The DriveShaft - Greatest Hits di emrys_ (/viewuser.php?uid=95149)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Traccia 1 ***
Capitolo 2: *** Traccia 2 ***
Capitolo 3: *** Traccia 3 ***
Capitolo 4: *** Traccia 4 ***
Capitolo 5: *** Traccia 5 ***
Capitolo 1 *** Traccia 1 ***
doomsday2
Traccia 1
Doomsday – 3.40
27 Marzo
Eravamo finiti in un parcheggio,
il buio era quasi totale solo la luce della sigaretta di Turner dava colore
alle gradazioni della notte.
Era appoggiato al muro umido con curata nonchalance. Cominciai a pensare che
anche i suoi respiri non fossero naturali, ma studiate incanalature di aria nei
polmoni. Ero di fronte a lui. Mi strinsi nelle spalle, nervosa. Osservai le sue
labbra arricciarsi attorno al filtro e lo sentii inspirare. Aveva un alone
intorno che mi faceva credere di essere davanti a qualcosa di sovrannaturale. Mi
sentivo come se stessi guardando una foto oscena e proibita. Non riuscivo a
smettere.
Turner pareva una divinità mortale. Un Dio corrotto.
Se c’era una vita dopo la morte a lui non importava.
“Some say it gets better after this
Waiting for a better life
I'm waiting to get this”
Gettò il
mozzicone di sigaretta e lo schiacciò con il tacco dello stivale. Pareva
muoversi in un’altra dimensione con negli occhi la promessa di concederne un
assaggio a me.
“I'll take you to places where you've
never seen
I'll take you to a world where you've been inside dreaming
If you wanna go,I will take you to the top
Leave it off cause it never gonna stop”
Turner era sincero. Si presentava per quello che era, un’anima torbida e nera
quasi quanto i suoi occhi di antracite. Era un dannato e indossava la sua
condanna come un giubbotto di pelle.
Mi tirò a se con poca grazia. Mi strinsi al suo petto e feci una smorfia per l’insensibile
intrusione della sua lingua nella mia bocca. Turner non aveva mai finto con me.
Non mi aveva mai promesso rose rosse e poesie. Mi aveva mostrato la sua anima.
Mi aveva mostrato il suo essere per quello che era.
Un peccatore.
"What you see is what you get with me
What you see is what you get with me
What you see is what you get with me
What you see is what you get..."
“… Ma in breve mi sentii impallidire e cominciai a desiderare in cuor
mio che se ne andassero. La testa mi doleva e mi sembrava che le orecchie mi
rintronassero. Ma gli uomini seguitarono a sedere e a chiacchierare. Il ronzio
delle orecchie si fece più distinto… Diveniva sempre più intenso, sempre più
distinto: ripresi a discorrere ancor più animatamente per sbarazzar…”
Il tintinnio della porta mi convinse a sollevare gli occhi dal libro.
Istintivamente lancia un’occhiata all’orologio che segnava l’una e dodici
minuti. Se non avessi visto quattro persone davanti a me, avrei creduto di
sentire rumori inesistenti come il protagonista del racconto che stavo
leggendo.
Com’era ovvio riconobbi i quattro uomini in un istante. Mi guardavano con
alterigia da dietro il bancone e sembrava si fossero messi in posa per farsi
fotografare. Ad ogni modo finsi indifferenza. Vedere persone famose in questa
zona di Londra non era così raro.
Con calcolata lentezza feci un’orecchia sul libro e lo risposi sul bancone sul
quale tenevo i piedi. Mi lasciai andare all’indietro appoggiando la schiena
alla sedia come se davanti a me non ci fossero gli Arctic Monkeys.
«Begli anfibi» disse quello più vicino a me. Alex Turner in carne ed ossa.
Risposi con una scrollata di spalle ed uno sguardo di sfida.
«Chiedo scusa signori» sorrisi «il ristorante è chiuso» nessuno di loro mosse
un muscolo per un paio di secondi, dopodiché O’Malley borbottò un “cerchiamo da
un’altra parte” e fece per andarsene.
Turner tuttavia parve non avermi sentito. Si avvicinò al bancone, vi si
appoggio con l’avambraccio e con un movimento fluido si tolse gli occhiali da
sole rivelando due enormi occhioni neri contornati da delle occhiaie
altrettanto grandi.
Mi guardò dritto negli occhi con la sicurezza di chi era abituato a farlo e mi
sorrise accondiscendente.
«La porta era aperta»
Feci un mezzo sorriso sarcastico, aveva ragione, dovevo aspettare che Liam
finisse il suo turno e mi ero dimenticata di chiudere l’ingresso, ma di certo
non avrei lavorato di più a causa di una mera questione retorica.
«Ciò non toglie che siamo chiusi» questa volta fui meno cortese.
Turner distolse lo sguardo e si concentrò sui miei stivali, fece per sfiorarne
uno con un dito, ma prontamente mi ritrassi. Sorrise con l’obbiettivo di
schernirmi.
«Sono sicuro che possiate fare un eccezione» tornò a guardarmi «per noi» calcò
il “noi” con un cenno della testa verso i suoi compagni. Se anche fossi stata
ben disposta nei suoi confronti (e sia chiaro non lo ero) quella semplice
allusione alla sua celebrità mi fece irrigidire ancora di più. Odiavo gli
arroganti, come se solo perché faceva parte di una band famosa il Signor Turner
fosse immune alle leggi degli uomini.
Anche io lo schernì con un sorriso e non gli risposi nemmeno limitandomi a
scuotere la testa in senso negativo.
Serrò la mascella.
Cook, che fino a quel momento era rimasto immobile ad assistere insieme agli
altri due, si avvicinò nella speranza di convincere il suo capricciosissimo
cantante a trovare un altro ristorante. Gli sussurrò qualcosa che non mi presi
nemmeno la briga di capire.
Turner
continuò ad osservarmi impassibile. I suoi occhi troppo grandi sembravano
ardere di fiamme nere, era alterato e la cosa mi piaceva. I muscoli della
mandibola contratti elargivano ulteriore magrezza al suo viso appuntito mentre
il ciuffo scomposto gli copriva la fronte.
Sembrava in procinto di cedere, lasciandomi la soddisfazione di aver privato
una presuntuosa star internazionale della sua cena, quando il mio capo e Megan
fecero la loro comparsa richiamati dalle nostre voci.
«Withmore adesso parli anche da sol….. Salve» il mio capo parve spaesato quando
si trovò dieci paia di occhi a fissarlo. «In cosa posso esservi utile?» domandò
grattandosi nervosamente i pochi capelli biondi che gli erano rimasti.
«Vogliamo mangiare» rispose Turner senza troppi preamboli. Con la coda
dell'occhio vidi Megan sbiancare alla vista del cantante che le riservò un
sorriso così malizioso da farla sussultare.
Porco.
«Mi
dispiace, ma il locale è chiuso» guardai Turner con la soddisfazione di una
bambina alla quale i genitori avevano appena dato ragione e di nuovo gli
concessi un mezzo sorriso sarcastico.
Eppure, la vittoria mi scivolò tra le dita nel giro di tre secondi. Quelli che
erano serviti a Megan per avvertire il nostro capo della enoooorme importanza
degli nostri ospiti.
«Oh bè, in questo caso…..»
Stupida, stupidissima Megan.
Capii che se avessi voluto salvarmi avrei dovuto mettere le cose in chiaro fin
da subito. Così mentre il Signor Hutchins si rivolgeva agli Arctic Monkeys con
un tono tanto untuoso quanto i suoi radi capelli, mi alzai dicendo chiaramente
che il mio turno era finito. Il gesto mi garantì da un lato il sorriso adorante
di Megan e dall’altro un’occhiata torbida dal capo.
Poco male.
La mia collega fluttuò verso il bancone e in un batter di ciglia il grembiule
nero della divisa andò a fare compagnia alla sua camicetta azzurra… che prima
non era così sbottonata o sbaglio?
Roteai gli
occhi al cielo del tutto indifferente alla scena, anzi per fare un’uscita di
scena degna di nome me ne sarei andata sbadigliando.
«Voglio lei»
Mi bloccai.
Avevo sentito bene?
«Al» Helders
si era avvicinato all’amico e collega e lo stava tenendo per un braccio «Dacci
un taglio.»
«Cazzo Matt,
non sei mio padre» rispose l’altro divincolandosi. «Ho detto che voglio lei»
ripeté indicandomi con gli occhiali da sole. Lanciò un’occhiata al mio capo
come a dirgli che doveva provvedere ad esaudire il suo desiderio.
«Il mio
turno è finito» dissi con una freddezza artificiale. Scandì bene le parole e mi
diressi verso la cucina.
Il Signor
Hutchins mi piombò addosso con l’ardore di un falco che artiglia una preda, e
le sue dita mi strinsero il braccio con la stessa forza. Non l’avevo
nemmeno sentito arrivare. Mi sussurrò che se non avessi mosso il culo mi
avrebbe messo sotto con la sua utilitaria e che l’avrebbe fatto passare per un
incidente. Ovviamente mascherò il tutto nell’atto di consegnarmi il grembiule.
Espirai violentemente dal naso e borbottai anche un paio di “cantante del
cazzo”.
«Vado» presi il grembiule.
Megan mi guardava con rancore.
Il capo con odio.
E Turner con un mezzo sorriso sarcastico.
Il Signor
Hutchins insisté nel farli accomodare in quello che riteneva il tavolo
migliore, che guarda caso era proprio quello perfettamente visibile dalla
strada. I quattro di Sheffield si stavano ancora facendo leccare il culo quando
entrai in cucina.
Sbattei la porta consapevole di essermi fatta sentire.
«Andy»
chiamai «Riaccendi tutto, ci sono altri quattro clienti»
«Ma abbiamo
chiuso!»
«A quanto
pare non per quei fottuti Arctic Monkeys»
«Arctic
Monkeys?» Liam balzò fuori da dietro la sua postazione di lavapiatti e mi
guardò con gli occhi sgranati. Persi un battito nel vedere quella meraviglia zaffirina.
Risposi con un cenno della testa verso la sala e lui corse ad affacciarsi
all’oblò della porta.
«Mi stai
dicendo che Alex Turner, Matt Helders, Jamie Cook e Nick O’Malley sono qui?»
«Non te lo
sto dicendo, te lo sto mostrando»
«Non ci
posso credere» si mise le mani nei capelli e guardò attraverso la finestrella
con la bocca aperta. «Quello è Alex Turner! E’ seduto nel nostro ristorante!»
«Nel mio
ristorante vorrai dire!» Il capo entrò spalancando la porta e per poco non
colpì Liam in pieno viso, ma non parve curarsene. Quella sera ero io al centro
dei suoi pensieri.
«Lyla vedi
di fare bella figura o giuro su Dio che ti licenzio» mi colpì più volte sulla
spalla col suo indice grassoccio «Tu e lui!» strillò con voce nervosa indicando
Liam. «Sorridi e sii carina per l’amor del cielo. Anche se ti è
difficile.»
Ad oggi non
so con quale stoica forza di volontà mi trattenni dall’imprecare e mandare al
diavolo lui, il ristorante e quei fottuti Arctic Monkeys, ma resistetti,
concedendomi un paio di imprecazioni a mezza voce non appena il Signor Hutchins
tornò in sala.
«Lyla, è una
figata assurda!» Liam stava molto meglio di me. Lui era al settimo cielo. Non
riuscì a trattenermi dal sorridergli, in fin dei conti lo capivo. Io e lui
suonavamo in una band, rispettivamente voce e chitarra dei DriveShaft. Certo,
non facevamo altro che piccoli concerti in pub microscopici, ma anche i Beatles
hanno fatto la loro gavetta al Cavern, no?
Liam era
convinto che anche per noi il momento sarebbe arrivato molto presto. Mi
ripeteva come un mantra quella frase, incolpando il mio pessimismo del nostro
mancato successo discografico. Devi
crederci Lyla, produrremo un album! E’ il nostro momento!
«Cazzo Lyla,
è il nostro momento» come immaginavo. Roteai gli occhi al cielo. «Scommetto che
se Alex Turner ti sentisse cantare ti pregherebbe di duettare con lui!»
«Come no»
risposi annoiata. Ovvio, anche per me la nostra band era di vitale importanza.
Aveva priorità su ogni aspetto della mia vita, ma quella sera ero davvero
troppo stanca ed incazzata per fingere di credere alle sparate di Liam. Il
sorrisetto stronzo di Turner mi aveva rovinato l’umore e nemmeno una nomination
ai Grammys mi avrebbe fatto venire voglia di sorridere.
Ad ogni modo
mi sforzai di farlo, ma solo per amore di Liam. All’epoca facevo tutto per
amore di Liam e lui non sembrava nemmeno in grado di accorgersi della mia
esistenza.
Bene, non solo il sorriso stronzo di
Turner ci si metteva anche la consapevolezza del mio amore non corrisposto a
rovinarmi la giornata. Il mio umore crollò più velocemente della borsa di Wall
Street nel ’29.
Sbuffai e cercai di farmi coraggio. Prima cominciavo, prima finivo.
Raggiunsi i
fantastici quattro con in faccia un sorriso di plastilina. Evitai accuratamente
di guardare Turner. Ero convinta che lui avrebbe scoperto subito la mia finta
usandola contro di me.
«Cosa volete
ordinare… Signori?»
«Scusaci se
ti abbiamo obbligata a rimanere oltre l’orario di chiusura.» sorrisi ad
O’Malley e gli dissi che non doveva assolutamente
preoccuparsi vantandomi di uno stakanovismo che non era del tutto sincero. Potevano
farmi tutte le scuse del mondo, ma se Turner continuava a guardarmi con quei
suoi occhi da cucciolo uniti al sorriso da lupo, a me non sarebbe cambiato
nulla.
Il soggetto dei miei pensieri si rimise gli occhiali da sole e si appoggiò alla
sedia in una controllata posizione casuale. Anche se non potevo vederlo, sapevo
che mi stava guardando con la stessa imperturbabilità con la quale avrebbe
guardato un film al cinema.
Cominciai a prendere le loro ordinazioni e ero (quasi) arrivata a pensare che
per il resto della serata Turner se ne sarebbe rimasto zitto e perso nei suoi
pensieri brumosi, ma evidentemente quella non era proprio la mia giornata.
«Come ti
chiami?»
Lo guardai
per qualche secondo allettata dall’idea di mentire, ma Turner non si meritava
nemmeno le mie bugie.
«Lyla.»
«Il nome
intero, bambolina»
«Lyla»
«Così i tuoi
genitori hanno deciso di chiamarti con un soprannome, eh?»
Sollevai lo sguardo su di lui e il non poterlo vedere negli occhi mi innervosì.
Spinsi lo sguardo contro il nero delle sue lenti, ma niente, capire cosa gli
stesse passando per la mente era impossibile.
Alzai un
sopracciglio per mascherare l’irritazione. Pensai di offenderlo.
Si, dai.
Lo avrei offeso.
Presi fiato «Ophelia» dissi, invece.
Wow.
Ci sono proprio andata giù pesante.
Sbuffai più
per la mia ignavia che la boria di Turner.
«L’ultima
Ophelia di cui ho sentito parlare è morta. Suicida» specificò facendo roteare
il coltello tra le dita lunghe e magre «Vedi, amava un pazzo. Che poi,
ironicamente, non era davvero pazzo quindi lei si è ammazzata per niente» non
capivo dove volesse arrivare, ma mi sembrava che mi stesse insultando. «Direi
che Ophelia sia un nome disgraziato» concluse.
Rimanemmo
tutti in silenzio. Lo sguardo omicida che Helders lanciò al suo cantante mi
lasciò interdetta. Cosa stava succedendo?
Alex tirò su col naso e piegò il collo come a volersi sciogliere i muscoli
«Che c’è? Parlavo di Shakespeare! Adesso non si può più nemmeno parlare
dell’Amleto?» domandò contrariato come se non fosse stato lui a dare inizio a
questo conversazione di cattivo gusto.
«Cristo Alex!» sbottò Cook esasperato «Stai esagerando, la prossima volta non
t…»
«L’ultimo
Alexander di cui ho sentito parlare» interruppi «E’ noto in Russia per aver
ucciso almeno una cinquantina di persone con un martello» conclusi allungandomi
per farmi consegnare i loro menù.
Mi sentii
estremamente fiera di me stessa. Mi aveva sfidato e aveva incassato il colpo.
Certo è che
lo incassò con classe. Non riuscì a trattenere un ghigno «Mi piaci» mi disse
facendo schioccare la lingua.
Non risposi
non avendo idea di come farlo. Stavo per prendere proprio il menù che giaceva
intoccato davanti a lui quando con uno scatto me lo rubò da sotto le mani.
«Anche se ti
meriteresti una punizione per la tua insolenza»
Aggrottai la
fronte e feci una smorfia incredula con la bocca. Avevo sentito bene?
Turner mi guardava protetto dalla barriera fumé dei suoi Ray-Ban mentre sul
tavolo cadde un’atmosfera da obitorio.
Feci il giro
del tavolo e mi avvicinai a lui per cercare di prendere il menù, ma di nuovo il
cantante me lo impedì divertendosi nel farlo. Tirò di nuovo sul col naso e girò
il viso verso di me.
Notai che il movimento del suo collo sembrava incontrollato. La testa gli
pendeva sempre da un lato e faceva fatica a tenerla dritta.
La mano che teneva il menù era vittima di un tremore involontario.
Che cazzo stava succedendo?
«Alex ora
basta!» il ruggito di Helders mi fece sobbalzare, si avventò sulla mano di
Turner che gli concesse di appropriarsi del menù senza resistere. «Ti stai
rendendo ridicolo» disse porgendomi il menù con delle scuse nello sguardo.
Turner
sbuffò e alzò la mani come un ladro che si arrende davanti all’eventualità
dell’arresto.
«Scusalo»
disse Cook richiamando la mia attenzione «Quando è stanco, Al diventa un vero
stronzo»
Allora non
ero l’unica ad averlo notato.
«Stanco?»
«Siamo
appena tornati dalla Nuova Zelanda. Era l’ultima tappa del tour» Mi sentii un
po’ in colpa, ma feci di tutto per non darlo a vedere.
Cook, O’Malley e Helders
erano persone a posto non avrei dovuto essere così maleducata prima.
«Piccola
Lyla» Turner mi accarezzò un braccio «Cosa mi consigli di prendere?»
Mi
allontanai con uno scatto «Un pungo in bocca»
«Grazie
davvero e scusate. Era il terzo ristorante che non ci lasciava mangiare e non
ne potevamo più» sorrisi a Matt Helders ripetendo per l’ennesima volta che era
stato un piacere avere gli Arctic Monkeys da noi a cena.
Bè, non
tutti gli Arctic Monkeys, ma questo non lo specificai.
Tesi la
giacca ad O’Malley aiutandolo ad infilarla mentre Jamie Cook si complimentava
col cuoco.
Da quando lo
avevo caldamente invitato a farsi del male, Turner non aveva più aperto bocca,
anche se non so se fosse stato per la mia acidità o la sua condizione non
proprio perfetta (avevo notato che barcollava)
Mi allontanai dai quattro di Sheffield, che si dovevano soffrire un’ultima
leccata di culo dal Signor Hutchins e cominciai a pulire il tavolo.
«Voglio
portarti fuori a cena» sussultai e mi girai di scatto trovandomi Turner dietro
le spalle.
Si era tolto
gli occhiali e le macchie violacee che gli contornavano gli occhi sembravano
peggiorate. Trovai ridicolo il mio pensiero eppure convenni che quell’aria
stanca un po’ bohème gli donava. Il viso ancora troppo infantile assumeva un
carattere diverso grazie ai tratti tipici della mancanza di riposo.
Lo osservai curiosa di scoprire se c’era anche solo una minima macchia su quel
viso perlaceo e schifosamente perfetto.
Niente.
Non un neo, una venatura. Il suo viso era una bianca distesa di omogenea
perfezione diafana. Nemmeno la barba osava crescere o intaccare quella pelle di
seta.
Mi chiesi se non stessi parlando con un disegno in bianco e nero invece che una
persona. Il sangue pareva vergognarsi all’idea di colorirgli gli zigomi alti e affili.
L’unica nota di colore era il labbro inferiore molto più grande di quello
superiore e volutamente lasciato socchiuso. Sembrava una rosa in mezzo ad un
deserto di neve.
Gli occhi forse erano troppo grandi per un viso così scarno, ma l’espressione
da cucciolo abbandonato stava così bene su quella faccia da bimbo che arrivai
alla conclusione che quelle perle nere fossero state volute così da una forza
più grande. Qualcuno le aveva create dal nulla con devozione e riserbo. Per il
proprio piacere e secondo il proprio gusto. Come un pittore il quale finito il
suo dipinto si allontana di un passo per vederne la perfezione nell’insieme del
tutto.
Stava ancora
aspettando una risposta. Con aria annoiata fece schioccare la lingua.
«Allora?»
«Cosa?» domandai ancora persa nell’oblio nero dei suoi occhi.
«Dove vuoi
andare? Ti ci porto»
«Con te non
voglio andare proprio da nessuna parte»
«Come fai a
dirlo?» Aggrottai la fronte e lo guardai come se mi avesse appena detto che il
basso non era uno strumento importante quanto la chitarra. Decisi di ignorarlo
e gli diedi le spalle, ricominciando da dove mi aveva interrotto.
«Perché non
vuoi venire a cena con me?»
«Perché non
mi piacerebbe»
«Come fai a
sapere che una cosa non ti piace se non l’hai mai provata?» Non mi lasciai
intenerire dal suo tono da bambino.
«Io odio il
formaggio e so per certo, senza il bisogno di provarla, che la fonduta non mi
piace. Perché c’è il formaggio» spiegai.
«Io sarei il
formaggio o la fonduta?»
Mi fermai e
tornai a guardarlo negli occhi «Mi stai prendendo il giro, vero?»
«No» fece un
passo avanti «Voglio portarti fuori a cena»
«E perché
mai?»
«Bè, ho
pensato che una suicida e un assassino avrebbero molto di cui parlare, non
trovi?» Questo gioco di domande retoriche mi aveva confuso. Rimasi a bocca
aperta: mi aveva fregato.
Non riuscii
a non sorridere, fu un gesto spontaneo. Turner mi sorrise sghembo.
«E’ un sì?»
«Devo
lavorare»
«Quando?»
«Sempre»
«Allora
ceniamo qui» Fece un altro passo e la vicinanza mi mise in imbarazzo. Mi
riavviai i capelli con un gesto rapido della mano.
Svelto come un gatto, Turner mi prese il polso e se lo avvicinò al viso.
«Let it be»
lesse ad alta voce. Sul polso sinistro, sulla parte esterna, avevo tatuato il
titolo di quella che io consideravo la migliore canzone di sempre.
Non dissi
nulla, ma nemmeno cercai di liberarmi dalla sua presa. Mi stupii del calore
della sua mano. Avevo immaginato che il suo tocco fosse freddo e nervoso, ma al
contrario le sue dita erano calde e morbide come un maglione di lana.
Distolsi lo
sguardo e non so per quale motivo, ma lui ne approfittò per accostarsi ancora
di più. Eravamo una di fronte all’altro, lui teneva la mia mano stretta nella
sua ed eravamo così vicini che potevo sentire il debole profumo di tequila del
suo fiato.
I suoi occhi imprigionarono i miei in una prigione di vuoto nero. Aveva le
pupille dilatate. La fronte increspata e un mezzo sorriso da lupo.
«Io…»
ansimai
«ALEX!» Mi
spaventai e feci un piccolo salto sul posto. Da dietro la spalla di Turner
scorsi un Matt Helders estremamente
incazzato. «Il taxi è qui, muovi il culo.»
«Arrivo
mammina» Turner fece schioccare la lingua mentre mi scansionava il viso per
l’ultima volta. «Ci vediamo» disse rivolto a me.
Rimasi
immobile, esitante e confusa. Non avevo capito niente di quello che era appena
successo.
«Cosa vi siete detti?» Guardai Liam con aria stralunata. Quando era arrivato?
«Come?»
«Tu e Turner!
Cosa vi siete detti?» ripeté euforico.
Deglutii a vuoto «Credo di avere un appuntamento con lui»
Cornerstone
Salve
a tutti :) Mi chiamo Julia e cavolo è davvero un sacco che non
scrivo! Spero che il capitolo vi sia piaciuto anche perchè ci ho
davvero messo molto a scriverlo! Comunque non voglio parlare troppo,
però ho pensato che sarebbe meglio cercare di chiarire bene come
funzionerà questa storia.
All'inizio ci sarà sempre una "slice of life" ovvero dei piccoli
episodi della vita di Lyla dove scopriremo cosa l'ha ispirata per
scrivere il testo di una canzone.
Sotto il piccolo epidosio ci sarà il capitolo vero e proprio dove racconterò la storia di Lyla.
Episodio iniziale e capitolo sottostante NON AVRANNO ALCUN LEGAME TRA
LORO. Per intenderci meglio se nel capitolo tal dei tali Alex si spacca
il naso nell'episodio seguente non avrà necessariamente il naso
rotto.
La
canzone di questo capitolo è "doomsday" dei Kasabian (nuovo
album) anche se magari non vi piacciono i miei kasabianucci adorati vi
consiglierei di concedervi un ascolto o perlomeno di leggere il testo
della canzone visto che l'intero capitolo sottostante è scritto
grazie all'atmosfera che quella canzone ha creato nella mia testa (lo
so è strano, ma non so come spiegarlo)
Vi ringrazio per la lettura e spero di avervi regalato minuti piacevoli :)
p.s. Quando parla del nome Alexander, Lyla si riferisce a Aleksandr Pičuškin (http://it.wikipedia.org/wiki/Aleksandr_Pi%C4%8Du%C5%A1kin)
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Capitolo 2 *** Traccia 2 ***
Traccia 2
Traccia 2
Alleyway
13 Aprile
Eravamo ubriachi fradici e ci stavamo rincorrendo per
tutta la casa. A dire il vero io stavo inseguendo lui. Probabilmente c’era un
motivo dietro a tutto questo, ma eravamo giovani e l’alcool guidava le nostre
azioni.
Sembravamo due bambini.
“And cause we all chew gum, we all have fun with water
guns
La da da da da da, da da dum dum dum
And we all grew up, shit got tough
Shit just wasn't simple enough”
Ridevo come una matta. Avevo la mente appannata, ma ero
così felice. L’unica cosa che mi interessava in quel momento era correre.
Cercavo di prenderlo, come se la mia vita dipendesse solo da quello, ma Turner
mi sfuggiva sempre all’ultimo momento.
Arrivati nell’enorme salone di casa sua. Lui era corso dietro al divano. Grazie
ad un’intuizione inebria di liquore gli avevo tagliato la strada. Ci smarrivamo
nei nostri occhi, eravamo entrambi accaldati e col fiato corto.
Ma cazzo, quanto eravamo felici.
“And whenever the sun came out, we played
(We didn't want to get older, we didn't want to get older)
We would run on the block all night and day
(We didn't want to get older)”
«Tregua?» lo avevo implorato avvicinandomi al divano con le mani alzate. Mi guardava
con quel suo cipiglio puerile. Aveva sollevato un sopracciglio. Non si fidava.
Mi ero seduta sul bordo del divano e l’avevo invitato tra
le mie braccia mordendomi il labbro inferiore.
«Così non vale» Si era avvicinato a me, ma aveva occhi solo per la mia bocca. Ridevo.
Ci era cascato.
Gli avevo avvolto le spalle in un abbraccio suicida e mi ero buttata all’indietro
tirandolo giù con me. Il divano non aveva fermato la nostra caduta e Turner
aveva sbattuto la schiena contro il pavimento nel tentativo di evitarlo a me.
Stesi a terra eravamo ancora abbracciati.
«Stupida» aveva sussurrato prima di baciarmi.
“What a mistake, saying the way I felt
I'd say my main influence is myself
And cause I started young, I learned a ton, I didn't run
La da da da da da
I was scared as fuck and out of touch, and I was still testing my luck, oh”
«E mi ha
detto “ci vediamo”» conclusi. Ci eravamo incontrati a casa di Liam (come ogni
giovedì) per fare le prove del gruppo. Stavo raccontando a Joel e Charlie:
basso e batteria dei DriveShaft quello che era successo due giorni prima.
I due si presero un attimo per assimilare il racconto, poi parlarono in coro.
«Che figo!»
«Che
stronzo!»
Feci un mezzo sorriso. Ironicamente avevano ragione entrambi.
«Ma chi si crede di essere?» Alzai le spalle come risposta a Joel che pareva
molto contrariato dal comportamento di Turner. O forse era solo un po’ geloso.
«Forse una
star mondiale? Hai visto quante visualizzazioni youtube ha “Do I wanna know”?
bè più di 120 milioni!» Non mi presi
nemmeno la briga di rispondere a Liam che oramai si era trasformato in un vero
e proprio avvocato difensore.
«Sai cosa me ne faccio delle visualizzazioni youtube! Si è comportato da
stronzo» insisté Joel cercando un cenno di assenso nei miei occhi.
«Bè»
cominciai «alla fine non si è comportato così
male» cosa cavolo stavo dicendo? Mi pentii subito di aver parlato. Perché stavo
difendendo Turner?
«Cristo
Lyla! Non dirmi che ti sei lasciata imbambolare da quello, eh!» No! No certo che no! Mi apprestai a chiarire con
troppo ardore.
«Joel, tu
non ti rendi conto di che cosa abbiamo per le mani. Questo è un dono del
destino! E’ il nostro momento!»
«Stai
dicendo cazzate»
Mi addentai
l’interno della guancia per resistere alla tentazione di chiedere a Liam di che
cosa stesse parlando. Il mio istinto mi diceva che se erano buone notizie per
il gruppo, non lo erano altrettanto per me. Semplicemente non capivo perché credesse
che il presunto interessamento di Alex Turner nei miei confronti fosse una
manna dal cielo. Joel dal canto suo credeva che quello fosse solo un pallone gonfiato. Il mio chitarrista ed il mio
bassista erano di due pareri opposti e inconciliabili.
Che fare?
Mi resi
conto che per quanto mi riguardava il problema non esisteva. I miei due compagni
davano per scontato che Turner si sarebbe rifatto vivo per riscuotere il suo
invito a cena. Io ero sicurissima che, invece, se mai avessi voluto rivederlo avrei
dovuto accontentarmi dello schermo del mio computer.
«Ragazzi,
tanto non verrà. Che ne dite se cominciamo?» azzardai cercando di attirare la
loro attenzione e far cadere l’argomento. Guardai Charlie in cerca di aiuto, ma
a quanto sembrava anche lui era diventato Pro-Turner.
«Se lui la
sentisse cantare potrebbe aiutarci a trovare una casa discografica disposta a
metterci sotto contratto!»
«Cazzo, non
ti ci mettere anche tu!»
«Senti,
Joel, se tu vuoi continuare a suonare in quelle bettole di seconda categoria
per sempre, fa pure. A quanto pare io e Charlie la pensiamo diversamente»
Joel aprì la
bocca per ribattere, ma la chiuse poco dopo titubante. Liam lo stava
convincendo, ma da bravo testardo qual era non si sarebbe arreso senza un
ultimo attacco.
«Se anche
fosse» iniziò «Non possiamo obbligare Lyla ad uscire con lui»
«Ma chi la
obbliga! Lei è disposta a farlo per il
bene della band! Vero Lyl?»
«Bè… ecco…»
tentennai.
«Visto?»
Proprio
quando pareva con le spalle al muro, negli occhi di Joel intravidi un lampo di
luce. Aveva trovato un nuovo argomento a sostegno della sua tesi. «Credi
davvero che Turner voglia solo una cena? Quello se la vuole fare. Non le
chiederai di andare a letto con lui per il
bene della band, spero» Arrossii e deglutii rumorosamente. Non potevo
nemmeno considerare l’idea che io potessi interessare a Turner! Figuriamoci poi
credere che volesse venire a letto con me. Certo, sapevo attirare l’attenzione
degli uomini e sapevo anche approfittarmi di loro, ma un conto era farsi
offrire un drink da un belloccio al bar, un altro era farsi offrire un
contratto discografico da Alex Turner.
«Potrebbe
anche essere ch…..» Liam non poté finire. Qualcuno aveva suonato al campanello
«Finalmente!» gongolò correndo su per le scale.
Guardai
Charlie e Joel con occhi interrogatori. Nessuno era ammesso alle prove dei
DriveShaft, chi cazzo si permetteva di interromperci e meritarsi anche tanto
entusiasmo da Liam?
Percepii una voce femminile.
«Ciao
Candace!»
Candace?
Chi era Candace?
«Vieni pure.
Siamo tutti giù» Quando Liam ritornò da noi era seguito da una ragazza con i
capelli rossi. Lei era bellissima e lui le stava tenendo la mano.
Gli occhi di
Joel corsero a consolare i miei. Lui sapeva tutto di me e di conseguenza anche
i miei sentimenti per Liam. Tentai di tranquillizzarlo senza abbastanza calma
nemmeno per me stessa. Assunsi un’espressione indifferente, ma mi sentii come
se quella Candace mi avesse appena piantato una mano in mezzo allo stomaco e vi
avesse strappato via un pezzo di carne viva.
I battiti
del mio cuore mi risuonavano nelle tempie come delle tazze di porcellana che si
infrangevano su un pavimento di pietra. La gelosia di ciò che non appartiene è
come un veleno.
«Capiti a
proposito! Perché non parli a Lyla dell’idea che hai avuto l’altra notte?»
Decisi di non notare il tono malizioso di Liam.
«Proprio
tutto?» domandò lei provocandomi un conato di vomito.
«Avevamo
deciso che nessuno sarebbe potuto venire alle prove» feci un cenno a Joel per
invitarlo a lasciar perdere. Sapevo che lo faceva per me e lo apprezzavo, ma
così peggiorava la situazione. L’ultima cosa di cui avevo bisogno in quel
momento era di sentirmi trattata con la stessa cautela che si usa con un
animale ferito.
Mi avvicinai
a Candace e le concessi il mio sorriso più raggiante. Era più bassa di me di
almeno due spanne. Corporatura minuta e tette grosse: il tipo ideale di Liam.
«Vedi io
studio marketing internazionale all’università di Londra» cominciò orgogliosa
«E posso dire di intendermi di mercato e pubblicità» annuii «così ho detto a
Liam che se tu riuscissi ad ottenere una foto dove sei con Turner potremmo
sfruttare la notizia che ne nascerebbe come conseguenza. L’ideale sarebbe che
un paparazzo vi beccasse insieme, ma potremmo anche accontentarci di una foto
scattata dal tuo cellulare, purchè lui si veda bene e siate in circostanze
compromettenti» Ascoltai tutto con attenzione e quando Candace finì di parlare
la mia prima reazione fu quella di riderle in faccia.
«Scusa,
rossa, quanti anni hai detto di avere?» domandò sardonico Joel.
«Non l’ho
detto. Ne ho diciannove»
«E tu
saresti una che si intende di marketing? Farai anche l’università, ma sarai sì
e no a metà del primo anno!»
«Joel cosa
ne vuoi sapere tu!»
Non prestai
attenzione a quello che si dissero Liam e Joel, dopo. In quel momento l’unica
cosa sulla quale riuscivo a concentrarmi era l’assurdità della situazione. I
miei amici e Candace stavano ingigantendo troppo l’accaduto. Sì, Turner mi
aveva invitato fuori a cena, ma probabilmente quando l’aveva fatto era ubriaco,
oppure così stanco da non rendersi conto di quello che diceva. Non si sarebbe
mai ricordato di un’insignificante cameriera con un nome che tra l’altro lui
stesso aveva definito “disgraziato”.
«Cosa
intendi per “compromettenti”?» domandò Charlie con la sua schiettezza da
bambino.
«Bè una foto
dove si baciano oppure dove si intende che siano stati a letto insieme»
«Capite? Se giochiamo bene le nostre carte potremmo usare la popolarità di Alex
per trovarci un contratto!» Ottimo, pensai, adesso lo chiamava anche per nome.
Sentii uno scoppio in testa quando vidi il braccio di Liam cingere le spalle di
Candace.
«Andare a letto con qualcuno per ottenere qualcosa non è marketing. È
prostituzione.» precisò Charlie perplesso.
«Non deve per forza andarci a letto. Potrebbe… si insomma.. farlo sembrare»
«E noi
diventeremmo la band di quella che si è scopata Alex Turner» sottolineò Joel.
Candace
intimorita dal tono del bassista si strinse più forte al petto di Liam. Vedere
la tenerezza con la quale lui la accoglieva tra le sue braccia mi fermò il
cuore e il cervello. Sentii una specie di formicolio nelle mani e la forza di
gravità mi diede un colpo talmente forte che percepii il sangue scivolarmi via
dal viso e ricadere inerme all'altezza delle caviglie.
«Basta solo
un bacio?» chiesi.
Joel mi guardò come se avessi completamente perso la testa.
«Non è
detto, ma potrebbe essere» chiarì la rossa.
Abbassai gli
occhi, non potevo più sostenere lo sguardo di Joel e nemmeno continuare a
fissare Candace mente abbracciava Liam. Sapevo benissimo che stavo solo
cercando di impressionare proprio quest’ultimo. Ero convinta che se mi fossi
dimostrata disposta a tutto per il bene
della band, mi avrebbe visto con occhi diversi. Forse, mi dicevo, cercando
di convincermi da sola, si sarebbe finalmente accorto che io avrei fatto qualsiasi
cosa per lui.
«Sei sicura
che questo ci aiuterebbe?» Candace parve ritrovare l’orgoglio di poco prima.
«Certo! Vedi
Alex» Oh no! Anche lei iniziava a chiamarlo per nome? «ha sempre avuto delle
fidanzate abbastanza famose. Se lo si vedesse in giro con una sconosciuta la
stampa farebbe di tutto pur di ottenere delle informazioni su di te ed in poco
tempo si verrebbe a sapere che hai una band»
«Così le
case discografiche si interesserebbero per poter sfruttare la risonanza dello
scandalo della mia “relazione” con Turner» conclusi per lei.
Feci finta di pensarci su.
«Lo farai?» Non avevo mai visto Liam così entusiasta.
«Può darsi»
dissi laconica. Ormai non mi preoccupavo più di quello che dicevo. Ero ferma
nella mia convinzione che Turner non si sarebbe più fatto vivo e che nel giro
di qualche giorno noi tutti ci saremmo dimenticati di questa discussione e
possibilmente anche di Candace.
Joel roteò
gli occhi al cielo ribadendo per l’ennesima volta che quella era una cattiva,
cattivissima idea. Non me ne importava niente. Erano le sei ed io volevo solo
chiudere quello stupido argomento per poter cominciare a suonare, ma
soprattutto volevo una scusa per far allontanare quella stronza coi capelli
rossi.
Erano solo
le dieci e mezza di uno scolorito mercoledì sera. Fuori pioveva ed il ristorante
era semi deserto. Una giornata esaltante, insomma.
Al centro della sala c’era un tavolo di almeno una dozzina di donne (tutte
intorno ai cinquanta). Facevano una confusione pazzesca. Non sapevo perché, ma
quando le donne facevano quel tipo di rimpatriate tendevano ad essere molto più
rumorose, ma soprattutto volgari, degli uomini.
Mi chiesi se
anche io un giorno sarei diventata così, ma poi convenni che se non avessi
fatto qualcosa per guadagnarmi l’amore di Liam, probabilmente sarei rimasta
sola e circondata da cani.
Sbuffai,
possibile che Liam fosse il cardine dei miei pensieri anche quando guardavo
delle donne di mezz’età?
La sua apatia nei miei confronti mi stava facendo diventare matta. Per non
parlare del fatto che non ero più in grado di scrivere una canzone degna di
tale nome!
Dopo “You, all, everybody” la
sindrome del foglio mi si era attaccata addosso come una cicca quando ci si
appoggia ai sedili della metro.
L’ansia dello scrittore non solo mi aveva investito in piena faccia, ma aveva
anche fatto retromarcia, giusto un paio di volte per essere sicura di avermi
lasciato senza speranze.
Sbuffai di
nuovo.
Dopo sette
minuti di attenta osservazione, ero giunta alla conclusione che la donna seduta
capotavola, con degli improponibili capelli rosso-viola ed uno scollo a
precipizio sul seno prosperoso, doveva essere il capo della banda.
La stavo contemplando mentre si esibiva nella poco signorile interpretazione di
una barzelletta sconcia e dal finale prevedibile, quando Megan mi diede un
colpo sulla spalla.
«Ti vogliono
in cucina» m’informò. Avrei voluto chiederle il perché, ma la mia collega si
allontanò così velocemente che credetti di averle fatto un torto anche solo
guardandola.
Mi diressi
verso la cucina chiedendomi cosa le avevo fatto di recente per meritarmi di
essere trattata così.
Quando entrai intravidi Liam di spalle che era intento a parlare con qualcuno.
All’inizio non mi resi conto di chi fosse il suo interlocutore, ma bastò una
parola di quest’ultimo per farmi venire la tachicardia.
«Finalmente
ti ho trovato» ebbi la netta sensazione di sentire il mio cuore cadermi nel
petto, come se si fosse stancato della sua ubicazione naturale e avesse deciso
di andare a farsi un giro all’altezza dello stomaco. «Sono venuto a prendermi l’invito
a cena che mi avevi promesso» Turner teneva una sigaretta spenta in bilico
sulle labbra, probabilmente l’aveva messa lì apposta, per attirare la mia
attenzione sulla sua bocca.
Se era così,
ci era riuscito.
Mi guardai intorno e mi spostai i capelli dietro le orecchie un paio di volte.
Improvvisamente mi sentivo accaldata e appiccicosa. Superata la sorpresa
iniziale, però, mi sentii invadere da una stizza nervosa.
Lui mi
guardava con quel suo viso spacca cuori ed io risposi con un’espressione crucciata.
«Sono
passati tre mesi» precisai con la stessa acidità di un limone acerbo. Era vero.
Alex Turner mi aveva, si, invitato a cena, ma questo era successo tre mesi fa e
nonostante avessi riconosciuto il suo accento strascicato e tentatore, come se
ci fossimo salutati solo la mattina stessa, questo non leniva la mia
irritazione.
«Avevo detto
che ti avrei portato a cena, non avevo specificato il quando» disse con un
ghigno.
Sbuffai
sonoramente.
«Okay, lo
ammetto non mi ricordavo il nome del ristorante» Sembrava sincero. Sollevai un
sopracciglio, lui non ci fece caso.
«Perché non
l’hai chiesto ai tuoi amici? Erano più sobri di te»
«Non ero
ubriaco»
«Sapevi di
tequila»
«Che
memoria» mi morsi la lingua, involontariamente avevo detto molto più di
quello che avrei voluto. Mi ricordavo del dolciastro odore alcolico del suo
fiato come se lo potessi sentire in quel preciso istante. Forse, lo sentivo
davvero?
«Comunque
loro non me l’hanno voluto dire» La sua frase mi fece perdere il filo dei miei
pensieri.
«Perché?»
«Loro non
erano…. » Si guardò intorno cercando la parola giusta «d’accordo» convenne, infine, come se dopo un lungo
vagare fosse tornato alla prima soluzione che gli era venuto in mente.
Dalla sala
vidi il mio capo indicare l’orologio che teneva al polso e capii che dovevo
darmi una mossa.
«Devo
lavorare» dissi, forse troppo dispiaciuta «Se devi ordinare qualcosa dimmi,
altrimenti ti saluto»
«Okay, bene…
vorrei ordinare te» Sorrisi a denti stretti. Don Giovanni del cazzo. Il suo sogghigno compiaciuto mi fece
arrossire. Era come se stessimo giocando a battaglia navale e lui avesse appena
affondato la mia nave più importante. Mi spaventò il fatto che sembrava gli
avessi detto volutamente le coordinate della mia barca. «Ti passo a prendere
giovedì sera?»
«Giovedì ho
le prov….» mi interruppi, non volevo dirgli dei DriveShaft «Giovedì sono
impegnata»
«No, non lo
sei»
«Ah, no?»
domandai sarcastica.
«Il
chitarrista mi ha detto che per una volta puoi saltare le prove»
Improvvisamente sentii freddo. Cercai subito Liam che era intento a mettere a
posto qualcosa nel frigorifero.
Da almeno venti minuti.
«Buona a
sapersi» dissi consapevole di essermi fatta sentire da Liam. Me l’avrebbe
pagata. Me l’avrebbe pagata, eccome.
«Mi ha
raccontato tutto sui DriveShaft. È stato molto…. Esaustivo»
Per poco non mi strozzai con la mia stessa saliva. Cominciai a tossire
freneticamente e immaginai di essere diventata rossa come un papavero.
Probabilmente erano tutti gli accidenti che mi stava lanciando il Signor
Hutchins.
«Cos’altro
ti ha detto?» domandai senza fiato.
«Molte cose.
Mi ha detto che canti»
«Si bè...»
«Mi
piacerebbe sentirti cantare» lo disse con una onestà ingenua, quasi bambinesca.
Sentii uno strano calore sulle guance e non seppi dire se fosse stato l’eccesso
di tosse o se il sangue si fosse arreso davanti alla sua voce grave e profonda.
Il cuore mi batteva così forte nel petto che ero convinta se ne potesse vedere
il movimento attraverso i vestiti. Stava cercando di liberarsi dalla sua
prigione di pelle e ossa per andarsi a riposare sulle labbra carnose di Turner.
Non aveva detto niente di speciale, eppure era riuscito a farlo sembrare un
complimento.
«Domani alle
otto a casa tua, allora» Scossi la testa come se questo mi aiutasse a
riordinare i pensieri.
«Non sai dove
abito» puntualizzai.
«Si, che lo
so» afferrai subito cosa stava per dire e mi feci un promemoria mentale:
Dovevo uccidere…
«Il chitarrista» disse accertando la mia tesi.
Cornerstone
Salve
a tutti! :) Non so come ma sono riuscita a buttare giù anche il
secondo capitolo nonostante le ansie universitarie :) Spero di riuscire
a continuare così, ameno fino all'inizio della sessione
invernale :(
Comunque eccoci :) Mi sento in dovere di chiedere scusa se questo
capitolo è un po' (a mio parere) scialbo e privo di azione e
soprattutto privo di Alex, ma ne avevo bisogno perchè come
avrete inteso è fondamentale per la trama!
Spero vi sia piaciuto!
La canzone di oggi si chiama "Alleyways" dei The Neiughbourhood.
Concedetegli un'ascolto, perchè anche se non è una delle
mie preferite di uel gruppo merita! :)
Un bacio e un abbraccio a tutti!
p.s. Volevo ringraziare Fefelina
che è stato così gentile da lasciarmi una recensione e
che si è accorta subito che 'DriveShaft' è una citazione
di 'Lost' speravo che qualcuno se ne accorgesse, ma non mi aspettavo
così presto. Ed infine volevo ringraziare alexandrescurls che ha messo la mia storiella tra le preferite! :)
P.p.s. Chiedo scusa se il font appare non omogeneo, ma nvu semplicemente non mi vuole amare.
|
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Capitolo 3 *** Traccia 3 ***
bumblebee
Traccia 3
Bumblebee – 4.14
12 Dicembre
Il rumore della pioggia era un contorno perfetto al caldo
del letto di Turner. Abbracciai più forte in cuscino che sprigionò una folata
di profumo. Sorrisi, affondandovi il viso.
"I'm caught up in love, and I'm in ecstasy
What can I do now, when nothing's the same?"
Lo sentii avvicinarsi, ma non mi mossi. Lentamente le
lenzuola mi scivolarono via dalle spalle e una mano calda le sostituì. Turner
percorse l’intera lunghezza della mia schiena con due dita. Seguendo la mia
spina dorsale. Si fermò all’altezza dei reni.
«Hai una schiena bellissima» disse assorto.
«Ti piacciono le cose strane» dissi voltandomi verso di lui. Era su un fianco,
faceva leva su un braccio per potermi sovrastare. Il lenzuolo gli era scivolato fino sul fianco. Mi persi
nella pallidità del suo petto nudo.
"And all that i know, I wanna do it again
Life is so simple when you are with me"
Turner non disse niente. Mi prese la spalla sinistra e la
tirò verso di se costringendomi a voltarmi verso di lui. Prima che me ne
accorgessi la sua bocca era già sul mio costato. Gli infilai le dita tra i
capelli e chiusi gli occhi vittima del desiderio quando cominciò a lasciarmi
dei baci seduttori sul seno.
Ogni volta mi stupivo di come una persona così pallida
potesse essere così calda.
«A me piacciono le cose semplici» disse alzandosi per baciarmi.
«A te piace solo il sesso» ridacchiai e mi sistemai meglio sotto di lui.
«Potrebbe essere» sorrise ed io lo feci di rimando. Turner aveva uno strano
potere su di me, non sapevo dargli un nome, ma quando ero con lui il mondo si
fermava e scompariva.
Aveva la spaventosa facoltà di diventare il mio tutto.
"'Cause when we're together, I'm in ecstasy
I'm in ecstasy
I'm in ecstasy
I'm in ecstasy...."
Quando
sentii suonare il citofono ero già pronta da ormai quarantacinque minuti. Anche
se mentalmente non ero pronta affatto.
Anzi, non
ero nemmeno sicura di quello che avevo deciso di indossare visto che non potevo
immaginare dove Turner mi avrebbe portato a cena. Troppo elegante? Troppo poco
elegante?
Forse facevo
in tempo a….
Il citofono
trillò di nuovo. Scattai: Presi la borsa e un lungo sospiro.
Al signorino non piaceva aspettare.
Scesi le
scale con una strana foga che scemò subito quando notai che davanti al mio
appartamento c’era solo un taxi.
«Tu sei
Ophelia?» domandò un ometto sulla quarantina col viso nascosto da un berretto
da baseball. Notai che aveva ancora il dito alzato vicino al mio campanello, se
non fossi scesa probabilmente avrebbe continuato a suonare fino a chissà quando.
«S-Si?»
più che una risposta la mia
sembrava un’ulteriore domanda.
«Bene,
andiamo» tentennai credendo che il tassista sconosciuto non si riferisse a me.
«Parla con
me?»
«Sei tu
Ophelia, no? Sono un amico di Al. Mi ha cortesemente
ordinato di accompagnarti al ristorante» L’ometto, che non si era nemmeno
presentato, fece cenno verso l’auto nera parcheggiata davanti a noi. Mi guardai
intorno, aspettandomi che qualcuno da dietro una siepe sbucasse all’improvviso
all’urlo di ‘BUSTEEED’ mostrandomi
dov’erano le telecamere nascoste. Sì, perché quello doveva essere uno scherzo.
Quella situazione non era per niente normale.
«Andiamo che
se arriviamo tardi poi se la prende con me»
Decisi di cedere
e fidarmi, dopotutto stavo per andare a cena con il frontman degli Arctic
Monkeys, cosa poteva esserci di normale?
In macchina
il tassista, che poi scoprì chiamarsi Joe, parlo a lungo di cose noiose. Mi
poneva delle domande alle quali si rispondeva da solo. Non che me ne
crucciassi, anzi, non avevo nessuna voglia di parlare. Mi resi conto che
sentivo una certa eccitazione allo stomaco, anche se non volevo ammetterlo,
avevo voglia di vedere Turner. Volevo imparare a conoscerlo, perché da sua fan,
mi ero fatta un’idea alquanto romanzata su di lui. Sentivo il bisogno di capire
se quel comportamento da sbruffone era solo una montatura, ma ogni volta che
credevo di aver inteso il suo modo di ragionare ecco che Turner cambiava
improvvisamente come uno sbuffo di fumo di sigaretta.
Non
riconobbi il ristorante che Joe mi aveva indicato, ma eravamo rimasti in auto
per almeno quaranta minuti quindi non mi stupii.
«Rockstar
sushi bar» lessi.
Sorrisi tra
me e me “Rockstar”, Turner, davvero?
Il posto non
sembrava smodatamente estroso, l’insegna bianco-rossa non era nemmeno troppo
appariscente, non che mi aspettassi mi portasse da Scalini, ma un sushi bar mi
pareva un po’… scialbo?
Tuttavia, appena
misi piede all’interno del locale le mie impressioni vennero subito smentite.
Il posto era bellissimo, molto giapponese ovviamente, ma lo stile era moderno e
pulito. Una attraente donna in kimono rosso mi si avvicinò dedicandomi un
sorriso abbagliante.
«Posso
aiutarla?» oh, amavo l’accento giapponese.
Tentennai. Non
sapevo bene cosa dire, preferii evitare di fare il nome di Turner «Credo che
qualcuno mi stia aspettando» dissi incerta.
«Mi dice il
suo nome, per cortesia?» La donna estrasse dalle enormi maniche del suo
abito una penna ed un quaderno rosso anch’esso. La guardai accigliata, come
poteva stare lì dentro?
Insomma
voglio dire, quelle maniche non erano così grandi…
«Signorina?»
«Si?»
«Il nome»
«Ah…
Ly-Lyla» borbottai imbarazzata. La donna non si scompose.
«Non abbiamo nessuna Lyla»
Sgranai gli
occhi «No?»
«No»
Il panico mi
prese lo stomaco. Per un attimo pensai di scappare fuori nella speranza che Joe
non se ne fosse già andato.
E se questo
fosse solo un brutto tiro di Turner? magari ora era nascosto da qualche parte a
ridere di me.
O magari,
molto semplicemente, mi aveva preso in giro.
E ora? Mi
domandai con quasi le lacrime agli occhi. Non potevo sopportare l’idea che lui
non fosse venuto, il mio orgoglio e la mia autostima non mi avrebbero dato tregua
se fosse davvero stato così.
Proprio
mentre credevo di essere in caduta libera «Ophelia» quasi strillai. La
giapponese fece uno scatto all’indietro, decisi di non curarmene «Cerchi:
Ophelia» ripetei sperando di avere ragione.
La cameriera fece scorrere gli occhi sul quaderno. L’ultima volta che mi ero
sentita così nervosa davanti ad una donna con un libro è stato quando ho dato
il mio GCE.
Il sorriso
sul volto della giapponese si fece ancora più grande quando, finalmente, trovò
la mia prenotazione. «Mi segua, prego»
Attraversammo
tutta la sala, senza fermarci. Mi stava portando nelle cucine?
Proprio
quando stavo per chiederglielo, imboccammo una scaletta a chiocciola nascosta
dal resto della sala. Arrivammo direttamente in una stanzetta arredata come il
resto del locale, ma meno illuminata. Il tavolo era accanto alla finestra e
Alex Turner guardava fuori assorto nei suoi pensieri di poeta.
Capii che
quella stanza doveva essere stata espressamente richiesta proprio da lui, che
mi regalò un sorriso istintivo appena i nostri occhi si incontrarono.
«Ce ne hai
messo di tempo»
«Il tempo è
relativo»
«Vero»
concordò «probabilmente avevo solo voglia di vederti» abbassai lo sguardo,
consapevole che quella non sarebbe stata l’ultima volta che lo facevo.
Don Giovanni del cazzo.
Finalmente
la cameriera se ne andò lasciandomi sola con lui. Mentre mi toglievo la giacca,
Turner si alzò per scostarmi la sedia accanto a lui, ma io mi sedetti di
fronte.
Sorrise
ironico.
«Come vedi»
cominciò una volta seduto «mantengo le promesse. Ti ho portato a cena» Feci un
mezzo sorriso. Certo, l’ultima volta che l’avevo visto era stato meno di una
settimana prima, ma il suo invito a cena era arrivato al nostro primo incontro:
quasi tre mesi fa.
«Con tre
mesi di ritardo» gli ricordai, infatti.
«Dettagli
trascurabili» fece un cenno stizzito della mano.
Mi guardai
intorno. L’atmosfera era più romantica di quanto mi sarei aspettata. Deglutii a
vuoto ricordandomi del motivo per cui avevo accettato il suo invito: farci
vedere insieme. Facile a dirsi, ma Turner sembrava aver preso tutte le premure
possibili.
«Joe si è
comportato bene?» domandò rompendo il silenzio.
«Ha parlato
tutto il tempo»
«Tipico»
«Mi
aspettavo venissi tu» azzardai.
«Ho
preferito evitare le solite… seccature» capii che si riferiva ai paparazzi. Ottimo. Come cavolo sarei riuscita a
farci beccare se lui partiva così già dal primo appuntamento?
«Avresti
potuto avvisarmi»
«Mi
piacciono le sorprese»
«A me no»
precisai. Turner sogghignò alzando le mani in segno di resa.
«Pardon»
disse con tono strascicato.
Notai solo
ora che portava gli occhiali da sole. Caratteristico di Turner indossarli nei
posti chiusi e poco illuminati. Lui era sempre così perfettamente studiato che mi sembrava di finire in uno dei
videoclip di AM ogni volta che lo guardavo.
Portava il
ciuffo perfettamente spettinato.
La bocca perfettamente socchiusa.
La camicia perfettamente sbottonata.
Quest’ultima
mi stava dando dei problemi. Era una semplice camicia rosa antico, ma il modo
in cui la indossava. Mio Dio. Potevo
vedere il suo busto e ogni volta che si muoveva avevo un assaggio del suo
pettorale, ma la camicia perseverava con ostentazione a precludermi la vista
del capezzolo. Era ridicolo eppure quella danza di seta mi stava facendo
innervosire. Non che io abbia mai avuto un culto singolare per i capezzoli
maschili, ma il sapere che era lì e che non potevo vederlo mi torturava. Si
trattava di una questione di millimetri, potevo quasi distinguere il punto
preciso dove la pelle cominciava ad incupirsi attorno all’aureola, ma niente!
Sembrava che anche le pieghe della sua camicia fossero perfettamente studiate. Il fastidio era tale che mi sembrava di
essere appoggiata ad un muro di pietra e che una delle rocce mi si puntasse in
mezzo alle spalle.
Mi resi
conto dell’assurdità della situazione, era lui che doveva fissarmi il decolté e
non il contrario! Eppure non potevo farne a meno. Turner era come un fuoco,
ammaliante, ipnotico e dichiaratamente pericoloso.
Si mosse di
nuovo e io capii che dovevo farlo smettere.
«Puoi
abbottonarti la camicia?»
Aggrottò le
sopracciglia e mi guardò stranito «Come scusa?»
«Per l’amor
del cielo abbottonati la camicia!» sbottai distogliendo lo sguardo che era
stato di nuovo catturato dalla sua pelle pallida.
«Questa sì
che è una richiesta strana» disse allacciandosi un bottone.
Bè si era sprecato.
«Altre
richieste?» decisi di cogliere la palla al balzo.
«Via gli
occhiali» mi rispose con una smorfia da bambino, ma non mi arresi «via»
insistei.
Quando
cedette rimasi stupita dal vedere sul suo viso delle profonde occhiaie
nerastre. Aveva le pupille dilatate e gli occhi stanchi, ma dormiva quell’uomo?
«Anche io
avrei una richiesta» alzai un sopracciglio facendogli intendere che poteva
continuare. «Vieni più vicino»
Col piede
scostò la sedia che avevo ignorato poco prima. Smisi di respirare per un paio
di secondi.
«Se stiamo
di fronte è più comodo parlare» dissi cercando una scusa.
«Da lì non
sento il tuo profumo» Cosa potevo rispondere a questo?
Lo
accontentai.
Mi accomodai,
l’odore di tabacco misto ad un costoso dopobarba mi colpì come uno schiaffo. I
miei sensi sembravano tutti all’erta, come se mi fossi buttata in una pozza
d’acqua gelata. Quel profumo, lo potevo quasi sentire mentre si attaccava alla
mia pelle. Centimetro per centimetro.
«Sai quando
un uomo scosta la sedia ad una donna, lei è tenuta a sedersi sulla sedia che
lui le ha gentilmente scostato. Proprio quella.»
puntualizzò riferendosi a poco prima.
«Altrimenti
lui la minaccia di tenere gli occhiali da sole per tutta la serata?» Piegò la
testa di lato e sghignazzò.
«Non
permettendomi di fare il cavaliere hai messo in dubbio la mia virilità»
Sorrisi e
feci di no con la testa.
«Turner» parlai come se stessi spiegando ad uno
studente che il brutto voto non era frutto della complessità della materia, ma
della sua poca attitudine allo studio. «sei un uomo, di un metro e ottanta
scarso» feci scorrere lo sguardo su di lui, fingendo di soppersarlo «peserai sì
e no 70 kg, e oltretutto, hai addosso una camicia rosa. Se tra di noi c’è
qualcuno che mette in dubbio la tua virilità: non sono io»
Rimase zitto
per un po’, poi aprì la bocca e strizzò gli occhi «ouch» disse portandosi una
mano sul cuore «questa fa male»
«Quale
parte?» mi lasciai scappare un sorriso che cercai di fermare mordendomi il
labbro inferiore.
«I 70 kg»
spiegò «ne peso 65! Dove me li vedi 5 kg in più?» Verso la fine della frase
scimmiottò una cadenza omosessuale che mi fece scoppiare a ridere.
La sua risata non si aggiunse alla mia. Si limitò a sorridere, appagato
dall’avermi fatto ridere per la prima volta da che ci eravamo conosciuti.
Quando
tornai seria i nostri occhi si incontrarono in un minuto vuoto. Non eravamo più
al Rockstar Sushi Bar non eravamo più da nessuna parte. Si bagnò le
labbra e quel semplice gesto mi parve così sessuale
che non ebbi la forza di respirare. Mi passai una mano sul collo, stringendomi
nelle spalle e abbassai lo sguardo. Ero arrossita.
Se mai un
giorno qualcuno mi avesse chiesto di descrivere Alex Turner in tre aggettivi,
da quel momento seppi, che carnale avrebbe fatto parte di quel gruppo.
Nonostante
la testa china sentivo che mi stava ancora guardando. Questa situazione non
prometteva nulla di buono. Io ero lì con uno scopo! Non dovevo distrarmi.
Eppure non riuscivo a capacitami di come quei maledetti occhi neri mi
piacessero così tanto.
Forse era l’idea
di piacergli che mi affascinava? Credo che fosse il desiderio sporco col quale
mi guardava. Era la lussuria di quello sguardo che mi faceva sentire un beat
nella testa. All’improvviso avevo un’idea che mi rimbalzava contro le pareti
della mente e volevo darle delle parole.
Sentivo il
bisogno inguaribile di scrivergli una canzone.
Eravamo in
silenzio da un paio di minuti ormai. Dovevo dire qualcosa oppure quel ritmo che
avevo in testa mi avrebbe fatto impazzire. Non mi lasciava nemmeno lo spazio
per pensare.
Finsi di
interessarmi alla gente che passava fuori dalla finestra «Perché mi hai portato
qui?» Scosse la testa, come se lo avessi ridestato da un non so quale pensiero.
«Mi sei
sembrata una tipa da sushi e qui fanno quello migliore di tutta Londra»
appoggiò un gomito sul tavolo e si avvicinò «Ti piace il sushi, Ophelia?»
Io adoravo il sushi.
«Non mi fa
schifo» mi scostai
leggermente da lui «Ho un’altra richiesta: Non chiamarmi Ophelia»
Turner fece
un’espressione strana, come il principio del broncio di un bimbo. «Ma è un nome
così bello»
«A me non
piace»
«E’ poetico,
bohémienne!»
«Non mi
piace!» mi impuntai.
Turner
sbuffò e con naturalezza prese a giocare con una ciocca dei miei capelli. «E
come dovrei chiamarti, sentiamo?» Appoggiò il viso alla mano con la quale non
era impegnato a mandarmi brividi per tutto il corpo.
«Lyla»
Mi abbagliò
con un sorriso «She’s the queen of all
I’ve seen.» canticchiò «Sei quella Lyla?» Avrei dovuto aspettarmi il
riferimento agli Oasis da uno che era cresciuto a pane e accordi di chitarra.
Non era di certo il primo che me lo faceva notare ed io mi ero scelta quel
soprannome di proposito, ma comunque mi lasciò muta. Cosa mi stava facendo?
Turner era il ragno ed io la sua preda. Mi sentivo come se ogni suo gesto fosse
un filo aggiunto alla tela che mi stava costruendo attorno. Ma perché?
Deglutii a
vuoto ed abbassai lo sguardo.
«Alex, perch…»
«Siete
pronti per ordinare?»
Alzai la
testa con uno scatto, ma quando accidenti era entrata la cameriera? Con un
gesto rapido liberai i miei capelli dalle dita magre di Turner, che mi guardò
contrariato, ma non si scompose più di tanto.
«Ehm..»
borbottai aprendo per la prima volta il menù. Possibile che mi fossi
dimenticata che eravamo in un ristorante e che in un ristorante bisogna
scegliere cosa mangiare? Cazzo, io ci lavoravo in un ristorante! «Io…. non so»
Tutta, tutta colpa di Turner e della
sua voce da incantatore di serpenti! Ogni suono che usciva dalla sua bocca mi
leccava il lobo dell’orecchio e scivolava verso il timpano con un fremito.
«Ci porti un
po’ di tutto» si risolse l’uomo e la voce dei miei pensieri. Lo guardai
accigliata, il suo tono si era fatto stranamente scortese.
«Certo» fece
la cameriera esibendosi in un inchino prima di scomparire giù per le scale.
Stavo ancora
guardando la strana acconciatura della giapponese che si inabissava al piano di
sotto quando Turner richiamò prepotentemente la mia attenzione: Mi prese il
mento tra pollice e indice facendomi voltare verso di lui.
«Cosa stavi
dicendo prima che ci interrompesse?» Scossi la testa, stupita dal suo
comportamento. Ora non ero più sicura di voler toccare quell’argomento.
«Non era
importante»
«Voglio
saperlo» ordinò con un tono brusco che con me non aveva mai usato. «Per la
prima volta mi hai chiamato per nome, quindi doveva essere importante» Lo
guardai indecisa, cercando di capire cosa gli stesse passando per la mente.
Speravo che qualcosa nel suo atteggiamento lo tradisse, ma lui sembrava sempre
impassibile e annoiato.
La mano che
poco prima giocherellava coi miei capelli ora giaceva, abbandonata, accanto al
piatto. Notai un tremolio nervoso del quale non riuscì ad immaginare la causa.
Sembrava che qualcosa lo turbasse. Per un momento credetti che non stesse bene,
ma un tremore alla mano non era di certo sintomo di influenza.
Non so se
Turner si accorse della mia attenzione verso la sua mano, fatto sta che la
nascose sotto al tavolo.
«Ti piace
farti pregare» constatò «peccato che a me piaccia quando le persone fanno
quello che dico»
«Sei un
prepotente»
«Può darsi,
ma ho imparato che i prepotenti ottengono sempre quello che vogliono»
«E dire che
io pensavo fossi uno timido»
«Cosa te lo
fa pensare?» mi morsicai l’interno della guancia. Perché cazzo avevo detto una
cosa del genere? Cosa potevo rispondere? Che lo avevo letto su internet perché
avevo passato il pomeriggio a scrivere “Alex Turner” su Google?
Sorrise
sghembo. Aveva capito di avermi colto in fallo «Sai, Lyla, a volte Wikipedia
mente»
Chiusi gli
occhi per qualche secondo e lasciai che tutta l’aria all’interno dei polmoni mi
uscisse dal naso. Forse speravo di morire sul colpo e salvarmi dalla plateale
figura di merda che avevo appena fatto.
Purtroppo
respirai.
«Sai,
Turner, a volte le persone mentono» mi sorrise compiaciuto della risposta che
gli avevo dato e sinceramente anche io ero abbastanza fiera di me stessa. Mi
era uscita una risposta sagace e non ci avevo nemmeno pensato troppo. Forse era
proprio grazie a Turner. L’essere ambigui e misteriosi doveva essere
contagioso.
Di nuovo ci
incantammo l’uno nel viso dell’altra ed i nostri sguardi si separarono solo
quando la donna col kimono ci mise due piatti stracolmi di sushi sotto al naso.
«Servitevi
pure» Turner le rispose con un cenno della testa.
Stavo
morendo di fame, ma con le perle nere di Turner che seguivano ogni mio
movimento mi sentivo un po’ a disagio a mangiare.
«Perché mi
fissi così?» domandai quando il mio stomaco ebbe la meglio sull’orgoglio.
Si lasciò
andare contro lo schienale della sedia e prese a giocherellare con una delle
bacchette che ci avevano portato.
«Perché mi
piaci, Lyla» ammise con tono scocciato, come se il fatto che non lo avessi
capito da sola gli desse noia «ma mi fai anche un po’ paura»
«Ah
si?» suonai volutamente molto incredula «temi che diventi come Annie Wilkes?»
«Fino a che
non trovi un martello sono al sicuro»
«Ne ho
giusto uno nella borsa»
Lasciò
uscire forte l’aria dal naso e fece un mezzo sorriso. «Ho paura di te, Lyla,
perché sembri uscita da una delle mie canzoni»
Cornerstone
Chiedo umilmente
perdono. Faccio un mea culpa con tanto di inchino e chiedo venia.
Purtroppo me ne sono successe di ogni in questi giorni. Pensate che il
capitolo era pronto per il 19, ma il mio computer ha deciso di morire.
Aggiungeteci le feste di natale e il tempo per riscriverlo sul computer
di mio padre ed ecco spiegato il tremendo ritardo. Chiedo scusa davvero.
Per farmi perdonare ho messo la slice of life più sconcia tra le bozze che avevo (buongustaie!)
e ho anche deciso di dividere il capitolo in due parti. Riscrivendolo,
infatti, mi sono venute in mente nuove idee e siccome da questo
incontro dovrebbero delinearsi i carattere dei miei personaggi (ah! magari Turner fosse mio) ho pensato di dedicarvi più tempo.
Spero che questo capitolo vi piaccia e vi ringrazio per le recensioni
alle quali corro a rispondere e a chi ha messo la storia tra le
preferite/seguite ho visto che siete aumentati e questo non può
fare altro che rendermi felice!
La canzone di questo capitolo è Bumblebee, ancora dell'ultimo
album dei Kasabian, personalmente ad un primo ascolto mi sembrava solo
una gran miscellanea di rumori, ma ora la adoro con tutto il cuore!
Spero che piaccia anche a voi!
P.s. Non sono
sicura che vi serva, ma se non sapete di cosa parlano non potete capire
la battua: Nell'ultimo dialogo Alex e Lyla fanno un gioco sul nome
"Annie Wilkies" che è una dei protagonisti del romanzo di
Spielberg "Misery non deve morire"
la battuta del martello si rifà a Annie che per non lasciar
scappare il suo scrittore preferito (lei si considera la sua fan numero
uno) *SPOILER ALERT* decide di rompergli entrambe le caviglie con un martello.
Vi saluto e vi auguro un buon anno <3
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Capitolo 4 *** Traccia 4 ***
TAKEN FOR A FOOL
Traccia 4
Taken for a fool - 3.25
9 Febbraio
Stavamo
facendo il soundcheck quando Alex comparve in fondo alla sala del locale.
«Cosa
ci fai qui?» gli avevo chiesto. Lui aveva buttato a terra la sigaretta e
mi era venuto incontro sorridendo solo a me.
«Ti pensavo» mi aveva detto facendomi arrossire.
Ero scesa dal palco con un salto e mi ero messa la giacca
pronta a seguirlo ovunque volesse andare.
«Lyla!» entrambi ci eravamo girati verso Liam che pareva furibondo
«dove pensi di andare? Dobbiamo suonare tra meno di tre ore!»
"Blame yourself for once, quit putting it on me,
I can't help you 'cos I've seen what it means,
It's so
early I don't want to wake up.
We're so lucky 'cos we never grew up."
«Te la riporto in tempo non ti preoccupare» Il tono di
Turner sembrava sempre troppo sarcastico.
«No, lei non può mollarci così» Liam insisteva e forse
quella volta aveva anche ragione, ma per troppe occasioni avevo seguito i suoi
ordini «Lyla torna sul palco e riprendi il microfono»
"I know,
everyone goes any damn place they choose.
And I hope everyone well on the toxic radio.
A tourist in the ghetto, not afraid of anything.
Except death and anything else that could maybe hurt the most. Yeah"
Alex aveva riso con lo scopo di schernirlo, si era acceso
una sigaretta e lo aveva guardato dritto negli occhi.
«Altrimenti cosa fai, Liam?»
"You get
taken all the time for a fool.
I don't know why.
You get taken all the time for a fool.
I don't know why.
I don't know why."
Uno dei
numerosi luoghi comuni in ambito musicale vuole che il rapporto tra cantante e
canzone sia simile a quello che intrattiene il genitore coi proprio figli.
Prima è
dentro di te, poi nasce nelle tue mani, la sviluppi, la correggi e al momento
giusto la lasci andare, guardandola da lontano.
Non è
proprio così.
Le
canzoni sono parti del cantante, o per meglio dire, parti dell’anima del
cantante. Quando un’artista è veramente mosso dai fili ciechi delle muse è in
grado di provare esperienze lontane da sé. L’arte può essere una conoscenza
priva di stimoli, basta saperla immaginare.
Un
cantante, un poeta, un pittore… sono tutti in grado di razionalizzare le loro
emozioni e di vivisezionarsi l’anima concedendoci un pezzo della loro essenza.
Le
persone meno sensibili non si rendono conto dell’enormità che c’è dietro una
canzone. Tendenzialmente una canzone “suona bene”. I più si focalizzano sul
ritmo, ma sono le parole che ne costituiscono l’ossatura. Il testo sono le
ossa, la musica la carne e la voce di chi la canta è il frammento di anima in
questione. Il soffio che gli dà vita.
Quindi,
quando Alex Turner degli Arctic Monkeys mi ha detto che sembravo il frutto di
una sua canzone mi ha fatto un regalo spaventoso.
Da un
certo punto di vista, ero anche io un pezzo della sua anima.
Rimasi
immobile per almeno una ventina di secondi. Mi mordicchiai il labbro inferiore
per nascondere un sorriso frutto della vanità. In vita mia nessuno mi aveva
detto una cosa così banale, ma al contempo così personale.
Turner
sbuffò facendomi tornare coi piedi a terra.
«Sono
stato orrendamente sdolcinato»
«Bè,
dipende dai punti di vista» mi guardò interrogativo così continuai «voglio
dire, dipende dalla canzone»
Ridacchiò
e annuì.
Insieme
al sushi la cameriera ci aveva portato un paio di Yebisu e mentre io ero a metà
della mia, Turner ne aveva già ingollate due. L’alcool sembrava renderlo più
calmo, ma il tremore alla mano non era cessato. Notai che aveva anche la pelle
d’oca. Sentivo che in lui c’era qualcosa che non andava, ma non avevo il
coraggio di chiedergli nulla.
Mentre la
giapponese portava via i nostri piatti vuoti Turner ordinò un’altra birra.
Sorrisi al pensiero che probabilmente non lo avevo mai visto da sobrio.
«Che
canzone vorresti essere?»
Ci
pensai su «Una di quelle del mio album preferito» fui volutamente enigmatica.
Chinò
la testa di lato, come avevo imparato, usava fare quando pensava o cercava le
parole giuste per dire qualcosa.
Si passò
la lingua sulle labbra «Suck it and see?»
«Humbug»
«Avrei
dovuto immaginarlo» si rimproverò.
«Perché?
Sembro disonesta o una a cui piacciono gli scarafaggi?»
«No,
ovvio che no» precisò immediatamente «vedi all’uscita di ‘Humbug’, un sacco di
persone hanno scritto una recensione sull’album… Sia chiaro, io non sono uno
che legge le recensioni!» precisò con una smorfia «se a qualcuno non piace la
mia musica può andare a farsi fottere…. Una, però, mi è rimasta impressa»
La
cameriera tornò con la Yebisu e Turner ne bevve un generoso sorso prima di
continuare «dicevano che ‘Humbug’ era una discesa verso l’abisso. Le scale buie
e umide di un vecchio castello di pietra: un consapevole salto nel vuoto»
Mi
appoggiai coi gomiti sul tavolo «Ed io sarei questo per te?» anche io
avevo finito la birra e le mie inibizioni si erano allentante permettendomi di
essere un po’ più audace.
«Tu,
Ophelia, sei come la fine di un tramonto» Distolsi lo sguardo e mi passai una
mano tra i capelli.
Io per
lui ero la notte che inghiottiva la luce.
Mi
concentrai sul suo pomo d’Adamo mentre ingoiava l’ennesimo sorso di birra. La
profondità di Turner mi destabilizzava: era un mare, un oceano! Le parole gli
uscivano con facilità e senza vergogna, ogni sua frase sembrava presa a
citazione da una poesia triste e sconosciuta.
«Poetizzi
sempre le persone al primo appuntamento?»
«Non si
può mettere in versi tutti» sorrisi accondiscendente.
«Quindi...»
dissi riprendendo il filo del discorso «stai dicendo che sono dark?»
«Oh...
tu sei così dark» mi abbagliò con un
sorriso furbo.
Deglutii
a vuoto «Hai detto che sono una tua canzone, quale?» domandai, mossa da una
sorta di curiosità un po’ maliziosa.
«Non
intendevo una canzone in particolare» ammise con lo sguardo perso «Sei l’idea...
una mia idea» lo guardai senza comprendere. Si avvicinò, appoggiando i gomiti
sul tavolo. Si prese un po’ di tempo per pensare mentre con le dita strappava
gli angoli dell’etichetta della birra «Quando sono entrato nel tuo ristorante è
stato come trovarmi davanti la ragazza alla quale penso quando scrivo. Con gli
anfibi, gli occhi da gatta e il sorriso altezzoso»
Le nostre
braccia si sfioravano. Non me n’ero accorta fino a quel momento. Sentì il
piacevole calore del suo corpo e mi irrigidii terrorizzata dalla possibilità
che Turner si muovesse di nuovo interrompendo quel contatto rubato.
Mi
guardai le mani perché sapevo che se avessi guardato lui mi sarei volutamente
gettata tra le fauci del leone… anzi no, del lupo. Sì, perché Alex Turner aveva
il sorriso affilato di un lupo abituato a vincere. Sapevo che se avessi
incontrato i suoi occhi troppo grandi e troppo scuri, avrei perso. Era un po’
come quella infantile convinzione secondo la quale: “se non lo vedo non esiste”.
Oh, al Diavolo!
Lasciai
che il suo sguardo buio mi baciasse il viso. Aveva il capo leggermente chinato
in avanti ed il ciuffo gli ricadeva sugli occhi allungandogli il viso. Teneva
il sopracciglio sinistro appena sollevato, questo gli increspava la fronte e
gli dava un’aria da ribelle senza una causa, che gli veniva fin troppo bene.
Sentii
il cuore battermi in testa mandandomi in confusione. Nemmeno la mia voce
interiore fu più in grado di comporre una frase compiuta quando Turner sorrise
con un angolo della bocca.
Il
brivido che mi percorse la schiena fu così violento che involontariamente
spinsi il petto in avanti. Lui colse subito il mio movimento ed i suoi occhi mi
caddero sul seno. Lo vidi deglutire e capii che mi stava spogliando
mentalmente, ma lo faceva con una sfrontatezza che lo rendeva…eccitante.
Era la
prima volta che lui era quello impegnato a volere
e io quella con una parvenza di autocontrollo. Così ne approfittai facendogli
una domanda con l’intenzione di metterlo con le spalle al muro.
«Mi
stai dicendo che sono la donna dei tuoi sogni?»
I suoi
occhi si mescolarono di nuovo coi miei, lasciando sul mio petto, la stessa
sensazione fredda e fisica che si sente quando qualcuno lascia scoperta una
zona di pelle dove prima aveva poggiato una mano.
«Non
sono sicuro sia un complimento» disse non dicendo niente. Il sorriso da
lupo si accompagnò agli occhi da cucciolo ed io sentì il sangue accelerare
nelle vene. «Mi è stato detto che la mia mente è malata»
«Chi te
lo ha detto?» domandai schiacciando il petto contro il tavolo nella speranza di
distrarlo di nuovo.
«Matt…»
parlò come sovrappensiero «e Nick e Jamie e mia madre e chiunque» concluse
serrando le palpebre. Quando notai le piccole rughe che gli si formarono
attorno agli occhi sentii un piacevole calore riempirmi l’addome. Come quando
durante l’inverno si può sentire il tè caldo scendere per la gola e arrivare
allo stomaco.
Il
sentirsi oggetto del desiderio è una sensazione tipicamente femminile, che però
io non avevo mai provato in modo così prepotente. Ogni conversazione con Turner
era come una corsa in macchina, con il paesaggio che si confonde in uno
sfavillio di luci, fuori dal finestrino e la velocità dell’auto che preme il
petto.
«Nessun
poeta è mai stato sano di mente» dissi.
«A
volte temo di essere più matto che poeta»
«Perché?»
«Io
sono sempre, costantemente innamorato» spiegò «sono ossessionato dall’idea di
amare. Di quella sensazione di pienezza che provo quando sono ricambiato e di
quel vuoto macinante che mi prende lo stomaco quando non lo sono» sollevai un
sopracciglio all’idea che qualcuno non ricambiasse le sue attenzioni «Io sono
un vaso pieno d’amore e ho la necessità di riversarlo su qualcuno, perché una
forza grande come l’amore non la puoi tenere dentro, o ti sgretola dall’interno»
Fu un
attimo. Un secondo ed ecco che pensai subito a Liam. Sentii un peso
schiacciarmi i polmoni, era come se si fossero rinsecchiti, il mio corpo si rifiutava
di respirare.
Turner
lo notò subito, non so cosa capì, ma lo capì prima di me. I suoi occhi si
spalancarono e per un momento parve confuso. Non disse nulla e lo ringraziai
mentalmente per non aver provato a consolarmi.
«Scusa»
dissi quando respirare smise di fare male.
«Non
devi scusarti di essere innamorata»
«Non lo
sono»
«Io
dico di sì»
«Credevo
fossi un cantante, non uno psicologo» scherzai alleggerendo l’atmosfera. Turner
rise, ma una smorfia di dolore si disegno sul suo bel viso come una riga su un
foglio bianco.
Si
coprì la fronte con il palmo.
«Tutto
bene?» domandai.
«Si, è
solo… mal di testa» Nonostante la sua rassicurazione non gli credetti. Turner
serrò la mascella e chiuse gli occhi. Istintivamente gli presi la mano, ma le
sue dita era ossute e gelate. Si scostò da me con uno scatto irritato e mi
fulminò con lo sguardo.
Ritrassi
la mano impaurita.
«Torno
subito» disse alzandosi e scomparendo giù dalle scale.
Rimasi
lì immobile e con il disagio attaccato alle spalle. Cercai di capire cos’avevo
sbagliato per farlo reagire così, ma non mi venne in mente nulla.
La
cameriera comparve con due tazze di sakè, così, per celare l’imbarazzo finsi di
controllare il telefono.
Avevo
tre messaggi di Liam e una chiamata persa di Joel. Decisi di leggere i messaggi
che perlopiù erano raccomandazioni del tipo “spero che tu abbia messo in risalto le tue belle gambe” oppure “controlla che la foto non venga troppo scura”.
Serrai i denti dalla rabbia e pensai di rispondergli che non se ne poteva fare
niente, perché quel cantante era più complicato di un rebus scritto in una
lingua sconosciuta e io non ero più nemmeno sicura di interessargli, ma prima
che cominciassi a digitare Turner ricomparve di fronte a me.
Feci
uno scatto e mi ficcai il telefono in tasca «Non ti ho sentito arrivare»
Rispose
con una scrollata di spalle e si sedette, o per meglio dire si lasciò cadere
sulla sedia con un tonfo. Prese la sua tazza di sakè e la mandò giù come se
fosse una medicina.
«Andiamo?»
domandò.
Avevo
ancora la mano sulla tasca dei pantaloni, perché non mi ero mossa di un
millimetro da quando era tornato. Ebbi la brutta impressione di trovarmi
davanti una persona diversa, come se Turner fosse regredito abbandonando gli
abiti da poeta e rimettendosi il giubbotto da star internazionale abituata a
farsi servire, con tanto di smorfia annoiata.
Si
passò l’indice sotto al naso e tirò su inclinando la testa di lato.
La mano
non tremava più.
«Joe è
fuori?» chiesi guardando la finestra per smettere di guardare lui.
«No, ho
deciso che ti porto io»
«Come
mai?»
«Mi va»
rispose laconico.
Qualunque
organo avessi all’altezza dell’ombelico lo sentii attorcigliarsi su se stesso.
Voleva accompagnarmi a casa lui stesso, cosa poteva significare?
Mi
prese il panico. Allora Joel aveva ragione? Voleva solo venire a letto con me?
Mi
irrigidii e non ebbi il coraggio di dire nulla mentre lui si faceva portare il
conto. Non perché non volevo categoricamente fare sesso con Alex Turner, ma perché
quella specie di appuntamento non doveva finire così.
Concludere
la serata a letto sarebbe stato troppo banale.
Ad ora
non riesco a spiegare quello che provai, forse era perlopiù delusione. Avevo
pensato che Turner fosse uno spirito lirico che non aveva bisogno del corpo per
fare l’amore. In effetti mi sentivo come se noi avessimo già fatto sesso, ma a parole. Nei nostri pensieri. Ero
consapevole del fatto che, come io avevo immaginato di spostare il tavolo e
sedermi a cavalcioni su di lui almeno un paio di volte, lui aveva fatto lo
stesso, magari fantasticando di schiacciarmi contro il muro e mordermi le
labbra fino a farmi male.
Dunque
l’idea di rendere concreto il desiderio così presto mi sembrava sbagliata. Mi
sarebbe piuttosto piaciuto andare a casa insoddisfatta. Così avrei avuto il
tempo di rimpiangere di non essere stata abbastanza istintiva. Così il ricordo della
sua camicia sbottonata mi avrebbe perseguitato, al punto che la volta dopo gli
sarei saltata addosso, vittima di un’incontentabilità succosa e matura che
avrebbe reso il tutto indimenticabile.
Purtroppo
però la realtà ci mise un paio di secondi a tagliarmi le ali. Lo stesso tempo
che serve alla cintura per unirsi al gancio. Quando, infatti, mi sedetti sulla
sua macchina nera e Turner mise in moto, capii che non ci sarebbe stata una
seconda volta per noi, capii che avremmo probabilmente fatto sesso, capi che
non sarei riuscita a fare nessuna stramaledetta foto per Liam e capii infine
che da domani tutto sarebbe tornato come prima.
Non
parlai per tutto il tragitto, ma a Turner non sembrava importare. Era troppo
preso dai suoi pensieri. Guidava veloce, troppo o forse ero io che non volevo
arrivare a casa in fretta.
Alla
radio c’era “Love will tear us apart”
quando Turner spense il motore davanti a casa mia.
«Dove
abiti?» domandò abbassando il volume invece di spegnerlo.
Indicai
una palazzina bianca in stile vittoriano «Lì, al primo piano»
Turner
annui e non disse altro.
Sospirai
e mi slacciai la cintura. Aprì la bocca per chiedergli se voleva entrare, ma
lui parlò prima.
«Allora
buonanotte Lyla»
Lo
guardai e se avessi potuto avrei sorriso. Mi prese il mento con due dita e mi
costrinse ad allungare il collo verso di lui.
Quando
le sue labbra si premettero contro la mia guancia dovetti mordermi l’interno
della bocca per non urlare. Fu un bacio lento, ma non di certo casto. Probabilmente
voleva dirmi così tante cose che però aveva trovato più facile riassumere così.
«Buonanotte
Turner» dissi permettendomi di sorridere solo quando mi chiusi il portone di
casa alle spalle.
Quel
bacio mancato era il desiderio inespresso che mi avrebbe torturato fino al
nostro prossimo incontro.
CORNERSTONE
Salve a tutti! Eccomi di nuovo con la seconda
parte dell'appuntamento tra Lyla e Alex! Bè, che ne pensate?
Spero vi sia piaicuto e sappiate che dal prossimo capitolo le cose
iniziano a farsi serie!
Mi dispiace non aver potuto aggiornare per il compleanno del nostro bad
boy, ma mi hanno invitato fuori a mangiare il sushi e se mai un giorno
io dirò di no al sushi sappiate che vorra dire che quella con
cui state parlando non sono io, ma un automa con le mie sembianze!
Okay, adesso se la smetto di citare Blade Runner vi posso salutare!
La canzone del capitolo è degli
intramontabili "The Strokes" tra l'altro è una delle mie
preferite in assoluto. Quando Alex e Lyla parlaando di 'Humbug' e lei
chiede se lui la crede "una disonesta oppure una che ama gli scarafagi"
quella è una battuta sui due significati della parola 'humbug'
in slang infatti significa "disonesto/ fraudolento" e la storia degli
scarafaggi si riferisce al personaggio dei fumetti.
Ah, quasi mi dimenticavo di sottolineare il riferimento a "You're so dark" che in effetti è davvero la canzone alla quale mi sono ispirata per creare il personaggio di Lyla, il fatto che voi l'abbiate notato subito mi ha veramente reso felice! Bene, a parte
quello non credo ci siano altre cose che vanno spiegate! corro a
rispondere alle recensioni e vi auguro una buona gionata.
p.s. e vi ringrazio come sempre! <3
|
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Capitolo 5 *** Traccia 5 ***
Traccia 5
26 Dicembre
Dogs days are over – 3.45
Helders si sedette di fonte a me. Le
mani intrecciate sul tavolo.
-Lo sai perché sono qui?-
“Happiness, hit her like a train on a track
Coming towards her, stuck still no turning back
She hid around corners and she hid under beds”
-No-
risposi beffarda.
Helders sbuffò. Aveva capito che non sarebbe stato facile convincermi. Lo avevo
evitato fino a che avevo potuto, ma questa volta mi aveva fregato.
“She killed it with kisses and from it she fled
With every bubble she sank with a drink
And washed it away down the kitchen sink”
-Lyla. Questo, non è sano. Per nessuno dei due-
-A te cosa importa?- No. Non sarei caduta senza combattere. Non avrei permesso
a nessuno di rubarmi l’unica cosa bella che mi è capitata in questa vita
ingrata.
-Vi state facendo del male-
“Happiness hit her like a bullet in the back
Struck from a great height
By someone who should know better than that”
Mi alzai e andai verso la porta. La aprì e feci
cenno con la testa perché Helders se ne andasse. Matt si alzò sconsolato,
mentre io mi accesi una sigaretta. Si fermò davanti a me e mi guardò dritto
negli occhi. –Ha bisogno di te- sentenziò.
Lo investì con una folata di fumo –Che me lo venga a dire-
“The dog days are over
The dog days are done”
Dovetti farmi spazio tra la calca per raggiungere il bar e
venni letteralmente buttata contro il bancone. River, il barista, con
un'occhiata capì che necessitavo ardentemente di alcool.
-Tutto bene Lyl?- domandò passandomi uno shortino di tequila seguito dal del
sale e una fetta di lime.
Inghiotti il contenuto del bicchiere e lo sbattei violentemente sul bancone -Te
lo dico dopo un paio di questi- risposi.
Quella sera il Viper era pieno e visto che avrei dovuto suonare nel giro di
quarantacinque minuti sarei dovuta essere felice, ma la mia latente misantropia
e l'umore pessimo non aiutavano.
River mi servì subito, guadagnandosi delle occhiatacce da parte di altri
clienti che probabilmente stavano aspettando di essere serviti da molto prima
di me. -Non avrai l'ansia da palcoscenico- scherzò facendo l'occhiolino in
direzione di una ragazza che si sciolse sul bancone.
Tipico.
River e Liam facevano a gara quando si parlava di ragazze e anche se io,
personalmente, preferivo Liam, sembrava che River fosse in vantaggio quella
sera.
Saranno stati gli occhi azzurri, il fisico scolpito e i folti capelli biondi,
eh?
-Lyl!- tornai in me e feci uno scatto indietro spaventata dalla mano che River
mi stava sventolando davanti alla faccia -C'è troppa gente stasera- disse
indicando con un cenno del capo verso la calca di persone che si spingevano sul
bancone per attirare la sua attenzione -vieni dietro e serviti da sola-
Scavalcai il mobile di legno appiccicoso e dopo essermi servita un
Vodka&Lemon decisi di dare una mano a River, tanto per far passare il tempo
e tenermi occupata.
O meglio, dovevo tenere la mia mente occupata.
E nascondermi da Liam.
Era dalla mattina che lo evitavo. Non avevo voglia di rispondere alle sue
domande, di spiegargli perchè non avevo fatto nessuna foto e non avevo
intenzione di dirgli che c'era la possibilità che io e Turner ci rivedessimo.
Non avevo voglia di fare niente, volevo essere lasciata da sola a pensare,
ecco. L'uscita del giorno prima mi aveva stremata. Non fisicamente, ovvio, ma
mentalmente. Tenere il passo della mente di Turner era come correre dietro ad
un motociclista. Continuavo a ripassare i nostri discorsi, mi chiedevo se
avessi detto qualcosa di strano, se ero sembrata una sciocca... continuavo a
pensare a lui, insomma.
L'euforia del dopo appuntamento mi aveva tenuto compagnia
per tutta la notte, ma poi quando la mia mente parve superare la sbronza da
Alex Turner, avevo cominciato a chiedermi se davvero ci saremmo rivisti. Sì, mi
aveva detto che gli sarebbe piaciuto sentirmi cantare e io gli avevo parlato
del Viper, ma questo non significava niente, no? Ero di cattivo umore perchè
una parte di me sperava di vederlo comparire in mezzo a quelle persone. Mi ero
anche immaginata la scena: io cantavo sul palco, all'improvviso un guizzo di
sigaretta ed eccolo lì. Nel centro esatto della sala che mi guardava con quel
suo sorriso da lupo.
Odiavo quella sensazione, quella speranza. Non volevo crearmi delle
aspettative, ma il problema delle aspettative è proprio quello. Loro si creano
da sole, che tu lo voglia o no.
-River!- La voce di Liam si distinse da quelle concitate dei clienti e
nonostante non l'avessi visto, istintivamente mi abbassai dietro al bancone.
No, proprio no. Non potevo evitare di sperare di vedere Turner, ma potevo
evitare Liam e quello era già un buon inizio.
-Liam! non sarai venuto a rubarmi la compagnia spero- Non vidi a chi River si
stesse riferendo, ma sentii chiaramente una risatina femminile.
Roteai gli occhi al cielo.
-Ah, ah. Senti... hai visto Lyla?- Trattenni il respiro e diedi un colpo al
polpaccio di River. Il barista si guardò intorno.
-Direi proprio di no, mate-
-Se la vedi mandala da me, okay?-
-Sarà fatto!- River si esibì in uno strano saluto militare, mettendo in mostra
il suo bicipite scolpito. Giuro su Dio di aver sentito delle ragazze sospirare.
Feci per rialzarmi, ma River mi mise una mano in testa e mi spinse giù di
nuovo.
-River, per quella cosa...-
-Adesso sono impegnato, mate-
-Capisco...-
-Ci troviamo alla fine del vostro spettacolo, che ne dici... riesci a
resistere?-
-Ci proverò-
La mano che prima mi aveva spinta ora mi stava aiutando ad alzarmi.
-Me ne devi una- m'informò River mentre preparava un cocktail.
-Ah sì?-
-Certo! Ho dovuto mentire ad un mio amico... e lo sai quanto io detesti mentire-
-Ma se sei un bugiardo patentato!- sbottai dandogli una gomitata giocosa sul
braccio. Lanciai un'occhiata sul palco e vidi Charlie intento a sistemare la
batteria: tra poco toccava a noi.
Feci per andarmene, ma tornai sui miei passi -Cos'è quella cosa di cui parlava
Liam?- chiesi. Non sono mai stata un'impicciona. Ho sempre pensato che se
qualcuno volesse dirmi qualcosa lo avrebbe fatto, ma quel parlare criptico del
mio chitarrista mi aveva incuriosita.
A cosa doveva resistere?
-Sei ancora troppo giovane, Lyl- sbuffai rumorosamente e River mi sorrise.
-Ho capito- dissi alzando le mani al cielo -tu e Liam fate tanto i playboy, ma
in realtà ve la intendete, non è così?-
Un brusio ed una serie di sguardi allarmati accompagnò la mia uscita mentre
River cercava di convincere le sue numerose ammiratrici, che no, non era gay e
che si, tra poco finiva il suo turno.
I fari del palco mi accecarono completamente. Non vidi
altro che una massa nera e deforme al posto di quello che doveva essere il pubblico.
La tequila in circolo stava facendo il suo lavoro, cantavo, ma soprattutto non
pensavo a niente. Le parole uscivano in automatico, tanta era la forza
dell'adrenalina che mi stava facendo esibire. Non ricordo le mezze frasi che
dissi tra una canzone e l'altra. Quando mi esibisco la mia testa si spegne e
regredisce ad uno stato primordiale. La mente fa ragionamenti semplici e c'è
spazio per una sola emozione alla volta: quella della canzone.
Con un salto scesi dal palco. Nonostante la mia mente fosse troppo concentrata
per fermarsi a pensare i miei occhi non avevano altrettanti impegni ed avevano
vagato per tutta la sala alla ricerca di lui.
Sorrisi amara e mi morsi l'interno della guancia. Che stupida ragazzina ero!
Che cosa mi aspettavo poi? Che si presentasse al Viper con un anello e mi
portasse via sulla sua costosissima macchina nera?
Feci un cenno a River che ora era molto meno indaffarato di prima, e mi presi
una birra dal frigo del bar.
Cazzo.
Solo quando cantavo non pensavo a quel coglione di Turner, ma per certo non
potevo cantare tutta sera e per i giorni a venire. Quello stronzo mi aveva
fregato per bene.
-Faccio venti minuti di fila per un drink e poi arrivi tu ti prendi la birra
come se niente fosse.-
Per poco non mi strozzai.
Era lì. Davanti a me. Col suo sorriso sornione e la faccia da sberle. Sentì un
forte calore diffondersi nel petto. Come se una bomba mi fosse scoppiata sullo
sterno e l'onda d'urto si fosse diffusa per tutto il corpo facendosi terra
bruciata intorno.
Mi imposi di non fargli intendere quello che mi stava facendo la sua sola
presenza.
-Cos'hai preso?- domandai cercando di guardare dentro il suo bicchiere. Turner
avvicinò il cocktail alla mia bocca e mi fissò negli occhi sfidandomi.
Sorrisi.
Avvolsi la cannuccia con le labbra e presi un sorso senza mai staccare gli
occhi dai suoi.
La sua espressione era un misto tra il compiaciuto e l'affamato. Porco.
-Gin&Tonic- mi informò -lo prendo quando ho bisogno di sentirmi.... Supersonic-
Deglutii e storsi il naso -Troppo amaro per me-
-Non sarai una da beveroni colorati e pezzi di frutta-
-È un vizio di tutte le donne-
-Non tuo-
-Perchè... non sono una donna?-
-Perchè non sei tutte-
-Ne sei sicuro?-
-Non sarei qui, altrimenti-
Abbassai lo sguardo. Come faceva ad usare sempre le parole giuste non lo
sapevo, ma Turner poteva dire la cosa più banale nel migliore dei modi oppure
la cosa più dolce nel peggiore. Quando parlavo con lui mi sentivo come se
stessi duellando con un cavaliere. Le nostre voci due spade e le nostre frasi i
fendenti. Eppure, ogni volta che Turner arrivava sul punto di scagliarmi il
colpo finale si bloccava mi dava il tempo di reagire e ricominciavamo da capo.
Non voleva far finire il suo giochetto.
-Bè... neanche tu mi sembri tipo da Gin&Tonic- sussurrai con un cenno al
bicchiere. Turner sollevò un sopracciglio incuriosito così continuai. -Non è
abbastanza tormentato come drink-
-Cosa intendi?-
Mi avvicinai a lui e gli poggiai una mano sul collo per far sì che abbassasse
la testa verso di me. Gli accarezzai il collo col naso e parlai soffiandogli
sul lobo dell'orecchio -Ti vedo seduto al bancone con lo sguardo perso, una
bottiglia di whiskey di fianco, mentre giocherelli col ghiaccio dentro al
bicchiere vuoto-
-Come un eroe romantico- commentò
-Romantico sì, sull'eroe c'è da vedere-
Si allontanò da me e mi sorrise tenendo gli occhi fissi nei miei. Era una cosa
che faceva sempre, quell'insistente contatto visivo, come a volermi ipnotizzare.
Sembrava fossero due ancore che mi tenevano legata a lui, costantemente.
Espirai rumorosamente, da quanto tempo ci stavamo guardando negli occhi senza
dire niente? Mi ricordai di dov'eravamo: al Viper. Mi ricordai che aveva
mantenuto la sua promessa di venire e mi riempii di orgoglio. Il motivo per il
quale Alex Turner si era interessato a me rimaneva un mistero, ma lui voleva me
ed era questo che mi importava.
Presi un sorso dalla mia birra e mi crogiolai al pensiero. Feci il giro del
bancone per trovarmi faccia a faccia col mio splendido tormento.
-Alla fine sei venuto- dissi squadrandolo da capo a piedi. Era vestito come al
solito: jeans, maglia nera e giacca di pelle. Niente di particolare, anzi metà
dei ragazzi all'interno del locale erano vestiti come lui, nonostante questo,
Turner risaltava. Credo fosse una questione di aura. Si portava dietro il
tormento del cantautore, gli occhi scuri sempre attenti, profondi e neri come
la sua anima.
-Questo non l'avevamo appurato cinque minuti fa?- domandò.
-Facciamo del sarcasmo, vedo- Infilò una mano nei miei capelli e segui con lo
sguardò mentre questa scompariva nella massa nera. Istintivamente mi avvicinai
a lui e strinsi i lembi della sua giacca tra le mani.
-Da quanto sei qui?-
-Se vuoi sapere se ti ho sentita cantare, chiedimelo-
Deglutii a vuoto. Il suo tono era brusco, ma non volutamente offensivo.
Sembrava sovrappensiero. Continuava a guardarmi il viso, ogni sfumatura nei
miei occhi veniva catturata dai suoi. Mi sentivo studiata, anzi.... Ammirata.
Turner aveva forse l'intenzione di imparare a memoria il mio viso?
-Mi hai sentita cantare?- la voce mi uscì sommessa e piccola. La sua
espressione assorta cambiò subito e mi guardò come si guardano delle belle
rose.
-Si-
-E?-
-Vale così tanto la mia opinione?- alzai un sopracciglio senza capire.
-Sei un cantate famoso- gli ricordai.
-Solo per quello?-
Alzai le mani in segno di resa -Sarò anche un po' ubriaca, ma stasera sei
indecifrabile, Turner-
Lui scoppiò in una risata infantile e mi prese entrambi i polsi portandosi le
mie mani intorno al collo. Sorrideva ancora quando con la bocca a pochi
centimetri dalla mia e la testa inclinata mi parlò.
-Andiamo in un posto meno.... affollato?- soffiò guardandomi le labbra come se
volesse morderle.
Sentii chiaramente il mio cuore accelerare ed annui visto che ero incapace di
parlare.
Guardavo lui, ma lui non guardava me. Fissava la mia bocca, sembrava indeciso.
Avevo lo sguardo di chi sarebbe stato pronto a strapparmele a morsi, ma le sue
mani sui mie fianchi erano così delicati da farmi credere che si, mi avrebbe
mangiato, ma di baci.
-Quindi? Sei
tu quella autoctona- mi disse dandomi un buffetto sul naso.
Scossi la
testa, riprendendomi dalla trance entro cui ero caduta.
-Di qua- gli
presi la mano e me lo portai dietro. Ancora non mi capacitavo di come nessuno
si fosse accorto della sua presenza, ma in fin dei conti, il locale era pieno
zeppo di gente, per lo più ubriaca, ed essendo lui diventato una specie di
icona della moda, tutti i ragazzi del Viper avevano il suo stesso taglio di
capelli, i suoi vestiti, insomma; quasi tutti volevano essere lui.
Certo, loro
non avevano quella mano sottile e calda che stavo stringendo ora. Quella mano
che emanava scariche elettrice. Turner era un mondo ed io il suo satellite, la
forza che mi attraeva a lui era troppo forte per resistervi.
Trascinai Alex sul retro, essere una musicista a volte ha i
suoi vantaggi. Avevo intenzione di uscire per la porticina subito dietro al
palco, quella da dove entravano le band. La porta dava su un piccolo viottolo
poco illuminato, utilissimo quando si doveva fuggire dai fan più “calorosi”.
L’unica pecca, era che per raggiungere quella porta, dovevamo passare per il
camerino. Ovviamente, stavo pregando ogni divinità esistente perché Liam non
fosse nei paraggi.
Spalancai la porta del camerino –Dove hai parcheggiato?- domandai entrando, ma
con la testa voltata verso Turner.
Capì subito che qualcosa non andava, quando lo vidi irrigidirsi. Si bloccò
sull’entrata e guardava fisso davanti a sé. Una morsa di nervosismo mi chiuse
lo stomaco e mi girai per seguire il suo sguardo.
Non l’avessi mai fatto.
Vidi River, Liam e la sua rossa seduti
attorno ad un tavolo nero. Candace era ancora china sulla superficie piana e
nera del mobile, mentre i due uomini erano accasciati sulle sedie, come se le
loro spine dorsali fossero state di carta. La superficie scura del tavolino
rendeva tutto ancora più ovvio.
Dopotutto, il bianco risalta sul nero.
-Liam!- strillai, ma non avevo voce. Il trio scattò sull’attenti, ma erano
troppo fatti per reagire normalmente. Candace scoppio a ridere, seguita a ruota
da Liam. River invece mi corse incontro inciampando. Lo guardai con la stessa
compassione con cui si guarda un animale ferito
-Lyl, vieni! Ce n’è anche per te!-
-Cosa state facendo Liam?- Domandai incredula.
-E dire che ti facevo più intelligente- Rimasi senza parole. Nel frattempo
River mi aveva raggiunto e mi stava abbracciando.
-È tutto okay, Lyla. Solo un piccolo sfogo, niente di serio- il biondo mi
carezzava i capelli come si farebbe con una bimba che aveva appena avuto un
incubo. Mi staccai da lui come se stesse andando a fuoco. Feci due passi
indietro e andai a sbattere contro Turner, che non si era ancora mosso.
Mi girai di scatto verso di lui, gli occhi ormai pieni di lacrime che non
volevo, non potevo far uscire.
-Alex...- mormorai.
Turner mi prese la mano e partì diretto per la porta.
River intanto stava accampando scuse su scuse, ma non lo stavo a sentire.
-Basta frignare Lyla! Questo è il mondo dell’arte, devi accettarlo. Questa è la
vita vera!-
Probabilmente l’arringa di Liam sarebbe andata avanti ancora per molto, non
fosse che Turner aveva sbattuto la porta e ora mi stava trascinando per il
viottolo sul retro del locale.
Nessuno dei due disse nulla fino a quando non arrivammo davanti alla sua
macchina. Mi fece salire e guidò fino a casa mia senza nemmeno chiedermi
l’indirizzo. Probabilmente se l’era fatto dare dal suo autista.
Mi resi conto di essere a casa, solo per Turner, che era sceso e aveva fatto il
giro della macchina, mi aveva aperto la portiera e aspettava.
Lo guardai e scesi dalla macchina. Riconobbi la mia palazzina. Mi girai verso
di lui e all’improvviso cominciai a piangere come una bambina.
Turner fu rapido. Mi strinse in un abbraccio. Mi aggrappai alla sua giacca e
nascosi il viso contro il suo petto.
-Non piangere per chi non ha abbastanza amore nemmeno per sé stesso, bambolina-
Ora, non so dire cosa sia stato: la sua voce calda, le sue parole sagge, ma
smisi mi piangere, lo guardai negli occhi e con voce flebile dissi:
-Non lasciarmi da sola stanotte-
Ciao a tutti!
Mammamia, sono tornata, dopo 5 anni! 5 anni ci credete? Ogni
tanto questa storia mi tornava in mente e pensavo a quanto mi sarebbe piaciuto
continuarla, poi mi dissuadevo e mi dicevo, ma a cosa serve, ormai è passato
tanto tempo… però oggi ho trovato il capitolo che avevo preparato nel lontano
2015 e mi sono detta, sai cosa? Il capitolo c’è, gli appunti anche, so come la
storia deve procedere e finire, allora, bè, perché no?
Quindi eccomi qui! Spero di trovare ancora un posticino nelle vostre letture e
che il mio stile non sia diventato scadente dopo tanti anni di fermo!
Un saluto a tutti J
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