L'AMORE INFINITO - FAVOLA NOTTURNA

di ViolaClegane
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO ***
Capitolo 2: *** LA TORRE DELL'OROLOGIO ***
Capitolo 3: *** FORBICI, PIANO PER LA FUGA, MIRTILLI ***
Capitolo 4: *** IL VUOTO (INTERLUDIO) ***
Capitolo 5: *** LO SPAVENTAPASSERI ***
Capitolo 6: *** IL GIOCO ***
Capitolo 7: *** ADDIO ***
Capitolo 8: *** IL FARO ***
Capitolo 9: *** IL MATRIMONIO ***
Capitolo 10: *** INSONNIA ***
Capitolo 11: *** SOGNI ***
Capitolo 12: *** KOIBITO ***
Capitolo 13: *** IL CREPUSCOLO NEL FARO ***



Capitolo 1
*** PROLOGO ***


I fiori sulla terrazza del Faro sono bianchi come spettri ma sembrano quasi rossi, al tramonto. L’uomo li annaffia con cura. Dietro di lui, Malera si accende una sigaretta, assorta dai pescherecci lontani.

Anche lei è uno spettro. L’estratto dei fiori ha distorto la sua carne fino a farne un fantasma diluito dal presente, ma lei non lo sa. Detesta quei petali lunari senza saperne il motivo, intuendone forse il pericolo.

L’uomo non sapeva a cosa stesse andando incontro, quando ha iniziato ad estrarre il polline da quei fiori arrivato da lontano. E quando ha capito, era già troppo tardi. Adesso sa. Sa tutto.

- Dovremo preparare la stanza degli ospiti – disse distrattamente alla donna. Lei lo scrutò da sotto la frangia folta, in uno sbuffo di fumo.

- Non abbiamo mai avuto ospiti – replicò.

- Li avremo – rispose l’uomo riponendo l’annaffiatoio e sedendosi, stanco, vicino alla donna. La stanchezza che lo spossava era vecchia di secoli, di quelli passati e quelli che ancora dovevano accadere.

Prese una mano della donna fra le sue, con espressione grave e lontana, come se stesse per partire per un lungo viaggio, o ne fosse appena tornato.

C’era una nostalgia dentro, e molto altro che la donna non capiva.

- Sono felice – disse lei - vorrei che potessimo vivere per sempre. Vorrei che fra mille anni fossimo ancora qui, insieme. Non mi stancherei mai di stare con te, nemmeno se i giorni fossero infiniti.

L’uomo sollevò appena gli angoli della bocca, che arricciarono qualcosa di amaro che non era un vero sorriso.

- I giorni sono infiniti, mia cara. E noi non faremo altro che perderci per ritrovarci ancora.

La donna accarezzò la mano dell’uomo.

- Quando arriveranno i nostri ospiti? – chiese docile.

- Presto, mia cara, presto. Anche loro, come noi, si sono persi, ma fra poco si incontreranno di nuovo.

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Capitolo 2
*** LA TORRE DELL'OROLOGIO ***


Una sera me ne stavo seduto in cima alla Torre dell’orologio, affiancato dal grande disco giallastro della Luna che proiettava ombre lunghe un po’ sbilenche. Mi piaceva il suo tetto di pietra, da cui il paese intorno sembra piccolo come una miniatura.
 
- E tu che cosa ci fai lì? - chiese una vocina alle mie spalle, emergendo dalla botola.
 
Una ragazzina si sollevò a fatica dalla scala a pioli, issandosi sul tetto.
 
- Come è buio qui! –  esclamò guardandosi intorno.
 
- Da giù - spiegò lisciandosi l’abito stropicciato da cui sbucava un lembo della camicia da notte - sembra un posto così luminoso! Invece quando arrivi qui c’è solo oscurità. Che delusione!
 
Si avvicinò, frugando in un piccolo sacchetto da cui estrasse un biscotto, che mi offrì.
I pantaloni le arrivavano sopra le caviglie, che erano così magre che mi chiesi come potesse stare in piedi senza spezzarsi.
Il viso ovale mi scrutava attraverso occhi neri. Sarebbe diventata una bella ragazza, quando sarebbe stata più grande.
 
- Che cosa stavi facendo? – chiese con noncuranza.
 
- Niente …  guardavo la Luna. Ho inventato una poesia, la vuoi sentire?
 
Annuì.
 
Le recitai alcuni versi.
Mi guardò spazientita, scuotendo la testa.
 
- Credi che basti starsene appollaiati su una torre e ululare come un segugio per sfornare dei bei versi? Che ingenuo! E invece ci vuole ben altro!
 
Cosa? Non me lo seppe spiegare, ma di sicuro - di qualunque cosa si trattasse - io non la possedevo.
 
- Comunque sono contenta di avere trovato qualcuno qui. Sarà meno noioso, quando scapperò di casa – ridacchiò allegra, prima di addentare un biscotto.
 
- Questa però non è una vera fuga – continuò - solo una prova. Pensavo non ci fosse nessuno qui, invece …
 
- Invece ci sono io.
 
-Già - ammise sospirando delusa - ma poteva andare peggio. Voglio dire … sembri piuttosto innocuo. Non mi sarai di intralcio, se terrai la bocca chiusa.
 
Mi squadrò da cima a fondo, ridendo sprezzante. Estrasse un altro biscotto che afferrai con entrambe le mani e iniziai a sgranocchiare. Forse era questo che mi rendeva così poco temibile, la mia debolezza per lo zenzero.
 
- Voglio scappare di casa perché mio padre mi costringe a sposarmi – spiegò lei senza che gliel’avessi chiesto.
Ripresi a masticare il biscotto che avevo lasciato a metà, annuendo. Se l’avessi assecondata, forse ne avrei avuto un altro.
Lei si mosse per cambiare posizione, aggiustandosi gli abiti nei quali, per quanti sforzi facesse, la camicia da notte bianca, leggera, non voleva saperne di entrare. Si guardò intorno e si alzò passeggiando avanti e indietro, gettando a intermittenza lo sguardo verso le case buie.
 
- Tu te ne stai sempre qui da solo? Si vede che non conosci la società, non hai un briciolo di educazione, e non sei per niente di compagnia. Non mi hai nemmeno chiesto come mi chiamo e perché non mi voglio sposare. Non sei curioso?
 
No, non lo ero. Ma qualcosa nel suo tono di voce mi suggerì che avrei fatto meglio a farle quelle domande, se avessi voluto un altro biscotto.
 
- Sono sempre solo. Io non le conosco, le buone maniere. Cosa ci devo fare?
 
Lei scosse da testa contrariata.
- Va bene, te lo dirò lo stesso. Mi chiamo Martina.
 
La manina si avvicinò alla cintura con il sacchetto, che sistemò senza però dare l’impressione di volerne estrarre un altro dolce.
 
Martina, soppesai fra me. Non devo dimenticarlo o si arrabbierà di nuovo. Poi sembrò attraversarle la mente un’idea fulminea.
 
- Ma tu dove abiti? – chiese sospettosa.
 
- Io vivo qui, nella Torre. Sono il Guardiano.
 
Sembrò di nuovo delusa.
 
- Farai bene a non mettermi i bastoni fra le ruote o sarà peggio per te! – minacciò puntano il dito indice davanti ai miei occhi.
 
- E comunque sia, adesso è tardi. Devo rientrare prima che si accorgano che non sono in camera - disse senza accennare un passo in direzione della botola. Io continuavo a rimanere seduto sul gradino di pietra a osservarla. Pensai volesse un segno di incoraggiamento, così feci cenno di sì con il capo, sforzandomi di assumere un’aria abbattuta. E un po’ lo ero, per via della cintura dalla quale i biscotti non si allontanavano.
 
- E tu? Non dici niente. Io me ne vado e tu nulla? Certo che sei un bel tipo!
 
Ci risiamo. Che cosa ho sbagliato questa volta?  Si piazzò davanti a me, schiacciandomi con la sua enorme ombra e appoggiando con rabbia i pugni serrati sui fianchi.
 
- Sei impossibile! Per prima cosa un gentiluomo si offrirebbe di accompagnare a casa una fanciulla sola nel pieno della notte. Ma a te non passa neanche nel più remoto angolo del tuo piccolo cervello, vero? E poi non hai più chiesto perché non mi voglio sposare. È chiaro che te ne sei già dimenticato e non ti interessa. E soprattutto …
 
Tutto d’un fiato, povera piccola, senza pause né esitazioni. Doveva avere una rabbia molto lineare in testa.
La guardai dubbioso. Non mi veniva proprio in mente altro, che potessi avere sbagliato.
 
 - E soprattutto non mi hai nemmeno chiesto se ritornerò!
 
Non capivo perché avrei dovuto. Poi le guardai i pugni serrati, la cintura. I biscotti.
 
- Ritornerai?
 
- Non lo so. Forse sì forse no. E di sicuro non ritornerò per te.
 
Sospirai. Ecco perché passo il tempo da solo, soppesai scrutando la sua espressione imbronciata.
 
- E se proprio lo vuoi sapere, hai una pettinatura ridicola! - urlò precipitandosi verso la botola. Allora mi alzai di scatto, l’inseguii, riuscii ad afferrarle le spalle mentre i suoi piedini si immergevano trovando appoggio sui primi gradini scuri dentro la botola. Non l’afferrai con forza, ma appena le mie mani toccarono le sue spalle si fermò, come se le avessi fatto un incantesimo.
Occhi carbone mi fissavano con un’espressione che non riuscivo a decifrare e non conoscevo. Nessuno mi aveva mai guardato così e io non sapevo cosa volesse dire. Forse si sarebbe arrabbiata di nuovo, ma che male c’era a tentare?
 
 - Posso avere ancora un biscotto, prima che tu vada?

Si accigliò terribilmente e strinse gli occhi costringendo montagne di carbone dietro due fessure. Con le mani tremanti di rabbia slacciò il sacco contenente il prezioso bottino e lo scaraventò a terra.
 
Perché si era arrabbiata? Proprio non capivo. Se voleva tenersi i biscotti poteva farlo. Che fosse una di quelle incomprensibili regole che conosce solo la buona società?
 
Mentre mi chinavo a raccogliere la busta profumata di spezie lei e la sua rabbia infantile si erano già dissolte nel buio.
 
Ho la sua borsina, pensai. Tornerà.

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Capitolo 3
*** FORBICI, PIANO PER LA FUGA, MIRTILLI ***


Tornò la notte, ma di Martina nessuna traccia. Forse era ancora arrabbiata con me per qualcosa di sbagliato che aveva detto.
Forse aveva deciso di scappare da qualche altra parte, pensai. Ma no, prima doveva riprendere il suo sacchetto dei biscotti. Non l’aveva forse lasciato lì apposta, per poter tornare? Io sentivo che era così.
Ogni tanto il mio sguardo andava verso la botola, ma non venne. Provai a inventare qualche altro verso, alla Luna, ma non riuscii. Così a un certo punto me ne andai a dormire, certo che mi sarei svegliato se avessi sentito dei passi per le scale.
Trascorsero alcuni giorni, durante i quali i miei sguardi alla botola si affievolirono.
Così, quando all’improvviso una notte la vidi sbucare dal quadrato scuro sobbalzai.
 
- Ah, ancora qui! – esclamò stupita - ma non dormi mai? - chiese come se la rabbia della volta precedente non le fosse ancora passata.
Questa volta aveva una specie di sacco sulle spalle, da cui estrasse un tovagliolo in cui doveva esserci qualcosa di buono. Torta ai mirtilli.
- L’ho fatta io, ti piace?
Era buona, ma mi piaceva meno dei biscotti. Forse, però, era meglio non dirlo. Iniziavo a capire come funziona.
 
- Buonissima. Sei molto brava con i dolci.
 
Sorrise, continuando a scrutare la luna, che era diventata uno spicchio.  
 
- Mia sorella è più brava a ricamare, ma con le torte io la batto. Si è sposata da poco. Così mio padre ha pensato bene di sistemare anche a me e mi ha affibbiato un fidanzato.
 
Sento che dovrei chiedere qualcosa, ma non so cosa e non voglio che si arrabbi di nuovo. La sua manina frugò nel sacco profumato e mi porse un’altra fetta di torta. Allora feci uno sforzo per farmi venire in mente qualcosa.
 
- Come mai non lo vuoi sposare?
 
Martina si rasserena, vuole parlare, non aspetta altro.
- È un’ingiustizia assoluta. Essere una donna fa schifo. Non puoi mai decidere nulla. Sono sempre i maschi che comandano. I miei genitori mi hanno fatta fidanzare senza nemmeno chiedermi un parere con il figlio del banchiere, capisci? È ricco. Dicono che è un buon matrimonio. E poi possiede il podere vicino al nostro. Ma a me non piace. E’ antipatico, e arrogante.
 
Il viso era un ovale infantile, le manine piccole piccole sfornavano dolci speziati, gli occhi carbone erano grandi e belli, occhi sognatori, occhi di giochi. Anche i biscotti erano per lei un gioco. Persino la fuga, un gioco.
- Non sei troppo piccola per sposarti?
Si lisciò il vestito impettita, quasi offesa.
- Ho tredici anni! Fra un mese ne farò quattordici. Ci sono un sacco di ragazze che si sposano alla mia età. Cosa credi? Non sono più una bambina.
Non sapevo cosa rispondere, anche perché non sapevo se avesse dell’altra torta nella sacca, che avrebbe potuto richiudersi alla prima avvisaglia di una reazione sbagliata.
- Non arrabbiarti, io sono sincero con te. Sarai una donna bellissima, ma adesso devi ancora crescere un po’.
Poteva un uomo trovarla desiderabile? A me faceva solo molta tenerezza. Il figlio del banchiere non avrebbe appezzato la sua bellezza prematura, non si sarebbe accontentato del suo sonno. L’avrebbe assalita come un lupo cattivo, quello delle favole. Questa, però, non finisce bene.
 
- Sono contento che tu voglia scappare - dissi infine.
- Quindi non lo dirai a nessuno, se venissi a stare qui per un po’?
- Mi cucinerai qualche dolce?
- Certo che lo farò. Tutti i dolci che vorrai. Ma tu dovrai mantenere il segreto.
Annuii.
- E quando sarò qui – continuò lei - mi occuperò un po’ di te. Sembra che tu ne abbia bisogno - affermò con squadrandomi dall’alto in basso.
- Per prima cosa – affermò rovistando nel sacco - dobbiamo pensare ai capelli.
- Cos’hanno che non va? – protestai.
- Non ti offendere. Davvero. Il fatto è che sei piuttosto inguardabile. Sembri un selvaggio, sono disordinati e nessun maschio porta più i capelli lunghi, al giorno d’oggi.
 
Sospirai, rassegnato a sottopormi al suo capriccio.
- Va bene, ma dovrai ascoltare un’altra poesia che ho inventato.
Si alzò, puntellando i pugni sui fianchi.
- Mi sembrava avessimo accertato che non sei un gran che, come poeta. La Luna non è che ci faccia un figurone, nelle tue poesie. Magari dovresti cambiare soggetto -suggerì sbattendo le ciglia. Che volesse dirmi qualcosa?
Sbuffò spazientita, e ammise che non aveva mai provato a tagliare i capelli a nessuno, ma tanto, peggio di così…
Estrasse dal sacco un paio di forbici luccicanti e con alcuni fogli. Prima di procedere al solenne taglio di capelli, era assolutamente necessario che mi illustrasse il suo piano per fuggire. Era fatto così: sul foglio giallastro era disegnata una casa, un po’ storta se vogliamo essere pignoli: il costruttore non aveva fatto un buon lavoro. Sospesa a mezz’aria, forse nell’atto di levitare o volare, c’era una linea con delle sporgenze.
- Sono le braccia e le gambe! - aveva protestato lei - ed è chiarissimo che si tratta di me! Significa solo che uscirò dalla finestra, come ho fatto finora - precisò.
La linea volante con gambe e braccia portava una specie di valigia e aveva davanti a sé una freccia che ne indicava la direzione, o quantomeno l’intenzione.
Nella figura seguente era disegnata una torre, che non sembrava affatto la mia. Ma forse non era il caso di fare i pignoli.
Anche qui una linea con sporgenze (sempre lei) volteggiava nell’aria. I disegni seguenti erano però ancora più confusi.
- Significa, testone che non sei altro, che starò qui per un po’ e ti cucinerò delle torte. Poi, quando si saranno rassegnati e avranno smesso di cercarmi, me ne andrò verso il mare, dove abita lo zio. Questo è il mare! – concluse soddisfatta indicando una linea ondulata.
 
Annuii. I disegni erano piuttosto brutti, ma il piano non era male, spiegato così. Soprattutto la parte nella cucina.
 
Finalmente impugnò le forbici e iniziò a tagliarmi i capelli.
- Mio zio ha viaggiato per tutta la vita – raccontò Martina sforbiciando  - e adesso ha deciso di stabilirsi in un faro. Scrive a casa ogni mese. Ma solo a me. Alle mie sorelle e a mia madre non scrive mai. Mi racconta dei suoi viaggi, delle avventure che ha vissuto, delle cose meravigliose che ha visto. Mi ha invitata ad andare da lui, un giorno. Ed è esattamente quello che ho intenzione di fare.
Si lamentò della luce, un paio di candele fioche. E dello specchio, troppo piccolo. Per fortuna aveva le sue forbici, altrimenti …
Ci mise un’eternità ma alla fine mi porse lo specchio esultando soddisfatta: - Ecco fatto. Finito. Adesso va molto meglio!
 
Lo specchio era effettivamente piccolo, così non riuscii a vedere bene la mia nuova pettinatura, ma ero certo che se gliel’avessi detto si sarebbe arrabbiata, quindi riprovai con la tattica del sorriso.
 
- Non dovresti sorridere così spesso – commentò - ti fa sembrare sciocco.
Poi mi soppesò con sguardo dubbioso.
- Quando verrò a stare qui ti porterò qualche vestito di mio padre. Dovrò sistemarlo, perché sei troppo alto e grosso per entrarci, ma ce la posso fare. Se riesco ti porto anche un cappello nuovo.
 
- E quando hai intenzione di scappare?
Piegò un angolo della bocca di lato in un ghigno soddisfatto.
-Domani.

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Capitolo 4
*** IL VUOTO (INTERLUDIO) ***


L’uomo che viveva al faro un giorno era tornato da un lungo viaggio. Aveva passato la sua vita in giro per il mondo, pensando fosse la cosa che voleva fare. Scoprire nuovi posti, conoscere persone. Amare, perché no, una donna sempre diversa. Fino a che l’entusiasmo aveva lasciato il posto al vuoto. I luoghi gli sembrarono sempre più simili uno all’altro e anche le persone, affatto diverse. E nulla di ciò che gli accadeva lo sapeva appagare. Era sempre sé stesso, insoddisfatto, inquieto.

Un giorno aveva deciso di tornare e non era più ripartito. Aveva fatto visita alla sorella, conosciuto per la prima volte le nipoti, specialmente quella bambina vivace cui aveva scritto così tante volte dai suoi viaggi senza nemmeno quasi conoscerla, e infine aveva trovato un posto tranquillo dove fermarsi. Scriveva le sue memorie di viaggio, rivedeva i diari. Ma soprattutto faceva esperimenti sui fiori bianchi che aveva trapiantato sul faro – sulla terrazza e anche nella serra – che gli sciamani chiamavano i fiori della notte.
Ma nemmeno al faro era felice. Il senso di vuoto non cessava di consumarlo.

Trovò degli appunti, presi tanto tempo prima quando lo sciamano gli aveva dato i fiori. Li studiò con attenzione e imparò a distillare l’essenza dei fiori. I fiori della notte, forse, avrebbero risolto le lunghe ore di insonnia, durante le quali il vuoto lo divorava come un mostro spaventoso.

La prima volta che bevve l’estratto dormì e non fece sogni.

La seconda notte, invece, sognò. Era un’epoca lontana e lui indugiava sulla soglia di una casa. La figlia del fornaio, Eleonor, era il motivo della sua visita. L’aveva vista alla festa del raccolto, dopo molto tempo che non tornava al villaggio, e qualcosa in lei l’aveva stregato. I capelli colore del miele e gli occhi nocciola si erano impressi nella sua mente come se la conoscesse da sempre. Voleva lei, ne era certo. Entrò in casa e il fornaio discusse con lui i termini del matrimonio. Solo allora Eleonor entrò nella stanza, portando tè speziato e focaccia al burro. Il vuoto che lo divorava era sparito.

Il sogno gli lasciò addosso l’inquietudine di un presentimento, che cacciò man mano che il sole si alzava brillando nel cielo.
Sellò il cavallo e andò in paese. Allo spaccio c’era una nuova commessa, appena arrivata da chissà dove.

- Eleonor … - la riconobbe l’uomo.

La donna aveva i capelli castano scuro, con una folta frangia. Aveva appoggiato la sigaretta sul bancone per sistemare alcune scatole di conserva sullo scaffale.

- Non mi chiamo Eleonor – rispose scrutando l’uomo con interesse.

- Io sono Malera – disse riprendendo la sigaretta e soffiandogli in faccia il fumo.

Il vuoto sparì dal petto dell’uomo, che seppe finalmente cosa stava cercando, dal primo giorno che si era messo in viaggio. E seppe anche che non l’avrebbe mai trovato, se non nel giorno e nell’ora che il destino aveva deciso per lui.
 

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Capitolo 5
*** LO SPAVENTAPASSERI ***


La notte della fuga Martina si arrampicò sulla Torre con un sacco  pieno delle sue cose e una busta di meringhe. Incredibile pensare che sia solo zucchero e poco più. Deve essere quel poco, che fa la differenza. Come le nuvole.
 
- Non si mangiano, le nuvole, sciocco che sei! Anche se conoscendoti non mi stupirei se cercassi di farlo.
 
- Una notte l’ho sognato.
 
- E come erano?
 
- Buonissime. Io ero in cima alla Torre e le nuvole la circondavano. Ce n’era una proprio a portata di mano, bianca come una meringa. Così ci ho infilato una mano e ho scoperto che le nuvole sono così bianche perché sono fatte di zucchero. E dentro sono piene di ghiaccio. Tiravo fuori dalla nuvola strisce di ghiaccio dolce, ghiaccio di zucchero, ghiaccio caramellato. Che bellezza sarebbe, se le nuvole fossero tanto vicine da poterle mangiare.
 
- Come sei ingenuo. Le nuvole non si mangiano, lo sanno tutti. E poi dentro c’è la pioggia ed è evidente che non è un dolce. Bisogna proprio spiegarti tutto.
 
Martina sorrideva indulgente, ma quando vide che non la stavo aiutando a trasportare il sacco il suo sorriso si spense. Rimase impietrita a metà scala e abbandonò il sacco vicino a lei.
Stava già corrugando la fronte con disapprovazione quando capii.
 
- Lo porto io, non ti preoccupare. Anche se non mi sembra troppo pesante.
 
- Non è una questione di peso. Cerca di essere un po’ più gentiluomo.
 
Portai il sacco fino a metà Torre, dove dietro ad un pesante portone d legno c’era la mia casa.
 
- Non è squallida come credevo – commentò guardandosi intorno - anche se sembra più una soffitta che una casa vera e propria. All’ingresso c’era la stanza con il camino, il divano e il tavolo, oltre a una vecchia stufa per cucinare, poi uno sgabuzzino, una stanza in disordine, la mia camera e il bagno.
- Ma io dove starò?
A questo non avevo proprio pensato. Iniziai a grattare il nuovo taglio di capelli sperando che ne fuoriuscisse un’idea.
 
Niente.
 
- C’è il divano. Posso dormire lì finché non te ne vai.
 
Mi squadrò indecisa.
 
- Tu non ci stai, sul divano. Sei troppo alto.
 
Esplorò le altre stanze e tornò a guardarsi intorno.
 
- Si vede che manca un donna, qui. Questo posto ha davvero bisogno di una sistemata! Perché non hai una moglie?
 
- Non piaccio alle donne. Ormai mi sono rassegnato. Forse è perché non sono gentiluomo, come dici tu.
 
- Ma non hai mai avuto una fidanzata?
 
- Sì, una volta ne ho avuta una. Anche se non era una vera fidanzata. Avevo diciotto anni e lavoravo al circo. È stato il padrone, a raccogliermi dalla strada. Sai, avevano bisogno di un clown, ma alla fine si è scoperto che non ero capace, così sono rimasto come aiutante. Facevo un po’ tutto. Più di ogni altra mi piaceva la trapezista. Sembrava un angelo, la sognavo ogni notte. Sognavo che mentre volteggiava nell’aria si trasformava e quando scendeva da lassù era la mia mamma. Naturalmente non so che faccia avesse la mamma, perché sono un trovatello, ma la riconoscevo all’istante, senza bisogno d’altro. I sogni sono così. Ma lei, la trapezista, stava con il padrone del circo. Non mi ha mai degnato di uno sguardo. Solo quando saliva in cielo per il suo numero, mi guardava. Chissà perché. Poi, una volta nell’aria, si dimenticava di me. E io la sognavo così: dall’istante in cui distoglieva gli occhi da me per guardare in alto.
 
- Decisamente non si può definire una fidanzata.
 
- Ma non intendevo lei. Si tratta della moglie del domatore. Era una ragazza molto affascinante. Aveva una certa grinta, per lo meno, anche se era molto giovane, forse più di me. Lei e il marito non andavano d’accordo. Quello precedente era stato sbranato da un leone il giorno dopo le nozze, così lei ha sposato il suo sostituto ma questo non si fidava a entrare nella gabbia con lei e litigavano sempre. Alcune sere si è infilava nella mia tenda e rimaneva fino al mattino dopo. È stato bello, aveva un buon profumo. Ma non so bene cosa significasse, né per lei, né per me.
 
- E poi? -  chiese truce.
 
- E poi un giorno non è più venuta da me. Pare che avesse deciso di iniziare a entrare nella tenda dell’equilibrista. Così, capisci? Di punto in bianco.
 
- E a te non importava?
 
- No, non mi importava. A me importava solo della donna trapezista, che forse era una donna, forse un angelo. Non l’ho ma saputo.
 
- Tutto qui?
 
- Sì, tutto qui. Poi quando sono arrivato in questo paese ho provato a uscire dalla Torre, ma non mi è riuscito molto bene.
 
- Cosa intendi?
 
- I primi tempi uscivo ogni domenica. Andavo a messa, come tutti. Mettevo il vestito buono, il cappello elegante e andavo in chiesa. Non che mi importasse del prete e della predica, però mi trovavo in mezzo alla gente. Allora pensavo potesse farmi bene, invece mi sbagliavo. La gente mi trova ridicolo. Se tu mi avessi visto, mi avresti guardato dall’alto in basso e avresti riso. Lontano dalla Torre mi sentivo indifeso, nella mia giacca di velluto con le toppe sui gomiti, i capelli da selvaggio. Il fatto è che ovunque vada sembro sempre fuori posto. Forestiero: con lo sguardo diverso, il vestito inadatto, la cosa sbagliata detta sempre a sproposito. Non sono riuscito a fare nemmeno il clown. La gente mi trova ridicolo, non divertente.
 
- Ci sarà pur qualche ragazza che può fare per te. Anche se sospetto che il tuo problema sia solo un po’ di timidezza. Ti eri dichiarato alla trapezista? Sapeva che la sognavi? Io lo trovo molto romantico.
 
- No, certo che non lo sapeva. All’inizio anche io speravo esistesse una ragazza adatta a me, ma adesso non ci credo più. Forse, se potessi non scendere dalla Torre. Ma è tanto tempo che non ci penso. Quando lavoravo al circo avevo vinto un anello giocando a carte. Pareva fosse prezioso o qualcosa del genere. Lo volevo dare alla trapezista, ma non ne ho mai avuto il coraggio. Credo di aver scambiato con lei solo poche parole, durate quegli anni.
 
- E che fine ha fatto l’anello?
 
L’ultima volta che avevo visto l’anello era nella tasca della giacca. La giacca di velluto viola, quella con delle buffe toppe sui gomiti, che avevo dato allo spaventapasseri. Ecco dov’era finito!
 
- Andiamo a prenderlo! – esclamò eccitata Martina. Batteva le piccole mani con entusiasmo, voleva averlo a tutti i costi.
 
- Che sciocco che sei! Lasciare un anello prezioso nelle tasche di uno spaventapasseri.
 
Quando si metteva in testa una cosa, non c’era verso di farle cambiare idea.
 
Le spighe di grano sono alte. Più alte di Martina, che deve stringere forte la mia mano per farsi guidare al buio in quella foresta scura, sconosciuta. Io stesso ho coltivato il campo, conosco la strada e il suo unico abitante, l’uomo di paglia. Avrà avuto cura delle sue tasche, che Martina vuole depredare? Spero non gli dispiaccia. La Luna è bella anche da qui, ma meno che dalla Torre. Non saprei, nella discesa perde qualcosa.
- No – sembra dire la Luna - sei tu che perdi qualcosa e vuoi dare la colpa a me.
Che abbia ragione?
L’odore del grano è una poesia. Si è infiltrato furtivo tra le pieghe dei miei vestiti e nei capelli di Martina, scivola fra le sue piccole mani che stanno leggendo il componimento del grano senza che lei se ne accorga.
 
Le mani di Martina sono felici: stringono un anello che adesso è suo.
 
- L’ho trovato e me lo tengo. Se fosse per te sarebbe ancora dimenticato in mezzo a un campo. Sei stato fortunato che non te l’abbiano rubato. Devi avere più cura delle cose che valgono, non va bene così.
 
Se lo infilò al dito soddisfatta e tornammo finalmente sulla Torre.
C’erano le sue cose disseminate ovunque, ma non sembrava avere intenzione di metterle a posto.
Mi raccontò il suo piano per non farsi trovare.
 
- Guarda che non sono una sprovveduta, ho pensato a tutto. Ho pagato una ragazza per mettere i miei vestiti e salire sull’ultima diligenza della sera. Quando domani mattina si accorgeranno che non ci sono più domanderanno in giro e penseranno che sono scappata in città. Ho lasciato anche un biglietto. Non avranno dubbi. E poi, a nessuno verrebbe in mente di venirmi a cercare qui. Perché dovrei essere in un posto del genere? E appena avranno smesso di cercarmi me ne andrò dallo zio al Faro. Ma certo, che ho una mappa! Me l’ha mandata lui, nel caso fossi andata a trovarlo. Adesso sono stanca, andiamo a dormire!
 
- Ti porto delle coperte.
 
- Non hai capito, io dormo nel letto.
 
- Non puoi dormire nel letto. Il divano è troppo corto per me! Non è molto comodo, ma se non ti fermi a lungo andrà bene.
 
Andò in camera e mi ordinò di non entrare finché avesse finito di cambiarsi. Presi delle coperte e mi rassegnai a dormire sul divano, con le gambe che penzolavano fuori.
Aprì la porta, socchiudendola.
- Che fai? Non vieni a dormire?
- Non posso dormire con te.
-Perché?
Ci pensai su. In effetti, non lo sapevo. Come al solito aveva ragione lei. D’altronde che male c’era? Lei si divertiva come se fosse un gioco e io avevo voglia di dormire nel mio letto.
 
Quando mi decisi ad entrare in camera lei era già a letto. Mi fissava e sorrideva in modo strano.
Mi spogliai e mi infilai sotto le coperte vicino a lei, che sospirò: - Allora avevo ragione. Da dove vieni tu non esistono regole. Ti pare il modo, spogliarti davanti a una fanciulla? E dormi così? Con solo quelle mutande addosso? Mio padre e mio fratello dormono con il vestito da notte.
 
- Io dormo così. E ho tenuto quello che ho addosso solo perché ci sei tu. Comunque, se preferisci puoi andare sul divano.
 
Scivolò pentita sotto le coperte. Era la prima volta che non insisteva per avere ragione.
 
Spensi la candela. La sentii muoversi per un po’. Non riusciva a dormire.
Allora mi alzai e andai in cucina a frugare nel suo sacco non ancora disfatto, trovando quello che cercavo. Tornai a letto e mi distesi accanto a lei. Fra noi adagiai il suo orsetto di pezza, che lei abbracciò grata.
 
- Domani però vai sul divano – suggerii paziente.
 
- Non se ne parla neanche – rispose secca, e si addormentò.

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Capitolo 6
*** IL GIOCO ***


Il giorno successivo entrò in cucina mentre pranzavo, stropicciandosi gli occhi con l’orsetto di pezza che  penzolava da una mano. Chiese del latte e si indispettì nell’apprendere che non avrebbe avuto né torta né biscotti.
Si guardò intorno ancora intontita.
L’orologio batté le dodici.
- Ho dormito così tanto? Ma tu a che ora ti alzi?
- Ci sono molte cose da fare, qui. Ho l’orto da coltivare e una mucca per il latte. Ci sono le galline e anche il cavallo. Stamattina ho raccolto la frutta dagli alberi, spaccato un po’ di legna, per le scorte invernali, e sbrigato qualche commissione. D’inverno invece c’è meno da fare. Si può stare nella torre quasi tutto il giorno. Comunque sia, in paese sono tutti in subbuglio. Pare che cerchino una ragazzina scappata di casa …
Si sedette al tavolo con me. Le allungai una focaccia e una zuppa.
- Pare che ci abbiano creduto, alla fuga in città. Sono andati là e ti stanno cercando. Ma adesso mangia. Hai dormito a lungo e devi essere affamata. Se non ti piace la zuppa prendi la mia focaccia. Te l’avevo detto che non so cucinare molto bene.
- Quando posso vedere gli animali? A me piacciono i cavalli. A casa ne avevo uno tutto mio. L’ho chiamato Mud.
-  Oggi se vuoi ti porto a vedere gli animali e l’orto, però bisogna fare attenzione. Qui non viene mai nessuno, ma è meglio essere prudenti.
- Sarebbe fantastico! E dopo pranzo inizierò a sistemare questa casa, e anche i vestiti che ti ho portato. E guarda questo cappello, non è una favola?
Il cilindro più elegante che avessi mai visto.
 
Il gioco di Martina stava iniziando a prendere forma. Solo che la casa non era quella delle bambole, e io non ero della taglia giusta per giocare con lei, ma a lei sembrava non importare. In fondo, non le avevo forse dato l’anello perché il gioco potesse iniziare?
Martina si occupava della casa con dedizione. Puliva, cucinava, rammendava i miei vestiti malandati e in cambio voleva soltanto che le raccontassi qualche storia, la sera.
Le serate di fine estate trascorsero sulla cima della Torre, sotto le stelle. Io seduto sul gradino e lei distesa, con la testa appoggiata sulle mie gambe. Più di una volta l’avevo portata a letto addormentata: sembrava minuscola fra le mie braccia da gigante.
E quando l’estate era finita, tra le foglie e i campi gialli, rossi, spogli, l’autunno ci aveva portato premonizioni di neve. Non sempre arriva, da queste parti. Gli inverni sono miti, non soffriamo mai eccessivamente il freddo. Ma ci sono certe serate davanti al camino in cui sembra quasi sia un inverno del Nord.
L’autunno era scivolato via così veloce che sembrava acqua, come se sgorgasse piena di foglie da una fontana. E poi l’inverno si era conficcato nel terreno addormentato con una certa prepotenza, come raramente accade. Giornate piene di bruma e foschia, pioggia veloce, camino acceso con il buio intorno.
 
In quelle serate, davanti al fuoco, Martina si accoccolava sul divano e mi chiedeva una storia. Ma io non ne conosco.
 
- Fai uno sforzo! Ne conoscerai almeno una. E se non la conosci, inventala. Sempre che tu abbia un briciolo di immaginazione, cosa di cui dubito.
 
- C’era una volta …
 
- Non una favola, sciocco! Non sono una bambina! Voglio una storia.
 
Non me la cavavo male. Riuscivo a inventare ogni sera una storia diversa. Qualcosa lo improvvisavo, ma qualcosa me l’aveva insegnato il circo. Storie di girovaghi, acrobati, trovatelli. Solo quando ho cercato di raccontarle la storia di una trapezista che volteggiava nell’aria come un angelo non ha voluto che la raccontassi.
- Non mi piace questa storia.
- Ma non l’hai ancora sentita.
- Parla di una trapezista, no?
- Sì.
- Allora non la voglio sentire.
- E va bene. Allora ti racconterò di quando l’elefante è fuggito. Anzi, sparito. Una mattina l’addestratore si alza, va a dare da mangiare ai suoi animali e manca un elefante. Li conta due volte, per sicurezza. Ne manca proprio uno!
- Già meglio. Basta che la trapezista non arrivi dopo. Non ne voglio proprio sentire parlare.
- No, niente trapezista. Solo elefanti e domatori. E anche gli abitanti del paese, naturalmente.
- Allora va bene.
 
Poi, a un certo punto, si addormentava. Così dovevo faticare solo per metà: non ho mai saputo come finisse nessuna delle storie che le ho raccontato.
 
A volte avevo paura che si annoiasse, ma lei diceva di no, quando glielo chiedevo.
A me non sembrava molto credibile: un intero inverno con me, lo spaventapasseri, i pochi animali da accudire e storie che finivano sempre a metà prima di addormentarsi. Chissà cosa faceva, quando era a casa sua.
- Mi annoiavo. L’unica cosa che non mi annoiava era suonare il piano. Peccato che non ne hai uno.
 
Poi anche l’inverno è finito. Il nostro inverno da neve, che abbiamo guardato scendere dalla cima della Torre.
- Qui arriva prima che a chiunque altro!
Martina, orgogliosa della nostra altezza di Torre. A me arrivava ancora prima che a lei. Per questo mi ha costretto a sedermi ed è salita sul gradino per essere più alta.
Anche in altezza le doveva essere successo qualcosa: avevo l’impressione che fosse un po’ cresciuta. E poi c’era un certo abito che le stringeva e non poteva più mettere.
- Dovrai mangiare meno dolci?
- Ma no, sciocco! Sto diventando grande. È per questo che certi abiti non mi vanno più. Ho quattordici anni e alla fine della prossima estate saranno quindici.
- A me sembri sempre uguale.
- È perché mi vedi tutti i giorni. Se non mi vedessi da un po’ noteresti la differenza – disse dandosi delle arie.
 
Poi, un giorno all’inizio della primavera, mi è davvero sembrata diversa.  
Stavo lavorando nel campo quando alzai gli occhi dalla terra, verso il grano sottile. Il cappello mi faceva ombra sul viso e fuori dall’ombra il sole giallo illuminava Martina in mezzo alle spighe, che avanzava cantando una filastrocca, facendosi strada sorridente. Mi è sembrata strana, non l’ho nemmeno riconosciuta subito.
Non era più la piccola Martina nascosta nella Torre, ma una ragazza decisa a proseguire la sua fuga verso il mare.
 
Lo sapevo, che prima o poi sarebbe successo. Come avrei potuto trattenerla? Sarebbe presto stata un bel ricordo, che può suggestionarti per un po’ mentre stai seduto sulla cima di una Torre.
Ogni giorno pensavo se ne sarebbe andata, e ogni sera continuava a distendersi nel letto vicino a me, accoccolandosi fra le mie braccia quando aveva freddo.
 
- Me ne andrò il giorno del mio compleanno -  decise infine. E fino a quel giorno non ne parlò più.

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Capitolo 7
*** ADDIO ***


La sera le piaceva moltissimo. A volte mi trascinava sulla cima della Torre a guardare il tramonto e a veder comparire la Luna.
Aveva smesso di rimproverarmi perché mi spogliavo senza aspettare che si voltasse dall’altra parte.
A volte mi osservava sorridendo e mi prendeva in giro. Intanto, però, non smetteva di guardarmi. Quindi penso non le dispiacesse veramente. La mattina la trovavo sempre fra le mie braccia, accoccolata come un gattino. E l’orsetto, offesissimo, sul bordo del letto da solo. Io avevo paura di toccarla, pensavo le dispiacesse, ma lei sembrava felice di sentire le mie braccia intorno a sé . Per lei, era ancora un gioco.
Quando mi svegliavo prima di lei rimanevo per un po’ a guardarla, senza decidermi ad alzarmi. Mi piaceva l’espressione beata del suo viso addormentato, le labbra appena socchiuse e i capelli sparpagliati sul cuscino. A volte se accorgeva e protestava, mentre altre credo continuasse a far finta di dormire, mentre allungavo una mano per accarezzarle i capelli.
 
Una mattina si alzò radiosa, ma poi si rabbuiò.
 
- Lo sai che fra poco è il mio compleanno? Sono stata qui così tanto, ma è ora che me ne vada.
 
Martina preparava la colazione e metteva sempre i fiori sul tavolo. Martina, quando rideva, mi metteva allegria. Martina a volte era anche insopportabile. Mi trascinava sulla cima della Torre a guardare il tramonto, mi dava dei colpetti buffi sulla testa, con affetto e un po’ di stizza, quando dicevo qualche sciocchezza. E quando ero seduto, altrimenti non ci arrivava: io seduto e lei in piedi, eravamo quasi alti uguali. Martina che ha il respiro come quello dell’Orologio e scandisce il mio tempo con la pazienza che ci vuole. Martina, che fra poco se ne dovrà andare.
 
- Non puoi rimanere qui per sempre – constatai.
 
- Sei arrabbiato? Ti dispiace che me ne vada? – incalzò lei.
- No, non sono arrabbiato. Perché dovrei? E non mi dispiace. Finalmente riavrò il mio letto per me, non dovrò guardare il tramonto se non mi va e non dovrò più inventare stupide storie. Se hai bisogno del cavallo, lo puoi prendere. Te lo regalo per il tuo compleanno.
 
Martina annuì. Il cavallo le avrebbe fatto comodo. Disse che prima, però, voleva festeggiare. Poi se ne sarebbe andata.
Aveva preparato una sacca con l’indispensabile, qualche ricambio, del denaro, e i gioielli che aveva sottratto da casa prima di dileguarsi.
 
- Ti scriverò. Poi puoi venirmi a trovare, se vuoi.
Cercava di essere rassicurante, ma io sapevo che se se ne fosse andata non l’avrei più rivista.
- Non credo di volere. E poi non so leggere.
 
Per la sera del suo quindicesimo compleanno aveva organizzato una specie di cena in cima alla Torre, al crepuscolo. Mangiammo mentre il sole tramontava e aveva preteso di bere del vino, che solitamente le proibivo.
- Va bene, ma solo un bicchiere.
Quando afferrava il calice faceva brillare la pietra sull’anello guardandone rapita i riflessi.
 
- Non mi dimenticherò mai di te – disse guardandomi negli occhi improvvisamente seria.
 
Sollevò la manina con il mio anello, che non toglieva mai, e me lo mostrò come un trofeo. Forse aveva bevuto troppo vino, e quando cercò di alzarsi barcollò. La afferrai tenendola salda per i fianchi, perché non cadesse. Si lasciò andare sulle mie ginocchia, sedendosi e avvolgendomi con un braccio.
 
- Ti voglio ringraziare – mi sussurrò all’orecchio.
 
Forse aveva dimenticato che si trattava di un gioco, perché si avvicinò alle mie labbra e mi baciò. Un bacio vero. Non credo le sia piaciuto molto, io fui colto di sorpresa, e lei non sapeva come fare. Ma lei è ostinata: sembrava decisa a riprovare finché non fosse stata davvero soddisfatta del risultato. Disse che era il suo primo bacio, e che voleva continuare finché non fosse uscito bene. Quando si stancava di baciarmi appoggiava la testa sulla mia spalla, e io potevo sentire il suo respiro sul collo. Non è il momento giusto per andarsene, Martina? Prima che le mie mani smettano di stringerti come una bambina capricciosa, accorgendosi del tempo che è passato.
 
Restammo a lungo così, sulla cima della Torre che non avrebbe più rivisto. Era un addio silenzioso, un salutarsi solo con gli occhi, con le sue dita che premevano la mia schiena sotto la maglia, con le sue labbra che confondevano i nostri respiri, prima che quello a tacche dell’Orologio la trascinasse via.
 
È ora.
 

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Capitolo 8
*** IL FARO ***


Era il suo compleanno. Avevamo cenato sulla Torre, per l’ultima volta.
- Ti ricordi - aveva detto - quando sono arrivata qui?
Certo che lo ricordavo, come era sbucata da quella botola. Quanto tempo era passato? Davvero così tanto?
 
 La costrinsi ad allontanarsi. Perché mi aveva dato quel bacio che non volevo, prima di andarsene?
 
- È ora -  le dissi con uno sguardo rapido ai suoi occhi davvero troppo neri.
Mi fissò a lungo, come se volesse dire qualcosa. Come quando, all’inizio, la facevo sempre arrabbiare. Ma non disse nulla e scese a prendere le sue cose.
 
Guardai la Luna. Forse era la notte giusta, per inventare dei bei versi.
- Lascia stare. La ragazzina ha ragione. Non sei portato. E poi, stai iniziando ad annoiarmi – disse la Luna e con uno sbadiglio sparì dietro una nuvola.
 
- E tu, Orologio? Mi sono preso cura delle tue lancette, dei tuoi ingranaggi, per così tanto tempo! Come potresti funzionare senza di me?
- Non essere presuntuoso. Il tempo scorre senza manutenzione. Non è l’Orologio ad avere bisogno di te. Se tu che hai bisogno di lui! Non lo sapevi?
- Ma tu dici che…
- Dong! - fa l’Orologio.
 
Martina è alla porta. Tengo le briglie del cavallo mentre sale.
- Addio, Luppolo! Addio, Martina.
- Grazie di tutto – sussurra salendo sul cavallo - non so come avrei fatto senza di te.
 
Ha un tremito nella voce. Non è come la voce della Luna o dell’Orologio: la sua voce appicca un incendio. Dietro le aperture oblique - davvero, soltanto occhi? - prendono improvvisamente fuoco montagne di carbone. Lei è lì e non sa come salvarsi: va tutto a fuoco.
 
Stringo le briglie, guardo l’incendio divampare, portarsela via. Per la prima volta nella mia vita, so cosa devo dire.
- Un gentiluomo non permetterebbe mai ad una fanciulla di andare in giro da sola di notte.
 
L’incendio sembra domato, lei sorride, la Luna esce dalla nuvola non più indispettita.
Io e Martina ce ne andremo insieme.
 
Che stia diventando davvero poeta? Poeta non so, gentiluomo forse.
 
Conservo ricordi confusi del viaggio verso il Faro, come se fosse lontano secoli. Camminavamo tutto il giorno, il cavallo al passo per non stancarlo troppo.  La sera ci rifugiavamo in una locanda per viandanti, come una coppia di sposi in viaggio.
Io non c’entro, lo giuro. L’idea è stata tutta sua.
 
- È più convincente. Perché mai altrimenti dovremmo viaggiare insieme? Che siamo parenti non lo crederebbe nessuno: sei troppo alto e non mi somigli nemmeno un po’. Non sei nemmeno tanto sveglio. Insomma, non abbiamo proprio niente in comune. Al massimo, si chiederanno perché mai ti ho sposato. Tanto abbiamo sempre dormito insieme, possiamo farlo ancora, che problema c’è?
 
Così abbiamo viaggiato per oltre un mese come una coppia di sposi, talvolta esausti. In certi grovigli fitti dei boschi o radure sconfinate il sospetto di avere sbagliato strada era quanto mai presente.
Io, naturalmente, avevo paura. Me ne ero andato dalla Torre e adesso mi trovavo in balia di una serie di forze ostili. Lo capivo da come mi guardavano i locandieri e le loro mogli.
- Povera bambina!-  Avranno pensato. Anche perché a Martina i giochi piacciono da morire. E così si divertiva a vezzeggiarmi e prendermi sotto braccio per mettermi in imbarazzo. Avevamo un’aria riprovevole: lo dimostra il fatto che l’unica cosa che ricordo con lucidità del viaggio è lo sguardo delle locandiere. Talmente simile che avrebbe potuto trattarsi di un’unica sola, enorme locandiera presente in ogni posto. Scuote la testa, mi fissa contrariata e guarda poi Martina con infinita pietà.
Intanto, Martina si diverte un mondo.
 
A me non resta che sospirare e stare al gioco: mi faccio prendere sotto braccio e condurre in camera, dove lei si getta sul letto ridendo. È così stanca che si addormenta lì dove è, vestita. Le sfilo l’abito e la metto a letto. Pensavo si sarebbe accorta, pensavo che svegliandosi avrebbe protestato. Invece si è lasciata sfilare gli abiti con un sorriso sulle labbra, mentre io ho tempo di guardarla, e anche di pentirmene un poco.
 
Non è ancora adulta, ma non è più la bimba di un anno prima. Una via di mezzo, ecco, niente più. Una via di mezzo che, appena mi metto a letto vicino a lei, si adagia sul mio corpo in subbuglio e si addormenta finalmente serena, come se fossi io il suo punto di arrivo e potesse finalmente abbandonarsi alla stanchezza e al riposo.
 
Finalmente, un giorno, Martina arricciò il naso e decise che si sentiva il profumo del mare. Eravamo vicini. A me sembrava più puzza, che altro. E anche la sabbia non mi piacque molto, ci si sprofondavo dentro.
 
Il faro, dal lontano, sembrava un miraggio. Avremmo potuto entrarci, noi in carne e ossa, senza doverci diluire come certe immagini di barche sfuocate all’orizzonte? Da vicino, poi, non faceva un effetto più concreto: un’altezza circolare di vetri e scale, con una porta piccola piccola persino aperta. Che lo zio aspettasse qualcuno?
 
Ormai avevo imparato come non fare arrabbiare Martina, almeno in certe circostanze: mi arrampicai per la scala ripida al suo seguito portando tutti i bagagli. Dello zio, fino alla grande terrazza quasi in cima al Faro, nessuna traccia.
 
Poi, all’improvviso, ecco lì, in mezzo a un tappeto di fiori bianchi con l’annaffiatoio in mano. Vicino a lui ci salutò con un cenno della mano in cui teneva una sigaretta accesa (nell’altra anche lei l’annaffiatoio), per nulla stupita di vederci, una donna dai capelli scuri e una folta frangia sugli occhi.
 
Lo zio promise a Martina che non avrebbe scritto a casa per avvisare della sua presenza ma la convinse a mandare una lettera nella quale diceva di stare bene. Riguardo la sua fuga da casa si rivelò piuttosto comprensivo. Riguardo a me, molto meno. Prima di tutto ci sistemò in camere separate e come se non bastasse mi guardava sempre con aria dubbiosa.
- Possibile? Bofonchiava tra sé e sé.
- Eppure …
 
Un giorno mi prese in disparte, confidandomi le sue preoccupazioni: - Vedete, Viktor, Martina è ancora molto giovane, non è il momento di compiere scelte affrettate. Su questo concorderete con me, non è così? E poi, è molto graziosa e non priva di sostanze, potrebbe aspirare a un buon matrimonio, più avanti. Naturalmente, se non risultasse compromessa … insomma, a quanto pare condividete una certa intimità. Lo stesso letto, o sbaglio? Se così fosse …
Iniziai lentamente a capire di cosa stesse parlando.
Scossi la testa.
- Non l’ho mai toccata.
Tutto sommato ero un gentiluomo anche prima, anche se Martina ride e dice che rimango comunque un selvaggio.
 
- Benissimo – si rallegrò lo zio - ma non si limita a quello, la questione. Come potrà trovare un pretendente se si venisse a sapere che vive con un uomo?
 
Non mi piace essere perspicace.
 
Lo zio di Martina vuole che me ne vada: non possiamo vivere nel Faro insieme.
 
Comprometterei la sua reputazione e visto che ho avuto il buon senso di non abusare del suo affetto in altri termini, lo zio era certo che avrei assecondato i suoi desideri. Per il bene di Martina, naturalmente.
 
E altrettanto naturalmente, Martina andò su tutte le furie. Passeggiavamo sulla spiaggia e io cercavo di farle capire la situazione senza farla arrabbiare. Lei raccoglieva conchiglie e l’impresa era impossibile. Per fortuna, questa volta non era arrabbiata solo con me.
- È pazzesco. E tu cosa gli hai detto? No, no, non dirmi nulla. Conoscendoti, caprone come sei, gli avrai pure dato ragione. Ma certo, signor zio, me ne vado, come no!
 
- Ma lui dice che in questo paese è impossibile vivere così. È un posto piccolo, la gente non accetta certe cose. E tu non potresti fare un buon matrimonio, se io rimango nel Faro. Capisci?
 
Non l’avevo mai vista così arrabbiata, davvero. Lanciava con furia le conchiglie nell’acqua, squarciandola con rabbia.
 
- Io capisco, sei tu quello che non capisce. Ma hai davvero lasciato la tua Torre per portarmi qui a sposare un altro? Non sei mai stato tanto sveglio, lo so, ma questa volta cerca di fare uno sforzo! La soluzione del problema è davvero semplice. Premessa: non possiamo vivere insieme nel Faro se non siamo sposati. Qual è la conclusione?
 
La conclusione era chiara: dovevo andarmene di lì.
 
- Sei proprio impossibile! Tu, ottuso che non sei altro, vuoi deciderti una buona volta a chiedermi di sposarti? E sbrigati, perché in caso contrario potrei anche cambiare idea!
 
Come ogni volta in cui mi sentivo confuso e lei si arrabbiava, decisi di assecondarla.
 
- Vuoi sposarmi?
 
- Certo che voglio sposarti.
 
Problema risolto. In fondo, non sono poi così testone.

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Capitolo 9
*** IL MATRIMONIO ***


Lo zio prese la notizia del matrimonio nel peggiore dei modi.
 
Allora Martina decise che la situazione doveva essere risolta da qualcuno competente. Da qualcuno che sapesse fare un discorso serio, da adulto. E andò a parlare con suo lui.
 
Da quel che percepii mentre cercavo di origliare, Martina ammetteva ogni accusa: avevo molti anni più di lei - e non è che mi presentassi molto bene - non ero un gran conversatore e non ero istruito, non avevo denaro e oltre a tutto ciò c’era qualcosa di vago in me, che mi rendeva poco convincente.
Così ci pensò Martina. La conclusione del discorso era che lei mi avrebbe sposato, adeguato o meno che fossi. E se non avesse accettato la cosa ce ne saremmo andati da qualche altra parte. Era scappata una volta e poteva farlo di nuovo.
 
Perché si ostinava a voler essere mia moglie? Ovviamente lo zio chiese anche questo, ma non riuscii a sentire la risposta, da dietro la porta che li isolava - loro, non me - dal rumore delle onde.
Doveva essere stata convincente o forse no. Forse si era solo impuntata e lo zio non sapeva come farla desistere, fatto sta che aveva già fissato la data delle nozze di lì a un mese.
 
Non c’è bisogno di dire quanto stava bene Martina nel suo abitino da sposa. Bianco bianco, con un velo lunghissimo. Aveva voluto un bouquet di piccoli girasoli, anche se ogni fanciulla del paese aveva cercato di dissuaderla. Erano terribilmente demodé. A me piacevano, mi ricordavano il nostro amico spaventapasseri, che non avevamo nemmeno avuto il tempo di salutare.
 
Mentre il prete parlava io mi distraevo a guardarla.
- Allora? Non rispondi? Ti sta facendo una domanda: non startene lì imbambolato a guardarmi, o non finiamo più!
Ah, già.
- Sì, lo voglio.
Malera, che non è più giovanissima, indossa un abito stretto e un trucco pesante e, per calmare l’emozione, cerca di accendersi una sigaretta proprio vicino al prete, nella postazione dei testimoni. Il prete fa segno di no, ma un attimo dopo Malera è avvolta in una nube di fumo e si mette a piangere, e piange anche lo zio.
 
 Posso baciare la sposa.
 
La festa fu allegra, e Martina esagerò un po’ con il vino. Quando la portai in camera rideva e si accasciò sul letto. Da quando siamo arrivati al Faro, un mese fa, non abbiamo più dormito insieme. Ma lei non vuole dormire: è emozionata, sono le sue nozze in fondo, no?
 
- Anche le mie - puntualizzo.
- Questo non c’entra.
- E adesso? - mi chiede.
- Adesso andiamo a dormire. Sarai stanca, immagino.
- Scordatelo.
- Che vuoi fare, allora?
- Non lo so. Non dovresti essere tu, a saperlo?
- Io so solo che hai quindici anni, che hai bevuto troppo e che adesso è ora di andare a dormire.
 
Neanche per sogno. Mi tiene sveglio tutta la notte. È bello, stare sveglio con Martina, anche se alla lunga è un tantino snervante. Lei insiste, io mi ostino.
 
- Non lo sai, che un matrimonio non consumato non è valido? – protesta tenendomi il broncio.
- Allora diventerà valido più avanti. Intanto, non lo saprà nessuno.
- E cosa vuoi aspettare?
- Che tu sia un po’ più grande.
- Ma io lo sono già.»
- No, non è vero. Non lo sei.
- E quando lo sarò?
- Ne riparleremo al tuo prossimo compleanno.
- Ma è un’infinità di tempo! Mancano ancora dieci mesi. Non possiamo aspettare così tanto!
- Se posso farlo io puoi aspettare anche tu.
 
Gettò stizzita l’abito sul pavimento e pensai per un attimo di cambiare idea. Ma poi fui irremovibile.
 Quanto al fatto che nessuno se ne sarebbe accorto, mi sbagliavo.
 
La mattina successiva, al tavolo della colazione, lo zio la scrutò a lungo per capire cosa fosse successo e non so come - doveva avere un certo intuito per ciò che riguardava la nipote - capì che le cose erano andate in un certo modo. Mi avrebbe disprezzato?
Si alzò dalla sedia, aggirando il tavolo e dirigendosi verso di me. Mi scrutò apertamente in viso. Cercava qualcosa in fondo ai miei occhi. Ma i miei occhi sono bottoni, non miniere, non ci si cava nulla. Poi mi diede una pacca sulla spalla.
- Tutto sommato, siete un brav’uomo. Chi l’avrebbe mai immaginato?
E se ne andò a sbrigare le sue faccende.
Questa è l’unica cosa gentile che mi abbia mai detto, quindi mi toccò apprezzarla molto.
 
Per il resto, Martina trascorse i successivi dieci mesi con l’unico chiaro scopo di tormentarmi.
 
Quando il momento arrivò, mi felicitai con me stesso. La determinazione - la prima volta in vita mia che ne ho avuto un briciolo - di mantenere il mio proposito diede i suoi frutti: quando compì sedici anni non mi guardò affatto di sbieco. Aveva talmente desiderato che arrivasse quel giorno che le sembrò persino bello.
 
- Gli ultimi due compleanni sono stati decisamente i più belli della mia vita. Non è giusto che tu non ne abbia uno. Perché non scegliamo un giorno per festeggiare il tuo compleanno?
- Un giorno a caso?
- No, non un giorno a caso. Un giorno che abbia qualche significato. Il giorno che ci siamo conosciuti, per esempio.
Io, naturalmente, non ricordavo che giorno fosse.
- Lo immaginavo - sospirò lei, che lo ricordava perfettamente e mi mise il broncio di nuovo.
- E adesso, cosa stai facendo? – mi chiese stupita.
- Mi vesto.
- Non se ne parla neanche.
 
 
A Martina avevano iniziato a piacere i miei capelli un po’ lunghi. Le piaceva che non portassi i baffi e la barba. Le piacevano le mie braccia, che accarezzava con trasporto quando ero sopra di lei, con i muscoli in tensione. Non avrei potuto adagiarmi: era troppo minuta per sostenere il mio peso. Le piaceva stare seduti insieme sulla riva del mare, anche se non era proprio bello come sulla Torre. Mi diceva sempre che avevamo fatto bene, a trasferirci al Faro. E poi le piacevano tanto i fiori bianchi che lo zio curava sulla grande terrazza e che la aiutavo qualche volta ad annaffiare. I loro petali erano l’unica neve che avremmo mai potuto vedere da queste parti.

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Capitolo 10
*** INSONNIA ***


Per il suo sedicesimo compleanno avevo regalato a Martina un pianoforte. Riuscii a introdurlo nel Faro senza che se ne accorgesse e glielo feci trovare avvolto in un elegante panno lilla con un grande fiocco sopra.
Il piano piacque anche a Malera, tanto che chiese a Martina di insegnarle a suonare. Così una volta a settimana si impegnava a leggere gli spartiti che le avevo procurato - senza grandi risultati - e a strimpellare qualche nota sullo strumento, che Martina invece suonava magnificamente.
 
Tra un brano e l’altro, poi, accendeva una sigaretta e si lagnava. Possibile che non si potesse suonare con una mano sola? Come avrebbe fatto a fumare durante l’esecuzione dei brani? Martina rideva e mi invitava a sentire i suoi progressi. Inesistenti, è chiaro. Però le faceva così piacere che non avevo il coraggio di rifiutare.
 
Un giorno, durante una lezione, Martina fece un lungo respiro, si sedette sul vecchio dondolo dello zio e mi ordinò di sedere vicino a lei.
 
- Devo dirti una cosa.
Le sue miniere di carbone fissarono i miei occhi bottoni. Socchiuse le labbra, le richiuse. Si dondolò un po’, carezzandosi la pancia con entrambe le manine, e i suoi occhi divennero asole.
- Avremo un bambino.
Rimasi muto per un bel po’.
- Non sei contento? E naturalmente il nome lo sceglierò io, altrimenti, povero piccolo, chissà cosa gli affibbieresti.
 
L’abbracciai e la tenni stretta a lungo, chiedendomi come si potesse sentire il Piccolo in quella pancia da ragazzina poco spaziosa e che nome avrebbe scelto per lui. Vedere la sua pancia piccolina che cresceva mi fece una certa impressione: mi ero chiesto talvolta quando avrebbe smesso di essere una bimba. Quel momento era arrivato.
Il Piccolo sembrava essere agitato, e non la faceva dormire bene. Per questo le venne in mente che lo zio usava i fiori bianchi per dormire. E il libro che ci aveva lasciato, lo Studio sul Sonno.
Nel libro lo zio diceva di averli importati da uno dei suoi viaggi in Australia.
 
Martina li provò e ne fu soddisfatta.
- Visto che avevo ragione? Questa notte ho dormito magnificamente! Anche se è stato un sonno strano. Mi sentivo come in una stanza buia in cui l’aria mi premeva addosso. Ero disagio ma ho continuato a dormire. E non ho sognato niente. Strano, non trovi? Io sogno sempre. Comunque sia, oggi mi sento riposata.
 
Dopo una settimana di sonno profondo - non buono, soltanto profondo - iniziarono i sogni inquieti. Il suo sonno era come una diga rotta per metà: attraverso le crepe della barricata la sua coscienza liquida si schiantava contro la parete, nell’impeto. Poi iniziava a defluire a strattoni e alcuni brandelli passavano dall’altra parte. Lei, così sfilacciata, che non sapeva rimanere dalla parte arginata, scivolava dentro il sogno.
Si era svegliata ansimando, una notte, piena di terrore.
 
Ecco il primo sogno: c’era una donna in una camera, stava per partorire. La donna non le somigliava per niente, non era di certo lei. Eppure, la sognatrice, o ameno la proprietaria della coscienza che sognava, sapeva che esisteva tra loro un’identità. Dunque Martina sapeva di essere la donna del sogno, ma la donna del sogno non sapeva di essere Martina. Doveva essere un tempo lontano, passato: le persone indossavano strani abiti e parlavano in modo altrettanto strano. Martina partoriva con dolore, dopodiché stringeva fra le braccia il bambino. Ma non un bambino qualsiasi: il piccolo ero io.
 
Il secondo sogno arrivò dopo pochi giorni: Martina abitava in una casa luminosa, con un marito e tanti bambini. No, il marito non ero io. Anche questo sembrava lontano nel tempo. Martina abitava una casa spaziosa con il marito premuroso e i bambini, ma non era felice. Si sentiva in colpa, per questo. Che altro poteva desiderare? Purtroppo, lo sapeva fin troppo bene: era arrivato da poco un nuovo bracciante, uno alto con la pelle abbronzata e l’aria distratta. Martina, da quando era arrivato quell’uomo, non trovava pace. Come la volta precedente, la sua coscienza sapeva: si tratta di Viktor. Ma la donna del sogno no. La donna del sogno era smarrita e confusa. La donna del sogno voleva bene al marito e ai figli ma sapeva che non avrebbe potuto resistere a lui.  Soffriva, le mancavano i suoi bambini. Anche al marito voleva bene. Ma non aveva potuto opporsi all’istinto che l’aveva spinta, una mattina assolata, a salire con lui sul veloce cavallo e non tornare più.
 
- Dovresti scrivere anche tu un libro, sui tuoi sogni - aveva commentato Malera. Ma Martina aveva in qualche modo perso il suo sorriso spensierato.
 
Terzo sogno: Martina scivolava fuori dal letto, dal letto buio nella stanza buia ed esce dalla stanza. Martina è una ragazza adolescente, non sa come si chiama, ma sa di essere e non essere lei. L’attrice del sogno ignora Martina. «Non sei me!» e si infila nel letto del fratello più grande, piena di desiderio. Desiderio di essere abbracciata, di non essere sola. Desiderio di essere un’altra, di essere amante, non sorella. Non lei. Se fosse Martina abbraccerebbe il fratello chiamandolo Viktor. Invece lo abbraccia e non dice niente.
 
Quando Martina si sveglia, felice che Viktor sia soltanto Viktor e lei solo Martina, inizia a chiedersi perché.
 
Perché esiste un sempre, le dico prima di dormire. Questa è una ovvietà. E se esiste un sempre deve esistere un dove. Un dove nel quale le cose prendono forma, altrimenti che dove sarebbe? Ma non solo: nel quando e nel dove le cose non avrebbero forma, se non ci fosse una volontà, che di conseguenza è bella e necessaria. Lei ha dato forma a noi, noi siamo il suo seguito e dobbiamo seguitare insieme.
 
Ecco, Martina. Noi siamo quella volontà, deve essere così. Ma adesso una volontà inesauribile stringe la materia a sé e dà forma. E siccome la nostra volontà è una volontà gialla, un tantino luminosa, friabile, salata come il sale sotto le tue miniere di carbone, allora siamo arrivati sulla cima della Torre e da lì fino al Faro, per essere stelle marine avvinghiate l’una all’altra.
Stelle marine.
Non chiedermi del dopo, Martina. Lì non ci sono più né come, né perché.

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Capitolo 11
*** SOGNI ***


Altri sogni.
Martina va in chiesa. Tutte le domeniche. Nel primo banco prega con ardore. Prega il buon Dio e la misericordiosa Madre, prega Gesù e i Santi. Martina non è Martina, come negli altri sogni, e di conseguenza non prega per sé, ma per quell’altra. Quell’altra che nel sogno ha avuto l’indecenza di prendere il suo posto. Quell’altra che mi riconosce senza saperlo e che ama di un amore folle e impossibile l’uomo di Dio dietro l’altare.
 
Martina è una donna felice, con una casa felice e una vita felice. Martina prova un affetto sincero per suo padre, che è la persona più importante al mondo per lei. Gli sta sempre vicino. Quando lui invecchia, lei lo accudisce fino alla fine dei suoi giorni e piange, piange l’amato padre.
 
Martina è rimasta sola. Nessuno l’avrebbe detto: una bellezza così... Vive con la sorella sposata, in casa con la sua famiglia e fa da precettrice ai figli che non ha avuto. È la zia preferita, s’intende. Soprattutto del pargoletto biondo che vuole sempre salire sulle sue ginocchia e farsi accarezzare. Zia, zia! Come le vuole bene. Un affetto di nipote, s’intende.
Pensa la zia Martina, giovane e bella. Possibile che non c’è nessuno al mondo cui riesca a volere bene più di così?
 
Decise di farmi provare il rimedio per il sonno, e di annotare anche i miei sogni su un piccolo taccuino. Diventava sempre più inquieta: erano gli stessi sogni che aveva fatto lei, solo da un altro punta di vista. Così decise di trovare la parte mancante del manoscritto.
 
 

 
 
Frugò ovunque, fino a che Malera ci disse di sapere dove si trovava.  L’aveva salvato una volta dalla furia distruttiva dello zio in uno dei sui attacchi di panico.
 
Messo insieme il manoscritto, Martina lo lesse.
Lo zio diceva di avere ricevuto questi fiori da uno sciamano che ne ricavava un estratto in grado di avvicinarti alla tua stessa essenza. Lo zio l’aveva provato e usato per dormire per un certo tempo, poi aveva iniziato  fare strani sogni.
 
No, non strani. Inquietanti, ecco. Sognava sempre la stessa donna, in continuazione. No, diceva a un certo punto, non la stessa donna. Molte donne diverse, che lui sapeva essere la stessa donna. Chi fosse, nessuna idea. Poi aveva incontrato Malera e l’aveva riconosciuta. Era lei la donna vapore, che prendeva forma sogno dopo sogno. A quel punto vuole scoprire dove sarebbe arrivato, se ci fosse una conclusione alle trasformazioni dello spirito di Malera. Poi seguono pagine confuse, lo zio sembra fuori di sé. Dice di non voler più prendere il fiore, poi invece continua. A un certo punto dice di avere visto il futuro e che Malera c’è ancora ma ha altre forme, altri significati.
Lo zio sta crollando, le visioni notturne lo terrorizzano. Qual è il fondo del vortice?
La nostra anima non è destinata al Paradiso. E all’inferno, nemmeno. Prima ci sono altri passaggi e poi non si sa.
 
- Passaggi? – avevo chiesto dubbioso - Non capisco, cosa intendi dire?
 
Per me era davvero troppo.
 
- Altre vite, Viktor. Lo zio dice che, dopo ogni vita, ce n’è un’altra, in cui cambiamo forma, assumiamo un altro corpo, avremo un’altra storia. Il fiore è in grado di riportare alla memoria i ricordi dell’anima trasmigrata. E il filo conduttore di tutte le nostre vite è un’altra persona. Una sola, che cambia e assume forme diverse.
 
- E come si fa a riconoscerla?
 
- Non si può, a meno che non si abbia il fiore. Dice che esiste un punto di arrivo ma per arrivarci bisogna vivere. Più e più volte. Il punto di arrivo, scrive lo zio, è la realizzazione perfetta. Questa realizzazione significa aver vissuto in tutti i modi, avere amato il nostro Koibito –la persona destinata - in tutti i modi possibili. È una sorta di guida, senza la quale nell’immensità del tempo saremmo smarriti. È quella che fa del nostro vivere un percorso e non una camminata nel deserto.
 
Martina continuò leggendo una pagina del manoscritto:
 
-  se non l’abbiamo amato in tutti i modi, come padre, fratello, amante, marito, nipote, zio, amico, in salute e in malattia, in buona e in cattiva sorte (ma la morte non ci separa del tutto), in ogni forma di amore possibile, come potremo realizzare l’amore completo? Lo scopo di tutte le vite è portare a termine il percorso, raggiungere l’amore perfetto, e l’amore perfetto si realizza solo dopo che abbiamo saputo amare il Koibito di tutti gli amori possibili.
 
- Lo zio-  continuò Martina - spiega poi alcuni fenomeni, alla luce della sua scoperta. Noi siamo sempre stati abituati a considerare certi tipi di rapporti legittimi e giusti, altri no. Per esempio, consideriamo innaturale che fratello e sorella si amino, che vogliano stare insieme come una coppia di innamorati. Eppure esistono casi di amore di questo genere. Si tratta di persone... Come le chiama lo zio? Illuminate, ecco. Si tratta di persone che hanno una coscienza sommersa più forte, che percepiscono la verità, al di là delle apparenze della vita contingente, con più nitore. Persone che hanno in qualche modo riconosciuto il Koibito e che si trovano nella condizione di non poterlo amare come vorrebbero. Sentono il biasimo delle persone che li circondano, dell’epoca, della società in cui devono vivere, ma il legame con l’anima originale, quella che ha vissuto già molto e che loro soltanto riconoscono, è troppo forte. Per questo accadono alcuni amori che sembrano uno sbaglio totale, un orrore, un accidente forse evitabile, di sicuro senza senso. Perché la loro ragione è più profonda, meno visibile.
 
- E lo zio aveva visto il futuro? Sapeva dove e quando sarebbe rinato, in che forma, e come sarebbe arrivata Malera di nuovo?
 
- Sì, lo sapeva. Dice di averlo visto ma non scrive nulla a riguardo. È comprensibile, che gli sia parsa un’enormità, mettersi a scrivere una cosa del genere. L’ha tenuta per sé. E Malera non sa nulla, a quanto pare, né dello Studio né di quello che è successo allo zio.
- Tu credi che dovremo dirglielo?
- No, io credo di no.
- E cosa ne facciamo, del fiore?

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Capitolo 12
*** KOIBITO ***


Martina era dell’idea che fosse necessario distruggere il fiore. Io ero d’accordo con lei, ma non mi era sembrata davvero convinta. C’era qualcosa che la tratteneva, che le impediva di desiderare veramente la sua estinzione. Tutto sommato, il fiore era una possibilità. Forse giusta, forse no. Ma distruggerlo significava privarsene completamente, una volta per tutte: nessun ripensamento.
 
Voi cosa fareste, di fronte alla possibilità di sapere come sono state le vostre vite passate e, soprattutto, come saranno quelle future? Io non ho dubbi: rinuncio. A cosa mai potrebbe servire? Quando rinascerò, non ricorderò nulla di oggi, di adesso. Nemmeno di aver sbirciato avanti. L’unica vita su cui avrebbe effetto è questa e non è detto che sarebbe un effetto positivo. Se sarò felice, gioirò. Ma se sarò infelice, non voglio guastarmi questi giorni presenti per colpa di un fantasma futuro.
Temevo che Martina la pensasse allo stesso modo ma non sapesse resistere alla tentazione.
 
- Questa storia del fiore è assolutamente pazzesca. Assurda, inverosimile. Tu credi che sia tutto vero? E se lo zio avesse inventato ogni cosa? Se fosse uno scherzo di cattivo gusto? - aveva chiesto dubbiosa, davanti alla terrazza di fiori che avevamo di fronte a noi e che non sarebbero sopravvissuti ancora a lungo, per lo meno nelle nostre intenzioni.
 
- Se così fosse, come spieghi i nostri sogni?
 
- Non lo so. Potrebbero esserci molte spiegazioni, non necessariamente deve essere come scrive lo zio. Solo che non siamo in grado di trovarla. Potrebbe avere inventato tutto, no?
 
- Sì, potrebbe. Potrebbe essere tutta un’invenzione. Un fiore allucinogeno, niente più.
 
- No, niente più.
 
- Ma anche se fosse, dobbiamo disfarcene. Non possiamo tenerlo qui. Non credi?
- Sì, hai ragione. Lo distruggeremo. E se lo zio invece non avesse inventato nulla? Se fosse tutto vero?
 
- Se fosse tutto vero, sarebbe una ben strana cosa. Strana davvero. Rinascere? Cosa vuol dire? Insomma, chi ti dice che saresti proprio tu? Non mi convince.
 
- Lo sai e basta, no? Che domande! Come se ci fosse un modo per stabilire se una persona è proprio lei. Allora, come fai a sapere che sarai proprio tu, a svegliarti domani nel letto dove ti sei addormentato?
 
C’era qualcosa che non mi convinceva, ma non sapevo cosa. Pensare mi stancava: arrivavo a un certo punto, seguendo il filo, dove questo si attorcigliava e diventava una matassa indistricabile. Per questo pensare non era la cosa che mi riuscisse meglio: quando arrivavo alla matassa, per quanto provassi a sbrogliarla, non c’era niente da fare. E così io, alto quasi due metri, mi fermavo davanti a un gomitolo che mi era impossibile sciogliere, piccolo o grande che fosse, e mi toccava fermarmi o tornare indietro.
 
- Hai ragione -  ammisi.
 
- Come sempre.
 
- Come sempre. Stavo solo pensando a questo. Tu sai cosa significhi la parola infinito e anche la parola eterno, giusto? Però quando provi a immaginarlo, a capire pienamente, come è fatto questo infinito, non ci riesci. L’universo è infinito? Cosa vuol dire? Un vuoto che non finisce mai? Un pieno che non finisce mai? E mai cosa vuol dire? La verità è che il tempo non esiste, e forse lo spazio nemmeno. Può esserci un istante in cui tutto è iniziato? Ma se è un istante, c’è un prima. Quindi prima c’era il tempo. E anche prima del prima, all’infinito. Ma cosa sia l’infinito, non riusciamo a capirlo. E l’eternità nemmeno. Se vogliamo essere logici, è tutto un tremendo controsenso.
 
- Mi gira la testa! Che cose assurde dici!
 
- Perché la nostra testa è troppo piccola, per contenere tutte queste cose. Oltre il nostro limite c’è la verità. E forse, oltre quel limite, nemmeno più l’idea di verità ha senso. Perché sarebbe tutto e niente contemporaneamente. Che dici? È assurdo? Già, deve essere così. Tutto terribilmente assurdo. Ma non ci pensare. Adesso siamo qui. Abbiamo il faro, il mare. Non preoccupiamoci di quello che sarà. Essere qui e ora, questo è il segreto di tutto. Per lo meno, è tutto ciò che abbiamo.
 
- Tutto ciò che abbiamo – confermò pensosa Martina, cullando il Piccolo che era diventato Sebastian.
 
E poi distruggemmo il fiore bianco.
 
Io credo però che Martina ne abbia messo in salvo uno e che abbia continuato a guardare. A guardare avanti. Non so se l’abbia resa felice, ma non credo: gli spettri futuri hanno un non so che di cartilaginoso che è difficile da dissolvere come se fosse puro spirito. È più facile credere alla loro esistenza e sono più difficili da cacciare.

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Capitolo 13
*** IL CREPUSCOLO NEL FARO ***


È l’imbrunire. Qui nel faro il tramonto ha da qualche tempo qualcosa di malinconico. Per via del mare di fronte a noi o del tempo che ci siamo lasciati alle spalle.
Martina, ormai, al tramonto è sempre triste. Come le piaceva una volta, il Tramonto! Ora invece si siede vicino alla finestra e guarda fuori. Se le parlo non mi sente o finge di non sentirmi. Poi mi chiede di avvicinarmi e mi stringe la mano.
 
- Ti ricordi, Viktor, il libro dello zio? - chiede.
 
- Certo che lo ricordo.
 
- Tu credi che avesse ragione? Che non fosse impazzito? Intendo dire, riguardo a quello che ci succede dopo che siamo morti. Credi davvero che l’anima sia immortale e che saremo in grado di rinascere e riconoscerci sempre, in ogni vita?
 
Era sempre stata così, non aveva mai imparato. Per essere felici, bisogna solo prendere l’abitudine di non farsi domande che saranno sempre senza risposta.
 
- Io credo di sì. Voglio dire, perché dovrebbe mentire? - la rassicurai.
 
- Non saprei. Perché gli faceva comodo. Perché la gente inventa storie per non avere paura. Perché era pazzo. Per un sacco di buone ragioni.
 
- Ma i sogni? Come te li spieghi?
 
Martina non voleva invecchiare. Martina voleva rimanere sempre bella, come quando ci siamo conosciuti. No, forse un po’ dopo, quando era un po’ meno bambina.
 
- Diventerò brutta -  dice.
 
Secondo me sarà sempre bellissima: è la mia Martina.
 
Ma lei non si accontenta dei come. Vuole i perché.
- Anche se si rinascesse, se tu non ricordi nulla della tua vita passata, è come se non fossi davvero tu. Non lo so, non mi convince. Non mi piace l’idea che quando ti ritroverò non ricorderò nulla di questo. E chissà di quante altre vite prima. Eppure chissà quante cose ti sono capitate da piccolo che tu non ricordi. E nonostante questo non puoi dire di non essere tu. Ma se dovessimo rinascere, mi ameresti ancora?
 
- Non è una domanda a cui si può rispondere. Come faccio a sapere cosa farei se rinascessi e non mi ricordassi niente di me? Sarei un’altra persona e non posso garantire per quello che farebbe un’altra persona.
 
- Invece saresti tu. Tu, tu, sempre tu. Eri tu, in tutti quei sogni, in tutte le vite che abbiamo già vissuto. Ti ho sempre riconosciuto. Dimmelo! Se ci trovassimo in una situazione difficile, se tu fossi di un’altra o se le circostanze ci volessero separati, fuggiresti con me? Non mi abbandoneresti?
 
- No, come potrei?
 
- Mi vorresti anche se fossi brutta?
 
- Beh, brutta non so … - dico ridendo e attirandola a me.
 
- Non scherzare!
 
- Non capisco dove vuoi arrivare. Erano solo sogni che ti hanno impressionata. E delle teorie di un vecchio pieno di immaginazione, che forse sono vere e forse no. Non lo sapremo mai. Non pensarci più.
 
Era certo che non aveva resistito al richiamo del fiore. Fin dove aveva guardato? Dovevo trovarlo e distruggerlo prima che fosse troppo tardi, prima che si spingesse troppo oltre. Non l’avevo mai vista così turbata. Non so perché ma mi viene in mente quella sera, quando si era arrampicata fin sulla torre per cercarmi. Glielo dico e ridiamo insieme di allora.
 
- Non ti stavo cercando. Volevo solo scappare di casa.
- Questo è quello che pensi tu. Se non fossi stata lì per me, saresti scappata e basta. Invece sei arrivata perché avevo bisogno di te, altrimenti saresti andata via. Perché ero solo e trasandato, perché avevo una pettinatura ridicola. Per quale altro motivo, sennò?
 
- E se ci saranno davvero ancora altre vite, altre vite in cui sarebbe difficile amarmi, ci proveresti, almeno? Faresti delle pazzie per me?
 
- Martina, tesoro, siamo stati insieme in questa vita. Siamo stati bene, felici. Non ti basta?
 
- No, non mi basta.
 

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