Locusta

di NyxTNeko
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Schiavitù - ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - Caput Mundi - ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - Dalla caduta sorge l'ascesa - ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - Adattarsi al cambiamento - ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 - Ducunt volentem fata, nolentem trahunt - ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 - Quousque tandem? - ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 - Sic vivendum, sic pereundum - ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7- Evento inaspettato - ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 - Tacitum vivit sub pectore vulnus - ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 - Incontri al limite del bizzarro: Gaudenzio - ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 - Scoperte rivelatorie - ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 - Confessioni - ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 - Difficile est longum deponere amorem - ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 - Honos alit artes - ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 - Faber est suae quisque fortunae - ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 - Modus vivendi - ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 - Homo homini lupus - ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17 - Miscēre utile dulci - ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18 - Peiora multo cogitat mutus dolor - ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19 - Impunitas semper ad deteriora invitat - ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20 - Carpent tua poma nepotes - ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21 - Multa petentibus desunt multa - ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22 - Captatio benevolentae - ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23 - Soltanto una barbara, nient'altro che una donna - ***
Capitolo 25: *** Capitolo 24 - Venit amor gravius, quo serius - ***
Capitolo 26: *** Capitolo 25 - Rari nantes in gurgite vasto - ***
Capitolo 27: *** Capitolo 26 - Il rimorso dorme in un periodo prospero... - ***
Capitolo 28: *** Capitolo 27 - ...ma si risveglia nella sventura - ***
Capitolo 29: *** Capitolo 28 - Caelum, non animum mutant qui trans mare currunt - ***
Capitolo 30: *** Capitolo 29 - Vulpes pilum mutat, non mores - ***
Capitolo 31: *** Capitolo 30 - Hodie mihi, cras tibi - ***
Capitolo 32: *** Capitolo 31 - Dos est uxoria lites - ***
Capitolo 33: *** Capitolo 32 - Vita che muore, vita che nasce - ***
Capitolo 34: *** Capitolo 33 - Dulce est desipere in loco - ***
Capitolo 35: *** Capitolo 34 - Fugaces labuntur anni - ***
Capitolo 36: *** Capitolo 35 - Ex una scintilla incendia - ***
Capitolo 37: *** Capitolo 36 - Quot homines, tot sententiae - ***
Capitolo 38: *** Capitolo 37 - Tantum religio potuit suadere malorum - ***
Capitolo 39: *** Capitolo 38 - Quo vadis? - ***
Capitolo 40: *** Capitolo 39 - Invidia gloriae comes - ***
Capitolo 41: *** Capitolo 40 - Meditare mortem - ***
Capitolo 42: *** Capitolo 41 - Memento mori - ***
Capitolo 43: *** Capitolo 42 - Purificazione - ***
Capitolo 44: *** Capitolo 43 - Vixi, et, quem dederat cursum fortuna, peregi - ***
Capitolo 45: *** Epilogo - In memoria... - ***



Capitolo 1
*** Prologo - Schiavitù - ***


Gallia Narbonensis, maggio 37 d.C.

La Gallia, terra degli antichi e temuti Celti, denominati Galli dai Romani, dopo secoli e secoli di indipendenza era da altrettanto secoli sottomessa alla potenza dell'ormai Impero Romano che dominava il Mediterraneo.

Sebbene fosse passato tanto tempo, le gesta dei loro condottieri, uno di questi fu il valoroso Vercingetorige che cadde rovinosamente nel 52 a.C., contro i Romani guidati dal dittatore Caio Giulio Cesare, erano trasmesse di generazione in generazione per non offuscare l'onore e l'orgoglio del loro popolo che nonostante la collaborazione con i dominatori non aveva perso, almeno ufficialmente, la loro cultura, lingua, identità originaria.
 

Sul trono imperiale, da pochi mesi, sedeva Caio Giulio Cesare Augusto Germanico della dinastia Giulio-Claudia, meglio conosciuto come Caligola dal termine piccola galica, un tipo di calzari che l'imperatore indossava.
 

In una campagna al confine tra due villaggi galli una ragazza dai lunghi capelli rossicci lasciati al vento e due grandi occhi azzurri correva verso un bosco di conifere non molto lontano.

- Locusta! Sei già arrivata? - chiese sorpreso il druido Caelan sorridendo mentre sbucava da dietro un pino appoggiato sul bastone di legno.

- Si, sei l'unico che riesce a sollevarmi il morale - rispose prontamente la diciasettenne.

- Dovresti stare attenta, però, perché se scoprono questo posto i legionari romani mi condanneranno a morte - le ricordò con il volto severo.

Da quando erano arrivati quei maledetti romani per i druidi, sacerdoti dell'antica religione celtica, la situazione era diventata critica.

Le loro consuete attività di consiglieri del re, di interpreti di messaggi divini, persino le loro arti magiche tramite erbe e formule, erano state drasticamente ridotte fino ad arrivare al divieto assoluto.

Un'ombra si formò sul volto dell'uomo e Locusta lo fissò per lungo tempo, osservò la sua tunica di un bianco lucente che le aveva sempre donato serenità assieme alla voce calda e pacata con cui le parlava degli antichi dei che proteggevano le loro terre prima dell'invasione romana; passò alla lunga barba bionda sempre ben curata che lo rendeva più maturo del suo aspetto ancora giovane e prestante.

La ragazza si strinse la veste tra le mani per reprimere la rabbia che provava verso il popolo romano, si morse le labbra e abbassò la testa per la vergogna per il suo futuro infamante che l'attendeva.

- Certo che lo so, Caelan ma voglio sentire la tua voce per l'ultima volta! - confessò mentre le lacrime che si formavano negli occhi le appannavano la vista come premonizione del suo nefasto futuro in cui il passato si sarebbe allontanato da lei diventando sempre più sfocato fino a scomparire del tutto.

Si sforzò di non farle scendere creando un nodo alla gola che le faceva male quasi quanto il tradimento della sua famiglia.

- Per l'ultima volta? Non mi vorrai dire che.....- la sua voce era tremolante mostrando la sua paura più profonda ed angosciosa.

L'aria calda di inizio maggio divenne improvvisamente pesante e fredda.

- Purtroppo sì - rispose rapidamente per limitare il dolore che stava provando.

- Ma come? Eppure....- il druido improvvisamente sbiancò.

- Caelan,..io....- la voce cominciava ad essere incerta - Io...non sono mai stata libera.

Il druido conosceva le condizioni della sua famiglia, la loro precaria situazione era tale da non riuscire più a pagare le tasse per Roma.

Per questo il padre di Locusta aveva preso la drastica decisione di venderla come schiava sotto pressione dei romani stessi che ne richiedevano abitualmente in grande quantità.

La compravendita di schiavi era sempre un affare d'oro sia per i mercanti sia per i cittadini che li acquistavano.

La guardò rapidamente con gli occhi lucidi e la strinse forte sul suo petto per consolarsi a vicenda; anch'egli era sconvolto.

- Locusta - iniziò con un tono misto tra la speranza e l'amarezza - Locusta c'è un modo per sopravvivere tra quella gente...le arti che ti ho insegnato, le erbe magiche per creare filtri, infusi ed anche veleni sono l'unica arma che possiedi per difenderti dalle belve romane...ma devi usarle con criterio e giudizio perché sono un'arma a doppio taglio e potrebbero ritorcersi contro di te se ne perdessi il controllo, Roma è un posto pericoloso capace di corrompere anche il cuore più puro.

Le accarezzò i morbidi capelli color tramonto, era più di una figlia, la conosceva fin da quando imparò a camminare, le voleva un gran bene, avrebbe tanto voluto allontanarla dal quel destino di schiava, ma non aveva nessuna autorità, né una voce in capitolo.

Agli occhi dei Romani erano solo dei barbari; barbari senza alcuna forma di civiltà!

- Grazie per tutto, Caelan - la ringraziò mostrando un sorriso forzato che mal stonava con la sua nordica bellezza.

Il cielo racchiuso nei suoi occhi fu velato dalle lacrime che non riuscì più a trattenere.

- Sfogati, Locusta, liberati da questo nodo che ti opprime il cuore, fallo ora, ora che puoi!

Scoppiò a piangere senza freno sul petto del druido fino a quando ebbe gli occhi asciutti, incapaci di manifestare ulteriormente il suo disagio, il suo dolore che sembrava lacerarle l'anima.

- Sto...sto meglio adesso - lo rassicurò asciugandosi gli occhi gonfi e rossi di pianto

- Pregherò ogni giorno gli dei....è l'unica cosa che posso fare....mi dispiace - ingoiò la saliva trattenendo anch'egli le lacrime. Le strinse con forza le mani.

- Tu non hai colpa - disse con malinconia poi si staccò dal suo corpo caldo e rassicurante, si allontanò decisa a tornare nel villaggio natale, ad affrontare a testa alta il suo destino - Addio - sussurrò come la brezza del mattino e corse via

- Addio, Locusta, non ci rivedremo mai più ma sappi che ci sarai sempre tu nei miei pensieri con l'effimera speranza di rivederti - bisbigliò continuando ad osservarla nel fiore della giovinezza.

Un fiore la cui bellezza sarebbe stato calpestato dalla brutalità della violenza e dalla crudeltà della vita. 
 

Quando arrivò al villaggio vide i romani che erano venuti a reclutare schiavi da portare nel cuore dell'Impero.

Il suo istinto le diceva di scappare, di fuggire il più lontano possibile per salvarsi, ma si rese conto che ormai era troppo tardi.

Sospirò ed avanzò con determinazione verso casa sua con i piedi piantati al suolo e il cuore che le esplodeva nel petto per la paura.

Una voce potente come un tuono chiese - Tu chi saresti ragazzina?

Locusta con il cuore in gola fissò suo padre, sua madre e i suoi fratellini che erano stati sbattuti fuori dalla casa con violenza e le stavano rivolgendo unanime uno sguardo pieno di angoscia.

- Il mio nome è Locusta e sono il prezzo con il quale la mia famiglia paga per il suo debito nei vostri confronti, romani - esclamò fermamente, mettendosi una mano sul petto.

Il pretoriano saltò giù da cavallo e le si avvicinò con un ghigno malizioso, le alzò con prepotenza la testa e accarezzò il suo viso delicato, poi passo al petto palpandole il seno florido, a quel punto la ragazza indietreggiò con sdegno mentre l'uomo sogghignò di fronte ad una schiava barbara così giovane, così bella, così spavalda che sarebbe stata venduta ad una cifra esorbitante.

Il prezzo di quella ragazzina era ben più elevato del suo debito però questo era ormai insignificante, perché quella schiava era venuta di sua spontanea volontà a consegnarsi.

- Gallo, il tuo debito è saldato puoi pure sparire adesso - riferì al padre che lanciò uno sguardo mortificato alla figlia alla quale venne legata una corda ai polsi e una al collo.

Lui, un fiero guerriero gallo che non aveva mai ceduto al ricatto dei nemici in battaglia, costretto ad abbassare la testa all'invasore prepotente per colpa di quelle maledette tasse.

Non si sarebbe più ripreso da quell'umiliazione.

- Spero che tu possa perdonarmi un giorno, Locusta - bisbigliò a testa bassa mentre rientrava nella casa con il senso di colpa che opprimeva il suo animo.

La carovana di schiavi si avviò verso una lunga processione che gli avrebbe portati fino a Roma, dove poi sarebbero stati venduti come merce ai signori più potenti della città e dell'Impero.

Locusta girò la testa all'indietro osservando per l'ultima volta il suo villaggio che l'aveva data alla luce, l'aveva cresciuta ed ora l'abbandonava al suo destino di schiava.

A quella vista però non provava nè nostalgia, nè rabbia, nè vendetta, ma solo disillusione verso gli uomini, che le strappò per sempre la luce della vita dai suoi splendidi occhi azzurri.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - Caput Mundi - ***


"Abi, nuntia [...] Romaniscaelestes ita velle ut mea Roma caput orbis terrarum sit"
Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 16


Roma, novembre 37 d.C.

Dopo mesi e mesi di resistenze e privazioni Locusta intravide da lontano la capitale del mondo allora conosciuto.

Non sapeva però se fosse stata una fortuna arrivarci da viva; molti schiavi tra cui bambini e donne, durante il tragitto, erano morti per la fatica, per malattia, per spossatezza e venivano abbandonati nel punto in cui perdevano la vita.

In cuor suo aveva sperato che la signora morte arrivasse a colpire anche lei ma il fato, superiore persino agli dei romani come il druido gli aveva riferito in una lezione, aveva scelto per lei l'umiliazione definitiva della schiavitù.

Le nuvole scure rispecchiavano il senso di vuoto che provava, mentre il pianto del cielo accompagnava l'ultimo tratto del loro viaggio e l'inizio di una vita di stenti e di dolore.

Entrarono nella città passando sotto un altissimo arco di un candido bianco, mentre la gente riversa per le strade li osservava: alcuni ridevano, altri li guardavano con disprezzo, altri ancora invece non li rivolgevano nemmeno uno sguardo, sottolineando l'indifferenza che provavano verso di loro.

Locusta rimirava la città con lo sguardo spento, quasi come se la bellezza della città eterna, di cui aveva tanto sentito parlare e che le si mostrava dinanzi in tutto il suo fascino, fosse sbiadita davanti al suo pessimismo nei confronti dell'umanità.

Attraversarono una lunga strada fatta di ciottoli così perfetti, levigati e lucidi da sembrare marmorei e si fermarono in una piazza vastissima al cui centro vi era la statua di uno dei tanti uomini che avevano segnato la storia di Roma.

Ad attenderli c'era un uomo che dall'aspetto e dall'abbigliamento sembrava essere il venditore di schiavi; era basso e grassoccio con un sorrisetto maligno dipinto sul volto e gli occhi brillanti.

Si avvicinò alla carovana e disse, con voce gracchiante, sfregando le mani compiaciuto - Sextilius, ecco che ritorni con un bel carico anche stavolta!

- Non ho bisogno delle tue lusinghe Lucius! - sbottò con ferocia il pretoriano - E vedi di pagarmi in fretta stavolta!

Il venditore estrasse un sacchetto pieno di sesterzi e glielo consegnò, il suo collega non pareva, però, soddisfatto del pagamento, a suo vedere, troppo basso.

- Non lamentarti! Questa è la somma che ho messo da parte per il precedente carico! - gli rinfacciò il venditore come se volesse addossargli la colpa.

- Razza di sanguisuga! - bofonchiò fra i denti il pretoriano che gli porse la lunga corda a cui erano legati i poveri schiavi - Per la prossima volta mi aspetto un compenso maggiore oppure te la faccio pagare, è una promessa! - sbraitò mentre spariva in groppa al suo cavallo.

Il venditore, ringhiando, tagliò la corda con il pugnale e una volta liberati spinse il primo della fila brutalmente verso una tendina quasi del tutto scolorita e sgualcita - Spogliati! Rimani così come tua madre ti ha generato! - urlò con la frusta tra le mani - Fai in fretta se non vuoi che mi arrabbi!

Il povero schiavo intimorito annuì e si tolse la tunica tutta sporca di fango con le mani tremolanti; a causa della sua insicurezza venne frustato e nel frattempo il mercante gli chiese cosa sapesse fare in modo da poterlo incidere su di una tavoletta di legno che successivamente fece indossare allo schiavo.

Nel mentre che il primo saliva tutto tremante sul palco di legno, il secondo, che era solo un bambino, compì gli stessi gesti del precedente con le lacrime agli occhi, così come fecero tutti gli altri senza lamentarsi e senza mostrare un minimo segno di pudore.

Passò in rassegna a tutti gli schiavi ed arrivò davanti a Locusta e, come fece per i suoi colleghi, le chiese - Cosa sai fare schiava per poter essere ammessa nel mondo servile?

Lo sguardo scivolò lungo il suo corpo bianco come l'avorio più pregiato, formoso e levigato come una delle più superbe statue elleniche, i lunghi capelli che un tempo furono rossicci erano sporchi di sudore, di fango e di terra che li avevano rubato il suo colore naturale; ne aveva viste di schiave affascinanti ma lei sembrava di gran lunga superiore.

- Nelle terre galliche mi hanno insegnato a distinguere ogni tipo di erba per preparare infusi, filtri e veleni di qualsiasi genere - disse in un perfetto latino.

- Così siete una galla? - chiese sorpreso massaggiando la frusta.

- Ero una galla, adesso sono una schiava dell'Impero - rispose con freddezza Locusta.

Lucius incrociò i suoi stupendi occhi color zaffiro e rimase colpito dalla dignità stoica che non aveva mai riscontrato in una donna.

In realtà ciò che Locusta provava erano semplicemente delusione ed astio.

Dopo aver fatto scrivere le sue abilità sulla tavoletta la fece salire, al fianco dei suoi colleghi, sul palco di legno; l'uomo iniziò a gridare a gran voce dell'inizio della vendita di quei schiavi nuovi di zecca.

Locusta guardava dall'alto verso il basso alcuni cittadini romani che si stavano timidamente avvicinando e li fissava apaticamente, non mostrava alcun segno di paura, nè di dolore, o tanto meno vergogna come alcuni suoi compagni di sventura stavano facendo soprattutto quando venivano indicati dalla folla attratti dal loro aspetto o dalle loro attitudini.

C'era solo indifferenza nei suoi occhi spenti.

Sfilavano davanti a loro come si faceva con un animale in gabbia che desiderava solamente morire.

Uno dei suoi compagni che condivideva la medesima sorte, emerse dal fondo del palco con aria allegra e il volto illuminato da un sorriso splendente capace di suscitare ilarità in chiunque lo avesse incrociato.

Indossò una toga che un cittadino gli aveva lanciato ed iniziò a raccontare, con pungente ironia, storie di personaggi illustri che provenivano dal suo paese.

Nonostante fosse un greco di nome Aristide, come lui stesso rivelò nella presentazione, e facesse parte di un altro gruppo di schiavi che era approdato lì, si esprimeva in un latino così perfetto e fluido da sembrare un cittadino romano a tutti gli effetti.

Dalla sua bocca uscivano aneddoti, curiosità, novelle, ed ogni sorta di avventura, dalla più stramba ed improbabile, alla più incredibile ed avventurosa, che trasformarono, in un breve istante, quel misero palco di legno in uno di quei teatri incastonati nella pietra di cui si vedeva in giro.

La gente da sotto il palco rideva senza posa mentre l'aspirante attore si inchinava con una grazia incredibile, rivolgendo i ringraziamenti a destra e a manca come un vero e proprio istrione.

Quando finì il lieto siparietto alcuni romani con sacchetti pieni di sesterzi gliene lanciarono alcune, mentre altri chiedevano a gran voce il prezzo per quel fenomeno da baraccone formidabile, dall'aspetto così comune tanto raro.

Uno di quest'ultimi si presentò come autore di testi teatrali comici, un commediografo, che aveva bisogno disperatamente di attori per un suo spettacolo che avrebbe voluto rappresentare a breve.

- Solo 2500 sesterzi - puntualizzò il mercante già pronto a ricevere il primo malloppo della giornata.

- La sua cifra è leggermente alta - bisbigliò il commediografo un po' indeciso, si grattò la testa mezza calva tentato nel volerlo comprare viste le sue eccezionali abilità.

Anche se non era mai stato uno schiavo conosceva molti colleghi che lo erano stati in precedenza, ma che poi erano diventati alcuni tra i più importanti commediografi o tragediografi dell'Impero, ancora d'esempio per molti di loro.

Nel frattempo che i due uomini si mettevano d'accordo sull'acquisto Locusta continuava a guardare quello schiavo formidabile.

Era poco più di un ragazzo, probabilmente suo coetaneo, di altezza mediocre, dal fisico asciutto e mingherlino, dalla pelle abbronzata.

Si voltò verso di lei poiché si era accorto che qualcuno lo stava osservando da diversi minuti; quando vide che quel "qualcuno" era un bella donna barbara le rivolse un sorriso gentile.

Il volto seppur sporco ed intaccato da lievi graffi, restava giovane e levigato, il naso greco armonizzava il suo viso regolare e le labbra scolpite abbozzavano ad un sorriso lasciando intravedere dei perlacei denti.

Gli occhi color ambra si erano illuminati un istante per poi indirizzarsi davanti a sé; le sue acerbe sembianze sussultarono non appena sentì dalla voce del commediografo esclamare - Lo compro! Lo compro per 1900 sesterzi non uno di più!

Il mercante alla fine cedette e glielo consegnò alla somma indicata dal commediografo che iniziò a pregare gli dei per la fortuna ricevuta in quella propizia giornata.

Lo schiavo scese gli scalini di legno e si avvicinò al suo padrone porgendogli un cortese inchino e salutandolo con reverenziale rispetto; il suo atteggiamento era improvvisamente mutato.

Prima di scomparire definitivamente dalla scena girò lievemente la testa rivolgendo i suoi occhi aurei alla giovane Locusta che fece finta di non notare.

In quell'occhiata fugace la schiava lesse tutta la sua vita che si mostrò improvvisamente tragica, piena di delusioni e di livori che mascherava abilmente dietro quel sorriso abbagliante. 
Poi rivolse lo sguardo verso quella marmaglia che aveva adocchiato un'altra preda, ignorandola totalmente con grande sollievo per lei che era profondamente turbata.

Anche se lei e l'attore mostravano atteggiamenti opposti, l'una freddezza e indifferenza, l'altro gioiosità e vitalità, in realtà erano molto simili, ma solo un esperto della vita avrebbe potuto accorgersene.

Entrambi, per sopravvivere, indossavano una maschera con la quale potevano nascondere la loro vera indole e mostrare ogni volta le caratteristiche che meglio si adeguavano alla situazione, proprio come gli attori.

Si rese conto che quel mestiere rispecchiava appieno l'umanità abituata da secoli a fingere, nascondere, mascherare, tacere, dimenticare per poter vivere, se vita poteva chiamarsi.

"Così è questo il vero volto di Roma, della capitale del mondo" si disse ripensando a quell'attore che l'aveva tanto colpita.

- Niente male come prima giornata! - esclamò compiaciuto Lucius, agitando il sacchetto pieno di soldi di cui udiva il suono gratificante.

I pochi schiavi ancora invenduti, tra cui Locusta, erano stati depositati in una piccola stanza che sembrava una prigione.

Il freddo pungente della sera invernale invase quel luogo e Locusta anche se rivestita con i suoi stracci tremava senza sosta così come i suoi colleghi.

Alcuni che non le erano molto distanti le si avvicinarono per potersi scaldare a vicenda creando una catena umana.

Locusta all'inizio fu titubante ed indisposta e provò più di una volta ad allontanarsi da loro, però questi la pregavano di avvicinarsi a loro.

- In un mondo come questo e nelle nostre condizioni, bisogna imparare a sopravvivere tutti insieme, ragazza - proferì un uomo forzuto dalla pelle scura che se ne stava con le braccia conserte e il viso malinconico che rispecchiava la sua anima generosa nascosta dietro la sua possanza.

Locusta aprì la bocca per parlare ma non ne uscì alcun suono, e a testa bassa gli si avvicinò un po' timorosa

- Non devi temere la mia figura, ragazza sono più buono del pane - le disse infine per confortarla.

Aveva percepito la sua paura interiore che era riuscita a nascondere con coraggio per tutto il giorno.

- Non sei tu a farmi paura, buon uomo - gli riferì con lo sguardo triste

- Lo so, ragazza, è Roma che temi, ce l'hai stampato in volto - rise l'uomo

- Immagino che anche tu....

- Mi provoca ribrezzo... e un filo di compassione verso quella gente all'apparenza felice e ricca - spiegò osservando la piccola finestrella da cui proveniva il freddo e la tiepida luce lunare - Se penso che poi è la mia stessa gente

- Anche tu eri romano? - gli chiese stupita Locusta

- Un cittadino romano originario dell'Egitto - rispose l'uomo - E tu?

- Provengo dalla Gallia Narbonense, ma come sei diventato schiavo?

- Per renitenza alla leva

Spalancò gli occhi per lo stupore; come era possibile che un uomo possente e vigoroso come lui avesse rinunciato alla gloria della guerra e del campo di battaglia?

L'uomo sorrise alla vista della sua reazione - Ti vedo sorpresa, ragazza, in fondo hai ragione, se mi comporto così è perchè ho dei saldi principi che mi portano ad amare il prossimo e a rispettare la vita, per questo ho deciso di non combattere, di non uccidere nessuno anche se mi è nemico - espose con convinzione l'uomo.

Poi le rivolse gli occhi scuri e le fece la stessa domanda, lei gli rispose che era diventata schiava a causa dei debiti di famiglia.

Stordita dal sonno e dal freddo si lasciò andare; appoggiò la testa sulla sua spalla, percepì un timido calore sulla pelle, mentre sentì gli occhi pesanti per la stanchezza chiudersi - Potrà...questo calore...scaldare il mio cuore di....ghiaccio un.... - sussurrò.

Chiuse gli occhi e si assopì dolcemente.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 - Dalla caduta sorge l'ascesa - ***


"Amicus certus in re incerta cernitur. [...]
Qui igitur utraque in re gravemconstantemstabilem se in amicitia praestiterithunc ex maxime 
raro genere hominum iudicare debemus et paene divino". 
Cicerone, Laelius De amicitia, 64. 
 

In uno stato di dormiveglia Locusta udì un suono lontano: ritmato come un tamburo, incalzante come un trotto di cavallo.

Le sembrò di tornare con la mente nel suo villaggio, tra la sua gente, mentre festeggiavano in onore degli dei; lei era accanto ai suoi fratellini, alla sua famiglia sorridente e gioiosa, mangiavano in allegria senza alcuna preoccupazione, negatività. Il padre le posò la sua mano ferma sulla spalla fiero e orgoglioso.

Aprì gli occhi e vide che effettivamente qualcuno le aveva posato una mano, ma purtroppo per lei non era quella del padre. Era l’egizio che la fissava con il terrore nelle pupille, una paura che proveniva dal fondo dell’anima e che pareva risucchiarlo in un abisso senza fondo.

Si voltò con il viso pallido e si trovò davanti il mercante che la guardava con impazienza ed agitava la frusta al suolo, imitando il rumore degli zoccoli.

“Ecco da dove proveniva quel suono!” pensò timorosa, triste e delusa, appoggiando il viso sul petto dell'egizio che tentava di proteggerla stringendola con delicatezza a sé.

Quel mercante era un vero e proprio mostro, un uomo senza scrupoli nè morale, guidato solamente dai piaceri carnali e dal denaro: le sue uniche ragioni di vita.

- Non vorrete mica colpire una povera ragazza che non ha alcuna colpa, se non quello di vivere sotto il dominio di Roma? - chiese l'egizio con tono minaccioso senza, però, alcuna intenzione di fare del male.

Non si era mai avvicinato a quella vita: da sempre fu un seguace del Mitraismo, un’antichissima religione proveniente dalla Persia che si stava diffondendo sempre più tra i cittadini delle colonie imperiali e persino tra i soldati stessi; un culto segreto, che si svolgeva nell’oscurità, tra le grotte, in cui si sacrificavano animali, in particolare il toro, l’animale sacro al dio Mithra.

- Taci schiavo! - gridò Lucius alzando il braccio con l’intenzione di colpire l’uomo ma si bloccò vedendo che in mezzo c’era la florida schiava della Gallia che si era già preparata a ricevere il terribile colpo.

Non poteva rovinare una merce così preziosa e pregiata che l’avrebbe fatto fruttare fior di quattrini, oltre ad un piacere carnale che non provava da tempo immemore. Si sarebbe divertito proprio con lei.

- Sei fortunato negro! - grugnì sputandogli a pochi passi mentre lui lo guardava con disgusto e sdegno. Si allontanò dai due schiavi con uno sguardo ambiguo, misto tra rabbia e desiderio di vendetta.

- Preparatevi, tra poco inizia il mercato - aggiunse alla fine divertito. Sbatté con forza la porticina di legno.

- Stai bene vero? - le domandò con preoccupazione l’uomo guardandola dritta nei suoi stupendi occhi color del mare e del cielo.

Somigliavano in maniera impressionante alla lontanissima Alessandria d’Egitto, sua città natale. La nostalgia invase i suoi sensi. 

Gli mancavano le carovane cariche di stranieri e mercanti provenienti dal mondo ellenico che ebbe modo di conoscere molto da vicino; desiderava inspirare nuovamente l’odore, ascoltare il suono delle onde sulla sabbia arida e calda su cui il mare tracciava delle linee ondulate che sembravano raccontare storie in una lingua sconosciuta; la sua umile famiglia di fabbri. 

Adorava passeggiare per le vie della sua città da solo, ascoltare le leggende che gli anziani raccontavano scoprendo la nascita della sua città, i suoi segreti e tanto altro; tutto ciò che non avrebbe mai potuto imparare poiché era troppo povero per andare a scuola.

Imparò a leggere e a scrivere tramite una congregazione di iniziati mitraici che si riunivano nel tempio a lui dedicato.

Un giorno riuscì ad entrare nella biblioteca di Alessandria fatta costruire dal faraone Tolomeo, uno dei generali del Grande Alessandro che inaugurò il periodo ellenistico in tutto il mondo allora conosciuto, e lì rimase estasiato osservando e accarezzando gli innumerevoli rotoli e papiri di tutto il sapere del mondo, così gli diceva suo padre.

- Alessandria d’Egitto è la città più sapiente del mondo, Achaikos‎, vi accedono tutti coloro che vogliono conoscere, vengono qui ‎da ogni parte dell'Impero per studiare! - gli ripeteva sempre con grande tristezza ogni volta che si appostavano nei dintorni con i prodotti da vendere - Se solo fossi più ricco avrei potuto farti studiare come si deve in una città così saggia e sapiente, sei sempre stato molto curioso e volenteroso.

- Padre, non dite questo, io sono contento così, mi basta solamente avere la mia famiglia e la fede in Mithra che ci dà la forza per andare avanti. 

- Che bravo ragazzo che sei, Achaikos, ‎figliolo tanto caro - ammise con dolcezza.

Ma un giorno la sua famiglia avrebbe pianto per lui, costretta a lasciar partire uno dei suoi figli per poter sopravvivere; quel figlio che sarebbe poi diventato un guerriero spietato e crudele, così riferirono ai suoi genitori.

Immaginò la sua dolce madre piangere giorni e giorni per la sua sorte, per quel figlio che amava tanto. La realtà, per sua fortuna, fu diversa.

Purtroppo non ebbe mai il permesso di scriverli, dopo essere diventato schiavo, in modo da raccontargli come stavano effettivamente le cose; pregava ogni sera il dio Mithra di non abbandonare la sua famiglia. 

- Si, ma ho avuto tanta paura….per te - gli confessò Locusta con voce insicura di chi è sul punto di piangere ma si trattiene dal farlo.

- Non devi preoccuparti per la mia sorte, so difendermi benissimo senza l’uso della spada - affermò con sicurezza Achaikos che in quel momento le pareva un dio sceso in terra: alto, vigoroso, possente e sicuro come la roccia. I capelli corvini e spettinati coprivano le orecchie e parte della nuca, la barba leggermente incolta gli conferiva l'aspetto di un saggio nordico.

Locusta era sempre più stupita nel vedere con quanta dignità i suoi colleghi schiavi affrontassero la loro miseranda vita, vi era in loro e, soprattutto nell’egizio, una forza interiore che niente e nessuno avrebbe potuto estirpare. La galla si sentì sempre più un peso in quel luogo e iniziò a massaggiarsi il braccio sinistro per allontanare il suo disagio.

L’egizio le posò nuovamente la mano sulla spalla morbida e liscia; il suo aspetto le ricordava quello di una delle statue ellenistiche che aveva visto in giro e soprattutto nella sua città.  

- Devi ritenerti fortunata se sul tuo corpo non c’è alcun segno - la rassicurò con tono paterno Achaikos.

Si sbagliava, era ancora più bella di quelle fredde e marmoree statue: lei era viva, respirava come lui, il suo cuore batteva nel petto allo stesso modo, i capelli si agitavano ad ogni minimo movimento, la vita brillava nei suoi occhi.

- Grazie, anche se so che non durerà molto, appena sarò venduta mi tratteranno come un oggetto - le rispose Locusta sconsolata alzandosi ad osservare la luce del sole che era entrata nella stanza dalla piccola finestrella in alto - Durante il viaggio ho desiderato di morire, di uccidermi per la vergogna. 

- E cosa ti ha impedito di farlo? - le chiese l’egizio con voce sicura.

Locusta rimase stupita di fronte a quella domanda, non sapeva cosa rispondergli. Osservò le sue mani ancora intatte dalla fatica, seppur sporchissime e gli si riempirono gli occhi di lacrime.

- Non lo so! - esclamò con la testa confusa - Non ho idea di cosa mi abbia fermato e di cosa il destino abbia riservato ad una schiava galla come me - aggiunse con le mani tra i capelli disperata.

- Il tuo coraggio è ammirevole, galla - le disse l’egizio con voce paterna afferrando dolcemente i suoi polsi - Un vero guerriero non si lascia sopraffare dalla morte, la invoca per affrontarla, per combatterla, per dimostrarle che la sua ora non è ancora giunta…..

- Ma io non sono un guerriero - lo interruppe Locusta allontanando le sue grandi mani; indietreggiò di un paio di passi per non mostrargli la sua debolezza.

Malediceva il suo destino di donna: un essere inferiore a cui è impedito di dimostrare la sua umanità, volontà,  aspirazioni, desideri, sogni. Un essere generato solo per procreare, di continuare la discendenza dell’uomo, del marito a cui si sarebbe unita senza che qualcuno le avesse chiesto il suo parere e che l’avrebbe trattata come un oggetto.

Ed ora che era divenuta schiava a cosa sarebbe servita se non a scivolare da un letto all’altro per il resto della sua esistenza?

- Sono solo una donna, anzi una schiava! Una misera, insulsa schiava! - gli urlò con rabbia afferrando il braccio con le unghie che cominciò a sanguinare.

- È vero - le confessò imbarazzato Achaikos, intravide i suoi pensieri che apparvero come un lampo nei suoi occhi - Ma non puoi dimenticare le tue origini, il sangue di un popolo coraggioso e fiero come quello dei Galli che scorre nelle tue vene - sottolineò con un tono carezzevole.

Locusta stava quasi per controbattere però l’egizio, intuendo ancora una volta ciò che stava per dirgli, la zittì, le afferrò con delicatezza il braccio che aveva iniziato a torturare, si abbassò leggermente per guardarla dritta negli occhi. La ragazza ebbe la sensazione di aver rivisto già una scena del genere, ma ne aveva dei ricordi sfumati.

- Il tuo popolo ha da sempre dato del filo da torcere ai Romani, molte volte hanno dovuto bloccare la vostra avanzata con un esercito ben addrestato, persino il grande Giulio Cesare, l’uomo più ambizioso, astuto, intelligente che Roma avesse mai conosciuto ha trovato delle difficoltà con voi.

- Si, ma alla fine siamo stati sconfitti, conquistati, umiliati! I Romani sono imbattibili! - lo troncò Locusta con le lacrime agli occhi.

Nella sua mente non potevano essere cancellate le malefatte che i Romani compirono non solo nel suo villaggio ma in tutta la Gallia; ovunque passassero lasciavano morte, distruzione e il morale a terra dei sopravvissuti.

- Dov'è finita la tua dignità? - sollecitò adirato l’egizio. Era la prima volta che vide il suo volto trasfigurato, seppur per un solo istante, dalla rabbia, dalla delusione e Locusta intravide nei suoi occhi scuri la stessa espressione di terrore. Abbassò la testa.

- Mi è stata strappata fin dalla nascita, io sono nata per essere schiava, la mia vita fino ad ora non è stata che una bugia! Illusa fin da bambina delle mie doti mi insegnarono le proprietà delle erbe, io credevo che quella sarebbe stata la mia arma per riscattarmi, per mostrare a tutti la mia natura di donna galla, e invece - gli rivelò la ragazza con tono pacato ma colmo di rancore ed ira che l’egizio notò fin da subito.

Locusta non poteva saperlo ma anche lui le aveva provate all’inizio, quando il suo spirito e il suo cuore erano ancora quello di un ragazzo e non di un uomo.

Poi alzò la testa verso Achaikos e con lo sguardo fermo continuò - E invece compresi che sarebbe diventata l’arma dei miei nemici, che avrebbero usato per continuare a conquistare e dominare il mondo.

L’egizio si rialzò in piedi senza dire nulla, era scosso da sentimenti contrastanti, sul suo viso vi era stampato un sorriso tenue ma intenso che Locusta non comprese.

- Hai ancora molta ira e grinta dentro di te, galla- rise infine con una punta di nostalgia - Mi ricordi molto il me stesso di tanti anni fa, quando anche io decisi di ribellarmi a questo mondo! - tacque e le tese la mano con una luce diversa negli occhi.

Locusta con timore allungò anch'essa la mano e l’afferrò con grande energia per potersi rialzare. 
Achaikos sorrise nuovamente sollevandola e trovandosela davanti, iniziò a fantasticare su come potrebbe essere stata un tempo Locusta, quando il sorriso le illuminava il volto, e il mare dentro i suoi occhi era calmo.

- Devo ringraziarti - le confidò voltando le spalle e mollando la presa.

- Ringraziare me? Per cosa? - domandò la galla continuando a guardarlo con stupore. Sembrava diverso da prima.

- Per aver fatto rinascere in me il ragazzo che ero un tempo, per avermi rivestito nuovamente di dignità! - rispose con tranquillità, come se fosse fin troppo ovvio il suo messaggio; poi il suo tono  divenne serio e cupo - Hai detto di conoscere le erbe e di produrre intrugli e veleni giusto?

- Si, ma ti ho detto anche che…

- Allora usale! Devi farlo! Tu puoi farlo! - le ricordò con una freddezza che non si aspettava da lui.

- Fare cosa? Non capisco?

- Cambiare il tuo destino di schiava, tu puoi arrivare in alto se userai le tue abilità senza alcun timore - si rigirò nuovamente verso lei e rivide la sua bellezza nascosta e soprattutto la sua forza interiore - Anche se sembra che sia ormai cancellata in realtà la tua stoica dignità è rimasta ancora dentro di te, tra queste membra levigate e delicate

- Ma cosa dici? Ti ho detto che ormai io non sono più nulla, se non un oggetto. 

- Il tuo corpo forse, ma non la tua anima, quella nessuno potrà mai strappartela! Neanche la morte che la trasporta nell’Ade può appropriarsene! - le rivelò con convinzione.

Quando Locusta osservò nuovamente il volto dell’egizio le sembrò di rivedere quello del suo caro Caelan e si sentì rinata nello spirito, ritrovò se stessa; stava quasi per pronunciare il suo nome quando la porta si aprì e il venditore sbraitò come una bestia di dover uscire fuori per la vendita.

- Non ci sarà mai un baratro tanto profondo da non permettere la risalita, questo me lo hai fatto ricordare tu, ed ora andiamo ad affrontare il nostro destino a testa alta, come una sfida! - le afferrò le mani e la guardò con dolcezza.

“Caelan è sempre con me! È nelle persone che mi rispettano, continua a pregare per me e i miei compagni” pensò stringendo le  mani di Achaikos mentre la vita tornava a pulsarle in tutto il corpo.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 - Adattarsi al cambiamento - ***


"Donec eris sospesmultos numerabis amicos
tempora si fuerint nubilasolus eris
aspicisut veniant ad candida tecta columbae
accipiat nullas sordida turris aves"
Ovidio, Metamorfosi, I, vv. 523-526

Achaikos era stato venduto verso le prime ore del mattino: acquistato da un organizzatore di lotte e spettacoli, per soli 1500 sesterzi. Locusta non era triste anche se avrebbe dovuto esserlo; prima di allontanarsi le aveva sorriso per l'ultima volta: fu il suo augurio, il suo addio.

- Quanto è il prezzo di questa bella schiava? - chiese improvvisamente una donna puntando il dito verso Locusta; la ragazza interruppe bruscamente le sue preghiere ad Achaikos e si rivolse a guardare timorosa la donna che la stava indicando.

Aveva l'aspetto della donna romana per eccellenza: fisico formoso e curvilineo avvolto dalla stola, l'indumento lungo fino ai calzari, fermata in vita dalla cingulum, una cintura che metteva in mostra le forme floride della donna; sopra le spalle di essa vi era la palla di color porpora, un mantello che molte volte veniva usato per coprire il capo femminile.

I capelli corvini, dai riflessi azzurrini, erano raccolti in un ampia treccia a corona sul capo, fermate da pinze; anche se ben annodata qualche ciuffo ribelle le era caduto sulle spalle, dandole un aspetto più naturale e seducente. Aveva circa trent'anni.

- Questa schiava proveniente dalla Gallia è il pezzo migliore che ho a disposizione - le rispose Lucius con un ampio sorriso e gli occhi che si erano fatti piccoli per via delle zampe di gallina comparse ai lati.

- Ditemi il prezzo! - sbottò nervosa la donna - Non ho tempo da perdere in chiacchiere!

- 2500 sesterzi, signora! - riferì Lucius con orgoglio. Difatti era il prezzo più alto di tutta la merce in suo possesso.

- Il prezzo vale la sua bellezza, ma cosa sa fare? - gli domandò titubante; i lineamenti severi divennero più dolci quando mostrò la tipica indecisione femminile.

- Un'insuperabile conoscitrice delle erbe con i quali sa produrre filtri e veleni, un'abilità davvero molto rara da queste parti - le spiegò il mercante adulando all'eccesso le sue doti mentre ronzava intorno alla donna sfregando le mani.

- Solo questo?! - sbottò delusa - Non è in grado di svolgere le mansioni di una comune schiava? - le volse il suo sguardo.

Gli occhi castani si incrociarono con quelli azzurri della schiava; la sua espressione di disgusto durò qualche secondo poiché il mercante le assicurò, esagerando, che era in grado di fare qualsiasi cosa per la sua padrona.

- Se è così, allora non posso spendere i guadagni di mio marito per delle comuni e volgari schiave - la osservò con ammirazione, gli occhi le brillarono intensamente - Lei è diversa! È quella che fa per me! La compro! - esclamò alla fine consegnandogli il sacchetto pieno di soldi che aveva appeso alla cintura.

Il venditore aprì il sacchetto e rimase estasiato nel vedere quei bei soldoni dal suono gratificante.

Con un gesto invitò la schiava a scendere e Locusta obbedì senza discutere, emise solo un sospiro carico di rammarico e di paura per il futuro e il suo destino.

- Datele qualcosa per coprirla, non voglio andare in giro con una donna nuda! - ordinò la nuova padrona.

Il mercante fingendosi dispiaciuto le fece portare un telo di lana, Locusta si coprì per bene e si mise a seguire la sua nuova padrona a testa bassa guardando i piedi scalzi e sporchi.

L'unico cruccio che non aveva soddisfatto era quello di portarla a letto per ritrovare delle vecchie e sempre inebrianti sensazioni di piacere; ma quel capriccio passò subito poiché si ricordò di avere altre belle schiave e decise che alla fine della giornata avrebbe festeggiato con tutte loro per i cospicui guadagni ottenuti fin ad ora.

Locusta non aveva dimenticato i consigli e gli incoraggiamenti di Achaikos, ma in quegli istanti non riusciva a camminare a testa alta, il suo corpo era pronto, la sua anima, invece, era ancora incatenata al muro della vergogna, dell'umiliazione.

Come se non bastasse, non sapeva nemmeno del suo futuro in quanto sapeva svolgere le mansioni da schiava ma non era molto pratica.

L'angoscia e la paura attanagliavano il suo cuore.

- Come ti chiamavi da libera, schiava? - le domandò su due piedi la padrona che la fissava con la coda dell'occhio, aveva notato la sua plumbea espressione e in qualche modo voleva stabilire un rapporto di fiducia, seppur nei limiti concessi agli schiavi. 
Locusta alzò la testa con paura, quel nome era l'unica cosa che la legava al passato, che la identificava ancora come un essere umano vivente e pensante, ma ciò non la rassicurava affatto. 

- L-locusta - balbettò la ragazza; la lingua e la gola le si erano seccate e per evitare ancora una volta quello sguardo indagatore riabbassò la testa come segno di sottomissione.

- Hmmm, interessante - mugugnò la donna, si schiarì la voce - Voglio chiarire subito ciò che dovrai fare, Locusta.

- Qualsiasi ordine mi impartiate, io lo eseguirò, mia padrona - la interruppe Locusta con voce sommessa ma decisa.

- Bene, allora oltre ad occuparti di me, dovrai anche dare una mano a mio marito - iniziò - Ha una taverna ed è sempre pieno di lavoro! Non dovrebbe essere difficile per te aiutarlo! - le spiegò con schiettezza.

Locusta comprese che quella donna l'aveva scelto esclusivamente per quello: non aveva bisogno delle comuni schiave ma di una con un talento speciale, come lei. Il cuore cominciò a batterle con forza, non capiva il perché; forse il suo destino non sarebbe stato tanto nefasto.

La donna si fermò e la incoraggiò con un sorriso dicendole che erano quasi arrivati.

Mancava davvero poco.

Locusta non credeva ai suoi occhi quando vide la casa della padrona: una delle classiche abitazioni, le insulae, le più diffuse ed utilizzate nelle città italiche dell'Impero.

Abituata alle piccole e modeste casette in legno, singole, quei palazzi altissimi e imponenti la lasciarono di stucco; il mondo romano era ancora tutto da scoprire.

- Aulus!!! Aulus sono tornata! - urlò la donna entrando nella piccola taverna del marito, collocata in uno dei tanti spazi adibiti alle botteghe collocate al pian terreno delle insulae. Era gremita di uomini e donne che consumavano cibarie e bevande di ogni tipo - Ho trovato una schiava che fa al caso tuo!

- Alla fine l'hai trovata sul serio, eh Tiberia? - la schernì il marito con una fragorosa risata.

- Voi uomini non sopravvivereste un secondo senza di noi! - le ricordò la moglie con gli occhi lampeggianti. Tutti i presenti, compresi i due coniugi, scoppiarono a ridere.

Locusta era rimasta davanti l'entrata, ad aspettare l'ordine della padrona, non voleva interrompere quell'atmosfera così allegra e goliardica con il suo aspetto malmesso.

- Su, forza, entra Locusta! - le disse Tiberia facendole segno con la mano; la schiava non poté disobbedire ed entrò lentamente nella taverna. Man mano che avanzava verso il bancone il vocio e le risate si placavano per lasciar posto al silenzio contemplativo.

Gli occhi erano puntati tutti su di lei.

Anche Aulus la guardava esterreffato: era la donna più bella che avesse mai visto in tutta Roma, nonostante il suo aspetto sporco e poco curato. Si sentì avvampato e sudato; sua moglie ci era andata pesante questa volta.

Tiberia la avvicinò a sè, a due passi dal bancone e le mise una mano dietro la schiena - Locusta, lui è Aulus Livius Saturninus, il tuo nuovo padrone - le annunciò con grande orgoglio.

Locusta si inchinò con grande rispetto ed emozione: udiva i mormorii che le provenivano da ogni angolo, tutti rivolti a lei, alla sua bellezza, alla sua indubbia grazia.

Si convinse che forse non le era andata male, anche se il senso di disagio non la abbandonava poiché lei era e sarebbe rimasta una schiava fino a quando il padrone non le avrebbe restituito la libertà.

Per il momento era ancora un oggetto. 
Alzò le iridi e lo osservò senza farsi accorgere: doveva essere sulla quarantina, anche se pareva più giovane; di media statura e robusto, i capelli corvini avevano qualche spruzzata di grigio ai lati della testa, i lineamenti erano duri, squadrati, il mento pronunciato, il naso aquilino, gli occhi neri e vispi. Indossava la classica tunica lunga fino al ginocchio, sopra vi era il mantello che ricopriva le braccia.

- Sono al vostro servizio padrone! Voi ordinate ed io obbedisco - disse con un profondo inchino.

Aulus guardò la schiava ed emise un sospiro ammondendola - Prima dovresti aggiustarti un po' se vuoi essere davvero utile, conciata in quel modo non combineresti nulla! - passò a guardare la moglie e le ordinò - Tiberia vai a prenderle una tunica corta!

- Padrone, lasciate fare a me - s'intromise Locusta - Una donna di tutto rispetto come vostra moglie non dovrebbe abbassarsi nel prendere qualcosa di così insulso! È stata fin troppo buona nell'avermi portata al vostro cospetto senza deturpare il mio corpo!

Aulus rimase colpito dalla sua determinazione e dignità: aveva avuto al suo servizio schiave sottomesse e passive, ma quella ragazza non aveva perduto la sua grinta e il suo spirito di iniziativa; cominciò a provare simpatia per lei.

- Ho proprio qui un pezzo di stoffa! - le rivelò il padrone - Prendilo e vai a cambiarti, su forza, ho bisogno di collaborazione! - la incoraggiò battendo le mani.

- Agli ordini, padrone! - obbedì Locusta che prese il pezzo di stoffa e corse a sistemarsi lontano dai tavoli e dal bancone.

Si posizionò dietro alcuni armadi in cui erano conservate le vivande.

Mentre indossava il pezzo di stoffa, o meglio la tunica corta delle schiave e si sistemò i capelli in alto con delle pinze di fortuna, non poté non continuare a pensare ai suoi nuovi padroni: sembravano molto affabili e cortesi, anche se non ricchissimi; non poteva ancora credere di essere stata tanto fortunata, ma nel fondo del proprio cuore una voce le diceva di non fidarsi troppo dei romani.

E non poté non darle ascolto, in quanto stava iniziando a conoscere veramente gli uomini: il dolore, l'umiliazione, che aveva e continuava a provare le aprirono gli occhi mostrandole la miseria dell'umanità.

Emise un profondo sospiro e si fece coraggio: doveva pensare esclusivamente ad obbedire ai suoi padroni. Al suo cuore avrebbe dedicato l'intera notte, l'unico momento della giornata che permetteva di conoscere, di pensare, di riflettere su se stessi e il mondo.

- Eccomi padrone, sono pronta a servirvi - rispose Locusta con un inchino dinanzi ad Aulus che rimase abbagliato dalla sua grazia. Sembrava un sogno!

- Hai fatto presto! - le sorrise il padrone - Bene, vieni qui e porta questi vassoi ai clienti in fondo alla sala, per oggi il tuo compito sarà questo, in seguito pianificherò meglio il tuo ruolo, ti autorizzo a chiamarmi Aulus - elencò passandole i vassoi colmi di pesce, carne, verdure in una mano e le bottiglie di vino nell'altra.

La giornata passò velocissima, ed anche se non aveva nemmeno il tempo di riprendere fiato, si sentiva stranamente felice: il rendersi utile in qualcosa la faceva stare meglio, le restituiva le forze e soprattutto l'umanità.

Alla fine la notte calò sulla città, il silenzio regnava nell'oscurità, anche se il freddo era pungente il cielo era terso, le stelle e la ridente luna portavano il sonno agli uomini.

- Per oggi abbiamo finito, Locusta - l'avvisò Aulus spostando leggermente i pali di legno che sostenevano il telo, mentre Locusta teneva in mano la torcia di pece con la quale faceva luce al padrone.

Fece dolcemente posare il telo davanti l'ingresso della taverna, poi sistemò i paletti ai lati del muro ed infine chiuse le porte di legno.

Fattò ciò si diresse nella sua dimora situata al piano superiore della taverna, seguita dalla silente Locusta - Sei stata molto brava! - le sussurrò con dolcezza mentre si fece restituire la torcia e salendo le scale.

Locusta sorrise leggermente ed annuì con la testa come segno di ringraziamento, quell'uomo dall'aspetto un po' spigoloso era davvero gentile.

D'altronde era una persona che aveva contatti con cittadini di ogni sesso ed età, con i quali doveva mostrarsi sempre molto paziente e sorridente, oltre ad essere un grande lavoratore; quel mestiere non era difficile, ma costava molta fatica e sudore e lei lo avrebbe condiviso volente o nolente.

Entrarono nella domus e Locusta rimase a bocca aperta nel notare come fosse grazioso quell'appartamento, molto diverso dalla taverna, scarna e buia; le pareti erano molto colorate, di un rosso molto intenso e dipinte con splendidi disegni di foglie e rami intrecciati.

Abbassò lo sguardo per contemplare il pavimento ricoperto di un mosaico in bianco e nero, anch'esso decorato con fantasie geometriche; vi erano delle cassapanche e forzieri di legno finemente intagliati sparsi un po' per la sala.

C'erano molte finestre che davano all'esterno per permettere di far entrare più luce possibile, inoltre avevano il vetro, un privilegio molto raro e costoso per le classi meno abbienti.

- Dalla tua espressione deduco che non hai mai messo piede in una casa romana! - notò sorpreso Aulus.

- Esatto, questa è la prima volta ed è un'abitazione stupenda, non ne ho mai viste di così meravigliose - confessò emozionata Locusta, il viso le si era leggermente arrossato per l'emozione.

- Be' la nostra casa non è per nulla eccezionale, certo è più confortevole delle abitazioni collocate ai piani superiori che sono abitate da gente ancora più umile di noi o affitate, ma non è minimamente paragonabile alle domus e ville dei senatori e delle famiglie patrizie più potenti dell'Impero - rivelò con un pizzico di amarezza Aulus.

- Padrone Aulus, la cena è pronta! - annunciò lo schiavo Canius con un inchino; un suo coetaneo, piccolo ma prestante e gradevole, con i capelli castani cortissimi e grandi occhi grigi. 
La moglie corse ad abbracciarlo e lo baciò sulla fronte, poi rivolse a Locusta uno sguardo triste - Ovviamente tu dovrai aspettare insieme a lui dopo che abbiamo finito noi due.

- Va benissimo, in fondo non sono che una schiava! - li rassicurò con un sorriso Locusta; il fatto di aver trovato dei padroni così buoni nella capitale del mondo le era più che sufficiente.

Entrarono nel triclinium, la sala da pranzo, molto sobria, con al centro un tavolo non molto alto e due triclini, dei lettini su cui ci si sdraiava durante la consumazione; il tutto accompagnato dalla luce tenue delle lucerne ad olio che conferivano alla stanza un'aura sacra, quasi ancestrale. 

Locusta non perse tempo e gli servì, insieme a Canius, le vivande che Tiberia aveva preparato: zuppa di legumi e della frutta secca, accompagnati dal vino allungato con acqua.

Appena finirono di servirli i due schiavi si misero in un angolo; Locusta era appoggiata sulle ginocchia aspettando che i padroni finissero di concedersi l'unico momento di intima gioiosità dell'intera giornata.

Dopo che ebbero finito di mangiare gli avanzi le venne indicato il luogo dove avrebbe dormito: una stanzetta adiacente a quella da letto dei padroni, con i muri dipinti di bianco e il pavimento fatto di cocciopesto, una miscela di frammenti di mattoni impastati con la calce, un lettuccio di legno e una finestra.

Locusta, stanchissima, non esitò un attimo e si coricò sul letto, si coprì con il lenzuolo aspettando dolcemente che Morfeo, o Somnus come lo chiamavano i Romani, la cullasse tra le sue braccia e la trasportasse nel mondo dei sogni fino all'alba.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 - Ducunt volentem fata, nolentem trahunt - ***


Certa mittimus, dum incerta petimusatque hoc evenit
in labore atque in dolore, ut mors obrepat interim" 
Plauto, Pseudolusvv. 685-686

Anzio, 15 dicembre 37 d.C.

In un'uggiosa e fredda giornata d'inverno, in villa situata a poche miglia dal mare,  Giulia Agrippina, figlia del generale Germanico, molto amato dal popolo ed adottato da Tiberio stesso, sorella dell'imperatore Caligola, appartenente alla dinastia Giulio-Claudia, era entrata in travaglio da poche ore. Aveva 22 anni ed era il suo primo parto.

Nel 28 d.C., l'imperatore Tiberio l'aveva data in moglie a Gneo Domizio Enobarbo  appartenente alla gens Domitia, di origine plebea, del ramo degli Enobarbi il cui nome significava "barba di bronzo" per via della caratteristica cromatica tipica di tutti i suoi componenti.

Un uomo di media statura, tozzo, panciuto, con le gambe sottili, la testa un tempo folta di capelli color fuoco, in quegli anni era quasi calva, il volto rugoso e cadente, dall'espressione maligna: il naso grosso, gli occhi azzurri piccoli e rotondi, la pelle verdastra; rispecchiava il suo carattere vile e crudele. In quell'anno aveva 54 anni.

Giulia Agrippina era, invece, una giovane donna d'indubbia bellezza, anche se un po' fuori dai canoni romani: incredibilmente alta, più della media, per via della sua origine germanica, come il resto della sua famiglia.

I lunghi capelli castano - biondi erano perennemente raccolti in accurate acconciature, il naso era lungo e appuntito, la bocca sottile, gli occhi marroni, penetranti, che le donavano un'espressione acuta e sveglia.

Anche se odiava il marito, dal giorno del matrimonio desiderava dargli un figlio, possibilmente maschio che potesse ereditare, se non addirittura, superare il ruolo del consorte, e finalmente dopo tanti anni di tentativi era rimasta incinta.

- Fate un altro piccolo sforzo, domina, manca poco - la incoraggiò la levatrice che stava iniziando ad estrarre la testa del bambino, mentre una delle ancelle asciugava il sudore sulla fronte della partoriente accompagnata dalle altre che le davano sostegno accarezzandole le mani e le guance.

Giulia Agrippina raccolse tutte le sue forze e con altrettanta energia diede l'ultima e decisiva spinta; lanciò un urlo di dolore che si propagò per tutta la stanza da letto. I suoi sforzi erano stati ricompensati perché il bambino era nato: emise il suo primo, forte vagito.

- È un maschio, domina! Un bambino bello robusto e paffuto! - precisò la levatrice con gioia mentre verificava che tutte le sue funzioni vitali fossero perfette, scongiurando qualsiasi malformazione - È sanissimo, domina! -  assicurò.

- Che la sacra dea protettrice dei neonati, Levana, ti protegga, figlio! - sussurrò la madre stremata sul letto, poi si voltò verso un'assistente della levatrice ed ordinò di andare a chiamare il marito.

A quel punto la levatrice poté effettuare la lustratio, ovvero il rito di purificazione e pulizia: si spruzzava il sale evitando che andasse sugli occhi o nella bocca, lo si puliva, gli si massaggiava il corpo ungendolo con l'olio, lo si bendava completamente per evitare che prendesse freddo.

Lo pose sul pavimento in attesa che il pater familias lo riconoscesse come figlio legittimo; arrivò Gneo Domizio, con il suo passo lento e cadenzato nella stanza da letto e trovò il bambino bendato ai suoi piedi.

Lo guardò prima con indifferenza, poi sorrise e si calò per raccoglierlo: lo aveva riconosciuto come figlio!

- Io, Gneo Domizio Enobarbo, prometto solennemente di allevare e curare con tutto me stesso mio figlio, Lucio Domizio Enobarbo - dichiarò alzando al cielo il bambino che iniziò a piangere

‎Era nato colui che sarebbe passato alla storia come Nerone.

Detto ciò si allontanò e lasciò il neonato nella cuna, la culla, sorvegliata dalla dea Cunina, che scacciava i demoni e gli incubi dal sonno del bambino, cullata dalla cunaria, una persona addetta nel dondolare la culla.

La madre seppur ancora debole, si alzò per poter osservarlo con attenzione; mostrava i lineamenti degli Enobarbi: i radi e ricci capelli che aveva sulla fronte erano castano - rossi.

Provò odio e disgusto profondo per quel bambino che era la copia del padre, ma furono momentanei poichè pensò che avrebbe potuto risvegliare in lui le superbe doti dei Cesari: aveva anche il suo sangue nelle vene.

- Si, tu arriverai in alto, figlio mio, e un giorno tutto ciò che Roma ha conquistato, sarà tuo! - le sussurrò mentre lo accarezzava le guanciotte rosse.

2 gennaio 38 d.C.

- Sono nei guai! Sono nei guai! - ripeteva Gneo Domizio mordicchiando le ormai inesistenti unghie delle dita, il viso era una maschera di terrore: gli occhi spalancati fissavano il vuoto.

- Quando mai non lo sei, Domizio! - ironizzò la moglie con malignità mentre si stava facendo truccare da una serva - Scommetto che si tratta dell'accusa  di incesto con tua sorella Domizia Lepida, vero?

Gneo Domizio la fulminò con crudeltà e lanciò un grugnito - Io non c'entro! Te l'ho già ribadito un sacco di volte che non sarei in grado di fare una cosa del genere!

- Lo dicevi anche per la bambina investita a Via Appia solo perché stava giocando e tu non l'hai vista e quando cavasti gli occhi ad un cavaliere che non apprezzava le tue idee! - bofonchiò Giulia Agrippina.

- A cosa vuoi alludere?

- A niente - rispose con noncuranza la matrona.

- Insomma da che parte stai? - gridò l'uomo rosso in volto: somigliava ad un satiro. ‎Se non fosse stato per il suo autocontrollo Giulia Agrippina sarebbe scoppiata dal ridere. 

- Dalla tua nonostante tutto - sospirò poi indicò alla serva di insistere con il trucco azzurro e sfumature dorate sulle palpebre in modo da far risaltare gli occhi.

Le donne romane adoravano truccarsi, soprattutto quelle appartenenti ai ranghi più alti; era un modo per mostrare la loro presenza, influenza nella vita civile romana, pur sapendo bene che in realtà alle donne non erano concessi gran parte dei diritti degli uomini.

Con il passaggio dall'età repubblicana a quella imperiale le loro condizioni erano senz'altro migliorate, ma il divario che li separava dagli uomini si era solo  leggermente assottigliato.

Potevano divorziare dal marito, andare in giro da sole fino a tarda notte, fare il bagno alle terme insieme agli uomini senza alcun divieto, utilizzare metodi contraccettivi per limitare le nascite, questo soprattutto tra i ceti più elevati,
ma non potevano svolgere compiti gravosi o ricoprire cariche elevate che spettavano esclusivamente agli uomini.

Forse era questo a tormentare l'anima di Giulia Agrippina che tentava in ogni modo di sottomettersi a quel marito che non amava, né apprezzava, al quale si era unità solo per rispettare la parola data.

Ma lei era stata rispettata? Qualcuno le aveva mai chiesto cosa desiderasse?
Nessuno si era degnato di ascoltarla, di comprenderla!

Il suo cuore si era indurito fin dalla primissima infanzia: aveva conosciuto la fatica, il sangue, aveva seguito il padre Giulio Cesare Germanico e la madre Agrippina maior da un accampamento all'altro tra la Germania e la Gallia.

La paragonavano al padre Germanico: aveva la stessa espressione austera e severa che non lasciava trasparire alcun sentimento; e Agrippina stessa si era convinta che fosse molto più simile a lui rispetto ai fratelli.

Aveva intuito da subito che l'imperatore Tiberio era invidioso di suo padre, delle sue conquiste militari, del suo ascendente sul popolo romano, e che nel 19 d.C. lo fece morire avvelenato in Siria dal mandante Pisone, ne era sicura, anche se si cercava di insabbiare tutto.

Come se non bastasse non si limitò solo al padre: i suoi fratelli maggiori Nerone Cesare e Druso Cesare non ebbero sorte migliore: il primo infatti fu esiliato a Ponza nel 29 d.C. e lasciato morire nel 31 d.C., il secondo fu rinchiuso nelle segrete del palazzo imperiale dove morì nel 33 d.C. dopo essere impazzito.

La povera madre, ancora sconvolta dalla morte di Germanico, fu confinata nell'isola di Pandataria, l'attuale Ventotene, e qui si lasciò consumare dalla fame consapevole che ormai non sarebbe servito continuare a vivere in quello stato. Anch'essa morì nel 33 d.C.

Sopravvissero lei, le sorelle Giulia Lucilla e Giulia Drusilla e l'unico fratello: Caligola.

Fino a qualche mese prima era contenta di vedere il fratello a capo di quello stesso impero che aveva stravolto la loro vita, era segno che forse dopo la tragedia si sarebbe rivisto la luce.

Ma negli ultimi tempi Caligola stava iniziando a mostrare i primi segni di follia che lo stava allontanando sempre più dal Senato e dal popolo.

L'equilibrio era nuovamente compromesso e la situazione stava inesorabilmente precipitando: doveva preservare, più che il marito, il figlio Lucio che in cuor suo già chiamava Nerone, come il suo adorato fratello.

Il marito la osservava in silenzio mentre ripeteva quel rito, solo che questa volta la quantità di trucco era superiore al normale, perciò chiese - Come mai ti stai agghindando in quel modo?

- Per una visita - confessò la donna.

- Che genere di visita? Non mi starai nascondendo qualcosa vero? - insinuò con ira mal celata.

- Suvvia, non fare il geloso, non è quello che credi - lo tranquillizzò Agrippina.

- E allora cos'è? Chi è? - pretese sbattendo con foga il piede destro - Dimmelo!

- Un astrologo - rispose secca lanciandogli un'occhiata che non ammetteva repliche.

- Un astrologo? Che bisogno c'è di un astrologo? - borbottò diffidente Gneo che ben conosceva il carattere eccentrico della moglie.

- Un astrologo caldeo che ho fatto chiamare appositamente per nostro figlio, è partito da un paio di settimane da Roma per arrivare qui - specificò infine la donna dando le ultime direttiva alle serve nel decorare al meglio la Domus.

- Per nostro figlio? Ma ti rendi conto di quello che dici???

- Certo! Dobbiamo scoprire cosa le stelle hanno predisposto per Lucio, è un modo per difendere sia noi che lui!

L'astrologia era considerata una scienza sacra da parte dei Romani: mostrava come il destino, fatum, governasse il mondo e l'unico modo per conoscerlo e tentare quindi di prevenire sciagure, eventi nefasti o semplicemente leggere il destino di ogni uomo, era quello di studiare le stelle il cui influsso caratterizzava il singolo fin dalla nascita.

Quest'arte divinatoria era filtrata in Grecia dalla Babilonia e dall'Ellade era penetrata nel mondo Romano: imperatori come Giulio Cesare, Augusto, Tiberio erano degli attenti conoscitori dell'astrologia; simboli o eventi accaduti durante la loro esistenza erano interpretati come segnali del fatum sulla strada già segnata che avrebbero dovuto, volente o nolente, intraprendere.

Ogni cosa era stabilita dagli astri: abbondanza, povertà, gloria, potere, attitudini, azioni, eventi, incontri, aspetto fisico, e ciò che l'astrologo vi leggeva non era un approssimazione, un'eventualità, era la certezza più assoluta.

- Io credo al fatum e tu lo sai benissimo, ma non pensi di stare esagerando? Cosa può fare un bambino di tanto pericoloso? - sbuffò Gneo scocciato dall'atteggiamento, ai suoi occhi esagerato, della moglie da quando era nato Lucio.

- Tu non puoi nemmeno immaginare cosa può significare...... - iniziò Giulia Agrippina, interrotta dalla voce di una delle serve che l'avvisò dell'arrivo dell'astrologo caldeo. La donna balzò dalla sedia e si precipitò ad accoglierlo con tutti gli onori e il rispetto che però non provava.

"Tsk, le donne!" si disse Gneo Domizio furibondo "Chi può comprendere cosa  passa nelle loro teste?!"

Si allontanò dalla domus per andare a fare qualche passo: era un modo per sbollire, la rabbia, la tensione ed anche uno stratagemma per pensare a come uscire dai guai.

Sapeva di non godere di una buona reputazione agli occhi dei Romani per via dei suoi stupidi delitti e delle frodi pubbliche, ma quei pettegolezzi privi di senso, fomentati solo perché conoscessero i suoi vizi gli davano sui nervi più delle bizzarrie della moglie.

- Mostratemi l'infante! - ordinò l'astrologo Bel-shar-usur mentre si massaggiava la folta barba nera; ‎molto alto e dalla pelle scura, portava i capelli lunghi fino alle spalle: ‎indossava un lungo abito blu fino ai piedi, fermato da una cintura e i calzari.

- Subito - rispose Giulia Agrippina con un sorriso tirato - Seguitemi prego - lo accompagnò nella stanza del bambino ove il piccolo Lucio stava beatamente dormendo nella piccola culla di legno dondolata dolcemente dalla cunaria.

L'astrologo si fermò ai piedi della culla e si mise ad osservarlo con i suoi occhi scuri per pochi secondi poi emise: - Da quello che mi avete riferito, vostro figlio è un Sagittario ascendente Sagittario!

- E quindi? Cosa indica ciò? - domandò la madre con apprensione.

- Un cuore umano, chiuso in una gabbia e trafitto da un pugnale dal manico preziosamente intarsiato - sospirò l'astrologo.

Giulia Agrippina comprese che il figlio non era destinato ad essere felice, esattamente come lei, avrebbe sofferto molto per colpa del fato che probabilmente non li vedeva di buon occhio; se non poteva impedire ciò avrebbe dovuto almeno allegerire quel dolore.

Con i pugni chiusi, trattenendo il livore, si fece coraggio e comandò Bel-shar-usur di proseguire poiché si era zittito dopo aver notato il disagio della donna. L'astrologo comprese che non doveva essere facile per lei ascoltare il verdetto.

- Ha una grande volontà di affermazione bloccate però da una forte paura che può sfociare in atteggiamenti piuttosto aggressivi, autolesionisti se frustato - sciorinò l'astrologo che cercava di comunicarle tutto ciò che voleva sapere con grande sensibilità - Ha però molta ambizione e giustizia sociale, oltre che una predisposizione non indifferente per l'arte, l'unico mezzo di cui dispone per trovare la sua pace interiore

- Ha l'animo di un artista? Di un poeta? - si sorprese la madre che non si aspettava una simile rivelazione conoscendo il carattere rude del marito che non aveva affatto gusto per la poetica o per l'arte.

- Un'arte però irrequieta, nervosa, come la sua anima in bilico tra genialità e inadeguatezza, ambizione e disequilibrio, una creatività che nasce da un senso di impedimento da parte dell'alto che fa riaffiorare insicurezze, angosce ed ansie - riferì infine con grande empatia, come se il bambino gli stesse dicendo già tutto.

- Ma a parte questo io voglio sapere se un giorno governerà! Se sarà imperatore! - esclamò Giulia Agrippina.

L'astrologo rimase spiazzato da quell'esclamazione colma di ambizione ed orgoglio e cominciò a comprendere quale sarebbe stato il male di quel bambino; la fonte di tutte le sue instabilità.

Vedendosi costretto ad accontentare quella donna le rispose che avrebbe governato ma senza di lei le predisse con grande dolore e desiderio di salvare tutti loro - Vi ucciderà nel culmine della sua follia, vi ucciderà

A quel punto gli occhi di Giulia Agrippina brillarono intensamente; con un sorriso soddisfatto e battendo le mani sul petto urlò gioiosa - Che mi uccida pure, purché regni! Purché regni!

Il bambino spaventato da quell'urlo scoppiò a piangere mentre Bel-shar-usur, dopo essere stato pagato profumatamente, se ne andò via, terrorizzato da ciò che sarebbe accaduto a quella famiglia.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 - Quousque tandem? - ***


"Revocate animos maestumque timorem mittiteforsan et haec olim meminisse iuvabit"
Virgilio, Eneide, I, vv 202-203

Anzio, 10 febbraio 40 d.C.

Giulia Agrippina bussò alla porta di Domizia Lepida, sorella del suo defunto marito Gneo Domizio, morto nel gennaio dello stesso anno per via di un'improvvisa idropisia.

Il piccolo Lucio, di appena due anni, le teneva stretta la mano, mentre la osservava timoroso con i suoi grandi occhi azzurri: era sempre nervosa e infelice negli ultimi tempi.

Secondo molte false voci, avevano concepito una congiura per assassinare il fratello e l'imperatore, ormai completamente impazzito, credendo a tali pettegolezzi, alzò un muro insormontabile nei confronti delle sorelle, viste sempre più con diffidenza e timore.

Inoltre, assieme a sua sorella Livilla, era stata condannata al confino a Ponza dal fratello, che le aveva accusate di tradimento per non aver partecipato ad una fallimentare spedizione militare in Germania.

- Siete voi! - esclamò Domizia Lepida con freddezza - Cosa volete?

- Vorrei affidarvi mio figlio Lucio, non voglio portarlo a Ponza con me, tale esperienza potrebbe minare la sua salute... - le rispose Giulia Agrippina avvicinando il bambino alla donna; Lucio, però, faceva resistenza.

- Non voglio andare dalla zia - urlò il bambino aggrappandosi al vestito della madre, ma quest'ultima lo strattonò con forza e lo spinse tra le braccia della zia che si vide costretta ad accettare quell'increscioso ed imprevisto incarico.

- Va bene - sospirò infine la donna - Cercherò di crescerlo in modo che possa sviluppare ogni sua dote! - precisò Domizia Lepida con un sorriso tirato contraccambiato da Giulia Agrippina che non aveva dimenticato le parole dell'astrologo e voleva evitare di creare discrepanze tra lei e il figlio.

- Non abbiamo altro da dirci - disse alla donna, poi abbassò lo sguardo all'altezza del figlio che piagnucolava - Comportati da uomo, per favore...mi auguro che al mio ritorno tu sia maturato - gli riferì con distacco per poi allontanarsi da loro.

In cuor suo si convinse che quella fosse l'unica soluzione per salvaguardare il figlio, anche se la sorella minore dell'odiato marito e sua cugina di secondo grado, in quanto pronipote di Augusto, non le ispirava molta fiducia, si diceva che fosse proprio come il fratello: corrotta fino al midollo e di dubbia moralità, poiché per molte volte aveva sentito dire che perpetuava un rapporto incestuoso con Gneo Domizio e alla morte di quest'ultimo si abbandonò al dolore più totale, in maniera poco consona ad una matrona.

Lucio la salutò vanamente con la mano, silenzioso, attendendo che la porta si chiudesse per poter dare sfogo a tutta la sua frustrazione. Senza saperlo, Giulia Agrippina aveva appena creato una piccola crepa nella giovane e sensibile anima del bambino.

Roma, 15 febbraio 40 d.C.

Locusta si era ormai del tutto ambientata a quel nuovo mondo e la vita scorreva tranquilla, seppur qualche acciacco del padrone iniziava a farsi strada per via dell'età e del lavoro sempre più oberante.

Ciò comportò ad un aumento delle mansioni per la galla che, però, non si lamentava in quanto conosceva fin troppo bene i suoi padroni e mai si sarebbe sognata di creare loro altri problemi e preoccupazioni.

Uno dei primi raggi di sole dell'alba, dopo aver lottato contro le plumbee nuvole, si posò sul volto di Locusta che spostò la mano per evitare di rimanere accecata, si alzò e sistemò il misero letto.

Fatto ciò guardò con grande attenzione la porta e la finestra ed estrasse da sotto il letto una piccola boccetta di vetro: conteneva del veleno che lei stessa aveva preparato; l'aprì e lo sorseggiò.

Era un'azione abituale ormai, che compiva per adattare il corpo al veleno, sapeva, infatti, che se ingerito in piccole quantità giornaliere, l'effetto del veleno andava scemando fino addirittura a scomparire.

I suoi padroni non sarebbero arrivati a farle del male ma il mondo, purtroppo, non era costituito da persone come Aulus e Tiberia e poteva capitare che la sorte, volubile e imprevedibile, decidesse da un giorno all'altro di rovinare nuovamente la sua vita e farla catapultare in un mondo completamente diverso.

Dopo aver ingoiato il veleno fece un sospiro d'incoraggiamento e andò a servire i suoi padroni che si sarebbero svegliati nel giro di qualche minuto.

- Vado ad aprire la taverna! - esclamò Locusta alla padrona, con rinnovato entusiasmo, già pronta nell'eseguire la routine giornaliera.

- ‎Prima di andare ad aprirla, Locusta, vai a comprare delle vivande - le ordinò Tiberia - Abbiamo delle scorte negli armadi e qui in casa, ma con i ritmi degli ultimi giorni, potrebbe scarseggiare in pochissimo tempo e non possiamo esserne a corto!

- Ho capito - disse la ragazza - Non dovete giustificare i vostri ordini, padrona, siete davvero troppo buoni con il personale - le ricordò con imbarazzo Locusta.

Tiberia sorrise dolcemente e la fissò per un paio di minuti: era diversa da quando l'aveva comprata qualche anno prima; non era un cambiamento fisico, perché già era matura e florida quando l'acquistò. Erano i suoi occhi, la sua espressione ad essere cambiati; sembrava essere ringiovanita da quando lavorava con loro.

Inoltre sorrideva molto più spesso delle prime volte, ma il timore per gli estranei e per tutte quelle persone con cui era in contratto non era del tutto scomparso, poiché certe ferite per quanto possano cicatrizzarsi non scompaiono mai del tutto, soprattutto se sono dell'anima.

- Quel dormiglione non si è ancora svegliato! - sbuffò Tiberia riferendosi a Canius.

- Eccomi padrona! - urlò lo schiavo - Mi scuso per il ritardo ma non riuscivo a trovare i calzari, perdonatemi - spiegò abbassandosi con immensa umiltà e vergogna per l'accaduto.

- Che non succeda nuovamente - brontolò la donna - Ora muovetevi, Aulus vi attenderà all'entrata della taverna, su forza! - incoraggiò infine.

- Agli ordini - risposero all'unisono i due schiavi mentre si affrettavano ad uscire per dirigersi al mercato, il macellum, la zona appositamente creata per comprare tutto ciò che poteva servire nella quotidianità romana.

Appena misero piede al di fuori della domus, dovettero attendere che la gente, che già si era ammassata per la strada, diminuisse in modo da permettere loro il passaggio.

All'inizio Locusta era un po' spaesata, sia nei confronti delle innumerevoli vie di quell'immensa città che era Roma, sia dal caos abbondante che si creava fin dalle prime ore di mattino; vi passava ogni tipo di persona: cittadini liberi, liberti, schiavi, raramente però si vedeva gente d'alto rango come senatori, patrizi e matrone poiché delegavano ai servi e agli schiavi quel compito.

Se nei primi tempi odiava quel trambusto, il chiacchiericcio continuo, con il passare degli anni tutto ciò le divenne familiare e comprese che non avrebbe più potuto fare a meno di tutta quella vitalità che era presente solo in deteminate ore della giornata e dell'anno, nel suo paesino natale.

Arrivati al macellum che si svolgeva nel Foro, Forum, che si estendeva lungo le vie principali, sotto i templi o monumenti, e  che si suddivideva a sua volta in tanti Fori a secondo del tipo di alimento che veniva venduto dal cibo cotto al sale estratto alla foce, dalle verdure alla carne, ed era proprio in quest'ultimo che erano diretti: il Forum Venalium.

- Carne! Dell'ottima carne suina di prima qualità! - urlava un venditore del Forum Suarium, cioè dei maiali, ‎cercando di convincere qualcuno della folla a comprare la sua carne fresca in bella mostra con il sangue che gocciolava al suolo dai muscoli rossi e pasciuti accanto ai salumi da essi ricavati.

- Che ne dici, Locusta? Andrà bene quella?  - chiese Canius all'orecchio della collega puntando il pollice verso quel venditore.

- Si, in effetti mi sembra ottima - sussurrò la galla massaggiandosi il mento - Però dovremmo controllare se la qualità resta uguale dopo averla essiccata e conservata.

Canius, uno schiavo di poche parole, annuì convinto e si girò verso quel venditore seguito da Locusta che già stava preparando il discorso da fare al mercante.

Anzio, 6 marzo 40 d.C.

Lucio stava esercitandosi, a pomeriggio inoltrato, nel suonare la cetra che sua zia si faceva spesso suonare da uno dei suoi sottoposti che animavano un po' quella vita priva di grandi stimoli.

Era grande e pesante per il suo corpicino, ma, senza farsi troppi problemi, lo posava sul pavimento e, dopo essersi seduto, cominciava a suonarlo: aveva preso subito confidenza con quello strumento così bello, il cui suono dolce e nostalgico proveniva da un tempo lontano, meraviglioso, fuori da ogni logica. 

Un tempo in cui non vi era la sofferenza, la fatica, il dolore, le guerre, l'odio, la solitudine, ma solo pace, armonia, amore, ed un immenso calore che gli scaldava l'anima ad ogni piccolo tocco che faceva vibrare le corde. 

- Sei diventato più bravo di me Lucio! Complimenti! - si congratulò il ballerino Daphnus, uno dei precettori incaricati dalla zia per la sua educazione.

- Tutto merito del maestro - lo ringraziò il bambino ridendo; anche se più piccola e povera la domus della zia era diventata casa sua così come tutti i suoi componenti, la sua famiglia.

La zia Domizia Lepida si era dimostrata più materna, dolce, premurosa, gentile rispetto alla sua vera medre che non faceva altro che rimproverarlo o criticare aspramente le sue scelte.

Sua zia lo ascoltava sempre persino se non era d'accordo e quando doveva correggerlo o sgridarlo, assai raramente, lo faceva sempre in maniera cortese, senza turbarlo o rattristarlo; aveva notato l'estrema sensibilità del bambino, così rara in un cittadino romano.

Nonostante avesse le caratteristiche tipiche degli Enobarbi, che pure lei mostrava, come i capelli ricci rossi e gli occhi azzurri, non aveva affatto il carattere rude e insensibile del fratello Gneo, sembrava più simile a lei e questo la confortava davvero molto.

Ma conoscendo bene il carattere della madre, il timore per le sorti di Lucio Domizio non lo abbandonava nemmeno un istante.

Giulia Agrippina non era certo una donna che si rallegrava delle abilità artistiche del figlio, era orgogliosa, testarda, ambiziosa, doti da non disdegnare, che però non avrebbero giovato al nipote a cui non interessavano nè la politica, nè il potere, nè tantomeno un ruolo da console o senatore, come era stato per suo fratello.

Per questo permetteva a Lucio di cimentarsi in quello che più desiderava con chi voleva, in modo da poter trascorrere delle giornate liete e serene, prima del ritorno della madre che lo avrebbe trascinato nella tristezza e nel disagio più totale.

- Allora devo stare attento a non farmi superare da te! - recitò Daphnus facendo finta di sentirsi mancare per far ridere il bambino che sembrava gradire molto tutto ciò che riguardavano le arti e la cultura.

- Già, Daphnus - confermò Domizia Lepida sbucando all'improvviso nella stanza, in tutto il suo splendore, malgrado avesse raggiunto l'età di 50 anni.

- Mia padrona, Domizia - la salutò con reverenziale inchino il ballerino, nascondendo una smorfia maliziosa. 

- Te l'ho detto mille volte che non sopporto queste recite! - lo sgridò per poi scoppiare a ridere assieme al ballerino e Lucio che si sentiva al settimo cielo.

Il ballerino aveva notato che quel bambino stava riempiendo il vuoto che il fratello aveva lasciato con la sua morte; l'affetto e l'amore erano capaci di riaddolcire anche una donna come Domizia Lepida che fino a prima dell'arrivo del nipote non era proprio un esempio di donna eccelsa.

Inoltre aveva ripreso ad indossare abiti più colorati e sofisticati, dopo un periodo in cui non faceva altro che portarne di scuri e mesti, che rispecchiavano il suo umore tetro e cupo.

- Lucio - disse poi la zia sorridendogli con amorevole dolcezza.

- Dimmi zia - rispose prontamente il nipote ricambiando il sorriso.

- Verresti a fare una passeggiata sul lungomare con la tua cara e vecchia zia? - gli chiese con un tono che più di una richiesta sembrava una supplica che però il bambino non colse.

Lucio si alzò di scatto e con il volto illuminato dalla felicità corse verso di lei stringendole la calda mano; quel gesto valeva più di mille parole.

Mentre passeggiavano sulla costa, a due passi dal mare, entrambi guardavano il mare accomunati dallo stesso sentimento di malinconia e tristezza.

Quando era in compagnia del nipotino percepiva nuovamente dentro di sé quel calore materno che credeva sepolto, dopo le nozze dei figli, avuti dai suoi due precedenti matrimoni: Marco Valerio Messala Corvino e Valeria Messalina dal cugino e console Marco Valerio Messalla Barbato, morto nel 20 d.C.; e Fausto Cornelio Silla Felice, da Fausto Cornelio Silla, discendente del più noto Lucio Cornelio Silla, con il quale era unita ancora, seppur non fosse molto presente nella vita di coppia.

- Volevo chiederti scusa, zia - esordì con serietà Lucio dopo un lungo silenzio contemplativo.

- Per cosa? - domandò stupita Lepida che abbassò gli occhi verso di lui; il suo sguardo era fermo, deciso, ma velato da un lieve senso di colpa.

- Per aver detto di non voler stare con te, quel giorno... - rispose Lucio trattenendo le lacrime: aveva promesso alla zia di non dover piangere in sua presenza. 

La donna si piegò sulle gambe e gli accarezzò i capelli per rassicurarlo: ogni volta che si trovavano in intimità si scusava sempre per quella frase, quasi come se fosse tormentato dal rimorso o come se avesse paura che un giorno qualcuno o qualcosa glielo avrebbe ricordato.

- Ti ho già perdonato un sacco di volte, Lucio, so che quando l'hai detto eri sconvolto perché tua madre partiva senza di te e non volevi abbandonarla, ma non pensarci più, me lo prometti? - lo rassicurò dandogli un bacio sulla guancia paffuta e rossa.

Lucio si toccò la guancia e dopo aver contemplato la serenità, apparente, della zia le promise che non ci avrebbe pensato più e le sorrise - Ti voglio tanto bene, zia, più di qualsiasi altra persona al mondo! - esclamò alla fine abbracciandola teneramente.

- Anch'io te ne voglio tanto, Lucio, e desidero che tu sia davvero felice in questa vita - gli bisbigliò nell'orecchio "In fondo ciò che brami più di ogni altra cosa è solo un po' d'amore, vero amore".

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 - Sic vivendum, sic pereundum - ***


"Cum adversum cunctos ingenti avaritia, libidine, crudelitate saeviretinterfectus in Palatio est anno aetatis vicesimo nono, imperii tertio, mense decimo dieque octavo"
Eutropio, Breviarum ab Urbe condita, VII, 12

Roma, 20 novembre 40 d.C.

Un uomo nerboruto si avvicinò al bancone dove vi era Aulus che stava preparando i piatti da far servire agli ospiti; il padrone lo guardò con la coda dell'occhio senza però farsi notare da lui.

- Quanto costa quella bella schiava che serve il cibo? - chiese con tono di chi si era appena scolato un'intera bottiglia di vino.

Locusta, anche se distante, udì che qualcuno stava parlando di lei; cercò di non perdere la calma e di continuare a lavorare con apparente serenità, poiché conosceva la saggezza del suo padrone.

- Mi spiace ma non la cedo a nessuno, Marcus - rispose con schiettezza Aulus - Se proprio desideri avere qualche emozione dovresti recarti dal mercante di schiavi, so che è arrivato con nuova merce da un paio di giorni

L'uomo ringhiò sordo e borbottò qualcosa a voce talmente bassa da essere impercettibile, con passo dimesso se ne tornò a posto. I suoi occhi brillavano sinistramente ed erano puntati su Locusta.

Non appena si avvicinò al suo banco, sulle labbra di Marcus si formò un ghigno soddisfatto e con una rapidità e lucidità incredibile le afferrò il braccio e la trascinò sul tavolo, facendo rovesciare tutto quel ben di dio sul pavimento.

- Cosa me ne faccio di una comune schiava? Quando ce n'è una come te! - esclamò l'uomo con il volto stralunato, contemplandola estasiato.

- Lasciatemi! - urlò Locusta cercando di fargli mollare la presa sempre più stretta dell'uomo che era sempre più deciso a portarla con sé.

- Adesso gli schiavi hanno diritto di reclamare?! - si disse Marcus con il desiderio che cresceva nel petto: il cuore cominciò a battergli con forza.

- Marcus lasciala! - ringhiò Aulus con una rabbia che Locusta non aveva mai visto - Lasciala e vattene via da qui!

- La prendo in prestito per un paio di ore e poi te la restituisco! - rise malignamente Marcus sgaiattolando fuori dalla taverna e trascinandosi la povera Locusta che continuava a mostrare resistenza.

Senza attendere un solo istante Aulus si lanciò all'inseguimento, mentre la moglie gli urlava di stare attento e di non esagerare: gli ricordò che non aveva più l'età per compiere uno sforzo simile.

Ma non poteva cedere, non poteva permettere che un omuncolo qualsiasi le soffiasse da sotto il naso la sua Locusta; aveva giurato a se stesso che non l'avrebbe più fatta soffrire strappandola da quel mondo crudele, che le avrebbe restituito il sorriso e la voglia di vivere. 
"Locusta, resisti ti prego....resisti!"

I due arrivarono in una misera insulae non molto distante dalla taverna del padrone e senza nemmeno chiudere la porta Marcus, la condusse nella sua minuscola stanza da letto; la lasciò andare.

La ragazza cadde miseramente a terra ma si rialzò, non senza fatiche e ricadute, per poi mettersi a sedere sul letto, massaggiandosi dolorante il polso gonfio e rosso.

Dall'entrata si udì la voce di Aulus che chiamava entrambi.

- Quel rompiscatole mi ha seguito per davvero! - gridò stupito Marcus, poi si voltò verso Locusta con maliziosità - Ci tiene molto ad una come te, ma voglio vedere fino a che punto....- affermò infine l'uomo che corse ad incontrarlo.

- Lasciala andare e non dirò nulla di ciò che hai fatto! - assicurò Aulus cercando di calmarsi; non vedeva Locusta ma pensò che stesse bene poiché non aveva avuto il tempo per fare ciò che desiderava.

- Ahahahah, sei patetico, che ti importa è solo una schiava!

- Sarà solo una schiava, ma è una mia proprietà e decido io cosa farne! - rispose abbassando il discorso al suo livello.

- ‎Vedremo, ti ricordo che io sono uno dei migliori pugili di Roma - ridacchiò poi si rivolse a Locusta che stava ascoltando la conversazione - Ehi schiava, prima di iniziare vai a prendermi una bottiglia di vino, sarà lui a tradirlo, ahahahah

Locusta si precipitò subito a prendergliela nonostante il padrone le stesse ordinando di non farlo: ma sapeva cosa fare e come sbarazzarsi di quel tipo.

Aveva con sé un fiore capace di produrre uno dei più potenti veleni al mondo, l'aconite; afferrò la prima cosa che gli capitò sotto mano, un pezzo d'intonaco, e iniziò a schiacciarlo per bene, evitando di tenerla in mano troppo a lungo.

Una volta fatto ciò, con estrema delicatezza, posizionò l'estratto di aconite, l'aconitina sulla bocca della bottiglia e la versò velocemente nel vino: attese qualche secondo perché si amalgamasse con il liquido e corse a consegnarglielo.

- Quanto ci hai messo? - sbottò Marcus nervoso - Temporeggiavi per salvare il tuo caro padrone? Ah, sei un'illusa peggio di lui!

"Vedremo chi dei due lo sarà, Marcus" si disse Locusta mentre gli consegnava il vino, senza far notare il ghigno soddisfatto che si era formato sulle sue labbra.

Aulus guardava spaventato entrambi e ingoiò la saliva sapendo che Marcus non scherzava sul fatto che fosse davvero il migliore di tutto l'impero.

Come poteva competere con uno come lui? Non che non fosse robusto fisicamente, anzi si era fatto i muscoli, oltre che l'esperienza e la testa, con quel mestiere ereditato da suo padre, suo opposto.

Da ragazzino gli era capitato parecchie volte di giocare alla lotta con i suoi compagni ed amici, sia per tenere il corpo in forma, in quanto potenziali soldati, sia quando litigavano fra loro per il possesso di un qualcosa o di qualcuno e, nonostante la sua natura piuttosto pacata, non si era mai tirato indietro nel combattimento.

Ma quell'uomo era un colosso e al suo confronto sembrava un ragazzino gracile e indifeso.

- Dammi qua - rise l'uomo che afferrò la bottiglia e la svuotò per metà; Locusta intanto cercava di rintracciare lo sguardo del padrone per fargli capire che stava andando tutto bene, ma Aulus era immerso nei suoi pensieri.

- Sei pronto, pulce? - domandò con sarcasmo Marcus.

- Si, nonostante tutto! - rispose Aulus facendosi coraggio e rivolse gli occhi a Locusta, che era stranamente tranquilla e calma, come se avesse in mano la situazioni. Gli comunicò qualcosa con il labiale: "Va tutto bene! Non ti preoccupare!"

"Come faccio a non preoccuparmi?" si chiese sconsolato Aulus. Non ebbe nemmeno il tempo di finire di formulare il suo pensiero che gli arrivò un pugno sulla guancia che lo scaraventò fuori dalla porta.

- Padrone Aulus! Non vi muovete! - urlò Locusta che si stava precipitando ad aiutarlo; sentiva un oppressione al petto, in fondo se Aulus era ridotto in quel modo era solamente per colpa sua.

- Dove credi di andare? - la bloccò Marcus piantandosi dinanzi la porta - Se è un vero uomo deve alzarsi da solo e combattere!

Ma la galla non volle ascoltarlo e si mise a percuoterlo disperata sul petto del puglie che si stava inervosendosi per l'atteggiamento poco mansueto di quella schiava.

- Basta, Locusta! - urlò Aulus con tutto il fiato in corpo barcollando leggermente per alzarsi; era evidentemente provato, il labbro inferiore spaccato e sanguinante, quello superiore gonfio, e sulla guancia vi era ancora il segno del pugno chiuso, 
ma non si sarebbe arreso - Sto bene! Ho solo qualche acciacco - sorrise il padrone, nascondendo la paura e la preoccupazione.

- Ne hai di fegato per dire cose del genere! - sbottò Marcus che allontanò Locusta prendendola per il polso e lanciandola verso il muro - E tu non muoverti da lì, chiaro?

"Perché non fa effetto? Forse ho sbagliato le dosi o è lui a non provare nulla? Probabilmente anch'egli compie il mio stesso rito" formulava Locusta seriamente preoccupata; era la prima volta che lo provava effettivamente con qualcuno che non fosse se stessa e temeva di aver commesso qualche errore.

Intanto, Aulus, riusciva a tenergli testa per un po' parando qualche colpo con grande agilità; si sentiva lucido e sveglio, nonostante il labbro gli facesse male, le forze erano ancora con lui.

"Aulus si sta sacrificando per me, ed io sto qua a non muovere un dito! Caelan non mi ha mai insegnato la resa, anche se sono nata donna...mai!" s'incoraggiò Locusta balzando in piedi.

Anche se non aveva la forza per buttarlo a terra, desiderava lo stesso aiutare il suo padrone, non le importava d'altro: un romano, colui che doveva essere il suo nemico, il più feroce dei padroni, stava rischiando la vita per lei, una misera schiava agli occhi di tutti; nessuno della sua famiglia aveva mosso un dito per salvarla dal suo destino.

Marcus stava per tirare il pugno finale ad Aulus quando, iniziò a grattarsi il viso; con evidente agitazione il formicolio si diffuse per tutto il corpo, sentendo un torpore per nulla rassicurante.

Poi, improvvisamente, si bloccò con gli occhi e la bocca spalancati, sudato; la vista si annebbiò mentre il cuore batteva all'impazzata, il respiro diventava affannoso.

A questo si aggiunse un forte dolore all'addome e allo stomaco generando nausea e rigurgiti che non esitò un attimo ad espellere senza alcun ritegno.

Locusta, vedendo quella reazione, sorrise compiaciuta, l'aconitina stava finalmente compiendo il suo dovere: ucciderlo.

- S...schiava, v..vai a prendermi dell'a..acqua! Sto....sto soffocando! - sussurrava debolmente Marcus con una mano stretta in gola e l'altra sollevata verso il cielo.

Il cuore che fino a qualche istante prima gli stava esplodendo in petto smise di battere e Marcus, cosciente fino all'ultimo, cadde a terra, privo di vita, con l'espressione di terrore e di morte stampata in volto.

Aulus, sconvolto, si volse verso Locusta che stava osservando con soddisfazione l'ormai cadavere di Marcus e le chiese atterrito - Sei stata tu vero? Cosa avevi messo all'interno della bottiglia?

- Dell'aconite - rispose tranquillamente Locusta

- Aconite, eh? Ora capisco - rise con rammarico Aulus - Torniamo alla taverna, i clienti ci aspettano...

Locusta annuì sollevata, mentre Aulus era angosciato dall'avvenimento, aveva appena scoperto la vera abilità di Locusta ed ebbe paura; era la sua arma per difendersi dalle avversità della vita, ma cosa sarebbe accaduto se fosse stata comprata da un padrone senza scrupoli e dignità?

Scacciò quel terribile pensiero dalla mente, Locusta non avrebbe mai fatto del male a nessuno se non fosse in pericolo. Per questo, in cuor suo, sentì il dovere di proteggerla maggiormente di come stava già facendo.

Roma, 23 gennaio 41 d.C.

Cassio Cherea, tribuno dei pretoriani, ovvero un capo della Guardia pretoriana, che aveva il compito di salvaguardare la vita dell'imperatore, stava aspettando l'arrivo di alcuni suoi colleghi; si erano dati appuntamento a due passi dal palazzo imperiale.

Si strinse nel mantello, tremando come una foglia, era una notte fredda, quasi gelida, ma priva di vento.

- Cassio! Cassio! - udì il tribuno guardandosi intorno; aveva riconosciuto quella voce, era di Cornelio Sabino, un ufficiale della coorte pretoria - Sono dietro di voi!

Cassio si voltò e lo vide, fiero, deciso più che mai a cambiare il destino di Roma, ponendo fine al tiranno; era accompagnato dal silenzioso Papiniano, più freddo e calcolatore del compagno d'arme.

- Prima che arrivino gli altri voglio sapere se avete fatto ciò che vi ho detto stamattina! - domandò

I due si guardarono ed annuirono all'unisono - Il coro di cantori che eseguiranno i due ditirambi, desiderati da Caligola in persona per la celebrazione della sua persona, è stato informato di quanto accadrà domani - aggiornò Cornelio Sabino.

Cassio sogghignò sadicamente - Caligola la pagherà per tutte le volte in cui mi ha schernito ed oltraggiato impunemente davanti a tutto il Senato! E sarà la sua ampollosità ad ucciderlo!

- Nonostante il freddo pungente, siete già focoso, Cassio! - ironizzò il senatore Propedio sbucando dall'ombra - Ricordo bene quella volta, il vostro viso aveva assunto tutte le tonalità più accese, dal rosso al viola, ahahhaha

- Non vi ci mettete anche voi, senatore - sbottò il tribuno, scuro in volto - Ho già chi mi rende nervoso.....

Cassio Cherea, anche se non folle e incontrollabile come l'imperatore, aveva un carattere molto simile a quello di Caligola, soprattutto per quanto riguardava la permalosità, il sadismo e la vendetta, che caricavano di rancore la sua voce acida.

- Suvvia, non fate il solito....

- E voi cercate di non oltrepassare i limiti, senatore, la nostra temporanea alleanza è dettata da un male comune - gli ricordò Cornelio Sabino diffidente della fedeltà di Propedio e degli altri senatori, il cui unico pensiero era quello di tenere al sicuro il fondoschiena.

Il senatore si massaggiò il doppio mento e con una mano fermò il furore di quell'ufficiale - Al Senato interessa solo che vi sbarazziate di quel pazzo, sono già due volte che scampa alla congiura....

- Questa volta non ci scapperà, abbiamo programmato ogni cosa, potete stare tranquillo senatore - gli garantì Cassio - Insieme al vostro fondoschiena - bisbigliò infine.

- Perfetto....allora ci vediamo domani nel corridoio che porta alla sala dove si esibirà il coro, alla settima ora.... - precisò una volta per tutte Cassio Cherea.

Annuirono all'unisono e si allontanarono ognuno per la propria strada....

Roma, 24 gennaio 41 d.C.

All'ora settima, precisamente a mezzogiorno, Caligola si stava recando, insieme alla quarta moglie Cesonia e la figlioletta Drusilla di poco più di un anno, nella stanza in cui due giovani asiatici lo stavano aspettando per celebrare le feste augustali, e la sua gloria.

In fondo al corridoio vi era Cassio Cherea, che lo fissava con un'espressione gioiosa in volto, che poche volte aveva visto in lui, poiché provavano reciprocamente odio l'uno verso l'altro.

- Parola d'ordine! - esordì Cassio Cherea seraficamente.

- Vuoi prenderti gioco di me, Cassio? - sbraitò Caligola infastidito solamente dalla sua presenza.

- Pensavo che oggi foste un po' più allegro....

- Lo sono quando non ci sei tu tra i piedi! - strillò - Ti sto tenendo in vita solo perché ho già abbastanza condannati da far uccidere all'arena, quindi devi ritenerti fortunato se non sei ancora tra loro - gli ricordò l'imperatore, cercando di passare ma il tribuno continuava a bloccargli la strada.

- Prima che andiate a godervi lo spettacolo, desideravo porgervi il mio dono, maestà - riferì soffusamente Cassio estraendo la spada e colpendolo alla testa. 
L'imperatore arretrò di un paio di passi, lanciando lampi di rabbia verso quel maledetto tribuno, ma ciò non gli permise di accorgersi della presenza di Cornelio Sabino, sbucato dalle spalle del collega, che lo pugnalò al petto.

Una trentina di congiurati, tra cui il senatore Valerio Asiatico, un liberto dell'imperatore e soldati, piombarono su Caligola, ancora vivo, con il sangue che gli usciva dalla bocca come un fiume in piena, mentre tentava in tutti i modi di allontanarli.

Ma i continui colpi inferti ad ogni parte del corpo, con scudi, elmi, pietre, non gli diedero scampo e, senza nemmeno il tempo di maledirli per l'eternità, stramazzò al suolo esalando l'ultimo respiro.

La moglie e la figlia non furono risparmiate dalla Guardia pretoriana, in quanto dovevano stroncare definitivamente il seme della follia: la prima venne trafitta da una spada, la seconda ebbe una fine peggiore, sfracellata, senza pietà, contro una parete con inaudita crudeltà e ferocia da un soldato.

Il cadavere dell'ex imperatore venne inizialmente lasciato ai cani e a quelle stesse bestie tanto care a Caligola, ciò che rimase fu fatto bruciare, come da tradizione, ma solamente a metà, ed infine frettolosamente sepolto e ricoperto con poca terra.

- Roma libera! Roma libera! - gridavano i congiurati per le vie della città; si stava ripetendo la stessa scena delle ben più note Idi di Marzo.

I Romani, però, non festeggiarono, almeno inizialmente, poiché avevano paura che fosse un tranello dell'imperatore con lo scopo di trucidare chiunque avesse festeggiato della notizia.

Caligola morì all'età di 29 anni, dopo aver regnato per tre anni, dieci mesi ed otto giorni; giaceva abbandonato sotto un cumulo di terra come il più miserabile degli uomini.

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Capitolo 8
*** Capitolo 7- Evento inaspettato - ***


"Illud autem optimum est, in quod invadi solere ab improbis et invidis audio: cedant arma togaeconcedat laurea laudi".
Cicerone, De officiis, I, 77

Non appena la notizia della morte di Caligola giunse nel Senato, si decise di radunarsi subito nel Campidoglio, la cui sede era il Tempio di Giove, per discutere della situazione creatasi.

Anche loro all'inizio avevano creduto che quella fosse una diceria messa in giro dall'imperatore stesso per giustiziare gli oppositori, ma quando Propedio giunse al raduno, confessò di essersi messo d'accordo con i congiurati per uccidere il tiranno.

- Non ci resta che abolire l'Impero e ristabilire la Repubblica! - aggiunse poi con aria maliziosa - Per troppo tempo abbiamo dovuto subire le prepotenze e le crudeltà di Tiberio e di Caligola, senza aver potuto controllarli; un uomo solo al comando non può garantire nulla nè ai cittadini, nè a noi!

- Ma non ci sono altri componenti della dinastia facilmente manovrabili? - chiese uno dei suoi colleghi - Se la memoria non mi inganna, ricordo che Caligola avesse una sorella, da lui stesso esiliata mesi fa, potremmo farla sposare nuovamente con qualcuno di influente e sarà quest'ultimo a governare - propose infine.

- Giulia Agrippina intendete? - domandò come conferma Propedio massaggiandosi il mento glabro; rimase in silenzio a mugugnare tra sé, non aveva minimamente pensato a lei - No, non credo che sia una buona idea - esordì poco dopo - Quella donna è ambiziosa ed orgogliosa come poche, non credo che si sottometterebbe facilmente.

- Propedio ha ragione! - sostenne un altro - Per il momento è meglio lasciare tutto com'è, poi si vedrà...

- I congiurati sono a nostra completa disposizione - ricordò Propedio - Non dovete temere nulla.

Qualcuno, in cuor suo, stava già preparando a candidarsi come successore di Caligola, aspettando che i tempi e le modalità fossero maturi.

Nel palazzo imperiale, intanto, c'era ancora tanto fermento, seppur i pretoriani avessero smesso di seminare morte e distruzione intorno a loro.

Non avevano ricevuto alcun ordine preciso, oltre a quello di massacrare chi gli capitasse a tiro, ma dopo l'eccitazione del momento, si erano placati in attesa di novità, mentre la noia iniziava a serpeggiare tra i soldati.

- È sempre così che accade, appena succede qualcosa di eccitante, questo svanisce in un lampo... - sbuffò uno di quelli.

- Sempre meglio qui che su un campo di battaglia non credi?

- Hai ragione, non riuscirei a sopportare un tale sforzo - rise nuovamente.

- Nonostante tutto siamo fortunati

La tenda presente in una sala indicata dal corridoio si mosse leggermente, l'uomo che vi era nascosto tentava di restare immobile, nonostante stesse letteralmente tremando di paura. 

- Vado a prendere una boccata d'aria - gli disse il compagno sbadigliando.

- Cerca di non addormentarti, non vorrei ritrovarti appisolato da qualche parte del palazzo - si trattenne il soldato cercando di non scoppiare dal ridere.

- Lo stesso vale per te, amico - ribatté il compagno d'arme allontanandosi dalla stanza.

Una volta che il suo amico si allontanò, il soldato emise un profondo sospiro e si appoggiò ad un muro, cercando di non lasciarsi vincere dal sonno.

Ad un certo punto, però, udì qualcosa, era debole ma continuo, persistente; curioso di scoprire di cosa trattasse iniziò a perlustrare la zona con grande foga, mentre il rumore diventava più forte man mano che si avvicinava.

Finché non trovò una grossa tenda tirata: era l'unica in effetti a non essere chiusa; il soldato, avendo compreso la provenienza del rumore e visti dei piedi, spostò fulmineamente la tenda.

Incrociò gli occhi terrorizzati di un uomo tremante di paura, che lo fissavano sgomento, supplichevoli. Il soldato semplice lo riconobbe immediatamente e rimase stupito nel trovarlo lì: era Tiberio Claudio Druso, zio di Caligola e fratello dell'amato Germanico, che nessuno aveva dimenticato.

Si era nascosto lì dietro durante il trambusto e la confusione che la congiura aveva creato e aveva creduto di essere salvo, fino a quel momento.

- Vi...vi p-prego...non...non u-uccidetem-mi... - lo implorò gettandosi ai suoi piedi, con il cuore che gli esplodeva nel petto - R-risparmiatemi la...la vita...io...io n-non centro...

Il soldato corse immediatamente a chiamare i suoi colleghi per avvisarli; Claudio, credendo che fosse ormai la fine, ritornò a nascondersi dietro la tenda, avrebbe potuto scappare ma la paura lo bloccava.

"Spero solo che non mi uccidano come Caligola" pensò stringendo una parte della tenda quando vide tornare il soldato con una decina di compagni, tutti con un'espressione mista tra felicità ed eccitazione.

Non appena si avvicinarono a Claudio, uno dopo l'altro s'inchinarono al suo cospetto, sapendo che quello dinanzi a loro era l'ultimo discendente adulto della dinastia Giulio-Claudia - Ave Cesare! - esclamarono con convinzione.

- Co-cosa significa? - chiese intimidito l'uomo ancora più tremolante di prima - N-non volete uccidermi?

Il soldato che lo aveva trovato per prima, sorrise e lanciò uno sguardo d'intesa ai suoi compagni, per poi allungare la mano verso Claudio.

- Venite con noi, questo posto non è più sicuro - gli rispose con tranquillità.

Claudio si rassicurò, strinse la mano del soldato semplice che lo condusse verso una lettiga colma di feriti e lo trasportò nel campo fuori porta Nomentana, per farlo riposare.

25 gennaio 41 d.C.

- Cosa? Quel Claudio! - balzò il senatore Valerio Asiatico, nel momento in cui un gruppo di soldati gli riferì di quanto era accaduto - Ma...ma è uno stupido infermo!

- È l'ultimo discendente della dinastia e poi non ha mai avuto occasione di mostrare le sue abilità! - ribattè il soldato.

- Non è il momento di sperimentare, Claudio è il meno indicato nel ruolo di imperatore! - sbraitò il senatore balzando sul soldato scuotendolo con forza.

Proprio quando sembrava che la strada per arrivare al potere fosse stata spianata con tanta pazienza, ecco che qualcuno doveva intromettersi a rovinare i progetti di un uomo ambizioso. 

Il soldato lesse la preoccupazione sul viso del senatore ed intuì che bramava di arrivare in alto, molto più di qualsiasi altro suo collega.

- Perché voi vi sentite adeguato, senatore? - lo punzecchiò il soldato.

Valerio tentennò per un istante; era riuscito a leggere i suoi pensieri, lui un insulso ragazzino, un infimo soldato.

Ebbe l'impulso di strozzarlo ma il collega Propedio lo fermò e lanciandogli un'occhiata schifata lo fece cascare al suolo.

Nemmeno riuscì a finire la frase che sbucò un altro gruppo di soldati con Claudio in persona che, ancora scosso dagli avvenimenti, fissava con meraviglia i suoi ex colleghi.

Era stato un paio di volte senatore, ma la sua opinione era sempre stata ascoltata per ultima e senza la minima attenzione; non aveva mai contato nella società: considerato un infermo fisico e mentale, incapace di comprendere le normali istituzioni romane.

Vissuto nell'ombra fino a Caligola con il quale fu console, in quelle ore gli si prospettava una vita differente da quella che si era immaginato fino a qualche giorno prima.

- Questa è un'azione intollerabile! - esclamarono gli altri senatori che inziarono a protestare.

Claudio restava in silenzio, con la testa china, remissivo come era sempre stato, guardando i piedi di cui uno era malfermo e lo aveva reso zoppo, da qui il nome Claudio, claudicante.

Inoltre non era né bello, nè aggraziato e neanche più giovane: aveva da poco raggiunto la soglia dei cinquant'anni.

- La vostra presenza qui è inaccettabile! - gridarono i senatori verso Claudio che continuava a restare inerme - Recatevi alla Curia e sottomettetevi al volere dei padri!

- Io non sono più padrone di me stesso - sussurrò Claudio alzando leggermente gli occhi verso di loro.

Zittirono tutti e gli intimarono di ripetere ciò che aveva appena detto, compresi i soldati che erano al suo fianco. 

- Non sono più il padrone di me stesso!! - urlò con una determinazione che non credeva di possedere - In fondo me lo avete sempre ribadito che sono un incapace, un inetto, un infermo! Ora ne ho la certezza!

I pretoriani e i soldati compresero che quello di Claudio era un trionfo. E senza che avesse impugnato un'arma.

Il Senato non riuscì a reagire dopo l'inaspettata reazione di colui che consideravano un uomo tutt'altro che pericoloso e che adesso era sostenuto dall'esercito insieme a gladiatori e liberti.

Per quanto comuni uomini, essi stavano assumendo un potere sempre più grande e questo li spaventava.

Se avessero continuato a sottomettersi al loro volere cosa sarebbe accaduto? Anche loro avrebbero fatto la stessa fine dell'ex imperatore? 

Quel terribile pensiero fece sbiancare Valerio Asiatico che fissò il collega Propedio, anch'egli preoccupato, soprattutto per il fatto che non avevano minimamente contato la presenza di Claudio: un uomo insignificante, la cui figura era sempre stata sospesa nell'aria, senza alcuna voce in capitolo.

- Cosa facciamo? - domandò sconsolato al collega.

- Per il momento solo aspettare - gli rispose Propedio che improvvisamente capì che forse Claudio sarebbe stato il trampolino di lancio per ritornare al vecchio splendore della Repubblica, senza istituirla effettivamente.

Portato in trionfo dal esercito, i cittadini non poterono non restare attoniti di fronte a quell'evento: le milizie urbane, al servizio di Cassio Cherea, che fino a pochi istanti prima declamavano la libertà e avevano giurato fedeltà al Senato, non esitarono a cambiare bandiera, abbandonando la guardia del Foro e del Campidoglio per giungere al campo di Porta Tomentana.

- Stolti! Vi pentirete! - si sgolò Cassio Cherea inutilmente, col disperato tentativo di trattenerli - Vi pentirete di aver patteggiato per un imbecille dopo esservi liberati da un pazzo.

Cassio Cherea sospirò: ormai era troppo tardi, la tanto agognata libertà, era durata poche ore e sarebbe stata oppressa nuovamente da un imperatore.

Anche se si fosse ribellato, nessuno lo avrebbe seguito o sostenuto come era successo in quell'effimero momento di gloria; anzi sapeva benissimo che la sua vita, insieme a quella di Cornelio Sabino e Papiniano, era in serio pericolo.

- Ma allora è vero! - riferì entusiasta un cliente irrompendo nella taverna di Aulus - Caligola è veramente morto! Non era uno scherzo! È stato ucciso!

Locusta, che stava riportando i piatti sporchi al bancone, si voltò per guardarlo senza mutare espressione; per lei non sarebbe cambiato nulla, ma sapere che la vita dei suoi padroni sarebbe potuta migliorare le fece ben sperare seppur con molta diffidenza.

- Ah sì? E da chi? - proruppe Aulus coinvolto dallo stesso entusiasmo.

- Dai pretoriani! - informò guardingo - Da quanto si dice, pare che nel palazzo imperiale ci sia stato un massacro!

- Caspita - emise Aulus - E come mai c'è tanto fermento? Per via della morte del tiranno?

- Anche, ma soprattutto perché ci sarà un nuovo imperatore...

Locusta corrugò la fronte: era certa che la libertà per i romani non sarebbe durata affatto; era davvero necessario avere una figura dispotica come l'imperatore per poter vivere serenamente nell'Impero?

Ripensò alla storia della città che le aveva insegnato il druido Caelan e si ricordò del fatto che anche quando era una Repubblica, il basso popolo di Roma non ebbe mai l'effettivo potere, c'era sempre stato qualcuno che è emerso e lo aveva guidato.

Proprio come i Galli, anche il suo di popolo aveva un condottiero, un sovrano che decideva della vita di ognuno: è insito nella natura umana l'affidarsi ad un capo per poter progredire nella loro quotidianità.

- Spero che questo non sia peggiore del precedente - disse Aulus.

- Dubito che qualcuno possa superare Caligola in follia...

- Come darti torto! - rise Aulus.

- Che fai, ti unisci al gruppo? - propose il cliente con un'occhiata d'intesa, indicando una marmaglia di uomini, donne e bambini. 

- Mi spiace ma non posso, ho una taverna da mandare avanti - sospirò il padrone - Semmai mi riferisci alla fine della giornata.....ti offro le specialità.... - bisbigliò. Era un suo cliente abituale e conosceva meglio di chiunque altro i suoi gusti culinari.

- Non mancherò, a stasera - lo salutò festosamente.

- È solo per merito di tutti voi - iniziò Claudio al centro di un emiciclo, con enfasi ed emozione - Voi, pretoriani, che mi concedete questo titolo tanto ambito, tanto desiderato, di imperatore; siete stati gli unici che avete avuto fiducia in uno come me, un uomo ormai anziano, facilmente esposto alle malattie ed evitato da tutti i suoi pari - continuava con le parole dettate dal cuore che uscivano spontanee, libere.

Anche se balbuziente, quando arringava dei discorsi carichi di potenza retorica, riusciva ad essere al livello di pochi; Augusto, fu il primo a notarlo, quando era ancora un ragazzino, e seppur non lo valorizzò, ne rimase fortemente colpito. 

Mentre parlava notava la gente che lo ascoltava rapita, desiderosa di volerlo sostenere; mai in vita sua aveva ricevuto tanta attenzione.

Aveva imparato a farsi da parte in ogni situazione, ad evitare gli incontri con uomini influenti, importanti poiché li avrebbe disturbati con la sua infermità; sua madre Antonia la giovane, lo definiva uno stupido, in quanto incompiuto e lui lo aveva accettato.

"D'altronde una società come la nostra, dove solo il più capace primeggia, conta nella vita pubblica, che se ne fa di un malaticcio come me!" si diceva ogni volta che incrociava lo sguardo di parenti e conoscenti.

Ripose tutta la sua vita nella cultura che acquisì da solo, poiché i precettori che gli furono affidati non avevano una formazione adeguata, in fin dei conti era considerato un imbecille; se però il fisico e la salute non lo accompagnavano, ciò non si può dire della sua mente e della sua parola.

Ma questo i Romani l'avrebbero scoperto da quel giorno in poi.

- Giuro fedeltà a tutti voi, come voi avete fatto con me, e per ringraziarvi di ciò, concederò 15.000 sesterzi ciascuno - emise Claudio con gioia indescrivibile.

I soldati a quel punto lo presero di peso e lo sollevarono, acclamandolo imperatore. Aveva conquistato il popolo, la fedeltà delle milizie con il denaro, ma l'avrebbe mantenuta con le sue decisioni ed azioni.

Il Senato, con le spalle al muro, non poté fare altro che concedere i poteri imperiali a Claudio, si recarono di persona alla Porta Nomentana legalizzando l'operato dei pretoriani.

Il più improponibile degli uomini, colui che vide sfilare dinanzi a se tutta la dinastia da Augusto a Caligola, che era convinto di trascorrere la sua esistenza nell'ombra dell'incomprensione, fu proclamato imperatore; si mise alla testa dei suoi fedelissimi ed entrò trionfante a Roma.

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 - Tacitum vivit sub pectore vulnus - ***


Est modus in rebus, sunt certi denique finesquos ultra citraque nequit consistere rectum"
Orazio, Satire, I, 1, vv. 106-107

Cassio Cherea, Cornelio Sabino, Papiniano ed altri congiurati che non fecero in tempo a fuggire, furono portati, dai loro ex soldati, al cospetto del nuovo imperatore, che li fissava con attenzione.

- Prima della vostra esecuzione - esordì Claudio cordialmente - Vorrei concedervi la possibilità di ottenere la grazia, anche se avete cospirato contro mio nipote, mi avete permesso di ottenere un titolo al quale non avrei mai potuto aspirare con le mie sole forze - aggiunse poi con un'espressione serena.

I pochi presenti al palazzo imperiale rimasero stupiti di fronte a tale atto di magnanimità, era dai tempi di Giulio Cesare che non si vedevano gesti di grande umanità verso uomini che avevano messo a repentaglio la vita stessa dell'Impero.

Soprattutto dopo gli anni cupi, violenti e crudeli di Tiberio prima e Caligola poi.

Claudio sembrava incarnare lo spirito del grande condottiero: colto, dalla mente aperta, brillante e soprattutto generoso.

Ma Cassio Cherea non si fidava di tutta quella bontà, la percepiva come una trappola; Claudio non aveva mai toccato con mano i giochi di potere e gli intrighi, però li aveva intravisti da lontano, da dietro una porta o una tenda, perciò li conosceva meglio di chiunque altro.

Il silenzio regnava sovrano in quegli istanti, nonostante si respirasse un'aria carica di tensione.

Nessuno aveva però intenzione di prendere la parola per primo; si scambiavano occhiate intense e più eloquenti di qualsiasi discorso.

I tre congiurati si intesero subito e con un lieve accenno del capo diedero a Cassio il permesso di parlare anche a loro nome.

- Noi non abbiamo bisogno della vostra grazia! - esclamò Cassio cupamente - Siamo pronti a subire la nostra condanna, il vostro potere è più deleterio della morte!

A quelle parole, senza mutare la sua espressione pacata, con un gesto della mano, ordinò ai soldati di portarli sul patibolo, davanti a tutta la popolazione.

Senza nemmeno dar loro il tempo di prendere fiato gli si buttarono addosso e gli legarono le mani dietro la schiena, spingendoli verso l'uscita per eseguire la passeggiata ignobile.

Claudio fece cenno ad uno dei presenti di avvicinarsi e quest'ultimo si posizionó con l'orecchio vicino le labbra; allorché l'imperatore gli bisbigliò: - Concedete alla città l'amnistia e fate tornare nei loro paesi natale gli esiliati da Caligola

- Come desiderate, imperatore - rispose sorridente l'uomo; in cuor suo era convinto che con Claudio sarebbe tornata l'era della pace augustea di cui la città e l'Impero avevano bisogno.

I tre congiurati camminavano a testa alta verso il luogo d'esecuzione nonostante gli insulti, gli sputi, le percosse e le sassate che si facevano strada lungo il tragitto; Cassio Cherea in particolare non mostrava alcun ripensamento, era convinto fino in fondo di ciò che aveva fatto, e l'ultima cosa che lo spaventava era proprio la morte.

Disprezzava tutti quei concittadini che lo sbeffeggiavano: si erano già dimenticati di averli liberati dal sanguinario Caligola, ma lui non lo aveva fatto per loro, lo aveva fatto solo per sé e i pochi fedeli che, come lui, stavano condividendo la medesima sorte.

Sapeva, infatti, che il popolo si dimenticava subito della gratitudine e benevolenza ricevute, riportando alla luce solo il malgoverno e i soprusi.

"Questa pace non durerà, e quando ve ne renderete conto sarà troppo tardi" si disse alla fine salendo sul patibolo ed incrociò gli occhi del boia affiancato dal magistrato che avrebbe recitato la sentenza ed ordinato l'esecuzione di decapitazione.

Dopo aver elencato delle nefandezze dei congiurati, con una mano fermò il boia che aveva già la spada pronta per eseguire la condanna - Prima di ucciderli, si dovrebbe permettere di esaudire un piccolo desiderio, sono pur sempre cittadini romani.

Cassio Cherea non perse tempo ed enunciò con fermezza - Desidero essere ucciso con la stessa spada con la quale ho colpito il tiranno.

- Bene - emise il magistrato - E gli altri due complici? Desiderano lo stesso?

- Anche noi lo vogliamo - ribadirono i due con la medesima decisione.

Il magistrato diede l'ordine di fare ciò che enunciarono e quando i tre congiurati si videro le loro armi, furono scossi da un brivido lungo il corpo; poi non sentirono più nulla: nè il freddo della lama, nè il collo che si staccava e rotolava.

Solo l'istantanea terribile sensazione della vita che veniva strappata con forza dal corpo per essere gettata per sempre nell'Oltretomba.

- Imperatore - esordì uno dei pretoriani - Il Senato reclama la damnatio memoriae  per Caligola...

- Non c'è bisogno di arrivare fino a tanto - rispose mentre si alzò dal trono per sgranchire le gambe - Mio nipote ha compiuto azioni riprovevoli che meritano la condanna dell'oblio, ma ciò che è accaduto deve essere un segnale per evitare qualcosa di simile

L'imperatore si voltò a guardare il pretoriano che non era favorevole a tale decisione; la pazzia del nipote aveva scosso nel profondo anche uomini forti come loro e ciò che volevano era solo dimenticare quei momenti tragici.

Claudio intuì il suo malessere e sorrise amaramente ad indicare che lui non avrebbe mai seguito quella strada, ne giustificato il nipote, poi dopo un lungo silenzio disse: - Vi ordino solo di togliere le statue che lo raffigurano, in modo da accontentare tutti

- Agli ordini - rispose il pretoriano che si allontanò con foga.

L'imperatore camminava zoppicando lungo i corridoi del palazzo imperiale e pensava a cos'altro avrebbe potuto fare per il suo popolo; gli eventi si erano susseguiti rapidamente e si rese conto che molti non erano riusciti ancora a comprendere la situazione.

- Spero solo di avere il tempo per farlo - sospirò Claudio con la paura che credeva aver sepolto nel suo cuore, non era il terrore per la morte a tormentarlo, aveva  un'età che per la maggior parte, compreso il Senato, poteva essere vista come un'occasione con la quale controllarlo.

- La prima cosa che devo fare è cercare di ottenere piena fiducia del Senato, il popolo e l'esercito sono totalmente dalla mia parte, e dargli l'illusione di avermi in pugno senza esserlo...

Anzio, 2 febbraio 41 d.C.

Giulia Agrippina, appena arrivata nella città dall'esilio, si diresse verso la casa di Domizia Lepida per riprendersi suo figlio, ad aspettarla sulla costa c'era Gaio Sallustio Passieno Crispo, uno degli oratori e politici più rinomati di tutta l'Urbe.

Egli era divenuto il suo nuovo marito poiché Claudio lo aveva affidato alla nipote, dopo averlo fatto divorziare da Domizia maggiore in modo che, Agrippina, una volta tornata a casa, potesse occuparsi del figlio Lucio Domizio Enobarbo insieme a lui.

Passieno non si era opposto all'ordine dell'imperatore, anzi era molto lieto di unirsi ad una donna così bella e di occuparsi di un bambino, come non gli accadeva da tempo immemore.

Sorrise lievemente quando vide Giulia Agrippina avvicinarsi a lui, la donna, fece il suo gioco: anche se non molto soddisfatta, in quel momento aveva bisogno di stabilità, così come suo figlio.

- Siete molto puntuale, Passieno... - si congratulò Giulia Agrippina suadente.

- Appena mi hanno parlato di voi, non ho atteso nemmeno un istante, desideravo vedervi e... - si bloccò.

- E? - chiese Agrippina guardandolo maliziosamente

- E devo ammettere che le statue non riescono a raccogliere la bellezza che emanate

- Suvvia, non dite così, in questo momento sono tutto fuorché presentabile, avrebbero dovuto riferirmi che eravate già arrivato....

Passieno la prese per i fianchi e la trascinò a sé; Agrippina vide che, nonostante fosse quasi coetaneo di Claudio, aveva un aspetto gradevole: alto, quasi quanto lei, dal fisico lievemente tondo ma robusto.

La voce era potente e nello stesso tempo armoniosa; i capelli, ormai grigi, erano però folti: le guance leggermente cadenti, il naso aquilino, gli occhi, neri e profondi, sembravano scrutarla come un'aquila fa con una preda.

Nonostante ciò però era una persona molto tranquilla, umile, con uno spiccato senso dell'umorismo, ma senza grandi aspirazioni nei giochi di potere: ed era questo, forse, a non rendere del tutto soddisfatta Agrippina.

- Non dovete scusarvi di nulla, la vostra bellezza non ha bisogno di miglioramenti - le confessò con arguzia.

Agrippina si sentì seriamente in imbarazzo, il suo precedente marito non le aveva mai dato tante attenzioni e lei era sempre stata fredda e controllata nei suoi confronti.

- Mi...mi spiace interrompere questo dolce momento...ma ho un figlio da recuperare... - gli ricordò la donna.

- Avete ragione...scusatemi - rise l'uomo evidentemente a disagio.

All'interno della domus di Domizia Lepida, l'ambiente era lugubre e triste: da quando avevano ricevuto la notizia dell'amnistia e quindi della revoca dell'esilio, la donna non riusciva a trovare pace e il piccolo Lucio Domizio non poté far altro che cercare di non mostrare i suoi turbamenti.

Ma l'istinto femminile della zia comprese che Lucio non aveva alcuna intenzione di rivedere sua madre; sapeva però che quel momento sarebbe arrivato prima o poi.

- Non voglio lasciarti, zia! - pianse Lucio tra le sue braccia, mentre lei lo accarezzava con l'intenzione di rassicurarlo.

- Ogni volta che ti sentirai solo, Lucio, suona quella sinfonia che mi piace tanto, sarà un modo per non dimenticarti di me  - lo consigliò con la voce rotta dal pianto e gli occhi gonfi di lacrime. 

- Lo farò, zia adorata, te lo prometto - le promise il bambino che si asciugò le lacrime con il braccio e corse immediatamente a prendere la cetra per suonargliela

‎Era l'unico modo per vedere sua zia felice e se lei lo era, lui poteva, in qualche modo, illudersi che il momento dell'addio si sarebbe tardato, e rallegrarsi ancora con lei.

Non appena iniziò la zia ripensò con dolcezza alle occasioni in cui quel bambino aveva mostrato le sue meravigliose capacità: un artista nato, dotato di una sensibilità particolare per il bello.

Quando pizzicava con sicurezza e grazia le corde della cetra sembrava un piccolo Apollo che suonava una canzone d'amore per qualche ninfa nascosta tra i boschi; immaginò di stare in una foresta dell'Arcadia, nella quale non vi era alcun problema, preoccupazione, solo pace e tranquillità.

Quella sensazione di quiete era destinata a non durare a lungo, poiché proprio nell'istante della nota finale, qualcuno bussò alla porta, rompendola definitivamente.

Lucio s'interruppe e guardò intensamente sua zia per una frazione di secondo che bastò alla donna per leggere tutta la sua angoscia.

Domizia Lepida corse all'ingresso per andare ad aprire e pregò gli dei che non fosse Agrippina, ma ogni speranza svanì quando la vide con la stessa espressione fredda con la quale si erano lasciate.

Al suo fianco c'era un uomo che ben conosceva ma era talmente turbata da non emettere alcun suono, ebbe solo il coraggio di farli entrare.

- Non ci metteremo molto, il tempo di prendere Lucio Domizio e togliamo il disturbo - informò Passieno con assoluta naturalezza.

- Ma...ma certo - rispose solamente la donna pallida in volto - Lucio vieni è tornata tua madre!

Il bambino, con la cetra della zia stretta al petto, si avviò mestamente anch'egli all'ingresso e abbassò la testa subito dopo aver visto sua madre in compagnia di un uomo che non aveva mai visto prima.

- Noto con immenso piacere che hai imparato a non piagnucolare - sorrise la madre con orgoglio.

- Ho mantenuto la promessa come mi avete ordinato, madre - soffuse educatamente Lucio stringendo con forza la cetra.

Passieno notò che il rapporto tra i due non era dei migliori, diffidenza e freddezza la facevano da padroni e comprese che costruire un rapporto con il bambino sarebbe stato più difficile del previsto.

- Lui sarà il tuo nuovo padre, Gaio Sallustio Passieno Crispo, Lucio - presentò con finto entusiasmo la donna.

Dopo aver udito il suo nome Domizia Lepida si ricordò del divorzio impartito dall'imperatore tra sua sorella e Passieno, il suo terzo marito.

- Sarà un piacere avervi come padre - disse Lucio con un lieve inchino. 

- Quanta formalità! - esclamò raggiante - Il piacere sarà mio, tua madre mi ha parlato molto di te e spero che il nostro rapporto possa crescere in maniera serena - disse infine allungando i braccio e spettinandogli i folti capelli rossi.

Lucio alzò la testa e ricambiò un sorriso forzato, lasciando che l'uomo continuasse a scompigliare la chioma.

- Questo è il compenso per il favore - disse Agrippina ponendo il sacchetto tra le mani di Domizia Lepida, ma lei lo rifiutò.

- Per me è stato un piacere, Lucio è stata la compagnia che mancava da molto tempo in questa casa e non ha recato alcun disturbo - gli fece presente con calma, evitando di scendere troppo nei particolari per non scoppiare a piangere - Servono più a voi che a me, adesso che sono di nuovo sola...

Agrippina, senza farselo dire nuovamente, si riprese il sacchetto e lanciò occhiate fugaci sia al figlio che a Domizia.

- Allora, andiamo? - domandò Passieno allegerendo un po' l'atmosfera cupa di quell'abitazione.

- Si - rispose seccamente Agrippina - Lucio, andiamo - aggiunse infine allungando la mano; il bambino gliela strinse senza fare storie e prima di andarsene si voltò a guardare per l'ultima volta colei che era stata la sua unica vera madre.

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 - Incontri al limite del bizzarro: Gaudenzio - ***


"Homo sum: humani nihil a me alienum putoVel me monere hoc vel percontari putarectumst ego ut faciam; non est te ut deterream"
Terenzio, Heautontimorumenosvv. 77-79

Roma, 5 febbraio 41 d.C.

Nonostante fosse pieno inverno, quella mattina sulla capitale, il sole era particolarmente splendente e i raggi solari regalavano un piacevole tepore; era proprio una giornata adatta per girare per le strade che erano affollate dal gran via vai dei cittadini che si dedicavano alle loro attività quotidiane, fra cui quella delle botteghe, fuori dalle quali i commercianti strillavano con la merce in mano, per cercare di attirare clienti per gli acquisti. Ma fra loro ve ne era uno che sbraitava     

- Torna qui lurido ladruncolo, la pagherai cara!!

Le persone si girarono tutte quante per capire cosa stesse succedendo, e videro un ragazzo che correva a più non posso cercando di farsi spazio fra la folla.

Aveva il fisico asciutto, ma i suoi lineamenti erano comunque definiti; la corta chioma castana che aveva in testa si muoveva continuamente a ritmo della corsa, col fiatone che si faceva sentire sempre più, ma rideva comunque soddisfatto.

- Ahah, ancora che ci provano, tanto non mi prenderanno mai!! - concluse girando per un attimo la testa verso il suo inseguitore, per poi guardare nuovamente davanti.

- Ma che cosa sta succedendo oggi? C’è più trambusto del so... - Locusta non riuscì a finire la frase che si trovò dinanzi un ragazzo, tutto sudato, che gli piombò addosso facendola cadere con la schiena al suolo; Canius non ebbe i riflessi pronti e si trovò al suolo con Locusta e lo sconosciuto sopra di lui.  

- Ahi ahi che botta - sussurrò e dopo essersi ripreso guardò avanti - Ma perché non fai attenzione a dove vai eh?

Locusta, stranita e ancora stordita, si voltò prima verso Canius che gli fece spallucce e poi verso il ragazzo che la fissava con atteggiamento infastidito - Dovrei essere io a dirlo… - sbottò anch’ella nervosa.

- Torna qui ladro!! - sentirono urlare entrambi; mentre si rialzava, Locusta gli notò appesa al collo, una piccola croce, con i due bastoncini legati da un piccolo spago.

- Dannazione sta per raggiungermi - guardò la ragazza - Ora non ho tempo, addio

“Chissà chi è quello strano ragazzo” si disse Locusta mentre tentava di far rialzare il povero Canius che si era ripreso dalla caduta solo qualche minuto prima.

Gli pulì la tunica corta e gli sorrise lievemente per rassicurarlo; aveva notato che Canius era un ragazzo molto timido ed ogni contatto con la società gli incuteva sempre un po’ di timore.

Canius ricambiò il sorriso e le chiese dolcemente - Tu stai bene?

- Si, anche se non ho ancora capito cosa sia successo e chi sia quello che ci ha investito….

- Probabilmente era un ladro… - rispose Canius repentinamente, come se lo conoscesse benissimo.

Locusta iniziò ad avere dei dubbi su di lui, ma ci sorvolò sopra poiché la spesa per il padrone era più importante di qualsiasi curiosità personale.

Il ragazzo continuò a correre e non appena trovò un posto sicuro, si fermò per riprendere fiato - Accidenti...stavolta me la sono cavata per un pelo - poi rovistò nelle tasche della tunica e in una specie di borsa a tracolla per cercare qualcosa, estrasse tutto quello che vi era dentro; frutta e qualche tozzo di pane e infine un sacchetto con qualche moneta, che era riuscito a sottrarre a quella ragazza mentre era ancora a terra.

- Accidenti, ho perso la carne...era pure di ottima qualità...era tanto tempo che non ne mangiavo...maledizione… - spostò lo sguardo su quello che aveva e pensò “Dovrò accontentarmi ancora di quello che ho trovato”

- Non trovo più i soldi - riferì Locusta con il terrore negli occhi mentre tastava la tunica corta - Devono essermi caduti oppure… me li ha rubati quel ragazzo durante l’impatto - si accertò rammaricandosi; il suo caro padrone aveva bisogno dei viveri, aveva messo da parte un gruzzoletto appositamente per le riserve.

Non poteva tornare a mani vuote a casa, sarebbe stata un’umiliazione per lei e per il padrone che avrebbe perso fiducia in Locusta; la stava faticosamente costruendo giorno dopo giorno, con la dignità che era rimasta intaccata, non poteva permettere che una sciocchezza simile potesse incrinare quel rapporto.

- Canius…dobbiamo trovare quel ragazzo - riferì determinata.

- Ma, ma come facciamo? Roma è una città immensa…

- Non deve essere molto lontano, era già provato dalla corsa - lo interruppe - Teniamo gli occhi bene aperti

Canius annuì, ma era seriamente preoccupato per ciò che sarebbe potuto accadere.

Locusta lo cercò in lungo e in largo, ma senza successo, così avendo perso la speranza di trovarlo, pensò che l’unica soluzione possibile era quella di raccontare la verità.

Il ragazzo invece, una volta finito di mangiare, si riposò per pochi istanti e non appena si sentì sicuro a muoversi, si guardò attorno e si incamminò nuovamente per le strade della città. Appena vide una fontana, corse per potersi dissetare.

Tornò a camminare confondendosi fra i passanti; percorreva le strade a caso, quasi come se non avesse una meta o senza avere bene in testa cosa fare, con lo sguardo perso nel vuoto.

Ogni tanto si fermava ad osservare le meraviglie della città, soprattutto i palazzi dei patrizi, era affascinato dalle architetture complesse e ben rifinite del foro, gli ornamenti dei templi, la bellezza delle statue.

Sospirò pensando che forse un giorno, anche lui, avrebbe contribuito a creare una parte di Roma, che il suo nome sarebbe stato ricordato per sempre. Continuò a camminare.

Mentre passava vicino alla bottega di un fabbro, trovò dei pezzi di carbone e legno bruciati, ma che si erano raffreddati, ne prese in mano uno e si sedette in terra, di fronte al muro dell'edificio, cominciando a disegnare quello che aveva tutta l’aria di essere un edificio. Pian piano che lo concepiva sorrideva soddisfatto, gli piaceva molto, ma venne improvvisamente interrotto da un uomo che lo riprese

- Ehi! Che stai facendo al mio muro?! Vai a scarabocchiare da un’altra parte, via! - gli intimò mentre dimenava il martello sopra la sua testa.

Si allontanò sconsolato ed emise un secondo, lungo sospiro, sembrava che nessuno lo capisse in quel mondo, lui stesso si sentiva estraneo, diverso; d’altronde i Romani erano un popolo che non prediligevano l’arte fine a se stessa, che non avesse uno scopo utile per la città e i cittadini.

“Se solo fossi nato in Grecia” si disse sempre più amareggiato, confondendosi con il paesaggio circostante.

Nel frattempo Canius che era con Locusta 
- Dai...torniamo a casa e diciamo la verità ai padroni, anzi, se vuoi sarò io stesso a coprirti, ti aiuterò, mi addosserò la colpa

Locusta lo guardò stranita: era la seconda volta che qualcuno provava il desiderio di proteggerla; Canius era sempre stato uno schiavo fedele e giusto, ma non si sarebbe mai aspettata così tanto coraggio - Forse hai ragione tu, è meglio riferire tutto, ma non devi addossarti nulla, anche se sono donna, sono pronta a subire totalmente il mio destino se ciò è scritto - gli rispose con un sorriso sincero.

- Tu sei appena arrivata, mentre io riuscirei a sopportare una possibile punizione

- Questo non giustifica nulla, Canius, ma ti ringrazio lo stesso per tutto quanto, ora torniamo alla locanda o i nostri padroni si preoccuperanno non vedendoci arrivare - gli ricordò guardandolo fugacemente; lui annuì e si mise al suo fianco.

Non appena arrivarono trovarono Tiberia ad attenderli fuori dal locale mentre stava pulendo lo spazio antistante alla bottega.

- Oh bene eccovi di ritorno, allora? Avete comprato ciò di cui avevamo bisogno?

- Mi spiace ma lungo la strada mi hanno rubato le monete, un ragazzo ci è piombato addosso e nella foga non ce ne siamo accorti…sono desolata… - informò con la testa bassa, il cuore che gli pulsava in gola, temendo che questa volta non le avrebbero risparmiato la punizione.

- Che cosa hai detto?! Hai idea di quanto ci servissero quelle provviste?! Domani dovremo ricevere molte persone! Con cosa ci presentiamo?!

- Padrona lei non ha colpa! Sono stato io a perdere le sue monete, Locusta mi aveva affidato temporaneamente il sacchetto, io sono stato troppo leggero nel custodirle…-

- Ma...ma Canius... - fu fermata dal braccio dello schiavo che la rassicurò con la sua totale serenità; perché lo stava facendo? Perché stava proteggendo una galla?

- Augurati che Aulus non ti faccia davvero male questa volta, Canius - l'avvertì delusa Tiberia che rientrò per informare il marito dell’accaduto.

Mentre discutevano Locusta, vide passare fra la folla un ragazzo, non poteva dimenticarsi di quei capelli castani, così corse immediatamente verso di lui : - Ehi tu, fermati - esclamava con convinzione - Tu sei il ladro di stamattina, ridammi i soldi del mio padrone

- Dannazione - digrignò i denti mentre si mise a correre per cercare di sfuggirle.

- Non serve a nulla fuggire, voglio solo che mi ridia i soldi, poi ti lascerò andare - cercò di spiegargli le sue intenzioni; se fosse riuscita a riprendere il denaro, lei non avrebbe avuto i sensi di colpa per ciò che Canius avrebbe scontato al posto suo, e nonostante tutto, la giornata si sarebbe conclusa felicemente.

Non le rispose e proseguì nella corsa, ma per sua sfortuna finì per inciampare e fare un bel volo, con il sacchetto delle monete che terminò la sua caduta prima di lui.

- Finalmente ti sei fermato - rise afferrando il sacchetto di monete con grande sollievo - Potrei portarti dal mio padrone come giustificazione, ma ho detto che ti avrei lasciato andare perciò vai pure - aggiunse infine mentre si allontanava da lui.

- Allora non siamo un popolo del tutto egoista...qualcuno ha ancora un po’ di umanità verso il prossimo

Locusta lo guardò fisso e notò il sorriso beffardo di una persona dall’aria apparentemente tra le nuvole; anzi, le sembrava un tipo molto sveglio ed intelligente - Ero una galla prima di arrivare qui e nel mio Paese mi hanno insegnato l’onore e il rispetto della parola data

- Allora sarebbe stato troppo bello trovare fra la mia gente qualcuno così…

- Forse può sembrarti strano, ma il mio padrone è un cittadino Romano piuttosto inusuale, non che conosca perfettamente il carattere dei Romani

- Non credo che voglia conoscere o sfamare qualcuno che abbia tentato di derubarlo…- fece una pausa di silenzio, poi si girò a tre quarti - Credo che sia il caso che me ne vada…- concluse sconsolato.

- Aspetta, forse potrebbe farlo, se ovviamente gli spiegassi il perché del tuo atteggiamento - gli propose Locusta maliziosamente afferrandogli il braccio; aveva intuito dal fisico che non fosse un ragazzo di buona famiglia e che quindi si comportava così spinto dalla fame.

- No grazie...non ho voglia di rischiare di essere consegnato nelle mani dei pretoriani ed essere frustato…

- Locustaaaa - la ragazza si girò e vide arrivare Tiberia seguita da Canius - La tua fuga testimonia la tua colpevolezza, ti farò frustare da Aulus per questo!

- Padrona, ho ritrovato il sacchetto con le monete del padrone - le disse mostrando il contenuto con le mani tremolanti per la paura e la gioia di averlo ritrovato - Se poi volete farmi frustare per via della mia mancanza, sono pronta a subirla

- Si è vero sono stato io...Ho fame e mi voglio sfamare...- si intromise il ragazzo.

- Ma non desideravi la libertà? - domandò Locusta.

Il ragazzo non le rispose e continuò a sostenere lo sguardo di Tiberia che gli disse

- Il tuo reato non resterà impunito, ti porterò da mio marito e assieme a lui decideremo cosa fare di te - poi si voltò verso la ragazza - Catturalo e legalo per bene

Locusta con rammarico eseguì l’ordine della padrone e legò le mani con una corda che Tiberia aveva portato con sé.

- Avresti potuto scappare - gli bisbigliò nell'orecchio mentre lo consegnava alla padrona.

Il ragazzo gli sorrise con dolcezza, come se la punizione fosse l’ultimo dei suoi pensieri; Locusta non li capiva proprio questi Romani, erano contenti di subire ogni sorta di umiliazione senza ribellarsi, anzi ne erano orgogliosi.

Le sussurrò - Dio mi proteggerà…

- Quale degli dei Romani? Ce ne sono di così tanti che non riesco a ricordarli tutti

Il ragazzo spostò lo sguardo sul suo collo. Curiosa di capirne il motivo spostò lo sguardo e notò ancora una volta la croce spartana che portava con se. Aveva letto il movimento dello sguardo ma non potè spiegarle nulla per il momento.

“Che vorrà significare quella croce al collo? Non ne ho mai viste in giro, forse è un simbolo della sua famiglia” rimuginava mentre si affiancava alla padrona che non toglieva gli occhi da quel ragazzo.

Tornarono a casa in silenzio senza proferire parola, anche perché Tiberia, era già abbastanza adirata dall’accaduto.

Non appena arrivarono alla taverna, vi trovarono Aulus ad aspettarli con uno sguardo molto serio che sembrava non promettere niente di buono; subito dopo aver visto il fantomatico ladro, si irrigidì ancora di più. Fece segno di entrare e una volta dentro cominciò a parlare ed ordinò in modo secco e imperativo verso Canius - Tu e il prigioniero rimanete qui - poi guardò Locusta e proferì con una lieve indecisione nella voce - Tu, invece, con me e mia moglie

- Come desiderate padrone Aulus  

Si diressero verso il piano superiore ed entrati in una stanza da letto dei padroni, Aulus si fermò vicino ad una parete sulla quale vi era un grande chiodo con una frusta arrotolata.

Locusta sbiancò d’un tratto, non riusciva a capire perché si stesse comportando così, lui che era sempre stato buono nei suoi confronti; le aveva perdonato altre mancanze più gravi, sempre con il suo meraviglioso sorriso paterno.

Non credeva che avesse con se una frusta, poi capì che probabilmente non era diverso dagli altri Romani.

Con profonda angoscia si inginocchiò con le mani sul pavimento e la schiena rivolta verso di lui, pronta ad essere sfregiata per sempre.

Si voltò lentamente con un’espressione indecifrabile. Srotolò la frusta e dopo averle fatto toccare il pavimento, la caricò verso l’alto e poi la rivolse verso Locusta che a fatica stava trattenendo le lacrime e cercava di frenare le conclusioni che il pianto stavano generando: un altro uomo la stava tradendo, proprio come suo padre….

Per la stanza rimbombarono i forti rumori causati dall’impatto della frusta e subito dopo un forte urlo - Maledizione! Hai idea di quanto sia importante per noi l’evento di domani nella nostra taverna...rispondi!!

Non aveva mai sentito tanta rabbia nella voce calda e dolce di quell'uomo, non sembrava la sua, era come se qualcuno se ne fosse impossessato - Si...si che lo so, padrone...padrone Aulus - iniziò con le lacrime che dalle guance cadevano al suolo - Ma….ma non era mia intenzione rovinare...tutto quanto, sapete benissimo…che...che non farei mai una cosa simile, nemmeno se mi costringessero

- Guardami - le ordinò con voce più calma.

Locusta alzò i suoi occhi azzurri su quelli scuri e profondi del padrone che la scrutavano con attenzione, anche se la vista era annebbiata per via delle lacrime e non riusciva a distinguere bene le figure.

- Dimmi cos’è successo, ti ascolto - sospirò mentre si sedeva - dimmi la verità, sii sincera

La ragazza, con la testa abbassata, iniziò a raccontargli tutto nei minimi dettagli, non tralasciò nulla, mentre il padrone la seguiva nella narrazione con molta attenzione; qualche volta però si volgeva per guardare la moglie che era ancora meravigliata della reazione del marito verso la sua schiava prediletta.

- Adesso che sapete tutto padrone Aulus, potete anche frustarmi a sangue, non ho più niente da perdere

Si alzò e andò verso di lei; accadde un qualcosa che non si aspettava. S’inginocchiò e la aiutò ad alzarsi, le portò il mento all’insù e le asciugò delicatamente le lacrime che aveva sugli zigomi - Credo alla tua sincerità, ora vai, sbrigati ad andare al mercato a comprare ciò che serve, d’accordo?

Con gli occhi colmi di gioia Locusta balzò e senza farselo ripetere corse al mercato accompagnata da Canius che aveva temuto il peggio per lei.

Mentre il ragazzo misterioso fu preso da Aulus che lo guardò dritto in volto e gli lanciò un sonoro schiaffo sulla guancia - Potevi dirmelo che avevi fame, non sono come tanti che conosci...non azzardarti mai più a rubare i soldi affidati alla mia schiava! Altrimenti la prossima volta ti ci mando davvero dai pretoriani, siamo intesi?!

Rimase a guardarlo in silenzio senza proferire parola, mentre Aulus se ne andò in un’altra stanza. Poco dopo tornò con un secchio e degli stracci vecchi.

- Vuoi mangiare?! Allora vedi di guadagnarti un piatto di zuppa calda - rafforzò il suo ordine consegnandogli  il secchio - Vai giù a pulire la taverna, deve essere lucida e splendente - gli disse infine dandogli una pacca sulla spalla per incoraggiarlo - Come ti chiami?

- Che importanza ha, tanto dopo questo servizio me ne andrò…

- Se ti proponessi di farti lavorare nella mia taverna, accetteresti? Così non dovrai andare in giro per Roma a rubare come un volgare ladro - gli propose Aulus con un’espressione maliziosa, di chi aveva compreso, almeno in parte, il ragazzo al suo fianco.

Dopo qualche attimo passato a scrutarsi a vicenda, il ragazzo rispose - Il mio nome è Gaudenzio...

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 - Scoperte rivelatorie - ***


"Tempus edax igitur praeter nos omnia perditcessat duritia mors quoque victa mea"
Ovidio, Epistulae ex Ponto, IV, 10, vv. 7-8

Gallia Narbonensis, 10 febbraio 41 d.C.

Un uomo corazzato si aggirava lungo la foresta confinante il suo villaggio; nonostante fosse un soldato, era sfiancato dalla lunga corsa e il respiro affannato si congelava a contatto con la fredda aria nordica.

Si guardava attorno guardingo ed accigliato cercando di riconoscere, tra la fitta boscaglia, la dimora del druido Caelan; il suo passo pesante e cadenzato percuoteva l'erba e rimbombava tra gli alberi.

"Eccola" si disse con il viso illuminato, quando la intravide, piccola e quasi del tutto confusa con l'ambiente circostante: dalla pianta circolare, interamente realizzata da mattoncini disposti in maniera sbrigativa; il tetto di paglia essiccata e la piccola, semplice porta, ricavata dal legno di quercia, uno degli alberi sacri.

Il guerriero si avvicinò lentamente, con una sensazione di revenzialità che nasceva nel petto, la stessa che avvolgeva quella misera abitazione. Bussò alla porta con delicatezza, ma non rispose nessuno.

"Probabilmente è andato a parlare con gli dei" pensò il militare che, senza demordere e perdere tempo, si inoltrò nel cuore della foresta.

All'improvviso vide Caelan che aveva "ascoltato" la voce di un albero e dopo aver compreso il suo messaggio, si stava dirigendo verso una strada che lo spirito gli aveva indicato.

Il guerriero non poté attendere oltre e lo chiamò con la voce possente che si propagò fino alle orecchie del druido il quale si voltò e fissò la figura per pochi istanti, riconoscendola: alto, dai lunghi capelli rossi portati all'indietro, non indossava l'elmo; il corpo era avvolto dalla pesante maglia di ferro, portava calzoni di lana e stivali di pelle.

- Lennox! - esclamò Caelan - Immagino che tu sia venuto a cercarmi per avere notizie su tua figlia Locusta

- Si - rispose seccamente il soldato.

Caelan lo guardò nuovamente ed emise un sospiro; Lennox credette che riguardasse sua figlia e si allarmò, ma fu subito tranquillizzato dal druido - Non devi temere, Locusta sta bene, nonostante tutto ciò che ha passato vive un momento di tranquillità

- Ve lo hanno riferito gli spiriti? - chiese con sollievo.

- Gli dei non abbandonano mai i loro figli, Lennox, li osservano da lontano e li proteggono dalle avversità - gli ricordò il druido con una profonda tristezza dipinta sul volto. Locusta mancava molto anche a lui e nonostante gli sforzi per dimenticarla, non riusciva a togliersela dal cuore.

Lennox s'incupì, comprendendo che in quelle parole c'era la velata accusa di codardia che Caelan non era riuscito a perdonare al guerriero.

- Sapete che ancora adesso porto addosso il macigno di quella colpa, Caelan, non potrò mai essere perdonato per ciò che ho fatto - confessò Lennox sedendosi su di una pietra; si mise le mani sul viso, smunto, con la barba incolta - Tutte le notti ripercorro, nei miei sogni, quel terribile giorno, un incubo che non finirà mai di tormentarmi...

- Avresti potuto salvarla, Lennox

- Lo so - lo interruppe bruscamente, sempre con la testa tra le mani, non lo aveva mai visto così disperato - Anche adesso mi sento un verme e se potessi tornare indietro avrei sacrificato la mia vita, per lei, come un vero uomo

Caelan lo guardava ammotulito, combattuto tra il voler consolare Lennox e il lasciarlo affogare nella sua angosciosa disperazione; un druido non poteva avere pensieri negativi sugli uomini, ma non riusciva a non provare astio per un codardo che indossava ancora gli abiti militari.

Locusta era stata quasi una figlia, l'aveva accudita ogni volta che Lennox l'aveva affidata, istruita nella religione e nell'utilizzo delle erbe per scopi curativi,  l'aveva vista crescere, mutare il suo paffuto corpo di bambina in quello di un'acerba ma già stupenda donna.

- Sapere che sta bene mi conforta, anche se non sconta la mia pena, non diminuisce il mio errore, gli spiriti mi stanno già punendo con gli incubi - si alzò bruscamente, si tolse la maglia di ferro, e gli stivali, rimanendo solo con i calzoni e a torso nudo, ricoperto di peli rossicci - Da questo momento in poi, rinuncio alla mia vita di soldato, Caelan

- Ma ne sei sicuro? - domandò con dubbio il druido, non aveva ancora compreso ciò che voleva fare.

- Certo - rispose convinto - Così come rinuncio alla mia precedente vita, non posso più continuare a far finta di niente

- Cosa? E tua moglie? E i tuoi figli?

- Baderanno loro a mia moglie, Caelan, sono degli uomini, più forti e coraggiosi di me, non hanno più bisogno del mio supporto - emise con soddisfazione Lennox.

Il druido rivide l'uomo che era stato un tempo, fiero, orgoglioso e comprese il vero significato della sua visita - Vuoi davvero rinunciare ad ogni altra cosa e vagabondare per tutta la Gallia come segno di espiazione?

- Ho pensato a lungo e credo che sia l'unica soluzione, so che non potrò eliminare la mia colpa, ma posso alleggerirla

Caelan gli sorrise e annuì leggermente con la testa, approvando la sua decisione - Buona fortuna Lennox e addio

- Addio, Caelan - lo salutò allontanandosi con fierezza e serenità. Il druido guardò verso il cielo e ringraziò gli dei.

Anzio, 12 febbraio 41 d.C.

Lucio Domizio Enobarbo non aveva parlato molto in quei giorni, se ne stava seduto, in silenzio, a suonare la melodia della zia, con gli occhi velati di tristezza.

A nulla erano valsi gli sforzi di Gaio Sallustio Passieno Crispo di generare un rapporto e dialogo costruttivo, non voleva collaborare, lo fissava con odio, con rabbia celata; lo stesso trattamento riservato alla madre.

Molte volte Passieno aveva minacciato il bambino di sequestrargli la cetra - Non dovete azzardarvi nemmeno a sfiorarla, capito? - gli urlava il piccolo Lucio con una furia che mai aveva visto in un bambino.

"Ha lo stesso carattere focoso della madre" pensava sempre dopo quella risposta.

- Vedrete che passerà - riferì con l'ormai consueta freddezza Agrippina, si sistemò i capelli per evitare che si bagnassero nelle calde acque termali - Anche quando mi hanno esiliato opponeva resistenza, i bambini sono capricciosi e volubili

- Il suo atteggiamento è tutt'altro che capriccioso, cara - la interruppe Passieno - Sembra che covi rancore profondo verso di noi - proseguì mentre gironzolava. 
Doveva trovare un modo per avvicinarsi al suo piccolo e sensibile animo prima che fosse troppo tardi per farlo.

- Non sono suo padre naturale, ma desidero essere migliore di Gneo - rivelò Passieno con un lungo sospiro.
Nel risentire quel nome Agrippina sussultò, e l'odio che aveva soffocato, ritornò in auge per brevi istanti.

Passieno notò i lampi di astio negli occhi della moglie e comprendendo la situazione, decise di uscire dalla sala. 
Si rimise i suoi abiti cittadini e la lasciò sola, nell'acqua che stava diventando troppo incandescente per tutti e due. 

Mentre si dirigeva all'esterno per prendere una boccata d'aria fresca, udì il figliastro suonare una melodia che non aveva mai sentito e di soppiatto si mise ad origliare dalla porta.

Dalla bocca del bambino uscivano frasi in greco, però non quello che di solito si insegna alla loro età o della vita quotidiana, ma delle grandi opere dell'Ellade e rimase colpito dalla sua precocità nelle arti; sua moglie non gli aveva mai riferito di questa abilità.

Ritornò di nuovo dalla moglie, che era uscita dalla vasca, ed era nuda; gli dava le spalle, il suo corpo armonioso lo inebriava, gli mandava in cortocircuito ogni sua volontà, ma non stavolta: la stabilità degli affetti era la cosa più importante al momento dei desideri carnali.

Agrippina si era accorta di lui e vedendolo sudato e affaticato lo fraintese credendo che volesse saziare i suoi appetiti.

Fu però preceduto dal marito che disse: - Forse ho trovato un modo per avvicinarlo a noi, cara

- Intendi Lucio? - domandò afferrando la stola dal bordo della vasca.

- Si, ho scoperto che sa parlare il greco più colto ed elevato in modo superbo, io ci ho impiegato anni per impararlo correttamente, il periodo con la zia è stato provvidenziale per il suo sviluppo nelle arti - elencò con entusiasmo il marito.

Agrippina continuò a rivestirsi senza proferire parola, sul suo viso levigato non traspariva alcuna emozione - Ho già fatto chiamare alcuni tra i migliori maestri per lui

- Si, ma dovremmo tentare di rallegrare un po' l'ambiente, in modo che sia stimolante per lui, come faceva Domizia

Agrippina non riuscì a trattenersi stavolta e gli diede uno schiaffo sulla guancia - Non parlate di quella donna in questa casa!

Passieno indietreggiò di alcuni passi poi si riprese e si massaggiò la guancia arrossata e comprese che i rapporti con la famiglia dell'ex marito non era dei più rosei - Perdonatemi - sussurrò solamente

- Ditemi cosa avete in mente - cambiò discorso Agrippina. 

- Portare qui una piccola compagnia di attori e musici, possibilmente greci, potrà passare una giornata allegra e dimenticare la zia per un po' - rivelò Passieno - Sempre se siete d'accordo

Agrippina avrebbe bocciato totalmente l'idea, perché non voleva far incrementare quello che per lei era solo un capriccio del figlio, ma il fatto che ciò avrebbe fatto dimenticare l'odiata Domizia, sottolineato anche da Passieno, prevalse e diede pieno sostegno al marito.

Passieno, evidentemente sorpreso, si mise subito all'opera e sapendo già chi chiamare, ordinò ai servi di farli arrivare alla loro villa il più in fretta possibile.

16 febbraio 41 d.C.

- Lucio, non avevo capito la tua inclinazione per l'arte - si scusò Passieno di fronte ad un diffidente e cupo Lucio Domizio che teneva stretto la sua cetra - So che gli spettacoli organizzati dalla zia Domizia ti piacevano molto e perciò ho pensato che sarebbero stato gioviale per tutti riproporli in una villa grande come la nostra

Il bambino non riusciva a credere che il suo patrigno avesse pronunciato quelle parole "Forse è una trappola! No, non posso cedere proprio ora, io sono un uomo" si incoraggiò tentando di non far trasparire alcuna emozione.

Ma Passieno, da esperto oratore che era, aveva percepito l'istante mutamento della sua espressione, però, avendo notato il carattere orgoglioso del figliastro, fece finta di nulla.

- Spero che di poterti vedere sorridere Lucio - sospirò Passieno avvicinandosi e gli allungò la mano.

"Non mi fido di lui, quando la zia lo vide, il giorno in cui mi portarono via, ha assunto un'espressione triste, come faceva sempre quando parlavamo di mia madre" pensò restio nel seguirlo.

L'uomo afferrò con decisione la manina del bambino che a testa bassa fu trascinato nella sala del triclinio: fu costruito velocemente un piccolo palco di legno senza alcuna scenografia o oggetto.

La madre Agrippina era languidamente sdraiata su un lunghissimo triclinio  finemente lavorato, con un lussurioso telo color porpora e dalla base dorata; al centro vi era un piccolo tavolino con sopra succulente prelibatezze fumanti.

"Ci sarà davvero uno spettacolo?" si stupì con gli occhi lucidi "Organizzato solo per me!" Gli sembrava un sogno, finalmente i suoi genitori lo stavano comprendendo, forse la zia piangeva perché sarebbe stato felice. 

Si accomodarono sul triclinio e dopo aver atteso che i musici si sistemassero, lo spettacolo ebbe inizio: una ritmata musica creata inizialmente da cymbalum, piattini conici in bronzo, tympanum, dalla forma rotonda che si suonava con le mani.

I due musici al centro del palco battevano i piedi in base al ritmo indossando lo sgabellum, una calzatura con doppia suola di legno.

Lucio batteva le mani a tempo, coinvolto fin dalle viscere da quella musica così energica e travolgente; Passieno sorrideva nel vedere il bambino entusiasta, mentre Agrippina, già non sopportava quel trambusto e avrebbe preferito andarsene.

I Romani consideravano la musica semplicemente come accompagnamento per gli spettacoli teatrali o circensi, oppure prima di una battaglia; saper suonare uno strumento non era visto come una virtù, anzi ai loro occhi era qualcosa di pericoloso, che fiaccava lo spirito, così come il semplice ascolto.

Un'idea ben diversa dai Greci ed Etruschi che invece la vedevano come una forma di arte elevata, completa, che donava vigore al corpo e all'anima.

Agli strumenti a percussione si aggiunsero quelli a corda come l'immancabile cetra, suonata da una donna, la sambuca, un'arpa arcuata orizzontale, ed infine un organo, il cui suono acuto e quasi sinistro, ipnotizzò Lucio che rimase come in estasi ad osservarlo. 

Agrippina si aspettava che dopo di ciò ci sarebbe stato uno teatrale, ma Passieno le confessò che aveva programmato solo quella tipologia - Che cosa? Ma siete impazzito per caso? Questa musica non giova per nulla a Lucio Domizio

- Io invece noto che stia facendo un buon effetto su di lui, guardate come è sereno, sembra così diverso da qualche decina di minuti fa - rise Passieno guardando Agrippina che non era molto convinta, le avrebbe impedito però di fare qualsiasi gesto per far terminare lo spettacolo.

La musica, ad un tratto, rallentò ed un musico scese dal palco e allungò la mano verso il piccolo Lucio che afferrando velocemente la sua cetra si aggregò alla compagnia musicale, suonando alcune note e recitando alcune parti in greco che stupirono tutti, musici compresi.

Alla vista si ciò, Agrippina, perse la pazienza e furente si alzò; Passieno, che aveva ben capito le sue intenzioni, tentò di fermarla ma non ci riuscì e come una belva afferrò il figlio - Io non posso permettere che mio figlio diventi un volgare musico o artista come vi fate chiamare! È un affronto al sangue dei Cesari che scorre nelle mie vene!

- Ma si stava semplicemente divertendo Giulia Agrippina.... - s'intromise Passieno.

- Tacete voi! Non avrei dovuto accettare la vostra proposta....lui è destinato ad altro, a cose più grandi

- Ma...ma è ancora un bambino, Agrippina - gli ricordò il marito.

Lucio li guardava con le lacrime che riempivano gli occhi, mentre la rabbia cresceva sempre più nel suo cuore - Ora bastaaaaaaaa! - strillò staccandosi dalla presa.

Passieno guardò adirato Agrippina e lei ricambiò lo sguardo al bambino che ringhiava colmo di ogni sorta di sentimento negativo; per evitare di farsi vedere piangendo dalla madre, scappò via. 
Passieno sospirò e nonostante il disastro pagò i musici che mestamente sgattaiolarono via.

- Spero che ora siate soddisfatta, Agrippina, questa scenata ha di sicuro giovato a Lucio - urlò l'uomo - Ci odierà per tutta la vita

- Sempre meglio che abbassarsi ai livelli di quei fenomeni da baraccone che avete pure pagato

- Le tue lacrime sarebbero state le mie, zia - piagnucolò Lucio in un angolo, con gli occhi gonfi, abbracciando la cetra. 
 

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 - Confessioni - ***


"Amicitia non est vera, nisi cum eam tu agglutinas inter inhaerentes tibi caritate diffusa in cordibus nostris per Spiritum Sanctum qui datus est nobis
Agostino, Confessioni IV, 4, 7
 
Roma, 21 giugno 41 d.C.

Erano passati diversi mesi da quando Gaudenzio, si era unito agli schiavi della famiglia di Aulus; ormai si prodigava con impegno al suo lavoro, che l’uomo gli ripagava con vitto e alloggio.

Anche Locusta dopo un periodo di diffidenza iniziale, dovuto al loro primo incontro, finì col creare e saldare sempre più un rapporto di amicizia

Arrivò nuovamente il momento di approvvigionarsi con cibo e bevande. 
Locusta tornò con la sacca piena di cibarie che le era stato ordinato di comprare.

Non appena varcò la soglia della porta; si guardò attorno, vide da lontano il ragazzo a testa china come fosse impegnato in qualcosa, andò verso di lui, e notò come ormai avesse preso manualità nel pulire i pavimenti.

Era talmente concentrato su quel lavoro, che non si accorse della presenza della ragazza.

Mentre appoggiava la sacca sul bancone, gli chiese - Cos’è successo?

- Poco fa sono inciampato e ho rovesciato  un pentolone pieno di zuppa

- Ah - disse lei guardandolo stupita - Vuoi una mano? - chiese poi con un lieve sorriso.

- Se proprio ci tieni, ma avrai altre mansioni da svolgere

- Non c’è bisogno che me lo dica, sono qui da molto più di te - gli rispose con espressione maliziosa - Ormai non so fare altro - sospirò alla fine, mentre andava a prendere un altro straccio, lo sciacquò e si mise a ginocchioni di fianco a lui strofinando con energia, quando tutto d’un tratto, i suoi occhi si spostarono sullo sguardo di Gaudenzio, per nulla generico: c’era qualcosa in lui che la stimolava, che non le permetteva di non conoscerlo a fondo, nonostante fossero passati mesi da quando si incontrarono per la prima volta, alcuni atteggiamenti non erano mutati.

La sua mente la riportò indietro nel tempo, ricordava bene quel giorno in cui si erano conosciuti e sembrava essersi ripetuto in parte la medesima situazione:

Lei che tornava con la sacca piena delle provviste, vederlo ancora dentro alla taverna anche stavolta era a ginocchioni a pulire il pavimento. Persino Aulus stavolta rideva seppur con un po’ di malinconia mentre gli riferiva - Mi serviva un mano in più, con gli anni che avanzano

Di fronte a quel complimento rimase impassibile, anche se dentro di sè provava un senso di appagamento, che lo portò a terminare lavoro con dedizione facendo passare il senso di fatica in secondo piano.

Inaspettatamente la schiava si avvicinò e gli chiese sorridendogli debolmente

- Vuoi che ti dia una mano?

- Se proprio ci tieni, vicino agli sgabelli ci sono altri stracci

La schiava si mise all’opera dopo averne preso e sciacquato uno, iniziò a pulire accanto a lui. Dopo aver visto nuovamente quella strana croce pendergli dal collo gli chiese

- Scusa ma cos’è quella strana cosa che hai appesa al collo? Sembra una di quelle croci con cui i Romani condannano a morte i delinquenti….o sbaglio?

- Se te lo dicessi con molta probabilità mi terresti a distanza come la peste...

- Perché mai? - domandò sempre più curiosa, soprattutto dopo aver visto il suo volto oscurarsi in un lampo.

Il ragazzo continuava a strofinare il pavimento. Nonostante avesse la sensazione di potersi fidare, non riusciva ad aprirsi completamente e le rispose dicendole

- Per colpa di questo simbolo sono stato cacciato via di casa dalla mia famiglia…

- Davvero? Ma che cos’ha di tanto spaventoso? Io pensavo fosse un simbolo per ricordare un tuo amico morto in quella punizione terribile ed orribile, ho sentito dire in giro che quella sia la pena più umiliante per una persona - gli confessò per quel poco che ne sapeva, non aveva mai avuto il coraggio di vedere un'esecuzione perché le mettevano troppa angoscia. Ne aveva intravisto solo alcune in lontananza.

Come si poteva uccidere un uomo, anche se colpevole, così atrocemente senza restarne disgustati? I Romani sapevano essere sadici nel punire i reati.

- Perché ci tieni tanto a saperlo?

- Perché mi sembri un tipo che ha degli ideali, sei un sognatore, non è così?

Il ragazzo sentì dentro di sè una piacevole sensazione di stupore, su come una sconosciuta fosse riuscita a capire la sua indole, ma non voleva farlo trasparire e si limitò a dire

- E’ il simbolo del mio culto religioso...è divenuto tale perché Colui in cui credo...è passato per quella sofferenza …

- Cosa? - spalancò gli occhi per l’incredulità - Non ho mai sentito parlare di questa religione…e chi sarebbe quest’uomo? È un romano? O uno straniero come me?

- Di una lontana terra del medio oriente...

- So cosa significa soffrire lontano da tutti, quando si viene venduti per salvare la pelle - si fermò per ingoiare la saliva e riprese - Poverino, almeno adesso può riposare in pace dopo quello che ha passato

- Anche se non l’ho mai conosciuto, ho finito comunque nello specchiarmi nel modo in cui ha vissuto ed in  ciò che ha predicato, per questo credo e mi affido a Lui…

- Beato te che ancora hai fiducia in qualcosa di superiore, io ho smesso di credere da troppo tempo ormai, da quando ho capito che l’uomo è perduto per sempre - sospirò affranta, tentando di dimenticare le immagini della sua infanzia che le riaffiorarono davanti gli occhi.

- Nel mio culto la fede è un elemento incrollabile, per vivere una vita ultraterrena ed eterna

- Sei una persona sensibile…molto sensibile, mi ricordi tanto un amico dell’Egitto che conobbi quando fui portata qui dalla Gallia - sorrise guardando la convinzione e la determinazione che luccicavano negli occhi - Non mi sono presentata, il mio nome è Locusta…

- Gaudenzio…- le rispose sorridente spostando per un attimo lo sguardo al suo dolce viso.

Dopo aver ripercorso con la mente quel giorno, Locusta spostò nuovamente lo sguardo su quella croce che la incuriosiva dal momento in cui Gaudenzio gliene aveva parlato in modo velato. “Sembra esserci un grosso mistero intorno a quel simbolo, se è così schivo da volerne parlare, o forse è dovuto solo al fatto che la sua famiglia lo abbia cacciato, ma perché se innocuo?” rifletteva in cuor suo con l’ansia che le cresceva; voleva saperne di più.

- Gaudenzio perché non ti confidi con me, se quel simbolo ti provoca tanta sofferenza, io... posso capirti, credimi… - lo invitò con dolcezza quando lo vide aggirarsi in silenzio nella taverna

- Ti avevo già detto che non è mia intenzione parlartene…

Locusta, non aspettandosi una reazione così brusca da parte sua, e comprendendo in parte le sue ragioni, gli fece cenno di aver capito e si allontanò; fu attirata dal vocio dei suoi padroni che stavano discutendo animatamente di qualcosa, probabilmente del ricevimento.

La ragazza si avvicinò con circospezione alla sala dove si trovava la coppia e si mise ad origliare cercando di non farsi né vedere né sentire.

- Aulus…abbiamo rimandato da troppo questa discussione… Gaudenzio può rovinare la reputazione della taverna - urlò furente la donna che era a due passi da lui

- E’ un bravo ragazzo che si prodiga con impegno, è solo uno schiavo e nessuno si interesserebbe ad una figura così bassa

- Ha la croce, per Giove! Non è come Locusta o Canius che seguono le nostre tradizioni!! - controbattè la donna in preda ad una crisi di nervi.

- Anche se è un Cristiano non ha mai fatto nulla di strano e di negativo per la nostra attività

- Se ci scoprono con uno di quella setta ebraica, come ci giustifichiamo, eh? -

“Cristiano? Setta ebraica?” ripeté quelle strane parole nella sua mente; degli ebrei o giudei come si facevano chiamare ne aveva sentiti parlare un po’ in giro ed erano malvisti dai Romani, mentre quel termine così strano, Cristiano, non lo aveva mai sentito...

Aulus non riusciva a trovare una risposta convincente e rimase ammutolito di fronte alla moglie che lo guardava preoccupato per la loro sorte.

- Abbiamo dato un tetto e del cibo caldo a quel ragazzo, sono convinto che non farà mai niente contro di noi…

- La verità è che tu sei troppo buono, anche con gli schiavi, dovresti avere un po’ di polso

Proprio in quel momento Gaudenzio aveva visto Locusta origliare dietro la porta della stanza sentendo anche il discorso dei padroni. Non appena gli sguardi dei giovani si incrociarono, il ragazzo scappò via senza dire una parola.

Locusta corse dietro di lui, ora non poteva più nascondere il suo segreto; quando uscì fuori, si mise a gridare il suo nome, fra le persone prese dai loro impegni

I due, seppur distanti, dovettero più volte svincolarsi dalla folla numerosa.

- Gaudenziooooo...aspettaaaa!

Il ragazzo non la ascoltò e continuò a correre, fino a che, come il giorno in cui si conobbero, finì con l’inciampare e cadere a terra, mentre provava a rialzarsi, Locusta riuscì ad acciuffarlo.

Dopo averlo completamente sollevato su ed aver visto gli occhi rossi per il pianto silenzioso, senza riflettere, lo abbracciò; era un modo per evitare di cadere nel dolore.

- Per favore va via Locusta!! Lasciami andare!! - provò a divincolarsi per sfuggirle

- Scappare non risolverà nulla! Sei un uomo, affronta il destino di petto!! Anch'io ho avuto il mio momento di sconforto... - le confessò tenendolo ancora più stretto; alcune lacrime si posarono sulla tunica corta di Gaudenzio.

- Farà molto invece...perché prima o poi vorrete liberarvi di me…finirò in mano ai Pretoriani…e peggio ancora sarò condannato anche io alla croce...così come voi se mi terrete in quella casa!!

- Se la tua religione ti insegna a scappare dalla vita, allora vuol dire che le tue divinità sono codarde come i loro adepti… - gli rinfacciò subito dopo essersi ripreso dalla tristezza, senza però mollarlo.

Gaudenzio rimase immobile, non sapeva cosa fare, venne solo colpito da quella dolcezza e determinazione che la sua compagna di schiavitù le stava dimostrando, lo stesso amore che la sua religione insegnava - Avanti torniamo a casa...lì mi spiegherai…- il giovane la seguì senza proferire parola; passo dopo passo cresceva in lui la voglia di confidarsi, almeno con lei, sapeva di poterlo fare.

Tornati alla taverna, Locusta lo condusse in una stanza adibita a deposito di coperte, Aulus e Tiberia, non vi avrebbero messo piede.

- Tu sei un Cristiano, giusto?

- Si...e per questo sono stato cacciato dalla mia casa...io appartengo ad una famiglia patrizia molto vicina al Senato

- Capisco, ma parlami di questo culto così temuto e cosa ha a che fare con gli ebrei o come si fanno chiamare loro…

Gaudenzio le spiegò che era nato da una parte degli Ebrei. L’intero popolo era da secoli in attesa di un Messia, il figlio dell’unico Dio, Yahweh, in cui credevano, che avrebbe liberato il popolo Giudeo, un condottiero che avrebbe liberato la Palestina con la spada.

Ma lui ha scelto di nascere in piena povertà, predicando la pace e l’amore verso il prossimo. Le parlò della sua misericordia, dei suoi miracoli, avere scelto di venire al mondo come un semplice uomo che prova dolore e sofferenza carnali affrontando la morte passando per la croce. E poi sconfiggerla e risorgere dopo soli tre giorni.

- Questi ideali di pace e amore, sono il modo con cui voglio vivere…

- È una religione insolita, mai avevo sentito di un Dio che perdona e predica pace e amore tra tutti gli uomini, di solito sono proprio loro a chiedere di combattere contro gli infedeli agli adepti - soffuse sorridente Locusta - Ma ciò che non capisco è perché vi temono sia i Romani sia gli ebrei, avete lo stesso Dio in comune…inoltre da come parli mi sembri tutto fuorché minaccioso

- Veniamo accusati di atti di cannibalismo, che facciamo sacrifici umani con neonati...perché Cristo durante la sua ultima cena...ci ha detto che il pane rappresenta il suo corpo, e il vino il suo sangue…

Locusta rimase perplessa da quella rivelazione, ebbe un brivido quando le pronunciò, poiché era così convinto, era così devoto al suo Dio.

- Detto così sembra un po’ ambiguo…anche se è un rito

- Secondo molti per fare ciò che ci ha detto il Signore abbiamo bisogno di fare un sacrificio umano e mangiarne le carni...ma se c’è un comandamento che ci ha lasciato è proprio quello di amare il nostro prossimo come noi stessi…

- Comprendo in parte le paure e le accuse che vi fanno, neanche io riesco a capirne a fondo il messaggio, ma queste parole d’amore sembrano così rivoluzionarie, soprattutto in un mondo dominato dall’odio, dal disprezzo, tenuto a freno con il sangue e la corruzione…- sospirò nuovamente Locusta alzando la testa al soffitto.

Improvvisamente ricordò di quando era bambina e di come il mondo le sembrava così meraviglioso e magico,  per divertirsi le bastava correre sull’erba e stendersi per guardare con stupore il cielo, prima che gli occhi furono aperti e il cuore si indurisse.

Era così difficile per gli uomini vivere in pace ed armonia, senza l’uso della violenza?

- Non appena mio padre lo ha saputo, mi ha cacciato di casa. Se mia madre non avesse avuto pietà per me, sarei stato ucciso...ha prevaricato la sua brama di potere, la sua amicizia con i senatori e il nome di una famiglia potente, non possono essere macchiati dalle credenze sacrileghe di uno come me

Locusta sentì la rabbia dentro di sé, proprio come suo padre, l’onore e il denaro prima di tutto, disfarsi del peso per sentirsi con la coscienza a posto; Gaudenzio notò la sua espressione e tentò di calmarla mettendole una mano sopra la sua, per confortarla, per farle capire che lui non l’avrebbe lasciata, come lei aveva fatto con lui.

- Inoltre,  ho perdonato mio padre, perché purtroppo è vittima del male - concluse sorridendo

- Dovrei farlo anch'io? Ma come? Non ci riesco

- Sono convinto che tuo padre è addolorato dal suo gesto e che lo tormenti ogni giorno...

- Si, ma...ma non ce la faccio...Gaudenzio, io non riesco a farlo, mi spiace...però posso aiutare te, per evitare il peggio

- Tu hai già fatto tanto...così come il Signore, che mi ha permesso d’incontrarti accettando di diventare lo schiavo di Aulus anche per espiare i miei peccati...e un giorno...spero di poter realizzare il mio sogno…

- Qual è il tuo sogno? - gli chiese curiosa, dopo aver intravisto i suoi occhi brillare intensamente; come poche volte aveva visto in lui.

- Ho sempre avuto una grande passione, quella per l’architettura, voglio progettare tanti nuovi edifici, fra cui un’opera che possa rendere ancora più grande il nome di Roma e che possa diventarne il simbolo per l’eternità

- Spero che riesca a realizzarlo, e che il tuo Dio sia favorevole, invece ciò che desidero è solo quello di essere dimenticata… - confessò con un sorriso amaro.

- Da chi?

- Dal mondo, una schiava come me cosa potrà dire?

- Sei una creatura di Dio…- le accarezzò dolcemente il viso - Una dolcissima creatura del Signore e lui ha disegnato un progetto di vita per ognuno di noi, una qualsiasi cosa ci capiti è stata voluta da lui. Sei una giovane donna molto forte e la tua vita non potrà mai finire in un qualcosa di obsoleto e meschino come la schiavitù

Locusta si imbarazzò molto di quell'improvvisa intimità e di quelle parole, allontanò il corpo da lui e si alzò, tentando di celarlo.

- Scusa...non pensavo di metterti a disagio

- Non tu, ma le tue parole… - s’interruppe, riprese dopo poco

- C’è sempre una prima volta per un incoraggiamento - concluse sorridendo

- O-ora andiamo - lo incoraggiò la ragazza. Dopo quella chiacchierata tornarono a sbrigare ognuno le proprie faccende...

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 - Difficile est longum deponere amorem - ***


"Graecia capta ferum victorem cepit et artis intulit agresti Latio. Sic horridus ille defluxit numerus Saturnius et grave virus munditiae pepulere
Orazio, Epistole, II, 1, vv. 156-158

Anzio, 12 luglio 41 d.C.

Lucio udiva il rumore di passi dirigersi verso la sua stanza, i nuovi maestri erano arrivati; negli ultimi giorni fu tartassato dalle mille raccomandazioni dalla madre, ma non aveva alcuna voglia di incontrarli.

Per il bambino, ogni persona che era in contatto con la madre era simile a lei, esattamente come Passieno, che solo apparentemente si era atteggiato diversamente da Giulia Agrippina.

Quando si rese conto che si erano fermati, si fece coraggio ed uscì dalla stanza: vi erano la madre, Passieno e i due liberti greci, suoi ex schiavi, che aveva intravisto nella villa: Aniceto e Berillo.

Entrambi erano alti, dal fisico esile e magro, con la pelle scura, gli occhi scuri come due olive e i capelli ricci, lunghi sul collo.

Il primo era il più anziano e dalla vasta cultura, dall'intelligenza vivace e dalla parola arguta e pungente quando gli era permesso; il secondo più giovane, colto in misura minore del collega, capace, però, di argomentare con convinzione senza la foga dell'altro.

- Loro saranno i tuoi nuovi maestri - emise Passieno con un dolce sorriso, mentre i due uomini annuirono con grande mitezza - Immagino che li conosca già...

- S-si - soffuse Lucio solamente, senza far trasparire alcun sentimento; dal giorno in cui sua madre aveva cacciato quella compagnia di attori, cercava di mostrare freddezza verso le persone che incontrava, in modo da non soffrire più.

- Anche se un po' chiuso è un bambino molto capace... - disse Passieno.

- Lo sappiamo, padrone, abbiamo visto le sue precoci capacità artistiche e linguistiche - sorrisero i due liberti.

Agrippina sorrideva forzatamente perché non era riuscita a trovare altri maestri della Grecia disposti ad educare Lucio;  suo marito non voleva spendere troppi soldi per accontentare nuovamente le ambizioni della moglie - Ci sono i miei liberti, sono di origine greca e possiedono una grande cultura, non potranno dirmi di no

- Ma lui può averne di migliori... - replicò Agrippina furente come sempre.

Passieno, stavolta, non le avrebbe dato ragione, il bambino aveva bisogno di stabilità e rapporti solidi, per aprirsi e confidarsi con persone fidate. E Aniceto e Berillo lo erano.

Giulia Agrippina dovette soffocare la sua indole e ubbidire al marito, in quanto non sapeva cosa rispondergli, l'aveva spiazzata. Ciò non le impediva di rimuginare, di pensare a come saziare le sue ambizioni nei confronti del figlio.

- Vostro figlio ha bisogno di essere indirizzato in tutti i campi in base alle sue abilità - riferì Aniceto, cogliendo l'ipocrisia della sua espressione - Non occorre forzare i tempi, ha tutta una vita per imparare e diventare un perfetto cittadino romano

La donna lo guardò negli occhi con severità, poi rivolse lo sguardo verso il figlio che covava rabbia nei suoi confronti; non aveva dimenticato quell'avvenimento, l'aveva provato nel profondo, le sembrava di ripercorrerlo negli occhi chiari di Lucio. 

- Mi auguro che riusciate sul serio - sibilò Giulia Agrippina - Laddove io e Passieno abbiamo fallito - aggiunse allontanandosi da loro con tono di sfida; era curiosa di vedere i risultati che avrebbero ottenuto.

Aniceto e Berillo si fissarono complici, nei loro occhi scuri si leggeva il timore e un pizzico di paura: avevano discusso e dialogato, da quando erano entrati nelle grazie del padrone Passieno, quasi esclusivamente con coetanei  dall'impeccabile reputazione e  dall'eccellente cultura. 

Fu la prima volta che venivano lanciati in quella che pareva un'impresa, sarebbe stata dura con un bambino; e non uno qualsiasi, ma avente un carattere impenetrabile e solitario.

Lucio Domizio Enobarbo doveva essere scolpito dalla cultura, i suoi spigoli smussati attraverso l'arte, allargati gli orizzonti con l'ellenismo, addolcito lo spirito con la bellezza.

26 marzo 42 d.C.

Poco prima dell'alba Lucio Domizio si era già levato, abituato da un paio di mesi agli orari delle lezioni. Scese dal letto e si avvicinò alla finestra, per guardare il sole che nasceva ancora una volta.

Dall'inizio del nuovo anno era solo, un'altra volta: sua madre aveva seguito il marito in Asia, dopo aver ricevuto la nomina di proconsole e fu affidato alle balie Egloge e Alessandra, le stesse che lo avevano seguito quando era ospitato dalla zia.

Ciò non lo faceva soffrire, in quanto era una consuetudine, gli lasciava solo un piccolo vuoto nel cuore, che veniva in parte colmato dalle persone che si occupavano di lui e dallo studio intenso.

- Lucio, svegliatevi fra un po' inizia la lezione! - esclamò Alessandra bussando alla porta.

- Sono già pronto - rispose il bambino prontamente che prese la tavoletta cerata con alcune pergamene, lo stilo che serviva ad incidervi le parole sopra ed uscì.

- Buongiorno, Lucio - disse allegra e iniziò a pettinargli i capelli ricci, cercando di lisciarli un po' - Questi capelli ribelli ogni mattina, sono come la vostra indole

Lucio sorrise dolcemente a quell'affermazione, le balie lo trattavano sempre con grande amore, rispetto, lo stesso che avrebbe voluto dalla madre, non pretendeva di volerla tutto il giorno con sé, ma anche il solo fatto di sapere come stesse gli bastava, invece neanche quello gli disse quando partì.

- Le interessa solo la politica... - soffuse il bambino.

Alessandra comprese il suo dolore e gli accarezzò la testa - Vostra madre all'apparenza è fredda con voi, ma tutto ciò che fa, lo compie per darvi il meglio, per il vostro futuro...

- Io vorrei solo... - s'interruppe abbassando la testa.

- Solo? - chiese Alessandra.

Ma non rispose, non voleva sembrare un bambino viziato e capriccioso, doveva comportarsi da uomo, era il solo modo per farsi notare dalla madre, e per avere un po' d'affetto.

"Povero bambino, se solo Agrippina comprendesse" pensò continuando ad accarezzare i morbidi ricci rossicci che si stavano scurendo ogni mese che passava.
 

- Ieri abbiamo imparato a comporre una piccola frase, oggi incominceremo con alcuni brevi passi tratti da Cesare... - iniziò Aniceto.

- Sarebbe lo stesso Cesare che mia madre cita ogni volta che si innervosisce? - domandò Lucio con curiosità; quella parola era sempre sulla bocca della madre.

Aniceto rimase su due piedi sul fatto che Giulia Agrippina non gli avesse parlato del suo discendente più lontano, Giulio Cesare. Perciò, a grandi linee, cominciò a raccontargli del generale che resa grande Roma.

- Era un uomo che amava molto la cultura, ma come ogni cittadino romano aveva la ferocia, la spietatezza e l'amore per il combattimento, per il sangue, per il campo di battaglia...

- Ma a me non piace combattere e odio il sangue - ammise Lucio con disgusto; provava ribrezzo nell'immaginare anche una sola goccia di sangue uscirgli da una qualsiasi parte del corpo.

Aniceto rimase ancora più colpito e lo fissava spaventato "Un romano che non vuole combattere? Che si disgusta per il sangue? Come potrò insegnarli i valori del mos maiorum, della civiltà romana se il suo spirito non ne è adatto?"

- Dovrai combattere almeno una volta sul campo di battaglia per mostrare il tuo valore di cittadino - confessò il maestro - Per un Romano è fondamentale

Lucio Domizio sbiancò e prese a tremare, non voleva combattere, non si sentiva adatto per farlo, non era attratto dalle risse né tantomeno dagli scontri militari - E se mi rifiutassi?

Aniceto taceva, terrorizzato, sapeva delle terribili punizioni che subivano tutti coloro che disertavano, rischiavano la vita molto più che sul campo di battaglia...

- Ecco.... - ingoiò la saliva - Ecco, verreste condannato a morte, Lucio - rivelò con gli occhi bassi.

Una delle pene più terribili per un soldato era la fustuarium, ovvero la bastonatura: il soldato veniva lapidato o picchiato a morte dai commilitoni dopo una sentenza. Se si sopravviveva, si veniva esiliati a vita.

- Cosa? Dovrei essere ucciso solo perché non ho l'attitudine alla guerra? - gridò disperato il bambino, con il terrore dipinto negli occhi. Come avrebbe potuto fare ad uscire da quella situazione assurda?

"Un romano con lo spirito delicato...chi se lo sarebbe aspettato?" Credeva che l'attitudine artistica fosse solo una delle sue qualità, ma che poi possedeva tutte le altre di un vero Romano, ciò non avrebbe fatto piacere alla madre; comprese che gli sforzi per renderlo perfetto non avrebbero fruttato completamente.

- Non disperatevi - lo rassicurò Berillo che sbucò dall'entrata - Siete ancora un bambino, per il momento dovete solamente imparare le nozioni base, vedrete che con il tempo vi sarà tutto più facile

- Forse è meglio continuare con la scrittura dei testi greci! - esclamò Aniceto grattandosi la testa perplesso.

Quell'esclamazione rincuorò il cuore di Lucio che desiderava ardentemente imparare i passi di grandi opere greche, ormai sapeva scriverlo quasi perfettamente, molto più del latino.

Il pedagogo scrisse una lunga frase in greco ed ordinò a Lucio di leggerla talmente tante volte da impararla a memoria, una volta fatto ciò avrebbe dovuto trascriverla correttamente.

Il bambino eseguì il compito con un po' di difficoltà perché non riusciva a leggere benissimo da lontano, ma si sforzò con tutte le sue energie, senza confessare a nessuno di questo insignificante problema.

Berillo intuì che qualcosa non andava, poiché fino a quel momento aveva sempre letto e imparato molto bene e in fretta, solo quando aveva cominciato a scrivere più piccolo i caratteri era emersa una certa difficoltà.

- Sicuro che non abbiate nessun problema, Lucio? - chiese sospettoso.

- No, no, forse è solo perché lo ha scritto più piccolo, ma mi sto abituando, non dovete preoccuparvi per una sciocchezza - rispose il bambino.

Anche se titubante le lezioni ripresero e dopo poco tempo Lucio si era abituato alla lettura dei caratteri più piccoli e, nascondendo lo sforzo, imparò quasi tutto il primo canto dell'Odissea.

Si passò al latino, e riprese il passo del De Bello Gallico che aveva rimosso precedentemente; il latino del condottiero era molto semplice e comprensibile anche al volgo meno istruito. 

- Dovete essere più preciso nella scrittura - lo rimproverò Berillo - Deve essere nitida, altrimenti quando andrete ad impararla la ricorderete in maniera errata - disse infine prendendo la mano del bambino accompagnandolo nella copiatura.

Lucio si sentì meno teso con il maestro al suo fianco, anzi sentiva più fiducia in se stesso, perché c'era qualcuno che ci teneva al suo rendimento, al suo apprendimento. I loro rimproveri anche se severi, non erano oppressivi, demotivazionali.

Fu il turno della matematica che lo tenne impegnato mentalmente per un bel po' non era una delle sue discipline preferite, però se la cavava abbastanza bene, ed era inoltre una di quelle materie che sarebbero servite nella vita di tutti i giorni. Ovviamente essendo ancora troppo piccolo gli insegnarono i calcoli più semplici, eseguibili con le dita.

Dopo una lunga ed intensa giornata di studio al bambino fu concesso dai due liberti di poter suonare qualche nota con la sua amata cetra, che non teneva mai lontano dal suo sguardo; alimentare queste arti non poteva che far bene ad un'anima solitaria come quella dell'Enobarbo.

Si rallegravano di tale passione anche le due balie, ogni volta che lo vedevano sorridere anche il loro spirito gioiva.

Lucio si mise al centro della stanza del triclino, la stessa dove quasi un anno prima la madre aveva ferito l'artista che c'era in lui e pizzicò la cetra dolcemente; poi iniziò a recitare il primo canto dell'Odissea che aveva imparato quel giorno stesso.

- Narrami, o Musa, dell'uomo dall'agile mente, che tanto vagò, dopo che distrusse la sacra città di Troia - enunciò cantando  della sorte del guerriero Odisseo o Ulisse come fu ribattezzato nell'Urbe.

Ma la parte che lo coinvolse fu soprattutto della triste esistenza di Telemaco, figlio dell'eroe, ormai ventenne, ma che quando suo padre partì per la Guerra di Troia era solo un neonato. Un po' come lui, non ebbe una figura paterna stabile, anche se la madre non lo aveva mai privato della sua presenza.

La meravigliosa Itaca era stata invasa dai Proci, il cui unico scopo era di sposare la saggia e bellissima Penelope, moglie del guerriero acheo e governare a sue spese.

Il tono era malinconico, come il suono della sua cetra, era una sinfonia che stava creando in quel momento, guidato dalla sua vena artistica; unica e meravigliosa come la storia che stava raccontando.

"La Grecia conquistata conquistò il suo fiero vincitore, e introdusse le arti nel Lazio, dedito all'agricoltura" si disse Aniceto riprendendo le parole di Orazio, ormai convinto della loro veridicità. 

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 - Honos alit artes - ***


"Contra fortunam illi tenendus est cursus; multa accident dura, asperased quae molliat et conplanet ipse. Ignis aurum probat, miseria fortes viros
Seneca, De providentia, 9

Roma, 7 giugno 49 d.C.

L'imperatore Claudio si trascinava con fatica all'interno del palazzo imperiale, la gamba zoppiccante gli creava sempre più problemi ed oltre ad essa molti altri stavano subentrando sul suo fisico sempre più debole e deperito.

Rivolse lo sguardo verso la balconata e udì qualcuno suonare la cetra, vide, il figlio adottivo Lucio Domizio appoggiato al muretto con lo sguardo perso a rimirare il cielo. Indossava la tunica corta e portava i capelli ricci, lunghi sulla nuca, alla moda greca.

Nonostante i suoi 11 anni era incredibilmente robusto. A differenza del fratello Germanico e di Agrippina stessa, Claudio era tutt'altro che imponente, considerando poi che non ebbe mai occasione di esercitare il fisico, il suo corpo rimase gracile e sofferente.

Il ragazzino smise di suonare quando si accorse della presenza di qualcuno e si voltò, stupito, nel vedere l'imperatore  osservarlo con molta attenzione.

- Perché hai smesso, Lucio? - chiese l'uomo sbalordito - ‎Era una melodia meravigliosa

- Ma...maestà...io... - iniziò il ragazzino con imbarazzo.

- Ancora con queste formalità, Lucio, chiamami padre anche se lo sono solo formalmente, maestà mi fa sentire vecchio - rise spontaneamente Claudio.

- Scusate, padre - deglutì il ragazzino inchinandosi - Credevo di recare disturbo alla vostra persona

- Perché di-dici questo?

- Perché al nostro popolo non è molto gradita la musica - riferì tagliente il figlio e ciò lasciò perplesso l'imperatore.

- È-è stata tua madre a dirlo? - domandò cercando di frenare la balbuzie che si mostrava nei momenti di cedimento, di incertezza.

- Si, pa-padre, per lei solo il sangue e il potere contano - affermò con freddezza guardandolo fisso negli occhi.

- È ve-vero, ma le arti greche non si devono ce-certo disdegnare, sono importanti per il nostro spirito - lo rassicurò Claudio; chi meglio di lui poteva dire ciò, in quanto la cultura era stato l'unico mezzo che aveva avuto per considerarsi ancora un uomo.

Quando aveva tanto tempo libero, prima di diventare imperatore, sotto la guida di Tito Livio, uno dei migliori storici dell'epoca, scrisse molte opere: una storia su Roma che rimase incompiuta, in venti libri scrisse della storia di Cartagine e in otto quella degli Etruschi, entrambi in greco.

Il suo stile elegante si distinse anche nella Difesa a Cicerone; inoltre apportò modifiche nell'alfabeto romano, introducendo tre lettere estrapolandole dal greco.

Purtroppo con la sua ascesa al trono, non aveva avuto più il tempo di dedicarsi giornalmente a queste attività, scribacchiava qualcosa in quelle poche ore di libertà che poteva permettersi.

- Dite sul serio? - esclamò incredulo il ragazzino con gli occhi celesti colmi di speranza. 

L'imperatore stava quasi per rispondere a Lucio quando il suo adorato figlio di 8 anni, Tiberio Claudio Cesare, soprannominato dal padre stesso Britannico, in onore della sua vittoria, corse tra le sue braccia per salutarlo.

Era gracile e minuto come il padre, molto più basso di Lucio Domizio, dai grandi occhi neri, i capelli lunghi e castani, il viso era levigato e liscio come una pesca.

Avuto dalla dissoluta e spregiudicata moglie Valeria Messalina uccisa da un pretoriano dopo essere state scoperte le sue tresche, i suoi continui amanti, tra cui un senatore di nome Silio, con il quale si era addirittura sposato, Claudio lo amava follemente, così come il popolo.

Poco dopo la morte di Messalina aveva promesso di non risposarsi mai più, sconvolto nel profondo da quelle terribili vicende; ma se ne dimenticò prestissimo, soprattutto dopo che uno dei suoi liberti più fidati, Callisto le propose la nipote Giulia Agrippina, rimasta nuovamente vedova nel 47 d.C.

Passieno era morto quell'anno in circostanze piuttosto oscure, molti, però, intuirono che fosse stata proprio sua nipote ad ucciderlo, probabilmente avvelenato, in modo da poter ereditare gli averi e il prestigio dell'oratore che l'aveva nominata unica erede.

L'imperatore non sapeva come agire nei confronti di questa storia, anche perché i suoi pensieri erano rivolti in gran parte alla gestione dell'Impero e tentava di tenersi lontano dai capricci e pettegolezzi di corte. Aveva cercato di spegnere ogni voce al riguardo.

Agrippina non poté farsi sfuggire una simile occasione, che l'avrebbe permesso di migliorare ulteriormente la posizione sua e del figlio che continuava a mostrarsi disinteressato alla politica, ma che costituiva un ottimo tassello per le sue ambizioni.

Riuscì con la sua grande intelligenza ed astuzia a prevalere sulle altre concorrenti, era in effetti, almeno apparentemente,  molto sobria e pudica, al contrario di Messalina, e ciò giocò solo a suo favore.

Ben presto lo zio perse la testa per lei; il 29 dicembre 48 d.C. con un decreto che eliminava il veto di matrimonio tra nipoti e zii, si celebrò, infine, l'unione incestuosa. 

Appena arrivata al palazzo imperiale gli presentò il figlio Lucio Domizio che fu ben accolto dall'imperatore e lo considerò suo figlio adottivo ancora prima dell'ufficializzazione.

Lucio Domizio vedendo un rapporto così stretto, e soprattutto il modo con cui i due si guardavano, provò un'invidia immensa per il fratello adottivo che dovette reprimere a fatica, ingoiò il boccone amaro e salutò Britannico che contraccambiò velocemente.

- Lucio, non potresti riprendere quella melodia che stavi suonando prima, penso che farebbe piacere anche a Britannico

- Non sapevo che sapessi suonare uno strumento... - emise Britannico sorpreso.

- È...è meglio se vi lascio soli - rispose sorridendo forzatamente il ragazzino dai capelli rossi. Prese uno smeraldo finemente lavorato, levigato, si congedò con un inchino e scappò via.

Corse senza meta per il palazzo giungendo nel giardino, si fermò e si sedette vicino una colonna per riprendere fiato: era una giornata torrida e assolata, ma il suo corpo pareva gelido come una fonte.

Sentì la nostalgia salirgli in gola: gli mancava la sua Anzio, la sua tranquillità, il suo mare, fonte d'ispirazione e soprattutto la sua cara zia Domizia che non vedeva da quasi un anno.

Aveva chiesto molte volte all'imperatore di poterla vedere ma gli fu negato sia perché Claudio non voleva più avere a che fare con lei, sia perché era stata sua madre a consigliarlo. L'odio che covava per Domizia non si era mai spento.

Fece qualche passo e si poggiò sulla statua dell'imperatore che si ergeva come un dio, i suoi lineamenti erano addolciti e ringiovaniti, così come il corpo, vigoroso e forte che, però, non ebbe mai. 
Rimase colpito dal fatto che gli imperatori venissero idealizzati agli occhi del popolo.

Per un attimo provò invidia anche per la plebe: non aveva gli agi della vita nobile, era innegabile, ma almeno non era oppresso dai problemi, dai giochi di potere, viveva la vita in modo semplice, almeno così era convinto.

- Che m'importa dei loro stupidi litigi - sussurrò quasi piangendo - Io voglio solo che qualcuno mi guardi come fa l'imperatore con Britannico, perché nessuno non lo capisce?

- Cerca di pensare a quello che hai già, Lucio - esclamò Alessandro di Ege, un filosofo peripatetico, seguace di Aristotele, uno dei due nuovi maestri insieme a Cheremone d'Alessandria, che la madre aveva scelto per lui.

- Avevo ciò che mi serviva ad Anzio, maestro, non desideravo altro - sbottò furente Lucio, non riusciva a non provare sentimenti negativi nei confronti di Britannico.

Perché il fratellastro doveva trascorrere una vita serena, circondato dall'amore di un padre che avrebbe dato qualsiasi cosa per vederlo realizzato, mentre lui doveva fare i salti mortali per poter ricevere il minimo di attenzione, che nella maggior parte dei casi non otteneva?

- Devi liberarti dal peso della vita mondana, ragazzo - esordì l'egizio Cheremone d'Alessandria dall'espressione imperscrutabile - È un cammino lungo e difficile, ma essenziale se si vuole vivere in pace con sé stessi e il mondo

L'Enobarbo avrebbe voluto rispondere di non voler ambire al mondo perché non gli interessava, ma non ebbe il coraggio, si sentiva troppo affranto dalla totale mancanza di attenzione che il trasferimento nella Urbe aveva comportato.

Giulia Agrippina stava attendendo con trepidazione l'arrivo del suo ospite d'onore, aveva saputo da persone fidate del suo ritorno a Roma dopo il lungo esilio in Corsica, e sperava che arrivasse il prima possibile nel palazzo imperiale.

"Lucio Anneo Seneca è l'unica persona che può assicurare definitamente il potere a me e a mio figlio" pensava con ansia mentre gironzolava lungo il palazzo "Trasmetterà la sua parola agile, accattivante, persuasiva nella lingua ancora acerba di Lucio in modo da essere preparato al momento della sua salita al trono"

Inoltre credeva che riammesso a corte, avrebbe attirato le simpatie dell'opinione pubblica per via della sua elevata considerazione nonostante gli anni di duro esilio, come lui stesso aveva descritto in numerose epistole.

"Mio fratello e mio marito sono stati degli sciocchi ad allontanare un uomo influente e colto come lui, condizionati dai capricci delle loro sguadrinelle, ma con me avrà ciò che merita, se accetterà le mie condizioni"

Caligola, infatti, era particolarmente geloso di Seneca, del suo ascendente sul popolo, sul Senato e bramava di volerlo uccidere, fu graziato da un'amante del princeps che gli assicurò dell'imminente morte dell'odiato Anneo.

Dopo la morte di quest'ultimo la situazione per Seneca non migliorò, soprattutto dopo che si era unito con una donna malvista da Messalina che arrivò alle orecchie di Claudio, inizialmente fu condannato a morte e poi graziato dall'imperatore che non potendo però scontentare del tutto la moglie lo fece mandare in esilio in Corsica.

Un pretoriano le avvisò dell'arrivo del filosofo ed ordinò che lo portassero al suo cospetto immediatamente; l'anziano oratore non si fece attendere e in poco tempo si presentò a lei.

Agrippina rimase spiazzata nel vederlo,  l'esilio l'aveva consumato non poco: il fisico era fragile e debole, i capelli bianchi unti, il viso scavato e rugoso, gli occhi incavati e circondati da pesanti borse, ma ancora vispi e profondi, la barba lunga e incolta. Gli abiti erano consunti e sudici.

- Scusate l'attesa Agrippina - sibilò suadente Seneca nel vederla. Era proprio la donna meravigliosa e severa che immaginava - Devo ringraziarvi per aver intercesso il mio nome all'imperatore che mi ha graziato ancora una volta

- Sapete il perché della vostra presenza? - chiese titubante, non ancora del tutto convinta.

- Per istruire vostro figlio, Lucio Domizio - rispose prontamente - Affinché possa diventare un imperatore preparato al suo dovere

- Siete esattamente l'uomo sveglio e perspicace che mi avevano descritto - sorrise maliziosa Agrippina - Ovviamente nemmeno mio figlio deve sapere ciò al momento, i tempi non sono ancora maturi

- Come desiderate, vorrei conoscere le inclinazioni di vostro figlio, in modo da poter stabilire un rapporto solido fin dal primo incontro

La donna sorrise nuovamente, Seneca era un uomo che arrivava subito al sodo senza tante pretese, credeva sempre più fermamente che la strada per arrivare al potere assoluto sarebbe stata spianata molto più in fretta di quanto immaginava.

- Ha una forte inclinazione nelle arti, si diletta soprattutto in componimenti poetici e musicali in lingua greca - elencò Agrippina - Dispone di una grande intelligenza, ha un'ottima preparazione di base, ma ahimè, non è interessato alla politica

- Un ragazzino molto interessante - mugugnò Seneca - Raramente se ne vedono di Romani così, di solito sono Greci o Egizi trapiantati nella città

Si convinse che la sua vita sarebbe stata movimentata e non desiderava di meglio dopo anni di ozio forzato e inattività - Sarà un vero onore essere il tutore di vostro figlio - accettò alla fine sorridendo; la donna contraccambiò e lo accompagnò in giardino per presentargli il ragazzino.

2 ottobre 49 d.C.

Locusta corse immediatamente nella domus dei padroni, tra le mani aveva delle erbe che era riuscita a racimolare nella zona; sperava in tutti i modi di salvare il suo adorato padrone le cui condizioni erano peggiorate negli ultimi mesi.

La gestione della taverna e il lavoro erano divenute troppo faticose per la sua salute, Tiberia e gli schiavi utilizzarono ogni energia per mantenere i ritmi lavorativi quotidiani, occupandosi contemporaneamente del sofferente Aulus che tentava in ogni modo di continuare a svolgere i suoi compiti.

Locusta gli preparava infusi ed estratti che in qualche modo miglioravano le sue condizioni fisiche, seppur nei limiti della medicina dell'epoca.

Appena varcò la porta il silenzio la faceva da padrone, così come il buio della notte che inghiottiva le speranze; le venne subito incontro Canius che con un cenno della testa e l'espressione lugubre le fece capire che Aulus era morto.

La schiava si mise le mani sulla bocca, nel tentativo di bloccare un urlo di dolore che le esplodeva dal petto, non riuscì, però, a frenare le lacrime che scorrevano senza sosta sulle guance. Istintivamente si abbracciò a Canius che la accolse senza dire nulla tra le sue braccia.

Ora che il suo caro padrone Aulus era morto che cosa ne sarebbe stato di lei e dei suoi compagni?

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 - Faber est suae quisque fortunae - ***


"Omnia fert aetasanimum quoquesaepe ego longos cantando puerum memini me condere solesnunc oblita mihi tot carmina"
Virgilio, Bucoliche, IXvv. 51-53

Mentre continuava a piangere, Locusta si staccò dalle braccia di Canius ed entrò nella stanza, per poter vedere il suo padrone un’ultima volta.

Vide Tiberia sconvolta dal dolore, abbracciata ad una delle sue amiche che era giunta nella loro casa per starle vicino, e infine vicino al letto, notò anche Gaudenzio, seduto su un piccolo sgabello, mentre aveva una mano su quella di Aulus.

La ragazza si avvicinò e lo sentì farfugliare qualcosa - Signore...so che quest’uomo non ha mai creduto in te - fece una piccola pausa - Come so che ha definito schiavi, e quindi inferiori, parte dei suoi fratelli e sorelle...ma la sua bontà e il suo prendersene cura, hanno ampiamente dimostrato, il suo amore verso essi. Possa tutto questo sfiorare la tua misericordia e dargli un posto nel Regno Celeste che ci hai promesso

Il pianto riprese il sopravvento a poco a poco e terminò dicendo con le mani sopra il viso - Te ne prego Signore...accoglilo...
Poco dopo si alzò e fece dei segni che ricordavano la forma della croce

- Gaudenzio - esordì Locusta dopo aver  udito la sua preghiera genuina e semplice - Aulus sarebbe così felice di ciò, avrebbe ricambiato con un altro dei suoi dolci sorrisi e una battutina ad effetto, credo che non sarà facile dimenticarlo

- Sai cosa disse il Signore in cui credo fra gli insegnamenti che ci ha lasciato?

- No - rispose trepidante Locusta; le piaceva ascoltare i discorsi che estraeva dalle parole del suo Signore, anche se aveva perso fiducia in ogni divinità.

- Dai da mangiare agli affamati...dai da bere agli assetati…e lui ha fatto tutto ciò...senza volerlo...ha seguito questi insegnamenti…e gliene sarò grato per sempre…

- Se il tuo Signore è come dici, allora lo accoglierà davvero nel posto che tu chiami Regno dei Cieli, lui senz'altro lo meriterebbe - abbassò la testa e riprese a piangere, proprio perché sapeva che se lo sarebbe meritato per come si era presa cura di lei, per averla accolta più come una figlia, anziché come una schiava.

Ma anche che lei non avrebbe mai potuto percorrere la strada del padrone, si sentiva perduta, come se qualcosa nelle viscere le ripetesse che avrebbe compiuto solo male.

Finì con l’abbracciare forte Gaudenzio, invidiava la sua enorme fiducia nel suo Signore e la sua totale devozione.

- Sei forte Locusta...supererai questo dolore...anzi...lo faremo insieme…- le accarezzò i capelli con dolcezza e la lasciò sfogare, mentre anche lui, pianse silenziosamente.

Dopo alcuni giorni, che si lasciavano passare da tradizione romana, per lavare e cospargere di unguenti il corpo e tenerlo esposto per la famiglia, la salma venne portata via dai libitinarii, uomini specializzati nella preparazione dei riti.

Non appena uscirono fuori con il corpo, partì la processione composta dai suoi cari, verso l’Ustrinum, una delle aree alla periferia della città o appena fuori le mura, per procedere alla cremazione.

Camminarono a lungo e quando giunsero finalmente al luogo designato, scorsero la pira in legno dove sarebbe stato adagiato il corpo di Aulus.

Lo sistemarono, Tiberia si avvicinò e gli mise in bocca la moneta, anche se era compito che spettava al pater familias; tale tributo gli sarebbe servito per ottenere il passaggio di Caronte sull'Acheronte, nell’Averno.

Prima di andarsene gli baciò un'ultima volta le labbra, mentre le lacrime nuovamente cominciarono a riempirle gli occhi. Si coprì con il velo che aveva sulla testa e non appena si allontanò, la pira venne accesa ed a poco a poco le fiamme cominciarono a divorare il corpo del defunto.

20 ottobre 49 d.C.

La taverna rimase chiusa per molti giorni; il silenzio regnava sovrano, nessuno aveva voglia di parlare per evitare di accendere nuovamente il dolore nei loro cuori. Il tempo avrebbe fatto il suo corso.

I tre schiavi si sentivano smarriti e persi, cosa avrebbero fatto ora senza la guida di Aulus?

Si ritrovarono, alla fine, da soli, mentre Tiberia stava recuperando quello che le ricordava il caro marito; iniziarono a discutere su cosa avrebbero fatto da quel momento in poi

- Io non posso lasciare Tiberia...ho promesso ad Aulus che mi sarei preso cura di lei,  sono nato e cresciuto con questo scopo - iniziò Canius mestamente.

Dopo averlo ascoltato, la ragazza si girò verso Gaudenzio, era in silenzio, con lo sguardo perso nel vuoto. Tutto d’un tratto riferì - Io me ne andrò di qui…

- Ma non puoi farlo, Gaudenzio, siamo ancora sottomessi a Tiberia - le ricordò Locusta che non tralasciava mai un dettaglio.

- Con Aulus ho suggellato un patto che riguardava solo me e lui...io non sono uno schiavo...io...ho semplicemente offerto i miei servigi per del cibo caldo...e poi per Tiberia...sono solo uno sporco Cristiano...che rovinerebbe la reputazione della taverna quindi...tanto vale che me ne vada…

- Si, ma.... - Locusta avrebbe voluto fermarlo ma non poté che dargli completamente ragione, anche quando Aulus fece riappacificare Gaudenzio con Tiberia, tra loro due era rimasto sempre dell’ostilità sottile che non si era mai del tutto spenta  - Vai pure allora, Gaudenzio, grazie per tutto quello che hai fatto nonostante la tua condizione di semi libero, spero solo di ricevere delle tue visite ogni tanto, anche solo per farci sapere delle tue condizioni

Alla fine di quelle parole il ragazzo sorrise e mentre si avviava verso la porta della stanza, venne aperta improvvisamente dall’esterno; la strada fu sbarrata da Tiberia, che aveva una pergamena in mano.  

In un primo momento squadrò Gaudenzio, poi guardò verso gli altri due e gli ordinò - Venite tutti con me, vi devo parlare…- rivolse un ulteriore occhiata al ragazzo e aggiunse - Anche tu Gaudenzio, riguarda pure te

- Subito padrona Tiberia

Seguirono la donna con profonda umiltà e un pizzico di paura, forse c’era in gioco il loro destino, ora che il potere del pater familias era annullato.

Arrivarono nella sua stanza da letto e  quando vi si fermarono, compresero che la faccenda era di vitale importanza  e gravità; Gaudenzio temeva di dover sottostare a quella donna mentre Locusta e Canius la pensavano in maniera opposta, non avrebbero voluto abbandonare la loro padrona.

Tiberia, dopo aver mostrato un’espressione dura e severa, cedette e mostrò tutta la sua debolezza; la voce le si bloccò in gola e la bocca si fece asciutta.

Il momento era giunto, doveva farlo, fu suo marito in punto di morte ad ordinarglielo, oltre ad averglielo proposto più e più volte quando si accorse che stavano raggiungendo un’età che permetteva di liberarli.

Da ciò i tre intuirono qualcosa ma non dissero nulla, illudendosi, così di poter confortare un po’ la donna che pareva sconvolta.

- Que-questo è-è il testamento di A-aulus... - esordì dopo un lungo silenzio

- Cosa? - chiesero all’unisono i tre.

- Vi sono le sue volontà inerenti il vostro destino - aprì la pergamena e cominciò a leggere:

“All’affetto dei miei cari, e all’amore della mia dolce sposa Tiberia, lascio qui scritte le mie ultime volontà.

Io, Aulus Livius Saturninus, figlio di Roma secondo quanto stabilisce la legge dell'Impero, per mezzo del ‘Manumissio Testamento’ restituisco la libertà a Canius e Locusta affinchè il primo tenga fede alla sua promessa di prendersi cura di mia moglie.

La seconda, possa trasformare l’esercizio della taverna, in una fiorente attività, in modo che possa dedicarsi alla sua abilità di conoscere erbe per ricavarne infusi, istruendo anche Canius per poter consentire una una maggiore protezione di tutti componenti della domus.

Ed infine, al giovane Gaudenzio, nonostante non abbia mai vissuto in schiavitù concedo il ‘Manumissio per convivii adhibitionem’, perché possa essere per sempre, un commensale di questa domus”.

Le ultime parole era state appena sussurrate dalla donna che ancora non riusciva ad esprimere la gioia nei confronti di tanta generosità; mentre i tre rimasero impietriti, senza fiato, increduli di quelle parole.

Locusta non poteva credere che il padrone le avesse donato la taverna, lei che fu solo una schiava galla, in quel momento divenne una liberta con un piccolo possedimento, Aulus l’aveva sempre incoraggiata nel cimentarsi alla gestione ma lei non si era mai sentita all’altezza. Ora poteva finalmente sentirsi un essere umano.

Canius fu felicissimo di restare con Tiberia, per lui più di una madre, e di assisterla fino a quando anche lei le avrebbe donato il suo ultimissimo respiro.

Ma il più sbigottito fu proprio Gaudenzio, che mai si sarebbe aspettato un atto simile - Grazie, grazie mille, Aulus - effuse piangendo - Che possa godere davvero della gioia del Signore. Ricordò di quando Aulus si accorse del suo talento e di quante volte gli propose di aiutare alcuni suoi amici, per far si che potesse sviluppare completamente le sue doti.

Tiberia si riprese dalla commozione e concluse dicendo  - Mio marito vi ha voluto bene come dei figli, fidandosi ciecamente...di ognuno di voi - a quest’ultime parole, si girò verso Gaudenzio - Ed io...non ho potuto che fare altrettanto, perché l’ho amato…-

Il ragazzo sentì una strana sensazione dentro di sé, come se adesso fosse stato veramente accolto in quella casa, nonostante fossero passati anni.

Nelle settimane successive, come prevedeva la legge romana, Canius e Locusta vennero censiti nell’impero e la taverna fu poco a poco trasformata in una bottega volta all’attività di erboristeria.

Gaudenzio invece, ebbe la fortuna di compiere il grande passo verso il suo sogno di diventare un architetto, grazie ad un incontro, che gli permise di mettere in mostra le sue abilità.

Per festeggiare l’evento, Tiberia aveva fatto organizzare un banchetto in suo onore.

Mentre il ragazzo girovagava per la sala principale, vide uscire da una stanza Locusta, rimase incantato alla sua vista: portava una lunga stola di color rubino, che evidenziava le curve, portava dei bracciali d’oro, fu truccata con della cipria sulle guance, dell’ombretto scuro che risaltava la pelle chiara e i capelli rossi che furono raccolti in uno chignon da tantissimi fermagli, anch’essi aurei. Il mantello di una tonalità più scura le copriva parte della spalla sinistra e avvolgeva la vita e i fianchi.

Si avvicinò con passo lento verso di lei, prese delicatamente la sua mano sinistra e in altrettanto modo gliela baciò dicendole - Non potevi lasciarmi immagine più bella per questa ultima notte insieme, sembri una dea

- Desidero che mi ricordi così, Gaudenzio - rispose sorridente; quel sorriso le illuminava il volto, era così appagante vederla felice.

Nel corso del tempo aveva imparato a conoscerla, vi era in lei una precoce saggezza, maturità, che raramente vide in altre donne romane;  sapeva benissimo che in cuor suo stava soffrendo per la sua partenza e fra se e se pensava “Forza Gaudenzio...devi dirglielo prima che te ne andrai, quale occasione migliore se non stanotte…”

- A...ascolta Locusta io…- esordì balbettando, tremante dall’emozione

- Dimmi...ti ascolto…-  la ragazza aveva un sospetto e sperava che si potesse trattare del pensiero che si stava facendo largo nella sua mente, ma soprattutto nel suo cuore.

- Be’... io…-  mentre stava per parlare venne interrotto da un uomo che gli mise una mano sulla spalla - Ecco il festeggiato! Vieni Gaudenzio, ho intenzione di presentarti ad un noto senatore, ne gioverà senza dubbio alla tua luminosa carriera!

Il ragazzo seguì con lo sguardo Locusta che gli sorrise forzatamente, era contenta nel vedere Gaudenzio apprezzato per le sue qualità, era convinta che sarebbe diventato un uomo importante; sconsolata si diresse verso Tiberia che aveva bisogno del suo aiuto.

La serata, piacevole e divertente, trascorreva tra spettacoli teatrali, vino e succulente vivande, ma entrambi sentivano che dovevano parlarsi, così non appena il festeggiato vide Locusta dirigersi nel cortile della Domus che dava sulla città, si congedò con gentilezza da un gruppo di persone - Con permesso signori, tornerò in vostra gradevole compagnia fra poco

A passo svelto si diresse nel cortile, dove avvertì la tristezza di Locusta mentre teneva il suo sguardo perso sulle strade della capitale gli mostrava uno stato d’animo oppresso dall’angoscia.

Si avvicinò accarezzandole una spalla - Cosa ti turba?

- Il mio futuro - sospirò lei, mentre lui facendosi coraggio, le chiese

- Anche il futuro senza di me?

Locusta lo guardò senza parlare e il giovane comprese la sua risposta.

Dopo aver incrociato i suoi occhi, ci si perse dentro e finì con l’avvicinarsi piano piano al suo viso e dopo aver sentito la carezza delle sue labbra, la baciò con dolcezza e passione, un bacio leggero ma intenso, proprio come fu il loro rapporto.

Locusta, che desiderava ciò da tutta la sera, non indietreggiò, anzi accolse quella delicatezza senza scendere nel volgare. Le stelle nel cielo parvero brillare improvvisamente.

Continuarono a baciarsi fino a che Gaudenzio nel momento in cui si staccò le disse accoratamente - So che è dura lasciarsi proprio adesso...ma non ce la faccio più a tenerlo dentro...io ti amo

Lo zittì con la mano sulle labbra - Non c'è bisogno di spiegazioni, l’ho sempre saputo - confessò - Ora vai, il destino ti attende

Gaudenzio la abbracciò e baciò ancora, non volevano più staccarsi l’uno dall’altro, consapevoli che quella sarebbe stata la loro ultima notte insieme, si fecero coccolare dalla magia e dalla bellezza che solo la capitale del mondo conosciuto, poteva regalargli.

- Addio -  fu l’ultima parola che poté sussurrarle prima di ritornare nel buio della quotidianità. 

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Capitolo 16
*** Capitolo 15 - Modus vivendi - ***


"Tum ferri rigor atque argutae lammina serrae nam primi cuneis scindebant fissile lignumtum variae uenere artes. Labor omnia vicit improbus et duris urgens in rebus egestas"
Virgilio, Georgiche, I, v. 143-146

Roma, 25 febbraio 50 d.C.

Claudio aveva appena ricevuto da parte della moglie la notizia del fidanzamento tra Lucio e la sua cara figlia Claudia Ottavia, avuta anch'ella da sua moglie Messalina.

Il ragazzino non prese bene la notizia: Ottavia era una bambina di soli 8 anni, molto graziosa e pudica, ma era proprio quello a costituire il problema: Lucio sognava la sua futura moglie passionale, attiva, combattiva, pronta a dire la propria, energica, esattamente come le donne che popolavano le sue opere adorate. Non sopportava la presenza di quella bambina petulante che lo seguiva ad ogni passo.

Sapendo, però, degli interessi che ruotavano dietro la scelta e non volendo ascoltare ulteriormente le prediche logorroiche della madre, accettò remissivamente; fino a quanto avrebbe potuto godere di un minimo di libertà permise a Giulia Agrippina di poter ancora decidere della sua vita, come aveva sempre fatto.

L'imperatore, invece, era comunque contento di aver sistemato la figlia, il problema restava comunque Britannico. Iniziava a mostrare i segni della malattia dei Cesari: l'epilessia. Senza contare la sua fragilità fisica che aveva ereditato totalmente da lui.

- Permettete che dica la mia? - chiese il suo fidato Pallante, sbucato dal nulla, intuendo dall'espressione dell'imperatore la sua preoccupazione.

- Pallante, mio consigliere devoto - esordì illuminato Claudio nel vederlo avanzare verso di lui - Dimmi, dimmi pure

Nel mentre che si avvicinò all'imperatore si ricordò delle raccomandazioni di Agrippina "Devi riuscire a far adottare mio figlio, se ci riuscirai avrai una ricompensa che nemmeno puoi immaginare, altrimenti sai bene cosa ti aspetta"; spaventato, ingoiò la saliva e cercò di rilassare i muscoli facciali.

- Mio imperatore, io proporrei di adottare Lucio Domizio come vostro figlio in modo da garantire una presenza sicura a Britannico, ha bisogno di qualcuno che lo protegga e il figlio dell'imperatrice ha tutte le qualità per farlo - gli propose con un profondo inchino il liberto, quasi in ginocchio, evitando di mostrargli il volto terrorizzato.

Claudio incupì lo sguardo a quella proposta che già in molti, compresa sua moglie, gli avevano fatto; non era molto convinto dell'efficacia di tale scelta, sapeva di correre il rischio di far allontanare il suo amato figliolo dalla linea di discendenza, ma Britannico aveva bisogno di supporto.

- A-anche Augusto aveva adottato Tiberio come suo successore, ovviamente mi auguro che non diventi una minaccia come era accaduto con il già citato  Princeps - aggiunse con finta convinzione Pallante.

Claudio sembrava sempre più titubante all'idea, anche se molto solitario e silenzioso, Lucio Domizio Enobarbo, mostrava molta intelligenza e predilezione per gli studi.

Inoltre, a differenza del figlio che appariva piccolo e fragile, ogni giorno che passava diveniva sempre più sano e in forma; svolgeva attività fisica con grande piacere e si dilettava in strani ma piacevoli passatempi come la pittura e la scultura, insieme all'onnipresente poesia.

Non avendo altre opzioni che quella, l'imperatore si arrese e decise si approvarla, con grande gioia di Pallante che aveva salva la vita, e soprattutto di Agrippina che, finalmente, poté assicurarsi un'ottima posizione per il potere.

Senza nemmeno perdere tempo in chiacchiere firmò immediatamente il documento di adozione e Lucio Domizio Enobarbo fu ribattezzato Nerone Claudio Cesare Druso Germanico, secondo il desiderio della madre.

12 marzo 50 d.C.

- Se vuoi avere la vera libertà devi farti servo della filosofia - esordì Seneca con uno dei suoi celebri aforismi. Nerone lo ascoltava rapito, quella disciplina gli piaceva tantissimo, era una delle poche che gli permetteva di conoscere se stesso.

Nei primi mesi poté parlare molto di più di filosofia e il piccolo Lucio, curioso di tutto, lasciava che continuasse a discutere con lui riguardo la vita, la fortuna, l'amore, l'amicizia, la morte.
Desiderava apprendere ogni cosa che potesse aiutarlo  nell'approccio con il mondo e soprattutto con la madre.

Fu proprio Agrippina, però, a porre dei limiti, in quanto aveva paura che con la scusante della filosofia, Seneca potesse allontanare il figlio dai suoi ambiziosi progetti, perciò dovette diminuire le ore di quella disciplina e compensare con le altre. Per fortuna al ragazzino sembrava andare bene così.

- Continuate precettore Seneca - lo incoraggiava Nerone continuando ad ascoltarlo rapito; aveva una retorica così brillante e ammaliante.

- Per oggi la lezione di filosofia è finita - informò dispiaciuto il filosofo, arrotolando la pergamena scritta in greco e riponendola accanto alle altre accompagnato da un lungo sospiro.

- Ma come? Di già?! Ieri avete parlato di questo per due ore! - si lamentò il dodicenne.

- Mi spiace ma purtroppo non possiamo stare a discutere di questo per molto tempo, hai altre discipline da studiare, ragazzo - gli ricordò mettendogli davanti un trattato di retorica.

- Ancora mia madre - sbuffò innervosito, stropicciando la faccia con le mani - Ma possibile che non le vada mai bene niente

Seneca rimase colpito da quell'affermazione, più e più volte gli era capitato di sorprendersi della sua acutezza e intelligenza; sua madre lo aveva sempre descritto come un ragazzo dotato, ma lo faceva sempre con circostanza, quasi mai ne era convinta.

Si chiedeva se Agrippina conoscesse davvero suo figlio, oppure era talmente presa dagli affari politici da non essersi mai occupato di lui, dal modo in cui ne parlava Nerone, gli sembrava proprio di si.

Però, qualcosa gli diceva che, invece, era proprio il figlio a non mostrarsi tale agli occhi della madre, apparentemente gli piaceva che lei lo trattasse alla maniera di uno stupido, un inetto, incapace di conoscere gli aspetti della politica e vita romana. Era, probabilmente un modo per proteggersi, illudendosi di alleviare le sue sofferenze.

Se fosse stato davvero così, allora sapeva già cosa aveva in mente sua madre per lui? O forse lo stava sopravvalutando troppo?

- Proseguiamo con il De re publica di Cicerone, Nerone - ricordò Seneca dopo un breve silenzio, ma che per entrambe parve interminabile.

Quel nome, Nerone, ancora non riusciva ad abituarsi, significava forte e vigoroso, ed era lo stesso di uno dei fratelli della madre ucciso per colpa di Caligola, ma non si riteneva degno, lo era solo fisicamente, il suo animo era troppo sensibile e delicato per quel corpo non molto aggraziato.

Preferiva Lucio Domizio, suonava meglio alle sue orecchie, lo legava fortemente alla sua cara Domizia, alla sua Anzio, sapeva, però, di non poterlo mai più utilizzare.

- Come volete precettore Seneca - obbedì il ragazzino che si mise subito all'opera per assorbire anche lo stile di uno dei più grandi oratori di Roma. Prese il suo inseparabile smeraldo, che gli permetteva di decifrare anche i caratteri più piccoli, e iniziò a leggere a gran voce ciò che vi era scritto.

Nonostante la difficoltà dello stile dell'oratore in pochissimo tempo imparò quasi tutta l'opera a memoria, con grande stupore di Seneca, era giovane, eppure aveva una grande memoria, che teneva in allenamento e imparava velocemente.

- Se ciò farà per sorte, sarà travolto tanto presto quanto una nave, nel caso che si metta al timone uno dei passeggeri estratto a caso... - iniziò a ripetere cercando di usare un tono consono, non troppo cantilenante, per evitare di farlo sembrare una lagna, né troppo pomposo, in modo da non essere estremamente artificioso.

Decise, perciò, di usare le sue qualità di attore a suo vantaggio - Infatti ricchezze, nome, potenza, prive di saggezza e di equilibrio nel vivere e nel comandare ad altri, sono piene di sconvenienza e di altezzosa superbia, né vi è alcuno Stato di aspetto più snaturato di quello in cui siano stimati ottimi i più ricchi - proseguì sempre più convinto, quelle parole gli sembravano così veritiere che non dovette più fingere.

Iniziò ad essere stanco ma sotto la pressione del maestro e non volendo deludere né lui né la madre, continuò ad impegnarsi nello studio, senza un attimo di pausa, nemmeno per bere o mangiare. Seneca si congratulò per la sua dimostrazione di volontà e quando il sole stava per tramontare gli concesse il meritato riposo.

Solo allora potè dare libero sfogo alla sua vena artistica suonando qualche componimento, inventato di sana pianta, nei giardini, lontano da tutto e tutti, o almeno così credeva.

- Ti prego continua, Nerone, sei così bravo - pregò Britannico flebilmente - Anche Tito Flavio Vespasiano vorrebbe ascoltare le tue composizioni, gli ho molto parlato di te

Nerone si voltò e si vide di fronte il fratellastro, con il volto sorridente e lo sguardo malinconico, di chi vuole essere confortato, accanto al paffuto e anch'egli allegro, nonostante fosse un uomo di guerra, Vespasiano, di 41 anni, grande amico dell'imperatore che intravide qualche volta nel palazzo ma con il quale non aveva mai parlato.

- Ma non dovresti essere con nostro padre...  - disse solamente Nerone, non molto entusiasta di vederli entrambi.

Vespasiano intuì l'astio che il ragazzino provava per Britannico, ma vedendolo tranquillo, decise di non intervenire e di lasciar risolvere tutto al figlio dell'amico.

- Anch'io ho finito di studiare poco fa e vedendoti nel cortile ho voluto seguirti, coinvolgendo anche Tito Flavio, non abbiamo molte occasioni per stare insieme, e mi piacerebbe conoscere meglio i nostri interessi - confessò Britannico con sincera gentilezza.

Quella vocetta così stridula gli dava tremendamente fastidio, accompagnato poi dal tono di voce mieloso lo rendeva ancora più odioso alle sue orecchie; non lo sopportava quel piccoletto di 9 anni che gli arrivava al collo, lo vedeva come ostacolo tra lui e la madre, aveva notato che Agrippina si stava interessando a Britannico. 

- Forse è meglio se torni dentro, l'imperatore si preoccuperebbe nel non vederti al suo fianco - gli ripetè voltandogli le spalle.

Britannico percepì una punta di odio e di invidia nella sua voce, non comprendeva il perché, suo padre lo aveva adottato e di conseguenza lo aveva reso più prossimo nella linea di successione; doveva essere lui a sentirsi adirato per essere stato escluso.

- Il tuo compito è di proteggermi, dovresti ben saperlo - urlò infastidito cercando di afferrare la tunica di Nerone ma Vespasiano lo fermò lanciandogli un'occhiata. Dopo una calma iniziale il bambino gliela afferrò.

- Mi sembri in ottima salute per il momento, ora puoi tornatene pure dal tuo caro padre - gli rispose furibondo Nerone staccando la sua presa dal vestito e facendolo cadere per terra.

- Ti ho chiesto solo di poter stare con te,  per poco tempo, non capisco cosa ti abbia fatto per trattarmi così - disse rialzandosi lentamente e facendo alcuni passi verso Nerone che sembrava aver oscurato lo sguardo.

Era colmo di rabbia, di invidia, tutti trattavano il fratellastro con amore e sincerità in quel posto, nessuno lo forzava a fare ciò che non voleva, mentre lui doveva insistere nel fingere di essere un idiota agli occhi della madre per poter seguire, di nascosto, le sue passioni.

- Io voglio stare solo! - sbraitò furente allontanandolo violentemente con le braccia - Lasciami in pace, capito, vattene via...

Vespasiano, stupito dalla furia di quel ragazzino, rimase immobile per alcuni istanti per poi tentare di riappacificare i due, sgridando il figlio di Agrippina - Ehi, tu, Nerone, cerca di non fargli male, ti ricordo che...

Britannico, a quel punto, abbassò la testa e si allontanò, mestamente, seguito da Tito Flavio, ma non se ne andarono via dal giardino, si nascosero dietro una grossa statua raffigurante Claudio e da lì attesero che riprendesse a suonare nuovamente la cetra, come solo lui sapeva fare.

Non se la sentiva di odiarlo, poiché sapeva della sua situazione familiare molto difficile, era cresciuto senza una figura solida, un padre, e la madre non gli ha mai dimostrato affetto; l'unico suo sostegno era sempre stata l'arte.

Perciò si promise di non riferire al padre del trattamento ricevuto, ma avrebbe atteso che prima o poi Nerone si confidasse con lui come un vero fratello e ciò riferì anche al militare che, pur di vederlo contento ed evitare di complicare la situazione, promise di chiudere un occhio.

Nel frattempo, Nerone, cantava le disavventure di Enea con struggente tristezza; anche se erano lontani, i due potevano udire il pianto soffuso del ragazzino, che aveva dovuto soffocare per tutto il giorno.

Tito Flavio lo paragonò ad un greco vero e proprio, era dotato di un grande talento e di eccezionale bravura, anche lui aveva ricevuto un'educazione più libera dai canoni, e credeva di essere un buon poeta e artista, ma dopo averlo ascoltato si sentiva un incapace.

Perché nessuno lo capiva e comprendeva queste sue attitudini? Si stava impegnando nel diventare un vero romano, però c'era una parte di lui, quella ellenistica, non si sarebbe mai sottomessa alla totale romanità, per quanti sforzi la società avrebbe fatto.

- È un vero artista - soffuse sorridente Vespasiano, ringraziando di cuore il suo piccolo amico - Questa musica tocca le corde dell'anima....

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Capitolo 17
*** Capitolo 16 - Homo homini lupus - ***


Silent enim leges inter arma nec se exspectari iubentcum ei qui exspectare velit ante iniusta poena luenda sit quam iusta repetenda"
Cicerone, Pro Milone, 11

Roma, 15 marzo 50 d.C.

Erano passati mesi dalla morte di Aulus e Locusta si era adoperata con cura e dedizione nel rendere il suo locale più adatto alle sue inclinazioni, senza stravolgere l'ambiente lasciatole in eredità dall'ex padrone: aveva sistemato poche cose in realtà, in quanto lo spazio era già abbastanza ridotto.

Qualcosa, però, le impediva di essere serena, una domanda le rimbombava nella testa giorno e notte: perché Aulus era così tollerante nei confronti degli schiavi? Cosa lo aveva spinto a comportarsi così? Nessun altro romano lo aveva mai fatto...

- La bella schiavetta si è impossessata della taverna! - esordì un uomo possente e robusto, con l'armatura addosso color argento, che lo rendeva ancora più minaccioso - Immagino che per ottenerla l'abbia tolto di mezzo - rise poi togliendosi l'elmo dalla testa mezza calva e la pose con forza sul tavolo.

- Vi...vi sbagliate signore, io...io l'ereditata dal mio ex padrone Aulus - ribadì energicamente Locusta.

L'uomo scoppiò a ridere in maniera del tutto sgraziata, grottesca, ciò la fece inorridire non poco - Ahahhahahah, Aulus sempre lo stesso, impietosito dalla sorte degli schiavi, troppo tenero per essere un romano, non trovi? - rivolse a Locusta, poi allungò la mano e le toccò il viso con il grosso dito rosso - Soprattutto di fronte ad una con il tuo fascino...

I suoi piccoli occhi chiari si immersero in quelli della giovane donna che non riuscì a smettere di guardarlo seppur fosse disgustata da quell'uomo così viscido. Nel suo sguardo scorse qualcosa di spaventoso, una luce sinistra, sembrava corrotto fin nel profondo.

- Co...cosa volete da me, signore? - domandò terrorizzata Locusta mentre con delicatezza allontanava il "cliente" da lei. 

L'uomo, per nulla infastidito, appoggiò le braccia sul bancone e con una nonchalance che la lasciò di stucco emise - Volevo sapere che n'era stato della bella schiava, osservare come Aulus l'avesse preservata dal mondo - poi la fissò nuovamente con attenzione, sorridendo maliziosamente e continuò - E noto con piacere che è riuscito nel suo intento, sei così pura...il tuo corpo non è stato intaccato da nessuna mano indesiderata

- Andatevene via...signore o chiamo i pretoriani! - le urlò incontro Locusta, ma l'uomo non si lasciò intimorire affatto dalle sue minaccie, anzi ridacchiò divertito.

- Io sono un pretoriano, cara la mia schiavetta, cosa potrebbero mai farmi i miei colleghi, ahahhahah

- Non mi interessa - riprese ad urlare la giovane - Andatevene dalla mia proprietà, se non volete acquistare nulla

Il pretoriano riprese l'elmo, ammirò la cresta color porpora che gli conferiva potenza e se lo mise sottobraccio, si voltò, estasiato - Ci rivedremo molto presto, schiavetta... - la salutò per poi sparire dalla bottega.

Locusta tremava ancora di paura, quell'uomo era così infido e perfido che si poteva percepire la sua indole anche a distanza, non le era mai capitato di trovarsi di fronte uno del genere.

Un brivido la attraversò e un'altra domanda si sovrappose a quella precedente: come conosceva Aulus? Poteva averci parlato nella taverna, ma le era parso, dal suo tono sicuro e sibilante, che lo conoscesse molto bene, più di molti altri con i quali aveva interagito negli anni di servizio.

Anche se rischioso decise di seguirlo, forse lui avrebbe potuto darle molte risposte riguardante l'atteggiamento così insolito di Aulus; stava per avviarsi alla ricerca del pretoriano quando fu presa con forza per il braccio da un pallidissimo Canius che la fissava con terrore.

- Canius che ti prende? - domandò incredula Locusta vedendo l'amico stranamente agitato.

- Non lo seguire ti prego...

- Ma perché lui può darmi delle risposte su Aulus

- Se sono risposte quelle che cerchi te le posso dare io, Locusta - confessò Aulus a testa bassa, mentre la trascinava in un angolo più nascosto per poter parlare tranquillamente, la giovane sapeva del carattere eccessivamente schivo di Canius.

Dopo essersi accomodati Canius le rivelò che Aulus fin da ragazzino aveva mostrato comportamenti comprensivi e tolleranti, non solo vero gli schiavi ma anche con coloro che, secondo i canoni romani, non erano idonei alla vita pubblica. L'esatto contrario di suo padre: Quintus Livius Saturninus. 

- Quintus Livius Saturninus era esattamente il cittadino romano che ti aspetteresti: spietato, subdolo, astuto, avaro, privo di ogni controllo sessuale e di gola, estremamente sadico - descrisse con la voce tremante, Locusta percepì il disagio dell'amico, si sedette al suo fianco e gli mise una mano sulla sua. Canius la guardò e incoraggiato dal suo sorriso timido e forzato proseguì nel raccontare.

Ostia, 19 d.C.

La gens Livia a cui apparteneva Aulus risiedeva originariamente ad Ostia, lì possedeva numerose taverne e botteghe di ogni tipologia, di cui solo un paio gestiva direttamente Quintus, il resto lo aveva lasciato in custodia ai fratelli e ai figli più grandi.

Aulus, che all'epoca, quando sul trono imperiale sedeva Tiberio, aveva 16 anni, si apprestava già tempo a dare una mano al padre e iniziava a conoscere i trucchi del mestiere; nonostante il padre lo considerasse poco più di nulla, al pari delle figlie femmine, per via della sua mansuetudine e accondiscendenza, si impegnava ogni giorno per dimostrargli di essere un vero cittadino romano. 

- Gente come te merita solo di stare nel fango, maiale! - ghignò Tullius Furius Bibaculus, uno degli amici di famiglia di Aulus, suo coetaneo, mentre immergeva la testa di un ragazzino gracilino nella pozza fangosa, che, inerme, accettava il suo destino.

- Ben detto, Tullius, è ciò che gli spetta per non averti rivolto la parola - lo incoraggiò il fratello minore di nome Hostilius Furius Bibaculus che raccolse con i palmi della polvere e la fece cadere sul povero ragazzo che era quasi incosciente.

- Ed ora l'ultima volta... - disse sollevando la testa per schiantarla nuovamente nella pozza.

- N...no, ti...ti prego.... - soffuse quest'ultimo con le lacrime mescolate al fango e la voce rotta dal pianto - Ti...ti chiedo...scusa

- Mi soddisfa di più vederti al pari di quei luridi animali, piuttosto che accettare le tue inutili scuse - e dopo aver detto ciò la immerse con maggior forza nella fanghiglia, ridacchiando.

Alla fine, dopo aver visto che il ragazzino non reagiva quasi più, lo lasciò cadere al suolo, ormai stufo di quel gioco - Non mi diverto con te, sei così remissivo, al pari del tuo padroncino

E proprio in quel momento sbucò Aulus che corse immediatamente a soccorrerlo - Opsius...Opsius - ripeteva mentre lo scuoteva leggermente.

- Non vedi, ha perso conoscenza - evidenziò crudelmente Tullius, avvicinandosi al compagno - È proprio un debole, esattamente come te!

- Sei arrivato tardi stavolta, Aulus - sottolineò sarcasticamente Hostilius.

Ma non li ascoltò, anzi prese un panno che aveva con sè e dopo aver rivolto lo schiavo a pancia in su, gli pulì delicatamente il viso; Opsius lentamente si risvegliò, ma non distingueva la figura che aveva davanti, era così spaventato da non voler più vedere nulla.

Quando però riconobbe la voce gentile e amichevole del caro padroncino, sfoggiò un sincero sorriso e tentò di alzarsi, ma non ci riuscì. Allora Aulus lo prese e se lo mise sulle spalle - Grazie....padrone - effuse appoggiando la testa sulla schiena.

- Ti ho detto di chiamarmi semplicemente Aulus quando non c'è mio padre - gli ricordò dolcemente.

- ‎Perché ti preoccupi di un insulso schiavo? - domandò Tullius - Fosse almeno in grado di difendersi

- Perché anche lui fa parte della mia famiglia, senza l'aiuto suo e degli altri schiavi non potremmo fare nulla, sono la nostra fonte di sostentamento, ma voi due non potrete mai capirlo, vivendo nelle comodità che la tua vita da futuri pretoriani, vi offre - rispose sommessamente.

Tullius aggrottò la fronte ed emise un grugnito, poi scoppiò a ridere e guardò Hostilius che fece altrettanto ed esclamò - Guarda un po' chi mi deve fare la predica, il figlio minore di un plebeo arricchito, ahahahah

Aulus continuava a non dargli retta, certo che non lo avrebbe mai compreso, come suo padre, la sua famiglia, il resto della comunità; tranne gli schiavi, loro erano gli unici con il quale poteva parlare liberamente di ciò che desiderava, senza censure e costrizioni, lo ascoltavano annuendo, ma non lo facevano per accontentarlo, gli prestavano davvero attenzione e lui ricambiava cercando in tutti i modi di non fargli pesare troppo il lavoro.

Sistemò più comodamente Opsius e si stava avviando verso la taverna del padre, tra le risate dei due compagni, quando vi arrivò il padre lo squadrò - Dove sei stato?

- Dobbiamo medicare la caviglia di Opsius, padre - riferì facendo accomodare sul pavimento lo schiavo che guardava in basso, impaurito.

Quintus gli tirò un ceffone in pieno viso - Ti ho chiesto dove sei stato! Di lui non mi interessa! - sbraitò sollevandolo dal suolo, lo mise ritto e avvicinò il viso del figlio al suo - Rispondi?

- Sono andato a cercare Opsius perché non lo trovavo dopo averlo mandato a fare una commissione e quando l'ho trovato, ho visto che era sporco di fango, Tullius e Hostilius lo avevano ridotto così probabilmente perché non li aveva salutati - spiegò il ragazzino cercando di non cedere alla tentazione di scappare dalla grinfie del padre.

L'uomo lasciò il figlio che si massaggiò il mento e rivolse uno sguardo furente allo schiavo che si stava già preparando per il peggio: a nulla sarebbero valse le preghiere agli dei.

- No, padre non lo fate! - gridò Aulus dopo aver compreso le intenzioni del padre.

- Taci, dopo penserò a te! Non sei nemmeno in grado di badare ad uno schiavo! Quale disgrazia mi è capitata - urlò con le mani rivolte al cielo, prese la frusta, poi afferrò lo schiavo per un braccio e lo condusse in un'altra stanza.

Aulus, anche se era andato a nascondersi, sentiva le urla e il respiro soffocato del povero schiavo mentre veniva frustato a sangue per nulla: basta non ce la fece più.

Era rivolto contro una colonna, le mani incatenate, la testa bassa, i capelli tinti di  rosso, la schiena nuda ricoperta da cicatrici e sanguinante, sussultava ad ogni colpo; mossò dalla rabbia e dall'istinto balzò verso il padre per fermarlo, ma come fece per buttarsi addosso ricevette un colpo di frusta. 

Si sentì mancare: un dolore lancinante, seguito dal calore del sangue che imbrattò le vesti, invase tutto il corpo del ragazzo che lanciò un grido straziante poco prima di sbattere contro il pavimento, si fece male anche all'addome; quel dolore, però, era nulla in confronto a quella falce della morte che assaggiò involontariamente.

- Un colpo di frusta ti farà ragionare come un romano, almeno lo spero - gli rinfacciò freddamente e senza nemmeno soccorrere il figlio giacente inerme, riprese a frustare Opsius, quest'ultimo, non si lamentò più, rimasto colpito dal fatto che il suo giovane padrone si fosse lanciato per proteggerlo.

Aulus rimase bloccato sul pavimento per un paio di secondi, scanditi dai ripetuti colpi inferti, con lo sguardo rivolto verso il povero Opsius, ridotto come uno straccio colmo di sangue, le lacrime colmarono gli occhi del ragazzo, invaso dalla pietà e dal senso di colpa.

Con una forza incredibile si rialzò in piedi e barcollando si diresse verso il padre che nel momento in cui si accorse di lui, era deciso a dargli un altro colpo senza ripensarci due volte.

- Aulus...ti...ti prego - sibilò Opsius con il poco di voce che gli rimaneva - Tu...tu non devi...devi... morire per mano di tuo padre...se...sei...troppo buono per...per meritare una fine...così meschina... - sputò violentemente un grosso grumo di sangue contro la colonna.

Tossì ripetutamente, il respiro roco e affannato impedì di comprendere una parte del discorso - ...ti supplico...ascolta le...le parole di uno...schiavo a cui è...è stato impedito... di essere un uomo... - dopo di che un lugubre silenzio piombò nella stanza. 

A quelle parole Aulus scoppiò a piangere in ginocchio, non riusciva più a trattenere il groppo in gola, le lacrime scesero senza freno sulle guance, che barbarie stava compiendo suo padre davanti i suoi occhi, contro esseri umani come loro: giurò a se stesso che mai in vita sua avrebbe mai torto un capello ad uno schiavo, persino sul campo di battaglia, non gli importava del disonore e dell'eventuale condanna come disertore: era diventato finalmente un uomo.

- Quello schiavo era mio padre, Locusta - disse lapidario Canius - E il pretoriano che è venuto poco fa era Tullius, l'amico d'infanzia di Aulus.

Anche Locusta non era riuscita a trattenersi, in quel momento le fu tutto chiaro: il dolore aveva portato Aulus al rispetto della vita, al contrario suo che invece aveva desiderato solo morire. 
Si sentì davvero una codarda nel ricordare ciò. Comprese pure del forte legame che Canius aveva instaurato con la famiglia di Aulus.

Riuscì solo a sorridere debolmente a Canius che si era tolto un macigno enorme sul cuore, da quell'istante fu veramente libero.

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Capitolo 18
*** Capitolo 17 - Miscēre utile dulci - ***


"Ut pictura poesiserit quae, si propius stes, te capiat magis, et quaedam, si longius abstes; [...] haec placuit semel, haec deciens repetita placebit"
Orazio, Ars poetica, vv. 361 - 365

Roma, 21 giugno 53 d.C.

- Altezza imperiale - esordì Vespasiano con un lieve inchino - Vorrei presentarvi uno dei migliori architetti reclutati negli ultimi anni, Gaudenzio - disse infine allungando il braccio dietro la schiena del giovane.

- Gaudenzio...che nome interessante... - mugugnò tra i denti l'imperatore - Vespasiano mi aveva parlato molto di te e del tuo incredibile ingegno

- So-sono onorato nel trovarmi al vostro cospetto, ma-maestà - tremolò Gaudenzio eccitato e al tempo stesso intimorito, mentre compiva lo stesso gesto del generale.

Mai si sarebbe aspettato di incontrare l'imperatore in persona, nonostante avesse poco fiducia nel governo romano, della mentalità arretrata della maggior parte della comunità romana, radicata su principi e regole che considerava oppressive,
nonostante l'impegno di Claudio nell'eliminare ogni contrasto all'interno e all'esterno del palazzo imperiale.

In quel momento, però, non riusciva a trattenere l'emozione di poter mostrare le proprie abilità all'uomo più potente del mondo. Era la sua occasione.

Ma non era l'unico ad essere entusiasta...

- Finalmente l'architetto di cui tanto parlava Tito Flavio è arrivato - sibilò Nerone, nascostosi dietro una colonna di marmo, non molto lontano dal luogo dell'incontro, intento ad origliare la conversazione - Avrò il piacere di parlare con qualcuno che conosce la realtà romana meglio di chiunque altro...

- Lo potrai fare dopo che avrai finito di studiare, caro il mio Nerone... - sussurrò Seneca all'orecchio del ragazzo che quasi sussultò per la paura. Aveva cercato di fuggire dalla sua parlantina asfissiante in maniera del tutto silenziosa, eppure era riuscito a rintracciarlo; si rese conto che, come sue madre, non era facile sfuggirgli.

- Maestro Seneca sono sempre stato diligente e appassionato negli studi, non ho mai tralasciato nulla, permettetemi di fare un'eccezione una volta ogni tanto, vi ho sempre ubbidito! - pregò il quindicenne scuotendo la testa.

L'anziano filosofo sospirò: doveva ammettere che quel ragazzo aveva tutte le ragioni, era davvero un ottimo studente, anche quando la mole era eccessiva non aveva mai fatto notare le sue fatiche, la sua stanchezza e la sua petulanza. Si era sempre impegnato con grande energia.

- E sia! - l'accontentò Seneca con una fragorosa risata, gli diede una pacca sull'ampia spalla scoperta - Puoi anche andare a teatro stasera - aggiunse con grande gioia per il ragazzo che non desiderava altro in quella giornata - Ma domani dovrai recuperare tutto ciò che hai saltato oggi

- Lo farò, lo farò senz'altro - emise Nerone, allungando la mano su quella che il maestro aveva appoggiato, sorridente - Vi ringrazio immensamente per il vostro permesso

Seneca lo guardò nei suoi occhi azzurri, ridenti, gioiosi, e istintivamente abbassò cupamente la testa; dopo pochi istanti gli mostrò un timido sorriso che non aveva nulla di allegro, anzi, era espressione della sofferenza che il filosofo stava provando: Nerone, con la sua sfrenata, e quasi ingenua, passione per l'ellenismo, per la cultura, per la parte migliore dell'umanità, era entrato nel suo cuore.

Ma non poteva mostrarsi totalmente sincero con lui, avrebbe voluto salvarlo da quella voragine che si stava avvicinando sempre più a Nerone; sapeva che prima o poi il potere avrebbe mutato inesorabilmente quel ragazzo che sognava solamente di essere un artista, il trono, l'Impero non facevano per lui.

- Lucio Anneo Seneca - fu destato dalla potente voce di Vespasiano affiancato da Gaudenzio; avevano appena finito di parlare con l'imperatore che aveva garantito loro l'approvazione dell'intera corte di qualsiasi progetto. Non poteva esserci notizia migliore per il giovane architetto.

Il filosofo si voltò, mascherando il suo stato d'animo turbato, salutò entrambi con gentilezza - L'Impero ha bisogno di ragazzi volenterosi come te, Gaudenzio...

- Ci metterò tutto l'impegno per rendere Roma una capitale ancora più potente e affascinante di quanto già non lo sia - promise il giovane architetto; ovviamente si rendeva conto di aver esagerato non poco nell'affermare ciò, in quanto la città non era per niente sicura, costruita su di una struttura asfissiante.

Anche una minuscola ed involontaria calamità avrebbe provocato una catastrofe immane, era seriamente preoccupato...

- Gaudenzio...hai un nome così particolare che mi piace - s'intromise Nerone, nel suo tono di voce traboccava un'immensa eccitazione, poi si mise una mano sul petto e si presentò come se fosse un attore sul palcoscenico - Perdona la mia irruenza, il mio nome è Nerone e sono il figlio adottivo dell'imperatore

Stupito di un'autopresentazione così originale non poté non osservarlo dalla testa ai piedi: indossava un chitone, abbigliamento tipicamente greco, assai insolito tra i romani, che risaltava il fisico robusto e atletico, ad eccezione delle gambe, innaturalmente gracili; era lievemente più alto di lui.

Portava i ricci capelli rossi lunghi sul collo, un accenno di barba, del medesimo colore, circondava, il volto e il mento; aveva dei grandi e intensi occhi azzurri, un grosso naso greco al centro separava nettamente il viso e le piccole labbra carnose coronavano il tutto. Un miscuglio tra ellenismo e romanità.

- Il piacere è tutto mio, Nerone - rispose gentilmente il giovane architetto.

Furtivamente il ragazzo si avvicinò a Gaudenzio e gli sussurrò - Verresti in un posto con me? Ho bisogno di un giudizio

- In che luogo?

- Seguimi e lo scoprirai! - rispose malizioso Nerone, gli allungò la mano.

Gaudenzio, perplesso, spostò lo sguardo prima verso il filosofo Seneca e poi fissò Vespasiano, entrambi lo incoraggiarono silenziosamente annuendo lievemente; strinse la mano del ragazzo.

- Cosa vuole mostrargli, filosofo Seneca? - domandò incuriosito Vespasiano, postosi al fianco dell'uomo, con le braccia dietro la schiena. Osservò i due allontanarsi velocemente dal palazzo imperiale.

- La sua sensibilità artistica - rispose l'altro con un lungo sospiro che l'ufficiale non comprese, ma neanche tranquillizzare; tornò a guardare nuovamente il punto di prima, però erano già scomparsi dal suo campo visivo.

Erano giunti ai piedi del Circo Massimo dopo una lunga corsa che aveva sfiancato il povero Gaudenzio, non più abituato alle scappatelle dei vecchi tempi, a quel punto Nerone diminuì il passo e gli fece insistentemente segno di continuare a seguirlo - Perdonami se ti ho fatto stancare, ma dovevo farlo, altrimenti mia madre mi avrebbe scovato - si scusò velocemente.

Fece ancora qualche passo ed arrivarono in una zona non molto affollata, composta da case disabitate e fatiscenti; Gaudenzio non poteva credere che il figlio dell'imperatore conoscesse gli angoli più malsani della Capitale. Si chiedeva se facesse sul serio o fosse solo una finta...

Ad un certo punto Nerone si fermò e si voltò, fissandolo negli occhi, serio, come chi è desideroso di rivelare un segreto inconfessabile - Devi giurare sulla tua vita che non rivelarai ad alcuno del posto che andrò a mostrarti, nessuno, nemmeno Seneca lo conosce...

- Ma perché io? - domandò sempre più intimorito, si sentiva in pericolo, come se qualcosa di grave dovesse abbattersi su di lui da un momento all'altro.

- Perché tu conosci la situazione dell'Impero meglio di qualsiasi membro del Senato o del Palazzo stesso - si fermò per poi riprendere - Inoltre non sei corrotto dall'ipocrisia, dal potere, dal servaggio o almeno non ancora - aggiunse lapidario Nerone con l'espressione di chi si considerava irrimediabilmente
contaminato dall'ambiente in cui era vissuto fino ad allora.

Quell'ultima frase, infine, lasciò di stucco Gaudenzio, lo guardava stranito, non si aspettava una maturità così radicale in un membro della famiglia imperiale, inizialmente lo aveva considerato uno dei soliti ragazzini viziati lamentosi, senza tatto e intelligenza.

Non si rese nemmeno conto di sorridere di quella constatazione e con convinzione disse - Potete fidarvi di me, Nerone

Nerone ricambiò il sorriso e gli mostrò la piccola casetta di legno in cui si celava il suo segreto; appena vi entrò rimase a bocca aperta nel vedere simili meraviglie dipinte sui muri - Li ho realizzati io - confessò.

Stupito tastava il muro rossiccio, le osservava attentamente ma solo uno riuscì a coinvolgerlo: quello in cui due dolci amanti si stavano dando l'ultimo, fugace abbraccio prima della partenza dell'uomo per la guerra; gli ricordava tanto la sua separazione con Locusta.

Subito eliminò quel pensiero per concentrarsi alla parte tecnica: lo stile era molto particolare in quanto univa tratti e colori romani a quelli greci, inoltre le pennellate erano leggere ma frenetiche e agitate, ad indicare un urgente senso di liberazione.

Da quei tratti percepì come quello fosse il suo modo per liberarsi dalle frustrazioni, dalle pressioni, anche delle ambizioni di quel mondo che lo opprimeva, lo caricava di responsabilità, regole, compiti i quali lo incatenavano.

- Allora che ne pensi? - interruppe la riflessione dell'architetto.

Gaudenzio aprì la mano sul muro e accarezzò nuovamente l'affresco - Avete uno stile molto particolare, unico, dovete continuare ad applicarvi per migliorarlo
ulteriormente - azzardò non sapendo cosa dire, era più volenteroso di scoprire la vera anima di quel ragazzo.

Si fermarono in un'altra sala, questa aveva solo delle ghirlande dipinte, ma non era state realizzate da lui in quanto erano rovinate dalle infiltrazioni di acqua. Vi era una tenda che copriva gran parte della stanza, Nerone, senza rimostranze, l'aprì e gli mostrò una serie di piccole sculture e busti.

- Siete un artista completo, Nerone! - esclamò Gaudenzio, analizzando i marmi.

- Anche se sono più abile con la penna e i pennelli, gli scalpellini sono strumenti con i quali non ho preso del tutto confidenza - ammise Nerone ridacchiando; era più rilassato e spontaneo rispetto a qualche ora prima.

- Dovete solo smussare gli angoli, con un po' di pratica aggiusterete tutto - gli rivelò Gaudenzio, poi si fermò verso un busto femminile che appariva più curato e levigato degli altri

- Quella è mia zia Domizia Lepida - confessò Nerone appoggiando la testa sul freddo marmo, quasi volesse farsi scaldare da esso - Una persona a cui sono particolarmente affezionato, è grazie a lei se ho scoperto le mie doti di artista

Gaudenzio si convinse sempre più che quella piccola casetta fosse il suo mondo in cui aveva l'opportunità di esprimere tutto se stesso, anche i sentimenti verso le persone che lo circondavano; infatti gli pareva l'unica statua che raffigurasse una persona reale, probabilmente nessuno degli altri componenti era riuscito a fare breccia nel suo cuore e nel suo animo come quella zia.

- Vi manca molto?

- Ultimamente si - sospirò amaramente accarezzando nuovamente il viso, la sua espressione si fece cupa - Mia madre non le permette quasi più di venire in palazzo, non l'ha mai potuta vedere, nonostante fosse stata proprio lei ad affidarmi a mia zia quando ero un bambino mentre era stata esiliata, i nostri incontri sono brevi e in posti sempre diversi

Gaudenzio capì fino a fondo il suo stato d'animo, loro due erano più simili di quando potessero credere: anche la sua famiglia aveva scelto l'apparenza al posto della verità, l'ipocrisia invece della lealtà, la freddezza ai sentimenti; i loro destini erano così simili, così come l'indole.

- Spero di non fare tardi dai verdi... - esclamò improvvisamente Nerone sbattendo la mano sul viso, con evidente preoccupazione.

- I verdi? - turbato chiese Gaudenzio.

- Per fortuna siamo vicini, ti mostrerò le mie ultime due passioni oggi - lo rassicurò sorridendo forzatamente.

Immediatamente abbandonarono la "Casetta delle Arti", come la rinominò mentalmente l'architetto, per arrivare alle scuderie dell'immenso Circo Massimo, una delle strutture più grandi e note della Capitale, conosceva molto bene la sua storia, in quanto gran parte delle sue ultime ricerche e studi erano incentrati proprio su di esso.

Sorgeva tra i colli Palatino ed Aventino e si estendeva per 2187 palmi di lunghezza e 960 di larghezza per una capienza di 250.000 persone, risaliva ai tempi dei Tarquini ma fu ampliato ed ebbe l'assetto definitivo con Giulio Cesare; l'obelisco di Ramses II fu aggiunto da Augusto prima di essere sostituito da un altro, sempre egizio, dopo i continui terremoti ed incendi.

Si sentì subitamente a disagio, in quanto non aveva mai frequentato quell'ambiente; la Corsa delle Bighe non lo attirava affatto e quelle poche che vide in vita sua non gli procurarono alcun entusiasmo.

- Immagino che abbia capito di cosa si tratti, Gaudenzio - lo punzecchiò il ragazzo

Annuì intimidito Gaudenzio, augurandosi di non essere coinvolto direttamente in qualche gara di riscaldamento, seppur non fosse il periodo delle Corse.

- Avete portato un nuovo amico con voi, Nerone - ridacchiò uno degli aurighi, spettinandogli i ribelli capelli rossi; dal tipo di confidenza intuì che era molto conosciuto in quelle parti.

- Si chiama Gaudenzio - rispose prontamente - È entrato nelle grazie dell'imperatore per cui lavorerà per noi e soprattutto per l'Impero

- Devi ritenerti fortunato Ga...ga

- Gaudenzio - l'aiutò l'architetto - Effettivamente mi sento lusingato dal mio nuovo ruolo

- Come sta il mio Achille? - chiese infine il ragazzo all'auriga, curioso di sapere delle condizioni del suo adorato cavallo che non vedeva da una settimana intera - E l'allenamento dei verdi come procede?

- Sta benissimo, anzi non vede l'ora di correre, mentre per quanto riguarda la fazione dei verdi, tranquillizzatevi si stanno esercitando, come potete ben vedere

Con il volto illuminato dalla gioia, Nerone volò verso il suo destriero color terra, nevrile, agile e veloce, per questo lo aveva chiamato Achille, possedeva lo stesso spirito battagliero e combattivo dell'eroe acheo.

Prese una delle bighe disponibile, sellò il cavallo come gli era stato insegnato e si aggiunse al gruppo degli aurighi professionisti, lieti di correre assieme al ragazzo.

- Sei in gamba - effuse l'auriga posizionando le braccia sui fianchi - Cerca di restargli sempre amico, Gaudenzio, ha bisogno di persone che gli diano stimoli, certezze, oltre a quei libri su cui sta seduto quasi tutto il giorno, e in speciale modo di affetto, ne ha così poco

- Sì ho notato - continuava a guardarlo, in quel momento era libero, leggero; quante volte aveva dovuto nascondere i suoi impulsi per accettare le sue responsabilità - Per questo vi mostrate sempre molto gentili e cortesi con lui

- È un giovane nobile che si preoccupa della plebe più umile, è sincero come pochi con noi, non ha pregiudizi, non si sente claustrofobico, nè disgustato tra le gente comune e semplice...

L'auriga continuava a parlare ma Gaudenzio non lo ascoltava più, il cuore gli batteva all'impazzata sapendo che c'era qualcuno veramente interessato al cuore pulsante dell'Impero: la forza più genuina, più vitale, più vera di Roma.

- Appena finirò qui andremo ad assistere ad una commedia di Terenzio, ovviamente pagherò il posto per anche per te - propose Nerone quando si trovò vicino ai due "spettatori".

- Come desiderate, mio caro Nerone...

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Capitolo 19
*** Capitolo 18 - Peiora multo cogitat mutus dolor - ***


"Paratae lacrimae insidias, non fletum indicant"
Publilio Siro, Sententiae

Roma, 2 settembre 54 d.C.

Agrippina si aggirava nervosa per il palazzo imperiale: il pensiero di dover far prendere il potere al figlio l'assilava; sentiva che ormai Nerone aveva l'età perfetta per poter governare, o meglio per poter essere comandato da lei.

Ma c'era un ultimo ostacolo che doveva eliminare ad ogni costo, per evitare di perdere il controllo su Nerone: Domizia Lepida; quella donna continuava ancora ad incontrare di nascosto il nipote, non sapeva tutti i luoghi di incontro, ma le voci le erano giunte alle orecchie.

- Quella donna è una vera spina nel fianco - si disse l'Augusta - Devo sbarazzarmene il prima possibile, l'imperatore Claudio è con me, ‎ma come farò a convincere Nerone a schierarsi dalla mia parte? 

- Nerone, ti prego suonaci una delle tue melodie più belle - esordì Claudio cordialmente, tentando di convincerlo; quel ragazzo alternava giornate di immensa felicità in cui componeva senza sosta sinfonie ad altri in cui se ne stava cupamente in silenzio e immobile, come in quella giornata.

Il ragazzo gli lanciò un'occhiataccia:  anche l'imperatore lo veniva a cercare o lo teneva con sé solo quando la sua arte era utile, altrimenti restava quasi sempre con Seneca a studiare, per poi fuggire nel suo mondo appena ne aveva la possibilità.

Con lui poi c'era il figlio Britannico che odiava sempre più, soprattutto negli ultimi tempi, quando tra i due si era stabilito nuovamente un solido rapporto padre - figlio, che lui non sopportava più.

Quest'ultimo lo osservava con grande gioia, ma Nerone vi scorse anche una leggera altezzosità, superbia, che non contribuì certo ad eliminare il malumore.

- Non voglio rovinare la vostra intimità con la mia presenza - sussurrò infine fissando per l'ultima volta quella che non sarebbe mai stata la sua famiglia; con la tristezza e l'angoscia che gli opprimevano il petto, si allontanò da loro.

Claudio, vedendo ciò, comprese sempre più di aver commesso un grave errore adottandolo come figlio; per quanti sforzi compisse non riusciva a fare breccia nel cuore sofferente del ragazzo. Così, decise di riappacificare i rapporti con il suo adorato figlioletto Britannico, che considerava ormai come suo erede ufficiale a scapito di Nerone, ai suoi occhi una causa persa.

- Nerone, Nerone dove sei? - urlò la madre sulla soglia del giardino, il ragazzo l'udì e nascostosi dietro una statua si mise ad osservarla con lo smeraldo, l'unico rimedio per diminuire la sua forte miopia.
"Non posso avere un attimo di pace" si disse sospirando.

Sua madre era una donna bellissima, anche con i suoi 39 anni, non ne aveva mai viste altre così belle, persino Messalina, l'ex moglie dell'imperatore, le era inferiore, se solo avesse dedicato un po' di tempo per lui anziché pensare quasi esclusivamente alla politica.....

- Ah eccoti! - urlò Agrippina avanzando verso di lui con passo furente - Perché te ne sei andato via dall'imperatore senza un suo ordine? Ti aveva semplicemente chiesto di suonare

Nerone emise un altro sospiro e si fece coraggio, sperando che dopo la sua solita ramanzina lo lasciasse in pace, come sempre - Perché non mi andava di suonare in presenza di gente che non capisce nulla d'arte

- Claudio è un uomo di cultura, come puoi dire che non comprende l'arte

- Non mi andava... - rispose scocciato il figlio - Ed ora se avete terminato vorrei proseguire la mia passeggiata solitaria...

La madre gli prese il braccio e lo bloccò, Nerone si girò a guardarla ed intuì che c'era qualcosa dietro il suo atteggiamento, e la cosa non gli piaceva - Cosa avete in mente di fare, ora, madre? - domandò cupamente.

Una goccia di sudore scese sulla guancia della donna, non si aspettò una domanda simile da suo figlio; che fosse in realtà più intelligente e acuto di quanto volesse far credere?

Ma aveva bisogno del suo supporto per eliminare tutti gli ostacoli, soprattutto femminili, ora che l'imperatore era soggiogato al suo volere e lei aveva raggiunto l'apice: un potere che nessun'altra donna aveva mai ottenuto in tutta la storia di Roma.

E sarebbe andata contro tutto e tutti.

- Dovrai testimoniare contro Domizia Lepida, Nerone, volente o nolente - confessò con una freddezza incredibile; il ragazzino si staccò da lei con indignazione.

- Mi chiedete di mentire davanti a tutti per far uccidere ingiustamente mia zia? - tremava per la paura, ogni cosa si sarebbe aspettato da lei, ma non ciò che aveva appena udito: ammazzare la donna che l'aveva cresciuto come un figlio per salvare una madre che non si era mai curato di lui...no, non poteva farlo - Io non lo farò mai, madre, mai!

- Neanche se ti dessi la possibilità di dare libero sfogo alla tua arte, senza alcun limite? - propose tra i denti.

Non si sarebbe lasciato ingannare dalle false promesse di sua madre, non doveva cedere, non poteva tradire Domizia - Basta! Mi venite a cercare esclusivamente per i vostri interessi...di me non vi è mai importato nulla... - sbraitò il ragazzo stringendo i pugni; la tristezza stava lasciando il posto alla delusione.

- Come osi parlare così a tua madre...

- Vi ricordate che sono vostro figlio solo quando vi conviene - la interruppe bruscamente il ragazzino, con l'ira chr avvampava nei suoi occhi; Agrippina non lo aveva mai visto così furioso.

- Sai benissimo che sto facendo questo per te, Nerone

- Sono un ragazzo che non se ne intende molto di politica, ma certe cose le conosco anch'io, madre - confessò  guardandola torvo e si allontanò. Agrippina era sempre più stupita del figlio, la sua perspicacia la turbò, e lei che lo considerava solo un inetto...

A quel punto, però, non poté più trattenersi, estrasse un pugnale che teneva nascosto sotto la stola e lo fermò puntandoglielo sul collo - So benissimo che il sangue ti terrorizza, quindi ora mi ascolterai...

Nerone emetteva dei gorgoglii e balbettii sconnessi, era sul punto di svenire, voleva scappare da lei, ma le gambe gli erano diventate di piombo e lo sguardo terrificante della madre non migliorò la situazione.

- Se proprio ci tieni, posso farti uccidere insieme alla tua adorata Domizia, tanto non sei tu il prossimo nella discendenza, posso sempre conquistare la fiducia e la stima di Britannico

- Bri-Britannico? - soffuse spaventato; gli venne in mente di nuovo dell'intenso e amorevole rapporto tra lui e il padre e il dolore colmò il suo cuore "Ha già l'amore sincero di un padre, non può appropriarsi anche di quello della mia"

- Sarà lui il nuovo imperatore alla morte di Claudio e non tu come tanto desideravo...

- Io..imperatore? - domandò puntando il dito verso di sé, incredulo di ciò che la madre progettava per lui. Aveva intuito che la madre avesse una grande ambizione, ma non si aspettava qualcosa di così folle.

- Se farai come ti dico, avrai tutto ciò che desidererai, figlio mio, senza alcun limite

Giulia Agrippina sapeva benissimo che l'unico modo per convincerlo era di puntare sulle sue mancanze, sui suoi sentimenti positivi e negativi, suo figlio era debole dal punto di vista affettivo e bramava lei, anche se in cuor suo l'odiava, la desiderava più della cetra, dell'arte in generale; non sarebbe mai riuscito a liberarsene.

- Per ambire al massimo si devono eliminare tutti gli ostacoli possibili, anche al costo di immani sacrifici - sentenziò alla fine l'Augusta.

- Farò come mi dite, madre - disse con gli occhi lucidi il ragazzo, mentre il senso di colpa lo lacerava ancor prima di compiere il misfatto. Abbassò la testa e la seguì ammutolito.

Agrippina non riusciva ancora a credere di essere riuscita a convincere il figlio a tradire la zia per salvare la sua posizione di futuro imperatore, a quanto pare suo figlio era succube di sentimenti che provava per lei, quella profezia era solo un esagerazione, Nerone non rappresentava alcuna minaccia: era solo uno stupido ragazzo abbagliato dall'arte.

3 settembre 54 d.C.

Nerone e Claudio si trovavano faccia a faccia: i piccoli e stanchi occhi scuri di Claudio scrutavano quelli grandi e chiari di Nerone, spalancati per la paura, velati di tristezza e amarezza.

- Sei sicuro di ciò che dici, Nerone? - gli domandò l'imperatore non molto convinto dalla voce stranamente atona del ragazzo; mentre esponeva l'accusa che la madre gli aveva inculcato, Claudio fece caso alla sua insicurezza dettata dalla fretta, quasi come se volesse andarsene più velocemente possibile dal marciume intriso nel palazzo imperiale.

Le indicò con il braccio la sua cara zia Domizia Lepida, appena condotta al suo cospetto: legata ai polsi, con l'abito e i capelli scomposti; nonostante fosse una vittima si ergeva con orgoglio e impassibilmente udiva ciò per cui era stata accusata: aver attentato la vita dell'imperatore attraverso la magia.

- Anche mio figlio Nerone, inconsapevolmente stava per essere totalmente sottomessa al suo volere per tramare contro di voi e me - mentì Agrippina ai piedi dell'imperatore che guardava sconvolti i presenti, in aiuto del figlio che non riusciva a dimostrarsi - E con ciò anche di disturbare la pace italiana - continuò nella recita l'Augusta, puntando il dito contro la donna che ebbe solo un breve sussulto nelle viscere alla vista del nipote tra coloro che la accusavano.

Nerone non aveva il coraggio di guardarla in faccia, di dirle che gli dispiaceva, che c'erano in gioco troppe cose, persino la sua vita, avrebbe mandato a monte tutto e la vendetta della madre non si sarebbe fatta attendere - Si, è tutto vero ciò che mia madre sta dicendo - ribadì a testa bassa, nascondendo le lacrime.

Solo a quel punto Domizia Lepida sentì un tonfo al cuore, una pugnalata dietro la schiena: il suo nipote adorato, che era stato più di un figlio la stava tradendo nel peggiore dei modi, calunniandola.

Era consapevole del fatto che fosse stata la madre, con qualche pesante minaccia, ad averlo costretto; oltre al fatto che non le diede nemmeno il tempo di crearsi una difesa, ad indicare che Agrippina volesse sbarazzarsi di lei definitivamente.

- Avete sentito imperatore, anche Nerone ha testimoniato contro di lei, propongo, quindi, di condannarla alla pena capitale immediatamente! - sbottò di getto Agrippina sorridendo sinistramente.

Udito ciò, Nerone la fissò sconvolto: per un attimo si era illuso che potesse risparmiarla, di condannarla all'esilio; lo sperava almeno da Claudio, ma quando lo vide capì che il danno era irreparabile. E la colpa, per gran parte, era stata sua.

- Domizia Lepida... - le rivolse Claudio adirato, credendo alle bugie della moglie e di Nerone - Più di una volta ti dissi di non importunare la famiglia imperiale, ma tu hai continuato, di nascosto, ad incontrare mio figlio Nerone, con lo scopo di intrometterti nella vita politica e tramare contro di me e l'Impero

Con un gesto secco ordinò alle guardie di condurla sul pubblico patibolo, di fronte alla folla: era in effetti da molto tempo che non vi erano condannati a cielo aperto, il popolo sarebbe stato soddisfatto, insieme ad Agrippina che si sentì priva di ogni intralcio, senza rendersi conto di averne creato uno molto più grave, che l'avrebbe portata alla morte.

Solo dopo aver visto l'ultimo, eloquente sguardo della zia, rivolto proprio a lui, Nerone fuggì via dal palazzo, con l'anima in preda a sentimenti contrastanti: rabbia e dolore, delusione e angoscia; a nulla valsero le grida e gli ordini della madre e dell'imperatore, erano come ovattate nelle sue orecchie.

Mentre la città si svuotava per assistere alla condanna, Nerone si diresse verso la "Casetta delle arti", aveva un espressione lugubre in volto; vi entrò e non appena rivide la statua della zia, in preda ad un'ira irrefrenabile, la schiantò al suolo, distruggendola: il medesimo destino toccò pure alle altre statue, impotenti di fronte a tale furia.

Passò poi agli affreschi sul muro, il cui unico modo per toglierli era di scrostare le pareti, non avendo, però, la pazienza di compiere ciò, passò alla brutalità, rompendo il muro con un martello lì presente: se fino a qualche mese prima era servito a creare arte, in quel momento l'adoperava solo per distruggerla, farla a pezzi, come il suo cuore.

Lanciò un grido disperato, in modo che la sua anima potesse liberare le lacrime tenute a freno; nella mente rimbombava la parola 'sacrificio': non fu esclusivamente l'anima di Domizia ad essere stata immolata, ma, soprattutto, quella di Nerone, irrimediabilmente macchiata dalla colpa.

Ciò sancì definitivamente il suo passaggio nell'età adulta, la fine della sua infanzia piena di sogni e speranze infranti sul nascere.

Qualcosa dentro di lui si spezzò per sempre, sentì proprio il frantumarsi di ciò che per lui era stato l'amore materno; sua madre, con quel gesto, gli aveva tolto l'ultimo frammento di umanità che gli rimaneva. 

Avrebbe voluto urlare ancora con tutto il fiato che aveva in corpo, ma quell'impulso rimase bloccato nel fondo del suo cuore, la sua espressione divenne fredda, impassibile, priva di qualsiasi emozione positiva: solo rabbia, odio, rancore, indifferenza, solitudine popolarono, da quel giorno, la sua sensibile anima.

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Capitolo 20
*** Capitolo 19 - Impunitas semper ad deteriora invitat - ***


"Languent officia atque aegrotat fama vacillansUnguenta et pulchra in pedibus Sicyonia ridentscilicet et grandes viridi cum luce zmaragdi 
auro 
includuntur teriturque thalassina vestis adsidue et Veneris sudorem exercita potat
Lucrezio, De rerum natura, IVvv. 1124-1128

Roma, 13 ottobre 54 d.C.

Era l'alba e Nerone, ancora avvolto nell'oscurità della sua stanza da letto, aveva cercato in ogni modo di addormentarsi, ma non era riuscito a chiudere occhio nemmeno per un secondo.

"I tempi sono ormai maturi" nella sua mente riecheggiava quella frase, pronunciata da sua madre, qualche ora prima, con quel sinistro entusiasmo che lo inquietava.

Sapeva cosa sarebbe accaduto quel giorno, per gli altri sarebbe stato un normalissimo 13 ottobre, in cui si festeggiavano le Fontinalia, festa religiosa dedicata alle sacre fonti il cui dio protettore era Fontus, figlio di Giano; per lui invece sarebbe stato l'inizio della rovina.

Nonostante fosse riluttante all'idea di diventare imperatore, aveva compreso che con il sacrificio della zia, la sua anima era irrimediabilmente compromessa e per questo accettò tutto ciò che la madre gli disse in quei giorni.

Ribellarsi non era la soluzione migliore, l'unico modo che gli rimaneva per saziare la sete di potere di sua madre era solamente uno: salire al trono.
Solo così l'avrebbe lasciato finalmente in pace, almeno così credeva.

- Sarà meglio che mi alzi, prima che arrivi, l'ultima cosa che voglio sentire quest'oggi è la sua solita ramanzina - si disse scocciato, spostò la tenda, non appena la luce irruppe con forza nella stanza sì coprì gli occhi chiari con la mano.
 

Agrippina si aggirava, con fare guardingo e circospetto, per le vie più popolari della Capitale. Fin dall'alba la plebe si attrezzava già per lavorare, anche il quel giorno di festa.

"Ciò gioca a mio favore, posso svincolarmi per le vie senza dettare molti sospetti" pensò camminando piuttosto agitatamente, con l'intenzione di arrivare velocemente a destinazione "Indossando la stola più semplice e togliendo ogni gioiello sarà ancora più semplice confondermi tra la folla"

Quella zona era una delle più malsane: puzzava terribilmente di escrementi, rifiuti e cibi in decomposizione accumulati ai lati delle strade, non sembrava la stessa città, non rispecchiava per nulla l'immagine della Capitale del Mondo.

"Spero di trovare presto questa fantomatica Locusta, non sopporto simili odori, mi sta salendo una nausea incredibile" si tappò il naso e aumentò il passo, la questione era urgente, non poteva più aspettare...

Improvvisamente, come se fosse un sogno, apparve proprio la taverna che stava cercando; poté riconoscerla in quanto si trovava quasi alla fine della via che portava al mercato. Una zona strategica per recuperare lo stretto indispensabile.

Dall'esterno aveva l'aspetto di una taverna qualsiasi, ma appena vi entrò, percepì un'aura diversa nel vedere gli scaffali pieni di boccette e bottiglie, erbe e frutti velenosi: le pareva il covo di una strega.

Non si stupì nel vedere la fila che si era formata fino al bancone, la maggior parte erano donne piuttosto giovani, molte della stessa età di Nerone. Probabilmente erano delle prostitute che volevano eliminare qualche cliente un po' troppo invadente.

Intravide anche degli uomini che a prima vista potevano sembrare innocenti e privi di qualsiasi pensiero malizioso. La politica corrompeva tutti, chi prima chi dopo, persino i più irriducibili sono costretti a sottomettersi ai suoi giochetti.

Avrebbe voluto rivelare la sua identità immediatamente per passare la fila senza troppi problemi, se l'avesse fatto, però, qualcuno avrebbe sospettato che a palazzo si stavano tramando tresche e complotti, perciò attese con molta pazienza che Locusta servisse i suoi clienti.

Per sua fortuna non furono molto esigenti e nel giro di quasi un'ora la fila terminò e finalmente poté vedere in faccia la sua ultima carta.

- Ditemi cosa desiderate gentile cliente... - chiese Locusta cantilenante, stufa di dover ripetere per l'ennesima volta quella frase.

- Così sei tu la famosa Locusta! - esclamò la donna sorridendo sinistramente.

- Si, sono io... però non mi avete detto che cosa volete da me...

- Non hai capito chi sono io? - le domandò altezzosa Agrippina, si abbassò la stola dal volto e si mostrò per quello che era.

Locusta all'inizio non riuscì a capire chi fosse quella donna dall'aria altezzosa e patrizia, dai modo di parlare aveva intuito la sua classe sociale; solo dopo ebbe una folgorazione.

- Ma voi siete...siete l'Augusta! - emise coprendosi la bocca per lo stupore. Come mai l'imperatrice in persona si era recata nella sua umile taverna?

Aveva sentito in giro della sua coscienza non proprio pulita, per via delle varie condanne emesse a danno persino di parenti; degli scandali che discriminavano la sua immagine, come per esempio il matrimonio incestuoso, alleggerito dalla legge ad personam emanata, ma che continuava a ronzare malignamente nell'aria.

- Perdonatemi se non vi ho accolto con le reverenze che vi spettano, maestà... - aggiunse timorosa Locusta eseguendo un profondo inchino.

- Non potevi sapere, Locusta cara... - sibilò Agrippina fissandola intensamente. La proprietaria ebbe un sussulto nell'incrociare quello sguardo: i suoi occhi erano torbidi, freddi, più gelidi del clima con cui era cresciuta da piccola.

Non vi era in lei nulla che rassicurasse, la sua bellezza, che mostrava i primi segni di decadenza, era perfetta, ma sinistra, marcia; le statue che la raffiguravano non mostravano nulla di ciò, proprio perché dovevano rappresentare qualcosa di completamente diverso dalla realtà.

- Sono a vostra completa disposizione, maestà

- So che hai un passato oscuro alle spalle... Locusta - continuò sogghignando - Sei giunta a Roma come schiava, hai lavorato per molto tempo con una famiglia che ti ha reso liberta e ti ha permesso di aprire una taverna, sei stata condannata per veneficio, omicidio tramite veleno...

- Io compio il mio mestiere, maestà, nulla di più, se poi i miei infusi non fanno effetto o agiscono lentamente, non possono addosarmi la colpa - la interruppe energicamente Locusta.

"Fu solo un incidente provocato da un uomo che voleva abusare di me, ho fatto ciò che ritenevo giusto, usando i mezzi disponibili, se avessi aspettato la giustizia non sarei uscita viva" confessò a sé stessa ripercorrendo quel giorno tremendo.

Se solo Aulus fosse stata insieme a lei come quella volta con Marcus...

In un'altra occasione Agrippina si sarebbe infastidita da tale sfrontatezza, in quel momento restò composta; fu entusiasta di aver trovato una giovane donna così energica e combattiva, pronta a ribadire il proprio ruolo.

- Se farai ciò che dico eliminerò ogni accusa a tuo carico, ne uscirai completamente pulita e potrai chiedermi tutto ciò che vorrai, senza alcun limite - sentenziò l'Augusta convinta di averla in pugno.

- Non posso non accontentare la richiesta di una mia cliente, soprattutto se imperiale - replicò gentilmente Locusta, abbozzò un lieve sorriso - Io non ho fatto nulla di cui dovermi pentire, maestà, ho sempre agito con criterio - aggiunse fiera, schietta; era meglio non fingere con gente simile.

Agrippina comprese di trovarsi di fronte ad una donna tutta d'un pezzo, temprata dalla vita e dal dolore, difficile da sottomettere completamente al suo volere, questo dettaglio non glielo avevano riferito. Era una vera galla.

- Hai dei funghi velenosi?

- Certamente, dovreste dirmi solamente la tipologia specifica - richiese mentre stava già controllando gli scaffali e i cassetti.

- I più velenosi e letali che possiedi, anche se cari, posso pagarti a peso d'oro

- Chi volete uccidere? Se non sono indiscreta... - sollecitò Locusta, curiosa di conoscere i suoi piani. Ma se ne pentì non appena seppe il nome.

- Claudio, l'imperatore - pronunciò lapidaria.

Locusta fece cadere una boccetta al suolo e si voltò terrorizzata osservando  Agrippina sorridere malignamente, stava per scoppiare dal ridere. Il potere portava davvero alla follia?!

- È così ghiotto da suscitarmi ribrezzo - specificò Agrippina ignara di aver appena provocato uno shock alla proprietaria; quella frase fu la risposta a tutte le sue domande e le tolse ogni dubbio: era lei ad essere ripugnante.

Purtroppo era cosciente del fatto che non poteva tirarsi indietro, sapeva a cosa andava incontro: non era un senatore o un uomo politico qualsiasi, la sua vittima era l'imperatore in persona, l'uomo più potente del mondo.

"Ma non più di sua moglie se fino ad ora non si è mai accorto delle sue vere intenzioni" sospirò amaramente; trovò il fungo che faceva al suo, quando lo prese provo pietà per quell'uomo.

- Amanita phalloidea - dichiarò priva di entusiasmo Locusta nel mostrargli quell'arma apparentemente innocua - Più letale di questo non esiste altro, inodore e insapore, potrete mettere tutte le spezie che volete, non si accorgerà di nulla, anche perché questo ha l'aspetto di uno commestibile.

Una delle caratteristiche del fungo in questione era la sua incredibile capacità di assumere l'aspetto di altri funghi innocui, solo un occhio esperto come quello di Locusta era in grado di percepire le differenze seppur, a prima vista, impercettibili.

Agrippina ne afferrò uno, lo rimirò più e più volte: dalla forma conica, perfettamente liscio, senza alcuna verruca, di solito il colore variava dal verdastro al grigio, essendo però quel tipo mimetico, appariva di colore giallo - bruno.

Locusta le diede anche una penna intrisa di veleno, la consegnò avvolta in un panno di lana, assieme ai funghi, per evitare il contatto - Se non dovessero agire nel tempo prestabilito, usate questa, maestà che avrà un effetto immediato al contatto orale...

Sorrise soddisfatta, la guardò compiaciuta, infilò la mano destra nella stola dalla quale estrasse un sacchetto pieno di monete d'oro, gli aurei.

Fatto ciò sgattaiolò dalla taverna e corse immediatamente al palazzo imperiale.
 

Nel frattempo all'interno del palazzo stesso, Claudio, stava organizzando in pompa magna la festa delle Fontinalia, durante le quali si gettavano nelle fontane ghirlande di fiori e si offrivano al dio sacrifici di vino, olio.

Nerone non aveva nessuna voglia di festeggiare, per lui gli dei romani e greci non significavano più nulla, in quanto anche loro succubi del Fato e perciò per niente affatto superiori ai mortali. "L'unica cosa che li rende divini è l'eternità, immagino la noia..." si disse disgustato alla sola idea di non morire mai.

Passeggiava senza meta fino a quando giunse alla sala del trono, vi era Claudio, si stava facendo sistemare da alcuni schiavi, mentre altri liberti a lui fedeli, come Pallante a Narcisso, gli ricordavano gli impegni del giorno.

Accortosi degli sguardi infastiditi dei due presenti, Nerone mestamente uscì e si mise ad origliare.

- Anche oggi mostra il suo broncio, dovrebbe sforzarsi di sorridere di più soprattutto in giorni come questo, non è propizio - s'accorse l'imperatore. Aveva notato, infatti, la freddezza con cui Nerone si rivolgeva a tutti, persino al suo caro maestro Seneca; non aveva voglia di parlare con nessuno.

- Dovete capirlo, maestà, non si è ripreso ancora dalla morte della zia... - assecondò Pallante, l'unico liberto che tentava di conciliare i rapporti tra imperatore e figlio adottivo.

- La ragion di Stato viene prima di tutto, così come la sicurezza, anche se quella faccenda continua a puzzarmi - ribatté Narcisso che, a differenza del collega, non lo poteva soffrire, così come la madre, li vedeva come una continua minaccia per la discendenza e l'Impero.

Nerone provò pena per loro, dopo aver udito quelle parole, soprattutto per sua maestà "Toccherà a me salire sul patibolo e sostenere il vostro fardello, Claudio".

Alzò la testa e vide sua madre dirigersi verso la cucina, seguita da Seneca, anch'egli a conoscenza dei suoi piani. Il ragazzo non espresse nessun giudizio verso la decisione presa dal maestro.

- Siamo tutti degli ipocriti... - effuse soltanto allontanandosi amareggiato.
 

Dopo una lunga preparazione Claudio si recò nella sala del triclinio con i suoi abiti migliori: tunica e toga bianchissime, quasi splendenti, una fibula dorata sulla spalla e sulla vita che mantenevano insieme i diversi strati di abiti per renderli più pesanti in modo da affrontare un rigido inverno; i calzari realizzati con il miglior cuoio e l'immancabile corona d'alloro, simbolo del potere assoluto.

Britannico rimase abbagliato nel vedere suo padre così sfolgorante, sembrava veramente un dio, Nerone invece mostrava totale irritazione, fastidio, malvolentieri si trovava lì, accanto al fratellastro.

- Siete splendido, caro... - sussurrò nel suo orecchio una volta che il marito si sedette accanto a lei.

- Mai quanto voi... Agrippina adorata... - contraccambiò l'imperatore baciandole la guancia - Che la festa abbia inizio! E spero che il pranzo sia di gradimento a tutti i componenti della famiglia! - esclamò finendo il primo bicchiere di vino. Cominciava già ad essere un po' brillo.

L'eunuco Aloto, portò il piatto di funghi all'imperatore, dopo avergli riferito di averlo assaggiato, cosa non vera. Claudio, non si fece attendere e cominciò a divorare quel piatto così gustoso, Agrippina lo osservava interessata.

L'uomo iniziò ad avere dei dolori allo stomaco e scusandosi con i presenti, si assentò; nel frattempo Agrippina, insospettita dal discutibile effetto, fece avvicinare a sé il medico personale di Claudio, Stertinio Senofonte Gaio, di origine greca, un altro complice. Lestamente gli consegnò la penna avvelenata, con un cenno di capo gli indicò cosa fare.

Quest'ultimo si diresse subitamente verso l'imperatore che stava tornando nella sala, appena vide il dottore corse da lui per farsi dire un rimedio contro quegli attacchi intestinali. Lo accompagnò nella sua stanza da letto con la scusa di volerlo visitare.

- Aprite la bocca, altezza, devo controllare una cosa - gli ordinò, facendolo sedere, lui eseguì, certo della sua fiducia. Alacremente introdusse la penna, colpì una zona della cavità orale piena di vasi sanguigni e attese che il veleno si espandesse rapidamente per tutto il corpo.

Non passò nemmeno un minuto che l'imperatore si sentì stordito - Co-cosa mi-mi avete fatto...male... - spirò Claudio morente tra le sue braccia; Senofonte lo sistemò per bene nel letto, come se fosse addormentato - Sogni d'oro altezza imperiale - ghignò  beffardo il medico.

Nel frattempo l'Augusta convinse i presenti, in particolare i figli legittimi di Claudio, Britannico e Ottavia nel proseguire nei festeggiamenti - Non dovete preoccuparvi per vostro padre, si riprenderà presto, avrà avuto sicuramente un'indigestione, nulla di grave

Nerone, nauseato da tale spettacolo, decise di chiudersi in camera, attendendo la prossima mossa di sua madre, ormai del tutto incontrollabile.

- Ha fatto uccidere mia zia a sangue freddo, facendomi testimoniare contro di lei, perché avrebbe dovuto fermarsi con il marito/zio? In fondo ha lo stesso sangue di Caligola...

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Capitolo 21
*** Capitolo 20 - Carpent tua poma nepotes - ***


"Non est quod nos tumulis 
metiaris et his monumentis quae viam disparia praetexunt: aequat omnes cinis."
Seneca, Epistulae ad Lucilium, XCI, 16

- È morto! - gridò disperata Agrippina con il volto coperto dalle mani tremolanti - L'imperatore è morto - specificò la donna fingendosi dispiaciuta per la dipartita dell'imperatore.

- ‎Ma non era una semplice indigestione? - domandò Britannico confuso; come era potuto accadere?

- ‎Ha avuto delle complicazioni che si sono rivelate fatali - confessò sconfortato Senofonte uscendo dalla stanza di Claudio - Ho adoperato ogni mezzo e cura ma purtroppo non sono valsi a nulla, mi spiace profondamente

Ottavia scoppiò a piangere senza freno, confortato da Britannico, la strinse a sé, anch'egli alla fine si liberò del groppo in gola.

Approfittando della distrazione dei due ragazzi l'Augusta e il medico di corte si lanciarono degli sguardi d'intesa - Ora lasciamo fare a Seneca e Nerone - le sussurrò Agrippina, tornando a mostrare il suo dispiacere quando chiamò i due ragazzini per consolarli.

Il ragazzo, nel frattempo, accompagnato dal filosofo, era sceso tra la folla per annunciare la triste notizia, seguita poi da un'arringa avvincente. Tale discorso fu elaborato dal maestro, ma furono soprattutto il suo tono e gli atteggiamenti fortemente teatrali a stupire il popolo.

Se Claudio era stato un bravissimo oratore, Nerone stava dimostrando di essere un vero e proprio regista, capace di tenere ipnotizzato chiunque, nonostante la sua giovanissima età. Persino Seneca non riusciva a rimanere impassibile di fronte a tanta bravura.

- Evviva il princeps iuventutis! Evviva l'imperatore Nerone! - gridava la folla, mutando l'iniziale piagnisteo in una proclamazione pubblica.

Un vero trionfo per il ragazzo che non poté mascherare la sua soddisfazione, si sentiva esplodere dalla felicità, non credeva di riuscire a provare di nuovo quell'emozione dopo quei tragici eventi; il popolo lo adorava perché lo conosceva, era stato uno dei pochi ad essere e continuava ad entrarci in contatto diretto, senza esitazione e pregiudizi.

"E dopo aver conquistato la plebe, toccherà a quei vecchi pidocchiosi che compongono il Senato, per quelli basterà aggiungere qualche promessa sulle loro proprietà e il gioco è fatto" si disse sorridente Nerone.

Stava iniziando a comprendere i giochi di potere e ammise a sé stesso che era piuttosto divertente, soprattutto nel vedere quegli sguardi balenanti rivolti a lui: gli provocavano una forte eccitazione, iniziava a sentirsi considerato e amato.

21 gennaio 55 d.C.

Locusta stava impartendo ordini a Canius su quello che avrebbe dovuto prendere al mercato, quando improvvisamente ebbe un sussulto nell'udire la violenza con la quale due pretoriani aprirono la porta.

- Chi cercate? - chiese Locusta intimorita.

- ‎Una donna di nome Locusta, la proprietaria di questa taverna! Sei tu vero? - pretesero a loro volta i due uomini che avanzarono prepotentemente all'interno dell'esercizio.

Locusta abbassò la testa, insospettita dal tono di rimprovero - Si sono io, cosa volete?

- Sei in arresto per veneficio, seguici senza fare storie

- Un momento solo - pregò dignitosamente la donna.

Si rivolse a Canius, sussurrandogli - Ti affido la taverna, mi raccomando, cerca di non fare la mia stessa fine, d'accordo, ne va dell'onore di Aulus

- Puoi stare tranquilla, Locusta - la rassicurò sfoggiando un sorriso sincero, la sua gentilezza e mitezza rincuorarono Locusta. Si fece forza e si avviò verso i due pretoriani che le legarono i polsi e la accompagnarono fino al carcere.

11 febbraio

- Sei stato tu insieme a tua madre ad aver ucciso mio padre! - sbraitò Britannico furibondo nel momento in cui si trovò dinanzi il fratellastro. 

- Ma cosa stai dicendo fratello? - esordì  Ottavia al fianco del marito - Era anche il padre di Nerone non dimenticarlo!

- Padre adottivo - la corresse il fratello, girò minaccioso la testa verso Nerone che lo guardò dalla testa ai piedi: al suo confronto sembrava un moscerino. Aveva quasi 14 anni eppure mostrava ancora le fattezze di un bambinetto. Era proprio come suo padre.

Senza dire nulla Nerone lo sfiorò e proseguì nella sua camminata, Britannico, però, non accennava a calmarsi, la morte del padre lo aveva scosso nel profondo, gli stava privando del sonno e della serenità, malgrado le parole rassicuranti di ogni persona al suo seguito, compresa Agrippina.

"Ora capisci cosa si prova?!" gli rivolse mentalmente Nerone fissandolo dopo essersi ruotato lentamente "Quel dolore lancinante che ti frantuma il cuore e ti lascia il vuoto"

- L'hai ucciso solo per proclamarti imperatore alle mie spalle - sgolava il ragazzino mentre le lacrime gli rigavano le guance rosee - La verità è che tu e tua madre vi siete presi gioco di lui... e di me, io mi sono fidato di entrambi, di te soprattutto, credevo che alla fine saremmo potuti diventare veri fratelli, ma alla fine...alla fine vi interessava solo il potere...

- Ciò che dici non è esatto, Britannico - emise Nerone voltandogli nuovamente le spalle - A me del potere non è mai importato nulla, tutto questo è opera di mia madre, io sono solo il suo fantoccio, tu al contrario sei sempre stato l'erede perfetto...il figlio che avrebbe tanto desiderato, invece ha avuto me, una disgrazia per il suo onore, una fortuna per la sua ambizione...

Ottavia rimase a bocca aperta dopo aver udito quelle parole, non si aspettava un discorso così profondo da lui, allo stesso modo di Britannico, ammutolito e sconcertato, da un simile discorso percepì tutta l'invidia del princeps e si sentì doppiamente in colpa: per averlo incolpato in quella maniera così meschina e in particolare per non averlo mai compreso e aiutato, ostinandosi a vivere nell'illusione di una famiglia felice. Il danno, però, era stato fatto.

"Per questo devo sacrificare la tua giovane vita, al fine di preservare la mia dalla follia di mia madre, affinché non possa più ricattarmi" rivelò a sé stesso, lugubre e freddo, mentre un'ombra scese sul suo volto. 

Locusta si stava seriamente preoccupando per la sua vita, era passato quasi un mese da quando era stata sbattuta in carcere, ma nessuno l'aveva ancora giudicata, né condannata. Sospirò profondamente - Temo proprio che marcirò qua dentro...

Il rumore di passi ruppe il silenzio di quel luogo angusto accompagnato dal tintinnio dell'armatura di un pretoriano: probabilmente un nuovo carcerato.

Locusta smise improvvisamente di muoversi e di sussurrare, era così raro ricevere visite e in fondo al cuore sperava che fosse riservata a lei. Non ne poteva più di stare lì dentro, aveva il forte desiderio di respirare l'aria fresca. 

- È nei dintorni? - irrupe una voce maschile molto aggraziata, vellutata ma profonda, intensa.

- Si, princeps, manca poco - lo rassicurò il pretoriano, la sua voce era invece gracchiante e cantilenante.

- Shhh - lo zittì spazientito Nerone - Non usare quel termine a sproposito...

- Scusatemi - disse imbarazzato.

La donna vide il riflesso della fiamma della torcia, le ombre si allungavano man mano che i due si avvicinavano; si fermarono proprio davanti la sua cella. 
Rimase abbagliata dalla torcia, era da tanto che non vedeva una fonte luminosa.

- Locusta si trova qui dentro - informò il pretoriano in maniera del tutto indifferente.

- Apri la cella, devo parlarle - ordinò il giovane uomo al suo fianco, indicando con un braccio Locusta e tenendo la torcia con l'altra.

Fu liberata dal pretoriano, le tolse le catene di ferro ai polsi e al piede destro, brutalmente la spinse fuori e senza volerlo andò a scontrarsi sull'ampio petto di Nerone. Era infastidito, lo intuì nonostante fossero in penombra.

Locusta arretrò di qualche passo chiedendo scusa, solo in un secondo  momento si accorse che l'ostilità non era nei suoi confronti ma del pretoriano.

- Insomma che modi sono questi?! Trattare così una donna...a voi uomini d'armi la disciplina ha fatto dimenticare la grazia e le buone maniere...

- Pe...perdonatemi...pri...ehm Nerone...credevo che... - si giustificò il pretoriano, riprese la torcia senza più parlare o agire se non interpellato.

Il giovane imperatore rivolse, dopo averla ben focalizzata, un'espressione docile alla donna, ancora un po' stordita dagli eventi, ed intimò al militare di accompagnarli ed uscire da lì. Una volta fuori si fermarono in un angolo all'ombra, era una giornata fredda ma nessuno osò lamentarsi.

- Perdonami se ti ho fatto alloggiare in quella cella per molto tempo, come ben saprai nella legislazione romana non è accettabile la sola reclusione a carico dell'Impero, era un modo per tenerti al sicuro - pronunciò a tono di giustifica, guardandola intensamente. 

Locusta rimase colpita nell'osservarlo ed annuiva pur non udendo ciò che diceva: era la prima volta in vita sua che si trovava davanti un cittadino Romano originario della penisola italica con i capelli color del fuoco e gli occhi azzurri, aveva pure una lieve spruzzata di lentiggini, quasi impercettibili; credeva di aver avuto una svista nella semioscurità della cella.

Nerone notò la sua incredulità e la riscosse - Tutto bene? - chiese gentilmente.

- S...si, scusate... - arrossì violentemente, si sentì in imbarazzo, che le stava prendendo? Non aveva più l'età per simili reazioni, solo che quel ragazzo sembrava così innaturale, i lineamenti non rispecchiavano per nulla i canoni romani, parevano più greci, e le era capitato più di una volta di incontrarne uno.

- Immagino tu sappia il perché di tale liberazione? - la ridestò per la seconda volta.

- Una commissione simile a quella di vostra madre - rispose prontamente Locusta.

- Non con i funghi stavolta, qualcosa di più fine, forse è meglio se discutiamo a palazzo, vicino al fuoco, inoltre il cielo
inizia a scurirsi, che ne dici?

- Siete voi l'uomo più potente del mondo, spetta a voi decidere...

Nerone sorrise maliziosamente - Avrai l'impunità perpetua da ogni pena, se organizzerai il tutto alla perfezione - successivamente fissò il pretoriano - Tu puoi pure andare, avrai il tuo aumento come ti avevo promesso... 
 

Una volta dentro il palazzo Nerone le mise a disposizione ogni mezzo e ambiente, soprattutto le sue stanze private, arredate di buon gusto, lontane dallo sguardo indagatore della madre: era una faccenda privata tra Locusta e l'imperatore.

La donna ebbe una strana sensazione nel sentire le dichiarazioni lapidarie del ragazzo, sembrava un altro rispetto a qualche minuto prima, serio e freddo, per nulla simile alla madre, eppure vi era in lui qualcosa che la terrorizzava più della follia di Agrippina.

- Il primo tentativo dovrai sperimentarlo su di me - informò Nerone battendosi il petto con la mano.

- Ma...ma come? Voi siete immune al veleno come me?

- No, ma potrà servire per capire quale evitare - fece un paio di passi e se lo trovò dinanzi, quasi minaccioso - Muoviti, non ho tempo da perdere...Britannico deve morire il prima possibile...

- Come desiderate... - si mise immediatamente all'opera, la sua vita era nelle mani di Nerone, e lui l'avrebbe lasciata definitivamente libera solo se fosse stata all'altezza del suo compito.
Tuttavia era mossa dalla paura di danneggiare troppo il ragazzo.

Preparò il primo filtro, Nerone lo provò subitamente, sperando di ottenere l'effetto desiderato, ma ciò che ebbe fu solo un attacco di dissenteria. 

Adirato come non mai si scagliò su di lei, la scaraventò contro il muro, la schiaffeggiò violentemente, poi l'afferrò per il collo: Locusta era atterrita dalla sua reazione e aveva l'impressione, in quegli istanti, di essere minuscola in confronto a lui, alto e vigoroso. 

- Così come ho promesso di toglierti ogni colpa, di darti la completa immunità - iniziò in preda ad una ira irrefrenabile - Posso farti uccidere nelle modalità più atroci ed impensabili, siamo intesi? 

Annuì tremante, Nerone sembrò tornare in sé e la lasciò andare; Locusta notò che il suo sguardo non era glaciale e fermo come quello di Agrippina, ma colmo di disperazione e perfino angoscia, nate probabilmente da grandi rinunce e bocconi amari ingoiati continuamente.

Il secondo tentativo, sperimentato su una capra, fu efficace, l'animale, però, morì dopo 5 ore, troppe a suo parere - Deve essere rapida come una crisi epilettica...

"Parla come uno stratega, è un tipo molto metodico e preciso, vuole che tutto si svolga nei minimi dettagli, l'opposto di sua madre" si disse Locusta stupita dal suo modo di agire.

La terza volta riuscì nei modi e nei tempi voluti dal princeps, il maiale morì dopo pochissime ore - Arsenico e sardonia diluiti, niente di più perfetto, il tipo di morte che piace a me, pulita e discreta - si compiacque del lavoro, analizzò il contenuto preso da una strana gioia - Resta qui e non muoverti per nessun motivo, se mia madre ti scoprisse, sarebbero guai per te... - le raccomandò, volò via ad organizzare il banchetto della morte. Era giunta la sera.

"Non agisce per capriccio, nè è mosso da ambizione, è animato solo ed esclusivamente da un'esigenza viscerale, una questione di sopravvivenza" pensò afflitta, quel ragazzo era così triste... 
 

- Prego Britannico, prendi pure quest'ottimo vino - offrì allegramente Nerone, versò il liquido fino all'orlo della coppa - Sei un uomo ormai

- Grazie Nerone, questo gesto indica la nostra riappacificazione

- Certamente, ora bevi, tutto d'un fiato - lo invitò gentilmente; il vino fu precedentemente assaggiato, non provocò alcun effetto in quanto risultò troppo caldo e solo in un secondo momento venne raffreddato con l'aggiunta dell'acqua avvelenata. 

Dopo aver mandato giù la coppa cominciò il banchetto vero e proprio, colmo di ogni ben di Dio; durò poco perché Britannico iniziò ad avere tremende convulsioni, che preoccuparono tutti tranne Nerone.

- È solo un attacco epilettico, passerà subito, ultimamente ne ha avute di frequente - tranquillizzò Nerone. Lo trasportò fuori dalla stanza.

Le ore passavano e le convulsioni non accennavano a calmarsi, anzi peggioravano a vista d'occhio e in molti era sorto il dubbio di avvelenamento, tra cui Seneca e il prefetto Afranio Burro, che indicarono tale soluzione al giovane. Agrippina, per una volta all'oscuro di tutto, fu la prima ad insospettirsi, lanciò un'occhiata al figlio che restava impassibile di fronte al fratellastro. 

Quella reazione così composta da parte di Nerone la lasciò sconcertata e finalmente capì: tutto ciò è stato organizzato da lui, con l'aiuto di qualche esperto di erbe, senza guide e consigli. Solo allora comprese, in parte, il potenziale dell'imperatore, tenuto volutamente a freno. E tremò.

Poco dopo Britannico morì, a soli 14 anni, illuso fino all'ultimo dall'enigmatico fratello, fu sepolto quella notte, bruciato e sotterrato velocemente, quasi come se volessero disfarsi del cadavere, a Campo di Marte; in quel momento un violento temporale si abbatté sulla città, alcuni storici riportareranno, in seguito, che quella sarebbe stata la furia degli dei scagliatasi su quella città maledetta.

"Ed ora nessuno potrà più utilizzarlo come strumento per ricattarmi... per i primi anni accetterò di avere la reggenza di mia madre, di Seneca e del prefetto Burro, in modo da sapere la realtà di ogni angolo dell'Impero, fino ad un certo punto, dopo dovranno lasciarmi da solo" 

All'età di 17 anni Nerone eliminò l'ultimo ostacolo sul suo cammino verso il potere e divenne il più giovane imperatore della dinastia Giulio Claudia. Ogni vita era in suo pugno, lo avrebbe ben compreso Agrippina stessa provandolo sulla sua pelle qualche anno dopo...

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Capitolo 22
*** Capitolo 21 - Multa petentibus desunt multa - ***


"Hic ultra vires habitus nitor, hic aliquid plus quam satis est interdum aliena sumitur arca. 
Commune id vitium est: hic vivimus ambitiosa paupertate omnes. Quid te moror? Omnia Romae 
cum pretio. Quid dasut Cossum aliquando salutes
ut te respiciat clauso Veiiento labello?"
Giovenale, Satire, IIIvv 180-185

12 febbraio

Giulia Agrippina rimase di sasso quando rivide l'avvelenatrice Locusta nelle stanze di Nerone; ricostruì nella sua mente tutto ciò che il figlio aveva congeniato e fu sconvolta, basita, dalla freddezza del figlio.

Da una parte era fiera, in quanto finalmente stava mostrando l'atteggiamento di un vero imperatore, dall'altra però aveva paura: come avrebbe potuto gestirlo senza la minaccia di Britannico? Dove sarebbe arrivato ora? Certo, aveva elaborato un piano perfetto, ma non poteva averlo eseguito da solo, qualcuno l'aveva consigliato...probabilmente Seneca e Burro...

"Non può aver raggiunto un grado così elevato di intelligenza e argurzia in poco tempo...fino a qualche tempo fa non sapeva nemmeno come discutere in pubblico..."

- Buongiorno Augusta - la interruppe Locusta inchinandosi.

- B-buongiorno Locusta - rispose spaesata la madre, ancora incredula della situazione creatasi - Hai svolto un ottimo lavoro

- Ho solo eseguito gli ordini di vostro figlio, maestà - confessò Locusta umilmente - Mostra davvero una grande capacità di organizzazione e ambizione - disse cercando di stare al gioco, se avesse rivelato i veri istinti di Nerone non sarebbe sopravvissuta a lungo.

- Ha avuto una buona insegnante - rise Agrippina aggiustandosi l'acconciatura - Oltre ad aver compreso finalmente come ci si comporta...

"Possibile che non riesca ad inquadrare suo figlio? A me è bastata un'occhiata per percepire il suo disagio, la sua inquietudine, forse questa donna non ha mai avuto un istinto materno"

- Madre! - esclamò Nerone arrivando nella stanza accompagnato da Seneca e il prefetto del pretorio Afranio Burro, serio e impassibile.

- Nerone, mi hai stupita, non pensavo fossi in grado di... - iniziò ad adularlo, però fu frenata dal figlio.

- Madre, ora sono io l'imperatore, come avete sempre sognato, e dovete chiamarmi e trattarmi con il rispetto che merito... - fece intendere il ragazzo malizioso. Da quel momento avrebbe dovuto parlargli con reverenza e dignità, adesso che finalmente aveva raggiunto l'apice.

- Scu...scusate altezza imperiale... - si corresse la madre aggiungendo un inchino.

- Ecco, così va molto meglio, Augusta - ghignò sarcasticamente, poi spostò lo sguardo verso Locusta e mutò espressione, divenendo più sincera. Si avvicinò a lei, l'avvelenatrice stava per inchinarsi ma Nerone la bloccò, delicatamente.

- Voi invece non avete bisogno di mostrarmi reverenza, Locusta - le rivelò alzandole il viso lentamente - È merito vostro se sono arrivato qui, sono io a ringraziarvi e perciò vi mostrerò la mia gratitudine

Locusta colpita dal diverso comportamento del giovane imperatore, stava per ribadire, ma fu zittita e la presentò al maestro e al prefetto. Il primo fu molto gentile e disponibile con lei, mentre il secondo, la fissò velocemente ed emise un semplice grazie, aumentando i sospetti in Agrippina riguardo il loro coinvolgimento nella faccenda.

Nerone si fece improvvisamente serio, la guardò con fermezza, e si rivolse ai presenti minacciosamente - Da oggi in poi Locusta è sotto la mia custodia, chiunque di voi si azzarderà a torcerle un solo capello o a minacciarla anche solo velatamente, subirà la mia ira, e non credo che sarà molto piacevole per alcuni di voi

Dopo aver detto ciò mostrò nuovamente i lineamenti sereni e dolci - Venite con me Locusta, vi mostro la vostra nuova dimora - aggiunse mettendole una mano dietro la schiena delicata. 

La donna si sentì imbarazzata e sussurrò, credendo di non essere udita - Non dovete, io non mi merito nulla

- Invece voi lo meritate più di qualsiasi altro, Locusta - le rispose mentre una luce brillava nei suoi occhi azzurri - Perché siete pura

- Pura? - ripetè silenziosamente, sconvolta da tale affermazione; come poteva sentirsi limpida e pulita dopo ciò che aveva fatto? Dopo essere stata coinvolta nel potere, aver ucciso  l'ex imperatore e suo figlio? Sentiva di essere sporca nel profondo: gli ideali del suo Aulus irrimediabilmente compromessi...

Seguiva l'imperatore ammutolita,  spaventata dal baratro in cui era stata trascinata e dalla quale non sarebbe mai più emersa.

Proseguirono per non molto e giunsero in una splendida villa sul Palatino, non molto distante dal palazzo del potere, si respirava l'aria imperiale che trasudava da ogni pezzo di marmo.

Rimase folgorata nel vedere quanto lusso e buon gusto fosse racchiuso in quel piccolo gioiello di architettura; a Gaudenzio avrebbe senz'altro suscitato interesse, cominciava a mancargli la sua presenza sbarazzina e al tempo stesso riflessiva.

- Ecco qui, questa sarà la vostra nuova casa! - esordì Nerone orgoglioso, interrompendo il flusso di pensieri di Locusta.

- È tutta per me? - chiese incredula osservando il soffitto e le pareti dipinte con cura e perizia.

- Certamente, ogni angolo appartiene a voi, potrete fare ciò che volete - confermò convinto, poi si ricordò di un piccolo dettaglio - Anzi ho voluto creare, nell'ampia sala adiacente il giardino, una scuola per insegnare il vostro mestiere

- Cosa? Ma...

- Non potete ricevere tutte le richieste da sola, con tutti i cittadini che hanno bisogno di sbarazzarsi degli incomodi...oppure di una semplice cura contro i malanni...avete bisogno di vostri seguaci che vi aiutino

- Vi ringrazio, ma è troppo per me, non lo merito

- Perché dite questo? Non apprezzate i miei doni, forse? - riferì leggermente deluso Nerone, tentando di tenere a freno l'impeto delle sue emozioni: aveva promesso a sè stesso che non l'avrebbe più impaurita come era accaduto in quel momento di furia.

- Ma no, cosa andate a pensare mio imperatore, siete fin troppo buono e generoso con me, sono io ad esserne indegna, non sono altro che una liberta, un'insulsa Galla giunta qui come schiava - confessò Locusta, certa del fatto che l'avrebbe disprezzata e cacciata immediatamente da lì.

- Come mi avete chiamato? - domandò, fremendo, inarcò le sopracciglia.

Locusta si spaventò, conosceva bene la furia di quel ragazzo, non avrebbe mai dimenticato quello sguardo... - Vi ho offeso?

- Ripetetemelo vi prego - le ordinò stringendole le mani, delicate e affusolate; la donna balenante, lo fissò,  lesse nel suo sguardo un enorme desiderio di amore, affetto e considerazione quasi morbosi, nati dalla mancanza di essi.

- Mio...mio imperatore... - soffuse Locusta incerta.

A quel punto Nerone le accarezzò le mani e disse - Chiamatemi così, mi fare sentire meglio

- Come desiderate mio imperatore - arrossì l'avvelenatrice, sempre più sorpresa da quel giovane uomo così insolito; il suo cuore aveva bisogno di consolazione e presenza, nei suoi occhi vi era una profonda malinconia e tristezza.

Arrivarono alcune donne, chiamate in precedenza dall'imperatore, si prostarono con garbo ai suoi piedi: l'abbigliamento era simile al suo, umile e dimesso; erano, perciò, delle liberte.

- Siete arrivate tempestivamente, care - emise Nerone quasi come fosse un sospiro  - Dovete rendere questa donna la più bella dell'impero, l'oggetto del desiderio di ogni uomo, compreso me, esaltare la sua originaria purezza - incaricò il ragazzo con orgoglio.

- Come volete maestà - risposero le donne danzando con grazia e facendo svolazzare alcuni veli attorno a Nerone, di risposta dedicò loro, cantando soavemente, alcuni versi di Ovidio e Catullo. Era un ragazzo molto apprezzato e amabile da molte donne e ragazze dell'Impero.

Locusta osservava quel "siparietto" colta da un senso di inferiorità: si sentiva così inutile in quel frangente, non era in grado nemmeno di scrivere in maniera decente in latino, mentre quel posto grondava di cultura. Lei si trovava lì solo per pura fortuna...

Gli applausi sinceri della donna li riportò alla realtà, si pentì di averlo fatto: l'atmosfera da sogno era svanita in un lampo - Scusate, non volevo interrompervi

- Siete voi a dovermi scusare, e solo che ballare e cantare mi fanno sentire a mio agio, sereno, leggero, privo di qualsiasi pensiero, hanno il potere di farmi perdere il senso della realtà - emise inquieto, mesto, tornando a mostrare un autocontrollo forzato.

"Questo non è il vostro mondo, maestà, vi sentite in gabbia, intrappolato nelle grinfie di vostra madre e del Fato il quale  ha scelto di farvi nascere in questa famiglia, chiunque vorrebbe essere al vostro posto, invece voi bramate di stare e fare tutt'altro..."

Lo vedeva parlare con le liberte e in cuor suo nasceva il senso di compassione nei suoi confronti, soprattutto dopo aver notato che c'era qualcosa che lo agitava, non era tanto il 'divieto' di esercitare la propria arte, quanto qualche cosa di più profondo, viscerale che non gli dava pace.

- Allora Locusta siete pronta per entrare a far parte ufficialmente nella mia 'famiglia'? - le domandò sorridente: per lui era come il più prezioso dei tesori, la più delicata delle canzoni d'amore, il più incantevole dei poemi, la più affascinante delle epopee...e l'avrebbe protetta con qualsiasi mezzo. Non avrebbe commesso quel tremendo errore, non con lei. 

- Si, sono pronta, mio imperatore - rispose sinceramente, ormai conscia del suo ruolo, aveva compreso che l'imperatore le voleva un grande bene e non l'avrebbe deluso. Il suo desiderio era di vederlo più felice e spensierato in sua presenza.

Le altre liberte la condussero in una stanza e procedettero nell'acconciarla, vestirla e truccarla come una vera matrona romana: era un membro della famiglia imperiale a tutti gli effetti.

- Siete splendida..Venere proverebbe invidia... - confessò Nerone estasiato nel  contemplarla; era inebriato del suo fascino così composto e dignitoso, la fonte della sua purezza.

I capelli rossi e lunghi erano raccolti in un'acconciatura elaborata ed elegante, ottenuta con l'applicazione di alcuni nastri, la quale metteva in risalto il viso ovale, liscio e chiarissimo, i lineamenti delicati e giovanili, nonostante l'età matura della donna.

Il fisico curvilineo fu avvolto dalla stola bianca, lunga fino ai calzari, stretta in vita dal cingulum, sopra le spalle vi era la palla di color zafferano, cingeva il corpo attraverso varie pieghe. Ed era specialmente quest'ultimo indumento a rendere importante la sua figura di donna: le tornarono in mente tutte le volte in cui le aveva sistemate a Tiberia, quando era al suo servizio...sembrava essere passata una vita da allora.

Come tocco finale venne arrotolato sempre sui fianchi, in modo da renderli attraenti, il babilonicum, uno scialle di seta liscia dai colori sgargianti, sostenuto da una spilla d'oro.

Sembrava splendere più di divinità: una voglia immane di stringerla a sé, di possederla, dominarla invase totalmente Nerone, tuttavia riuscì a restare calmo, in quanto si ricordò che Locusta era quasi coetanea di sua madre, mentre lui era certamente l'imperatore, ma altresì un aitante ragazzo, destinato ad altre giovincelle, alcune comuni altre superbe, non di certo ad una donna irraggiungibile.

- Suvvia non esagerate, non sono più una ragazzina...

- Siete una dea per l'appunto, emanate  persino l'inebriante profumo di eternità - ammise, le allungò la mano, che lei strinse e fu condotta, quasi volando, nelle stanze private del princeps, all'interno del palazzo imperiale.

- Perché non mi parlate un po' della vostra terra d'origine? Avete detto di provenire dalla Gallia - la incoraggiò Nerone dopo essersi accomodati su splendidi e morbidissimi triclini.

Il volto di Locusta sbiancò bruscamente, il solo ricordo della sua amata ed odiata Gallia la faceva sussultare: ricordare il caro Caelan, tutto ciò che le aveva insegnato e successivamente la sofferenza provata nel momento in cui aveva perso la libertà, le fece salire l'odio per la sua famiglia e per Roma. 

L'imperatore notò la perplessità stampata sul suo volto, reso scuro da una rabbia inconscia "Anche lei è stata indurita, pietrificata dal dolore" pensò - Meglio cambiare argomento, ho ridestato in voi dei sentimenti...

- No, sono io ad essere una stupida continuando a ricordare avvenimenti nella realtà distorti e confusi - lo fermò ridendo Locusta con l'intenzione di giustificarsi.

Vide il volto di Nerone contratto e teso e temette di dover assistere all'ennesima sua sfuriata rivolta verso di lei, invece, dimostrò un autocontrollo che la lasciò di stucco - È il passato a renderci quello che siamo, per quanto le cicatrici abbiano sostituito le ferite, il macigno rimane sempre lì, sul cuore, pronto a ricordarci della presente e futura agonia

Dopo aver udito quell'affermazione la donna abbassò la testa - Io non ricordo nulla della mia precedente vita in Gallia, maestà, l'umiliazione della schiavitù ha cancellato dalla mia mente ogni traccia, la mia esistenza è realmente iniziata qui, a Roma - mentì provando a sollevargli il morale.

Nel momento in cui rialzò la testa scoprì che Nerone la fissava terrorizzato: sudato, pallido, con il respiro affannato, gli occhi spalancati e le pupille ristrette, i demoni del passato non smettevano di assillarlo, tutte le notti, con le sembianze di Domizia e di Britannico lo tormentavano, reclamando la sua anima, ardendo di vendetta. Lo avevano privato del sonno, reso un inquieto insonne.

- Mio...imperatore...che...che avete? - si precipitò verso di lui per accertarsi della sua salute.

Nerone, improvvisamente stanco, le strinse dolorosamente la mano, gelida e bagnata, la posò sul petto e a tono di supplica le disse - Se...se conoscete un rimedio contro l'insonnia...ditemelo, ve ne prego...ve ne prego...non riesco più...a...chiudere occhio...vi scongiuro...angosciano il mio...spirito...

- Certo che lo conosco, mio imperatore, ditemi solo quando prepararvela e ve la farò trovare nella vostra stanza

- Grazie...sapevo che potevo contare su di voi - emise Nerone, mollando la presa,  tornando a mostrare la sua vitalità - Vi suonerò l'ultima mia composizione, attendete solo un poco - balzò alla fine in preda ad una folle gioia. Corse ad afferrare la sua inseparabile cetra: la musica, il suo unico rimedio per non sprofondare nell'angoscia.

Il cuore le era balzato fino alla gola, non riusciva a frenare la commozione provocate da quelle note, così struggenti, malinconiche e tristi; Locusta cercava in tutti i modi di trattenere le lacrime, non riuscendoci, quella melodia era talmente pregna di amarezza da rattristare persino il cielo; delle nubi attraversarono quel pallido sole di febbraio, portando l'ombra sul mondo sottostante.

Quei suoni poi non erano per nulla simili a quelli uditi in alcuni spettacoli a cui partecipò insieme alla sua precedente famiglia...parevano riprendere le melodie, i ritmi freddi e alberati della sua Gallia.

Come poteva conoscerle così bene? Non si era mai mosso dalla penisola, era tentata nel chiederglielo, solo che non avrebbe voluto far notare il suo stato d'animo, l'avrebbe rattristato ulteriormente.

- Immagino che ricorderete un po' del vostro passato in Gallia attraverso questa melodia o no?! - soffuse delicatamente continuando a suonare sempre più intensamente, era un tutt'uno con la cetra.

Locusta si mise a fissarlo impaurita: aveva creduto davvero a quella scusa affermata precedentemente, un ragazzo così bravo nel captare le sue sensazione... Oppure era un trattamento riservato solo ed esclusivamente a lei per ricongiungere le sue radici con il presente. 

"È il passato a renderci quello che siamo..." si ricordò Locusta: era proprio vero, il sangue non si può mutare, le tracce del vissuto non si possono eliminare, solo accantonare, mettere da parte, ma restano indelebili, pronte a ricordarci chi siamo e da dove veniamo...

- Me la ispirò Afranio Burro, anche lui proviene dalla Gallia, Narbonense per la precisione, ed ogni volta che torna stanco dagli accampamenti gliela suono...lo apprezza molto...lo fa sentire a casa...

- Anch'io sono originaria della Gallia Narbonense...è incredibile...

- Non c'è nulla di incredibile, Locusta: questa è Roma, la Capitale del Mondo, ogni cosa eccezionale, unica, qui viene appianata, resa comune - allungò il braccio rivolgendolo verso la finestra dalla quale emergeva parte di quella caotica, frenetica e soffocante città.

- Mi manca tanto la mia Anzio, la città in cui sono nato... lì che sono custoditi gran parte dei ricordi della mia infanzia... - le confessò Nerone sospirando - Un giorno vi ci porterò Locusta e vi mostrerò ogni cosa: la mia villa, il mio cielo, il mio mare - aveva un'espressione trasognante, ‎priva delle paure svelate poco prima.

- Non ho mai visto il mare...me lo hanno descritto parecchie volte, eppure non...

- Quando vedrai quello di Anzio lo immaginerai sempre così...

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Capitolo 23
*** Capitolo 22 - Captatio benevolentae - ***


"Ludunt formosae; casta est quam nemo rogavit 
aut, si rusticitas non vetatipsa rogat
has quoquequae frontis rugas in vertice portant,  
excute; de rugis crimina multa cadent"
Ovidio, Amores, I, 8, vv. 43-46

29 maggio

Locusta tornò momentaneamente nella sua ex taverna, non solo per darle l'ultimo e definitivo saluto ma soprattutto per esortare Canius a venire con lui. 
 

- Mio imperatore...c'è una cosa che vorrei chiedervi - disse Locusta, inchinandosi al cospetto di Nerone il quale era sempre disponibile e gentile con lei.

- ‎Ditemi pure, Locusta cara, avanti ditemi ciò che vi preme - esortò il giovane splendendo di ellenica ed imperiale eleganza. Quel trono dorato sembrava essere stato realizzato appositamente per lui, per mostrare al mondo intero il suo vigore, la sua prestanza, la sua gioventù.

- Ecco...vorrei condurre nella mia dimora e al vostro cospetto un mio carissimo amico, lavorava con me nella taverna e...

- Certamente - la interruppe - I vostri amici sono miei amici, così come i vostri nemici sono miei nemici... - con un cenno ordinò ai due pretoriani incaricati di farle da guardia - Voi due accompagnate la mia protetta...

- Non ce n'è bisogno, mio imperatore, posso andare anche da sola, vi ringrazio immensamente per la cordialità che mi dimostrate

A quel punto si accorse di un lieve rossorre sulle guance lentigginose di  Nerone, probabilmente attendeva da troppo un simile complimento.
 

"Canius potrai finalmente vivere una vita dignitosa con me..." pensò allegra - Canius...Canius...dove sei? - chiese poi dopo essere entrata, non avendo visto né clienti né l'amico.

- Locusta - esordì Canius dietro di lui, non lo aveva sentito arrivare - Locusta...sei davvero tu? - domandò incredulo mentre avvicinava la sua mano sul viso della donna. Era così bella vestita in quel mondo.

- Si Canius, sono io, seppur con nuovi abiti, ma sono rimasta la Locusta di sempre nell'animo

- Come mai sei venuta qui? - chiese nuovamente Canius serio. 

- Ecco, vorrei che venissi vivere insieme a me, sul Palatino, presentarti all'imperatore e...

- No Locusta, no - la bloccò lui con la mano sulle labbra delicate - Non posso, non posso...

Locusta lo guardava stranita, non riusciva a comprendere il suo atteggiamento: da quando erano morti sia Aulus che Tiberia, era mutato completamente, mostrandosi più cupo, silenzioso, più riflessivo del solito, sempre teso, come se volesse nascondere qualcosa...

- Quello è il tuo mondo ormai, Locusta - le riferì quasi nervoso, tale situazione sembrava infastidirlo nel profondo - Perché lo vuoi portare anche qui?

- Canius ma cosa stai dicendo? Perché fai così?

- Io e te siamo due cose distinte...non possiamo contagiarci a vicenda, mi spiace...

- Contagiarsi...ma...

- Locusta...ti prego...non fare domande come al tuo solito...la tua curiosità molte volte ti ha spinto in...situazioni più grandi di te... - la rimproverò quasi piangendo, appoggiò la testa al muro per nascondere le lacrime - Sappi solo che...che tu sei stata più di un'amica per me...eri diventata quasi una sorella...sembrava che nulla potesse dividerci...che saremmo rimasti uniti fino alla fine...e invece il potere ti ha strappata da questo mondo...per portarti in un altro... - proseguiva nel discorso tra un sussulto e un altro.

- Sei geloso dell'imperatore! - esclamò Locusta sorpresa.

- Sono geloso di te - puntualizzò Canius, si voltò verso di lei, sconvolto e terribilmente triste, non lo aveva mai visto così -  Non voglio che quell'essere ti faccia del male...che ti tocchi con quelle sudice mani, pregne di sangue e corruzione...

- Nerone non è come credi...Canius - sbottò furente - È vero mi ha chiesto di uccidere il fratellastro, però...però...

- Però cosa? - ansimava avvicinandosi a Locusta, sarebbe stata l'ultima volta in cui  l'avrebbe rivista e voleva metterla in guardia da quelli, che nella sua mente, erano dipinti come mostri privi di scrupoli e moralità, capaci solo di pensare ai propri futili interessi e di organizzare congiure. 

- Lui è diverso dal resto della corte, per questo ho deciso di restare sotto la sua custodia, a Nerone non interessano il potere e la gloria - confessò Locusta tentando in tutti i modi di fargli capire che si stava sbagliando.

- Allora se non voleva perché si trova lì? Sul trono? Avrebbe potuto ribellarsi a sua madre, esiliarla, oppure ucciderla seguendo la loro mentalità, in modo da essere libero

Locusta intuì che queste affermazioni erano strane, anomale, soprattutto per il fatto che il basso popolo adorava Nerone, lo considerava uno di loro, in quanto, a differenza dei suoi predecessori, non si era mai rifiutato di conoscere la vera Roma, quella che si cela dietro l'illusioria ricchezza con la quale la capitale continuava a rivelarsi al mondo.

"Non possono essere sue parole queste? Non ha mai ragionato così, è sempre stato libero dai pregiudizi, chi stava frequentando? Chi lo stava spingendo a dire certe cose?"

- Si trova lì per accontentare la madre...

- Allora è uno stupido codardo!

- Basta! Dimmi chi ti spinge a dire queste cose?

- Le penso da me...non mi convince...nè lui, né la sua famiglia... quella dinastia sta portando soltanto disgrazie da quando è venuta fuori - ammise Canius furibondo - Anche lui condurrà al macello migliaia di vite esattamente come gli altri, solo per salvaguardare la propria immagine, per mostrarsi feroce e spietato nei confronti dei nemici e potente agli occhi del popolo ed essere adulato

- Nerone odia la guerra e il sangue - sentenziò lapidaria - Per lui questi barbarismi non dovrebbero nemmeno esistere, non elevano l'uomo, lo rendono al pari di una bestia - effuse dolcemente, approvando in pieno questo pensiero così rivoluzionario, quasi simile al messaggio cristiano più volte ripreso da Gaudenzio.

- Dici sul serio?

Locusta iniziò a ripetere alcune parole confidate dell'imperatore, stupita dalla sua immensa cultura: era un ragazzo che conosceva a fondo la realtà del suo tempo; la sua mentalità pacifica e profondamente filosofica, che denotava una spiccata sensibilità, la colpì molto.

Canius era rimasto a bocca aperta dopo aver udito ciò: era davvero un imperatore originale, un po' bizzarro, ma assolutamente unico, non pensava che potesse esistere una persona del genere a palazzo. Mai prima di allora aveva sentito tali discorsi nella bocca di un imperatore romano.

In quell'istante si pentì di tutte le nefandezze che aveva immaginato e le calunnie elaborate nel suo cuore ai danni del Princeps; Locusta comprese ciò: aveva vissuto sempre nell'ottica dello schiavo, del servo ubbidiente, pronto a subire qualsiasi punizione, fisica e morale, e quando era diventato liberto non era riuscito ad adattarsi a questa nuova condizione, elaborando, perciò, dei pensieri distorti dal vero. 

Lo strinse teneramente a sè, gli permise di lasciar sfogo al lungo e lamentoso pianto che tenne a freno per moltissimi anni. "Ogni persona a questo mondo è perennemente triste" pensò malinconica.

- Allora che fai? Vieni assieme a me? - gli propose nuovamente Locusta accarezzandogli la sua dura schiena costellata di cicatrici.

- Dopo tutto ciò che ho detto, non avrei nemmeno il coraggio di guardarlo in faccia... - si vergognò Canius.

- Non lo saprà mai, Canius, puoi stare tranquillo

- Lo so che non saresti tu a farmi da spia, al massimo potrei tradirmi da solo e far rischiare la vita ad entrambi...no, non riuscirei a vivere con un altro macigno...

- Nemmeno una presentazione veloce all'imperatore? Gli ho accennato di te e sicuramente vorrà conoscerti, conoscendo il suo carattere volubile e leggermente instabile

A quel punto Canius non poté tirarsi indietro, Locusta era nelle mani dell'imperatore, ed anche se quest'ultimo era dissimile dagli altri, restava comunque l'uomo più potente del mondo e disubbidirgli sarebbe stato un affronto; non poteva mettere in pericolo la vita della sua amica - Va bene lo farò, ma che sia breve, non mi dirà nulla se mi presento così?

- Non ti preoccupare non è quel tipo di nobile, ed ora andiamo 
 

- Ecco che finalmente mi presentate un vostro amico Locusta - esordì sorridente Nerone; negli ultimi mesi era sempre di ottimo umore: le tisane somministrategli per sconfiggere l'insonnia stavano facendo effetto, migliorando non solo il sonno ma anche la stabilità emotiva dell'imperatore.

- Ca...Canius, ma...maestà - si presentò timoroso, esibendo un veloce inchino.

- Avvicinatevi un po' di più affinché possa vedere meglio entrambi, purtroppo, fin dall'infanzia, ho un piccolo problema di vista che non mi permette di distinguere nitidamente le figure da una certa distanza in poi - confessò Nerone afferrando il suo inseparabile smeraldo lavorato "Quanto è monotono vedere ogni cosa di verde, il mondo è così ricco di colori... sarebbe stato meglio una pietra trasparente, il diamante, però, non ha la stessa efficacia..."

Canius fece come ordinatogli, mosso da una grande paura: di solito gli uomini potenti che gli dissero una cosa del genere lo fecero o per bastonarlo o per affidargli degli incarici pericolosi.

"È piuttosto teso...non è abituato a mostrarsi in pubblico..." notò Nerone massaggiandosi il mento barbuto, interessato. 

- Non ha quasi mai incontrato gente facoltosa, perdonate la sua goffaggine - lo giustificò Locusta.

- Capisco...capisco perfettamente, gente come te è abituata a lavorare sodo - appoggiò la testa sul braccio sinistro e sospirò - Invidio la semplicità della bassa plebe, vivono con poco, eppure hanno sempre da insegnare, la maggior parte della gentaglia di corte dovrebbe prendere esempio da quest'uomo, umile, semplice ma colmo di dignità e purezza, proprio come Locusta... - Emise un altro lungo sospiro.

Canius sbatté le palpebre per un paio di volte, non riuscendo ad inquadrare perfettamente quello strano ragazzo: non capì se stesse recitando, sapendo del suo spasmodico amore per l'arte, oppure se stesse facendo sul serio.

Lanciò un'occhiata a Locusta per farsi aiutare dall'amica, lei lo intercettò e con il labiale lo rassicurò, dicendogli che non doveva temere nulla al suo fianco.

- Sei il suo fidanzato immagino... - azzardò l'imperatore intravedendo la forte intesa instaurata tra i due.

Canius arrossì violentemente, allungò le mani verso Nerone muovendole da destra a sinistra e viceversa, imbarazzato - No...no...maestà...avete frainteso...siamo soltanto amici...

- Non credevo potesse esistere amicizia tra un uomo e una donna, io credevo che ci fosse solo l'amore tra due esseri umani di sesso opposto, di tipo carnale, passionale oppure platonico e quindi astratto - proruppe Nerone colpito dalla sua affermazione.

- Volevo intendere un...un... rapporto quasi...quasi... fraterno - si corresse velocemente.

Il volto di Nerone si fece tetro: quella parola, 'fraterno' era così familiare alle sue orecchie, ma così estraneo al suo cuore "Persino loro due, i quali non avevano nulla in comune, se non la triste condizione servile, sono riusciti ad instaurare un meraviglioso rapporto di fratellanza, temo proprio che il mio cuore non sia più fatto per amare..." si mise una mano sul petto per individuarne il battito.

Locusta tossicchiò, percepì la cupa atmosfera che si creò improvvisamente;  non voleva rattristare l'imperatore, la faceva star male vederlo così malinconico, in preda alle sue emozioni più bestiali e terribili.

Diede uno spintone a Canius che si girò per guardarla - Allunga il brodo per distrarlo da questi pensieri

- Ehm...altezza...stavo per dirvi che...

Nerone si ridestò e nei suoi occhi tornò a brillare la luce della curiosità e della vivacità. Sorrise ad entrambi.

- Che...che Locusta ha già un uomo alla quale è legata, sentimentalmente...

- Davvero? - sobbalzò l'imperatore, per poco non perse l'equilibrio - Non me lo avete mai detto...chi è? Ditemelo voi Locusta, mi avete incuriosito... - pregò il giovane, quasi fosse un bambino che scalciava.

- Ecco - cominciò massaggiandosi il collo sudato - Il mio fidanzato è un promettente architetto che lavora presso un uomo molto importante di nome Ve... Ve... Ah si...Vespasiano...

- Gaudenzio! - gridò Nerone dandosi uno schiaffo in testa - Chi l'avrebbe mai detto che fosse lui, perché non me lo ha mai detto!

- Ma come...

- È una lunga storia, Locusta, siamo grandi amici, prima di diventare imperatore ci consultavamo molto, anche se è da un po' di tempo che non ci vediamo - decise di convocarlo immediatamente: aveva in mente qualcosa di grande per loro due. 
 

- Locusta...Locusta adorata! - esclamava Gaudenzio correndo verso di lei, ad ogni passo che la separava da lei il suo cuore batteva sempre più velocemente, soprattutto quando si era accorto del suo aspetto da vera nobile di corte - Locusta...

- Gaudenzio...finalmente ci rivediamo! -  la donna si sciolse i capelli durante il breve tragitto e si lasciò travolgere dal suo abbraccio; quel calore generato dall'amore la invase totalmente. Si trovava davvero bene tra le sue braccia, non conosceva la paura della vita, né la sua durezza: si sentiva semplicemente amata.

- Perché ti sei sciolta i capelli? - accarezzò il suo viso liscio e chiarissimo - Stavi divinamente, sembravi quasi eterea

- Appunto per questo, tra le tue braccia non voglio essere né una dea, né una donna irraggiungibile, voglio essere solo la tua donna, la tua Locusta, che appartiene solo a te...

- Non dire questo, sai che per me resterai la mia Locusta, qualsiasi cosa tu faccia o indossi, mia e solo mia...

Locusta appoggiò la testa sul suo petto e ascoltò quella dichiarazione completamente tranquilla e rilassata.  Accanto a lui non contava il peso della sua nuova posizione, con Gaudenzio era semplicemente la sua donna e questo la rincuorava. 

- Gaudenzio carissimo! - gridò Nerone, giunto dal nulla, rompendo quell'atmosfera così intima e sensuale - Ops...mi sa che ho interrotto qualcosa - si disse muovendo gli occhi a destra e a sinistra e mangiandosi le unghie.

I due lo guardarono e scoppiarono a ridere di gusto: era l'uomo più potente del mondo, ogni vita dipendeva dal suo volere, eppure si mostrava sempre così spontaneo, a volte addirittura buffo, ed era proprio per questo che Locusta soprattutto gli voleva un gran bene, in fondo era ancora un adolescente.

- Mio imperatore - ricambiò Locusta sfoggiando un tenue sorriso - Voi non disturbate mai...

- Maestà! - s'intromise Gaudenzio, anch'egli sorridente - Siete in forma come sempre, nonostante sia passato tanto tempo...

- Anche voi Gaudenzio - ‎era così contento di rivederlo in salute e con una posizione lavorativa quasi stabile - Come vi trovate al fianco di Vespasiano?

- È una persona deliziosa, maestà, sempre pronta al dialogo e al confronto, permette a tutti di esprimere le proprie opinioni

- Mi fa piacere sentirvelo dire, amico mio - rise, li guardò, gli occhi chiari brillarono per pochissimi istanti, poi si schiarì la voce ed emise - Per farmi scusare della mia intrusione ho deciso di organizzare il vostro matrimonio!

- Cosa? Ma non dovete...

Nerone posò teatralmente il palmo aperto sul petto, il braccio sinistro appoggiato sui fianchi, ruotò il busto per tre quarti e pronunciò - Io sono il Pontefice Massimo, oltre ad essere imperatore, e in quanto tale ho il potere di far sposare chiunque desideri, ho il consenso degli dei - sbatté le ciglia più volte e riprese - Voi siete una meravigliosa coppia, fondata sul sentimento ed è quindi giusto che vi uniate per sempre come marito e moglie... penso che sia arrivata pure l'ora

Locusta si mise la mano sulla bocca e per poco non pianse, Gaudenzio non poté crederci e lasciando per un secondo la donna si avvicinò all'imperatore, prostandosi ai suoi piedi - È il dono più grande che potevate fare a me e a Locusta...

Nerone si chinò sulle ginocchia e lo aiutò a rialzarsi - Questo ed altro per i miei più cari amici, questo ed altro...

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Capitolo 24
*** Capitolo 23 - Soltanto una barbara, nient'altro che una donna - ***


"Iuppiter est genitor; per me, quod eritque fuitque
estquepatet; per me concordant carmina nervis
certa quidem nostra est, nostra tamen una sagitta 
certior, in vacuo quae vulnera pectore fecit!
inventum medicina meum est, opiferque per orbem 
dicor, et herbarum subiecta potentia nobis
ei mihiquod nullis amor est sanabilis herbis 
nec prosunt domino, quae prosunt omnibus, artes!"
Ovidio, Metamorfosi, I, vv 517-524

5 giugno

Gaudenzio era seduto sulla scalinata appena fuori il palazzo imperiale, osservava l'orizzonte lontano, il cielo era tagliato dalle imponenti abitazioni collocate anch'esse sul Palatino.

- A cosa pensi Gaudenzio? - le chiese Locusta avendo notato l'espressione pensierosa del futuro marito.

In un primo momento girò la testa per intercettare il suo sguardo, per poi girarsi nuovamente e dopo qualche attimo di silenzio le rispose

- Non riesco a credere che stiamo per unirci per sempre, specie dopo aver preso strade separate...- soffuse, lanciò un sassolino davanti a lui e lo vide rotolare giù, fino alla strada. Ma il tono della sua risposta non la convinse più di tanto.

- Non sei capace di mentire, lo sai benissimo - rise Locusta, poi si fece seria - Cos'hai?

- Ho paura che possa cambiare idea, se dovesse scoprire la mia fede...lui non è come Aulus, Canius o Tiberia...c’è di mezzo qualcosa che potrebbe esser più grande di noi... - confessò a testa bassa.

- Allora? Se pensi che Nerone possa perdere fiducia in te solo per via della religione vuol dire che non lo conosci...ha accettato persino una come me!

- Nella mia vita ho imparato a non fidarmi di nessuno...specialmente delle persone potenti...sono pronte a tutto pur di mantenere intatti i loro interessi e la loro reputazione...te lo raccontai - fece una pausa - Non voglio rivivere mai più una cosa del genere e tanto meno farci andare di mezzo te…

- Anch'io ne ero convinta, soprattutto quando mi trovai davanti Agrippina, al suo confronto una vipera era innocua, e quando Nerone mi fece liberare, per un momento credetti di vedere la sua copia al maschile, ma mi sbagliai, lui non è un carnefice, solo una vittima triste e sola, perciò dobbiamo fare in modo che soffra il meno possibile, che i demoni lo lascino in pace…
 

Locusta si ricordò di quando l'imperatore riferì la decisione di organizzare il nostro matrimonio, lui era così contento di compiere questa buona azione, per giorni e giorni si era messo a strimpellare una poesia per loro, saltellando per tutto il palazzo, colmo di felicità.

La madre, invece di approvare l'iniziativa, l'aveva bocciata categoricamente - Non possiamo perdere tempo per due servetti, Nerone, e soprattutto soldi

- Come osate chiamare i miei amici servetti? - sbottò alla madre; se c'era una persona in tutto l'impero, in grado di farlo innervosire, quella era proprio Agrippina.

- Perché voi li considerate nobili?

- Io sono l'imperatore, madre - ribadì il ragazzo, mostrando una calma incredibile  - Se ho deciso di organizzare il loro matrimonio, si farà, a prescindere dalla vostra opinione...

Da quando era entrata nelle grazie dell'imperatore, l'Augusta aveva cominciato ad odiarla, nel suo sguardo intravedeva dei lampi di fuoco non appena la incrociava; sicuramente stava escogitando qualcosa per liberarsi di Locusta. La sentiva come una minaccia, un ostacolo.
 

Gaudenzio si alzò continuando a guardare la capitale del mondo, Roma, ai suoi occhi sofferente e in declino, un grido soffocante percepito solo dal suo udito. 

Alzò gli occhi al cielo dicendo - Signore cosa devo fare? Ci hai insegnato ad avere fiducia nel prossimo...ma come posso di fronte a chi è corrotto dall’avidità e dal potere... io amo Locusta e non voglio che soffra...possa almeno questo matrimonio farmi capire che sbaglio e che possa aprire il mio cuore senza poi pentirmene

Era tormentato anche dalle parole di Vespasiano, che gli aveva confessato di non nutrire molta fiducia in Nerone, lo vedeva instabile, incapace di controllarsi, succube di sua madre, ma lo avrebbe continuato a servire in quanto suddito dell'imperatore. E poi gli accennò di Britannico, il suo più caro amico ucciso dalla mano traditrice del fratellastro.

"Tito Flavio, la paura porta ad agire in modo sconsiderato...segue l’istinto di sopravvivenza"

20 giugno

Il giorno della cerimonia era finalmente arrivato, Locusta era impaziente di unirsi per sempre al suo amato Gaudenzio, per troppo tempo aveva dovuto mettere a tacere il suo cuore, bramoso di amore puro e sincero, per obbedire ad un compito superiore.

Ma in quell’ultimo giorno di primavera, niente e nessuno le avrebbe impedito di essere felice, di godersi il suo giorno di gloria.

E mentre si faceva vestire dalle concubine dell’imperatore, silenziose, leggiadre e delicate come ninfe, ripensava a ciò che era accaduto qualche settimana prima…

2 giugno

Gaudenzio in quei giorni era più volenteroso e gioioso degli altri giorni, gli riferirono che a lavoro era sempre euforico, desideroso di dare il massimo, per la sua adorata Locusta doveva diventare il marito perfetto.

- Tito oggi è un giorno molto importante…- rovistò nella sua tasca e tirò fuori un meraviglioso anello rivestito in oro che mostrò al suo amico - Oggi è il giorno in cui sancirò il mio fidanzamento ufficiale con Locusta, prima di compiere il grande passo, non vedo l’ora di vederla…

- Ah ora capisco da dove proviene la tua vitalità! - esclamò ridendo Vespasiano, lo guardò con orgoglio dalla testa ai piedi: era un ragazzotto scapestrato quando lo aveva reclutato a sé, negli anni era diventato un uomo e molto presto sarebbe stato anche un ottimo marito

- Non deluderla, mi raccomando, anche se forte è pur sempre una donna e devi proteggerla anche a costo della tua vita, la battaglia dell’esistenza è senz'altro più dolorosa e difficile rispetto a quella che si combatte su un campo militare; una moglie è più preziosa di qualunque possedimento e onorificenza, non dimenticarlo, ragazzo mio - i suoi occhi brillavano di fierezza.

- Lo so…- il suo sguardo si perse nel vuoto fra i ricordi del passato - Sai mi sono innamorato di lei nel momento in cui ho capito che eravamo simili, ed ho scoperto la sua forza d’animo..ma anche la sua dolcezza e la sua delicatezza…

- Le donne sono creature così misteriose: basta una carezza per farle emozionare e piangere, ma poi dimostrano una forza che noi uomini possiamo solo lontanamente immaginare, sarà proprio per questo che le divinità hanno scelto proprio la donna per custodire la vita...
Dopodiché smise di parlare.
 

Finalmente arrivò la fine della giornata e Gaudenzio tornò in fretta e furia al Palatino, si mise a camminare per tutti i corridoi per trovare Locusta. Non appena attraversò uno dei cortili del palazzo, la vide passeggiare per i suoi corridoi, persa fra i suoi pensieri.

Sorrise felice e la chiamò - Locusta eccoti finalmente!

- Gaudenzio - si ridestò la donna, ricambiò il sorriso e gli si avvicinò; le mani dietro la schiena e ciò la incuriosì non poco - Amore, cos’hai lì dietro? È per me?

- Così mi togli il gusto della sorpresa - le rispose a pochi centimetri dal suo viso

- Sei troppo prevedibile amore - lo canzonò scoppiando a ridere. 
Lo amava anche per quello: non era pretenzioso e tenebroso, era limpido, gioviale e solare seppur qualche ombra riemergesse dal fondo dell’anima - Allora? Cosa fai lì impalato? Mi hai incuriosita

- Chiudi gli occhi allora...

Fidandosi di lui fece come gli ordinò.

Gaudenzio tirò fuori l’anello, prese la mano e glielo infilò nell’anulare, poi si avvicinò al suo orecchio

- Stasera voglio cominciare a sugellare per sempre il nostro amore…- concluse finendo di metterle l’anello.

Quando Locusta aprì gli occhi e vide quell'anello d’oro così lucente sul suo anulare, il dito collegato al cuore, fremente per la gioia gli si buttò addosso, baciandolo sulle sue labbra incredibilmente fini e delicate, in seguito si mise ad esplorare l'interno della sua bocca soave con la lingua.

Gaudenzio sentendo l’irrefrenabile desiderio della sua amata, non fu da meno, anzi la avvicinò ancora di più a sé; 
la foga di quel bacio fu così forte da far cascare al suolo entrambi, il dolore, però, non riuscì a smuovere i due che continuavano a baciarsi teneramente.

Nerone, in lontananza, vide tutta la scena, con il suo smeraldo levigato e fu pervaso da un vuoto immenso, oltre ad una profonda invidia per quei due. Possibile che lui non avrebbe mai conosciuto il vero amore? Lo stesso che teneva avvinghiati i suoi amici?

"Il Fato mi donerà, un giorno, una donna in grado di addolcire un po’ questo cuore ormai freddo? Ottavia non mi basta! Ho bisogno di una donna come Locusta al mio fianco, che mi faccia palpitare e sussultare... chissà se un giorno verrà…"
 

Le serve posarono sul capo velato di Locusta una corona intrecciata di mirto e fiori d’arancio, dopo averle tolto la reticella rossa indossata per tutta la notte, la quale custodì la pettinatura tipica delle Vestali: sei cercini posticci separati da fasce, i seni crines. Sopra di essa il velo color arancio fiammeggiante, flammeum le copriva parte del viso. Attorno al collo le misero una collana di metallo.

Le fecero indossare una leggera tunica recta, ovvero senza estremità, tenuta ferma alla vita dalla cingulum berculeum, una cintura di lana dal doppio nodo, una palla tonalità zafferano e i sandali del medesimo colore. Le muse avevano preparato degnamente la loro dea.

Giunsero al tempio; la futura moglie era aiutata nel suo cammino per congiungersi al marito, dalle serve di Nerone, seguite dai componenti della famiglia imperiale e amici di entrambi i futuri coniugi.

Locusta fremeva dall’emozione, ancora non riusciva a credere che quel giorno sarebbe arrivato, in cui avrebbe gioito come tutte le altre donne libere. Era finalmente una donna romana.

Il velo le impedì di vedere nitidamente la scena, riuscendo tuttavia ad intravedere alcune figure a lui familiari.

Avvolto dal silenzio era giunto l’aruspice, auspex, che avrebbe letto le interiora dell’animale da sacrificare, in questo caso un giovane vitello, nelle quali vi era scritto il consenso degli dei, sperando fosse favorevole.

Vedendo sorridere il taciturno auspex i due giovani capirono che il destino era a loro favorevole, il celebrante si avvicinò e prese le mani di entrambi mettendole una sopra all’altra pronunciando la preghiera di favore degli dei.
 

- Ubi tu gaius, ego Gaia! Dove tu, oh Gaio sei, lì io, Gaia, sarò - sentenziò Locusta radiosa, dichiarando conclusa la cerimonia.

Gaudenzio si sentì come liberato. Ora sarebbero stati legati per sempre, si avvicinò alla sua sposa e la baciò facendo trasparire quello che aveva dentro, fra le urla degli invitati che gridavano 
- Feliciter! Che la felicità sia con voi, giovani sposi!

Iniziò così il banchetto, ricco e pieno di prelibatezze alcune preparate accuratamente dall’imperatore stesso che sedeva accanto agli sposi, lucente come il sole del mezzogiorno.

- Non sapevo foste perfino un eccellente cuoco, mio imperatore - si complimentò Locusta, dopo essersi gustata il suo succulento fagiano aromatizzato con rosmarino ed alloro. Un piatto semplice, eppure sostanzioso e gustoso.

- Si davvero era squisito, ne ho mangiato con piacere - replicò Gaudenzio, mentre si puliva la bocca.

- Il nostro imperatore è sempre una gradita sorpresa persino per il suo fidato maestro - emise stupito il vecchio Seneca, gustandosi dell’ottimo vino ottenuto dai vigneti imperiali.

- Basta, troppi complimenti mi fanno arrossire - scoppiò a ridere Nerone, evidentemente emozionato, al tempo stesso contento di essere così apprezzato in quel giorno di festa.

Agrippina restò in silenzio, invece, nè un complimento, nè tantomeno una critica uscì dalla sua bocca, anzi la riempì con tutte quelle leccornie in maniera composta. Quella non fu la sua giornata e seppur non proprio soddisfatta accettò la situazione, augurandosi che finisse il prima possibile.

- Mio imperatore, vi prego, suonateci una delle vostre ultime creazioni, in questi giorni non avete fatto altro che pensare a noi e ciò rallegra il mio cuore, vi chiedo questo come ultima richiesta, come ringraziamento per tutto il vostro sincero affetto...

Nerone esplose di felicità di fronte a quella richiesta, guardò con gioia Locusta. Dopo averla fissata a lungo, quasi come commosso da quella richiesta, si alzò in piedi e prese la cetra, cominciando a cantare mentre le sue dita pizzicavano le corde.

Quella donna riusciva a capirlo e renderlo sempre felice, in cuor suo la ringraziò della sua presenza che alleggerì il suo spirito.

Fra le esibizioni dell’imperatore, la degustazione di altri cibi e le chiacchiere degli invitati il tempo scorreva velocemente, il cielo cominciava a tingersi di varie sfumature dall'azzurro al rosso e la domus del Palatino si stava svuotando pian piano.

Gaudenzio si diresse verso la sua sposa mettendole una mano sulla spalla e le chiese - Non è ora di consumare insieme la nostra prima notte di nozze?

- Saziamo pure il nostro cuore dopo aver pensato allo stomaco - le rispose maliziosa.

I novelli sposi fecero capire agli invitati rimasti, tramite il rito dello scioglimento dei nodi alla cintura, che era giunto il tanto atteso momento di consumare le nozze.

Gli invitati e l’imperatore si congedarono, mentre i coniugi si ritiravano nelle loro stanze. Gaudenzio la prese in braccio ed entrarono nella camera da letto predisposta per loro: arredata con mobili di pregio, vicino la finestra era posizionato un letto a due piazze, le cui lenzuola lasciavano trasparire la sua morbidezza.

La mise giù e cominciò a baciarla con foga, esplorando il suo corpo, la sua pelle liscia e profumata - Sapessi da quanto attendevo questo momento - le disse fra un bacio e l’altro.

- Anch'io, amore mio, non sai quanto abbia dovuto trattenere il mio desiderio di tenerti vicino a me, per udire nuovamente il tuo respiro regolare - confessò Locusta lasciando che le mani del marito la toccassero.

Era certa del fatto che quelle mani non le avrebbero mai fatta del male, il corpo di Gaudenzio era il suo e il suo quello del marito, un unica carne capace di amare.

Mentre le baciava sulle labbra, sul collo, cominciò a spogliarla, le sue mani si soffermarono sui suoi seni prosperosi per scendere via via verso il ventre.

- Purtroppo questo ventre non potrà mai essere colmato con il nostro amore - ammise tristemente; Gaudenzio la tranquillizzò sorridendole, le spostò un ciuffo rosso dalla fronte.

La osservò colmo di dolcezza - Certo...lo avrei desiderato tanto...ma a me basta stare con te

- Gaudenzio… - soffuse Locusta.

Lentamente lo avvicinò a sé e gli tolse la fibula che teneva la toga, questa scese dolcemente sul suo corpo vigoroso, dopodiché gli sciolse la cintura e infine, dopo averlo fatto inginocchiare, sollevò la tunica, rivelando la nudità del marito, mossa dal desiderio.

Gaudenzio finì di spogliare Locusta e la fece sdraiare sul letto. Si mise sopra di lei, continuando a scambiarsi baci, carezze. Si ritrovarono abbracciati con sempre più trasporto l’uno nell’altra.

Assaporarono, sommersi nel sentimento, l’ultimo raggio del sole primavile, il quale lentamente lasciava il posto all’estate, segnando una nuova fase della vita di Locusta e di Gaudenzio...

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Capitolo 25
*** Capitolo 24 - Venit amor gravius, quo serius - ***


"Este procullites et amarae proelia linguae: 
Dulcibus est verbis mollis alendus amor. 
Lite fugent nuptaeque viros nuptasque mariti, 
Inque vicem credant res sibi semper agi; 
Hoc decet uxoresdos est uxoria lites:
Audiat 
optatos semper amica sonos"
Ovidio, Ars amatoria, IIvv. 151-156

10 marzo 59 d.C.

- Marco Salvio Otone! - esclamò Nerone balzando dal triclinio sul quale era sdraiato - Vieni qui...fatti abbracciare! - aggiunse l'imperatore stringendolo con forza a sé.

- Un imperatore non dovrebbe mostarsi così aperto...non credi? - gli ricordò sorridente Otone svincolandosi dalle sue braccia.

- Ti prego, non farmi la ramanzina pure tu, amico mio! - si lamentò recitando Nerone - Ci pensa già mia madre a questo - si mise una mano sulla fronte e cadde dolcemente sul triclinio. Il princeps ordinò ai suoi servi di preparare un posto per Otone e fu eseguito con una rapidità impressionante.

- Ora che siamo entrambi comodi possiamo discutere meglio

- Certamente maestà...- rispose Otone a testa bassa, profondamente a disagio.

- Quante formalità, non ti riconosco più amico, non eri tu il primo a dirmi di comportarmi con più scioltezza? - rise porgendogli un grappolo di uva.

- Certo...certo...Nerone...so che...no...no grazie ho mangiato poco fa...

- Che ti prende? - gli chiese preoccupato

- Io non posso accettare - negò sempre più agitato. Volse la testa verso il basso.

- Suvvia è solo dell'uva - ridacchiò staccando un acine dal grappolo colmo.

- Non è dell'uva che sto parlando, Nerone, e tu lo sai - gli fece presente Otone furente - Ma di mia moglie...io non posso cedertela, anche se Poppea mi ha espresso il suo desiderio di unirsi a te, di accettare il divorzio, sono stato io ad impedirgli di farlo, perché la amo...la amo follemente

- Marco tu sai quanto ti voglia bene, sei uno dei miei amici più devoti, farei qualsiasi cosa per te, come tu ben sai... - iniziò Nerone stranamente calmo; si sarebbe aspettato una sua sfuriata, invece mostrò, almeno per il momento, un perfetto autocontrollo - Però devi capire che non ho mai amato una donna come tua moglie, appena l'ho vista quel giorno, quando me l'hai presentata tu stesso, sono rimasto sfolgorato dalla sua incomparabile grazia e bellezza...

Otone lo ascoltava in silenzio, immobile di fronte a lui, e lo osservava: si atteggiava sempre come se fosse su un enorme palcoscenico, in cui lui era il protagonista indiscusso.

In altre occasioni avrebbe apprezzato tutto ciò, non quella volta, anzi sembrava dargli parecchio fastidio la sua sfrontatezza nel rivelare quei sentimenti che probabilmente non erano nemmeno del tutto veritieri, conoscendo la sua indole instabile e capricciosa.

Nonostante questo cercò di non mostrare la sua ostilità e con sempre più fermezza, continuò a ribadire la sua decisione di non voler divorziare da lei - Non posso farlo, mi dispiace tantissimo, non posso mantenere la mia promessa

- Marco - emise freddamente - Sai cosa significa questo? Eh, lo sai?

- Certo che lo so ed hai ragione ad arrabbiati con me, però io...

- Niente ma, però, ed altre scuse! - sbottò inferocito Nerone alzandosi di scatto - Hai promesso di cedermela ed ora lo farai, non constringermi ad usare la forza contro di te...

- Sei l'imperatore ma non puoi avere tutto ciò che brami! - sputò Otone irritato - Le persone non sono di tua appartenenza!

- ‎Guarda un po' chi mi fa la predica? Parli di rispetto, tu, proprio tu! Tu che...che, prima di maritarti, non esitavi un solo attimo nel compiere le più grandi nefandezze a letto

- Se per questo non ti sottraevi neppure tu, un tempo...per fortuna, l'amore, quello vero, mi ha aperto gli occhi...tu non puoi capire...tu che hai il cuore di pietra...

Nerone si fece scuro in viso ed abbassò la testa - Anch'io conoscevo l'amore puro, Marco, se sei davvero mio amico dovresti sapere a chi mi riferisco

Otone capì immediatamente il soggetto, si sentì male nell'avergli detto quelle parole, travolto dall'ira e dalla gelosia.

- Quell'amore che nasce dal rispetto reciproco...ti scalda l'anima e il cuore, ti fa sentire unico e speciale - si rattristò, seppur dai suoi occhi aridi non scese nemmeno una lacrima - Nonostante la brevità dei nostri incontri, mi sentivo più umano... avrei dovuto immaginare che sarebbe finito, un giorno, quando fu calpestato, come un fiore... e da allora credevo che nessun altro avrebbe potuto riportare vita nel deserto...tranne Poppea...lei ha riacceso il mio desiderio di essere amato...

Le sue espressioni passavano dalla rabbia più cieca all'amore più profondo, a dimostrazione del fatto che quello non fosse uno dei suoi soliti capricci, lui amava veramente quella donna. Ed era stato lui stesso ad aver creato il suo rivale.

- Solo adesso apprendo della purezza dei tuoi sentimenti verso di lei, è vero, te l'avevo promesso, però io non posso fare questo,  mi spiace

A quelle parole, Nerone, deluso dall'atteggiamento di colui che considerava fino ad un secondo prima un caro amico, si fece teso - Volente o nolente dovrai dirle addio - sentenziò l'imperatore.

- Cosa? No...non puoi...

- Ho il potere di unire una coppia, allo stesso modo posso separarla... ti ricordo che adesso sei al cospetto dell'uomo più potente del mondo, non più un semplice candidato al trono o un vecchio compagno di avventure... inoltre posso fare ciò che voglio della tua vita

I pretoriani, intuendo l'imperatore, piombarono immediatamente sull'uomo e lo afferrarono; prima di farlo andare disse - Buon viaggio per la Lusitania, Marco - si voltò verso i militari, sogghignando - Sapete cosa fare

- La pagherai...maledetto... - urlava mentre veniva trascinato fuori - Non avrai più pace...mai più...
 

13 marzo

- Ehi voi, non sapete che dovete chiedere il permesso all'imperatore per poter entrare nelle sue stanze? - le fece presente una delle guardie che proteggeva le stanze imperiali.

La donna si voltò verso di lui e gli sorrise, senza pronunciare parola, tanto bastò, per far insospettire la guardia che sguainò la spada e gliela puntò sul viso - Chi siete?

- Non sapevo che esistessero ancora delle guardie ligie al proprio dovere, soprattutto in un posto come questo - emise la donna allontanando la punta dell'arma dal suo collo - L'imperatore sa scegliersi davvero bene i suoi uomini, non è per nulla il bambino troppo cresciuto ancora soggiogato dalla sua mammina

- Come osate infangare il suo nome! Quando ve lo ritroverete davanti imparerete a parlare, donnaccia

A quel punto la giovane donna scoppiò a ridere - Come siete tonto, soldatino, la mia era una lusinga nei confronti del carissimo Nerone

- Ah sì? Ora vedrete...

- Non vorrete colpire una donna indifesa spero! - s'intromise Nerone, accortosi del vociare proveniente dai corridoi - Abbassate quella spada o sarà la fine per voi

Il pretoriano obbedì al suo comando, seppur contrariato e ritornò al suo posto; la donna, nel frattempo, nascose rapidamente il volto con il velo, e gli si buttò sull'ampio petto, celando ancora il suo viso - Quell'uomo voleva uccidermi, credeva che fossi una ladra... - finse di piagnucolare per impietosirlo.

- Non vi farà più del male - la consolò l'imperatore - Ma perché non mi mostrate il vostro viso? Avete paura di... - smise di parlare non appena rivide quei morbidi capelli castani, intrecciati finemente sul capo, quelle guance rosee, pudiche, quegli occhi scuri, profondi, quelle ciglia lunghe, provocanti e in particolar modo quelle labbra dolcissime, dello stesso colore delle ciligie - Po...Poppea! - balbettò solamente.

Esattamente come la prima volta, quando le fu presentata, la donna mostrò al Princeps un'ostentata castità, la quale,  però, non fu certamente una sua dote naturale. Arrossì - Maestà vi ricordate ancora di me, credevo che...

- Come potrei dimenticare il vostro volto, la vostra leggiadria, la vostra bellezza, Poppea... - era così eccitato nel vederla, il cuore iniziava ad accelerare, si sentiva accaldato - Oh Poppea, Poppea adorata, per troppo tempo ho desiderato la vostra carne senza poterla assaporare...la vostra pelle profumata senza poterla odorare...

La donna resse il suo gioco, restando comunque cosciente del suo obiettivo:  fare breccia nel suo triste cuore per giungere al potere; aveva architettato ogni cosa con Otone e lo stesso avrebbe fatto con Nerone, di gran lunga più amabile e malleabile del precedente marito.

Era stata davvero dura cercare di convincere il marito di "donarla" all'amico imperatore come segno di gratitudine ed amicizia. "Quello stupido è riuscito pure a farsi esiliare, ma d'altronde cosa potevo aspettarmi da un uomo simile, in fondo mi ero unito a lui solo per poter arrivare al cospetto dell'imperatore, meglio così, in questo modo mi ha spianato la strada, che ingenuo...". Nel frattempo fu condotta nelle stanze private ed adagiata sul letto.

Nerone, seduto al suo fianco non perse tempo, la divorò con gli occhi: contemplò le curve sinuose e giovanili, il seno prosperoso, le gambe agili e scattanti; la sua mano fu tentata nell'esplorarla, tuttavia il suo intento venne interrotto da Poppea - Io non voglio essere una delle vostre amanti... - chiarì imbarazzata.

- Infatti sarete la mia donna, la mia musa, la mia Venere, Poppea, tutto ciò che esiste di meraviglioso ed aggraziato sarete voi - precisò incominciando a spogliarla lentamente. 

- Io voglio essere vostra moglie, maestà, ardo di passione per voi, ho sempre desiderato avere al mio fianco un uomo potente, vigoroso, dal cuore sensibile e gentile, capace di concepire capolavori, poiché guidato da Amore, esattamente come lo siete voi...

A quelle parole Nerone perse letteralmente la testa, gli sembrò un sogno, non potè credere alle sue dichiarazioni.

- Lo sarete, Poppea - assicurò l'imperatore quasi ipnotizzato dalla sua voce suadente. 

- Dovete però sbarazzarvi di vostra moglie, ‎di quella Ottavia - l'allertò impensierita - Lei non vi merita, resta al vostro fianco solo perché lo ha giurato al padre, all'ex imperatore, ma non vi ama, anzi vi odia, e in cuor suo spera solo di vedervi morire, poiché siete stato costretto ad uccidere il padre e il fratello - finse di piangere per risvegliare in lui la voglia di riscatto - Persino loro non hanno mai avuto rispetto per voi, vi consideravano solamente un attore da strapazzo, non comprendendo il vostro indubbio talento e le vostre eccezionali qualità

- Poppea, voi riuscite a capirmi troppo bene...però... non posso divorziare da lei - ammise Nerone a testa bassa - Non fino a quando ci sarà mia madre

- Dovete sbarazzarvi soprattutto di lei, maestà - lo incoraggiò lucidamente Poppea - Non avrete serenità nel vostro animo se continuerete a farla vivere dopo tutto ciò che ha fatto... solamente per saziare la sua sete di potere

Nerone alzò la testa e la fissò: nella sua mente i ricordi riaffiorarono uno alla volta, i sacrifici compiuti in tutta la sua vita furono voluti proprio da sua madre. E la rabbia cominciò a riemergere...
 

- Quella donna vi rovinerà! - le aveva detto qualche giorno prima, l'Augusta.

- Non avrei mai pensato di vedervi in pensiero per me, o forse è solo tutta scena, chissà, siete più brava di me nel recitare, quando vi impegnate, madre - le rivolse un'occhiata per nulla rassicurante.

Agrippina si accorse solo in quegli anni di governo chi fosse veramente suo figlio:  non un burattino da poter manovrare a suo piacere, bensì un uomo in grado di ragionare con la propria testa.

- Non bastava Locusta ci mancava persino quella depravata di Poppea - bisbigliò, cercando di non farsi udire dal figlio.

- La vostra ottusità mi lascia ogni volta perplesso, madre - le disse deluso - Eppure siete stata proprio voi a rendere Locusta  parte della nostra famiglia, quando l'avete incontrata per la prima volta nella sua taverna

Agrippina fece una smorfia di disprezzo - Possibile che non capiate...lei è stata solo uno strumento per arrivare al potere! Siete voi ad essere un ottuso, non capite niente di politica

- Anche mia zia era uno strumento? Pure lei ai vostri occhi non era che un oggetto utile per i vostri scopi e le vostre ambizioni? - le rifacciò Nerone furibondo - Rispondete! Anche lei?

- Pensate ancora a quell'insulsa donnicciola?! - scoppiò a ridere Agrippina, mettendosi poi la mano sulla bocca per non sembrare troppo volgare - ‎Ho sempre pensato che fosse stata lei a rovinarvi, se non vi avessi lasciato in sua custodia nel periodo del mio esilio, ora sareste un vero romano, audace, forte, alla testa di un esercito, e non un ragazzetto capace soltanto di suonare quella maledetta cetra...

Nell'udire ciò, il Princeps ringhiò sordo, strinse i pugni con una forza tale da far sanguinare i palmi: quanto desiderò, in quell'istante, farla tacere per sempre, nonostante fossero passati anni dalla sua nomina ad imperatore, lei era ancora alle sue spalle, pronta per agire contro lui; non sopportò più la sua onnipresenza.

- Quando avevo bisogno di voi, non vi siete mai fatta viva, ogni scusa era buona per lasciarmi solo, accudito dalle balie ed istruito dai precettori - borbottò tra sé Nerone, mentre il suo viso assunse delle tonalità vicine al colore della lava - La mia sola compagnia sono state la cetra, la mia arte e mia zia, che non potrò mai dimenticare, ho imparato a vivere privo dell'amore materno, quindi ora sparite immediatamente, vecchia vipera - ringhiò alla fine, facendo spaventare veramente Agrippina.

Nel suo sguardo scorse una furia incontrollabile, rancorosa, covata e cresciuta nelle sue viscere, che si sarebbe certamente abbattuta su di lei se non fosse stato per Seneca, il quale, scorgendo la situazione, si precipitò immediatamente dall'ex allievo per tranquillizzarlo, riuscendoci, pur sapendo che prima o poi qualcosa di terribile sarebbe accaduto all'Augusta. 
 

- Avete ragione Poppea - le riferì adirato - Devo sbarazzarmi di lei il più in fretta possibile, non ho più diciassette anni, sono un uomo adesso, so come si gestisce un impero così vasto

- Avrete tutto il mio supporto, maestà

- Vi prego chiamatemi Nerone, non sopporto queste formalità da parte della mia futura sposa - le accarezzò le guance

- Come desiderate Nerone... - sussurrò nel suo orecchio, lo fece adagiare lentamente sul suo corpo e lei divenne sua.
 

20 marzo

- Locusta ho bisogno di uno dei vostri infusi velenosi - irruppe l'imperatore nella sua abitazione sul Palatino.

Era estremamente agitato e nervoso, in quelle situazioni era facilmente incline agli attacchi di ira improvvisi - Per cosa vi serve mio imperatore?

- Per uccidere mia madre! - nei suoi occhi trasparivano la paura, l'angoscia, era conscio del fatto che fosse una decisione drastica, girovagava per la stanza inquieto - Non posso più aspettare, lo capite, non posso, perciò vi prego aiutatemi

- Calmatevi mio imperatore - lo fermò, lo fece ispirare a fondo e poi aggiunse - Io ho quello che fa per voi, ma temo che con Agrippina non possa funzionare, lei è troppo prudente, ha molti suoi fidati che le fanno da spia

Cercando di controllarsi, si sedette ed emise una serie di lunghi respiri per rasserenarsi come le aveva consigliato Locusta - Possibile che non possa liberarmi di lei, per quanto ancora dovrò sottostarvisi? Non potrò mai realizzare il mio ambizioso progetto di rendere Roma la nuova Atene se lei è nei paraggi

- Per una donna come Agrippina ci vuole qualcosa di più sofisticato, di più consono alla vostra teatralità, Nerone - sopraggiunse Aniceto, uno dei suoi ex precettori, desideroso di eliminare quella donna la quale non lo considerò mai abbastanza e non lo vide di buon occhio - Perdonatemi se vi ho seguito in silenzio, ero troppo ansioso di rivelarvi il mio piano, lo stavo architettando da tempo...sempre che voi desideriate spingervi fino in fondo

- Sono pronto, Aniceto, voi siete uno dei miei uomini più fedeli, più intelligenti, so che non mi tradireste mai, avanti parlate

- Bene - sorrise l'ex maestro - Molto bene...

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Capitolo 26
*** Capitolo 25 - Rari nantes in gurgite vasto - ***


"Ecce, manus iuvenem interea post terga revinctum 
pastores magno ad regem clamore trahebant 
Dardanidae, qui se ignotum venientibus ultro,
hoc ipsum ut strueret Troiamque aperiret Achivis
obtuleratfidens animi atque in utrumque paratus
seu versare dolos seu certae occumbere morti. 
undique uisendi studio Troiana iuventus 
circumfusa ruit certantque inludere capto
accipe nunc Danaum insidias et crimine ab uno disce omnis"
Virgilio, Eneide, IIvv. 57-66

Baia, 23 marzo

- Perdonate il ritardo, madre - si scusò Nerone piombando nella sala del triclinio; la madre guardò il figlio, ormai ventunenne, dalla testa ai piedi e non poté non notare che oltre ad essere diventato più alto di lei, a differenza del padre, Gneo Domizio, il quale rimase sempre basso e sgraziato, iniziò a divenire più pieno nel viso e nelle membra, nonostante non smettesse mai di tenersi in forma con i suoi assurdi esercizi olimpici.

- Conosco benissimo la vostra "modestia" maestà, non mi stupisco dei vostri continui ritardi - emise sospirando. Guardò il soffitto vermiglio, ottenuto dalle cocciniglie, decorato con affreschi di ghirlande colmi di fiori e frutti, tra cui dei grappoli d'uva così ben realizzati da far venire l'acquolina in bocca a chiunque le osservasse dal basso.

Raggiante come il sole, Nerone le si avvicinò silenzioso, discreto, e si sdraiò al suo fianco - Madre, siete splendida, come sempre, gli anni sembrano non intaccarvi - la elogiò quasi eccitato, nemmeno un'ombra aleggiava nei suoi grandi occhi chiari, uguali a quelli che aveva da bambino.

- Pensavo che la vostra richiesta di riappacificazione fosse una burla - sorrise maliziosa Agrippina ruotando gli occhi verso di lui - E invece siete sincero, maestà...

- Mi sono reso conto di aver esagerato nei vostri confronti, madre, volevo dimostrarvi di cavarmela da solo, però ho lasciato sfogare i miei sentimenti più spregevoli - confessò Nerone dispiaciuto, avvicinandola a sé con incredibile delicatezza, le baciò il capo - Sapete che la corte è un luogo nervoso e frenetico...

Eppure c'era qualcosa nel figlio che non la convinceva, fino a qualche giorno prima, non faceva altro che ringhiarle contro, elencando tutti i suoi misfatti e soprattutto rimproverandola della sua onnipresenza, in preda all'ira più spaventosa; in quell'istante, invece, si mostrava come il figlio perfetto per ogni madre: gentile, accondiscendente, premuroso.

La voce profonda di Nerone la ridestò, le porse un calice colmo di vino, lei lo prese e cominciò a berne un po', dolcissimo, come il nettare degli dei - Brindiamo alla nostra riappacificazione, che possa durare in eterno - rise alzando il suo, assieme a tutti coloro i quali partecipavano al banchetto.
 

'Vorrei ricucire il nostro rapporto, madre' ripensò alla lettera mandatagli dal figlio appena due giorni prima 'E ho deciso di farlo durante il periodo della Quinquatrie, le feste dedicate a Minerva, nella festosa città di Baia, in Campania, presso i Campi Flegrei, in totale intimità, so che accetterete, vi aspetto con ansia...'

Quando la ricevette rimase un po' perplessa dal tono serene che caratterizzarono quelle parole, non sembrarono sue: che avesse deciso davvero di abbassare la testa e lasciarsi guidare totalmente dalla madre, avendo compreso che quel peso era troppo per uno come lui? 
 

- Ho esagerato pure io, figlio mio - ammise Agrippina incrociando il suo sguardo preoccupato nel vederla immersa nei suoi pensieri - Non avrei dovuto agire come ho fatto, soprattutto quel tentativo di incesto con voi...ma sapete che non mi fido di quella donna... quella Poppea...temo di perdervi per sempre - aggiunse appoggiandosi sulla spalla forte del figlio, chiudendo gli occhi. 

Suo figlio odorava di gioventù, di potere, nel fondo del suo animo era così fiera di vederlo splendere di imperialità, si ricordava del perché aveva ricorso proprio all'incesto: voleva preservare il suo sangue da quello ignobile di Poppea Sabina inizialmente era questo il suo intento.

Però, quando se lo era trovato davanti, possente ed energico, non era riuscita a non essere attratta dal suo aspetto sano:  nessun male pareva colpirlo per sottrargli il suo vigore, nessuna debolezza fisica intaccava la sua prestanza, nonostante i chili di troppo cominciassero a farsi visibili. Era esattamente l'opposto di quel satiro debole e malfermo del padre.

- Allontanerò Poppea dalla corte, se è lei a turbarvi, madre - le sussurrò nelle orecchie; a quelle parole Agrippina lo rimirò nuovamente, incredula, credette di aver frainteso, ma Nerone le tolse ogni dubbio annuendo lievemente.

"Manca poco ormai" pensò l'imperatore accarezzando per l'ultima volta i capelli della madre, con un misto di emozioni contrastanti che lo invasero: dispiacere e determinazione, tristezza e voglia di riscatto "E poi potrò realizzare il mio progetto..." la sua mano scivolò lungo i fianchi di Agrippina, sussultò improvvisamente, un brivido scese lungo la schiena, bloccando le parole in gola.

Tutto stava procedendo secondo i piani.

Roma, 20 marzo

- Dovete reggere il gioco finché potete, maestà, penso che per voi non sia difficile mostrarvi affettuoso con vostra madre, il vostro talento istrionico sarà vantaggioso per tutti quanti - lo aveva raccomandato Aniceto, alzando leggermente la testa per guardarlo dritto negli occhi - Io penserò al resto, come vi ho già detto...

- Sono disposto a tutto purché il suo assassinio riesca, solo eliminandola potrò essere libero, finalmente... - lo rassicurò Nerone a braccia conserte, ritto in piedi, e l'espressione lievemente accigliata.

- Ed io cosa farò? - si era intromessa Locusta, afferrando il braccio massiccio dell'imperatore, ‎ansiosa per sua la sorte; era dai tempi di Aulus che non provava apprensione per un uomo a lei particolare caro.

- Voi resterete qui, Locusta - ordinò Nerone dolcemente - Non voglio mettere in pericolo la vostra vita, siete troppo importante per me...

- Ma... - tentò di ribattere.

- Niente ma, Locusta, qui c'è in gioco il nostro destino, e l'ultima cosa che desidero è di farvi soffrire ancora - sbottò il Princeps staccando brutalmente il braccio dalla presa della donna - Voi resterete qui e baderete alla mia futura sposa, durante la mia assenza, desidero che possiate essere sua amica, affinché non ci siano più inimicizie a corte, questo sarà l'ultimo grande atto, in cui potrò vendicare la morte di mia zia, dopodiché spero di poter inaugurare un lungo periodo di pace e prosperità

Locusta sorrise, abbassando la testa, il suo Nerone non aveva smesso di pensare a quella donna, sempre al centro del suo cuore, il solo ricordo riusciva a rendere manifesta la sua umanità, a non trasformarlo completamente in un mostro privo di controllo - E di Giulia Ottavia, vostra attuale moglie, cosa volete farne, mio imperatore? - gli fece presente Locusta, rendendosi conto di non averla tenuta in considerazione.

- A lei penserò dopo, non è minacciosa come mia madre, solo tremendamente petulante e fastidiosa - bruscamente ringhiò il Princeps, pochi istanti dopo riprese il controllo e aggiunse - Vi farò sapere quando recarvi a palazzo, presso la mia Poppea

"È giusto che mi faccia da parte, per il momento, quando avrà ancora bisogno di me, io ci sarò".

Osservava i due allontanarsi dalla sua dimora: Aniceto ripeteva di nuovo il piano che aveva elaborato, mentre Nerone gli faceva segno di non doversi preoccupare, mostrando sempre la sua esuberanza.

Baia

- Siete sicura di non voler rimanere ancora po' con me, madre? - le chiese Nerone, con una gentilezza e un garbo che non le aveva mai rivolto prima.

- A differenza vostra, che pensate quasi esclusivamente a divertirvi e a godervi la vita, al centro dei miei pensieri, c'è sempre il dovere, cosa che dovreste iniziare a fare altrettanto - lo rimproverò indirettamente - E poi è già notte fonda, riuscirò ad arrivare a Roma nella tarda mattinata...

‎Nerone trattenne un impeto di rabbia, ricordandosi delle raccomandazioni di Aniceto: non poteva mandare tutto a monte. C'era in gioco tutto in quella serata.

- Vi prometto che non appena termineranno le feste di Minerva e tornerò a Roma, metterò la testa a posto - le diede un bacio sulla guancia e l'aiutò a coprirsi la testa con la palla, la accompagnò fino alla costa, dove l'aspettava la nave fatta costruire appositamente da Aniceto per il viaggio di ritorno, subito dopo aver ricevuto la notizia che la nave con la quale si era recata da Nerone era naufragata.

- Vi auguro uno splendido viaggio di ritorno, madre adorata - soffuse il figlio accarezzando le sue mani - Cercate di non prendere molto freddo, non impensieritemi

- Sono una donna forte e dovreste saperlo... - le ricordò Agrippina malignamente; Nerone la lasciò andare. Salì sulla barca, la sua fedelissima e silenziosa ancella Acerronia, già a bordo, la accolse con un inchino e le indicò il loro letto, situato nella cabina alla poppa della nave, sul quale si accomodò.

Solo quando attraccò e iniziò ad allontanarsi, l'imperatore poté togliersi la maschera da figlio devoto e strinse i pugni "Godetevi pure questo viaggio madre, perché sarà l'ultimo" sogghignò sinistramente, al chiaro di luna,  continuando a guardare la nave allontanarsi; non appena l'imbarcazione divenne un tutt'uno con il cielo notturno sgaiattolò velocemente verso la villa, in attesa di aggiornamenti. 

- È una notte meravigliosa, Augusta - emise Acerronia tra un sospiro e l'altro, ammirando il cielo stellato, privo di nubi scure che avrebbero intaccato quella pennellata lucente. 

Agrippina non rispondeva, voleva godersi la notte in silenzio, il fracasso di quell'interminabile festa le rimbombava ancora nella testa, per sua fortuna non aveva bevuto molto.

Suo figlio aveva finalmente deciso di collaborare, i suoi sforzi, durati anni, stavano dando frutti; una volta a corte avrebbe sbattuto fuori quella poco di buono, così come tutte le altre concubine, avrebbe parlato con Ottavia dicendole che tutto si sarebbe risolto, e lei avrebbe ancora tenuto Nerone sotto controllo.

Chiuse gli occhi accennando un sorriso, da tempo non si sentì così soddisfatta: non poteva desiderare di meglio, si assopì, con la compagnia dell'ancella. 

Sentì un rumore sinistro provenire dal tetto e, intimorita, sollevò la testa, richiuse nuovamente le palpebre, cercando di non lasciarsi condizionare dalla suggestione; un fragore la spaventò e vide il tetto crollare davanti ai suoi occhi. Fu caricato con del piombo.

Uno dei parenti dell'imperatrice morì sul colpo: un certo Creperio Gallo, il timoniere, mentre le due donne furono salvate dalle alte e robuste spalliere del letto. Non avendo nessuno al comando la nave sbandò e le due donne caddero in acqua.

- Che qualcuno ci aiuti! - sgolò ripetutamente Acerronia agitando le braccia - Salvate almeno me che sono l'Augusta, la madre dell'imperatore! Vi prego! - mentì alla fine la donna, sperando nell'aiuto dei marinai della nave, guidati dalle sue urla; credendo alla sue parole i marinai, tutti complici di Nerone, la colpirono violentemente con i remi, la donna perse conoscenza e sparì negli abissi.

La vera Agrippina, dopo aver assistito alla morte della sua incauta ancella, da brava nuotatrice qual'era, senza perdere tempo e silenziosamente, nuotò fino alla riva, qui fu avvistata da alcuni pescatori che la riconobbero e la condussero nella sua villa sul lago di Lucrino.

Questi le chiesero cosa fosse successo e chi fosse il mandante, lei non rispose, fingendo di non aver intuito di essere stato proprio suo figlio ad aver architettato ogni cosa "Altro che riappacificazione, voleva uccidermi, ora comprendo il suo atteggiamento ossequioso, voleva farmi abbassare la guardia e far scattare il suo piano"

Una volta giunta nella sua villa, chiamò immediatamente un messo da mandare all'imperatore per informarlo del suo stato di salute.

Il suo scopo era di non far ricadere la colpa sul figlio, in modo da poter confessare al Palatino e al Senato di essere scampata ad un violento naufragio. "Quando ci ritroveremo da soli chiariremo la vicenda"

La notizia del suo salvataggio era già rimbalzata alle orecchie di Nerone, che disperato, tentava in tutti i modi di trovare una soluzione.

Finché, nel suo girovagare tra le varie stanze della villa, giunto in cucina, si ritrovò tra le mani un coltello e si girò verso Aniceto, diventata la sua ombra in quei giorni, gli sorrise - Questo sarà l'atto conclusivo di questa superba tragedia, Aniceto, appena arriverà vi darò il permesso di agire - disse Nerone correndo ad accogliere l'uomo.

"Siete davvero pronto ad andare fino in fondo, altezza, ed io sarò con voi" 

Lucio Agerino, un liberto fedele alla madre, arrivò in fretta e furia al cospetto dell'imperatore, s'inchinò timoroso - L'Augusta e vostra madre Agrippina mi ha mandato per riferire a sua altezza imperiale, Nerone Cesare che le sue condizioni fisiche sono più che buone...

Il Princeps si alzò, sovrastando il piccolo e gracilino Lucio, tremante di paura, un moscerino al suo confronto. Senza dire nulla Nerone estrasse un coltello e lo gettò ai suoi piedi, il liberto indietreggiò terrorizzato. Aniceto e i sicari capirono l'allusione.

L'imperatore freddamente riferì - Volevate uccidermi, non è vero? - scoppiò a ridere e si rivolse agli uomini armati alle sue spalle - Quest'uomo voleva uccidere l'imperatore! Per ordine di mia madre, dopo tutto l'affetto che le ho dimostrato in questa giornata, lei mi ripaga così! - nei suoi occhi brillava una luce folle e sadica - Pensa che sia stato io ad organizzare il naufragio, che assurdità, dimostrate ad entrambi che non è vero, miei uomini

Alcuni pretoriani presero il liberto e lo sgozzarono all'istante sotto gli occhi dell'imperatore, il quale trattenne a stento il disgusto per il sangue.

Altri, guidati da Aniceto si diressero verso la villa di Agrippina; piombarono nella sua stanza, sfondando la porta, lei rimase impassibile nel vederli, come se fosse stata impaziente nel attenderli - Il messaggero non è ancora arrivato, quindi...informatelo dunque del mio stato di salute, se invece siete venuti per uccidermi non posso credere che sia stato lui stesso ad ordinarvelo...

Un sicario avanzò verso di lei e la bastonò più volte sul capo, Aniceto si riservò il compito di darle il colpo di grazia; senza mostrare alcun timore né ritegno, Agrippina sporse il ventre all'ex precettore, pronto a strapparle la vita con la spada - Colpite qui, nel punto in cui generai quel mostro che si è rivelato mio figlio! - Aniceto e i suoi non se lo fecero ripetere due volte e la trafissero senza pietà nel punto indicatogli.

In quel momento tra sogno e morte rimembrò le parole dell'astrologo predette anni prima, sulla sua fine - Al culmine della sua follia, vostro figlio vi ucciderà...vi ucciderà - lei non gli credette, quella fu la conseguenza. "Avrei dovuto sopprimerlo io stessa con queste mani, quando era ancora incapace di fare del male..." si disse nell'istante prima di spirare.

- Avevate generato un grande artista, destinato a rendere immortale l'Impero attraverso le sue parole e nonostante gli avvertimenti siete riuscita a renderlo una bestia grazie alla vostra sfrenata ambizione - rinfacciò Aniceto sul suo cadavere. 
 

In preda al delirio di onnipotenza e di uno stato di liberazione senza pari, Nerone, arrivato trepidante alla villa della madre, spostò il sudario che copriva il volto di Agrippina, freddo, impassibile, immobile nella sua severità, ebbe un fremito interiore e sentì di adorarla come mai in vita sua.

- Non è ancora più incantevole da morta, miei cari amici - si rivolse ai presenti, tra cui Seneca e Burro, privo di qualsiasi contegno - Questa visione mi ispira, sento le Muse e Apollo sussurrare le parole nella mia anima...quale finale può esserci adesso se non la contemplazione di tanta bellezza...

Si avvicinò al cadavere, stralunato, inspirò il suo odore e, inebriato, la baciò sulle labbra: assaporò il sapore acre e al tempo stesso dolce della morte; le sorrise balenante, le aggiustò una ciocca fuori posto, le accarezzò con il dito la guancia e poi la ricopri nuovamente.

- Il resto non è affar mio, pensateci voi nel cercare una motivazione convincente - si gongedò Nerone bramoso di godersi quel trionfo tanto atteso.

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Capitolo 27
*** Capitolo 26 - Il rimorso dorme in un periodo prospero... - ***


"Nam quae prima solo ruptis radicibus arbos 
velliturhuic atro liquuntur sanguine guttae 
et terram tabo maculantmihi frigidus horror 
membra quatit gelidusque coit formidine sanguis"
Virgilio, Eneide, IIvv. 27-30

Roma, 24 marzo

- Mi avete fatta chiamare? - domandò umilmente Locusta al cospetto di Poppea Sabina, chinando il capo.

Non appena vide il suo aspetto delicato, femminile, ma che evidenziava i primi segni dell'età e delle piccole porzioni di veleno che ingeriva ogni mattina, sulle labbra di Poppea si formò un sogghigno fugace, che fece sparire per mostrarle un'espressione più docile e pacata - Così siete voi la famosa Locusta, la donna capace di placare le angosce del mio futuro marito, in grado di scacciare i demoni dal suo cuore, una dote non molto comune - l'adulò facendole segno di avvicinarsi al suo cospetto.

Era languidamente sdraiata su di un preziosissimo triclinio, realizzato dalle meravigliose mani delle sue schiave persiane. Con la mano la invitava a sedersi sul tappeto posto ai suoi piedi.

Per affetto nei confronti di Nerone, Locusta non rifiutò di obbedire al suo volere, seppur non molto convinta dalle intenzioni di quella donna. Il suo sguardo era addirittura più terrificante di quello dell'Augusta; mestamente compì alcuni passi, fermandosi a pochi centimetri dal triclinio e, sempre a testa bassa, attese che la futura imperatrice le parlasse. Rimase immobile, al pari di una statua di marmo.

- Pensavo che aveste seguito Nerone in Campania - disse Poppea suadente, la sua voce simile ad un sibilo, in grado di ipnotizzare qualunque uomo - Per quale motivo avete deciso di restare qui? 

- Per eseguire il suo volere, esattamente come fate voi, Poppea Sabina - rispose prontamente Locusta - L'ultima cosa che desidero è vederlo adirato, come vorrei che fosse sempre felice...

- Per questo avete approvato tacitamente la sua dura scelta di...

- Si, a volte bisogna compiere dei sacrifici se si vuole raggiungere la pace interiore, è stato lui a dirmi ciò - rispose Locusta alzando la testa e guardandola benignamente.

Poppea osservava nuovamente quella donna così insolito: il suo aspetto,  prossimo alla decadenza, non sminuiva la sua forza d'animo. Non dimostrava affatto l'età raggiunta, al contrario, l'involucro che custodiva la sua anima era ancora energico, pronto all'azione e disponibile all'obbedienza, mai cieca e fanatica, sempre dettata dal buon senso. L'affetto di Locusta era onesto, non l'avrebbe mai tradito né tantomeno complottato contro di lui.

- Vi prego Poppea, voi che avete l'età e i mezzi per farlo, non lasciatevi acceccare dal potere, amatelo come lui ama voi - la supplicò fissandola intensamente - All'apparenza può sembrare un po' sciocco e capriccioso, ma in realtà è intelligentissimo, molto buono, a volte persino ingenuo, e possiede un cuore d'oro, purtroppo a pezzi - si fermò, le sorrise e proseguì - Due cuori infranti dovrebbero ricomporsi a vicenda, o no?

Quella domanda retorica la colpì molto: Locusta riuscì a comprenderla al volo, a leggere il suo dolore, la sua vita di fatiche, di stenti e di rinunce che la temprarono e le strapparono la spensieratezza della gioventù.

Le continue, pesanti accuse mosse dall'Augusta di immoralità, e persino la condanna a morte del suo primo marito, Rufrio Crispino, un capo della guardia pretoriana, ordinata nuovamente da quell'odiosa Agrippina, non erano riuscite comunque a smuoverla dal suo intento di raggiungere la gloria. Aveva ottenuto la sua vendetta grazie a Nerone, il quale l'aveva accontentata togliendo gli onori e la scorta di germani alla madre.

E quando seppe della sua dipartita non poté non rallegrarsi di essersi finalmente sbarazzata di quella vipera.

Mancava l'ultimo tassello: Ottavia, una donnicciola così pudica e casta da farle venire il voltastomaco, sensazione che aveva notato anche nel Princeps, stufo di averla al suo fianco. Voleva quella donna morta!

Locusta era riuscita a leggere tutto quanto nella sua anima martoriata. Era stato probabilmente ciò ad aver spinto Nerone a tenerla sotto la sua protezione.

- Ci proverò, Locusta - riferì solamente, velando il suo turbamento - Ma sarà comunque difficile con un uomo che desidera essere amato più come un figlio che come un marito, e in effetti, voi avete sia l'aspetto sia l'età di una madre...

- Non interferirò con il vostro compito, Poppea, voi sarete la futura moglie e  imperatrice, ed io semplicemente Locusta, l'avvelenatrice, la strega

- Siete una donna molto intelligente e mi piacete - sorrise compiaciuta - Ora potete pure andare, Locusta, questa conversazione è stata molto utile...

Era abbastanza saggia da capire i ruoli e gli spazi, non sarebbe stata un ostacolo, bensì una risorsa, una carta da usare a proprio vantaggio, avendo, essa, un forte ascendente sull'imperatore.  
 

Il sonno del giovane Princeps era agitato - Lasciatemi...lasciatemi andare! - urlava ripetutamente mentre stringeva con forza il lenzuolo sul quale era sdraiato, si girava e si rigirava continuamente, in preda all'angoscia e al terrore, agitava le braccia come se volesse scacciare i demoni che ricominciavano a popolare i suoi sogni tramutandoli in incubi spaventosi.

- Andatevene viaaaaa - gridò Nerone un attimo prima di riaprire gli occhi: si accorse di essere solo nella stanza. 
"Era solo un incubo..." si disse alzando il busto e toccandosi il viso sudato - Quante ore avrò dormito? Non ricordo... - si scompigliò i capelli di fuoco e si mise seduto sul bordo dell'ampio letto. Riprese a respirare regolarmente.

Aveva indosso ancora i suoi abiti regali, probabilmente era crollato dal sonno senza nemmeno essersene accorto; infatti non ricordava più nulla di ciò che era accaduto dopo il compimento del matricidio, sapeva solo che le tempie gli pulsavano, incessantemente. Non rammentava nemmeno del come e quando fossero tornati a palazzo.

Chissà quanto aveva bevuto...

Girò la testa in direzione della luce che proveniva dalle sue spalle cercando di ricordare; improvvisamente, balzò in piedi ed uscì, corse per cercare il filosofo, lo trovò curvo a scrivere, nella stanza accanto alla sua.

- Buongiorno altezza - gli rivolse quando se lo vide passare davanti, leggermente intontito e confuso.

- Buongiorno a voi, Seneca...cosa state scrivendo? - gli chiese grattandosi la testa.

- La missiva per il Senato, siete stato voi stesso ad ordinarmelo, non vi ricordate?

- Al momento è già tanto se mi ricordo come mi chiamo - ammise Nerone accasciandosi sul suo letto, intatto - Ho un mal di testa terribile... - si massaggiò le tempie insistentemente.

- Posso immaginarlo, maestà - alzò la testa per guardarlo e proferì ridendo - Ieri sera vi siete scolato quasi tutto il vino della villa, dopo aver contemplato il cadavere di vostra madre, non vi vedevo così euforico dai tempi in cui ero ancora il vostro tutore personale...

- Quindi gli incubi che ho avuto stanotte sono dovuti alla sbornia? - domandò l'imperatore osservando il soffitto.

- Probabilmente...anche se non sono sicuro...credo che sia stato di più il mastodontico banchetto... - gli fece presente in maniera composta.

- Quando siamo tornati a Roma?

- Non appena siete crollato dal sonno, altezza imperiale, non riuscivate più ad elaborare una frase di senso compiuto, parlavate per metà greco e per l'altra metà latino, oltre a non reggervi più in piedi...

Nonostante l'ex precettore continuasse ad esporargli le varie vicende, girovagando, Nerone non riusciva a fare mente locale di quegli avvenimenti, gli parevano distanti e il mal di testa non accennava a diminuire - Basta...basta...ve ne prego...piuttosto elencatemi i programmi della giornata

- Per prima cosa dovete leggere questa davanti a tutto il Senato e...

- Non ho proprio voglia di mostrarmi trionfante a quei vecchi caproni - borbottò infastidito l'imperatore.

Seneca sapeva benissimo dell'astio che Nerone provava verso i senatori, non poteva biasimarlo: i membri del Senato non erano certamente degli uomini il cui pensiero era rivolto al bene della popolazione e dell'Impero. Più e più volte l'imperatore aveva alzato la voce per cercare di cambiare la situazione, poche erano state quelle in cui lo avevano ascoltato.

- Mandate qualcuno al mio posto - comandò il Princeps alzandosi in piedi e sovrastandolo con la sua imponenza - Preferisco parlare con gente di buon senso...

- Ossia, maestà?

- La gente comune, Seneca, è l'unica che mi ascolta davvero - gli rispose con amarezza.

Il filosofo sorrise a testa bassa, a differenza di tanti altri prima di lui, Nerone non aveva mai dimenticato le esigenze del suo popolo "Agrippina se solo vi foste resa conto di che figlio avevate, forse adesso..."

- Vado a prepararmi, il popolo mi aspetta - emise saltellando, dopo aver ritrovato il suo consueto umore.  
 

Nerone venne accolto con tutti gli onori dal popolo, il quale credette alla sua buona fede e alle sue parole: non avrebbe mai agito contro di loro. Fu un grande sollievo per molti sapere che finalmente quella donna era fuori dai giochi.

Niente e nessuno avrebbe potuto fermare il suo grandioso progetto di rinnovamento, nemmeno il Senato stesso, che credette alla versione "ufficiale" della vicenda e cioè che l'Augusta si era suicidata, non essendo riuscita ad uccidere il figlio.

Solo un uomo non si lasciò abbindolare da quella menzogna, un fiero e noto oppositore dell'imperatore: il senatore Publio Clodio Trasea Peto - Preferisco uscire da questo marciume, piuttosto che accettare di credere a simili fandonie! Fuori di qui potrò dire ciò che penso di ognuno di voi, imperatore compreso - sbraitò nel momento in cui mise piede fuori dalla Curia, disgustato dall'atteggiamento lusingatore di quella gente priva di dignità. 
 

- Ave Cesare - salutarono in coro, con il braccio teso, i tribuni militari e i centurioni mandati da Afranio Burro per congratularsi dello scampato pericolo.

- Salute a voi, miei fedelissimi - ricambiò il saluto gioiosamente - La vostra dedizione mi esalta - esclamò infine osservando quei militari con il viso appoggiato sul palmo della mano.

- La vostra vita è la nostra, Cesare

- Si...si... ora andate pure, e ringraziate il prefetto Burro, che si preoccupa tanto della mia incolumità

Uno ad uno lasciarono la stanza del trono, quando si svuotò Nerone poté tirare un sospiro di sollievo e godersi la tanto bramata libertà - Finalmente quei rompiscatole se ne sono andati...l'ho sempre pensato che l'inquadramento militare fa ammattire il cervello...

Afferrò la cetra e mentre le sue dita scivolarono tra le corde dello strumento, la maschera di ebetudine indossata fino a quel momento si sciolse. 

Odiava doversi ancora mostrare come uno sciocco incapace, lo irritava profondamente, per fortuna il tempo della dipendenza era giunto al termine e tra non molto avrebbe rivelato la sua vera natura al mondo intero.

- Vi divertite alle mie spalle - irruppe una voce femminile dietro di lui che lo fece sobbalzare, ma non appena intuì chi fosse si tranquillizzò.

- Perdonatemi Poppea cara - si scusò arrossendo - Non mi hanno dato un attimo di tregua...inoltre non mi sono ripreso del tutto dalla sbronza... - confessò ridendo Nerone. Lasciò il primo e sincero amore per raggiungere quello nuovo e carnale.

- Allora sarò io la vostra cura... Nerone... - Lo prese per mano e lo guardò dritto nei suoi occhi chiari, azzurri come il più superbo dei cieli primaverili. L'imperatore si perse nel suo sguardo profondo, abissale e lasciò che fu lei a dominarlo quel giorno.
 

- Devi pagare per il tuo delitto...devi pagare per il tuo delitto...devi pagare per il tuo delittoooo! - ripetevano sempre più rabbiose tre strane figure alate dall'aspetto di donna.

Volavano intorno al povero Nerone, che aveva assunto l'aspetto di Oreste, uno dei matricidi più famosi della letteratura classica, molto conosciuto dall'imperatore  stesso. Era posizionato al centro di uno spazio vuoto, nero; si copriva le orecchie e gli occhi terrorizzato - Lasciatemi in pace... andatevene via da me!

- Ahhhhhhhhh - proseguirono le tre donne con la bocca spalancata ruotando vorticosamente attorno al malcapitato, il quale per difendersi dalla loro vendetta si mise in ginocchio, abbassando la testa.

- Non puoi sfuggire alla vendetta delle Erinni, delle Furie, hai commesso il matricidio, devi pagare con la tua vita! - aggiunsero le tre donne colpendolo violentemente sulla schiena con torce e fruste. Si avventarono su di lui e gli sfilarono le vesti.

- Voi non potete capire...ho dovuto farlo... - si giustificò angosciato, coprendosi la parte inferiore del corpo con le mani.

- Ahhhhhhhhhhh - fece di nuovo una della tre, Tisifone, strappandosi uno dei serpenti che sostituivano i capelli - Assassino...assassino...matricida...matricida...

Al monologo disperato si aggiunsero le altre due sorelle: Aletto e Megera, la prima gridava in ginocchio, stracciando rumorosamente le vesti di Nerone, la seconda, invece, non la smetteva di torturarlo lanciando i tizzoni ardenti sul corpo del giovane.

- Basta vi prego...la colpa non è mia...è di mia madre...è lei ad avermi rovinato la vita...io volevo solo essere me stesso e alla fine sono diventato imperatore...contro il mio volere...l'ho fatto per non precipitare nel baratro della follia...

Agrippina in persona apparve dinanzi a lui, Nerone tentò di nascondere la faccia, le Erinni, però, brutalmente gli tirarono i capelli e lo obbligarono a guardarla - Eccola tua madre - gli indicarono strattonandolo - Esattamente come tu l'hai contemplata, in preda al delirio

L'imperatore tremava di paura alla sua vista: i suoi capelli scomposti svolazzavano in aria, simili a quelli di Medusa, le vesti erano gronde di sangue rappreso, un tutt'uno con l'abito. Gli occhi erano stralunati, balenanti, furenti, i capillari talmente evidenti da ricoprire interamente la sclera bianca: rendevano ancora più sinistre le iridi chiare.

- Che tu sia maledetto, Nerone - digrignò  Agrippina, estrasse il pugnale dal ventre squarciato, alla vista del sangue zampillante il Princeps si sentì mancare - Non ci sarà posto riservato a te nei Campi Elisi, solo l'eterno vagabondare al di fuori dell'Averno, insieme a me - emise feroce la donna nell'atto di colpirlo. ‎La lama brillò sinistramente nelle sue pupille...

Un urlo agghiacciante squarciò la notte.

Ottavia, al fianco del Princeps si svegliò di soprassalto - Cosa succede altezza? 

Il marito non le rispose. La donna riuscì ad ascoltare solamente il suo respiro irregolare, affannato, e il battito accelerato del cuore.

Accese la candela e alla vista della luce Nerone si voltò verso di lei e terrorizzato indietreggiò - Vattene via! A...allontanati da me...non...non avrai la mia vita!

- Sono io Ottavia, vostra moglie, altezza - aveva intuito che il suo sonno era stato disturbato da uno dei suoi incubi inquietanti, era ancora bloccato nel mondo dei sogni - Non abbiate paura di me

Le sue pupille erano talmente ristrette da sembrare dei puntini minuscoli, doveva essere stato qualcosa di tremendo ad averlo scosso in quella maniera.

L'imperatore continuava ad emettere solo dei gorgoglii, come fosse un bambino spaventato che cercava la consolazione della mamma.

Ottavia si avvicinò piano piano al marito, accarezzò delicatamente sulla testa, poi lo strinse a sé. Nerone, quasi incosciente, incapace di discernere la realtà dall'illusione, credette di essere stato salvato da una divinità benigna, le permise, perciò, di toccarlo, di rassicurarlo e si calmò tra le sue braccia. 
 

In quella stessa notte, tra le vie della Capitale alcuni individui incisero i nomi di Alcemone e Oreste sui muri di parecchie abitazioni e nei vari cunicoli;  altri invece posarono, sul braccio destro della statua dell'imperatore, presente nel Foro, un sacco di cuoio, simbolo dei matricidi.

I nemici di Nerone cominciarono ad emergere dal fondo della massa credulona e trovarono in quel delitto il pretesto per poter diffondere a gran voce il proprio dissenso ed odio nei confronti del Princeps. 
 

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Capitolo 28
*** Capitolo 27 - ...ma si risveglia nella sventura - ***


"Itaque non aqua, non igniut aiuntlocis pluribus utimur quam amicitia. 
Neque ego nunc de vulgari aut de mediocri, quae tamen ipsa et delectat et prodestsed de vera et 
perfecta loquorqualis eorum, qui pauci nominanturfuitNam et secundas res splendidiores facit 
amicitia et adversas partiens communicansque leviores." 
Cicerone, Laelius De amicitia, 22

3 luglio

- Allontanatevi da me...Ottavia maledetta! - sbottò Nerone, balzò in piedi, puntando il dito contro di lei, caduta rovinosamente al suolo.

- Ma altezza...- soffuse la donna a testa bassa - Io...volevo solo... - trattenne a stento le lacrime.

- È solo colpa vostra... - gridò il marito con gli occhi spalancati, continuando ad additarla: colpevole ai suoi occhi, di averlo consolato, senza il suo consenso - Se sono in questa drammatica condizione è solo per colpa vostra, voi mi avete costretto a uccidere mia madre!

Lo guardava con un'espressione tra lo stupore e la delusione - Ma cosa dite, altezza? Non lo avrei mai...

- Credete che io sia uno stupido?! - sbraitava l'imperatore raggiungendola e sollevandola da terra per guardarla dritta negli occhi. Ottavia cominciò a tremare nel vederlo sul punto di scoppiare dall'ira:  sarebbe stato incontrollabile.

Poppea stava seduta sul triclinio accanto a quello dell'imperatore, osservava compiaciuta la vicenda: vedere l'umiliazione nello sguardo di quella donna le donava una soddisfazione che nemmeno la morte dell'Augusta le aveva fatto provare appieno.

Il Princeps fece cadere nuovamente la moglie, abbandonando l'idea di picchiarla a sangue: non sarebbe servito di certo a placare lo spirito vagante della madre, anzi avrebbe peggiorato il tutto - Ottavia...se non volete morire quest'oggi sparite dalla mia vista - le lanciò un'occhiata colma di odio e rancore, strinse i pugni e le diede le spalle.

La donna non se lo fece ripetere, si alzò dolorante e, ringraziando in cuor suo gli dei per averla risparmiata dal suo furore, uscì immediatamente dalla sala del trono per rifugiarsi in quella da letto, vi trovò alcune ancelle, a quel punto lasciò andare, in un lungo pianto, tutto il suo dolore.  
 

- Perché l'avete lasciata andare? - le rimproverò Poppea adirata - Era la vostra occasione per rinfrancare la vostra anima

- La mia o la vostra? - le domandò freddamente Nerone.

Spiazzata da quella domanda, Poppea rimase a bocca aperta, incapace di rispondergli; le tornarono alla mente le parole di Locusta e si rese conto, per la prima volta, dell'acutezza di Nerone.

"Non è affatto come credevo, ha usato la maschera della stupidità anche con me...quella donna aveva ragione!" una goccia di sudore le scese lungo la fronte "Cosa è realmente in grado di fare? Fin dove può spingersi ora che non ha freni?"

- Andatevene pure voi, Poppea, desidero restare da solo...con Locusta... - proferì atono.

- Ma...ma come? Preferite la compagnia di quella strega alla mia! Non vi basto più... - balzò sorpresa verso di lui, stranamente pacato. Si accomodò sul trono.

Vedendola irremovibile, ordinò alle guardie di accompagnarla delicatamente fuori - Quando uscite, mandatela a chiamare - comandò all'amante trascinata dai pretoriani - Se non lo farete, non sperate di vedere ancora il giorno, Poppea... 
 

Non appena rimase da solo nella stanza sentì l'angoscia salirgli fino alla gola, e lo smarrimento si fece strada nel suo spirito: riecheggiarono nella sua mente le urla delle Furie e quelle della madre, la testa riprese a pulsargli.

Si alzò dal trono per dirigersi verso la finestra per respirare un po' d'aria fresca, ma non riuscì ad arrivarci, cadde in ginocchio coprendosi le orecchie - Anche di giorno dovete rammendare la mia colpa? Non vi basta più il tormento notturno? - gridò disperato alzandosi lentamente in piedi. 

In cuor suo sperava che Locusta arrivasse in fretta, aveva bisogno del suo conforto e dei suoi consigli, era l'unica in tutto l'Impero a comprenderlo fino in fondo, di tranquillizzarlo completamente.

E soprattutto per evitare che compisse su se stesso qualcosa di tremendo.

Ogni volta che perdeva la calma, non riusciva ad avere più controllo sulle sue azioni, era guidato solo dalla parte più primitiva e crudele dell'umanità, dalla rabbia, dal dolore, non era conscio di ciò che faceva; quando, però, la ragione riprendeva le briglie delle emozioni,  leggeva nelle espressioni di tutti coloro che assaggiavano la sua furia, il terrore più puro.

Lo stesso che aveva intravisto qualche istante prima negli occhi di Ottavia.

- A cosa mi sta spingendo il mio istinto di sopravvivenza? - chiese alla figura riflessa nello specchio - A diventare un mostro, come sono stati mio zio e mia madre...

Vide sovrapposti alla sua immagine, quelle di Caligola e di Agrippina, entrambi con la follia scintillante nei loro sguardi e il ghigno maligno disegnato sulle labbra - Lucio Domizio Enobarbo, ora denominato Nerone Augusto, tu sei uno di noi, hai il nostro sangue, non puoi soffocare i tuoi istinti, sei destinato alla perdizione eterna - la loro voce, sovrapposta e sinistra, sembrava provenire dalle viscere dell'Averno.

L'imperatore ancora una volta incapace di discernere il sogno dalla realtà, tentò di allontanarsi, atterrito, da quello specchio maledetto, tuttavia il pavimento sembrò scivolargli dai piedi e di non avanzare di un solo passo dalla sua posizione - Per quanti sforzi tu possa fare non riuscirai mai a sottrarti al tuo destino di assassino - le disse la figura allo specchio dalla doppia testa: una di Caligola e l'altra di Agrippina, il corpo da essere umano e gli arti inferiori e superiori, simili alle zampe di un avvoltoio.

- Non è vero, io sono migliore di voi, io sono un... - fu acchiappato per i piedi dalla zampa di quel mostro, gli lacerò le carni, il ragazzo sbatté il mento, e cominciò ad essere trascinato all'interno dello specchio - No, non voglio, aiutoooooo

- Chi vuoi che ti salvi? Nessuno ti è amico in questo mondo! Se ci seguirai incontrerai tutti i coloro che avevano fiducia in te e sono morti per causa tua

Nerone si voltò per cercare di staccare la presa di quella dannata zampaccia, tutto d'un tratto apparve l'ombra di quella che fu per lui più di una madre piangere sangue - Perché mi hai tradito, Lucio? Perché l'hai fatto? Io che ti ho donato tanto amore...

La bocca del Princeps tremolava nel vedere la sua adorata zia ridotta in quello stato e i suoi occhi si gonfiavano di lacrime "A cosa serve chiedere perdono? Non ritornerà in vita, sono solo un vigliacco"

Si coprì il volto con le mani sporche di sangue, poi le guardò, alzò lo sguardo verso la figura mostruosa - Hai ragione mostro, nessuno mi è amico finché rimango vivo, senza di me, Roma starà senz'altro meglio, portatemi con voi, nell'oblio perenne...

- Mio imperatore...mio imperatore svegliatevi, vi prego - udì improvvisamente una voce ovattata, dolce, familiare. La riconobbe.

- Locusta...siete venuta a salvarmi... - emise gioioso - Quasi non ci speravo più...

- Non la raggiungerai, ora verrai con noi - il mostro afferrò le cosce del Princeps con veemenza.

Una goccia d'acqua bagnò la fronte di Nerone e la figura mostruosa, tra strepiti e gridolini, assieme al suo inferno, si dissolse nel nulla.

L'imperatore aprì lentamente gli occhi e si rese conto di avere un panno bagnato sulla fronte - Mio imperatore, mi avete fatto prendere uno spavento...

- Da quanto tempo siete qui? - la interruppe mettendosi ritto; si accorse di essersi appisolato sul trono "Allora è da quando ho mandato via Poppea che mi sono addormentato"

- Da non molto tempo, mio imperatore, sono corsa subito dopo aver ricevuto il vostro ordine - le rispose preoccupata, seppur avesse intuito cosa fosse accaduto al suo adorato Nerone - Avete di nuovo avuto un incubo?

L'uomo abbassò la testa e deglutì a fatica un groppo di saliva - Aiutatemi vi prego...siete la sola in tutto l'Impero in grado di farlo

Locusta lo fissò e provò un senso di impotenza che represse immediatamente: il suo compito era quello di tranquillizzare l'imperatore, se gli avesse riferito della sua totale inutilità, probabilmente Nerone avrebbe tentato di uccidersi.

- So perché mi guardate così... - la voce incerta del giovane frenò il flusso dei suoi pensieri, ma non la sua preoccupazione - State pensando che è colpa mia se mi ritrovo in questo stato - entrambi sospirarono, Locusta quasi sollevata, l'imperatore per rassegnazione - Avete ragione, la colpa è tutta mia, solo e soltanto colpa mia...

- Non dite questo, mio imperatore, l'avete fatto per il bene dell'Impero...

- Sapete che non è così, l'ho fatto solo perché sono un egoista e un fifone - ammise Nerone quasi piangendo, si mise le mani tra i capelli con l'intenzione di trattenere le lacrime, si ripromise di non versarne mai più una dopo la morte della zia - Credevo di poter essere felice, libero, mostrando al mondo il mio coraggio, la mia determinazione, invece non ho fatto altro che dimostrare la mia codardia, mia madre aveva ragione, sono una vergogna per la mia famiglia, un fallito

Locusta si avvicinò al giovane e gli cinse le larghe e possenti spalle, Nerone, la guardò stupito dal suo atteggiamento che a molti sarebbe sembrato spudorato, privo di ritegno.

Per lui, invece, fu un'altra grande dimostrazione del suo affetto, della sua fedeltà: si vergognò di riceverne in maniera così delicata, sincera, elevata da una donna che avrebbe potuto essere sua madre, le sorrise quasi commosso - Vi ricordate quando vi dissi che non avevo mai sperimentato l'amicizia con una donna, ora posso dire di essere fortunato ad averlo conosciuto grazie alla vostra dedizione, Locusta

Lei ricambiò, tuttavia il fievole sorriso della donna svanì immediatamente "Nerone mi vuole bene come farebbe un amico, ciò mi onora, essere considerata al pari di una delle persone più stimate dall'imperatore è un privilegio riservato solo agli eletti, ovviamente io non mi considero tale, nel profondo resto sempre e solo una liberta, una barbara proveniente dalla Gallia, però, proprio in nome di questa profonda amicizia sento il dovere di dirgli la verità, è per il suo bene, devo farlo"

Velocemente ritrasse le braccia da lui, si alzò e si allontanò per pochi passi - Mio imperatore...io... - l'esitazione la bloccò, ma non si lasciò sopraffare da essa, perciò strinse i pugni - Io non posso aiutarvi...

- Co...cosa? - balbettò il Princeps tremante - No, non può essere...anche voi...

- Mio imperatore, cercate di capire, se nemmeno i Mani legati a Giulia Agrippina, divinità minori il cui culto è celebrato nell'ambiente familiare, ai quali voi avete dedicato più di un sacrificio, non hanno placato il suo spirito, che continua a vagare senza pace all'esterno dell'Averno, cosa possono fare i miei infusi e le mie erbe? Io non ho simili poteri, mio imperatore, io posso curare le ferite superficiali sia del corpo, sia dell'anima, ma non saprei come penetrare in profondità, specialmente se ciò riguarda la spiritualità e il mondo dei morti - confessò la donna tutto d'un fiato, cercando di trovare una soluzione efficace.

Si aspettò un lungo piagnisteo, un attacco d'ira o un rimprovero per la sua inutilità,  all'opposto, un lungo e pesante silenzio aleggiò per diversi minuti nella stanza. Temette per la sua incolumità, fu sul punto di giustificarsi, di scusarsi, di prostrarsi ai suoi piedi invocando la sua pietà, quando fu Nerone stesso a bloccarla: la sua espressione determinata non la rassicuro per nulla.

- Allora non ci resta che una cosa da fare, Locusta - rivelò convinto - Recarsi in Grecia, ad Eleusi, presso il tempio di Demetra o Cerere come denominata qui a Roma, nel periodo della semina - sentenziò l'imperatore - E voi verrete con me

- Co...cosa? Io insieme a voi...no non sono degna di questo incarico, mio imperatore, avete Poppea al vostro fianco, lei è senz'altro più adatta - rifiutò imbarazzata Locusta. "In terra di Grecia? No, sono solo una liberta, inoltre non conosco una parola di greco..."

- Poppea per quanto sia una di estrema intelligenza e raffinatezza ed abbia un profondo interesse per l'Oriente come me, ‎non ha la vostra resistenza, la vostra tenacia, Locusta, il vostro passato di schiava in questo caso si rivelerà utilissimo, in quanto avete una capacità  di adattamento maggiore rispetto alla mia Poppea, e poi siete la mia più cara amica

- E va bene, mio imperatore - lo zittì l'avvelenatrice, si fece forza e decise di accontentarlo, avrebbe accettato qualsiasi suo capriccio, compromesso pur di rasserenarlo - Ma state attento a non sottovalutare Poppea Sabina, quella donna è tremenda - l'ammonì scherzosamente Locusta, evitando di allarmarlo ulteriormente. "Oltre ad essere estremamente subdola...spero di non pentirmi un giorno di aver taciuto questo dettaglio..."

Fu sollevata letteralmente di peso da un Nerone al settimo cielo, la fece roteare attorno a sè - Mi avete reso felice, vi dedicherò un componimento - rise il ragazzo, rivelando nuovamente la freschezza dei suoi 21 anni.

"Non ce n'è bisogno, Nerone, a me basta soltanto vedervi sorridere" si disse invasa da una malinconica allegria.

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Capitolo 29
*** Capitolo 28 - Caelum, non animum mutant qui trans mare currunt - ***


"Animum debes mutare, non caelum. Licet vastum traieceris mare, licet, ut ait Vergilius nosterterraeque urbesque recedantsequentur te quocumque perveneris vitia"
Seneca, Epistulae ad LuciliumXXVIII, 1

Anzio, 10 luglio

Locusta osservava l'orizzonte lontano dalla finestra di una delle tante stanze presenti nella villa di Nerone: durante quei giorni l'imperatore non aveva smesso di pensare a quel viaggio, per lui era una questione di sopravvivenza. Eppure sentiva dentro di sé che anche quella soluzione non avrebbe risolto il suo problema.

- Il mare di luglio è così bello! - emise il Princeps sopraggiunto alla sue spalle.

Locusta ebbe un sussulto e si voltò - Mio imperatore...

- È ancora più affascinante di quello primaverile, non lo trovate anche voi? - gli chiese dolcemente il ragazzo. Si avvicinò a passi svelti alla donna e con un gesto repentino spalancò totalmente la finestra - Lasciate che un po' di questa nostalgica brezza entri pure qui dentro prima di partire, Locusta

Un vento caldo e leggero entrò all'interno della stanza, portando con sé la potenza di quella torrida stagione. Locusta chiuse gli occhi e lasciò che gli scompigliasse leggermente i capelli: provò nuovamente quel senso di libertà che credette di aver perduto da quando si mise al servizio dell'imperatore - Avete ragione, mio imperatore, il mare in estate sembra diffondere nell'aria una melodia meravigliosa

- È la danza dell'estate, il suo saluto che sussurra a tutti coloro che sono in grado di ascoltarlo... - sospirò Nerone spostando lo sguardo verso l'infinito - Da bambino mi dilettavo ad inventare dei dialoghi tra il vento e il mare, era un modo per non sentirmi solo

La donna percepì la sofferenza velata in quelle parole: fu proprio la solitudine, la privazione di un amore così vitale come quello materno a renderlo così dissimile dagli altri romani e più simile a lei, nonostante i destini sembrassero, a prima vista, così diversi; ciò gli permise, fin dalla più tenera infanzia, di guardare il mondo con altri occhi.

- Grazie, mio imperatore - accennò un tenue sorriso.

Quel ringraziamento ridestò l'imperatore dai suoi pensieri, ruotò lievemente la testa per osservarla - Per cosa? - domandò sbattendo le palpebre ripetutamente.

- Ma come? Vi siete dimenticato della promessa! - trattenne a stento un risolino.  
Ci pensò per qualche secondo fino a quando il ricordo riaffiorò prepotentemente nella sua mente, si diede un colpo alla testa - Ah si! Che sbadato! La promessa di portarvi ad Anzio per osservare il mare!

Locusta scoppiò a ridere fragorosamente quando scorse l'imbarazzo iniziale di Nerone il quale si tramutò subitamente in coinvolgimento "Il modo migliore per far dimenticare il dolore all'uomo è la risata". 
 

Al largo del Mar Tirreno, 19 agosto

L'imperatore era al comando della nave mercantile che stava conducendo lui, Locusta e i servi presso la città di Eleusi, una città situata a 20 chilometri a nordovest da Atene, sul golfo Saronico, per assistere ai Misteri Eleusini che si svolgevano ogni anno nella suddetta città.

Nonostante i marinai avessero pregato più e più volte il Princeps di lasciar stare un lavoro così ingrato, lui insistette risolutamente, strappò di mano il timone ad uno di loro, il quale non poté far altro che obbedire in silenzio, incoraggiando anche i suoi colleghi a fare lo stesso.

Le condizioni climatiche erano ottimali, nonostante fosse autunno inoltrato: il mare era lievemente increspato dal vento che permetteva di gonfiare le vele della nave oneraria, cioè da carico, e di procedere ad una velocità superiore a quella che si otteneva con la sola forza dei remi nei periodi di bonaccia.

Improvvisamente il vento cessò di soffiare, il mare divenne piatto e la nave si fermò - Qualcuno venga qui a dirmi cosa devo fare...non so gestire una nave durante la bonaccia! - gridò Nerone in preda all'ansia crescente - Marinai...Locusta....venite ad aiutarmi...per...per favore!

Il silenzio perdurava: nessun vocio proveniva dalle altre piccole stanze, persino lo stormire degli uccelli si era placato. Spostava lo sguardo a destra e sinistra cercando di non andare nel panico: ispirava ed espirava profondamente per non far avanzare l'angoscia. 

Quando si accertò dell'assoluta calma del mare lasciò il timone per andare a chiamare qualcuno: controllò in ogni cabina e non trovando nessuno, si formò nella sua mente la certezza che fosse rimasto solo, bloccato in mare aperto.

Stava per urlare disperatamente,  quand'ecco che si accorse in lontananza di Locusta la quale si era addormantata, probabilmente, stremata per via del lungo viaggio - Siano ringraziati gli dei!

Con la gioia ritrovata corse verso di lei per svegliarla e raccontarle dell'accaduto, ma non appena la raggiunse per svegliarla notò che il suo viso coperto dalla mantellina "Strano, Locusta non è il tipo che indossa la palla molto spesso e soprattutto in questo modo così sgraziato - lo sfilò velocemente e scoprì con orrore che invece del dolce volto della donna c'era un nido di gigantesche formiche alate.

Senza neanche dargli il tempo di urlare e di fuggire gli insetti volanti si avventarono su di lui. A prima vista gli era sembra un centinaio, invece si moltiplicavano a vista d'occhio. In pochissimo tempo il suo corpo fu interamente ricoperto da quei terrificanti esseri infernali; si impegnò a non aprire la bocca, per impedire che entrassero anche dentro il suo corpo. Lottò con tutto sé stesso per non urlare e muoversi.

D'un tratto la nave sbandò e Nerone cadde rovinosamente a terra, istintivamente emise un gridolino e credette di essere stato divorato dall'interno, di conseguenza spacciato, però, non fu così.

Com'erano apparse, così quelle enormi formiche alate erano scomparse, ma c'era poco da rallegrarsi: la nave si stava muovendo. "Chi sta al timone di questa maledetta nave?".

Si alzò barcollando e corse immediatamente a fermare quel pazzoide impossessatosi del mezzo "Più facile a dirsi che a farsi, chiunque stia governando la nave non sembra avere alcuna esperienza di navigazione". 

Tra un ondeggiamento e l'altro l'imperatore si trovò alle spalle del conducente, una donna; questo particolare non lo rassicurò per nulla: l'abbigliamento ricercato e l'atteggiamento altezzoso e arrogante lo trassero in inganno: credette che si trattasse di Agrippina, con sua sorpresa, intuì che fosse - O...Ottavia...voi qui?!

- Preparatevi a giungere nelle tenebre più profonde altezza imperiale - sogghignò sinistramente la donna, voltatasi - Insieme a me, vostra unica e legittima consorte, così come gli dei hanno stabilito! - aggiunse mentre il cielo si tinse di nero e in lontananza si formò una grotta dalla quale provenirono urla e pianti.

- No, non voglio morire con te...se proprio è necessario, farò da me...

- Un codardo come voi non avrà mai il coraggio di togliersi la vita, un meschino del vostro livello può solo procurarla agli altri che lo circondano e se permettete io non voglio essere tra le vostre vittime! - rinfiacciò adirata la donna, staccò con una facilità impressionante il timone e glielo lanciò contro

‎Immobilizzato dal terrore Nerone non riuscì a schivare il colpo che lo fece volare fino e oltre il bordo della nave, il quale si ruppe: giovane cadde in mare maledicendo il nome della moglie.
  

Grondante di sudore l'imperatore aprì gli occhi e si trovò al suo fianco Locusta, inginocchiata. Gli reggeva la testa con la mano sinistra e gli asciugava il collo, era semisdraiato sul bordo della nave - Un altro di quei maledetti incubi... potrò avere un po' di pace... - piagnucolò il Princeps.

- Resistete un altro po', mio imperatore - lo tranquillizzò Locusta suadente - Appena arriveremo in Grecia vi sentirete meglio - gli allungò della tisana ottenuta dalle foglie del biancospino - Raccontatemi pure del vostro incubo, è sempre bene confidarsi con qualcuno di cui potete fidarvi

- Meno male avete deciso di seguirmi, Locusta, avevo bisogno del vostro supporto morale - si mise in posizione seduta e afferrò lentamente la ciotola, narrandogli per filo e per segno forse il più spaventoso di tutti i suoi incubi.

- Ottavia! - esclamò Locusta quasi sconvolta - Ma lei è ancora viva...come...

- Non lo so nemmeno io, Locusta - emise l'imperatore - Ma non vorrei che fosse un messaggio degli dei...

- Un ammonizione a non commettere più questi misfatti - continuò l'avvelenatrice percependo l'agitazione di Nerone - Non temete, vedrete che si sistemerà tutto, ora cercate di non pensarci e riposatevi

- Avete ragione, non serve a nulla lasciarsi sopraffare dall'ansia, come sempre devo ringraziarvi, se non fosse per voi

- Non lusigantemi è un dovere per me - sorrise - Oltre che un immenso servirvi

Rassicurato da quella flebile speranza l'imperatore si lasciò andare tra le braccia di Morfeo. 
 

Eleusi, 29 settembre

Nerone si sentiva osservato in quella città, come se qualcuno tenesse puntato continuamente l'occhio su di lui. Per quanto si sforzasse di tranquillizzarsi non ci riusciva, le sue macchie sembravano essere messe a nudo in quella poleis.

- Cosa facciamo, mio imperatore? - la domanda di Locusta gli fece venire quasi un infarto. 

- Ehm...non...non lo so...dovremmo aspettare che...che gli iniziati arrivino da Atene...per riportare nel tempio gli hiera, gli oggetti sacri - le rispose guardingo. 

- E quanto ci vorrà?

- Non...non molto credo...dovrebbero arrivare da quella strada, la Via Sacra, che collega Eleusi e Atene... - indicò Nerone con il dito.

- Non avrei mai immaginato che le città greche fossero così arieggiate, qui si respira aria fresca a pieni polmoni e non quell'opprimente ristagno che sale dalla capitale - confessò Locusta ridendo; tentò di rinfrancare un po' l'imperatore, senza risultati.

- Andiamo...ora - ordinò cupo, incamminandosi - E mi raccomando cercate di esprimervi in greco, è il modo più sicuro per evitare fraintendimenti...

- Anche se non lo so parlare correttamente, riesco a comprenderlo ormai, mio imperatore, non preoccupatevi per me

Detto ciò si incamminarono verso l'acropoli sulla quale sorgeva il mastodontico tempio di un bianco così lucente che pareva brillare, anche da lontano emetteva potenza e sacralità.

Nerone stesso le aveva detto che in quel tempio poteva entrare chiunque, anche schiavi e persino uomini e donne che praticavano i culti e appartenevano alle religioni più disparate. Non esisteva altro luogo al mondo come quello e in cuor suo si sentiva davvero fortunata ad essersi recata in quella città.

Tuttavia non poteva esprimere tutti i suoi sentimenti poiché aveva intuito che qualcosa turbava profondamente il suo imperatore, come se qualcosa lo tenesse avvinghiato al mondo di angoscia e disperazione che ogni notte si manifestava nei suoi sogni. Stette al suo fianco, silenziosa. 
 

- Eccoci siamo arrivati! - esclamò l'imperatore ai piedi del tempio.

Sulla sommità vi era un bassorilievo recante l'immagine di Demetra/Cerere che stringeva tra le mani le spighe di grano; quell'immagine le fece ricordare dell'importanza di quella dea: colei che donava la vita agli uomini attraverso i frutti della terra.

La sera aveva ceduto il posto al giorno. ‎Nerone non era per nulla stanco e affaticato, era abituato a percorrere lunghi sentieri e gli esercizi fisici che compiva lo tenevano sempre in forma, nonostante qualche rotondità apparsa sui fianchi.

Locusta, al contrario, era senza fiato, gli agi della vita sul Palatino avevano imprigrito il suo fisico, però non si era lamentata, anzi ringraziava intimamente l'imperatore per aver stimolato il corpo e lo spirito attraverso quella salita.

Mancarono pochi passi all'entrata, l'attesa sarebbe finalmente finita, ma ecco che un uomo sbarrò la strada a Nerone con un bastone. L'imperatore tremò e gli rivolse, timoroso, lo sguardo - Gli empi e i sacrileghi non possono mettere piede in questo luogo - sentenziò imperiosamente l'araldo avendo saputo da alcune autorità religiose dell'imminente arrivo dell'imperatore.

Locusta si aspettò un impeto di ira,  invece, scrollatosi di dosso ogni paura, il Princeps si rivolse a lui in un perfetto e superbo greco, dicendo - Sono venuto qui proprio per rimediare ai miei errori, entrando a far parte degli iniziati...i mystai...io...

- Le vostre colpe sono troppo grandi per poter essere cancellate e purificate in questo sacro luogo, altezza - lo bloccò freddamente il banditore.

- Ma...ma non avete capito che lui ha dovuto farlo, voi vi affidate solo sulle calunnie diffuse dai suoi nemici - sbottò furiosamente Locusta.
 

Una nenia iniziò in quello stesso istante nel sacro tempio di Demetra: "All'inizio era il Caos (l'abisso) da cui sorsero Gaia (la terra) ed Eros (l'amore). Gaia generò un essere uguale a sé, capace di coprirla tutta intera: Urano (il cielo)". I Mysteria erano iniziati.
 

- Chi non è degno non può entrare qui, anche se si tratta dell'imperatore in persona, queste sono le condizioni, chi non le accetta deve andarsene

- Ciò non diminuisce la vostra ottusità...

- Basta, Locusta! - abbaiò Nerone - Non serve a nulla discutere con lui e i suoi simili, sono inutili, sprecati, come tutte le divinità, quando gli uomini hanno bisogno di aiuto e consigli gli voltano le spalle
 

"Zeus ebbe una figlia da Demetra (Madre Terra): Persefone, chiamata anche Kore (la fanciulla).

Persefone, mentre coglieva fiori nella pianura sotto il monte Nysa, venne rapita da Ade. Demetra cercò la figlia per nove giorni e rimase tutto il tempo senza mangiare. Infine Elios (il sole) le rivelò che Zeus aveva deciso di dare Persefone in sposa ad Ade.

Demetra, piena di dolore, abbandonò l'Olimpo e si diresse verso Eleusi, dove, travestita da vecchia, divenne nutrice di Demofonte, figlio di Metanira e di Celeo, re di Eleusi. Tramite il rito del fuoco voleva rendere Demofonte immortale, ma il rito venne interrotto da un improvviso intervento di Metanira. Allora Demetra si rivelò e ordinò che le venisse costruito un tempio per insegnare i suoi riti agli umani. Il santuario venne edificato e la dea vi si ritirò..." continuavano nel tempio, tra danze e canti, incuranti di ciò che accadeva all'esterno in quel momento. 
 

- Come osate, proprio voi che siete l'imperatore e Pontefice Massimo - ringhiò l'araldo furente; battè con furore il bastone al suolo.

- Noto con piacere che conoscete il latino, almeno mi avete risparmiato la traduzione, ero venuto qui per accertare alcune supposizioni riguardo le religioni,  che si sono rivelate esatte - rise sarcasticamente, disse poi a Locusta - Salpiamo immediatamente per Delfi, all'oracolo avrò dei consigli molto più utili di tali ciarlatanerie - lo fissò silenziosamente "Almeno ora ho compreso il senso di quell'incubo in cui il cammino mi era impedito da alcune statue raffiguranti divinità e imperatori che mi circondavano".
 

"Rea venne inviata sulla terra da Zeus per raggiungere un compromesso: Persefone venne restituita a Demetra, con la condizione che un terzo dell'anno Persefone l'avrebbe dovuto passare con Ade nel regno dei morti.

Il ritorno di Persefone sulla terra pose fine alla siccità e la vegetazione tornò a fiorire". 

 

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Capitolo 30
*** Capitolo 29 - Vulpes pilum mutat, non mores - ***


"Ut quo quisque valet suspectos terreat utque 
imperet hoc natura potens, sic collige mecum, 
dente lupus, cornu taurus petit: unde nisi intus 
monstratum?" 
Orazio, Satire, II, 1, v. 50-53

Roma, 6 maggio 62 d.C.

- Lasciatemi passare! Sono l'imperatore, ho il diritto di vederlo di persona - sbottò Nerone strattonando il medico di corte.

- Ha detto categoricamente di non voler essere disturbato - tentò di calmarlo il medico - Bisogna rispettare la volontà del paziente

Nerone non aveva dimenticato la complicità del precedente medico Senofonte Gaio con sua madre Agrippina quando avevano deciso di uccidere Claudio per far salire al trono lui. Come si potevano eliminare dalla mente quei ricordi torbidi e iniqui? Quel marciume lo aveva compromesso per sempre.

"Spero solo che le condizioni del prefetto Burro non si siano aggravate per colpa sua, altrimenti non esiterò a punirlo personalmente" si disse un istante prima di irrompere nella stanza in cui fu collocato il suo fidato consigliere e prefetto.

Quando Afranio Burro lo vide avvicinarsi preoccupato, comprese della sincera e profonda amicizia di quell'imperatore così bizzarro e inusuale, voltò il capo e gli riferì con orgoglio - Io sto bene!

Nerone sorrise sinceramente, gli mise una mano sulla spalla robusta e senza dire nulla se ne uscì "Guarite presto,  amico mio, so che siete forte, ma vedervi in forma farà stare meglio anche me".

- Grazie per tutto ciò che avete fatto per me, altezza, non dimenticherò la vostra amicizia e la vostra fedeltà, quando giungerò nei Campi Elisi - sussurrò tra sé il prefetto - Siete stato l'unico veramente sincero con me, nessun altro mi ha mai trattato come avete fatto voi, ve ne sarò debitore, Nerone

Burro sapeva di avere le ore contate, quell'infiammazione alla gola che aveva contratto qualche settimana prima si era aggravata e probabilmente qualcuno lo aveva avvelenato.

Tuttavia i suoi sospetti non caddero su Nerone.

Il Princeps lo aveva fatto allontanare dal Palatino qualche mese prima, insieme a Seneca, e gli aveva confessato dell'irritazione provata dopo che gli aveva riferito di non approvare l'organizzazione del matricidio, nonostante ciò, l'imperatore non aveva smesso di volergli bene in segreto. Lui questo lo sapeva, e quella visita veloce e silenziosa lo confermava.

"È solo un modo per mostrare la mia indipendenza, prefetto Burro" quelle parole sincere riaffiorarono nella sua mente e lo fecero sorridere - Siete sempre stato un tipo strano, Nerone, con una logica tutta vostra... 

7 maggio

- Come sarebbe dire che è morto? - chiese sconvolto l'imperatore - Era una semplice infiammazione alla gola...

- Ha avuto delle complicazioni

- No...non di nuovo - il Princeps ebbe una sensazione di dejavù, quelle parole, quella situazione, terrorizzato si coprì il viso con le mani - L'ho lasciato morire...ho lasciato morire un'altra persona a me devota...senza muovere un dito...

- Non dite così, mio imperatore - lo rassicurò Locusta - Burro era un uomo orgoglioso e solitario, che non amava molto le lusinghe, però, penso che prima di spirare abbia pensato a voi...

Nerone, colto da improvvisa commozione, la abbracciò - Oh Locusta, Locusta adorata, come potrei fare senza di voi, siete la mia consolazione 
 

Un giovanissimo messo bussò insistentemente alla porta di una delle tante domus presenti nella Capitale - Ho un'informazione importantissima per voi, Sofonio, aprite vi prego...

Il padrone di casa aprì lentamente la porta e lasciò che il messaggero entrasse, non appena ebbe richiuso la porta, lo afferrò per la toga e lo scaraventò contro il muro - Quante volte ti ho detto di non chiamarmi in quel modo! - gridò con la sua voce cavernosa; il messo, dopo essersi rialzato, se lo trovò davanti e per poco non si mise ad urlare pure lui - Io sono Gaio Ofonio Tigellino, l'hai capito adesso oppure devo usare le maniere forti?

- S...si, Ti...Tigellino, ho...ho capito... - balbettò il povero messo rialzandosi tutto tremante e spaventato. La figura mastodontica di Gaio Ofonio lo sovrastò completamente.

- Così va meglio - ghignò malignamente a braccia conserte - Riferisci la notizia e poi sparisci

- E...ecco...mi...mi hanno riferito della morte del prefetto Burro... - rivelò spaventato. 

Una luce sinistra si accese negli occhi neri ed abissali di Tigellino, scoppiò a ridere rumorosamente. La sua voce pastosa lo rendeva ancora più terrificante - Finalmente è crepato, questa è una splendida notizia, per me ovviamente, da tanto aspettavo una svolta radicale nella mia vita

- A...allora posso andare? - domandò flebilmente il messo. Non si accorse di una lama che brillava a pochi millimetri da lui.

- Certamente, ragazzo mio, vai pure - gli infilzò fino in fondo il pugnale nell'addome - Raggiungi il caro Burro nell'Averno e ringrazialo da parte mia, ora che non mi servi più - rise sguaiatamente indietreggiando ed osservando sadicamente il corpo squarciato cadere violentemente al suolo.

- Che... Che tu sia...maledetto...mostro - soffuse sputando violentemente un grumo di sangue ed esalò l'ultimo respiro.

- Maledetto...lo sono fin dalla nascita, ragazzino impertinente... - tirò un violentissimo calcio all'ormai cadavere in direzione della stanza dei suoi schiavi - Il fatum ha voluto che io nascessi in una famiglia di umili contadini, la plebe più infima, in uno sperduto paesino della Sicilia...se non è maledizione questa... - la sua espressione passò dal disgusto alla risata nevrotica - Io sarei un mostro? Non è forse, questa società, in cui solo i più potenti e ricchi hanno la meglio, a renderci tali?

Prese la frusta e la sbatté ripetutamente sul pavimento - ‎Schiavi! - ringhiò ferocemente.

- Si padrone ordinateci e noi eseguiremo -  cantilenarono tre macilenti schiavi con il capo chino, aspettando l'ennesimo rimprovero da parte del loro crudele padrone.

- Non sapete dire altro - sputò Tigellino schifato - Come siete patetici, voi schiavi, con quelle facce smunte così pietose...così vomitevoli...ancora non capisco perché vi tengo in vita...

Il tre schiavi tremarono di paura, Tigellino rise ancora una volta e disse - Sbarazzatevi di questo viscido verme e preparatemi il cavallo, oggi mi presenterò al Palatino da quell'imperatore babbeo e inizierà la mia ascesa, gestire l'ordine pubblico e gli incendi notturni non è il massimo, una volta ottenuto il ruolo di prefetto del pretorio potrò ridere in faccia al Destino che mi voleva morto di fame tra i sobborghi della città e fargliela pagare a tutti coloro che mi hanno sempre considerato un plebeo fallito e senza futuro

- Agli ordini padrone!

- Ringraziate gli dei se vi risparmio la razione di frustate giornaliere, oggi è un giorno speciale e voglio essere clemente con dei cagnetti ubbidienti come voi

Detto ciò corse a prepararsi in maniera consona all'occasione tra i sospiri di sollievo degli schiavi. 
 

- Voglio che Burro sia celebrato con tutti gli onori! - esclamò teatralmente Nerone ad uno dei suoi consiglieri - Degni di un console, è stato un uomo che ha servito l'impero con uno zelo visto solo in pochi

- E per il posto da prefetto del pretorio?

- Ci penserò su, devo trovare un uomo che sia all'altezza del compito e di Burro, che abbia la disciplina e la durezza necessaria, non certo uno come me!

Un liberto affatico dalla corsa entrò nella stanza del trono, dimenticandosi di bussare alla porta, ed emise - Il prefetto dei vigili Tigellino desidera parlare con voi, o Cesare e urgentemente

- Tigellino? È da tanto che non si fa vedere da queste parti, quel tipo - rifletté massaggiando il doppio mento - E dove si trova?

- All'ingresso, altezza, sta discutendo animatamente con la vostra consorte Ottavia 

- Siete diventata una donna molto fine ed elegante altezza! - si complimentò Tigellino affabile, con l'intento di afferrarle delicatamente le mani - Proprio un'altra cosa rispetto alle donne di facili costumi che incontro molto spesso, sapete dopo una giornata faticosa...

- Come vi permettete - Ottavia schiaffeggiò in pieno volto il prefetto dei vigili. Si sentì offesa nell'orgoglio e nella sua intimità.

Tigellino dovette trattenersi dal picchiarla o dall'ucciderla in quell'istante, le rivolse un sorriso forzato - Non solo avete confermato la vostra pudicizia ma anche la vostra castità, le voci su di voi erano vere - si massaggiò la guancia arrossata "Appena ne avrò l'occasione ammazzerò questa sguadrinella mascherata da innocente".

- Avete assaggiato una delle armi più letali di mia moglie, vedo - s'intromise ridacchiando Nerone - Sono secoli dall'ultima volta, comunque vi trovo in forma, anche se non ci vediamo dai tempi di Claudio

- Noto con piacere che avete preso i ritmi della corte e che avete assaggiato molte prelibatezze, vi ricordavo più basso e magro

- È il potere, volente o nolente - sorrise - Tigellino, qual buon vento vi porta al mio cospetto?

S'inginocchiò e prese a recitare la parte del cittadino dispiaciuto - Ho saputo della dipartita del prefetto Afranio Burro, una grave perdita per l'impero, anche se non lo conoscevo a fondo non posso che confidarvi della mia ammirazione verso di lui, era un uomo zelante e fedele...

- Mi state chiedendo velatamente di nominarvi prefetto del pretorio al posto suo? - frenò Nerone titubante.

- Avete fatto dei progressi sorprendenti, altezza, riuscite a leggere le ambizioni degli uomini, davvero eccezionale per un ragazzino che sognava di essere il nuovo Omero o Virgilio

- Sono cambiate parecchie cose da allora,  compreso me stesso - ammise Nerone quasi rifiutando ciò che aveva appena detto. Purtroppo, però, era la verità.

Tigellino alzò la testa e sogghignò.

- Il peso del potere è comunque troppo grande, nonostante tutti i miei sforzi, sono troppo giovane e inadatto...

- Per questo ci sono io, altezza, se entrerò a far parte della vostra cerchia di fidati, potrò allegerirvi il fardello... - propose convinto Tigellino, si rimise in piedi e lo guardò dritto nei suoi occhi azzurri. Vi lesse tutta la sua paura e la sua debolezza, sarebbe stato facile fargli accettare la sua proposta.

Il Princeps stava per rispondergli, ma venne interrotto da Locusta che l'aveva riaggiunto correndo a perdifiato - Mio imperatore...- incrociò lo sguardo di Tigellino ed ebbe un sussulto. Nei suoi occhi scuri non c'era alcuna traccia di umanità, erano colmi di ambizione sfrenata, rabbia ed odio verso il mondo. Neri come la notte senza stelle, profondi come l'abisso.

Passò ad osservarlo dalla testa ai piedi: alto molto più dell'imperatore, era robusto, non il fisico morbido e leggermente rotondo di Nerone, ma spigoloso, vigoroso, imponente, i muscoli possenti evidenziati dalle sottili vesti e nei punti scoperti: gambe e braccia. I capelli erano corti e brizzolati, con lievi stempiature ai lati della testa e sulla fronte, che mostravano la maturità dei suoi anni; doveva avere poco più di cinquant'anni.

Il viso era squadrato e duro, tipico di chi aveva vissuto soprusi e umiliazioni, il naso dritto e lungo, le labbra sanguigne. L'espressione crudele, fredda e sadica.

- Siete la sua schiavetta personale?

- No, lei è l'avvelenatrice di corte e una delle mie migliori amiche...si chiama Locusta

- Un'avvelenatrice di nome Locusta, interessante - ghignò nuovamente Tigellino - Allora ci ritroveremo a collaborare

- Se...se l'imperatore...lo...lo vorrà...

- Parlate come se foste già prefetto del pretorio, Tigellino - s'insospettì Nerone girando attorno a lui.

Gaio Ofonio era un uomo che andava fino in fondo quando svolgeva il suo dovere, non si faceva scrupoli e non era per nulla scosso dalla pietà e dal rispetto.

Nerone pareva non conoscere il suo lato oscuro, quello più violento e spietato, probabilmente acuito dalle sue origini, dalle sue esperienze, dal suo carattere difficile, che lo avevano reso feroce ed insensibile.

In effetti, quasi nessuno, a Roma, era a conoscenza del suo passato, quello precedente alla sua messa in luce sul Palatino. Una figura avvolta dal mistero.

- Ho aspettato per molto tempo, posso attendere ancora se serve per farvi riflettere, altezza - rispose freddamente, spostando le iridi ad ogni suo minimo movimento.

Locusta restò imbambolata a fissarlo, scombussolata dall'angoscia: in Tigellino vide ciò che sarebbe diventata lei se non avesse incontrato tutte quelle persone che le restituirono la dignità. 

Provò grande tristezza per lui, avrebbe voluto avvertire l'imperatore delle sue sensazioni ed impedire di far entrare quella belva nella sua cerchia, tuttavia, non trovò né la forza né il coraggio per affrontare quella discussione che, in parte, coinvolgeva anche lei.

Erano più simili di quanto Locusta poteva pensare e Tigellino se n'era accorto. 

- Ci devo pensare su, Tigellino, la notte mi porterà consiglio, domani mattina ripresentatevi al mio cospetto, anzi perché non vi fermate qui, a palazzo, ho tante stanze libere, e a pranzo potremmo parlare un po' di noi

- Sono profondamente onorato del vostro invito, altezza imperiale - s'inchinò ossequiosamente - Accetto di restare qui, senza però fare conoscenza, nella mia vita non c'è nulla di così importante e prezioso da dover essere ricordato e condiviso, ed ora, se scusate, mi ritiro...

Lanciò un'ultima, fugace, occhiata a Locusta e si diresse verso l'ultima stanza, in fondo al corridoio.

- Che tipo losco, però mi attira, e poi ha una voce così particolare, non riuscirei ad ottenere quelle tonalità basse nemmeno se mangiassi intere piantagioni di porri,  voi che ne pensate Locusta...ehi Locusta?

Si riscosse e lo fissò cercando di afferrare la domanda - Penso che abbia fatto presa pure su di me, però non voglio condizionarvi...siate libero di prendere la vostra decisione senza costrizioni...
 

- Siete proprio una vecchia volpe, Tigellino, l'avete lavorato per bene - si complimentò Poppea sbucando da una colonna.

- Non meno di voi, alquanto vedo - ricambiò l'uomo sorridendo maliziosamente.

- Mi piacete, siete un tipo tenebroso e deciso, pronto a tutto pur di arrivare al massimo, come me, e penso proprio che andremo d'accordo e, in particolare, che non rifiuterai la mia proposta 

- Parlate, vi ascolto... - si mise a braccia conserte, lo sguardo fisso su di lei e il ghigno malefico stampato sulle labbra.

- Si tratta della moglie di Nerone, Ottavia... - precisò fin da subito Poppea

- Quella donnicciola viziata e ipocritamente casta - nei suoi piccoli occhi neri emerse l'ira più selvaggia e irrefrenabile - Dal segno che ho sulla guancia destra potete ben vedere di aver ricevuto l'onore di conoscere quella smorfiosetta - un impetuoso fremito lo travolse, Poppea si spaventò non poco di quella reazione quasi bestiale; Tigellino, ripreso repentinamente il controllo, strinse i pugni e la guardò intensamente - È per colpa, ma soprattutto, grazie a gente ignobile come quella, se oggi sono così: il dolore fisico ha forgiato il mio aspetto, mentre quello dell'anima ha fatto lo stesso con lo spirito...

- Quindi accettate di sopprimerla insieme a me? - sviò il discorso che stava prendendo una piega troppo personale e non voleva ripercorrere certi avvenimenti non proprio gradevoli.

- Se voi convincerete l'artista imbecille ad affidarmi l'incarico - rispose a tono.

- Un ricatto bello e buono, ma potete contare sulla mia parola - le porse la mano.

‎Tigellino vide quella minuta ed affusolata di Poppea e sorrise - A domani allora - gliela strinse energicamente. 

"Avere un alleato come Tigellino è la scelta migliore da fare, convincerò con ogni mezzo Nerone se non vorrà".

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Capitolo 31
*** Capitolo 30 - Hodie mihi, cras tibi - ***


"Igitur qui desiderat pacem, praeparet bellum; qui victoriam cupit, milites imbuat diligenter; qui secundos optat eventus, dimicet arte, non casu. Nemo provocare, nemo audet offendere quem intellegit superiorem esse, si pugnet"
Vegezio, Epitoma rei militaris, III, pref.

Locusta non riusciva a dormire quella notte: l'incontro con Tigellino l'aveva scossa nel profondo, non poteva non pensare a quegli occhi vuoti come il baratro, come l'Averno.

"Anch'io sarei diventata così, se il fato avesse deciso di destinarmi ad una famiglia di mostri, chissà quanto dolore ha dovuto subire e quanto male ha  veduto" si disse mentre osservava la bianca luna piena che rischiarava il cielo assieme alle stelle.

Il cielo restava indifferente alle vicende degli uomini, era il luogo degli dei, non poteva contaminarsi del loro sudiciume, del loro sangue, della loro bassezza, così le dicevano, lei, però, non ci aveva mai creduto fino in fondo; l'unica verità che sapeva era che l'uomo viveva nella cupola della solitudine, dell'inquietudine, e che alla fine della sua vita, veniva trascinato dal Fatum verso l'oblio inesorabile della morte. 

Tigellino era appoggiato alla parete, a braccia conserte; non aveva sonno, l'ansia di ambire a quel ruolo mista al desiderio di saziarla lo tenevano all'erta "Mi auguro che Poppea faccia il suo dovere altrimenti ucciderò anche lei e costringerò quel pagliaccio a nominarmi con la forza, è un codardo che ha paura di morire, accetterà sicuramente".

Ghignò nella penombra, prese il pugnale e controllò che fosse bene affiliato con il pollice, si tagliò ed uscì qualche goccia di sangue. Sorrise mentre si leccò il dito soddisfatto, fece ruotare il pugnale in aria e lo riafferrò al volo - Bene, bene, nonostante gli anni sei come nuovo, quante ne abbiamo passate e soprattutto trapassati, vecchio mio, al momento sei l'unico di cui possa fidarmi a questo mondo...l'unico...

Gli ritornò alla mente la figura di suo padre, un uomo alto e magro, che aveva avuto il coraggio di rispondere al suo ex comandante, rifiutandosi di mandare suo figlio maggiore a morire in qualche provincia lontana - Lui deve terminare gli studi che sono più importanti della guerra! Abbiamo speso le ultime risorse per permettere ai miei figli di avere un futuro migliore al nostro - sbottò il padre al centurione irritato dal suo atteggiamento sfrontato.

Non avrebbe potuto dimenticare ciò che quel centurione compì alla sua famiglia: entrò di soprassalto nella piccola casa ed afferrò per i capelli la madre, una donna indifesa e buona, poi prese sia lui sia i suoi fratelli e li costrinse a guardare il macabro spettacolo che si sarebbe svolto davanti ai loro occhi e che li avrebbe cambiati per sempre.

Le urla dei genitori, il suo nome strozzato dalla lama riecheggiò nella sua mente e la rabbia riemerse - Quel...quel  parassita li ha uccisi senza alcuna esitazione, nonostante avessi accettato di unirmi all'esercito pur di risparmiare loro la vita - strinse l'arma furente - Da allora la mia esistenza divenne resistenza e sopravvivenza...

Agrigento, 24 d.C.

- Sei un ragazzo incredibilmente alto e possente, dalla forza sovrumana, ma non sei ancora del tutto freddo, impassibile e crudele, un soldato non deve avere pietà per nessuno, che siano uomini d'armi o civili - gli aveva rinfacciato il centurione dopo avergli legato le mani dietro la schiena, messo in ginocchio e percuotendolo con la frusta - Hai avuto pietà di un tuo compagno...

- È mio fratello! - gridò Tigellino incurante del dolore fisico che gli procurava continuamente - Ed era un allenamento...non posso perdere anche lui...

Il centurione gli lanciò un pugno sul viso, cadde a terra e gli poggiò il piede sulla testa facendogli pressione - In quel momento era un avversario, un nemico, un ostacolo che dovevi eliminare immediatamente - tolse il piede e si allontanò.

- Non...posso perdere pure lui... - rispose Tigellino. Si accorse della mancanza di pressione e si alzò. In quel momento vide suo fratello, dall'aspetto simile al suo, terrorizzato, con il pugnale tra le mani - Fratello...cosa vuoi...fare...?

- Uccidilo - ordinò freddamente il centurione al minore - Uccidilo e dimostrerai di essere un soldato migliore di tuo fratello

Il secondo Tigellino avanzò di qualche passo, gli occhi spalancati, fissi su di lui e pupille ristrette - Pe...perdonami fratello...

- Non farlo...non obbedire a quel bastardo - pregò quasi sul punto di scoppiare a piangere il maggiore.

- Fratello...aiutami... - sussurrò vomitando sangue dalla bocca, un tonfo sinistro spaventò Tigellino il quale abbassò tremolante lo sguardo per osservare il pugnale conficcato nella schiena. L'odore della morte riempì la stanza.

- Ha esitato troppo...compassionevole e pietoso, non era degno... - ridacchiò beffardo il centurione.

Tigellino spostò le iridi verso di lui, le lacrime rigavano le guance, il dolore talmente opprimente da non permettergli di reagire: si sentì in colpa per non essere riuscito a difendere un altro familiare da quel mostro. Il rancore si faceva strada nel suo cuore.

- Sei un uomo o una donnicciola? Stai piangendo...- aggiunse schifato - D'altronde un plebeo resta un plebeo...

- L'hai....l'hai pugnalato alle spalle...come il più meschino dei traditori! - ringhiò Tigellino tentando di liberare le mani per picchiarlo: il terribile desiderio di fargli del male occupò completamente i suoi pensieri e la sua mente, offuscò ogni sua volontà contraria.

- Chi abbassa la guardia o è troppo generoso con il prossimo merita quella fine, plebeo - cominciò a ridere, ma si fermò quando udì uno strappo provenire dal corpo del ragazzo.

- Tu saresti un patrizio? Un nobile per nascita? No, tu sei solo un verme, una sanguisuga, non ti bastava impoverire fino alla fame la mia famiglia appropriandoti della nostra terra e  impedirci di continuare a studiare,  l'hai persino uccisa, a sangue freddo, così come hai fatto con gli altri miei fratelli, li hai trucidati uno dopo l'altro, senza avere nessun riguardo per loro! - sbraitò il ragazzo liberando le mani dalla corda con un colpo sordo.

Il centurione aveva paura: non si aspettava una reazione simile da quel ragazzo che aveva accettato qualsiasi punizione e sopruso per non infangare il ricordo della sua famiglia attraverso stragi a bruciapelo, che aveva rinunciato alla violenza gratuita per evitare di tramutarsi in qualcosa di mostruoso e impaurire coloro che voleva proteggere.

Ma ora, non avendo più alcun legame con il passato, la bestia assetata di sangue si era liberata delle catene e avrebbe squartato il suo padrone.

- Non l'avrai vinta con me, maledetto bastardo, non con me! - latrò cupamente,  allungò le braccia vigorose verso di lui. L'istinto omicida tenuto faticosamente a freno durante quei lunghi anni esplose in tutta la sua furia. Lo afferrò per il collo e lo alzò di parecchi centimetri dal suolo per guardarlo dritto in faccia.

- Agendo così...non riporterai...indietro la tua...tua famiglia...lo sai questo?

- Lo so benissimo, verme - gli rispose  stringendo la mano destra - Ma a differenza delle altre volte, non ci sarà nessun fratello a calmarmi, subirai la mia vendetta...

Il centurione attese la morsa fatale, che non arrivò, notò, invece, un'espressione sadica sul suo viso e un ghigno per nulla rassicurante - Ti piacerebbe morire in questo modo, non è vero? - lo scaraventò al suolo e lo tempestò di brutali calci sul torace e sull'addome pingue, che gli spaccarono l'armatura - Una lenta agonia ti attenderà, la stessa che ho dovuto subire io per tutti questi anni...

L'uomo prese ad urlare disperatamente, quelle suppliche non solo rimasero inascoltate, ma alimentarono ancora di più la furia di Tigellino - Adesso implori pietà? Quante volte hai udito le preghiere dei miei fratelli, dei miei compagni d'armi e non hai esitato a torturarli e massacrarli! Sei solo un vile, che non ha mai conosciuto il vero dolore, e perciò meriti di soffrire più di tutti gli altri!

Lo sollevò per il braccio sinistro e tenendolo penzoloni gli tirò una raffica di pugni e ginocchiate sull'addome che non gli lasciarono il tempo di respirare tra un colpo e l'altro; il centurione avrebbe voluto reagire, ma non trovava nessun appiglio per contrattaccare, dal punto di vista fisico era nettamente inferiore a Tigellino.

Un gancio destro gli fracassò di netto il naso e parte della mascella. Il dolore per quel colpo tremendo gli fece perdere conoscenza per pochissimi istanti, sufficienti per rendersi conto di quanto la morte gli fosse vicina. Tuttavia si accorse della frusta che era proprio sotto i suoi piedi.

Tigellino mollò la presa su di lui, avendo intuito il suo piano, si diresse verso il cadavere del fratello per prendere il pugnale conficcato nella spina dorsale: l'istante in cui si girò fu fatale per il centurione, il quale si ritrovò il collo trapassato dalla lama, sentì il respiro mancare e la vista offuscarsi fino al sopraggiungere dell'oscurità che lo inghiottì. E cadde come un peso morto.

- Credevi di prenderti gioco di me? - sbeffeggiò Tigellino ridacchiando - Eri così prevedibile...

Rivolse un'occhiata al corpo del fratello e afferrò il pugnale con cui l'avrebbe ucciso - È meglio che tu sia morto, fratello, non hai visto cosa sono diventato... - raggiunse la porta e, alla stregua di un fuggiasco, scappò via "I miei nemici non sono mai stati i 'barbari' come li chiamano loro, in fondo lo sono anch'io, vista la mia provenienza, ma i nobili e chiunque ostacoli il mio cammino".

Roma 62 d.C.

- Chissà se anche l'imperatore e l'amante finiranno nella mia lunga lista... - rise. 
 

Nerone stava rimuginando su e giú per la stanza da letto, sulla richiesta di Tigellino, sul letto c'era Poppea, leggermente preoccupata: quell'uomo era capace di tutto, non si sarebbe fermato di fronte a nulla pur di appropriarsi di quella posizione - Io direi di darglielo, Nerone, un uomo come quello è meglio averlo come alleato che come nemico credetemi

- Lo penso anch'io, Poppea - confermò il Princeps fermatosi al centro della stanza - In realtà avevo in mente di darglielo quest'oggi stesso, ho voluto che attendesse un po' qui per fare conoscenza, ma da quanto ho visto, non è proprio il tipo che ama fare conversazione...

- Quindi lo nominerete domani all'alba?

- Certamente, ho già provveduto a far  realizzare un'armatura su misura - sorrise - Ora andiamo a dormire

- Come desiderate, Nerone

8 maggio

- Non ho bisogno della scorta per arrivare al cospetto dell'imperatore - esclamò Tigellino buttando letteralmente a terra i due poveri pretoriani che erano giunti nella sua stanza per comunicargli la nomina.

- Quello sarà il nostro nuovo capo quindi? - chiese uno dei due al collega mentre si rialzava dolorante.

- Si, ed è un osso duro, non so se e come sopravviveremo - rispose titubante l'altro.

Tigellino spalancò le porte della sala del trono e piombò come un fulmine dinanzi Nerone. 

- Impaziente di mettervi all'opera Tigellino? - disse l'imperatore avanzando verso di lui.

- Se voi lo permetterete..altezza

- Portami qui la sua armatura da prefetto di pretoriani - imperò Nerone ad un liberto che corse immediatamente a prenderla - Oltre a gestire la coorte dei pretoriani pronti a morire per me, diventerete la guarda del corpo di tutta la famiglia imperiale

- Immagino che sia stata la vostra Poppea a precisare ciò - emise spostando il suo sguardo in direzione della donna sdraiata ai piedi del trono di Nerone.

Il Princeps non si aspettò tanta arguzia, acutezza, da un energumeno come quello, perciò rimase ammutolito, fissandolo. Una goccia scese sulla fronte.

Tigellino sorrise comprendendo il suo stupore malcelato - Credevate che fossi solo un bruto senza cervello? Conosco gli uomini più di quanto pensiate, altezza, e so come difendere sia me sia voi dalla loro soffocante mediocrità, ottusità, avrete modo di apprezzarmi meglio con il tempo, così come hanno avuto modo di constatare i vostri genitori, ma forse eravate troppo piccolo per ricordare e sapere...

- Cosa dovrei ricordare e sapere?

L'arrivo dell'armatura interruppe bruscamente la conversazione, il prefetto la osservò estasiato e la strappò di mano al liberto, si scusò per l'assenza e tornò nella sua stanza per provarla.

S'infilò la lorica hamata, ovvero la corazza color bronzo che proteggeva la parte superiore, poi le manicae, delle fasce metalliche sulle spalle, sopra una maglia di lana rossa, posizionò sulla sinistra
il gladio e il pugio, e fermò il fine mantello rosso sulla spalla con un medaglione recante il simbolo dell'Impero.

Una volta indossata si sentì finalmente realizzato, gli sembrò di essere diventato una divinità: invincibile e immortale.

Si mise l'elmo sottobraccio e ritornò nuovamente dall'imperatore; mentre attraversava il corridoio, poté intravedere la paura negli occhi di tutte le persone che lo incrociavano, dai suoi subordinati che facevano la guardia alle stanze, ai semplici civili che erano lì per servire la corte imperiale, di cui era entrato a farne parte da quell'istante.

- Ora sono ufficialmente al vostro servizio, altezza imperiale - s'inchinò profondamente sull'uscio della porta.

- Sembrate un dio...

- ...della guerra - completò tramortita Poppea. Un brivido scese lungo la sua schiena: Gaio Ofonio Tigellino non era umano ai suoi occhi, le parve in quel frangente il dio Marte, feroce, assetato di sangue e bramoso di vittorie.

- Mi fa piacere udire questi complimenti dalle vostre reali bocche - ringraziò Tigellino fugacemente, prese un cavallo e si recò presso la Caserma dei Pretoriani tra il Viminale e l'Esquilino, oltre le mura serviane.
 

- Sappiate, cari pretoriani - si rivolse schiettamente ai suoi subordinati i quali lo ascoltavano ritti ed imperterriti - ‎Che, da adesso in poi, non vi adagiarete più sugli allori, come avete fatto in precedenza, con me diventerete delle vere e proprie macchine da guerra, implacabili e inarrestabili, perciò dovrete faticare fino allo stremo delle vostre possibilità, ci siamo intesi?

- Si, comandante - risposero all'unisono cercando di non far trapelare il timore crescente.

Gli occhi del prefetto brillavano per la soddisfazione, la lunga attesa aveva fruttato: era al culmine della sua carriera, secondo solo a Nerone, ed ora niente e nessuno avrebbe potuto ostacolarlo e contraddirlo, nemmeno l'imperatore in persona.

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Capitolo 32
*** Capitolo 31 - Dos est uxoria lites - ***


"Corruptos saepe pravitatibus uxorum maritosnum ergo omnis 
caelibes integrosPlacuisse quondam Oppias leges, sic temporibus rei publicae postulantibus
remissum aliquid postea et mitigatumquia expedierit. Frustra nostram ignaviam alia ad vocabula 
transferrinam viri in eo culpam si femina modum excedat"
Tacito, AnnalesIII, 34

13 maggio

Una giovane donna dai tratti orientali bussò alla porta della villa di Locusta, quest'ultima quando aprì e la vide rimase sorpresa di trovarsela davanti - Atte...ma che ci fai qui?

Atte sorrise debolmente e con il capo chino rispose - Vi ricordate di me, Locusta, nonostante ci siamo viste poche volte - arrossì violentemente. La sua voce era delicata, dolce, soave come quella di un cardellino, non si stupì che fosse stata l'amante prediletta dell'imperatore prima dell'arrivo di Poppea.

Claudia Atte si fece coraggio, la guardò dritta negli occhi e proferì - Sono qui...per... - ma la voce tremolò e prese a piangere. La smorfia del pianto increspò il viso ovale e lievemente bronzeo della giovane.

Locusta impietosita dalla sua sensibilità, dalla sua purezza, la fece entrare nella sua dimora, la fece accomodare e le preparò una delle sue tisane per tranquillizzarla - Ora che stai meglio, raccontami tutto... - la incoraggiò accarezzandole la schiena.

- Sei sempre gentile e disponibile con tutti, Locusta - la ringraziò sorridente, abbassò la testa e riprese cupamente - Sono qui per dirti che Claudia Ottavia è stata accusata di sterilità da parte di Nerone, quindi ripudiata, inoltre è stata confinata in Campania e Poppea proclamata imperatrice...

All'udire di quelle notizie l'avvelenatrice si turbò e la guardò negli occhi neri "Sapevo che prima o poi sarebbe arrivato questo momento, Poppea è esattamente come Agrippina, ambiziosa e cinica, desiderosa di ottenere ciò che vuole a qualsiasi costo, ciò che le distingue è l'amore che Nerone prova per lei, è innamorato di quella donna al punto da soddisfare ogni suo capriccio..."

- Pensate anche voi lo stesso, Locusta, anche voi siete preoccupata per il mio  Nerone - riferì Atte sempre più pensierosa. "Non ho mai amato nessuno come l'imperatore, nemmeno Attalo che mi portò qui, nella terra italica, dalla mia patria Misia, e al quale devo parte del mio nome".

- Certamente, non potrei non esserlo Atte cara, per me è più di un amico e vorrei che soffrisse mai, purtroppo però il Fatum ha stabilito tanta sofferenza e pena per il nostro imperatore - ammise sconsolata Locusta alzandosi in piedi e scrutando il cielo dalla finestra alle sue spalle.

- Io vorrei tanto aiutarlo, che possiamo fare per lui? - anch'ella si alzò, rimase immobile con le mani giunte, puntando il suo sguardo su di lei. Aveva paura della sua riposta, timore di perdere il controllo delle sue azioni. 

Locusta sospirò - Nulla, non possiamo fare niente per mutare il suo destino, ciò che è scritto non si può cancellare - si girò per guardare Atte che stava piangendo nuovamente - L'unica cosa che possiamo fare è stargli vicino e consolarlo quando ci è possibile - aggiunse sconfortata. La strinse a sé per confortarla.

Si sentì una vigliacca e in parte una traditrice poiché per molto tempo aveva taciuto i suoi dubbi e le sue perplessità all'imperatore e, soprattutto, di non avere in mano nessuno strumento per aiutarlo ad uscire dalla voragine che si stava formando sotto i suoi piedi.

- Poppea l'ha in pugno - singhizziò Atte, si coprì il volto con le piccole e delicate mani - E c'è anche quel Tigellino, il solo pronunciare quel suo nome terribile  mi fa rabbrividire, è capace di tutto...

"Non hai mai smesso di amarlo, Atte, e il tuo sentimento non è certamente dettato dal tornaconto o dall'aumento di prestigio, come molti potrebbero pensare, ma dall'amore puro, quello che fa apparire anche l'uomo più sgradevole un dio, esattamente come la mia amicizia".

- Ho sentito dire che subito dopo la sua nomina a Prefetto del Pretorio - proseguì Atte, terrorizzata - Tigellino abbia fatto una cosa terribile: è ritornato alla sua vecchia abitazione e... - la voce impastata le impedì di continuare a raccontare, bevve un sporso per sciogliere la lingua - e...ha sterminato senza pietà tutti i suoi schiavi...li ha sgozzati uno per uno brindando alla loro morte

Locusta ascoltava quelle terribili parole sconvolta, gli occhi spalancati e il sudore scenderle lungo la fronte e le guance.

- Sapete come si è giustificato a Nerone? - domandò flebile. Le fece di no - Disse di averlo fatto per evitare spie e vendette nei suoi confronti, cosa avrebbero potuto fare quei poveri schiavi intimoriti, che gli sono stati fedeli perfino nella morte?

"Togli ad una persona l'umanità e la trasformerai in una bestia assetata di sangue" sospirò nuovamente Locusta "Il dolore quando diventa pazzia trascina il malcapitato nell'oblio, se non avessi conosciuto Aulus, Tiberia e Canius, anch'io mi sarei tramutata in bestia".

- Atte...io non lo giustifico, ma in fondo lo capisco, probabilmente è vissuto nel dolore, nel rifiuto, ha visto dolore e morte, attorno a se, senza poter reagire e inconsapevolmente ha assorbito quei comportamenti e li ha resi propri, per lui quello è un modo per vivere, come per te è guardare da lontano Nerone pregando per la sua vita, seppur il paragone sia un po' troppo azzardato

- Siete stata precisa invece, una donna intelligente e acuta come voi può ancora aiutare il mio Nerone, è in buone mani,  Poppea non può farvi nulla - sorrise forzatamente, le strinse le mani come se volesse assorbire parte del suo coraggio, tornata cosciente le mollò violentemente la presa e le porse la ciotola - La vostra tisana era davvero ottima, Locusta, siete la migliore in questo campo

- Non lusingarmi, Atte, sai meglio di me che siamo allo stesso livello, noi due - si giustificò Locusta, levatasi e appoggiando la ciotola sul tavolo - Piuttosto, non temi per la tua sorte? Ora che Poppea è salita al trono la tua vita è in pericolo

La giovane corse alla porta e ammise con vigore ritrovato - Non ho paura di ciò che mi accadrà, Locusta, sono pronta ad accettare tutto in nome dell'amore che provo per lui, non ho mai temuto la gelosia di Poppea

"All'apparenza può sembrare una donna debole, in realtà è molto forte, accetterebbe le torture, le calunnie e persino la morte eppure non smetterebbe di amarlo, si sacrificherebbe interamente per lui..." 

- È meglio che mi faccia da parte per un po' - la tenue voce della giovane interruppe prepotentemente i suoi pensieri - E quando saprò dal mio cuore che avrà bisogno della mia presenza, se sarò viva, io tornerò, pronta a consolarlo ed aiutarlo

- Saresti stata un'ottima moglie per l'imperatore, se solo il Fatum avesse deciso diversamente - sorrise amaramente osservandola: quegli occhi scuri leggermente tirati ai lati in quel momento brillarono.

- Prendetevi cura di lui, Locusta, ve lo affido - le lacrime bagnarono le guance rosee - Addio...addio...Locusta... - aprì la porta e scomparve in lontananza, senza nemmeno dare il tempo a Locusta di ricambiare il saluto - E addio anche a voi, mio amato, mio adorato Nerone...

- Mio imperatore, se solo sapeste cosa avete appena perso... - vide la sua figura rimpicciolire e chiuse la porta. 
 

Poppea poté finalmente sedere sul trono tanto desiderato, se fino a qualche giorno prima si sentiva la donna più potente dell'Impero da quel momento lo divenne, Nerone l'aveva accontentata senza pensare alle conseguenze, pendeva dalle sue labbra e di quelle di Tigellino.

Lo accarezzava avidamente, la sua espressione era di totale eccitazione; tuttavia non era ancora del tutto soddisfatta perché fino a quando Ottavia restava in vita, seppur esiliata, non sarebbe stata affatto tranquilla.

- Nerone è stato fin troppo clemente con lei non trovate? - ridacchiò Tigellino a braccia conserte appoggiato su di una colonna.

- Tigellino...ma come... - sobbalzò Poppea non appena si accorse della sua presenza. 

- ‎Eravate così presa dal contemplare il vostro nuovo posto a sedere e a pensare a come sbarazzarvi dell'usurpata ‎da non esservi accorta del mio arrivo - le disse sfoggiando un sinistro sorriso.

"Come fa a conoscere i miei pensieri?" ingoiò la saliva, gli mostrò un sorriso forzato - Siete subdolo come pochi...

- Mai quanto voi, come devo chiamarvi ora, altezza imperiale, giusto? - la burlò ridendo il prefetto dopo aver eseguito un profondo inchino.

- Cercate di non prendere troppe confidenze, Tigellino, ora sono l'imperatrice e mi dovete rispetto, siamo intesi?

Tigellino, con una rapidità fulminea, le fu ad un palmo di naso estrasse il pugnale e glielo puntò sul collo, Poppea sentì il cuore in gola, sudò freddo. Quell'uomo era spaventoso oltre ogni misura - Se siete seduta su questo legno imperiale lo dovete a me e a quel bastardo di Aniceto, che ha preso parte alla pagliacciata contro la verginella, non scordatevelo questo, Poppea...

- S..sì - balbettò solamente, che Tigellino fosse capace di compiere ogni sorta di nefandezza pur di soddisfare la sua sete di sangue e potere ne era certa: lo sterminio dei suoi schiavi l'aveva sconvolta non poco - Sì, lo rammenderò...

Tigellino allontanò l'arma da lei e le voltò le spalle - Sono disposto ad adularvi e a mostrarmi remissivo se voi mostrerete rispetto e soprattutto che mi assicuriate totale incolumità, solo così potrete avere controllo sul vostro marito fresco di matrimonio - rise fragorosamente.
 

- Come sarebbe a dire che volete andarvene Seneca! - sbottò Nerone balzando dal suo triclinio.

- Significa ciò che avete detto, altezza - rispose prontamente il filosofo in piedi, imperterrito - Anzi se non vi danneggio, vi pregherei di farlo il più presto possibile

- Non ve lo autorizzo! - ringhiò l'imperatore sovrastandolo, ma neppure quella minaccia parve scuoterlo. 

- Non sono più gradito a corte, altezza, da quando approvai tacitamente la scelta di uccidere vostra madre, avrei dovuto capire che ormai il mio nome non aveva più influenza su di voi, ora che l'ho notato non sono più al sicuro qui - emise lapidario.

Il Princeps lo guardava incredulo: non poteva credere che volesse abbandonarlo, lui che gli aveva insegnato tutto ciò che c'era da sapere - Chi non vi dà pace, Seneca?

- La vostra attuale moglie e il vostro nuovo consigliere, più abituato ad agire piuttosto che a ragionare

- Mia moglie Poppea e Tigellino? Sono dei tipi sospettosi, vero, dovete capire che il loro passato non è stato roseo e prospero, ma non agirebbero mai contro di me e i miei amici e voi siete ancora tra questi - lo rassicurò sdraiandosi nuovamente sul triclinio - State tranquillo Seneca, anzi perché non vi accomodate pure voi e vi riposate, mi sembrate deperito...

- Siete uno stolto! - gridò Seneca altero - Avete gli occhi eppure non vedete ciò che dovreste vedere, in quanto uomo più potente del mondo, state permettendo alle serpi di stritolarvi! Le comodità e il lusso vi stanno rendendo uno stupido!

- Come osate affermare ciò! - digrignò i denti, strinse i pugni - Con quale autorità vi permettete di dire questo a me! All'imperatore!

- Vi credevo più sveglio ed intelligente degli altri che vi hanno preceduto, Nerone, o meglio lo eravate fino a quando ascoltavate i miei consigli e le mie direttive, ora non siete che un ammasso di lardo che non sa prendere una decisione senza lasciarsi persuadere da quelle due iene! 

- Basta! - balzò su di lui e lo afferrò per il colletto della tunica - Adesso basta! Non tollero più queste ingiurie, avete capito? Non osate più pronunciare simili fandonie in mia presenza o vi farò esiliare!

- È quello che voglio, me ne torno in Corsica! Lì almeno avevo il piacere di dedicarmi alle lettere, respirando aria salubre e pulita, affrontando la morte con serenità, anziché restare in questo pandemonio a rovinarmi quel poco di salute che mi è rimasta... - gli fece presente il filosofo sentendosi lieto di poter dire ciò che il suo animo gli sussurrava.

L'imperatore lasciò la presa e con un gesto della mano imperò - Andatevene pure, se è ciò che volete, andate dove vi pare, purché non vi facciate mai più vedere al mio cospetto, Seneca, d'ora in poi non siete più sotto la mia protezione e ciò mi rammarica molto, poiché siete stato un grande maestro per me!

Seneca si aggiustò le pieghe delle vesti, tolse un po' di polvere, fece dietrofront e lo ammonì - Non permettete a chi sapete di uccidere Ottavia, se siete ancora quel ragazzo generoso, volenteroso, disdegnoso della violenza e del sangue che ho conosciuto, non lo permettete...

- Quel ragazzo è morto, Seneca, quella parte di me non esiste più da quel giorno, da quel tremendo e terribile giorno, in cui squarciai la mia anima e divenni quello che sono ora - gli ricordò senza mostrare alcun cedimento - Ed ora andate prima che cambi idea...addio Seneca... - sussurrò infine.

L'anziano filosofo lo guardò per l'ultima volta e con rassegnazione ricambiò il suo malcelato saluto - Addio Lucio Domizio, addio Nerone...

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Capitolo 33
*** Capitolo 32 - Vita che muore, vita che nasce - ***


"Non est quod nos tumulis metiaris et his monumentis quae viam disparia praetexunt: aequat omnes cinis. Impares nascimur, pares morimur"
Seneca, Epistulae ad Lucilium, XCI, 16

6 giugno

Il buio della notte aveva inghiottito l'azzurrino del cielo con la sua oscurità, era una nottata nuvolosa e fredda, e Nerone, non riuscendo a chiudere occhio, quasi del tutto abituato a convivere con i mostri della sua coscienza, osservava il soffitto e pensava a come agire.  

"A quanto pare il finto processo per adulterio messo su non ha sortito l'effetto sperato: anziché scatenare una rivolta contro Ottavia, l'hanno mossa contro di me, anche la massa si è lasciata impressionare da quella donnetta e sarà condotta a palazzo, il popolo pensa che tornerà come moglie" questa situazione lo stava facendo sempre più innervosire e spossare.

Non ne poteva più di quella donna: ogni volta che la nominavano gli ritornava nella mente sua madre, era stata lei a farlo sposare con la "sorella adottiva", elaborando leggi apposite che permettessero l'incesto, come lei aveva fatto con lo zio Claudio.

Ottavia restava, pertanto, l'ultimo aggancio che lo legava ad Agrippina, al suo terribile passato. E tale fattore la rendeva ancora più odiosa agli occhi dell'imperatore; aggiungendo il fatto che negli ultimi anni le due immagini di quelle donne maledette sembravano sovrapporsi: stessi atteggiamenti aristocratici, altezzosi, stessi sguardi severi, arroganti, quel naso poi, la faceva sembrare ad un avvoltoio.

Il Princeps era intenzionato a recidere ogni contatto con la sua vita precedente, non gli importava come, ma doveva sbarazzarsene al più presto "Prima che io diventi completamente pazzo" si disse cercando di restare calmo. Ispirò profondamente e voltò leggermente la testa, osservò Poppea dormire accanto a lui, ignara di tutte le tribolazioni del marito.

Il suo respiro regolare, la sua tranquillità, la sua sicurezza aumentarono l'ansia nel suo spirito e si ripromise di esaudire quel desiderio che premeva ad entrambi: - Eliminare l'ultimo ostacolo e abbracciare la felicità... sempre che sia scritto nel mio Fato, Poppea...- sussurrò sospirando Nerone - Ma se non è per me questa serenità interiore, spero che sia destinata a voi...amore mio...

Si alzò dal letto e intravedendo il corpo scomposto la coprì con il lenzuolo leggero fin sulle spalle, le diede un bacio sulla guancia, accese una torcia ed uscì dalla stanza. Era meglio riflettere in spazi più arieggiati rispetto ad una stanza, che per quanto grande, gli dava una sempre più opprimente sensazione claustrofobica.

- Neppure voi riuscite a dormire Tigellino? - chiese non appena lo vide giocherellare con il pugnale.

- Altezza! - finse di stupirsi il Prefetto, nascondendo il gladio ed eseguendo un inchino.

- Basta con tutte queste reverenze, ve ne prego, comincio a non sopportarle più - sbuffò Nerone, si avvicinò ad una finestra  - Anzi venite qui e mettete a posto questa dannata torcia, non ci arrivo così in alto!

- Nervosetto - disse tra i denti Gaio Ofonio, si precipitò da lui per eseguire contro voglia l'ordine, posizionò la torcia nell'apposito spazio sul muro, sorrise ipocritamente e gli domandò - Vi vedo poco quieto, altezza, è per via della vostra ex moglie?

- Mi sembra ovvio, prima o poi sarà qui ed io non ho ancora trovato un pretesto valido per togliermela definitivamente dai piedi - lo fissò e proseguì, usando un tono quasi di rimprovero - La falsa accusa di adulterio ha provocato solo danni...ed ora il popolo la difende...

Tigellino mostrò un atteggiamento di profondo dispiacere - Mi sento in colpa per quanto accaduto, altezza, e vorrei pure proporre qualche alternativa, però credo che quell'accusa ormai non si possa più ritirare

- In che senso? - alzò un sopracciglio per verificare se fosse esattamente ciò che stava pensando lui.

Il Prefetto continuò nella sua recita remissiva e adulatrice - Nel senso che già avete cambiato versione, altezza, siete passato dalla sterilità all'adulterio, un accusa totalmente opposta e se... - s'interruppe nel vedere Nerone riflettere, completamente immobile - Altezza imperiale...

- Ah si...si - si riscosse l'imperatore, sbatté più volte le palpebre - Si a questo punto dobbiamo procedere in questa direzione, Tigellino, sarebbe sospettoso modificare ancora - alzò la testa e lo guardò dritto negli occhi neri per testare la sua sincerità - Avete qualcuno da proporre come cavia?

Il pretoriano sorrise maliziosamente e gli rispose di si, quell'uomo sarebbe stato Aniceto, colui il quale escogitò la morte di sua madre e che in quel momento si stava sacrificando nuovamente per obbedire all'imperatore ed ex allievo.

Nerone fu senz'altro sollevato di sapere che quell'uomo fidato si stesse prodigando per lui, tuttavia una pulce nell'orecchio gli mise un dubbio: e se stesse agendo per un tornaconto? Per ottenere qualcosa?

Tigellino scoprì nella sua espressione tesa, l'acutezza dell'imperatore, stupendosi degli enormi progressi compiuti da quel ragazzo, sperò solo che quella titubanza non andasse a scapito del piano - Altezza dovete avere fiducia in Aniceto, ho saputo da lui stesso di quanto zelo e rispetto abbia nei vostri confronti...

- Questo lo so, ma non vi ha detto altro?

- Ecco... - soffuse sudando il Prefetto; Nerone, conoscendo meglio di chiunque altro le tecniche di recitazione, percepì dal simulato imbarazzo di Tigellino che il suo ragionamento era esatto, nonostante ciò, fece finta di non essersene accorto e lo incoraggiò, concitato, a proseguire - Ecco, Aniceto mi ha pregato di riferirvi un suo desiderio...

"Come avevo immaginato, pure lui si è lasciato compromettere..." si mise a braccia conserte - Insomma, volete che faccia giorno?

- Lui desidererebbe passare il resto della sua vita in Sardegna, dopo aver svolto quest'ultimo compito - riferì tutto di un fiato il Prefetto.

- Seneca in Corsica, quest'altro in Sardegna, non è che vogliono mettersi d'accordo quei due e tramare contro di me? Come ben sapete quelle due isole non sono poi così lontane l'una dall'altra... - questa affermazione spiazzò Tigellino il quale, per la prima volta, fu messo in difficoltà da qualcuno.

- Ma cosa dite, non lo farebbero mai, altezza - ammise per tranquillizzarlo - E se dovessero anche solo pensarlo, li punirò con il mio pugno di ferro

"Sempre che non decidiate di unirvi a qualche congiura, Tigellino, il triste esito di Giulio Cesare potrebbe ripetersi ancora" si disse ancora teso, poi, per dargli l'illusione di non avere più dubbi gli diede una lieve gomitata e con fare d'intesa, scoppiò a ridere - Era per entrare di più nella parte, caro amico mio, a volte penso che sia così divertente essere un imperatore, si può ingannare chiunque

"Non riesco a capire se sia uno stupido, uno stolto o finga di esserlo, è incredibile come riesca a spiazzare pure me".

- Andate a chiamare Aniceto e ditegli di giunge qui prima di Ottavia, per impedirle ogni possibilità di discolparsi - ordinò sorridendogli - Io andrò ad allestire un "tribunale provvisorio" nella sala del trono

- Agli ordini, altezza imperiale - emise Tigellino eseguendo il saluto militare, dopodiché corse all'uscita dove Aniceto lo stava aspettando da un bel pezzo. 
 

In breve tempo tutto fu pronto per la messinscena contro Ottavia, tenuta volutamente all'oscuro del misfatto che si sarebbe compiuto alle sue spalle.

Aniceto, senza perdere tempo per le dovute reverenze, arrivò al cospetto dei giudici e dell'imperatore, il quale fece credere a tutti di essere sorpreso dalle confessioni sciorinate di quell'uomo tanto fidato - Oh Aniceto, Aniceto fedele, mai avrei pensato che la mia precedente moglie, alla quale ero legato fino a non molto fa, potesse rivolgere simili attenzioni nei vostri confronti, invece che farlo con me - recitò disperato Nerone, che simulò un quasi svenimento.

- Mi spiace solo che non abbia potuto dirvele prima, perché mi minacciò più e più volte di uccidermi se avessi confessato di essere stato il suo amante per complottare contro la vostra figura, altezza...

- Addirittura? Si è spinta così tanto! - sobbalzò Nerone sempre più sconvolto, posando una mano sul petto - Il mio cuore non può reggere ancora

Nel frattempo Poppea, svegliata dall'imperatore stesso con fremente eccitazione, e preparata in fretta e furia, 
rivolse un'occhiata d'intesa a Tigellino, che ricambiò silenziosamente - Se quello che dite è vero, sapete che Claudia Ottavia non potrà restare impunita

- La colpa è in parte mia, in quanto consenziente, altezza, poichè non ho saputo resistere al richiamo dell'erotismo e l'istinto ha guidato le mie azioni - si autocondannò il colpevole/vittima a testa bassa, scoppiando a piangere, incapace per qualche minuto di procedere. 

L'imperatore rimase ammutolito, sorpreso per davvero dalla sua performance "Non ricordavo affatto del suo talento in campo attoriale, d'ora in poi dovrò stare attento, non vorrei che altri al mio fianco mi superino in bravura".

Dopo non molto, l'uomo riprese a parlare, stavolta, in maniera convinta - Se davvero, voi qui presenti, rappresentate la giustizia dovete punire anche me, ho tradito la fiducia dell'imperatore 

I giudici presero a confabulare animatamente esprimendo le loro opinioni favorevoli o contrarie. D'improvviso Nerone si alzò e tutti zittirono all'istante, credendo che volesse emanare direttamente la condanna, ciò che ordinò fu solamente un foglio per trascrivere la pena su carta. 

Aniceto restò immobile, pronto ad accettare stoicamente qualsiasi pena.

L'imperatore fece un lungo respiro e si alzò nuovamente, si schiarì la voce, avvicinò il foglio per poter leggere senza l'uso dello smeraldo e lesse con tono imperioso la condanna per Aniceto: l'esilio a vita in Sardegna, come aveva promesso.

Con Ottavia, invece, non fu altrettanto clemente, oltre alle ammissioni di Aniceto aggiunse altri dettagli che sarebbero serviti per evitare il contrattacco della donna: 'l'imperatrice, oltre ad essersi fatta ingravidare dal colpevole, ha abortito per nascondere il misfatto e continuare a mostrarsi sterile, ingannando il suo consorte, pertanto verrà relegata nell'isola Pandataria', l'attuale Ventotene, nel Mar Tirreno. 
 

La notizia dell'esilio forzato giunse subitamente alle orecchie della scorta dell'ex imperatrice, e non potendo dissobedire agli ordini di Nerone si attrezzarono, noleggiando una nave, per condurla nel luogo indicato.

La villa presso la quale fu collocata non esprimeva altro che dolore e desolazione, era spoglia, misera, svuotata esattamente come Claudia Ottavia che una volta rimasta sola, non poté più trattenere la sua profonda tristezza.

Aveva sperato fino all'ultimo che Nerone la risparmiasse, ma l'antico odio non aveva fatto altro che acuire il rancore nel suo cuore, rendendolo di pietra; sapeva della sua rabbia repressa e soprattutto conosceva i suoi traumi, in particolare quelli provocati dalla morte della zia, che lo avevano tramuto nell'uomo insicuro, capriccioso, perenne nervoso, adirato, astioso, ostile che era.

"Se solo si fosse ricordato di quando lo consolai dopo quel terribile incubo, in cui espose solo e soltanto a me il suo lato più devastato" sospirò amareggiata. Si mise ad osservare il mare attendendo pazientemente la sua condanna a morte. 

Pandataria, 8 giugno

- Siete venuti per sopprimermi non è così? È stato Nerone ad avervi mandato? - sollecitò la donna non appena vide un gruppo di pretoriani giunto sull'isola.

- Brava, così ci risparmi inutili presentazioni e resistenze - sogghignò beffardamente uno dei soldati srotolando la corda.

- Bene, allora fate quello che dovete - lo bloccò la giovane donna fermamente, allungando le braccia. Un altro la avvicinò con forza a sé e le legò i polsi - Che bravo cagnolino che sei - rise sarcasticamente, prese il pugnale e gli recise il braccio, tagliando i capillari superficiali, dai quali fuoriuscì una fontana di sangue.

- Mi raccomando, dobbiamo restare qui fino a quando non sarà crepata, così come ci ha ordinato il Prefetto Tigellino, lo sai che non vuole fallimenti o si vendicherà con le nostre vite - gli ricordò un terzo preoccupato.

- Credi che sia uno stupido? Ti pare che mi metto a fare il ribelle con quella belva? - infervuorò l'altro tenendo occhio la donna.

"Quel Tigellino sarà la sua rovina, più di Poppea" rifletté Ottavia, tentando di non mostrare cedimenti per via della perdita di sangue.

I pretoriani, stanchi di attendere la sua dipartita, decisero di passare alle maniere forti: riempirono una vasca di acqua bollente e trascinandola la immersero brutalmente fino al fondo non molto profondo, sufficiente, però, per soffocarla con il vapore. "Finalmente potrò riposare in pace" si disse, semicosciente, creando l'ultima bolla d'aria prima di spirare.

Per confermare la riuscita della missione uno di quelli la decapitò crudelmente con la spada - Ci copriranno d'oro e onori a corte e il compenso lo spenderemo in donne e vino! - sghignazzarono i tre ficcando la testa mozzata in un sacco e avviandosi per tornare nella capitale, abbandonando in una pozza di acqua e sangue quel che rimaneva del giovane corpo mutilato dell'ex imperatrice e moglie di Nerone, Claudia Ottavia. 

10 agosto

- Nerone, Nerone adorato - proruppe Poppea tutta sudata e affannata nella sala del trono, interrompendo un colloquio del marito con alcuni senatori e ministri.

- Poppea, amore mio, sapete che non dovete distarmi mentre mi dedico all'Impero - la rimproverò benevolmente,  scorgendo Locusta, anch'ella agitata - Locusta anche voi? Che succede?

- Devo rivelarvi una cosa... - soffuse emozionata Poppea.

Il Princeps s'impensierì - Cosa? Non mi fate preoccupare tutte e due! Avanti ditemi...

- Vi ricordate quando mi avete detto che avevo delle forme più curve del solito... - arrossì violentemente.

- Non mi avrete interrotto solo per un complimento! - sbottò Nerone.

- Vostra moglie aspetta un bambino, mio imperatore - s'intromise Locusta.

- Diventerete padre, amore mio - confermò entusiasta Poppea.

Nerone sbiancò improvvisamente, sentì il mondo girare vorticosamente intorno a lui e cadde al suolo.

- Non ha retto alla notizia...forse avremmo dovuto dirglielo con più calma... - ridacchiò Locusta.

- Avete ragione, per i padri è sempre un po' traumatico...

Le due donne si misero subito all'opera per farlo rinsavire e, dopo un paio di minuti passati a dargli colpetti sulle guance, riprese conoscenza - Mio imperatore come vi sentite? - la voce di Locusta lo ridestò completamente.

- Penso di aver fatto un sogno strano...mia moglie che mi diceva di essere incinta...

- Non è un sogno...amore mio...è la verità... - gli diede un bacio sulla fronte. 

Il Princeps fissò Locusta come per avere certezza assoluta e lei annuì con la testa, dopo aver sorriso a Poppea, esclamando - Il ventre non mente!

L'imperatore balzò in piedi - Sarò padre! Sarò padre! Gli dei hanno voluto finalmente rendermi felice! - gridò euforico, esplodendo di gioia. Abbracciò la moglie e poi la sollevò dal terreno per qualche millimetro - Oh Poppea, un figlio, un figlio tutto nostro...gli dedicherò intere composizioni per esprimere la mia gioia traboccante

"Spero che questa creatura porti felicità e prosperità a tutti" pregò Locusta, quasi commossa da quell'immagine di famiglia serena e completa.

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Capitolo 34
*** Capitolo 33 - Dulce est desipere in loco - ***


"Nunc est bibendumnunc pede libero 
pulsanda tellus, nunc Saliaribus 
ornare pulvinar deorum 
tempus erat dapibussodales"
Orazio, Odi, I, v 37

Anzio, 21 gennaio 63 d.C.

- Altezza! È nata! - riferirono una coppia di ancelle festanti ad un Nerone al culmine dell'emozione e del fermento  - Ed è una splendida bambina! 

- Una bambina? - chiese l'imperatore incredulo. Il suo viso parve incupirsi. 
Quella domanda fece preoccupare le due ragazze, le quali temettero di non averlo rallegrato con quella notizia. Pensarono, per un istante, che si sarebbe infuriato o sarebbe rimasto deluso. E impallidirono.

- Avete già applicato la lustratio?

- S...si, è tutto pronto, altezza - ammisero impaurite.

- Bene, portatemi da lei! - ordinò Nerone stranamente serio. Le due ancelle si lanciarono una lunga occhiata e tra un sospiro di paura e di rassegnazione l'accompagnarono davanti l'entrata della villa, dove la piccola era stata posta ai piedi della porta.

Nerone la vide, piccola, indifesa, piangente per via del freddo invernale;  impietosito dalla sua dolcezza, dalla sua innocenza, tirò giù la maschera dell'indifferenza e, commosso, la prese dal suolo e la strinse amorevolemente a sé - La mia piccola principessa si chiamerà Claudia! - pronunciò non riuscendo a trattenere le lacrime.

Tra le sue braccia la piccola si tranquillizzò. Era diventato padre di una meravigliosa bambina; in parte fu sollevato nel constatare che non somigliasse molto a lui, quanto piuttosto alla sua Poppea. "Non ha ereditato la mia bruttezza".

Le donne al suo seguito scoppiarono a piangere di fronte a quel momento così struggente e delicato; una di esse si fece coraggio e disse - Pensavamo...che non l'avreste accettata, altezza

- Davvero eravate convinte che desiderassi un figlio maschio? - rise Nerone stupito - Se lo avessi voluto avrei spossato ingiustamente mia moglie e poi per l'erede c'è ancora tempo, siamo entrambi giovani e abbiamo tanti anni davanti, al momento serve qualcosa che rassereni lo spirito del popolo, specialmente dopo un periodo del genere - ammise pacatamente. Cominciò a giocherellare con la piccola fino a quando non la restituì alla madre per farla allattare.

23 gennaio

- Siamo venuti qui per far visita ai novelli genitori della nostra già adorata principessa, altezza imperiale - esordì uno degli anziani senatori con fare piuttosto ossequioso.

All'imperatore non sfuggì il mutamento di atteggiamento da parte di quei vecchiacci, i quali fino a qualche mese prima non avevano fatto altro che muovere critiche e rimproveri - Per me e mia moglie è un vero piacere vedervi qui! Non avrei minimamente immaginato che la nascita di un mio erede potesse fremere così tanto al Senato di Roma -  abbozzò un fugace sorrisetto e compiaciuto dalla loro "sottomissione" continuò a mostrargli orgogliosamente la piccola bambina. 

Alcuni dei senatori in fondo cominciarono a provare odio per quella creatura, poiché per colpa sua, erano costretti ad umiliarsi e lodare un uomo per cui provavano solo disprezzo. 

- Io, l'imperatore Nerone - riprese il Princeps spostando il mantello in modo teatrale, scendendo lentamente gli scalini che lo separavano, osservandoli uno ad uno quasi stralunato - Ordino che per tutta la settimana in corso vengano istituiti, in tutto l'Impero, eventi teatrali, giochi circensi e gladiatorii per ringraziare gli dei di questo meraviglioso dono e per concedere al popolo la possibilità di adorare la famiglia imperiale

- Ce...certamente... altezza... imperiale - balbettarono imbarazzati. "L'euforia lo ha reso più sveglio che mai, speriamo solo che duri poco, altrimenti non potremo agire come vorremmo" pensò preoccupato uno di essi.
 

In quella stessa giornata la famiglia imperiale decise di tornare nella capitale per permettere alla popolazione di festeggiare e assaporare il clima festoso del momento facendo dimenticare tutti i problemi di fondo che affiggevano la vita delle classi meno agiate.

Roma

- Locusta! - esclamò Nerone quando la vide aprirgli la porta del suo appartamento sul Palatino.

- Mio...mio imperatore...siete tornato - rispose mestamente la donna. Il viso del Princeps roseo e pieno sembrava splendere al pari del sole.

- Si, però, è da quando sono partito che siete più strana del solito, è successo qualcosa? Qualcuno vi ha minacciata? O vi ha calunniata? - interrogò ansimante Nerone. Era una delle poche persone al mondo alla quale teneva più di se stesso e non voleva vederla afflitta e angosciata.

Locusta sorrise malinconicamente - Non preoccupatevi per me, mio imperatore, sono solo un po' stanca, ormai non sono più giovane come voi, mi basta un niente per..

- No, non dite questo - la frenò seriamente in pensiero per lei - Finché ci sarò io, voi non dovete minimamente pensare alla negativà, alle avversità della vita... - le prese le mani ossute, gliele strinse e la guardò dritta negli occhi - Locusta cara, per me ormai siete più di una semplice amica, siete la madre che ho sempre desiderato avere e vorrei che diveniste una delle balie di mia figlia Claudia

- Cosa? Io? La balia di vostra figlia? - ripeté incredula Locusta; credette che la nascita della bambina lo avesse allontanato irrimediabilmente da lei. Invece non aveva smesso nemmeno un istante di pensare a lei, ad una squallida galla, un'avvelenatrice da quattro soldi. La considerava ancora un essere puro. Sentì un fremito salirgli dalle viscere e si accorse dell'espressione impensierita di Nerone nel quale lesse tutte le domande che si era posto.

Annuì per tranquillizzarlo e l'imperatore, al culmine della beatitudine, la condusse al palazzo per mostrarle la piccola Claudia.

Non appena vide quella minuscola creatura Locusta provò una strana sensazione, all'altezza del ventre, dei sussulti continui e il battito del cuore che accelerò improvvisamente. Non era la bambina a provocargli ciò, quanto ciò che rappresentava: la fertilità di una mamma. Si toccò istintivamente il ventre sterile e cercò di frenare le lacrime che non vollero sapere di placarsi.

- Locusta? Che vi prende? Oggi siete strana?

Avrebbe voluto rispondergli, dirgli che non doveva stare in ansia per lei, tuttavia non riuscì ad emettere nulla che non fossero singhiozzi incontrollati. Poppea, al volo, capì quello che Locusta stava provando: il non aver mai provato la gioia di mettere al mondo una vita che avrebbe potuto rendere grande l'esistenza di ogni famiglia e, soprattutto, dare un vero senso al suo ruolo di donna.

Mossa dalla pietà e dal rispetto involontario che provava per quell'avvelenatrice così devota ed obbediente all'imperatore, le si avvicinò per rassicurarla e le sussurrò - Locusta, anche se non siete mai stata una madre, con questo ruolo di balia potrete, in parte, placare questo desiderio, questo istinto primordiale di amore filiale che vi opprime, so che non è la stessa cosa, però...

- Vi...vi ringrazio...altezza... - riuscì solo a riferirle, forzando le labbra in un sorriso molto sofferto. Con un grande atto di coraggio, spinse in fondo alla gola tutta la sua amarezza: l'armonia della famiglia imperiale era la priorità assoluta, lei era lì per servirli, per mostrare la sua gratitudine, il resto non contava.

Nerone si sedette sullo spalto riservato agli uomini di alto rango, in uno dei tanti anfiteatri presenti nella capitale e attese che vi si riempisse di gente per poter inaugurare i giochi gladiatorii, tanto amati dal popolo, tanto disprezzati dall'imperatore stesso.

- Cercate di mostrarvi sereno, le masse non devono capire che voi non sopportate questi spettacoli cruenti - le ripetè per l'ennesima volta Poppea alla vista del broncio sul viso del marito.

- Infatti è solo per loro che spendo i soldi dello stato per farli rappresentare, per mantenere alto il consenso, anche se non capisco cosa ci trovino di emozionante nel vedere schiavi e guerrieri squartati da bestie e da altri loro simili in duello - controbattè sbuffando, preparandosi mentalmente a resistere alla vista e all'odore di tutto il sangue versato.

- Per la catarsi, tesoro mio - bisbigliò ammiccante - Sapete benissimo di cosa parlo

- Certo che lo so, ma potrebbero provarla anche con una tragedia greca, persino la più insignificante, almeno quel tipo di opera purifica davvero l'uomo, lascia sgomenti, con l'amaro in bocca, questi 'macelli', al contrario, non intaccano il profondo, non lasciano nulla, se non esaltazione iniziale e disgusto alla fine... - il discorso fu interrotto dal boato crescente proveniente dagli spalti. I gladiatori erano pronti per scendere sull'arena e combattere.

Uno alla volta uscirono da uno dei piccoli ingressi presenti ai lati dell'arena, accompagnati da un gruppo di suonatori: i loro elmi e gli scudi luccicanti, le armi scintillanti, i muscoli possenti e tesi, li rendevano simili ad eroi classici; la maggior parte di essi proveniva dai ludi, ossia da vere e proprie scuole, il restante era composto da prigionieri di guerra, schiavi o condannati a morte e perfino uomini liberi che desideravano la gloria e un ricco compenso.

Prima di cominciare i vari duelli sia con le belve sia con altri gladiatori, i guerrieri si misero in riga e pronunciarono il solenne giuramento all'imperatore: - Sopporterò di essere bruciato, di essere legato, di essere morso, di essere ucciso per questo giuramento

Nerone si alzò subitamente e teatralmente recitò - I miei predecessori ed antenati hanno innalzato la guerra, la lotta, come base per la società romana, vivevano in funzione di essa, viste come gli unici strumenti in grado di stabilire il predominio e mantenere l'equilibrio della Res Publica prima e dell'Impero poi...

Io non sono come loro, non ho mai bramato spargimenti di sangue, spade sguainate e scudi squarciati, se non quelli decantati nei poemi, nelle epopee, nelle tragedie, ricordati ed esaltati al pari delle gesta eroiche e irraggiungibili di questi nostri gladiatori. Ho dovuto ricorrere alla violenza per necessità superiori, non certo per mia volontà. Ciò che desidero ardentemente è di riuscire pienamente a rendere la società romana cultrice dell'arte, della poesia vera, come fece l'Ellade, il fulcro di ogni bellezza.

Può sembrare fuori luogo questo mio discorso, sappiate che non è affatto così, poiché si è veri eroi solo se si rispetta l'avversario e perché no, anche il nemico che abbiamo accanto, per questione di onore, affrontandolo alla pari e lealmente, se siete stati istruiti a dovere all'uso delle armi dimostrate di essere non solo bravi gladiatori ma soprattutto dei bellissimi guerrieri, riprendendo il concetto greco di bellezza come sinonimo di bontà, che lo spettacolo cominci solo per voi, o popolo - concluse inorgoglito.

Non fece nemmeno in tempo a sedersi che fu sorpreso da un calorosissimo applauso.

A quel punto si diede inizio alle venationes: furono liberate le belve feroci;  oltre ai notissimi leoni, vi erano tigri, pantere, leopardi, tori, elefanti e addirittura ippopotami. I gladiatori, senza perdere tempo, presero a lottare, impavidi,  attuando prontissime difese e incredibili attacchi.

Un gladiatore dalla pelle nerissima si staccò dal gruppo, arretrò di un paio di passi, s'inginocchiò e pose il suo tondo scudo davanti a se per proteggersi dall'assalto di un toro inferocito che con un colpo di corna riuscì a perforare lievemente la protezione del gladiatore; per nulla intimorito, anzi, più carico di prima afferrò il gladio al volo e si lanciò contro quella bestia impazzita.

Tutti sugli spalti rimasero muti, stupiti dall'assoluto autocontrollo di quel gladiatore color ebano e dall'elmo e scudo dorati. Locusta, accanto al suo Gaudenzio, percepì l'eccitazione di quell'istantaneo momento in cui gli occhi della bestia e del guerriero si incrociarono per poi alla fine decretare il vincitore.

- Perdonami, bestiola, ma devo farlo - rivolse l'uomo a bassa voce mentre gli assestò il gladio dritto nel cuore. Lo ritirò immediatamente. L'animale emise un rantolo e morì, il guerriero, lo sollevò di peso e con un'inaspettata delicatezza lo pose sotto lo spalto imperiale.

- Cosa volete fare con quella carcassa?! - ringhiò Tigellino, fu fermato da Nerone che incoraggiò il gladiatore ad esprimere il suo pensiero. Gli altri guerrieri si bloccarono e gli animali selvaggi calmati.

- Questo è il mio sacrificio divino per vostra figlia, altezza - si tolse l'elmo, si inchinò e a testa bassa aggiunse - Sperando che sia favorevole agli dei...

- Sei un seguace di Mithra, non è così? - fece Nerone sorridendo.

Il gladiatore ricambiò il sorriso - La vostra fama è meritata, altezza imperiale...

Quella voce suonò così familiare alle orecchie di Locusta da sembrarle incredibile, quei lineamenti poi, ricrearono un'immagine sbiadita nei meandri della memoria, da essa riaffiorò un'antica amicizia; non era del tutto convinta delle sue supposizioni, perciò, restò in silenzio.

- Il toro è il simbolo della tua religione, gladiatore - confermò Nerone, sicuro delle sue conoscenze - Hai dimostrato grande umiltà e timore per qualcosa di superiore, ciò ti fa onore, Achaikos è il tuo nome, giusto? 

- Si, altezza imperiale - prontamente rispose.

"Allora i miei sospetti erano veri! È lui! È lui!" si autoconfermò la donna, tutta tremante ed emozionata.

- Un nome molto particolare e dal tuo aspetto mi sembri originario del nord Africa!

- È di Alessandria d'Egitto, mio imperatore - precisò Locusta.

- Come sapete questo? - strabuzzò l'imperatore, osservando Locusta come se fosse la prima volta, come se fosse un'estranea.

- Perché io sono Locusta, Achaikos, non ti ricordi di me? - rivelò la donna.

Achaikos spalancò gli occhi e sconvolto la rimirò attentamente, rivide in quella donna matura, la giovane e affascinante schiava galla che aveva incontrato anni prima, e che mai aveva pensato di rivedere ancora. E per la quale, all'epoca,  aveva letteralmente perso la testa.

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Capitolo 35
*** Capitolo 34 - Fugaces labuntur anni - ***


"Militat omnis amans, et habet sua castra Cupido; 
Attice, crede mihi, militat omnis amans. 
quae bello est habilis, Veneri quoque convenit aetas. 
turpe senex miles, turpe senilis amor"
Ovidio, Amores, I, 9, vv. 1-9

- Quale grande gioia reca ai miei occhi la tua presenza, Locusta, è dunque questo il tuo aspetto di donna, Locusta, cara? Una donna colma di dignità e di saggezza! - disse commosso l'uomo avvicinandosi agli spalti per osservarla meglio e lasciare inebriare i suoi occhi scuri.

- Si, Achaikos, amico mio, Locusta è questa vecchia scorza, l'ombra di quello che sono stata... - si alzò in piedi e, piangente, lo fissò emozionata.

Anche su di lui il tempo era passato, il fisico per quanto ancora possente, iniziava a mostrare i primi segni della vecchiaia che lentamente, ma inesorabilmente, risucchiava prima le forze e poi il senno. Il suo viso, sporco e sudato, mostrava ancora quella bontà e quella gentilezza d'animo che l'aveva colpita fin dalla prima occhiata.

Nonostante fosse divenuto un gladiatore, non aveva mai smesso di essere un uomo d'onore; e sapere questo la rese felice. "Almeno uno di noi due non si è lasciato macchiare dal male, Achaikos" pensò con sincerità.

Si voltò a guardare Gaudenzio e Nerone e chiese loro - Vi spiace se mi allontano con lui?

Gaudenzio le sorrise, ad indicare la sua approvazione: si fidava ciecamente di Locusta, sapeva che non avrebbe mai fatto nulla senza averci ragionato. Nerone, invece, preoccupato, le afferrò un braccio e le disse, morso dalla gelosia - Non andate ve ne prego!

- Ma...altezza imperiale... - s'intromise Achaikos, stupito dal suo atteggiamento quasi infantile. L'imperatore gli fece segno di tacere e il gladiatore gli obbedì, ammutolito.

"Vi ho già donata a Gaudenzio, che mi ha preceduto, non voglio altri uomini che vi guardano con quegli occhi colmi di sentimento, non potrei sopportarlo, Locusta" le comunicò attraverso lo sguardo.

- Mio imperatore - sorrise Locusta - Conosco il profondo affetto che provate per me, ma non dovete temere, voglio solo fare una breve chiacchierata con lui, come si fa tra vecchi amici che non si vedono da tempo...

Nerone non arretrò dalla sua posizione, anzi, corrucciò il volto e pronunciò imperiosamente - Se Achaikos vorrà parlare con voi, dovrà dimostrare il suo valore come gladiatore! Se sconfiggerà il suo avversario, avrà mostrato la devozione che prova nei vostri confronti

- Ma...ma non... - balbettò Locusta sovrappensiero. Si girò per osservare la sua reazione e vide che l'egizio, già al centro dell'arena, era pronto a battersi con onore - Oh Dei, proteggetelo! - pregò alla fine, sentendosi in colpa.

- Cosa significa? Non avevate detto di non volerle queste lotte sanguinarie? - lo tempestò di domande Poppea, leggermente gelosa di tutta quell'attenzione rivolta all'avvelenatrice.

- Questo è un duello d'amore, Poppea - spiegò Nerone adagiandosi sul triclinio, stimolato da quella situazione così frizzante - Se tiene davvero a lei, vincerà di sicuro e allora potrà non solo parlare con lei ma anche entrare a far parte della famiglia imperiale, se lo desidera...

"Achaikos sta attento" si disse, sapendo dell'età dell'amico e augurandosi di non doversi pentire per non aver fermato Nerone quando ne aveva avuto l'occasione.

Il gladiatore alessandrino osservò silenziosamente l'arrivo del suo avversario, molto più giovane di lui, dalla pelle pallida. Achaikos, da dietro l'elmo chiuse gli occhi ed emise un lungo sospiro. Dal respiro eccitato proveniente dai polmoni dello sfidante intuì il desiderio di sconfiggerlo e di ricevere ogni onore dall'imperatore.

Senza perdere tempo l'altro, il gladiatore di origine nordica, sfoderò la spada e si lanciò contro di lui. Achaikos alzò lo scudo e parò fulmineamente un colpo e, senza dargli il tempo di riprendersi, gli diede una gomitata sul naso, avendo notato il suo tentativo di ferirlo in punti delicati.

Un lungo boato di stupore emerse dagli spalti, stupiti dalla sua assoluta calma e determinazione. Non era guidato dalla brama di denaro e gloria, ma solo dal rispetto che provava per Locusta, per lei avrebbe sacrificato anche la vita.

Animato da nuova forza, decise di passare all'azione e afferrata al volo la spada, tagliò di striscio la coscia, eseguì una rotazione e gli ferì profondamente il petto: "Il mio intento non è di ucciderti".

L'avversario, innervosito dalla sua sfrontatezza, era letteralmente balzato in aria, pronto ad assestargli un calcio dritto al torace. Riuscì a pararlo. Per contraccolpo lo sfidante volò per molti metri e batté la testa contro una delle colonne che sorreggevano le statue dell'imperatore.

- Non uccidermi, ti prego! - lo supplicò non appena si riprese e lo vide eretto dinanzi a lui.

- Infatti non lo farò - ammise lanciando il gladio a pochi passi da lui. Gli diede le spalle, seppur con la guardia alzata.

- Come farai adesso che sei disarmato? - gridò l'altro balzando in piedi, stralunato, impugnando l'arma di Achaikos - Ti conosco, sai? Eri un ottimo gladiatore, fino a qualche decennio fa, uno dei migliori della Capitale, la tua pecca, però, che non ti ha permesso di diventare il migliore di tutti, è sempre stata l'estrema lealtà - urlò mentre stava per colpirlo - Ora è giunto il momento di cedere il posto ad altri come me! 

Achaikos si voltò, gli bloccò immediatamente il polso e gli lanciò un gancio in viso e, quando l'avversario perse i sensi, si riprese il gladio, lasciandolo cadere a terra, senza infierire su di lui - Hai ancora molto da imparare dalla vita, ragazzo, spero che cambierai atteggiamento un giorno... - gli riferì sicuro che, nonostante la temporanea inconscienza, lo avesse sentito.

Un lunghissimo applauso d'approvazione ruppe il silenzio calato sull'arena. Anche Nerone si unì all'acclamazione, ammirato dalla sua straordinaria forza d'animo e dal suo ferreo autocontrollo "Come mi piacerebbe essere come lui, un fiero e nobile guerriero, che agisce e combatte animato dalla lealtà e dall'amore".

"Achaikos, meno male, l'ultima cosa che desideravo era di tormentarmi sul tuo corpo" si tranquillizzò Locusta.

- Altezza imperiale! - sbottò Achaikos sollevando l'arma al cielo e inginocchiandosi reverenzialmente - Io ho mantenuto la mia parola, ora tocca a voi fare lo stesso!

- Certamente, Achaikos - esclamò Nerone, splendente ed imponente - La parola dell'imperatore è sacra! - si rivolse alla donna la prese delicatamente per mano e la consegnò, quasi fosse un oggetto prezioso, al guerriero. Quest'ultimo la trasportò trionfante lungo tutta l'arena, godendosi appieno quelli che sarebbero stati i suoi ultimi istanti di gloria. 

 

Dal fondo del corridoio buio, che portava alla piccola cella provvisoria nella quale i gladiatori sostavano prima e dopo aver combattuto, giunsero correndo una donna matura e due ragazzi.

La donna, dall'aria matura ma al tempo stesso umile, aveva l'aspetto di una matrona romana, dai lineamenti marcati: lunghi capelli neri raccolti all'indietro secondo la moda, grandi occhi scuri e vivaci, il naso dritto e lungo, le labbra rosse e piene; dal fisico curvilineo e florido. Portava indosso una veste bianca con una palla color smeraldo.

I due robusti e splendidi ragazzi, sulla ventina, chiaramente gemelli, la seguivano silenziosi e discreti. Assomigliavano sorprendentemente ad Achaikos, con l'unica differenza della pelle leggermente più chiara.

- Padre! - esordirono i due ragazzi nel vederlo.

Quell'esclamazione fece sobbalzare Locusta, tuttavia, riuscì a non mostrare il suo disagio interiore e abbozzò un lieve sorriso.

- Astorius, Marcius, figli adorati! - contraccambiò Achaikos stringendoli forte a sé. Il loro abbraccio fu fugace, poiché l'egizio si ricordò della presenza Locusta e si staccò da loro per presentarle 'l'ospite' - Lei è Locusta, una mia carissima amica

- È un piacere fare la vostra conoscenza, Locusta - soffuse dolcemente la donna, di nome Fauna, chinando il capo in segno di rispetto - Achaikos mi ha parlato spesso del vostro primo incontro e continuamente pensava a voi, alla vostra salute

- Da... davvero?! - proruppe Locusta improvvisamente imbarazzata, sentì il viso diventare caldo e il sudore bagnarle le tempie - Mi...mi rende felice sapere que...questo - aggiunse tremolante.

- Speravo e ti auguravo il meglio, ma non pensavo certamente che fossi nelle grazie dell'imperatore! A quanto pare il dio Mithra è davvero potente - rise Achaikos, soddisfatto dei traguardi raggiunti dalla sua cara amica. Per smorzare la tensione Locusta accompagnò la sua risata, che, però, non era affatto liberatoria, semmai nasceva da una profonda tristezza interiore. Sapeva infatti che non era giunta a palazzo grazie ai suoi meriti.

Quando smise di ridere guardò i due ragazzi ben proporzionati - Che mestiere intraprendono i tuoi figli?

- Astorius ha scelto la vita militare, attualmente è un pretoriano arruolato qui, nella Capitale, mentre Marcius sta studiando per diventare un medico, sono così orgoglioso di entrambi - rivelò dando delle sonore pacche sulle spalle ad entrambi, anch'essi erano impacciati e stranamente timidi.

Locusta comprese che tutta quella loro riservatezza e quella reverenza erano dovute al fatto che probabilmente avevano acquistato la libertà da pochi anni e quindi erano stati educati nel mostrare accondiscendenza ed educazione. E capì anche il perché della professione di Achaikos. 

- Se volete potrei chiedere all'imperatore di farti entrare nella sua cerchia, mentre stavi lottando, in effetti, ha ripetuto più volte di accoglierti, potrei garantire anche per i tuoi figli, sani e robusti come sono, potrebbero servire fedelmente Nerone

- Io...io già lo sono - precisò Astorius pacatamente - Cioè non del tutto, però, ecco...ecco c'è Tigellino, lui è il mio..mio capo...

- Ah capisco...

Achaikos percepì il disagio di Locusta ed invitò la sua famiglia di allontanarsi momentaneamente da lì; poteva restare lì fino al tardo pomeriggio, cioè quando finivano gli spettacoli.  

- Ora che siamo soli possiamo discutere con più scioltezza, era questo che volevi, non è vero?

Locusta era colpita dalla sua sicurezza, dalla sua tranquillità, dava l'impressione di non essere mai stato uno schiavo; come poteva essere così sereno? Fece un cenno di approvazione - Soprattutto è bello vedere che sei riuscito a creare una famiglia...

- Non è stato di certo facile, ho dovuto sconfiggere le ostilità del mio padrone, ho scelto di diventare gladiatore non solamente per suo volere, mi aveva comprato per questo, ma specialmente per dimostrare il mio vero valore a tutto l'Impero

- Capisco perfettamente, come comprendo la scelta di non aver ucciso quel gladiatore, hai sempre avuto rispetto per la vita, a differenza mia, che... - abbassò la testa e cercò di non lasciarsi sopraffare dalle lacrime. Doveva mostrare di non essere più la debole ragazza che aveva incontrato quel lontanissimo giorno di quasi ventisei anni prima.

- Se l'hai fatto era per una buona causa, conosco la tua indole pacifica - giustificò dolcemente il gladiatore.

- No, ti sbagli, l'ho fatto esclusivamente per salvare la mia vita, ho eliminato gente innocente per salvare quelle di altre persone che hanno recato male all'imperatore - ripensò al povero imperatore Claudio e al piccolo Britannico, due vittime dell'ambizione e follia di Agrippina.

Alla fine cedette e scoppiò a piangere senza posa. Achaikos ebbe lieve rimorso nel aver ridestato il 'vergognoso' passato della sua amica. Le si avvicinò e le fece appoggiare il capo al petto: ad un tratto parve ad entrambi di essere tornati indietro nel tempo. "Non siamo affatto cambiati, Locusta, abbiamo ancora le nostre debolezze nel cuore, certe ferite non si possono curare".

- Ora...ora...penserai che io sia... - disse sussultando.

- Un'assassina? O l'avvelenatrice? No, non mi sfiora minimamente l'idea, perché io ti conosco Locusta, e meglio di chiunque altro, anche di tuo marito e dell'imperatore

- Come sai che sono sposata?

- Dal suo sguardo fiducioso e pieno di amore - rispose velocemente - Un marito che ama la propria donna le dà completamente fiducia e soprattutto la libertà di scegliere e pensare

Locusta lo fissò dritta negli occhi: era stato schiavo unicamente nel corpo, il suo spirito era libero da ogni catena, da ogni convenzione e da ogni pregiudizio. Un uomo che considerava la sua donna libera, un essere al suo pari, non uno strumento per figliare e per soddisfare i propri piacere, era un vero miracolo.

- Quanto invidio tua moglie in questo momento - confessò amareggiata.

- Cerca di pensare a quello che hai, Locusta, hai un marito che ti vuole bene, che ti ha accettata per quello che sei e non per quello che rappresenti, vivi in stretto contatto con l'imperatore, che ti ammira e ti protegge, se ti rammarichi per quello che non hai, non potrai mai godere di ciò che ti circonda e che possiedi

‎Il suo pensiero andò a Gaudenzio, anche lui, allo stesso modo di Achaikos, l'aveva sempre trattata con profondo rispetto e l'amava profondamente.

Si, l'egizio aveva ragione: doveva assaporare quello che il destino le aveva 'donato', non poteva guardare esclusivamente al lato negativo della vita. Non era peccato, per una come lei, essere felice.

Poteva cogliere la rosa, ora che era senza spine.

- Ancora una volta sono in debito con te, amico mio

- Non dire così, gli amici servono a questo e tu lo sai

- So bene che per te sono più di un'amica, anche se ami tua moglie, non riesci a guardarla come fai con me

L'egizio ridacchiò - Pensavo di avercela fatta e invece, non appena ti ho rivista, il sentimento è riemerso, seppur mitigato e sfumato nel rispetto e nell'amicizia - notò che il cielo si oscurava sempre più - Ora vai, i tuoi uomini ti aspettano...

- Mi spiace lasciarci così, dopo tanto tempo, avrei voluto sapere più di te...

- Non ho fatto nulla di speciale se non lottare con onore, se è ciò che ti interessa, e mia moglie è balzata nella mia vita come accade a tutti i grandi amori - sintetizzò Achaikos, come se volesse sminuire tutto il suo immenso valore attraverso la sua umiltà e modestia.

- Allora spero di rivederti combattere ancora e fare il tifo per te

Sul suo viso scese un'ombra che coprì i suoi occhi - Questo è stato il mio ultimo combattimento, Locusta, ho sacrificato il toro soltanto per augurare prosperità alla famiglia imperiale, in realtà avevo già abbandonato l'arena quando divenni libero, una decina d'anni fa, perché non fa per me quel mondo...troppa avidità, troppa corruzione...

- Allora spero che non sia un addio, che potremo ritrovarci e chiacchierare ancora, io e te siamo stati legati dal Fatum, non siamo semplici amici, siamo fratelli del destino - l'abbracciò amorevolemente e gli sussurrò - Sappi che se vorrai confidarti io ti aspetterò sul Palatino, nella mia abitazione

L'egizio accolse il suo affetto, sorrise, nonostante i suoi occhi brillassero per via delle lacrime - Lo farò senz'altro, sorella mia, è una promessa...

- Allora arrivederci, fratello ritrovato... - soffuse scivolando dalla sua protezione. 

Si salutarono in silenzio, poi con passi svelti e felpati Locusta raggiunse Gaudenzio e Nerone che l'avevano attesa pazientemente, facendosi raccontare del loro incontro. 

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Capitolo 36
*** Capitolo 35 - Ex una scintilla incendia - ***


"Est etiam quoque uti non magno solis ab igni 
aera percipiat calidis fervoribus ardor, 
opportunus ita est si forte et idoneus aer, 
ut queat accendi parvis ardoribus ictus"
Lucrezio, De rerum natura, vv 604 - 607

Roma, 17 luglio 64 d.C.

- Allora - esordì un uomo di mezza età incappucciato, nascosto dalla penombra - Avete portato il compenso per quel lavoretto? - chiese infine sospettoso.

- Certamente - rispose affabile uno dei senatori, panciuto e dallo sguardo tagliente, che estrasse il sacchetto pieno di monete e glielo porse - Ecco i 1000 sesterzi che mi avevate chiesto...

L'uomo, sempre guardingo e sospettoso,  strappò velocemente dalla mano il sacchetto e lo nascose sotto il mantello. Poi fece uscire, da un muretto dietro di lui, un gruppo di uomini, anch'essi incappucciati, con in mano delle torce - Ci garantite nuovamente che nessuna colpa verrà addossata a noi per quanto succederà alle sorti della Capitale?

Il senatore che aveva già fatto dietrofront, senza mutare la sua espressione rilassata, voltando leggermente il viso cadente verso di loro, rispose - Non preoccupatevi, sarà tutto secondo gli accordi, voi cristiani non subirete alcuna persecuzione, sarà Nerone a pagare per voi! - gli rassicurò il senatore con voce suadente - E una volta che ci saremo sbarazzati di lui e di tutti i suoi seguaci, ci uniremo per scegliere un imperatore che possa soddisfare le vostre richieste ed esigenze, cristiani...

Il capo del gruppo cristiano sorrise maliziosamente e dopo averlo guardato per l'ultima volta, corse immediatamente, insieme ai suoi compagni, nel cuore della città per appiccare il fuoco e provocare l'incendio che avrebbe ripulito Roma dalla feccia dei pagani e di Nerone.

"Razza di stolti" si disse non appena vide sparire nel buio della notte quel gruppo di cristiani fanatici, animati dalla loro insulsa fede che stava dilagando nell'Urbe e, quindi, pericolosa per la sicurezza delle tradizioni romane. "La vostra fede vi porterà alla tomba". 

- Ma sei sicuro che farà come dice... è un pagano! - gli sussurrò titubante un compagno pagano divenuto da poco un fervente e sentito cristiano - Se poi ci tradisce, l'intera comunità sarà in pericolo per colpa nostra 

- Anche a me quel tipo non piace affatto, ma noi e il Senato abbiamo un nemico in comune, l'imperatore... - bisbigliò il capo al suo fianco

- Ma non ci ha mai perseguitati, a differenza dei suoi predecessori - lo interruppe il compagno, turbato; dopo aver intravisto la sete di potere nel volto di quel senatore cominciò a comprendere che forse l'idea di bruciare Roma non era affatto la soluzione migliore per risolvere la loro posizione - È sempre stato abbastanza tollerante con noi, se instaurassimo un dialogo assolutamente pacifico, magari potremmo ottenere qualcosa in più...

- Se hai così tanta paura, tornatene pure a casa, di fifoni come te non sappiamo che farcene, ma sappi che non avrai più il tuo compenso - sbuffò un altro, stufo di sentire il suo insopportabile piagnisteo.

- Tenetevelo pure quel maledetto denaro! Non voglio fare la stessa fine di Giuda, non desidero sporcare le mie mani di sangue innocente, perché fino a prova contraria l'imperatore non ci ha fatto nulla, siete voi che lo state provocando! - gli rinfacciò adirato.

Dov'era finita la misericordia di Cristo? Possibile che il potere e i soldi fossero riusciti ad intaccare persino il cuore di coloro che avrebbero dovuto essere messaggeri di pace, di amore verso il prossimo?

Avevano, forse, dimenticato le parole del loro Messia, ovvero di amare anche e soprattutto i nemici e di porgere sempre l'altra guancia. Erano solo chiacchiere, dunque, non c'era nulla di vero? Come tante altre che dicevano di diffondere la verità, anche questa filosofia religiosa era solo un insieme di discorsi farfugliati?

- Perché ci stiamo riducendo a questo? Perché?

- Dovresti saperlo il perché, il nostro compito è di portare la Sua Parola ovunque e noi conosciamo solo questo modo! Non ha senso parlare in maniera pacifica, bisogna incutere loro paura! Ricordati della profezia apocalittica egizia!

- Quando Sirio, la stella di Canis Major sorgerà, la malvagia città cadrà e nascerà una nuova! La nostra Roma! La nuova capitale di Cristo!

- Credevo che foste migliori di certa gentaglia, invece non siete così diversi da quelli che voi chiamate pagani! - urlò piangendo e, sopraffatto dalla delusione, dall'amarezza, scappò via da loro. Non riusciva a credere che quelle persone, che considerava colme di senno, fossero in realtà dei fanatici della distruzione e della vendetta. Loro che parlavano di perdono infinito e di Resurrezione dei Corpi dopo la morte.

In cuor suo prese la dura decisione di non appartenere più a quella maledetta setta, che lo aveva stregato con il suo messaggio rivoluzionario ed innovativo e che in quel momento si era rivelato per quello che era: una seria minaccia per Roma. "La mia famiglia aveva ragione, non avrei dovuto credere a quelle parole così persuasive, erano solo chiacchiere vuote, ma adesso sono pronto per ritornare ad essere un fiero ed onesto pagano". 

Anzio, 18 luglio

Nerone e sua moglie avevano deciso di trascorrere l'estate nella residenza di famiglia dell'imperatore; nella sua città natale il caldo era persistente, ma non soffocante ed afoso come nella Capitale del Mondo: l'aria di mare, infatti, mitigava decisamente la calura che aleggiava da giorni sull'intero Lazio.

Era da quasi un mese che non scendeva una goccia di pioggia e tutti sembravano preoccupati per i vigneti e i raccolti, tranne l'imperatore, il cui pensiero era rivolto alla sua piccola Claudia, morta dopo quattro mesi dalla nascita, e ciò l'aveva straziato, non sapeva più quale divinità maledire, poichè le aveva rinnegare tutte, che fossero ufficiali o meno.

Poppea, più e più volte, aveva tentato di tranquillizzarlo, fallendo miseramente. Il già fragile cuore di Nerone aveva subito un altro terribile colpo che aveva minato la sua psiche e le sue emozioni, formando un'altra profonda crepa. 

L'imperatrice sperò che quel soggiorno estivo potesse aiutare suo marito a ritornare in forze e notò che negli ultimi giorni effettivamente stava migliorando, i suoi pensieri intrisi di sciagure e maledizioni stavano lentamente scomparendo, per lasciare il posto a quelli legati alla vita quotidiana e al governo.

- Secondo voi Poppea, dovrei accettare quella proposta fatta da Gaudenzio, qualche mesetto fa? - domandò l'imperatore pensieroso. Era sdraiato sul triclinio, senza toccare cibo.

- Quella dell'anfiteatro dedicato alla nostra dinastia? - evitò di scendere nei particolari riguardanti la piccola Claudia, perché altrimenti non si sarebbe più ripreso dalla ricaduta.

- Si, si esattamente quella! Glielo avevo promesso, ma...

- Ma...?

- Ma prima vorrei pensare a ristrutturare gran parte degli edifici posti nella capitale, le strade stanno diventando sempre più impraticabili e se capitasse qualche disgrazia, soprattutto con il caldo di questi ultimi mesi, non ci sarebbe spazio sufficiente per effettuare i dovuti soccorsi...

- Potreste chiedere a Gaudenzio di darvi una mano, sono sicuro che non vi dirà di no, anzi secondo me è impaziente di mettersi al vostro completo servizio

- Lo penso anch'io - Nerone poggiò la mano sul viso e sorrise timidamente,  pensando al fatto che la sua adorata Poppea si stava dimostrando sempre più gentile, pacata nei suoi confronti e disponibile ad un dialogo più sincero all'interno della coppia: quella gravidanza aveva portato degli aspetti positivi, nonostante l'esito infelice.

Sentiva di amarla come mai in vita sua, percepiva un grande calore nell'anima: Poppea finalmente ricambiava il suo sentimento, questo gli bastava per continuare a vivere.

All'immagine della moglie si sovrappose quella di Locusta: come poteva dimenticare il suo affetto devoto, silenzioso, saggio e consolatore, e se un giorno gli fosse venuta a mancare la sua presenza, con molta probabilità, si sarebbe tolto la vita. "Senza di lei il mondo perderebbe la dolcezza e la grazia, una creatura così pura ed elevata che mi fa sentire indegno di starle accanto, per questo le ho impedito di seguirmi, è giusto che resti con suo marito".

La cupa sofferenza pareva solo un ricordo lontano in quel luogo, che era per lui sia paradiso sia inferno, pregno di dolci e al tempo stesso struggenti ricordi; la malinconia gli salì fino alla gola: gli mancava Domizia Lepida "Se solo avessi fermato mia madre quando non era ancora in grado di nuocere, saresti qui con me, a goderti gli anni delle vecchiaia serenamente" sospirò.

Poppea lesse la triste malinconia dipinta sul volto di Nerone e con delicatezza avvicinò la sua mano sull'altra che teneva appoggiata mollemente sulle vesti, gliela strinse e lo guardò: non era l'uomo più bello dell'Impero, aveva i capelli di quel colore così particolare per un imperatore, tutto il suo aspetto era insolito, bizzarro, originale, più vicino al gusto ellenico che a quello romano, aveva una sensibilità particolarmente spiccata e un amore spropositato per la Grecia che lo rendevano dolcissimo e purtroppo incompreso. 

Tuttavia fu proprio questa sua stranezza ad averla stupita, non era minimamente simile agli altri imperatori, tutti uguali e prevedibili, lui era Nerone, l'imperatore artista.

"Io non volevo essere un imperatore, Poppea" le ritornò alla mente quella frase che le ripeteva spesso, quando non si sentiva all'altezza del suo compito "Io desideravo solo essere un attore di teatro, rappresentare le varie sfaccettature dell'umanità, nel bene e nel male, ma il Fato ha voluto caricarmi di questo peso che devo portare fino alla tomba, ormai non posso tornare più indietro, perciò, se potete, aiutate questo artista ad essere un perfetto esempio per quel popolo che là fuori mi adora al pari di una divinità"

Quel sorriso colmo di tristezza... 

- Altezza imperiale!!! - la voce agitata di un pretoriano interruppe quel momento di tacita intimità; il soldato terribilmente spaventato, tremolante dalla testa ai piedi e affaticato per la lunga corsa, piombò ai piedi dell'imperatore e, tra un sussulto e l'altro, annunciò - È successa...una cosa...terribile...

- Non pensate ai convenevoli, riferite, soldato, avanti, se è così urgente, parlate!

- Roma...Roma sta bruciando, altezza imperiale! - riferì tutto d'un fiato.

- Co..cosa? Chi è stato? Quando è successo? - domandò a raffica, scuotendolo. Uno dei suoi più terribili presagi si era avverato.

- Nel cuore della notte, altezza imperiale, l'incendio è partito dal Circo Massimo e si è diffuso rapidamente in ogni angolo della città, la maledizione degli dei si è abbattuta su di noi!

Poppea credette di vederlo perdere coscienza, essere invaso dalla paura, dall'angoscia; lo vide balzare rapidamente in piedi: ordinò immediatamente un mezzo per portarlo a Roma. La sua città aveva bisogno di lui ora più che mai!

- Non fatelo, rischiereste la vita! - lo fermò balzando anch'ella.

- È mio dovere, Poppea, voi restate pure qui, ma io non posso sottrarmi al mio dovere e al mio popolo, pretoriano indicatemi la via

Poppea lo guardava incredula: era coraggio o imprudenza quella che stava mostrando in quel momento? Da dove gli proveniva tutta quella voglia di mettersi al servizio della sua popolazione? Non poteva lasciarlo solo...

- Altezza, io sono l'imperatrice e ho i vostri stessi doveri davanti al popolo...

Nerone si voltò e le sorrise: qualcun altro avrebbe condiviso il macigno del potere, si sentì improvvisamente leggero. "Sapevo che non mi avrebbe abbandonato, ora mi sento più forte per affontare questa tremenda prova, nella quale si gioca la nostra reputazione agli occhi del mondo". 

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Capitolo 37
*** Capitolo 36 - Quot homines, tot sententiae - ***


"Probitas laudatur et alget
criminibus debent hortospraetoriamensas
argentum vetus et stantem extra pocula caprum"
Giovenale, Satire, I, vv 74-76

Il fuoco affamato continuava a distruggere tutto ciò che trovava sul suo cammino, niente riusciva a saziarlo, nemmeno il duro lavoro dei vigili del fuoco, guidati alacremente dalla mano decisa di Tigellino, poteva fare nulla.

Quest'ultimo non aveva esitato un solo istante nell'avvertire l'imperatore dell'accaduto e, nervosamente, attendeva ordini e soprattutto il suo ritorno.

Nonostante la sua resistenza fisica era quasi del tutto esausto, poiché, era da parecchie ore che girovagava per le strade della Città Eterna sgolandosi fino a perdere quasi del tutto la voce; tuttavia non era disposto a cedere. "Non mi importa proprio niente di questi pezzenti" si disse mascherando il disgusto.

Vide un gruppetto di cittadini, salvati un istante prima che il fuoco andasse a colpire un otre di olio, correre ansimanti verso di lui e la sua scorta di pretoriani, per ringraziarli - Sto semplicemente compiendo il mio dovere - sbraitò brutalmente il Prefetto - Allontanatevi da questo luogo se volete vivere ancora, altrimenti arraggiantevi, non salverò una seconda volta voi e il vostro squallido quartiere malfamato

Nel vedere la loro ostinazione, mista ad un pizzico di stupore, Tigellino diede ordine ad alcuni soldati di portarli da un'altra parte. Si asciugò la fronte sudata. "Ma perché lo sto facendo?" si chiese sospirando "Quando diavolo arriverà quello stramaledetto grassone? Non sopporto più tutta questa gentaglia così fastidiosamente appiccicosa"

La situazione era critica: non appena le fiamme venivano spente in una zona, ecco che si accendevano furiosamente da un'altra; era una continua corsa contro il tempo. 
 

"Spero di non essere giunto troppo tardi" pensò preoccupato Nerone, arrestando la biga fuori le mura di Roma per osservare la gravità dell'incendio.

Abbassò la testa e guardò le mani tremolanti. Era agitato, ma al tempo stesso concentrato: non poteva commettere errori, il suo primario dovere era di salvare quante più persone possibili, non importava come ma doveva farlo - Ho fatto bene a lasciare Poppea ad Anzio, da lì potrà aiutarmi maggiormente controllando  le scorte di viveri dirette a Roma, posso fidarmi di lei - sussurrò tra sé.

Ingoiò il groppo di saliva che si era fermato in gola, si coprì la bocca e il naso con il mantello e diede un energico colpo alle redini entrando nella città in fiamme.

- Altezza imperiale, finalmente siete qui! - esclamò una delle due guardie che sorvegliava l'entrata.

- Ho fatto più in fretta che potevo - si scusò Nerone frenando la biga - Indicatemi i luoghi maggiormente colpiti dal fuoco, soldati...

- Siete arrivato qui da solo? - domandò perplesso il militare - Non avevate con voi la scorta?

- Si, sono solo - rispose prontamente l'imperatore - I vostri colleghi sono impegnati a prendere tutto il necessario che serve alla Capitale dalle altre città vicine...

- Altezza imperiale, era ora! - ruggì Tigellino quando lo scorse in lontananza - Non ne potevo più di tenere a bada quel gruppo di plebei petulanti

- Li avete condotti al sicuro nel palazzo imperiale? - gli fece presente l'imperatore, tentando di non perdere l'autocontrollo.

- Ehm...no...ho dimenticato... - finse di non ricordare l'ordine categorico che Nerone gli aveva fatto recapitare poco dopo essere partito da Anzio. In realtà non aveva comunicato tale indicazione ai pretoriani; non gli importava di portare al sicuro la povera gente, ma solo ed esclusivamente di salvare i risparmi e le scorte dell'alto patriziato.

- Cosa?! Vi rendere conto di quello che avete fatto?! Potrei farvi uccidere Tigellino, sapete che ho il potere di farlo! - gli ricordò furibondo l'imperatore.

- Sono profondamente amareggiato, altezza - si scusò con voce incerta il Prefetto dei pretoriani, per la prima volta spaventato dalle sue parole così dure e dirette - Ero...così preso dal mio lavoro che...

- Va bene, va bene - lo zittì con una mano; non poteva perdere più tempo, perciò decise che era meglio lasciar perdere le discussioni inutili - Piuttosto conducetemi nelle zone più colpite

- Ma...ma...volete davvero mettere a rischio la vostra vita per dei plebei?

Il Princeps gli lanciò un'occhiataccia che lo fece sbiancare: mai prima d'ora l'aveva visto così fermo nelle sue decisioni. - Si dà il caso che quelli che voi indicate come semplici plebei siano il mio popolo, coloro che io devo servire ed aiutare, se non avete intenzione di rendervi utile spostatevi e lasciatemi passare

- Se andrete con la biga, altezza, i cavalli non ce la faranno - precisò il pretoriano che fino a quel momento era rimasto in silenzio.

L'imperatore scese giù dal mezzo, guardò con disprezzo entrambi, allungò le briglie al pretoriano dicendogli sarcasticamente - Eccoli pure i vostri cari cavalli, ed ora, se permettete avrei un popolo da salvare - diede loro le spalle.

- E noi cosa dobbiamo fare?

- Tigellino sa benissimo qual è il vostro dovere, fatevelo esporre da lui - detto ciò s'inoltrò nel cuore della città, confondendosi tra i suoi colori accesi. 
 

Il fumo diventava sempre più denso e la sua già debole vista non lo aiutava nel distinguere nitidamente le figure.

Il calore stava divenendo insopportabile; ogni passo che compiva gli creava la terribile sensazione di sciogliersi, di fondersi con il terreno, nonostante ciò, continuava ad avanzare: i nervi, assieme ai sensi, erano tesi e pronti a captare persino il minimo gridolino soffocato dalle macerie o consumato dal fuoco inestinguibile.

Udì qualcuno tossire e supplicare, si precipitò immediatamente nella direzione dalla quale provenivano le preghiere; s'accorse di un'altra presenza, vigorosa ma gentile - È svenuta! - disse quest'ultimo dopo averne udito le grida disperate.

"Ma quello è...!" sobbalzò Nerone nel vedere quella possente e familiare figura estrarre con forza una giovane ragazza rimasta incastrata tra due pezzi di legno, quasi del tutto carbonizzati: un vero miracolo averla trovata ancora in vita.

La pose delicatamente sulle spalle e nascose la parte inferiore del viso in un panno bagnato, per evitare di soffocare. Sentì le forze mancare. - Achaikos...coff...coff...Achaikos - percepì l'egizio come se fosse un sogno.

L'istinto lo fece girare e notò l'imperatore in persona che lo stava effettivamente chiamando, agitando le braccia affinché potesse accorgersi di lui - Achaikos, sono io, Nerone, mi vedi?

- A...altezza impe...imperiale! Ma cosa ci fate qui? - sibilò leggermente stordito dal calore; era veramente lui, non riusciva a credere che avesse tanto a cuore la triste sorte della popolazione. Tuttavia lo stupore durò poco perchè il fuoco stava avanzando - A dopo i chiarimenti, ora è meglio fuggire da qui! - riferì Achaikos correndo.

- S-si - affermò l'imperatore seguendolo - Locusta dov'è? - domandò ruotando lo sguardo a destra e a sinistra.

- A palazzo, altezza, sta confortando e curando tutti i superstiti

Il Princeps sorrise orgoglioso dalla loro generosità e disponibilità: aveva ancora delle persone a lui devote e fedeli, disposte a sacrificare le energie per il bene dell'Impero. Gli era profondamente grato per questo.

- Ma come mai siete da solo? Nessuno ha voluto seguirvi?

- Sono stato io ad allontanarli, con me sarebbero stati solo un peso, invece adesso saranno molti più utili, non lo pensi anche tu?

- Siete davvero un grande imperatore, altezza - ammise Achaikos, colpito dalla sua profonda dignità e lealtà.

Un atteggiamento che probabilmente non piacava a molti, altrimenti non riusciva a spiegarsi il motivo dell'incendio: sapeva che l'imperatore aveva molti nemici attorno a lui, molti celati dall'ipocrisia e dalla reverenza, altri, invece, ben noti, di cui, pure l'imperatore era a conoscenza.

- Chiamami Nerone, questi formalismi lasciamoli ai falsi amici, sei d'accordo? - ammiccó il giovane Princeps, allontanando, per un istante, quell'atmosfera soffocante ed opprimente. 

- Va bene, Nerone - ricambiò il suo gesto, poi tornò serio e aggiunse - Ora sarà meglio che porti questa ragazza a palazzo è l'unica sopravvissuta della sua famiglia, per gli altri non ho potuto fare niente

- Hai già fatto quello che potevi, Achaikos - lo rassicurò, osservò il paesaggio desolato e privo di vita, si rabbuiò ed emise, trattenendo a stento la rabbia - I responsabili pagheranno per tutto questo, non appena l'incendio sarà spento, mi metterò immediatamente all'opera per punire coloro che hanno oltraggiato la Capitale del Mondo e me!

- Certo... - deglutì Achaikos, intimorito dal suo repentino cambiamento d'umore; Locusta gli aveva riferito più volte degli sbalzi di Nerone, che bisognava tenere continuamente a bada, in quanto avvenivano con maggiore frequenza nei periodi di grande tensione.

"Nerone non è sadico né spietato di natura" rimembrò le parole dell'amica "Anzi cerca di rifuggire dall'utilizzare la violenza e le armi se ai suoi occhi appaiono come misure eccessive, tuttavia, quando è scosso da sentimenti terribili e perde il controllo diventa inconsapevole delle sue azioni, e sarebbe capace di compiere le più atroci crudeltà pur di soddisfare la sua sete di giustizia e di quella popolare".

Nerone, con un lungo e combattuto sospiro, ricacciò la belva che tentò di liberarsi dal suo controllo. Sorrise forzatamente e, non appena si allontanarono dalla zona più critica per riprendere un po' di fiato, disse - Achaikos, ti sono grato per quello che stai facendo, sei uno dei pochi amici su cui posso ancora contare, verrai ricompensato quando risolleverò in piedi la città e punito chi vuole gettare discordia tra me e il popolo!

- Nerone io faccio quello che devo fare non certo per arrivare in alto come tanti vostri seguaci, ma solo perché è il cuore a dirmelo...

- Solo ora capisco da dove è nato quell'affetto che Locusta ti rivolge, Achaikos - confessò l'imperatore dolcemente, mettendo in pace una parte del suo cuore, turbato da quel rapporto; si rese conto che la loro amicizia era nata e cresciuta grazie al rispetto reciproco e dalla stima più vera.

L'egizio chiuse gli occhi e attese che il respiro divenisse più lento e profondo per poter riprendere la corsa fino al palazzo imperiale, che per loro fortuna, non era lontano - Ce la fate a compiere l'ultimo sforzo fino a palazzo, Nerone?

- Anche se non ho più il fisico asciutto e scattante di un tempo, sono sempre riuscito a concludere una corsa senza sfiancarmi! - si vantò Nerone ridacchiando. 
 

Una volta approdato a palazzo, Achaikos si diresse subitamente verso Locusta, tutta intenta nel preparare infusi, per consegnarle la giovane romana salvata dalle fiamme; l'avvelenatrice lentamente le fece riprendere conoscenza - Do...dove sono? - effuse intontita.

- Sei al sicuro, adesso... - la rassicurò Locusta - Achaikos e l'imperatore ti hanno portata a palazzo

- E...e la mia famiglia?

Avrebbe voluto nasconderle la verità, ma sapeva di non poterlo fare: nei suoi occhi lesse il suo bruciante desiderio di conoscere il vero. Facendosi forza le narrò ogni particolare, così come glielo aveva riferito Achaikos.

La ragazza scoppiò a piangere, con il senso di colpa crescente - C'era...anche mio fratello...tra le fiamme e...e aveva...appena 9 anni

- Mi addolora profondamente - emise con fare di circostanza, accogliendola fra le sue braccia, per tranquillizzarla.
 

Anche Nerone non perse tempo e comunicò ai suoi servi, schiavi ed amici presenti di costruire delle capanne e baracche di fortuna, arredate con tutto ciò che era riuscito a farsi procurare da Ostia e dalla stessa Anzio. La sua scorta, infatti, lo aveva raggiunto poco dopo il suo arrivo al palazzo.

Lui stesso si prodigò, senza sosta, nel dirigere i soccorsi e nel consegnare i beni più importanti come pane di orzo e acqua ai poveri e i senza tetto. Addirittura ordinò che il prezzo del grano, sequestrato dalle residenze nobiliari ancora in piedi e fatto arrivare dalle altre città, venisse abbassato sotto il livello consentito: era un'emergenza ed ogni cittadino avrebbe contribuito, volente o nolente.

Il fuoco, però, non voleva proprio saperne di arretrare e tanti iniziarono a pensare che fossero alcuni vigili, pagati dagli uomini che avevano "acconsentito" l'incendio, di alimentarlo attraverso delle cisterne d'olio conservate nei magazzini.

Le fiamme avanzarono fino ed oltre il Palatino, inghiottendo la casa di Locusta, la sua scuola e il palazzo imperiale; furono avvisati in tempo da voci fidate, riuscendo a salvarsi, completando solo a metà la vendetta dei patrizi espropriati dei loro beni. 

L'imperatore e la corte dovettero rifugiarsi  insieme agli sfollati, condividendo con loro ogni sorta di bene e di esigenza, senza lamentarsi della loro scarsa quantità. La solidarietà e la necessità abbatterono temporaneamente le diversità sociali e politiche; in quei giorni carichi di tensione e di angoscia furono solo ed esclusivamente esseri umani.

26 luglio

Finalmente, dopo sei interminabili giorni, l'incendio fu definitamente spento; ciò portò al riaccendersi delle ostilità da parte di quelle persone che fino a poche ore prima avevano mostrato esempi di fratellanza reciproca.

Tra la massa di sfollati serpeggiava il dubbio sulla reputazione dell'imperatore; si crearono due fazioni: chi credeva che Nerone fosse all'oscuro di tutto, esattamente come loro, e chi, invece, era convinto che il suo attivismo nei loro confronti fosse solo una messa in scena, essendo a conoscenza della sua eccentrica teatralità, per discolparsi e scaricare le sue follie ad innocenti.

Nerone, non ancora al corrente di ciò, avrebbe dovuto prendere dei provvedimenti alla svelta, prima che il suo nome venisse del tutto infangato dalle calunnie diffuse dai nemici ai suoi danni.

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Capitolo 38
*** Capitolo 37 - Tantum religio potuit suadere malorum - ***


"Humana ante oculos foede cum vita iaceret 
in terris oppressa gravi sub religione,
quae caput a caeli regionibus ostendebat 
horribili super aspectu mortalibus instans, 
primum Graius homo mortalis tollere contra 
est oculos ausus primusque obsistere contra; 
quem neque fama deum nec fulmina nec minitanti 
murmure compressit caelum, sed eo magis acrem 
inritat animi virtutem, effringere ut arta
naturae primus portarum claustra cupiret".
Lucrezio, De rerum natura, I, vv 62 - 71

Nerone non si era perso d'animo e, subito dopo aver constatato i danni alle abitazioni e all'ambiente circostante, aveva deciso di studiare varie mappe intatte, recuperate miracolosamente tra le macerie, per ricostruire a nuovo gran parte della città.

"Roma dovrà diventare la città più bella di tutto l'Impero! Chiunque verrà qui, dovrà restare a bocca aperta per la sua bellezza, per il suo nuovo aspetto maestoso e consono al titolo di capitale" si disse Nerone.

Nei suoi occhi brillava una luce intensa, mentre guardava le macerie della Capitale del Mondo. "Risorgerà come la fenice, più splendida e potente che mai! E Gaudenzio mi aiuterà, si, sarà lui che mi aiuterà!".

Tigellino al suo fianco controllava che non ci fossero pericoli, tuttavia aveva notato l'aria trasognante dell'imperatore. Per poco non fu lui ad inciampare sul piede di Nerone " Maledetto grassone, questa si aggiunge alla mia lista personale di conti da farvi pagare, altezza imperiale".

- Tigellino - emise Nerone rivolgendosi a lui, raggiante, solare.

- Di...ditemi altezza imperiale... - rispose colto alla sprovvista; credeva di poter anticiparlo nei pensieri, invece accadeva esattamente il contrario: era il Princeps a richiamarlo nell'istante di cedimento.

- Voglio ardentemente che Roma splenda alla luce del sole, il bianco e l'oro dovranno essere i colori dominanti... - confessò commosso poggiando le mani sul petto. Emise un sospiro carico di speranze e sogni.

- In che senso? Volete mutare volto alla città? - domandò cercando di non mostrare il disgusto emergente; a lui della capitale non importava nulla, ciò che contava erano solo i soldi, il potere, il sangue... il resto, ai suoi occhi, appariva come un suo ennesimo capriccio.

- Certamente, Tigellino, non sentite come si respira adesso, prima era tutto troppo soffocante e confusionario...

- Si, altezza, questo vostro desiderio è tanto nobile - recitò il Prefetto - Ma non vi sembra che stiate correndo un po' troppo?

- Che volete dire? - chiese un po' deluso; gli sembrò di essere l'unico a vedere una speranza di rinascita.

- Che dovete punire chi ha causato questo, altezza imperiale, il popolo ha bisogno del sangue di chi li ha ridotti alla miseria - ruggì Tigellino, bramoso di vedere compiere una vera e propria strage.

- Non l'ho dimenticato questo, Tigellino - sbottò innervosito l'imperatore - Mi sottovalutate troppo secondo il mio parere... - si fermò, chiuse gli occhi e li riaprì - Comunque sto già verificando le varie testimonianze e non appena si saprà qualcosa mi metterò all'opera...

"Ma non lo sa?" si disse stupito il Prefetto strabuzzando gli occhi ed osservandolo.

Nerone alla vista di quell'espressione di sincera preoccupazione stampata sul volto duro di Tigellino ebbe un brivido freddo e sentì le mani tremare - Sapete qualcosa che io non so?

Gaio Ofonio ebbe un piccolo tentennamento "Perché dovrei dirglielo? Potrebbe benissimo informarsi anziché perdere tempo nelle sue sciocche fantastie e manie elleniche".

L'imperatore rimase particolarmente turbato da quel pesante silenzio; il mondo che fino a poco prima gli era apparso puro e pieno di colori, divenne improvvisamente cupo e contaminato dal male, quello stesso che lo aveva corrotto in maniera irrimediabile - Parlate...avanti...

Nella mente del pretoriano riecheggiavano le voci di alcuni senatori, avvistati qualche ora prima tra le strade, che parlottavano tra di loro in maniera molto accorta riguardo l'incendio.


- Avete sentito che si incomincia a sospettare di Nerone persino tra il popolo - ridacchiò uno dei due anziani senatori.

- Eccome se l'ho udito e la cosa non mi stupisce più di tanto, quel Nerone è sempre stato un folle, soprattutto con la sua ambiziosa idea di rendere Roma una nuova Atene, è proprio fissato con la Grecia... potrebbe essere stato davvero lui ad aver architettato l'incendio per... - s'accorse di Tigellino e diede un colpo al collega per avvertirlo.

L'altro, inteso il messaggio, annuì e rivolse uno sguardo fugace al prefetto, il quale, li guardò con sospetto, ma decise di non intromettersi, poiché quelli erano uomini potenti e averli contro sarebbe stato un grande problema. Se c'era una cosa che aveva imparato a corte, in quegli anni, fu la prudenza.

C'erano già troppi nemici attorno all'imperatore e lui aveva il compito di proteggerlo, nonostante tutte le sue stranezze e i celati disaccordi. Doveva riferire di quel poco che sapeva.
 

- Altezza! - esclamò con la fermezza attinente al ruolo che ricopriva - In città cominciano a circolare delle voci che rischiano di compromettere la vostra posizione e il vostro titolo di imperatore

- Cosa? - tremò spaventato - Delle voci...su di me?

- Si, altezza, vi si accusa di aver provocato l'incendio di Roma per via delle vostre idee di rinnovamento urbano - riferì freddamente Tigellino.

Dopo aver udito quelle parole Nerone quasi si sentì mancare - La maledizione continua a perseguitarmi, vuole ancora il mio sangue, dopo aver ricevuto quello di mia figlia - si mise le mani sul volto e disperato cominciò a camminare smarrito, con le pupille ristrette per la paura, il suo sguardo fissava il vuoto che si era creato attorno a lui, poi si voltò verso Tigellino - Almeno voi credete alla mia innocenza? Oppure avete deciso di tradirmi?

Il prefetto non aveva mai amato incondizionatamente l'imperatore, però conosceva il suo cuore buono e sapeva che non avrebbe mai fatto una cosa del genere, lui adorava il suo popolo e lo aveva dimostrato, rischiando addirittura la vita per loro. Abbassò la testa e disse - Certo che vi credo, altezza, siete molto più nobile di certa gentaglia, e anche di me stesso - si mise l'elmo in testa e continuò con aria un po' beffarda - Inoltre non potrei mai tradire chi mi ha dato il titolo di prefetto...

L'imperatore si sentì rincuorato in parte da quell'affermazione, seppur la preoccupazione non avesse ancora del tutto abbandonato i suoi pensieri. "Devo fare qualcosa o mi aspetterà una fine peggiore a quella di Cesare e non posso morire ora, la città ha bisogno del suo imperatore".

- Tigellino, andiamo al Senato, ho necessità di parlare con quei poltroni, dobbiamo risolvere questa situazione prima che mi si rivolti contro l'intera popolazione - affermò l'imperatore mascherando abilmente la sua paura.

- Come volete, altezza imperiale...
 

Tigellino irruppe nel Senato proprio nel momento esatto in cui si stava discutendo della spinosa questione dell'incendio.

Tra lo sgomento generale dei senatori, il Prefetto annunciò Nerone che, lievemente corrucciato e pensieroso, si sedette al posto riservato e prese la parola - Senatori, mi è giunta notizia, da fonti attendibili, che qualcuno, non so se sia tra voi e non ho alcuna intenzione di saperlo, abbia diffuso la falsa notizia che sia stato io a provocare questo gravissimo incendio per soddisfare il mio grandioso progetto di ricostruire Roma... - li squadrò uno per uno adirato - Ne eravate al corrente?

Uno di quelli prese la parola - Altezza imperiale, stavamo parlando proprio di questo...

- E perché non mi avete detto nulla? Volevate la mia testa per soddisfare i vostri di progetti?

- Ve l'avremmo riferito il prima possibile, altezza... - rispose timoroso uno dei pochi arrivati.

- Sono molto più giovane di voi, potrei essere tranquillamente vostro figlio, ma la differenza d'età non deve autorizzarvi a discutere della mia persona e prendere decisioni di vitale importanza senza la mia presenza, sono io l'imperatore, per dispiacere di molti di voi che non vorrebbero vedermi seduto qui - diede un potente pugno al bracciolo della sedia, che fece tremare di paura tutti i presenti, i quali non si aspettarono una reazione così energica da parte sua.

"Quando sfodera gli artigli fa davvero paura il grassone" sogghignò soddisfatto Tigellino nel vedere il terrore dipinto sui volti di quei vecchi avari e bramosi di potere.

"A quanto pare non possiamo ancora sbarazzarci di lui, la crisi non lo ha sconvolto come speravamo" si disse uno dei più anziani, probabilmente uno dei veri responsabili dell'incendio - Io avrei un'ipotesi sui colpevoli, altezza - ammise alzando la mano.

- Ah si? Allora esponente pure questa vostra ipotesi - lo incoraggiò scuotendo il braccio.

- Probabilmente chi si nasconde dietro questa storia voleva colpire voi, altezza, altrimenti non avrebbe agito con tanta sicurezza - fece presente l'uomo, senza provare il minimo ripensamento a ciò che stava per fare.

- E chi potrebbe odiarmi così enormemente da spingersi fino a questo punto - poggiò il viso pieno sulla mano - Oltre a voi naturalmente - precisò infine profondamente amareggiato.

- I fanatici componenti di quella setta di estremisti giudaici che si fanno chiamare cristiani - rispose il senatore sicuro di sé. "La mia vita vale più della vostra insulsa fede, cristiani, mi accontenterò del vostro sangue".

- È impossibile! Perché avrebbero dovuto? Non li ho mai perseguitati, anzi ho permesso loro molte libertà... - specificò Nerone celando la sua ammirazione per quel piccolo gruppo di uomini e donne che avevano il coraggio di opporsi, con la sola fede e senza armi, al poco tollerante sistema di Roma, basato tutto sull'apparenza e sulla spada.

- Li difendere altezza? Siete un simpatizzante di quella setta di pazzi? - urlò uno di quelli alzandosi e puntando il dito. Altri accanto a lui fecero altrettanto, alimentando il rancore albergante nei loro cuori.

- Assolutamente no - negò coraggiosamente Nerone, balzando in piedi - Solamente non voglio scendere a conclusioni affrettate!

- Questi cristiani rappresentano un grande pericolo per l'Impero, altezza, hanno dei riti strani, si incontrano di notte, mangiano il corpo di quest'uomo chiamato Cristo!

- Sono degli antropofagi che con la loro magia nera invocano la fine del mondo, dobbiamo fermarli prima che sia troppo tardi! - Il brusio e il caos aumentarono sempre più; Le accuse si sovrapposero generando una confusione assordante.

Il Princeps era al corrente della loro presenza e dei loro tanto particolari quanto carichi di fascino, perché glielo avevo detto Gaudenzio qualche mese prima, quando gli confessò di essere un cristiano; lui, abbagliato dal loro messaggio così anomalo di pace e fratellanza, aveva promesso di proteggerli.

Lo aveva messo in guardia parlando di alcuni 'eretici' che erano degli estremisti fanatici che non volevano scendere a compromessi e avrebbero compiuto qualsiasi gesto pur di far prevalere il Cristianesimo su tutti gli altri culti.

Ora che la situazione si stava complicando come avrebbe dovuto agire? Fece dei profondi respiri poi ribatté a voce alta - Anche i veri giudei compiono dei riti strani, eppure non suscitano tutta questa paura in voi...

- La differenza tra queste due sette derivanti dallo stesso ramo sta nell'apertura nei confronti di noi "pagani" come ci chiamano: i giudei veri non hanno intenzione di diffondere la loro religione, anzi sono molto gelosi delle loro regole e riti, allo stesso modo dei seguaci di Mithra, per questo non sono tenuti in considerazione, mentre questi cristiani sono entusiasti nel diffondere la loro filosofia religiosa

- Non è solo a noi che fanno paura, anche il popolo lì teme e li sopporta sempre meno, più e più volte ci sono state delle sommosse popolari e tra i responsabili c'erano proprio questi cristiani - indicò Tigellino e proseguì - Il prefetto può confermare ciò

- Verissimo - disse solamente Tigellino - Altezza, per una volta direi di dare ragione a loro, quei tipi sono molto pericolosi

- Allora dovrei bandire anche i veri giudei e non mi sembrerebbe giusto, perché sono innocenti fino a prova contraria... - infervuorò l'imperatore disposto a non cedere.

- Non vedete che li difende perché anch'egli è loro complice, se fosse stato Claudio o il grandissimo Augusto non avrebbe esitato un attimo nel giustiziare questi criminali! - gridò a gran voce l'infame che aveva deciso di tradire i cristiani con i quali si era messo d'accordo. "Forse ho una possibilità di poter far fuori sia Nerone sia quei pazzi e risolvere tutti i problemi" ghignò sottecchi.

- Altezza imperiale è il popolo che vi chiede giustizia non dimenticate questo, non venite meno alla vostra parola - gli ricordò Tigellino tentando di convincerlo conoscendo la sua devozione per la popolazione.

"Perdonami Gaudenzio, purtroppo non posso fare altrimenti, ho lottato fino all'ultimo per la vostra incolumità, ma non posso oppormi alla voce del popolo" si scusò il Princeps, convinto ormai che non ci fosse altro modo per mettere a tacere la questione. Era alle strette - E sia! Se persino il popolo vuole il sangue dei cristiani lo avrà - riferì cercando di mostrare un'espressione decisa. Il suo animo era a pezzi - Come vorrei non saper scrivere! - sospirò dopo aver firmato l'ordine di cattura e di condanna a morte per tutti i cristiani presenti nella capitale.
 

Fatto e detto ciò corse immediatamente ad avvisare l'amico architetto prima che l'ordine fosse riferito a tutta la popolazione e si diffondesse in tutta la città. "Devo salvare almeno lui, Gaudenzio non può e non deve morire, inoltre devo riuscire a farlo scappare evitando di farmi scoprire da qualcuno, altrimenti sarebbero guai per me, per lui e per Locusta".  

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Capitolo 39
*** Capitolo 38 - Quo vadis? - ***


Auctor nominis eius Christus Tiberio imperitante per procuratorem Pontium Pilatum supplicio adfectus erat; repressaque in praesens exitiabilis superstitio rursum erumpebat, non modo per Iudaeam, originem eius mali, sed per urbem etiam quo cuncta undique atrocia aut pudenda confluunt celebranturque" 
Tacito, Annales, Libro XV, 44.

30 settembre 64 d.C.

Tutti si sarebbero aspettati che l'imperatore avrebbe sfoggiato le sue vesti migliori per quello spettacolo circense così inedito, così eccezionale.

Quando arrivò ai suoi giardini, i quali furono adibiti provvisoriamente, essendo la città in fase di ricostruzione, aveva indosso gli abiti più sobri e semplici, ad indicare una tacita forma di rispetto nei confronti dei condannati a morte. Ciò lasciò a bocca aperta tutti i presenti sugli spalti.

Si sedette e senza dire quasi nulla sbatté un paio di volte i palmi delle mani,  allungò un braccio in direzione della porticina dalla quale uscirono legati, mesti, ma dignitosi, i cristiani. La loro processione verso la morte fu accompagnata da ingiurie, accuse, lunghi boati di disapprovazione.

Una grande agitazione si propagò tra la popolazione chiamata ad assistere a quella che, agli occhi della loro società, era considerata una manifestazione della potente ed efficace macchina della giustizia romana.

"Giustizia nei confronti di chi?" si chiese Nerone per l'ennesima volta. In quell'ultimo mese ciò che vide non fu proprio un comportamento da uomini giusti "Non certo nei confronti di queste persone che furono portate al mio cospetto solo perché sospettate di essere cristiane"

Tanti uomini e donne, delle più svariate classi sociali, erano giunti ai suoi piedi per denunciare, anche solo per sentito dire, un cosiddetto cristiano: erano visti come superstiziosi, amorali e perciò pericolosi.

- Non rispettano la vostra autorità, altezza imperiale e chiunque si rifiuti di riconoscere la vostra natura divina deve essere punito - riecheggiò nelle sue orecchi come un rimbombo persistente.

Il Princeps, con il cuore a pezzi, non poté non accogliere quelle testimonianze, per evitare che i sospetti su di lui riemergessero, e tentando di celare il suo malcontento, dovette procedere alla loro immediata carcerazione. In pochissimo tempo le prigioni furono piene.

"A cosa porta la religione: al sangue, all'odio, alle guerre, divinità che, gelose della propria superiorità, invocano la sconfitta di altre, non sono poi così diversi dagli uomini che li generarono".

Il suo sguardo si fermò sui condannati e rimase colpito dalla loro dignità, rimasta intatta da tutta la cattiveria che gli riversavano; gli venne in mente Locusta, non quella attuale, ormai matura, ma quella che conobbe per la prima volta, poco prima di uccidere Britannico: ossequiosa, però priva di ipocrisia, umile, servile, che però mostrava sicurezza mentre eseguiva il suo compito.

Intravide la stessa purezza di Locusta in quegli sguardi privi di odio e rancore. "Chissà come staranno Locusta e gli altri?" si domandò preoccupato.

Anzio

- È da più di un mese che non ci fa sapere nulla! - esclamò Locusta turbata, si voltò verso Gaudenzio che se ne stava in disparte, a testa bassa e in silenzio, oppresso da un senso di colpa enorme come un macigno - Perché non dici niente, tesoro?

- Perché non ho nulla da dire, Locusta - rispose infastidito. Con un'espressione tetra si allontanò dalla moglie e andò a chiudersi in una delle tante stanze della villa di Nerone.

- Gaudenzio, amore mio, non è colpa tua di quanto è successo a Roma! - sussurrò la donna stringendo i pugni, sentendosi impotente per quella situazione.

"Purtroppo non posso fare altrimenti, mi dispiace tantissimo" si scusò Nerone durante i preparativi per la fuga "Però ho il dovere di preservare le vite dei miei amici..." ebbe un piccolo scoraggiamento nel vederla così afflitta e sovrappensiero, le girò il viso delicatamente e proseguì "Ma dovete fare come vi dico io, fuori Roma nessuno vi toccherà, l'ordine di cattura è valido solo all'interno della Capitale" li rassicurò l'imperatore sorridendo forzatamente.

- Sei più preoccupata per tuo marito o per l'imperatore? - domandò Achaikos alle sue spalle. La donna si spaventò perché non si era minimamente accorta della sue presenza, fece in modo di non mostrare il suo imbarazzo e preferì restare in silenzio - Non cercare di nascondere quello che provi, perché ti conosco bene Locusta! - le fece presente l'amico.

- Lo sono per entrambi...ti va bene? - sbottò nervosa l'avvelenatrice.

- Il rossore delle tue guance conferma le tue ansie, amica mia - disse l'egiziano incurvando leggermente le labbra verso l'alto.

Lei ricambiò il sorriso senza esserne del tutto convinta: l'angoscia che credette di non dover provare più riemerse prepotentemente dal fondo della sua anima. Il Fatum aveva deciso che non ci sarebbe stato pace per lei e le persone che le stavano vicine: e se fosse lei la causa di tutto?

Ogni volta che qualcosa sembrava andare per il meglio, ecco che, per contraccolpo, accadeva qualche altra cosa di terribile che sgretolava speranze e progetti. E sempre quando c'era lei. Tale pensiero la fece sbiancare.

Si mise le mani sugli occhi per evitare che Achaikos notasse il suo pianto silenzioso e privato. Ottenne il risultato opposto e l'uomo le strinse i fianchi e la avvicinò a sé. - Cos'altro ti turba?

- Niente... - rispose sospirando.

- Non mentire! Se ti ostini nel tenerti  tutto dentro finirai per impazzire e questo lo sai meglio di me, visto che molte volte glielo hai detto all'imperatore nei momenti di sconforto

- Come lo sai? - chiese stupita, guardandolo dritto nei suoi occhi scuri, privi di incertezze e dubbi.

- Mi pare di averti già detto la risposta - rise: l‎a sua voce profonda era così sicura...decise di confidarsi e di rivelargli ogni dubbio. Achaikos la ascoltò senza interromperla e lasciandola sfogare liberamente quando aveva delle crisi di pianto incontrollabili. La strinse forte al suo petto - Non devi minimamente pensare che ciò che accade di sbagliato in questo mondo sia colpa tua! Anzi tu sei un dono del cielo, perché chiunque ti si avvicina ritrova la felicità, non dimenticare questo - la rimproverò bonariamente accarezzandole i capelli raccolti.

- Noto che i discorsi dei cristiani hanno colpito anche te

- La mia religione e quelle cristiana hanno molte cose in comune - precisò spontaneamente.

Gaudenzio assistette alla scena nella penombra, cupo e silenzioso; non ce l'aveva con Achaikos, anzi, quell'egizio si stava rivelando un perfetto sostegno per Locusta, ultimamente in perenne stato di ansia e tristezza.

La sua rabbia era rivolta a quel gruppo di cristiani fanatici che erano stati pagati per far scoppiare l'incendio "Se solo mi avessero dato retta, avrei parlato con Nerone e..." diede un pugno sul muro - A cosa serve lamentarsi ora? A nulla, dannazione! E per colpa di pochi, l'intera comunità di Roma verrà minata nel profondo, soprattutto ora che ci sono i Padri Pietro e Paolo, Signore perdona quegli stolti che hanno compreso male la Tua parola...

Roma

Era tardo pomeriggio e Nerone osservava in silenzio un gruppo di cristiani che venivano sbranati vivi da alcune belve, provò un profondo senso di pietà per quelle vite spezzate dalla crudeltà di quella pena, ai suoi occhi, insensata. Persino tra la folla era calato il silenzio: tombale, pesante; tutti restarono attoniti nel vedere la calma di quegli uomini, che scorticati, feriti mortalmente, sorridevano e ringraziavano il loro Dio.

- Questi cristiani sono dei pazzi! - sputò Tigellino schifato da quello spettacolo patetico - Sono contenti di morire, il loro Dio deve essere un mostro crudele se obbliga i suoi seguaci a morire per lui, ve l'avevo detto che erano un pericolo, altezza...

L'imperatore spostò velocemente lo sguardo su di lui, lo fissò per pochi istanti, velando, sotto l'espressione quasi annoiata, il suo rammarico, poi tornò a guardare l'arena piena di corpi morti. 
- Hanno una fede incrollabile, l'amore che provano per il loro dio li spinge a compiere questi sacrifici, il che è ammirevole - espose solamente, avrebbe voluto dirgli altro, sapendo che non sarebbe servito a nulla a causa della loro ottusità.

Il secondo gruppo entrò poco dopo:  avevano le mani legati ad un pezzo di legno orizzontale; erano seminudi, sporchi e grondanti di sangue, eppure perseverarono con il loro atteggiamento stoico, quasi orgoglioso, poiché sarebbero morti allo stesso modo del loro Maestro,  Salvatore o Messia come lo denominavano loro.

Uno alla volta furono calati su un altro pezzo di legno verticale, i piedi e le mani fermati con i chiodi, emisero urla strazianti e preghiere al loro dio.

Nerone non riuscì a reggere alla vista di quella macabra esaltazione della morte, istintivamente spostò la testa all'indietro, affannato e sudato. - Non ce la faccio, questo è troppo per il mio stomaco debole - poggiò le mani sulle braccia del trono, era intenzionato ad andarsene via da lì, tuttavia fu una voce maschile a bloccarlo.

- Non voglio essere crocifisso come il mio Signore - emise imperioso un anziano uomo dalla lunga barba bianca e dal fisico gracilino - Perché non ne sono degno, mettetemi a testa in giù...

I soldati si guardarono fra di loro, fecero spallucce e mossi da un senso di ribrezzo, decisero di esaudire il desiderio di quel vecchio barbuto, privo di qualche rotella.

All'udire quella voce Nerone rimase pietrificato, si sedette sconvolto sul trono, fece un paio di respiri profondi, tremò dalla testa ai piedi. Poppea, la quale era rimasta composta e in silenzio fino ad allora, preoccupata dal terrore dipinto sul volto del marito, domandò - Cosa vi prende, altezza imperiale?

- Que..quel vecchio è il ca..capo della loro...loro comunità...è un uomo...dalla...dalla personalità...incredibile - arrancò Nerone.
 

Non riusciva a togliere dalla mente il suo incontro con quell'uomo chiamato Pietro. Lo avevano portato al suo cospetto qualche settimana prima, non appena fu catturato, i pretoriani dissero che non ebbero difficoltà nel condurlo a lui, non aveva opposto resistenza.

- E così tu saresti Pietro, il capo di quella setta ebraica che si fa chiamare cristiana? - emise un po' deluso l'imperatore sul suo triclinio; lo aveva immaginato come un uomo giovane, vigoroso, possente, dotato di una forza notevole; invece si era ritrovato un vecchietto smunto, consumato dalla predicazione, dai lunghi viaggi, vestito di stracci, senza sandali, sporco e puzzolente.

- Si, sono io - rispose velocemente il vecchio, mostrando una forza d'animo e una volontà che colpirono Nerone.

- Hai l'aspetto di un vecchio comune, eppure molti mi hanno detto che tu sei stato posto a guida del tua comunità di seguaci del vostro Dio...

- Anche il nostro Signore è sceso dal Cielo come il più umile dei servi, avrebbe potuto incarnarsi in un re o in un imperatore - si soffermò nell'osservarlo più e più volte dalla testa ai piedi - Invece ha scelto di vivere come una persona comune, fino al giorno della Resurrezione, in cui mostrò finalmente la sua natura divina ed eterna di Figlio di Dio

- Interessante...ma perché avrebbe fatto ciò, se era Dio o Figlio di Dio, è uguale, avrebbe potuto mostrare il suo potere anche a noi pagani, non credi?

- Perché lui non è venuto per essere servito ma per servire e di conseguenza farsi più piccolo del servo...

- Come osi pronunciare sciocchezze simili di fronte a Cesare! - strillò uno dei pretoriani che gli sputò in faccia. Nerone lo fulminò con lo sguardo, scese dal triclinio e quando fu davanti a lui gli ordinò di allontanarsi dalla stanza - Fino a quando sono in mia presenza nessuno deve essere umiliato, siamo intesi? - rivolse agli altri - Quanto a te Pietro, il popolo di Roma ha tollerato la presenza dei tuoi seguaci troppo a lungo, e credo che tu sappia molto bene della fine che vi attende...

- Certo che lo so - lo interruppe - È stato il mio Signore ad indicarmi il luogo in cui sorgerà la mia tomba, ossia la Capitale del Paganesimo, Roma! Il mio tempo è scaduto!

Nerone lo guardò stralunato ed incredulo: nei suoi occhi scuri brillava una luce intensa che gli conferì improvvisamente un'aura mistica, divina.

- Il vostro regno non durerà ancora per molto - profetizzò puntandogli il dito con foga, a differenza del tono della voce che era calmo - La vostra fine è imminente, cadrete sotto il peso delle vostre colpe!

- Cosa? - rabbrividì pallido - È il tuo Dio a dire questo? È lui o ti burli di me?! - lo afferrò scuotendolo ma l'altro si limitò a guardarlo, senza dire nulla, provando pena profonda per lui - Portatelo via da me! - imperò ancora scosso, scuotendo le mani.

Pietro in realtà non si riferiva direttamente a Nerone, ma si era rivolto alla società romana corrotta dalle ricchezze e dal lusso, rappresentata in quel momento nella figura dell'imperatore. Tuttavia, quelle parole cariche di rabbia, generarono inquietudine nel cuore dell'imperatore, in quanto sapeva di non avere la coscienza a posto.

I demoni del passato tornarono per un istante alla luce.
 

"Chi era quell'uomo veramente?" si domandò il Princeps quando vide Pietro morire serenamente a testa in giù, con gli occhi chiusi, quasi come se stesse aspettando quel momento da tantissimo tempo.

Verso sera i corpi crocifissi furono bruciati e i colori accesi creati dalle fiamme crearono un suggestivo effetto scenico, che però non riuscì a compiacere del tutto i gusti romani, in quanto generati da vere e proprie torce umane.

Con quell'evento la popolarità dell'imperatore declinò avviandosi, così, verso un esito drammatico. 

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Capitolo 40
*** Capitolo 39 - Invidia gloriae comes - ***


"Quam diu etiam furor iste tuus nos eludet? quem ad finem sese effrenata iactabit audacia? Nihilne te nocturnum praesidium Palati, nihil urbis vigiliae, nihil timor populi, nihil concursus bonorum omnium, nihil hic munitissimus habendi senatus locus, nihil horum ora voltusque moverunt?"
Cicerone, Catilinaria, I, 1

12 aprile 65 d.C.

Il secondo prefetto del Pretorio, che affiancava il più noto Tigellino, Fenio Rufo si avvicinò all'imperatore, con aria sommessa - Il vostro discorso funebre dedicato alle spoglie della vostra adorata moglie, mi ha profondamente commosso, altezza imperiale, raramente ho udito parole così belle!

L'imperatore lo guardò ma il suo pensiero era rivolto altrove, perciò dopo essersi accorto dell'oggetto del discorso di Rufo rispose solamente - Grazie - poi chiese guardandosi intorno - Dov'è Tigellino? Era con voi poco fa...

- Tigellino ha rallentato per scortarvi meglio, altezza imperiale - spiegò Rufo sorridendo forzatamente. Non sopportava che quel misero plebeo fosse sempre al fianco dell'imperatore, lui che era un nobile avrebbe dovuto ricevere dei riguardi ancora maggiori, invece a Nerone sembrava non importare proprio la classe sociale dei suoi uomini.

- Andatelo a chiamare - ordinò l'imperatore affranto - Ho bisogno di confidarmi con qualcuno

- Ma altezza, potreste parlare con me, a differenza di Tigellino, non ho mai avuto il piacere di seguire a lungo le vostre conversazioni...

- Ah eccoti, brutto figlio di.... - tuonò l'altro prefetto avanzando minacciosamente verso il collega - Volevate farmela non è così? - ringhiò puntandogli il dito contro.

- Non so di che parli... - ignorò Rufo.

- Guarda che non sono nato ieri! - lo afferrò per il collo e lo sollevò di parecchi centimetri. Rufo perse la spavalderia di prima e pregò in cuor suo di essere salvato dall'imperatore.

- Che cosa succede ora? - sbuffò il Princeps - Non state mica litigato di nuovo per stupidi motivi? - li osservò sconvolto, sbatté le braccia contro la gambe e iniziò a lamentarsi - Insomma, possibile che non riusciate ad andare d'accordo per una volta! Non posso pensare a tutto io... non ho più neanche il diritto di dolermi per la morte della mia Poppea! - quando pronunciò quel nome dovette sforzarsi per non scoppiare a piangere di nuovo. 

A quel punto Tigellino lasciò la presa sull'aristocratico collega, il quale cadde rovinosamente al suolo e si fece male alla schiena. Barcollò un po' prima di rialzarsi del tutto "Accidenti a quel maledetto energumeno senza cervello".

- Il Fato ti ha salvato anche stavolta - sogghignò malignamente, mentre raggiungeva Nerone per consolarlo - Ma la prossima ti romperò ogni ossa che hai in corpo, siamo intesi? - detto ciò si allontanarono dal prefetto

‎Non appena li vide allontanarsi dal suo orizzonte cominciò a meditare la sua vendetta - Non ci sarà una prossima volta, Tigellino - ringhiò stringendo i pugni rabbiosamente, restando lì immobile a covare il suo odio. 

- Perdonatemi, altezza imperiale - si scusò con sincerità il Prefetto, non lo aveva mai visto così abbattuto e scoraggiato; la luce di vitalità che brillava nei momenti di cedimento era scomparsa. Si rese conto che l'amore provato da quell'uomo per Poppea fu tutt'altro che falso o dettato dal capriccio. La corte non era solo un luogo pieno di corruzione e delitti, c'era anche spazio per i veri sentimenti, quando questi erano coltivati con rispetto e saggezza.

- No, perdonate me, ultimamente sembro un bambino - si asciugò le lacrime - Un imperatore non dovrebbe mostrarsi così debole, lo so, me lo dite sempre...

- La chiamerei devozione più che debolezza, altezza - si vergognò di ciò che aveva appena detto.

- Dite sul serio oppure è un modo per compiacermi?

Tigellino tentò di nascondere il rossore che aveva tinto le sue guance per via dell'imbarazzo e spostando gli occhi da una parte all'altra, sotto e sopra rispose - No...no lo dico con convinzione...altezza imperiale... 

Nerone lasciò passare la sua pessima recitazione, fece finta di bersi quella bugia detta in buona fede e gli sorrise sinceramente - Allora possedete anche voi un cuore sotto quella corazza - esclamò dolcemente.

- Lo mantengo celato, esattamente come fate voi, altezza imperiale, per evitare che venga ferito ulteriormente - confessò lui "Ma che cavolo sto dicendo e facendo? Dannazione, mi sto affezionando un po' troppo a quel grassone" si disse ritornando a mostrare il suo cipiglio severo. 

- La colpa è tutta mia - sospirò Nerone a testa bassa, appoggiato sul bordo inferiore di una finestra - Avrei dovuto proteggere Poppea durante la gravidanza, evitare che si sforzasse, che mi seguisse nei miei continui spostamenti per la città a causa della ristrutturazione, invece non sono riuscito ad impedirglielo e non solo lei si è ammalata gravemente, ma è morta... di parto! - soffrì parecchio nel concludere la frase - Un'altra persona che muore per colpa mia! - si coprì la faccia con le mani, riprese a singhiozzare incessantemente, il vuoto affettivo che era riuscito a colmare in quegli anni con l'amore intenso che aveva provato per Poppea si era riformato, più grande e profondo di prima - Sono maledetto...maledetto! - girovagava privo di meta.

Tigellino stava lottando contro se stesso per non cedere all'impulso di picchiarlo: non sopportava i piagnistei, qualunque fosse la ragione, anche quelli che agli occhi della gente comune potevano essere giustificati, come in questo caso. Un uomo non doveva mai piangere, le lacrime erano riservate alle donne e ai marmocchi. - So di essere indelicato, altezza, ma non potete più continuare a piangervi addosso, avete un impero da gestire e...

- L'impero... - lo interruppe quasi disgustato - ‎Un'altra maledizione che mi ha imposto quella donna, la quale continua a perseguitarmi nel sonno - il tono della voce era passato dalla tristezza infinita alla rabbia ardente; il prefetto conosceva fin troppo bene l'insonnia di cui soffriva l'imperatore, che peggiorava di giorno in giorno - Diceva che avrebbe esaudito i miei desideri, che mi avrebbe reso felice... - sbattè il pugno sul marmo - Solo balle, bugie, menzogne, sono addirittura più infelice di prima...

- Non potete dire però di non aver reso felice il vostro popolo, altezza - gli ricordò saccente il prefetto - La nuova Roma è qualcosa di straordinario, mai si era vista tanta pulizia per le strade, una gestione dello spazio così ben gestita e ben studiata, nella vecchia Roma, il mio lavoro di guardia è senz'altro migliorato, i vostri predecessori non sono stati in grado di farlo - confessò onestamente alla fine.

- Sarà, ma fino ad ora ho ricevuto solo critiche, e molte delle quali giungono dal popolo, credo che dopo quel processo ai cristiani, la mia figura non sia più amata nemmeno dai miei sudditi... ho solo nemici attorno a me... - ammise sconsolato, pareva inconsolabile - Inoltre la costruzione della Domus Aurea pare non piacere al Senato...come al solito...

"Possibile che il grassone non riesca a capire di essere molto più di quello che crede" l'avrebbe preso volentieri a schiaffi. "Lui che ha il potere tra le mani farebbe qualsiasi cosa per lasciare tutto e dedicarsi alle sue passioni, mentre tante altre che lo circondano venderebbero ogni bene pur di stringere tra le mani quel potere tanto ambito".

Se prima di conoscerlo credeva che fosse al pari di tutti quelli che lo avevano preceduto, ovvero un incapace afflitto da manie di grandezze, dopo aver visto il rinnovamento della Caput Mundi dovette ammettere a sé stesso di essersi completamente sbagliato. Nerone aveva compreso le esigenze della città e del popolo e, seppur contro la sua natura, si ostinava nel gestire in maniera certosina quel potere che odiava.

- Sono degli ingrati, altezza, degli stupidi che si lamentano sempre e comunque - lo fissò con determinazione - Continuate per la vostra strada, fate quello che il dovete vi dice, e a chi vi vuole morto ci penserò io - si vantò mostrando i suoi possenti bicipiti. "Anche perché comincio ad averne pure io di gente che trama nell'ombra e fino a quando non li colgo in flagrante restano intoccabili".

L'imperatore rimase colpito dalle sue parole, era riuscito a creare un'intesa perfino con un uomo rude e violento come il Prefetto, non era una dote comune a tutti gli uomini. - Grazie per tutto quanto - la luce tornò a risplendere nelle sue iridi azzurre.

- Pensate a quella proposta che vi feci qualche giorno fa, altezza imperiale... - gli fece presente il Prefetto del Pretorio. Il clima di gioia appena creatosi svanì velocemente.

- Quale? - fece finta di non rammendare l'imperatore.

- Lo sapete benissimo - insistette Tigellino.

A quel punto Nerone non poté più nascondere il suo disagio, sentendo l'angoscia salire dallo stomaco, urlò - No, no e poi no, ve lo ripeto una volta per tutte: non ho più alcuna intenzione di risposarmi!

- Ma la dinastia ha bisogno di un erede, voi siete l'ultimo ad avere il sangue di Cesare e di Augusto, non dimenticatelo questo

- Si lo so, ma penso che sia arrivata la fine per questo sangue corrotto, Tigellino, quel cristiano, Pietro, ha predetto il mio destino - parlava con gli occhi spalancati, trasognanti - Così come quell'indovino che mia madre consultò alla mia nascita - lo fissò, l'espressione che si formò sul suo viso confuse per un momento il prefetto - Io sarò ucciso, Tigellino, la lama di un pugnale mi trafiggerà! Non so se sarà una mano amica o nemica, ma qualcuno lo farà e molto presto... sento la morte ogni notte sussurrare il mio nome...

- Ma piantatela con tali assurdità, altezza! - s'innervosì il prefetto, il quale non aveva mai dato retta a tutte quelle voci portatrici di sciagure e disgrazie - Credete davvero alle parole di certa gente? È la paura a farvi parlare così, perché voi non desiderate morire...

- È vero, io non voglio morire, ma purtroppo il Fato ha già scelto la mia fine, non si sa quando, ma succederà - ingoiò la saliva e lo fissò ancora, con sempre più intensità - Non permetterò al mio sangue di circolare in altri corpi...

- Ma dovete...

Nerone lo fermò con la mano e proseguì - Va bene, va bene, sposerò Messalina Statilia se è questo che serve per garantire un minimo di stabilità all'impero, ma il nostro matrimonio si svolgerà quando e come vorrò io e sarà senza figli, non voglio mai più piangere sulla tomba di un infante

La follia si era ormai insinuata nella mente del giovane imperatore: se Poppea era riuscito a frenare questo morbo assai diffuso nella famiglia, la morte di quest'ultima accelerò di parecchio la sua diffusione, portandolo a chiudersi sempre più in se stesso e nel suo mondo artistico e a divenire sempre più sospettoso nei confronti della corte.

Non portò più con se armi e oggetti affilati per paura di leggervi la propria morte: stava perdendo la percezione della realtà e nemmeno le pozioni di Locusta sembravano fare effetto su di lui. Provò persino a scrivere melodie per allietare il suo spirito, dopo un brevissimo periodo di mutismo musicale, però, le composizioni che realizzava erano cariche di oblio, disperazione e tristezza; non si sarebbe più ripreso.

Vedendolo il quello stato Tigellino ne aproffittò per aumentare il suo astro, il suo ascendente a scapito di tanti altri presenti a corte, che ambivano a trasformarsi in amici fedeli e devoti. Divenne il suo unico e fidato consigliere, fece allontanare molte persone sospette; tra queste c'erano pure l'avvelenatrice e il marito architetto, i quali, comprendendo il difficile momento che Nerone stava attraversando, si fecero da parte.

Molti altri invece non presero bene questa decisione e covavano astio, rancore ed odio verso quell'imperatore oramai distante e preoccupato solamente a soddisfare i suoi bisogni tenuti a freno per molto tempo e il suo consigliere Tigellino, mal sopportato da chi era nobile per nascita e lo considerava inferiore.

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Capitolo 41
*** Capitolo 40 - Meditare mortem - ***


"Qui hoc dicit meditari libertatem iubet. Qui mori didicit servire dedidicit; supra omnem potentiam est, certe extra omnem. Quid ad illum carcer et custodia et claustra? liberum ostium habet. Una est catena quae nos alligatos tenet, amor vitae, qui ut non est abiciendus, ita minuendus est, ut si quando res exiget, nihil nos detineat nec impediat quominus parati simus quod quandoque faciendum est statim facere".    
Seneca, Epistulae ad Lucilium, XXVI

Baia, 15 aprile 65

- Allora, tutto pronto per il piano?! - chiese Gaio Calpurnio Pisone, entrando nella stanza dove vi era il prefetto Fenio Rufo, insieme ad altri volti più o meno noti.

- Mancano solo alcuni dettagli e per Nerone sarà la fine! - emise il prefetto del Pretorio stringendo il pugno con rabbia - Pagherà per le umiliazioni che ho dovuto subire, a causa di quel maledetto Tigellino! - aggiunse sempre più furioso. Il solo pronunciare il nome del collega gli faceva ribollire il sangue nelle vene.

- Si, si - disse Pisone cercando di acquietarlo, gli diede una pacca sulla spalla, sfoggiò un falso sorriso - Io parteciperò alla congiura, anzi sarò uno dei capi, ma non dimenticatevi di indicare come suo successore me! - confessò il politico affabilmente, certo del consenso che stava riscuotendo tra il popolo - E voi sarete il mio consigliere più fidato, vi coprirò di ricchezze, di onori, vi ricompenserò dall'ingratitudine di Nerone

Fenio Rufo già assaporava quel momento e senza esitare accettò la "modesta" proposta del cinico politico - Non lo dimenticherò affatto, Pisone - disse il prefetto sorridendo malignamente. Sentiva che il piano avrebbe funzionato, anche perché sapeva che nessuno sopportava l'imperatore: il malcontento si era ormai fatto strada in ogni angolo dell'Impero.

- Avete già scelto il momento in cui colpire? - domandò Pisone sdraiandosi sul triclinio, pronto ad ascoltarlo.

- Si, durante le feste in onore di Cerere, al Circo Massimo - rispose il prefetto con prontezza.

- Mi sembra il momento perfetto, conoscendo poi la fissa dell'imperatore per gli spettacoli teatrali e le corse delle bighe, penso che sia uno scenario azzeccato per un istrione come lui! - ridacchiò il politico, convinto anch'egli della sua riuscita.

Anzio, 17 aprile

Nerone era sdraiato sul suo triclinio, con la cetra in mano e circondato da alcune belle donne che lo lusingavano e lo servivano. Aveva capito che essere sempre disponibili con il popolo non era servito a nulla, per questo, decise di dedicarsi solo ed esclusivamente a se stesso.

Il dolore per la morte della moglie gli aveva fatto perdere del tutto la voglia di dedicarsi all'Impero come aveva fatto fino ad allora "A che serve poi? A generare calunnie!" si disse il Princeps mentre accarezzava una delle liberte che lo coccolavano. "Adesso avranno motivi validi per considerarmi un tiranno crudele e dissolutore".

Qualcuno bussò alla porta - Chi è? - chiese sbuffando l'imperatore - Spero che non siate venuto qui a vuoto, chiunque voi siate!

- Sono io, mio imperatore - disse Locusta da dietro la porta.

- Ah, Locusta, siete voi! - esclamò Nerone con il volto illuminato; il suo affetto per lei non era scemato, anzi, lei era sempre in un angolo del suo cuore - Prego, entrate pure...

Locusta entrò con umiltà e s'inchinò - Vi ho portato la tisana che mi avete chiesto, mio imperatore - s'inchinò di nuovo. Il cambiamento di Nerone l'aveva resa più prudente nei suoi confronti, sapeva che lui era sempre quel ragazzo sensibile e accorto nel dedicarsi al suo impero, ma comprese anche l'ingratitudine del popolo dopo tutto quello che aveva fatto per loro.

- Su, su venite - la incoraggiò l'imperatore con il dito - Avete paura di me?

- No - ripose lapidaria Locusta - Solo che non volevo disturbarvi... - abbassò la testa.

- Ma voi non disturbate mai, dovreste saperlo - rise lui nel vederla così imbarazzata; era da tanto tempo che non la vedeva così - Anzi rimanete qui, così mi date ispirazione per la mia opera che sto completando, è una delle mie migliori creazioni e penso che la suonerò proprio ai Giochi

Locusta, un po' sollevata nel vedere la fiducia che l'imperatore provava per lei,  si trovò un posticino tra quelle donne e si sedette.

Nerone, allietato da quella sua presenza silenziosa, iniziò a suonare la cetra e a cantare con voce potente e limpida. La donna rimase immobile e in silenzio, contemplando quelle note malinconiche e tristi, quel dolore non sarebbe mai passato, eppure quella melodia indicava il tacito tentativo di Nerone di voler riprendere in mano la sua vita.

Tuttavia, Tigellino balzò nella stanza, con la sua tipica brutalità, tenendo sollevato per il collo l'ufficiale di marina, Volusio Proculo e ringhiò - Perdonate l'irruenza, altezza, ma costui ha un'importante notizia da riferirvi - lo lasciò e con uno spintone lo lanciò a pochi passi dall'imperatore, il quale fece segno alla donne, ad eccezione di Locusta, di uscire.

Una volta rimasti privati della presenza delle donne l'imperatore si accomodò compostamente sul trono e lo esortò ad esporre il suo messaggio.

- Cesare Nerone - iniziò lui con un profondo e rispettoso inchino - Ho appena consegnato nelle mani della giustizia, la liberta Epicari perché stava complottando per uccidervi! - alzò appena lo sguardo per vedere la sua reazione stupita.

- Una congiura contro di me da parte di Epicari? - chiese con fare teatrale Nerone - Questa si che è bella!

- Purtroppo lei ha dei complici, ma non me li ha riferiti perché sapeva della mia estrema fedeltà dei vostri confronti, però vi ho informato affinché prendiate le precauzioni, Tigellino mi ha già detto di essere pronto...

Nerone lo frenò con la mano - Non andate di fretta Proculo ed anche voi Tigellino - disse con estrema calma, sorridendo; i due si guardarono stupiti, non capendo la reazione dell'imperatore, di solito avrebbe iniziato a lamentarsi e a comportarsi teatralmente, in quel momento sembrava comportarsi da vero stratega - Vi vedo un po' confusi, ma non dovete temere

- La vostra vita è in pericolo altezza - gli ricordo Proculo.

- Non vi sarete di nuovo fissato quella storia della morte, altezza - sbottò Tigellino.

L'imperatore gli fece di no con la testa e prese la parola - Noi non sappiamo i nomi di chi mi vuole uccidere, giusto? - chiese retoricamente - Quindi non possiamo prendere e giustiziare le persone di cui si ha solamente un sospetto, come è successo con i cristiani - gli fece presente intelligentemente Nerone - Perciò noi continuiamo come se non fossimo a conoscenza di nulla, senza diminuire o aumentare le difese, quando i congiurati incominceranno a fare mosse false, agiremo

- Tigellino, l'imperatore ha perfettamente ragione, se mettessimo lo stato d'allerta quelli saranno molto più cauti nel farsi accorgere, e di conseguenza non li scopriremo mai

- Avete capito bene cosa intendevo, Proculo - precisò Nerone ammiccante.

- È un po' rischioso come piano, altezza - disse Tigellino dubbioso - Finora sono riuscito a stroncare tutti i piani, perché questo dovrebbe essere diverso?

- Perché lo sento, Tigellino, ho la strana sensazione di essere sempre tenuto d'occhio da persone molto vicine

Il prefetto del Prefetto fece un profondo sospiro, non lo sopportava quando si comportava così ma decise di dargli fiducia - E va bene - disse - Speriamo solo che il vostro sesto senso non ci tradisca...

Baia

- Allora console Laterano - iniziò Pisone iniziando a dare direttive su come organizzare il complotto - Voi vi getterete ai piedi dell'imperatore, supplicandolo con altre scuse che vi ho detto - il console annuì obbediente - E poi con un gesto deciso lo accoltellate, quello sarà il segnale per far scattare gli altri e ucciderlo una volta per tutte!

- Sarà fatto Pisone - urlò lui mettendosi una mano sul petto - Oppure la morte coglierà me

Pisone sogghignò malevolo e proseguì - Una volta che ci saremo liberati del tiranno, mi eleggerete imperatore davanti a tutta la platea! Sarà un trionfo!

- E Seneca che vi ha detto poi? - chiese il prefetto Rufo - Approva o meno ciò che vogliamo fare?

- Certamente, prefetto Rufo, il filosofo ha appoggiato moralmente questo nostro gesto di libertà, mi ha scritto che Nerone lo ha profondamente deluso, credeva di aver formato un allievo modello, invece, è solo un esibizionista, incurante dei veri bisogni dell'Impero - riferì con molta enfasi Gaio Calpurnio Pisone

Un liberto piombò tutto sbiancato, sudato e con il fiatone, nella stanza dove erano riuniti i congiurati - La liberta Epicari è stata fatta prigioniera dall'imperatore!

- Dannazione! Si è fatta scoprire come un'idiota! - sbattè i pugni Pisone - Non avrà fatto nomi spero!

- No, padrone - rispose il liberto prontamente - Non ha tradito nessuno, nemmeno sotto tortura

- Meno male! - emise sospirando Fenio Rufo - Anche se dobbiamo essere ancora più accorti, nessuno deve commettere errori, altrimenti sarà la fine per tutti - mise in guardia il prefetto, poi si alzò e si avviò verso la porta - Io me torno ad Anzio dall'imperatore, non vorrei che cominciasse a sospettare della mia assenza, voi tenetemi aggiornato

Tutti annuirono e lo salutarono - Peccato che se ne sia andato ora, avrei voluto che prendesse parte al banchetto!

- Lo prenderà sicuramente quando diventerete imperatore, Pisone, dovrò abituarmi a chiamarvi altezza imperiale - scoppiò a ridere il cavaliere Natale, la sua risata contagiò tutti - Io già fatto preparare da un paio di giorni il pugnale e i vari bendaggi dal mio schiavo Milico, saranno belli affilati proprio per domani - s'intromise il senatore Scevino con estrema serietà.

- Eccellente senatore - ghignò Pisone - Allora brindiamo alla congiura che ci renderà davvero potenti! - disse dopo aver alzato il bicchiere in aria, seguiti dagli altri. Ignari del fatto che quello schiavo aveva denunciato il padrone per via di quell'ordine che lo aveva insospettito.

Anzio

Tigellino corse immediatamente dall'imperatore per consegnargli la denuncia che gli era arrivata da pochissimo - Altezza, abbiamo la prova che ci serviva per incastrare tutti i congiurati - gli consegnò il foglio che Nerone lesse con molto piacere - Ah, dimenticavo di riferirvi che la liberta Epicari si è suicidata in carcere

- Tanto ormai non ci serve più, quell'ingrata! - sorrise sinistramente Nerone - Ora abbiamo questo documento - lo sventolò con gioia - E quindi sappiamo che tra i congiurati c'è il senatore Scevino  - si massaggiò il doppio mento - Ed anche il cavaliere Natale

- Esattamente! - confermò Tigellino ghignando, già pronto ad assaporare il sangue dei congiurati - Vado a chiamarli

- No, non serve, Tigellino

- Perché?

- Semplicemente perché entrambi non sono a Roma da un paio di giorni - rispose Nerone riconsegnando il foglio al Prefetto - Arrestateli e fateli confessare gli altri nomi con tutti i mezzi che potete, Tigellino - aggiunse con freddezza l'imperatore.

Il Prefetto rimase immobile per un millesimo di secondo, incredulo di fronte a quell'atteggiamento così diverso del solito di Nerone "Fa sul serio allora"  - Sarà fatto, altezza imperiale - s'inchinò e gli fece il saluto romano prima di andare ad eseguire l'ordine.

- Ora voglio divertirmi io, se permettete - disse sogghignando, mentre riafferrò di nuovo la cetra e riprese a suonare. 
 

Il senatore Scevino e il cavaliere Natale vennero arrestati immediatamente e con ogni tortura possibile ed inimmaginabile riuscono a farsi elencare tutti coloro che avrebbero preso parte alla congiura: Natale fece i nomi di Seneca e Pisone, mente Scevino quelli di Rufo, Laterano ed altri.

Molti di questi, sentendosi in trappola si suicidarono prima che arrivassero i pretoriani, altri invece giustiziati ed altri addirittura esiliati. Fu una vera carneficina, ma Nerone voleva mostrare a tutti i suoi nemici che lui era inattaccabile. 
 

- C'è anche il mio maestro tra i congiurati?! - chiese un po' stupito Nerone, non si sarebbe aspettato qualcosa di tanto meschino e subdolo da parte sua - A quanto pare sono proprio odiato da tutti! - fece un lungo sospiro Nerone.

- Che ne facciamo di lui, altezza? - domandò Tigellino in attesa di ordini

- Niente, non voglio che siate voi ad ucciderlo - disse Nerone preparando un foglio con sopra un invito a suicidarsi - Fate mandare questo al filosofo, per quanto ingrato, merita una fine più dignitosa degli altri giustiziati

- Agli ordini, altezza imperiale - disse pur non comprendendo il perché di tale scelta "Sarebbe stato più appagante ucciderli in modo brutale, questi nobili proprio non li capisco!"

"Non avevo altra scelta, maestro" si disse infine Nerone guardando il cielo limpido dalla finestra "D'altronde siete stato voi a volere ciò, non di certo io". 
 

Non appena Seneca ricevette quell'invito, capì che non poteva sottrarsi alla morte "È giunta l'ora" soffuse. Diede l'ordine ai suoi servi di tagliargli le vene dei polsi, attendendo stoicamente che la vita scivolasse, ma poiché il suo corpo era vecchio, debole e il flusso molto lento, si recise anche quelle delle ginocchia e delle gambe. Si fece portare anche della cicuta, ma questa non fece effetto per via della fuoriuscita lenta del sangue.

Allora ordinò di riempirgli la vasca di acqua bollente e s'immerse senza attendere un secondo di più, ma invece di morire per via del calore che gli avrebbe fatto uscire il sangue con potenti spruzzi, gli attese quella più tremenda ovvero per soffocamento, per via dei vapori che gli mozzarono per sempre il respiro, dopo che fu portato in un'altra stanza, adibita a bagno, molto più calda delle altre. 

 

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Capitolo 42
*** Capitolo 41 - Memento mori - ***


"Non est quod nos tumulis metiaris et his monumentis quae viam disparia praetexunt: aequat omnes cinis. Impares nascimur, pares morimur"
Seneca, Epistulae ad Lucilium, XCI, 16

Roma, 9 giugno 68 d.C.

Era una notte d'estate nuvolosa, incredibilmente fredda e nonostante la vitalità che si respirava nelle vie della città, della gente incurante dei problemi e delle congiure di palazzo, vi era una strana tensione nell'aria.

Una giovane donna bussò alla porta di Locusta, con molta foga ed agitazione. La donna era sveglia, ma pensierosa: la situazione per Nerone diventava ogni istante sempre più drammatica, nemici nuovi si aggiungevano a quelli già esistenti e tutti bramavano la sua testa e il suo trono.

Rivolte sparse per l'Impero, in particolare in Gallia e in Palestina, avevano minato le ultime certezze che il Princeps aveva, ed era chiaro che era arrivata, per lui, l'imminente fine.

Quel rumore la colse di soprassalto e tornata nella realtà si precipitò immediatamente ad aprire - Atte - fece Locusta ingoiando la saliva - Che ci fate qui? - chiese sempre più preoccupata.

- L'imperatore ha bisogno di me - rispose lei semplicemente, come se il resto fosse superfluo. Locusta capì e sbiancò. La fece entrare.

- Sapete dunque? - domandò mesta Locusta, dopo averla fatta accomodare.

- Non sarei qui - le fece notare la giovane donna, con la voce sul punto di cedere: l'amava ancora, anche se lui l'aveva rifiutata e fatta esiliare, lei non aveva mai smesso di provare amore sincero e profondo per Nerone.

- Cosa volete che faccia per voi? - richiese Locusta cupa ma decisa.

- Preparare il pugnale avvelenato per Nerone - riferì lapidaria Atte. La sua voce sembrò aliena persino a se stessa, tanto che risuonò fredda e stoica alle sue orecchie - Il servo Faone vuole aiutarlo, è uno dei pochi che gli è rimasto fedele a corte...

- Ma non aveva con sé una boccetta di veleno che gli consegnai qualche mese fa? - interrogò l'ex schiava.

- Non so nulla di ciò, ma se il liberto mi ha detto di riferirvi questo, vuol dire che non ce l'ha più - disse lei facendo spallucce.

- Capisco - sospirò nuovamente - Significa che glielo hanno rubato o sequestrato, forse per evitare che si uccida

- E avere così il piacere di farlo fuori e di annunciarlo alla popolazione, d'altronde Galba ha assunto molto potere e nessuno oserebbe contestarlo

- In effetti, Nerone è l'unico ostacolo per possedere tutto l'Impero - disse infine Locusta prima di chiudersi in un pesante silenzio ed eseguire quel compito arduo e difficile.

Atte si sedette in un angolo e attese che lei terminasse il lavoro.

Ma Locusta era agitata, la mano le tremava, quando aveva ucciso altri,  Claudio in particolare, non era stata così tesa e nervosa. Alcune lacrime bagnarono le mani e il pugnale, il suo cuore era a pezzi.

"Forse solo così potrà avere la sua pace" si disse lei per farsi forza e proseguire nella preparazione di un veleno molto potente ed estremamente letale.

Come se fosse priva di un'anima e senza alcuna stanchezza alla fine, portò a termine il suo dovere e s'incamminò verso la sala dove c'era Atte, appoggiata su di una finestra, ad osservare il cielo.

Quest'ultima si accorse dei passi e si voltò: vide Locusta che si dirigeva verso di lei con in mano un pugnale costosissimo, la cui lama era avvolta in un panno - Ecco qui - le disse porgendoglielo con estrema cura - Fate attenzione - le raccomandò con voce spenta.

- Certamente - sussurrò a fior di labbra Atte, stringendolo con forza e nascondendolo. Poi si avviò verso l'uscita e le chiese se volesse seguirla, ma Locusta le ripose di no e quindi, la donna, corse sul suo destriero in direzione della piccola villa di Faone.

Una volta che la giovane uscì, Locusta si accasciò su di un divanetto e scoppiò a piangere amaramente - Perdonatemi, mio imperatore, se non ho coraggio - mugugnò tra le lacrime.

Affranta com'era per la sorte del suo più grande tra i benefattori, non si preoccupò della sua e continuò a far scendere le lacrime e a lamentarsi, fino a quando, vinta dalla stanchezza, si addormentò. 
 

L'imperatore, nella sua Domus Aurea, si era svegliato di soprassalto, quasi come se avesse avuto un sentore, un preavviso di ciò che sarebbe stato il suo destino nelle ultime ore. Tremante, si alzò e cominciò a perlustrare ogni angolo della villa e nei dintorni, ma non vi era più nessuno.

La disperazione si faceva strada - Dunque, non ho più un amico? - emise con un lieve sospiro carico di angoscia. Tornò nella sua stanza, sconsolato e pronto a farla finita, però, dopo vari tentativi di suicidio, il coraggio gli venne meno.

La fuga rimase l'unica possibilità per sfuggire ad una fine peggiore del disonore. Il problema restava comunque: dove andare? E soprattutto da chi?

Come una sentenza divina, ecco che un liberto a lui fedele, Faone, entrò nella sia stanza; aveva infatti lasciato la porta aperta. - Altezza imperiale - soffuse inchinandosi profondamente ai suoi piedi - Seguitemi, vi condurrò nella mia villa, a quattro miglia da Roma, tra la via Salaria e la Nomentana, lì sarete più al sicuro dai nemici

- Davvero? - fece incredulo Nerone - Cosa aspettate, muoviamoci subito! - ordinò l'imperatore correndo; all'uscita trovò altri tre servi che gli avevano portato un cavallo e un travestimento per evitare di essere scoperto: un mantello logoro e un fazzoletto sul viso. Inoltre indosso aveva una semplice vestaglia, perciò, non avrebbero sospettato minimamente della sua identità.

Durante il viaggio, numerosi incidenti ridussero le già flebili speranze nel cuore dell'ormai ex imperatore. La terra tremò mentre si avvicinavano al campo dei Pretoriani, dove vi erano molti uomini che lo maledicevano, tra cui Tigellino, che non aveva esitato minimamente a schierarsi dalla parte del nemico.

Il generale Servio Sulpicio Galba, accolto tra i soldati, veniva acclamato a gran voce e già lo consideravano imperatore. Nerone, invece, cercando di non perdere la calma e la pazienza, udiva da alcuni gli ordini per andarlo a cercare, poiché era scappato e non sapevano dove.

- Costoro inseguono Nerone! - urlò sicuro uno di quelli che li intravide.

- A proposito, ci sono novità a Roma riguardanti quel maledetto? - interrogò un altro, sempre al gruppo di quei strani fuggiaschi. Non emisero una sillaba.

La fortuna non fu dalla loro parte, quella notte: d'un tratto il cavallo s'impennò spaventato nel vedere un cadavere giacente sul ciglio della strada. Il fazzoletto che si era messo l'imperatore si spostò un po' mostrando i suoi lineamenti e, come se non bastasse, un messaggero gli fece il saluto militare.

A quel punto si guardarono e scapparono lontano fino ad arrivare ad un ponte; la strada si divise e Nerone seguendo la via che Faone e gli altri gli indicavano proseguì, ovviamente non lo lasciarono da solo e avvolti nella più totale oscurità, rischiarata dalla debole luce delle torce, arrivarono finalmente alla villa. 
- Atte è giunta prima di noi! - esclamò Faone nel vedere l'abitazione illuminata.

- Atte? - sbottò Nerone - Che ci fa qui?

I quattro non risposero e, una volta giunti, si apprestarono a fare un buco alla parete, aiutati all'interno da Atte, che si rese utile come non mai; l'imperatore, invece si dissetò in uno stagno non molto lontano da lì. Bevve tantissimo, sapendo che quella poteva essere l'ultima volta.

Quando finirono di rompere il muro lo fecero entrare: vi era un giaciglio con sopra il mantello di un contadino - Accomodatevi pure, altezza - gli dissero rassicurandolo.

Tuttavia egli era pervaso dall'angoscia, aveva intuito, aveva intuito il perché di quella fuga: istogarlo al suicidio; era stato scoperto e le guardie non ci avrebbero messo molto a rintracciarlo.

Per rasserenarlo gli offrono quel poco che avevano a disposizione: del pane raffermo e un bicchiere d'acqua.

- Mi si è chiuso lo stomaco - rifiutò l'imperatore spostando quelle misere vivande con la mano - Prendetelo voi se volete - propose. Nessuno lo fece, erano tutti impensieriti e spaventati.

Un messo sbucò all'improvviso: lo guardavano terrorizzati, non portava di certo buone notizie. Infatti l'uomo porse la lettera direttamente all'imperatore, il quale si sentì male nel leggerla.

Fece cadere la lettera al suolo e Faone la lesse, sbiancò: - Il Se...Senato lo...lo ha dichiarato... nemico della pa... patria - emise balbettando - E...e inoltre... ha dato l'ordine di prenderlo e... punirlo secondo le antiche leggi... - non ce la fece a continuare.

- Ovvero appeso ad una forca e fustigato a morte - continuò Atte piangendo. Premette la mano sul punto in cui aveva nascosto il pugnale avvelenato.

Nerone al culmine della follia prese due pugnali, e puntandoli al petto esclamò - Ah! Quale artista muore con me! - la volontà tentennò, le lame cadendo risuonarono sinistre e si inginocchiò al suolo lamentandosi ed autocommiserandosi - Sono un codardo buono a nulla! Non ho il coraggio di essere un vero uomo nemmeno di fronte alla morte - dei violenti colpi alla testa accompagnavano la lagna.

Lo scalpitio in lontananza di un manipolo di soldati a cavallo lo ridestò e gli fece capire che ormai era tardi: se non voleva morire in quel modo atroce, doveva suicidarsi, il Senato non avrebbe vinto.

Atte intuì dall'espressione il volere di Nerone ed estrasse il pugnale avvelenato - Prendete questo, altezza - gli disse cercando di non piangere ancora - Me l'ha dato Locusta, lo teneva nascosto fino a quando non sarebbe arrivato questo momento - gli mentì per dargli almeno un po' di forza d'animo e fargli sentire la vicinanza della sua adorata Locusta.

- Allora non mi ha abbandonato - disse lui prendendo il pugnale e togliendo il fazzoletto che lo avvolgeva. Vide la lama scintillante ed ingoiò la saliva, strinse il manico con forza - Vi affido la mia ultima volontà e preghiera - aggiunse cupo - Non consegnate la mia testa ai nemici e non appena morirò, crematemi - alzò la testa e li guardò per l'ultima volta, poi il suo sguardo si fermò sul servo Epafrodito ed emise un verso in greco.

Il servo intuì e si avvicinò a lui, lo fece sedere a terra mentre Atte si fece da parte con il cuore colmo di tristezza.

Nerone puntò la punta in gola e premette esitante, Epafrodito lo aiutò. L'imperatore sentì un calore strano, non ebbe il coraggio di guardare quella fontana di sangue che usciva a spruzzo, sentiva solo il suo odore acre.

Il veleno penetrò con facilità e diede i primi risultati: la vista divenne sempre più opaca di quanto riuscì a fare la miopia in tutta la sua vita, gli occhi vitrei.

Era ancora cosciente, poiché riuscì a distinguere il centurione, inviato dal Senato per portarlo vivo, che gli poggiava il mantello per arrestare il flusso - È tardi! È questa, dunque, la tua fedeltà? - gli disse con il poco fiato che aveva.

Il respiro si fece più sporco, rantolante, il cuore si indeboliva fino a fermarsi, e sul suo viso si formò una smorfia di dolore così terrificante da far scappare i mandanti a gambe levate. Percepì la sua vita spezzarsi come un filo, il corpo diventare sempre più rigido e freddo, ed emesso l'ultimo respiro, spirò.

Morì all'età di trentuno anni, nell'anniversario della morte di Ottavia: uno scherzo del destino, quasi come se la sua ex moglie si fosse vendicata del torto subito.

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Capitolo 43
*** Capitolo 42 - Purificazione - ***


"Nec mortem effugere quisquam nec amorem potest"
Sentenze, Publilio Siro

9 gennaio 69 d.C.

Meno di un anno dopo dalla cremazione di quello che verrà considerato come un mostro da porre nel dimenticatoio, il generale Galba salì al trono e, subito, diede l'ordine di giustiziare tutti coloro che avevano collaborato con il precedente imperatore.

Locusta sapeva di avere i giorni contati, perciò, con l’angoscia nel cuore, abbandonò la sua casa sul Palatino, in modo da poter allungare le ricerche su di lei e di rifugiarsi da quella del marito, non molto lontano dal centro cittadino.

Cominciò a cercare Gaudenzio fra le stanze della domus. Guardò di stanza in stanza, finchè non lo vide affacciato ad una finestra, che dava sul lago di fronte alla, assorto nei suoi pensieri - Gaudenzio - disse lei con il fiatone.

- Che ti è successo? Perché sei affaticata?

- Battezzami - rispose lei in preda alla paura - Battezzami - ripeté scuotendolo.

- Ma...ma io no..non ne ho l’autorità, e poi non mi avevi detto di aver perso la fiducia nei tuoi dei? Cosa ti è accaduto?

- Portami da uno dei tuoi sacerdoti, ti prego - le rispose solamente Locusta. Si mise quasi in ginocchio per persuaderlo - Ti prego...

Gaudenzio si inginocchiò e le chiese, per cercare di calmarla e conoscere le sue reali intenzioni - Dimmi prima perché, parlami...

- Perché non ho più molto tempo, Gaudenzio - ammise lei quasi piangendo - E voglio morire senza più rimpianti - aggiunse a testa bassa, trattenendo a stento le altre lacrime che volevano scendere.

- Se hai paura di Galba, non preoccuparti, avremo la protezione di Vespasiano...

- No, nemmeno Vespasiano può salvare me, Gaudenzio - controbattè Locusta a gran voce - Lui non può nulla contro un ordine dell'imperatore...

- Ma potrebbe farlo ragionare e salvarci - poi si girò verso il lago per puntarvi l’indice - Proprio li c’è la nostra ancora di salvezza

- Quella sarà la tua gloria, non la mia Gaudenzio - fece lei sospirando e guardando con ammirazione infinita - Io sono solo un pericolo per Galba, perché so troppe cose che potrebbero danneggiarlo, oltre ad essere un’avvelenatrice

- Sono convinto di quel che dico, perché lì vi sorgerà l’opera più grande che il mondo conoscerà e contribuirà all’immortalità del nome di Roma e dell’impero - prese fiato e continuò - Ed essendo io il suo genitore, se dovrà essere messa al mondo, ci sarà bisogno del mio contributo obbligato. E fra le condizioni, dovrà esserci la tua salvezza. Non morirai...farò di tutto affinché tu non muoia!

La moglie voleva essere gioiosa ed ottimista come lui, ma aveva quel sentore di paura, mista ad angoscia che le diceva che il suo tempo era finito - Questa sarà l'ultima giornata che vivrò, Gaudenzio - emise lapidaria.

Vedendo gli occhi della sua Locusta, rimase a fissarla per poi interrompere il suo silenzio - Allora fuggiremo stanotte stessa da Roma

- No - lo fermò Locusta con uno sguardo glaciale - Per troppo tempo sono scappata dalla morte, ora non posso più, devo affrontare il mio destino, Gaudenzio, il tuo Signore ha affrontato la croce con coraggio ed umiltà, pur essendo un innocente, ora devo sacrificarmi anch'io

- Andremo lontano, anche oltre ai confini dell’impero, preferisco spaccarmi la schiena lavorando la terra e pescando tra i fiumi pur di stare assieme a te, ho già contribuito a rendere grande il nome di Roma, la sola cosa che voglio è poter invecchiare insieme a te, anche nella più umile delle case, che sia anche una casupola in legno, tutto pur di non perderti...

Locusta sentendo quelle parole ebbe un sussulto, il suo pianto silenzioso venne rotto da quel discorso meraviglioso, colmo di amore e pace - Gaudenzio, ti prego - parlò lei tra i singhiozzi - La morte è l'unica cosa che può rendermi libera, ti prego, non puoi forzare il destino - continuò la donna in preda ad un pianto irrefrenabile - Anche io vorrei scappare con te e vivere il resto della mia vita al tuo fianco, ma la morte mi sta già chiamando, perciò se non vuoi battezzarmi tu, lo chiederò direttamente al tuo capo - aggiunse infine tentando di mostrare durezza in quella voce e tono tremolanti.

- L’impero è grande, vivremo in piena campagna dove nessuno potrà trovarci…- concluse accarezzando le sue gracili spalle. Nonostante l'età quasi avanzata per l'epoca, la sua pelle era rimasta dolce e delicata come i petali di un fiore.

Lei si staccò dal suo adorato marito bruscamente e lo guardò con rabbia - Perché non vuoi capire? Perché? - Lo amava tantissimo, ma doveva lasciarlo e questo la faceva star male, tuttavia era pronta ad accettarlo, poiché era l'ultimo grande atto che avrebbe compiuto.

- Perché il Signore ci ha lasciato la possibilità di scegliere, di poter decidere da soli il nostro destino! Se vuoi veramente essere battezzata e credere in lui...allora credi nell’opportunità di poter plasmare da sola le nostre esistenze...

- Ognuno di noi nasce con il destino scritto tra le stelle, Gaudenzio - le disse lei con il tipico tono di chi ormai non aveva più voglia di vivere - La morte di Nerone mi ha dato la conferma, lui era destinato a morire in quel modo, da un pugnale, glielo avevano predetto alla sua nascita

- Se credi a delle assurdità di chi ha fede negli dei, allora non ti serve a nulla essere battezzata… - concluse girandosi nuovamente verso il lago.

Ma Locusta era determinata a fare ciò che si era prefissata e decise di recarsi dalla piccola comunità cristiana, che lui fosse d'accordo o meno. Approfittò della sua distrazione per uscire di casa.

Gaudenzio sospirava triste e affranto. Si girò nuovamente verso l’interno della stanza. Prese dal tavolo una pergamena, la aprì piano piano, i raggi del sole illuminarono i disegni dei progetti di quella che sarebbe divenuta l’arena più grande della storia, sia antica che moderna. Guardava i suoi progetti, spostando poi lo sguardo verso il lago.

Lei invece, cercando di non farsi vedere dalle guardie, si dirigeva verso la periferia della capitale, dove vi erano delle catacombe cristiane, frequentati da quei pochi fedeli che erano sopravvissuti alla persecuzione neroniana. Per loro la sua morte fu una benedizione del Signore: l'Anticristo era stato sconfitto.

A lei, però, tutte quelle loro ideologie, che andavano contro i suoi principi, sembravano importare poco, ciò che le premeva era di poter morire in pace con se stessa, il mondo, oramai, non le interessava più, era stanca di vivere.

Mentre camminava fra le strade, finì con imbattersi, nella sua vecchia bottega, le quattro mura che l’avevano fatta diventare una cittadina romana a tutti gli effetti.

Si fermò a guardarla, con la sua mente pervasa da ricordi che sopraggiunsero, quegli anni che non sembrarono molto lontani - Aulus, Tiberia - sussurrò tra le lacrime - Fra non molto vi raggiungerò, sperando che ci sia anche il mio Nerone con voi - continuò piangendo con il viso nascosto - E staremo insieme, finalmente in pace

Il suo pianto venne interrotto da una voce che conoseva bene e la riconobbe subito - Locusta...cosa ti porta qui?

Lei si asciugò le lacrime con il braccio e si buttò fra le sue braccia - Canius, sei vivo, almeno tu - emise toccando il suo volto quasi incredula.

- Certo, vivo in pace nella mia dignitosa povertà, come ci ha insegnato il Signore…

Nel sentire quelle parole Locusta rimase sorpresa, anche Canius sembrava essersi convertito al Cristianesimo - Anche tu sei un cristiano? - gli chiese un po’ perplessa, poi lo guardò con gli occhi brillanti ed esclamò - Allora puoi aiutarmi!

- Si, lo specchio della mia vita è in Cristo, non in questi miserabili guerrafondai…- fece una piccola pausa per poi domandarle - In che modo?

- Portami dal sacerdote o dal capo delle catacombe, Canius, per favore - le disse quasi in ginocchio - Non ho più molto tempo…

- Cos’è accaduto? E Gaudenzio?

- Non è il momento per spiegarti tutto, Canius, portami da lui e basta - rispose con tono ed aria cupa.

L’uomo la fissò senza capirne le ragioni, infine dopo un forte sospiro - D’accordo, ti ci porterò…

Non appena ricevette il consenso, Locusta si sentì sollevata e si rialzò. Canius riprese dicendo - Su forza andiamo

Quando si accinsero ad incamminarsi, dietro di loro sentirono - Fermatevi - i due si girarono vedendo Gaudenzio alle loro spalle.

- Gaudenzio - sussurrò la moglie

L’uomo si avvicinò a passo lento andando prima ad abbracciare Canius come un fratello, poi si voltò verso la moglie per dirle - Ti porterò io...dall’uomo giusto…anzi...ci andremo tutti e tre insieme, se Canius vorrà…

- Certo che sì - rispose ammiccando Canius - Allora andiamo? - domandò poi. L’architetto si mise in testa al trio per dirigersi verso la periferia della città.

- Sull’Appia vi sono molti ingressi per le catacombe...quello più vicino è a due chilometri da Porta Appia. Li vi è un ingresso, ma dovremo prima sostare vicino ad un magazzino, per salire su uno dei carri destinati al commercio, dovremo nasconderci li per uscire indisturbati

Raggiunto il magazzino, Gaudenzio cercò di capire quale potesse essere uno dei carri pronto alla partenza. Appena lo individuò, fece salire prima Canius, affinchè potesse aiutarlo a sollevare anche la donna.

Subito dopo la partenza del carro, riuscirono a superare senza difficoltà il controllo delle guardie romane che erano alla porta. Non appena Gaudenzio riconobbe in lontananza la zona dell’ingresso, fece un segno silenzioso per scendere. I due obbedirono senza fiatare e fare rumore.

Giunsero finalmente ad un ingresso ben nascosto, lì vi era situata una delle tante sedi del mondo cristiano, dalla quale, la maggior parte dei cittadini romani stava alla larga. Mentre scendevano, udivano le preghiere che i fedeli rivolgevano al loro Signore ed uno di quelli, poi, leggeva dei piccoli brani sulla sua vita.

La donna vedeva le pareti dipinte con sguardo assorto: erano dei bei segni, mosaici ed affreschi, colmi di speranza, ma per lei, sembravano solo una delle tante manifestazioni dell'uomo di voler salvare la propria anima, concedendosi a nuove divinità, deluse dalle precedenti, alle quali avevano creduto fino a poco prima. Il battesimo per lei non era l'inizio di una nuova vita, bensì il suo traguardo.

Mentre camminavano, un giovane si diresse verso il trio - Gaudenzio, sia lodato il Cielo, quanto tempo non ti vedevo - lo abbracciò. 

L’architetto rispose - Anch’io sono felice di vederti Flavio

Locusta li guardò e rimase in silenzio, lo stesso fece Canius.

- Cosa ti porta di nuovo qui fra noi? - domandò curioso

- Son venuto qui...per vedere il nostro ponteficie…voglio...far battezzare mia moglie…

Il ragazzo lo osservò stupito, e in altrettanto modo fece Gaudenzio, mentre la donna si toglieva con delicatezza il velo dalla testa - Sono pronta a ricevere questo dono o sacramento, come lo chiamate voi - effuse lei con un profondo inchino di rispetto.

Qualcuno sentì il dialogo che si stava svolgendo alle loro spalle e cominciò a mormorare con sdegno e disappunto - Quella è la donna pagana che era affianco dell’imperatore!

- E’ Locusta, la dispensatrice di morte!

- Come ha potuto Gaudenzio profanare questo luogo sacro!

Lei si sentì ferita da quelle parole, loro non sapevano quello che aveva vissuto sulla sua pelle e soprattutto l'imperatore, il vero aspetto di Nerone. Ma come aveva sempre fatto, rimase impassibile e rispose - Non era il vostro Signore a dire di accogliere coloro che sono nel peccato?

- Come può una pagana parlare così del nostro Signore - ringhiò uno dei fedeli con odio.

- Mi sono istruita a dovere, anzi è stato mio marito a farmi conoscere il vostro culto - asserì spigliata lei.

- Tacete immediatamente e pentitevi per le parole appena proferite dalle vostre labbra! - Una voce imperiosa ruppe quel momento e non appena venne riconosciuta, tutti quanti s’inchinarono e videro avanzare un uomo vestito in maniera molto semplice: portava una lunga veste fino ai piedi, dalla quale si scorgevano i sandali.

Era piuttosto anziano, dalla lunga barba, ma nonostante l'età, aveva una grande forza d'animo. Locusta si ricordò di quando Nerone le aveva parlato di Pietro “Aveva una volontà di ferro persino mentre stava morendo”. Anch'ella si inchinò con sincera reverenza.

- Lino...costei è una pagana, un avvelenatrice, che fino a poco tempo fa ha seduto accanto a chi ci ha perseguitati, chi ci dice che non sia venuta qui per farci massacrare a tutti - sbraitò furibondo un altro.

Lei guardò quell'uomo e vi lesse tutto il suo immenso dolore; da come parlava sembrava che avesse perso un amico o un'intera famiglia. Restò in silenzio, non avrebbe capito il perché di tale scelta.

- Hai forse dimenticato che Pietro e prima di lui il nostro Signore, ci ha insegnato che dobbiamo amare anche i nostri nemici e far si che il mondo creda? - il fedele abbassò lo sguardo in silenzio senza proferire parola. Si rivolse poi a Gaudenzio per dirgli - Figlio mio...la nostra comunità è pronta ad accogliere la tua sposa

Fu Locusta a prendere la parola - Se ho preso questa scelta, santità, è per essere in pace con me stessa e il mondo - annunciò con la mano sul petto - Ho commesso molti errori in passato ma sono decisa ad espiarli uno ad uno, senza alcun timore, affrontando ogni sofferenza. Ho sempre ritenuto impossibile la pace e l’amore fra tutti gli uomini, ma gli eventi poi mi hanno portato in un’altra strada...

- Vieni sorella...sarai battezzata nel nome di Cristo…

Lei annuì e lo seguì: finalmente avrebbe trovato la forza necessaria per affrontare la sua fine con serenità e pace interiore.

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Capitolo 44
*** Capitolo 43 - Vixi, et, quem dederat cursum fortuna, peregi - ***


"Vive in dies et horasnam proprium est nihil"
Epitaffio di Prima Pompea II / I sec. a.C.

Dopo esser stata battezzata, Locusta aveva ricevuto in dono da suo marito la croce di legno che lui portava sempre al collo.

Nonostante la sua purificazione attraverso il rito del battesimo, quei giorni erano stati particolarmente tormentati; Locusta tendeva ad isolarsi sempre più dai suoi cari, per evitare che il momento dell'addio fosse troppo doloroso.

Gaudenzio, affacciato ai porticati della domus, vide la sua sposa in riva al lago dove avrebbe voluto veder sorgere la sua arena. La raggiunse e delicatamente le mise le mani sulle sue spalle.

Lei ebbe un sussulto e si girò - Gaudenzio sei tu... - emise rassicurata.

- Ti vedo sempre più chiusa in te stessa...non ce la faccio più a vederti così...pensavo che il battesimo ti avesse risollevata

Locusta sospirò, ancora non aveva capito nulla di quello che stava facendo e pensando, avrebbe voluto dirgli tutto, ma ogni volta qualcosa la fermava.

- Cosa hai? Spiegamelo ti prego...parlami...non dare tormento anche a me che ti amo…

- Niente - sospirò lei - Voglio solo stare da sola… - lo guardò per un secondo e poi si allontanò da lui.

- Ti conosco troppo bene, ti stai isolando per evitare di far male a me ed alle persone che ti sono intorno...ma con il tuo silenzio...con la tua solitudine…me ne stai procurando molto più di quanto tu possa credere...  - s’interruppe per un attimo poi riprese - Parlami...

Ma la moglie era troppo lontana per udirlo.

- Ti prego dimmi qualsiasi cosa...

- Voglio solo che questa agonia finisse - sussurrò.

In giro correva voce che le ricerche fossero divenute sempre più capillari. Era questione di poco tempo, tuttavia lei era pronta a tutto.

Si appoggiò alla finestra e cominciò a guardare il cielo, in quella giornata era così terso e azzurro, le ricordava quello che vedeva da bambina, seppur in Gallia fosse assai raro, ma in quelle volte che accadeva, lei si sentiva felice, in contatto con la natura. Dopo tanti anni riuscì di nuovo a provare quella sensazione di ingenua ed infantile pace.

Nonostante fosse molto avanti con gli anni, Tito Flavio Vespasiano mostrava un'agilità incredibile, dovuta alla sua lunga esperienza sui campi di battaglia ed un'apertura mentale che raramente si poteva trovare nella capitale in quel periodo di caos.

Infatti, pur non apprezzando particolarmente l'operato di Nerone ed anche quello di Galba, per la piega che stava prendendo, decise di non esprimere pareri, anche per evitare eventuali ripicche. Era diretto verso la domus per un appuntamento fissato con l'architetto: bussò alla porta con molta disinvoltura.

- Avanti, la porta è aperta - rispose Gaudenzio, mentre era intento a scrivere su delle pergamene.

L'ufficiale entrò e con un profondo inchino disse - Spero di non arrecare disturbo

- Affatto...ormai in questi giorni apprezzo tutto ciò che potrebbe farmi distrarre dai mille pensieri e dai tormenti che mi provocano solo dolore…

- Viviamo in un periodo assai burrascoso - iniziò lui non potendo non dargli ragione - Posso capire ciò che provate, Gaudenzio - aggiunse sospirando.

Mentre Gaudenzio scriveva, Tito Flavio si avvicinava. Quando fu davanti a lui, posò lo sguardo sulle pergamene che Gaudenzio aveva riempito con i suoi disegni ed i suoi appunti. Vespasiano ammirò quel progetto estasiato per la sua grandezza.

- Questa creazione è una meraviglia, ho viaggiato in ogni angolo dell’impero, ma non ho mai visto una cosa così grande…- fissava quei progetti e la penna di Gaudenzio che continuava a tracciare nuove linee - La vostra mente dimostra che non solo la spada può render grande il nome di un impero. Il nostro Cesare te ne sarà veramente grato per questo

Sentendo nominare l’imperatore, Gaudenzio ebbe un impeto di rabbia spezzando la penna che aveva fra le mani e battè violentemente il pugno sul tavolo.

- Se Cesare mi vuole ricompensare per rendere ancor più potente Roma, che risparmi la vita della mia sposa!!

Vespasiano sospirò ancora - Ahimè, bisognerebbe parlare con l'imperatore, ma non vuole sentire ragioni - lo guardò dritto negli occhi - Ha paura di fare una fine peggiore di quella del precedente sovrano, ma temo che continuando così, non farà altro che autocondannarsi...il morale delle truppe pretoriane è volubile, io lo so bene, basta un niente per provocare altre congiure e rivolte…

- Allora il progetto del colosseo sarà da questa sera, carta per alimentare i fuochi dei bracieri delle mie stanze!! - affermò lui guidato dalla rabbia.

- No, Gaudenzio, non lo sarà - disse l'ufficiale guardandolo, non poteva permettere che un simile progetto andasse in fumo, era qualcosa di grandioso, magnifico, eccelso, come la potenza di Roma. - Non lo permetterò, perché lo sto finanziando anche io!

Gaudenzio sospirò fortemente, si mise le mani nei capelli, sempre a testa bassa, e lo sguardo rivolto al tavolo - Tito...fate si che Locusta possa abbandonare segretamente la capitale in qualche luogo al di fuori dei sospetti dell’imperatore...fino al termine di realizzazione del progetto…

Vespasiano fece un terzo sospiro e si grattò i radi capelli che aveva in testa - Ci proverò, Gaudenzio, ma non vi garantisco nulla, anche perché non gli ero simpatico da quando era un mio semplice collega

- Grazie...amico mio…

Il militare gli sorrise con l'intento di incoraggiarlo un po’ e aggiunse, prima di uscire per raggiungere Galba - Salutatemi vostra moglie e ditele di stare un po’ più tranquilla

Dopo poche ore Vespasiano tornò da Guadenzio, più gioioso che mai. - Aprite, ho una notizia meravigliosa! - esclamò traboccante di felicità.

L’architetto aprì la porta - L'imperatore ha concesso la grazia a Locusta, non so quali parole siano riuscite a convincerlo, ma ora non ha più nessuna taglia o altro è libera - disse tutto d'un fiato l'ufficiale. Era così contento per loro.

- Hai sentito amore?! Sei finalmente libera - si rivolse poi verso l’amico e lo abbracciò come un fratello - Grazie...grazie Tito...ve ne sarò eternamente grato

Vespasiano, che non era abituato agli abbracci, rimase un po’ freddo a quel contatto così personale - Questo ed altro per voi - aggiunse sorridendo.

Poi guardò Locusta che si era inchinata per ringraziarlo, pur non essendo molto convinta dall'atteggiamento dell'imperatore, conosceva bene quel tipo di ambiente.

Quando rimasero soli, Locusta si rivolse al marito dicendogli - Ora potrai terminare con tranquillità la tua opera, fallo Gaudenzio, e mi devi promettere che la realizzerai a qualsiasi costo, qualsiasi cosa accada...me lo devi promettere…

- Ma certo che lo farò ma...perché parli così? Sei salva, potremmo affacciarci nuovamente da questo porticato e vederla sorta davanti ai nostri occhi...

Locusta gli sorrise, con le lacrime agli occhi, un sentore le diceva di non fidarsi dell'imperatore, aveva sostituito senza troppi problemi Nerone e fatto in modo che su di lui si abbattesse ogni sorta di malalingua, era capace di fare anche altro.

Però, voleva rassicurare il marito e il suo amico che avevano fatto tanto per lei - Scusami, che stupida che sono - sussurrò la donna mentre lo abbracciava - Hai ragione, ma come la chiamerai quest'opera? - domandò alla fine.

- Affianco ad essa voglio che vi sia il colosso di questa domus...

- Per sostituire quello di Nerone che hanno abbattuto…  continuò lei.

- Perché sarà un’opera colossale per l’impero e per la storia del mondo...il suo nome sarà “Colosseo”.

- Però dovresti chiamarla anche con il nome della famiglia di Vespasiano, non credi? - le suggerì - È stato il primo a sostenere il progetto fin dai primi schizzi, se lo merita…- ci pensò un po’ poi continuò - Colosseo, anche chiamato Anfiteatro Flavio...che ne dici? -

- Si, sarà sicuramente terminato anche sotto l’occhio vigile di Vespasiano, ne sono convinto

- Chissà come reagirà quando saprà della dedica - rise lei immaginando l'imbarazzo dell'ufficiale.

Poco dopo Gaudenzio uscì per andare a prendere altri attrezzi, quando improvvisamente qualcuno bussò energicamente alla porta. “Non può essere già tornato” si disse mentre andò ad aprire. Sbiancò nel vedersi davanti a lei l'imponente e sinistra figura di Tigellino, che la guardava con gli occhi neri iniettati di sangue - Era da un po’ che non ci vedevamo, Locusta! - esclamò con la sua voce cavernosa e lugubre.

La donna, dopo un secondo di smarrimento, capì tutto, sorrise amaramente, lo guardò senza mostrare alcun timore né rancore ed emise freddamente - Eccomi, Tigellino, ora l'imperatore può fare di me ciò che vuole

I pretoriani non si aspettarono un atteggiamento così stoico da parte sua, persino il prefetto rimase spiazzato. Ma lo stupore durò poco, poiché lei fu legata ai polsi e fu gettata fuori a calci. Lei non si lamentò, sopportò ogni cosa che le dicevano o facevano.

Il rumore cadenzato di una corsa, riecheggiava fra i corridoi della Domus, insieme al respiro affannoso di un uomo, che all’improvviso aprì la porta dello stanza dell’architetto - Gaudenzio...Gaudenzio!

- Cos’è successo Achaikos?

Nonostante il fiatone, riuscì a farsi uscire di getto - Locusta...Locusta…

- Locusta? Cosa Locusta? 

- Locusta è stata catturata dal prefetto Tigellino e la stanno torturando per poi condannarla a morte!

Dopo quelle parole Gaudenzio scattò in piedi come un fulmine per poi afferrare le spalle dell’amico e urlargli contro - Dove sono adesso? In quale luogo l'hanno portata? Dimmelo Achaikos, ti scongiuro!

La donna fu portata al cospetto dell'imperatore, che già si era adattato alla vita di corte in quei mesi. Tuttavia quando vi entrò, Locusta notò che tutto ciò che Nerone aveva fatto costruito e decorare era stato sostituito, ciò le fece più male delle torture che le avrebbero inferto “La tua arte non l'hanno capita, mio unico imperatore” si disse a testa bassa.

- E così sarebbe lei la famosa Locusta? - chiese Galba, il cui volto scavato dalle rughe - Me la immaginavo più spaventosa, invece è solo una donna comune

- Diffidate dal suo aspetto, altezza - fece Tigellino, gettandola ai piedi dell'imperatore - È più pericolosa di una vipera

Lo sguardo dei due si incrociò, anche se quello di Locusta era spento e quasi privo di vita. L'imperatore rimase colpito da lei, sembrava una morta che camminava, non trovava vitalità in lei. - Sapete quello che dovete fare, Tigellino - fece l'imperatore con la mano, le sembrò di rivedere per un attimo il suo Nerone, ma era solo una sua impressione.

Prima della condanna a morte, fu portata in una sala apposita per essere frustata a sangue. Mentre Tigellino controllava che nessuno si avvicinasse per liberarla.

Gaudenzio e Achaikos giunsero al Palatino correndo di stanza in stanza. Non appena s’imbatterono in un pretoriano che stava girando per fare la guardia. L’egizio dovette fermare l’amico accecato dalla rabbia e dalla preoccupazione.

- Fermati! Non fare sciocchezze! O ci ritroveremo tutti i pretoriani addosso in un lampo…

Il guerriero lo seguì senza fare rumore, e certo che non ci fossero altre guardie lo prese da dietro per il collo e lo sollevò da terra.

Gaudenzio vedendo la scena andò subito verso di lui e gli assestò due pugni sul viso e poi lo afferrò per il collo minacciandolo a denti stretti - Se ci tieni alla tua pellaccia faresti meglio a dirmi dove hanno portato Locusta...sono stato chiaro?!

- Chiarissimo - fece Tigellino sbucando dal nulla - Se vuoi ti accompagno - aggiunse con una risatina per nulla rassicurante.

- Dimmi dove l’hai portata bastardo!

- Se farai il bravo ti ci porterò senza farti alcun male, ma solo tu, il tuo amichetto negro non c'entra nulla con questa faccenda - disse leccandosi le labbra come se stesse per gustarsi un piatto succulento.

I tre sentirono in lontananza  grida di dolore di una donna, col rimbombo di una frusta. Achaikos mise una mano sulla spalla del suo amico - Vai da lei, mi occupo io di questo maledetto...

- Quindi vuoi morire anche tu? - si schioccò le dita il prefetto - Bene, avrò una ricompensa tripla, quest'oggi - poi scoppiò a ridere. Si avvicinò all'egizio sovrastandolo per poi colpirlo violentemente.

Nel frattempo Gaudenzio corse verso le stanze da dove sentiva gridare. Aprì le porte e vide la sua sposa legata in ginocchio a terra, coperta di sangue. Alla vista della sua donna torturata in quel modo terribile, l’uomo corse verso il pretoriano, il quale caricò la frusta.

- Gaudenzio, fermati! - urlò con quel poco fiato che le rimaneva - Perché sei venuto a suicidarti? Perché non sei rimasto a casa? - le chiese poi sputando del sangue sul palo e a terra.

Il soldato riuscì a colpire il suo avversario, ma nonostante venne percosso, nel momento in cui la frusta si sollevò di nuovo, Gaudenzio riuscì a bloccare la guardia, prendendolo per le gambe e a buttarla a terra.

Cominciò una estenuante lotta sul terreno, nella quale l’uomo, afferrò il gladio del pretoriano procurandogli una ferita ad un braccio. Quando la rabbia prevalse, si avventò come una belva assetata di sangue sull’uomo e gli infierì il colpo mortale tra la spalla e il collo.

Ma non poté cantare vittoria, poiché un tonfo tremendo fece sobbalzare i due che si voltarono. Videro Tigellino che trascinava il corpo pieno di ferite e sangue di Achaikos - Lui ti farà compagnia in cella, sempre che non sia già crepato - rise lui dandogli un calcio.

- Achaikos, anche tu - mormorò Locusta sentendo la vita allontanarsi sempre di più da lei, le lacrime si mescolarono al sangue, non aveva più nessuno che potesse proteggerla davvero.

- Perchè non mi hai ascoltato? Perché non sei sfuggita a tutto questo quando ne avevamo l’opportunità? - le domandò fra le lacrime Gaudenzio - io non voglio perderti...non voglio!-

- Se esiste davvero un paradiso, allora ci ritroveremo là - disse Locusta senza mostrare alcun sentimento.

Tigellino guardò quella scena con un misto tra disgusto e rabbia, dovette però, calmarsi, solo lei doveva essere uccisa, gli altri al massimo feriti per poi divenire cibo e intrattenimento per le belve e il popolo. Prese Gaudenzio per la tunica e lo sollevò da terra - È finito il momento di dirvi addio, piccioncini

Gli diede un forte schiaffo con il dorso della mano, sul viso seguito poi da un pugno, che lo atterò, con lo sguardo rivolto alla sua sposa, che lo guardava con lo sguardo vacuo, di chi era già nell'aldilà. - Addio - fece solo con la bocca.

Il suo carnefice si avvicinò e con un solo colpo di spada tagliò la corda, la prese malamente - Sembra una bambolina di pezza - ridacchiò Tigellino, avvicinò le mani al suo esile collo e glielo strinse sempre più forte, sadicamente.

Locusta guardava il suo sposo durante i suoi ultimi istanti, nel momento in cui sentiva la vita andarsene, cercò quanto meno di imprimere nella sua mente il sorriso dell’uomo che amava. Quando le fu nitido, spirò fra le mani omicide del prefetto, pronta a raggiungere il suo Nerone, il suo Aulus e la sua Tiberia, che erano sicuramente da qualche parte, non erano morti del tutto, ne era sicura negli ultimi secondi, quando l'esistenza acquista il suo senso e le sue certezze.

- Non ha resistito molto - fece il prefetto un po’ deluso e la lasciò andare, già stufo di lei. Si girò verso Gaudenzio per dirgli - E ora...tocca a te…

- Fermatevi Tigellino...placate la vostra sete di sangue e lasciate stare Gaudenzio! - s'intromise Vespasiano, il quale era piombato troppo tardi per salvare lei, ma con lui poteva fare ancora qualcosa.

Mentre interloquivano, con la forza della disperazione, e del dolore, Gaudenzio si diresse verso il corpo senza vita della sua amata con espressione straziata. Le chiuse delicatamente gli occhi e in altrettanto modo le accarezzò una guancia. La abbracciò per cominciare un pianto che l’avrebbe accompagnato fino alla fine dei suoi giorni.

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Capitolo 45
*** Epilogo - In memoria... - ***


"Quamdiu stabit Colyseus stabit et Roma;
cum cadet Colyseus cadet et Roma;
cum cadet Roma cadet et mundus"
Profezia di Beda il Venerabile, VIII secolo.

Gaudenzio piangeva silenziosamente sul corpo di Locusta.

Rimaneva attaccato quasi non volesse allontanarsi da lei. Tigellino disgustato da quella scena stava per prendere per il bavero della tunica il pover uomo, ma venne fermato da Vespasiano che si intromise con gran forza e rabbia dicendogli - Abbiate almeno pietà per il dolore...lasciatelo almeno stare per un po’

- Nessuno ha avuto pietà per me quando soffrivo - ringhiò Tigellino.

- E questo vi consente di abbassarsi al livello di chi vi ha fatto soffrire?! Siete come gli assassini che ve le hanno fatto provare lo stesso dolore, dovreste solo vergognarvi!

- Avete finito di farmi la predica da bravo padre? Cosa ne sapete voi! - continuò il prefetto - Voi che siete ricco e rispettabile! Io il rispetto me lo sono guadagnato con la paura, perché è l'unico sentimento che accomuna tutti gli uomini deboli

- Ve l’ho già detto! Vi state comportando come gli assassini e i violenti che vi hanno causato dolore! E adesso fuori dai piedi! - concluse con rabbia e determinazione.

- Me ne vado, ma solo perché non voglio sentire più la vostra voce gracchiante da corvo - emise Tigellino fermando i suoi istinti omicidi e dirigendosi verso l'uscita - Ma guai a voi se lo liberate! - lo minacciò alla fine, prima di scomparire nel buio.

Dopo essersi assicurato che il prefetto fosse uscito, Tito Flavio girò la testa verso Gaudenzio e gli mise una mano sulla spalla e mostrò comprensione per la perdita - Mi dispiace...sono profondamente addolorato per l’accaduto…

Per un momento Gaudenzio rimase fermo e immobile, poi gli rispose prima con voce strozzata dal pianto per crescere poi rabbiosamente - Addolorato...Addolorato?! Voi siete un bugiardo traditore! Anche voi l'avete ammazzata... Mi avevate detto che si sarebbe salvata...voi siete a contatto con quegli infami..avreste dovuto saperlo! - continuò sempre furioso - E provare a fermare quegli infami...a voi importa solo del mio progetto! Avete guardato solo al vostro ritorno di sporco e vile denaro...non perché eravate mio amico.. andatevene! - Concluse con sguardo straziato e gli occhi inondati di lacrime. Per poi riavvicinare il volto al corpo di Locusta.

Lui avrebbe voluto spiegare tutto, ma comprese che il dolore era troppo grande e indescrivibile, lo lasciò sfogare. Dopo aver visto quella scena straziante, il generale prese la parola - Ha ingannato anche me, Gaudenzio - ammise con profonda amarezza per poi concludere - Quel progetto morirà con voi se è ciò che volete, ve li farò portare in carcere

- Fate quello che volete a me non importa niente - esclamò rabbioso.

Vespasiano sospirò lungamente e lo guardò in viso, si augurò che cambiasse idea, una volta che la ragione tornasse a prevalere sul dolore. - Perdonatemi, se potete - sussurrò infine, avviandosi anch'egli verso l'uscita.

Vespasiano sospirò lungamente e lo guardò in viso, si augurò che cambiasse idea, una volta che la ragione tornasse a prevalere sul dolore. - Perdonatemi, se potete - sussurrò infine, avviandosi anch'egli verso l'uscita.

Mentre camminava per i corridoi del Palatino, l’uomo stringeva i pugni e con uno scatto rabbioso tornò da Tigellino. Quando lo ebbe di fronte gli disse - Voglio parlare immediatamente con l’imperatore in persona!

- L'imperatore è impegnato, Tito Flavio - rispose il prefetto per toglierselo dai piedi.

- Non me ne importa niente... - sfidò il prefetto dei pretoriani, nonostante la differenza d'altezza - Devo parlargli farò di tutto per farlo!

- Se piombate nella sua stanza, sono costretto ad arrestarvi - gli fece notare il prefetto beffardo - Non che la cosa mi dispiaccia...

- E allora, fate in modo che vi possa parlare appena terminato il suo impegno... perché vi starò col fiato sul collo fino ad allora!

- Se è per salvare il vostro amichetto, temo che allora sprecate il vostro tempo, Vespasiano - ghignò Tigellino guardandolo dall'alto.

- Riuscirò quanto meno a salvare il suo talento ed il suo estro, inoltre vorrei ricordarvi che sia io sia Gaudenzio, persone che desiderano veramente rendere grande il nome di Romo, saremo certamente ricordati per l’eternità...il nome di viscidi come voi, sarà, invece, avvolto dall'oblio o coperto di fango…

Lui scoppiò a ridere fragorosamente - Questa sarebbe una minaccia?! - si fermò per poi riprendere a parlare con spavalderia - Sto tremando di paura - aggiunse infine - A me non importa essere ricordato in eterno, Tito Flavio, ma solamente di vivere nella ricchezza e nel lusso fino a crepare

- Portatemi nella sala dell'imperatore, voglio parlarci lo stesso - emise il generale con convinzione. Tigellino avrebbe voluto spaccargli la faccia, ma chiamò alcuni emissari e gli disse tutto quello che doveva fare. Una volta ottenuto il permesso Tito Flavio raggiunse la stanza dell'imperatore ed entrò educatamente - Altezza imperiale, esigo dei chiarimenti - riferì l'uomo inchinandosi al suo cospetto.

- Mi auguro che non mi abbiate fatto raggiungere a vuoto, Vespasiano - fece Galba, guardandolo con aria di superiorità.

- Mi avevate promesso di salvarla, invece era solo un inganno…

- Era solo una minaccia per l'Impero - rispose con assoluta calma l'imperatore - 
Oltre ad essere una donna insulsa, mi aspettavo qualcosa di meglio

- Era la sposa di un amico al quale tengo, il quale non desiderava altro che vivere in pace con lui e vedere realizzato il sogno di suo marito, che avrebbe contribuito a rendere ancora più grande attraverso questo progetto! - espose Vespasiano mentre aveva preso i progetti dell'anfiteatro e li scuoteva con la mano in alto verso Galba.

- Tanto è morta - rispose lui con aria soddisfatta - Fate vedere questi meravigliosi progetti - gli fece segno di seguirlo in una zona dove potessero guardarli con attenzione.

Il generale esaudì la richiesta dell’imperatore e quando furono soli, srotolò le pergamene davanti ai suoi occhi, per poi mettervi con forza degli oggetti sui lati per evitare che si richiudessero. - Devo ammettere che non sono niente male! - esclamò Galba.

- Lasciatelo in vita... e fategli completare questa meraviglia

L'imperatore sospirò, stufo di quella storia - E va bene, verrà liberato, ma sarà sotto la vostra custodia, e ne risponderete voi

- Vi ringrazio Cesare...vedrete che non se ne pentirà…- mentre Galba si allontanava, gli fece un’ultima richiesta - Vi prego un'ultimo favore, altezza, lasciate che sia io a disporre della sepoltura di Locusta

- Questo non posso accordarlo, Vespasiano - lo frenò l'imperatore.

- Per quale motivo?

- Perché è stato stabilito che dopo la morte per strangolamento sarebbe stata data in pasto alle belve - gli rispose come se fosse una cosa normale.

- Cosa vi cambia fra l’essere data in pasto o sepolta da qualche altra parte? Ormai è morta, non è più una minaccia per voi

- E con che cosa farò divertire il pubblico? - lo sbeffeggiò ridacchiando - Le belve non sono sufficienti

L’uomo sembrava ormai rassegnato, niente gli avrebbe fatto cambiare idea. Si consolò con il fatto di aver salvato almeno temporaneamente la vita di Gaudenzio. Vespasiano uscì soddisfatto, soprattutto quando passò affianco a Tigellino.

Tito Flavio si recò nelle prigioni dove c'era ancora Gaudenzio, ma non sembrava contento di vederlo.

- Che siete venuto a fare qui...cosa volete dirmi ancora?

- Che siete di nuovo un uomo libero Gaudenzio

- Ahahah ed io sarei libero?! Non sarò mai più un uomo libero, avrei potuto esserlo con Locusta, ora questa vita mi tiene prigioniero...come posso sentirmi libero? - ridacchiò.

- Dovete andare avanti nella vita! - sbottò Vespasiano - Lei lo avrebbe fatto! -

- Cosa ne sapete di quello che avrebbe fatto Locusta...voi non sapete niente di lei! - rispose furente - Anche lei sarebbe stata attanagliata dalla morsa del dolore e della rabbia!

- Ah sì? Io non so niente, cosa credete, che non sapevo della stima che provava per l'imperatore? - continuò - Lo ha aiutato a morire e lo ha fatto con un onore che io non ho mai visto!

- E quindi? cosa c’entra?

Il generale sospirò - Niente, Gaudenzio...

- E allora andatevene, siete rimasto anche troppo per i miei gusti…

Vespasiano sospirò e prima di andarsene chiese - Quindi volete morire?

- E’ ciò che mi aspetta. Che sia ora o fra qualche anno... accadrà…- concluse arrendevole.

Tigellino aveva ascoltato tutto e gioiva di ciò, un rompiscatole in meno.

- Ed io che avevo fatto di tutto per liberarvi - sospirò Tito Flavio sconsolato - Addio, allora

Gaudenzio si sentiva perso, troppo attanagliato dal dolore per andare avanti. Si sentiva sempre più in colpa per non essersi imposto con la sua amata a scappare pur di stare insieme a lei.

Vespasiano uscì e ritornò nelle stanze dell'imperatore per informarlo della cosa, anche se era più che deciso nel voler far costruire quel monumento. Ma ricevette il rifiuto di quest'ultimo - Non siete riuscito a garantire la vostra parola, quindi ne pagherete le conseguenze, perciò quel progetto non si farà, a meno che voi non diventiate imperatore, cosa che dubito fortemente, perché ho intenzione di governare per molti anni ancora, e non credo che vivrete per molto tempo 

Il generale era pieno di rabbia e decise di tornare nella sua casa per riposarsi, era l’unico modo per far scemare la rabbia. Mentre passeggiava per i corridoi si incontrò con il suo primogenito Tito che in una maniera o nell’altra era sempre al corrente di ciò che accadeva - Cosa avete padre...possibile che questa opera vi tormenti così tanto? Altre sono le cose alle quali dovreste pensare…

- Perché per salire sullo scranno più alto, è necessario dover conquistare il popolo e per farlo non sono sufficienti le battaglie che ho condotto fino a adesso per espandere i confini di Roma. Ma regalando loro anche importanti opere che ne manifestino la grandezza, specie se rivolte al loro divertimento!! - fece un attimo di pausa. - E poi...anche per Gaudenzio al quale sento di essermi legato veramente

- Nostro padre ha ragione Tito - s'intromise secondogenito, Domiziano, che aveva pressappoco 18 anni, avendo ascoltato la conversazione - Dobbiamo conquistare la fiducia con le opere e con la gratitudine, altrimenti il popolo dubiterà, hai visto meglio di me cosa è successo a Nerone, la dinastia Giulio Claudia ha mostrato le sue debolezze di fondo, che noi dobbiamo superare, è finita l'era delle grandi famiglie nobiliari, di vecchio stampo, Roma e di conseguenza il mondo hanno bisogno di cambiamento - disse infine, guardando sia il padre che il fratello.

‎Entrambi rimasero colpiti da quelle parole, nonostante la giovane età, Domiziano dimostrò grande volontà ed ambizione, seppur non fosse amato in famiglia per via del suo carattere sfuggente, arrogante, diffidente e l'inclinazione solitaria.

Passò qualche giorno, mentre Gaudenzio era in catene si aprì improvvisamente la porta della cella e venne portato dentro una persona che l’architetto conosceva bene - Canius? Che...che ci fai qui?

- Stai commettendo una follia, Gaudenzio - lo rimproverò con aria benevola.

- Ma quale follia? - girò lo sguardo da un’altra parte

- Quella di farti ammazzare come il peggior criminale - rispose lui - E guardami negli occhi se sei davvero coraggioso

- Che io muoia adesso o più avanti cosa vuoi che cambi?! Mi hanno tolto Locusta…l'hanno data in pasto alle belve e mi hanno strappato la felicità di voler realizzare il mio sogno! - abbassò lo sguardo - Che senso ha vivere ancora? Sarebbe solo una tortura…

- Locusta è solo morta fisicamente, la sua anima continua a vivere dentro di te, perché tu continui ad amarla - disse con un tono più pacato per farlo ragionare. - Ricorda cosa ci ha insegnato nostro Signore...o hai già rinnegato il tuo credo? - Gaudenzio sconsolato chiuse gli occhi e vide nitida l’immagine di Locusta.

- Lei voleva che tu vivessi, Gaudenzio, perché il tuo compito è di glorificare Roma, se ti vedesse ora ti rimproverebbe

Le lacrime cominciarono a scendere dagli occhi.

- Realizza il tuo sogno! - i suoi occhi brillarono - Fa sì che quell’arena possa prendere vita, lei ci credeva quanto te...e se permetterai a Galba e a Tigellino di ostacolarti, significherebbe farli vincere definitivamente! - gli si avvicinò e gli infuse coraggio mettendogli una mano sulla spalla - Tu hai ancora qualcuno che ti sostiene e non sono io un umile  cittadino di Roma, ma un grande uomo, che potrebbe cambiare il destino dell'Impero, io ne sono certo

L’uomo continuò a piangere silenziosamente, si sentiva toccato nel più profondo del suo animo, non riusciva a rispondere, neanche a guardarlo. Quel dolore che tentava di placare in tutte le maniere possibili e immaginabili, pulsava ancora forte.

- Allora? Vuoi permettere tutto questo, Vespasiano non ti ha abbandonato e sicuramente ti starà aspettando, è un uomo d'onore, e vuole a tutti costi ripagare ai suoi errori, ma devi sbrigarti, Gaudenzio o anche lui alla fine, non potrà più aiutarti

- Lasciami solo….per favore…- sospirò a testa bassa.

Canius fece quanto detto dall’amico, pregando il Signore e augurandosi di prendere la decisione giusta.

L’architetto rimase sveglio tutta la notte a riflettere, fino ad arrivare alla mattina del giorno successivo.

Mentre si preparava ad una riunione, un servo della famiglia di Vespasiano accorse immediatamente da lui - Generale...Generale - strepitò affaticato.

- Cosa succede? - domandò leggendo l’agitazione negli occhi di quel servo fedele.

- Un prigioniero rinchiuso nelle carceri chiede un incontro immediato con voi

- Gaudenzio - sussurrò il generale - Scusate l'interruzione, ma devo andare - poi guardò il figlio maggiore - Tito, continua tu, non mi ci vorrà molto...

Preparato il suo cavallo, Vespasiano andò il più velocemente possibile verso il carcere. Si fece accompagnare alla cella in cui era rinchiuso l’architetto per interloquire con lui. Non appena entrò in cella, venne colpito dalla sua espressione determinata, ma ancora macchiata dal dolore e dalla rabbia. Esordì chiedendo

- Sono qui Gaudenzio, cosa vi ha spinto a volermi vedere con così tanta fretta?

Dopo qualche attimo di silenzio rispose - Ho deciso di portare a termine il mio progetto, vederlo realizzato. Rendere ancor più grande il nome di Roma. Ma soprattutto - lo guardò dritto negli occhi scuri - Far si che anche Locusta possa veder realizzato il mio desiderio e di conseguenza continuare a vivere

Tito Flavio, stupito da quelle parole e soprattutto dal suo atteggiamento, sentì finalmente che la sua scalata verso il potere era ancora possibile - Non sapete quando mi renda felice questo discorso, Gaudenzio - gli sorrise con orgoglio, era quasi come un componente della famiglia. Diede ordine alle guardie di liberarlo, avvalendosi del permesso imperiale.

Una volta giunto al palazzo di Vespasiano fu accolto con grande piacere dai due figli, Tito lo conosceva già, poiché aveva avuto modo di incontrarlo un paio di volte, mentre Domiziano si fece spiegare da lui l'intero progetto, era completamente diverso dal padre e dal fratello: era imponente, sovrastava il maggiore e non di poco, il corpo era ben proporzionato, il viso ben definito, dai lineamenti mascolini ma dolci, non sembrava per nulla imparentato con quei due.

Vespasiano e Tito, di fatto erano energici, abituati a lavorare, ma mostravano sempre pacatezza ed erano rassicuranti, sempre gentili, anche con la loro corporatura e il loro lineamenti un po' tozzi e rotondi, che risaltavano la loro origine popolana.

Domiziano, invece, era molto più irriquieto, quasi vulcanico, impaziente, come se fosse tormentato da un conflitto interiore, che non voleva mettere in mostra, nonostante emergesse in particolare nel volto, le guance rosse, gli occhi grandi, lo sguardo inquietante, in cui si rifletteva il desiderio di rivalsa, l'ambizione e un pizzico di invidia, nella voce, molto profonda e bassa.

Gaudenzio potè così dedicarsi alla realizzazione di esso e di tanti altri lavori che aveva lasciato in sospeso.

Durante quei mesi molti avvenimenti si susseguirono e quell'anno il 69 d.C. passò alla storia come l'anno dei quattro imperatori, Galba, infatti, non poté sedere sul trono ancora per molto tempo, il 15 gennaio dello stesso anno, fu assassinato.

Al suo posto salì Otone, l'ex amico di Nerone, che aveva dovuto cedere Poppea all'ultimo esponente della dinastia Giulio Claudia. Uno dei primi ordini che diede fu quello di invitare al suicidio Tigellino, cosa che l'ex prefetto preferì fare “Ho solo nemici attorno, non c'è più posto per uno come me” si disse mentre quella lama con la quale aveva ucciso tante vittime, trafisse il suo collo nerboruto.

Però nel giugno dello stesso anno anche Otone fu ucciso. Stessa sorte che capitò al successivo, Vitellio, il quale sedette sul trono fino al 22 dicembre. Fu un anno pieno di instabilità e malcontento; serviva un uomo forte ma giusto, una nuova dinastia che potesse garantire un lungo periodo di pace. 

Alla scomparsa del terzo imperatore, anche per il senato era giunta l’ora che un uomo carismatico che  potesse salire al trono per garantire stabilità. Figura che venne trovata in Vespasiano. Forte del consenso popolare ed anche di quello militare, per le sue conquiste e anche del progetto che stava sostenendo per il popolo. Così la dinastia Flavia prese il potere.

Il Colosseo, conosciuto per tutta l'età imperiale come Anfiteatro Flavio, in onore di quella famiglia, potè cominciare a nascere sopra il letto del lago che si trovava di fronte la Domus Aurea.

Ci vollero anni e quando nel 79 d.C. morì, gli succedette il primogenito Tito, il quale riuscì a portare a termine i lavori dell’anfiteatro prima della sua prematura scomparsa a causa di febbre malariche nel 81 d.C.

A quel punto subentrò Domiziano, il quale era stato per molti anni escluso dalla vita politica e nel frattempo aveva covato risentimento nei confronti del padre e del fratello; il suo lato inquieto, rabbioso, crudele e sospettoso  si era acuito molto in quegli anni, generando un clima di terrore, che sarebbe stata la sua rovina. Il suo regno sarebbe durato 15 anni, fino al 96 d.C.

Tuttavia, non poté non congratularsi ancora con Gaudenzio, il quale ricevette molto onori.

Affaticato per l’età, l’uomo saliva i gradini della sua creatura, mentre il boato del popolo rimbombava all’interno dell’arena, passo dopo passo pensando "Ora che finalmente il progetto è realizzato, posso finalmente ricongiungermi con te Locusta, sperando che mi abbia aspettato" pensò infine, mentre si era accomodato per guardare lo spettacolo.

Subito dopo essersi seduto, sentì che era arrivata la sua fine e tra le urla spirò silenziosamente. 

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