Tre piccole storie di Natale

di Zero11
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Roma ***
Capitolo 2: *** Londra ***



Capitolo 1
*** Roma ***


Roma

Mi chiamo Cesare Innocenti e odio il Natale.

Oddio, forse mi sono espresso un po’ male… dopo tutto non odio veramente il Natale, mi piace come festa e mi piace festeggiarla con la mia famiglia, però- sì, ecco qui: odio questo Natale. Davvero, il peggiore della mia vita di adolescente in crisi.
Dubito fortemente che a qualcuno possa interessare perché un diciassettenne alto, timido e goffo voglia cancellare il suo ultimo Natale, ma, vi prego, ho davvero bisogno di raccontare a qualcuno questa cosa.
È tutta colpa dell’amore.
Eros del cavolo, sempre in giro a tirare frecce a caso come se fossero coriandoli. La Fortuna non bacia più nessuno perché lui le ha rubato la benda per fare più centri sbagliati e amori non corrisposti. È il mio caso, ma al contrario di molti, le cui sofferenze durano qualche mese o pochi anni oppure li colpiscono in età di maturazione, le mie hanno avuto inizio dodici anni fa, nel pieno di quello che doveva essere il periodo più spensierato della mia vita, l’infanzia.
Il suo nome era Raphael Moore.

Ero ancora un bambino quando si trasferì dall’altra parte della strada, ma ricordo perfettamente quel pomeriggio d’estate: io stavo giocando (o meglio, litigando) in giardino con i miei cugini Sitael e Michele, che abitavano nella casa affianco, per riavere una macchinina quando sentimmo il rumore di un camion provenire dalla strada.
Ora, so che per molti non sembrerà granché, ma per dei bambini abituati alla quiete del quartiere di Olgiata, lontano dal chiasso del centro di Roma, quel rumore era l’equivalente di un terremoto o di un drago appena emerso dalle viscere della terra per sbranare la popolazione e distruggere la città- Sì, so di tendere al melodrammatico. La mia professoressa di italiano non si è mai lamentata.
Comunque, appena sentimmo quel rumore assurdo perdemmo ogni interesse per i giocattoli e corremmo tutti e tre verso il giardino frontale dove i nostri genitori stavano già osservando incuriositi il mezzo appena arrivato. Era enorme, perfino da fermo emetteva vibrazioni terrificanti che ci scuotevano il petto: credemmo tutti che contenesse davvero un drago. Il mezzo occupava gran parte del nostro campo visivo, ma sul vialetto del garage notammo una macchina nera parcheggiata, arrivata poco dopo, camuffata in tutto quel chiasso. Le portiera anteriore si aprì e un uomo alto, dagli occhi azzurri e i capelli corvini ne scese salutando cordialmente gli adulti dall’altra parte della strada, tra le cui gambe eravamo nascosti noi. Aveva un leggero accento inglese e il portamento marziale tipico dei soldati, come mio padre e mio zio. Sembrava gentile e solare, decidemmo che ci sarebbe stato simpatico. L’uomo aprì una delle portiere posteriori e allora fu come se qualcuno avesse preso il sole e me lo avesse posizionato davanti, modificando radicalmente e per sempre le forze che facevano girare il mio universo.
Dalla macchina scesero due bambini: il primo era più grande di noi, un preadolescente praticamente, serio e circospetto, la seconda era… be’, era la bambina più bella che avessi mai visto.
Raphael Moore aveva più o meno la nostra età: gli occhi chiari del padre, spalancati nel cercare di catturare quante più cose possibili in quella prima occhiata al nuovo ambiente, e i capelli corvini lisci e lunghi fino ai fianchi lasciati sciolti lungo la schiena. Indossava un vestito rosa pallido senza maniche con dei piccoli fiorellini stampati sopra e delle scarpette bianche come se fosse stata una bambola, la carnagione talmente pallida da rendere ancora più evidente tale similitudine e le guance piene e rosee.
Ricordo che in quel momento sentii come un vuoto d’aria nel petto, come un branco di farfalle che mi si agitava nello stomaco, e il desiderio impellente di conoscere quella bambina che ci guardava a pochi metri di distanza.
I gemelli non sembrarono sconvolti quanto me da quella visione, ma ebbero la prontezza d’animo di salutare la piccola mentre io ero ancora imbambolato a fissarla cercando di ricordare come si respirava.
“Cesare si è innamorato”, mi aveva canzonato Sitael.
Io avevo risposto con una linguaccia e un “Non è vero!” stizzito, tuttavia… pensai che sarebbe stata una perfetta principessa, la bambina oltre la strada.

Nelle settimane seguenti avemmo modo di socializzare.
I nostri genitori sembravano aver captato un certo interesse in noi per quella famiglia perciò non ci fu giorno per il resto di quell’estate in cui i Moore non vennero a fare merenda a casa mia oppure in quella dei miei cugini.
Le madri adoravano Raphael, si divertivano a regalarle bambole e vestiti e fare “conversazioni da donne” in cucina quando noi non ascoltavamo; i padri avevano più contegno, si limitavano a chiacchierare con il signor Moore oppure coinvolgevano il figlio maggiore in attività più “maschili” assieme ai miei cugini più grandi, Uriele e Raffaele.
Raphael sembrava stare bene anche con noi nonostante fossimo tutti maschi: sviluppò subito una certa simpatia per Gabriele, il terzo genito dei miei zii, poco più grande di noi, e assieme giocavano a fare sfilate e a prendere il tè o cose simili; non ebbe problemi a relazionarsi con Michele, sempre silenzioso con quel suo fare da nobile con la puzza sotto il naso, anzi, riuscì perfino ad entrare nelle sue grazie (cosa non da poco, credetemi); con me era gentile, simpatica, bellissima… tanto da rendermi sempre nervoso e poco comunicativo, sulle prime, e più impacciato del solito per la maggior parte del tempo. Di quei momenti ricordo soprattutto il mio cuore che martellava nel petto come un pazzo e l’ansia del non sapere come comportarmi attanagliarmi lo stomaco. Proprio per questo, imparai una cosa allora: alle ragazze non piacciono i ragazzi timorosi, le fanno sentire a disagio e si allontanano. Scoprirlo in quel modo mi diede molto fastidio, ma per quanto mi sforzassi non riuscivo a trovarvi rimedio in alcun modo, né potevo impedire ad altri di interessarsi a lei in quel senso.
Mio cugino Sitael era sempre stato una peste, l’esatto contrario del gemello: correva sempre, iniziava spesso risse con i fratelli e con me, rubava i giocattoli a tutti e orchestrava scherzi di pessimo gusto ai danni di tutti, come quella volta che mi lanciò una pala di fango e poi scoprii che erano feci del suo cane. Con Raphael non era diverso, anzi, sembrava accanirsi di più nel darle fastidio, eppure vedevo come la guardava ogni volta che sollevava una bambola dove non poteva prenderla e la canzonava per la sua statura minuta. Provava il mio stesso interesse per lei, ma con una modifica: lui faceva qualcosa per ottenere il premio.

Crescendo la presenza di Raphael nelle nostre vite diventò una costante, al punto da ritenerla più una sorella che una vicina di casa.
Maturando imparammo a stare più tranquilli in sua presenza, ad essere più cordiali con lei e a desiderare costantemente che ci fosse per mantenere l’ordine in quel delirio di testosterone che era la nostra famiglia. Era un po’ il nostro metro per il buon comportamento e l’unica ragazza ammessa tra le nostre fila.
Il mio rapporto con lei migliorò: finalmente dominavo abbastanza i miei sentimenti per poter intavolare una conversazione senza pietrificarmi al suo sguardo. Lei mi confessò che i miei silenzi le avevano fatto credere che la odiassi ed io mi sentii ancora più stupido. 
Ricordo una conversazione che avemmo in quel periodo:
“Davvero pensavi che ti odiassi?”
“Sì! Dai, eri sempre musone, ogni volta che mi avvicinavo ammutolivi! Pensavo… che avessi paura di me o cose del genere, ma non capivo perché e me ne andavo. Ci rimanevo male, sai?”
“Non è mai stato così! È che… è che ero molto timido, tu eri così estroversa, non sapevo come avvicinarmi senza fare la figura dell’idiota come Sitael. Scusa.”
“Sì, be’, Sitael è un GRANDISSIMO idiota. Mi tirava sempre i capelli.”
“E ci rubava sempre i giochi.”
“Già, era terribile! Mi guardava sempre con uno sguardo strano.”
“In che senso strano?”
“Non lo so. Strano.”

Passarono le medie, i nostri corpi maturarono e cambiarono cominciando ad assumere un aspetto più adulto.
Io diventai più alto, più forte, il nuoto mi aveva dato la robustezza necessaria a non temere più le lezioni di ginnastica. Michele si era lasciato crescere i capelli, che erano diventati biondi e mossi come un campo di grano in estate: la sua altezzosità si era fatta più evidente e la sua media dei voti era sopra le stelle; come sempre, non lasciava mai trapelare emozioni diverse dalla noia, ma era rimasto un po’ minuto. Sitael aveva sviluppato tutto tranne il cervello, o almeno dava questa impressione; era alto e robusto, veloce come una scheggia ovunque lo mettessi e sempre con quella fame di rissa che lo aveva caratterizzato fin da bambino. Si era procurato una cicatrice che gli attraversava l’occhio destro con un brutto volo cadendo dalla bici e sfoggiava lo sfregio come se se lo fosse procurato combattendo contro un orso.
Di tutti noi, era l’unico che non accettava di abbandonare la goliardìa dell’infanzia in favore della serietà nonostante i suoi genitori fossero palesemente sfavorevoli a un certo comportamento. A me non interessava: fintantoché rimaneva nel suo, poteva rovinarsi la vita come voleva.
Il cambiamento più grande lo subì Raphael: non crebbe molto in altezza, ma posso affermare che la natura fu più che generosa con lei. Le donò curve dolci e piene, labbra carnose, uno sguardo più magnetico di una calamita e la grazia di una ballerina. Ben presto divenne famosa in tutta la scuola, non c’era ragazzo che non si perdesse per almeno un momento a osservarla quando camminava per i corridoi ed io, lo ammetto, mi sentivo estremamente geloso di tutti quegli sguardi puntati su di lei, nonché minacciato da tutti quei nuovi “avversari” in quella gara non propriamente dichiarata.
Tuttavia non fu un periodo tutto rose e fiori per lei.
Come spesso accade, alla fama seguì subito l’invidia, delle ragazze, dei ragazzi, a volte dei professori stessi, che creò un’immagine distorta della bellissima ragazza che conoscevo dipingendola come qualcosa di totalmente diverso, di totalmente estraneo alla sua reale natura.
“Ma l’hai vista come si veste?”
“Assurdo, quanto è volgare.”
“Qualcuno le ha mai detto che esistono vestiti meno scollati?”
“Ho sentito che si è fatta il capitano della squadra di nuoto.”, “Davvero?”, “E non solo!”
“È davvero una zoccola.”
Sentivo quei discorsi e cercavo di metterli a tacere ogni volta che ne avevo l’occasione, ma purtroppo le voci sono per natura immortali e inalterabili se non in peggio. Non c’era modo di farle stare zitte, al che alla fine Raphael cominciò a dargli ascolto più di quanto ne desse a noi.
Cominciò a comportarsi in maniera frivola e stupida, avvolgendosi con l’immagine della ragazza oca e superficiale che tutti vedevano in modo da crearsi una piccola barriera che le impedisse di crollare sotto il peso di quelle parole dure e terribili. Noi non potevamo fare altro che osservare impotenti cercando di darle conforto appena potevamo, nei modi più disparati e forse astrusi che potessimo trovare.
In quel periodo, che poi non è così lontano dal mio presente, Gabriele fu quello che le rimase più vicino e meglio riusciva ad entrare nella sua testa per darle sollievo in tutto quel dolore.
Parlavano molto, avevano persino una serata dedicata durante la settimana e qualche volta lui riportava anche a me quello che gli diceva se pensava che potessi esserle d’aiuto in qualche modo:
“È sempre più sola, Cesare. Io e Rose facciamo del nostro meglio, ma…”
“Le serve qualche altro amico? Possiamo farcela, in sei ne troviamo di persone che non la conoscono e possano esserle amiche.”
“No, fidati, questa cosa non si risolverà assemblando un gruppo di estranei e spingendoli a diventare amici suoi… servirebbe qualcosa di più forte.”
“Più di te e Rose?”
“Sì, più di me e Rose. Qualcosa che possa sollevarle il morale quando noi non ci siamo, visto che non possiamo estirpare la causa principale del suo disagio, la scuola.”
“Anche se sarebbe bello.”
“Sì, concordo…”
“Tu cosa proponi allora?”
“Mh… credo abbia bisogno di innamorarsi. Magari così si distrae e non ci pensa più.”
“E credi che funzionerebbe?”
“Con Rose ha funzionato.”
Fu la spinta che mi serviva. L’ultimo, decisivo incoraggiamento per tirare fuori quello che mi tenevo dentro da anni. Fui stupido a credere che avrebbe scelto me dopo il passato che condividevamo, ma nonostante ciò, guardando la neve che cadeva a fiocchi fuori dalla finestra in quel gelido pomeriggio di dicembre, mi dissi che dovevo cogliere quell’occasione ad ogni costo: glielo avrei detto alla prima occasione utile, al cenone di Natale, a casa dei miei zii.

Il mio errore fu la pazienza: ne ebbi troppa per qualcosa che ne richiedeva pochissima.
Il cenone si tenne a casa dei miei zii, come ogni anno, e i Moore si unirono a noi come era ormai diventato tradizione che fosse.
Mangiammo, bevemmo, ci scambiammo i regali e quando tutti furono sazi e stanchi noi più giovani ci spostammo in salone per passare il tempo in maniera più rilassata in attesa di tornare a casa e andare a dormire. Al contrario degli altri però io non mi sentivo affatto stanco. Ero iperattivo per l’ansia di ciò che mi ero posto di fare, continuavo a torturarmi le mani cercando di calmarmi prima di tentare la sorte, la posta in gioco l’amore della mia vita.
Dovevo avere davvero una faccia da schifo perché Michele mi si avvicinò nell’angolino dove mi ero rintanato per pensare per assicurarsi che stessi bene; il maglione rosso cucito da mia madre stonava tremendamente con la camicia che indossava, ma riusciva a risultare elegante e nobile anche in quello stato.
“Cesare, tutto bene?”
Mentii.
“Sì, certo, sto una favola, perché?”
Lui, ovviamente, non la bevve.
“Sei pallido e sudato e ti agiti come un pesce fuor d’acqua da tutta la sera. Sembra che tu debba dare un esame per cui non hai studiato tra pochi minuti.”
Mi sembrò più che azzeccata come metafora.
“Voglio chiedere a Raphael di uscire.”
Ci fu un silenzio imbarazzato in cui entrambi speravamo che l’altro dicesse qualcosa, poi, come sempre, lui mi venne in soccorso.
“Quindi?”
“Quindi sono in ansia. Se mi dicesse di no? Se non le interessassi? Se si allontanasse da me e non volesse più essermi amica perché sarebbe troppo strano?”
“Se vai avanti così non avrà bisogno di sentire la tua dichiarazione.”
Ammetto di aver desiderato di tirargli un pugno.
“Come posso fare?”
Era stupido chiedere consigli in amore ad uno che aveva il corteo di ragazze ogni volta che usciva di casa e non ne guardava neanche una, tuttavia in quel frangente ero talmente disperato e ansioso che mi sarebbe andato a genio persino Sitael come consigliere.
Probabilmente facevo anche pena perché alla fine Michele sospirò esasperato prima di rispondermi.
“Parlare e chiediglielo. È ancora la solita, vecchia Raph. Non servono cose troppo elaborate con lei, lo sai.”
“Ma se-“
“Ponimi un altro interrogativo e ti prendo a calci.”
“Okay… ma-“
“Cesare.”
Mi guardò con uno sguardo duro e serio degno di un generale dell’esercito di fronte a un sottoposto poco collaborativo: metteva i brividi, ma quando parlò ebbi la sensazione di non potermi più tirare indietro, in senso positivo.
“Parlale. Se non altro per sapere cosa potrebbe risponderti.”
Una magra consolazione, ma una consolazione.
Così Michele mi lasciò solo nel mio angolino a riflettere un’ultima volta su cosa fare e pochi attimi dopo ero in cammino verso il mio obbiettivo a spasso spedito, ripetendo alla svelta l’inizio del mio discorso per assicurarmi di ricordarlo tutto. Il cuore mi galoppava nel petto in trepida attesa, avevo il respiro accelerato come se mi stessi allenando, eppure la mia mente sembrava finalmente sgombra da ogni pensiero negativo e si concentrava su una cosa sola: dire a Raphael ciò che provavo. Salvarla dalla solitudine. Porre fine a quel mio calvario eterno.
Sull’onda di questi pensieri finalmente chiari nella mia testa entrai in salotto con la decisione di un soldato, percorsi metà del salone guardandomi intorno per cercarla. La vidi, sotto l’arcata che collegava la sala alla cucina. Le luci dell’albero lì accanto la illuminavano di un tenue color oro, perfettamente legato al maglione rosso con gli orli bianchi che indossava. I capelli corvini erano tirati indietro con una molletta, ma continuava a spostarsi un ciuffo ribelle dietro l’orecchio. Rideva, ma non ero riuscito a sentire la battuta. Mi si riempì il cuore di gioia, il mio obbiettivo sembrava finalmente realizzabile ed era solo a pochi passi da me.
“O la va o la spacca”, mi dissi.
Presi un respiro profondo, mossi un altro paio di passi, cominciai a sollevare una mano per chiamarla… poi arrivò lui.
Lui, con i capelli biondi ingellati all’indietro come un galletto, gli occhi verdi a maliziosi e la cicatrice sull’occhio come il peggior cattivo dei cartoni animati. Lui, l’unico che si era rifiutato di indossare il maglione natalizio per una stupida maglietta dei Nirvana. Lui, con quel sorriso malevolo e terribile, più simile a un ringhio che ad un’espressione umana. Era con lui che stava parlando, che aveva parlato fino ad allora, e aveva riso e si era sistemata i capelli con un sorriso imbarazzato ad ogni complimento ricevuto. Era per lui che le sue gote avevano assunto il colore delle ciliegie appena colte e il suo sguardo si era acceso di nuovo interesse… non per me. Non sarebbe mai accaduto con me.
Accadde davanti ai miei occhi, prima che potessi anche solo aprire bocca per parlare: lui le prese il viso tra le mani, accarezzandole dolcemente gli zigomi coi pollici, le sollevò il mento, si strinse a lei e in un attimo… la baciò. Semplicemente, la baciò. Un semplice, casto, leggero scontrarsi di labbra che mi infilzò il cuore con mille frammenti di vetro e fece scendere il gelo nel mio petto.
Avrei voluto urlare. Meglio ancora, avrei voluto tirare un pugno a quel maledetto di mio cugino, di tutti di sicuro il più indegno di stare con una creatura tanto bella e dolce quanto quella che stringeva tra le sue braccia, ma lei sembrò così felice quando si staccarono, così serena, che non ebbi il cuore di rompere quel piccolo idillio.
Dunque feci l’unica cosa sensata che mi venne in mente: me ne andai.
Non dissi niente finché fui nella stanza, loro non si accorsero di me; uscii in giardino, dove un sottile strato di neve aveva già coperto il prato e le siepi, mi sedetti sul gradino con la schiena appoggiata alla porta e lì piansi lacrime amare nel silenzio di quel luogo coperto di gelo come il mio cuore finché la festa non fu finita. Solo.

Dunque, ricapitolando: mi chiamo Cesare Innocenti, ho diciassette anni e abito a Roma nel quartiere di Olgiata; sono innamorato della stessa ragazza da quando avevo cinque anni, ma lei non lo ha mai saputo. Questa sera volevo dichiararmi, ma sono arrivato tardi, mio cugino l’ha baciata mente io mi facevo assalire dall’ansia. Ho sprecato la mia forse unica occasione di dirle quello che provo per lei ed ora mi toccherà convivere col fatto che non potrò mai stare con l’unica ragazza che amo.
Quindi… sì.

Odio questo Natale.



Prompt 5: A decide di confessare a B i suoi sentimenti la notte della vigilia, ma poi lo vede baciare C…

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Capitolo 2
*** Londra ***


Londra


Londra aveva una luce completamente diversa nel periodo natalizio. Non appena le feste erano in vista, l’intera città sembrava scrollarsi energicamente di dosso il soprabito grigio e austero per cui era famosa e indossare il suo personale vestito della domenica, fatto di luci blu, rosse e bianche come la sua bandiera, per festeggiare l’avvenimento tanto atteso. Le insegne dei negozi venivano decorate con ghirlande di pino e agrifoglio agghindate di palle dorate; i lampioni delle strade più pittoresche erano avvolti di serpenti di luci; la London Eye si specchiava nel Tamigi accanto alla luna; il profumo di mele e cannella e di caldarroste inondava le strade; Piccadilly Circus era un’accozzaglia gioiosa di luci, regali, famiglie e musiche natalizie, un microcosmo in trepida agitazione per l’imminente arrivo delle vacanze.
In quella baraonda generale nessuno sarebbe potuto rimanere impassibile alla gioia che si respirava in tutta la città, fatta eccezione per un giovane uomo dal portamento regale e gli occhi color del ghiaccio che avanzava con evidente fastidio nella calca della piazza a braccetto con un ragazzo dai capelli corvini.
-Odio il periodo natalizio.-, sentenziò raggiungendo finalmente un punto del marciapiede dove fosse possibile respirare con agio. -Non si riesce nemmeno a camminare.
L’altro sorrise e sbuffò emettendo un verso di scherno.
-Oh, andiamo Anael, è normale che sia così-, disse stringendoglisi contro. Era sempre stato freddoloso eppure si rifiutava sempre di prendersi almeno una sciarpa quando usciva di casa. -Quante altre occasioni hanno i grigi e bigi inglesi per essere allegri oltre al natale?-
Aveva una voce da tenore, dolce e allegra come quella di un bambino, con un leggero accento francese che ne denunciava le origini straniere. La carnagione abbronzata si legava perfettamente alla chioma scura sempre spettinata ed esaltava gli occhi curiosi e neri come il carbone. Osservava l’altro dal basso verso l’alto poiché più basso di cinque centimetri buoni, ma se aveste chiesto a chiunque altro vi avrebbero garantito che ciò non aveva mai impedito alla sua dirompente personalità di riempire la stanza e la vita del nobile inglese come un elefante un caffè del centro.
Il giovane dagli occhi chiari lo squadrò esasperato liberando una nuvoletta di condensa con un sospiro.
-Ariki, mi hai appena dato del “grigio e bigio”?-
-Sì.-
-Che stronzo.-, ribatté piccato.
-Eppure mi ami.-, disse l’altro con un sorriso sghembo, -Non è vero?-
Il corvino gli cinse i fianchi con un braccio e lo tirò a sé finché non furono faccia a faccia, i loro nasi a pochi centimetri di distanza: lo baciò e l’austero spilungone si sciolse quanto bastava perché posasse una mano sulla guancia dell’altro e si premesse un po’ di più contro di lui.
Ariki Bouvié, randagio parigino entrato al suo stesso istituto solo grazie ad una borsa di studio, povero di famiglia, ma grande artista e amante: ecco l’unico punto debole del fiero e austero conte Anael Phantom, l’unica persona che riuscisse a modificare l’apatia perennemente scolpita sul suo volto in un sorriso dolce, a tratti divertito, altri (molto più numerosi) infastidito.
Rimasero per un momento immobili a guardarsi negli occhi, subito dopo il bacio, poi il più alto dei due increspò le labbra in un sorriso sbruffone e allacciò le braccia attorno al collo dell’altro con sguardo languido.
-Era proprio necessario sottolinearlo in questo modo?-, chiese col chiaro intento di stuzzicarlo.
L’altro in risposta indicò verso l’alto ed entrambi sollevarono lo sguardo: una piantina dalle foglie affusolate e le bacche bianco-grigie spiccava nel mezzo di una ghirlanda tesa tra l’insegna del negozio di giocattoli accanto a loro e il lampione più vicino, florida in quell’ambiente gelido come poche altre sue compagne: vischio. Anael non poté che sorridere e scuotere la testa di fronte a quel gesto, sospirando come se gli desse fastidio quando invece gli aveva sciolto il cuore come l’interno di un cioccolatino Lindt.
-Sei incorreggibile.-, disse sorridendo.
-Sono solo un tradizionalista che ama alla follia il suo ragazzo-, ribatté l’altro prendendo a tempestare di baci il viso e il collo del ragazzo.
Anael scoprì un poco il collo continuando a ridere sommessamente alle attenzioni rivoltegli. Ariki sarebbe potuto anche andare avanti per tutta la serata, incurante del fatto che si trovavano ancora in mezzo alla strada, se non avesse sentito un certo pizzicore al naso e non avesse saggiamente deciso di allontanarsi voltando la testa di lato.
Ci fu un momento di pausa in cui guardò nel vuoto come se si sforzasse di vedere qualcosa a grande distanza, poi l’inizio della fine:
-ETCIÙ!-
Un forte starnuto lo scosse da testa a piedi lasciandolo momentaneamente stordito e con gli occhi socchiusi per lo sforzo e la sorpresa, scatenando una lieve risata nel compagno. Come dargli torto? Il francese starnutiva come un gattino anche nei suoi momenti più selvaggi, nemmeno sua madre riusciva a rimanere seria quando si ammalava a casa.
-Ehi, ti stai ammalando, micetto?-, chiese Anael allontanandosi un po’ per lasciarlo riprendere ed evitare possibili germi. Aveva già dato durante l’infanzia con le malattie stagionali.
-Io non mi ammalo mai-, ribatté il corvino, piccato, passandosi un dito sotto al naso. -I tuoi capelli mi hanno fatto il solletico.-
Anael lo guardò sollevando un sopracciglio, i capelli castani, seppur rasati alla base, non gli arrivavano agli zigomi nemmeno a piastrarli.
-Certo, certo, come dici tu.-, disse dunque togliendosi la sciarpa per avvolgerla attorno al collo dell’altro.
Questo non ribatté, ma si vedeva che non apprezzava particolarmente l’indumento. Avere costrizioni sul collo lo metteva a disagio, diceva che lo facevano sentire come un cucciolo al guinzaglio che il padrone avrebbe potuto rinchiudere in una gabbia in qualunque momento se solo lo avesse voluto.
Il ragazzo castano finì di attorcigliare la sciarpa attorno al collo dell’altro e strinse delicatamente il nodo mentre il naso dell’altro si faceva rosso.
-Ecco, così scongiuriamo ogni pericolo.-, disse.
Ariki sbuffò.
-Come ti pare, tanto non sono malato.-

Era malato.
La mattina dopo si svegliò col naso tutto rosso e congestionato e un gran mal di testa che gli attanagliava le tempie. Non si sentiva così da quando era piccolo, non si era più ammalato dopo la prima media. Provò ad alzarsi, ma si sentì assalire dalla nausea praticamente subito e tornò a stendersi con un rantolo svegliando il giovane al suo fianco. Lo sentì muoversi sotto le coperte per voltarsi nella sua direzione.
-Ariki? Che stai facendo?-, chiese Anael con la voce impastata dal sonno sollevandosi sui gomiti per guardarlo in faccia.
Il petto era scoperto come la maggior parte del suo corpo; al contrario di lui, Anael non sentiva affatto il freddo perciò l’unica cosa che aveva addosso erano i boxer e una sfilza di tatuaggi colorati che gli ricoprivano petto, braccia e schiena come il piumaggio variopinto di un uccello esotico.
Lo vide aprire piano gli occhi e guardarlo perplesso: probabilmente stava molto peggio di quanto pensasse perché sul suo volto apparve un’espressione sconvolta e si fiondò subito su di lui.
-Ariki, stai bene?-
Non gli piacque l’urgenza nella sua voce, non aveva mica l’ebola, sant’Iddio!
Cercò di sollevarsi di nuovo sorridendo incoraggiante nonostante la nausea e il naso chiuso.
-Sto bene, sto bene, è solo un po’ di  influenza…-, disse con voce nasale trattenendo uno starnuto.
Cercò di scansare il compagno per alzarsi del tutto, ma questi aveva già una mano sulla sua fronte e lo spingeva di nuovo sul letto con un’espressione indecifrabile sul viso.
-Un’influenza coi fiocchi-, borbottò grave.
Anael si sporse verso il suo comodino e ne estrasse un termometro tradizionale: glielo piantò in bocca come una madre che deve costringere il figlio a mangiare le verdure e gli tirò le coperte fin sotto al mento bloccandolo tra le coltri come un bruco nel bozzolo.
Il corvino guardò l’altro come un animale in trappola, ma non ebbe il piacere di protestare niente poiché questi si era già alzato e infilato la vestaglia per uscire.
-Resta qui, vado a chiamare Emily e a dirle di farti un brodo caldo. Mi sa che non usciremo stasera-, disse pacato.
Per qualche ragione, non gli sembrò di captare alcun dispiacere per quella notizia nefasta.
Ariki cercò nuovamente di alzarsi e protestare, ma il compagno gli diede un rapido bacio sulla fronte ed uscì dalla stanza in cerca della governante.
Rimase dunque solo, avvolto in un bozzolo di coperte calde con un termometro in bocca e una nausea degna del peggiore otto volante del più infimo luna park (e lui di quegli affari se ne intendeva).
Cominciò a ragionare su come potersi riprendere in fretta o almeno tamponare quella situazione fino alla fine delle feste. Ariki era una persona energica e iperattiva, amava stare in mezzo alle persone e godere delle feste assieme amici e famiglia, soprattutto quando si parlava di una festa importante e celebrata come il Natale. Aveva passato il mese precedente ad organizzare una festa natalizia che potesse permettergli di passare il natale sia col compagno che con la sua famiglia: aveva prenotato i biglietti per far venire la madre in Inghilterra, dove non era mai stata, e gli amici più stretti di entrambi, aveva persino trovato il coraggio di chiamare la Contessa, la madre di Anael, per invitare anche lei e aveva accettato. Aveva coinvolto l’intero personale della magione perché lo aiutassero coi preparativi e adesso che mancavano poche ore all’inizio della festa questa rischiava di andare in fumo per una stupida influenza. Non lo avrebbe permesso.
Con uno sforzo immane riuscì a mettersi a sedere e sputare il termometro sulle coperte, non lo degnò di uno sguardo. Poi si diede una spinta e si alzò in tempo per ricevere il compagno di ritorno dalla sua spedizione.
-Emily sta arrivando, ti sta preparando il suo famoso brodo di pollo per le emergenze, ti sentirai… Ariki, che ci fai in piedi?!-
Anael gli si precipitò incontro con l’espressione terrorizzata di una madre che veda il proprio figlio arrampicarsi sulla credenza per raggiungere i biscotti in cima.
-Sei già malato, se prendi freddo poi…-
-La festa non si annulla-, sentenziò Ariki interrompendolo.
Anael lo guardò perplesso: appoggiato al baldacchino come un vecchietto al suo bastone da passeggio, il corvino aveva tutta l’aria di poter cadere da un momento all’altro e questo certo non aiutava il ragazzo a calmarsi.
-Ariki-, cominciò con calma avanzando di in paio di passi verso di lui, -Non sei nelle condizioni di andare ad una festa. Ti prego, torna a letto, vedrai che capiranno…-
-No, io resto qui!-, sbottò Ariki.
Ebbe un momento di confusione, come se parlare con tanta sicurezza avesse danneggiato il suo equilibrio e lo avesse fatto ondeggiare, cosa che effettivamente avvenne, poi puntò un dito verso il ragazzo come a tenerlo distante.
-Il Natale… si passa in famiglia-, disse tirando su col naso, -Non esiste che salti per un raffreddore.-
Anael lo guardò incrociando le braccia sospirando, il volto tornato ad una maschera indecifrabile e apatica come quando gli aveva spiegato quali ali della casa gli erano accessibili e quali no.
-A malapena ti reggi in piedi.-, disse.
-Non è vero.-, rispose l’altro.
-Ti farai solo del male-, insistette.
-Non è vero! Osserva.-
Ariki lasciò andare il suo sostegno. Nella sua testa sarebbe dovuto essere un momento di trionfo in cui lui camminava spedito verso il bagno e ritorno e tutta quella conversazione si chiudeva con un bacio e magari qualcosa di più, come al solito, ma purtroppo per lui le cose andarono diversamente: è vero, riuscì a compiere il percorso che si era prefissato, ma la sua andatura era insicura e ondeggiante come se fosse ubriaco e nel tornare rischiò un paio di volte di andare a sbattere contro l’armadio.
Ciononostante, spalancò le braccia e sorrise sicuro, tirando discretamente su col naso, al ragazzo che lo guardava impassibile ai piedi del letto.
-Visto?-, disse trionfante Ariki.
Anael rimase in silenzio per un momento poi emise la sua sentenza:
-Fila a letto.-
-MA ANDIAMO!-
Ariki ebbe un moto di rabbia, perse l’equilibrio per un momento nel tentativo di allontanare l’altro, ma dovette ammettere a se stesso di essere grato al ragazzo per avergli impedito di piombare giù come un sacco di patate quando aveva mancato il suo appoggio.
-Fila a letto, non sei nelle condizioni di fare nulla decentemente oggi!-, ribadì Anael costringendolo delicatamente a sedersi e stendersi di nuovo sotto le coperte.
-La festa comincerà tra poche ore…-, si lamentò Ariki.
-La cancellerò.-, ribatté l’altro, -Devi riposare.-
-Ma mia madre e gli altri saranno già sull’aereo…-, continuò il corvino.
-Troverò loro un jet per riportarli a casa.-, disse Anael.
-Aveva accettato anche tua madre…-
-HAI INVITATO ANCHE MIA MADRE?!-
-Mi sembrava brutto escluderla!-
-Ariki!-
-Anael!-
Probabilmente fu l’ultima battuta a porre fine alla discussione, il ragazzo castano non si aspettava esattamente una risposta tanto infantile da parte del compagno.
Anael si strinse la radice del naso sospirando cercando di calmarsi: quando Ariki si metteva in testa di fare qualcosa nemmeno lui riusciva a dirgli di no se non in casi rari. Tutta colpa di quegli occhioni d’inchiostro praticamente identici a quelli di un gattino impaurito; ma in quel caso si trattava di una cosa seria perciò non poteva permettersi di lasciarsi intenerire dal suo sguardo.
-Devi stare a letto.-, disse infine, -Devi riposare e stare meglio. Gli invitati capiranno.-
Detto ciò si sporse per recuperare il termometro del ragazzo evitando il suo sguardo.
Ariki si sentì tradito: come poteva la persona che più amava non capire quanto quella festa fosse importante per lui e liquidarla in maniera così brutale?
-È il primo Natale che passiamo assieme e tu lo vuoi cancellare?-, chiese con voce flebile.
Anael stava osservando il termometro che l’altro aveva rifiutato poco prima perciò non lo stava guardando quando rispose, ma il tono dell’amato era abbastanza straziato da fargli stringere almeno un poco il cuore nel pronunciare quelle poche parole.
-Se tu stai male, sì.-, disse.
Gli mostrò poi il termometro: la linea scura del mercurio sfiorava appena il 39. Ad Ariki sembrò fin troppo simile ad una condanna a morte.
-E tu stai molto male.-, disse ancora Anael.
Ariki sollevò lo sguardo come per ribattere, ma alla fine desistette e si abbandonò contro il cuscino affranto. Era ancora convinto che non fosse giusto, che quel piccolo contrattempo non dovesse impedire loro di festeggiare al meglio il primo Natale passato come coppia, ma si sentiva la testa pesante e il naso chiuso: pensare ad una risposta arguta che gli facesse vincere quella specie di duello era impensabile.
-Non è giusto però…-, disse piano al cuscino.
Anael gli si sedette accanto sul materasso e prese a carezzargli la testa dolcemente. Gli dispiaceva ovviamente che Ariki si fosse ammalato proprio in quel periodo, ancora di più se considerava quanti sforzi aveva fatto per organizzare il cenone e fare in modo che tutto fosse perfetto, ma d’altro canto non poteva certo mandare avanti quella cosa con lui in quelle condizioni.
-Lo so-, sussurrò Anael, -Ma è meglio così.-

Un brodo di pollo e qualche ora di sonno dopo, Ariki si svegliò da solo nella stanza che era diventata il suo sudario per quelle vacanze.
Le tende erano tirate di lato lasciandogli libera la visuale sulla finestra e il cielo al di fuori: era scuro, non abbastanza da essere notte, ma almeno pomeriggio. Forse.
Aveva imparato a riconoscere che ore erano sfruttando il sole quando era piccolo e andava in campeggio con suo padre, ma in quel paese così a nord rispetto alla sua amata Parigi il sole spesso rimaneva molto meno nel cielo, soprattutto d’inverno, e lui finiva col confondersi anche di parecchio sull’ora.
Sospirò; sdraiato tra le coltri, riusciva a scorgere le sagome appuntite degli abeti nel giardino, imbiancate di neve e illuminate dalle luci che aveva fatto mettere nei giorni precedenti per rallegrare gli ambienti esterni.
Pensò a quanto aveva dovuto faticare per convincere il personale a collaborare con lui: sapevano tutti che il conte non amava il Natale e temevano di passare dei guai dandogli una mano per preparare gli addobbi proprio per quella festa. Persino Emily aveva tentennato quando le aveva esposto la sua idea. Si erano lasciati convincere solo dopo avergli strappato la promessa di avere la prima settimana di Gennaio libera e un carico del miglior vino francese direttamente dalla sua terra, entrambe cose non facili da ottenere, ma per le quali si era battuto strenuamente pur di poter realizzare il suo sogno.
Pensò a sua madre, che dopo tanti anni a sognare l’Inghilterra era rimasta sinceramente commossa quando aveva ricevuto il biglietto aereo per raggiungerlo, e alla bellissima quanto algida Contessa che a sua volta aveva dato il suo consenso solo dopo aver saputo che ci sarebbe stata anche lei. Quella donna metteva i brividi, ma per qualche strana ironia del destino aveva un debole per la signora Bouvié al punto da sembrare persino umana quando parlava con lei.
Pensò ai suoi amici di Parigi, quell’accozzaglia di pazzi straccioni, figli di migranti con cui aveva passato la sua infanzia e aveva ripulito il loro quartiere dalle mele marce che lo stavano avvelenando. Non erano stati molto favorevoli al suo trasferimento in Inghilterra per poter stare col fidanzato, ma non avevano insistito oltre dopo che gli aveva spiegato perché non poteva essere Anael quello che lasciava la sua terra per una nuova: l’invito per natale era un modo per poterli rivedere e passare un po’ di tempo assieme dopo tre mesi di lontananza, per lui, e un modo non sospetto per assicurarsi che stesse bene in quel nuovo ambiente, per loro.
Sbuffò osservando malinconico il cielo fuori dalla finestra: non era così che voleva passare quel Natale.
Dopo un paio di minuti sentì dei passi avvicinarsi, poi la porta della stanza si aprì lentamente e la voce di Anael risuonò delicata nella stanza mentre questi varcava la soglia.
-Come stai, micetto?-, chiese piano avvicinandosi.
Ariki emise un grugnito stringendo di più la coperta, era ancora arrabbiato con lui.
Sentì il ragazzo avvicinarglisi ed entrare nel suo campo visivo per sedersi al suo fianco: indossava un maglione largo di un colore scuro con dei disegni più chiari ricamati sopra, mai visto prima, dei semplici jeans e un paio di scarpe comode da casa. Trovò strana quella scelta stilistica: Anael indossava più volentieri capi che gli stessero aderenti e avessero il collo alto mentre il maglione che indossava al momento era largo il doppio di lui e aveva il collo basso e malconcio; sembrava più una cosa che avrebbe indossato Ariki.
-Ti senti un po’ meglio?-, chiese Anael accarezzandogli il capo.
Ariki lo guardò in cagnesco per un momento poi sospirò e annuì.
-Il cervello è passato da melassa a succo di frutta-, sussurrò il corvino.
Anael sorrise continuando imperterrito a coccolarlo.
C’era qualcosa di strano che aleggiava sulla stanza, qualcosa che ancora gli sfuggiva per via della malattia, ma che nonostante ciò sembrava importante. Provò a ragionarci su, ma le carezze dell’amato lo stavano distraendo terribilmente e alla fine gettò la spugna. Lo lasciò fare, sforzandosi di non lasciarsi rabbonire con così poco dopo che l’altro gli aveva praticamente spezzato il cuore.
-Ce l’ho ancora con te.-, disse dopo un po’ con lo sguardo basso.
L’altro sospirò sorridendo piano e continuò a carezzargli il capo.
-Lo so, posso immaginare come ti sia sentito-, disse.
-Il naso chiuso e la nausea sono stati più piacevoli-, lo interruppe Ariki per sottolineare il concetto.
Anael sorrise emettendo un piccolo sbuffò divertito; cosa ci fosse di divertente in tutto ciò lo sapeva solo lui.
-Immagino anche questo… ma forse ho un modo di farmi perdonare-, continuò il castano facendo un cenno verso la porta.
Ariki sospirò.
-Se si tratta di cioccolata, sappi che non sono…-
-SORPRESA!-
Le luci si accesero, un coro di voci familiari interruppe la protesta del giovane corvino, che rimase immobile a fissare il compagno sorridergli dolcemente per un paio di secondi buoni prima di voltarsi verso gli autori di tale suono e spalancare la bocca per la sorpresa. Sulla soglia sei persone, tutte vestite alla maniera natalizia (fatta eccezione per la donna dai capelli scuri in fondo) con maglioni colorati e corna da renna in testa, lo guardavano sorridenti reggendo in mano diverse vivande tipiche della festa invernale. Riconobbe i volti nel giro di pochi attimi e un sorriso a trentadue denti gli si dipinse sul volto scacciando quelle ultime ombre che ancora gli oscuravano i bei lineamenti. Si alzò a sedere, forse troppo in fretta perché la testa prese a vorticare un po’ troppo velocemente, e tese le braccia verso gli invitati che interpretarono quel gesto come il permesso decisivo a varcare la soglia.
-Mamma!-, esclamò Ariki appena una donna minuta gli si avvicinò, -Credevo che fossi tornata in Francia!-
La donna si chiamava Marinette: era una signora di mezza età dalla pelle pallida e il classico nasino alla francese, con occhi scuri come quelli del figlio e capelli castani raccolti in una treccia morbida portata su un lato. Aveva l’espressione serena di chi ne ha passate tante, ma è riuscito ad uscirne vincitore e la dolcezza di una madre preoccupata che finalmente trova una confutazione alle sue paure. Nonostante l’età, aveva poche rughe sul viso e sul collo, solo le mani macchiate di pittura tradivano quell’apparente giovinezza.
Marinette posò il piatto dei salumi su un tavolo fatto portare chissà quando nella stanza mentre Ariki dormiva e corse ad abbracciare il figlio sussurrandogli parole dolci all’orecchio.
-Mon fils-, sussurrò stringendo il giovane, -Mon petit chaton, come hai potuto anche solo pensare che sarei tornata in Francia senza neanche salutarti?-
Aveva una voce dolce e vellutata, benevola, con un accento molto marcato. Ariki non poté che ricordare le innumerevoli volte, quando era piccolo, in cui l’aveva sentita strillare il suo nome per strada per richiamarlo a tavola o gli aveva cantato una ninna nanna tra le mille voci mai silenti di Goutte d’Or: si rese conto che gli era mancata molto più di quanto pensasse.
-Grazie mamma…-, sussurrò premendo il viso sulla sua spalla.
Madre e figlio si abbracciarono per un tempo che parve infinito, poi una voce più squillante e giovanile li richiamò entrambi alla realtà.
-Okay Marinette, direi che te lo sei gustato abbastanza. Condividi un po’ il tuo adorato figliolo!-
La voce apparteneva ad una ragazza sui vent’anni, la pelle scura coperta di cerotti e gli occhi neri scintillanti come petrolio appena estratto; portava i capelli rasta avvolti in un bandana bordeaux e un maglione natalizio con su scritto “DABBIN THROUGH THE SNOW” e un piccolo Babbo natale che faceva la dab appena sotto.
-Jacqueline!-, esclamò Ariki.
La ragazza allargò le braccia sorridendo complice ed esclamò: -Ariki!-
-Ora capisco da dove è uscita-, disse da qualche parte Anael al di fuori del campo visivo del corvino.
La ragazza finse di non sentirlo e corse ad abbracciare l’amico non appena Marinette si fu alzata e spostata accanto alla Contessa per salutare suo figlio. Ad Ariki non sfuggì l’occhiata acida che questo rivolse alla giovane quando abbracciò il suo ragazzo, ma ormai ci aveva fatto l’abitudine: quei due avevano sempre avuto una certa rivalità per chi potesse rivendicare il primato nel cuore del giovane. Perfino adesso che era diventato ovvio di chi fosse innamorato c’erano dei sospetti da parte dell’uno e dei tentativi da parte dell’altra e il corvino si disse felice di avere una fede salda in questi casi.
-Allora, come procede la luna di miele?-, chiese Jacqueline sedendosi sul letto dopo averlo mollato, -Senti almeno un po’ la nostra mancanza, mac?-
-Come no, tutti i giorni!-, rispose lui. -Da queste parti è difficile trovare qualcuno casinista come voi.-
La giovane gli rivolse un’espressione sconvolta e offesa portandosi una mano al petto per sottolineare quanto l’avesse “ferita”.
-Sei fortunato che sei malato e non posso picchiarti-, ribatté la ragazza. -Altrimenti non arriveresti agli antipasti.-
-Sì, certo, come se fossi capace di fare del male ad un viso dolce come il mio-, disse l’altro per poi venir sorpreso da uno starnuto e scatenare un moto di risa negli ultimi due invitati.
-Starnutisci sempre come un gattino, mac!-, esclamò un ragazzino biondo cenere dalla corporatura minuta.
Ariki si soffiò il naso poi incrociò le braccia piccato osservando con aria risentita lui e il ragazzo accanto, che si tratteneva dal ridere con evidente sforzo per non farlo sentire ancor più a disagio.
-Ah. Ah. Ah. Sempre molto simpatico, Thomas-, disse il corvino, -Tu sei sempre uno scricciolo di persona.-
Il ragazzino sorrise per poi avvicinarsi e abbracciarlo a sua volta.
Era talmente piccolo da sembrare un ragazzino delle medie, con quegli arti un po’ ossuti, gli occhiali spessi e la maglia di Stromae che sbucava da sotto al maglione, eppure aveva solo un paio d’anni in meno di Jacqueline.
-Mi sei mancato, mac-, disse stringendo il compagno. -Parigi non è la stessa senza di te.-
Ariki sorrise dando qualche pacca sulla schiena del giovane.
-Nah, vedrai che presto mi ringrazierai di essermene andato.-, rispose.
-Come fai a dirlo?-, ribatté Thomas.
-Perché tra poco tornerai ad odiarmi. La fidanzatina?-
-Okay, basta così!-
Come predetto dal corvino, Thomas si allontanò alzando le mani in segno di resa tra le risate dei tre ragazzi più grandi.
Ariki sorrise, era bello rivedere i suoi vecchi amici, anche stando sotto le coperte con il naso chiuso.
L’ultimo invitato gli si avvicinò solo dopo essersi assicurato che Thomas non lasciasse seriamente la stanza: alto, con la carnagione scura e la testa rasata sembrava una versione troppo cotta di The Rock da giovane. Tese la mano al malato che la strinse e se lo tirò contro in un abbraccio virile da veri uomini di strada.
-Com’è stato il viaggio in aereo, Manu?-
-Prossima volta vengo in treno.-
Al contrario degli altri, l’accento del ragazzo virava molto più sul nasale africano che quello francese: colpa dell’abitudine familiare di parlare più la prima lingua della seconda.
Anche qui ci furono scambi di battute sul volo, rinomata paura del colosso, abbracci, risate e ricongiungimenti. Anche la Contessa lo salutò, ma limitandosi ad una stretta di mano, non erano ancora abbastanza in confidenza, per poi tornare accanto alla sua amica.
Ariki era al settimo cielo: era tutto perfetto, tutto bellissimo nella sua semplicità dell’ultimo minuto. Si sedettero un po’ dappertutto, chi sull’ampio letto assieme a lui, chi su delle sedie portate per l’occasione; Anael gli rimase accanto per tutta la serata scambiando chiacchiere gradevoli con i commensali, non ci furono vittime, e il corvino sperò che questo potesse donargli tanta gioia quanta ne stava donando a lui in quel momento.
-Grazie, Anael-, gli sussurrò appoggiando la testa sulla sua spalla quando venne servito il primo. -Mi hai reso davvero felice.-
Anael lo guardò con un leggero sorriso sul volto per poi dargli un tenero bacio sul capo.
-Solo per questa volta, gattaccio-, rispose, una vena divertita nascosta sotto il superficiale dispetto. -La prossima volta non sarai così fortunato.-
Ariki si lasciò andare ad una lieve risata rimanendo appoggiato al suo amato mentre gli altri si godevano la festa come ai vecchi tempi.
Sospirò guardando euforico fuori dalla finestra: era così che voleva passare quel Natale.











Prompt 21: A adora il Natale e B lo detesta, ma quando A si ammala proprio il giorno della vigilia, B tenterà di dare una chance alla festività.

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