Star Trek Universe Vol. I: Il ritorno dei Costruttori

di Parmandil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** La dodicesima regina ***
Capitolo 3: *** Sezione 31 ***
Capitolo 4: *** La Macchia di Rovi ***
Capitolo 5: *** Sfera ***
Capitolo 6: *** Nel ventre della Balena ***
Capitolo 7: *** Fuochi di guerra ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Star Trek Universe Vol. I:

Il ritorno dei Costruttori

 

 

SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA.

QUESTI SONO I VIAGGI DELLA

NAVE STELLARE ENTERPRISE.

LA SUA MISSIONE È ESPLORARE

STRANI, NUOVI MONDI,

SCOPRIRE NUOVE FORME DI VITA

E NUOVE CIVILTÀ,

FINO AD ARRIVARE LÀ

DOVE NESSUNO È MAI GIUNTO PRIMA.

 

 

-Prologo:

Data Stellare 2540.072

Luogo: Macchia di Rovi (dove pochi sono giunti prima...)

 

   Oscurità.

   Freddo.

   Un ticchettio insistente, quasi metallico. Tic-tic-tic-tic...

   Alexander Chase, ufficiale della Flotta Stellare, si sforzò di aprire gli occhi, ma era come se il suo corpo non rispondesse. Non riusciva a muoversi. Non riusciva nemmeno a pensare con chiarezza. Era un sogno? Era quello strano dormiveglia che ci coglie al mattino, quando spuntano i primi barlumi di coscienza, ma il corpo è ancora intorpidito? Chase non conosceva la risposta. Ma sapeva che c’era qualcosa di orribilmente sbagliato. Si concentrò sui propri sensi, nello sforzo di risvegliarli uno alla volta.

   L’aria era fredda, secca, rarefatta, come in alta montagna. E quel ticchettio – insistente, fastidioso – non finiva mai. A volte era più forte, come se la fonte si avvicinasse. In certi momenti sembravano essercene molti, che si sovrapponevano. Chase sentì una superficie liscia e dura sotto i polpastrelli. Si rese conto di esservi steso sopra. Era steso su qualcosa di... metallico? Di certo non era il suo letto. Era forse caduto sul pavimento, dopo essersi rigirato nel sonno? Impossibile... nel suo alloggio c’era la moquette. Quindi dov’era?

   Il giovane corrugò la fronte, cercando di rimettere in funzione il suo cervello. «Ricorda!» si disse. «Sei Alexander Chase, tenente dell’Enterprise. Dell’Enterprise! Ricorda l’addestramento in Accademia… che fai, quando ti accorgi che il nemico ti ha drogato?».

   Chase assunse il controllo della respirazione. Prese a inspirare profondamente con il naso, espirando con la bocca. Strinse i denti e serrò i pugni, fino a conficcarsi le unghie nei palmi. Un fremito percorse il suo corpo, da capo a piedi. Con un puro sforzo di volontà, il giovane aprì gli occhi, sebbene le palpebre fossero pesanti come saracinesche.

   Sulle prime non ci fu quasi differenza. Ma poco alla volta comparvero delle macchie di luce bianca e rosso cupo. Chase si sforzò di metterle a fuoco. Erano pannelli luminosi alle pareti. Per un attimo la visione tornò a sfocarsi. Chase strinse gli occhi, scosse la testa, li riaprì. Ora i contorni erano più definiti. I dettagli apparvero davanti a lui, prima quelli vicini, poi anche i più lontani. Chase li osservò attentamente, cercando di capire dove si trovava.

   Era una stanza piuttosto angusta, dal soffitto basso. La luce proveniva da numerosi pannelli biancastri e il pavimento la rifletteva, colorandola di rosso sanguigno. C’era anche qualche sottile pannello azzurro, ma nel complesso la camera era alquanto buia. Tutto era di metallo. Ovunque c’erano attrezzi sconosciuti, dalle forme aliene, inquietanti. Sembrava un laboratorio... ma di che genere? E chi lo gestiva?

   Chase capì di essere steso su un lettino. Probabilmente un lettino medico, a giudicare dagli strani arnesi che spuntavano ovunque. Era in infermeria? Ma quale infermeria? Di certo non una dell’Enterprise. La tecnologia che lo circondava era estranea. Nulla a che vedere con la Flotta Stellare, o con altre organizzazioni federali. Si trovava forse in un ospedale alieno? E se sì, come c’era arrivato?

   Chase cercò di alzarsi, ma solo allora si rese conto che non poteva. Ceppi metallici gli serravano polsi e caviglie, imprigionandolo sul lettino. No, sul tavolo operatorio, si disse notando il particolare più inquietante. Su di lui incombeva un sottile attrezzo snodato: un braccio metallico che terminava in due lame seghettate. Erano come chele di un granchio, leggermente ricurve verso l’interno. Affilate com’erano, avevano un’aria micidiale. Chase non dubitò che potessero ucciderlo.

   Inclinando la testa da un lato, vide accanto a sé un altro lettino. C’era sopra qualcuno, una donna... ma non riusciva a vederla in viso. Comunque non si muoveva; con ogni probabilità non era cosciente. Chase stava per chiamarla, ma sentì che il ticchettio aumentava di volume. Si stava anche facendo più rapido, più agitato. Girò la testa dall’altra parte. E vide i padroni di casa.

   Erano due, indaffarati attorno ai comandi di un incomprensibile strumento tecnologico. Indossavano ampie vesti con cappuccio, che ricordavano vagamente il saio di qualche ordine monastico. Poiché gli davano le spalle e i cappucci erano alzati, Chase non scorgeva nulla del loro aspetto. Vedeva solo le pesanti tonache, color oro brunito, che luccicavano a ogni movimento. Ma non dubitò che i proprietari fossero alieni. Dovevano esserlo parecchio, per emettere quegli schiocchi. Aguzzando la vista, Chase notò le loro mani. Erano mostruose, con due sole dita enormi, dai lunghi artigli. La pelle era violacea e squamosa.

   Una delle creature si girò lentamente. Subito Chase chiuse gli occhi e ricadde sul lettino, fingendosi ancora privo di sensi. Sentì dei passi in avvicinamento. Gli schiocchi erano vicinissimi, ora. E quell’odore... sembrava pesce fritto. O zuppa di pesce andata a male. Comunque non era amichevole. Niente di quella situazione lo era.

   Chase si sforzò di continuare la sua finzione, ma era difficile controllare il respiro. Si sentiva soffocare, avrebbe voluto urlare. Il sudore gli imperlava la fronte e il cuore gli batteva a mille. In tutta la sua vita, Chase non era mai stato così terrorizzato. A che scopo fingere? Se quelli erano medici, o comunque scienziati, si sarebbero certamente accorti che era cosciente.

   Quando un lungo ago gli perforò il collo, arrivando fino al midollo spinale, il giovane superò il punto di rottura. Lanciò un grido animalesco, spalancò gli occhi... e si trovò faccia a faccia con il suo aguzzino. Non era umano, ovviamente, e neanche umanoide. Aveva un muso violaceo e squamoso, da pesce. Gli occhi erano enormi e sporgenti. Per un attimo rimasero fissi, mentre l’essere lo studiava. Poi si mossero indipendentemente in tutte le direzioni, come quelli di un camaleonte, accompagnati da un ticchettio concitato.

   «Chi... sssiete?! Che... volete da me?!» biascicò Chase, con la bocca intorpidita. «Lasciatemi... brutti... mostri!». Era un incubo, e niente del suo addestramento all’Accademia – o dei suoi anni di servizio sull’Enterprise – poteva salvarlo. Ti trovi legato a un tavolo operatorio, mentre misteriosi esseri anfibi fanno esperimenti su di te, comunicando a schiocchi... che fai? Non puoi muoverti; sei così intorpidito che neanche riesci a parlare come si deve. A che ti servono tutte le lezioni sul Primo Contatto e la diplomazia spaziale? A che ti serve essere Tenente sull’Enterprise? No... non c’è niente che possa frenare il terrore atavico della trappola. Il panico di un animale in gabbia. Chase si scosse, lottando furiosamente per liberarsi, pur sapendo che mai avrebbe spezzato il metallo alieno che lo serrava sul tavolo. Urlò a squarciagola...

   ... e si alzò, madido di sudore, col cuore che batteva all’impazzata. Si guardò freneticamente attorno, alla ricerca dei sequestratori alieni. Ma non c’era traccia di loro, né del laboratorio. Chase si rese conto di essere nel suo alloggio sull’Enterprise. Era steso sul letto, il suo morbido letto. Dalla finestra sopra la testata, la fioca luce delle stelle illuminava appena i contorni familiari della camera. Le coperte erano sparpagliate attorno a lui, in disordine. Doveva essersi agitato parecchio, durante il suo... incubo, ma certo. Non poteva essere altrimenti. Si era trattato solo di uno spaventoso incubo.

   «Computer, luci» gracchiò il giovane, ancora scosso. I pannelli luminosi entrarono in funzione e una calda luce diffusa, color crema, rischiarò l’alloggio. Sì, quella era proprio la sua piccola casa nello spazio. Vedere gli oggetti familiari attorno a lui lo rincuorò. Poco alla volta, il respiro e il battito cardiaco si normalizzarono. Chase ricadde sul cuscino e si passò le mani sul volto, asciugandosi il sudore. Era stato il peggior incubo della sua vita. Il più terrorizzante, e anche il più realistico. Gli sembrava ancora di sentire quell’inquietante ticchettio, quel lezzo di pesce marcio... e il dolore dell’iniezione, già. Si passò la mano tutt’intorno al collo, tastando con prudenza, ma non c’era nulla d’insolito. Quel dolore basso e pulsante stava rapidamente svanendo. Doveva essere un banale intorpidimento; forse aveva dormito nella posizione sbagliata.

   «Computer, che ore sono?» chiese con voce più calma.

   Il computer si attivò con il familiare bip-bip. «Sono le 5:47» rispose la rassicurante voce femminile. «La sveglia è fissata alle...».

   «Sì, lo so, dovrei dormire ancora un’ora» l’interruppe Chase, seccato. «Ma chi si riaddormenta, dopo uno spavento del genere?» disse, stropicciandosi gli occhi.

   «La sua domanda non è riconosciuta; prego riformulare» rispose il computer.

   «Lascia perdere» disse Chase, alzando gli occhi al soffitto. Era incredibile che, dopo secoli d’Intelligenze Artificiali – androidi, ologrammi – i processori delle astronavi fossero ancora così stupidi. Ma era una cosa voluta. Gli esperimenti con le IA avevano dimostrato che, se si dava un cervello pensante all’astronave, si creavano conflitti con l’equipaggio. Molti si mettevano a bisticciare con il computer, o a fargli richieste strampalate. E se il computer era in disaccordo con le scelte del Capitano, si rischiava un pericolosissimo ammutinamento cibernetico. Piuttosto era meglio usare un computer “stupido”, non autocosciente, e contare sull’equipaggio.

   Chase era troppo scombussolato per rimettersi a dormire, e comunque mancava poco alla sveglia. Tanto valeva alzarsi. Si levò il pigiama, andò in bagno e fece una doccia sonica, sperando che lo aiutasse a riprendersi.

   «Diario di bordo, data stellare 2540.072» disse a occhi chiusi, mentre le microonde soniche lo ripulivano da capo a piedi. «Stanotte ho fatto un incubo pazzesco. Era... beh, iperrealista. E angosciante. Sono ancora scosso. Forse dovrei parlarne col dottore... o magari col Consigliere. Uhm... meglio di no. Ormai li conosco. Mi suggerirebbero di distrarmi col ponte ologrammi, ma non ne ho bisogno» bofonchiò.

   Finita la doccia sonica, Chase indossò l’uniforme. Osservando i gradi sul colletto, ritrovò un po’ di buonumore. In pochi anni di servizio era passato da Guardiamarina junior a senior, poi a Tenente, e ormai era nell’aria la promozione a Tenente Comandante. Non che ci fossero state grandi fatiche o rischi. Erano passati i tempi avventurosi di Archer, Kirk e Picard. I tempi in cui le navi della Flotta Stellare si avventuravano in regioni della Galassia mai cartografate. Adesso una cosa del genere sembrava folle, irresponsabile, o quantomeno bislacca.

   Nei cinque anni che Chase aveva passato a bordo, l’Enterprise-I si era limitata a pattugliare lo spazio federale. Era una nave di classe Altair, dall’inconsueta forma a boomerang, con la plancia a prora. La sezione motori era lunga e sottile, quasi ad ago. Le gondole quantiche, eredi delle vecchie gondole a curvatura, erano anch’esse affusolate e si agganciavano alle estremità del “boomerang”. Una forma così esile comportava uno spazio limitato a bordo. A farne le spese erano hangar, armamenti e persino la strumentazione scientifica, ridotti al minimo. Non era previsto che questa classe ne avesse un gran bisogno, essendo progettata per meri scopi di pattuglia.

   L’Enterprise-I ne era un buon esempio. A volte sorvegliava le rotte commerciali interne, che univano pianeti e colonie, avamposti e stazioni, in un’invisibile ma indispensabile sistema circolatorio. Altre volte controllava il perimetro esterno della Federazione, ma sempre rimanendo prudentemente di qua dal confine. Il Capitano Vorix diceva che quando una società diventava matura, raggiungendo il suo pieno potenziale, non aveva più bisogno di avventurarsi in regioni selvagge e ostili. Tutto era perfetto così com’era. «Ma così non si scoprono nuovi mondi, nuove forme di vita e civiltà» si disse Chase, guardandosi allo specchio e sospirando. In effetti, l’Enterprise-I non ne aveva mai scoperta nessuna. I momenti più emozionanti erano stati alcuni scontri con i pirati di Orione e i cacciatori Hirogeni. Nulla di veramente pericoloso, non per l’ammiraglia della Flotta Stellare. L’Enterprise-I faceva sì che le rotte spaziali fossero sicure, che i cittadini della Federazione potessero viaggiare e commerciare liberamente. Partecipava a conferenze scientifiche, a cerimonie e incontri diplomatici. Sondava i sistemi stellari già conosciuti, registrando ogni minimo cambiamento. Questo era tutto.

 

   Chase lasciò il suo alloggio e si diresse verso la sala mensa. Siccome era più presto del solito, non incontrò quasi nessuno; il personale del turno di notte non era ancora smontato. Anche la sala mensa era quasi deserta. Solo un paio di tavoli erano occupati, da due gruppetti di ufficiali che Chase non conosceva granché. Dopotutto c’erano 825 persone a bordo: non si poteva conoscere tutti.

   «Una zuppa plomeek» ordinò al replicatore alimentare. Scodella, cucchiaio e zuppa comparvero con il tipico ronzio delle molecole risequenziate. Chase ne aspirò il profumo: tenue, come quasi tutti i piatti vulcaniani, ma gradevole. I Vulcaniani avevano un odorato finissimo, perciò non amavano la cucina tropo speziata. Recandosi al suo solito tavolo, Chase allungò lo sguardo verso i colleghi, per vedere cosa stavano mangiando. Restò stupito e un po’ disgustato nel vedere che tutti – anche gli Umani – avevano grosse scodelle piene di larve. Doveva essere una prelibatezza Ferengi, pensò Chase. I Ferengi andavano matti per vermi e bacherozzi vari, preferibilmente vivi. E da quando erano entrati nella Federazione, le loro discutibili usanze alimentari si erano diffuse a macchia d’olio.

   Chase sedette in modo da poter guardare i colleghi. Sorseggiò con calma la zuppa plomeek. Ogni tanto alzava lo sguardo, per vedere come si comportavano. Notò che non usavano posate: ficcavano le mani nude in quel verminaio, raccoglievano le grasse larve giallognole e se ne riempivano la bocca. Inghiottivano quasi senza masticare. Chase si fece un appunto mentale: mai andare in sala mensa prima dell’orario consueto. C’era gente dagli strani gusti, a quell’ora.

   «Guarda chi si vede! Posso unirmi a te?» trillò una calda voce femminile, che Chase conosceva bene.

   «Certo, Serleen. Come vedi, non ci sono problemi di spazio» sorrise il Tenente, accennando alla sala semideserta. Alzò gli occhi verso la sua collega e amica. Serleen N’Rass era una Caitiana, nativa del pianeta Ferasa. Per ragioni incomprensibili agli scienziati, la sua gente aveva una spiccata somiglianza con i felini terrestri. Le differenze principali, oltre all’intelligenza, erano la postura eretta e le dita prensili, simili a quelle umane (ma pur sempre con artigli retrattili).

   Serleen sedette graziosamente davanti a Chase, lasciando che la lunga coda leonina penzolasse a lato della sedia. Aveva una gran criniera fulva, pelliccia color crema e grossi occhi gialli, dalle pupille verticali. Posò sul tavolo il suo pasto, un soufflé di hasperat.

   «Lo mangi per colazione? Non finisci mai di stupirmi» commentò Chase. Al contrario della cucina vulcaniana, quella bajoriana era molto speziata. Il profumo del soufflé era fortissimo.

   «Sai che mi piace sperimentare cose nuove. La settimana scorsa ho scoperto la cucina bajoriana, e ne sono già dipendente» scherzò Serleen. Il primo boccone sparì fra le sue zanne acuminate.

   «Basta che non passi a quella Ferengi» commentò Chase.

   «Come?» si stupì Serleen.

   «Lascia stare». Chase si concentrò sulla sua minestra.

   «Uhm... allora, mi dici perché sei così mattiniero?» chiese la Caitiana, cambiando argomento.

   «Mi sono svegliato in anticipo. Per via di un brutto sogno» borbottò Chase, che avrebbe preferito dimenticarselo.

   «Ah, ecco cos’è. Non volevo dirtelo, ma... hai una brutta cera» disse Serleen. «Sembra che tu abbia visto il Diavolo in persona».

   «Qualcosa del genere» ammise Chase, controvoglia. «Ma che mi dici di te? Anche tu sei più mattiniera del solito».

   «Beh, in effetti... è da qualche giorno che anch’io non dormo bene» ammise la Caitiana. «Quando mi sveglio, ho l’impressione di essermi appena coricata. Anzi, mi sento più stanca al mattino che alla sera».

   «Per me è lo stesso» disse Chase. L’Umano e la Caitiana si guardarono negli occhi, leggendovi la reciproca stanchezza.

   «Senti, odio fare domande stupide, ma... non potrebbe c’entrare in qualche modo la Macchia di Rovi?» chiese Serleen dopo qualche secondo.

   «Come? No, non credo proprio!» esclamò Chase. «Non finché pattugliamo il perimetro esterno. A meno che tu non ci abbia portati dentro per sbaglio» scherzò.

   «Ah ah. Senti, lo so che sono solo una stupida timoniera» ironizzò Serleen. «Ma tu che hai mansioni scientifiche, avrai fatto qualche lettura della Macchia. Sai, i sensori – quelle lucine sulla tua consolle – servono a questo» ironizzò.

   «Sai quant’è complicato avere letture decenti della Macchia» sospirò Chase. «La Flotta la conosce da quattrocento anni, eppure non esistono ancora mappe complete delle sue zone più interne. Anche perché muta in continuazione. Resti di supernove, radiazioni metafasiche, fluttuazioni di falso vuoto... l’incubo dei naviganti. Per non parlare degli ordigni bellici inesplosi».

   «Ma è nello spazio federale; sarebbe ora d’esplorarla come si deve!» obiettò Serleen.

   «Se riesci a convincere il Capitano Vorix, ti offrirò soufflé per un anno» sogghignò Chase.

   «Per carità, ricordo ancora la ramanzina che mi fece quando sfiorammo le Badlands» fremette Serleen. «Perché entrare in una regione pericolosa, se la puoi circumnavigare?» disse, imitando il tono serioso del Capitano. Lo fece a bassa voce, per non essere udita dagli altri ufficiali presenti in sala. «Però, scherzi a parte, vorrei davvero che ci entrassimo» aggiunse, facendosi seria.

   «Perché?».

   «Perché ieri sera ho consultato il database, e ho notato che la Macchia non ha fatto che espandersi da quando la conosciamo» spiegò Serleen. «In particolare nell’ultimo secolo c’è stata un’impennata di anomalie strane e pericolose. E nessuno sa il perché! Presto le colonie e gli avamposti al confine saranno minacciati. Come anche il pianeta Ba’ku, che ci sta dentro. Finora è stato in una bolla di spazio calmo, ma non lo resterà a lungo».

   «Sarebbe un problema per i vacanzieri» rispose cinicamente l’Umano. «In compenso i Risiani ne sarebbero entusiasti: il loro pianeta tornerebbe in cima alle prenotazioni». La rotta per Ba’ku era l’unica che si addentrava nella Macchia. Tanto interesse dipendeva dagli anelli del pianeta, che emettevano speciali radiazioni: invece di danneggiare il DNA lo riparavano, allungando la vita. Da quando Ba’Ku era divenuto un protettorato della Federazione, il flusso di turisti era costantemente aumentato.

   «Guarda che parlo sul serio!» disse Serleen, soffiando irritata.

   «Anch’io. Quando c’è un mistero del genere, dovremmo indagare. Invece... bah! Sai cosa penso della Flotta? Che abbia perso la vocazione!» disse Chase, sfogando il suo malessere e la sua frustrazione. «Nessuno si azzarda più a esplorare. Per non correre rischi, ci accontentiamo di pattugliare i confini... che non si espandono da mezzo secolo. Oh certo, facciamo da polizia. Ma non è per questo che mi sono arruolato. Sai che c’è scritto, sulla targa commemorativa di questa nave? “Per arrivare là dove nessuno è mai giunto prima”. È il motto di tutte le Enterprise. Ma quelle del passato, pur inferiori in tecnologia, avevano Capitani ed equipaggi che volevano fare la differenza. Quando c’era un problema, loro lo affrontavano, invece di scansarsi. E in genere lo risolvevano».

   «Pensi che fossero migliori di noi?» chiese Serleen turbata, stropicciandosi una ciocca della criniera rossiccia.

   «Di certo erano più audaci» sospirò Chase. «Pensa a noi Umani. In appena un secolo ci siamo risollevati dalla Terza Guerra Mondiale, abbiamo inventato la propulsione a curvatura, costruito astronavi e fondato colonie, trovato alleati e respinti i nemici, fondato la Federazione!» esclamò, contando sulle dita. «Invece, nell’ultimo secolo, che abbiamo fatto? Niente di niente!» proseguì accalorandosi. «La maggior parte di noi è così... grassa e felice che non sa nemmeno perché esiste la Flotta Stellare. Siamo più numerosi che mai, eppure la Flotta è pesantemente sotto organico. La maggior parte degli ufficiali è attempata e presta servizio su navi fatiscenti. E i più giovani... beh, lo sai. La maggior parte dei nostri coetanei sono impreparati contro le avversità. Noi due abbiamo fatto carriera in fretta, ma non perché siamo eccezionali. Noi siamo normali; è il livello medio che si è abbassato».

   Conclusa la tirata, Chase tacque. Per un po’ rimasero entrambi in silenzio, pensando a quante volte – in Accademia e poi in servizio – avevano visto sconcertanti dimostrazioni d’inadeguatezza. Se la maggior parte dei sistemi non fosse stata automatizzata, probabilmente l’equipaggio non sarebbe neanche riuscito a far funzionare l’Enterprise.

   «Scusa se ho tirato in ballo la Macchia. Non pensavo che fossi così giù di corda» disse infine Serleen.

   «Sarà l’insonnia».

   «Beh, fatti dare qualcosa dal dottore. Io penso che ci farò un salto, a fine turno. Comunque cerca di restare normale!» disse Serleen vivacemente.

   «Che intendi?».

   «Andiamo, l’avrai notato che ultimamente i nostri colleghi sono strani. Hanno tutti quella faccia da funerale! Mai un saluto, mai un sorriso. C’è gente che conosco da anni, e di colpo manco mi saluta! Come se non mi conoscessero più».

   «Sì, l’ho notato. Forse anche loro dormono male» mormorò Chase, dando un’occhiata ai suoi colleghi, quelli che stavano mangiando larve. «Nel loro caso potrebbero essere problemi di stomaco. Hai visto che hanno nel piatto?».

   «Non farmici pensare» rabbrividì Serleen.

   Nel tempo trascorso dall’inizio della conversazione, la sala mensa aveva cominciato a riempirsi. Erano gli ufficiali del primo turno che si preparavano a entrare in servizio, sostituendo quelli del turno di notte. Chase notò che erano in tanti ad aver sviluppato una passione per i vermi e le larve. «Ma sarà proprio cucina Ferengi?» si chiese. Quelli che erano in mensa al suo arrivo avevano ormai finito il pasto. Si alzarono in piedi contemporaneamente, riposero le ciotole con gesti sincronizzati e uscirono dalla mensa, camminando al passo. Tutto senza dire una parola e senza muovere un solo muscolo del viso. Passi la noia della routine, ma quell’atteggiamento parve eccessivo a Chase. Sembrava che lui e Serleen fossero gli unici a provare qualche emozione, anche se non delle migliori. Il Tenente desiderò aver legato con un maggior numero di colleghi, così avrebbe notato meglio i cambiamenti.

   «Senti, ti va di andare sul ponte ologrammi, stasera?» propose Serleen.

   «Come?» fece Chase, che si era distratto.

   «Il ponte ologrammi... ho parecchie ore arretrate» spiegò la Caitiana. «Potremmo divertirci un po’... insieme» ammiccò. Le sue orecchie fremettero e la coda a ciuffo si agitò dietro la sedia.

   «Che hai in mente, di preciso?» chiese Chase, accorgendosi che l’amica si era messa a flirtare.

   «Oh, andiamo! Ci conosciamo dall’Accademia e ancora non sai i miei gusti?» ridacchiò Serleen, facendo scintillare i denti aguzzi. «Io amo le sensazioni forti. Frell! Che gusto c’è a vivere, se non puoi sentirti vivo?! Stavo pensando a qualche programma piccante, per risollevarci il morale. È da una vita che voglio provare Schiavo d’amore vulcaniano, ma non ho mai trovato il partner adatto».

   Chase fischiò sommessamente. «Hai detto poco! Non credo che qualcuno possa sopravvivere alla saga completa».

   «Non ho mica detto di farla in una volta sola! Possiamo farci un capitolo per volta» suggerì Serleen.

   «In Modalità Soggettiva?» chiese Chase, circospetto.

   «Certo, che domande! Credi che mi accontenti di fare da spettatrice? Dai, ci divertiamo! Io sarò T’Lana, e tu il povero Shmun sconvolto dal pon farr…» sogghignò la Caitiana.

   Visto che il giochetto si stava facendo serio, Chase pensò di correre ai ripari. «Basta così. Non sarebbe... appropriato» disse, alzando l’indice in gesto di diniego.

   «Perché no?!» chiese Serleen, stupita e un po’ frustrata dall’inaspettato rifiuto.

   «Siamo colleghi» rispose Chase, imbarazzato.

   «E che vuol dire? Non stiamo mica violando il regolamento!» rispose la Caitiana con veemenza. In effetti il codice della Flotta non proibiva le relazioni tra colleghi, finché erano condotte con discrezione e non influivano sul lavoro.

   «Siamo anche amici. E vorrei che lo restassimo» precisò Chase.

   «Guarda che è solo un gioco. Non è come una vera relazione...» cominciò Serleen, ma poi si fermò. I suoi occhioni gialli si spalancarono, mentre le pupille a fessura si restrinsero. «Non è questo il problema, vero? È una questione razziale. Non mi vuoi perché ho la pelliccia, la coda e tutto il resto».

   «Lascia stare questo discorso...» cominciò Chase, a disagio.

   «Perché dovrei, visto che ho ragione? Per tua informazione, non sei una gran bellezza, per i canoni Caitiani. Così spelacchiato e senza zanne, sembri un cucciolo troppo cresciuto. Però... però io cerco di non fermarmi all’aspetto!» deglutì Serleen. «So che, se volessimo, faremmo scintille!».

   «E che mi dici dei tuoi artigli? Io non ho una pelliccia che mi protegge».

   «Ora m’insulti?! Solo una shutta non controlla gli artigli!» s’inalberò Serleen.

   «È incredibile: ogni cosa che dico peggiora la situazione» constatò Chase, sconsolato.

   «Ma ho ragione? È perché tu sei Umano e io Caitiana?» insisté Serleen.

   «Senti, mi sono arruolato nella Flotta proprio perché voglio conoscere le altre specie» dichiarò Chase. «Infatti appena ci siamo incontrati all’Accademia siamo diventati amici. Ma se parli di una relazione... sia pure per gioco, come dici tu... devo ammettere che ho difficoltà a immaginarmela, con una specie così diversa. Per carità, ad alcuni piace... ma se devo essere sincero, a me...».

   «A te sembrerebbe di farlo con un animale» tagliò corto Serleen. «D’accordo, fa’ conto che non abbia detto niente».

   «Senti, mi spiace...».

   «Devo andare, sennò faccio tardi al mio turno» disse Serleen, alzandosi di scatto.

   «No, aspetta...» fece Chase, alzandosi a metà.

   Il fischio della porta che si apriva sembrò inghiottire la voce di Chase. Serleen sgusciò fuori dalla mensa, la porta si richiuse e Chase restò solo al tavolo. Tutt’intorno, i suoi colleghi mangiavano cose disgustose nel più assoluto silenzio. Chase ricadde sulla sedia. Si guardò intorno. Sull’Enterprise c’erano specie di ogni genere, molte delle quali non erano neppure umanoidi. Per un attimo si perse a osservare un Gallamita: il suo cranio era quattro volte più grande di quello umano. Ed era trasparente. Si vedeva chiaramente il massiccio cervello all’interno, con le arterie che si gonfiavano a ogni pulsazione.

   Chase si chiese se un Umano e un Gallamita si fossero mai piaciuti. Forse chiudendo gli occhi, si disse. Conosceva la teoria del professor Galen, secondo cui tutte le specie umanoidi discendevano da un antenato comune, un’antichissima stirpe Proto-Umanoide. Si chiedeva spesso se ci fosse del vero; ma anche in quel caso, la situazione non cambiava. Le differenze fisiche tra certe specie erano così marcate che pensare a una relazione gli dava il voltastomaco. Mettersi con una creatura trasparente, o munita d’artigli e pelliccia, gli sembrava una specie di zoofilia. Sapeva di Umani che erano passati sopra alle differenze. Da quando esisteva la Federazione, e specialmente negli ultimi due secoli, le unioni miste erano aumentate. Ma in genere riguardavano specie simili, come Umani e Vulcaniani, o Umani e Betazoidi. E anche quando nascevano dei figli, raramente queste unioni reggevano alla prova del tempo. Ma dirlo ad alta voce non era politicamente corretto.

 

   Ormai si era fatta ora di prendere servizio. Chase ripose il suo piatto e quello di Serleen, controllò di essere in ordine e lasciò la sala mensa. Nei corridoi e nei turboascensori tenne d’occhio i suoi colleghi. Serleen aveva ragione: erano tutti grigi, spenti. Al suo passaggio lo ignoravano e se li salutava rispondevano a monosillabi.

   «Tenente Chase pronto a prendere servizio» disse, entrando in plancia. I suoi colleghi del primo turno erano già lì, compresa Serleen, che sedeva al timone. La plancia dell’Enterprise era costruita in modo tradizionale e aveva dimensioni modeste. I sistemi erano molto automatizzati, tanto che dodici persone bastavano a farla funzionare. Le interfacce tattili dei comandi avevano toni verdi e gialli; in gergo tecnico erano dette LCARS (Library Computer Access and Retrieval System).

   «Si accomodi, Tenente» rispose il Capitano Vorix. Era un tipo di mezz’età, dai capelli grigi e i modi garbati. I suoi punti di forza erano la calma e la diplomazia, non certo lo spirito d’avventura. Vorix era un Vissiano: apparteneva a una delle specie umanoidi più antiche tra quelle entrate nella Federazione. I Vissiani possedevano la curvatura da millenni, ma raramente si allontanavano dal loro sistema stellare. Il loro progresso tecnologico era lentissimo, quasi fermo. Chase si chiese se la loro pigrizia intellettuale avesse contagiato la Federazione. Un altro pensiero politicamente scorretto!

   Il giovane rilevò la postazione sensori dal collega del turno di notte. Il suo ruolo richiedeva che stesse in piedi, dietro le poltrone del Capitano, del Primo Ufficiale e del Consigliere. Era strano, si disse, che le plance della Flotta Stellare avessero tanti posti in piedi. Era così difficile metterci qualche sedia? Aveva visto immagini delle vecchie plance, dei tempi di Archer e Kirk: lì erano tutti seduti. Chissà perché a un certo punto i progettisti avevano deciso di far alzare metà degli ufficiali. Forse per non farli ingrassare? Osservò Serleen con una punta di divertimento: in quanto timoniere, lei aveva sempre una comoda poltroncina. Vedendola di schiena, notò che la sua coda si agitava nervosamente, segno che non lo aveva ancora perdonato. Probabilmente gli avrebbe tenuto il broncio per un po’. I Caitiani erano volubili ed emotivi.

   «Bene, signori. Per cominciare la giornata, ditemi se è tutto regolare» ordinò Vorix.

   «Rotta regolare» disse Serleen.

   «Sistemi tattici regolari» disse il capo della Sicurezza, un massiccio Tiburoniano dalla pelle giallastra e le orecchie stropicciate.

   «Condizioni della nave regolari» disse il Primo Ufficiale, un Benzite dalla pelle azzurra e i baffi da pesce gatto. Portava dei mini-respiratori nelle narici, indispensabili nell’atmosfera standard dell’Enterprise.

   «Condizioni dell’equipaggio regolari» disse il Consigliere di bordo, una Denobulana bionda e piuttosto in carne.

   «Sensori regolari» disse Chase, l’unico Umano presente in plancia e uno dei pochi sulla nave. «No, un momento... è appena comparsa una lettura. Un’astronave sta uscendo dalla Macchia di Rovi. È vicina... le anomalie ci hanno impedito di rilevarla prima».

   «Che genere di astronave?» chiese prontamente il Capitano.

   «È... un momento, signore». Le mani di Chase volarono sui comandi. «Sto cercando d’analizzarla, ma il suo scafo è quasi impenetrabile ai sensori. Ho poche letture confuse. Ci sono alti livelli d’energia a bordo. Vedo segni di vita, ma non riesco a isolarli. Comunque sono poche centinaia... per una nave lunga due km e dalla massa di 50 milioni di tonnellate».

   «Sullo schermo» ordinò Vorix, unendo le punte delle dita.

   «Sì, Capitano». Chase inquadrò il settore della Macchia di Rovi, proprio mentre l’astronave ne fuoriusciva. Dalle volute di gas rossi e arancioni emerse una sagoma allungata. Sembrava un sigaro, o il guscio di qualche strano frutto. A un terzo della sua lunghezza c’era una strozzatura. Due strutture laterali emergevano dallo scafo, come ali strettamente ripiegate contro il corpo dell’astronave. Lo scafo marroncino pareva spesso. Era una nave colossale: lunga il doppio dell’Enterprise e molto più massiccia.

   «Non saprei dire qual è l’alto e quale il basso» ammise Chase. «Però sembra avere molte bocche da fuoco!» si allarmò. «Sul davanti, in particolare, credo abbia un qualche tipo di cannone a particelle. È da lì che vengono le letture energetiche. Dobbiamo alzare gli scudi!» raccomandò.

   «No, perché?» chiese Vorix, serafico. «Non ci hanno fatto nulla di male».

   «Signore... questa non è una nave da guerra» mormorò Chase. «Se ci attaccano, lo scafo di tetraburnio non basterà a proteggerci».

   «Cosa le fa credere che abbiano intenzioni ostili?» chiese severamente il Primo Ufficiale.

   «Signore, una nave sconosciuta – ma pesantemente armata – è appena uscita dalla Macchia. Se tira dritto si troverà nel cuore dello spazio federale. La prudenza mi sembra d’obbligo» rispose Chase. Non era sua abitudine contraddire i superiori, né perorare le sue idee con tale insistenza, ma non capiva perché tutti prendessero la faccenda così sottogamba.

   «Signor Trig, apra un canale» ordinò il Capitano all’ufficiale delle comunicazioni.

   «S-sì, signore» mormorò questi. Era un timido Boliano dalla pelle azzurro cielo, che balbettava nei momenti concitati. «Canale aperto».

   Sullo schermo comparve un volto giallastro e calvo, che sembrava disegnato con una tecnica puntinista. Era la tipica epidermide dei Sulibani. Anche gli occhi gialli, dalle pupille ad asterisco, lo qualificavano come membro di quel popolo nomade.

   «Io sono Sivin, comandante di questa Dreadnought» si presentò il Sulibano. «Ho il piacere di parlare col Capitano Vorix dell’Enterprise?».

   «Precisamente» rispose questi. Parlavano come se si conoscessero da sempre.

   «Ottimo. Vi ordino di arrendervi e di consegnarmi la nave» rispose il Sulibano con la massima calma. Chase pensò d’aver sentito male.

   «Motivi la sua richiesta, Sivin» rispose Vorix, senza scomporsi.

   «Ci sono nuovi ordini, occorre accelerare i tempi. Le linee temporali fluttuano e questo ha spinto la Primaria a intensificare la trasformazione dello spazio» rispose il Sulibano, come se questo spiegasse tutto.

   «Capisco» rispose Vorix in tono grave. Chase, invece, non capiva per niente. Era la conversazione più assurda che avesse mai sentito. Avrebbe riso, se quella nave aliena non fosse stata così armata. L’Enterprise, al contrario, era una nave pattuglia dall’armamento leggero. Andava bene contro le navicelle dei pirati, non contro una gigantesca nave da guerra. A proposito, che ci faceva quel Sulibano al comando? I Sulibani erano un popolo ramingo e privo di potere. Il loro pianeta era stato distrutto tempo addietro da una catastrofe naturale. Anche ora che la Federazione gli permetteva di stabilirsi, la maggior parte di loro manteneva uno stile di vita nomade. Spesso se ne infischiavano delle leggi federali, ma non erano mai stati una minaccia... finora.

   «Signori, che ne dite?» chiese Vorix, rivolto ai suoi ufficiali superiori.

   «La risposta non può che essere una» rispose il Primo Ufficiale. Gli altri annuirono.

   «Concordo». Vorix si alzò in piedi e Chase pregustò la risposta. Non vedeva l’ora che il suo Capitano le cantasse chiare a quel Sulibano invasato.

   «L’Enterprise è vostra, Sivin; vi cedo il comando» disse Vorix serenamente.

   «Grazie. Comincio subito a teletrasportare il mio equipaggio» rispose il Sulibano con un cenno del capo, e chiuse la comunicazione. Chase rilevò teletrasporti multipli in tutta la nave. Centinaia di alieni stavano sbarcando e altrettanti ufficiali della Flotta erano trasportati sulla Dreadnought. Intanto il Capitano e i suoi ufficiali se ne stavano tranquilli, con le mani in mano.

   Chase ebbe una stranissima sensazione, come se le budella gli si rivoltassero. Non era possibile, si disse. Doveva essere uno scherzo. I suoi colleghi l’avevano portato sul ponte ologrammi per prendersi gioco di lui. Oppure stava ancora dormendo. Altro che il tavolo operatorio e gli alieni dalla faccia di pesce. Quello era l’incubo: i suoi superiori che si arrendevano docilmente, consegnando l’Enterprise a chissà chi! Era come se tutto ciò che gli dava sicurezza fosse evaporato all’istante. Non c’erano più ufficiali superiori, protocolli di sicurezza, armi e scudi iper-tecnologici. Solo lui si frapponeva fra la sopravvivenza e il disastro assoluto.

   Alla disperata ricerca di una faccia amica, il giovane guardò Serleen. E lesse nei suoi occhi gialli lo stesso smarrimento, la stessa angoscia che lo pervadeva. Bene, si disse: allora Serleen non era una di loro. Perché qualunque cosa fossero, quelli che lo attorniavano non erano più ufficiali della Flotta Stellare. Erano nemici, in una situazione di guerra. Che si fa ai nemici in guerra?

 

   Chase adocchiò lo scomparto d’emergenza in cui erano custoditi due phaser. Era a pochi passi da lui. Ma si accorse che l’Ufficiale Tattico lo stava fissando. Il Tiburoniano sembrava divertito, ma anche concentrato. Si preparava a scattare. Senza distogliere lo sguardo da lui, Chase attivò un comando: l’Allarme Rosso.

   Le luci in plancia si abbassarono, le interfacce LCARS presero a pulsare di toni rossi e arancioni. La sirena si attivò, allertando tutta la nave. Ma la cosa più importante fu che gli scudi si attivarono e le armi entrarono in linea. Per un istante il Tiburoniano si distrasse. E Chase scattò.

   Arrivarono assieme allo scomparto. Chase lasciò che fosse l’Ufficiale Tattico ad aprirlo, ma lo colpì con un uppercut prima che potesse afferrare un’arma. Mentre l’alieno barcollava all’indietro, Chase afferrò un phaser. Non stette a guardare la regolazione: sapeva che di norma erano tarati sullo stordimento. Fece appena in tempo ad alzarlo, perché il Tiburoniano gli era di nuovo addosso. Chase gli sparò a bruciapelo, colpendolo in pieno petto. L’avversario barcollò di nuovo. Invece di stramazzare al suolo, come avrebbe dovuto, riacquistò l’equilibrio e sorrise.

   «Lei è agli arresti, Tenente. È colpevole di alto tradimento» disse in tono calmo. E tornò all’attacco. Chase afferrò il secondo phaser con la sinistra e sparò con entrambi. I due raggi colsero l’Ufficiale Tattico al collo; stavolta fu un duro colpo. Il Tiburoniano cadde in ginocchio, premendosi la gola. Ma quasi tutti gli ufficiali di plancia si stavano ormai avventando contro Chase. Solo Trig si era rannicchiato in un angolo, troppo sconvolto per reagire.

   «Alexander!» gridò Serleen, correndo verso l’amico. Spinse la Consigliera contro la parete, facendole sbattere violentemente la testa.

   Chase le lanciò uno dei phaser, tenendo l’altro per sé. L’arma volò sopra la testa del Primo Ufficiale, che cercò di afferrarla; ma gli sfuggì e Serleen la prese al volo. Così armati, i due Tenenti aprirono il fuoco contro i colleghi che li circondavano. Li colpirono più volte, ma riuscirono solo a rallentarli. Presto si trovarono con le spalle al muro.

   «Basta così» disse il Capitano. «Tenente Chase, tenente N’Rass, la vostra azione è inutile. Potete rallentarci, ma non potete fermarci. Perché persistete nella violenza, quando l’unica soluzione logica è la resa?» chiese in tono misurato.

   «I Capitani dell’Enterprise non si sono mai arresi!» ringhiò Serleen, scoprendo le zanne. «Se lei intende consegnare la nave, allora sta tradendo la Flotta e deve essere sollevato dal comando!».

   «Sempre che siate davvero i nostri colleghi; perché lo stordimento non funziona?» rincarò Chase, rivolto a tutti i presenti. «Non sarete dei mutaforma che hanno preso il loro posto? Magari i Fondatori del Dominio? Oppure gli Undine? Non sarebbe la prima volta che v’infiltrate fra noi!».

   «Tenente, lei ha una percezione distorta di quanto sta accadendo» rispose Vorix, sempre in tono compassato.

   «Allora m’illumini; ma faccia presto!» sbottò Chase. «E state tutti lontani dai comandi. Se qualcuno prova ad abbassare gli scudi, o usare il teletrasporto, lo ammazzo!» minacciò, regolando il phaser su uccisione. Serleen lo guardò atterrita, ma poi fu costretta a imitarlo. Lo stordimento si era rivelato del tutto inefficace.

   «Vede, qui non c’è alcun mutaforma» spiegò Vorix, parlando lentamente. «Tutto sta procedendo in modo regolare. Le persone su quella nave sono nostre alleate. Ho ricevuto ordini dal Comando di Flotta di collaborare con loro. La natura della missione è riservata, ma come Capitano dell’Enterprise le posso garantire che non metterei mai in pericolo l’equipaggio. Ora, se lei avrà la pazienza di…».

   Chase aprì il fuoco sul Primo Ufficiale, che stava digitando alcuni comandi sul bracciolo della sua poltrona, nel tentativo di abbassare gli scudi. Lo colpì al braccio e glielo staccò di netto, all’altezza del gomito. Il Benzite arretrò, si osservò il moncherino fumante e inarcò un sopracciglio. «Questo è inopportuno» commentò con calma.

   «Ma cosa siete?! Non sentite neanche il dolore?» esclamò Chase, alzando di un’altra tacca la regolazione del phaser.

   «Loro ci proteggono da queste debolezze» disse la Consigliera, che si era rialzata. Aveva sbattuto la testa così forte che il sangue le macchiava la tempia, ma non sembrava accorgersene. «Presto faranno lo stesso anche con voi. Allora capirete» disse sorridendo.

   «Ma insomma, che succede? Capitano, mi spieghi!» gemette Trig, l’addetto alle comunicazioni. Oltre a Chase e Serleen sembrava l’unica persona normale.

   «No, signor Trig. Ritengo che lei sia uno strumento inutile per i nostri scopi. Loro neanche la vogliono» rispose Vorix, avvicinandosi al Boliano. «Pertanto il suo ciclo vitale deve terminare».

   «C-come sarebbe?!» fece Trig, con voce strozzata.

   «Mi creda, è meglio così» disse Vorix in tono paterno.

   «Trig, stagli lontano!» gridò Serleen.

   Ma il Boliano sembrava paralizzato dallo stupore, o dall’orrore. Rimase immobile mentre Vorix si avvicinava. Il Vissiano gli afferrò la testa e gliela piegò bruscamente di lato. Si sentì l’agghiacciante crac delle vertebre che si spezzavano. Trig cadde a terra, ucciso all’istante. Sul suo volto celeste c’era ancora un’espressione stupita, come di un bambino che non si capacita per la fine di un gioco.

   «Tenenti, questo è ciò che accade agli elementi inutili» spiegò Vorix, sempre calmo. «Ora spetta a voi decidere se volete esserlo. Sappiate che ogni tentativo di resisterci è del tutto inutile» ripeté, come un educatore che deve istruire un bambino un po’ tonto. «Ebbene?».

   Chase fissò Serleen negli occhi. «Mi spiace per prima, in sala mensa» disse. «Sei la più tosta che abbia mai incontrato. Meritavi di meglio che questo».

   «Va tutto bene, Alexander» rispose la Caitiana, guardandolo con affetto. «Se avessi voluto una vita noiosa, non mi sarei arruolata. Io volevo una vita emozionante».

   «Prendiamo quel che ci viene dato» disse Chase cupamente. Non servivano altre parole; sapevano cosa stava per accadere. Contarono a mente, senza muovere le labbra. Uno, due... tre.

 

   Fu una lotta cruenta, scandita dal sibilo dei phaser.

   Alexander Chase e Serleen N’Rass fecero fuoco contro i loro ufficiali superiori, che gli balzavano contro. Ne abbatterono cinque, ma gli altri furono loro addosso. E li assalirono con forza innaturale, mostruosa. L’Ufficiale Tattico afferrò il braccio destro di Chase e glielo spezzò con la massima facilità. L’Umano gridò, accecato dal dolore, mentre il phaser gli cadeva. Il Tiburoniano lo scaraventò dalla parte opposta della plancia, come un fuscello. Il corpo di Chase infranse le interfacce LCARS sulla parete e rovinò a terra. Il Tiburoniano prese il phaser e aprì il fuoco. Chase si rotolò sul pavimento, evitando il colpo, e si nascose dietro la postazione sensori. L’Ufficiale Tattico regolò il phaser al massimo e la disintegrò. Ora nulla gl’impediva di fare lo stesso con l’Umano ferito.

   Intanto Serleen fu assalita dalla Consigliera di bordo. Avvinghiate, le due si rotolarono a terra. La Denobulana, animata da una forza prodigiosa, stava per disarmare la Caitiana; ma Serleen le avvolse la coda intorno al collo. Sentendosi soffocare, la Consigliera cercò di liberarsi la gola, diminuendo per un attimo la foga del suo attacco. Serleen ne approfittò per spararle allo stomaco. Servirono due colpi per ucciderla.

   Senza nemmeno rialzarsi, la Caitiana sparò al Tiburoniano, un attimo prima che uccidesse Chase. Lo colpì tra le scapole, facendolo stramazzare a terra. L’attimo dopo, il Capitano afferrò Serleen per le caviglie. La sollevò senza sforzo e la gettò contro lo schermo principale, che andò in pezzi. Serleen ricadde a terra semistordita e il Capitano s’impadronì del phaser. Si girò di scatto e sparò contro Chase, che si stava rialzando faticosamente. Lo colpì di striscio alla spalla destra, con il phaser regolato su uccisione. Chase ne ebbe il braccio quasi staccato. Lanciò un grido agonizzante e cadde a terra, stordito dal dolore.

   «Ora comprendi la tua follia» disse Vorix, prendendo la mira per finire Chase. Ma Serleen si rialzò e lo afferrò da dietro, ficcandogli gli artigli negli occhi. Vorix cercò di scrollarsela; nella lotta partì un altro colpo, che prese il Primo Ufficiale in pieno volto. Il Benzite crollò a terra, morto. Erano rimasti solo in tre: Vorix, Serleen e Chase, quest’ultimo esanime.

   Il Capitano afferrò la timoniera per una ciocca della criniera, riuscendo a staccarsela di dosso. Serleen si rotolò a terra. Vorix tese il phaser davanti a sé, cercando il bersaglio. Sebbene la Caitiana l’avesse accecato, sembrava comunque in grado di percepire la sua posizione.

   «È tutto inutile; loro non possono perdere» disse il Capitano, che non mostrava dolore, sebbene il sangue gli grondasse dagli occhi. Aggiustò la mira verso Serleen. Ma prima che premesse il grilletto, un phaser regolato al massimo lo vaporizzò. Serleen si girò, incredula; era stato Chase a sparare. L’Umano aveva il braccio destro che pendeva inerte, per cui aveva dovuto usare la sinistra. Era pallido come un cadavere. Si guardò intorno, barcollando, per vedere se qualcun altro era ancora in piedi. Colse un movimento del Tiburoniano, che cercava di rialzarsi, sebbene avesse un buco nella schiena. Gli sparò di nuovo, disintegrandolo. E crollò a terra semisvenuto.

 

   Serleen arrancò verso Chase, calpestando le schegge delle interfacce frantumate e i cadaveri dei colleghi uccisi. L’odore dei circuiti semifusi si mischiava a quello dei corpi ustionati o vaporizzati. L’Allarme Rosso era ancora attivo e ogni tanto faceva udire la sua sirena. Nella luce bassa, i comandi ancora in funzione pulsavano dei toni rossi della battaglia.

   «Alexander!» gemette Serleen, posandosi in grembo la testa dell’amico ferito. «Non lasciarmi ora, ti prego!». La Caitiana aveva la pelliccia arrossata dal sangue: quando Vorix l’aveva sbattuta contro lo schermo, molte schegge l’avevano graffiata.

   «La plancia...» gemette Chase, tossendo debolmente.

   «Come?».

   «La plancia... assicurati che sia isolata» avvertì il Tenente. «Ci saranno altri traditori a bordo. E molti alieni della Dreadnought si sono trasferiti prima che alzassi gli scudi. Cercheranno d’irrompere in plancia. O di teletrasportarsi. O di trasportare via noi. Blocca le porte e controlla gli scudi!» raccomandò.

   Serleen annuì e corse a uno dei pannelli LCARS ancora integri. Digitò freneticamente dei comandi, passò a un’altra interfaccia e tornò alla prima. «Ho bloccato le porte dei turboascensori, ma qualcuno in sala macchine sta cercando di assumere il controllo. Stanno dirottando tutti i comandi! Motori, comunicazioni, armi... anche gli scudi!» disse con voce strozzata.

   Chase si rialzò, facendo leva con il braccio sano. Arrancò verso un pannello di controllo e si mise a digitare con la sinistra. «Presto, dobbiamo criptare i comandi. Tu pensa alla propulsione, io cerco d’isolare armi e scudi!».

   Lavorarono per un paio di minuti, con il cuore che batteva all’impazzata. Poi alzarono gli occhi e si guardarono, dalle estremità opposte della plancia. «Ho ancora il controllo dei motori a impulso, ma non della cavitazione quantica» ansimò Serleen. «Ho protetto l’impulso con un algoritmo ricorsivo, ma non so quanto reggerà. In sala macchine sono bravi a craccare queste cose».

   «Abbiamo perso le comunicazioni» disse Chase. «Le armi sono offline, come gli scudi primari. Sono riuscito a isolare solo gli scudi secondari che proteggono la plancia. Ma se gli ingegneri sono dalla parte del nemico, come temo... abbiamo pochi minuti».

   «Pochi minuti per cosa?! Qual è la prossima mossa?» si disperò Serleen. «Siamo assediati, la nave è perduta e...». S’interruppe quando l’Enterprise ebbe uno scossone. «Frell e dren! Che altro c’è?!» gridò, sull’orlo del collasso nervoso.

   «La nave aliena... la Dreadnought, come l’hanno chiamata... ci ha agganciati con un raggio traente» disse Chase, leggendo i dati da una postazione sensori secondaria. «Ci portano nella Macchia di Rovi» disse, pallidissimo. In un lampo Serleen gli fu accanto. Chase attivò un piccolo schermo nel LCARS, visualizzando la poppa della Dreadnought. Un raggio traente verde ne fuoriusciva, per afferrare l’Enterprise e trascinarla nell’ignoto.

   «Yotz, ci trascinano come un cane al guinzaglio!» imprecò la Caitiana. «Se avessimo le armi in linea, li farei a pezzi... ma non abbiamo niente!».

   «Con l’impulso potremmo forse sfuggire al raggio traente... ma non andremmo lontano» disse Chase, riflettendo ad alta voce. «La Dreadnought ci raggiungerà e senz’armi non abbiamo speranza».

   «Attenzione, messaggio per i superstiti della plancia» disse una voce asettica all’altoparlante. Era l’Ingegnere Capo. «Il vostro supporto vitale è stato disattivato. Consegnate la plancia, se volete sopravvivere. O morite lì dentro, se preferite. Ma sappiate che, in ogni caso, avremo il controllo completo dell’Enterprise. Fine comunicazione».

   Chase e Serleen si scambiarono un’occhiata disperata. Erano così concentrati su armi e motori che avevano dimenticato il supporto vitale. «Va bene, è chiaro che non possiamo salvare l’Enterprise» disse Chase, appoggiandosi alla postazione per non cadere a terra. Il braccio ferito gli doleva in modo atroce. Poteva svenire da un momento all’altro e senza supporto vitale l’ossigeno sarebbe finito prima che riprendesse conoscenza.

   «Alexander, io non voglio farmi prendere viva» disse Serleen, con gli occhi lucidi ma determinati. «E non voglio nemmeno che questo nemico s’impadronisca della nave. Dobbiamo distruggerla».

   «Come? Solo il Capitano poteva attivare l’autodistruzione» disse Chase malinconico, osservando la macchia nera sulla moquette lasciata da Vorix quando l’aveva disintegrato.

   «Mandiamo l’Enterprise contro la Dreadnought» propose Serleen. «Possiamo farcela, abbiamo ancora l’impulso. Ma dobbiamo farlo subito».

   «Va bene, impostiamo il pilota automatico e ce la filiamo con le capsule» disse Chase, accennando alle sei capsule accessibili direttamente dalla plancia, tre per lato. Era un’evoluzione recente nel design delle navi stellari, studiata per salvare l’equipaggio di plancia quando non c’era tempo o modo di lasciare il ponte.

   «Consideralo già... frell!» imprecò Serleen, armeggiando con i comandi del timone.

   «Che c’è?» chiese Chase, lottando per rimanere cosciente.

   «Anche il pilota automatico ha dei problemi. Non riesco a impostare la rotta! Se fosse una direzione qualunque, potrei. Ma per una traiettoria kamikaze, il computer pretende la stessa autorizzazione per l’autodistruzione!».

   «Frell... ma sì, è logico» ammise Chase, dandole le spalle per armeggiare con alcuni controlli sulla parete. «Dovremo pilotare manualmente. Non ce la caveremo» gemette, quasi accasciandosi per un’altra fitta al braccio. «Anzi, no. Tu te la caverai» disse, rimettendosi in piedi. «Non sei ferita gravemente. Se vai su una capsula, avrai più speranze di cavartela. Qui basto io» disse, impostando la rotta di collisione con la mano sana.

   «Vuoi pilotare con una sola mano?» chiese Serleen alle sue spalle.

   «Posso farcela. Credimi, è meglio così. Ho ucciso il mio Capitano... è giusto che finisca con lui e con la nave. Ma tu devi vivere, per avvertire la Flotta di questa minaccia» disse, lottando contro il dolore e la stanchezza. Non si accorse che, dietro di lui, Serleen aveva raccolto il phaser.

   «Quando hai scansionato la Dreadnought c’erano altri dettagli, oltre a quelli che hai letto a voce alta?» chiese Serleen, regolando il phaser su minimo stordimento. «Qualcosa d’importante che la Flotta dovrebbe sapere?».

   «Qualche dato... più che altro sullo scafo esterno. L’interno era molto schermato...» ansimò Chase.

   «Okay, non mi occorre sapere altro» disse Serleen con calma. E sparò nella schiena a Chase. La scarica fu minima, ma l’Umano era già ferito gravemente. Si accasciò al suolo, privo di sensi. La Caitiana corse da lui e lo trascinò verso la capsula più vicina, cercando di non compromettere ancor più il braccio ferito.

   «Mi spiace, Alexander. Devo prendere quel che mi è dato, anche se vorrei fosse andata diversamente» mormorò. Aprì la capsula di salvataggio e impostò una rotta che l’avrebbe portata lontano dalla Macchia di Rovi, verso il più vicino mondo federale. Azionò anche il faro subspaziale, sperando che fosse una nave amica a rilevarlo. Doveva rischiare: i motori a impulso della capsula non potevano portare Chase a destinazione e la provvista d’ossigeno era limitata.

   La parte più difficile fu caricare Chase sulla capsula; ma con un grosso sforzo riuscì a sollevarlo e a pigiarlo dentro. Azionò la capsula da fuori, osservandola con sollievo mentre schizzava via. Per un istante fu tentata di salire su quella a fianco... ma no, le restava un dovere. Se non distruggeva la Dreadnought, e tutti i traditori sull’Enterprise, Chase non sarebbe mai sopravvissuto per fare rapporto.

   Serleen corse al timone e impostò gli ultimi parametri della traiettoria. Aveva il respiro affannoso, forse per la paura, forse perché il supporto vitale era disattivato e l’ossigeno cominciava a scarseggiare. D’un tratto sentì uno sfrigolio alle sue spalle. Si girò e vide che la porta del turboascensore stava venendo tagliata con un phaser ad alta energia. I traditori cercavano di forzare la plancia... ma non avrebbero fatto in tempo. La Caitiana sentì i motori a impulso che ruggivano. Le sue dita volarono sui comandi e l’Enterprise partì contro la Dreadnought. Se avesse cercato di liberarsi dal suo raggio traente, sarebbe stata una dura lotta. Ma non c’erano problemi a dirigersi contro la fonte del raggio. Entrambe le navi avevano i secondi contati.

 

   Fu il dolore a svegliare Chase. Il lancinante dolore al braccio. Disorientato, il giovane si accorse di essere in un abitacolo poco più grande di una bara. Attraverso la finestra di trasparacciaio vide le stelle vorticare... no, era la sua capsula che girava. Con il braccio sano riuscì a stabilizzarla. Le stelle smisero di girare, ma la capsula seguiva ancora la rotta tracciata da Serleen. Chase comprese cos’era successo. Attivò un ologramma per avere la visione di poppa proiettata sulla finestra: vide l’Enterprise nel momento in cui attivava i motori a impulso. Aprì immediatamente un canale con la plancia.

   «Serleen... perché?!» gridò nel comunicatore, mentre l’Enterprise balzava verso la nave nemica.

   «Hai letto i sensori, puoi riferire tutto alla Flotta. E poi ti amo» rispose la Caitiana attraverso il crepitio delle interferenze. La porta dietro di lei stava per cedere, le scintille sprizzavano in plancia, ma non importava. «Addio, Alexan...».

   L’Enterprise-I, dalla tagliente forma a boomerang, penetrò nella massiccia Dreadnought come un coltello nella carne. La grossa nave cilindrica fu tranciata in due, all’altezza della strozzatura nel suo scafo. L’Enterprise passò fra i due tronconi. Per un istante, Chase sperò follemente che reggesse. Ma l’attimo dopo lo schermo divenne bianco: l’impatto aveva provocato la rottura del nucleo. L’Enterprise fu annichilita, così come i due spezzoni della Dreadnought che le stavano accanto. Le radiazioni inondarono lo spazio, a malapena schermate dalla capsula di Chase. Milioni di frammenti incandescenti, piccoli come proiettili e molto più veloci, schizzarono in tutte le direzioni. Se un frammento più grande di un’unghia avesse colpito la capsula, l’avrebbe trapassata da parte a parte.

   Ma la sorte volle diversamente. Chase fu sballottato con violenza, mentre la sua capsula sussultava. I pochi frammenti che la colpirono erano così piccoli che non riuscirono a perforarla. Gradualmente la capsula tornò nel giusto assetto di volo.

   «Rotta ristabilita» disse la voce asettica del computer.

   «Quale... rotta?» singhiozzò Chase, il volto solcato di lacrime.

   «Questa capsula è diretta verso il pianeta Goren» rispose il computer.

   «Ma quanto ci metterà?» farfugliò Chase, ancora sotto shock.

   «Tempo di arrivo stimato: 18 anni, 6 mesi, 22 giorni».

   Chase gridò e sbatté la fronte contro la finestrella, per la frustrazione. Se non fosse stato così sconvolto, avrebbe rammentato fin da subito che le capsule di salvataggio potevano muoversi solo a velocità d’impulso. «Computer...» cominciò, schiarendosi la voce «quanto durerà l’ossigeno a bordo?».

   «L’ossigeno scenderà sotto i livelli di guardia fra 11 ore, 57 minuti e 4 secondi» rispose la voce sintetica, sempre calma.

   Chase maledisse il fatto che il computer non aveva un collo da strozzare. «Brutto figlio di un abaco! Meno di dodici ore?! Chi ti ha program...». La voce gli morì in gola. Serleen. Solo lei poteva aver impostato la rotta. Evidentemente lo aveva indirizzato all’avamposto più vicino. «Computer, stiamo trasmettendo una chiamata di soccorso?» chiese il Tenente, più calmo.

   «Affermativo».

   «Che probabilità ci sono che qualche nave federale capti la richiesta prima che io muoia asfissiato?».

   «Elaboro. Probabilità di sopravvivenza: 6%».

   «Frell. Ragioniamo... al freddo consumo meno ossigeno. Quanto tempo guadagnerei se tu abbassassi la temperatura di bordo, mettendomi in ipotermia?».

   «Elaboro. In condizioni di massima ipotermia, per le quali sono richieste procedure mediche di rianimazione, l’asfissia subentrerà fra 24 ore, 30 minuti e 10 secondi» rispose il computer.

   «E la possibilità che per allora qualcuno mi salvi è...?» chiese Chase, sempre dolorante.

   «Elaboro. Probabilità di sopravvivenza: 12,5%».

   «Un po’ meglio. Ma non abbastanza, per la miseria!» ringhiò Chase. «E va bene, portami in ipotermia. E continua a trasmettere l’SOS!» raccomandò.

   «Eseguo». La temperatura crollò immediatamente.

   «Almeno sarò così intirizzito che non sentirò più il dolore» borbottò Chase. «Ora non mi resta che aspettare».

   «Nelle sue inflessioni vocali si riscontrano alti livelli di stress» rilevò il computer. «Desidera ascoltare un po’ di musica per rilassarsi?».

   «Ma certo che sono stressato, inutile ferraglia!» berciò Chase. «Sto morendo dissanguato, congelato e asfissiato. Credi che una musichetta sistemerà tutto? Ah, Serleen! Se sopravvivo, giuro che ti vendicherò!» inveì. «Ma se, come credo, non ne uscirò vivo... c’è qualcos’altro che devo fare» aggiunse più calmo. Stava cominciando a rabbrividire per il freddo.

   «Prego, fornire istruzioni» disse il computer.

   «Voglio registrare un diario di bordo. Così, quando qualcuno troverà questa capsula con la mia carcassa congelata, potrà ancora sentire la mia testimonianza. Ma tu, computer, devi avvertire chiunque ti trovi che questa registrazione è importante».

   «Ricevuto. Livello di priorità 1, i soccorsi saranno informati. Prego, registrare messaggio». Il tipico bip-bip del diario di bordo confermò che il computer aveva cominciato la registrazione.

   «Parla Alexander Chase, ufficiale della Flotta Stellare. Ero Tenente sull’Enterprise-I, fino a oggi, quando ho assistito alla sua distruzione. Sono l’unico sopravvissuto e non credo che lo resterò a lungo». Chase tossì debolmente; il suo fiato si condensò in una nuvoletta bianca. Il giovane si schiarì la voce e ricominciò. «Chiunque trovi questa testimonianza deve farla pervenire immediatamente al Comando della Flotta Stellare. Ne va della salvezza della Federazione. C’è un nemico fra noi. Ripeto, c’è un nemico fra noi...» disse Chase, con voce sempre più fioca. Intanto la piccola capsula sfrecciava nel vuoto siderale, trapunto di stelle lontane e indifferenti.

 

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Capitolo 2
*** La dodicesima regina ***


-Capitolo 1: La dodicesima regina
Data stellare 2550.012
Luogo: Hangar Spaziale Terrestre (Sol III)
 
   «In principio furono i velieri» disse la voce nel buio.
   «Poi vennero le navi a vapore, le portaerei nucleari, le prime navicelle spaziali. Ogni tanto, quel nome faceva capolino. Quando gli esseri umani si avventuravano in una nuova frontiera, quando testavano nuove tecnologie e cercavano ardimento, quel nome li confortava. Enterprise, l’impresa. La capacità di andare oltre, di sognare un futuro migliore. Il primo shuttle sperimentale si chiamò così. E nei due secoli successivi molte altre navicelle portarono quel nome. Alcune si rivelarono vicoli ciechi. Ma ce ne fu una, la prima astronave del suo genere, che entrò nella leggenda.
   Fu l’Enterprise NX-01, la prima nave terrestre a curvatura 5. Comandata da Jonathan Archer, stabilì fondamentali rapporti diplomatici con altri popoli e protesse la Terra da gravissime minacce, come la Crisi Xindi e le Guerre Romulane. In soli dieci anni, gettò le basi per la nascita della Federazione e di tutto ciò che siamo ora».
   Con queste parole il vasto salone cominciò a rischiararsi. I pannelli d’illuminazione erano ancora spenti. Ma una forma lucente era apparsa a mezz’aria, sopra il podio dell’oratore, e si muoveva lentamente verso gli spettatori. Quando passò sopra le loro teste, molti trattennero il fiato, emozionati. Era l’Enterprise NX-01, o per meglio dire il suo ologramma. Passò maestosamente, con un soffio appena percettibile, andando verso il fondo della sala. Lì giunta, si dissolse.
   «Per un secolo nessuna nave federale osò fregiarsi di quel nome» riprese l’oratore. «Poi fu varata una nave di classe Constitution: l’USS Enterprise NCC-1701. Nel corso degli anni fu comandata da tre grandi Capitani: Robert April, Christopher Pike, James T. Kirk. Le loro missioni quinquennali proiettarono la Federazione in una nuova frontiera. Fu Kirk a compiere le imprese maggiori, come l’incontro con V’Ger e la battaglia con Khan. Così, quando l’Enterprise fu distrutta nella Battaglia di Genesis, la Flotta Stellare gli affidò un’altra nave della stessa classe. In segno d’onore il numero di registro rimase invariato; fu solo aggiunta la A. Con questa nave Kirk difese gli Accordi di Khitomer, ponendo fine a un secolo di ostilità tra Federazione e Klingon».
   Le due Enterprise, la 1701 e la 1701-A, comparvero una dopo l’altra, mostrando la prima versione della classe Constitution e quella aggiornata. Anche loro mossero lentamente dal podio al fondo del salone, sollevando grandi applausi. E si dissolsero alla fine del tragitto.
   «Ma la tradizione delle Enterprise era appena all’inizio» riprese l’oratore. «Seguì l’Enterprise-B, di classe Excelsior. Al comando di John Harriman e poi di Demora Sulu, portò avanti le missioni esplorative della Flotta Stellare. Le subentrò l’Enterprise-C, di classe Ambassador, al comando di Rachel Garrett. Questa nave s’immolò nella Battaglia di Narendra III, difendendo i Klingon dai Romulani e consolidando la loro alleanza con la Federazione».
   Le due navi citate seguirono le altre, sorvolando il pubblico sempre più emozionato. Ogni Enterprise era più grande e moderna della precedente. Gli ologrammi, molto realistici, mostravano ogni minimo dettaglio dello scafo.
   «Ed ecco l’Enterprise-D, classe Galaxy, e l’Enterprise-E, classe Sovereign, entrambe comandate da uno dei nostri Capitani più saggi e amati, Jean-Luc Picard. Ma non dimenticate che anche William Riker ed Edward Jellico furono al comando della D, mentre Riker e Data comandarono la E. Queste due navi svolsero con successo innumerevoli missioni: testarono nuove tecnologie, scoprirono nuovi mondi e civiltà, mediarono la pace fra i popoli e difesero la Federazione dalle più tremende minacce della sua storia, come i Borg».
   Le navi di Picard sorvolarono l’auditorio, sotto scroscianti applausi. Alcune mani, chele e tentacoli si sollevarono, nel tentativo di toccarle, ma loro volavano troppo in alto.
   «Seguì l’Enterprise-F, di classe Odyssey, al comando dell’Ammiraglio Shelby, vittima del tragico attacco Borg del 2401. Le subentrò l’Enterprise-G, di classe Neo-Constitution, comandata da Annika Hansen. Questa nave fu cruciale per proteggere la Federazione nel confuso periodo di conflitti all’inizio del XXV secolo. Più tranquille furono le missioni dell’Enterprise-H, di classe Endurance. Per la Federazione fu un periodo di pace e stabilità, certo ben meritate» proseguì l’oratore.
   Le tre Enterprise citate sorvolarono lentamente la folla. Ci furono altri applausi, ma molti trattennero il fiato, perché si avvicinava la fine della lista.
   «E ora, un monito» disse l’oratore, facendosi più solenne. «L’Enterprise-I, di classe Altair, del Capitano Vorix. La sua tragica distruzione, avvenuta dieci anni fa, ci rammenta che la pace non può mai essere data per scontata. Deve essere sempre rinnovata, conquistandola giorno per giorno».
   Stavolta non ci furono applausi, solo un triste mormorio. L’Enterprise-I passò come un pallido fantasma, con la sua inconsueta forma a boomerang, per dissolversi in fondo al salone.
   «Ma la vita va avanti e le lezioni del passato, per quanto dure, ci rendono più forti» riprese l’oratore, dopo una lunga pausa. «Signore e signori, vi presento la nuova ammiraglia della Flotta Stellare: l’USS Enterprise NCC-1701-J, di classe Universe!».
   I pannelli d’illuminazione emisero un soffuso chiarore, che rese visibili i contorni della sala. Apparve il podio, dove l’Ammiraglio Nelscott stava tenendo il suo discorso. Era un uomo alto e imponente, dalla pelle scura e lo sguardo profondo. Indicò la finestra di trasparacciaio che copriva tutta una parete del salone, affacciandosi direttamente sullo spazio. La folla trattenne il fiato. Poi, nell’angolo in basso a sinistra, apparve uno spicchio di sezione a disco.
   Lenta e regale, l’Enterprise-J entrò nel campo visivo, fino a riempire tutta la vetrata. Era un sogno divenuto realtà: la più grande, la più evoluta, la più sorprendente astronave mai uscita dai cantieri navali della Federazione. Aveva un’immensa sezione a disco ovale, molto sottile in rapporto al diametro. La sezione motori era ridotta al minimo e si agganciava al disco senza strozzature né dislivelli. Nella sua parte terminale si apriva l’hangar principale, mentre ai lati si allungavano i piloni delle gondole quantiche, lunghe e sottili. Data la struttura della nave, che riprendeva il design dell’antica classe NX, il deflettore di navigazione si trovava sulla parte anteriore del disco. Da lì al termine delle gondole erano più di tre chilometri. Nemmeno nei loro sogni più selvaggi le generazioni passate avevano immaginato una simile città nello spazio. La folla andò in delirio: applausi, fischi, urla in decine di lingue.
   «Cinque anni di progettazione e cinque di costruzione, da parte delle migliori menti della Flotta, per questo capolavoro di tecnologia e stile!» proseguì Nelscott, sprizzando orgoglio da tutti i pori. In fondo era stato lui a patrocinare il progetto fin dall’inizio e a supervisionarlo personalmente nell’ultimo anno. «Questa nave segna un balzo tecnologico senza precedenti nella storia della Flotta Stellare. È progettata per essere una nave generazionale, una città nello spazio che accoglierà diecimila persone, tra ufficiali e civili. I suoi motori a cavitazione quantica e il propulsore cronografico estenderanno la frontiera sino agli estremi confini della Via Lattea e oltre, nelle sterminate vastità dell’Universo. Salutiamo il Capitano che accoglierà questa sfida: Alexander Chase!».
   Chase strinse gli occhi grigi, quando un cono di luce lo illuminò. Un ingresso da star non era nel suo stile, ma non poteva certo esimersi dal dire qualche parola. Si diresse verso l’Ammiraglio, l’uomo al quale doveva la vita. Dopo la distruzione dell’Enterprise-I era stato Nelscott a trovarlo nella capsula di salvataggio, svenuto e semi-congelato. Era una fortuna che la sua nave, la Ascension, transitasse da quelle parti. Sebbene fosse vecchia di oltre cent’anni, i suoi sensori erano ancora ottimi. Chase era stato curato nell’infermeria di bordo e aveva fatto rapporto, avvertendo il Comando di Flotta. Una volta chiarita la sua posizione, aveva ripreso servizio proprio sulla Ascension. Vi era rimasto per dieci anni, divenendo Primo Ufficiale di Nelscott. Infine, un anno prima, era diventato Capitano. Mentre l’Ammiraglio supervisionava le ultime fasi costruttive della nuova Enterprise, Chase comandava la vecchia Ascension, pur sapendo che stava per essere messa in disarmo. Credeva che l’Enterprise-J sarebbe stata di Nelscott e che lui sarebbe finito chissà dove, su qualche altra vecchia nave. Non immaginava che l’Ammiraglio avesse deciso altrimenti. Quando lo aveva richiamato sulla Terra per affidargli la sua creatura, Chase era rimasto incredulo e frastornato. Mai avrebbe pensato di comandare l’ammiraglia... né di mettere ancora piede su una nave chiamata Enterprise.
   «Grazie, signore» disse, stringendo la mano a Nelscott. «È stato un onore servire con lei sulla Ascension, e sono ancor più onorato di questo incarico». Si rivolse alla folla, composta dagli ufficiali superiori dell’Enterprise e dalle loro famiglie, oltre che dai giornalisti. Molti parenti erano lì per salutare i propri cari, prima che prendessero servizio. Parecchi altri, invece, li avrebbero seguiti sull’Enterprise. Sulle diecimila persone che erano previste a bordo, ben settemila sarebbero state civili, la percentuale più alta di sempre.
   «Signore e signori... altre forme di vita...» esordì Chase. «Avete sentito l’Ammiraglio ricordare il lignaggio delle Enterprise. Quella che vedete là fuori» disse indicando la J «è l’undicesima nave della Flotta Stellare a portare questo nome glorioso. La dodicesima, se contiamo anche l’Enterprise NX-01. Rispetto alle sue antesignane, ospiterà una maggior varietà di specie, anche non umanoidi, e molti più civili. La loro sicurezza sarà garantita da armi e scudi di nuova generazione.
   L’Enterprise-J è stata costruita così per un motivo. Come sapete, da dieci anni combattiamo una dura lotta contro i Parassiti Neurali che infettarono l’equipaggio dell’Enterprise-I, provocandone la distruzione. I loro scopi sono ancora poco chiari, ma non la loro strategia. I Parassiti s’infiltrano fra noi per minare la fiducia reciproca, per diffondere il sospetto e la paura del tradimento. Ci vogliono divisi e impauriti, perché sanno che così siamo più vulnerabili.
   La risposta può essere una sola. Mentre affrontiamo il nemico, dobbiamo riscoprire la fiducia nei nostri amici. Possiamo coesistere pacificamente, se rispettiamo le leggi federali, basate sulla democrazia e sui Diritti dei Senzienti. L’Enterprise-J è questo: un luogo per chi crede che questi valori non siano negoziabili. Decine di specie diverse dovranno contare una sull’altra. Nessuna s’imporrà, ma tutte rispetteranno le regole comuni. Se vinceremo questa sfida, nessun ostacolo sarà insormontabile, fra quelli che troveremo alla frontiera.
   Sì, ho detto frontiera... perché la classe Universe vuole anche riportare in auge l’esplorazione. Noi beneficiamo delle scoperte dei nostri avi. E le prossime generazioni dovranno beneficiare delle nostre. Come disse Zefram Cochrane... questa nave ci porterà coraggiosamente là dove nessuno è mai giunto prima. Perciò facciamo un applauso all’Enterprise-J; alla dodicesima regina!».
   E gli applausi scrosciarono, finché tutto il salone ne rimbombò. Anche Chase batté le mani, ammirando l’Enterprise, mentre Nelscott inseriva una bottiglia di champagne in una piccola camera stagna. Era un’annata vecchia di secoli: l’aveva imbottigliata la famiglia Picard, all’epoca in cui Jean-Luc comandava l’Enterprise-D. La bottiglia, risucchiata nello spazio, roteò verso la nuova Enterprise. Divenne sempre più piccola per la distanza, finché s’infranse sullo scafo scuro e lucido della sezione a disco. Così battezzata, la nave arrestò il suo moto, fermandosi proprio accanto all’Hangar Spaziale. Era così grande che dal salone dei ricevimenti non si riusciva nemmeno a vederla tutta. Ed era pronta a raccogliere la sua eredità.
 
   Poco alla volta, gli applausi e le grida terminarono. Le luci si accesero del tutto e gli altoparlanti diffusero una bella musica moderna, ma non assordante. Chase e Nelscott scesero dal palco per unirsi al pubblico. La cerimonia era terminata, ma la serata proseguiva come un party di classe. Centinaia di persone si presentavano, conversavano; alcune si misero persino a ballare. Gli ufficiali dell’Enterprise facevano conoscenza con quelli che, nei prossimi anni, sarebbero stati i loro colleghi.
   «Se l’è cavata bene, Alexander» sorrise Nelscott, dando una pacca sulla spalla a Chase. «Ricordo che, quand’eravamo sulla Ascension, non le piaceva parlare in pubblico».
   «In realtà mi mette ancora tensione, ma...» lasciò in sospeso Chase.
   «... un Capitano non può tentennare» annuì Nelscott. «Lo tenga a mente».
   «Ammiraglio, posso farle una domanda?» disse Chase a bassa voce.
   «L’ha già fatta» ridacchiò Nelscott. «Ma scherzi a parte, so che vuol chiedermi: perché ho scelto lei».
   «Sono dieci anni che lei segue questo progetto. L’Enterprise è la sua creatura. Era logico che assumesse lei il comando» commentò Chase.
   «Già, dieci anni... cioè da quando trovai un giovane Tenente mezzo assiderato in una capsula di salvataggio» rispose Nelscott. «Fino ad allora non mi ero reso conto dello stato in cui versava la Flotta. Fu la sua testimonianza, Alexander, a farmi aprire gli occhi. Capii che avevamo perso qualcosa, che non sapevamo più affrontare le minacce. Tutto quel che ho fatto nell’ultimo decennio, per rimodernare la Flotta, è la conseguenza del nostro primo incontro» disse gravemente, guardando Chase negli occhi.
   «E adesso?» mormorò il Capitano.
   «Adesso non posso mollare tutto e partire con l’Enterprise, anche se ne avrei una voglia matta» fece Nelscott malinconico. «Se vado ora, i lavori ai cantieri spaziali ristagneranno. Qualche ottuso burocrate potrebbe persino fermare i progetti, o rinviarli a tempo indeterminato. Non posso permetterlo... non ora che siamo a un punto cruciale. Nuove classi di navi stanno venendo varate: Nautilus, Theseus, Sagittarius, Paladin. Sa quanto ce n’è bisogno: non possiamo continuare a rappezzare navi di cento, centocinquanta anni. Ecco perché devo restare, almeno per un po’. Stiamo anche riciclando quelle deludenti classi Altair...».
   «Sì, ho visto i progetti» annuì Chase. «Volete usarle come sezioni motori, da unire ai dischi Universe, creando un ibrido...».
   «Modificando i dischi sarà fattibile» assicurò Nelscott. «Basta eliminare il deflettore e abolire la sezione motori, che sarà sostituita dalla Altair. Così risolveremo tutti i problemi: spazio, strumenti, armi e difese. Certo, considerando la stazza dei dischi Universe, non riusciremo a costruirne così tanti da trasformare tutte le Altair. Ma sarà comunque un bel salto in avanti. Secondo le simulazioni, questa nuova classe ibrida – la Celestial – potrebbe superare la Universe in termini di prestazioni. Ma lo sapremo con certezza solo quando saranno varate le prime navi, fra circa un anno. Ho già in programma di prendere la Majestic come nave ammiraglia. Se tutto andrà bene, a quel punto potrò lasciare i cantieri» si augurò.
   «Allora spero d’incontrarla fra un anno, nello spazio profondo» sorrise Chase.
   «Speriamo, Alexander... anzi, Capitano Chase. E ora vada a familiarizzare col suo nuovo equipaggio» lo esortò Nelscott, accennando a un gruppetto di ufficiali che conversavano a poca distanza.
   «Ammiraglio...» si congedò Chase, con un cenno del capo. E andò in esplorazione.
 
   «Lei dev’essere il Consigliere di bordo» esordì Chase, stringendo la mano a un uomo corpulento, dalla corta barba nera. Di lui sapeva solo che, come talvolta accadeva per i Consiglieri, non apparteneva alla Flotta Stellare, ma prestava servizio in virtù di una partnership con le autorità civili.
   «Esatto, sono il dottor Navarro» sorrise l’interessato. «Lieto di conoscerla, signore».
   «Benvenuto nell’equipaggio dell’Enterprise».
   «Ah, sì... l’Enterprise» disse il Consigliere, con quella che sembrava un’aria dispiaciuta.
   «Qualcosa non va?» si stupì il Capitano.
   «Nulla che lei possa risolvere, temo» disse Navarro, con aria complice. «Vede, trovo che chiamare ancora Enterprise l’ammiraglia di Flotta sia stata una scelta alquanto infelice».
   «E perché, di grazia?» s’indispettì Chase, che invece ne era lieto.
   «E lo chiede? Ha sentito il discorso dell’Ammiraglio... ha parlato della storia terrestre come se fosse tutta la storia federale» sospirò il Consigliere. «Non le pare oltraggioso che, con centinaia di culture facenti parte della Federazione, le nostre navi abbiano sempre nomi attinenti alla storia umana? È come se le altre tradizioni non esistessero, o non fossero importanti!».
   «Non credo sia quella l’intenzione» borbottò Chase, che non gradiva la piega presa dal discorso. «Vede, il lignaggio delle Enterprise è il più rinomato della Flotta. Le navi così chiamate si sono sempre distinte in missione, quindi trovo sensato chiamare così la nuova ammiraglia, perché sia d’ispirazione all’equipaggio...».
   «Ai membri Umani dell’equipaggio, magari. Quelli alieni è probabile che si sentano avviliti» corresse lo psicologo.
   «Vorrei capire perché insiste tanto sull’argomento» s’innervosì il Capitano. «Dopotutto è Umano anche lei...».
   «Quindi la cosa non dovrebbe darmi fastidio, intende? E invece è proprio il motivo per cui m’infastidisce doppiamente!» rivelò Navarro in tono querulo. «È desolante constatare come la nostra specie si veda ancora al centro di tutto e consideri le altre come degli accessori. Sa, sto conducendo uno studio a lungo termine sull’effetto depressivo che l’onnipresente cultura umana ha sugli alieni, e sui modi per contrastarlo. Penso che l’esperienza sull’Enterprise mi permetterà di fare osservazioni interessanti al riguardo. E anche di porre qualche domanda. Ad esempio mi dica, Capitano: ritiene che il fatto d’essere Umano l’abbia aiutata a fare carriera e a ottenere il comando?».
   «Certo che no!» sbottò Chase. «Nella Flotta Stellare non si fanno favoritismi. Lo saprebbe, se fosse dei nostri» disse, rimarcando il fatto che lo psicologo era un civile.
   «Già, già... vedo che lei ha adottato immediatamente un diniego difensivo, per proteggere il suo ego. Molto interessante... un tipico esempio di Fragilità Umana» disse il Consigliere. Prese un drink offertogli da un cameriere e lo sorseggiò con gusto.
   «Sembra che lei non abbia una grande opinione della nostra specie» si accigliò il Capitano. «Se può confortarla, sappia che la stragrande maggioranza dell’equipaggio e dei passeggeri è costituita da alieni».
   «Sì, alieni che ancora una volta devono sottostare a un Umano» commentò Navarro, con un sorrisetto ironico. «Sono curioso di vedere come gestirà la situazione... spero non le dispiaccia, se prenderò appunti sul suo stile di comando».
   «Faccia come ritiene meglio. L’importante è che non divulghi informazioni riservate della Flotta» ammonì Chase.
   «Non si preoccupi... io sono qui per aiutarla, non certo per crearle problemi. Quando avrà dubbi, venga pure da me; la mia porta è sempre aperta per chi cerca consiglio» promise Navarro, e si ritirò.
 
   «Intendente Dahut!» sibilò Chase, dirigendosi sparato verso l’aiutante. Era una Sauriana dalla testa calva e violacea, con occhi arancioni e sporgenti, grossi come pompelmi.
   «Zì, zignore?» rispose Dahut, fischiando le parole dalla minuscola boccuccia.
   «Quel Navarro là, che ci fa sulla mia nave?!» protestò Chase, accennando allo psicologo.
   «Uh, è il Conzigliere di bordo, zignore» rispose l’Intendente.
   «Lo so!» esclamò Chase, furibondo. «Ma non mi pare una personalità molto equilibrata. Ho la sensazione che quello abbia una precisa agenda politica, e che sia qui solo per coglierci in fallo. Lei è l’Intendente, conosce il ruolino... come ha fatto quell’uomo a diventare il nostro Consigliere?» volle sapere.
   «Vediamo, Navarro... uh... credo zia ztato caldamente raccomandato da una famoza Univerzità di Zan Francizco. Forze l’Ammiraglio zi è fidato e non ha letto fino in fondo la zua zcheda perzonale. Za, con tremila ufficiali...».
   «Ma Navarro è un ufficiale superiore! Potrebbe... frell! Non sarà mica un ufficiale di plancia? Uno di quelli che partecipano alle riunioni?!» chiese Chase, terrorizzato.
   «Temo di zì, zignore» annuì l’Intendente, sconsolata. «Ma – uh! – lei ha ampie facoltà di rimpazto, zignore. Il Medico Capo, Korriz Vrel, è laureato in pzicologia: può rimpiazzare il Conzigliere nelle riunioni più rizervate, ze vuole. Uh-uh!».
   «Splendido, informi il dottore. E anche Navarro!» gongolò Chase, fregandosi le mani. «Non so che combinerà, facendo da strizzacervelli all’equipaggio... ma tenerlo fuori dalla sala tattica è già qualcosa. In caso contrario, temo che lo strozzerei al primo giorno. Si occupi lei di tutto, ha la mia piena autorizzazione!».
   «Zì, zignore!» fischiò l’Intendente, e trottò via.
 
   Chase aveva fatto pochi passi, quando si trovò di fronte uno Xindi Insettoide. L’alieno si chinò su di lui, osservandolo con gli enormi occhi composti e schioccando i cheliceri nel suo linguaggio. Il traduttore universale rese comprensibile il suo discorso apprensivo.
   «Sì, stia tranquillo, professore. L’Enterprise ha una stanza attrezzata per gli Insettoidi, potrete deporre lì le vostre uova. L’ambiente è termoregolato» assicurò Chase. «Certo, tutte le specie mangiatrici di uova e larve saranno tenute lontane. I sistemi di sicurezza... va bene, metterò anche un paio di guardie» promise, per scrollarselo di dosso.
   «Capitano! È una cosa scandalosa!» disse un Vedek bajoriano, dal lungo abito talare e l’elaborato orecchino, precipitandosi verso Chase.
   «Sì, eminenza? Che c’è di scandaloso?» sospirò Chase.
   «Ci sono Orioniane a bordo! Orioniane, capisce? E anche Deltane! La loro condotta immorale e lasciva sarà un pessimo esempio per i miei fedeli. Li distoglierà dai Profeti!» protestò il Vedek, con la barba bianca che tremava per l’indignazione.
   «E che dovrei fare, metter loro il burqa? Segregarle nei ponti inferiori?» rispose Chase seccamente. «Insegni ai suoi fedeli a controllarsi, piuttosto. Se i Profeti vi rendono così puri, saprete dominare i vostri istinti; altrimenti siete solo chiacchiere» tagliò corto. Il Vedek se ne andò sdegnato.
   «Onorato di conoscerla, Capitano. Sono il Tenente Hod, della sezione ingegneria» si presentò un Elaysiano, che per camminare doveva indossare un esoscheletro meccanico. «Signore, a nome della mia gente vorrei chiederle se è possibile tenere le piastre gravitazionali a mezzo g».
   «Ha idea di cosa accade a certe specie, con quella gravità?» rispose Chase. «Vuole che alcuni passeggeri esplodano, o che altri non riescano più a riprodursi? Ma stia tranquillo, c’è un settore apposta per le specie a bassa gravità. State solo attenti a non uscire senza esoscheletri o sedie levitanti. E per l’amor del Cielo, non pasticciate coi controlli degli altri settori!» raccomandò.
   «Grazie, Capitano! Informo subito la mia gente» disse l’Elaysiano, e se ne andò con il sorriso sulle labbra.
   Chase, invece, aveva difficoltà a sorridere. L’Enterprise si annunciava molto più ardua da comandare rispetto all’Ascension. «Beh, sarà meglio che cerchi qualche ufficiale» borbottò, guardandosi attorno.
   «Eccone uno, signore» disse una Trill dagli occhi verde-acqua e i lunghi capelli biondi, raccolti in una coda di cavallo. Le macchie viola ai lati del viso erano piccole e nette. «Comandante Ilia Dax a rapporto, signore» aggiunse, mettendosi sull’attenti.
   «Riposo, Comandante... non siamo ancora in servizio» sorrise Chase, porgendo la mano al suo Primo Ufficiale. Ilia si affrettò a stringerla. «Mi spiace incontrarla solo ora» disse Chase, «ma il comando dell’Enterprise mi è giunto inaspettatamente, pochi giorni fa. Pensavo sarebbe toccato all’Ammiraglio Nelscott, visto che se ne occupa da anni».
   «Ed è stato l’Ammiraglio a selezionare gli ufficiali superiori. Capisco, signore; in circostanze normali questo sarebbe spettato a lei. Ma le assicuro che darò il meglio» promise Ilia. Aveva una voce armoniosa, ma più profonda del tono solito di una donna; era come se molte voci parlassero con la sua bocca.
   «Non era una critica» precisò Chase. «Intendevo solo che, altrimenti, avrei incontrato prima i miei ufficiali. Ma non avrei potuto desiderare un Comandante più esperto di Dax. Le sue imprese sono leggendarie».
   «Col dovuto rispetto, signore, io non sono Curzon, o Jadzia, o Ezri. Sono solo Ilia. Ho le memorie dei precedenti ospiti di Dax e alcuni loro vezzi caratteriali» spiegò la Trill, incrociando le mani dietro la schiena, «ma la mia personalità è distinta. So bene di non essere stata io a negoziare gli Accordi di Khitomer, o a pilotare la Defiant nella Guerra del Dominio, o a capitanare l’Aventine».
   «Però conserva le memorie di quei fatti» insisté Chase.
   «Capitano, io ricordo dodici vite, dipanate in oltre cinquecento anni. Il mio Simbionte, Dax, nacque nel 2018. In tutto questo tempo è stato portato da ospiti molto diversi. I più famosi sono certamente i tre ufficiali federali, ma i miei ricordi più freschi sono degli ospiti successivi, Martis e Zarden. Loro erano civili... in effetti è da un secolo che Dax non presta servizio nella Flotta Stellare» ammise.
   «Immagino che siano cambiate molte cose, dai tempi dell’Aventine» commentò Chase. «A proposito, volevo farle le condoglianze per Zarden. Era un eccellente architetto... la sua morte ha rattristato tutti».
   «La ringrazio, Capitano... anche se è strano ascoltare le condoglianze per la mia vita passata. Cioè, la vita di Zarden» si corresse Ilia.
   «Almeno le sue opere architettoniche gli sopravvivranno. Sopravvivranno a tutti noi... salvo forse Dax» notò Chase.
   «No, nemmeno a lui» disse Ilia, facendosi malinconica. «I Simbionti non vivono più di 600 anni, e Dax ne ha 532. Quindi, se vivrò a lungo, alla mia morte Dax sarà troppo vecchio per poterlo impiantare con sicurezza in un nuovo ospite. Potrebbe anche morire lui per primo... nel qual caso avrei seri problemi di salute. Comunque vada, i preziosi ricordi di Dax hanno trovato in me la loro ultima beneficiaria».
   «Oh, mi... mi addolora sentirlo» disse Chase, commosso.
   «È tutto a posto, Capitano» sorrise Ilia. «Prima dell’Unione sono stata informata dei rischi. Ma ne valeva la pena... per le memorie di Dax. Sa, lui aveva proprio voglia di tornare nella Flotta, dopo due vite da civile. Io ero la sua ultima occasione per sperimentare il brivido dell’ignoto».
   «Già, l’esplorazione... ma con una nave vasta come l’Enterprise, dovremo stare attenti a non perderci nei corridoi!» ridacchiò Chase.
   «Sarà mia premura evitarle quest’inconveniente, Capitano» disse una voce femminile lì accanto. Chase si girò e vide un’esile donna dai lineamenti orientali. Aveva grandi occhi scuri e corti capelli neri con riflessi corvini. Due ciocche incorniciavano il viso pallido e ovale, quasi da bambina. Indossava un elegante abito da sera argenteo, che lasciava scoperta una spalla. Sul braccio in evidenza portava una sorta di bracciale cromato, che Chase scambiò per un ornamento.
   «Lieto di conoscerla, signorina...?» chiese il Capitano, colpito dalla nuova arrivata.
   «Enterprise. Sì, proprio quella là fuori» sorrise la giovane indicando la nave, che stazionava oltre la finestra di trasparacciaio.
   «Oh, ma allora lei è...».
   «L’Intelligenza Artificiale dell’Enterprise, esatto. La mia designazione completa è AI 12-J-4739 MARK VII, ma può chiamarmi semplicemente Terry, come fanno i miei progettisti».
   «Mi sa che farò così» convenne Chase. «Quindi lei è un ologramma... e quello è il suo emettitore» aggiunse, indicando il bracciale cromato.
   «Ologramma? Nulla di così rozzo... sono una proiezione isomorfa, che imita l’organismo umano fino a livello cellulare» spiegò Terry. «Mi consideri l’avatar dell’Enterprise, il suo modo per interagire con l’equipaggio. Il mio mainframe è sulla nave, ovviamente, ma questo Emettitore Autonomo mi fornisce una considerevole libertà di movimento».
   «Sulla vecchia Ascension non avevamo niente del genere... e nemmeno sull’Enterprise-I» commentò Chase. «Ma i computer di quelle navi erano obsoleti. Mi parli un attimo delle sue – ehm – specifiche. Niente dettagli tecnici, solo l’essenziale».
   «Volentieri, signore» sorrise Terry. «Sono stata creata assieme alla nave, al Daystrom Institute of Technology di Utopia Planitia. La mia prima attivazione risale a cinque anni fa, all’inizio dei lavori, ma ho subìto update fino a tre giorni fa. In missione svolgerò il ruolo di Ufficiale Scientifico e come Tenente Comandante sarò terza in linea di comando».
   «Come?! L’hanno promossa Tenente Comandante, anche se questa sarà la sua prima missione?» si stupì Chase.
   «Correzione: non sono stata promossa. Sono stata programmata per svolgere le mansioni di Tenente Comandante. E se per qualsivoglia ragione lei e il Comandante Dax foste inabili al comando, passerò in modalità Capitano Olografico d’Emergenza» spiegò Terry.
   «Fantastico, affidiamo la nave al tostapane» commentò Ilia, acida.
   «Come dice, prego?» chiese Terry, sbattendo le palpebre perplessa.
   «Dico che ho vissuto per cinquecento anni, per dodici vite, e ancora mi capitano imprevisti. Ma tutte le volte che ho fatto carriera nella Flotta, ho cominciato dall’Accademia. Sono stata promossa solo se e quando lo meritavo. Nessuno mi ha detto: “Ehi, questa ragazza ha le memorie di un ufficiale, promuoviamola subito!”» disse la Comandante. Chase notò un cambiamento nel suo tono di voce e anche nella postura: di colpo sembrava meno Ilia e più Dax, malgrado il suo precedente discorso.
   «La memoria pregressa del suo Simbionte è notevole, ma non comparabile all’ampiezza del mio database» rispose prontamente Terry. «E temo che gran parte dei suoi ricordi siano troppo... vintage per essere utili in questo secolo».
   «Mi sta dando della vecchietta?!» protestò Dax, strabuzzando gli occhi.
   «Mantenete la calma» intervenne Chase, prima che la situazione sfuggisse di mano. «Ilia, nessuno mette in dubbio la sua competenza. Terry... la capacità di comandare una nave non dipende solo dall’ampiezza del nostro database. Quando siamo là fuori, nello spazio, siamo responsabili delle vite dei nostri ufficiali. E dei civili; sulla Ascension non ne avevo, ma sull’Enterprise a pieno carico ce ne saranno settemila. E non importa cos’hanno messo nel suo programma, quante subroutine di analisi tattica, quanti algoritmi euristici: ogni missione è diversa, ogni decisione porta delle conseguenze. Noi scegliamo al meglio delle nostre capacità; ma poi accettiamo quel che viene, e impariamo a convivere con le conseguenze.
   Le hanno spiegato come ci si sente, a perdere dei colleghi? A me è successo. Ne ho persi 824, sull’Enterprise-I. Quando ti accade una cosa del genere, continui a ripensare a quei momenti, cercando di capire se potevi agire meglio. Ti senti persino in colpa per essere sopravvissuto. E se a morire sono degli ufficiali sotto il tuo comando, che avevi mandato in missione, è ancora peggio: lì sei direttamente responsabile».
   Chase osservò gli occhi a mandorla di Terry, imperscrutabili, chiedendosi se quei discorsi avevano un senso per l’Intelligenza Artificiale. Lui non aveva mai avuto esseri sintetici sotto il suo comando, tantomeno ufficiali superiori. Decise tuttavia d’insistere, sperando di far passare il concetto: «Ogni nave della Flotta Stellare, prima o poi, passa dei brutti momenti. E l’Enterprise non è una nave qualunque. È l’ammiraglia, la nave che deve riuscire dove le altre falliscono. Dobbiamo rappresentare la Flotta al meglio, sapendo che i nemici della Federazione ci odieranno a maggior ragione per questo, e tanto più si accaniranno contro di noi. Perciò non faccia troppo affidamento sul suo aggiornatissimo database. Impari piuttosto a conoscere i suoi colleghi, e a fidarsi di loro, se può».
   «Capisco, signore... almeno credo» disse Terry, inclinando leggermente la testa. «Sono stata programmata per prendermi cura di tutti i miei passeggeri, sia ufficiali che civili. L’effetto di un fallimento sarebbe... molto rilevante, sulle mie subroutine emotive. Le garantisco che non desidero più responsabilità di quelle che ho già. E so che non potrei funzionare adeguatamente, se non avessi colleghi organici a bordo. Da me avrà sempre il massimo, signore» promise.
   «Bene» disse Chase, abbozzando un sorriso. «Con l’esperienza di Dax e le sue analisi probabilistiche, saprò sempre dove mi trovo».
 
   Quella sera non fu solo Chase a incontrare le persone decisive per il suo futuro. Quasi tutti gli ufficiali superiori partecipavano alla cerimonia inaugurale e cercavano di conoscersi, sperando di poter lavorare bene assieme. Non tutti furono soddisfatti. Alcuni rimasero perplessi, altri delusi; qualcuno persino spaventato. Ma pochi erano tesi come Korris Vrel, l’Ufficiale Medico Capo. Non gli era mai piaciuta la folla, e lo metteva in ansia conoscere nuovi colleghi, ma ovviamente non poteva prescindere da queste cose. Così costeggiava le pareti, con l’aria un po’ smarrita, e si guardava intorno. Cercava il coraggio di attaccare bottone con qualcuno. Ma temeva che la sua faccia grigia di Cardassiano avesse un effetto repulsivo.
   «Desidera un drink, signore?» chiese un olo-cameriere, sgusciandogli a fianco così repentinamente che il medico sobbalzò.
   «Eh? Uhm, sì, grazie. Prendo una Cardassian Sunrise... calda, mi raccomando» disse.
   «Subito, signore». Sul vassoio dell’olo-cameriere si materializzò la bibita richiesta. Korris capì perché il vassoio era così spesso: si trattava di un replicatore alimentare.
   «Grazie» disse Korris, prendendo il bicchiere. Se lo scolò in un sorso, ma quando fece per restituirlo si accorse che l’olo-cameriere se n’era andato, evidentemente chiamato altrove. Non riuscendo a ritrovarlo, in mezzo alla ressa, dovette tenersi il bicchiere vuoto in mano.
   «Devo sembrare un vero idiota» si disse, guardandosi attorno sconsolato. C’erano due persone che aveva invitato a quell’evento e che sperava ardentemente di vedere. Ma no, di loro nemmeno l’ombra. «Sono stato uno sciocco a credere che sarebbero venuti qui per me; sono io il motivo per cui non vogliono più vedersi!» rifletté.
   Continuò a guardarsi attorno, finché il suo sguardo fu attirato da una giovane donna. Era alta e atletica, con la pelle di un bel tono ambrato. Aveva un viso piacevole, con piccole fossette ai lati della bocca. Sembrava Vulcaniana: le orecchie a punta uscivano dal caschetto di capelli neri e lucidi, le sopracciglia terminavano all’insù. Però rideva e scherzava con i colleghi, come se provasse emozioni.
   «Forza, Korris… che medico sei, se non capisci nemmeno a quale specie appartengono i tuoi pazienti?» pensò il dottore. «Avanti, sfodera il tuo occhio clinico!». La studiò per qualche secondo, notando che i suoi occhi erano nerissimi, come se avesse le pupille enormi. C’era un volto del genere, fra le centinaia di schede personali che aveva letto a razzo nei giorni precedenti. Quello di un tenente... forse un timoniere? Korris non ricordava altro.
   Naturalmente la donna si accorse d’essere osservata. Si congedò dai colleghi e gli venne incontro a passo svelto, sorridendo divertita. Quando gli fu vicina, il medico si sentì obbligato a rompere il ghiaccio.
   «Salve, lei deve essere il timoniere» esordì Korris.
   «Tenente T’Vala Shil, signore» annuì la giovane. «E lei l’Ufficiale Medico Capo. Lunga vita e prosperità, dottor Vrel» disse, levando la mano nel tradizionale saluto vulcaniano a V.
   «Dottor Korris, in realtà. I Bajoriani antepongono il nome di famiglia a quello personale» precisò il dottore.
   «Bajoriani? Oh, mi scusi... non avevo notato il corrugamento nasale» disse T’Vala.
   «Non si nota molto» convenne Korris. «Quand’ero su Bajor, tutti pensavano che fossi un Cardassiano purosangue. E quando stavo su Cardassia, beh... i Cardassiani hanno un grande occhio per i dettagli. Loro se ne accorgevano subito, che ero un Mezzosangue» ironizzò.
   «Capisco cosa intende» disse T’Vala, comprensiva. «La vita non è semplice, per noi meticci».
   «Noi? Quindi lei non è interamente Vulcaniana» disse Korris, trovando conferma ai suoi sospetti.
   «Suvvia, dottore, l’avrà notato. I miei occhi mostrano chiaramente l’ascendenza Betazoide» disse T’Vala, indicandoli con due dita.
   «Già, le grandi pupille... con questa luce non ne ero del tutto sicuro. Mezza Vulcaniana e mezza Betazoide... il suo indice di telepatia sarà alle stelle» osservò il dottore.
   «Mi è stato certificato un livello ESP 11» confermò T’Vala.
   «Empatica e telepatica... notevole!» riconobbe Korris. «È mai riuscita a effettuare una Fusione Mentale a distanza?».
   «Non ancora» rispose T’Vala, divertita da quelle domande. «Scusi, ma... non ha letto la mia cartella clinica?».
   «Ho circa diecimila cartelle cliniche da leggere» si giustificò Korris, assumendo un tono professionale. «Tra l’altro mi è stato comunicato da poco il mio ingaggio sull’Enterprise. Quando ho fatto domanda, non osavo sperarci».
   «Già... pensava che le avrebbero dato il comando della Phlox, la nave medica su cui ha lavorato in questi anni. Come, una classe Olympic?! Non credevo ce ne fossero ancora in servizio!» si meravigliò T’Vala.
   «Lei ha decisamente un ESP 11» constatò Korris.
   «Mi scusi, se n’è avuto a male? Cerco di non leggere nelle menti altrui, senza prima chiedere, ma a volte i pensieri sono così chiari che è come avere un cartellone davanti. Ops... non intendevo criticare la sua disciplina mentale» si corresse T’Vala, imbarazzata. «Vedo che ha il simbolo dell’IDIC sulla giacca... segue qualche pratica vulcaniana?» chiese, per cambiare argomento.
   «Oh, niente di che» si schermì Korris, con un sorriso modesto. «Pratico giusto la meditazione, come forma di distensione mentale. Del resto anche i Bajoriani meditano. Più che altro apprezzo l’IDIC come filosofia... Infinite Diversità in Infinite Combinazioni, è l’essenza della Flotta» notò.
   «Già, immagino che abbia trovato un ambiente più tollerante qui, che non nelle sue patrie. Non le leggo la mente, parlo per esperienza» precisò T’Vala. «Anch’io so cosa vuol dire trovarsi in bilico fra due mondi. I Betazoidi, il popolo di mia madre, sono così emotivi... tutto l’opposto dei Vulcaniani, la gente di mio padre».
   «Almeno non sono mai stati in conflitto» la confortò Korris, studiando in controluce il suo bicchiere. «Invece Bajoriani e Cardassiani... beh, non siamo più nel XXIV secolo, ma certe cose non cambiano mai. Saranno anche sotto l’egida federale, ma continuano a pensare che certi incroci siano da evitare. E quando una cantante bajoriana si mette con un chimico cardassiano, la miscela non può che essere... beh, esplosiva».
   «Ecco da dove viene la sua tristezza... mi perdoni, ma non ho potuto fare a meno di percepirla fin da quando si è avvicinato. Lei si stava guardando intorno... cercava qualcuno... oh, capisco. Mi spiace» disse T’Vala, commossa.
   «Non posso nasconderle niente, vero?» sospirò Korris. «Ma sì, ha visto giusto. L’incarico sull’Enterprise è arrivato così all’ultimo minuto che non ho fatto in tempo a tornare né su Bajor, né su Cardassia. Ecco perché avevo invitato i miei genitori qui, a questa cerimonia. Chissà, magari si sarebbero parlati un po’, dopo tutto questo tempo».
   «Sento che la loro mancanza la delude molto, ma non deve...» cominciò T’Vala.
   «Lasci stare. La mia unica casa sarà l’Enterprise, ora. E suppongo che la mia unica famiglia saranno gli amici e i colleghi di lavoro» tagliò corto Korris. «Ma parliamo di lei, visto che non posso leggerle la mente. È entrata nella Flotta per evasione o per vocazione?» chiese in tono arguto.
   «Forse entrambe le cose» ammise T’Vala, dopo averci pensato un attimo. «Ho trascorso l’infanzia su Betazed, viziata da mia madre. Trasferirmi su Vulcano, a sette anni, fu un bello shock. Tutta quella disciplina...» disse, scuotendo la testa.
   «Sua madre... aspetti, ha detto di chiamarsi Shil?» chiese il dottore, strabuzzando gli occhi. «Quindi sua madre era...».
   «Xilana Shil, della Settima Casa di Betazed» confermò T’Vala.
   «La famosa ambasciatrice!» fischiò Korris. «Ricordo che l’Olonet parlò a lungo dell’incidente...».
   «Parlò dell’attentato» precisò T’Vala, indurendosi. «Si dice così, quando qualcuno piazza una bomba al tricobalto sulla tua navetta, per prolungare la disputa su qualche asteroide di dilitio». La giovane sospirò. «Sa, è strano... mia madre non voleva che mi arruolassi nella Flotta, perché avrei corso dei rischi. Però voleva che conservassi le emozioni. Invece mio padre Sirok – un astronomo dell’Accademia delle Scienze – voleva esattamente il contrario: che seguissi il mio interesse per la Flotta e che completassi il kolinahr, purificandomi dalle emozioni. Ho cercato di accontentarli entrambi... ma forse li ho delusi tutti e due» sospirò.
   «Quindi lei non segue gli insegnamenti di Surak» commentò Korris. «Lo immaginavo: da quando l’ho vista ha manifestato un’ampia gamma d’emozioni. È una V’tosh ka’tur, una Vulcaniana Senza Logica» diagnosticò.
   «Niente affatto!» protestò T’Vala, punta sul vivo. «Sono perfettamente capace di usare la logica, quando serve. Anche se non ho fatto il kolinahr, conosco la filosofia di Surak, T’Plana-Hath e degli altri Maestri di Logica. Ho studiato a fondo il Kir’Shara e gli altri scritti. Però sono giunta alla conclusione che si può essere logici quando occorre, senza per questo sacrificare le emozioni di una vita intera» dichiarò con trasporto.
   «Ben detto!» esclamò un Tellarita, intervenendo nella conversazione. Come tutti quelli della sua specie era basso e grassoccio. Aveva occhi piccoli e cisposi, un naso porcino e grosse zanne da cinghiale. I lunghi capelli color fango si confondevano con la barba folta. «Tutte le specie devono bilanciare ragione e passione, in qualche modo. Noi Tellariti, ad esempio, non abbiamo mai avuto problemi!» affermò soddisfatto.
   «Lei deve essere Grenk, l’Ingegnere Capo» lo salutò T’Vala. Korris si chiese se la timoniera aveva già memorizzato nomi, volti e gradi degli innumerevoli colleghi. Forse sì; la sua metà vulcaniana doveva garantirle una memoria fotografica.
   «Già, sono quello che farà funzionare i motori che lei userà» grugnì l’ingegnere. «Quindi le raccomando di avere garbo. Tenga a mente i limiti di tolleranza, o sarò io a sgobbare... sempre che l’Enterprise sia ancora intera! Uhm, a proposito dei Vulcaniani Senza Logica... pensavo che quelli come lei esistessero già. Pensavo che vivessero nel Quadrante Beta e si chiamassero Romulani» la provocò.
   «Moderi il linguaggio!» insorse Korris. «Lo perdoni, T’Vala... i Tellariti amano le discussioni accese, anche se non portano a nulla di costruttivo. Questo li rende ottimi politici, ma pessimi colleghi di lavoro».
   «Lo so; è un modo per rompere il ghiaccio. Dire subito all’altro quel che si pensa è una bella prova di fiducia» ribatté T’Vala. Si rivolse di nuovo a Grenk: «Io, per esempio, sto pensando che voi porcellini dovreste stare attenti: sull’Enterprise c’è un ponte allagato, riservato agli Xindi Acquatici. Se qualcuno di voi sbagliasse portellone e ci cascasse dentro, rischierebbe di lavarsi. Voi il bagno lo fate solo nel fango, giusto?».
   «È l’unico modo sensato di farlo. Acqua, docce soniche... andranno bene per voi spilungoni!» rimbeccò Grenk. «Tu piuttosto, saputella dalle orecchie a punta... sicura che durerai sull’Enterprise? Ho sentito che il ristorante principale è diretto da un Gorn. Oltre alla cucina carnivora del suo mondo, fa piatti Klingon e Ferengi... tutta roba a base di carne, vermi, molluschi e larve. Il tuo delicato stomaco vegetariano non reggerà a lungo!» gongolò.
   «Ci sono altri ristoranti. C’è la mensa ufficiali. E ci sono i replicatori negli alloggi. Non patirò certo la fame» obiettò T’Vala.
   «Ma scommetto che convincerò la crema della nave a venire con me dal Gorn. Dovrai adattarti, se vuoi cenare con gli ufficiali superiori! Sempre che t’interessi... in fondo sei solo un Tenente» notò Grenk.
   «Voi Tellariti non siete contenti, se ogni tanto non sgranocchiate un bell’arrosto di cane... ma stai attento, ci sono alcuni colleghi Fiboniani che hanno pressappoco quell’aspetto. E con la vista corta che ti ritrovi, potresti non notare la differenza» avvertì T’Vala.
   «Già, sembra che questa nave sia un bello zoo!» ridacchiò Grenk. «Il tuo delicato olfatto vulcaniano andrà in sovraccarico dopo mezza giornata!».
   «Meglio, così non sentirò più la tua puzza» rimbeccò T’Vala. Entrambi stavano prendendo sempre più gusto al giochetto.
   «Vedo che state già facendo amicizia» commentò Korris, che cominciava a sentirsi di troppo. «Vi lascio... ci sono tanti altri colleghi che devo conoscere» spiegò. Mentre si allontanava, sentì che T’Vala e Grenk continuavano a insultarsi, con grande soddisfazione reciproca.
 
   Trascorsero le ore. Gli incontri, le presentazioni, le chiacchiere più o meno piacevoli furono innumerevoli. Varie musiche furono suonate e talvolta ballate. Infine, a notte fonda, il salone cominciò a svuotarsi. Gli invitati lasciavano la festa, soli o a piccoli gruppi. Arrivò il momento in cui anche Chase si diresse verso l’uscita.
   «Un momento, signore; non può ancora andare» lo richiamò Terry.
   «Perché no?» chiese Chase, soffocando uno sbadiglio. «Forse ho bevuto troppi drink... ma il sintalcool non dovrebbe impedire la sbornia?» si chiese.
   «È una questione della massima sicurezza, Capitano» avvertì Terry, in tono formale. Due robusti ufficiali della Sicurezza circondarono Chase.
   «Che succede, ci sono Parassiti Neurali in sala?!» s’inquietò Chase, guardandosi attorno. «Hanno piazzato una bomba?».
   «Niente del genere. Deve visionare una registrazione. Da questa parte, prego» lo invitò Terry, indicando un corridoio.
   «Ed è così urgente?» si meravigliò il Capitano, avviandosi. Terry gli camminava a fianco, mentre le due guardie li seguivano a breve distanza.
   «È indicato come messaggio di priorità 1» si giustificò l’Intelligenza Artificiale.
   «Aspetti... ha detto che è una registrazione? Perché non ne sono stato informato prima?» volle sapere Chase.
   «È complicato. Questa registrazione è in possesso della Flotta Stellare da molto tempo, ma può essere visionata solo adesso e solo da lei» spiegò Terry. Accelerò il passo, tanto che Chase dovette trottare per starle dietro. «Io sono stata avvertita poco fa: i servizi segreti mi hanno inviato un messaggio, ma ignoro tuttora il contenuto della registrazione. Qualunque cosa sia, è solo per i suoi occhi e le sue orecchie» concluse Terry, svoltando in un corridoio laterale.
   «Ma... quant’è vecchia questa registrazione?» domandò Chase, confuso.
   «Risale a 388 anni, 6 mesi e 12 giorni fa» rispose l’IA senza scomporsi.
   «Cioè... è vecchia quanto la Flotta Stellare!» esclamò Chase, incredulo.
   «Corretto: risale a tre giorni dopo la firma della Costituzione federale» annuì Terry, entrando in una sala teletrasporto. Tutti e quattro si disposero sulle pedane, mentre un altro ufficiale della Sicurezza digitava le coordinate di arrivo.
   «Ma di chi è la registrazione, si può sapere?» chiese il Capitano. Ci fu un ronzio e i quattro si dissolsero in un bagliore azzurro. Pochi attimi dopo si ricomposero in una sezione bunker del Comando di Flotta Stellare, a San Francisco.
   «Del Capitano dell’Enterprise, naturalmente» sorrise Terry. «È pronto a incontrare Jonathan Archer? Di qua, prego» lo invitò, indicando l’ingresso di una camera blindata che si stava aprendo lentamente.
   «Lei non viene?» chiese Chase, indugiando davanti alla porta corazzata. Dentro c’era un lungo corridoio buio.
   «Negativo, il messaggio è solo per il Capitano dell’Enterprise-J» rispose Terry, scuotendo la testa.
   «Ma Archer come sapeva... va beh, credo di stare per scoprirlo» lasciò perdere Chase, e varcò la soglia. Immediatamente il portone blindato si chiuse alle sue spalle, come una mandibola.
   Per un attimo Chase si trovò immerso nella completa oscurità. Poi si accese una successione di luci bianche sul soffitto. Il corridoio ne fu appena rischiarato. Chase lo percorse con il cuore che gli martellava in petto. Jonathan Archer! Il padre della Flotta Stellare, l’artefice della Federazione stessa! Una delle personalità più importanti nella storia umana! Chase aveva visto moltissime foto e filmati d’epoca. Lo aveva persino osservato in azione, in qualche ricostruzione olografica. Ma niente poteva eguagliare un messaggio originale, registrato da Archer proprio per lui. Chissà perché l’aveva fatto?
   «Forse è solo un messaggio di auguri, registrato per tutti i futuri Capitani di navi chiamate Enterprise» si disse Chase. Già, forse tutte quelle misure di sicurezza erano superflue. Forse la sua apprensione era inutile. Forse...
   Chase raggiunse una camera blindata, la cui parete di fronte era occupata in gran parte da un  maxi-schermo. La sua tecnologia era incredibilmente antiquata. Il Capitano si rese conto che niente, in quella stanza, era cambiato negli ultimi quattro secoli. Diamine, poteva darsi che l’ultimo a entrare fosse stato proprio Archer!
   «Prego, fornire identità» disse una voce computerizzata da un piccolo altoparlante.
   «Capitano Alexander Chase, nave stellare USS Enterprise NCC-1701-J» rispose l’uomo.
   «La registrazione inizierà tra dieci secondi» avvertì il computer, mentre le luci si oscuravano. «Non sono previste repliche. Il messaggio si auto-cancellerà subito dopo la visione. Cinque... quattro... tre... due... uno...».
   «Inizio registrazione!» disse prontamente Chase, premendosi il comunicatore sul petto. Quell’utile dispositivo, che faceva anche da mostrina della Flotta Stellare, poteva registrare tutto il discorso di Archer. A Chase dispiaceva un po’ barare, ma era troppo stanco e assonnato: non voleva rischiare di dimenticarsi qualcosa d’importante. Strano che non gli avessero tolto il comunicatore all’ingresso: forse non si aspettavano che il discorso si auto-cancellasse. O forse Terry aveva notato la sua stanchezza.
   Lo schermo s’illuminò, mostrando un uomo di mezz’età, dalla faccia lunga e vissuta. Indossava un’antiquata uniforme azzurra da Ammiraglio. Un’uniforme della Flotta Astrale terrestre, prima che fosse riformata nella Flotta Stellare della Federazione. Chase si sentì il cuore in gola: quell’uomo era proprio Jonathan Archer! Sulla spalla sinistra aveva persino la mostrina dell’Enterprise NX-01.
   Archer guardò dritto verso lo schermo – verso Chase – e si schiarì la voce. «Salve, Capitano» esordì. «Mi scusi se mi rivolgo a lei solo così: non conosco il suo nome. In effetti non so quasi niente di lei. Ignoro se sia uomo o donna, se sia nato sulla Terra o su un altro pianeta. Ignoro persino se sia Umano o appartenga a qualche altra specie della Federazione. Eppure so una cosa, sul suo conto, che lei ignora. Buffo, vero? Io sto registrando questo messaggio nel 2161. Pochi mesi fa è terminata la guerra contro i Romulani, con la Battaglia di Cheron. L’Enterprise se l’è cavata bene, grazie a tutti i miglioramenti di Trip. Purtroppo quel Falco da Guerra romulano ha ridotto male lo scafo. Dopo dieci anni di onorato servizio, l’Enterprise sta per andare a nanna. Dicono che diventerà un museo. Beh, ormai ha fatto il suo dovere» sospirò.
   «Con la fine della guerra, molte cose stanno cambiando. Tre giorni fa ho pronunciato un discorso davanti ai rappresentanti della Coalizione di Pianeti che ha ricacciato i Romulani nel loro spazio. Sembra sia piaciuto, visto che tutti gli ambasciatori hanno firmato. Umani, Vulcaniani, Andoriani, Tellariti, Denobulani, Rigeliani... tutte specie che prima si odiavano, e ora stanno imparando a collaborare. A condividere scoperte e idee. Certo, c’è ancora molta strada da fare. Credo che morirò di vecchiaia, prima di vedere queste specie andare veramente d’accordo. Perché le dico questo? Perché io sapevo che avrei pronunciato quel discorso. Sapevo che l’avrei fatto qui sulla Terra. Conoscevo persino l’aspetto della sala conferenze. Aspetti, non mi dia subito del matto. Non sono pazzo e non sono neanche un veggente. La realtà è più... complicata di così.
   Sette anni fa, al termine della missione nella Distesa Delfica, abbordai la Superarma Xindi per distruggerla dall’interno, prima che quella distruggesse la Terra. L’avrà letto nei libri di storia. Quel che i libri non dicono è che, subito prima, io ebbi un’esperienza di viaggio nel tempo. Un marinaio della mia nave, Daniels, non era quello che pensavamo. Era un Agente Temporale del XXXI secolo. Mi ha sentito bene, Capitano: veniva da 900 anni nel futuro per me e 500 per lei. Poco dopo essersi rivelato, sembrò che fosse stato ucciso da un Sulibano di nome Silik; ma non era così. Negli anni seguenti lo incontrai diverse altre volte... in vari periodi temporali. Ogni volta che voleva parlare con me, Daniels mi portava in epoche diverse. Qualche volta nel passato, prima che l’Enterprise fosse varata. Altre volte nel futuro: anni o persino secoli avanti. Adesso penserà che sono proprio matto, vero? Ma aspetti, prima di giudicare!» sorrise Archer.
   Chase notò che l’Ammiraglio camminava su e giù e spesso guardava il pavimento. Ma nei momenti più importanti alzava la testa e lo fissava dritto negli occhi. In quegli attimi, Chase quasi dimenticava l’abisso di quattro secoli che li separava.
   «Come dicevo, una volta Daniels mi portò avanti di sette anni, facendomi assistere da lontano alla firma della Costituzione federale» riprese Archer. «Mi disse che la Federazione crescerà per secoli, fino a contare decine, persino centinaia di specie diverse. Ma avrà anche dei nemici. Alcuni li ho già incontrati: i Romulani, i Klingon. Ma ce ne sono altri di più... sfuggenti. Fazioni che combattono una Guerra Fredda Temporale, come la definì Daniels. Alcune fazioni possono viaggiare direttamente nel tempo. Altre devono accontentarsi d’inviare messaggi nel passato, trovando lì degli adepti. Nell’ultimo decennio ho incontrato fazioni di entrambi i tipi. Sono tutte pericolosissime, malgrado i colleghi di Daniels si sforzino di preservare la Storia». Archer tacque per qualche attimo. Fissò il pavimento con la fronte aggrottata, come se si sforzasse di ricordare.
   «Oggi voglio parlarle di una fazione in particolare. L’abbiamo affrontata in quell’anno infernale che passammo nella Distesa Delfica. Ma attenzione: anche se parlo della Crisi Xindi, i nemici non sono gli Xindi. Sono i loro maestri, i loro Custodi, come si definivano. Noi li chiamiamo semplicemente Costruttori di Sfere. Non so quanto, delle cronache di questi anni, sarà accessibile a lei, Capitano. Mi auguro che non sia stato dimenticato o censurato nulla d’importante. Ma devo pensare al caso peggiore, cioè che lei non sappia quasi nulla di ciò che accadde realmente nella Distesa. Perciò lasci che le racconti una storia, la mia storia». Archer fece un’altra pausa, richiamando i ricordi, e Chase si predispose ad ascoltare con ancora più attenzione.
   «Nel 2153, mentre l’Enterprise festeggiava il suo secondo anno nello spazio, una sonda Xindi attaccò la Terra» riprese l’Ammiraglio. «Il suo raggio a particelle tracciò una scia distruttrice dalla Florida al Venezuela; le vittime furono oltre sette milioni. L’Enterprise fu richiamata immediatamente sulla Terra, dove la sonda si era schiantata. Il suo pilota, deceduto, era uno Xindi Rettile, ma all’epoca non conoscevamo la sua specie. Scoprimmo però che veniva dalla Distesa Delfica, una regione di spazio sconvolta da pericolose anomalie. Convinsi il Comando di Flotta a inviare l’Enterprise laggiù, per prevenire un secondo e peggiore attacco.
   Il nostro anno nella Distesa fu una tremenda lotta per la sopravvivenza. Gli attacchi dei pirati, i combattimenti con gli Xindi e le continue anomalie misero a durissima prova la nave e l’equipaggio. Ma col tempo riuscimmo a mettere assieme le tessere del puzzle. Capimmo chi c’era realmente dietro l’attacco alla Terra». Archer trafisse Chase con un altro dei suoi sguardi penetranti.
   «Non era stato il Consiglio Xindi a prendere autonomamente questa decisione. Gli Xindi erano stati manipolati dai Costruttori di Sfere, esseri provenienti da un dominio trans-dimensionale... una dimensione parallela, insomma. Erano apparsi agli Xindi all’indomani della distruzione del loro mondo natale. Avevano guidato i superstiti verso pianeti abitabili, gli avevano indicato risorse preziose per sopravvivere. Erano praticamente venerati. Uno Xindi Primate, Degra, il progettista dell’arma, mi disse d’aver insegnato ai suoi figli a pregare i Custodi prima di dormire. Purtroppo questa premura non era disinteressata. Faceva parte del piano più diabolico nel quale mi sia mai imbattuto» avvertì Archer, e Chase ne percepì il livore.
   «I Costruttori di Sfere avevano aiutato gli Xindi solo per renderseli fedeli e approfittare della loro riconoscenza. Apparvero al Consiglio Xindi per avvisarlo di una fantomatica minaccia. Gli dissero che, in futuro, gli Xindi sarebbero tornati a radunarsi su un solo pianeta, per ricostruire appieno la loro civiltà. E mentirono, dicendo che noi Umani avremmo distrutto quella nuova patria. Gli mostrarono persino un’immagine delle navi terrestri che bombardavano il loro mondo fino a distruggerlo. I Costruttori, infatti, avevano una tecnologia che gli permetteva di sondare le linee temporali. Potevano prevedere i futuri possibili, riconoscere il più vantaggioso e agire di conseguenza, indirizzando gli eventi in quella direzione. Avevano persino alcune capacità di viaggio nel tempo diretto: un pezzo della sonda Xindi che attaccò la Terra proveniva dal 2573. E alcuni Xindi Rettili furono trasferiti dai Costruttori nella Detroit del 2004, per realizzare segretamente un’arma biologica da affiancare alla Superarma. Daniels mi portò da loro, e con l’aiuto di T’Pol riuscii a fermarli».
   Chase si massaggiò le tempie, sconvolto. Aveva letto i rapporti di molti viaggi nel tempo, alcuni dei quali davvero pazzeschi. Ma quello che gli stava raccontando Archer era senza paragoni.
   «Dunque i Costruttori persuasero gli Xindi che, per impedire agli Umani di distruggerli, dovevano colpire per primi» proseguì Archer, camminando furiosamente avanti a indietro. «Li convinsero a costruire la Sonda e a testarla sulla Terra, provocando milioni di vittime. Li convinsero a realizzare l’arma biologica che fermai a Detroit. Li convinsero a costruire una seconda Sonda, molto più potente, che distrussi con l’aiuto degli Andoriani. E li convinsero a costruire la Superarma finale, che avrebbe annientato la Terra. Gli dissero persino che dovevano inseguire ogni colonna di rifugiati, bombardare ogni colonia e avamposto. Insomma, che dovevano sterminarci completamente.
   Nel frattempo i Costruttori portavano avanti la seconda parte del loro piano. Già da millenni avevano costruito le Sfere della Distesa Delfica: 72 stazioni sferiche, ciascuna di 19 km di diametro. Ogni Sfera era circondata da una barriera occultante per nasconderla, aveva un guscio resistente e sistemi interni anti-intrusione. Ognuna emetteva potenti onde gravimetriche, che riconfiguravano lo spazio, cambiando le leggi della fisica. L’intera Distesa Delfica, compreso il perimetro di nubi termobariche, era il prodotto delle Sfere. Le anomalie erano letali per le specie che ci vivevano: interi pianeti erano divenuti inabitabili e i loro popoli erano fuggiti o erano morti. Per proteggere le astronavi bisognava schermarle col Trellium-D: una sostanza rara e preziosa, che i popoli della Distesa si litigavano. Il Trellium era anche tossico per i Vulcaniani: fece impazzire l’equipaggio della Seleya e fece quasi lo stesso con T’Pol. Più passava il tempo, più le anomalie s’intensificavano e la Distesa cresceva, inglobando altri pianeti. Se nessuno l’avesse fermata, sarebbe cresciuta a dismisura, devastando l’intera Galassia. Ma nessuno prima di noi aveva compreso l’entità del pericolo».
   Archer smise di camminare e tornò a fissare Chase. «Le dico tutto questo, Capitano, perché lei comprenda quanto sono insidiosi i Costruttori di Sfere. Ma fu solo quando ne trovammo uno che iniziammo a comprendere i loro piani. Se ne stava privo di sensi, in un piccolo guscio di salvataggio – o così ci parve – dentro un addensamento di anomalie. Lo portammo sull’Enterprise, dove il dottor Phlox scoprì che, fuori dalle distorsioni, il suo organismo si disintegrava. Lo spazio normale aveva su di lui l’effetto che le anomalie hanno su noi. Cercammo di curarlo, ma lui ci attaccò a tradimento, riuscendo quasi a distruggere il nucleo di curvatura dell’Enterprise. Infine svanì, risucchiato nell’Universo da cui proveniva. Il suo “guscio di salvataggio” si rivelò una complessa apparecchiatura per scansioni mediche.
   Ora comprende, Capitano? Quell’essere era una cavia da esperimento. Un “canarino”, come quelli che i minatori portavano nelle miniere, per capire se c’era abbastanza ossigeno. Se il canarino moriva, allora c’era pericolo anche per loro; ma finché lo sentivano trillare, continuavano a scavare. Quell’individuo aveva la stessa funzione: il suo popolo lo usava per capire se lo spazio era abbastanza trasformato da poterlo invadere».
   Chase ragionò febbrilmente. Che aspetto avevano i Costruttori? Sarebbe stato capace di riconoscerne uno, se l’avesse avuto davanti? Doveva raccogliere tutti i dati possibili sulla missione di Archer.
   «La nostra missione nella Distesa giunse a una svolta quando localizzammo la Superarma nel sistema di Azati Primo» continuò l’Ammiraglio. «Gli Xindi Acquatici l’avevano costruita in fondo al mare e ora la sorvegliavano con l’aiuto di Rettili e Insettoidi. Un attacco diretto era fuori questione, gli Xindi erano troppi. Così montai su una navetta degli Insettoidi che avevamo catturato, presi con me le cariche di alcuni siluri fotonici e partii per distruggere la Superarma, senza aspettarmi di tornare».
   Chase provò ammirazione per l’uomo che aveva davanti. Si chiese se, al suo posto, avrebbe avuto lo stesso fegato. Forse sì... sull’Enterprise-I si sarebbe sacrificato, se Serleen non gli avesse sparato alle spalle. Ma sentì che quegli uomini e donne del passato avevano una tempra che pochi, nel presente, potevano comprendere; figurarsi eguagliare.
   «Anche in questo caso, Daniels cercò di fermarmi» sospirò Archer. «E qui arriva la parte più interessante: ora capirà perché ho fatto questa registrazione per lei, Capitano. Quell’Agente Temporale mi trasportò 400 anni nel futuro, nel corridoio di una nave stellare. All’inizio non capii dove mi trovavo, l’aspetto della nave mi era estraneo. Poi la vidi tutta intera, su un’interfaccia del computer. Somigliava alla mia Enterprise, ma era molto più grande. Aveva un’ampia sezione a disco, gondole lunghe e sottili. Daniels mi disse che era l’Enterprise-J, una lontana erede della mia nave. Proprio così, Capitano: io ho camminato sull’astronave che lei ha appena varato».
   Chase provò un senso di vertigine. Archer, un uomo morto da secoli, aveva davvero camminato a bordo della sua nave, in un prossimo futuro? E quando esattamente? Se si fosse appostato in un corridoio nel momento opportuno, avrebbe potuto sorprenderlo?
   «Mi spiace doverla informare che le sue missioni non saranno sempre rose e fiori... come le mie, del resto» avvertì Archer. «Deve essere il destino delle navi Enterprise. La sua, in quel momento, non faceva che tremare. Quando raggiunsi una finestra, capii il perché: l’Enterprise era in battaglia. Fuori c’erano centinaia di navi che lottavano furiosamente. Alcune sembravano lontane eredi delle navi che conosco: immagino fossero della Federazione. Lottavano contro altre a forma di sigaro, con una strozzatura al centro e protrusioni ai lati: le navi dei Costruttori. In tutte le direzioni si estendeva la Distesa Delfica, che in quei secoli era cresciuta a dismisura.
   Daniels rivelò che stavamo assistendo alla Battaglia di Procyon V, uno dei momenti chiave della storia galattica. In quella battaglia, la Federazione avrebbe sconfitto i Costruttori di Sfere, ricacciandoli nel loro Universo. Per renderlo possibile, occorreva che Umani e Xindi ne facessero parte. Daniels mi consegnò la medaglietta d’iniziazione di uno di loro, spiegandomi che gli Xindi prestavano servizio sull’Enterprise-J. Ovviamente molte altre specie dovevano aiutarci contro i Costruttori... intravidi persino delle navi Klingon. Senza questa potente alleanza, la Distesa avrebbe continuato a crescere, inglobando tutta la Via Lattea. E i Costruttori avrebbero distrutto ogni cosa» ammonì Archer.
   Chase lo fissò con occhi stralunati. Era la minaccia più allucinante che la Galassia avesse mai corso. Com’era possibile che ne sentisse parlare solo ora?
   «Ignorando le raccomandazioni di Daniels, secondo cui dovevo sopravvivere per creare la Federazione, tornai alla mia missione suicida» proseguì Archer. «Però fui catturato dagli Xindi e gli eventi presero un’altra piega. Mostrai a Degra la medaglietta che avevo preso nel futuro e lo convinsi a fermare la Superarma che lui stesso aveva progettato. Degra mi portò davanti al Consiglio Xindi, aiutandomi a perorare la mia causa, anche se questo gli costò la vita. Purtroppo la Superarma fu lanciata ugualmente. L’attaccammo assieme a tre specie Xindi, che avevamo portato dalla nostra: i Primati, gli Arboricoli e gli Acquatici. Solo i Rettili e gli Insettoidi proteggevano ancora la Superarma. Potevamo vincere... ma quei bastardi dei Costruttori usarono le anomalie per distruggere i nostri alleati e consentire alla Superarma di fuggire. Dovemmo inseguirla ancora, con la nave di Degra, e combatterla nel cuore del sistema solare. Alla fine la distrussi dall’interno, quando ormai era nell’orbita terrestre e si apprestava a colpire». Lo sguardo di Archer si appannò, mentre ricordava quei momenti terribili.
   «Nel frattempo l’Enterprise era ancora nella Distesa Delfica, essendo troppo lenta per inseguire la Superarma» continuò Archer dopo un momento. «T’Pol e Trip scoprirono come distruggere l’intera rete di Sfere. Colpendo la Sfera 41 con un impulso del deflettore, crearono una reazione a catena nel subspazio, che le fece implodere tutte. Così le anomalie si dissolsero: la Distesa non esisteva più, era tornata spazio normale. Dopo quell’ultima battaglia, anche gli Xindi Rettili e Insettoidi convennero che i Costruttori li avevano ingannati. Le cinque specie ricomposero il Consiglio Xindi. Il loro leader Mallora disse che forse quel futuro di alleanza di cui gli avevo parlato stava cominciando». Archer fece un’altra pausa e per la prima volta sembrò incerto.
   «Ma da allora in poi, non ho più rivisto gli Xindi. Vivono lontano da noi e hanno ancora molti problemi. Ci vorranno decenni, forse secoli perché la Federazione cresca tanto da incontrarli di nuovo. Forse per allora avranno trovato la loro nuova patria» ipotizzò.
   «E ora vengo a lei, Capitano. Quando ascolterà questo messaggio, io sarò morto da secoli. Non so in che stato è la Federazione nel XXVI secolo, né se gli Xindi ne fanno parte. Ma temo che i Costruttori torneranno. Ricorda? Loro possono vedere il futuro e impostare le loro azioni di conseguenza. Sconfitti in un tentativo, ci proveranno di nuovo. Sa perché i Costruttori aizzarono gli Xindi contro la Terra? Tutto era partito dalla Battaglia di Procyon V. I Costruttori, già nel XXI secolo, videro quel futuro e decisero di cambiarlo. S’ingraziarono gli Xindi e poi ce li mandarono contro perché sapevano che, senza gli Umani, la Federazione non sarebbe mai esistita. E loro avrebbero potuto invadere la Galassia, riplasmandola a loro capriccio. Tutto ciò che le ho raccontato non è che l’attuazione di questo piano. Ma quando la mia Enterprise distrusse le Sfere, qualcosa cambiò nella linea temporale. Quel futuro che ho visto con Daniels non potrà verificarsi, almeno non come l’ho descritto. Senza le Sfere, la Distesa Delfica non esiste più. Quindi non arriverà a inglobare il sistema Procyon e quella famosa battaglia non avrà luogo». Archer tentennò di nuovo.
   «Oppure sì? Francamente non so che pensare» ammise. «Se la Battaglia di Procyon V non ci sarà, si creerebbe un paradosso temporale. Io sospetto che ci sarà ugualmente uno scontro. Forse non a Procyon V, forse non come l’ho visto io. Ma considerando la caparbietà dei Costruttori... la loro capacità di preveggenza... temo che, in un modo o nell’altro, torneranno all’attacco. E spetterà alla sua Enterprise sconfiggerli definitivamente.
   Ecco perché le lascio questa testimonianza. Non posso darle consigli precisi; è il suo tempo, non il mio. Le dico solo questo: stia attento ai Costruttori di Sfere! Cerchi tutte le informazioni possibili su di loro: le testimonianze della mia epoca, ma anche le tracce del loro ritorno. E cerchi gli Xindi, se non sono ancora entrati nella Federazione. Se ci sono, tenga ben stretta l’alleanza! Ricordi: solo insieme, Umani e Xindi hanno la forza di respingere i Costruttori. Ma quei bugiardi potrebbero ancora cercare di dividervi. Potrebbero spargere menzogne e sospetti fra i membri della Federazione. Divide et impera. Li sconfiggerete solo se sarete sinceri e leali uno con l’altro» avvertì Archer. Respirò a fondo e tornò a fissare intensamente Chase.
   «Addio, Capitano; ripongo le mie speranze in lei» disse in tono di commiato. «Sappia che, assumendo il comando dell’Enterprise, l’aspettano le decisioni più difficili e le battaglie più dure della sua vita. Spero che la nave e gli ufficiali non la deluderanno, così come il mio equipaggio non ha deluso me. Ricordate ciò di cui siete parte; siate all’altezza del nome Enterprise, e buona fortuna!».
   Archer allungò la mano fuori dall’inquadratura, per toccare un comando, e lo schermo si spense. L’Ammiraglio se n’era andato.
 
   Le luci si accesero, più forti di prima, e la voce meccanica del computer trillò dall’altoparlante: «Fine registrazione. Il messaggio si è auto-cancellato. Prego, recarsi all’uscita». Le luci del corridoio pulsarono verso la porta esterna.
   «Fine registrazione» disse Chase con voce roca, premendosi il comunicatore. Per un po’ rimase fermo, intontito, sebbene le luci lo invitassero a uscire. Tutti i problemi che aveva incontrato finora, discutendo con gli ufficiali e i civili dell’Enterprise, gli apparvero piccoli e insignificanti. Di colpo non aveva più solo una nave a cui pensare. L’intera Galassia sembrava pesargli sulle spalle. Tutto poteva dipendere da quel breve messaggio di Archer, che lui solo aveva ascoltato. Per fortuna era riuscito a registrarlo, pensò, sfiorandosi il comunicatore. Se gli fosse successo qualcosa, bisognava che altri ne fossero informati.
   Chase si riscosse, girò sui tacchi e percorse a grandi passi il corridoio. Il portone blindato gli si aprì davanti e lui lo varcò d’impeto, finendo quasi addosso a Terry. L’Intelligenza Artificiale lo aveva atteso pazientemente, assieme alle due guardie.
   «Tutto bene, Cap...» cominciò Terry, ma Chase la zittì.
   «Terry, voglio che raccolga immediatamente tutti i dati disponibili sulla Crisi Xindi e le Sfere della Distesa Delfica. Tutte le fonti di quegli anni, umane e aliene. Cerchi ogni informazione, anche quelle che sembrano insignificanti» ordinò Chase.
   «Sì, signore... posso saperne il motivo?» chiese Terry, vagamente perplessa.
   «È riservato... per adesso. Ne discuteremo sull’Enterprise, quando tutti gli ufficiali saranno a bordo» rispose Chase, ancora incerto sulle prossime mosse.
   «Capitano, rilevo alti livelli di stress nelle sue inflessioni vocali e nella sua mimica corporea» commentò Terry.
   «E che vuol fare, rilassarmi con un po’ di musica?» ribatté Chase, ricordando il suo battibecco con il primitivo computer nella capsula di salvataggio della vecchia Enterprise. «No, mi scusi, non volevo essere scortese» si corresse, ricordando che quell’IA era anche un ufficiale superiore.
   «Raccoglierò i dati che ha richiesto, Capitano» garantì Terry. «Mi sto già interfacciando con gli archivi della Flotta Stellare e con il database di Memory Alpha. Posso fare qualcos’altro, signore?».
   «Si assicuri che i sistemi tattici siano al massimo: armi, scudi. E intensifichi i controlli all’imbarco: voglio che le misure di sicurezza contro i Parassiti Neurali siano raddoppiate!» ordinò Chase. Gli era appena venuto in mente che la loro misteriosa nave, incontrata dieci anni prima, somigliava ai vascelli dei Costruttori, così come li aveva descritti Archer.
   «Che ci sia un collegamento fra le due minacce? È possibile che i Parassiti siano l’avanguardia dei Costruttori, dato che hanno difficoltà a manifestarsi nel nostro spazio? E forse c’entra qualcosa il mio incubo del laboratorio?» si chiese. Quante domande! Come avrebbe trovato le risposte? Dove poteva cercarle?
   «Sì, signore» disse Terry, annotandosi alcune centinaia di procedure. C’era parecchia gente che doveva contattare al più presto. Uno in particolare aveva la massima importanza. «Capitano, vorrà contattare il suo Ufficiale Tattico, Lantora, per discutere con lui l’innalzamento delle misure di sicurezza» disse.
   «Già, Lantora!» esclamò Chase, agitato. «Non c’era, al ricevimento. Dove si trova?».
   «Signore, molti ufficiali devono ancora arrivare» si scusò Terry. «Sebbene io sia stata varata stasera, la mia partenza è prevista solo tra sette giorni. Per allora saranno imbarcati tutti. Il signor Lantora arriverà domattina, con un volo da Nuova Xindus» aggiunse. «Vuole che lo contatti subito?».
   «Sì, è megl... frell, mi ero dimenticato che è uno Xindi Primate!» esclamò Chase, dandosi una pacca sulla fronte. Aveva così tanti pensieri in testa che gli era sfuggita la cosa più ovvia di tutte. Archer e il suo equipaggio erano stati in guerra contro gli Xindi. Il loro Ufficiale Tattico, Malcolm Reed, aveva personalmente ucciso degli Xindi in combattimento. E ora... l’Ufficiale Tattico della nuova Enterprise era proprio uno Xindi. Diamine, la medaglietta citata da Archer poteva essere la sua!
   «Posso arrischiarmi a discutere con lui di queste cose?» si domandò Chase. «D’altra parte, posso dirigere l’Enterprise verso un probabile pericolo senza informarne l’Ufficiale Tattico?». Il Capitano socchiuse gli occhi, riflettendo furiosamente. Era bello parlare di lealtà e fiducia in termini generali. Ma quando bisognava vedersela con i singoli individui, era un altro paio di maniche. Chissà che pensava Lantora dei Costruttori di Sfere, i Custodi dei suoi antenati! Chase doveva rileggersi a fondo la sua scheda personale. Poi doveva vedersela con lui: faccia a faccia, senza altre persone.
   «Signore, vuole che contatti Lantora? Al momento è su una nave trasporto, in rotta verso la Terra...» ripeté Terry.
   «No, aspettiamo che arrivi» decise Chase, facendo un gesto secco con la mano. «Poi me lo faccia incontrare fuori dall’Enterprise. Devo parlargli in privato» disse con uno strano sguardo, che nemmeno Terry seppe interpretare. 
 

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Capitolo 3
*** Sezione 31 ***


-Capitolo 2: Sezione 31
 
   Era una mattina fresca, come solo a gennaio poteva accadere nell’assolata Florida. L’aria era limpida; il sole invernale baluginava fra le nuvole. La voragine, profonda un centinaio di metri e molto più larga, aveva il fondo coperto di pozzanghere e fanghiglia per le abbondanti piogge dei giorni precedenti. Lungo i suoi bordi, i vecchi edifici diroccati non erano mai stati riparati. Non in quella zona. Facevano parte del memoriale.
   Lo Zero Point Memorial era il luogo in cui, quattro secoli prima, il raggio a particelle della Sonda Xindi aveva colpito la Terra. Da lì aveva tracciato un solco lungo migliaia di km, lungo la Florida, Cuba e il Venezuela, mietendo oltre sette milioni di vittime. Da allora ogni anno si teneva una commemorazione per le vittime, sebbene da tempo fosse divenuta più che altro una curiosità turistica. Ma di lì a tre anni si sarebbe tenuto il quattrocentesimo anniversario, per il quale si prevedevano iniziative più consistenti.
   L’inizio della fossa era segnato da un immenso monolito nero, rettangolare, di ossidiana. Era stato importato da un lontano pianeta minerario in occasione del primo centenario dall’attacco. Sopra vi erano scritti in oro i nomi di tutte le vittime. Sebbene fossero in piccoli caratteri, coprivano interamente tutti i lati del monolito. Alla sua base c’era un cumulo di offerte che un’apposita fondazione rinnovava ogni pochi anni: candele, fiori, biglietti, giocattoli. Su un’ulteriore targa infissa nel terreno, davanti al mucchio, c’era un unico motto, ripetuto in molte lingue: MAI PIÚ.
   Lo Xindi Primate osservò tutto questo con attenzione. Era già stato in un memoriale, ancora più tragico: i resti dell’antico Xindus. Il pianeta, geologicamente instabile, si era disgregato più di cinque secoli prima, al termine della Guerra Civile Xindi. Adesso non restava che una fascia d’asteroidi intorno alla stella primaria. Su uno dei frammenti maggiori si elevava ancora il residuo di un antico palazzo Xindi. Lì un generatore olografico di recente costruzione proiettava nello spazio un messaggio, scritto a caratteri cubitali. Le verdi lettere dell’alfabeto Xindi, simili a ragnatele, dicevano la stessa cosa: MAI PIÚ.
   Lantora sospirò, mentre la brezza gli agitava i lunghi capelli neri, raccolti dietro la testa. In passato, il suo popolo aveva causato danni irreparabili a se stesso e ad altri. I successivi quattro secoli di comportamento corretto non erano ancora bastati a scrollarsi di dosso questa cattiva nomea. Certo, le cose erano molto cambiate. Le cinque specie superstiti si erano radunate su un solo mondo: Nuova Xindus. Lì vivevano in pace, come membri a pieno titolo della Federazione. Ma Lantora sapeva che a volte i fantasmi del passato tornano a farsi sentire. E i suoi erano lì a tormentarlo. Erano il motivo per cui aveva voluto visitare il Memoriale, prima di prendere servizio.
   Lantora giocherellò con la sua medaglietta d’iniziazione, che portava sempre al collo. Vi era inciso il suo nome. Quel che la medaglietta non diceva era il nome del suo antenato più famoso: Degra, il progettista della Sonda Xindi. E della Superarma che per poco non aveva polverizzato la Terra. Degra era morto poco tempo dopo, pugnalato dal comandante Dolim, capo degli Xindi Rettili. Ma aveva lasciato due figli, Piral e Jaina; Lantora discendeva dal primo. Lo Xindi ripose la medaglietta sotto l’uniforme, a contatto con la pelle, e tornò a guardare il monolito. L’Enterprise NX-01 era andata in guerra contro gli Xindi, dopo quell’attacco. Era ironico che adesso la sicurezza della nuova Enterprise fosse affidata a lui.
 
   Un ronzio di teletrasporto fece irrigidire lo Xindi. Qualcuno gli si era materializzato alle spalle. «Lei deve essere Lantora» disse il nuovo arrivato.
   «Capitano Chase!» esclamò Lantora, voltandosi di scatto. «Non mi aspettavo di vederla qui» disse, senza nascondere la sorpresa.
   «Mi hanno informato della sua posizione all’Hangar Spaziale» rispose Chase, in tono asciutto.
   «Mi scusi, credevo di dovermi presentare solo questo pomeriggio...» cominciò lo Xindi, mettendosi sull’attenti.
   «Riposo, Tenente» fece Chase, con un gesto annoiato. «Non è in ritardo. Metà degli ufficiali e quasi tutti i civili devono ancora salire a bordo. Ci vorranno giorni perché tutto sia pronto. Ma sa com’è, con le cerimonie di varo: si fanno un po’ in anticipo».
   «Lieto di conoscerla, Capitano...» si azzardò Lantora.
   «... però si chiede il motivo di questa visita; perché non ho aspettato che venisse lei a bordo» completò Chase, scrutandolo attentamente. «Sa, sono rimasto colpito quando ho saputo che aveva fatto tappa qui. Era mai stato sulla Terra?».
   «Nossignore. Ho frequentato l’Accademia su Nuova Xindus» rispose Lantora, un po’ confuso dall’atteggiamento del Capitano.
   «Ci sono molte località interessanti da visitare, anche se si ha poco tempo» commentò Chase. «Ma questo in genere non è sulle brochure» aggiunse, accennando al monolite nero. «E gli Xindi tendono a evitarlo, salvo che per le commemorazioni. Quindi posso chiederle perché è qui?».
   «Signore, ho il permesso di parlare liberamente?» chiese Lantora, rigido come un palo.
   «Diamine, sì. Non ha ancora preso formalmente servizio» rispose Chase.
   «Ebbene... volevo vederlo con i miei occhi» disse Lantora. «Conosco la storia fin da bambino e ho visto le olografie, ma... esserci è un’altra cosa. Noi Xindi abbiamo commesso dei tragici errori. Prima la Guerra Civile, che ha distrutto Xindus e sterminato gli Aviali. Poi quest’attacco alla Terra, e... beh, lo sa» fece imbarazzato.
   «Lei teme di avere problemi con me, perché io sono Umano e lei Xindi» disse Chase lentamente. «Crede che consideri la sua gente ancora responsabile e che lavorando con lei possa farle pesare la cosa. Non lo neghi... è un dubbio legittimo. Ci sono Capitani che si comporterebbero proprio così. Io, però, voglio lavorare in modo diverso» spiegò.
   «Signore?» chiese Lantora, così rigido che cominciava a sentire le gambe intorpidite.
   «Tenente, parliamoci chiaro. Questa tragedia avvenne quattrocento anni fa. Tutte le persone coinvolte sono morte da secoli. I nostri popoli non sono più gli stessi di allora: oggi siamo tutti parte della Federazione. Nessuno Xindi vivente può essere incolpato dell’attacco, quindi nemmeno lei. Intendiamoci, da lei mi aspetto sempre il massimo: ma la giudicherò per le sue azioni, non per il suo essere Xindi».
   «Grazie, signore» disse Lantora in un soffio.
   «Lasci stare... è solo che conosco la storia» disse Chase, avviandosi alla parte più delicata dell’incontro. «Fu una manipolazione a indurre il vostro Consiglio ad attaccarci. E quando alcuni di voi lo capirono, diedero la vita pur di fermare la Superarma. Compreso il suo antenato, Degra».
   «Allora lo sa» esalò Lantora. «Capitano, io... provo vergogna per ciò che fece il mio avo. È una macchia che accompagnerà per sempre la mia famiglia».
   Chase fece spallucce. «Se Degra si fosse rifiutato di progettare la Sonda e la Superarma, qualcun altro l’avrebbe fatto al suo posto. Ma Degra comprese l’errore e cercò di fermare la sua creazione. E comunque, come dicevo, i suoi discendenti non sono responsabili. Ma a proposito di famiglie, mi dica... lei conserva la sua medaglietta d’iniziazione?».
   «Come?» fece Lantora, sorpreso. «Sì, eccola qui» disse, tirandola fuori dal colletto. «Tutti gli Xindi Primati ne ricevono una, quando raggiungono l’età adulta. Molti di noi la portano con sé per tutta la vita, come una specie di portafortuna. So che può sembrare sciocco... comunque la terrò nel mio alloggio, quando sarò in servizio» assicurò.
   «Uhm... se la rimetta pure, era solo una curiosità. Non ne avevo mai viste» disse Chase, continuando a fissare lo Xindi.
   «Signore, c’è... altro che vuol dirmi?» chiese Lantora, ancora sulle spine.
   «Sì, Tenente» disse Chase, a malincuore. «Lei sa perché Degra si fidò di Archer? Perché rinnegò la fede nei vostri... Custodi?».
   «So che Archer presentò delle prove al Consiglio» rispose Lantora cautamente. «Ma i nostri storici non concordano su quali fossero. Sa, il loro lavoro è inquinato da tesi stravaganti. Comunque sembra che la prova principale fosse uno di quei gusci con cui i Custodi testavano la loro capacità di sopportare il nostro spazio. Avevano promesso di guidarci verso un nuovo mondo da colonizzare, ma non avevano mai specificato se fosse nella Distesa. E quando ci rendemmo conto che avevano costruito le Sfere, capimmo che in realtà la stavano trasformando in una regione devastata, adatta solo a loro».
   «Esatto. Ed è al corrente della... profezia fatta da Archer? Lui disse che un giorno Umani e Xindi avrebbero collaborato...» disse Chase, circospetto.
   «Sì, Capitano» annuì Lantora. «È quel che si dice al termine di una guerra: ci si augura un futuro più pacifico. Direi che aveva ragione, visto che oggi abbiamo di nuovo un pianeta, e siamo nella Federazione».
   «Sì, ma io mi riferivo a una profezia più specifica» insisté Chase. «Poco fa ho riguardato i documenti dell’epoca. Archer disse che, in futuro, Umani e Xindi avrebbero affrontato i Costruttori di Sfere».
   «Uhm, questo è un argomento controverso fra la mia gente» disse Lantora, a disagio. «Da quando le Sfere furono distrutte, i Custodi non si sono più manifestati. Conosciamo il discorso di Archer, ma pochi tra la mia gente lo considerano una profezia. I più sono convinti che i Custodi non torneranno mai».
   «E lei che ne pensa?» chiese il Capitano, con una certa apprensione.
   «Ecco... mi sono spesso chiesto se Archer avesse ragione, se prima o poi ci sarà una guerra. Il nostro ingresso nella Federazione potrebbe essere considerato un indizio. Ma è passato un secolo e ancora non c’è traccia dei Costruttori».
   «E se le dicessi che la guerra è alle porte? Che saremo noi ad affrontarla?» rivelò Chase, decidendo di rischiare.
   «L-lei ha prova che...!» ansimò Lantora, allibito.
   «Non ho prove decisive, per ora. Ma ho captato qualche indizio» spiegò Chase.
   «Di che si tratta?» chiese Lantora, con una punta di scetticismo.
   «Solo un vecchio documento. Una registrazione di Archer. Lui sosteneva di aver visto una nave dei Costruttori di Sfere, per un breve attimo» rispose Chase. Non parlò del viaggio nel tempo, per non suscitare ancor più incredulità. «Indovini un po’? Somigliava alla nave che io vidi quando fu distrutta l’Enterprise-I».
   «Quindi crede che siano tornati? Che stavolta siano venuti di persona, senza più intermediari?» chiese Lantora a bassa voce. I peggiori incubi del suo popolo si stavano concretizzando davanti a lui. Niente male, come primo giorno di servizio!
   «Uhm, può darsi che usino ancora intermediari» corresse Chase. «Sa bene che, negli ultimi dieci anni, la Flotta Stellare ha lottato duramente contro i Parassiti Neurali».
   «Certo, signore. Ho fatto un corso di formazione specifica su questo argomento» annuì Lantora.
   «Allora sa che le intenzioni dei Parassiti restano avvolte nel mistero. Cercano d’infiltrarsi nella Flotta, ma il loro scopo finale ci è sfuggito... finora» disse Chase, in tono da cospiratore.
   «Crede siano al servizio dei Costruttori di Sfere?» domandò lo Xindi.
   «Preferisco non spingermi oltre con le congetture, in mancanza di prove decisive» rispose il Capitano. «Ma intendo cercarle, nell’eventualità che ci aspettino davvero giorni di fuoco. Questa sarà la missione dell’Enterprise. E proteggere l’Enterprise è la sua missione» concluse Chase.
   «Conti su di me, signore» disse Lantora. «Raddoppierò i controlli contro i Parassiti. E se dovessimo trovare un collegamento fra loro e i Costruttori, avvertirò il mio popolo. Le garantisco che mi batterò per la salvezza della Terra non meno che di Nuova Xindus».
   «Vedremo» disse Chase. «Oh, un’altra cosa…».
   «Sì?» chiese Lantora, aspettandosi altri guai.
   «Benvenuto fra noi» disse Chase, porgendogli la mano. E scambiò una forte stretta con lo Xindi.
 
   Sistemate le cose con Lantora, almeno per il momento, Chase si recò al Comando di Flotta. Andò dritto dall’Ammiraglio Nelscott.
   «Capitano, non mi aspettavo di rivederla così presto» lo accolse Nelscott, quando Chase entrò nel suo ufficio. «Pensavo che fosse sull’Enterprise, a occuparsi dell’imbarco».
   «I miei ufficiali se la possono sbrigare. Io... devo occuparmi di un imprevisto» disse Chase, sprofondando nella sedia davanti alla scrivania dell’Ammiraglio.
   «Sentiamo» disse Nelscott, consultando distrattamente un d-pad.
   «Ieri sera ho visionato una registrazione dell’Ammiraglio Archer» cominciò Chase. «Era riservata proprio a me, cioè al Capitano dell’Enterprise-J, sebbene Archer non potesse conoscermi. Ha portato certi... elementi alla mia attenzione» disse cautamente. «Signore, le sembrerà incredibile, ma credo ci sia un collegamento fra la Crisi Xindi e la distruzione dell’Enterprise-I».
   «Per l’amor del Cielo, Chase!» protestò Nelscott, sbattendo il d-pad sulla scrivania. «È il capitano dell’Enterprise, ora! La J, non la I, capisce? È inutile che continui ad arrovellarsi su quell’incidente. Non servirà a riportare in vita i suoi colleghi».
   «Ma potrebbe impedire che accada lo stesso ad altre navi!» s’infervorò Chase. «Signore, ho udito dalla voce di Archer una descrizione delle navi dei Costruttori di Sfere. Sembra uguale a quella che vidi quel giorno, sull’Enterprise-I...».
   «Sembra? Vuole aprire un’inchiesta coi sembra?» chiese Nelscott, esasperato.
   «Credo ci sia un collegamento coi Parassiti Neurali» insisté Chase. «Dopo la distruzione dell’Enterprise, fui interrogato dai servizi segreti. In seguito ho cercato più volte di sapere a che approdarono le indagini, ma sempre senza successo».
   «Certo, è tutto secretato dal Comando».
   «Però sappiamo che i responsabili furono i Parassiti Neurali, gli stessi che già una volta infiltrarono la Flotta» proseguì Chase. «Nel 2364, per l’esattezza. Fu il Capitano Picard a fermarli, prima che assumessero il completo controllo...».
   «Sì, Capitano; conosco la storia» assicurò Nelscott in tono secco.
   «Allora sa che, prima di essere sconfitti, i Parassiti inviarono un segnale nello spazio profondo. Un segnale che conduceva proprio alla Macchia di Rovi, cioè dove l’Enterprise-I subì l’imboscata!» disse Chase, trionfante.
   «Questo potrebbe indicare che il quartier generale del Parassiti è nella Macchia» ammise l’Ammiraglio cautamente. «Ma non vedo cosa c’entrino la Crisi Xindi e i Costruttori di Sfere. È sicuro di non aver bevuto troppo, ieri sera?».
   «Signore, sono convinto che sia urgente controllare la Macchia» disse Chase, ignorando l’affondo.
   «È troppo pericoloso».
   «Le navi federali la visitavano già secoli fa, quando erano molto più indifese» obiettò Chase.
   «E quando non avevano civili a bordo. Lei ne ha settemila, non lo dimentichi» ammonì Nelscott. «E poi... le anomalie sono peggiorate, negli ultimi tempi» aggiunse.
   «E non le sembra strano?» notò Chase. «Le anomalie hanno un’origine, naturale o artificiale. Queste non hanno fonti naturali, per quanto ne sappiamo. E allora da dove vengono? Non è una missione degna della Flotta Stellare, esplorare questo mistero? Dobbiamo capire perché la Macchia sta crescendo, come cresceva la Distesa Delfica. E non dobbiamo aspettare un’altra tragedia».
   «Resta pur sempre una missione pericolosa...» disse Nelscott, ma Chase avvertì che stava cedendo.
   «Se l’Enterprise NX-01 sopravvisse alla Distesa Delfica, noi sopravvivremo alla Macchia» disse Chase, con più ottimismo di quel che sentiva in realtà. «Non sono più i tempi di Archer; non dobbiamo più corazzarci di Trellium-D. Gli scudi cronofasici possono proteggerci dalle anomalie. Se c’è una nave che può entrare nella Macchia senza rischio, è proprio l’Enterprise».
   «Ma insomma, lei che cosa vuole?» chiese Nelscott. «Credevo volesse riaprire l’inchiesta sull’Enterprise-I, ma ora dice che vuole tuffarsi in quella nebulosa».
   «Mi tufferei con più cognizione di causa, signore, se sapessi a cosa sono approdate le indagini» spiegò Chase.
   «E va bene, parlerò coi servizi segreti» si arrese Nelscott. «Voglio darle fiducia, Chase... in nome dei vecchi tempi. Autorizzerò anche la ricognizione della Macchia, ufficialmente per mappare le nuove anomalie. Ma l’avverto: non mi chieda altri favori, in futuro» disse severamente.
   «Grazie, signore» fece Chase, sollevato.
   «Vada in sala d’attesa. Saranno i servizi segreti a contattarla... se riuscirò a convincerli» disse Nelscott.
 
   Intanto, sull’Enterprise, l’attività era frenetica. Migliaia di persone salivano a bordo con i bagagli ed erano smistate nelle loro aree. Gli ufficiali sopportavano i tempi morti dell’imbarco e i controlli all’ingresso, ma i civili erano meno pazienti. C’era sempre qualcuno che dava in escandescenze perché aveva perso il bagaglio, o non trovava i propri familiari, o era assegnato a una sezione non confacente ai suoi parametri vitali. Gli hangar navette e le sale teletrasporto erano una Babele di colori, suoni, odori. I corridoi, per quanto larghi, erano ingolfati dai passeggeri. Per fortuna, qua e là c’erano cabine di teletrasporto che facilitavano lo smistamento. Su una nave così grande i turboascensori non bastavano, anche perché gran parte degli spostamenti avveniva in orizzontale. La sezione a disco, infatti, era molto sottile in rapporto all’estensione.
   Il dottor Korris si muoveva a disagio in quel caos. Se il party della sera prima gli era parso troppo affollato, quella ressa era un incubo. Si sentiva un po’ ridicolo ad andarsene in giro con la sua valigetta, come un medico vecchio stampo che fa visite a domicilio, ma lì dentro c’erano i dati e gli strumenti più importanti, da cui non voleva separarsi neanche un attimo. Ovviamente il grosso delle attrezzature mediche, e tutto il suo bagaglio personale, era stato imballato e trasferito a bordo. Korris sperava ardentemente che nulla si fosse perso o rotto.
   Pressato in un ascensore, in mezzo a un gruppo di alieni irritati e sudaticci, Korris ripassò mentalmente le cose che doveva fare: raggiungere l’infermeria, incontrare il suo staff, controllare che le attrezzature fossero arrivate, iniziare a disporle. Non avrebbero certo sistemato tutto in una giornata. Di pranzare non c’era proprio tempo, ma forse sarebbe riuscito a cenare in uno dei ristoranti di bordo. Ma no, si disse: anche quelli dovevano essere in allestimento. Forse la sala mensa era già pronta. «Mal che vada mi farò qualcosa in camera, col replicatore» si disse. A proposito, chissà dov’era il suo alloggio. Doveva scoprirlo entro la fine della giornata. E sperare che i suoi effetti personali fossero già lì.
   Il turboascensore vomitò i suoi passeggeri in un nuovo ponte. Quando anche l’ultimo compagno di viaggio fu saltellato via, Korris si azzardò a uscire. Questo ponte era leggermente meno trafficato dei precedenti. Il dottore si rimise in marcia. Considerando che la nave era lunga tre km, c’era parecchio da scarpinare per trovare l’infermeria. Fortunatamente nei corridoi c’erano, a intervalli regolari, dei grandi pannelli con schemi della nave, che facilitavano l’orientamento.
   Finalmente Korris raggiunse l’infermeria. E la trovò vuota. Gli strumenti erano già lì, coperti da teli opachi, ma parecchi dovevano ancora essere fissati alle pareti. Alcuni, che erano modulari, non erano nemmeno assemblati. Del suo staff, neanche l’ombra.
   «Computer, sono il dottor Korris» disse il medico, guardandosi attorno sconsolato. «Sai dirmi dove sono i miei colleghi?».
   Terry si materializzò prontamente al suo fianco, facendolo sobbalzare. «La squadra medica Alfa si trova ancora in sala d’imbarco. Alcuni suoi colleghi hanno portato forme di vita aliene, utili per la ricerca medica, che richiedono controlli particolari. Come saprà, le procedure di sicurezza sono state elevate al massimo, per ordine del Capitano Chase».
   «Il Capitano non si aspetterà di trovare un Parassita Neurale dentro un pipistrello piritiano, spero» commentò Korris. «Ma sì, capisco che non voglia correre rischi, con questa baraonda. Aspetterò».
   «Posso rendermi utile?» chiese Terry cortesemente. A differenza della sera prima, ora indossava l’uniforme regolamentare della Flotta Stellare, quasi del tutto nera, con sottili strisce blu sulle spalle che indicavano la sezione scientifica. Korris notò sul colletto i gradi da Tenente Comandante.
   «Uhm, forse potrebbe aiutarmi con le apparecchiature. Vorrei controllare se manca qualcosa e magari iniziare il montaggio di alcuni componenti. Sempre che lei – ehm – se ne intenda» disse, incerto.
   «Possiedo il database medico completo della Flotta Stellare» rispose Terry.
   «Già, stupido io a non pensarci» ammise Korris. «Quindi lei è l’Enterprise? Voglio dire, l’Intelligenza Artificiale che controlla la nave?».
   «Precisamente; ma può chiamarmi Terry».
   «Non vorrei distoglierla da altre attività, certo più urgenti di questa» si scusò Korris.
   «Nessun problema: in questo momento ci sono 418 altre mie proiezioni in giro per la nave, che svolgono incarichi di ogni genere» spiegò Terry.
   «Così tante?!» si meravigliò Korris. «Qual è il suo limite massimo?».
   «Circa cinquecento, ma dipende molto dalla complessità delle azioni che mi sono richieste» rispose Terry, in tono modesto.
   «Quindi lei non è un semplice ologramma» constatò Korris.
   «Esatto, sono una proiezione isomorfa di ultima generazione» spiegò Terry.
   «Una vera proiezione isomorfa!» esclamò Korris, guardandola con un nuovo rispetto. «Confesso la mia ignoranza sull’argomento. Gli ologrammi non sono molto di moda su Bajor e Cardassia».
   «Ma lei ha prestato servizio per anni su una nave medica della Flotta. Avrà pur usufruito dei Medici Olografici d’Emergenza» obiettò Terry.
   «Beh, solo nelle... emergenze, appunto» spiegò Korris. «Ma avendo un intero equipaggio di dottori, capitava raramente di averne bisogno. E li spegnevamo quando non ci servivano più. Erano MOE di vecchio tipo, sa».
   «Scoprirà che io sono molto diversa» sorrise Terry.
   «Non ne dubito. Anzi, vorrei farle qualche domanda... come le dicevo, sono un profano nel campo dell’olografia».
   «Chieda pure tutto quello che vuole».
   «Beh, tanto per cominciare... uhm, sono certo che questa è la prima domanda che le fanno tutti... si sarà stancata di rispondere, ma sa com’è...» farfugliò Korris, mentre la sua pelle grigia assumeva un malsano tono roseo.
   «La risposta è: sì, sono in grado di bere, mangiare e avere rapporti sessuali. Ma non sono a disposizione dell’equipaggio» disse Terry, senza scomporsi. «Se avverte questa necessità, ci sono le sale ologrammi...».
   «Ma cos’ha capito!» l’interruppe Korris, ormai più rosso che rosa. «Volevo chiederle se prova emozioni, sentimenti, come un qualunque essere organico. I Medici Olografici sono così freddi, concentrati sul lavoro... ma immagino che lei possa simulare una vasta gamma d’emozioni».
   «Le assicuro che provo sentimenti proprio come lei, dottore» disse Terry. «Sono equipaggiata con subroutine emozionali e algoritmi euristici di responso emotivo. Ma la prego di chiarire cosa intende con simulare».
   «Ehm, lo ha detto lei stessa» disse Korris, a disagio. «Voi IA siete programmate per imitare le emozioni. Dipende tutto da cosa i progettisti vi hanno messo nel software. E prima ancora, dal corretto funzionamento dell’hardware».
   «Dottore, lei ha appena descritto il funzionamento del sistema nervoso centrale» gli fece notare Terry. «C’è un hardware – il cervello, composto da neuroni – che supporta un software, cioè un insieme di reazioni elettrochimiche. Se, come credo, è esperto anche in neurologia, conoscerà bene l’argomento. Quindi mi spieghi perché i suoi sentimenti, basati su reazioni elettrochimiche, sono più “veri” dei miei, basati su circuiti quantistici. Tra l’altro, l’Enterprise sfrutta gelatine bio-neurali... perciò i miei pensieri sono in parte di natura organica, proprio come i suoi».
   «Colpito e affondato, Comandante. Le porgo le mie scuse» disse Korris, imbarazzato. «Dopo secoli di dibattiti medici e filosofici, abbiamo ancora difficoltà a stabilire cosa sia la coscienza e se le nostre reazioni siano libere o predeterminate».
   «Le posso fornire alcuni testi sulle Intelligenze Artificiali e i sistemi emergenti» suggerì Terry.
   «Un’altra volta, grazie. Oggi non me la sento di affrontare il problema del libero arbitrio» rispose Korris garbatamente.
   «Come preferisce» disse Terry, liquidando l’argomento. «Tornando al suo incarico... ha già ricevuto la notifica dell’Intendente?».
   «No, quale notifica?» si stupì Korris. Fece per prendere il d-pad, in cui certo era arrivato il messaggio.
   «Gliela posso leggere io, se vuole».
   «Oh, gliene sarei grato».
   Terry si trasformò in una Sauriana. «Dottor Korriz Vrel, per ordine ezecutivo del Capitano Chaze, lei è invitato a partecipare alle riunioni in zala tattica, zubentrando al Conzigliere Navarro. Zarà informato ogni volta zu quando hanno luogo le riunioni. Accetta quezto incarico?».
   «Io... zì, cioè sì» rispose Korris, preso alla sprovvista. «Ma perché questo cambiamento? Voglio dire... il Capitano manco mi conosce, e già vuole promuovermi?» chiese meravigliato.
   «Scoprirà che il Capitano Chase decide molto in fretta» spiegò Terry, riassumendo forma umana.
   «Poco ma sicuro» annuì Korris.
   «Restando in tema di competenze... lei come se la cava nei campi dell’ingegneria genetica, delle biotecnologie e delle nanotecnologie?» chiese Terry.
   «Uhm, ho le competenze di base, ma non sono uno specialista» rispose Korris, cauto. «L’avrà letto nella mia scheda».
   «Certo, ma volevo la sua conferma. Sa... procedure di sicurezza extra» spiegò Terry. «Allora, cominciamo a togliere questi teli?» chiese, allargando le braccia a indicare l’infermeria, ingombra di strumenti ancora coperti.
   «Certo» disse Korris, levando il primo telone. Aveva già capito che la sua vita sull’Enterprise sarebbe stata più complicata del previsto.
 
   «Terry a Capitano Chase. Il dottor Korris conferma la sua conoscenza generica delle discipline da lei indicate». La voce dell’IA uscì chiara dal comunicatore.
   «D’accordo» rispose Chase, ancora in sala d’attesa. «Quando arriva il suo staff, verifichi le competenze di ciascuno. Contro i Parassiti Neurali ci serve davvero qualche esperto in quei campi».
   «Sì, signore. Posso sapere quando conta di rientrare?» chiese Terry.
   «Non lo so ancora». Chase aveva appena parlato, quando un Andoriano alto e magro entrò in sala. Indossava l’uniforme nera della Sezione 31, il famigerato servizio segreto della Flotta Stellare. Chase ne aveva viste parecchie dieci anni prima, quando l’avevano interrogato sull’incidente dell’Enterprise-I. Ma da allora, più nulla.
   «Signor Chase... quanto tempo» sorrise l’Andoriano, puntandogli contro le antenne craniali.
   «Signor... Sheev, ricordo bene? Quasi dieci anni» rispose l’Umano, alzandosi in piedi. Non si strinsero la mano.
   «Mi congratulo per la sua promozione. Capitano dell’Enterprise! Suona epico, non trova?» fece l’Andoriano, ironico.
   «E io mi congratulo di vederla ancora vivo. Dopotutto siete voi agenti a fare il vero lavoro, mentre noialtri giriamo i pollici» rispose Chase nello stesso tono.
   «Ah ah, vedo che ha conservato lo spirito. Bene, mi era simpatico allora e continua ad esserlo» ridacchiò l’Andoriano. «Dunque, l’Ammiraglio Nelscott mi ha accennato alla sua idea di un legame fra Parassiti Neurali e Costruttori di Sfere. Molto ardito, ma io devo considerare ogni evenienza. Allora, cos’ha da offrimi?».
   «Una registrazione di Archer che espone fatti alquanto... peculiari. Compresa una guerra che deve ancora verificarsi. E lei che mi offre?» chiese il Capitano.
   «Le informazioni più riservate sul caso dell’Enterprise-I. E sui Parassiti Neurali in generale» rispose l’Andoriano.
   «Ci sto... sempre che sia qualcosa di nuovo. In fondo sono io l’unico testimone. Io vi ho descritto quei fatti» ricordò Chase.
   «Suvvia, in dieci anni l’indagine è andata avanti» ribatté Sheev. «Abbiamo scoperto parecchie cose interessanti. Le farò avere il materiale... anzi, sa che le dico? Venga con me!» decise improvvisamente.
   «Vengo dove?» chiese Chase, circospetto.
   «Nel Ventre della Balena».
 
   L’Andoriano condusse Chase attraverso i livelli del Quartier Generale, fino a un’isolata piattaforma di atterraggio navette. Erano sul tetto di uno dei grandi blocchi del complesso; da lì potevano vedere una bella fetta di San Francisco, dall’Accademia di Flotta al Golden Gate.
   Una navetta nera, senza segnatura, venne a prelevarli. L’Umano e l’Andoriano sedettero sulle scomode panche all’interno. Erano disposte lungo i lati dello scafo, così da fronteggiarsi. E siccome lo spazio era poco, Chase e Sheev erano faccia a faccia.
   «Si rilassi» disse Sheev, con un sorrisetto ironico. «Stiamo solo andando in un posto, a fare delle cose. Finché le terrà per sé, non dovrà preoccuparsi».
   «Occultamento attivato» disse il pilota. La navetta decollò. In pochi attimi il cielo azzurro divenne nero e trapunto di stelle: avevano raggiunto lo spazio. La navetta sgusciò agilmente fra le molte navi più grandi che andavano e venivano continuamente nell’orbita terrestre. Puntò verso lo spazio aperto ed entrò in cavitazione quantica.
   «Sarà un viaggio lungo?» chiese Chase, un po’ a disagio su quella panca.
   «Non cerchi di calcolare la distanza, signore» avvertì il pilota, senza voltarsi.
   «E come potrei? Non conosco la velocità» ribatté Chase.
   «Signori, vi prego!» esclamò l’Andoriano. «Agente, il Capitano Chase è un nostro informatore di fiducia. Lo definirei quasi un collaboratore esterno» disse al pilota. «Anzi, scommetto che da bambino non sapeva se diventare pompiere o agente segreto» aggiunse, rivolgendo a Chase un sorriso sornione.
   «Sbagliato» sorrise Chase. «Non sapevo se diventare pompiere o Capitano d’astronave».
   «Tre lavori, un solo obiettivo: domare gli incendi» sogghignò l’Andoriano. La navetta uscì dalla cavitazione.
   «Già fatto!» si stupì Chase. «Potrei pensare che siamo ancora nel sistema solare».
   «O magari più lontano; con la cavitazione ci vuol poco a coprire grandi distanze» notò Sheev.
   «Ci avviciniamo alla base, signore» disse il pilota. Azionò un comando e lo schermo anteriore della navetta si oscurò, per non far vedere l’aspetto dell’installazione.
   «Una base riconoscibile? Deve essere un pianeta o un satellite famoso» commentò Chase. «Escluderei gli asteroidi minori. E ovviamente tutto il sistema solare interno, che è troppo trafficato. Potrebbe essere Eris, o Varuna, o magari Sedna».
   «C’è solo l’imbarazzo della scelta» sorrise l’Andoriano, mentre la navetta effettuava l’atterraggio.
   «Ah, ma lei mi ha dato un indizio: ha detto che mi portava nel Ventre della Balena» ricordò Chase.
   «È solo un modo di dire».
   «Ma si adatta alla Regione di Cthulhu, su Plutone: una macchia nera che ha proprio la forma di una balena» disse Chase, osservando attentamente il viso di Sheev, a pochi palmi dal suo. Le antenne craniali ebbero un lievissimo fremito involontario.
   «Dovrò ricordarmi di non giocare a Tongo con lei» sospirò l’Andoriano.
   «No, perché? Sono una schiappa, ai giochi a tavolo» disse Chase, alzandosi. La porta posteriore della navetta si aprì. Erano in un vasto hangar scavato nel ghiaccio.
   Sheev uscì per primo. «Mi segua senza fare domande» disse, facendosi tagliente. «E ricordi che niente, di ciò che vede o sente, dovrà trapelare».
   «Se un’informazione sui Parassiti si renderà necessaria per sventare una minaccia, dovrò sfruttarla» rispose Chase. «Ma tacerò sulle mie fonti e su tutto ciò che riguarda questa base. Contento?».
   L’Andoriano non rispose, ma imboccò frettolosamente un corridoio. Chase lo seguì dappresso. La visita negli abissi di Plutone si annunciava quanto mai interessante.
 
   Superarono una serie impressionante di controlli di sicurezza. Esami del DNA, scanner molecolari e tutto quel che la Sezione 31 era riuscita a inventarsi per rilevare i Parassiti Neurali. Anche Sheev fu sottoposto ai controlli. Ogni volta che passavano un esame, scendevano di livello. Chase si era fatto l’idea che quella base fosse un gigantesco cono sotterraneo, con livelli sempre più stretti e sorvegliati man mano che si scendeva. Come un favo sotterraneo. O l’Inferno dantesco.
   Giunsero infine a un laboratorio di massima sicurezza. Dopo un’ultima scannerizzazione, che probabilmente li sondò a livello subatomico, ricevettero i bracciali per attraversare il campo di forza che faceva da ingresso e non veniva mai spento. Era una barriera azzurrina e opaca, che ronzava sommessamente. Quando l’attraversò, Chase sentì rizzarsi tutti i peli. Un minimo malfunzionamento di quel bracciale, in fase d’attraversamento, e il campo di forza lo avrebbe tagliato in due. Ma gli attrezzi della Sezione 31 non avevano malfunzionamenti.
   Il laboratorio era vasto, con le pareti ingombre di macchinari che Chase non riconobbe. Altri strumenti s’innalzavano dal pavimento o pendevano dal soffitto, come in una caverna iper-tecnologica. Qua e là c’erano vasche cilindriche piene di liquidi colorati, in cui galleggiavano campioni biologici. Alcuni sembravano cervelli, umani e alieni. Ma per la maggior parte erano Parassiti Neurali. Sembravano tutti morti.
   «Lei è dove voleva. Ora stia ai patti» disse Sheev.
   «Troverà la registrazione di Archer qui dentro» rispose Chase, consegnandogli il comunicatore. «Solo audio, ma non credo ci fossero informazioni utili nel video. Non ho notato nessun messaggio in codice e comunque sarebbe stato superfluo».
   «Lo penso anch’io» convenne l’Andoriano, appuntandosi il comunicatore. «Bene, può chiedere ciò che vuole alla nostra esperta».
   «Quale esp...».
   «Dottoressa Neelah, esperta in nanotecnologia e ingegneria genetica; studiosa dei Parassiti Neurali» disse una fredda voce femminile. Si udì un cigolio. Una sedia girevole, munita di rotelline, uscì da dietro una delle vasche piene di campioni. L’occupante si girò di lato, con studiata lentezza, per fronteggiare Chase e Sheev. «Ma qui mi chiamano tutti la Bacia-Blatte» aggiunse gelida.
   Chase si avvicinò, prendendosi tutto il tempo per studiarla. Era un’Andoriana, ma più piccola ed esile della media. Le antenne craniali avevano una lievissima biforcazione in cima, appena accennata. Ma il suo tratto più appariscente era la pelle: completamente bianca, mentre gli Andoriani solitamente l’avevano di un blu intenso. Anche i capelli, raccolti in una coda, erano candidi come la neve. Gli occhi invece erano azzurri, ma pur sempre gelidi. Squadrarono Chase come un entomologo che esamina un nuovo tipo d’insetto.
   «Avevi detto che era un laboratorio segreto. Lui che ci fa qui?» chiese Neelah seccamente, rivolta a Sheev.
   «Lui può parlare per sé» rispose Chase. «Salve, sono Alexander Chase, Capitano dell’Enterprise. Credo che una parte rilevante del suo lavoro dipenda da ciò che vidi dieci anni fa».
   «Sì, e con questo?» chiese Neelah, impassibile.
   «Sospetto un collegamento fra i Parassiti Neurali e i Costruttori di Sfere» disse Chase, asciutto. «Intendo gli artefici delle...».
   «So di chi parla» tagliò corto Neelah, alzandosi dalla seggiola. «Interessante... agenti senza un padrone e padroni bisognosi di agenti. Sì, questo spiegherebbe molte cose. Ma ci vuole ben altro. Negli ultimi mesi ho correlato i Parassiti con centinaia di specie del nostro Universo. I legami, volendo, si trovano con molte. Non c’è bisogno di scomodare altre dimensioni. I Simbionti Trill, per esempio: sa che i Parassiti sono loro parenti genetici? Anzi, sono praticamente certa che siano stati costruiti come arma vivente, con sofisticate tecniche genetiche, proprio a partire dai Simbionti. Del resto durante la Prima Infiltrazione i Parassiti si preparavano a colpire Trill, quando furono smascherati. Volevano disfarsi dei cugini. Ma la domanda è: chi li ha creati? E per quale scopo finale?».
   Mentre parlava, Neelah camminava su e giù, fissando il pavimento, con le mani incrociate dietro la schiena. Sembrava riflettere ad alta voce, più che parlare con i visitatori. L’ampio camice da laboratorio le svolazzava attorno. Chase rivolse un’occhiata interrogativa a Sheev, che scosse la testa, come a dire “è fatta così”.
   «Lei ha parlato della Prima Infiltrazione, quella sventata da Picard» disse Chase. «Mi dica come differisce da quella in corso».
   «Una domanda intelligente!» disse Neelah, piacevolmente sorpresa. «Le riassumo i punti chiave. I Parassiti del 2364 erano più grandi e goffi di quelli attuali. Si attaccavano alla colonna vertebrale della vittima, il che li rendeva difficili da estrarre chirurgicamente. Ma così non riuscivano a respirare. Dovevano far sporgere una branchia ossificata, simile a un pungiglione, dalla pelle del collo della vittima. Quella fu la loro rovina: quando furono scoperti, bastò un rapido controllo per identificare gli infetti. Gli scienziati li chiamarono Bluegill, Branchie Blu, per via di quella branchia cornea blu o violetta che facevano sporgere.
   I Parassiti di adesso non hanno questa debolezza. Sono piccoli, difficili da rilevare e non lasciano sporgere nulla. Si riforniscono d’ossigeno direttamente dal flusso sanguigno della vittima. E sono resistentissimi».
   «Una bella evoluzione, in meno di duecento anni» commentò Chase. Aveva notato che fra i Parassiti custoditi nelle vasche ce n’erano di ambo i tipi. Le differenze erano evidenti.
   «Per questo dico che qualcuno li progetta» convenne Neelah. «Se un modello è deludente, lo ritira dal mercato. Analizza il problema, lo risolve. E quando le acque si sono calmate... quando nessuno teme più l’invasione... zac, si ricomincia. Molto astuto. E i nuovi Parassiti sono un gioiello d’ingegneria genetica. La loro capacità di moltiplicare forza e resistenza delle vittime, ad esempio, è sorprendente. Mi piacerebbe incontrare i loro artefici» ammise.
   Chase si accigliò. Quell’ammirazione per un nemico infernale cominciava a infastidirlo. «Lei ha studiato questi mostriciattoli in laboratorio, ma io ho visto i loro effetti dal vivo» le rammentò. «Sono le creature più vili, disgustose e malvagie che infestano lo spazio!» ringhiò.
   «Oh, per favore!» disse Neelah distrattamente, chinandosi a guardare in un microscopio elettronico. «Non esiste la cattiveria, come non esiste la bontà. Sono entrambe illusioni; ci siamo evoluti attribuendo significati emotivi alle strategie di sopravvivenza di animali da branco. In realtà il bene non è giusto, il male non è sbagliato, la lap dance non è sexy» cantilenò, come se ripetesse un concetto trito e ritrito. «Siete tutti prigionieri dei vostri schemi mentali istintivi» concluse con una punta di tristezza.
   «E lei no?» chiese Chase, ancora più infastidito da quel relativismo morale.
   «Io sono troppo intelligente» rispose Neelah, alzando lo sguardo dal microscopio. I suoi occhi azzurro ghiaccio si fissarono in quelli di Chase, che sentì un brivido.
   «Per questo lavora per me!» gongolò Sheev. «Allora, tornando ai Parassiti...».
   «Per sconfiggerli dobbiamo capire le loro intenzioni» disse Chase, distogliendo lo sguardo.
   «Sappiamo che sono geneticamente simili ai Simbionti Trill, ma bio-ingegnerizzati per assumere il controllo dell’ospite» riassunse Neelah. «E per morire quando viene uccisa la loro Regina. È così che Picard e Riker li sconfissero, nel 2364: scovarono la Regina e la distrussero. Noi non abbiamo avuto questa fortuna».
   «Immagino che i loro padroni abbiano capito l’errore e tengano la Regina con sé, per non farle correre rischi» commentò Chase.
   «Più che probabile» convenne Neelah. «Comunque i Parassiti sono programmati per uccidersi anche quando vengono scoperti e rimossi dalla vittima. Una ghiandola rilascia una tossina letale nel loro organismo: la morte è istantanea. Questo rende difficile studiarli da vivi... come vede, anch’io devo accontentarmi di esemplari morti» sospirò, accennando ai Parassiti sotto spirito che addobbavano il suo laboratorio.
   «Per il suo compleanno cercherò di fargliene avere uno vivo» promise Sheev.
   «Vuol farmi felice? Mi trovi la Regina!» rimbeccò Neelah.
   «Quello potrei farlo io, se la missione nella Macchia di Rovi avrà successo» intervenne Chase.
   «Che?! Mi dica!» esclamò Neelah, con aria famelica.
   «Poco prima della loro sconfitta, le Bluegill del 2364 inviarono un messaggio nella Macchia di Rovi» spiegò Chase. «Quella regione di spazio non fa che crescere da allora. È attraversata da anomalie sempre più violente, che somigliano molto a quelle dell’antica Distesa Delfica. La nave che distrusse l’Enterprise-I, una nave pilotata da vittime dei Parassiti, uscì dalla Macchia. E l’Ammiraglio Archer, nella sua registrazione, mi ha descritto una nave dei Costruttori di Sfere: è uguale» riassunse.
   «Direi che un’ispezione della Macchia è d’obbligo» convenne Sheev. «Forse la Regina si annida lì. È il legame coi Costruttori che mi sembra un po’ labile».
   «C’è dell’altro» avvertì Chase. «Ricorda quando, all’indomani dell’incidente, le descrissi il mio incubo?».
   «Che incubo? Cosa c’entra?» chiese Neelah, disorientata.
   «Ah, ma certo» sorrise l’Andoriano. «Ha fatto ricerche sull’incidente dell’Enterprise-D? Il contatto coi Solanae?».
   «Esatto. Neelah, sa di cosa...» cominciò Chase.
   «Certo che lo so!» l’interruppe Neelah. «Nel 2369 il Comandante Riker e altri ufficiali dell’Enterprise furono rapiti nel sonno e portati in un laboratorio alieno, dove furono sottoposti a esperimenti alquanto... invasivi. I responsabili erano alieni extra-dimensionali, la cui fisiologia era basata sul Solanum. Perciò, in mancanza di un altro modo per definirli, furono chiamati Solanae. Sembrava che cercassero d’invadere il nostro spazio, ma alla fine la breccia dimensionale che avevano aperto fu richiusa... anche se riuscirono a inviare una sonda, che si perse nello spazio. Non è mai stata ritrovata, giusto?» chiese a Sheev.
   «Ehm, la sonda è piccola e lo spazio è grande... anche per la Sezione 31» si scusò questi, vagamente imbarazzato.
   «Capisco dove vuole arrivare, Capitano» proseguì Neelah, concentrandosi di nuovo su Chase. «Lei sostiene che i Solanae siano l’anello mancante fra i Parassiti e i Costruttori. Vengono da un’altra dimensione... probabilmente la stessa dei Costruttori... e hanno le conoscenze genetiche per creare i Parassiti. Davvero intrigante. Ma perché parla di un incubo? Aspetti... lei credeva che fosse un incubo. Invece è stato rapito, come accadde a Riker».
   «È difficile finire una frase con lei» notò Chase. «Sì, ha ragione. Tutte queste cose... i Parassiti, i Solanae, i Costruttori... sembrano collegate».
   «Lo sono ancor più di quanto crede» rivelò Sheev. «Alcune vittime dei Parassiti, una volta liberate, hanno riferito di “incubi” simili al suo. Questi racconti somigliano molto al rapporto di Riker sui Solanae».
   «E che aspettava a dirmelo?!» protestò Chase.
   «Era una notizia riservata, ma ormai siete così addentro alla faccenda che posso informarvi» spiegò Sheev.
   «Tutto quadra» disse Chase, emozionato. «I Costruttori, i Solanae, i Parassiti... tre volti di un’unica minaccia, che si annida nella Macchia di Rovi. Tutte le piste portano là».
   «Allora è là che deve andare» raccomandò Sheev. «Setacci quella nebulosa: farò in modo che il Comando di Flotta non la ostacoli».
   «Lo apprezzo molto».
   «C’è un’altra cosa: voglio che porti Neelah con sé» disse l’Andoriano.
   «Che cosa?!» insorse Neelah. Era più sorpresa lei di Chase.
   «Mi ha sentito, qual è il problema?» fece Sheev, impassibile. «Lei è la nostra esperta di Parassiti e ha appena detto che vuole studiare la Regina. Abbiamo ipotizzato che tale creatura si nasconda nella Macchia di Rovi. E guarda caso, il Capitano Chase ha una nave in grado di esplorare la Macchia fino al centro. Perché lei dovrebbe perdere quest’occasione?».
   «M-ma io sono una civile!» protestò Neelah. «Collaboro con la Sezione solo come consulente esterna, l’ha dimenticato? Fra poche settimane me ne andrò da qui e probabilmente non mi vedrete più. Ho i miei studi, io! Le mie ricerche. Le università più prestigiose fanno a gara per avermi. Io... ho delle responsabilità nei loro confronti!».
   «Non la facevo così pusillanime» la punzecchiò Chase. «Sa quanti civili ci sono sull’Enterprise? Settemila. E verranno tutti nella Macchia. Fra loro c’è gente di ogni tipo, anche studenti. Vede, abbiamo delle scuole sull’Enterprise... compresa un’università. Se vuole insegnare, può farlo lì. Possiamo stilare un contratto di collaborazione fra lei e la Flotta. Avrà ampie risorse per portare avanti i suoi progetti. E se, per caso, c’imbatteremo in un Parassita... o meglio ancora nella Regina... chiederemo la sua consulenza».
   «Non avete uno staff medico, sulla vostra nave?» chiese Neelah in un soffio, ma l’incalzante discorso di Chase l’aveva quasi messa al tappeto.
   «Uno dei migliori» intervenne Sheev. «Ma al Capitano Chase manca un esperto di nano e biotecnologie. Uno del suo calibro, intendo. Il dottor Korris pende più verso la specializzazione psicologica, dico bene?».
   «Vedo che è ben informato sui miei problemi d’organico» commentò Chase. «Che fa, spia le mie comunicazioni con Terry?».
   «Io, spiare qualcuno? Come le salta in mente?» chiese l’agente della Sezione 31, con aria ferita. Si rivolse di nuovo alla scienziata: «Suvvia, Neelah... vedrà che sarà un’esperienza stimolante. Itoat!». Chase non capì l’esclamazione finale, ma immaginò che fosse un’imprecazione andoriana.
   Neelah chinò la testa, come per rimuginare sull’offerta. Fece un respiro profondo. Quando rialzò il capo aveva una nuova luce negli occhi. «Mi sembra di capire che non ho scelta» disse lentamente. «Se rifiutassi, per l’Enterprise sarebbe ancor più pericoloso addentrarsi nella Macchia. Quindi accetto l’offerta... dietro garanzia che resterò una civile e avrò condizioni favorevoli a bordo. Voglio una cattedra universitaria che mi permetta di portare avanti le mie ricerche e un laboratorio attrezzato coi migliori strumenti medici. E non voglio che qualcuno ci metta dentro il becco, sono stata chiara?».
   Non erano richieste da poco, ma Chase e Sheev si scambiarono uno sguardo d’intesa.
   «Affare fatto» disse il Capitano. «Benvenuta nella nostra squadra, Neelah» aggiunse, offrendole la mano. Qualcosa, in lui, gli diceva che Neelah era fondamentale per il successo della missione. Anche se era così spocchiosa che già gli veniva voglia di buttarla fuori da un boccaporto. Beh, rifletté, l’Enterprise era grande e loro si sarebbero visti di rado.
   «Non lavoro bene in squadra» disse Neelah, guardando la mano tesa di Chase con circospezione. «Ma suppongo di dover imparare» ammise, e gliela strinse.
 
   «È una vergogna! Voglio parlare col Capitano!» protestò Grenk, la barba che fremeva per l’indignazione.
   «Il Capitano non si trova a bordo» rispose Lantora, impassibile.
   «E dove si trova, allora?» chiese il Tellarita.
   «Saperlo!» si disse lo Xindi. «È impegnato in faccende delicate» rispose. «Nel frattempo è mio dovere vigilare sulla sicurezza della nave». Stavano discutendo nell’hangar principale, affollato di navette, montacarichi, operai al lavoro. Il frastuono era tale che dovevano quasi urlare per farsi sentire.
   «E in che modo il mio bagaglio minaccerebbe l’Enterprise?» chiese Grenk.
   «La smetta di prendermi in giro! Che c’è la dentro?» intimò Lantora, indicando un container. Sopra c’era scritto “Materiale ricreativo”.
   «Non sa leggere?» rimbeccò Grenk, indicando la targa.
   «Ho letto gli scanner» rispose Lantora. «Lì c’è qualcosa a forma di navetta, più o meno, ma impenetrabile ai sensori. Quindi o me la fa ispezionare o la rimando a terra!» minacciò.
   «Questo è un oltraggio! Voglio vedere il Capitano!» ripeté Grenk.
   «Signore, forse dovrebbe adottare…».
   «… una posizione più accomodante, non trova?».
   Erano stati due Bynari a parlare. Quegli esseri, nativi del sistema Beta Magellano, erano piccoli e mingherlini, con grossi crani calvi, tranne una treccia violacea dietro la nuca. Avevano la pelle pallida, con sfumature grigie o violette secondo l’illuminazione. Longevi e asessuati, parlavano in tono pacato, senza emozioni, completandosi le frasi a vicenda. Facevano così perché erano appaiati fin dalla nascita, quando i chirurghi avevano rimosso i loro lobi cerebrali parietali, sostituendoli con micro-processori sinaptici in costante collegamento. Questo permetteva ai Bynari di condividere i pensieri, andando a formare in pratica un solo organismo: ciascuno dei due agiva come il lobo di un cervello umano. In questo modo la loro intelligenza si sommava e ogni problema poteva essere analizzato da una doppia prospettiva.
   «State al vostro posto, ragazzi» ammonì Grenk. «Me la sbrigo da solo, con questo Primate».
   «Non se il Primate la sbatte in cella per intralcio alle procedure d’imbarco e sequestra il suo carico» avvertì Lantora, che aveva quasi esaurito la pazienza.
   «No!» sbottò Grenk.
   «Signore, perché non fa come dice?» propose uno dei Bynari.
   «Certo, il Tenente fa solo il suo lavoro...» disse l’altro.
   «... come noi facciamo il nostro».
   «Il tritanio plastificato è il futuro dell’ingegneria spaziale».
   «Plastificato? Ma che dite? E scusate un po’... chi siete voi?» chiese Lantora, scorrendo il ruolino di servizio sul suo d-pad.
   «Io sono 01010011» rispose un Bynario.
   «E io 11001010» disse l’altro.
   «Ma potete chiamarci 0 e 1» aggiunse il primo.
   «È impreciso, ma... per ragioni incomprensibili, i colleghi di altre specie preferiscono chiamarci così»  osservò il secondo.
   «Chissà perché» ghignò Lantora. «Allora, c’è davvero una navetta, là dentro? Aprite, voglio vederla».
   Sbuffando, Grenk andò sul retro del container e digitò un codice. La paratia metallica si sollevò, mostrando l’interno. Era proprio una navetta. Lantora la osservò meravigliato. Non ne aveva mai vista una con quell’aspetto. Lo scafo era fortemente geometrico: una serie di poliedri semifusi, color grigio metallizzato, con riflessi iridescenti. Da certe angolazioni rilucevano come bolle di sapone. La parte posteriore della navetta era esagonale, a nido d’ape, ma non sembrava esserci un ingresso.
   «Che razza di scafo è?» si stupì Lantora.
   «Oh, le spiegheremo tutto volentieri...».
   «... basteranno poche ore» assicurarono i Bynari.
   «Ore? Non ho così tanto. Fatemi vedere l’interno. Ma dov’è l’ingresso? E i motori?» volle sapere lo Xindi.
   «I motori sono ultra-compatti e integrati nello scafo» spiegò Grenk, sbrigativo. «L’ingresso eccolo qui». Posò la mano sul contorno dell’esagono posteriore, facendovi apparire alcune sottili luci azzurre: un lettore di DNA. Al centro dell’esagono si materializzò un ingresso.
   «Si accomodi; lo vede che non ci sono bombe né mostri?» fece Grenk sardonico, invitando Lantora a entrare.
   L’Ufficiale Tattico esitò brevemente. Aveva il timore irrazionale che, se fosse entrato in quella stramba navetta, non ne sarebbe più uscito. Ma non poteva esimersi dal dovere. Entrò, ritrovandosi in uno stranissimo ambiente. L’interno della navetta era piccolo, con le pareti inclinate verso il soffitto, tanto che Lantora dovette curvarsi leggermente. Lo scafo era multi sfaccettato e ancor più iridescente dell’esterno: sembrava di essere dentro un diamante tagliato. I comandi erano pochi, inseriti in un pannello dello stesso materiale. L’unica cosa normale, non iridescente, erano due comode seggiole per il pilota e il copilota, che costituivano l’unico arredamento.
   Lantora esaminò l’ambiente con il tricorder, ma quel materiale riflettente continuava a essere impenetrabile ai sensori. Comunque non sembravano esserci scomparti segreti, anche perché la navetta era così piccola che non c’era spazio per infilarceli. Lo Xindi lasciò perdere le letture inconcludenti del tricorder e si rivolse ai Bynari, che lo avevano seguito all’interno. «Allora, volete spiegarmi?» chiese.
   «È semplice, signore» disse il Bynario 0.
   «Stiamo cercando di migliorare il rivestimento delle navette» proseguì il collega 1.
   «Questa è una lega molecolare, frutto di un complesso procedimento».
   «Sì, in pratica l’intero scafo è un’unica macro-molecola di tritanio plastificato».
   «Ciò spiega la configurazione geometrica».
   «Crescendo in esperienza, potremo usare configurazioni più tradizionali».
   «Questa lega è molto elastica. Resiste ottimamente alle sollecitazioni fisiche, chimiche, termiche e subspaziali».
   «Ed è impenetrabile ai sensori. Sarà utile alla Flotta Stellare, non trova?».
   «Specialmente alla sua sezione, la Sicurezza».
   «Io... credo di sì» ammise Lantora, ancora un po’ intimorito da quello strano ambiente. «Ma se è tutto pronto, che aspettate a metterla in produzione? Perché portarla con voi?».
   «Sfortunatamente non è ancora tutto pronto» ammise il Bynario 1.
   «In fase di collaudo è emerso un piccolo problema» aggiunse il collega 0.
   «Il nucleo energetico dovrebbe entrare in risonanza con lo scafo, ma non lo fa».
   «Deve essere ricalibrato».
   «Altrimenti la vibrazione crescerebbe fino a disintegrare la navetta».
   «Direi che è un bel problema» convenne Lantora, uscendo.
   «Un problema risolvibile, con un po’ di pazienza» disse Grenk, che aveva atteso all’esterno. «Ma la Flotta Stellare non ha avuto la pazienza di aspettare che trovassi la giusta ricalibratura. I suoi – puah! – esperti dicono che occorre riprogettare daccapo la navetta. Le sembra possibile?! Ero a tanto così dalla soluzione, e mi hanno chiuso il progetto!» esclamò, accostando pollice e indice finché quasi si toccarono.
   «E ha pensato di portarsi dietro il prototipo? Mi sembra poco ortodosso» obiettò Lantora. «Con quell’etichetta, poi!».
   «Guardi qui: ho il permesso della Sicurezza di continuare i test sull’Enterprise» gongolò Grenk, consegnandogli un d-pad. «Io e miei assistenti troveremo il problema e lo risolveremo, alla faccia dei nostri scettici colleghi!».
   «Sembra tutto in regola» ammise Lantora, scorrendo l’ordine di servizio. «Qui leggo che la navetta è sotto la vostra responsabilità. Potete proseguire i test a vostra discrezione, sempre che non vada a detrimento del vostro attuale incarico. In pratica ci lavorerete nel tempo libero... mah, è il vostro tempo, potete usarlo come meglio credete. Ma come avete convinto la Flotta?» chiese, abbassando il d-pad.
   «Signore, molte delle maggiori invenzioni della Flotta furono messe a punto su astronavi in missione» rispose il Bynario 0.
   «Sì, le navi stellari sono sempre state un ottimo banco di prova per le nuove tecnologie» aggiunse il collega 1.
   «E per fortuna la Flotta non l’ha ancora dimenticato» concluse Grenk. «Allora, è soddisfatto?».
   «Uhm, diciamo di sì» ammise Lantora a malincuore, dando un’ultima occhiata agli ordini di servizio sul d-pad. «Ma state attenti a ciò che fate. Se eseguite dei test, dovete prima avvisarmi. Voglio che li facciate nello spazio, non nell’hangar. Casomai quest’affare esplodesse».
   «Una saggia precauzione, Tenente...».
   «... faremo volentieri come dice». I due Bynari intrecciarono le dita sul petto e s’inchinarono in avanti, perfettamente sincronizzati. Lantora capì che era il loro modo di salutare.
   «Uhm, bene. Ma portate questo prototipo in un hangar secondario, così non intralcerà le operazioni regolari» raccomandò Lantora, e passò al controllo successivo.
 
   Il giorno dopo Chase fece ritorno sull’Enterprise. Con lui c’era Neelah, che si era portata dietro abbastanza apparecchiature da attrezzarsi metà del laboratorio. Il grosso della roba era inscatolato in una stiva; ma la scienziata portava una borsa a tracolla, con alcuni effetti personali.
   «Per i dettagli della sistemazione può rivolgersi all’Intendente Dahut» le disse Chase, quando si furono teletrasportati a bordo. «Oppure a Terry, la nostra Intelligenza Artificiale. È molto ubiqua, sono certo che l’aiuterà con gli apparecchi».
   «Capitano, non vedo l’ora di conoscere la sua IA» assicurò Neelah, scendendo dalla pedana del teletrasporto. «Così finalmente potrò parlare con qualcuno al mio livello intellettuale» spiegò, guardandosi intorno soddisfatta. «Ah, una classe Universe! Lei è un uomo fortunato, Capitano. Le è stato concesso il meglio del meglio».
   La porta della sala teletrasporto si aprì, vomitando una ressa di ufficiali e civili sull’orlo di una crisi di nervi.
   «Capitano, sono il tenente Shil, la sua timoniera» si presentò T’Vala, mettendosi sull’attenti. «Vorrebbe spiegare al suo Ingegnere Capo che io e lui dobbiamo discutere di efficienza dei motori e manovrabilità della nave, non del fatto che nel suo alloggio manca la vasca del fango-massaggio?».
   «Come posso concentrarmi, se mi manca un servizio essenziale?!» protestò Grenk. «Signore, qui tutti hanno ambienti progettati su misura. Solo noi Tellariti siamo dimenticati, come al solito!».
   «Sia grato che le abbia fatto portare il suo “materiale ricreativo” e mostri rispetto per il Capitano!» intervenne Lantora. «Signore, ci sono alcune procedure di sicurezza che vanno assolutamente riviste».
   «Zignore, gli Xindi Acquatici zi lamentano che l’acqua è poco ozzigenata. Ho fatto controllare, ma i parametri zembrano in regola…» disse l’Intendente Dahut.
   «Ci sono 1.054 civili non ancora imbarcati, Capitano. E il 23% di quelli imbarcati hanno qualche rimostranza» riassunse Terry, materializzandosi di fianco a Chase. «Ho stilato una lista, in base all’urgenza e alla gravità delle situazioni. Vorrei sottoporle i primi 150 casi».
   «Il meglio del meglio, eh?» disse il Capitano, lanciando un’occhiataccia a Neelah.
   «Sa com’è... più grande è l’astronave, maggiori sono i problemi» rispose la scienziata, divertita. «Bene, la lascio alle sue incombenze. Arrivederci, Capitano... prima o poi». Prese il suo bagaglio a mano e infilò rapida la porta.
   Chase restò solo, a fronteggiare la folla irrequieta. «Intendente, non è che mi porterebbe un caffè?» chiese, sorridendo conciliante.
 
   In seguito, Chase ricordò confusamente i giorni prima della partenza. C’erano troppi problemi accavallati, che riempivano le sue giornate. E le poche ore di sonno non bastavano a rimettere ordine nel suo cervello surriscaldato. Ilia e Terry gli furono di enorme aiuto, specialmente la seconda, grazie alla sua ubiquità. Chase delegò a loro le faccende minori, serbandosi le vere seccature.
   E venne il giorno in cui tutto fu pronto. Chase entrò in plancia e la guardò ammirato. Nel punto nevralgico della nave, i progettisti avevano armonizzato funzionalità ed estetica ancor più che altrove. Posta al centro della sezione a disco, sulla faccia superiore, la plancia era vasta e richiedeva la presenza di numeroso personale. I colori predominanti erano azzurro metallizzato e grigio chiaro. Sul pavimento spiccava l’emblema della Flotta Stellare, mentre dalla cupola trasparente si osservava direttamente lo spazio. Lo schermo visore, come da tradizione, era sulla parete anteriore e la riempiva in gran parte.
   Al centro della plancia si trovava una sezione circolare, più bassa di un gradino. Nella parte anteriore, più vicina allo schermo, si elevava una struttura arcuata, che ospitava le postazioni del pilota e del copilota. Nella parte opposta si trovava un altro arco, più alto ma diviso a metà. Lì campeggiavano le poltrone del Capitano, del Primo Ufficiale e dell’Ufficiale Scientifico. La poltrona di Chase era rialzata e leggermente arretrata rispetto a quelle di Ilia Dax, alla sua destra, e di Terry, alla sua sinistra. Mentre il Capitano aveva braccioli con comandi olografici, le altre due avevano un vero quadro comandi davanti a sé. In realtà Terry non aveva bisogno di toccarli, né di leggere il rapporto dei sensori: essendo il computer della nave, poteva fare tutto mentalmente. Ma in caso di malfunzionamento bisognava che qualcuno potesse sostituirla agevolmente. La postazione tattica e quella delle comunicazioni erano incorporate nel grande “arco” interrotto, ai lati di Chase. Tutte le altre postazioni di lavoro si allineavano lungo le pareti. Le grandi interfacce LCARS si accompagnavano agli olo-comandi tridimensionali.
   Su una paratia scintillava la targa commemorativa dorata, che riportava i dati essenziali della nave, oltre al motto che da sempre ispirava le Enterprise.
 
USS ENTERPRISE
 
UNIVERSE-CLASS STARSHIP
STARFLEET REGISTRY NCC-1701-J
ELEVENTH STARSHIP TO BEAR THE NAME
LAUNCHED STARDATE 2550.012
SAN FRANCISCO ORBITAL SHIPYARD
SOL SECTOR – UNITED FEDERATION OF PLANETS
 
“… to boldly go where no one has gone before”
 
   Chase sedette sulla sua poltrona. Era davvero comoda. Si guardò intorno soddisfatto: tutti gli ufficiali erano ai propri posti, in attesa di ordini. «Rapporto dei sistemi» disse.
   Uno dopo l’altro, i capi-sezione confermarono che i loro dipartimenti erano pronti. Anche Grenk dalla sala macchine e Korris dall’infermeria segnalarono che tutto era in regola. Quanto a Navarro, se ne stava seduto sulla sua poltroncina lungo la parete. Aveva con sé un d-pad, sul quale annotava spesso le sue osservazioni.
   «Capitano, dall’Hangar Spaziale ci danno il via libera» avvertì l’addetto alle comunicazioni, un Ferengi di nome Grog. «L’Ammiraglio Nelscott ci fa i suoi auguri per il viaggio inaugurale».
   «Allora procediamo. Tenente Shil, ci porti fuori dall’orbita» ordinò Chase.
   «Sissignore. Che rotta devo tracciare?» chiese la timoniera.
   «Per adesso diriga verso il Settore 441» rispose Chase, nascondendo la tensione. «Le darò i dettagli quando saremo in zona». Non voleva ancora nominare la Macchia di Rovi; non davanti a Navarro.
   «Sì, Capitano». Le mani di T’Vala si mossero rapide sui comandi. «Rotta inserita. Pronti al balzo in cavitazione quantica».
   Chase respirò a fondo. «Attivare!» ordinò con decisione.
   Il nucleo dell’Enterprise pulsò e le gondole splendettero d’azzurro ai lati. Il deflettore si accese, proiettando il corridoio di cavitazione quantica. La grande astronave vi balzò dentro, lasciando il sistema solare in un lampo di luce bianca. 
 

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Capitolo 4
*** La Macchia di Rovi ***


-Capitolo 3: La Macchia di Rovi

 

   Il dottor Korris indugiava sulla porta del laboratorio di Neelah. C’erano molti scienziati civili sull’Enterprise e finora ne aveva incontrati solo una minima parte. Ma il Capitano gli aveva fatto sapere che la biologa sarebbe stata importante per la loro missione. Non gli aveva spiegato i dettagli, rimandando tutto a una prossima riunione tattica. Si era raccomandato che, per allora, tutte le attrezzature mediche fossero pienamente operative.

   Siccome l’infermeria era pronta e la riunione ancora non c’era stata, Korris pensava che fosse un buon momento per presentarsi alla collega. Forse l’avrebbe aiutato a capire cosa stava succedendo e perché il Capitano manteneva quell’alone di segretezza. D’altro canto, poteva darsi che Neelah stesse ancora allestendo il suo laboratorio e in tal caso Korris non voleva disturbarla. «Beh, ormai sono qui» si disse il medico. «E poi le ruberò solo qualche minuto. Il tempo di presentarmi».

   Si avvicinò all’ingresso ma, con sua sorpresa, questo restò chiuso. Di solito le porte di bordo si aprivano automaticamente quando ci si avvicinava, salvo quelle degli alloggi e delle aree più riservate. Non pensava che il laboratorio della biologa fosse tra queste. Premette un comando ai lati dell’ingresso.

   «Identificazione, prego» disse una voce computerizzata, che non era quella di Terry. Sembrava che Neelah avesse installato un sistema di sicurezza autonomo. Molto insolito, pensò Korris.

   «Sono Korris Vrel, Ufficiale Medico Capo. Numero di matricola…» cominciò il dottore. Ma si bloccò quando uno scanner azzurro installato in cima alla porta lo sondò da capo a piedi.

   «Impronta vocale, scansione retinica e codice genetico confermato. Prego si accomodi, dottor Korris» disse il computer, aprendo l’ingresso.

   Korris entrò cautamente, notando che il laboratorio era immerso nella penombra. Al centro erano ancora ammucchiati dei contenitori, sia squadrati che cilindrici, che ostruivano la vista della parete di fondo. Quel laboratorio sembrava una stiva di carico, ma probabilmente era solo il segno che Neelah lo stava ancora allestendo. Due ingressi, sulle pareti laterali, portavano ad altri ambienti.

   «Salve, c’è nessuno?» chiese Korris, incuriosito. Aveva appena varcato la soglia che questa si richiuse alle sue spalle, facendolo sobbalzare.

   «Venga avanti, dottore... sarò da lei fra un attimo» disse una voce femminile, evidentemente di Neelah, proveniente dalla parete di fondo.

   Korris aggirò il mucchio di scatoloni, incuriosito. E si trovò di fronte un’alcova Borg. Non poteva sbagliarsi: era una tipica alcova di rigenerazione, di quelle usate dalla Collettività. Un disco verde brillava sulla sommità, percorso da scariche elettriche. A lato, una struttura cilindrica ospitava l’interfaccia tattile. I comandi verdi e gialli erano tondi, disposti apparentemente a caso e collegati da intrecci simili a ragnatele. Neelah stava in piedi nell’alcova, a occhi chiusi, nella tipica posa dei droni intenti a rigenerarsi. Se non fosse stata in camice da laboratorio, e con i capelli al loro posto, Korris avrebbe pensato che i Borg l’avevano assimilata.

   «In nome dei Profeti, che sta facendo?!» esalò.

   Neelah aprì gli occhi e gli rivolse uno sguardo tagliente. «Mi rigenero, non vede?» rispose. «Il sonno è un modo superato per rinvigorire l’organismo. Io preferisco la rigenerazione Borg, che è molto più efficiente» spiegò, scendendo dalla struttura.

   «E quindi passa le notti in piedi, in quel... quell’alcova?» chiese Korris.

   «Se potessi!» sospirò Neelah. «Ma no, ho fatto solo qualche breve esperimento. Vede, attualmente posso sperimentare solo una piccola parte degli effetti rigenerativi. Per una completa rigenerazione Borg dovrei impiantarmi un nodo corticale nel cervello. Non sono ancora pronta per questo passo».

   Korris le si avvicinò cautamente. «Dottoressa, mi stia a sentire. Se si trapana il cranio e ci ficca dentro della robaccia Borg, potrebbe finire male. Molto male» avvertì.

   «La ringrazio della premura e le assicuro che sono consapevole dei rischi» garantì Neelah. «Finora mi sono limitata a fare qualche esperimento con le cavie da laboratorio. Venga a vedere!». Condusse Korris nella sala di sinistra, affollata di gabbiette trasparenti. Dentro c’erano dei topini bianchi da laboratorio, tutti morti.

   «Come vede, i topolini a cui ho impiantato dei micro-nodi corticali sono morti. Devo ancora capirne il motivo... nelle simulazioni computerizzate andava tutto bene» disse Neelah, con un certo disappunto. «Beh, ne saprò di più dopo l’autopsia. Vuole assistermi? Ho già fatto qualche biopsia cerebrale, posso darle un campione... magari vede qualcosa che mi è sfuggito» disse, speranzosa.

   «Se vuole dormire meglio, faccia come me: si beva un latte caldo prima di andare a letto. O magari una camomilla» suggerì Korris, in tono diplomatico.

   «Sigh, temevo ci capitasse un medico vecchio stile» sospirò Neelah.

 

   «Stiamo entrando nel Settore 441, Capitano» disse T’Vala, destando l’interesse di tutto l’equipaggio di plancia. «Che rotta devo tracciare, ora?».

   «Diriga verso la Macchia di Rovi» rispose Chase, sapendo che era inutile nascondere ancora la missione all’equipaggio. Come prevedeva, l’informazione destò inquietudine fra i presenti.

   «Signore, i miei protocolli di sicurezza sconsigliano fortemente l’ingresso in quella regione» disse subito Terry.

   «Ne sono consapevole» rispose Chase. «Ma la missione dell’Enterprise è mappare la Macchia, visto che le vecchie carte stellari non sono complete. E non sono nemmeno aggiornate, poiché la Macchia cresce e le sue anomalie s’intensificano».

   «Signore, credo che ci occorrano più dettagli sulla missione» disse Ilia. Aveva capito fin dalla partenza che il Capitano nascondeva qualcosa, ma non aveva voluto mettergli pressione. Adesso, però, non poteva più esimersi. La lunga esperienza di Dax le diceva che qualcosa di grosso bolliva in pentola.

   «Ne discuteremo in sala tattica» rispose Chase, alzandosi. «Terry, convochi Grenk e Korris. Chiami anche la dottoressa Neelah; per questa missione ci occorre la sua consulenza».

   «Sì, Capitano» disse Terry, venendogli dietro. Nello stesso momento stava informando gli interessati con una comunicazione audio.

   «Ma che succede?» chiese Navarro, avviandosi con gli ufficiali superiori.

   «Nulla che la riguardi» disse Chase. «Lei può restare in plancia».

   «Capitano, ciò è altamente irregolare. Io protesto!» sbottò il Consigliere, strabuzzando gli occhi. «Il mio dovere qui...».

   «... è vigilare sulla salute mentale dell’equipaggio e partecipare ai negoziati con altre specie e organizzazioni. Nessuna di queste incombenze si è presentata» tagliò corto Chase.

   «Allora l’Intendente non stava scherzando... vuole davvero escludermi dalle riunioni!» esalò Navarro, indignato. «Sappia che presenterò protesta formale al Comando di Flotta, per questo ingiustificato abuso di potere!» minacciò.

   «Ne ha facoltà» sospirò Chase, e gli girò le spalle.

 

   Gli ufficiali lasciarono la plancia, imboccando il brevissimo corridoio che portava in sala tattica. Questa somigliava alla plancia, per stile e illuminazione. Era occupata in gran parte da un’ampia tavola metallica, circondata da molte sedie. Il tavolo era a forma di anello: nel foro centrale vi era un proiettore olografico per visualizzare astronavi, pianeti o interi sistemi stellari.

   Su una parete della sala tattica, dietro una vetrata, campeggiavano i modellini tridimensionali di tutte le precedenti Enterprise. Per espresso desiderio di Chase c’era anche l’NX-01 di Archer. Le miniature erano perfettamente realistiche, per dettagli e colori, oltre che per le dimensioni reciproche. Vedere la tradizione delle Enterprise a ogni riunione era un monito per gli ufficiali, affinché dessero sempre il meglio di sé.

   Gli ufficiali presero posto intorno al tavolo. Non attesero molto perché arrivassero Grenk, Korris e Neelah: le cabine di teletrasporto rendevano veloci gli spostamenti a bordo. I nuovi arrivati si sistemarono nei posti vuoti. Molti dei presenti, però, sembravano considerare Neelah fuori posto. In effetti l’Andoriana non aveva né uniforme, né comunicatore: indossava un abito civile nero e blu elettrico, con un ampio camice scuro, che la rendeva piuttosto appariscente. Per giunta si era stravaccata sulla sedia e non faceva che ruotarla di lato, squadrando gli ufficiali con aria di sufficienza. Chase temette persino di vederla mettere i piedi sul tavolo, ma fortunatamente la scienziata non arrivò a tanto.

   «Dottoressa, essendo lei una consulente scientifica per questa missione, è autorizzata a portare il comunicatore della Flotta» disse il Capitano, consegnandole un comunicatore uguale al proprio.

   «Non vedevo l’ora che mi deste qualche giocattolo» commentò Neelah, con un sorriso ironico. «Devo tenerlo sempre? La vostra IA può reperirmi comunque, finché sono sulla nave. E non ho gite in programma» aggiunse, appuntandosi il comunicatore sulla maglia.

   «La invito comunque a tenerlo» tagliò corto Chase. Si augurò che la biologa non lo sfidasse per tutta la riunione. Non gli faceva fare una bella figura, con i suoi ufficiali.

   «Signore, i dettagli della missione...» ricordò Ilia.

   «Uhm, sì. Mi spiace informarvi solo ora, ma è una faccenda molto riservata» spiegò Chase. «I dettagli sono a conoscenza di poche persone nella Flotta. E dovranno rimanere riservati. Anche lei, Neelah, è vincolata al segreto» precisò.

   «Tanto so già tutto!» gongolò lei, per far pesare ancor più agli ufficiali la loro ignoranza.

   Chase non le badò. Nei venti minuti successivi diede ai suoi ufficiali le informazioni salienti sulla missione. Parlò dei Parassiti Neurali, dei Solanae, dei Costruttori di Sfere. Spiegò come le tre minacce sembravano intrecciarsi, portando alla Macchia di Rovi. Accennò persino alla Guerra Fredda Temporale. Non tralasciò nulla d’importante, anche se, come aveva promesso a Sheev, non parlò della Sezione 31. Ad ogni modo, era evidente che molte di quelle informazioni dovevano venire dai servizi segreti.

   «Questo è tutto» concluse Chase. «Dobbiamo svelare un enigma vecchio di quattrocento anni. Non so di preciso cosa troveremo nella Macchia. Forse nulla. Ma il mio istinto... e i numerosi indizi... suggeriscono che qualcosa ci sia. Non dobbiamo farcelo sfuggire».

   «Se c’è un’installazione nemica, dobbiamo aspettarci che sia ben difesa» intervenne Lantora. «Potrebbero esserci mine, piattaforme difensive, astronavi di guardia. Suggerisco di entrare in Allarme Giallo. L’equipaggio e i passeggeri devono sapere che potrebbe esserci uno scontro».

   «Diremo solo lo stretto necessario» concesse Chase. «Tenga pronti gli armamenti. A proposito... dobbiamo sapere come si comporteranno, nella Macchia. Grenk?».

   «Nelle normali condizioni della Macchia, le nostre armi dovrebbero funzionare» rispose il Tellarita. «Ma se al centro ci sono distorsioni più pesanti, come quelle della Distesa Delfica, non c’è modo di sapere come reagiranno. Le anomalie sono per definizione imprevedibili».

   «Così non va, signor Grenk; non possiamo presentarci disarmati» ammonì Chase. «Appena saremo nella Macchia testeremo gli armamenti. E se le distorsioni aumenteranno, ripeteremo le prove. Voglio sapere in ogni momento quali sono le nostre capacità offensive. E difensive».

   «Per quanto riguarda le difese, signore, gli scudi cronofasici ci proteggeranno» intervenne Terry.

   «Me lo auguro» disse Chase. «Conosce i rapporti dell’NX-01 sulle anomalie della Distesa, sa quant’erano pericolose».

   «Sì, signore. Ho scaricato nel mio database i diari di bordo di tutte le Enterprise del passato, come di altre astronavi che incontrarono anomalie: la Defiant, la Voyager, la Titan» spiegò Terry. «Nel caso della Voyager ho anche scaricato alcune memorie del Medico Olografico, rese disponibili da lui stesso. Ho correlato le varie informazioni».

   «E ha trovato qualcosa?» chiese il Capitano.

   «Signore, quelle navi incontrarono una moltitudine di anomalie spaziali, subspaziali e temporali. Per molte non si è mai trovata una spiegazione. In particolare l’Enterprise-D e la Voyager incontrarono dieci volte più anomalie di quanto accade solitamente alle navi della Flotta» rivelò Terry. «La mia ipotesi è che, in molti casi, si sia trattato di attacchi deliberati da parte dei Costruttori di Sfere. Se possono creare anomalie a comando, e leggere le linee temporali, è possibile che abbiano individuato le navi più importanti per la Storia e abbiano cercato di distruggerle».

   «Può essere» convenne Ilia. «Pensate che sarebbe successo se l’Enterprise-D o la Voyager fossero state distrutte prima che potessero difenderci dai Borg. Sembra una mossa degna dei Costruttori... e della Guerra Temporale» aggiunse.

   «In tal caso i Costruttori potrebbero accanirsi anche contro di noi; specie se li disturbiamo nel loro cortile» commentò Chase, alludendo alla Macchia. «Terry, mi parli ancora degli scudi. Con settemila civili a bordo, devo sapere che rischi corriamo».

   «I miei scudi cronofasici hanno una capacità massima di assorbimento di 5.312.000.000 terajoules» rispose Terry. «Questo supera considerevolmente i massimi picchi di energia registrati nella Distesa Delfica. In effetti questi scudi furono sviluppati proprio in seguito agli incontri delle navi stellari con anomalie subspaziali e temporali».

   «La prima Enterprise non era così fortunata» commentò Lantora. «A quei tempi bisognava corazzare le astronavi con il Trellium-D, che respingeva solo in parte le anomalie. Era raro e costoso, tanto che dovevamo guerreggiare per averlo».

   «E aveva effetti deleteri sul sistema nervoso di alcune specie» intervenne Korris. «Una nave vulcaniana, la Seleya, fu distrutta quando il Trellium fece impazzire il suo equipaggio».

   «Lieta di sapere che abbiamo mezzi più moderni per difenderci» disse T’Vala. «La mia fisiologia è vulcaniana solo per metà, ma temo che il Trellium avrebbe ugualmente effetti nocivi su di me. Se per qualche motivo dovessimo farne uso... ad esempio per corazzare una navetta... temo che non potrò pilotarla, signore» si rivolse al Capitano.

   «Lo terremo a mente» disse Chase, comprensivo. «Grenk, che mi dice degli altri sistemi chiave? Come reagiranno in presenza di anomalie?» chiese.

   «I sensori e le comunicazioni saranno disturbati nel lungo raggio» rispose l’Ingegnere Capo. «Ma sulle brevi distanze dovrebbero funzionare. Certo, questo renderà più lunga l’esplorazione della Macchia».

   «Niente comunicazioni a lungo raggio significa non poter chiedere aiuto, se ce la passeremo male» notò Ilia.

   «Né poter informare la Flotta di un’eventuale scoperta» aggiunse Lantora. «Dovremo uscire dalla Macchia per fare rapporto».

   «Lo immaginavo» annuì Chase.

   «In presenza di condizioni così ostili, sarebbe logico occultare l’Enterprise prima di avventurarci nella Macchia» suggerì T’Vala. «Sempre che l’occultamento funzioni» aggiunse, guardando dubbiosamente Grenk.

   «Uhm, questo è un altro problema» grugnì il Tellarita. «È sempre stato difficile nascondere le navi in presenza di anomalie. È come versare inchiostro su una tuta invisibile: appare la macchia e addio segretezza. Certo, la tecnologia di occultamento si è evoluta. Abbiamo eliminato le radiazioni tachioniche e le emissioni di anti-protoni. Ma con un fitto campo d’anomalie si creerà comunque uno sfarfallio che rivelerà la nostra posizione».

   «Probabilmente anche il teletrasporto non funzionerà» intervenne Terry.

   «Yotz! Hai ragione, ragazza!» grugnì Grenk. «Il raggio non sarà sicuro, fuori dalla bolla degli scudi. Possiamo usare le cabine di teletrasporto per muoverci da una stanza all’altra, ma non per lasciare la nave».

   «In pratica molti dei sistemi chiave saranno compromessi» riassunse Ilia. «Tra le cose fuori uso, e quelle parzialmente fuori uso, sarà come trovarci su una nave di secoli fa».

   «I sistemi tattici hanno la priorità» disse Chase, scuro in volto. «Dobbiamo controllare che almeno quelli siano efficaci».

   «Me ne accerterò al più presto» garantì Lantora.

   «Signori, anche la vita dell’equipaggio è prioritaria» intervenne Korris. «Conosco i rapporti del dottor Phlox sugli effetti delle anomalie. Tutte le specie che ne vengono in contatto subiscono una degradazione a livello cellulare. Alcune sono più vulnerabili di altre... i Vulcaniani, per esempio, sembrano particolarmente sensibili».

   «Sembra proprio che io e la Macchia di Rovi non andremo d’accordo» commentò T’Vala. «Se gli scudi avranno problemi, sarà logico sostituirmi».

   «Se gli scudi cedessero mentre siamo in mezzo alle anomalie, avremmo pochi minuti prima di perdere tutti conoscenza. E pochi altri prima della morte» avvertì Korris. «Posso sintetizzare qualche stimolante, per mantenerci coscienti più a lungo: un quarto d’ora, venti minuti al massimo. Ma non posso impedire una degenerazione letale dei tessuti... a meno di mettervi tutti in capsule mediche».

   «Non possiamo inscatolare diecimila persone» disse Chase.

   «Ma in caso d’emergenza, ricordate che posso dirigere la nave anche senza equipaggio» intervenne Terry. «Se gli scudi cedessero e voi perdeste conoscenza, traccerò la rotta più breve per uscire dalla Macchia e la percorrerò alla massima velocità».

   «Ma può darsi che anche lei risenta delle anomalie. Il suo processore usa gelatine bio-neurali, me l’ha detto lei stessa» obiettò Korris.

   «Posso dirottare le funzioni di base nella mia parte meccanica» spiegò Terry. «Certo, anche quella potrebbe danneggiarsi: le anomalie colpiscono tutta la materia, non solo quella organica. Ma in definitiva, se doveste perdere conoscenza, sappiate che abbiamo ancora rilevanti possibilità di salvezza».

   «Spero che non arriveremo a quel punto» disse Chase. «Bene, signori, questa è la situazione. Ormai sapete tutti cosa fare. Terry sonderà la Macchia e si terrà pronta a uscire, se l’equipaggio accuserà malesseri. Lantora si assicurerà che le armi funzionino. Grenk cercherà d’estendere il raggio dei sensori e delle comunicazioni. Tutti e tre terrete d’occhio gli scudi. T’Vala traccerà una rotta per coprire la Macchia nel minor tempo possibile. E Korris cercherà un modo per ritardare gli effetti delle anomalie sul nostro organismo, o almeno per tenerci coscienti più a lungo».

   «Posso collaborare» si offrì Neelah. «Ho già sottoposto i Parassiti Neurali a tutti gli esami possibili, quand’ero con la Sicurezza federale» disse, evitando di menzionare Plutone o la Sezione 31. «Non credo che m’inventerò nulla di nuovo, nei prossimi giorni. Certo che, se avessimo un Parassita vivo, ci aiuterebbe a capire se ci stiamo avvicinando alla Regina».

   «Inutile rimpiangere quel che ci manca» disse Chase. «Ilia, faccia un discorso all’equipaggio e ai civili. Spieghi che nella Macchia potrebbero esserci anomalie pericolose e forse anche specie ostili. Dobbiamo spiegare perché entriamo in Allarme Giallo. Molti avranno domande... devo chiederle di occuparsene lei».

   «Certo, Capitano» disse Ilia. Ricordava bene come, fra i compiti di un Primo Ufficiale, ce ne fossero spesso d’ingrati. Ad esempio occuparsi delle lamentale.

   «Bene... qualcuno ha domande o commenti?» chiese Chase, pronto ad aggiornare la riunione.

   «Solo una cosa, Capitano» disse Ilia, meditabonda. «Stavo pensando alla faccenda dei Parassiti e dei Solanae. Lei ha parlato del laboratorio in cui quelle creature conducono i loro esperimenti. Me n’ero già informata all’epoca dei primi rapimenti... cioè, Jadzia se n’era informata» si corresse Ilia.

   Chase la guardò a disagio. Tendeva a dimenticare che la memoria del suo Primo Ufficiale risaliva a secoli addietro. «Sì, prosegua» disse.

   «Ecco, sembra che quel laboratorio si trovi in una sorta di... bolla nel subspazio» proseguì la Trill. «Un luogo intermedio fra le dimensioni. L’osservatorio perfetto da cui spiarci, senza rivelare il loro luogo d’origine. Gli scienziati l’hanno definito Collettore Subspaziale».

   «E quindi?» chiese il Capitano.

   «Signore, anche se sono il suo Primo Ufficiale, nella mia vita come Ezri Dax fui Capitano dell’USS Aventine. E come tutti i Capitani, fui informata della Particella Omega: l’arma perfetta contro il subspazio» spiegò Ilia.

   «Capisco dove vuole arrivare» disse Chase. Si passò la mano sul mento, riflettendo. «Non sapendo quale sarà l’efficacia delle nostre armi, vuole avere un asso nella manica».

   «Nelle mie vite passate, avere un piano B è stato spesso l’unico modo per cavarmela» confermò Dax.

   «Signori, di che state parlando?» chiese Korris, spaesato.

   «Di qualcosa che un tempo era considerato persino al di sopra della Prima Direttiva» rivelò Chase. «Ma negli ultimi anni le cose sono cambiate. Signori, chi di voi è al corrente della Direttiva Omega?» chiese.

   Oltre a Ilia, anche Terry e Grenk alzarono la mano. E persino Neelah, con grande sorpresa di tutti.

   «Dottoressa, c’è qualche segreto della Flotta di cui non è al corrente?» chiese il Capitano, irritato.

   «Certo» sorrise lei. «Per esempio da dove vengono le navette. Le navi della Flotta sembrano sempre averne più del dovuto... immagino che da qualche parte abbiano una stanza segreta piena di schiavi che lavorano giorno e notte per montarle» disse sarcastica.

   «Uhm... fino a pochi anni fa, sarei stato costretto a far uscire dalla stanza i non informati» disse Chase. «Ma ultimamente la Direttiva Omega si è ammorbidita. In caso d’emergenza, il Capitano può informare gli ufficiali superiori. Ricordate, però, di non riferire ad altri» avvertì, osservando gli interessati.

   «Certo, Capitano; ha la mia parola di ufficiale e di Vulcaniana» promise T’Vala, tranquillissima.

   «E la mia di capo della Sicurezza» disse Lantora.

   «Io... ehm, anch’io prometto di tenere la bocca chiusa» farfugliò Korris. Stava perdendo il conto dei segreti che non potevano uscire da quella stanza.

   «Bene... v’informo che Omega è la più esotica e pericolosa particella che sia mai stata sintetizzata» rivelò Chase. «Se prodotta in quantità sufficiente, può formare la Molecola Omega: una molecola di tale complessità e grandezza che la sua struttura poliedrica è osservabile a occhio nudo. Persino i Borg rimasero affascinati dalla sua perfezione: in un’occasione persero 29 astronavi e 600.000 droni nel tentativo di crearne un quantitativo stabile. Un ex drone Borg, Sette di Nove, arrivò a dire che la sintesi di questa particella era, per la Collettività, qualcosa di simile a una ricerca spirituale».

   «Il Santo Graal dei Borg!» commentò Korris, incredulo.

   «Anche noi Umani avevamo qualcosa del genere: il Bosone di Higgs era chiamato “Particella di Dio” e la sua ricerca impegnò le migliori menti scientifiche, tra XX e XXI secolo» annuì Chase. «Con Omega cominciò in modo simile. Alla fine del XXIII secolo, il professor Ketteract e altri 126 scienziati federali allestirono un laboratorio nel Settore Lantaru, riuscendo a sintetizzarne un quantitativo minimo». Chase notò che T’Vala aveva sgranato gli occhi. «Credo che lei abbia capito, tenente».

   «Sì, Capitano... era logico. Non poteva trattarsi di un fenomeno naturale» disse T’Vala.

   «Cosa è logico? Di che fenomeno parla?» chiese Korris, esasperato. Non gli piaceva essere l’unico ignorante in sala.

   «Come, non conosce il Settore Lantaru?» si stupì T’Vala, girandosi verso di lui.

   «Sono un medico, non un cartografo stellare» rispose seccamente Korris.

   «In quel settore è impossibile creare un campo di curvatura stabile» spiegò la timoniera. «Tutte le astronavi devono scendere a impulso. Servono anni per attraversarlo, infatti tutte le rotte spaziali ci girano intorno. La logica mi dice che il danno al subspazio fu prodotto dall’esperimento del professor Ketteract».

   «Un esperimento che distrusse lui e la sua equipe» confermò Chase. «Poche Molecole Omega bastarono a lacerare il subspazio dell’intero settore. Non furono le particelle in sé, nella loro forma stabile. Fu quando si destabilizzarono... il che avviene in frazioni di picosecondo, se non si usa una camera di risonanza armonica per stabilizzarle. Sette di Nove riuscì a costruirne una sulla Voyager, quando trovò alcune Particelle Omega nel Quadrante Delta».

   «Ne ho i progetti in memoria» disse Terry prontamente. «Posso fornirli al signor Grenk. Basteranno pochi giorni per costruire una camera di risonanza».

   «Non vedo l’ora!» gongolò l’Ingegnere, battendo le mani. «Finalmente un progetto interessante!».

   «Scusate... mi sfugge lo scopo dell’operazione» intervenne Korris. «Perché volete creare qualcosa che può esploderci in faccia al minimo errore di calcolo?».

   «Perché la Molecola Omega potrebbe essere l’unica cosa in grado di distruggere il Collettore Subspaziale» rispose Ilia.

   «Potrebbe?» si accigliò Korris.

   «Non è mai stato tentato prima. Ma in teoria sì, dovrebbe funzionare» precisò la Trill.

   «Sarà il nostro asso nella manica» stabilì Chase. «Dottor Korris, prepari iniezioni di arithrazina per proteggerci dalle radiazioni Theta, che sono emesse da Omega. Terry, Grenk, realizzate al più presto una camera di risonanza armonica. Considerando la segretezza della Direttiva Omega, sarebbe meglio non coinvolgere altro personale. Terry può sdoppiarsi per fornire più manodopera».

   «Certo, signore» assicurò l’IA.

   «Uhm, vorrei lavorare almeno con i miei assistenti più fidati, i Bynari» disse Grenk. «Sono tipetti in gamba. Trovano sempre i problemi prima che... ci diano problemi. E sanno tenere la bocca chiusa».

   «D’accordo, si avvalga di 0 e 1» concesse Chase. «Bene, signori, direi che è tutto. Avete le vostre consegne. Portatele a termine nel più breve tempo possibile. Terry, quanto manca all’ingresso nella Macchia di Rovi?».

   «I miei sensori indicano che fra quindici minuti entreremo nella Macchia» rispose l’IA.

   «Come, di già?» si stupì Korris.

   «Non sono una vecchia classe Olympic, dottore» rispose Terry. «Naturalmente, una volta dentro dovremo diminuire la velocità, per eseguire i rilevamenti con i sensori a corto raggio».

   «Allora muoviamoci» disse Chase, alzandosi. Lui e gli ufficiali tornarono in plancia e ripresero il proprio posto, sotto lo sguardo corrucciato di Navarro. «Fermiamoci subito prima d’entrare nella Macchia» ordinò Chase, risedendosi. «Devo fare un annuncio ai passeggeri. E poi... voglio vederla».

   «Sì, signore». T’Vala fece uscire l’Enterprise dalla cavitazione a poche migliaia di km dal confine. Così vicina, la Macchia di Rovi riempiva tutto lo schermo. Aveva l’aspetto di un’immensa nebulosa, arancione e rossastra. Chase trattenne il fiato, mentre i ricordi dell’Enterprise-I lo assalivano. La Macchia aveva un’aria minacciosa, persino malvagia, o così gli parve. Sembrava un ammasso di ruggine nello spazio, o un’infezione che si propagava in un organismo.

   Ricordando il proprio dovere, il Capitano digitò alcuni comandi sul bracciolo della poltrona, aprendo un canale di comunicazione generale a tutta la nave.

   «Attenzione, è il Capitano Chase che vi parla» disse. «V’informo che stiamo per entrare nella Macchia di Rovi, una regione di spazio instabile, soggetta ad anomalie. Molti di voi ne avranno sentito parlare. Chi parla Klingon la conoscerà come Klach D’kel Brakt. La nostra missione è mapparne le zone più interne, che non sono mai state cartografate. Inoltre dobbiamo ricontrollare le zone già note, perché le anomalie sono cresciute e le vecchie mappe non sono più aggiornate.

   Non vi nascondo che incontreremo avversità. Le radiazioni della Macchia interferiranno con le comunicazioni a lungo raggio, quindi non potremo comunicare col resto della Federazione finché saremo all’interno. Se desiderate avvertire i vostri cari, fatelo subito. Anche i sensori a lungo raggio saranno disturbati. Il teletrasporto funzionerà all’interno della nave, ma non con l’esterno.

   Molti di voi saranno preoccupati, ma sappiate che gli scudi cronofasici dell’Enterprise sono progettati per difenderci dalle anomalie. Comunque, se qualcuno notasse un’anomalia all’interno della nave, è pregato d’informare la Sicurezza. E se qualcuno accusasse malesseri, deve contattare immediatamente l’infermeria. Vi prego però di assicurarvi che ci sia davvero qualcosa che non va: non intasate la nave con falsi allarmi, che potrebbero distoglierci da un eventuale, vero problema».

   Chase esitò. Non voleva spargere il panico a bordo, ma non poteva nemmeno nascondere il pericolo ai suoi ufficiali. Decise di rischiare. «C’è anche la possibilità che una specie ostile si annidi nella Macchia di Rovi» disse. «In preparazione a questa evenienza, organizzeremo delle esercitazioni. I civili saranno scortati nelle aree più interne e sicure della nave» disse, lanciando un’occhiata d’intesa a Lantora.

   «Un’altra cosa: so che alcuni di voi appartengono a specie telepatiche» proseguì Chase. «Se qualcuno avesse percezioni strane... se avvertisse qualcosa di simile a una mente alveare... riferisca subito alla Sicurezza. Anche in questo caso, si prega d’evitare falsi allarmi» raccomandò. «So che molti di voi hanno un sacco di domande. Il Comandante Dax e l’Ufficiale Scientifico Terry sono disponibili a rispondere. L’importante è che manteniate la calma. Per garantire la vostra sicurezza, dichiaro l’Allarme Giallo, che sarà mantenuto per tutta la nostra permanenza nella Macchia».

   A queste parole, l’illuminazione della plancia cambiò. Le interfacce LCARS divennero dorate e i loro contorni presero a pulsare lentamente. Se Chase avesse ordinato l’Allarme Rosso, il colore sarebbe cambiato ancora e i contorni avrebbero pulsato molto più rapidamente.

   «Questo è tutto. Confido nella professionalità degli ufficiali e nel senso civico dei civili. Ricordate che siamo sull’Enterprise: la nostra missione è spingerci coraggiosamente là dove nessuno è mai giunto prima. Chase, chiudo».

   Il Capitano ricadde indietro sulla poltrona e si passò una mano tra i capelli. Malgrado i suoi appelli alla calma, sapeva che in quel preciso momento la nave stava andando in subbuglio. «Tenente Shil, arresto totale» ordinò. «Diamo ai civili un’ora di tempo per contattare i loro cari, prima d’entrare in silenzio radio. Ilia, vada in sala conferenze per rispondere alle domande. Terry, aiuti Grenk con quel progetto... e mantenga qui una sua proiezione isomorfa. La plancia è sua, io vado nel mio ufficio. Mi avverta quando entriamo nella Macchia».

   Gli ufficiali confermarono gli ordini e si precipitarono alle loro incombenze, salvo Navarro, che digitava furiosamente le sue osservazioni sul d-pad. Chase, invece, si prese il lusso di andare nel suo ufficio, sprofondare nella poltrona e restare immobile, a occhi chiusi. Cercò di svuotare la mente da ogni preoccupazione. Aveva appena messo in moto cose che non poteva più fermare. Cose che non sapeva dove l’avrebbero portato. Cose che, forse, potevano distruggere l’Enterprise. Ed era il rischio minore: perché non agire poteva avere conseguenze molto più catastrofiche, per tutta la Federazione.

   Dopo qualche minuto d’immobilità, Chase si stropicciò gli occhi e li riaprì. Adesso sapeva come si erano sentiti i grandi Capitani della Flotta Stellare, i suoi idoli di quand’era bambino. Comandare una nave stellare voleva dire essere solo. Poteva avere tutti i consiglieri che voleva: una Trill con secoli d’esperienza, un’Intelligenza Artificiale con più potenza di calcolo di una flotta, un’Andoriana con un quoziente intellettivo da genio. Ma alla fine era lui a prendere le decisioni. Sua la responsabilità. Ma le conseguenze toccavano molta più gente. Era soprattutto questo a spaventarlo. Poteva accettare l’idea di morire, a causa di un suo sbaglio. Non quella di condannare altre diecimila persone.

   Osservò un dipinto astratto che aveva collocato su una parete dell’ufficio. Era l’opera di un artista contemporaneo, di etnia aborigena. Un modo per ricordare la sua terra natia, l’Australia, sebbene lui fosse nato a Sydney da genitori occidentali. Il quadro mostrava il Dreamtime, il Tempo dei Sogni degli Aborigeni. Era uno spazio-tempo mitico, un flusso costante e invisibile di energie vitali, in cui la realtà era ricreata istante dopo istante. Solo i sogni, dicevano gli aborigeni, ci portano all’essenza della realtà. La mente crea il mondo, non il contrario. Soltanto l’arte astratta poteva rendere questi concetti, perciò il dipinto era costituito da puntini e linee ondulate o zigzaganti, dai colori vivaci. L’unica forma vagamente riconoscibile somigliava a un lungo serpente variopinto: il mitico Serpente Arcobaleno dei miti aborigeni.

   Chase socchiuse gli occhi, perso nel vortice di colori del Dreamtime. Al centro della Macchia di Rovi, forse, avrebbe ritrovato un vecchio incubo. Uno così reale da doverlo affrontare con raggi anti-polaronici, cannoni a impulso, siluri. Forse anche con una Bomba Omega, capace di lacerare il subspazio. Dove la trovava, la forza per una cosa del genere?

   Guardò una foto che aveva sistemato sulla sua scrivania. Lui e Serleen, appena entrati in Accademia, sorridevano fianco a fianco. Avevano vent’anni: la vita era tutta davanti a loro, piena di speranze. Chase indurì lo sguardo. Era per lei che doveva farlo: per Serleen. La Caitiana aveva dato la vita per salvarlo. Non doveva essere un sacrificio vano. Lui doveva affrontare i mostri che l’avevano uccisa, che avevano ucciso la vecchia Enterprise, e fermarli una volta per tutte. A qualunque costo.

 

   Quella sera, Ilia Dax si aggirava in uno dei settori civili dell’Enterprise, spossata. Aveva passato tutto il giorno a cercare di tranquillizzare la gente, ma dubitava di esserci riuscita. La perenne condizione di Allarme Giallo non contribuiva certo a rassicurare gli animi. E tutti quei segreti le rendevano difficile rispondere alle domande dei civili che, giustamente, volevano sapere cosa stava succedendo.

   Comunque l’Enterprise era nella Macchia da qualche ora e non c’erano stati problemi. Gli scudi cronofasici reggevano a meraviglia. Le armi funzionavano tutte. I sensori funzionavano solo a corto raggio, ma questo l’avevano previsto. Per adesso tutto bene. Ma più si addentravano nella Macchia, più le cose sarebbero peggiorate, finché... Ilia non volle pensarci. Il suo turno era appena finito. Prima di andare nel suo alloggio, fare una doccia sonica e tuffarsi sotto le coperte, voleva mangiare qualcosa.

   I suoi passi la portarono nella Piazza Centrale, un vasto ambiente al centro della sezione a disco, dove molti corridoi convergevano a raggiera. Era l’equivalente di una piazza cittadina, un luogo in cui incontrarsi e chiacchierare mentre si passeggiava. Il soffitto alto contribuiva a liberarsi dalla sensazione di claustrofobia che la lunga permanenza su una nave stellare poteva provocare. La piazza conteneva alcune panchine, piante ornamentali poste in grossi vasi e persino una fontanella al centro. Lungo il perimetro si aprivano negozi, bar e ristoranti. Ilia si concentrò su questi ultimi. Ce n’erano parecchi, per soddisfare le esigenze alimentari dei settemila civili. Era un’immagine familiare, le ricordava il passato.

   La Trill sorrise, mentre il peso degli anni svaniva e i ricordi delle vite passate tornavano vividi. Era Jadzia Dax, ufficiale di stanza su Deep Space Nine, una stazione mineraria cardassiana riconvertita ad avamposto federale. Una piccola bolla di vita nello spazio, sospesa fra Bajor e il Tunnel Spaziale che portava all’inesplorato Quadrante Gamma. Attorno a lei passavano ufficiali della Milizia Bajoriana e della Flotta Stellare, mercanti Ferengi, visitatori da tutto il Quadrante. Fra loro c’erano i suoi colleghi. Volti cari, che non vedeva da secoli. Sisko, Kira, Odo, O’Brien, Bashir... i suoi amici e compagni di mille avventure. Quark, Rom e Nog, i buffi Ferengi con cui giocava a Tongo nel tempo libero. E Worf, suo marito. Stavano pensando di avere un figlio. Ce l’avrebbero fatta, se Gul Dukat non l’avesse sorpresa nel tempio bajoriano, se non l’avesse uccisa con la furia fiammeggiante dei Pah-wraith.

   Ilia si appoggiò alla parete, frastornata. Troppi ricordi, troppo intensi. Ricordare la propria morte... il fuoco infernale che la divorava... era troppo, anche per una Trill.

   «Si sente bene, Comandante?» chiese una voce gutturale, eppure genuinamente preoccupata.

   Ilia si guardò intorno, disorientata. Si accorse d’essersi appoggiata all’ingresso di un ristorante, uno dei più grandi. Il proprietario era lì davanti, che l’osservava con apprensione.

   Era un Gorn. Un lucertolone alto più di due metri, con la pelle verde e scagliosa. Aveva occhi gialli e sporgenti, mani artigliate e un’enorme bocca piena di denti affilati.

   «Sì, sto bene» disse Ilia, raddrizzandosi. «Ho solo avuto un capogiro, ma è passato» assicurò, rassettandosi l’uniforme.

   «Non sarà colpa delle anomalie, spero» disse il Gorn, con un sorriso sornione. Le sue pupille verticali si strinsero, mentre l’osservava attentamente.

   «Penso proprio di no» disse Ilia. «Era in sala, oggi? Ha sentito quando ho spiegato tutto?».

   «Sì» rispose il Gorn solennemente. «Se non è colpa delle anomalie, potrebbe essere... dei ricordi? Ho visto come si guardava attorno. È lo sguardo di chi cerca il passato. Sono abbastanza vecchio da conoscere la sensazione».

   «Io... uhm, scusi, ma lei chi è?» chiese Ilia. Quel lucertolone la metteva un po’ in soggezione. I Gorn erano una delle specie più forti della Galassia, più dei Klingon. Erano anche longevi. Quello lì sembrava averne passate parecchie.

   «Mi chiamo Raav e ho il piacere di gestire questo locale» rispose cortesemente il Gorn, indicando l’insegna con la grossa mano artigliata. Diceva: Antro del Drago. Vi compariva una caverna, da cui sbucava un grande drago rosso e sputafuoco. Ilia frugò nella memoria. Ah, sì... i draghi erano quei grandi rettili alati che vivevano su Berengaria VII e Maravel.

   «Molto evocativo» si complimentò Ilia. «Deve incuriosire i clienti».

   «Ahimè, stasera i clienti sono un po’ troppo scombussolati per aver voglia d’incuriosirsi» si lamentò Raav. «E dire che era la serata inaugurale del mio locale. Avevo appena finito di prepararlo».

   «Oh, mi spiace. Vedrà che da domani la gente arriverà» disse Ilia, incoraggiante. «Nella mia esperienza, la fifa non blocca la fame più di una giornata».

   «Lo penso anch’io» convenne Raav, più allegro. «Allora, le andrebbe di essere la mia prima cliente?».

   «Perché no?» sorrise Ilia. «Voglio proprio sperimentare la cucina Gorn».

   «Deve avere un palato forte» avvertì Raav. «Altrimenti pratico altri tipi di cucina».

   «Ho già familiarità con quella Klingon e Ferengi» spiegò Ilia. «Sa, dai tempi di DS9».

   «Oh, certo» s’illuminò Raav. «Ilia Dax... lei ha un Simbionte antico e venerabile. Molti ricordi. I tempi passati... non passano mai del tutto, sssshhht!» disse, con un sibilo da rettile. «Ma prego, si accomodi».

   Ilia si lasciò guidare oltre l’anticamera, fino al salone principale del ristorante. Era uno strano ambiente, ancor più suggestivo di quanto immaginava. Le pareti erano truccate per sembrare di roccia. Le luci erano basse, la temperatura alta... proprio come piaceva ai Gorn, una specie a sangue freddo, sempre in cerca di calore. Al centro ardeva un vero braciere. Sembrava di trovarsi in una caverna sotterranea; magari proprio su Gornar, capitale dell’Egemonia Gorn.

   Ilia sedette a un tavolo e consultò il menu. Ordinò un arrosto con contorno di funghi. Non riusciva neanche a pronunciare il nome della creatura e dei funghi alieni, ma pazienza. Non si era mai tirata indietro di fronte alle novità e non intendeva cominciare adesso. Fu Raav stesso a servirla, con rapidità ed eleganza. Nel frattempo erano entrati alcuni altri clienti, ma di loro si occupavano i camerieri. Il Gorn, infatti, aveva parecchi dipendenti, appartenenti a svariate specie. Molti erano a loro volta cuochi, esperti in altre tradizioni culinarie.

   «Era ottimo» si complimentò Ilia a fine pasto. «Quanto le devo?».

   «Per la mia prima cliente, al suo primo pasto, nulla» sorrise Raav.

   «No, dico davvero...».

   «Anch’io».

   «Grazie» sorrise Ilia. «Consiglierò questo locale a tutti i miei colleghi».

   «Vede che ho fatto un buon affare?» sorrise il Gorn. Sedette pesantemente su una sedia lì accanto. «Ah, ho proprio voglia di scaldarmi un po’» disse, accostandosi al braciere.

   «Scusi se faccio la guastafeste... ma sa che occorre un permesso per accendere fuochi a bordo, vero?» chiese Ilia.

   «Tranquilla, sono in regola. Il Capitano Chase mi ha dato la licenza» rispose Raav. «Per lei sarà buffo... il modo in cui ho addobbato il locale, intendo. Sssshhht!» sibilò ancora. «Ma per noi Gorn è importante avere qualcosa che ci ricordi le caverne sulfuree da cui veniamo. Anche se viaggiamo più veloci della luce, lontani dal nostro mondo, in un’astronave aliena» ammiccò.

   «Non è una cattiva idea» ammise Ilia. «Quando ho lasciato Trill, non sapevo quali effetti personali portare con me. Ma alla fine non ho tenuto molto. Rammento così tante vite... a volte ho difficoltà a distinguere la mia da quelle che ricordo grazie a lui» disse, indicandosi il ventre. Lì, in una sacca pelvica che solo i Trill possedevano, si annidava il Simbionte Dax, profondamente connesso al sistema sanguigno e nervoso di Ilia. Mangiava attraverso il suo stomaco, respirava attraverso i suoi polmoni.

   «Io? Lui? Che significano queste parole, per lei?» chiese Raav, incuriosito. «Ho conosciuto altri Trill Uniti. Avevano difficoltà a distinguere fra se stessi e le vite passate. Spesso dicevano sempre io, anche quando parlavano del Simbionte o degli ospiti precedenti».

   «Sì, è complicato» ammise la Trill. «Anni di preparazione... ma quando l’Unione arriva, non c’è addestramento che tenga. È una cosa che ti stravolge completamente la vita, i legami familiari. I parenti non ti guardano più come prima e tu non vedi loro allo stesso modo. Anche con gli amici e i colleghi cambia tutto. Persino quando sono in plancia, io... non so davvero se sono Ilia o Dax. Temo che il Capitano e gli altri mi considerino utile solo per la parte di me che è Dax. Per le memorie dei suoi ospiti precedenti» confessò, avvilita. Era strano aprirsi tanto con qualcuno che aveva appena conosciuto, ma c’era qualcosa in Raav che le ispirava fiducia. Aveva la netta sensazione che il grosso Gorn fosse uno con cui potersi confidare, senza temere un tiro mancino.

   «Capita a molti di sentirsi apprezzati solo per una parte di sé; magari neanche quella che preferiscono» commentò Raav, in tono filosofico. «Nel suo caso è particolarmente difficile. Ma lei, Ilia, ha la sua unicità. Lei non è Curzon, né Jadzia, e nemmeno Ezri. Loro sono dentro di lei, la consigliano e la sostengono, in qualche modo. Li consideri come degli amici fidati. Ma non perda il controllo: è lei che deve decidere. Usi la loro esperienza senza farsene schiacciare. E non si preoccupi troppo di cosa pensano gli altri. Nessuno può vivere in funzione delle aspettative altrui».

   Ilia lo guardò affascinata. Era incredibile come un alieno avesse capito il suo problema, meglio di tanti Trill che conosceva. Forse guardare una situazione da fuori era utile per vederla in modo imparziale.

   «Sono l’ultima ospite di Dax... dopo di me non ci saranno altri» sussurrò. «Sarebbe un vero spreco, se non fossi all’altezza dei miei predecessori».

   «Lei è il Primo Ufficiale dell’Enterprise» rimarcò il Gorn. «Credo che presto avrà modo di mostrare il suo valore. Se è la fine di una lunga eredità... ebbene, che sia un finale col botto!».

 

   In quello stesso momento anche Chase passeggiava nella Piazza Centrale, osservando i locali. Era strano, per lui: non era mai stato su un’astronave con dei ristoranti. L’Enterprise-I e la Ascension avevano solo la mensa degli ufficiali. Gli sembrava di essere su una stazione spaziale, o addirittura su un pianeta. Vide l’insegna dell’Antro del Drago e si avvicinò incuriosito. Diede un’occhiata al menu: roba da stomaci forti, ma pensava di poterla reggere.

   «Capitano, la stavo cercando» disse una voce alle sue spalle, mentre stava per entrare. Chase si bloccò. Aveva riconosciuto la voce di Neelah e temeva che portasse cattive notizie.

   «Le ho dato il comunicatore. Poteva chiamarmi» commentò, voltandosi.

   «Preferivo parlarle di persona. Terry mi ha detto che era qui» rispose Neelah. C’era qualcosa di diverso in lei. Sembrava meno strafottente del solito.

   «Uhm, che ne dice di entrare? Ci sediamo a un tavolo, beviamo qualcosa e parliamo di... quel che vuole» propose Chase, sperando che non fossero rogne.

   «Una cena liquida? Volentieri» accettò Neelah. «Non mangerei niente di solido, qui» disse inorridita, scorgendo il menu. «Si rende conto che molti di questi cibi erano animali viventi? Che barbarie!».

   «Non tutti si affidano ai replicatori» commentò Chase. Sedettero a un tavolino nell’anticamera, che faceva da bar, invece di entrare nel ristorante vero e proprio.

   «Una birra andoriana. Ghiacciata, mi raccomando!» ordinò Neelah al cameriere.

   «Facciamo due» disse Chase.

   «Lei beve birra andoriana!» si stupì Neelah. «Ha gusti raffinati».

   «Andoriana, romulana, terrestre... basta che sia birra» rispose Chase. In meno di un minuto, il cameriere portò una bottiglia di birra azzurra, con cui riempì due bicchieri dalla strana forma. «Chiamate, se desiderate altro» disse, tornando dietro il bancone del bar.

   «Salute» disse Chase, e bevve il primo sorso. «Ah, niente male. Fredda al punto giusto. Allora, che mi dice?».

   «Lei voleva sapere se qualche telepate percepiva qualcosa» disse Neelah. Le sue antenne oscillarono, come se fosse preoccupata. «Ebbene, io ho una percezione. È così lieve che non riesco nemmeno a definirla. Ma prima non c’era, ne sono certa» disse, e si scolò il bicchiere.

   «Quindi lei è anche telepatica» disse Chase lentamente. Adesso capiva perché Neelah era sempre al corrente di tutto, anche delle direttive più riservate della Flotta. Avrebbe dovuto intuirlo... non sapeva se era più preoccupato o infastidito dalla notizia.

   «Ho un livello ESP 12» precisò Neelah.

   «Ed è tutta roba sua o deriva da potenziamenti genetici? Non si finga sorpresa... so bene che i servizi segreti usano agenti geneticamente modificati» disse Chase.

   «Come le ho spiegato, io non faccio parte della Sezione 31. Sono solo una consulente esterna» puntualizzò Neelah. «Ma sono comunque vincolata al segreto d’ufficio. Ad ogni modo... cos’ha contro i potenziamenti genetici?» volle sapere.

   «Che bisogno ha di chiedermelo? Lei è una telepate, può leggermi nel pensiero» rispose Chase bruscamente.

   La biologa socchiuse gli occhi, mentre le sue antenne puntavano in avanti, verso il Capitano. «Una mente non è sempre come un libro aperto. La sua, in particolare, è alquanto sfaccettata... stratificata... congratulazioni, di rado ho incontrato una mente umana così difficile da leggere» ammise.

   «Beh, grazie» disse Chase, un po’ imbarazzato e un po’ sollevato. «Per rispondere alla sua domanda sull’ingegneria genetica, dico solo che in passato non è andata molto bene: i Potenziati delle Guerre Eugenetiche, la Cabala sulibana, i super-soldati di Angosia...».

   «Storia vecchia».

   «Sarà, ma ogni volta che in una società si sono diffusi individui geneticamente alterati, questo è diventato un fattore di disuguaglianza sociale» notò Chase.

   «Capitano, l’ingegneria genetica è l’unico biglietto per il futuro. E parlo per tutti: Andoriani, Umani... tutte le specie della Federazione» disse Neelah, appassionata. «Abbiamo raggiunto un tale livello tecnologico che ormai non capiamo più le nostre macchine. Quanti, di coloro che usano il teletrasporto o il replicatore alimentare, hanno una vaga idea di come funziona? Quanti saprebbero ripararli? Persino sulle astronavi, quelli che padroneggiano i sistemi chiave sono sempre meno. Pensi alla sua Enterprise!» esclamò, accompagnandosi con un ampio gesto. «Quante persone sono qualificate per mettere le mani nel motore a cavitazione quantica? E quante riescono a usare il propulsore cronografico? La verità è che siamo rimasti indietro: la nostra biologia non riesce più a seguire la tecnologia. Dobbiamo potenziarla, se vogliamo reggere il passo. Anzi, dobbiamo fonderle. Altrimenti non ci resta che delegare tutto ad androidi e ologrammi».

   «Sì, può darsi» sospirò Chase. «Alcune specie lo fanno già: guardi i Bynari. Loro, però, non hanno chiesto di essere conciati così. Gli è stato praticato alla nascita, per decisione del loro governo. Capirà che le implicazioni etiche sono enormi. Ma è un discorso che ci porterebbe troppo lontano. Lei mi stava dicendo che ha percepito un... campo telepatico, giusto?».

   «Molto fievole» confermò Neelah.

   «Ritiene che ci stiamo avvicinando alla Regina?» domandò Chase.

   «Non posso saperlo con certezza, non avendo metri di paragone. Però sì, è possibile» rispose la biologa.

   «Ne ha parlato col dottor Korris?».

   «Lui non è telepatico e non conosce i Parassiti quanto me» sbuffò Neelah. «E poi, i medici della Flotta Stellare tendono a minimizzare i problemi».

   Chase sospirò. «Vede, noi siamo vicini a Ba’ku. Se saltasse fuori che quel pianeta è in pericolo, perché c’è una base nemica nelle vicinanze, potrei essere obbligato a evacuarlo. Sarebbe la seconda volta che la Flotta Stellare prova a sfollare i Ba’Ku... e la prima fu un disastro».

   «Queste cose sarebbero più semplici, se non foste sempre vincolati alla Prima Direttiva: la dottrina del disimpegno morale!» sentenziò la scienziata.

   «Non le piace proprio la Flotta Stellare, vero?» disse Chase, infastidito. «Se ci trova così frellamente antipatici, perché ha accettato l’incarico sull’Enterprise? E prima ancora, com’è finita in quel laboratorio su Plutone?».

   «Le ho spiegato di essere vincolata al segreto...».

   «Ma io voglio saperne di più su di lei, visto che dovrò basarmi sui suoi pareri per decidere le prossime mosse. Se non vuole scendere troppo nel personale, mi spieghi almeno di che si occupava, prima di collaborare coi servizi segreti» propose Chase.

   Neelah fissò il suo bicchiere come se fosse la cosa più interessante della Galassia. «Uhm... finché ero in quella base, dovevo soppesare ogni parola; ma ora che sono qui, posso parlare più liberamente» disse meditabonda. Riempì il bicchiere di birra andoriana, lo scolò in un sorso lo sbatté sul tavolo. «Vede, Capitano, io sono un’Aenar... sa che significa? Conosce la mia gente?» chiese, quasi ansimando.

   «So che siete parenti degli Andoriani».

   «Una sotto-specie, come dicono loro. Eravamo materia di leggenda, fin quando una loro spedizione non ci trovò, nelle caverne di ghiaccio in cui abitavamo da millenni. Loro erano numerosi e all’epoca anche militaristi. Noi, invece, eravamo pochissimi... e seguivamo una dottrina di non-violenza. Sopravvivemmo solo perché ci consideravano troppo deboli per minacciarli. E oggi il nostro DNA è talmente annacquato con quello degli Andoriani che siamo quasi estinti. Ha mai visto un Andoriano verdastro? È il colore dei meticci. Gli Aenar puri, come me, sono una rarità. Non lo trova strano? La Federazione s’impegna per proteggere le specie animali e vegetali dall’estinzione, ma non fa lo stesso con le specie senzienti».

   «Dove vuole arrivare?» si accigliò il Capitano.

   «La mia specie ha sempre avuto grandi potenzialità, ma non le ha mai sfruttate. Io non voglio commettere lo stesso errore!» esclamò Neelah. «Ad esempio, noi Aenar abbiamo poteri telepatici. Però siamo anche ciechi dalla nascita. Cose che capitano, quando si vive sottoterra per generazioni. La vista perde d’importanza e al suo posto si sviluppano altri sensi... o percezioni extrasensoriali, nel nostro caso. Ma ora che siamo usciti dalle grotte di Andoria, ci piacerebbe poterci guardare attorno».

   «Ma lei ci vede» obiettò Chase.

   «Non è sempre stato così» rivelò Neelah. «Alla nascita ero cieca, come tutti gli Aenar. Però avevo facoltà telepatiche superiori alla media e un QI così alto che le scuole normali sarebbero state una perdita di tempo. Avevo sei anni quando fu chiaro che mi serviva un’istruzione speciale. Così mi portarono su Tantalus V, per valutare le mie capacità e fare esperimenti».

   «Chi la portò? La Sezione 31?» si rabbuiò Chase.

   «Sì, dopo aver convinto i miei genitori a firmare una liberatoria» disse l’Aenar, deglutendo. «Su Tantalus conobbi altri individui... dotati, come me. La Sezione 31 ci aveva radunati per studiare a fondo le nostre capacità e spingerle al massimo».

   «Sembra una cosa illegale».

   «Era ai limiti della legalità. Nei dodici anni successivi fui sottoposta a ogni genere di test per valutare il mio livello ESP. Ma non mi limitai a fare da cavia: ero lì anche per istruirmi. Studiai biologia, concentrandomi sulle tecniche d’ingegneria genetica».

   «Voleva curare la sua cecità» comprese Chase. Improvvisamente capì molti degli atteggiamenti di Neelah e ne provò compassione.

   «Esatto; nel frattempo usavo un Visore» annuì Neelah, persa nei ricordi. «I risultati non tardarono ad arrivare. Con alcuni potenziamenti genetici aumentai ulteriormente il mio livello ESP, portandolo da 10 a 12. Aumentai anche in forza, velocità e resistenza. Infine riprogrammai alcune nanosonde Borg perché mi ricostruissero gli occhi e i nervi ottici, che la mia specie possiede in forma vestigiale. Senza che le nanosonde mi assimilassero, ovviamente. È molto meglio che farsi trapiantare occhi artificiali o indossare quei brutti Visori».

   «Sono lieto che abbia avuto successo» si congratulò Chase.

   «Grazie... è bello poter vedere con i miei veri occhi» sorrise Neelah, guardandosi intorno. «Sa, le nanosonde mi hanno portato altri benefici: mi tengono pulite le arterie e cicatrizzano più in fretta le ferite. È sicuro di non voler provare anche lei?».

   «Un’altra volta, magari. Ma senta... come sono andate le cose coi servizi segreti?» volle sapere Chase.

   Neelah distolse lo sguardo e deglutì, come assalita da brutti ricordi. «Quando noi dotati diventavamo maggiorenni, i contratti firmati dai nostri genitori con la Sezione 31 perdevano validità e dovevano essere rinegoziati. Naturalmente la scuola faceva delle... pressioni indebite, per convincerci a restare. Molti dei miei compagni si lasciarono influenzare e rimasero; credo che alla fine siano diventati Agenti Operativi. Quando fu il mio turno, la Direttrice mi fece dei ricatti psicologici, sostenendo che ero in debito con la Sezione 31. Ma io tenni duro e non firmai nulla. Riuscirono a incastrarmi solo con una clausola del vecchio contratto, che gli permette di richiamarmi come consulente esterna, in caso d’emergenza. Ora capisce perché ero su Plutone» spiegò Neelah.

   «Già... e capisco il suo risentimento verso la Flotta» disse Chase a mezza voce. Aveva l’impressione che Neelah gli tacesse qualcosa, su quella “scuola per dotati” della Sezione 31. Qualcosa che la spaventava. Ma non volle tartassarla ancora su quel punto. «E poi che ha fatto, una volta libera?» chiese invece.

   «Ora che finalmente ero padrona di me stessa, decisi che il potenziamento genetico era la mia vocazione, per curare malattie e migliorare le specie» spiegò l’Aenar. «Perfezionai i miei studi di nanotecnologia con un anno su Denobula e due sulla Terra. M’interessai ai tentativi passati di miglioramento biologico e cibernetico: i Potenziati umani, la Cabala sulibana, i Jem’Hadar, i Borg...».

   «Scommetto che crede nel Transumanesimo e nella Singolarità tecnologica».

   «Certo, sono fenomeni inevitabili».

   «Ed è vegetariana».

   «Ovviamente».

   «E ha partecipato alle proteste studentesche contro la Prima Direttiva».

   «Chiaro che sì. Sono un’attivista del Movimento Abolizionista. Cioè, lo ero finché studiavo; ora che sono ricercatrice, non ho più tempo per queste cose. Complimenti, Capitano, ne ha indovinate tre su tre. Forse anche lei ha un livello ESP elevato!» ridacchiò Neelah.

   «Macché, il mio livello è sottozero» disse Chase. «Però ho una sorella, Helen, che le somiglia un po’. Non è telepatica, ma ha la sua stessa parlantina».

   «E di che si occupa?».

   «Con la sua intelligenza, poteva fare quel che voleva... ma ha preferito far carriera nel Movimento Abolizionista. Ora sta cercando di renderlo un vero partito politico, che entri nel Consiglio federale» rispose Chase, avvilito.

   «Caspita, Capitano... sarà stato un duro colpo per lei» disse Neelah, comprensiva.

   «Abbiamo le nostre divergenze, ma non ne abbiamo fatto materia di litigio, anche se in effetti non ci vediamo da un pezzo» disse Chase. «Sa, molti ufficiali della Flotta Stellare si trovano nella mia situazione, con parenti Abolizionisti. E altri abbandonano l’Accademia per divergenze ideologiche. Ma nel suo caso, credo di capire perché ha fatto carriera nel ramo civile: è per la sua esperienza con la Sezione 31. Quei dodici anni su Tantalus le devono essere sembrati una prigionia».

   «È stata un’esperienza utile, ma anche soffocante» ammise Neelah. «Comunque io non odio la Flotta Stellare... vorrei solo che si riformasse un po’».

   «Le sembrerà strano, ma anch’io penso che serva un rinnovamento... anche se non lo estenderei alla Prima Direttiva» rivelò Chase. «Credo che la Flotta debba tornare a esplorare. È il motivo per cui è stata fondata ed è ciò che ha fatto nei suoi tempi migliori».

   «Ben detto, Capitano» approvò Neelah. «Anch’io desidero studiare nuove forme di vita... in questo caso i Parassiti. Se devo cercare la loro Regina in una zona di spazio pericolosa, va bene. Se devo collaborare col suo staff medico, va bene. Ricordi, però, che sono e resto una civile. Ho accettato di venire sull’Enterprise perché c’è un’università in cui posso insegnare e laboratori all’avanguardia per le mie ricerche. E anche perché la mia consulenza le serve, Capitano. Questi Parassiti sono insidiosi. Non so cosa troveremo al centro della Macchia, ma può darsi che dovremo pensare in fretta a una soluzione. Se hanno una base, forse lei dovrà inviarci una squadra. Se sarà così... può contare su di me» dichiarò, soppesando il bicchiere.

   «Grazie, lo terrò a mente» promise Chase.

 

   La camera di risonanza armonica troneggiava in uno dei laboratori dell’Enterprise. Era uno dei congegni più complessi mai realizzati dalla Flotta Stellare: il solo modo per contenere l’energia distruttiva di Omega. E come la sua antesignana della Voyager, era stata costruita in pochi giorni. Una base raggiata sosteneva la grossa bolla sferica e semitrasparente che avrebbe contenuto le Molecole Omega. Alcuni rinforzi a spicchio assicuravano l’integrità della bolla, ma non sarebbe servito a niente se i campi di forza all’interno avessero ceduto, o anche solo fluttuato per un istante.

   «Diagnostica completata, è tutto in ordine. Direi che possiamo procedere» disse Grenk, osservando soddisfatto il suo lavoro.

   «Scudi metafasici attivati» disse il Bynario 0. «Sono stabili».

   «Anche la boronite è nei parametri» aggiunse il Bynario 1.

   «Bene, tenete d’occhio gli indicatori» raccomandò Grenk. «Se qualcosa va fuori settaggio, non avremo molto tempo per neutralizzare le Molecole. A proposito, la carica gravimetrica...».

   «È pronta, ma non sarà necessario usarla: Omega resterà stabile» disse Terry, o meglio, una delle venti Terry che si affaccendavano nel laboratorio.

   «Ce lo auguriamo tutti, ma non possiamo saperlo con certezza» disse Grenk.

   Le varie Terry si girarono e lo squadrarono con aria di sufficienza. «Ho apportato dei miglioramenti al progetto originale di Sette di Nove» disse la più vicina.

   «La camera originale poteva custodire le Molecole solo per un breve periodo, il tempo di neutralizzarle».

   «Questa creerà le Molecole e le manterrà stabili a tempo indeterminato».

   «L’infinita complessità di Omega sarà osservabile a livello macro-molecolare».

   «E io voglio vederla, la sua perfezione».

   Ogni pezzo di frase era stato pronunciato da una Terry diversa. In realtà non erano affatto diverse, trattandosi di proiezioni della stessa IA.

   Per Grenk era un’esperienza strana. Lavorava con i Bynari da anni e si era abituato al loro modo di fare: i movimenti sincronizzati, le frasi completate a vicenda. Tra sé e sé fingeva che fossero gemelli, senza soffermarsi a pensare quant’era stretto il loro legame neurale. Ma nemmeno loro l’avevano preparato a quell’esperienza: lavorare con venti proiezioni della stessa personalità. Venti ologrammi identici per aspetto, voce, reazioni. Se dava un compito ad una, poteva essere un’altra a eseguirlo, dato che avevano la stessa mente. Era una sorta di piccola Collettività Borg, pensò Grenk con un fremito.

   «Lei vuol vedere la perfezione... ma è sicura di trovarla là dentro?» chiese il Tellarita, indicando la camera armonica.

   «Lei è esperto di particelle, dovrebbe capire».

   «La complessità di Omega è pari solo alla sua grande armonia».

   «È l’apice della fisica molecolare».

   «Eh eh, sembra una teenager che parla del suo cantante preferito» ridacchiò Grenk. «Pare che le Intelligenze Artificiali non resistano al fascino di questa molecola. Prima i Borg, adesso lei... non sarà che vi ricorda il funzionamento dei vostri programmi? Innumerevoli subroutine che lavorano all’unisono...» suggerì.

   «Le suggerisco di concentrarsi sul lavoro...» disse una Terry, passandogli frettolosamente accanto.

   «... non su queste irrilevanti digressioni verbali» concluse un’altra, passandogli dietro.

   «Caspita, devo aver fatto centro. Bene, signore... cioè, signora...» si corresse Grenk, passando al singolare «... possiamo procedere». Si premette il comunicatore. «Capitano Chase, se vuol vedere il suo asso, questo è il momento. Ehi, aspetti!» protestò, accorgendosi che una Terry stava già digitando la sequenza d’avvio.

   «Sintesi particellare avviata» disse la proiezione isomorfa, emozionata. La camera di risonanza cominciò a ronzare, mentre un biancore latteo compariva al suo centro. Le proiezioni di Terry lessero i dati.

   «Le fluttuazioni di falso vuoto sono entro i parametri».

   «Il tessuto spazio-temporale regge».

   «Radiazioni Theta normali, gli scudi tengono».

   Grenk si asciugò il sudore dalla fronte con una mano, mentre con l’altra premeva un tasto azzurro, contrassegnato dal simbolo Ω. «O la va o la spacca» mormorò. La camera armonica ronzò ancora più forte. La luminosità bianca che ne traspariva si tinse d’azzurro.

   «Funziona!» esclamò Terry. Diciannove sue proiezioni svanirono; ne restò una sola. Quest’ultima si avvicinò alla camera fino a toccarla.

   «Stia indietro!» consigliò Grenk.

   «Ingegnere, se qualcosa va storto, la nave sarà vaporizzata in un nanosecondo» rispose Terry, senza distogliere lo sguardo. «Crede che stare un passo indietro faccia differenza?».

   «Abbiamo sintetizzato la soglia critica di Particelle» disse il Bynario 0, leggendo un indicatore.

   «Stanno cominciando a formare le Molecole» aggiunse il collega 1.

   «E le Molecole si dispongono in un reticolo più ampio» disse Grenk, sempre più sudato.

   «Sì... posso vedere la struttura. È bellissimo!» si emozionò Terry, osservando l’interno della camera. Eccole lì... le molecole più perfette che l’Universo avesse mai conosciuto! Brillavano di luce bianco-azzurra, formando un complesso poliedro che ruotava su sé stesso. Infinita complessità in infinita armonia! Quel pugno di Molecole Omega aveva tanta energia da alimentare una civiltà... o da distruggerla. Terry attivò i suoi sensori, captando le onde gravimetriche e subspaziali delle Molecole. Come astronave seguì la rotta prestabilita; ma nella sua forma umana, poteva quasi danzare al ritmo di quelle onde. Era sublime... ed era opera sua!

   La porta si aprì ronzando e il Capitano Chase entrò trafelato. «Allora, ce l’avete fatta... Terry, è tutto a posto?» si preoccupò, notando che l’Ufficiale Scientifico era immobile davanti alla camera armonica.

   «Tranquillo, Capitano; la camera regge a meraviglia» rispose Grenk. «Ma sembra che la nostra IA stia avendo un’esperienza mistica».

   «Terry?» chiese Chase, meravigliato. Si avvicinò al globo bianco-azzurro, davanti a cui si stagliava in controluce la sagoma dell’ufficiale.

   «È tutto a posto, Capitano. I miei sensori indicano che Molecole sono stabili» confermò Terry, voltandosi. Aveva gli occhi lucidi.

   «Lei sta... piangendo?» mormorò Chase. «Non sapevo nemmeno che potesse farlo».

   «Sono una proiezione isomorfa di settima generazione, ricordi» disse Terry. «Ho tutte le reazioni fisiologiche di un essere vivente. Ma non credevo di provare un’emozione così intensa» aggiunse, asciugandosi una lacrima.

   «A pochi è concesso di ammirare il loro ideale di perfezione» commentò Chase, andandole accanto. «Se un antico greco avesse potuto udire l’armonia delle sfere... o un medievale i cori angelici... forse avrebbe provato qualcosa di simile a ciò che lei sente ora». Osservò la camera, ma solo per un istante, perché la luce intensa lo abbagliava. «Congratulazioni a tutti voi» disse. «Se troveremo il Collettore Subspaziale, sapremo come...».

   In quella l’Enterprise sobbalzò. Prima ci fu una scossa dall’alto verso il basso, poi la nave fu scossa violentemente di lato, più volte.

   «Terry, rapporto!» ordinò Chase.

   «Abbiamo incontrato un’anomalia molto densa» spiegò l’Ufficiale Scientifico. «Non avevo mai rilevato nulla del genere. Corrisponde alle distorsioni della Distesa Delfica».

   «La camera è a posto?» chiese Chase nervosamente.

   «Sì, signore. Ma la mia griglia EPS si è sovraccaricata. Alcuni condotti devono essere sostituiti» disse Terry.

   «Faccia una diagnostica completa dei danni. Grenk, formi una squadra per ripararli. E Terry... ci sono altre anomalie del genere qui attorno?» volle sapere Chase.

   «Ne stanno comparendo altre».

   «Cioè entrano nel raggio dei sensori?».

   «No, appaiono dal nulla. È inspiegabile, Capitano!» disse Terry a occhi spalancati, mentre i suoi sensori esaminavano lo spazio circostante.

   «Si spiega eccome, invece. Ci stiamo avvicinando allo stesso tipo di Sfere incontrate da Archer» ribatté Chase, dandosi un pugno sul palmo.

   «Non allo stesso tipo, Capitano. L’anomalia che ci ha colpiti era dieci volte più intensa delle peggiori mai incontrate da Archer» corresse Terry.

   «Frell, ha ragione!» imprecò Grenk, leggendo il rapporto dei sensori su uno schermo del laboratorio. «Se questa fosse l’NX-01 saremmo a pezzi!».

   «Allora dobbiamo essere ancora più cauti. Terry, riduca la velocità ed estenda al massimo i sensori» ordinò Chase. «Cerchi di mappare le anomalie esistenti, e se possibile di capire dove si formeranno le prossime».

   «Sarà difficile fare previsioni, Capitano. I miei algoritmi probabilistici hanno troppe incognite per funzionare a dovere» lamentò Terry.

   «Allora sa come ci sentiamo noi Organici per tutto il tempo» ribatté Chase. «Faccia il possibile... io vado in plancia, devo parlarne con T’Vala» aggiunse, dirigendosi verso la porta.

   «Ho già lì una mia proiezione isomorfa» assicurò Terry.

   Chase scosse la testa, chiedendosi se si sarebbe mai abituato all’ubiquità di Terry, e lasciò il laboratorio.

   «Vado a organizzare le squadre di riparazione» disse Grenk, seguendo il Capitano. «Ragazzi, voi restate qui a tener d’occhio la camera».

   «Certo...».

   «... signore».

   I Bynari restarono soli con Terry, o per meglio dire con quella proiezione di Terry: ce n’erano parecchie altre in giro per la nave, a controllare i danni.

   «L’intensità delle anomalie suggerisce che i Costruttori...» cominciò 0.

   «... abbiano notevolmente perfezionato la loro tecnologia» terminò 1.

   «Anche noi; resta da vedere chi è stato più svelto» commentò Terry. Le sue subroutine tattiche funzionavano a pieno ritmo, elaborando centinaia di possibili scenari. Ma nemmeno lei poteva sapere quale si avvicinava di più alla realtà.

 

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Capitolo 5
*** Sfera ***


-Capitolo 4: Sfera

 

   Nei giorni successivi le anomalie crebbero costantemente di numero e intensità. Terry cercava di adattare gli scudi, per resistere più efficacemente, ma era una “corsa alle armi” dall’esito incerto. Almeno avevano la certezza di avere a che fare con lo stesso tipo di anomalie della Distesa Delfica, eccezion fatta per la loro intensità, nettamente superiore. Con tutti quei disturbi, le previsioni di Grenk si erano avverate: sensori e comunicazioni erano ridotti al minimo, l’occultamento non funzionava bene e il teletrasporto non funzionava affatto. L’unica consolazione era che i ripetuti test con gli armamenti avevano dato esito positivo. I siluri rischiavano di essere deviati, ma il sistema di guida automatico correggeva piuttosto bene la traiettoria. Solo i banchi anti-polaronici avevano dato problemi: quando le anomalie erano molto intense, i raggi tendevano a dividersi in due, poi in quattro, in otto e così via, ramificandosi ad albero. Modulando le frequenze e concentrando al massimo i raggi, però, anche questo problema fu superato, almeno entro un breve raggio di tiro.

   «Capitano, ritengo di aver individuato l’origine delle anomalie» disse finalmente Terry. «Negli ultimi giorni ho completato la mappatura della Macchia e il risultato è chiaro». Sullo schermo principale comparve uno schema della Macchia di Rovi, in cui le anomalie erano evidenziate con colori diversi in base alla loro intensità. Più si andava verso il rosso, più erano forti. I bordi della Macchia erano azzurri e verdi, così come alcune bolle all’interno, come quella che ospitava il pianeta Ba’Ku. Gran parte della Macchia era gialla, con alcune zone arancioni. Ma al centro c’era un’area rosso scuro, quasi violacea. Era l’unica zona non ancora esplorata: ci avevano girato intorno, ma non si erano addentrati.

   «È lì che dobbiamo andare» disse Chase.

   «Signore, le anomalie sono così intense da creare una sorta di... schiuma quantica» osservò Terry.

   «Sullo schermo» ordinò il Capitano.

   Ciò che apparve era impressionante. Lo spazio-tempo ribolliva e si deformava, come se una forza perversa facesse violenza all’Universo. La zona trasformata si espandeva costantemente. Nuove bolle emergevano, si dilatavano, si fondevano con le precedenti. L’assenza di suoni nello spazio rendeva la scena ancor più straniante.

   «È come un cancro che si espande» disse Chase. «E noi dobbiamo entrarci».

   «Ne è certo, signore?» chiese Ilia, inquieta. «Ormai sappiamo quanto basta».

   «No, per smuovere la Flotta Stellare dobbiamo trovare la Sfera al centro» obiettò Chase. «Terry, come vanno gli scudi?».

   «C’è il 94,6% di probabilità che resistano per almeno 24 ore, Capitano» rispose Terry.

   «Cercheremo di metterci meno. Tenente Shil, tracci la rotta» ordinò Chase. «Però aspetti a partire».

   «Sì, signore... ci vorrà solo mezz’ora per arrivare al centro» rispose la timoniera.

   «Capitano, la sua bizzarra teoria sulle anomalie non dovrebbe pregiudicare la sicurezza dell’equipaggio» intervenne il Consigliere Navarro, ormai al corrente della situazione. «Di certo possiamo inviare delle sonde automatiche a fare tutti i rilevamenti che occorrono...».

   «Da troppo tempo la Flotta si affida alle sonde» ribatté Chase. «Dobbiamo vedere coi nostri occhi, così saremo pronti a intervenire». Premette un comando sul bracciolo, mettendosi in comunicazione con tutti i ponti. «Capitano a equipaggio, attenzione! Dobbiamo addentrarci in una zona ad alta densità di anomalie. Potrebbero esserci scossoni, siete pregati di mantenere la calma. Per la loro sicurezza, i civili si rechino nelle aree protette della nave. Procedete con ordine, fate ciò che vi è stato mostrato nelle esercitazioni. Da ora e fino al termine di questa fase, ordino l’Allarme Rosso. Chase, chiudo».

   Era fatta; le luci in plancia si abbassarono e divennero sanguigne. Le interfacce LCARS presero a pulsare selvaggiamente. E squillò la tradizionale sirena d’allarme, quella che tanti equipaggi avevano udito prima di tante battaglie. In tutta la nave, il personale corse ai propri posti, mentre gli ufficiali della Sicurezza scortavano i civili nelle aree più interne, protette da ulteriori campi di forza.

   «Scudi al massimo e armi in linea» confermò Lantora.

   «Mi dica quando i civili saranno al sicuro» disse Chase. «Nel frattempo... Terry, come va col nostro asso nella manica?».

   «Ho fatto come mi ha ordinato, signore» rispose l’IA. «Ho trasferito alcune Molecole in una micro-camera armonica, abbastanza piccola da stare su un siluro».

   «Chiami Grenk e fatelo» ordinò Chase. «Usate un siluro transfasico, sono i più grossi e schermati».

   Di lì a poco, Lantora riferì che tutti i civili erano nelle aree protette. Subito dopo Terry confermò che il siluro era pronto.

   «Speriamo di non doverlo mai usare» mormorò Chase.

   «Curioso... voi Organici realizzate armi sempre più potenti, e poi vi augurate di non farne uso» constatò Terry.

   «Una volta lo chiamavamo deterrente nucleare» rispose Chase tristemente. «Speravamo che quei tempi fossero finiti, ma... temo che non finiranno mai».

   «Capisco, signore. Siamo pronti a partire».

   «Allora energia».

   Ai comandi di T’Vala, l’Enterprise si diresse al cuore della Macchia di Rovi, dove le anomalie rossastre ribollivano senza posa.

 

   Per mezz’ora procedettero senza problemi, a parte i frequenti scossoni. Poi, di colpo, squillarono gli allarmi e la nave si scosse con maggior violenza.

   «Le anomalie si sono rafforzate, la mia griglia EPS si sovraccarica» avvertì Terry. «Dobbiamo invertire la rotta».

   «No, prosegua» ordinò Chase.

   «Capitano!» protestò Navarro, che stavolta aveva l’equipaggio di plancia dalla sua. Molti guardavano Chase come se lo credessero impazzito.

   «Ritengo che stiamo attraversando la barriera occultante che circonda le Sfere» rispose Chase, un po’ pallido. «Durerà poco, poi le cose miglioreranno».

   «E se non lo facessero?» chiese Ilia, con voce grave.

   «Signore, abbiamo già percorso una distanza dieci volte più ampia delle barriere occultanti» informò Terry.

   «Questo è troppo!» esclamò Navarro, mentre la nave tremava paurosamente. «Come Consigliere di bordo, devo vigilare sulla salute mentale di tutti gli ufficiali... incluso il Capitano. Lei soffre di un’ossessione patologica, che pregiudica la sua capacità di comandare la nave!» accusò.

   «Sono perfettamente lucido. Lei piuttosto, stia al suo posto!» gridò Chase, tenendosi ai braccioli mentre la nave sussultava.

   «Concordo con il Consigliere... lei sta dando prova di atteggiamento ossessivo/compulsivo. Così mette in pericolo la nave e gli occupanti» intervenne Terry. Si alzò in piedi, mantenendo miracolosamente l’equilibrio, mentre gli altri dovevano reggersi alle consolle per non cadere a terra. «Sono spiacente, ma devo ottemperare al regolamento della Flotta Stellare, articolo 15 comma 21, e sollevarla dal comando».

   «Lei non solleva nessuno da niente, saputella!» ringhiò Chase. Ma sapeva che era inutile: Terry poteva bypassare i controlli del timone e invertire la rotta. E nessun discorso poteva farle ignorare le regole con cui era stata programmata.

   «Capitano, da questo momento lei è ufficialmente sollevato dal...» dichiarò Terry, ma si bloccò prima dell’ultima parola. Gli scossoni erano cessati e i suoi sensori indicavano una notevole riduzione delle anomalie. Era come stare nell’occhio del ciclone. E al centro di quella zona quasi calma c’era... Terry ricontrollò i dati dieci volte, nella successiva frazione di secondo. Ma i suoi circuiti erano così stressati che dovette girarsi fisicamente e fissare anche lei lo schermo principale.

   «Abbiamo superato la barriera occultante, Capitano» mormorò.

   «Grazie dell’informazione» disse Chase, con un sorriso sarcastico, ma tornò subito serio. Si alzò dalla poltrona e si avvicinò allo schermo, per cogliere più dettagli.

   Davanti a loro campeggiava un planetoide artificiale. La sua immensa struttura, ancora incompiuta, lasciava vedere l’interno. Era cavo e il guscio pareva molto sottile in rapporto al diametro. La superficie interna sembrava abitabile, come in una Sfera di Dyson. Due immensi generatori energetici ai poli proiettavano raggi violetti verso il centro. Incontrandosi i raggi generavano un sole artificiale, che irradiava luce gialla abbagliante. Era una struttura titanica e sebbene fosse ancora in costruzione era chiaro che emetteva molta energia. Tutti, in plancia, la fissarono a occhi sgranati, sebbene il suo bagliore ferisse gli occhi.

   «Impossibile...» mormorò Navarro, con voce rauca.

   «Inevitabile» corresse Chase. «Mi ricorda la Sfera di Dyson» aggiunse, rammentando la sua prima missione sull’Enterprise-I, quando aveva esplorato la megastruttura abbandonata. «Quant’è grande?» chiese con la bocca secca.

   «Elaboro» rispose Terry. «Il planetoide ha 250 km di diametro ed è chiaramente di origine artificiale» disse un secondo dopo. «La crosta è spessa 5 km e contiene decine di livelli abitativi».

   «Quindi è molto più piccolo della Sfera di Dyson» commentò Ilia, che si era alzata e avvicinata agli altri due.

   «Migliaia di volte più piccolo... ma resta comunque una delle maggiori strutture artificiali conosciute» puntualizzò Terry.

   «Esamini il generatore al centro» ordinò Chase. «E polarizzi un po’ lo schermo, o qui restiamo tutti abbagliati».

   «Già fatto, ma... aumento la polarizzazione del 50%» disse Terry. La luce scese a livelli tollerabili. «Quel generatore non è un sole artificiale per illuminare l’interno» disse poi l’IA. «O almeno non è il suo scopo primario. Sta emettendo enormi quantità di radiazioni gravimetriche. Le letture dentro la Sfera sono fuori scala».

   «Noi siamo al sicuro?» chiese Lantora.

   «Per adesso sì... le letture si affievoliscono in questa bolla di spazio dove ci troviamo, ma salgono nella barriera occultante e in altre zone della Macchia di Rovi. Non so come sia possibile» ammise Terry.

   «È possibile se si seguono leggi fisiche diverse da quelle del nostro Universo» corresse Chase.

   «Quindi aveva ragione, Capitano. È da lì che emanano le anomalie» disse Lantora, corrucciato. Aveva sperato fino all’ultimo che non fosse così. Ma ora capiva che sarebbe toccato proprio a lui andare contro gli esseri che i suoi antenati avevano venerato.

   «Terry... la struttura è incompiuta, vero? Guardi lo scheletro esposto, le travature... non può essere il suo assetto definitivo» disse Chase, colto da un’intuizione agghiacciante.

   «No, signore. Rilevo miliardi di droni sulla superficie, che stanno procedendo con la costruzione» confermò Terry.

   «Me li faccia vedere».

   Lo schermo cambiò; l’immagine della Sfera fu sostituita da un’inquadratura molto più ravvicinata. Il guscio esterno brulicava di robot simili a insetti, che si muovevano in perfetta sincronia, lavorando ininterrottamente all’immane progetto. Chase notò che alcuni robot erano persino capaci di replicarsi, costruendo dei loro simili, che si mettevano immediatamente al lavoro.

   «Sembra di guardare un termitaio» commentò T’Vala, disgustata.

   «Rilevo almeno cinquanta diversi tipi di droni, estremamente variabili per forma e dimensione» disse Terry. «Ogni tipo sembra specializzato in alcuni compiti».

   «Quanto ci avranno messo a costruire la Sfera?» chiese Lantora.

   «Con il ritmo attuale, approssimativamente cinquant’anni» rispose Terry. «Ma ritengo che all’inizio i droni fossero meno numerosi e che di conseguenza i lavori si protraggano da più tempo. Forse un secolo» ipotizzò.

   «E in quanto la completeranno?» chiese ancora Lantora.

   «Meno di cinque anni».

   «Terry... quanta energia crede che emetterà quella Sfera, quando lavorerà a pieno regime?» chiese Chase, formulando la domanda che lo terrorizzava.

   «Elaboro. Difficile dirlo; i miei dati sono incompleti, posso fare solo ipotesi» ammise Terry.

   «Ci vanno bene anche le sue ipotesi» commentò Ilia. Stava cercando affannosamente qualche memoria del Simbionte che potesse aiutarli in quel frangente, ma... niente. In nessuna delle sue vite passate si era dovuta confrontare con qualcosa del genere.

   «Ritengo che, a pieno regime, la Sfera emetterà dalle quaranta alle cinquanta volte più energia» rispose Terry. In plancia cadde un silenzio raggelato.

   «Danni stimati?» chiese il Capitano.

   «La Macchia crescerà del 4000%, inglobando un terzo dello spazio federale e di quello Klingon» rispose Terry. «I pianeti centrali della Federazione saranno inglobati e distrutti».

   Chase si girò, avvertendo un movimento alle sue spalle. Neelah era in plancia. «Ha sentito?» le chiese.

   «Sì». L’Aenar non poteva impallidire ulteriormente, ma dalla rigidità delle antenne era chiaro il suo shock. «Capitano, può darsi che la Sfera non sfrutti neanche adesso il suo pieno potenziale» disse. «Che accadrebbe se, poniamo, aumentasse le radiazioni del 50%?».

   «Elaboro» disse Terry. «Il pianeta Ba’Ku verrebbe distrutto. Tre pianeti, dodici colonie e trentotto fra avamposti e basi federali intorno alla Macchia sarebbero distrutti».

   «Frell, potrebbe succedere da un momento all’altro!» imprecò Lantora, guardando orripilato lo schermo, su cui campeggiava nuovamente la Sfera. «Capitano, dobbiamo distruggerla subito!».

   «Distruggerla?! Ancora non conosciamo il suo scopo, né se sia abitata!» protestò Navarro. «Quella struttura è certo opera di una civiltà progredita, con cui dobbiamo stringere rapporti pacifici. Un attacco preventivo scatenerebbe un conflitto su vasta scala. Il regolamento della Flotta Stellare vieta esplicitamente ogni...».

   «Al diavolo il regolamento, i Costruttori ci hanno già dichiarato guerra!» esplose Chase. «Sono anni che c’infiltrano coi Parassiti Neurali, cercando di corroderci dall’interno!».

   «La connessione tra Parassiti, Solanae e Costruttori deve ancora essere confermata» puntualizzò Terry, la cui devozione alle regole la portava a parteggiare per Navarro.

   «Intelligenza Artificiale 12-J-4739!» esclamò Neelah, china sulla postazione sensori. «Quella megastruttura non è solo un immenso generatore di anomalie. La sua crosta contiene un’infinità di spazio abitabile, su decine di livelli, ricavati in tutto il suo spessore. Presto quello sterminato spazio abitativo sarà effettivamente abitato. Chi credi che l’occuperà?» chiese retoricamente.

   «I Costruttori di Sfere» disse Chase. «Verranno appena la trasformazione dello spazio sarà completata».

   «E nel frattempo i Parassiti Neurali gli hanno permesso d’infiltrare i loro agenti nella Federazione» concluse Neelah. «Volevano impedirci d’indagare, di arrivare fin qui».

   «È una logica coerente» intervenne T’Vala. «In effetti, se non fosse stato per... l’ossessione del Capitano, non avremmo mai trovato la Sfera». Scrutò Terry, come per indurla a cedere.

   «I miei circuiti logici... accettano questa teoria» disse l’IA, con una breve esitazione. «Quali sono gli ordini, Capitano?» chiese, rimettendosi sull’attenti come se niente fosse successo.

   «Dovremmo distruggere la Sfera» propose Lantora.

   «No, contattiamo gli artefici e apriamo una trattativa» insisté Navarro.

   «Una struttura come quella sarà ben difesa. Un attacco frontale potrebbe fallire» avvertì Ilia. «Forse dovremmo uscire dalla Macchia di Rovi e avvertire la Federazione» suggerì.

   «Uhm... analisi tattica della Sfera» ordinò Chase, rimettendosi a sedere.

   «Gran parte della struttura è protetta da scudi alimentati direttamente dal reattore» disse Lantora, leggendo il rapporto dei sensori. «Ma le zone ancora in costruzione sono indifese. E alcuni punti del generatore sembrano vulnerabili. Qualche siluro ben mirato potrebbe... un momento!» s’interruppe allarmato. «Rilevo bocce da fuoco multiple sulla superficie. Sono centinaia! Si stanno aprendo adesso, prima non le rilevavo».

   «Immaginavo che non saremmo passati inosservati» commentò Chase. «Che possibilità abbiamo?».

   «Signore, quella Sfera ha le capacità offensive di un’intera flotta» disse Lantora, sconfortato. «Ma forse, entrando nella struttura attraverso la parte incompiuta...». In quella l’Enterprise sobbalzò con violenza.

   «Che succede?» chiese il Capitano.

   «Siamo stati agganciati da un potente raggio traente» informò Terry.

   «Come l’Enterprise-I» mormorò Chase, sentendosi il sudore freddo. «Possiamo sganciarci?».

   L’Enterprise si scosse ancora, più forte. «No, signore» rispose l’IA.

   «La nave più potente della Flotta non può liberarsi?!» protestò Chase. «Dove sono finiti i suoi miliardi di terajoules?».

   «Capitano, nemmeno io posso contrastare un generatore grande come un planetoide» rispose Terry, sconfortata. «Se uso tutta l’energia per liberarmi, il mio scafo andrà in pezzi».

   «Capitano, c’è un altro problema» disse Lantora, incupito. «Guardi a dritta!» disse, aumentando la risoluzione dello schermo. Alcune astronavi stavano uscendo dalla megastruttura e venivano dritte verso l’Enterprise. I presenti le contarono: erano dieci.

   «Quelle navi...» ansimò Chase, alzandosi nuovamente. Barcollò verso lo schermo. «Sono identiche a quella che uccise la vecchia Enterprise. Sono Dreadnought dei Costruttori di Sfere». Sì, non poteva sbagliarsi: lo stesso scafo marroncino, a sigaro, con la strozzatura centrale. Le stesse strutture laterali, simili ad ali ripiegate. «Lantora, analisi tattica. Abbiamo sensori migliori della vecchia Enterprise, voglio che penetri la loro schermatura» ordinò.

   «Sì, signore... i sensori quantici riescono a penetrare» disse Lantora, lieto di avere finalmente una buona notizia. «Ogni nave è munita di un potente cannone particellare anteriore. Somiglia molto... alla nostra Sonda» aggiunse con un brivido. «Intendo la sonda Xindi che colpì la Terra».

   «Me l’aspettavo, furono loro a darvi quella tecnologia» rispose Chase. «Che altro?».

   «Ci sono cannoni a particelle più piccoli in altri punti, ma solo il cannone frontale è una minaccia per noi. E comunque direi che possiamo sopportare parecchi colpi» disse Lantora, rincuorato.

   «Possiamo sconfiggere quella flottiglia?» volle sapere Ilia.

   «Abbiamo circa la stessa potenza di fuoco delle dieci navi nemiche combinate. Sarebbe una battaglia incerta» rispose Lantora. «Ma finché quel raggio traente ci aggancia, e le armi della Sfera sono puntate su di noi, non abbiamo speranze».

   «Continuate i rilevamenti sulle Dreadnought» ordinò Chase. Sentiva il cuore battergli sempre più forte, man mano che quelle s’ingrandivano sullo schermo. A che distanza avrebbero aperto il fuoco?

   «Ogni nave imbarca circa cinquemila elementi» informò Terry.

   «Cinquemila? Erano poche centinaia, l’altra volta» si stupì Chase. «Ma è lo stesso modello di nave? Quello lungo due km?».

   «Sì, signore. Però... i segni vitali a bordo sono strani» disse Terry, socchiudendo gli occhi. «Molte centinaia appartengono a specie della Federazione o dei sistemi limitrofi».

   «Devono essere tutti vittime dei Parassiti Neurali» ipotizzò Neelah.

   «E il resto dell’equipaggio?» chiese Ilia.

   «Le loro letture sono strane, quasi... evanescenti. Non ho mai rilevato nulla di simile e mi mancano i confronti in archivio» ammise Terry.

   «Sono i Costruttori» disse Chase, convinto. «Forse sono ancora sospesi fra le due dimensioni. Ma più le radiazioni gravimetriche aumentano, più diventano solidi».

   «Signore, la nave di testa ci contatta» avvisò Grog, l’addetto alle comunicazioni.

   «Vede, Capitano? Vogliono parlarci, non farci del male... deve smetterla di proiettare le sue fobie su di loro...» disse Navarro, asciugandosi il sudore dalla fronte.

   «Anche l’altra volta parlarono, ma solo per dettare le loro condizioni» ricordò Chase. «D’accordo, sentiamo che hanno da dire stavolta. Signor Grog, apra un canale».

   «Sì, Capitano» disse il Ferengi, azionando i comandi con le mani tremanti per la fifa. E finalmente il loro nemico ebbe un volto.

 

   Era umanoide; una femmina, o almeno ne aveva le proporzioni. La pelle era grigiastra e aveva una superficie puntiforme, a buccia d’arancia. Un po’ come i Sulibani, ma con una trama più fine. Gli occhi erano infossati, mentre le orecchie non avevano padiglione esterno. Tutti i lineamenti erano come abbozzati, malgrado si trattasse indubbiamente di un’adulta. Indossava un attillato abito violaceo, quasi nero, attraversato da eleganti ricami color bronzo.

   «Capitano Chase, lei ha violato il nostro spazio» esordì l’aliena. «Il mio popolo ha leggi tassative contro le intrusioni, e quest’area è particolarmente riservata. Venendo qui con una nave armata, lei ha commesso un imperdonabile atto di guerra». Anche la sua voce era femminile, piuttosto flautata nella pronuncia, ma con alcune inflessioni più dure.

   «Vedo che lei mi conosce» notò Chase, nascondendo il disagio che questo gli provocava. «Io invece non conosco né lei, né la sua specie. Per il bene della trattativa dovrebbe presentarsi».

   «Quale trattativa, Capitano?» chiese l’aliena, divertita. «Comunque, se ci tiene... può riferirsi a me come alla Messaggera».

   «Solo Messaggera? Non ha un nome proprio?» chiese Chase, sentendosi un po’ sciocco.

   «Non saprebbe pronunciarlo. E poi la mia gente conserva gelosamente il proprio nome. La chiami superstizione, se vuole» disse l’aliena, con un sorriso che non stemperò affatto la tensione. «Le basti sapere che faccio parte della triade di governo del mio popolo» riprese, più solenne. «Oltre a me c’è la Primaria, la leader suprema che prende le decisioni. Segue la Vate, nel ruolo di consigliera. E infine ci sono io, che ho pieni poteri di rappresentanza presso le altre specie».

   «E il suo popolo, ce l’ha un nome?» chiese il Capitano. «O dobbiamo chiamarvi solo Costruttori di Sfere?».

   «Alcuni di voi ci chiamavano Custodi, un tempo» rispose la Messaggera. Si avvicinò finché il suo volto giganteggiò sullo schermo. Aveva occhi scuri, con riflessi metallici. «Tenente Lantora, dico bene? Il suo avo Degra ci servì bene... finché fu traviato dai nemici della pace. Non si vergogni di lui; cerchi piuttosto di rimediare al male che ha fatto» consigliò.

   «Degra uccise milioni d’innocenti, e ne avrebbe sterminati altri miliardi, se non avesse riconosciuto i vostri inganni» disse Lantora, sfrigolante di collera. «Se lui aprì gli occhi, io non li chiuderò».

   «Parli con me, Messaggera» la richiamò Chase. «Allora, avete un nome o devo inventarmene uno io?» la provocò.

   «Potete chiamarci Tuteriani» rispose la Messaggera a denti stretti.

   «Visto? Non era difficile» commentò Chase.

   «Uhm... torniamo a noi, Capitano. La vostra intrusione nel nostro spazio è imperdonabile» riprese la Messaggera, in tono aspro.

   «Siamo desolati, eccellenza, e le assicuriamo che...» cominciò Navarro, ma Chase l’interruppe bruscamente.

   «No, questo è il nostro spazio; gli invasori siete voi» disse il Capitano. «La Macchia di Rovi si trova nel territorio federale e ne fa nominalmente parte, con l’eccezione di Ba’Ku, che è un nostro protettorato. Voi non venite da questo settore. Né dalla Via Lattea. In effetti non siete nemmeno di questo Universo. Allora, chi è l’invasore?» la canzonò.

   «Noi viviamo qui da un secolo» obiettò la Messaggera.

   «I Ba’Ku e gli abitanti dei pianeti circostanti ci vivono da molto più tempo» obiettò Chase. «Voi li ucciderete tutti con le vostre anomalie. Sapete che accadrà. Sono dieci anni che infiltrate la Federazione coi vostri Parassiti Neurali. Non negate, sappiamo che sono opera vostra! Con quei Parassiti avete distrutto molte astronavi federali, compresa l’Enterprise-I. Avete sequestrato migliaia di nostri cittadini. E ora state costruendo una struttura che può sterminarci. Ma non è la prima volta. Avete già cercato di distruggere la Terra, aizzandoci contro gli Xindi, dopo averli ingannati con false promesse e false minacce!» s’infiammò Chase. «A conti fatti, siete voi che ci avete dichiarato guerra. Lo avete fatto da secoli, senza alcun motivo».

   «Senza alcun motivo?! Capitano, la sua ignoranza sarebbe comica, se la situazione non fosse così tragica» ribatté la Messaggera, scuotendo la testa. «Noi non agiamo per capriccio o per crudeltà gratuita. Ci sono ragioni, se ci siamo comportati così».

   «Sono molto curioso di conoscerle» disse Chase, cogliendo l’occasione. «Cosa vi ha indotti a organizzare il nostro genocidio?!».

   «L’istinto di sopravvivenza» rispose prontamente la Messaggera. «Vede, Capitano, le specie della Via Lattea non si rendono conto della loro fortuna. Avete miliardi di sistemi stellari abitabili, che aspettano solo di essere colonizzati. Avete un’infinità di spazio in cui potreste vivere in pace, eppure continuate a uccidervi per qualche asteroide di dilitio».

   T’Vala s’irrigidì, ricordando com’era morta sua madre. Una piccola disputa locale era bastata per sistemare un ordigno che aveva ucciso un’ambasciatrice, madre di famiglia, e la sua scorta.

   «La Federazione ha posto fine alle guerre tra i suoi membri» obiettò Chase.

   «La prego, mi risparmi la retorica federale» disse la Messaggera seccamente. «Potete anche aver arginato le guerre interstellari, ma non avete eliminato la violenza, anche se i vostri mezzi d’informazione ripetono il contrario» sogghignò. «Il punto, Capitano, è che voi avete un’infinità di spazio. Noi non siamo così fortunati. La nostra dimensione d’origine è molto più piccola della vostra. E più ostile alla vita. Vi si sono sviluppate pochissime specie senzienti. Noi siamo una... e abbiamo dovuto lottare per il poco spazio vitale e le poche risorse a disposizione. Provi a immaginarlo: dei pesci in una piccola boccia, che si sbranano per contendersi le misere briciole di cibo» disse con lo sguardo basso, come persa in chissà quali ricordi. «Ma la lotta ci ha resi più forti!» aggiunse, rialzando gli occhi di scatto. «Siamo riusciti a sopravvivere, mentre altre specie attorno a noi soccombevano. Ora, però, non abbiamo scampo» aggiunse con una nota di disperazione.

   «Perché, che vi succede?» volle sapere Chase.

   «Il nostro Universo sta collassando. Lo spazio si riduce giorno dopo giorno, mentre densità e temperatura aumentano. Presto giungerà la fase finale del Big Crunch. Allora tutta la materia e l’energia si comprimeranno in una singolarità infinitamente densa» rivelò la Messaggera. «Abbiamo previsto questo futuro, siamo certi che arriverà, ma non possiamo in alcun modo impedirlo. Il collasso di un Universo è qualcosa che nessuno potrà mai contrastare» disse angosciata.

   La Messaggera fece una breve pausa, per dare tempo ai federali di assimilare la notizia. Poi riprese, con una nota speranzosa: «I nostri scienziati dicono che forse, dopo la compressione, ci sarà un nuovo Big Bang. Dalle ceneri del nostro Universo potrebbe nascerne uno nuovo. Voglio sperare che sarà così».

   «Per questo volete trasferirvi nel nostro spazio» mormorò Chase.

   «Esatto» confermò la Messaggera. «Non possiamo salvare il nostro Universo, ma possiamo trasferirci nel vostro. È l’unico modo per evitare l’annientamento. Abbiamo trascorso secoli in cerca di una dimensione che potesse accoglierci, ma la nostra fisiologia si è sviluppata in condizioni molto particolari. Esporci ad altre dimensioni provoca la disgregazione dei tessuti e quindi la morte. Siamo come pesci che, per sfuggire alla distruzione della loro boccia, devono saltare in un’altra. Ma tutte le bocce circostanti sono avvelenate» aggiunse tristemente. «Alcuni di noi si stavano rassegnando alla distruzione, quando i nostri scienziati misero a punto le Sfere. Capimmo che potevamo rimodellare lo spazio, adattandolo a noi. Era la nostra salvezza!» s’illuminò.

   «E la nostra morte» obiettò Chase. «Avete distrutto interi pianeti nella Distesa Delfica. L’avete resa un inferno di anomalie, dove i superstiti dovevano lottare per sopravvivere. E adesso... la vostra Super-Sfera è una grave minaccia per la Federazione. Se lei comprende il valore della sopravvivenza, Messaggera, allora capisce che non posso permettervi di procedere».

   «Ma certo che la capisco, Capitano» rispose la Messaggera in tono comprensivo, quasi dolce. «Lei si batte per la sopravvivenza della sua gente. Proprio come faccio io per la mia. Mi spiace che questo ci renda avversari, vorrei che le cose fossero diverse. La mia gente ha trascorso secoli a cercare alternative; se ce ne fossero, stia pur certo che le avremmo percorse».

   «Potevate spiegarci la vostra situazione, invece di attaccarci» notò Chase. «La Federazione ha già accolto popoli costretti ad abbandonare i loro pianeti per le ragioni più disparate. Come ha detto lei stessa, c’è molto spazio nella nostra Galassia. Potevamo trovare un modo pacifico di coesistere».

   «Infatti è così che avremmo voluto procedere» rivelò la Messaggera. «Ma vede, noi possediamo una... tecnologia molto particolare. Possiamo scrutare le linee temporali future e distinguere le più probabili. È così che abbiamo compreso l’inevitabile distruzione del nostro Universo. Tutte le linee temporali portavano invariabilmente al Big Crunch».

   «E quindi?» chiese il Capitano.

   «Quindi abbiamo calcolato che sarebbe successo, se vi avessimo chiesto asilo» rispose la Messaggera, di nuovo tagliente. «E abbiamo scoperto che ce lo avreste negato. Siamo troppo numerosi: non ci avreste concesso lo spazio necessario, sebbene in realtà ve lo possiate permettere. E siamo avanzati tecnologicamente, per cui ci avreste temuti. Il vostro Quadrante si regge su un equilibrio politico di vecchia data; non avreste rischiato di scombinare tutto per accoglierci.

   Ecco perché abbiamo dovuto celare le Sfere con barriere occultanti e fare tutto in segreto. Mi spiace, Capitano... in altre circostanze non avremmo mai fatto nulla del genere. Ma siamo stati costretti. La Primaria, la Vate e io dobbiamo pensare anzitutto al nostro popolo. Se per questo dobbiamo sacrificarne altri... ebbene, lo faremo. Con la morte nel cuore e il biasimo di molti dei nostri, ma lo faremo» dichiarò, respirando a fondo. «Ora capisce perché devo distruggere la sua astronave: non posso permettervi di dare l’allarme» concluse.

   «Le Dreadnought si preparano a sparare!» avvertì Lantora. «Anche le armi sulla Sfera. E quel raggio traente ci tiene sempre agganciati».

   Chase si sentì perduto. L’Enterprise era la nave più potente della Flotta, ma gli effetti combinati delle anomalie e del fuoco nemico non lasciavano scampo, per non parlare di quel maledetto raggio traente che li immobilizzava. Se avessero potuto muoversi, sarebbe stato ben diverso. Come poteva ribaltare la situazione?

   «Aspetti un momento!» esclamò Chase, andando verso lo schermo, dove campeggiava ancora il volto della Messaggera. «Non so come abbiate calcolato la nostra risposta, ma dovete riconsiderare. La Federazione esiste apposta per offrire una soluzione pacifica ai conflitti. Se accettaste una trattativa...».

   «La vostra Federazione è troppo vecchia e incancrenita per fare il suo dovere!» tagliò corto la Messaggera. «Non che sia mai stata una risposta efficace ai vostri problemi. Ma non lo vede? Avete costruito una nuova nave per darci battaglia, eppure l’avete riempita di civili! Ormai l’unico modo per portare la vostra gente nello spazio è farle dimenticare dove si trova, offrendole tutti gli agi della vita sui pianeti. Lo vede, Capitano? La vostra unione vi ha indeboliti. E la debolezza è fatale in tutti gli Universi» avvertì.

   «Ma la scomparsa dell’Enterprise non passerà certo inosservata» notò Chase. «Se non torniamo, la Federazione manderà un’intera flotta a investigare. La vostra base segreta non resterà a lungo tale».

   «Una conseguenza deplorevole, ma inevitabile» ammise la Messaggera. «Quando avrò richiamato altre navi a proteggerla, la nostra struttura sarà al sicuro da ogni attacco».

   «Non ci conti. Ma non deve finire per forza così. Siamo ancora in tempo a evitare un conflitto» insisté Chase, che stava formulando un piano disperato.

   «Cosa propone?» chiese la Messaggera, scettica.

   «Incontriamoci di persona e cerchiamo un compromesso» disse Chase, lanciando l’esca.

   «Sarebbe a dire qualcosa che scontenterà ambo le parti» sogghignò la Messaggera. «Tipica logica federale. Ma dove crede che potremmo incontrarci, Capitano? Il mio spazio è letale per lei, come il suo lo è per me; non possiamo neanche sederci allo stesso tavolo! A meno che... uhm, in realtà c’è un terreno d’incontro» si corresse, mentre un sorriso inquietante si disegnava sul suo volto grigio.

   «Mi dica» la sollecitò Chase, che in realtà sapeva benissimo dove sarebbe andata a parare. Era proprio lì che voleva portarla.

   «Vede, esiste una sorta di... zona neutrale dove io e lei potremmo anche stringerci la mano, senza che uno dei due si disintegri» disse la Messaggera.

   «Sembra perfetto; dove si trova?» chiese il Capitano, fingendosi ignorante.

   «Capitano, temo che l’esatta natura di quel luogo oltrepassi la sua comprensione» rispose la Messaggera, divertita. «Lo pensi come una bolla di subspazio, un luogo intermedio fra le dimensioni. Non fa parte né della sua, né della mia... ma può condurre a entrambe, come una camera stagna. Noi lo chiamiamo Collettore Subspaziale».

   Era quel che Chase immaginava, il luogo dei suoi incubi. Ma adesso al terrore si accompagnava una scintilla di speranza. «Sembra perfetto. Immagino che non sia un fenomeno naturale» suggerì.

   «No di certo» confermò la Messaggera. «Lo abbiamo creato noi, come osservatorio da cui scrutare le varie dimensioni, in cerca di una che potesse accoglierci. Sfortunatamente le bolle più grandi diventano instabili. E anche mantenere quella ci costa molta energia. Altrimenti avremmo trasferito lì il nostro popolo. È solo uno strumento temporaneo, finché non avremo una soluzione ai nostri problemi».

   «Se è una vostra creazione, difficilmente posso considerarlo un terreno neutro» obiettò Chase, fingendo di esitare. «Sarà pieno di vostri soldati».

   «Non esattamente» corresse la Messaggera. «È un laboratorio attrezzato da un’altra specie nativa del nostro Universo. Voi li chiamate Solanae» rivelò.

   Gli ufficiali di plancia si scambiarono occhiate tese. Quella era la prima conferma del legame fra i Costruttori – o Tuteriani, come si erano definiti – e i Solanae. E quindi della loro responsabilità nelle infiltrazioni dei Parassiti Neurali. Terry stava registrando la conversazione, anche se dubitava di poterla trasmettere al Comando di Flotta.

   «Quegli esseri sono al vostro servizio?» volle sapere Chase.

   «In un certo senso» rispose la Messaggera, con un altro dei suoi sorrisetti inquietanti. «Millenni fa erano nostri rivali, in lotta per le magre risorse del nostro Universo. Noi li sconfiggemmo, alterando geneticamente i pochi superstiti. Ora sono fedeli a noi e costituiscono una casta scientifica. Molte delle nostre tecnologie più sofisticate sono opera loro. Il Collettore stesso è un loro progetto».

   «Come lo sono i Parassiti Neurali» disse Chase, rigido.

   «Lei è sorprendentemente ben informato, Capitano» riconobbe la Messaggera. «Sarà merito della sua prima visita, deve averle acceso l’interesse».

   «Sta dicendo che...».

   «Sì, Capitano Chase. Lei è già stato nel Collettore Subspaziale, dieci anni fa» confermò la Messaggera.

   «Lo ricordo come fosse ieri. Fu la vigilia della distruzione dell’Enterprise-I» disse Chase, fissando la Tuteriana con disgusto.

   «Abbiamo investigato anche noi su quello sfortunato incidente» disse la Messaggera. «E sappiamo che lei è l’unico superstite. Si rende conto che, se non avesse opposto resistenza in plancia, tutti i suoi colleghi sarebbero ancora vivi?».

   «Sarebbero schiavi dei Parassiti e avrebbero danneggiato la Federazione ancor più gravemente!» ribatté Chase, trattenendo a stento la collera. «Ho fatto il mio dovere, per la Federazione ma anche per loro. So che avrebbero preferito la morte, piuttosto che vivere da schiavi».

   «Affermazione buffa, considerando che siete sempre schiavi di qualcosa» commentò la Messaggera, divertita. «Quando buttate la schiavitù dalla porta, la reintroducete dalla finestra, magari in forma più chic. I ponti ologrammi, il successo, le vostre meschine ossessioni elevate al rango di diritti... alla fine, siete sempre schiavi di voi stessi».

   «Non è di questo che dobbiamo discutere» tagliò corto Chase. «Se vengo nel vostro Collettore, chi mi garantisce che non cercherete di uccidermi, o d’infettarmi coi Parassiti? Dopotutto avete già manifestato la propensione all’inganno».

   «Se voleva garanzie, Capitano, è venuto nel posto sbagliato» rispose prontamente la Messaggera. «Lei mi ha proposto di trattare e io le ho indicato l’unico luogo in cui possiamo farlo. È libero di rifiutare. Ma in tal caso, la distruggerò con tutta la sua nave» minacciò.

   «Mi dia qualche minuto, devo discuterne coi miei ufficiali».

   «La vostra patetica catena di comando!» sbottò la Messaggera. «Avete un quarto d’ora per decidere, non un secondo di più. Vi richiamerò io». La Tuteriana svanì dallo schermo, su cui ricomparvero le Dreadnought e la Super-Sfera, che spiccavano sullo sfondo infuocato delle anomalie.

   «Congratulazioni, Capitano» disse Navarro, con un sospiro di sollievo. «Ora che i Costruttori hanno acconsentito a trattare, tutto si sistemerà...».

   «Niente affatto» disse Ilia, preoccupatissima. «Se va in quel Collettore la uccideranno, o la infetteranno coi Parassiti... l’ha detto lei stesso».

   «Le probabilità che accada sono del 99,99%» rincarò Terry.

   «Grazie della precisione, Terry. Ma so a cosa vado incontro» assicurò Chase. «Ricordate che sono già stato a bordo».

   «Stavolta non la rimanderanno via» ammonì Lantora.

   «Signori, condivido le vostre preoccupazioni... ma che alternative abbiamo?» chiese il Capitano. «Se non vado, distruggeranno l’Enterprise. A meno che le sue stime tattiche non siano cambiate, Terry» aggiunse con una lievissima speranza.

   «In effetti lo sono, Capitano» rispose l’IA. «Ho calcolato che un attacco concentrato con i raggi anti-polaronici dovrebbe mettere fuori uso il loro raggio traente».

   «Quindi possiamo liberarci?» chiese Lantora, speranzoso.

   «Sì, ma sfortunatamente non conosco la velocità delle Dreadnought nemiche» rispose Terry. «Se hanno la transcurvatura, ci saranno addosso e ci distruggeranno prima che usciamo dalla Macchia».

   «E il propulsore cronografico?» suggerì Ilia. «Quello può trasferirci altrove all’istante. Potremmo tornare direttamente nel sistema solare».

   «Il propulsore cronografico usa comunque il subspazio» le ricordò Terry. «Con tutte le anomalie che ci circondano, abbiamo solo una possibilità su diciotto trilioni di non disintegrarci».

   «Allora dobbiamo fuggire con la cavitazione» concluse Ilia. «Se anche le Dreadnought ci raggiungessero, potremo affrontarle lontano dalla Sfera, dove le anomalie sono minori».

   «No. Se vogliamo vincere, dobbiamo distruggerla» affermò Chase, indicando la megastruttura sullo schermo. «Così Ba’Ku e gli altri mondi saranno al sicuro. E senza le anomalie potremo usare le tecnologie che ci avvantaggiano sul nemico, come l’occultamento».

   «Sono d’accordo, Capitano: quella struttura deve essere distrutta» intervenne Lantora. «Se non lo facciamo subito, i Tuteriani potrebbero inviare milioni dei loro civili a viverci, creandoci un problema etico».

   «Prima ha detto di aver individuato dei punti vulnerabili nella struttura...» ricordò Chase, che stava ragionando in fretta su un piano disperato.

   «Ne ho trovati altri. Posso lanciare salve di siluri, ciascuno con una rotta già programmata verso il punto critico da distruggere» spiegò Lantora. «Purtroppo molti sistemi della Sfera sono ridondanti. Per distruggerli tutti serviranno decine di colpi. Possiamo farcela, signore... ma ci vorrà un po’».

   «Ci sono troppe variabili» commentò Chase, camminando avanti e indietro sul ponte, come era solito fare Archer. «Va bene, ho deciso. Andrò nel Collettore e tenterò di mediare un accordo... anche se non scommetto un soldo bucato sul buon esito».

   «Capitano, no!» insorse Ilia.

   «È solo un modo per accedere al Collettore» spiegò il Capitano. «Vi andrò col mio shuttle personale, l’Auriga. È una... manica abbastanza larga da nascondervi il nostro asso» aggiunse, lanciando uno sguardo d’intesa a Terry.

   «Signore, è una missione suicida. Non posso permetterlo!» insisté Ilia.

   Chase la fissò per un attimo negli occhi verde-azzurri. Adesso sapeva come si era sentito Archer, quando era andato a distruggere la Superarma Xindi con due siluri fotonici, su una navetta Insettoide rubata. «Questi sono i miei ordini, Comandante. Le affido l’Enterprise, confidando nella sua esperienza per portarla fuori da questa trappola» le disse.

   Si rivolse poi a tutta la plancia. «Approfittate del tempo che potrò darvi. Lantora, Terry... coordinatevi con Grenk. Tenetevi pronti a liberare l’Enterprise e a colpire la Sfera nei suoi punti vulnerabili. Se rilevate una forte esplosione nel subspazio, o se in qualunque momento vi sembra di avere un vantaggio tattico, colpite! E dite a Korris di somministrare a tutti quel composto per tenerci coscienti, se fossimo colpiti dalle anomalie».

   «Capitano, è illogico che lei vada da solo» disse T’Vala, alzandosi. «Chiedo di poterla accompagnare».

   «Tenente, si tratta di una missione disperata» obiettò Chase. «Dov’è la logica, nel mandare due persone invece di una?».

   «Se ho ben inteso, signore, lei intende sabotare il Collettore. Avrà maggiori speranze di successo con una scorta» rispose T’Vala. «Come dice l’antico proverbio, il bene dei molti conta più di quello di uno... o di due. E se Omega esploderà, l’aiuterò a trovare un mezzo di fuga».

   Chase studiò la mezza Vulcaniana. Le ricordava un’altra timoniera, di un’altra Enterprise. Serleen. Erano entrambe così giovani e intraprendenti... ai limiti dell’incoscienza. Era un atteggiamento che poteva costare la vita. E salvarne innumerevoli altre.

   «Richiesta accolta» disse il Capitano. Notò che Navarro, pur avendo caldeggiato fin da subito la diplomazia, non si era offerto. Era nell’ora del pericolo che emergeva la stoffa degli ufficiali. «Meglio così» si disse Chase. Accompagnandolo, il Consigliere avrebbe solo accresciuto le sue preoccupazioni. Il rischio che spifferasse il piano, volontariamente o sotto costrizione, era troppo grande.

   «Signore, non posso lasciarla andare senza almeno un altro ufficiale di scorta» intervenne Lantora. Aggirò le poltrone di comando e si avvicinò al Capitano. «Date le circostanze, mi offro volontario».

   Chase scosse la testa. «No, lei mi serve qui, per liberare l’Enterprise e distruggere la Sfera» rispose.

   «Il mio vice Nalanda può occuparsene» rispose Lantora. «Signore, io sono uno Xindi, e quelli sono i Costruttori. Se c’è un modo in cui posso fare ammenda, è venire con lei».

   «Le ho detto che non è responsabile per le azioni di Degra» spiegò Chase. «Non deve dimostrare nulla, né a me, né alla Flotta».

   «Lo so, Capitano. Ma credo di doverlo a me stesso» insisté Lantora. «Ed è stato lei a dirmi che presto Umani e Xindi affronteranno i Costruttori. Mi sembra un buon modo per cominciare, non trova?».

   Chase esitò. Si era appena reso conto che, malgrado tutte le sue buone parole, non si fidava completamente di Lantora. Chi gli assicurava che, una volta nel Collettore, non sarebbe passato al servizio dei Tuteriani?

   «Che c’è, non mi fido del mio ufficiale perché è uno Xindi? Odio pensare che sia così» si disse Chase. La sua esitazione non dipendeva solo dalla famiglia di Lantora. Gli Xindi si erano fatti manipolare così facilmente, erano partiti con tale determinazione a distruggere la Terra! Poteva aspettarsi che ora lo aiutassero a distruggere i Custodi, i loro antichi dèi?

   «Va bene, verrà anche lei» decise Chase. Se la fiducia non era una sensazione istintiva, doveva essere una sua scelta consapevole. Sperando che Lantora non avvertisse il nemico della bomba.

   «Grazie, signore» disse lo Xindi Primate.

   «Anch’io devo partecipare» intervenne Neelah, che era rimasta silenziosa per un tempo insolitamente lungo, soppesando i pro e i contro.

   «Ehi, adesso non venitemi tutti dietro!» protestò Chase.

   «Siamo solo quattro su diecimila» gli fece notare l’Aenar. «Capitano, ho passato mesi a studiare i Parassiti Neurali. Se va da loro, potrei esserle utile. Inoltre sono un’ottima telepate. Posso aiutarla nella trattativa, sempre che ce ne sia una».

   «Lei è una civile...» cominciò Chase.

   «Capitano, ricorda quando le dissi che poteva contare su di me? Direi che è il momento» osservò la scienziata.

   «E sia!» si arrese Chase. «Verrete tutti e tre. Terry, il nostro asso...».

   «Una delle mie proiezioni isomorfe ha già informato Grenk della situazione. Lo stiamo caricando sull’Auriga» assicurò l’IA. «Stiamo nascondendo la testata, ma non conoscendo il funzionamento dei sensori nemici, non so se possano captarla».

   «Se lo faranno, ci distruggeranno all’istante e tutti i nostri piani andranno in fumo» sospirò Chase. «Celatela meglio che potete. Non deve trapelare nessuna radiazione, nessuna particella».

   «Capitano, la imploro di abbandonare questa parte del piano» intervenne Navarro. «Portarvi dietro una bomba non farà che incollerire i Tuteriani. È contrario allo spirito della...». Tacque all’istante, quando la Messaggera riapparve sullo schermo.

   «Tempo scaduto, Capitano. Ha preso una decisione?» chiese l’aliena.

   «Sì, verrò nel vostro Collettore» rispose Chase. «Ma non intendo usare il teletrasporto. Se abbassassi gli scudi, renderei l’Enterprise vulnerabile alle anomalie... e al vostro attacco».

   «E allora come conta di fare?» chiese la Messaggera.

   «Verrò con la mia navetta personale» rispose Chase. «Avrò due ufficiali di scorta. Con me ci sarà anche la mia Consigliera di bordo» aggiunse, accennando a Neelah.

   «Pretende molto» osservò la Messaggera. Sembrava sul punto di rifiutare.

   «Io farò parte della scorta» intervenne Lantora.

   La Messaggera gli lanciò una strana occhiata, come per valutare i vantaggi. «Allora potete procedere» decise. «Vi stiamo trasmettendo le coordinate del portale attraverso cui accederete al Collettore. Non deviate dalla rotta, o vi distruggeremo».

   «A presto, allora» disse Chase.

   «Al più presto, Capitano. E ricordi: niente scherzi, o il sangue della sua gente ricadrà su di lei» avvertì la Messaggera, e svanì dallo schermo.

   «Dovevo andare io, Capitano» mormorò Ilia. «Sono molto più vecchia di lei».

   «Dax è più vecchio, ma lei è più giovane» ribatté Chase. «E comunque sono io che do gli ordini. Faccia come ho detto, e buona fortuna» raccomandò, posandole la mano sulla spalla. Si guardò attorno con un po’ di rimpianto, imprimendosi nella memoria la plancia e gli ufficiali. Quel comando era durato meno di quanto sperasse, ma vi stava rinunciando per una buona causa. Inspirò a fondo e si diresse verso il turboascensore, seguito dalla sua squadra.

 

   I preparativi furono frenetici. Chase, Lantora, T’Vala e Neelah corsero nell’hangar principale, trovando Grenk che stava ultimando i preparativi dell’Auriga. Una proiezione di Terry era con lui, così come i due Bynari.

   «Ho fatto meglio che ho potuto, Capitano» disse Grenk. «La Bomba Omega è nello scomparto segreto, in mezzo a vari arnesi che dovrebbero impedire di rilevarla. C’è persino un mini-occultamento, anche se non so quanto sarà stabile, nel Collettore. A quanto devo regolare il timer?».

   «Un’ora e mezza» decise il Capitano. «Meno tempo c’impedirebbe di capire se c’è davvero qualche spiraglio di pace».

   «Forse sarebbe meglio un comando a distanza, così avrete più margine di manovra» suggerì Grenk.

   «No, potrebbero rilevarlo» disse Chase, chiedendosi se stava facendo le scelte giuste.

   «Come vuole» disse l’Ingegnere Capo, squadrandolo dubbioso, e rientrò per ultimare i preparativi.

   Nel frattempo Chase contemplò l’Auriga. Erano due secoli che i Capitani delle navi stellari godevano del lusso di una navetta tutta loro... uno yacht, come si diceva scherzosamente. Con il tempo erano diventati sempre più grandi e belli. E quello dell’Enterprise-J era degno dell’ammiraglia.

   Aveva una forma pulita, a punta di freccia, con le gondole quantiche armoniosamente inserite nello scafo. Oltre alla cabina conteneva diversi ambienti, compreso uno scomparto segreto a prua, dove Grenk e Terry stavano calibrando la Bomba Omega. Lo scafo curvilineo era cromato e sfavillava bianco/argento. Gli intensificatori polarici dei legami molecolari lo rendevano resistentissimo. Ma niente contenere l’esplosione di Omega.

   «Fatto, Capitano» disse Grenk, uscendo assieme a Terry.

   «Quando la Bomba esploderà, quanto sarà esteso il danno al subspazio?» l’interrogò il Capitano.

   «L’ho reso minimo, come mi aveva raccomandato» rispose l’Ingegnere Capo. «Il subspazio sarà distrutto in un raggio di due o tre giorni-luce. In quattro giorni a massimo impulso saremo fuori dalla zona colpita».

   «Ben fatto» disse Chase, avviandosi a entrare.

   «Capitano... è proprio sicuro di volerlo fare?» chiese Grenk.

   «Devo. Mi piacerebbe trovare una soluzione pacifica, ma i Tuteriani sono troppo infidi» rispose Chase. «Penso che ci vogliano nel loro Collettore solo per catturarci. Beh, avranno una sorpresa».

   «Allora buona fortuna, Capitano. Bomba o non bomba, io spero di rivederla» disse il Tellarita, stringendogli la mano.

   «Lo spero anch’io, signore» disse Terry. Era così dispiaciuta che la sua proiezione isomorfa ebbe un glitch: per un attimo divenne azzurrina.

   «Tenga insieme la nave. E se ne ha l’occasione, faccia esplodere la Morte Nera là fuori» disse Chase, non resistendo alla tentazione di fare una battuta prima dell’addio.

   «La sua capacità di sdrammatizzare con l’umorismo è sorprendente, Capitano. Così come la sua conoscenza di film arcaici» commentò Terry.

   «Che Capitano sarei, altrimenti?» disse Chase, ed entrò, seguito dalla sua piccola scorta.

 

   L’Auriga si sollevò silenziosamente e attraversò il campo di forze dell’hangar, uscendo nello spazio. «È fatta, ora non si torna indietro» pensò Chase, che pilotava personalmente lo shuttle. Lantora sedeva accanto a lui, nel posto del copilota. T’Vala e Neelah stavano più indietro. La timoniera avrebbe voluto pilotare, ma Chase aveva insistito per farlo lui.

   Dei quattro, la mezza Vulcaniana era la più calma, o almeno ne dava l’impressione. L’Aenar la guardò piena d’invidia. Chiuse gli occhi, cercando di calmare il respiro e il battito cardiaco. Con tutti i suoi potenziamenti genetici avrebbe dovuto riuscirci... invece niente!

   «Che c’è, non ha ancora trovato il bottone genetico per disattivare la fifa?» le chiese telepaticamente T’Vala, accennando un sorrisetto.

   «Potrà anche nascondere la paura, tenente, ma io SO che la prova» ribatté Neelah, sempre con il pensiero. «Tutti i Vulcaniani provano emozioni, per quanto cerchino di soffocarle. E lei è mezza Betazoide!».

   «Quando ho chiesto di venire, non l’ho fatto a cuor leggero» assicurò T’Vala. «Ma una singola vita non può contare più di migliaia di altre» aggiunse. Quella logica vulcaniana fece infuriare ancor più l’Aenar.

   «Parli per sé! Lei è solo una timoniera, mentre io sono una delle più grandi menti scientifiche del secolo!» sbottò telepaticamente la biologa. Né Chase, né Lantora si accorsero del silenzioso bisticcio alle loro spalle.

   «Le coordinate della Messaggera ci stanno portando verso il polo nord della Sfera» commentò Chase. «Non mi azzardo a fare rilevamenti, non vorrei che lo prendessero come un segno ostile. Ma se volete guardar fuori...».

   Lantora si chinò in avanti, verso lo schermo anteriore, mentre T’Vala e Neelah osservarono da una finestra laterale. La megastruttura era vicinissima, ormai. Potevano vedere solo una piccola parte della sua superficie grigia e ricurva. Non era omogenea: più si avvicinavano, più era evidente un reticolo di linee che la ricopriva. Le maggiori corrispondevano a punti di rinforzo della struttura, come i costoloni di un’antica cupola. Le minori avevano forse a che fare con l’emissione di onde gravimetriche. Qua e là si aprivano le bocche da fuoco dei cannoni a particelle. C’erano molte altre strutture: antenne, torri, canaloni. Alcune erano così strane che la loro funzione non era definibile.

   «Guardate là» disse Chase, indicando avanti. In corrispondenza del polo nord della Super-Sfera c’era una grande apertura esagonale. I suoi bordi sfrigolavano di energia bianca e l’interno sembrava un imbuto.

   «Rilevo forti emissioni di onde gravimetriche e particelle esotiche» disse Lantora, leggendo il rapporto dei sensori. «Sembra l’imboccatura di un tunnel spaziale».

   «Somiglia a un fulcro di transcurvatura Borg» commentò Neelah. «Anche se questo porta a una bolla subspaziale».

   «Il ventre della Balena» disse Chase, reprimendo un brivido. L’ingresso esagonale era davanti a loro.

   «Che cosa?» chiese Lantora.

   «È una vecchia espressione terrestre» spiegò Chase. «Si basa sulla storia di Giona, un profeta che viaggiò per mare. All’epoca si usavano fragili imbarcazioni di legno, mosse dal vento o dai remi. Secondo la storia, durante una tempesta Giona finì in mare e fu inghiottito da una balena. Restò nel suo stomaco per tre giorni, dopo di che fu risputato. E giunse a riva, sano e salvo».

   «È scientificamente impossibile» commentò Neelah.

   «Era un miracolo» precisò Chase.

   «Suvvia, non dica parolacce» ribatté l’Aenar.

   «Comunque da allora si dice “ventre della Balena” ogni situazione disperata, specie se c’è una costrizione fisica» concluse Chase.

   «E noi stiamo per saltarle in bocca, alla balena» commentò Lantora, guardando l’apertura a imbuto sempre più vicina. «Capitano, se qualcosa andasse storto... è stato un onore prestare servizio con lei» assicurò, mentre lo shuttle cominciava a sussultare.

   «Ci vediamo dall’altra parte» disse Chase, voltandosi un attimo verso di lui. Poi si concentrò di nuovo sui comandi e diresse l’Auriga dritto nell’imbuto. Verso il luogo, oltre il tempo e lo spazio, in cui l’attendevano i suoi incubi.

 

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Capitolo 6
*** Nel ventre della Balena ***


-Capitolo 5: Nel ventre della Balena
 
   Con molti scossoni, l’Auriga sbucò in una regione di spazio avvolta da un’uniforme luminosità azzurrognola. Sembrava di essere sottacqua, ma la realtà era molto più esotica. Oltre quel bagliore non c’era nulla... nemmeno il vuoto. Non si poteva attraversare. Era come trovarsi dentro un buco nero, una singolarità avulsa dal resto dello spazio-tempo.
   In quel luogo galleggiava una struttura artificiale. A vederla non si capiva quale fosse l’alto e quale il basso. Era un conglomerato di forme geometriche: cubi, parallelepipedi, piramidi. Le superfici erano nere e levigate, gli angoli lievemente smussati. Le linee divisorie tra una sezione e l’altra erano evidenziate da sottili linee rosse.
   Chase tirò un sospiro. «Siamo vivi, per ora. Qualcuno ha idea su dove andare?».
   «Lì si sta aprendo un portello» notò Lantora, indicando un settore della struttura. Era una piramide bassa e larga, la più grande dell’agglomerato. L’hangar si spalancava presso la base.
   «Allora andiamo» disse Chase. Guidò l’Auriga in quella direzione, a velocità minima. Ma ben presto lo shuttle vibrò e i comandi iniziarono a non rispondere bene. «Ci tirano dentro con un raggio traente» comprese. «Spengo i motori; sembra che non ce ne sia più bisogno».
   L’Auriga era sempre più vicino alla piramide, al cui confronto sembrava un insetto. «Notevole... questa piramide alla base ha lati di cinquecento metri» disse Neelah, facendo una scansione da una postazione secondaria. «Nel complesso la stazione ha circa cinque km di diametro, anche se la forma è molto irregolare. Mi sa che non ci sono solo laboratori, là dentro».
   «Non vedo armi, ma potrebbero essere nascoste» disse Lantora.
   «Lo stile è diverso da quello dei Tuteriani» commentò T’Vala. «Potrebbe essere la tecnologia dei Solanae, se l’hanno conservata».
   Lo shuttle varcò l’ingresso, passando attraverso un campo di forza che tratteneva l’aria. Immediatamente il portello si richiuse, oscurando la luce esterna. Ancora un attimo e l’Auriga si posò sul pavimento. Una completa oscurità lo avvolgeva.
   «Adesso sì che siamo nel ventre della balena» mormorò Chase.
   «Capitano, mancano settanta minuti all’ora Omega» disse T’Vala, senza leggere alcun timer.
   «Sessantanove minuti e quarantacinque secondi» corresse Neelah. «Sia più precisa, Tenente».
   «Riuscite a tenere il conto a mente?» si stupì Lantora.
   «Certo. Perché, lei no?» lo punzecchiò Neelah.
   «Sono solo un Primate» rispose Lantora, ironico.
   «Usciamo» disse Chase, alzandosi. «Qualunque cosa accada, mantenete il sangue freddo». Il quartetto lasciò la cabina, si recò al portello e lo aprì. Subito i federali furono investiti da una corrente d’aria fredda. Scesa la breve rampa dell’Auriga, si trovarono in un ambiente buio ed echeggiante.
 
   Per qualche secondo brancolarono nell’oscurità. Poi, attorno a loro, si accesero alcuni sottili pannelli luminosi bianchi. Erano posti negli angoli tra pavimento e pareti, tra pareti e soffitto, persino tra le diverse pareti. Altre sottili linee rosse delimitavano una porta, che si aprì con un sibilo. Ne uscì il comitato di benvenuto.
   In testa c’erano una dozzina di guardie, appartenenti a svariate specie della Federazione. Erano armate in vario modo: phaser federali, disgregatori klingon e romulani. I quattro ufficiali dell’Enterprise compresero che erano vittime dei Parassiti Neurali. Dietro di loro c’erano alcuni Tuteriani di sesso maschile, vestiti di grigio ma apparentemente disarmati. E in mezzo a loro eccola, la Messaggera. Vista di persona, era piccola e non molto impressionante; ma era la terza carica del suo popolo, colei che mandava avanti un secolare piano d’invasione.
   «Benvenuti nel Collettore Subspaziale» li salutò, nel suo tono un po’ ironico. «Vogliate scusarmi, ma devo far perquisire voi e la nave».
   «Certo» rispose Chase, pregando che non trovassero la Bomba Omega. Alzò le mani, imitato a malincuore dagli altri. Le guardie, ovvero le vittime dei Parassiti, li frugarono rapidamente ma con efficienza. Alcune li sondarono con piccoli sensori palmari, simili a tricorder federali. T’Vala sopportò con stoicismo vulcaniano, ma Neelah si guardò intorno con aria omicida, le antenne frementi.
   «Sono puliti» disse il comandante, un Cardassiano. «Passiamo a controllare lo shuttle».
   «Bene. Ma venite, miei ospiti» invitò la Messaggera. «Abbiamo molto di cui parlare... e non voglio che il suo equipaggio s’impensierisca, Capitano».
   «Il mio equipaggio sa badare a se stesso» rispose Chase.
   «E in questo momento sta cercando il modo per liberare l’Enterprise e distruggere la nostra Sfera» sorrise la Messaggera. «Ma è fatica sprecata. Abbiamo calcolato che, finché permangono le attuali condizioni, la vostra nave non può vincere».
   «Vedo che non potete fare a meno di mandarci contro la nostra gente» commentò Chase, accennando alle guardie. Metà di loro erano rimaste con l’Auriga, ma le altre sei li stavano scortando lungo il corridoio.
   «Sì, è molto pratico» riconobbe la Messaggera. «Avrà notato che siamo una specie pragmatica, Capitano: facciamo il necessario per garantirci un futuro. Ma non creda che mandiamo avanti gli altri perché temiamo di sacrificarci. Noi Tuteriani siamo disposti a correre pericoli e persino ad affrontare la morte, quando occorre».
   «Me lo dimostri» disse Chase.
   «Perché no? Mi segua» convenne la Messaggera, inaspettatamente disponibile. Guidò i federali lungo i corridoi, mentre le guardie li tenevano sotto tiro, chiudendo il gruppo. Percorsero vari ambienti, tutti dello stesso metallo nero e lucido, con gli angoli evidenziati da linee luminose. Infine giunsero a una sala lunga e stretta. Su uno dei lati maggiori c’era una serie di portelli rotondi, chiusi da aperture a diaframma. Sembrava una camera di lancio per sonde o siluri.
   «Che luogo è questo?» chiese il Capitano.
   «Un luogo di sacrificio, come le dicevo. Guardi!». La Messaggera azionò alcuni comandi sulla parete, aprendo uno dei diaframmi. Dentro c’era qualcosa di simile a un guscio di salvataggio. Era cilindrico, con le estremità bombate. Lo scafo color bronzo sembrava molto spesso ed era percorso da un reticolo di linee, simili a quelle che coprivano le Sfere.
   La Messaggera premette altri comandi. Il guscio venne indietro, percorrendo una rotaia che gli permise di scorrere del tutto fuori dal tubo di lancio. Senza dire una parola, i Tuteriani aprirono l’estremità anteriore.
   Chase e i suoi ufficiali si avvicinarono, meravigliati. Davanti a loro c’era quello che finora avevano visto solo in vecchie fotografie del XXII secolo. Dal guscio uscì un cilindro più piccolo e trasparente, dentro cui vi era un intrico di fili, simili a fibre ottiche. I fili collegavano un pannello giallastro al corpo di un Tuteriano morto. Era nudo e il suo corpo sembrava tutto fratturato, con la pelle spaccata in più punti. Pareva un antico dipinto a olio, con la superficie screpolata.
   «Lo vede, Capitano? Questo è ciò che accade al nostro organismo, se resta esposto al vostro spazio» disse la Messaggera. «I tessuti si disintegrano e dopo atroci dolori sopraggiunge la morte. Per questo dobbiamo riplasmare lo spazio. Ma dobbiamo anche capire se è pronto, prima d’inviare la nostra gente a colonizzarlo. Così dei coraggiosi si offrono volontari per questo tipo di missione, conoscendo i rischi. Come ha fatto costui».
   «L’avete mandato nello spazio, tutto solo dentro questo guscio, per vedere se sopravviveva» disse Chase. «So che facevate lo stesso anche nella Distesa Delfica. Usate la vostra gente come i minatori usavano i canarini».
   «Noi onoriamo i nostri caduti, Capitano» corresse la Messaggera. «Come le ho detto, i soggetti degli esperimenti sono volontari. E se percepiamo che i loro segni vitali precipitano, andiamo a salvarli. Di solito li recuperiamo in tempo. Ma a volte capitano degli incidenti, come questo. Ora capisce quanto sia pressante il nostro bisogno?» chiese.
   «Avete provato a cercare altre dimensioni? Luoghi in cui il vostro organismo non si disintegri, e dove non dobbiate distruggere gli abitanti?» domandò Chase.
   «Se ci abbiamo provato? Abbiamo sprecato secoli cercando una dimensione più accogliente!» replicò la Messaggera, con una risata amara. «Le pare che avremmo fatto tutti questi sforzi per occupare la vostra, se avessimo trovato un’alternativa migliore? Venga, le mostro un’altra cosa».
   La Messaggera guidò il gruppo per altri corridoi e stanze, salendo anche di livello con un ascensore. Durante la camminata, Chase si avvicinò a Neelah, ricordando che il suo livello ESP superava persino quello di T’Vala. «Dice la verità?» chiese, accennando alla Messaggera.
   «Mi spiace, ma tutti i Tuteriani hanno una mente impermeabile alla telepatia» bisbigliò Neelah, che da un pezzo cercava di sondare i loro pensieri. «Sono opachi, non riesco a leggere nulla».
   Chase non rispose, per non attirare l’attenzione dei Tuteriani; ma era stato un brutto colpo. Di lì a poco giunsero a un vasto salone sferico, come una bolla che tagliava molti piani. Una sottile passerella metallica portava a una pedana circolare, sospesa nel vuoto. Non c’erano ringhiere protettive. Tutt’attorno le pareti scure somigliavano a quelle di un ponte ologrammi. I Tuteriani e i federali percorsero la passerella, in fila indiana, e si raggrupparono nella piattaforma, sospesa al centro del salone.
   «Guardate!» disse la Messaggera, armeggiando con dei comandi olografici proiettati da terra. «Questa è la nostra dimensione d’origine».
   Lo spazio attorno a loro sbiancò di colpo e sembrò allargarsi. Ora si trovavano avvolti da un biancore lattiginoso, come nebbia. Alcuni Tuteriani, che facevano parte della simulazione, si muovano attorno a loro. Camminavano su più livelli, ma non era chiaro su cosa poggiassero i piedi. A volte sparivano, per riapparire a breve distanza, senza che si capisse come avevano fatto.
   «È tutta così?» si meravigliò Lantora. «Come avete fatto a evolvervi? E come avete costruito i vostri marchingegni?».
   «Queste sono informazioni riservate» rispose la Messaggera. «Posso solo dirvi che la nostra dimensione è prevalentemente così».
   «Anche la nostra dimensione è quasi tutta spazio vuoto» osservò Neelah. «La densità media dell’Universo è di un atomo per metro cubo».
   «Quella è la Vate, il secondo elemento della nostra triade governativa» disse la Messaggera, indicando una Tuteriana olografica che le passava accanto. Aveva un vestito identico al suo, ma di colore giallo dorato, con ricami anch’essi color oro. «La sua funzione è analizzare le linee temporali, prevedendo quelle più probabili, e riferire».
   «E la Primaria?» chiese il Capitano.
   «È lì» disse la Messaggera, indicando una Tuteriana più alta e magra delle altre. Il vestito e i ricami erano azzurri, punteggiati da macchioline blu scuro. «La sua funzione è ascoltare i nostri consigli, prendere le decisioni e impartire gli ordini».
   «Uhm, sì» ricordò Chase. «Prima che l’Enterprise-I fosse distrutta, il suo capitano – una vittima dei Parassiti – disse che la Primaria aveva ordinato d’intensificare la trasformazione dello spazio. Allora non capii, ma adesso è chiaro».
   «Prima avete accennato ad altre dimensioni...» intervenne Lantora.
   «Sì. Ne abbiamo esplorate molte, prima di rassegnarci a occupare la vostra» confermò la Messaggera. «Purtroppo la maggior parte non è abitabile da noi e dalle poche vivibili siamo sempre stati respinti. Per esempio, gli Undine ci hanno scacciati dallo Spazio Fluido dopo una lunga guerra».
   Con queste parole, la Messaggera azionò un comando che attivò un’altra simulazione. Ora i presenti galleggiavano in quello che sembrava un liquido organico, diviso in zone verdi e giallastre. Un Universo dominato dalla biologia, invece che dalla fisica. Da un lato comparvero le Dreadnought dei Tuteriani, dall’altro le bionavi degli Undine. Le due flotte si diedero battaglia. Le bionavi erano molto più piccole delle Dreadnought, ma più numerose e maneggevoli. Sciamavano attorno alle grosse navi degli invasori come insetti letali. Le loro armi anteriori scagliavano raggi disgreganti simili a fulmini, che passavano gli scudi delle Dreadnought e squarciavano i loro scafi.
   Chase pensò a quando, nel 2373, gli Undine avevano mosso guerra ai Borg. In quell’occasione avevano quasi messo in ginocchio la Collettività, distruggendo decine di pianeti e migliaia tra Cubi e Sfere. Sì, gli Undine erano decisamente bravi a difendersi dagli invasori. Il Capitano vide che alcune bionavi si mettevano in cerchio, con un vascello più grande al centro. Le otto navi ai lati concentrarono l’energia su quella centrale, che l’accrebbe e la indirizzò in avanti. Una Dreadnought fu vaporizzata all’istante. Poi un’altra e un’altra ancora. Gli Undine erano molto efficienti.
   «Un Distruttore Planetario» riconobbe Lantora, esperto di navi da guerra. «Quelle bionavi in formazione possono distruggere un intero pianeta. Non mi sorprende che vi abbiano respinti».
   «L’esperienza ci ha permesso d’affinare armi e tattiche, quindi in definitiva ci ha resi più forti» ribatté la Messaggera. «E ora guardate!».
   La scena cambiò ancora. Un drappello di soldati Tuteriani esplorava un ambiente alieno, simile a un acquitrino. D’un tratto dalle paludi si levarono strane creature verdi-azzurre. Avevano un aspetto vagamente insettoide, con un esoscheletro duro, ma due soli arti. Pur non avendo ali, in qualche modo riuscivano a volare, ed erano velocissimi. Comunicavano tramite fischi striduli, assai sgradevoli. Attaccarono gli esploratori Tuteriani mettendoli in fuga, inseguendoli persino. Non appena erano sfiorati da quei mostriciattoli, i Tuteriani crollavano a terra morti, con i corpi mummificati, prosciugati da tutti i liquidi.
   «Ho studiati i resti biologici di quegli esseri» disse Neelah. «L’Equinox e la Voyager li incontrarono nel Quadrante Delta. Possono lasciare la loro dimensione solo per pochi secondi. Se non riescono a tornarci, sfruttando piccole brecce, muoiono come pesci fuor d’acqua».
   «La loro dimensione sarebbe adatta a noi, ma sfortunatamente ne è infestata» sospirò la Messaggera. «Nel corso dei secoli abbiamo visto gli Universi più folli. Guardate questo!».
   Un nuovo cambio di scena portò a un’altra dimensione, composta da un’infinità di prismi iridescenti in perenne movimento. Era una visione psichedelica, allucinatoria. «Questa non sarebbe male... se solo vi fossero mezzi di sostentamento» commentò la Messaggera. «Purtroppo non c’è modo di colonizzarla. Tutte le risorse devono essere importate e non possono essere replicate in loco, quindi sono destinate a esaurirsi. Ora capite l’enormità del nostro problema?» chiese sconsolata. «Esistono innumerevoli dimensioni, ma noi possiamo accedere solo ad alcune, e anche quelle hanno sempre qualcosa che non va. Una pecca fatale che c’impedisce di occuparle stabilmente. Il Continuum Q, per esempio, è popolato da entità quasi onnipotenti, che ci hanno respinti con uno schiocco di dita. Ci siamo affannati per secoli, cercando un’alternativa. Abbiamo scoperto dimensioni splendide, che tuttavia ci restano precluse. E altre colme d’oscurità, terrore e miseria. Luoghi cupi, consumati da orrori più antichi del tempo!».
   Così dicendo la Messaggera mostrò un’ultima realtà, che pareva uscita dall’incubo di un pittore astratto. Era formata da globi grandi e piccoli, uniti da cordoni, come i neuroni all’interno di un cervello umano. Avevano tinte forti, spiacevolmente contrastanti. Le superfici erano in continua trasformazione: ribollivano, fremevano, formavano villi. Avevano un aspetto infido, da sabbie mobili. Tutto, in quella dimensione, era corrugato e malvagio. E là in fondo si agitava una sagoma prismatica, forse l’oscuro padrone di casa. Con quell’ultima immagine disturbante, l’osservatorio si spense.
   «Tutte insieme, queste dimensioni formano un Multiverso così sterminato, nel tempo e nello spazio, da essere inconcepibile» concluse la Messaggera. «Forse anche la vostra Federazione lo esplorerà, in futuro. Sempre che sopravviva!» avvertì.
   Chase squadrò la Messaggera, non sapendo se credere al suo racconto. Tutto quel che aveva mostrato loro erano ologrammi. Qualunque programmatore di computer, qualunque hacker poteva fare altrettanto. E il suo discorso commovente non poteva fargli dimenticare che erano responsabili dell’attacco Xindi alla Terra, oltre che delle infiltrazioni dei Parassiti Neurali. No, si disse Chase: i Tuteriani si erano dimostrati troppo subdoli, troppo spietati per credergli sulla parola. Se solo non fossero stati così opachi alla telepatia, avrebbe potuto chiedere conferma a T’Vala e Neelah. Ma stando così le cose, poteva affidarsi solo al suo giudizio.
   «Quali sono le condizioni per un armistizio tra la vostra gente e la Federazione?» domandò alla Messaggera.
   «Che voi ci concediate una porzione significativa del vostro spazio» rispose immediatamente lei. «Siccome lo trasformeremo con le Sfere, dovrete evacuare i vostri civili».
   «Che intende con porzione significativa?» chiese Chase, rabbuiato.
   «Ci occorrono almeno un terzo dello spazio e dei pianeti» rispose la Messaggera.
   «Un terzo!» protestò Chase, mentre i suoi colleghi si lanciavano occhiate preoccupate. «È una richiesta esorbitante. Dovremmo sfollare centinaia di mondi. Non è mai stata tentata, ma che dico, neanche pensata una cosa del genere. Ma voi Tuteriani quanti siete? Avete detto che la vostra dimensione – quello spazio bianco – è più piccola della nostra!».
   «Più piccola del vostro Universo, ma più grande della vostra Galassia» precisò la Messaggera. «E noi l’abbiamo riempita quasi tutta».
   «Sarete milioni di miliardi...» mormorò Chase, sopraffatto dall’informazione.
   «Potremmo concedergli la Sfera di Dyson abbandonata, nel settore Norpin» suggerì Lantora. «Ha un’area interna di 250 milioni di mondi; più di quanti ve ne siano nell’intera Via Lattea!». Non aggiunse altro, ma Chase colse subito un secondo vantaggio: in questo modo i Tuteriani si sarebbero concentrati tutti in un unico luogo. Questo avrebbe permesso alla Federazione di controllarli più facilmente.
   «Purtroppo non è possibile» spiegò la Messaggera. «Il calore e le radiazioni della stella centrale sono saliti costantemente negli ultimi secoli, rendendo invivibile l’interno della Sfera. Ecco perché gli abitanti originali dovettero abbandonarla. Noi, inoltre, dobbiamo riplasmare lo spazio con le anomalie. Le nostre simulazioni indicano che la megastruttura non reggerebbe alla trasformazione. Quindi dobbiamo chiedervi dei pianeti tradizionali» concluse.
   «La vostra richiesta è esosa» obiettò Chase. «Se vi concedessimo un terzo della Federazione, diventereste abbastanza forti da sopraffarci e conquistare anche il resto».
   «E se fosse? Noi siamo i nuovi abitanti della Via Lattea, è un fenomeno storico che non potete contrastare» rispose quieta la Messaggera. «La domanda è: volete sopravvivere, nel nuovo ordine delle cose?».
   «Messaggera, io sono un Capitano della Flotta Stellare» rispose Chase. «Posso rappresentarla in molte circostanze, ma non ho l’autorità per trattare a questi livelli». Respirò a fondo. «Questa richiesta va posta direttamente al Consiglio della Federazione. Ma vi suggerisco di abbassare le vostre pretese. Nessun governo e nessun Presidente federale accoglierà mai una pretesa così esorbitante».
   «Allora questo incontro è stato solo una perdita di tempo» si spazientì la Messaggera. «La vostra presenza qui, però, non lo è. Ci sarete utili in altri modi. Prendeteli!».
   All’ordine della Messaggera, le guardie aprirono il fuoco sui federali. Chase, Lantora e T’Vala caddero al primo colpo. Neelah, invece, barcollò semi-stordita. I suoi potenziamenti la rendevano resistente... ma non tanto da sfuggire. Guardò Chase e gli altri, a terra: non sembravano morti. Lei stessa doveva essere stata colpita con un raggio stordente, o non sarebbe stata ancora in piedi.
   «Notevole» riconobbe la Messaggera. «Tu ci sarai molto utile. Ma prima conoscerai i nostri scienziati e i loro animaletti... come li chiamate? Ah sì, Parassiti Neurali» sogghignò.
   Neelah la guardò con orrore. Da tempo sognava d’incontrare un Parassita vivo, ma non in quelle circostanze. Voleva studiarli, sottoporli a esperimenti e infine dissezionarli. Era lei che doveva vederli da dentro, non il contrario! «Non avrete neanche un atomo del nostro spazio» boccheggiò, piegata in due.
   «Abbiamo già interi settori, e presto lo avremo tutto» rispose la Messaggera. «Ma prima dobbiamo ripulirlo dalle forme di vita inferiori». Al suo cenno, le guardie aprirono ancora il fuoco. Neelah cadde in ginocchio. Percepì vagamente che qualcuno l’ammanettava e la trascinava via.
 
   Oscurità.
   Freddo.
   Un ticchettio insistente, quasi metallico. Tic-tic-tic-tic...
   Alexander Chase, ufficiale della Flotta Stellare, conosceva quelle sensazioni. Le aveva vissute già una volta dal vivo, e molte altre nei suoi incubi. Se fosse stato ancora Tenente, probabilmente avrebbe urlato. Ma era Capitano, adesso, e non poteva cedere. La sua astronave era ancora là fuori, in mezzo alle anomalie e alle navi nemiche. E da qualche parte, nel Collettore Subspaziale, il timer della Bomba Omega correva inesorabilmente verso lo zero. Quanto tempo rimaneva? Chase non lo sapeva, ma era improbabile che gli restasse molto. Forse quindici minuti, forse uno. Forse sarebbe tutto finito di lì a due secondi.
   Il Capitano si stiracchiò, per quanto possibile, ed ebbe la conferma di essere imprigionato su un tavolo operatorio. Mentre i sensi tornavano, sentì il metallo freddo sotto di sé e i ceppi ai polsi e alle caviglie. Sbatté gli occhi, mise a fuoco la visione. Un attrezzo chirurgico familiare incombeva su di lui: un sottile braccio snodato che terminava in due lame ricurve e seghettate. Una chela pronta a ucciderlo, o aprirgli il cervello per estrarre informazioni utili ai Tuteriani.
   Chase inclinò la testa, osservando il laboratorio. Non c’erano dubbi: era quello di dieci anni prima. C’erano gli stessi tavoli operatori, gli stessi orrori chirurgici, gli stessi pannelli luminosi bianchi, che il pavimento rifletteva tingendoli di rosso. E c’erano i Solanae, avvolti nelle pesanti cappe gialle con cappuccio. Stavano trafficando attorno ai comandi, con le grosse mani simili a chele. Alcuni si girarono verso di lui, mostrando gli squamosi volti da pesce. Emisero il consueto ticchettio, che stavolta però fu tradotto da qualche congegno.
   «Ben svegliato, Capitano» disse uno dei Solanae, avvicinandosi. «Io sono il Direttore Scientifico Krek, capo di questa installazione».
   «Era qui anche...?» rantolò Chase.
   «Dieci anni fa? Naturalmente. Dirigo il Collettore da molto tempo» confermò Krek. «Lei è uno dei pochi che l’hanno lasciato senza essere infettato dai Parassiti. Su di lei abbiamo eseguito solo qualche analisi... l’altra volta».
   «I miei ufficiali...».
   «Sono qui, vede?». Krek allungò la tenaglia che aveva al posto della mano, indicando un altro tavolo operatorio. T’Vala vi era stesa sopra. Sembrava ancora priva di sensi, o forse in un dormiveglia, perché a tratti muoveva la testa. Aveva la manica dell’uniforme rialzata e un congegno fissato al braccio.
   «Che le avete fatto?!» ringhiò Chase, dibattendosi.
   «Le abbiamo somministrato un soppressore neurale per tenerla buona, come facciamo regolarmente coi nostri pazienti» spiegò Krek. «Per adesso le stiamo facendo qualche prelievo. Ma la sua fisiologia unica ci obbliga a procedere con altri esami. Mezza Vulcaniana e mezza Betazoide... molto interessante! È la prima volta che ho a disposizione un simile ibrido. La esaminerò con la massima attenzione».
   «Non osi!» sibilò Chase. «Sono due secoli che perseguita la nostra gente. Si crede uno scienziato? Lei è solo un criminale di guerra!».
   «Non secondo le leggi a cui debbo rispondere» obiettò Krek.
   Chase tacque un attimo, riordinando le idee. Aveva poco tempo e nessun margine di manovra, ma c’era qualcosa che voleva sapere. «Dove sono i miei altri accompagnatori?» chiese.
   «Una è qui, Capitano» disse una voce nota.
   «Neelah!». Chase si girò dall’altra parte, scoprendo che l’Aenar era in piedi, accanto al suo tavolo operatorio. Sorrideva tranquilla e non era ammanettata. «Lei è libera!» disse il Capitano con voce strozzata, intravedendo una possibilità di salvezza.
   «Oh sì, Capitano. Sono più libera di quanto lei immagini» sorrise la biologa. «Finora ero schiava di un’insensata ambizione personale e delle irrilevanti leggi federali. Ora appartengo a qualcosa di più grande e nobile, ho un vero scopo».
   «L’hanno infettata coi Parassiti» mormorò Chase, sentendosi davvero perduto.
   «Certo. Come avrebbero potuto rendermi utile, altrimenti?» rispose Neelah, o chi per lei.
   «Maledizione, sa di essere sotto il loro controllo e non gliene importa niente?!» ringhiò Chase.
   «I Tuteriani sono dalla parte giusta della Storia, Capitano. E ora lo sono anch’io» rispose Neelah quietamente. «Che c’è di più nobile che salvare un popolo dall’estinzione?».
   «Che c’è di più ignobile che tradire i propri compagni e condannare centinaia di popoli all’estinzione?» ritorse Chase. L’idea che il Parassita accedesse alla memoria di Neelah, scoprendo la Bomba Omega, lo agghiacciava.
   «Quel che conta è la qualità, non la quantità» spiegò Neelah. «I Tuteriani sono una specie superiore. Prima non riuscivo a capirlo, ma ora è tutto chiaro. Un solo Tuteriano vale più di mille federali. Sa, la Federazione mente, quando dice che tutte le vite sono uguali. La vostra democrazia, i vostri Diritti dei Senzienti sono concetti fallimentari. Presto l’unica legge sarà quella tuteriana» sorrise, e indietreggiò.
   «Maledizione, questa non è lei!» inveì Chase, scuotendosi come un ossesso. «Lei è la persona più cocciuta, strafottente e solipsista che abbia mai conosciuto! Questa rassegnazione non le si addice! Faccia uno sforzo, ricordi com’era fino a poco fa!».
   «Lascia stare, Neelah» disse la Messaggera, sbucando dall’oscurità retrostante. «Chase non è stato ancora corretto, non possiamo ragionare con lui. Pensa ancora alla sua piccola Flotta, alla sua meschina Federazione. Non comprende la vastità dei nostri progetti. Piuttosto è Lantora che dovrebbe mostrare più apertura mentale. Non è così, Tenente?».
   «Liberatemi e lo saprete» disse Lantora, che era prigioniero su un altro tavolo.
   «Ma certo. Direttore Krek, le spiace?» ordinò la Messaggera.
   Il capo dei Solanae andò da Lantora e premette un comando vicino al lettino, in un punto che lo Xindi non poteva raggiungere. Subito i ceppi metallici rientrarono nel tavolo operatorio, liberandolo.
   Lantora balzò in piedi, fregandosi i polsi, mentre il Solanae indietreggiava. L’Ufficiale Tattico si guardò intorno, valutando le opzioni. C’erano una dozzina di Solanae, apparentemente disarmati. C’era la Messaggera dei Tuteriani. E intorno a lei c’erano alcune vittime dei Parassiti, tra cui Neelah. Questi erano gli unici armati: in cintura avevano phaser e disgregatori. Ma alle loro spalle si agitava qualcos’altro. Era una creatura mostruosa, con un esoscheletro giallastro e molte zampe ticchettanti. Era grossa come un cinghiale, ma quasi tutta la massa corporea era costituita dall’enorme sacca ventrale rigonfia. Aveva la bocca enorme, piena di zanne sproporzionate e diseguali, come un pesce abissale. Quando incrociò lo sguardo di Lantora, il mostro emise un ringhio gutturale.
   «Cos’è quella... cosa?» chiese Lantora con orrore. Aveva familiarità con gli Xindi Insettoidi, ma quell’obbrobrio era troppo anche per lui.
   «Ah, sì. Ti presento la Regina dei Parassiti Neurali» sorrise la Messaggera. «Pensi a lei come a un’ape regina. La sua progenie è attualmente impegnata nel rovesciare la Federazione».
   «Ci avete già provato una volta, e avete fallito» osservò Lantora.
   «L’altra volta fummo troppo avventati» rispose la Messaggera. «Consentimmo alla Regina di andare sulla Terra, al Comando di Flotta, per controllare da vicino le operazioni. Ma così la esponemmo troppo al pericolo. Quando fu uccisa, anche i droni morirono. È una precauzione che abbiamo dovuto prendere, per evitare che questi animaletti ci sfuggano di mano» spiegò, carezzando il mostro sulla testa. «Ma abbiamo imparato la lezione. Questa nuova Regina, chiamata Oa, è stata creata nel Collettore e non è mai uscita. Abbiamo reso la sua telepatia così forte che può comandare i droni attraverso le distanze siderali».
   «Anche da questa bolla di subspazio?» chiese Lantora, scettico.
   «Sì, attraverso il tunnel subspaziale che vi ha portati qui» confermò la Messaggera.
   Lantora notò che, di conseguenza, il tunnel non poteva mai essere chiuso, o avrebbe troncato il collegamento. Era una vulnerabilità significativa per il Collettore e aumentava leggermente le loro possibilità di fuga.
   «Perché mi ha liberato?» chiese lo Xindi, squadrando la Messaggera. Non poteva attaccarla, finché stava in mezzo alle sue guardie armate.
   «Perché sono clemente e voglio offrirti un’occasione per redimerti» rispose lei. «Tu somigli davvero al tuo avo Degra. Me lo ricordi moltissimo. Non fare il suo stesso errore!».
   «Lei... ricorda Degra? Lo ha incontrato di persona?» si stupì Lantora.
   «In molte occasioni» annuì la Messaggera. «Di solito accadeva quando mi rivolgevo al Consiglio Xindi, ma in alcuni casi gli parlai in privato. Ovviamente potevo manifestarmi solo come immagine, non in carne e ossa».
   «Ma è stato quattrocento anni fa!» esclamò Lantora, incredulo.
   «Noi Tuteriani viviamo molto più a lungo di voi» spiegò la Messaggera, con un certo orgoglio. «La nostra civiltà esiste da milioni di anni, durante i quali ci siamo migliorati geneticamente. Un Tuteriano medio vive cinquecento anni. Ma chi appartiene alla suprema triade di comando gode di un arco vitale ancora più lungo. La mia esistenza dura da più di seicento dei vostri anni, e potrebbe superare il millennio».
   «Se è così in gamba, a che le servo io?» chiese Lantora, circospetto.
   «Non lo immagini?» disse la Messaggera, con un sorriso beffardo. «Sei l’ufficiale tattico dell’Enterprise. Potevo infettarti con un Parassita, per farti rivelare le difese della nave. O potevo ordinare ai Solanae di estrarre le informazioni direttamente dal tuo cervello. Invece no... ti chiedo di farlo spontaneamente».
   «E perché dovrei?» volle sapere Lantora, immaginando qualche ricatto.
   «Magari perché hai a cuore il tuo popolo» suggerì la Messaggera. «Come spiegai a Degra, gli Umani sono destinati a distruggere gli Xindi. Solo noi possiamo salvarvi da questo destino... se ce lo permettete».
   «Ma per favore!» sbottò Lantora. «Abbiamo smascherato le vostre menzogne secoli fa».
   «Menzogne? Non è una menzogna che noi possiamo sondare le linee temporali» obiettò la Messaggera. «Guarda tu stesso!» disse, attivando un proiettore olografico. Il laboratorio si riempì di sottili linee colorate, che galleggiavano a mezz’aria. Partivano da un solo ceppo, ma si allargavano in varie direzioni. Alcune scorrevano quasi dritte, altre si piegavano e si attorcigliavano. Il loro colore variava dall’azzurro al rosso, attraversando tutto lo spettro dell’arcobaleno.
   «Osserva. Questo è il futuro degli Xindi, così come l’ha previsto la Vate» spiegò la Messaggera. «Le linee temporali più ingarbugliate sono quelle meno probabili. Quelle lineari hanno maggiori probabilità di verificarsi. Guarda un po’ cosa c’è nella più dritta di tutte».
   Lantora esitò. L’unica linea retta in tutto il fascio, l’unica che arrivava in fondo alla stanza, era di un tono scarlatto che non prometteva nulla di buono.
   «Avanti... è l’ignoranza che devi temere, non la conoscenza» disse la Messaggera. «Anche se la conoscenza, a volte, comporta il dolore».
   Lantora toccò la linea temporale rossa, vicino alla sua estremità. Subito gli comparve davanti uno schermo olografico, che mostrava una furiosa battaglia spaziale. Il Tenente osservò incredulo: centinaia di navi federali combattevano nell’orbita di Nuova Xindus. La Flotta Stellare stava chiaramente attaccando, mentre gli Xindi erano sulla difensiva. Le piccole navi Insettoidi sciamavano attorno ai vascelli della Flotta Stellare, ma non riuscivano a penetrare i loro scudi ed erano abbattute una dopo l’altra. Rettili, Arboricoli e Primati se la cavavano un po’ meglio, ma le loro navi di media stazza erano comunque soverchiate dal fuoco pesante della Federazione. Una dopo l’altra, esplosero in fiamme. Poi c’erano gli Acquatici, i più potenti. I loro enormi incrociatori azzurri, simili a creature marine, percorrevano il campo di battaglia, sparando in tutte le direzioni. Ma erano troppo pochi per ribaltare le sorti dello scontro. Quando arrivarono le navi federali più moderne, anche gli Acquatici cedettero. I loro scafi, crivellati di siluri, si coprirono di crepe e infine cedettero. Ne uscì l’acqua, milioni di litri che formarono grandi bolle congelate nello spazio.
   Con gli incrociatori Acquatici a pezzi, i federali si concentrarono sulle piattaforme difensive in orbita attorno a Nuova Xindus. Queste furono dure da superare: molte astronavi ebbero gli scafi perforati e sbandarono. Ma il fuoco pesante delle classe Universe ebbe il sopravvento. Una dopo l’altra, anche le piattaforme esplosero. Ora Nuova Xindus era difesa solo dal suo Scudo Planetario.
   «Questo è il filmato che, quattro secoli fa, mostrai al Consiglio Xindi» rivelò la Messaggera. «Da allora la Vate ha riesaminato le linee temporali innumerevoli volte. Il risultato è sempre lo stesso, il vostro annientamento».
   La flotta federale si radunò nell’orbita bassa, ancora ingombra di relitti in fiamme e bolle d’acqua congelata. E iniziò il bombardamento. Una pioggia interminabile di siluri e raggi distruttori martellò lo Scudo Planetario, fino a sovraccaricarlo. Apparvero degli squarci, attraverso cui i colpi giunsero a segno. Ogni siluro disintegrava una città, lasciando al suo posto un cratere largo chilometri, ricolmo di lava. Presto l’atmosfera fu annerita dai fumi tossici. Lo Scudo cedette completamente. Le navi federali attaccavano ancora, implacabili.
   «Voi lo chiamate Bombardamento Delta Zero» disse la Messaggera. «L’intera biosfera è distrutta, la crosta planetaria è ridotta in lava».
   «So cos’è un Bombardamento Delta Zero!» gridò Lantora, osservando il suo amato pianeta che diventava sempre più rossastro. «La Flotta Stellare non l’ha mai messo in pratica. Nemmeno una volta, in tutta la sua storia! Perché dovrebbe farlo adesso? E perché contro uno dei suoi membri?».
   «Perché la tua preziosa Federazione è prossima alla guerra civile» rispose la Messaggera. «Sono secoli che si prepara, ormai è inevitabile. Da una parte ci sono i fondatori e altri membri di vecchia data, gelosi dei loro privilegi. Dall’altra i mondi entrati di recente: Cardassia, Ferenginar, Nuova Xindus. A voi le regole federali stanno strette, per questo tentate di riformarle. Ma la Federazione è troppo vecchia e corrotta per essere salvata. È così incancrenita nei suoi regolamenti che preferisce dichiararvi guerra, piuttosto che cambiare! Pensa alla Prima Direttiva, a quanti popoli sono stati lasciati morire in suo nome. Quello che vedi non è poi così diverso: alla Federazione importa dei suoi commi, non delle vostre vite».
   Nuova Xindus era ormai ridotta a una palla incandescente, rossa e arancione. La crosta semifusa era attraversata da immensi squarci, attraverso cui il magma era scagliato fino in orbita. Game over. Con quella scena apocalittica, lo schermo olografico si disattivò.
   «È tutto falso!» gracchiò Lantora. «Avete creato quest’animazione computerizzata per ingannarmi!».
   «Vuoi scommetterci la sorte degli Xindi? Di tutte e cinque le specie?» chiese la Messaggera. «Tocca un’altra linea, osserva un altro futuro».
   Smarrito, Lantora toccò la linea più vicina, facendo apparire un’altra scena. Una nave di classe Universe uscì dalla cavitazione quantica a breve distanza da Nuova Xindus. Scagliò un singolo siluro nell’atmosfera, prima che gli abitanti potessero attivare lo scudo difensivo. Il missile colpì la capitale e iniziò a scavare una voragine. A ogni istante l’imbuto cresceva, risucchiando la materia circostante: terreno, montagne, l’acqua del mare, l’atmosfera.
   «Quel siluro conteneva un campione di Materia Rossa, che a contatto con la materia comune forma un buco nero» spiegò la Messaggera. «Furono i pacifici Vulcaniani a inventarla. Vedi, la Terra e Vulcano sono fondatori della Federazione, quindi alleati nella futura Guerra Civile. I nuovi arrivati come voi ne faranno le spese».
   Sotto gli occhi di Lantora, il buco nero crebbe fino a consumare completamente Nuova Xindus. Era tutto sparito: crosta, mantello, nucleo.
   «Puoi vedere altri futuri, se t’interessa. In un modo o nell’altro, il tuo mondo è condannato» disse la Messaggera, in tono addolorato.
   «Ho visto abbastanza» disse Lantora, spazzando via le linee temporali con un gesto secco. Gli ologrammi si spensero. «Lei ha ammesso che il suo popolo vuole soppiantare quelli della Via Lattea. Allora perché v’interessate a noi? Perché vi stiamo tanto a cuore, mentre gli altri sono erbacce da estirpare?».
   «Perché noi non trasformeremo completamente la Via Lattea» rivelò la Messaggera. «Alcune regioni di spazio rimarranno abitabili per gli indigeni. Le destineremo alle specie meritevoli, quelle che accetteranno di servirci. Voi Xindi siete stati prescelti per questo da molto tempo».
   «Cioè dovremmo essere i vostri servi? O i vostri cani da guardia?» chiese Lantora. «Se non faremo i bravi, ci ridurrete così?» aggiunse, indicando Neelah e gli altri schiavi dei Parassiti.
   «Noi vi consegneremo un’area di spazio più grande di quella che avete attualmente» promise la Messaggera. «Potrete amministrarla a vostro piacimento. Ma se seguirete i nostri consigli, diverrete un potente Impero. Nessun altro oserà mai più guardarvi dall’alto in basso. Non è qualcosa per cui valga la pena di lottare? Tu, Lantora, puoi essere il padre del futuro Impero Xindi. Un Impero che durerà in eterno, perché a ogni problema potrete chiedere a noi la soluzione! Noi scruteremo le linee temporali e vi diremo cosa fare, perché la vostra gloria non abbia mai fine! Oh, Lantora, il tuo nome sarà pronunciato con profonda deferenza dalle generazioni a venire, se oggi farai la cosa giusta!».
   La Messaggera parlava in tono sempre più appassionato. Si avvicinò alla Regina, attorno a cui zampettavano molti Parassiti più piccoli, e ne colse uno. Se lo accostò al viso, osservandolo quasi commossa. E lo porse a Lantora.
   «Prendilo. Non avere timore, tienilo stretto nel pugno. E mettilo sul collo di Chase. Il procedimento sarà rapido, il dolore contenuto. Chase diverrà parte del nostro grande progetto, come la sua collega qui» aggiunse, carezzando il mento di Neelah. «Ma tu, Lantora, avrai un ruolo ben diverso».
   «Sì, quello del traditore» disse Lantora, afferrando il Parassita. Lo strinse con forza, temendo che gli scappasse di mano.
   «Quello di Capitano dell’Enterprise, tanto per cominciare» corresse la Messaggera. «Quando avremo estratto da Chase tutte le informazioni utili, potremo assumere il controllo della sua nave. La vostra Intelligenza Artificiale sarà riprogrammata per servirci. Gli ufficiali superiori riceveranno la progenie di Oa. E tu, Lantora, siederai sulla poltrona di Capitano».
   «Non sarà così facile espugnare l’Enterprise» avvertì Chase, che aveva ascoltato tutta la conversazione. «I miei ufficiali la distruggeranno, piuttosto che consegnarvela».
   «Sarebbe un terribile spreco, come lo è stato distruggere la vecchia Enterprise» rispose distrattamente la Messaggera. «Allora, Lantora... da che parte vuoi stare?».
   Lo Xindi Primate era accanto al tavolo di Chase. Gli bastava un gesto per infettarlo. Guardò il suo Capitano: al loro primo incontro gli aveva messo soggezione, ma adesso era del tutto indifeso.
   «Lantora, mi ascolti» disse Chase, guardandolo negli occhi. «Lei è un ufficiale della Flotta Stellare, come me. Abbiamo un dovere da compiere, anche se ne va delle nostre vite. Non creda a quella manipolatrice: vuole solo dividerci! Ricordi il monumento funebre di Point Zero, ricordi quanti erano i nomi delle vittime. Umani e Xindi hanno già versato troppo sangue a causa del Tuteriani. La Messaggera vuole solo usarla per invadere l’Enterprise. Quando non avrà più bisogno di lei, la ucciderà o la renderà schiavo dei Parassiti. È così che fanno i Tuteriani, lo ha visto. Usano la compassione che abbiamo per i nostri simili come arma per distruggerci. Lo fanno sempre!».
   «Chiuda il becco!» gridò la Messaggera, stizzita. «La fedeltà di Lantora va ai suoi fratelli Xindi e a noi Custodi, non a voi carnefici della Federazione!».
   «Lei ha ragione, Messaggera, quando dice che la sua gente è pragmatica. Fate tutto il necessario per sopravvivere» disse Lantora. «Ma io non sono da meno». Infilzò il Parassita sullo strumento chirurgico che corredava il lettino di Chase. La Regina emise un lamento, mentre gli altri Parassiti le zampettavano sopra e accanto, come tanti scarafaggi.
   «Povero sciocco!» esclamò la Messaggera. «Potevi rimediare al male di Degra, invece hai preferito tradirci come lui. Bene, farai la stessa fine. Uccidetelo» ordinò ai suoi.
   Lantora azionò il comando ai lati del tavolo di Chase, liberandolo dalla costrizione. Tutti e due si tuffarono dietro al tavolo, sfuggendo ai phaser e ai disgregatori.
   «Lieto che sia con me» sorrise Chase, grato.
   «Capitano, questo tavolo non ci proteggerà a lungo. Ha qualche idea?» chiese Lantora.
   «Ormai speravo nel nostro asso» rispose il Capitano.
   «E fa bene, ma non è quello che crede» disse Neelah, dall’altra parte di quel rifugio improvvisato. Approfittando del fatto che era più indietro degli altri armati, aprì il fuoco su di loro. Un singolo raggio phaser, tenuto acceso per qualche secondo, li vaporizzò uno dopo l’altro, comprese le loro armi. Chase sentì l’odore acre delle carni aliene bruciate.
   «Traditrice! Com’è possibile?!» inveì la Messaggera. Sollevò la mano destra, facendone scaturire un vortice d’energia distruttiva. Ma l’Aenar vide il suo gesto e corse a nascondersi dietro alcuni strumenti.
   «Non lo immagini, zucca pelata? Dov’è finita la tua intelligenza superiore?» la canzonò la biologa. «Quando ho studiato i Parassiti, mi sono cautelata contro di loro. Le mie nanosonde hanno preso a corrodere il mostriciattolo nel momento in cui è entrato. Domani avrò un gran mal di testa, ma intanto sono padrona di me. E tu sei nel dren!» disse, sporgendosi dal suo nascondiglio per sparare ancora.
   Accorgendosi di essere allo scoperto, la Tuteriana arretrò verso la porta, continuando a scagliare energia dalle mani. «Il tuo pianeta sarà uno dei primi che distruggerò!» promise.
   «Non conquisterete niente, fattelo entrare in quel tuo vecchio cervello!» gridò Neelah, aprendo il fuoco. Il vortice d’energia e il raggio phaser s’incontrarono a mezz’aria, generando un’onda d’urto che spazzò il laboratorio. I Solanae furono scaraventati contro le pareti. Anche la Messaggera e Neelah furono scagliate all’indietro, con gli abiti e la pelle strinati. Neelah si accasciò contro il tavolo di T’Vala, mentre la Messaggera finì nel corridoio. Mentre si rialzava dolorante, la porta si chiuse, tagliandola fuori dalla stanza.
   «Adesso!» disse Chase. Lui e Lantora uscirono dal loro riparo, trovandosi di fonte i Solanae inferociti.
   «Ci penso io» disse Lantora, facendosi avanti.
   «Siete degli ingenui se credete di fuggire» avvertì il Direttore Krek. Con la sua mano a chela gli rifilò una sberla così forte che lo Xindi fu scaraventato indietro.
   «Pure la superforza!» sbottò Chase, esasperato.
   «Siamo scienziati. Credevi che non avessimo migliorato il nostro organismo?» chiese Krek, rifilando uno sganassone anche al Capitano. Ma le cose non andarono come si aspettava.
   Chase parò il colpo con il braccio destro, senza difficoltà. Afferrò la chela del Solanae e gliela rigirò fino a stroncarla. Si udì un raccapricciante crack, mentre l’esoscheletro violaceo dell’alieno si rompeva. Ne uscì un sangue nero e oleoso. Gli altri Solanae indietreggiarono ticchettando, sconcertati dall’inaspettata forza di Chase.
   Il Capitano afferrò l’anfibio per il collo, sempre con la destra, e lo sollevò da terra. «I vostri esperimenti finiscono oggi» gli sibilò nel foro che aveva al posto dell’orecchio.
   Intanto Lantora e Neelah si rialzarono, doloranti. Videro il Capitano che strangolava l’alieno, grosso quanto lui, e si scambiarono un’occhiata incredula.
   «Ma come...» gracchiò Krek.
   «Non mi avete ucciso, l’altra volta; così mi avete reso più forte» disse Chase, fissandolo negli occhi a palla, che roteavano fuori controllo. Il Solanae gli afferrò la gola con la chela superstite. Allora il Capitano girò sui tacchi e lo impalò brutalmente sullo strumento chirurgico del suo lettino, quello con la lametta seghettata. Continuò a fissarlo negli occhi, mentre il suo sangue nero lo imbrattava, spargendo un lezzo di pesce marcio. Il ticchettio della creatura si affievolì fino a spegnersi e gli occhi smisero di girare. Solo allora Chase lo lasciò. L’alieno rimase in piedi, sostenuto dall’attrezzo che gli usciva dal petto. Sotto di lui si allargava la macchia nera del suo sangue.
   «Lei ha un braccio meccanico!» comprese Neelah, scioccata.
   «Sì, un risultato della lotta sull’Enterprise-I» confermò Chase. «Un colpo di phaser mi staccò quasi il braccio. Se mi avessero curato subito, avrebbero potuto salvarlo. Ma fui recuperato solo 24 ore dopo, mezzo assiderato nella capsula di salvataggio. E l’infermeria della Ascension era vecchia. Ho lasciato un pezzo di me su quella nave» disse, svitando la doppia lama seghettata. La brandì come un pugnale, con una presa rovesciata. «Quanto manca all’ora X?» chiese.
   «Venti minuti» rispose l’Aenar, tirata.
   «Allora dobbiamo levare le tende».
   «E quelli?» chiese Lantora, indicando i Solanae che stavano fra loro e la porta. Anche gli alieni avevano impugnato alcuni strumenti chirurgici, come fossero armi bianche.
   «Quelli non ci devono fermare» disse il Capitano, truce. E balzò loro addosso.
 
   Si scatenò una lotta così brutale da far impallidire quella sull’Enterprise-I. Lottarono con i bisturi laser, le tenaglie, le forbici chirurgiche. Chase si passò il coltello nella sinistra, usando il braccio destro come scudo per parare i colpi. Ne ricevette parecchi, che graffiarono la finta pelle, mostrando il metallo sottostante. Ma nessuno fu tanto forte da danneggiare seriamente il braccio artificiale. E intanto lui sferrava attacchi micidiali, che facevano schizzare sulle pareti il sangue dei Solanae, nero e fumigante.
   Poco più indietro, Lantora difendeva il lettino di T’Vala, su cui la timoniera era ancora semi-incosciente. Incalzato dai Solanae, fu costretto persino a saltarci sopra, stando attento a non calpestare T’Vala. Atterrò un alieno con un calcio in pieno volto, mandandolo a rompersi la testa contro un macchinario. Quando un secondo Solanae cercò di troncargli le gambe con un seghetto, Lantora spiccò un balzo, sfiorando il soffitto del laboratorio. Fece un salto mortale, atterrò alle spalle dell’avversario, si girò e gli trafisse la gola con un bisturi.
   Neelah stava per unirsi alla battaglia, quando notò la Regina che zampettava verso l’uscita. Era scortata dagli altri Parassiti, che la coprivano come un guscio protettivo. «No, non te la cavi!» ringhiò. Regolò il phaser al massimo e la colpì.
   La creatura lanciò un lamento pietoso, mentre i Parassiti minori sfrigolavano a scoppiavano intorno a lei. Il puzzo di bruciato era insopportabile, ma Neelah tenne fisso il raggio sull’obiettivo. Il phaser perforò l’esoscheletro, per quanto fosse resistente, e vaporizzò i tessuti interni. La Regina si trasformò in una macchia bianco-azzurra di plasma rovente. Poi anche quella si dissolse, con un ultimo sfrigolio.
   Neelah smise di sparare. Per uccidere quella creatura c’era voluta la stessa energia che avrebbe disintegrato una navetta. Al suo posto c’era adesso una gran chiazza gialla e rovente, che indicava dove il pavimento si era parzialmente liquefatto. I pochi Parassiti che non erano stati uccisi, perché si trovavano più lontani, stridettero e morirono.
   «Ma certo... uccidendo la Regina, anche i droni muoiono!» ricordò la biologa. «Capitano, potrei aver stecchito tutti i Parassiti della Galassia!».
   «Ottima notizia» disse Chase. Afferrò l’ultimo Solanae per il collo e strinse tanto che glielo stroncò. Lasciò cadere l’alieno e si guardò attorno, ansimante. Il laboratorio sembrava un mattatoio. Ovunque c’erano i corpi dei Solanae, misti a schizzi di sangue e ai resti dei Parassiti.
   «Direi che è la fine dell’Infiltrazione» constatò Lantora, detergendosi il sudore dalla fronte.
   «Restano quindici minuti all’ora X» li informò Neelah.
   «Ma riesce davvero a tenere il conto? Anche quando aveva il Parassita abbarbicato alla spina dorsale?» chiese Lantora.
   «Ho ancora il Parassita abbarbicato, anche se è morto» disse l’Aenar. «E sì, riesco a tenere il conto». Corse verso la porta, ma la trovò sbarrata. Dovette tagliarla con il phaser.
   «Presto!» disse Chase, correndo verso il lettino di T’Vala. «La Messaggera avrà chiamato le guardie. Potrebbe aver ordinato di attaccare l’Enterprise» aggiunse angosciato. Staccò lo strumento chirurgico dal braccio di T’Vala, notando che le aveva prelevato molto sangue. Accanto al tavolo c’era infatti un recipiente cilindrico e trasparente, pieno del sangue verde di T’Vala.
   «Capitano, cosa...» gemette la mezza Vulcaniana, che cominciava a riaversi dagli effetti del soppressore neurale. Era molto pallida.
   «Hanno cercato di ucciderci, ma ci siamo ribellati. I Solanae sono morti, come la Regina dei Parassiti, ma la Messaggera ci è sfuggita» riassunse Chase.
   «Mancano pochi minuti all’ora X e dobbiamo ancora trovare un modo per andarcene» aggiunse Lantora. «Riesce a camminare?».
   «S-sì, credo» mormorò T’Vala, alzandosi con l’aiuto dell’Ufficiale Tattico. «Se non riusciamo ad avvertire la Federazione, sarà stato tutto vano» ansimò. Si guardò intorno, notando lo stato del laboratorio, con i cadaveri e i segni della lotta. Il puzzo di bruciato, misto a quello di pesce marcio, le diede la nausea. «Un momento... avete detto che la Regina è morta?».
   «L’ho disintegrata» assicurò Neelah, che aveva finito di tagliare la porta. Le assestò un calcio, facendola cadere nel corridoio. Scattò di lato, aspettandosi di trovare dei nemici armati... invece niente. Il corridoio era deserto. In sottofondo, però, si sentiva squillare un allarme. «Dove sono le guardie?» si chiese.
   «Forse i Tuteriani devono pensare ad altro» disse T’Vala, avvicinandosi. «Se i Parassiti sono morti, hanno una rivolta da domare. Qui, ma anche sulle astronavi».
   «Giusto!» esclamò Lantora, battendosi il pugno sul palmo. «Forse l’Enterprise sta cercando di liberarsi. Potrebbe esserci una battaglia in corso!».
   «Seguitemi» disse Chase, imboccando il corridoio. «Neelah, lei è l’unica rimasta cosciente per tutto il tempo. Saprebbe tornare all’hangar, attraverso questo labirinto?».
   «Certo, ho memorizzato tutto il tragitto. Ma non credo che faremo in tempo» avvertì la biologa. Gli consegnò il phaser, l’unico che avevano.
   «L’Auriga sarà certamente piantonato» osservò T’Vala. «Non riusciremo a impadronircene, in quattro e con una sola arma».
   «E poi sull’Auriga c’è Omega» ricordò Lantora. «Non ha senso correre da una bomba che esploderà fra...».
   «Dieci minuti» disse Neelah.
   «E allora dove andiamo?!» protestò lo Xindi. «Dobbiamo distruggere il Collettore, ma dobbiamo anche informare la Federazione!».
   «La Federazione sarà informata dall’Enterprise... se supera la battaglia» disse Chase. Stavano correndo trafelati, ma in realtà non sapevano dove andare.
   «Forse c’è un modo logico di salvare capra e cavoli» intervenne T’Vala. Si accostò a Neelah e l’afferrò per un braccio. «Ha detto di aver memorizzato proprio tutto il tragitto?» le chiese.
   «Sì, perché?».
   «So dove andare» sorrise T’Vala. 
 

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Capitolo 7
*** Fuochi di guerra ***


-Capitolo 6: Fuochi di guerra

 

   A poche centinaia di km dalla Sfera, l’Enterprise e le dieci Dreadnought mantenevano le posizioni. Le astronavi spiccavano come macchioline scure contro le tinte infuocate delle anomalie circostanti. Attendevano un segnale dal Collettore, che avrebbe fatto divampare la battaglia. Nel frattempo si sondavano a vicenda ed elaboravano vettori d’attacco, cercando di trovare un vantaggio.

   E il segnale venne. Ma non fu quello previsto. Di punto in bianco, le Dreadnought sbandarono. Con la morte della Regina, anche tutti i Parassiti Neurali erano periti. In tutta la Galassia, dentro e fuori il territorio federale, migliaia di schiavi stavano tornando in sé. Molti si rivolgevano ai medici, o alle forze di polizia locali, o alla Flotta Stellare. Alcuni pensavano già a come estrarre il Parassita per poi rivenderlo al mercato nero. E sulle Dreadnought era scoppiato il caos.

   «Comandante, le navi stanno rompendo la formazione» rilevò Terry sulla plancia dell’Enterprise. «Si direbbero allo sbando».

   «È il momento. Ci porti dentro la Sfera e la distrugga!» ordinò Ilia.

   «Con piacere» annuì Terry. Chiuse gli occhi, attingendo a tutte le sue capacità di calcolo. I banchi anti-polaronici dell’Enterprise entrarono in funzione. I raggi violetti colpirono il generatore di raggio traente della megastruttura, con una serie di scariche concentrate, facendolo esplodere. La deflagrazione si allargò sulla superficie della Sfera, coinvolgendo vari livelli. L’Enterprise era libera.

   L’ammiraglia balzò in avanti a massimo impulso. Sgusciò fra le Dreadnought e s’introdusse nella Sfera, attraverso la parte incompiuta del guscio. Non c’era uno scudo a bolla che la proteggesse, perché l’avrebbe resa inefficace. C’erano però centinaia di cannoni a particelle, che bersagliarono l’Enterprise, mettendo a dura prova i suoi scudi.

   Ma Terry aveva avuto tutto il tempo di calcolare il vettore d’attacco. Tra milioni di possibili traiettorie, aveva scelto quella che la esponeva al minor fuoco di sbarramento. E aveva individuato i bersagli da colpire. Attaccò pesantemente la Sfera, con tutte le armi, colpendone ogni punto critico.

   Era una scena apocalittica. La megastruttura vibrava, bombardata da decine di siluri quantici, transfasici, cronotonici. Ciascuno seguiva una traiettoria predeterminata, per fare più danno possibile. I raggi anti-polaronici e i cannoni a impulso bifasici dell’Enterprise disegnavano una ragnatela mortale all’interno della Sfera. La nave girava intorno al fascio energetico centrale, indugiando soprattutto intorno ai poli, per colpire il reattore. Mai prima di allora una singola nave federale aveva sfoggiato tanta potenza di fuoco. Interi brandelli di Sfera furono tranciati dal guscio e si allontanarono nello spazio, roteando sui loro assi. Le esplosioni si allargarono, propagandosi lungo le linee dei sistemi energetici, raggiungendo altri settori che esplosero a loro volta. Di lì a poco la Sfera cominciò a collassare. I suoi sistemi difensivi smisero di fare fuoco. Centinaia di livelli abitativi, che avevano richiesto decenni per essere completati, furono divorati dalle esplosioni a catena.

   «È ora di uscire, qui fra poco farà caldo» disse Terry. Scagliò un’ultima salva di siluri contro il guscio sferico, aprendo un ampio squarcio. E l’Enterprise vi passò attraverso, mentre la Sfera era squassata da esplosioni sempre più catastrofiche.

 

   «È inammissibile!» gridò la Messaggera, entrando quasi di corsa nell’hangar. Attorno a lei c’era una fitta scorta di Tuteriani; altri ancora l’attendevano intorno all’Auriga. Lo shuttle del Capitano non era stato distrutto solo perché i Tuteriani pensavano che potesse far loro comodo, per espugnare l’Enterprise e procedere con l’Infiltrazione. Ma le cose erano cambiate drasticamente. «Una rivolta degli schiavi qui, nel nostro Collettore! Sub-comandante, voglio che sia stroncata all’istante!» ordinò la Messaggera al capo delle guardie.

   «Mia signora, è... complicato» rispose quello, nervosamente. «Gli schiavi sono in rivolta non solo qui, ma anche sulle Dreadnought. Senza la Regina si sono liberati in tutta la Galassia. Migliaia di spie e agenti sono sfuggiti al nostro controllo...».

   «Conosco le conseguenze!» l’interruppe la Messaggera. «Mi ascolti bene, voglio che uccidiate ogni singolo schiavo, sia qui che sulle astronavi. E controllate di nuovo quella navetta!» aggiunse, indicando l’Auriga. «Ormai non ci servirà per conquistare l’Enterprise, ma potemmo sempre usarla per raggiungere la Terra e diffondere qualche virus. Piantonate questo hangar, anzi, tutti gli hangar; i federali non devono sfuggirci. Fate in fretta, io... devo andare» disse, portandosi una mano alla tempia.

   «Se posso chiedere, dove...» azzardò il sub-comandante.

   «La Primaria vuole che le faccia rapporto» disse la Messaggera, con un brivido. «Tornerò appena possibile. Lei nel frattempo esegua gli ordini!» esclamò. E si dissolse, richiamata nella sua dimensione.

   I Tuteriani si affrettarono a eseguire. Mentre in tutto il Collettore infuriava la lotta contro gli schiavi in rivolta, centinaia di guardie affluirono negli hangar, circondando le navette. L’Auriga era la più sorvegliata di tutte. Nel frattempo alcuni ingegneri Tuteriani erano saliti a bordo per scansionarla. Fu così che scoprirono lo scomparto segreto a prua. In pochi minuti lo scassinarono, scoprendo il siluro al suo interno. Era un contenitore oblungo, con le estremità smussate, dalla superficie nera e lucida. Sembrava una pillola, se fossero esistite pillole lunghe più di due metri.

   «Che avete trovato?» chiese il sub-comandante, prontamente allertato.

   «Stia attento, signore. Sembra un missile federale» disse il capo-ingegnere. «Abbiamo chiamato la sala teletrasporto, ma non risponde».

   «È un siluro transfasico!» riconobbe il sub-comandante. «Dobbiamo decomprimere subito l’hangar».

   «Un momento, ho strane letture» avvertì il capo-ingegnere, analizzandolo con un sensore. «Sembra che la testata sia stata sostituita con qualcos’altro. Una strana... camera di risonanza». Armeggiò con i controlli del siluro, riuscendo ad aprire la sezione di testa. Ne fuoriuscì un’intensa luce bianco-azzurra, che illuminò lo scomparto segreto e i volti attoniti dei Tuteriani.

   «Che cos’è?» chiese il sub-comandante.

   «Qualche tipo di particella esotica. Anzi, di molecola» disse il capo-ingegnere, cercando di analizzarla. «I federali devono averla prodotta nel loro Universo. Sembra... no, non è possibile!» gemette. «Il timer, guardate se c’è un timer!» gridò, rovistando tra il groviglio di fili e componenti elettronici accanto alla camera di risonanza. In pochi secondi lo trovò. Lui e il sub-comandante lessero le inesorabili cifre rosse: 3, 2, 1...

   «Per il nostro popolo» disse il sub-comandante, chiudendo gli occhi. Poi Omega esplose, annichilendo i Tuteriani, l’Auriga e tutto il Collettore Subspaziale. Non fu solo la struttura a esplodere: l’intera bolla di subspazio in cui si trovava fu obliterata. L’onda d’urto percorse il tunnel, distruggendolo man mano, ed eruppe dall’ingresso esagonale sulla superficie della Sfera. La sua corsa distruttiva non era ancora finita.

 

   «Niente male, come battesimo del fuoco» riconobbe Ilia. Lei e Terry erano in piedi davanti allo schermo principale e osservavano la megastruttura dei Tuteriani che si accartocciava. Anche i droni di costruzione sulla sua superficie erano stati distrutti, prima che potessero sciamare via. Decenni di fatiche erano stati vanificati in pochi minuti. «Rapporto» ordinò Ilia, osservando con distacco tutta quella distruzione.

   «La Sfera è disattivata, anche se il relitto continuerà a bruciare per molti giorni» constatò Terry. «Le anomalie si stanno dissolvendo. Abbiamo di nuovo i sensori e le comunicazioni a medio raggio. Teletrasporto e occultamento operativi. Quanto alle Dreadnought, sono ancora allo sbando» rilevò. «In queste condizioni possiamo distruggerle».

   «Proceda» disse Ilia, sperando ancora di soccorrere il Capitano.

   «Un momento, qualcosa sta uscendo dal portale» avvertì l’IA.

   «Sono i nostri?» chiese Ilia.

   «Negativo, rilevo due tracce tuteriane. Sembrano navette o gusci di salvataggio. Con queste esplosioni, i miei sensori sono disturbati» si scusò Terry. Inquadrò il portale. L’ingresso esagonale lampeggiava, instabile; presto le esplosioni della Sfera l’avrebbero spazzato via. Due piccole capsule tuteriane se ne stavano allontanando. Ma dal portale eruppe una formidabile onda d’urto azzurrina, che le fece schizzare via come foglie in un uragano e scosse persino l’Enterprise.

   «Quella era...» mormorò Ilia.

   «Sì, Comandante: un’onda d’urto subspaziale» confermò Terry, rattristata. «La Bomba Omega è esplosa. Il Capitano e gli altri sono morti».

   «Non è stato invano» disse Ilia, provata. «Rapporto sul Collettore».

   «Il tunnel subspaziale è collassato» rispose Terry. «Rilevo che il subspazio è distrutto nel raggio di tre giorni-luce, come previsto dall’Ingegnere Capo. Qualunque cosa ci fosse oltre quel portale, è stata annichilita». Mentre parlava, l’ingresso ormai spento del tunnel fu distrutto dalle esplosioni.

   «Beh, direi che possiamo lasciare la Macchia» disse Navarro. Non mostrava il minimo rammarico per la perdita del Capitano e degli altri ufficiali.

   «Ha fretta di andarsene?» chiese Ilia, lanciandogli un’occhiataccia.

   «Sono gli ordini del Capitano» si difese il Consigliere.

   «Non l’ho mai visto così ansioso di obbedirgli» notò il Primo Ufficiale.

   «Comandante, rilevo un SOS» avvertì Grog.

   «Inviato dal nemico?» chiese la Trill, che non era in vena di salvataggi.

   «No, inviato dai nostri!» si meravigliò il Ferengi. «Ci chiamano con i comunicatori».

   «Ma da dove?! Dove sono?» esclamò Ilia, girandosi verso lo schermo. Notò due puntini che galleggiavano davanti a un mare di esplosioni. I due gusci fuoriusciti dal tunnel subito prima che Omega spazzasse via tutto. Possibile?

   «Qui Chase, siamo nei gusci da esperimenti dei Tuteriani» risuonò la voce del Capitano all’altoparlante. «Non aprite il fuoco, ripeto, non aprite il fuoco! Se la situazione è abbastanza sicura, là fuori, portateci subito a bordo».

   «Sì, Capitano. È bello sentire la sua voce» disse Ilia, commossa. «Terry, li teletrasporti a bordo. Abbassi gli scudi solo per il tempo indispensabile».

   «Tre secondi basteranno» rispose Terry.

   I gusci svanirono dallo schermo, materializzandosi in due diverse sale teletrasporto dell’Enterprise. Per non perdere l’occasione di studiare la tecnologia tuteriana, Terry aveva teletrasportato anche quelli.

   «Scudi ripristinati. Attendo ordini» disse Terry.

 

   In sala teletrasporto, Grenk e i suoi ingegneri aprirono il guscio alieno più in fretta che poterono. Dentro c’era un cilindro trasparente più sottile, da cui erano stati strappati in fretta i cavi e le altre apparecchiature mediche, per fare più spazio. E lì, nello spazio angusto progettato per un solo Tuteriano, c’erano Chase e Neelah. Per starci si erano dovuti mettere praticamente abbracciati. Quando il cilindro interno fu estratto, il Capitano e la biologa si guardarono attorno, abbagliati dalle luci. Erano circondati dalla squadra ingegneristica di Grenk e da quella medica di Korris, che li fissavano apprensivi. Si scambiarono uno sguardo imbarazzato e si affrettarono a districarsi.

   «Ehm, salve, dottore» salutò Chase, mettendosi seduto.

   «Capitano, venga subito in infermeria» disse Korris, preoccupato. «Intanto le do questo, contro gli effetti delle anomalie» disse, facendogli un’iniezione ipodermica. «E un bel po’ di arithrazina contro le radiazioni di Omega» aggiunse, svuotandogli un’altra siringa nella spalla, sopra l’attaccatura del braccio artificiale. «Ma lei è ferito!» si preoccupò, vedendo i profondi squarci nel braccio. «Cioè... danneggiato» si corresse, notando che si trattava dell’arto meccanico.

   «Vuole che lo sistemi io?» suggerì Grenk.

   «Dove sono Lantora e T’Vala?» chiese il Capitano, che aveva notato la loro assenza.

   «In sala teletrasporto 2. Un’altra squadra medica si sta occupando di loro» disse una proiezione di Terry, facendosi avanti. «Capitano, il fatto che siate sopravvissuti sconvolge le mie subroutine logiche».

   «Anch’io sono felice di rivederla» sorrise Chase. «Come vanno le cose, qua fuori?».

   «La Sfera è distrutta, le anomalie sono dissolte. Siamo di nuovo operativi al 100%» riassunse Terry. «Restano le Dreadnought, anche se sembrano allo sbando. Che vuole fare con loro?».

   «Aspetti, vengo subito in plancia» disse Chase, tornando sulla pedana del teletrasporto.

   «Dove crede di andare? Lei mi seguirà in infermeria!» protestò Korris, che intanto aveva fatto le iniezioni anche a Neelah.

   «Ora non ho tempo» disse Chase. «Si preoccupi della dottoressa, piuttosto: un Parassita Neurale è appena morto nel suo collo, non vorrei che avesse danni neurologici. E controlli anche T’Vala: le hanno dato un soppressore neurale e le hanno tolto parecchio sangue».

   «Korris a infermeria, preparate una trasfusione di sangue vulcaniano. Gruppo T positivo» disse il medico al comunicatore. «Faccia quel che deve, Capitano, ma appena avrà finito venga in infermeria» raccomandò. Non era più timido e impacciato come i suoi colleghi l’avevano visto finora: quando i suoi pazienti erano in pericolo, Korris Vrel era molto professionale.

   «Okay, energia!» ordinò Chase. La sala teletrasporto si dissolse attorno a lui, sostituita dalla plancia. Gli ufficiali applaudirono il suo ritorno, con la vistosa eccezione di Navarro.

   «Bentornato, signore. Le restituisco il comando» lo salutò Ilia, sollevata. Il teletrasportò ronzò di nuovo, materializzando anche Lantora.

   «Tutto bene?» gli chiese il Capitano, vedendoselo apparire a fianco.

   «Abbiamo ballato un po’, quando Omega è esplosa. Ma sì, stiamo bene» rispose l’Ufficiale Tattico, tornando alla sua postazione. «I dottori stanno portando T’Vala in infermeria».

   «Adesso pensiamo alle Dreadnought» disse Chase, lasciandosi cadere in poltrona. Gli sembrò più accogliente e confortevole che mai. «Pronti allo scontro. Terry, mi faccia vedere quelle navi» ordinò.

   Le Dreadnought apparvero sullo schermo. Erano ancora allo sbando e Chase ne immaginava il motivo. I Tuteriani a bordo cominciavano a sentirsi male, ora che le anomalie si erano dissolte.

   «Apriamo il fuoco, Capitano? Possiamo distruggerle, finché sono così» suggerì Lantora.

   «No, Tenente. Quelle navi hanno sbandato perché gli schiavi a bordo si sono ribellati» rispose il Capitano. «Temo che molti, forse la maggior parte, siano stati uccisi. Ma è grazie a loro che l’Enterprise ha potuto colpire la Sfera. Dobbiamo salvare i superstiti». In quella una della Dreadnought esplose. Era lontana, ma la detonazione fu così potente da scuotere l’Enterprise.

   «Ma che...» mormorò Chase.

   «La nave di testa ci chiama, Capitano» disse Grog.

   «Sullo schermo» ordinò Chase. Si trovò a fissare nuovamente la Messaggera.

   «Capitano Chase... è sopravvissuto» constatò l’aliena con disappunto.

   «Siamo sopravvissuti tutti e quattro, Messaggera. Mentre lei ha perso» rispose Chase. «E adesso che sta facendo?» chiese, sentendo che l’Enterprise sobbalzava per l’esplosione di un’altra Dreadnought. «Perché distrugge le sue navi?».

   «Non ho scelta» rispose la Messaggera. «Come avrà capito, i nostri equipaggi si sentono male, ora che non ci sono più anomalie. Devo richiamarli indietro. Ma non posso lasciare le nostre navi da guerra in mano al nemico. Perciò devo distruggerle».

   Un terzo scossone segnalò che un’altra Dreadnought era andata. Ad ogni esplosione, centinaia d’innocenti erano uccisi.

   «Non deve farlo. Almeno mi faccia teletrasportare i superstiti sull’Enterprise» suggerì Chase.

   «Nessuno può tradirci e sopravvivere... sentito, Lantora?» rispose la Messaggera. «Quei morti saranno un monito per lei e per tutta la Federazione». Un quarto scossone, altre vittime.

   «Questo massacro inutile non cambia le cose: voi siete sconfitti» disse Chase.

   «Sciocchezze... non avete la minima idea del nostro potenziale bellico» ribatté la Messaggera. «Possiamo aver perso una battaglia, ma la guerra è appena cominciata». Quinto scossone.

   «Non vi conviene dichiararci guerra» ammonì Chase. «La vostra Vate vi ha già avvisati che sarete sconfitti».

   «Non sottovaluti la nostra conoscenza delle linee temporali» ribatté la Messaggera. «Ci sono molti modi per piegarle al nostro volere». Sesto scossone.

   «Fallirete; presto tutta la Federazione saprà di voi» disse Chase.

   «Già, immagini il panico, la confusione» sorrise la Tuteriana. «La vostra Federazione è debole, Capitano. È in pace da così tanto tempo che non riesce più nemmeno a pensare la guerra, a capire cosa sia. Figurarsi a combatterne una! I vostri leader preferiscono ritirarsi e i vostri cittadini preferiscono credere che sia tutto un complotto. Anzi, sono certa che molti simpatizzeranno con la nostra causa». Settimo scossone.

   «Anche se fuggite da un Universo che collassa, questo non vi dà il diritto di sterminarci» disse Chase. «E per inciso... non abbiamo prove che il vostro Universo stia morendo. Abbiamo solo la parola di una bugiarda». Ottavo scossone.

   «Verità e bugie sono concetti relativi, Capitano» rispose la Messaggera, divertita. «Ognuno si crea la realtà che più gli aggrada. Ma adesso le dico un fatto: da questo momento, i Tuteriani sono in guerra con la Federazione». Nono scossone.

   «Ci avete dichiarato guerra molto tempo fa» rispose Chase. «Se volete chiudere la partita, così sia».

   «Così sia». La Messaggera si dissolse, risucchiata nella sua dimensione. Subito dopo la comunicazione fu chiusa; sullo schermo apparve l’ultima Dreadnought. Ancora qualche secondo e si auto-distrusse, uccidendo gli ultimi ribelli. Rimase solo l’Enterprise, a galleggiare in uno spazio affollato di rottami e gas incandescenti. Molti detriti rimbalzarono sui suoi scudi. Poco lontano, i resti contorti della Sfera continuavano ad ardere.

 

   «Timoniere, tracci una rotta per uscire dalla Macchia di Rovi» ordinò Chase stancamente.

   «Sì, Capitano» rispose questi, un Rigeliano.

   «Quanto ci vorrà?».

   «Quattro giorni a massimo impulso per uscire dalla zona in cui il subspazio è distrutto» rispose il Rigelieno. «Altri tre per uscire dalla Macchia di Rovi».

   «Un’intera settimana! Speravo di poter avvertire prima la Federazione» si dispiacque Chase.

   «La Macchia di Rovi non è come la Distesa Delfica, Capitano» commentò Terry. «Non è stata creata dalle anomalie dei Tuteriani. Quelle avevano molto peggiorato le cose, certo. Ma anche in loro assenza, la Macchia resta un luogo pericoloso».

   «Uhm, sì» borbottò Chase, sfregandosi la fronte. «Tolga l’Allarme Rosso e apra un canale con tutta la nave».

   «Fatto, signore».

   «Qui è il Capitano Chase. Come avrete sentito, l’Enterprise ha appena sopportato un duro scontro a fuoco. La buona notizia è che non abbiamo vittime. E la nave è pienamente operativa» disse, scorrendo il rapporto stilato da Terry. «Ora veniamo alle notizie cattive». Sospirò, guardandosi il braccio metallico pieno di tagli. Si sentiva esausto e dolorante, non vedeva l’ora di andare in infermeria e poi a dormire. Ma voleva fare subito questo annuncio.

   «Al centro della Macchia di Rovi abbiamo incontrato dei nemici spietati. Si chiamano Tuteriani e provengono da un Universo parallelo. Sono fermamente decisi a invadere la nostra Galassia e rimodellarla con una tecnologia che la renderà colonizzabile da loro, ma letale per noi. Se avranno successo, distruggeranno ogni cosa. Perciò faremo rotta verso la Terra, per dare l’allarme. 

   Mi spiace comunicarvi notizie tanto gravi, ma dovete essere informati. E ora mi rivolgo ai civili. I Tuteriani ci hanno formalmente dichiarato guerra e potrebbero tornare ad attaccarci; che accada o meno, è fondamentale che manteniate la calma. Se volete contattare i vostri cari potete registrare fin d’ora dei messaggi, ma ricordate che le comunicazioni con la Terra saranno possibili solo fra una settimana. Se al ritorno vorrete lasciare l’Enterprise, sarete accontentati. Vi forniremo al più presto ulteriori dettagli. Nel frattempo mantenete l’ordine, come avete fatto finora. Siate di esempio per gli altri cittadini federali. Chase, chiudo».

   «Capitano, rilevo circa tremila chiamate di emergenza» disse Terry.

   «Circa? Terry, lei diventa ogni minuto più umana» disse Chase, riuscendo persino a sorridere. «Ma spero che non lo sia troppo, perché dovrà occuparsene lei. Io vado in infermeria. Lantora, venga con me. Ilia, a lei la plancia».

 

   Il giorno dopo, i quattro sopravvissuti alla missione nel Collettore erano ancora in infermeria. Korris e la sua squadra li avevano sottoposti a svariati esami e avevano curato le loro ferite. Si erano concentrati soprattutto su Neelah e T’Vala, che avevano subito i traumi peggiori. Ma adesso toccava a Chase. Korris gli aveva rimosso il braccio artificiale, danneggiato, e ne stava preparando un altro.

   «Sono certo che lo troverà adeguato» disse il dottore, in piedi accanto al lettino del Capitano. «L’infermeria della Ascension era antiquata e anche il braccio che le misero era... beh, sorpassato. Mi stupisce che non l’abbia cambiato, dopo il suo ritorno sulla Terra».

   «Cerco di non cambiare più di un braccio a decade» rispose Chase, osservandosi malinconico l’arto monco. «Quanto ci vorrà perché sia pronto quello nuovo?».

   «Lo stiamo calibrando. Ancora un’oretta e potremo procedere con l’intervento» assicurò Korris. «In realtà, più che le sue condizioni fisiche, sono quelle psicologiche a preoccuparmi. Lei ha vissuto un’esperienza devastante. Tutti e quattro l’avete vissuta» disse Korris, dando un’occhiata agli altri pazienti nei loro lettini.

   «La meditazione vulcaniana è tutto quel che mi occorre per ritrovare la serenità» disse T’Vala, serafica. La trasfusione di sangue le aveva ridato colore e gli effetti del soppressore neurale erano svaniti.

   «E per il suo lato Betazoide, che intende fare?» inquisì Korris.

   «Per quello posso provare il programma di Risa sul ponte ologrammi» ridacchiò la timoniera.

   «E lei, Neelah?» chiese Korris, passando alla paziente successiva.

   «Io sto bene» rispose la biologa, senza alzare gli occhi dal suo d-pad.

   «Che?! No, lei non sta bene!» s’indignò Korris. «Ieri un Parassita Neurale ha assunto il controllo del suo sistema nervoso. Poi è morto, lì dentro il suo collo. Poche ore fa ho rimosso chirurgicamente i resti. Quindi non mi dica che è a posto! Ho parecchie altre analisi da fare».

   «Dottore, posso eseguirle io stessa!» protestò Neelah, abbassando il d-pad. «Mi faccia andare nel mio laboratorio, lì ho tutti gli strumenti».

   «Come no! Lei va nel suo laboratorio, entra in quell’alcova degli orrori e crede di rigenerarsi» la canzonò Korris. «Se non glielo avessi impedito, avrebbe trascorso la notte lì in piedi. Stia nel lettino, invece... finché non la chiamo per la prossima scansione. E beva questo!» aggiunse, porgendole un bicchierone pieno di un liquido bianco e caldo.

   «Che razza di supplemento nutritivo è?» chiese l’Aenar, rigirandolo con sospetto.

   «Quello che le ho consigliato la prima volta, un bel latte caldo. Con un po’ di miele» spiegò Korris.

   «Mi hanno svezzata da un pezzo» disse Neelah, un po’ imbronciata, ma si rassegnò a bere.

   «E lei, Lantora?» chiese Korris, passando al suo ultimo paziente.

   «Mi sento come dopo dieci riprese con un Rettile, ma a parte questo, tutto okay» rispose l’Ufficiale Tattico.

   «Può riprendere servizio nel pomeriggio» annuì Korris.

   «Come, a lui dice che può riprendere servizio?» s’inalberò Neelah.

   «Lui è quello che sta meglio... e l’unico che non ha cercato di minimizzare» spiegò Korris. Riprese il bicchiere, che Neelah aveva appena svuotato.

   «A proposito del mio Parassita... non l’avrà distrutto, vero?» chiese l’Aenar. «Se ce l’ha ancora vorrei che me lo consegnasse, per l’autopsia».

   «E poi se lo terrà sulla scrivania come ricordino?» chiese il mezzo Cardassiano, ironico ma neanche tanto.

   «Dottore, può lasciarci un momento?» chiese il Capitano. «Abbiamo cose di cui discutere».

   «D’accordo, controllo a che punto sono gli altri col suo nuovo braccio» accondiscese Korris. «Ma cerchi di non stancarsi» raccomandò, lasciando la stanza. I quattro pazienti rimasero soli.

   «Capitano, che cosa dovremmo mettere nel rapporto?» chiese Lantora.

   «Tutta la verità. Con una guerra alle porte, non è il caso di tenerci dei segreti, le pare?» rispose Chase.

   «Sì, signore. Per quanto è accaduto in quel laboratorio, io...» cominciò lo Xindi, a disagio.

   «Lei ha a cuore la sua specie e il suo pianeta, Lantora. Non posso certo biasimarla» disse Chase. «Mi rallegro che non abbia creduto a quella manipolatrice».

   «Ora capisco cosa deve aver provato Degra» ammise Lantora. «La Messaggera prometteva molto. Un Impero Xindi! Ma saremmo stati comunque schiavi dei Tuteriani. A proposito... crede che riescano davvero a prevedere il futuro? O era una menzogna anche quella?».

   «La distruzione di Nuova Xindus è senz’altro un inganno» disse il Capitano. «Ma per il resto... temo che riescano davvero a fare previsioni. Anche Archer, nella registrazione, ne era convinto. Disse che gliene aveva parlato un Agente Temporale del XXXI secolo» rivelò.

   «Ma lei crede che questi Agenti Temporali esistano davvero?» chiese Lantora.

   «Perché no? Già adesso sappiamo come viaggiare nel tempo, anche se servono astronavi veloci e una buona dose di fortuna» rispose Chase. «È probabile che nei prossimi secoli il viaggio nel tempo progredirà tanto da diventare una tecnologia comune. E questo ci porta alla Guerra Fredda Temporale. Archer me ne ha parlato. Diceva che i Tuteriani, grazie alla loro capacità predittiva, sono una delle fazioni più pericolose di questa guerra».

   «Ma stavolta li abbiamo sconfitti» disse Lantora, speranzoso. «Come mai non l’hanno previsto?».

   Chase esitò. Al suo posto rispose T’Vala. «Capitano, c’è una spiegazione logica» disse. «Ovviamente non so come funzioni quella tecnologia, ma può darsi che riesca a prevedere solo i grandi mutamenti storici. I comportamenti delle masse, insomma, che possono essere analizzati statisticamente con procedimenti matematici. Ma i dettagli, come le decisioni personali, potrebbero essere imprevedibili e sfuggire quindi all’analisi».

   «Come la psicostoria» commentò Chase.

   «Mi perdoni, non conosco questa disciplina» disse T’Vala, imbarazzata.

   «No, no, è solo una cosa di fantasia» sorrise Chase. «Nel XX secolo, uno scrittore di fantascienza terrestre, Isaac Asimov, immaginò che in un lontanissimo futuro si sarebbe sviluppata una branca della matematica chiamata psicostoria. Secondo questa congettura, i comportamenti delle grandi masse erano prevedibili statisticamente, mentre l’arbitrio dei singoli non lo era. La tecnologia dei Tuteriani sembra proprio così. Almeno lo spero... sarebbe un grosso limite al loro potere» disse speranzoso.

   «Allora dobbiamo sperare che qualche singolo individuo riesca a fare la differenza» intervenne Neelah. «È un problema inedito, dovremo parlarne con Terry. Pensi se anche noi riuscissimo a sviluppare questa... psicostoria, se vuol chiamarla così. Riequilibrerebbe lo scontro».

   «Mah... non so come funzionerebbe una guerra in cui entrambe le parti prevedono le mosse dell’altra» disse Chase. «Comunque, per adesso, dobbiamo puntare sull’imprevedibilità. Forse solo gli Agenti Temporali del XXXI secolo avranno la capacità predittiva dei Tuteriani».

 

   «Che devo fare con questi?» chiese Grenk, osservando i due gusci medici Tuteriani, che erano stati trasferiti in un hangar secondario. Si fregò le mani, prevedendo la risposta.

   «Li analizzi atomo per atomo. Li sottoponga a tutti i test che le vengono in mente» rispose Lantora. «Più ne sappiamo sulla tecnologia tuteriana, meglio è. Certo, abbiamo i dati raccolti dall’Enterprise NX-01, ma...».

   «I loro sistemi di analisi erano preistorici» disse Grenk. «Si rende conto che facevano ancora le fotografie?! Bah! So io dove mettere le mani, con questi gioiellini!» gongolò.

   «Cerchi qualunque punto debole nella lega dello scafo. Qualunque modo per ingannare i sensori» si raccomandò Lantora. «Se vuole smontarne uno, lo faccia pure a pezzi. Ma conservi l’altro per la Flotta».

   «E cosa potrebbe trovare la Flotta, che non abbia già scoperto io?» chiese Grenk. «Va bene, farò come dice. Smonterò il guscio che avete usato lei e T’Vala. L’altro – eh eh – è lo yacht del Capitano!» ridacchiò.

   «Si muova, non abbiamo tempo da perdere» raccomandò Lantora.

 

   Chase passeggiava nella Piazza Centrale, guardandosi attorno con attenzione. Su una cosa la Messaggera aveva ragione: portare così tanti civili a bordo era una scelta discutibile. La Flotta Stellare era davvero invecchiata, si disse Chase. L’unico modo per portare la gente nello spazio era farle dimenticare di essere nello spazio. Ma con la guerra incombente, questo non era più possibile.

   «Capitano, lieto di vederla in piedi!» lo salutò Neelah, apparendo tra la folla. «Com’è andata l’operazione?» chiese, avvicinandosi.

   «Bene, il nuovo braccio funziona a meraviglia» rispose il Capitano, flettendo le dita e osservandone il movimento. «È anche meglio dell’altro».

   «Allora potrà fare a pezzi le paratie» sorrise Neelah, scherzando ma non troppo.

   «La prossima volta che incontrerò i Tuteriani, spero di essere armato» si augurò Chase. «E lei come sta?».

   «Mi sono ripresa» disse Neelah, massaggiandosi il collo. «Sa, aveva ragione, sui Parassiti Neurali. Sono davvero le creature più vili, disgustose e malvagie che infestano lo spazio».

   «Mi spiace che l’abbia scoperto in questo modo» disse il Capitano. Di lì a poco passarono davanti all’Antro del Drago.

   «Che ne dice, facciamo uno spuntino?» suggerì il Capitano. «L’altra volta siamo rimasti nell’anticamera. Stavolta potremmo esplorare l’Antro».

   «Sa che non mangio carne» esitò Neelah.

   «Sono certo che Raav non si offenderà, se gli chiede un piatto vegetariano».

   «Allora... d’accordo, Capitano» accettò l’Aenar.

   Passata l’anticamera, raggiunsero il salone principale, rivestito con finta roccia e illuminato dal braciere. Sedettero a un tavolo.

   «Non pensavo fosse così caldo, quaggiù» disse Chase. «Mi spiace, non avevo riflettuto che gli Andoriani preferiscono il freddo. Se non sta bene possiamo andare altrove».

   «Posso resistere, Capitano» assicurò Neelah. «Uhm, che ambiente pittoresco» commentò guardandosi attorno.

   «Che cosa desiderate?» chiese Raav, facendosi avanti con i menu. «La specialità del giorno è arrosto di targ con contorno di gagh. Un’antica prelibatezza Klingon. Posso servirvi il gagh cotto o crudo, e se preferite anche vivo, come piace agli intenditori».

   «Vuol farmi mangiare dei vermi vivi?!» chiese Neelah, scioccata. «È così... antigienico!» si lamentò.

   «La dottoressa è vegetariana» spiegò Chase.

   «Sì, non avrebbe un brodino vegetale?» chiese Neelah.

   «Se vuole un brodino, lo chieda al replicatore» sbuffò Raav. «Qui abbiamo ricette vere. Vulcaniane, Bajoriane, Boliane... ecco, questo è il menu vegetariano» disse. Glielo allungò tenendolo con la punta degli artigli.

   «Grazie, ci dia qualche minuto» disse Chase.

   «Mi hanno appena tolto un invertebrato dal collo e lui voleva farmene mangiare degli altri!» sbuffò Neelah, quando il Gorn si fu allontanato. «Se ripenso a quei momenti... uh, a proposito!» disse, osservando Chase con un sorriso malizioso. «È vero quel che mi ha detto nel Collettore? Che sono la persona più cocciuta, strafottente e solipsista che abbia mai conosciuto? Perché se è così, è ben strano che mi abbia invitata» commentò.

   «Ricorda proprio tutto, eh?» mormorò Chase, a disagio. «Senta, mi dispiace. Eravamo tutti sotto pressione, in quel momento, e ho esagerato. Ma cercavo di scuoterla, di costringerla a reagire. Sembrava sotto il controllo del Parassita, e... un momento! Lei era in sé, quando mi ha fatto quel discorso sui Tuteriani che erano superiori e le leggi federali che non valevano niente?».

   «Se ero in me?» chiese Neelah. Aveva nascosto il volto dietro al menu, così che solo le antenne craniali sporgevano al di sopra.

   «Sì, lei ha detto che le nanosonde hanno aggredito il Parassita fin da subito. Ma sarà servito un po’, prima che lo uccidessero. Quindi, almeno per qualche minuto, lei è stata sotto il suo controllo. Quand’è tornata in sé? Perché vorrei capire quanto io e Lantora siamo stati in pericolo».

   «Capitano, preferisco non parlare di lavoro a tavola» disse Neelah, abbassando il menu e guardandolo negli occhi.

   «Come preferisce» disse Chase. Doveva ammettere che gli occhi azzurri dell’Aenar erano davvero belli. Ingegnerizzati o no, gli piacevano.

 

   «Un brodino vegetale, bah!» borbottò Raav, passando tra i fornelli. «Cliff, ti spiace occuparti del tavolo del Capitano? C’è un’Andoriana albina che vuole solo piatti vegetariani».

   «Certo, chef» disse il cuoco Boliano, che stava rimescolando in un pentolone.

   «Grazie, amico».

   Il Gorn andò in una saletta più piccola, dietro alla cucina, dove c’erano alcune gabbiette. Contenevano piccole creature batuffolose, di vario colore, che emettevano un trillo musicale. Alcune si erano arrampicate sulle pareti trasparenti delle gabbie, anche se non era chiaro come facessero a restarvi appiccicate. Triboli. Erano le creature più inutili della Galassia: tutto quel che facevano era mangiare e riprodursi, a un ritmo incredibile. Se gli si dava più dello stretto necessario per sopravvivere, se ne veniva sommersi. Erano ermafroditi, quindi non gli serviva nemmeno un compagno, e i cuccioli nascevano già incinti. Il diverso colore della pelliccia dipendeva solo da un’oscillazione genetica.

   «Salve, ragazzi» disse Raav, ben sapendo che quelle creature non possedevano la minima scintilla d’intelligenza. «Vedo che mi state di nuovo riempiendo il retrobottega. Per fortuna, so io cosa fare. Non tutti sono vegetariani, su questa nave!» gongolò. Scoperchiò una gabbia, prese un tribolo e la richiuse subito, prima che gli altri scappassero. Il Tribolo pigolò.

   «Scusa, ma noi rettili siamo così» disse Raav. E lo inghiottì in un sol boccone.

 

   «Stiamo uscendo dalla Macchia di Rovi» disse Terry.

   «E siamo in orario» constatò Chase, seduto sulla poltrona di comando. Attorno a lui, la plancia ferveva di attività. «Quattro giorni a impulso, tre a minima cavitazione. È una fortuna che i Tuteriani non ci abbiano più dato fastidio» disse il Capitano.

   «Crede che la loro dichiarazione di guerra fosse un bluff?» chiese il Consigliere Navarro.

   «Non oso sperarlo» sospirò Chase. «Terry, appena avremo di nuovo le comunicazioni a lungo raggio contatti la Terra. Invii i nostri rapporti, le registrazioni, le analisi... tutto quel che abbiamo sui Tuteriani».

   «Sì, signore» disse Terry. Sullo schermo i gas arancioni della Macchia si dissolsero, mentre l’Enterprise ne abbandonava le propaggini. Adesso c’era solo lo spazio nero, punteggiato di stelle.

   «Comunicazioni ripristinate. Un momento, signore... è molto strano!» disse Terry, interdetta.

   «Cosa è strano?» chiese il Capitano.

   «I sensori a lungo raggio rilevano solo le colonie e gli avamposti più vicini. Non riesco a comunicare fuori dal settore. C’è come una barriera che... oh, no!» disse, colorandosi di blu elettrico per un istante.

   «Terry, quel glitch non mi è piaciuto per niente» disse Chase. «Che rileva?».

   «Un momento, cerco di adattare i sensori. Devo capire quante... elaboro» disse Terry, irrigidendosi. Per qualche secondo gli ufficiali la fissarono con apprensione.

   «È confermato» disse Terry, affranta. «I Tuteriani hanno materializzato vaste reti di Sfere nello spazio federale. Le Sfere emettono notevoli radiazioni gravimetriche, anche se non intense come quelle al centro della Macchia. Stanno riconfigurando lo spazio. Tra una Sfera e l’altra ci sono fasci o... membrane di anomalie, che attraversano lo spazio federale, isolando i vari settori».

   «Sta dicendo che hanno frantumato la Federazione in tante zone che non riescono più a comunicare?» domandò Chase, atterrito. Era peggio di quanto avesse immaginato.

   «Sì, Capitano» confermò Terry. «Per la Flotta sarà difficile contrattaccare, o anche solo riunire le forze. Le astronavi sono isolate nei settori in cui si trovano al momento. Noi possiamo attraversare le anomalie, ma le navi più vecchie avranno problemi».

   «Cerchi di capire quante sono le Sfere e tracci una mappa» ordinò Chase.

   «Lo sto facendo. Ecco» disse Terry. Sullo schermo comparve uno schema dello spazio federale circostante, con evidenziati i settori. Era tutto fratturato, attraversato da reti di anomalie, simili a ragnatele.

   «Frell, ci hanno fatti a brandelli!» mormorò Ilia. Lei e Chase si alzarono in piedi, per osservare più da vicino.

   «Se la densità delle Sfere è omogenea, sono circa trecento» calcolò Terry.

   «Quelle della Distesa Delfica erano 72» ricordò Lantora, cupo. «E ne hanno fatti, di danni».

   «È logico supporre che i Tuteriani abbiano corretto la loro vulnerabilità» avvertì T’Vala, dalla postazione del pilota. «Non credo che basterà colpire una Sfera di controllo per distruggere tutta la rete».

   «Cerco di migliorare la mappa» disse Terry. L’immagine sullo schermo si precisò, arricchendosi di dettagli. «Vedete? Le anomalie sono disposte come il tessuto filamentoso di una spugna, mentre le “bolle” vuote sono i settori di spazio non trasformato. Sto rilevando anche diverse Dreadnought tuteriane. Ce ne sono venti che pattugliano lo spazio alterato intorno a noi, in diversi punti».

   «Non possiamo indugiare. T’Vala, tracci una rotta verso la Terra» ordinò Chase. «Se le anomalie l’avessero colpita...» disse, non osando pensare alle conseguenze.

   «Sarebbe l’occasione per collaudare il nuovo Scudo Planetario» disse Terry.

   «Pensa che la difenderebbe dalle anomalie?» chiese il Capitano.

   «Dovrebbe, anche se non è sofisticato come il mio» rispose Terry. «Il problema è che consuma moltissima energia. Non può essere mantenuto a lungo».

   «E gli altri pianeti federali?» chiese Ilia, allarmata. «Pochi hanno il lusso di uno Scudo Planetario. La maggior parte è indifesa».

   «Per questo dobbiamo fare rapporto al Comando ed elaborare una contromossa» disse Chase. «T’Vala, la rotta?».

   «Fatto, signore. L’ho calcolata in modo da attraversare meno spazio trasformato possibile» rispose la timoniera. «In tre giorni a massima velocità raggiungeremo la Terra».

   «Sempre che ci sia ancora» disse Chase cupo, risedendosi sulla poltrona di comando. «Va bene, signori. La guerra contro i Costruttori di Sfere ci era stata profetizzata da secoli. Ora è cominciata. Ci aspettano tempi difficili. Non potremo contare molto sul resto della Flotta, che ha più problemi di noi ad attraversare le anomalie. Possiamo contare solo uno sull’altro, qui sull’Enterprise. Raggiungeremo la Terra e la difenderemo. Proteggeremo anche i cantieri di Marte, dove sono in costruzione nuove astronavi, meglio equipaggiate contro il nemico. E quando il sistema solare sarà al sicuro, partiremo al contrattacco. Distruggeremo le Sfere una per una, se necessario. Senza le anomalie, i Tuteriani non possono resistere, nemmeno a bordo delle loro Dreadnought. Quando vedranno i loro corpi andare in pezzi, capiranno che hanno invaso l’Universo sbagliato. E ora... rotta verso la Terra. Attivare!» ordinò.

   Attorno a lui, l’equipaggio di plancia reagì con l’efficienza di un meccanismo ormai collaudato. Ognuno allertava le proprie sezioni, riferendo la situazione, impartendo gli ordini, aggiungendo consigli personali. Malgrado la gravità della situazione, Chase sorrise. Come gli aveva augurato Archer, la nave e l’equipaggio non lo avevano deluso. Se c’era qualcosa che poteva respingere gli invasori una volta per tutte, era l’Enterprise-J.

   La grande astronave si mosse nello spazio, agile ed elegante. Le gondole quantiche s’illuminarono ai lati, mentre il deflettore pulsava di luce viola. Raggiunta la soglia critica, proiettò il corridoio di cavitazione. E l’Enterprise vi guizzò dentro, svanendo in un lampo accecante.

 

 

FINE

 

 

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