo dice nel gioco, testuali parole), perché MENTE.
Mark: non è vero!
Me medesima: Sì. LO SANNO TUTTI. Zitto che ti maltratto i capelli. (?)
Quindi yes, Erik è lo schiavo della Unicorn. E Paolo l'ho messo perché mi andava di nominarlo u.u. Ci saranno anche accenni a Thiago e Edgar -miolov- più in là.
E niente, il design di Dylan l'ho preso da questa immagine, proprio come quello di Mark: https://imgur.com/a/rJDnY
Lo so, lo so. Sono bellissimi, Mark lo è sempre stato - ovvio Mark è zecsi pure quando caga -, Dylan lo è diventato, finalmente, yeee, good job Dylann <3333
Basta, ho parlato anche troppo.
Al prossimo capitolo, babieesssss.
Lou

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Capitolo 9
*** More than friends ***


Chapter eight.

More than friends



Quando Esther si era svegliata quella mattina di dicembre, si era sentita controllata da sensazioni prossime all'estasi, e a dimostrarlo non fu tanto il modo con cui si sollevò dal letto senza la minima difficoltà - caso raro per una pigra come lei -, ma quello con cui saltò le scale a tre a tre, atterrando a piedi pari sulla moquette color neve che si estendeva per quasi tutta la casa. Dormire sul letto di Mark, tra le sue lenzuola, le aveva scosso tutti i sensi, dal primo all'ultimo.
Sentiva di poter abbattere un drago, se solo le si fosse parato davanti, ma non appena svoltò a destra, si ritrovò dinanzi a un nemico ben più grande che una semplice lucertola sputafuoco. Sempre se nemico poteva definirsi.
Melanie. Sveglia alle nove di mattina, con un coltello in mano e una mela rossa stritolata tra le dita bianche.
Arrossì e la guardò, mentre la sua testa cominciava a riprodurre la tremenda scenata che solo ieri sera l'aveva vista protagonista.
Il primo impulso fu quello di puntarle il coltello alla gola e soffocarla con la mela, gridando vendetta per il suo povero top, ma si trattenne, posando una mano sul muro freddo della stanza.
Il secondo fu quello di ucciderla direttamente, ma anche questo venne scartato, per quanto allettante.
Provò col piano c, ovvero quello di farsela amica e gettarsi tutto alle spalle, da vera brava ragazza. Una cosa che odiava, ma che si costrinse a fare, per il bene di Mark. L'aveva visto parecchio agitato ieri, l'esagerazione dell'accaduto doveva averlo stressato.
Se Melanie non poteva promettergli un Natale pacifico, lo avrebbe fatto lei, proprio lì e in quell'esatto momento.
<< Buongiorno! >>
subentrò in sala, le gote illuminate dai toni pastello dalla mattinata.
Nessuna risposta. La fidanzata di Kruger continuava a scuoiare la mela imperterrita, il volto mascherato dai lunghi capelli corvini.
Simpatia portami viaaa, pensò Esther, sfoggiando uno dei suoi migliori sorrisi. Il più falso e presuntuoso che sapeva di possedere. << Ho detto buongiorno. Bonjour. Goodmorning! … ohayou gozaimasu!! >>
Al richiamo giapponese, due occhi verde giada le si posarono sopra con nonchalanche, mostrando una fitta coltre di eyeliner e mascara degni del miglior spot televisivo della Maybelline. Truccata, di già? Tosta questa, con quale forza fisica aveva il coraggio di aprire il beautycase alle nove di mattina, in vacanza, senza sentire prima il bisogno di connettere col mondo circostante? Forse l'esigenza di mascherare quel naso l'aveva spinta a trovare l'energia giusta.
Allora in quel caso ci poteva anche stare.
Basta Esther, sei sadica come lo schifo, sei peggio di Suzette.
<< Bel trucco, comunque. >>
Niente.
<< Vedo che non sei una molto loquace, allora parlerò io per entrambe, ci stai? >>
Cominciò a girovagare per la cucina, cercando di entrare in contatto con l'ambiente circostante. I mobili e le mensole in mogano brillavano sotto la luce tiepida del sole mattutino, tirati a lucido come li ricordava. Chissà cosa mangiava Mark per colazione.
Oddio, perché ora pensava una cosa del genere?
Concentrati, stupida.
<< Riguardo a ieri... dovrei vendicarmi, tesoro. Per come hai spudoratamente sporcato il mio top nuovo, acquistato durante il Black Friday, in un negozio abbastanza caro. Dovrei proprio, sì. Eppure, ti propongo un patto diverso. Sai dove sono le tazze? >>
<< In alto, dentro quel mobiletto. >>
<< Grazie, cara. >>
Si sollevò le punte per prendere una tazza, che riempì con un po' di latte. Poi riprese il filo del discorso, il cartone colorato di celeste stretto tra le mani. << Che ne dici di essere amiche? >>
<< Amiche? >>
<< Amiche, sì. >>
<< E perché io e te dovremmo essere amiche? >>
<< Per Mark, così può passare un Natale tranquillo senza star dietro alle tue esagerate cazzate da ragazzina. >>
Si era ripromessa di essere gentile, ma in quel momento la bocca parlò senza che potesse fare niente per tenerla a cuccia, come al solito. Eh, quanto avrebbe dato per essere un po' meno estroversa.
Melanie posò il coltello, posò anche la mela e in un millesimo di secondo le fu davanti.
Quello che sentì dopo Esther, fu una presa fredda intorno al polso, forte, che non somigliava affatto ad una possibile stretta di pace.
Poi, il viso della corvina le si schiantò contro il naso, fumante di rabbia. Era viola, anzi blu.
Il cartone di latte finì a terra; Greenland ringraziò il signore di averlo chiuso alla perfezione.
<< Troia, chiariamo subito una cosa. >>
<< Troia a chi...!-- non riuscì a terminare la frase, Melanie gonfiò le narici.
<< Ti conosco, so chi sei, so che sei amica di Mark e so che avete avuto una mezza storia. Ho visto come gli sbavi addosso. Come lo guardi e vuoi portartelo a letto, mica sono scema. >>
<< Non è vero! >>
Ok, forse era vero. Mentiva, chiaro, e con una spudoratezza da fare paura. Ancora non voleva credere di essere attratta da Mark, dai suoi occhi acquamarina, e la sua voce.
I suoi modi di fare, come si comportava, così simile al “vecchio Mark”, eppure così distante.
Le sembrava così assurdo e irreale... le sembrava di essere ritornata a dieci anni prima.
<< Bugiarda. >>
Eh sì, tanto, una prodigiosa bugiarda di prima categoria. Incassò l'accusa, conscia del fatto che rappresentasse l'allegoria stessa della falsità.
<< Se osi anche solo provarci con lui, è guerra tra noi. Il mio gesto di ieri era un chiaro segnale a non oltrepassare il limite. >>
<< Non ho intenzione di farlo. So che è fidanzato con te, vi rispetto come coppia. Non sono quel genere di ragazza. >>
<< Ma non neghi di andargli dietro, eh? >>
No, non lo negava, assolutamente. Cazzo, si sentiva stordita, come se avesse appena sbattuto la fronte contro la realtà nuda  e cruda dei suoi sentimenti.
Quella strigliata insensata l'aveva appena scaraventata giù dal pero.
Non rispose. La sostenne con uno sguardo di fuoco, almeno fino a quando Mark non fece la sua gloriosa comparsa in cucina, con la camicia stazzonata, i capelli sparati in aria ed un paio di jeans troppo larghi per i suoi fianchi snelli.
Ecco, ci mancava solo lui.
Melanie le lasciò andare immediatamente il polso, che Esther corse subito a cingersi. Le pulsava di rabbia. Il segno della morsa era morale, non fisico, stretto alla sua dignità di donna, e nascose l'arto dietro la schiena quando gli occhi di Kruger balzarono indagatori su di lei.
Si sentiva amareggiata, sconfitta. Nuda e impotente davanti a quei sentimenti che, a quanto pareva, non erano affatto passati inosservati.
Che palle.
<< Vi ho viste, non sono così scemo. >>
Già. Non aveva più quattordici anni, ma quasi ventiquattro.
<< Ciao Mark! Io e Melanie ci stavamo cimentando in una piacevole conversazione tra amiche, tutto qui. >>
<< Amiche? >>
Le sopracciglia di Mark si corrucciarono sugli occhi caldi di sonno. Amiche. Suonava così falso, nessuna amica stritolava il polso dell'altra in modo tanto concitato. Finse di bersela, e senza farsi notare lanciò uno sguardo riottoso a Melanie.
Questa si riprese la mela e, dopo aver dardeggiato un insulto mentale ad Esther - ricambiato -, se ne andò via di casa. La porta si chiuse talmente forte dietro le sue spalle che le finestre tremarono tutte.
Esther non sapeva dire se furono quelle a vibrare di più, oppure se fu la rabbia di Mark a stridere l'aria di nervoso.
<< Mark, ohayou--
<< Fammi vedere. >>
<< Cosa? >>
<< Il polso. >>
Non ebbe il tempo di rispondere che il biondo raccolse il cartone di latte, lo posò, anzi, lo schiantò in malo modo sul bancone e le afferrò il polso.
Nonostante la furia, si mosse delicato sul suo braccio, tastando piano la parte arrossata. Esther fu stupida di vedere come le dita di miss naso acquilino le avessero leggermente evidenziato la pelle. Prima non c'erano.
<< I'm gonna kill her. >> fu l'unico commento che gli uscì dai denti, intriso di ansia.
<< Mi ha solo stretta. >>
<< Sì, e magari domani ti butta in mezzo alla strada, sai com'è. >>
<< Sai perché mi odia? >>
<< No, non ha motivi per farlo. Cerca solo rogne, è fatta così. >>
<< Forse è gelosa. >>
<< Mm. Why? >>
Non glielo disse.
Si limitò a fissarlo con un largo sorriso, vero questa volta. Era contenta di rivederlo, anche se arrabbiato. Portava ancora i segni di quella che doveva essere stata una profonda dormita post-viaggio, la bocca impastata e gli occhi arrossati che, come una cappa di vapore sanguigno, gli circondavano le iridi chiare.
Sentì una serie di clacson riecheggiare in lontananza, i motori delle auto vomitare petrolio sulle strade larghe di Los Angeles; era come se la città si fosse svegliata con lui, e non con le prime luci dell'alba.
<< Cambiamo argomento, prima che la inseguo. >>
<< Esce così? >>
<< Sì, conosce Los Angeles, ha i parenti qui. Avrà le sue cose da fare, non mi metto. >>
Lo osservò prepararsi la colazione, e registrò mentalmente dove si trovavano i vari utensili. Tazze, tazzine, cornflakes, patatine e pacchi di caramelle dimenticati in un angolo della credenza; ora che aveva scovato i nascondigli delle cose, si sentiva più in simbiosi con la casa.
<< Allora? >> Mark si fece una spremuta e, dopo aver posato le palme sul bancone, si voltò verso di lei. Aveva un sorriso splendido, spontaneo, che gli illuminava il mento glabro e gli occhi chiari, mettendo in risalto tutto ciò che c'era di uomo in lui, tutto ciò che le faceva crollare le ginocchia ogni volta che incrociavano lo sguardo. << Come si dorme nel mio letto? >>
<< Malissimo. E' duro, scomodo, e puzza già di te. >>
Tutte bugie, solo per divertirlo. Esther aveva dormito davvero bene su quel letto. Non tanto per la comodità, o la piacevole fragranza floreale che si estendeva su tutto il lenzuolo, e che le avrebbe cullato le narici per altre due settimane.
Le sembrava di essersi appisolata sui ricordi, su quello che c'era stato tra loro, proteggendoli col suo corpo caldo.
Di averli rivissuti in sogno, di averlo baciato altre mille volte ancora.
Aveva di nuovo rivisto il volto magro di Mark rilassarsi contro la pressione delle sue labbra, quegli occhi tristi e languidi chiudersi e darsi pace, anche solo per un breve istante, solo per lei, per lui. Quel bacio era rimasto un pensiero troppo vivido nella sua mente.
Un qualcosa di importante, vitale.
<< E di cosa puzzo? >>
<< Di... >> lo guardò di sbieco. << di ammorbidente alla rosa. >>
<< Aaaaaah. >> Kruger si prese un sorso. << Nice. >>
<< Ti... ti ricordi quando ci siamo baciati, Mark? >>
La spremuta gli andò di traverso, e fu costretto a tossire. Esther arrossì. Sapeva di essere stata imprudente con quella domanda, ma doveva esserci un motivo per cui il biondo aveva scelto di metterla lì al posto di, chessò, Erik, o magari Mary.
Sapeva benissimo il perché, aspettava solo di avere la sua conferma.
<< Certo che mi ricordo. >>
Il cuore le balzò alla gola nel sentirlo dire così, le mani si sciolsero contro i fianchi, incapaci di rimanere ferree al controllo nervoso.
Dio, Mark...
<< E' per questo che mi hai messo nella tua stanza, vero? >>
Mark le lanciò uno strano sorriso in risposta, che Esther fece fatica a decifrare. Poi finì la colazione e le si avvicinò a passo lento, strusciando il tessuto fresco dei jeans che gli si cacciavano sotto le suole consunte delle scarpe. << Devo uscire un attimo, devo fare alcune cose. Torno subito. >>
Sembrava essersi rinchiuso in un mondo tutto suo, come se lei con quella conversazione indiscreta avesse superato un limite immaginario, ma ben rigido. Si pentì di aver sfiorato l'argomento; aveva pensato che potesse fargli piacere mostrargli che ancora ricordava, ma stando alla sua reazione stordita, pareva solo aver fatto danni, meglio dimenticare. Si promise di non rimuginarci più su, per evitare di stare male.
<< Se Erik si sveglia, digli pure di finire le cialde, tanto ne vado a prendere altre. >>
<< Non gli piace sprecare in casa altrui? >>
<< Si sente invadente. >>
La salutò con uno sguardo indecifrabile, prima di sparire oltre la porta.
Esther lasciò andare un sospiro e ritornò a carezzarsi il polso. Serviva del ghiaccio? Nah. Il ghiaccio serviva metterlo sul cuore, prima o poi, per fermare quell'attrazione stupida, insensata e precipitosa, prima che potesse trasformarsi in qualcosa di ben più immenso.



<< Allora? >>
Melanie distolse gli occhi da una rivista di gossip e mise a fuoco le gambe di Mark, divaricate dinanzi a lei. Poi gli percorse con aria cinica il profilo del busto, le braccia incrociate che aspettavano in una sua parola, anche stupida, che potesse rompere la barriera di gelo che era calata tra loro da ieri sera. Anzi, da qualche mese. Anzi. Da quel giorno.
Sbuffò e sfogliò pagina, facendo finta di non averlo notato.
<< Mi devi delle spiegazioni. >>
<< Che tono pretenzioso. >>
<< Si può sapere che diamine ti è preso ieri? E questa mattina? Che razza di atteggiamento, Mel... non è da te. Sai essere più matura di così. Ne vogliamo parlare? >>
L’articolo parlava dell’interessante vita di una modella brasiliana alle prese con il suo primo bambino, avuto da un uomo di ben vent’anni più grande di lei. Ma Mark le impedì di leggere il nome del nascituro, strappandole la rivista di mano e scagliandogliela sul materasso. Un gesto che mai si sarebbe sognato di fare, ma era meglio per Melanie che gli prestasse almeno un minimo di attenzione quella sera; ancora portava la rabbia dentro, non riusciva a cancellare l’accaduto di ieri, tanto meno quello di questa mattina. Non riusciva a spiegarsi i perché, e quando non trovava risposta alle domande si infuriava a bestia.
Inoltre, ci era finita di mezzo Esther, per ben due volte. Una cosa che detestava.
<< Adesso mi ascolti, sono stanco di venire ignorato. >>
<< Mark, mi ricordi i motivi per cui io e te siamo qui, insieme? >>
Mark non aveva voglia di ricordarseli, perché non erano affatto belli, ma lo fece ugualmente. Lui e Mel avevano smesso di essere una coppia da tempo, forse qualche mese, non rammentava di preciso il giorno in cui avevano scelto indirettamente di porre fine al loro rapporto. Era successo tutto per caso, tutto per colpa sua, che non aveva saputo prevedere un tradimento da parte di quella ragazza che ora lo guardava seduta sul letto, in attesa di una risposta, infilata in un pigiama forse provocante, ma che non gli causava più alcuna emozione. In attesa di sapere se c'erano ancora possibilità per loro, oppure no. Ma nonostante l'incornata tremenda, qualcosa in lui gli aveva impedito di arrabbiarsi quel giorno di ottobre.
Non ce l'aveva fatta. Aveva pensato ancora di amarla, anzi, ne era fermamente convinto, ecco perché l'aveva invitata a riprovarci con quel viaggio improvvisato verso un possibile miglioramento della situazione.
Lei aveva accettato.
Ma le cose non erano iniziate nel migliore dei modi.
<< Per riaggiustare le cose. >> la scrutò sotto la frangia biondo miele. << è questo che vuoi anche tu, no? >>
<< Beh. Diciamo di sì. >>
Sapeva che mentiva, bastava vederla per sapere che non era interessata a salvare la relazione. E che nemmeno lui lo era, forse.
Da quando Esther era ripiombata nella sua vita senza chiedere il permesso a nessuno tutto aveva cominciato a perdere senso.
<< Ma non dirmi quello che devo fare. >>
<< No, assolutamente. >> esitò, un attimo confuso. << Solo, non fare danno ai miei amici. Dovresti chiedere scusa ad Esther. Sei stata esagerata. >>
<< La cameriera era in mezzo. E questa mattina la tua amica mi ha fatta incazz--
<< You shouldn't do it. You must do it. >>
Melanie mise giù il cellulare, si rigirò sul letto e lo fissò intensamente. Mark lesse di tutto in quelle iridi verdi da far male, trovò sconcerto, noia, disinteresse.
E ancora una volta diede di spalle a quei sentimenti, soffocandoli in un angolo remoto della coscienza. Forse era egoista, forse era un amore a senso unico, sempre se amore si potesse ancora chiamare. Ma non aveva voglia di altri fraintendimenti, di essere tradito nella fiducia una seconda volta, o preso in giro, era stanco. La vita gliene aveva date tante in soli ventitre anni, e il peggio doveva ancora arrivare.
Lei aveva scelto di venire.
Per ricostruire. Lui non le aveva imposto nulla.
<< Vieni giù a guardare un film con noi? Così stiamo un po' insieme, almeno. >>
<< No. >>
<< Problemi tuoi. >> non provò neanche a convincerla, il suo rifiuto gli suscitò così tanta rabbia che afferrò la maniglia, uscì e schiantò la porta urlando dentro.
Sarebbe ritornato a New York con lei, non senza di lei.
Così si era prescritto che sarebbe andata, fine.



<< Che si guarda? >>
Esther sparpagliò sul divano letto una serie di film che aveva trovato all'interno di un cassetto sotto la tv, accuratamente sistemati in ordine alfabetico. Ne aveva scelti di quasi tutti i tipi, tirando su classici bestiali come il famigerato Titanic e altri invece più recenti - e a suo dire, molto insensati -.
Tranne, chiaramente, Magic Mike. Hanagrace si stava rivelando molto più giovane e sventata di quello che voleva far sembrare, e la cosa che più lasciava interdetta la mora della CCC era che non aveva solo il primo.
Ma pure il secondo.
Bene, sarebbero potute diventare ufficialmente migliori amiche.
<< Preferenze? >> chiese, e poi si fece da parte, per far scegliere agli altri due. A lei andava bene tutto, per quella sera avrebbe tollerato anche un film d'azione, per quanto non li sopportasse.
Ciò che più le premeva sapere ora era se Mark e Melanie avrebbero partecipato alla serata, o meno.
E se il ragazzo si fosse realmente infastidito per la breve conversazione di quella mattina, ma decise di non dare molto peso a quest'ultimo punto. Non le sarebbe dovuto neanche interessare, in realtà.
<< Io voto la distopia assoluta. >>
<< Scordatelo Mary. Ne ho piene le palle di mondi infelici e territori divisi in dipartimenti. >> Erik si chinò in avanti e pescò dal mucchio un vecchio film di Will Smith. << Men in black, girls. >>
<< Nooooo, troppo vecchio! >>
<< Perché, Hunger Games è per caso uscito ieri? >>
<< Non ho mai detto di voler guardare Hunger Games! >>
<< Men in black ragazze, poche storie. >>
<< 1997. Era il mio preferito! >>
L'improvvisa voce roca di Mark costrinse tutti a voltare le teste verso le scale buie. Esther sentì la gola riscaldarsi nel vederlo lì, per loro, con quel sorriso stanco ma che aveva voglia di godersi i suoi amici, nonostante tutto.
Senza la ragazza, poi.
Sollevò i sopraccigli fini. Un dettaglio interessante. Avevano forse litigato?
<< Dunque quoto con Eagle, per oggi fate comandare noi uomini, ragazze. Un'altra sera guardiamo quello che volete voi. Okay? >>
<< Mark, sei il mio salvatore... >>
Mark si lasciò cadere sul materasso e scansò i film con le gambe, per farsi spazio. Poi si portò le braccia dietro la fitta zazzera di capelli biondi, facendo intendere ai tre presenti che non si sarebbe più alzato di lì per almeno i prossimi novantotto minuti di intrattenimento. << Eagle, mettilo su. >>
<< Subito, Kruger! >>
Mentre Erik maneggiava col disco e Mary tentava di farsi passare il broncio, la Greenland si concesse il lusso di buttare un occhio su Mark. Sembrava contento, un po' giù, ma contento, e il sorriso che le indirizzò con tanta naturalezza le fece crollare ogni traccia di dubbio, facendola sentire meno in colpa; ottimo, anzi, perfetto. Lui non ce l'aveva con lei, si era trattato del rancore di un momento, tutto qui. La questione bacio poteva essere tranquillamente dimenticata.
<< Fatto! >> Erik fece per accomodarsi, ma Mark lo fermò con una gamba, respingendolo indietro.
<< Preparaci dei pop-corn. >>
<< Ma... Mark! >>
<< Lavora, schiavo. >>
Si scambiarono un'occhiata di finto astio, suscitando le risate potenti di Mary, che considerò quell'obbligo impartito con tanta presunzione come una vendetta per la questione “film”, ancora lasciata in sospeso.
Il castano così fu condannato a soddisfare il bisogno di pop-corn di Mark, e si mise a far scoppiettare ben tre sacchetti, conoscendo le insaziabili esigenze dell'amico.
<< Un giorno denuncerò te, Dylan e Michael, ve lo giuro. >>
<< Seh, come no. >>
<< Vi porterò in tribunale e--
<< E io ti mando contro mio padre. >>
<< Mark, sei un figlio di troia. Devi a me le tue numerose vittorie. >>
<< E a te devo anche la mia peggior sconfitta. Contro il Giappone. Tre a quattro. Te lo ricordi, vero? Che durante il secondo tempo Mac ti ha levato dal campo perché ormai ci lasciavi la pelle? Eh? Te lo ricordi che io non sapevo nulla dei tuoi dolori e che mi hai fatto incazzare da morir--
<< Sì, sì. Blablabla. >>
<< Ancora non ti ho perdonato, quindi se vuoi iniziare  a ingraziarti la mia fiducia, inizia con i pop-corn. >>
Esther li guardava meravigliati, il volto tagliato da un mezzo sorriso di stupore. Adorava come il rapporto tra quei due si fosse ampliato tanto da permettersi tutta quella confidenza, ricordava bene la spaccatura che c'era stata quando Erik gli aveva tenuto nascosto il suo malessere, tradendo la fiducia di Mark.
A Kruger non piacevano le bugie, tutta l'America ne era a conoscenza, e non l'aveva presa affatto bene, allontanandolo persino dalla squadra. Per questo motivo, mai la mora avrebbe pensato in una possibile amicizia tra loro che andasse oltre il calcio.
Eppure quello che si stava svolgendo sotto i suoi occhi ora era un vero e proprio miracolo. Sembravano non esserci più rancori tra i due, chissà come avevano risolto la questione?
Aveva ancora tante domande da fare... tante cose da scoprire.
Erik Eagle per Mark doveva essere stato un faro in mezzo alla nebbia, quando aveva creduto di essere rimasto solo e abbandonato alla sua nuova vita. Avevano condiviso l'accademia come ora condividevano il luogo di lavoro, c'era una bella sintonia, naturale e pulita. Si mostravano per ciò che erano, senza usare pararsi dietro la solita formula “io sono il capitano, tu sei un mio giocatore”.
Bastava guardarli per capire che si volevano un gran bene.
La serata si prospettava davvero emozionante, e ne ebbe la certezza assoluta quando Mark, preso dal film, finì per condividere i pop-corn solo con lei, un gesto semplice che la fece sentire euforica e grata.
La fece sentire a casa. Con lui.



Prima era crollata Mary, che fin da subito si era mostrata riottosa al film, abituata com'era alle grandi saghe tutte uguali e monotone che avevano accompagnato la sua crescita disturbata.
Poi Erik, completamente a caso.
E infine Esther, che si era rannicchiata su un fianco e respirava talmente forte da far venire il nervoso.
Mark si scrutò intorno scocciato. Più che una serata tra amici, sembrava il ritorno dalla messa, letteralmente.
<< Bene. Massive thanks, guys, come al solito. >>
Esther gli rispose con una russata degna del peggior uomo esistente sulla terra, facendogli capire chiaramente che non doveva rompere una seconda volta, o lo avrebbe disintegrato.
Morti. Erano morti, come se non avessero mai provato il piacere di dormire in tutta la loro inutile esistenza.
Leccò gli ultimi residui di sale rimasti nella ciotola e si allungò per prendere il telecomando e spegnere la tv, incastrato da qualche parte vicino al corpo della mora. Non aveva senso guardare il film da solo. Ormai lo aveva visto talmente tante volte da sapere le battute a memoria.
Distese il braccio e, nell'afferrare il telecomando, si perse a fissare il viso pallido dell'amica, accartocciato contro lo schienale del divano in una buffa smorfia di pace eterna. Sapeva che lo avrebbe fatto, sarebbe caduto nella dolce tentazione di guardarla. Fu più forte di lui, una questione di vita o di morte, e la percorse centimetro per centimetro, fotografandole persino i dettagli più stupidi.
Come le ciglia lunghe e ancora rigide a causa del mascara, che si era dimenticata di togliere, forse per colpa del film. Oppure come quel piercing, che adorava alla follia, che le conferiva un aspetto selvaggio, eccitante e libero.
Era meravigliosa. Più di quanto ricordasse. Il volto era per metà nascosto dai boccoli color malva fondente, le spalle piccole la proteggevano dai piccoli brividi di freddo che la notte tende a soffiarti sempre contro, per svegliarti i sensi, ricordarti con dolcezza che sei ancora vivo. Gliela carezzò con fare timido, impacciato, riscaldandole la pelle fredda col grosso palmo della mano. Poi, spinto da un moto di insana curiosità, le spostò una ciocca di capelli dal viso, per poterla guardare meglio. Stamparla e tenersela bene in mente.
Era una donna, adesso, una donna stupenda che aveva trovato il suo posto nella vita, il suo lavoro, la sua città. Non più la ragazzina troppo alta e troppo tettona di dieci anni indietro.
Sognò di baciarla, e quando capì di starsi spingendo troppo in là con la fantasia ritrasse la mano, imbarazzato.
Merda, Mark. Non fare stronzate.
Ritornò sui suoi passi e ne approfittò della posizione per lasciar cadere la ciotola sulla moquette. Quindi, si ritrasse con un sospiro, rilassando i muscoli delle spalle.
Si chiese se fosse il caso di tornare su da Melanie, ma solo ripensare a lei gli fece venire voglia di distruggere tutto. Per cui scivolò in mezzo ai corpi immobili di Mary, Erik ed Esther, e dopo essersi tirato su le coperte, sprofondò con la faccia nel cuscino.
Chiuse gli occhi, e il volto di porcellana dell'amica gli occupò la mente, anche se solo per un breve istante. Il resto fu un'intricato ammasso di ricordi, momenti, voci, stagioni che avevano scandito ogni singolo giorno della sua vita.
Le liti con Dylan, quelle violente dove entrambi volevano avere ragione, e che alla fine terminavano sempre con una spinta amichevole data un po' più forte del dovuto.
Con le risate cretine, con lo sguardo che sa più delle parole e che sa dove scrutare.
E con la vittoria di Keith, purtroppo. Ma quello sempre.
L'accademia con Erik, le scuole medie, il sole caldo, il mare, la voce di Bobby che al cellulare sembrava quella di una donna, e che lo faceva morire dal ridere. O il compleanno di Michael, che era impossibile da ricordare, e che sembrava sempre spostarsi di un giorno.

Dio, solo per questa notte, Mark.
Stai con i tuoi amici, non farli andare via un'altra volta
.





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nda
avevo promesso che avrei pubblicato due volte al mese, ebbene eccoci. Sono ancora dentro Febbraio, yey! Puntuale come Erik Eagle quando sente parlare di Silvia (?) o come Mark Kruger quando ci sono le bistecche.
Puntuale come-- basta. (???)
Questo capitolo piuttosto lunghino è importante, perché viene spiegato il problema di Mark. Mie care, Mark è cornuto.
*grida selvagge*
Prima che possiate però dirne di tutti i colori, specifico qui che non è stata una cosa sofferta. Nel senso, Mark non ha mai sentito lo smacco che lascia il tradimento, ma c'è un motivo. Il motivo è, ve lo dico ora e subito, Esther (as always, my love. ), ma verrà spiegato più in là, in modo più approfondito e dettagliato.
A questo punto vi starete chiedendo, miei prodi cavalieri: perché Melanie lo ha tradito? e sopratutto, perché è lì dal momento che non le interessa rimettere a posto la relazione?
Ma la vera domanda è.
Perché Mark sta facendo tutto questo quando non interessa nemmeno a lui?
Non vi preoccupate perché avrete una risposta a tutto. Intanto rimanete col dubbio. Volevo specificare che Melanie è una mia OC ma è un personaggio secondario, piuttosto piatto e destinato a levarsi dal cazzo perché la storia è, appunto, ma vedi un po' (?), una Masther, non una MarkxMelanie. Per questo motivo non ci saranno focus su di lei.
A nessuno frega niente di lei. Vedrete che quando accadranno certe cose vi dimenticherete della sua esistenza, proprio perché è inutile. Non serve. E' Mark che le da un certo peso, per questo la cosa sarà affrontata solo dal suo punto di vista.
E intanto Esther prova a socializzarci, fallendo miseramente.
Spero di non aver lasciato per la strada troppi errori, raga editare un capitolo mi cava tre ore di vita, abbiate pazienza se ci sono. Controllo mille volte ma c'è sempre qualche cagata fuori posto.

Vado!
Byeee

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Capitolo 10
*** Family ***


Chapter nine.

Family

 

 

Quando era piccola, il padre di Esther le aveva raccontato che durante le ore di sonno, gli occhi di una persona ruotano paurosamente all'indietro, trasformando la parete oculare in un ammasso latteo e candido che dell'iride colorata ne ha fatto soltanto un lontano ricordo.
Gli aveva creduto, naturalmente, e da quel giorno in poi aveva sempre cercato di cogliere il momento esatto in cui le accadeva. Tuttavia, non aveva mai avuto modo di potersi vedere, anche perché inesorabilmente finiva per addormentarsi, sempre.
Così, quella mattina, spinta da un moto di curiosità, provò con Mark, e la piccola Greenland di sette anni gioì dentro quando quella attuale gli scostò la frangia color miele dalla fronte e gli sollevò la palpebra con fare curioso.
Bianca.
Bianca e avviluppata in un'intricata ramificazione di vene bluastre. Trattenne a stento una risata nel vederlo così in balia del sonno, sembrava uno zombie.
Erik e Mary, che stavano apparecchiando la tavola della cucina, si sporsero dalla porta, interessati. Si erano svegliati tutti di buon'ora quel giorno, il tempo di stiracchiarsi e scansare il lenzuolo dalle gambe per realizzare, con stupito piacere, di aver dormito insieme in uno scomodo divano letto. Abbracciati tutta la notte.
Il fatto che più lasciava interdetto i tre quarti del gruppo era stata però la presenza di Mark lì con loro. Era insolito un comportamento del genere da parte di Kruger, che in periodo amoroso normalmente preferiva stare accoccolato con la sua ragazza, trascurando gli amici e tutto il resto dell'universo. Aveva lasciato Melanie di sua spontanea volontà o si era semplicemente addormentato senza poter controllare il sonno?
Quella domanda continuava a trapanare la testa di Esther, che immersa nel dubbio, gli spettinò il sottile sopracciglio biondo. << Fai orrore quando dormi. Lo sai? >>
Sorrise e gli sollevò di nuovo la palpebra.
C'erano solo loro quattro in casa, Melanie era uscita, di nuovo. Ormai erano più le ore che passava fuori che dentro, cominciava seriamente a pensare che i due avessero litigato, e sentiva una tremenda voglia di farsi sciorinare tutti i dettagli. Inutile soffermarsi sulla tremenda occhiata che si erano scambiate, prima che questa sparisse oltre la soglia con la sua folta chioma nera. Esther non aveva colpe se Mark aveva scelto di dormire con loro; se Melanie voleva scatenare scenate di gelosia, che lo facesse con lui, non con lei, insomma che c'entrava?
La voce di Erik le giunse all'orecchio, arrochita dal sonno. << Esther, non giocherei così con lui, se si sveglia infastidito poi non gli passa. >>
<< Non mi fa paura. >> gliela risollevò come una persiana, e quasi non si ribaltò all'indietro quando incrociò le iridi con quella appena aperta, anzi no, spalancata di Mark. Erano di un verde glaciale, come la menta che ti scorre in gola durante un afoso giorno estivo.
Era sveglio. La scrutava scocciato, chiedendole indirettamente spiegazioni del perché lei fosse lì, così vicina a lui, a giocare con il suo... occhio.
<< Buongiorno Mark! >>
Lui le afferrò con dolcezza il polso e si liberò della sua mano. Poi si alzò, si alzò i pantaloni del pigiama e ruotò il capo verso l'odore di cialde calde e sciroppo d'acero che proveniva invitante dalla cucina, dove Erik, scacciata la timidezza, aveva scelto di sua iniziativa di mettere le mani sui fornelli. Lo stomacò brontolò a quella visione; Mary gli fece un saluto con la mano, che ricambiò con un cenno del mento.
<< Terra chiama Maaaark. >>
Tornò a concentrarsi su Esther, socchiudendo gli occhi quando un raggio di sole lo ferì in piena iride.
<< Il cibo ti sta chiamando? Da quando sei così goloso? >>
<< Non sono più abituato a fare questo genere di colazione, di solito sono a posto con un caffè. A New York è tutto così frenetico... mi mancava. >>
<< Come ti capisco. Beh, allora approfittane per mettere su chili, caro Mark. Dylan ci è rimasto male quando ti ha rivisto. >>
<< Dylan deve farsi i cavoli suoi. >>
<< Come siamo scontrosi. >>
<< Sul serio, deve farsi i cavoli suoi! >>
Esther si diresse in cucina e lui la seguì, seguì il suo odore, quello vertiginoso e femminile che per tutta la notte lo aveva coccolato di carezze alla vaniglia. Percepiva uno strano silenzio di pace dentro di se, il cuore più leggero dopo aver dormito in mezzo agli amici di una vita. Accanto a lei.
E detestava ammetterlo, ma aver aperto gli occhi - anzi, l'occhio - ed essersi ritrovato la mora al posto di Melanie era stato come venire investito da una ventata d'aria fresca, pura. Gli era piaciuto, più di spalancare le iridi nel suo letto freddo e vuoto di New York, con la pioggia alla finestra e la debole consapevolezza che la sua ragazza si faceva un altro ad attanagliargli la gola. La sua ragazza, la sua ex, insomma, Mel.
Ancora non sapeva come doveva chiamarla.
Prese posto a tavola, di fronte ad Erik, e mentre decorava le cialde bollenti di padella con una buona dose di sciroppo si convinse che quel giorno sarebbe andato a trovare la sua famiglia. Scrisse una M sulla terza cialda, quella di Marge, sua sorella. Era da un po' che ci stava pensando, e aveva sperato di poterci portare Melanie. Afferrò il coltello, sopprimendo un moto di rabbia. A quanto pareva però era già scappata, come al solito.
Bene, ci sarebbe andato con Esther, allora. E tanti saluti.
<< Oggi usciamo io e te. >>
Le scosse la caviglia con la punta del piede, per catturare la sua attenzione, e quando gli occhi neri di lei lo misero a fuoco, sentì uno strano calore pizzicargli la base del collo e irrigidirgli la mascella.
Li ricordava proprio così i suoi sguardi. Dolci e focosi.
<< Dove mi porti, Mark? >>
<< Dalla mia famiglia. Ti va? >>
Erik batté le mani, intromettendosi nella conversazione. << Bene, anche io devo uscire oggi. >>
<< Melanie ha preso l'altra macchina. >> fece Mark. Già, perché Hanagrace aveva due auto, una che ora era in mano a Melanie e un'altra che presto avrebbe usato lui. E come al solito, non bastavano mai.
<< Non sarà un problema, ho un passaggio. >>
<< Mark, Esther >> Mary aggrottò le sopracciglia blu. << non avrete intenzione di lasciarmi qui da sola, spero. >>
Esther avrebbe voluto tanto invitarla con loro, si trattava pur sempre della sua migliore amica. Ma lo sguardo titubante di Mark lasciava intendere che non avrebbe accettato nessun altro passeggero all'infuori di lei. Anche Erik colse al volo il messaggio, e posò una mano sul palmo della Moore, per rassicurarla.
<< Beh, Mary, io devo andare a trovare Bobby, dobbiamo parlare di alcune cose e oggi ha il giorno libero. Se vuoi facciamo anche un giro per Los Angeles, dopo. >>
Mary non sembrava convinta, per niente.
<< Ci fermiamo in un negozio di vestiti. >>
Niente da fare. << Voglio andare con Esther. >>
<< Ti offro il pranzo. >>
<< No. >>
Allora Eagle tentò l'ultima spiaggia, quella che usava sempre nei casi disperati di asocialità. Non voleva lasciarla sola, apprezzava la sua compagnia, anche se spesso finivano per parlare di niente. E lui aveva un disperato bisogno di sentire vicino la presenza di una donna, in quel particolare momento della sua vita.
<< Beh, comunque c'è anche Dylan. Anzi, ci passa a prendere proprio lui. >>
La blu sorrise deliziata e accettò l'invito, con grande gioia di Erik.
Lo sapeva.
Keith funzionava sempre con le signore che avevano un pessimo gusto in fatto di uomini, e no, non parlava delle numerose ragazze che erano andate a letto con l'amico, affatto.
Dylan faceva paura, quando si trattava di sesso. Ma questo lo sapeva meglio Mark, a lui arrivavano solo il cinquanta percento delle informazioni.
Questioni top secret, diceva sempre Kruger, che da bravo migliore amico qual'era, fedele e onesto, teneva sempre la bocca sigillata. Il solo modo per farlo parlare era ubriacarlo, ma le rare volte in cui Mark era caduto nella sbornia – anzi, l'unica -, non era riuscito ad estrapolargli nemmeno un piccolo, increscioso dettaglio.
Era una vita che Erik non toccava il corpo di una femmina, non ricordava l'ultima volta che si era concesso il lusso di una notte di sesso. O meglio, lo ricordava. Quella, quelle con Suzette. Ma era successo tempo addietro e non gli andava di ripensarci. Così, quando Mary si alzò e trascinò Esther nella stanza, sentì l'impellente bisogno di stringerla a sé. Forte.
Rimase solo sul tavolo, a rimuginare.
Poi, quando i pensieri si fecero più pesanti del piombo, si alzò, si diresse in camera e prese la sua buona dose di antidolorifici.
E anche qualcosa in più, perché era stanco della sua condizione, del suo dolore al cuore, alla mente.
Di Silvia, così lontana da scavargli un buco nello stomaco tutte le volte che gli passava per la mente. Cioè sempre.
La rimosse dalla testa e mandò giù un farmaco solubile, che chiudeva in bellezza la sua routine salutare.
Gli arse la gola come quell'incolmabile distanza.
E fece male.

 

 

<< Non scherza tua madre, eh? >>
Mark fece retromarcia, uscì lentamente dal garage e fermò il suv dinanzi al corpo fremente di Esther, che si specchiò nel nero smagliante dell'auto.
<< No, non scherza proprio. >> disse, e si lasciò sfuggire un fischio d'approvazione.
Era una bella mattinata di dicembre, la brezza fresca scuoteva le fronde verdoline degli alberi, librando in aria mulinelli di foglie dalle venature smeraldo.
Sembrava una primavera come un'altra, e non l'inverno newyorkese che l'aveva costretta a intasare l'armadio di cappotti, calosce e scomode sciarpe di lana. Di neve nemmeno la minima traccia.
Il tepore dei raggi solari le scavò sulle clavicole, chiuse gli occhi e sorrise al nuovo giorno, stringendo la tracolla in pelle sintetica della borsa rosso carminio.
Le pareva di vivere in un sogno, e prima di entrare in macchina incamerò quell'aria tutta nuova, che sapeva di Mark, e della sua voce spontanea e profonda.
Si accomodò accanto a lui e gli lanciò una smorfia a trentadue denti. Ci sarebbe dovuta essere Melanie al posto suo, ma preferì non sentirsi in colpa, almeno per quel giorno.
Adesso c'era lei, e si sarebbe goduta il suo momento da eterna amicona. Di tutto, pur di stargli vicino.
<< A mia madre piace fare le cose in grande, diciamo. >> si giustificò lui, ricambiando il sorriso con una piega divertita del volto. << E tante cazzate. >>
<< Tipo Magic Mike? >>
<< Tipo. >>
<< E poi? >>
<< E poi mettersi con un tedesco. E farci pure due bambini. >>
<< Ah, c'est la vie mon amour. La casa di tua sorella dista quanto? >>
<< Non troppo lontano, mezz'ora... traffico permettendo. >>
<< E... mammina ti lascia guidare il suo impeccabile suv senza fare neanche una storia? >>
Mark uscì dal cancello sul retro e imboccò la strada in una manovra quasi perfetta, poi si infilò in una serie di quartieri familiari dall'aspetto elegante e ordinato. Esther ammirò quelle ville tutte uguali scorrere maestose sotto i suoi occhi sgranati dall'invidia. L'erba era tagliata al centimetro, il marciapiede discontinuo riecheggiava delle risate dei bambini e delle conversazioni accese delle signore. Un postino in bicicletta li superò tenendosi a sinistra, affannato. Sembrava che niente potesse turbare quell'equilibrio perfetto, quello scorcio di civiltà talmente attenta alla cura del dettaglio da far venire la rabbia persino ai cani che vi vivevano. Lei era nata in un appartamento in periferia, costretta a condividere la camera con i suoi due fratelli maschi, un'adolescenza orrenda passata a sbraitare e imprecare contro di loro per la minima cosa. Avrebbe dato per poter oziare in una casa come quelle.
Ricordava ancora i calzini ovunque, lo sporco nascosto con solerzia negli angoli dimenticati della stanza. Quei bastardi... era da tanto che non li sentiva, le mancavano da morire.
<< Si fida di me, sa che non rompo le sue cose. >>
<< Non sei tu il distruttore della famiglia, eh...? >>
Mark rise.
La risata più bella del mondo.
<< No, è mia sorella! >>
<< Rivelazioni. >>
Nel giro di qualche minuto lo sfavillante quartiere di città sparì dalla loro visuale, cedendo il posto all'immensa Los Angeles di cui Mark tesseva le lodi quando New York calava su di lui come un manto nero, soffocandolo nel suo gelo insopportabile. Enormi grattacieli si innalzavano dal suolo, ogni millimetro di strada era occupato da macchine che suonavano, frenavano e partivano a tutta velocità, mosse da un caotico fremito di nervoso. La puzza di benzina, gomma corrosa e terra umida filtrava dai finestrini che l'americano aveva appena abbassato, per arieggiare l'abitacolo. A giudicare dalla faccia che fece, non doveva amare troppo quell'odore. Esther guardò il display che segnava i gradi, e si accorse che erano leggermente aumentati.
<< In città fa sempre più caldo. >> le spiegò Mark, fermandosi davanti a un semaforo rosso. << E' normale. >>
<< Sembra un altro mondo rispetto ai quartieri dove abita tua madre... Mark, cavami una curiosità. Vivi in una villa anche a New York? >>
<< No, all'ultimo piano di un appartamento. >>
<< Com'è? >>
<< Visto da fuori, beh... però ho la fortuna di avere una camera con delle finestre molto grandi, tipo attico. Ho una vista pazzesca di New York, di notte è mozzafiato. Un giorno... >> lo vide esitare, gli occhi verde acqua attraversati da un nervoso lampo di indecisione.
La mora rimase ad attendere in una sua risposta per minuti che le parvero anni.
<< Un giorno ti ci porto. >>
<< Non vedo l'ora. >>
Ed era così, in effetti.
Provò a tenere a freno la mente, ma purtroppo – e per fortuna - la follia ebbe la meglio sul pudore. Si immaginò dentro quella stanza, ad accarezzare i capelli di Mark, al buio. Con le luci della città a riflettersi pallide sui loro corpi baciati dalle ombre, le loro labbra viola per colpa dei morsi affamati.
Sospirò.
Non era più tanto sicura di sapere con certezza quale fosse il paesaggio migliore tra New York e le iridi piene di piacere dell'amico.
Arrossì e si grattò la fronte, imbarazzata.
Sei tremenda, Esther.
Stava facendo un torto a Melanie, con quel genere di presunzioni mentali, ma allo stesso tempo si stava automaticamente regalando un po' di bene.
Tanto, Mark non sarebbe mai stato suo, ne in un senso ne nell'altro. Nessuno le poteva impedire di immaginare quelle cose, dunque.
A distrarla fu la mano del ragazzo, che corse alla radio e fece partire il cd che già vi era dentro.
Sì, un po' di sana musica era quello che ci voleva. L'avrebbe distratta dalla voglia di averlo, e dalla disperazione che quel genere di miracolo non sarebbe mai potuto accadere.
Non fino a quando Mark rimaneva innamorato di Melanie, e viceversa.
Partì una vecchia canzone latina del duemilaquattro, “Ella y yo”, Aventura featuring Don Omar. Kruger scoppiò a ridere, sconvolto dal pessimo gusto musicale della madre che, nonostante l'età, ancora si concedeva alla frenesia del ritmo latino. La musica, trasformata in una sorta di dialogo tra due amici, parlava di come il primo fosse orgoglioso della sua donna, e di come il secondo se la facesse di nascosto. Un tradimento vero e proprio, che al termine della canzone viene rivelato al povero cornuto dall'amico stesso, e che segna la fine di una splendida amicizia. Una cosa che Mark, ragazzo leale e orgoglioso, detestava, e che purtroppo aveva addirittura provato. Cambiò canzone, ma ne partì una quasi peggiore, e ritornò alla radio.
<< Adoro tua madre! >>
<< Damn... ma che roba ascolta quella donna? Sempre più strana. >>
<< Ecco da chi hai preso. Mistero risolto! >>
<< Non conosci mio padre! >>
<< Temo di non volerlo fare dopo questa informazione. >>
<< E' mille volte peggio. Ma mia madre... è proprio dell'Oregon. E si vede, no? >>
Lo disse con finto astio, perché se c'era una persona che amava persino più di se stesso, beh, quella era proprio sua madre. Hanagrace McAlister era passata dall'essere una semplice mamma stressata alla luce dominante di un faro guida immerso nella nebbia.
C'era stata durante il trasloco, quando Mark aveva dovuto dire addio ai suoi amici, a Dylan. C'era stata per aiutarlo a combattere contro una libertà che aveva creduto gli fosse stata tolta.
C'era stata quando suo padre aveva scelto di non esserci più, c'era stata persino quando aveva scelto di lasciare tutto lì e tornare in California.
E questo bastava.

 

 

Hanagrace era stupenda.
Esther la intravide dalla finestra del piano terra, spalancata appositamente per far entrare l'aria fresca dell'inverno. Era voltata di schiena, la lunga treccia color dell'alba le carezzava gentilmente i fianchi avvolti da un grembiule grigio, ma la mora non aveva bisogno di guardarla in viso per sapere che era meravigliosa.
La donna, intenta in quella che sembrava essere la creazione di un dolce, sobbalzò appena nel sentire le ruote del suv, il suo suv, graffiare l'acciottolato dell'ingresso.
Richiamata dallo scricchiolio della ghiaia, voltò il capo verso la finestra, e i grandi occhi color petrolio sorrisero ancor prima delle labbra.
In un minuto fu fuori, aggrappata allo stipite della porta. Era tutta un tremolio, l'emozione scorreva fluente in lei, illuminandola da dentro. << Mark! >> urlò, e quando il figlio uscì dall'auto gli fu subito addosso, travolgendolo in un caldo abbraccio di benvenuto che l'americano, imbarazzato, ricambiò solo quando l'emozione decise di levare le tende, cedendo il posto ad un placido senso di calma.
<< Grace. >> fu l'unica cosa che riuscì a dire, all'apice della gioia. La sollevò da terra e affondò la faccia nell'incavo del suo collo, rosso in viso. Le era mancata, da morire. Era sempre un'emozione poterla ristringere, la distanza gli aveva insegnato a volerle solo più bene.
Finalmente, la mia famiglia.
Esther sorrise nel notare quanto Hanagrace fosse bassa rispetto a Mark, e dire che una volta le era sembrata una donna altissima; forse erano stati i tacchi a conferirle quei cinque centimetri in più, e in una reazione quasi istintiva puntò lo sguardo sui suoi, che riflettevano le luci calde della città.
La donna lasciò andare Mark per concentrarsi su di lei, una presenza che di certo non era affatto sfuggita al suo occhio divertito.
E alla sua memoria.
<< Ma tu sei Esther, la famosa Esther! >>
<< Proprio io cara! In persona. >>
Hanagrace guardò Mark con un largo sorriso stupito, alla ricerca di spiegazioni.
<< Ah! Ehm. Vive qui! >> si affrettò a spiegare l'americano, che nel frattempo si era messo a giocherellare con le chiavi del suv. << Cioè, non qui. A New York. Ci siamo incontrati e... entrambi avevamo in progetto di passare le vacanze di Natale in California, così abbiamo fatto il viaggio insieme. >>
<< Oh, non ci credo! >> gli occhi smeraldini della donna ritornarono a focalizzarsi su Esther, ancora più meravigliati. Poi liberò una risata spontanea dalle labbra rosee di rossetto e la strinse forte, accogliendola automaticamente all'interno della famiglia. La mora le annusò i capelli arancini, che odoravano di argan.
Più tardi le avrebbe chiesto che shampoo usava.
Doveva assoluamente averlo.
Entrarono in casa e la sorella di Mark lo salutò con un sorriso orgoglioso. Era bellissima, tutta suo padre, dai capelli biondo platino alla pelle diafana e lo sguardo rigido che non si faceva decifrare da nessuno.
<< Eccolo! >>
<< Ciao Marge. >>
<< Ti aspettavamo, Mark, ci chiedevamo quando saresti passato. Ragazzi, c'è lo zio! >>
Z-zio?
Esther per poco non s'intossicò con la sua stessa saliva nel sentire la parola zio, e Hanagrace, che aveva notato la sua reazione, ridacchiò tra i denti.
Mark zio? Da quando?
Dalla cucina sbucarono rispettivamente due gemelli, che spinti dall'allegria saltarono addosso a Mark. Un dalmata di dimensioni enormi si aggiunse alla ressa, curioso di sapere chi fosse l'intruso che aveva appena osato varcare la soglia di casa.
Nel giro di mezzo secondo Mark si ritrovò circondato da due tornado urlanti e una bestia bavosa che continuava ad annusargli le chiavi all'interno della tasca, come se farlo avesse potuto aiutarlo ad identificare meglio quella faccia del tutto nuova.
<< Zio, zio! >>
<< E-ehi! >> Kruger scoppiò a ridere e afferrò i due bimbi, ma era evidente la difficoltà nel tenerli buoni; così Esther chiamò a se il cane, per venirgli incontro. Lo accarezzò sulle chiazze nere, si specchiò nei suoi occhi languidi.
<< Bello sei! Un vero bestione. >>
Questo rispose leccandosi il naso, poi girò i tacchi e sparì oltre il corridoio, scivolando sul parquet di mogano con le grosse zampe storte. La sua analisi era terminata.
Mark era uno del gruppo, e a quanto pareva pure lei.
<< Tu devi essere Esther, dico bene? >>
Mentre i bambini trascinavano Mark sul divano e gridavano selvaggi strane frasi in inglese, Marge ne approfittò per venirle incontro e studiarsela da vicino. Esther si lasciò ammirare, esibendo un sorriso sfacciato.
Le piaceva catturare l'attenzione in quel modo, in particolare dai membri della famiglia di Mark.
<< Sono Marge, la sorella di quel tizio. >>
<< Ho un nom...! >> Mark non fece in tempo a rispondere che uno dei due gemelli, quello più audace, gli mise la mano sulla bocca ridacchiando impazzito.
Che cosa adorabile, Kruger zittito dal nipotino.
Una scena che non capitava tutti i giorni.
<< Finalmente ci conosciamo. >>
La mano di Marge le si protrasse davanti, ed Esther la strinse con decisione. Era una bella ragazza, tutto sommato. Un po' magra, dal collo forte. Il genere di donna con cui lo scherzo arrivava al limite molto presto. << E' un piacere per me. >>
Si sedettero sul divano dove i due gemelli avevano disordinato la pila di cuscini e Hanagrace, in un gesto istintivo che non seppe trattenere, abbracciò le spalle di Mark, prima di dargli un enorme bacio sullo zigomo abbronzato. << Grace. Please. >> fece lui, sorridendo come un bambino. Perché forse lo era ancora, in fondo, nonostante i ventitré anni e un lavoro a tempo pieno - troppo pieno - nella città più affollata e caotica degli Stati Uniti d'America. Quanto gli era mancata la sensazione di sentirsi a casa. Potersi rilassare su quel divano per lui equivaleva davvero al paradiso, e poi, c'era Esther. Dio, c'era anche lei al suo fianco. Avrebbe potuto chiedere di meglio?
<< Eddai, amore. Sto facendo la tua torta preferita! >>
<< Nice! >>
<< Proprio così. >> Hanagrace si lasciò cadere al suo fianco, e lui le cinse i fianchi per avvicinarla. << Che si racconta da New York? >> domandò poi, guardandolo come si guarda un campione.
<< Tanto freddo, tanto caos. >>
<< Si pattina sulle strade, Mark? >>
<< Non a quei livelli, ancora. Speriamo non faccia troppa neve! Altrimenti sarà un disastro anche quest'anno. >>
<< Raccontaci altro! >>
Alla richiesta della sorella, Mark però taque e portò lo sguardo su Esther.
Greenland gli sorrise senza capire. Perché la fissava curioso? Si aspettava qualcosa da lei, forse? Oppure le era scivolata troppo la scollatura...?
<< Raccontacelo tu, Esther. >>
<< Mark, io...! >> strinse le mani e arrossì come una scema quando gli occhi chiari di quella famiglia la investirono nelle loro tonalità un po' azzurre, un po' verdi e un po' entrambi i due colori. Cosa c'entrava lei? Se avesse cominciato a parlare poi non l'avrebbe più finita, e di annoiare quelle persone proprio non le andava. Eppure continuavano a fissarla incuriositi, in attesa di sentirla parlare. E no, non era per la scollatura, rimasta perfettamente al suo posto. Grazie a dio.
Così, sotto insistenza di Mark, provò a pensare a un qualche avvenimento carino che l'aveva vista protagonista in quegli ultimi tempi. Quando fu sicura che il suo Black Friday potesse essere argomento di conversazione, però, una comparsa inaspettata le rispedì il fiato in gola.
Perse la voce, rimase muta senza volerlo non appena la sua schiena venne trapassata da uno sguardo che conosceva bene.
Anche troppo.
La lingua le si aggrovigliò contro il palato, e il resto della frase sbiadì come un tratto di matita sotto la pioggia incessante dell'autunno. Provò a dire altro, ma non ci riuscì.
Non voleva voltarsi, vederla.
Non poteva credere che fosse lì anche lei.
Melanie.
<< Mark, amore. Ce ne hai messo per arrivare, eh? >> la sentì dire, e questo bastò a farla diventare livida di vergogna. Mark non le rispose subito, sembrava essere rimasto interdetto. Ci mise un po' per riprendersi dall'iniziale stupore, e quello che sciorinò dalle labbra somigliò più a un sussurro di rabbia che uno di gioia.
Ma non le interessava scoprirlo, adesso.
Adesso voleva solo sparire da quella casa.
Hanagrace batté le mani con aria compiaciuta. << La tua fidanzata ci ha raggiunte questa mattina. Mi ha dato una mano con la torta. >>
<< Mark. >> disse Esther, e tutti si voltarono a guardarla, tranne lui.
Era troppo. La vergogna e l'umiliazione le succhiarono tutta l'aria dei polmoni, seccandole la gola di nervoso.
Melanie, lo aveva fatto apposta. Per farle capire qual'era il suo posto, e che di certo non era a casa di Mark. Aveva ragione, e fu questa consapevolezza la goccia che fece traboccare il vaso. Era di troppo, una persona superflua, una presenza senza senso all'interno di un nucleo familiare già ben compatto.
<< Mi sono appena ricordata che ho delle cose da fare... >>
<< Esther... >>
<< Hanagrace, non ti dispiace se uso la tua macchina per tornare indietro? Mark può tranquillamente tornare con Melanie quando preferisce. >>
Lo vide fare uno scatto con la testa, un disperato cenno di diniego, che Esther tuttavia ignorò chiedendogli semplicemente di poter avere le chiavi.
<< Esther, dai. Non fare così. >>
<< Me le dai? >>
<< Esther. >>
<< Dammele. >>
Dopo un attimo di esitazione l'americano cedette alla richiesta, lo sguardo colmo di rabbia e riluttanza.
Lei lì ora non doveva stare, prima spariva meglio sarebbe stata quella famiglia.
<< Tesoro >> la madre di Mark sembrava dispiaciuta, e fece un passo verso di lei, che al contrario si era già aggrappata alla maniglia della porta. L'aria la stava soffocando, il disagio le teneva il cuore oppresso in una morsa di nervoso che se non spariva ora, avrebbe scaricato contro di loro. Anzi, contro Melanie. Che come al solito trovava sempre un modo per pestarle i piedi e disintegrarle la dignità. << Cara, puoi tranquillamente restare! Non vuoi neanche un pezzo di torta? >>
<< No, devo proprio scappare. Scusate il disturbo. >>
<< Esther... >> era Mark, che si era alzato dal divano. Aveva i capelli scompigliati ed era pallido. Era evidente che nemmeno lui si sarebbe mai aspettato che Melanie fosse lì, a casa di sua madre.
Ma questo alla mora non importava.
<< Resta. Per favore. >>
Chiuse la porta con una potenza tale da costringere alcuni uccellini a cambiare albero, terrorizzati.
Che ci faceva lì, lei? Era un'intrusa!
Diamine, doveva andarsene via subito, o sarebbe collassata. La cosa che più le dava fastidio, era che quella aveva persino ragione. Entrò in macchina, lanciò la borsetta nel sedile passeggero e si sedette dove prima c'era stato Mark, cercando di ignorare quanto fosse caldo lo schienale. Poi mise in moto e fece mente locale per ripercorrere a ritroso tutto il tragitto.
Lo ricordava alla perfezione, la casa di Mark era un chiodo fisso al centro della testa. Lo era sempre stato.
E doveva smetterla di esserlo, una buona volta, maledizione.

 

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nda
Allora.
Sì. My lovely Esther umiliata così, ma non è questo il punto che volevo discutere con voi. In realtà, volevo portare la vostra attenzione sulle poche frasi dette su Erik! Cercate di ricordare cosa è stato accennato su di lui in questo capitolo, perché Eagle sarà il primo problema di cui tratterò -ampiamente- e ne vedremo delle belle, perché con Eagle non possono che essere belle (?) Mi dispiace dover mettere Mark in un cantoncino, finisce sempre così.
Sorry Mark. I luv u.
In ogni caso, riassumiamo: le pillole che Erik assume non sono lì perché è malato (?), cioè sì. Ma servono semplicemente per controllare i danni che gli ha fatto l'incidente. Quindi per sciogliere i muscoli, e blablabla. Ma nulla di grave. Se non le prende per una settimana non muore (?) poi, ho tirato in ballo Suzette, per dirvi che ha avuto una storia piuttosto passionale con lei, ma che è finita.
Ho scritto che vuole stare in compagnia di Mary e, cosa non meno importante, ho nominato Silvia.
Tenete fuori le pillole, mischiate tutto et voilà, Erik prende il protagonismo a Mark, as always (?) SO GRAZIE ERIK--
Erik: è un piacere.
Come vi è sembrato il capitolo?
Dai prossimi iniziano a farsi interessanti le cose, per velocizzare i tempi di pubblicazione ho deciso inoltre di fare un altro cambio; le pubblicazioni al mese saranno tre. Tre perché con due sto andando troppo lenta, e io vorrei skipparla questa parte, e portarvi subito al pezzo finale che è ohmagawd.
Ho detto tutto. Perdonate eventuali errori, perdonate se Mark ve sembra un po' così, gli girano un po' però è sempre il buon vecchio Mark. Quando finirà tutto lo vedrete.

Scappo! Adoro il weekend.
Ciao!

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Capitolo 11
*** Stumbling block ***


 
Chapter ten.

​Stumbling block


Mary aveva provato ad ignorarlo in tutti i modi, sul serio. Si era seduta dietro alle spalle esili di Erik, aveva finto di essere interessata alla pianta posta con cura al centro del tavolo, persino alle conversazioni in puro e rapido inglese di Bobby ed Erik, di cui aveva capito poco e niente. Ma a nulla erano valsi i suoi sforzi.
Gli occhi di Dylan continuavano a fissarsi sempre e solo su di lei. Con un coraggio ed un'ostinazione degni del più temerario dei soldati. O del più orgoglioso dei rubacuori, in questo caso.
Era una cosa che le dava fastidio, ma allo stesso tempo la faceva sentire viva, piena di forza. All'ennesima occhiata di fuoco da parte del giovane americano, si decise a ricambiare. Le loro iridi cozzarono, il color paglia di lui si fuse nel grigio perla di lei, e Mary giurò di trasalire quando lo vide posare il gomito sul tavolo e adagiare con piacevole calma la fronte ampia sul palmo, in un gesto che lasciava intendere molto più del dovuto. I lunghi capelli biondicci gli scivolarono sbadatamente in avanti, ma lui non si mosse di un centimetro per scostarli dalla visuale. Continuava a tenerla d'occhio, a studiarle le clavicole, la crocchia di capelli blu, il profilo del mento.
Quel ragazzo era altamente sexy, sapeva di esserlo e sapeva anche come sfruttare la cosa a suo vantaggio. Si rifece la coda bassa, maneggiando con la chioma chiara solo per darle un po' di dolce spettacolo. Per farla contorcere dall'emozione.
E così avvenne, infatti.
Mary strinse i pugni e inchiodò lo sguardo su Erik, tentò di farsi prendere da altro, ma quando vide che non ci riuscì, chiese la strada per il bagno e si rinchiuse dentro.
Un'azione che non servì a nulla, perché gli occhi di lui le si erano già incisi sulla pelle, un tatuaggio indelebile che l'aveva tarchiata con la potenza di un marchio.
E che aveva appena iniziato a bruciare.
Bobby d'altro canto, ne approfittò del momento tra uomini per cambiare argomento e sporgersi verso Erik. Era da molto che non vedeva l'amico, ma prima di chiedergli delle solite stronzate da manuale, una domanda tra tante gli premeva sulla lingua.
<< Erik. Come va con... >>
Avrebbe voluto dire Silvia, ma gli risparmiò la sofferenza. Sapeva che quei due avevano litigato, ricordava con chiarezza persino il motivo. Lei non aveva voluto lasciare il Giappone quando lui le aveva chiesto di seguirlo in America, e da queste controversie presuntuose si era poi generato un tornado di giorni neri che li aveva allontanati non solo di chilometri, ma anche di sentimenti. Bastava e avanzava come pretesto per accendere in Erik la sua rabbia da ragazzo orgoglioso, lo conosceva bene, ormai sapeva come funzionava quel cervello.
Sviò sull'ultimo, e si concentrò sulla sua salute. << le medicine? >>
<< Le.. le medicine? Bene Bobby, grazie. >>
Ecco, quello era l'importante. I numerosi interventi a cui Erik era stato sottoposto da giovane non avevano affatto migliorato la sua situazione, ma per fortuna Eagle aveva avuto la meglio anche su di loro. I suoi muscoli si fiaccavano raramente, e azioni quali correre, allenarsi e anche solo fare fatica finalmente avevano cessato di rappresentargli un tormento. Per tenere a bada la forma fisica, tuttavia, il medico gli aveva prescritto dei medicinali che ci facessero attenzione.
Inizialmente il castano si era ribellato a quelle pillole maledette, rifiutandosi di prenderle, ma poi si era messo di mezzo Mark, che col suo fare da dittatore era riuscito a costringere l'amico ad accettare la sua condizione.
Bobby aveva apprezzato la sincera premura di Kruger, ma nonostante questo, la sua preoccupazione non era affatto calata. Erik era il suo migliore amico.
Ora che poteva stargli vicino come presenza fisica, si sentiva molto più tranquillo.
Dylan s'intromise nella conversazione, serio. << Erik, se c'è qualcosa che non va ricordati che puoi contare sempre su di noi. E per noi intendo me, Mark e Bobby. >>
Erik aggrottò le fitte sopracciglia castane. << Lo so, Dylan. Perché mi dici questo? >>
<< Per ricordarti che siamo una squadra. Che io, Mark, te e Bobby eravamo, siamo e saremo per sempre una squadra, nel bene e nel male. >>
Eagle sorrise spontaneo a quelle parole, mascherando un profondo senso di gioia. Per quanto facesse fatica ad ammetterlo, era ciò che aveva avuto bisogno di sentirsi dire. L'idea di appartenere ad un gruppo, di essere circondato da persone che gli volevano bene per quello che era, lo faceva stare molto meglio. Lo aiutava a distrarsi dai problemi, dalla sua salute precaria.
Il vuoto che gli aveva lasciato Silvia faceva meno male, quando c'erano le risate di Dylan, la premura di Bobby e la precisione di Mark mischiate insieme al suo umorismo nero. E dio, quanto avrebbe voluto che quel muro di protezione potesse durare per sempre.
<< Comunque >> Bobby lo distrasse dai suoi pensieri, prendendo la parola, ed Erik lo guardò riconoscente; meglio non pensare a quella ragazza. Ce l'avrebbe fatta, bastava solo tenerla alla larga da tutti e cinque i sensi. Prima o poi l'avrebbe dimenticata, non poteva essere così difficile no? Insomma, lei era stata chiara.
Non voleva vivere con lui. Voleva stare con Mark Evans.
Doveva solo farsi andare bene la realtà, accettare la condizione e andare avanti per la sua strada.
<< Parliamo di cose più felici. Ho un annuncio importante da fare, guys. >>
Dylan scattò sulla sedia. Gli “annunci importanti” lo avevano sempre affascinato, specialmente quelli di Bobby, l'unico della squadra che non era mai riuscito a capire fino in fondo. << Annuncio importante? Tell us! >>
<< Eh, manca un componente del team. Non posso dirlo. >>
<< Ma lo diciamo noi dopo a Mark! >>
<< Eh no, scusate. Dobbiamo esserci tutti. >>
<< Facciamogli una video-chiamata. >>
Shearer sollevò gli occhi al cielo dinanzi all'insistenza del biondino. << Ho detto di no. Preferisco averlo davanti, in carne ed ossa. >>
<< C'mon... >>
<< No. >>
<< Mi sono persa qualcosa? >>
La presenza di Mary – che finalmente si era decisa ad uscire dal bagno - riuscì a zittire Dylan prima che uno strangolamento in diretta mettesse fine alla sua vita. Il ragazzo si passò gli occhiali da sole sulla fronte e, bloccati i ciuffi di capelli, riprese a lanciarle sguardi di fuoco. Bobby sorrise tra se e se e lanciò uno sguardo ad Erik.
Si fecero l'occhiolino.
Certe cose non cambiavano mai. Ma forse, forse era meglio così.



<< Esther, sei qui? >>
Nessuna risposta. Mark posò la mano sulla porta di camera sua e la spinse appena, per poter sbirciare dentro.
Esther stava cercando di armeggiare con quella che doveva essere la famosa acqua micellare, o forse un semplice struccante. Si sforzò di leggere l'etichetta, ma attraverso la fessura gli era quasi impossibile. Fece spallucce. Non si intendeva di aggeggi femminili, in quello era più bravo Dylan, doveva concederglielo. << Sei qui, allora. >>
Lei continuò ad ignorarlo, tutta concentrata sui suoi futili prodotti di bellezza. Come se ne avesse avuto chissà quale bisogno; tutto in Esther era semplicemente perfetto, dalle spalle ampie ai capelli che aveva scelto di tenere legati in un'elegante coda alta.
Era davvero carina. Detestava pensarlo, ma non poteva negarsi una simile visione, e i suoi occhi curiosi si mossero dalla chioma ondulata di lei al suo piercing, per poi percorrerle i polsi candidi con trattenuta avidità.
Averla rivista, così grande, così bella, dopo dieci anni di silenzio – per colpa sua – era una cosa che lo faceva sentire piuttosto confuso.
Confuso ed euforico.
E il suo essere così donna e bambina allo stesso tempo, in qualche modo lo stava lentamente facendo scivolare in un possibile scompiglio della vita, dopo anni passati a riordinarla per darle una parvenza di normalità.
Provare dell'affetto per lei, che superasse quello per Mel.
<< Dobbiamo parlare, io e te. Mi fai entrare? >>
Finalmente gli regalò la decenza di uno sguardo. << Certo che puoi entrare. Mica è camera mia, tesoro. >>
<< Naturalmente. >> lo fece, muovendosi cauto sulla moquette.
Rientrare in quelle quattro mura gli pressò il cuore in un disarmante senso di nudità, che inizialmente gli fece storcere le labbra di disappunto. Le pareti fredde e vacue lo guardavano come se non lo sapessero riconoscere, e per lui era lo stesso tipo di sentimento. Un'estraneità che lo lasciò spiazzato.
L'odore dell'intonaco fresco gli fece venire la pelle d'oca. Non poteva credere che c'era stato un momento della sua vita in cui aveva dormito su quel letto, per lui quella stanza era diventata la camera degli ospiti.
E basta.
L'aria rinchiusa al suo interno trascinava con se ricordi talmente belli che non aveva senso nemmeno rammentare. Ritagli di vita che ormai erano volati via per sempre, e che non gli andava di tirare fuori. << Non mi è piaciuto il fatto che tu te ne sia andata così, solo perché ti sei sentita di troppo. >> le disse, posandosi le mani sui fianchi snelli.
<< Non mi sono sentita di troppo. >>
<< … non pensare di potermi pendere in giro o nascondermi le cose, Esther. >>
Esther fece un mezzo sorriso imbarazzato, poi si alzò dal letto e lo raggiunse. Camminava come una leonessa verso la preda, come una che sa benissimo quello che vuole, e quello che fa.
A differenza sua, l'eterno indeciso che pensava di non esserlo più.
Non seppe se prenderla per la vita o rimanere fermo al suo posto, e nel panico irrigidì le spalle. Non voleva sentirsi così nervoso con lei.
Così felice dentro da addirittura desiderare di baciarla, poggiarsi su quella bocca scarlatta e carnosa che sembrava chiamarlo ogni secondo con più voglia del precedente.
<< Mark >> gli poggiò entrambe le mani sul petto, con fare amichevole. Vinto dalla curiosità di averla così vicina, Mark l'annusò con impaccio, si inebriò del suo odore femminile che sapeva di trucco e mistero. Di rossetti passati in fretta e furia sulle labbra, di fiamme che si innalzano nel cielo nero di una notte senza stelle. Era maledettamente buono. Lei, poi, era di una bellezza atroce.
<< Tranquillo. Solo, non mi sembrava il caso di rimanere, dal momento che c'era anche Melanie. >>
<< Capisco. Va bene, te la do buona solo per questa volta. >>
Esther gli mostrò i denti in un ghigno di pace, poi tolse le mani dal petto dell'amico e ritornò ai suoi amati struccanti.
L'americano sentì l'impellente impulso di rivelarle anche che non gli era stata di nessun fastidio, che anzi, avrebbe voluto tenerla vicina per tutta la permanenza da sua madre. Che aveva delle mani bollenti, e che il contatto gli era piaciuto alla follia.
E che il suo aroma era particolarmente buono, ma nell'eventualità di una possibile figuraccia, scelse di rimanere zitto.
<< Facciamo una cosa. Usciamo. >>
Esther si voltò, stralunata. << Uscire? >>
<< Io e te. Come ai vecchi tempi. >>
<< Mark... e se la tua ragazza tenta di nuovo di portarmi via il braccio? >>
<< Lo dico io alla mia ragazza, non ti preoccupare. E' solo l'ennesima uscita tra amici, no? >>
L'ultima frase colpì entrambi con la potenza di una mazza da baseball, e nello stordimento che ne susseguì si lanciarono uno sguardo confuso. Sguardo in cui Mark cercò di convincersi che era così, ed Esther tentò in tutti i modi di non darci troppa importanza.
<< Uhm... >>
<< Perfetto, allora! >>
L'americano uscì dalla stanza, si aggrappò alla maniglia e ridacchiò per scacciare l'imbarazzo. << Non accetto un no. Ti do cinque minuti per cambiarti e due per truccarti. Più trenta secondi per scegliere che tipo di tacchi indossare. >>
<< Così poco?! Non mi basta neanche per... >>
<< Se non ti muovi ti porto in giro in pigiama. Hai la mia parola. >>
<< Mark..! >>
Non le diede neanche il tempo di ribattere che aveva già liberato una risata e richiuso la porta. Esther non perse tempo, non quella volta, lei che di minuti ne sprecava anche troppi. I suoi tentativi di considerare quell'uscita come l'ennesima rimpatriata tra amici che non si vedono da dieci anni crollarono brutalmente quando posò un occhio preoccupato alla valigia, florida di abiti. Era talmente piena di stupidate che sarebbe potuta scoppiare da un momento all'altro. Prese un respiro profondo, si armò di determinazione e, sfilata la cerniera con un urlo da guerriera, iniziò a raspare tra i vestiti più chic ed eleganti che aveva, librandoli in aria come farfalle variopinte. << Questo no... no... bocciato... >> rise, per non piangere. << Oddio, ma che è sta cagata? Dio, sul serio andavo in giro con sta roba? Con che coraggio? >>
Tutto all'improvviso le sembrava brutto, da scartare. Orrido, e si mise le mani tra i capelli, rimpiangendo di non aver avuto sufficienti soldi per comprarsi degli altri vestiti l'ultima volta che era stata a fare shopping.
Ci teneva ad essere impeccabile, e così sarebbe stata.
Alla fine, dopo minuti interi passati a rigirarsi le stoffe tra un paio di mani più nervi che pelle, optò per una gonna rossa a vita alta e una felpa color nebbia che arrivava con grazia fino all'ombelico.
Ci avrebbe abbinato dei tacchi alti, magari un bel paio di Daffodile, o un Highness, tanto per tenersi sul picco della vertiginosità.
Dopo essersi vestita di tutto punto, si accorse che ancora non aveva deciso quale delle due calzature scegliere.
Così, in un moto di rabbia, le afferrò entrambe, uscì dalla porta e scese in sala a grandi falcate. Il parere di un uomo avrebbe potuto aiutarla a scegliere, sicuro. Trovò Mark placidamente seduto sul divano, col cellulare in una mano e il telecomando nell'altra, intento sia a leggere una notifica che a fare zapping tra i canali. Era già pronto, e la stava aspettando da nemmeno lei voleva sapere quanto, inorridita.
<< Aiutami! >>
Lo vide sollevare la testa con uno scatto improvviso, e i suoi occhi dal colore indefinito la travolsero come un'onda, costringendola ad arrossire e mettersi in una posa se non sexy, almeno provocante.
Il peggio, anzi, il meglio arrivò subito dopo, quando percepì un lieve cambiamento di colore negli occhi di lui, perso nell'ammirarle ogni singolo centimetro di pelle. << Stai... >>
Le sue dita smisero di armeggiare col telecomando, lo schermo del cellulare si oscurò, adombrandogli il mento affilato. << Stai... sei... molto bella. Davvero. >>
Durò pochi secondi, il tempo limite che Mark, dopo aver farfugliato quel penoso complimento, impiegò per costringersi a darsi un contegno e ritornare alla sua adorata televisione. Esther lo raggiunse e gli sventolò dinanzi al naso i tacchi.
Lui finse di non vederla, di ignorare tutto, persino quello che provava dentro in quel momento. << What's going on? >>
<< I tacchi, ecco cosa “is going on”. >>
<< Carini. >> li saggiò con velato interesse. Poi sorrise e la guardò come si guardano i bambini. << Che ci devo fare? Uccidere una persona? >>
<< No, spiritoso. Devi aiutarmi a scegliere. >>
<< Non sono bravo in queste cose, Est. Perché non mandi una foto a Mary e le chiedi che ne pensa lei? >>
<< Va bene. >> Esther si sedette per terra e incrociò le braccia al petto. Lui non voleva aiutarla? Bene, voleva dire che non sarebbero usciti da quella casa per almeno le prossime ventiquattro ore di fila. << Immagino tu sia un ragazzo paziente per dire una cosa del genere. Perfetto, mettiti pure comodo, ci vorrà... >>
<< Quelli con la suola rossa. >>
<< Si chiamano Highness. Ignorante. >>
<< Highness. Li trovo molto sexy. C-cioè, volevo dire >> Mark si portò una mano in fronte, dandosi mentalmente del cretino. La verità era che Esther era stupenda, infilata in quella gonna scarlatta che le sfiorava con dolcezza le ginocchia candide.
Era bellissima, seduta lì per terra, in quella che un tempo era stata la sua casa, in attesa del verdetto finale che avrebbe decretato quale delle due paia sarebbe andata a proteggerle il piede. << Oggettivamente, rendono una donna sexy. >> si corresse, mentre lei analizzava le due paia.
<< Dillo Mark, che la mia bellezza ti ha mandato in palla il cervello. >>
Ed era così. Inutile negare che Esther vestita era persino più bella e perfetta di Melanie in intimo, e quel pensiero per lui fu come una ferita all'orgoglio.
Ma non lo ammise ne a lei ne a se stesso; spense la tv, si alzò e, dopo essersi sistemato la felpa nera, si spostò in cucina.
Si fece un bicchiere d'acqua, al fine di lavare via tutto ciò che sentiva dentro, tutta quella perenne e costante confusione che Esther gli aveva risvegliato dal primo momento in cui l'aveva rivista.
In quel marciapiede.
In mezzo a quella gente.
In un giorno come tanti, in cui sarebbe stato più probabile venire investiti che riaverla di nuovo accanto.
<< You ready? >>
<< Yes I am! >>
<< Ok. Allora andiamo. >>
<< Dove mi porti? >>
<< Sorpresa. Intanto, reggimi questo. >> Le lasciò il cellulare in mano per potersi mettere la giacca, e la folata di vento che produsse nel coprirsi gli portò al naso il suo intenso profumo da donna. << Scrivi ad Erik che gli lascio le chiavi sotto il tappeto di casa. >>
<< Erik Erik... >> Esther cercò tra i contatti, ma di Eagle nessuna traccia. << Mmm... guarda che Erik non c'è, non nella E almeno. >>
<< Si chiama... >> Mark passò dalla giacca alle scarpe, e infilò il piede sinistro nelle all stars slabbrate. Si muoveva con una certa fretta, come se non vedesse l'ora di uscire con lei e lasciarsi tutto alle spalle. << Si chiama “my true love”, cerca nella M. >>
<< CHE!? >> la mora della Tripla C scoppiò in una sonora risata, talmente forte da riecheggiare per le pareti della sala. << Quindi tutte le volte che Erik ti chiama o ti scrive un messaggio... ti compare “my true love”? Non ci credo! >>
<< E' stato Dylan, that piece of shit... quando si appropria del mio cellulare mi scombina tutta la rubrica. >>
Esther cliccò sul contatto di Erik e iniziò a scrivergli ciò che le aveva detto Mark. Aveva una bella immagine del profilo, lui e Bobby fotografati con tra le mani due drink alcolici dai colori sgargianti, uno fucsia, l'altro giallo come il grano. Dopo aver inviato il messaggio, riconsegnò il cellulare al suo proprietario, con un sorrisetto divertito dipinto sul viso. << Immaginavo fosse lui l'artefice. Perché non modifichi il nome in “Erik”, allora? >>
Mark sorrise. << E' un modo per avere Dylan vicino quando sono a New York. E' più facile per me sentirlo accanto se ho a portata di mano le sue cazzate. Più lo fa, meno mi manca. >>
<< Fai bene. >>
Esther si rese conto di quanto il legame tra quei due fosse diventato forte, col passare degli anni. Una cosa del genere avrebbe dato fastidio a chiunque, invece Mark la considerava come un modo per tenere viva la presenza di Dylan accanto a sé.
Una consolazione, un appiglio quando la voragine di nostalgia si faceva troppo grande, e le video-chiamate non erano sufficienti a riempirle.
Keith aveva capito che per l'amico nonostante tutto rimaneva un bel gesto, e aveva cominciato ad usarlo come modo per rimanere sempre uniti. Per non far sbiadire niente, al contrario. Per rendere luminosa anche una semplice rubrica del cellulare.
Era stupita da tanta fratellanza. Purtroppo lei non era stata altrettanto fortunata con le amiche, Dell era completamente scomparsa, così come Hellen e Daisy. Le erano rimaste solo Mary e quella pazza di Suzette.
<< … chissà se il tuo vero amore risponderà subito o ti farà aspettare? >>
<< Ad Erik piace farsi cercare, lo confesso. Sicuramente visualizzerà e poi dopo tre ore si deciderà a rispondere. >>
<< Mark! >>
Mark si voltò in direzione delle scale, dove una Melanie vestita di tutto punto si apprestava a scendere con grazia i gradini. Era bellissima, infilata in un tubino dalle sfumature celesti che metteva in risalto la sua carnagione pallida e i suoi lunghi capelli neri.
Si chiese perché fosse abbigliata in maniera tanto elegante, e dove volesse andare di preciso. << Anche tu... devi uscire? >>
<< Certo... >> la ragazza gli venne vicino e, dopo aver scoccato un'occhiata indecente ad Esther, che nel frattempo cercava di azionare il cervello, si aggrappò al suo braccio. Lo baciò sulla guancia, lasciandogli il segno rosso del lucidalabbra. Mark sentì il forte impulso di toglierselo, mentre una strana consapevolezza si faceva strada in lui. << Con te, no? >>
<< Come sarebbe a dire con me? >> la respinse con delicatezza, infastidito. << Io sto già uscendo con Esther. Te l'ho detto anche prima e... Melanie. >> prese un respiro, poi un altro, interno. All'improvviso Mel aveva trovato la voglia di uscire con lui? A cosa doveva tanto interesse? Provò ad affidare tutto alla gelosia, anche se di fatto la ragazza non aveva mai dimostrato segni di possessione nei suoi confronti, nemmeno quando glieli aveva chiesti. Bene, quello era un momento in cui non li voleva. << Non sta sera. >>
<< Mark. >>
Fu Esther a parlare, che si era spostata dalla porta per ritornare in sala. Quando il biondo la guardò, si rese conto con dolore che l'amica si stava già privando dei tacchi. << Melanie ha ragione, sono le vostre vacanze di natale! Esci con lei. Possiamo fare un'altra volta noi. >>
<< Ma... >>
<< Ma niente, sono sicura che ti divertirai! >> Con gli Highness nuovi di serie agganciati alle dita, Esther raggiunse le scale. Poi si voltò e gli fece l'occhiolino, per dimostrargli che non era necessario si preoccupasse per lei. Che era tutto okay, che era giusto così. Anche se stava spudoratamente fingendo allegria. << Scrivi al tuo true love che gli apro io, tieniti tu le chiavi. In caso fai tardi e siamo andati tutti a dormire. >>
<< Glielo scrivo io! >> Melanie strappò il cellulare dalla mano di Mark e iniziò a digitare freneticamente al povero Eagle.
Dopodiché, Esther augurò loro di passare una buona serata e si ritirò in camera, in mezzo al caos di abiti che aveva creato solo qualche attimo prima.
Il silenzio della casa le pressò sulle orecchie, chiassoso come due enormi casse alzate a tutto volume.
<< Maledetta... >>
Mossa dalla rabbia tirò i tacchi per terra, uno alla volta, con una forza brutale.
Aveva speso una buona oretta solo per scegliere i vestiti adatti, l'acconciatura, il trucco e il profumo. Il resto dei minuti li aveva passati a tentare di calmarsi e mostrarsi disinteressata all'appuntamento, come se non significasse niente più che un'uscita in compagnia del migliore amico.
Si chinò a raccogliere gli abiti, stropicciandoli e infilandoli di cattiveria nella valigia.
Sarebbe potuta uscire con Mark. Godersi le luci di quella città che li aveva visti uniti e in sincronia, e che custodiva ancora tutte le loro avventure passate insieme.
Sarebbe potuta uscirci davvero, sì, se non fosse stato per Melanie.
<< Lo fa apposta, lo fa apposta...! >> sbraitò, e si morse le nocche delle mani per tentare di scaricare il nervosismo. << Lo fa apposta per darmi fastidio, perché sa che mi piace! Aaaaargh! La odio! >>
Avrebbe tanto voluto difendere la sua causa, i suoi sentimenti, ma ancora una volta, sapeva di non avere ragione, e questo non fece che aumentare il suo stato di rabbia.
Mark spettava a Melanie di diritto. E lei spettava a lui per il medesimo motivo. Si erano scelti, e stavano insieme, nel vero senso della parola. Non poteva nemmeno essere concepita l'idea di un possibile avvicinamento a Mark, perché non era giusto nei confronti della coppia, e comunque l'amico non glielo avrebbe mai permesso. Conoscendolo, piuttosto che sapere di averla come spasimante, sarebbe sparito di nuovo.
Per altri dieci anni. In Europa, magari.
Perché continuare ad illudersi, dunque? Perché continuare a sentirsi attratta da lui, quando poteva farsi benissimo passare quel semplice abbaglio? Decise che quando sarebbe tornata a New York, avrebbe smesso di frequentarlo.
Forse ci stava dando troppa importanza, doveva semplicemente concentrarsi su altri maschi.
Passò il resto delle ore stesa sul letto, a convincersi di provare cose banali, e che sarebbero diluite nel vuoto più totale una volta terminate quelle due settimane di pausa.
Sì, doveva essere per forza così.
Per forza.




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nda
ma noi sappiamo che non lo è >>
allora, ciao ragazzi! Pubblico oggi il secondo aggiornamento, e a brevissimo il terzo, per levarmi almeno sta parte che cristo, non avete ideaaaaaaa di quanto io stia odiando. Vorrei già essere alla fine, e invece mi tocca rileggermi certe cose che boh.
Anyway, vi sarete accorti che questo capitolo è strettamente legato al precedente, in quanto gli eventi avvengono in parallelo. Da una parte abbiamo Mark ed Esther che vanno a trovare la mammina di Kurger, dall'altra Erik e Mary. Non ho molto da dire, in realtà, ma non siete curiosi di sapere cosa deve annunciare Bobby?
IO SIH. Anche se già lo so, il focus su Bobby - che sarà brevissimo - è davvero gngngng, so kawaiii. E nel prossimo capitolo ne avremo un assaggio! Comunque sì, come dovreste aver intuito, Mary e Dylan sono un continuo lanciarsi di sguardi e sorrisetti ma vedrete. VE. DRE. TE.
Basta così, se notate errori segnalatemelo, altrimenti nada, questi vecchi capitoli cominciano ad avere una certa età (?)
bye!

Lila

​Ps: stumbling block significa "ostacolo", "intoppo"

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Capitolo 12
*** Intimate revelations ***


Chapter eleven.

Intimate revelations

 

Casa Shearer, ore dieci e trentasette del mattino.
Nella sala da pranzo pulita fino all'ultima credenza, i tre amici del membro più magro e alto della Unicorno sedevano al tavolo in mogano, in attesa.
Di cosa, nemmeno loro lo sapevano. Eppure, quando Bobby li aveva chiamati quella mattina, aveva lasciato intendere che dovesse parlar loro di una questione realmente urgente. L'aveva definita “vitale”, “preziosa”.
Inutile dire che aveva insidiato in tutti e tre un' immensa, profonda ansia, che li aveva subito fatti correre alle macchine. Ma tra Keith, Eagle e Kruger, era quest'ultimo a manifestarla con più svogliatezza, in quanto non ne sapeva realmente nulla.
Mark si agguantò le ginocchia avviluppate nei jeans, la mascella contratta dal crescente nervoso che da quando aveva preso posto a tavola aveva controllato ogni suo gesto, persino per prendere un dolcetto. Nella tentazione si spinse in avanti per coglierne un altro, che si portò intero alla bocca. Lo mandò giù senza masticare, e nel dubbio ne afferrò anche un terzo.
Dylan, molto più rilassato di lui, si distese sulla sedia e gli mostrò i denti in quello che voleva somigliare ad un sorriso calmo, ma che suonò più come un ghigno divertito. Sì, gli piaceva vedere il migliore amico nell'intento di placare l'ansia con i pasticcini. Era un qualcosa di adorabile, che capitava raramente. Se avesse potuto scattargli una foto di nascosto e mandarla ad Esther, lo avrebbe fatto subito. << Andiamo Mark, cos'è quella faccia! >>
<< Sono curioso di sapere cosa deve dirci Bobby, non smetto di pensarci. E quando sono curioso, divento ansioso. E quando divento ansioso, divento affamato. >>
Erik, dall'altro capo del tavolo, ridacchiò e scosse con vigore la testa castana. Anche lui non vedeva l'ora di scoprire cosa teneva nascosto l'amico, da quando glielo aveva detto non riusciva a non chiedersi di che si trattasse. Bobby era sempre stato bravo a tenere i segreti e le notizie, ma normalmente a lui gli rivelava tutto, anche la più scomoda delle verità. Evidentemente, se quel giro non lo aveva fatto, era perché la questione lo riguardava in prima persona. << Su Mark, mi fai sentire ancora più malato, shit. >>
<< A me fai venire la tremarella. >>
Si aggiunse Dylan, che nel frattempo si era messo a giocare con i lacci delle Nike consumate.
<< Inoltre >> Mark si alzò dalla sedia per scaricare la tensione che gli si era annidata nelle ginocchia. << Ho lasciato che Esther e Mary si portassero in giro Melanie, oggi. >>
<< EH?! >>
<< Shhhh. >>
<< Mark, sei pazzo?! >>
Sì, era assolutamente la persona più pazza della terra, ma non aveva visto alternativa migliore se non quella di farle uscire un po' insieme. Bobby aveva chiesto un momento tra amici, e Mark non se l'era sentita di lasciarle a casa ad annoiarsi. Per questo motivo aveva proposto ad Esther, Melanie e Mary di uscire tutte insieme a fare un po' di “sano” e “costruttivo” shopping nelle vie più famose di Los Angeles. Prima di tutto, perché c'era solo una macchina, e non era giusto che una la usasse e le altre dovessero per forza rimanere a casa a guardare la tv.
Come secondo, era una buona occasione per socializzare. Sapeva che non correva buon sangue tra Melanie ed Esther – e nemmeno voleva scoprirne i motivi, l'idea lo terrorizzava -, ma forse Mary avrebbe potuto unirle. Se non in termini di amicizia, almeno in termini civili.
Per assicurare una convivenza serena ad entrambe.
Aveva consigliato loro alcuni posti da vedere, aveva dato loro qualche soldo e si era portato Erik a casa di Bobby.
Ora, poteva solo pregare che non tornassero a casa piene di mazzate.
<< Mark >> mormorò Eagle, sospirando lento. << si odiano. >>
<< No, non si odiano, non dire così. Mi fido di... di Esther >> avrebbe voluto dire Melanie, ma no, non si fidava affatto di lei, specialmente dopo il tradimento.
Preferiva riporre le sue speranze nell'amica, convinto che sarebbe andato tutto bene se rimaneva lei a capo dell'escursione per le vie di Los Angeles.
Dylan rise, certo, per non piangere. Conosceva la Greenland, e conosceva anche Melanie, purtroppo. La miscela tra le due non sarebbe mai potuta funzionare, nemmeno ad esorcizzarle. << Quanto hai dato loro? >>
<< Abbastanza per farle divertire. >> Mark aggrottò la fronte e mise su la faccia più preoccupata ed interdetta del pianeta. << S-suppongo. >>
<< Prega che quell' “abbastanza” non venga bruciato per armi e bombe da lanciarsi a vicenda. >>
Il biondo avrebbe voluto aggiungere altro, quando Bobby finalmente si decise ad uscire dal bagno, catturando l'attenzione di tutti e tre i presenti in sala.
Il biondo smise di setacciare la cucina alla ricerca di cibo, Dylan arrestò la sua tortura ai lacci, Erik fermò le mani sotto il tavolo.
Shearer indossava una maglia verde e dei pantaloncini rossi calati fino a metà didietro, tipico del suo stile.
Quando saltò sul tavolo, Keith si lasciò sfuggire un grido terrorizzato. << WOAH! Non sapevo che fossi diventato così agile! >>
<< Ragazzi, good morning. >>
<< Morning. >>
<< Bobby, dicci che succede. >> Mark prese posto e si aggrappò alla sedia, come se avesse il timore di vedersela scappare da un momento all'altro. << L'ansia mi sta corrodendo dentro. >>
<< E' per questo che vi ho convocati a casa mia, ragazzi. >> Bobby si erse in tutto il suo metro e novantacinque, quasi a sfiorare il lampadario con la testa argentea. Faceva una strana impressione vederlo in piedi sopra un tavolo, sembrava tanto il dittatore di un qualche film da quattro soldi. << Come ben sapete, ultimamente l'incremento delle nascite è diminuito di tantissimo. >>
<< No Maria, io esco. >> disse Dylan, ed estrasse un pacchetto ben fornito di sigarette dalla tasca. Fece davvero per alzarsi, ma Bobby lo fermò con un urlo felino.
Keith si risedette, impressionato.
Mio dio, faceva sul serio.
<< Dicevo. L'incremento delle nascite è diminuito di tantissimo negli ultimi tempi. Questo perché gli adulti hanno smesso di >>
<< Fare sesso. >>
<< Di riprodursi tra di loro, e di conseguenza--
<< No sesso, no mocciosi. >>
<< Esatto, bravo Keith. Ma quello che volevo dire era che... >> Bobby prese un respiro, poi un altro. Era chiaro a tutti che non era quello il fulcro del discorso, anzi, che nemmeno si avvicinava a ciò che voleva realmente annunciare, ma nessuno, tanto meno Erik, osò interromperlo.
Faceva sempre così quando era agitato.
Sciorinava le informazioni più assurde.
<< … che se l'America rallentasse, gli americani avrebbero più tempo per fare sesso. Avete idea di quanti bambini potrebbero potenzialmente nascere, se per un giorno gli Stati Uniti si spegnessero? >> Bobby fece un giro di perlustrazione sui volti degli amici, su quello divertito di Dylan, per poi passare su quello severo di Erik e infine posarsi su quello perplesso di Mark, che cercava di collegare tutti i fili. << Nove mesi dopo ci ritroveremmo a dover gestire un sovraffollamento di bambini. >>
<< Intendi dire che dovremmo scopare di più, Bobby? >> provò a chiedere Dylan, che ricevette una gomitata nell'addome da parte di un Kruger che più si sforzava di capire, meno riusciva a comprendere. E lui detestava non trovare appigli logici alle cose.
<< Non interromperlo. Devo concentrarmi. >>
<< Okay. >>
<< Quindi. Se gli americani, oggettivamente, facessero più sesso e pensassero meno al lavoro, il mondo avrebbe risolto il problema della... della... >> Bobby sventolò un pugno in aria, poi lo sollevò al soffitto, colpendo di sproposito il lampadario. << della... >>
<< Della?! >>
<< Della... >>
<< Della?! >>
<< Della fame! >>
<< Ma cosa c'entra. >>
<< Sto cercando di capire... >>
<< Sono sconvolto, Bobby, come al solito dai solo aria alla bocc--
<< Ragazzi, mi sposo. >>
<< COSA!? >>
I tre ospiti scattarono con un balzo di sorpresa, e si levarono dalla sedia come se all'improvviso avesse iniziato a scottar loro le natiche. Poi, un silenzio glaciale calò sulle loro teste con la lentezza di una notte pesante, nuvolosa e carica di pioggia.
Rimasero zitti a guardarsi intorno, occhi colorati che guizzavano da ogni parte della casa.
Che volevano dire tutto, e non volevano dire niente.
E alla fine Erik fece un salto enorme e atterrò a piedi pari sul tavolo, facendolo traballare col suo peso.
<< Bobby... >> non aveva parole per esprimere quanto fosse contento per lui, quanto fosse orgoglioso di lui. Nessuno le aveva, lì dentro.
Per questo, quando la lingua si fece più lardosa di un obeso in bicicletta, gli avvolse le braccia intorno al collo e lo strinse forte. Forte, fortissimo, e Shearer ricambiò la stretta, sospirando felice.
Rimasero così fino a quando le quattro braccia non divennero otto, con quelle di Mark e Dylan.
<< Bobby... >> fu il biondo a parlare, quello che un tempo era stato il loro capitano, e che ora era uno tra di loro. << Le mie congratulazioni più grandi. Sono contentissimo di questa notizia pazzesca. >>
<< Mark... ti ringrazio. Grazie a tutti... >> Bobby si asciugò la fronte imperlata di sudore con mano tremante. Si sentiva euforico fino alle stelle, avrebbe potuto sollevarli uno ad uno senza sentire la benché minima fatica. Ora che il peggio era passato, gli parve di sciogliersi come cioccolata al sole tra le loro braccia forti.
<< Io e Aurelia ci sposiamo il 15 di questo mese. Ho scelto apposta questa data, di modo che potevate essere presenti anche voi al mio grande giorno, Erik e Mark. >>
<< Onorati. >>
Erik sorrise nell'udire ciò, e gonfiò le gote ricoperte di fini lentiggini color caffé. Ancora una volta, le parole gli vennero a mancare per la forte emozione, e si limitò a far brillare le iridi scure.
Quella sì che poteva considerare vera amicizia. Tutte le cose brutte scemarono in vista del prossimo matrimonio di Bobby, e scelse di pensare solo a rendere il giorno del suo migliore amico ancora più spettacolare di quanto già non fosse.
<< E' la donna giusta Bobby? >> chiese Dylan, dandogli una spallata amichevole.
<< E' perfetta. Ma ora scendiamo dal tavolo, che se si spacca non mi sposa più. >>
Risero e si accasciarono sulle sedie, colmi di gioia come se appartenesse ad ognuno di loro.
Perché tra quei quattro era così. Ne bastava uno felice, per rendere felici tutti e tre i restanti.
<< Oh Bobby, allora tra due giorni ti vedremo in abito da sposino. >>
<< Già. Non vedo l'ora ragazzi, non potete capire... lei è così bella... e io sono così felice di poterla avere tutta per me. >>
<< E come faremo con i vestiti? >> domandò Eagle, un po' in panico all'idea di aver portato con sé solo pantaloncini, maniche corte e qualche jeans.
<< Li noleggeremo. >> Mark estrasse il cellulare dalla tasca e cercò il contatto di Esther. Quando la trovò, premette sul suo nome e iniziò a digitare in fretta e furia.
Sentiva di voler condividere quel piccolo momento di felicità anche con lei, non solo per la sorpresa, ma anche per avvertirla che se non aveva con sé vestiti da matrimonio, poteva approfittarne dell'uscita per dare un'occhiata in giro.
Poi lo mise via ed Erik stappò una bottiglia di vino per festeggiare.
Ci affogarono dentro, e Aurelia divenne argomento fulcro della conversazione, con protagonista assoluto del momento il loro adorato Bobby Shearer.



Ciao Est, come va? Spero tutto bene.
Ne approfitto per dirti di cercare qualche abito da matrimonio, perché Bobby si sposa tra due giorni.  Se non vi bastano i soldi non vi preoccupate, poi ci penso io.


<< O mio dio, Bobby si sposaaaaaa! >>
Nel sentire quel grido lanciato con tanta gioia, la gente all'interno del negozio di intimo sentì il bisogno di voltarsi verso Esther, confusa. Mary mise giù un paio di mutandine e spalancò le labbra sottili, mossa da un'improvviso stupore. << Bobby...? >>
<< Bobby, sì! Non ci posso credere, che carino! >>
Esther bloccò lo schermo del cellulare e prese le mani calde dell'amica. Non aveva mai avuto modo di poter conoscere bene Bobby Shearer, le era sempre rimasto come un grosso punto di domanda. Tanto meno sapeva con quale donna sarebbe convolato a nozze.
Ma si sentiva comunque felice per lui, perché Mark ci teneva, e inevitabilmente finiva per tenerci anche lei. << Dobbiamo cercare dei vestiti adatti al matrimonio! Melanie, vieni qui! >>
Melanie, che fino a quel momento era rimasta fuori ad ammirare il traffico caotico di Los Angeles, entrò nel negozio con aria svogliata, incurante della sigaretta accesa che senza volerlo, indispettì la commessa addetta alla cassa. << Che c'è... >>
<< Bobby si sposa! Mark ha detto che dobbiamo cercare dei vestiti adatti al matrimonio, che si terrà tra due giorni. >>
<< Ah. Affascinante. E? >>
<< E quindi >> Esther prese un sospiro interno, chiedendosi di stare calma. Quando aveva saputo che avrebbe dovuto passare un'intera giornata con quella scema di Melanie le era venuto un colpo al cuore. Ma per non deludere le grandi aspettative di Mark aveva scelto di sacrificare il suo buon umore e di portarsi dietro quella pazza, persino in una cosa meravigliosa come lo shopping.
Finora era andato tutto bene, e se tra loro era riuscito a formarsi uno stato di apparente calma, doveva tutto alla presenza di Mary. Ma ancora faceva molta fatica a rivolgerle la parola senza ritrovarsi un muro davanti.
Il che era lecito, Melanie aveva ragione a starle alla larga. Ma Esther non aveva nessuna intenzione di portarle via il fidanzato.
Figurarsi rovinarsi una sana giornata di shopping con la migliore amica, ora che aveva l'occasione di poter comprare qualcosina di bello con i soldi di Mark.  Eppure, per quanti negozi avessero visitato fino ad ora, nessun abito le era finito nella lista desideri di quel giorno.
Decise che avrebbe speso quei dollari per comprarsi un abito adatto al grande giorno di Bobby, e stop.
Ora contava quello, e nient'altro.
<< Consigliaci un bel negozio di abiti eleganti e poco cari, tesoro, scommetto che ne conosci tantissimi! >>
<< Va bene. >>
Melanie si voltò e le due la seguirono in macchina, emozionate.
La botique non era molto distante da dove si trovavano, grazie a dio non dovettero passare molto tempo chiuse insieme in uno spazio asfissiante. Quando scesero, Mary fu la prima ad entrare nel negozio, facendosi largo tra due signore che occupavano l'ingesso con le loro moli antonelliane.
<< Ragazzi, Los Angeles non scherza eh! Non fa solo i fighi, ma anche dei vestiti pazzeschi! >> ne pescò uno da un'appendi-abiti in legno di betulla, e se lo posò addosso. << Come vi sembra? >>
Era bellissimo, rosso e percorso con cura da un nastro bordeaux ricoperto di pallettes argentee. Il genere di abito che faceva impazzire Mary. << Solo trenta dollari. Un affarone. Lo vado a provare, aspettatemi qui. >>
<< D'accordo. >>
Quando l'amica sparì nei camerini, uno strano senso di solitudine avvolse il cuore di Esther. La verità era che rimanere sola con Melanie non la faceva impazzire poi così tanto, come cosa. Non perché avesse paura di lei. Semplicemente, quella la faceva innervosire alla follia. Si comportava da schifo nei suoi confronti, e se c'era una cosa che la mora della Tripla C odiava con tutta se stessa, beh, quello era farsi umiliare senza poter reagire a tono.
Avrebbe tanto voluto divorarle la faccia di insulti, non aveva dimenticato la stretta al polso che solo qualche giorno prima l'aveva vista protagonista. Peccato che ferire Mark era molto più facile di quello che sembrava, e quindi era meglio rimanere a cuccia.
Scelse di sfruttare l'argomento matrimonio come filo di conversazione, sperando che Melanie fosse di buon umore e soprattutto, non avesse intenzione di recarle altri problemi.
<< E tu, Mel? >> la chiamò così, per dimostrarle che le intenzioni erano tutto fuorché malevoli. << Come ti vestirai? Quando si tratta di scegliere che abito indossare, a me viene sempre un panico enorme. >>
E detto ciò si mise a frugare tra i vestiti messi in mostra, cercando qualcosa in grado di rapirla e conquistarla quasi quanto gli occhi di Mark.
Melanie ci mise un po' a rispondere, e alla fine preferì spendere la sua concentrazione su un'altra sigaretta.
Esther però non era una che mollava alla prima, e per aiutarla a sconfiggere la timidezza utilizzò un metodo semplice e amichevole. Afferrò un abito verde menta e glielo posò con dolcezza addosso.
Poi sorrise e annuì soddisfatta.
<< Questo sarebbe perfetto per te. Ti va di provarlo? >>
<< Fa schifo. Ha troppa poca scollatura. >>
<< Non hai bisogno di una scollatura per essere bella. >>
<< La scollatura non mi serve ad essere più bella >> Melanie afferrò l'indumento e lo stropicciò tra le mani. Poi glielo gettò addosso, mostrando i denti.
Esther lo ripiegò con cura ammirevole, incurante del gesto di stizza che le era stato lanciato contro.
Meglio non badarci.
O le avrebbe fatto fare la fine del vestito, con la differenza che poi non si sarebbe presa la briga di ripiegarla.
<< Mi serve per eccitare Mark. >>
<< Caaaapisco. >> lo mormorò senza remore alcuna, ma il senso di fastidio che le si annidò nello stomaco fu difficile da ignorare. Si disse che non doveva darci troppo peso, che Melanie si comportava così con lei solo per gelosia, niente di che. << Non credo che a Mark interessi molto quanto è ampia una scollatura. Lo conosco abbastanza per potertelo assicurare. E poi... >> arrossì un po', in imbarazzo; era davvero una sfacciata a parlare di certe cose. << sicuramente sai eccitarlo in altri modi più “intimi”. Dico bene? >>
<< Sicuramente so eccitarlo meglio di te. >>
<< Senza dubbio. >>
E infatti, di dubbio non ne aveva neanche uno. Melanie era molto più bella di lei, in tutto, a partire dal seno, senza tralasciare la vita snella, o le gambe possenti e allenate che molleggiavano ad ogni passo sicuro, qualsiasi calzatura portasse ai piedi.
Sembrava essere stata modellata dalla perfezione in persona, aveva dei capelli neri e lucenti che non facevano altro che accrescere il suo meraviglioso fisico – naso escluso -.
Non che Esther si sentisse brutta, al contrario, sapeva di essere bella.
Ma se proprio si doveva fare un paragone, Melanie l'avrebbe battuta in partenza altre miliardi di volte. << Sei bellissima, infatti. E fortunata, che puoi mettere tutto quello che vuoi! Mark ha scelto bene. >>
<< Non sai quanto è carino quando gli faccio venire l'orgasmo. >>
Le mani di Esther si fecero molli dinanzi a quella dichiarazione.
La voce capitolò contro la gola, fino a rovinarle affilata nell'intestino. Sentì freddo, nonostante facesse piuttosto caldo, e si passò una mano sulle braccia per distendere i brividi.
A nulla valsero i suoi sforzi di non sentirsi gelosa.
Il dolore che la scosse fu più forte di qualsiasi taglio o ferita. << Beh... ehm... >> la gola le si seccò a contatto con l'aria.
<< Ehmn... >>
<< Sì? >>
<< Avrei preferito non saperlo. >>
Certo, era ovvio che Mark non fosse più vergine. Insomma, non ci voleva un genio per arrivarci, bastava guardarlo. Eppure saperlo in quel modo le suscitò un fastidio enorme, che le fece parecchio male. Avrebbe preferito rimanere nella beata ignoranza di non conoscere nulla di lui, piuttosto che sentirsi dire certe verità in maniera tanto scomoda e...
stronza. L'immagine di un Mark immerso nel piacere sessuale più assoluto le fece venire voglia di uscire da lì e prendere una boccata d'aria.
Sfogò la sua frustrazione nei vestiti, che cominciò a scartare uno ad uno, cieca di rabbia.
Rabbia e dolore.
<< Che c'è, tesoro? >> Melanie sorrise. << Siamo amiche no? L'hai detto tu. Le amiche parlano anche di cose intime. >>
All'improvviso Esther sentì la forte mancanza di Mary, e una folle voglia di rifugiarsi in un suo abbraccio. Sarebbe voluta scappare nei camerini con lei, cazzo perché ci metteva così tanto? << Ehm... sì, infatti... sono felice per voi. >> si limitò a dire, e si mosse per cercare altri abiti.
Tutto le faceva schifo.
Tutto le dava un senso di odio enorme, di gelosia incontrastabile. Il sentimento di rabbia cominciò a consumarle la ragione, come un fuoco che divora strati e strati di inutile carta da giornale.
Avrebbe voluto distruggere l'intero negozio con una mazza da baseball, Mark in preda al piacere folle non andava via dalla sua testa, e detestava sapere che sotto di lui ci fosse Melanie, e non lei.
Si stava facendo orrore da sola nel pensare simili stronzate.
<< Pensavo fosse carino poter soddisfare la tua curiosità. >>
<< Ti assicuro che non mi interessava affatto saperlo, invece. >>
<< E soprattutto, sottolineare quanto è mio, e fino a dove lo è. Comunque >> Melanie la seguì e prese un vestito a casaccio, orrendo, marrone e lungo fino alle caviglie. Poi glielo lanciò addosso e ridacchiò, la sigaretta tenuta con nonchalanche tra le dita. Esther lo strinse tra le mani, immaginando che il tessuto fosse il collo di quella simpatica tipa dal naso acquilino. Se non fosse stato per il rispetto e l'attrazione che nutriva nei confronti di Mark, le sarebbe già saltata addosso. Nessuno, nessuno doveva permettersi di umiliarla in quel modo.
Tanto meno una perfetta sconosciuta come lei.
<< Questo ti starebbe bene. Rappresenta il vuoto che sei. >>
<< Come osi... ti tiro un pugno che... >>
<< Ragazze, io ho scelto! >>
Mary si intromise nella conversazione, mettendosi in mezzo alle due ragazze con un largo sorriso. Esther sapeva che non era stata un'interruzione naturale, quanto un intervento di salvataggio, e accettò di buon grado quell'ancora di salvezza.
<< Voi? Tutto a posto? >>
Incrociò le braccia al petto prosperoso, furiosa. << Tutto ok, sì. >>
<< Capito. Avete scelto il vestito per il matrimonio di Bobby? >>
Melanie fece spallucce oltre la coltre di fumo che liberò dalla bocca. << Non ho bisogno di un vestito, ne ho a migliaia. >>
<< Tu piccola? >> uditò ciò, Mary si voltò verso l'amica, l'espressione corrucciata in attesa di spiegazioni. Doveva aver colto che qualcosa non andava, e come al solito ci aveva preso giusto. Tuttavia, la mora non si lasciò sfuggire neanche un dettaglio. Lanciò uno sguardo oltre la vetrina, sentendosi improvvisamente la persona più stanca del mondo. Sperava di potersi togliere dalla testa quelle informazioni assurde, ma più cercava di sbarazzarsene, più queste insistevano nel voler rimanere a torturarla.
Si arrese all'evidenza, vinta dalla gelosia.
<< No. Qui non c'è niente per me. >>




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nda
AHAHAHAHAHAHAHAHHAHAHAHAHAHAHAHAHA
ciao popolo! Eccomi col terzo aggiornamento del mese, yey. Come vi è parso il capitolo? Vi aspettavate che la sorpresa di Bobby fosse proprio il suo matrimonio? EHEH, personalmente ho adorato scrivere di questo argomento, anche perché per me è sempre stupendo risaltare la forte amicizia che intercorre tra i quattro della Unicorno. Li amo. Tutti. Però Kruger è Kruger  obv ceh
Anyway, forse in pochi di voi conoscono Aurelia, anche perché è un personaggio che appartiene solo all'universo del gioco di IE, ma donut worry, vi spiego subito di chi si tratta e soprattutto, perché la shippo con Bobby. Allora, Aurelia Dingle è una compagna di classe di Mark Evans, somiglia molto a Silvia come design, solo che è più bella -raga per me Silvia è orrenda, poi boh- e c'è scritto che ha anche diversi ammiratori. In ogni caso, non ricordo in quale dei tre giochi -penso il secondo ma non vorrei dire stronzate-, se parlate con lei vi dirà che le piace Bobby. Non lo chiama per nome, dice semplicemente che trova carino l'americano descrivendolo tipo come quello alto e boh, forse abbronzato della Raimon, non ricordo, comunque è Bobby perché Erik è un tappo e non può essere lui. (?)
Erik: ma.
Cioè, io non posso non shippare Bobby con questa, capitemi. Per questo ho preferito togliere Hellen (che, se ricordate, faceva ship con lui nella vecchia Disaster) e mettere Aurelia, che almeno è concreta e semi-canon. Esistono anche diverse fanart su loro due, sono due topini adorabili <3.
Nulla, la seconda parte del capitolo si sposta invece sulla feroce Esther che tenta di addomesticare Melanie, ma fallisce e viene persino a scoprire di cose che era meglio non sapere. Vorrebbe prenderla a pugni, ma purtroppo il pensiero di ferire il suo Krugeruccio glielo impedisce.
Ma vedrete, che prima o poi cederà. Prima o poi. Quando saprà (?) un'altra cosa che volevo dire, e poi giuro che me ne vado, è sulla questione "noleggio abiti"; in America, soprattutto in occasione del prom, siccome i vestiti costano spesso e volentieri li affittano. E' una pratica molto diffusa, in realtà, quindi ho deciso di usarla anche per Mark ed Erik che, venendo da New York e avendo scoperto solo a Los Angeles del matrimonio, si sono portati dietro giusto i loro vestiti quotidiani.
E qualche mutanda (?)
eeee niente, non vi resta che scoprire cosa accadrà in sto benedetto matrimonio, anche perché introdurrò due personaggi che forse vi mancavano -o forse no, ma chissene
-.
Ho finito le cose da dire.
Alla prossima!
Stay positive guissss
Lila 

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Capitolo 13
*** Wedding tie ***


Chapter twelve.

Wedding tie



Esther affondò il viso nell'acqua fredda del lavandino e si sfregò con rabbia le guance paffute, per togliere gli ultimi residui di sapone. Dopodiché se le asciugò in un morbido asciugamano color pesca ed estrasse dalla pochette un tubicino di crema.
Se la spalmò a piccole dosi sulla pelle candida, e quando si guardò allo specchio sentì di volersi prendere a ceffoni dal nervoso.
Detestava doversi svegliare di cattivo umore, specie in una mattina bella e soleggiata come quella. Ad un giorno da un importante matrimonio, in una città che per lei aveva un significato speciale, perché era lì dove aveva conosciuto Mark.
La persona più importante della sua vita. Quella che ora voleva evitare il più possibile.
Da quando Melanie le aveva detto quelle cose, non riusciva proprio a darsi pace. Aveva provato a mandare giù la notizia, a non pensarci. Ne aveva parlato persino con Mary, che le aveva consigliato di concentrarsi su cose più importanti, quali il vestito per il matrimonio, e le scarpe da abbinarci, un dramma ogni volta che si doveva uscire.
Cristo, lei nemmeno lo aveva comprato un abito.
Non ne aveva avuto la forza mentale, tutto le aveva dato un forte senso di schifo ieri.
Sperava solo di sentirsela oggi, altrimenti ne avrebbe usato uno che si era portata dietro e via.
Non voleva farne un caso capitale, perché Mark aveva il diritto di fare l'amore con chi gli pareva. Melanie restava comunque la sua fidanzata, la ragazza con cui condivideva il letto tutte le notti.
Ma sapere quelle cose non era stato proprio carino, anche perché erano state volte al fine di darle fastidio.
E ci erano riuscite, in pieno.
Quando ebbe finito la sua routine al viso, afferrò la pochette e si apprestò ad uscire.
E nell'esatto momento in cui aprì la porta si incrociò con Mark, che al contrario era intento ad aprirla.
Arrossì nel trovarselo a torso nudo, spettinato e assonnato come non mai, e lui sorrise di sorpresa nell'averla davanti a quell'ora del mattino. << Ciao! >> immediatamente si rese conto di essere senza maglia, e incrociò le braccia al petto curvando le spalle. Il solito timidone. << Credevo di essere l'unico sveglio. >>
<< Beh, puoi non crederci più. >>
<< No, infatti. Pensavo fossi una piuttosto pigra. >>
<< Stupito? >> Esther fece uno sforzo immane per non guardare il suo petto ampio, il suo torace e i suoi fianchi snelli che i pantaloni lunghi nascondevano appena. Il colore della sua pelle era bellissimo, quello della sabbia miscelato a quello delle rose appena colte.
Avrebbe dato per poterlo fotografare.
Con uno sforzo immane riuscì a dedicare tutte le sue attenzioni al muro oltre le spalle larghe del biondo, bellissimo, di un bianco stupendo.
<< Come mai sveglia così presto? >> le chiese lui, strizzando di più le braccia sul torace.
<< Non avevo sonno. >>
<< Capito. Ehm, E-Esther... hai fatto in bagno? >>
<< Certo certo... scusa. Accomodati! >>
Esther gli fece posto per passare e scappò in sala, le narici dilatate. Sentiva il cuore battere a mille contro la gola per la piacevole visione appena avuta.
E in un secondo momento l'avrebbe apprezzata molto di più, se non fosse stato per le parole di Melanie.
Basta Est, che ti frega?
Infatti, che le fregava?
Decise che per la colazione avrebbe aspettato il risveglio di Erik. Non le andava di cucinare, e lui era bravissimo a farlo, quindi perché non sfruttarlo? Insomma, fino a quando avrebbe potuto avere a portata di mano il miglior brunch di tutta America - gratis, perlopiù -, meglio approfittarne. Così si accasciò sul divano e iniziò a bazzicare tra i vari canali, lasciando che i raggi del sole che entravano dall'ampia vetrata le riscaldassero la pelle.
Ci fosse stato qualcosa di interessante che fosse in grado di distrarla, almeno. Tutto parlava delle stesse cose, solo che dette in modo diverso.
Però poi Mark scese le scale a passo felpato e le scompigliò i capelli, facendola ridere e imprecare allo stesso tempo. Aveva coperto l'addome con una maglia blu navy, e si era dato una pettinata ai capelli color miele, che gli circondavano con dolcezza il mento severo.
Peccato, si era nascosto nei vestiti.
<< Non fai colazione? >>
<< Aspetto Erik. >>
Il biondo rise. << Hai ragione, usiamo Erik fino a quando c'è. Brava! >> disse, e le si sedette accanto divertito. Poi prese il telecomando e iniziò a giocare con i tasti. << Sì, di mattina non c'è granché... >>
<< Ci sei tu qui con me, e questo mi basta. >>
Mark si voltò a guardarla con un mezzo sorriso, indecifrabile come il colore scuro che scese sui suoi occhi celestini, carico di sensazioni impossibili da comprendere fino in fondo.
Esther arrossì e gli tirò un buffetto sulla guancia per sdrammatizzare. Per evitare di perdersi in mezzo a quelle iridi splendide, dove ogni giorno verde e azzurro facevano a pugni per contendersi il primato di colore dominante. << Era da tanto che volevo vederti! >>
<< Anche per me è la stessa cosa, Est. >>
Esther non voleva sapere altro. Non voleva sentirsi dire che gli era mancata, che era un'amica straordinaria, e che la sua presenza lì lo rendeva felice, perché la friendzone sarebbe stata una cosa più carina da sopportare.
<< Com'è andata ieri con Melanie? >>
Fu felice di cambiare argomento, e colse la palla al balzo per scrollarsi di dosso l'iniziale senso di fastidio.
<< Bene Mark, ci siamo divertite insieme. Si sta sciogliendo, forse è la volta buona che riusciamo a diventare amiche. >>
Gli mentì, naturalmente.
E lui ci credette. O almeno, scelse di farlo.
<< Nice. E... >>
<< No Mark, non mi ha creato nessun problema. Anzi, ho apprezzato la sua compagn--
<< Sì, beh, in realtà volevo sapere un'altra cosa. >>
<< Cosa? >>
Mark mise su il canale della musica, e le note di “Help me Out” si sparpagliarono per tutta la sala. Esther riconobbe la voce del solista dei Maroon 5, e i ricordi la travolsero. Quanto lo aveva amato da ragazzina? Eppure quella traccia non la rammentava nemmeno a sforzarsi.
Ma le piaceva.
Tantissimo, e si perse ad ascoltarne il suono pulito e incalzante, mentre si immaginava a fare shopping con Suzette e Mary.
<< Trovato il vestito? >>
<< Ah..! No. >>
<< What?! >> 
<< Uff, non mi piaceva niente! >>
<< Oggi andiamo insieme, d'accordo? Io devo prendermi una cravatta. Non mi sembra il caso di affittare pure quella. >>
Alla mora l'idea piacque moltissimo, e accettò con un sorriso.
Lui rispose con un'occhiata che aveva del divertito, e lei si perse in quelle sue pozze chiare nascoste appena dalla lunga frangia dorata, come se non riuscisse a fare a meno che precipitare sempre lì. Qualunque cosa facesse.
Lui non provò a distogliere lo sguardo.
Lo tenne, e lei pure.
Si fissarono per attimi che parvero interminabili, specchiandosi l'uno nelle iridi dell'altra.
Erik spezzò la tensione con uno sbadiglio che aveva dell'orribile, e Mark fu grato di quell'intervento all'ultimo secondo.
Tutte le volte che Esther lo fissava, si sentiva in qualche modo suo. E irrimediabilmente finiva per volerla allo stesso modo.
Era una cosa che non sapeva spiegarsi, e che non aveva voglia di approfondire.
<< Morning Erik! >>
<< Ciao ragazzi. >>
Erik prese le sue pillole quotidiane, poi si concentrò su Mark, che lo scrutava oltre il bordo in pelle del divano.
Rise dinanzi a quell'occhiata indagatrice e pretenziosa, rise nel saperlo lì con lui, un altro giorno. Mark si era rivelato una persona importante nella sua vita disastrata, il loro legame andava ben oltre le prese in giro, ed era una cosa che ancora nessuno dei due sapeva spiegarsi. Kruger non ricordava di preciso quando si fossero ritrovati a condividere tutto. Sapeva solo che era successo, e che il freddo rapporto del passato ormai era morto.
<< Che vuoi? >>
<< Io ed Esther abbiamo fame. Provvedi subito. >>
<< Mark, quando vai in ferie te ne approfitti un po' troppo. >>
<< Piccolo difetto di fabbrica. Ti prego, ho comprato lo sciroppo d'acero apposta per metterlo sulle tue fantastiche cialde. >>
<< Non avevi comprato anche le cialde? >>
<< Sì, ma... >> Kruger fece gli occhi da cucciolo. << le tue sono più buone, più grandi, più morbide. >>
Erik bestemmiò, ma non se lo fece ripetere due volte, e subito mise le mani ai fornelli. In compenso, Mark lo aiutò ad apparecchiare, senza far scomodare più di tanto Esther.
Sembravano una piccola famiglia, Erik il figlio sfruttato, lui e l'amica...
i genitori.
Arrossì nel pensare una cosa del genere.
Lasciò che  l'odore delle cialde appena fatte gli svuotasse la mente, almeno per un po'.
Per togliersela di dosso, e sbarazzarsi dei suoi giganteschi occhi neri che ancora gli provocavano reazioni del tutto imprevedibili.



<< Ecco, che ne dici di questo? >>
<< Non mi convince. >>
<< Ti prego, arrenditi... >>
<< Ma fa tutto schifo! >>
<< Ma sono ore che giriamo alla ricerca di un negozio che ti vada bene, Esther! >>
​<< Kruger sta zitto. Che ne sai tu. >>
​<< Hai ragione, sto zitto, che forse è pure meglio. >> Mark incrociò le braccia al petto e si lasciò andare ad un sospiro carico di esasperazione. Era uscito solo una volta a fare shopping con Esther, ma si era dimenticato di quanto fosse impossibile da accontentare, di quanto fosse fottutamente selettiva e tutto il resto. Certo, non che la considerasse una ragazza facile da soddisfare.
Anzi, quel suo particolare non faceva altro che renderla bella ai suoi occhi, che non avevano smesso di seguirla per tutto il giorno.
E che di certo non avrebbero smesso ora.
<< Hai un negozio preferito? Non so... dimmi tu. Forse facciamo prima. >> soggiunse, facendo dondolare la testa verso sinistra.
E dire che ancora gli mancava da comprare la cravatta.
Lei parve pensarci su, ma lui l'anticipò sul nascere di un possibile nome che forse li avrebbe rispediti a casa prima di cena.
<< Che stupido, non ci ho pensato prima... so dove portarti. >>
Certo che lo sapeva, era davvero un cretino. Nel negozio in cui l'aveva accompagnata dieci anni prima, per fare quello che poi aveva definito un tentativo di “amichevole shopping tra due nemici amici”. Lo ricordava come se fosse stato ieri, dannazione.
Non ci aveva più messo piede, ma sapeva come raggiungerlo da quella posizione, e a lei avrebbe sicuramente fatto piacere essere trascinata in un posto che trasudava di così tanti ricordi. << Vieni con me. >>
La prese per mano, gliela strinse, e lei ricambiò con ancora più vigore.
Poi Mark cominciò a trainarla per le strade di Los Angeles, seguendo una pista ben chiara. Incalzato dalla forza che le loro mani intrecciate continuava a trasmettergli, calda come il sangue che gli ribolliva nelle vene.
Finirono in quel negozio, lo stesso di dieci anni prima, ma aggiornato sulle ultime novità del momento che sfilavano nelle vetrine sporche di ditate.
Esther lo riconobbe immediatamente.
I suoi occhi neri si allargarono di sorpresa, e si precipitò dentro come una furia, incapace di trattenere la gioia. Non poteva credere che l'americano l'avesse portata lì, nel negozio in cui erano andati nel loro giorno di conciliazione, dopo aver passato le prime settimane a dirsene di tutti i colori. << Mark! >> si voltò verso di lui, la voce roca. Era come se si fosse appena vista lì con lui, dieci anni prima, a girare in mezzo ai vestiti. Così piccoli e stupidi, eppure così innamorati. O almeno, lei lo era stata, fin da subito. Lui non si era mai capito del tutto. << Io... >>
<< Non ringraziare. Spero che qui troverai l'abito perfetto per te. E spero di trovare anche io la mia cravatta. >>
<< Ti voglio bene... non credevo che... >>
Mark le sorrise e le diede una spintarella amichevole per farla riprendere dall'emozione. << Che ricordassi? Surprise. Forza, va a cercare. Io faccio un giro nel reparto degli uomini. >>
La vide sparire in mezzo a pile di indumenti femminili, e quando riemerse, le sue braccia tenevano a stento quelli che sembravano essere quattro abiti da festa. Scappò nei camerini con un largo sorriso di vittoria, segno che Mark poteva levare le tende e dedicarsi alla sua missione in santa pace, almeno per le prossime ventiquattro ore.
La cravatta.
Era uscito per quello, del resto.
Si spostò dunque nel reparto per gli uomini, e trovata una serie di cravatte iniziò ad osservarle come si osserva un serpente in una teca di vetro.
Non sapeva davvero che colore scegliere, ce ne erano di tantissime.
Con aria scocciata si fissò a scrutare le rifiniture di una a pois fucsia acceso.
Era per evitare quel genere di situazioni che spesso e volentieri, quando si trattava di shopping, si portava dietro Dylan: lui aveva la moda nel sangue, qualsiasi cosa metteva diventava automaticamente iconica. Non c'era niente che non gli donasse.
Poteva anche andare in giro con i pantaloni leopardati, e nessuno, ripeto, nessuno avrebbe osato giudicarlo.
Erano i vestiti a sceglierlo, non lui a scegliere loro.
Ecco perché in quei casi di indecisione estrema si faceva aiutare spesso da lui, ma ora che era solo... si portò le mani tra i capelli, la bocca piegata di lato. << Mmm. >> e dopo quel timido verso di disapprovazione, passarono quelli che gli parvero dieci, incessanti minuti di vuoto cosmico.
E adesso? Quale tra quel muro di cravatte colorate sarebbe diventata la sua? Decise che se lui non era in grado di scegliere, allora il caso avrebbe fatto il lavoro sporco. Così chiuse gli occhi e fece la conta, e quando li riaprì, si ritrovò il dito timidamente puntato contro una bordeaux.
Non male come colore, e la sfilò per poterla provare. Cercò uno specchio e prima che potesse anche solo allacciarsela intorno al collo, Esther gli comparve da dietro con una busta a penzoloni nella mano sinistra. Sembrava soddisfatta, evidentemente nei camerini era andato tutto perfettamente liscio. Come aveva sperato.
<< Io ho fatto, carissimo! >> esordì, salutandolo dallo specchio.
Mark strinse la cravatta tra le mani, e fu come se un lampo di genio gli avesse appena attraversato il cervello da polo a polo. Poteva chiedere a lei.
Sì, magari Esther sapeva come aiutarlo, anche se erano cose da uomini. << Ho un problema... >>
<< Dimmi! >>
<< Io... che... che ne pensi di questo colore? >>
<< Hai chiesto alla persona giusta, carino! >> l'amica gli si avvicinò con fare circospetto, poi gli strappò dolcemente di mano la cravatta. La osservò da vera intenditrice, quindi guardò lui, poi di nuovo lei.
Infine gliela mise accanto, e lo fissò di nuovo.
Mark si sentì nudo davanti a quella valutazione muta, ma non disse niente mentre la ragazza lo passava in rassegna come una poliziotta esperta.
<< No. >> fu il suo unico commento, prima di lanciare la cravatta su una catasta di polo accuratamente ripiegate. << Fa schifo. >>
<< Come scusa..? >>
<< Insomma, Mark, sei biondo, dove vai col rosso?! >>
<< Ma... a Dylan sta bene il rosso! >>
<< Ma Dylan non è mica del tuo stesso biondo, genio! >>
Mark sospirò esasperato mentre lei andava a cercargli una cravatta appropriata e riponeva quella bordeaux.
<< Mark. >>
Lo raggiunse poco dopo, tenendo tra le mani l'indumento che, ironicamente, gli avrebbe cambiato la vita per sempre.
<< Hai mai provato... una della tonalità dei tuoi occhi? >>
Cazzo, non ci aveva mai pensato, in effetti. Si era sempre immaginato ad indossare i colori degli altri, senza mai soffermarsi su uno che lo rappresentasse nel migliore dei modi, ma questo da sempre, per ogni singola cosa.
Aveva passato l'adolescenza a lasciare che il padre decidesse per lui, persino sulle sue amicizie; non c'era da stupirsi se ora non era in grado di decidere quale fottuto colore potesse abbinarsi a quello dorato dei suoi capelli, o quello roseo della sua pelle. Non gli interessava, ecco tutto.
L'importante era che niente andasse a turbare il suo perfetto equilibrio delle cose, un equilibrio ottenuto con la lotta, il sacrificio e il sudore. Un equilibrio in cui lui stava con Melanie, Melanie con lui ed Esther era solo un'amica ritrovata per caso.
E non la minaccia più grande di quel suo ordine mentale, che ora lo faceva sentire disarmato e confuso.
La mora gli si avvicinò a grandi passi e gli avvolse intorno al collo la nuova cravatta, con una precisione da fare paura. Mark si chiese se non avesse già avuto esperienza precedente con qualche uomo; sembrava farlo da una vita.
<< Ecco qui, color acquamarina. E' perfetta. >>
Cominciò ad assestargliela, e gliela strinse delicatamente contro la gola, affascinata da quanto gli stesse divina. Il biondo era appena diventato un tutt'uno con la cravatta; qualunque tonalità avessero scelto di indossare i suoi occhi per quel grande giorno, nessuna di queste sarebbe andata a stonare col colore dell'indumento.
Quanto era brava da uno a infinito? Doveva ammetterlo a se stessa, in quel genere di cose era un asso, altro che matematica.
<< Se lo dici tu, grande capo, allora sicuramente deve essere così. >>
<< Ovvio che è così. Sei... sei perfetto, Mark. >>
Gli tirò una pacca sul collo, che poi scemò in quello che le parve essere una sfuggevole carezza d'affetto. Dedicata a lui, alla sua bellezza, alla sua gentilezza, e ai suoi meravigliosi occhi che in quel momento la guardavano febbrili, in attesa di un qualcosa che sarebbe potuto succedere, sì.
Se solo lei si fosse sollevata sulle punte e avesse trovato la forza necessaria per portargli via un bacio.
Mio dio, le rallentò il cuore di mille battiti al solo pensiero.
Gli sfiorò la pelle calda che gli copriva con premura la grossa giugulare, ascoltò il suo battito cardiaco fino a quando non divenne un tutt'uno col suo, così forte, così eccitato, così potente da scuoterla fino all'ultimo nervo.
Il sangue le affluì alle gote, al cuore, al cervello, a tutto, e all'improvviso ogni cosa intorno a loro scomparve.
Perse importanza.
Esistevano solo lei e Mark. Mark e il suo profumo da uomo, il suo volto giovane e concentrato come quello di un ragazzo che vuole capire.
Vuole sapere perché.
Perché loro due, perché così, in quel negozio che avevano visitato da amici, e che adesso li aveva di nuovo accolti, ma in una chiave che nessuno dei due era in grado definire.
Erano così vicini da potersi mischiare in un solo essere, se solo avessero potuto.
Fece scivolare la punta dell'indice contro la sua gola sporgente e affilata, trattenendo un sussulto di sorpresa.
La percepì muoversi appena sotto il suo dito, e aumentò di un po' la pressione. Avrebbe voluto afferrargli il collo e portarsi tutto il suo viso perplesso alle labbra.
Mangiarselo fino all'ultima ciocca ambrata di capelli, da quanto lo voleva, e quanto fosse diventata scema di lui, di nuovo.
Ma lui non era suo, era di Melanie.
E bastò questo per spegnerla come una luce rimasta accesa per sbaglio. Ritirò la mano con uno scatto improvviso e la andò a nascondere tra le onde profumate che le proteggevano con candore le spalle.
Non avrebbe mai dovuto toccarlo così. Non sapeva se chiedergli scusa o se tirarsi uno schiaffo e scappare via - col vestito, ovviamente -.
Mark non disse nulla per un po', si limitò a guardarla, e lei si lasciò ammirare, imbarazzata. << Scusa, Mark. >> riuscì a dire dopo qualche minuto di silenzio, attingendo a un po' di quel poco coraggio che le era rimasto nelle vene.
Prima che il calore della pelle di lui non glielo avesse risucchiato quasi del tutto, lasciandola inerme dinanzi ai suoi sentimenti. << Hai un bellissimo collo e... >>
<< Non ti scusare... >> Mark si tolse la cravatta con un gesto nervoso, infastidito. << Andiamo a pagare e usciamo di qui. >>
<< Mark, scusami, io... >>
<< Non farlo mai più, Esther. >>
<< Come prego? >> Esther sollevò le fini sopracciglia, irritata e stupita al contempo. Non avevano senso le parole dell'amico, perché un cinquanta percento della colpa gli spettava comunque di diritto.
Fino a prova contraria, Mark nemmeno aveva osato fermarla.
Si era lasciato accarezzare, si era lasciato andare al moto delle sue mani, delle sue pressioni sulla gola.
Le aveva permesso di sfiorarlo come più desiderava, e l'aveva osservata in un modo che non aveva mai svelato prima, ponendole questioni di cui già sapeva la risposta.
Pagarono e uscirono.

E Mark non le rivolse la parola per il resto della giornata, offeso.




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nda
Ehilà yunikooon!
Ho apportato una piccola modifica ai capitoli, li ho messi tutti ben allineati alla pagina! E' stato un lavorone, visto che l'editing fa davvero tirare giù le madonne, però dopo tante bestemmie ce l'ho fatta. Così sono molto più ordinati.
Come andiamo?
Io benissimo.  Sto per finire una long su Gianluca Zanardi, e sono contenta a bestia perché non credevo che sarei mai tornata ad usare il mio italianozzo bellozzo. 
Mark è sempre il nostro Mark, eh. Timido, impacciato,  permaloso, che ha un fisico pazzesco (non sto inventando guardate le immaginiiii) ma si vergogna di mostrare le tettozze - quando invece dovrebbe - e perciò va in iperventilazione davanti ad Esther, che lo guarda subito tipo "mo te stubro bro".
Sì.
Sono proprio loro. (?)
Che altro dire? Per poco e la cravatta non ce li faceva finire in un bacio, a sti due.
Ma poi vedrete. Vedrete come Erik prenderà il protagonismo e vi farà dimenticare dell'esistenza di Mark, quella zoccola nana--
Ah, SPOILER: Mark è innamorato di Esther. :D
Se non si fosse capito, è scemo di lei, solo che non è sveglio come Dylan e quindi fa un po' l'idiota. Se avete letto Disaster Movie, sapete già come è fatto il mio Kruger.
Scoppio ritardato, as alwaysss. Ma non è che sono io a volerlo così. Lui è COSI'. Si vede. Ha la faccia da bambolone. Da bambolone e bombolone, sorry ma Keith c'ha più l'aria da furetto.
Mark, ti amiamo lo stesso donut worry.

Alloura, annuncio bomba: questo mese quattro aggiornamenti.
Raga voglio finire questa long.
Perché poi si nota troppo il distacco di stile e non ho voglia di portarmela per mille anni. Spero che riusciate a seguirmi! Vi regalo un biscotto se mi lasciate una recensione, eee nulla, ci sentiamo presto allora babiees. 



PS: ricordatevi delle cagate che ha detto Melanie nello scorso capitolo.
PS2: ricordatevi di Dylan. DYLAN, ragazzi. E' importante.

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Capitolo 14
*** Erik's weakness ***


Chapter thirteen.

Erik's weakness



 
E così, anche il quindici dicembre finalmente sbarcò nella tiepida Los Angeles, presentandosi al bel capoluogo della California in tutto sfarzo pre-natalizio.
Era come se avesse saputo in anticipo del grande matrimonio che stava per tenersi, e per favorire alla felicità degli sposi aveva deciso di accendere il sole alto nel cielo e azionare un piacevole vento primaverile.
Si stava da dio, l'aria era impregnata dell'odore della vita stessa, e sollevò appena i capelli appena lisciati di Esther quando la ragazza uscì di casa seguita da Mary e una suadente scia di hypnotic poison appena spruzzato. Si spostò sul viale che si apriva dinanzi alla villa e incrociò le braccia al petto, dalle quali penzolava una borsetta color cioccolata dai bordi rifiniti di un tenue rosa in tinta con l'abito. << Abbiamo finito! >> urlò, ma solo Melanie parve accorgersene, e le tirò una ventata di fumo bianco in risposta.
Mark ed Erik erano troppo presi a capire dove si trovasse la chiesa per prestar loro attenzione, chini sul cellulare di quest'ultimo; Bobby come al solito aveva optato per un posto che usciva non solo dalla città, ma anche dal concetto stesso di civiltà. Tipico del suo stile, come sempre.
L'ignoto lo affascinava talmente tanto da riversarsi in massa persino nella scelta dei luoghi. E non che fosse una cosa brutta, assolutamente.
Fin quando non dovevi trovarlo, il luogo.
Quando la confusione divenne insostenibile, il castano fece scivolare il cellulare tra le mani dell'amico, sollevando bandiera bianca. << Mi arrendo, io non so fare con 'ste cose. Tu però hai un senso dell'orientamento eccezionale, Mark. >>
<< Sì, a Los Angeles sì, fuori no. >>
<< Usare un gps, piuttosto che google maps? >> propose Mary, che si era seduta sul pianerottolo a massaggiarsi le gambe snelle.
<< Averlo, il gps. >> Nel risponderle, Mark sollevò il capo dallo schermo, e inevitabilmente finì per posare gli occhi su Esther. Non avrebbe dovuto farlo. Ma fu comunque più forte di lui, la curiosità di vederla in abito da festa vinse su tutto, persino sull'imbarazzo che da ieri non gli aveva lasciato un attimo di tregua.
Era bellissima, così tanto che si ritrovò a respirare appena per la tensione. Indossava un abito lungo fino a metà coscia, rosa carne, arricciato ai bordi e che dietro si allargava a raggiungerle con grazia i polpacci infilati in un paio di calze trasparenti.
Le spalline basse le abbracciavano dolcemente i deltoidi in una morsa che aveva del proibito, del sensuale, e che si ritrovò ad adorare.
Lo spettacolo terminava su un paio di meravigliosi tacchi alti, neri come l'ombretto che le sfumava delicatamente le palpebre pallide.
Tutto in lei aveva una classe pazzesca, da ammirare a luci soffuse.
Fu dura riprendersi da tanto incanto, e a lei non sfuggì affatto il suo sguardo più interessato del dovuto. Quando Mark si rese conto di essere stato colto in flagrante ritornò alla mappa.
Esther sorrise dentro e scosse il capo, facendo tintinnare gli orecchini a goccia che le pendevano eleganti dalle orecchie. Sapeva di aver fatto colpo su di lui, e non solo.
Era contenta che nonostante l'accaduto di ieri il ragazzo avesse scelto di indossare quella cravatta.
Gli stava d'incanto, così come la giacca nera che portava aperta sul panciotto color cenere, e i pantaloni che sorvolavano appena le scarpe tirate a lucido per l'occasione.
Esther era abituata a vederlo con le camicie a quadri, i jeans, le allstars allacciate per caso.
Poterlo ammirare in un completo tanto elegante fu un privilegio assoluto, e si gustò la visuale mentre lui se ne stava tutto concentrato sulla localizzazione della chiesa.
<< Found it! >> esclamò all'improvviso, e aprì lo sportello della macchina per posare il cellulare sul cruscotto. Esther si rese conto con piacevole imbarazzo che Mark, piegandosi, le aveva appena dato mostra di avere un didietro niente male.
Però, e sto ragazzo da quando è così dotato?
<< Allora, a questo punto direi che faccio prima a fare strada io. Erik >>
<< Sì? >>
<< Tu porta Esther >> la guardò, e lei finse di ritornare alle unghie smaltate di rosso, finse che il culo perfetto di Mark non lo aveva neanche minimamente spiato, ma proprio zero. << e Mary, okay? >>
<< Certo! >>
Così Erik, da vero gentleman a stelle e strisce quale si era dimostrato più volte di essere, aprì lo sportello anteriore alle due signore di New York, inchinandosi addirittura quando queste entrarono nella vettura. Inutile dire che Esther sarebbe voluta andare con Mark, ma era giusto che lui raggiungesse la destinazione assieme alla fidanzata, come tutte le coppie sono autorizzate a fare. Inoltre, l'amico non le rivolgeva la parola da ieri, e conoscendolo, non l'avrebbe fatta salire in ogni caso.
Forse sarebbe dovuta andare a chiedergli scusa, ma in un giorno come quello lo aveva ritenuto sconveniente e inappropriato; non c'era tempo per pensarci, ora tutte le attenzioni dei presenti erano dedicate solo al matrimonio di Bobby - e alla misteriosa quanto introvabile chiesa -.
Si sistemò sul sedile e lo guardò dal finestrino, in apprensione.
Non sai quanto è carino quando gli faccio venire l'orgasmo.”
Le parole pronunciate da Melanie due giorni prima le intirizzirono la pelle, e si strinse addosso all'amica per placare il forte senso di gelosia che riuscì di nuovo a farla agitare. Ancora non aveva smesso di pensarci, maledizione, e detestava come il ricordo spiacevole di quella conversazione continuasse a venire a galla più facilmente del previsto.
Sperò con tutto il cuore che il matrimonio potesse aiutarla a spegnere quel fastidio senza senso, magari distraendola.
Altrimenti il nervoso sarebbe diventato talmente sordo da farla scendere dall'auto, prendere Melanie per i capelli e buttarla giù dall' Empire State Building.
 
 
 
 
La chiesa si trovava in mezzo ad un piccolo boschetto di campagna accessibile solo passando per una stretta via sterrata, ma grazie a Mark e a google maps fu facile trovarla senza dover rischiare di sforare le gomme, perché il cellulare gli mostrò una via sì più lunga, ma molto più agevole.
Fu il primo a frenare sull'asfalto, Erik subito dopo, e non appena Dylan li vide venne loro incontro con un largo sorriso di benvenuto.
Era vestito in un completo bianco, il papillon rosa fioriva al centro del colletto ben inamidato.
La camicia, al contrario, era nera come una notte senza stelle.
Come al solito, a Keith piaceva fare l'alternativo della situazione, e ci era riuscito anche in quell'occasione. Accolse i due amici con un'energica pacca sulla schiena, e le signore con un baciamano, soffermandosi più a lungo su quella calda e morbida di Mary.
La ragazza si sciolse sotto il suo sguardo lascivo, e quando lui ritornò a concentrarsi su Mark lasciò andare un sospiro euforico. << La giornata inizia bene. Anzi, alla grande. >>
<< Fortunata. >> le rispose Esther, che si era persa a fissare la chiesa. Era molto semplice, quasi spoglia, se non per l'immenso rosone colorato che stava al centro della facciata. Sospirò e si tirò indietro una ciocca morata di capelli. Era da una vita che non entrava lì dentro, a malapena ricordava l'andamento di una messa, figurarsi poi le preghiere. Fin da piccola andarci l'aveva sempre trovato come una cosa noiosa, da fare solo perché gli adulti glielo imponevano.
Ma ora era contenta di essere lì, per Bobby e la sua novella sposa.
Pazienza se non ricordava le preghiere, avrebbe recitato in playback nel caso la situazione si fosse rivelata molto più critica del previsto. << Io sto ancora a pensare alle parole di Melanie. >>
<< Est, lascia stare, non distruggerti così. Cerca di mettere un punto fermo alla cosa, almeno per oggi. >>
<< Ci sto provando, credimi, ma la tentazione di sapere se è davvero così o meno è forte. >>
E forse, rifletté, aggrottando le fini sopracciglia arcuate. Forse, ho anche un modo per scoprirlo.
Tra i maschi invece, la conversazione era molto più concitata. Il loro amico di una vita si stava per sposare, ed erano più in ansia di una donna prossima al parto, come stava dimostrando Mark in quel momento, che aveva preso a sbottonare e riabbottonare i bottoni in seta del panciotto.
O Erik, che non la finiva di passarsi una mano sulla frangia tirata indietro da quintali di brillantina.
<< Ho un'ansia ragazzi... >> mormorò Kruger, lasciandosi cadere contro lo sportello del suv della madre. << Ve lo giuro, io svengo al bacio. Anzi, allo scambio delle fedi. >>
<< Anche io comincio a sentire i deliri interni di Bobby come se fossero miei, Mark. >> Dylan rise nel vedere i due amici reagire così ad un semplice matrimonio, ma era inutile nasconderlo a se stesso, che forse quello più in ansia tra i tre ansiosi era davvero lui.
<< Come si svolgerà il programma? >> domandò Mark, già curioso.
Keith si offrì di spiegargli, che aveva saputo tutto per primo. << Matrimonio, poi li seguiamo al ristorante, preparatevi che sarà lunga. >>
<< E la luna di miele? >>
<< Caraibi. >>
<< Ohoh! Cuba? >>
<< Yeah. Comunque, e parlo anche a voi ragazze. >>
Esther e Mary smisero di discutere sui sandali osceni di una tipa e rivolsero i loro occhi stellati a Dylan, quasi irritate per quell'intrusione non prevista. << Ci sono due ospiti speciali >>
Alla parola “speciali” la loro espressione scocciata si tramutò in un cipiglio curioso, suscitando le risate di Mark.
<< ...e potrebbe farvi piacere sapere di chi si tratta. >>
Il quartetto così seguì Keith in mezzo a macchine e persone dai volti sconosciuti, ma che sicuramente erano molto care a Bobby e alla sua sposa, in quel momento a prepararsi in segreto per la grande cerimonia.
Il sole alto nel cielo picchiava i suoi raggi contro l'asfalto nero, e l'aria tiepida riscaldava le chiacchierate che aleggiavano tutt'intorno alla chiesa.
Era una bellissima atmosfera, e a renderla ancora più bella fu l'improvvisa comparsa di Suzette, a braccetto con Edgar Partinus.
Quando videro l'amica, Esther e Mary scoppiarono in un urlo di gioia e la circondarono, staccandola dall'accompagnatore per poterla inondare di baci.
Fu bellissimo, la Hartland ricambiò con un grande abbraccio affettuoso e tutti gli occhi dei presenti si posarono su quel trio di amiche che si era ritrovato nuovamente a braccetto.
Esther non poteva credere di averla davanti, le sembrava di sognare. Le era mancata talmente tanto che rimase muta a fissarla, a guardare le sue labbra, i suoi lunghi capelli turchini, il suo elegante abito dorato che si apriva malizioso in mezzo ai due piccoli seni abbronzati.
<< Ragazze mie, come andiamo? >>
<< Ma che ci fai qui...?! >> chiese Mary, la prima a riprendersi dall'emozione mentre si riassettava il vestito bordeaux.
Edgar rispose per lei, con la sua voce profonda e delicata. Teneva la mano di Suzette con la premura e la devozione di un marito fedele, e non la lasciò neanche per parlare.
Mark ed Erik lo guardavano sconvolti, la mandibola del biondo era talmente spalancata per la sorpresa che Dylan giurò gli si sarebbe slogata.
Beh, in effetti, rivedere il capitano dell'Inghilterra al matrimonio di uno della Unicorno dopo dieci anni di silenzio faceva parecchio strano, persino per loro, la stranezza fatta nazione.
<< Il vostro amico ha ben pensato di invitare anche Suzette al suo matrimonio, visto che eravamo di queste parti per le vacanze di natale. E lei ha accettato, sostenendo inoltre che... >>
<< Ehi fratello, parla normale su! Almeno negli States! >> gli fece appello Dylan, per poi raggiungerlo e tirargli una pacca sulla schiena. << Ci si rivede, inglesino del cazzo. >>
<< Quanto fai schifo Keith. >>
<< Sono d'accordo con l'inglese, per una volta. >> Mark si frappose tra i due e strinse con orgoglio la mano di Edgar. Era dura e fredda, ma il sorriso che mise su Partinus era carico di una felicità che stupì entrambi. << Sono felice di rivederti. >>
<< Anche io Kruger. >>
<< Hai notizie di Tiago? >>
<< Ci sentiamo spesso. Ti manda i suoi saluti, si augura che tu stia bene. >>
<< Lo spero anche io. >>
Poi si spostò su Suzette.
<< Eccolo qui >> fece lei, poggiandoli una mano sul petto con fare amichevole. Poi tese le braccia e, in un moto di affetto, gli tirò le guance come se fossero fatte di pasta frolla. << Il mio ex ex ex ex ex ex ex ex ragazzo! >>
Mark rise, rise di quello che c'era stato e di quanto erano stati stupidi al tempo, come dei perfetti idioti. Rise, nel rendersi conto che Esther era mille volte più bella di lei, ma questo da sempre. << Eccoti qui, Sue. Come stai? >>
<< Sto bene, Mark, grazie. >>
<< E questo? >> domandò Esther, indicando con curiosità quello che un tempo era stato il Capitano dell'Inghilterra, e che ora pareva essere diventato l'uomo di Suzette.
<< Siamo amanti. >> spiegò l'amica. Poi si voltò e strappò un bacio alle labbra sigillate di lui.
Esther e Mary esplosero in mille convenevoli zuccherosi, complimenti alla splendida coppia che erano, a quanto fossero carini insieme e a quanto si sentissero tristi loro, ancora disperatamente single.
Ma Erik si astenne da tutto ciò. Rimase muto a fissarla da lontano, le mani nelle tasche dei pantaloni, strette in forti pugni d'acciaio.
L'azzurra lo guardò di sfuggita. Lo salutò con la mano, poi ritornò a farsi elogiare.
Eagle non ricambiò. Era sconvolto. Non sapeva che pensare.
Che provare.
Ritrovarsela lì, al matrimonio del suo migliore amico, gli aveva subito suscitato un forte desiderio di baciarla, di farla di nuovo sua. Portarsela a letto ancora una volta, almeno per quella notte, e accantonare Silvia in un angolo remoto della mente mentre sprofondava in lei e si liberava di tutto il suo malessere.
Ma questa volta la cara Suzette non si era presentata sola; c'era Edgar. Lei stava con lui, e lui con lei.
Non che fosse geloso, a lui non fregava niente di quella ragazza. Però vederla così vicina ad un uomo diverso da lui gli insinuò mille dubbi in testa, primo tra i quali Silvia.
Magari anche lei, come la Hartland, ora era a braccetto di Mark Evans.
Magari anche lei lo aveva dimenticato, e gli si congelò il sangue nelle vene al pensiero.
La mano di Mark sulla spalla lo riportò al presente, ed Erik fece uno sforzo enorme per evitare che l'amico gli leggesse nello sguardo che cosa gli stava passando dentro.
<< Entrano tutti >> fece il biondo, indicando la folla. << Andiamo? Scommetto che se Bobby non ti vede tra le prime panchine si agita e ti viene a cercare. >>
<< Andiamo, scusa, mi ero distratto un attimo. >>
<< Per via di Suzette? >>
Erik annuì. Mark sapeva delle numerose scappatine a letto tra i due, sapeva il fuoco che c'era stato prima che il silenzio tagliasse definitivamente i ponti.
Sapeva anche che l'amico lo aveva fatto per dimenticarsi di Silvia, e che evidentemente la cosa non aveva per niente funzionato.
<< Mark, lascia stare, speravo di poterne approfittare quando l'ho vista, faccio schifo. Sono un egoista, penso solo a stare bene. >>
Eccome se lo era. Era una cosa che detestava, continuare a cercare riparo dentro i corpi femminili, sperando di poter stare meglio.
Ma questo non lo disse.
<< Ehi, non fare così Erik. >>
Il biondo lo costrinse a guardarlo in faccia. << Non meriti di soffrire così, togli quel muso e entriamo in questa chiesa, che oggi si sposa il nostro Bobby. Per un giorno, metti da parte quella ragazza. >>
Quella ragazza era Silvia, non una qualsiasi.
Difficile cestinarla, dopo anni di amore.
Si incamminarono per la chiesa seguendo la massa, e ad ogni passo Erik sentiva di voler morire di vergogna, nascosto dietro le spalle larghe di un Mark sempre più sorridente.
Aver ripensato di potersi portare a letto Suzette, di poter dimenticare una persona che non se ne sarebbe andata via neanche dopo la morte, era assurdo.
Stava diventando stupido.
Stava diventando peggio della sua malattia.


 
_________________________________________________________
nda
hi guys, breve angolino perché questo capitolo è collegato all'altro. Spiego rapidamente che cosa è successo dopo che Erik si è “lasciato” con Silvia. Siccome Eagle è un debole (ho scelto io di farlo così, amen), qualche mese dopo l'accaduto ha avuto diverse relazioni, per cercare di distrarsi dal vuoto che la rottura gli ha lasciato. Tra queste spicca quella con Suzette, di cui sa solo Mark. E siccome Erik sta ancora male per Silvia, per un momento gli è quasi venuta una mezza idea di ritornarci.
EHEHE.
EH.
Comunque mi sembrava già di averlo accennato nei primi capitoli. Giusto per ribadire il concetto.
Non dico nient'altro.
Andate al prossimo (?)

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Capitolo 15
*** Savior ***


Chapter fourteen.
 
Savior
 
 
Aurelia sembrava una fata delle nevi infilata in quell'abito bianco e semplice, con i magri piedi che scivolavano sul pavimento in marmo della sala quasi ne facessero strettamente parte. Esther non smetteva di pensarlo mentre la osservava ballare insieme al suo sposo al centro della sala.
Erano davvero incantevoli, c'era dell'alchimia speciale tra loro, in ogni movimento impacciato, in ogni sguardo. Gli occhi neri di lui si riflettevano in quelli bruni di lei con un orgoglio che le faceva venire la pelle d'oca ogni istante. Al momento dello scambio delle fedi il loro modo intimo e segreto di amarsi aveva lasciato tutti a gola secca.
Persino Dylan. E ce ne voleva per sconvolgerlo.
Tagliò in due parti la fetta di torta posata sul piattino e se la portò alle labbra piene di rossetto, quando una mano scura posata sulla sua deviò la traiettoria della forchettina.
Questa finì dentro le labbra di Suzette, che fece una risata e si lasciò cadere sulla sedia vicino a lei. Ansimava, alcuni ciuffi celesti erano sfuggiti alla tenuta dello chignon, segno che era appena rientrata stanca da un ballo all'ultimo sangue col suo cavaliere inglese dalla lunga coda argentea. Era bellissima, ed Esther era così contenta di averla lì, che ancora non le sembrava vero. Aveva appena assistito ad un matrimonio pazzesco, con l'amica-nemica di una vita. << Ciao bella! >> esclamò la Hartland, tutta emozionata.
<< Ciao tesoro! >>
<< Allora? Che ne pensi del matrimonio? >>
<< Pazzesco. Più li guardo, più mi accorgo di quanto possa essere bello l'amore. >>
<< Concordo. Come stai? >>
La mora fece spallucce e ritornò alla sua adorata torta, che cominciò a sviscerare per bene. Quando risollevò lo sguardo, Aurelia e Bobby si erano spostati su un lato, abbracciati. Erano stupendi. << Bene, ma non troppo. >>
Cercò Mark con lo sguardo, e lo trovò a servirsi del punch insieme a Melanie. Ovviamente.
<< E so già a chi ti riferisci. Mark, non è vero? >>
Ebbe un brivido nel sentire il suo nome pronunciato dalle labbra dell'amica, e mentre il pensiero del biondo le faceva affluire il sangue alle gote, inghiottì una buona porzione di dolce. << Non so di che parli >> rispose, a bocca piena.
Gli occhi color perla di Suzette si piegarono fino a diventare sottili come due fessure di luce. << Che ti piace da morire, ma che la sua fidanzata ti sta altamente sui coglioni. Dico bene? >>
<< E' così ovvio? >>
<< Danno fastidio persino a me... non riesco a tollerarli. >>
<< Tu non tolleri niente, Sue. >>
<< Sì ma loro non li tollera nessuno. Prima a tavola lei non smetteva di toccarlo davanti a te. E oh, prendetemi per pazza, ma lui non ne poteva più. >>
<< Dici? >>
<< Non so perché, ma Mark mi da l'idea di essere piuttosto abbattuto. Mi è bastato incontrarlo di nuovo per capire che non è al cento per cento della forma. >>
E in effetti, anche ad Esther era parso così. C'era qualcosa che non andava in lui e Melanie, qualcosa che le sfuggiva, ma che era sicura di sapere. Provò a formulare delle ipotesi.
Forse avevano litigato.
O forse era una giornata no per entrambi.
Una vacanza no, un periodo no, uno di quelli in cui scannarsi era diventato il pane quotidiano. Molto diverso dall'amore tra Bobby ed Aurelia.
Sentì il forte impulso di raggiungerlo a quel tavolo del punch, abbracciarlo e farlo ridere, ma poi la mente ritornò all'incidente avvenuto durante la scelta della cravatta.
E allora sprofondò nei cuscinetti verde mela della sedia, inghiottendo d'un colpo solo il pezzo di torta. Ricordandosi quanto fosse meravigliosa la sua gola appuntita, i suoi occhi chiari che avevano bruciato per lei, curiosi di sapere perché nessuno dei due aveva saputo sottrarsi a quel tocco.
Suzette si sistemò la spallina del reggiseno, facendola scoccare sulla pelle abbronzata. << Andiamo da lui. >>
<< Da Mark? >>
<< No, da Gesù. Ovvio, su! >>
Esther si lasciò prendere per un polso e si fece trascinare in mezzo agli invitati. Non le andava di disturbare Mark. Il ragazzo era stato chiaro con lei, ieri, ma quando Suzette si metteva era impossibile fermarla; si chiese che avesse in mente.
<< Ciao bellone! Bella cravatta. >>
Il biondo della Unicorn si voltò e le sorrise impacciato, guardandosi un po' la cravatta e un po' le scarpe. Esther incrociò le braccia al petto e ne approfittò per servirsi un po' di vino bianco, che poi si portò alle labbra con svogliatezza.
<< Allora? Che si racconta? >> domandò Suzette qualche secondo dopo, imitandola.
Mark non ebbe nemmeno il tempo di pensare a quale aneddoto della sua stupida vita raccontare, che la Hartland aveva già ripreso la parola.
<< E così hai rincontrato la tua Esther, eh? >>
<< S-sì, io... >>
Magari fosse mia, avrebbe voluto dire Kruger, ma poi si ricordò che c'era Melanie, che non doveva pensare delle cose del genere, che simili cavolate non stavano né in cielo né in terra. Che la sua vita andava bene così come era, e non occorreva aggiungere altro scompiglio. “Mioddio Mark, che diavolo ti piglia.”
<< Quando vi ho visti oggi ho pensato che foste fidanzati! >>
<< C-che...? >> disse, e quasi non gli cadde il bicchiere pieno di schifoso punch.
<< Sì, insomma... >> Suzette afferrò Esther - che la guardò sconvolta - per la spalla e la gettò addosso a Mark con l'intento di far scattare una qualche sorta di scintilla, anche piccola, ma la mora fu lesta a frenare con la punta dei tacchi prima che il viso le si potesse spiaccicare sul petto caldo del biondo. E non che le sarebbe dispiaciuto affondare la faccia in mezzo a quel corpo modellato dalla grazia in persona, ma l'occhiata funesta di Melanie bastò a rimetterla in riga.
L'occhiata e il suo orgoglioso buonsenso da donna munita di ferreo pudore, che continuava a ripeterle che di Mark doveva farne carta straccia e baci e abbracci.
<< Siete troppo carini! >>
<< Ah, ma davvero...? >> mormorò Kruger, e fece un passo indietro, rosso in viso.
Fu in quel momento che Suzette, geniale, finse di accorgersi per la prima volta di Melanie. << E questa chi è? >>
La corvina volle controbattere a tono, magari affogandola nel punch, ma Esther intervenne prima che la scenetta potesse trasformarsi in omicidio.
Prima che Mark potesse stressarsi ancora, e dare in escandescenza per una fidanzata che faceva tutto meno che la fidanzata.
<< Scusa tesoro, è che ti ho notata solo or--
<< Quello che vuole intendere Suzette, è che... >>
Che? Che lei e Mark stavano bene insieme? Che erano perfetti come coppia? Che dopo dieci anni era ritornata ancora più innamorata di prima?
Mark la salvò da figuraccia certa, zittendola con un profondo sibilo della lingua. Il suo sorriso era allegro, ma i suoi occhi erano seri e riflessivi quando si posarono con determinazione su Esther.
Durò un attimo, il tempo perché lei capisse che lui aveva bisogno di parlarle in privato.
<< Lascia stare Mel, era uno scherzo, non prenderla così sul personale. >> disse, poi le circondò le spalle con il braccio, affettuoso, e insieme si allontanarono dal tavolo.
Quando sparirono oltre la colonna di marmo, Esther si voltò verso Suzette con uno scatto nevrotico del capo. << Ma si può sapere che ti è preso?! Buttarmi così su di lui, io... >>
<< Esther, che ti frega se è fidanzato? >>
<< Nulla, ma non voglio ferirlo. >>
<< Mah, quanto sei cretina! Proprio come dieci anni fa. >>
<< Come scusa?! >>
<< Non è ora che ti prendi ciò che ti spetta? >>
<< Suzette, ma che cazzo vai parlando?! E' fidanzato! Ama quella ragazza! >>
<< Ne sei sicura, Esther? Se la AMA come dici, allora non avrebbe passato l'intera serata a guardarti. Questo come lo spieghi? >>
Esther sentì il respiro abbandonarla lentamente, come il ticchettio di un orologio in moviola.
Mark. L'aveva guardata tutta la sera.
Non se n'era accorta, lo aveva sgamato solo una volta, ma aveva immaginato che fosse successo per errore, come spesso capita in un posto affollato senza che si abbia niente da fare. Non poteva credere che le parole dell'amica fossero vere. Ma quell'informazione le gonfiò il petto di orgoglio, e trattenne a stento un sorriso mentre cercava di mostrarsi seria.
<< Io ci sono stata con Mark >>
<< Anche io sono stata con lui. >>
Allo sguardo scettico di Suzette mostrò i denti in un ghigno stupido. << Beh, non proprio ma... quasi. >>
<< Allora non abbastanza da sapere che quando lui è davvero innamorato il resto del mondo scompare. Eppure >> proseguì l'azzurra, e mosse sensualmente le sopracciglia ad arco. << le tue gambe oggi sembravano tenerlo in pugno più del dovuto. >>
<< Sei scema. >>
<< Fa come ti pare, tesoro. Ma penso tu sappia meglio di me come andrà a finire se non muovi quelle chiappe secche che ti ritrovi. >>
E detto questo, girò i tacchi e tornò dal suo cavaliere, che nel mentre si era messo a perlustrare la sala con occhio regale. Esther la seguì con lo sguardo fino a quando l'amica non svanì tra le braccia di lui, o meglio, fino a quando un Dylan senza niente di bello da fare si frappose in mezzo a lei e la sua traiettoria visiva, alla ricerca di qualcosa in grado di intrattenerlo che non fosse rompere le palle a Mark e sfottere Bobby.
Lo chiamò e lo raggiunse correndo, come se avesse paura di vederselo svanire per altri dieci anni.
In quel momento sapeva esattamente che fare.
 
 
 
 
Esther inspirò l'aria fresca della notte invernale, inspirò tutto di quella sera magnifica e piena di stelle. Poi guardò il cielo buio, nero come un pozzo senza fine, come il discorso tremendo che stava per fare e che sicuramente l'avrebbe fatta uscire da quella conversazione con qualche terminazione nervosa sfracellata.
Voleva parlare di Mark. Voleva capire qualcosa su di lui, su Melanie, sul perché tra loro si fosse insediato un certo distacco. E soprattutto, voleva sapere se era vero che quando raggiungeva l'orgasmo si metteva ad urlare.
Insomma, chi meglio di Dylan poteva possedere simili gioielli d'informazione?
Si sedette sui gradini del palazzo, accanto a lui, e gli sorrise. << E' bello rivederti Keith! >>
<< Anche per me, Esther. Come stai? >>
Parlarono un po' di tutto, della loro vita, di come procedevano le cose.
Poi, preso un profondo respiro interno, Esther osò porre la fatidica domanda che presto le avrebbe rivelato il mondo intero.
Si sentiva una bambina, e in un secondo momento mai si sarebbe permessa di indagare sui fatti privati e intimi di Mark. Ma in quell'istante si trattava di vita o di morte; qualunque cosa fosse uscita dalla bocca di Dylan, sarebbe bastata ad alleviarle o pesarle il fastidio.
Si buttò, incerta su come atterrare. << E' vero che quando Mark ha l'orgasmo urla? >>
Lo chiese tutto d'un fiato, masticando le parole nell'inglese più veloce e immediato che potesse aver mai usato in tutta la sua vita.
Sperò tanto che Dylan non avesse capito, ma il ragazzo aveva capito eccome, maledizione.
Si tolse gli occhiali, portandoseli sulla testa biondiccia, e la guardò come si guardano i disperati.
Poi scoppiò in una risata talmente folle che Esther giurò di perdere i timpani. << Lo so, lo so... scusa, è una domanda stupida... è che... >>
<< Chi te l'ha detto? Melanie? >>
Annuì, solo perché non aveva la forza di confermarglielo a voce, tanto era l'imbarazzo.
Dylan si riprese dall'esplosione di ilarità con un autocontrollo che le ghiacciò il sangue nelle vene; quel ragazzo sapeva fare paura. << Guarda, non ci tengo a sapere se Mark urla o meno, lascio la scoperta alle donne. Ma ti posso assicurare che nemmeno Melanie lo sa. >>
<< Mi stai dicendo che non hanno mai fatto sesso?! >>
<< S-sì, beh... Mark non mi ha mai parlato di “orgasmo raggiunto”. Normalmente in ambito sessuale è piuttosto insicuro, quindi mi viene a dire tutto. O quasi. Il problema è che poi sono io che mi devo sorbire le sue esaltazioni. >>
Il cuore di Esther perse un battito, o forse due mentre le spalle la trascinavano leggermente all'indietro. Era come se un soffio di vento freddo le avesse spazzato il nervoso dal petto, e tutto il fastidio provato in quei giorni le si fosse sbriciolato dinanzi allo sguardo.
Melanie le aveva detto una cavolata, c'era stato da aspettarselo.
Eppure ci era caduta in pieno, ci aveva creduto come una mocciosa. Non sapeva cosa provare, se sentirsi umiliata per la bugia o contenta per la lieta notizia.
Nel dubbio scelse la via della felicità, e la gelosia che le aveva preso possesso di tutti e cinque i sensi le si attenuò un poco.
<< Non credevo che Mark fosse un esaltato. >>
<< Sono tante le cose che non sai di Kruger. >>
<< Beh, sono passati dieci anni! >>
<< Era un esaltato anche prima, gli piace fingersi il più calmo tra i due. Ma io e lui sappiamo che non è così. >>
Esther si perse a guardare le nuvole accatastate in massa nel cielo, così grigie da distinguersi perfettamente in mezzo al manto nero che faceva loro da sfondo. Le piaceva quel piccolo dettaglio di Mark, il fatto che all'apparenza sembrasse un ragazzo mite, piacevole, calmo ed elegante, incapace di perdere il controllo nemmeno durante un eruzione vulcanica pronta ad estinguere l'umanità.
Ma che dentro in realtà era un continuo abbandono agli stati d'animo e ai sentimenti, troppo debole per contrastarli. Al centro del cuore gli ardeva un fuoco che non sapeva come spegnere, e bastava guardarlo bene in fondo agli occhi per capire quanto ardesse e bruciasse. E consumasse.
E volesse scoppiettare in eterno, innalzarsi nel cielo e vivere.
Sentì di trovarlo ancora più interessante, e si massaggiò il collo per scacciare il rossore.
<< Non dare retta a quello che dice Melanie. Lei non sa niente di Mark. Non lo ha mai saputo. >>
<< Ma sono fidanzati... >>
<< Ah sì...? >> Dylan si accese una sigaretta, che per un istante illuminò il buio tra loro. Gliene offrì una, ma lei la rifiutò.
Sentiva uno strano nodo in gola, e aspettò con pazienza che il ragazzo si decidesse a scioglierglielo, in ansia.
<< Si sono lasciati, Esther. >>
<< Ma Mark mi aveva detto che... >>
<< Mark, Mark, Mark dice un sacco di cazzate, perché non vuole che la gente gli faccia domande. >>
Per Esther fu come se il mondo avesse all'improvviso smesso di girare, e ci mise un po' a mandare giù la tremenda verità che era appena scappata dalle labbra di Dylan.
Allora Mark non era fidanzato con Melanie. Non più, almeno.
Le aveva mentito fin da subito, aveva imparato a farlo senza dare nell'occhio e ci era riuscito. Aveva usato il pretesto del fidanzamento per sfuggire ad un'ipotetica situazione di imbarazzo, qualora qualcuno gli avesse chiesto i motivi della separazione, ed era stato furbo.
Ma perché nasconderlo persino a lei?
<< Perché non stanno più insieme? >>
<< Mark non vorrebbe che tu lo venissi a sapere, è una cosa che gli da fastidio e che mi ha rivelato con molta fatica. >> Dylan spense la sigaretta contro l'asfalto freddo, poi la calpestò col piede.
<< E perché, se si sono lasciati, continua a portarsela dietro ovunque vada? >>
<< Perché vuole recuperare il rapporto. Esther >>
Si sentì chiamata in causa, e quando Dylan la trafisse col suo sguardo irritato si fece piccola sui gradini, nervosa. La bocca le si impastò, il rossetto le si fece appiccicoso sulle labbra.
La mente, seppur vuota, non le aveva mai gravato così tanto sulla coscienza.
<< Ti piace, vero? Mark dico. >>
<< Da morire. >> lo sputò con una facilità incredibile, ed ebbe un fremito nell'ammetterlo al migliore amico di Mark.
<< Lo sapevo. Allora salvalo. >>
<< Eh? >>
<< Perché Mark non ama Melanie. Non la ama, ma si forza a farlo, perché non vuole che succeda nient'altro di spiacevole, non ha voglia e nemmeno tempo. Si costringe a rimanere lì, con lei, a girarle intorno, quando è il primo che vorrebbe scaricarla con tanto di vaffanculo, quella troia. Perché è troppo buono. Perché pensa sia quella la cosa giusta da fare. Beh, non lo è.>>
Non le sembrava vero. Tutto quello che stava sentendo, tutto quello che Dylan le stava raccontando... fu peggio di mille schiaffi tirati in faccia, ne sentì il dolore sparso su tutto il perimetro candido delle gote.
Si cinse le ginocchia, cercando di calmarsi, ma quando il fiato divenne corto si rese conto che le era impossibile.
<< Quindi, se ti piace, faglielo capire. Sono sicuro che il tuo ritorno non lo ha lasciato indifferente. No, glielo leggo negli occhi. Esci con lui, prendilo per mano, stringilo, mostragli tutto quello che vuoi ma portalo via da quella, che Mark è idiota e non lo farà mai, anche se lo vuole. >>
<< Dylan... >>
Keith le posò una mano sulla spalla. << E fregatene. Fa la stronza per tenerti alla larga da lui, solo perché le piace rovinare la vita agli altri. Non capisco perché stia assecondando i piani di riappacificazione di Mark, quando è l'ultima cosa che le importa. >>
Esther era sconvolta, scossa dentro da un forte senso di confusione. Non aveva mai sentito Dylan parlare con tanto acido in gola, ogni parola le suonò come un ringhio di rabbia, di impotenza, fuori luogo per uno tollerante e aperto come lui, abituato a perdonare di tutto.
Quello che era successo a Mark doveva essere stato grave.
Inaccettabile.
Non immaginava cosa potesse essere successo per arrivare ad irritare persino uno come Dylan.
<< In questi giorni che è qui a Los Angeles ho intenzione di parlare con lui. Spero di farlo ragionare, ma Kruger è ostinato come il cazzo, miseria. Alla fine va sempre a sentimento. Al posto di usare la testa. >>
Rise, perché non sapeva in che altro modo reagire. Tutta quella valanga di informazioni l'aveva destabilizzata da un indissolubile trono di certezze. Le ci sarebbero voluti almeno due giorni interi per digerire un simile pugno allo stomaco, due giorni interi per realizzare che Mark non era fidanzato, che Melanie non poteva più nulla contro di lei, che forse, forse avrebbe potuto abbracciarlo senza sentirsi in colpa per una maledetta ragazza che a detta di Dylan aveva rovinato la vita del suo migliore amico.
Non sapeva davvero che altro dire.
“Perché tutto questo, Mark?”
All'improvviso, la maniglia dietro di loro scattò come una molla, e oltre l'ingresso comparve proprio colui il cui nome era appena stato argomento della loro conversazione.
Esther guardò Mark bloccarsi sull'uscio, e finalmente lesse in lui tutto ciò che Dylan gli aveva rivelato. L'oppressione, la fiacchezza, l'auto-costrizione e la benevolenza nell'accettare di rimanere insieme ad una che lo aveva distrutto.
Con cui aveva chiuso, ma che per evitare ulteriori problemi era meglio riaprire.
<< Esther... ti stavo cercando. Mary mi aveva detto che ti aveva vista uscire qui fuori con Dylan e... >>
Mark smise di parlare e li guardò con occhio curioso, il sopracciglio inarcato e le mani nelle tasche dei pantaloni color ebano. << Vi ho disturbati, per caso? >>
Dylan si alzò, si pulì il didietro e lo raggiunse all'ingresso. << Mark, non essere geloso, non te la stavo rubando. >>
<< Eh? Ma... Dylan, piantala. >>
Esther comprese da quella frase che finalmente aveva il via libera. Che poteva dar libero sfogo ai suoi sentimenti, perché Mark non aveva nessun obbligo amoroso nei confronti di Melanie, e lei nemmeno doveva pretenderli.
Si scambiò un'ultima occhiata con Dylan, prima di vederlo sparire dentro il grande salone.
E fu in quel momento che Mark, rimasto nella penombra a guardare i nuvoloni, si decise a proferir parola. << Io e te dobbiamo parlare. >>
Esther cercò di sembrargli seria, ma il senso di stordimento era talmente forte che le fu difficile persino di tenere la bocca piegata di disappunto.
Avrebbe voluto piegarla in un sorriso dei suoi, quello a trentadue denti, selvaggio e spontaneo. Avrebbe voluto correre e prendere a pugni un cuscino, farsi una bella vasca calda e poi ritornare a correre, più veloce di prima. L'ansia era talmente tanta che non sapeva come disfarsene.
<< E' per... è per ieri? >>
<< E' per ieri, sì. >> Mark prese il posto di Dylan e si posò i gomiti sulle ginocchia, le mani a penzoloni nel vuoto. Pensò un po' prima di dare il via alla conversazione, come se avesse bisogno di trovare le parole giuste. Come se si fosse dimenticato come si fa a discutere senza dover per forza urlare o arrabbiarsi con sé stesso. << Volevo chiederti scusa se ti sono sembrato offeso, ieri. Non è così, non... non del tutto, almeno. Io... >> si portò una mano sul naso e se lo cinse tra l'indice e il pollice mentre l'espressione si faceva sempre più sgomenta. << Sì, insomma, scusa. Non sono bravo a chiedere perdono, è che dopo che mi hai carezzato io... mi sono perso nelle mie riflessioni. >>
Esther si domandò su cosa si fossero basate le sue riflessioni, se riguardavano lei, loro, quella scossa che c'era stata e che mai avrebbe dimenticato.
Lo guardò e lui ricambiò, gli occhi percorsi da uno strano bagliore celeste.
Esther affogò in mezzo a quell'infinita distesa azzurra, si perse in mezzo a tutte le sue sfumature delicate, e si rese conto di non aver affatto bisogno di spiegazioni.
Le sue iridi piene di confusione parlarono da sé, e le rivelarono che non avevano smesso di pensare a lei.
Neanche. Un. Istante.
Fu un'ammissione che lui evitò di dire a voce, che preferì comunicarle così.
<< Sei perdonato >> disse Esther, e gli cinse il braccio con sguardo adorante. << ma la prossima volta che mi tieni il broncio, me ne vado via per altri dieci anni. Sappilo. >>
Mark rise con finto tono menefreghista, quello che gli piaceva usare nelle situazioni imbarazzanti o disagiate e che avrebbe invogliato qualsiasi persona a spaccargli la faccia a suon di pugni. << Cosa ti fa pensare che ti fermerò? >>
“Il fatto che sei innamorato di me, anche se ti costa fatica ammetterlo.”
<< Non puoi stare senza di me. >> gongolò, prima di alzarsi e stiracchiarsi sui tacchi alti.
<< Ma sentila. Non sei cambiata di una virgola. >>
<< Ts.. eppure te lo si legge in faccia, che mi adori. >>
<< Non credevo di essere così prevedibile, allora. >>
Si sistemò la lunga chioma liscia e lo guardò con un largo sorriso divertito. Le sembrava di essere tornata a dieci anni prima, sul divano della sede della Unicorno, a tirargli contro i peggio insulti che a ripensarci facevano solo ridere. Lui ricambiò dai gradini, e fu il sorriso più sincero, onesto e gravido di affetto che lei ebbe mai ricevuto.
<< Ti voglio bene, Mark. >> gli rivelò, e si strinse nelle spalle per scacciare il rossore. Non era una che estraniava ciò che provava in maniera tanto esplicita, spesso e volentieri erano gli altri a ricordarle quanto tenessero a lei.
Eppure con Mark era diverso, lui la addolciva, la rendeva più umana.
Più calda.
L'americano si mosse appena, battendo i piedi per scaricare l'imbarazzo che quella dichiarazione gli aveva provocato. Poi le fece l'occhiolino, e lei giurò di morire davanti all'unica verità possibile tra loro.
 
Che si erano dati per dimenticati.
Ma non era stato abbastanza.
 
 
________________________________________________________________
nda
aaaaaaa non posso credere di essere riuscita a pubblicare pure questo capitolo, voglio morireeee.
Un altro aggiornamento e ho finito Aprile. Sono emozionata.
Quello che trovate scritto qui è molto importante, perché praticamente Suzette è matta (?), ed Esther viene a conoscenza di molti dettagli succulentih - grazie al nostro reporter Dylan, as always -
Prima di tutto, che Mark non ha mai avuto l'orgasmo. èwé.
Secondo, che non è vero che sta con Melanie: il che vuol dire solo una cosa. ESTHER, STUPRALO. No, scherzo, vuol dire che è arrivato il momento DI AGIRE. E infatti, vedrete come nei prossimi chapters. Vi faccio un piccolo spoiler: il capitolo che segue questo sarà più un focus su Erik, e riguarderà in un certo qual modo anche Dylan.
Attenzione. Potrei sfasarvi/realizzarvi una ship, let's see.
Nulla, se volete lasciate una recensione, e io in cambio vi regalo una mela(nie).
Vado, che devo fare inglese, e poi anche matematica, e poi forse posso respirare.
FORSE.

Ps: dimentico. Savior è salvatore in inglese americano. In inglese britannico (?) si dice saviour. Anche qui, ho scelto di usare l'american english perché siamo negli USA (no la presenza di Edgar non fa testo (?))

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Capitolo 16
*** Waking up in Vegas ***


Chapter fifteen.
 
Waking up "in Vegas"
 
 
 
Quando Mary si svegliò la mattina seguente, di certo non avrebbe mai pensato di farlo con tanta naturalezza. Non avrebbe mai pensato di aprire gli occhi come se non li avesse mai chiusi, né tanto meno di tirarsi su con spropositata foga.
Ma soprattutto, non avrebbe mai pensato di risvegliarsi nuda.
In un letto che non era il suo, con la testa pesante per l'alcool e le risate di ieri.
Con accanto Erik.
Nudo e reduce di un matrimonio che era stato più bere che altro.
Beh, quello spiegava perché erano finiti lì, senza dubbio. In preda al panico si tolse le coperte di dosso e pattugliò il pavimento alla ricerca dei vestiti, che per colpa delle tapparelle ben basse sembravano essere stati inghiottiti dalle tenebre. Ipotizzò fossero le dieci di mattina mentre si infilava negli slip recuperati di fortuna.
Non ricordava come fosse finita a letto con lui, il buco temporale era talmente vasto che l'evento le diede ancora più fastidio, e nel dubbio cacciò le gambe lunghe dentro l'abito.
Rammentava a malapena i bicchieri di vino, le risate sguaiate di Erik che erano sembrate più grida liberatorie che gemiti divertiti. Poi lui l'aveva presa per mano, avevano ballato un po' insieme, ed erano finiti a limonare sul tavolo vuoto, lontano da tutti.
Da tutti meno che uno.
C'era un altro dettaglio, dio, quello faceva così male che avrebbe preferito fosse finito nel dimenticatoio come il resto della serata.
Lo sguardo di Dylan, che si era posato prima su Erik, poi su di lei. E poi era volato verso altro, confuso, quasi irritato da ciò che aveva appena visto.
Maledizione, a lei piaceva Keith.
Non Eagle.
Dio, si sentiva uno schifo.
Uscì dalla stanza e corse di sotto, dove Mark ed Esther stavano tranquillamente litigando per decidere a chi dei due spettasse l'ultima cialda imburrata al centro del tavolo. Melanie, come al solito, era sparita.
<< E' mio, giù le mani Greenland. >>
<< E' mio invece, prima le donne! >>
<< Tsk. Da quando? >>
<< Da sempre, Kruger! Rispetta il galateo! Tua madre non ti ha insegnato niente?>>
Per Mark fu come non aver sentito nulla tranne la pancia brontolare e ordinargli di agire. Così si armò di strafottenza, allungò la forchetta, si appropriò brutalmente del pancake e se lo cacciò tutto in bocca. Quintali di calorie spugnose racchiuse in una perfetta chiostra dentale si esibirono in un tremendo sorriso di vittoria sudata, che costrinse la mora a ringhiare di nervoso e ritrarsi sullo schienale in legno della sedia.
<< Me ne frego del galateo, got it? >>
<< Mark! Sei un mostro.. >>
<< La fame mi trasforma. >>
<< Mi sono fatta Erik Eagle. >>
<< What?! >> esclamò il biondo, e a fatica riuscì a deglutire l'immenso pancake senza rischiare di stramazzare a terra e cambiare di colore.
La reazione di Esther fu immediata, e la forchetta con cui aveva giocato tutto prima le cadde di mano, tintinnando sul piatto in ceramica che era rimasto vuoto per colpa di Mark.
Mary sentì di voler sprofondare mentre gli occhi della sua migliore amica e di Kruger le si posavano addosso sconvolti.
Scioccati.
La mora fu la prima a reagire, voltandosi di trecentosessanta gradi per poterla guardare meglio in viso. << S-sul serio Mary? >>
<< Sì... io... non ricordo, abbiamo bevuto e... >>
Bastò quello per far scattare Mark dalla sedia, che gracchiò contro il pavimento liscio. << … oh lord, Erik. >> sbottò, e strinse i pugni in un gesto di autocontrollo che gli costò un'immensa fatica. Fece i gradini a due a due e si diresse dall'amico battendo i piedi, incurante dello sguardo disorientato che gli lanciò Mary, delle incessanti chiamate di Esther che lo pregavano di tornare giù e parlarne.
Tutto scomparve, ora c'erano solo lui e l'amico.
Spalancò la porta, alzò le imposte e gli strappò le coperte di dosso, scoprendolo nudo. Poi le appallottolò e gliele tirò in faccia per svegliarlo. << Svegliati, idiota! Questo non è un hotel, è casa di mia madre! >>
<< Mark... che... >>
<< Ti sei fatto Mary..! Seriously, Erik?! >>
La faccia di Erik passò da uno stato di quiete confusa ad uno di terrore più assoluto, prima che i ricordi calassero su di lui come una cappa grigia ed inestricabile. Arrossì e sbuffò, poi si lasciò cadere sul materasso mentre Mark lo fissava allibito.
Cigolò sotto il suo peso, sotto il dolore che aveva cominciato a fluirgli dentro, al posto del sangue.
Lui, un poliziotto. Che si era ubriacato, si era fatto un'amica, e soprattutto, aveva calpestato i sentimenti di Dylan come si fa con la carta straccia.
Sì, perché se n'era accorto ieri.
Ma non era bastato a fermarlo.
Doveva chiamarlo.
Doveva chiamare Dylan, cazzo, e risolvere con Mary. Non si era mai sentito tanto stupido in vita sua, e tutto per colpa di Silvia.
<< Ho bevuto... >>
<< Sì, come un disperato. >> la rabbia di Mark prese improvviso possesso della sua voce, e quello che uscì prima di proseguire il discorso fu un tremendo gemito di nervoso, rabbia e frustrazione. << Mi avevi promesso che saresti stato attento. Lo sai che non puoi concederti certi lussi, siamo poliziotti. >>
<< Siamo in vacanza. >>
<< Siamo poliziotti. >> la voce di Kruger si fece tagliente come una lama di ghiaccio sulla gola. << Avevi promesso che dopo Suzette avresti messo fine a questa storia, Erik. >>
<< Mark... >> Erik represse un conato di vomito, represse lo schifo per se stesso, che aveva tradito la fiducia di un amico e si era lasciato andare al dolore. Di nuovo. << non iniziare... >>
<< Che ti saresti impegnato per Bobby, ieri, che avresti dedicato le tue energie al matrimonio. >>
<< Bobby non deve saperlo... >> si tirò su e si infilò con impaccio i boxer, saltellando. La moquette era tiepida, i raggi del sole gli baciarono i pettorali asciutti, ma non bastarono a scaldarlo. Mark continuava a guardarlo fisso negli occhi, e gli rese impossibile persino un'azione semplice come vestirsi.
E quando Mark si comportava in quel modo, significava solo una cosa; era arrabbiato.
No, di più.
Infuriato nero. No.
Incazzato a morte. E aveva tutte le ragioni del mondo per esserlo.
<< Avevi promesso. Erik... ti sei fatto una donna che non c'entra niente solo per toglierti dalla testa quella fottuta Silvia, ma Dio, esistono altri mille modi molto più sobri per...! >> tuonò, ma questa volta Erik non rimase muto a prenderle. Non lo lasciò finire, perché quello che stava ascoltando ora era troppo reale da accettare, perché non ce la faceva e sentiva di voler gridare fino a perdere la voce. Sapeva di aver sbagliato, e il senso di colpa lo tradì, svelando un doloroso sentimento di rabbia. Reagì e spinse all'indietro l'amico, provocandogli una forte irritazione al sopracciglio destro, che schizzò al centro della fronte con un autocontrollo folle.
<< Erik che...! >>
<< Sta zitto, Mark, sta zitto cazzo! >>
Stava per esplodere. Di vergogna, di umiliazione per essersi portato a letto una ragazza che non centrava nulla col suo dolore, maledizione, ancora. Averla tolta a Dylan, al quale interessava davvero di poterla conoscere, e non solo tra le lenzuola.
Era davvero un'idiota, un cretino. L'alcool lo aveva guidato nella sua debolezza più grande. Silvia.
Il solo pensarla gli infiammò la gola di rabbia.
Si portò le mani ai capelli, li arruffò, e quando Mark tentò di ribattere gli lanciò uno sguardo infuocato. << Sta fuori dalla mia vita Mark...! >>
<< Erik... >>
<< No, Erik un cazzo... Erik qui Erik lì Erik prendi le pillole, Erik blablabla... lo so quali sono i miei problemi, lo so, so cosa devo fare, smettila di ricordarmi che non valgo niente per favore, leave me in peace! >>
Erik non gli diede modo di controbattere, perché non gli interessava, non gli importava nulla di quello che doveva dirgli Mark ora. Non gli andava di sentire la sua voce, o vederlo.
E averlo davanti, stava diventando insopportabile. Quando gli occhi disperati di Kruger si fecero pressanti, il cuore di Erik si ruppe come una diga troppo piena.
Uscì dalla stanza sbattendo al porta, la testa pesante e la consapevolezza di aver appena combinato un disastro a cui solo lui poteva porre rimedio.
Come, ancora non lo sapeva. L'unica cosa sensata che poteva fare in quel momento era uscire da quella casa.
Scese di sotto e, imbarazzato, si infilò in gola le sue pillole quotidiane. Fece finta di non notare gli occhi color perla di Mary posarsi in ansia su di lui.
Ignorò il forte senso di sconfitta che lo prese ai polsi, cercò di non pensare all'occhiata di Dylan, alle parole di Mark.
Alla comparsa di Suzette aggrappata al braccio di un uomo che era mille volte migliore di lui.
Riuscì appena a sentire la domanda di Esther, prima che il sole di Los Angeles lo inghiottisse.
<< Mark è di sopra. >> le disse. Poi si allontanò di casa a passo svelto.
Aveva bisogno di aria fresca, di respirare e poter riflettere.
O sarebbe morto.
 
 
 
<< Ciao Dylan... non credevo che... >>
La frase si sciolse sulla lingua di Erik quando Dylan, con uno sbuffo stanco, prese posto al tavolo del bar. Portava gli occhiali sollevati sulla fronte, la coda bassa gli percorreva con eleganza la spalla ampia e lievemente incurvata in avanti. Era davvero bello, come sempre, sembrava che niente potesse scalfirlo da quella posizione forte. Ma i suoi occhi color nocciola, sempre luminosi, parevano quasi sbiaditi dietro una tenda di nebbia.
La tenda aumentò di spessore non appena si posarono su Erik, svogliate.
Eagle sapeva perché.
Sapeva che la causa era lui, e ciò lo mandò in bestia.
Aveva girato per mezza Los Angeles tutto il pomeriggio, a piedi, come un idiota, a guardare le vetrine dei negozi e a consumare caffè in attesa della sera. Aveva ignorato le chiamate di Mark, i messaggi di Mary, tutto.
Aveva scelto di isolarsi, e ci era riuscito alla grande.
Ma ciò che non era riuscito a fare, era stato non curarsi di quanto male avesse fatto a Dylan. Ad un certo punto della sera aveva sentito il bisogno di chiamarlo, per chiedergli di incontrarsi e parlarne.
Il ragazzo aveva accettato, e ora era lì, davanti a lui, in attesa.
Erik aveva pensato di saperlo fronteggiare, ma nella realtà delle cose, l'unico capace di parlare con Dylan era Mark.
E Erik avrebbe tanto voluto diventarlo, quando Keith si tolse gli occhiali dalla fronte e cominciò a picchiettarli sul tavolo scheggiato del locale, in imbarazzo.
Una macchina passò, producendo un po' di suono tra di loro, l'unico prima che il silenzio ritornasse a calare gravido sulle loro teste ciondolanti.
Come spiegargli che c'era stato un errore, che a lui Mary non piaceva neanche un po', che amava Silvia e che i suoi sentimenti lo stavano uccidendo di dolore.
Perché lei non era lì con lui, non era più nel suo letto, in casa sua.
<< Dylan... >>
Dylan lo guardò sconvolto. << Credevo che fossi rimasto muto. >>
<< Scusami, io... scusami, Dylan. >>
Non sapeva che altro aggiungere. Non voleva rivelargli il suo vero stato mentale, erano cose che sapeva solo Mark, e che a fatica gli aveva rivelato, in un momento di confidenza che era finito con una pacca sulla spalla e un sorriso.
Ma in quel momento gli sembrò la cosa più giusta da fare. Così prese coraggio e lo guardò con aria esitante. Nutriva un profondo rispetto per Keith, e non voleva nascondergli cose che meritava di sapere.
Per quanto facesse male raccontarle, per una volta scelse di mettere al primo posto qualcuno diverso da sé stesso.
<< Erik... >>
<< No, Dylan... >>
Dylan serrò le labbra e arrossì. Lo lasciò parlare, e ascoltò in silenzio il racconto che gli fece. Così Erik gli parlò di Silvia, che non voleva venire a vivere in America, che era troppo amica di Mark Evans, e che si erano allontanati.
Che l'amava ancora, e che sfogava la sua solitudine sulle altre, come riempitivo.
Quando la faccia di Dylan si fece scura, aggiunse che aveva avuto una mezza storia con Suzette, fatta solo di sesso, sempre per lo stesso motivo, e che quando l'aveva vista con Edgar si era immaginato Silvia accompagnata da un uomo migliore di lui, e aveva perso la testa.
Per quel motivo, era finito a letto con Mary.
Fu difficile ammettere che quella ragazza era stata soltanto un modo per liberarsi di Silvia, un esperimento fallito.
Ma glielo disse.
Quello, e nient'altro.
<< Queste cose Mark le sa? >>
<< Sì... >> quando Eagle parlò ancora, la voce gli uscì roca dalle corde vocali. << Mark sa tutto. >>
<< Anche della relazione con Suzette? >>
<< Sì. >>
<< I motivi? Sa anche i motivi? >>
<< Tutto, Dylan. >>
Al discorso aggiunse anche che non provava nessun sentimento per Mary, e soprattutto, che non aveva avuto idea che lui potesse provare qualcosa per quella ragazza. Fino a quello sguardo.
Ma ormai l'alcool lo aveva preso.
E si scusò di nuovo, mortificato.
<< Non lo avrei mai fatto se avessi saputo che... >>
Dylan lo fermò.
Erik sentiva il cuore premere forte contro la gabbia toracica, si nascose sotto la frangetta castana per scampare allo sguardo languido dell'amico.
Non sapeva cosa sarebbe potuto accadere di lì a poco, se Dylan lo avrebbe potuto perdonare o meno.
<< Non devi chiedere scusa a me. >> soggiunse Keith. << Ma a lei. E' a lei che hai fatto un torto. >>
<< Ma io... ti ho rubato la... >>
<< Non mi hai rubato nessuna, Erik. Lei non è un oggetto, non ho nessuna pretesa nei suoi confronti e non mi aspetto di piacerle o altro. Lei è libera di farsi anche Mark, o chi vuole, non è un problema per me. Ma se Mark ha intenzioni cattive, allora sì >> e alzò la voce. << sì, è un problema. Erik... l'hai usata. >>
<< E ho calpestato i tuoi sentimenti, Dylan. >>
Dylan si mise a giocherellare con l'orologio da polso, annuendo piano. Non se la sentiva di dare la colpa all'amico, non perché provasse pena o altro.
Semplicemente, Erik non ne aveva. E per questo gli sorrise, e gli diede una pacca sulla spalla, stringendogliela con dolcezza.
Non ce l'aveva con lui. Prima di tutto, perché Eagle non era stato a conoscenza dei suoi sentimenti per Mary. Come secondo, l'unica persona a doversi sentire ferita lì era lei, non loro. Le scuse che gli aveva posto Erik, avevano solo sbagliato destinatario.
Meritavano di andare alla ragazza, e cercò di farglielo capire con parole semplici, e di farlo calmare. << Erik, voglio che tu parli con quella ragazza e le chiedi scusa. Non è scopandoti mezza Los Angeles che starai meglio, e non è carino usare le persone. Il tuo problema con Silvia... >>
<< Non nominarmela. >> sputò Erik, rabbrividendo.
<< Erik, devi risolvere con lei. Devi dirglielo. >>
<< Non posso. >>
<< Why. >>
<< Perché non è interessata. >>
<< E che ne sai, di grazia? Chi sei per dirlo? >>
Non era nessuno, nessuno di valente, pensò il castano, e si lasciò scivolare sulla sedia. Aveva una voglia folle di attaccarsi a qualche bottiglia. Vodka, birra.
Anche solo semplice vino acquoso.
L'euforia di ieri lo aveva seriamente aiutato a staccarsi dai problemi, e si perse ad immaginare i capelli di Silvia carezzarle le clavicole, i suoi occhi color bosco, così profondi e dolci che...
strinse le palpebre e si lasciò sfuggire un gemito di nervoso.
Si stava scavando la fossa da solo, cristo.
<< Attento Erik, che l'orgoglio è una buona arma, ma non quando rimani cieco. >>
<< Dylan, vorrei solo poterla dimenticare. >>
<< Prima di farlo, vedi se la situazione si può risolvere. Ora devo andare Eagle, ho un sacco di cose da fare >> Dylan si alzò e gli sorrise, quei sorrisi sinceri che gli uscivano solo quando era tra amici veri, e che valevano ogni singolo istante passato con loro.
Anche il più brutto. << Promettimi che parlerai ad entrambe. Promettimi, anzi, prometti a me, Mark e Bobby, che non farai più cazzate del genere.>>
<< Lo farò. >> disse Erik, ma sapeva di star mentendo. Che avrebbe continuato fino a quando non sarebbe finito l'amore per Silvia, fino a quando non si sarebbe ridotto ad un ammasso di muscoli e capelli.
Il pensiero gli vacillò febbrile tra lei e Mary, e fu quando si concentrò solo su quest'ultima che ebbe la forza per stringere la mano all'amico e congedarlo.
Lo guardò attraversare la strada e infilarsi nell'auto, e per un momento ne invidiò il carattere forte e positivo.
Avrebbe dato per essere come lui.
Così giusto, una bilancia che pendeva sempre dalla parte corretta, impossibile da condizionare o manomettere.
Si perse a fissare il nero lucido della berlina di Keith, almeno fino a quando l'amico non lasciò il parcheggio provvisorio. Un muro freddo e grigio gli si parò davanti subito dopo.
E si sentì tanto quel muro, vecchio e logoro.
Con tanta voglia di crollare.

 
 
 
 
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nda
ehilà people!
Smattando e sgobbando sono riuscita a portare anche questo capitolo, ovvero l'ultimo aggiornamento di Aprile! Questo mese è stato piuttosto stressante dal punto di vista scolastico – tralasciando tutto il resto –, lol, per questo motivo avevo creduto di non riuscire a portare a termine il mio obbiettivo.
E INVECE. Invece beccatevi il quindici, uhuh.
Okay.
Questo è uno dei miei chapter preferiti, e vi spiego perché.
Solo una parola.
DYLAN. Io amo il personaggio di Dylan, perché secondo me è quel tipo di ragazzo che sembra folle ma è paurosamente razionale, freddo, schietto e pragmatico. Ho voluto rendergli omaggio in questa parte, mostrando la sua grande capacità di saper ascoltare e risultare imparziale; è molto diverso da Mark, che invece si lascia guidare dai sentimenti e dalle emozioni. Sembra il contrario, eppure io li ho sempre immaginati così. Li amo così e sono davvero contenta di poterlo dimostrare in questa long. Per quanto riguarda Erik, con questo capitolo si apre ufficialmente la gara a chi si scanna il primo posto come personaggio principale :''D, perché ci saranno più momenti ship tra Eagle e i suoi drammi che tra Mark ed Esther. Io personalmente ce lo vedo Erik a farsi tutti questi problemi, specie per Silvia. Mi sembra più codardo ed emotivamente instabile rispetto agli altri due, ma non vi preoccupate che tutto questo avrà una fine (???); e oh, il fatto che Mark insista tanto nei confronti di Erikkkazzo è perché nell'anime dimostra di essere un tantino apprensivo nei suoi confronti, anche se questo viene accentuato più nel doppiaggio inglese e spagnolo, in cui si nota chiaramente che, in quanto suo amico, si preoccupa davvero per lui, chiamandolo più volte e invitandolo a fare attenzione.
Per quanto riguarda il titolo, “waking up in Vegas” nell’urban dictionary significa letteralmente svegliarsi e ritrovarsi in una situazione indesiderata, come nel caso di Mary ed Erik. quanto sono brava nei titoli omg!!!
E nulla, non ho altro da aggiungere se non che sarei felice se mi lasciaste qualche recensione eee niente, anche Maggio quattro aggiornamenti.
Il prossimo capitolo è flawless.
 
A presto!
Lila

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Capitolo 17
*** Drunk in love ***


Chapter sixteen.
 
Drunk in love

 
 
<< Attenta alla linea, attenta alla linea... come se fosse facile, cazzo. >>
Esther aprì il cartone del latte e se ne versò a grandi quantità in un bicchiere. Poi lo sbatté con furia sul ripiano della cucina e si mise in punta di piedi sui calzini celesti, alla ricerca di nemmeno lei sapeva esattamente cosa.
Aprì gli scaffali e cominciò a frugare, un sopracciglio sollevato per la concentrazione. << Ce l'avrà il cioccolato? >> non appena lo disse lo sfiorò con le dita, e ne riconobbe la forma della scatola. Allora lo estrasse e lo guardò vittoriosa, sorridendo come una bimba felice che ha appena trovato il suo ovetto di pasqua dopo ore e ore di ricerca senza fine.
Nesquik, grande gioia della vita.
“Che dio benedica le multinazionali.”
<< Mark, ti amo! >> gemette, e se ne servì fino a quando il latte lasciato nel bicchiere non divenne nero e farinoso. Mescolò e si portò il bicchiere alla bocca, inebriandosi dell'odore del cioccolato, ma proprio mentre stava per mandare giù la prima sorsata qualcuno suonò alla porta.
Il cuore di Esther balzò in gola per lo spavento, e i suoi piedi fecero qualche passo indietro.
Erano le tre di notte, era tardi e buio, e lei stava bevendo del latte in santa pace. Chi poteva cercare casa Kruger a quell'ora?
Fissò gli occhi bovini sulla porta, e quando il campanello trillò di nuovo andò nel panico più totale.
Era sola, non sapeva chi fosse e non era la padrona di quella casa.
<< Cristo. >>
Posò il bicchiere e cominciò a torturarsi il labbro con i denti. << Svegliati, Mark. >>
Drrrrrrriiiiiin.
<< Mark, ti prego, alza quel culo sodo che ti ritrovi e vieni ad aprire. >>
Driiiiiiiiiiiiiiiiiiiiin.
Esther attese qualche altro minuto, ma quando realizzò che Mark non sarebbe sceso dal letto nemmeno se gli avessero bombardato casa, si arrese all'evidenza che per una notte avrebbe dovuto occuparsene lei. Così, da vero mastino di famiglia, emise un gemito di sconforto e si diresse a passo felpato sulla moquette bianca, fino a raggiungere la porta. Poi osservò attraverso lo spioncino, intimorita. Si aspettò di trovarsi davanti un killer armato di pistola, un pazzo in maschera, un testimone religioso con tutta la sua banda di fanatici, perché no, ma quando incrociò lo sguardo con gli occhi nocciola di Dylan, sbloccò la serratura anti-furto e schiuse appena per poterlo osservare senza farlo entrare.
<< Dylan? Che... >>
<< Ciao Esther! Mark dorme? >>
<< Uhm... >> Esther cercò di osservare oltre le spalle del ragazzo, ma non vide niente poco di meno che il buio fondente delle notti americane. Che poteva volere Dylan Keith alle tre di notte? Da Mark Kruger? Decise di non fare domande, ma la curiosità fu difficile da reprimere. Quasi quanto la sua voglia di latte e cioccolata, a quell’ora improponibile e stralunata. << immagino di sì, non è sceso. >>
<< Allora sì, è partito per la tangenziale. >>
<< Eri previsto, Keith? >>
<< No. Me lo svegli? Ho bisogno un attimo di lui. >>
Esther esitò dinanzi a quella richiesta, muovendo le punte dei piedi con impaccio. Svegliare Mark significava entrare nella sua camera, maledizione. Nulla di difficile detta così, ma il vero problema non era tanto pregare che si alzasse di buon umore.
Il problema era che dormiva con una ragazza. E anche se non stavano insieme, condividevano un letto.
E magari anche i corpi. Non se la sentiva di entrare, perché qualora si fosse trovata davanti un Mark addormentato sul seno di Melanie, o una Melanie accoccolata sul petto ampio di Mark, sarebbe esplosa di gelosia e si sarebbe sciolta come un ghiacciolo al sole con conseguenze mentali molto poco placide.
Ma lo sguardo di Dylan sembrava preoccupato, non scherzoso, e i suoi occhi luminosi per la prima volta le lanciarono un disperato allarme. E così rinunciò al suo latte e cominciò a salire freneticamente le scale, nervosa.
Si fermò dinanzi alla porta della camera dove Mark dormiva, e il primo impulso fu quello di bussare. Per non disturbarli.
Ma alla fine scelse l'irruzione silenziosa, e si gettò di peso sulla maniglia per aprirla.
Quando il buio si fece più sottile, rischiarandosi appena, il bianco delle lenzuola stropicciate tra le gambe di Mark fu la prima cosa che notò. Gli percorse i polpacci, le ginocchia forti, per rendersi conto solo alla fine dell'avida perlustrazione che era sul bordo del letto, girato di schiena.
In boxer, e un’orribile maglia a maniche corte rossa.
Arrossì e si addentò il labbro inferiore. Avrebbe voluto osservarlo per sempre, perdersi in mezzo a quei muscoli da vecchio giocatore di calcio che si incastravano perfettamente gli uni con gli altri. Poterci passare una mano ovunque all'infinito, come un disco rotto. Ma gli occhi di Dylan chiamavano. Con una certa fretta, anche.
Superò la postazione di Melanie, notando con malcelato stupore - e gioia - come stessero dormendo separati.
Sembrava esserci un muro d'ossigeno tra di loro, di parole non dette e che era meglio non far uscire. Vietato sorpassarlo, nemmeno per sbaglio.
O uno dei due sarebbe rimasto ferito, e Esther purtroppo sapeva chi.
Cercò di fare il meno rumore possibile nel lasciarsi cadere davanti a Mark. Lo guardò col fiato intrappolato nel naso, ammirò come le luci della città che passavano attraverso i fori delle imposte gli chiazzavano la pelle levigata di tenui bagliori argentei. Lo sfiorò con mano cauta, saggiò il suo bollore, percorse il profilo del braccio sinistro malamente nascosto sotto il cuscino. Si chiese come facesse a stare comodo in quella posizione, tutto nascosto.
Come se avesse paura di lasciarsi guardare dalla luna.
Una scia di brividi la tenne rigida quando le dita gli toccarono appena la frangia, per scoprire la fronte stretta.
Era divino. Era davvero bello, ma lei stava perdendo troppo tempo. << Maaaark. >> lo chiamò, ma nulla.
Solo un profondo sospiro. Come si svegliano gli orsi in letargo senza finire divorati?
Lo accarezzò tra i capelli, piano. Gli venne in mente di baciarlo, e in un impeto di curiosità quasi non lo fece, attratta da quelle labbra serie che i ciuffi biondi di capelli nascondevano appena.
Si chinò in avanti, corrucciò la bocca, e lui si svegliò proprio in quel momento, cullato dal tepore delle carezze tra i capelli. Esther lasciò cadere la mano e si allontanò, a disagio. << Mark... >>
Se non si fosse svegliato, lo avrebbe baciato. Soppresse l'emozione, non era il momento quello. Lo sguardo confuso di Mark vagò per tutta la stanza, poi si fermò su di lei, due tizzoni chiari che brillavano nel buio pece della notte. La scrutò rilassato, quasi compiaciuto di averla lì. E anche un po’ stordito. << Es... >> si leccò le labbra impastate di sonno. << Esther..? >>
<< Mark, buongiorno. >>
Lo sbadiglio che ricevette in risposta la fece ridere, e lo guardò massaggiarsi tra i capelli biondi e spettinati mentre rannicchiava le gambe coperte di fini peli chiari.
<< So che sono le tre di notte, so che sono in camera tua, e che tutto questo sembra molto ambiguo e contorto--
Mark reagì con un mezzo sorriso dinanzi a quella ruota di giustificazioni. Mark la stava trovando carina.
La situazione cominciava ad avere del tenero.
<< ma Dylan... Dylan ha suonato. >>
A quella conclusione inaspettata, le sopracciglia del ragazzo si aggrottarono appena.
L'unico, affilato gesto di stizza, seguito da un profondo silenzio che non voleva dire niente, ma che voleva dire anche tutto. << Dylan. >> disse, dopo quelli ad Esther parvero minuti eterni di indugio.
<< Dylan, sì. >>
Mark guardò oltre la finestra, placido. Poi si tirò su le coperte, diede un'occhiata alla sveglia, si lasciò sfuggire un risolino e si stese. I capelli mossi si spiegarono sul cuscino come petali di margherita, tornando scarmigliati e armati di gravità propria. << Digli di prendersi delle pillole se non riesce a dormire, e no, non ho intenzione di andare a correre con lui. Se insiste, mandalo a fanculo. Ci penso io domani. >>
<< No, Mark... è grave, sembra preoccupato. >>
Alla parola grave si tirò su con uno sbuffo e si decise, dopo una bellissima serie di adorabili imprecazioni, a seguirla fino alla porta d'ingresso. Già un progresso, pensò Esther mentre scendeva i gradini a velocità supersonica.
Lo portò fino alla porta di casa, e quando gli fece il favore di aprirgliela, Mark incrociò le braccia al petto, in boxer, e mise su uno sguardo terrificante che non ammetteva nessuna giustificazione. Figurarsi a quell’ora. E probabilmente, aveva pure ragione.
<< Uoh! >> fece Dylan, sgranando le iridi alla vista del migliore amico in quello che poteva definirsi “pigiama arrangiato” molto casual. << Mark. Salve. >>
<< Dylan, per la miseria, che ci fai qui alle tre di notte...! >>
<< Mark, lo so, non cominciare con la lagna. >>
<< Mi sono preso queste due settimane per stare in pace. >>
Dylan guardò Esther. Ecco la lagna. Per l’appunto.
<< Se volevo stare sveglio alle tre di notte, rimanevo a congelare a New York, nel giubbotto antiproiettile, nel pieno di uno straordinario. >>
<< Lo so, ma... >>
<< Ma un cazzo, vattene. Vattene, o ti ammazzo, Dylan. >>
<< Si tratta di Erik, Mark. >>
Lo sguardo di Mark si gelò all'istante, sopraffatto da quella dichiarazione, e le braccia si sciolsero sui fianchi stretti.
Persino Esther, che nel frattempo era ritornata al suo amato latte con la cioccolata, smise di sorseggiare, concentrandosi su ciò che stava accadendo. In effetti, Erik non si vedeva da diverse ore. Da quella mattina, per essere precisi. Mark aveva provato a chiamarlo più volte, ma non era uno a cui piaceva insistere, e così aveva lasciato perdere, sostenendo che le scomparse di Erik facevano parte del loro vivere quotidiano. Invece ora, a guardarlo, sembrava aver appena ricevuto una secchiata d'acqua gelida in faccia.
<< Vieni Mark >> disse Dylan, ma non ce ne fu bisogno, perché Mark avanzò prima di lui. Calpestava l'erba con i piedi scalzi, e il migliore amico lo condusse alla sua auto, parcheggiata dinanzi al cancello d'ingresso che aveva malamente scavalcato per venire a suonare il campanello.
Esther si affacciò alla porta, curiosa. Che cavolo stava succedendo?
<< What's going on, Dylan? >>
<< Dimmelo tu Mark. >>
Dylan aprì la portiera, e quello che Mark ci trovò dentro gli fece sussultare la gola. Mosse un passo indietro, mentre gli occhi pieni di rabbia e confusione mettevano a fuoco la testa castana di Erik. Il giovane Eagle era appoggiato al vetro, disteso sui sedili, sembrava dormire ma in realtà stava alternando risate a deboli pianti. La maglietta verde aveva un grosso alone marrone, che scendeva fino all'ombelico.
Era ubriaco.
Da far schifo, Mark poteva sentire l'odore di tequila da quella distanza. << Erik... >>
Erik finalmente si accorse di lui, e singhiozzò quando lo vide. Mark faceva fatica a riconoscerlo; il volto pieno di lievi lentiggini era chiazzato di rosso, le labbra brillavano lucide sotto la luce potente delle quattro frecce.
Tremava, e stava male. << No, Dyyylan, ti avevo detto di non portarmi da Maaark...! >>
Dylan fece il sunto della situazione, ignorandolo. << Mi ha chiamato perché lo venissi a prendere in questo locale. Quando ho visto che era sbronzo ho pensato che fosse meglio vederci tutti insieme. Ovviamente, lui mi ha pregato di non dirti nulla. E, ovviamente, io non l’ho ascoltato. >>
Mark non aveva parole, era mortificato. Vedere uno dei suoi amici più preziosi ridotto in quelle condizioni soltanto per una ragazza, gli aveva come pietrificato le corde vocali.
Gli uscì solo un mezzo sussurro di confusione, gli occhi fissi su Erik.
Lo stesso poliziotto che lo accompagnava nelle notti fredde di New York, e metteva la musica country nell'auto quando erano di pattuglia per le strade più trafficate della città.
Lo stesso ragazzo che aveva giocato nella Unicorno con lui, che aveva dimostrato al mondo intero che niente era in grado di abbatterlo, nemmeno davanti a milioni di fan.
Né una malattia, né un camion a tutta velocità sparato sulla tangenziale, niente.
E invece, aveva mentito. A tutti.
Perché Silvia lo stava devastando.
<< Portiamolo dentro. >> disse, riprendendosi.
Afferrò Erik per le caviglie e, mentre Dylan lo teneva saldamente per le braccia, insieme riuscirono a trasportarlo dentro e a gettarlo sul divano.
Esther era sconvolta, e si fece piccola contro il muro mentre osservava quella scena. Erik continuava ad alternare risate a pianti, e riuscì a buttare giù dal letto anche Melanie e Mary.
La blu non disse nulla, la bocca le si sigillò da sola.
Erik ubriaco sul divano e Dylan nervoso bastavano come scenario, e si schiantò contro il muro, cercando di capire che cavolo stesse succedendo in quella casa, a quell'ora.
Mark lo fece stendere con delicatezza, accompagnando il suo movimento con le mani grandi. << Erik, mi dispiace così tanto >> mormorò, la disperazione bloccata nella gola.
<< Mark, ti prego... >> sussurrò il castano, e si tappò gli occhi quando per errore si mise a fissare la luce intensa del lampadario. Kruger lo protesse con le spalle, proiettando un alone d'ombra sul suo corpo.
<< Avevi promesso. >>
<< Cristo Mark... lo so cosa avevo promesso, mi dispiace... mi dispiace, ok?! >>
<< Shhh, calmati Erik. Vuoi che chiamiamo il pronto soccorso... anche se mi sembra eccessivo, per precauz--
<< No! >> Erik si liberò delle mani di Mark, e Mark lo lasciò fare. I capelli castani gli si erano incollati alla fronte imperlata di sudore, il fiato caldo gli usciva dalle labbra ad ogni respiro nervoso.
Sembrava sul punto di un collasso isterico.
Ma Dylan e Mark non avevano paura, e attesero che parlasse, vigili come sentinelle.
<< Non voglio andare in ospedale! Non voglio che l'America mi veda così...! >>
<< Non ti vedrà. Resti qui Erik, tranquillo. Sorry. >>
Il castano parve calmarsi appena nell’udire le parole di Mark. Immaginò che fosse Silvia, Silvia che si preoccupava per lui, che lo baciava con le sue labbra timide e ingenue. Sognò i suoi capelli lunghi e verdi che gli coccolavano il mento, la sua pelle più bianca della neve che rifletteva i raggi del sole, i raggi del loro amore.
Sognò di sposarla come aveva fatto Bobby, e di farle fare il giro del mondo in cambio di un suo sorriso.
Le mancava, alla follia, e nulla sarebbe mai cambiato se lei continuava a tenersi lontana da lui.
Lacrime di vergogna cominciarono a corrergli per le gote sfregiate dal rossore dell’alcool.
<< Mi manca... >>
lo disse con voce rotta, disperata, e Mark lo fece sollevare per farlo un po' respirare. << Ti viene da vomitare, Erik? >>
<< No, io... >>
Si immaginò Silvia disgustata da lui, da cosa era diventato senza la sua presenza la mattina.
Un debole.
Un idiota, che andava a letto con tutte alla ricerca di lei, e che ovviamente falliva. Perché Silvia Woods era insuperabile.
Era la regina del suo cuore, e questo, questo lo rendeva fragile.
Guardò Mary, e provò una pena immensa per sé stesso. Per averla portata a letto, cercando in lei i tratti dell'unica donna che amava.
E allora vomitò tutto sulla moquette, tutti i rimpianti, i dolori, l'alcool schifoso che nemmeno poteva bere. Mark non disse una parola, gli tenne i capelli su mentre Eagle finiva di rigettare anche l'anima.
<< Scusa Mark... >>
Mark rise. << per la moquette? >>
<< N-no, per questo, io... io la amo, ma lei... lei è andata via e io... io amo Silvia, Mark...! La cerco nelle donne ma non la trovo...! >>
<< Non ti preoccupare, forza. Butta fuori tutto Erik. Tutto. >>
Erik arrossì e fece come richiesto, nervoso. Quando terminò, si tirò a sedere e si prese la testa tra le mani, gli occhi neri lucidi come diamanti nella notte.
Voleva piangere, ma aveva finito le lacrime. Voleva gridare, ma aveva finito la voce.
Voleva Silvia, ma lei non c'era cazzo, e la testa girava, e Dylan lo guardava, e l'aria gli veniva a mancare tutte le volte che lo stomaco tremava contro le pareti della pancia.
Mark prese l'aspirapolvere a vapore acqueo – madre ingegnosa – e cominciò a darla sulla moquette, impacciato, mentre Esther offriva al povero ragazzo un pacco di pop corn per rigenerare un po' la gola corrosa. << Erik, mangiali tutti, prima che lo faccia Mark. >>
Bastò a farlo ridacchiare, e Kruger la ringraziò per quell'uscita carina.
In tutto questo, Mary si era tenuta in disparte, in un angolo a guardare la scena insieme a Melanie. Gli occhi lillà si erano spostati da Erik al paesaggio fuori dall'immensa vetrata dietro il divano, ad ammirare il Downtown brillare in lontananza.
Avevano provato a concentrarsi su tutto, persino sugli oggetti più inutili presenti in quella casa.
Cercando di non piangere.
Ma alla fine l'umiliazione aveva avuto la meglio, e una lacrima le aveva rigato la gota pallida, finendo sulla clavicola.
Non poteva credere a quello che aveva udito. Erik l'aveva amata, ma c'era stato uno scopo dietro. E non era affatto bello, quello scopo, perché in lei aveva cercato quella Silvia, in lei. In lei Erik aveva messo tutte le sue frustrazioni e i suoi dolori, i suoi sentimenti per una ragazza che sembrava essere sparita. Si vergognò di sé stessa, per aver creduto che Eagle avesse voluto soltanto divertirsi un po', per essere stata così sciocca da permettergli di fare una cosa del genere, in balia dell'alcool.
Col suo corpo.
Uscì di fuori, Esther provò a seguirla ma fu Dylan a fermarla, tirandola dolcemente indietro. << E' la mia migliore amica! >>
<< Non ora, Esther. >>
<< Come prego?! >>
<< Deve farlo Erik. >>
<< Non posso affrontarla ora... >> mormorò Erik, portandosi un pop corn alla bocca tremante. << non posso, sto male... sto male e lei deve stare peggio di me, ma io... Silvia... >> guardò il pacchetto. Per adesso, voleva solo dormire.
<< Non ora Erik, quando ti sentirai pronto. >> gli disse Mark, cauto. << Ti accompagno in camera. Hai bisogno di farti una bella doccia, e poi una bella dormita, c'mon. >>
Così Kruger prese Erik per un braccio e lo accompagnò fino alla porta del bagno. << Non voglio fare la doccia. >> sbottò Eagle, impuntando le scarpe che odoravano ancora della frescura della notte.
<< Erik, andiamo dai. >>
<< Non voglio farla! >>
Nulla da fare. Allora Mark lo aiutò a raggiungere la stanza. Lo fece scivolare nel letto e lo aiutò a levarsi la maglia sporca e le scarpe slacciate e sporche di fango, poi gli tolse il sacchetto di pop corn dalle mani. Sentiva di volersi arrabbiare con lui, ma allo stesso tempo non riusciva a farlo. Vederlo in quelle condizioni gli provocava solo una grande tristezza.
Bisognava fare qualcosa con Silvia, magari chiamarla e metterli d'accordo, perché Erik non era in grado di dimenticarla. Come lui non era stato in grado di dimenticare Esther.
Ci avrebbe pensato domani, a mente lucida. << Vai a dormire adesso. >>
<< Mark... io... scusami. >>
<< Shut up. Ne parliamo domani, ora dormi. >>
Gli spense la luce e socchiuse la porta. Quando scese, Dylan si era accomodato sul divano, le gambe lasciate dolcemente a penzoloni.
<< Le ragazze? >>
<< Sono andate a dormire. Tutte e tre. >>
<< Mary mi è sembrata sconvolta... >>
Dylan non rispose. Si limitò a cercarla con lo sguardo, perfettamente conscio del fatto che era andata a dormire. O almeno, a provarci.
Mark si massaggiò le nocche delle mani. Si sentiva a pezzi per Erik, ma a quell'ora della notte, e in quelle condizioni pietose, non si poteva fare più nulla. Avrebbe aspettato domani, per trovare una soluzione tutti insieme. Si voltò verso l'amico, che si era messo a visualizzare i messaggi persi sul cellulare. << Tu che fai, resti qui? >>
Dylan gli sorrise, e gli fece segno di sì col pollice. << Non sapreste vivere senza di me, amorini miei. >>
<< Idiota. >> e risero, cercando di lasciarsi alle spalle la tremenda giornata che li aveva visti protagonisti.
<< Vado a dormire, Dylan. >>
<< Notte honey. >>
<< Cretino, non suonarmi più alle tre di nott--
<< Blablabla, god you're so boring Kruger! >>
Mark sorrise.
Gli faceva piacere averlo lì come presenza fisica, su quel divano. Erano loro due ed Erik, adesso, e basta.
Singolarmente erano dei disastri.
Ma insieme potevano fare tutto.
E avrebbero aiutato Eagle, a tutti i costi.



 
___________________________________________
Nda
Ehilà! Eccomi qui col primo aggiornamento di maggio. Premetto che scrivere questo capitolo è stato emozionante per me. Prima di tutto, perché Mark svegliato a forza da Esther è qualcosa di fantastico . Secondo, mi piace proprio scrivere e fare focus su questi tre. Mi riferisco a Kruger, Dylan ed Erik ovviamente. Sono del parere che abbiano un tipo di amicizia tutto loro, ed è bellissimo poterci dilagare su, perché mi fa sempre in qualche modo… sorridere. Infatti questo è uno dei capitoli che preferisco, non tanto per cosa succede al suo interno, quanto per come Mark e Dylan diventino all’improvviso delle ancore di salvataggio per Erik, “devastato” appunto dall’amore per Silvia - che poi, vedrete più in là cosa accadrà -. Allora, se vi ricordate nello scorso capitolo avevamo lasciato la nostra castagna nana (?) al bar con Dylan. Ecco, ciò che è accaduto dopo ho evitato di dirlo, ma il fatto che sia arrivato ad ubriacarsi di brutto dovrebbe lasciarvi intendere che si è dato alla pazza gioia per tutto quel lasso di tempo. Il solito “bere per dimenticare”, ecco. Poi nulla, poi ha capito che fa schifo (?) e ha chiamato Dylan per farsi portare OVUNQUE tranne che da Mark, ma siccome Dylan è bastardo cattivo gnnn (love him so muccch), l’ha proprio portato da Kruger la mammina ehehe. Dite che è esagerato, dite quello che volete, ma io ce lo vedo tantissimo Erik ad atteggiarsi in questa maniera, considerando che fa sempre come diavolo vuole e non da mai ascolto a nessuno, nemmeno se gli strilli nell’orecchio e lo picchi con i tacchetti delle scarpe da calcio (??)
Non ricordo cosa succede nel prossimo capitolo, so enjoy. :d AH. Chiaramente, anche Mary ha le sue colpe, faccio centric su Erik perché è più protagonista lui di lei, ma eh, non è santa veh. Lasciate che ci parli Dylan >>
E nulla, ho finito quello che avevo da dire.
Mark spettinato è bellissimoh, ma chimica chiama, aaaa.
Lasciate una recensione se vi va! Ci terrei a sapere la vostra opinione su questo capitolo.
FINISH.
Byeee.

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Capitolo 18
*** Hello, queen of pancakes ***


Chapter seventeen.

​Hello, queen of pancakes



Qui va alla grande.

Per grande intendi che te la sei scopata, o che Cuba è meglio di Los Angeles?


La risposta di Bobby arrivò dopo qualche secondo, riflettendosi negli occhi castani di Dylan in quella mattina soleggiata di dicembre.


Sì. Lo abbiamo fatto.


Oh, god. Il giovane americano ebbe un esulto interno che lo scatto improvviso delle spalle lasciò intendere persino ai muri di casa di Mark, e la bocca si allargò in un sorriso compiaciuto. Era orgoglioso del suo piccolo Bobby, sposato, a Cuba e felicemente sverginato dalla donna nelle quali mani aveva scelto di affidare la sua intera vita. << Finally..! >> gli scrisse qualche complimento, e Bobby in cambio gli inviò una foto di Aurelia che dormiva accartocciata tra le coperte di quello che sembrava essere il letto di una stanza d'hotel. I capelli castani le coprivano il viso, la gamba candida spiccava sulle lenzuola color lavanda che la avvolgevano come un involtino.
E che gamba, signori. La gamba più bella che Dylan avesse mai visto, seconda solo a quelle aggraziate di Mary che il giorno delle nozze avevano volteggiato per tutta la sala da ballo.
Si rilassò a quel pensiero, sprofondando nel fondo dell'oceano di cuscini provvisori che Mark gli aveva prestato per dormire senza spaccarsi il collo.


E' adorabile. Ora solleva le coperte, che voglio vedere  il resto.


Bobby gli rispose mandandogli lo scatto mosso di un dito medio piuttosto irritato, e Keith avrebbe controbattuto con qualcosa di ben più crudele, sì, se Mary non fosse comparsa all'improvviso in sala.
Catturandogli tutti i sensi, fino all'ultimo. << Ehi. >> d'istinto si alzò sul divano, ma seppe tenere a bada la voglia di raggiungerla.
Lei fu come se si fosse resa conto di lui solo in quel momento. Lo scrutò, e gli sorrise appena, per poi affondare la mano nella borsetta nera che portava agganciata al braccio destro. Portava dei jeans e una canotta beije cosparsa di pallettes.
Sembrava volesse uscire, di tutto pur di allontanarsi da Erik, Dylan glielo leggeva nello sguardo.
Inoltre conosceva bene quei sorrisi tirati, Mark gliene faceva di continuo quando qualcosa non andava come avrebbe voluto lui. Non se la sentì tuttavia di chiederle come stava; sarebbe risultato banale e cretino. Anche perché era evidente a tutti che quella ad aver subito il peggio, ieri notte, era stata lei.
<< Sei molto bella vestita così. >>
La osservò arrossire e passarsi una mano sullo chignon ben fatto, che le conferiva un aspetto regale e ordinato, quando dentro in realtà si sentiva un disastro.
<< Stavo per uscire. >>
<< Bene, lo farò con te, che dici? >>
Mary sussultò dentro e si strinse nelle larghe spalle da nuotatrice, ma non disse o fece nulla per fermarlo. Aveva pensato di andare  a farsi una camminata da sola, in quel parco vicino a casa che aveva notato qualche giorno prima, ma ora che lui si era voluto inserire all'interno della sua bolla tutto divenne un grande dubbio. Quello di cui aveva bisogno evidentemente non era di stare da sola, ma di sentirsi vicina ad una presenza solida che potesse fornirgli una colonna d'appoggio.
Così la accettò. Accetto quella colonna come si raccolgono cinquecento dollari da terra, e ci si aggrappò in silenzio per tutto il viaggio di andata.



A Mark non piaceva cucinare, affatto. Tuttavia, le rare volte che gli schizzava in testa il ghiribizzo di mettersi in cucina, riusciva sempre  a riprodurre qualcosa di buono. Non ai livelli di Erik, chiaramente, ma quella mattina Erik dormiva, esausto, morto, dopo una serata che lo aveva visto nella sua forma peggiore.
E Mark voleva fare qualcosa per lui.
Aiutarlo, in qualsiasi modo. Quindi perché non preparargli la colazione, tanto per cominciare? Per una volta si sarebbero invertiti i ruoli, ruoli in cui solitamente lui era il Re indiscusso tra i due, ed Erik l'adorabile schiavetto sottopagato. Per quel motivo, e forse tanti altri, Kruger afferrò la scatola che conteneva l'mpasto dei pancakes e la rovesciò in una ciotola capiente, decorata con adorabili elefantini rosa. Che gusti pessimi, sua madre. << Così? >>
<< Di meno Mark. >> gli disse Esther, alla quale tutti i giorni spettava mettere alla piastra più di mille pancakes, accompagnati da un quadretto di burro e quattro tipi diversi di sciroppo, dal tradizionale old-fashioned a quello fragolato, a suo parere disgustoso.
Mark tolse un po' di impasto con entrambe le mani e lo rimise nella scatola di cartone. Poi infilò la ciotola sotto il getto potente del rubinetto e ritornò a guardare la mora, che si era seduta su una sedia a fissare divertita la scena. << Quanta acqua? >>
<< Sei tu l'americano, Mark! >>
<< Yes I know, but... but I don't know how to... >>
<< Tanta acqua quanto lo vuoi spugnoso. Se ce ne metti poca viene molto sottile. Scegli, sono buoni in entrambi i casi! >>
<< Thanks. >> Mark provò a ricordare i gusti di Erik, ma siccome lo aveva visto mangiare di rado – troppo di rado, forse - quel genere di cose, si basò allora sui suoi, sperando che al castano potessero andare giù per la gola con un largo sorriso compiaciuto. Così aggiunse all'impasto abbondante acqua, e dopo aver amalgamato i due ingredienti, li gettò sulla piastra imbrattata di burro che crepitava fremente sul fornello elettrico.
Li guardò scoppiettare, come un bambino confuso che non sa bene come procedere. O meglio, che lo sa, ma non si sente sicuro. << Chissà se Erik ha dormito bene, questa notte. >>
Esther si mosse sulla sedia, facendola cigolare. << Sono sicura di sì. Vedrai che oggi si sentirà meglio. >>
<< Certo che se Dylan fosse rimasto qui, piuttosto che andarsene a scorrazzare in giro con Mary... avremmo risolto la situazione insieme. >> sbottò Mark, e cominciò a girare i primi ovali color crema per farli cuocere su tutti i lati. Quella mattina si era alzato con casa mezza vuota – sì, Dylan valeva il 50% della presenza -, e subito si era chiesto dove fosse sparito il suo migliore amico, dal momento che sul divano aveva lasciato solo una coperta sfatta e qualche capello biondo paglia attaccato ai cuscini.
Poi, quando si era reso conto che mancava anche Mary, aveva ipotizzato fossero scappati chissà dove. Ci aveva pensato un messaggio di Keith a dirgli che era uscito un momento con lei. A fare cosa, rimaneva un mistero.
<< Mary era devastata, ieri. >> aggiunse Esther, e gli tolse la spatola di mano per occuparsi dei pancakes.
Mark la lasciò fare, e l'ammirò sollevare le cialde bollenti con la maestria di un giocoliere, affascinato da lei. Affascinato da tutta lei, dai capelli mossi che le scivolavano a ciocche sulle spalle, arricciandosi sul seno prosperoso che riusciva ad intravvedere appena dal collo ampio della maglietta, da come metteva su quello sguardo determinato per dei semplici pancakes, quasi li accogliesse tutte le volte come una sfida importante che non poteva assolutamente perdere.
<< Io... vorrei potermi occupare di tutti, ma... non riesco nemmeno a star dietro a dei pancakes. >> scoppiò a ridere, ed Esther gli lanciò un'occhiata talmente maliziosa da farlo rabbrividire. Era talmente bella che baciarla tutta non sarebbe mai stato in grado di saziarlo a sufficienza. Mai. E averla lì, accanto a lui, in una mattina che di normale non aveva più nulla, lo faceva sentire bene.
Così bene che gli sembrava di sognare.
Che per un istante avrebbe voluto davvero averla, nella sua vita. Come donna, come amante, come migliore amica e tutto il resto. Al posto di Melanie.
<< Non ti preoccupare, Mark, Dylan si occuperà di lei. Tu, occupati di Erik. >>
<< You're right. >>
<< Certo che I'm right! >> esclamò la mora, per poi annunciare con un largo sorriso che i pancakes per il caro Erik erano più che pronti. Mark le procurò un piatto e la aiutò ad apparecchiare.
Fu in quel momento che il castano fece la sua comparsa in sala, i capelli spettinati e gli occhi talmente grandi e affamati da fare quasi dolcezza. << Erik... >> disse Mark, ma Esther gli parlò sopra. << Buongiorno, Eagle! Non indovinerai mai che cosa ti ha preparato Mark. >>
<< Mark ha preparato qualcosa per me? A cosa devo tutta questa premura? >> Erik sorrise all'amico, e bastò questo per farli convolare a pace. Entrambi si lasciarono alle spalle l'accaduto spiacevole di ieri, e si sedettero a tavola per ripristinare i pensieri negativi con un po' di sciroppo d'acero.
Mark gli porse il piatto, con un sorrisetto strafottente dipinto nel viso allegro. << Approfittane, non sarò così gentile con te quando torneremo a New York. >>
<< Meglio che ti sfrutto allora! >> Erik sguainò la forchetta e l'affondò nel
 morbido impasto dei pancakes. Poi se ne portò una buona porzione alla bocca e si gustò il sapore dolce dello sciroppo d'acero che gli coccolava la lingua e lo risvegliava dal profondo sonno che aveva interrotto solo cinque minuti prima. Anche Silvia glieli faceva. Tutte le mattine.
Era impossibile dimenticare il sapore delle sue labbra in quei buongiorno che pensava sarebbero potuti durare per sempre, e che invece ora si erano spezzati in due.
Faceva così male che continuò a mangiarli solo perché glieli aveva fatti Mark.
La faccia che mise su il biondo fu di completo dubbio, ma la ignorò. Non era giornata quella. Dopo le pillole sarebbe andato a farsi una corsetta mattutina, poi in giro da qualche parte, resistendo alla tentazione di permettere ad una birra di troppo di curare il suo mal d'amore.
<< Mi ricordano lei, Mark. Ma sono buoni, davvero. Cristo, sanno di lei. Delle nostre mattine insieme e... >>
Kruger annuì comprensivo, le sopracciglia lievemente accartocciate sotto la frangia baciata dai raggi del sole. Doveva fare qualcosa per aiutarlo, e un'idea gli s'infilò in testa in quel preciso istante, come un fulmine che colpisce un mare piatto e tranquillo nel bel mezzo di un giorno di calma. Non era bravo in amore come Dylan, anzi, il più delle volte le sue relazioni erano state un completo fallimento, come l'ultima con Melanie.
Finita con tanto di corna.
Però, era bravo a farsi in quattro per gli amici. Per correre il rischio al posto loro. << Erik... >> si sporse verso di lui. << hai ancora il numero di Silvia? >>
Erik scattò sulla sedia, e arrossì con violenza dinanzi a quella domanda senza peli sulla lingua. Si schernì il viso con il braccio e guardò l'amico con aria preoccupata. Come se volesse portargli via la cosa più preziosa che Dio avesse mai voluto regalargli, come se non potesse nulla contro Mark, contro la sua forza. Cristo, aveva bisogno di una doccia. << Why. >>
<< Così. Per sapere se ti sentivi ancora con lei. Dovresti farla sparire definitivamente dalla tua vita. >>
<< Vado a farmi una doccia. >>
<< Erik, non potrai aspettarla per sempre. Ti sta uccidendo. >>
Ma Erik già non l'ascoltava più. Divorò l'ultimo pancake, lo guardò torvo e dopo aver brontolato parole incomprensibili, sparì in bagno. Chiuse la porta talmente forte che persino Esther, distesa sul divano a guardare un programma trash su donne indipendenti che si scopavano mezz'America, si voltò verso Kruger, stralunata. << Che hai fatto, idiota?! Erano solo pancakes riconcilianti! >>
Quando lo vide sorridere, rilassò appena le spalle, interdetta. Uomini, che mistero.
<< Sono un bravissimo bugiardo. >>
<< Sei solo pazzo. >>
<< Troppo. >> Mark si alzò dalla tavola con un energico scatto delle gambe e le fece cenno di seguirlo al piano di sopra. Così Greenland scivolò via dal divano e si mosse in sua direzione proprio mentre, alle sue spalle, la voce di una ragazza alla tv esclamava con orgoglio che si era fatta un sacco di ragazzi per vendicarsi dell'ex, che l'aveva tradita.
Si chiese quanto scopasse Mark. Chi gli avesse portato via la verginità, se era stato bello e come l'aveva vissuto, e quando si rese conto che sarebbe potuta essere lei a prendergliela per prima, un brivido la percorse dalla testa ai piedi.
Lo seguì sino al piano superiore, e lo seguì anche quando lui, silenzioso come un gatto, s'infiltrò nella camera di Erik. Le imposte erano abbassate, il letto sfatto emanava ancora calore.
Sembrava la stanza di un condannato a morte.
Il cuscino sudato lasciava intendere che Eagle non aveva passato affatto una bella nottata.
<< Che vuoi fare, Mark? >> gli chiese Esther, toccandogli una spalla curiosa.
<< Parlare con Silvia. >>
<< Mark! >>
<< Zitta, Est. >> l'americano rovistò tra gli utensili sul comodino, poi dentro i cassetti. Quindi saltò sul letto e affondò le mani sotto le coperte, concentrato. Tastò le lenzuola per attimi che sembrarono eterni, fino a quando la nocca dell'indice non toccò un oggetto rigido e freddo.
Lo estrasse e lo mostrò all'amica. << Lo perde sempre in fondo al letto. Lo conosco troppo bene. >>
<< E allora perché hai cercato in mezzo ai cassetti? >>
<< Volevo assicurarmi che dopo il discorso a tavola non fosse passato di qui per nascondermelo. >>
Esther volle avvicinarglisi, ma Mark la fermò con una mano, e per sbagliò la colpì con forza sul petto. Il volto dell'americano divenne una maschera rossa, il sangue gli schizzò agli zigomi, la pressione salì a tal punto che fece un' enorme fatica a controllare l'immensa espressione terrificata che gli trapassò il viso. Era la seconda volta che le toccava le tette per sbaglio. << Maledizione, perdonami... >>
La mora si portò una mano davanti alle labbra, ma non disse nulla. L'imbarazzo era talmente tanto che non sapeva bene che razza di frase formulare, tantomeno cosa provare.
Mark l'aveva toccata, di nuovo.
E lei si era sciolta sotto quel piccolo incidente di distrazione. Di nuovo.
<< Figurati, sono talmente grandi che.. >>
<< Non dirlo. Sono perfette. >>
<< C-come? >>
<< EH!? >>
<< M-Mark? >>
<< Dimentica, please. Scusami, è che... non c'è niente di male nel... sì insomma io... dai. Sono... sono normali. >>
Si guardarono, e Mark giurò di sentirsi congelare la gola dall'imbarazzo. Certe cose gli uscivano solo con lei. E in una maniera del tutto irrefrenabile che lo innervosiva, lo rendeva insicuro. << V-vai di fuori e fai da palo. Se Erik arriva, intrattienilo. >>
Esther andò quindi a stazionarsi dinanzi alla porta semichiusa, e per destare meno sospetto possibile si mise a fissare quella ben serrata del bagno. Se Erik fosse comparso in accappatoio e cuffietta, gli avrebbe potuto tranquillamente dire che non ne poteva più di tenersela dentro, e che gli era grata per essersi degnato di uscire. Poi lo avrebbe abbracciato, per ringraziarlo di aver liberato il bagno, e a quel punto Mark sarebbe scappato dalla stanza così come era entrato.
Così si mise sull'attenti e cominciò a sostare nervosa, con la mano calda di Mark che le aveva lasciato un marchio di fuoco sulla pelle del seno, e una folla voglia di baciarlo in fondo allo stomaco.
Mark, d'altro canto, si mise a cercare il numero di Silvia nel cellulare di Erik. Quando lo trovò - e gli ci vollero anni -, lo salvò sul suo e riposizionò il telefono dove lo aveva trovato. Poi smontò dal letto con un pesante cigolio di fine e raggiunse la mora.
Guardarla gli provocò una seconda fitta di vergogna, non tanto per la figuraccia appena fatta, di quelle ne aveva combinate anche troppe. Ma il fatto di trovarla bella lo disturbava.
E il fatto che in qualche modo quel contatto errato gli fosse piaciuto, lo stava mandando in bestia.
Lui non doveva pensare quel genere di cose. Non doveva pensare al seno di Esther, alle sue labbra floride, al suo carattere prorompente e determinato che si miscelava perfettamente al suo, come lo yin e lo yang.
Il nero e il bianco, il giorno e la notte e tutti i contrari che, abbinati, sapevano creare l'armonia perfetta in grado di tenere su il mondo intero.
Lui doveva recuperare il rapporto con Melanie, molto più importante e urgente. Chissà perché continuava a scordarselo, maledizione. Così se ne andò senza dirle nulla, senza pretese, e quando si accorse di essere seguito dall'amica, si voltò con talmente tanta enfasi da farla sobbalzare. << Esco in giardino un secondo. >> le disse, come se a lei potesse davvero importare.
<< Vengo con te. >>
<< No, voglio che intrattieni Erik nel caso gli venga qualche dubbio insano. >>
Esther annuì, e in attesa di Erik, si perse a spiare Kruger dalla finestra che dava al giardino sul retro, curiosa. Mark infilato nel bel mezzo di un rapporto amoroso frustrato e distante un intero oceano, che cosa strana.
Eppure il biondo stava davvero chiamando quella ragazza, per il bene del suo amico e di lui soltanto. A costo di passare per idiota.
E quello, quello non era strano per niente. Proprio così lo ricordava; come un ragazzo che per i suoi amici avrebbe dato anche la vita, e questo la portò ad ammirarlo ancora di più. Mark premette il cellulare sull' orecchio e si voltò giusto per notare che Esther e il suo sguardo avido di gossip non avevano nessunissima intenzione di perdersi l'epilogo di quella vicenda tormentata che aveva incasinato tutti loro.
Al quinto squillo finalmente Silvia si decise a rispondere.
<< Pronto? Chi... chi parla? >>
Aveva una voce calda, premurosa e lenta. Il genere di tono che poteva piacere ad uno come Erik, ma che Mark riusciva a stento a sopportare senza che gli cascassero le ginocchia.
Così arrivò subito al dunque, evitando di perdersi in troppi saluti. << Non ti spaventare per il numero americano. Sono Mark Kruger. >>
<< Mark? Quel Mark? >>
Mark immaginò di sì, immaginò di essere quel Mark. Ne esisteva forse un altro? Poi si ricordò del capitano del Giappone, e si portò una mano tra i capelli ridendo. Il fatto di portare lo stesso nome aveva comportato tanti di quei problemi al FFI, che Mark ad un certo punto aveva davvero desiderato di cambiare identità.
Durante le conferenze, quando chiamavano il nome di “Mark” e andava lui, in realtà volevano quello del Giappone.
Poi, se chiamavano l'altro, in realtà volevano lui.
Un continuo scontro, che era stato risolto soltanto alla fine, quando i gestori del FFI si erano resi improvvisamente conto che il Mark americano faceva di cognome Kruger, e quello giapponese terminava con Evans, e che di conseguenza potevano chiamarli per cognome.
Da lì non ci furono più problemi, ma era un aneddoto che il Mark americano non si sarebbe mai più dimenticato. << Come stai? >>
<< B-bene... uhm... perché mi hai chiamata? >>
<< Si tratta di Erik. >>
Silvia si gelò a quel nome, e tutta la dolcezza svanì aspirata dall'ansia. << Che succede? >>
<< Mettiti comoda, perché dobbiamo parlare. >>




<< Con chi parla Mark? >>
Esther smise di stirarsi le pieghe della maglia e si voltò in direzione di Erik, che finalmente si era degnato di uscire dalla doccia. Sembrava essersi ripreso dalla sbornia di ieri notte, eppure i suoi occhi neri tradivano un forte senso di vergogna, e angoscia.
Talmente tanta che la ragazza gli poggiò una mano sulla spalla, raggiante.
<< Tranquillo, Erik. >>
<< Voglio solo sapere con chi parla. >>
Esther sollevò gli occhi al cielo. Non aveva mai avuto modo di legare in modo profondo con Erik Eagle, a pensarci bene; ricordava solo che verso metà agosto di dieci anni prima, si erano allenati insieme per scopi del tutto individuali. Lei lo aveva fatto per allontanarsi da Mark, lui per togliersi di dosso Suzette, ma alla fine si erano trovati molto più in sincronia del pensato. Se Esther avesse potuto tornare a quei tempi, tuttavia, non si sarebbe mai allontanata dal capitano della Unicorno. Mai, ma che ne aveva potuto sapere di come sarebbe finita, allora? Avrebbe potuto godere della sua compagnia fino all'ultimo istante, lo avrebbe potuto appoggiare con la sua relazione insieme a Suzette, al posto di lasciarlo solo ad affrontare mille problemi dieci volte più grandi di lui. Sarebbe potuta uscirci insieme e farsi compare i vestiti più carini dell'epoca.
Ma maledizione, dopo il bacio lei lo aveva completamente smarrito.
Decise di non pensarci, e si rassicurò col fatto che il biondo in quel momento fosse a dieci metri di distanza da lei, in giardino.
<< Parla col capo. >> inventò, anche se non aveva la più pallida idea di chi fosse, ne tantomeno che faccia avesse. Sperò che Erik non la sottoponesse ad un interrogatorio, glielo lesse nello sguardo che le intenzioni per un lampo di istante erano state esattamente quelle.
Tuttavia non lo fece, e quando lo osservò allontanarsi per andare a scolarsi una coca cola, Mark rientrò.
<< Che razza di caldo. >> disse, e mise via il cellulare.
<< Mark, chi era? >> domandò Erik dalla cucina, ed Esther si morse la lingua talmente forte da sopprimere un gemito interno. Cominciò a sudare freddo, tentò di parlare ma lo sguardo del castano era fisso su di lei, così come i suoi cinque sensi da poliziotto addestrato a valutare il peso di ogni singola parola.
Aveva capito che mentiva, dannazione.
E presto avrebbe avuto conferma delle sue teorie.
<< Il capo. >>
Quando sentì la voce ferma di Mark dire la sua stessa identica fottutissima cosa, le ginocchia le cedettero per lo spavento, e si portò una mano tra i capelli per riassettarli e scaricare così l'ansia che l'aveva tenuta appesa fino a quel momento.
Grazie a dio avevano fortuitamente partorito la stessa menzogna.
Ora sì che poteva vantarsi di aver appena assistito ad un miracolo della Madonna.
<< Voleva ricordarci che ci aspetta una mole di lavoro piuttosto pesante, appena torniamo. >>
Gli occhi di Erik la lasciarono vivere in pace, e ritornarono a concentrarsi sulla coca cola lasciata aperta nella mano.
Mark ne approfittò per avvicinarsi all'orecchio di Esther. << Ci è andata bene. >>
<< Già >> mormorò lei, trattenendo a stento una risata.
Si sentiva felice. Quel loro fare così intimo e complice la stava mandando in delirio emotivo, le sembrava che Mark le fosse venuto più vicino del normale. Il fatto che entrambi avessero sparato totalmente a caso li rendeva ancora più sincronizzati di quanto già non fossero, ed era una cosa che era piaciuta.
Sia a lei, che a lui.
<< Pensa se dicevi una cosa diversa dalla mia, Mark. Le mazzate che prendavamo. >>
L'americano liberò un sospiro agguerrito, abbozzando un mezzo sorriso di stupore. << Non oso immaginare. >>
<< Siamo stati fortunati. >>
<< Yeah, really. >>
<< Quindi? >> Esther ridusse la voce ad un sottile sussurro, e Mark si fece più vicino per poterla ascoltare meglio.
Così vicino che la mora si lasciò investire dalla sua presenza calda, dal suo profumo che le scuoteva tutto lo stomaco ogni volta che era in grado di captarlo nell'aria.
Così vicino che avrebbe potuto passargli una mano tra i capelli biondi, scostargli una ciocca di troppo dalla fronte e stringerlo.
<< Quindi quello che volevo fare forse andrà a buon fine. >>
<< Mi dici che hai in mente, uomo? >>
<< Eh no, altrimenti che gusto c'è. >>
<< Ma io sono la tua migliore amica... >>
Mark la guardò con un sorriso divertito, e per entrambi fu come tornare dieci anni indietro, su una panchina a parlare troppo di Suzette e troppo poco di loro. << Sì ma sei pettegola. >>
<< Non è vero. Anzi, >> iniziò Esther, e il suo finto atteggiamento da donna saggia e fedele lo fece ridere. Quanto le era mancata, ormai non se ne riusciva a capacitare nemmeno lui, che alla distanza ci aveva fatto gli anticorpi. << tra tutte le ragazze della Tripla C, io ero la più seria. >>
<< Tu? Esther Greenland? Ora posso morire felice, ahaah! >> Il colpo di tacco arrivò dritto nello stinco, e Mark fece uscire dalle labbra un probabile gemito di acuto dolore misto a quella che sarebbe dovuta essere una risata di finto disprezzo, almeno inizialmente. Quella ragazza gli metteva un'allegria assurda.
Così folle che quasi – quasi - non sentì dolore. << Maleducata. >>
<< Tu hai iniziato. Quindi, me lo dici o devo metterti fuori gioco anche l'altra caviglia? >>
Quando Mark fece finta di non averla sentita, Esther raggiunse la sua sinistra e preparò un altro attacco.
Sarebbe andato a segno, se Mark non l'avesse presa per le spalle e non l'avesse fermata, ridendo come un bambino nel cuore di una marachella terminata con successo. Gli brillavano gli occhi, così limpidi che non fu difficile per Esther venire a sapere che Mark era contento di averla lì, che gli era mancata, e che si stava divertendo come un cretino a provocarla come una volta.
Quando gli insulti volavano al posto dei ti voglio bene, e i graffi con i tacchetti al posto degli abbracci.
Stavano giocando, insieme.
Non c'era niente di più bello e perfetto che ritornare ad essere adolescenti idioti con il migliore amico di una vita.
<< Esther, hai finito di stuprare Mark, o ne hai ancora per molto? >>
Mark calmò le risatine e l'avvicinò quel poco che bastava per rivelare il segreto senza che quell'altro scemo potesse sentirlo.


<< La faccio venire qui. Ma Erik non deve saperlo fino a quando non ce l'avrà davanti. >>




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Mark è un love planner.
Chissà se il suo hard work andrà a buon fine?

hello dear! Eccomi qui con gli aggiornamenti di maggio! Purtroppo non sono riuscita a sbrigarmela prima, per il semplice motivo che ero ad Edinburgo con la scuola e tra le tante cose non ho avuto modo di poter pubblicare; ma ora che sono tornata, aspettatevi i soliti quattro aggiornamenti a mese uwu
come va? Io bene, tutto sommato (?)! Questo capitolo è solo di passaggio. Mary e Dylan avranno modo di parlare nel prossimo capitolo, diciamo che me li sono levati di torno un attimo per sottolineare quanto a Mark piaccia toccare le tette di Esther mmm hell yeah boobs il fatto che Silvia presto prestiiiissimo giocherà un ruolo piuttosto fondamentale in questa storia. Non vi dico quando, ovviamente, sta a voi scoprirlo. 
Non vi spoilero altro! Ringrazio chi leggerà, chi recensirà e chi metterà la storia in una delle tre cartelline!
Al prossimo chapter!
Byee


​PS: i pancakes si fanno come li fa Mark ad inizio capitolo, ho avuto modo di vederlo di persona, basta solo comprare l'impasto! Ne ho mangiati così tanti che ora mi fanno schifo lol. Incidentiamericani

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Capitolo 19
*** The uniform that brought us together ***


Chapter eighteen.

​The uniform that brought us together


 
Tra tanti luoghi meravigliosi che la bella Los Angeles offriva agli spettatori, Dylan aveva scelto di portarla proprio dove mai nessuna ragazza si sarebbe aspettata di essere portata. Tanto meno da uno come lui, poi, che ovunque vi esplodesse una festa doveva per forza esserci.
Per questo, quando arrivarono alla cima di quella collina verde, Mary lo guardò confusa, gli occhi grigi velati da un flebile pallore di dubbio.
Era bella come la luna in una notte di pioggia, così silenziosa e chiusa che Dylan sentì di trovarla ancora più affascinante.
Ma non era per porgerle qualche avance che l'aveva fatta salire fin lassù.
Era per risolvere, e farla sentire meglio, perché Erik l'aveva devastata, e lui era l'unico che forse avrebbe potuto sistemare la situazione dentro di lei. O almeno, si illudeva di esserne in grado.
Si sedette sull'erba e strappò qualche ciuffo per divertimento, una fissa che gli era rimasta nel sangue. << Puoi sederti vicino a me, se vuoi. >>
Mary lo fece, impacciata.
Dylan non si aspettò nessun genere di conversazione, e infatti per lunghi minuti nessuno dei due osò proferir parola. Lei, perché l'accaduto con Erik le aveva tolto persino la forza di usare la voce.
Lui, perché provò ad aspettarla, paziente.
Quando si accorse che il danno era veramente molto grave, però, prese la palla al balzo e si buttò sulla prima cosa che gli venne in mente in quel momento. << Bello qui, eh? >>
<< Davvero bellissimo. >> Mary si abbracciò le spalle con debolezza, come se farlo avesse implicato un tremendo dispendio di energie.
Dylan colse perfettamente quel gesto pieno di dolore, e comprese che più avrebbe temporeggiato, più le cose sarebbero precipitate. << Non voglio che pensi male di Erik, Mary. >>
La vide irrigidirsi accanto a lui, e per una volta scelse di non guardarla. Così si limitò a fissare l'immenso downtown in lontananza, che da quell'altura fresca si poteva intravvedere perfettamente.
Poteva davvero fare qualcosa. Lei doveva solo permetterglielo.
<< E' un bravo ragazzo che ha subito un grande torto all'orgoglio. La sua ragazza lo ha lasciato tempo fa, e non si è più fatta viva. Lei non voleva rimanere qui, e lui non ha voluto seguirla là. >>
<< Usa le ragazze per--
<< No. Non le usa. E' solo innamorato perso, e siccome è rimasto senza di lei, sbaglia. >>
La voce di Moore s'inspessì per la crescente rabbia. Rabbia di essere stata toccata e amata da un ragazzo che l'aveva solo usata come contenitore per le lacrime. Bastò il ricordo di quella notte di fuoco per incenerirle la gola dallo schifo per se stessa. << Ah, e le ragazze che si è fatto, intanto?! Io, intanto?! Che devo dire...? Non sarei mai dovuta andare a letto con lui. Non avrei mai dovuto bere quel bicchiere di troppo, che cazzo mi è preso... >>
Dylan le prese con dolcezza una mano, e il contatto fece sobbalzare e zittire i respiri di entrambi.
Mary osservò le loro dita intrecciate per uno stupito desiderio dell'istinto, guardò le sue nocche rosee, il suo palmo grande che le offriva un piccolo nido di rifugio.
E si calmò. Le lacrime tornarono indietro, il volto si rilassò avvolto dal tepore del suo sguardo severo che la osservava cauto.
Erano le mani di un uomo che voleva solo aiutarla, un uomo giusto che avrebbe parteggiato per lei in ogni caso.
Ma che pretendeva di essere ascoltato.
<< Scusami. >> gli disse, incapace di reggere i suoi occhi castani.
<< Scusami tu. A nome mio, di Mark e soprattutto, a nome di Erik. >>
A quelle parole pronunciate con tanto rispetto, gli agguantò con forza la mano ampia, gli sfiorò il polso su cui un bracciale di pelle marrone sfoggiava tutta la sua svogliatezza da ventitreenne pieno di vita.
Dylan sorrise e ricambiò la stretta. Sarebbe voluto rimanere così con lei per sempre, ed era una sensazione strana per uno come lui, che di donne ne aveva avute anche troppe. Strana sì, ma gli stava piacendo da impazzire. << Voglio solo tu capisca che le intenzioni di Erik non erano affatto quelle di ferirti, in nessun modo. So che può sembrare assurdo dopo quello che vi è successo, ma piuttosto che rimuginare su un dolore che non aveva intenzione di recarti, prova a dargli una possibilità. >>
<< Cioé? >>
<< Permettigli di dimostrarti chi è realmente. >> Dylan le lasciò la mano solo per afferrargliela di nuovo, come se il tempo di prima fosse finito e fosse stato necessario ritoccarla una seconda volta. << Ci stai? >>
Mary non lo sapeva, affatto. Il suo orgoglio femminile aveva ricevuto un colpo basso troppo forte, sentiva di portare dentro non solo il suo dolore, ma anche quello di Erik. Era una cosa che le faceva schifo, che avrebbe voluto espellere con una buona dose di sonno, ma che era impossibile farlo.
La mattina si sarebbe solo risvegliata più inorridita del giorno precedente, ecco la cruda realtà dei fatti.
Eagle si era mangiato tutta la fiducia creata in quei pochi giorni. Fiducia che l'aveva spinta a cedere, a provare i suoi baci, a lasciarsi andare sotto le sue carezze fragili e bisognose che l'avevano alliettata per una notte intera.
E non solo.
A ricambiare con lo stesso ardore, quando lei era attratta del ragazzo che le stava tenendo la mano proprio in quel momento.
Era colpevole e vittima allo stesso tempo.
E questa cosa le fece venire una gran voglia di tornare a casa con Esther e rimettersi a preparare enormi tazze di caffé per i newyorkesi stressati.
<< Mi impegnerò per farlo. >>
Dylan annuì, anche se sapeva perfettamente che Mary non aveva nessuna intenzione di trovare un punto d'incontro con Erik, nemmeno sotto tortura. << In ogni caso, quanto ti sembra che... >>
Lo guardò, e Dylan guardò lei, col respiro corto.
Diglielo Dylan. Diglielo, di che hai paura? Hai chiesto di peggio.
 << che non ne puoi più, che vuoi uscire... io... non so, fammi un fischio. >>
Così le lasciò il suo numero di cellulare, che lei fu stranamente contenta di avere, e che lui fu stranamente contento di lasciarle.
<< Io verrò a prenderti e ti porterò a cazzeggiare in giro per Los Angeles. >>
La fece ridere, finalmente.
Era così bella, quando rideva.
<< Fino a quando non ne potrai più. >>
<< Ha una fine questa città? >>
<< Certo. >>
<< E quando finisce? >>
<< Vorrà dire che andremo oltre. >>
<< Oltre? >>
<< Ol... oltre la città, intendo. >>
Si morse la lingua, e proprio in quel momento Mark, con uno squillo del cellulare, gli fornì un salvagente last minute prima di vedersi affogare nell'imbarazzo più puro.
Oltre. Chissà che aveva voluto intendere con oltre, non lo sapeva nemmeno lui cazzo, ma di certo nulla che riguardasse i confini della città.
Non che con le donne fosse abituato a fare certe figure, di solito sapeva sempre cosa dire. Sapeva sempre dove colpire, come lasciarle a bocca aperta.
Ma con lei era diverso, e per la prima volta fu grato al migliore amico per essere intervenuto e averlo salvato.



L'orologio digitale posato sullo scaffale più elegante della sala segnava le 23:45 esatte, quella notte.
Un orario perfetto, che normalmente la gran parte dei poliziotti in ferie passava dormendo, proprio come stava facendo il buon vecchio Erik.
Eppure Mark, che più di tutti adorava schiacciare la faccia nel cuscino e capitolare nel mondo utopico dei sogni, non riusciva a raggiungere la camera.
Tre cause lo tenevano con gli occhi aperti, anzi, spalancati nel buio di Los Angeles che entrava dalle finestre di vetro lucido dietro di lui.
La prima era l'immenso polverone che aveva alzato Eagle. Solo pensare a tutto quello che era successo nel giro di nemmeno ventiquattro ore lo faceva sentire strano, confuso. Era preoccupato per lui, inutile nasconderlo.
Inutile fingere che non tenesse ai suoi amici più di se stesso, perché era sempre stato così, fin da quando aveva quattordici anni, tanti sogni in tasca e poca voglia di realizzarli.
Sperava davvero di poter risolvere la situazione tra lui e Mary, perché non voleva perdere altri pezzi di cuore in giro per strada, non quando avevano tutti faticato per tenerli assemblati nonostante i chilometri.
Per quello confidava nell'aiuto di Silvia, ma come sarebbero finite veramente le cose? E come l'avrebbe presa Erik? Non ci voleva nemmeno pensare.
Il secondo punto, era che con Melanie ancora non aveva risolto nulla. I giorni passavano, loro si guardavano, e in mezzo al silenzio di entrambi si andava ad aprire una voragine sempre più grossa. E più si dilatava, più Mark sapeva che sarebbe stato difficile eliminarla.
Il terzo punto, era che Esther e il suo hypnotic posion spruzzato a manetta intorno ai polsi stavano solo accellerando il processo, e quel dettaglio lo irritava, perché se il distacco stava avvenendo, era per colpa sua. Sua, che non riusciva a resisterle in nessun modo.
Avrebbe tanto voluto non trovarla così carina, così bella.
Così importante per lui, dopo dieci anni di vuoto cosmico in cui pensava di averla persa per sempre.
Quando decise che stava sprecando tempo, si alzò dal divano e trascinò i piedi stanchi sulle scale. << Mark >> si disse, e cominciò a salire i gradini a due a due. << Va a dormire, che poi a New York rimpiangerai questi momenti di pace. >>
Pace, sì.
Lì dentro tutti sembravano allergici all'idea di convivere in tranquillità, e lui forse era stato il primo pazzo a lanciare lo starnuto di guerra addosso agli altri. A contagiarli.
S'incamminò verso la camera da letto, i jeans bassi che gli scivolavano sotto le piante dei piedi, quando si bloccò dinanzi alla porta che dava alla sua vecchia stanza.
O meglio, quella di Esther.
La mente gli disse di procedere, di reclamare il suo spazio nel letto, ma il cuore lo gettò sulla maniglia come solo un disperato può buttarsi. L'afferrò e posò la fronte sul legno della porta, in attesa che la voce gli si risvegliasse nella gola.
<< Esther. >>
la chiamò sussurrando, perché era tardi e non voleva svegliarla, ma allo stesso tempo lo voleva eccome cazzo.
Bussò e lei venne ad aprire.
Ancora non dormiva.
La spalancò incuriosita, con in mano uno strano giornalino sui segni zodiacali.
Wow, fece Mark. In pigiama era bellissima. << Hi! >>
Esther aggrottò il naso nel trovarsi l'amico lì a quell'ora della notte, e Kruger sollevò le spalle larghe in un gesto di dubbio e impaccio. Doveva averla disturbata, anzi, sicuramente era stato così. Ma non gli fregava.
<< Kruger! Come mai ancora sveglio? >>
<< La stessa domanda dovrei porgerla a te, Esther. >>
Lei gli mostrò il magazine, aperto su una pagina dedicata alle affinità tra segni. Mark mise su un'espressione scettica mentre gli occhi acquamarina zigzagavano dubbiosi tra leoni, capricorni e inquietanti gemelli dall'aria poco socievole. Non aveva mai creduto in quelle stronzate. Mentre lei, lei sembrava considerarle quasi un mantra di vita; praticamente aveva evidenziato, sottolineato e ripassato ogni singola parola almeno mille volte. L'americano sorrise, e si appropriò del giornalino per darci un'occhiata curiosa. Esther aveva segnato una serie di cerchi intorno al segno del capricorno, e ehi, coincidenza delle coincidenze: capricorno era anche il suo segno, essendo lui di gennaio. Sempre ammettendo l'esistenza dello zodiaco, ovvio. Voleva forse dire qualcosa? << Così credi in questa roba, eh? Nice. >>
La ragazza mugugnò, quasi delusa dalla reazione fredda dell'amico. << E' la scienza meno esatta di cui penso di fidarmi. >>
<< Chiamarla scienza è troppo, che dici? >>
<< Non sono ferrata in quel campo. Preferisco le cose astratte. >>
Mark passò un dito sul suo segno cerchiato, realizzando solo in quel momento di una piccola freccia che lo collegava col sagittario. << sai, secondo la tua scienza io sarei un capricorno. >>
Esther fece spallucce. << il segno della precisione. Ti si addice. >>
<< Come mai lo hai cerchiato e collegato al sagittario? >> Kruger provò a leggere l'affinità tra il suo segno e il misterioso sagittario, ma lei non gli diede modo di soddisfare la sua curiosità, perché gli strappò il giornalino di mano. << Mi... >> arrossì e lo chiuse di getto, nervosa. Sapeva perfettamente che il segno di Mark era  il  capricorno, perché ricordava a menadito il giorno in cui era nato. Sagittario invece era quello di lei. E l'affinità tra le corna e la freccia, dio, se non era favolosa. Astrale.
Ma non voleva dirglielo. O avrebbe capito subito. << mi piace abbinare segni. >>
Mark la guardò così intensamente da farle tremare il cuore. << un vero hobby da signora. Mi stai dicendo che capricorno e sagittario hanno una buona affinità? >>
Esther si strinse il giornalino al seno, come a volerlo proteggere da occhi indiscreti. Esattamente. Lei e Mark Kruger avevano un'altissima affinità. E da qualche giorno, anche una piccola chance di poter essere qualcosa di più. << SOLO buona? E' uno spettacolo, caro. >>
<< Stai dicendo che sarei stato meglio con una sagittario, mh? >>
Il suo tono scettico le piaque da impazzire. << Ti sei fregato da solo. >>
Mark sorrise, senza rivelare alcun dettaglio su Melanie e sulla loro tragica affinità. << Maybe. E tu che segno sei? >>
<< Non te lo dico. Tanto non ci credi. >>
<< Come vuoi. Posso entrare? >> lo chiese, ma non attese risposta. Mise piede dentro la stanza e si richiuse la porta alle spalle, liberando un sospiro stanco. Era come se si fosse appena staccato dall'inferno per entrare nei meandri del paradiso, lì con lei. << Ieri ed oggi sono successe molte cose. Mi sento strano. >>
Esther storse le labbra carnose. << Anche io. Mary è devastata. >>
<< Lo so... >> Mark raggiunse il letto e ci si buttò sopra mentre la giovane si ripassava di nuovo l'affinità tra i loro due segni. Forse fu un gesto troppo avventato quello del biondo, ma Greenland non disse nulla, come se fosse una cosa quotidiana essere in stanza insieme. Lo spiò oltre le pagine colorate di evidenziatori. Com'era bello. << Non so che fare. Vorrei aiutare ma... >>
<< Hai già fatto abbastanza. Lascia siano Erik e Mary a parlarsi. >> si sedette accanto a lui, sul bordo del letto, poi si sciolse i capelli con uno scatto del polso.
Ciocche color cioccolata dalle sfumature sbiadite le ricaddero sulle spalle lattee, e Mark le trovò insolitamente belle, così lunghe che gli sarebbe bastato allungare un po' il braccio per toccargliele.
Si voltò dall'altro lato, imbarazzato.
Non gli andava di provare quelle cose.
<< Lo sai che Dylan ha promesso a Mary di portarla ovunque? >> aggiunse lei, e si voltò con un sorriso perverso. << Sembrava felice quando me lo ha detto, oggi. Te ne sei accorto che Dylan la guarda più del dovuto, vero...? >> e la smorfia maledetta si allargò ancora di più, maliziosa.
Per Mark fu come ricevere una secchiata d'acqua gelida in viso, gli sembrò di cadere dal melo e spaccarsi entrambe le braccia.
Dylan che guardava Mary... in che momento? Si portò due dita davanti al naso per nascondere l'imbarazzo.
No che non lo sapeva.
No, non se ne era minimamente accorto che il migliore amico avesse messo gli occhi su quella ragazza.
Da quando si trovava a Los Angeles, ancora non aveva avuto modo di stare solo con Dylan, come facevano sempre tutte le volte che potevano vedersi. Uscire con lui, combinare cavolate, parlare.
Soprattutto parlare.
C'erano cose che voleva raccontargli, troppe, e altrettante voleva ascoltarne. << Sì, me ne sono accorto. >> mentì, e per scacciare l'imbarazzo rubò dalle mani di Esther una seconda rivista che lei aveva appena tirato fuori da sotto il cuscino.
<< Cosmopolitan. Wow, la vera cultura. >> disse, ma prima che potesse anche solo cominciare la lettura della famosa rivista americana che ormai trovava persino sulle scrivanie della caserma di polizia, lei se la riprese.
La chiuse e la gettò via, lontano, poi scese dal letto e si tuffò nella valigia alla ricerca di chissà cosa.
Mark rimase con le mani aperte, confuso, come se il magazine fosse rimasto lì a prendere aria. Che aveva intenzione di fare? << Stavo cercando di leggere. >>
<< Troppo complicato per te. >>
<< Parla lei. Miss affinità. >>
Esther rise ironica, e quando si girò verso di lui, Mark notò che teneva nascosto qualcosa dietro la schiena. 
Un sorriso vero le solcò il viso elegante, un bagliore che fu incapace di decifrare le illuminò i grandi occhi neri.
<< Allora? >> le chiese, e si portò le mani dietro la testa, in attesa.
Esther si addentò il labbro inferiore e dopo un attimo di indecisione mostrò un tessuto blu aggrovigliato su sé stesso.
Mark aggrottò un sopracciglio, confuso, ma poi il blu divenne bianco, un bianco cangiante attraversato da due striscie rosse, e una cerniera gialla emerse dall'ammasso accartocciato.
E allora la riconobbe.
La sua divisa.
Esther la strinse con forza mentre si godeva l'espressione sconcertata di lui.
Mark le aveva regalato la sua felpa della Unicorno come ricordo della loro amicizia, dieci anni prima, l'ultima volta che lo aveva visto. Un gesto carino che si era portata nel cuore e nell'anima per molto tempo; ma quando gli anni e i chilometri avevano scelto di spegnere tutto, l'aveva gettata nei meandri dell'armadio e se n'era quasi dimenticata.
Quel vedo non vedo era durato fino ai preparativi per il trasloco a New York. Durante la drastica selezione dei vestiti, mentre stava scegliendo quali vendere e quali invece portare, la divisa era saltata fuori, e con essa tutto quello che lei aveva vissuto in quei tre mesi d'estate.
Il primo pensiero fu di farci sopra un business, in quanto apparteneva al capitano della Unicorno, Mark Kruger, ed era un pezzo originale.
Però dopo una notte di riflessioni, si era resa conto di averne ancora bisogno.
Che la presenza di quell'indumento le faceva sentire vicino l'amico, nonostante tutto.
E se l'era portata nella Grande Mela.
<< Come... >>
Mark gliela prese di mano e se la rigirò tra le dita con delicatezza. La bocca spalancata e gli occhi accesi lasciarono intendere alla ragazza che fosse veramente grato di quel ritrovamento, che lei l'avesse tenuto e curato. << I can't believe it >> gliela restituì con un sorriso stravolto, ed Esther la guardò divertita.
Era buffo come ancora tenesse a quella felpa, anche se aveva ritrovato il suo legittimo proprietario.
<< Non credevo che... che l'avresti tenuta. >>
<< Serviva a mitigare la distanza. >>
Mark annuì piano. Lui invece era stato costretto a sopravvivere persino senza cellulare. Senza computer, senza autorizzazione per poter tornare a Los Angeles. Neanche per le vacanze di Natale.
Il che era stato ben peggiore.
<< Ora non serve più... >> Esther per la prima volta lo guardò in modo serio, quasi implorante, e le mani fecero scivolare con debolezza la divisa sulle cosce. Mark si rifletté nel profondo nero di quelle iridi, e istintivamente le braccia lo trascinarono vicino a lei. << Vero Mark? >>
<< No, non serve più. >>
Entrambi ascoltarono il calore dei loro corpi fondersi in uno solo, in silenzio.
Mark avrebbe voluto dirle che non se ne sarebbe più andato via, né da lei né da nessun altro.
Avrebbe voluto abbracciarla, ma si limitò a fissare le pieghe della felpa che un tempo lo aveva protetto dal freddo e dalla pioggia.
<< Qui dentro ci siamo baciati, Mark. Te lo ricordi? >>
Sollevò la testa con un movimento lento, e la guardò sotto la frangia lunga. << lo so. >>
Esther fu felice di avere una risposta, finalmente, e increspò le labbra in un sorriso vittorioso. La prima volta che glielo aveva chiesto lui aveva fatto scena muta, si era persino infastidito.
Invece ora... ora sembrava tutto più naturale, a distanza così ravvicinata.
A entrambi sembrava di essere rimasti chiusi nella loro bolla privata, dove potevano essere sé stessi e lasciarsi un po' andare ai sentimenti e a ciò che il giorno impediva loro di liberare.
Del resto, così era successo in quelle quattro mura.
Esther lo ricordava alla perfezione. In dieci anni aveva assaggiato tante labbra, ma nessuna di loro era stata efficace quanto quella di Mark. Soave, timida, che ancora non sapeva come muoversi in modo esperto su quelle morbide e imbrattate di rossetto di lei. Chissà se era cambiato qualcosa. Chissà di cosa sapevano ora, se baciarlo le avrebbe acceso dentro al cuore le stesse reazioni di piacere e amore.
Si ricordò delle parole di Dylan, che la relazione con Melanie era finita, e che molto probabilmente Mark era attratto da lei così come lei lo era da lui.
Solo, voleva esserne certo.
E non era il solo.
Quella probabilità la trattenne dal baciarlo, ma tutto il resto fu in grado di muoverla verso di lui senza nessuna paura. Mark la guardò con intensità e le portò una ciocca di capelli dietro l'orecchio, un gesto naturale che non seppe frenare.
Esther tremò nel sentire il dito di lui sfiorarle la pelle.
<< Mark, io... >> le si seccò la gola sotto il suo sguardo intimorito che si addolciva piano. << io... >>
Io cosa?
Io sono attratta da te? Io ti amo?
L'americano attese in una risposta che non gli venne più detta, e né fu sia amareggiato che sollevato, in un certo senso.
Perché se le intenzioni di Esther erano state, anche solo per un momento, quelle di rivelare cosa stava succedendo tra loro, le reazioni non sarebbero di certo state positive.
Non poteva permettersi quel genere di preoccupazione, lui doveva risolvere con Melanie.
Lui doveva stare con Melanie, perché non c'era più nulla da dire. Niente da sistemare, niente per cui combattere. Era una pace già raggiunta, che necessitava solo della loro cooperazione per continuare ad avanzare senza intoppi. Perché doveva ancora esserci qualcosa che andasse a minacciare quella pace sudata con tanta fatica e lacrime?
La storia gli aveva raccontato che i primi popoli americani avevano sempre faticato per condurre una vita dedita alla pace e al lavoro, per proteggere un uomo che non ha più bisogno degli altri, che sa sempre rialzarsi dopo le cadute e che non ha paura di nulla, fino a quando sa perfettamente chi alberga dentro il suo corpo. Per i poveri inglesi fuggitivi, gli Stati Uniti si erano dunque presentati come un mondo per dimenticare le guerre europee e ricominciare dall'inizio, in una terra nuova e tutta da costruire.
Tutta da amare, tutta da vivere.
Lontano dai disastri, alla ricerca della libertà.
Ed era stato così che si erano ribellati alla loro patria quando questa non aveva riconosciuto i loro diritti.
Era stato così che avevano vinto. Combattendo per la pace e il rispetto.
E i tredici stati iniziali poi erano diventati cinquantuno, e tutto si era sviluppato sotto le gocce di sudore di uomini che avevano saputo perfettamente quello che volevano.
Mark era americano.
La madre bionda, con gli occhi azzurri, americana.
Il padre di origine tedesca, ma nato e cresciuto in America.
Niente in lui non andava, era perfetto.
Eppure, ancora non aveva capito come difendere la sua di pace.
O almeno, stava cercando di difenderla, ma Esther lo mandava all'inferno col suo profumo, tutte le volte. Con i suoi capelli, e le sue labbra.
Si allontanò da lei per calmarsi e reclamò il Cosmopolitan, che gli venne lanciato con un risolino crudele.
Lo aprì su una pagina a caso.
Uno come lui, che amava la libertà, in tutte le sue forme.
Che reclamava sempre la giustizia e la pace, l'ordine e la parità dei diritti, come un vero americano patriottico che si rispetti.
Uno come lui, che presentava tutto quell'ammasso di qualità bestiali, ancora non era in grado di inseguire la sua, di libertà.
Nemmeno sapeva quale fosse, dannazione.
Così si concentrò sui gossip che tanto facevano impazzire le donne, e ritirò le gambe per lasciare spazio ad Esther e alla sua improvvisa voglia di aprire e ripiegare i vestiti.
Lesse, lesse fino a quando ebbe la strana sensazione che Melanie non sarebbe tornata prima delle tre di mattina, e che non aveva senso aspettarla.
Lesse fino a quando il cervello non ne ebbe più di Selena Gomez e Rihanna, fino a quando la voce di Esther che parlava da sola e faceva abbinamenti non sfumò all'improvviso, ovattata. Si lasciò cadere sul cuscino, lo strinse e non appena ci posò su il viso, Morfeo venne a prenderlo su un carro caldo e dorato. Sprofondò dentro a quel calesse, e in nemmeno due minuti il mondo si fece silenzioso intorno a lui.
Esther, che era andata a raccogliere un'altra pila di vestiti, se ne accorse solamente quando la posò sul materasso. << Mark? >>
Afferrò una caviglia dell'amico, più pesante del normale, e allora capì che il sonno lo aveva già preso con sé.
Ma lei a questo punto, dove avrebbe dovuto dormire?
Con Melanie – rise –? Di sotto?
Raccolse tutti i vestiti e li infilò di nuovo nella valigia.
L'idea era quella di scappare in sala, racimolare qualche coperta e lasciarlo lì. Non le andava di svegliarlo, anche perché Mark non aveva tutta l'aria di voler essere disturbato; il suo respiro pesante parlava chiaro per tutti.
Così fece per andarsene.
Ma poi tornò indietro, si sbarazzò dei calzini e si stese accanto a lui.
Lo fece piano, per non svegliarlo, col cuore in gola e una tremenda paura di toccarlo, anche solo per sbaglio. Quando si fu sistemata a debita distanza e si fu messa comoda, sollevò le coperte e coprì entrambi. Insomma, la camera era sua, Mark aveva il letto della madre per dormire. Quindi era lui l'intruso, o no?
Con quel pensiero gli diede di spalle e raccolse lentamente le ginocchia.
Si sentiva strana nell'averlo così vicino, con una folle voglia di sentirsi piccola tra le sue braccia e di essere baciata da lui.
Di essere guardata da lui, mentre le mani si stringevano sul tessuto fresco del lenzuolo.
Chiuse gli occhi e provò a dormire, a mettere da parte i pensieri, quando un braccio le strisciò con dolcezza intorno alla vita, facendola sussultare. E poi, come se non bastasse, la attirò piano contro un corpo che stava inconsapevolmente realizzando tutti i suoi desideri. In un attimo si ritrovò con la calda spalla sinistra di Mark premuta addosso, con il suo braccio delicatamente posato su di lei in una flebile stretta protettiva.
<< Mark? >>
provò a chiamarlo ma lui non rispose.
Evidentemente non si era accorto di ciò che il suo subconscio aveva appena compiuto.
<< Se ci vede Melanie ho finito di vivere... >> mormorò Esther, ma in quel momento non le importava di nulla.
Era su un letto, e poteva dormire con Mark.
Così si fece piccola contro di lui, che glielo permise senza emettere fiato, e dopo essersi scostata i capelli dal viso fece cadere le palpebre.
Il sonno arrivò solamente quando l'eccitazione decise che era giunto il momento di rilassarsi.
Si addormentò come una bambina, cullata dal respiro regolare del biondo che le soffiava tiepido sotto la nuca.
E finché non perse coscienza, poté giurare che il braccio di Mark non la lasciò andare neanche un istante. 
Ed era così che avrebbe voluto sentirsi da ragazzina.
Vicina a lui.
Per sempre.




___________________________________________
hello people! Come va? Io? Oh, io sono incazzata col mondo intero, e non ho voglia di fare niente, ma aggiorno lo stesso perché ho promesso a me stessa -e a voi- che non l'avrei tirata per le lunghe. Quindi eccomi qui.
Parliamo della long?
So che può sembrarvi una cagnata il fatto che Esther abbia voluto vendere la divisa di Mark, ma ehi, lei è fatta così, materialista attaccata ai money, quindi prendetevela così (?). Non so se ricordate, comunque lo sottolineo per i novizietti; nella vecchia Disaster, Mark aveva regalato la divisa ad Esther il giorno prima della sua partenza per New York, come ricordo della loro amicizia -e dei loro limoni appassionati mlmlml-. E lei non ci si è più separata da quel momento, anche se ha tentato di farci i money sopra perché tutti vorrebbero la felpa di Mark Kruger, me inclusa, e ogni pretesto è buono per lucrarci, soprattutto se sei, appunto, Esther Greenland. (?)
Comunque a voi i commenti, altrimenti parto a sclerare e non finisco più. Vorrei sapere cosa ne pensate anche delle angosce di Mark, sui principi americani ecc ecc. Penso di aver chiarito tutto con questo capitolo, sia la sua situazione con Mel che i suoi tormenti, la sua voglia di libertà che non sembra arrivare mai, eppure è dietro l'angolo, ma manca la spinta per buttarlesi addosso. Cercate di metterci del vostro per capirlo, non è semplice; il fatto è che la mentalità americana premia il self-made man, colui che si fa da solo. E' una cultura nata durante la formazione delle colonie, e che nella loro testa domina ancora, anche se di questi tempi è difficile dirlo visto che ci stiamo tutti omologando. E' il tipo di cervello che vedo molto in tutti quelli della Unicorno, specie in Mark, che dimostra più volte di essere patriottico, tenace e altruista, insomma, non sta fermo come i dementi della Orfeo, che guardano le mosche e intervengono solo se li costringi con le minacce (???) scusa Gianluca ti amo lo stesso​ 
​Tornando a Kruger. Non si sente stabile in questi principi, questo ho cercato di passare. Gli sta crollando un po' tutto addosso, non ha certezze e non sa come fare. Non si sente americano. Ed è un brutto colpo, per un americano, non sentirsi americano.
​Moving forward (?)
Come vi sembra Mary? E Dylan? Sarei curiosa di sapere come avreste agito se foste stati al posto della ragazza, visto che non è una bella situazione nemmeno la sua. Io male (?) male che Erik sarebbe già sottoterra.
Comunque, ho finito qui.
Lasciate una recensione se vi va, a me piacerebbe tanto sentirvi! Ringrazio tutti i lettori che hanno messo la storia in una delle tre cartelline, siete tanti *Q*
onorata!
Best wishes



​Ps: se trovate qualche parola in inglese che non è stata messa in corsivo, abbiate pazienza, si tratta di sviste. Putroppo devo sempre sistemare il testo senza formattazione, perché Openoffice è uno stronzo e tutte le volte devo aggiustare qua e là, spendendoci dietro un sacco di tempo. Siccome, appunto, è senza formattazione, mi cava anche il corsivo. E quindi lo devo rimettere. Eheheh aaaa

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Capitolo 20
*** yearbook of memories ***


Chapter nineteen.

yearbook of memories


 
“Quando ho comprato questa pratica canottiera da fitness,”
E Mark guardò la pratica canottiera da fitness, con un sopracciglio sollevato che già parlava da sé.
“non credevo che avrebbe funzionato. Sono sempre stata diffida di questo genere di strumenti anti grasso. Invece, mi vedo costretta ad ammettere che--”
<< Nice. Partiamo bene. >> Kruger sprofondò nello schienale del divano e cambiò canale con un gesto meccanico della mano sinistra, scocciato.

“Sofi, mia figlia, ha paura dei cani. Vorrei che le passasse questa sua fobia, perché non so vivere senza animali in casa e mi piacerebbe dimostrarle che non potranno mai farle del male. C'è un modo per--”

Il dito cascò di nuovo su un numero a caso, e questa volta la tv gli offrì il patetico spettacolo di una diciassettenne che sosteneva che l'utilizzo del condom fosse assolutamente inutile.
“Ho fatto sesso un sacco di volte, non sono mai rimasta incinta.”
Mark arricciò il naso nell'udire tanta sfrontatezza uscire dalla bocca pompata di una mocciosa che soltanto ieri aveva smesso di bere il latte dalle tette di sua madre. << Convinta tu. >> e fece per girare nuovamente canale, ma poi si arrese all'evidenza che l'America non ci sapeva proprio fare con i programmi, e così si accontentò dell'adolescente allergica a qualsiasi tipo di contraccettivo esistente al mondo.
Strano a dirsi, due minuti ed era già andato, tutto preso a seguire la questione con innaturale interesse. Gli occhi increduli e le mani allacciate controvoglia sull'addome snello lasciavano intendere che fosse consapevole di star guardando una stronzata, eppure questa era riuscita ugualmente a catturarlo.
Non si accorse di quando Esther scese le scale per raggiungere la cucina, nemmeno di quando tirò giù tutti i santi per far partire la macchina del caffé.
<< Buongiorno, Mark! >>
 Con uno scatto del collo si voltò in direzione della voce, e trovarsela in pigiama, mezza addormentata, lo fece sorridere senza che avesse intenzione di farlo.
Gli fece dimenticare la mocciosa alla tv, e anche i suoi rapporti assurdi col primo che passava.
<< Ciao. >>
la salutò, mentre si perdeva a guardare il suo collo candido che quella mattina alle tre si era ritrovato dinanzi agli occhi non appena si era svegliato.
La tentazione di baciarlo era stata allucinante.  Ma per fortuna era sopravvissuto alla voglia ed era scappato nella sua camera, dove Melanie ancora non aveva messo piede - altro colpo di culo -. Aver dormito diverse ore con Esther era una cosa a cui ancora non riusciva a credere. E stranamente non si sentiva in colpa. Verso nessuno. Al contrario, ssarebbe rimasto tutta la notte abbracciato a lei, se non fosse stato che i suoi impegni erano altri, e che non aveva invitato l'amica a trascorrere le vacanze di natale a casa sua solo perché potesse creargli casini.
<< Che ti guardi? >>
Mark parlò sopra la tipa che descriveva il suo primo orgasmo. << Nulla di interessante. >>
<< Ti ho visto preso. >>
Spense la tv.
Ora a prenderlo era lei.
<< Yeah, ehm... >> saltò giù dal divano con un balzo atletico e la raggiunse. Voleva sentirla di nuovo vicina, drogarsi ancora di quell'odore di femmina che lo aveva cullato nel mondo dei sogni per cinque ore di fila. Poterla toccare come se fosse sua, anche se non lo era e mai lo sarebbe stata. << Erik ha spaccato la macchinetta del caffé, questa mattina. Per fortuna che è sparito, o lo avrei ammazzato. >>
Esther staccò le labbra dalla tazza e scoppiò a ridere come una cretina.
La reazione fu contagiosa, così tanto che l'americano si lasciò inebriare dai suoi adorabili versi squillanti e mostrò i canini in un ghigno divertito.
Era stupenda quando rideva, assomigliava molto ad un serial killer che aveva appena terminato di compiere un pluri-omicidio.
<< Erik è un coglione! >>
<< Ehilà, ce ne siamo accorte. Comuque vedo che sei riuscita ugualmente a farti il caffé. >>
<< Certo, io e le cose rotte andiamo d'amore e d'accordo. >>
<< Come con il capricorno e il sagittario. >>
<< Esatto. >>
Mark la osservò finire il caffé, le guardò gli occhi chiusi, le lunghe ciglia nere che le sfioravano con dolcezza la pelle bianca. E poi lo disse, se lo lasciò scappare come acqua che scorre in gola, come se quelle ciglia a farfalla lo avessero indirettamente implorato di parlarne. << Ieri notte.. >>
Esther sentì un brivido percorrerle la schiena, e strinse la presa sulla tazza in ceramica mentre scrutava Kruger oltre il bordo scheggiato.
Ieri notte.
Lo aveva pronunciato come se avessero fatto l'amore per tutto il tempo, e questo bastò a farle agitare ogni singola terminazione nervosa.
A svegliarla del tutto.
Forse lo avevano fatto per davvero, l'amore, chissà. Col pensiero. Quando ad un certo punto della notte i loro respiri erano diventati uno solo, e il loro calore si era unito ad emanare un unico tepore.
Esther era certa di aver sognato una cosa simile. Sentiva ancora il peso delle braccia di lui sulla pelle, come un marchio indelebile, ed era una cosa che non avrebbe mai dimenticato.
<< Scusami >> Mark avrebbe voluto dirle che era stato bellissimo. Che avrebbe dormito con lei tutte le notti della sua vita, solo per percepirla vicina a lui, stretta contro il suo petto come un piccolo uccellino.
Invece si limitò a ridere e fingersi pentito per averle rubato i tre quarti del letto.
Esther si schiarì la gola, ma scelse di affrontare la situazione senza impaccio. Era lui che aveva deciso di dormire con lei, del resto, quindi che motivo aveva di tirarsi indietro? Non aveva colpe, non lo aveva mica tolto a Melanie.
<< Siamo soli? >>
<< Mhmh. >>
Si guardarono, e lei gli sorrise maliziosa. Adorava vederlo in difficoltà. << Questo vuol dire che potenzialmente potremmo tornare  a dormire insieme, giusto? >>
Mark curvò le sopracciglia e scoppiò a ridere per scemare l'imbarazzo, mentre eseguiva un particolare passo all'indietro per non farle notare quanto rosso fosse diventato il suo viso. << W-what?! >> esclamò, portandosi una mano alla fronte.  Sarebbe stato bello, bellissimo poterla stringere di nuovo in quel modo, molto probabilmente lo volevano entrambi.
Ma non poteva permettersi di fare ancora una cosa del genere, quando si era ripromesso di sistemare la situazione con un'altra donna.
<< Are you serious? >>
<< Non sono io che ti ho abbracciato a caso e ti ho tenuto stretto tutta la notte. >>
<< Esther, stavo dormendo. Non ero consapevole di starti toccando. >>
O forse lo era stato, ma il piacere aveva vinto sulla ragione, e quindi non aveva trovato il coraggio di ritirare il braccio.
<< Insomma non fare il timido! >>
<< Non sono affatto timido! Ti dico che--
<< Che la tentazione di stringermi è stata più forte del tuo autocontrollo? >>
<< No Esther io... >>
Sì Esther, .
Ma Mark era troppo orgoglioso e incredulo per poter ammettere una cosa del genere a quell'ora del mattino.
Come d'incanto, il campanello trillò all'improvviso, e l'americano si precipitò alla porta per sfuggire alla conversazione.
Maledizione, il pensiero di ieri notte sarebbe stato davvero impossibile da cancellare. Si sforzò di non pensarci – fu difficile – e dopo aver fatto una smorfia all'amica, fece scattare la serratura.
Quando aprì la porta, rimase senza fiato.
Non seppe dirsi il perché, ma si sarebbe aspettato il ritorno di Dylan e Mary.
Invece sulla soglia si trovò sua sorella e i suoi due nipoti, completamente a caso.
Alle dieci del mattino.
Mark non seppe se salutarla o chiederle che diavolo ci facesse lì.
<< Ciao Mark! >>
<< Maarge..? >>
La sorella entrò come se niente fosse e si mise a pattugliare la casa con i grandi occhi celesti. Quando individuò Esther presa col risciaquo della tazza, si voltò nuovamente verso il fratello, piacevolmente stranita. << Melanie? >>
<< Non è qui. >>
<< Dov'è? >>
Mark non lo sapeva, cazzo. Aveva smesso di chiederglielo quando si alzava, si metteva il reggiseno, i vestiti e spariva dalla sua vista fino a sera.
Aveva smesso persino di guardarla cambiarsi.
Non gli importava più di niente, e questa cosa era soltanto una preoccupazione aggiunta all'infinita lista di ansie che avevano cominciato a tormentarlo da quando Esther era rientrata nella sua vita.
<< Credo che sia in giro con amiche, se ti serve ti lascio il suo numero e--
<< Shh >> Marge armeggiò con la borsa per quelle che parvero ore, e quando fu sicura di aver individuato ciò che cercava, estrasse un piccolo pacchetto regalo dalla carta rosso fluoerescente. << Esther, questo è per te, da parte mia e di mia madre! >>
La mora sobbalzò nel vedere quel piccolo regalino tutto per lei. Si avvicinò con cautela e lo afferrò incredula. Un pacchetto?
Come mai?
<< E' per scusarci della nostra arroganza quando sei venuta a casa mia. Non volevamo, davvero. >>
<< Non siete state affatto arroganti, anzi... >>
<< Mia mamma ha detto di lasciarti recapitato che quando vuoi passare ad assaggiare i suoi dolci, le farebbe molto piacere. Non è molto brava, le serve il parere di un'esperta like you. >>
Gli occhi di Esther brillarono a quelle parole cariche di significato, e si portò il pacchetto al cuore.
Non poteva crederci. Lei, che dentro quella casa si era sentita soltanto un'intrusa, ora veniva ripagata con un regalo e persino un invito a gonfiarsi di torte. << Come fa Hanagrace a sapere che mi intendo di dolci? >>
<< Mark a quattordici anni sapeva parlare solo di te. >>
L'epressione devastata d'imbarazzo che mise su Mark a quelle parole valse tutto il mese di dicembre. << You bastard! >> il biondo colpì la sorella con una manata nel braccio, ma Marge non fu affatto tollerante, e in tutta risposta gli tirò un elegantissimo quanto devastante calcio contro la coscia, facendolo ringhiare di dolore.
Erano adorabili, proprio cane e gatto.
<< Esther, non è come credi...! >> gemette Mark, sconvolto e imbarazzato dal colpobasso che gli aveva riservato la sua amata Marge davanti alla ragazza che era convinto di non amare, ma che invece amava alla follia. << At all! >>
<< Che bugiardo, si vergogna ad ammettere che sulla sua bocca c'eri solo tu. >>
Il rossore sulle gote abbronzate di Mark scoppiò come mille fuochi d'artificio. << M-Marge...!
<< Mark sta zitto cazzo! Comunque, ancora scusa Esther cara. >>
Esther era scioccata, non sapeva che dire. Sia per il grande gesto della famiglia di Mark, sia per quella calda rivelazione che le aveva appena fatto scoppiare il cuore di piacere; allora Mark era stato davvero innamorato di lei, dieci anni prima.
Ora che aveva le prove ferree di quel sentimento non più indecifrabile, la piccola Greenland poteva sospirare felice dentro i suoi ricordi.
Marge le sorrise con affettuoso distacco e ritornò ad occuparsi del fratello ferito e agonizzante dimenticato in un angolo. Gli spiegò che era lì per avvertirlo che lei aveva un impegno lavorativo a cui non poteva mancare e che aveva bisogno che qualcuno badasse ai gemelli per un po'.
Hanagrace purtroppo quel giorno non riusciva a farle il piccolo favore, quindi rimaneva soltanto lui nella lista dei possibili babysitter last minute.
Mark accettò e, ancora alterato, la congedò il prima possibile.
<< Ti odio. >> le disse, spingendola affettuosamente fuori di casa. << Sei una maledetta stronza che non sa tenersi le cose per se.  >>
Quando lei esplose in una finta risata crudele per farlo sentire ancora più idiota – tipico a casa Kruger -, le chiuse la porta in faccia con fare stizzito e ritornò in sala.
Crudele bastarda. Certe cose non cambiavano mai.
<< Allora, Mark? >> Esther gli si avvicinò a mani libere e un largo sorriso dipinto sulle labbra color pesca; durante il battibecco tra i due fratelli Kruger era andata a posare il pacchettino in camera, e si era detta che lo avrebbe aperto il giorno di natale, per non rovinarsi la sorpresa. << Come vuoi fare con i bambini? >>
Mark fu contento di non doverle dare spiegazioni per la tremenda figuraccia che lo aveva visto protagonista qualche attimo prima.
Uno dei due gemelli si voltò all'improvviso, sentendosi chiamato personalmente in causa, e allora lo presentò ad Esther con il nome di Terry, e che tra i due era il peggiore, perché aveva il carattere dittatoriale di Hitler e la gentilezza egoista di Mussolini. << Usciamo zio! Al centro commerciale! >>
<< No Terry, siamo senza macchine. >>
<< Ma io voglio andare al centro commerciale! >>
<< Lo so che vuoi andare al centro commerciale, Terry... >> la voce di Mark si incrinò sull'ultima lettera del nome del nipotino, lievemente piegata di nervoso. Esther si chiese perché. << ma oggi non si può. >>
Terry mise su un musino sconfitto e fece per strepitare la richiesta a voce sparata, quando la mora, alla faccia esasperata dell'amico, si fece venire in mente un'idea che forse li avrebbe potuti entrambi salvare dall'imminente caos. << Mark, hai una stampante? >>
<< Nello studio di mio padre dovrebbe ancora esserci una. >>
<< Va? >>
<< Sì. Perché? >>
<< Ora vedi. Bambini, venite con me! >>
Afferrò i due piccoli per i polsi cicciotti e li fece salire le scale fino allo studio dove si trovavano i libri ed il pc.
Mark la seguì in silenzio, e le inserì la password quando lei glielo chiese.
Non era bravo con i bambini, non lo era mai stato e nemmeno era interessato a volerne uno, a dirla in tutta sincerità.
Tuttavia quelli erano i suoi due nipoti, gli unici cuccioli che possedeva, e non poterli portare al centro commerciale lo aveva lasciato piuttosto amareggiato. Avrebbe potuto organizzare qualcosa per loro, se Marge glielo avesse saputo dire per tempo.
Ma come al solito la sorella tendeva ad informare le persone all'ultimo secondo, nessuno escluso.
E poi c'era Melanie, che ogni giorno gli portava via una delle due auto per andare a farsi i cazzi suoi.
A quest'ora sarebbero potuti essere nel Downtown a farsi un buon gelato e a fare avanti ed indietro per i negozi.
Invece no.
Come al solito, Mel doveva sempre pensare prima a se stessa che agli altri.




<< Esther, mi serve il giallo... me lo passi? >>
Esther sorrise al piccolo Simon di quattro anni e gli porse tutti i gialli che si trovò dinanzi, come fa una mercantessa intenta ad esporre la sua merce migliore al primo compratore che gli passa davanti. << Ecco qui tesoro! >>
<< Grazie zia! >>
<< Z-zia? >>
Arrossì a quel nomigonolo pronunciato per sbaglio, e si scostò i capelli dalle spalle per farli scivolare indietro. Zia? Ovvero l'equivalente di ”moglie di Mark”?
Le sarebbe piaciuto poter rappresentare qualcosa per quei piccoli pargoletti biondi, portarli in giro e viziarli quando la mamma diceva “no”, comprando loro tutto ciò che desideravano.
Ma ciò che bramava ancora di più, era poter essere qualcuno per Mark.
Moglie, amante, migliore amica.
Un sogno.
Tuttavia, per quel giorno si era limitata solo a stampar loro delle immagini in bianco e nero da colorare; l'esperimento di calmarli aveva funzionato, specialmente su Terry, che non staccava gli occhietti verdi dal foglio in cui sembrava esserci passato un unicorno caga arcobaleni. Erano carinissimi entrambi, simili come gocce d'acqua se non per un unico dettaglio.
Simon era decisamente più calmo. Capriccioso, sì, ma solo quando la situazione lo richiedeva in modo urgente.
L'altro era un vulcano di energia, chiacchierone e sfrontato.  
Nel guardarli con un sorriso, si chiese chi fosse il loro padre biologico, e come mai Marge fosse rimasta incinta alla tenera età dei diciotto.
Avrebbe volentieri domandato a Mark quella piccola curiosità, ma quando si voltò in sua direzione la voce le morì in gola. L'americano, stravaccato sul tavolo, non aveva alzato la testa dalle braccia neanche per un secondo.
Gli scosse un polso con veemenza e lui sollevò appena il capo, nervoso. Teneva il cellulare stretto nella mano, come se avesse voluto spaccarlo in mille pezzi con la sola forza delle dita, ma allo stesso tempo tenerlo integro.
<< Che ti prende? >>
<< Nulla. >>
<< Nulla, e nemmeno ci caghi. >>
<< Ho scritto a mia sorella per che ora devo farle trovare pronti i bambini, perché non so se farli pranzare o meno, ne per quanto devono restare, ma non risponde. Non mi da orari, fa sempre le cose a metà cazzo. >>
Esther gli lasciò andare il polso con un sospiro. Sapeva che c'era dell'altro, glielo leggeva nello sguardo irato che non era stata la sorella a scatenargli tutto quell'astio improvviso.
<< E Melanie non c'è mai >> le spiegò lui, e cominciò a giocare con il cellulare per stendere i nervi. << Non c'è mai cazzo, e quindi si rimane senza macchina se uno di noi ha dei servizi urgenti da fare. Oggi avrei potuto portare Terry e Simon in giro, piuttosto che tenerli in casa a colorare per ore. >>
<< Perché non glielo dici, Mark? A Melanie, intendo. >>
Perché non le dici che non la ami? Che non ti interessa più, che la tua unica paura è di rimanere ferito una seconda volta da una persona che non conosci? pensò anche, ma questo preferì tenerselo dentro ancora per un po'.
Mark alzò le larghe spalle su cui una bella camicia a quadri rossi e azzurro cenere sfoggiava tutta la sua meraviglia da americano easy going che si tuffava nell'armadio ed emergeva come gli capitava. << La vedo solo quando dormo. >>
Esther finse di non aver mai parlato con Dylan. << Ma è la tua ragazza. Non avete molti punti di incontro... o sbaglio? >>
<< Siamo piuttosto riservati. Non ci piace limonare in pubblico >> fu l'unica cosa che le disse Kruger, prima di chiudersi in un blocco di silenzio al fine di smaltire la rabbia.
Melanie cominciava davvero a dargli sui nervi. Non solo per come si atteggiava con i suoi amici, ma soprattutto per come aveva calpestato il loro iniziale progetto di riconciliazione natalizia, in cui Mark avrebbe teoricamente dovuto perdonarla e lei avrebbe dovuto dimostrarsi aperta a ricominciare.
Solo pochi giorni prima, avrebbe giurato sulla sua stessa vita che sarebbe tornato a New York con lei.
Ora non ne era più tanto sicuro.
Ma non era colpa di Melanie, non del tutto; più la voragine tra loro due si allargava, più Mark sentiva di voler stare vicino ad Esther.
Quindi forse, più che avercela con la ragazza, quello che sentiva di voler impiccare era lui e soltanto lui.
<< Mark! >>
<< What. >>
<< I tuoi nipotini chiedono se eri bravo in matematica. >>
Mark sorrise e accartocciò i brutti pensieri in un angolo, per dedicarsi a quel piccolo angolo di famiglia che ora aveva un disperato bisogno di lui. << Ero bravissimo in matematica. >>
Terry gonfiò le guance e si portò il tappo del colore rosso tra i dentini piccoli, di cui uno caduto di recente. << Che pizza, io non so fare! >>
<< Oh, nemmeno io sapevo fare, infatti. >>
Esther si voltò a bocca spalancata, sconvolta dalla nuova rivelazione che l'americano si era lasciato scappare di proposito. Ricordava un Mark che sbandierava a tutti i suoi voti eccellenti nelle materie scientifiche, che sapeva destreggiarsi con il righello meglio di chiunque altro, quando lei, da brava ragazza menefreghista qual'era sempre stata, ancora lo usava come lima per le unghie. << E questo calo scolastico? Mi è appena caduto un mito. >>
Il sorriso di Mark si velò di una sfumatura più malinconica mentre la mente si perdeva nel coacervo di ricordi. Sì, aveva sempre avuto dei voti davvero eccellenti, almeno in campo scientifico. Ma dopo il trasloco a New York, tutto in lui era crollato, tutte le certezze solide, le amicizie, tutto il suo universo ben costruito. L'impatto brusco con una città tutta nuova era stato tale da portarlo ad una chiusura verso tutte le novità che erano automaticamente entrate a far parte della sua vita.
Una di queste, era stata il liceo.
Le A di un tempo erano diventate D, F, un disastro. I quaderni privi di appunti prendevano la polvere sulle mensole, la calcolatrice veniva smarrita di continuo, come la testa.
Ricordava di aver passato i primi due anni più fuori che dentro l'edificio, ricordava quando i professori chiamavano a casa per chiedere alla madre dove fosse finito il figlio, e lei, comprensiva, aveva sempre avuto la testa calda di proteggerlo e inventarsi delle scuse.
Ma poi Hanagrace se n'era andata, e Mark era rimasto solo con un padre che di stronzate come quella di difenderlo non ne voleva nemmeno sentir parlare.
Aveva provato a ribellarsi, ad andare ancora peggio, a dimostrargli che lui a New York non voleva starci.
A fargli capire che non poteva togliergli persino il diritto alla libertà di vivere una vita felice, quando già gli aveva sequestrato cellulare, computer e tutto ciò che avrebbe potuto tranquillamente metterlo in contatto con Dylan, Esther e tutti gli altri. Con il passato.
Ma Johann era riuscito a farsi rispettare ugualmente. E gli ultimi due anni erano stati gloriosi in quanto a liceo, e dalle D si era ritornati alle B, alle A.
<< Non avevo voglia di impegnarmi. Però poi, grazie al nonno, ho recuperato. >>
Terry annuì, soddisfatto della risposta, ma Esther non lo era per niente e sapeva che non era quella la realtà dei fatti.
Un giorno gli avrebbe chiesto di raccontargli tutta la sua vita a New York. Le sembrava che tra loro mancassero molte fette di storia, e ora che vivevano nella stessa città, meritavano di essere recuperate e riassemblate, proprio come quei momenti insieme stavano ripristinando i dieci anni passati a pensarsi senza potersi scrivere.
Anzi. Perché non iniziare proprio ora?
<< Hai ancora l'annuario scolastico? >>
Mark le lanciò un'occhiata curiosa e divertita al contempo. << Sì, l'ho regalato a mia madre, dovrebbe essere qui in giro. Why? >>
<< Sono curiosa di vedere come eri al liceo. >>
<< Ho solo l'ultimo qui. Gli altri li ha mio padre >> Mark si alzò dalla sedia e cominciò a rovistare tra i vari cassetti che Hanagrace regolarmente passava ad ordinare e sistemare in perfetto ordine.
Quando lo trovò, l'emozione fu tanta che a stento non riusciva a credere di averlo tra le mani. Era passato diverso tempo dai diciotto, eppure li ricordava come se li avesse compiuti solo qualche mese fa.
Lo posò sul tavolo e lo aprì con cura, perché ricordava il grosso lavoro di tutti per realizzare un simile libro. Poi invitò Esther a prendere posto sulle sue ginocchia, perché voleva sentire di nuovo il suo profumo afrodisiaco.
La ragazza accettò senza pensarci due volte, e in mezzo secondo si ritrovò con le cosce forti di Mark premute energicamente contro le natiche. La sensazione le diede i brividi, ma per quel momento preferì ignorare la forte voglia di stendersi contro il suo petto e baciargli il collo.
Posò i gomiti sul tavolo e, mentre i bambini si litigavano il rosa pelle, iniziò a sfogliarlo con interesse. << Uh, attività sportive. >>
Passò rugby, nuoto, baseball e si fermò al calcio, per cercarlo, ma non lo trovò. << Beh? Niente Unicorni per il piccolo Mark, l'ultimo anno? >>
Mark ridacchiò. << No, l'ho praticato solo per i primi tre anni di liceo, era l'unica cosa con cui ancora andavo d'accordo. L'ultimo l'ho tenuto per concentrarmi sulla maturità ed uscire da quella gabbia di matti. >>
La lasciò scorrere e contemplare ancora le gambe possenti degli atleti di corsa, e le spalle di quelli di basket, quando purtroppo arrivò la parte femminile, e la ascoltò liberare un finto versino deluso.
Si soffermò così sui culi pompati delle pallavoliste, e Mark indicò una molto simile ad Ariana Grande, con una smagliante cortina di capelli castani che brillava sotto le luci dell'enorme palestra della scuola. << Il capitano. Dicevano che fosse una puttana. >>
<< Come mai? >>
<< Faceva i pompini ai giocatori di baseball nei bagni della scuola. Oddio, scusa la schietteza con cui l'ho detto, ma è così. Ehm. Nice. >>
Esther si portò entrambe le mani sulle labbra e scoppiò a ridere, suscitando la curiosità di Terry e Simon.
<< Una volta ne ho beccato uno uscire con una... una spada enorme... in mezzo alle gambe, a momenti ci finivo appeso da quanto era eccitato. Da quel giorno mi ha sempre evitato. >>
<< Ragazzi non ascoltate! Vostro zio non sa quello che dice! >>
I due bimbi risero e ritornarono obbedienti ai loro amati disegni super colorati.
Esther si voltò verso Mark per guardarlo negli occhi, meravigliata. << Scommetto che voleva farsi anche la tua, di spada. >> gli sussurrò, e poi sorrise maliziosa, piegando le labbra in un modo che mandava fuori di testa Mark, completamente.
<< Non sai quanto ci ha provato con me l'ultimo anno. >>
<< Oooooooh, Marrrrrk!! Non ti sei concesso, immagino. >>
<< No, chiaramente. >>
Questa volta fu lui a voltare diverse pagine, ed Esther lesse velocemente di tutti i club che offriva la scuola; quello di italiano, quello di pesca, lettura e scrittura, cucina, babysitting. In quello la scuola americana era molto simile a quella giapponese, se non altro. << Hai fatto qualche club? >>
<< Italiano, poi ho mollato. >>
<< Troppo difficile? >>
<< Troppo noioso, ho preferito dare spazio al calcio. "C-come"... >> attimo di riflessione che Mark si concesse per rielaborare quel poco di lingua che gli era rimasta nei meandri del cervello, concentrato. << "come stai? Mi chiamo Mark e abito a New York". >>
Esther scoppiò a ridere nel sentirlo parlare in italiano masticato, le sembrava di vivere un sogno lì, sulle sue ginocchia, a sentirlo e venire a conoscenza di tutte quelle cose che lo riguardavano da molto vicino. Che erano una parte di lui che solo ora era riuscita a scoprire. << Altro altro! >> batté le mani, gli occhi che a momenti prendevano la forma di due cuori folli d'amore. << Quanto amo gli italiani... pasta pizza spaghettiii! >>
<< "Pasta pizza spaghetti, tag-liatelle and pesce fritto" too. >>
<< Tag-liatelle? >>
<< Non lo so pronunciare. >>
<< Che è “pesce fritto”? >>
<< Oh. I really don't remember. Credo sia cibo. >>
Pazienza, si sarebbe portata il dubbio in tomba.
<< Poi ricordo... "uno due tre quattro"... insomma, i numeri. E, "sei bella." >>
<< Ancora! >>
Mark fece uno sguardo da donnaiolo e finse di avere una rosa tra le labbra sottili, che poi si tolse e le offrì con un inchino della regale testa bionda. << "Ti amo ammore mio." >>
<< Oh che cosa carina! >>
<< Basta, mi è rimasto solo questo! >>
Esther smise di guardarlo meravigliata per tornare all' adorato annuario. Riprese a sfogliare quelle pagine plastificate che tutti gli alunni della scuola si erano impegnati per ottenere, fino a quando non arrivò la parte dedicata ai senior più belli e popolari dell'intero corpo studentesco.
Le facciate dorate si aprirono dinanzi a lei come le pesanti tende di un sipario, presentandosi con venti foto ciascuna. Davanti ad uno sfondo turchino, tanti ragazzi dal largo sorriso smagliante davano sfoggio della loro importanza di senior. << Che carini! >>
Mark si mise alla ricerca di se stesso, per aiutarla ad identificarlo più facilmente, ma non fu necessario. Lei riuscì ad individuarlo perfettamente da sola, lo riconobbe come se l'avesse chiamata dalla foto.
Esther si avvicinò per poterlo guardare meglio, le mani che tremavano appena per l'ansia.
Mark era un bellissimo senior, nel fiore dei diciotto anni, così bello che le sembrò di innamorarsi di nuovo di lui. Gli occhi chiari brillavano sotto la frangia lasciata libera sulla fronte, i capelli meno folti di come li aveva ora andavano perdendosi dentro il colletto della camicia che una cravatta nera teneva perfettamente in ordine.
Il sorriso serio mostrava un ragazzo che finalmente aveva capito qual'era la sua strada, e che non aveva più paura di nulla, perché il peggio era passato e l'aveva reso solo più forte.
Vederlo a quell'età la emozionò talmente tanto che fu costretta a chiudere l'annuario e prendere un respiro.
Sarebbe potuta essere la sua ragazza a quei tempi, maledizione.
Avrebbe potuto rivederlo ancora, percorrere i chilometri di mare e raggiugerlo per rotolarsi su un letto con lui mentre fuori cadevano le foglie, farsi aiutare in matematica, lei che non ci aveva mai capito nulla e che era sempre stata rimandata. Vederlo crescere, e crescere con lui.
E invece purtroppo il destino aveva deciso di tenerli incatenati alle loro vite oltreoceano, così distanti da sfuggire persino all'ordine normale delle cose. << Eri stupendo. Eri davvero... non so, io... >>
Esther provò a calmarsi, ma la nostalgia la prese alla gola come un peccato troppo forte per poterlo tenere a freno. Lei i suoi diciotto anni li aveva passati a lavorare come cameriera in una schifosa tavola calda, per racimolare qualche soldo e andarsene in America a ricominciare una nuova vita da donna adulta. A rispondere male ai clienti che facevano troppi apprezzamenti lascivi alle sue gambe, a tenere testa agli ubriachi, a non farsi fregare i soldi dalla mano quando le moine diventavano troppo insistenti.
A tornare a casa a piedi quando pioveva, e non aveva portato dietro l'ombrello, come una perfetta smemorata.
Vedere la vita di Mark scorrere in parallelo con la sua le scatenò dentro al cuore un'immensa voglia di immaginarsi i diciotto anni tra le sue braccia, a luci spente e una tormenta fuori dalla finestra.
Non a lavare i pavimenti sporchi di quel tremendo locale di idioti dove l'odore dell'incenso si mescolava a quello del fritto, e le rimaneva attaccato ai capelli anche dopo mille anni a insaponarsi tra le ciocche mosse.
<< io... >> prese fiato. << adoro come hai continuato a portare i capelli così lunghi... amo i tuoi capelli e... >>
Mark la fece voltare, premendole dolcemente il pollice contro il piercing, e lei arrossì al contatto. << Tutto bene? >>
<< Sì, certo... >>
<< Nostalgia? >>
Esther sorrise per rassicurarlo, e Mark ricambiò con altrettanto affetto nel notare come piccole rughe d'espessione le si erano dolcemente formate intorno alle labbra e i grandi occhi neri. Più la osservava, più scopriva qualcosa di nuovo su di lei, ed era una cosa che gli piaceva.
<< E' che vorrei aver passato con te i miei diciotto anni... continuare ad essere la tua ragazza... >>
<< Non dirlo Esther.. >> mormorò, e la guardò intensamente.
<< Mi sei mancato molto Mark. Più ci penso più mi convinco che mi piacevi davvero alla follia, sai..? Che per te avrei fatto cazzate >>
Mark preferì non dirle di non aver partecipato al prom perché avrebbe tanto voluto invitarla, non le disse che aveva sofferto la sua lontananza forse più di quella di Dylan.
Si limitò a lasciarsi andare ad uno slancio di affetto e la strinse cauto tra le braccia.
Esther arrossì e assaporò il dolce contatto delle mani di lui premute contro la sua schiena, delle sue cosce che calde spingevano contro le sue.
Il contatto durò poco, ma bastò a riportarle su il termometro della felicità.
Anche perché in quel preciso istante il caro Erik Eagle decise che suonare il campanello era una cosa troppo intelligente per un primitivo come lui, e che entrare dalla finestra aperta suonava molto più allettante e pericoloso.
Mark si tolse di dosso l'amica e arrossì pesantemente quando il castano, che li aveva visti perfettamente, alluse a molto più di un semplice abbraccio.
<< It's not what you think. >> sbottò, rimarcando il not con accento forte e pretenzioso. << Le stavo facendo vedere l'annuario e... >>
<< Okay okay bro. >> Erik aprì una lattina di coca cola, divertito.
Questa andava raccontata a Dylan, senza dubbio. Non capitava tutti i giorni di vedere uno poco esibizionista come Mark abbracciato ad una ragazza in modo tanto forte. << Non dirò nulla a Melanie dei vostri strofinamenti sessuali molto espliciti, tranquillo. Ti va un po' di coca? >>
Esther scoppiò a ridere e mimò il gesto di uno schiaffo, provocando le risatine di Eagle. << Sarà meglio, o ti devastavavo a sangue. >>
<< Tu? Con quelle manine? >>
<< Ehi >> Mark si intromise nella conversazione, divertito. Stranamente non se l'era sentita di reagire male a quei commenti scherzosi, forse perché alla fine la cosa non gli aveva dato poi così fastidio.
Anzi, gli era quasi piaciuta.
<< Solo io posso prendere in giro Esther Greenland. >>
<< Mark! >> esclamò lei, e lo afferrò malamente per un orecchio che spuntava dai chiuffi biondi vicino al viso, pensando che forse sì, strofinarsi con Mark non sarebbe stato affatto un dispiacere.




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nda
morning pipol! Okay, mi rendo conto che questo capitolo è lunghissimo, che è pieno di cazzate, e che nemmeno l'ho revisionato da quanto è abnorme perché mi avrebbe portato via cent'anni di vita ma enjoy l'ispirazione, non tutti ce l'hanno eee nulla. Tutto ciò che avete letto sull'annuario è vero; in America ho avuto l'opportunità di darci un'occhiata, è davvero bellissimo anche se ancora non ho capito lo scopo, l'utilità, il senso (?). Per quanto riguarda il club di italiano, è solo un omaggio alla nostra cara bella Italia che saluto (?), mi andava di onorarla perché troppi USA mi mandano in pappa il cervello sennò. Anche qui compaiono nuovi personaggi, Melanie fa la zokkolotta, Marge rovina l'esistenza a Mark con riferimenti al passato molto ambigui ma ehi, è disaster, c'è sempre un casino e menomale.
Non ho nient'altro da dire, non voglio essere rimandata e ancora non so nulla, non so se ci rendiamo conto ._. auguro a tutti una buona estate da passare obesando con gelati davanti al ventilatore, in mutande, con una pila di libri che aspettano solo di essere letti.
Lasciate recensioni se avete voglia, ma anche non -scherzo-, e ci sentiamo al prossimo aggiornamento!
Saluti <3

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Capitolo 21
*** Like an empty bottle of Cola ***


Chapter twenty.
 
like an empty bottle of Cola

 

Quella stessa notte, Mark non andò a dormire presto come di norma. La voglia era folle, ma quello che più gli interessava in quel momento era porre Dylan ad un pesante interrogatorio.
Era curioso di sapere che cosa ci fosse tra lui e Mary, e soprattutto, da quanto tempo l'amico si fosse interessato a lei.
Così decise di aspettare  che i due tornassero dal loro giro per le strade intricate di Los Angeles, e quando Keith fermò l'auto dinanzi al viale di casa Mark aprì la porta e lo raggiunse, come una mamma in pensiero per il figlio.
<< Ehi! >>
Dylan fece finta di essere sconvolto, e gli tirò una pacca amichevole sulla spalla mentre Mary balzava giù dal sedile con eleganza. << Mark? Sul serio? Sveglio alle ventidue? >>
<< Solo per te, Dylan, hai visto? >>
<< Mi onori Mark. >> rispose l'altro, per poi appartarsi un momento con la ragazza. I due cominciarono a parlare delicatamente tra di loro, e Mark ne approfittò del momento clu per osservarli da lontano, curioso.
Molto curioso.
Così curioso che quando si salutarono si mise in punta di piedi per vedere se si erano baciati sulle labbra o se si fosse trattato invece di un semplice abbraccio. Quando si sciolsero dalla stretta poderosa, lei rientrò in casa trascinandosi la borsetta di pelle nera, e Dylan la divorò con occhi ammaliati fino a quando non la vide sparire dietro alla porta d'ingresso.
Poi ritornò al capezzale del migliore amico, fingendosi del tutto estraneo a ciò che sentiva per la ragazza. Peccato che Mark avesse visto tutto, e quando quest'ultimo incrociò il suo sguardo, un sorriso malizioso si formò naturalmente sul suo viso rilassato. << Eheheh. >>
<< Che c'è Kruger? >>
<< Ho visto come la guardi. >>
Dylan incrociò le braccia al petto, e Mark gli tirò una spallata comprensiva che spiegò più di mille parole. Non poteva credere a ciò a cui era stato appena testimone, gli sembrava assurdo che uno come Dylan si fosse messo a guardare il didietro di una sola ragazza. Voleva assolutamente sapere la vicenda nei dettagli, e perciò lo invitò a rimanere ancora un po' per parlarne.
Keith a sua volta decise di cogliere l'occasione al volo per invitare Mark a ragionare su alcune cose. E per cose non intendeva le solite cazzate; intendeva Melanie ed Esther, ed era ora che Mark aprisse gli occhi e decidesse a che genere di libertà affidarsi.
E che rimanere con Melanie era una cosa assurda.
Si sedettero di fuori, sui gradini dinanzi l'ingresso, e Mark aprì una bottiglia di cola da offire all'amico e una anche per sé. Schizzò talmente tanto che litri di schiuma gli finirono sulle dita, e fu costretto a pulirsi sui jeans – tanto erano da lavare -. Non sapeva perché, ma da quando si era accomodato su quei gradini si sentiva piuttosto nervoso. Strano. Lo sguardo duro di Dylan lo aveva un po' lasciato interdetto, e non capiva bene come doversi comportare. Tantomeno cosa volesse dirgli. << Shit... >>
<< Mark, dobbiamo parlare. >>
Mark si attaccò al collo della bottiglia e mandò giù una grande sorsata. << Sì lo so. Noi dobbiamo sempre parlare. Ma prima voglio sapere che cosa succede tra te e Mary. Sai, Esther mi ha detto che vi vede piuttosto attaccati. >>
Dylan fece un ghigno divertito nel sentire il nome Esther in una frase di Mark. Era da una vita che non glielo sentiva pronunciare, cazzo, sembravano passati anni dall'ultima volta che erano stati così bene tutti insieme, così uniti. Sperava tanto di non spaccare tutto con il discorso che aveva intenzione di fare. << Mi piace. >>
<< What?! >> Mark scoppiò a ridere e guardò l'amico meravigliato. << Dylan! Sono felice per te! >>
<< La sto aiutando a dimenticare quello che è successo con Erik, ma non mi aspetto nulla da lei... cerco di capire che tipa è, ma ti confesso che è da quando l'ho vista che non smetto di pensarla. >>
Mark annuì lentamente mentre giocava con l'etichetta rossa della bottiglia. In amore era sempre stato un disastro, per questo il più delle volte si limitava ad ascoltare senza dare consigli, ma questa volta era diverso. Sentì di volerlo aiutare, di poter dire qualcosa di utile, perché per un istante pensò di aver compreso più cose di lui. << Approfittane per uscire con lei, perché poi quando ritornerà a New York sarà dura. >>
Dylan lo guardò con un sorriso riconoscente mentre Mark attaccava e staccava l'etichetta della coca cola con vaga concentrazione. Era un passo, forse mille passi più avanti dell'amico, ma al ritorno di Mary non aveva mai pensato.
Non aveva mai preso in considerazione l'idea di distanza come concetto concreto, si era completamente dimenticato di tutte le problematiche che avrebbe dovuto affrontare se avesse fatto nascere qualcosa tra lui e la ragazza.
Alla distanza ci aveva fatto le ossa insieme a Mark, quando Kruger aveva cambiato stato tutto all'improvviso e lo aveva lasciato solo. << Stai imparando, Mark? >>
<< So cosa vuol dire, molto più di te. >>
<< Peccato che non capisci un cazzo. Cristo santo Mark >> gli disse, e gli prese la bottiglia di mano con fare impaziente. Adesso basta fare finta di niente. Adesso bisognava parlare in modo serio, una volta per tutte. << Smettila di giocare con quel pezzo di carta, tra poco ti stacco la testa cazzo. >>
Mark lo guardò sconvolto e irritato al contempo, le dita ancora piegate nell'atto di giocare con la carta adesiva della bevanda. << Che ti prende Dylan?! >>
<< Che cazzo prende a te, Mark. >>
<< Mi prende che vorrei la mia bottiglia indietro. >>
Si allungò per riprendersela e finirla, ma Dylan gliela rovesciò apposta sul pianerottolo di casa.
Tutta, mantenendola in mano come se gli facesse schifo.
Una chiazza nera si formò sotto i suoi piedi, che stropicciò con la suola delle scarpe e sparpagliò di qualche centimetro.
Mark era sconvolto.
Non sapeva che dire, non trovava le parole per un gesto tanto stupido. << Dylan... >>
Dylan strinse la bottiglia vuota tra le mani e quasi che non gliela schiantò in faccia, pur di mostrargliela. << La vedi? >>
Mark deglutì.
<< Beh? Non sai più parlare? >>
<< La vedo, sì. >>
<< Com'è? >>
<< E'... Dylan che diamine... >>
<< Rispondi. >>
Mark lasciò andare un mezzo sospiro confuso. Perché Dylan si stava comportando in modo tanto assurdo? Sembrava essergli partito il matto tutto all'improvviso, non sapeva davvero come prendere la situazione.
Non riusciva a capire che stava succedendo, tantomeno perché ne fosse così spaventato. << E'... >> sorrise sconcertato. << è vuota. >>
<< Okay, bravo. La bottiglia sei te. Vuoto. >>
Kruger chiuse gli occhi.
Non capiva, o meglio.
Non voleva capirlo. Non poteva essere vero, si rifiutò  di credere che il discorso stesse andando a parare proprio lì. Al tradimento.
<< E sai cosa rappresenta la coca cola? >>
Non rispose.
<< Alla dignità che hai perduto. >>
Si alzò per andarsene, offeso, ma Dylan lo afferrò per un polso e Mark sbatté le natiche talmente forte che per un istante rimase senza respiro. << Aaah... >>
<< Che cazzo stai facendo Mark?! >>
<< Cerco di rimediare!! >>
<< Ed è così che poni rimedio alle situazioni tu? Rimanendo con una ragazza che mentre ti limonava succhiava il cazzo peloso di un altro? >>
Mark si prese la testa tra le mani e si portò la frangia all'indietro, tirandosi i sopraccigli folti come se volesse staccarseli dallo stress. Le parole di Dylan gli corrosero le pareti delle tempie, aumentarono il suo battito cardiaco e il suo respiro febbrile, i nervi saltarono sulla superficie della pelle pronti a dare il via ad una conflagrazione di sentimenti che no, non era affatto sicuro di saper gestire.
Non sapeva che dire, la lingua gli si pietrificò a contatto con l'aria calda di Los Angeles non appena aprì la bocca.
Il dolore fu più forte di tutto il resto, e l'umiliazione gli appese la gola ad un blocco di piombo.
Dylan gli sbatté la bottiglia nel petto, che Mark non prese in tempo nemmeno a pagarlo. Così si schiantò a terra, plastica inanimata che presto sarebbe finita nel bidone o in mezzo alla strada.
<< Mark, credevo che il trasloco a New York ti avesse formato. Credevo avessi imparato a combattere per i tuoi ideali, per la tua libertà. Ho sempre ammirato la tua forza, tuo padre ti controllava e tu trovavi comunque la maniera per fargli capire chi comandava. Non andavi a scuola, prendevi brutti voti, non mangiavi. Eri assurdo, uno stupido ragazzino, ma ti eri davvero imposto contro il volere di Johann. >>
Mark ascoltò quelle parole come se si stesse parlando di un'altra persona, nervoso. Stava subendo un'umiliazione bella e buona, ma nonostante questo se ne stava lì, a prenderle dal migliore amico.
Forse perché aveva ragione, come sempre.
E lui aveva torto, come sempre. Perché era un idiota, un incompetente, uno buono solo a parlare, che diceva di inseguire la libertà ma che non aveva ancora capito quale fosse la sua. Uno che aveva sbagliato e per paura di ricommettere gli stessi errori rimaneva con lo sbaglio stesso. Che non credeva affatto in qualcosa di meglio, perché la sua vita era sempre stata un disastro.
Sapeva di dover lasciare Melanie.
Ma un allarme in lui aveva continuato a dirgli che forse ci poteva essere una soluzione, senza perdere ne rovinare nulla. Per quello se l'era portata a Los Angeles.
Solo che Esther... Esther non era stata prevista, in quel ripristino.
Era sbucata per caso e lui l'aveva fatta immediatamente entrare nel suo cuore.
Lui si era innamorato di lei come dieci anni prima e si sentiva un cretino per questo; ma non poteva non risolvere con Melanie.
Non poteva lasciarla, perché non voleva altri problemi nella sua vita, ora che aveva raggiunto un equilibrio così stabile. Si erano promessi che sarebbe andato tutto bene, che si sarebbero impegnati per proteggere la coppia.
Per proteggere quell'equilibrio, appunto.
<< Invece ti sei rivelato una merda, Mark. >>
<< Attento a come parli. >>
<< Attento tu, a come prendi in giro te stesso. A come ti sfotti da solo e ti crei castelli solo perché pensi che qualcuno potrà di nuovo metterti in trappola come ha fatto tuo padre. >>
Gli occhi di Mark baluginarono di stizza a quelle frasi cariche di intolleranza, come una pantera che si muove cauta nel buio. E il fatto che fosse tutto vero, oddio, lo stava rendendo folle di umiliazione.
Si stava facendo schifo. Non poteva credere di aver sopportato persino un tradimento carnale per mantenere le cose così come erano diventate.
<< Sei troppo intelligente per questo, Mark. Too smart. >>
<< Non sai nulla. >> mormorò, aggredendolo con voce affilata.
Dylan sorrise strafottente, e questo non fece che accrescere la rabbia devastante del biondo. << Ma guardati, Mark. Ti fai addirittura tradire pur di non minacciare la tua vita. Non rispetti nemmeno i tuoi sentimenti. >>
<< Li rispetto eccome. >>
<< Certo, infatti ho visto come li rispetti. Soprattutto quando sei con Esther. >>
<< Non nominarla, non provo niente per lei! >>
<< Menti, cerchi di scappare da te stesso perché sei così forte che ti fai paura da solo. Sei assurdo. >>
Sì, era vero, Mark aveva appena mentito. Su tutto. Ma non lo ammise. Non lo disse che Esther gli piaceva da morire, che da quando c'era non stava capendo più niente, che voleva finirla con Melanie ma la paura di perdere tutto ciò per cui aveva lottato era folle.
<< Sei un maledetto immaturo che--
Non riuscì a sopportare una parola di più. Esplose come un palloncino a contatto con un ago, ferito e umiliato da sé stesso, e in un impeto di rabbia scattò in piedi e guardò l'amico come si guarda una preda prima di affettarle la gola. << Osa >> la voce gli uscì pesante dalle labbra schiuse mentre l'indice puntava ferito verso gli occhiali blu del compagno. << Osa ancora umiliarmi in questo modo e, Dylan, ti giuro che--
Dylan si sollevò pure lui, e allora Mark capì davvero chi aveva ragione tra i due.
Purtroppo era tutto vero. Aveva vinto Keith, di nuovo.
Inutile opporsi.
<< Ti stai facendo del male da solo, Mark. >>
<< Lo so io cosa sto facendo. >>
<< A te piace Esther. >>
Non lo guardò, ma l'altro lo costrinse a farlo. << Ti piace. >>
<< Smettila Dylan, davvero. >>
<< Mark, sei proprio un coglione, fattelo dire. >> Mark si sentì scuotere leggermente per la spalla mentre il viso assumeva le tonalità umilianti del rosso. << Svegliati, ora lei è vicina. E' diverso Mark. Inutile che ti chiudi così, ti stai comportando da bambino. >>
<< Smettila, ho detto. Sono affari miei. Stai fuori dalla mia vit--
<< Mark? >>
Nell'udire un'improvvisa voce femminile richiamare l'attenzione, Mark e Dylan voltarono la faccia verso la porta lasciata aperta della casa.
Quando si resero entrambi conto che si trattava di Esther, Keith lasciò andare Kruger e le sorrise. << Ehi! Mark non mi aveva detto che c'erano i nottambuli qui. Tutto bene? >>
Esther lo ignorò completamente, come se non esistesse. I suoi occhi neri erano puntati solo su Mark, le labbra piegate in una smorfia di dolore lasciavano intendere che avesse sentito tutto quello che proprio lei non doveva sentire. Nemmeno per sbaglio. << E'... >> lasciò cadere le braccia sui fianchi, semplicemente perché non aveva più la forza di tenerle incrociate al petto. Non aveva la forza di fare nulla.
Tantomeno di pensare.
Aver scoperto che Mark era stato tradito da Melanie era stato peggio di ricevere un pugno di ferro dritto nelle sensibili viscere dello stomaco.
<< E' vero..? >>
Mark sentì di voler morire, mentre l'agitazione prendeva possesso di lui fino all'ultima vertebra. Sarebbe voluto scappare lontano, fuggire da quello sguardo che lo fissava alla ricerca di spiegazioni che non se la sentiva di fornire.
Non ora.
Non a lei, non così. E il fatto che avesse udito tutta la conversazione fu ancora più umiliante delle parole di Dylan.
<< E' vero che sei stato tradito? Tutto quello che ha detto Dylan... io... >>
Distolse lo sguardo, perché faceva troppo male.
E quello che Esther sentì dopo, fu solo la debole spallata di Mark che si imponeva per poter passare, per spostarla e farsi largo senza che entrassero in comunicazione.
Lo schianto della porta fu così forte che persino Dylan, abituato alle reazioni esplosive di Kruger, ebbe un sobbalzo di nervi enorme. << Merda... >>
<< Dylan, è vero? >>
Dylan annuì, perché ormai era inutile negare l'evidenza. << Ma non è così grave come pensi. Cerco solo di farlo ragionare, Esther. >>
Esther fece finta di non aver preso la conversazione sul serio, sul personale. Fece finta che non l'avesse minimamente toccata, ma era impossibile ignorare il forte caos che sentiva alla base dello stomaco.
Mark, il suo Mark. Tradito dalla ragazza che amava, e non solo. Incapace di predere in mano la sua vita, per paura di rivivere un disastro emotivo come quello che lo aveva colpito in adolescenza.
Mark, il paladino della libertà, affascinante e forte.
Che si era messo a fare la guerra contro se stesso solo per difendere tutti i traguardi che un cambiamento drastico minacciava di distruggere da quando Melanie lo aveva... faceva fatica a crederci.
Tradito.
<< Mark è una testa calda, Esther. Non ti preoccupare, ora passerà la notte a riflettere, sai come è fatto. Alla fine, deve scegliere lui cosa fare della sua vita. Giusto? >>
Giusto.
Peccato che Mark ci stava solo giocando, con la sua vita.

 

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nda
VAI DYLAN! VAI DYLAN, VAI, FAI CAPIRE A KRUGER CHI E' IL VERO UOMO
*cheers*
okok.
Eccomi qui, anche se ho tutto meno che l'umore adatto alla pubblicazione, perché ehi, mi hanno rimandata di nuovo e questa volta lo hanno fatto per vendetta. Non so se vi rendete conto della gravità della cosa.
Mi consolo col fatto che le mie due migliori amiche mi hanno seguita a ruota lol.
Non vedo l'ora finisca tutta sta merda.
Anyway, come va? BELLEH LE VACANZE dudd.
Belle per tutti tranne che per Markywhiskey, che ancora una volta sbatte la testa contro i coglioni d'acciaio di Dylan, ma non solo. Pure contro quelli di Esther, che forse fanno più male, lallal. Eh sì, perché se ricordate, Esther SA che Mark e Mel non stanno più, ma NON SA il motivo.
O almeno, non prima di orecchiare la conversazione tra lui e Dylan e venire a conoscenza delle corna.
Siamo al punto di svolta, non ci crederete mai ma è così.
Dopo il prossimo capitolo, che è anche il mio preferito di tutta la storia, finalmente potrete dire tutti che la tempesta, almeno per Krugeruccio puccio, è passata.
Ma non per Eagle, ehehe.
Niente, che ne pensate? Con questo capitolo non voglio intendere che Mark non sia capace di distinguere una scelta buona da una cattiva, perché comunque è un ragazzo razionale e lo dimostra spesso in diverse situazioni. Voglio solo dimostrare che è davvero un po' tanto troppo perennemente confuso, che ha bisogno di qualcuno che gli allunghi una mano, e che Dylan ogni tanto serve anche quando si è “adulti”. Anche perché quello che sta facendo Kruger è piuttosto grave. Rimanere fermi e adattarsi non è da lui, soprattutto quando i suoi sentimenti, anche se lo nega perché è scemo ma altrimenti non sarebbe Kruger, sono tutti indirizzati ad un'altra donna. Donna che ricambia.
Per cui.
Chi ha giocato al gioco sa che tra i due quello sveglio è Keith >.>
ho detto tutto. Non vedo l'ora di postare il prossimo chapter! Lasciatemi pure un commento o un parere, fa sempre bene

Best wishes!
Lila

PS: quando Dylan dice a Mark di essere "too smart", ecco, questa frase l'ho presa da una canzone di Era Istrefi che si chiama "red rum". C'è un pezzo in cui dice "you're too smart for all that drama", e penso si addica molto a Markyy.

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Capitolo 22
*** Cliff edge ***


Chapter twentyone.
 
Cliff edge

 
 
Mark camminava, ma era come se non poggiasse mai i piedi a terra.
Camminava, e tutto gli sembrava sfumare intorno a lui. Le pattinatrici in bikini fluorescenti, la pista da skateboard circondata di palme, il caos delle auto in lontananza che tentavano di scappare alla morsa soffocante del traffico, senza riuscirci. Tutto spariva, risucchiato nel vortice dei suoi pensieri tormentati che da ieri notte non lo avevano lasciato respirare un secondo.
Quella sera avevano deciso di esistere solo loro, nella sua testa, e quando succedeva così, Mark rimaneva indietro. A riflettere, a isolarsi.
Non ricordava di chi fosse stata l'idea di andare al mare, forse di Dylan, oppure di Esther. Sinceramente non riusciva nemmeno a comprendere perché uno come lui, un cretino, fosse lì a perdere tempo con i suoi amici invece di sistemare la sua vita.
Li guardò, guardò la coda di Dylan, la schiena bianca di Mary e le gambe di Erik che sbucavano da un paio di pantaloncini verdi. Non comprendeva affatto perché li stesse seguendo.
Cristo, come se si potesse dimenticare la discussione di ieri.
Come se fosse facile tutta quella situazione.
<< Mark! >>
Era stata Esther a parlare, e quando lo vide notarla gli sorrise con grinta. << Perché rimani in fondo? Vieni qui! >>
Mark si limitò a non risponderle, e lei per fortuna non insistette. Non gli andava di essere lì, di immergersi nell'acqua, di stare bene.
L'umiliazione di ieri gli pesava sulle spalle come una tonnellata di piombo che minacciava di esplodere da un momento all'altro.
E il fatto che Esther avesse scoperto tutto quello che non avrebbe mai dovuto sapere era una verità che lo teneva ancora pieno di vergogna.
Proprio lei, la ragazza che gli piaceva. Ora conosceva il suo triste passato, i suoi complessi, ed era una cosa che più scorrevano le ore, più finiva per non sopportare. Si sentiva un completo idiota, e non si accorse minimamente di una pattinatrice che gli finì erroneamente addosso, scaraventandolo all'indietro in mezzo ad un coro di rantoli stupiti.
La prese per i gomiti prima che potesse buttare giù entrambi, e la guardò irritato, gli occhi che brillavano di rabbia. La ragazza si fece piccola sotto quello sguardo pieno d'odio, e Dylan rimase colpito dell'atteggiamento nervoso dell'amico. << Ehi girl...! >>
<< Scusami! >> fece lei, e si portò le mani al petto prosperoso. << Scusa, non ho ancora imparato a frenare e... >>
<< Guarda dove vai! >> sbottò Mark, prima di spostarla di mezzo e riprendere la marcia verso la spiaggia.
Sentiva di voler spaccare la faccia a tutti, di voler sparire sottoterra, morire soffocato. Di tutto pur di non avere Esther così vicino, consapevole di quell'errore così grande.
<< Mark... >> mormorò Dylan, e cercò di mettergli una mano sulla spalla, ma quella sera Mark era meglio non toccarlo. Era meglio lasciarlo in pace a ragionare.
<< Che vuoi. >>
<< Perché l'hai trattata così? >>
<< E' colpa di New York, là ti vengono tutti addosso. Vero Kruger? >> Erik rise ironico, ma quando Mark lo fulminò con lo sguardo lo fece smettere.
<< Mark, scherzavo. >>
<< In quale spiaggia vogliamo andare? Sono ore che camminiamo. Vi siete decisi? >>
Dylan ed Esther si guardarono, irritati dall'atteggiamento intollerante che aveva appena vomitato Kruger. << Quella di sempre Mark. >> rispose Keith, e poi lasciò partire da solo l'amico, senza provare neanche a fermarlo.
Esther tentò di raggiungerlo, ma fu lesto a bloccarla con una forte stretta del polso. << No Esther. >>
La mora esibì i canini in una smorfia stressata, nervosa, e tutto quanto ci potesse essere di male in lei in quel momento. << Ma mi sta facendo incazzare! E' da questa mattina che fa lo stronzo! Ma che razza di problemi ha?! >> si voltò e guardò la testa bionda di Mark che si allontava passo dopo passo. Senza fermarsi, ne tantomeno guardarsi indietro per vedere a che punto fossero i suoi amici. Che nonostante l'atteggiamento assurdo l'avevano comunque invitato a trascorrere una serata al mare, per brindare sopra i problemi, dimenticare i rancori e rilassarsi in attesa del natale, sempre più vicino. Esther si sentì poco considerata, e quando questo succedeva, un fuoco di rabbia le scoppiava al centro del petto. << Cazzo che faccia da schiaffi! Lasciami, Dylan! Lo vado a menare. >>
<< Ce l'ha con me e con sé stesso, mollaci o si infuria ancora di più. E' fatto così. >>
Dylan la trascinò indietro e le fece cenno di stare calma, le spiegò che quando Mark si arrabbiava era meglio lasciarlo solo, perché riflettesse, ed Esther fu costretta a cedere quando anche Erik le diede la stessa versione dei fatti.
Così provò a placare il respiro, irritata. Aveva sperato di poter chiedere spiegazioni a Mark riguardo alla conversazione che si era tenuta ieri con Dylan, e a cui lei aveva partecipato senza volerlo.
Riguardo al tradimento.
Ma se il biondo continuava a fare l'intrattabile principe azzurro a cui tutto è dovuto, era inutile pregare in un dialogo sano con lui.
Esther avrebbe voluto tirargli uno schiaffo, anzi due, tre, quattro, fino a farlo piangere, e sopperì il desiderio correndo a chiudersi il polso in una morsa d'acciaio ben solida.
Si era lasciato prendere in giro, si era lasciato umiliare senza fare nulla, da una che non valeva nemmeno un suo capello.
Mark Kruger.
Era una cosa che ancora non riusciva ad andarle giù, e istintivamente buttò un'occhiata addosso a Melanie.
La ragazza la notò e le sorrise divertita. Poi le venne vicino, mostrandole di proposito il fisico forte da ballerina. << Hai scoperto cose brutte su Mark, tesoro? >>
<< Non sono fatti che ti riguardano. >>
<< Penso che mi riguardino eccome, sono la sua ragazza. >>
La rabbia prese possesso della voce di Esther, riducendola ad un rauco sussurro carico di odio mentre trucidava la corvina con sguardo assassino. << Non sei la sua ragazza. Non sei nulla. Sei solo una sporca sadica lurida-- mh! Ti sei presa gioco di lui quando avresti potuto amarlo, lo hai umiliato, lo hai devastato, e lo stai prendendo in giro anche adesso razza di...! >> La prese per il gomito e la avvicinò a lei fino a quando non fu certa che il messaggio che stava per riferirle le sarebbe arrivato ben chiaro nel cervello – sempre che ne avesse uno -, perché non lo avrebbe ripetuto due volte.
Dalle parole sarebbe direttamente passata ai fatti, senza remore. << Finché esisterò ti impedirò di fargli ancora del male, hai capito?! >>
<< Che c'è, lo ami così tanto da sbattertelo e poi volerlo anche proteggere? Povera sfigata. Non sai a quale altro pene attaccarti. >>
<< Sicuramente lo amo molto più di te. >>
<< Tranquilla che non lo avrai mai. Ti impedirò di averlo, ha promesso di impegnarsi per noi. In questo “noi” tu sei esclusa amore mio. Non esisti per Mark. E' un uomo di parola. >>
<< Questo lo dici TU. Provaci. Provaci a prenderlo ancora per il culo, e ti pentirai di avermi conosciuta. Ah. Anche io sono una donna di parola, non mettermi alla prova. >>
Detto questo, Esther la lasciò andare con un gesto nervoso e raggiunse gli altri con una corsa, certa che ormai Mark li stesse aspettando da un pezzo.
A nulla servì provare a distrarsi, il pensiero del tradimento continuò a tenerla occupata tutto il tempo.
Quando si voltò per vedere se Melanie avesse deciso di seguirli oppure di sparire dalla faccia della terra, come tutti speravano, questa le sorrise divertita e le fece ciao con un gesto ironico della mano pallida e smaltata di nero.
Esther si chiese che cosa avesse da divertirsi, perché non c'era nulla di bello in quella situazione, nulla.
Aveva rovinato Mark, stava distruggendo tutto, continuava a tenerlo in trappola solo per intrattenersi.
Forse era amore, forse era semplice protezione.
Ma Esther non le avrebbe permesso di ferire l'amico una seconda volta.
A costo di dover essere cacciata fuori di casa con tanto di bagagli, a costo di perderlo.


 
<< Comunque Los Angeles è Los Angeles. >> Erik mandò giù un po' di limonata e si stese con i gomiti ben piantati sulla sabbia, per godere meglio della brezza marina che fluttuava intorno ai suoi capelli castani e dolcemente spostati sulla fronte. << Am I right, Marky-whiskey? >>
Mark, seduto accanto a Dylan, annuì distrattamente in risposta, ma la sua espressione rimase seria e assorta a fissare un punto molto distante.
Oltre le palme, oltre le strade, oltre Los Angeles, il mondo, tutto.
Qualsiasi cosa pur di evitare Esther, che invece non smetteva di lanciargli occhiate comprensive e preoccupate.
Dylan prese la parola per lui, passandogli un braccio intorno alle spalle per scioglierlo. Lo fece traballare un po', gli sorrise, ma Mark lo ignorò completamente, come se non esistesse. << Vorrei che questi giorni non finissero mai, cazzo. Si sta benissimo quando siamo tutti insieme. Che facciamo a Natale? Mark, hai qualche idea? >>
Quando Mark fece scena muta e continuò a guardare oltre le spalle di Mary, quest'ultima provò a proporre una mega cena includendo anche la presenza di Bobby e la sua nuova sposa.
Erik provò ad aggiungere altro, ma la ragazza gli parlò sopra, facendo intendere a tutti che ancora non lo aveva perdonato.
Il castano sospirò e si prese la fronte tra le mani, Dylan si morse il labbro inferiore e gettò un'occhiata di rimprovero alla ragazza, che si strinse nelle spalle.
C'era un'atmosfera tesa, le cose si erano ingarbugliate e nessuno sapeva come venirne fuori prima del venticinque. 
<< Io >> fece Dylan, e riscaldò la voce. << credo che Bobby non tornerà qui prima del nuovo anno. >>
<< Lo penso anche io. >>
<< Oh, peccato. >> Mary affondò i piedi nella sabbia e si cinse le ginocchia. << Qualcuno ha altre idee? Est? >>
<< Nessuna. Tu Mark? >>
Quando la mora lo chiamò per nome, la vergogna costrinse Mark ad alzarsi, pulirsi il costume dalla sabbia in eccesso e incamminarsi verso la scogliera che dieci anni prima lo aveva visto esibirsi in un maestoso tuffo di gran classe proprio insieme alla ragazza che ora cercava di evitare in qualsiasi modo.
Ma Dylan si alzò con lui e lo prese in disparte, preoccupato. << Mark... >> prese un grande respiro e gli posò una mano sulla spalla. << mi dispiace, fratello, non volevo essere rude con te ieri notte. Scusami. Ne vogliamo parlare? >>
<< Lasciami in pace, Dylan. >>
<< Mark, voglio solo che tu capisca che stai buttando la tua vita. >>
Gli occhi di Mark si ridussero a due sottili fessure turchine mentre cercava di tenere a freno la voglia di urlare, di spingerlo e correre verso quella scogliera che lo chiamava come un rifugio sicuro lontano da tutto quel disagio. << Mi hai umiliato davanti alla ragazza che mi piace, Dylan. >>
Dylan fu contento nel sentirlo ammettere di provare sentimenti per Esther che andassero ben oltre la semplice amicizia. Finalmente lo aveva detto. Finalmente. << Non credevo stesse ascoltando. >>
<< Eppure è successo. >>
<< Mark, non avrei mai rivelato una cosa del genere, lo sai. Soprattutto alla ragazza che ti piace. >>
<< E tu non sai quanto fa male sapere che ora lei sa. E io non posso fare nulla per tornare indietro. >>
Dylan aumentò la stretta sulla spalla del compagno. << Ti prego Mark, non fare così. Siamo tutti insieme, come una volta, in una spiaggia che ha dei ricordi stupendi. Quando ci ricapiterà? >>
Mark parve riflettere sull'ultima frase pronunciata dall'amico, ma in quel momento non gli interessava nulla del fatto che fossero tutti insieme.
Gli importava solo che Esther avrebbe potuto ritenerlo un debole, uno che non sa reagire alle situazioni complesse.
Uno che si fa prendere in giro, e il pensiero bastò a riaccendere in lui un forte odio per se stesso. Prese il polso dell'amico, lo allontanò e si incamminò verso la scogliera.
Non si aspettò di essere seguito, e infatti Keith non lo fece.
Si limitò a raggiungere quella scogliera, per poter isolarsi dal mondo e pensare in pace a come risolvere la situazione senza incidenti.

 

<< Beh? >>
Dylan si risedette sulla sabbia e inchiodò gli occhi su Esther. << Beh cosa, è incazzato. Detesto quando fa così... >>
<< Dove è andato? >>
<< Alla scogliera. Quella da dove vi siete buttati una volta. >>
A Esther bastò quello per alzarsi e desiderare di raggiungerlo lassù, come ai vecchi tempi. Dylan provò a fermarla, le ripeté le stesse cose di prima, ma per Esther fu come non sentire nulla.
Diede retta al suo cuore e corse verso la ripida scogliera che le si stagliava dinanzi allo sguardo, sperando di ricordare ancora il percorso per arrivare al punto in cui sicuramente si era posizionato Mark.

 

<< Mark. >>
Mark si voltò con uno scatto del collo, e nel vedere una Esther ansante e scocciata a pochi metri di distanza da lui rimase piuttosto stupito. Che ci faceva lei lì?
Che voleva da lui? Non era pronto per affrontarla, l'umiliazione scorreva ancora nelle sue vene irritate, e più affluiva al cuore più faceva male, più si sentiva idiota.
Le diede di spalle e ritornò a guardare il mare sotto di lui, che ormai aveva preso le tonalità scure della notte.
Sarebbe stato bello buttarsi e farsi una meravigliosa nuotata liberatoria, affondare la testa nell'acqua fredda fino a sentire la disperazione di dover riprendere aria.
Di dover vivere.
Era tentato di tuffarsi, gli sarebbe bastato davvero poco. Mettersi in posizione, gettarsi, ormai ricordava a memoria dove fossero gli scogli in cui morire e dove invece ci fosse la sabbia in cui galleggiare al sicuro. Ma Esther lo bloccava.
La sua presenza lì, dietro di lui, i suoi ansimi adorabili.
<< Che vuoi. >>
<< Oh che burbero che sei oggi. >> Esther si lasciò cadere accanto a lui e si prese le ginocchia con entrambe le mani. Per un po' rimase a fissare il mare sotto di lei, ricordando con velato imbarazzo quando si erano buttati da lì dieci anni prima.
Quando lui l'aveva presa per mano per guidarla, promettendole che sarebbe stato bellissimo.
E in effetti, era andata davvero così.
Durante quel pazzo volo nel vuoto, Mark non l'aveva lasciata andare fino a quando l'acqua non li aveva intrappolati nelle sue correnti tiepide. Era stato adrenalinico, eccitante, e fece fatica a nascondere l'immensa voglia di rigettarsi in acqua da quell'altura, con lui.
Mano nella mano, e poter sentire la sua voglia di libertà diventare parte di lei, e viceversa.
Rifare le stesse cose, solo, con dieci anni in più.
<< Ehi, qui è dove hai tentato di uccidermi. >>
Mark sorrise malinconico quando una folata di vento lo colpì dritto in volto, sollevandogli la frangia dorata e baciandogli la fronte corrucciata. << Sei tu che volevi morire. Io ti ho semplicemente accontentata. >>
Questa volta fu Esther a sorridere, e spostò gli occhi dall'orizzonte al compagno seduto lì accanto a lei. Gli osservò per un momento la mano ampia distesa sulla roccia scura, scrutandogli le nocche pronunciate con aria nostalgica, e sognò di potergli stringere di nuovo il palmo con la stessa sicurezza di una volta.
Così posò la mano vicina alla sua, talmente vicina che se avesse voluto, avrebbe potuto sfiorargli le dita.
Ma temeva la reazione.
Temeva di renderlo ancora più distante di quanto già non fosse.
<< Mark... >>
<< Immagino tu sia qui per parlare di quello che hai sentito ieri. >> sbottò Kruger, e finalmente la degnò di uno sguardo.
I suoi occhi tinti delle sfumature del mare si accesero sotto la frangia biondo miele.
Esther lo trovò molto bello, ma non glielo disse. << Io... >>
<< Forza, avanti. Dimmi che sono un coglione. Che sono un idiota, uno stupido, che mi piace farmi umiliare, come sostenete tutti voi. Prendimi a schiaffi non so, buttami, tanto. Dimmi che sono un cretino, Esther >>
La mora avrebbe voluto baciarlo, pur di farlo stare zitto, e l'istinto la fece muovere di qualche centimetro verso di lui. All'ultimo sviò intenzione, imbarazzata.
Non pensava quelle cose, assolutamente. Anzi, la sua ammirazione per Mark non aveva fatto altro che crescere, e non si sarebbe abbassata per simili stronzate. Solo un dettaglio voleva sapere.
Perché.
<< No, Mark. Sei tutto fuorché questo! >>
<< Lo so di dover lasciare Melanie. In realtà, è già successo. Solo... io... l'ho portata con me per recuperare il rapporto. Non lo so. No, non capisco più niente, in realtà. >>
<< Non mi devi spiegazioni delle tue azioni. >>
Gli prese la mano, e l'americano reagì con un sobbalzo sorpreso a quella dimostrazione di affetto tanto improvvisa quanto ben accetta. Guardò le dita di lei cercare le sue, ben piantate contro la roccia tagliente.
Lasciò la mano distesa e arrossì appena, ma fu bravo a nasconderlo. Fu bravo a fingere che quel tocco non gli avesse suscitato nulla. << Detesto chi si prende gioco di me. >>
<< E allora perché? >>
<< Perché non voglio problemi. >>
<< Ma così ti condanni. Il tuo atteggiamento, è stupido. >>
<< N-non importa. Va bene così. >>
<< Davvero vuoi limitarti ad essere infelice, Mark? >>
<< Non ricordo momenti della mia vita in cui sono stato realmente felice, Esther. Da quando vivo a New York tutto è sempre andato in modo... diverso. >>
Esther si fece più vicina a lui. Sapeva del passato difficile di Mark, il trasloco lo aveva distrutto del tutto, e doveva essere stata dura ricostruire tutto mattone dopo mattone. Era una storia che avrebbe dovuto chiedergli, da approfondire, ma non serviva fargli qualche domanda per immaginare che razza di incubo fossero stati i primi anni. Un ragazzo come lui, timido, introverso, impacciato. Lanciato in una città del tutto nuova, diversa, senza Dylan accanto con cui passare le giornate a ridere e masticare patatine, senza più il suo vecchio universo fatto di calcio e bagni al mare dopo la scuola.
<< Questo momento, Mark... non lo consideri come felice? >>
Mark le sorrise come non aveva mai fatto prima, con una dolcezza ed un affetto che lasciarono Esther sconvolta.
Col cuore in tumulto, che le voleva spaccare la gabbia toracica.
<< Certo, Esther. >>
<< Hai paura che altre persone possano tradire così la tua fiducia? Come ha fatto lei? >>
<< Non ho paura, se una persona mi tradisce ha chiuso con me. >>
Esther lo sapeva bene.
Era a conoscenza del carattere selettivo e pretenzioso di Mark. Vietato mentirgli, nascondergli le cose, giocare con lui.
Lo ricordava alla perfezione, e in quello non era affatto cambiato. Eppure si era lasciato lo stesso umiliare. << Non penso che permetterai ad un'altra persona di farlo. Non sei stupido. >>
<< Mai più. >>
<< E allora basta. >> Esther gli prese il viso tra le mani, affondò le dita tremanti tra i folti capelli biondi dell'americano, e Mark la guardò ad occhi sgranati per quel gesto inatteso e forse un po' folle. Le cinse i polsi con dolcezza, ma non provò a togliersela di dosso, perché sentirla così vicina lo stava facendo impazzire.
<< Lasciala, perché questa non è libertà Mark. Ti stai adattando, quando puoi ottenere ed essere molto più di così. >>
<< Esther... >>
<< La ami, Mark? >>
<< Non più. >>
<< Bene, perché lei non ama te. Non ti ama >> Esther si aggrappò disperatamente a quei capelli che tanto amava, come se il gesto potesse aiutarla a trasmettere meglio il messaggio. << vuole solo rovinarti la vita... >>
<< Lo so benissimo. Non accadrà. >>
<< No. Tu glielo impedirai, Mark. Promettimelo. >>
<< … >>
<< Mark. >>
<< Lo prometto, Esther. >>
E Mark lo giurò anche a sé stesso, soprattutto a sé stesso. A quel Mark che di adattarsi non aveva nessuna voglia, quello che se avesse potuto sarebbe saltato sulle labbra di Esther, sarebbe tornato indietro con lei e con tanta voglia di distruggere tutto e ricominciare da zero, con più forza di prima. Si promise che non avrebbe perso quella lotta, che era giunto il momento di liberare il suo vero ego, di reclamare il suo posto nel mondo. Non seppe come riuscì a convincersi così velocemente di una cosa del genere, quando fino all'attimo prima era restio persino a voler trovare una soluzione.
Seppe solo di essere riflesso negli occhi neri di Esther, e che nel momento in cui finalmente scelse di vedersi, provò una pena talmente grande da farsi schifo da solo.
Capì che non poteva continuare a scavarsi la fossa da solo, come un perfetto idiota.
Capì di non essere cresciuto affatto, di essere ancora un ragazzino, e che era ora iniziasse a comportarsi da adulto.
Esther gli tenne il viso tra le mani e lo guardò fino a quando non sentì di diventare una cosa sola con lui. Lo osservò, osservò il vento spostargli i capelli dal viso, giocare con quelle ciocche bionde e libere che l'amico aveva scelto di tenere lunghe, lo fissò negli occhi fino ad affogarci. Si perse in mezzo a quel celeste smeraldino che tanto l'aveva fatta impazzire da ragazzina, e che tutt'ora le suscitava emozioni assurde.
<< Buttiamoci. >>
Mark le sorrise, incapace di lasciarle i polsi. Incapace di muoversi quasi, da quanto fosse bella. << Cosa... >>
<< Buttiamoci. Forza >> Esther si alzò e lo aiutò a sollevarsi, poi lo guidò fino alla punta della scogliera.
Sotto di loro, il mare nero ruggiva schiantandosi contro le rocce che li circondavano da ogni lato.
Mark scosse il capo, il vento salato che non gli dava tregua. << No. Rischiamo di farci male. >>
<< Che ti importa? >>
<< Mi importa eccome, non so tu ma io di morire proprio oggi non ne ho nessuna voglia. >>
<< Io mi butto. >>
<< Esther! >>
<< Se tu non vuoi, che ci fai qui in piedi con me? >>
Mark la guardò trattenendo un enorme sorriso.
In effetti, che ci faceva lì? Era una domanda a cui sapeva benissimo rispondere, per cui non occorrevano quattro anni di studi, per cui non serviva saper sparare sia con la destra che con la sinistra.
Perché lei lo faceva sentire libero.
E se si fosse buttata, sarebbe venuto giù con lei, solo per sentire quella libertà insieme. Per percepirla entrargli dentro le vene, le ossa, e possederlo, ed era una sensazione... un sentimento che solo Esther sapeva dargli.
Solo lei, con quegli occhi immensi, e quelle labbra adorabili che ogni giorno cambiavano rossetto e profumo.
Non sapeva cosa dire. La ringraziò con gli occhi, e lei gli rispose col tipico ghigno imbarazzato da mocciosa impertinente che era appena scampata ad una tremenda sgridata. << Allora ci buttiamo, Est? >>
<< Prendimi per mano. >>
Mark la prese per mano e si mise in posizione, ma proprio in quel momento Melanie si frappose tra di loro, autoinvitandosi ad una festa privata a cui non era stata affatto ammessa.
Come, Mark non l'avrebbe mai dimenticato.
Con una tremenda spinta si gettò su Esther, la ragazza perse l'equilibrio e scivolò in avanti.
<< W-wait! >> l'americano non fu in grado di tenerla, e quando la vide cadere gridò e l'istinto di volerla predere al volo lo buttò pericolosamente in avanti. Urlò il suo nome, mentre gli occhi spalancati di sorpresa percorrevano ogni centimetro di quel mare nero alla ricerca di un qualche schizzo che gli facesse comprendere che l'amica non era finita addosso ad una di quelle rocce.
Che non si era fatta niente.
Si voltò verso Melanie, e i capelli gli si addossarono al volto, controvento. << Sei pazza?! >>
<< Perché? Voleva buttarsi no? Sei tu che l'hai lasciata andare! >>
<< Sei pazza Melanie, non lo sai che là sotto ci sono le rocce?! Non lo sai che poteva rimetterci un braccio?! O ferirsi?! >>
<< Allora buttati e va da lei, no? >>
Mark ritornò con lo sguardo sul mare, e gridò ancora il nome di Esther, nervoso. Non si accorse di ansimare fino a quando non la vide riemegergere sana e salva in una pozza di schiuma bianca.
E allora liberò un rantolo di sollievo, che si perse col fruscio del vento.
<< Esther! Stai bene? >> le urlò, e lei rispose con un potente “sì” pronunciato con tutto il fiato che aveva in gola.
L'istinto continuava a dirgli di buttarsi, ma Mark preferì scegliere la via della terra ferma.
Corse fino a riva, scivolò sulla sabbia e si immerse. Non poteva lasciarla là, in mezzo a tutte quelle rocce, lui sapeva orientarsi e l'avrebbe ripresa con sé.
La raggiunse in mezzo a quel nulla fatto d'acqua, poi le afferrò con forza un braccio, tirandosela vicino. << Eccomi! Stai bene sì? >>
<< Tutto okay Mark! >> gli rispose l'amica tra un ansimo e l'altro, sconvolta. Non poteva credere che Melanie l'avesse buttata giù con tanta sconsiderazione e cattiveria. E infatti, parlando di sconsiderazione, l'impatto era andato bene ma il suo piede sinistro non aveva avuto la stessa fortuna. Sentiva di essersi lacerata la caviglia, ma questo a Mark non lo disse, per evitare di peggiorare la situazione. << Davvero! >>
<< Andiamo dai, l'acqua è fredda... è pericoloso stare qui con questo buio. >>
Mark cominciò a spingerla con dolcezza verso la riva, facendo attenzione a come si muoveva e soprattutto, a dove incastrava i piedi.
La portò in salvo, e quando arrivarono a destinazione Esther uscì saltellando dalle acque nere del pacifico, e Mary corse ad abbracciarla con tanto di asciugamano. << Cazzo Esther... che diamine... è successo? >>
<< Lascia stare... non importa. >>
Quando la mora si voltò verso Mark per ringraziarlo, notò che lui le stava fissando la caviglia con i sopraccigli aggrottati.
La nascose dietro l'altra gamba ma ormai il danno era fatto.
Ormai chi non doveva vedere aveva visto, e anche troppo. Anche Mary notò il profondo taglio, e reagì con un gridolino inorridito. << riesci a camminare tesoro? >>
<< E' solo un taglio, Mary. >>
<< Ti aiuto a raggiungere gli altri, forza. >>
Esther passò un braccio dietro le spalle di lei e si fece portare verso Erik, che le cedette tranquillamente il posto sul telo. << Che cazzo è successo? >> chiese quando si rese conto dell'immensa perdita di sangue che si formò sotto il piede della mora. << Vi siete ammazzati lassù? >>
La ragazza non rispose. Si limitò a fissare Mark togliersi la maglietta bagnata con un gesto nervoso delle braccia e massaggiarsi tra i capelli con un'asciugamano d'urgenza che gli aveva lanciato Dylan.
Chissà che aveva in mente.
Lo capì qualche minuto dopo, quando venne verso di lei con aria irritata e un panno bianco tra le mani.
<< Mark va tutto ben--
<< Non sarebbe successo se a lei non fosse partito il matto. >> si inghinocchiò dinanzi alla sua gamba e le prese delicatamente la parte superiore della caviglia, fortunatamente rimasta illesa. << Brucia? >>
<< Parecchio... >>
Mark le cinse la zona imbrattata di sangue con l'asciugamano e premette forte contro il taglio. La fece gemere appena, e allentò la presa a quell'allarme vocale.
<< O-ops! Scusami. >> le disse, nascondendo il rossore sotto la frangia grondante d'acqua salata. << Cerco di bloccare il sangue, dimmi se spingo troppo forte. >>
<< Tranquillo, fai pure il tuo lavoro, schiavetto. >>
Kruger voltò il collo verso Dylan, che subito gli rimediò il laccio di una delle due allstars - di Mark - per ancorare il panno alla ferita.
Glielò passò e il biondo lo prese al volo. Poi lo girò intorno alla caviglia sanguinante della mora e fece un nodo ben stretto. << Non fare movimenti bruschi, perché si allenta. A casa ho dei cerotti e del disinfettante. D'accordo? >>
<< Grazie Mark. Sei gentile. >>
Mark le sorrise col dolcezza, ma nel tirarsi nuovamente in piedi il sorriso scemò per cedere il posto ad un paio di labbra sigillate di nervoso. Ora che la sua priorità primaria era stata assicurata, si mise a cercare la seconda con aria furiosa, che non prometteva nulla di buono. << Melanie? >>
<< Mi cercavi? >>
La voce della ragazza lo trafisse da parte a parte, e quando le passò accanto fu solo per prenderla in disparte. << Che cazzo ti è passato per la testa, si può sapere?! >>
Lei gli rise in faccia, ma questa volta Mark decise di imporsi come autorità dominante, come capo.
Decise di prendere il controllo della sua vita, e non avrebbe mollato l'osso solo per farle un piacere. << L'hai ferita! Dovresti chiedere scusa per quello che hai fatto, poteva perdere un piede per colpa tua! >>
<< Che peccato. >> fece lei, e si liberò dalla stretta del ragazzo con uno scatto poderoso della mano, che fece ondeggiare i suoi lunghi capelli neri. << Ti sarebbe piaciuta di meno, forse? >>
Mark non rispose.
Per la prima volta fece parlare prima la ragione, sopperendo l'istinto in un angolo remoto della sua personalità tempestosa.
Si ricordò delle parole di Esther, della promessa che le aveva fatto lassù solo qualche attimo prima.
Soprattutto, si ricordò di quanto desiderasse sentirsi libero. Felice, e fiero di se stesso, come una volta, prima che quel tradimento rovinasse non solo loro come coppia, ma anche lui.
Come persona e come uomo.
Così prese un respiro e la guardò. << E' finita, Melanie. >>
<< Cosa... >>
Fu contento di doverglielo ripetere. Così lo avrebbe capito meglio. << Questa storia assurda finisce qui. >>
<< Non puoi farlo. >>
<< Posso eccome. Solo che questa volta, finisce davvero. >> Mark alzò le mani come un ladro sorpreso a rubare, ma sorrise vittorioso. Non provava pena per Melanie, ne rancore.
Non provava nulla, come quando si sta dinanzi ad un foglio bianco.
Percepiva solo una forte voglia di rinunciare a tutto e prendersi cura della caviglia di Esther.
Quello per lui equivaleva all'apoteosi massimo della libertà, e non avrebbe rinunciato a poterla possedere solo perché si era comportato come un...
un idiota, ad usare le parole di Dylan.
Le riabbassò e la fissò con aria superba, anche se lui di superbo non possedeva nemmeno il nome. << Ti sei divertita fin troppo con me. Adesso basta. >>
<< Non puoi cacciarmi di casa così. >>
<< Puoi stare dai tuoi parenti, dalle tue amiche se vuoi, come hai fatto per tutto questo tempo, al posto di impegnarti a recuperare il rapporto con me. O meglio dire amici...? >>
Melanie gli scoccò un'occhiataccia, che lui ricambiò con un sorriso aperto e falsamente gentile.
<< Mark, non puoi farlo. >>
Mark si voltò per urlare a Dylan di raccogliere la roba e cominciare a portarla in entrambe le macchine. Poi ritornò a concentrarsi su quella che fino a ieri era stata un qualcosa di indefinito, e che ora non era più nulla. Una chiazza nera sfumata nei ricordi. << Domani mattina poi passa a casa, che ti do la roba. Però cerca di venire prima delle dieci. Ho altre cose da fare. >> e detto questo si incamminò per raggiungere gli altri e aiutarli, contento come un coniglio sfuggito alla canna metallica e fumante di un cacciatore abusivo.
<< Mark! >>
<< E' stato un piacere. Ah. >> si fermò un istante, si voltò e la guardò dall'alto al basso. << Solo una cosa rimpiango. >>
<< Mark...! >>
<< La mia verginità. Fanne tesoro, perché ti mancherò a letto. >>
Lei fece una faccia assurda quando udì  quelle parole così poco "Mark". Mark si voltò e rise. Oh. Comportarsi alla Dylan Keith dava qualche soddisfazione, ogni tanto.
<< Mark!! Fai sul serio!? >>
Ma Kruger già non l'ascoltava più, e presa la sua roba si diresse con gli altri verso le due auto finalmente sotto il suo unico controllo.
Ora avrebbe potuto portare Terry e Simon ovunque, finalmente. Il pensiero lo rese felice mentre aiutava Esther a sedersi senza che sbattesse o forzasse la caviglia in alcun modo.
Erik si aggrappò allo sportello anteriore della macchina e squadrò il biondo con aria curiosa. << La lasci sul serio a piedi Mark? >>
<< Ovvio. Le macchine sono mie. Decido io chi ci può salire. >>
Il castano rise come un cretino e salì a bordo con uno slancio del braccio, prima di chiudere la portiera con energia e frapporsi tra Mark ed Esther. Era bello vedere il suo amico atteggiarsi in quella maniera, anche per uno come lui. Sapeva quante sofferenze c'erano state dietro a Melanie, ma alla fine dei conti aveva vinto davvero Kruger. Lasciandola senza trasporti. Sola. Una vendetta servita fredda all'ultimo secondo. << Sei tremendo, Mark. Mi sto innamorando di te, cazzo. >>
Mark scoppiò a ridere mentre metteva in moto e faceva retromarcia.
Cristo, nemmeno Dio poteva sapere quanto si sentisse bene in quel momento, era difficilissimo anche solo da provare. Gli sembrava di aver ripreso il suo posto nel mondo, ed era assurdo come tutto fosse successo così velocemente.
Grazie ad Esther, che guardava la strada accanto a lui e intanto parlava animatamente con Erik di qualcosa, qualsiasi cosa pur di mantenere alto il livello di risate.
Abbassò il finestrino e guardò la sua città splendere sotto il cielo notturno, respirò la sua aria pesante e secca, tutto.
Respirò la libertà, la inalò fino all'ultimo, e quando fu sicuro di averla intrappolata dentro di se...
allora poté giurare di essere vivo.
Vivo davvero.
 
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nda
spazio alle birre – e alla pizza – signori, perché vi annuncio con chili di gioia che la nostra cara, adorata, simpaticissima Melanie e il suo naso alla Dante is out! Out of the story, proprio, il che significa che almeno il 50% dei problemi di Kruger è volato via per sempre. E di questo dobbiamo solo ringraziare Esther, chiaro. Ma non è la sua uscita semi-definitiva (sì perché comparirà anche nel prossimo capitolo, ma per un motivo molto scialbo (?)) il motivo per cui credo di amare questo capitolo. Il motivo è un altro. La scogliera. Coloro che hanno letto la long precedente sanno che la scogliera è un elemento importante per Mark ed Esther, perché è lassù, con quel tuffo un, che praticamente hanno instaurato un legame più forte. Sopratutto quando entra in gioco la fiducia reciproca. Il capitolo si chiama “Il tuffo più adrenalinico della mia vita” che tra l'altro devo ancora ristrutturare sob. Ecco, dieci anni dopo ci ritroviamo sulla stessa scogliera, nella stessa città. Ma questa volta non è Mark che chiede ad Esther di fidarsi, bensì il contrario. Secondo me è qualcosa di bellissimo! ncofwnponwqoid
Cercate di giustificare l'atteggiamento di Mark, altra cosa. Nel senso, cercate di mettervi nei suoi panni, di sentire il fardello di un tradimento mischiato alla spiacevole sorpresa di aver scoperto, dopo anni, di essere ancora innamorato di una ragazza che aveva creduto passeggera, e soprattutto, perduta. Non è una scelta facile quella che ha fatto, però adesso è a posto mi posso sbizzarrire buahahah.
Un'ultima cosa. Il titolo! Cliff edge, vuol dire rispettivamente “il margine della scogliera”, ovvero praticamente dove si svolgono i due terzi del capitolo, ma ha anche un significato metaforico: perché edge può anche voler indicare anche acutezza, perspicacia, ovvero la capacità di saper guardare dentro e osservare attentamente. Insomma, questo per spiegarvi che solo chi conosce davvero la propria persona e i propri limiti può fare una scelta per sé stesso, pensando anche al bene comune. Ecco, Mark l'ha fatta. E presto ne vedrete le conseguenze uwu, intanto si è sbarazzato di una ragazza che non amava più e con cui praticamente era già tutto finito. Purtroppo rendersene pienamente conto da soli a volte è difficile.
PER QUESTO ESISTE DYLAN
Bene, ho finito! Lasciate una recensione se vi va, ci si vede nel prossimo aggiornamento! 
Lila

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Capitolo 23
*** Let me play my match ***


Chapter twentytwo.
 
Let me play my match
 
 
Eccola lì, la sua ex fidanzata.
Davanti al cancello di casa, col braccio posato pigramente sul finestrino aperto di una Maserati color crema che Mark, ne era sicuro, non ricordava di aver mai visto in tutta la sua vita. Un orribile reggaeton di pessimo gusto – e parole – proveniva dall'abitacolo, facendo tremare vistosamente il muso tirato a lucido da una passata recente dal car-wash. Kruger socchiuse gli occhi chiari quando la vide uscire sbattendo la portiera, lei e la sua coltre di capelli nerissimi. Non attese in un messaggio di avviso. Acciuffò la valigia della ragazza, un sacco grigio e la raggiunse in pantaloncini e maglietta ancora profumata di sale marino. Appuntamento ore otto e quattordici, luogo: inferriate di un cancello. Tutto normale per due isterici masochisti come loro. La salutò con educazione, e il tipo che stava stravaccato al volante abbassò il volume e si sporse appena, per curiosare e studiare il nuovo arrivato. Mark si lasciò ammirare. -Ti aspettavo.- disse poi, e sorrise piano alla ragazza, aprendo il cancello dall'interno.
Melanie non rispose. Quando il blocco di ferro si tolse tra di loro, gli strappò la valigia di mano << Dammi i vestiti! >> si prese il sacco incazzata nera e lo aprì, per controllare che ci fosse tutto.
Mark rise e si portò i palmi ai fianchi, sollevando un po' il capo per permettere ai raggi del sole di riscaldargli le clavicole lasciate esposte dallo scollo a V. << non ti preoccupare Mel, ci ho speso dietro due ore, mi sono fatto anche aiutare. C'è tutto. >>
<< Vaffanculo. >>
<< Anche a te. >>
<< Brutto bastardo. >>
Gli dispiaque molto sentirsi chiamare così, non perché avesse chissà quale senso di colpa nei suoi confronti, o altro. Semplicemente, nella ragione c'era lui, mica Melanie. Perché non accettava di aver perso e basta? Prima o poi sarebbe dovuta finire lo stesso, la loro “relazione”.
Così o in un altro modo, non aveva più tanta importanza. << Stammi bene, Mel. >>
<< Sta zitto... sta zitto, la tua voce mi da sui nervi. >>
<< Melanie, c'mon. Take it easy. >>
Melanie gli fece un clamoroso segnaccio al sapore di smalto scrostato, segno che il suo take it easy poteva andarsene bellamente nel paese dei balocchi, e dopo aver sistemato le valigie sul retro, montò nella Maserati. Poi picchiò il braccio del tipo, che si esibì in una paurosa retromarcia prima di sgommare lontano.
Mark richiuse il cancello e rientrò in casa.
Sorrideva.
Lui, che aveva appena consegnato i vestiti alla sua ex. Che l'aveva persa per sempre.
Sorrideva.
Non vedeva l'ora di riprendersi in mano la sua vita.
 

Quando Esther si svegliò quella mattina, le sembrava di aver ricominciato a vivere da zero, di aver finalmente terminato la lettura di un libro complesso e buio. L'aria che entrava dalla finestra semiaperta profumava di Natale, di nuovo, e la inalò tutta dentro ai polmoni, la testa immersa nella morbidezza del cuscino e le labbra schiuse in un mezzo sospiro assonnato.
Si stiracchiò sul letto che una volta era appartenuto a Mark e protestando contro sé stessa, riuscì a mettersi a sedere. << Cavolo, che dormita. >>
La prima dormita serena di tutte quelle vacanze natalizie, forse. Nel giro di una settimana erano successe talmente tante cose che ora le faceva così strano essere immersa in un'atmosfera tanto quieta, poter respirare tranquilla. Si tolse di dosso le lenzuola e balzò giù dal materasso, poi si fiondò sulla valigia e cominciò a passare in rassegna tutti i vestiti per scegliere con cura l'outfit del giorno.
Faceva fresco quella mattina, per questo optò per una semplice felpa di cotone grigia con un piccolo fiocchetto rosa sul seno sinistro e un paio di jeans casual. Sì, lei aveva anche abbigliamento normale. Stupiti? Corse in bagno, si lavò, si cambiò e poi infilò i piedi in un paio di tennis dalla suola morbida e vellutata, perché il taglio alla caviglia che si era procurata ieri le limitava fortemente la scelta delle scarpe. Non aveva voglia di truccarsi, ma le mani corsero lo stesso alla pochette, e afferrate le armi magiche si imbrattò le ciglia di mascara e le labbra di un opaco rosa confetto.
Quando fu pronta per presentarsi al mondo scese in sala e si lasciò guidare in cucina da due voci maschili nel pieno di un combattimento; le riconobbe con un sorriso.
Quella rauca di Erik e quella troppo cresciuta e adulta di Mark, intente a confabulare in un inglese talmente rapido da mangiarsi addirittura le finali. Mentre si sporgeva dalla porta tentò di captare qualche frase, ma a nulla valsero i suoi sforzi.
Parlavano davvero veloce.
Troppo.
<< Ragazzi? >>
I due si interruppero e si voltarono in contemporanea a fissarla, perplessi.
<< Che succede? >>
Fu Erik a parlare per primo, e gli occhi placidi di Mark ne approfittarono della calma ritrovata per controllare un attimo la caviglia ferita dell'amica. Fu un sollievo per lui vederla già stare perfettamente in piedi.
<< Morning Est! >>
Esther salutò il castano con la mano, ma non staccò gli occhi da Mark neanche un istante. Era così bello saperlo finalmente single a tutti gli effetti, che sembrava aver aquistato ancora più splendore di prima. O forse era lui che da ieri notte era cresciuto all'improvviso, che a cuor leggero si era mostrato per quello che era realmente, un ragazzo libero, onesto e forte che non vedeva l'ora di riprendere a scrivere da dove si era fermato.
Gli sorrise e lui ricambiò, appoggiato al pannello della cucina. << Ciao. >>
<< Ciao Mark! >>
<< Stavamo organizzando la giornata di oggi. >> le spiegò lui. << Ti abbiamo svegliata? >>
<< No figurati! >>
<< Well boy >> Erik infilò le mani nelle tasche dei jeans e ritornò a rivolgersi al compagno. << Mary è uscita con Dylan, non torneranno prima di sera. Non ha senso aspettarlo, che dici? Andiamo solo noi tre. >>
<< Perché, dove pensavate di andare? >>
<< A fare un saluto al nostro allenatore. Mac. >> disse Mark sorridente. << Tra poco è Natale e mi sembra doveroso passare anche dalla nostra vecchia sede. Sei invitata pure tu. >>
Esther batté forte le mani, entusiasta. Un altro tuffo nel passato, di nuovo con Mark. Non le sembrava vero, presto avrebbe rivisto i muri che l'avevano ospitata per tre lunghi mesi estivi, gli stessi che avevano visto di tutto, che avevano assorbito ogni singola risata, ogni pianto. Che avevano assistito anche al loro secondo bacio, e il solo pensiero di quel lontanissimo giorno la fece arrossire appena mentre spostava gli occhi dal viso di Mark alle sue spalle piegate in avanti. << But first >> esordì il biondo, e si spostò per indossare la giacca con uno scatto agile delle braccia.
<< Colazione. Andiamo? >>


 
Esther attaccò le labbra rosee alla cannuccia bicolore e cominciò a sorseggiare l'acqua ghiacciata che le era stata servita non appena si era seduta a quel tavolo. Per fortuna non avevano dovuto girare troppo per trovare un ihop sufficientemente libero da potersi accomodare senza dover fare necessariamente la fila. Normalmente in quei posti era sempre così, si affollavano come nulla.
<< Ihop! >> fece Erik mentre tornava dal bagno con le mani odoranti di vaniglia. << International house of pancakes. >> prese posto di fronte alla ragazza e la guardò con un sorriso. << sono felice di vedere Mark così energico, sai? E' la prima volta che piscia parlandomi. Di solito se ne sta zitto. >>
Esther scoppiò a ridere e si mise a giocherellare con la cannuccia, divertita. Anche lei era contenta di sentirlo così di buonumore. Era davvero un ragazzo splendido.
<< Voglio dire... sarà bello ritornare a pattugliare con lui senza doverlo sentire lamentarsi per colpa di Melanie. >>
<< Immagino che tu ti sia tolto un bel peso da sorbire! >>
Il castano rise di gusto, gli occhi neri che brillavano colpiti dai raggi del sole che facevano capolino dalle finestre aperte. << Non sai quanto! Magari ora inizierà a parlare di te. Non so quale delle due cose sia peggio. >>
<< D-dai Eagle! >>
<< Ahahah! Voglio proprio vedere come diavolo torneremo a New York, damn. Siamo partiti in un modo, ma chi ci dice che torneremo uguali? >>
Esther serrò gli occhi, mentre un dolce sorriso carico di adrenalina le andava a solcare il volto impreziosito di fard, in tinta con la sua pelle color crema. Erik aveva ragione; dopo tutto quel trambusto, le era quasi impossibile paragonarsi alla stessa ragazza che era partita da New York furiosa e stressata.
Sembravano due Esther totalmente diverse; era possibile maturare così tanto in talmente pochi giorni?
Chissà come sarebbe rientrata.
Cosa sarebbe successo una volta che l'aereo sarebbe atterrato sull'asfalto gelido della Grande Mela.
E Mark?
Mark, che era partito con una speranza, come sarebbe tornato?
L'idea di non dover più sopportare Melanie per cinque ore d'aereo la fece rilassare sullo schienale imbottito. << Che bello. >>
Finalmente Kruger uscì dal bagno, anche lui con le mani profumate, e scivolò accanto ad Esther con uno scatto fulmineo dei fianchi.
La mora arrossì a quella decisione presa con tanta naturalezza, e si fece di qualche centimetro più in là per permettergli di stendere le braccia sul tavolo. << Woah che fila che c'è nei bagni. >>
<< Sì, bestiale guarda. >>
Una cameriera vestita di rosso arrivò per prendere le ordinazioni, ed Esther chiese la stessa cosa di Mark, guadagnandosi una sua occhiata stupita. Non era ferrata con le ordinazioni, non sapeva perché, ma le coglieva sempre una strana ansia che le faceva dimenticare del tutto l'inglese.
Si perse a fissarlo parlare con Erik, lo guardò negli occhi azzurri, come gesticolava con la mano ampia che fendeva l'aria calda di quella mattina di dicembre. Già, come ci sarebbero tornati a New York?
Insieme o separati?
C'erano troppe virgole lasciate in sospeso, e Esther non vedeva l'ora di ricevere una risposta.


 
La sede della Unicorno era proprio come la ricordava, esattamente uguale a dieci anni fa. Un edificio a forma di rettangolo allungato, serio come una caserma militare i cui mattoni erano stati intonacati da poco di uno smagliante color cioccolata. Solo una cosa era cambiata, e fu quella che lasciò Esther stupita dinanzi all'ingresso per minuti interi; sopra le due porte di legno dal tendaggio azzurro cenere, la scritta “Players” brillava illuminata da luci blu e rosse attraversate da stelle che come comete scendevano in verticale dalla P alla s. << Wow, Mark, e questo? >>
Un treno passò non poco distante da loro, coprendo le voci dei passanti con il suo pressante movimento meccanico. Esther non ricordava di una ferrovia così vicina alla sede, poi però le tornarono in mente le notti passate in bianco per colpa del casino, e allora sì che ricordò, eccome se lo fece.
<< Mi sembra di venire dalla preistoria. >> fu l'unico commento di Mark, che si aiutò col gomito per staccare le spalle dall'auto e avvicinarsi a lei. << Vamos? >>
<< Vamos! >>
Erik si fiondò sulla porta e bussò con mano febbrile, titubante; durante l'attesa che ne susseguì, il biondo ne approfittò per domandarsi chi fosse diventato il nuovo Capitano della Unicorno. Era curioso di conoscerlo, vederlo e soprattutto, verificare di persona se intercorresse una qualche somiglianza tra loro. Oppure si trattasse semplicemente di un leader del tutto diverso, cosa che gli augurò con tutto il cuore, perché se c'era stato un capitano peggiore di Mark Kruger, quello era stato solo e soltanto Mark Kruger.
Non vedeva l'ora di osservare i volti dei nuovi membri che componevano la squadra degli U.S., la voglia lo stava consumando, e quando uno di loro aprì la porta ci fu uno scambio di sguardi piuttosto...
Esther scoppiò a ridere di tono, portandosi le mani ai fianchi.
Non seppe come definirlo, seppe solo che fu stupendo. Un fulmine.
<< Tu.. >> il ragazzo balzò all'indietro sui tacchetti scivolosi e spostò gli occhi castani da Erik a Mark, Mark a Erik, Erik e di nuovo Mark, scioccato. << V-voi... v-... >>
Voltò il capo e gridò qualcosa in inglese a quello che doveva essere il Capitano della Unicorno. Si presentò dinanzi a loro con una folta chioma bionda e un paio di radiosi occhi neri che brillavano sotto uno spesso strato di ciglia color del tramonto. La fascia turchina gli stringeva il bicipite destro, asciutto come le gambe snelle che si estendevano per centimetri e centimetri di vertiginosa altezza.
Anche lui rimase senza parole, le labbra schiuse in un fruscio di ammirazione mista a stupore.
<< Porca... puttana! Mark Kruger! >>
<< My pleasure! >> disse Mark sorridendo sorpreso.
<< Oddio, quello è... E-Erik... Eagle?! >>
<< Ehilà! Possiamo entrar--
<< What the fuckin' hell! >> il ragazzo scappò dentro con un gemito emozionato, che catturò l'attenzione di tutti i presenti seduti al lungo tavolo che un tempo aveva ospitato le pizze giganti di Bobby e i calzini sporchi di Michael. Non ci fu bisogno di convenevoli, perché i due ex membri, divertiti dalle due reazioni appena viste, si fecero avanti da soli all'interno della sede, e lanciarono sorrisi da casanova a destra e manca.
I ragazzi rimasero sbalorditi, due graziose giovani in tacchetti si strinsero i polsi a vicenda, trattenendo un respiro eccitato.
Esther notò compiaciuta che finalmente anche la divisa era stata smantellata e ricreata dall'inizio, quella vecchia proprio non si poteva vedere, bianca come un cadavere ingrigito dal tempo.
La nuova era blu elettrico, col colletto bianco inamidato e i bordi delle maniche striati di rosso.
I pantaloncini del medesimo colore terminavano con un paio di calzetti blu e scarpe azzurro zucchero che ricordavano tanto le ali di un bellissimo pegaso pieno di forza.
Molto più colore, molto più fasto, la mora della Tripla C rimase incantata dal fascino dei novelli giocatori.
<< Quella sì che è una divisa fatta bene, Mark. Non come la tua, grigia. Cosa mi rappresenta il grigio? >>
Le due ragazze ridacchiarono, le uniche che ebbero il coraggio di fiatare dinanzi a due dei del calcio come Erik e Mark Kruger.
<< Diamine che depressione che mi faceva venire. >>
<< OOH, parla quella che passava le notti abbracciata alla mia felpa piangendo il mio nome. >>
Esther gli tirò una spallata. << Ti sarebbe piaciuto, tesoro. Volevo anche venderla. >>
<< Lo so. Ma non l'hai fatto. >>
<< Ma avrei potuto. >>
Lo sguardo di Mark si fece malizioso, come il suo sorriso. << MA non l'hai fatto. >>
<< MA avrei potuto. >>
<< MA--
<< Ancora litigate, Esther and Mark? >> all'improvviso, dalle scale comparve un volto ben noto, che mosse appena le acque cristallizzate del momento; Mac Scride sorrise ai suoi vecchi, piccoli giocatori della Unicorno, e Mark ed Erik si illuminarono come due bambini nel vederlo.
<< Allenatore! >> esclamarono in coro, incapaci di muoversi per l'emozione.
Non era cambiato neanche un po', continuava a vestirsi in modo estroso, mostrando i pettorali muscolosi al sole di Los Angeles come aveva sempre fatto. La bandana rossa gli cingeva i capelli biondi, talmente lunghi da essere finiti intrappolati in un elegante elastico nero. Mark non sapeva che dire, e lo strinse con uno slancio delle braccia, emozionato.
<< Non sapete come sono felice di vedervi, ragazzi miei. Siete cresciuti tantissimo, mi sembra un sogno... >>
<< Anche noi lo siamo allenatore. >>
<< Che leccaculo che sei, Kruger. >> fece Esther, suscitando le risate di Mac, e proprio mentre stava per salutarlo, quest'ultimo le strinse con vigore la mano lattea, anticipandone il gesto amichevole. Toccarla fu per la Greenland una grande gioia, nonché un tremendo tuffo nel passato che le chiazzò le pareti del pensiero di mille colori e sfumature. Nelle lenti scure dei suoi occhiali da sole si rivide a tredici anni, accanto a Mark e al resto della truppa che aveva reso quell'estate un meraviglioso sogno.
<< Greenland, dico bene? Difficile dimenticarti. >>
<< Rimango ben impressa nelle menti delle persone, lo so. >>
Le loro mani si sciolsero sotto i raggi del sole che entravano dalle vetrate, e per la prima volta Esther sentì che non si era trattato di una stretta di addio, bensì di benvenuto.
Benvenuta in America, Esther.
Benenuta di nuovo nella vita di Mark.

<< Beh, Keith dove l'avete lasciato? Si è perso in giro per casa? >>
<< Ha da fare con la figa. >> rispose Erik, e Mac scoppiò a ridere.
<< Bobby? >>
<< Ha da fare con la moglie. >>
<< Oh, my God, son! Fategli gli auguri. Ora, se permettete... >> Mac ne approfittò del momento di silenzio che era calato per presentare i due centrocampisti di quella che era stata la nazionale giovanile che aveva rappresentato gli Stati Uniti nel FFI. << ragazzi! Mark Kruger ed Erik Eagle. >>
I due giovani si voltarono verso la nuova Unicorno, che ai sorrisi amichevoli delle stars del calcio americano reagì con un secondo, impacciatissimo sussulto di sorpresa. In effetti, ritrovarsi davanti agli occhi, per puro caso, l'ex capitano della squadra accompagnato da una delle sue punte più forti, non capitava certamente tutti i giorni. Non a Los Angeles, e non vicino a Natale.
Rimasero per un po' a guardarsi, a scrutarsi, due generazioni calcistiche a confronto, e Mark si focalizzò di nuovo sul capitano. Gli sorrise e sollevò un sopracciglio, ricevendo un cenno confuso in risposta.
<< E così sei il Capitano eh? Colui che ha preso il mio posto. >> incise in modo particolare su quel “mio”, per provocarlo, e tutti si voltarono a guardare il diretto interessato, che istintivamente portò la mano alla fascia e incrociò le caviglie.
<< Spero tu sia all'altezza del ruolo che rappresenti. >>
La zazzera biondiccia del giovane si mosse quando questo allungò il collo in direzione di Mark e, infervorato, gridò un temibile “certo” che Esther giurò di perdere l'udito.
<< Ottimo. >> Kruger aumentò l'ampiezza del sorriso, quello che faceva sempre quando la situazione si scaldava, e che gli trafiggeva il viso donandogli l'aspetto di una volpe in attesa di vincere il suo bottino di guerra. << Perché non mi mostri di che pasta siete fatti tu e la tua nuova squadra? >>
<< Ora? >>
<< Proprio ora. >>


 
E così erano finiti di nuovo lì. Su quella panchina. In quell'enorme campo da calcio, quello che si raggiungeva passando dalle scale, ancora recintato, che dava ad una pineta sul lato destro e da cui si poteva scrutare il romantico e antico Downtown in lontananza.
La Unicorno aveva cominciato ad allenarsi sul prato verdolino, osservata rispettivamente dall'epressione seria di Mac e gli occhi curiosi e attenti di Mark Kruger; i tacchetti scivolavano, le gambe scattavano sotto il sole invernale che di invernale aveva solo il nome, i capelli fendevano l'aria satura di sogni.
Esther, seduta sulla panchina insieme ad Erik, sorrise nel realizzare che quell'anno dentro la Unicorno ci erano finite due ragazze. Si muovevano elegantemente tra i coni fluoerescenti, intrecciando le caviglie con delicatezza e forza al contempo. << Sono bravissime. Sembrano promettenti. >> disse, e guardò Mac, in cerca di conferma.
<< Sono eccezionali. >> l'uomo le fece cenno di raggiungerlo e lei lo fece, affiancandosi alla figura di Mark che si slanciava snella sul prato verde smeraldo. << Allora? >>
<< Allora cosa? >>
<< Come mai di nuovo insieme voi due? Che avete combinato per avvicinare due continenti? >>
Mark si distrasse dagli allenamenti e mostrò i canini in un sorrisetto soddisfatto. << Esther vive a New York, adesso. >>
Mac mise su un'espressione sorpresa, ed Esther lo colse come un incitamento a raccontare la sua storia a grandi linee, cosa che fece subito dopo. Spiegò del bar-ristorante, del suo sogno di realizzarsi in America, di Mary, del Black Friday. Persino Mark, che già sapeva tutto, prestò nuova attenzione alle sue parole, sorridendo quando i dettagli sembravano tornargli alla memoria.
Quando la Greenland ebbe finito il breve racconto, il braccio di lui le cinse le spalle con fare affettuoso, avvicinandola.
Fu un gesto inaspettato, ma che le riempì il petto di gioia in un millesimo di secondo. Arrossì selvaggiamente mentre la guancia si schiantava contro le clavicole del biondo, sentì di non capire più niente mentre il suo cuore pompava e batteva e ruggiva contro il suo orecchio. Volle sprofondare nel calore di quella pelle abbronzata, lasciarsi avvolgere e proteggere, accarezzare, ma si trattenne.
<< Così, eccovi qui, entrambi. Inseparabili come ai vecchi tempi? >>
La mano di Mark le si posò con finta rabbia sulla testa, scompigliandole un po' i boccoli color prugna. << Già >> disse, e la cercò con lo sguardo, sorridente.
Esther avrebbe voluto nascondersi, minimizzare il rossore, ma fu impossibile tutelare l'evidenza dei suoi sentimenti per lui. Per questo non parlò, si limitò a fingersi scocciata per quel gesto tanto improvviso quanto dolce.
<< Ora ce l'avrò sempre tra i piedi. >>
Fece schioccare le labbra carnose e lui la strinse ancora, con più vigore, come se lasciarla andare avesse potuto comportargli una sofferenza troppo grande.
<< Invece sono sicura che sarai tu quello a starmi addosso, adesso che sai che abitiamo nella stessa città. >>
<< Maybe. >>
Mac esplose a ridere. << Vedo che non siete cambiati proprio per niente, e mi fa piacere cazzo. >>
"Anche a me fa piacere", pensò Esther rilassandosi contro la spalla calda e ampia di Mark che ancora non aveva smesso di tenerla stretta a sé.
Era come se con quel gesto il biondo avesse voluto farle capire che era tutto okay, adesso. Che era tutto finito, che erano liberi di avvicinarsi e allontanarsi fino alla nausea, fino a farsi girare la testa, e le bastò guardarlo una volta per sapere che era così.
Per sapere che aveva la strada spianata.
<< Invece dimmi Mark, che ne pensi della nuova squadra? >>
L'americano spostò lo sguardo da Esther al campetto, e quando incrociò gli occhi del nuovo capitano sollevò un sopracciglio. << Come si chiama? >>
<< Gavin. >>
<< E' bravo. >> ritornò a fissare quello che un tempo era stato il suo allenatore. << Ma se permetti, in quanto ex capitano della Unicorno >>
<< Ecco che se la tir...!--
Mark tappò la bocca ad Esther e proseguì il trafiletto come se nulla fosse accaduto.
<< Vorrei testare personalmente le sue abilità. Sul campo. >>
Mac gli tirò un pugno contro la spalla, gli occhi luminosi dietro la spessa lente nera degli occhiali. Quello era il suo Mark, quello tenace e calcolatore. E solo dio poteva sapere quanto gli fosse mancato; e non parlava della grande perdita a livello calcistico che tutta la Unicorno aveva subito, già sconvolta dall'abbandono di Erik.
Parlava anche a livello emotivo.
Aveva sempre provato una certa empatia nei confronti di Mark. Lo aveva sempre protetto, ed era felice di rivederlo così grande e così rilassato, perché per lui equivaleva a riaprire la porta di casa ad un figlio cresciuto lontano. << Prima di metterti contro di lui ti consiglio di allenarti un po'. E' tosto, anche se non sembra. >>
Esther si liberò della mano di Mark premuta contro le labbra, il rossetto integro per miracolo. << Ci penso io ad allenare l'agente Kruger! >>
<< W-what? >>
Si voltò e gli afferrò entrambe le mani in un gesto che voleva essere amichevole, ma che a giudicare dal rossore che prese il volto di Mark, somigliò più ad un invito a baciarla.
E forse, in un certo senso, lo era anche. << Certo Mark. Come una volta. >> sorrise, e gli strinse con forza quelle dita, così calde che avrebbero potuto scioglierla come un cubetto di cioccolata lasciato esposto al sole.
<< Ricordi? >>


 
Mark incrociò le braccia al petto e posò il piede sinistro su un pallone che Mac aveva rimediato per la “super veloce seduta di allenamento”, dubbioso. Non che ne avesse molto bisogno, in realtà, di quell'allenamento. Il calcio lo aveva praticato fino a diciassette anni, necessitava solo di rispolverare un po' di tecniche. Ciò che lo preoccupava era la caviglia di Esther.
Solo ieri aveva rischiato di lasciarci molto più sangue di quello che aveva perso, e non gli era sfuggita affatto l'andatura un po' zoppicante della giovane. In tutta franchezza, di farle provare dolore non se la sentiva neanche un po'.
Eppure la signorina gli sembrava molto rilassata. Molto convinta, come se quel taglio non fosse mai esistito, come se l'incidente di ieri le si fosse già cancellato dalla mente.
Anche lui aveva rimosso tutto. Tutto, tranne il momento in cui l'aveva vista scivolare via.
<< Fai impressione con le scarpe da tennis, sai? >>
Esther sollevò il piede destro divertita, e se lo guardò come se fosse fatto d'oro. << Ti piacciono? Nike! Rosa, perlopiù! >>
<< Bleah. >>
<< Ma che ne potete sapere voi maschi, del rosa. >>
<< Senti >> Mark si passò una mano tra i capelli biondi, sollevandosi la frangia per far respirare la fronte. << sicura di volerti allenare? Non voglio fare paranoie, ma non mi piace per niente quel taglio. >>
<< E' solo un taglio, appunto. >>
<< Ti impedisce di muoverti come dovresti. Ho paura che tu possa farti male. >>
<< Io ho paura per te, dopo che ti avrò fregato quella palla dai piedi. >>
Mark sorrise e mosse il pallone sotto la suola liscia delle Converse sfilacciate e slacciate. Ah, beh, positiva lo era di sicuro, proprio come la ricordava. << Esther, sono serio. >>
Lei si diede persino la decenza di saltellare sul piede ferito, inscenando solo un po' di lieve dolore... << Sono seria anche io. E infatti, ora te lo mostro volentieri! >> …poi si esibì in una tremenda scivolata, alla quale Kruger non seppe rispondere con dovuta velocità. Avrebbe potuto sollevare la palla con la punta del piede, portarsela al ginocchio e schivare l'attacco difensivo, e lo avrebbe fatto, davvero. Se non fosse che la tacconata della Greenland si schiantò contro il pallone con talmente tanta forza che l'unica cosa che riuscì a fare fu scivolarci sopra con grandissimo stile, come un perfetto idiota. In un attimo si ritrovò a un pelo dalle labbra di Esther.
La guardò sconvolto, e lei si fece piccola sotto le sue spalle larghe.
La guardò e si rese conto che era molto bella, da vicino, e che aveva delle labbra carnose davvero invitanti. Liberò un sospiro e la fissò come si fissano i cani che hanno appena fatto i bisogni sul parquet nuovo di pacco, splendido e lucido di sapone profumato. << Non ero pronto, non vale. >>
Esther però non rispose, ansante per la tremenda strategia appena messa in atto.
Averlo sopra, anche se accaduto per sbaglio, aveva mosso in lei qualcosa nel fondo dello stomaco.
Qualcosa che ora sapeva spiegarsi bene, e che era amore misto ad emozione, e che faceva fatica a tenere a bada.
Farfalle di eccitazione le salirono fin nella gola, dove si sparpagliarono per gridare a tutti gli organi quello che le stava succedendo. Quello che stava provando, e che solo Mark sapeva accenderle.
Allungò una mano, gli sfiorò la frangia bionda e gliela scostò dal viso, solo per guardarla riprendere il suo posto.
E Mark glielo permise.
E gli permise anche di allungarsi verso di lui, stringerlo in un abbraccio forte, affondare la testa nel suo collo e realizzare che erano lui e lei e basta, soli, in un campo che li aveva visti litigare tantissime volte, li aveva visti piangere e gioire per tutto ciò che ora sembrava ridicolo e assurdo. Ansimava ancora, ma questa volta non era per colpa della scivolata, e lo sapeva.
Gli strinse la maglietta e sorrise nel sentirlo ricambiare impacciato. Sorrise nel sentirlo vicino corpo e mente, dopo il gelo di dieci anni. << Che succede? >> sentì chiederle, ma non gli rispose. Lo abbracciò più forte, lo tenne stretto a sé, fregandosene della caviglia pulsante che la pregava di metterla nell'acqua fredda, dei nervi che premevano contro il taglio.
Come se quel gesto potesse colmare il vuoto che c'era stato tra loro. Sperò accadesse, e quando cominciò a sentire i vuoti al cuore ripristinarsi sotto il petto frenetico di Mark, lasciò andare un mezzo respiro.
Non c'era niente da dire, era risuccesso e basta.
Era innamorata di lui.


 
Erik strinse il pallone tra le mani, lo guardò. Guardò le sue cuciture forti, il suo cuoio profumato su cui si estendevano pentagoni bianchi e neri.
Poi spostò gli occhi neri su Mark, che dopo la sfida – vinta, ovviamente – si era messo a dare consigli al novello capitano, mostrandogli alcune finte tattiche. Su Esther, che si era fermata a conoscere le ragazze, a farle ridere raccontando chissà quali cattiverie sulla vecchia Unicorno che aveva fatto la storia del calcio giovanile.
E infine li riposò sulla palla, il suo sogno più grande. Poterla inseguire, poterla spedire in porta e far gridare di passione la gente.
Non fu necessario sapere a chi appartenesse la mano che gli si posò all'improvviso sulla spalla. Sorrise. << Allenatore. >>
<< Erik. >> Mac prese posto sulla panchina e si perse a fissare l'orizzonte. << Il mio asso nella manica. >>
<< Ancora? Non credo. >>
<< Come stai? >>
Già, come stava? Bella domanda.
Non lo sapeva.
Non lo sapeva, e tenere quel pallone tra le mani lo faceva sentire molto strano, limitato.
Lo lasciò cadere sull'erbetta sintetica e con un debole calcio lo allontanò, di modo che non potesse più farlo sentire incapace. << Sto bene. >>
<< Sai, quando Mark mi dice che sta bene, gli credo. Quando me lo dice Dylan, gli credo. E anche quando me lo dice Bobby. >>
Allenatore ed ex stella promettente del calcio si guardarono con uno scatto dello sguardo, scatto in cui Erik lesse tutta la preoccupazione del mondo. Arrossì. Si sentiva quasi cattivo a fingere che andasse tutto bene. A mentire agli altri, pur di non dar loro il peso dei suoi stupidi problemi amorosi. << Ma quando Erik Eagle dice di stare bene... mah. Non mi fido tanto di lui, sai. >>
<< E fa bene, mister. >>
<< Immagino tu non voglia dirmi il perché. >>
Erik fece spallucce. << E' per la mia condizione. >>
Ed era vero. O almeno, lo era in parte.
Ma con quel disagio fisico aveva imparato a conviverci, si trattava solo di prendere alcune medicine la mattina. Per il resto, non c'erano poi così tanti limiti; in fin dei conti, era riuscito comunque a diventare poliziotto insieme a Mark.
Finché non si trattava di giocare una partita di novanta minuti, scalare montagne o fare il corridore, poteva comportarsi da persona quasi normale.
Era alla mancanza di Silvia che non ci aveva ancora fatto l'abitudine, ed era una cosa che gli lasciava su l'impronta di una vergogna troppo grande.
E il fatto con Mary, poi. Cristo, doveva assolutamente parlare con quella ragazza.
Dirle che era un mostro, ma che le voleva bene davvero. Chiedere scusa almeno a lei, per ciò che aveva cercato di fare, senza nemmeno riuscirci.
<< Non credo sia solo per la tua condizione. >>
Si passò le mani tra i capelli castani, sospirando. Magari cazzo. Magari.
<< Ho dei problemi in amore. E con un'amica. >>
<< Posso aiutarti? >>
<< Non ci è riuscito Mark, che è l'unico che sembra capirmi in questo periodo. Perché dovrebbe riuscirci lei. >>
<< Ti prego dammi del tu. Mi fai sentire vecchio. >>
Mac riuscì a strappargli un sorriso, che però svanì subito dopo.
<< Sono solo problemi. >>
<< Se sono solo “problemi”, allora affrontali. >>
<< Aaaah, facile. >>
<< Molto più di quanto credi. >>
Erik batté le ciglia, senza smettere di fissare Mark che continuava a saltellare da un lato all'altro, la palla tra i piedi e Gavin a pendergli dalla bocca.
Facile, infatti. Sulla luna, forse.
Perché per lui non era affatto facile chiamare Silvia, anche solo provarci. Non era facile invitarla a credere di nuovo in loro, perché era passato troppo tempo, e il tempo cura e allontana tutti, sempre.
Non era facile parlare con Mary, perché l'aveva fatta sentire come un giocattolo.
Aveva cercato in lei una donna che non poteva più avere.
O forse era davvero facilissimo.
Forse era lui a non esserne in grado.
<< Sai. >>
Si voltò verso il suo allenatore, si aggrappò a ciò che stava per dire come se le parole che presto avrebbe udito avessero potuto sistemare tutta la sua vita in un fascio di luce profumato di violetta.
<< E' stato un piacere allenarti, Erik. >>
<< Mister? >>
Mac si cinse le ginocchia con due mani. << Eri un ragazzo carismatico, Erik, un giovane portento del calcio, pieno di vita. Eri un osso duro, non ti fermavi mai. Sembrava che niente potesse distruggerti. Che nessun camion del mondo potesse veramente investirti, fino a quando la tua anima rimaneva così saldamente ancorata al coraggio. >>
<< Che termini alti, ehi. Mi spaventi. >>
<< Eri un esempio per tutti Erik. Anche per Mark. Lo trascinavi, nonostante fosse il tuo capitano. Trascinavi tutta la squadra, con la tua determinazione, verso la vittoria, verso la sconfitta, non importava a nessuno. Hai sempre fatto tutto da solo. Più ne prendevi, più ti rialzavi. La vita ti prendeva in giro e tu prendevi in giro lei mille volte di più, Erik. >>
Erik ebbe un brivido, che gli scosse tutti i muscoli del corpo. Gli sembrava di non rivedersi più in quell' Eagle che un tempo aveva modellato le sue tragiche sventure in gradini per raggiungere l'obbiettivo.
In quel ragazzino che cadeva, si rialzava e si diceva, sudato “andiamo, non è finita. Sono vivo, respiro, e sono io”.
In quel giovane che quando la vita recitava, lui la registrava divertito.
<< Ed è questo il consiglio che ti do, Erik. Prendi esempio da té stesso. >>
<< L'orgoglio è un bastardo. >>
La pacca amichevole arrivò come un pugnale, facendolo sobbalzare.
<< Tu sei più bastardo del tuo orgoglio. Hai raggirato tutto, non riesci a sfottere un po' di altezzosità? Se è la donna che vuoi, riprenditela. Se è la vita che vuoi, mettila al suo posto. >>
Erik lo guardò. Provò a sorridere, ma il pizzicore agli occhi gli abbassò con forza gli angoli delle labbra, impedendogli di farlo.
Sentiva di voler piangere, come un bambino dimenticato.
Sentiva di voler gridare contro tutti, ma rimase muto a chiedersi perché tutte le disgrazie del mondo dovevano sempre capitare a lui e lui soltanto. Forse era l'ennesima sfida del diavolo che gli lanciava la vita?
Voleva metterlo alla prova?
Vedere quanto sarebbe resistito?
All'improvviso capì che non erano le pillole a limitarlo, non erano i postumi incancellabili di quell'incidente.
Non era Silvia, né Suzette poverina, né Mary.
Ma lui.
E quando se ne rese conto, si prese la testa tra le mani, respirando piano.
Non sapeva da dove partire.
Tantomeno quale meta raggiungere.
Non lo aveva mai saputo, del resto.
Eppure, ce l'aveva sempre fatta.

 
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nda
ieri ho detto “ehi, è il 4 Luglio, la festa d'indipendenza degli USAeGETTA, pubblichiamo in onore dei cinquantuno stati più belli del mondo, sì, DAI, PUBBLICHIAMOH! E invece poi non ho avuto voglia, rip.
Come andiamo? Una fermata alla sede della Unicorn era da fare, ragazzi. Ceh, d'obbligo, proprio. Quante avventure hanno vissuto i nostri eroi in quelle quattro mura di mattoni? In quel campetto fiko circondato da una rete? I feels. Il design della sede – e dintorni – l'ho preso da quello presente nel gioco di Inazuma Eleven 3, che poi è sputato identico all'anime, ma con l'aggiunta di una ferrovia poco distante che a me ha sempre affascinato troppo – senza contare la discarica di vecchie macchine, muoio –. E nulla, adesso che Mark è a posto se non per il fatto che rimane sempre Mark, rimane il grosso problema di Erik: Silvia. Eehehe, e non vi faccio spoiler su come andrà a finire, anche perché ricordate che Mark l'ha invitata – pregata strisciando – a fare un salto negli USA, per far ragionare un attimo l'amico. Chissà se la bambozza sarà in grado di risolvere la situazione, uuh, chissà chissà, perché Eagle è preso molto male. 
E intanto Mary continua a tenergli il broncio come se fosse santa, capito.
Poi, per chi non lo sapesse, l'ihop è una specie di catena di "tavole calde(?)?" americana, e le sue sigle significano, appunto, international house of pancakes, perché te li fanno di tutti i tipi, con tutti gli sciroppi che vuoi. Io ci sono stata a tentare l'obesità, diverse volte (?); non male. Anche se l'aria condizionata sparata a mille con l'acqua congelata servita in un bicchierone da venti litri non ci stava per niente xd.
Nulla, se volete anche voi un mini Mac-psicologo nella vostra vita, non esistate  a lasciarmi una recensione; la spedizione è gratuita
ci sentiamo al prossimo aggiornamento!
byee!

Lila

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Capitolo 24
*** Like you're bathin' in Windex ***


Chapter twentythree.
 
Like you're bathin' in Windex


<< Mary, tesoro, posso entrare? >>
Mary sospirò e smise di pettinarsi i lunghi capelli color oceano quando la testa di Esther fece capolino dalla porta socchiusa del bagno.
Strinse le spalle, annuì e la osservò sgattaiolare dentro con un cipiglio speranzoso. L'amica indossava uno smanicato dal collo alto, rosa chiaro, e dei comodi jeans a vita alta dalle tasche percorse di piccole perle bianche. I capelli mossi le cadevano sul seno prosperoso con la delicatezza di onde del mare baciate dai primi raggi dell'alba. Era bellissima, e glielo disse senza problemi.
<< Lo farai smuovere, a quel Kruger. Altro che Melanie. >>
A quel commento ammiccante, Esther si guardò la punta delle nike, imbarazzata. << Mary... >> borbottò, e le venne vicino. << ho parlato con lui. >>
<< Allora, che dice? Posso venire con voi oggi, o no? >>
Mary mise su l'espressione più docile del mondo, ma in realtà sentiva un disperato bisogno di andare con Esther, seguirla ovunque. Qualsiasi cosa, pur di non restare in casa sola con Erik.
Esatto, Erik.
Quel giorno Dylan era incappato in un impegno impossibile da rimandare, quindi non era riuscito a portarla fuori come le aveva promesso; il che era chiaro e lecito, considerando che Keith praticava comunque una vita piuttosto attiva nel Downtown di Los Angeles, tra scartoffie varie, traffico e compagni che non facevano altro che chiamarlo ogni singolo minuto della sua esistenza già frenetica.
Ma ora che Mark ed Esther avevano improvvisamente deciso di uscire per i fatti loro, voleva aggregarsi a tutti i costi all'amica. In caso di diniego sarebbe rimasta sola con Eagle, un problema che doveva e necessitava assolutamente di evitare.
Non si sentiva ancora pronta a parlare con lui.
Non voleva, si riufiutava di farlo.
<< Ehm... Mark... >> Esther si schiarì la gola e aggrottò un sopracciglio. << non vuole. >>
A quella risposta indesiderata, Mary sentì la rabbia accendersi nelle vene come un lampo nell'oscurità. Il sangue le salì al viso, gli occhi color perla tremarono di agitazione mentre cercava di tenere l'impetuoso tono di voce sotto il più sottile dei controlli. Mentre cercava di non immaginare un possibile affronto verbale con Erik. << Mark è un pezzo di merda! >> non ci riuscì, ovviamente, tipico suo. << Che cosa gli cambia?! Quanto gli costa?! >>
<< Sì lo so che è un pezzo di merda... tesoro, ascolta... >>
<< Esther! Come farò ad evitare Erik?! Rimarrò sola con lui! Hai già dimenticato cosa mi ha fatto quel coglione? >>
No, Esther non aveva affatto dimenticato come Erik Eagle si era preso gioco della sua migliore amica, portandosela a letto e usandola come recipiente per il suo stupido dolore.
Eppure, la cosa migliore che lei e Mark potessero fare in quel momento era aprofittare dell'occasione per lasciarli un po' soli, di modo che potessero avvicinarsi e discuterne insieme, nella calma e nel calore di una casa che per tutti era diventata un punto di ritrovo. Nessuno di loro aveva intenzione di passare un Natale tra spaccature. Tra rancori. E ora che le cose si erano calmate un po', era il caso di porre rimedio anche a quel punto interrogativo della loro vita. Non si trattava più di una questione tra Eagle e la blu; riguardava tutti, Mark, Esther, Dylan e persino Bobby.
E avrebbero trovato una soluzione insieme, a costo di distruggere tutto e poi ricostruire con più forza ancora. << Mary, qui vicino c'è un parco, un campetto da calcio, alcuni negozi di moda. Esci un po', se proprio non riesci a stare con lui. Ma se posso darti un consiglio da amica, parlaci. Chiaritev--
<< Sta zitta, stronza, che cazzo ne sai! >> la interruppe Mary, per poi spingerla fuori dalla porta del bagno senza darle neanche il tempo di comprendere cosa fosse appena accaduto tra loro. Esther provò a dire qualcosa, qualunque cosa, ma la serratura scattò con talmente tanta forza da sollevarle i capelli.
Rimase dinanzi alla soglia per un po', sconvolta. La tentazione di entrare e tirare l'amica per i capelli era forte, ma alla fine girò i tacchi e si apprestò a lasciare la villetta.
Forse era stronza, forse non ne sapeva davvero un cazzo di quello che stava succedendo. Non le era mai capitato di fare l'amore con un uomo e realizzare di essere stata usata per scopi idioti come quello di dimenticare l'essenza di un'altra donna.
Forse doveva stare zitta e fine.
Ma una cosa non la poteva affatto ignorare, e fu l'unico motivo che la spinse a raggiungere Mark con un sorrisetto ironico stampato sul volto, le mani strette intorno alla borsa color azzurro zucchero; che le voleva bene, e che l'avrebbe aiutata, fino alla fine.
Questo fanno le amiche stronze, giusto?
Quando Mark la vide arrivare salì in macchina, accese il motore e ingranò la marcia per uscire dal cancello che si stava lentamente distendendo per concedergli il passaggio. << Allora? >>
Ruotò il volante di cuoio e in un attimo fu fuori. << Come l'ha presa la tua amica? >>
<< Non molto bene. >>
<< Immagino mi consideri un pezzo di merda. >>
<< Con questa chicca ti sei fatto proprio odiare, Mark. >>
<< Fantastica notizia. >> il biondo sospirò e lasciò che la morbidezza del sedile gli avvolgesse le spalle, mentre la mente mandava giù la tremenda batosta. Sapeva che quella ragazza avrebbe reagito male al suo divieto, ma c'era stato un intento più che sincero dietro alla sua negazione.
Teneva ad Erik, e voleva vederlo felice.
Con quel “no” aveva solo cercato di concedere loro del tempo per parlarne davanti ad una tazza di caffé, e quando lo aveva rivelato ad Esther, e le aveva spiegato i motivi del perché Mary era meglio non venisse con loro, lei era stata d'accordo.
<< Non ti preoccupare, Mark. >>
Riportò lo sguardo sulla mora, pensieroso, e annuì. Sperava solo in qualche passo avanti, anche piccolo. Non importava il fatto che Erik fosse troppo insicuro per affrontare la situazione, e Mary troppo ferita per poterlo perdonare.
Bisognava agire, e in fretta. Nessuno aveva mai amato passare le feste col cuore pesante e la mente a cocci.
La mora si mise la cintura, e l'allarme dell'auto smise di lampeggiare come una sirena della polizia in tangenziale. << Ci siamo promessi di passare un felice Natale, vedrai che sarà così! >>
<< Quanto male ha reagito, la tua amica? >>
<< Eh? Ehm, abbastanza, ma quando è davvero arrabbiata si comporta sempre così. Non posso dire nulla. Io sono tre volte peggio. >>
Mark cominciò ad avanzare lentamente, come se temesse di vedersi sgretolare la strada da un momento all'altro. << Ti ha detto qualcosa? >>
<< Solo che sono una stronza. >>
A quelle parole staccò gli occhi dall'asfalto e guardò la migliore amica a bocca schiusa. << Really? Ti ha detto questo? >>
<< Really really. >>
Quando le donne si azzannavano a parole, non era mai un buon segno, perché spesso e volentieri era un chiaro messaggio di rottura. Il problema era che quella volta la colpa era sua, e non delle due giovani amiche. Si accasciò sul sedile e storse le labbra. << … scusami. >>
<< Mh? >>
<< Sarei dovuto andare io a parlarci. Forse avrebbe evitato di insultarti. Invece ho mandato te, pensando che tra amiche tutto sarebbe stato più leggero. >>
Esther lo guardò incredula, e gli tirò un pugno contro la spalla per fargli comprendere che scusarsi per una simile sciocchezza era stato un tremendo errore. Ma se le parole di Mary le avevano lasciato l'amaro in bocca, quelle di Mark cancellarono ogni sintomo di dolore. Fu acqua fresca sul rancore, lenì ogni traccia di fastidio. Volle ringraziarlo, ma si limitò a rassicurarlo che era stato meglio così. E a ritirargli un pugno, facendolo lamentare. << Questo è per le scuse. E anche per l'orrenda camicia che porti. >>
Mark si guardò la camicia con circospezione, facendola sorridere. Le aveva forse creduto?
La verità era che Kruger stava bene con qualsiasi cosa addosso.
Solo, non lo sapeva.
Riprese il filo del discorso, cercando di ritornare con i piedi per terra. << Se per sperare in un miglioramento devo essere stronza, tanto vale che io sia stronza al massimo. >>
<< Così mi piaci. Allora lo sarò anche io. >>
<< Perfetto! E ora vamos! >> scrocchiò le nocche delle mani con grinta sovrumana, già pregustando il dolce momento in cui avrebbe convinto l'amico a farsi comprare uno, due e magari anche tre - e quattro e cinque - indumenti adorabilmente alla moda. Come? Stregandolo col suo infallibile sguardo da povera cerbiatta senza più un risparmio, ovvio.
<< Voglio fare tanto shopping, i saldi di natale non durano in eterno! >>


 
 
Attraversare il corridoio, raggiungere la porta, uscire e imboccare il marciapiede di sinistra. Nulla di più semplice. Eppure a Mary in quel momento sembrava la cosa più ardua del mondo, non tanto per i tacchi alti che portava ai piedi, e che sulla moquette candida che si estendeva per quasi tutta la villetta traballavano come serpenti ipnotizzati.
Il problema vero era la maledetta presenza di Erik sul divano, intento a leggere le ultime notizie su un giornale sportivo.
Doveva passargli accanto in perfetto silenzio, per evitare di essere fermata e inculsa in una conversazione che non voleva affrontare.
Si prese la testa tra le mani, affondando le dita tra i morbidi capelli blu. In quel momento desiderava solo uscire da quella casa.
Trovare un attimo per chiamare Esther e chiederle scusa, e dirle che le voleva tanto bene, ma che Kruger era davvero uno stronzo. 
Quello voleva fare.
Ma Erik, lì, le stava facendo venire una tremenda angoscia.
Dai Mary, dai Mary.
Prese un sospiro a metà e mosse il piede sinistro. Poi l'altro. E poi cominciò a zampettare col cuore in gola.
In neanche cinque passi Eagle si accorse di lei, ovviamente, e abbassò il giornale con un fruscio di fogli spiegazzati.
Le sorrise.
Sgamatissima.
<< Ehi! >>
Mary sbuffò talmente forte che il castano non ebbe bisogno di ulteriori spiegazioni per capire quanto lei lo odiasse e quanto la sua presenza in quella casa la stesse frustrando da morire, ma fece finta di nulla e si alzò per raggiungerla.
<< Ho preparato dei toast. Vuoi favorire? >>
<< No grazie, ho intenzione di fare colazione nel bar qui vicino. >>
<< Okay. Beautiful. >> Erik tirò il giornale sul tavolo, raccolse le chiavi della macchina dalla mensola vicino alla porta d'ingresso e aumentò l'ampiezza del sorriso. Un sorriso debole, frustrato e combattuto. Ma pur sempre un sorriso. << Vengo con te. >>
<< No. Preferisco andare da sola. >>
<< Andiamo, Mary... parliamone un attimo. >>
<< No. >>
<< Parliamone. Solo un momento. Per favore. >>
<< No. >>
Erik si prese la testa tra le mani e liberò un sospiro sconfitto dalle labbra abbronzate. La situazione faceva schifo, lo sapeva benissimo anche lui di essere una mezza calza. Mary aveva tutte le ragioni del mondo per provare rancore nei suoi confronti.
Per essere infuriata nera, e sentirsi umiliata e tradita come donna.
Ma le sue intenzioni non erano mai state quelle di trattarla come un giocattolo. Aveva solo cercato di dimenticarsi di una ragazza che era risultata ostica persino da cancellare. Aveva solo tentato di rendere possibile una cosa impossibile, ecco.
Mary non doveva più essere un problema, nella sua vita; al contrario, doveva solo rappresentare l'amica che si era dimostrata più volte di essere, con i suoi difetti e le sue virtù.
Si fece forza con le parole del suo allenatore, quelle che gli aveva detto ieri.
Si convinse che una parvenza di ragione poteva avercela anche lui, in quella lotta personale contro se stesso in cui stava miseramente prendendo reti su reti. << Facciamo un patto. >>
Mary cominciò a giocherellare con le frange della maglietta rosso rubino, nervosa.
<< Tu ora mi ascolti, ti mangi un toast... >> la prese delicatamente per un polso e la trascinò in cucina. Lei non oppose resistenza.
Gliene fu grato. << E ne parliamo con calma. Se non sono stato in grado di risollevarti hai il diritto di chiudere tutti i ponti con me. >>
<< Tu mi hai usata... >> farfugliò lei, ma si sedette a tavola, lasciandosi cadere a peso morto e facendo cigolare la sedia.
<< No, non volevo usarti. >>
<< Ma l'hai fatto. >>
<< Sì, ma ti ho fatto anche i toast. >>
Si guardarono, ed Erik le passò il piatto. << Sono buoni. Sono caldi. >>
Mary li osservò come se fossero una minaccia, come se mangiarli avrebbe comportato un mutamento di DNA. Come se quelle friabili, profumate bruciature sulla crosta le appartenessero.
<< Trust me. Quello che non sa cucinare è Mark. >>
<< Mark è un pezzo di merda. >>
<< Are you sure? Non pensi che non ti abbia fatto uscire con lui ed Esther per permetterci di parlare in santa pace? Meglio approfittarne, tu che dici? >>
Per la ragazza fu come ricevere una soffiata d'aria gelida dritta in faccia. Si strinse nelle spalle e corrucciò le labbra, evitando lo sguardo profondo di Erik dall'altro lato del tavolo. Eagle aveva ragione. Lei non ci aveva minimamente pensato, ad una cosa del genere. Lei si era semplicemente limitata a rivoltare cattiveria su Mark ed Esther, i quali pur di aiutarla avevano scelto di apparire come non erano.
Due stronzi.
Per lei.
Il senso di colpa fu talmente grande che desiderò di avere le ali, per poter raggiungere l'amica e stringerla in un giga abbraccio dei suoi.
Tutti si stavano impegnando per venirle incontro.
Dylan era stato il primo a prenderle la mano, ad aiutarla, a ricucirle le ferite del cuore, e lei in cambio cosa stava dando?
Nulla, assolutamente niente.
Bella egoista che era diventata.
Mezzo mondo a struggersi per lei e l'unica cosa che aveva fatto era stato dare della stronza ad Esther. Non ascoltare le parole di Dylan.
Fare finta di niente.
Afferrò un toast dalla montagnola e se lo portò alla bocca. Era delizioso, ma non lo disse.
<< Mary... >> Erik si morse il labbro inferiore. Era difficile ammettere di essere un misero perdente, ma quella era la sua occasione, il suo momento. Proprio come in un campo da calcio, davanti a milioni di persone pronte a sostenerlo e incoraggiarlo. E gridare il suo nome, “Erik Eagle”, il nome di un ragazzo straordinario.
Il suo nome.
Avrebbe provato a rimettere le cose a posto, anche se non era sicuro di riuscirci al cento per cento. << Io sono innamorato di una ragazza. Silvia. >> l'ultima parola gli incrinò la voce.
Gli fece sobbalzare il cuore.
<< Sì, so chi è. >>
<< Bene, ehm. Anzi, non sono innamorato di lei. Io la amo. E una volta era la mia ragazza. Beh, facevamo un sacco di cose insieme. Cinema. Parco. Discoteca. Lei veniva qua, e stavamo insieme mesi interi, e io ero così felice di averla al mio fianco. Così felice che un giorno le proposi di restare. Per sempre. Solo che... lei non volle separarsi dal Giappone e io dall'America. Allora ci dividemmo. E da quel momento ho smesso di sentirla. Ma non di amarla, e... >>
Mary addentò un altro toast, segno che poteva andare avanti. Che lo stava ascoltando.
<< E boh, da quando l'ho persa mi sento un perfetto idiota... >>
Eagle prese una pausa, come se le parole avessero cominciato a pesare all'improvviso. Faceva male parlarne. Così male che tuttavia sentì il disperato bisogno di gettare fuori il mondo, e liberarsene. Scelse di continuare, a discapito del dolore lancinante che sentiva dentro al cuore. << da quando lei non c'è ho cominciato a frequentare diverse ragazze. A fare quello che voi definite “don giovanni”, ma la verità è che sono solo uno sfigato. Sono stato qualche mese con Suzette. Era solo sesso, niente di più, ma in quel periodo mi sembrava di sentirmi meglio. Lo sapeva solo Mark... poi l'ho lasciata e mi sono messo con un'altra. E un'altra. E un'altra ancora. E rivederla, al matrimonio di Bobby... ha scatenato in me un senso di... di desolazione, mi ha ricordato quanto faccio schifo, quanto sono solo e quanto amo Silvia, e dio, ho bisogno di lei. Tu eri lì e... Mary. >>
La guardò, e prese di nuovo un tiro di fiato. L'aria che incamerò nelle narici gli graffiò le pareti dei polmoni, ma ne ignorò il dolore bruciante.
Ignorò tutto, si sforzò di concentrarsi solo sugli occhi grigi dell'amica che lo guardavano perplessi. Non c'era nient'altro da dire.
Si allungò e le prese una mano. Poi sbatté la fronte contro il tavolo, diede colpa all'amore e chiese scusa.
Uno “scusa” che scivolò via dalla sua lingua prima ancora di rendersi conto di averlo detto, e che suonò più sincero dell'onestà stessa.
<< Scusa, scusami, scusami! L'ho fatto per amore, sono matto lo so, sono andato, completamente. Ma ho una grande considerazione di te, io... io vorrei rimanere tuo amico, quando torneremo a New York. Perché... mi sono affezionato a te, e ti voglio molto bene. >>
Fu con quello che chiuse il discorso, per paura di dire qualche altra assurdità.
E fu sempre lui che quando il silenzio divenne più pesante di una muraglia di piombo si alzò, la salutò nervoso e se la diede a gambe al posto della ragazza, rosso in viso.
Lo aveva fatto per amore, sì.
Amava Silvia. Per lei aveva ferito, e non sarebbe più successo.


 
Esther sapeva la regola della bellezza a memoria: “dormire, una toccasana per la pelle, apre i pori ed elimina le tossine”. L'aveva letta in ogni dove, gliel'avevano recitata in talmente tante persone che tutte le volte che si coricava le passava sempre per la testa, e allora correva ad imbrattarsi di crema per favorire il processo, tutta contenta.
Lo sapeva, lo rispettava, o almeno ci provava. Eppure quella sera si era trattenuta con Mark più del dovuto, fregandosene di tutto.
Perché Mark era più benefico di una dormita di otto ore. O di una crema profumata.
E questo, questo nemmeno lo scienziato più in gamba sarebbe mai riuscito a comprenderlo.
La giornata l' avevano passata in modo molto produttivo, girando per Los Angeles come due idioti patentati controcorrente. Lui l'aveva portata nel downtown, le aveva comprato qualche indumento - come aveva sperato -, l'aveva portata a mangiare vicino al porto e poi di nuovo a spasso, fino a quando il cielo color dello zaffiro non aveva lasciato spazio a nuvole di zucchero filato e filamenti dalle sfumature dorate.
Le aveva raccontato tantissime cose della sua vita, troppe per poterle citare.
Come quella volta in cui si era slogato il naso su una lastra di ghiaccio, e il padre era corso verso di lui urlando il suo nome. Dimostrandogli di volergli tanto, tantissimo bene, più di quando Mark avesse anche solo potuto immaginare.
Oppure di quando per poco e un taxi non lo aveva preso sotto.
Di quando aveva vomitato il caviale durante una cerimonia insieme a Johann, per poi evitarlo come la peste.
Avevano parlato come un fiume che non cessa mai di vivere. Torrenti di parole di erano mischiate e unite e rimescolate mentre Mark attingeva alle patatine al centro della tavola e se ne portava un mazzo intero in bocca, rapito.
L'aveva definita l'ennesima “rimpatriata”, ma sapeva meglio di lei che non era più così per nessuno dei due, soprattutto ora che Melanie non era più un problema.
Che non era mai stato così, in realtà.
E adesso che doveva andare a letto, Esther si rendeva conto di voler rimanere ancora un po' con lui. Tutta la notte, e parlare ancora di quel naso che aveva perso un quantitativo di sague immane nel suo primo inverno newyorkese.
Si separarono nel corridoio, lui andò nella camera che un tempo era stata di Hanagrace e Johann, lei andò nella camera che un tempo era stata di Mark.
Si guardarono, e il biondo le sorrise. << Sono stato davvero bene oggi. >>
<< Anche io, Mark. >>
Lo vide ridacchiare, imbarazzato, e allungarsi le maniche della felpa grigia fino a far gridare di pietà quel povero, sfortunato indumento. << Detesto questi convenevoli ma... è così. >>
Esther aggrottò i sopraccigli.
Cercava di dirle qualcosa, forse?
<< Beh >> piegò le labbra carnose in un sorriso. Non era stanca per niente, la voglia di rimanere con lui stava davvero sfuggendo al suo controllo mentale. << il nostro Natale non è ancora finito! Domani che facciamo? A parte pregare che Erik e Mary la finiscano di odiarsi? >>
<< Domani... >> Mark si passò una mano tra i capelli, per poi riabbassare il braccio. Era nervoso, stava provando in tutti i modi a comunicarle un dettaglio importante, senza riuscirci.
La mora non lo aveva mai visto così teso in tutta la sua vita. << Domani ci affidiamo a Dylan. Vuole farci vedere un posto, non ho idea di cosa sia. >>
<< D'accordo. >>
<< Alla vigilia e al Natale ci penseremo tutti insieme. Che ne dici? >>
<< Dico che è perfetto. >>
<< Bene! Anzi, perfect! >> esclamò Mark con voce un po' troppo alta, per poi battere le mani e sorriderle in modo alquanto... strano? Sospetto?
Innaturalmente assurdo?
Esther lo osservò confusa, col sopracciglio destro che non accennava ad abbassarsi, guardingo. Non sapeva come interpretare i suoi gesti, sembrava una molla pronta a scattare in qualsiasi momento.
Mark era complicato proprio come lo ricordava. I segnali di fumo, l'analitica e il geroglifico erano molto più semplici da studiare. Beh, forse  l'analitica no, ma dai, ci siamo capiti.
Si osservarono per qualche istante, poi Kruger prese l'iniziativa di chiudere il discorso. << Buonanotte! >> le disse, e ridacchiò senza motivo.
A che aveva pensato?
Stava forse ridendo di se stesso?
Esther non ebbe modo di chiedere nulla, tantomeno di rispondergli. Lo vide entrare nella stanza, poi uscire mezzo secondo dopo. E guardarla, di nuovo. << Esther... >> la chiamò, e adagiò lo sguardo sulla moquette sotto i suoi piedi. << Aspetta. >>
<< Non mi sono mossa. >>
<< Ah. >> arrossì selvaggiamente. << Ehm. >>
<< Che ti prende? >>
<< No, nulla, io... ho bisogno di parlarti, in realtà. >>
<< Di cosa? >>
<< Vieni dentro. >>
Mark si allungò timidamente e le afferrò una mano, poi la trascinò dentro la stanza da letto dei genitori e chiuse con delicatezza la porta, per non svegliare Erik e Mary. Per Esther fu come ritrovarsi catapultata nel mondo del migliore amico, e si scrutò intorno curiosa mentre lui si schiariva la gola e le presentava ufficialmente la camera dei suoi. Il letto ben piegato aspettava solo di poter ospitare il corpo dell'americano, e gettata contro gli sportelli neri dell'armadio stava una valigia aperta straboccante di camicie a quadri, jeans e felpe.
E una polo, probabilmente l'unica cosa elegante che la mora riuscì ad indentificare in mezzo a quell'ammasso di tessuti piegati di fretta. Sorrise. Tipico degli americani; vestiti come capitava, sempre. << Allora? >> si voltò e si accorse che Mark si era appoggiato al muro, in attesa che la sua perlustrazione dell'immobile finisse.
Che gentile.
<< Devo sottoporti ad un piccolo interrogatorio >> spiegò lui. << Riguarda quello che è successo ieri al campo da calcio della Unicorno. >>
Esther si accomodò sul letto e lui le si sedette accanto. Lo osservò prendere un respiro interno, corrucciare le sopracciglia e guardarla determinato, e d'istinto si chiese se non fosse tutta una montatura per tenderle uno scherzo alla Dylan & Mark, ma poi le iridi di Kruger le suggerirono che era meglio crederci.
E ci credette.
<< Che cosa vuoi sapere? >>
<< Voglio sapere >> Mark arrossì lievemente, ed Esther si ritrovò davanti il Kruger di dieci anni prima, quello tranquillo, timido ed impacciato che tanto l'aveva fatta smadonnare. << perché mi hai abbracciato. Voglio sapere cosa ti ha mosso, più nello specifico. >>
Cosa?!
Sobbalzò all'indietro con un mezzo gridolino, come se l'americano le avesse chiesto di ammazzare una persona. << E-eh? >>
Gli occhi del biondo si tinsero di una tonalità più scura.
Oddio, faceva sul serio.
Lo aveva chiesto per davvero?
All'improvviso la situazione si ribaltò; Mark divenne il cavaliere senza macchia e senza paura, mentre Esther si ritrovò ad arrossire senza sapere bene che fare, le mani sotterrate dietro le cosce bollenti di vergogna. O che dire, tanto peggio.
Ora che aveva il via libera, ora che Melanie era sparita dalle loro vite, la situazione sembrava essere diventata molto più semplice per entrambi, soprattutto per lei, che più volte aveva cercato di far capire al biondo quanto la facesse impazzire.
Sembrava, appunto. Si morse il labbro inferiore.
In realtà si era solo trasformata in qualcosa di ancora più complesso. Proprio per questo motivo, non era affatto facile rivelargli i suoi sentimenti. E infatti rimase a bocca chiusa, sperando che il trucco non ancora tolto reggesse il confronto contro il disagiante rossore che le era esploso in viso come un fuoco d'artificio sparato in aria troppo presto.
Gli occhi di Mark tuttavia non se ne accorsero. O se finsero di non farlo, ci riuscirono alla grande.
<< Perché questa domanda assurda? >> gli chiese, e si portò una mano davanti alle labbra.
L'americano ritrasse il collo e sorrise agitato. << Perché...  in realtà, volevo capire alcune cose. >>
<< Quali cose? >>
<< Io... >> Mark sbatté la mano per errore, contro il comodino, e se la cinse per attutire il dolore sordo alle vene. Poi la guardò titubante, ma risoluto. Avrebbe voluto tanto rivelarle tutto quello che gli passava per la testa, il suo amore per lei. Che non l'aveva mai dimenticata fino in fondo, e che il fatto di aver perso Melanie da un giorno all'altro non gli aveva cambiato proprio nulla.
Nulla. Aveva pensato in una conseguenza negativa, un po' di dolore al cuore, ai sentimenti feriti, invece c'era stato solo un enorme sospiro di sollievo.
Una strada libera, tutta spianata per lui, e le sue future scelte.
Una realizzazione, un... fare chiarezza all'improvviso, un rendersi finalmente conto di essere davvero innamorato di Esther, così tanto da non aver provato assolutamente nulla nel levarsi di dosso Melanie, solo pura e schifosa soddisfazione. Ed era una cosa strana, sì. Che lo incuriosiva e affascinava.
Ed era interessato a sapere che diamine provava l'amica per lui, se poteva succedere... qualcosa, tra loro. Qualsiasi cosa, e se una volta tornati a New York la “cosa” sarebbe diventata altro o sarebbe sfumata sotto l'etichetta “Amici, baci e abbracci”.
Voleva indagare, almeno ora che era libero di farlo.
<< So? >> le fece, per riprendere il filo del discorso.
Esther si difese dietro un muro di bugie, cercando di scappare da quegli occhi tanto chiari quanto curiosi che l'avevano completamente mandata fuori corsia. Non capiva perché si sentiva così impacciata, così... timorosa di prendere il suo posto, ora che Mark non aveva più quel peso di Melania addosso. O Melanie, che dir si voglia. << Perché tesoro, quando ti vedo mi salgono le fitte di nostalgia, e in quel momento... la fitta era stata molto forte, ecco. >>
<< Capisco. >>
<< Già, dieci anni senza te... ti volevo tanto bene caro Mark. Ed ero anche tanto arrabbiata con te. >>
<< Ti ho già raccontato cosa è successo. >>
<< Sì, infatti! >> esclamò Esther, e mentalmente si diede della stupida mocciosa. Poteva dichiararsi, aveva tutte le porte aperte per farlo, e invece quel maledetto “ti amo” scelse di rimanere bloccato nella gola, come un malato di timidezza. << Ma ora non riaccadrà più, perché viviamo nella stessa città. Giusto? >>
<< Giusto. >> Mark le sorrise e si stirò le pieghe dei jeans con i palmi caldi. Non sembrava esserci rimasto male.
Per fortuna.
<< Beh >> esordì, e distese le ginocchia. << scusami per averti trascinata qui dentro. >>
<< Figurati Mark! Altro da chiedere? >>
La guardò, e l'intenzione inizialmente fu affermativa, ma dalle labbra non gli uscì nulla. << Nah, ho troppe poche prove per condannarti. >>
<< Ah! Te l'avevo detto che ero innocente. >>
<< You can go. >>
<< Thank youu! >> il corpo suggerì ad Esther di alzarsi, ma il cuore le tenne il didietro sul materasso per un altro minuto bello buono.
Minuto in cui Mark la guardò oltre la bionda frangia che gli ricadeva dolce sulla fronte, e in cui lei continuò a posare gli occhi un po' su quelli di lui, un po' sulle sue mani distese che aspettavano nervose... in qualcosa. Qualcosa che entrambi sapevano doveva succedere. Doveva essere detto. Più chiaro di così si muore.
 << Buonanotte Kruger. >>
<< Okay, goodnight. >>
Finalmente il corpo ebbe la meglio, ma quando fece per alzarsi dal materasso Erik entrò senza bussare, facendole venire un colpo al cuore.
<< Mark, non riesco a dormir...! OOOOH. >>
Mark fece le spalle rigide mentre l'amica se la squagliava oltre la porta con una corsetta che lasciava intendere “cose” che non erano affatto accadute, e una risatina che peggiorava solo la situazione.
Il castano fece un sorrisetto ambiguo accompagnato da uno strano movimento strano di gambe che sbucavano da un paio di boxer giallo fluo, mentre Mark già si apprestava a tendere le mani in segno di diniego assoluto. << Come dicevi, amico? >>
<< E-Erik... >>
<< “Non si scopa in casa di mia madre!”, e poi infrangi la grande legge? >>
<< No Erik, non è come credi! >>
<< Sìsì, Mark, non fare il santino che ti conosco. >>
<< Ma Erik--
E la porta si richiuse, incapace di sentir ragione.
Mark sospirò di nervoso, ma la verità era che non si sentiva affatto in imbarazzo. Abbozzò ad un sorriso divertito e si disse che prima o poi si sarebbe accertato di tutto.
Era determinato a farlo, e non sarebbe tornato a New York senza una risposta.

Ora che era libero, e poteva avere tutte le risposte del mondo.

 
 
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(...)like you're bathin' in Windex, frase appartenente alla – famosissima – canzone Obsessed, di Mariah Carey, significa letteralmente “come se tu ti stessi facendo la doccia nel Windex”, e vuol dire che ormai sei diventato così lucido, così limpido e trasparente, che è facile capire – o quantomeno intuire – cosa nascondi, dal momento che tutto in te è diventato evidente agli occhi degli altri. Questo ragionamento è da dedurre facilmente, in quanto il Windex è una marca statunitense di spruzzini(?) per finestre, vetri, specchi ecc che serve appunto a lucidare la superficie. comunque non sto facendo pubblicità occulta, no eh, lo gyuro
E' il caso di Erik, che finalmente fa chiarezza sui suoi sentimenti per far comprendere a Mary la situazione che ormai da diverso tempo sta vivendo, ed è anche il caso di Mark, che pur col solito impaccio – perché lui è impacciato, ammore(?) – fa tranquillamente comprendere ad Esther che è innamorato di lei, che ha capito che c'è qualcosa tra loro, e che ormai è chiara la sua intenzione. Cioé stare con lei COME DIO COMANDA – cioè me –. Nulla, tutto qui. Spero di essere stata chiara!
E' un capitolo di transizione, ma a mio parere serviva, arrivati a questo punto della trama, dare una passata di Windex al tutto (?), quindi spero di aver pulito per bene uwu. Oddioo queste metaforeeeh
il prossimo chappy è spaziale, per cui spero di pubblicarlo presto, ehehe.
Alla prossima!

 
Lila

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Capitolo 25
*** The flavor of Freedom ***


Chapter twentyfour.

The flavor of Freedom

 
 
<< Ehm... >> Mark chiuse la portiera dell'auto della madre e si mise in marcia per raggiungere Dylan, confuso. Da quando avevano lasciato la caotica Los Angeles non era ancora riuscito a capire dove diamine li avesse portati l'amico, e quel dubbio non fece altro che accrescere mentre macinava zolle di terra sotto la suola delle allstars celesti dai lacci malamente allentati.
Esther, dietro di lui, non smetteva di guardarsi intorno insieme ad Erik e Mary.
Erba, alberi color smeraldo che si innalzavano verso il cielo terso di un soleggiato, caldo dicembre che aveva perso tutte le sembianze dell'inverno, persino quelle più evidenti. Erano circondati da un' infinita distesa verde di cui nessuno di loro riusciva a vedere la fine, neanche sforzandosi. Sembrava di essere capitati in un immenso bosco canadese, niente a che vedere con i grattacieli ingrigiti e zozzi di smog a cui erano abituati.
Dove diavolo li aveva portati quel pazzo di Keith?
<< Amico, dove siamo? >> gli chiese Mark una volta che lo ebbe raggiunto. Dylan gli sorrise misterioso e guidò la truppa fino ad un capannone serrato con un lucchetto enorme, di metallo arruginito.
E di cui Dylan possedeva la magica chiave che lo avrebbe aperto.
Mark aggrottò i sopraccigli mentre faceva un passo indietro, osservandolo cautamente. << Amico, nothing illegal I hope. >>
<< Guardi troppi film polizieschi, Mark. >>
<< Non sapevo fossi proprietario di un capannone nel bel mezzo del nulla. >>
<< Infatti non sono il “proprietario”. >>
<< Dylan... >> il tono di Mark si fece grave, nonostante gli occhi traboccassero di curiosità da ogni sfumatura celeste che donava al suo sguardo una traccia di prudenza molto cauta e attenta. E che Esther adorò alla follia. << non facciamo stupidate, per piacere. >>
<< Rilassati fratello... >> Dylan rigirò la chiave diverse volte, poi la provò al contrario, sotto lo sguardo sconcertato dei presenti. << sei in ferie, non fare il paranoico. >>
<< Rimango comunque un poliziotto. >>
Erik alzò la mano, segno che anche lui era un figlio della legge come il biondo, e che sempre come il biondo, non avrebbe esitato a prendere Dylan a calci nel didietro in caso il posto si fosse rivelato completamente illegale e... non suo al 100%.
<< Non si apre, questa merda. Che palle. >> Keith provò con un'altra chiave e finalmente il lucchetto si sbloccò tra le sue mani forti. Spalancò le due porte, che cigolarono contro la potenza delle sue braccia, e la luce del primo pomeriggio illuminò il lungo corridoio e tutte le celle che lo costeggiavano.
Un paio di musi lunghi si sporsero per curiosare, ed Erik fu il primo a ridere notando le larghe narici, i lievi nitriti e gli occhioni languidi. Cavalli!
Tantissimi cavalli, almeno una decina per lato.
Erano in un ranch, oddio. Che cavolo aveva in testa Dylan?
<< Et voilà. >> disse il biondo platino, e fu il primo ad entrare, seguito dal resto dei presenti.
Kruger sgranò le iridi, sconvolto e incuriosito allo stesso tempo. << Horses! >>
<< Wow Mark, non ti facevo così perspicace. >>
<< Che ci facciamo qui? >>
<< Ve lo dico subito. Oggi andiamo tutti a cavallo, GUYS! >>
<< COSA?! >> esclamarono tutti, e Dylan li zittì con una gelida occhiata con tanto di sibilio.
<< Shhhh! Cretini, spaventate i cavalli. >>
Poi andò a coccolare uno dei musi, grattandolo tra le narici e sotto il capo avvallato di vene. << Povere bestioline. Amori miei. >>
<< Mi spieghi di chi sono, Dylan? >> domandò Erik mentre si avvicinava ad un cavallo per coccolarlo. Adorava quegli animali, erano forti, veloci, scattanti ed eleganti, proprio come lui sul campo tanto tempo fa, quando correva e dietro di sé lasciava una scia di stelle brillanti come ricordo. << Sono stupendi. >>
<< Un mio collega di lavoro. Siamo molto amici. Ogni tanto vengo a cavalcare con lui, oggi ha un impegno e mi ha affidato le chiavi del ranch per dare una pulita agli animali. E già che ci siamo, facciamoci anche una cavalcata no? >>
<< E' fuori discussione. >> sbottò Mark, e incrociò le braccia al petto con fare evasivo. << Non sono nostri cavalli. >>
<< Tranquillo, che al mio amico piacerebbe far prendere un po' di aria ad alcuni di loro. Fidati di me, Marky, so quello che faccio. >>
<< Non chiamarmi Marky. >>
Dylan sorrise e gli lanciò dell'attrezzatura random che il biondo prese al volo per puro miracolo, colto di sprovvista, e che suscitò le vive risate di Eagle. << Continuerò a farlo fino a quando non ti vedrò su uno stallone purosangue, Marky. >>
<< Contaci, Keith. >>
<< Marky. >>
<< Smettila. >>
<< Marky. >>
<< Dylan, stop it. >>
<< Marky. >>
<< Dylan! >>
<< Marky! >>
Esther si intromise nella conversazione prima che i due potessero arrivare a picchiarsi come gatti obesi appena svegli. Non aveva mai avuto occasione di poter ammirare dei cavalli così da vicino, erano tutti bellissimi. Scansò Mark per poter vedere meglio, gli occhi neri che brillavano entusiasti dinanzi a tanta meraviglia della natura. << Woah! Dylan, davvero è possibile farci un giro? >>
<< Certo, baby! Prima però dobbiamo mettere in ordine un po' di cosette. E convincere Marky. >>
Mark arricciò il lungo naso nell'udire quel “baby” sputato di proposito per infastidirlo, ma non disse nulla, e si mise a giocare con l'attrezzatura che l'amico gli aveva lanciato senza motivo.
Esther annuì, e nel giro di breve tutti - o quasi, vero Mark - si convinsero a dare una mano a Dylan e la sua nuova passione per il maneggio. Il ragazzo fece togliere loro le scarpe e passò loro degli stivali impermeabili, poi affidò ad ognuno un compito. A Mark ed Esther quello di riempire gli abbeveratoi d'acqua pulita, ad Erik di dare una spazzata nei dintorni per pulire il passaggio.
Lui si occupò invece di nutrire i cavalli, e si fece aiutare da Mary per passare del tempo al suo fianco. E per vederla ridere, il suo hobby preferito dalla prima volta che aveva incontrato il suo sguardo e aveva provato a sedurla sciogliendosi i capelli.
E riuscendoci, ovviamente.
Quando tutti ebbero terminato, si strinsero intorno a lui per sapere ciò che dovevano fare. << Bene, qualcuno di voi sa montare sui cavalli oltre a me? >>
Erik alzò la mano, con grande stupore di tutti i presenti. << Da piccolo mio padre mi portava sempre alle fiere a fare un po' di pratica. So come trattarli. >>
E allora anche Mark la sollevò, timido. << Ehm, beh, sì, alle fiere appunto, a Portland. Dai miei nonni materni. Ma non ci so andare, insomma. Più che altro non mi ricordo, ecco. >>
<< Nonni materni? >> chiese Esther, curiosa di poter venire a conoscenza di un altro dettaglio interessante sul suo biondo.
Kruger fu felice di risponderle, e si illuminò come un raggio di sole. << Yes! Mia mamma viene dall'Oregon. >>
<< Urca! Non lo sapevo! E dove sta l'Oregon? >>
<< Proprio sopra la California! >>
<< Wow, non avevo idea. Figo! >>
<< Ma come, baby >> Dylan s'intromise nella conversazione, divertito. << non si vede, che Mark non è californiano nel sangue? Insomma, con tutte quelle camicie da periferia che mette... ugh. >>
Mark lo fulminò con lo sguardo, geloso di risentire l'ennesimo "baby" riferito alla ragazza che gli piaceva. << sono californiano, invece. Sono nato in California. E, ehi, what's your problem with my clothes. >>
<< Nulla, nessuno. Però hai il padre mezzo tedesco e la madre dell'Oregon. Mmmm. >>
<< Ma sono nato in California! Oh... comunque ho montato un cavallo, sì, ma non so andarci. >>
<< Tutte scuse Marky, lo sappiamo che vuoi superare tutti. >>
<< Wait wha--
<< Bene! >> Dylan batté le mani, mangiandogli la parola. << Visto che siamo tutti incapaci come Mark Kruger, che ha DNA da uomo di campagna e non sa nemmeno pronunciare bene la parola "cavallo" >>
<< Ma in realtà non è proprio così, Keith, frena un secondino, cominci a--
<< Ho preparato solo tre cavalli. Uno per me e Mary, uno per Mark ed Esther e uno per Erik, e ci va pure bene visto che è un cavallerizzo provetto. >>
<< Diciamo di sì. >>
<< Ma sentilo. >> fece Esther, e gli tirò una dolce gomitata al costato. << Provetto ma schifosamente single, eh? Tutti hanno una coppia di sesso opposto tranne te. Che strano. >>
Erik avrebbe voluto ribattere con qualcosa di peggiore, divertito, ma lo sguardo angosciante di Mary gli ricordò che lui faceva schifo, e che in quel campo era meglio rimanere in silenzio e lasciar correre. Il sorriso svanì dalle sue labbra, e non appena Dylan gli fornì il cavallo lo prese per le redini. Era nero, e alto.
Un po' troppo per lui.
Quando Keith lo fornì anche di sgabello rialzabile, Esther ridacchiò malevola, guadagnandosi un'occhiata assatanata.
<< Vuoi che ti prendo in braccio, Eagle? >>
<< Ridi, ridi, scema. Voglio vederti a sbattere il culo con Mark. >>
Esther incrociò le braccia al petto abbondante con aria di sfida. << Va bene Eagle, ti sei appena messo contro il diavolo. Gli daremo del filo da torcere, vero Mark? Mark? MARK! >>
E quando si voltò per cercarlo, il suo caro Mark era già all'uscita, con le chiavi della macchina che luccicavano nella mano sinistra. << Io non ci salgo su quei cosi. >>
<< Mark, che figuracce mi fai fare!! >>
Esther lo rincorse e lo trascinò indietro prima che il ragazzo, scocciato, potesse tornarsene in auto, ai suoi amati grattacieli e alla sua normalità che di certo non includeva né cavalli né fattorie dimenticate dal mondo e di cui Dylan stranamente ne possedeva la chiave.
Keith portò loro una giumenta bianca in ottima forma, divertito. << Su Marky from the land, lei è più spaventata di te. >>
<< Non sono spaventato. Non ho voglia di sporcarmi i jeans. E smettila. >>
<< Solo un giretto, su. Musone. >>
<< Dai Mark, solo un giretto. >> fece Esther, e poi si fece aiutare da Dylan a salire sulla cavalla che paziente aspettava il verdetto finale. << Solo unoooo, daiiii! Al passo! Si sta anche comodi quassù! Non riusciremo mai a raggiungere Erik, così. >>
Alla fine Mark, con uno sbuffo, si arrese all'evidenza che o sarebbe salito con Esther su un cavallo a un giorno dalla vigilia di Natale, tanto per rimarcare la normalità della cosa, o lo avrebbero inforcato e appeso al muro.
Si resse a Dylan solo per saltare in groppa, al resto ci pensò da solo, e si strinse all'amica con aria stizzita. Fingendo che quel contatto non gli avesse provocato proprio nulla, nemmeno un madornale rossore, no no. << Solo un giro. >> sbottò, le labbra lievemente imbronciate.
<< E va bene. >> Esther si mosse sotto le indicazioni di Keith e fece partire la giumenta, che una volta all'aria aperta scosse il capo fendendo l'aria con la chioma grigiastra.
<< Hai capito come fare? >>
<< Certo! >>
<< E tu Mark? >>
<< Ovvio. >>
<< Mi aspettavo questa risposta da te, Re dell'Oregon. >>
<< DYL--
<< Allora vi lascio. Niente galoppo, mi raccomando. Non rischiate. >>
<< Saremo prudenti. Unduetre via! >> e la mora, dopo aver congedato Keith con un gridolino esaltato, cominciò a far avanzare la cavalla sull'erba dell'enorme prato che si estendeva dinanzi a loro come un vasto oceano verde.
Mark respirò l'aria pura di quel posto, così puro ed incontaminato rispetto al caos inquinante che pullulava nelle arterie più trafficate della città. << E' un bel posto, tutto sommato. >> ammise, e si perse a guardare il panorama mentre la cavalla passeggiava tranquilla guidata un po' da Esther e un po' dal suo istinto animale che le suggeriva che portava a bordo due stupidi idioti.
<< Come mai non ti piace andare a cavallo, Mark? >>
<< Non è che non mi piace, adoro gli animali. Diciamo pure che non rientra nella lista delle cose che farei prima di morire, ecco. >>
Esther si voltò a guardarlo con un sorrisetto, che lui ricambiò. Si stava beando delle mani di Mark che si tenevano salde a lei, di quel tepore che si era formato tra i loro corpi rigidi e attenti.
Come quando avevano dormito insieme. Era una sensazione che la stava mandando in visibilio, che le stava provocando un intenso piacere fatto di emozioni e battiti che non facevano altro che aumentare, aumentare. Cristo Mark. << e quali sono le cose che vorresti fare prima di morire? >>
Baciarla, avrebbe voluto sussurrarle Mark. Amarla in tutte le forme che l'amore poteva offrirgli, e che ancora non gli aveva insegnato nella maniera corretta.
E poi, forse, lanciarsi anche da un paracadute. Buttarsi nella neve completamente nudo, gettarsi da una strada in pendenza con un carrello sfaldato, sperando di non saltare al primo dosso che avrebbe incrociato. Ma tra tutte quelle cose, non sapeva davvero quale fosse la più spericolata.
Amare Esther significava correre in tangenziale a mille miglia, senza fari, di notte, privo una meta, ma vivo e libero; bastava conoscerla un po' per sapere che era esuberante e grintosa come un folle molto poco sano che gira a caso con una motosega per migliore amica.
Ma era una frenesia che era pronto a provare, per lei. Era pronto a sballarsi per lei, era fatto per lei.
Da sempre.
<< Non saprei. >> le rispose, e fece spallucce. << Le tue? >>
Esther arrossì.
Tutto ciò che aveva pensato Mark divenne anche un suo desiderio, ma si limitò a dire qualche cavolata da adolescente ribelle, anche se aveva smesso di avere sedici anni da un bel po' di tempo. Forse. Dopo la figura di ieri nella camera dei genitori di Mark, non era più tanto sicura di essere poi così donna. << Proviamo ad andare al trotto? >>
<< Sai come si fa? >>
<< Ho visto qualche vecchio telefilm svedese, dovrei esserci. >>
<< Ahahahaha, okay girl! >>
In quel momento li affiancò Dylan, che rallentò il galoppo del suo cavallo color nocciola per portarlo al passo. Mary si teneva stretta a lui, inebriata dal suo profumo, e quando incrociò lo sguardo di Esther le mandò un bacio volante e uno sguardo color perla che non era dispiaciuto a morte, di più.
Esther rise e le fece l'occhiolino.
Okay.
Tutto okay, tra loro. L'importante era vedere l'amica meno sofferente di prima, abbracciata al ragazzo che gli piaceva, con la bocca sorridente e tanta voglia di tenerselo stretto. Ed era davvero una bella, bellissima soddisfazione. << Ho sentito che vuoi andare al trotto. Sono disposto ad insegnarti, però segui i miei movimenti. >>
<< Allora vorrei che mi insegnassi anche il galoppo, Dylan. >>
<< Certo! >>
Mark strinse la maglietta di Esther, un gesto che non riuscì a controllare. << Aspetta, cosa? Galoppo? Vuoi morire, Est? >>
<< Eddai Mark! Vuoi raggiungere Erik, sì o no? >>
Mark cercò Eagle con lo sguardo, e quando lo trovò lo osservò sfrecciare sulla sua furia nera. Sembravano un corpo solo, un'unica saetta, che si faceva largo in mezzo al verde senza ascoltare niente e nessuno tranne i suoi battiti del cuore. Proprio come sul campo da calcio.
Dieci anni prima.
Quando tutto sembrava perfetto, Erik doveva solo preoccuparsi di come levarsi di torno Suzette, e Mark di qualificare la Unicorno al FFI.
Sorrise. Chissà se aveva chiarito con Mary, ieri. Chissà se con l'arrivo di Silvia, le sofferenze sarebbero finite anche per lui.
Sarebbero tornati a sognare come una volta?
<< Okay >> disse, e si mise in posizione per apprendere. << Let's do it. >>


 
Era bello sentirsi così, liberi.
Una cosa sola con l'ambiente circostante, in mezzo a quella natura verde che gli ricordava tanto le ciocche di Silvia la mattina presto, raccolte in una piccola codina bassa, e l'odore dei pancakes.
E il suo sorriso.
Strinse le redini e si chinò per confondersi col vento, i capelli castani che gli si rovesciavano sulla fronte coprendogli le sopracciglia concentrate. Si era fatta sera, ma avrebbe continuato a sfidare la velocità in eterno, solo per il puro piacere di sentirsi finalmente al passo con qualcosa del suo calibro.
Ripensare alle parole di Mac lo fece sorridere piano, mentre la maglietta vibrava come una bandiera controcorrente, scoprendogli la schiena curva e abbronzata.
In fondo c'erano davvero delle persone che gli volevano bene, in tutto quel caos. Mark, che si era preso cura di lui, aveva mantenuto i suoi scomodi segreti per se, e poi era diventato il suo fidato compagno di pattuglia.
L'allenatore.
Che aveva davvero dimostrato di tenere a lui, non solo proteggendolo. Ma anche cercando di fornirgli dei consigli giusti.
Bobby, che lo aveva invitato al suo matrimonio, che lo aveva reso testimone dell'esperienza più importante della sua vita, il suo migliore amico. E infine Dylan, che aveva saputo ascoltarlo quando la situazione gli era sembrata troppo grave da affrontare.
All'improvviso, un rumore di zoccoli premuti energicamente contro la terra affiancò il suo orecchio attento. Si voltò per guardare, e in un battito di ciglia si trovò davanti il viso rosso di gioia di Mark, la frangia bionda completamente lasciata ai capricci del vento forte.
Sconvolto portò gli occhi su Esther, concentrata nel far marciare il cavallo come una monoposto in poleposition. 
<< Yu-uuuh! >> esclamò Kruger a gran voce, e sollevò il dito medio a mo' di saluto cazzuto quando la mora accellerò all'improvviso e riuscì - con tanto di grasse risate malvagie - a superare il castano e fargli mangiare la polvere.
Erik scoppiò a ridere quando persino Dylan gli tagliò la strada, con Mary che strillava impazzita e si teneva forte al suo cavaliere senza macchia e senza paura.
Rise così forte che rallentò e si prese la testa tra le mani.
La sua vita era stata una merda, ma una cosa splendida l'aveva sempre avuta, ed era certo che non l'avrebbe mai persa.
L'amicizia.
C'era davvero bisogno di altro?


 
Mark si guardò allo specchio, e dopo un attimo di esitazione si immerse nella chiara sfumatura color acquamarina dei suoi occhi. Le ciglia erano imperlate di tiepide gocce d'acqua, la fronte e le orecchie erano coperte per intero dai capelli, divenuti di un tenue castano a causa della doccia in cui era rimasto a gongolare per interi minuti, cercando di lavare via l'odore della paglia e dei cavalli che l'avevano circondato per tutto il pomeriggio.
Si passò una mano in fronte e si portò all'indietro la lunga frangia, decidendo che quando sarebbe tornato a New York si sarebbe fermato un attimo a sfoltirsi l'abbondante chioma bionda. Gli sembrava di essere cambiato, in quelle due settimane, e non solo dentro.
Anche fuori.
Si vedeva più uomo. Più libero. O forse era il fatto che si sentisse felice come un ragazzino a riflettere un'immagine più matura e ben fatta di se stesso. E si piaceva, stranamente, nonostante il naso troppo lungo che gli divideva in due il volto e le orecchie a sventola che grazie a chissà quale divinità, le folte basette avevano imparato a nascondere alla perfezione.
Era contento delle decisioni che aveva preso, in sole due settimane era come se il suo mondo si fosse ribaltato verso la giusta direzione. E tutto grazie ad Esther, in un certo senso.
Avrebbe mai smesso di crescere fino in fondo? Forse sì, forse no.
Tutte le volte che si portava dietro l'amica gli sembrava di sbattere la testa e ritornare in sé. Era una bella sensazione, davvero, ed era successo tutto talmente velocemente da pargli un magnifico sogno.
Con lei gli veniva del tutto naturale sentirsi sicuro. Si diede un'asciugata di capelli tanto per, s'infilò in una comoda maglietta nera e un paio di jeans schiariti a causa dei troppi lavaggi.
Poi uscì dal bagno e avvertì Erik che finalmente era arrivato il suo turno, mentre si dirigeva in stanza per prendere le scarpe.
Qualsiasi paio. Prese il primo che gli capitò sotto tiro e dopo averle indossate scese i gradini a due a due, con i capelli che gli carezzavano dolci il collo e la fronte rilassata. Esther era sul divano insieme a Mary e Dylan, impegnati a discutere su nemmeno voleva sapere cosa. Si fermò e sorrise alla mora.
Alla fine aveva scelto di non chiedere nessun consiglio a Dylan.
Aveva ventitré anni, amava Esther e avrebbe affrontato la cosa da solo, perché quella ragazza non era una come tante.
Non esistevano affatto suggerimenti che potessero aiutarlo a levare di torno l'impaccio, e se n'era accorto quel pomeriggio, su un maledetto cavallo bianco, abbracciato a lei.
Solo lui possedeva la chiave per capirla, o almeno, si convinse che doveva essere così. << Ho fame. >> annunciò, e si avvicinò un po' di più ai tre ragazzi. << Faccio un salto da McDonalds. Voi volete qualcosa? >>
Dylan alzò la mano come uno scolaro provetto, per farsi notare. << Sai che prendermi, Mark. >>
Mark annuì divertito. Certo che lo sapeva. << Tu Mary? >> e le sorrise, sperando di poterle sembrare almeno un po' più simpatico di, ehm, ieri.
<< Mmm... non so, Esther tu...? >>
<< Io vado con Mark >> rispose lei, per poi alzarsi e raggiungere il biondo. << deciderò lì cosa prendere. >>
<< Allora mi affido ai tuoi gusti. >>
<< E per Erik? >> domandò Dylan.
<< Ad Erik niente cena, lo lasciamo in punizione. >>
<< E perché? >>
<< Perché è Erik! >>
Scoppiarono a ridere, poi Mark afferrò le chiavi e dopo aver assicurato che sarebbe tornato presto, lasciò la casa insieme ad una Esther super felice di poter trascorrere un po' di tempo sola con lui.
Era notte fonda per essere solo le ventuno, il buio scendeva su Los Angeles come un manto di miele denso, caldo e asfissiante.
L'umidità rarefatta rendeva il freddo solo un lontano ricordo newyorkese, e le luci lontane erano un abbagliante segno che anche quella notte Los Angeles avrebbe fatto festa.
<< Che cielo nero. >>
<< Già. Fa molto caldo, ma vedrai che ti mancherà quando torneremo in mezzo alla neve di New York. >>
Salirono in auto e Mark accese la radio, il condizionatore e in un attimo furono in mezzo al caos di clacson e motori accesi che non vedevano l'ora di spegnersi davanti al garage di casa. Fecero buona parte del viaggio in silenzio, tra un semaforo più lento e caotico dell'altro ogni cento metri, ad ascoltare la voce dei cantanti dire cose che nessun umano sarebbe mai stato in grado di rivelare. << Again, uff. >> sbottò l'americano all'ennesimo rosso, rallentando.
Esther lo guardò con la coda dell'occhio, e sorrise quando lo vide smarrire lo sguardo oltre il finestrino, perso nell'osservare una macchina piena di messicani urlanti a pochi metri dalla sua.
Era davvero bello, le luci della notte gli proiettavano lampi colorati sulle braccia tese e le ciocche bionde, che gli donavano l'aspetto regale di un principe appena risorto da una pozza d'oro liquido.
Arrossì e distese le gambe, lievemente in imbarazzo. Quanto era carino, Mark. Non poteva credere che in due settimane era successo l'impensabile; loro due, in una macchina insieme, a prendere patatine per tutti.
E solo un mese fa nemmeno ci aveva pensato, ad una situazione così normale. Così meravigliosa.
Lasciò andare un sospiro e Mark tornò a concentrarsi su di lei, mentre il semaforo sembrava non voler mollare più la tonalità del fuoco rovente. << Ti sei divertita, oggi? >>
<< Sì, è stato fantastico! Tu? >>
<< Non male. >>
Esther ridacchiò. << Fai sempre così, e alla fine sei quello che si diverte più di tutti. >>
<< Maybe. >>
<< Ah sì? Beh, chi era quello che mi gridava di andare più forte? >>
<< Shhh. >>
Finalmente il semaforo s'illuminò di verde e la fila cominciò a scorrere, stressata. La mano di Mark corse ad alzare il volume di una canzone che a giudicare dal suono, non sembrava affatto rientrare negli anni duemila.
<< Heartbreaker! >>
<< Mh? >>
<< Mariah Carey! La conosci, no? >>
Esther annuì. Certo che la conosceva. E all'improvviso si rese conto di odiarla, e di esserne vagamente gelosa. << Una finta tettona che si crede ancora trentenne. Bella milfona, eh...? >>
<< Vorresti dire che è brutta? >>
<< Mark, non ci credo! Ti piace sul serio?! >>
<< Mmmh. Ti somiglia. Ha il tuo stesso naso all'insù. >>
<< Sicuramente si è rifatta pure quello, pff. Almeno il mio è naturale. Come la mia quinta. >>
<< Okay. >> Mark sorrise e mise la freccia per girare. L'insegna del Mcdonalds brillava luminosa a pochi metri di distanza, e sapeva di hamburger cosparsi di miele e di coca gelata. Niente male. Un altro semaforo e finalmente sarebbero arrivati, salvo distruzione atomica all'ultimo secondo. << E' che sei così carina che cercano tutte di assomigliarti, visto? >>
Esther arrossì e si arricciò un boccolo per scacciare l'imbarazzo crescente che aveva preso possesso di tutta lei. Cazzo, di solito i complimenti li aveva sempre presi di petto, ma pronunciati da Mark le facevano l'effetto stordente ed euforico di una buona dose di droga.
Quasi a farlo apposta, Mariah Carey si mise a canticchiare di quanto il sorriso del suo ipotetico ragazzo la rendesse debole ed euforica, e di quanto per lei quel fatto rappresentasse una piacevole vergogna. Si sentì molto simile alla cantante, in quel momento. Si rispecchiò in quelle parole, in quei sentimenti, e il ritmo della canzone cominciò a battere insieme a quello del suo cuore paonazzo.
<< Finalmente. >> Mark fermò la macchina dinanzi al lampeggiante menù del Mcdonalds, aprì il finestrino e si sporse per leggere. << Dimmi cosa vuoi per cena. >>
<< Mmm... le crocchette. Tante! >>
<< Fai la combo no? >>
<< Spiegati, americano, non parlo la tua lingua. >>
Mark rise e si voltò verso di lei per guardarla in finto cagnesco. Aveva due meravigliose sfere azzurre, al posto degli occhi, era bellissimo. << Prendi quelle più cola e patatine fritte, no? >>
<< Ah! Sì, bravo, pensaci tu che te ne intendi. >>
Quando Mark ebbe scelto anche per gli altri - senza dimenticarci il povero Erik -, permette un pulsante e una voce salutò piatta.
Il biondo fece la lista vocale di ciò che aveva scelto e poi avanzò per cedere il posto all'auto dietro di lui. 
Si fermò dopo neanche un metro, in attesa della quantità industriale di junk food che aveva chiesto mentre quello davanti e quello davanti ancora stavano aspettando di ricevere la loro. Gran bel casino Los Angeles col traffico.
La canzone di Mariah Carey terminò ed Esther le concesse il lusso di un applauso. << Brava, brava! Brava, belle protesi. >>
<< Mia madre dovrebbe avere il suo disco qui in giro. >>
<< Scordatelo. >>
<< Dai ti prego, mettiamolo. Solo una passata di “I'll be loving you longtime”. Due dai. >>
<< I'll be what?! >>
<< Ahaahahahah! >>
Ci fu un attimo in cui si guardarono, divertiti. Quanto poteva essere bella la quotidianità?
<< Merda >> Mark fece cascare la testa, sbuffando, e Mariah Carey rimase nascosta in chissà quale cassettone. << che fame... >>
<< Ma sentitelo, l'americano. >>
<< Mmmm... >>
Esther gli tirò una pacca sulla spalla, ma lui non sollevò la fronte dal bordo del volante nemmeno per farle un piacere. Era rinata una bella confidenza tra loro, era come se quei dieci anni non fossero mai nemmeno esistiti. Sarebbe stato bello poterli cancellare per sempre. Eliminarli passandoli insieme, magari a coccolarsi su un letto dopo aver fatto le pulizie. O a girare per New York mano nella mano, e baciarsi a Times Square l'ultimo giorno dell'anno, come aveva sempre visto fare nei film. Sospirò, un blocco alla gola la colpì all'improvviso quando realizzò di non voler rivivere un'altra esistenza senza Mark Kruger. Merda.
Fu così forte che le venne l'affanno. << Quando torneremo a New York, Mark? >>
Il biondo sollevò il capo per quella domanda lanciata senza motivo.
La macchina davanti stava ancora aspettando.
<< In che senso? >>
<< Quando torneremo a New York, noi... noi due... >> Esther buttò giù i muri che ieri l'avevano sigillata di imbarazzo con un grido interiore, forte, mostruoso, alimentato da una fiamma d'amore che non era mai morta del tutto, e che ora stava solo reclamando il suo posto. Doveva sapere. Voleva sapere, da lui, quale sarebbe stato l'esodo della loro storia assurda. Se sarebbero rimasti amici, qualcosa di più, oppure una volta tornati là si sarebbero dimenticati. Persi di vista. Cancellati una seconda volta, ed era una cosa che la stava terrorizzando. << cosa saremo? >>
Mark sgranò gli occhi, sorpreso.
Esther stava tornando al discorso di ieri notte, e all'improvviso si rese conto di non saperlo affrontare a parole. La guardò confuso, le gote arrossate per il caldo e per ciò che stava provando dentro, molto più forte dei gradi che si sentivano di fuori.
L'abitacolo si era fatto stranamente bollente, nonostante il condizionatore sparato.
Lo spense e abbassò i finestrini.
Cacciò il gomito fuori.
La notte era così buia che sembrava voler inghiottire tutto nel suo lento ascendere.
<< Non voglio perderti, Mark... >> mormorò lei, e quando Kruger la guardò di nuovo si rese conto che le brillavano gli occhi. Gioia, dolore? Forse entrambe.
Si perse in mezzo a quel nero soffocante, un nodo alla gola gli impedì di trovare aggettivi per descriverla. Ci affogò dentro, la guardò come si ammira una stella.
<< Non accadrà >> la voce gli uscì rauca dal fondo del petto, come se avesse appena fumato per la prima volta. Sentì il bisogno di passarle una mano tra i capelli.
Scostarglieli da quel viso pallido e bianco che tanto lo faceva impazzire, incastrarglieli dietro un orecchio.
Poterla guardare bene in viso e rendersi conto di non aver mai desiderato niente di meglio che lei al suo fianco.
<< Non esiste. >>
Stringerla forte.
Stringerla fino a diventare una cosa sola con lei.
<< Non accadrà più una cosa del genere. >>
<< E se devi traslocare ancora? >>
<< Non accadrà. >>
<< E se sparisci in Australia, Mark? >>
<< Non... >> non finì la frase, perché non aveva senso farlo.
Perché tutto sembrava aver perso un nesso logico.
<< Chi te lo dice che non accadrà? Un imprevisto potrebbe portarti di nuovo via... potresti perdere il cellulare in mare, o da qualche parte... n-non so... >>
<< Nessuno mi porterà più via. >>
<< E con Melanie? >>
<< Con Melanie era già finita, Esther. E lo sai. >>
<< … e se io non fossi mai venuta a vivere a New York? >>
<< Sarei venuto a prenderti, una volta compreso che il mio posto è con... con te. >>
<< Mark... >> la osservò deglutire forte, emozionata. << Davvero? >> si portò una mano tremante al cuore, la tenne salda. Mark avrebbe voluto prendergliela e portargliela sul suo, di petto.
Per dimostrarle che, se bussava, una piccola Esther sarebbe uscita sorridente, con i capelli perfettamente ordinati e la divisa di discutibile gusto della Tripla C.
<< Davvero...? >>
<< Certo. >>
All'improvviso la donna scorbutica che aveva sputato su Mariah Carey come una camionista di prima classe scomparve dentro ad un corpo chino sul sedile e con le lacrime a gonfiarle gli occhi lucidi e arrossati. Che cercava di sfuggire a quell'amore troppo forte, consapevole di aver già perso in partenza. << Non so stare senza te... >>
Mark respirò l'aria rarefatta dell'abitacolo, mosse appena il gomito.
No, nemmeno lui sapeva stare senza lei.
Non ci era mai riuscito.
Non l'aveva mai dimenticata. E quando credeva di averlo fatto, se l'era ritrovata davanti, in un marciapiede affollato da troppe persone anche solo per poterla notare.
Eppure ce l'aveva fatta.
Lui, lui l'aveva vista.
Sognò di baciarla, di fare sue quelle labbra sigillate in attesa di una risposta che avevano aspettato per troppo tempo. Ma ora di tempo ne avevano, tutto quello del mondo. E gliela diede. Si piegò verso di lei, la guardò con occhi languidi di un desiderio che non riusciva più a contenere.
E poi la baciò.
Piano.
Si appropriò di quelle labbra con la dolcezza e l'impaccio di un timido principiante, timoroso di vedersela sfumare in un colpo di gelido vento. Di perderla per sempre, ancora, e cercarla disperatamente nel ricordo, senza la certezza di poterla riavere in futuro.
Esther aveva il sapore della libertà. Di quella che ti fa venire voglia di correre sotto la pioggia, gridare. Gridare forte, e calciare un pallone fino a spaccare un muro di roccia, buttarsi nell'oceano gelato e poter respirare ogni cosa. Affondò le mani tra i suoi capelli profumati, tra quelle onde che tanto gli piacevano, e lei si aggrappò alle sue spalle nel disperato tentativo di tenere fermo lui, il tempo, tutto.
Mark aprì gli occhi un momento, solo per guardarle il viso pallido, sudato, e le ciglia imperlate di lacrime.

Esther era la sua libertà.
E l'assaporò tutta.


 
__________________________________
Nda
aaaaaaaa! *sclera male*
Sìììì
Chi mi conosce da anni sa che Mark ed Esther sono una mia CrackPairing e un giorno la faranno diventare reale. Sa che ci ho passato su praticamente tutta l'adolescenza, e soprattutto, SA CHE NON VEDEVO L'ORA DI FARLI BACIARE, DAL PRIMO CAPITOLO, ahahah. Cioé raga io ho dovuto attendere ventiquattro papiri prima di questo momento.
Quando l'ho scritto non potete nemmeno immaginare il delirio, gli applausi. Ero felicissima. E lo sono ancora, perché finalmente si sono dati il tanto atteso limone, con tanto di mani tra i capelli, e niente, io piango come una tredicenne in calore, aiut.
E poi, questa volta, a differenza della vecchia Disaster, è stato Mark a prendere l'iniziativa.
MARK. In un McDonalds.
Brrr, love. Vi prego ditemi che vi è piaciuto, io ho amato abbozzarlo, troppo. Forse ve lo aspettavate, forse no, comunque che ne pensate?
Parlando d'altro, la scena iniziale come vi è parsa? E' un capitolo diverso, per la prima volta in mezzo al verde, con Erik Eagle che dimostra di avere più skills nel galoppo che nel calcio, e Mark che ammette di volersi lanciare da una strada in discesa dentro un carello con ruote pericolanti.
Comunque gli americani ci mettono davvero il miele nell'hamburger. Non so se qui in Italia si usa farlo – credo di no, almeno, io non ho mai avuto modo di vedere una cosa del genere – però loro lo trattano alla maniera del ketchup.
Io quando l'ho visto fare ci sono rimasta male.
Insomma, il miele è da mettere nel thé.
O no.
Fatemi sapere cosa ne pensate con una recensione, sarei curiosa di sapere il vostro punto di vista sulla situa! Per quel che riguarda i sentimenti di paura di Esther, sono leciti, capitela :( lontana dal ragazzo che ama per tanto, teme di perderlo di nuovo. Ma verranno presi con più importanza solo nell'ultimo capitolo, quindi non vi annoierò con ulteriori problemi. Capitolo che ehi, tra poco arriva.
Ve lo giuro manca solo Silvia in pratica
Baci
Lila

 
Ps: ho perso il conto degli aggiornamenti. Quanto sono nabba.
Ps2: flavor è in AE. i british(?) poi scrivono flavour, ma siccome siamo negli USA, continuo a pensare sia più appropriato tenere le parole americane, dove posso.

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Capitolo 26
*** Bated breath ***


Chapter twentyfive.

Bated breath

Aria fredda.
Fu la prima sensazione che percepì la pelle di Esther la mattina del ventiquattro, appena destata da quello che, a lasciar parlare l'immenso sbadiglio compiaciuto che quasi non le slogò la mascella, era stato il sonno rigenerante migliore della sua vita. All'ennesimo refolo invernale si decise ad aprire gli occhi, schiudendoli piano come per timore di ritrovarsi davanti uno dei tanti mostri che il fratello trovava divertente disegnarle nel diario scolastico.  Li fece vagare per la stanza buia, li fece abituare al nuovo giorno, e poi li lasciò dolcemente sprofondare tra le pieghe delle tende della finestra che fluttuavano a un pelo dalla moquette.
Scosse dal vento. Ecco da dove proveniva tutto quell'insolito gelo. La temperatura doveva essere calata durante la notte.
Si mise a sedere, e una cascata di boccoli color prugna fondente le si riversò sulle spalle candide.
Era mattina, la vigilia di Natale.
Si tolse la trapunta di dosso con un gesto grintoso e si alzò per chiudere la finestra, quando l'odore libero e selvaggio dell'aria le soffiò in viso, dispettoso. Le si intirizzirono le gote, ma lo respirò tutto, fino ad allargare al massimo i muscoli polmonari.
Sorrise, e arrossì.
Sapeva di Mark, dei suoi capelli ribelli e il suo sorriso gentile e timido che lo rendeva luminoso come un bambino.
E le sue labbra, che ieri l'avevano baciata lentamente.
L'avevano leccata, assaporata, cercata da una vita e finalmente trovata.
A quel pensiero spalancò gli occhi e chiuse la finestra di scatto, facendone tremare il fragile vetro.
Aspetta, cosa?
Mark l'aveva baciata! Gridò e si portò le mani alle labbra carnose, per nascondere al mondo il sorriso orgoglioso che le era improvvisamente sbocciato in viso. Il cuore le batteva così forte che persino le caviglie presero a pulsare frenetiche.
Le mani.
Le vene. Tutta lei, mentre la mente correva a ripescare la dolcezza di quel contatto languido e disperato che il biondo le aveva lanciato come corda a cui aggrapparsi. Come segnale che tra loro poteva davvero esserci qualcosa.
Poteva e voleva.
Era successo davvero. Non poteva crederci, e la caotica frenesia di quei sentimenti le fece pizzicare la gola di piacere. Era stato un bacio timido, uno di quelli cauti e impacciati tipici di Mark, eppure era bastato per accenderla come un fiammifero.
Doveva parlare con lui, questione di vita o di morte. Si tuffò nella valigia e per la prima volta scelse di indossare le prime cose che le capitarono tra le mani, come un vero americano che si rispetti. Non le importava di nulla, maledizione, solo di poter rivedere i suoi occhi chiari brillare come ieri sera.
Percepirlo vicino, inebriarsi del suo profumo.
Ora che si erano baciati, che cosa sarebbe potuto succedere?
Di tutto, ma voleva sentirselo dire da lui.
Si infilò le scarpe e scivolò al piano inferiore, aspettandosi di trovarlo.
Quando Erik la vide, disteso nel divano, ridacchiò divertito. << Sei un po' spettinata, miss “se non esco di casa in perfetto ordine mi sparo”. >>
<< A-ah? >> Esther si portò le mani ai capelli e per ovviare al caos si fece una coda last minute, incapace di nascondere il rossore nel ripensare a quando Mark, durante il bacio, le aveva incastrato le dita tra le ciocche.
La bocca le divenne di pasta frolla.
Era quel genere di sensazione che nemmeno la neve gelida di New York sarebbe riuscita a strapparle dal petto. << Come sto? >> chiese, anche se non le interessava più di tanto.
<< Brutta come al solito. >>
<< Ti ringrazio, nano da giardino. >>
<< Mi sembri agitata. >>
E lo era, infatti, molto.
<< Posso aiutarti? >>
<< Sì. Cerco il tuo amico Mark. >> pronunciare quel nome, dopo ciò che era accaduto dentro l'auto di Hanagrace, le fece fare le capriole al cuore. << E' qui? >>
Erik cambiò canale con aria svogliata. << No. E' uscito con Dylan. Perché? >>
Esther batté le ciglia più volte, sconcertata.
Chissà perché, un po' se lo era aspettato di non trovarlo subito.
<< Sai dirmi per caso dove si trovano? >>
<< No cara, mi sono svegliato poco fa, ho solo letto un suo messaggio dove mi ha lasciato scritto che era con Dylan. Come mai tutta questa voglia di vederlo? >>
Prese posto accanto al castano, avvilita. Aspettare il suo rientro significava aspettare di poter avere quelle risposte, e magari anche un altro bacio.
Ma scelse ugualmente di rimanere relegata in casa a godersi un po' di insana tv statunitense.
Lo avrebbe atteso, anche se l'impazienza di vederlo non smetteva di uscirle riottosa da ogni singolo poro.
E la voglia di poterlo baciare ancora una volta non smetteva di farsi strada in lei, correndo alla stessa velocità dei battiti cardiaci.


 
 
Era una mattina diversa dalle altre, quella.
Mark ne sentiva il cambiamento sui muscoli spossati delle gambe, tra i capelli scossi appena dal vento, nell'odore che Los Angeles aveva scelto di portarsi addosso. Posò le mani sulle ginocchia tremanti e cercò di calmare gli ansimi che gli fuoriuscivano dalle labbra, incanalando quel sapore di libertà che aveva assaggiato ieri sulle labbra di Esther, e che era bastato a farlo sentire in pace con se stesso.
Ripercorse il momento a bocca spalancata e sguardo stanco, ripercorse la bellezza dell'amica quando aveva aperto gli occhi per ammirarla, solo un istante.
E poi concentrarsi per fare suo tutto quello che lei aveva scelto di dargli.
Dylan lanciò un sospiro e si accasciò sulla panchina dinanzi a loro, esausto. << Ah, ci voleva una bella corsa. >>
Mark non rispose, senza fiato.
Se per la corsa frenetica che lo aveva visto protagonista fino a cinque minuti fa o per il bacio liberatorio di Esther, questo non lo sapeva.
Mentre cercava di non pensare a quanti altri ancora ne volesse, e a quanto non riuscisse a controllare quel desiderio, Keith si occupò di provvedere a riportarlo in sé. Aprì il borsone con uno scatto della mano destra ed estrasse un piccolo asciugamano bianco ed una bottiglia d'acqua.
Mark non si accorse di ciò fino a quando il panno non gli arrivò dritto in faccia, con la potenza di un tiro in porta. Si chinò per raccoglierlo da terra e se lo passò sul viso, sul collo, sotto la frangia che gli oscurava la fronte imperlata di sudore. << Dylan, fratello, quante volte ti ho detto di non tirarmi--
<< Le cose, lo so, lo so. >>
Kruger ignorò il sorriso sardonico del migliore amico con un sospiro.
<< Ti vedo perso, Mark. Mi hai fatto chiacchierare tutto il tempo. Non è da te dimenticarti di zittirmi e rivendicare la tua importanza. >>
Si accomodò l'asciugamano sulle spalle. << Sto benissimo. >>
<< Oh, questo lo vedo, Mark. Altrimenti non avresti accettato di venire a correre con me, come non avresti accettato di passarmi a prendere con la macchina nuova di tua madre. >>
Mark sorrise e abbassò lo sguardo gonfio di gioia. Voleva di nuovo sentire quella libertà, quella che aveva sempre cercato e trovato in Esther, sulle sue labbra.
Baciarla era stato come volare. Possedere due maestose ali bianche dietro la schiena, pronte a portarlo verso l'infinito.
Ed era una sensazione a cui già si era reso conto di dipendere.
<< Allora, Mark? >> Dylan distese le gambe e aprì la bottiglia d'acqua. << Vuoi dirmi come mai oggi sei più simpatico del solito? >>
Kruger prese posto accanto all'amico e si grattò tra i capelli biondi, divertito.
<< Yesterday... >>
<< Yesterday? >> e Dylan si attaccò al collo della bottiglia, assetato.
<< Ho baciato Esther. >>
La poca acqua che gli era finita in bocca venne meravigliosamente sputata fuori dalle labbra, con tanto di sonoro ringhio animalesco come sottofondo.
Dylan spalancò le iridi dorate, si voltò verso l'amico, e gli sembrò di non riuscire più a respirare mentre si specchiava nel profondo acquamarina del compagno.
Se avesse avuto altra acqua intrappolata in gola, gliel'avrebbe sputata addosso.
<< D-Dylan? >>
<< Fratello, forse ti sei sbagliato. Volevi dire che lei ha baciato te. >>
Mark arricciò il naso. << N-no, io ho baciato lei. >>
<< Woh woh woh wooooooooh! >> Dylan scoppiò a ridere così forte da catturare l'attenzione di alcuni passanti e persino di un cane.
Non poteva credere a quello che aveva appena udito, cazzo. Mark che faceva la prima mossa? Che baciava una ragazza? Per quel che ne sapeva, fino a ieri erano le femmine a doverselo andare a prendere. Non che Mark fosse un tipo che si faceva desiderare fino alla morte; semplicemente, era sempre stato timido.
Impacciato. Un disastro a conquistare, e quindi lasciava fosse l'altro sesso a muovere i primi passi.
Straordinario come Esther fosse riuscita a capovolgerlo da preda a predatore in un battito di ciglia. << Sono sconvolto. Sicuro di essere Mark? >>
Mark sorrise. Aveva i suoi dubbi pure lui.
<< E lei come ha reagito? >>
<< Lei... lei bene, penso. >>
<< Che vuol dire “bene, penso”? Quella è scema di te, Mark. >>
<< Ancora non abbiamo parlato. >>
<< E che aspetti? >>
<< Un momento buono per farlo. Magari dopo questi incasinati giorni di festa... >>
<< E ieri sera non andava bene? >>
Mark scosse il capo, e la chioma bionda si mosse con lui. Ieri sera non c'era stato modo di parlarne, perché le emozioni erano state troppo forti e vivide per permettere un attimo di sobrietà. Quando ritornò a fissare l'amico, si accorse che questo lo stava ammirando con un enorme sorriso orgoglioso.
<< Ho fatto quello che mi sono sentito. >> gli disse, e fece spallucce, imbarazzato. Gli sembrava tutto così naturale, che per lui il fatto di essersi buttato per primo non voleva dire assolutamente nulla.
Nulla, se dall'altra parte c'era Esther.
<< Mark! I can't believe it maaan! >>
Come se per lui l'accaduto fosse stato già assimilato al cento per cento.
Stentava ancora a credere di aver passato l'intera vita alla ricerca della libertà. Prima con Johann, suo padre, poi con Melanie. Ma nessuna delle due era risultata tale.
Si era trattato solo di... passi avanti, spinte verso un domani che sentiva finalmente di aver raggiunto. Verso quella libertà, che non c'entrava nulla con quella d'espressione, di religione, di scelta, di amore che tanto ammirava, e che caratterizzava il DNA degli americani - compreso il suo -.
Era molto di più. Era qualcosa che non poteva spiegare.
E l'aveva sempre conosciuta, dio.
Era sempre stata in un cellulare, in quei messaggi che non avevano mai perso valore, intrappolata in un passato che ora era diventato un piacevole ricordo di cui si poteva fare tranquillamente a meno.
Perché la sua libertà ora viveva nella sua stessa città. E portava il nome di Esther Greenland.

 

Quando Mark rientrò dalla corsetta insieme a Keith, e aprì la porta di casa con un sonoro sbuffo, Esther non si era di certo aspettata di vederselo fradicio dalla testa ai piedi, con i capelli biondi appiccicati alla fronte e il retro della maglia inumidito da quello che le sembrava un enorme alone di sudore.
E Mark, d'altro canto, non si era di certo aspettato di trovarsela in sua attesa, seduta sul tavolo a contemplarsi lo smalto.
Si vergognò dello stato in cui era conciato, e dopo aver farfugliato qualcosa - tra cui probabilmente anche un saluto ad Erik - scappò in bagno con una corsa << Okay guys by-- OHA...! >> che per poco e non lo fece scivolare dalle scale. << Fine fine! Fine. >>
Dylan scoppiò a ridere e spettinò i capelli a Mary, che però era troppo presa dal programma in TV per drogarlo con i suoi immensi occhi color perla. Poi prese posto accanto ad Esther. << Sì, Mark è scemo. Sì, Mark suda. >>
<< Ma saranno quattordici gradi di fuori! >>
<< Ma Mark è strano, ti fai ancora domande? >>
<< Beh... io lo trovo comunque sexy. >> mormorò Esther, e subito si tappò la bocca per ciò che le era sfuggito.
Ops. Pensare a voce alta in presenza di Dylan non era mai buona cosa.
<< Meglio che glielo fai sapere, prima che si faccia indecenti complessi mentali e venga a torturarmi. >>
<< Glielo riferirò, promesso. >>
Come, non lo sapeva. Magari glielo avrebbe fatto capire con un altro bacio, chissà. Che lo trovava bellissimo, e che tutte le volte che lo vedeva il suo cuore perdeva il conto del controllo cardiaco. << Ehm, Dylan... >> si sistemò i capelli e corrucciò le labbra carnose, stringendo le mani a pugno. Ora voleva sapere se Mark per caso gli aveva raccontato qualche dettaglio su ciò che era accaduto ieri, sul bacio e se gli era piaciuto. Essendo Dylan suo migliore amico e protettore, sicuramente dovevano averne parlato.
Per forza. Mark gli rivelava sempre tutto. << Volevo chiederti. >>
<< Sìììì? >>
<< Se per caso... Mark... uhm... >> siccome non le andava di spifferare ai quattro venti del bacio, si mantenne sul vago, anche se probabilmente Keith già ne sapeva fin troppo. << ti ha detto qualcosa su... su di me. >> e ritornò a torturarsi le ciocche, con l'ansia che le stava trivellando lo stomaco.
Dylan sorrise divertito, prese una mela, si alzò e se la portò alla bocca.
Poi si voltò e le fece un occhiolino che voleva dire “non parlerò, quando può benissimo farlo Mark”, ed Esther comprese al volo.
<< Perché non glielo chiedi tu? >>

 
<< Bene. Seduti. Grazie. >>
Mark batté le palme sul tavolo, fresco di doccia, e fece scorrere gli occhi su tutti i presenti lì con lui in quel momento. Dylan, Esther, Mary ed Erik. Poi prese un respiro e si concentrò sul discorso che aveva preparato sotto il getto bollente, in fretta  e furia. << Come ben sapete, oggi è la vigilia di Natale. >>
<< Ora inizia con i discorsi insopportabili da Capitano invasato... >> sbottò Erik, ma sorrideva vistosamente quando si portò il mento alla mano, segno che il commento non era affatto da prendere sul serio.
<< Shhh. >> Dylan sollevò un sopracciglio biondo. << Fagli credere di essere ancora il boss indiscusso della squad. >>
<< Silenzio. >>
<< Appunto. >>
<< Stavo dicendo. Oggi è il ventiquattro dicembre, e siccome non abbiamo organizzato nessun piano, che ve ne pare se ci facciamo venire un'idea in mente adesso? >> Mark si armò di foglio e lo strappò in cinque pezzi di diversa forma, sotto gli occhi stupefatti e curiosi di tutti. Poi ne distribuì uno a ciascuno, tenendosi il quinto per lui, e posò qualche penna in mezzo al centro dei presenti.
Esther sventolò il fogliettino bianco, confusa. << Che ci dobbiamo fare con questi? >>
<< Vi spiego il mio piano. Ciascuno di voi scriverà un'idea carina per la vigilia, poi faremo un sorteggio e il bigliettino che uscirà sarà come passeremo le ore. Quando avremo finito faremo un secondo sorteggio, e magari anche un terzo, tempo permettendo. Ingegnatevi ragazzi, voglio vedere belle cose. >> finita la spiegazione da oscar, si chinò sul suo foglietto slabbrato e cominciò a battere la penna sul legno del tavolo, in attesa di farsi venire in mente qualcosa di carino e divertente per consumare le ore in attesa del natale. Quando il flash arrivò tracciò la soluzione con la mano sinistra e infilò il bigliettino in una bustina verde che aveva rimediato cercando prima tra le cianfrusaglie della madre. Qualche minuto dopo, quando tutti i ragazzi ebbero tracciato per iscritto la loro idea di vigilia, venne estratto il primo bigliettino.
Kruger lo aprì, si schiarì la voce e lo lesse per i quattro presenti. << Contattare qualche bella ragazza di colore che... ha voglia di divertirsi e... >> aggrottò i sopraccigli. << fare tanto tanto se--
Arrossì selvaggiamente e il bigliettino divenne un filamento di stracci mentre se ne liberava con smisurata stizza. << Dylan, sei un maledetto coglione. >>
<< Mark, è la vigilia di natale! >>
<< Bene, signori, Dylan Keith è escluso dal gioco. >>
<< Ma MARK! >>
 << Il prossimo! >>
Mentre Dylan metteva su il broncio e Mary se la rideva di gusto, Mark affondò la mano nel sacchetto e ne estrasse un altro. Lo aprì e il cuore riconobbe la calligrafia di Esther ancora prima degli occhi. << Biscotti? >> la cercò con lo sguardo e le sorrise impacciato, nascondendo il luccichio sotto la lunga frangia che in quel momento gli fece da ottimo scudo protettivo. << Oh, this is adorable. >>
<< Sì, lo so! >>
<< Ma abbiamo gli ingredienti per farli? >> domandò Erik, improvvisamente interessato all'argomento “cucina”.
<< Domanda intelligente. Li abbiamo? >>
<< Se non lo sai tu, Mark... >>
<< Giusto. Ehm >> Mark fece una rapida ispezione degli scaffali e si segnò tutto quello che mancava. << Se mi aspettate faccio una corsa qui vicino e vado a prenderli. E se magari preparate la tavola, al posto di starvene lì a grattarvi le palle >>
Dylan si riscosse sulla sedia e gli mandò un bacio volante. << Certo amore mio. >>
<< Grazie. >>
Esther volle accompagnarlo, ma lo avrebbe solo rallentato, e quello era un giorno di festa che era meglio passare con gli amici, a mente libera. Mentre lo osservava prendere la giacca si decise che ne avrebbero discusso a New York.
Con calma.
E quando sentì la porta serrarsi con dolcezza promise alla vecchia Esther di tredici anni che si sarebbe dichiarata, una volta per tutte.
E che Mark sarebbe stato finalmente suo.


 

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nda
mi sto tormentando, perché non voglio che questa storia finisca, ma siamo praticamente giunti agli sgoccioli. Ancora qualche altro capitolo ed è fatta e io sto morendo al solo pensiero
Mark finalmente ha capito qual è la sua strada, e soprattutto, con chi vuole percorrerla. A parte che quando fa jogging, suda e parla allo stesso tempo è il sesso, viva il fanservice(?), iò che realmente conta è come Esther sia stata in grado, con la sua stupidità da vacca ignorante :'' a fargli capire più cose di quante Kruger se ne sarebbe mai aspettate.  E io Marky me lo sono sempre immaginata come un ragazzo che, se non fai la prima mossa, non verrà mai al tuo capezzale a rivelarti i sentimenti che prova per te. Il fatto che abbia baciato Esther per primo indica che il suo amore per lei è riuscito a battere i suoi impedimenti da... da cerbiatto che ancora non sa camminare. No, scherzo, non escludo sia un ragazzo maturo. Dico solo, che Dylan certe volte mi sembra più portato per cose  magari anche banali, ma che Mark non mi da l'impressione di saper esprimere con la stessa facilità.
Ma si ama, per questo.
Se vi aspettavate QUALCOSA, dopo il bacio che si sono dati, BEHHH, vi sbagliavate, eheheh. Non si cagano nemmeno, e, spoiler, non lo faranno fino all'ultimo capitolo -forseforse-. L'intenzione c'è, ma non il fatto vero e proprio. Questo perché di mezzo si metteranno altri problemi, e Mark Kruger ha dei conti in sospeso con Silvia – che presto arriverà, presto presto, per la gioia – o agonia(?) – di Eagle. Perché Mark una volta sistemato sistema tutti gli altri, ehehe. Siccome la situazione con Esther è, per ADESSO, sospesa, ho deciso di chiamare il capitolo Bated Breath – canzone di Tinashe, cantante che adoro -, e significa appunto respiro sospeso. Sospeso, fino all'ultimo.
Letteralmente(?).
Ci sentiamo al prossimo aggiornamento, che avverrà right now perché praticamente il nuovo chappy è collegato a questo.

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Capitolo 27
*** Pinwheel biscuits and Honey trees ***


Chapter twentysix.
 
Pinwheel biscuits and Honey trees


Quando Mark rientrò dal negozio accanto a casa con tutti gli ingredienti necessari alla preparazione dei biscotti, si trovò dinanzi al volto un vero e proprio campo di battaglia. Sulla tovaglia color limone stavano teglie di diverse dimensioni, guanti, cucchiai, sac à poche  costruiti alla carlona e mille altre cose di cui ignorava l'utilizzo, ma che a quanto pare a sua madre erano tornate utili in diverse occasioni.
Posò la busta in mezzo al caos e Dylan lo aiutò a distribuire la roba un po' dappertutto. << Mary ha avuto un'idea ancora più geniale. >> gli disse l'amico, sogghignando divertito.
<< Ah sì? >> Kruger rivolse le attenzioni alla ragazza, che stava sfogliando un manuale di ricette insieme ad Esther. La sezione “biscotti” le stava lentamente risucchiando in un vortice ipnotico fatto di zucchero e pasta frolla, e quando la chiamò sobbalzò appena da quanto era presa. << Quale idea? >>
<< Ah, ehm! Pensavo che potremmo suddividerci in coppie. Visto che siamo dispari, uno di noi farà l'assaggiatore. Che ne dici? >>
<< Dico che è okay. Avete già organizzato le coppie? >>
<< In realtà no, aspettavamo te per decidere. >>
Alla parola “coppie” Esther si dimenticò dei biscotti, chiuse il manuale rosa pallido e si aggrappò agli occhi azzurri di Mark, vogliosa di stare con lui. << Si può scegliere? >> domandò, e quando l'americano la guardò con un sorriso sorpreso arrossì e si passò un dito sotto il naso. 
Alla fine però si accordarono su un altro sorteggio, e fu costretta a finire con Dylan, malgrado il suo desiderio.
Mary si ritrovò a collaborare con Erik e Mark terminò su una sedia in fondo al tavolo, in attesa di assaggiare i biscotti delle due squadre. Portò la guancia al palmo sollevato a mezz'aria, sbuffando, ma almeno non si sarebbe sporcato le mani, e quello era già un gran bel passo avanti. << Volete dare i nomi alle squadre? >>
Eagle annuì. << Noi ci chiameremo le “Aquile di zucchero”. >>
<< Che classe, Erik. >> fece Mark, e si appuntò il nome su un pezzo di carta. << E voi? >> e guardò Dylan ed Esther, in attesa.
<< Gli “Unicorni di cioccolato”. >>
<< Gli “Unicorni di Gucci!” >>
<< E sia per Gucci. >>
Si appuntò anche quel nome, pensando che proprio perché erano entrambi ridicoli in realtà gli piacevano da morire. << Bene, partite pure. >> annunciò, e non appena le aquile lanciarono la sfida agli unicorni più glamour del pianeta terra si mise ad osservarli come un vero capitano ammira la sua élite di giocatori, divertito.
Chissà come sarebbe finita?
 

Esther versò un po' di farina in un misurino e poi la rovesciò in una ciotola piuttosto capiente, sotto lo sguardo attento e un po' confuso di Dylan. Keith non aveva mai avuto occasione di poter sfornare qualche biscotto, quella era la sua prima volta in assoluta; osservava gli ingredienti con fare evasivo, incapace di riconoscerli o sapere l'ordine in cui andavano usati, e soprattutto il quantitativo.
Realizzando, dunque, di non essere utile per nulla, si era subito fatto da parte, per permettere alla Greenland il comando assoluto su tutto il ripiano. E fino ad ora aveva creduto di essere in salvo, ma all'improvviso Esther lo chiamò a rendersi al suo servizio. << Dylan >> fece, sbrigativa.
Wow, si era davvero calata nel personaggio di pasticciera senza macchia e senza paura.
<< Spaccami un uovo. >>
<< Sissignora. Solo uno? >>
<< Solo uno. Veloce, Erik ci ha già superati di qualche passaggio e non ho voglia di sprecare tempo! >>
<< Subito, bella! >>
<< Rapido, che poi dobbiamo fare anche l'impasto al cacao. >>
Dylan afferrò l' uovo, lo scrutò intimorito e provò a spaccarlo di cattiveria. Non sapendo come dosare la forza, il guscio gli si sfracellò nel palmo e l'albume rovinò sul pavimento, con tanto di “splat” accompagnatore. Arrossì e provò a scappare dallo sguardo infuriato della mora, ma quello ancora più nervoso di Mark gli bloccò tutte le vie di fuga. << Dylan! >> tuonò, e si alzò per pulire, ma il ragazzo con gli occhiali lo fermò in tempo.
<< Rimedio io fratello, rimettiti pure comodo. >>
Mark si riaccasciò sulla sedia e rivelò all'amico dove si trovassero strofinacci e saponi, mentre Erik se la rideva di gusto. << You will lose, ahahah. >>
Esther lo trucidò con uno sguardo che non ammetteva repliche mentre si occupava personalmente delle povere uova. Ne spaccò una così forte che Erik si chiese se non sarebbe stata la sua fine, qualora avesse vinto quella sfida. << Lo vedremo, Eagle. >>
<< Intanto hai perso un membro. >>
<< Sta solo pulendo al danno che ha combinato, non l'ho affatto perso. >>
<< Però io sono già all'impasto. >>
<< Te lo do io l'impasto, te lo infilo tutto nel didietro, come i tacchini nel thanksgiving! >>
<< Ohhhh, la temperatura si sta alzando! >> esclamò Mark ridendo. << Vi dovrei filmare. >>
<< Zitto tu! >> risposero in coro i due litiganti infervorati, e Kruger obbedì subito all'ordine, trattenendo un sussulto. Quei due la stavano prendendo molto seriamente, ma come biasimarli?
Del resto, erano entrambi bravissimi in cucina. Un po' di sana competizione li avrebbe solo fatti andare ancora meglio.

 
<< E' duro questo impasto, cazzo. >> Mary attivò i muscoli delle braccia, gonfiò le guance e riprese ad amalgamare gli ingredienti tra di loro, mentre Erik stendeva un grande pezzo di carta da forno su una teglia, per prepararla in anticipo. Non che non ne fosse capace; lavorando in quel bar-tavola calda aveva imparato a muovere le mani un po' ovunque, e non c'era quasi nulla che non sapesse fare.
Tuttavia quell'impasto era per un totale di almeno cinquanta biscotti belli grandi, e per quello, pieno zeppo di farina. E di grumi.
E sentiva le mani pesanti, e i muscoli esausti.
Erik le sorrise gentile. << Ti do una mano? >>
<< No, grazie. >> sbottò, e si fece da parte con la ciotola.
E poi sì, c'era Erik.
Lei, che aveva sperato di poter finire in coppia con Dylan, si era ritrovata a dover collaborare con un ragazzo che...
rifletté bene sul corso dei pensieri, e si rese conto che non sentiva più nessuna remore nei confronti del castano.
Solo un profondo imbarazzo e qualche nota di disagio. Non aveva dimenticato il discorso che le aveva fatto due giorni prima. Un dialogo - anzi, monologo - forse insensato, che non aveva voluto dire nulla, tranne sottolineare un atteggiamento già imperdonabile di suo. Ma non era stato quello a colpirla più di tanto.
Era stato il suo modo di esprimersi. Il modo in cui glielo aveva detto, con cui aveva scelto di affrontare una situazione per lui molto delicata, di ritirarla fuori dal passato. Con la voce tremante, riottosa, in preda ad un dolore che non riusciva a capire, vero, e forse nemmeno ce n'era bisogno.
Erik aveva tentato non di giutificarsi. Solo di spiegarsi. 
Di provare a farle capire il caos che era andato creandosi tra lui e Silvia, e che per quanto da fuori sembrasse quasi banale, per Eagle non lo era.
Affatto.
E poi aveva chiesto scusa. E quando lo aveva guardato negli occhi, aveva visto il ragazzo di cui Dylan aveva tessuto le lodi.
Un ragazzo onesto, alla mano, senza pretese. Un ragazzo che non avrebbe mai fatto una cosa del genere, se non per il semplice motivo che era devastato.
<< Ti stai fiaccando, non vorrei perdere un elemento prezioso del team. >>
Si voltò ed Erik le tolse il recipiente di mano, le mani calde che erano pronte a mettersi all'opera. Lo fece con gentilezza, e Mary fu costretta ad arrendersi all'evidenza che o gli avrebbe fatto fare il lavoro, o avrebbe perso il braccio. << Spero di esserti stata utile. >>
<< Alla grande! >>
<< Posso fare altro? >>
<< Puoi scegliere gli stampini per i biscotti, se ti va. Dopo che l'impasto si sarà raffreddato potremo procedere a formarli. >>
<< Certo. >>
Si fece dare da Mark degli stampini - evviva Hanagrace e le sue folli voglie – e cominciò a selezionarli con cura; mentre se li passava tra le mani, si perse a guardare Erik lavorare.
Insieme formavano un bel team. Erano in vantaggio su Esther e Dylan e presto avrebbero potuto infornare i loro biscotti.
Si trattava del frutto di un lavoro tra due persone che avevano avuto una controversia enorme, eppure, nonostante tutto, si stavano muovendo davvero bene.
<< L'odore del miele è buonissimo. Hai avuto una buona pensata Erik. >>
<< A Mark piace il miele, vinceremo n--
<< A MARK PIACE ANCHE IL CIOCCOLATO--
Entrambi portarono lo sguardo su Esther, che tutta infervorata stava inzuppando le mani nell'impasto per renderlo compatto e morbido. << Non vantatevi! Vero Mark?! >>
Mark eseguì una combo a candy crush - Sweeeet! - e annuì distratto. << Sbrigatevi che ho fame. >>
Mary sorrise. Erano una bella squadra di amici, e dentro bisognava contare anche la notte passata con Erik, e che aveva rovinato il loro rapporto.
Però in fondo andava bene anche così.
Insieme formavano comunque un ottimo team.

 
Esther suddivise l'impasto morbido tra le mani e mentre spargeva il cacao su una metà, Dylan si occupò di spargere la restante farina sull'altra fetta.
Dopodiché avvolsero le due frolle colorate nel nylon e lo segregarono in frigorifero, accanto a quello gigante di Erik.
<< Quanto ci dovrà stare? >> domandò Keith annusandosi le mani odoranti di pasta frolla.
Esther si appropriò di un timer e lo regolò orientandosi con l'orario attuale. << Circa un'ora. >>
<< Così tanto? >>
<< In realtà due. >>
<< Cos--
<< Ma non possiamo perdere contro Erik, quindi una. >>
<< Cambia qualcosa? >>
<< No, se è Mark ad assaggiarli. >>
Dylan annuì. In effetti, Mark mangiava di tutto a quantità industriali, senza chiedersi se una cosa fosse salutare o preparata a puntino. Quel piccolo difetto di fabbrica sarebbe venuto solo a loro vantaggio. << Che si fa ora? >>
Esther smise di squadrare Erik in modo molto poco simpatico. << Si prepara la teglia. Ricoprila con un pezzo di carta, toh. >> e gli passò il lungo rotolo in malo modo, tutta presa dai suoi biscotti a girandola.
Dylan ridacchiò e si occupò della teglia; almeno quello lo sapeva fare. Dopodiché aiutò la ragazza a riordinare il piano di lavoro e a pulirlo dal disastro che era sfuggito al loro controllo.
Rimaneva solo un problema. La spianatoia, dove avrebbero dovuto rendere l'impasto sottile come un foglio di carta e poi lavorarci per creare delle girandole.
Erik ed Esther si guardarono agitati. Ce n'era solo una, ma non si potevano permettere di non possederla. O di perdere tempo, qualora sarebbe stato l'altro ad accaparrarsela per primo. Si mossero in contemporanea per prenderla, ma Mark li anticipò con uno scatto della mano.
<< Mark! >> gemette Esther, frenando prima di buttarglisi addosso. Non che le sarebbe dispiciaciuto sentire il calore del suo corpo, ma in quel momento le serviva la spianatoia. Urgentemente.
Prima di Eagle.
<< Mark. >> Erik allungò la mano, serio. << dalla a me. >>
Mark guardò prima la spianatoia, poi Esther, poi Erik, poi di nuovo la spianatoia. E capì che averla presa per salvarla dalla distruzione era stato un tragico errore.
<< No, a me Mark! >> esclamò lei, le labbra stirate contro i denti candidi.
<< Uhm. >>
<< Mark, chi è il tuo amico di pattuglia? Chi è quello che ti difende sempre, che ti ha fatto un po' di compagnia quando ha scelto di seguirti a New York, che faceva coppia con te all'accademia, eh Mark? Eh, chi è che ti va sempre a prendere il caffé quando non hai voglia di scendere dalla volante? Eh? E ora tu che fai? Mi volti le spalle così? Dammi quel pezzo di legno e chiudiamola qui, da bravi amici. Forza. >>
Dylan scoppiò a ridere e si aggrappò a Mary, che gli strinse le mani con un guizzo divertito stampato nelle iridi.
La situazione si era fatta banale quanto pericolosa; Mark si era messo in mezzo ad un fuoco incrociato.
Esther arricciò il naso e incrociò le braccia. Se Erik se la giocava sul rimarcare quanto fosse importante nella vita di Mark, allora lo avrebbe fatto anche lei.
<< Mark, chi è la ragazza che ti ha aiutato a metterti con Suzette? >>
<< Ehi! >> Erik si lasciò sfuggire una risata. << Stai andando troppo indietro! Non è valid--
<< Zitto! Chi è la ragazza che ti ha dato consigli su come comportarti con lei, su come conquistarla? Non ce l'avresti mai fatta senza il mio prezioso aiuto. >>
Mark sorrise. Era vero.
Ma la cosa ancora più vera era che vederla così piena di se lo stava facendo divertire da morire.
<< E poi >> sentenziò lei, sollevando un dito con aria cinica << sono stata io, con la mia presenza, a renderti quell'estate indimenticabile. >>
Ed era vero pure quello, e la fissò negli occhi con tanta intensità che lei fu costretta a distogliere lo sguardo, rossa in volto. << Va bene, siccome avete ragione entrambi >> disse, e posò cautamente la spianatoia. A quel gesto le iridi di Erik brillarono di vittoria, ma Esther rimase con il volto rivolto verso il basso.
Stava ancora pensando all'occhiata azzurra di Mark, a quell'estate stupenda che dopo il bacio di ieri era riuscita a lasciar andare. Finalmente, non aveva più bisogno di richiamarla alla mente per avere Mark.
Adesso ce l'aveva, concreto, lì.
E non l'avrebbe perso.
<< La poso. Ma. La prenderete solo quando mi sarò seduto. E con delicatezza, che poi tocca a me sorbirmi mia madre. >> ordinò Kruger, e ritornò al posto.
Non appena il suo didietro toccò la sedia, Erik scattò in avanti prima di Esther e riuscì ad accaparrarsi la spianatoia.
Istintivamente gli venne voglia di dare il cinque a Mary, e quando lei ricambiò il suo cuore fece un piccolo salto di gioia.
<< Che palle, non vale però, prima le donne..! >> sbottò Esther, mentre Dylan la consolava dandole qualche pacca di conforto sulle spalle. Ora avrebbe dovuto aspettare un' ora e chissà quanti altri minuti. Non voleva nemmeno pensarci, oddio.
Però aveva di come intrattenersi, e per ovviare a quel colpo di sfortuna, per tutto il tempo rimase a rimuginare sul bacio, fino a quando le labbra non tornarono a pizzicarle vogliose, e i sensi a sprofondare nel piacere, mentre si appellava con tutte le forze alle sensazioni che le aveva provocato entrare in contatto con la bocca piccola e agile di Mark.

 
<< L'albero di Natale oppure la stellina? >>
<< Mmm. La stellina. Sennò che altre formine ci sono qui? >>
<< Il cuore, l'orsetto... >>
Erik infilò le dita in mezzo ai vari stampini che qualche ora prima Mary aveva sparso sul tavolo, facendoli tintinnare tra di loro ogni volta che ne scartava uno. Ora che le aquile di zucchero si erano munite di spianatoia prima degli unicorni - sfigati -, avrebbero potuto iniziare il loro lavoro di stampa, e poi far finire il tutto nel calore del forno. L'impasto odoroso di miele aspettava solo di essere trivellato da alberi di natale e comete di varie dimensioni, a differenza di quello di Esther e Dylan, ancora avvolto nel nylon.
Poveri illusi, dovranno aspettare ancora un sacco di tempo, pensò mentre estraeva un adorabile fiorellino di metallo dalla mucchia. Lo spremette senza pietà contro l'impasto duro e poi sollevò lo sguardo per guardare i suoi indegni rivali, mentre Mary lo imitava.
Esther ricambiò l'occhiata con altrettanta furia, Dylan si limitò a fargli ciao con la mano.
Gli fece ciao pure lui. Avrebbero vinto la sfida, il miele avrebbe catturato Mark per la gola e finalmente si sarebbe potuto ritenere soddisfatto di aver creato qualcosa esclusivamente “made by Erik Eagle”. << Rassegnatevi, unicorni. >>
Gli occhi neri di Greenland si fecero pesanti come muri di piombo quando il nome della sua squadra scivolò ironico sulla lingua del castano. << Scordatelo. >>
E mentre Erik e Mary continuavano il loro lento lavoro con gli stampini, la mora pensò a farsi venire in mente un'idea migliore e... molto più rapida.
L'impasto di Eagle era enorme, per un minimo di cinquanta biscotti; il che voleva dire che non avrebbe terminato il lavoro subito, e che questo avrebbe comportato l'inevitabile sconfitta degli unicorni.
Ma non era ancora detta l'ultima. Non se applicava il suo infallibile piano.
<< Dylan. >>
<< Sissignora signora. >>
<< Aiutami. >>
Insieme srotolarono con cura i due impasti, uno color crema, l'altro al cioccolato, e dopo essersi fatti spazio la mora si munì di mattarello e cominciò a stirarli sulla superficie del tavolo. Non aveva potuto avere la spianatoia?
Bene, se l'era appena creata. Alla faccia di Erik e la sua presunzione da pasticciere provetto.
<< COSA?! >> esclamò quest'ultimo, e prima che potesse dire altro la fragorosa risata di Mark gli esplose nelle orecchie.
Si voltò a guardare l'amico, disteso sulla sedia a sganasciarsi dal ridere. << Ahhhh, ti sei fatto fregare Eriiiiik! >>
<< Sai Eagle >> s'intromise Esther, che aveva già iniziato ad arrotolare i due impasti con il goffo aiuto di un Dylan sporco di farina in ogni dove. Le sue piccole mani candide si muovevano esperte tra le righe di frolle, arricciandole tra loro a formare ipnotiche spirali pronte solo per essere inghiottite dalla bocca rovente del forno. E poi saggiate dal palato di Mark, la parte che più le interessava. << il mio impasto è molto più piccolo del tuo. Il che vuol dire che finirò prima di te. >>
Erik e Mary provarono a velocizzare il processo di formazione, bucherellando il grande impasto di tanti alberelli e cuoricini, ma il loro rapido movimento non riuscì affatto a superare quello di Esther, e per quel motivo la ragazza riuscì tranquillamente a batterli sul tempo, facendo loro mangiare la polvere.
Si fece aiutare da Dylan a mettere le venti girandole sulla teglia, regolò il forno e le chiuse dentro con uno scatto soddisfatto del polso.
Dopodiché diede il cinque a Keith e si voltò a guardare i rivali, con le braccia incrociate al petto.
Obbiettivo terminato, ma non fu tanto quello a farle sbocciare un sorriso vittorioso sulle labbra. Non come la risata cristallina di Mark, un'onda musicale in grado di distenderle i nervi e rilassarle le spalle. Sospirò soddisfatta e si sfilò il grembiule, che lasciò cadere sulla sedia.
Poteva chiedere meglio di così?

 
 
Mark scrocchiò le dita e stirò le spalle contro lo schienale della sedia quando Esther ed Erik, muniti di guanti ed espressione imperscrutabile sui visi di pietra, gli lasciarono sotto il lungo naso due enormi teglie provviste di un quantitativo di biscotti che di primo impatto sfuggì al suo calcolo mentale.
Li guardò come si guarda un reggiseno di cui non si sa slegare il ferretto, poi avvicinò cauto il viso e li contemplò un po' più da vicino. Annuì, deglutì, con gli occhi celesti che brillavano affamati - del resto era passato mezzogiorno -. A prima vista entrambe le teglie sembravano avere un aspetto delizioso, e non avrebbe saputo dire quale delle due fosse la migliore; quella di Esther e Dylan si presentava come un rettangolo cosparso di girandole dal doppio gusto, un vortice di crema e cioccolato che la sua lingua non vedeva l'ora di poter assaporare.
Quella di Erik e Mary, il doppio più grande, mostrava un set ben fornito di variegate formine all'ammaliante profumo di miele e cosparse di zucchero a velo.
Sbuffò dalle narici e si fermò ad ammirare con orgoglio i quattro cuochi, incluso il suo migliore amico. Se avesse potuto mandare tutto giù in un colpo solo, lo avrebbe fatto. << Volete uccidermi. >>
<< Solo se sbaglierai ad annunciare il vincitore. >> fece Esther, e gli regalò l'onore di un occhiolino quando lui la cercò con lo sguardo.
Si sorrisero, dopodiché Mark allungò la mano per avvicinare a sé la teglia delle girandole. Notò che alcune erano deformate, e non aveva bisogno di investigare per sapere che quelle erano opera di Keith. Come al solito, i disastri in cucina portavano sempre la sua discutibile firma. << Presentatemi i vostri biscotti. >>
Ci pensò Esther a farlo, per la fortuna del team, e fornì al - suo, così già le piaceva definirlo - Kruger un'ampia e dettagliata descrizione sui biscotti e sulla preparazione, senza perdersi in troppe frivolezze.
Successivamente fu il turno di Mary, e una volta terminata l'esposizione della ricetta, arrivò il tanto temuto momento dell'assaggio.
<< Sedetevi pure >> mormorò Mark, sventolando la mano sinistra in aria << mi mettete ansia. >>
E i presunti pasticcieri si sedettero, col cuore in gola.
Quando una delle venti girandole venne scelta per finire nella bocca di Kruger, Esther ebbe un sussulto e istintivamente stritolò il tessuto dei jeans di Dylan, facendolo sobbalzare.
<< Sono perfette >> iniziò il biondo. << se non per alcune che sono un vero disastro. Vero Keith? >>
<< Sgamato. >> si limitò a dire l'altro, ma oltre le spesse lenti degli occhiali le iridi gnocciola traboccavano di ottimismo. Non avrebbero perso quella sfida, si erano impegnati e se l'erano cavata alla grande. Lui soprattutto, che non aveva mai toccato della farina in vita sua; era davvero orgoglioso delle sue prestazioni.
Mark si portò la girandola alla bocca e diede un primo, morbido morso, affondando i denti nell'impasto tenero che, friabile, liberò alcune briciole color crema sulla teglia. Esther sognò di essere quel maledetto biscotto mentre batteva gli occhi per scacciare l'incalzante nervosismo.
Non le importava tanto di vincere, ora.
L'unica cosa di cui le fregava in quel momento era avere un giudizio positivo sulla sua cucina, da parte del ragazzo che amava. Sperò con tutto il cuore che i suoi biscotti fossero in grado di passare il test, e si accorse di respirare appena quando lui mandò giù il boccone.
<< Mmmmm >> bofonchiò Mark, e subito ne divorò un altro po'. << This is so goooood, damn. I love it. >>
Il sorriso emozionato che si formò sulle labbra di Esther fu tale che tutti se ne accorsero, ma nessuno disse nulla.
Sospirò contenta mentre Mark finiva la girandola affamato e passava ai biscottini al miele di Eagle e Mary.
Ecco, per lei era come aver vinto. Non le serviva nient'altro.
<< Per quanto riguarda il lavoro degli unicorni... >>
<< Delle aquile. >> corresse Erik.
<< Delle aquile, sì - giusto -, noto delle formine fatte di fretta, ma la maggior parte dei biscotti sono venuti bene. Lo zucchero a velo dona loro un aspetto molto natalizio. Gli unicorni non hanno badato a questo dettaglio. >>
Esther e Dylan si guardarono sorpresi; wow, Mark ce la stava mettendo tutta per sembrare un vero intenditore di dolci, sembrava che nulla potesse sfuggire al suo sguardo da falco.
Kruger scelse un biscotto  forma di fiore e lo portò alla bocca. Rimuginò diverso tempo sul sapore, dopodiché inghiottì. << Il miele si sente, ma lo zucchero a velo lo minimizza un po' troppo. >>
Erik incrociò le braccia al petto, un po' confuso. Eppure doveva aver messo la quantità giusta. << Altro? >>
<< Per il resto direi che sono buonissimi! Uhm... >> Mark sospirò. Fu come trovarsi all'improvviso davanti ad un bivio, incapace di scegliere in quale delle due vie proseguire il tragitto. Da una parte c'erano Erik e Mary, con la loro cura per il dettaglio, dall'altra Dylan ed Esther, che si erano concentrati più sul sapore.
Non sapeva davvero decidersi, e fu dura stabilire un vincitore. Quando arrivò alla conclusione di averci pensato abbastanza, chiamò a se il silenzio. << Bene, riassumendo... >>
Dylan sollevò gli occhi al cielo. << Vai al sodo Kruger, non siamo in un programma televisivo. >>
<< Bene, volevo creare un po' di suspance, ma... come volete. Allora! >> Mark si schiarì la voce e finse di aprire una busta immaginaria, contenente il nome della squadra che si sarebbe aggiudicata il primo posto del podio. << Il vincitore della sfida è... >>
<< E'? >>
<< Dai muoviti, tra poco mi piscio addosso! >>
<< Le aquile di zucchero. >>
All'udire il nome del loro team, Erik e Mary scattarono dalla sedia gridando e saltando come conigli impazziti. Dylan scoppiò in un grande applauso, ammettendo la propria sconfitta, ed Esther si limitò a sorridere con un cenno del capo. Era meravigliata da come Mark si fosse tenuto imparziale nel decretare il vincitore; avrebbe potuto far guadagnare a lei il primo posto, visto ciò che c'era stato e ciò che ora li teneva silenziosamente legati insieme, eppure aveva scelto di appellarsi solo alla neutralità, senza fare nessun tipo di preferenza.
Fu una caratteristica che gli ammirò molto, la capacità di non lasciarsi influenzare dai sentimenti non era da tutti.
Lei non ci sarebbe riuscita, probabilmente. Avrebbe votato sempre e solo per lui. Persa com'era nel flusso di quei pensieri, non si accorse che Mark le si era avvicinato con una girandola tra le mani, mentre gli altri facevano festa ingozzandosi di alberi di Natale. << Est! >>
<< Oh, Mark! >> balbettò lei, e si portò una ciocca di capelli dietro l'orecchio, nervosa di ritrovarselo così vicino dopo un giornata in cui nemmeno avevano avuto il tempo di salutarsi in modo decente. O di parlare di quel bacio. La sua pelle rosea profumava di bagnoschiuma, era bellissimo, e la voglia di rifinire in quell'auto salì alle stelle mentre lo osservava con la coda dell'occhio.
<< Sei stata davvero in gamba, ci tenevo a dirtelo. Per esserti ritrovata in squadra con uno come Dylan, direi che hai vinto tu. Alla stra grande. >>
<< Lo so, lo so tesoro, sono straordinaria. >>
<< Ero pronto a ricordartelo, nel caso te ne fossi dimenticata, ma a quanto vedo non ce n'è bisogno. >>
<< Dovrebbe essercene? >>
Mark le sorrise affettuoso e spezzò in due il biscotto. << Affatto. >>
Quindi, dopo un attimo di indugio, gliene offrì una parte. Esther afferrò la sua metà e se la portò alla bocca per assaggiarla. Era davvero buona, nonostante l'impasto fosse stato lavorato un po' prematuramente per motivi di tempo.
<< Mangiamole insieme, ti va? >>
Arrossì, e quando lo guardò si rese conto di avere gli occhi che brillavano d'amore, le mani calde che non desideravavano altro che passare avide tra quei capelli biondi, e giocarci, e poterli accarezzare per ore.

 
<< Certo, Mark. Certo che mi va. >>  
 

__________________________
nda
ve lo avevo detto che sarebbe stato attaccato. ;D.
voi non potete nemmeno immaginare quanto io abbia sudato, faticato, imprecato per scrivere questo capitolo. Oltre al fatto che all'improvviso pare mi fossi ricordata di star tracciando, prima di tutto, un romantico COMICO – spero di avervi fatto ridere un pochinooo –, le ricette ho dovuto cercarle su internet e per rendere verosimile la faccenda, riportare almeno il cinquanta per cento dei passaggi. E rendere la preparazione un inferno, nel quale Esther ed Erik potessero zampillare nell'odio mentre si contendevano la spianatoia, e le avances di Kruger, perso a giocare a Candy Crush. Succede una cosa simile nella vecchia Disaster, quando Silvia e Suzette fanno a gara a chi cucina la miglior aragosta, ma qui non c'è la sanità mentale di Erik in gioco, ed è un rimando voluto che ho scelto di fare per mostrare anche come sono cambiate le cose.
Il fatto che Mark abbia fatto vincere Erik è voluto; non mi sembra il genere di ragazzo che si lascia influenzare dal giudizio finale soltanto perché è innamorato, pfff, a ventitré anni poi. Al contrario, si mantiene lucido e sceglie il vincitore senza secondi fini. Però va lo stesso da Esther alla fine, e si spezzano una girandolina da condividere.
Perché si amanooo
nulla, con questo aggiornamento si chiude il circolo di luglio. Per agosto dovrei concluderla.
DOVREI.
Dipende tutto dalla mia voglia.
Salutiii

Lila

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Capitolo 28
*** Everyone deserves a christmas gift ***


Chapter twentyseven.

Everyone deserves a christmas gift.

 
Dopo aver pranzato con i biscotti al miele e le girandole alla panna e il cacao, Mark sorseggiò l'ultima stilla di caffé caldo rimasta dentro la tazza di ceramica bianca e si alzò dalla sedia per recuperare i bigliettini con le idee su “come passare una meravigliosa vigilia di Natale senza uccidersi”. << Abbiamo tutto il pomeriggio da spendere insieme. >> scosse il sacchetto con un sorriso. << Ripeschiamo? >>
<< Dai. >> assentì Dylan, battendo una mano contro il legno del tavolo che della farina di qualche ora prima ne aveva fatto soltanto un lontano ricordo. << Sono curioso di sapere come andrà a finire questa giornata. >>
Mark infilò la mano nel sacchetto e dopo aver miscelato ne estrasse uno accartocciato alla quasi perfezione. Ci mise diversi secondi ad aprirlo, per poi leggerlo ad alta voce di modo che tutti potessero sentire. << Scambio di regali. >> annuì divertito, e mentre si chiedeva di chi fosse quell'idea, lanciò via il sacchetto per sbarazzarsene.
<< Ottima proposta! >> esclamò Esther sorridente. << ora che ci sono i saldi, quale giorno migliore per comprare i regali? Di chi è stata l'idea? >>
Erik alzò timido la mano.
Mark si rigirò il bigliettino tra le mani con aria concentrata. In effetti, con tutto quello che era successo negli ultimi giorni, nessuno di loro aveva avuto modo di pensare a fare i regali. Eppure domani sarebbe stato Natale; rimaneva solo la vigilia per uscire e correre disperati verso il Mall più grande ed economico di Los Angeles. Meglio approfittare della calma e dedicarsi allo shopping sfrenato. << Ti va di spiegarci la tua idea più nel dettaglio? >> domandò, e si mise a giocare con la tazza che portava le tracce del suo dna su tutto il bordo.
<< Pensavo... riutilizzando i bigliettini, ognuno estrae dal sacchetto un nome. Colui che è stato estratto diventa automaticamente la persona a cui fare il regalo. >>
<< Va benissimo. >> soggiunse Mark con voce greve. << Adoro fare regali. >>
<< Stipendio da poliziotto e come vantarsen-- e le parole morirono nella gola di Dylan quando il gomito di Erik gli si schiantò contro le costole, facendolo ululare di dolore. << Almeno noi guadagnamo soldi facendo qualcosa di utile alla società, Keith. >>
<< Perché io non sono utile alla società? >>
<< Vuoi la triste verità, Keith? Non lo sei mai stato. >>
<< Parla Eagle. Un metro e un cazzo e ha il coraggio--
E la conversazione terminò con una seconda gomitata, talmente forte che a Dylan gli si spense la frase proprio sulla punta della lingua.
I cinque ragazzi così fecero un altro sorteggio, e il risultato finale di tanta ansia fu che ad Erik, purtroppo o per fortuna uscì Dylan, a Mary uscì Erik - ironia della sorte -, a Dylan Mary, ad Esther Mark e a Mark Esther.
I due si guardarono sconvolti, e la mora ne approfittò per venirgli incontro e scuotergli il braccio con fare amichevole. << Mi raccomando, o sei un uomo morto. >>
<< Mi raccomando tu! Non mi sembra di averti mai parlato dei miei gusti personali. Sai, sono cambiati molto in dieci anni. >>
Esther arricciò il naso. Ok, quello era un problema da risolvere con una bella, avvincente chiacchierata insieme a Dylan.
<< Come ci dividiamo con le macchine? Sono solo due. >>
Erik alzò di nuovo la mano. << Io direi di mantenere i gruppi di prima. >>
<< Ma siamo dispari. Mark lo lasciamo a piedi? >>
<< Sì, lo lasciamo a piedi. >>
A quel commento ironico di Dylan, Mark fece un sorriso calmo alla serial killer che ha alle spalle infiniti pluri-omicidi. << Disse colui che non sa stare senza di me. >>
<< Anzi. >> continuò imperterrito Keith, incapace di tenere a freno la lingua. << Lo facciamo montare sul cavallo. Che ne dite? >>
Ma Mark non se la sarebbe presa con lui, non quel giorno. Non in un momento in cui si stava divertendo con i suoi amici, e tutto sembrava starsi riaggiustando con una buona dose di collante. << Va bene, la metti così? La prossima volta ti costringo a venire con me a New York. >>
Quell'intimidazione bastò per far gemere Dylan di puro orrore. << Per carità no! La neve no, no no, oddio. >>
<< Sorteggiamo per stabilire con chi andrà Mark, allora? >>
<< Sorteggiamo, sì. >>
Mark si cinse le mani e attese il verdetto finale mentre quelle di Eagle sprofondavano con ansia nel sacchetto. Era curioso di sapere con chi sarebbe finito in auto, ma la voglia di stare con Esther un altro po' batteva quell'istinto mille a zero. La voglia di poterle passeggiare accanto come l'ultima volta che erano usciti, e magari farsi raccontare qualche aneddoto interessante sulla sua vita. E stringerle le mano. Prendere in giro Dylan e la sua mania per i pantaloni leopardati. E farsi trascinare ovunque mentre lei spariva in una manciata di vestiti e l'attimo dopo li scartava tutti, disgustata dai suoi stessi gusti. La cercò con lo sguardo, e quando la vide distoglierlo, capì che anche la mora voleva condividere quel momento solo con lui.
La sorte quel giorno però non girava dalla sua parte.
Quando Erik annunciò che Mark sarebbe dovuto andare con lui e Mary si alzò con un sopracciglio sollevato e un sorriso beffardo stampato in viso.
Non ci avrebbe mai scommesso, mai.


 
Los Angeles quel giorno aveva deciso di regalare un pizzico di inverno a tutti gli abitanti. Se quella mattina l'aria si era soltanto rinfrescata, nel corso del pomeriggio i gradi erano andati abbassandosi mostruosamente, ed erano pochi coloro che avevano scelto di rimanere  a maniche corte. Il vento spirava tra gli grattacieli del Downtown, sorvolando le strade, sibilando tra le palme che frustavano l'aria come a volerle dare un po' di controllo, invano. Un clima autunnale, che aveva costretto Mark a infilare la testa bionda in una felpa blu che nemmeno ricordava di aver portato. Parcheggiò l'auto nel primo buco libero che gli si presentò davanti, fregandolo a Dylan - che gli suonò in reazione -, poi scese e aspettò che Erik e Mary lo imitassero. Chiuse l'auto e strinse le chiavi, serrandole tra le mani. Con quel vento, girare per la città non avrebbe giovato alla gola di nessuno.
Per quello alla fine si era deciso di andare al Mall. Non era uno tra i più grandi del bel capoluogo californiano, ma possedeva una marea di negozi di marca e poteva vantare un set di decorazioni natalizie davvero niente male. Nell'osservare l'immenso albero di Natale che brillava oltre la grande vetrata “fulcro” della struttura, non si accorse di Esther.
<< Dylan guida... >>
<< … come un pazzo. >> la guardò e le sorrise. << I know. >>
<< Mi dispiace che tu non sia finito con... >> Esther si addentò il labbro inferiore prima di lasciarsi scappare un “me” forse troppo esplicito. << noi. >> e si voltò a cercare Dylan, che si stava rifacendo la coda ai capelli biondi.
<< Guardala dal lato positivo; così non hai più possibilità di spiarmi mentre pago il tuo regalo alla cassa. >>
<< Ti sei salvato, Kruger! >>
<< Mark, non si fraternizza col nemico! >>
<< W-wha--
Erik afferrò Mark per un braccio e lo spinse verso il suo spazio con finto fare geloso, sostenendo lo sguardo divertito della mora. << Scusa Esther, ma 'sto qui fa parte del nostro team, e le aquile hanno fretta. >> e detto ciò, congedò i due rivali con il suo solito saluto da pilota in carriera e cominciò a trotterellare verso la suggestiva entrata del Mall, trascinandosi con non poca grinta il metro e ottantasei di Mark e la massa da nuotatrice di Mary.
Dylan sbuffò e si posò le mani sui fianchi, il vento che gli scuoteva i lunghi capelli e il grigio delle nuvole che gli brillava opaco nelle spesse lenti degli occhiali. << Bene. Vamonos, unicorns. >>


 

Il Mall era immenso, proprio come Esther se lo era immaginato. Non aveva che un piano, eppure il lungo e ampio corridoio non sembrava avere fine, mentre alzava le punte dei piedi alla ricerca di qualche marca familiare che non sfociasse nella solita roba americana di dubbio gusto. Le decorazioni di Natale si intrecciavano come serpenti tra le insegne luminose che brillavano sulle teste della gente, le gambe snelle dei manichini e sulle casse.
Ogni cosa sapeva di Natale, e quando riconobbe “All I want for Christmas” di Mariah Carey, la mente corse al bacio. E si sciolse, in mezzo ad un vociferare troppo veloce perché potesse anche solo prestarci attenzione.
L'albero gigante che lei e Dylan si erano lasciati alle spalle sembrava il leader di quell'estroso ammasso di decorazioni, vestito di luci dorate e fiocchi color sangue. Non c'era più nessun dubbio che agli americani piacesse da morire quel periodo dell'anno. << Dylan >> esordì, e fu felice di trovarselo accanto a guardare meravigliato il fasto che lo circondava. In mezzo a tutto quel caos di gente, perdersi risultava fin troppo facile. << da dove iniziamo? >>
<< Da Mark, così ci togliamo subito la noia. Che dici? >>
Esther pensò che non avrebbero potuto iniziare nel modo migliore, e iniziò a cercare qualcosa che la colpisse. C'era davvero il mondo lì dentro. Gioielli, vestiti, scarpe. Ma il mondo non significava Mark, e per questo subito si appellò al suo migliore amico, perso a fissare un paio di mocassini color rosa sbiadito. << Dylan, ho bisogno di te. >>
<< Chissà perché, mi aspettavo questa domanda. >> Keith le venne vicino con un sorriso largo impresso nel volto squadrato. Prima o poi si sarebbe dovuta sdebitare anche con lui, in modo serio. L'aveva aiutata tantissimo in quelle due settimane, dando prova di essere un ragazzo altruista e in gamba. Si era rivelato il fantastico Dylan Keith di una volta, ed era felice di averlo come, se non amico, almeno conoscente fidato.
<< Cosa vuoi sapere? >> le chiese, le mani in tasca mentre un gruppetto di ragazze poco distante non smetteva di staccargli gli occhi di dosso. Esther si chiese se lo facevano anche con Mark.
Il che con ogni probabilità non era un dubbio, ripensò, considerando la sua bellezza. Ma una certezza. Se ci riusciva Dylan, perché non ci sarebbe dovuto riuscire lui?
<< Quanto è stretta la sua vita? >>
<< Cos--
<< Oppure quanto misura il suooooo... >>
<< No no, no! Dy-Dylan! >>
Dylan scoppiò a ridere nel vederla in difficoltà. << Immagino tu voglia scoprirlo da sola. Dico bene? >>
<< S-se ti sentisse Mark...! >>
<< Allora lo ammetti, eh? >>
Esher non rispose, gli occhi ridotti a due fessure divertite più scure di una notte senza stelle. Dylan aveva ragione. Ma non glielo disse, per non dargli la soddisfazione di averci preso giusto. << Lo ammetto, sì, va bene. Parlando di cose più ehm, consone... >> esordì, ritornando sui suoi passi. << non so cosa regalargli! Non conosco i suoi gusti, non so cosa gli potrebbe esattamente piacere. Cioè, li conosco, ma ti parlo di dieci anni fa. Quindi, che ne dici di darmi qualche suggerimento mentre passeggiamo? >>
<< Why not! >> esclamò Dylan, e cominciarono a muoversi in mezzo alla folla, costeggiando le vetrine su cui l'enorme scritta “SALES” sfoggiava i suoi colori fluo a caccia di avidi compratori. << Beh, Mark non è il genere di ragazzo a cui fa piacere ricevere vestiti o accessori. Si salva l'orologio, ma mi sembra esagerato per il livello di relazione che avete. >>
<< Concordo. >>
<< Quando sarete sposati potrai prendergliene quanti vorrai, non ti preoccupare. >>
<< Lo terrò a mente. >>
<< Gli piace molto leggere, ma non credo abbia il tempo per farlo ora che lavora ad orari improponibili. >>
Esther annuì, mentre il suo cervello registrava quelle informazioni come se fossero la cosa più importante della sua vita. E forse lo erano davvero. Così le dicevano i battiti del cuore mentre Dylan continuava a sciorinarle quei dettagli di cui sentì di non poter più fare a meno. Probabilmente erano stupidate, cose da niente... eppure erano frammenti di vita del ragazzo che le piaceva.
Erano fondamentali. Erano una parte di lui.
<< Di profumi ne ha anche troppi. Ha anche le fasce per i capelli, ma non le usa. >>
<< Davvero? >>
<< Ho una foto nel cellulare, da quando lo ha scoperto si rifiuta di portarle. Perché non ci fermiamo a bere un caffé mentre lo umiliamo insieme? >>
<< Continui con la lista? >>
<< Lo vuoi fare il regalo a Mark, sì o no? >>
Esther annuì contenta e trotterellò verso il primo bar che trovò dinanzi allo sguardo, piena di rinnovata energia. << E che ne dici di un donut? >>
<< Dico che dopo questa, sei la ragazza perfetta per Mark. >> ammise Dylan, e dentro di se sperava e sapeva che, per il suo migliore amico, le sofferenze erano appena arrivate con fatica al lieto fine.


 
Mark, le dita calde allacciate sotto l'enorme tasca ventrale della felpa, allungò un po' il collo per osservare l'indumento che Erik aveva scelto per Dylan e prepararsi a dare un giudizio soggettivo al riguardo. Si trattava di un maglione verde scuro, le lunghe maniche trapassate da righe rosse e bianche come quelle dei bastoni di zucchero. Al centro, un pinguino rosa sbiadito sfoggiava in grande stile le sue nuove mutande leopardate.
Dopo averlo saggiato con le mani e aver controllato che la taglia fosse la XL, lo depositò di nuovo tra mani abbronzate di Erik.
<< E' perfetto. >> fu l'unica cosa che si limitò a dire, perché non c'erano parole per descrivere tanto egocentrismo in un maglione di Natale che a Los Angeles nemmeno si portava, ma che Dylan avrebbe sicuramente trovato lo stesso il modo di sfoggiare. A costo di far abbassare la temperatura, sì. << Gli piacerà. Lo adorerà. Impazzirà e urlerà e griderà, e lo porterà per una settimana di fila. >>
Erik scoppiò a ridere, mentre Mary si portava le mani davanti alle labbra nello scoprire le stupende reazioni emotive di Keith. E quanto gli sarebbe mancato una volta tornata a New York, ma quello faceva troppo male perché fosse in grado di crederci, ancora.
<< Quello che speravo di sentire! >>
Mark si immaginò Dylan che per il troppo entusiasmo buttava giù un vaso con una manata delle sue. << Molto speranzoso, sì. >> disse, poi si rivolse a Mary. << Come facciamo per il regalo di Erik? Ci appartiamo solo io e te, non so... >>
Moore parve rifletterci su un momento. << Mmm. E' che non vorrei che poi ci smarriamo... >>
<< Andate se volete. Questo negozio è immenso! Penso che sceglierò qualcosa anche per Bobby e Aurelia. >> e Silvia, avrebbe voluto aggiungere Erik, la voce piena d'amore. Magari, diamine. Si addentò la lingua per tenere a freno il rimorso.
Magari poterle regalare ancora un cappello di lana del suo colore preferito, un biglietto per il cinema, un mazzo di rose, farci l'amore. E intanto che la pensava, un altro Natale senza di lei volava verso il passato, più schifoso della merda stessa. Quando avrebbe trovato la forza per dimenticare, il grande Erik Eagle? Non lo sapeva.
Mai.
<< Non ti perdere. >> gli sussurrò Mark all'orecchio, per poi guidare Mary verso l'uscita. Una volta fuori, la ragazza lo osservò prendere un respiro. << il periodo dei saldi è sempre così, negli States. Lo stress ti sale fino alla gola. Anyway >> Kruger le sorrise gentile. Non aveva molti legami con quella ragazza, anzi, era sicuro di non starle simpatico nemmeno a pagarla, ma era nella sua natura essere cordiale con la gente - almeno provarci -. L'avrebbe aiutata a scegliere il regalo per Erik, tenendo conto di ciò che era successo tra loro e tutto il resto. << Avevi in mente qualcosa, Mary? >>
Mary fece spallucce e incrociò le braccia, gli occhi grigi persi a fissare il viavai che le scorreva accanto con la debole forza di un ruscello. << Vorrei non dovergli fare nessun regalo. >> sbottò, ed era così. Non sarebbe mai riuscita a perdonarlo, e anche se i primi segni di un passo avanti avevano cominciato a farsi strada dentro di lei, dopo il discorso avuto con lui, fargli un regalo era una cosa che... non trovava giusta.
<< Immagino. >> Mark fissò gli occhi color tiffany su un'insegna del gelato. << Però potresti far finta di niente, almeno per Natale. Conosco Erik, non penso che meriti tutta questa chiusura. Soffre perché non ha la ragazza che ama. Ascoltami. >>
Mary finalmente si decise a guardarlo. Ora capiva Esther quando la sentiva sclerare sugli occhi di quel ragazzo; erano davvero belli, avevano un qualcosa che li rendeva unici, introvabili. Non erano ne blu, ne azzurri ne verdi. Una miscela di tutto, sfumature libere che gli fluttuavano intorno all'iride cobalto.
Era uno sguardo che trasmetteva sicurezza, fiducia.
Magari Erik avesse potuto avere lo stesso impatto visivo, forse perdonarlo sarebbe stato un po' più facile.
<< Quello che ha fatto è inaccettabile, me ne rendo conto anche io. E so che è difficile per te farti andare giù una cosa del genere, perché si tratta del tuo corpo. Ma si tratta anche di Erik. Erik... è disperato, ma credimi quando ti dico che ti voleva e ti vuole bene. La cosa finirà domani, in ogni caso. >>
Mary accavallò i sopraccigli. << In che senso? >>
<< Nel senso che sono riuscito a mettermi in contatto con Silvia e a convincerla a venire. E domani lei verrà davvero. Per Erik. >>
<< Davvero? >>
Gli occhi di Mark furono percorsi da un bagliore che aveva del segreto. << Vorrei mantenessi questa informazione per te. Vorrei che tu... gli dessi tregua, ora che sai. Perché non sarà facile per lui. Si sta scavando la fossa da solo e credimi che soffre anche per te. >>
<< Sì Mark. >> Mary annuì, e per la prima volta fu come se un peso le si fosse sbrogliato dal cuore. Era come diceva Dylan, e questa volta a confermarglielo non era più solo lui, ma anche Kruger.
E Silvia. Soprattutto lei. Perché una ragazza intelligente, sveglia e dolce del suo calibro sarebbe dovuta tornare a prendersi uno come Erik? Perché farsi i chilometri in aereo, solamente per uno stupido senza cervello che usava le ragazze per svuotarsi di uno stupido rancore?
Perché non era vero. Ecco perché.
Perché se una come Silvia aveva deciso di prendere l'iniziativa di raggiungerlo, allora voleva dire solo una cosa. Che Erik era in gamba, era onesto, leale, sincero, che non valeva le pena perderlo.
Che Erik era speciale.
Per lei, i suoi amici e persino Esther.
E che c'era solo da andare avanti.


 
Esther osservò le lunghe dita di Dylan digitare un rapido messaggio in inglese alla madre di Mark, curiosa.
Alla fine erano saltati alla conclusione che lì non avrebbero trovato nulla di interessante per il loro biondino, perché non c'era niente in grado di renderlo davvero felice quanto una cosa fatta col cuore, e la mora della Tripla C il cuore lo voleva usare tutto, fino a svuotarlo. Tuttavia, tra un donut e l'altro, Dylan le aveva suggerito una cosa che non apparteneva a quel centro commerciale, ma di cui lei avrebbe potuto ugualmente sfruttarne alcuni strumenti.
Rimaneva da aspettare la risposta di Hanagrace, che le avrebbe permesso di poter premere start a quell'idea che più i minuti passavano, più le ardeva di metterla in pratica.
<< Di un po', come fai ad avere il numero della mamma di Mark? >> chiese, facendo attenzione a non travolgere un bambino che senza pensare le era quasi venuto addosso.
<< Ad Hana serve sapere qualche notizia in più di Mark, ogni tanto, sai come sono fatte le mamme. E sai come è fatto Mark. Il suo massimo di parole è dodici. Non si spreca proprio. >> 
Esther sorrise a quell'ultima frase; allora non era l'unica che si stancava a scrivere messaggi troppo lunghi! Buono a sapersi, aveva cominciato a sentirsi cattiva nel rispettare un limite ben ristretto di parole. All'improvviso il cellulare di Dylan lampeggiò di viola, segno che gli era arrivata una notifica.
<< E' Hanagrace! Giusto in tempo! Cavolo, è un fulmine quella donna, mi chiedo perché Mark sia nato così lento. >>
<< Fammi vedere! >> Greenland si sporse per contemplare ciò che Hana aveva loro fornito come spunto, e mugolò compiaciuta quando vide il risultato soddisfacente scorrerle davanti agli occhi. Corsero a terminare il progetto e una volta concluso e assicurato in mano agli esperti, Keith si disse che era ora di dedicare tutte le sue attenzioni a quello di Mary. Gli bastò pronunciarne il nome per sorridere dolce, ed Esther capì che il ragazzo era interessato all'amica, con tutti i sensi, e forse anche qualcosa di più.
<< Grazie per avermi aiutata, Keith, non ci sarei mai saltata fuori senza di te! >>
<< Figurati bella. Allora domani aspettiamo la chiamata e veniamo a prendere il regalino per Kruger. >>
<< Certo! Posso darti qualche idea per quello di Mary? >>
<< Tranquilla >> le rispose il re delle triplette, e gli occhi nocciola brillarono sotto le lenti blu degli occhiali. << Non ho bisogno di suggerimenti per sapere cosa prenderle. >>


 
Mary aveva scelto una sciarpa, per Erik. Rossa, di lana, vellutata e morbida al tatto, economica e che non costasse troppo.
Non era stato Mark a suggerirle il regalo, ci era andata d'istinto; non appena l'aveva visto la mente le aveva suggerito un flebile “deve essere suo”. Aveva pensato a qualcosa che potesse portargli calore nelle fredde notti newyorkesi, che potesse avvilupparlo e proteggerlo non solo dal gelo, ma anche dal male.
Una sorta di abbraccio. Una sorta di segno di resa. E quella sciarpa faceva proprio al caso suo.
La pagò e si fece mettere una coccarda blu sul lucido sacchetto in cui la commessa aveva deciso di impacchettargliela, poi raggiunse Kruger a passo svelto. A quanto pareva, il ragazzo nel mentre si era occupato di prendere il regalo ad Esther. Sembrava contento, da come faceva dondolare la busta tra le dita rilassate, e gli sorrise nel venirgli incontro. Adesso le sembrava meno antipatico, meno stronzo. Era la magia del Natale oppure era lei, che improvvisamente aveva cominciato a sentirsi leggermente meglio? << E' fatta. >> gli disse.
Mark fece spallucce e si sistemò la felpa blu. << E' fatta anche per me. >>
<< Torniamo da Erik? >>
<< Torniamo da Erik! >>
Si avviarono, e Mary non si rese conto di tenere stretta quella sciarpa fino a quando le nocche non presero a sbiancarle come un cadavere esangue, i polpastrelli a cederle per lo sforzo. Sospirò e la infilò nella borsa per nasconderla agli occhi di Eagle, che smise di guardarla.
I loro occhi si incontrarono per un momento, e nelle profonde iridi nere del ragazzo Mary lesse solo una cosa. Una soltanto, eppure bastò, bastò davvero a farle sentire il cuore più leggero.
“Grazie.”

 
___________________________________
nda
occhei sono in estremo ritardo, lo so, lo so, il fatto è che con il debito in matematica ci si stanca di più e si trova meno tempo per stare al pc. Anyway, I'm back, ma con una triste notizia – cioè no è abbastanza normalein realtà, forse pure ovvia –; penso che riprenderò a pubblicare da settembre, precisamente dopo il 6. Questo perché agosto mi serve per ripassare, studiare, finire le robe che devo finire e soprattutto rilassarmi, ovvero non avere nessuna scaletta di cose da fare che non riguardino la ferrea e simpaticissima matematica :D comunque la storia è finita, praticamente, per cui oltre settembre non dovrebbe andare.
Parliamo del capitolo! Tutte le descrizioni che avete trovato riguardo il Mall (i centri commerciali americani) sono veritiere. Questo novembre sono stata negli USA – mi piace vantarmene posso?, sì, grazzzzzie. (?) –, ho avuto modo di guardarmi un po' intorno, e, anche se troppo in anticipo, era già tutto decorato in stile natalizio. Quindi alberi galattici, lucine, Mariah Carey, appunto. E poi vbb, i mall sono giganti, roba che se esci da un'altra parte non trovi più la macchina :D – hanno tipo come settemilanovecento uscite (?) –. Ma non è questo il problema dei nostri eroi, che hanno più ansia per i regali. Meno male che c'è super Dylan ad aiutare Esther.
L'ho detto che Dylan era UTILE.
Che ve ne pare di questo chappy? Nel prossimo sapremo che regalo riceveranno i nostri caVi bad boys (?), ma voi dovrete aspettare settembre.
Io invece lo so già.  
AHAHAH.


ps: il titolo fa più riferimento ad Erik, visto la poca fiducia che Mary ancora prova nei suoi confronti. Però a Natale si è tutti più buoni e soprattutto quando Mark ti ordina gentilmente di comprare un regalo per il suo amicoè ovvio che intende che LO DEVI FARE. :D
 

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Capitolo 29
*** Merry shitty Christmas ***


Chapter twentyeight.
 
Merry shitty Christmas
 
 
La sera della Vigilia la passarono a terminare tutti i bigliettini restanti, tra biscotti al miele, girandole al cacao e lattine di Coca Cola sparse ovunque in giro per la casa. Il terzo pezzo di carta ad essere stato estratto risultò quello di Mark, e dopo averlo letto tutti si precipitarono a fare una videochiamata al loro buon vecchio Bobby. Si fecero raccontare del viaggio di nozze, della luna di miele, e si fecero mostrare l'esotico paesaggio di Cuba attraverso qualche foto mossa perché sì, in ventisei anni di vita, Shearer ancora non aveva imparato la presa a fuoco. La partecipazione di Aurelia aiutò i ragazzi a comprendere meglio la misteriosa incognita che gravava su di lei, e tutti furono dell'idea che si trattasse di una spacca culi di professione; erano contenti di vedere Bobby così felice.
Così realizzato, con i capelli argentei, un enorme succhiotto sul collo e la fronte ancora più abbronzata di quando era partito. La sua vita aveva appena spiccato il volo, e, Mark ne era sicuro, presto anche lui, Dylan ed Erik lo avrebbero raggiunto lassù.
Presto sarebbero stati tutti felici.
Spettava al venticinque di dicembre chiarire quel punto interrogativo e trasformarlo in un bel punto fermo.
L'ultimo bigliettino rimasto fu quello di Mary, e la sua proposta di fare un albero di Natale costrinse Kruger a muovere il didietro e ribaltare il garage alla ricerca dell'albero e di qualche decorazione. “Per fortuna che non lo devo anche smontare” si era detto mentre le mani erano corse a stringere le luci colorate per passarle ai compagni. “Ci penserà mia mamma quando me ne andrò”.
Sì, in sostanza si rese conto di non essere mai cambiato, mentre Esther rideva e Dylan faceva palleggiare una pallina bordeaux sul ginocchio tonico avviluppato in un paio di jeans neri. Di essere rimasto ancora quel ragazzino pigro che si alzava dal divano solo per andare agli allenamenti di calcio, e cazzo, si era detto sorridendo.
Quanto gli era mancato sentirsi così bene.


 
 
Ma adesso, venticinque dicembre, ore 8:17 del mattino, Mark non si sentiva affatto bene. Tantomeno pigro. Gli sembrava di aver dormito troppo, o forse troppo poco; di aver appena dato il via ad una corsa folle contro un tempo che non aveva affatto voglia di aspettarlo. I jeans gli graffiarono le cosce quando ci balzò nervosamente dentro, per poi far tintinnare la cintura nel momento in cui chiuse la cerniera con un gesto meccanico del polso. Un errore e avrebbe potuto far saltare in aria tutto, il Natale, gli Stati Uniti e, cosa più importante, l' incontro in aeroporto. Quello che forse avrebbe potuto far tornare in vita Erik, e cambiargli completamente l'esistenza.
In bene o in male, restava da scoprirlo, e tutto dipendeva da lui.
Infilò i piedi nel suo fedele paio di Converse e, dopo essere atleticamente entrato nel collo stretto di una maglia nera a maniche corte, scese di sotto. Ventidue gradi, quel giorno.
Mica male, eppure all'improvviso sentì una fitta di nostalgia per la neve newyorkese.
Esther, Dylan, Erik e Mary erano svegli e stavano parlando animatamente del tipico Natale in famiglia. Non disse buongiorno, non fece gli auguri, corse in cucina, si scolò un bicchiere di latte in un colpo di gola e si preparò psicologicamente per migliorare un po' la vita ad uno dei suoi amici più grandi ed importanti.
<< Ehi Mark! >> salutò Keith, giocando con la fruttiera posta al centro del tavolo. E già che c'era si prese anche una mela. << Educato as always. >>
<< Sono in ritardo. >>
<< Ritardo per cosa? >>
La domanda di Erik fu volutamente ignorata, e il castano non insistette. Esther si alzò e raggiunse Kruger a passo svelto. << E'... >>
Lui annuì. << Sì. E' arrivata. O meglio, sta arrivando. ... buon Natale Est. >>
Si guardarono e si scambiarono un veloce bacio a stampo, poi rimasero a distanza ravvicinata, i respiri mescolati in un unico fiato. Si erano appena ribaciati. Ed era avvenuto tutto con una naturalezza tale da lasciarli sconvolti a fissarsi. Si scrutarono per un attimo, inebriati da come il tiffany di lui, riuscì ancora una volta a mescolarsi perfettamente nel nero di lei.
<< Vorrei essere lì prima che l'aereo atterri >> continuò Mark, interrompendo il contatto << ma non credo che riuscirò a fare in tempo se non mi muovo. L'aeroporto non è a due passi. Non mi piace far aspettare la gente solo perché questa mattina ho mandato a fanculo la sveglia un paio di volte. >>
Esther ridacchiò, e l'americano le sorrise di ricambio. Era così carina di mattino, così vicina a lui che gli sarebbe bastato allungare un po' il naso per affondarlo in quella cortina di boccoli color malva. E gli sarebbe piaciuto farlo, fermarsi e tenerla un po' tra le braccia, ma il tempo gli stava scivolando dalle dita. << Vieni con me? >> le propose per rimediare, e lei gli fece segno di sì col pollice.
Tuttavia non ebbe nemmeno il tempo di appoggiare la mano alla maniglia che Dylan gridò all'improvviso, il cellulare acceso tra le mani lunghe. << Wait, Esther! >> esclamò, e scaraventò la sedia all'indietro con un colpo portentoso dei ginocchi. << La ragazza ha chiamato! >>
<< Ha... ha chiamato? >>
<< Yeahand she told me that's ready! >>
“E' pronto cosa?” si chiese Mark, tentando di decifrare il senso di quella conversazione. E senza trovarlo, ovviamente.
Dylan trotterellò verso di loro e gettò la mela nel cestino, con tanto di canestro e applausi da parte di Eagle. << Dovremmo andare a prenderlo. Now. >>
Esther cominciò a giocherellare col labbro inferiore, stringendolo e muovendolo tra le dita in attesa che il suo cervello prendesse una decisione veloce. Se andava con Mark, le possibilità di potersi chiarire una volta per tutte si allargavano all'infinito. E anche le possibilità di ribaciarsi.
Ma se andava con Dylan, avrebbe potuto osservare il risultato finito e assicurarsi che il regalo di Kruger fosse uscito perfetto come aveva sperato.
Così alla fine scelse di andare insieme a Keith, e quando Mark reagì con un mezzo sussulto sorpreso, la mora lo congedò con un gesto di scusa, stringendogli le mani. Gli disse che era una questione urgente che andava portata a termine entro quel giorno, e che la sua curiosità non poteva essere ancora soddisfatta, per quanto Kruger volesse sapere cosa, come, quando e anche perché.
Poi Dylan invitò Mary ed Erik a seguirli, salutò l'amico con un grande bacio volante e, dopo essersi fatto dare la chiave da Kruger, scappò in direzione di una delle due macchine. Partì sgommando sull'erba, senza nemmeno aspettare che il cancello finisse di aprirsi del tutto.
Mark batté gli occhi più volte, sconcertato. << What... >>
Era successo tutto così in fretta che per un momento gli era quasi parso di aver dimenticato cosa ci facesse lui lì, alle otto di mattina, addirittura vestito, quando avrebbe potuto tranquillamente dormire e godersi l'ultimo giorno di vacanza prima che il lavoro gli risucchiasse di nuovo l'esistenza. Il pensiero di dover tornare a vegliare sulle strade di New York e correre alla prima urgenza gli disse di sparire sotto le lenzuola, di lasciare Silvia a sbrigarsela da sé. Ma no, quello non era il momento adatto per soffermarsi a riflettere più di tanto sul suo mestiere e su quanto fosse stressante.
Salì in macchina e azionò il motore, frettoloso di arrivare a destinazione e porre fine a tutta quell'insensata tensione. L'abitacolo profumava di vaniglia, i finestrini risuonavano ancora del debole schiocco che avevano emesso le sue labbra nello staccarsi da quelle carnose di Esther. La prima cosa che si impose di fare fu quella di accendere l'aria condizionata per porre rimedio al calore mattutino di Los Angeles e le di gocce d'umidità sui finestrini.
Poi sorrise.
Sorrise come un coglione a cui hanno appena rivelato una brutta notizia, e si cinse il dorso del naso tra il pollice e l'indice. Si sentiva geloso, da quando in qua i programmi disorganizzati di Dylan avevano cominciato a rivelarsi più importanti dei suoi? Insomma perché Esther lo aveva baciato e poi era andata con lui senza nemmeno pensarci due volte? Era una cosa stupida, ma che lo fece indugiare sul volante più tempo del dovuto, nonostante non gli convenisse perdere più neanche un solo secondo. Si chiese se non dovesse iniziare a portare occhiali da sole e codini bassi anche lui, per fare colpo sull'amica e ingraziarsi un po' di tempo al suo fianco.
Se era il prezzo da pagare per piacerle, lo avrebbe fatto subito.


 
<< Eccoooo qui. >> Dylan afferrò il pacco regalo dalle mani magre della cassiera e lo depositò tra quelle di Esther, che subito lo saggiò per tastarne la concreta consistenza. Era duro, compatto, e soprattutto, era bellissimo. Perfetto per Mark. Ce l'avevano fatta, la missione era completata, e si sentì soddisfatta del lavoro portato a termine con successo; non le capitava di tenerci da tanto. Lo lasciò cadere in una bustina rosa e proseguirono per i negozi del Mall, alla ricerca di un tabaccaio in cui acquistare un bigliettino da compilare e allegare al pacchetto.
<< Mark will appreciate it a lot! >> La voce calda di Erik e il mugugno deciso di Dylan furono un ulteriore rinforzo alla sua convinzione che sì, Mark avrebbe davvero apprezzato questa volta, e che sì, lei ci aveva davvero messo tutto il cuore e l'impegno del mondo, in cambio di un suo possibile sorriso.


 
L'aeroporto di Los Angeles si poteva descrivere in due modi, quel giorno di Natale; affollato e accaldato, nonostante l'aria condizionata sparata a mille che ormai usciva persino dai muri. Giapponesi di ogni bidimensione e tridimensione continuavano a fare avanti e indietro dinanzi al viso concentrato di Mark, trascinandosi lungo il corridoio blu una scia di piccole valigie colorate e traballanti a causa del troppo peso. Due poliziotti muniti di distintivo in bella vista stavano facendo i controlli al flusso orientale che continuava a scorrere ininterrotto in quel punto dell'aeroporto, ma era evidente la loro voglia di tornare a casa e affidare la noia a qualcuno di competenza. In effetti, guardare i passaporti e poi riconsegnarli al destinatario non era certo una delle branche migliori della polizia.
Kruger sorrise quando uno dei due gli indirizzò un'occhiata complice, e si chiese come avesse fatto a riconoscere che anche lui fosse uno sbirretto alle prime armi come lui.
Sesto senso? O forse aveva già cominciato a mettere su lo sguardo da poliziotto mastica legge?
Si sollevò sulla punta dei piedi per guardarsi attorno e fare una rapida perlustrazione del luogo. Di Silvia nemmeno l'ombra, e si augurò di non essere arrivato troppo tardi.
Prima aveva provato a chiamarla diverse volte, ma la ragazza era risultata con la segreteria. Le aveva lasciato un messaggio, ma anche quello rimaneva ancora senza risposta.
Non sapendo che fare, aveva dunque controllato i tabelloni con gli arrivi, aveva cercato “Tokyo” e si era precipitato al gate.
In teoria era in orario, in pratica non ne era poi così tanto sicuro.
Due ragazze giapponesi lo riconobbero come ex capitano della Unicorno e gli fecero gli occhietti dolci, ma le ignorò di proposito, e si rifugiò dietro le spalle larghe di una signora. Ci rimase fino a quando non la vide, finalmente, infilata in una lunga sottana gialla e un paio di tennis verde bosco che con ogni probabilità avevano visto e vissuto tempi migliori.
E Mark che credeva di essere l'unico a non sapersi vestire. Le fece un cenno con la mano, ma scelse di venirle incontro per primo; la salvò dal flusso ininterrotto e la spostò dal mezzo trascinandola delicatamente per il gomito. << Hi, Silvia! >> esclamò, dopodiché si baciarono sulla guancia e si strinsero la mano.
<< Ciao Mark. >>
Kruger la guardò raccogliersi i capelli in una coda bassa. La lunga giacca di seta leggera le ricadeva sulle spalle magre come un peso troppo grande da sopportare, e le occhiaie sotto gli occhi lasciavano intendere i giorni di agonia che nelle ultime ore non le avevano dato nemmeno modo di riposarsi un po'. A Mark sembrò quasi di potersela immaginare, poter vivere quegli attimi dentro di sé.
Ore intere dinanzi alla valigia, indecisa se disperarsi oppure reggere e affrontare la cosa una volta per tutte.
<< Ti vedo provata. >> le disse, e le tolse lo zaino dalla spalla per aiutarla, caricandolo sulle sue. << Ti ringrazio di essere qui. >>
<< Ringrazio io te, di avermi chiamata. >>
Si spostarono dalla zona e, dopo aver recuperato il bagaglio dal nastro trasportatore, poterono sbracciarsi all'aria aperta.
Silvia si stiracchiò con un debole sorriso triste dipinto sulle labbra, assaporando l'aria calda di Los Angeles come se fosse un bacio di buongiorno. << Ti vedo in forma Mark! >>
<< Grazie. Ti va di andare a fare colazione? >>


 
<< Ragazzi, ma voi sapete dove è andato Mark? >>
Erik si grattò tra i capelli e attese che qualcuno di loro rispondesse alla sua domanda, ma nessuno seppe fornirgli una spiegazione logica sul perché quella mattina Mark era sfrecciato senza nemmeno fare gli auguri di buon Natale.
Non che gli importasse di una stupida festività, semplicemente, lo aveva visto nervoso. E quando Mark Kruger faceva le cose di fretta significava solo una cosa; celava un mistero.
Ma quale? Si concentrò sul bicchierone di caffé allungato che gli passò gentilmente Esther, annusandone l'aroma caldo.
C'era qualcosa di strano, nell'aria.
Il suo istinto di poliziotto gli disse di stare all'erta, e proprio mentre stava per attaccare la bocca abbronzata al bicchiere di carta color rame, due ragazze in tacco a spillo e code alte si aggregarono al tavolo in cui lui, Dylan, Esther e Mary si erano un momento fermati a tirare fiato. Ma non erano lì né per lui, né per Esther né per Mary.
Per Keith.
Dylan reagì con un sobbalzo delle spalle e un sorriso, ma Erik sapeva che dietro quel ghigno smagliante in realtà si nascondevano una miriade infinita di madonne.
Le solite amichette da letto, si disse tornando al caffé con fare circospetto.
Una delle due si fece avanti, la borsa rosa shocking che spiccava in mezzo al rosso e il verde del Natale. << Dylan! >>
Il ragazzo con gli occhiali posò il gomito sul tavolino. << Ehi, ragazze! Vi vedo okay! Come butta? >>
<< Abbastanza bene, non ci lamentiamo.  >>
<< Certo! >> la bionda del team socchiuse gli occhi castani. << Da quanto tempo non ci si vede, Keith. >>
Per la prima volta nella loro vita, Esther e Mary ebbero modo di vedere Dylan diventare rosso dai piedi alla testa. Faceva una strana impressione.
Chi erano quelle due?
La ragazza, fregandosene del resto dell'umanità, lo afferrò per il polso e lo attirò un po' a sé, gesto che non passò inosservato a Mary, la quale tuttavia fece finta di non aver visto. << E Mark? Come sta il nostro Marky? >>
Al soprannome “Marky” Esther sollevò il capo e fece tintinnare gli orecchini a cerchio che aveva deciso di sfoggiare in abbinamento allo smanicato bordeaux. Il cuore le saltò alla gola, le mani strinsero il bicchiere di caffé fino ad accartocciarlo. Marky? Mark Kruger?
Dylan passò da sorridente a serio, e fu come se avesse appena cominciato a frapporre tra lui e quel duo di strani esemplari un bel muro d'acciaio. Dovevano essere sue amiche, o forse qualcosa di più, a giudicare dalle frasi a doppio senso che continuavano a scambiarsi. << Sta bene. >> si limitò a dire, liberandosi dalla stretta al polso.
Questa volta fu la mora a prendere parola. << Dovremmo incontrarci e divertirci tutti e quattro, una sera. Non sei d'accordo, Keith? You and ISarah and Marky. Sarà uno spasso. >>
<< Guarda, a me va bene tutto tesoro, ma non mettere in mezzo Mark. Grazie. >>
<< Non capisco perché devi sempre fare il portavoce di Mark. >> sbottò l'altra, acida. << Che ne sai se lui vuole o non vuole? Prima o poi ci stancheremo di invitarlo. Diglielo. >>
<< Quando arriverà quel giorno faremo festa. Quindi >> fece il sunto Dylan, mantenendo un tono di voce ironico e che non aveva nessuna voglia di fare sul serio. << o vi accontentate di me, oppure sloggiate. >>
La mora tentò un altro attacco. << Facciamo così Keith. >>
<< Facciamo che Mark lo tenete fuori da questi stupidi giochetti. >>
<< No. Dato che tu non hai le palle per chiedere a Mark di aggregarsi a noi, lasciami il suo numero. Sarò felice di scambiarci qualche parola. >>
<< Col cazzo che vi lascio il numero di Mark. Altro? >>
<< … >>
<< Perfect. >>
Erik ridacchiò e il caffé brontolò di bollicine in reazione. Ops. Il cinismo di Keith sapeva essere davvero bastardo, a volte. E la sua protezione per il migliore amico risultava ancora invalicabile come un tempo. Dylan si voltò verso di loro, soffermandosi più del dovuto sullo sguardo appena divertito di Mary, poi afferrò la sua brioche alla crema e i quattro caffé degli amici, facendo piazza pulita dell'intero tavolo. << Andiamo, ragazzi? Mi è passata la voglia di vivere. >>

 



_______________________________________
nda
eccomi! Gli esami di riparazione sono finiti proprio oggi, 6 settembre, -alla grande direi- e quindi si ritorna a pubblicare con stile, proprio come vi avevo promesso (?). Inauguriamo questo bel mese di nuovi inizi insieme a Kruger e la sua compagnia di esseri disagiati alle prese con un natale che sembra tutto meno che, ehm, natale - da qui il titolo -.  E mentre Dylan smerda le sue stesse amichette proteggendo l'amico da possibili stupri, quest'ultimo si da da fare per recuperare l'ultimo pezzo mancante del loro american dream; Silvia!
S I L V I A.
Dopo settecento capitoli in cui continuavo a ripetervi che sarebbe apparsa, beh, eccola. ECCOLA. E ora vediamo come andrà a finire con Erik, penso lo abbiate capito tutti, non ha proprio un caratterino semplice in questa storia. Ma smettiamo un attimo di parlare di questa grandiosa ship che ha fatto impazzire mezzo mondo per concentrarci sulla MIA, di ship. Mark ed Esther. Che EHI EHI, si sono baciati. Guardate che inizialmente non doveva andare così.
Ma poi ho modificato la parte, facendoli sbaciucchiare, perché in fondo sono una coppia in tutti i sensi. Devono solo parlare, chiarire le ultime cosette. E ho pensato che un bel limone quotidiano in mezzo a tutto quell'andirivieni di giapponesi (?) e corse contro il tempo potesse un attimo ricordare a Mark e ad Esther che loro si sono già riscelti, ripresi, e che adesso i problemi sono lontani dal loro protetto nucleo amoroso.
Ho finito ;*
aggiornerò presto, stay tuned e fatevi sentire, se volete!
Baciii

Lila

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Capitolo 30
*** End of line ***


Chapter twentynine.

End of Line

 
 
Mark aprì la porta di casa e fece entrare Silvia, poi strattonò dentro la sua enorme valigia e lasciò andare un sospiro di pace acquisita. La Woods era stata davvero coraggiosa a portarsi dietro tutta quella quantità infinita di vestiti, non smetteva di ripeterselo; nessuno le aveva garantito un posto tra di loro, e le probabilità che sarebbe dovuta tornare a casa equivalevano solo e soltanto a quelle che forse, in caso di vittoria, l'avrebbero vista di nuovo tra le braccia di Erik, direzione New York. Posò le chiavi sulla mensola e la osservò guardarsi intorno come un piccolo uccellino curioso, così bassa nella sua lunga gonna svasata.
Il donut al cioccolato sembrava averle dato un po' più di carica; o forse era l'odore di Erik spiattellato sul divano di casa, tra i cuscini e persino per terra ad averla rianimata all'improvviso.
<< Adoro l'arredamento di questa villa! >>
Mark seppe interpretare la frase. “Adoro il fatto che ci sia una traccia di Erik praticamente ovunque!” << La moquette è un po' scomoda. >> si limitò però a commentare, trattenendo per sé ciò che aveva appena elaborato.
Silvia si voltò verso di lui con un sorriso, gli occhi verdi che riflettevano con grazia la luce del sole. << E' di tua madre, vero Mark? >>
<< Yeah. >>
<< E' molto bella. Ha molto gusto. >>
<< Quando ero ragazzino era molto più bella di così. >> Mark si sforzò di non precipitare nei ricordi che possedevano ancora le mura di casa, perché quello non era il momento. << Come ti senti? Meglio? >>
<< Sì, grazie. >> la ragazza si prese del tempo per vagare un po' intorno, osservare le foto, tastare i muri e realizzare di essere arrivata nella patria del suo amore più grande. L'America. << Era da un po' che non tornavo negli Stati Uniti. >>
<< Due anni se non sbaglio. Giusto? >>
Il biondo si sedette sul divano e la invitò a prendere posto tra i cuscini che portavano l'odore del suo uomo, se ancora poteva definirsi tale. Silvia si lasciò cadere con un malcelato tremolio dei ginocchi. Quanto tempo era passato dall'ultima volta che  aveva potuto assaporare le sue labbra? Accarezzarlo, fare l'amore con lui? Erik gli mancava così tanto che istintivamente ne prese uno foderato di rosso, e se lo strinse forte al petto. << Come sta Erik? >> chiese, e si accorse che le si stava sfilando la voce dall'ansia. Chiese scusa, portandosi una mano dinanzi alle labbra. Maledizione, era come se all'improvviso il cuore le si fosse spaccato in due dal dolore. << Non lo sento da una vita. Troppo orgoglio rovina, pensavo di averlo... di averlo... >> non finì la frase, non ne ebbe la forza sufficiente, e si sentì ridicola in quel salotto troppo grande, seduta vicino ad un ragazzo che cercava solo di aiutare.
<< Sta bene >> le rispose lui, consapevole di quanto fosse difficile toccare l'argomento. << però immagino che tu voglia chiederglielo di persona. >>
<< Non lo vedo qui in giro... è dai suoi? >>
<< No, sta qui con me per le vacanze di natale. E' uscito un attimo con Dylan, ma dovrebbe tornare a momenti. >>
Silvia fece una pausa, per frenare i battiti del cuore, le pulsazioni delle vene, tutto. Presto lo avrebbe rivisto, quindi. E poi?
Il coraggio per spiegargli che non si era sentita pronta a cambiare paese, che però non lo aveva mai abbandonato, che si era sentita talmente vuota da aggrapparsi ogni notte alle lenzuola e stritolarle quando fuori pioveva... chi glielo avrebbe dato?
Ricordava ancora alla perfezione i suoi occhi neri come braci, ardenti come fuoco. Niente a vedere con quelli calmi di Mark Kruger.
Ancora non aveva imparato a sostenerli.
<< Mi puoi spiegare cosa è successo tra voi? >>
La domanda dell'americano fu l'esatto tipo di sollievo che solo un salvagente lanciato in mezzo all'oceano più blu e freddo della morte sa darti. Si avviluppò a quella sottile forma di aiuto, e non si accorse di star lacrimando fino a quando non lo lesse negli occhi turbati dell'ex capitano della Unicorno. Maledizione.
<< Non mi sentivo pronta a cambiare paese. A lasciare i miei amici. Lui ha pensato che fosse per... per un ragazzo. Per... >>
<< Per Mark Evans? >>
<< Sì, Mark Evans. Ma... ma non era affatto così, io... lui... lui si è arrabbiato e... e... >>
E basta. Non c'era modo per descrivere una lontananza di due anni, la voragine di vuoto che si era creata tra di loro, distruggendo tutto quello che insieme avevano creato. Si asciugò le gote umide con i bordi della giacca, le dita sudate e fredde nonostante i gradi.
Parlare di quel grosso fraintendimento la faceva sentire debole, meschina. Non voleva che Mark Kruger la vedesse così.
<< E ora invece? >> domandò lui dopo un attimo di silenzio. << Ora ti sentiresti pronta per venire a vivere qui con lui? >>
<< Non me lo chiederà mai più, tanto. >>
<< Erik ti ama. Non sottovalutarlo. >>
Silvia scosse la testa lentamente, come se pesasse più del normale. << Erik mi ama ma l'orgoglio lo ha sempre fregato. >>
Mark provò un abbozzo di sorriso per rassicurarla. << Don't worry. Erik ha bisogno di te. >>
La ragazza sentì la pelle accapponarsi a quelle parole pronunciate con tanta pacatezza, come se per lei il concetto di “pace” non fosse più possibile da ricreare. Quando guardò il biondo, si rese conto di non averlo mai visto tanto sicuro in vita sua.
<< Non dell'orgoglio. >>

 
<< Spiegami un attimo. Chi cavolo erano quelle due? >>
Dylan frenò con bruschezza, cambiò marcia ed Esther lasciò andare la cintura solo quando sentì il motore calmarsi sotto i piedi, riprendendo il suo normale equilibrio. Liberò un sospiro e gettò un'occhiata confusa a Keith.
<< Amiche mie. >>
Passarono sotto un ponte da quattro corsie che si srotolava per chilometri, prima di rallentare ad un incrocio e prendere la prima a destra. Los Angeles si stava rivelando un grande caos quella mattina di Natale, ma niente che potesse compararsi a quello che sentiva la mora in quel momento dentro. Un misto di nervoso, sorpresa e lieve stordimento. Provò a rilassarsi contro lo schienale, senza riuscirci.
Mark guidava meglio, cazzo. 
<< Tue o anche di Kruger? >>
<< Mie. Solo mie. >>
Fu sollevata di sapere quel dettaglio, e la morsa di infantile gelosia le si placò appena dentro il cuore. << E che volevano da Mark? >>
<< Fotterselo. Evidentemente pensano ancora che “Marky” sia come me. >> rispose Dylan, e gettò un'occhiata al finestrino per controllare un istante la coda sconnessa di auto proprio dietro la sua. << Ma Mark... Mark non ha tempo per queste cose. Mark-- scusa, Marky è un ragazzo serio. E inoltre... ancora non sanno che non abita più a Los Angeles. >>
Esther ridacchiò e gettò un'occhiata allo specchio retrovisore che Dylan aveva stritolato intorno ad un crocifisso. Mary stava guardando il paesaggio fuori dalla finestra, Erik messaggiava fittamente con quello che, a giudicare dal sorriso, pareva essere proprio Bobby.
Si chiese come sarebbe andato a finire tutto quel grumo di problemi, una volta atterrati a New York. Si sarebbe sciolto?
O ingigantito?
Un giorno ancora e lo avrebbe scoperto.
<< La cosa che mi da fastidio è che continuano a chiedere di Mark, perché sanno che io sono il suo migliore amico e probabilmente si aspettano che a me piaccia coinvolgerlo nelle mie cazzate. >> Dylan la riportò alla realtà, e quando Esther lo guardò, realizzò che gli sarebbe mancata quella testa bionda, quegli occhiali blu e quel modo di fare un po' gentile, un po' egoista, un po' tutto l'opposto di Mark. << Esther, mi prometti una cosa? >>
<< Io? Non sono brava a mantenere le promesse. >>
<< Riguarda Mark. Anzi, Marky. Da oggi sarà solo Marky. >>
Esther sorrise maliziosa. << Beh, in tal caso, posso provarci. Per Marky. >>
<< Proteggilo. Ti chiedo solo questo. >>
Quelle parole la colpirono nel profondo, e al posto di rispondere voltò il capo e si perse a guardare la fila di piazze e negozi sfilarle accanto. Cosa intendeva Keith per proteggere Mark? Difenderlo dalle tipe che lo volevano?
Amarlo?
Dylan sorrise e guardò la ragazza di sottecchi; non aveva poi così bisogno di sapere la risposta.
Sapeva di poter contare su di lei.

 
<< Silvia... >>
<< Non sono sicura di volerlo vedere. >>
Mark si umettò le labbra e si alzò dal divano per andare ad aprire la porta, quando Silvia gemette e lo afferrò per un polso, stritolandolo tra le dita bagnate di sudore.
Kruger si voltò sconcertato, ma quando incrociò i suoi occhi disperati cambiò espressione. << Silvia, dovete parlare! Sei qui per questo! >>
<< Mark, tu non puoi capire, io...! >> la vide farsi piccola dinanzi a lui, sparire tra i ciuffi della moquette, nascondersi sotto la coltre di capelli color bosco, come se la sola idea di rivedere Eagle un'altra volta la terrorizzasse. << Non me la sento! >>
<< Silvia... >>
<< Voglio tornare a casa... >>
<< Silvia, is just... Erik. >> cercò di calmarla, e la guardò con un sorriso incoraggiante, mentre il campanello suonava per la seconda volta. << Lui ti ama. Non farà niente per impedirti di parlargli. >>
Al terzo trillo, gli occhi della giovane cominciarono a riempirsi di lacrime. << Mark... >> mormorò, e cercò di tirarlo indietro, ma Kruger non si mosse di un millimetro.
<< Silvia, ti prego. Ti. Prego. Solo tu puoi far finire tutto questo. Lui non lo farà mai, e lo sai. >>
La voce confusa di Erik trapassò la porta, chiedendo se ci fosse qualcuno in casa, e Mark rispose che si stava mettendo i pantaloni, e che se gli dava un secondo sarebbe andato ad aprire subito. Poi tornò a guardare la ragazza, le labbra strette tra la ferrea tenuta dei denti. << Adesso io vado e apro. Promettimi che risolverai la situazione. >>
<< Mark, ti supplico... >> sussurrò Silvia, gli occhi lucidi, ma alla fine scelse di lasciargli andare il polso, e dopo un attimo di esitazione Mark si diresse a passo svelto verso la porta.
Strinse la maniglia, la vagliò e poi si voltò di nuovo a guardare la ragazza. << Stai tranquilla. >>
<< Ci proverò, Mark... >>
<< Bravissima. >>
E così aprì, e la luce del sole entrò prima di tutto il resto, investendo la moquette col suo candido bagliore. Il resto tuttavia fu buio, buio come un pugno ricevuto in faccia in un momento di dolore troppo forte da poter tollerare da svegli.
Buio in cui Silvia, abbassando il capo, riuscì a percepire due voci di donna, una squillante, l'altra profonda. Il sussulto vittorioso di Dylan, segno che sapeva, la voce troppo adulta di Mark spiegare ad Erik una serie di perché che in quel momento le sfuggivano.
Sollevò gli occhi, e tra i ciuffi della frangia lo intravide.
Arrossì, provò a calmarsi ma le mani cominciarono a tremarle. Erik.
Il suo Erik.
Che la guardava, le gote esangui, gli occhi corvini talmente sbarrati da uscirgli dalle orbite. << E... Erik... >> a fatica riuscì a pronunciare il suo nome, a fare un passo in avanti, mentre le mani non la smettevano di torturarsi l'orlo delle maniche. Le sembrava di star vivendo un sogno.
Lui era così bello, così sconfitto e frustrato che il primo impulso fu quello di corrergli incontro. Saltargli addosso, stringerlo e baciarlo, e dirgli di ricominciare.
Ma quando mosse un altro passo, Erik cambiò direzione dello sguardo, fissando gli occhi su Mark.
La sua espressione mutò da stupita ad astiosa, e quando Kruger se ne accorse, il sorriso sulle sue piccole labbra morì, sostituito da una smorfia d'angoscia. Esther, Dylan e Mary, spiaccicati contro il muro, non osarono proferir parola.
Nessuno osò.
Solo Mark fu tanto coraggioso da provare ad affrontare Eagle.
<< Kruger. Mark. >> sbottò Erik, gonfiando le spalle di rabbia. << Che cazzo... >> la voce gli morì in gola, perché Silvia lo stava guardando, Silvia, dopo due anni di nulla cosmico in cui i tentativi di dimenticarla l'avevano trasformato in un completo idiota schifoso. L'avevano spinto a trovare un'uscita nel sesso, a scappare, e l'immagine di se stesso qualche giorno prima, ubriaco da fare orrore, lo fece gemere.
Sentì di volersi strappare i capelli, gridare.
Si avventò su Mark, e quando Esther tentò di frapporsi in difesa del biondo, Mark le sbarrò la strada e Dylan la trascinò indietro.
<< Mark, io ti ammazzo!! Ti ammazzo hai capito?! >> latrò Erik, e lacrime di rabbia cominciarono a solcargli le gote mentre stringeva la presa intorno al collo della t-shirt del suo amico. << Io ti ammazzo!! >> scoppiò a piangere, dilatò le narici e lo schiantò contro il tavolo.
I fianchi di Mark quasi non lo sollevarono per l'impatto, ma l'americano non fece nulla per impedire al compagno quell'enorme eruzione di nervoso represso. Si limitò semplicemente  a tenergli i polsi, gli occhi tremolanti dal dispiacere, le labbra schiuse in attesa di trovare le parole per dire una qualsiasi cosa. Se l'era aspettato. Una reazione del genere era del tutto giustificata, il dolore che provava Eagle non poteva essere fermato da uno come lui.
Per quello c'era Silvia.
Quando Erik parlò, la voce gli uscì rauca e aggressiva dal profondo della gola, accendendogli lo sguardo d'odio. Sentiva dentro di se la folle voglia di afferrare i bordi di una strada, sollevarli e scatenare un terremoto, da quanto era infuriato. Confuso, stordito da quella visione tanto destabilizzante, e per un momento gli parve di vedere doppio. Di sentire il pavimento cedere, le ginocchia arrendersi al peso di un corpo che detestava. << Non posso credere tu l'abbia portata qui, Kruger, cristo! Mi sono sempre tenuto fuori dai tuoi problemi, ho sempre rispettato i tuoi spazi, anche quando c'era Melanie! Perché tu non rispetti i miei, Mark!! Perché l'hai portata qui, dimmelo...! >> ruotò il capo verso la ragazza, come ad accusarla, ma non ebbe nemmeno il tempo di tirare fiato che lei gli saltò addosso piangendo, e Mark fu libero di massaggiarsi il collo, arrossato in ogni angolo del volto.
<< Basta Erik! >> gridò Silvia, affogando tutta l'ansia tra le pieghe della camicia spiegazzata del castano. Le sembrava un sogno poterlo ristringere dopo tutto quel tempo.
Dopo tutto quello che c'era stato, e quello che aveva smesso di esserci.
Tuttavia Eagle se la scrollò di dosso, e dopo essersi riassettato i vestiti con fare scazzato si diresse verso la porta. << Siete pazzi. Io me ne torno a New York, non me ne frega più niente. >>
Silvia sentì la voragine di vuoto lacerarsi ad ogni suo passo, e il panico l'assalì.
No. Non l'avrebbe fatto andare via.
Non ancora, non dopo sette ore d'aereo passate a tormentarsi su come risolvere. Così quando il ragazzo aprì la porta, lo spinse all'aria aperta e si richiuse tutto alle spalle.
Quello era il suo momento.
Adesso o mai più.
<< Erik, Mark ha solo cercato di aiutarti... >> si fermò, sudata; il sole le bruciava la pelle, e si spogliò della giacchetta di flanella, che finì a terra sull'erbetta.
<< Mark...! >> Erik si voltò con uno scatto nevrotico del collo, schiumante di rabbia, ma per una frazione di secondo i suoi occhi parvero addolcirsi alla vista della sua donna affaticata per il caldo. Sentì l'impulso di stringerla e accarezzarla, portarle quanto meno un bicchier d'acqua. Ma l'orgoglio ostacolò quell'idea, distruggendola a suon di calci. Merda. << Non me ne frega un cazzo di Mark, ha chiuso con me, quel... ARGH! >>
<< E dove andresti ora?! Sentiamo! >>
<< A casa mia. >> cominciò a tremare. Tremare di rabbia, nervoso, reagire indignato all'impossibilità di trovare parole in grado di aiutarlo ad affrontare la situazione.
<< Con quale mezzo? >>
<< Taxi. >>
Il cuore di Silvia perse un battito. Non poteva andarsene davvero. No. No. << E i vestiti? Lasci tutto qui?! >>
<< Te li regalo, i vestiti. >>
<< Erik..! >> lanciò un gemito, ma non bastò a catturare la sua attenzione, a fermarlo. << E a me non pensi? Mi lasci qui?! >>
Erik scavalcò il cancello di casa e atterrò a piedi pari sull'asfalto del marciapiede. << Tornatene in Giappone. Da Mark Evans. Ci penserà lui a te. >>
Silvia si portò le mani tra i capelli per trattenere un grido selvaggio; sentirsi dire quelle parole tanto false e stupide le suscitò la voglia di tirargli uno schiaffo, ma anche due. Erik era davvero testardo. Cocciuto, orgoglioso, intrattabile. Ma non aveva intenzione di perdere quella guerra, a costo di seguirlo anche in bagno. Torturarlo e perseguitarlo fino a quando non avrebbe capito che lei, in Giappone, non ci voleva tornare. Che lei, per Mark Evans, non provava nulla. << Nessuno torna a Tokyo da nessuno. Erik, sono qui per restare. Che tu lo voglia o meno. >>
A quelle parole, Eagle si fermò, e una folata di vento bollente gli graffiò gli zigomi umidi di lacrime.
Restare. Silvia che restava in America? Per lui? Aggrottò i sopraccigli bruni, assottigliò le iridi e chiese delle spiegazioni.
<< Resto, Erik. >> la voce di lei si spezzò sotto il peso del suo sguardo frastornato. << Resto per te, perché ti amo, e sono stanca... stanca di tutto questo...! Vattene pure, non mi importa. Sono disposta ad inseguirti anche in Antartide, stupido, idiota, io... io ti amo! Non mi hai mai chiamata, mai cercata, nemmeno per sapere come stavo! Non ti sei mai preoccupato della nostra situazione al punto da metterti in gioco per noi, e nonostante questo, io ti ho aspettato! Ti ho aspettato davvero Erik! Ringrazia Kruger se mi ha fatto capire che ancora avevo una chance, perché tu sei un maledetto coglione e io...! >>
Le lacrime la travolsero all'improvviso, ancora, talmente forti da catturare l'attenzione di un passante anziano e del suo cane. L'animale abbaiò d'istinto, ed Erik quasi non gli pestò la coda nello scavalcare il cancello a ritroso.
Non per andarsene.
Ma per restare, questa volta.
Le venne incontro senza respirare, le prese il volto con foga, e dopo aver emesso un grugnito di disapprovazione se la portò alla bocca.
La divorò di baci. Lunghi, eterni baci tremanti, e poi la morse, le affondò le dita tra i capelli, la tenne a sé ascoltandola piangere.
<< Silvia... >>
Provò a prendere fiato, gli girava la testa, e si resse a lei mentre gli ansimi si mischiavano ai suoi fremiti emozionati. Da quanto tempo aveva smesso di incanalare aria? Non gli importava, la attirò a se e la stritolò, per l'ennesima volta.
E nel momento in cui la sentì ricambiare, capì che era tutto finito.
L'incubo, era finito. La sua vita orribile, era finita.
Si leccò le labbra arrossate di morsi, mentre prendeva coscienza del fatto che finalmente era libero.
Che finalmente si era fermato al capolinea, come un treno che dopo aver sferragliato un po' troppo torna alla base tutto intero.
Sano e salvo.


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nda
credo che questo sia uno dei capitoli più belli che io abbia mai scritto, ma non lo dico per vantarmi :'', tanto so di averli plasmati con l'acido borico(?), però a livello di contenuti è uno dei miei favoriti *-* Silvia ed Erik mi sono sempre piaciuti molto più Erik di Silvia ovvio ma shh. Essere riuscita a dar loro mezza storia(?) – sì raga MEZZA STORIA – è per me solo motivo di orgoglio e gioiah, insomma, sono l'amore insieme, nessun fan di Inazuma Eleven può negare ciò.
Considerato poi come ho voluto caratterizzare il nostro americano nano preferito - ammetterete che è nano -, cioè come un soggetto orgoglioso, pieno di sé e piuttosto provocatorio, non potevo farlo cedere subito, il che ha reso le cose molto più interessanti >.>. ma, se è vero che il true love alla fine trionfa sempre su questi aspetti della persona, allora forse ha imparato qualcosa pure lui in queste due settimane a L.A che ehyehyehy, stanno per finire EHYY! Esatto cari perché mancano esattamente 2/3 capitoli al termine, circa. E quindi nulla, vi lascio con questo aggiornamento perché domani devo partire per la Croazia :( ci risentiamo presto, molto presto!

 
Se anche tu, unicorno bielo, vuoi entrare nel team #proteggi-Marky-dalle-donne-arrapate, firma qui:
Esther
Dylan


Lila

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Capitolo 31
*** Distance could be destroyed ***


Chapter thirty.
 
Distance could be destroyed

 
Quando Erik e Silvia rientrarono in casa, un quarto d'ora più tardi, Mary si alzò dalla sedia e applaudì alla coppia, mentre Dylan ne accompagnava l'entusiasmo con una risata allegra.
<< Finalmente vi siete dati la decenza di farvi vivi! >>
Silvia si sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio, Erik si schiarì la voce. Erano ancora agitati, provati dalla tremenda discussione che li aveva visti protagonisti qualche attimo prima, ma sembravano un attimo più sereni.
Gli occhi grigi della Moore incrociarono le mani tenute salde dei due, e sorrise. Si sentiva stranamente felice per Erik. Nonostante il castano avesse combinato un disastro, dinanzi a tutto quell'amore e quella frustrazione non si era più sentita in grado di avercela con lui.
Silvia era stata in grado di dimostrarle che sì, lottare per Eagle era valsa eccome la pena.
E lui, d'altro canto, le aveva fatto vedere che sapeva essere molto più di un disagiante sciupa-femmine per placare la disperazione. Di questo gliene fu grata.
Glielo fece capire con lo sguardo, e quando lui comprese ricambiò il sorriso.
Non c'era altro da aggiungere, per quel che la riguardava. Le pagine scorrevano bianche verso il punto del non ritorno, la penna posata accanto al suo libro aspettava solo di poter essere impugnata. Era ora di riprendere in mano la propria vita; non avrebbe dimenticato, vero.
Avrebbe semplicemente chiuso entrambi gli occhi.
Mark sollevò lo sguardo dalla catasta di regali al centro del tavolo, le mani strette intorno ai polsi caldi. << Dobbiamo parlare, io e te. >>
<< Non ora. >> mormorò Erik, e lasciò la mano di Silvia per prendere posto. Aveva gli occhi arrossati, le gote ancora tremanti, ma dal modo in cui si muoveva sembrava aver riacquistato una nuova allegria. << Ne parliamo a casa. >>
<< A casa. >>
<< Perfect. >>
<< Mark. >>
E Mark lo fissò, lievemente scocciato.
<< Grazie. >>
Questa volta fu Esther a prendere la parola, sbattendo la mano contro il legno del tavolo. Lo fece con talmente tanta forza che Mark sobbalzò appena, suscitando le risatine di Dylan. << Eagle, prova ancora a toccare Kruger e ti giuro che diventerò il tuo incubo peggiore. >> poi si voltò verso Silvia, e la cascata di boccoli color prugna le scivolò verso un lato, mostrando a Kruger una buona porzione di collo scoperto che non lo lasciò indifferente. << Ah, e benvenuta tesoro. E' un piacere rivederti. >>
<< Anche io sono felice di riverderti, Esther. Ti trovo da dio. >>
<< Ed è così. Allora, verrai a New York con noi oppure no? >>
Silvia si accasciò tra le braccia ampie di Erik, respirando appena per l'emozione tesa che le scorreva nelle vene. Rispose il castano per lei. << Certo. >>
<< Che bello, avrò una compagna in più con cui andare a fare compere! >> esclamò Esther, dopodiché si riaccomodò sulla sedia, accanto a Mark. << Allora via quei musi lunghi! Scartiamo i regali? E' Natale! Ce lo siamo forse dimenticati? >> e afferrò il suo, su cui stava scritto in fretta e furia il suo nome. Riconobbe la scrittura, ricordò quando Mark le aveva lasciato il fogliettino col suo numero di cellulare, e sorrise nel sapere che aveva voluto identificare il pacchetto come suo. << Forza! >>
Gli altri la imitarono, e ognuno prese il proprio regalo, rigirandoselo tra le mani con aria curiosa.
Il tavolo ben presto si riempì di carta colorata, l'aria si impregò di gridolini esaltati, eppure Mark aveva come la sensazione che quello non era il giorno di Natale. Si sentiva strano, a disagio su quella sedia troppo scomoda, in attesa di capire quale fosse il suo pacco.
Vide Mary abbracciare Dylan, Erik avvolgersi la sciarpa al petto e poi avvolgere anche la sua Silvia, e si rese conto che quella vacanza non era stata una semplice rimpatriata tra amici, ma molto di più.
E che quello non era un semplice giorno di Natale.
Ma molto di più. Era come se tutti i pezzi di un enorme puzzle stessero tornando al loro posto, e probabilmente non era solo lui a pensarla così. A distrarlo da quella cortina di riflessioni ottimiste furono le mani di Esther, che gli coprirono dolcemente gli occhi.
Mark le annusò le mani curioso, azione istintiva che non seppe trattenere. Vaniglia.
<< Ehi! >>
<< Ciao >> esclamò lei, per poi baciarlo sulla guancia.
Kruger perse un battito mentre le basette si occupavano di mascherargli il rossore alle orecchie a sventola. Peggio dei bambini, maledizione. Ancora non riusciva a credere di aver trovato il coraggio di rubarle un bacio dalle labbra, lui, che a stento se la cavava con qualche spintarella da parte di Dylan.
<< e grazie per lo splendido regalo. Mi serviva proprio una fascia per i capelli! Sai non sopporto i cappellini di lana, mi danno prurito alla fronte ed è una cosa che odio. >>
Esther gli scivolò accanto e diede sfoggio della testa dai riflessi color mora, imballata in un'adorabile fascia di lana rosa con un fiocco al lato sinistro. Le stava bene, le stava d'incanto, e il biondo sollevò i pollici ad indicarle che era perfetta.
<< Apri il tuo, Mark. >> fece lei in risposta, e si allungò per prendergli il regalo.
Mark lo saggiò con mano esperta, mentre lo sguardo ingenuo si dipingeva di tutte le sfumature possibili e inimmaginabili del fattore “malizia”. << Che cos'è? >>
<< Aprilo e scoprilo. >>
<< Dai dai, dimmelo. >>
<< Dio, scordatelo! Apri quel cazzo di pacchetto. >>
Cominciò a strappare con estrema delicatezza la carta blu, come se avesse paura di romperne il contenuto celato al di sotto. Sentiva che si nascondeva qualcosa di bello, di fragile, solo per lui. Glielo aveva fatto Esther, e meritava di essere maneggiato con cura. Si liberò della carta – Greenland rubò la coccarda – e ciò che sollevò con entrambe le mani lo lasciò... sgranò le iridi.
Una foto.
Una foto rinchiusa all'interno di una cornice di legno, che mostrava lui, Dylan, Erik e Bobby abbracciati sotto una pioggia di coriandoli dai mille colori. Lui e i suoi migliori amici, lui e la sua famiglia.
Pensare al fatto che fossero ancora tutti e quattro uniti gli provocò un brivido alla spina dorsale che Esther notò con un sorrisetto soddisfatto, le dita impegnate a giocherellare con la coccarda. Con l'indice posato sul vetro della piccola cornice, Mark osservò le divise fradicie di sudore attaccate alla pelle, la sua fascia da Capitano mimetizzarsi con l'azzurro del cielo, i suoi occhi che brillavano vittoriosi, floridi d'orgoglio per la vittoria appena conseguita, e si sforzò di ricordare chi avessero sfidato quel giorno.
Si emozionò sul posto nel vedersi così piccolo e pieno di sogni, con quella frotta di biondi capelli scompigliati, e in reazione alla visione affondò la mano destra tra le ciocche della frangia ormai troppo lunga. Sembrava così ignaro di tutto quello che sarebbe successo dopo. Del trasloco, delle liti col padre, della lotta eterna per una libertà che era riuscito a trovare solo nella bocca di Esther, cristo. Era tutto così strano.
Tutto così bello.
Lasciò andare un sospiro di meraviglia e si voltò verso l'amica, esaltato. << Dove. L'hai. Trovata. >>
<< Ringrazia tua madre e i suoi tremila album su di te. >>
Grace. Avrebbe dovuto immaginarselo. La custode della sua meravigliosa prima adolescenza, quella fatta di calcio, di Dylan che cenava a casa sua, dell'aria calda di Los Angeles che soffiava sollevando la camicia a quadri.
Esther si portò una ciocca di capelli dietro l'orecchio, e Mark strinse forte la cornice, riconoscente. << E' bellissimo. Io... non lo dimenticherò. Thanks. >>
<< Scusami se questa mattina sono sparita con Dylan al posto di accompagnarti in aeroporto. Era per questa foto. Era importante che andassi a verificare di persona, metti che la tipa faceva un disastro?! >>
Kruger arrossì lievemente. E pensare che era stato pure geloso, che si era considerato messo da parte. << Questa va in camera, sul comodino. >> disse, e quando si alzò dalla sedia, diede un sonoro cinque alla mano lunga di Dylan, per ringraziarlo.
Non solo del regalo.
Semplicemente, per essere lì. Come tutti gli altri.
Insieme a lui.

 
 
Mark sfiorò l'increspatura della piscina con un dito, poi, dopo aver saggiato la temperatura, immerse tutta la mano. L'acqua gli sollevò i peli dorati delle braccia, gli rilassò le membra, gli rinfrescò il bollore del sangue; lasciò andare un sospiro di piacere mentre ascoltava in silenzio la dolcezza di quel contatto lavorare su tutto lui.
Disintossicarlo, quasi.
Era notte, forse le ventidue, o le ventitre. Mark non lo sapeva.
Sapeva solo che domani sarebbe dovuto tornare a New York, farsi altri quattromila chilometri a ritroso in uno scomodo sedile aereo. Eppure non aveva paura, non percepiva nessun sentore recalcitrante. Non questa volta. Avrebbe lasciato Los Angeles col sorriso, l'abbronzatura e la noia di dover tornare a maneggiare con le macchinette malandate del dipartimento di polizia.
Si sentiva pronto a fare marcia indietro, perché era curioso di sapere come avrebbe portato avanti la sua vita ora. Insomma, Melanie non c'era più, e con lei era morto pure il Mark schiavo, quello sottomesso e incapace di voler dare una strigliata alla sua vita.
Erano cambiate tante cose da quando era sbarcato in California.
Era cambiato tutto.
Spettava a lui portare avanti quella ventata di novità, e si sentiva pronto a mettere tutto se stesso per realizzare che sì, finalmente la sua vita poteva prendere il largo.
Era una riflessione a cui non aveva mai dedicato un pensiero. E poterlo fare lo fece sentire libero come un'aquila in volo, un cavallo selvaggio.
Fece per immergere anche l'altra mano, quando dei passi sull'erba lo distrassero dall'intento. Si voltò e sorrise, facendo brillare le iridi di un intenso tiffany.
Oh, eccola. La sua libertà.
<< Ehi. >>
<< Ehi! >>
Esther prese posto al suo fianco e sollevò il capo per poter ammirare le stelle. Era una notte silenziosa, buia e fitta, un filo dritto che ad ogni rumore si sfilacciava appena, si contorceva, si sollevava sotto il rombo delle auto in lontananza e il gracidio rilassante delle cicale.
<< Che ci fai ancora sveglia? >>
<< Non riesco a dormire. Ho l'ansia pre-viaggio. >>
Mark annuì. << Beh, non sei l'unica. Hai fatto le valigie? >>
<< Sì! >>
Assunse un'espressione sardonica, facendola arrossire. << Ci hai fatto stare tutto...? >>
<< C-certo che sì! >>
<< Come ci sei riuscita? >>
<< I poteri della donna, Kruger. >>
<< Domattina le pesiamo. >>
<< D'accordo. >> Esther strappò qualche ciuffo d'erba e se lo sparse sulle cosce lattee, come quando faceva sempre da bambina in attesa che la madre la venisse a prendere alle elementari e la portasse a ingozzarsi di cioccolata. Bei tempi, diamine.
Ora una cucchiaiata di quella, e si ritrovava con cento chili in più. << A che ora partiamo domani? >>
<< 14:00. >> Mark la osservò ricoprirsi d'erba. << Dylan viene con noi. >>
<< Ahhh, non sono sicura di voler tornare a New York! >> Esther si stiracchiò con veemenza, mostrando il petto prosperoso al cielo dello stesso nero dei suoi occhi. << Qui si sta così bene! >> poi gettò un'occhiata alla pelle baciata dal buio di Mark, prima di perdersi a fissare il pallore della sua con cipiglio irritato. Forse troppo. << Non ho preso nemmeno un po' di sole. Tu invece sei nero. >>
<< Io sono abbronzato naturale. >> fu la laconica risposta di Mark, che ne approfittò del momento di calma per immergere anche le gambe in quel paradiso terrestre a cui avrebbe dovuto – purtroppo - rinunciare.
<< E ti odio per questo. >>
<< Beh, Erik è un carbone in confronto a me. >>
<< Infatti odio pure lui. Anzi, lui soprattutto. >>
<< Allora ammettilo che forse un po' di bene mi vuoi, Est Coast. >>
Esther incrociò le braccia al petto e corrucciò le labbra. << Mark!! Questa è davvero pessima! >>
<< Sorry, volevo dire... W-Est coast. >>
<< MAAAAAARK, fai orrore! >>
Mark le fece il verso e la guardò con un sorriso divertito, e prima che Esther potesse attaccarlo con un'ondata d'erba degna della più furiosa delle amazzoni, fu lesto a schizzarle un po' d'acqua in faccia, aprendo e chiudendo le dita come le ali di una farfalla. << Est Coast, you can do more than this. >>
<< Smetti di parlare con quel tono perché ti prendo a tacconate in faccia. E soprattutto >> la mora si pulì il volto con un lembo della canotta bianca che usava come pigiama, fingendosi sdegnata. << smetti di chiamarmi. Est. Coast. >>
<< Okay, okay. Just kiddin. >>
Il silenzio voluto calò su di loro con la grazia di un lenzuolo, di una carezza materna, e con lui l'ilarità della mora. Esther sapeva che dovevano parlare di quello che c'era stato. Sapeva che domani sarebbe stata una giornata incasinata, stancante, e che molto probabilmente una volta arrivati lo avrebbe perso ancora di vista.
Lei a servire clienti, lui a salvare persone.
Mark sarebbe sparito in una coltre di neve e fumo, inghiottito dal viavai di Times Square, e tutto sarebbe tornato come prima. E lei non voleva.
Non dopo essersi resa conto di amarlo ancora, così forte, così tanto. Si portò il mento alle ginocchia e si perse ad ammirare l'acqua della piscina disegnarle strane curve celesti sulla pelle. Provava una sorta di insana paura all'idea di poterlo perdere così come lo aveva ritrovato.
Di smarrire l'odore del suo profumo, di non sentire più la sua voce calda e maschile premerle contro l'orecchio. Evitò di dirglielo, perché lo aveva già fatto quella sera in macchina, in attesa della cena. Perché quel bacio aveva già parlato, anche troppo.
<< Esther. >>
Sussultò nel sentirlo chiamarla, e si strinse le caviglie per l'ansia.
Mark si mosse appena vicino a lei, distendendo i muscoli intorpiditi dell'addome e delle braccia. << Dovremmo parlarne. Adesso che... c'è un po' di tempo. >>
<< Lo credo anche io. >> mormorò lei in risposta, eppure il modo in cui liberò quelle parole le fece male.
“Perché dopo non ce ne sarà più, vero Mark?”
Si guardarono, si specchiarono l'uno negli occhi dell'altra per attimi che parvero interminabili, dilatati da un tempo che si era disteso solo per loro. Mark avrebbe voluto rassicurarla. Riusciva a percepire la sua paura, il suo tormento come se fossero suoi, e non aveva dimenticato le lacrime che l'avevano scossa prima che il suo bacio avesse posto fine a quell'illogico dialogo febbrile di ansia.
Ma non trovava le parole per dirle che se tra loro si fosse messa in mezzo New York, avrebbe sorvolato tutti i grattacieli pur di raggiungerla e stringerla ancora, chiamarla di nuovo East Coast, o West.
Che l'amava e che la sua vita aspettava solo lei per partire.
<< Tranquilla >> si armò di coraggio e le sfiorò la spalla con le nocche, per tirarla su. << Ti prometto che quando torneremo a New York verrò al tuo bar--
<< Ristorante di lusso, prego. >>
<< Al... al tuo “ristorante di lusso” a darti il buongiorno, quando finirò il turno di mattina. >>
Esther sospirò docile, ancora scossa. << Vorrà dire che mi prenderò una pausa e ti aspetterò con due caffé filtro tra le mani. >>
<< Sarà così. >>
<< Me lo prometti? >>
Mark aggrottò i sopraccigli biondi e istintivamente si trascinò più vicino a lei, per poter sentire il suo profumo di donna, per poterla vedere meglio e rendersi conto di quanto fosse bella, ancora, a un passo dall'essere sua per un istante e magari per il resto della sua esistenza. << Mantengo sempre le promesse. >>
Ed era vero.
Persino Esther fu costretta a dargliela vinta.
Quando si voltò per guardarlo, si rese conto che le sue labbra erano pericolosamente vicine, ed ebbe un sobbalzo interno. Il suo respiro divenne affannoso, rise per scacciare l'imbarazzo ma gli occhi di Mark rimasero seri a guardarla.
A volerla.
<< Hai dei bellissimi occhi Mark. >>
<< Me lo dicono in tanti. >>
<< E in tante, immagino. >> portò una mano al suo mento cesellato, glabro, e lo accarezzò con l'esterno dell'indice. Era duro, teso, spinto come la corda di un arco pronta a caricare.
L'unica cosa che ne tradiva la posa statuaria, lo sguardo deciso.
Anche lui era nervoso per quella vicinanza.
<< Sarà diverso. >> Mark le afferrò la mano e gliela strinse con dolcezza, rilassando un po' i muscoli. Non l'avrebbe persa. Non questa volta.
Non ora, ora che era libero di scegliere, vivere, e di amarla e darle tutto se stesso. Distese il collo in avanti, socchiuse le iridi e la guardò sfumare appena oltre la fitta coltre di ciglia bionde.
E poi si sfiorarono con delicatezza, labbro superiore contro labbro inferiore, scambiandosi sospiri e baci fatti d'aria esitante. La mano di lei stretta ancora in quella fresca e umida di lui era l'unico contatto concreto tra loro, solido e forte nonostante il buio impedisse al mondo di poterlo vedere.
Esther si augurò potesse durare.
All'improvviso era come se non fosse più in grado di sentirsi sicura, su niente.
Provò a dire qualcosa, qualunque cosa, quando quattro mani di sua familiare conoscenza riuscirono a spingere Mark dritto spedito in piscina, e il contatto venne interrotto da un'immensa ondata di cloro e gelo, che la inzuppò da testa a piedi.
Accadde tutto così velocemente che a nulla valse gridare e ridere di spavento come una disagiata.
Si voltò e incontro gli occhi vividi di Mary e quel coglione di Erik; fu guerra. << Brutti luridi...! VOI. >>
Eagle scoppiò a ridere fragorosamente. Si vedeva che era felice.
Era pieno di vita, e gli occhi neri brillavano di gioia per aver finalmente potuto riavere indietro l'amore della sua vita – che evidentemente aveva scelto di tenersi fuori da certe cazzate, brava donna -. << Kruger sei una merda. >>
Mark emerse dall'acqua soffiando dalle labbra, i capelli biondi gravidi di un insolito castano sgocciolante e gli occhi oscurati per intero dalla frangia. Sembrava quasi irritato, ed Esther temette di vederlo gridare di rabbia con la stessa, banale facilità con cui era scivolato in acqua, distruggendo il loro piccolo momento intimo.
E invece Kruger non gridò, ne si arrabbiò. Greenland lo osservò togliersi la maglietta con uno scatto atletico delle braccia, guardò la sua pelle brillare sotto la luce fioca dei lampioni del viale, si perse a fissare la linea dei suoi muscoli contratti, e se l'attimo prima Erik le era accanto, l' attimo dopo Erik non c'era più, colpito e atterrato dall'indumento lanciato con forza sovrumana dal biondo.
<< Non farlo mai più. >> si limitò a dire quest'ultimo, per poi rientrare in casa con sfacciata arroganza.
Esther scoppiò a ridere mentre Erik sprofondava nel disagio e Mary lo umiliava del fatto che fosse debole, basso e persino stupido.
<< Come fa Silvia a sopportarti? >>
<< Infatti non si è nemmeno alzata dal letto quando le ho proposto di quasi ammazzare Mark. >>
<< Mai mettersi contro Mark! >> esclamò Esther, e alzò vittoriosa le mani al cielo stellato, quasi potesse accarezzarlo con la punta delle dita.
Mai mettersi contro Mark.
Doveva stare tranquilla. Calma.
Serena.
Perché se la distanza avesse anche solo provato a mettersi tra di loro, Mark, così com'era, l'avrebbe distrutta.


 
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nda
ok, avevo detto che avrei finito di pubblicare a settembre, ma siccome mancano due capitoli, e soprattutto, manca il tempo (?), credo che terminerò ad ottobre – e NON oltre, lo giuro. Come va? Io bene, è il mio ultimo anno di liceo quindi sono felicissima! Che dire di questo capitolo: è di transizione, indubbiamente, ma è comunque uno dei più importanti, in quanto finalmente tutti i drammi si ricongiungono e si sistemano. Erik smette di fare l'isterico e capisce di aver commesso un tragico errore ad aver seguito solo e soltanto il suo cieco orgoglio. Mark, vbb, Mark ormai è un pro (?), ha risolto la sua situazione e ora risolve le altre. Rimane solo un'ultima questione: maaa... Dylan e Mary? Eh vedrete vedrete.
Non ho altro da dire se non un grazie, se siete arrivati fino a qui senza morire, e un arrivederci, presto
xoxo

Lila

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Capitolo 32
*** Where's the good in goodbye ***


Chapter thirtyone.
 
Where's the good in goodbye?
 

Il giorno della partenza arrivò anche troppo in fretta per i gusti lenti e pigri di Esther. Quando si era svegliata, quella mattina, Mark si era come volatilizzato, lasciando il letto libero da lenzuola, coperte e federe. Aveva chiesto ad Erik dove diavolo fosse sparito, e il castano le aveva risposto che era andato a stare un po' da sua madre e sua sorella, per salutarle.
Dopo una spremuta d'arancia e un po' di biscotti per coprire il buco allo stomaco, quindi, si era fatta una doccia, si era vestita ed era andata ad aiutare Mary a chiudere la valigia colma dell'infinito e oltre.
Siccome la bastarda non aveva accennato a serrarsi nemmeno dopo mille schiaffi intimidatori, c'era voluto l'intervento di Erik, che con una tallonata alla “Unicorn” era riuscito a far combaciare i due poli della cerniera e anche a mitigare l'ansia della Moore. Dopodiché le avevano pesate, assicurandosi che i chili non sbordassero dal totale trasportabile in aereo, e seguendo l'esempio di Kruger si sbarazzarono delle lenzuola, depositandole vicino alla lavatrice.
Finito con i lavori domestici, Mark l'aveva chiamata per dirle che stava arrivando e che c'era un po' di traffico.
Era stata contenta di ricevere quella chiamata. Il fatto che lui, tra tanti numeri, avesse scelto di chiamare proprio lei voleva significare che tra loro si era instaurato un solido rapporto di fiducia.
E da quell'ultimo “ci vediamo” si era messa ad aspettarlo, le ginocchia premute contro il petto mentre Erik allacciava una fine collanina d'oro al collo esile e chiazzato di Silvia; nel notare i lievi pesti arrossati sorrise.
A quanto pare Eagle si era dato da fare per recuperare il tempo perso, ieri, ma del resto come contraddirlo? Sopportare una distanza così lunga non sarebbe potuta che sfociare in quel modo.
Erano carini insieme, il ciondolo le donava e le conferiva un aspetto dolce. Era felice per loro. Sembravano una sola melodia, in tutto ciò che facevano.
All'improvviso, a distrarla da quei pensieri infantili fu l'arrivo di Mark, che entrò in casa masticando un'enorme cicca rosa. Indossava dei jeans larghi e una camicia a quadri verdi arrotolata fino ai gomiti; era perfetto, l'aroma energico del mattino gli si era incollato alle spalle larghe e ai capelli, che gli ricadevano a ciocche disordinate sulla fronte. Si cercarono con lo sguardo, e quando si trovarono si sorrisero. << Mornin'. >>
<< Ciao Maaaark. >>
<< Mark! >> Erik gli venne incontro e gli diede una pacca amichevole sulla schiena. << Tutto bene? >>
<< Direi di sì. Più che bene! Grace vi saluta, e ah, chiede se ti è piaciuto il regalo, Est. >>
Esther sollevò i capelli ricci con un sorrisetto soddisfatto dipinto sul volto e mostrò al biondo due piccoli orecchini a perla che Hanagrace e Marge le avevano voluto regalare per Natale. << Dille che da quando li indosso non so più farne a meno! >>
<<  Glielo riferirò. Dylan sta per arrivare comunque. E' con Micha. I was thinking... >>
Mark si posò contro il bordo del tavolo e si guardò la punta delle scarpe. << Carichiamo le valigie in auto, andiamo a mangiare da qualche parte e poi partiamo. >>
<< Sì >> confermò Erik, il mento paffuto incastrato tra il pollice e l'indice. << ci conviene fare come dici. >>
<< Ma Mark, sono solo le undici! >>
<< Ma Esther, tu hai voglia di farti due ore di coda per l'aeroporto? >>
<< Oddio, ovvio che no. >> Esther sollevò un sopracciglio, colpita da quella sua dimenticanza. In effetti, non aveva quasi pensato al traffico delle ore di punta, e ora come ora perdere un volo avrebbe solo portato gravi conseguenze alla routine newyorkese di tutti quanti, lei inclusa.
Così, quando Dylan arrivò, col suo profumo di Hugo Boss e il suo forte accento californiano, fu presto fatto. Mary montò nella sua bmw insieme a Micha, mentre Mark, Esther, Erik e Silvia rimasero fedeli all'auto di Hanagrace.
Durante la marcia la mora si soffermò a guardare il paesaggio oltre lo specchio della finestra, riconoscendo tutti i luoghi che le era stato possibile visitare; l' I-hop, la strada per il campo da calcio, e quindi per la stazione ferroviaria, quella per i negozi in cui Melanie si era rivelata per la stronza che era.
Chissà come stava, che cosa faceva. Mark non era stato gentile con lei, non si era voltato nemmeno per errore mentre si era sbarazzato di tutto quel male. Istintivamente portò un occhio sul viso di lui, che guidava tranquillo ascoltando un po' la voce di Erik, un po' i rumori della strada, e lo trovò bellissimo; il fatto che sapesse atteggiarsi sia da brava persona che da cane infame, che avesse imparato a lottare e a non arrendersi, contro niente e nessuno, tantomeno se stesso , le piaceva da morire.
Si riscosse quando lui si rese conto di essere osservato, e riportò gli occhi sul paesaggio, facendolo ridere consapevole.
Melanie non doveva averlo lasciato sconvolto più di tanto, e si fissò in mente di indagare. Le interessava sapere come si sentiva Mark a riguardo, cosa ne pensava di lei ora che tutto era giunto allo stop.
Ma per quello c'era tempo.
C'era New York.


[ Annunciamo i gentili passeggeri che il volo Los Angeles - New York è in partenza. Si prega di raggiungere il gate numero quindici. ]
Mark estrasse il portafoglio dalla tasca dei jeans e controllò il biglietto senza un motivo apparente, poi sollevò gli occhi chiari e li adagiò piano sull'immensa vetrata che dava alla pista aerea, mentre l'altoparlante riproduceva l'avviso anche in spagnolo. Era arrivato il momento di partire, di tornare al traffico stressante di New York, alle interminabili notti di lavoro. Altre cinque ore e presto avrebbe potuto ricominciare da zero la sua vita, sistemarla secondo una nuova prospettiva che sì, non vedeva l'ora di assaporare.
Ciucciare come una caramella.
<< Ci salutiamo qui? >>
La voce nasale di Micha bastò a riportarlo con i piedi per terra, sul tappeto blu dell'aeroporto.
<< Ci salutiamo qui. >>
Eccola, la parte più difficile, quella in cui non era mai stato bravo e che aveva sempre temuto.
Gli addii. Eppure questa volta non si trattava di saluti sofferti, di lacrime, di separazioni eterne e soppresse dalla mano nera di un presente vacuo e senza futuro.
Questa volta era convinto che sarebbe tornato, a Los Angeles.
Questa volta c'era Esther con lui, e tutto faceva meno male.
Si avvicinò a Dylan e gli poggiò una mano sulla spalla, riconoscente. Quante cose gli aveva insegnato Keith in sole due settimane di caos? Ancora una volta lo aveva salvato dal disordine mentale, ma Mark era sicuro che sarebbe stata l'ultima della sua vita. Adesso tutto sembrava combaciare. Adesso poteva farcela da solo, e Dylan lo comprese, e gli sorrise come solo la tua perfetta, simmetrica metà sa fare.
<< Thanks, brother. >> mormorò Kruger.
<< Mark, non ringraziar--
<< No. Lo sai. Grazie. >>
Si abbracciarono forte da spaccarsi le ossa, e Mark rise. Era contento. Era contento di poterlo stringere consapevole di rivederlo, che la vita scorreva, andava, partiva, ritornava, e che lui finalmente era pronto a correre più veloce di lei.
<< Sta attento, non fare cazzate. >> sbottò Dylan, e gli arruffò i capelli biondi come era solito fare quando erano ragazzini, quando la voglia di farlo incazzare era troppo sexy perché potesse resisterle. << La prossima volta che torni ti voglio con Esther. >>
<< Sarà così. >>
<< Of course man. Sono stanco di stare dietro alle vostre paranoie. Ai vostri problemi. Cristo, sbattitel--
Mark gli tirò un' amichevole manata contro la spalla. << Try again. >>
<< Sbatt--
E gli altò addosso per farlo stare zitto, provocando le risate genuine di Mary. A sentirla, Dylan si liberò di Mark e iniziò a giocare col tessuto della maglietta attillata, nervoso.
Merda, ora sì che la distanza cominciava a fare male. Lo trafisse con la potenza di una lama di metallo, e prima che potesse rendersi conto di star soffrendo lei lo raggiunse a passo lento, gli occhi color perla velati di siffatta tristezza. Con Mary cosa avrebbe fatto? Era palese l'attrazione che aleggiava tra di loro, l'interesse reciproco.
Doverla far andare via in quel modo lo faceva sentire a disagio. Debole.
Quando lei fu abbastanza vicino per poterla guardare e rendersi conto di quanto fosse bella, Dylan fece una smorfia. Detestava le relazioni a distanza.
Anzi, detestava la distanza, gli aveva già recato troppo male. E no, lui non era come Mark, lui ancora non era riuscito a vincerla.
In quello, l'amico era stato molto più forte di lui.
<< I hate goodbyes. >> le confessò, sfuggendo al suo sguardo per ragioni che in quel momento gli sfuggivano. Perché non guardarla? Che gli prendeva?
Da quando davanti ad una donna gli veniva naturale tenere la coda tra le gambe?
<< Anche io. >>
Lei lo scrutò per un po', gli fissò il mento squadrato, i capelli biondi raccolti in una coda sbarazzina, e lasciò andare un sospiro liberatorio. Ripensò a tutti i momenti passati insieme, a come Dylan le aveva reso la sofferenza per se stessa molto meno amara di quanto fosse.
A quanto le piacesse, e lo volesse tutti i giorni al suo fianco, anche solo per andarci a correre.
<< Dylan >>
Cercò le sue mani lunghe, gliele afferrò.
<< Mi mancherai. Grazie... >>
<< Mary... >>
<< Dylan... >>
L'apparente espressione di Dylan si increspò appena sotto gli occhiali.
<< Promettimi che verrai a trovarmi. >>
<< Lo-l farò. >>
Gli occhi di Mary divennero lucidi nell'udire quella conferma pronunciata con siffatta devozione, affetto. E vedere le loro mani intrecciate, solide, unite, la costrinse a sopperire un gemito di sconforto. Gli carezzò le nocche bianche con un dito, mentre un pesante groppo di amarezza le si formava nella gola.
Cercò di scacciarlo, un brivido la percorse.
Si voltò prima che lui potesse vederla piangere e cominciò ad incamminarsi verso gli altri.
Quando si rigirò, pregando che Keith fosse scomparso, lui la stava ancora guardando, le gambe divaricate e ben piantate a terra.
Era così bello, così concreto, che Mary morì dentro nel realizzare che presto sarebbe diventato astratto.
Non lo avrebbe permesso.
Prese la rincorsa, gli saltò addosso e lui la prese al volo, incollando le labbra a quelle tremanti di lei. Le affondò le dita tra i capelli blu, la tenne salda mentre le mani della ragazza correvano a stringergli con affanno la maglietta per non farlo andare via. << Hai promesso, Dylan... >>
<< Sono un uomo di parola. >>
Si guardarono, il grigio perla si fuse col nocciola paglierino delle iridi di Dylan. Svegliarsi la mattina senza più poterle rivedere sarebbe stata dura.
Molto dura.
<< Molto più di Mark. >>
Risero, e lui la adagiò a terra con dolcezza, un velo di angoscia spruzzato sulla pelle opalescente. Il contatto col pavimento la fece sobbalzare; per un attimo le era sembrato di star volando, e forse era successo davvero, tra quelle braccia possenti che ora se ne stavano in attesa di qualunque cosa.
Eppure c'era un dettaglio, nel modo di fare dell'americano, che la stava confondendo. Forse era a causa dell'euforia lasciata dal bacio, o forse la consapevolezza che la distanza non era un'opinione.
Ma un fatto, un brutto, scocciante fatto.
<< Adesso vai. >>
<< Dylan... >>
<< Vai, dai. Ti chiamo quando arrivi. >>
Corse verso Erik e Silvia, senza voltarsi nemmeno per errore.

 
Quando lo fece, Dylan se n'era già andato.

 
<< Okay, Micha. >> Mark lanciò le chiavi dell'auto di Hanagrace al castano, che le prese al volo per puro miracolo divino.
<< Ti affido la macchina di mia madre. Portala a casa di mia sorella, right? >>
<< Sure. >> Michael gli fece l'occhiolino e si cacciò lo strumento tintinnante nella tasca. Poi assunse un'aria seria, dispiaciuta, che gli adombrò gli zigomi sporgenti. << Fa buon viaggio Mark. >> guardò tutti loro con malcelata sofferenza, prima di ritornare a fissare il biondo e sospirare all'idea che gli sarebbe mancato. Che quella vacanza era finita, che il gruppo si spezzava di nuovo. << Scrivici quando arrivi. Altrimenti Dylan piange. >>
<< Vi scriverò, tranquilli. >>
<< Bravo. Ciao Erik, ciao donne. Ci si sente, sì? >>
<< Ovvio! Alla prossima! >>
E anche Michael diede loro di spalle, scomparendo in mezzo al miscuglio di persone in attesa di potersi sedere sul sedile dell'aereo e tornare alla solita routine fatta di smog e corse lungo Times Square.
Mark sollevò le larghe spalle, smuovendo appena la camicia stazzonata. << Allora. Andiamo? >>

 
<< Ma guarda un po' le coincidenze, Kruger. >>
Mark smise di armeggiare con il sacchetto trasparente delle cuffie e si soffermò a scrutare il volto latteo di Esther. Era davvero carina quel giorno, la felpa color menta slavato le dava un tocco di leggerezza che nemmeno il più lieve dei trucchi sapeva regalare, e gli enormi orecchini a cerchio le carezzavano il collo nudo con grazia velata.
Una regina in tuta e scarpe da tennis, insomma.
Non capitava tutti i giorni di vederla in abiti tanto sobri, e sorrise nel notare quanto le stesse bene la coda di lato.
<< Sono capitata proprio vicino a te. >>
<< Spero che mi lascerai dormire, almeno. >>
Esther incrociò le braccia al petto con fare ampolloso. << Lo vedremo. >> così disse, prima di mettersi gli auricolari, avviare un film e isolarsi dal resto dei passeggeri per godersi appieno il suo – sempre secondo lei – Brad Pitt. Eppure Mark aveva come la strana sensazione che la cosa non sarebbe durata per più di quaranta minuti.
E ci vide giusto.
Dopo nemmeno un'ora di volo la guancia della ragazza gli si schiantò bruscamente contro la spalla, dimentica del film al piccolo televisore oppure del bicchiere di acqua lasciato sul tavolino traballante, incipriato dalle impronte rosse delle sue labbra.
Mark distolse lo sguardo dall'oblò e sorrise, coprendola col braccio per farla stare più comoda. Più protetta. Più vicina. << Ma che strano. Sapevo che saresti finita così. >> le disse, e le scostò un boccolo dal viso con fare affettuoso. << Sapevo che saremmo finiti così. >>
"Insieme, io e te. Liberi."
Non gli sembrava vero di averla lì, posata contro di sé, cotta e immobile in attesa di tornare a New York, al “bar sulla tredicesima” a sfornare pancakes caldi di piastra. Chi l'avrebbe mai detto che Esther Greenland si nascondesse proprio lì dentro? Se ci pensava gli veniva da ridere.
Se pensava a quando Erik glielo aveva detto, a come i suoi sospetti avevano trovato conferma nelle sue parole, a come la voglia di fare retromarcia e raggiungerla lo aveva divorato per minuti interi. Per notti intere, anzi.
Alla foga di trovare un momento libero per raggiungerla. Alla soddisfazione di averlo trovato.
Le si avvicinò e le annusò i capelli profumati, inebriandosi di quell'aroma che tanto lo faceva impazzire. Poi abbassò un po' il finestrino perché la luce smettesse di batterle sulle palpebre e affondò il naso tra i suoi ciuffi color porpora. Chiuse gli occhi.
Chiuse tutto.
Furono le cinque ore di sonno più dolci e rilassanti della sua vita.


 
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scusatemi. No, davvero, chiedo scusa, venia e pietà per il ritardo ABNORME con cui passo ad aggiornare questa storia. dovevo farlo ad ottobre, ma credetemi se vi dico che non ho avuto proprio tempo. Spero dunque di avantaggiarmi in questo carissimo novembre, perché di arrivare a Natale con le pugnette di Kruger proprio non ne ho voglia, e voi neanche, scommetto. Come state? Io bene. Sotterrata di compiti, irritata dal caldo – oh raga siamo a NOVEMBRE – ma sì, dai, non mi lamento. Se ci siete, fatemi un segno lasciando una recensione – o anche solo passando a dare una sbirciatina al capitolo, io non vi ho certo dimenticati
capitoletto di transizione, oserei deifnirlo, che vi prepara al GRAN FINALE della storia, ormai vicino vicino – praticamente the next one is the final one woo –. ora che anche Erik e Silvia si solo levati dalla minch—ehm, si sono ricongiunti, non rimane che risolvere il mistero di una coppia sola; la DylanMary. Vediamo che finale darete a sti due, sono proprio curiosa. Ve lo aspettavate il loro bacio? Non ricordo nemmeno se era in programma, sinceramente, però io li trovo odiosi insieme. Come sia possibile che io abbia scelto di dare una donna a Dylan, quando TUTTE LE DONNE sono sue... bah.
Anyway, il titolo è preso da una bellissima canzone dei “The Script”, “No good in Goodbye”; ho pensato che la citazione potesse legarsi allo stato d'animo di Dyl, che, a differenza di Mark, ancora non è riuscito a superare il dolore della distanza, e mai riuscirà a farlo, probabilmente.
Come contraddirlo.
E' dura lasciar andare Mark.
Nessuno, vorrebbe lasciar andare un cucciolo così <3
ho finito!
Tenetevi pronti che il prossimo capitolo è lungo e... importante.

xoxo
Lila

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Capitolo 33
*** Take me Home, Mark. ***


Chapter thirtythree.
 
Take me Home, Mark.
 

Arrivarono a New York per le diciannove e venti, spossati a causa di due traumatici vuoti d'aria e delle troppe ore passate a culo piatto contro lo scomodo sedile blu. Atterrati selvaggiamente sulla pista di arrivo, la città li aveva subito avvolti in un cielo senza stelle e in qualche grado giusto sotto lo zero, tanto per ricordar loro che lì l'inverno coincideva col clima gelido. Meno otto, nove? O forse meno dieci? Esther non lo sapeva con precisione.
Sapeva solo che Mark le aveva dormito sul capo per tutto il volo, e che quello era bastato a crearle una piccola fiammella di calore nel cuore perché potesse riscaldarsi l'animo. Non appena era scesa dall'aereo si era avvolta nel suo giacchetto beige, lo aveva abbottonato fino alla gola, e tutti gli altri l'avevano imitata rabbrividendo e ridendo per l'eccitazione di essere di nuovo a casa.
La grammatica inglese insegna che “casa” si può dire in due modi differenti. House, l'edificio, le pareti, quello che tutti gli altri possono vedere da fuori e giudicare con superficialità.
E poi Home. Quello che succede tra le pareti, la casa composta dalle persone che ti amano, ti circondano, che danno un senso alla tua vita tutti i giorni, secondo dopo secondo.
New York era la loro home, e nessuno avrebbe mai potuto cambiare quel sentimento comune. Nemmeno un viaggio di due settimane a Los Angeles.
Dentro l'aeroporto il caldo non aveva dato loro tregua nemmeno ai bagni, o al piccolo bar dinanzi all'uscita, quando Silvia aveva proposto di riattivare le papille gustative con un po' di donuts e caffé lunghi.
Ma ora che erano fuori, all'aria aperta, non ci fu bisogno di scambiarsi colorite imprecazioni per capire che avrebbero dato l'anima pur di tornare al clima mite dell'Ovest, alle palme e al mare salato che bagnava tutta la costa californiana.
Il freddo era allucinante, penetrò nelle ossa dei giovani senza dar loro nemmeno il tempo di adattarsi al fatto che fosse - effettivamente – pieno inverno. Esther si guardò intorno, le lunghe ciglia nere a proteggerle le iridi dall'incessante vento dicembrino. Possibile che in un solo paese potesse esserci tutta quella variegata infinità di climi? Se in uno stato faceva freddo, nell'altro faceva caldo. Se nell'altro faceva freddo, in uno faceva caldo. Senza parlare del concetto di “tempo”, del tutto sballato; realizzare che New York era tre ore più avanti di quelle di Los Angeles la lasciò un attimo perplessa, a chiedersi se per caso non avesse cambiato continente.
Silvia si abbracciò le spalle e starnutì mentre Erik issava le loro valigie nell' auto, attento a non rompere nulla. Aveva fretta di tornare a casa, farsi una doccia e riposarsi. Mark lo capiva benissimo. Anche lui non vedeva l'ora di stendersi sul letto.
E mangiare una pizza con la tv accesa, godendosi appieno il suo ultimo giorno di ferie.
E magari invitare Esther a casa sua, perché no. La cercò con gli occhi, come a voler trovare in lei una sicurezza al suo desiderio.  Aveva pensato bene a quello che voleva fare, ed era saltato alla conclusione che ancora non si sentiva pronto a lasciar andare l'amica con un abbraccio e un bacio sulla guancia.
Rimaneva come chiederglielo.
 << Mark, noi andiamo. >>
Annuì, il mento completamente sprofondato tra le pieghe della sciarpa mentre le labbra liberavano nuvolette di vapore ad ogni lento respiro cadenzato. << Va bene Erik. >> portò le iridi turchine su quelle scure dell'amico, che lo stava fissando con un sorriso imbarazzato. << Ci vediamo al lavoro. >>
<< Ci vediamo al lavoro, Marky. >>
<< Fa il bravo. >>
Silvia rise. << Lo controllo io! >> e a quelle parole Mary le regalò il vanto di un occhiolino. Salutò Erik con educata freddezza, prima di prendere la sua valigia e trascinarsela verso l'auto a passo svelto. Quando si rese conto di non essere seguita si fermò a metà tragitto, sotto la luce di un lampione arancio. << Esther? Andiamo piccola. >>
Esther si strinse nelle spalle, facendo dondolare gli orecchini argentei. Prima di tornare a casa doveva salutare Mark.
 Salutarlo o dirgli addio? Si voltò verso di lui, e quando lo guardò negli occhi cercò di aggrapparsi alle parole fiduciose che le aveva sussurrato negli ultimi giorni. Avrebbero continuato a vedersi, a frequentarsi. Nessuno avrebbe perso nessuno.
Vero, Mark?
C'erano ancora così tanti punti da discutere, così tante cose che voleva chiedergli, che Esther sentì il tempo sfilacciarsi e scucirsi sotto la sua mano impotente, come se l'ago avesse deciso di sua iniziativa di smantellare tutto il minuzioso lavoro di anni.
Mark le sorrise, e il buio gli adombrò i lati più nascosti del volto. Era bellissimo, un nodo in gola la soffocò all'idea di doverlo veder partire lasciando dietro di se una scia eterna di punti di domanda e fumo.
Si chiese se avrebbe rivisto ancora quel viso. Quegli occhi, quella frangia ribelle che necessitava di un taglio d'urgenza, ma che era stupenda, libera come tutto lui.
<< Beh, M-Mark... >> strinse le labbra quando si accorse di avere la voce tremante, e fece una breve pausa.
Per un po' parlò il vento tra loro, il suo freddo prosaico mischiato all'odore della neve fresca che giorni di abbondante nevicata avevano accumulato lungo i marciapiedi che attraversavano l'enorme parcheggio.
Non le piaceva sentirsi così insicura per un ragazzo, così incapace di poterlo tenere stretto a se, senza farlo fuggire. Ma aveva paura.
Paura di perderlo, ed era una cosa che non smetteva di tormentarla. Ora che era giunta a New York, quel timore si era fatto vivido e definito dentro di lei.
<< Mark... >>
Mark aggrottò i sopraccigli, un movimento talmente conciso da farla sussultare appena. << Est. >>
A quell'invito sussurrato e nascosto, Esther allungò le braccia e affondò il viso nel suo petto, perché non voleva ne dire ne sentire altro. Non ne aveva la forza, e si lasciò cullare dal suo odore di maschio mentre dava di spalle a Mary, al freddo, al buio che calava sui tetti delle auto corrodendole nel suo nero coagulante.
Mark la abbracciò e si chinò tenero su di lei, affondando le dita tra i suoi capelli. Rimasero così per un po', a scambiarsi calore, pelle contro pelle, cuore contro cuore, mente contro mente, e il biondo riuscì a sentire lo stato d'animo dell'amica come se fosse suo, ancora.
Schiuse le labbra.
Chiediglielo, Mark. Chiediglielo.
Now or never.
<< Esther. >> si sciolse dalla stretta di arrivederci e la guardò, reggendo la potenza di quei meravigliosi occhi neri fissi sui suoi. << Vieni a casa mia. >>
L'unica risposta della ragazza fu uno sbuffo di vapore, che si perse in mezzo allo sferzare del vento. E basta.
Allora Mark, impacciato, tentò di riformulare la proposta, per renderla un po' meno ambigua. La verità era che aveva voglia di stare con lei, ancora un po'. Baciarla di nuovo, sentirla vicino prima di tornare a lavorare. C'erano alcune cose di cui voleva parlarle e solo Esther poteva dargli una risposta. C'era una vita da sistemare. C'era che la amava, adesso. Anzi, da sempre. E nulla sarebbe stato più lo stesso, dopo il bacio che si erano scambiati. << Se ti va, sei la benvenuta. Ordiniamo una pizza, parliamo di qualche cazzata, non so... ci facciamo una doccia. C-cioè >> arrossì al pensiero di Esther nuda, e si prese il naso tra l'indice e il pollice  per recuperare la concentrazione già di per se precaria, mentre lei tratteneva una risata nelle guance morbide e paffute. << non insieme. Prima io, poi te. Oppure il contrario. Come preferisci. E... >> frenò la lingua quando si accorse di aver accelerato sia con la voce che col cuore, che il cervello aveva smesso di capire, che si era smarrito per strada lasciandolo solo ad affrontare una situazione abbastanza nuova per lui. Il fatto era che Dylan non c'era per aiutarlo. C'era solo Esther, e i suoi ricci smossi dal vento. << cose così. N-non sei obbligata. >>
E dopo essersi leccato il labbro superiore rimase in attesa di una sua risposta, lo sguardo implorante celato con cura sotto il muro dorato della frangia.
Esther batté le ciglia più volte, poi lanciò un gridolino interno e scoppiò a ridere come una bambina.
La risata più bella che Mark avesse mai udito in tutta la sua vita.
<< Solo se entro prima io nella doccia, intesi Kruger? >>
<< Lo considero un sì, allora! >>
La mora si limitò a porgere le mani in avanti, prima di raggiungere Mary con una corsa e lasciare Mark accanto alla macchina, divertito e un po' confuso da tutte le cazzate che aveva appena vomitato.
La mora si attaccò al braccio dell'amica, rossa in volto, e Mary non seppe dire se per l'impennata che l'aveva vista protagonista proprio ora o per il biondo qualche metro più indietro.
<< Maryyyyyy! >> si abbracciarono, ed entrambe trovarono conforto nella stretta dell'altra.
<< Eeeeeeeh! >>
<< Mark mi ha invitato a casa suaaaaaaa! >>
<< COSA?! >>
<< Sììììì! >> strillò Esther, ma all'improvviso il suo volto felice si spense come una candela accesa per errore, sfumando nel dubbio. Mary la guardò stordita. << Tesoro? >>
<< Non ci vado. >>
Panico.
<< Ma sei stupida?! >>
<< No, infatti ci vado. >>
Niente panico.
<< Sarà me--
<< No, non ci vado. >>
Panico, di nuovo.
<< Esther tu devi andare! >>
<< Ho paura di perderlo. >>
<< Cos...! Ma che discorsi fai?! Insomma guardalo! >> Mary, che aveva compreso la situazione, afferrò la spalla dell'amica e la costrinse a voltarsi per guardare Mark, che si era messo a messaggiare con qualcuno al cellulare, le gambe incrociate e le spalle appoggiate al tetto dell'auto. Della sua auto. In attesa di lei. E sembrava sicuro, fiducioso, pronto a tutto. << Non ha tempo da perdere dietro alle tue stronzate Esther. Quello che pensi tu non coincide affatto con quello che pensa lui. Ti basta fare più caso a come si atteggia per capire che non ha nessuna intenzione di gettare tutto all'aria. >>
<< Lo so. >>
<< No, non lo sai. Dovete parlarne. >>
<< Già fatto. >>
<< E? >>
<< Mi ha baciata. >>
<< COSA?! >> Mary la scosse violentemente gridando come una bambina a cui le è stato appena strappato il lembo del suo vestitino preferito. << ESTHER! Ti ha...! >> abbassò la voce, ricordandosi che Kruger era lì e non era affatto sordo. << baciataaaaa...! >>
Esther si coprì le labbra per mascherare un sorrisetto vittorioso nel ripensare a quella sera, davanti al Mcdonalds, sotto l'oppressione del caldo afoso e delle emozioni troppo forti.
<< Muoviti, va da lui. Ci penso io alla tua valigia. >>
<< Uhm... lasciamela in camera. >>
<< Certo, volevi pure che te la svuotassi? Ora va. Sei Esther Greenland, la “camionista tettona”! >> Mary la spinse per scherzo e afferrò la valigia dell'amica, pronta a farsi un bel viaggetto in autostrada in compagnia di un po' di musica trash e il pensiero di Dylan stampato in mente. << Fatti valere. E buona fortuna. >>
Buona fortuna.
Esther la guardò allontanarsi con aria coraggiosa, e prima di tornare da Mark cercò di calmarsi interiormente, tirare fiato.
Si sistemò la coda, si rassettò il giaccone e solo dopo che fu sicura di essere meravigliosamente Esther Greenland si diresse verso di lui a passo sicuro, molleggiando sulle nike rosa.
All'improvviso aveva smesso di fare freddo.
L'americano sollevò il capo, bloccò lo schermo e le sorrise di rimando. << E' un sì? >>
<< E' un sì. >>
All'improvviso tutto aveva cominciato a sapere di Mark.


 
Dal vetro oscurato dell'auto di Mark le sembrava di poter vedere il mondo. Scrutò con occhio intriso di curiosità i grattacieli affastellati l'uno contro l'altro, così alti, così immensi da farla sentire insignificante contro la morbidezza del sedile, come se li vedesse per la prima volta in tutta la sua vita. Le luci alternate della strada si riflettevano sui cumuli di neve che costeggiavano l'asfalto, colorandone i fiocchi bianchi ora di rosso, ora di verde, o di giallo, in tinta con i numerosi taxi che intasavano le corsie.
L'acqua colava lungo i lati della strada, alla ricerca di un tombino in cui dileguarsi, le persone camminavano frettolose verso chissà quale magico posto di New York, imbacuccati fino al midollo.
La città era in fermento, tutto aveva vita intorno a lei. Si rilassò contro lo schienale e Mark alzò di un po' il riscaldamento, concentrato sulla fila infinita di macchine dinanzi a lui.
Esther socchiuse gli occhi quando il semaforo divenne verde. L'odore del biondo era ovunque, lì dentro.
Lo adorava, quell'aroma, e gli permise di avvolgerla come una coperta protettiva mentre tutto intorno a lei prendeva e deliberava gocce di splendore.
Non sapeva ne di Armani, né di Hugo Boss.
Sapeva di Mark.
E Mark era la sua casa. La sua home, e anche la sua house.
<< Con questo traffico arriveremo a casa tra qualche ora, temo. >>
La voce rauca e stanca di Kruger le solleticò le orecchie, e si voltò verso di lui gonfia di orgoglio. Guidava con mano ferma, sicura, composto, le dita agganciate al volante con piacevole noncuranza.
<< Non importa. >> gli rispose piano, e il ragazzo la guardò divertito.
<< Sono felice che tu sia qui con me nella East Coast, Est Coast. >>
<< Comincio ad odiarti. >>
Mark rallentò ad un altro semaforo ed Esther chiuse gli occhi, adagiando i muscoli. Sentì il rumore di un clacson, le gomme dell'auto macinare lentamente chilometri. Il passaggio di un treno proprio sulla loro testa, la statuaria presenza dei grattacieli, il respiro di Mark che andava al ritmo del suo battito cardiaco, e ciò la costrinse a sospirare felice.
Ce l'aveva fatta. Alla fine era riuscita ad averlo. Due settimane prima non avrebbe mai pensato di poter montare in macchina con lui, di potersi appropriare delle sue labbra timide e sottili.
Le piaceva la fiducia che provava nei suoi confronti, era sicura che non sarebbe accaduto nulla di male finché il biondo avesse continuato a guidare, a stare attento.
Fu proprio quella fiducia ad accarezzarla e dirle di riposare.
Di rilassarsi.
Che tutto sarebbe andato bene.
Così fece, e si addormentò mentre le luci della città scorrevano su di lei come onde.
Mentre Mark la portava a Casa.


 
<< Est. >> Mark estrasse le chiavi dall'insenatura accanto al volante e le lasciò scivolare sul grembo, sfinito. Finalmente era arrivato a casa. Non ci vedeva più dalla fame, ancora si chiedeva come avesse fatto a sopravvivere a tutta quella coda di auto senza mettersi a gridare o sbattere la fronte contro il manubrio; istintivamente portò uno sguardo all'ora segnata sul cruscotto, e si rassicurò nel sapere che erano “solo” le venti e trenta.
Aveva ancora tutta la serata, non avrebbe sprecato un minuto di più.
Allungò un braccio in direzione dell'amica e la scosse con delicatezza, stringendole la spalla morbida protetta dal tessuto del giacchetto. << Esther, wake up, c'mon. >>
La mora non si fece pregare troppo. Al quarto, anzi, al quinto richiamo reagì con un grugnito e schiuse lentamente gli occhi cisposi, per farli riabituare alle luci forti della città che le tracciavano chiazze indefinite sui lineamenti del viso. Mark le diede il tempo di riconnettere il cervello e di scrutarsi intorno, fiutare l'aria e ascoltare il rombo del traffico alle sue spalle.
A giudicare dall'espressione interdetta che fece, a quanto pareva in quel quartiere non vi aveva mai messo piede.
<< Dove siamo? >>
Mark distese le ginocchia. << Brooklyn. >>
<< Oh! Il ponte di Brooklyn! >>
<< Se vuoi intenderla così, beh, non è molto distante. >>
Esther sorrise a trentadue denti, sotto la testa appena piegata e confusa di Mark. << Perché siamo qui? Ristorante? Dobbiamo incontrare qualche tuo amico? O mi hai portata a fare un giro? >>
<< Uh? N-no! Abito qui, Esther. >>
<< Oh. >> la mora si portò una mano davanti alle labbra. Per un momento si era quasi dimenticata del fatto che New York fosse divisa in otto quartieri, e che tra questi non esisteva solo Manhattan moltiplicata per, appunto, otto, ma anche Brooklyn. << So we're home! >>
Quel sospiro contento lasciò l'americano spiazzato, che si irrigidì appena sul sedile. << Yeah >> le sorrise, mentre le gote vibravano di eccitazione nell'averle sentito pronunciare “casa” come se fosse la loro. Come se ci vivessero insieme da anni, e avessero già condiviso ogni singolo metro cubo al suo interno. << we're home. >>
<< Allora andiamo! >>
Esther si accanì contro la portiera e la aprì con uno scatto, prima di precipitarsi fuori ridendo. Non poteva crederci, era a casa di Mark, Mark Kruger, presto avrebbe scoperto uno dei suoi lati più intimi. Ma quale tra gli immensi condomini che si allungavano per tutto lo stradone portava il nome del suo amico?
Ispezionò la fila di appartamenti altissimi dinanzi a lei, e sbiancò un poco quando si ritrovò faccia a faccia con ben quindici piani di mattoni e scale anti-incendio che scendevano fino al retro, tinte recentemente di nero. Una rete lo separava da un altro edificio più alto, bucata in più punti.
Sembrava il genere di condominio che in un'altra vita avrebbe evitato, scappando verso una zona un po' più ospitale. Uno di quelli che nei film diceva chiaramente “evitami o qui finisci male.”
<< Dov'è il nero con la bottiglia rotta in mano? >> chiese scherzando, eppure si fece istintivamente più vicina a Mark, quasi temesse di vederlo comparire da uno dei buchi della rete, con tanta voglia di uccidere qualche povero innocente.
Un cane abbaiò in lontananza, ed Esther lo colse come un simpatico avvertimento a non farsi notare troppo.
<< Lo so, è pessimo >> soggiunse Mark, dando una conferma al suo flusso di pensieri. << Ma la gente che ci vive è simpatica. >>
<< Newyorkesi simpatici? >>
<< I swear you! >> Mark scoppiò a ridere come un bambino, tenendo in piedi il gioco dei cliché, e quella reazione tanto naturale e genuina la fece sentire un po' meno tesa.
Se lui era spensierato, che motivo aveva lei di agitarsi?
<< Quindi il tuo è questo, giusto? >>
<< Sì. >>
<< Non c'è nemmeno un fiorellino! Dimmi che abiti al primo piano. >>
<< Ritenta. >>
<< Quinto? >>
<< Più su. >>
<< Uhm... settimo? >>
Mark la prese per un polso e le sorrise, cominciando a trascinarla verso il portone di legno che fungeva da ingresso. << Quindicesimo. >>
<< MARK, che diavolo...! Se ti aspetti che io mi faccia quindici rampe di scale per te, beh, scordatelo. >>
<< C'è l'ascensore. >>
<< Questo condominio è una follia... chi lo ha progettato merita di essere denunciato. >>
Mark ridacchiò e con una buona dose di potenza riuscì a spalancare l'ingresso. Entrarono e si lasciarono il freddo alle spalle, il caos, il traffico, immergendosi nella quiete di una luce vibrante appesa al soffitto e di passi tranquilli che li sovrastavano di qualche metro, indaffarati a girare per le stanze.
Esther sgranò le iridi, permettendosi di ascoltare il chiacchiericcio di alcune persone al primo piano poco distante. Era tutto bianco intorno a lei, e inchiodò gli occhi sul tappeto blu scuro che si estendeva sotto i suoi piedi provati dal gelo.
Era tutto così strano.
Più osservava quel colore, più si sentiva euforica. Essere lì con Mark la faceva sentire nervosa, e fu costretta a massaggiarsi le cosce per asciugarsi il sudore alle mani; cosa avrebbe provato nel varcare la soglia di casa sua?
Come si sarebbe dovuta comportare?
All'improvviso un'atroce angoscia la trapassò da parte a parte.
E se avesse trovato qualcosa appartenente a Melanie?
Un paio di mutande, un rossetto. O magari un reggiseno di pizzo.
Arrossì e il blu sfuocò fino a diventare di un colore impercettibile mentre si chiedeva che cosa avrebbe fatto in caso di spiacevoli sorprese. Non si accorse dell'ascensore aperto in sua attesa fino a quando Mark non la tirò letteralmente dentro.
Quando lo guardò notò la sua confusione, e si sentì stupida. Era lecito domandarsi quelle cose, ora che erano arrivati fin lì? Scelse di non rivelargli nulla, per non rovinare l'atmosfera che si era andata creando.
Per non guastare il suo sorriso carico d'aspettativa.
<< Ehi, che succede? >>
<< Nulla Kruger, riflettevo. >>
<< Su? >>
<< Su domani, il lavoro, cose così. >>
Mark si aggrappò alla valigia, dubbioso. << Okay. >>
Esther si massaggiò il collo fischiettando. Sapeva di non averlo convinto per nulla, ma il biondo seppe farsi andare bene quella piccola bugia, e non fece storie. Quando arrivarono, la ragazza lo osservò aprire la porta e distendere il braccio per farla passare per prima.
<< So. Welcome home, honey. >>
<< Grazie, Mark! >> s'intrufolò dentro e la prima cosa che fece fu sospirare meravigliata, le dita attorcigliate ai bottoni del giacchetto.
“Mai giudicare un libro dalla copertina”, frase storica che non sempre riusciva a fare centro. Eppure, in quel caso ci aveva preso alla grande.
La casa di Mark era bellissima, quasi insolita se si pensava al fatto che ad abitarla vi era proprio un essere umano di sesso maschile, e normalmente i maschi, in fatto d'arredamento, se ne intendevano quanto si intendevano di trucchi.
Cioè zero.
Perlustrò con occhio rapito il divano beige in un angolo, la cucina in quello opposto, intrappolata da quattro pareti color giallo sbiadito che le impedivano di poterla vedere per intero; curiosa, si fece avanti di qualche passo al fine di cogliere qualche altro dettaglio in più. Un tappeto persiano si diramava sotto la mobilia del piccolo salotto, la tv appesa al muro donava un tocco di modernità talmente avanzato da cozzare dolcemente con l'arredamento quasi vintage di tutto lo spazio.
Sempre che Mark sapesse che diavolo volesse dire “vintage”, ovvio. Non sembrava aver seguito uno stile preciso - dimentichiamo che è uomo -, ma la maggior parte dei cassettoni e degli scaffali emanava la tipica aria vetusta che non apparteneva affatto all'anno in cui vivevano. Si soffermò ad accarezzare le copertine di alcuni dei libri ordinatamente impilati in quella che pareva essere stata ribattezzata come “libreria provvisoria”, messa accanto al divano per facilitarne la comodità. Ne afferrò uno.
Dylan aveva ragione.
Mark amava leggere.
<< Chimica. Oh >> sfogliò alcune pagine, senza capirci niente né delle cose scritte né degli appunti tracciati di fretta dalla scrittura di Mark, che ormai aveva imparato a riconoscere. << Interessante. >> curvò il manuale e ridacchiò, ricordandosi di tutti i suoi insuccessi in campo scolastico.
<< Libri di università. >>
<< Cos...? >>
<< Sì, io... >> Mark arrossì come un bambino. << s-sono... laureato in chimica. >>
<< O-oh! MARK! >>
<< Era per stare sul sicuro, sai. Non... non si sa mai cosa può succederti nella vita. E poi, sono sicuro che... mi servirà. Quando salirò di grado. >>
<< Mark, n-non avevo idea! Sono sconvolta! Complimenti, sei bravissimo! >>
Lo ripose, felicissima per i piccoli traguardi del biondo, e poi toccò i muri giallo panna con una mano, sorridente. Erano caldi, tutto lì dentro sapeva di calore umano e affettivo. Le piaceva lo stile sobrio dell'abitazione.
Le piaceva da morire, ma la paura di trovare qualcosa di troppo personale la teneva molto lontana dalla voglia di andare a curiosare persino sotto il letto.
Mark, ripresosi dall'imbarazzo, sollevò la finestra a ghigliottina e fece entrare un po' di aria serale. << Allora? Conclusioni? >>
<< I muri li hai dipinti tu? >>
<< No, erano già così quando sono venuto a vivere qui. >>
<< E' adorabile! >>
Il biondo avrebbe voluto dirle che se lo desiderava poteva mostrarle le vetrate in camera da letto, ma sembrava quasi un invito a rimanerci, in quella camera, e scelse di rimandare ad un momento in cui l'emozione avrebbe lasciato il posto alla sicurezza. << Io ho bisogno di una doccia. >>
Esther annuì. << Puoi andare prima tu. >>
Sotto lo sguardo incredulo di Mark rise, ma in realtà non se la sentiva affatto di andare in bagno; se c'era qualche elemento compromettente, il biondo meritava il rispetto e il tempo di nasconderlo o quanto meno dargli fuoco, prima che lei lo venisse a scoprire.
Insomma, sarebbe stata una situazione di disagio per entrambi. No?
<< D'accordo. >> Mark la indicò con un dito, il labbro inferiore nascosto per metà dentro la bocca. << Hai bisogno di vestiti puliti? >>
<< Metto sempre ques--
<< Posso prestarti una mia felpa, se vuoi. E' un po' grande ma dovresti condurci comunque una vita abbastanza normale. Dimmi tu. >>
Esther si illuminò come una bambina davanti a un mare di canditi, a quelle parole. Una felpa di Mark? Ciò voleva dire che il ragazzo non aveva con se indumenti femminili da prestarle, altrimenti le avrebbe donato una cosa di Melanie.
Anche se la taglia di seno era differente, a statura erano più o meno simili.
Come si era spenta si riaccese, liberando un sospiro di vittoria. Lei, in una maglia di Mark. Oddio. << Sì, grazie Mark! >>
L'americano le porse un telefono e le recitò il nome della via e il numero del condominio. << Faccio in fretta. Chiama al primo ristorante che ti viene in mente e ordina due pizze. >>
<< Che gusto vuoi? >>
<< Quello che ti va! >> le urlò l'americano dal corridoio, ed Esther digitò il primo numero che le passò per l'anticamera del cervello, così emozionata da sentire già male alle gote, alla pancia, al cuore.
Sarebbe stata una serata indimenticabile, e a quella consapevolezza tanto franca quasi non le venne da gridare di gioia quando il cameriere si diede la decenza di rispondere agli interminabili squilli, scocciato.
Non vedeva l'ora di finire in quella felpa.


 
<< Quanto? >>
<< Diciassette dollari, dude. >>
Mark estrasse un po' di banconote dalla tasca del pantalone nero e nel momento in cui pagò il fattorino, si issò le pizze fumanti sul braccio, facendo attenzione a non bruciarsi la pelle che le maniche corte avevano lasciato esposta. Dopodiché si tirò indietro la frangia umida di doccia e sorrise affabile. << Grazie, e buona serata! >>
<< Anche a te fratello. >>
Scottavano e avevano un odore davvero allettante, la curiosità di sapere i gusti lo spinse a sbirciare dai buchi della scatola con occhio languido. Aggrottò i sopraccigli e lasciò andare un sospiro soddisfatto quando riconobbe il colore dorato delle patatine.
Lo stomaco parlò per lui.
E' ora della pappa, Marky.
L'ascensore ci mise troppo ad arrivare, e la sua fame non aveva affatto voglia di aspettare le grazie di un marchingegno elettronico vecchio quanto suo padre; così si fece la rampa delle scale a due a due, arrivando trafelato alla porta che aveva lasciato socchiusa.
Entrò e lo scroscio della doccia gli fece capire che Esther era ancora sotto.
Posò le pizze sul tavolo, arrotolò lo scontrino e fece canestro nel cestino poco distante. Si chiese perché avesse scelto il calcio, quando l'azione appena compiuta gli aveva appena dimostrato di essere anche un grande cestista. << Esther! >>
La sentì arrestare il flusso d'acqua.
<< Sono arrivate le pizze! >>
<< A-aspetta! >>
Sorrise diabolico. << No, se non ti muovi mi mangio anche la tua. >>
<< Mark! >>
La sentì armeggiare frettolosa con l'asciugamano e trattenne una risata. Gli sarebbe piaciuto farsi una doccia con lei. E mostrarle quella vetrata, stenderla sul letto e colpirla a suon di baci, farle capire che le era mancata cristo, e farci l'amore fino a ritrovarsi senza respiro.
Sentirsi libero, grazie e soprattutto insieme a lei.
Oddio, Mark ti prego non pensare queste cose.
La stanchezza e la fame gli stavano giocando brutti scherzi, ecco tutto. Restava da capire se era di pizza che era affamato, oppure se dell'amica. Delle sue labbra carnose, della sua risata che di femminile non aveva proprio nulla, ma che a lui piaceva. Preferì gettarsi disperato sulla parte razionale, e apparecchiò nervosamente la tavola, gettando due bicchieri e due forchette tanto per.
Quando la vide uscire dal bagno infilata nella sua enorme felpa blu sollevò le sopracciglia e si fece sfuggire un sorriso. << Oh! Non ti sta poi così male, sai? >>
Esther arrivò ansante a tavola, si sedette e afferrò la sua pizza, ignorandolo di proposito.
Mark si sistemò di fronte a lei e si soffermò un istante a guardarle il piercing sotto il labbro inferiore.
Era carina struccata, con quel finto broncio dipinto sul volto, e tutta l'aria di volergli raccontare cosa era successo davvero nei lunghi dieci anni passati lontano da lui.
Riprendere la loro situazione, giugere ad un accordo.
Beh, avevano tutto il tempo del mondo.
Si grattò il naso e si preparò ad iniziare una conversazione sana, ma Esther lo anticipò di un secondo netto.
<< Allora domani lavori? >>
Mark afferrò un trancio di pizza. << Yeah. >>
<< A che ora cominci? Otto? Nove? >>
<< Ehi, magari! Comincio alle quattro. >>
<< Uhh! >> la mora fece una faccia esasperata, incurvando le finissime sopracciglia. << Brutto orario! E' faticoso salvare il mondo, eh Mark? Richiede troppo sacrificio. >>
<< E' quello che ho sempre sognato di fare. Ogni sacrificio coincide con una vittoria. Mi sento abbastanza ripagato. >>
Esther annuì. Sapeva del sogno di Mark di diventare poliziotto, e il fatto che fosse riuscito a realizzarlo con tutte le difficoltà che lo avevano tormentato faceva di lui un uomo davvero forte.
Un ragazzo onesto, sincero e che aveva imparato a porsi degli obbiettivi e perseguirli. Che aveva fatto delle sue sconfitte un incoraggiamento a rialzarsi e rimettersi in gioco; era determinato, e ora che era cresciuto, trasudava orgoglio da ogni poro.
Lo guardò con una punta di ammirazione mentre il sapore forte della Cola la aiutava a mandare giù l'impasto pesante della prima fetta di pizza. << Quindi mi stai dicendo che sai usare una pistola, non è così? >>
<< Beh... >> Mark batté le ciglia, confuso dalla domanda. << Sì. Certo. Devo saperla usare. >>
<< E' difficile? >>
<< No, ma ancora non mi è successo di dover ferire una persona. Dietro uno sparo c'è sempre un fattore psicologico da analizzare. Ne io ne Erik abbiamo avuto modo di sperimentarlo. >>
<< Mi insegnerai un giorno, Mark? >>
<< Why not. >>
Esther sollevò il capo a quel “why not”, ricordandosi della telefonata che si erano scambiati quando lei gli aveva proposto di andare a Los Angeles tutti insieme. Quando lui la guardò, comprese che non lo aveva detto di sproposito.
In due settimane era successo il finimondo, lo sapevano.
Poteva, una realtà, stravolgersi tanto in soli quattordici giorni? Sembrava un concetto assurdo, eppure loro erano l'esempio vivente di due ragazzi sopravvissuti a tanti cambiamenti, a tanti tipi di sofferenze.
Esther sentì l'impulso di voler sparire tra quelle braccia forti, in mezzo al color tiffany di quelle iridi puntate su di lei come due riflettori color del mare.
<< Mark... mi chiedevo... >>
Mark terminò la pizza e si scolò l'ultimo goccio di coca. Oddio, in che momento se l'era aspirata?
Esther arricciò il naso; woah, lo stomaco americano non smetteva mai di lasciarla allibita.
<< Uhm... non so da dove iniziare. >>
<< Da quello che vuoi. >>
C'erano tante cose di cui voleva discutere con lui. Del loro bacio, di quella vacanza che più che una vacanza era stato quasi un percorso di crescita. Di Melanie, e l'ansia di trovare qualcosa di lei per un attimo le serrò lo stomaco.
<< Mi chiedevo... abbiamo avuto poco tempo per parlarne, tra tutto, ma... hai più sentito Melanie? >>
Mark fece spallucce, assumendo la solita piatta superficialità nel momento in cui gli veniva presentato un argomento di cui gli interessava poco. << No. Meglio così. >>
<< Sei arrabbiato con lei? Perché ti ha... >> Esther abbassò improvvisamente la voce, riducendola ad un rauco sussurro. Temeva di risultare indelicata, di ferirlo, e l'ultima cosa che voleva fare era danneggiarlo in qualche modo. << Ti ha... >> si fermò.
Sinonimo di “tradito” cercasi.
<< Dillo. >>
<< Uhm... >>
Mark rise divertito. << Dillo, avanti. Non avere paura. >>
<< Ti ha tradito...? >> Greenland arrossì e si fece piccola nelle spalle mentre il biondo pensava a fornirle una risposta. Forse era stata imprudente, ma più si sforzava di immaginarsi la scena meno le veniva naturale credere che a Mark fosse potuta accadere una cosa tanto grave. Si era sempre detta di farsi gli affari suoi, per quanto pettegolare rimanesse uno dei suoi hobby preferiti in assoluta dopo lo shopping; tuttavia, ora che Melanie alias Mel alias maledetta stronza era uscita - finalmente - dalla vita dell'amico, in un certo senso si era vista la strada libera anche per entrare di più nella questione.
Con lui, ovvio. Gli altri potevano dire tutto quello che volevano, ma solo Kruger sapeva darle le risposte sicure che cercava, in quanto era successo a lui il brutto incidente.
<< No. >>
La risposta la fece tentennare. << No? Non sei arrabbiato con lei? >>
<< No. >> Mark bucò la scatola con la forchetta, un colpo netto e preciso. << Perché dovrei. >>
<< Insomma, lei ha... >>
<< Lei ha? >>
<< Uhm... >>
Le sorrise paziente, apprezzando il suo sforzo di essere delicata, ma non occorreva. Davvero.
Melanie era un capitolo chiuso.
Anzi, non si era mai aperto. << Dillo. >>
<< Lei ha scopato con un altro mentre stava con te, e... >>
Il verbo “scopare” gli fece scappare una risatina. << Sì è vero. Ma quando la cosa mi ha lasciato piuttosto insofferente ho capito che non l'amavo come ero convinto di amarla. >>
<< Cioé? >>
<< Cioé che se l'avessi amata come un uomo ama la sua donna probabilmente mi sarei infuriato e probabilmente l'avrei anche perdonata. Invece la mia reazione è stata differente. Non mi sono arrabbiato, okay, ma non ho mai mandato giù il fatto, semplicemente perché sono sempre venuto prima di lei. In tutto. Era una ferita all'orgoglio, niente più. Quel tradimento aveva, ha e avrà per sempre lo stesso peso di un insulto, per me. >>
Esther si sporse in avanti, interessata. << Perché te la sei portata a Los Angeles, allora? Insomma, se a me fosse successa una cosa del genere, gli avrei spezzato il collo e lo avrei bruciato vivo danzando intorno al suo corpo. >>
<< Per salvare la relazione, sì, per... >> Mark scosse il capo, rimangiandosi la conclusione della frase. La verità era scontata e forse anche l'amica ci sarebbe potuta arrivare. Lo aveva fatto per lei. Aveva capito di essere ancora innamorato perso di lei come un tempo, di desiderarla, e più la confusione si era andata trasformando in sicurezza più i problemi avevano preso a scivolargli via come acqua sulle spalle. Non era stato facile, ma aver trovato la forza di staccarsi da quell'ordinaria situazione di insofferenza gli aveva fatto comprendere che il suo posto non era destinato a stare accanto a Melanie, ma accanto alla ragazza che proprio ora aveva appena terminato di ingozzarsi di pizza davanti a lui. << per capire cosa provavo davvero per Melanie. >>
<< E cosa provi per lei? >>
<< Nulla se non affetto. >>
<< Quindi non ti rode di aver rischiato le >> Esther si portò gli indici accanto alle tempie. << corna? >>
<< La vita mi ha dato una bella lezione. Ora che ho imparato, non accadrà più. >>
Mark prese un respiro e lasciò che le sue ultime parole venissero assorbite dalla mente concentrata dell'amica, come una spugna a contatto con l'acqua.
Poi si sforzò di guardarla negli occhi, rosso in viso. E capì che rimandare quello che realmente voleva dirle non gli conveniva più.
In un gesto di amore incontrollabile le afferrò le mani, gliele strinse, quasi a voler cercare la forza necessaria da lei.
Erano così morbide, così piccole in confronto alle sue, e quando la mora ricambiò con vigore nascose un sorriso.
Era tutto così perfetto, adesso. Sentì il cuore tremare, il sangue sfrecciare veloce lungo tutte le arterie. Il ticchettio dell'orologio scomparve.
Scomparve tutto intorno a loro.
<< Se provo qualcosa per una ragazza, quella sei tu, Esther. >>
Merda.
Glielo aveva detto.
Le lasciò le dita e si tirò lievemente i capelli biondi. Non sapeva cosa provare. Dilatò le narici, ma non uscì nemmeno uno spiro d'aria. Da quanto non respirava? Si consolò col fatto che probabilmente quello scemo di Dylan sarebbe stato fiero di lui, del suo coraggio e della sua determinazione.
Gli sarebbe piaciuto ricevere una pacca convincente sulla spalla, un segno che gli facesse quantomeno comprendere che era andato alla grande.
Gli occhi di lei si fecero d'improvviso più scuri. Più gravi, più lucidi.
O forse era lui che aveva appena smesso di vederci con le palpebre, cedendo il posto al cuore. << Esther... >>
La mora a fatica riuscì a prendere aria nel sentire il suo nome, agitata.
Il fatto che Mark le avesse spiattellato i suoi sentimenti per lei con siffatta franchezza la lasciò un momento sconvolta. Mark, Mark Kruger, timido, riservato, vago.
Che ammetteva di essere innamorato di lei.
Non sapeva cosa dire, avrebbe tanto voluto baciarlo.
Lasciare che fossero le loro labbra unite a decidere cosa farne di loro due, almeno per quella sera. Per quella notte.
Per quella vita.
Si strinse il bordo della felpa troppo grande, che portava il suo odore in ogni cucitura, in ogni sfumatura blu.
Aveva i brividi ovunque.
Gli occhi di Mark brillavano come un oceano di stelle.
<< Vorrei... vorrei mostrarti una cosa. Dopodiché potremmo parlare di noi, e decidere che cosa essere, come continuare. >>
La sua voce calda e bassa la fece sussultare di piacere.
C'era qualcosa tra di loro, una greve consapevolezza, che Esther poteva percepire nell'aria satura d'affetto quasi quanto l'odore di Mark.
La consapevolezza di amarsi, di non essersi mai dimenticati, nonostante i chilometri che di lui ne avevano fatto uno studente complicato e di lei una spendacciona che aveva sacrificato buona parte del suo tempo per aiutare la madre a gestire il ristorante. Sognando di rivedere il suo americano, di poterlo di nuovo accarezzare.
La consapevolezza di essere stati forti abbastanza da trovare il coraggio di scegliersi ancora, di ammetterlo, e permettere al passato di scomparire in una nuvola di polvere.
Andato, finito.
Un percorso parallelo che alla fine era deragliato fino a congiungersi in un'unico tragitto.
Tutto smise di fare male, e la tredicenne impaurita che era in lei sparì insieme alla sedicenne che aveva creduto di essere stata abbandonata.
Afferrò la mano tesa di Mark e si lasciò sollevare da lui.
Non lo aveva mai visto tanto serio.
Tanto rigido, e lo trovò bellissimo nel suo modo di non ammettere di essere emozionato.
Aveva un controllo eccezionale, e gli permise di guidarla fino in quella che poi scoprì essere la sua camera da letto.
Cercò tracce di Melanie, ma di femminile non vi era assolutamente nulla lì dentro. Solo una moquette blu scura, le pareti bianche, un letto ordinato di fronte ad un armadio dalle porte scorrevoli e un comodino che ospitava una piccola montagnola di libri.
Solo le sue cose.
Le cose di Mark.
<< No. >>
Quella negazione improvvisa bastò a farla riprendere, potente come una secchiata di ghiaccio dopo otto ore di sonno rigeneratore. << Uh? >>
Mark allargò le braccia, come a voler donare enfasi ed importanza alla sincerità delle sue parole. << Non è mai stata qui, se te lo stai chiedendo. Non troverai niente di lei. >>
<< Ma tu e Melanie non avete... >>
Ehi, frena! Esther si addentò la lingua e strinse i pugni, sconquassata dal battito cardiaco. La solita imprudente.
Kruger arrossì ma seppe nascondere bene l'imbarazzo, schiarendosi ripetutamente la voce. << Andavo io da lei. Insomma, okay, questa è la mia stanza. >>
Silenzio.
<< I-in ogni caso >> basta, perché perdeva ancora tempo a parlare del passato? Esther era lì, nella sua camera, che scrutava le vetrate con aria rapita e un po' accigliata. << Ricordo che volevi vederle. Ti avevo promesso che te le avrei mostrate. >>
<< Posso avvicinarmi? >>
<< Certo. Ma se soffri di vertigini ti accompagno, eh. >>
Esther fece una smorfia - lei, vertigini? Ma quando mai -, poi cominciò ad avanzare verso le vetrate, affondando le punte dei piedi nella morbidezza della moquette. Erano grandi, e ricoprivano il muro quasi per metà, estendendosi in tutta la loro vellutata trasparenza. La vista era qualcosa di indescrivibile.
Qualcosa di glorioso, che la fece sentire impotente e piccola nel suo metro e settantacinque di gambe.
Poggiò entrambe le mani al vetro e si perse a guardare i grattacieli oltre il vialone, neri, enormi, accatastati alla rinfusa in quello che doveva essere stato il folle progetto di ordine voluto dai suoi abitanti.
Rimase ammaliata e affascinata da tutta la grandezza che erano in grado di emanare, tutto lo sfarzo, la potenza. Sembrava che niente avesse potuto scalfirli.
Devastarli, buttarli giù.
Con la loro massa di cemento e i loro mille piani di lavoro, proteggevano New York come angeli custodi dalle ali polverose.
Erano distanti, forse troppo, eppure le parve quasi di poterli sfiorare con la punta del dito.
Da quella posizione riusciva a vedere davvero ogni cosa, ogni dettaglio, e deliberò un gemito emozionato mentre Mark, dietro di lei, ridacchiava soddisfatto. Le luci accese delle finestre brillavano come ambra al sole, i cartelloni pubblicitari, le insegne cangianti che sponsorizzavano la Dior, le lampade ad intermittenza per guidare gli elicotteri, gli aerei, lo sguardo di Dio. Esther ebbe la sensazione di star osservando le mille scanalature di un diamante. Uno stendardo a stelle e striscie sventolava patriottico verso est, venato da mille pieghe ingrigite a causa della neve e della pioggia che avevano sferzato la città durante il loro soggiorno in California. Schiantò il naso sul vetro freddo, appannandolo col fiato tremolante d'emozione.
America. La patria dei sogni, della bella vita.
Ed era stato così anche per lei, partita da Osaka per rendersi utile all'estero, con zero aspettative e tanta voglia di prendere in mano le redini della sua esistenza. Finalmente poteva dirsi di avercela fatta. Aveva realizzato il suo sogno.
Rivedere Mark.
E proprio nella città che li aveva voluti dividere prima del tempo, proprio nella metropoli più grande e affollata degli Stati Uniti, con i suoi otto milioni di abitanti e le sue oltre ottocento lingue, con le sue strade frenetiche e i suoi americani che di americano avevano solo la carta d'identità. Proprio dove l'unica possibilità di incontrarlo era equivalente a quella di diventare miliardaria. Eppure, era successo. Proprio quando mai se lo sarebbe aspettata.
Sorrise e fece scivolare gli occhi neri verso il basso. La strada si estendeva infinita sotto di lei, silenziosa, tranquilla, una striscia color pece a senso unico. Una macchina passò, e il rombo del motore le deliziò le orecchie.
Mark le venne accanto e diede un'occhiata disinteressato.
Doveva essere abituato a quella vista.
<< Ti piace? >>
Esther ritornò a perdere il senso del tempo in mezzo agli scheletri massicci dei grattacieli. << Da morire. Mi ricorda te. >>
Si sedette sulla moquette, e Mark la imitò. << Spiegati. >>
<< Tutta questa forza... sa di te. O forse... forse sei tu che mi fai sentire bene. >>
<< Ti faccio sentire bene? >>
<< Mi fai sentire viva, Mark. Non hai mai smesso di farlo. >>
Avrebbero voluto guardarsi, accarezzarsi, ma entrambi scelsero la via del silenzio impacciato, come due ragazzini di quattordici anni al primo appuntamento. Si fecero cullare dal ritmo incessante della strada, dal vento lontano.
Un clacson risuonò in lontananza, ed Esther immaginò di rispondergli gridando di vittoria, urlando contro quel freddo liberatorio e ordinato tipico della East Coast. Uno strano torpore iniziò ad incanalarsi dentro di lei, mescolandosi al sangue, all'eccitazione a fior di pelle che minacciava di farla piangere di gioia. Si strinse nelle spalle, i capelli le cascarono sul petto mentre abbassava il capo.
Mark respirava calmo accanto a lei.
Nulla avrebbe potuto turbare la tranquillità di quell'attimo eterno.
Il fatto di essere lì, solo loro due, davanti ad una città che era stata severa ma giusta, le sembrava un maledetto sogno. Un rivolo di lacrime le scivolò fino al mento.
Le cadde sulle cosce. Si era promessa di non piangere, eppure non ci era riuscita.
Proprio i grattacieli che li avevano separati. E ora ricongiunti.
Ricongiunti. Di nuovo insieme.
Si spinse verso di lui e gli affondò le dita tra i morbidi capelli color miele, in un impeto improvviso che prese a tamburellarle energico sul cuore.
Non era sicura di riuscire a resistere ancora a lungo all'andare del tempo.
Non avrebbe buttato via altre occasioni.
Lo baciò con tutta la forza che possedeva in corpo, guardandolo negli occhi acquamarina, cercando di sopperire grosse stille di lacrime che continuavano imperterrite a sfuggirle dalle ciglia. Lo ammirò confusa fino a sentire dolore ovunque, fino a quando il respiro affannoso non cominciò a chiedere aria anche dalle labbra. Era un momento tutto loro, il momento in cui si sarebbero dovuti sentire liberi, con le ali alle spalle.
Per lei fu meraviglioso scoprire che era così. Fu stupendo leggerlo nelle sfumature turchesi delle sue iridi, e sorridere emozionata nel rendersi conto che anche lui stava provando le stesse identiche sensazioni.
Serrò le palpebre tremanti e si lasciò avvolgere dal tepore delle sue labbra, delle sue palme contro la guancia, premute fino allo stremo per non farla scappare. Naso contro naso, bocche unite, così vicini da poter fondersi in un solo cuore.
La mora lasciò andare un mormorio vacuo e gli salì esitante sulle ginocchia forti, sui muscoli tesi, incrodati per sorreggere lei e nessun'altra donna. Non smise di baciarlo per nulla al mondo. Sarebbe stata capace di divorarlo.
Lo voleva, per sempre, ora, in quella notte grigia e fredda che pareva essersi stretta intorno a loro come un fuoco accogliente. Ebbe il coraggio di sfilargli la maglietta, di toccargli i muscoli tesi, così caldi da sentire la pelle incendiarsi al solo contatto.
Erano così vicini che quando anche Mark chiuse gli occhi, Esther sentì le sue ciglia bionde solleticarle delicatamente le gote.
Erano umide.
Tremavano.
Si aggrappò ai suoi capelli color miele e lo morse, lo tenne a se fino a quando l'ossigeno nei polmoni si esaurì, affogandole nella gola riarsa.
Si staccarono con un bacio inciso per metà, e l'americano lasciò andare un sospiro febbrile, tutti i nervi puntati sull'amica. Esther gli scostò la frangia dagli occhi e lo guardò orgogliosa, osservò le luci della città disegnargli intricati capolavori sulla pelle sudata, sul petto ampio che si muoveva su, giù, piano.
Sorrise ansante.
E quando lui ricambiò, si sentì la ragazza più felice dell'universo. << Voglio baciarti ancora >> lo afferrò per i ciuffi che gli ricadevano sulle orecchie e lo attirò a se piangendo.
Era legale sentirsi tanto fragile e scossa?
Mark le asciugò una lacrima con la punta del naso, e prima di riappropriarsi ancora di lei si lasciò cadere sulla moquette. Poi la abbracciò, la tenne forte tra le sue braccia senza smettere di scrutarla orgoglioso, fiero.
Era quella l'essenza della libertà. Lo sapeva, lo aveva sempre saputo, e il solo pensiero di essere riuscito ad intrappolarla addosso a lui lo fece gridare dentro.
<< Voglio che New York ci guardi. >> Esther gli spinse i ciuffi della frangia all'indietro e gli percorse la piccola cicatrice che gli aveva slabbrato un piccolo segmento di fronte quando durante il FFI era caduto di testa, bagnando il campetto sterrato di sangue.
Il suo Mark.
Il suo bellissimo Mark.
<< Voglio che New York ci guardi, questa notte. >>
Lasciò che le mani di lui le afferrassero il volto, che i suoi occhi chiari la scrutassero attenti.
La studiassero sotto le luci della città.
<< Voglio che ci guardi e dica “cazzo, sono stati più forti loro”. >>
<< Allora dimostriamoglielo. >>
La voce rauca di Mark la fece sciogliere sul suo addome nudo, la costrinse a incurvarsi su di lui con gli occhi gonfi di lacrime. La sensazione del seno premuto contro il suo petto forte la scosse come il fuscello di una pianta spezzata, una scarica elettrica le rizzò i peli delle braccia. Era la prima volta che l'americano le rivolgeva la parola da quando si erano baciati. Quel tono intriso di passione e controllo vacillante di follia la fece impazzire.
<< Facciamole vedere che non ci fotterà ancora. >>
<< Facciamoglielo vedere, Mark.. >>
Con un colpo deciso del bacino Mark riuscì a capovolgere la situazione a suo vantaggio, sorridendo emozionato.
In un attimo fu lei quella sbracciata contro la moquette, la felpa sollevata a scoprirle la pancia bianchissima.
L'americano la cinse tra le ginocchia e le strinse le mani, tastando ogni fibra delle sue palme sudate, captando ogni suo battito cardiaco, ogni suo respiro mozzato ancora prima di giungere al termine.
Chinò il capo e le carezzò il naso alla francese con la lunga frangia.
<< Permettimi di essere libero con te, Esther. >>
<< Ti amo, Mark. >>
<< E io pure, Esther, tanto >>
La baciò con grinta, lasciando che i loro corpi trovassero il loro perfetto punto di aggancio tra i ciuffi blu del tappeto di una stanza che all'improvviso sembrava essersi rimpicciolita un po' troppo. Non si era mai sentito tanto libero e vivo in tutta la sua esistenza. Le afferrò i fianchi con mani tremanti, per poi cacciarle le dita sotto la felpa. Le accarezzò il profilo del seno, percorse la spallina stretta.
La guardò, e quando la vide arrossire la liberò dalla soffocante presa del reggipetto, sganciando i ferretti di metallo con tocco agile.
Cercò di rammentarsi come si faceva l'amore, quando si rese conto che non gli interessava.
Non si era mai sentito così preso da una ragazza, così pieno di lei, gravido del suo profumo e dei suoi modi. L'amava e la consapevolezza di aver resistito a tutto, pur di finire così vicino ai suoi ricci color malva, bastò a convincerlo che gli sarebbe davvero bastato poco per essere più felice della felicità stessa. Che ci era già anzi, e che non avrebbe potuto chiedere niente di meglio dalla sua vita. Le tolse la felpa, la tirò contro la vetrata appannata dei loro fiati e la coprì col suo corpo prima che l'esposizione potesse darle qualche disagio.
Al contatto rabbrividirono di piacere.
Esther si aggrappò ai suoi capelli ribelli, lo chiuse tra le cosce e gli strinse il labbro inferiore tra i denti.
Fu un bacio violento, rude, pieno di amore.
Fu in grado di cancellare ogni traccia di angoscia, ogni dolore sofferto, ogni lotta contro un invalicabile muro di vento.
Ogni serata passata a pensarlo, con i capelli odoranti di fritto e le mani spossate, stesa su un letto enorme a guardare le gocce d'acqua schiantarsi sulla finestra.
A chiedersi dove fosse, cosa stesse facendo.
A chiedersi se sarebbero finiti a fare l'amore così, davanti alle luci di una città che per quella notte, ebbe occhi solo per loro.


 
Una vibrazione poco distante costrinse gli occhi di Esther a schiudersi piano, come le ali di un piccolo uccellino appena uscito dall'uovo. I grattacieli di New York le inondarono le iridi di luce, e istintivamente si portò una mano al viso, per schernirsi da tutta quella inusuale potenza.
Che ore potevano essere? E soprattutto, come diavolo ci era finita sul letto di Mark? Ricordava di essersi addormentata sulla moquette.
Forse doveva avercela messa lui. A quel pensiero si fece piccola sotto le grandi coperte bianche che profumavano di rosa, deliziata dalla mano dell'amico premuta docile contro la sua testa.
Emise un mormorio e sollevò un po' il capo, alché Mark rispose lasciando cadere dolcemente la mano lungo la sua schiena coperta di capelli. Quando incrociò lo sguardo con quello di lui, rivedere i suoi occhi, così chiari e limpidi, dopo la notte che avevano passato, bastò a farla arrossire.
<< Oh. >> l'americano la grattò affettuoso tra i capelli. << Hi, Est Coast. >>
Esther sorrise a quel nomignolo. << Sta suonando qualcos--
<< Sì. La sveglia. >> Mark la bloccò con uno scatto del dito, e nel compere l'azione, il cellulare gli fece notare di aver perso ben tre chiamate da parte di Dylan. Il solito rompicazzo, non c'era modo di tenerlo fuori dalla propria esistenza.
Sorrise e lo fece scivolare tra le lenzuola stazzonate.
Lo avrebbe richiamato più tardi.
<< Non volevo svegliarti. >>
<< Non è stata colpa tua, tranquillo. >> Esther si massaggiò gli occhi increspati di sonno. Non ricordava di essersi mai fatta una dormita tanto bella e rigenerante. Il letto di Mark era comodo come una soffice nuvola di zucchero, i cuscini foderati di azzurro portavano ancora il calore dei loro corpi vicini. << Devi... andare a lavorare? >>
<< Dovrei cominciare a prepararmi, sì. >>
<< Ma... >> Esther si sforzò di controllare le lancette dell'orologio posato sul comodino alla sinistra di Mark. << Mark, non sono nemmeno le tre! >>
<< Sono le due e trentuno, non voglio e non posso permettermi di arrivare tardi al lavoro. >>
La morsa scosse il capo, stordita. A casa del biondo era tutto così piacevole e calmo che per un istante si era persino dimenticata del traffico. Non trovò la forza di dire altro, vuoi per il sonno, vuoi per il tepore delle braccia di Mark, strette dolcemente intorno a lei.
Avrebbe dato per rivivere una notte del genere.
Per rifarlo ancora, e piangere di nuovo abbracciata a lui. Le sarebbe mancato. << E io? >>
<< Tu puoi restare qui, se vuoi. A patto che prima di andare a lavorare mi chiudi la porta di casa. >>
<< Potrei lasciartela aperta, solo per farti incavolare. >> lo disse e lo baciò rapidamente, prima di cominciare a giocare con i suoi capelli biondi. Li suddivise sulla federa del cuscino, li intrecciò e li pettino con delicatezza, soddisfatta della loro lunghezza. Provava un timido imbarazzo per tutto quello che era successo, ma lui sembrava sereno. Sicuro di se, delle sue convizioni, del suo coraggio. Le strinse i ricci in una coda improvvisata e li lasciò cadere tutti di un lato.
Una cascata di boccoli le coprì la vista, facendola ridere. Non le conveniva diventare la personificazione dell'imbarazzo in persona, non era quello il caso.
Mark stava facendo di tutto pur di farla sentire a casa.
E in effetti, era davvero così.
<< A che ora smetti, tu? >>
<< Di sera. >>
<< Pure io. Aspettami lì, allora. Quando finisco il turno vengo a reclamare le mie chiavi, non ti preoccupare. >>
<< D'accordo, te le farò trovare pronte. A patto che torniamo qui, poi. >> Esther si sollevò sugli avambracci e lo guardò con la coda dell'occhio mentre lui sospirava dolce d'amore caldo, gli occhi chiari velati di consapevolezza. Poi corrucciò le labbra sottile ed improntate del suo stesso rossetto, un po' confuso. << Ohoh. Qualcuno qui non ha voglia di andare a salvare il mondo, temo. >>
<< Tu avresti voglia di rivedere Erik dopo due settimane passate insieme a lui sotto lo stesso tetto? >>
Scoppiarono a ridere insieme, così forte che per un attimo il traffico senza fine della città sparì coperto dalle loro voci potenti. Lo abbracciò di slancio, facendolo sprofondare tra le coperte con una risata.
Cosa avrebbe pensato la piccola Esther di quel momento? Probabilmente sarebbe saltata di gioia, avrebbe sventolato in aria un cartellone con incisi i loro nomi e lo avrebbe alzato talmente in alto da permettere a tutto il mondo di notarlo.
Si tirò su quel tanto che bastava per poterlo guardare negli occhi. << Le notti di settembre finivo per pensarti sempre. >>
Mark la guardò come si guarda un cannato.
Okay, meglio se si spiegava.
<< Sì, dai, settembre! La scuola, le foglie autunnali. Comprendi, no? >>
<< Mi... mi pensavi. >>
<< Sì. Quando fuori pioveva, e i compiti mi guardavano minacciosi dalla scrivania in attesa di essere finiti. Mi sembrava che la vita sarebbe potuta essere un po' più... >> nel cercare il termine adatto a descrivere la situazione, Kruger le rubò un timido bacio di incoraggiamento. La stava ascoltando. Era adorabile. << un po' meno schifosa, accanto a te. >>
Ed era così.
Tutte le volte che rientrava sfinita dal ristorante della madre, con sulle spalle il peso enorme di una giornata di scuola passata a spaccarsi il cervello davanti alle interminabili ore di biologia.
Quando si scioglieva i capelli maleodoranti e si buttava a testa bassa sotto la doccia, immergendosi nell'odore forte della vaniglia pregando Dio di levarle almeno un po' del lezzo del lavoro dalla pelle.
E quando poi, in asciugamano, apriva i libri e moriva dinanzi alla mole di roba da studiare.
Era in quei tragici momenti che il suo biondo colpiva, spietato come una freccia piantata nel cuore.
Non che il resto delle ore non lo pensasse, chiaro.
Ma quando si ritrovava sulla sedia della scrivania, a colorare il libro con gli evidenziatori, la mente partiva per New York.
E subito si immaginava a dormire tra le sue braccia, dove tutto sembrava riprendere colore.
Anzi, dove tutto riprendeva colore. Era una conferma, non più un pensiero.
<< Ti amo, Mark. >>
<< Anche io ti amo, Est. >>
Quella franca verità la fece sospirare contenta. Era così emozionata che avrebbe potuto farsi tutti i quindici piani in salita e discesa, e salita, di nuovo.
<< E cosa immaginavi? Tanto per curiosità. >>
<< Di farti. >>
Mark scoppiò a ridere, poi le saltò addosso con un balzo e la bloccò tra le lenzuola, facendola gridare.
<< Mark Kruger, devi andare a lavorare! >> esclamò Esther, divertita, e gli posò le mani sul petto nudo. Ascoltò il battito del suo cuore come la musica più emozionante che avesse mai potuto ascoltare in tutta la sua vita. << Sei un poliziotto adesso! >> gli carezzò le clavicole con un sorriso. << Torna serio! >>
<< Ma adesso non sono al lavoro. Non sono un poliziotto. >> la voce dell'americano si ridusse ad un flebile sussurro. << Sono Mark, sono Mark in compagnia di Esther. >>
<< Ho paura di sapere cosa accadrà. >>
<< Non resta che scoprirlo. >>
Esther avrebbe voluto baciarlo ancora, lasciarsi inebriare dalla forza di quel ragazzo che più i minuti passavano e più sentiva e sapeva di amare.
Ma Mark le impedì di portare a termine le sue piccole voglie, togliendosi da sopra di lei e scattando in piedi come un soldato.
La mora emise un mugolio deluso, si coprì i seni con le coperte e lo osservò aprire l'armadio con uno scatto energico del braccio. << Ti si vede tutto il culo. >>
Mark si tirò su i boxer facendoli schioccare sulla pelle.
<< Sei carino in mutande. Te l'ho mai detto che hai un culo pazzesco? Me ne sono accorta al matrimonio di Bobby. Sono eoni che volevo dirtelo. >>
In tutta risposta, il biondo la ignorò di proposito ed estrasse la sua amata divisa blu. Poi se la issò sulle spalle, si diresse verso la porta e prima di sparire in bagno la guardò.
Aggrottò i sopraccigli e le concesse il lusso di un sorrisetto divertito.
Esther rise.
Suonava tanto come un invito a seguirlo, e naturalmente lo fece, portandosi con se tutta la coperta.
L'euforia di sapere che cosa sarebbe successo da quel giorno in poi le gravava vivida nel petto; si sentiva energica, piena di una grinta in parte dovuta alla splendida notte passata in compagnia del biondo.
Sorrise e lo guardò cambiarsi con rapidità, armarsi di tutto punto per andare a sistemare le cose in un mondo forse troppo ingiusto, ma pur sempre bellissimo.
Che fosse il mondo criminale o il suo, beh.

Non restava che scoprirlo.
 
- end


 
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mark ed esther che fanno l'amore per me è un sogno che si avvera. 
eh già. con mio rammarico annuncio che anche questa long, purtroppo per me, è finita. davvero, ho il magone nel metterci un punto di fine, perché per quanto io cerchi di negarmelo, per quanto cerchi di non ammetterlo, inutile nascondere l'evidenza.
Mark ha sempre fatto parte della mia vita. è sempre stato un personaggio fondamentale, l'ho sempre amato, al di là dei suoi tratti fisici, che possono piacere come no - per la piccola me di dodici anni era stato un colpo al cuore, quel giorno d'estate, vederlo alla TV fare una clamorosa figuraccia contro Tiago Torres (?), e tutt'ora lo è, tutt'ora detiene un piccolo posticino nel mio cuore, se penso a tutto il mondo che gli ho creato intorno, a quanto mi senta legata al suo personaggio. la vecchia disaster era stato un primo tentativo di far conoscere il mio punto di vista su di lui. ho fallito su tanti aspetti, per alcuni era troppo dolce, per altri troppo irreale, per questo ho sentito la necessità di riportare un sequel in cui Mark fosse, sostanzialmente, l'abbreviazione tra: quello dell'anime, evasivo, allegro, energico, maturo, e quello del gioco, che forse pare quasi il suo contrario: permaloso, pieno di problemi, serio, ligio al dovere, sospettoso, razionale. insomma, molto policeman, per intenderci
mi rendo conto di, molto probabilmente, aver fallito anche in questa storia, ma d'altro canto, non credo che qualcuno sia mai riuscito a scrivere una long su un personaggio tanto bello e complesso come lui. io lo amo tanto, davvero. per me è stupendo
quindi, nel mio piccolo, questo è un omaggio in primis dedicato a Krugerozzo ; spero di poter, un giorno, tornare a scrivere altro su di lui! e spero vivamente che comparirà anche nella nuova serie di Inazuma Eleven, la suddetta "Orion". ma staremo a vedere.
come secondo, volevo ringraziare tutti voi per aver seguito una storia che davvero, non mi aspettavo potesse essere calcolata tanto. mi rendo conto che la sezione abbia perso un po' di smalto, in questi anni, e che moltissime autrici brave abbiano deciso o di mollare o di cambiare fandom, però non bisogna certo arrendersi; chi ha talento e passione deve mettercela tutta. la MarkxEsther è una crackpairing. non esiste - potrebbe funzionare, ma di per sé non esiste. un po' come la MarkxSuzette. se sono riuscita, io, con una coppia campata per aria, ETEROSESSUALE perlopiù (?????), ad attirare tanti lettori, non vedo perché voi non possiate riuscirci, per cui vi dico solo questo. se avete idee in campo, liberatele. davvero. il fandom ne ha bisogno. ringrazio di cuore tutti quelli che hanno seguito dal primo capitolo la long, chi ha smesso di farlo, chi si è aggiunto, chi ha recensito, chi ha smesso e chi, sperò, vorrà farlo.
i commenti sono sempre accettati, adorati e venerati, critiche incluse <3
vi voglio tanto bene.
a presto!
xoxoxo


Lila

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