La donna che camminava nella nebbia

di Jordan Hemingway
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Primo Capitolo ***
Capitolo 2: *** Secondo Capitolo ***
Capitolo 3: *** Terzo Capitolo ***
Capitolo 4: *** Quarto Capitolo ***



Capitolo 1
*** Primo Capitolo ***


Capitolo Primo
 

Padova, 1 dicembre 1855
 
Al Dott. Attilio Manin:
 
La storia che ho riportato su questi fogli di diario potrà sembrarvi la narrazione di un pazzo, una favola al pari di quelle con cui le nostre balie amavano spaventarci nelle lunghe sere d’inverno trascorse davanti al fuoco.
Eppure, nonostante io cerchi di ridare un ordine a questi eventi, mi accorgo che è impossibile per me riportare gli avvenimenti degli scorsi mesi in Italia e in Francia a un qualsiasi tipo di ragionamento logico. La nostra scienza è venuta meno al suo compito e quel che mi rimane è solo oscurità e nebbia.
 
Amico mio, in nome di tutto quel che avete di più caro: portate in salvo queste memorie e il mio ricordo.
 
Clemente Bedin
 
 

Padova, 3 novembre 1855
 
Dire che gli avvenimenti di oggi non mi hanno turbato sarebbe una menzogna.
All’alba la vecchia Agnese era venuta a chiamarmi tutta in agitazione: un ufficiale era in mia attesa in soggiorno, nello spazio che utilizzo come ambulatorio in attesa di miglior sistemazione.
L’uomo si presentò come Giulio Valle, tenente, in servizio presso Palazzo delle Debite[1], dove un prigioniero aveva passato una notte talmente agitata da rendere necessaria la presenza di un medico.
“Non dorme e non mangia,” mi spiegava il tenente Valle, “e in certi momenti ha delle crisi, non saprei come chiamarle, in cui urla in francese o in non so quale lingua straniera...”
“Il prigioniero è francese?” Chiesi, ancora assonnato, mentre cercavo di preparare la borsa degli strumenti medici senza dimenticare nulla.
“Italiano, tale Ruzzante Leone. Un vostro collega: dottore a Parigi, dove ha sviluppato un amore troppo forte per le tavole da gioco” ironizzò il tenente.
Un amore che era senz’altro la causa del suo soggiorno alle Debite, dedussi. Era comunque strano che i suoi carcerieri si fossero attivati a quell’ora, quando nemmeno le nebbie notturne che avvolgevano la città erano ancora state scacciate dal sorgere del sole.

Uscendo in strada mi avvolsi stretto nel tabarro: l’umidità, unita al gelo dell’inverno incombente, penetrava fino alle ossa. Il tenente mi imitò e infilò le mani screpolate dal freddo nelle tasche del mantello di lana verde[2]. Insieme ci avviammo a passo svelto lungo le vie lastricate di ciottoli e sotto i portici da dove spuntava occasionalmente qualche figura umana: lavoratori in procinto di cominciare la giornata o gaudenti sul punto di concluderla. Incrociammo un paio di donne che, gettati gli occhi sull’uniforme di Valle, si affrettarono a scomparire verso il quartiere Portello[3]: riuscii a intravedere sprazzi di trucco eccessivo e abiti succinti.
I merli e le arcate eleganti del Palazzo della Ragione, sede della congregazione municipale, stridevano se comparati allo squallore dell’edificio accanto: Palazzo delle Debite era un rettangolo tozzo, sormontato da un torrione e circondato da un piccolo cortile dove i prigionieri uscivano a volte per l’ora d’aria, mi informò il tenente Valle mentre ci avvicinavamo. Una prigione per debiti nel cuore della città, il vizio accanto alla legge: la cosa mi aveva affascinato fin dal primo momento che avevo messo piede a Padova.

Guidato da Valle oltrepassai l’ingresso e salii la scalinata di pietra grezza.
“Quassù teniamo le camerate maschili,” spiegava il tenente, “ma dalla scorsa notte Ruzzante è stato trasferito in una stanza singola, per evitare...”
“Per evitare un contagio in caso di febbri malariche, dico bene?” Conclusi secco: la chiamata di un medico prima dell’alba poteva essere giustificata solo da un timore di contagio non solo per gli altri prigionieri ma soprattutto per la guarnigione. Se questo Ruzzante fosse stato un pazzo come tanti lo avrebbero consegnato al manicomio di Venezia senza tante cerimonie.
Valle annuì e mi indicò una porta all’angolo del corridoio, tanto piccola che dovetti piegarmi per entrare all’interno della cella.
Lo spazio disponibile era quasi del tutto occupato da una branda militare e da un tavolo di legno consumato, sul quale era stato posto un vassoio di cibo ancora intatto. Un’unica finestra dalla quale la luce grigia del mattino entrava gettando le ombre delle sbarre di ferro sul pavimento sporco.

Attorcigliato nelle lenzuola lise il prigioniero, Leone Ruzzante, respirava a fatica: viso magrissimo, emaciato, tranne che per due chiazze rosse sugli zigomi, segno inequivocabile di febbre in corso assieme al sudore che gli scendeva a rivoli lungo le tempie dai capelli biondi e sporchi.
Teneva gli occhi chiusi e si agitava nel letto, borbottando parole in quello che poteva essere francese o dialetto teutonico per quel che me ne intendevo.
Gettai la borsa sul tavolino e iniziai a estrarre i miei strumenti.
“Dottore, posso contare sulla sua discrezione?” Il tenente Valle era sulla soglia, chiaramente non intenzionato ad avvicinarsi a un possibile caso di malaria. Come dargli torto del resto?
Alzai le spalle. “La mia priorità è la salute del paziente, non è nel mio interesse diffondere la notizia e allarmare la popolazione inutilmente.” Fissai il tenente negli occhi. “Dopo avrò bisogno di esaminare i prigionieri che erano nella sua camerata e i soldati addetti alla loro sorveglianza. Se troverò motivo di preoccupazione dovrò tuttavia informare le autorità comunali.”
“Certo, ovviamente.” La postura del tenente si rilassò un poco. “Ora la devo chiudere qui dentro: mi dia una voce quando ha finito.” La porta fu serrata alle mie spalle: per un istante mi sembrò di capire lo stato d’animo dei condannati a vita.

Scacciando quel pensiero tornai al mio paziente: senza dubbio era nel pieno di un attacco di febbri ma per scoprire se si trattasse effettivamente di malaria avrei dovuto esaminarlo meglio. Gli presi un polso, sottile tanto da sembrare un semplice osso ricoperto di pelle cadente: il battito era alto, troppo perfino per una febbre malarica. Mi accorsi che aveva smesso di borbottare e che aveva aperto gli occhi: mi fissava con intensità, i suoi occhi erano una lama verde non intaccata da febbre o follia: erano probabilmente l’ultimo residuo dell’uomo che doveva essere stato in passato, prima di finire delirante in una cella.
Interruppi il mio esame.

“Chi siete?” La domanda che avrei voluto porre mi fu rivolta dalla voce arrochita del prigioniero.
“Clemente Bedin, dottore in medicina. Mi hanno detto che siete stato, siete, anche voi un medico.”
Il malato annuì. “Leone Ruzzante, medico presso l’Università di Parigi.”
“Allora siete senz’altro in grado di darmi maggiori informazioni sul vostro stato: da quanto tempo avete questa febbre? Siete stato a contatto con...”
Un cenno della sua mano mi impose di tacere: colsi nei suoi occhi qualcosa di strano, sembravano fissi su una visione che non aveva nulla a che fare con quella stanza.
“Ero medico, sì,” proseguì debolmente ma con tenacia, “ho studiato a Parigi, assieme a tanti altri come me, attirati dalle scoperte e dagli inviti dell’imperatore verso le migliori menti d’Europa. Mia madre era francese, grazie a lei ho imparato quella lingua che mi ha permesso di proseguire gli studi a livelli impossibili in Italia.”

Lo lasciai parlare: vedevo che il ricordo pareva calmarlo, respirava più lentamente e il battito era migliorato. Mi resi conto di avere ancora la mia mano sul suo polso e con dolcezza mollai la presa.
“I miei studi si erano concentrati sulle condizioni di salute dei contadini francesi, in particolare a nord di Parigi, dove i raccolti spesso sono soggetti a carestie e alluvioni: le nuove leggi avevano incoraggiato noi officiers de sainté[4] a prendere servizio in alcuni villaggi, per curare gli abitanti e approfondire la conoscenza di certe malattie diffuse in quelle terre. Così mi sono ritrovato a Lières-au-Bois.”
“Avete soggiornato a lungo in quel luogo?”

Improvvisamente il suo respiro si fece affannato: mi prese una mano con forza insospettabile e mi trovai a meno di qualche centimetro dal suo viso.
“La nebbia avvolgeva ogni cosa, dottore. Ogni cosa, compreso il cuore degli uomini: solo nella notte e nella nebbia lei si sentiva sicura.”
I suoi occhi non abbandonavano i miei nemmeno per un istante.
“Di chi state parlando?” Sussurrai.
Si gettò all’indietro sul letto e iniziò a gemere e ad agitare braccia e gambe, rischiando di spezzare la branda vecchia e traballante. Mi gettai alla porta e chiamai Valle: insieme riuscimmo a fermarlo e sedarlo con una dose di morfina sufficiente a farlo dormire per l’intera giornata.
Valle mi assillò di domande concernenti lo stato di Ruzzante ma non ero in condizione di rispondere: il colloquio con quell’uomo mi aveva turbato e non ne capivo la ragione.

Avevo tuttavia dei doveri da assolvere in quanto medico e pertanto mi feci portare alla camerata dove Ruzzante aveva trascorso la sua prigionia fino alla notte precedente. Nessuno dei carcerati sembrava affetto da sintomi di malaria ma per esserne sicuri ordinai al tenente Valle di non farli uscire per qualche giorno e di comunicarmi immediatamente qualsivoglia cambiamento nel loro stato di salute.
“E per quanto riguarda Ruzzante?” Mi domandò il tenente.
“Verrò domattina per ulteriori esami: non sembra malaria ma non si è mai troppo certi.” A dire il vero i sintomi di Ruzzante sembravano più materia per alienisti che non per medici normali: avevo però il timore che se Valle e la guarnigione lo avessero saputo mi avrebbero congedato e avrebbero ritrasferito l’uomo nella camerata comune oppure in un manicomio, un’idea che mi ripugnava in quanto avrebbe significato tradire un collega medico.
Inoltre ero rimasto con un quesito: che cosa era successo in Francia a Leone Ruzzante?
 
 
[1] Palazzo delle Debite, o Debite, era una prigione per debitori situata vicino a Palazzo della Ragione a Padova: nel 1874 è stata chiusa e ristrutturata a scopo commerciale da Camillo Boito, perdendo del tutto l’aspetto originale. Nelle foto d’epoca si può infatti notare che la prigione era un edificio basso, lungo e massiccio, mentre invece l’attuale Palazzo è una cosa molto gotica (e molto cool) con colonnine e archi.
(http://www.lavecchiapadova.it/02-TESTI/BASILICATA/PAGINE/IL%20PALAZZO%20DELLE%20DEBITE.htm)
[2] Il colore del mantello di Valle lo identifica come un soldato del corpo italiano al servizio dell’esercito asburgico – in quell’epoca Padova era sotto dominazione austriaca della monarchia Asburgo, le cui uniformi erano bianche per gli ufficiali e azzurre per i soldati da quel che sono riuscita a ricostruire.
(http://associazione-legittimista-italica.blogspot.com/2013/04/imperiale-reale-esercito-austriaco-le.html)
[3] Uno dei quartieri più antichi di Padova e uno dei più animati, in seguito all’apertura del tratto di ferrovia Padova-Mestre a metà Ottocento e alla conseguente crisi del commercio fluviale diventò un posto malfamato. Oggi è una delle più vivaci zone universitarie.
(https://www.blogdipadova.it/tour-nella-padova-gotica-dell800/)
[4] Gli officiers de saintè erano medici destinati alle aree rurali e al lavoro medico di routine, in possesso di una laurea che li distingueva dai ciarlatani.
(http://www.treccani.it/enciclopedia/l-ottocento-scienze-mediche-medicina-e-societa_%28Storia-della-Scienza%29/)

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Capitolo 2
*** Secondo Capitolo ***


Capitolo Secondo
 
 
 
Padova, 8 novembre 1855
 
Nei giorni scorsi sono diventato un assiduo frequentatore delle Debite, anche se per motivi più nobili di quel che questa frase potrebbe far pensare.
Il sedativo che avevo somministrato a Ruzzante gli permise di passare tutta la notte e il giorno successivi in uno stato di sonno profondo dal quale non ebbi cuore di toglierlo. Mi limitai a un esame esterno che mi confermò l’assenza di febbre malarica: il corpo denutrito del prigioniero non presentava rigonfiamenti all’altezza della milza e del fegato, la sua pelle era bianca cadaverica e non giallastra, inoltre non vedevo i continui rivoli di sudore presenti nei malati di malaria.

Il sedativo aveva avuto effetti benefici sulla qualità del riposo di Ruzzante: dormiva sereno senza agitarsi per la prima volta dal momento in cui era stato incarcerato, mi disse il Valle.
“I suoi compagni di camerata si lamentavano spesso,” mi aveva informato già dal giorno successivo la mia prima venuta, “per le urla che Ruzzante gettava durante la notte. Incubi, aveva detto lui, ma io che l’ho sentito urlare vi dico che nemmeno per un mese di congedo pagato vorrei sapere che cosa abbia provocato quel tipo di incubi.”

I prigionieri della camerata avevano confermato le parole del Valle: per la maggioranza si trattava di giocatori d’azzardo e ubriachi che avevano impegnato ogni avere, ma un paio di loro erano state persone dabbene, poveri fittavoli ai quali le rivolte, gli austriaci e le richieste dei padroni avevano tolto ogni cosa. Da questi ultimi venni a sapere che Ruzzante, a parte gli episodi degli incubi notturni, era un prigioniero schivo che rifuggiva dalle chiacchere e dalle lamentele con cui gli altri facevano passare il tempo nella cella comune: si limitava a stare in un angolo immerso nei propri pensieri, senza reagire alle provocazioni che alcuni dei peggiori gli avevano rivolto non appena incarcerato. Tali provocazioni non erano durate a lungo.

“Una mattina il Furlan, il capoccia intendo sior medico,” mi spiegò Lucio, uno dei poveri fittavoli, “si era svegliato con la voglia di darle e aveva alzato le mani sul Ruzzante: quello però non so come era riuscito a parlargli con calma, come si fa con le vacche, e lo aveva fatto tornare a letto senza prendersele: un vero miracolo, sior.”
Oppure l’operato di un medico abituato a parlare con pazzi e poveri di mente, riflettei.

Ero impaziente di poter di nuovo parlare con lui e di fargli continuare il suo racconto.
Ruzzante si svegliò la mattina del terzo giorno: accorsi non appena il tenente mi fece chiamare e lo trovai in relative buone condizioni, seduto sul letto.
Mi porse una mano scheletrica: “La ringrazio dottore per la sua premura.” La sua voce era ancora flebile ma sentivo un’ombra della risolutezza che quell’uomo doveva aver avuto in passato. La malattia aveva dato al suo corpo l’esilità di un fantasma e tolto la lucentezza dell’oro ai suoi capelli ma non aveva ancora distrutto lo spirito che vedevo emergere dagli occhi verdi puntati su di me.
Gli strinsi le dita ossute. “Come si sente oggi? E’ in grado di rispondere a qualche domanda?”
“Meglio che non in molti mesi: da molto tempo non riuscivo a dormire così bene.”

Come sospettavo la sua temperatura era calata: Ruzzante era stato in preda a un attacco di febbre e convulsioni di natura differente da quelle malariche. Il timore di aver a che fare con un malato di mente era però scacciato dalla compostezza e dalle frasi ragionate con cui il mio paziente rispondeva alle domande che gli rivolgevo.

“Coraggio, dottore: me lo chieda.” Eravamo alla fine dell’esame e qualcosa doveva essere trasparito dalla mia espressione. “Mi chieda se sono un pazzo.”
“Non avrei usato questa espressione” ribattei secco. Intimamente ero sollevato che avesse deciso lui di affrontare l’argomento.
Si appoggiò con la testa al muro in pietra che reggeva la sua branda.
“Dottor Bedin: lei crede che esistano eventi impossibili da spiegare per la scienza?”
“Lo nego nel modo più assoluto” risposi con convinzione. Fin da bambino ero stato educato a non credere a nulla che non potesse essere dimostrato: mio padre, anch’egli medico, mi aveva inculcato le sue idee di logica e verità e non avevo mai avuto motivo di essere tradito da esse.
“Anch’io, un tempo, ero della sua opinione: prima di essere mandato a Lières-au-Bois.”
Sotto un suo cenno mi sedetti accanto a lui sul letto.
“Era un villaggio sperduto, posto a un paio di giorni a nord di Parigi: lo avevo scelto proprio per il suo isolamento e per aver sentito il precedente officier de sainté parlare della dieta poco varia degli abitanti,   i quali vivevano grazie alla coltivazione del mais importato dalle Americhe. Un caso raro in Francia, dove di solito c’è abbastanza terreno per far crescere più colture. Lières-au-Bois somigliava moltissimo ai nostri paesini veneti, dove il mais, o granturco, è l’unico prodotto o quasi.
Non ho bisogno di spiegarle che cosa implica una dieta basata quasi interamente sul granturco.”

Annuii: erano capitati anche a me casi di contadini affetti da dermatite acuta, inappetenza, sintomi di delirio.
“Gli studi sulla pellagra[1] mi avevano sempre affascinato, sentivo di essere vicino a proporre una cura valida per quelli che ne erano affetti: per questo mi feci assegnare a Lières-au-Bois.”
Chiuse gli occhi come per rievocare i ricordi.

 
“La prima cosa che vidi all’arrivo furono i tetti di ardesia scura, immersi in una nebbia sottile. Poi i lavatoi di pietra, posti accanto al ruscello che circondava il paese e i campi separandoli dalla foresta: sembrava uscita dalle favole, querce robuste e antiche che ispiravano un senso di timore alla vista. La chiesa tozza, anch’essa ricoperta di tegole color grigio intenso, e alcuni abitanti in attesa: il curato – la Rivoluzione non era riuscita a sradicare le radici di superstizione religiosa dal nord – il sindaco, o meglio, il capo villaggio, e alcune donne con grandi cuffie immacolate e inamidate.

- Ben arrivato! - Il curato mi corse incontro, seguito dal sindaco: segno una gerarchia implicita che avrei compreso in seguito.  - Avete viaggiato bene? Ringraziamo Iddio che vi abbia fatto arrivare fin qui, in questo posto sperduto. -
- Che cosa si fa a Parigi? - Mi chiese il sindaco, cercando di ottenere attenzione.
Tra una domanda e l’altra arrivammo alla casa destinata al mio soggiorno, una costruzione bassa con un lungo tetto in ardesia, dotata di pochi mobili e di un piccolo focolare. Era piuttosto lontana sia dalla chiesa che dalla casa del sindaco e immaginai che la scelta fosse frutto di un compromesso.
Mi lasciarono con la vecchia Adèline, una delle pie donne che si occupavano di allestire la chiesa: da quel giorno avrebbe avuto il compito di allestire casa mia, un cambiamento che reputavo salutare.

- Ringraziamo Iddio che siete arrivato, m’sieur, era proprio ora che ne arrivasse uno nuovo di quelli come voi, dopo tutta quella confusione, ecco, e che cosa avremmo dovuto fare noi povera gente senza nessuno che ci spieghi, certo Iddio pensa a tutti ma quando sono a letto con le ossa che piangono le preghiere non servono, se capite quello che intendo...-
Forse il cambiamento avrebbe giovato ad Adèline, di certo non alla mia cefalea.

Qualcosa in quel flusso di chiacchere però mi aveva colpito.
- Confusione? Quale confusione, Adèline?-
Lei si rigirò il grembiule tra le mani.
- M’sieur, sono cose che è meglio non parlarne, ecco...- Dopo questa iniziale ritrosia alzò gli occhi ancora vivaci e si lanciò nel racconto: -Il vecchio dottore non era come voi, capite? -
- Nel senso che non era italiano? -
Scosse la testa. - Non solo quello, era strano: voleva andare nei boschi di notte, pensate voi. - Si interruppe per farsi un devoto segno di croce. - E verso gli ultimi tempi era sempre malato, urlava di notte, lo so io che stavo qui a fargli impacchi di rosmarino, che poi il rosmarino non deve essergli servito a molto perché una notte è sparito. -
- Il rosmarino?-
- Ma no, m’sieur, il dottore! Lo avevo lasciato proprio in quel letto, lì in fondo, e al mattino quando sono venuta per il bucato non c’era più!- Ridacchiò nervosa. - Oh, dovevate vedere m’sieur il parroco e m’sieur il sindaco quanto hanno bracalato, -
- Bracalato, Adèline? -
- Urlato, litigato, si accusavano tra loro, - spiegò lei, - E alla fine siete arrivato voi, e siamo tutti contentissimi, basta solo che non iniziate anche voi a camminare nei boschi la notte. -
- Non ne ho intenzione: al massimo una passeggiata nei campi. -
- Basta che non ci sia la nebbia. - Adèline si rifece il segno di croce. - State lontano dalla nebbia, m’sieur, se non volete incontrare...- Si interruppe e fece per andarsene.
- Incontrare chi? -
- Nessuno, m’sieur, nessuno. -

In seguito scoprii che il solo menzionare le nebbie aveva strani effetti non solo su Adèline ma anche sugli altri abitanti: sembravano terrorizzati dalla possibilità di restare soli nella nebbia, evento tutt’altro che improbabile dal momento che il paese si trovava in una zona di per sé nebbiosa.
Il mio lavoro tuttavia era talmente impegnativo che non mi misi a indagare sui motivi di una tale superstizione: lo avrei fatto in seguito, ma per il primo periodo svolsi con diligenza il compito che mi ero prefissato, in altre parole curare quei poveri contadini e studiare a fondo le loro malattie, in particolare la pellagra. Come avevo immaginato erano in molti a soffrirne ma mai fino a uno stadio avanzato: i sintomi si limitavano a una dermatite più o meno forte o a qualche episodio di diarrea e non appena comparivano le chiazze pellagrose  i malati si facevano portare erbe e radici con le quali fare un decotto all’apparenza miracoloso.

Ero molto interessato a quel preparato: forse avrei potuto analizzarlo e capire quali elementi avevano effetto contro la pellagra. Era molto probabile che quella mistura non avesse effetti permanenti – e difatti i miei pazienti dicevano di usarlo spesso perché i sintomi si ripresentavano – ma forse c’era la possibilità di ricavarne un rimedio più duraturo.
Quando però chiesi di poterne avere gli ingredienti ci fu un problema.

- Vedete quel tipo di radice cresce solo nella foresta qui dietro. - Ero a colloquio con il parroco. - E siamo in pieno raccolto: nessuno potrebbe accompagnarvi prima di sera. -
- Quindi?-
- Non troverete nessuno disposto ad accompagnarvi la sera in quei boschi, né io ordinerò di farlo, se è questo che state per chiedermi. -

Avrei dovuto aspettare almeno un mese, a quel che sembrava, senza escludere ulteriori impedimenti.
Decisi quindi di farmi dare un disegno della radice e di recarmi da solo nel bosco.
Quando Adèline lo seppe si agitò enormemente: - Ma come, m’sieur, volete fare la fine di quell’altro?-
Nelle ultime settimane il mio unguento contro l’artrite le aveva recato un grande sollievo: la paura di perdere la fonte della medicina fu maggiore di quella del bosco. Finì quindi per prestarmi uno dei suoi tanti nipoti, Philippe, affinché mi facesse da guida.
- E badate bene di restare vicini al paese, dovete sentire l’acqua del ruscello, se non la sentite tornate subito indietro. -
Philippe, un ragazzino di circa sette anni, all’apparenza macilento ma scalmanato quanto un branco di cani, salutò allegramente la nonna: - Ci sto attento io al m’sieur, non preoccuparti vecchietta. -
Le grida di Adèline ci accompagnarono mentre valicavamo il ruscello per entrare nella foresta.

Come ho già detto, si trattava per la maggioranza di querce maestose che si innalzavano con i rami a coprire il cielo: l’effetto era una semi oscurità verde dove insetti e piccoli animali si muovevano indisturbati.
Io e Philippe iniziammo a cercare le radici miracolose, un compito più difficile del previsto dal momento che nella nostra ricerca fummo costretti a camminare parecchio e ad addentrarci maggiormente nella foresta per trovarle. Quando però potevamo contare un buon numero di radici ci rendemmo conto di non sentire più il ruscello scorrere.

- Dobbiamo tornare indietro! - Philippe, spaventato, stava per lasciar cadere a terra il nostro bottino e scappare. Lo afferrai per una spalla.
- Stai calmo. Non ci succederà nulla: sono solo alberi. -
- Voi non capite! - Si dimenò come un ossesso. - Non vedete che sta salendo la nebbia? -
Attorno a noi, in effetti, il sottobosco aveva iniziato a velarsi di bruma bianca e impalpabile, la cui umidità mi penetrava sottopelle e nelle ossa. Mantenni il controllo: le paure irrazionali di un gruppo di paesani non avevano presa su di me.
- Calmati, Philippe: non hai motivo di avere paura. - Gli parlavo per tranquillizzarlo, come con gli animali selvatici. - Abbiamo raccolto abbastanza radici, dobbiamo solo tornare indietro per la strada da dove siamo venuti. Scappare da solo ti farà perdere, meglio restare uniti. -
Smise di dibattersi.

Pensai che le mie parole avessero avuto effetto, invece mi accorsi che stava fissando un punto dietro la mia spalla. I suoi occhi erano sgranati, tondi, e manifestavano segni di un profondo terrore che lo immobilizzava completamente.
Mi voltai di scatto impugnando il bastone da passeggio.
Nella nebbia, tra le querce, qualcosa si muoveva verso di noi.
Ne distinguevo i contorni sfilacciati dalla bruma: una sagoma femminile, vestita di bianco – o era la cortina di nebbia a darle quel colore? - lunghi capelli sciolti sulle spalle. 
Credetti di essere entrato in un sogno, in una favola per bambini dove le fate camminano nelle foreste e a volte vengono viste da noi poveri umani.
Inconsciamente feci un passo verso di lei. La creatura allungò un braccio nella mia direzione.
Philippe urlò.

La voce del ragazzo parve rompere l’incantesimo: l’apparizione svanì nella foresta ed io mi ritrovai a correre alle calcagna di Philippe, il quale stava scappando a rotta di collo verso il ruscello, ora di nuovo in vista.
Quella fu la prima volta che la vidi.”
 

 
La voce di Ruzzante si affievolì, il racconto lo aveva stancato: questa volta tuttavia non presentava segni di confusione emotiva o di spavento.
“Adesso riposate.” Provavo una forte riluttanza ad alzarmi da quella branda, un desiderio di comprendere quali fossero stati gli eventi che avevano portato un uomo, un medico di caratura elevata da quanto avevo dedotto, a occupare una cella in una cittadina di provincia. Questo almeno era quello che mi dicevo.
“Se finora vi ho annoiato...” Cominciò a scusarsi Ruzzante, al che lo interruppi.
“Per nulla, credetemi: non chiedo che di ascoltarvi ma vi vedo stanco. E’ pericoloso sottovalutare una convalescenza, dovreste saperlo bene.”
“Avete ragione.” Sorrise: quella sua espressione, affaticata ma non ancora vinta, rimase con me a lungo e si unì alle immagini che il racconto aveva risvegliato nella mia mente. “Vi vedrò domani dottor Bedin?”
“Certamente, se la guarnigione municipale non deciderà altrimenti, cosa di cui dubito date le circostanze. E chiamatemi pure Clemente,” gli strinsi la mano per accomiatarmi, “tra colleghi possiamo abbandonare le formalità.”
Ricambiò la stretta con la poca forza rimastagli e ci guardammo a lungo con rinnovata simpatia, mi parve.
 
 
Uscii dalle Debite in preda a una strana irrequietezza.
La fitta coltre di nebbia mattutina era stata scacciata dal sole invernale: le strade acciottolate e gli edifici avevano di nuovo una forma fissa, i contorni avevano smesso di sfumare nell’aria grigia. Ogni cosa appariva solida e concreta, in netto contrasto con la storia che avevo appena ascoltato.
Forse per questo decisi di non ritornare a casa bensì di recarmi al Bo poco distante, dove avrei potuto imbattermi in qualche collega a cui porre certe domande che mi assillavano.

Il Palazzo del Bo [2]era anche sede dell’Università: chiusa più volte dal governo asburgico per timore delle rivolte degli studenti, era stata da poco tempo riaperta sebbene con molte restrizioni. Di conseguenza entrando nel maestoso edificio non vidi i gruppetti di allegri goliardi che da sempre lo popolavano: studenti e professori evitavano di parlarsi, stretti nei loro mantelli neri entravano nelle aule fingendo di non fare caso alle uniformi bianche dell’esercito asburgico che comparivano qua e là ma senza poter dimenticare gli eventi del 1848[3].
Del resto il segno delle pallottole sulle mura del Bo e del Caffè Pedrocchi lì accanto rendevano difficile il compito di far tacere la memoria.

“Clemente! Finalmente ti si rivede amico mio.” Mi ritrovai la mano serrata in una stretta cordiale: avevo avuto la fortuna di imbattermi proprio nella persona che inconsciamente stavo cercando recandomi lì, ovvero il dottor Attilio Manin, mio vecchio mentore all’Università.
“Attilio!” Non nascosi la gioia nel rivederlo: aveva trascorso anni in Francia e Inghilterra allo scopo di approfondire la nostra scienza medica e solo di recente avevo udito parlare del suo ritorno a Padova. “L’aria d’oltremare ti ha giovato: dimostri dieci anni di meno.” Ed era vero: nonostante il capo canuto, la luce che gli faceva brillare gli occhi era rimasta tale e quale a quella del giovane professore che mi aveva guidato negli studi.
“Mentre tu ne dimostri dieci in più: la nebbia di questa città ti sta consumando o si tratta di un’allegra donnina del Portello?” Attilio mi abbracciò ridendo: non era cambiato per nulla, nemmeno nei modi più adatti a un’osteria che a un’aula.

Senza badare alle guardie asburgiche che, attirate dal chiasso, ci stavano osservando con l’aria di aquile pronte a ghermire la preda mi prese a braccetto e s’infilò nel reticolo di viuzze che circondavano il Bo.
“Come te la passi Clemente?” Ci sedemmo al tavolo di una taverna davanti a un bicchiere di vino. “Ho sentito dire che questi anni non sono stati facili per voi.”
Gli diedi un breve resoconto degli ultimi anni di vita sotto il governo austriaco: non era un racconto allegro e difatti quando arrivai al termine sia io che Attilio avevamo ben poca voglia di scherzare.

“Credo che accetterò l’invito di quel mio amico di Londra per una cattedra di medicina.” concluse Attilio dopo aver finito la bottiglia che ci stava davanti. “Dovresti venire con me: di questo passo nessuno sa che cosa potrebbero fare gli Asburgo.”
“Forse hai ragione, eppure non riesco a decidermi ad abbandonare questa città” ammisi a malincuore.
“Se credi che ti mancheranno le foschie venete ti posso tranquillizzare: Londra offre banchi, cumuli di nebbie che non ti faranno sentire nostalgia di casa.”
“Ho i miei pazienti di cui occuparmi, non mi va di lasciarli nelle mani di altri. E a questo proposito... ” Gli parlai del Ruzzante.

L’espressione di Attilio era interessata: del resto tra i suoi innumerevoli studi alcuni dei più importanti riguardavano proprio l’alienismo[4], una branca della scienza medica che a fatica si stava ritagliando un posto tra campi più nobili.
“I sintomi che descrivi sono complessi da interpretare” commentò alla fine. “Di certo il tuo paziente soffre di una forma molto acuta di crisi nevrotiche, la cui causa è da ricercarsi forse in eventi gravi del suo passato: il loro ricordo potrebbe innescare le crisi e di conseguenza la febbre e tutto il resto. Un fenomeno che ho già visto in alcuni soggetti, per la maggior parte donne.”
“Tu credi che la sua storia su quel villaggio francese possa essere correlata alla sua malattia?”
“Potrebbe essere. Il fatto che abbia deciso di mettertene a parte è significativo” riflette. “Mi piacerebbe visitarlo personalmente.”
Mi irrigidii e voltai la testa. “Temo che al momento non sia in condizione di ricevere estranei.”
Sentii lo sguardo indagatore di Attilio su di me.
“Interessante” mormorò.

Ripresomi da quel primo, inspiegabile turbamento, mi affrettai a replicare: “Tra qualche giorno spero si sia rimesso abbastanza da permettere nuove visite.”
“Se me lo permetterai.” Il sorriso di Attilio aveva un che di strano, ma m’imposi di non farci caso. “Il tuo unico scopo è la salute del paziente, non è vero Clemente?”
“Certo: quali altre ragioni dovrei avere?” Risposi vagamente irritato.
“Esistono uomini che prosperano con scaltre menzogne di fronte a sé e al mondo: la verità però affiora sempre prima o poi.” Attilio sembrava pensare ad alta voce.
“Che cosa vuoi dire?”
“Nulla, amico mio, nulla di serio.” Ordinò una nuova caraffa di vino novello. “Per tornare alla questione che ti sta a cuore, posso consigliarti alcune letture sugli stati nervosi e sulle malattie mentali, oltre che a un paio di trattati su...”
La nostra conversazione passò ad argomenti tecnici e si esaurì solo al calar del sole, mentre la nebbia tornava a occupare le vie di Padova.
 
[1] La pellagra è una malattia causata dalla mancanza di vitamina B nell’organismo e tipica di luoghi dove si conduce una dieta non variata che ne impedisce l’assorbimento, es. dove si mangia solo granturco non trattato. E’ detta la malattia delle tre D (dermatite, diarrea e demenza) o delle quattro D se si aggiunge il risultato finale Death, morte. Ho immaginato che una società contadina impoverita potesse sviluppare sintomi di pellagra, non avendo a disposizione latte o altro.
(https://it.wikipedia.org/wiki/Pellagra)


 
[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Palazzo_del_Bo
[3] In quel periodo a Padova avvennero rivolte contro la dominazione asburgica, nelle quali vennero uccisi parecchi studenti dell’Università che avevano contribuito al movimento d’indipendenza. Le cronache dicono che il maresciallo austriaco d’Aspre pretese di passare in carrozza laddove stava sopraggiungendo il corteo funebre di uno studente. Il giovane Bortolo Lupati apostrofò veementemente l’arrogante generale intimandogli di retrocedere. Scolari e cittadini si ribellarono, a nulla servirono i tentativi di placare gli animi, l’università venne chiusa, nelle strade vennero posti picchetti armati; si sparò, vi furono morti e feriti (da Le strade di Padova di G.Toffanin).
(https://www.blogdipadova.it/8-febbraio-1848-padova/)
[4] Lo studio degli alienati, cioè dei malati di mente.

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Capitolo 3
*** Terzo Capitolo ***


Capitolo Terzo
 
9 novembre 1855
 
La narrazione di Leone mi affascina.
C’è qualcosa di indescrivibile nell’espressione che assume quando inizia a ricordare gli avvenimenti del suo passato che, ormai ne sono certo, sono la causa diretta del suo incarceramento. Un uomo come lui, un medico brillante, non avrebbe motivo di trovarsi in una cella.
Arrivato stamane alle Debite venni accolto dal Valle con uno dei suoi sorrisi felini. “Anche oggi qui, dottore.”
“Ovvio.” Non mi piacque il suo tono. “Come prevede il giuramento di Ippocrate.”
“Potete giurare su chi vi pare, dottore, basta che vi accertiate alla svelta che il Ruzzante non sia contagioso.”
Come il giorno precedente Ruzzante era seduto sulla branda: la sua convalescenza sembrava procedere bene. Scambiati alcuni convenevoli lo pregai di continuare il racconto.
 

“Quel che avevo visto nella foresta mi aveva turbato: tornato a Lières la ragione ebbe presto il sopravvento sulla mia immaginazione e cercai una spiegazione logica. Tuttavia nessuno dei paesani sembrava intenzionato a darmela.

- Avete visto la fata della nebbia, m’sieur, eccome se l’avete vista. - Philippe era corso dritto da Adèline, la quale si era precipitata a casa mia con sale e ulivo benedetti che ora stava spargendo in ogni angolo.
- Siete fortunati a essere vivi, che Iddio ci protegga sempre, quella lì avrebbe potuto mangiarvi il cuore, ecco che cosa fa quella, aspetta che qualche bravo ragazzo entri nella foresta e tah, lo afferra e lo uccide. -
- La maledizione del paese, questo avete visto. - Brontolava il sindaco mentre si avviava verso casa dopo una fredda giornata di aratura. - Dovreste lasciar correre e pensare al vostro lavoro. -
- La fata della nebbia è pericolosa, m’sieur, state lontano dalla foresta se non volete che torni a prendervi. -

Dappertutto venivo dissuaso a compiere ulteriori indagini sulla creatura che mi era apparsa. Eppure rifiutavo la fantasia soprannaturale a cui tutti quei contadini sembravano così propensi a credere.
La mia insistenza fu ricompensata qualche giorno dopo, quando il parroco venne a trovarmi.

- La superstizione qui è cosa antica, - iniziò, - Molto più antica della Chiesa: so per certo che alcuni qui festeggiano feste pagane della primavera in segreto. Purtroppo a volte il limite tra verità e menzogna viene superato. -
- Trovo bizzarro che proprio voi, un uomo di religione, abbiate difficoltà ad accettare presente soprannaturali – commentai ironico.
Si accigliò. - Io credo nell’unica verità di Nostro Signore, per il quale non esistono fantasmi o fate o simili abomini. Fate attenzione a come parlate. -
Chinai la testa, gesto che lui prese come segno di scuse ma che era solo un modo per svicolarmi da una discussione che avrebbe preso una brutta piega.
- Qualche anno fa passammo un brutto periodo: piogge continue e nulla da mangiare se non le riserve di mais che avevamo messo da parte per la semina successiva. I contadini più poveri campavano a stento: tra di loro c’era una donna, Anne, la figlia di un coltivatore di mais i cui campi erano stati inondati e rovinati. Si era ridotta a vivere in una casupola all’estremo limite del paese e a mendicare qualche pugno di mais per mangiare. -
- Che accade a questa donna? -
- Un giorno ci accorgemmo che aveva smesso di venire in piazza a mendicare: alcuni ragazzini allora si recarono alla capanna per vedere se era morta e in quel caso probabilmente rubarle quel poco che le era rimasto. Tornarono indietro terrorizzati, parlando di una creatura che li aveva aggrediti e che urlava quando i raggi del sole la toccavano: uno dei ragazzi non ce l’aveva fatta a fuggire, la creatura l’aveva preso e spinto nella capanna. Radunammo gli uomini più coraggiosi e corremmo a vedere: trovammo il corpo del ragazzo orribilmente sfigurato, come se un lupo o un orso lo avessero attaccato per sfamarsi. Non trovammo nessun segno di Anne: la povera donna doveva essere stata divorata da quella bestia immonda ma quegli uomini superstiziosi affermarono che doveva essere stata lei a uccidere il ragazzo. Da quel giorno di dieci anni fa gira la leggenda della fata delle nebbie, perché la creatura detesta il sole e uccide solo di notte o durante giornate particolarmente nebbiose. Una belva di sicuro c’è in questi boschi, perché chi si addentra troppo nel folto non fa più ritorno: mi dispiace per la memoria della povera Anne. -

Il parroco sospirò: sembrava veramente turbato da quel che mi aveva raccontato. Tuttavia qualcosa nella sua voce mi faceva sospettare che mi avesse celato qualcosa. Per quel giorno mi limitai a ringraziarlo: avrei avuto tempo e modo di verificare la sua storia, perché avevo finalmente elaborato una teoria.

Vi ricordate che avevo nominato i miei studi sulla pellagra, dottor Clemente? Dunque avrete immaginato che il racconto del parroco avesse avuto grande significato per me: la riluttanza ad uscire alla luce del sole a causa della pelle danneggiata e il delirio sono entrambi sintomi di pellagra. Immaginate se una donna, povera e abbandonata da tutti, una reietta, contraesse una forma grave della malattia e la tenesse nascosta o non vi facesse caso: forse il delirio sarebbe così forte da indurla ad attaccare coloro che incautamente provassero a farla uscire alla luce del sole oppure, chi può dirlo, non avrebbe più remore nel cercare di spegnere la fame con ogni mezzo.
E se quella belva fosse stata una donna ammalata e ostracizzata da tutti?
L’ipotesi mi affascinava.

Eppure c’erano delle incongruenze: la donna che mi era apparsa nei boschi era bianca e bella, una vera fata, mentre i pellagrosi sono coperti di dermatiti e piaghe ributtanti. Oltre a questo, secondo il parroco l’episodio si era svolto dieci anni prima e trovavo difficile credere che una donna sola avesse potuto sopravvivere in una foresta ostile.

Decisi comunque di agire: avrei catturato la creatura. In questo modo avrei scoperto se era umana o meno e avrei aiutato gli abitanti di Lières-au-Bois a liberarsi di una minaccia per le loro vite e per quelle del loro bestiame, alla peggio.
Sapevo che nessuno mi avrebbe aiutato, spaventati com’erano, per cui decisi di arrangiarmi: obbligai Philippe a venire con me ai limiti della foresta per scavare una buca profonda. Il ragazzo avrebbe preferito camminare sui carboni ardenti ma gli assicurai che saremmo rimasti accanto al fiume e che avrebbe potuto correre via appena terminato il lavoro.
Una volta creata la trappola dovevo preparare un’esca adeguata.

Avevo notato nei miei studi che alcuni malati sviluppavano un forte desiderio per l’alimento che provocava loro la malattia: mi procurai una buona quantità di mais, sia in semi che cotto in pani morbidi e profumati e aspettai che le nebbie si alzassero per posizionarli sopra la buca debitamente coperta da frasche.
- Dite che verrà? - La curiosità di Philippe aveva avuto la meglio sulla paura superstiziosa e si era unito a me nell’attesa. Eravamo nascosti tra le canne accanto al ruscello: io tenevo tra le mani una corda che, se tirata, avrebbe fatto cadere l’impalcatura di legno e fronde e mi avrebbe permesso di catturare la fata delle nebbie. Fino a quel momento però solo lepri e altri animali selvatici si erano avvicinati per mangiare, costringendomi a intervenire con lanci di sassi per evitare che divorassero tutto.

- M’sieur, la nebbia è sempre più forte e qui ci sono solo conigli: torniamo a casa. - Dopo l’ennesima lepre Philippe stava perdendo interesse.
- Se vuoi tornare fai pure, ragazzo, io rimango. -
- Ma la fata vi divorerà e… -
Un rumore improvviso ci fece girare verso la trappola.

Non potevo credere a quel che vedevo: una figura di donna eterea, bianca, si avvicinava a passo lento. I suoi capelli lunghi e neri sembravano fluttuare nella cortina di nebbia, le sue labbra erano rosso sangue. 
Di nuovo la mia immaginazione ebbe la meglio e credetti davvero nell’esistenza di una fata delle nebbie, ricordo di divinità dei tempi lontani.
Questo finché l’apparizione non si gettò famelica sui pani di mais, iniziando a divorarli con movimenti ferini: nessun essere soprannaturale brama con tanta voracità un semplice pezzo di pane.
Tirai la corda: pani e fata caddero nella buca mentre io afferravo un coltello e delle corde robuste e mi precipitavo a imprigionare la sfortunata donna, senza dubbio Anne.

L’impresa fu più difficile del previsto: la donna si difendeva con morsi e unghiate proprio come una bestia selvatica ma infine riuscii a legarla e immobilizzarla.
Nella nebbia che si dissolveva, vidi che si trattava di una donna sui trent’anni: la veste bianca era in realtà grigia e a brandelli, i capelli erano luridi e arruffati, la bocca screpolata e insanguinata. Solo gli occhi conservavano l’incanto dell’apparizione: brillavano come stelle infuocate e mi fissavano pieni di rabbia.
Quella era Anne.”
 

Ruzzante tacque e chiuse gli occhi.
“Era dunque la malata di cui aveva parlato il parroco?” Volevo la conferma perché mi sembrava che in ogni parola che Leone usava per parlare di lei ci fossero dei sottintesi che non capivo. Il tono di voce, le espressioni del suo volto, tutto contribuiva a pormi una domanda: era davvero Anne, una povera pellagrosa, oppure no?
“Era lei. Ma allo stesso tempo non lo era.”
Mi spinsi avanti verso di lui. “Che cosa intendete?”
“Ve lo dirò la prossima volta. Ora vorrei riposare.”
 
 
All’uscita trovai il tenente Valle che mi aspettava.
“Dunque come sta il prigioniero?”
“Condizioni stabili: mi aspetto tuttavia una ricaduta.” Cercai di essere quanto più laconico possibile.
“Peccato: avrei detto che fosse sano a sufficienza per essere rimesso assieme agli altri.”

Mi bloccai: all’improvviso mi sentivo pieno di ribrezzo al pensiero delle camerate comuni, sporche e colme di volgari delinquenti. Era quello il luogo dove Leone avrebbe dovuto trascorrere le giornate?
“Trasferirlo ora significherebbe vanificare le mie cure” protestai con veemenza.
“Tra prigionieri le voci si spargono in fretta: alcuni pensano che Ruzzante stia ricevendo un trattamento di favore.” Non avevo dubbi che anche il tenente fosse della stessa idea.

Cercai di controllarmi: “Abbiate la cortesia di lasciarlo nella cella singola ancora per qualche tempo: sono disposto ad addossarmene le spese.”
Il Valle mi guardò in modo strano. “Come volete. Del resto, chi sono io per intromettermi tra paziente e dottore?” Dicendo questo sogghignò e dovetti trattenermi dal colpirlo in pieno viso.

Vagai a lungo tra le strade di Padova, incapace di fermarmi: la mia mente era in piena attività eppure mi pareva di non pensare a nulla. A tratti il viso di Leone compariva nella mia memoria e si sovrapponeva con quello di una donna sconosciuta, dalle labbra rosse e dal viso bianco come la foschia mattutina.
L’immagine aveva su di me effetti indescrivibili e preso dalla frenesia mi lanciavo sotto i portici affollati, urtando i passanti e inciampando nei miei stessi passi.

Notai che si stava facendo sera solo quando la nebbia cominciò ad alzarsi e ad avvolgere tutto nel suo manto grigio. Mi fermai confuso: non sapevo dove mi trovavo, forse nei pressi del Prato della Valle, forse al Portello, forse altrove.
Un suono fioco mi fece voltare. Per un momento distinsi la sagoma di una donna vestita di bianco ma quando provai ad avvicinarmi l’illusione sparì.
Ero solo, accompagnato dai fantasmi della mia mente.
 

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Capitolo 4
*** Quarto Capitolo ***


Capitolo Quarto
 

15 novembre 1855
 
Ho dovuto aspettare una settimana prima di poter far visita a Leone: quella passeggiata nella sera nebbiosa mi è costata una febbre e parecchi giorni di inattività, durante i quali continuavo a vedere in sogno luoghi ed eventi del racconto.
Se non fosse stato per il buon Attilio sarei ancora nel letto a delirare: dopo un paio di giorni di febbre si è presentato a casa mia con un buon tonico e ottimi libri per la convalescenza.
“Ti ho visto interessato all’alienismo, quindi eccoti qua del materiale per cominciare, e chissà che in futuro non si diventi rivali.”
“Colleghi, Attilio, mai rivali.”

Qualcosa dello spirito di Attilio si trasmise a me perché da quel giorno iniziai a stare meglio. Fu così che potei finalmente recarmi alle Debite per visitare Leone ma mi aspettavano brutte notizie.
“Avevate ragione.” Il Valle sembrava un cane con la coda tra le gambe. “Il Ruzzante ha avuto un altro attacco: il comandante sta valutando se spostarlo all’Ospedale.”

Mi precipitai alla cella: Leone sembrava a un passo dalla morte.
Il volto aveva perso quel poco colore che aveva ripreso durante la convalescenza, la pelle sembrava carta tesa su stecche di balena e gli occhi erano diventati cavità buie.
“Che vi è successo?” Mormorai affranto.
“Dobbiamo proseguire il racconto, dottore.” Anche la voce sembrava uscire da un morto.
“Assolutamente no, dovete riprendervi!”
“Vi prego, ascoltatemi… Ho bisogno di raccontarvi quegli avvenimenti...”
Mi sedetti sul letto.
 

“Avevo catturato la fata delle nebbie, o per meglio dire Anne. Nonostante il trambusto notai subito un particolare interessante: la sua pelle, per quanto rovinata dalle intemperie, era priva di ogni segno di pellagra e anzi era di un colore pallidissimo. Come poteva essere possibile, dal momento che aveva vissuto nella foresta per almeno dieci anni?

Una volta riportata al villaggio nessuno volle avvicinarsi alla strana processione: io in testa, con Anne legata sulle spalle in modo che non potesse scappare, Philippe dietro di me e vari cani del paese al nostro seguito.
- Che cosa avete fatto? - Il sindaco sembrava talmente sbalordito da rischiare un colpo di apoplessia.
- Questa è la vostra fata: una povera contadina denutrita. - Indicai Anne mentre la rimettevo a terra. Lei cercò in tutti i modi di liberarsi dalle corde che la tenevano prigioniera ma inutilmente. Strisciò dunque accanto al muro della mia casa, dove il tetto gettava un po’ d’ombra sulla strada.
- Siete pazzo! - Alcuni uomini presero a segnarsi con devozione. “La fata si vendicherà su di noi!”
- Ma guardatela! Vi sembra una creatura fatata costei? - La sporcizia, i vestiti a brandelli, il sangue rappreso e la luce di rabbia folle negli occhi di Anne la facevano piuttosto somigliare a una di quelle dementi imprigionate in certi ospizi dove regna solo la crudeltà.
Tutti i paesani che mi avevano seguito fino a casa istintivamente fecero un passo indietro. - Riportatela nella foresta prima che sia troppo tardi! -
- Giammai. Il mio compito è curarla. -
- Badate alla vostra vita allora. -

Nei giorni seguenti mi addossai il duro compito di riportare Anne a una condizione che potesse dirsi umana. Aiutato da Adèline e Philippe, gli unici a essermi rimasti al fianco, lavai la donna e le rasai la chioma selvaggia, dove dimoravano centinaia di insetti. La vestii con abiti usati ma puliti, la nutrii con cibo cotto e sostanzioso, che la poverina divorò avidamente senza ausilio di posate.
Lentamente iniziò a non ringhiare alla mia vista, a smettere di tentare la fuga e di attaccare ogni persona che le veniva vicino. Nei momenti di calma rimaneva seduta nell’angolo più buio della casa, le braccia attorno alle gambe e la testa posata sulle ginocchia, immersa in pensieri di cui non potevo sondare le profondità. Sembrava incapace di parlare e si esprimeva con gesti e versi di animale.
La luce folle dei suoi occhi si era attenuata: non dubitavo del fatto che fosse una povera demente ma non riuscivo a capire se questo stato fosse causato dalla pellagra o da qualcos’altro.
Inoltre la sua pelle mi confondeva: bianca come l’alabastro. La sua avversione per la luce del sole e i segni di pazzia mi avrebbero guidato verso una diagnosi di pellagra se non fosse stato per quella pelle incredibile.

Ipotizzai che si fosse nutrita per anni di quelle radici che i contadini usavano per mitigare i sintomi della dermatite pellagrosa: avevo ancora con me campioni delle radici colte con Philippe e provai a mostrarne alcuni ad Anne. Lei ne annusò uno e iniziò a masticarlo con evidente piacere.
- Forse ci siamo. - Esultai. - Forse è questa la cura che cercavo. -
- Sarà, però della pelle bianca non importa a nessuno qui - commentò Adèline.  - Non sa dire due parole in fila, quella lì: una medicina per farla parlare bene, ecco cosa serve a lei. -
Non potevo darle torto.

Provai tutto quel che potevo. Giorno dopo giorno somministravo ad Anne tonici a base di radici, preparazioni nelle quali usavo le nozioni che avevo appreso alla Sorbona.
Gli abitanti di Lières-au-Bois si tenevano a distanza: avevano smesso di venire a farsi visitare e coglievano ogni pretesto per lamentarsi di Anne. Le furono imputate le morti di una scrofa incinta e di un vecchio cane da caccia, inoltre era d’opinione comune che le nebbie sempre più fitte avessero a che fare con la sua presenza nel villaggio.

A tutte queste accuse Anne non replicava: si limitava a guardare tutti con rabbia e abbaiare come un cane pazzo, per poi ritirarsi nel suo angolo. Grazie al buon cibo di Adèline la sua figura non era più scheletrica: il vestito si tendeva sopra le sue curve, i capelli le erano ricresciuti fino alle orecchie. Certe volte scoprivo i suoi accusatori a guardarla con occhi lascivi e questo mi faceva temere per il suo futuro.
Del resto nemmeno io ero indifferente al suo aspetto: aveva assunto le fattezze di quella creatura boschiva che avevo creduto di intravedere un tempo e ciò mi turbava. Spesso sentivo il suo sguardo su di me e quando alzavo gli occhi per incontrare i suoi non vedevo rabbia o paura.

Avevo consultato il parroco per sapere se ad Anne rimanesse qualche parente in vita.
- Nessuno, ve l’ho detto. Era sola al mondo. - Il parroco stava riordinando i paramenti sacri nella sacrestia. - Avete fatto un’opera buona e Dio ve ne renderà merito ma quella poveretta non ha nessuno al mondo. Salvandola l’avete condannata di nuovo alla miseria. -
- Avreste preferito che la lasciassi al suo destino di bestia selvaggia? Un bell’esempio di carità cristiana.-
- Tra quei boschi non aveva cognizione di sé, - ribatté il parroco, - non ricordava di essere donna: se tornerà sana di mente la sua condizione le sembrerà ancora più dura. -
- Preferite il mondo animale alla civiltà, padre? -
- La civiltà può essere irrazionale e crudele, molto peggio di un branco di lupi. E ci sono azioni indicibili che solo un essere umano è in grado di fare. -
Faticavo a comprendere il senso di quelle parole.
- Dovreste tornare a Parigi e portare quella sventurata con voi. - Fu il suo consiglio mentre ci accomiatavamo. - E tenete queste: sono appunti del vecchio medico sui rimedi popolari di queste terre, me ne aveva fatto dono prima di sparire. Forse potrebbero esservi utili. -

Avevo pensato di fare ritorno a Parigi, certo, ma con una Anne curata e in grado di sostenere gli esami degli eminenti medici della Sorbona. Allora sarei stato accettato nella cerchia dei grandi scienziati, avrei avuto la fama cui anelavo da quando ero bambino. Gli appunti invece erano una semplice trascrizione di decotti per la tosse e altri rimedi a base d’erbe, niente che riguardasse la pellagra.

Intensificai i miei sforzi nelle ricerche, senza risultato, fino a quando una notte preso da non so quale istinto ritornai a sfogliare gli appunti del mio predecessore: invece di cercare una cura per la pellagra provai a cercare rimedi per la debolezza di mente ed eccolo lì, un filtro a base d’erbe e radici, tra cui quella che da settimane stavo usando nei miei esperimenti.
Non aspettai il sorgere del sole e mi misi immediatamente all’opera: all’alba somministrai ad Anne una dose di quel tonico. Lei, che ormai si fidava, fece per bere il preparato ma appena posate le labbra sulla tazza iniziò a urlare come invasata, rovesciò il liquido e cercò di scappare. Dovetti immobilizzarla e farglielo bere a forza, dopodiché ella venne presa da convulsioni e svenne.
Ero terrorizzato: che avessi incautamente avvelenato la donna che avevo giurato di proteggere?

Aiutato da Adèline la rimisi a letto e aspettai.
- Che cosa le avete dato, m’sieur? - Adèline piagnucolava e si torceva le mani.
Finalmente verso sera Anne si risvegliò: quale stupore quando si rivolse a noi in buon francese chiedendo dell’acqua!
- Come ti senti, Anne? - Domandai ansioso. - Sei in grado di rispondere? -
- Dottore… Vi ringrazio – mormorò lei a fatica. - Mi sembra di essere stata svegliata… da un incubo. -
Non ricordava nulla dei dieci anni di tribolazioni: la sua memoria si fermava ai giorni di miseria e di fame perenne.
- Ricordo che doveva venire qualcuno in visita alla mia capanna. - Senza dubbio un medico, pensai.
Lo sforzo nel parlare l’aveva stremata e si riaddormentò.

Immaginerete, dottor Clemente, la mia gioia: avevo guarito una donna, non dalla pellagra è vero, ma da una malattia ancora più insidiosa, la demenza. Avrei fatto il mio ritorno a Parigi e sarei stato innalzato ai vertici della società medica.
Solo allora mi accorsi di una piccola nota sotto la ricetta del filtro: un appunto che il vecchio dottore doveva aver aggiunto dopo la compilazione del trattato perché l’inchiostro era di colore diverso.

Vecchio rimedio di druidi – Ingerito durante la Festa della Primavera, proibito in seguito – Non somministrare in dose eccessiva

Era quindi una vestigia dell’antica medicina druidica quello che avevo dato ad Anne? Ignoravo quali fossero le tradizioni della vecchia Francia: immaginai che durante la Festa della Primavera i druidi curassero i loro malati. Perché allora un rimedio così utile era stato proibito?
Non potevo inoltre dimenticare l’isteria di Anne nel berlo.
Decisi di tornare dal parroco per indagare su quel manoscritto.

Il vecchio sembrava attendermi: - E’ vero dunque? L’avete curata? -
- Come fate a saperlo? -
- Adèline ha la lingua lunga: non dovreste essere qui. Prendete Anne e andatevene subito prima che sia troppo tardi. -
- Calmatevi: che cosa vuol dire tutto questo? -
- Ho vissuto troppo a lungo con questo peso nel cuore: dieci anni fa la miseria portò tutti noi alla follia. Ogni raccolto marciva, eravamo alla fame. I nostri vecchi ricordavano un rito antico, un’invocazione agli dèi pagani: era un rituale crudele ma la fame ebbe la meglio sulle nostre coscienze. Si trattava di offrire un sacrificio agli spiriti della foresta in cambio della fine della carestia. -
- Mi state dicendo che… -
- Fu scelta Anne, - il parroco fissava un punto nel vuoto, - a sua insaputa: era sola, malata, non sarebbe vissuta comunque a lungo. Una notte alcuni di noi entrarono nella sua capanna e… - Si interruppe tremando. - Alla fine di quella notte di orrore le venne fatta bere una pozione con la quale sarebbe diventata simile a una bestia selvaggia. Esatto, dottore: proprio quel filtro che le avete dato. In misura minore era conosciuto da secoli quale rimedio per la demenza da pellagra, come la chiamate voi medici, mentre in grandi dosi provoca la perdita della coscienza e la morte. Credevamo di averla uccisa, invece lei sopravvisse e divenne la fata delle nebbie: abbiamo creato il mostro delle nostre leggende popolari.
Sono stato io ad aggiungere l’appunto al manoscritto. -
- Credete che questo vi redimerà dal vostro crimine? -
- Lo deciderà Iddio. Ora andatevene: la notizia si è sparsa, tutti vorranno impedire che Anne accusi l’intero villaggio! -

Corsi a rotta di collo verso casa mia: davanti alla porta erano già radunati il sindaco e parecchi contadini.
- Dov’è la fata? -
- Le nebbie stanno rovinando i nostri campi, dobbiamo restituire la fata alla foresta. -
- State indietro! - Urlai facendomi largo grazie all’aiuto di un robusto bastone.
- Dottore: se tenete alla vita lasciateci passare – mi intimò il sindaco.
Ero pronto a morire per salvare Anne: cercai di trattenerli ma era una battaglia impari e quasi subito riuscirono a entrare nella casa.

Lo spettacolo che ci accolse è rimasto con me nei miei incubi: la povera Adèline era riversa al suolo in un mare di sangue, la gola squarciata e uno sguardo di terrore impresso nella morte.
Anne era in piedi accanto alla finestra, la bocca sporca di sangue e uno sguardo raggelante di rabbia e soddisfazione. La nebbia che si era alzata durante la notte era entrata tra le mura della mia casa e la avvolgeva come un manto.
- Morirete tutti. - La sua voce era bassa e rauca: non dubitai nemmeno per un istante della sua promessa. - E tu, dottore, vieni con me: tu devi essere mio. -
Raggelato feci un passo indietro.
Il mio disgusto la fece sibilare di rabbia. - Tu sarai mio e voi morirete – ripeté prima di fuggire dalla finestra aperta.”
 

“Incapace di qualunque riflessione uscii senza che nessuno me lo impedisse e, sellato il cavallo, mi allontanai da quel paese maledetto. Cavalcai per ore e ore fino a raggiungere una grossa cittadina da dove presi la diligenza per Parigi. Ero sconvolto: con il passare del tempo credetti di essere stato vittima di un’allucinazione collettiva. Adèline doveva essere stata uccisa da una bestia selvatica e Anne, immobilizzata a letto, doveva essere morta con lei. Cercai di riprendere la mia vita parigina ma durante la notte ero perseguitato da incubi di nebbia e sangue.

Iniziai a evitare i posti solitari e a rifugiarmi nelle case da gioco: il rimedio sembrava funzionare a discapito delle numerose perdite finanziarie. Tuttavia una mattina, di ritorno da una nottata di gioco e depravazione, mi trovai avvolto da una fitta nebbia all’altezza di Montmartre. Nella nebbia mi parve di udire una voce di donna: Sono morti. Ora tu sarai mio.
La visione mi lasciò a terra svenuto. Quando ripresi conoscenza, radunai i miei averi e lasciai Parigi per tornare a Padova, sperando che i miei incubi rimanessero in suolo francese. Mi sbagliavo.”

Faticavo a trovare un senso nelle parole di Leone: la mia mente si ribellava a quella che ritenevo una fantasia folle di un malato eppure qualcosa nella voce e nell’espressione mi faceva mettere in dubbio ogni cosa in cui credevo.
“Vorreste dire che la creatura vi ha seguito?”
“L’ho vista nella nebbia qualche tempo dopo essere entrato qui. Il gioco ormai aveva ingoiato ogni mio avere e mi rinchiusero qui come un volgare debitore. Una sera ero nel cortile assieme ad altri carcerati: si alzò la nebbia e mi sembrò di distinguere un volto di donna.”
“Potrebbe essere stata la vostra immaginazione.”
Mi afferrò una mano. “Vi giuro che è vero. Credetemi, lei è qui, mi ha trovato. Per questo voglio che mi facciate un ultimo favore, Clemente: non lasciate che mi prenda, uccidetemi voi!”
Sconvolto, lo abbracciai come mai avevo osato fare prima.
“Che cosa dite, Leone, non potete chiedermi questo! Come potrei farlo?”
“Vi prego: se quella creatura avrà la meglio non so che cosa ne sarà di me.”
“Vi farò uscire da qui e vi porterò lontano,” gli presi il volto tra le mani, “andremo in Grecia o in Turchia, dove la nebbia non esiste e quell’essere non potrà nuocervi.”
“Fareste questo per me?”
“Per voi farei tutto.” In preda alla commozione lo baciai e quale felicità quando lui ricambiò con trasporto. Per un lungo attimo quella cella mi parve il paradiso.
A malincuore ci staccammo.
“Aspettami: pagherò il tuo debito e fra un paio di giorni ce ne andremo da qui.”
Come avrei voluto non doverlo lasciare!
 
 
 
20 novembre 1855
 
Tutto è pronto: il debito di Leone, per quanto ingente, è stato pagato dalla vendita della mia casa. I pochi risparmi rimasti ci permetteranno di raggiungere Atene e da lì Smirne oppure Creta. Non ho rimpianti nel partire: mi basterà Leone per sentirmi a casa.

Alcuni fatti mi hanno spinto ad affrettare la nostra partenza: ieri camminavo per le strade accanto alla novella stazione ferroviaria, voluta dal governo asburgico per congiungere più velocemente Mestre e Venezia a Padova e all’entroterra e che finora ha causato solo l’impoverimento di coloro che lavoravano nei trasporti fluviali. Avevo appena acquistato i biglietti che avrebbero condotto me e Leone a Venezia per imbarcarci sul piroscafo per Atene quando mi assalì la sensazione sgradevole di essere seguito. Mi voltai ma non vidi nessuno.
Proseguii per qualche metro: le luci dei lampioni illuminavano la sera fredda e nebbiosa.
Una voce roca, sinistra come un presagio, d’un tratto mi sussurrò all’orecchio: Egli non sarà mai tuo.
Il terrore più totale mi impediva di girarmi per vedere il mio interlocutore, le membra non rispondevano ai miei comandi: intuiva forse il mio corpo di trovarsi al cospetto di qualcosa che nulla aveva a che fare con la razza umana?

Il momento passò, la presa si sciolse: rivoli di sudore freddo colavano dalle mie tempie come se avessi corso per lunghissimo tempo.
Mi affrettai verso casa e mi rinchiusi nella mia stanza, dove passai una notte insonne.
A che cosa devo credere?
 
 
 
21 novembre 1855
 
Un crollo alle Debite: la notizia mi ha svegliato or ora. Sento l’affrettarsi dei cittadini nonostante sia appena passata la mezzanotte.
Al mattino è previsto lo scarceramento di Leone: devo correre alla prigione prima che ogni nostra speranza sia vanificata!
 
 
22 novembre 1855
 
Scrivo queste righe piangendo: in poche ore mi è stato tolta ogni cosa.

Le urla che annunciavano il crollo ieri mi svegliarono da un incubo spaventoso: in esso ancora il viso di Leone si sovrapponeva a quello della creatura delle nebbie diventando un solo essere che si accingeva a divorarmi.
Senza perdere tempo mi gettai addosso qualche indumento e corsi fuori verso le Debite: mi scontrai con un manto di nebbia denso come mai se n’erano visti a memoria d’uomo.

Sentivo attorno a me le voci di cittadini e guardie che brancolavano nell’oscurità umida e gelida: ogni tentativo di accendere torce o ceri era vano. A tentoni avanzai lungo portici e strade, inciampando e strisciando, fino a quando non vidi davanti a me ombre più solide di un fantasma e un grande falò che ardeva cercando di illuminare Piazza delle Erbe: erano i soldati delle Debite, guidati dal Valle, che tentavano di arginare i danni del crollo improvviso.
Mi feci largo tra di loro incurante di tutto fino a raggiungere il Valle: coperto di polvere e sangue rappreso il tenente stava guidando i suoi uomini nella rimozione delle macerie. “Che ci fate voi qui?” Urlò con voce terribile. “Tanto meglio, i feriti sono da quella parte: andate!”

“Dov’è lui?” Tutte le morti del mondo non avevano importanza ai miei occhi. “Dov’è?” Afferrai Valle con una forza che non sapevo di avere e lo scossi frenetico.

“Ancora all’interno, maledizione a voi!” Il tenente si staccò dalla mia stretta. “Quella parte di edificio è ancora intatta, sono stati colpiti gli alloggi dei soldati e la camerata soprastante. Maledetti indipendentisti, dovevamo aspettarcelo!”

Avevo ben pochi dubbi su quale fosse la causa di quel crollo improvviso ma non rimasi a spiegare la mia teoria al Valle: mi gettai nella nube di polvere e nebbia e corsi verso quel che rimaneva della prigione, accompagnato dalle urla rabbiose del tenente.

Faticavo a respirare: l’umidità si legava alla cenere dei calcinacci tanto che mi sembrava di respirare attraverso uno strato di fango. Il portone era distrutto, mi feci strada tra i corpi dei soldati che avevano avuto la disgrazia di essere stati assegnati al turno di guardia quella notte fatale.

Le scale erano ancora in piedi per miracolo: senza esitare mi lanciai sui gradini e raggiunsi l’ala dove si trovava la cella di Leone. I prigionieri ancora rinchiusi nella camerata al vedermi iniziarono a supplicare per essere liberati ma non avevo tempo per loro. La porta di Leone era intatta: afferrai un calcinaccio e colpii ripetutamente la serratura.

“Leone!” Gridavo intanto. “Leone, parlami!”
La serratura cedette e con una spallata fui dentro.

Quale terribile scena mi trovai innanzi!

Il corpo di Leone pendeva da una trave del soffitto: la lingua nera e ingrossata sporgeva dalle labbra, così come gli occhi vitrei e gonfi, sul volto cianotico ancora vedevo i segni di un terrore indicibile.

Accanto a lui una donna vestita di bianco, dai contorni evanescenti come la nebbia notturna. I lunghi capelli sciolti sulle spalle erano neri, le labbra rosso sangue, le pupille accese di rabbia inumana mentre fissava il cadavere di Leone, del mio Leone che aveva scelto l’unico modo possibile per sfuggirle.

Non poteva essere vero, non poteva essere vero.

La creatura spostò l’attenzione su di me.

Se non posso avere lui avrò te.

Si mosse nella mia direzione.

Le gettai addosso il calcinaccio che ancora avevo in mano e che lei parò con un movimento innaturale. Ero di nuovo reso immobile dal terrore: alzai gli occhi verso il cadavere del mio povero Leone e questo mi diede la forza per correre fuori dalla cella, lungo il corridoio e giù per le scale dove mi scontrai con alcuni soldati, venuti finalmente a soccorrere i prigionieri.

“Fermi, non salite! Scappate!” Il mio aspetto dovette convincerli più di qualsiasi mia parola. Corremmo fuori dall’edificio in rovina e infine, davanti al fuoco, svenni.
 
 
Il resto di quella notte tremenda è un ricordo vago: quando mi ripresi era l’alba. La nebbia si era dissolta permettendo di capire quale disastro era avvenuto: l’intera parte destra delle Debite non esisteva più. I soldati stavano ancora lavorando per estrarre i superstiti dalle macerie. Girava voce tuttavia che nessuno dei prigionieri dell’ala risparmiata fosse ancora in vita: “Le loro facce, signore: devono essere morti per un forte spavento.” Fu quel che sentii un soldato sussurrare al tenente Valle.

La creatura si era rifatta su di loro per la perdita di Leone.
Ricordai allora le sue parole: Se non posso avere lui avrò te.

La mia unica speranza di salvezza è il piroscafo in partenza questa sera da Venezia ma la morte di Leone mi ha privato di ogni volontà di vivere.
Tenterò comunque la fuga: ho con me un potente veleno che utilizzerò se lei dovesse raggiungermi.

Devo partire prima che sia troppo tardi: ah, Leone, perché non sono riuscito a salvarti?
Basta con gli indugi: lascio queste carte affinché un giorno qualcuno sia in grado di debellare il mostro che uomini scellerati decisero di creare.

La nebbia inizia a salire.

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