Impromptu

di _Akimi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I.Gatto ***
Capitolo 2: *** II.Sigaretta ***
Capitolo 3: *** III.Specchio ***
Capitolo 4: *** IV.Automobile ***
Capitolo 5: *** V. Luna ***
Capitolo 6: *** VI.Sguardo ***
Capitolo 7: *** VII.Letto ***



Capitolo 1
*** I.Gatto ***


  I.
Gatto


Occhi affilati l'osservano, in silenzio, con una screziatura di altezzosità e bramosia di predominio che dovrebbe intimorire, eppure non accade niente - nulla che valga la pena di raccontare nel dettaglio.
Il gatto lo guarda ed egli ricambia nel medesimo modo, solo un poco più svogliato e indifferente; ha affrontato avversari ben peggiori di una palla di pelo, ma sebbene l’arroganza felina lo diverta, non si azzarda a fare un passo in avanti verso la bestiolina criminale.
«Quindi è così che funziona qui, eh?»
Una sottile nuvola di fumo sfugge dalle sue labbra, lasciandosi ad un sospiro tra l’arrendevole e il sarcastico - ne ha viste di cose strane, a casa di Freddie, ma la fatale egemonia dei suoi gatti è un dettaglio alla quale difficilmente vuole abituarsi.
Non si piegherebbe neppure davanti al più temuto degli uomini, quindi sarebbe da stupidi lasciarsi fermare da qualche sciocca, silenziosa regola dettata da un animale come quello che ha davanti; in aggiunta, il suo ego è una scorza troppo spessa per degli innocui artigli o un paio di piccoli denti.
Non ha paura di un gatto - questo si ripete -, non può avere paura di un fottuto gatto, ma basta un timido movimento di zampe per allarmare il suo istinto, indietreggiando il più possibile lontano dal divano.
È semplicemente routine a casa Mercury, una quotidianità che pochi capirebbero, ma non può essere messa in discussione - qui l’intruso è un altro, e il regale animale a quattro zampe lo sa e lo lascia ben intendere.

«Fred, il tuo gatto mi vuole uccidere.»
Squittisce invano allora, Roger Taylor, perché dalla stanza adiacente non giunge altro che una vibrante risata - risata che in qualsiasi altro contesto avrebbe ben apprezzato -, ma ora i suoi nervi sono troppo tesi per concedere attenzioni al compagno.
Solo lì, in quell’esatto punto, convergono le sue iridi celesti - ancora sul micio che, a differenza sua, se ne sta comodo sul bracciolo, lisciandosi il manto con quella sua lingua rosa che compare e scompare veloce.
Si sistema il pelo, il piccolo bastardo, e nella solitudine del salone, Roger si limita ad aspirare dalla sua sigaretta, muovendo il braccio nella speranza di non attirare ulteriormente lo sguardo del predatore.
«Chi? Tom? Non farebbe male ad una mosca.»
«Certo, come quella che ha lasciato mezza spiaccicata nell’atrio?»
La scena del crimine è rimasta intatta sul pavimento lucido, un segno nero, quasi impercettibile, ma non agli occhi attenti di Roger - sono cose che non si dimenticano, quelle.

«Non ti facevo così delicato, caro.»
E la voce di Freddie lo raggiunge come un sospiro caldo sulla nuca e solo ora, voltandosi, si rende conto di averlo lì vicino.
Si è degnato di venire in suo soccorso, un breve sorriso sulle labbra e tra le mani due cocktail appena preparati - sa come viziare tutti a casa, gatti e Taylor compreso.
«Io delicato? Cazzo, sembra di vivere in una giungla qui dentro.»
Si aspetta una risposta stizzita, offesa, ma Freddie non fa altro che guardarlo, quel suo paio di occhi seducenti si posano sul suo viso e Roger inizia a provare caldo, così distratto dalla malizia dell’altro da non accorgersi neppure della bestiolina che si sta strusciando ai suoi piedi.
È Tom che ha smesso di essere aggressivo con il nuovo arrivato, lasciando il divano libero per qualcosa di non detto, ma piuttosto scontato dall’espressione del padrone di casa.

«Si sta già abituando a te.»
Un mormorio sarcastico, e Roger ora crede di aver capito tutto - Freddie Mercury non è differente da quei gatti che tanto lo circondano, e la cosa, forse, non gli dispiace poi molto.

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Capitolo 2
*** II.Sigaretta ***


II.
Sigarette


 

Un sospiro profondo.
Cerca di non parlare, di non alzare la voce inutilmente, ma solo un breve passo lo divide da un momento di irrazionale rabbia e ciò che lo infastidisce è sapere che sì, come sempre, non servirà a nulla litigare per un motivo così sciocco.
Un altro sospiro profondo; riempie i polmoni dell’aria più pura che riesce a trovare, la cerca disperato, tenta di percepirla con tutti i sensi, ma la stanza è buia, grigia, inquinata dalla sgradevole puzza di tabacco che mai ha sopportato nella sua vita.
La percepisce già su di sé, impregna i suoi vestiti, mentre ogni tossica particella di fumo lambisce silenziosa la sua pelle, consapevole che una semplice doccia non basterà per far svanire l’odore.
Eppure, Brian è combattuto - lo è, forse come mai prima d’ora, perché voltandosi verso la giusta direzione, riconosce il poco di piacevole che quelle dannate sigarette simboleggiano.
Esattamente lì, su un divanetto logoro, due dita stringono un filtro consumato, il senso di nausea si dissipa e l’odore incriminato diventa sinonimo delle notti passate a comporre assieme, delle pigri chiacchierate appena svegli e di lui - quel bastardo di Roger, con i suoi arroganti sorrisi e battute sarcastiche.

«Terra chiama Brian May.»
Le parole riecheggiano nello studio per un paio di lunghi, lunghissimi secondi, sbalzando sulle quattro pareti prima di raggiungere il diretto destinatario.
Ma Brian non risponde, almeno non subito; si limita ad osservare la figura del batterista mentre immaginarie formule e inspiegabili numeri gli fluttuano attorno - una folle visione dopo settimane trascorse tra tazze di caffè e manuali universitari.
«Diamine, da quanti giorni non chiudi occhio?»
Suona come preoccupazione, ma non è; sarebbe strano, troppo strano, vedere Roger interessarsi a qualcun altro che non sia sé stesso - una dimensione che potrebbe esistere solo in un sogno e, in modo sciocco, Brian inizia a domandarsi se non sia effettivamente frutto di un lontano mondo onirico.
Ma la realtà non concede tempo per riflettere, al contrario, piomba su di lui senza alcuna gentilezza e il sentore di tabacco diventa ancor più forte quando Roger si lascia cadere al suo fianco.
«Sai, c’è chi studia seriamente qui dentro.»
«Scusami, Newton del ventunesimo secolo.»
Alza le mani in segno di resa, ma ride - come suo solito - perché trova qualcosa di terribilmente divertente nell’aria svampita dipinta sul viso di Brian; è atipica per un cervellone del suo calibro, ma può essere considerata adorabile, seppur Roger non sia così masochista da confessarlo.
Conosce May troppo bene - non si scambiano parole stucchevoli e altre leziosità, sarebbe tradire sé stessi, in un qualche strano modo; il loro rapporto merita più di certe convenzioni, e di sicuro nessuno dei due vuole apparire banale agli occhi dell’altro.
Sarà sciocco, ma è una verità incontestabile - scientifica, la chiamerebbe il chitarrista.

«Comunque, tu e il tuo adorabile tanfo di fumo potete ritornarvene dall’altra parte della stanza.»
Brian cerca di apparire inamovibile, davvero, ma un sorriso tremante giunge lì, sulla bocca, non appena nota l’espressione sul viso di Roger; cerca di apparire offeso, lo stronzo, ma pur essendo un ottimo musicista, non si può dire lo stesso delle sue abilità da attore dilettante.
«Ti adoro anche io, lo sai?»
Lo lascia con quello, un fugace bacio e, di conseguenza, con l'amaro sapore di sigaretta sulle labbra.




 
Angolo dell'autrice
A quanto pare la coppia più gettonata qui in giro è la Brian/Roger (non so perché ne sono stupita, sinceramente) - e mi frullava in testa da un paio di giorni l'idea di scrivere una storia incentrata sul fumo, dato che il mondo è diviso tra chi ha la nausea facile e chi è fumatore incallito. (scherzo, ci sono anche gli ibridi. Mai fumata una sigaretta in vita mia, ma ho aspirato tanti di quel fumo passivo che, mhbo, ci ho fatto l'abitudine.)
Comuunque, ne approfitto per ringraziare moltissimo chi ha deciso di recensire, seguire questa raccolta - non credo che stilisticamente sia il mio lavoro migliore, ma mi sto divertente a scrivere, quindi per ora è l'unica cosa che conta.

Alla prossima, finalmente cazzo con John!
 

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Capitolo 3
*** III.Specchio ***


III.
Specchio


Occhi incontrano occhi in un tacito scambio di sguardi.
Vacue iridi scure, ciglia che battono per un breve secondo, ora divenuto già passato insieme a quei minuti trascorsi nella più totale ignavia.
È peccato - pensa disinteressato John -, dicono sia peccato abbandonarsi all’inerzia, alla non-voglia di vivere, ma il proseguire senza un obiettivo preciso è l’unica cosa che accetta al momento e, ironicamente, gli riesce piuttosto bene.
Rimane in silenzio, allora, mentre il riflesso di un uomo che non più riconosce lo osserva lì, in uno degli specchi di casa, non esprimendo disapprovazione né rigidi giudizi.
Solo una timida goccia solca la sua guancia nel tentativo di lavar via i rimpianti, le parole non dette e le confessioni rimaste segrete nel suo animo.
E sono tante, davvero tante, le frasi che John avrebbe voluto pronunciare in tempi più floridi, nei giorni in cui poteva sentire ancora il canterellare di Freddie sfiorargli le orecchie, il calore del suo riso e il fervore delle sue esibizioni.
Si chiede ironicamente come potessero trovare armonia due personalità diverse come le loro e lo sa, già conosce la risposta, ma continua a cercarla in vano nella propria figura imprigionata nello specchio.
Poteva confessare, poteva dimostrare -, ma ora non gli resta niente altro che il ricordo delle occasioni perse, sfuggite per uno sciocco senso di timore che permane ancora sul suo viso.
La chiamano vigliaccheria, viltà, un modo per evitare di affrontare i problemi e gli ostacoli che la vita riserva, soprattutto alle persone che pensano di non meritarselo.

E John Deacon ha paura della morte, non esattamente della propria, ma di quel fatale pensiero che assedia la sua mente, lasciandolo senza più respiro.
È invasivo e lo insegue insieme alla sua fedele compagna: un’angoscia che, dopo ore di ripensamenti, lo fa sentire così dannatamente solo.
Freddie è morto, svanito da questa realtà dai colori affievoliti.
Freddie è morto e non si tratta di una verità contestabile, uno scherzo nell’attesa di vederlo sbucare di nuovo alle sue spalle.
Eppure, per un fugace attimo, gli pare di percepirlo vicino a sé, un sospiro caldo che appanna il vetro e una mano a carezzargli il volto.
Deve essere lui - cerca di ripetersi John; riconosce la sensazione dei suoi polpastrelli sulla pelle, le dita a percorrere le guance umide, e quasi si vergogna, ora, per aver pianto come uno stupido.
Di conseguenza non può che riconoscere il suo Io bambino, le stesse lacrime versate in pubertà per il padre ritornano, più amare e persistenti, per poi fare spazio ad una malinconica razionalità.

No, sa che si tratta di un semplice illusione, che Freddie non potrà mai ritornare e che, a differenza di ciò che alcune superstizioni raccontano, non esistono realtà alternative oltre ad uno sciocco specchio.
Sarebbe più semplice, dopotutto, naufragare in una di quelle dolci menzogne, ricucire una vita che ora non è più.
Ma non sceglie di nuovo la codardia, adesso vuole provare ad essere una persona diversa - per sé, per Freddie, per entrambi.


Il riflesso sorride.
Ecco i sentimenti che neppure la temibile morte potrà mai sopprimere.




 
Angolo dell'autrice:
Diciamo che non mi soddisfa pienamente (un 80-90% di successo?), ma sono comunque felice di averla scritta, davvero.
Aggiungo le note solo per dire che l'idea del riflettere davanti ad uno specchio dopo un lutto mi è venuta pensando a due tradizioni (che forse qualcuno già conosce, a quanto ho capito lo si faceva anche in sud Italia): nell'epoca vittoriana si coprivano gli specchi dopo una morte per timore di rimanere intrappolati dentro/l'anima del morto non poteva passare ad altra vita; lo stesso vale per la religione ebraica, ma in questo caso si coprono per concentrarsi sul defunto, piuttosto che sul proprio ego/narcisismo.
In questo caso, ho pensato che fosse un modo per John di "sfidare" sé stesso, riconoscendo come la morte di Freddie l'abbia colpito.
Altra cosa: potete leggerla come preferite, che sia un one-side-love mai dichiarato, ma anche la semplice sensazione di non aver mai mostrato abbastanza amore quando ce n'era tempo.

La prossima sarà ancora con John, ma sarà più allegra haha
 

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Capitolo 4
*** IV.Automobile ***


IV. Macchina


Roger si lascia cadere nell’automobile e il sedile scricchiola sotto il suo peso, seguito da un’orchestra di rumori che si susseguono senza una metrica precisa: lo stridere dei tergicristalli contro il parabrezza, le portiere che si chiudono e, infine, la dannata marmitta che continua a borbottare da più di cinque minuti.
Cerca di non rimproverare, di non cadere in un infinito turpiloquio contro il suo compagno di viaggio per il modo in cui trascura la sua stessa macchina e, fortunatamente, riesce a contenersi trovando una temporanea pace lì, fuori dal finestrino.
La sua vista si disperde per un attimo nel cielo lattiginoso, in quei lampi e nuvole dense che gli parlano, donando lui il picchiettare leggero della pioggia contro i finestrini.
È cosa strana, il mondo - questo pensa, osservando il modo in cui le gocce si scontrano alla fine del loro percorso, congiungendosi e diventando un tutt’uno perfetto.
È così strano, il mondo, poiché ne comprende molti fenomeni senza difficoltà, eppure una minuzia lo infastidisce, un’insidia che lo perseguita silenziosa dal momento in cui ha lasciato lo studio in compagnia di John.
Come un breve brivido, la percepisce sotto pelle, un alito di vento freddo che penetra oltre i suoi vestiti, scuotendogli le ossa e sobillando occulti dubbi nel suo animo.
Un’irrequietezza a cui non vuole dare un nome, ma che comincia a comprendere quando l’aria attorno a loro inizia a farsi tiepida, accompagnata dal lieve sospirare di John al suo fianco.
Il senso di stanchezza che è solito provare dopo una giornata passata in studio si discioglie nell’abitacolo, esattamente lì, sostituito da una punta di inaspettata timidezza che irrigidisce entrambi.
Per John non è umiliante, non potrebbe mai esserlo; ci sguazza felice nei silenzi, lo stronzo, avvezzo com’è al cheto tepore della sua macchina scassata.
Ma Roger, no, Roger non riesce a sopportare il condividere uno spazio così esiguo, il non aprir bocca; al contrario, sente di dover parlare, deve dire una qualsiasi cosa stupida perché la quiete tra di loro è una tipica, amara arma che Deacon usa troppo spesso per soggiogarlo ai suoi giochetti mentali.
E Taylor non ama sentirsi esposto - deve essere una sua scelta, non una situazione imposta gentilmente dall’altro.

«Non posso credere di essere seduto sulla tua macchina. Solo noi.»
Parla cercando di apparire composto, ma la sua voce lo tradisce un poco, tremante dal momento in cui esclama quelle parole.
Forse si tratta di una credenza estremizzata, ma Roger è davvero dell’idea che un’auto possa raccontare molto di una persona - è una verità assoluta, un gesto intimo nella sua banalità.
E ora riconosce John ovunque, non solo come il pigro guidatore al suo fianco; John Deacon è il pacchetto di sigarette sul cruscotto, la custodia del basso sul sedile posteriore e, ancora più invadente, il deodorante per auto che pizzica le narici di entrambi.
A Roger ricorda le vaghe immagini della scogliera, delle distese verdi e infinite della sua Cornovaglia, ma non sa se esserne contento o preoccupato; forse dovrebbe, eppure l’improvvisa complicità tra di loro lo frastorna un po’, come se avessero saltato troppe tappe del loro rapporto.
Il che è paradosso, riflettendo su quanto veloci solitamente fossero le sue esperienze notturne con randomiche ragazze dopo una buona serata in qualche pub.
Ora è cambiato, per il bene che vuole all’altro, ma il puerile imbarazzo che prova lo destabilizza, non sapendo esprimere a parole ciò che davvero vorrebbe confessare.

«Per favore, non farti venire in mente strane idee.»
John si abbandona ad un bisbiglio discreto e stringe il volante nel tentativo di concentrarsi sul tragitto, evitando di osservare il proprio riflesso nello specchietto retrovisore.
Ma Roger lo vede, lo nota, quel lieve rossore che si sta palesando sulle sue guance, e quasi si sente in colpa perché le sue parole sono state chiaramente fraintese.
«Per una volta non stavo pensando a nulla di malizioso, giuro.»; si morde la lingua per non aggiungere altre parole stupide, per dimostrare di non essere un infoiato in cerca di sfrenati divertimenti, ma l’espressione di John è impagabile.
No, non potrebbe mai lasciarsi sfuggire un’occasione del genere - ed è solo una proposta, una piccolissima proposta, la sua.
«Però, se ci tieni tanto...»
Ed è la sua mano a muoversi per prima, scivola contro il ginocchio di John e lì rimane, in attesa di una risposta che giunge poco dopo, inaspettata.

«Non so che cosa tu faccia con la tua, di macchina, ma mia è l’auto, mie sono le regole.»
È cosa strana, il mondo - e lo è ancora di più quando, invece che esserne intimorito, Roger trova l’improvviso lato austero di John inspiegabilmente intrigante.
Punzecchiarlo più spesso - lo terrà a mente per altre occasioni.




 
Note autrice:
Hey, ciao.
Ritorno con un paio di giorni in ritardo; speravo di poter mantenere la pubblicazione venerdì/lunedì, ma essendo in piena sessione, è un po' complesso mettersi a scrivere ad un ritmo decente.
Comunque, ecco la Joger! (O Dealor, o in qualsiasi altro modo la volete chiamare – tanto l'adoro lo stesso. Lo so che ho detto di non aver coppie preferite, ma questa la metterei comunque in cima ad una potenziale classifica, I'm a liar.)
Ci ho messo più del dovuto poiché in questi giorni sono caduta in un terribile (e per fortuna breve) blocco dello scrittore; alla fine ho optato per questo concetto: le automobili non sono tanto diverse dalle case, si è soliti dire “non fare caso al disordine” e così mi sono immaginata un Roger che prendesse estremamente sul serio il salire sull'auto di John per la prima volta, come se fosse una sorta di tappa importante per la loro relazione haha

Purtroppo questa è l'ultima fic della raccolta in cui appare Roger, mentre con la prossima si ritorna a Brian! Sì, mi era già mancato.





 

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Capitolo 5
*** V. Luna ***


V.
Luna


Le cicale cantano ed egli risponde.
Un frinire quieto che si disperde tra i fili d’erba in un punto non ben precisato della campagna gallese.
Le cicale cantano e la voce le accompagna con alcune note indefinite, eppur armoniose, dissolvendosi nell’aria di quella calda notte di agosto.
Brian sente tutto, ma nulla gli è concesso vedere: non una stella a tenergli compagnia in cielo, ma solo una distesa di blu cobalto, insieme ad una Luna che acerba attende Storione.
Uno sfuggente tono di familiarità lo pervade, lo rilassa, anche se il buio non lo aiuta a riconoscere la sagoma della persona che sta cercando; nonostante ciò, l’anonimato non lo intimorisce e il suo vagar leggero prosegue.
Continuando, si lascia alle spalle il viale sterrato, gli ultimi lampioni diventano fievoli fiammelle nella notte e solo voltandosi distratto, si rende conto di quanto si sia già allontanato dalla cascina dalla quale è partito.
E ora percepisce la sua destinazione vicina, con quel misterioso canto fattosi ad ogni passo un poco più lineare - sono parole, adesso, ciò che sfuggono dalle labbra che va bramando.
Parole che raccontano di domeniche pigre e di esistenze ordinarie - un’immagine così lontana dall’immacolata beatitudine di questa notte; eppure, tale litania è bussola improvvisata per il musicista che, abbassando lo sguardo, intravede un volto e capelli sparsi tra giunchiglie trascurate.

«Mi hai trovato.»
Intona la voce, e un sorriso placido si diffonde sul viso, così poco sorpreso dal giungere di Brian; quest’ultimo si perde nelle iridi colme di ovvietà e ne è certo, il suo arrivo non è un qualcosa di inaspettato.
Si sente in parte deluso dall’essere così prevedibile agli occhi dell’altro, ma è allo stesso modo lusingato - lusingato dalle costanti attenzioni che gli vengono dedicate.
Si conoscono a vicenda troppo bene e forse, una remota parte di lui, inizia a teme tanta complicità e affezione.
«Non ti stavo cercando.»
Allora mente, Brian, perché mai potrebbe rivelare una verità scomoda; non potrebbe confessare il tedio che lo assale quando non trascorrono tempo assieme.
Ma sa cosa cerca: un paio di brevi minuti, una semplice chiacchierata senza capo né fine, solo un saluto prima di coricarsi.
Desideri sciocchi per una mente così razionale.

«Brian May, sarai anche un ottimo compositore, chitarrista, amico, ma sei un pessimo bugiardo.»
Dovrebbe essere un rimprovero, ma il lieto sarcasmo che scivola sulla lingua pare nascondere altro - un abbozzo di complimento che Brian accoglie confuso, incapace di comprendere dove la loro conversazione si stia proiettando.
A quel punto, pensa per un lungo attimo prima di parlare e lascia che il silenzio si estenda verso un sopportabile infinito; qualcosa di intelligente dovrà pur nascere nella sua testa, prima o poi.
Deve solo capire quanto l’altro sia disposto a procrastinare.
«Aspetti ancora quelle parole.»
Ma è il bagliore timido della Luna a parlare al loro posto; la luce carezza le loro gote, accennando quel lieve imbarazzo che tutto rivela e tutto nasconde.
Potrebbero dirsi così tanto, ma un senso di inutilità si insinua nei loro animi e se lo chiedono, silenziosamente, si chiedono se avrebbe senso confessare quel grande, puerile amore reciproco.
Non ve n’è scopo se non spinti da un impulsivo istinto; ma Brian non è così, si fida troppo della propria logica per abbandonarsi a dimostrazioni pretenziose.
Freddie, invece – potrebbe essere tardi per fermare Freddie.

«Sai, credo che attenderò anche io.»
Stupisce pazientemente e, come un satellite, entrambi si preparano all'inevitabile plenilunio.





 
Angolo dell'autrice:
Fate finta che abbia senso eh-eh.
Scherzi a parte, dovrebbe essere ambientata indicativamente nel periodo in cui si trovavano ai Rockfield Studios. L'idea iniziale era quella di un confessione amorosa rimandata (ma semplicemente perché già palese a gesti) -, ma il concetto reale è che io non riesco a scrivere le parole "Ti amo" (mi danno il voltastomaco, prendetelo come un taboo affettivo haha) e quindi è uscita questa cosa.
Per specificarlo, Storione è il nome del plenilunio lunare ad Agosto - quindi i due non aspettano poi così tanto haha. + le giunghiglie sono, per farla più facile, i narcisi! Ho deciso di citare proprio questi fiori perché sono tra i miei preferiti e sono fiore nazionale del Galles.
Ultime cose:
- Cado nell'apatia totale nel confessarlo, ma a me la Brian/Freddie piace sul serio; so che non se la caga nessuno, quasi da nessuna parte, ma a me piace sul serio, avrei scritto dei due anche senza fare questa raccolta haha
- regalo una flashfic su qualsiasi coppia/personaggio a chi indovina il titolo della canzone cantata da Freddie
- La prossima sarà l'ultima con Brian *faccina mezza-triste* (Ma ormai credo che abbiate capito il giro, right? Quindi aspettatevelo insieme a John.)
Grazie!


 

 

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Capitolo 6
*** VI.Sguardo ***


VI. Sguardo


John si fa piccolo sul primo sgabello libero che trova in cucina, incurva la schiena e incassa le spalle, nascondendo un abbozzo di sorriso dietro alla tazza che tiene tra le mani.
Cerca di trattenersi, di non abbandonarsi ad un’espressione sfacciatamente compiaciuta, eppure un lieve pizzicore continua a lambirgli le gote, facendolo sentire uno sciocco.
Uno sciocco, sì, perché il suo interlocutore continua ad arricciare la punta del naso, infastidito, forse, dall’inusuale allegrezza da parte sua.
E John lo sa - eccome - sa di essere osservato da giorni, e persino ora percepisce un paio di occhi su di sé, uno sguardo che segue con minuziosa curiosità ogni suo movimento.
È un gioco silenzioso che tende all’infinito, un cercarsi vago nei momenti di pausa, interrotti solo ora dal chiacchierìo mattutino di Freddie e dalle freddure demenziali di Roger.

Lui, però, rimane immobile nell’angolo opposto della stanza senza alcun principio di parola sulle labbra.
Non un tentativo di conversazione né un sorriso di circostanza per mostrare agli altri di essere interessato al loro scambio di battute.
No, è inamovibile, Brian May, con un broncio sul viso incorniciato dai ricci e le dita a massaggiare pigramente la fronte, forse vittima di una fastidiosa emicrania o da un sonno tormentato da incubi.
Eppure, non tutti i suoi sensi sono intorpiditi dalla stanchezza; è la vista a rimanere sua fedele compagna, e non si lascia sfuggire tutte quelle espressioni timidamente buffe che John gli sta dedicando.
Un tentativo di comunicare senza proferire parola, ma è difficile - complesso -, considerando i due elementi di disturbo che non smettono di spettegolare tra un sorso di caffè e l’altro.


«John,» è a quel punto che sente il proprio nome vibrare tra le stoviglie, oltre le gambe del tavolo e la caffettiera, raggiungendolo come un timido refolo di aria fredda, «sei libero, oggi?»
Un silenzio imbarazzante si abbatte su di loro, un fastidioso spiffero che lo porta a socchiudere le palpebre, evitando l’invadente curiosità degli altri, testimoni di una conversazione che potrebbe essere rimandata in altra sede.
E non risponde, non subito, Deaky, lasciandosi inghiottire dal proprio riflesso nel tè che stringe tra le mani: cerchi concentrici rigano la sua figura, la deformano, abbandonandolo a quel lieve tremolio che invano cerca di trattenere.

Non si parlano spesso, lui e Brian, intimoriti da quel senso di formalità che pervade i loro animi quando si trovano da soli; lo sanno entrambi, è più semplice quando sono le parole di Freddie e di Roger ad occupare gli spazi vuoti che non sanno colmare.
Eppure, un cambiamento è giunto - John deve ancora capire come definirlo -, un qualcosa che li ha portati a scambiarsi qualche timida parola nelle notti più solitarie, abbozzi di esperienze e ricordi di vita che raramente condividerebbero.
E ora, forse in preda ad un attimo di indomita sfacciataggine, Brian supera il buio nella quale si nascondevano, esponendo il loro strano rapporto alle prime luci della mattina.
Al tiepido sole che penetra dalle finestre, ma non solo, anche a delle iridi vispe che oscillano da una parte all’altra della cucina, posandosi con puerile malizia sul viso dei due malcapitati.
Tocca a te trovare una scusa, Bri - John vorrebbe dirgli, ma le parole muoiono lì, in bocca, assassinate dalle occhiate inquisitorie dei presenti.

«Le pareti sanno ascoltare, ragazzi. Lo so che state svegli tutta notte.»
Roger sorseggia il suo caffè e non pare così stupito, ma la sua mancanza di sorpresa è ben colmata da Freddie che, invece, si volta verso Brian nel suo abituale modo drammatico.
«Siamo nella stessa band, non dovremmo avere dei segreti.»
Offeso, eppure incuriosito; John capisce che la situazione potrebbe degenerare facilmente, fraintesi per una questione di poco conto, ma una parte di lui vorrebbe abbandonare Brian al suo destino.
Poteva scegliere il silenzio, piuttosto che parlarne a colazione, e l’interrogatorio di Freddie non è che una conseguenza di una scelta che avrebbe dovuto ponderare prima.
È troppo tardi. Ma no, John è troppo buono per scaricare il suo chitarrista nel momento del bisogno.
«Solo noia, Freddie. Parlavamo di cose, niente di più.»
«Già, cose...»
Interviene Roger, invadente e sarcastico; le sue labbra si increspano in un ghigno accusatorio e Brian lo sa, lo conosce bene, una sua abnorme sciocchezza è inevitabile, a questo punto.
«John Deacon, davanti ai nostri occhi per tutto questo tempo. Attenzione, non stiamo parlando di una stupida ragazza abbordata in un pub, no. Brian ha scelto il genio: Deaky. Perché voi cervelloni vi attirate a vicenda, è biologia, fidatevi di un esperto.»
Segue un attimo di silenzio e reazioni miste colmano l’aria: imbarazzo che straripa oltre le finestre, stupore attraverso le mura che li circondano e di nuovo sguardi, tanti, taciti sguardi.
È un senso di smarrimento a screziare le iridi di John, sconcertato e timido davanti ad una rivelazione che, riflettendoci, non potrebbe completamente smentire.
Così le pareti della stanza sembrano farsi più strette, convergono verso di lui, lo soffocano, obbligandolo a cercare un rifugio che - ingenuamente - non può che ritrovare negli occhi dello stesso Brian.
L’uno lo specchio dell’altro, troppo imbarazzati per confessare una mezza verità, ma anche abbastanza maturi per accettare di essere stati scoperti.
E, in realtà, non sanno ancora dare nome a ciò che vive tra di loro, ma per ora si accontentano di una consolazione reciproca.

Nasce dagli animi, si manifesta nei loro occhi: complicità.

 
Angolo dell'autrice:
Ohi. Avevo in mente tutta un'altra cosa, ma a metà storia mi sono resa conto che non volevo buttare la mia idea iniziale in una flashfic, ci tenevo a fare una oneshot (o una long), quindi ho cambiato prompt all'ultimo haha
L'ultima volta avevo detto che mi piaceva la Brian/Freddie e che nessuno se la cagava; adesso rinnovo doppiamente la cosa, dicendo che adoro la John/Brian, ma è praticamente il vuoto cosmico nel fandom. Ma io ci scrivo comunque su, non ci posso fare nulla. ¯\_(ツ)_/¯ (solo per questa ho scritto 800 parole, che vergogna!)
Questo per dire che ci scriverò di nuovo fino a quando non mi annoierò.

Alla prossima flashfic con Freddie e Mary (;

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Capitolo 7
*** VII.Letto ***


VII.
Letto


Albeggia e i primi raggi di sole sfiorano le tende, intrufolandosi dove riescono nella stanza completamente buia.
Una linea di luce tiepida tratteggia il pavimento, scavalca i mobili e lì si ferma, per coincidenza, carezzando il viso appisolato di lei.
Lei, Mary, la graziosa Mary - Freddie pensa solo a questo guardandola, forse in balia di un’inaspettata bontà mattutina o, probabilmente, perché sa di essere un intenditore, un esperto in materia di bellezza.
Ma Mary non è soltanto bella, sarebbe riduttivo, in fondo, e lo stesso Freddie non si accontenterebbe di dormire a fianco di una ragazza che non ha altro dalla sua, se non un gradevole aspetto.
Perché tutte le ragazze d’Inghilterra e del mondo potrebbero essere come lei, avere dei capelli morbidi come i suoi, un sorriso invitante e delle forme giuste nei posti giusti.
Ma le altre, no, le altre semplicemente non sono Mary; le sue sono peculiarità che si scoprono scavando a fondo, oltre alle consuetudini e tutte le convenzioni che la società chiede ad entrambi.

Scopre il lato segreto di lei nei momenti di solitudine, quando non vi sono altri occhi ad osservarla, ancora lì, accoccolata in quel fagotto di coperte e lenzuola dove tutti e due adorano nascondersi.
Si celano da un mondo che potrebbe non capire, non comprendere ciò che è nato e ancora vive tra loro - e non ne hanno bisogno, non chiedono il beneplacito degli sconosciuti, della realtà oltre alle persiane socchiuse.
A Freddie è sufficiente quel loro letto disfatto, il pianoforte così vicino alle dita per poter improvvisare una rapsodia, accompagnando il loro risveglio con un insieme di note a vibrare nell’aria.
E nell’aria, la stessa che odora ancora del loro ultimo amplesso, percepisce anche il suo respiro - appena affannoso, come se qualcosa o qualcuno nel mondo onirico la stia trattenendo dall’aprire gli occhi.
La sua bocca accenna dei mormori illogici, dei sospiri che formano poco a poco un contenuto, svelandosi non appena Freddie la stringe tra le sue braccia.

«Un giorno dovrai dirmi cosa trovi di interessante nel guardarmi dormire, lo sai?»
Domanda Mary, schiudendo le palpebre e posando il primo sguardo assonnato sul volto di Freddie; quest’ultimo si abbandona al pizzicore delle proprie labbra, concedendosi una risata che soffoca non appena lei ricambia il suo abbraccio.
«Interessante, non so,» le risponde canticchiando, troppo distratto dal lieve tremolio delle sue palpebre per formulare una qualsiasi frase di senso compiuto. «Ma sei diversa quando dormi.»
Differente - innocua, naturale, vulnerabile; potrebbe trovare un’infinità di parole per descrivere la magnificenza del sonno, un gesto così spontaneo, eppure sottovalutato.
Ma non da Freddie, non da chi ha occhi cauti per osservare e orecchie attente per sentire, udire piccolezze che, altrimenti, svanirebbero nella sciocca foga di inizio giornata.

«È un modo gentile per dirmi che parlo troppo da sveglia, Freddie?»
La voce di Mary si assottiglia, diventando acuta proprio sulle lettere che compongono il nome del fidanzato; cerca di sembrare seria, offesa, ma le bastano gli occhi di Fred leggermente sgranati per mettersi a ridere.
«Io?! Non mi permetterei mai, mia cara.»
Affogano nelle proprie risa e lì rimangono, in quel letto che posticipa il dovere di affrontare il mondo esterno.




 
Note autrice:
Hey, eccomi ritornata! Ho passato gli ultimi giorni a letto perché non sono stata molto bene, quindi ho pubblicato più tardi del previsto, ma ecco la storia.
Mi è piaciuta moltissimo la scena nel film in cui Freddie suonava le prime note di Bohemian Rhapsody con accanto Mary, a letto, appunto. Quindi ne ho approfittato per raccontare di un momento affettuoso appena svegli. (No, ho scritto la storia perché sono pigra e starei io a letto tutto il tempo)
E niente, spero la raccolta vi sia piaciuta! Ci tengo a ringraziare tutti quelli che mi hanno lasciato una recensione, ho apprezzato molto i vostri commenti e le vostre opinioni.
Vi lascerò, in realtà, con un bonus che avevo già pianificato di scrivere appena ho pubblicato la prima storia; quindi ci rivedremo di nuovo con Freddie e Jim (non potevo dimenticarli <3)

Alla prossima!


 

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