Plaisir D'Amour

di Ellie_x3
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


I


Plaisir
d'amour ne dure qu'un moment.
Chagrin d'amour dure toute la vie.

[Plaisir D'amour; Jean-Pierre Claris de Florian; 1785]

 


[Parigi, 1783]

 

“Non ingannerò proprio nessuno. Nemmeno voi, Marchesa…
Eppure siete qui a guardarmi. E ditemi: come vi sembro? Non una donna, certo.”

Era cominciato tutto così: con una predizione errata.
Come nei romanzi, quelli che scandalosamente sua madre teneva nascosti nei cassetti del proprio scrittoio, Rossignol aveva pronunciato le parole che il destino aveva deciso di sovvertire.

Nonostante i suoi quindici anni, il conte Jehan Henri Marie de Gramont poteva ancora essere scambiato per un bambino. Vittima delle proprie gote rosee, delle gambe lunghe e secche che ricordavano un giovane cervo, dei riccioli biondi e degli occhi brillanti, l'aspetto del giovane avrebbe portato chiunque a giurare di trovarsi davanti ad una statuina di porcellana di Capodimonte piuttosto che ad una persona in carne ed ossa.
Ma Jehan Henri, con il suo aspetto e la giovinezza, aveva imparato ben presto a convivere; nessuna sorpresa che la marchesa De La Motte si fosse rivolta proprio a lui.
Certo, se si fosse trattato unicamente di mascherarsi da ragazza un qualunque giovane efebo sarebbe stato adatto allo scopo, ma a detta di molti Jehan Henri era un volto che non aveva pari malizia e femminea delicatezza, uniti in un bizzarro connubio di tratti paradisiaci e desideri carnali. Il giovane era conosciuto come Rossignol, più ammaliante del canto d'un usignolo, ma molti ignoravano che sotto l'aspetto d'agnello languiva un lupo. Non si tirava indietro in nulla, assetato com'era di svaghi, e niente gli dava piacere quanto camminare sul ciglio della distruzione.
Una violenta tendenza all'autocompiacimento era l'unico motivo per cui Rossignol aveva accettato, dopo pochi istanti d'incertezza, d'indossare corsetto e campana, oltre a svariati metri di stoffa color ciano, rosso e rosa vivo, e di gettarsi a capofitto nella scommessa di Madame De la Motte.
Nessuno avrebbe mai indovinato che sotto l’acqua di giglio e limone e all’Eau d’Ange, sotto alla polvere bianca e il belletto si nascondesse un ragazzo sulla via dei sedici anni.
Si doveva ammettere, poi, che la malefatta della marchesa era stata ben architettata. I colori e il modello dell'abito erano gli stessi che Marie Antoinette aveva indossato all'Opera poco più di due settimane prima, e il bando di Madame Bertin riguardo gli abiti del journal della regina era scaduto da poche ore.
Rossignol non osava nemmeno immaginare quanto la sua gentile amica avesse speso per far confezionare una tale meraviglia d'ultima moda, insieme alle scarpe di raso e ad una parrucca che aveva il traballante aspetto di una torta: sulla sommità dell'acconciatura era rappresentata una coppia d'amanti, uno disteso su un letto di bronzo e una figura femminile in oro, china su di lui con una fiaccola.
Se si guardava con attenzione si poteva distinguere una minuscola goccia cristallizzata nell'atto di scivolare dalla candela, destinata a svegliare il Dio addormentato.
"Non siate sciocco e fate come vi dico." si era raccomandata la donna, sistemandogli la maschera di pizzo di modo che gli coprisse quasi l'interezza del viso "E ricordate che personificate la fiducia tradita di Amore nei confronti di Psiche. Se la regina vi chiederà come vi siete attenuto al tema, rispondete così."
"Ho capito, Ursule, piantatela di tirarmi qui e là come una bambola--"
La marchesa aggrottò la fronte, tirandogli un leggero schiaffo sulla mano guantata.
"Chiamatemi zia, Rossignol! Ricordatevi che siete..."
"Vostra nipote Charlotte, venuta dalla campagna in visita." Rossignol le scoccò un sorriso smagliante. Una luce ben più matura dei suoi quindici anni gli illuminava gli occhi celesti. "Non mi troverete mica marito, vero?"
La donna sbuffò, alzando gli occhi al soffitto.
"Non dite stupidaggini, vi si noterà a malapena."
"Voi credete?"  
Di fronte all’improvviso malumore del ragazzo la marchesa non poté fare a meno rabbrividire, ben sapendo dove avrebbero potuto portarla l'arroganza e la vanità di Rossignol quando era ben cosciente d'essere il burattinaio dell'intera faccenda. Non era una buona idea lasciare il gioco in mano a lui ma, d'altra parte, né la marchesa De la Motte né i suoi complici avevano molta scelta.
Dopotutto, il ragazzo aveva giocato bene la propria parte: pur essendo femminile nell'aspetto, mentalmente la sua virilità non era affatto intaccata dall'idea di indossare abiti così stravaganti. Al contrario, ne usciva esaltata.
"Se farete del vostro meglio per non svelare l'inganno troppo presto, sì. State vicino a Monsieur le Comte e, per carità, non andatevene a gironzolare!"
Un palco nuovo su cui esibirsi, una luce nuova sotto cui mostrarsi: ecco cos'era quella scommessa per Rossignol, il bel malizioso, il lupo travestito.
Il giovane sfarfallò le ciglia.
Erano lunghe, ricurve, e facevano capolino da dietro i ritagli della maschera in seta e pizzo con la stessa grazia di quelle di una ragazza.
"E perché mai?"
"Perché non vogliamo certo che qualcuno si ricordi e chieda in futuro di voi."
"Vi chiedo di nuovo: perché mai?"
"Oh, Rossignol!" sbottò la marchesa "Siete impossibile."
Rossignol sorrise candidamente, ignorando nella maniera più assoluta che risposta ci si aspettasse da lui.
"Rossignol?" ripetè il nome come se non fosse il proprio. Con estremo sgomento, la marchesa s'accorse che non gli era necessario che forzare un poco la voce: un falsetto niente affatto sgraziato, morbido, completava il travestimento. “E chi sarebbe? Io sono Charlotte, cara zia, ve ne siete forse scordata?”
La donna sbuffò di nuovo, tanto forte che un ricciolo le sfuggì dall'acconciatura, alta almeno venti centimetri sopra la testa.
Con tutto questo lavoro, pensò la donna, sarà necessario tornare da Leonard prima di stasera se solo ne avesse avuto il tempo.
Ma no, no, prima c'era da accomodare Rossignol.
“Non scherzate, giovanotto, non siete affatto divertente.”
“Ah! Io invece vi voglio molto bene, cara zia."
Ursule de la Motte diede in un sospiro esasperato, scostandosi con un gesto infastidito.
"Siete impossibile. Vi ricordo che potrete avere un terzo della rendita solo se vinceremo questa scommessa."

Rossignol, suo malgrado, si trovò costretto ad annuire. Doveva rifarsi di ciò che aveva perduto ai dadi e in parte anche per questo aveva accettato di prender parte alla mascherata, sicché il suo interesse nella vincita era sincero. Avrebbe fatto di tutto perché maman non si accorgesse dei soldi che mancavano dal suo borsellino.
Alzò gli occhi sulla dama, sentendosi già più risoluto.
Dopotutto, cos'era mai andare a Versailles vestito da donna, quando oltretutto nessuno l'avrebbe riconosciuto? Danzare un po', fare conversazione: niente a cui non fosse più che abituato e che non sapesse di far bene.
"Farò del mio meglio, madame." assicurò.
Nonostante il carattere mutevole di Rossignol, sentendo a tali parole la donna si concesse che tirare un sospiro di sollievo: il ragazzo sapeva stare al gioco, per quanto assomigliasse più ad un animale selvatico che ad un gentiluomo.
É giovane, dicevano a corte, lasciategli tempo per crescere. Ma Ursule sapeva di cosa fosse capace Rossignol per una lode, per un capriccio; dunque, si chiedeva, perché amarlo?
"Lo spero davvero." disse, baciando un lembo dell'abito del giovane.
In un modo o nell'altro cadevano tutti tra le sue braccia.

 

#

 

Per il primo ballo mascherato d'aprile, Marie Antoinette aveva eletto il tema della fedeltà. Le casse dello Stato erano vuote e molti fra i presenti già conteggiavano le candele che si sarebbero potuti accaparrare alla fine della serata, tuttavia la sovrana sorrideva, nel vuoto e nei bisbigli creati dal suo arrivo, e si guardava attorno a testa alta.
In un tripudio di satin rosa e oro che richiamava i colori del suo entourage, per quella sera esonerati dal bando di Madame Bertin riguardo le nuove creazioni, l'acconciatura meccanica ornata di cagnolini che correvano in cerchio svettava per quasi mezzo metro sopra la fronte pallida della Regina. Anche volendo, sarebbe stato impossibile non notarla.
Il principe di T. fu fra i primi a porgerle omaggio, inchinandosi profondamente.
“Buonasera, monsieur.” lo salutò la regina, con un cenno del capo. Cugini per vie paterne, lei e T. avevano avuto modo di conoscersi solo a Versailles e, sebbene la regina non mostrasse alcuna intenzione particolare nei suoi confronti, il principe era accettato con benevolenza dai sovrani. Non faceva parte del lever del re, ma era accolto con un sorriso ogni qualvolta desiderasse parlare con lei o con Louis.
I balli non facevano eccezione.
“Siete splendida anche questa sera, maestà.”
“Anche voi, cugino. Da cosa siete mascherato?”
“Da Dante, come potete vedere dal colore rosso dell’abito; un uomo è rimasto fedele alla propria Patria fino alla morte.” rispose lui, ancora col capo chino ma un sorriso che si faceva strada sulle labbra. Gli era sembrata una scelta poco originale, sul momento, ma il tema era quantomai insolito e non era mai stato un uomo fantasioso.
La regina, comunque, si portò il ventaglio alle labbra e T. seppe che lo faceva per nascondere una risata.
“Ingegnoso, davvero ingegnoso.” commentò, approvando con un cenno della testa. L'alta acconciatura oscillò pericolosamente. "Anche se, ammetto, inaspettato. La fedeltà non è solo amorosa, dite?"
Il principe annuì.
"Perdonatemi. Non conosco fedeltà più profonda di quella dovuta alla mia terra, ma reine." rispose e, per un istante, sentì tutto il peso dell'attenzione della regina su di sè. Gli occhi di Marie Antoinette, grandi e rattristati da qualcosa che il principe non riuscì a comprendere, lo studiavano con greve intensità.
"Non conoscete amore, dunque."
Votre majestè.” la richiamò una delle dame che le erano accanto, con il viso a cuore pallido sotto la maschera di satin giallo. Marie Antoinette si voltò, lanciando un'ultima, languida occhiata al principe T.
“Abbiate cura di divertirvi, monsieur.” si accomiatò, con una certa fretta, ma già lanciava occhiate altrove, accennando alla Lamballe e alla Polignac “Vogliamo andare, mie care? Ho voglia di giocare ai dadi, dite che è troppo presto?”
T. era di nuovo libero, seppur perplesso dal bizzarro comportamento della cugina.
Aveva creduto di farle piacere omaggiando lei e suo marito, invece si ritrovava compatito e appesantito dal pietoso sguardo con il quale Antoinette si era accomiatata. Ora più che mai aveva in animo di gironzolare un po' prima di ritirarsi, imbarazzato a sufficienza dall'aver trattenuto la sovrana per più tempo del dovuto in una conversazione che, evidentemente, aveva causato disagio ad entrambi.
Seguendo l'esempio del re, il principe T. si sarebbe ritirato alle dieci.
Tuttavia, proprio mentre occhieggiava l'orologio a pendolo su una mensola -un putto d'oro che segnava le nove e tre quarti- scorse quella che, si convinse, doveva essere una visione.
Una ragazza con le guance di rosa e l'acconciatura non troppo vistosa, fermata solo da un paio di piume di struzzo che le ricadevano morbidamente sui riccioli sbiancati, avanzava con le mani al petto come in preghiera; quando i cortigiani le facevano largo lei, imbarazzata, sorrideva nel più dolce dei modi.
Più che scivolare, come facevano invece le altre dame, incedeva a minuscoli saltelli al pari di una bambina. T. riconobbe nella sua accompagnatrice Madame de La Motte, ma non ci volle molto perché la marchesa lasciasse la sua protetta nelle mani dei giovanotti che le si erano stretti attorno, attirati come mosche. Lui per primo era incapace di distogliere lo sguardo.
Per quanto bizzarro, non era raro incontrare facce nuove a Versailles. I nobili di campagna sedevano alla stessa tavola da gioco di chi, invece, viveva alla reggia dai tempi d'oro della sua creazione; i paggi ricevevano visite frequenti dai loro parenti, per lo più piccoli drappelli di personalità elitarie delle campagne che spedivano i loro rampolli nella speranza di vederli crescere fra le maggiori autorità d'Europa, e ciò faceva di Versailles un gioioso luogo d'incontri inaspettati.
Di certo, T. non si sarebbe mai immaginato di trovare un angelo fra gli uomini. Una bambola con movenze distratte, che ora si fermava a ravvivarsi i boccoli, ora chiacchierava con una dama.
Madame de La Motte pareva, a giusto titolo, particolarmente soddisfatta della graziosa compagna.
Per la prima volta in molto tempo, T. ricordò di non essere solo un principe, per quel che valeva quando non v’erano meriti ad accompagnare il titolo, ma anche un essere umano non certo degno di una creatura così bella: non un Antonio, né tantomeno un Cesare. Tuttavia, quando si voltò per rubare nuovamente uno sguardo e scoprì che era già sparita nella folla, si maledisse per non aver avuto più coraggio.

“Se mi è concesso prestarvi la mia esperienza, amico mio, io considererei questa sala come una scuderia.”
Sobbalzando, il principe T. soppresse un ‘oh’ di sorpresa, lanciando un'occhiata all'uomo che aveva parlato. Nonostante la voce fosse impossibile da non riconoscere, T. ne scorse prima le piume del cappello, poi la parrucca incipriata e stretta sulla nuca da un fiocco dorato, infine la giacca in albicocca e oro. I colori da soli non lasciando spazio a dubbi, ma T. conosceva bene il viso franco del figlio di Francia.
Il conte Charles-Philippe d'Artois, di ventisei anni appena, portava con estrema eleganza i colori della cognata e se ne stava mollemente appoggiato ad uno dei tanti caminetti spenti, offrendo un gentile sorriso ora a questo, ora a quello.
T., tuttavia, inarcò un sopracciglio di fronte a quella strana affermazione.
“Sono confuso, monsieur.” ammise.
Non desiderava essere preso per sciocco dal conte d'Artois, ma non pretendeva di poter indovinare la risposta ad una frase tanto vaga.
Non capiva che nesso potesse avere con la festa, né capiva come potesse essere stato scoperto con tanta facilità da un uomo che si faceva vanto d'essere perennemente distratto.
Impensierito, cercò con lo sguardo la ragazza: temeva di averla perduta ancora prima di poterle parlare. Se fosse accaduto, non avrebbe mai perdonato d'Artois per l'interruzione dei suoi propositi.
Tuttavia, con un sospiro di sollievo, si accorse che stava chiacchierando con Philippe de Noailles, un uomo ridanciano dalle spalle larghe. De Noailles, a differenza della moglie, era d'animo brillante: la giovane esibiva un sorriso da dietro il ventaglio e annuiva con trasporto alle parole del principe, ridendo di tanto in tanto. Quando capitava, potè notare T, piccole rughe d'espressione si disegnavano attorno ai suoi grandi occhi azzurri.
Ma d'Artois non aveva finito di parlargli.
“Questa stanza è una scuderia e voi dovete scommettere, mon ami. Sapete giocare allo sport dei re, immagino.”
“No, affatto.” replicò T, scrollando le spalle. “Non è mio costume scommettere sulle corse, né su altro.”
Si vide bene dall'aggiungere che lo trovava contrario alla morale cristiana, dal momento il conte era tanto potente quanto appassionato di gioco, ma non poté non arrossire sentendo d'Artois ridere della sua risposta.
“Ebbene, non importa.” disse, gesticolando “Facciamo caso che lo siate. State per scommettere su uno di questi cavalli, la decisione è scritta sul vostro volto. No, non negatelo. Voglio solo consigliarvi, amico mio, di non puntare con troppa leggerezza su certi cavalli che, spesso, si stancano a metà della gara e accennano a voler tornare indietro, o addirittura non si muovono più.”
Il conte gli offrì un gran sorriso. Lo faceva sembrare più giovane e allegro, come se ogni peso dell'etichetta scivolasse via per lasciare posto a cameratismo maschile e un sincero interessamento per il benessere altrui: d'Artois, in quel momento, sembrava un bambino che porge un fiore al proprio tutore.
Il principe T. sospirò a fondo, rilassando le spalle.
“Non perderei niente a seguire il vostro consiglio. Farò del mio meglio.” promise; nel chiudere gli occhi, però, già l'immagine della sconosciuta danzava nella sua mente. In quei pensieri era lui a farle da cavaliere e la trascinava in una danza senza posa, fatta di salti e sguardi e respiri pesanti, così sfrenata da risultare oscena, così estrema da essere possibile solo nella fantasia d'un uomo geloso.
D'Artois, che parve non accorgersene, gli batté una pacca sulla spalla.
“Andate da lei, ballate una volta e poi lasciatela andare. Fidatevi di me.”
“La conoscete?”
D’Artois rise — una risata piena e tonante, così diversa da quella del fratello da far dubitare ogni parentela — e lo lasciò senza una risposta.


 

#​
 

Alla fine, il principe T. aveva raccolto tutto il proprio coraggio per andare a parlare con la ragazza.
Ogni cosa si era svolta come da etichetta: gli inchini, le presentazioni, gli sguardi ben nascosti dietro le maschere. Charlotte De Chigny aveva la voce più strana che T. avesse mai udito, come il cantare d'un ruscello in estate e i modi aggraziati che venivano certo da un'educazione claustrale. In ogni parola il principe scorgeva nuove prove di modestia e timidezza ma, pur stupendosene in un primo momento, decise in fretta che la ragazza era una compagnia squisita.
La invitò in un minuetto rammentando le parole d'Artois e ripromettendosi 'solo uno'. Poi, si sa, anche l'animo più saldo tentenna di fronte alle tentazioni.
Quell'unico ballo divenne il primo al quale ne seguì un secondo, ed un secondo ad un terzo e così via.
Più l'orchestra suonava, più T. si convinceva che il posto della minuta Charlotte fosse fra le sue braccia.
Quando il piede della ragazza gli pestò una scarpa si chiese se non la stesse per caso facendo stancare troppo - aveva perso il conto dei balli in cui l'aveva accompagnata e che altri cortigiani se ne risentissero pure: si era eletto suo custode e protettore, non l'avrebbe lasciata neanche se lei l'avesse preteso. Trovò  saggio condurre la propria compagna fuori dalla pista da ballo, con tutta l'intenzione di cercare un divanetto libero per conoscersi meglio, ma la ragazza pareva più interessata a ciò che accadeva nella sala che alla loro intimità.
“Ah, e quello che parla con monsieur le comte?” domandò Charlotte, accennando col capo all'angolo più occidentale del salone.
Il principe T. si ritrovò così a spiare d'Artois in compagnia d'un uomo alto, snello, fasciato in una marsina dorata e che, al posto dell'usuale parrucca, indossava un tricorno calato su nudi boccoli color rame che gli accarezzavano le spalle, raccolti in una coda.
Nonostante la giovane età -non doveva avere più di trent'anni- il naso greco, così come il mento diritto e le labbra sottili, lo facevano sembrare estremamente severo. T., travolto da una fitta di gelosia, fu felice di ritenersi molto più avvenente dell'uomo in questione.
“Alain de Ort-Sur-Mer” disse, mordendosi il labbro inferiore e, al contempo, chinandosi su Charlotte per farsi sentire solamente da lei. La ragazza era accomodata su una poltroncina di raso e T., non trovando niente di meglio, si era appoggiato al bracciolo e teneva un braccio stiracchiato lungo lo schienale del divanetto. Si era detto che poteva essere una buona imitazione di un'ala protettrice. “Duca di Ovigny, fa parte della cerchia intima del conte di Lauzun.”
“E della regina.” decretò Charlotte, con voce fatale.
Allora il principe T. non comprese il tono della ragazza, a metà fra un sospiro ed un commento velenoso: c’era dell'invidia in quelle parole, ma celata oltre graziosi occhi azzurri dalle lunghe ciglia, quasi invisibile.
T. aggrottò la fronte e lanciò a Charlotte una rapida occhiata, per controllare che non si fosse per caso stancata troppo e incuriosito da un commento così bizzarro, e l'occhio gli cadde inavvertitamente sul corpetto dell'abito à la mode. Per quanto poco capisse di donne, anche un inesperto come lui poteva notare che Charlotte non fosse sbocciata: anzi, il suo collo era sì flessuoso, ma le ossa delle spalle sporgevano sgraziatamente e il torso non accennava quell'onda delicata che doveva rendere morbido il bacino delle ragazze un po' più adulte.

Sarebbe stato da chiedersi... Ma no, impossibile.

Scacciò il pensiero con uno scrollare del capo, dandosi dello sciocco; Madame de la Motte non avrebbe mai potuto mentire sull'età di Charlotte.
“Charlotte, volete che vi porti dell'acqua?” domandò, dal momento non era un uomo da dire 'che vi si faccia portare'. Quando aveva desiderato prendere I voti aveva imparato il valore dell'azione in prima persona e, come gentiluomo, mai si risparmiava negli atti di cortesia.
Charlotte lo guardò brevemente, poi sembrò subito pentirsene.
Per un momento fece vagare lo sguardo sulla sala gremita di persone mascherate eppure perfettamente riconoscibili. Esitò sulla marchesa De la Motte e T. potè vedere come la povera Charlotte trattenne il fiato quando la zia le fece cenno. 
É forse ora di andare, per il mio angelo? Si chiese.
Certo era che, dolce com'era, Charlotte non si sarebbe mai sognata di fare capricci per rimanere più a lungo. T.,  che l'aveva osservata con attenzione, sapeva di aver colto l'animo modesto e un po' provinciale della ragazza. Non era una viziata nobile di Parigi, una di quelle che si figurano mentre dipingono e suonano nei loro appartamenti con vista sul fiume e sui giardini, né una signorina educata ma esageratamente disinvolta, immersa sin dalla giovane età nella vita di corte.
Era per qualche motivo, senza alcun dubbio, diversa.
Finalmente una ragazza diversa.
“Vostra zia?” domandò, dal momento che lei si era chiusa nel più mite silenzio.
“Sì, mi fa cenno.”
“Dovete andare, non è vero? Ebbene, vi lascio libera. Solo, ditemi, vi rivedrò?”
“Non credo sia il caso.” Charlotte replicò, inclinando il capo. C’era una serietà improvvisa nei suoi modi.
“Non ditelo.” disse, prima di potersi fermare. Dunque non conoscete amore. Le parole della regina erano forse state affrettate; forse erano state un segno. “Ditemi che rivedrò la mia Charlotte, prima che se ne ritorni in campagna come un sogno all'alba.”
Per l'occhiata che ricevette, temette d'averla offesa.
Charlotte?”
“Ma che c'è, mademoiselle? Non vi sentite bene?”
“Ah, siete così gentile con me!” si lamentò lei, allora, portandosi le mani alle tempie e oscillando come un pendolo, in un comportamento così stravagante che, per un attimo, T. ne fu spaventato “E io... Ah, io mi commuovo! Non lo vedete, principe, che mi fate piangere?”
"Perché mai?” domandò il principe T., avvicinandosi ancora di più.
Saltò in piedi all'istante, inginocchiandolesi davanti e prendendole una mano fra le sue. Credeva, in cuor suo, di aver capito i motivi di una tale improvvisa reazione: il tenero cuore della ragazza era spaventato dall'inevitabile, dalla separazione. Per una volta, si era concesso di sperare che ci fosse qualcosa di più gentile nell'animo di una donna, e non solo superficialità e desiderio di divertirsi, e Charlotte gliene stava dando la prova con le sue lacrime a stento nascoste: non era quindi suo dovere rincuorarla?
“Che tragica fatalità incontrarsi ad un ballo che inneggia alla fedeltà, quando la lontananza è nemica dell'amore. Ma non siate triste, non piangete. Non volevo certo farvi versar lacrime.”
“Ma queste non sono lacrime di tristezza.” puntualizzò, con una certa urgenza che non fece altro che infiammare i sentimenti e le intenzioni del principe T. Ormai la ragazza si era nascosta completamente il viso nella mano libera e le sue spalle erano scosse da tremiti sempre più forti.
“Per cosa piangete, quindi?”
“Per la vostra stupidità.” replicò Charlotte, d'improvviso con voce più profonda. Si scostò la mano dal viso e, in contemporanea, sollevò la maschera che aveva indossato fino a quel momento. “Sono un uomo, idiota.”

Il principe T., disgustato, lasciò la mano di Charlotte.
O, come si sarà capito, di Rossignol.

#

 

Dal Duca d'Ovigny a sua madre, Mathilde

Maman,

Vi assicuro che avete completamente frainteso le mie intenzioni.
Mi sarebbe impossibile lasciare Versailles ora che ho appena cominciato ad ambientarmi e a stringere amicizie interessanti. Vedete, tre sono le cose che contano qui a corte: i segreti, l'etichetta e le sedie libere. Ascoltate i primi, seguite la seconda ma con un occhio cercate sempre le terze: una semplice regola di sopravvivenza, come consigliato dall'abate di Digione. Seguendola, per il momento mi trovo incredibilmente a mio agio.
Ma vi parlavo delle conoscenze che ho incontrato qui e che, spero, in futuro si riveleranno amicizie sincere e durature.  
Il Conte d'Artois, fra tutti, è un esempio di come la mia vita a corte si stia trasformando da noiosa parentesi a piacevole vacanza. La cara cugina Martine ha intercesso per me presso di lui, ma non è servito alcun mediatore perché diventassimo amici: il fratello minore del re è un uomo di gusto, con un buon carattere e uno spirito allegro. Non vi nasconderò che mi trovo in imbarazzo quando beve troppo, poiché temo sempre di venir messo a parte di qualche segreto importante, ma fortunatamente non siamo mai soli quando Monsieur dà fondo alla bottiglia.
Ho avuto modo anche di parlare con Monsieur le prince de Rohan, che è fra le menti più brillanti che abbia mai incontrato. Vi piacerebbe, madre, se solo poteste parlargli.
Ma come certo saprete meglio di me, poiché è risaputo che certi svaghi sono preferiti dalle signore che dai gentiluomini, essere qui mi costringe a partecipare a innumerevoli feste e balli.
Per il primo dei suoi due Masquerade mensili, Notre Majesté ha organizzato un vero piece d'art in onore della fedeltà.
I motivi mi sono sconosciuti, ma ho trovato il tema singolarmente interessante: per una volta non era un ballo a tema fiocchi rossi o scarpe blu, così mi sono trattenuto più del solito. Maman, dev'essere stato il destino.
Ho qui intravisto la più bella fra le creature: con i riccioli biondi incipriati ed acconciati à la mode, con occhi grigi da sembrar finestre sul cielo temporalesco e i tratti minuti di bambola. Altro non ho notato, subito, se non quella perfezione. Mi chiedevo chi fosse mai, finché non è stato suonato il terzo minuetto e l'angelica sconosciuta è apparsa sulla pista fra le braccia di un fortunato giovane vestito di rosso.
Vi confesso, poichè siete mia madre e so che perdonerete queste parole, che non ho mai odiato nessuno come quel gentiluomo. Ma lei... Ah, se l'aveste vista! Un viso che pareva scolpito nel marmo, le dita morbide, il vestito accollato perfettamente modesto.
Fu allora che sentii che dovevo incrociare i nostri destini. Me ne ero innamorato in fretta.
Eppure, per fortuna!, proprio in quel momento due gentiluomini decisero di fare commenti ad alta voce.
In un primo momento li trovai oltremodo sgarbati, ma ora li ritengo i fautori della mia salvezza da una gran brutta figura. Vi riporterò, in breve, la loro conversazione.

"Ma che bravo!"
"Ma che grazia e quanta eleganza. In fede, ingannerebbe sua madre."
"E farebbe innamorare i suoi fratelli, l'uno dopo l'altro. Che ciglia, che occhi, che visino. Sia chiaro, è l'ultima volta che scommetto con voi a questo proposito. E la patente di nobiltà, e il vestito?"
"Madame De la Motte e la Polignac, naturalmente. Ho sentito che gli ha persino comprato la parrucca e una berlina. Sapeva di aver già vinto, la gran signora, e non ha badato a spese; in fondo, le tornerà tutto con gli interessi."
"Che peccato! Se solo fosse una giovane davvero... Per lei appenderei il celibato al chiodo."
"E quello sventurato che l'accompagna? Qualcuno dovrebbe metterlo a parte dell'imbroglio."
"Sì, fa un po' pena."
"Sono certo che Madame la Marquise sarà molto soddisfatta di sé quando le riferiranno del successo."
"Senza dubbio."
Pausa, il minuetto s'arresta e la dama piroetta in un gesto aggraziato. Lei è bellissima e uno dei due commentatori sospira a fondo.
"Mi ripeto, Jerard, questo è un grande spreco davvero: quanto è crudele il mondo, quanto sciocche le apparenze." e poi, dopo un altro sospiro: "Ah, come sta bene vestito da donna, quel Rossignol!"

 

Mi sono sentito così sciocco che ho lasciato la mascherata senza aggiungere altro.
Lo confesso a voi, maman, perché so che troverete di che sorridere nell'inesperienza di questo vostro figlio che come un folle s'è fatto abbagliare dalle luci del bel mondo. Non trovate che sia divertente? Io ne ho riso tanto, una volta considerato che non ero certo io quello che si trovava in torto. E quel cavaliere, accompagnarsi per tutta la sera ad una menzogna, ad una scommessa, ad un bel tranello! Ne provo pietà.
Ma voi, madre, vi prego, ridete con me di questa mia strana avventura.
Capite, ora, perché non posso lasciare Versailles? C'è così tanto che mi sfugge, ancora, e sento di non essere nient'affatto pronto a ritirarmi in campagna senza aver almeno vissuto la vita di corte. Con che occhi guarderei mia moglie, se fosse più scaltra di me?
Nel frattempo imparo più che posso e, vi prometto, mi sto impegnando a fondo nella comprensione della vita che si conduce qui e a Parigi. 

Ora vi lascio, mi chiamano per la messa.
Nella più grande speranza che vi sentiate presto in forze e che mi raggiungiate a Parigi, 

Vostro figlio, 

Alain.



Note:

Holla.
Innanzitutto, questa storia era già stata pubblicata su AO3 qualche anno fa, ma ho deciso di risistemarla e riproporla anche su EFP, dove sono sempre stata troppo timida per buttarmi sulla sezione storica.
I personaggi principali sono di finzione, non reali nè ispirati a figure reali. 
Gli unici personaggi storici trattati un po' più a fondo, seppur non protagonisti, sono Maria Antonietta e d'Artois e (occasionalmente) qualche nobile di rilevanza che viene citato e/o appare salutariamente. 


La ricerca storica è stata parecchia, ma naturalmente se ci sono imprecisioni vi invito a farmele notare perchè non si sa mai, le cazzate sono sempre dietro l'angolo e ci tengo che sia il più precisa possibile. Ho voluto attenermi allo stile un po' pomposo e outdated (dicasi: ridicolo lol) anche nelle introspezioni per non allontanarmi mai troppo dallo spirito e dall'atmosfera del periodo, non essendo una grande fan degli storici che poi "suonano" come se fossimo nel 2019, ma ho cercato di snellire le descrizioni e i termini rispetto alla versione originale.
Quindi, incoraggio sempre tantissimo le critiche costruttive, ringrazio in anticipo chi seguirà questa mini-long e spero di non aver fatto un pasticcio eccessivo.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


II

 

"Lasciatemi dire che siete oltremodo sfortunato, amico mio."
Rossignol, dal lato opposto del tavolo da gioco, inarcò un sopracciglio. Impaziente per natura, aveva perso qualsiasi interesse per il gioco nel momento in cui d’Artois aveva parlato. 
I pretesti non lo interessavano affatto.
"Direi piuttosto il contrario, monsieur." replicò, abbassando le carte e mostrandole all'avversario. "Stavo vincendo."
Era bizzarro che il conte iniziasse a discorrere d'altro durante un gioco che richiedeva una certa concentrazione e una frase così vaga non poteva che significare che c’erano questioni più impellenti d'una partita a carte. 
“Dovreste smettere di frequentare quella donna, Rossignol. Vincete troppo spesso, per la vostra età.” 
Rossignol ringraziò che fossero soli, ad eccezione di un manipolo di domestici che sfaccendavano dietro al piano da accordare e ai tendaggi da spolverare, sentendo il calore salirgli alle guance.
“Se avete da ridire sui miei modi—”
“Non ho da ridire sui vostri modi, ma sulle compagnie che scegliete.”
Il ragazzo si era domandato come il suo avversario potesse essere così tranquillo giocando una mano che l'avrebbe portato alla sconfitta
– e ad una perdita più o meno ingente  ma, d'altra parte, d’Artois era conosciuto per le disinvolte sconfitte a carte. Tuttavia, come tutti, Rossignol sapeva che non era saggio vincere troppo contro il conte d'Artois: nonostante fosse allegro di spirito ed un buon perdente, non si poteva mai prevedere se e quando se ne sarebbe potuto risentire. Il rischio era che se ne lamentasse con il re suo fratello o  – peggio!   con la regina, e Rossignol non aveva alcuna intenzione di rischiare.
In quel momento, d'Artois si sciolse in un sospiro, lasciando le proprie carte sul tavolo.
Due re. Rossignol gli lanciò un’occhiata perplessa. 
“Ad ogni modo, no, non parlavo del gioco." dichiarò, lasciandosi andare contro lo schienale imbottito della sedia, appoggiando il collo sull'asta di legno. Alcuni ricci castano scuro gli accarezzavano il collo, tracciando mezzelune sulla gola lasciata scoperta dalla giacca mal abbottonata. "Notre Majesté vi ha notato, l'altra sera."
"Ah." 
D’Artois gli scoccò un’occhiata buia, ma il giovane non avrebbe saputo dire altro. Non era stato visto in anni trascorsi gomito a gomito con il migliore amico della regina e ora, l'unica notte che si prestava ad una sciocca scommessa, veniva notato?
Senza dubbio, quella era sfortuna.
"Dice che desidera vedervi. Naturalmente sa la verità, Yolande non ha perso tempo a metterla a parte della scommessa.”
"Non se n'è risentita, non è vero?"
D'Artois rise, piano, giocherellando con gli angoli delle carte.
"Au contraire, l'ha trovato divertente." Disse, "E ciò che la regina trova divertente deve far parte della sua cerchia: vi invita ad un'udienza privata domattina, a Versailles."

Temo di non essere nemmeno in condizione d'incontrare una vecchia parente, pensò Rossignol, con una smorfia, figurarsi una regina.
Seppur con imbarazzo, Rossignol sapeva che avrebbe dovuto rinunciare e mostrarsi conscio dei propri limiti: giovane, impuro e inviso persino ai propri genitori, che erano ben felici di vederlo il meno possibile, era certo che una creatura deliziosa come Marie Antoinette l'avrebbe disdegnato in breve tempo. 
Tuttavia non si poteva negare alcunché alla regina, men che meno la propria obbedienza: se lei chiamava, Rossignol rispondeva. Avrebbe trovato le parole per convincere il sarto a fargli credito, in un modo o nell'altro, ed a suo padre avrebbe chiesto in dono una nuova parrucca con la scusa d’essere ricevuto dalla Regina in persona. Aveva vissuto a Versailles per così tanti mesi che ormai aveva pensato che non sarebbe mai successo. 
Rossignol, così deciso, chinò il capo in un grazioso cenno d'assenso.
"Va bene, verrò."
Il conte rimase in silenzio un istante, come a soppesare la sincerità di quelle parole, ma dopo un momento si aprì in un sorriso. Qualcosa, nelle sue membra, si rilassò; quando si mostrava disinteressato era più simile ad una rosa in boccio che ad uno stoccafisso come i suoi fratelli e pari, notò Rossignol, e notevolmente più attraente.
Quando i loro sguardi si incrociarono, il giovane osservò anche che d'Artois lo guardava con grande affetto e, ora Rossignol non sapeva se dirsene lusingato o offeso, un certo senso di protezione.
"Potrebbe essere presente anche il principe T. al petit dejeneur della Regina, vi avverto. Desiderate che vi tolga d'imbarazzo, se se ne presentasse la necessità?"
Lui scosse la testa.
"No, lasciate che me ne occupi io."
"Come desiderate, ma vi avverto: non sarà molto disposto ad ascoltare le vostre argomentazioni."
"L'orgoglio ferito è davvero così forte da annebbiare la ragione d'un uomo amabile?" si domandò il ragazzo, a mezza voce.
"Come sapete che è amabile?" replicò d'Artois, inarcando un sopracciglio. "Tutto quello che avete visto era a causa del vostro travestimento."
"E come sapete voi che non è amabile?"

D’Artois si strinse nelle spalle. 
Se avessero avuto la risposta, probabilmente, la natura umana sarebbe stata molto meno complessa e indicibilmente più noiosa.
Tuttavia, entrambi conoscevano il principe come un uomo ben più saggio di quello che avrebbe potuto attaccar briga davanti all'intera corte: fintanto che rimanevano in pubblico la faccenda era sotto controllo e Rossignol non aveva troppa voglia di portarla avanti.
Per quanto d'Artois avesse tentato di inserire il giovane compagno nella danza di Versailles, dato che il suo rango gli avrebbe certamente concesso qualche privilegio presso il re, Rossignol non ne voleva sapere. Che garanzia c'era, quindi, che il ragazzo sapesse portarsi al cospetto della regina? Preferiva le sale dell'Opera, le commediole scandalose messe in scena a porte chiuse, il vino e le amanti facoltose. Come una piccola Du Barry, ma con un viso infinitamente più angelico, Rossignol era una fonte sicura per atteggiamenti poco consoni ed, all'occasione, imbarazzanti.
"Cosa dovrò dire alla regina?" domandò.
D'Artois scosse le spalle, versandosi del vino. A Versailles non poteva neanche toccare una brocca senza che qualcuno gliela porgesse gridando all'insulto, quindi era ben felice della libertà offerta dagli appartamenti di Parigi. 
Poteva comprendere i sentimenti della sua sfortunata cognata, tanto dolce eppure ingabbiata in una prigione d'etichetta dove neanche il più pietoso dei cortigiani avrebbe mai e poi mai rinunciato al privilegio di servirle qualcosa. A volte se ne sentiva schiacciare lui, che era capace di lasciare che i dispiaceri gli scivolassero addosso senza degnarli di uno sguardo, e non osava immaginare come potessero tormentare la povera 'Toinette. 
Eppure, era in parte cosciente anche delle motivazioni d'ansia di Rossignol.
"Qualsiasi cosa che la intrattenga." consigliò, dopo averci pensato su per qualche istante "Scherzate pure, è una donna che apprezza le battute, ma non esagerate mai."
“Capisco.”
"Inchinatevi e non datele mai la schiena. La regina non si fa problemi lei stessa ad infrangere l'etichetta quando è nell'intimità della sua cerchia, e con lei si respira un’atmosfera rilassata che difficilmente si troverebbe altrove, tuttavia ricordate che è la sovrana."
"Dicono che sorrida spesso." mormorò Rossignol, come se non avesse ascoltato una sola parola. 
D'altra parte, questo d'Artois lo sapeva, il ragazzo era particolare e dava sempre l'impressione d'essere distratto.  
"Sì." 
disse d'Artois, prendendo un sorso di vino "Ed è molto bella."
Rossignol alzò lo sguardo sul compagno. La luce del tramonto conferiva al ragazzo una un’aura cangiante, facendo sembrare i suoi occhi ora azzurri ora grigi, ma sempre chiarissimi.
"Desidero davvero far piacere alla mia regina, Charles. Ditemi come e seguirò i vostri consigli: io e Notre Majesté già in comune abbiamo l'affetto che proviamo per voi, che per me siete come un fratello, ma non basterà di certo per diventarle amico."
A quelle parole, d'Artois sentì il cuore stringersi nel petto. Si chiese se fosse colpa dell'affetto per quel ragazzo cresciuto con lui, forse, o forse erano i modi seduttori di Rossignol? Appariva così puro, ma lo conosceva troppo bene per non scorgervi della malizia.
Scosse la testa, nascondendo l'imbarazzo nell'ennesimo sorso di vino, e parlò:
"Rammentate che Notre Majesté s'annoia facilmente, ma è di buon cuore e d'animo gentile. Non viziatela apertamente, ma fatela sentire apprezzata. Siate cortese, ma non viscido. E ovviamente alla moda, ma non scadete nella volgarità.”
Rossignol annuì, la fronte appena aggrottata.
“Ricordate che disprezza gli adulteri e gli immorali, ma non è una bacchettona. Sopratutto, non mentite per alcun motivo al mondo."
C
on ben presenti le parole del conte, il ragazzo allungò un braccio sul tavolo da gioco per prendere le carte abbandonate da d'Artois. Incapace di star serio troppo a lungo, il giovane trovava diletto nell'interrompere discorsi troppo seri: prendendo a mischiare il mazzo, socchiuse gli occhi. 
“Potrò insegnare a Notre Majestè dei giochi di prestigio con le carte.”
D'Artois rise, battendo il pugno sul tavolo.
“Ah, so già come finirà. Farete di 'Toinette un'eretica, Rossignol.”
“No, vi sbagliate. Farò sì che per lei il tempo non esista, che le ore durino istanti e che la notte sia come il giorno; credo che sia questo ciò che mi riesce meglio.”

 

#

 

Rossignol sapeva di essere bello.
Non gli serviva niente più che uno specchio d'acqua limpida in cui ammirare il proprio riflesso per rendersene conto. Come un moderno Narciso, con l'unica differenza che, ad un certo punto, il riflesso stesso avrebbe preso vita per affogare la propria controparte. Ad ogni buon conto, farselo dire da una regina era un ottimo modo per cominciare la giornata e sia Marie Antoinette che la graziosa contessa di Polignac espressero con tanta foga il loro entusiasmo che Rossignol non potè fare a meno di arrossire. D'Artois, con un colpetto di tosse imbarazzato, diede una pacca sulla spalla del giovane conte. 
Poco importava che la regina fosse abbastanza allegra da dimenticare ogni regola, protetta com'era dall'intimità conferita dall'udienza strettamente informale, poiché Rossignol di certo non poteva permettersi il lusso d'essere scortese. Chiunque a Versailles era conscio del poco amore di madame per le regole del palazzo, ma di Rossignol non era ancora stato detto nulla.
D'Artois, che aveva già scorto il giovane T. fra i pochi presenti, sperò che non scoppiasse una rissa.
Ovviamente, doveva immaginare che Rossignol fosse poco incline a star lontano dai guai.
“Oh! Ma io vi conosco: siete il principe di quella sera! T., sbaglio forse?”
"Sbagliate, monsieur." replicò freddamente lui, ergendosi in tutta la sua statura e alzando il mento molto al di sopra della testa del ragazzo, che invece lo guardava ad occhi spalancati. "Non ho idea di chi voi siate."
Rossignol, riconoscendo l'inganno, sorrise. 
"Mio caro principe, sono colui che vi ha fatto torto di recente. Vi ho riconosciuto e colgo l'occasione per venire a scusarmi."
Marie Antoinette, in un grazioso svolazzare di trine e accompagnata dal pesante fruscio della stoffa, si mise in mezzo a loro e guardò lungamente ora l'uno, ora l'altro. Sbatteva le lunghe ciglia bionde come una farfalla e l'entusiasmo tradiva la sua età non più giovane, contornando la bocca e le guance con sottili rughe d'espressione.
"Principe, via, perdonatelo." incitò, con uno spettro di risata nella voce. 
Era ovvio che il teatrino messo in piedi da Rossignol la stesse divertendo molto, lo si comprendeva dalla vivacità con cui si esprimeva, e anche il giovane sentiva d'essere allegro. Aveva notato anche che d’Artois si torceva le mani, ma aveva nulla da temere: Rossignol celava la più intima convinzione che il principe T. fosse di buon carattere, quindi non c'era modo che si opponesse ai desideri di Antoinette.
Non in pubblico, perlomeno.
Era davvero un uomo facile alla burla altrui, quel principe dal bel viso. Uno sciocco fatto e finito.
"Lo farò, Madame, se è il vostro desiderio." Replicò un istante dopo, chinando il capo. Rossignol sorrise tra sè e sè, e Marie Antoinette si avvicinò ondeggiando al principe.
"Ma state nascondendo un sorriso!" esclamò, prima di rivolgersi a Rossignol, "Rossignol, siete già stato perdonato, vedete?"
"Vedo, Votre Majestè. Sono fortunato che il principe sia tanto magnanimo." 
"È perché siete irresistibile, piccolo usignolo." si intromise la voce chioccia di Yolande de Polignac. 
"Yolande!" la richiamò d'Artois, scoppiando in una risata.
La donna strizzò gli occhi scuri, le labbra piegate in un'espressione languida. Aveva un fare che a Rossignol ricordava una gatta infiocchettata, intenta a far fusa e compiaciuta del proprio lavoro, ma scosse le spalle senza protestare. Una tale vivacità nella sovrana e nella sua più intima amica faceva solo apparire la principessa di Lamballe più eterea e malmessa del solito.
Rossignol, inclinando il capo, sorrise cercando in ogni modo di ricordare a sè stesso come apparire modesto.
"Siete davvero adorabile." mormorò la regina, portandosi una mano alle labbra, studiando Rossignol ora da davanti, ora da dietro. Gli fece sollevare il mento, con delicatezza, e il suo bel sorriso si allargò. "Potrei vestirvi ancora da ragazza? Lo permettete?"
Il ragazzo annuì.
"Disponete di me come preferite, Majestè." rispose, senza mancare di lanciare uno sguardo a T. 
Come aveva previsto, sul viso del principe era apparso del rossore che prima non era presente, nonostante la fronte solcata da minuscole rughe che convergevano fra le sopracciglia scure. 
"A Rossignol non dispiace poi tanto indossare un corpetto" scherzò d'Artois, alzando al cielo un bicchiere semivuoto di vino rosso. 
La principessa di Lamballe sospirò, accasciandosi laconicamente sul bracciolo del divanetto in velluto; dal modo in cui il suo petto si alzava e abbassava affannosamente sembrava che faticasse a respirare, immagine di certo aiutata dal pallore delle sue guance e dalle labbra bianche come il latte. 
“In tal caso, vi proporrei volentieri uno scambio. La mia povera schiena fa così male..." 
Rossignol si morse le labbra, incrociando le braccia al petto, e pensò che forse l'avrebbe fatto davvero. C’era della poesia, nel modo in cui il corpo femminile veniva piegato dal ferro. Era un canto, una metamorfosi: la bellezza al posto dell’ignoranza, la gioventù imperfetta immolata su un altare pagano. Sarebbe stato felice di partecipare ad un gioco laddove il dolore diventava una prova di forza ed uno strumento di seduzione, benchè di tortura, ed era di certo un passatempo che l'avrebbe tenuto occupato per un po'. 
Non gli importava davvero che, dal fianco della regina, d’Artois gli stesse inviando discreti cenni di diniego, né che la Regina e la Polignac sembrassero, al contrario, estremamente entusiaste: non sarebbero stati loro a decidere dei suoi passatempi.
“Trovate che mi donerebbe, Yolande?”
“Direi che ne abbiamo avuto una prova piuttosto eloquente.” 
“Molto bene, dunque. Se prometto di non recar danno a nessuno, questa volta, posso farlo.” 
Immediatamente il principe T. era arrossito alla menzione della situazione poco piacevole causata dall’inesistente Charlotte e, ormai, Rossignol non potè fare a meno di notare che non lo guardava più. Ma poi, perchè mai avrebbe dovuto?
Per quanto il principe T. si sentisse ancora frustrato dalla beffa di cui era stato inaspettata vittima, Rossignol l’aveva visto incapace di qualsiasi tipo di controllo.
Quella sera, Rossignol l’aveva visto soccombere al sentimento prima e all’imbarazzo poi. Un uomo come lui, cresciuto con la promessa del chiostro, che faceva della pazienza un vanto e della sobrietà una regola, si era mostrato preda di quella parte di sé di cui aveva certamente sospettato l'esistenza ma mai esperito gli effetti.

 

Se avesse potuto, avrebbe preso un cavallo dalle scuderie e sarebbe fuggito. 
Il principe T. voleva scappare da Versailles, sparire nell’ombra per almeno un’ora o due, ma vi era dolorosamente legato.
Una cosa gli era chiara, tuttavia: 
Rossignol era il diavolo, ma con il viso di un cherubino. Androgino e malevolo, il cuore del principe fremeva e doleva ad ogni gesto del suo volto, ad ogni torsione del suo polso. Da come l'aveva salutato con garbo e si era scusato, si era illuso che almeno di fronte alla Regina avesse dei modi eleganti e discreti, ma si era presto rivelato un giullare confusionario.
Non stava certo a lui giudicare, ma a Yolande de Polignac piaceva quel tipo di giovane chiassoso e di bell’aspetto, e ciò aveva giocato a favore di Rossignol.
T. era stato, al contrario, poco socievole e taciturno. Pochi potevano immaginare che la ritrosia che aveva mostrato nei confronti della compagnia (e dell’ospite d’onore in particolare) per tutto il pomeriggio, e che era continuata a cena, non era che la vergognosa figlia d'un sentimento più forte della simpatia e, al tempo stesso, meno puro dell'amore. 
La marchesa De La Motte, più esperta in certe situazioni, s'era già premurata di lanciare a T. più d'una occhiata di compatimento. Sembrava che sapesse che Rossignol non era nell'animo né uomo né donna (come avrebbe potuto essere, altrimenti, violento come Caino e malizioso come Eva?), e sembrava controllarlo senza dire una parola. Ad ogni buon conto, il pomeriggio era passato ed il principe T. si era confinato in un angolo: osservava Rossignol e Yolande de Polastron giocarsi le proprietà di Lauzun ai dadi, senza mai stancarsi di trovare nuove sfumature nella pelle di quello che si era rivelato essere un giovane nobile, non più alla portata delle sue vergognose intenzioni romantiche.
Se non altro, ora approcciarlo era molto meno complicato. Nonostante le risate generali che avevano accompagnato la vicenda, nessuno sospettava un sincero interesse di T. Nei confronti di un ragazzino. 
Vendetta o passione che fosse, nessuno l’avrebbe sospettato né dell’uno, nè dell’altro: di certo non lui, così noioso, quasi pari al Sovrano in mancanza di gusto e senso del divertimento.
Mentre così pensava, sentì un brivido freddo lungo la nuca. 
Il conte d'Artois si era avvicinato al tavolo da gioco in una marsina smeraldo ed aveva stretto le spalle di Rossignol in un abbraccio fraterno. Sussurrandogli all'orecchio qualcosa aveva sorriso, scostandogli un ricciolo dalla fronte. T., che conosceva i pettegolezzi su d’Artois, si chiese se non fosse quello il modo in cui si guardano i libertini legati dai medesimi peccati.
Tuttavia, il rapporto fra i due non lo impensieriva. 
Altra storia riguardava un distinto gentiluomo che aveva tallonato il conte fino al tavolo da gioco e che si stava presentando. Il principe poteva riconoscerne i tratti dalla sera del ballo: trentenne, slanciato seppur non alto, con i capelli color rame liberi dalla parrucca e il tricorno orlato d'oro. Immediatamente, il principe T. si vergognò d'essere stato lui stesso a presentarlo a Rossignol. 
Era stato detto che Alain D'Ovigny aveva il profilo d'un re e la cortesia d'un cortigiano.
In verità, sentendo una fitta allo stomaco ed una più profonda al cuore, T. dovette ammettere che non s'era mai sentito così minacciato durante tutta la giornata. Yolande cercava in ogni modo di mettersi in mostra, ma era certa che sarebbe stato Rossignol ad avanzare la prima mossa. Al contrario, D’Ovigny guardava Rossignol come un frutto maturo. 
Il principe, mordendosi le labbra, riconobbe il pericolo solo perchè vi era improvvisamente diventato sensibile. Non s'era mai preoccupato di nulla in vita sua, se non delle elementari necessità corporali e spirituali, ma ora ogni cellula del suo corpo si sentiva elettrizzata. 
Sollevò il braccio e subito si trovò accanto un paggio. 
“Ho bisogno di scrivere una lettera.” Lanciò un’occhiata al tavolo, ora fonte di risate e di bicchieri fatti tintinnare uno contro l’altro, e deglutì pesantemente, “In privato.”

Doveva agire in fretta se non desiderava perdere contro D’Ovigny. Quest'ultimo, senza dirlo apertamente, s'era dichiarato suo rivale nel momento in cui aveva posato gli occhi su Rossignol.
Carta e penna, aiutate da fretta e gelosia, sarebbero bastate per raggiungere lo scopo o per distruggere per sempre le più dolci speranze. Rossignol avrebbe declinato le più amorevoli richieste, nell'infelice caso in cui non le avesse trovate consone, oppure le avrebbe accettate e la storia avrebbe fatto il suo corso: a questo punto, non gli importava. Qualsiasi risultato sarebbe andato bene. D’Ovigny poteva sconfiggerlo T. Scacciò il pensiero con una scrollata del capo ma non trovarlo immobile in un angolo, silenzioso e incapace di dar voce ai propri sentimenti.
La tentazione l'aveva trovato sprovveduto, disarmato, già una volta. T. Aveva deciso che quella lettera sarebbe stata la bandiera bianca sulla quale avrebbe provveduto ad elencare i motivi di resa. 
Il principe T., nell'atto d'alzarsi e di scusarsi con la loro gentile ospite, aveva lanciato un ultimo sguardo al tavolo dei dadi: Alain aveva preso il posto di Rossignol, che si era spostato e spiava il gioco da sopra la spalla della principessa Carlotta, ma i due si scambiavano sguardi che facevano stringere lo stomaco del principe in una morsa. Che vincesse o perdesse, Rossignol omaggiava il conte con il suo sorriso più luminoso. 
Sì, la più disperata delle situazioni richiedeva un fermo intervento.

 

#

 

Incontratemi al boschetto di Dioniso appena potete.
Aspetterò tutto il tempo che vi piacerà farmi aspettare.
Colui che si compiace d'esservi fedele.

 

"Possibile?" mormorò Rossignol, incupitosi, quando gli fu consegnato sul piattino d'argento un biglietto che era stato piegato più volte con mano imprecisa e non sigillato. Sembrava scritto di fretta.
Temeva l'ombra d'angoscia che gli si era dipinta sul viso: Yolande e Charles lo guardavano, curiosi, ed era chiaro che gli altri fingessero solamente il loro disinteresse.
"Cos'è?"
Rossignol sfoggiò il suo miglior atteggiamento da annoiato, scrollando le spalle e il capo.
"Un'amica mi chiede di tornare a Parigi." 
"Ah!" esclamò d'Artois, come se capisse l'intera faccenda.
Carlotta sorrise da dietro le mani chiuse per lanciare i dadi, ma non disse niente.
"Non ci andrete, vero?" aggiunse d’Artois, poggiando i gomiti sul tavolo, "Non ci potete lasciare così."
Rossignol scoppiò a ridere.
"Ma non sto giocando affatto!" replicò, indietreggiando di un passo.
Aveva ceduto il suo posto ad un gentiluomo da poco conosciuto e che, in verità, gli piaceva molto. A causa di questa nuova compagnia gli dispiaceva allontanarsi, ma certi affari meritavano tutta la sua attenzione e non aveva intenzione di rimandare.
"Ah, lasciatelo stare, monsieur!" rispose Yolande, schiaffeggiando scherzosamente la mano di d'Artois "Una donna non può vivere senza di voi, Rossignol. Io lo capisco: vi conosco da così poco e già vi adoro. Quante lettere simili dovete ricevere al giorno? Cento? Mille?"
"Yolande, non fate la modesta. Avete ricevuto lettere del genere molte più volte di quanto non abbia fatto io." replicò il giovane.
Era sconvolgente il modo in cui si rivolgeva a chi gli era superiore in rango ed età, ma la consapevolezza del proprio fascino l'aveva reso, nel tempo, sfrontato. Yolande esplose in una risata lusingata. 
“É vero, è vero.”
“Yolande, non avete mai ricevuto mille lettere—”
“Questo lo dite voi, mio caro conte, e solo perchè siete geloso.”
Nel passare accanto ad Alain, Rossignol ebbe cura di sfiorarne il braccio piegato, e sperò che nessuno se ne fosse accorto. 
"Se mi volete scusare, rispondere alla povera signora con le rassicurazioni che abbisogna è mio dovere."
"Che cavaliere siete, amico mio.” Gli urlò d'Artois, sollevando un sopracciglio, e Rossignol, che già gli dava le spalle, si compiacque di sentirlo aggiungere in tutt'altro tono: "Par bleau, Alain, mi fate infuriare! Smettetela di vincere!"
Rossignol ripeté quelle parole a sé stesso, incapace di mascherare la propria soddisfazione. Nel passare uno specchio, si fermò per aggiustare il collo della giacca: giovane e vittorioso come un Alessandro, amato più di Adone. 
Smettila di vincere, Rossignol.
Diventerai odioso. 

 

#

 

"Forse vi ho sconvolto più di quanto pensassi." 
Il principe T. ammiccò dalla penombra, come se si nascondesse dalla luce stessa della luna piena
Accanto alla statua di marmo, la silhouette del principe era poco più di una sfumatura nera nel cortile circolare ma Rossignol lo vedeva come se fosse pieno giorno. 
"Forse." rispose, incrociando le braccia al petto. Lo guardava apertamente, con tutta la franchezza d'un dio, incurante di ferirlo con ogni battito di palpebre. "Forse avete sovvertito terra e cielo, quella notte: ditemelo voi.”
Rossignol scosse la testa, un sorriso imbarazzato a piegargli le labbra.
“Non so cosa dirvi, ad essere onesto.”
“L’avevate forse premeditato?"
"Cosa?'
"Di farmi innamorare di voi."
"Sono un uomo come voi, principe." 
Una frase tanto sciocca, che pure doveva essere pronunciata, strappò a T. una risata. Rossignol notò che non gli illuminava gli occhi chiari, che rimanevano spenti e tristi. Era un peccato vedere occhi così belli eppure così smorti, come se nulla al mondo potesse accenderli.
"Quello, credetemi, lo vedo bene." 
“Perdonatemi. Sentivo di dover fare chiarezza, dopo—”
“Non parliamone più.” Replicò il principe, stringendosi nelle spalle, “Ma come vedete le cose non sono cambiate. Ed è proprio questo ciò che più mi dà da pensare."
Rossignol scosse la testa con un "ah" di gola, profondo e simile al lamento d'un animale ferito. Aveva preso a camminare su e giù, calciando il ghiaino. 
“Eppure è quello che avrebbe dovuto fermarvi.” rispose, dopo averci pensato su per qualche istante. Si era sciolto i capelli, aveva lanciato il cappello e slacciato la cravatta, ma ugualmente si sentiva ingombrato da abiti troppo stretti. 
“Non fate l’errore di pensare che la cosa non mi turbi, Rossignol.” Vide il principe esitare, aggrottando la fronte, “Posso chiamarvi Rossignol?”
“Beh, visto che evidentemente non mi chiamo Charlotte—”

Visto che evidentemente non mi chiamo Charlotte.
Il principe T. poteva immaginare I motivi dietro il comportamento sgarbato di Rossignol: era preda dello stesso senso di imbarazzo e vergogna di cui T. si sentiva prigioniero. 
Ad ogni modo, anche il disagio vestiva le guance di Rossignol di un rosa acceso che le rendeva invitanti.
Guardandolo, T. trattenne il respiro: vestito con gonna e corsetto aveva la delicatezza di una donna, ma ora mostrava la fermezza d'un uomo in divenire. Batteva le palpebre ed era Charlotte, lo guardava di nuovo e tornava ad essere Rossignol.
"Siete il diavolo." mormorò, prima di poter pensare.
Rossignol gli lanciò un'occhiata, gli occhi azzurri spalancati.
“Ah, bene. Mi dite che mi amate, eppure mi offendete in questo modo?" 
"Temevo di offendervi solo dichiarando i miei sentimenti." puntualizzò il principe, con una certa tranquillità. Rossignol spalancò gli occhi, sorpreso da tanta sfrontatezza. Perchè non avrebbe dovuto esserlo?, si disse T., quando il primo a esserne sorpreso sono io?
“Offendermi?” 
“Sono certo che capirete il perchè.” 
“Potrei andare ora in una qualsiasi chiesa, sono certo che sapete cosa fanno a quelli come voi.”
“L’accusa di un libertino.” Mormorò T., socchiudendo gli occhi. Rossignol era indietreggiato, ma continuava a passarsi le dita fra i capelli come se non potesse stare fermo, “Vi confesso, sono sollevato. Può forse essere che non siete solo un ragazzino che si diverte a ingannare gli altri?"

A quelle parole, Rossignol sentì un gran calore salire al viso e temette d'essere arrossito. 
Non di piacere, né di vergogna: si sentiva profondamente toccato dalle parole che gli erano state rivolte. Ne aveva disgusto. E poi, che accusa era? Non aveva ingannato volutamente nessuno. 
Non era colpa sua.
Non era mai stata neanche lontanamente colpa sua.
"E voi, dunque? Non mi state forse prendendo in giro ora? Ah, bella vendetta mi presentate: dite di esservi innamorato di me. Come se non sapessi che vi state prendendo una bella rivincita.“
Il principe T. barcollò come se fosse stato schiaffeggiato. 
“Una rivincita?” gli fece eco.
Era tanto alto che raggiungeva quasi la cinta della statua di Dioniso, ma si distingueva dalla forma del dio greco in eleganza: un'ombra sottile nel buio del giardino. Una sagoma dalla quale Rossignol si ritrovò a non riuscire a distogliere lo sguardo. 
Prima di quella bizzarra confessione, più simile ad un'accusa, T. ai suoi occhi era stato un damerino in tacchi e parrucca incipriata, con la mente obnubilata dal desiderio platonico nei confronti d'una campagnola che neanche era mai esistita; ora Rossignol scorgeva infine la profondità del suo sguardo, e il modo in cui pregava di farsi capire.
Rossignol guardava il principe e vedeva l'infinito.
Dedizione e perversione condividevano uno spazio nel cuore di quell'uomo magro dai tratti cesellati, ingentiliti dalla massa di ricci scuri. L'aveva definito uomo, donna e demone: ancora osava parlare d'amore e fingere di essere serio? 
In tutto questo tempo, il principe aveva anch'esso guardato Rossignol senza rispondere, come rapito. Entrambi si sarebbero stupiti della similarità dei loro pensieri, per quanto essi fossero impossibili da esprimere senza offendere se stessi e l'altro.
"Allora?" 
“Allora non vi capisco, Rossignol. Ed è evidente che voi non capite chi vi sta parlando.”
Tuttavia, c'è da dire, ne né l'uno né l'altro erano abituati a far la corte ad un uomo. Non sapevano come leggersi né, tanto meno, come trovarsi. 
“Ebbene, sono qui, spiegatevi.” Sbottò il ragazzo, aggrottando la fronte. “Perchè sono io a non capire voi, e perchè vi ostinate a continuare con questa burla anche quando non fa più ridere nessuno.”
“A questo punto, capireste?”
Tale mancanza di risolutezza lo infastidì enormemente: iniziava a diventare impaziente. Disperava per avere una reazione che non fosse tiepida e distante.
"Stiamo perdendo tempo, dunque. Molto bene. Volete una risposta al vostro scherzo? Terminare la vostra vendetta? Eccovi: sono venuto qui per farvi la cortesia di dirvi che non provo il più debole sentimento per voi. Non scrivetemi. Se ci rivedremo, non venite a parlarmi. Mi avete offeso a sufficienza stanotte per mille anni e vi prego, vi prego, di non causarmi ulteriore imbarazzo. Addio." 

Se solo quell’idiota sapesse, pensò Rossignol nel dargli le spalle. 
Il principe era silenzioso, tanto che si sentivano le risate dei cortigiani negli angoli più frequentati del giardino, ma la sua presenza era come una bruciatura sulla pelle di Rossignol.
Si chiese se non fosse la fine meritata d'un brutto scherzo, ma in tal caso sarebbe stata la Marchesa de La Motte quella da punire. Lui, lo avrebbe ripetuto ed urlato fino a che la voce non gli fosse diventata rauca, non aveva colpe. Non quella sera, almeno. No, quel dolore al petto doveva essere una punizione per gli anni passati bevendo, giocando e pensando che la vita fosse solo rose, vino e belle donne.
Ora il fato gli presentava davanti un uomo della categoria che Rossignol aveva sempre deriso, credulone e impettito, bigotto e vigliacco, ma che gli toccava quel cuore che il giovane aveva creduto d'aver perso una notte fra le vie fangose di Parigi.
Perché mai doveva ricordarsi d'essere un umano solo quando provava dolore? La gioia, il senso di vittoria non gli davano sensazioni altrettanto vive.
E dire che era stata, fino a quel momento, una così bella serata.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


III

 

 

"Quel giovane sarebbe un grazioso elemento nel nostro piccolo circolo di gioco, Votre Majesté, se mi permettete di suggerirvelo."
“Non potrei dirmi più d'accordo, Yolande, credetemi. Il ragazzo ha un innato savoir faire."
“Ed è divertente.”
“Indubbiamente, molto divertente.”
Rossignol strinse i pugni.
Nascosto dietro una tenda, intrappolato in un gioco che non si sarebbe mai aspettato potesse ritorcersi contro di lui, era costretto ad essere ignaro testimone dei pettegolezzi su di sé: com'era piccola Versailles, che pure sembrava tanto grande. In un modo o nell'altro si finiva sempre imprigionati nell'angolo sbagliato al momento sbagliato. Non poteva palesare la propria presenza, ma se si fosse tappato le orecchie la curiosità l’avrebbe divorato nonostante sentisse le risate e avrebbe desiderato esser sordo.
Per quanto fosse stato trattato da tutti con inaspettata indulgenza, Rossignol non riusciva ad ignorare la pesantezza di quei commenti, che lo facevano sembrare un idiota. Tali definizione mai gli aveva recato fastidio alcuno, prima, ma non poteva non chiedersi quando Marie Antoinette si sarebbe stancata del nuovo giullare — perché era così che lo faceva sembrare. Un folle.
Ora si divertivano alle sue spalle, ne chiacchieravano, ma cosa avrebbero detto dell'intercorso con un principe di loro conoscenza?
Ne avrebbero riso? Avrebbero provato disgusto?
Improvvisamente, con un brivido gelido lungo la schiena, Rossignol si trovò davanti all'immensità del rischio corso appena qualche sera prima; allora il gioco del Principe T. non era sembrato così folle, né pericoloso, solo offensivo. In quel momento, però, lo vide per quello che era: qualcosa la cui influenza, se si fosse saputo, non era certo di poter controllare.
“Comunque, Rossignol è molto piacevole; e ben educato, per mia grande sorpresa.”
"Yolande, voi parlate con un cuore di madre. Ha pressappoco l'età di vostra figlia, non è vero?"
La duchessa di Polignac diede in una risata argentina; non le si poteva dare più di vent'anni, con quella gioia di vivere e la voce sottile, ma sotto quell’aria da ragazzina languiva una donna che aveva superato già da molto la soglia della maturità.
"Credo di sì, anche se non saprei dire con certezza.” la donna si interruppe un istante, prima di continuare, “la verità è, credetemi, che lascerei a malincuore la mia Aglaé nelle sue mani."
"Perdonate la scortesia, madame, ma mi offro volentieri al posto di vostra figlia." commentò qualcuna, suscitando un moto d'ilarità generale che fece arrossire d'imbarazzo Rossignol, “dicono sia molto abile."
"Abile?"
"Oh, non fingetevi innocente, marchesa…"
"Ad ogni modo, bello lo è di certo."
"Senza dubbio,” concordò la regina.
Rossignol si morse le labbra, tremante nel suo nascondiglio dietro la porta ornata di specchi. Poter origliare i discorsi di quel gruppetto di donne che pensavano di essere in intimità non gli dava, per la primissima volta, alcun piacere. Si sentiva di troppo: un animale del serraglio regale, un nuovo cagnolino. Quando avrebbero cominciato a scegliere per lui collarini e gioielli, quando l'avrebbero nutrito da piattini sul pavimento e da ciotole di diamanti? Quando, prima che qualcuno spargesse voci su tendenze incresciose, che mai prima gli erano appartenute? Per quanto tempo sarebbe durata, prima di stancarsi inevitabilmente e scegliere un altro fanciullo o fanciulla con cui baloccarsi.
Sentirle parlare era un tormento. Come gli era venuto in mente di giocare con i bambini a nascondino? Forse era stata l'insistenza di Antoinette, esuberante nonostante l'età adulta, o forse era il potere degli occhi della giovane Maria Teresa, limpidi e vasti specchi color delle viole; nessun altro, in Francia, aveva occhi così magnetici. La principessa era d'una bellezza stupefacente ed il principe prometteva d'essere altrettanto grazioso -- fragile, sì, ma ciò non faceva altro che renderlo una creatura d'inaspettata purezza agli occhi degli adulti.
Come cristallo, vi si poteva guardare attraverso.
Il gioco del re e della principessa, che tanto piaceva ai bambini di corte, vedeva Rossignol come il fiero cavaliere che proteggeva la corona da tutti i mali. Con l'eccezione, e qui andava plaudita la fantasia della giovane Maria Teresa, che il cavaliere era un gran fifone che soleva nascondersi nei luoghi più improbabili lasciando alla bambina il gramo compito di scovarlo: solo allora il cavaliere tornava valoroso e andava a procacciare dolcetti, giocattoli e animali da cortile che facevano impazzire i domestici. La coppia reale guardava con magnanimità ai passatempi dei figli, sebbene Charles avesse formalmente il suo palazzo personale a cui badare, e non mancava di ammirare Rossignol per la sua pazienza.
Certo, in quei giorni il ragazzo detestava con tutto il cuore il ruolo di balia.
Poteva essere a rincorrere il principe T., con le sue sciocchezze e le sue prediche, fino a farlo impazzire; provava una sorta d’urgenza, quando pensava di poterlo vedere di nuovo, di discutere con lui di ciò che era successo.
Credeva che sarebbe stato facile seppellire l'onta subita, ma si era riscoperto a pensare a quella bizzarra confessione più spesso di quanto avrebbe voluto. Dopotutto, forse, non era davvero offeso come aveva creduto — e, non meno importante, come aveva voluto far credere. Insomma, avrebbe potuto confezionare torture su misura per l’animo del principe fino a farlo capitolare, in qualsiasi modo, perché sembrava un passatempo divertente e invece si trovava impegolato con una graziosa copia in miniatura della regina Antoinette ed il suo timido fratello.
Per sua sfortuna, Antoinette amava vedere Rossignol giocare con i figli: credeva, a dispetto delle voci che non mancavano mai di biasimarla (tra le quali Rossignol stesso), che il giovane avesse un ottimo influsso sui bambini. Ciò non bastava, tuttavia, a mettere un freno alle lingue delle madri
"Dicono che i suoi genitori lo detestino. Sapete, per via della reputazione."
"Ah, à la merde la reputazione." fu il sospiro di una, lasciato sfuggire con estrema naturalezza nonostante il linguaggio.
“Madame, contenetevi! Vi sembra forse di stare in una bettola?”
"Mon Dieu, no," la donna sembrava colpita dal rimbrotto, come se la stupisse, “majestè, sapete che non volevo offendervi. Dico solo che Rossignol è molto bello e che, con quel viso, sua madre farebbe più mostra d'intelligenza a tenerselo stretto."

Ho fratelli più degni dell'amore di una madre, pensò con asprezza Rossignol, ed una sorella che sta per regalarle una nipote.

Questo non potevano saperlo quelle signore, naturalmente, dal momento che non si erano prese il disturbo di esplorare il suo retaggio. Non che i suoi fratelli lo tenessero in gran considerazione, dopotutto, e Josephine tornava a stento nella casa materna. Trophine, la sorella più giovane, a malapena aveva avuto un assaggio del mondo; avrebbe potuto essere bella quanto la principessa e altrettanto vivace, ma la malattia aveva stroncato quell'amicizia possibile prima ancora che Rossignol avesse avuto il tempo di pensarci.
"Trovato!" strillò Maria Teresa all'improvviso, sollevando la tenda dietro la quale si nascondeva il giovane. Aveva le gote arrossate e gli occhi che brillavano di gioia "Vi ho trovato, chevalier!"
Rossignol sorrise, chinandosi per accarezzarle i boccoli biondi.
"Siete stata bravissima, ma princesse" l'elogiò, ricambiato da gridolini di contentezza.
Finse di non udire i commenti dall'altra stanza (“Oh, cielo! E' stato qui tutto il tempo?”), tuttavia non poté non risentirsene e chiedersi se, dopotutto, quelle donne non avessero paura del danno che poteva arrecar loro.
Una fortuna, per loro, che avesse di meglio a cui pensare che agli intrighi da romanzo.
"Chevalier, dov'è il re?" lo apostrofò la bambina, in tono autoritario, e il ragazzo trattenne a stento una risata.
"Magari si trova con la regina madre. Volete andare a vedere?" propose, con quella voce che si usa solitamente per essere cospiratori ma che, con i bambini, acquisisce tutto un altro significato.
Maria Teresa ne fu entusiasta e con un minuscolo saltello prese la mano di Rossignol. Solitamente non le era permesso di saltare e correre, ma sotto la supervisione del giovane conte le erano concesse follie inimmaginabili per una principessa reale.
D'altra parte, lui ricordava con affetto i momenti in cui i suoi fratelli lo avevano trattato con la stessa dolcezza; c'erano stati giorni in cui Guy l'aveva lasciato giocare con i suoi figli più piccoli, che lo chiamavano “zio” e lo abbracciavano nel mezzo di un giardino dove nessuna offesa era ancora stata arrecata né immaginata. Quei giorni erano lontani, e molti di quei bambini dormivano in piccole bare di legno, stroncati come giovani rami. Guy era salpato oltre il mare, portandosi dietro chi era rimasto, per servire il re e le colonie.
Nulla era più come un tempo, se non la tenerezza di una mano di bambina che stringeva quella di Rossignol.
"Accompagnatemi da maman." gli ordinò la principessa, stringendosi al suo fianco.
Rossignol annuì, già pensando a come accomiatarsi dalla regina per pensare ad un piano riguardo T.
"Andiamo da vostra madre, altezza." acconsentì, con un profondo inchino.
Con questo, il giovane metteva fine ai giochi; sentiva di non poter sopportare oltre il peso delle parole che aveva ascoltato.

Una volta riconsegnati i principi in mani più esperte, compito quantomai difficile da portare a termine in breve tempo senza risultare poco socievole e mantenendo un comportamento dignitoso, spronò un cavallo alla volta di Parigi.

 

#

 

Rossignol andava disperatamente alla ricerca di respiro. Voleva tornare a vedere e sentire come un essere umano, mentre temeva d'essersi tramutato in pesce; galleggiava sotto il pelo dell'acqua ma non aveva alcunché per trovare sollievo. Né branchie per vivere, né pinne per salvarsi.
Madame Dorianne era la pescatrice cui si rivolgeva quando si sentiva snaturato.

Quando si presentò alla sua porta, gettando con disinvoltura un Luigi d'oro in mano ad una cameriera, Madame Dorianne lo accolse in nulla al di fuori di una veste da camera. A parte il delicatissimo lino che le sfiorava i fianchi floridi ed i seni a malapena coperti dal velo della stoffa, era armata solo del proprio fascino.
“Rossignol, mon petit,” lo salutò poggiandosi al corrimano in marmo del suo salone. Sembrava un fantasma mentre si sporgeva dall'alto, graziosamente ricurva sulla balaustra.
"Madame."
“Che piacevole sorpresa. Cosa vi porta in casa mia così presto? Non è neppure ora di cena.”
Lui lasciò che i domestici gli togliessero giacca e cappello. Respirava affannosamente e gli bruciava il petto, ma in qualche modo sentiva che lei poteva riportarlo sulla terraferma. Si fidava di lei come d'una madre; era una peccatrice che non gli nascondeva nulla, che lo aveva istruito al prezzo d'una notte, che l’aveva preso sotto la sua ala protettrice quando nessun altro avrebbe voluto. Senza di lei si sarebbe sentito perso.
“Non chiedetemi,” le ordinò, allentandosi il cravattino. Saltava i gradini a due a due, febbricitante e impaziente e fuori di sé -ma lei non ne era affatto spaventata. No, pareva compiaciuta. “Mostratemi la via per il vostro letto.”
La conosceva ormai a memoria, a dire il vero, ma essere invitato era sempre più piacevole che conquistare.
Madame Dorianne era davvero la panacea di tutti i mali.
Forse, pensò più tardi, forse è la risposta anche all'infatuazione del Principe T.

 

#

 

“Lasciate che vi dia un consiglio da amico. Da uomo assennato a uomo assennato, se volete.”
Alain rivolse al compagno un ghigno, incurante dell’ondeggiare della cavalcatura che arrancava sul sentiero assolato e del forte dolore alle anche che gli procurava. D’Artois, disinvolto sulla sua solita cavalla baia, sembrava nato per cavalcare per ore e parlava gesticolando, con solo una mano fissa sulle redini di pelle: non uno scossone lo faceva vacillare e si muoveva con grazia e forza. Alain, da parte sua, avrebbe voluto urlare dal dolore.
Se già il bruciore alle cosce non fosse stato insopportabile, si era aggiunto l'imbarazzante incontro con uno degli stallieri alla seconda scuderia: piuttosto che riconoscere il rossore sul viso del giovane ed i suoi boccoli ramati avrebbe preferito morire. Fortunatamente il ragazzo non si era compromesso, anche se certamente d'Artois non era così sciocco da ignorare il suo incedere goffo, anche se non si sentiva per niente in colpa. Con un tale inizio di giornata, non era affatto dell'umore di ascoltare prediche.
“Siete sempre stato generoso a dispensare consigli.” Rilanciò, invece, scoccando un’occhiata a d’Artois, “ma poco incline a seguirli voi stesso.”
“E' questo che ci rende uomini, se dite. Viviamo di consigli che diamo ad altri e che dovremmo rivolgere a noi stessi ma che siamo troppo ingenui per seguire. Crediamo di far sempre meglio degli altri, voi non trovate?”
Alain annuì, aggrottando la fronte.
Il conte d'Artois era un cocciuto, perciò il motivo per cui aveva accettato di cambiare discorso tanto facilmente non poteva che insospettirlo. Tuttavia parlava troppo bene per poter dissentire, e non c'era modo di scampare alla conversazione.
“Giusto.”
“Mentre in realtà pecchiamo quanto e più degli altri.”
“Giusto di nuovo, ma non capisco dove volete arrivare.”
Il bel viso del conte s'adombrò, ma non azzardò una risposta; tirò le redini verso di sé, in modo così leggero che la cavalla arretrò d'un passo e incespicò, non comprendendo l'ordine che le veniva imposto. Alain non potè far altro che seguire il suo esempio e rallentare, ma la domanda rimaneva valida.
“Rossignol.” rispose il conte, cupamente.
Ah.
Ad Alain, che tanto aveva voluto piangere dal dolore fino a quel momento, scappò una risata di cuore. Ecco che, senza volerlo, il cherubino si prendeva nuovamente gioco di lui; stava diventando un vizio del giovane Rossignol farsi beffe dell'onore altrui, che fosse presente in carne ed ossa o meno, e che vittima si stava rivelando Alain! Un vero martire. Naturalmente, d'Artois sapeva prendere quella reazione quantomai spontanea come quello che in realtà era, sotto la maschera dell'ilarità: una confessione bell'e buona.
Non che si fosse mai aspettato qualcosa di diverso: Rossignol ostentava la grazia e l'innocenza di Giulietta ma, sotto sotto, sapevano tutti che era solo scena. Una Elizabeth Barry qualsiasi sarebbe inorridita al confronto, dacché Rossignol era di gran lunga più fanciulla e più attrice di lei. Il mondo era il suo palco.
Allo stesso tempo, però, emergeva sempre oltre il ruolo che interpretava. Che fosse Charlotte la campagnola in visita o il giovane protetto di D'Artois, faceva capolino una personalità distinta, maliziosa, fugace eppure presente.
Per questo Alain non si prese il disturbo di negare: nessuno l'avrebbe mai fatto e sarebbe stato sciocco. Certe inclinazioni, soprattutto se condivise dall'intera corte, risultavano troppo evidenti per essere nascoste.
“Cosa posso fare, se dite?” replicò, invece, con una scrollata di spalle, “sono perso. Rossignol è il più bello fra gli angeli e voi ora mi mettete in guardia nei suoi confronti: avete fatto lo stesso discorso a vostra cognata? E alle sue dame? Via, conte, non sono certo solo in questa trappola.”
D'Artois inarcò un sopracciglio.
Cercare di mettere in guardia il palazzo intero dalla malia di Rossignol era un'impresa di cui non si sarebbe mai voluto sobbarcare la responsabilità, nonostante a volte si fosse pentito di aver avvicinato qualcuno che gioiva dell'ammirazione altrui senza immaginare di poter suscitare la più passionale dedizione. Raccoglieva un quarto di ciò che realmente seminava, già distratto da chissà che novità mondana, e D'Artois si sentiva quasi in dovere di arginare i molti danni del suo protetto.
“Nessuna trappola è mai stata programmata, duca,” disse, avendo cura di soppesare bene le parole, “il ragazzo è incosciente del proprio fascino, per quanto possa sembrare strano. Non immagina neanche di poter suscitare quel genere di attenzione, non da parte vostra.”
“L'avevo immaginato. Mi è parso troppo—”
“Disinvolto?
“Incosciente,” lo corresse Alain.
“Bene. Guardatevi da lui, Alain, e vi confesso che mi trovo in imbarazzo a dirlo a voi che reputo un uomo assennato. Ho la sensazione di averlo già detto a qualcuno...”
“Su, non cambiate discorso adesso.”
“Scusatemi, avete ragione. Parlare di questi affari non mi piace, ma sento di dovervelo dire: la tentazione, lo dico per esperienza, si combatte solo cedendovi. Rossignol può distruggere tutto ciò che siete senza accorgersene, ma solo se glielo permetterete. E, in fede, una notte per togliersi una fissa non ha mai ucciso un uomo.”
Alain sollevò un sopracciglio, incerto sull'esattezza delle proprie deduzioni. Il suo compagno parlava per indovinelli nonostante non fosse certo conosciuto per la timidezza, al contrario, ma in quel discorso c'era più che mai bisogno di chiarezza. Rischiava di offendere qualcuno e una tale eventualità poteva ricondurlo a Ort-sur-Mer senza tanti preamboli, tanto più che Rossignol era entrato da poco nella cerchia più intima della Regina: tutti sapevano che era lei a gestire le questioni di palazzo, dal momento che Louis Auguste amava per lo più l'isolamento nelle sue officine e fonderie.
Mostrarsi imprudente, o addirittura irrispettoso, nei confronti di Rossignol era un rischio inaccettabile: se la regina l'avesse scoperto o se il ragazzo si fosse deciso, nell'eventualità, a lagnarsene con lei...
Non desiderando ancora tornare a casa dalla madre, ad Alain si richiedeva la massima prudenza.
“Ditemi cosa devo fare, d'Artois.”
“Scrivetegli.” rispose il conte, con dolcezza, “liberate il vostro cuore e confessate i vostri sentimenti. Mia moglie vi direbbe di riporli nel cuore d'un buon chierico, ma che volete, è italiana. Io non sono d'accordo: Rossignol comprenderà i vostri motivi. Parlategli.”
Oh, sembrava una così bella idea.
“E poi?” mormorò, abbassando il capo.
Il tricorno gli calò sulla fronte a causa di quel gesto, ed una delle piume che lo ornavano scese a solleticargli il viso, tuttavia Alain non si disturbò a rimetterlo a posto: il cavallo conosceva perfettamente la via ed il sole iniziava a indebolirgli la vista. Sin da piccolo gli era stato detto che occhi come i suoi, dell'azzurro più pallido e deboli, erano nemici della luce del giorno: sua madre dosava con attenzione le candele e suo padre aveva fatto mettere pesanti tende alle finestre. In un castello oscuro della Bretagna era cresciuto preda del freddo e del vino, senza conoscere il calore delle coste sabbiose del sud o il fresco dei giardini di Versailles.
Terminato il Grand Tour, aveva disposto tutto per vivere una lunga vita a corte, illuminato finalmente da ciò che gli era stato sottratto da giovane; scopriva, però, che alcuni danni erano permanenti. Non poteva soffrire il calore dell'estate e il sole lo infastidiva.
Era diventato una figura dell'ombra, un fantasma alla furiosa ricerca di conforto. D'Artois, che lo sapeva, si compiaceva di farglielo notare di tanto in tanto con una punta di sarcasmo e, più spesso, con divertita bonarietà.
“Poi rimanete in attesa. Se conosco il nostro amico, potrebbe anche concedervi le attenzioni che desiderate. In ogni caso, il vostro animo sarà più leggero e smetterete di struggervi per lui.”
Alain, da sotto il bordo del cappello, studiò il proprio interlocutore: la sua schiena diritta, il testa alta, il portamento regale. Si sarebbe detto che i raggi del sole fossero stati creati per accarezzarne gli zigomi alti e la pelle bianca. Eppure c'era una pennellata scarlatta nell'armonia del conte D'Artois. Un particolare che lo smascherava come simile di Rossignol: anche lui attore nel teatro degli inganni, nascosto dietro saggi consigli e motteggi arguti.
“D'Artois?” lo richiamò Alain. Il conte lo guardò brevemente, incalzandolo con un cenno del mento. “Posso chiedervi perché mi aiutate? Conoscete i precetti della Chiesa. State incoraggiando un'unione esecrabile."
Gli rispose una risata; aspra, breve, ma sinceramente sentita. Se d'Artois avesse sputato sulla Bibbia sarebbe stato meno blasfemo.
“Non siate sciocco. Abbiamo tutti i nostri peccati da nascondere.”
“Ma-”
“Vedete, io credo in una cosa: se noi umani ci proteggiamo a vicenda, l'occhio di Dio mancherà di vederci.”

 

#

 

Rossignol, caro amico,

Sono molto addolorato di non avervi visto a Corte quest'oggi.
Speravo, in realtà, di avere l'onore di incontrarvi tanto presto da immaginare di non avervi mai lasciato. Il nostro comune amico, il duca D'Artois, mi informa che siete tornato a Parigi per una faccenda che non ha specificato e non sapete quanto me ne dolga.
Sono uno dei vostri sfacciati ammiratori, come avrete ben compreso.
Non della dolce Charlotte che avete impersonato, seppure ammetto d'aver scorto in lei una grazia non comune anche tra le creature che nascono fanciulle, ma di voi come Rossignol. In mia difesa posso dire che non sono uno di quei folli a voi tanto vicini che, adorando la Commedia dell'Arte, si innamorano dell'Andreini.
Sono oltremodo affezionato a voi, in quanto Rossignol, è a nessun altro.
Temo che queste confessioni possano offendervi o spaventarvi, ma vi assicuro fin d'ora della discrezione dei sentimenti che provo per voi. M'avete incantato, Dio solo sa come, ma sono certo che il fascino che esercitate su di me sia di quelli che accadono per un volere superiore.
Voi dite: ci siamo visti due volte se è tanto! Io ribatto: avete ragione, ma non saprei come altro dichiarare i miei sentimenti. Non possiedo più l'intrinseca abilità dell'uomo nel conferire senso alle cose, me l’avete rubata e ve ne sono grato, perché senza quell’inutile propensione al ragionamento oggettivo vedo più chiaro che mai.
Accordatemi la grazia d'un solo incontro, così che possa parlarvi come il più caro fra gli amici e il più adorante fra gli ammiratori. Se non vorrete vedermi in alcuna delle due vesti, spero che quantomeno mi vorrete incontrare come un conoscente che spera di esservi amico: niente di ciò che vi chiedo vuole in alcun modo spingervi ad agire contro il vostro sincero e libero volere.
Ci incontreremo da amici e, forse, se vorrete, ci lasceremo da amici.
Spero con tutto il mio cuore che sia così. Vi rivedrò, dunque, diciamo alle cinque della mattina di domani nella sala da ballo scoperta?
Ritengo sia un luogo delizioso alla luce delle stelle; l'unico, forse, che possa rendervi giustizia.
Vi prego, venite.

Con affetto,

Alain, duca di Ovigny.

 

 

“Non è possibile!” urlò Rossignol, scagliando a terra la lettera. Madame Dorianne, pur nascondendo il proprio sorriso dietro le coperte, non riuscì a non mostrarsi più divertita che preoccupata.
“Oh, cielo,” sussurrò, “quale disastro avete combinato stavolta, mon coeur?”
“Non è possibile. Due in pochi giorni!” ripetè lui, con ancora più foga. Doveva essere stato maledetto, non c'era altra spiegazione plausibile a tanta sfortuna. Prima di potersi contenere, ribaltò lo scrittoio al quale era seduto— era stato un suo regalo comunque, avrebbe restituito alla Duchessa il maltolto con gli interessi.
“Prima... E ora... Oh, gli imbecilli fanno la fila fuori dalla mia porta!”
Se non altro, ora la donna si dava pena di mostrarsi quantomeno preoccupata. Lo fissava con le sopracciglia aggrottate, due ali color carbone che interrompevano l'avorio della fronte, con il nasino all'insù arricciato. Aveva le braccia conserte sul petto nudo ma appariva, nonostante l’aspetto grazioso e i capelli scombinati, estremamente seria.
“Rossignol...”
“Madame, è tempo che vada.”
“Senza spiegare!"
“Non c'è tempo per spiegare, non c'è tempo per vestirsi e salutarvi! Mi perdonerete.”
La donna diede in uno sbuffo infastidito, precipitandosi giù dal grande letto a baldacchino per fermare il ragazzo che già, di buon passo e senza vestiti, stava guadagnando la porta.
“No,” strillò, prendendolo per le braccia e trattenendolo meglio che poteva. Rossignol era un uomo, ma per fortuna della duchessa non era particolarmente vigoroso come certi suoi coetanei. Sfortuna voleva che fosse anche un grande idiota, quando si lasciava trasportare dagli eventi, “non fate lo sciocco, ora. Siete nudo e, come se non bastasse, chiaramente fuori di voi. Via, calmatevi. Spiegatemi.”
“Non c'è tempo, madame. Si tratta di un complotto ai miei danni”
Pur protestando, Rossignol si lasciò guidare di nuovo dentro la stanza. Compiacendosi di aver impiegato così poco sforzo nel riportarlo alla ragione, ora a Dorianne non mancava che farsi raccontare l'accaduto: credeva nella forza della ragione, come alcuni del suo circolo più intimo andavano professando.
“Di chi? Riguardo cosa?”
“Ah, vedo la mano di quel dannato D'Artois dietro tutto questo!”
Allora, si disse lei, non può essere tanto grave.
Si concesse un sospiro di sollievo, dal momento che aveva immaginato chissà che scandalo, e approfittò di un momento di quiete per strappare la lettera dalle mani di Rossignol. Non ne rimase, in realtà, affatto colpita.
“Mon coeur, è solo una lettera d'amore.”
“Lo so bene, madame. Credetemi, l'ho letta con attenzione. Ma avete compreso chi è l'emissario?”
Madame Dorianne annuì, mordicchiandosi l'orlo del nastro azzurro che le cingeva il collo; l'unica cosa, insieme alla giarrettiera, che era rimasta a coprirla.
“Un uomo che vi ama,” dichiarò, con un'alzata di spalle, “e allora? Non vi facevo così schizzinoso da adirarvi per una piccolezza simile.”
“Voi non capite,” dichiarò Rossignol, alzandosi in piedi.
Lei lo seguì con lo sguardo, lanciando di tanto in tanto occhiate alla missiva che li aveva interrotti.
Questa volta, dal modo in cui raggiunse a grandi passi il cumulo dei propri vestiti e iniziò ad indossarli, la donna comprese che le sue intenzioni d'andarsene erano serie.
E lei, si chiese? Lasciata così, ancora insoddisfatta, interrotta da quel bussare infelice che mai aveva avuto peggior tempismo. Rossignol non aveva pietà — né occhio per gli interessi altrui, ma, d'altra parte, non era lui quello abbandonato prima del tempo.
Dorianne odiava essere una donna proprio in occasioni come quelle.
“Andrò immediatamente a cercare risposta. Vi manderò un amico, nel frattempo: confido che vi tratterà bene e, se non sarà così, mandatemi a chiamare.”
“Un altro dei vostri amanti?”
Rossignol le scoccò un’occhiata cupa.
“Io non ho amanti,” sbottò, “solo persone con cui mi trovo, mio malgrado, a dover avere a che fare.”
“Beh, se lo dite voi. Ma non vi vedevo così agitato da un po’.”
“Lo sareste anche voi, se il mondo stesse complottando per farvi uscire di senno; tenetemi aggiornato sull’amico che vi manderò, mi raccomando, ci tengo molto. Vi amo, ma chérie.”
Madame Dorianne aggrottò nuovamente la fronte, accoccolandosi in un angolo del letto e stringendosi le ginocchia al petto. Non era più tanto giovane da credere alle bugie del primo monello biondo che le entrava in camera, ma le menzogne di Rossignol avevano sempre un sapore particolare; amaro.
Non lo salutò, dal momento che era molto offesa, ma non gli disse nemmeno di non tornare.
In un attimo il ragazzo fu fuori dalla sua stanza e lei, di nuovo, rimase sola.

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


IV


 

“Come avete osato.”
Il conte D'Artois possedeva occhi meravigliosi: del colore dell'ambra scura, del miele, dell'oro brunito se la luce li colpiva da una certa angolazione. Uniti alla chioma di capelli scuri, incipriati più volte al giorno, tali occhi creavano un contrasto che insolito era dir poco — dopotutto, i suoi fratelli non erano delle bellezze, né lo erano le sue sorelle — e non mancavano di attirare sul principe svariate attenzioni spesso non richieste, ma mai rifiutate.
Rossignol aveva imparato, negli anni, a non farsi ingannare dall'apparenza mite di quello sguardo. Entrato senza farsi annunciare, di buon passo, sventolando la lettera di Ovigny con parole taglienti sulle labbra, non vacillò nemmeno quando D'Artois, seduto alla propria scrivania, non aveva nemmeno alzato la testa.
Poteva giurare di aver visto i paggi sobbalzare — dodici anni appena e Rossignol, tutto guance rosee e bei modi, li aveva spaventati! Il mondo girava davvero al contrario, e D'Artois tirava fuori il peggio in lui.
“Come avete osato.” ripetè Rossignol, più duramente, quando non ricevette risposta.
D'Artois chinò il capo, senza scomporsi, e tutto ciò che fece fu posare i fogli.
“Osato cosa, mon ami?”
“La lettera! Per l'amor di Dio, non fate finta di non saperne nulla. Mi fate imbestialire; come vi è sembrato di intromettervi nei miei affari? Dovrei essere adirato con voi, Charles, non parlarvi più. Mi fate una rabbia che non immaginate!”
Solo allora un sorriso cosciente fece capolino sulle labbra dell'uomo, disegnando un arco rosato sul suo volto appuntito. Era sbagliato credere che avesse aiutato D'Ovigny a comporre la missiva poi inviata a Rossignol: gli si sarebbe data in questo modo un'importanza immeritata, ma ciò non di meno era soddisfatto di sapere che ancora una volta le semplici parole avevano smosso il tavolo da gioco. Per quel che riguardava il ragazzo ora di fronte a lui poi, in tutta franchezza, D'Artois non avrebbe mai sospettato una tale prontezza d'azione in un giovane talmente indolente da rifiutare la vita militare per darsi alla
belle vie.
Ora, va considerata la posizione di D'Artois in tutto questo: in quanto fratello minore del Re aveva una quantità considerevole di tempo libero, nonché una certa influenza su tutti gli affari di corte. A differenza di suo fratello e dei cugini, per non parlare della sua cattolica moglie sabauda, non era persona tale da esser soddisfatto scegliendo il colore dei tendaggi e cambiando i domestici a sentimento.
Voleva essere, ed era, mastro di marionette.
In ogni caso, in merito alla faccenda, aveva agito con in mente il bene del suo giovane amico.
“Via, Rossignol. Vi assicuro che mi tributate un ruolo troppo importante.”
“Di quante e quali sciocchezze avete riempito la testa D'Ovigny?”
D'Artois scrollò le spalle, prendendo una piuma e intingendola distrattamente nel calamaio, Rossignol sospettava per pura dimostrazione di disinteresse. Quando si dedicava a qualsiasi azione piegava sempre la testa di lato, impercettibilmente, e in quel momento un ricciolo bianco gli scivolò sul viso, anche se D'Artois parve non accorgersene nemmeno.
“Non so di cosa stiate parlando, Rossignol.”
“Mentite.”
Rossignol aveva le guance scarlatte nel gettare sul tavolo la lettera incriminata. Lo metteva a disagio; no, no, lo spaventava.
D'Artois guardò prima l'oggetto, con la fronte aggrottata ed un’interesse improvviso, poi il ragazzo. Aveva gli occhi scuriti e assottigliati, anche se appariva di gran lunga più sorpreso che adirato: sapeva di non potersi aspettare rispetto dell'etichetta da Rossignol, quantomeno non nel privato dei suoi appartamenti, ma era comunque un gesto che andava oltre le usuali reazioni del ragazzo.
“Amico mio...”
“Questa lettera,” lo interruppe l'altro, e D'Artois giurò che avesse gli occhi lucidi, “mi offende più di quanto possiate immaginare. Non solo sono io nella più totale incapacità di ricambiare i sentimenti professati dal vostro amico, ma mi ritrovo anche a sapere che sono sostenuti dal vostro consiglio e dalla vostra buona parola. Come posso rendere ridicolo non solo me stesso, ma voi? Si mette in gioco il vostro giudizio, qui. E con che faccia si dovrà andare da quel pover'uomo a dire 'mi duole, Sua Altezza s'è sbagliato'? Con che coraggio? Non so voi, monsieur, ma io mi sento umiliato e triste per quel poveretto, per me stesso, e per voi.”
Sentendo un senso di disagio soffocarlo, D'Artois sospirò.
Quando se ne dimenticava (e ciò accadeva più spesso di quanto volesse ammettere) erano il temperamento di Rossignol, la mancanza di contegno e la passione che mostrava a ricordargli che il suo amico era ancora un ragazzo: nel suo completo azzurro con i pizzi alle maniche, il panciotto a fiori, i capelli biondi legati da un nastro di velluto e le scarpe coi tacchetti, poteva essere scambiato per un paggio. Non era poi molto distante come età ai giovani che gli avevano aperto le porte e che, ora, ad un cenno del conte, gli porgevano un fazzoletto su un vassoio d'argento.
Rossignol lo prese e se lo tamponò sul collo, laddove il velo della camicia segava e arrossava la pelle. Nella stanza era incredibilmente caldo ed aleggiava uno stagnante odore di chiuso, di candele spente da poco, di stoffa mal lavata.
“Non si possono aprire le finestre, qui dentro?” sbottò Rossignol rivolto al paggio, più duramente di quanto non avesse voluto. “Sua altezza reale potrebbe avere un mancamento.”
D'Artois rise di cuore. Una risata ricca, che sembrava abbracciare l'interezza della stanza.
“Sembrate voi quello in procinto di sentirsi male, Rossignol,” fece notare. “Desiderate che vi si porti dell'acqua?”
“Desidero, se posso parlare esplicitamente, che sia chiarito questo terribile malinteso!”
“Ma non v'è alcun malinteso da chiarire.”
Il suono dei tacchi sul legno e delle finestre che venivano spalancate, con buona pace di D'Artois che, comunque, conveniva sul fatto che il caldo fosse malsano, quasi coprì il suono indignato che venne da Rossignol.
“E voi, questo, come lo chiamate?” replicò, con un ampio gesto del braccio. “É un problema che avete creato voi, D'Artois, come minimo dovete aiutarmi a risolverlo. Non desidero arrecar torto a chi nemmeno conosco.”
D'Artois, di nuovo, aggrottò la fronte.
“Non mentite,” rispose, con una nota dura nella voce, “avete civettato con lui.”
“Senza malizia!”
“Oh, non insultatemi, Rossignol. Non so come possiate pensare che io creda nella vostra mancanza di malizia…e non solo per D'Ovigny.”
In quel momento, e fu ovvio, Rossignol esitò. Aveva i capelli illuminati dai raggi del sole e il viso era pallido e delicato come quello d’una ragazza, ma a D'Artois sembrò sul punto di spezzarsi.
“Di cosa state parlando, monsieur?”
Offeso dalla risposta, incredulo di fronte a tanta superficialità, il conte inarcò un sopracciglio.
“Parlo di un certo nostro amico comune che pare esservi particolarmente caro. Mon ami...” sospirò, spingendo con la punta delle dita di nuovo la lettera verso il bordo del tavolo. Un gesto semplice, così poco regale che Rossignol se ne sorprese. Raramente, per non dire mai, D'Artois si mostrava vulnerabile. “Io voglio aiutarvi. Ma non rendetemelo difficile e non rendete complicata la vostra vita. Fate un favore a voi stesso e date una possibilità a questa lettera.”
“Ma...”
“Jehan.” lo interruppe l'altro. Rossignol, con un brivido freddo lungo la schiena, riconobbe dal tono del conte che la conversazione era davvero, davvero finita. “A dispetto della vostra cecità, sto indirizzando il vostro interesse su amicizie meno politicamente difficili da mantenere, e con personalità più adatte al vostro carattere. Almeno provateci, temo che non abbiate altra scelta.”


A dispetto della vostra cecità…
Rossignol camminava a testa bassa con sufficiente foga da non notare la figura vestita di scuro contro la quale si stava per scontrare, infuriato con sè stesso e con D'Artois, con D'Ovigny per essere innamorato, o così diceva, e persino con la Regina per averlo degnato di uno sguardo. In realtà, non gli importava nemmeno di finire a gambe all'aria e di imbarazzare sè stesso, in quel momento, e nulla gli importava se non il fomentare la propria indignazione verso I ridicoli precetti di D'Artois; come poteva, un uomo, essere tanto annoiato da pretendere di influenzare i cuori altrui?
Era senza speranza.
Lui era senza speranza.
Due mani gli si posarono sulle spalle, fermandolo. Più tardi, raccontando l’accaduto, Rossignol avrebbe detto che tale figura in completo di velluto nero, una visione quasi funeraria nell’oro baciato dal sole del palazzo, si muoveva come una fantasma senza fare rumore, di ombra in ombra per sfuggire ai pettegolezzi e alle tentazioni, ma doveva ammettere (non l’avrebbe mai fatto) che probabilmente la collisione era avvenuta a causa sua, e del fatto che l’ira lo avesse momentaneamente accecato.
“Rossignol. Che—” la voce esitò, abbastanza a lungo per dare il tempo a Rossignol di trattenere il fiato e capire chi l’aveva fermato. “Che sorpresa.”
Sorpresa, certo. Rossignol avrebbe voluto scoppiare a piangere lì, in quel momento: era una maledizione e lo perseguitava.
Tuttavia, delicatamente, le mani che il Principe T. Gli aveva posato sulle spalle lo spinsero leggermente di lato, dove non sarebbe andato contro nessuno qualora avesse voluto proseguire il suo cammino. Con un sospiro di sollievo, Rossignol lo prese come il tacito desiderio di non proseguire quella conversazione oltre gli educati convenevoli.
“Principe? Cosa ci fate qui?”
Le labbra del principe T. si stiracchiarono in un sorriso; provo di spirito, Rossignol avrebbe detto, poiché non c’era luce nel fondo degli occhi blu dell’uomo. Avrebbero potuto essere belli, se non fossero stati freddi. Ipocriti e freddi. Oh, Rossignol, si lamentava una voce nella sua testa, non potevi scegliere con più giudizio? In mancanza di un amante decente, di un Apollo, persino di un Dio della Guerra, ti sei lasciato irretire da un Dedalo intrappolato nel suo stesso labirinto. Solo perchè non hai Ginevra, quanto puoi essere stupido per innamorarti di un Lancillotto qualsiasi? 
Sicuramente c’erano scelte migliori. Per dio, persino D'Artois era una scelta più assennata.
“Devo davvero dirvelo io, Rossignol?” replicò, con una risata sottile; Rossignol era certo di non averlo mai sentito ridere prima d’allora. “Ci vivo, proprio come voi.”
“Ah, ma allora sapete scherzare! Vi vedo allegro, oggi: dite, siete forse guarito dalla vostra ridicola ossessione per me?” 
A dire il vero, Rossignol aveva iniziato a pensare che ci fosse una sfumatura apocalittica nell’affetto che T. proclamava nei suoi confronti, più che ridicola. Ridicola era una commedia, ma i giorni passavano, gli incontri si susseguivano e Rossignol aveva smesso di ridere da un pezzo.
“Mai,” dichiarò l’uomo, con una rigidità di spalle che fece ridacchiare il ragazzo.
“Siete sempre così formale,” replicò  il ragazzo muovendo un passo indietro, liberandosi dal contatto del suo interlocutore. L’idea che D'Artois potesse spuntare da una parete e accusarlo di essere civettuolo gli attorcigliava lo stomaco. “E intimidite, ve l’hanno mai detto? Mi sembra di avere sempre a che fare con il mio confessore,”
“Non vi stancate mai di offendere, non è così?”
“Oh, non sforzatevi di trovare cattiveria dove non c’è, principe, non intendeva essere un’offesa. Intendevo dire, se volete, che ci distinguiamo da questa massa di sciocchi, io e voi. Il diavolo e l’abate, che ve ne pare?” 
Il principe T. sorrise. Non era una dimostrazione plateale, ma un sentimento privato, animato da una tenerezza che spinse Rossignol a ridere a propria volta con la sensazione di starsi scambiando un gesto ben più intimo di una stretta di mano. Quando riusciva a incrinare la maschera di serietà drammatica a cui T. si aggrappava con una forza feroce, sentiva di poter vincere qualsiasi battaglia. Una bella novità, se non fosse stato per l’ombra della discussione recentemente avvenuta.
“Addirittura il diavolo. Vi credete così furbo?”
“Sono gli sciocchi infatuati come voi che me lo fanno credere” Replicò Rossignol, con una certa soddisfazione civettuola di cui si rese conto solo troppo tardi, “ho delle faccende da sbrigare, ma aspettatevi una mia lettera molto presto. Vi ho organizzato una sorpresa.”
Il principe T. sbattè le palpebre, incuriosito. 
“Che genere di sorpresa?” 
“Se ve lo dicessi, dove starebbe mai il mio divertimento? Fidatevi di me, Principe.” 

 

#

 

Più le ore passavano, più rimuginava sulla lettera recentemente ricevuta e sull'impossibilità di sottrarsi all'incontro con D'Ovigny, più il mondo si stringeva su Rossignol, diventando minuto dopo minuto un luogo senz'aria nè luce, una situazione senza uscita.
Non avete altra scelta, gli aveva detto D'Artois, e ora quelle parole rintoccavano nella sua testa assieme ai secondi, tramutandosi da minaccia ad una realtà alla quale non aveva modo di sfuggire.
Accompagnato da una serie infinita di sospiri e insulti rivolti a sè stesso che riempirono le stanze dei suoi appartamenti, poco prima dello scoccare della metà della notte il giovane prese una decisione: non era riuscito a prendere sonno quella sera, nonostante fosse rientrato tardi e nonostante avesse bevuto nella speranza che il vino lo facesse scivolare in un oblio privo di sogni, ma non sarebbe stato un problema se la sua mente fosse stata impegnata in pensieri piacevoli. Invece, non faceva che ripensare al proprio bene, o quello che secondo D'Artois era tale, e alla tragica verità che avrebbe anche potuto ricambiare i sentimenti di D'Ovigny, forse, se non fosse già stato impegnato altrove, e contro ogni buonsenso.
Dopo essersi rigirato nel letto per quella che era sembrata un’eternità era arrivato alla conclusione che era necessario allontanarsi per qualche tempo, e in fretta. Immediatamente, addirittura, dal momento che attendere da lontano il passaggio della tempesta, piuttosto che indugiare nell'occhio del ciclone, era da sempre considerata la scelta migliore; tanto più per lui che non vantava alcun coraggio e non ne aveva intenzione.
Saltò giù dal letto, gettando le coperte a terra, e si disse che non avrebbe sprecato un solo minuto di più.
Dal momento che aveva fretta di partire, Rossignol riservò soltanto a D'Artois una visita personale, ben sapendo dove trovarlo dopo una notte in cui non era affatto andato a dormire perché, in anni e anni, Rossignol aveva imparato che il conte amava l'aria rugiadosa dei giardini al primo sorgere del sole. Il mulino, la piccola latteria, lo scorrere cadenzato dei ruscelli e l'ambiente profumato del fornaio: tutto ciò gli dava sollievo, se la notte non riusciva a dormire a causa del russare sgraziato di sua moglie o del vino che lo rendeva vivo.
Lo trovò esattamente dove si aspettava, seduto sotto una grossa quercia, con le gambe strette al petto e i calzoni bianchi macchiati d'erba, e gli si sedette accanto.
“Sto partendo.” mormorò.
Gli parve quasi di vedere D'Artois sorridere all'orizzonte.
“Questo lo vedo. Fate buon viaggio.”
“Tornerò tra un paio di settimane.” assicurò il ragazzo, stringendosi nelle spalle. Aveva pensato e ripensato all'idea mille volte, annullando e disfacendo piani per ore intere, intrappolato com'era tra il desiderio di restare a corte e il bisogno di fuggire dal disastro che si era venuto a creare. In un certo senso si sentiva un traditore a lasciare quei prati, voltare le spalle a quell'oro e a quelle candele, non vedere più i principi e la principessa, dimenticare le notti passate al tavolo da gioco e quelle all'Opera...rinunciare a tutto ciò che amava gli squarciava il petto con un dolore che gli faceva sospettare che sarebbe morto nell'esatto istante in cui la carrozza avesse varcato i cancelli.
“Fate buon viaggio,” ripetè D'Artois, senza guardarlo.
Rossignol sospirò.
“Non siate arrabbiato con me, vi prego. Ho bisogno di pensare.”
“No, sono d'accordo con voi— forse è necessario, a questo punto, e vorrei avervelo suggerito io. Ma tornate quando avrete smesso di preoccuparvi e scoprirete che la vostra ombra è rimasta qui, che lo vogliate o no.”
“Mi auguro di no. Non desidero che alleviare il loro dolore.”
Loro…quando era diventato un “loro”? Il principe T, D'Ovigny, il conte D'Artois stesso, che l'amava come un fratello. E ancora Madame Dorianne, nel suo letto a Parigi, e la vivace regina Antoinette con il suo schiamazzante entourage che lo viziava come una bambola di porcellana. Si chiedeva quando si fosse trasformato in una creatura tanto distruttiva, e perché nessuno si fosse preso la briga di avvertirlo, di fermarlo.
“Scriverete a D'Ovigny?” 
Rossignol sentì montar dentro una grande costernazione, ma aveva il sospetto che fosse solo senso di colpa. Sì, aveva scritto anche a quel particolare signore che tanto generosamente l'aveva ammirato, ma non aveva desiderio di alimentare i piani che D'Artois aveva per lui; tuttavia, si imbronciò alla domanda.
Monsieur, come potete mai pensare che sia così meschino da sparire senza una parola?” replicò, con le guance bollenti, “se sono stato senza cuore in passato, mi guardo bene dall'esserlo ancora.”
L’uomo rimase in silenzio, ma annuì.
Molto bene, sembrava dire, allora puoi ancora imparare qualcosa, e non tutto è perduto.
Alzandosi e scrollandosi l'erba fresca dai calzoni scuri, riconoscendo benissimo un congedo quando ne vedeva uno, Rossignol pregò che avesse ragione: un periodo in campagna avrebbe fatto bene a tutti loro, che erano mutati, chissà quando, chissà come, da gentiluomini a delle anime ferite, ad una nuova razza umana che non sapeva distinguere dalle bestie.
L’aria, da Versailles a Parigi, era diventata rovente ed irrespirabile.

 

#
 

Non aveva mentito riguardo la lettera per D'Ovigny: la notte precedente, dopo aver buttato giù dal letto il proprio paggio in maniera piuttosto letterale ed averlo istruito di mandare a chiamare un cocchiere, affittare una berlina e preparare i bagagli con lo stretto necessario, Rossignol si era sentito soddisfatto e, con il respiro in gola, si era messo allo scrittoio. 
Non un conoscente né un amico venne dimenticato: scrisse decine di lettere e, con gli occhi stanchi e le dita sporche d'inchiostro, il ragazzo giurò a sè stesso che non avrebbe mai più scritto nulla che potesse essere inteso in modo malizioso.
Non andò ad incontrare il duca D'Ovigny, che alle cinque in punto fu raggiunto da un giovane, sì, ma che non era quello che attendeva.
Remis, con i ricci fulvi e il viso costellato di lentiggini, apparve all’uomo anticipato dal rumore dei tacchetti che affondavano nel selciato. Profumava di lavanda, come tutto ciò che apparteneva a Rossignol.
“Vi porto una lettera del conte Jehan Henri Marie de Gramont, monsieur.” dichiarò, con un inchino, porgendo a due mani il piattino d'argento su cui giaceva una lettera. 
Assottigliando gli occhi azzurri, D'Ovigny osservò la pesante carta beige e la realizzazione lo investì con la forza di una valanga: Rossignol non l’avrebbe incontrato, non lo voleva incontrare. Aveva atteso tutta la notte con una trepidazione di cui si vergognava e che lo aveva fatto sentire come un ragazzino, fragile ed in balia dell'umore altrui, e la giornata si apriva con la peggiore delle notizie; ma era un uomo, Alain, e con un sospiro si disse di agire come tale nonostante il cuore sembrasse volergli sfondare il torace. Con una certa, bonaria rassegnazione della quale non si sarebbe mai creduto capace, prese fra le mani la lettera e il suo profumo lo avvolse: persino la ceralacca che la sigillava sapevano di un intenso aroma di lavanda, come se ne fosse stata appositamente impregnata per essere impossibile da non riconoscere.
“Cos'è, si toglie dall'impiccio di uno scomodo incontro?” domandò, con una risata.
Remis, che pure di norma non sarebbe stato tenuto a rispondere ad una tale affermazione, scosse la testa.
“Temo che non sia così facile come credete, signore.”
Alain, allora, gli lanciò uno sguardo. Sollevò il sopracciglio, perplesso, e si rigirò la lettera fra le mani come se avesse paura ad aprirla. In realtà, era momentaneamente incuriosito dalla bestiolina rossa e dinoccolata davanti a lui, che pareva essere eternamente fedele al suo giovane padrone: il giovane, con il suo accento forte di Calais e il sorriso tirato sul viso da bambino, era una perfetta ramificazione di Rossignol.
“Avete pochi anni meno del conte, figliolo.” commentò, studiandone il volto. “Eppure lo seguite più come un paggio che come un amico. Da dove viene la vostra famiglia?”
“Poitiers, signore. Mia madre era inglese.”
Dicendosi che una risposta del genere era più che prevedibile, l'uomo annuì. Il loro dialetto, la cadenza fra le vocali e l'intonazione della frase erano simili, dopotutto, come se fossero cresciuti nello stesso borgo, e nessuno come Alain conosceva le implicazioni d'essere un nobile dimenticato di provincia.
Quanti ragazzi aveva visto lasciare i loro castelli arroccati per recarsi nelle case dei patroni di città... Il suo stesso fratello aveva servito presso una famiglia di Parigi, ma oramai era lontano da casa da così tanto tempo che il duca a stento ne ricordava il viso.
“Siete sotto la protezione del nostro buon Rossignol, non è così?”
“Sono stati così cortesi da prendermi in casa con loro. La dama di compagnia di Madame de Gramont è una lontana parente e monsieur aveva espresso l'esigenza di un paggio,” con disinvoltura, come se la storia non lo toccasse affatto, Remis si strinse brevemente nelle spalle. Sulle labbra color della terra cotta c'era ancora il sorriso di poco prima. “Quindi, credetemi, non è stato facile per lui scrivere queste parole.”
Alain attese un istante, prima di domandare:
“Volete bene a Rossignol?”
E, se la richiesta aveva tremato dell'esitazione di Alain, non ve ne fu nella risposta; venne pronunciata come un giuramento, parole forti per chi era a malapena un ragazzo.
“Nel modo più assoluto.”

 

Amico mio,

Non so come rispondere al vostro biglietto, se non scusandomi per la tremenda mancanza che vi faccio nel non presentarmi.
Ho deciso di partire, non so ancora per quanto tempo, dal momento che il mio corpo ultimamente ha deciso di non essere più vigoroso come una volta.
 Sono giovane e questa improvvisa debolezza mi spaventa, ve lo confesso, dunque mi trasferirò per qualche settimana nella tenuta estiva dei miei genitori, luogo dove vi chiedo di non seguirmi.
Se mi incapricciassi riguardo l'avervi con me, per quanto la vostra compagnia mi sia cara, non otterrei l'effetto che desidero
— cioè quello della solitudine, della meditazione, e del riposo-, per non parlare delle malevolenze e delle invidie che un tale trattamento di favore susciterebbe. Nel migliore dei casi, ho ragione di pensare, mi ritroverei con l'intera corte stipata in un'umile residenza di campagna; non ho motivo di mentirvi su quanto la mia presenza sia, ultimamente, richiesta, nonostante io stesso ne ignori nel modo più totale la ragione.
Questa vita mi sta dimostrando un affetto che non merito. 
Ad ogni modo, confido di trovarvi ancora a Versailles quando sarò tornato. 

Quando il momento sarà giunto potremmo rivedere i termini di questo incontro mai avvenuto e, se ciò potrà farvi piacere, ci vedremo allora.

 

Sì, Alain poteva capire perchè Remis fosse così devoto al suo padroncino.
Strinse la lettera fra le mani, se la portò prima al cuore e poi alle labbra inalando ad occhi chiusi il suo avvolgente profumo di lavanda. Com'erano promettenti quelle parole e che soave agonia sarebbe stata attendere il ritorno del giovane; non un giorno sarebbe passato, si ripromise, senza cercare di scorgere tra la folla i boccoli biondi e le belle mani di Rossignol.
Non era triste essere abbandonati così poiché, in fondo, non l'aveva abbandonato affatto.
Alain, con un gran sorriso, rimase ad attendere il mattino passeggiando nei giardini, in compagnia dei propri pensieri e del profumo di Rossignol.

 

#

 

C'era, infine, un'altra faccenda di cui Rossignol si sarebbe dovuto occupare, perlomeno in teoria, quella notte. 
Madame Dorianne sarebbe rimasta sola per un po' di tempo, privata di uno dei suoi amanti più insistenti a causa di quella piccola défaillance, e ciò apriva la strada a Rossignol per creare un pretesto in modo da indirizzare da lei il principe T. nella speranza di placare i bizzarri sentimenti di quest’ultimo. 
Quella era stata la lettera che aveva richiesto più attenzione, tanto da dover essere rimandata al giorno dopo, e a quello dopo ancora: una volta arrivato in campagna non v’era stato tempo per mettersi allo scrittoio, e Rossignol aveva insistito nel supervisionare personalmente che la casa fosse rimessa in sesto secondo le sue direttive.
In quanti modi puoi procrastinare, è incredibile, si era detto un giorno, pieno di meraviglia nel vedere che era già passata quasi una settimana e non aveva accumulato che decine di scartoffie, nessuna buona per essere usata e tutte prive di un serio impegno nell'esprimere una parvenza di sincerità — e, ad ogni modo, chiunque sostenesse che la sincerità era una strada facile e soddisfacente era un farabutto o un imbroglione.
Rossignol aveva scartato decine di fogli ed era già alla metà del suo ottavo giorno di villeggiatura, circondato dal verde e dal canto degli uccelli selvatici, quando alla fine aveva raggiunto un risultato soddisfacente.

 

Mio caro amico,

Come di anticipavo, ho una sorpresa per voi: parto; sono partito.
Ebbene sì, mi avete fatto scappare.
Bravo, principe. Plaudirei i risultati della vostra ossessione per me, se non mi aveste recentemente detto di non esservene ancora liberato e spero che questa mia presa di posizione ve lo renderà più facile. 
Vi confesso che siete una delle persone che desidero vedere al mio ritorno, e dovete questo mio ritardo nell'informarvi della mia partenza solamente alla mia personale codardia. Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace — e in quanto mio personalissimo confessore, siete obbligato a perdonarmi, vi ricordo. Vi immagino protestare, ma è il ruolo che vi siete scelto, mon ami, fatevelo andar bene. 

Non sono malato, anche se spero che manterrete il segreto riguardo questa piccola menzogna, ma necessitavo di un periodo di riflessione nella tranquillità della mia solitudine. Al momento alloggio nella casa di mia madre in campagna, un delizioso casolare con pochi domestici e molto silenzio, e passo le mie giornate cavalcando e componendo versi. Se ve lo state domandando, sí, io non mi sarei mai esiliato volontariamente in un luogo del genere, per ameno che sia: Sua Altezza è stato, tra le righe, sostenitore del mio ritiro temporaneo.
Io credo abbia ragione, quindi eccomi qui.
Non vi chiedo di capire, ma dovete sapere che molte cose sono accadute nell'ultima settimana, vicende che mi hanno lasciato scosso e in preda agli incubi. Conto di rimettermi in sesto per la prossima soirée interessante, anche se già so che non apprezzerete questo commento. Ah, vi posso quasi sentire mentre predicate e dividete il giusto dallo sbagliato, il peccaminoso dal divino.
Siete un ipocrita, principe, ed è una cosa che amo di voi.

Quanto a voi e al nostro comune problema, sappiate che non mi sono dimenticato della conversazione che abbiamo avuto nei giardini e mi sono permesso di parlare di voi ad una gentildonna a me molto cara. Madame Dorianne è sola, da quando quando suo marito è morto di vaiolo, ma non certo priva di amicizie e compagnia: il suo salotto è fra i più frequentati di tutta Parigi. A Venezia e Firenze parlano di lei come dell'incarnazione di Erebo, e un sonetto o due sono stati composti in suo onore da nomi illustri di cui ora non ho proprio memoria. Donne da tutto il mondo la invidiano e le signore a Parigi la ammirano, ma lei non se ne fa vanto, e converrete che una tale modestia è encomiabile di questi tempi.
Solitamente non ha tempo per le nuove introduzioni, ma le sono specialmente caro e farà un'eccezione e vi invita per una serata di carte.

Fatemi questo favore, mon ami, andate a farle visita.
Potrebbe sollevarvi il morale (e ho fiducia in altro) e io ne sarei enormemente rassicurato.

Rossignol

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


V



Nonostante la maggior parte dei suoi amici e conoscenti avesse accettato a malincuore la scelta di Rossignol di ritirarsi in campagna, fingendo di credere ad una salute cagionevole mai manifestata prima d’allora, Madame Dorianne non si era dimostrata altrettanto generosa con il ragazzo e la sua rocambolesca sparizione: comprendendone il vero motivo, e certamente non credendo alla scusa, era stata meno incline a perdonarlo.
La corrispondenza della donna era sporadica e svogliata, tratti che Rossignol sapeva ormai tradurre in quel comportamento femminile quantomai irritante e tipico che si risolve immancabilmente nella sensazione, da parte dello sventrato destinatario delle missive, d'essere volutamente ignorati.
Il ragazzo comprendeva di aver offeso la vanità di Madame Dorianne esiliandosi temporaneamente dalla sua scuderia, ma non vi dava troppo peso. Inoltre, come se la freddezza dei toni non fosse sufficiente, le poche righe che la donna si degnava di scrivergli non erano portatrici di buone notizie.
Parlava del suo salotto, frequentato dal più disparato genere di nobildonne e nobiluomini, delle nuove candele e dell'inchiostro profumato ai fiori che stava andando a ruba, ma riportava anche l'eco delle voci che serpeggiavano nelle vie di Parigi e alle quali neanche il più stupido degli uomini poteva rimanere indifferente: la farina scarseggiava, le panetterie e i forni chiudevano l'uno dopo l'altro, le donne mercanteggiavano per della merce muffita. In una lettera particolarmente accorata, Madame Dorianne aveva riferito che la la domestica di un amico aveva portato a casa solo pochi pezzi di pane per un prezzo esorbitante, da quando l'impasto per le focaccine veniva allungato con della sabbia. Persino le botteghe che provvedevano alle spese più basilari iniziavano a rifiutare di far credito.
Rossignol le aveva risposto allegando del latte fresco e una gallina per le uova, troppo occupato per dare anche il minimo peso alla faccenda e privatamente compiaciuto con la propria bontà d’animo (e con la campagna, che rendeva la galanteria vergognosamente facile).

Il popolo ha sempre fame, che ci volete fare.” aveva risposto, tra una riga di pettegolezzi e l'altra. “Sono una razza vorace e bizzarra, lontana dalla civilizzazione del mondo, e la loro sfortuna li rende inclini all'esagerazione. Lanciategli del mangime dalle vostre finestre e si placheranno”.

Le settimane parvero dargli ragione, dal momento che le voci sulla mancanza di cibo e sulla riottosità del popolo rientrarono come una grande, violenta risacca. Rossignol fu talmente fiero di quella sua predizione che ne scrisse ai fratelli, i quali gli risposero con lunghi biglietti pregni di considerazioni politiche: tali esempi d'affetto fraterno, al quale non aveva mai aspirato, andarono ad ingrassare il fuoco nei caminetti della tenuta senza esser stati nemmeno letti.
Tutt'altro trattamento venne riservato alla risposta del Principe T., la quale arrivò in un giorno di pioggia; un pomeriggio umido e grigio, ma che segnò la fine della lunga attesa di Rossignol.

 

Amico mio,

Come vi trovate in campagna?
Mi sorprende sapere che il delizioso villaggio della Regina non sia un paesaggio abbastanza campestre per i vostri gusti, ma comprendo perché Sua Altezza, che entrambi consideriamo un buon amico e che ha a cuore la vostra tranquillità, vi abbia consigliato di passare del tempo da solo.
Io stesso ne sento il bisogno, di tanto in tanto. Mancate a tutti, qui. Versailles è il solito alveare senza riposo e, con il favore del bel tempo, è stata organizzata una battuta di caccia al fagiano in onore di un barone vecchio di mille anni tornato dalla Svizzera. Il conte Fersen spicca per bellezza in questi giorni, e fa sentire meno la vostra mancanza con le sue storie Americane: ancora una volta ci ha trascinati tutti a Yorktown con le sue parole, e mi meraviglio di come sia un racconto che non invecchia mai.
Per quel che riguarda me, accolgo la vostra richiesta con non poca curiosità.
Madame Dorianne è conosciuta per la raffinatezza: un gioiello raro che, temo, troverà rozza la compagnia della mia persona.
Tuttavia non posso negarvi di certo questo favore, al quale sarò ben felice di adempiere al più presto.
Sono cosciente che il risultato di questo incontro potrebbe causare imbarazzo al vostro ritorno, per un motivo o per l’altro, ma immagino saprete trarre motivo di divertimento dalla situazione.

T.
Principe di Waldeck-Pyrmont

 

Non fu necessario aspettare tanto di più per la risposta; a differenza del principe T., chiaramente oberato dagli obblighi dell'etichetta e dal peso di appartenere alla famiglia reale, Rossignol si era riscoperto ad oziare senza nulla di meglio da fare che occuparsi degli affari dei propri amici.
Era presente come non era mai stato prima, anche se lontano.

 

Amico mio,

Nessuna offesa. Al contrario, non posso fare a meno di apprezzare le parole che mi dedicate e convengo che, nel momento in cui tornerò a Versailles, potrebbe esservi un certo imbarazzo e la prospettiva mi spaventa grandemente.
Vi prego, non pensate che il mio ritiro abbia qualcosa a che fare con voi: è una necessità dettata dagli avvenimenti generali, ma in alcun modo sto cercando poco educatamente di evitarvi. Se potessimo essere buoni conoscenti, credetemi, vi inviterei qui a trascorrere dei giorni in cui vi mostrerei i dintorni e vi presenterei gli stalloni nelle scuderie di famiglia, i quali sono, in realtà, animali ancor più prodigiosi di quanto ricordassi; vi mostrerei i ritratti dei quali mia madre va tanto fiera.
Ma temo che tutto ciò non sia possibile.
Mi sono riscoperto un amante della musica, sapete: mi siedo al piano e compongo, compongo finché non mi dolgono le dita e la gola, da quando sorge il sole fin quando non cala oltre le montagne a ovest.
Quando tornerò, e succederà presto, dacché la campagna inizia a venirmi a noia, canterò per la Regina.
Sono certo che si divertirà nell'assistere ai bizzarri strimpellamenti di un povero ragazzo riscopertosi menestrello, e tutti sappiamo quando la nostra Regina ami una bella risata e un passatempo divertente.
Quanto a voi, amico mio, avete quindi seguito il mio indirizzamento? Vi prego, non tenetemene all'oscuro: dal momento che Madame è oltremodo offesa per la mia sparizione, capite bene che siete l'unico che può darmi notizie sul vostro eventuale incontro.
Eventualità che, come sapete, sostengo con tutto il cuore.

Rossignol

 

Con il tempo, Rossignol si accorse che la lontananza non era servita a schiarire la sua mente.
Al contrario, man mano che passavano i giorni l'immagine del principe T., del suo bel viso dai tratti affilati e del suo carattere irritante, si faceva più delineata tra i ricordi. La lontananza smussava gli angoli che il ragazzo era stato portato a giudicare severamente in un primo momento, rendeva più sopportabile e quasi piacevole il suo continuo predicare. Rossignol non l'avrebbe mai detto, ma attendeva con ansia le lettere da Versailles solo per poter vedere la calligrafia del principe.
Era talmente annoiato e provato dalla solitudine che quando sentì il rumore degli zoccoli in lontananza immaginò che fosse il principe — o magari D’Ovigny, stanco di aspettarlo come si aspettava un marito in guerra. Aveva preso l’abitudine di passeggiare senza guida né compagnia per sentieri un tempo battuti dai suoi fratelli, quando ancora Guy viveva in Francia e agli uomini della famiglia piaceva trascorrere I pomeriggi a caccia di anatre selvatiche. Parte di Rossignol si era convinta che, in cuor suo, sperasse di veder spuntare da dietro un tronco un passatempo, una fanciulla che aveva perso la strada (e possibilmente di buon carattere, o bella, perché ne aveva avuto a sufficienza delle vecchie lattaie curve e grasse che puzzavano di burro) o una bestia in grado di strapparlo finalmente alla sua misera esistenza fatta di dubbi, imbarazzo e gran mal di testa.
Dunque, quando apparve una figura vestita di velluto blu fra gli alberi, la mente di Rossignol pensò immediatamente che fosse giunto finalmente il momento di scontare le promesse amorose disattese di recente.
Doveva saperlo, però, che entrambi gli uomini lo rispettavano a sufficienza da accettare di attendere il suo ritorno senza forzarsi e che c’era solo una persona, in tutta Versailles, impaziente abbastanza da presentarsi alla sua porta senza invito.
Rossignol si fermò, prendendo un profondo respiro.
D’Artois indossava un cappello dalle piume vistose, morbide come nuvole, e la sua presa era salda sulle redini di un cavallo dall’occhio disinteressato, ambrato come quello del padrone e altrettanto luminoso. Quando il conte tirò le redini dolcemente, la criniera castana dell’animale si illuminò di riflessi dorati sotto la luce filtrata dagli alberi. Tuttavia, per quanto opulenta fosse la visione del Figlio di Francia in velluto blu e cappello di piume e sorriso amabile, Rossignol si imbronciò immediatamente.
“Come mi avete trovato?” sbottò, prima ancora che l'uomo potesse parlare.
D’Artois gli dedicò un sorriso smagliante, carico di soddisfazione. Tale gesto d'amicizia strideva sgradevolmente con le braccia incrociate e la ferma scontentezza del ragazzo, ma ciò sembrava solo divertirlo di più.
“Vi potrà stupire, ma la tenuta della vostra famiglia non è esattamente nascosta al mondo.”
“Intendo, qui.”
“Non eravate in casa; fortunatamente, Remis è un bravo ragazzo e vi ha a cuore, ed evidentemente conosce le vostre abitudini.”
“Ah,” mormorò.
Mentalmente, si appuntò di proibire a Remis di parlare a sproposito.
“Non siate troppo duro con il vostro piccolo paggio, vuole solo il vostro bene.”
“Certo, vendendo la mia posizione a…” lo soppesò con lo sguardo,  sollevando un sopracciglio per quanto fosse difficile dimostrare supponenza con un principe della casa reale, per lo più su un cavallo che al garrese doveva essere più alto di Rossignol di almeno mezza testa, “voi. Sono ancora arrabbiato con voi.”
“Ed io con voi, ora, amico mio. Non siete più un ragazzino, Rossignol; una fuga è interessante solo se dura qualche giorno.”
Con uno sbuffo, Rossignol si passó una mano fra i capelli biondi, liberi delle solite costrizioni.
Avrebbe dato qualsiasi cosa per vivere sempre così, senza fiocchi e in maniche di camicia, perché tutto il resto lo stancava più di quanto riuscisse ad esprimere a parole.
“Manderò Remis ad avvisarvi quando sarò pronto, ma per ora è un giorno lontano.”
“Avete fatto intendere al Principe che fossi io la causa del vostro ritiro.”
“Vivace sostenitore,” parafrasó lui, aggrottando le sopracciglia. La ricordava a memoria, ormai, quella lettera. “Pensavo vi piacesse credervi marionettista, Altezza, e con una bambola così bella, poi.”
Il conte sospiró pesantemente e, come se il destriero fosse tanto frustrato quanto il nobile padrone, anche il cavallo sbuffó un nitrito.
“Rossignol—“
“E sia: ve lo concedo, avete ragione. É sufficiente a farvi andare via, ora, e lasciarmi in pace?"
D'Artois sogghignò.
"E io che pensavo di fermarmi qualche giorno."
"Non oserete. Comunque sia, sì, avete ragione e questa fuga non è divertente, ma non ho mai inteso che lo fosse. E dunque siamo pari, non è così?” Rossignol sorrise, un sorriso che non gli illuminava gli occhi, “io non sono un ragazzo, e voi non siete un gentiluomo, monsieur.”
D’Artois storse il naso, indeciso riguardo il cosa farsene di tale insinuazione. In un altro momento forse l’avrebbe dismessa come una giacca vecchia, ma il cupo languore della campagna rendeva Rossignol più sincero che mai.
“Mi ferite," dichiarò.
“Una vecchia matrona di bordello, ecco cosa siete.”
“Addirittura?” replicò d’Artois, con una risata.
“Siete fortunato che non vi dica di peggio. Vi definite mio amico, ma vi sfugge che non sono un intrattenimento che potete vendere a vostra cugina, o a D’Ovigny, o al miglior offerente,” aggrottò la fronte, incapace di fermarsi, “il mio tempo, il mio affetto, la mia compagnia non sono cose che potete manipolare. Se avete creduto il contrario, non siete meglio di un qualsiasi pappone imbellettato.”
Ah, dunque era quello che gli era pesato per tutto quel tempo, era uno dei tanti pensieri che l'avevano spinto a fuggire. Pronunciando le parole che aveva imaginato nella propria testa mille volte, Rossignol si sentì come se qualcuno avesse sollevato una pietra dal suo petto.
“Siete davvero ancora offeso con me?” Domandó d’Artois, con un sorriso che appariva più assorto di un momento prima, sebbene fosse ancora leggero, “E io che ero venuto anche ad accettarmi della vostra condizione.”
“La mia condizione è perfettamente confortevole, come potete vedere. È la faccia con cui mi ripresenterò ai vostri amici, cosí come a vostra cognata, che mi sfugge.”
“Avete pensato alla mia proposta per D’Ovigny, nel frattempo?”
“Altezza!”
Era incredibile. Aveva appena finito di indignarsi per l’essere paragonato ad una vecchia mezzana e già iniziava ad organizzare per lui qualche altra liason da consumarsi negli angoli, nei vicoli, nel crepuscolo delle feste terminate in bagordi. E per cosa? D’Ovigny era un duca di provincia mentre il principe era sangue reale, blu come la malinconia che animava i suoi occhi sempre troppo seri.
Indispettito, Rossignol strinse gli occhi.
“Dite, avete forse paura di uno scandalo?”
D’Artois alzò gli occhi al cielo.
“No, naturalmente,” ma esitó, prima di ammettere, “in parte. Il nostro principe tende ad essere precipitoso. È particolarmente sensibile, se volete. Non ha lo stomaco, nè la posizione, per stare ai vostri giochetti; D’Ovigny, al contrario...”
“Ma non sono in alcun modo innamorato di D’Ovigny.”
Se ne pentì immediatamente, vedendo gli occhi scuri di D’Artois sgranarsi come se avesse appena giurato fedeltà a Satana, in un misto di orrore, realizzazione e perplesso divertimento che rendeva quelle parole distorte, ne prendeva il buono e lo gettava via per trarne una confessione. Rossignol rabbrividì di fronte all’enormità dell’errore commesso.
“Oh?”
“Né di quell’altro vostro principe, ovviamente.”
La fretta con cui l’aveva aggiunto sembró solo rafforzare i sospetti di D’Artois. Che poi era assurdo, perché Rossignol non era sinceramente innamorato di alcuno — era ossessionato, e divertito, e a tratti terrorizzato, più spesso non riusciva a dormire in preda a pensieri bizzarri che gli suggerivano di testare le difese di T. fino alla fine, per capire, per sentire, per vedere cosa valesse quell’amore che professava.
Quell’amore che aveva un volto così buffo se indossato da un uomo compassato che lo offendeva con quelli che credeva essere compimenti.
Mentre ci pensava, il rumore di zoccoli sul selciato lo riscosse; D’Artois aveva fatto voltare il cavallo.
“Dove andate ora?” sbottó, aggrottando la fronte.
“A Versailles.”
“Non rimanete a cena, almeno, dopo tutta questa strada?”
“La vecchia matrona se ne va, Rossignol.” Esplodendo in una risata argentina, D'Artois scosse la testa. Non era nient’affatto offeso, ma Rossignol temeva che non avesse nemmeno compreso nulla della loro discussione — o peggio. “Ero solo venuto ad accertarmi che non foste troppo malinconico.”
“Dovreste davvero pensare di meno ai miei affari e preoccuparvi di più di vostra moglie, sapete?”
Già dandogli le spalle, il conte stava ancora ridacchiando.
Rossignol si chiese se fosse ubriaco, o disabituato all'aria della campagna; sì, doveva essere il vino.
“Quella puritana? Via, Rossignol. Statemi bene, e vedete di non tornare quando saremo tutti morti per la noia.”

 

#

 

Fu in una mattina di primavera inoltrata quando, rientrando dalla passeggiata mattutina, Rossignol si vide correre in contro la figura affannata di Remis, la coda ornata di pizzo della giacca blu che svolazzavano dietro di lui.
“Monsieur!” chiamò, con il respiro pesante e i capelli rossi così scompigliati che sembrava essersi appena alzato dal letto.
Rossignol sorrise tra sé, divertito da tutta quell'agitazione di prima mattina, e spostò tutto il peso sul bastone da passeggio in una posa rilassata.
“Buongiorno Remis.”
“Monsieur, vi ho cercato ovunque.”
“Mi sono alzato presto; sono arrivate delle lettere da Parigi?”
Remis annuì.
“Svariate, signore,” rispose, “Una di Sua Grazia il conte d'Artois, un gran numero di lettere di credito e una di Sua Altezza il Principe di Waldeck-Pyrmont.”
Rossignol, fingendosi stupito, inarcò un sopracciglio.
Scherzare era l'unico modo per placare il battito incontrollato del suo cuore ogni volta che riceveva una lettera dal Principe T., e l'unico modo per esorcizzare quella diabolica sensazione era prendersi gioco dei natali poco chiari del suo corrispondente.
“Giorgio II ha finalmente riconosciuto la perversione del suo seme e mi ringrazia per la mia pazienza, quindi!”
Remis, preso alla sprovvista, boccheggiò senza sapere bene cosa rispondere.
“Signore, io credo che vi siate sbagliato,” mormorò, con le guance imporporate, “si tratta del Principe T. di Waldeck-Pyrmont.”
Scoppiando in una risata, Rossignol batté una pacca sulla spalla di Remis. Era tutto ossa, ma non vacillò nonostante l’espressione di leggero panico che gli stringeva le labbra e rendeva i suoi occhi chiari ancor più tondi.
Per qualche motivo, che era stato definito in ugual modo riverenza e paura, Remis era teso quando si trattava delle relazioni di Rossigol, così come si rifiutava di confidarsi con il proprio padrone sull’argomento: pur essendo oltremodo curioso, Rossignol aveva abbastanza a cuore il ragazzo da non punzecchiarlo troppo, anche perchè suo padre non si sarebbe disturbato a procurargli un nuovo valletto.
“Molto bene. Altro?”
“No, nulla.”
“Madame Dorianne mi ignora ancora, dunque. Cosa fare con una donna così ostinata? Tu cosa faresti, Remis?” prima di che il ragazzo potesse rispondere con una serie di balbettii, vedendo che era già rosso sino alle orecchie, Rossignol ridacchiò, “non fa niente. Stavo scherzando.”
“Io— Io non—”
“Non devi rispondere, davvero: portami la lettera del principe nella stanza da disegno, le altre lasciale sullo scrittoio,” ordinò, “e dì in cucina di preparare la colazione. Leggerò mentre mangio.” 

Il principe T. di Waldeck-Pyrmont era senza alcun dubbio uno dei figli bastardi di Giorgio II, o forse addirittura di sua moglie Emma di Anhalt-Bernburg-Schaumburg-Hoym, eppure chiamava con una certa disinvoltura Marie Antoinette “cugina”.
Ciò rendeva piuttosto facile a chiunque della sua cerchia più ristretta farsi beffe di lui, seppur scherzosamente.
Tuttavia, dati i loro trascorsi, Rossignol era così impaziente che persino la voglia di scherzarci sopra, che pure come si è detto serviva a mascherare almeno un po' la sua agonia, non durava mai troppo.

 

Mio Caro amico,

Come da voi consigliato, mi sono recato a visitare Madame Dorianne.
Speravo che la vostra Madame, i cui prodigi e bellezza tanto mi sono stati decantati, potesse alleviare i miei dolori e donarmi qualche ora della stessa pace che, in lei, dite di trovare voi.
Non vi nasconderò, amico mio, che ne sono uscito molto deluso.
Non vi elencherò i pregi di quella donna affascinate, che certo sono molti e che ben conoscete anche senza che io sprechi righe a riguardo, tuttavia nulla di ciò che ha fatto mi ha potuto distrarre. Sconvolgente, davvero, e temo di essere io per primo stupito e preoccupato per ciò che è accaduto. Lei, impiegandosi con quelle che sono invero arti sublimi, non ha smosso in me quello che voi avreste potuto con il semplice utilizzo della voce.
Le sue arti, utilizzate in modo suppongo alquanto grazioso, non competono in alcun modo con la vostra sola presenza.
A lungo ho meditato su una soluzione.
Ebbene, ho
e avete avuto la riprova del mio cuore fedelissimo.
Quindi ora vi chiedo se, e quando, tornerete. Verrete, forse, ad accertarvi che non mento, e che la più decantata bellezza di Parigi non può che farmi sorridere di pietà?
Vi sfido, dunque, provatemi in errore.
Dite che sono il vostro confessore, ma per una volta siate voi il mio, o fate ciò che dovreste fare secondo il ruolo che vi siete attribuito e tentatemi, ma non credetemi mal disposto nei confronti della nostra, ora, comune amica: tornerò a visitarla, anche solo per riparare al danno che il mio inamovibile compare deve aver arrecato alla sua povera autostima. Aveva una certa luce dispiaciuta negli occhi che sembrava un angelo: ne sono stato commosso. Se non più spesso amante, spero di essere per lei un buon amico.

Anche se, ne sono ormai certo, poco potranno le sue abilità nei confronti di un corpo cocciuto che, fin'ora, altro non aveva conosciuto se non la fuggevole euforia dell'infatuazione. Attenderò quindi la vostra risposta in merito alla mia offerta. Sono certo che saprete leggere fra le righe. 

T.
Principe di Waldeck-Pyrmont

 

 

Rossignol, a quel punto, aveva le guance bollenti per l'imbarazzo e poteva dirsi ufficialmente fuori di senno e intenzionato a non rientrare mai più — o il più presto possibile, non ne era certo. Nemmeno lui sapeva con precisione definire quanti pensieri gli affollassero la mente, in quanto essi erano molteplici e della natura più disparata.
Certo, mai avrebbe immaginato un tale fallimento.
Dimentico di avere una gran fame, dispose immediatamente di far ripulire il tavolo: nonostante avesse davanti svariate portate ed il miglior Sangue di Giuda che si potesse reperire, la lettera del principe aveva avuto lo sbalorditivo effetto di fargli passare ogni appetito.
“Distribuite la selvaggina ai cani di mon frère,” commentò, con un distratto gesto della mano in direzione dei vassoi di carne ripiena, “il resto gettatelo, non mi interessa.”
Ignaro delle parole sussurrate dai domestici e della reverenza con cui riportavano il cibo da dove era venuto, Rossignol si mise immediatamente allo scrittoio.
La situazione era più grave di quel che sospettava, questo era evidente, ma come porvi dunque rimedio?
Aveva già presumibilmente offeso Madame Dorianne, e improvvisamente la sua mancanza di corrispondenza quella mattina aveva un nuovo significato, quindi il ragazzo si trovava a corto di idee.
Si morse il labbro, intingendo una delle piume nel calamaio di giada. Perchè, si chiedeva, in una situazione così terribile si sentiva quasi sollevato?
Conoscendo la risposta, ma risoluto ad ignorarla, Rossignol chinò la testa sulla lettera e scrisse fino a che non sentì dolere la mano.

 

Mio caro Principe, 

Non capisco come sia stato possibile.
Quando Remis mi ha consegnato il vostro messaggio ne sono rimasto molto stupito, ma forse lo debbo alla mia ingenua volontà di reindirizzare la nostra questione.
Tuttavia, dovevo aspettarmi che non avremmo fatto altro che ferire la povera Madame, poiché se si vuole Gezabele non si trova certo conforto nella purezza di Rachele. Mi vergogno di avervi mandato da lei, ora. Siete il primo uomo che sento felice di non esser stato soddisfatto da una donna: amico mio, lasciate che vi dica che non sapete cosa vi perdete.
Ma riguardo ciò che mi chiedete, se come ben sapete il diavolo è stato un tempo un angelo, questo è il momento ideale per redimermi e dirvi che no, non ho intenzione di tentarvi. Non lo farò e non ne ho il desiderio.
Quanto accaduto non cambia ciò che ho detto, che ho sostenuto, e che sostengo ancora: non provo nessuna pietà per questa vostra ossessione, nessuna speranza o flebile luce. Vi auguro di liberarvene al più presto.
In quanto alla mia, lo seppellisco qui, vedete, e qui rimarrà, insieme a qualsiasi desiderio io possa serbare nel volervi vedere.
Vi prego, se tornerete da lei, di portare i miei migliori saluti a Madame Dorianne.

Il vostro caro amico,
Rossignol

 

#

 

 

La cosa che più di tutte stupì Rossignol fu quella di non ricevere alcuna lettera da parte del principe T. nelle settimane seguenti.
Sulle prime sospettò di averlo scoraggiato, e l'idea ebbe sulle sue giornate un effetto rasserenante, ma dopo quasi un mese di silenzio l'idea di essere stato dimenticato lo tormentava. Se aveva alloggiato in campagna con l'idea di poter raffreddare l'interesse del principe, ora era terrorizzato dall'idea di essere riuscito nel proprio intento. Ben presto, le passeggiate e le composizioni non gli diedero più alcun sollievo. Nonostante si divertisse molto a prendersi cura dei cani di Guy e degli stalloni di famiglia, v'era sempre una parte della sua mente che piangeva la mancanza della corte.
Non mancavano mai le lettere da Parigi
— alcune persino da Madame Dorianne, che non si era poi tanto irritata per il pasticcio con il principe quanto che Rossignol non le avesse detto che l’uomo era sinceramente e seriamente innamorato di lui ma nessuna lo interessava. Una stringa di lettere nere su carta pesante, niente di più.
Ursule, alla quale aveva imputato di essere la causa di tutta quella situazione, gli aveva risposto con il più breve e offensivo fra i biglietti.

“Rossignol, via. Non vi facevo tanto ingenuo. Sappiamo tutti cosa sta accadendo fra voi e una persona di cui non farò il nome, e non posso credere che stiate davvero combattendo una battaglia tanto sciocca.
Smettetela di rendervi ridicolo e tornate.”

Rossignol non aveva risposto, stringendo il biglietto nel pugno tremante. Se solo Charlotte non fosse mai esistita, se solo non avesse mai avuto bisogno di quella vincita, se solo non fosse nato così privo di malizia. Se solo non fosse nato affatto. Se solo.
Alla fine, la soluzione si presentò alla porta del giovane sotto il caldo sole estivo di mezzogiorno.
Come ogni mattina, Rossignol aveva impiegato il tempo in una lunga passeggiata, alle quali oramai poteva raramente rinunciare. Quel giorno, però, invece di trovare il solito via vai di servitori e nobili vicini venuti in cerca di compagnia, il ragazzo si trovò davanti un paesaggio desolante.
Nessun uomo, ragazzo e cameriera si stava prendendo cura del giardino, nessuno portava cibo ai cani da caccia nel canile né si sentivano le esclamazioni dei visitatori giunti durante la sua assenza che erano, come d'uso, intrattenuti con una visita alle stalle e ai giardini all'Italiana. Rossignol, aggrottando la fronte e guadagnando a due a due i gradini che lo separavano dal portico esterno della villa, entrò in casa senza curarsi del bastone e dei tacchi che risuonavano nell'atrio di marmo ad ogni suo passo.
Ciò che vide, per un attimo, lo lasciò a bocca aperta.
Quella che fino a qualche ora prima era stata una casa di campagna finemente arredata sembrava un luogo infestato da spettri; gli specchi erano coperti da pesanti drappi bianchi, così come i massicci candelabri e gli scrittoi dell'ingresso. Coloro che solitamente erano fuori stavano ora trascinando grossi bauli lungo i corridoi e giù per le scale, causando un fracasso assordante di oggetti e stoviglie spostate.
“Monsieur!” si sentì chiamare.
Nonostante quella voce stridula non gli fosse familiare, Rossignol voltandosi riconobbe a stento un servitore nero vestito, allampanato, con una parrucca ingiallita ben calcata sulla fronte lucida. I suoi occhi piccoli e scuri sembravano guardare da due parti completamente opposte.
“Monsieur de Gramont,” il servitore si inchinò profondamente “Sono Du Lac, il segretario di vostro padre. Lieto di fare la vostra conoscenza, anche se mi duole che ciò avvenga in tali circostanze.”
Rossignol, nuovamente, aggrottò la fronte e strinse la presa sul bastone da passeggio. Non aveva alcun interesse nelle presentazioni, né nel nascondere il tono severo della propria voce.
“Che diavolo sta succedendo in casa mia, monsieur?”
L'uomo, sollevandosi, gli rivolse un sorriso imbarazzato.
“Eseguiamo gli ordini di monsegneur il duca de Gramont, monsieur, in gran fretta.”
A quelle parole Rossignol non potè nascondere una breve risata di sdegno, inquadrando l'intera stanza preparata per essere abbandonata nel giro di poche ore.
“Questo lo vedo,” replicò, “perchè Papa non ha scritto? Avrei provveduto io stesso senza costringervi ad un tale viaggio.”
“Non riteneva fosse necessario, monsieur. Richiede il vostro ritorno immediato a Parigi.”
Rossignol di malavoglia, annuì. Non aveva intenzione di prolungare la conoscenza di Du Lac, con la sua esse che assomigliava marcatamente alla lettera effe e gli occhi storti e maligni, e non v'era alcun modo di contravvenire agli ordini.
La casa era ancora sua e Rossignol, che era l'unico figlio a non essersi ancora affrancato dalla figura paterna, si sentì le guance bollenti per l'imbarazzo.
Com'era stato stupido a credersi libero.
“Papa sta forse male?”
“No, monsieur,” ancora con il sorriso dipinto sul viso unticcio, il segretario accennò alla stanza. “Desidera avervi a disposizione con l'avvicinarsi della data di vostra sorella Josephine.”

Ah, pensò il ragazzo, ora tutto ha un senso.

Suo padre difficilmente si sarebbe allontanato dai dolci piaceri dei bordelli parigini per andare a far visita ad una partoriente, ed entrambi sapevano che Madame de Gramont non si sarebbe mai messa in viaggio, così mandava il figlio minore a salvaguardare le apparenze. Tutto ciò era fastidioso, naturalmente, ma Rossignol non poteva che obbedire; dopotutto, accettava di buon grado una scusa per far visita alla sorella.
Du Lac si sfregò le mani, senza nascondere una certa fretta.
“Ho mandato a chiamare una fiacre per riportarvi a casa. Io supervisionerò, se lo permettete, la berlina che porterà a Versailles i vostri bauli.”
“Prima vorrei disporre alcune lettere per annunciare il mio ritorno, se non è un problema,” dichiarò Rossignol. Tanta arroganza, tanta fretta di chiederlo fuori da casa propria gli facevano ribollire il sangue. “Fate aspettare la carrozza.”
“Monsieur, vostro padre ha dato ordini precisi.”
“E sono anche coperto di fango, monsieur Du Lac. Non vorrete certo che mi mostri a corte senza essere presentabile, rovinerei la mia reputazione.”
Con un sorrisetto il ragazzo passò oltre il segretario, ben felice di distogliere lo sguardo da quell'essere sgradevole alla vista e all'udito. No: se doveva davvero andarsene, l'avrebbe fatto a tempo debito.
“Ma, monsieur—”
“Mettetevi comodo, non partiremo prima di questa sera.”
Se non altro, si disse nel salire le scale, presto avrebbe ottenuto una vera risposta alle lettere mancanti del principe T. e a quello che “tutti” sembravano già sapere. Prima, però, doveva sollecitarlo ancora una volta per iscritto, nella speranza di non lasciare nulla di intentato.
Magari, nel frattempo, avrebbe trovato una cameriera di bell'aspetto e buon carattere che fosse disposta ad abbandonare quella sciocca idea del trasloco per fargli compagnia nella vasca.

 

Mio caro amico,

Principe e mio confessore. Mi domando quale peccato abbia commesso per ottenere un sì severo silenzio.
Vi ho offeso in qualsiasi modo?
Confesso che inizio a preoccuparmi per il vostro benessere, in quanto prima di oggi le vostre missive sono state un puntuale sostegno in questo mio esilio che, per quanto ristoratore, si è rivelato più noioso del previsto. Per quel che mi riguarda, sto guardando ora ad una casa spettrale dove tutti i mobili sono coperti da bianche tovaglie di lino. I domestici stanno chiudendo cassetti e imposte in questo esatto momento.
Posso dire forse: sto tornando? Sì, e ne sono felice. É vero, inoltre, che sono impaziente di vedervi.
Vi prego di perdonare l'insistenza con cui ho sollecitato una vostra risposta ma, vedete, non sono avvezzo a dover pregare per poter godere della vostra compagnia. Vi riceverò con grande gioia appena sarò tornato a Versailles, domani: ho molte cose da raccontarvi di persona.

Rossignol.

 

Non si può dire che gli fosse risultato difficile scrivere quell'unica lettera, che Rossignol aveva avuto cura di spedire ben prima della partenza e di assicurarsi della sua corretta consegna, ma il ragazzo in verità non aveva alcun desiderio di affrontare altre questioni di simile natura una volta tornato a Versailles.
Queste, per esempio, coinvolgevano un altro spasimante che il ragazzo aveva poca, per non dire nessuna, voglia di fronteggiare vis-à-vis: i sentimenti di D'Ovigny, che tanto cortesemente erano stati espressi ma non coltivati da una corrispondenza frequente, tornavano a tormentare Rossignol prima di chiudere gli occhi. Non solo erano essi profondi e prodigiosi, ed erano stati in virtù di tale natura precedentemente ignorati, ma il giovane poteva comprenderli con una chiarezza che lo costringeva a diventare complice della sua sofferenza.
Tradire le aspettative di D'Ovigny era, per Rossignol, motivo di grande dispiacere. Come se non bastasse il coinvolgimento del conte d'Artois rendeva la questione ancora più delicata.
In realtà, è sbagliato dire che Rossignol provasse vera e propria pietà per Alain. Il ragazzo si chiedeva, piuttosto, come potesse mai questo gran molosso d'uomo, con le spalle larghe, il mento fiero, il portamento principesco, essere manovrato con siffatta bravura dall'esile fratello del re, che per infantilismo e gioie puerili era pari, se non peggio, alla spensierata Antoinette.
Dopo la sua breve visita, Rossignol era arrivato a credere che per d'Artois fosse uno spasso tormentarli tutti ma, d’altra parte, il giovane non aveva potuto far altro che rispettare le promesse strette prima di partire.
Non aveva forse dato parola di riprendere l'incontro mai avvenuto con il Duca di Ort-sur-mer, fra le altre cose? Ormai non aveva altra scelta che onorare tali accordi.




Note:

Hi guys ❤️
Niente, siamo oltre la metà di questa mini-long (i capitoli sono 9) e quindi volevo spargere un po' di kudos e amore e ringraziamenti. Questa stupida cosa, che ovviamente va imputata ad un viaggio a Parigi ma anche a quello a San Pietroburgo (inizialmente T. doveva essere russo 😭), sta ricevendo più amore di quanto mi sarei aspettata. Grazie, grazie e grazie <3 
E niente, Rossignol ha le idee chiare mi dicono. #JeSuisUnDisagio
Torno nel buio e niente, è un piacere essere arrivati al giro di boa con voi e spero non faccia troppo skiff! ❤️


 

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


VI


Non appena ebbe sbrigato le formalità e si fu sistemato nuovamente negli appartamenti riservati alla sua famiglia nel cuore del palazzo, Rossignol si trovò posto di fronte ad un bivio: versarsi così tanto vino da potervi annegare, scivolando in un dolce oblio alcolico insieme ad una domestica o due e svariati paggi mandando al diavolo tutti gli altri, oppure agire con metodo e dedicarsi alle questioni che aveva evitato fino ad allora.
Tuttavia aveva la terribile sensazione che una volta finito il vino, liberato l'ultimo cicisbeo, cantata l'ultima aria, i problemi sarebbero stati lì ad aspettarlo, esattamente dove li aveva lasciati.
Non aveva una vera scelta.

“Porta questo al duca D'Ovigny. Non occorre che tu rimanga ad aspettare una risposta immediata,” aveva istruito Remis, consegnando nelle sue mani fidate un biglietto in carta d'avorio.
Dovevano vedersi per chiarire la questione lasciata in sospeso prima che questa si ingigantisse, e discutere di ciò che era stato promesso da d’Artois; non era un patrono che Rossignol stava cercando, vero, ma non aveva in animo di rifiutare un’offerta del genere nel caso si presentasse. Che la clausola fosse casta amicizia, beh, preferiva riferirglielo di persona. 

Mai, mai, il giovane avrebbe sospettato di veder comparire meno di un’ora dopo Remis con un altro biglietto, la cui cera era ancora tiepida.
“Una risposta, così in fretta?” domandò, aggrottando la fronte.
Giovane com'era, raramente gli era capitato di scontrarsi con le trame ordite dal destino, un giocatore d’azzardo che si divertiva nel scegliere il peggior momento per muovere i fili degli eventi.

Remis scosse la testa.
“No, monsieur. Ho recapitato l’invito come istruito, ma monsieur le duc non era nei suoi appartamenti.”
Rossignol, inarcando un sopracciglio, allungò una mano per farsi consegnare la lettera.
Anche se avesse avuto sospetti sul destinatario, la rarità di un emissario che si disturbava a sigillare dei biglietti informali all'interno del palazzo non lasciava dubbi.
“Chi te l'ha data, Remis?”
“Martin, monsieur. Per voi, dal Principe di Waldeck-Pyrmont.”
Rossignol, confermato il proprio dubbio, ebbe l'istinto di lasciar andare la lettera e calpestarla.
Dunque lo teneva d’occhio!
Come sempre, dopo settimane di silenzio, il suo confessore compariva con un tempismo che sfiorava il ridicolo. Non solo quel principe capriccioso l'aveva fatto aspettare 
rendendo tutta la faccenda più pietosa e risibile di quanto fosse in partenza ma decideva di intralciare anche le buone azioni di Rossignol nei confronti di D'Ovigny.
Come poteva essere felice di ricevere quel biglietto, se da una parte era stremato per tutto il pensare al pover’uomo, alle sue pene amorose ed a come mettervi fine senza sconvolgerlo? Come poteva non provare un briciolo di pietà né per l'uno né per l'altro, quando desiderava che fossero entrambi delle signore rispettabili e non dei più che onorevoli gentiluomini?
Nessuno dei due gli era indifferente, dopotutto; aveva gli occhi

“Ha lasciato detto qualcosa? Desidera incontrarmi?”
“No, signore. Non ha detto nulla.”
Oh, meraviglioso.
Ora il principe scriveva i propri inviti di bentornato sui tovaglioli, sulle cartacce, senza uno straccio di visita amichevole, senza cortesia. E dire che Rossignol gli aveva anche scritto, prestandosi così alla parte del folle, di incontrarlo non appena fosse stato libero. 

Ma perché proprio ora, quando era dovere di Rossignol esser buono con D'Ovigny...
“Lasciami solo, Remis. Ti darò disposizioni quanto prima.”
Guardò lungamente il biglietto, che sembrava essere stato appallottolato e poi rimesso insieme, e con le mani che tremavano staccò il sigillo di ceralacca.
Non sapeva quanto tempo fosse passato, quante volte la pendola sul caminetto — Afrodite, nel suo peplo d’oro, pronta a ridere di lui — ma Rossignol non si accorse di avere le lacrime agli occhi se non quando una gli scivolò lungo il mento, piovendo sulla carta.
Quella lettera valeva più quella di ogni parola che fosse mai stata scambiata fra loro. E le avrebbe rilette ancora una volta, quelle parole, se non avesse sentito una voce conosciuta che l’aveva fatto sussultare violentemente.
D'Ovigny aveva mantenuto la parola.
“Rossignol?” si sentì chiamare, e la voce aveva una buffa nota preoccupata, come se il gentiluomo fosse sorpreso di trovarlo con gli occhi lucidi e paonazzo, per non parlare dei capelli scompigliati e la giacca aperta. “Avevo ricevuto il vostro biglietto, mon ami, ma se siete indisposto posso...”
Quella singola lacrima pareva turbare D'Ovigny e Rossignol avrebbe voluto urlare, spiegare che aveva appena ricevuto una notizia meravigliosa. Era sollevato dalle insistenze di un uomo ed era libero, se non condiscendente, a gettarsi fra le braccia di un altro.
Al diavolo anche le signore, a questo punto, si disse.
Era altro quello che il destino continuava a gettargli addosso, e se lo sarebbe fatto bastare senza più lamentarsi perchè era stanco di cerca di risalire la corrente, esausto, e voleva lasciarsi andare.
Sarebbe stato così bello lasciarsi andare, se solo qualcuno fosse stato disposto ad aspettarlo nell'abisso.

Rossignol alzò gli occhi lentamente, senza preoccuparsi di asciugarli col fazzoletto. Sorrise, ma non riuscì ad essere convincente nemmeno con sé stesso.
Lui e il principe T., nella lunga separazione, sembravano non vedersi da millenni: com'era, allora, che il viso di D'Ovigny rimaneva così familiare a Rossignol, così chiaramente delineato nonostante non lo vedesse dallo stesso tempo?
Era come se qualcuno avesse sfumato i contorni di ogni ricordo che il ragazzo condivideva con il principe e, se erano mai stati reali, non aveva più importanza.

“Voi siete venuto a vedermi.” mormorò, la voce animata da una sincera gratitudine. Lui era lì e, Rossignol non poté nascondere nemmeno a sé stesso la delusione, lui non aveva avuto paura. “No, duca, vi prego. Rimanete.”
D'Ovigny si avvicinò di un passo e Rossignol, seppur annebbiato dalla velocità con cui si erano susseguiti gli eventi, notò che il conte lo guardava senza prestare la minima attenzione all'ambiente circostante, nonostante fosse la prima volta che entrava nei suoi appartamenti.
“Volete dirmi cosa vi è successo, Rossignol? Sembrate sofferente.”
“Lo sono,” ammise il ragazzo, in un sussurro. “Ma non ha importanza. Con voi qui per un po', posso dimenticarmene.”
D’Ovigny si umettò le labbra, spostando il peso da un piede all’altro. Indossava il disagio con dignità, come un mantello drappeggiato sulle spalle di un cavaliere.
Sì, forse un cavaliere era quello di cui aveva bisogno.
“Rossignol, non dovete sforzarvi.”
“Davvero, voglio vedervi; il modo in cui vi ho trascurato è imperdonabile e voglio che lasciate che vi ponga rimedio," sospirò, posando la lettera accanto a sé. “Ho pensato molto alle parole che mi avevate rivolto, anche se non ho mai avuto il coraggio di scrivervi; credo che abbiate ragione. Credo, con la giusta prudenza e il benestare di d’Artois, di avere un accordo da proporvi.”
D’Ovigny annuì.
“Avete tutta la mia attenzione,” assicurò.
Dopotutto, il suo stile di vita dispendioso non si pagava da solo, le scarpe di velluto e le rendite per le scommesse non si acquistavano con le buone intenzioni ma con i regali di amanti fedeli; uomini e donne come la Polignac, come D’Ovigny.
Con tutta la disperazione di quell'attimo, Rossignol si disse che non poteva di certo disattendere le segrete speranze di d'Artois e D'Ovingy.
Né, principalmente, quelle del principe T. stesso, che tanto ambiva alla sofferenza d'un martire.

Con il dorso della mano Rossignol si asciugò alla buona le guance umide di lacrime e si alzò; distrattamente, si augurò che la luce delle candele facesse giustizia agli occhi scintillanti di lacrime e al viso arrossato.
“Non vi dispiace cenare con me questa sera, non è vero, monsieur? E se declinerete ne sarò molto offeso, questo dovete saperlo. Ho bisogno di avere compagnia, sapete, dopo tutta quella campagna, e voi mi siete caro. Mi fa molto piacere che mi facciate visita con così tanta sollecitudine e che abbiate la bontà di perdonare i torti che in passato vi ho arrecato.”
A quelle parole D'Ovigny spalancò gli occhi, che erano d'un color rame che Rossignol non aveva mai notato prima, e protese le braccia verso di lui in un gesto amichevole.
“Non siate così sorpreso, Rossignol, vi prego.” disse. Sforzò un sorriso, andando ad appoggiargli le mani sulle spalle – e com'erano grandi, quelle mani dalle dita sottili, in confronto all'ossatura femminea di Rossignol. “Certo che sono venuto a vedervi... C'è forse qualcuno con cui avete litigato?”
Il ragazzo dovette trattenersi dal non urlare il nome del principe T., dal non sputarlo nella conversazione con sdegno.
Annuì, invece, sentendo testa pesante.

Stare in piedi come sciocchi, l'uno con le mani sulle spalle dell'altro, sorprendentemente non gli causava alcun imbarazzo.
“No.”

 

 

“Bentornato, mio più caro amico.
Perdonatemi se potete, poichè non ho la forza, il coraggio né il desiderio di arrischiarmi a incontrarvi.
Temo che il mio comportamento nel vedervi dopo una così lunga separazione andrebbe contro il riguardo che vi state così duramente imponendo, in quanto non sono certo passati inosservati i molti sforzi per nascondere quelli che spero essere i vostri reali pensieri.

Sono immensamente felice nel sapervi di nuovo a Versailles, questo lo dovete sapere.
Trascorro i momenti prima di andare a dormire ad immaginare come potrebbe avvenire un incontro casuale, come potreste rivolgermi quel vostro sorriso e accusarmi ancora una volta delle mille colpe che trovate in me, ma ora che mi chiedete di vedervi non ho che una risposta: non posso. So, sono certo, che supererei ampiamente i limiti del rispetto, dell’amicizia, della fiducia.
Non sono un uomo coraggioso, Rossignol.
Se lo fossi, avrei perseguito l’arte della guerra piuttosto che quella dell’inezia.

Per tutto quello che resta da dirci, lascerò che ciò che non vi scrivo arrivi ugualmente al vostro orecchio. Mi auguro che troverete conforto nel fatto che stia infine rispettando il vostro desiderio di seppellire tutto quello che è accaduto nel passato, e lasciarvi finalmente libero di esercitare le vostre amicizie come preferite.

Sinceramente e sentitamente vostro,

T.

Principe di Waldeck-Pyrmont”

 

Lungi dall'essere rispettose dei sentimenti altrui come dichiaravano di voler essere, dire che tali parole avevano sconvolto il giovane animo di Rossignol era riduttivo. Ogni lettera, ogni tracciato d’inchiostro l’aveva scosso, riportando a galla gli avvertimenti di d’Artois; il principe era una creatura fragile, ma non v’era nulla di delicato in quelle parole.
Infine, quando l'aveva esposto, si tirava indietro.
Rossignol aveva la bizzarra sensazione d’essere stato abbandonato su una scogliera un istante prima di buttarsi. Si trovava preda del vento battente, solitario, lasciato a sentirsi sciocco in egual maniera per i rischi assunti e le speranze disattese.

D'Ovigny, d'altra parte, era l'ultima persona da cui il ragazzo si sarebbe dovuto o potuto rivolgere per sfogare il tumulto che la lettera aveva sollevato: era furioso e offeso ma non avrebbe dovuto lasciar trapelare il minimo turbamento.
Come poteva T., un principe, dimostrarsi tanto disonesto?
In fondo, Rossignol aveva sempre temuto che quello sguardo così torbido, sporcato dalla presenza che doveva essere divina se non diabolica, prima o poi avrebbe mosso il primo passo indietro, tremante e terrorizzato. 

La vera motivazione dietro quella visita mancata era semplice viltà. Certo, v'erano stati dei segnali in passato; come avesse potuto non coglierli, Rossignol non se ne capacitava. Furono le stesse mani di T. — Rossignol giurò di sentirle spingerlo in piedi, e giurò di sentire le sue dita che tracciavano un sorriso sul suo volto — a trascinarlo verso il nuovo arrivato e a rendere le cose facili.
Il principe, per quanto l'avesse fatto penare nel recente passato, era un capitolo chiuso; D'Ovigny, invece, ringalluzzito dalle cortesi insistenze di quell'impiccione di Charles Philippe d'Artois, era lì davanti a lui. 


#

 

 

“Ditemi, siete felice di essere tornato?”
In quel caso era una domanda molto semplice e Rossignol gliene fu grato. In particolare, le apprezzava quando ogni parte del suo corpo era priva di forza, così languida, rendendolo un’entità malleabile in corpi più grandi e decisi del proprio, ma che nondimeno sapeva guidare perché conoscessero esattamente come muoversi per incontrare ogni suo desiderio. Ma amava quel genere di domande semplici anche perchè avevano spesso una risposta facile dietro la quale nascondersi, e non perse l'occasione, stiracchiandosi:
“Tanto. Tutto questo mi mancava terribilmente e temo di non essere fatto per la vita in campagna...” esitò, scoccando all'uomo steso fra le coperte uno di quei suoi sorrisetti maliziosi prima di alzarsi. Afferrò la camicia abbandonata sul pavimento, conscio di un paio d’occhi troppo chiari fissi sulla sua schiena nuda.
Era conscio dell’effetto che la propria figura snella poteva suscitare, illuminata dalle luci del giardino che penetravano nella stanza dalla porta finestra, e indossò la camicia con studiata lentezza, lasciando che cadesse morbidamente sui fianchi nudi.

“Mi domando come facciate voi, duca, a vivere in un luogo dove si cacciano lupi e ci si ritrova ancora in castelli di pietra. Non vi sentite incupiti e freddi?”
D'Ovigny rise, un suono ricco che lo scosse da capo a piedi.
Era un peccato non poter apprezzare appieno una voce così bella, un uomo così amabile, un amante così abile.
D'ovigny, da gentiluomo che era, non si sarebbe mai imposto sui desideri di una fanciulla e, per qualche motivo che non comprendeva, Rossignol godeva dei medesimi privilegi.
“Non è forse per questo che veniamo in villeggiatura dove la civiltà è più sofisticata?” replicò, e per un attimo Rossignol fu costretto a fronteggiarlo. Nei modi di Alain scopriva le spiagge argentee e i castelli Arturiani che si ergevano come giganti, il mare gelido e i vecchi lupi che scendevano ogni estate. “Però dovete ricordare, Rossignol, che in ogni uomo di montagna langue una voce che lo richiama alle sue valli e ai suoi castelli.”
Rossignol sorrise a quella rivelazione, tornando a sedersi ai piedi del letto.
“E sono forse voci cavernose quelle che vi chiamano, duca?”
D'Ovigny annuì, tendendosi verso il ragazzo con quell'aria complice che dava al discorso un senso di mistero, come se stesse rivelando un segreto.
“Spaventosamente cavernose.”
“Com'è antiquato,” considerò Rossignol, scoppiando finalmente in una risata. “Permettetemi di dirvi che le vostre lugubri voci dei monti non mi attraggono: preferisco di gran lunga quelle dei boschetti, o delle aiuole.”
Il duca, dopo un attimo di silenzio, annuì e si tirò indietro.
Rossignol sentì sul proprio viso lo sguardo tagliente di D'Ovigny, con la netta sensazione che l'espressione dell'uomo non fosse più né allegra né piacevole: solo mortalmente seria.

“É comprensibile.” disse, ma sembrava un'altra persona. Cos'era tutta quella gravità, quella melanconia? Rossignol temeva la risposta e non chiese, ma ciò non rese più piacevole il cambiamento. “Hanno voci più simili alla vostra.”

 

 #

 

Quella mattina, Rossignol si mise a letto con un grosso peso che gli opprimeva il petto. D'Ovigny se n'era andato senza dire quando si sarebbero visti nuovamente.
Aveva detto qualcosa di strano? Se non fosse stato per le rassicurazioni di d'Artois, nonché l'infraintendibile luce negli occhi di D'Ovigny sopra di lui, le tracce arrossate delle sue unghie sulla sua schiena, Rossignol sarebbe stato certo di aver offeso in qualche modo l'amico.
Nel frattempo, prima di coricarsi, era passato da un uomo all'altro con la disinvoltura per cui era noto.
Non era una novità che un uomo si sedesse allo scrittoio e componesse lettere: suo padre scriveva lettere d'affari, i suoi fratelli lettere di credito. Rossignol, confermando se stesso, scriveva d'amore.

Metteva insieme i più leggiadri rifiuti e le più mortificate scuse, pur non provando alcuna pena né per le prime né, tanto meno, per le seconde.
Eppure, non gli era proprio riuscito di liberarsi del principe T. con la veloce noncuranza a cui era avvezzo.
Aveva scritto e riscritto, ma senza mai riuscire a creare qualcosa che letto ad alta voce non suonasse sdegnosamente offeso. Un problema, davvero, giacchè Rossignol era offeso, e infinitamente. Sperava che l’ebrezza, il dolore che faceva sussultare ogni parte della sua carne torturata e dei muscoli stanchi, il senso di completezza generati dalla compagnia di D’Ovigny l’avrebbero aiutato, ma furono comunque necessari svariati tentativi perché fosse soddisfatto.
 

Principe,

Non sprecherò nemmeno una riga di formalità.
Avevate promesso di venire a trovarmi, invece scopro che siete troppo impensierito per il mio delicato equilibrio personale per farlo: dico piuttosto che temete di vedermi. Ma non vi ferirò in alcun modo accusandovi d'essere un vile ed un debole, poiché l'avete ammesso voi stesso, seppur con ben altri termini.
Siete stato generoso con voi stesso, monsieur, e plaudo tale scelta. La conservazione del proprio paradiso di tranquillità non è forse l'aspirazione di alcuni di noi? 

Bravo, mio confessore, che mi convincete a provare e mi lasciate solo nel momento dell’azione. Vi rassicuro sul fatto che non sono sicuro di desiderare la vostra compagnia, ora che voi per primo me l'avete negata una volta. 
In tutta onestà, signore, credo di aver rischiato sin troppo in passato nel protrarre tale amicizia che pare non portar altro che malumori e voglio assicurarvi che d'ora in avanti non avrete di che temere: non dovrete avere alcun desiderio, né voglia o necessità di vedermi di persona. Non vi sarà richiesta alcuna di quelle formalità, normali, azzardavo a pensare, fra amici, che vi hanno invece causato tanta pena. 
Il senso del vostro biglietto, come vedete, è stato perfettamente compreso: volevate lasciarlo parlare nascondendovi dietro il più eloquente silenzio delle parole ed, ebbene, esse hanno sortito il loro giusto effetto.
Potete esser certo che non le dimenticherò.

Rossignol

 

Erano state righe penose, quelle, e tagliavano come coltellate.
“Remis,” aveva chiamato, accorgendosi d'avere la voce roca per la stanchezza e la rabbia. Uscì più un ringhio di bestia che un vero ordine, ma Remis non parve impressionato: avendo vissuto con i propri parenti prima di trasferirsi da Monsieur De Gramont, il ragazzo sapeva che erano ben altri i veri abissi dell'ira di un uomo, e spesso si accompagnavano alla cinghia.
Rossignol, che di rado si arrabbiava, era addirittura meno incline alla violenza di una signorina. 

“Remis, porta questa al Principe T. e consegnalo nelle sue mani, non importa se è in compagnia.”
Il servitore annuì e Rossignol pensò che, nella sua livrea blu e con la parrucca incipriata, poteva essere un angelo messaggero. Il bardo dell'ultimo biglietto, il salvatore dall'oblio.
Sì, aveva rischiato molto; e per mandare tutto à la merde sul finale, che ironia.
Si appoggiò allo schienale della sedia, lasciando cadere la testa all'indietro, ed ascoltò il suono dei tacchi di Remis sul legno. Un passo, due, tre, la porta che si apriva.
Rabbrividì.
“Ah, Remis.” chiamò, drizzandosi in piedi tutto d'un tratto. Il cigolio si interruppe.
“Sì, monsieur?”
“Non accettate alcuna risposta, per favore. É importante; che supplichi, se vuole, ma tu consegnerai quel biglietto senza trattenerti per un solo istante più del necessario,” si umettò le labbra, come sovrappensiero. “Hai stretto amicizia con uno dei paggi che la corona ha assegnato al Principe, non è vero?”
Remis sbattè le palpebre, sorpreso.
“É vero, monsieur,” ammise “Non pensavo di farvi un torto.”
Sulle labbra di Rossignol, di fronte a tutta quell'esitazione, comparve l'accenno di un sorriso. Erano giovani, lui e Remis: forse, se fossero stati più saggi, nessuno di loro due si sarebbe avvicinato troppo a Parigi e all'accecante luce della Corte.
Forse sarebbero vissuti tranquilli, allora.
“Nessun torto. Non sono come i nostri padri, Remis: puoi vedere il tuo amico quanto vuoi. Solo, non accettare lettere sotto nessun tipo di insistenza.”

 

 

Marie-Jeanne Rose Bertin era la migliore delle sarte di Parigi e, di gran lunga, la miglior modista personale che Marie Antoinette potesse mai desiderare.
Nei giorni in cui non si incontravano di persona, la sovrana aveva un certo daffare nello scrivere biglietti indirizzati alla donna, nelle sue botteghe d'alta moda di Parigi, riguardo idee e modelli che le sarebbe piaciuto provare.

Per caso la regina poteva desiderare un abito più largo e una vita più stretta? Una moda più audace o un vestito di scena per le sue modeste, ma ambite, rappresentazioni? Madame Bertin aveva la soluzione. E faceva sembrare tutto così terribilmente semplice!
Non era la prima volta che la regina tesseva le lodi della donna, come se poi i suoi capolavori sartoriali non fossero da soli più che eloquenti, e tuttavia d'Artois la ascoltava sempre ben volentieri.
Ciò che entusiasmava Marie Antoinette non poteva che contagiare i presenti.
“Vi offro la mia parola, mon cher, è impagabile,” dichiarò la regina, sfiorando con il ventaglio il braccio del cognato.
Per tutta risposta, lui le offrì un sorriso.
“Naturalmente. Ne parlavamo quest'oggi a colazione...”
“Ah, voi avete un pasto interessante,” commentò la regina, con un broncio leggero.
Al solito, quell'espressione si addiceva più di altre al suo viso tondo, rendendo la bocca un minuscolo bocciolo di rosa in un mare di pelle bianca come il latte; per chiunque avesse gusti del genere, la sovrana era una capricciosa tremendamente attraente, l’aria infantile mai svanita seppur fosse madre.
Che lo facesse inavvertitamente oppure no, aveva poca importanza. D'Artois ammirava le libertà che la cognata di concedeva, più o meno regolarmente, e di certo non sarebbe stato lui a fermarla: non si sarebbe mai perdonato se fosse stato così folle da allontanare la donna più piacevole dell'intero paese.
“Il vostro non vi soddisfa?” D'Artois cercò di essere conciliante, chinandosi verso Antonietta per avere più intimità. Erano gran confidenti, loro due, e buoni amici: di tanto in tanto, il conte sentiva, tuttavia, di dover difendere il fratello. “Il re non è delle compagnie più piacevoli al mattino, ma non è certo cosa infrequente. Converrete che, in genere, la conversazione si fa più brillante dopo una tazza di cioccolato.”
Antonietta scosse le spalle, affondando ancor più nel divanetto.
“Purtroppo non è il caso di mio marito.” replicò, con evidente stizza nella voce, agitando in aria il ventaglio chiuso.
Madame Bertin era in ritardo e d'Artois avrebbe tanto voluto che fosse quello ad infastidire la cognata, che rimaneva tanto clemente con coloro che le piacevano quanto severa con chi le faceva l'enorme dispetto d'annoiarla.
Louis Auguste non era di certo nella cerchia di coloro che sapevano affascinare la regina e ciò preoccupava d'Artois, che pure non sapeva bene come darle torto: il re era noioso e, seppur conscio dei propri limiti, non se ne curava affatto.
“Forse, se vi interessaste ai suoi chiavistelli...”
“Vi prego! Chiavistelli, Charles!”
“Lo so, ma—”
“Sono più interessanti le composizioni malinconiche di vostra moglie.”
D'Artois rise, gettando indietro la testa.
Sua moglie era così stonata da far dubitare che a Torino qualcuno le avesse dato un'istruzione in canto e composizione, eppure era anche cocciuta come un mulo. Nonostante tutto, però, il conte la trovava abbastanza attraente da affrontare la sua temibile voce nella camera matrimoniale; la nascita di Louis Antoine aveva causato grandi ansie la coppia reale e ancora, dopo anni, tanto Antonietta quanto Maria Teresa se ne rammaricavano.

“Fortunatamente ora che è tornato un certo usignolo non ci si può lamentare. Rossignol ha il controllo della situazione e un egocentrismo tale da tenere tutti lontani dal pianoforte,” osservò, aggirando con grazia le lacune della moglie. “É diventato piuttosto bravo, non è vero?”
Antoinette, nascosta dietro il rosa del ventaglio da giorno, sorrise come ci si sarebbe aspettato una bambina davanti ad un piatto di biscotti lasciato incustodito.
“Mi domando a cosa sia dovuta quest'improvvisa ispirazione per le arie d'amor perduto.”
“Sarà certo da imputare ad una donna, anche se ormai ho perso il conto.”
“E dire che è così giovane!”
L'uomo annuì, con una certa fierezza.
“Un numero notevole e un'esperienza eccezionale per la sua età.”
Stavolta, la regina lo colpì deliberatamente con il ventaglio, il quale si chiuse con uno scatto secco.
Monsieur, è solo un ragazzo!” replicò, con una punta d'indignazione. “Dovreste portarlo sulla retta via, non istigarlo a stringere più legami di quanti ne possa rispettare.”
“Eppure è parte della sua verve,” osservò d'Artois, prontamente.
Marie Antoinette annuì, ma era un suono leggero; aveva già perso completamente interesse per il discorso.
Non le piaceva fare la morale alle persone, ma negli ultimi anni di tanto in tanto ne sentiva la necessità
come se l'età, nonostante tutto, stesse portando qualche giovamento anche al suo carattere frivolo.
“Mi diverte molto,” concesse, lasciando vagare lo sguardo verso la porta.
Un istante dopo, d'Artois sapeva che sarebbe stato ignorato in favore di una piccola folla di sarte e sartine, capitanate dalla battagliera Madame Bertin: udiva in lontananza lo scalpiccio che indicava il loro arrivo, cariche di pacchetti, incarti e cappelliere. 

La nuova moda di Versailles doveva esser creata quel giorno, e provata tre giorni dopo. Tanto bastava per per calamitare l'interesse di una regina.
“Maestà...” mormorò, intenzionato a chiedere di essere congedato. Desiderava parlare con D'Ovigny, e presto, per incitarlo a vincere il favore degli altri nobili senza incaponirsi su Rossignol se proprio non c'era speranza di un avvicinamento.
Antoinette, però, aveva altri piani. Fece cenno al cognato di stare seduto.
“Ho bisogno del vostro giudizio per i colori di questo mese. Mi aiuterete, non è vero? Il vostro buon gusto è impagabile, Charles! E troveremo un colore che si addica al nostro uccellino nella sua gabbia dorata; desidero offrigli un regalo di bentornato.”
D'Artois accennò un inchino.
“Siete generosa come sempre, 'Toinette.”
La donna rise, una risata leggera che sembrava toccare il cielo. Mai nessuno, a Versailles, avrebbe più riso in quel modo.

 

 

Avrebbe riconosciuto in mille mondi i passi della creatura che amava, Rossignol. Aveva orecchie affinate dall'esperienza e mani che saettavano fuori dalle tasche pronte ad abbracciare, stringere, sfilare nastri e slacciare corpetti. Ma era diverso, quel giorno. Erano passi virili quelli che sradicavano l'erba e spostavano il ghiaino.

Non sono innamorato di D’Ovigny.

Mai il giovane si sarebbe immaginato di finire intrappolato in un tale scherzo del destino.
Non c'era stato che un errore, fra loro, nient'altro che un gigantesco errore sin dall'inizio. Una burla ordita da altri con spaventose ripercussioni ed un gioco che Rossignol, per la prima volta, non s'era divertito a giocare: ed ora, ora che poteva vedere chiaramente la figura per principe T., i suoi occhi lucidi e la pelle bianca come carta, così cupa in contrasto con la seta scarlatta dell'abito, avrebbe voluto riavvolgere il tempo per non incontrarlo affatto.
Era elegante, quel giorno, lo stesso principe che spesso si vestiva svogliatamente.
Come se fosse una gran ricorrenza, una festa, un momento di gioia; ma non era nulla di tutto ciò, come ben sapeva Rossignol, e i vestiti curati non potevano nascondere il fatto che nel suo sguardo si celasse più un animale ferito che un uomo.

“Mi seguite, ora?” domandò, con una punta di sarcasmo, fronteggiando il principe. 
T. scosse la testa, passandosi una mano fra i capelli scuri, scompigliandoli in un gesto che mai Rossignol gli aveva visto fare.
I suoi movimenti erano a scatti come quelli di un ingranaggio mai oliato.

“Non mi lasciate scelta, se non accettate le mie lettere.”
“Voi non volevate vedermi,” replicò, immediatamente.
Quando vide T. sussultare, il ragazzo ebbe la sensazione di essere in una bolla senz'aria.

“Avevo mal interpretato,” esitò, “Sono stato uno sciocco ed un codardo, e mi dispiace. Mi dispiace di avervi rifiutato una volta quando voi siete scappato decine di volte e ve l’ho lasciato fare. Mi dispiace.”
“Non so bene che farmene delle vostre scuse” 
“State mentendo a voi stesso, Rossignol.”
Ora, questa frase non voleva essere un'accusa
– aveva in sé tutta l'oggettività della constatazione ma il biglietto in cui Ursule lo invitava a farla finita con quella farsa era ancora una ferita fresca sull'onore di Rossignol, che sentì le guance imporporarsi.
Un tempo, sua sorella Josephine l'aveva accusato di essere veloce ad arruffare le penne, come un uccellino impaurito e furibondo al tempo stesso; Rossignol calzava a pennello come nome, dopotutto.
“Io starei mentendo a me stesso!” rilanciò, con un tale furore che gli fu necessario muovere un passo in avanti per sottolineare la propria dichiarazione. “Guardatevi, principe, come siete ipocrita. Professate cose assurde e appena si inizia a credervi, contro ogni buonsenso, vi ritirate come un topo nel vostro buio! Chi è che mente, tra noi? Io o voi?”
“Ho tentennato e vi sto chiedendo perdono.”

Rossignol, a questo punto paonazzo, scosse il capo.
Desiderava dimenticare quelle parole e scacciare la strisciante, improvvisa paura d'essere stato frainteso per tutto quel tempo. Vero, aveva fatto delle resistenze, eppure credeva d'esser stato chiaro riguardo i propri sentimenti.
Dunque gli si chiedeva di credere che tutti a corte sapevano, tutti sospettavano, meno che l’interessato? La sensazione d'essere stato preso in giro
di essersi preso in giro – gli scorreva nelle vene come veleno, facendogli girare la testa.
“Vi odio,” dichiarò.
Ed era orrore quello che gli ribolliva nel sangue; verso sè stesso, per essersi lanciato su d’Ovigny come un ripiego, verso d’Artois che lo aveva avvertito riguardo la fragilità dell’uomo che aveva davanti, verso il principe stesso. Disgusto verso la ferita che si era aperta negli occhi dell’uomo, per il modo in cui era sobbalzato e le sue spalle si erano irrigidite. 
“Rossingol?”

“Voi non avete mai amato nessuno oltre voi stesso, non avete mai seguito alcuna strada al di fuori di quella del vostro capriccio, mai ascoltato voce oltre la vostra. Ed io... No, monsieur, faccio fatica a credere a quello che dite; mi avete abbandonato nel momento in cui ho ceduto.”
Ho ceduto. 
Io, io ho ceduto.
Non credeva che T. potesse comprendere l'importanza di quel semplice verbo. Rossignol non cedeva, non si piegava, ma non aveva la forza né le parole di spiegarglielo.

“Vi ho amato con così tanto riserbo per i vostri desideri che neanche voi vi siete mai accorto appieno della forza del mio interesse.” T. lanciò un lungo sguardo a Rossignol, dal profondo dei suoi occhi scuri. Erano torbidi e arrossati, e lo stomaco di Rossignol si torse dolorosamente. “E queste parole che ora voi mi rivolgete, crudeli ed ingiuste, temo che non ne capiate la portata.”
Il ragazzo si strinse nelle spalle. 
Non c'era modo di dichiararsi ferito da tutto quel discorso senza mostrarsi vulnerabile, così Rossignol reagì al meglio con quello che aveva: un'inesauribile fonte di menzogne e trucchetti. Perché doveva essere diverso dalle altre mille volte in cui si era tirato fuori dalle situazioni più spinose?
“Siete impazzito e mi fate anche un po’ pena, non ami,” rispose, allontanando il discorso con un gesto della mano.
T., sorprendentemente, non apparve affatto sorpreso.
“Folle? Forse avete ragione. So di amarvi anche se le mie mani non vi hanno nemmeno sfiorato! Certo, non posso darvi torto.”
Il ragazzo si scostò un ricciolo biondo dietro l'orecchio, faticando nel nascondere la propria incredulità. Un uomo fatto come T. , un principe del sangue nato nella perfezione più dorata, si stava definendo folle d'amore per lui. 
Era meschino e crudele e non lo meritava, non meritava il diritto di confondere così un uomo del genere.
Il principe T. l'aveva visto per la prima volta come una fanciulla e da allora mai aveva nascosto d'essersi innamorato della tentazione rappresentata da Charlotte, delle sue guance rosee e delle cattiverie che sapeva dire.
No, Rossignol aveva capito sin troppo bene perchè si era innamorato di lui, ma ancora non capiva come poteva corrisponderlo.

Tuttavia, il ragazzo si sentì di puntualizzare, come un bambino lagnoso:
“Sbagliate principe, ci siamo sfiorati eccome. Era un solo ballo, ma l'avete già dimenticato?”
In cuor suo, sperava che l’avesse dimenticato.
Rossignol, preso tra il desiderio di liberarsi dello scomodo innamorato che l'aveva ferito e il bisogno di tenerlo vicino, di dare e trovare conferme. 
Com'era bizzarro, quel sentimento che stracciava il cuore e obnubilava la mente.
Il principe T. scosse la testa, portandosi le mani alle tempie.
“Non una consolazione, se non quel ballo e quell'istante che mi concedeste ad Aprile per rafforzare la mascherata della vostra Marchesa. Non uno spiraglio da allora. Volete vedermi morto per avere la prova delle mie parole?”
“No!”
Gli era sfuggito dalle labbra con una certa violenza quando avrebbe voluto urlare il contrario.

Non ne era certo.
“Sembra piuttosto il contrario. Mi tormentate così bene,” attese un istante, studiando il viso paonazzo del ragazzo. “Non ho mai creduto, fino a questo istante, che poteste ricambiare.”
Rossignol tentennò, inclinando il capo ora a destra, ora a sinistra. 
Pareva spaventato dalla stessa risposta che ci si aspettava, e strinse le labbra prima di rispondere:
“Infatti non è così.” 
Alle orecchie del principe T., quella negazione era un'affermazione.
Il rossore sulle guance incredibilmente bianche di Rossignol e il luccichio dei suoi occhi azzurri rivelava ciò che lui si rifiutava di ammettere. 

Se non fosse stato in compagnia, e in un momento così cruciale, T. avrebbe voluto mettersi a piangere e a saltare e a cantare e a pregare: indeciso su quale follia commettere per prima non fece nulla, aprendosi solo in un gran sorriso. 
Rossignol scosse il capo e aggiunse, con voce più dura:
"Non era una menzogna, quel ballo. Vi potranno dire che non ho freni, ma nemmeno io mi spingo così oltre per una scommessa.”
A quelle parole, il principe T si incupì. 
Non aveva idea che una figura tanto graziosa potesse esprimere giudizi così aspri su se stesso e, più di tutto, lo offendeva l'idea che Rossignol si giudicasse tanto male. Non vedeva, forse, lo splendore che emanava? La gioia che portava agli altri giocando con i cani di d’Artois, scherzando con i cortigiani, vincendo a carte con l'ingenuità di chi si serve solo della fortuna e non dell'astuzia?
Il principe T. non poteva credere che quel giovane fosse davvero cieco di fronte alle proprie qualità, che pure erano così palesi agli altri. Il solo pensiero lo infastidiva enormemente.
"Non offendetevi così, Rossignol, non avete il diritto di parlar male di ciò che Dio ha creato perfetto. Il vostro corpo e i vostri modi sono pura arte: non vi appartengono. Pertanto non avete il diritto di essere così severo con voi stesso."
"Ma, principe, io vi faccio soffrire," replicò il ragazzo, abbassando lo sguardo. 
T. mosse un passo verso di lui, prendendogli le mani in uno slancio d'affetto.
Si imbarazzò enormemente d'essersi tirato indietro una volta: non aveva visto, forse, il candore della modestia in quegli occhi? Come aveva potuto ignorarlo? 

"Per il bene di entrambi, non è così?" domandò, stringendo le dita di Rossignol fra le proprie. "Siete più saggio di me, eppure così giovane! Lo fate per questo, non è così?"
"Certamente non per me,” esitò, cercando di schiarirsi la voce, “non posso.”
"Non vede nessuno, non ode nessuno. Dite, avete forse paura dei pettegolezzi? Delle malelingue? Delle serpi che si annidano fra gli arazzi, dietro porte segrete, dedite ai segreti altrui? Sapevo che avreste temuto ciò che vi può distruggere, Rossignol. Ma vi proteggerei in punta di spada, se dovessi, e qui siamo nascosti e al sicuro."
Il ragazzo si sentiva le membra tremendamente appesantite e faticò anche a muovere un passo indietro.
Cos’era che lo terrorizzava? Il pensiero di andar contro il coniglio di d’Artois o di concedersi di provare qualcosa oltre all’euforia del rischio? Le loro mani si sciolsero e Rossignol sentì uno strano freddo pervaderlo, come se improvvisamente fosse giunto l'inverno e nulla fosse più bello né vivo.

Ora che l’aveva davanti, T. lo terrorizzava.
Ne aveva bisogno se si rifiutava di vederlo, ma averlo fra le mani era come vivere costantemente nell'orrore dell'alba prima di una battaglia.

Il viso spigoloso di T., che era il ritratto d'un uomo disperato e pallido animato ormai solo dalla speranza, lo scrutava come ad attendere una risposta positiva. Negli occhi da lupo aveva fatto capolino l'animo umano, di nuovo. Ma Rossignol non aveva cuore di distruggere ciò che aveva di più caro.
"No. Non posso." si schiarì la voce, a fatica, "Sono così miseramente schiavo di me stesso da non poterlo dire senza piangere, vedete? Vi rifiuterò quest'ultima cortesia. Distruggerei me stesso e voi e il consiglio di altri che non oso nominare. Non voglio vedervi più, non voglio parlavi più. Mi spiace, mi spiace, mi spiace, ma ciò che mi chiedete è troppo. Statemi lontano, vivremo entrambi felici.” 

 

Quella sera stessa, il Principe T. fece chiamare Remis nelle sue stanze.
Sapeva che Martin aveva un buon rapporto con il giovane paggio di Rossignol e, sebbene con grande riluttanza, decise che sarebbe stato giusto far leva sull'amicizia fra i due per compiere un ultimo, disperato tentativo. 
Battendo le ore con il tacco del proprio stivale, rimase in attesa. Solo molto tempo dopo la porta si aprì.
Fecero capolino prima le tozze dita di Martin, poi il suo viso lucido e tondo, una grossa luna piena spruzzata di efelidi.

Non v'era l'ombra di un sorriso, sul suo volto.
“Dov'è lui?” lo salutò T., spoglio della cordialità che si premurava di tenere con pari e domestici. 
“Mi dispiace.”
Per un attimo, in preda ad una furia cieca, il principe dovette trattenersi dal rovesciare tutti i mobili della stanza, distruggere piatti e finestre. Voleva radere al suolo il mondo intero ma, ancora di più, disprezzava sé stesso per essersi messo in una tale posizione.
Gli sarebbe stato facile stare al fianco di Rossignol come amico, ma aveva preferito distruggersi.
Poteva facilmente immaginare che tipo di ordini avesse ricevuto Remis dal momento che, per un attimo, aveva avuto la tentazione di fare lo stesso: chiudersi, non parlare mai più con Rossignol, dimenticare la sua esistenza, il suo sorriso, il rumore delle sue scarpe sulla ghiaia e la delicatezza della sua calligrafia.
Ma sarebbe stato inutile.
“Grazie, Martin,” rispose dopo un istante di silenzio, accasciandosi su uno dei divanetti posizionati accanto alle vetrate che davano sul retro e sul giardino. Scoprì di non avere più alcun desiderio di muoversi. Era sfinito. “Puoi andare a dormire, ora.”
Monsieur...
“Sì?”
Com'era fastidioso doversi occupare dei domestici e dei paggi. Martin esitò inizialmente, ma subito dopo riprese coraggio.
“Remis mi ha confidato che Monsieur De Gramont è molto turbato nei vostri riguardi e ha minacciato di chiamare dei suoi amici, semmai vi avvicinerete nuovamente,” il giovane prese un pausa, come se quelle parole gli costassero molta fatica. “Voci dicono che Monsieur De Gramont abbia frequentazioni poco raccomandabili.”
Nonostante tutto, il principe T. gli dedicò un breve sorriso.
Sardonico, stanco, ma pur sempre un sorriso.

“Verrò ucciso in una lite da taverna per Rossignol, secondo te?” domandò, ridendo della probabilità di quelle stesse parole.
Per Rossignol l'avrebbe fatto.
Sarebbe morto ogni giorno per lui.

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Capitolo 7
*** Capitolo VII ***


VII
 


Le ultime parole di Rossignol per il principe T.  avevano lasciato i due giovani storditi ed in preda ad un torpore che Rossignol, sebbene ancora convinto dell’impossibilità di qualsiasi altra conclusione, non aveva previsto. Come febbricitanti, annoiati da ogni cosa, disgustati dal mondo intero, si erano trascinati l'uno lontano dall'altro nel disperato tentativo di rimanere separati.
Nessuno dei due era certo di cosa avrebbe fatto, detto, provato in presenza dell'altro — e più il principe T. allungava una mano per colmare lo spazio fra loro, più Rossignol si ritraeva dietro un muro di ostinato silenzio. Più i suoi stessi desideri, le sue stesse speranze, si chiudevano su di lui come una cella, più T. si riscopriva incapace di urlare, di scappare, di scrollarsi di dosso la sensazione che si sarebbe consumato solo ed al buio, ergastolano nel suo personale, immutabile purgatorio mentre la sua anima tendeva ogni giorno più disperatamente verso Rossignol. Mai un solo giorno prima di allora T. si era domandato cosa avrebbe comportato vivere in un palazzo dove i muri avevano occhi ed orecchie, e dove il pettegolezzo era una merce travestita da abitudine.
La giostra costruita ad immagine di sua cugina si rivoltava contro di lui; dopotutto, Antoinette era sempre apparsa infinitamente più vicina alla luce di quanto non lo fosse lui.
Slavato, inquieto, incapace di tenere a mente un solo motivo per sorridere.

 ‘Vostra Altezza, voi siete la notte calata troppo presto sul vostro casato, deprimente da vedere e oltremodo difficile da comprendere.
Come pretendete di essere amato? Su, sorridete.’ 

Finalmente in grado di scorgere qualche nota veritiera in quel giudizio, l’uomo si rendeva conto che era troppo tardi: proprio come la notte si era ritirato al momento meno opportuno, sfuggendo quando il sole iniziava a mostrarsi oltre le montagne.
Con un sospiro, T. si era detto che lui e Rossignol avevano utilizzato i nomignoli sbagliati per troppo tempo. 

Erano state le voci di due nobili a farlo immobilizzare, riconoscendo il suo nome in quella conversazione: da dov’era poteva intravederli mentre conversavano degli ultimi pettegolezzi di fronte ad un’ampia finestra che guardava sull’Orangerie. Due uomini discorrevano scaldati dai luci del sole, che ne illuminava i bottoni decorati delle le marsine in taffettà pesca e le parrucche incipriate: chi l’avrebbe mai detto, pensò, che la reggia potesse trasformare persone tanto giovani in esseri assetati di chiacchiere. E a che prezzo? L'onore altrui era una merce sin troppo facile da sottovalutare: l'aveva sempre temuto, ma Versailles gliene dava la conferma.
“Avete visto il principe T., ultimamente? Dicono che sua altezza abbia confessato di essere innamorato!”
“Ve ne stupite?”, seguì un verso indispettito, un momento di silenzio in cui T. Soppesò l’idea di andarsene e dimenticare, “mi stupisce l’aria miserabile con cui si mostra tutto il tempo. Non trovate anche voi che sarebbe un buon partito, se solo non spaventasse le signore con quegli occhi disturbati?”
Rabbrividendo, T. Si chiese se non fosse il caso di intervenire, di obbligare al movimento quei piedi che improvvisamente sembravano incollati al pavimento.
Signore? Monsieur, siete male informato. Non sapete?”
“Ah! Dunque è quello il motivo della confessione—”
“Ingenuo, lasciare nelle mani di un confessore un’informazione del genere. Cosa si aspettava, che non si venisse a sapere?”
“Non lo definirei impossibile, mon ami: se si ripone ogni certezza nei dettami della fede si rimarrà necessariamente delusi dai suoi ministri.”
“Il nostro buon Cardinale1 di certo non fa il volere della chiesa, quello è certo.”
Una risata accorata risuonò per i corridoi, scherno e sincero disinteresse che fecero rabbrividire l’uomo.
“Ad ogni modo, è stato fatto il nome di un certo duca da poco tornato a palazzo.”
“De Gramont?”
“E chi sennò? Credetemi, mon ami, ha il principe sul palmo della mano e non vedeva l’ora di schiacciarlo per il proprio divertimento. Quel pover’uomo non vi fa pena? Così devoto che mi riferiscono volesse prendere i voti, eppure nel momento in cui si cade nell’inevitabile peccato tutto crolla come un castello di carte. Perché mi sono trattenuto fino a questo momento? Dunque ho creduto in una menzogna? E se non fosse che una tentazione? È terribile, assistere alla fede di un uomo che cede come il fianco di una montagna, sgretolandosi in fango.”
T. Si umettó le labbra, stringendosi contro il muro.
Origliare come una qualsiasi pettegola era umiliante, ma mai come le parole che erano riferite. Mai come la consapevolezza di essere una slavina in caduta libera, ciò che era roccia trasformato in sabbia...e da chi? Da Rossignol? Non era il ragazzo più bello che avesse mai visto, ma allo stesso tempo aveva la sensazione di non aver mai posato gli occhi su nessun altro prima di lui. Aveva la sensazione di esser stato cieco fino al momento del loro incontro.
“E di fede parlando, avete sentito? Principe a parte, Rossignol non ha perso tempo per fare la sua mossa politica.”
“Ah?”
“Stamane a messa sedeva accanto a sua Altezza Relae e il suo amico, il duca di Ort Sur Mer.”
Il sangue sembró cristallizzarsi nelle sue vene; non voleva dire nulla. Non voleva dire niente.
“Non vi erano delle chiare spinte in quella direzione...?”
Ça va sans dire. Rossignol ha una meravigliosa giacca nuova da Parigi, ed un nuovo pianoforte per le sue composizioni.”
“Mi prendete in giro!”
“Non mi permetterei; il suo nuovo patron è un uomo generoso. Sospetto che vi sia noi sappiamo chi dietro queste donazioni, colui che ha caldeggiato questa liason...”
“Il duca

Un suono brusco, che fece sussultare T.
“Zitto! Meglio fingere di non sapere con quella persona, non avete ancora imparato? Mon dieu, finirete in uno scandalo se non sarete più cauto e non sarò io a tirarvi fuori d’impiccio, ricordatevelo bene.”

Con il cuore che gli scoppiava in petto, T. si ritirò nell’ombra, avendo udito abbastanza.
Cosa sarebbe stato di Rossignol? Non gli importava di sè stesso, ed era bizzarro perchè mai prima d’allora aveva pensato a qualcun altro se non alla propria soddisfazione, alla quiete del proprio animo. Gli era stato insegnato che se non ascoltava sè stesso, se non si occupava dei propri interessi, sarebbero sorti problemi per tutti.
Crescere all’ombra del chiostro l’aveva ammorbidito, rendendo gli abissi della propria mente meno terrificanti, gli angoli del silenzio che gli tagliava la carne quando I servi soffiavano sulle ultime candele erano meno spigolosi in un’abbazia dove l’aria era fresca e la notte brillante di centinaia di stelle. Eppure quegli uomini di cui non sapeva nulla e che tutto sapevano di lui avevano ragione, si sentiva come un dato nelle mani di un ragazzo.
Erano anni che non si sentiva così.
Aveva pregato di non sentirsi mai più così.

 

#

 

Rossignol, proprio malgrado, era oramai abituato al senso di angoscia che aveva caratterizzato quell’incontro: da giorni ne assaporava il presagio, accusando sè stesso d'essere un vile ma non sapendo come altro tirarsi fuori d'impiccio. L'illusione che vi fosse una via d'uscita, mandata in pezzi al ritorno a Versailles nel momento in cui si era ricordato cosa, quanto, per chi avrebbe rischiato, aveva reso quei giorni simili a sogni, costantemente ondeggianti tra onirico e cosciente, irreali, pigri.
Il giovane era fatto carico dei non detti, delle cupe premeditazioni, della atroce responsabilità di fermare T. ben prima che potessero nascere incomprensioni e pettegolezzi. Aveva bisogno d'una pausa, nient'affatto consolato dalla consapevolezza d'aver agito per il meglio.
Da quanto tempo non si concedeva la compagnia di Madame D.?
Rossignol ricordava a malapena l'ultima volta che l'aveva vista dischiudere le lunghe ciglia in quell'attimo d'estasi che la immobilizzava, appena prima di sentirla sciogliersi sotto le sue dita. Faticava a ricordare le sue risate, quando lo accarezzava e lo rimproverava d'essere un ragazzo indisponente, ed insieme si scambiavano giudizi sulle conoscenze in comune.
C'era stato un tempo, prima del principe T., quando Madame D poteva definirsi senza alcuna presunzione la cura a tutti i mali di Rossignol.
Ma in quell'istante, per la prima volta in vita, il ragazzo non desiderava la morbidezza d'una donna. Agognava piuttosto la sicurezza di una figura paterna, dove gli occhi che l'avrebbero guardato non avrebbero mostrato nulla di simile alla tenerezza.
Sapeva dove trovarli, quegli occhi chiari e freddi come ghiaccio, e sapeva anche che gli sarebbero stati fedeli.

La fontana nascosta nel boschetto d'Apollo era di gran lunga il luogo preferito di Rossignol fra tutti gli angoli privati del giardino; di rara bellezza e maestosa, con la sua enorme cascata scolpita nella roccia grigia, gli dava l’impressione di essere un’opera grandiosa che si tuffava nella sua idea di un laghetto di montagna. Regalava la sensazione d'essere un piccolo uomo sul tetto del mondo, circondato dalla più magnifica delle bellezze d'Europa.
Sapeva anche, Rossignol, di spartire tale sensazione con un uomo particolare: Alain d'Ovigny, lo spirito granitico della Bretagna, non poteva essere altrove. Dopotutto, nessun altro luogo ricordava la sua casa come quella particolare porzione di giardino.
Rossignol sorrise nello scorgerlo di spalle, seduto su una delle panchine di marmo che puntellavano il campo di erba gialla.
“Temevo di avervi offeso in qualche modo.”
Alain sussultò violentemente e subito si irrigidì ma senza voltarsi, cosa che riempì Rossignol di divertimento. Credeva di potersene stare solo in una corte così popolata o si stupiva che il ragazzo si fosse accorto di come s'erano separati?
“Non potrei essere offeso con voi, ve l’ho già detto.”
“Perchè ho avuto la sensazione opposta, dunque?”
Alain sospirò nuovamente senza guardarlo.
Un passo, un passo ancora…
“Vi è mai capitato di essere spaventato dall’intensità dei vostri stessi sentimenti?” replicò l'uomo, lentamente. Rossignol aggrottò la fronte, indispettito, e la fredda sensazione che sarebbe stato abbandonato una seconda volta lo immobilizzò.
Ma era Alain, il fidato Alain, e fu solo un istante di titubanza prima di convincersi che T. non aveva il diritto di farlo dubitare del comportamento di tutti gli uomini che conosceva.
“Vi ho spaventato?”
“Come avete avuto occasione di notare, a volte mi terrorizzate.

Abbastanza da farvi scappare, insistette, inarcando un sopracciglio.
Parte della mia mente mi suggerisce tutto il tempo di scappare da voi; spero che il fatto che siamo ancora qui serva da conferma, e mi faccia perdonare per il modo in cui mi sono comportato.
“Ah sì? Bene, ecco infine il volere di D'Artois che si compie,” dichiarò Rossignol, stringendosi nelle spalle. Muovendosi ad ampie falcate verso Alain, il ragazzo si riscoprì a ridere della mancanza di risposta, “Perdonatemi, monsieur, non volevo dare l’impressione di spiarvi.”
Credeva che non fosse a conoscenza del favore del duca nei confronti del loro interesse reciproco? Ora, ciò non faceva che sottolineare come d'Ovigny, per quanto fosse indubbiamente un uomo intelligente, fosse totalmente digiuno delle dinamiche di corte.
In un silenzio disinvolto, soddisfatto della reazione ottenuta, Rossignol si sedette sulla panchina; un movimento sciolto, libero di ogni imbarazzo, ed allora Alain lo guardò per la prima volta come se gli costasse una tremenda fatica. Aveva la mascella serrata e le labbra strette e pallide. Sovrappensiero, Rossignol pensò che ciò non ssminuiva in alcun modo la bellezza spigolosa del suo viso.
“Vi stavo aspettando, Rossignol.”  rispose quietamente “Due cose vi tradiscono.”
Rossignol sorrise.
Era dunque così? Alain era limpido nei sentimenti, riflettendoli con la stessa franchezza con cui i suoi occhi deboli riflettevano la luce. Era tuttavia una dichiarazione rispettosa, che scosse Rossignol per la differenza con quella ricevuta in precedenza da ben altro individuo.
Forse, la preferiva.
“Ah, dunque è così? E da cosa mi avevate riconosciuto, se posso?”
“Prima di tutto, dal profumo.
Alain esitò un istante, Siete sempre preceduto da questo sentore di lavanda che è come un presagio del vostro arrivo. E, poi, stavo pensando a voi.”
Da quel conteggio, del quale peraltro Rossignol poteva dirsi pienamente soddisfatto, traspariva l'attenzione che Alain gli riservava. Pochi avevano notato il profumo di Rossignol e nemmeno il principe T., che pure si fregiava d'essere tanto innamorato, non ne aveva mai fatto parola. Ancor più che durante il loro ultimo incontro, in quelle parole il giovane vedeva con chiarezza ancora maggiore la devozione già anticipatagli da D'Artois, così forte e costante da sembrare amore. Era dunque giusto approfittarsi di un sentimento già dichiarato, pur sapendo di non ricambiarlo?
Rossignol credeva di sì.
Aveva sperimentato un tipo ben diverso d'amore, lui, un sentimento crudele e meschino che non faceva che male.
Tagliava in profondità le membra di un uomo, recidendo i muscoli, non lasciando altro che languore, e scavava nelle ossa fino a prosciugare qualsiasi ricordo dell'essere umano che era stato in passato. Ma l'amore di Alain aveva in sé la dolce sfrontatezza dell'attrazione, inequivocabile sì, ma di gran lunga meno disperata e profonda di quella che provava Rossignol.
Forse, si disse il ragazzo, non esistevano tipo diversi d'amore, ma uomini che lo provavano diversamente. Forse Rossignol si stava mentendo e non era affatto innamorato di Alain, ma una cosa era certa: Alain era innamorato di lui in una maniera ben più confortante di quella del principe T.
Per questo gli era così facile scherzare?, si chiese.
Perchè non l'amava affatto?
“Credete di avermi evocato, Monsieur?”
“Siete un angelo, Rossignol,” replicò Alain, stringendosi nelle spalle e scrollando brevemente il capo, “per evocarvi dovrei pregare come si conviene.”
Rossignol sbuffò una risata.
“Oh, molto bene allora. Voi mi siete caro, Alain, per questo vi concedo di mandarmi anche un semplice messaggio,” diede in una breve risata, limpida come quella di un bambino “Dopotutto, sapete bene dove vivo. E lasciatemi dire che la chiesa è estremamente fredda in ogni stagione e la trovo un luogo inadatto a pregare gli angeli.”
“E dove ritenete consono pregare?”
Rossignol sollevò le braccia, come a voler abbracciare l'interezza del paesaggio. Era verde, silenzioso e quieto; cosa buffa, data la bella giornata, ma ancora una volta Rossignol credeva nella perfezione del destino.
“Il giardino,” rispose, “Circondati dalla natura.”
Alain si umettò le labbra, inclinando appena il viso.
Un angelo— era aspettativa quella che lo pervadeva? Forse era il ricordo delle dita di Rossignol che gli sfioravano il volto. 
“Cosa siete venuto a dirmi, Rossignol?”
Che Rossignol non cercasse nessuno se non con uno scopo ben preciso era cosa nota e, una volta svelato l’inganno, non restava che l’uomo; se preso di sorpresa, Rossignol non era che un ragazzo biondo e con un bel viso, consumato dai propri appetiti come ogni altro. E sorrideva, mentre Alain gli porgeva quella domanda, ma alla fine non sorrideva più: s’era fatto cupo, pensieroso.
“Sono venuto perché so di essermi fatto attendere prima del nostro ultimo incontro, e che mi desiderate.”
"Non ve l'ho nascosto."
Una sfumatura di rosso tinse le guance del ragazzo, che scosse la testa.
"Intendo, in altro modo. Più personale di un incontro, più...intimo di quello che è accaduto fra noi."
Ah, non era un mistero per nessuno, dunque! Si leggeva negli occhi di D’ovigny, così chiari e pieni di luce.
Ciò non fece paura a Rossignol, il quale non aveva più nulla da perdere e riempì la distanza fra loro, afferrandogli le mani fra le proprie.
Alain si ritrovò a trattenere faticosamente il respiro.
“Ed io desidero voi. Non come un patrono ma come uomo, e non per qualcosa in cambio, non per un bel vestito, non per tutti i pianoforti di questo mondo.” graziosamente, con un sorriso illuminato dal sole, il ragazzo inclinò il volto ed una ciocca bionda gli cadde lungo lo zigomo. “Non trovate che sarebbe bellissimo se cessassimo di avere paura?”

Non sono in alcun modo innamorato del principe.
Ho smesso di avere paura
.

Come aveva mentito bene, e con quale facilità.  

 

#

 

L’autunno incalzava ed il Principe T., tormentato dai se e dagli errori del passato, dopo più di un mese decise che sarebbe stato opportuno andare di persona da Rossignol. Non avrebbe chiesto dei messaggi ignorati e mai consegnati, nè delle visite non accettate ed I saluti non ricambiati, ma l’avrebbe finalmente rassicurato che tutto ciò che avevano vissuto fino ad allora era stato un errore e che era possibile, necessario, ricominciare daccapo.

Se si ricerca certezza solo nei dettami della fede, nel momento in cui si disobbedisce tutto crolla come un castello di carte. 

Ed era crollato, era crollato senza dignità prima di potersene accorgere, agendo come un codardo nel momento in cui Rossignol aveva mostrato un accenno di vulnerabilità. Era crollato e che idiota era stato, quanto ingenuo.

Non so nulla di questi giochi, niente che mi possa aiutare.
Come ho potuto vivere tutti questi anni senza imparare niente?

Nonostante le regole degli svaghi sentimentali imponessero pazienza e dedizione, come sapeva bene chiunque fosse in contatto con la bizzarria della corte, il Principe T. ne aveva avuto a sufficienza.
Due settimane e non una lettera, non un biglietto né un cenno.
Dal momento che il giovane non s'era palesato nemmeno alle funzioni se non di rado per tubare con d’Ovigny fra i primi banchi e farsi coccolare dalla Duchessa di Polignac, per non parlare del lever reale che solitamente esercitava su Rossignol un'attrazione insopprimibile, il principe era giunto a pensare che, al culmine della follia, doveva essere scappato nella sua residenza di Parigi, se non nella sua casa di campagna.
Così incline a sminuire ciò che era accaduto come un capriccio fugace e già terminato, Rossignol aveva ben deciso di sparire con la velocità d'una lepre minacciata.  
Il ragazzo era testardo, ma T. si impose di esserlo di più.

Sono un castello di carta, il fianco di una montagna che crolla.
Non resisterei ad un rifiuto.
É il primo, eppure mi sembra di non aver conosciuto altro tutta la vita.

Con quel pensiero in mente si recò nelle stanze di Rossignol e chiese di farsi ricevere con estrema urgenza. Non mentiva quando diceva d'avere un tremendo bisogno di parlargli: sentiva che qualcosa, in lui, stava lentamente svanendo lontano dalla luce del ragazzo. Come s'era immaginato, fu Remis a dirgli che non c'era nessuno, in quel momento -che il monsieur le duc aveva avuto un imprevisto e che si era dovuto recare alla casa di sua sorella maggiore in tutta fretta.
Pur aggrottando la fronte e attendendo ulteriori dettagli, rimase in silenzio aspettando che Remis spiegasse che diavolo stava accadendo: Rossignol si allontanava raramente, se non per andare in città da Madame D.
Il giovane paggio, seppur imbarazzato, tossicchiò.
Si trovò, senza che l'altro dovesse chiedere apertamente, a spiegare la situazione con la voce concitata e la fretta di chi sa che non dovrebbe parlare. 

Josephine Anne de Girodin abitava poco fuori Parigi nella tenuta di campagna di suo marito, il marchese de Girodin, un uomo alto e cupo che pareva aver strappato il proprio titolo dalle mani della Morte stessa. La famiglia non versava in condizioni economiche rosee come quando Josephine viveva con i genitori, e voci malevole imputavano le loro modeste finanze ai numerosi vizi del marchese, ma Rossignol non vi prestava ascolto: bastava sapere che sua sorella era ben ricevuta da tutti e, qualora ne avesse avuto bisogno, sarebbe stata accolta a Corte da molti amici dalle tasche traboccanti.
Oltretutto, come T. apprese, era finalmente incinta.
Non passavano che pochi anni fra lei e il giovane Rossignol, eppure la ragazza era conosciuta in società per essere bella quasi come il fratello minore. Entrambi dotati d'una enorme delicatezza, quella di Josephine pareva distinguersi per essere sia di carattere che fisica.
“Alloggia presso la sorella?” domandò T., dichiarando subito dopo: “Mio fratello è un esperto in botanica, conosce bene le erbe. Me ne offre spesso coltivate da lui e vorrei portarne alla marchesa de Girodin.”
Remis si grattò la testa, tentennando.
“Non so se...” si morse le labbra, con la fronte aggrottata “Potrei passare dei guai.”
“Intendo solo fare del bene; ditemi dov’è Rossignol.”
Remis si guardò attorno e le sue guance, solitamente rosee, avevano perso ogni colore. Si piegò verso T., coprendosi il viso con una mano dopo aver lanciato uno sguardo attorno.
“A dire il vero, monsieur ha lasciato detto dove alloggerà nel caso...”
“Sì?” lo incalzò il principe, vedendo che esitava ancora.
Remis, ben cosciente dei sentimenti del proprio padroncino, sembrò cedere sotto la fretta del suo interlocutore e si convinse nel giro di pochi istanti che stava in un qualche modo eseguendo un volere superiore.
Nulla di più.
“Ecco, aveva detto di dirvi, nel caso aveste insistito per sapere dove si trovava, che alloggiava presso una tale osteria, che all'occorrenza affitta camere. Non vi sarà difficile trovarla.”

 

 

Come aveva detto Remis, non era stato affatto difficile trovare la vecchia locanda indicata da Rossignol.
Era bastato chiedere e l'oste, un uomo pingue e con una barba rossa e ispida lunga fino al torace, gli aveva riferito di attendere fuori dal momento che Rossignol aveva dato disposizioni perchè potessero parlare in privato. 
T. era deliziato di un tale comportamento, che altro non lasciava intendere se non l'intenzione del giovane di trattarlo ancora una volta come un amico, ed era intenzionato a parlargli con il cuore in mano. Si appartò dove gli era stato detto, in un giardinetto d'erba battuta vicino alle stalle per i cavalli degli ospiti dove la casa in mattoni grezzi faceva angolo. Era l'attesa a renderlo trepidante, gioioso e leggero. Un'attesa dolce fatta di orecchie tese e di immagini di un futuro dolce.
Giacchè i piedi del principe T. s'erano già staccati da terra verso il cielo fu tanto più stupito del vedersi venire un contro un ragazzo, sì biondo e piuttosto bello, ma nient'affatto somigliante a Rossignol. Dopo una prima occhiata i suoi capelli apparivano chiaramente più scuri e lisci, raccolti in una coda, e le sue spalle erano possenti. Aveva le sopracciglia aggrottate sopra l'attaccatura del naso quasi formando un'unica arcata, e una mano era già corsa alla cintura.
Il bagliore di una vecchia lama lo fece sussultare.
“Siete voi il principe T., che cerca un certo Rossignol?”
Pur sorpreso, il principe trovò il fiato per rispondere a testa alta
“Chi siete? Non ho chiesto di voi.”
No, di certo, ma un brivido gelido lungo la schiena iniziava a suggerirgli che c'era qualcosa di losco e che certo non era tutto frutto di un malinteso.

Non glielo aveva forse detto, Martin? Non era stato avvertito? 

Eppure lui, come uno sciocco, aveva deciso di proseguire e di avventurarsi dove non aveva idea di cosa avrebbe trovato, nel buio, aveva pensato fosse saggio avanzare insieme al castello di carte con cui era stato accusato di crollare: ed ora, ora aveva un po' di paura per Rossignol, a causa delle persone maligne alle quali si accompagnava e che era sospettava avessero preso in mano la situazione per conto del ragazzo.
“Sono un amico.” dichiarò l'uomo, gonfiando il petto. Come se un tale privilegio fosse riservato a lui, e lui soltanto. “Non desidera vedervi. Dunque, considerate le mie parole come sue."
“Non ne ho intenzione. Voglio solo parlargli.”
“Signore, state solo infastidendo Rossignol.”
T., a quelle parole, non seppe bene come reagire. Non accettando che fossero veritiere, non potè che esserne sdegnato ed offeso; d'altra parte, non poteva nemmeno negare che Remis gli avesse detto pressapoco le stesse cose.
Confuso ed incredulo, esitò.
“Non credo che possiate definirvi amico, signore, dal momento che Rossignol non ha mai parlato di voi: se lo foste, vi avrebbe nominato.” eppure, quanto avevano davvero condiviso lui e Rossignol? Parlavano sempre di passione e di sentimenti, ma non si conoscevano affatto. “Fatevi da parte e lasciatemi passare.”
Aveva in animo di dirgli molte cose, T.
Tuttavia, in un unico, breve, fatale istante, il ragazzo aveva estratto un'arma.
Era quasi un coltello da cucina, con il manico rozzo e rovinato, e tenuto come tale. La lama non brillava, nonostante il sole fosse alto nel cielo e rendesse prezioso tutto ciò che era sotto i suoi raggi, ed era anzi macchiata di unto. Come l'espressione dello sconosciuto si fece più feroce, il principe T. arretrò.
“Non ci siamo capiti, signore: il mio amico vi vuole lontano dalla sua vita.”

“Non vi erano delle chiare spinte—?”
“Ça va sans dire. Rossignol ha una meravigliosa giacca nuova, da Parigi, ed un nuovo piano per le sue composizioni.”

Il principe deglutì a forza, sentendosi gelare: quelle parole, sottolineate ingiustamente dall'arma, rendevano tutto molto più chiaro. Non s’era sbagliato, né l’inesperienza l’aveva tradito: Rossignol era perduto, l’aveva spinto via lui stesso e la vergogna che provava a quella realizzazione, l’odio verso sé stesso, bruciava come lava nel suo corpo.
“Non farete del male a chi sta a cuore al nostro comune amico.” replicò, con una certa durezza che andava inevitabilmente affievolendosi.
L’uomo sputò a terra.
“Certo che siete stupidi, voialtri.” abbaiò, con voce rauca. “É stato il vostro così detto comune amico a richiedere di mandarvi via con ogni mezzo. Se non la capite così, il prossimo avvertimento arriverà su una lama.”
Il principe aggrottò la fronte.
Un ultimo tentativo, gli urlava la mente.
“Fatemi parlare con Rossignol.”
“Ma siete serio?! Voi nobili— Rossignol. Non. Vi. Vuole! Non ha fatto che sopportarvi, ed è stanco di avervi tra i piedi.”
Era una trappola ordita da Rossignol stesso?
Gli sembrava impossibile che fosse stato lui a richiedere mezzi così meschini e totalmente inadeguati data la situazione, ma non sapeva niente di d'Ovigny: poteva essere il suo volere, quello, per quel che ne sapeva.

Ma quello è l'uomo che Rossignol dice di amare.

“Ora dunque ditemi, altezza, se preferite andarvene sulle vostre gambe una volta per tutte o se preferite che vi scacci come il parassita che mi hanno detto che siete.”
T. scosse la testa, stupendosi egli stesso dell'essere ancora in grado di parlare e muoversi. Si sentiva ancor più vuoto di com'era stato quando Rossignol l'aveva rifiutato e stavolta non c'era nulla a smuoverlo. Nè rabbia, né dolore; la rassegnazione si faceva strada dentro di lui rapidamente, come una mano gelida che uno ad uno afferrava i suoi organi, stritolandoli.
“E' questo il desiderio di Rossignol? Che io muoia?”
“A lui non interessa.” disse l'uomo.
Dunque, le cose stavano così.

 

Il principe T., nel dichiararsi sconfitto, nel comprendere infine che era innamorato a tal punto da non riuscire a lasciare il banco di gioco quando le luci erano spente sulla sala e tutto era perduto e nell'andarsene di sua spontanea volontà da quella locanda, decise che sarebbe stato apprezzabile tener fede all'unico desiderio di Rossignol che era in suo potere esaudire.
Gli parve quasi di vederlo, appoggiato alla finestra che dava sul luogo dell'incontro, nascosto dietro una tenda: un'apparizione fugace. Un angelo vergognoso.
Tornando a Versailles, trascinandosi verso le proprie stanze senza fermarsi né aver provvisto che governassero a dovere il cavallo, si accorse che camminare era faticoso. Tenere gli occhi aperti, muovere le dita e far battere il cuore non erano mai stati compiti tanto gravosi.
Non c'era sole, non c'era aria.

A lui non interessa. 

Cos'era, quella, se non una preghiera? Una profezia, ed come Ifigenia spariva fra le onde di un mare in tempesta per la buona riuscita della grande impresa, così si sentiva drammaticamente parte di qualcosa di più grande, di inevitabile. A lui non interessa. Nient'altro che una richiesta così semplice da esaudire. Gli regalava la quiete, infine, e T. era soddisfatto perchè Rossignol non si era aggrappato alla sua vita.
Lo amava abbastanza da non reclamare i diritti sul suo corpo ormai vuoto, oramai senza scopo.
L'avrebbe lasciato andare ed era la prova che ancora lo amava. Gli aveva regalato la possibilità di non soffrire più.

A Rossignol non importa, agite come credete sia meglio. Lui farà lo stesso.
Non sopporterei un rifiuto, 
aveva detto, eppure eccolo lì.

 

Non era una rissa da taverna, ma era abbastanza: c'erano mille motivi per cui un uomo poteva decidere di continuare a vivere.
Quel giorno, il principe T. scelse l'unico per cui valesse la pena morire.





Note:
1 Si fa riferimento al buon vecchio Cardinale de Rohan

Vi ricordate quando d'Artois diceva che T. era una personcina fragile? Ecco. Questo è quello che capita agli analfabeti selettivi come quello scemo di Rossignol, che vince mille punti karma negativo 🖤 congrats!


 

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Capitolo 8
*** Capitolo VIII ***


VIII




Nonostante gli innumerevoli impegni mondani, i balli, le prove infinite delle più varie tipologie di abiti all’ultima moda, ventagli da giorno e parrucche charmantes, Marie Antoinette aveva fatto una promessa molto tempo prima: diventare una buona regina.
Una bambina che parlava francese, mangiava francese, respirava e vestiva la Francia — cos’era diventata?
Quando aveva attraversato quella fredda tenda sul confine tra foglie secche e le prime spruzzate di neve, quando era stata spogliata di ogni bene e la maggioranza dei ricordi della sua infanzia le era stata strappata via per non rivederla mai più, Antoinette si era ripromessa d'essere generosa e comprensiva con quel popolo che mai, negli anni a venire, avrebbe avuto occasione di vedere.
Una farfalla in una crisalide di vetro che parlava, vestiva, respirava francese e che, eppure, continuava ad essere Austriaca. Cosa l’avevano resa gli anni, come l’aveva plasmata la corte.
Spesso le era capitato di ripromettersi che sarebbe andata più spesso a trovare le delegazioni delle giovani madri in difficoltà, che sarebbe stata più sollecita nelle donazioni alla chiesa di Parigi per sfamare i bisognosi e che si sarebbe interessata della situazione delle fornerie, alla politica, alla raison d’être del suo ruolo.
Col tempo, però, le avevano fatto intendere che quelli non fossero problemi degni dell'attenzione di una regina.
Era una farfalla e, fintanto che sbatteva le ali, andava bene così — un figlio maschio, due per assicurare la linea dinastica, tre per tenerla buona, ma nulla di più. Le casse dello stato mancavano della disponibilità per aiutare il prossimo e le compagnie altolocate l'avevano persuasa che c'era una maniera più interessante di utilizzare il denaro.
Dall’alba al tramonto la sovrana doveva scegliere se far felice la propria cerchia di amici, intrattenere l'intera corte oppure privarsi di quei piccoli, ma costosi, svaghi per aiutare il popolo di Parigi. I giorni passavano e lei dimenticava l'esistenza un paese intero, al di fuori della capitale.
Dunque, stanca di doversi crucciare per una faccenda dalla quale proprio non riusciva a venir fuori,  aveva ben presto delegato tutte le decisioni al buon Ambasciatore Mercy-Argenteau. Avendo dunque disposto in modo da non dover decidere affatto, spendeva senza nemmeno rendersene conto ciò che sarebbe dovuto essere amministrati dall'ambasciatore, svuotando i fondi delle elemosine quando finiva la sua disponibilità mensile.
Non era cattiveria, si diceva: solo inesperienza.
Avrebbe imparato col tempo.
Così, ogni mese la stessa storia; anno dopo anno, dopo anno. Aveva sempre fatto ciò che nessuno le aveva detto di non fare, con tutta l'ingenuità e la freschezza della sua giovane età prima e del disinteresse poi, una rosa che non aveva mai conosciuto l'asprezza che dilagava al di fuori del suo giardino.
Senza sapere come la giovane, bella nuova Regina di Francia era diventata una sperperatrice e una giocatrice senza pudore. Ancora nel cuore aveva quella promessa d'essere buona, ma non la ricordava più.

Anche quel giorno Antoinette avrebbe dovuto discutere con Mercy-Argenteau delle opere di bene e, anche quel giorno, aveva rimandato l'incontro a causa dell'ormai usuale mancanza di fondi.
“Ma chère,” si era detta, mordicchiandosi le unghie al pensiero di essere nuovamente ripresa dall’Ambasciatore, “non avere nulla da temere. Possiamo sempre aiutare le persone il mese prossimo.” 
Aveva fatto chiamare Yolande, sperando di dimenticarsi in fretta delle incombenze disattese; avevano discusso non di tasse e povertà, ma di merletti, tacchi, dolci e animali domestici. Avevano deciso insieme che Mops, ormai vecchio ed appesantito, aveva bisogno di un fratello pressochè identico, una sua ombra che zampettasse per gli appartamenti reali. Antoinette aveva avuto modo di notare che la duchessa s'era in qualche modo ammorbidita; la bellezza della sua unica figlia la riempiva d'orgoglio e, sebbene ricercasse ancora quegli svaghi ai limiti dell'accettabile che per tanto tempo l'avevano contraddistinta, si mostrava ora più conciliante con i desideri della regina.
Un tempo, Yolande de Polignac l'avrebbe dissuasa dal prendere un nuovo Mops, spingendola piuttosto ad avviare le trattative per un nuovo elefante per il serraglio reale: ora, invece, apprezzava la normalità nella quale la Regina desiderava bearsi.
Très bien,” le aveva detto, “fate come desiderate.”
Antoinette si era aperta in un sorriso luminoso.
Un nuovo cucciolo.
Una nascita benaugurale; una nuova, canina personalità di corte.
Fu allora che il bussare alla porta, nonostante avessero ordinato il più assoluto riserbo, le fece trasalire entrambe; c'era solo una persona che potesse battere ad una porta con quella stessa, timida delicatezza in un gesto che era ben al di sotto del suo rango.
Antoinette scattò in piedi, barcollando sotto il peso del vestito.
Fece cenno ad un valletto di aprire, con in cuore il desiderio di non rispondere affatto. Eppure solo quando vide Luis Auguste, pallido, pingue ed affannato, si convinse che non avrebbe dovuto mai farlo entrare.  
Sentì il fruscio della seta mentre Yolande affondava in un inchino, i cardini della porta che si apriva per lasciar entrare il re, lo zampettìo dei cani che lo seguivano strisciando gli artigli sul legno, eppure aveva la sensazione che non avrebbe ricordato nulla di quel momento in seguito.
Il re non la veniva mai a cercare.
Il re non poteva muoversi senza un'ampia scorta di paggi, non era nelle consuetudini.

Il re non, non, non—

Con una stretta allo stomaco, Marie Antoinette lo fissò mentre si avvicinava, gli occhi che le pizzicavano ma senza la forza di sbattere le palpebre e perdersi anche un solo, minuscolo, minimo dettaglio dell’angustia dipinta sul volto del consorte.
Si disse che doveva succedere.
Aveva infine ceduto anche Louis ai pettegolezzi? La sua mente tradizionalista e pacata aveva abbracciato la consapevolezza dell’infedeltà della moglie, nonostante per anni fossero stati molto meno che discreti?
Era l'unico segreto pericoloso di Antoinette e gli occhi porcini del re esprimevano un cordoglio così terribile, così inaspettato, che la sua mente divenne bianca: l’uomo che voltava lo sguardo e non la guardava negli occhi ora aveva il mento alto e la fissava, le labbra strette e le guance arrossate.
“Yolande...” mormorò Antoinette, e strinse la mano della donna vedendo che Louis non si muoveva, “potete lasciarci, grazie.”
La donna la guardò, le strinse brevemente il braccio di rimando e si voltò per andarsene. Era un tripudio di rumori e colori, la sua gonna, ma non riuscì a sovrastare la voce del re — per la prima volta, Marie Antoinette lo sentì alzare il tono, parlare da uomo, da marito, con la testa alta.
“Restate, madame. Porto ad entrambe una terribile notizia.”
Una terribile notizia.
Quanto terribile poteva essere, se il Louis Auguste in persona veniva a riferirla? Antonietta risucchiò un respiro spezzato, sentendo l’aria umida improvvisamente pesante nello stomaco. Tornata silenziosamente al suo fianco, Yolande restava immobile. Entrambe con la mano sul cuore, attesero che Louis guardasse prima l'una, poi l'altra.
“Non so bene come di— non è certo una questione facile, sono molto rattristato per voi, mia cara…” allora il re prese tempo, ingoiò a vuoto. Già dall'inizio aveva preso a giocherellare con il tricorno color fango, inserti dorati che scintillavano alla luce del sole. Era quello che teneva per lavorare nella fornace —non s'era nemmeno cambiato, riconobbe Antoinette con un sussulto — e le sue dita sporche di pece stringevano la stoffa, la piegavano come se potesse trovarvi conforto.
“Monsieur?” lo pregò.

Non, non, non

Louis Auguste non l’aveva guardata, allora, la spavalderia sciolta come una spruzzata in primavera, ed aveva volto lo sguardo al pavimento.
“Si tratta di vostro cugino. Sono addolorato di informarvi che è deceduto nei suoi appartamenti.”

 

#

 

Rossignol aveva adempito a tutti gli obblighi di fratello minore ed era tornato a corte senza alcun tipo di nostalgia per la campagna, per gli insetti e per lo stantio odore di muffa della sua taverna di fiducia. Ottimo vino, ottimi dadi ed ottime cameriere iniziavano a stargli un po’ stretti, quando poteva avere tutto ciò e un arredo decente a Versailles.
Orestes aveva fatto ciò per cui l'aveva pagato, spaventando e minacciando e prendendo la vendetta che Rossignol non aveva osato reclamare da solo, e questo aveva alleggerito il peso sul suo petto… ma, invero, non di molto.
E dire che era appena diventato uno zio!
Quella creatura minuscola, rosa, che odorava di latte e rideva come se nulla al mondo la spaventasse sarebbe diventata un giorno qualcuno come lui. Nel tenerla fra le braccia e cullando piano della sua più giovane nipote, Rossignol aveva sentito nascere in sé il primo barlume d'affetto puro ed incondizionato: una strana gioia l’aveva scaldato, con la sensazione di voler fare del bene fine a sé stesso, senza scopo se non quello di rendere il mondo un luogo migliore per quella bambina così piccola, così morbida. Poteva romperla; aveva rotto esseri grandi cento volte lei senza rimorso alcuno, ma voleva proteggerla.
Il ragazzo si sentiva afflitto da un peso, come un masso che gli gravava sullo stomaco ed era impossibile far rotolare via, che lo seguì fino alle sue stanze.
Sentiva ancora il profumo di Josephine nell'aria; la sua cipria per capelli, il sorriso stanco e la pelle macchiata dalla fatica del parto, i vagiti del neonato che così piccolo già chiedeva mille attenzioni diverse erano spettri che lo avevano seguito sino a casa di Parigi.
Sua madre non gli aveva riservato altro che l’accoglienza che Rossignol si aspettava ma, per la prima volta, si chiese cosa una donna avrebbe potuto provare invece di fronte al figlio.
Avrebbe potuto amarlo incondizionatamente.
Avrebbe potuto vederlo come l'eterno bambino, piuttosto che il cortigiano.
Avrebbe potuto fargli il dono di adorarlo, amarlo, viziarlo nonostante tutti gli errori, gli sgarri, i giochi pericolosi e le mancanze morali che mai erano dispiaciute a compagni più affini, ma che mai s'erano fermati a lungo. Rossignol era una taverna di passaggio, un molo inospitale; per quel giorno, per la prima volta, sentì la consapevolezza di essere in collera con sua madre per non essere rimasta.
Lei era lì, curva e vestita di nero.
Sette figli, tre nati morti, avevano lasciato sulla donna che chiamava maman un'impronta indelebile. Ciascuno di loro aveva posato la sua piccola mano sul corpo della madre lasciando una cicatrice invisibile, come ad aggiungere un peso che l'aveva lasciata sempre più stremata, sempre più cupa. La manina paffuta della seconda ed ultima delle sorelle, Trophine, era quella che aveva lasciato il segno più visibile. La sua stretta di bambina aveva dato prova di essere la più forte, l'ultimo colpo in grado di spezzare quella donna severa che era stata la madre di Rossignol.
Lui l'aveva vista morire, Trophine. Portata via dalla polmonite, era spirata come un angelo di porcellana tra le braccia dei suoi genitori, circondata dai fratelli maggiori e dalla sorella che dormiva nel suo stesso letto.
Da allora, Rossignol non era più stato il benvenuto nella casa paterna poichè Trophine regalava ai due vecchi genitori una bontà d'animo, una speranza, un'indulgenza, che se n'era andata insieme a lei.
Sua madre alzò gli occhi su di lui senza fargli il minimo cenno, rimanendo appollaiata su una poltrona di velluto davanti ad un camino spento. Un braccio le cadeva mollemente in grembo, l'altro teneva sollevata la testa di capelli argentei.
“Cosa vuoi?”
Rossignol venne scosso da un brivido.
Sua madre aveva i capelli ingrigiti e il viso solcato di rughe, ma la voce era dotata della stessa durezza di sempre.
“Sono andato a trovare Josephine e la bambina.”
Si era aspettato un sorriso, una vaga dimostrazione di gioia per l'unica figlia femmina e, tuttavia, sua madre rimase a guardarlo come se nulla fosse accaduto; pallida in volto, con il vestito nero del lutto, priva della più semplice delle emozioni.
“Molto bene, hai deciso che era il momento di dimostrare gratitudine.”
Rossignol strinse i pugni.
“Sono ancora qui perchè vi sono grato, maman. Non solo a Josephine o a suo marito, o alla gioia che ha portato in questa famiglia.”
La donna emise una risata grottesca, breve, come evocata dal nulla. Era un suono di gola, privo di allegria.
La nascita la angosciava sin dalla morte di Trophine; i primi figli di Guy Tholomeis, il maggiore dei fratelli di Rossignol, l'avevano lasciata senza fiato dalla gioia. Aveva riso, deliziandosi dei piccoli passi di quei nipoti che tanto aveva voluto, s'era presa cura di loro facendoli giocare con la loro stessa zia, non così lontana in età.
Ora due di quei bambini dormivano in minuscole bare buone forse per delle bambole e maman non era più la stessa. I suoi figli non le presentavano più i nipoti e le nuore si risentivano di una reazione depressa al coronamento del loro dovere.
Rossignol, ch'era solo, tentava invano di allietarla quando se ne ricordava.
“Forse questa bambina – è una femmina, c'est non?-  verrà danneggiata dalla tua reputazione, Jehan Henri.” replicò la madre, con ancora lo spettro di una risata sul viso rugoso, “come tutti noi.”
Com'era penoso udire quelle parole.
Ancora una volta, Rossignol sentì il desiderio di voler essere amato, non biasimato; voleva poterle raccontare le sue pene ed i suoi desideri, i suoi peccati e i vizi senza essere deriso ed allontanato. Desiderava una madre come quella che sapeva che sarebbe stata Jospehine.
Per la prima volta, vedeva cosa gli era mancato. Dunque non rispose, inghiottendo con difficoltà la moltitudine di risposte caustiche che gli erano salite alle labbra ancor prima che la madre potesse finire la frase. Il cuore di martellava nel petto, ma non sapeva nemmeno lui perchè, se per la vergogna o se per il fervente desiderio di dirle che, nonostante tutto, le voleva bene. La biasimava per tutte le sue mancanze, ma sospettava di volerle bene anche il quel momento.
“Non rispondi, Jean Henri?” lo incalzò lei, lanciandogli un'occhiata, “e non dovresti essere a corte, ora?”
“No, maman. Sono venuto a parlarvi nell'interesse di Jospehine.”
“Ah. E cos'ha fatto ora, quella benedetta ragazza?”
Rossignol sospirò, sollevato nel percepire un seppur minimo interesse da parte della donna. Non lo amava in particolare, ma aveva sempre preferito le figlie: le aveva amate e le aveva coltivate come piccoli fiori in una serra, personalmente, amorevolmente, mentre i figli venivano delegati a tutori ed insegnanti.
Non le avrebbe negato nulla, pensò.
“Si sente sola e non ha esperienza con i bambini, maman. Vorrebbe tanto che...”
“Che cosa?” lo interruppe lei, con uno sbuffo irritato. Allora Rossignol sentì lo stomaco annodarsi in una spiacevole sensazione di nausea: c’era davvero stato un tempo in cui quella donna che li aveva partoriti li aveva anche amati?  “Vuole dunque che prenda una carrozza a noleggio e vada a trovarla? Perchè non può venire lei? La bambina è già grande a sufficienza.”
“Potete chiedere a mio padre di arrangiare i preparativi per un breve soggiorno. Non dovreste nemmeno affaticarvi.”
Sua madre scosse la testa e la retina nera le rimbalzò su occhi e fronte, oscurando per un attimo il suo sguardo.
“Jehan Henri, sono troppo vecchia per queste cose e non ho intenzione di mettere a repentaglio la mia salute,” una pausa, impercettibile, e Rossignol potè notare il guizzo di malizia negli occhi scuri di sua madre, “o forse è esattamente ciò che vuoi.”
Allora sì che avrebbe voluto piangere, Rossignol. Aveva già visto quel guizzo nello sguardo di qualcuno a lui molto caro, un dettaglio che l'aveva colpito troppo di recente per passare inosservato.

"A lui non interessa."
E dire che si era sentito così potente, così intoccabile nel riferire a Orestes che, semmai l'avesse chiesto, il principe doveva assolutamente sapere che Rossignol non avrebbe pianto la sua morte e non sarebbe stato intenerito da minacce di quel genere. Non gli importava, perchè certe porte una volta chiuse non si possono più - più, mai più - riaprire.
Dovrei parlare con T. 
Forse, forse mi sono lasciato trasportare dall’offesa che mi ha arrecato; forse ho esagerato.

Forse.
Il giorno dopo, una volta aiutata Josephine.
“Maman, vi prego,” mormorò, mestamente, azzardando un passo in avanti.
Istantaneamente, sua madre arretrò, affondando ancor più nella stoffa cremisi della poltrona.
“No. Non lo farò,” dichiarò “Sono troppo vecchia.”
L'ultima parola venne pronunciata con un filo di voce, con reverenza e paura tali da rendere l'intero viso della donna grottesco e più rovinato di quanto non fosse. Rossignol notò che la sua figura aveva perso l'annoiato languore di prima: ora le sue spalle si ergevano rigide e incurvate, e le mani stringevano i braccioli febbrilmente.  
Annuì, allora, sapendo che non ci sarebbe stato nulla da fare.
“Va bene, dunque. Come volete.”
“Parla a tuo padre e predisponi che le siano spedito del denaro,” la donna guardò il caminetto, ma come se non lo vedesse. La retina nera, calata sul viso come un'ombra, non nascondeva sufficientemente bene la tristezza in quegli occhi neri. “Ed una casa di bambole per la bambina. Scrivi a Guy Tholomeis, la sua figlia bastarda è troppo grande per giocare ancora con quella che le abbiamo regalato; la presterà alla cugina.”
“Come desiderate, maman.
La donna annuì specularmente a Rossignol. Il ragazzo stava già pensando di regalare un nuovo giocattolo alla nipote, senza obbligarla ad usare gli avanzi di qualcun altro.Lui era stato cresciuto così, con i vestiti smessi di François e i libri di testo di Guy, e ricordava di non essere stato affatto felice; voleva che la bambina di Josephine, almeno, godesse del lusso di sentirsi una piccola regina.
Proprio allora, dopo qualche istante di silenzio pensieroso, Rossignol vide che la madre gli stava facendo cenno con la mano.
“Ed ora vattene, Jehan Henri. Tra poco tornerà tuo padre e non ha alcun desiderio di vederti in questa casa.”
Rossignol annuì e si inchinò a denti stretti, ma non disse nulla. Non una parola di commiato, non un saluto.
Invidiava enormemente la bambina di Jospehine.

Si diresse a Versailles con la carrozza che aveva fatto aspettare fuori dal palazzo dei suoi genitori senza attendere oltre, sperando invano di arrivare a destinazione prima di sera inoltrata. Forse, non sarebbe mai nemmeno dovuto passare a casa, in quel luogo che aveva amato nell'infanzia e che ora non era altro che un ammasso di pietre ostili.
Si aspettava d'essere accolto dal silenzio dei suoi appartamenti e, al più, da un invito a cena, invece erano gli occhi d'oro brunito di d’Artois, grandi e liquidi, che lo fissavano da svariati secondi; immobili, illuminati dalla luce fioca delle candele oramai quasi spente. Erano pervasi da quella fiamma che capita che arda nell'animo delle persone nei momenti difficili, quando hanno perso qualcuno e ne danno la colpa ad altri, biasimandoli per aver fatto poco— o troppo.
In quelle fiaccole feroci, tuttavia, Rossignol non scorgeva alcun motivo perchè D'Artois dovesse avercela proprio con lui in particolare: era appena tornato e non poteva aver fatto nulla di male.
“Prima di tutto cosa ci fate nel mio salotto senza il minimo preavviso, Monsieur?” esordì Rossignol con un sogghigno, facendosi scivolare  di dosso la redingote di broccato rosso che usava per i viaggi. Un servo la afferrò prima che spalle e colletto lavorato in taffettà raggiungessero i gomiti e la stoffa rischiasse d’essere rovinata, e se la drappeggiò con attenzione su un braccio.  
Non che Rossignol non fosse contento di vedere d’Artois; al contrario, era sempre benvenuto nelle sue stanze. Ma non gli piaceva quello sguardo fosco, quell'aria come se fosse crollato il paradiso intero e Rossignol ne fosse responsabile.
“Non puoi immaginarlo?” rimarcò lui, ogni parola scandita con una lentezza esasperante.
Il giovane conte brioso che conosceva era sparito dietro una patina che lo rendeva quasi un estraneo agli occhi di Rossignol. Il ragazzo, nel frattempo, si stava sfilando i guanti e sorrideva.
Era uno scherzo ben congegnato, non c'era che dire.
“Oh, naturalmente, è facile.” replicò, ridacchiando tra sé e sé mentre tirava una ad una le dita dei guanti in pelle e, una volta sfilati, li riponeva in un piattino d'argento. “Volete un prestito.”
D'Artois scosse la testa.
“Vi sembra il momento di scherzare?”
Non lo urlò, ma sortì forse un effetto ancora peggiore. Quelle parole avevano una profondità tale, un tale rimorso, che Rossignol si pentì di aver pensato ad uno scherzo senza immaginare a qualcosa di reale e terribile.
Si voltò, lentamente, per confrontare d'Artois. Il ragazzo biondo e il principe con gli occhi allegri, entrambi mortalmente seri, entrambi pallidi. Rossignol prese fiato, ma si interruppe prima di espirare come se avesse avuto paura di fare rumore.
“Cos'è accaduto?” mormorò.
Forse una parte di lui lo sapeva.
Non pensò alla moglie di Charles, la laconica Maria, né al loro primogenito; le donne e i bambini morivano spesso, in silenzio com'erano venuti al mondo. Non si chiese se fosse un problema di stato o una malattia del Sovrano, che pure erano scenari che incombevano sulla corte in ogni istante del regno del fragile Louis Auguste e dei forti moti Illuministi; eppure, Rossignol non pensò a nessuno di loro.
Si voltò verso i due domestici che attendevano ordini, diritti come fusi ed impettiti vicino alla porta principale, e fece loro cenno con il mento.
“Lasciateci.” ordinò.
D'Artois, per dare il proprio sostegno, annuì; l'ultima parola, in quanto principe di quell'enorme palazzo che era Versailles, spettava a lui. Anche se solitamente non avevano nulla da nascondere, sapevano entrambi che ciò che stava per accadere non era consono ad orecchie indiscrete.
I domestici se ne andarono lasciandosi dietro solo il cigolio della porta e un vociare sommesso, ma a Rossignol non importava. Si sentiva in trappola e sofferente, tenuto crudelmente sulle spine ma allo stesso tempo nient'affatto desideroso di conoscere i fatti.
D'Artois si portò una mano al viso per stropicciarsi gli occhi, ed apparve stanco — scosso, avrebbe detto, tormentato da un mal di testa di cui non conosceva la fonte.
“Dunque non sapete,” disse, ma a sé stesso più che a Rossignol. Non lo guardava più e, per un istante, il ragazzo sospettò che Charles avesse mormorato un’insulto irripetibile, “credevo che ne avreste avuto quantomeno il sospetto. Vi avevo detto di lasciar perdere, non? Eravate stato avvertito.”
Il ragazzo scosse la testa.
Sapeva, sì, ne era sicuro.
“Di cosa state parlando?” chiese, cercando di scrutare il viso di D'Artois: non era poi così diverso da quello di sua madre, così provato.
“Dove eravate, Rossignol?”
“Sono stato da mia sorella.”
Le labbra pallide di D'Artois si stiracchiarono in un ghigno sardonico.
“Buon per voi.”  sbottò, spalancando le braccia in modo così teatrale che Rossignol si aspettò, per un attimo, di sentire una folla di spettatori alle loro spalle. “E chi altro era lì, lo sapete? Dovete averlo incontrato per forza, o avete dimenticato?”
“Io—”
“Vi avevo detto o no, sciocco ragazzino, che v’erano cose che non dovevate fare? Non tutti sanno giocare bene come voi al vostro stesso gioco, Rossignol.”
“Che è accaduto?” ripetè Rossignol, con foga, e anche se ne aveva la certezza voleva sentirsi dire che non era vero.
Voleva che D'Artois gli dicesse che il re era malato; vaiolo, lebbra, peste, polmonite, qualsiasi cosa. Voleva che gli comunicasse che c'era una crisi, l'ennesima. Chiudendo la distanza fra loro con solo il suono dei suoi tacchi sul legno e del sangue che gli ribolliva nelle tempie come un fiume impazzito, Rossignol si aggrappò al giustacorpo di velluto di D'Artois, scrollandolo con forza. Pareva quasi che agitandosi un po' la verità sarebbe venuta fuori da sé, meno dolorosa di quel che si prospettava.
Tutto ciò non poteva essere vero, quindi perchè preoccuparsi di reagire con grazia? Nei sogni si ha la possibilità di essere violenti, ma negli incubi è una reazione espressamente richiesta.
“Dovete dirmelo."
“Stamani 'Toinette ha annunciato il decesso del Principe,” esordì il conte, con un filo di voce.
Rossignol sentì che tutte le sue speranze di spezzavano con un suono fragoroso come di cristalli in frantumi e si stupì che D'Artois non lo potesse sentire. Che non si fermasse lì. Doveva capire che Rossignol non voleva più sentire nulla, ma il conte lo guardò negli occhi. Erano arrossati.
“Mi dispiace, cheri. Che cosa hai fatto?”
Rossignol boccheggiò.

L’hai ucciso.

Lo sapevano entrambi, dunque. Nessuno in quella stanza, in quei due uomini che si conoscevano da troppo, troppo tempo, era abbastanza ipocrita da negare che Rossignol stesso gli avrebbe potuto legare il cappio attorno al collo e sarebbe stato lo stesso. Di certo, in un certo senso, l'aveva fatto.
“No.”
Era una supplica quasi muta, quella, frutto dell'ultimo filo d'aria rimasto nei polmoni di Rossignol. Aveva la bocca secca, la lingua pesante, le membra ch'erano improvvisamente schiacciate con forza al suolo ma lui rimaneva in piedi, incapace d'accasciarsi a terra, incapace di distogliere lo sguardo ma sentendo la vergogna arrossargli il viso fino alle orecchie.
“Rossignol...”
“No,” disse, con nuova e rinvigorita forza, stringendosi ora all'intera figura dell'amico. “Non intendevo niente di ciò che ho detto.” 
Che ho fatto dire ad altri; se glielo avessi detto io, forse avrebbe visto.
Non si aggrappava più ai suoi vestiti ma alla sua mente, alla sua vicinanza, alla sua mera presenza fisica. Rossignol sentì le dita del conte accarezzargli i capelli. E mentre D'Artois, con infinita gentilezza che non meritava in alcun modo, guidava la sua testa contro il proprio petto e lo cullava, Rossignol sentì le prime lacrime scorrergli lungo le guance: due uomini che si consolavano a vicenda, entrambi un colpevoli in quella triste storia, e nessuna parola rimasta da dire.
D'Artois strinse Rossignol a sé come avrebbe fatto un padre e il ragazzo si chiese se, sotto il velluto e la seta della camicia, Charles potesse percepire il suo pianto silenzioso.

A lui non importa.

Come aveva potuto lasciargli credere che fosse vero? Gli tornarono in mente quegli occhi azzurro scuro, come un cielo che si avvia verso la notte, e le mani perfette che lo guidavano verso una delle tante terrazze della corte.

Se io sono il diavolo, monsieur, voi sarete il mio confessore.

L'aveva toccato così poche volte, così formalmente. Credeva di aver sempre tempo per ripensarci, per giocare e tirarsi indietro, credeva che avrebbe avuto tempo per ferirlo come lui era stato ferito prima di cedere alle sue attenzioni.
Quasi senza pensare, strinse più forte la stoffa delle vesti di d'Artois.
“Non l'ho mai abbracciato.” sussurrò, con le labbra premute contro il petto dell’uomo. Lo sentì annuire, lentamente, dopo molti secondi.
“Lo so, cheri. Lo so.”

 

Com'era da aspettarsi, dati tutti i coinvolgimenti del caso di cui la Sovrana era stata messa a parte, Rossignol era stato richiamato da Antoinette per un'udienza privata. Si aspettava una regina che già aveva dimostrato il proprio cordoglio per il cugino in tutte le formalità richieste, ma fu un'altra Antonietta quella che lo accolse, seduta su un divanetto di stoffa azzurra. Fresca anche nel nero del lutto, con l'acconciatura alta ma priva delle solite piume e degli ingranaggi preziosi che ornavano i boccoli candidi; aveva le guance rosate solcate dalle lacrime versate nell'intimità ma gli occhi erano asciutti. Una donna che aveva perso un parente: così la vide nel momento in cui gli furono aperte le porte del salotto privato di Marie Antoinette.
Rossignol si inchinò profondamente, a sua volta con un nodo allo stomaco che quasi gli impediva di respirare.
Da giorni ormai riviveva nella sua mente ogni istante del corteo funebre riservato al Principe T. del non poi così lontano principato di Waldeck-Pyrmont come se fosse intrappolato in un incubo, senza via d'uscita e popolato da figure incappucciate e velate di nero. Sentiva la voce del vescovo, i canti delle donne, i sussurri. Gli girava la testa da giorni, non aveva appetito e tutto quello che sentiva era l'odore dell'incenso che bruciava nella sua prigione d'oro.
“Si è tolto la vita, sapete.” mormorava la folla, appena più indietro delle tre file che reggevano la bara. Un pesante scrigno di legno, muto e cupo. “Non meriterebbe un funerale del genere, non trovate? Ma le apparenze...”
Rossignol, che udiva tutto nel suo distacco, ingoiava amari bocconi d'indignazione, mordendosi le guance e stringendo ferocemente i pugni. Non c'era nessuno che meritasse la gloria di Dio più di quel principe idiota e idealista, tanto pio da suscitare nell'uomo comune una certa sensazione di pena mista a terrore ed ossessione che ricordava così tanto l’estasi religiosa.
Avrebbe voluto urlarlo.
Marie Antoinette sembrava rivivere le stesse scene con i begli occhi azzurri, solitamente vispi ed ora cerchiati di rosso.
“Rossignol, mi dispiace molto,”  mormorò, facendogli cenno di avvicinarsi al divanetto.
La stanza attorno a lei era grandiosa, sulle tinte dell'oro e del verde, ma alla luce degli eventi appariva ventosa e spoglia: con l'unica eccezione d'uno scrittoio e di un grosso mappamondo d'avorio, oltre al divano della regina, non v'era nulla al centro della sala. In fondo, alla parete, si ergevano un grosso caminetto ed uno specchio con la cornice di foglie dorate, ma nulla di più.
“Maestà, sono io quello addolorato per la vostra perdita,” replicò Rossignol, inchinandosi ancora una volta. Sperava di dissimulare la propria disperazione, il pallore delle guance e la voce incrinata, ma dubitava d'essere tanto abile. “Vi porgo ancora una volta le mie più umili e sentite condoglianze, con quelle della mia famiglia. Abbiamo presenziato al funerale del Principe con grande afflizione.”
Nascosto dietro le più crude formalità, Rossignol si era sempre sentito al sicuro. Ora, però, poggiando le mani sulla fredda superficie delle espressioni ufficiali, non sentiva il solito, solido senso di protezione; si sentiva senz’aria.
Marie Antoinette, con il collo sottile appesantito da un doppio giro di perle ed ornato da un cammeo che le si posava sul petto, scosse la testa. La capigliatura oscillò, ma non un solo ricciolo cadde sulle sue spalle.
“Non dite così, Rossignol. So cosa avete perduto.”
Il ragazzo, preda di una sensazione di capogiro, piantò i tacchetti a terra per non cedere all'istinto e fuggire.
“Maestà, io...”
La donna lo interruppe mostrandogli il palmo della mano.
Cinque dita guantate, nere, inframezzate dal luccichio dei gioielli e un braccio coperto di taffettà e velluti del colore della notte. A Rossignol, quello, parve il gesto più regale che Marie Antoinette gli avesse mai rivolto.
“Sono addolorata per mio cugino, ma non dovete addossarvene la colpa. Charles mi ha parlato.” Per un attimo, le ciglia bionde di Marie Antoinette si abbassarono, e la donna sorrise come fra sé e sé, senza la presenza di Rossignol. Quando tornò a parlare, lo fece con il tono con cui, a volte, si rivolgeva ai suoi stessi figli. “L'amore spezza il cuore di chi lo prova, temo. Porta infelicità e annientamento. Questo lo so io, e lo sapete voi.”
Rossignol inspirò piano.
“Posso chiedervi se avete mai sofferto così?”

Ah, Rossignol.
Non hai ancora imparato qual è il tuo posto?

“Una volta, con un uomo che ho amato sin dal primo momento,” mormorò Marie Antoinette, portandosi le mani in grembo. Non più una ragazza, ma una donna adulta e con figli, la regina di Francia aveva spesso l'abilità di far dimenticare come gli anni fossero passati anche per lei. “ho avuto la fortuna di poter tornare sui miei passi, Rossignol. Voi non l'avrete.”
“Ne sono consapevole.” biascicò, con una difficoltà che parve ridicola persino a lui. Non aveva mai sperato che il principe T. potesse aprirsi un varco nella terra e tornare fra i vivi come il frutto d'un miracolo: era un pensiero da bambini, lo stesso che si era concesso alla morte di Trophine quando era indicibilmente più giovane e più speranzoso.
No, non desiderava che T. tornasse per rinfacciargli la crudeltà con cui l’aveva trattato per un solo gesto offensivo, e di cui s’era pentito. Non voleva che tornasse a dirgli che era indegno d’essere chiamato essere umano e che l’aveva ucciso.
“Vi ha lasciato un biglietto, prima di morire. Lo sospettavate?”
Rossignol deglutì a vuoto, il terrore che lo congelava sul posto.
La consapevolezza di aver cercato di spaventarlo servendosi della complicità di Orestes lo colpì come uno schiaffo in pieno viso, insieme al sospetto d'essere accusato di omicidio. Ecco, infine, la giustizia: presentata dal fantasma dell'uomo a cui era — che senso aveva negarlo ora? — affezionato.
“No, mia regina,” si sporse in avanti, come per poterlo vedere, ma Marie Antoinette non aveva nulla fra le mani. “Posso chiedervi se ne siete in possesso e se potrò leggerlo?”

Voleva leggerlo.

Cosa poteva dire a lui, il principe T., in quel momento disperato?
"É stato portato nelle vostre stanze appena siete uscito, consegnata da un uomo fedele. Non ho potuto fare a meno di leggere, spero mi perdonerete,” la regina gli lanciò un lungo sguardo nel quale, sorprendentemente, Rossignol non percepì né accusa né odio. Solo una grande compassione. “Credete che vi siano state rivolte parole ignominiose, Rossignol?”
“Vostra maestà, non ne ho idea. Spero nel contrario,” rispose lui, con tutta l’accortezza possibile, ancor prima di pensarci su.
Marie Antoinette, impercettibilmente, sorrise.
“Vi corrispondevate.”
“In un certo senso, maestà. Credo, almeno.”
“Dunque, capite che mi dispiace molto per voi, Rossignol. Accettate le mie più sincere scuse per non aver saputo comprendere i vostri trascorsi ed intervenire prima.”
Per un attimo, complice l'intimità e la recente perdita, Rossignol desiderò accasciarsi ai piedi di Marie Antoinette e piangere tra le sue braccia come aveva fatto con d'Artois e come non avrebbe potuto permettersi con nessun altro.
Invece, rimase in silenzio.

 

#

 

“Rossignol.”
Il ragazzo, che conosceva sin troppo bene quella voce, si voltò lentamente. Alain era affannato e appariva stanco, ma la sua figura era possente come sempre; i suoi occhi chiari, quasi d'un verde glaciale sotto la luce delle candele e dei vetri colorati, lo scrutavano con una profondità che pareva potesse leggergli dentro.
“Alain,” rispose, con un filo di voce.
Un brivido lo scosse violentemente nel ricordare l'ultima circostanza del loro incontro.
Com'era ingiusto; più lo guardava e più ricordava di esser stato felice tra le sue braccia. Ricordava la bruciante sensazione di non potersi fermare, di esser preda di un feroce senso di onnipotenza nel vedere il duca spezzarsi sotto le sue labbra e chiedere di più con ogni gesto e respiro spezzato. Forse, mentre le dita di Alain si posavano sui fianchi di Rossignol, il Principe T. stava già meditando di compiere l'inevitabile?  
Tale pensiero, così crudele, costrinse Rossignol a distogliere lo sguardo.
“Avete sentito?”  
D'Ovigny annuì, con le sopracciglia aggrottate e un turbamento che gli scuriva il volto.
“Certo. É una vera disgrazia, per tutti noi. Non meritava affatto...”
“No, era una brava persona.”
“Sì, lo era.”
Parlare del principe con Alain, tra tutti, era penoso e ridicolo. Come si sentiva sciocco ad aver portati entrambi a quel punto, quando erano stati amici, parte dello stesso tavolo ai giochi ed ai balli. Ora ne parlavano tutti come se non l'avessero mai conosciuto davvero, come se fosse solo un altro corpo sottoterra. Quando si erano seduti tutti ad ascoltare l'arpa della regina, mai avrebbe sospettato un risvolto tanto disgraziato, un così rapido crollo degli eventi ma, se lui era dannato per ciò che aveva fatto, l'intera corte doveva esserlo per il distaccato affetto con cui dipingeva T. ora.
Allora, però, vide Alain drizzare le spalle e dichiarare, con una voce profonda che mai gli aveva sentito:
“Prendo commiato anche io, sebbene in maniera più felice.”
Rossignol per poco non si strozzò con la sua stessa saliva. Aveva una gran voglia di piangere ancora, nonostante dubitasse di avere lacrime rimaste in corpo, eppure l'unico impulso che sentì fu quello di gettare la testa indietro e liberare una risata di cuore.
Non voleva sentirlo. Non poteva succedere tutto quel giorno.
“Vi sembra il caso di...?” replicò, con ancora l'eco delle proprie risate nelle orecchie.
La morte di T. non era un commiato, era praticamente un omicidio; Rossignol ne aveva la piena responsabilità. Ed ora Alain ci scherzava sopra! Tuttavia l'uomo scosse la testa, alzando le mani come ad informarlo che non aveva alcuna intenzione di offenderlo.
Aveva un biglietto nella destra, un bel pezzo di carta marmorizzata ripiegato su sé stesso più volte.
“Avete ragione, sono stato indelicato. Intendevo dire che devo partire.”
Nel momento in cui si rese conto della realtà di quelle parole, il mondo parve girare di nuovo, vorticosamente, in direzione opposta.
Non poteva essere vero.
“Cosa? Quando?”
“Immediatamente, per quanto mi sia possibile.”
“Ma non potete!”
Alain lo guardò a lungo, scrutando il viso di Rossignol come ad imprimerselo nella mente. I suoi occhi accarezzarono gli zigomi, il naso, la fronte del ragazzo, indugiando sulla linea delicata della mandibola e delle sue labbra. Assottigliò lo sguardo per un istante, difficoltà e rimorso che spillavano da ogni parola che non diceva, e solo allora gli tese il bigliettino.
“Temo di dovere, invece. Credetemi, non vorrei lasciarvi solo in questo momento di lutto, ma non ho scelta. Tenete, per ora... Non posso spiegarvi ora come vorrei, ma spero di poterlo fare in futuro.”
Rossignol annuì, e prese il messaggio con mani tremanti.
C'era della lavanda, su quel biglietto: la stessa lavanda che T. non aveva mai menzionato o mostrato di notare. La lavanda che era rimasta impigliata fra i vestiti di Alain e il cui profumo aveva pervaso le sue stanze per giorni dopo il loro ultimo incontro.
La lavanda che il duca aveva detto di adorare, mentre si portava i capelli di Rossignol alle labbra per baciarne le ciocche.
Negli occhi di Alain c'era lo stesso amore incondizionato di sempre; la stessa solidità alla quale il ragazzo s'era aggrappato per fuggire dal lunatico affetto di T., che era profondo come l'inferno e altrettanto bruciante. La solidità dalla quale ora sentiva di dover rifuggire, incapace di fingere come aveva fatto quando ancora quando il cadavere dell'uomo che realmente amava era ancora scosso da spasmi, appeso nelle sue stanze per il collo.
L'idea gli spinse un conato lungo la gola, ma era diventato piuttosto bravo a tenerli a bada.
“La leggerò.” disse e questo, almeno, poteva prometterlo. “Starete via molto?”
Alain si strinse nelle spalle.
“Non lo so con precisione, ancora, ma penso qualche mese al massimo.”
Indossava un vestito scuro, da viaggio, ma Rossignol dubitava che fosse un esplicito omaggio al principe T.
Erano stati amici, ma non così tanto da dover addirittura partire per farsene una ragione. Oltretutto, il vestito era d'un nero profondo, un velluto così pregiato da nascondere quasi perfettamente il passare degli anni... Quasi. Rossignol aveva il dubbio che Alain l'avesse già indossato in passato, per piangere qualcun altro di molto importante e parte della sua famiglia; qualcuno collegato alla sua nuova perdita, poiché ogni pezzo di stoffa racchiude un ricordo preciso e Rossignol ricordò distrattamente che D'Ovigny aveva una madre malata e svariate responsabilità.
“Posso baciarvi, Rossignol?”
Il ragazzo si irrigidì.
Aveva ucciso un uomo e ora si prendeva gioco di un altro.
Lentamente, scosse la testa.
“Meglio di no.” 

 

#

 

Solo il giorno dopo ebbe la forza di aprire  la lettera di Alain, e gli ci vollero molte interruzioni per finirla. Gli sembrava di udire la voce d'un morto, alle sue spalle, un filo di vento: non puoi leggere queste parole così presto, Rossignol. 
Perchè dai voce a loro quando io rimango chiuso in quello stupido cassetto?

Rossignol non s'era mai sentito così in colpa prima d'allora. Di fatto, tuttavia, gli risultava meno penso leggere le parole di Alain che quelle di T.
Per quelle, le ultime che si sarebbero scambiati e alle quali non aveva senso rispondere, non era certo che sarebbe mai stato pronto. La lettera era piegata frettolosamente, così come di fretta Alain era partito senza quasi prendere commiato dagli amici e dai sovrani, ma la calligrafia era quella di sempre, solida e precisa.
Rossignol poteva ricordarlo passeggiare nei giardini con il suo bastone dal manico a forma di serpente, laccato di nero, e lo rivedeva in quelle parole.
Le stesse che T. gli aveva lasciato, negandogli l'ultima consolazione di non sapere nulla. D'un amante non gli restava che carta manoscritta e la promessa che sarebbe tornato, un ricordo flebile ma che poteva pur sempre stringere al petto e reso gentile dalla certezza che non sarebbe stato per sempre, dell'altro niente più che una tomba e una corda. 

 

Rossignol, 

 Mi dispiace dover partire così in fretta.
Mia madre non si sente bene da anni ed è per questo che m'ero ripromesso di prendere un lungo commiato da lei e far tesoro dell'esperienza di vita che ogni uomo dovrebbe vantare per meglio adempiere al mio dovere una volta necessario.
Ho viaggiato per tutta l'Europa, accompagnandomi ad un gruppo di nobili di cui di certo conoscereste il nome, se ve lo rivelassi, ma non ho intenzione di fomentare inutili gelosie. Lasciatemi rassicurarvi che nulla accadde tra nessuno di noi, non nel modo in cui è accaduto tra me e voi.
Viaggiammo per la Germania, la Danimarca, l'Italia. Incontrammo persone sincere ed altre meno, intellettuali, maestri, scribi e letterati; diventammo uomini quando eravamo partiti dalla Francia come ragazzi. Decisi, dunque, di trasferirmi per un altro breve periodo a Corte per completare la mia formazione.
Mi sono trovato meglio di quanto potessi mai aspettarmi e avevo in animo di rimanere ancora a lungo: riallacciando vecchie amicizie e trovandone altre lungo il cammino, mi ero dimenticato di quanto fosse triste la vita nella Bretagna. Desidero che sappiate che ogni giorno tra queste mura è stato prezioso, ma che gli attimi nascosti alla vista, i giardini, le confessioni, sono oltre qualsiasi possibilità di definizione.
Forse vi amo. Di certo vi ho amato.
Credo con tutto il mio cuore che vi amerò in futuro e che ciò mi costringerà tornare a corte quanto prima.
Mia madre, come vi dicevo, ora sta molto male. L'inverno dalle nostre parti non risparmia neanche gli animi più forti e temo che sia venuto per lei il tempo di rimettersi a Dio e dire addio a questo nostro mondo. Coloro che ho lasciato a vegliare su di lei mi hanno scritto pregandomi di tornare prima che sia troppo tardi, ed è ciò che intendo fare.

Non è un addio, ma un arrivederci.
Tornerò non appena saranno sistemate le faccende della successione e quando avrò preso completo ed effettivo controllo dei miei possedimenti a nord, ora sotto la tutela di mia sorella e che per anni sono stati scientemente gestiti da mia madre.
Avrei desiderato che poteste incontrarla, Rossignol. Vi sarebbe piaciuta.
Siete entrambe creature forti ed orgogliose, ma con la stessa fragilità dei fiori appena sbocciati; spero di poter vedere la vostra trasformazione da bocciolo a fiore, presto, ed essere nuovamente a Versailles.
Sarò di ritorno al più presto, ma prima prenderò commiato come si conviene da tutti, voi compreso. Solo, con questa lettera, desideravo lasciarvi qualcosa di tangibile; non voglio che dimentichiate il nostro saluto, ma purtroppo il tempo getta acqua sui ricordi finchè essi non risultano sbiaditi come il riflesso del cielo su un lago smosso dal vento, dunque vi scriverò ciò che provo in modo che possiate rileggerlo.
Vi sono debitore della più grande delle scoperte e non potrò mai dirvi abbastanza quanto io vi ammiri, vi adori e sia pronto a tornare da voi presto, molto presto. Perchè siete diventato la mia aria, la mia acqua, la stessa luce che mi permette di vivere, io che sono la vostra ombra, il vostro più fedele servo.
Ci rivedremo presto, mon coeur.

Eternamente vostro,
Alain 

 

Rossignol strinse la carta fra le mani, ne fece una palla che gracchiava e scricchiolava sotto le sue dita. Com'erano insensibili quelle righe. Scagliò con forza la lettera nel camino -spento, ma non importava, non voleva vederla e l'avrebbe bruciata alla prima occasione.
Non era Alain il suo fedele servo, ma era ciò che Rossignol gli aveva fatto credere.
Ora si pentiva di aver sprecato così tanto tempo con quell'uomo.
Non l'avrebbe mai ammesso ad alcuno, ma dentro di sé non poteva negare che avrebbe dato qualsiasi cosa per invertire gli eventi. Che quelle parole fossero il frutto di ben altra mano e che il biglietto sgualcito, chiuso in un cassetto, fosse di D'Ovigny.




Note:

RAGA SIAMO ALLA FINE <3
Il prossimo capitolo sarà l'epilogo e sì, ci saranno un po' di closures ma alla fine, il triangolo non esiste più ❤️
Volevo ringraziare davvero di cuore tutti coloro che hanno seguito/preferito/commentato questa brutta roba, vi voglio davvero tanto bene e scusate per tutto l'angst :<
E ci rivediamo con la vera fine!

 

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Capitolo 9
*** Capitolo IX ***


Epilogo
-

 


Va, Louis, gros paour
Du temple dans la tour

 


[1791] 


Ad esser sincero, Rossignol non aveva mai avuto in animo di disonorare la memoria dell’unica persona che avesse davvero amato ma, codardo, codardo fino in fondo, non aveva avuto la forza di leggere le sue ultime parole. Il biglietto del principe T. giaceva in un cassetto, nascosto sotto pile di documenti firmati, lettere di credito e inviti all’Opera.
Proprio come sua madre aveva sepolto i propri segreti che non sapeva come affrontare, così faceva Rossignol.
Di tanto in tanto gli capitava di sentire una voce conosciuta chiamarlo, sussurrargli nel silenzio di fargli quest’ultima cortesia; di dargli voce un’ultima volta. Tuttavia, ben presto e a dispetto di ogni buon proposito, il rombo dei fucili aveva zittito il fantasma del principe T.
I canti attorno all'Albero della Libertà, la folla e le sue danze e le sue richieste feroci, i suoi forconi e la sua violenza avevano preso a rimbombare tra i saloni deserti di Versailles. Si chiedeva alle donne di vestire con moderazione, agli uomini di adornare il capo con coccarde tricolori ed ai nobili di cedere i propri privilegi con un inchino ed una stretta di mano, per poi essere cortesemente indirizzati all'esecuzione più vicina. La corte, un tempo tetto sicuro per chiunque potesse noleggiare un cappello e un bastone, era oppressa da un’atmosfera grigia che odorava di zolfo; chi avrebbe mai detto che la Ragione potesse indossare così bene il mantello della Morte.
Rossignol, che pur aveva abbandonato le marsine di taffettà e i giustacorpo in velluto, faticava ancora ad abituarsi ai sussurri, all’argenteria opaca, ai topi che correvano nei corridoi. Lanciò uno sguardo fuori dall’ampia vetrata che dava sull'Orangerie, ma fu come guardare in uno specchio ora che la servitù si rifiutava di servire un re che non prendeva la comunione. Fuori, ciò che usava esser illuminato a giorno era ormai immerso nel buio.
Non amava guardare il proprio riflesso, Rossignol; non più.
Gli occhi s’erano fatti opachi, i riccioli disordinati e troppo lunghi per essere acconciati. In tempi recenti, la magrezza aveva scavato solchi al posto delle guance.
Si guardava e vedeva un assassino e un giocatore d’azzardo. Persa la vezzosa aura della giovinezza egli era rimasto bello, ma senza alcun fascino; gli anni l’avevano derubato dell’aria da cherubino, i lutti gli avevano strappato le gote rosee e la scintilla negli occhi chiari, l’ombra della Marcia su Versailles di anni prima aveva gettato sul suo viso un’inquietudine che aveva finito per divorare ogni parvenza di grazia.
Rossignol non era più.
Aveva seguito sua nipote nella tomba, in quell’ennesima bara per bambole, e Josephine dopo di lei. Sua madre, grigia e vecchia, seguitava a vivere a Parigi, con il caos che le scorreva addosso come un mare di pece.

Un’altra occhiata alla finestra e stavolta, alle sue spalle, v’era un’altra figura slanciata, ogni giorno più magra ma non meno conosciuta. Rossignol non potè fare a meno di sorridere laconicamente.
Da quando aveva smesso di sobbalzare ad ogni porta aperta?
Da quando non aveva più paura che la folla irrompesse nelle sue stanze?
“Remis,” mormorò, con un cenno, “Stanno partendo?” 
Il paggio annuì.
Non era più giovane come un tempo, ma era invecchiato bene: i suoi ricci rimanevano ribelli, color fiamma, e il viso pallido non era solcato da una sola ruga. Quando si muoveva sembrava ancora un ragazzo e per questo, per lo spettro di un passato recente sacrificato sull’altare della bestialità che Remis portava sulle spalle, Rossignol lo amava più di prima.
Almeno qualcosa, nel suo casato, rimaneva grazioso.
“La fiacre per i bagagli di Sua Grazia è appena partita, monsieur. A breve seguiterà la berlina per Sua Altezza Serenissima.”
Rossignol si morse il labbro inferiore. Un’altra principessa reale, infine, abbandonava il palazzo con i suoi figli.
In ogni caso, Rossignol era certo che sarebbe stata l’ultima principessa di Lamballe ad abbandonare il palazzo.
“Louise Marie Adelaide porta con sé la cognata?”
“No, monsieur. La principessa rimarrà accanto a Sua Maestà.”
Con un debole sorriso — come a significare lo sapevo, era naturale  Rossignol accennò un segno d'assenso con il capo: nemmeno lui aveva intenzione di lasciare la propria casa prima dei sovrani, la cui partenza non era programmata che per l’estate.
“Louis Alexandre ne sarebbe stato orgoglioso,” considerò.
Il principe era stato molte cose, in vita, ma non un codardo: Rossignol ripensava con dolore ai racconti di Guy Tholomeis, all’epoca a corte, e di come era solito ricordare le serate passate al tavolo da gioco insieme a Louis Alexandre di Borbone.
Ora non vi erano più né l’uno né l’altro per raccontare; uno in Austria, l’altro preda dei vermi, strappato anzitempo ai suoi vizi. Oltre ogni aspettativa, tuttavia, la principessa di Lamballe s’era rivelata pallida e malaticcia ma coraggiosa come un leone.
Ad ogni modo, Rossignol non aveva interesse nel dare l’addio ad Adelaide, nonostante ricordasse d'aver rispettato la sua scelta di abbandonare il marito per tornare a Parigi: v'era una dolceamara ironia nel modo in cui persino gli affari di cuore erano legati alla rivoluzione, oramai, come se avessero tutti dimenticato come essere uomini e donne, tramutandosi in macchine che respiravano, mangiavano, amavano politica e sangue.
Abbassò gli occhi sulle numerose lettere che doveva finire di leggere in segno che, per lui, la conversazione poteva finire lì.
“Porta i miei saluti a Sua Altezza Serenissima.” sussurrò.
Lasciò che Remis prendesse congedo con un inchino profondo e nessun indugio, e sospirò pesantemente.
Stavano partendo tutti; persino d’Artois aveva oltrepassato le Alpi per salvare il proprio ramo della famiglia, salvaguardando la linea dinastica nel peggiore dei casi, trovando sollievo in chissà che domestica tedesca nel migliore.
Rossignol, tuttavia, non aveva motivo di partire. Aveva, di recente, portato all’attenzione della regina una proposta riguardo alle tombe nobiliari; non sopportando l’idea di mani bisognose che dissacravano la tomba del principe T. per scovarvi tesori, aveva proposto di spostarla. Nasconderla, mascherarla.
Quello non era stato che l’inizio.
Non era mai stato tanto attivo come in quei giorni di sventura.  




 

Era seppellito sotto il nome di Charles Marnie. Date ignote.
Jehan Henri aveva sorriso nello sfiorare con l’indice l’epitaffio, nel graffiare il muschio dalla pietra annerita.
Maniscalco, Calais. 
“Avreste detestato passare come un maniscalco, non è vero?” mormorò, abbastanza piano da avere la sensazione che le sue parole fossero portate via dal vento estivo. Non sapeva che giorno fosse, da quando avevano cambiato il calendario: s’era rifiutato di usarlo, nonostante avesse la vaga idea che mancavano pochi giorni a maggio. Tante cose erano mutate ma quella tomba rimaneva, nulla poteva cancellarla.
“Così pieno di voi come eravate, avreste preferito un chierico o un poeta, quando non eravate né l’uno né l’altro. Ah, forse un abate, non? Avreste riso dei peccati altrui e guardato con pietà ai miei errori, e l'equilibrio sarebbe stato ristabilito. Mi perdonerete, spero, ma sarebbe stato sciocco, di questi tempi in cui l’uomo rivolta le tombe, le deruba come farebbe una bestia. No: qui non v’è nulla da rubare.”
Silenzio.
Non che Rossignol si aspettasse una risposta da un pezzo di pietra, dopotutto.
“Ho intenzione di scrivere nuovamente ad Alain. Sì, dovreste esserne geloso: siete sempre stato così portato per questo genere di emozione che mi sorprende non mi abbiate mai confrontato direttamente in proposito. Tentavate di nasconderlo, ma era come un’aura tenebrosa attorno al vostro corpo, un’aura che vi rendeva spaventoso ai più e che ho sbagliato a leggere in maniera così plateale che me ne vergogno, quando ci penso.”
Sospirò.
Com’era strano parlare con Charles Marnie, maniscalco di Calais, e sapere che non aveva nemmeno avuto il coraggio di guardarlo in faccia un'ultima volta.
Eppure, ora, con un sogghigno sulle labbra, lo costringeva a custodire le sue ultime parole.
“Ad ogni modo, mon ami, questo è un addio. Verranno a prendermi presto; forse sono già alla mia porta. Ma voi che ne potete sapere? Siete morto. Forse, siete morto con un tempismo invidiabile. Ma prima di raggiungervi, se c'è davvero un luogo in cui siete e se è vero che vi ho costretto ad un'eternità nell'Inferno più profondo, desideravo rivelarvi un segreto: fino all’ultimo giorno, mi avete fatto rimpiangere di non essere davvero una ragazza dalla campagna, in visita a Versailles per un solo ballo mensile.”
Rossignol si fermò un istante, deglutendo a vuoto con enorme fatica.
Perché aveva atteso così tanto nell’andare a trovare quella tomba senza date che lui stesso s'era premurato di mettere in salvo? Perchè si sentiva scosso dai sensi di colpa, proprio in quel momento?
Si era ripromesso di non piangere affatto, eppure non riusciva a passare attraverso quella terribile sensazione d’essere rimasto solo al mondo.
“Vi ho odiato. Da quando vi ho visto, avete sottolineato troppe mie mancanze perché non potessi essere interessato a voi. E quella sera avrei davvero, davvero desiderato nascere Charlotte de Chigny.”

 


#

 

Amico mio, 

Non avete mantenuto la vostra promessa e ve ne sono grato. Non siete tornato a Corte, immagino oberato dagli impegni d'una terra aspra e ingovernabile che avevate disimparato a gestire.
Mi è dispiaciuto sentire di vostra madre e ho pregato molto per lei. In quest'occasione ho scoperto che mio padre la conosceva e ciò non mi ha stupito, in realtà: proveniamo in parte dagli stessi luoghi, lo sapete? Senza dubbio alcuno, tuttavia, essi si rispecchiano meglio in voi che in me.
In voi ho sempre scorto l'impetuoso vento che si abbatte sulle scogliere in inverno e il candore della neve novembrina che si scioglie sotto un sole ancora troppo caldo, lasciando intravedere un ultimo squarcio di natura decadente. In voi ho scoperto la Britannia, sulla quale i miei occhi mai si sono posati; eppure ora sento di conoscerla. Ho imparato ad amarla attraverso di voi, piuttosto che attraverso i ricordi che mio padre ha della vostra bella regione e che teneva chiusi segretamente in un cassetto del suo cuore.
Voi siete la vostra terra, siete il rumore degli spifferi e dei canti nel cielo limpido. Io sono figlio di Parigi.
Ed è qui che vi prego di non tornare.
In effetti, quello che vi domando e vi prego di fare è di trasferire quanti più capitali possibili all'estero. Yolande, che certo ricorderete, ed il nostro comune amico il conte d'Artois e Angouleme sono già partiti, insieme alle loro famiglie ed ai loro seguiti. La bancarotta e gli scandali di quando eravate a Corte non sono più semplici fantasmi, ma realtà; l'odio del popolo è cocente e, temo, presto arriverà ad incendiare tutto ciò in cui crediamo e per cui viviamo, come un barilotto di pece a cui da troppo tempo era stato dato fuoco alla miccia. 
Se non l’avete già fatto, andatevene in Austria o in Germania, o dove credete: nella vostra ultima lettera mi raccontaste che avevate conoscenze in tutto il vecchio mondo, ora vi dico che è il momento di metterle a frutto. Ripensandoci, forse l'America è l'unico luogo sufficientemente lontano da farmi credere con estrema certezza che sarete al sicuro e che non dovrò preoccuparmi per voi.
Mi siete caro come un fratello, Alain, e lo siete sempre stato.
Giacchè non ci vedremo più, voglio rivelarvi che non vi ho mai davvero amato in maniera romantica. 
Vi sono affezionato, certo, ma ero innamorato di altri, all’epoca: uomini e donne valorosi e preziosi quanto voi, ma infinitamente più torbidi. Siete troppo luminoso perchè la mia anima, cruda e bestiale, possa sopportarvi. 
Mi spiace di avervi mentito ed usato, e infine, tradito. 
Tuttavia, ora che sapete la verità potete andarvene senza rimorso e siete libero di odiarmi, se lo desiderate, ma fatelo sapendo che vi ho voluto bene e che ve ne voglio e che, in nome di ciò, vi chiedo d'essere prudente. Non è un buon giorno per essere nobili francesi, amico mio, né tantomeno per essere fedeli al giusto potere assegnato da Dio. Io continuerò ad esserlo da qui, dove posso vedere la regina sorridere, e voi siate fedele lontano da Parigi, aiutando gli eserciti amici a combattere ciò che di certo accadrà. Si respira nell'aria odore di pece e zolfo. 
Aiutate il vostro Re come vi chiedo, poiché siamo certi che qui non serva altro che un drappello di nobili fedeli ed inetti, mentre i più coraggiosi dovranno combattere per noi che restiamo. 

Vi prego di scegliere con saggezza.
Il vostro lontano amico, che non v'ha mai dimenticato,

Jehan Henri

 

Quell’ultima lettera, che non aveva ricevuto risposta, aveva segnato la fine di un’epoca.
Datata 1971, ricordava bizzarramente a Jehan Henri di quel penoso fiasco a Varennes, e di come tutto il mondo fosse seguitato a crollare. Non vedeva la propria stanza di Versailles da allora.
Poco importava che un biglietto sofferto — mai aperto, sfiorato con reverenza e mai dimenticato — rimanesse ancora chiuso nel cassetto di uno scrittoio che era stato costretto a lasciare di fretta, trascinato fuori dalla minaccia della morte: Rossignol non aveva alcuna intenzione di leggerlo, comunque.
Era stato, piuttosto, suo dovere aver premura degli amici ancora in vita: dir loro addio prima dell’inevitabile, senza nascondere un sorriso riconoscendo che da quando il sole era tramontato sulla monarchia tutte le sue missive erano firmate Jehan Henri de Gramont e il suono del suo vecchio nomignolo gli risultava poco familiare.
In quei penosi, ultimi giorni a corte, infine Jehan Henri aveva preso carico del proprio rango. Quando non v’era più nessuno da tradire, quando aveva ucciso il proprio amante e macchiato la propria reputazione, Jehan Henri aveva deciso di diventare fedele.
Si era detto che l’avrebbe letto il biglietto di T., una volta pronto, ma non lo era mai stato e l’occasione gli era stata tolta dalle mani.
Quanti anni erano passati. 
Ora il morso delle manette aveva rovinato polsi che avevano suscitato l'ammirazione degli astanti mentre suonava il piano ed il freddo aveva ingrigito la pelle rosea. Quando poggiava la testa al muro, nel tentativo di pensare, di riflettere, non era più la morbida carta da parati a fiori ad accogliere i suoi pensieri, ma il duro muro di pietra di una stanza a lui riservata in un palazzo che non riconosceva, sebbene l'avesse visitato spesso nel cuore della città che l'aveva cresciuto, amato ed infinite tradito.

Non era stato fortunato, l’antico cherubino. Gli era stato negato anche d’esser prigioniero in casa propria, tra le comodità cui era affezionato, ed era stato tramutato in un esempio: i vizi, tutti, rinchiusi nella cella grigia della padronanza.
Rossignol, che ancora languiva nei meandri dello spirito di Jehan Henri, mai del tutto annientando, aveva riso di quella definizione e se n’era beato, complimentandosi con gli zotici che gli facevano il favore di renderlo un martire. Quanto fredda e crudele si era rivelata la sua bella capitale, un tempo teatro di goliardie; ora le sue strade puzzavano di sangue e di morte e nelle piazze echeggiava il suono della carne mozzata in un mattatoio senza confine, un paradiso per i ladri e i criminali.
Se quella era la Repubblica, à la merde; avrebbe potuto non vederla mai e non ne avrebbe certo patito la mancanza.
A detta del popolo era persino peggio della Monarchia ed allora era Jehan Henri a ridere, non Rossignol, perchè allora che bisogno c’era stato di giustiziare un buon sovrano? Quale lo scopo del massacro di un’istituzione voluta da Dio?
No, Parigi era diventata un inferno in mano ai rivoluzionari. Un mostro senza controllo, un fiume di sangue sempre in piena: i nobili erano privati della testa senza passare per la Giustizia, il Clero sbeffeggiato, i vignettisti e gli avvocatucci da pochi spiccioli regnavano impuniti. Non c’era più nulla del vecchio splendore, nulla che Jehan Henri potesse ricordare con affetto.
Non era certo un luogo per Alain, quello.
Dopotutto, lui aveva sempre avuto il difetto d’esporsi troppo.


 

#

 

 

[1826 - Inverno]

 

Molto era cambiato nei turbolenti anni della Rivoluzione e del successivo Regime, lasciando solchi profondi che il governo di un Ufficiale D'Artiglieria cresciuto in Generale e trasformatosi Dittatore avevano infettato.  
Ancor più profondi erano i segni dello scellerato governo della Montagna, spazzato come un cumulo di sabbia dai venti europei. 
Alain Ovigny — non era saggio mantenere il de nobiliare, nei tempi più recenti, e se n'era sbarazzato non senza un pizzico di rammarico — non aveva pianto la perdita di Parigi, ma aveva tremato nel riconoscere vecchi scorci e palazzi familiari distrutti dalle cannonate. 
Ovunque andasse, rivedeva le vie strette e fangose che aveva conosciuto anni prima addobbate diversamente, con vecchi alberi della cuccagna ornati da coccarde tricolori, donne con abiti d'una semplicità quasi vergognosa, uomini imbronciati e con i polsi morsi dalle catene. Il terrore che si era sparso per il Paese durante il governo della Gironda era ancora ben arroccato negli animi, nonostante il recente ritorno del vecchio schema.
La gioventù folle di Saint-Just aveva lavato col sangue le strade di Parigi e la minaccia di Buonaparte, come lo chiamavano i realisti e i suoi sostenitori, era stata scongiurata con difficoltà.
In un disperato tentativo di tornare indietro, un vecchio amico si stava adoprando per rimettere le cose a posto.

Proprio come il florido regno che avevano conosciuto, il giovane che era stato Charles-Philippe d'Artois di Borbone non esisteva più. Lo stesso viso perennemente sbarbato aveva perso la freschezza d'un tempo, ora macchiato e tagliato da rughe profonde ed arrossato dal vento Londinese, con il fantasma della perdita dei due fratelli maggiori ben visibile negli occhi opachi. Accolse Alain con un sorriso, ma non v'era traccia delle fossette che gli si formavano un tempo sul bel viso fiero. Portava la parrucca, cosa che un tempo faceva di rado in privato.
“Amico mio,” esordì il sovrano, con voce tonante.
Era più profonda, ma sempre riconoscibile: avrebbe potuto parlare allo stesso modo sui gradini di Versailles, a malapena protetto dal sole e con un sorriso ad incurvargli le labbra.  
Alain si scoprì a ricambiare il cenno quasi meccanicamente. Un se stesso più giovane, che credeva morto prima della rivoluzione, premeva per incontrare un vecchio e caro amico.
“Maestà.” 
Come sembravano distanti i giorni in cui d’Artois non era che Sua Grazia; com’era stato diverso il mondo, allora. 
Con un entusiasmo che parve sorprendere entrambi d’Artois si avvicinò quando ancora Alain non s’era rialzato dall’inchino, i tacchi che tuonavano sul pavimento in gran fretta, e strinse l’amico d’un tempo in un caloroso abbraccio. Incapace di reagire, Alain rimase immobile. 
Le mani del principe — no, del re — gli si erano arpionate alla stoffa della redingote per un lungo istante, come ad assicurarsi che non fosse un fantasma, prima di allontanarsi d'un passo con un’ultima pacca sulla spalla.
“Non siete cambiato.” 
Ne sembrava soddisfatto. Alain scosse la testa, grato che quella formalità potesse persuaderli che nulla fosse mai accaduto. 
“No, Maestà, e nemmeno voi.” 
“Ah, questa è una menzogna, mon ami,” dichiarò d’Artois, allegramente, “ma sono disposto a perdonarvi se voi perdonerete la mia mancanza di buone maniere.”
Quella era, di certo, una sorpresa.
Non v’era alcun dubbio che il fu conte si fosse fatto carico dell’educazione degna d’un re durante l’esilio, se non per sé stesso per il nipote, ma Alain non s’era c’erto aspettato di vederlo diverso dall'uomo che aveva conosciuto: Charles era un altro tipo di re, nonostante l'età iniziasse a rivelare le somiglianze con i fratelli ed il nonno. Il duca D'Ovigny non si sarebbe mai sognato d’essere accolto da un uomo bardato d’ermellino con le labbra serie, il volto arcigno, arroccato su una sedia d’oro come avevano fatto suo nonno e i suoi antenati: Charles, come Louis Auguste prima di lui, era fra i sovrani che mascheravano il proprio rango.  
“Maestà…” Alain sussultò.
Non aveva mai perso la speranza di poter pronunciare di nuovo quella parola, non verso un uomo che considerava legittimamente il proprio re; sentire quel suono, mai scordato, tre sillabe che aveva imparato sin da bambino, fu come ritornare a respirare nuovamente; come urlare da una montagna, dal tetto del mondo. 
d’Artois sorrise gentilmente. 
“State bene?” domandò. I suoi occhi nocciola sembravano capire perfettamente cosa avesse interrotto l’amico.
L'uomo annuì. 
“Vi trovo in ottima forma, Maestà,” sussurrò. Un bizzarro senso di capogiro, insieme alla sensazione d’aver una mano invisibile a torcergli le viscere, gli rendevano difficoltoso dire qualsiasi cosa. “É un sollievo inimmaginabile.”
“Credetemi, ho pensato la stessa cosa di voi.”
Con una breve risata, il sovrano strinse la spalla di Alain, guidandolo verso un divanetto. 
I mobili, brillanti sotto i raggi del mezzogiorno, non sembravano aver subito la minima traccia della guerra; non un filo, non una scheggia fuori posto. Restaurati, proprio come il loro padrone.
“Ma dovete raccontarmi così tante cose, Alain. Beviamo. Alla salute dei tempi passati, e delle vecchie amicizie. Vi fermerete di certo a cena, non è così?”
Alain esitò, senza poter impedire ad un sorriso di far capolino sulle sue labbra.
“Maestà, non intendo di certo crearvi disturbo.”
A quelle parole, improvvisamente, d’Artois aggrottò la fronte. 
“Creare disturbo, voi? Mon Dieu, non dite idiozie. Chiedo troppo nel voler un vecchio amico alla mia tavola? Che vadano a farsi fottere. Son troppi anni che non vi vedo per lasciarvi salpare senza una parola.”
Alain prese un respiro profondo ed annuì di nuovo, con più convizione. Che male poteva fare, dopotutto, cenare con il re? Rivangare vecchi ricordi ed aprire vecchie ferite, proprio quando credeva d’averle finalmente guarite?
Una serata per soffrire ancora.
“Vi devo avvertire che ho una moglie, ora, Maestà.” dichiarò. 
Gettando indietro la testa, d’Artois scoppiò in una fragorosa risata. 
“Mettete le mani avanti, canaglia?” domandò. Ridere gli rendeva la voce rauca come se avesse vissuto abbastanza da confondere la gioia con l’isteria, il dolore e la pazzia. “Ebbene, se non siete a Parigi per una donna, per cosa, allora?”
“Rossignol.”
Se avesse fatto esplodere un colpo di pistola, probabilmente, Alain avrebbe creato un boato meno terribile. Il silenzio del nuovo re — interrotto solo dal fruscio nell’ordinare con un gesto che fosse portato del vino — era pesante, attonito.
Lo fissava, quegli occhi cupi che un tempo erano parsi d’ambra e che la guerra aveva cambiato per sempre; Alain lo guardò di rimando.
Oh, Dio, pensò Non dovrei nemmeno guardarlo negli occhi.
Tuttavia se era stato facile, quasi naturale, evitare lo sguardo del precedente sovrano e non aveva mai avuto occasione di confrontare Louis XVIII, d’Artois sembrava non accettare frivolezze.
“Voi siete pazzo,” mormorò il re, infine, lasciandosi cadere sulla poltrona dietro di lui. 
Alain, massaggiandosi le tempie, chinò la testa.
“Sono persuaso a non avvicinarmi nemmeno a Versailles, ma non posso andarmene senza portare i miei rispetti.”
D’Artois sospirò.
“Vostra moglie sa?”
“Non sospetta nulla,” rispose Alain, piano. Non passava giorno in cui non si sentisse in colpa per averla scelta giovane, bionda, con gli occhi azzurri e turbolenti come l’oceano in tempesta; per averla strappata a suo padre quando ancora sembrava un ragazzino, un sacco d’ossa e non una giovane donna. Tuttavia, non c’era bisogno che d’Artois lo sapesse i dettagli, “ma sono venuto da voi perchè so che potete aiutarmi. Vi siete già fatto carico una volta della mia causa.”
Con il volto nascosto fra le mani, il re rimase immobile.
Quel modo di mascherare i propri pensieri, come arricciava il naso prima di compiere un gesto che non considerava affatto saggio o di puntare su un cane o un cavallo perdenti riportarono Alain nel passato. Sebbene il volto del re fosse segnato e macchiato, sebbene i suoi riccioli fossero nascosti dal bianco della parrucca, le sue esitazioni erano le stesse d’un tempo.
Infine, d'Artois scosse le spalle. 
“Non so dove sia Rossignol,” dichiarò, infine, come se si stesse scrollando di dosso un grosso fardello. “Nessuno lo sa. Come molti altri, il suo corpo è stato gettato in una strada.”
Alain aggrottò la fronte, sentendo un brivido gelido corrergli lungo la schiena. Una goccia di sudore mortalmente freddo che lo fece sobbalzare, drizzare ogni singolo capello sulla nuca. 
“Mi state dicendo che non v’è una tomba?”
Il vino era stato portato con solerzia e il sovrano ne scolò un intero bicchiere prima di rispondere. Sulle labbra aveva una patina color sangue, ma non si preoccupò di accettare il fazzoletto che gli veniva offerto. 
“Sbranato dai cani, alla meglio,” rispose, in tono greve. Alain si alzò improvvisamente, più per prendere aria che per partire, ma d’Artois sgranò gli occhi. “Ma non andatevene ora, vi prego. Rimanete.” 
Il duca, che riusciva a stento a reggersi sulle proprie gambe, non stava di certo prendendo commiato: d'Artois doveva sapere che in quel momento non v’era altro posto dove sarebbe potuto andare. Nessuno se non l'uomo che aveva di fronte poteva scacciare l’immagine ingiuriosa di Rossignol nel fango, morto, la sua bella testa separata dal corpo.
Aveva sempre amato la forma allungata, graziosa, del suo collo; come si legava al capo, sotto due zigomi perfettamente disegnati che si univano in un mento appena sporgente, arrotondato. Ricordava d’aver fatto scorrere le dita dalla mascella alla giugulare e allo sterno, tracciando dei segni rosei sulla pelle eburnea del ragazzo.
Là dove, appena qualche anno dopo, cani randagi ed uccelli avevano morso e beccato e lacerato la carne. 
Scosse la testa, cercando di scrollarsi di dosso quelle terribili immagini.
“Com’è stato possibile?” sussurrò.
Il Conte d’Artois, Charles X, per una volta non rispose.





Note:

La cit iniziale è naturalmente La Carmagnole.

Ed è finita 💛 Innanzitutto volevo ringraziare chi ha messo questo mini-disagio nelle liste, e chi ha recensito e letto in silenzio. Vi voglio un sacco bene. Mi avete fatto venir voglia di migliorare questa storia capitolo dopo capitolo, le recensioni mi hanno fatta sorridere (e non vedo l'ora di rispondere come si deve, ora che non ho il rischio di fare spoiler e scivoloni nelle risposte 🙊) e le letture mi hanno riempita d'orgoglio. Ho la sensazione che questa storia abbia ricevuto anche più amore di quello che si meritava, e per questo non ringrazierò mai abbastanza.

Come avrete capito, la decisione di mantenere il principe T. senza nome completo è sia una citazione alla narrativa classica — quanti personaggi rimangono senza nome, o solo con l'iniziale! — quanto una decisione pratica, dal momento che non avevo lo spazio per approfondire/incastrare rami cadetti del Principato di Waldeck-Pyrmont. Comunque, ai fini della storia non era importante. L'idea del rapporto fra Rossignol e il Principe T. è nato da questa canzone (Miley non mi piace, ma in questa cover mi ha dato l'ispirazione tipo mattonata in testa mentre ero all'Hermitage a San Pietroburgo, motivo per cui T. doveva essere Russo), quindi capite che l'outcome drammatico era stato deciso sin dalla prima parola e un po' mi dispiace LOL

Niente, io sono una mamma fiera di Rossignol e spero di aver convogliato un minimo del mio grandissimo amore per Parigi e per la sua storia, in particolare per quel meraviglioso periodo storico che è il tramonto del '700 e delle Monarchie Assolutiste. Grazie, grazie, grazie ancora per tutto il sostegno (a volte immeritato, lo riconosco) e spero di non aver deluso eccessivamente con questo epilogo.


 

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