Forgiveness

di Izumi V
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Storia scritta per l’evento “Merry Christmas!” del gruppo fb “Johnlock is the way… and Freebacth of course!
 
Con un po’ di ritardo, Buon Natale e Felice Anno nuovo a tutti!
Sperando che questa storia possa piacervi, o anche solo dirvi qualcosa, vi auguro buona lettura
 
 
Titolo: Forgiveness
Parole da usare: Amsterdam Pseudonimo Alibi Volare Piastrine Manette (usate 4/6)
Rating: giallo
 
 
 
Forgiveness
Capitolo 1
 
 
 
12 Ottobre
Mattina
 
Il primo sole del mattino filtrava tra le imposte sottili. Alcuni raggi birichini giocavano sul volto del giovane uomo, addormentatosi la notte prima in una posizione scomposta e decisamente poco comoda. Risvegliato dal calore inatteso, strizzò a lungo gli occhi contornati da ciglia biondissime, prima di portare la mano sinistra sul viso, a mo’ di schermo. Così andava decisamente meglio.
Ma ormai era sveglio, e non ci sarebbe stato verso di riaddormentarsi. Già era tanto che gli fossero state concesse più di tre ore di sonno continuato.
Provò a sollevare anche la mano destra, nel tentativo di stiracchiarsi, e solo allora si rese conto di aver perso totalmente sensibilità al braccio. Una sorta di corpo estraneo per caso attaccato alla sua spalla. Un pesante volume di chirurgia giaceva aperto proprio in corrispondenza del suo avanbraccio, piegato in un’angolazione insolita.
La metà vuota del letto matrimoniale era interamente ricoperta di fascicoli e fogli, qua e là una penna o un evidenziatore.
Si era di nuovo addormentato tra i libri. Gli capitava spesso, negli ultimi tempi. Il suo amico Mike si era assunto il compito di coinvolgerlo nelle proprie attività universitarie, e non perdeva occasione per invitarlo a tenere interventi e conferenze. Una rottura infinita.
Adesso gli toccava preparare una lezione sulla chirurgia d’emergenza applicata in ambito militare. Qualcosa che lo toccava molto da vicino, insomma.
John Watson si tirò su a sedere a fatica, col braccio sinistro si portò il destro in grembo, cominciando a massaggiarlo per far riprendere la circolazione. Sbuffò contrariato. Ore? Le sei e dieci.
Aveva tempo per una corsetta e i soliti esercizi. Si cambiò al volo e in un attimo era fuori casa.
Dopo i primi cinque minuti di jogging correva già a ritmo sostenuto.
Era un’abitudine rimastagli dal periodo militare. Lo svegliava e al contempo lo aiutava a rilassarsi, a riprendersi dalla nottata di solito tormentata dagli incubi o, al contrario, dall’insonnia. John arricciò il naso: in momenti come quello si sentiva un concentrato di contraddizioni.
 
“Buongiorno John! Sempre attivo, eh?” lo salutò il vicino Arthur Pinner, sporgendosi dal proprio porticato e sventolando entusiasta una mano.
Per un secondo, ebbe l’idea di ignorarlo completamente. Ma il buon senso gli fece optare per una sana via di mezzo. Abbozzò un sorriso e alzò appena una mano, senza portarla più in alto della propria spalla. Gli sembrava più che sufficiente, e a quanto pareva anche a Arthur, il quale rientrò in casa tutto soddisfatto.
Cosa aveva da essere contento a quell’ora del mattino lo sapeva solo lui. John grugnì contrariato, accelerando inconsapevolmente l’andatura. Non la capiva, quella gente sempre contenta. Si sentiva obbligata a essere così? Fingeva? Perché ciascuno si sentiva in dovere di sorridere, quando non aveva minimamente voglia di farlo?
Sentì la mano sinistra perdere il controllo per qualche breve attimo. Aprì e chiuse più volte il pugno, per fermare il tremore.
Accelerò ancora.
 
Rientrò in casa completamente spompato, ma più sereno. Certo che le reazioni chimiche del corpo umano erano qualcosa di straordinario. L’attività fisica intensa portava il corpo a liberare alte dosi di serotonina e dopamina: dopo una corsa, era realmente più contento. Questo gli ricordava ogni volta perché avesse mantenuto quell’abitudine anche dopo essere tornato dalla guerra.
Entrò in doccia. L’acqua fredda impattò contro il suo corpo accaldato. Sottili aghi ghiacciati si infrangevano sulla sua pelle, disperdendo il calore accumulato.
Gli piaceva il contrasto. Quando tornava dalla corsa, doccia fredda. Se rientrava a casa la sera, dopo una camminata a piedi nel gelo del tardo autunno o dell’inverno inoltrato, doccia calda.
Si massaggiò piano la spalla, favorendo il movimento circolare dell’articolazione che ogni tanto doleva. Nel compiere questo gesto, sfiorò più volte la cicatrice ruvida.
Odiava quel marchio, indelebile segno del proprio fallimento. Era a causa di quella maledetta pallottola che aveva dovuto abbandonare il campo di battaglia, tornando alla professione di medico che lo attendeva a Londra.
A quella villa in periferia troppo grande, ora che era solo.
A quella vita monotona, troppo piatta.
A quell’esistenza di finzione, di muri, di incomunicabilità. 
 
Alle sette e quarantacinque, John attendeva sulla sedia girevole l’inizio della giornata lavorativa.
Il proprio studio privato era stato allestito in un’ala non utilizzata della casa. Era stata Mary, sua moglie, a convincerlo: lavorare lì gli avrebbe evitato gli stress del pronto soccorso, in cui aveva lavorato qualche tempo appena tornato dall’Afghanistan. Si era lasciato convincere: lei dava sempre l’idea di saperla lunga su molte cose.
Ma ora Mary non c’era più, e John si chiedeva spesso che senso avesse continuare. Quella villa era troppo grande in ogni caso, quel lavoro non lo soddisfaceva. Avrebbe voluto trasferirsi, magari vicino al centro. Più vitalità, più energia in circolo. Ma non avrebbe saputo dove creare un nuovo studio, e quel lavoro gli serviva.
Un circolo vizioso che lo teneva imprigionato.
Le sette e cinquantacinque. Ancora cinque minuti di calma. Cominciò ad accendere il computer e controllare la tabella degli appuntamenti della giornata. All’una doveva essere in università per incontrare Mike: prima di allora, un’agenda piena oltremodo. Sospirò.
Sarebbe stata una lunga mattinata.
 
***
 
“Bene, per oggi è tutto!” annunciò il professore di chimica Mike Stamford a una folla di studenti di chimica del terzo anno. La sua voce calma, ma decisa, risuonò nell’aula a gradoni piena.
“Buon week end…E ricordatevi che lunedì ci troviamo direttamente al laboratorio del secondo piano!” Tentò di sovrastare il fruscio di fogli e quaderni che venivano riposti disordinatamente nelle rispettive cartelle. Si chiese quanti studenti avrebbe effettivamente trovato in laboratorio l’indomani. Scosse la testa divertito: in effetti, tutto questo Watson lo avrebbe odiato.
Ma non era certo un buon motivo per darsi per vinto con lui.
Mike sapeva essere risoluto, quando voleva.
Diede un’occhiata veloce all’orologio: l’una precisa! Doveva affrettarsi in cortile, prima che l’amico se ne andasse preso dall’impazienza.
Attraversò la soglia dell’aula perso nelle proprie riflessioni: doveva assolutamente convincerlo ad accettare la sua proposta.
Era così preso da non accorgersi della figura longilinea ferma a due centimetri dalla porta, tanto che ci sbatté letteralmente contro, lasciando cadere nella sorpresa tutti i suoi fogli. In fondo, restava sempre un pasticcione.
“Holmes!”
“Buongiorno, Professore.” Rispose lui con calma, la voce grave appena udibile. “Ma che combina?” chiese, osservandolo scettico dall’alto, mentre Stamford si affannava a raccogliere il materiale.
Doveva sbrigarsi!
“Cosa fai tu, piuttosto? Lì piantato sulla porta…”
“Ma mi ha detto lei di aspettarlo all’uscita dall’aula.”
“Sì, non credevo mi prendessi così alla lettera, ecco.”
“Questo è un problema suo, doveva essere più chiaro.”
“Holmes…” sospirò Mike. Ormai non riusciva nemmeno più ad arrabbiarsi con lui per le sue risposte talvolta poco garbate. Ci aveva messo un po’ a capirlo, ma non lo faceva con cattiveria. Semplicemente, non ne era conscio. Tutto ciò che gli passava per la testa doveva buttarlo fuori.
Ma lo ammirava anche, per questo. Era una mente brillante, come non ne vedeva da… no, forse non ne aveva mai incontrate di simili in vita sua.
Si rialzò di nuovo in possesso di tutte le sue cose. Aggiustandosi gli occhiali sul naso, si rivolse a lui con tono bonario: “Quindi cosa volevi dirmi?”
“Vorrei discutere con lei di alcuni risultati ottenuti nelle ultime analisi che ho effettuato in laboratorio.”
“Hai provato a combinare la seconda coppia di elementi?”
“Esattamente. I risultati sono eccellenti. Adesso le spiego…” – ma Stamford lo interruppe, gettando di nuovo uno sguardo all’orologio.
“Senti, possiamo fare dopo la pausa pranzo? Ora devo proprio scappare,” disse, cominciando a camminare verso l’uscita. Il ragazzo lo seguì.
“Da quando in qua ha da fare per pranzo?” domandò lui, privo di alcun filtro.
“Da quando devo vedere un amico, Holmes. Questioni accademiche.”
“Il suo amico è John Watson?”
La domanda arrivò a bruciapelo. Mike non ebbe la prontezza di negare, non aiutato dal fatto che per l’ennesima volta fosse riuscito a dedurre una cosa del genere apparentemente dal nulla.
Il professore si limitò a ridacchiare suo malgrado. Sollevò un dito di ammonimento verso lo studente e disse “Tu resti qui, ci vediamo dopo.”
Il ragazzo si immobilizzò nel punto preciso in cui Stamford lo aveva salutato. Infilò le mani in tasca, contrariato. L’aveva sentito nominare spesso, questo John Watson. Più che dal suo professore, da molti studenti di medicina che avevano assistito ai suoi saltuari interventi durante i corsi. A quanto pareva le sue lezioni erano imperdibili. Persino i distratti cronici stavano attenti in aula quando c’era lui.
Ma a Holmes non era mai capitato di incrociarlo. In quanto dottorando di chimica, non centrava nulla con loro. In più, conduceva la sua vita universitaria con ritmi totalmente diversi.
La sua curiosità era decisamente stuzzicata.
Seguì il suo professore con lo sguardo, finché non vide la figura che lo aspettava a qualche metro di distanza. Erano abbastanza vicini perché il ragazzo potesse distinguerne i tratti.
Non era particolarmente alto, ma aveva un fisico asciutto, che denotava un’attività fisica abituale. Il portamento suggeriva quello di un soldato: possibile che fosse un militare? Questo avrebbe potuto spiegare l’interesse suscitato dai suoi interventi in università. Il taglio corto di capelli – biondo miele, registrò – sembrava confermarlo. Un luccichio fugace alla mano sinistra gli suggerì la presenza di un anello, probabilmente una fede nuziale. Non sembrava il tipo da anelli indossati solo per abbellimento.
Inconsapevolmente, Holmes avanzò di qualche passo, come a volerli raggiungere. Li guardò allontanarsi lungo il viale. Dava l’impressione di essere un tipo riservato, e gli abiti semplici che indossava parevano scelti per passare inosservato. Dedusse, infine, che non aveva molta voglia di vedere Stamford: ma forse non aveva molta voglia di vedere nessuno in generale.
Oh, era tutto molto interessante. Doveva saperne di più, conoscerlo se possibile. Ma non in università, non come tutti gli altri.
Un’idea si formulò presto nel suo cervello sempre al lavoro. Prese il telefono e cominciò a digitare a ritmo serrato sulla qwerty. Si aprì la pagina delle notizie di cronaca. Ne cercava una in particolare.
Eccola. Una serie di furti effettuati in un quartiere poco distante dall’università. Holmes fece scorrere il testo sorridendo: aveva un piano.
 
***
 
Watson si lasciò guidare da Stamford in un pub poco lontano dal viale principale.
Non fecero in tempo a sedersi che lui cercò di arrivare subito al nocciolo della questione.
“Dunque, cosa volevi chiedermi? Al telefono eri in fibrillazione.”
“Oh, lo sono! Ho una proposta fantastica per te.”
“Sì, eh? Non sarà la solita, spero.”
“Anche fosse…”
“Mike, per l’ennesima volta no.”
“Perché no?”
“Perché no? Sul serio, Mike? Perché non voglio trovarmi sommerso da una folla di studenti agitati e disattenti? Perché non voglio ritrovarmi ogni sera a preparare lezioni per il giorno dopo? Perché non voglio passare il resto della mia vita affogato nei libri?”
E a quel punto gli scoccò un’occhiata tra l’ironico e il tremendamente serio.
“Andiamo, dai. E poi non piacerei a nessuno come professore.”
“Ma se ci sono un sacco di studenti che ti adorano! …molto di più di me, questo è sicuro,” aggiunse, consapevole. A volte Stamford era disarmante: non parlava mai per autocommiserazione.
John lo fissò per un attimo con un sorriso accennato, gli angoli della bocca appena sollevati. Non era quello lo scopo di Mike, ma a lui venne voglia di smentirlo.
“Sai benissimo che non è vero. Tu piaci agli studenti, le tue lezioni riempiono le aule. Sei un bravo professore.” Disse con semplicità, per poi aggiungere: “Ma per rispondere alla tua affermazione, gli studenti mi adorano proprio perché non sono il loro professore.”
E a quel punto l’altro scoppiò a ridere.
“Sei incredibile, John.”
“Sì, lo so.”
A quell’ultima battuta, Mike tacque, leggermente basito. Gli aveva ricordato qualcun altro di sua conoscenza.
Inconsapevolmente, gli ingranaggi del suo cervello cominciarono a macinare in sottofondo.
E questo pensiero collaterale non fece che ricordargli il motivo reale di quell’incontro.
“Ah! Quasi dimenticavo!”
“La tua super proposta?”
“Quella.” Sorrise lui, con gli occhi che brillavano dietro le lenti sottili.
“Sta volta non voglio una lezione mirata agli studenti del secondo anno, John. Voglio fare una lezione aperta!” esclamò, tutto contento.
“Come, scusa?”
“Sì, una lezione aperta! Non solo agli studenti del secondo anno, o a quelli del terzo, o che ne so io… ma a tutti. Dottorandi e ricercatori compresi.”
“Ma questo cambia tutto!” protestò allora il biondo. “Il livello richiesto è totalmente differente.”
“Appunto.”
“I ragazzi più giovani potrebbero non capire niente.”
“Andrà bene anche così,” continuò imperterrito Stamford.
A quel punto, Watson si fece sospettoso. Assottigliò lo sguardo.
“Cosa mi nascondi, Mike?”
Lui si schermò con un’altra risata. “Cosa vuoi che ti nasconda? Mi piace l’idea di una lezione di un certo livello. E mi piace fare qualcosa di bello per il luogo in cui lavoro. Purtroppo è capitato che tu ne sia la chiave di volta.”
“Grazie tante,” sospirò lui, sprofondando col viso nel palmo della mano.
“Dai dai, andrà benone!”
“Ma come fai a esserne così sicuro? Parliamo dell’Imperial College, non di un’università qualunque!”
“Non ti ci mettere anche tu con questa storia del ‘buon nome’ dell’università…”
“Io non mi ci metto, a me non frega un cazzo della nomea dell’istituto. Ma dovrai ammettere anche tu che non è strano sentirsi della pressione addosso.”
“Sarà. Tu in ogni caso non devi preoccuparti. Sono certo che andrà alla grande!”
“Ammiro il tuo ottimismo, sul serio. Quando hai detto che sarà?”
“Sedici giorni da oggi. Hai tutto il tempo del mondo.”
 
***
 
Quella sera, Watson riuscì a chiudere lo studio un po’ prima del solito. Il pomeriggio, fortunatamente, si era rivelato tranquillo. Pochi pazienti e nulla di troppo complicato.
Era dovuto letteralmente correre via dal pub, rendendosi conto che il tempo era passato senza che se ne accorgesse. E ciò non capitava spesso.
Mike si era messo a raccontargli dei suoi dottorandi. Ne seguiva tre, e sembravano tutti estremamente abili.
Si era soffermato su uno in particolare, un tale Holmes che stava conseguendo il suo secondo dottorato. Stamford ne era entusiasta, probabilmente sarebbe andato avanti anche un’altra ora intera, se lui non lo avesse bloccato.
Che tipo.
Tuttavia, aveva suscitato il suo interesse, nonché il suo scetticismo. A quanto diceva l’amico, questo ragazzo aveva capacità fuori dal comune. Probabilmente un ritratto eccessivo.
Scrollò le spalle, arrendendosi al fatto che avrebbe dovuto attendere più di due settimane, prima di trovarselo di fronte.
Alla propria lezione aperta.
“Che rottura,” sbuffò, controllando di aver chiuso la porta d’ingresso e gettando le chiavi nel piattino sul mobiletto di fianco all’entrata.
Si fermò. In un gesto ormai abitudinario, si sfilò la fede e la poggiò anch’essa sul ripiano di legno scuro.
Lo faceva tutti i giorni. La sfilava entrando in casa, la rimetteva per uscire.
Ogni singolo giorno da quell’incidente.
Sospirò e andò in cucina. Prese un bicchiere e la bottiglia di whisky. Si guardò intorno, per un attimo smarrito: avrebbe potuto sparire nel nulla, nessuno se ne sarebbe accorto.
Avrebbe voluto sparire, certe volte.
Il liquido chiaro scivolò lentamente nel bicchiere.
 
 
 
 
15 Ottobre
Sera
 
“Holmes, ti ho già detto mille volte che di queste cose devi parlare col Professor Davidson,” sospirò Mike Stamford per l’ennesima volta nel giro di un’ora.
Si era attardato più del dovuto con il suo dottorando, tanto che ormai l’università risultava deserta. Ancora un po’ e li avrebbero chiusi dentro. Quel giorno – non riusciva bene a comprendere perché – lo studente non voleva lasciarlo andare. Se non lo avesse conosciuto, avrebbe detto che voleva trattenerlo lì di proposito.
Ma era un’idea alquanto bizzarra e poco probabile.
“Professore, lo sa benissimo che Davidson non capisce nulla di queste cose.” Proferì l’altro, come al solito incurante dell’effetto delle sue parole.
“Holmes!” e a quel punto Mike si guardò intorno guardingo, come temendo che Davidson potesse spuntare fuori dai muri. “Bada a come parli. Non sono un tuo amico, non accetto che parli in questo modo dei miei colleghi.” Lo ammonì con decisione.
“D’accordo.” Sbuffò Holmes, riponendo i propri fogli dentro la cartella. “Mi arrendo.”
“Incredibile!”
Il ragazzo lo sbirciò, in parte divertito. Era un personaggio particolare, il Prof. Stamford. Aveva un’aria buona, educata, quasi remissiva. Eppure quando serviva sapeva il fatto suo, ed era in grado di farsi rispettare. Capiva i suoi studenti, e questo a loro piaceva.
Holmes non lo trovava particolarmente geniale, ma ne rispettava la sapienza. Per questo aveva insistito per farsi affiancare da lui durante il dottorato, sebbene il suo tutor dovesse essere proprio quel Davidson, teoricamente più esperto nell’argomento da lui scelto. A quest’ultimo non era sembrato vero di potersi liberare della presenza petulante dello studente, per i suoi gusti troppo sveglio.
Aveva volentieri ceduto la responsabilità a Mike.
E lui, in effetti, non se ne era lamentato. Già questo era per Holmes motivo di stupore: Stamford era forse l’unico insegnante a sopportarlo davvero. In più, aveva la strana sensazione che capisse più di quanto non desse a vedere.
Per qualche minuto attraversarono il corridoio in silenzio.
Fu Mike a romperlo.
“Mi raccomando, Holmes. Il 28 ti voglio in università a tutti i costi.”
“Ah sì? Come mai?” chiese l’altro, ostentando ignoranza.
“Resti tra noi, ma ho in serbo una bella conferenza per tutti voi, studenti e dottorandi.” Gli rivelò, non riuscendo a trattenere l’entusiasmo. Osservò la sua reazione.
Un lampo attraversò gli occhi chiarissimi del ragazzo.
Fu questione di un attimo, ma lo colse.
Stamford sorrise soddisfatto, facendo finta di nulla.
“Come vuole. Vedrò di degnarvi della mia presenza.”
“Bravo, risposta corretta.”
Holmes lo fissò in tralice per qualche secondo, assottigliando gli occhi.
Aprì la bocca come a dire qualcosa.
Rinunciò.
Continuarono a camminare in silenzio.
 
Quasi fuori dal perimetro del campus, Mike fece per girare nella solita direzione di Exhibition Road, verso il parcheggio riservato ai docenti. Talvolta capitava che lasciassero l’università insieme, e lui usava dargli un passaggio fino alla stazione metro di Knightsbridge. Ma l’altro lo bloccò.
“Ha sentito, Professore, di quella serie di furti in zona?”
“Mmh, sì, ho letto qualcosa. Perché?”
“Credo di sapere chi sia il colpevole.”
“Sei serio, Holmes? Come puoi averlo scoperto? L’hai detto alla polizia?”
“Ovvio che non l’ho detto alla polizia, dove sarebbe il divertimento?”
“Ah, certo. Tutto allenamento per il tuo futuro lavoro… cos’era, il detective?” e ridacchiò.
Holmes lo fulminò: “Non è solo ‘detective’. E non c’è nulla da ridere.” Ma continuò: “Presto, mi segua.”
Mike lo guardò attonito. Era serio? Eppure si lasciò convincere senza troppe proteste.
“Dove stiamo andando?”
“Queen’s Gate. Poi da lì giriamo in Gore Street.”
Raggiunsero presto il grosso viale che sfociava nel parco di Kensington. Proseguirono per circa duecento metri, quasi correndo, per imboccare Queen’s Gate Terrace passando davanti all’Ambasciata Tailandese, poi Holmes gli fece cenno di svoltare a sinistra.
“No, aspetti!” Gli intimò in un bisbiglio, tirandolo a sé per una manica. Si accucciarono dietro una macchina.
Il ragazzo sollevò un lungo dito affusolato verso un punto imprecisato dall’altra parte della strada.
“Lo vede?”
“E quello sarebbe il ladro seriale?” Chiese Mike, indicando anch’egli un uomo sui quarant’anni, capelli e barba folta scuri, fisico esile. Stava riponendo qualcosa nel bagagliaio della sua auto, guardandosi ogni tanto intorno.
Holmes si accarezzò il mento, riflettendo: “Sì, è lui. Oggi quel gruppo di decerebrati era a fare festa a casa di Percy Trevelyan, in Gloucester Road.”
Poi, smettendo per un attimo di parlare fra sé e sé, si voltò verso il professore: “Lo ha riconosciuto, vero?”
Gli rispose uno sguardo smarrito e confuso.
L’altro alzò gli occhi al cielo. “Quello è il nuovo assunto al bar universitario. La barba è palesemente finta, ma il fisico, le mani, il naso, l’altezza…oh no, quelli sono inconfondibili. Capisce, adesso?”
Ma non gli diede tempo di replicare. Si alzò in piedi e si diresse a grandi falcate verso il presunto criminale.
Stamford ci mise qualche secondo a reagire. “Holmes! Holmes dove vai?!”
“Vado ad assicurare un delinquente alla giustizia. Lei chiami la polizia… ora!”
L’uomo dall’altra parte della strada colse quei movimenti, vide il ragazzo venire verso di lui. Non reagì platealmente, cercando di mantenere la facciata, ma si sbrigò a infilarsi in macchina. L’ansia cominciò a salirgli, non riusciva a infilare le chiavi. Prima che potesse avviare il motore, Holmes incombeva sul suo finestrino.
Un sorriso diabolico stampato sul bel viso.
Stamford chiuse la chiamata, la polizia sarebbe giunta a momenti. Non fece in tempo a metter giù, che udì un rumore acuto e stridente provenire dall’auto poco lontano.
Un fracasso di vetri infranti.
“Holmes!” Gridò, terrorizzato da quello che sarebbe potuto accadere al ragazzo. Scenari orribili si presentarono alla sua mente. Li raggiunse a tempo record.
Solo per trovare frammenti di vetro ovunque e il farabutto svenuto sul sedile del conducente.
Holmes gli restituì uno sguardo perfettamente tranquillo, le sopracciglia si sollevarono come a chiedergli cosa avesse da scaldarsi tanto.
“Tu… sei pazzo.”
Un ghigno divertito la sua unica risposta.
 
La volante arrivò sul luogo poco tempo dopo.
Appena ferma, si catapultò fuori l’ispettore Gregory Lestrade.
“Ancora tu!” esclamò con voce graffiante, tra l’esasperato e lo stupito.
Holmes si limitò ad agitare la mano sinistra con un candido “Hello!”, per poi riportarla dietro alla schiena. Si afferrò il polso e così rimase, attendendo le solite domande.
“Quando la smetterai di cacciarti nei guai non sarà mai troppo tardi,” disse scuotendo la testa, per poi aggiungere: “Sei sicuro sia lui il colpevole, vero?”
“Certo che ne sono sicuro. Ho mai sbagliato, forse?”
“Purtroppo no. Ma stapperò lo spumante, quando succederà!”
“Allora quello spumante non verrà mai aperto.”
“Stai attento, Sherlock Holmes, o le manette le metto pure a te. Intanto… preferisci adesso o domattina in centrale?”
“Domattina.” Rispose prontamente lui, annuendo appena.
“Non sei ferito, vero?”
“Perché dovrei?”
“Forse perché gli hai rotto il finestrino? O hai usato gli ultrasuoni?”
“Una bella gomitata, caro James.”
“Greg.”
“Quello che ho detto.”
Mike li osservò come a una partita di tennis, ogni secondo che passava più sconcertato di prima. Sembrava per loro una pratica abituale.
Sapeva che il suo studente aveva deciso di intraprendere quell’assurda carriera, ma non si immaginava certo a un tale livello. Darsi del tu perfino con l’Ispettore!
Fu proprio il ragazzo a riscuoterlo.
“Andiamo, Professore? Vorrei andare a dormire.”
“C-certo. Dobbiamo tornare indietro, però, dove ho lasciato la mia auto.”
“Ottimo. Allora a domani, Ispettore!”
In tutta risposta, quest’ultimo sventolò la mano come a intimargli di togliersi dai piedi.
“Simpaticone.”
 
Una volta in auto, Stamford riattaccò con la sua tiritera.
“Ripeto, tu sei matto.”
“Sì, beh… non è certo la prima volta che me lo dicono. E in modi molto meno gentili.”
“Potevi farti male!”
“Ecco, riguardo a quello…” non finì la frase. Ma sollevò la mano destra, fino a quel momento nascosta in tasca, in modo che Mike potesse vederla.
Era coperta di sangue.
Il professore inchiodò con uno stridore di freni.
“Ma cosa diavolo hai fatto?!” urlò.
Holmes sembrò realmente stupito dalla reazione a suo parere esagerata.
“Evidentemente non ho rotto il finestrino col gomito, ma con la mano.”
“E meno male che ti ritengo una persona brillante.”
“Sono stato preso dal panico,” mormorò, guardando da un’altra parte.
Fu a quel punto che Stamford sollevò un sopracciglio, perplesso. “Tu? Preso dal panico?”
Ma non indagò oltre.
“Devo portarti in ospedale,” disse riaccendendo il motore.
No!” lo bloccò l’altro, posandogli la mano sana sul braccio. “Non voglio l’ospedale. Non mi fido. E poi i tempi d’attesa… decisamente no.”
“Ma stai scherzando?”
“Io non scherzo mai. In ospedale non ci vado, punto.”
Mike si passò una mano sul viso, in parte sudato. Che stanchezza, quel giorno non finiva più. Poi una lampadina si accese sulla sua testa.
“Ok. So dove portarti. E ringraziami perché do adito alle tue stranezze.”
“Le sono profondamente grato, Professore.” Replicò Holmes.
Sorrise.
Sapeva esattamente dove stavano andando.
 
***
 
John Watson gettò un’occhiata distratta all’orologio appeso alla parete del salotto: era da poco passata la mezzanotte.
E di sonno manco l’ombra.
Si voltò nuovamente verso il televisore, su cui scorrevano le immagini di un vecchio film in bianco e nero: uno dei più famosi di sempre, in realtà. Non gli piaceva particolarmente Casablanca – non più di altri film, per lo meno – eppure quella dannata tv continuava a trasmetterlo a ripetizione, soprattutto alle ore tarde della notte.
Abbassò gli occhi sul tavolino davanti al divano. Lo schermo di un computer lo fissava inquisitorio, la pagina del documento aperto intonsa, se non per una riga dedicata al titolo.
Niente, oh. Non gli veniva in mente assolutamente nulla.
Fu assalito da un’improvvisa voglia di scaraventare quel maledetto aggeggio fuori dalla finestra. Si figurò persino un tiro al piattello, in cui il piattello era proprio il suo computer.
E di conseguenza pensò alla propria pistola, chiusa in un cassetto del comodino nella camera da letto. Una rampa di scale lo separava da essa.
Non avrebbe saputo dire per quanto tempo rimase seduto sul divano, in una posa rigida, all’erta senza sapere bene per cosa. Forse stava solo in guardia da se stesso.
Ad un tratto sentì bussare alla porta.
Un tocco delicato, quasi esitante.
Watson corrugò la fronte: decisamente un malintenzionato avrebbe utilizzato un metodo meno gentile. Ma chi poteva essere a quell’ora?
Giusto per conferma, passando davanti alla cucina per raggiungere la porta d’ingresso, buttò un occhio sul forno, su cui brillavano le cifre digitali dell’orologio incorporato:
01:29
Doveva essersi sballato l’orario. Annotò mentalmente di controllare il giorno seguente.
Sbirciò di fretta dallo spioncino: Mike Stamford?!
Ebbe l’istinto di rispondere: “Non sono in casa.” Ma come sempre decise di mordersi la lingua.
Almeno con lui poteva non farsi problemi ad aprirgli la porta in pigiama. Per carità, nulla di sconveniente. Indossava semplicemente una t-shirt bianca e un paio di pantaloni larghi di felpa grigia. Più che a dormire, sembrava pronto ad andare a correre.
Rammentò che forse una volta ci era andato davvero, a correre vestito così.
Ridacchiò da solo spalancando la porta: “Mike, che diavolo ci fai qui a quest’ora?”
“John! Perdonami, davvero. Una questione urgente.”
“Sarebbe?” rispose l’altro, guardandolo confuso. Gli occhi che andavano a destra e a sinistra, cercando indizi. Solo allora Stamford si accorse che il ragazzo, che fino a un minuto prima lo affiancava lungo il vialetto, ora era sparito.
“Ehm… Aspetta. Ma dov’è finito?” cominciò a borbottare, guardandosi intorno. “Ah, eccolo. Puoi degnarti di venire qui, per piacere?”
John udì solamente una voce profonda, baritonale, emergere dal buio che circondava la casa: “Davo un’occhiata in giro.”
“Certo, ma non mi sembra il momento appropriato. John, questo è…”
Non fece in tempo a terminare la frase, che il giovane dottorando lo superò, portandosi direttamente davanti a Watson, che attendeva basito sulla soglia.
“Sherlock Holmes, piacere.”
John lo fissò per qualche istante, senza dire una parola. Il momento si impresse definitivamente nella sua memoria, insieme all’aspetto fuori dal comune, quasi esotico, della figura appena comparsa.
“John Watson, piacere…” mormorò, senza rendersene davvero conto.
Ci pensò l’altro a toglierlo d’impaccio, evitando che si creasse un silenzio imbarazzante.
“Le stringerei volentieri la mano ma… sa com’è!” esclamò, mostrando la mano ferita.
Solo allora il medico si riscosse.
“Gesù, ma che è successo?” e il suo sguardo rimbalzò dal ragazzo a Stamford.
“Storia lunga,” tagliò corto lui, “ci puoi aiutare? Intanto ti racconto.”
“Entrate. Andiamo nello studio, ho tutto lì.”
 
Li condusse senza indugio nel proprio studio medico, facilmente raggiungibile sia dall’esterno che dall’interno della casa. Voltandosi un paio di volte per controllare che lo stessero seguendo, ebbe modo di notare come Sherlock fosse nel mentre impegnato a registrare tutto ciò che passava sotto il suo sguardo di ghiaccio. Le iridi vibravano a una velocità pazzesca, mai vista in vita sua.
Quindi quello era il famoso Sherlock Holmes, il dottorando di cui Mike gli parlava con tanto entusiasmo.
Si era immaginato la tipica versione del secchione per eccellenza.
Sicuramente non così.
Era alto, molto più di alto di lui – non che ci volesse molto, in effetti – con una chioma scura carica di ricci arruffati, un viso affilato e… quegli occhi.
“Eccoci. Prego, entrate.”
Borbottò Watson, aprendo la porta dello studio. Accese la lampada secondaria, dalla luce più calda e tenue, e una lampada più piccola, quella in corrispondenza della grossa lente d’ingrandimento.
“Holmes…”
“Mi chiami Sherlock.”
“O-ok,” acconsentì l’altro, senza sollevare gli occhi. Stava preparando qualche strumento e il ripiano per lavorare, si schiarì la voce. “Sherlock, avvicinati. Mostrami la mano. No, scusa, prima meglio se ti togli la giacca.”
Mike lo aiutò a sfilarla: “Accidenti, si è sporcata tutta la tasca.”
“Poco male, è la scusa buona per usare finalmente il cappotto nuovo,” rispose lo studente, stringendosi nelle spalle. Poi si voltò verso il medico, porgendo la destra.
Stamford, intanto, si eclissò in un angolo.
John lo afferrò per il polso sottile con mano ferma, valutando l’entità della ferita.
In realtà, era parecchio agitato. Quel ragazzo lo agitava. C’era qualcosa in lui che non riusciva a spiegarsi.
Ma non poteva metter da parte così la propria professionalità. Si impose distacco. Automaticamente, irrigidì la posa. Divenne il medico militare che aveva imparato ad essere sul campo di battaglia.
A Sherlock non sfuggì nulla di quel cambiamento repentino. Lo osservava curioso, il suo interesse decisamente stimolato.
Lasciò che l’altro prendesse il controllo della situazione, cosa che raramente permetteva che accadesse. Percepì la presa al proprio polso decisa, ma gentile. Le dita calde contro la propria pelle.
John gli sciacquò la mano sotto un getto d’acqua tiepida e la disinfettò ripulendo la ferita. Aveva il tocco burbero tipico dell’uomo affidabile.
Sherlock si rilassò d’istinto, rendendosi conto solo in quel momento del dolore alla mano e di quanta adrenalina avesse in circolo.
“Una sola ferita un po’ più profonda, il resto son tagli prettamente superficiali. Devo rimuovere un frammento di vetro e probabilmente serviranno un paio di punti,” commentò il medico, avvolgendo la mano in un panno di spugna. Tamponò con delicatezza giusto il necessario per lavorare meglio.
“Vieni, siediti qui.”
Sherlock ubbidiva senza fiatare. Non riusciva a togliere gli occhi di dosso da quella figura insolita.
Mike, nel suo angolino, si godeva la scena in silenzio.
“Ti farà male. Se ti serve stringi quest–“
“Non si preoccupi, va bene così.”
“Se sei sicuro.”
I minuti passarono in silenzio, mentre John rimuoveva il vetro rimasto incastrato nella ferita e ricuciva quest’ultima. Ogni tanto sbirciava le reazioni del ragazzo: prima perché temeva potesse svenire da un momento all’altro, poi perché trovava incredibile la sua resistenza al dolore.
Gli venne da sorridere.
Forse il ritratto di Stamford non era così esagerato.
Alla quarta occhiata, trovò il proprio sguardo riflesso in quello del ragazzo. Si fissarono intensamente per quella che fu solo una frazione di secondo.
Oh.
John riabbassò gli occhi sulla mano elegante, di cui notò le vene sporgenti, le dita lunghe e sottili.
Accidenti, smettila!”.
Si schiarì la gola. “Allora, Mike, mi dici cos’è successo?” chiese, iniziando a chiudere la sutura.
“Molto in sintesi, il nostro ragazzo qui ha deciso che nella vita vuole fare il detective e quindi va in giro ad arrestare la gente per conto della polizia.”
“Come scusa?”
“Professore, per l’ennesima volta. Io non voglio “fare il detective”. Diventerò un consulente investigativo, c’è un’enorme differenza!”
“Consulente investigativo… mai sentito.”
“Certo che no, J… dottor Watson,” si corresse subito Sherlock.
“No, tranquillo. John va bene.”
Il ragazzo sorrise sghembo, prima di proseguire: “Non ne ha mai sentito parlare perché l’ho inventato io.”
John lo guardò sollevando entrambe le sopracciglia. “Wow. In bocca al lupo allora.”
“Grazie.” Annuì l’altro. Cercò di nascondere la sorpresa, ma la sua espressione piacevolmente stupita non passò inosservata a Stamford.
“Quindi arresti la gente picchiandola con dei vetri rotti?”
All’uscita dell’amico, Mike emise uno sbuffo divertito. Sherlock lo fulminò.
“Ovviamente no, ma dovevo fermare un ladro prima che partisse con la macchina… rompere il vetro e metterlo ko mi è sembrata la soluzione migliore.”
“Tu non pensi mai alle conseguenze di quello che fai o dici, vero?” osservò John, divertito.
Il ragazzo si strinse nelle spalle. “Non mi aiuta.”
“Immaginavo,” mormorò, procedendo a fasciare la mano, per assicurare meglio la medicazione.
“Ecco fatto! Sei libero. Uno dei pazienti migliori che abbia mai avuto, non un lamento… Volete una tazza di tè, prima di andare?”
Sherlock si voltò verso Stamford, come a chiedere il permesso.
“Holmes, si è fatto davvero tardi. Se devo anche riaccompagnarti a casa…” e lasciò la frase in sospeso, controllando l’orologio.
“Può fermarsi a dormire qui.”
Alla proposta di Watson, gli altri due si voltarono in sincronia.
“Potete fermarvi entrambi,” continuò lui, mettendosi a braccia conserte e poggiandosi col bacino sul lettino dei pazienti. “Ho abbastanza letti per tutti.”
“È la volta che mia moglie mi caccia di casa, se non torno a dormire… ma…”
“Io accetto volentieri, grazie.”
“Ok.” Rispose semplicemente John, fingendo noncuranza.
Ma guarda che casino. Bell’idea, John. Complimenti.”
 
Mike Stamford salutò i due e uscì sul vialetto. Una volta in macchina, diede un sospiro.
Quella giornata era durata veramente troppo, non vedeva l’ora di tornare a casa e infilarsi sotto le coperte. Tuttavia, stanchezza a parte, era soddisfatto: era stata una giornata decisamente proficua.
Gettò uno sguardo divertito sulle luci accese nella cucina del dottor Watson. Per un breve secondo, si chiese se il suo agire non avesse acceso la miccia di una bomba troppo pericolosa.
Poi ripensò allo sguardo di John, che non vedeva così vivo da tempo, e all’espressione inequivocabile di Sherlock: no, aveva fatto proprio bene.



To be continued

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Ben ritrovati con il secondo capitolo, spero vi piaccia. Un po' di transizione, ma necessario!
Un grande grazie a chi segue questa storia. Buona lettura



 
Forgiveness
Capitolo 2
 
 
 
15 Ottobre
Notte
 
Il bollitore diede segno di aver assolto al proprio compito. Sherlock sedeva al tavolo della cucina, osservandosi la mano destra con curiosità.
“Quanto ci metterà a guarire? Il filo di sutura deve rimuoverlo lei?”
L’altro esitò un attimo, prima di rispondere, come se stesse elaborando un’idea: “Conta circa due settimane… E ho usato un filo di Catgut.”*
Gli gettò un’occhiata per verificare la sua reazione. Sherlock, decisamente divertito, gli rispose prontamente: “Dunque no, non dovrà rimuoverlo lei.”
John ghignò. “Vedo che qui qualcuno è stato attento a lezione.”
“A me non serve essere attento a lezione,” sentenziò, senza specificare che quello non era nemmeno il proprio ambito di studi.
Lo sfidava. Lo sfidava senza ritegno.
Ed era tutto terribilmente divertente.
“Quindi non ci vai nemmeno, a lezione?”
“Dipende.”
“Da cosa?”
“Dallo stimolo che posso trarne.”
Un sorriso sghembo. John pose due tazze sul tavolo, insieme a latte e zucchero, e iniziò a versare il tè.
Sherlock seguiva i suoi movimenti come ipnotizzato, finché a un tratto proferì lentamente, a bassa voce: “Mi dispiace per sua moglie.”
La teiera, fino a un momento prima ben salda nelle mani del medico, slittò sul bordo della tazza, versando fuori parte del contenuto. Un muscolo guizzò veloce sul volto dell’uomo, che irrigidì la mandibola. Non alzò nemmeno lo sguardo, poggiò la teiera e disse solamente “Grazie” a un tono così flebile che fu a mala pena udibile.
Cercava di contenere la rabbia. Se Mike aveva osato raccontare…
“N-non è stato il Prof. Stamford, se è quello che sta pensando.”
John, che in quel momento si era voltato per prendere una spugna e riparare al mezzo disastro, raddrizzò la schiena.
“Ah no?”
“No. L’ho… intuito.”
Solo allora l’altro si voltò per incrociare il suo sguardo. Sherlock non era un esperto di emozioni, ma quegli occhi blu, grandi ed espressivi loro malgrado, li riuscì a leggere.
C’era dolore. C’era frustrazione. C’erano rabbia e paura.
Watson tirò su col naso, senza interrompere il contatto visivo. Il silenzio cominciava a diventare pesante.
Afferrò di nuovo la teiera e finì di versare il tè nelle tazze. Poi sospirò, e in quel gesto sembrò calmarsi. Il ragazzo non poté fare a meno di chiedersi quale treno di pensieri avesse attraversato la mente dell’altro, in quel minuto. Cosa lo aveva portato a seppellire di nuovo il nodo che aveva dentro? Cosa esattamente gli aveva fatto paura?
Ma Sherlock quelle situazioni non le sapeva gestire. Sherlock sapeva dedurre e sbattere in faccia agli altri le proprie deduzioni. Nient’altro.
“Come…?”
Senza dargli nemmeno il tempo di finire la domanda, il ragazzo attaccò col suo discorso, grato di poter riempire quel vuoto.
“L’altro giorno, quando è venuto in università, ho notato che portava una fede. Ma ora non ce l’ha. La tiene sul tavolino vicino alla porta perché la indossa solo fuori casa, come se avesse bisogno di scindere tra ciò che è dentro e ciò che è fuori dalle mura domestiche. Ergo, qualcosa di doloroso nella sua vita matrimoniale. Ha un garage doppio, ma un’auto sola – l’ho notato perché ha dimenticato una serranda alzata. Dunque ha una macchina ma non la usa volentieri, altrimenti l’erba davanti al box sarebbe più schiacciata; inoltre non ha voluto prenderla neanche per venire in università lunedì, eppure è abbastanza lontana. Usare i mezzi pubblici non è comodo, non quando ha dei pazienti che l’attendono a orari prefissati in uno studio privato. Preferisce la bicicletta – l’ho vista qui fuori – anche per le lunghe distanze, aiutato dall’abitudine all’attività fisica. Deduco che ha motivazioni ben precise per non mettersi alla guida. L’assenza di sua moglie non può essere dovuta a separazione o divorzio, perché altrimenti non avrebbe bisogno di indossare ancora la fede fuori di casa. Ho potuto notare un’unica fotografia nel salotto, sistemata però dove non le sia visibile stando seduto sul divano, quindi guardarla le causa dolore. Unito al fattore dell’auto menzionato in precedenza, ho tratto le mie conclusioni.”
Senza volerlo, John deglutì sonoramente.
“Già.”
“Mi dispiace.”
L’altro annuì. Il ragazzo seguitava a osservarlo con occhi penetranti. Il silenzio cadde nuovamente fra loro, finché non fu John a parlare: “Bevi il tuo tè, o diventerà freddo.”
Sherlock portò la tazza alle labbra e sorrise, con un sorriso piccolino e quasi timido: “Temo sia tardi.”
Fu allora che Watson ridacchiò piano, e il ragazzo capì che il peggio era passato.
“Colpa tua.”
 
“Aspettami pure in salotto, vado a prenderti qualcosa per la notte.”
Passando di fianco al divano, seguito da Sherlock, John si sporse appena per chiudere il pc che giaceva ancora aperto sul tavolino. “E non curiosare in giro, per favore.”
“Per chi mi ha preso?” si finse oltraggiato.
“Per un ficcanaso quale sei!” gli rispose salendo le scale.
Tornò poco dopo con una maglia e un paio di pantaloni di tessuto morbido. Glieli porse passandosi una mano sulla nuca, quasi a disagio.
“Ho scoperto che avevo ancora qualcosa per eventuali ospiti, visto che i miei vestiti non vanno alla maggior parte della gente che conosco. Un mio pigiama addosso a te sarebbe stato veramente troppo ridicolo.”
Sherlock si limitò a prendere il fagotto, mormorando un “grazie” imbarazzato.
“Ah! Scusami, ti mostro il bagno e la tua camera.”
Si lasciò poi cadere sul divano aspettando che l’altro fosse pronto, per dargli la buonanotte e dedicarsi finalmente alla scrittura – o per lo meno alla contemplazione dello schermo. Si era messo in testa che voleva scrivere. Il perché… difficile dirlo. Mary gli ripeteva spesso che era bravo a narrare, anche le cose più banali come una pausa caffè coi colleghi in ospedale. Secondo lei, avrebbe inventato delle storie bellissime per i loro figli.
Ma quel momento non era mai arrivato.
Forse era solo quello, dopo tutto. Un’opportunità, seppur minima, di redenzione. Se solo fosse riuscito a scrivere qualcosa – qualunque cosa – avrebbe realizzato un lato positivo di se stesso.
Tuttavia, almeno per quella sera, ogni suo piano fu mandato in fumo dal momento che Sherlock, uscendo dalla camera, si lanciò direttamente sulla poltrona vuota. La schiena appoggiata a un bracciolo, le gambe a penzoloni dall’altro. John lo guardò sconcertato.
“Non vuoi andare a dormire?”
“Mmh no. Non ho particolarmente sonno, e credo nemmeno lei.”
“Ah, lo hai deciso tu? No anzi, non rispondere!” e alzò le mani davanti a sé, come a schermarsi.
Parve riflettere qualche secondo su qualcosa, poi riprese parola: “Senti, Stamford prima ha detto che hai fermato un criminale per la polizia.”
“È così.”
“E com’è andata, esattamente?”
“Vuole davvero tutta la storia?” il ragazzo strabuzzò gli occhi, facendo seriamente fatica a crederci.
“Perché no?” rispose John, e sorrise. Trovava buffe le sue reazioni. Sembrava non aspettarsi mai nulla dagli altri.
“Se insiste.”
E Sherlock iniziò a raccontare.
 
***
 
Camminava lentamente lungo il viale alberato nel parco, in un incedere irregolare. Guardò a terra, la sua ombra si proiettava netta sulla pietra del sentiero: il sole stava calando, gettando una luce calda che si rifletteva sui colori intensi delle foglie autunnali. Il rosso, il marrone, l’arancione e il giallo si fondevano insieme in un manto all’apparenza uniforme. Solo in un secondo momento si accorse che la propria ombra non era sola; un’altra procedeva al suo fianco, allo stesso passo. Era un’ombra lunga, sottile e – senza sapere perché – estremamente confortante.
Non fece in tempo a voltarsi per vedere in faccia il proprietario: la sua mente divenne improvvisamente cosciente di trovarsi in un sogno. A volte gli capitava. Cercò di tenere insieme i pezzi, che tuttavia iniziarono a sfuggire al suo controllo. L’immagine davanti ai propri occhi si dissolveva senza che lui potesse fare nulla per evitarlo.
 
John Watson si svegliò senza aprire gli occhi. Ebbe la netta sensazione che fosse un bel sogno, eppure già gli sfuggivano i dettagli. Ormai era sveglio. Fece una smorfia contrariata, iniziando a prendere coscienza del proprio corpo. Era di nuovo tutto indolenzito, probabilmente si era addormentato un’altra volta tra i libri.
Ma il materasso era più duro sotto di sé. E il problema questa volta era il collo: la mano dietro la nuca aveva solo in parte mitigato la mancanza di un morbido cuscino.
“Ma che diamine…?”
Si tirò finalmente su a sedere, con un verso infastidito che parve un grugnito.
“Buongiorno John,” disse una voce calda e profonda.
Gesù!
“Uhm, non esattamente, ma grazie del complimento.”
“No no, non intendevo…” e sospirò, passandosi più volte la mano sul volto. Ci mise un attimo a rimettere insieme i frammenti di quella notte. Si doveva essere addormentato chiacchierando con il ragazzo.
“…Buongiorno Sherlock.”
Riuscì infine a dire. Il brillante dottorando si era evidentemente svegliato prima di lui, e per riempire il tempo si era messo a studiare spargendo carte su tutto il tavolo del salotto. John, dal canto suo, si rese conto di aver dormito per tutto quel tempo sul divano.
“Accidenti,” imprecò, alzandosi in piedi per fare un po’ di stretching. “Che ore sono?”
“Le sei e due minuti.”
Ok, era ancora abbastanza presto. In effetti, era molto presto.
“Ma a che ore ti sei svegliato?”
“Credo di aver dormito un paio d’ore… poi mi sono ricordato di una cosa che volevo assolutamente verificare riguardo alla mia ricerca.”
“Wow.”
Sherlock alzò lo sguardo dai suoi fogli. “Come, prego?”
“Beh, sei ammirevole.”
“No, non direi. Ma grazie lo stesso.”
John lo squadrò scettico per qualche secondo. Era davvero un personaggio strano, e allo stesso tempo incredibilmente affascinante. Non capiva nulla di lui, eppure tutto gli sembrava chiaro. Era chiaro che avesse una mente straordinaria, così come il fatto che gli mancasse qualche filtro nel comunicare i propri pensieri; ma era anche chiaro che ci fossero ancora troppe cose da scoprire di lui. Watson si chiese, in quel momento, se una sola vita sarebbe bastata per scoprirle tutte.
Si riscosse in tempo per evitare figuracce – già l’aveva sfiorata la sera precedente, nel momento di trovarselo sulla porta – e gli chiese, ostentando nonchalance: “Vorresti un caffé? Poi se vuoi ti posso accompagnare alla metro più vicina.”
“Volentieri per la compagnia. Riguardo al caffè, preferirei un tè, in realtà.”
“Anch’io, a dirla tutta. Tè per tutti, allora.”
Osservando le prime bolle formarsi nel bollitore, John rise tra sé e sé al pensiero che in fondo si sentiva un po’ allo stesso modo di quel vecchio elettrodomestico.
Ribolliva dentro. Lo percepiva chiaramente da quando si era svegliato quella mattina.
Era qualcosa di sotterraneo, ancora agli albori, ma c’era. Realizzò di non sentirsi così da tanto, troppo tempo. Lanciò un’occhiata a quello studente seduto nel suo salotto: già che avesse qualcuno seduto nel proprio salotto era incredibile. Si era completamente chiuso in se stesso, nell’ultimo periodo. Non voleva nessuno nella propria vita. Il che, detto da un medico, potrebbe apparire strano.
Tuttavia sì, aveva eretto attorno a sé una serie di barriere: non aveva intenzione di soffrire ulteriormente. Il senso di colpa e di impotenza, la paura di se stesso, di ciò che gli altri avrebbero pensato… nulla gli sembrava sicuro.
E adesso? Una notte in bianco passata ad ascoltare storie di casi risolti da un dottorando – brillante, probabilmente sociopatico, nonché pazzo – davanti a un tè. Bastava davvero così poco per ricominciare a vivere?
“Il tè è pronto! Vedi di non farlo freddare di nuovo.”
Sherlock saltò su come una molla, in contraddizione con lo sbuffo esagerato che abbandonò le sue labbra in protesta per l’interruzione del proprio lavoro.
Non lo ringraziò nemmeno. Afferrò la tazza e tornò alla sua postazione, questa volta sedendosi direttamente per terra e affondando il naso tra i fogli.
Watson sollevò un sopracciglio: “Prego, eh!” Per poi aggiungere: “Hai tempo fino a che non mi sono cambiato, poi devi metter via tutto che usciamo.”
Dal ragazzo solo un cenno. Poteva scommettere che non avesse sentito mezza parola.
 
Infatti, John fu costretto a sollevarlo praticamente di peso per trascinarlo fuori di casa.
Solo dopo aver percorso qualche metro, Sherlock sembrò rendersi conto di cosa fosse successo negli ultimi dieci minuti e si fermò improvvisamente in mezzo alla strada.
“Ehi, tutto ok?”
“Dove stiamo andando?”
“Sei serio? A casa tua. O meglio, ti sto accompagnando al mezzo di trasporto più vicino.”
“Non ha di meglio da fare, che ne so, tipo lavorare?”
Watson si irritò. “Sai che ti dico, sì, forse avrò di meglio da fare! Ma tu occupavi il mio spazio vitale e io dovevo toglierti da lì.”
Holmes restituì lo sguardo, imperturbabile. Sbatté più volte le lunghe ciglia.
“Quindi deve lavorare?” insistette.
In quel momento gli sembrò tanto un bambino capriccioso.
“No, non devo lavorare. Il sabato ho la mattina libera,” sospirò John.
“Benissimo. Le va di accompagnarmi?”
“Fino a casa tua?”
“È quello che intendevo, sì.”
“Hai paura di perderti?” ghignò l’altro.
“No, è lei che sta cercando una nuova abitazione più piccola di quella che ha attualmente e si dà il caso che io sia in cerca di un coinquilino.”
Il medico rimase a bocca aperta, letteralmente. “Ma come diavolo…?”
Alla domanda lasciata in sospeso, Sherlock si limitò a inclinare appena la testa da un lato: “Oh andiamo, era palese.”
“Stop. Non voglio saperlo…” borbottò lui, ricominciando a camminare al fianco del ragazzo. “No, anzi, voglio saperlo. E anche l’indirizzo, se possibile, giusto per capire fin dove ti sto seguendo.”
Holmes sorrise sghembo, senza farsi notare.
“221B Baker Street.”
 
Uscirono dalla metro di Baker Street, ritrovandosi improvvisamente in mezzo a una fiumana di gente.
“Ma è sempre così, qui?”
“Si abitui, questa è la città!” rispose allegramente il ragazzo, avvezzo ai ritmi del centro. Superarono una corrente che filava in senso opposto al loro e riuscirono finalmente a infilarsi nella via giusta, in quel momento relativamente tranquilla.
Quando furono certi di poter respirare, Sherlock riprese a parlare. Guardava in alto, verso il cielo, ma con la mente da tutt’altra parte. Ricordava i propri vissuti, le prime esperienze come investigatore: lo avevano già condotto in diversi angoli della città.
“La veda come un’opportunità, John. Pensi a cosa può mettere in moto un via vai del genere. Questa città è come un cuore pulsante, ogni sua venatura freme di vita pronta a esplodere. Dobbiamo solo avere pazienza e attendere che questo accada.”
Tacque, riabbassando lo sguardo. Si voltò verso di lui. Le sue iridi di ghiaccio, già luminose di natura, parevano attraversate da scintille: quella stessa vitalità che lui bramava con tanta forza, cercandola disperatamente intorno a sé.
John ebbe la netta sensazione, in quel momento, che quegli occhi avessero visto cose che la gente comune nemmeno si immagina. E provò qualcosa di tanto simile all’invidia, tinto da un sentimento molto più piacevole: il desiderio di seguirlo ovunque egli avesse voluto condurlo.
Dovette rallentare il passo, tutto ciò lo scombussolava. Andiamo, lo conosceva appena. Eppure...
“John?”
“A-arrivo.”
Un sorrisetto divertito spuntò sulle belle labbra del ragazzo, che iniziava ad avere un quadro della persona che aveva di fronte. Volle spingersi ancora più lontano. Stava osando, ne era consapevole: non aveva idea di come avrebbe reagito, un’altra persona al suo posto avrebbe dato di matto in poco tempo. Ma quel medico… lui aveva qualcosa di diverso.
Attese che l’uomo lo raggiungesse, prima di ricominciare a camminare. Esordì con nonchalance: “In fondo, non dev’essere troppo divertente la vita di periferia, per un ex militare come lei.” E si preparò a godersi la reazione, che giunse prontamente con uno sbotto da parte dell’altro.
“Accidenti, ma non è possibile! E questo da dove lo hai tirato fuori?!”
“Tutto di lei me lo dice.”
“Ah sì, buon per te,” mormorò lui, mento in alto e atteggiamento fiero. Combatteva l’istinto a tirargli un pugno, in realtà.
Il più giovane ricambiò lo sguardo senza lasciarsi intimorire. Il tono di Watson era quello di una persona irritata, eppure il blu intenso delle sue iridi non era incupito dalla rabbia. Assomigliava piuttosto a quello di un mare in tempesta.
Sherlock capì allora che John – anche e soprattutto senza volerlo – parlava molto di più con gli occhi che con le parole, e quello che gli stava comunicando in quel momento… gli piaceva.
 
Giunsero infine davanti alla porta del 221B.
Sherlock fece per entrare senza esitazione; aveva già una mano sulla porta quando disse “Vedrà, le piacerà… e poi la padrona di casa è proprio una brava persona.”
Prima però che gli fosse possibile proseguire, John lo bloccò afferrandolo per un braccio.
“A-aspetta.”
“Mmh?”
Con tutto se stesso, avrebbe voluto seguirlo. Watson già sapeva che l’appartamento gli sarebbe piaciuto, che la padrona di casa sarebbe stata perfetta, che tutto sarebbe andato bene.
Non era ben sicuro da dove questa certezza gli venisse, ma ce l’aveva. E forse, in tutto questo, la sicurezza stessa di Sherlock un poco centrava.
Se lui era convinto che avrebbe potuto andar bene per loro, ciò significava che era effettivamente una cosa buona. John non riusciva a evitare di pensarlo.
Eppure no, non poteva andare oltre. Non era nelle sue possibilità, non in quel momento.
Avrebbe rovinato tutto, in un modo o nell’altro.
“Sherlock, non posso salire.”
“Fino a poco fa non sembrava di questo avviso.”
“Hai ragione, non lo ero. Ma ora sì. Devo… devo andare. Sai, il lavoro…” mormorò il medico, lasciando scivolare la frase nel nulla. Lo fece senza guardarlo in faccia.
“Va bene.”
“Un’altra volta, ok?”
“Ok,” rispose il ragazzo, atono.
Sherlock intuiva cosa stesse succedendo nella testa dell’altro, e comprendeva almeno in parte il motivo, ma in fondo non poteva impedirsi di arrabbiarsi. Avrebbe voluto vederlo lottare e… vincere. Non soccombere alle proprie prigioni.
Lo osservò tentennare per qualche secondo sul marciapiede. Voleva aggiungere qualcosa, annaspava per trovare le parole giuste. Si mordeva l’interno della guancia guardandosi intorno senza vedere nulla per davvero.
“Senti Sherlock…”
“Mi dica.”
“Ecco, giusto a proposito di questo… non c’è bisogno di essere così formali, uh? Non darmi del ‘lei’, diamoci del ‘tu’. È più semplice. Non mi trovo a mio agio con le formalità.”
“D-d’accordo, John.”
“Ah, un’altra cosa,” borbottò, schiarendosi la gola, “…devi tenertelo stretto.”
“Come, prego?”
“Il tuo dono, Sherlock. Tienitelo stretto, abbine cura. Quello che sai fare, quello che la tua mente può fare… è qualcosa di incredibile. È straordinario nel vero senso del termine. Hai qualcosa che gli altri non hanno – non permettere a nessuno di farti sentire in colpa per questo.”
Era tremendamente serio.
Sherlock se ne accorse e provò un improvviso dolore al centro del petto, là dove un nodo prima troppo stretto cominciava a sciogliersi piano piano.
In una delle rare volte nella sua vita, le parole vennero a mancargli. Si limitò ad annuire con la testa. Quasi non si accorse che l’altro gli stava tendendo una mano per stringerla.
“Ci vediamo presto. Fai il bravo, nel frattempo.”
“Io sono sempre bravo.”
“Lo so. Ciao, Sherlock.”
Lo guardò voltargli le spalle e andar via.
“Ciao, John.”
 
***
 
Il giovane entrò nell’atrio chiudendosi la porta alle spalle. Non fece in tempo a compiere questo gesto, che dal nulla spuntò fuori la padrona di casa, nonché sua cara amica.
“Mrs. Hudson! Ma lei ha imparato ad attraversare i muri?”
“Imparerò anche quello prima o poi, ragazzo mio!” rispose allegramente la donna non più giovanissima. E continuò, sbirciando alle sue spalle: “E quel bel giovanotto se n’è andato?”
“A quanto pare.”
“Fa il timido, eh?”
Sherlock in tutta risposta blaterò qualcosa di incomprensibile, che tuttavia l’altra sembrò saper interpretare.
“Non preoccuparti. Tornerà.”
 
  
 
27 Ottobre
Pomeriggio
 
Imperial College, laboratorio di chimica.
Molly Hooper entrò nella piccola stanza, principalmente riempita da un unico grande tavolo colmo di strumentazione di vario genere, provette e becher, cartelle e fogli carichi di dati e grafici sparsi più o meno ovunque.
La giovane donna, anch’essa dottoranda in chimica, si guardò intorno desolata.
“Uomini…” mormorò con tono affranto, capendo che doveva arrendersi all’idea di trovare quella stanza in perenne disordine. Non le restava che mettersi il cuore in pace e accettare.
Lei stessa sapeva di non essere una particolare amante dell’ordine, tendeva a fare trecento cose insieme e non si preoccupava dei possibili danni, ma quel caos la debilitava mentalmente.
I suoi occhi si fissarono su un punto particolare del tavolo, precisamente all’angolo opposto rispetto alla porta. Lì dove di solito lavorava Sherlock.
Si avvicinò piano.
Era stata una sofferenza continua, con quel ragazzo. Fin dal primo momento si era resa conto che non le era affatto indifferente, ed ebbe un solo modo di spiegarsi il perché Holmes stesse antipatico a gran parte della gente, esclusa lei.
Sherlock le piaceva. Era così diverso dagli altri.
E davvero ci aveva provato a farsela passare, a ignorare la cosa, a guardare altri uomini, ma naturalmente non era servito a nulla. Anzi, aveva pure peggiorato le cose. Perché si era resa conto che anche negli altri uomini non faceva altro che cercare qualcosa che le ricordasse lui. Ma di Sherlock Holmes ce n’era uno solo al mondo, accidenti.
 
Negli ultimi tempi, però, andava meglio. Un giorno di poche settimane prima si era guardata allo specchio, gli occhi rossi e gonfi, la pelle chiara del viso magro striata di rosso per il troppo piangere: si era guardata e si era detta “Basta.”
Forse si era pure tirata uno schiaffo. Sarebbe stato molto da lei, doveva ammettere.
Quello stesso giorno aveva chiamato Sally Donovan, la sua unica amica in università, per un caffè e le aveva raccontato tutto. In realtà lei stessa sapeva bene di non essersi scelta l’interlocutore migliore, visto che Sally odiava a morte Sherlock – per un motivo, tra l’altro, che ancora non aveva compreso – ma almeno l’aveva aiutata. Aveva provato a mettere da parte il suo odio viscerale per cercare di darle qualche consiglio sincero.
“Molly, posso capire che tu abbia una cotta per lui,” aveva iniziato, per poi fermarsi a riflettere, “no, in realtà faccio fatica a capirlo… comunque… è tempo che ti lasci alle spalle tutto questo, o diventerai matta.”
Sally era più forte e indipendente di lei. Ed è per questo che a tanti non piaceva, soprattutto uomini – ma bisognava ammettere che l’antipatia era reciproca nella maggior parte dei casi.
“Sally, la fai facile tu. Non è uno schiocco di dita, decidi che te la fai passare e puff! succede…” aveva detto Molly, affondando il naso nel bicchierone di caffè. “Non funziona così.”
“Lo so, cara mia. Ma dimmi, cosa ci guadagni a trascinare avanti una cotta senza speranza?”
A quel punto l’altra aveva sollevato gli occhi verso di lei, spalancati e immensamente tristi.
“S-senza speranza?”
“Già.”
“E come fai a dirlo?”
“Come fai a non dirlo tu, piuttosto.” Aveva decretato la riccia, incrociando le braccia al petto.
“Non lo so,” aveva sospirato, “non sono esattamente un asso in questioni di cuore.”
“Nemmeno io, se per questo, frequento un ragazzo già impegnato che non riesce a decidersi tra me e la sua ragazza… cosa dovrei dire?”
E a quel punto Molly aveva riso, per la prima volta da giorni. “In effetti!”
“Ascolta, voglio solo farti capire questo. Sei una bella ragazza, Molly Hooper. Hai un sacco di opportunità che aspettano solo te. Non puoi perdere tempo in questo modo dietro a Holmes.”
“Ma tu lo dici solo perché ti sta sulle palle.”
La mora aveva sollevato gli occhi come a pensarci su: “Potrebbe essere un motivo, sì,” e aveva ghignato. “Ma no, non è solo per quello.”
“E allora cos’è?”
L’altra aveva sospirato. “Guarda, dopo questa sappi che mi devi almeno una birra, perché mi costa molta fatica.”
Molly l’aveva incitata a proseguire, promettendole non uno ma tre calici.
“Io vedo come ti guarda Sherlock e credo… che ti voglia bene. Ti tratta da stronzo come tratta chiunque ma con te… sicuramente ha dei riguardi. Il fatto è che è solo quello, nulla di più. Probabilmente ha anche capito cosa provi per lui ma è un dannato psicopatico e in queste cose non ci sa fare.”
“Non è uno psicopatico!”
Sally sollevò un sopracciglio, scettica. “Come vuoi. Ma in ogni caso, devi accettare il fatto che ciò che lui prova per te sia solo affetto. O almeno ciò di più simile all’affetto cui lui può arrivare.”
Molly la osservò per qualche secondo in silenzio, senza rispondere.
“Che c’è?!” scattò subito la riccia, sulla difensiva.
Molly ridacchiò: “Nulla, nulla. È solo che non pensavo lo osservassi tanto. Mi viene il dubbio che ti stia davvero così antipatico, sai?”
“Lui non mi sta antipatico, io non lo sopporto proprio.”
“Ma perché?”
Sally si era stretta nelle spalle. “Lasciamo perdere.”
 
Molly sorrise, scuotendo la testa divertita. Che tipa, Sally. Prima o poi avrebbe scoperto il motivo di tutto quell’astio…
“Cosa ti diverte tanto del laboratorio?”
La voce bassa e profonda che interruppe il filo dei suoi pensieri la fece sobbalzare sul posto. Emise un verso molto simile a uno squittio, lasciando cadere i fogli che aveva in mano. Chinandosi a raccoglierli, urtò col gomito un becker che rovinò a terra, col fragore tipico della plastica sulle mattonelle. Riemerse da quel marasma tutta scarmigliata: “C-ciao Sherlock.”
“Ciao,” rispose il ragazzo, guardingo. La osservò di sottecchi per un attimo: “Tutto ok?”
Molly sollevò gli occhi, stupita. Trovò a mala pena la voce per rispondere: “Sì, grazie. Tu?”
“Normale.” Rispose sbrigativo, guardandosi attorno in cerca di qualcosa.
Molly notò che i suoi modi erano bruschi, o almeno più bruschi del solito. Sollevava strumenti e boccette sempre più nervoso.
“Hai visto per caso…?” ma non finì nemmeno la frase.
Poi guardò dritto verso di lei. Gli occhi fissi su un punto all’altezza del suo viso. Allungò una mano avvicinandosi in fretta. Molly rimase inchiodata sul posto, dimenticandosi di respirare. La sua mano era sempre più vicina. Si attaccò al ripiano di marmo, le mani piccoline strette al bordo freddo.
Sherlock era davanti a lei. La mano all’altezza del suo volto.
“Permesso.” Mormorò, aprendo l’anta che si trovava esattamente dietro di lei.
Molly tirò un sospiro. Che sciocca. Ne aveva ancora di strada da fare, ma ce l’avrebbe fatta.
Magari un giorno lo schiaffo lo avrebbe tirato a lui, anziché a se stessa.
Si riscosse perché il ragazzo aveva rinchiuso l’anta con forza.
“Accidenti, ma possibile che qui non si trovi mai nulla?”
La ragazza intuì che forse non era il momento giusto per dirgli che la colpa per quel disordine era in gran parte sua.
Lo vide aggirarsi sempre più affaccendato nella piccola stanza, per poi esultare stringendo tra le dita sottili una provetta piena di un liquido verdastro. “Eccola finalmente! Stupida provetta.”
E in un nanosecondo si era già catapultato fuori dal laboratorio.
Molly si aggiustò la coda alta, facendosi forza per mettersi al lavoro: se possibile quel posto era ancora peggio di prima. Udì il fruscio di un foglio che finiva a terra; forse l’aveva perso Sherlock passando, forse era già lì ed era solo stato smosso dal suo agitarsi qua e là.
Lo tirò su guardando meglio: vi era riportato un calendario sbrigativo, fatto a mano, con le caselle di ottobre e novembre. Una serie di quadratini dal 12 ottobre in poi era crocettata in rosso fino al 27, data odierna. La casella seguente, quella del 28, era cerchiata plurime volte. Nessuna scritta, nessuna spiegazione.
La dottoranda vi si concentrò qualche minuto, cercando di capire a cosa potesse riferirsi quello strano countdown, ma non le sovvenne nulla. Forse un esperimento della sua ricerca di tesi.
Corrugò le sopracciglia confusa, per poi riappoggiare il foglio di fianco al microscopio di Sherlock.
“Chissà…”
 
***
 
Quello stesso giorno, verso sera, Arthur Pinner tornò a casa dopo una visita dal suo medico di fiducia.
“Tesoro, sono tornato!”
La moglie Agatha si affacciò dalla cucina, la testa tutta ricci cosparsa di farina. Si pulì in fretta le mani nel grembiulino arancione coi pizzetti che portava legato alla vita.
“E allora? Che ti ha detto?”
“Nulla di grave, a quanto pare! Mi ha prescritto un’ecografia all’addome, ma giusto come precauzione.”
“Oh, meno male, che sollievo. Ci hai messo tanto, però! Hai visto che ore sono?”
“Hai ragione, cara, ma non è colpa mia. Il dottore sembrava alquanto distratto oggi, ha messo due pazienti nello stesso orario e io ho lasciato la precedenza a una giovane signorina.”
“Ma… sul serio? Non è da lui. Il dottor Watson di solito è così scrupoloso…”
“Vero? Anche a me è sembrato molto strano. È stato anche un po’ scorbutico, devo ammettere.”
E a quel punto la donna rise di gusto.
“Vorrai dire più scorbutico del solito.”
Arthur fece un sorriso indulgente: “Non dire così, Agatha. È solo un uomo dai modi spicci.”
“Certo, come no. Guarda che vi vedo la mattina, sai? Tu sei sempre il primo a salutarlo quando va a correre, fosse per lui non direbbe ‘beh’! Quello è un asociale, te lo dico.”
E annuì da sola, come a convincersi maggiormente di aver ragione. In ogni caso suo marito non avrebbe potuto fare nulla per farle credere il contrario.
“Sarà, tesoro. Comunque è un ottimo medico.”
“Su questo non ci sono dubbi! Dai, vieni ad aiutarmi in cucina.”
 
 
To be continued
 
 
 
Note:
 
*Filo di Catgut. Per le suture chirurgiche possono essere utilizzati diversi tipi di filo, alcuni si assorbono naturalmente, altri vanno rimossi. Il filo di Catgut rientra nel primo tipo, con un tempo di riassorbimento di circa dieci giorni.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Ciao! Ben ritrovati :)
Grazie per essere ancora qui e seguire questa storia. Questo capitolo entra più nel cuore della vicenda… ma non parlerò oltre.
Vi lascio alla lettura!

 
 
Forgiveness
Capitolo 3
 
 
 
28 Ottobre
Sera tarda
 
John Watson entrò in casa dopo quella che era stata una lunga, lunghissima giornata.
Tolse subito scarpe e calze e andò diretto verso il frigorifero, beandosi del contatto con il marmo freddo del pavimento. Aveva corso più di un’ora tirando al massimo, e ora sentiva i polpacci tremare all’impazzata, togliendogli stabilità. Non gli capitava spesso di andare a correre di sera, ma quel giorno ne aveva decisamente bisogno.
Si appoggiò coi palmi sul tavolo della cucina, bevendo con calma e cercando di regolarizzare il respiro. Si spogliò prima ancora di arrivare in bagno, abbandonando maglietta e pantaloncini fradici in punti improbabili del salotto.
“I vantaggi del vivere da soli,” riconobbe, amaro.
Lasciò che l’acqua gli lavasse via il sudore e i pensieri che da qualche ora a quella parte sembravano non volerlo lasciare in pace.
“Respira, John. Respira.”
 
Di nuovo asciutto e profumato, si lasciò cadere sul divano in salotto, portandosi appresso una bottiglia di bourbon e il fedele bicchiere di vetro dal fondo spesso.
Guardò qualche secondo la bottiglia, come a decidere se aprirla davvero o meno. Propese per il sì. In fondo era un regalo e i regali non si possono non aprire.
Il bicchiere fu riempito quasi a metà, ma rimase saldamente attaccato al tavolino.
Watson si chinò in avanti, prendendosi la testa fra le mani. Lasciò che le dita si infiltrassero tra i capelli biondi e sottili, ancora umidi a tratti.
Sospirò, sfinito.
Che cazzo stai combinando, John?
Quello era stato il fatidico giorno della sua conferenza in università. Non si può negare che fu un successo: seppur non completamente piena, l’aula accolse moltissimi studenti e perfino qualche professore. Ma anche avesse avuto un pubblico più ristretto ne sarebbe stato soddisfatto, tanti furono l’attenzione e l’entusiasmo con cui venne accolta ogni sua parola.
Eppure, non fu quello a rimanergli maggiormente impresso.
John spostò una mano sugli occhi serrati, stringendo forte. Non riusciva a togliersi dalla mente quell’immagine.
 
Stava spiegando una delicata operazione chirurgica compiuta in un accampamento di fortuna, la testa sollevata in alto per confrontarsi man mano con le immagini proiettate sullo schermo alle sue spalle.
Si era voltato, e continuando a parlare aveva scandagliato la folla com’era abituato a fare. Per quanto non sentisse affine il lavoro di professore, non era mai spiacevole riconoscere l’interesse vivo sui volti degli studenti.
Poi, ad un tratto, lo vide.
I loro sguardi si incrociarono e incatenarono all’istante.
Sherlock era lì a seguire la sua lezione, la schiena dritta contro lo schienale della sedia, le lunghe dita sottili intente a giocare con la penna che per il momento aveva smesso di prendere appunti.
Aveva alzato gli occhi nel preciso momento in cui quelli di John erano atterrati su di lui.
Quest’ultimo udì la propria voce continuare l’esposizione, all’apparenza imperturbabile. Ma la percepiva come qualcosa di non suo, di estraneo. Il suo corpo faceva quello che doveva fare, ma la mente era da tutt’altra parte.
Era su Sherlock.
Aveva fatto una fatica immensa a tornare a terra. Era stato come cercare di tirare in basso un palloncino pieno di elio: la sua mente si rifiutava di focalizzarsi ancora sulla lezione. Ma aveva ricordato a se stesso il proprio dovere e, seppur con difficoltà, aveva spezzato il contatto visivo ed era andato avanti.
 
La mano sinistra andò infine ad afferrare il bicchiere. Ne bevve un lungo sorso prima di poggiarlo nuovamente.
Non aveva mai provato nulla del genere, e questo lo sconvolgeva.
Non era la prima volta che lo rivedeva dalla sera del loro primo incontro: Sherlock era dovuto tornare da lui per fargli controllare i punti sulla mano. Tuttavia, incontrarlo in università fu diverso.
Erano lontani, eppure quello sguardo lo aveva attraversato da parte a parte come una freccia, aprendogli una ferita che ora non sapeva come richiudere.
Ironico, detto da un medico.
Non era solo il colore impossibile di quegli occhi, di un azzurro chiarissimo che portava le striature verdi dell’acqua del mare. Sicuramente al mondo esistevano colori simili, ma gli altri non avrebbero avuto lo stesso effetto. Era l’intensità di quello sguardo, che lo aveva trafitto.
Ed è quello che succede quando uno sguardo esiste solo per noi, apposta per noi.
Sherlock stava guardando lui, e in quello sguardo gli stava parlando in un linguaggio che nessun altro avrebbe potuto comprendere.
Succede rare volte – se non una sola – nella vita di sperimentare qualcosa di simile.
Il cuore semplicemente fa bang! E sei fregato.
Non c’era nulla di romantico o sentimentale, ma solo la consapevolezza di parlare la stessa lingua e di volerla continuare a parlare.
Due da soli contro il resto del mondo.
 
Da lì, naturalmente, il senso di colpa.
Watson vuotò il bicchiere in una seconda lunga sorsata. Riempì di nuovo.
Se davvero stava ammettendo con se stesso che non gli era mai capitato nulla del genere, non poteva non chiedersi, di conseguenza, che fine facesse in tutto ciò Mary.
La donna che lui aveva sposato, che aveva guardato negli occhi pronunciando “Lo voglio”, cui aveva stretto forte la mano mentre lei giaceva incosciente sul lettino dell’ospedale. Quella cui aveva accarezzato con dolcezza i capelli, sperando (invano) che si svegliasse.
Dov’era Mary, in tutto questo?
L’aveva amata? Perché non riusciva a ricordare un momento in cui avesse provato la stessa cosa con lei?
D’improvviso, il sapore amaro dell’alcol gli venne a nausea. Poggiò il bicchiere urtando con forza la superficie del tavolino. Come sempre, lì di fianco stava aperto il computer.
Era finalmente riuscito a scrivere qualcosa, qualche giorno prima. Lesse la pagina sempre aperta, ora non più completamente bianca. Ma quello che vide non fece che fargli crescere il groppo in gola.
Richiuse di scatto il pc.
Abbandonò la postazione in salotto, spense tutte le luci e si infilò sotto le coperte. Premette forte la testa sul cuscino, come se quel gesto potesse compattargli i pensieri fino a disintegrarli. Sforzo inutile. Si girò a pancia in su, osservando il soffitto a occhi sbarrati.
Si preparò all’ennesima notte in bianco.
 
***
 
In quello stesso momento, al 221 di Baker Street, Mrs. Hudson si rigirò per la centesima volta nel suo letto. Afferrò a tentoni la sveglia sul comodino, constatando l’ora improponibile alla quale era costretta.
Quel disgraziato di Sherlock Holmes! Non poteva trovare un altro momento per suonare il suo violino?
Sbuffò di stizza, tuttavia mitigata dall’affetto che provava per il ragazzo, e si decise ad alzarsi. Almeno avrebbe sfruttato quelle ore di veglia obbligata in un modo che fosse utile a entrambi: preparando un bel tè caldo.
Salì le scale lentamente, per non disturbare. Si appuntò mentalmente che avrebbe anche potuto evitare di badare alla cortesia in un momento come quello, in cui era lei la parte lesa. Ma, dopo tutto, non era nelle sue corde nemmeno agire diversamente.
“Uh-uh!” pigolò, bussando appena sulla porta dell’appartamento B.
Sherlock interruppe improvvisamente la melodia, voltandosi confuso verso la donna.
“Mrs. Hudson, ma che ci fa qui? Non è ora che vada a dormire?”
“Mio caro, ci ho provato. E ce l’avrei anche fatta se lei non me lo avesse impedito suonando a quest’ora così tarda.”
“Ma cosa dice, se sono appena le… oh.”
Con espressione colpevole guardava il quadrante dell’orologio appeso in cucina.
“Mi perdoni, non mi ero reso conto.”
“Speravo non l’avesse fatto di proposito, in effetti!”
“Non riuscivo a dormire.”
“E come mai?”
“Ah, non ne ho idea.”
“No? Sicuro?”
“Che intende, mi scusi?”
“Nulla, nulla. Sa, magari la giornata al lavoro oggi è stata particolarmente impegnativa…”
“Non c’è stato niente di impegnativo nella giornata di oggi, discorso chiuso.”
“Come vuole!” rispose allegramente lei, versando il tè.
 
 
 
 
26 Novembre
Tardo pomeriggio
 
Trascorse un mese.
Tra Sherlock e John non venne più nominata quella lezione, per un timore – non esplicitato ma condiviso – di incappare in acque pericolose. Ma non per questo smisero di vedersi. Anzi, il mese di Novembre li vide consolidare maggiormente la propria amicizia, che assunse i tratti di un vero e proprio sodalizio professionale.
Sherlock prese l’abitudine a uscire prima dall’università e recarsi direttamente a casa del medico, che dal canto suo chiudeva lo studio a ore meno tarde che in passato, in modo da esserci per quando fosse arrivato il ragazzo. Quest’ultimo aveva cominciato a raccontargli della propria ricerca finalizzata alla stesura della tesi di dottorato, traguardo ormai prossimo, incalzato dalle domande di John che pareva provare un sincero interesse. Aveva anche saputo dargli qualche dritta degna di riguardo.
Tuttavia, la tesi divenne man mano una questione secondaria, dal momento che sempre più tempo veniva dedicato ai casi investigativi di Sherlock.
Era lì che John davvero si perdeva, ammirato. Si emozionava ai suoi racconti, voleva capire ogni singolo passaggio, ogni intuizione. Iniziò perfino a prendere appunti.
Fremeva dell’intimo desiderio di farne, un giorno, parte.
Il ragazzo, per contro, nascondeva il più possibile quanto gli facesse piacere tutto ciò. Tutte le volte che John lo fermava per chiedergli spiegazioni, lui ricordava quella mattina insieme fino a Baker Street, e ciò che il medico gli aveva detto. “Tienitelo stretto.”
Nessuno gli aveva mai parlato di “dono”, nessuno si era mai interessato a quello che invece era il suo vero sogno.
John Watson sì, e sembrava apprezzarlo proprio per quello.
 
Nei week end, in cui Watson era più libero, si concedevano una passeggiata nel parco. Di solito sceglievano Hyde Park perché era a metà strada tra le rispettive abitazioni: quel giorno non aveva fatto eccezione.
Era una domenica particolarmente fredda. Gran parte della gente si era chiusa in casa, a trascorrere al caldo la propria giornata di riposo.
Sherlock e John la trovarono ideale per una camminata proprio per quel motivo.
Chiudendosi la porta di casa alle spalle, il medico osservò un poco preoccupato il cielo coperto da grossi nuvoloni bianchi. Strizzò gli occhi per la luce intensa che si rifletteva ovunque.
“Più che piovere, al massimo nevica,” mormorò Sherlock, alzando gli occhi.
John notò che, se possibile, parevano ancora più brillanti del solito. Evitò di fare commenti a riguardo, e virò su una presa in giro: “Sì, vabbeh, adesso nevica a Novembre.”
Il ragazzo lo fulminò: “Scommettiamo?”
“Una birra?”
“Non mi piace molto la birra.”
John rise. “Non puoi scommettere un tè!”
“Un tè andrà benissimo,” annuì lui convinto, cominciando a camminare in direzione del parco.
L’altro scosse la testa divertito, rincorrendolo per rimettersi al passo.
Passeggiarono per una buona mezz’ora senza scambiare parola alcuna, perfettamente a proprio agio l’uno con l’altro.
Il parco era immerso nel silenzio, di quel silenzio pieno che si può ascoltare solo sotto la neve.
Ad un tratto, fu John ad accorgersi che nevicava per davvero. Sentì un lieve solletico al naso, che arricciò con l’intento di scacciare il fastidio.
“Ma che…?” borbottò, passandosi una mano sulla fronte, dove sentì l’identico pizzicorino. Le dita erano umide. In quel preciso momento, un altro fiocco atterrò sul suo palmo aperto: lo guardò sciogliersi al contatto.
“Sherlock, nevica!” esclamò voltandosi verso l’amico.
Il ragazzo stava lì, a pochi passi da lui, immobile. Il viso sollevato in alto, le labbra socchiuse in contemplazione. Le mani, libere dai guanti, erano unite a coppa all’altezza del petto.
Aveva qualcosa di infantile, e allo stesso tempo estremamente serio: quell’aria che possono avere solo i bambini quando sono davvero concentrati su qualcosa che li affascina.
Un sorriso sincero e luminoso si dipinse sul volto di John. Non riusciva a smettere di guardarlo. Si avvicinò a lui di qualche passo.
“Sherlock?”
“È bellissima, vero?”
“Già,” rispose John. Ma non guardava la neve.
Un fiocco più grande degli altri finì sul suo viso di porcellana, si posò sullo zigomo per poi sciogliersi e scendere lentamente lungo la guancia. Pareva piangesse. John la vide e ne ebbe paura: per la prima volta sentì che avrebbe fatto di tutto pur di non vederlo piangere.
Non ci pensò due volte e sollevò un dito verso di lui, scacciando via quell’ombra di lacrima. Non si era accorto dello sguardo intenso dell’altro, che inconsapevolmente stava trattenendo il respiro. Il contatto non durò più di un secondo, eppure sentì la pelle scottare là dove Watson lo aveva sfiorato. Era la prima volta che lo toccava al di là della medicazione alla mano.
Gli sembrò che il dito tremasse leggermente, nell’atto di allontanarsi dal proprio viso. Fece per dire qualcosa, quando il momento venne spezzato dall’abbaiare di un cane seguito dalle urla di una ragazza che cercava di richiamarlo a sé.
Sussultarono entrambi, colti alla sprovvista. In lontananza scorsero un pastore tedesco venire al galoppo verso di loro.
“Aki! Aki fermati!”
Il cane non dava segni di rallentare, anzi. Abbaiò più forte. Sherlock indietreggiò appena, con malcelato timore. Non lo facevano impazzire gli animali aggressivi. John notò i suoi movimenti con la coda dell’occhio. Quando l’animale fu abbastanza vicino, con un braccio spinse da parte l’amico e si gettò sulla bestia, che afferrò all’altezza del collo gonfio di pelo. Rotolarono di lato un paio di metri.
“John!”
Ma la preoccupazione di Sherlock si dimostrò infondata, poiché poco dopo si udì il medico ridere come un bambino.
“E smettila dai!”
Ghignava, agitando la mano chiusa nelle fauci del pastore tedesco. Si era tirato a sedere, il cane disteso sulle sue gambe gli impediva di alzarsi e al contempo reclamava il proprio dominio.
Li raggiunse finalmente anche la padrona. Tenendosi le ginocchia e ansimando per lo sforzo, riuscì a pronunciare qualche frase di scusa.
“Perdonatemi, è giovane anche se non sembra, appena lo lascio libero causa disastri!”
“La soluzione sarebbe non lasciarlo libero,” sentenziò Sherlock.
“H-hai ragione, ma sai… adora correre. Meno male che il tuo amico ci sa fare.”
A quel punto John alzò il viso verso di loro senza smettere di sorridere, e Akela ne approfittò per lavargli la faccia.
“E piantala, ho detto!” ma rideva.
“Scusatemi ancora, togliamo il disturbo. Aki, qui!”
Fortunatamente questa volta il cane rispose al richiamo, saltò via da Watson e si affiancò alla padrona. Quest’ultima li superò ricominciando a correre, le due lunghe trecce scure che spuntavano dal berretto colorato danzavano con lei, le guance rosse accaldate davano risalto agli occhi nocciola.
In breve sparirono dalla loro vista, sebbene l’eco delle loro voci continuò a risuonare per un po’ intorno a loro.
Ripresero a camminare.
Dopo un poco, John udì fievole la voce di Sherlock mormorare un “Grazie.”
“Di nulla… ma per cosa?”
“Per prima. Hai fermato il cane.”
Il medico abbassò gli occhi, forse arrossì. Era stato istinto, nient’altro. Non c’era bisogno di ringraziare.
“Comunque è vero, ci sai fare con gli animali.”
John tacque, sembrò scegliere con cura le parole: “Sai, Mary aveva un cane quando l’ho conosciuta.”
Sherlock si voltò verso di lui, lo osservò bene. Cercò di intuirne lo stato d’animo.
Erano entrati in un territorio delicato.
“Lei… ti manca?”
“È complicato.” Una pausa. “Sì, mi manca… cioè, ci sono aspetti di lei che mi mancano, parlare con lei mi manca, averla vicina, ma…” Sospirò. “Senti, non sono bravissimo in queste cose. Ne parliamo un’altra volta, uh?”
Sherlock acconsentì. In realtà la sua risposta gliel’aveva data, eccome. Ma non se ne era nemmeno reso conto.
 
Cominciò a farsi molto buio.
La neve caduta nel pomeriggio aveva ricoperto ogni cosa con un sottile strato bianco, che ora brillava alla luce della luna.
Concordarono che fosse meglio rientrare.
“Dai andiamo, ti riaccompagno a casa.”
“John, non ce n’è bisogno.”
“Insisto. È buio e sei da solo, non mi piace.”
“Ma per chi mi ha preso, per un poppante?”
Watson alzò un sopracciglio, guardandolo in faccia.
In tutta risposta, Holmes spalancò la bocca con aria oltraggiata.
“Questa me la lego al dito.”
“Lega, lega pure,” ridacchiò l’altro. “In ogni caso, da qui siamo comunque molto più vicini a casa tua che a casa mia.”
Lungo la strada si trovarono inondati dalla luce dei primi addobbi natalizi, che già iniziavano a decorare le vie e gli ingressi di ogni negozio.
Entrambi si trovarono costernati nel constatare che il Natale fosse ormai vicino.
“Non mi piace il Natale.”
“E come mai questo non mi stupisce?”
“Sul serio, John. Cosa c’è di bello nel Natale?”
“Mah, non saprei. Il clima di festa, la famiglia riunita, i regali… non ti dicono nulla?”
Ma Sherlock era predisposto all’attacco. “Perché, a te dicono qualcosa?” borbottò, per poi pentirsi un attimo dopo. “Scusami.”
“No tranquillo. Dopo tutto, è vero.”
“Allora lo capisci anche tu, no? A Natale chi è solo si sente ancora più solo.”
John lo guardò con espressione indecifrabile. “Ma tu non sei solo, Sherlock. Hai tuo fratello, i tuoi genitori. Mi hai detto tu che hanno insistito fino alla morte perché tu andassi da loro a Natale.”
“Questo non mi impedisce di sentirmi solo lo stesso… certe volte.”
E gli restituì uno sguardo altrettanto incomprensibile, se non per una richiesta silenziosa che Watson vi seppe leggere: Mi capisci, vero?
“Sì, capisco.”
Inconsapevolmente, si avvicinarono l’uno all’altro. I gomiti si sfiorarono più volte.
“Eccoci,” annunciò ad un tratto John, riconoscendo il portone.
“Vuoi salire?” chiese Sherlock a bruciapelo. Non che non avesse programmato di farlo, ma in quel momento gli sembrò la cosa giusta da fare.
L’altro tentennò. Non aveva ancora mai messo piede in quell’appartamento.
“Avanti, John. Mangi qualcosa e te ne vai, è pure ora di cena!”
“Disse quello che non mangiava mai,” rimarcò sarcastico.
“Per te farò uno sforzo. Va bene così?”
Il biondo lo squadrò scettico. Nella sua mente, ripercorse in fretta i fatti del pomeriggio. Un brivido lo attraversò.
“D’accordo,” sospirò.
Non notò il lampo che brillò negli occhi dell’altro, che si voltò prontamente ed entrò in casa.
In un secondo si materializzò davanti a loro Mrs. Hudson. “Ah, eccola finalmente!” esclamò allegra, senza troppe cerimonie. “Ho sentito tanto parlare di lei.”
Sherlock alzò gli occhi al cielo, cercando di sminuire l’entusiasmo della signora.
“Non badarci, John. Adora l’esagerazione.”
“Non credo proprio,” lo rimbeccò lei. “Forza, salite a scaldarvi. Ho acceso da poco il camino.”
Watson, che in tutto questo non aveva proferito parola, si limitò a seguire l’amico su per le scale.
Era parecchio curioso, in realtà, di conoscere il luogo in cui Sherlock viveva.
E l’appartamento andò ben oltre le proprie aspettative.
“Ti piace?”
“Molto, molto carino,” mormorò, guardandosi intorno. “Certo che sei proprio disordinato, però!”
Sherlock fece l’offeso. “È il tuo concetto di ordine, che è sbagliato.”
Lasciò poi che girasse un po’ per la casa, in esplorazione. Era certo dell’effetto che avrebbe avuto su di lui. Notò il suo sguardo soffermarsi sul coltello piantato sulla mensola sopra il camino, nonché sul teschio poco distante, e infine sulla poltrona a sinistra del camino.
Watson sfoderò un sorrisetto compiaciuto. Sembrava molto comoda.
 
Holmes attese il momento in cui si sedettero al tavolo della cucina. Mentre cenavano, tirò nuovamente in ballo la questione della stanza libera.
“Sai che potresti trasferirti qui, se volessi.”
L’amico rimase sul vago. “Ci penserò, sì.”
Ma non aggiunse altro sull’argomento.
Finirono di cenare in fretta, John pareva in attesa di ripartire.
Gettò uno sguardo sulla strada, scostando appena una tenda.
“Come ti trovi in università?”
Sherlock rimase un attimo interdetto, senza capire da dove gli fosse saltata fuori quella domanda.
“Né bene né male. Ci vado perché devo andarci.”
“Non hai amici?”
“Direi nessuno in particolare. Sai, alla gente non sto particolarmente simpatico. Mi ritengono un po’ eccentrico, immagino.”
John annuì, sovrappensiero. Seguiva un proprio filo logico, che all’amico rimaneva oscuro.
“Le persone lo fanno in continuazione, no? Categorizzano, ingabbiano…”
“Ed è questo che temi, John? La gabbia?”
Lui si voltò allarmato. Gli occhi blu si oscurarono.
“Adesso devo proprio andare. Ci vediamo domani?”
“Certo,” annuì il moro, accompagnandolo alla porta. Guardandolo allontanarsi, si morse il labbro inferiore.
Un bel mistero, quel John Watson.
 
 

 
15 Dicembre
Pomeriggio
 
Quel giorno, Watson fu costretto ad allontanarsi dalla propria tranquilla zona periferica per visitare un paziente che aveva chiesto espressamente di lui. Era già stato nel quartiere di Marylebone, naturalmente, ma ogni volta rimaneva folgorato dal lusso sfoggiato dai grandi palazzi che punteggiavano la zona. Nel periodo di Natale, poi, l’effetto era perfino decuplicato.
Lasciò l’abitazione dell’uomo – un semplice di caso di gastrite cronica – che era ormai pomeriggio inoltrato. La voglia di tornare a casa era forte, ma fu presto imbrigliata quando si rese conto che non si trovava distante da Baker Street.
Il suo cuore ebbe un piccolo tuffo.
Poteva fare un salto a trovare un amico.
L’idea fece capolino nella sua testa quasi casualmente, ma appena ne ebbe coscienza assunse l’aspetto di una vera e propria necessità.
Se c’era una cosa che da un mese a quella parte voleva davvero fare, ogni giorno, era vedere Sherlock Holmes.
Non riusciva a spiegarsi l’intensità di quella sensazione, eppure non poteva toglierselo dalla testa; e il solo sapere che l’avrebbe rivisto presto ebbe sul medico un effetto calmante.
Camminando a passo svelto, in men che non si dica fu davanti alla porta del 221B. Bussò esitando appena.
Immediatamente apparve davanti a lui la figura di Mrs. Hudson, sempre piena di vitalità, che non gli diede nemmeno il tempo di salutare ma lo fece entrare sommergendolo di parole.
“Che bello vederla, John! Cosa ci fa qui? Salga pure! Le porto un tè!”
“N-non si disturbi, Mrs. Hudson, sono solo passato per un saluto a Sherlock.”
“Oh, ma nessun saluto dev’essere troppo breve. Sherlock è fuori ma dovrebbe rientrare a momenti, lei si accomodi. E non mi faccia ripetere!” lo ammonì con aria bonaria, agitando un dito contro di lui.
John ubbidì – anche perché agire diversamente sarebbe stato difficile – ed entrò nell’appartamento al piano di sopra.
Osservò con circospezione la poltrona che tanto lo aveva affascinato la prima volta che era stato lì: la guardò come a chiederle il permesso di sedersi. Concluse che l’ok era stato concesso.
“Silenzio assenso, no?”
Era comoda come si era immaginato.
Il fuoco era già acceso nel camino e gli scaldava piacevolmente piedi e mani.
Holmes fece più tardi di quanto non si pensasse, ma per fortuna la padrona di casa seppe rallegrare l’attesa con un buon tè e il suo continuo chiacchierare.
Si misero al tavolo della cucina, in realtà riempito a metà dello stesso materiale che Sherlock teneva nel laboratorio in università.
“Sono proprio felice di vederla qui, John. Lo sa?”
“Ah sì? E come mai?”
“Perché Sherlock è meno scorbutico quando c’è lei intorno. Lo vedo più contento, sereno. È piuttosto raro trovarlo in uno stato simile.”
“Non stento a crederlo,” rispose il medico, cercando di nascondere con una battuta sarcastica l’imbarazzo che gli era salito ad ascoltare la signora. Un imbarazzo comunque mitigato da una punta di orgoglio.
Mrs. Hudson osservò di sottecchi le espressioni che attraversarono involontariamente il volto dell’altro, e sorrise.
“Prenda un biscotto!” lo invitò, porgendogli un piatto pieno di paste dall’aria squisita. “Ma uno solo, che altrimenti Sherlock se ne accorge.”
“Hanno un’aria deliziosa. Sfido chiunque a non esserne geloso!”
“Lei è troppo gentile. Ma deve sapere che lui va matto per i biscotti allo zenzero. Ucciderebbe per quelli.”
John ridacchiò.
“No, sul serio,” insistette la donna, senza lasciargli intendere se stesse davvero scherzando o meno.
Watson propese per far finta di nulla e addentò il biscotto con gusto.
“Mi raccomando, John. Lo tratti bene.”
Avrebbe voluto farci un’altra battuta su, chiedendo se si riferisse a Sherlock o al biscotto. Ma lo sguardo caparbio della donna lo frenò. Deglutì, colto alla sprovvista.
Lei proseguì: “Sa bene anche lei che coloro che dall’esterno appaiono tanto forti spesso sono quelli che hanno più bisogno che qualcuno abbia cura di loro. Capisce cosa intendo, immagino.”
E gli fece un occhiolino. John si sentì avvampare fino alla punta delle orecchie.
 
In quel preciso momento, udirono la voce baritonale del dottorando farsi strada su per le scale.
“John?!” lo chiamava, avendo capito che si trovava lì.
A quest’ultimo scappò una risata. Gli pareva un bimbo che torna a casa e cerca la mamma.
“Eccolo qui!” esclamò allegra Mrs. Hudson, facendo finta di nulla. Come se la loro conversazione non fosse mai avvenuta.
Sherlock irruppe nel salotto come un tornado. “State mangiando dei biscotti?”
Li accusò, palesemente offeso dal non essere stato incluso nella merenda fuori programma.
“Assolutamente no,” rispose prontamente la padrona di casa, che aveva già provveduto a nascondere il piatto dalla sua vista.
L’altro le restituì uno sguardo scettico. Ma prima che la disputa potesse proseguire, Watson notò qualcosa che non gli piacque per nulla.
“Ma che hai fatto sulla faccia?”
E si alzò di scatto, andando verso l’amico.
“Nulla di che, mi è arrivato un pugno… forse due…”
“… o tre,” completò per lui John, lo sguardo che si era fatto grave.
Mrs. Hudson lanciò uno dei suoi gridolini fievoli, ma non disse nulla. Sparì prontamente al piano di sotto, salutandoli di fretta. Per quanto preoccupata per Sherlock, non voleva intromettersi tra loro due. Li lasciò a sbrigarsela da sé.
“Dai siediti, fammi dare un’occhiata.”
“Non ce n’è bisogno.”
“E io come tuo medico sostengo il contrario! Forza.” Gli ordinò, indicando una sedia vicina al tavolo della cucina.
Sherlock rimase basito dal suo cambio di atteggiamento repentino. Un attimo prima così premuroso, quello dopo già così perentorio. E nessuno dei due gli dispiaceva, anzi.
Ubbidì con una docilità che non passò inosservata nemmeno a Watson. Ma in quel momento era più concentrato sul problema concreto, non aveva tempo da perdere con altre questioni.
“Hai l’occorrente per un pronto soccorso, suppongo,” mormorò, mentre il ragazzo prendeva posto vicino a lui.
“In bagno, anta di destra.”
“Ottimo.”
In un minuto era andato e tornato con tutto il necessario. Si era completamente immerso nel proprio dovere, dimenticando chi avesse di fronte. I suoi occhi non si staccavano dai segni sul viso dell’altro, che riportava un vistoso graffio vicino alla tempia e un livido sullo zigomo che stava assumendo una tinta violacea.
Gli salì una rabbia che tenne a bada a fatica.
“Chi cazzo ti ha ridotto così? Cos’è successo?”
La sua voce, abbassata di un tono, provocò al moro un brivido lungo la schiena.
“C’era un rissa in corso, mi sono inserito per aiutare un ragazzo.”
John cominciò a trafficare con cotone e disinfettante. “Immagino non si stessero prendendo a cazzotti in mezzo alla piazza. Adesso facciamo una scommessa…”
“Spara.”
Senza rispondere, John gli pose una mano sul viso, tra collo e mandibola, per tenerlo fermo. D’istinto, Sherlock si irrigidì. Sentiva le sue dita sfiorargli la nuca, mentre il pollice poggiava sullo zigomo sano. La mano era calda, rassicurante e salda contro il proprio volto.
Tentò di comandare al cervello di non farlo arrossire.
Passando con delicatezza il cotone imbevuto sul taglio, John riprese a parlare. La voce era appena udibile. “Scommetto che hai dedotto, per qualche ragione, che il ragazzo era nei guai. Scommetto che lo hai seguito per un tratto di strada, convinto che stesse andando dritto dal suo problema. Scommetto che hai atteso che la tua ipotesi venisse confermata, prima di gettarti nella mischia inutilmente. Scommetto che ti sei preso qualche pugno anche per lui.”
Il medico notò allora, guardandolo, che il ragazzo aveva chiuso gli occhi. “Allora, come sono andato?” lo incalzò.
Sherlock si riscosse. Per quanto l’argomento non lo entusiasmasse, la voce di John, unita alla sua mano sulla propria guancia, lo cullava piacevolmente.
“Massimi voti, caro il mio dottore. Ma il tuo racconto non rende giustizia.”
“Ah no?”
“No. Lo fai passare per un atto di generosità da parte mia.”
“E non lo è stato?”
“Per la seconda volta, no. Non sono un eroe, John. È solo che il mio cervello non può fare a meno di trarre delle logiche conclusioni da ciò che osservano gli occhi.”
“Nessuno ti costringeva a seguirlo.”
“Dovevo verificare di avere ragione.”
“Non ne avevi bisogno, già sapevi di aver ragione. Sai di aver ragione. Perché hai sempre ragione.”
Sherlock boccheggiò. “T-tu vuoi dipingermi a tutti i costi come una brava persona.”
“E tu vuoi passare a tutti i costi per una cattiva.”
Gli occhi chiari del ragazzo si sollevarono su quelli dell’altro. Un silenzio carico di tensione li avvolse come una bolla.
Watson gli era vicino, molto vicino. Aveva smesso di medicarlo, ma la mano sinistra era ben ancorata al suo volto. Sherlock la sentì tremare per una frazione di secondo, ma non interruppe il contatto visivo.
Il suo fu un movimento impercettibile, si sporse appena verso l’altro, che si chinò su di lui.
Si incontrarono a metà strada.
John catturò le sue labbra tra le proprie. Lo baciò piano, spostandosi davanti a lui, tra le sue gambe. La mano destra libera gli circondò il fianco sottile.
Sherlock lo attirò a sé, stordito da quel contatto ma desideroso di sentirlo ancora più vicino.
John gli morse appena il labbro superiore, bellissimo con la sua forma di cuore, e insinuò la lingua a cercare la gemella. La trovò, inesperta ma decisa.
Il bacio divenne presto profondo, intenso. Il respiro si fece pesante.
Sherlock percepì il corpo dell’altro premersi contro di lui, con le braccia magre gli circondò il torace.
Si udì un gemito.
Di chi, non avrebbero saputo dirlo.
Ma funzionò da campanello d’allarme per Watson, che si fermò all’istante, allontanandosi d’improvviso dal ragazzo.
Per un attimo non si sentirono che respiri insistenti riempire l’aria.
John lo guardò con occhi spaventati.
“P-perdonami, Sherlock. Non avrei dovuto.”
L’altro gli rispose a fatica. “Ma che stai dicendo?”
“Ho sbagliato. Io… non dovevo. Non posso coinvolgerti. È… sono un casino.”
Il moro si alzò in piedi, non capiva. Fece un passo verso di lui. “Ma mi hai visto, John? Non mi pare che tu abbia davanti una persona considerata normale.”
L’altro scosse la testa. “È diverso. Tu non sei anormale, sei speciale. Non puoi farti rovinare da uno come me. Accidenti.” Si infilò le mani tra i capelli. “Senti, io… devo andare. Perdonami, davvero.”
Sherlock non provò nemmeno a fermarlo. Troppi pensieri, troppe considerazioni gli vorticavano nella testa. Lo lasciò andare via, la mano serrata attorno alla maniglia della porta dell’appartamento.
Quando udì quella su strada chiudersi, si impedì di andare alla finestra. Si appoggiò con la schiena alla porta, facendosi scivolare a terra piano piano.
 
 

To be continued

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Ciao! Eccoci di nuovo qui, con quello che è l’ultimo capitolo di questa storia.
Vi lascio subito alla lettura, tenendo per la fine qualche nota di saluto :)
Buona lettura!
 
 
 
Forgiveness
Capitolo 4
 
 
 
15 Dicembre
Notte
 
Fu una notte tormentata e insonne per entrambi.
Sherlock non abbandonò il proprio violino un solo secondo. Una melodia triste, ora lenta ora incalzante, si librava nell’appartamento andando di pari passi con i suoi pensieri.
Questa volta Mrs. Hudson non ebbe nulla da ridire, consapevole che dovesse essere successo qualcosa di importante tra loro. Non era presente, ma aveva idea che il loro rapporto avesse subito una brusca svolta.
Il ragazzo non si dava pace, non riusciva a capire cosa avesse sconvolto tanto il dottore.
Cosa temeva davvero?
Nel blu delle sue iridi aveva letto la paura. Paura di Sherlock, di un suo rifiuto?
No.
Ad un tratto l’archetto scivolò in malo modo sulle corde sottili dello strumento. Una distrazione dovuta a un’improvvisa illuminazione. La melodia ricominciò sulle note volute.
John non temeva l’altro. Dopo tutto, era un soldato.
John aveva paura di se stesso.
 
Nello stesso momento, Watson si rigirava senza pace tra le coperte, incapace di prender sonno.
Guardò l’orologio: le tre.
Sbuffando, rinunciò e scese al piano di sotto. L’occhio cadde per un attimo sul secondo cassetto del comodino, ma si limitò a darsi dell’idiota.
Come altre volte, il pensiero andò allora alla bottiglia. Tuttavia, qualcosa questa volta lo frenò.
Un paio di occhi felini, color acquamarina, comparvero nella sua mente e bastarono a farlo sentire in colpa. Strano.
“Perfetto, ora non mi permette nemmeno più di bere.”
Si accasciò sfinito su una poltrona della sala. Poggiando le mani sui braccioli, si rammentò della sensazione provata compiendo lo stesso gesto all’appartamento di Baker Street. E si rese conto che lì aveva un sapore diverso, più dolce di quanto non ne avesse in casa propria.
Un sorriso amaro si dipinse sulle sue labbra sottili.
Vide il telefono abbandonato sul tavolino. Poteva chiamare Sherlock… no, pessima idea. Poteva chiamare Mike. Ma per cosa, poi?
Non avrebbe saputo raccontargli la propria paura. Lui non avrebbe capito. O forse sì, ma non era sicuro di volerlo.
 
Un piccolo germe oscuro gli si era piantato nel cuore da tempo. Il pensiero che fosse tutta colpa sua. Se non avessero litigato, quella sera, Mary non si sarebbe messa alla guida a un’ora così tarda. Era stanca, non avrebbe dovuto guidare.
Le cose erano precipitate più in fretta di quanto non si sarebbe potuto pensare. Il matrimonio era stato felice, all’inizio. Erano giovani, entrambi apparentemente convinti dell’amore che provavano l’uno per l’altro. Poi John era partito per la guerra: al suo ritorno non era più lo stesso. O meglio, nulla dentro di lui era cambiato; piuttosto, qualcosa che prima dormiva si era risvegliato.
Qualcosa che Mary non voleva vedere.
Qualcosa con cui neppure John aveva voluto fare i conti.
Finché la bomba, caricata a furia di silenzi, non era esplosa in una lite furibonda.
John si raggomitolò su se stesso, rivivendo nella testa ogni singolo momento di quella sera. Si premette le mani sulle tempie: se solo avesse avuto il coraggio.
Lo stesso che gli era mancato quel pomeriggio, quando era letteralmente fuggito via da Sherlock.
Non se lo meritava. Quel ragazzo non se lo meritava.
Solo a pensarci gli mancava il respiro.
Sherlock Holmes.
No, non poteva trascinarlo a fondo con sé. Avrebbe rovinato tutto, lo avrebbe fatto soffrire.
E lui non se lo meritava.
 
“Ho pensato che fossi una persona che valeva la pena di conoscere.”
 
Quella frase gli tornò in mente all’improvviso. Era la risposta che gli aveva dato Sherlock quando, durante uno dei tanti pomeriggi trascorsi insieme, gli aveva chiesto la prima cosa che avesse dedotto di lui.
Holmes aveva visto qualcosa in lui. Qualcosa per cui “valeva la pena.” Che cosa diavolo era?
Una piccola lucina si riaccese nel suo cuore. Una scintilla che aveva i tratti della speranza.
Afferrò il telefono prima di avere il tempo di cambiare idea e digitò il numero di Stamford.
Al secondo squillo riattaccò, insultandosi per quell’attimo di debolezza.
Ma per fortuna Mike era un buon amico. Il telefono di Watson iniziò a vibrare qualche secondo dopo.
“Pronto.”
“Ehi, amico! Che ci fai sveglio a quest’ora?”
John sorrise. Stamford era davvero una brava persona. Glielo disse.
“Grazie. Ma non penso tu mi abbia chiamato alle tre e mezza di notte per farmi i complimenti,” disse con la voce impastata di sonno e quella che sembrava una risata.
“No, in effetti…”
“E dunque?”
“Scusami, ti lascio dormire.”
“Non dire cazzate! Adesso sputi il rospo o giuro che vengo lì e sfondo la porta a calci.”
“Aiuto. No, non stare a scomodarti…” sospirò, “niente, stavo riflettendo su un po’ di cose e volevo farti una domanda.”
“Benissimo, dimmi.”
“Perché credi che qualcun altro potrebbe considerarmi una persona che vale la pena di conoscere?”
Silenzio. Poi una risata.
“Ehi! Se devi fare il coglione riattacco.”
“No, no! Perdonami. È che a volte sei proprio scemo, amico.”
“Grazie tante.”
“Senti. C’è solo una cosa che posso dirti ed è questa: devi darti una possibilità.”
“Come, prego?”
“Ascolta. So cosa hai passato dopo… la morte di Mary. Lo so perché sono l’unica persona con cui hai parlato in tre mesi, e questo già dice tanto…” Una pausa. “Non puoi condannarti per sempre, John. Se finalmente hai incontrato qualcuno che ti fa stare bene, che ti conosce e ti apprezza proprio per quello che sei… e se quella persona è la stessa che tu desideri render felice… non puoi buttare tutto all’aria. Non per stupida codardia.”
Watson accusò il colpo.
“Mi stai dando del codardo?”
“Certo.”
“Pfff”
Mike sentì l’amico scoppiare a ridere.
“Vedo che hai capito.”
John annuì come se l’altro potesse vederlo.
“E ora dimmi, volevi davvero chiamare me?”
“E chi altro avrei dovuto chiamare?”
“Ah, lo sai solo tu. Io però ora torno a dormire, o domattina la tieni tu la lezione al posto mio.”
“Non ci penso proprio… Grazie, Mike.”
“Lascia stare, va’. E dormi un po’ anche tu.”
Chiuse la chiamata.
John inspirò profondamente, cercando di riordinare i pensieri.
Voleva chiamare qualcun altro? Più che chiamarlo, voleva vederlo. Vista l’ora, decise saggiamente di rinviare ogni mossa al giorno seguente.
Automaticamente il suo sguardo cadde sull’anello poggiato come sempre sul tavolino vicino all’ingresso. Annuì a se stesso. Forse era giunto il momento di riporlo una volta per tutte: non come una cosa da nascondere, ma come un capitolo da chiudere.
 
 
 
 
16 Dicembre
Pomeriggio
 
Molly Hooper era nel laboratorio che condivideva con gli altri dottorandi di Stamford.
Tutta concentrata sul vetrino che stava analizzando, udì all’improvviso un fragore di vetri infranti.
Sussultò lanciando un gridolino acuto.
“Sherlock!”
Il ragazzo, intendo a lavorare nel proprio angolo, si era appena fatto scivolare di mano un set di provette.
“Ops,” mormorò lui con finta noncuranza, tentando di dissimulare il disagio.
Molly accorse ad aiutarlo. Per una volta, sembrava lei quella in vantaggio.
“S-stai bene? È tutto il giorno che sei distratto… assente.”
“Sì, sto bene,” rispose, senza nemmeno guardarla negli occhi. A quel punto, Molly si irritò.
“Ehi. Sarò più lenta di te, ma non stupida. Smettila di trattarmi come tale.”
Sherlock pose lo sguardo su di lei, colpito. “Scusami.”
Era sincero, ed ebbe l’effetto di ammorbidirla.
“Senti, perché non vai a casa?” poi si morse la lingua, andando nel panico: “Non voglio cacciarti! Solo che… insomma… non fa niente se per una volta esci un po’ prima, no? Vai a casa, ti riposi, parli con qualcuno…”
“E cosa dico a Stamford?”
“Non preoccuparti, ci parlo io.”
Sherlock si arrese senza ulteriori rimostranze. In realtà le era molto grato, ma come sempre faceva fatica a mostrarglielo apertamente.
“Se tutti i criminali avessero una Molly Hooper che costruisce alibi per loro, sarei fregato.”
“C-come?”
“Niente, niente. Grazie per quello che fai.”
“Per così poco…”
Lui sorrise. “Non sottovalutarti, Hooper, solo perché io tendo a compiere questo errore.”
Molly avvampò.
“Ok. Ma adesso vai, su!”
 
Il viaggio di ritorno a casa gli parve brevissimo, concentrato com’era sulle proprie elucubrazioni.
Non notò nemmeno la neve che aveva preso a scendere, leggera e silenziosa.
Gli si depositava sui capelli e sul cappotto scuri, creando un bel contrasto.
Solo quando si trovò davanti al 221B di Baker Street si fermò a osservare il cielo, il bianco delle nuvole appena tinto dal rosa del tramonto.
Sorrise, era bello.
La sua contemplazione venne interrotta dallo squillo del cellulare.
Arricciò con disappunto il naso infreddolito.
“Mycroft,” scandì, rispondendo alla chiamata.
“Ciao, fratellino.”
“Che vuoi?”
“Affabile come tuo solito. Volevo solo sapere come stai.”
“Certo, e immagino che in questo Mrs. Hudson non centri nulla.”
“Non capisco proprio di cosa tu stia parlando.”
Sherlock grugnì.
“Mmh, interessante.”
“Ripeto, Mycroft. Cosa vuoi?”
“Ti darò un consiglio, fratellino…”
“…che nessuno ti ha chiesto.”
L’altro lo ignorò. “È da quando eri solo un poppante che ti metto in guardia sugli esseri umani.”
’Scegli bene di chi fidarti,’” lo scimmiottò il più piccolo, interrompendolo di nuovo. “Sì, rammento, grazie.”
“Esattamente. Ho fatto in modo che imparassi a discernere al meglio le persone da metterti a fianco.”
“Mi sto irritando.”
Mycroft alzò impercettibilmente la voce. “Immagino quindi che nella tua mente l’errore non sia contemplato.”
Sherlock si azzittì. Aprì e chiuse la bocca senza emettere suono.
Dall’altra parte del telefono, suo fratello ghignò. Il messaggio era arrivato.
“Ovviamente non è contemplato,” rispose finalmente, per non lasciargli l’ultima parola.
“Ottimo. Ti saluto, fratellino.” E attaccò.
Sherlock sollevò ancora una volta il viso al cielo, osservando i morbidi fiocchi volare giù lentamente, come al rallentatore. Tese una mano per raccoglierne qualcuno sul palmo.
Sorrise ed entrò in casa.
 
Come al solito sfilò cappotto e sciarpa, appendendoli all’attaccapanni nell’ingresso.
Come al solito, attese un paio di secondi nel caso Mrs. Hudson avesse voluto dirgli qualcosa.
Come al solito, non sentendola, si accinse a salire le scale che lo separavano dal proprio appartamento.
Una serie di gesti abituali e consolidati che tuttavia in quel momento assunsero una sfumatura nuova. Un presentimento si era impadronito di lui, avvolgendolo come una veste calda: una semplice sensazione che nulla aveva a che vedere con la logica, ma che ora aveva il sapore della certezza.
Nella mente di Sherlock, una sola immagine fu evocata in risposta a quello stimolo meramente sensoriale. E in quell’immagine, ore di silenzi e turbamenti vennero spazzati via come se non fossero mai esistiti.
Un nome si articolò sulle labbra del giovane, che si limitarono a tracciarne i contorni senza darne forma definitiva.
Salì i gradini di fretta, ma si bloccò davanti alla propria porta.
L’errore non è contemplato.
In pratica voleva dire: non puoi esserti sbagliato.
Strinse la mano abbandonata lungo il fianco a pugno e si fece forza.
 
Il calore del fuoco acceso e un delicato profumo di legna lo investirono inebriandogli i sensi.
La luce tiepida delle fiamme illuminava lo spazio davanti al camino, avvolgendo le due poltrone in un alone rassicurante. Al centro, seduta per terra, riconobbe una figura ben nota che si voltò verso di lui non appena ebbe messo piede nella stanza.
Il suo cuore mancò un battito. A volte è difficile accettare che qualcosa che si desidera nel profondo stia accadendo per davvero.
“John?” mormorò, la voce profonda un poco incerta.
“Ehi.”
Un sorriso lieve sulle labbra sottili, negli occhi un misto di tristezza e sollievo.
“Che ci fai q– ma quelli sono biscotti?!
“Zenzero.” Rispose prontamente John, e rise.
“Vuoi corrompermi?”
“No. Voglio scusarmi perché sono stato un coglione.”
Sherlock sentì una lieve fitta al cuore. Si confuse, balbettò qualcosa, forse arrossì.
“Dai, siediti,” gli disse l’amico, battendo piano una mano sul tappeto morbido e spesso. Il blu delle sue iridi, perso il velo che lo oscurava, scintillava ora al danzare delle fiamme.
Per entrambi non era facile trattenere dentro la gioia di rivedersi. Parevano secoli ed era appena un giorno.
Sherlock, ancora una volta, obbedì al suo dottore.
Incrociò le lunghe gambe sottili, le dita affusolate si concentrarono sui ghirigori del tappeto, percorrendone i contorni.
John lo osservò con la coda dell’occhio. Era affascinante perfino quando immerso in gesti tanto semplici.
Lasciarono che il silenzio dominasse per un po’ tra loro, interrotto solo dal crepitare del fuoco. Alla fine fu Sherlock a prender parola.
“Non devi scusarti.”
“Sì invece, Sherlock.”
Quest’ultimo alzò il viso. Non si era mai reso conto di quanto amasse il proprio nome quando pronunciato da lui. Aveva una dolcezza spiegata solo dalla premura di John nei suoi riguardi.
“Devo scusarmi per una marea di motivi. E uno è che ho dubitato di te.”
“Di me? In che senso?”
“Ho creduto che avessi preso un abbaglio con me. Sinceramente, spesso mi sono chiesto cosa ci vedessi in me che ‘ne valesse la pena’. Perché io sono il primo a non vederlo…”
Una piccola pausa. Sherlock attendeva.
“…come non ho voluto vedere tante altre cose.”
Si avvicinarono un poco l’uno all’altro. Le mani piantate sul tappeto si sfioravano.
“Cos’è che non volevi vedere, John?”
Questi lo guardò con i suoi grandi occhi espressivi. Si immerse nello specchio d’acqua che erano le iridi brillanti dell’altro.
È come un tuffo nell’acqua, John. Non devi temerlo. Sono acque sicure.
“Quello che ho iniziato a provare per te,” rispose, sempre più piano. “Quello che provo tuttora.”
Sherlock si augurò che non potesse sentire il proprio cuore battere furiosamente.
“La paura non ci serve, John. Non a noi due, non per noi due.”
E prima che l’altro potesse ribattere, annullò la distanza fra loro.
Fu un bacio lieve, a fior di labbra, timoroso nonostante lo slancio.
Watson non lo lasciò allontanare di nuovo; lo abbracciò stretto affondando una mano tra i suoi ricci corvini che gli solleticavano il collo e il volto.
Aveva un’aria tanto fragile, così. Il cuore sembrò suggerirgli che erano davvero fatti l’uno per l’altro.
“Potrebbe essere così tutti i giorni.”
Sherlock, in tutta risposta, si divincolò con delicatezza dall’abbraccio. Gli prese il viso tra le mani, improvvisamente energico.
“Ripetilo.”
“C-che cosa?”
“Ripeti quanto hai appena detto.”
“Potrebbe essere così tutti i giorni.”
Holmes lo fissò intensamente, socchiudendo gli occhi. “Stai accettando la camera,” decretò serio, come se interpretare la sua frase avesse comportato uno sforzo notevole.
John rise, ponendo le proprie mani su quelle dell’altro, ancora sul proprio viso: “Sì, intendo quello.”
“E risolveremo i casi insieme,” continuò lui, sempre serissimo.
“E io ne scriverò dei libri.”
“Usando uno pseudonimo. Magari un nome che inizia con la H…”
“Sherlock, userò il mio nome, che è John. E no, non ti dirò mai per cosa sta la H del mio secondo nome.”
“Peccato, valeva la pena di tentare.”
 
 
 
 
25 Dicembre
Mattina
 
Il primo sole del mattino filtrava tra le imposte sottili. Alcuni raggi birichini giocavano sul volto del giovane uomo, addormentatosi la notte prima in una posizione scomposta e decisamente poco comoda. Risvegliato dal calore inatteso, strizzò a lungo gli occhi contornati da ciglia biondissime, prima di portare la mano sinistra sul viso, a mo’ di schermo.
L’altra mano accarezzava piano un lembo di pelle calda e levigata. John Watson sorrise.
Sherlock si era addormentato abbracciato a lui, le gambe sottili intrecciate alle sue, la testa posata sul suo torace.
Il suo corpo affusolato aderiva perfettamente a quello di John, riempiendo uno i vuoti dell’altro.
Sentì l’improvvisa necessità di baciarlo.
Come se avesse potuto ascoltare i suoi pensieri, Sherlock si mosse su di lui, risvegliandosi piano. Sollevò il viso contornato di neri ricci arruffati, che tanto contrastavano sulla sua pelle chiara. A fatica aprì gli occhi per specchiarsi in quelli dell’altro.
“Buongiorno,” gli sussurrò John, senza riuscire a smettere di sorridere. “Lo sai che sei bellissimo, sì?”
In tutta risposta, Sherlock mise il broncio: “Smettila.”
Adorabile.
“Sto solo esprimendo un dato di fatto,” disse Watson, mordendogli il labbro inferiore.
“La bellezza… non è… un dato… oggettivo,” rispose lui, tra un bacio e l’altro.
L’atmosfera si scaldò in fretta. John si tirò su ribaltando le posizioni e stendendosi sul compagno. Le loro gambe si intrecciarono nuovamente.
“Allora lasciami dire qualcosa cui non potrai ribattere: Buon Natale, Sherlock.”
Sulle sue labbra si dipinse un piccolo sorriso. “È un augurio senza senso… però… Buon Natale anche a te, John.”
E a lui sembrò bastare. Si chinò per impossessarsi ancora una volta della sua bocca perfetta.
I bacini cozzarono provocando a entrambi scariche di piacere. Sherlock gli circondò le spalle tra le braccia, stringendolo a sé.
John sentì vacillare il proprio controllo. Si premette maggiormente sull’altro, passando a torturargli il collo con labbra e denti. Le gambe del moro si strinsero alla sua schiena. In tutta risposta, emise un ringhio basso e roco.
“John,” fu invece il gemito che abbandonò le labbra dell’altro.
Il biondo trovò la forza di guardare l’orologio: i loro amici non sarebbero arrivati che tra qualche ora.
“Abbiamo tempo.” Sentenziò, con fare cospiratorio.
Sherlock sorrise.
“Tutto il tempo che vogliamo, per sempre?”
“Per sempre.”
 
 
 
The End
 
 
 
 
Voglio solo concludere ringraziandovi di cuore per essere arrivati fin qui!
Un grazie speciale a chi ha speso del tempo per una recensione, è sempre bello avere un riscontro, indipendentemente dal fatto che sia positivo o negativo.
Just to say, credo che pubblicherò un epilogo come capitolo separato, ma è tutto ancora un working in progress!
A presto, spero
Izu
 
 

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