Malevolo incanto

di WhiteLight Girl
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tempismo ***
Capitolo 2: *** Sottosopra ***
Capitolo 3: *** Concorso ***
Capitolo 4: *** Presenze ***
Capitolo 5: *** Accoglienza ***



Capitolo 1
*** Tempismo ***


Capitolo 1
Tempismo


Ladybug fece l’ennesimo salto verso il tetto che aveva davanti, il cuore le batteva forte nel petto nell’attesa che risuonasse l’ultimo avviso dei suoi orecchini. Mancava poco alla panetteria, atterrò sul tetto della scuola e quasi sospirò di sollievo. Si diede lo slancio per l’ultimo salto e fu allora che la trasformazione svanì.
Si aggrappò al cornicione per fermarsi, gemette e ringraziò il cielo di aver avuto i riflessi abbastanza pronti da impedirsi di buttarsi in avanti. Tese la mano per raccogliere Tikki prima che cadesse giù in strada e la strinse a sé, normalmente non avrebbe avuto paura dell’altezza, anche grazie al fatto che era abituata ad affacciarsi dal suo terrazzo, ma in quel momento il non avere nessuna ringhiera tra lei ed una possibile caduta le faceva tremare lievemente le gambe.
Depositò con cura Tikki nella borsa, dove lei avrebbe trovato la sua scorta di biscotti, e si premette contro la parete rialzata che aveva alle spalle. Lì dov’era probabilmente nessuno avrebbe potuto vederla ed avrebbe potuto aspettare in pace che Tikki recuperasse le forze prima di ritrasformarsi.
«C’è mancato davvero un pelo.» sussurrò incrociando le braccia dietro la schiena. Nessuno avrebbe potuto trovarla, lì sul tetto della biblioteca della scuola, ed il cielo era limpido nonostante l’aria fredda che le lambiva la pelle delle braccia scoperte. Avrebbe dovuto prendere una giacca, prima di uscire, realizzò sospirando.
«Devi fare più attenzione, Marinette.» disse Tikki, il biscotto stretto tra le zampette. «Devi imparare a tenere meglio il conto del tempo.»
Marinette le lanciò un’occhiata e si domandò quanto la borsa la tenesse al caldo. Rabbrividì. «Lo so, ci ho messo più del previsto.»
Tornò a ripensare allo scontro, al modo in cui tutto era sembrato andare bene e poi, dopo aver evocato il Lucky Charm, l’Akuma avesse avuto una specie di scoppio di adrenalina improvviso che l’aveva portato a combattere con ancor più fervore di prima. Se si soffermava a pensarci, Marinette non riusciva ad inquadrare bene i vari momenti dello scontro. Probabilmente, si disse, era stata troppo stanca ed alla fine aveva inserito il pilota automatico e cominciato a reagire meccanicamente ad ogni colpo.
Portò una mano alla bocca per coprire lo sbadiglio che le era nato in gola, gli occhi le si inumidirono ed una lacrima scivolò giù lungo il lato del naso; la asciugò con il pollice.
«Non vedo l’ora di fare una lunghissima dormita.» confessò.
Tikki deglutì il nuovo boccone ed inclinò il capo. «Ma non puoi, domani hai un compito in classe.»
Marinette ebbe un sussulto. «Ugh! Lo avevo quasi dimenticato. Magari potrei svegliarmi presto domani e studiare prima dell’alba.»
Marinette quasi si offese, quando sentì Tikki ridacchiare.
«Lo sai che non ci riesci mai.» disse lei.
E Marinette sapeva che aveva ragione, perché per quanto fossero buoni i suoi propositi probabilmente avrebbe spento la sveglia senza neanche rendersene conto e sarebbe tornata a dormire fino al momento in cui sua madre fosse salita in camera sua e l’avesse trascinata per i piedi fino alla cucina.
«Ma io non ho la forza di studiare adesso...» borbottò.
Chinò il capo ed ebbe un altro brivido, era come se l’inverno avesse deciso di arrivare prima ed all’improvviso e lei non era ancora pronta per questo.
«Hai fatto, Tikki?» domandò.
«Ancora un momento.» rispose lei.
Marinette si rassegnò a dover aspettare ancora, il sole stava calando all’orizzonte ed il portone della scuola era già chiuso, nell’edificio non era rimasto nessuno, ma qualcuno ancora vagava giù in strada. Invidiava le giacche indossate da alcuni di loro, quelli che avevano già iniziato a portare le maniche lunghe, lei poteva solo sperare di non essere così sfortunata da beccarsi un raffreddore. A quell’altezza ed in quella posizione, il vento sempre più forte la colpiva in pieno.
Eppure c’era qualcosa di magico nello stare senza maschera in un posto così alto e che non fosse il suo terrazzo, era come essere lontana da tutto e da tutti, come se i problemi non potessero raggiungerla, come se Papillon e le Akuma non esistessero più e Parigi fosse tornata la solita, noiosa eppure magnificamente caotica città.
Un rumore alle sue spalle la fece sussultare e quando si voltò trovò alcuni piccioni che si rincorrevano in volo. Si portò una mano al petto per calmare il proprio battito e sospirò, ridendo di se stessa e del modo repentino in cui poteva passare dalla pace e tranquillità completa al panico più totale al pensiero di essere stata scoperta.
«Solo un altro paio di minuti.» disse Tikki.
Marinette non avrebbe potuto dirle di no. Seguì con lo sguardo i piccioni e sorrise, aveva avuto un assaggio di quello che sarebbe stato saper volare, anche se lanciarsi appesa al proprio yo-yo non poteva certo essere paragonato al volo reale, ed immaginò come sarebbe stato essere lassù con loro.
Chissà se c’è un Miraculous che permette una trasformazione con le ali? , si domandò.
Sollevò la spalla per impedire alla borsa di scivolarle contro il braccio e sorrise. Sarebbe stato bello, forse avrebbe potuto chiedere al Maestro Fu di farglielo usare almeno una volta, di certo Tikki non l’avrebbe considerato un tradimento. Se avesse voluto usarlo Chat Noir, invece, Plagg avrebbe sicuramene trovato il modo di farlo sentire in colpa per mesi.
Ridacchiò tra sé, ma c’era qualcosa che si muoveva nell’aria e che le impediva di rilassarsi. Forse era ancora la sensazione di vertigine che la travolgeva se guardava in basso, la consapevolezza che se fosse caduta da così in alto non avrebbe fatto in tempo a trasformarsi per salvarsi, forse era il vento portato dalle prime ore della sera, il cambio di stagione improvviso e inaspettato che l’aveva colta di sorpresa, ma sentiva che qualcosa non andava e sperava che una volta che fosse tornata a casa si sarebbe finalmente sentita di nuovo al sicuro.
Fece un giro in tondo, mantenendosi al centro della piattaforma, le mani strette contro le braccia per provare a scaldarsi, e si domandò che ore fossero e se sarebbe arrivata in tempo per la cena.
Eppure neanche i morsi della fame riuscirono a distrarla. Un brivido le percorse la schiena e, questa volta, non fu colpa del freddo. Le parve di vedere qualcosa con la coda dell’occhio, un’ombra alle sue spalle che la portò a girarsi con uno scatto e puntare lo sguardo verso uno spazio che scoprì essere vuoto. Arretrò e mise un piede fuori dalla piattaforma.
La suola della scarpa poggiò sulla parte spiovente del tetto della biblioteca nel momento in cui Marinette perse l’equilibrio, la ragazza si ritrovò a sbracciarsi ad occhi sgranati mentre si sbilanciava verso il cortile interno, ma non servì. Cadde e scivolò sulle tegole incapace di trovare un appiglio e, strillando, volò oltre il cornicione.
Senza fiato per chiamare la trasformazione, con la borsa ancora aperta e Tikki al suo interno, si ritrovò sospesa a mezz’aria e strizzò gli occhi in attesa dell’impatto fatale.
L’atterraggio fu ben più morbido e molto meno doloroso di quanto si era aspettata, ma le strappò comunque un gemito. Quando trovò il coraggio di dischiudere gli occhi, però, non era all’interno del cortile della scuola, ma di nuovo sul tetto da cui era caduta.
«Si può sapere cosa accidenti stavi facendo?» le domandò Chat Noir, mentre la teneva tra le braccia.
Marinette sospirò, lieta di essere viva, anche se la sensazione di essere premuta contro il petto tonico del ragazzo la faceva sentire stranita e su di giri.
Sollevò la borsa per la bretella e la strinse a sé, premendovi sopra la mano per ritrovare la forma di Tikki al suo interno.
«Io... Uhm...» provò a dire.
Chat Noir non la lasciò finire, spostò la mano da dietro la sua schiena, obbligandola ad aggrapparsi a lui per il timore di cadere di nuovo, estrasse il bastone e lo allungò davanti a sé, poggiandolo sulla strada ed usandolo per arrivare sul balcone della panetteria.
Dopo averlo ritirato ed averla messa giù acanto alla sdraio, le domandò: «Come ci sei arrivata, lassù?»
Marinette si afferrò alla ringhiera, finalmente avrebbe potuto tornare a respirare; si sarebbe preparata una tazza di latte caldo e se ne sarebbe andata a dormire, decise. Al diavolo il compito in classe; dopo una quasi morte se lo meritava.
«Marinette...» disse Chat Noir. Poggiò una mano sulla sua spalla ed usò un dito per sollevarle il mento.
Marinette sentì lo stomaco agitarsi, probabilmente sarebbe stata costretta a saltare la cena ed anche il latte caldo, se quella sensazione di nausea non se ne fosse andata.
«Stai bene?» domandò Chat Noir. E nei suoi occhi c’era una preoccupazione tale che si ritrovò a ripensare a quella volta in cui lui aveva disposto le rose e le candele sul tetto e l’aveva portata a vederlo. La volta in cui Ladybug gli aveva dato buca e l’aveva fatto soffrire come Adrien aveva fatto soffrire lei.
Si costrinse ad annuire, le guance rosse ed il cuore che le rimbombava nel cervello a causa della sua vicinanza.
Lui la accompagnò a verso la sdraio e la sorresse mentre si sedeva.
«Eri lassù a causa dell’Akuma?» le domandò.
Marinette deglutì. «Uhm, sì, in effetti.»
Chat Noir sorrise, quasi sollevato.
«Bene, non devi più preoccuparti di lui, allora. Il sottoscritto se n’è occupato personalmente.» disse. Le fece l’occhiolino e Marinette sollevò un sopracciglio, ma subito si riprese.
«Oh, mio eroe!» esclamò, portandosi una mano al petto.
Ora che non aveva più bisogno di concentrarsi sulle gambe tremanti per non cadere poteva tornare a parlare, ammesso che il luccichio negli occhi del ragazzo glielo permettesse.
Sospirò. Ora non è che perché ti ha salvato la vita fangirlerai come se fosse il tuo principe azzurro? , si disse. E poi lui è innamorato di Ladybug.
Non aveva più problemi ad ammettere che fosse così; non sottovalutava più i suoi sentimenti ed era consapevole anche che, se davvero si fosse innamorata di lui, sarebbe stato praticamente impossibile prendere nel suo cuore il posto di Ladybug, nonostante fossero la stessa persona.
«Sto bene» gli disse, prendendo la mano con cui la stava cullando e stringendola leggermente prima di lasciarla andare. «grazie a te.»
«Sei sicura?» domandò lui.
Marinette si trattenne dal colpirgli il naso con il polpastrello per allontanarlo; era un gesto d’affetto familiare che era consentito solo a Ladybug.
«Certo, ora andrò a farmi una bella dormita e domani sarò come nuova, lo prometto.» gli disse. Convincere lui che fosse così probabilmente sarebbe stato un buon modo per iniziare a convincere sé stessa, ma lui parve esitare ancora.
Marinette rabbrividì; ora che si era calmata era tornata a sentire freddo.
«Sarà meglio che tu entri, allora.» disse Chat Noir.
Finalmente si decise ad alzarsi, le sorrise e le diede le spalle. Si arrampicò sulla ringhiera e rimase in bilico su essa, ma invece di andarsene immediatamente la guardò un’ultima volta da sopra la propria spalla.
«Mi raccomando, non farmi mai più prendere uno spavento simile.» le disse, facendole l’occhiolino. Poi si lasciò cadere giù e, con un singulto strozzato, Marinette lo vide risalire sull’edificio di fronte e poi sparire tra i tetti.
Si accorse che Tikki era uscita dalla borsa solo quando la sentì dire: «Per fortuna era lì per prenderti al volo.»
Colta da uno scatto di adrenalina e fastidio, Marinette si alzò ed incespicò tremante verso la botola. «Sì, non ci sarebbe stato alcun bisogno che mi salvasse se prima non mi fosse arrivato alle spalle spaventandomi.»
Lasciarsi cadere sul letto, con le gambe doloranti e vertigini, non era mai stato più complicato.

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Capitolo 2
*** Sottosopra ***


Capitolo 2
Sottosopra


La sveglia suonò a vuoto per diversi minuti, prima che Marinette trovasse la forza di spegnerla. Non fu una decisione consapevole, solo un gesto meccanico del braccio che cercò a tentoni il cellulare ed un dito passato alla cieca sul display. Poi, senza neanche rendersi conto di ciò che stava facendo, Marinette sollevò la coperta sulla testa per riparare gli occhi dal sole che entrava dal lucernaio e mugugnò nel sonno rannicchiandosi su sé stessa.
Strofinò la guancia contro il cuscino, beandosi del suo calore e della sicurezza che le dava il piumino leggero appena tirato fuori dall’armadio. Nulla avrebbe potuto costringerla ad alzarsi, specialmente dato l’eco del vento che batteva contro i vetri delle finestre facendole tremare. Solo la sensazione dello stomaco che gorgogliava la strappò al mondo dei sogni, riportandole la sensazione del proprio corpo e dissipando l’appannamento portato dai sogni del primo mattino.
Marinette sentì Tikki infilarsi sotto il piumino, raggiungere il suo capo e sfiorarle la guancia. Sapeva già cosa sarebbe successo da quel momento in poi.
«Guarda che stai facendo tardi.» le disse il Kwami.
Marinette ripensò al compito per cui il giorno prima aveva provato a studiare fino a tardi, a come forse, se invece fosse andata direttamente a dormire, non sarebbe stata ancora così stanca. E poi realizzò con un rantolo che comunque non ricordava neanche la metà delle cose che aveva letto e ripetuto.
«Marinette...» insistette Tikki.
La spinse indietro con due dita per impedirle di scrollarla ancora e trattenne uno sbadiglio.
«Non mi sento molto bene.» disse. Non riusciva a capire se fosse l’ansia per il compito oppure se si fosse ammalata, ma ebbe l’impressione che a breve si sarebbe trovata a vomitare.
Tikki premette una mano sulla sua fronte. «Non sembri avere la febbre.»
Neanche Marinette pensava di averla, perché a parte i lievi brividi provocati dall’aria fresca del mattino che scivolava sotto la coperta non aveva freddo, non tremava, e la mente era lucida come se fosse perfettamente in salute. Eppure quella sensazione di nausea non accennava a calmarsi.
Strizzò gli occhi, si sforzò di non pensarci, si concentrò – per quanto l’intontimento glielo permettesse – su nuvole e zucchero filato e sul modo in cui il materasso sembrava abbracciarla ed invitarla a tornare a dormire.
«Marinette! Sei in ritardo!» esclamò Tikki. «Sono già quasi le otto.»
L’informazione ebbe sulla sua mente l’effetto dello sparo di un cannone, Marinette si mise a sedere, scostò i piedi fuori dal letto e si sforzò di alzarsi. Pochi istanti dopo stava arrancando giù per la scaletta, le mani strette attorno alla ringhiera per prevenire ogni caduta e gli occhi mezzi aperti per assicurarsi di mettere i piedi nel punto giusto.
«Andrà male, Tikki, me lo sento.» disse. L’ansia non accennava a lasciarla, tanto forte da farle quasi anche passare la fame.
«Tu fai del tuo meglio.» le disse Tikki. «Se andrà troppo male potrai sempre recuperare.»
Marinette annuì, frugò nell’armadio alla ricerca della biancheria pulita e si sfilò la maglietta per cambiarsi. Aveva già la canotta pulita in mano, quando si ritrovò a piegarsi verso il pavimento ed a vomitarvi sopra, incapace di trattenersi.
Premette una mano contro lo stomaco e si sforzò di non inspirare, perché annusare l’aria adesso avrebbe potuto provocarle un altro conato e lei non voleva affatto che accadesse.
Tikki le fu subito accanto.
«Oh, cielo...» disse, il musetto contratto in una smorfia di preoccupazione.
Marinette arretrò e si appoggiò alla scrivania sbuffando. Ora avrebbe dovuto lavarsi, prendere qualche stupida medicina che calmasse la nausea, ripulire e poi correre per non fare tardi a scuola. «Marinette?» sussurrò Tikki. «Forse sarebbe meglio che restassi a casa.»
Scosse il capo. «Poi tutti penseranno che l’abbia fatto per saltare il compito, Adrien penserà che sono una persona poco seria e suo padre non gli permetterà mai di fidanzarsi con me, figuriamoci sposarmi!»
«Marinette!» la fermò Tikki. «Sappiamo entrambe che Adrien non è quel tipo di persona che pensa male dei suoi amici.»
«Ma suo padre sì, già odia Nino, ora comincerà ad odiare anche me...»
Si lasciò cadere sulla sedia, la voglia di scendere al piano inferiore a recuperare stracci e secchio totalmente inesistente, lo stomaco che ancora tremava e gorgogliava.
Rimpianse di aver lasciato il cellulare sul comodino e trovò la voce per chiamare sua madre.
«Mamma! Credo di essermi beccata un qualche virus.» gridò, sperando che la sentisse.
Aspettò seduta alla propria scrivania, Tikki era già nascosta dietro al computer e Sabine arrivò dopo appena un paio di minuti.
«Non ti senti bene?» domandò.
Marinette annuì. «Mi dispiace, se mi dai cinque minuti prometto che ripulirò tutto.»
Fece un cenno verso al rigurgito ai piedi dell’armadio, il solo pensiero quasi le scatenò un altro conato, gonfiò le guance per trattenerlo, le mani strette sullo stomaco come se questo potesse calmarlo.
Sabine le si avvicinò e strofinò una mano sulla sua schiena. «Non importa, tesoro, ci penso io. Tu torna pure a letto.»
Marinette sbatté gli occhi. «Non posso saltare il compito di oggi, mamma.»
Lei sorrise e la aiutò a tirarsi su. La spinse verso la scaletta e le disse: «Non puoi andare con il rischio di vomitarci sopra, direi.»
Marinette squittì. «Oh, no! Potrei rischiare di vomitare addosso ad Adrien!»
Sabine rise. «Sono sicura che Adrien capirebbe.»
Forse era anche vero, pensò Marinette risalendo verso il letto, ma lei non sarebbe comunque riuscita a guardarlo mai più in faccia, se mai fosse accaduto. Decise che sarebbe stato meglio non rischiare e tornò a distendersi, vide sua madre sparire nella botola per tornare al piano inferiore, allora Tikki la raggiunse e sollevò la coperta per rimboccargliela.
«Rimettiti presto.» disse il Kwami.
Marinette chiuse gli occhi, rifletté sul fatto che probabilmente avrebbe dovuto telefonare ad Alya per avvertirla dell’assenza, ma era sveglia da troppo poco tempo per non avvertire ancora l’intontimento del sonno che la reclamava. L’ultima cosa che sentì prima di riaddormentarsi furono i passi di sua madre che tornava in camera, probabilmente per ripulire.

Quella mattina, Marinette sognò baci e carezze al chiaro di luna, vivide coccole dispensate dall’alto della torre Eiffel mentre Parigi viveva sotto i suoi piedi e quelli di Adrien. Gli occhi verdi del ragazzo rilucevano familiari mentre lui le sorrideva, la sua stretta la faceva sentire al caldo ed al sicuro anche senza la maschera ed il costume. Il mondo non esisteva, fuori da quella piccola bolla di felicità, e nulla e nessuno avrebbe potuto rovinare quel momento.
«È una serata purrfetta, non credi, mia signora?» domandò lui, fissandola da sotto la frangia scompigliata.
Marinette poteva ancora sentire la consistenza dei capelli di lui sotto le dita, il suo sapore sulle labbra le impedì di sollevare gli occhi al cielo a causa del gioco di parole.
«Purrfetta davvero.» disse invece.
Il sorriso di Adrien si aprì, se possibile, ancora di più e lui si sporse verso di lei, stringendola ancora e premendo per l’ennesima volta le labbra sulle sue.
Marinette si aggrappò al bordo della torre per non cadere, il lenzuolo le si impigliò tra le dita, il calore delle labbra di Adrien divenne l’angolo della zampa del suo peluche gigante. Abbandonò quel sogno con un moto di delusione e si mise a pancia all’aria, gli occhi puntati contro il lucernaio, da dove scoprì che Chat Noir la stava osservando.
Marinette sussultò e si tirò su, sollevando la coperta per ripararsi come poteva nonostante non avesse nulla da nascondere, vide Chat Noir sbracciarsi e mostrarle i palmi come in una muta richiesta di non gridare, ma lei non aveva alcuna intenzione di farlo.
Sbloccò il vetro e lasciò che il ragazzo entrasse, riflettendo sulle implicazioni che quella visita avrebbe potuto avere.
«Che succede, Chat Noir? C’è un’Akuma?» domandò.
Nonostante la nausea fosse passata era ancora troppo stordita per avere voglia di trasformarsi ed uscire e non riusciva a immaginare chi potesse avercela con lei tanto da farsi Akumatizzare, dato che aveva passato tutta la mattina dormendo. Non le veniva in mente una sola ragione per cui Chat Noir dovesse essere lì per proteggerla.
Chat Noir si fermò ai piedi del letto e sorrise.
«Nessun Akuma.» disse. «Ma ero preoccupato perché oggi non eri a scuola, volevo assicurarmi che non fosse a causa di ieri.»
Marinette annuì. «Tranquillo, deve essere solo qualche forma di virus intestinale, un po’ di riposo e sarò come nuova.»
Lui sorrise, mentre Marinette sollevava il cuscino e si sistemava su esso e sul gatto di peluche per mettersi seduta e poterlo guardare in faccia senza il minimo sforzo.
«Quindi, mio prode cavaliere in armatura di pelle, posso offrirti qualcosa per ringraziarti di questa premurosa visita?» domandò.
Chat Noir scrollò le spalle e si fece spazio sul letto, accomodandosi accanto ai suoi piedi a gambe incrociate. «Se posso scegliere, madamigella, opterei per un croissant.»
Fece un cenno verso il comodino, dove Marinette scoprì esserci un vassoio con un bicchiere di latte ed un piatto di dolci assortiti ancora tiepidi.
Marinette prese il piatto e lo mise sotto il naso del ragazzo che, con occhi lucidi, strinse tra le dita il croissant al cioccolato e gli diede un morso con esagerata riverenza.
«È solo un croissant...» disse Marinette. Sorrise, riscoprendo con un sospiro quanto vedere l’amico così entusiasta per una cosa così piccola potesse rendere felice anche lei.
Ma Chat Noir scrollò il capo. «Questo non è solo un cornetto, questo è il cornetto più buono di tutta Parigi, dovrebbero erigere un tempio per venerarlo!»
Lieta che il ragazzo avesse questa grande considerazione di un prodotto della pasticceria dei suoi genitori, Marinette rifletté sul fatto che avrebbe dovuto trovare il modo di portargliene più che poteva, quando si fossero rivisti per un attacco Akuma.
«Tu non mangi?» domandò Chat Noir all’improvviso. Aveva posato il piatto tra loro e, fino a quel momento, il profumo dei dolci non aveva dato alcun problema a Marinette. Ma l’idea di trovarsi a mangiare fece fare una spiacevole capriola al suo stomaco. Grazie al cielo, pensò, comunque non aveva fame.
«Credo che passerò.» disse.
«Ma sarà difficile riuscire a riprendersi con lo stomaco vuoto.» osservò Chat Noir. Poi indicò il piatto pieno. «E poi, se io potessi, mangerei almeno uno di questi a pasto.»
Marinette sorrise, provò ad immaginare cosa sarebbe potuto accadere se l’avesse fatto e, mentre ipotizzava la tragica scomparsa dei suoi muscoli sotto qualche chilo di troppo, lui diede il primo morso al croissant e la crema gli esplose quasi in faccia.
Marinette si trovò a ridere piegata in avanti e con i capelli negli occhi, mentre lui si ripuliva con un dito il rivolo di crema scivolato sul mento nel tentativo di fermarlo prima che gocciolasse sulla tuta.
«Aspetta.» disse Marinette. «Lascia che ti aiuti.»
Afferrò un tovagliolo da sopra il vassoio e lo pose sotto il mento di lui, pulì via tutta la crema che poté, non riuscì ad impedirsi di puntare gli occhi sulle sue labbra. L’angolo della bocca era ancora sporco e lei avrebbe voluto potersi sporgere e baciarlo.
Si tirò indietro con un moto d’orrore, gli occhi sgranati ed i pensieri in subbuglio.
NO! Marinette! NO! È solo Chat Noir e ieri ti ha salvato la vita, come ha già fatto decine di altre volte. Perché queste volta sembra così diverso?
Probabilmente Tikki avrebbe detto che non c’era assolutamente nulla di diverso, se non il modo in cui lei aveva iniziato a reagire alla sua presenza.
«Io... Io non mi sento tanto bene.» sussurrò.
Chat Noir le sfilò il tovagliolo dalle dita e sorrise comprensivo. «Certo, capisco.» disse. «Tornerò domani a controllarti, probabilmente.»
Marinette sentì il cuore saltare a quell’affermazione e fu incapace di dirgli qualcosa, mentre, con il cornetto stretto tra i denti, Chat Noir si arrampicava su per il lucernaio e se ne andava.

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Capitolo 3
*** Concorso ***


Capitolo 3
Concorso


Sorridendo mentre Chat Noir le accarezzava una guancia, Marinette pensò che era proprio così che aveva sempre immaginato fosse il tocco di un pianista. I polpastrelli di lui le sfioravano la guancia premurosamente mentre le sorrideva.
La familiare fossetta che il suo sorriso generava si muoveva ogni volta che l’espressione di lui cambiava anche solo minimamente, Marinette non sapeva se fosse una sua impressione, ma le pareva quasi di non riuscire a mettere a fuoco bene i contorni del suo viso, concentrata com’era sui suoi occhi.
«Oh, Marinette...» sussurrò Chat Noir.
Lei inclinò il capo, lui si sporse verso di lei e premette il pollice sul suo mento. Con le labbra dischiuse, Marinette abbassò le palpebre, il cuore le batteva forte nel petto mentre sentiva il fiato di Chat Noir sul volto. Nulla e nessuno che avrebbe potuto risvegliarla da quel sogno.
«Adrien...» sussurrò.
Lui gemette, le loro labbra si sfiorarono.
«Marinette.» disse ancora una volta.
«Marinette!»
Il suo nome le rimbombò nelle orecchie, sollevò il mento dalla scrivania e sgranò gli occhi; era certa che tutti in classe la stessero guardando. Di sicuro lo stava facendo Adrien che, leggermente voltato verso di lei, aveva le sopracciglia corrucciate.
Non ho parlato nel sonno, vero? Si domandò Marinette. E deglutì, i pugni stretti sulle ginocchia per mascherare la tensione.
«Io... Scusate...» sussurrò con le guance accaldate.
Evitò lo sguardo degli amici, concesse solo una breve occhiata a Nino, poi puntò gli occhi contro la signorina Bustier che, notò con sollievo, la guardava comprensiva.
«Temo che sia ora di iniziare la lezione, Marinette, o preferisci forse andare a riposare fuori?»
Marinette si morse il labbro mortificata. «No, mi dispiace, signorina, non accadrà più.»
Lei annuì. «Me lo auguro, anche perché credo proprio che sarai molto interessata all’annuncio che sto per fare.» disse.
Il proiettore era già acceso, la lavagna interattiva pronta per ciò che la signorina stava per spiegare e, quando lei prese tra le mani il mouse del computer e aprì il file, restituì ai loro occhi un elenco di regole per qualcosa che Marinette non ebbe chiaro da subito.
«Il signor Agreste ha indetto un altro concorso di moda per studenti» annunciò «chiunque voglia partecipare è invitato ad iscriversi entro la fine della settimana ed a elaborare l’idea per un paio di scarpe alla moda che potranno essere inserite nella collezione del prossimo autunno.»
L’intera classe sospirò, i ragazzi iniziarono a borbottare qualcosa tra loro e, uno alla volta, tutti finirono per voltarsi verso Marinette.
Sentitasi all’improvviso al centro dell’attenzione, Marinette deglutì ed incassò la testa nelle spalle. «Cosa?» domandò.
Alya le sorrise. «Probabilmente sono tutti ancora troppo colpiti dal modo in cui l’ultima volta li hai stracciati e preferirebbero tenersi fuori dalla competizione.»
Scuotendo il capo, Marinette strinse le labbra. «Oh, ma non è detto che accada ancora, pensare di potercela fare è il primo passo per farcela davvero.»
Scorse il sorriso di Alix dall’altra parte dell’aula, Rose portò le mani alle guance arrossate.
«Quanto è vero!» la sentì dire.
«Quindi credi che dovremmo partecipare anche noi?» chiese Juleka.
Marinette annuì: «Certo, non dovreste mai permettere a qualcuno di impedirvi di farlo.»
Tutti sembrarono felici del suo parere, sollevati dall’incoraggiamento e propensi a darle ascolto, ma c’era comunque qualcuno che aveva preferito tenersi fuori da quell’atmosfera di fiducia e positività. Chloe non ci mise molto a farsi avanti per rovinare l’umore. «Come se non si sappia già come andrà a finire.» sbottò. Adrien le lanciò un’occhiata. «Chloe!»
«No, niente Chloe! Sappiamo che vincerà lei, partecipare non serve a nulla. Tu e tuo padre potreste anche smettere con questi concorsi ed assumerla direttamente a lavorare per voi, visto quanto la adorate.»
Marinette si sentì arrossire e strinse i pugni, ma prima che potesse ribattere la signorina Bustier esclamò: «Non dovresti fare un dramma se qualcuno è più bravo di te in qualcosa, sai? Se Marinette vincerà lo farà perché lo merita, non perché qualcuno la preferisce a chiunque altro.»
Mordendosi il labbro, Marinette chinò il capo grata per quelle parole. Fu allora che si ritrovò a leggere il labiale di Adrien, e lo scoprì a dire a Nino: «La mia Marinette vincerà di nuovo, lo so, perché lei è la più brava di tutti.»
Sentì il sangue ribollirle, il cuore che rimbombava nelle orecchie mentre il cervello metabolizzava come meglio poteva quelle parole. Poteva essere sicura che lui le avesse dette davvero? Alla fine della lezione aveva ancora quella domanda fissa in testa e, se non fosse stato per Alya e per la sua gomitata nelle costole data al momento giusto, non avrebbe neanche alzato la mano quando la signorina Bustier aveva chiesto chi volesse una copia del regolamento. Di nuovo, c’era scritto nell’ultimo punto della lista, Adrien avrebbe indossato il paio di scarpe che avrebbero vinto la competizione, c’era una possibilità che quelle scarpe fossero opera sua e, decisamente, questa volta non aveva intenzione di fare alcun errore.
Non ci sarebbero state piume, fu la sua prima decisione, perché già una volta aveva sfidato la salute di Adrien con un cappello ed ora voleva solo assicurarsi che non ci fosse nient’altro a cui fosse allergico.
Ripensò anche a come Gabriel Agreste si era comportato in quella situazione, a come avesse permesso che il ragazzo indossasse la bombetta anche se lo faceva stare male, ripensò a come – l’aveva realizzato solo dopo settimane – sarebbe bastato sostituire una piuma con qualcosa di artificiale e lui non avesse neanche provato a proporlo. Pensare a quell’uomo ed al suo comportamento le fece venire i brividi, non le fu chiaro il perché, ma quel giorno qualcosa le impediva di fidarsi e godersi a pieno l’annuncio del nuovo concorso.
Ferma sulla porta mentre aspettava che Adrien uscisse dall’aula, sospirò e si sforzò di calmarsi per permettersi di avere una conversazione civile e chiara con il ragazzo.
Stringeva ancora tra le dita il foglio con le istruzioni per il concorso, quando lui uscì dall’aula e la notò. Marinette gli sorrise, mentre lui si fermava e le sorrideva a sua volta.
«Volevo solo assicurarmi che non fossi allergico ad altro oltre che alle piume,» gli spiegò «così mi terrò alla larga da ciò che può farti male, nel caso dovessi vincere.»
Il sorriso di Adrien si allargò ulteriormente, quasi le parve che le gote si arrossassero sotto gli occhi lucidi e brillanti.
«Oh! Nient’altro, tranquilla!» le rispose, poi si chinò verso di lei e le baciò la guancia, prima di voltarsi e correre via.
Marinette rimase lì ferma, immobile e con la spalla premuta contro l’ingresso dell’aula, le gambe tremanti che non riuscivano a sorreggerla, le dita contratte che stropicciavano il foglio che stringevano, la mente immersa in una bolla piena di ovatta tiepida e leggera ed il cuore che batteva forte nel petto. Era come se la lava scorresse nelle sue vene dalla punta delle dita alle guance e fino alle orecchie; sarebbe rimasta lì a crogiolarsi in quella sensazione in eterno, se avesse potuto, ma qualcun altro sembrava avere altri piani.
Alya le sfiorò il fianco, solo allora Marinette si ricordò di lei e la trovò alle sue spalle, sorridente e con le braccia incrociate in attesa che si riprendesse dallo shock.
«Sembra che qualcuno sia improvvisamente finito in paradiso...» commentò la ragazza.
Marinette strinse le labbra, incapace di cancellare dal volto quello che era certa fosse un sorriso idiota, e si voltò verso di lei tremando.
Alya sospirò. «Voliamo via, farfallina, hai un paio di scarpe a cui lavorare.» commentò strofinando il dito sulla radice del naso.

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Capitolo 4
*** Presenze ***


Capitolo 4
Presenze


L’Akuma aveva attaccato dopo la scuola, mentre Marinette era china sulla scrivania e sgranocchiava biscotti al cioccolato assieme a Tikki. I due bicchieri di latte caldo che aveva preparato erano rimasti a metà, abbandonati sulla mensola dove non c’era il rischio che si rovesciassero sull’album da disegno, le matite erano state rimesse di fretta nella tazza, mezze spuntate ed in disordine. Pochi istanti dopo che Marinette era uscita attraverso la botola che dava sul balconcino, Ladybug stava correndo di tetto in tetto per raggiungere il Louvre.
Arrivare nel luogo di uno scontro già iniziato era sempre un’avventura, la preoccupazione su chi fosse il nemico, su ciò che avrebbe fatto ai cittadini di Parigi, sui suoi poteri e su quello che avrebbe potuto accadere a Chat Noir prima che arrivasse a prendere in mano la situazione erano diventate ormai sensazioni familiari. Ogni volta, Ladybug doveva ripetersi che dietro la spavalderia, l’irriverenza e l’impulsività di Chat Noir c’era un cervello, che poteva benissimo cavarsela e tenere impegnato l’Akuma finché non fosse riuscita a raggiungerlo, ma questo non cambiava molto.
L’ansia, quella volta, fu più forte del solito; la nausea la costrinse a fermarsi per non rimettere verso la strada. Le era capitato di sentirsi così male poche volte, solo quando era stata molto stanca o reduce da un’influenza o un raffreddore; pensò che probabilmente il virus che aveva preso la settimana precedente non fosse ancora stato debellato totalmente e si poggiò contro il camino, inspirando nell’attesa che lo stomaco in subbuglio si calmasse.
Quando la sensazione si allentò, Ladybug prese fiato e si mise ritta per riprendere il suo viaggio, ma non fece neanche un passo, non notò le grida sempre più vicine, ma tenne gli occhi spalancati e puntati dritti davanti a sé. Non fu subito certa di ciò che stava guardando, non riuscì a capire neanche il perché non riuscisse a distogliere lo sguardo da quel punto sospeso a mezzaria in cui non c’era assolutamente niente. Strinse gli occhi, scrutò tra la polvere che fluttuava nell’aria ed allungò il collo per avvicinarsi, quasi certa che lì ci fosse qualcosa.
«Marinette!» sentì urlare dietro di sé.
Si voltò, l’Akuma era una sagoma sfocata di verde e giallo fluorescente che puntava dritto verso di lei, Chat Noir gli correva dietro con il braccio teso, il bastone stretto nel pugno.
Ladybug lanciò lo yo-yo e si aggrappò ad un balcone, evitò l’Akuma e rimase appesa al cornicione che aveva davanti, si arrampicò incespicando sulle tegole e si nascose dietro il camino.
«Milady?» domandò Chat Noir «Tutto bene?»
Ladybug sospirò, le dita erano ancora premute contro il muro di mattoni.
«Assolutamente.» rispose, ma la nausea non era ancora passata, le ginocchia le tremavano anche se non temeva l’altezza. Uscì allo scoperto e scivolò al fianco di Chat Noir, che le sorrise, ma stare ferma in cima a quel tetto con lui non le diede lo stesso brivido che aveva di solito.
Era come avere decine di occhi addosso, non riusciva a capire da dove provenisse quella sensazione, ma la costrinse a guardarsi attorno alla ricerca della fonte, di qualunque cosa si trattasse. Senti Chat Noir muoversi accanto a lei, le sue scarpe scricchiolare sulle tegole, il bastone fischiare oscillando attraverso l’aria. Dischiuse le labbra e inarcò le sopracciglia perché era l’unica cosa che sembrava d'aiuto nel cercare attorno a sé.
Nell’aria c’erano solo pulviscolo, raggi di luce riflessi nei vetri delle finestre e granuli di terra.
A dispetto della sensazione di essere osservata, Ladybug constatò che l’Akuma ma non aveva occhi, anche se al posto della sua testa aveva un enorme busto di squalo dai denti affilati. Il muso era rivolto verso l’alto, non aveva alcun senso logico.
Ladybug strinse il filo dello yo-yo tra le dita, lo avvolse attorno all’indice e lo strattonò forte perché si riavvolgesse e lo yo-yo tornasse contro il suo palmo.
Non sapeva ancora quali fossero i poteri dell’Akuma, non gliene veniva in mente neanche uno che potesse conciliarsi con quell’aspetto buffo terrificante al tempo stesso. Il muso dello squalo restava sempre dischiuso, metteva in mostra diverse file di denti affilati bianchi che, Grazie al cielo, lui non poteva puntare verso di loro. Non c'era nulla di logico in quella attacco, nulla nella creatura senza dita che potesse lasciarle intuire come avesse sradicato la panchina che c’era a pochi metri da lei, ammesso che fosse stata lei.
Un palo della luce era piegato su sé stesso, un semaforo spezzato in due, con i cavi esposti e sfrigolanti di elettricità. Un’esplosione alle spalle di Ladybug le spinse i capelli in faccia e li soffiò via, Ladybug si voltò a controllare di cosa si trattasse, ma non trovò nulla.
Chat Noir era concentrato sullo squalo, il bastone stretto in mano brandito come una spada e le gambe divaricate in posizione di attacco. Il ragazzo squalo corse verso di loro, l'andamento traballante, incerto, quasi come quello che avrebbe avuto una persona mascherata nel correre verso un amico per fargli uno scherzo.
Forse si trattava davvero di quello, di uno scherzo idiota finito male, con la gente che l’aveva scambiato per un’Akuma, mentre invece era solo un ragazzo normale ed il vero Akuma faceva i propri comodi in giro per la città. Ladybug lo guadò dall’alto mentre, giù in strada, lui si sporgeva verso di loro e si tendeva come per provare a raggiungerli. Non sembrava che ci fosse un punto di inizio del costume, né che sotto il muso di squalo ci fosse una forma umana. All’interno delle fauci spalancate Ladybug vide la sua gola e non ebbe più dubbi.
Un boato rimbalzo tra i palazzi, la terra tremo, il cielo vibrò sopra di loro. Ladybug si senti mancare, perse la presa della terra sotto i piedi, i palmi si strinsero nel nulla e, per un istante, non vide nulla. Tese le braccia davanti a sé, cerco Chat Noir con le dita, ma di lui non vi fu nessuna traccia e i suoi polpastrelli sfiorano solo l’aria.
All’improvviso non c’era nulla a sorreggerla, ma anche nulla da sorreggere. All’inizio non sentì il proprio corpo, avvertì chiaramente solo la propria mente e fu costretta a concentrarsi su quello per assicurarsi di essere ancora in sé.
C’era solo la voglia di toccare, di sentire, di esistere per il timore che non fosse più così. Pensò a Chat Noir, al tocco delicato delle sue dita, alla morbidezza dei suoi capelli, alla sensazione delle sue orecchie sotto le proprie dita. Ripensò alle sue fusa, a quanto fossero confortanti, a quanto ne avesse bisogno in quel momento.
Ma Chat Noir non c’era e assieme a lui era sparita qualunque altra cosa. Il mondo non esisteva più, e forse nemmeno lei stessa. Sì sforzò di aprire gli occhi, ma ebbe la sensazione che quelli fossero già aperti, così provò a voltarsi per guardarsi attorno, ma scoprì che non aveva parti del corpo con cui farlo. E non c'erano neppure le ginocchia da poter piegare per correre, muoversi o saltare.
Quando la risentì, la schiena era fredda; era come se fosse distesa su qualcosa, ne avvertiva la pressione contro i glutei e le gambe indolenzite.
Poi Chat Noir la chiamò e la sua voce apparve lontana, flebile, quasi impalpabile. Lo sentiva ripetere il suo nome, ma non era certa che stesse accadendo davvero.
Era bloccata tra la voce di lui e la sensazione di essere immobile, questo la faceva sentire trascinata verso due direzioni opposte con una forza tale che si sentiva quasi in procinto di rompersi.
La sensazione del freddo contro la schiena e dei fianchi formicolanti scemava va ogni volta che Chat Noir pronunciava il suo nome, ogni volta che sentiva la voce di lui tornava a sentirsi leggera, si immaginava scivolargli incontro e perdeva la connessione con ogni altra cosa. Riaprì gli occhi e, con sollievo, lo trovò a fissarla. Inspirò, grada che fosse lì.
«Milady...» lo sentì dire.
Aveva le gambe piegate e premute contro le tegole, le braccia di Chat Noir la avvolgevano e la sorreggevano. Strinse i pugni, lieta di avvertire il dolore delle unghie premute contro il palmo.
«Che cosa è successo?» domandò.
Si sollevò e premette una mano contro la fronte, non riusciva a inquadrare ciò che aveva attorno, ma ebbe l’impressione che lei e Chat Noir fossero soli.
«L’Akuma?» domandò.
«Me ne sono occupato io.» disse il ragazzo.
Le mostrò il pugno semi chiuso, tra le dita la farfalla nera si agitava convulsamente tentando di sfuggire. Ladybug la purificò, grata che il suo compagno fosse riuscito ad occuparsene da solo.
Più tardi, mentre cercava di prendere sonno rigirandosi nel suo letto, realizzò che la sensazione che qualcuno la stesse osservando non era ancora passata.

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Capitolo 5
*** Accoglienza ***


Capitolo 5
Accoglienza


Una settimana dopo che l’aveva saputo, Marinette ancora non riusciva a credere di aver passato la prima selezione. Arrivata davanti agli uffici di Gabriel Agreste, faceva fatica anche a stare ferma per l'emozione. Le ginocchia tremano e aveva le mani sudate; era la prima volta che aveva l'occasione di visitare un posto così importante per la moda.
Altri concorrenti del concorso erano entrati nella hall prima di lei, le erano passati davanti con i loro completi eleganti e a tratti stravaganti, ma lei non ne aveva ancora il coraggio. Continua a guardare il grattacielo con il naso all'insù, a studiare il riflesso del sole contro le grandi vetrate. Non riusciva a vedere cosa ci fosse all'interno, ma era certa che sarebbe stato tutto fantastico.
Strofinò i palmi l'uno contro l'altro e poi li premette entrambi contro i pantaloni, la borsetta a tracolla era un conforto. Tikki era con lei, pronta per confortarla e supportarla ed era una coccinella; era la fortuna sessa, Marinette sapeva di poter contare su di lei in ogni caso, anche se sapeva che in un contesto simile solo la fortuna non sarebbe servita molto.
Sospirò ed estrasse il cellulare per controllare che ore fossero, avrebbe potuto temporeggiare ancora per poco, poi sarebbe stata costretta ad entrare o avrebbe fatto tardi. Guardo in basso, trovò Tikki ad osservarla con un sorriso che non riuscì a ricambiare se non con quella che era certa fosse una smorfia forzata.
Marinette sentì chiamare il suo nome e, anche se aveva già riconosciuto quella voce, il cuore ebbe comunque un sobbalzo nel vedere Adrien che la aspettava davanti all’ingresso del grattacielo.
Lui le fece cenno di raggiungerlo con la mano e, deglutendo, Marinette si sforzo di sorridere ancora e gli andò incontro. Mise i piedi uno dietro l’altro, consapevole che al primo minimo errore sarebbe caduta ed avrebbe rotolato a terra mettendosi in imbarazzo. Non poteva lasciare che accadesse, non in presenza di Adrien e ancor meno di fronte agli uffici di suo padre.
«Ciao.» disse Adrien
«Ciao.» gli rispose.
Lui sorrideva, ondeggiava sul posto e, apparentemente, sembrava emozionato quasi quanto lei.
Ricambiò quel sorriso, le guance bollenti. «Cosa fai qui?» gli domandò.
«Volevo accompagnarti all'interno, se per te non è un problema.» le disse lui.
Marinette deglutì, l’idea che lui avesse pensato a lei la faceva sentire una poltiglia in procinto di spalmarsi sul marciapiede, le gambe quasi non la reggevano più, ma si costrinse a restare in piedi, con il fiato bloccato in gola e l’impressione che se avesse respirato lui sarebbe riuscito a capire quanto la cosa l’avesse messa in agitazione.
«Serto... Cicuro...» borbottò. Poi si decise ad inspirare e deglutì. «Certo... Mi farebbe molto piacere.»
Adrien la invitò ad entrare per prima, la porta scorrevole era rimasta aperta da quando era uscito e, una volta che furono entrati anche loro nella hall, si richiuse alle loro spalle.
«Sapevo che ce l'avresti fatta.» disse Adrien mentre la scortava verso il salottino in cui anche gli altri concorrenti erano in attesa. «Non avevo alcun dubbio.»
Marinette, che ancora sorrideva al punto da sentire le guance dolere, avrebbe voluto poter dire di avere avuto la stessa convinzione. Invece era stata in ansia e allerta per tutta la settimana, passando le notti insonni fin da quando aveva spedito il disegno.
L’idea che Adrien avesse avuto tutta quella fiducia in lei le faceva sentire lo stomaco in subbuglio, ma mai quanto le occhiate che chi aveva attorno stava dedicando loro.
Alcuni sorrisero, altri si chinarono a borbottare qualcosa in direzione del loro vicino, poco importava se si conoscessero no, se c'era la possibilità di fare un po' di pettegolezzo. Marinette scosse il capo e si voltò per evitare le loro occhiate, Adrien sembrava non averci fatto caso, ma il fatto che tutti avessero notato che era stata accolta dall’erede di Gabriel Agreste in persona non era d’aiuto.
«Sei agitata?» le domandò lui. «Non dovresti, sappiamo entrambi che sei fantastica e che hai davvero la possibilità di vincere.»
A sentire quelle parole, Marinette si senti avvampare ancora di più, ora anche il collo era bollente e le braccia, il petto, le mani e perfino le punte dei piedi.
Se Adrien Agreste stava macchinando un piano per ucciderla, pensò, aveva scelto di sicuro il metodo migliore.
Annui, disposta a dire qualunque cosa purché smettesse, perché ogni parola carina che lui diceva nei suoi confronti la mandava in brodo di giuggiole più di quella precedente e il suo cervello iniziava ad assuefarsi a tutti questi complimenti e, probabilmente, a breve non sarebbe più stato in grado di funzionare.
Marinette si sedette sulla poltrona, non si aspettava che Adrien si sarebbe seduto sul bracciolo proprio accanto a lei.
Il braccio di lei sfiorò il suo fianco, avvertiva il suo calore, poteva annusare il suo profumo.
Deglutì e inspirò a fondo, cercando di calmare i battiti del proprio cuore. Possibile che lui non si rendesse conto di ciò che le stava facendo? Marinette sapeva che voleva solo confortarla e farle sentire il suo supporto, ma in quel momento avrebbe dato qualunque cosa perché lui fosse dal lato opposto di Parigi. Aveva invaso il suo spazio personale e, per quanto le sarebbe piaciuto che accadesse ogni giorno della sua vita, averlo accanto il momento simile complicava solo le cose.
«Andrà tutto bene.» disse lui, senza sapere di essere diventato parte della sua agitazione.
Lei annuì senza guardarlo, sapendo che non si era ancora accorto delle occhiate che tutti stavano lanciando loro.
«Ti ringrazio per essere qui.» gli disse. Ma preferirei che potessimo incontrarci dopo, per un appuntamento al chiaro di luna, o per baciarci sotto la torre Eiffelle... avrebbe voluto aggiungere.
«Nessun problema, farei di tutto per te.» le rispose lui.
Qualcuno rise dall’altra parte della stanza, possibile che Adrien non si vedesse conto di ciò che stava facendo e di quello che potevano pensare gli altri?
«Adrien.» disse sottovoce.
Aveva la gola secca al punto che le parole gliela graffiano. Tossì, con una mano davanti alla bocca e la frangia che le finiva negli occhi.
«Tutto bene?» le domando lui. «Ti vado a prendere un bicchiere d'acqua.»
Scappò via prima che gli potesse rispondere. Marinette amava questo lato di Adrien, le faceva desiderare ancora di più di poterlo sposare ma, se fosse tornato troppo presto, probabilmente gli avrebbe chiesto di portarle qualcos'altro pur di farlo allontanare.
Una volta sola sospirò, si abbandonò contro la spalliera della poltrona e chiuse gli occhi. Qualcuno ridacchiò, ma non volle alzare lo sguardo per controllare se fosse a causa sua. Non le importava, in fondo, ciò che stavano pensando agli altri, perché sapeva bene che per Adrien era solo un'amica e probabilmente sarebbe stato così per molto tempo.
Sentì i passi di Nathalie ancora prima di vederla, poi si mise ritta e aprì gli occhi per capire cosa avesse da dire. Adrien non era ancora ritornato.
«Potete entrare, adesso.» disse lei.
Tutti si alzarono, pronti a seguirla, solo Marinette si preoccupò di voltarsi e controllare se Adrien fosse in vista. Le dispiaceva sapere che una volta tornato non l’avrebbe trovata più lì, ma era certa che avrebbe capito. Adrien era sempre stato un tipo comprensivo, forse anche troppo.
Seguirono Natalie fino agli ascensori, lei indicò loro di dividersi e salire separatamente fino al settimo piano, dove li avrebbe aspettati il signor Agreste.
Marinette finì nell'ascensore con due ragazzi, uno dei due ancora la guardava di sottecchi, lei gli lanciò un’occhiata cercando di comunicargli con lo sguardo di passare oltre, lui rise ancora, ma incrociò le braccia dietro la schiena e si voltò verso lo specchio.
Quando il loro ascensore si aprì Nathaile e gli altri erano già lì, li aspettavano nel corridoio, in fondo ad esso riuscivano ad intravedere una caffetteria e, ancora oltre, una grande vetrata dava sull’ufficio di Gabriel Agreste. E lui era lì, proprio davanti alla porta, si sistemava la cravatta con un plico di fogli sottobraccio. Andò loro incontro appena li vide.
«Buongiorno.» disse loro.
Marinette deglutì, anche se l’aveva già incontrato di persona, anche se gli aveva già parlato diverse volte, averlo davanti la metteva comunque in soggezione. Assurdamente si sentiva più in ansia di quanto fosse stata quando aveva dovuto salvarlo come Ladybug. Quelle volte era tutto nelle mani sue e di Chat Noir, ma ora l’uomo l’avrebbe giudicata e, nonostante non fosse una questione di vita o di morte, era ben più terrorizzata.
Lui e Nathalie non li condussero verso l’ufficio, ma verso una porta sul lato opposto del corridoio. Lasciarono che entrassero tutti, Marinette fu l’ultima ma, prima che potesse unirsi agli altri, il signor Agreste la fermò.
«Signorina Dupain-Cheng.» disse «mi permette?»
Prima che lei se ne rendesse conto l’uomo aveva infilato una mano sotto i suoi capelli e, mentre la guardava di sottecchi, le sfiorò il lobo dell’orecchio.
«Orecchini molto interessanti, non trovi, Nathalie?» domandò all’assistente. Lei non rispose, ma lui non diede segno di averlo notato. «Li indossa spesso?»
Marinette deglutì, si fece indietro. Là dove il dito di lui l’aveva sfiorata aveva la pelle d’oca.
«Sono solo orecchini.» rispose. Strinse la borsetta contro il fianco e seguì gli altri nella stanza.

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