Cause it’s right

di Imperfectworld01
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Mi chiamo Megan Sinclair ***
Capitolo 3: *** Perdonami ***
Capitolo 4: *** L’hai uccisa tu ***
Capitolo 5: *** Mi credi? ***
Capitolo 6: *** Quello che le abbiamo fatto ***
Capitolo 7: *** Fuori dai guai ***
Capitolo 8: *** Bugiarda ***
Capitolo 9: *** Saresti dovuta morire tu ***
Capitolo 10: *** Il male dentro ***
Capitolo 11: *** È una città piccola ***
Capitolo 12: *** New Orleans ***
Capitolo 13: *** Combatti ***
Capitolo 14: *** Non sei stata tu ***
Capitolo 15: *** Vulnerabile ***
Capitolo 16: *** Una persona migliore ***
Capitolo 17: *** Io ti ho difesa ***
Capitolo 18: *** Non è giusto ***
Capitolo 19: *** Tutto finito ***
Capitolo 20: *** Sei pronta? ***
Capitolo 21: *** Ti farà bene ***
Capitolo 22: *** Un fallimento ***
Capitolo 23: *** Significa qualcosa? ***
Capitolo 24: *** Tutto a causa tua ***
Capitolo 25: *** L’avresti fatto? ***
Capitolo 26: *** Perché è giusto ***
Capitolo 27: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

Mi sentii come se qualcuno avesse afferrato le mie corde vocali e le avesse tenute strette in un pugno. Urlavo, eppure dalla mia bocca non usciva nessun suono, se non un lieve lamento quasi impercettibile. Avevo la vista offuscata per via del pianto, e il respiro affannato.
Ad un certo punto le mie gambe cedettero e caddi rovinosamente a terra, sull'asfalto, sbucciandomi le ginocchia. 
Le mie mani erano sporche di sangue, sangue che non era mio. La voce nella mia testa mi ripeteva che avrei dovuto alzarmi e correre via, tornare a casa, ma il mio corpo non riusciva a reagire, a dargli ascolto, eseguire i comandi. Sarebbe errato dire che in quel momento fossi congelata, poiché di fatto mi stavo muovendo, o meglio, stavo tremando incessantemente.
Per circa un minuto e mezzo, dimenticai persino di respirare, finché non udii una voce alle mie spalle. Allora ripresi a respirare, a fare respiri lunghi e profondi, come quando si ritorna in superficie dopo aver tenuto il fiato sott'acqua per tanto tempo.

«Cosa fai ancora qui? Dobbiamo andarcene! Nessuno deve sapere che siamo state qui!»

Avrei dovuto darle ascolto, ma non potevo. Non riuscivo a muovermi da lì, a smettere di tremare, a bloccare le lacrime. E poi c'era sangue. Sangue ovunque. Sangue che non era mio.

«La polizia sarà qui a momenti, dobbiamo andarcene, Megan!»

Solo dopo aver sentito il mio nome qualcosa scattò in me. Riacquistai lucidità. Deglutii e poi, appoggiando il peso sulle mani per darmi la spinta necessaria, mi rialzai in piedi. Barcollai per un secondo, prima di riprendere l'equilibrio. Tracey mi prese per mano e cominciò a correre, trascinandomi dietro di sé. Ci dirigemmo verso la sua auto, lei mi aprì la portiera e mi aiutò a sedermi. Mi allacciò la cintura e poi fece il giro del veicolo per salire in auto al posto del guidatore.
Mise in moto, continuando a tenere lo sguardo fisso sulla strada, senza voltarsi nemmeno un secondo verso di me. Il tutto andò avanti per una decina di minuti, finché io non riacquistai la calma e fui in grado di parlare.

«Dovremmo andare alla polizia» dissi, guardando fuori dal finestrino. Non era giusto quello che stavamo facendo. «Dovremmo dire tutta la verità. Dobbiamo farlo per lei, noi... glielo dobbiamo» la mia voce subì un cambiamento di tono pronunciando l'ultima frase. Si fece tremolante e rotta. Un po' come mi sentivo anch'io all'interno: mi sentivo rotta, frantumata, lacerata in mille pezzi. Ancora non potevo credere a quello che era successo.

«Megan, che cazzo dici? La polizia non è mai in grado di risolvere un cazzo di niente, lo sai, e non ci crederebbero mai. Sei sotto shock, lo so, e anch'io, ma fidati di me. Quando ti sarà passata, ti accorgerai anche te che è la cosa giusta da fare.»

«La cosa giusta da fare per chi? Per noi? Andrebbe tutto solo e unicamente a nostro vantaggio, mentre se dicessimo quello che sappiamo, faremmo la cosa giusta anche per...»

«È morta!» mi interruppe, voltandosi finalmente verso di me e rivelando un viso rigato dalle lacrime.

Quelle due parole rimbombarono nella mia mente all'infinito. No, non era vero. Non era morta. Non poteva essere così. Forse era ancora viva. Dovevamo tornare indietro. Se fossimo tornate indietro, potevamo salvarla. Non era morta.

«È... è morta. Non possiamo più farci nulla. Possiamo solo cercare di salvarci il culo. Anzi, dobbiamo riuscirci. Perché altrimenti andremo in galera e anche le nostre vite finiranno, saremo letteralmente fottute. Tu non potrai andare ad Harvard, né io in un qualsiasi college di merda che la mia famiglia potrà permettersi di pagare. Il nostro futuro, i nostri piani, non andranno mai a compimento. Passeremo i prossimi quindici o più anni della nostra vita all'interno di una cella, mangiando cibo scadente, dormendo male, correndo il rischio di essere malmenate o, peggio, stuprate da altri detenuti o da qualche agente di polizia. Herman mi lascerà, e pian piano tutti lo faranno. È un paesino piccolo, perciò tutti lo sapranno e presto, conoscenti, amici, persino i nostri genitori non vorranno più sapere niente di noi. Rimarremo sole e, quando avremo scontato la nostra pena, avremo la fedina penale sporca e nessuno vorrà mai assumerci, per nessun tipo di lavoro. Verremo viste da tutti come delle assassine. 
Tutto questo accadrà, se non mi darai ascolto.»

Non dissi niente. Tracey aveva ragione, era l'unico modo.
Mi passò delle salviettine struccanti che teneva nei sedili posteriori, così che potessi pulirmi il viso dal trucco che mi era colato per via delle lacrime. Passai le salviettine anche sulle mani, levando il sangue.
Guardai il mio riflesso sullo specchio retrovisore. Ora sembravo quasi una ragazza normale, tranne che per gli occhi gonfi. Ma nessuno avrebbe potuto farci caso. Avrei potuto dire di aver litigato con il mio ipotetico ragazzo e di esserci stata così male, da finire per passare tutta la serata a piangere. Era credibile, verosimile. Peccato che non fosse la verità.

Ad un certo punto, Tracey fermò la macchina. Si girò di nuovo nella mia direzione. «La tua camicia è sporca di sangue» mi disse e io deglutii, sollevandone i lembi e accorgendomi dell'enorme macchia di sangue che ricopriva la mia camicetta preferita. L'avevo comprata da appena due giorni. Ero così ansiosa di metterla che avevo tolto l'etichetta e l'avevo indossata alla prima occasione, senza neanche averla lavata prima. E ora era coperta di sangue. Sangue che non era mio.

«Forza, devi togliertela! Nessuno può vederla!» ordinò.

«Ma, io...» rinunciai a terminare la frase e diedi subito ascolto a Tracey. Mi sbottonai la camicia e poi la tolsi. La nascosi sotto il mio sedile, l'avrei lasciata lì, almeno per il momento.

«D'accordo. Ora andiamo» disse Tracey, aprendo la portiera e scendendo dall'auto.

«A-andiamo dove?» balbettai. Solo allora mi guardai intorno e mi accorsi che non mi aveva riaccompagnata a casa. Eravamo davanti ad un locale e, a giudicare dalla grande insegna luminosa appesa all'entrata, doveva trattarsi di una discoteca.

«Dentro» rispose, come se le avessi appena fatto una domanda idiota.

«In queste condizioni? Sono in reggiseno!» le feci notare.

«Fa niente, oramai va di moda. Muoviti, dobbiamo entrare dentro. Ballare, svagarci, o perlomeno far finta. Scambiare qualche chiacchiera qui e là, sedurre qualche ragazzo, far credere a tutti che stiamo passando una bella serata.»

«Perché?» domandai confusa.

«Non l'hai ancora capito? Dobbiamo procurarci un alibi.»

***

Eccomi con una nuova storia. Premetto che non ho mai scritto una storia sul genere thriller, perciò non so che cosa ne verrà fuori. 
Fatemi sapere che cosa ne pensate!

 

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Capitolo 2
*** Mi chiamo Megan Sinclair ***


Mi chiamo Megan Sinclair

"Mi chiamo Megan Sinclair. Ho sedici anni. Vivo a Morgan City, in Louisiana. Frequento il terzo anno alla Morgan City High School. Ho molti amici. Non ho un ragazzo. Ho un buon rapporto con i miei genitori. Sono brava a scuola. Dopo il diploma voglio andare ad Harvard. Tutti quelli che mi conoscono mi definiscono nello stesso identico modo: una brava ragazza.
È quello che sono. Sono una brava ragazza. Lo dicono tutti, lo pensano tutti. Nessuno sospetterebbe mai di me. Lo sceriffo distrettuale vuole solo farmi delle domande perché sa che sono la migliore amica di Emily Walsh e che potrei aiutarlo a scoprire che cosa è successo ieri notte."

Queste furono le parole che continuai a ripetermi la mattina seguente per tranquillizzarmi e infondermi sicurezza, dopo che i miei genitori avevano ricevuto una telefonata dallo sceriffo. Egli aveva richiesto che mi presentassi al distretto di polizia per deporre la mia testimonianza riguardo a ieri sera. La sera in cui è stato ritrovato il corpo senza vita di Emily Walsh.
Quella notte l'avevo passata in bianco. Tracey mi aveva riportata a casa alle due e mezza, e le successive sette ore le avevo passate a girarmi e rigirarmi nel letto, a fissare il soffitto, a soffocare le grida sotto al cuscino. Mi ero decisa ad alzarmi dal letto e a uscire dalla mia stanza solo quando avevo sentito mio padre fare il mio nome mentre era al telefono con la polizia.
Subito dopo si erano susseguite le numerose, troppe domande da parte miei genitori: dov'ero stata ieri sera? Perché non mi ero fatta sentire? Perché ero tornata così tardi? Perché mi ero separata da Emily dopo la festa? Perché io e Tracey non eravamo tornate a casa insieme a lei? Sapevo che non era tornata a casa e che era in pericolo? Avevo idea di chi avrebbe potuto farle del male e perché?

Scoppiai in lacrime e mi rannicchiai a terra.

«Basta!» urlai. La mia migliore amica era morta, e loro si preoccupavano soltanto di sottopormi ad uno stupido interrogatorio. «Lasciatemi stare!»

Nascosi la testa fra le gambe. Non avrei potuto continuare a lungo in quel modo. Emily, una delle mie più care amiche sin dal primo anno delle superiori, era morta. Insomma, come poteva essere possibile una cosa del genere? Mi sembrava tutto così surreale. Come poteva qualcuno non esistere più? Fino al giorno prima si muoveva, parlava, respirava, viveva. Mentre ora era soltanto un corpo. Poco alla volta non sarebbe stata più neanche quello. Prima di tutto, l'autopsia avrebbe contribuito a deturpare il suo corpo. E poi si sarebbe trasformata soltanto in un cumulo di ossa, sotto terra, circondata da vermi e funghi che si sarebbero nutriti del suo corpo in decomposizione. Non potevo accettare nulla di tutto questo. Ancor meno, potevo accettare il fatto che fosse soltanto colpa mia se era successo.
Il senso di colpa, insieme al dolore, mi avrebbe consumata e ben presto avrebbe ucciso anche me. Non potevo più sopportarlo già il mattino seguente, come avrei potuto continuare ad andare avanti con la mia vita come se niente fosse, come se fossi innocente, come se non c'entrassi nulla? Come avrei potuto guardare in faccia i suoi genitori al funerale? Dio, sua madre soffriva di disturbi depressivi da cinque anni, la notizia della morte della figlia l'avrebbe distrutta, l'avrebbe fatta sprofondare ancora di più nel baratro, mentre l'unica che si meritava davvero di sprofondare ero io, giù, nel girone più basso dell'Inferno. O sarei dovuta andare in prigione. Era il minimo. Niente avrebbe potuto giustificare le mie azioni e niente sarebbe bastato a salvare la mia anima ormai dannata.

Me lo si leggeva in faccia che ero colpevole. 
Avrei voluto saper fingere come Tracey. Lei era sempre stata la più brava a mascherare i suoi sentimenti. Era sempre stata la più razionale fra le tre, quella che in situazioni critiche manteneva la calma. Così come ieri sera. Com'era riuscita a rimanere così tranquilla dopo aver visto il corpo di Emily steso a terra? Com'era riuscita a soffocare tutto e a dare spazio alla ragione, alla riflessione? Com'era riuscita a riprendersi in un attimo e a decidere subito cosa fare? Era quasi come se avesse sapito esattamente cosa fare. Forse era solo l'adrenalina.

Avrei dovuto imparare a mentire e a fingere come lei, a non lasciar trasparire le mie emozioni. Me l'avevano sempre detto tutti: «Te lo si legge in faccia, Megan. Sei un libro aperto».

Ma non avrei mai più permesso a nessuno di leggere quel libro. Dovevo impedire a chiunque di scoprirlo, a tutti i costi.

"Perché il mio nome è Megan Sinclair, e sono una brava ragazza."

•••

Neanche un'ora dopo, i miei genitori si erano già messi in contatto con il loro avvocato e mi avevano portata a casa sua così che potesse prepararmi per la mia deposizione che si sarebbe svolta lunedì. Mi avrebbe consigliato e mi avrebbe spiegato cosa dire e cosa non dire.
Era un loro vecchio amico, perciò non gli importò del fatto che ci fossimo presentati da lui alle dieci di sabato mattina. Oltretutto, era una questione urgente. La mia deposizione era stata fissata alle dodici e mezza di lunedì, perciò il mio avvocato (davvero avevo un avvocato? In quasi diciassette anni di vita, non avrei mai pensato che mi sarebbe servito) non avrebbe avuto nessun altro momento per sentirmi.

«Prego, prego, entrate!» ci accolse con un caloroso sorriso Frederick Finnston, prima di farci accomodare sul divano in salotto.

Era un uomo affascinante. Alto, capelli corvini tenuti in modo impeccabile all'indietro con il gel, senza neanche un ciuffo fuori posto, barba accuratamente tolta, forse prima del nostro arrivo, a giudicare dall'odore di dopobarba che avvertii quando gli passai di fianco per entrare, sorriso smagliante e denti bianchissimi, ma ciò che mi sorprese maggiormente fu il modo in cui era vestito: indossava una camicia bianca, infilata sotto i pantaloni cachi tenuti stretti da una cintura, e le scarpe. Chi diamine indossava le scarpe in casa propria? Di sabato mattina, per giunta.

«Scusate se non sono del tutto presentabile» disse, dopo essersi seduto sull'altro divano posto di fronte a quello su cui eravamo seduti io e i miei genitori.

Dopo quelle parole, gli rivolsi un'occhiataccia, prima di sentirmi in imbarazzo per come, invece, mi ero presentata io, in casa sua: capelli spettinati e pieni di nodi legati in una specie di crocchia, felpa grigia con delle piccole stelline bianche che avevo dalla terza media e, cosa peggiore, i pantaloni del pigiama. Per non parlare dell'espressione distrutta che avevo dipinta in volto. (Distrutta e colpevole. "Sono Megan Sinclair e sono una brava ragazza"). Non avevo la forza neanche di fare due passi senza rischiare di avere un altro crollo emotivo, figuriamoci se avrei potuto prepararmi in modo adeguato. Perciò sì, ero uscita di casa in quelle condizioni, senza neanche essermi pettinata i capelli né essermi lavata i denti, ed ero andata in pigiama a casa del mio avvocato.

Mentre i miei genitori cominciarono a spiegare la situazione all'avvocato Finnston, io evitai di prestare attenzione alle loro parole per paura di riprendere a piangere, quindi decisi di concentrarmi su altro. Mi guardai intorno, per ammirare l'incantevole villa in cui mi trovavo. Dandoci un occhio più attento, mi accorsi che non era tanto più grande di casa mia, però risultava molto più spaziosa. Non vi erano mobili ingombranti o decorazioni che occupavano spazio inutilmente, era tutto molto fine, elegante, ordinato. Davanti a me vi era un tavolo di vetro, sul quale era appoggiato il notiziario del giorno. Non appena lessi il nome di Emily in prima pagina, distolsi immediatamente lo sguardo. Mi concentrai sui grandi e numerosi scaffali appoggiati alla parete, ricoperti interamente da libri, molti dei quali dovevano essere manuali di legge. Su una mensola vicino alla porta d'ingresso era appoggiata una statuetta d'oro raffigurante una donna, vestita con quelle tuniche tipiche dell'Antica Grecia o dell'Impero Romano, la quale teneva in mano una bilancia morale. Sopra la mensola, appesa al muro, vidi una frase incorniciata che mi tormentò per tutti i seguenti minuti: «Sapere ciò che è giusto e non farlo, è la peggiore vigliaccheria».

Ecco che cos'ero: ero una vigliacca. Sapevo cosa era giusto, ma ero troppo vigliacca per agire come avrei dovuto.

«... non avete di che preoccuparvi. Megan andrà alla grande.»

Tornai alla realtà dopo aver sentito il mio nome e provai a sforzarmi per capire a cosa si stavano riferendo.
Ma certo. Sarei andata alla grande. Ero una ragazza affidabile, andavo sempre alla grande. Io ero Megan Sinclair, ero una brava ragazza, nessuno pensava mai a me quando succedevano dei casini. Era palese che non c'entrassi nulla con la morte di Emily. E poi non c'ero quando era successo, me n'ero già andata in quel locale insieme a Tracey, numerose persone avrebbero potuto confermarlo. Avevo ciò che si poteva definire un alibi. Non avevo di che preoccuparmi, giusto?

«Purtroppo per via del poco preavviso non ho potuto organizzarmi il lavoro e devo ancora stendere l'arringa per un processo che avrò martedì mattina, però a lei può pensarci mio figlio, David. Ha deciso di seguire le mie orme e sta studiando legge al Delgado Community College di New Orleans. Mi è stato di ottimo aiuto per molte delle mie cause, perciò sono sicuro che Megan sarà in ottime mani. Non preoccupatevi, sarà solo per oggi. Per il resto la seguirò io.»

Aveva davvero intenzione di affidarmi ad uno studente universitario? 
Ero fregata. La mia deposizione di lunedì e, di conseguenza, tutto ciò a cui le mie parole avrebbero portato dopo quella deposizione, sarebbero dipese da lui.

Ai miei genitori sembrò non importare più di tanto questa situazione. Perché?, mi chiesi. Poi mi risposi da sola: perché ero una brava ragazza. Qualsiasi cosa avessi detto, non avrebbe ricondotto a me come principale sospettata. Si erano rivolti ad un avvocato solo perché era la procedura più sicura da seguire in quelle situazioni. Deporre in assenza di un avvocato sarebbe andato a mio svantaggio, dal momento che durante gli interrogatori, la polizia tende a intimidire l'indiziato e spesso ad estrapolare dal contesto quello che dice. Ma io non correvo nessun rischio, secondo i miei genitori, per questo non erano preoccupati.

Ecco perché dopo aver salutato il signor Finnston con una stretta di mano, uscirono da casa sua, liquidandomi con un: «Quando hai finito, chiamaci che ti veniamo a prendere». Nell'istante in cui vidi la porta di casa chiudersi e i miei scomparire dietro di essa, mi sentii tremendamente sola. Ero rimasta soltanto io, al centro di un grande salotto, in una villa posseduta da un apparente sconosciuto, il quale al momento si era rintanato nel suo ufficio per lavorare alle sue cause. Era una sensazione terribile, quella di essere sola, con i miei pensieri come unica fonte di compagnia. E i miei pensieri al momento riguardavano soltanto Emily. 
Mi sentivo come un computer quando va in sovraccarico per via delle eccessive informazioni accumulate in tempo troppo breve, quando si surriscalda e le ventole producono quel rumore strano e assordante, quando lo schermo diventa bianco e ogni programma "non risponde", quando sembra che l'unica soluzione sia aspettare che giunga allo stremo, che si spenga e che venga portato in riparazione. 
Io però non ero un computer: niente avrebbe potuto riparare quello che avevo dentro. Sentivo che poteva solo peggiorare.

Poi sentii l'orologio a cucù segnare le undici e riuscii a fuggire dalle grinfie dei miei pensieri, che cercavano di tenermi imprigionata in un mondo che non era quello reale. Pensavo che la mia perdizione interiore fosse durata per molto più tempo, invece erano passati appena due minuti da quando i miei genitori se n'erano andati e l'avvocato Finnston si era ritirato nel suo studio.

Dovevo fare qualcosa. Non potevo continuare a perdermi in quello stato di trance ogni dieci minuti. Forse se avessi affrontato la situazione come una persona matura che sa assumersi le proprie responsabilità, sarei riuscita ad ottenere qualcosa. Perciò, seppur con la pelle d'oca e la mano tremolante, afferrai il giornale appoggiato sul tavolo. La notizia riguardante Emily era solo un piccolo inserto probabilmente aggiunto all'ultimo, considerando che era appena successo e non si avevano ancora abbastanza notizie.

Morgan City, 29 settembre 2018

SCOMPARSA SEDICENNE EMILY WALSH

L'ultima volta che fu vista da qualcuno, era ad una festa a casa dell'amico Dylan Walker

L'ultima volta che fu vista da qualcuno, era ad una festa a casa dell'amico Dylan Walker. I genitori non hanno più avuto nessuna notizia da allora. La polizia distrettuale si è messa subito alla ricerca della ragazza. Per qualsiasi avvistamento o notizia, rivolgersi direttamente alla polizia oppure chiamare i genitori, Dorothy e Theo Walsh.
Qui di seguito elencati i contatti cui fare riferimento, fra cui quello dello sceriffo distrettuale, Michael Kowalski.

Rilessi più e più volte il breve articolo di giornale, mentre con le dita diedi una lieve carezza alla sua foto (era la foto del suo profilo Facebook, gliel'avevo scattata io). Scomparsa? Quando io e Tracey siamo scappate, il corpo di Emily si trovava nel vicolo dietro casa di Dyl. E se qualcuno avesse spostato il corpo? E se Emily stessa, si fosse ripresa e fosse scappata? No, nessuna delle mie ipotesi aveva senso. Perché qualcuno avrebbe dovuto nascondere il suo corpo? E, se Emily fosse stata ancora viva, sarebbe di certo corsa dai suoi genitori. Se. Ma non lo era. Ne ero certa: il suo cuore aveva smesso definitivamente di battere.

•••

Uscii dalla porta, così da potermi allontanare dal casino che si era creato all'interno della casa di Dylan. A parte alcune persone che pomiciavano in veranda, non c'era nessun altro. Così tirai fuori il cellulare e selezionai il numero di Emily dalla rubrica.
Come avevo previsto, non rispose. Ma io non mi diedi per vinta, e la chiamai una seconda volta. 
Nel frattempo, per via dell'agitazione, avevo camminato avanti e indietro lungo il perimetro della veranda per almeno una decina di volte, finché ad un certo punto non scesi dagli scalini e mi allontanai dalla festa. Ora che ero più vicina alla strada e non sentivo quasi più la musica proveniente dalla villa, decisi di lasciare ad Emily un messaggio in segreteria. Stavo per aprire la bocca per cominciare a parlare, quando improvvisamente sentii un cellulare squillare. Seguii il suono, che mi condusse in un piccolo vicolo dietro casa di Dylan, dove vi erano soltanto dei bidoni e dei cassonetti, dai quali proveniva un odore a dir poco nauseante. Inoltre, il cellulare aveva smesso di squillare, quindi pensai che sarebbe stato meglio tornare indietro e provare a chiarire le cose con Emily il giorno seguente.

Eppure, una parte di me, mi diceva che avrei dovuto farle un ultimo squillo. Non seppi spiegarmi perché, in quel momento, mentre ripetevo gli stessi identici passaggi fatti già due volte, le dita mi tremavano. Tuttavia, composi il numero una terza volta e attesi in silenzio, col fiato sospeso.
Sentii il suono provenire a pochi metri da me. Quindi era il cellulare di Emily a squillare. Lei era lì. Un brivido mi percosse la schiena. Avanzai di qualche passo, finché non vidi l'inaspettato: Emily era stesa a terra, inerme, un coltello conficcato in gola.

Mi lanciai a terra. «Emily! Emily, svegliati!» urlai, percuotendola affinché riprendesse conoscenza. Il suo petto non si sollevava né abbassava. Non stava respirando. Poi mi ricordai di quel corso di pronto soccorso che avevamo seguito a scuola e cercai il modo di rianimarla. Dopo aver tracciato una croce immaginaria che mi aiutasse ad individuare il punto in cui si trovava il cuore, unii le mani e cominciai con le compressioni. Dovevano essere trenta, ognuna distante poco meno di un secondo dall'altra. «Respira! Respira, Emily, ti prego respira!»

Le lacrime non smettevano di colare dal mio viso, anzi, più passavano i secondi, più aumentavano d'intensità. Mi avvicinai con l'orecchio al suo petto. Il cuore non stava battendo. Non volevo crederci, così ripresi con le compressioni. Mi ricordai che dovevano essere serie da trenta compressioni, per un totale di cento al minuto. 
Potevo ancora salvarla. Non era morta. Non sarebbe morta. 
Dopo aver contato cento compressioni, mi fermai per qualche secondo per cercare di stabilizzare il mio, di battito cardiaco. Ma più il tempo passava, più questo non accennava a smettere di martellarmi nel petto. Non volevo arrendermi. Così, non sapendo cos'altro fare, feci quello che mi sembrava più logico e sensato: estrassi il coltello dal suo collo.
Solo allora, mi resi conto che avevo soltanto peggiorato la situazione. Un'enorme quantità di sangue cominciò a grondare dalla ferita. Stava perdendo tanto sangue, troppo sangue.

In quel momento realizzai che, se ci fosse stata anche solo una minuscola possibilità per Emily di essere salvata, io l'avevo appena buttata via. Se Emily era davvero ancora viva prima che la trovassi, io l'avevo appena uccisa.

•••

Ecco il primo capitolo! Come vedete, Megan sta affrontando un vero e proprio dissidio interiore: vorrebbe fare la cosa giusta e dichiarare ciò che sa in merito a quella notte, così da rendere giustizia alla sua amica, ma sa di non poterlo fare, poiché potrebbe essere incriminata. Inoltre, nemmeno lei conosce bene le dinamiche di quella serata: quando ha trovato Emily, lei era già (apparentemente) morta, eppure il suo corpo non è stato ritrovato dalla polizia distrettuale. Che ne pensate?

 

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Capitolo 3
*** Perdonami ***


Perdonami

«Tu devi essere Megan.»

Sussultai. Non mi ero accorta che il figlio dell'avvocato Finnston era arrivato e ora era in piedi davanti a me. Come il padre, anch'egli se ne stava con le scarpe in casa. Indossava dei jeans neri e un maglione grigio con scollo a V, il quale lasciava intravedere una camicia bianca. A differenza del padre, non si era fatto la barba e non aveva il gel sui capelli, come dimostrato da un piccolo ricciolo corvino che gli ricadeva sulla fronte.

Nel momento in cui i nostri sguardi si incrociarono, schiusi leggermente le labbra e così fece anche lui. Poi si schiarì la gola. «Ehm, io sono David, penso che mio padre ti abbia parlato di me.»

Tese la mano verso di me e io la strinsi, seppur non con troppa convinzione. La sua stretta invece era forte e decisa, mi trasmise sicurezza.

«Sembri tesa» disse poi. «Se hai questa faccia mentre parli con me, non oso immaginare come ti porrai davanti allo sceriffo.»

«Era una battuta?» domandai inarcando un sopracciglio. La mia migliore amica era morta e, per quanto ne sapevano tutti gli altri, era scomparsa, perciò che faccia avrei dovuto avere secondo lui?

«No, un consiglio, piuttosto. Devi convincere le persone che ti stanno ad ascoltare che hai la coscienza pulita. A me non interessa se questo sia effettivamente vero o meno, ma alla polizia sì. Devi avere il pieno controllo delle tue emozioni e delle tue espressioni. Te lo si legge in faccia che sai qualcosa, Megan.»

Ecco. Quella maledetta frase. "Te lo si legge in faccia". E se l'aveva capito un principiante, allora non avevo proprio scampo. Lo sceriffo Kowalski avrebbe capito tutto senza neanche starmi a sentire.

«Allora, il professor Piton insegna ancora alla Morgan High?» chiese cambiando totalmente discorso e rivolgendomi un lieve sorriso, sedendosi al mio fianco sul divano.

Ma di che stava parlando? Non ne sapevo molto di giurisprudenza, ma di certo sapevo che fare conversazione con i clienti non faceva parte del lavoro degli avvocati. Mi stava soltanto facendo perdere tempo. Per di più, non sapevo nemmeno di chi stava parlando. «Chi?» domandai, visibilmente confusa.

«Ma sì, insegnante di chimica, capelli neri, sempre unti, occhi spenti e voce da zombie, severo come un generale tedesco e con un profondo odio verso i suoi studenti.»

Mi bastarono quelle poche indicazioni per capire subito di chi stava parlando. «Il professor Kravitz. Sì, è il mio insegnante.»

«E punisce ancora i suoi studenti con il...»

«Venerdì del Terrore. Sì, lo fa ancora» lo interruppi, completando la frase al posto suo. «Io non ho mai dovuto affrontarne uno, perciò non so precisamente in cosa consista, ma Emily era rimasta sconvolta dopo essere stata punita al primo anno, tanto da non osare più dire una sola parola in nessuna delle sue lezioni. Da quello che ricordo, le aveva fatto pulire tutte le ragnatele nel buio e tetro scantinato della scuola.»

«Oh, quello non è niente in confronto a ciò che toccava fare a me. Avevo appuntamento fisso con lui ogni venerdì e ogni volta si inventava un modo nuovo per punirmi, finché un giorno non si stancò di vedere la mia faccia così spesso e per giunta in orari extra scolastici, quindi decise che non mi avrebbe più assegnato nessuna detenzione. "Se neanche i miei metodi sono riusciti a insegnarle qualcosa, signor Finnston, allora temo che non ci sia più niente da fare. Forse suo padre dovrebbe spedirla in prigione al posto dei suoi clienti, così da insegnarle il rispetto e l'educazione".»

Emisi un piccolo ghigno, che si trasformò in un vero e proprio sorriso nel momento in cui riuscì ad imitare perfettamente il suo tono di voce. 
Solo allora mi resi conto che, non solo ero riuscita a sorridere, ma stavo anche parlando. Parlavo normalmente, senza piangere, senza gridare, senza ansie né preoccupazioni. Ero persino riuscita a pronunciare il nome di Emily con leggerezza, senza quasi accorgermene.

«Come ci sei riuscito?» domandai, guardando David con stupore.

«A fare cosa?»

«A... a mettermi a mio agio» risposi, puntando lo sguardo sui suoi occhi color nocciola.

Aveva fatto più di quello. Per quei cinque, dieci minuti, era riuscito a farmi sentire Megan Sinclair, la solita ragazza di sempre. Quella Megan che non era colpevole di nulla, quella Megan che era solo una semplice ragazza che andava a scuola, che viveva la sua vita come aveva sempre fatto.

«Vedi che non è impossibile, cancellare quell'espressione dalla tua faccia?» chiese in tono retorico, quasi come se in realtà volesse spostare l'attenzione su se stesso e sulle sue doti nell'essere riuscito a farmi apparire rilassata e nell'avermi aiutata a sciogliermi. Cercava un complimento, ma io non gli avrei dato la soddisfazione di riceverlo, non così facilmente. Erano passati dieci minuti da quando era arrivato, e ancora non eravamo giunti a niente. Non potevo stare lì tutto il giorno. Gli avrei fatto i complimenti soltanto nel momento in cui avrebbe svolto il lavoro che gli era stato assegnato.

«E come farò a rimanere tranquilla e rilassata quando andrò a deporre lunedì?» domandai. Era alquanto improbabile che ci sarebbe stato un giovane e aspirante avvocato pieno di sé che mi avrebbe raccontato dei suoi aneddoti adolescenziali per distrarmi. Poi mi accorsi che avevo quasi ammesso, seppur indirettamente, di essere colpevole: perché mai avrei dovuto essere tranquilla e rilassata se la mia amica era scomparsa? 
Così formulai meglio la frase. «Non servirebbe a nulla, giusto? Devono poter leggere la preoccupazione nei miei occhi, la tristezza e l'angoscia» dissi con convinzione, come se fossi un'esperta in materia. In fondo, l'espressione che avevo in quel momento e che non mi avrebbe abbandonata tanto facilmente, poteva soltanto giovarmi al momento della deposizione.

«Ma non il senso di colpa. E io ho percepito anche quello.»

«Cosa puoi saperne tu? Sentiamo, quanti anni hai, diciotto? Non sei un avvocato e, per quanto ne so, potresti saperne tanto quanto me!» esclamai.

«Ne ho ventidue. La specializzazione in legge si prende dopo il college, non dopo il diploma. E siccome non sei la prima cliente di mio padre con cui lavoro, ho imparato a leggere molto bene il linguaggio del corpo e ci sono alcune espressioni universali che ormai conosco a memoria. Senti, te l'ho già detto prima, a me non importa quello che hai fatto né perché l'hai fatto, ma devo sapere tutto quello che sai e che la polizia potrebbe scoprire, così da poterti preparare a quello che potrebbero chiederti. Perché se durante l'interrogatorio ti chiedono qualcosa e tu fai quella faccia, allora nemmeno mio padre potrà aiutarti!»

Alzai gli occhi al cielo. Tuttavia, dentro di me, sapevo che aveva ragione. «Va bene» mi rassegnai. «Allora iniziamo. Ti dirò quello che so.»

•••

Lunedì arrivò in men che non si dica. Non potevo dire di sentirmi pronta, però ero sicuramente più tranquilla. Con David avevamo deciso che cosa avrei detto e a casa mi ero esercitata davanti allo specchio, tanto che ormai la mia deposizione sembrava più una favola imparata a memoria.
Eppure era tutt'altro che una favola quella che stavo vivendo in quei giorni. Non mangiavo, non dormivo, a malapena parlavo. Il mio cellulare era rimasto spento per due giorni interi, volevo evitare qualsiasi contatto con il mondo esterno. 
Non avevo sentito nemmeno Tracey, e quella era la cosa che mi preoccupava di più. E se le nostre versioni non avessero combaciato? La polizia si sarebbe insospettita.

Quando arrivai alla centrale di polizia, accompagnata da mia madre che aveva preso un giorno di permesso dal lavoro, corsi subito incontro a Tracey non appena la vidi e la abbracciai forte. «Oh, Tracey! Hai sentito il telegiornale? Io non ci posso credere! Non ci posso credere che è sparita!» esclamai a gran voce, assicurandomi che tutti potessero sentirmi. Faceva parte della recita che mi ero preparata. Io ero Megan Sinclair, l'amica preoccupata di Emily Walsh, scomparsa la sera del 28 settembre. Tutti avrebbero dovuto sapere quanto fossi afflitta per la sua scomparsa.

«E se le fosse successo qualcosa? Non riesco a sopportarlo!» urlò Tracey tirando su col naso, stando al gioco.

«Sei già entrata?» chiesi poi a bassa voce.

«No, dentro ci sono ancora i suoi genitori» rispose lei. Esitò un secondo, prima di parlare di nuovo. «Non ce la faccio davvero più a sopportare tutto questo, Megan. Che cosa significa che è scomparsa? Il corpo era ancora lì quando ce ne siamo andate.»

«Lo so, anch'io non me lo spiego.»

«Credi che possa essere ancora...»

La interruppi. «No, Tracey. L'hai vista anche tu, lei... non si muoveva.»

«Allora chi è stato a spostare il corpo?»

«Forse la stessa persona che l'ha uccisa» risposi. Era l'unica opzione possibile. L'assassino doveva essere tornato indietro e doveva essersi portato via il corpo. Anche se non capivo perché non l'avesse fatto subito, e anche che fine avesse fatto il coltello. Quel coltello che era anche l'arma del delitto, sul quale vi erano le mie impronte. «Che cosa dirai quando ti chiameranno dentro?» chiesi poi, per distogliermi da quei pensieri.

«Quello che è successo. Dopo la litigata con Emily, mi hai chiamata e poi ce ne siamo andate dalla festa. Siamo andate in quel locale e poi alle due e mezza ti ho riportata a casa.»

A quel punto sciolsi l'abbraccio e mi passai le mani sul viso per asciugarmi le lacrime. Dopodiché tornai a sedermi insieme ai miei genitori e all'avvocato Finnston. «David ti augura in bocca al lupo» disse quest'ultimo. «E stai tranquilla, vedrai che la ritroveranno.»

Subito dopo le sue parole, vidi ricomparire i genitori di Emily, che vennero subito accerchiati da un gran numero di persone. Conoscenti, giornalisti, i genitori di Tracey e, successivamente anche mia madre. Avrei voluto alzarmi anch'io, ma non ne avevo la forza, sia a livello fisico che emotivo. Se mi fossi alzata e fossi andata da loro, probabilmente sarei svenuta e, se questo non fosse accaduto, allora non sarei riuscita a guardarli negli occhi e avrei finito col dire loro tutta la verità. Quindi rimasi seduta, di fianco al mio avvocato. «Ringrazi David da parte mia. E gli faccia i complimenti, sono sicura che un giorno sarà un ottimo avvocato.»

In fondo, nonostante la mia iniziale diffidenza, era un ragazzo in gamba e mi era stato d'aiuto.

«Megan Sinclair?» un uomo con indosso una camicia blu e un distintivo mi si parò davanti, e capii che era arrivato il mio momento. Mi alzai dalla sedia, vacillando un po', e poi, insieme all'avvocato Finnston, seguii l'uomo verso la della stanza degli interrogatori. Prima di entrare, mi voltai verso mia madre, la quale mi rivolse un sorriso di incoraggiamento.

Così entrai. Era esattamente come nei film. Era una stanza piccola, con le luci soffuse, le pareti grigie e un solo tavolo al centro. Peccato che non si trattasse di un film, ma della vita reale.

«Prego, sedetevi» lo sceriffo Kowalski, così diceva la sua targhetta, fece un cenno alle sedie poste davanti al tavolo. Eseguimmo quanto detto, e poi io feci un respiro profondo.

«Dunque, signorina Sinclair, lei sa perché si trova qui?»

Annuii. «Volete che risponda ad alcune domande perché pensate vi possano aiutare a... a ritrovare Emily» dissi, tirando su col naso.

«Esatto. Quindi, perché non comincia col dirci perché avete litigato venerdì sera?»

David aveva previsto che avrebbero cominciato con quella domanda, perciò riuscii a non sembrare sorpresa. Era la pista più lineare e scontata che avrebbero potuto seguire. C'erano molti testimoni che avevano assistito alla scena, e poco dopo quella discussione, nessuno l'aveva più vista.

Diedi un'occhiata al signor Finnston, il quale fece cenno di sì con la testa. Poi tornai a guardare lo sceriffo.

«Non guardare altrove, guardalo dritto in faccia. Se non riesci a sostenere il suo sguardo, penseranno che tu nasconda qualcosa» mi aveva detto David.

«Ecco, lei aveva sorpreso me e Dyl mentre ci baciavamo» risposi.

«Dyl sta per Dylan Walker, il ragazzo che aveva dato la festa?»

«Sì, lui. Sapevo che ad Emily piaceva già da qualche settimana, e quindi...»

«Piaceva?» mi interruppe. «In questi giorni ha avuto conferma in qualche modo che non è più così? Forse ha parlato con Emily al telefono o vi siete scambiate dei messaggi?»

Cominciai a sudare freddo. Come avevo potuto confondermi così facilmente? Avevo ripetuto la mia versione dei fatti almeno tredici volte in quei giorni.
L'avvocato Finnston si accorse che mi ero bloccata e che non riuscivo ad andare avanti con il discorso, così intervenne. «Sceriffo, la mia cliente è molto tesa e scossa per gli accadimenti degli ultimi giorni. È normale che possa essersi confusa.»

«È così? Si è soltanto confusa?» mi chiese lo sceriffo.

«Sì, mi scusi. Sapevo dell'interesse di Emily nei confronti di Dylan, ed è il motivo per cui alla festa mi ero allontanata con lui nella sua stanza, per parlargli in privato. In più di un'occasione aveva dimostrato di provare attrazione verso di me, ma io volevo spiegargli che non avrei mai potuto tradire la mia migliore amica. Lui tuttavia approfittò del fatto che fossimo soli e mi baciò. In quel momento, Emily ci vide e divenne furiosa. La seguii fuori dalla stanza e iniziai a giustificarmi, dicendole che aveva mal interpretato ciò che aveva visto, che non le avrei mai fatto una cosa del genere e che per me la nostra amicizia era la cosa più importante.»

Lo sceriffo tirò fuori un foglio da un fascicolo che era appoggiato sul tavolo. «Dei testimoni che hanno sentito le vostre urla hanno riferito di aver sentito dire da lei le seguenti parole, conferma di averle dette durante la vostra litigata?» domandò, passandomi il foglio.

"Lo sai che cosa sei, Emily? Sei soltanto un'insicura in cerca di attenzioni! Non hai autostima, pensi che nessuno possa amarti, ed è per questo che cerchi solo ragazzi a cui non interessi, così da confermare quelle che sono le tue paure. E sei anche una stronza ipocrita: adesso incolpi me, eppure non ti sei fatta problemi quando due anni fa ti sei messa con Ethan, sapendo che avevo una cotta per lui da mesi."

Però quello che aveva detto Emily a me, su quel foglio non c'era, nonostante si trattasse di parole ben più cattive di quelle usate da me. Ma faceva tutto parte della loro pista studiata a tavolino. Dovevo apparire io come quella cattiva, dovevo apparire come quella ragazza arrabbiata che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di averla vinta, che aveva perso il senno e aveva reagito di conseguenza.
Fu allora che mi venne in mente che David mi aveva detto anche questo: «Distruggeranno la tua immagine. A loro non importa se sei la brava ragazza della porta accanto, non gli importa di tutte le buone azioni che hai fatto da quando sei nata a questa parte, perché prenderanno in considerazione l'unico sbaglio che hai commesso quella sera, e lo trasformeranno in un movente. Tutto per trovare un colpevole, senza che sia necessariamente quello vero».

Non avevano nemmeno riportato come avevo continuato il discorso. Le avevo detto che nonostante quello che mi aveva fatto, io non mi ero arrabbiata con lei, che avevo continuato ad esserle amica, perché per me la nostra amicizia valeva più di quello e che avevo deciso di passarci sopra, come chiedevo a lei di passarci sopra in quel momento.

Riappoggiai il foglio sul tavolo, e tornai a guardare lo sceriffo. «Sì, sono stata io a dirlo. Ma l'ho anche telefonata dopo la festa per scusarmi. Non erano cose che pensavo davvero, ero soltanto ferita e arrabbiata.»

«A proposito di questo, abbiamo controllato i tabulati telefonici, e abbiamo notato numerose chiamate intorno alle 23:10, per poi trovarne una alle 02:20, quest'ultima presenta anche un messaggio in segreteria. Come mai?» domandò con le sopracciglia aggrottate.

Era evidente. Al momento, ero la principale sospettata.

«Poco dopo la nostra discussione, ci avevo riflettuto e mi ero sentita in colpa, così volevo andare a scusarmi con lei, ma non riuscivo a trovarla da nessuna parte, così avevo provato a chiamarla. Dopo la terza chiamata senza risposta, decisi di lasciar perdere, almeno per il momento, così chiamai Tracey, l'altra nostra amica. Lei mi propose di andarcene dalla festa e di andare in una discoteca, così da potermi distrarre.»

«Il nome di questo locale?»

«Golden Rose» risposi.

«Qualcuno, a parte questa sua amica, può confermare la vostra presenza in quel locale?»

«Non lo so, le persone che c'erano lì. Il buttafuori, o magari il barista» dissi scrollando le spalle. «Anzi, ora che ci penso, ci eravamo fatte scattare delle foto dal fotografo, dovrebbero essere presenti sulla pagina Facebook della discoteca» aggiunsi.

L'idea delle foto era stata un'altra idea geniale da parte di Tracey. Era più che probabile che le persone che lavorassero in quel locale non ricordassero le facce di tutti i diversi clienti che vedevano ogni sera. Ma le foto invece costituivano una prova inconfutabile della nostra presenza lì quella sera.

«E in merito all'ultima telefonata?»

«L'ho fatta mentre stavo tornando a casa. Nonostante la bella serata passata insieme a Tracey, durante la strada di ritorno continuavo a pensare alla litigata con Emily, così decisi di provare a chiamarla un'ultima volta, lasciandole un messaggio in segreteria con le mie scuse.»

«E poi? Non l'ha più sentita? Dopo aver saputo della sua scomparsa, non ha provato in nessun modo a contattarla?»

«No» risposi, senza sapere cos'altro aggiungere per giustificare questo mio inaspettato gesto. Chi non avrebbe provato a contattare la propria amica dopo aver saputo che era scomparsa? Perciò cercai di pensare il più in fretta possibile ad una scusa, ma non mi veniva in mente niente. 

«E come mai?» domandò nuovamente lo sceriffo.

Poi pensai a quella che era forse la scusa più banale della storia, ma che comunque nessuno avrebbe potuto contestare: «I miei genitori mi avevano messa in punizione e mi avevano ritirato il cellulare. Sarei dovuta essere a casa per mezzanotte e mezza, ma invece arrivai due ore dopo, senza neanche averli avvisati dei miei spostamenti. Ho riavuto il telefono solo questa mattina».

«D'accordo. Direi che non ci sono altre do...»

In quel momento la porta si spalancò e apparve un uomo, più giovane dello sceriffo, doveva essere all'incirca sulla trentina. Aguzzai la vista per cercare di leggere ciò che riportava la sua targhetta: "Vicesceriffo Douglas".
Si scambiò uno sguardo d'intesa con lo sceriffo, il quale si alzò dalla sedia e si allontanò dal tavolo, giungendo al fianco del vicesceriffo. La loro conversazione durò appena qualche secondo, ma a me parve un'eternità. Sembrava gli stesse comunicando delle brutte notizie, e ne ebbi la conferma soltanto quando il vicesceriffo chiuse la porta alle sue spalle e Kowalski tornò a sedersi. Guardò un punto indefinito della stanza per mezzo istante, e poi posò lo sguardo su di me. 
L'occhiata gelida che mi rivolse in quel momento non la dimenticai mai: se uno sguardo avesse potuto uccidere, io avevo appena rischiato la morte. 
Allo stesso tempo, non dimenticai come mi sentii dopo aver sentito ciò che aveva da comunicarmi. Distrutta, incredula, col cuore a pezzi, colpevole. Già, lo sceriffo avrebbe colto l'enorme senso di colpa che provavo soltanto guardandomi. Ma, del resto, come avrei potuto evitarlo? Era la verità. Io ero colpevole.
Erano bastate solo poche semplici parole per rivelare quell'espressione sul mio volto, che in questi giorni mi ero esercitata a nascondere: «È stato ritrovato il corpo senza vita di Emily Walsh».

•••

«Ehi. Emily, sono io, Megan. Mi dispiace per quello che è successo, davvero. Non avrei dovuto trattarti così, dirti quelle cose. Sai che non le penso davvero. Tu sei una delle persone più importanti per me e non vorrei buttare via la nostra amicizia per nulla al mondo, figuriamoci per un ragazzo.
Ne abbiamo passate tante insieme, ricordi? Eri con me la prima volta che ho pianto per un ragazzo, eri con me quando stavo male perché mio padre era in ospedale, così come io ero lì, a tenerti i capelli, quando eri chinata sul water a smaltire la tua prima sbronza e giurasti che non avresti mai più toccato una sola goccia di alcool in tutta la tua vita, ed ero con te quando appena due settimane dopo quell'affermazione, ti aiutai a scolarti quell'intera bottiglia di vodka, nonostante sapessi che non mi piace bere. Ero con te quando i tuoi si sono separati. Ero con te quando hai vinto una delle competizioni di ginnastica artistica più importanti della tua vita. Ero con te quando hai pianto perché hai dovuto smettere di praticarla per quel problema alla schiena. Ci sarebbero altri mille esempi che potrei elencare per farti capire quanto sia stata importante la tua presenza nella mia vita. Insieme abbiamo riso, abbiamo pianto, ci siamo sostenute a vicenda e soprattutto siamo cresciute. Senza di te io non sarei la stessa. Quindi non voglio perderti. Scusami se ti ho ferita, non era mia intenzione.
Io... io n-non... io non ti farei mai del male, Emily. Ti prego, perdonami.»

Terminai il messaggio in segreteria e mi voltai verso Tracey, la quale mi appoggiò una mano sulla spalla per confortarmi e mi passò un fazzoletto per asciugarmi le lacrime. «Andava benissimo. Fidati di me, in questo modo nessuno potrà mai sospettare di te.»

•••

Megan si prepara ad affrontare la sua deposizione, con l'aiuto del figlio dell'avvocato Finnston, David. Sebbene all'inizio Megan fosse diffidente nei suoi confronti, per via della giovane età e, di conseguenza, della poca esperienza del ragazzo, in seguito riconosce che David abbia del potenziale. Che ne pensate per adesso del suo personaggio? Avrà un ruolo molto importante all'interno della storia.

Arrivato lunedì, Megan si rende conto che la polizia nutre dei sospetti nei suoi confronti, poiché ha scoperto di una brutta litigata avvenuta fra lei ed Emily poco prima della morte di quest'ultima. Nonostante qualche piccola difficoltà, alla fine Megan riesce a superare l'interrogatorio. È in quel momento che la polizia distrettuale ritrova il corpo di Emily, trasformando quindi l'indagine per scomparsa, in indagine per omicidio.

Alla fine del capitolo, ci si imbatte ancora una volta nell'accortezza e nell'ingegno di Tracey: era stata lei, a suggerire a Megan di telefonare a Emily dopo essere tornata a casa dal locale, e di lasciarle un messaggio in segreteria in cui si scusava per la loro litigata, così da annullare i sospetti nei suoi confronti.

Fatemi sapere che ne pensate!

 

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Capitolo 4
*** L’hai uccisa tu ***


L'hai uccisa tu

Guardavo il mio riflesso allo specchio e quasi non mi riconoscevo, come se stessi guardando qualcun altro di fronte a me, come se fossi esterna al mio corpo. Quella sensazione che provavo si intensificava man mano che continuavo a fissare la mia immagine. Così mi voltai dalla parte opposta. 
In fondo, non avevo necessariamente bisogno di uno specchio per prepararmi. A maggior ragione, perché non avevo nessuna intenzione di truccarmi. È vero, avevo un aspetto orribile, ma se avessi cercato di nasconderlo con l'utilizzo del make-up, a cosa avrebbero pensato i miei compagni di scuola?

"Megan Sinclair ha appena subìto una grave perdita, e l'unica cosa a cui pensa è a farsi una linea perfetta di eyeliner. Si vede che non le importava poi tanto della sua cosiddetta migliore amica."

Ma forse, anche mostrando apertamente il mio dolore (passavo in media cinque ore a piangere), le mie occhiaie (dormivo due ore a notte), le labbra screpolate (quando ero nervosa, tendevo a strapparmi la pelle secca dalle labbra), il viso scarno (in tre giorni avevo perso già quasi due chili e mezzo), qualcuno avrebbe avuto da ridire.

"Hai visto che aspetto? Sembra che non si sia nemmeno fatta una doccia. Ma secondo me fa tutto parte di una recita pianificata da lei: vuole farci pensare di star soffrendo per la morte della povera Emily, ma secondo me non è così. Anzi, sono quasi sicura che l'abbia uccisa lei. Non mi sorprenderei, dopo la litigata che hanno avuto venerdì sera."

Perciò feci ciò che mi sentivo di fare, infischiandomene di quello che avrebbero pensato gli altri, e non misi neanche del semplice correttore per coprire le occhiaie e gli occhi gonfi. 
Era strano: prima di quel fatidico venerdì sera, mi era sempre importato di avere un bell'aspetto, di apparire come una ragazza curata, carina, mentre ora mi sembrava non contasse nulla, che fossero tutte sciocchezze. Avevo problemi più importanti a cui pensare. Come, per esempio, quello di capire come evitare una condanna per omicidio.

Ormai non si trattava più di ritrovare Emily, bensì scoprire chi era stato ad ucciderla. E io sarei potuta essere l'indiziata principale. Ne ero certa: la polizia aspettava soltanto il momento giusto, e poi si sarebbe presentata a casa mia e avrebbe pronunciato il famoso "Miranda Warning". Non sapevo nemmeno avesse un nome, finché la cosa non iniziò a interessarmi direttamente. Prima pensavo fosse solo una frase usata nei film, giusto per fare scena. Invece, lunedì, subito dopo essere tornata a casa in seguito alla mia deposizione, cominciai a fare delle ricerche. Lessi che, a partire dal 1966, in seguito al caso "Miranda contro Arizona" (da cui prese il nome il Miranda Warning), questo avviso divenne essenziale, poiché stabiliva che ogni tipo di dichiarazione resa dall'accusato non sarebbe potuta essere utilizzata durante un processo, se prima l'indiziato non era stato messo a conoscenza dei suoi diritti.

Mi bastò leggerlo una volta, affinché riuscissi ad immaginarmi lo sceriffo Kowalski che mi ripeteva quelle parole: «Megan Sinclair, lei è in arresto per l'omicidio di Emily Walsh. Ha il diritto di rimanere in silenzio. Qualsiasi cosa dirà potrà e sarà usata contro di lei in tribunale. Ha diritto a un avvocato durante l'interrogatorio. Se non può permettersi un avvocato, gliene sarà assegnato uno d'ufficio».

Dopo essermi preparata (nonostante non mi fossi truccata, impiegai lo stesso tempo di ogni mattina, poiché lo utilizzai per aggiungere un buco alla cintura dei jeans), misi lo zaino sulle spalle e, prima di uscire, andai a salutare i miei genitori con un bacio sulla guancia.
Non sapevo quali fossero i loro pensieri a riguardo e, onestamente, avrei preferito non scoprirlo. Mi avrebbe fatto troppo male venire a sapere di averli delusi, che non mi credevano, che mi reputavano un'assassina. Se avessi perso il loro sostegno, allora sarei definitivamente sprofondata nell'abisso.

«Ah, Megan, dopo scuola potresti passare a portare l'acconto all'avvocato Finnston?» domandò mio padre, indicando una busta appoggiata sul tavolo del salotto. «Tanto ci passi nella strada al ritorno, giusto?»

Annuii soltanto, prendendo la busta e infilandola nello zaino. Poi uscii. Una volta a scuola, avrei messo i soldi nell'armadietto, così da evitare che qualcuno potesse rubarmeli.

•••

Tracey non passò a prendermi per portarmi a scuola. Da quando era successo tutto, i suoi non si fidavano a mandarla da sola in nessun posto e la accompagnavano ovunque e, inoltre, decisero che sarebbe stato meglio per lei rimanere a casa per ancora qualche giorno.
Così andai a piedi, cercando di prepararmi psicologicamente a ciò che avrei dovuto affrontare. Da sola, oltretutto.
Mantenni lo sguardo basso per quasi tutto il tragitto e poi, una volta entrata a scuola, mi diressi verso il mio armadietto. Mi sembrò di sentire dei mormorii alle mie spalle, ma in fondo c'erano anche prima che Emily venisse uccisa. Non era detto che quei bisbigli riguardassero me. Così, presi la busta e la misi sotto l'enorme pila di libri all'interno dell'armadietto, dopo aver preso quelli che mi sarebbero serviti per la prima ora.

Una volta in classe, vidi un nutrito gruppo di studenti riunito in cerchio. «Sì, penso che sarebbe una cosa carina» disse una ragazza, Lucy.

«Se siamo tutti d'accordo, andrò dalla preside appena finirà quest'ora» intervenne un altro.

«È arrivata... chi glielo dice?»

Improvvisamente si voltarono tutti verso di me. A parte due o tre persone, le altre non avevano nemmeno il coraggio di guardarmi in faccia. Per quale motivo?, mi chiesi. Erano dispiaciuti per la perdita che avevo subito? Oppure avevano paura di guardare negli occhi l'assassina della loro compagna di classe Emily Walsh?

Lucy si avvicinò a me. «Ciao, Megan» disse, rivolgendomi un sorriso imbarazzato.

«Ciao, Lucy.»

«Come stai?»

Quelle poche persone con cui mi ero relazionata in questi giorni, avevano sempre evitato di porre questa domanda. Mossa intelligente, a mio parere. Perché poi non si sarebbero sentiti in imbarazzo nel sentire la mia risposta.
Non sapevo nemmeno cosa rispondere, a dire il vero. Non sapevo se avrei dovuto fingere di stare bene ("Megan Sinclair sta bene dopo la morte della sua migliore amica? Forse non aspettava altro che quel momento. Sempre se non è stata lei stessa a farla fuori"), oppure manifestare il mio dolore ("Poverina, mi fa davvero pena. Fossi stata in lei non sarei venuta a scuola nemmeno oggi, mi sarei presa almeno tre giorni di pausa. Speriamo non sia sull'orlo del suicidio. Ho letto che un trauma come questo, può portare alla depressione, perciò non mi stupirei se fra poco finisse rinchiusa in una bara come la sua amica").

«Preferirei non parlarne» risposi secca. Mi accorsi del mio tono troppo rude, perciò aggiunsi: «Scusa».

«No, no, figurati. Lo capisco. Volevo soltanto chiederti se volessi... ecco, avremo la prima partita del campionato venerdì prossimo, e quindi pensavamo, prima dell'inizio, di organizzare uno spettacolo, con noi cheerleader e la banda, in onore di Emily, come una sorta di commemorazione.»

Prima che morisse, tutte queste persone neanche sapevano il suo nome. Probabilmente nemmeno il mio, se non forse per sentito dire, ma comunque non ci eravamo mai parlate. In più, Emily odiava le manifestazioni sportive. Non era mai venuta a vedere una sola partita.

«Dovrei chiedere a Tracey cosa ne pensa» dissi solamente, così da poterla liquidare.

Tracey era sempre stata più diretta rispetto a me. Io invece avevo sempre avuto paura di dire quello che pensavo realmente, sebbene spesso le mie espressioni facciali mi tradivano e parlavano al posto mio. In quei giorni però stavo imparando a nascondere meglio le mie emozioni, nella speranza che più nessuno mi avrebbe detto: «Te lo si legge in faccia, Megan».

«Sì, certo, va benissimo. Poi fateci sapere, così ne parleremo con la preside Fitzpatrick e le chiederemo l'autorizzazione per organizzare il tutto.»

Accennai un sorriso finto, che si spense nel momento in cui vidi Olivia entrare in classe.

Era raro che non andassi d'accordo con qualcuno, ero sempre stata una persona pacifica, a cui piaceva essere in buoni rapporti con tutti, ma chiaramente questo non era possibile. Olivia era un po' l'eccezione che andava a confermare la regola. Non ricordavo da cosa aveva avuto inizio la nostra reciproca intolleranza, so solo che andava avanti dal primo anno. Forse era partito tutto dai fastidiosi e reiterati commenti sottovoce che faceva durante ogni lezione che frequentavamo insieme, ogni qualvolta io oppure le mie amiche aprivamo bocca per rispondere alle domande dei professori. Aveva da ridire su qualsiasi cosa dicessimo e dava l'idea di una che pensava di essere superiore a tutti. Peccato che ogni volta che interveniva lei durante le lezioni, faceva cilecca, e durante i test arrivava al pelo alla sufficienza. Una volta avevo pure provato a fermarla dopo le lezioni, per dirle che il suo atteggiamento mi aveva stancato e per chiederle di spiegarmi che cosa le avessi fatto affinché ce l'avesse così tanto con me. Che cos'era, invidia? O magari era semplicemente stronza. Il risultato fu che alzò la voce e prese ad insultarmi come una pazza isterica, maleducata e arrogante, senza neanche rispondere in modo sensato alle spiegazioni che le avevo chiesto. Dal momento che non era possibile nemmeno avere una conversazione civile con lei, decisi di rinunciare a intrattenerci qualsiasi tipo di rapporto. Non ci parlavamo nemmeno più, se non in situazioni straordinarie, tuttavia i suoi commenti sottovoce e le sue derisioni continuarono.

Non appena mi vide, si voltò verso una delle sue amiche e disse qualcosa. Subito dopo partirono le risate. Alzai gli occhi al cielo, ma cercai di mantenere la calma. Le avrei volentieri tirato uno schiaffo, ma a cosa sarebbe servito? Inoltre, espormi avrebbe soltanto giocato a mio svantaggio, specialmente in questo periodo in cui la polizia stava svolgendo le sue indagini. Dovevo cercare di farmi notare il meno possibile. Qualsiasi cosa sarebbe potuta essere usata contro di me, per alimentare i sospetti nei miei confronti, per far credere a tutti che sarei stata capace di uccidere Emily.

"Megan Sinclair ha tirato uno schiaffo ad una ragazza della sua scuola, senza un apparente motivo. Non mi riesce difficile pensare che, presa da uno scatto d'ira, possa aver ucciso persino la sua migliore amica."

Così strinsi i pugni, cercando di sopportare il tutto. Ad un certo punto, tuttavia, i commenti assunsero un tono di voce più alto, divenendo udibili alle mie orecchie.

«Mio padre sta lavorando al caso. Chiaramente non può dirmi nulla, ma ho guardato fra le sue carte stamattina e sembra che la pista più attendibile sia quella che riconduce a lei» disse Olivia alle altre.

«Ha senso,» le diede corda una di quelle «in fondo è dopo quella litigata che hanno avuto, che Emily è scomparsa».

«Scomparsa, e successivamente morta» precisò Olivia. «E, sbaglio, o subito dopo anche Megan non si è più vista?»

Brutta stronzetta irrispettosa.

«Olivia, lo sai che la calunnia, o diffamazione, è sanzionabile con una multa fino a cinquecento dollari, oppure con la reclusione fino a sei mesi? O anche entrambi» dissi a voce alta, attirando tutte le attenzioni su di me.

«Ma che brava! Ti sei messa persino a studiare il codice penale insieme al tuo avvocato, nella speranza di trovare un espediente che possa farti assolvere? Tanto lo sappiamo tutti che l'hai uccisa tu.»

Il mio cuore si fermò, così come il mondo intorno a me. Non pensavo che una persona potesse arrivare a tanto. Mentre le lacrime cominciavano ad accumularsi nei miei occhi, sentivo gli occhi di tutti puntati su di me. Nessuno di loro aveva il coraggio di intervenire. O forse la pensavano tutti come lei, ed era per questo motivo che nessuno prese le mie difese.

«Che fai, ora piangi?» domandò Olivia, fingendo dispiacere. «Oh, povera, povera Megan...»

Deglutii, e cercai di reagire, senza far prendere il sopravvento alle mie emozioni e scoppiare a piangere come facevo ogni giorno a casa. «Già, hai proprio ragione. Perciò ti conviene starmi alla larga, altrimenti potrei uccidere anche te.»

Sperai che bastasse a far sì che mi lasciasse in pace, ma in realtà mi accorsi troppo tardi che le avevo appena dato ciò che voleva. Avanzò verso di me e si fermò a pochi centimetri dal mio viso. «Era forse una minaccia? Potrei correre all'istante da mio padre e farti arrestare prima che tu possa battere ciglio. Quindi è a te che conviene stare attenta, Megan.»

«Perché non chiudi quel becco da oca giuliva che ti ritrovi?» sentii la voce di Dylan e, dopo averlo cercato con lo sguardo, lo individuai in piedi davanti alla porta della classe.

Olivia si voltò nella sua direzione. «Che c'è, difendi la tua ragazza? Ah, ma certo, ora mi è tutto più chiaro: probabilmente l'avete uccisa insieme.»

«Vai a farti fottere. Anzi, fottiti da sola, perché sei così viscida e schifosa che nessun altro essere umano sano di mente lo farebbe.»

Dopo aver detto quella frase, Dylan entrò in classe e mi prese per mano, trascinandomi fuori dall'aula e allontanandomi da quel gruppo di persone, mentre Olivia se ne stava pietrificata e scioccata, dopo essere stata zittita da Dylan. Quest'ultimo, mi portò dietro le scale per nascondermi da occhi indiscreti e mi fece appoggiare con la schiena al muro. «Megan, ehi, respira. Calmati» mi disse, prendendo il mio viso fra le sue mani e facendo sì che lo guardassi. Anche i suoi occhi azzurri e cristallini erano contornati da delle enormi occhiaie, seppur non profonde come le mie.

«Non... n-non ci riesco.»

«Lo so. È per questo che ci sono qui io. Lo sai che di me puoi fidarti, Meg. Non ti lascerò sola» disse carezzandomi una guancia con l'indice.

Dopodiché avvicinò il suo viso al mio fino a far toccare le punte dei nostri nasi. Sentivo il suo respiro caldo sulla mia pelle. «Che cos'hai detto alla polizia?» chiesi, mettendogli una mano sul petto per allontanarlo da me. Anche Dylan aveva ricevuto un mandato di comparizione, ed era stato chiamato dentro a testimoniare dopo di me.

«Stai tranquilla. Il nostro piccolo segreto è al sicuro.»

«Giuralo. Dylan, nessuno deve scoprirlo.»

«Meg, non devi preoccuparti di niente: sono stato io a fare tutto, non tu.»

Mi cinse i fianchi con le mani per rendermi più vicina a sé. Io avanzai per quel poco che mancava per colmare la distanza fra le nostre labbra e lo baciai.

•••

Tan tan taaan!

Ecco il terzo capitolo. Megan torna a scuola, nonostante la sua salute fisica e mentale non siano delle migliori e nonostante sia consapevole del fatto che dovrà affrontare da sola i suoi compagni di scuola, i quali sono divisi in due schieramenti: c'è chi cerca di mostrarle il suo sostegno, e chi invece le sbatte in faccia ciò che pensano tutti in merito alla misteriosa morte di Emily. Alla fine, nessuno interviene a difenderla quando viene accusata, dimostrando quanto in realtà ognuno, in cuor suo, la ritenga colpevole di quel delitto. Tutti ad eccezione di Dylan Walker, che la difende a spada tratta.

Poco dopo si scopre che i due nascondono un segreto, sul quale hanno mentito alla polizia. Quale pensate che sia?

 

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Capitolo 5
*** Mi credi? ***


Mi credi?

Dissi a Dylan che sarei andata un attimo in bagno e di aspettarmi in classe. In realtà, attesi che si allontanasse, solo per potermela poi svignare e scappare da quell'edificio infernale denominato anche scuola. Non ce l'avrei fatta a rimanere lì tutto il giorno. Quei venticinque minuti al suo interno mi erano bastati.

Nell'esatto momento in cui varcai la soglia della scuola per andarmene, mi resi conto che non era solo sul piano fisico che non mi riconoscevo, bensì anche su quello caratteriale. 
Che cosa stavo facendo? Stavo davvero bigiando la scuola? Ciò che stavo facendo andava contro i miei princìpi morali. Quella non ero io. Io ero quella ragazza che pure con quaranta di febbre insisteva nel voler andare a scuola per non perdere quel test importante, ero quella ragazza che non si muoveva di casa il pomeriggio se prima non aveva fatto tutti i compiti per il giorno dopo, ero quella ragazza che andava nel panico quando i propri genitori organizzavano una vacanza di più giorni in qualche posto, perché non sapeva come avrebbe fatto a rimettersi in pari con lo studio al suo ritorno. La scuola per me era sempre stato un obbligo che prendevo seriamente, poiché costituiva ciò che mi avrebbe permesso di costruire il futuro che sognavo.

"Sono Megan Sinclair e sono una brava ragazza."

Già, e allora che ne era stato di quella brava ragazza, diligente e studiosa, la Megan Sinclair che conoscevano tutti? In cosa mi stavo trasformando? Se finora ero stata capace di saltare la scuola e mentire alla polizia, cos'altro sarei stata in grado di fare?

Scossi la testa, nella speranza di cacciare quei pensieri. Era solo un periodo così, mi ripetevo, poi sarebbe tornato tutto come prima. Io sarei tornata come prima.
Camminavo con la testa bassa, le cuffie nella testa per isolarmi dal mondo circostante, e il cappuccio sulla testa, nella speranza che nessuno per strada potesse riconoscermi. Era una cittadina piccola: si conoscevano tutti.

Camminai per circa dieci minuti, la durata di tre canzoni, finché non giunsi a destinazione. Dal marciapiede passai al giardino e dopodiché, una volta giunta in veranda, mi tolsi il cappuccio dalla testa e gli auricolari dalle orecchie e suonai al campanello.
Mentre aspettavo che venisse ad aprirmi, mi specchiai alla finestra e diedi una sistemata ai capelli, passando le dita fra le lunghezze, nel tentativo di farli apparire come minimo pettinati. Dopodiché aprii la tasca piccola dello zaino e ne tirai fuori la busta che mi aveva dato mio padre, che avevo recuperato prima di uscire da scuola. 
In quel momento, la porta si aprì. Rimasi a bocca aperta, nell'accorgermi che davanti a me non si trovava Frederick Finnston, bensì suo figlio. Sebbene fossero solo le nove e qualche minuto, era già ben vestito, pettinato e, chiaramente, con le scarpe. Che famiglia di fissati, pensai.

Anche lui sembrava sorpreso di vedermi. «Tu non dovresti essere a scuola?» domandò incrociando le braccia al petto e guardandomi di sottecchi.

Che noioso, mi parve quasi di avere davanti mio padre in quel momento, non un ragazzo poco più grande di me. «Tu non dovresti essere all'università?» rigirai la domanda, assumendo la sua stessa posa e la sua stessa espressione.

«Sono un uomo adulto, non devo spiegazioni a nessuno.»

Alzai un sopracciglio e mi morsi il labbro inferiore, per trattenere le risate dopo aver sentito le parole "sono un uomo adulto". Non che lo conoscessi bene, ma già il fatto che avesse appositamente voluto sottolineare questo suo aspetto, mi fece dubitare che lo fosse davvero.

«Già, be', sarai anche un vecchio, ma non sei mio padre, quindi non è a te che devo spiegazioni.»

«Che caratterino» commentò, emettendo un piccolo ghigno. «Però fai una scelta: o ho diciotto anni, oppure sono un vecchio. Sai, le due cose sono un po' incompatibili.»

Sbuffai e roteai gli occhi. Mi dava fastidio quel suo atteggiamento di superiorità e strafottenza. Tuttavia, decisi di rimanere in silenzio, per non far sì che continuasse a mettermi in ridicolo qualsiasi cosa dicessi, considerando che sembrava che l'aspirante avvocato che avevo davanti ai miei occhi avesse sempre ragione e fosse sempre pronto a farmelo notare. Mi faceva sentire una stupida.

«Oggi ho lezione al pomeriggio, per questo sono qui» disse poi, cambiando argomento. «Te invece? Che scusa hai per aver invaso il mio domicilio?»

«Speravo di trovare tuo padre, devo consegnargli questa» risposi, indicando la busta che tenevo in mano.

Gliela passai. Diede una rapida occhiata al contenuto e poi tornò a guardare me, accigliato. «Pensavo che saresti dovuta passare nel pomeriggio per portarli. Per questo mio padre non si è fatto trovare, ti aspettava dopo la scuola.»

Ma perché non poteva semplicemente farsi i fatti suoi?

«Non ci sono andata. Qualche problema a riguardo?» domandai seccata. Era un futuro avvocato oppure un investigatore privato?

«No, nessuno.»

«Perfetto. Buona giornata» feci per voltarmi e andarmene, ma David richiamò nuovamente la mia attenzione.

«Ah, Megan,» disse e io tornai a guardarlo «mi dispiace per la tua amica».

«Già. Anche a me» risposi, volgendo lo sguardo altrove.

«Dev'essere stato orribile scoprirlo durante l'interrogatorio, in un momento in cui eri già nervosa di tuo. Be', in realtà dev'essere terribile scoprirlo e basta, in qualsiasi situazione o circostanza. Se non altro, quando ne hai avuta la conferma, eri già pronta: in fondo lo sapevi già, no?»

Mi immobilizzai sul posto. Lui sapeva che io sapevo? Come aveva fatto a scoprirlo? Forse gliel'aveva detto suo padre, il quale si era confrontato con il procuratore, il quale aveva raccolto già abbastanza prove per potermi incriminare. «E... e tu questo come lo sai?» fu l'unica cosa che riuscii a dire.

Alzò gli occhi al soffitto e si passò una mano sulla fronte, come se fosse deluso, o sconsolato. «Dio, davvero è così semplice farti parlare? Non lo sapevo, prima che tu me ne dessi la conferma in questo esatto momento!»

«Be', ero nel panico! Mi hai colta alla sprovvista e non sapevo cos'altro dire. Non...»

Non mi diede neanche il tempo di finire la frase. «E quindi in tribunale farai così, ti farai prendere dal panico e poi confesserai tutto?»

«N-no, io...»

Mi interruppe una seconda volta. «Veloce, entra dentro!» mi afferrò per un braccio e mi fece entrare in casa sua, portandomi a sedere sul divano, come durante il nostro primo incontro. Si sedette alla mia sinistra anche stavolta.

Che modi. Aveva proprio la stoffa da avvocato: era un emerito stronzo.
Si accorse della mia espressione stralunata e allora sembrò darsi una calmata. «Megan, la falsa testimonianza durante un processo costituisce un reato. Non potrai mentire quando sarai sotto giuramento. E le lacrime non serviranno ad impietosire la giuria. Per favore, dimmi tutta la verità. Per davvero, stavolta.»

Accidenti a me, perché diavolo non sono rimasta a casa?, mi chiesi quando capii che non mi avrebbe lasciata andare finché non gli avessi raccontato tutto ciò che sapevo. Perciò, presi un respiro profondo e mi voltai nella sua direzione, pronta, per quanto possibile, a dirgli tutto: «Non l'ho uccisa io. Dopo la nostra litigata, avevo tentato di chiamarla per scusarmi, così come ho dichiarato alla polizia. Lei non rispose, ma in compenso riuscii a seguire la suoneria del suo cellulare che squillava, fino a trovarla, poco distante dalla casa di Dylan. Era distesa a terra, in una pozza di sangue, con un coltello conficcato sul collo. Cercai di rianimarla effettuando un massaggio cardiaco, ma si rivelò tutto inutile, dal momento che era già morta. E poi... be', non so cosa mi prese, ma pensai che, forse, rimuovendo il coltello dalla ferita, lei sarebbe...»

«Non dirmi che l'hai fatto davvero» si passò nuovamente una mano sulla fronte e scosse la testa. «Rimuovere l'arma da taglio da una ferita così profonda può causare una forte emorragia, quindi se ci fosse stata anche solo una possibilità secondo la quale Emily era ancora viva, tu...»

«Non l'ho fatto apposta... Non lo sapevo» lo interruppi, mentre le lacrime cominciavano ad accumularsi nei miei occhi, per l'ennesima volta.

«Già, a proposito di questo, hai mai sentito parlare di manslaughter involontario?» domandò e io scossi la testa. «Omicidio colposo? È un tipo di omicidio che si verifica a causa di negligenza, imperizia e imprudenza. Per esempio, quando un automobilista ubriaco investe qualcuno, oppure, nel tuo caso, quando una persona, disinformata e inesperta nel campo medico, aggrava la situazione già critica di qualcun altro, causandone la morte.»

In quel momento, mi sentii mancare il respiro. E se fossi stata davvero io? Se avessi ucciso io Emily? Non riuscivo a pensarci, non riuscivo a crederci. Le mani iniziarono a tremarmi, mentre le lacrime sgorgavano dai miei occhi arrossati e stanchi, dopo giorni di sofferenza. «Q-quindi andrò in prigione?» chiesi, con la voce spezzata.

«Non è detto che l'abbia uccisa tu. Magari avevi ragione ed era già morta. Bisogna aspettare i risultati dell'autopsia per saperlo.»
Fece una pausa, come se stesse riflettendo su qualcosa che non gli tornava. «A pochi metri da casa di Walker, hai detto?» domandò e io feci cenno di sì con la testa. «È strano: il corpo è stato ritrovato al Lake End Park, vicino alla riva. Perché l'assassino non se n'è disfatto subito? Deve essere stato per forza qualcuno che era alla festa. E il coltello, che fine ha fatto?»

Mi asciugai le lacrime e feci due o tre respiri prima di rispondere, cercando di tornare lucida e smetterla di piagnucolare come una bambina. Non sarei andata da nessuna parte con quell'atteggiamento, dovevo passarci sopra. David aveva ragione: alla giuria non importava nulla delle mie lacrime, a loro importava la verità su quella notte. «Non ne ho idea... Quando ho lasciato la festa, il corpo di Emily era ancora lì, così come il coltello... Per questo sono rimasta sorpresa quando sul giornale ho letto che Emily era scomparsa, e non morta. Così come era scomparsa l'arma del delitto. Ma ora la polizia ha trovato tutto, non è vero? È in possesso del coltello con le mie impronte sopra e sono fregata, giusto?»

«No, Megan. L'arma del delitto non è mai stata ritrovata, il che potrebbe essere pure peggio, dal momento che non sappiamo chi potrebbe esserne in possesso e cosa potrebbe farci» disse, passandosi una mano sui capelli, come se si sentisse frustrato, come se la cosa lo toccasse personalmente. Pensai che fosse tipico degli avvocati: amavano le sfide, specialmente se complesse e quasi impossibili, ma detestavano perderle.

Mi si contorse lo stomaco. Detestavo quello stato in cui versavo da giorni: ansia, incertezza, paura. Ero piena di dubbi, domande, a cui nessuno avrebbe potuto rispondere. «Sono nei guai fino al collo, non è così?»

Rimase a lungo a fissarmi, senza rispondere. Non mi sembrava una domanda difficile. In fondo, era evidente. Io avevo ucciso Emily, o forse no, ma la polizia avrebbe trovato prove sufficienti a incriminarmi e così, in un caso o nell'altro, sarei finita ugualmente in prigione.

«Non è così che si dice? "Innocente fino a prova contraria". Sebbene non sia stata realmente io, tutto riconduce a me» aggiunsi. In fondo anche Olivia me ne aveva dato conferma pochi attimi prima. Suo padre era un agente di polizia che stava lavorando al caso Walsh, e le loro indagini sembravano indirizzate principalmente nell'individuare me, come colpevole. «Che dici, secondo te mi donerebbe l'arancione?» dissi, per sdrammatizzare. Avevo letto che l'ironia poteva servire a superare momenti difficili, a renderli meno tragici. Tuttavia, non funzionò nel mio caso, anzi, mi sentii ancora peggio, sebbene non lo diedi a vedere. Io ero più forte di così. Dovevo esserlo. Quel piagnisteo doveva finire.

David roteò gli occhi. «Smettila. Non andrai in prigione. Non lo permet... Voglio dire, mio padre non lo permetterà. Ti potrà anche sembrare una persona tranquilla, forse lo reputi inadatto a fare un lavoro come questo, ma lo pensi solo perché non hai mai visto come si trasforma all'interno di un aula di tribunale.»

«Non ho detto che penso che tuo padre sia...»

«Ma è così. Sono sicuro che ti sarà sembrato una persona gentile e magari di buon cuore,  forse troppo per fare un lavoro del genere» mi interruppe. «E poi, ho capito benissimo che sottovaluti il potenziale degli avvocati. Credi forse che il tuo sia il caso più difficile che gli sia mai capitato? Adesso si trova in tribunale per far assolvere una donna che lavora in un supermercato e che è stata ripresa dalle telecamere di sicurezza mentre uccideva il suo capo, colpendolo con una scopa in testa fino a fracassargli il cranio. Che cosa ha in mente per riuscire a farla assolvere? Sindrome premestruale. E buttandoci dentro anche qualche altra scusante, come ripetute molestie sessuali sul lavoro, sono sicuro che vincerà il processo. La donna sarà condannata con la condizionale e, non so, magari dovrà sottoporsi a qualche cura con qualche farmaco per tenere sotto controllo la sindrome, ma per il resto, continuerà con la sua vita come prima.»

Le sue parole, da una parte, ebbero su di me un effetto rassicurante, mi diedero speranza; dall'altra, tuttavia, mi fecero sentire in colpa. Io avrei continuato a vivere la mia vita senza dover scontare nessuna pena, ma Emily invece? Lei era morta. E non avrebbe avuto giustizia, finché non si sarebbe scoperta tutta la verità su quella notte. Così io l'avrei scampata, e il suo assassino? Se anche lui o lei avesse ricevuto un'abile difesa, riuscendo ad evitare la condanna? 
Poi pensai a quanto fegato e sangue freddo dovessero avere gli avvocati per riuscire a sopportare tali ingiustizie ogni giorno, solo per poter ricevere un compenso. Non ce l'avevano un cuore? Delle emozioni?

«Che lavoro di merda» dissi, prima di portarmi le mani alla bocca. Mi era uscito involontariamente. «Scusami» aggiunsi.

«Ah, però, che Francese. E io che pensavo che fossi la cocca di mamma e papà e non conoscessi queste belle parole» disse, trattenendo una risata.

«Potrei aver ucciso la mia migliore amica e l'unica cosa per cui ti sorprendi, è una parolaccia che esce dalla mia bocca?»

«Già, proprio così. E comunque, devo dissentire: fare l'avvocato ha tanti aspetti positivi, primo fra questi il fatto di poter aiutare le persone a ricevere una degna difesa.»

«Già, ma quante di queste persone se lo meritano davvero? Quanti assassini, pedofili, ladri, spacciatori o stupratori sono stati assolti, senza ricevere la condanna che gli spettava? E quante probabilità ci sono che ripetano il crimine commesso una volta scagionati? E quante persone innocenti sono state accusate ingiustamente solo perché non potevano permettersi un buon avvocato? Negli Stati Uniti, una persona su venticinque fra quelle condannate, è innocente. Tutto questo è... profondamente sbagliato. E poi ho letto che sono molti gli avvocati che si lamentano ogni giorno del loro lavoro, definendolo demotivante e insoddisfacente. Inoltre, hanno il 3,6% di possibilità in più di cadere in depressione o di divorziare.»

Emise un piccolo ghigno, che non fui in grado di interpretare: era un ghigno di scherno, di divertimento o cos'altro? Se se ne fosse uscito con un'altra sua presa in giro, non so come avrei reagito. Quella statuetta con la bilancia morale non ce la vedevo male sulla sua fronte.

«Be', per essere una che sembra detestare questa professione, hai fatto molte ricerche a riguardo» disse. «Comunque, per quanto mi riguarda, gli aspetti negativi che hai descritto, non possono competere con la sensazione di gratificazione e soddisfazione che si deve provare nel momento in cui si vince una causa. Non si tratta soltanto di impararsi a memoria dei libri, ma di servirsi del loro contenuto, insieme alle proprie capacità intellettive, per riuscire ad aiutare qualcuno e migliorargli la vita. La legge è quella, non si può cambiare. Ma un avvocato, soltanto grazie all'utilizzo delle sue parole, della sua astuzia e del suo ingegno, riesce a fare l'impossibile e a ribaltare il risultato di un processo, ridando la speranza a qualcuno che credeva di essere ormai perso.»

Mi piaceva starlo ad ascoltare. Prima di tutto, perché non stavamo parlando di cose di materia giuridica riguardanti Emily e il possibile processo penale che avrei potuto dover affrontare. E poi, era sempre bello sentir parlare qualcuno di qualcosa di cui era fortemente appassionato. Inoltre, avevo sempre creduto che chi intraprendeva la stessa carriera dei genitori, lo facesse non per sua scelta, ma per l'influenza e la pressione subita da parte di essi, ma nel caso di David questo mia ideologia mi parve una sciocchezza. Si leggeva nei suoi occhi e si capiva dal modo entusiastico in cui parlava, che era fermamente convinto di quello che diceva e che amava il lavoro che il percorso di studi che seguiva gli avrebbe permesso di svolgere.

«Be', i miei complimenti: se qualcuno potesse farmi cambiare idea su questo lavoro, allora saresti sicuramente tu, dopo questo appassionato discorso.»

«Ah sì?» domandò sorpreso.

«Ho detto "se". Mi dispiace, ma continuo a pensare che gli avvocati siano solo dei bugiardi imbroglioni.»

«Io la definirei persuasione, l'arte di convincere le persone» ribatté.

«Mi sembra più giusto il termine "manipolazione". Ora comunque è meglio se tolgo il disturbo» dissi, dopo aver guardato l'orologio appeso al muro ed aver constatato che era il caso di andare.

Mi rivolse un altro dei suoi ghigni indecifrabili, prima di annuire e alzarsi dal divano. Mi alzai a mia volta e mi diressi verso la porta. David me la aprì per lasciarmi uscire e successivamente si appoggiò allo stipite, pronto a richiuderla nel momento in cui me ne sarei andata. «Mi raccomando, non saltare più la scuola» mi disse, e non seppi se prenderlo sul serio oppure se era soltanto una delle sue prese per i fondelli.

«Mi raccomando, non diventare depresso, o non divorziare.»

Mi sorrise e poi io mi voltai e mi allontanai. Tirai fuori il cellulare e, come temevo, avevo ricevuto numerose chiamate e messaggi da parte di Dylan, in cui mi chiedeva che fine avessi fatto. Per non farlo preoccupare per la mia misteriosa scomparsa, gli risposi che avevo preferito tornare a casa. 
Controllando meglio fra i vari messaggi, mi accorsi che ce n'era uno anche da parte di Tracey: "Puoi passare da me dopo scuola?".

"Non ci sono andata. Se vuoi fra dieci minuti sono da te."

"D'accordo, ma fai attenzione quando sei per strada: i miei sono appena usciti per andare a lavoro."

Mi infilai nuovamente il cappuccio in testa e presi a camminare verso la casa di Tracey. Forse tutto ciò che stavo facendo in quella giornata, non corrispondeva perfettamente alla mia idea iniziale di mantenere un profilo basso. Eppure, non mi sentivo più di tanto in colpa. Non avevo mai bigiato la scuola in sedici anni di vita e, ora che lo stavo facendo, avevo comunque delle buone motivazioni.

Arrivai a casa di Tracey dopo pochi minuti e, dopo avermi fatto togliere la felpa e le scarpe, mi condusse in cucina. «Stavo per fare colazione. Te vuoi qualcosa?» domandò.

Scossi la testa. «No, grazie. Sono a posto.»

«Stai scherzando? Spero che tu non stia per diventare pelle e ossa, Megan. Stai mangiando qualcosa in questi giorni?»

Erano le stesse parole che mi ripetevano i miei genitori da giorni. Come potevo fargli capire che non avevo fame? Mi rendevo conto che non fosse una cosa normale e che se avessi continuato in quel modo, mi sarei avviata verso la terribile e pericolosa strada dei disturbi dell'alimentazione, ma non potevo farci niente: avevo lo stomaco chiuso, costantemente.
Ma forse il mio era soltanto un blocco mentale, più che fisico. Come ero riuscita a smettere di scoppiare a piangere ogni dieci minuti, forse sarei riuscita anche a farmi tornare l'appetito. «Sai che ti dico? Forse un panino con la marmellata non mi dispiacerebbe» dissi, fingendo un sorriso.

«D'accordo. Vuoi anche un po' di tè? Lo sto preparando adesso.»

«Sì, per favore» risposi, mentre in cuor mio speravo di non vomitare dopo aver ingerito tutte quelle robe. Il giorno prima avevo mangiato solo un pacchetto di cracker e delle carote.

Dopodiché, mi avviai verso il bancone dove erano appoggiate le diverse marmellate e confetture. Scelsi quella all'albicocca e poi, mentre stavo per prendere il coltello per spalmarla sul pane, per poco il barattolo di vetro non cadde dalle mie mani. Cominciai a tremare e gli occhi mi si fecero lucidi. «C-che diavolo è quello?» chiesi a Tracey.

Immediatamente mi tornarono alla mente le immagini di venerdì sera. Io che trovavo il corpo di Emily, che tentavo di rianimarla, che toglievo il coltello dalla sua gola. E poi arrivava Tracey. Cercava di calmarmi, di convincermi ad allontanarmi e ad andare via, di lasciare tutto com'era e scappare. Il corpo di Emily poi era stato spostato e lanciato nel lago, ma il coltello con cui era stata uccisa invece era scomparso. L'arma del delitto non era stata più vista da nessuno, ad eccezione di me in questo momento. Che cosa ci faceva l'arma con cui era stata uccisa Emily, in casa di Tracey? Perché l'aveva rubata? E se...

«L'ho presa quando ce ne stavamo andando. Tu eri sotto shock e non te ne sei neanche accorta. Pensavo di fare la cosa giusta: c'erano le tue impronte sopra. Non potevo rischiare che la polizia la trovasse, così l'ho rubata» rispose Tracey con tono pacato, scrollando le spalle.

«E l'hai portato in casa tua?»

«Be', chi diamine verrebbe qui a cercarlo? E poi, ormai l'ho ripulito. Nessuno potrà mai capire che è lo stesso coltello usato per... be', lo sai.»

Rimasi in silenzio per un po'. Era davvero così oppure mi stava mentendo?

«Megan, perché non dici niente? Credi forse che sia stata io? Io mi sono fidata ciecamente di te, quando mi hai chiamata in lacrime e ti ho vista ricoperta del sangue di Emily. Non ho dubitato di te neanche per un secondo, perché sei la mia migliore amica e so che non faresti mai una cosa del genere. Quindi adesso ho bisogno che tu mi dia la stessa fiducia che hai ricevuto tu, Megan: mi credi?»

•••

Ecco a voi il quarto capitolo! Come potete vedere, Megan continua la lotta con se stessa. Sta scoprendo un nuovo lato di sé, un lato che non le piace e nel quale non si identifica, ma che, dopo un trauma del genere, era inevitabile che fuoriuscisse. È spaventata, e sta soltanto cercando di difendersi.
Allo stesso tempo, sta compiendo un percorso che la aiuterà a crescere e maturare: capisce che continuare a piangere, a disperarsi e a fare lo sciopero della fame, non riporterà la sua migliore amica indietro.

Grazie a David, l'ambizioso e presuntuoso futuro avvocato, riesce anche ad allontanarsi, seppur per poco tempo, dai suoi problemi e pensare ad altro. Inoltre, nonostante le sue paure e la sua diffidenza, riesce a raccontargli la l'autentica verità su quella sera e lui si mostra comprensivo e la rassicura: suo padre avrebbe fatto di tutto per farla assolvere.

Infine, Megan arriva a casa di Tracey e trova una terribile sorpresa: l'arma del delitto, infatti, non era mai stato ritrovata, poiché presa da Tracey prima che se ne andassero dalla festa. La ragazza si difende dalle accuse, dicendo che l'aveva fatto per proteggere Megan, dal momento che vi erano le sue impronte sopra il coltello. Dopodiché, implora l'amica di crederle, così come lei a sua volte le aveva creduto. Voi che pensate? Tracey dice la verità oppure nasconde qualcosa?

 

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Capitolo 6
*** Quello che le abbiamo fatto ***


Quello che le abbiamo fatto

«Sì, ma certo che ti credo.»

Tracey fece un sospiro di sollievo e corse ad abbracciarmi.

«Scusa, è solo che in questo periodo sono un po' così. Sono sempre nervosa, non mangio, non dormo, vedo nemici ovunque. Ma non dubiterei mai di te, come te non hai dubitato di me. So che non avresti mai fatto una cosa del genere e che tutto ciò che hai fatto l'hai fatto per aiutarmi. Senza di te, quella sera sarei stata persa. Mi hai letteralmente salvato la vita.»

«Tu avresti fatto lo stesso con me. È a questo che servono le amiche, no?»

Annuii e poi sciolsi l'abbraccio. 
Dopodiché, mi voltai di nuovo verso il coltello da cuoco, alias l'arma del delitto. Non era posto neanche così tanto in vista, era nascosto da altri coltelli da cucina, eppure era saltato subito ai miei occhi. Forse dipendeva dal fatto che erano ancora nitide nella mia mente le immagini scioccanti legate a quello che era, apparentemente, un semplice e banale utensile da cucina. Ma chi non sapeva la storia dietro a quel coltello, come avrebbe potuto sospettare che si trattava dello stesso usato per uccidere Emily? In fondo come quello ce n'erano a milioni, tutti identici. Non che passassi molto tempo ad osservare i coltelli che avevo in casa, ma ero piuttosto sicura di averne uno simile, se non uguale, a quello.

«È pronto il tè» annunciò Tracey, la quale, mentre io ero impegnata a fare i miei soliti pensieri paranoici, nel frattempo aveva provveduto ad apparecchiare la tavola e a finire di preparare il tè. 

Così, presi un coltello qualsiasi dal portaposate e poi andai a sedermi a tavola, appoggiando il barattolo di marmellata sulla tovaglietta da colazione che aveva preparato Tracey. Presi una fetta di pane e cominciai a spalmarci sopra la marmellata, mentre nel frattempo le raccontavo cos'era successo a scuola e perché avevo deciso di andarmene.

«Che stronza. È soltanto una povera bulla, devi lasciarla stare, Megan» mi disse, a proposito di Olivia.

«Già, però nessuno ha detto niente. Credono a lei.»

«Be', cosa ti aspettavi? Che il ritorno a scuola sarebbe stato semplice e che sarebbero mancati i commenti offensivi di persone ignoranti e che non sanno farsi i fatti loro? Non li biasimo, in effetti. Saranno sicuramente spaventati, non sanno a cosa credere, quindi decidono di dare retta alla prima persona che dà una versione dei fatti che secondo loro sembra avere senso. Fregatene, Megan: tu sai di avere la coscienza a posto, e nessuno è tenuto ad avere una dimostrazione della tua innocenza. Anzi, in effetti sì: lo dimostrerai al giudice, ed è questo ciò che importa. Pensi che Olivia o chiunque altro potrà dire qualcosa contro la sentenza di un giudice di tribunale?»

In quel momento, smisi di mangiare il mio pane con la marmellata e mi chiesi cosa avessi fatto di così tanto bello per potermi meritare un'amica come Tracey. Era grandiosa, sapeva sempre cosa fare al momento giusto, cosa dire per risollevarmi il morale, darmi il sostegno di cui avevo bisogno.

A volte la invidiavo, in realtà. Aveva un'ottima mente, lucida e razionale e, anche nei momenti più critici, sapeva ragionare e trovare una soluzione sensata in poco tempo. Era una di quelle persone calme, che non perdevano mai le staffe ma che, anzi, faceva da collante del gruppo e cercava di mantenere le persone unite, di farle ragionare.

Io, al contrario, ero quel tipo di persona che non riusciva a tenere a freno le emozioni. Ero quella persona che, al minimo problema, entrava in crisi, smetteva di riflettere in modo sensato, urlava, piangeva e non era in grado di rimettersi in sesto se non con l'aiuto di qualcun altro. Io avevo sempre bisogno di qualcuno pronto ad ascoltarmi, a rassicurarmi e a risolvere i miei problemi al posto mio. Dovevo sempre dipendere da qualcuno, come una bambina. Lo odiavo. Odiavo l'idea di avere un carattere debole e di non riuscire a badare a me stessa.
Ero così debole da non essere riuscita ad affrontare una giornata da scuola da sola, senza Tracey pronta a rassicurarmi. Ero così debole da essere scoppiata a piangere davanti a tutti, quando invece avrei dovuto tirare fuori le unghie e difendermi da quelle accuse, senza aspettare che intervenisse Dylan.

«Hai ragione. Come sempre» dissi, e Tracey si sollevò i capelli all'aria e si vantò: «Ovvio, sono la miglio... oh no, merda!».

Agitandosi in quel modo, aveva rovesciato la tazza di tè sul tavolo, facendo fuoriuscire il liquido.

Sorrisi. «Quando tornerai a scuola?» domandai, mentre lei si alzava per prendere un tovagliolo e pulire.

«Ormai penso lunedì prossimo, non avrebbe senso tornare a metà settimana. Almeno durante il weekend potrò mettermi a recuperare quello che ho perso durante questi giorni» rispose.

«Io invece penso che domani andrò. Voglio riprovarci.»

Il mio tono di voce apparve più convinto e deciso di quanto lo fossi dentro di me. Ma dovevo farlo. Dovevo smetterla di scappare dalle difficoltà e di comportarmi da vigliacca.

«Fai bene,» disse, tornando a sedersi «non devi permettere a quegli stronzi di distruggere il tuo record di presenze. Dici che a Harvard ne tengono conto? Oddio, e se questa unica giornata di scuola che stai perdendo, potesse compromettere il tuo futuro?».

«Vaffanculo!» esclamai, non riuscendo però a mantenere la serietà e finendo con lo scoppiare a ridere.

Tracey rise a sua volta. «Già ti immagino l'anno prossimo, quando alla fine del colloquio ti diranno che saresti un'ottima candidata e che Harvard ha bisogno di persone del tuo calibro, ma che, ahimè, per via di quell'unica assenza ingiustificata fatta il 2 ottobre 2018, non potranno considerare come valida la tua domanda di ammissione al college più prestigioso degli Stati Uniti d'America.»

Presi il mio tovagliolo e, dopo averlo accartocciato per formare una pallina, gliela lanciai in faccia. «Ehi, non si scherza su Harvard» dissi, riassumendo un tono serio.

Tracey alzò gli occhi al cielo. «Ancora non capisco perché tutta questa fissa con Harvard, se di fatto non sai nemmeno che cosa vuoi fare da grande di preciso.»

«Perché è il mio sogno fin da bambina. Come hai detto tu, è uno college più prestigiosi degli Stati Uniti. Ciò significa che mi aiuterà a trovare un lavoro grandioso, lontano da questa cittadina inutile. Riesci a immaginarlo? Dalla città più insignificante della Louisiana, a chissà quale posto meraviglioso in cui potrò vivere. New York, magari, o Boston. Oppure potrei osare e andare nella West Coast, in California. Qualunque posto è meglio che qui. Non c'è niente che mi tenga ancorata a questa città, ormai, se non te e i miei genitori. Ora più che mai, vorrei andarmene e lasciarmi questo posto alle spalle.»

«A me basterebbe soltanto lasciarmi questa storia alle spalle. Per il resto, non mi dispiace come posto. Sì, insomma, è una città minuscola e non c'è niente da fare, ma ci sono affezionata. Non ho mai visto nessun altro posto al di fuori di questo in oltre sedici anni di vita, e mi va bene così. E poi i miei non potrebbero permettersi di pagare un college troppo costoso e lontano da qui. Non so nemmeno perché dovrei andarci, al college. Forse dovrei semplicemente finire a fare la cameriera come loro.» Sorrise amaramente, mentre io assunsi un'espressione corrucciata.

«Tracey, che dici? Hai una mente pazzesca e non puoi buttarla via così! Sei la migliore in tutti i corsi, vedrai che l'anno prossimo riuscirai ad ottenere non una, bensì più borse di studio in tantissimi college grandiosi, tanto che avrai l'imbarazzo della scelta.»

«Se lo dici tu...» disse lei poco convinta, venendo sovrastata dalla mia voce: «Dopo la laurea, diventerai famosa per qualche scoperta in campo scientifico, che so, tipo il modo di poter vivere su Marte. Sarà allora, quando tutti i giornali nazionali e internazionali ti intervisteranno per saperne di più, che farai il mio nome e dirai: "Niente di tutto questo sarebbe stato possibile, senza l'aiuto della mia più cara amica e più accanita sostenitrice, Megan Sinclair. È a lei che devo tutto". Che te ne pare?».

Tracey rise fragorosamente. «Mi pare che tu sogni troppo, ecco cosa mi pare.»

«Già, be', forse in tutto questo incubo che stiamo attraversando, sognare non è poi così male.»

Calò il silenzio, e io mi resi conto di aver, seppur involontariamente, riportato il discorso su Emily, dopo che, dopo tanti giorni, stavamo riuscendo ad avere un discorso da normali sedicenni. «Hai sentito Herman?» chiesi, per cambiare argomento.

Tracey annuì. «Sì, ieri sera è venuto a cena e poi è rimasto a dormire da me» rispose.

«Dormire?» domandai con tono malizioso e Tracey emise un sorriso imbarazzato.

«Ok, diciamo che abbiamo anche dormito» precisò.

Sbarrai gli occhi. «Aspetta, vorresti dirmi che... Oh mio Dio! E cosa aspettavi a dirmelo?»

«Pensavo che il racconto della mia prima volta fosse la cosa che meno potesse interessarti, in questi giorni.»

«Ora penso di essere pronta, perciò dimmi tutto. Ha fatto male?»

Tracey sorrise ancora e scosse la testa. «Era un dolore sopportabile. Ero tranquilla e sicura di quello che facevo, penso sia dipeso anche da questo. Comunque, be', forse non era il momento adatto, sarebbe stato sicuro meglio farlo in altre occasioni, ma... non so, è successo e basta. Stavamo per metterci a dormire, quando ho iniziato a ripensare alla mia deposizione di quella mattina e sono scoppiata a piangere. Lui allora ha preso il mio viso fra le mani e ha cercato di tranquillizzarmi, poi abbiamo iniziato a baciarci, una cosa tira l'altra, ed è successo. Lui all'inizio non voleva, mi aveva detto che se ero ancora troppo scossa oppure non mi sentivo pronta, mi avrebbe aspettato senza problemi. Io però ho insistito e, credimi, ne è valsa la pena: è stato bellissimo.»

«E i tuoi?» domandai.

«Avevano il turno al ristorante. Sono tornati tardi, quando stavamo già dormendo» rispose. «Pensa che all'inizio volevano portarmi con loro. "Potresti mangiare lì e aspettarci finché non finiamo il turno". Non mi lasciano respirare! Per fortuna sono riuscita a convincerli ad andare senza di me.»

«Ora, però, sappi che non mi accontenterò di questa mini storiella. Voglio sapere tutto!»

•••

Me ne andai da casa di Tracey verso ora di pranzo. Mi aveva fatto piacere passare quella mattinata insieme a lei. Era quasi come ai vecchi tempi (quando non ero ancora una possibile omicida. Com'è che faceva? "Sono Megan Sinclair e sono una brava ragazza"). O meglio, quasi come quattro giorni prima. Sembrava passata un'eternità da quel venerdì sera, in cui era cambiato tutto, invece era trascorsa meno di una settimana. Mai prima d'allora mi era sembrato che le giornate potessero essere così lunghe. Non passavano mai. Ne succedeva una di continuo. 
Solo quel giorno, per esempio, ero andata a scuola, ero stata accusata pubblicamente da Olivia di aver ucciso la mia migliore amica (forse le sue accuse non erano poi così infondate. Imperizia, negligenza, imprudenza), avevo pianto e Dylan mi aveva consolata, ero letteralmente scappata da scuola, ero andata a casa Finnston per lasciare i soldi dell'acconto al mio avvocato e mi ero trattenuta lì a parlare con David per non so quanto tempo, poi ero andata da Tracey, avevo scoperto che l'arma del delitto di Emily in realtà non era mai scomparsa ma che l'aveva sempre tenuta lei, avevo smesso il mio insensato sciopero della fame, ero riuscita a comportarmi da normale adolescente (una che non avrebbe corso mai il rischio di essere sottoposta ad un processo penale) e poi, finalmente, mi stavo dirigendo verso casa.

Quando arrivai nel vialetto della mia villa, fui sopraffatta da un grande senso di stanchezza. L'unica cosa che avrei voluto fare in quel momento (scappare, cambiare Paese, magari identità, costruire una macchina del tempo), era andare dritta a dormire. Ero sfinita. 
Tuttavia, una volta più vicina alla porta d'ingresso, mi resi conto che c'era qualcuno ad attendermi, seduto sul divano della veranda. Sbuffai, scocciata. Era Dylan.

Non appena mi vide, scattò in piedi e mi corse incontro. «Fai davvero, Megan? "Stai tranquillo, sono solo tornata a casa". Poi vengo qui e tu non ci sei!» inveì contro di me.

«Prima di tutto, perché sei qui? E secondo, non è affar tuo sapere dove fossi» risposi, incrociando le braccia al petto.

Dopo le mie parole, esplose dalla rabbia. «Oh, ma certo, ora prenditela pure con me! Pensa che stronzo che sono, a preoccuparmi per te! Non mi hai risposto per non so quanto tempo, perché avresti dovuto metterci così tanto se davvero fossi stata a casa? Pensavo ti fosse successo qualcosa. Per quanto ne sappiamo, potrebbe esserci un serial killer a piede libero per la città, e tu pensi bene di scappare e non farti più sentire.»

Mi avvicinai al suo viso. «Scusami» provai a dargli una carezza sulla guancia, ma lui si allontanò bruscamente. «Non pensavo che ti saresti agitato così tanto, al punto di andartene da scuola e venire a cercarmi. Sono stata io ad essermi comportata da stronza, non tu. Ho pensato soltanto a me stessa, anzi, a dire il vero non ho proprio ragionato in quel momento. Volevo soltanto andarmene da lì e l'ho fatto, senza riflettere sulle conseguenze che avrebbe potuto avere sulle altre persone questa mia bravata. Ora però calm...»

«Calmarmi?» mi interruppe. «Guardami in faccia, Megan! Non dormo da quattro fottuti giorni per questa storia, come faccio a calmarmi se tu scompari? Se ti fosse successo qualcosa, io...» bloccò la frase a metà, deglutendo e poi strofinandosi un occhio con la mano, quasi come se fosse sul punto di piangere. «Tu sei importante per me. E... forse sbaglio, a tempestarti di messaggi, ad inseguirti come un cazzo di stalker, a urlarti contro con tutta la mia rabbia, ma in realtà, è l'unico modo che ho per dimostrarti quanto ci tenga. Non mi arrabbierei così, se non fossi spaventato a morte. Forse ti sembrerò pazzo, a pensarci non è propriamente normale, ma...»

Non gli lasciai il tempo di finire la frase e mi fiondai direttamente sulle sue labbra. Nonostante un momento di rigidità iniziale, poi Dylan si lasciò andare e approfondì il bacio. Avvolse le braccia attorno alla mia vita e mi attirò più vicina a sé. Poi cominciò a camminare, fino a sedersi sul divanetto posto alla destra della porta d'ingresso e a far sì che mi sedessi a cavalcioni sulle sue gambe. Affondai le mie mani nei suoi soffici riccioli neri, mentre le sue mani stavano cominciando a scendere sempre più in basso, fino a posarsi sul mio sedere.

Fu in quel momento che decisi di interrompere il bacio. Tolsi le sue mani dal mio fondoschiena, e mi alzai in piedi. «C'è qualcosa che non va?» domandò, alzandosi anche lui e sistemandosi i capelli che io avevo contribuito a spettinare.

«No, è solo che... non lo so.» Mi passai una mano sui capelli anch'io per spostare il ciuffo di lato.

«Se ho fatto qualcosa che ti ha dato fastidio, dimmelo, Megan.»

Non avrebbe avuto senso mentirgli e dire che andava tutto bene, anche perché ero sicura che si capisse benissimo dalla mia faccia che qualcosa non andava. Così vuotai il sacco. «È solo che... tutto questo è sbagliato.»

«Cosa è sbagliato?»

«Ciò che c'è fra noi.»

«Perché? Tu mi piaci e io piaccio a te» disse, scrollando le spalle. «Non ti sembrava sbagliato la sera della festa. Né questa mattina a scuola, né poco fa. Sei stata tu, queste due ultime volte, a baciarmi per prima. Perché continui a farlo se poi te ne penti?»

«Non lo so perché lo faccio, io non...»

«No. Te lo dico io il perché» disse, avvicinandosi pericolosamente al mio viso. «Perché lo vuoi almeno quanto lo voglio anch'io. Puoi fingere quanto ti pare, ma la verità è che quando siamo così vicini, è tutto inutile: non riesci a trattenerti.»

Abbassai lo sguardo per evitare di guardarlo negli occhi. Dovevo contenermi, impedire che accadesse di nuovo. Aveva ragione: per quanto cercassi di negarlo, ero attratta da lui, così come lui lo era di me. Ma era sbagliato ciò che provavo nei suoi confronti. Così, una volta trovata la forza necessaria, mi allontanai da lui.

«Il problema è che Emily è morta! E io me ne sto qui, a pomiciare con il ragazzo per il quale aveva una cotta. Vorrei provare a far finta di niente, ad andare avanti con la mia vita, ma ogni volta che ti guardo, io... io riesco soltanto a pensare a lei. A quello che le abbiamo fatto.»

Vidi Dylan allargare le narici e le sue labbra farsi sottilissime, segnale che stava cominciando ad infuriarsi seriamente. «Megan, cazzo, svegliati! Non è colpa nostra del nostro fottuto bacio se ora lei non c'è più. È stata uccisa, ok? Noi non c'entriamo nulla con questo, quindi smettila di cercare delle scuse inutili.»

«Non sono scuse! Sto cercando di spiegarti il motivo per cui non me la sento di continuare con... qualsiasi cosa sia ciò che c'è fra di noi.»

«Ok, quindi la spiegazione è che ti senti in colpa ogni volta che mi guardi? Allora vai da uno psicologo, un'analista, oppure vai da chi cazzo vuoi, ma non rompere più le palle a me con questa storia!»

Mi diede le spalle e si avviò verso la strada.

«Dove stai andando?» domandai, andandogli dietro.

«Me ne vado! Mi hai stancato, Megan. E, se proprio vuoi qualcuno a cui addossare tutta la colpa, prova a guardarti allo specchio. Vedrai chi è l'unica colpevole fra noi due. Soprattutto, vedi di crescere un po'!»

Non dissi niente e lasciai che si allontanasse. Sebbene mi costasse ammetterlo, aveva ragione. L'unica vera colpevole in tutta quella storia ero io. Ero stata io ad aver tradito la mia migliore amica. Ero stata io ad aver continuato a dare consigli a Emily ogni volta che mi parlava di Dylan e mi chiedeva cosa fare per attirare la sua attenzione, a comportarmi da amica. Ero stata io ad averle detto che di lui non mi importava niente, sebbene Emily ci avesse appena visti mentre ci baciavamo, venerdì sera. Ero stata io ad aver baciato Dylan di nuovo, appena quattro giorni dopo.

Forse avrei potuto essere stata giustificata la prima volta, ma non la seconda, né tantomeno la terza. Era successo per mia spontanea volontà: desideravo baciarlo. Cercare di reprimere quello che provavo, non sarebbe servito a niente. Non era servito a niente.

Tutto quello che avevo ottenuto per non essere stata onesta fin dal principio, era stato perdere la mia migliore amica. Letteralmente. Lei non c'era più.

Fu in quel momento che mi tornò in mente un dettaglio della mia discussione con Dylan che prima avevo ignorato: perché era ridotto così male per la storia di Emily, al punto da non dormire per quattro giorni, se di lei non le interessava minimamente?

•••

«Che cosa vuoi?» chiesi scontrosa, mentre Dylan chiudeva la porta della sua stanza dietro di sé. Improvvisamente tutto il caos e il trambusto dovuto alla musica a tutto volume e alle urla degli invitati alla festa, si affievolì. Eravamo rimasti solo noi due.

«Mi eviti da una settimana» rispose Dylan, sorridendo e avvicinandosi a me, tanto da farmi sentire il suo alito.

«Sei ubriaco.»

«Sei tu a rendermi così» scrollò le spalle e andò a sedersi sul bordo del letto. Batté le mani due o tre volte sul materasso, per invitarmi a raggiungerlo. Rimasi in piedi, incrociando le braccia al petto.

«E questo cosa dovrebbe significare?» domandai, prima di sentirmi stupida e ingenua a credere che parlare con un ubriaco potesse portare veramente a qualcosa.

«Se tu non ti comportassi così tanto da stronza con me, allora non cercherei di farmi del male bevendo così tanto. Sempre meglio che stare male per te.»

«Allora lasciami perdere» dissi semplicemente, e lui sorrise ancora. Poi si alzò in piedi e si parò davanti ai miei occhi. Il suo sguardo scese un attimo verso le mie labbra, prima di posarsi di nuovo sugli occhi.

«No. Non lo farò finché non ammetterai che provi lo stesso che provo io.»

I suoi occhi azzurri, così puri, sinceri, uniti alla nostra vicinanza, stavano quasi per fregarmi, per farmi cedere. Aveva ragione. Mi piaceva. E io piacevo a lui. Ma non bastava per far sì che potessi dargli una possibilità. Scossi rapidamente la testa per riscuotermi, e distolsi lo sguardo dai suoi occhi. «Lo sai che fra noi non potrà esserci mai niente.»

Un altro sorriso, più che altro un ghigno stavolta. «Non la pensavi così settimana scorsa.»

«È stato un errore» affermai decisa, dopo un attimo di titubanza. «E mi dispiace di averti fatto pensare diversamente, ma la mia opinione è sempre la stessa. Non posso fare una cosa del genere alla mia migliore amica.»

«Perché no? Anche se tu mi rifiuti, non cambieranno i miei sentimenti nei confronti di Emma.»

«Emily» lo corressi.

«Ecco dimostrato quanto poco mi interessa di lei! Non mi ricordo neanche come si chiama, né mi importa saperlo.»

«D'accordo, ma il problema qui non sei tu: sono io. A me importa. Non posso e non voglio perdere la sua amicizia solo per un ragazzo.»

Nonostante lo avessi nuovamente rifiutato, Dylan, invece che prendersela, emise un altro sorriso. «Mi piace il tuo voler fare sempre la cosa giusta. Sei così buona, Megan, così altruista. Ma sai che cos'è ancora meglio di fare la cosa giusta per far star bene gli altri? Fare ciò che senti davvero nel profondo del tuo cuore.»

Senza darmi neanche il tempo di ribattere, afferrò il mio viso fra le sue mani e mi baciò.

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Capitolo 7
*** Fuori dai guai ***


Fuori dai guai


I miei genitori non si erano arrabbiati più di tanto con me dopo aver scoperto che avevo marinato la scuola, il che mi sorprese. Non che fossero quel tipo di genitori severi e intransigenti riguardo la scuola, che mettono in punizione i figli solo perché non prendono il massimo dei voti e non passano tutti i loro pomeriggi a studiare, eppure mi sarei aspettata una reazione più... come dire, effettivamente reattiva. Sì, mi avevano sgridata, mi avevano avvertito di non farlo mai più, ma poi qualcosa era cambiato nel loro atteggiamento: avevano assunto un tono più affabile, comprensivo, mi avevano chiesto perché avessi insistito nel voler tornare a scuola a tutti i costi se ancora non me la sentivo, mi avevano detto che per loro non c'era alcun problema, che mi avrebbero lasciato tutto il tempo che mi sarebbe servito, che sarebbero stati lì per me per qualsiasi cosa.

Poi capì il motivo per cui si stavano mostrando così tolleranti e disponibili con me: volevano che iniziassi una terapia con uno psicologo.

«Non fare quella faccia, Abby. Guarda che aiuta davvero» disse mia madre quella sera, in risposta alla mia espressione corrucciata.

«Non ne ho bisogno.»

«Ah no? Pensi che non ci siamo accorti di quello che sta accadendo in questi giorni? Non dormi a sufficienza, ti svegli nel mezzo della notte gridando di paura per via degli incubi, a malapena mangi, e poi non sei più la stessa.»

«Lo capiamo,» intervenne mio padre «la tua migliore amica non c'è più. Ma siamo preoccupati per te, per la tua salute. Vedrai che se seguirai il nostro consiglio, poi starai meglio».

Se il loro è solo un consiglio, allora posso anche sottrarmi, pensai. Poi rivalutai l'idea. Forse avrei dovuto dargli ascolto. Forse sarei stata meglio. Mi ricordai che anche Emily era andata dallo psicologo dopo che i suoi genitori si erano separati. Era stata molto male dopo la loro rottura, ma poi, una volta intrapreso un percorso con la sua psicologa, poco alla volta era migliorata. Perciò, se uno psicologo era riuscito ad aiutare lei, forse anch'io sarei riuscita a lasciarmi alle spalle tutta quella storia e a riprendere in mano le redini della mia vita.

«Va bene. Lo farò» mi rassegnai, seppur nella mia espressione ero sicura si leggesse perfettamente la titubanza e la poca convinzione.

«Va bene, poi domani ci metteremo d'accordo per fissare un appuntamento» concluse il discorso mia madre.

Forse era solo una perdita di tempo. Come sarei potuta stare meglio, se non potevo raccontare a nessuno ciò che mi faceva stare davvero male? Ossia, l'autentica verità su quella sera, e non la menzogna che avevo raccontato alla polizia.

Poi pensai alle parole di David. Se le indagini avessero realmente portato ad un processo, che cosa ne sarebbe stato di me? Non potevo mentire sotto giuramento, ma non potevo nemmeno dire la verità, o avrebbero sospettato di me.

A furia di fare quei pensieri angosciosi, sentii che stava iniziando a mancarmi il respiro, stavo sudando freddo e sentivo il cuore palpitare in agitazione, così mi alzai dal divano del salotto e andai in camera mia, chiudendo la porta a chiave. Andai a stendermi sul letto e passai una decina di minuti a guardare il soffitto, nel tentativo di calmarmi.

Solo quando il mio respiro si regolarizzò, presi il cellulare appoggiato sul comodino alla mia destra e notai che mi era arrivato un messaggio da un numero che non avevo salvato in rubrica. Stavo quasi per ignorarlo senza neanche leggerne il contenuto, pensando che si trattasse della solita pubblicità di qualche operatore telefonico, quando di sfuggita lessi la parola "assolta". Allora, incuriosita, decisi di aprirlo:

"Ovviamente mio padre ha vinto la causa e quella donna è stata assolta. Credi ancora di essere spacciata?".

Era David.

Mi sorprese che mi avesse scritto. Ancor di più, mi sorprese il fatto che fosse riuscito ad avere il mio numero.

Rilessi un messaggio una seconda volta, nel tentativo di elaborare una risposta adatta. Ogni qualvolta ci incontravamo, sfiguravo, facendo la figura della stupida o magari della bambina. Non volevo che pensasse questo di me.

Pensa, Megan, pensa.

Avrei potuto inoltrare il messaggio a Tracey e chiederle un consiglio, ma le sarebbe di certo parso strano che il figlio del mio avvocato mi scrivesse. Cosa che era effettivamente vera, eppure non mi dispiacque ricevere quel messaggio.

"Credi ancora che ammetterò che avevi ragione?".

Non era di certo la risposta più brillante della storia, ma era l'unica che mi era venuta in mente in breve tempo.

"È come se l'avessi appena fatto."

Che individuo insopportabile. Roteai gli occhi, mentre nel frattempo cercai di affrettarmi a digitare una risposta. Prima che potessi inviarla, tuttavia, ricevetti un altro messaggio da parte sua:

"Mi raccomando, tieniti fuori dai guai."

Cancellai il messaggio che stavo per inviargli. 
Forse la mia era stata una reazione stupida e insensata, eppure ci rimasi male per il fatto che aveva appena troncato la conversazione dopo appena tre messaggi. Mi sarebbe piaciuto parlare con lui più a lungo. 
In fondo, era stato lui a scrivermi. Davvero aveva cercato appositamente il mio numero, probabilmente sbirciando fra le carte del padre, solo per scrivermi della vittoria al processo e per dirmi di stare attenta?

Forse avevo mal interpretato il tutto. Forse lo faceva con tutti i clienti del padre. O magari era stato lo stesso avvocato Finnston a chiedergli di scrivermi per rassicurarmi. 
L'unica cosa certa, era che se avessi passato un'altra mezz'ora a pormi domande a cui nessuno avrebbe risposto, invece che cercare di dormire, l'indomani non avrei trovato la forza per alzarmi dal letto e andare a scuola.

Così, riappoggiai il cellulare sul comodino e lo attaccai al caricatore, prima di spegnere la luce e provare ad addormentarmi. 
Fu in quel momento che cominciò a ripetersi lo stesso ciclo vizioso a cui ero sottoposta ogni notte. Mi girai sul fianco destro, poi su quello sinistro, poi mi spostai in posizione supina, poi a pancia in giù, e poi ricominciai da capo. Fianco destro, sinistro, pancia in su, pancia in giù. Questo durò fino alle due di notte, quando riuscii ad addormentarmi. Mi risvegliai neanche un'ora dopo, a causa di un incubo. Decisi di alzarmi dal letto e di andare in cucina per bere un bicchiere d'acqua. Portai con me il cellulare.

Nel frattempo, rilessi i messaggi con David, e provai ad immaginarmi come sarebbe potuta continuare la conversazione, se lui non avesse deciso di interromperla quando era ancora sul nascere.

"Come hai fatto ad avere il mio numero? Non dirmi che mi perseguiti. Sei forse un cyberstalker?" gli avrei chiesto.

Dopodiché, conoscendo l'antifona, avrebbe trovato il modo di smontare le mie accuse in due secondi, con motivazioni più che valide, facendomi sentire una stupida. "Sono stati i tuoi genitori a dare il tuo recapito telefonico sia a mio padre che a me, chiedilo a loro se non mi credi. E comunque, secondo la legislazione della Louisiana, il cyberstalking consiste nell'utilizzare la posta elettronica o altri tipi di comunicazione elettronica per inviare ripetuti messaggi ad una persona, con lo scopo di minacciarla, terrificarla o molestarla attraverso parole che rivelino l'intenzione di infliggere danni fisici alla persona stessa, ai suoi familiari, amici o conoscenti. Io non ho fatto nulla di tutto questo, non ti pare?".

A quel punto, dopo essere stata umiliata un'altra volta, avrei finalmente trovato il coraggio di affrontarlo: "D'accordo, hai ragione, ancora una volta. È più forte di te: proprio non ci riesci a sbattermi in faccia quanto sia ridicola e quanto tu invece sia di un altro livello!".

Lui allora si sarebbe accorto del suo sbaglio, e avrebbe cercato di pormi le sue scuse, seppur implicitamente. "Sei solo ancora molto giovane e tanto da imparare, ma non sei ridicola, Megan. Smetti di pensare questo di te stessa, hai tanto potenziale."

"E me lo dice un ventiduenne al primo anno di legge, capirai quanta esperienza hai in più. Comunque grazie."

"Grazie a te, in realtà. Mi hai finalmente dato ragione e ne ho la prova grazie al tuo penultimo messaggio."

I miei film mentali erano così verosimili che mi convinsi che, se quella conversazione fosse avvenuta realmente, sarebbe andata avanti in quel modo. 
Tuttavia, ancora non mi spiegavo tutta quella mia ossessione per quei tre messaggi irrilevanti scambiati con un semplice conoscente. Forse ero pazza. Magari invece che andare da una psicologa, mi sarebbe servita una psichiatra, oppure una psicoterapeuta. Magari Dylan non aveva tutti i torti su di me, nemmeno su quel punto.

Cominciai a ripensare alle parole terribili (o forse sarebbe meglio dire terribilmente vere?) che mi aveva detto, poi al coltello in casa di Tracey, al fatto che avrei potuto essere accusata di omicidio colposo, alle accuse fatte da Olivia, ai miei compagni di scuola che davanti a me facevano la bella faccia ma in realtà mi credevano un'assassina, ai miei genitori che non mi riconoscevano più... Non ce la facevo più. Volevo che quell'incubo finisse, sebbene fosse appena cominciato.

Perché? Perché la mia vita era stata stravolta così violentemente? Perché Emily era stata uccisa? Chi era stato? Chi avrebbe mai potuto farle del male? Come avrei fatto ad andare avanti senza di lei? 
Ogni giorno era una tortura. Non avrei avuto pace fino a che il suo colpevole non sarebbe stato scovato e condannato alla pena più grave fra quelle previste dalla legislazione della Louisiana per quel tipo di reato.

Mi versai un altro bicchiere d'acqua, dal momento che stava iniziando a mancarmi di nuovo il respiro. Dopodiché presi di nuovo il cellulare e andai su Internet per fare un'altra delle mie numerose ricerche. Così, dopo "In cosa consiste il reato di cyberstalking in Louisiana", cercai "Cosa fare con disturbi del sonno".

Nessun sito sembrava darmi consigli utili per poter dormire. Con la camomilla avevo già provato molte volte ma non mi faceva effetto e contare le pecore non aveva mai funzionato neanche quando avevo sette anni. 
Alcuni siti consigliavano di andare da uno psicologo e, considerando che ci sarei andata a breve, mi venne in mente un'altra importante ricerca da fare: "In Louisiana gli psicologi possono prescrivere farmaci ai pazienti?".

Fortunatamente per me, a partire dal 2004 la Louisiana era diventato uno dei due soli Stati negli USA a consentire agli psicologi la prescrizione di farmaci ai pazienti con problemi di salute mentale. Quindi, se fossi riuscita ad avere dei farmaci per dormire, almeno uno dei miei numerosi problemi sarebbe scomparso.

•••

Quando l'indomani sentii la sveglia suonare, aprii gli occhi e scattai in piedi bruscamente, guardandomi intorno per capire dove mi trovassi. Ero in camera mia, sebbene non mi ricordassi di esserci ritornata. Pian piano che i secondi passavano, i ricordi riguardo a quella notte stavano riaffiorando. Erano all'incirca le quattro quando mi ero decisa ad andarmene dalla cucina e a rimettermi a letto. Dopo aver lottato ancora contro i miei pensieri che mi impedivano di addormentarmi e facevano sì che mi girassi e rigirassi nel letto (fianco destro, sinistro, pancia in su, pancia in giù), dopo un'altra mezz'ora, ero crollata definitivamente.

Peccato che fosse durato troppo poco. Poco più di due ore dopo, infatti, ero già in piedi, pronta (si fa per dire) per un altro giorno di scuola.

Andai subito in cucina e aprii il frigo, tirando fuori uno yogurt. Dopodiché aprii la dispensa e tirai fuori i cereali, insieme a dei biscotti e dei cracker. Riaprii il frigo e presi anche una spremuta d'arancia e un uovo, del prosciutto e del formaggio. Stavo morendo di fame. 
Per prima cosa, ruppi l'uovo in una ciotola e, dopo aver aggiunto un pizzico di sale, cominciai a sbatterlo con una frusta. Secondariamente, presi una padella e iniziai a scaldarla con un po' di olio. Aggiunsi l'uovo sbattuto e poi la farcii con dei pezzi di prosciutto e di formaggio fuso. Mentre aspettavo che si cuocesse, sgranocchiai due o tre biscotti. 
In quel momento, mia madre entrò in cucina e spalancò la bocca, nel vedere il casino che avevo creato in meno di due minuti: «Megan, io dico, si può sapere perché hai praticamente depredato la nostra cucina?».

«Sto facendo colazione, mamma» risposi con un piccolo sorriso, prima di spegnere i fornelli e mettere la mia omelette in un piatto.

«Con tutte queste cose? Hai passato giorni a non mangiare praticamente niente e poi ora ti abbuffi. Io dico, lo sai che è a causa di continue oscillazioni di peso che vengono le smagliature? Per non parlare della cellulite! Te l'ho detto che devi stare attenta.»

Se per una volta (la prima, da quando Emily era morta) mi ero alzata piena di energie e con un minimo di positività, mia madre era riuscita a rovinare tutto in meno di un secondo. Dire che era fissata con la linea, era dire poco. Se la cosa poi riguardava me, era persino peggio.

"Dovresti mangiare più sano."

"Non pensare che solo perché sei magra, allora non ti verrà la cellulite."

"Ti vedo più gonfia ultimamente. Questa sera mangi solo un'insalata e della frutta."

Ecco alcune delle frasi più ricorrenti che uscivano dalla sua bocca.

Pensai persino che, se solo in questi giorni non mi avesse vista così scossa per via di Emily, mi avrebbe persino complimentata per il mio repentino calo di peso. "Sei dimagrita, stai molto meglio così" mi avrebbe detto, senza neanche accorgersi della gravità di quello che diceva, né capire che forse c'era da preoccuparsi se non mangiavo.

«Lo yogurt l'ho tirato fuori per te, è quello magro. E i cereali sono integrali. I cracker sono la mia merenda» mentii, per farla stare zitta. Andai a sedermi a tavola, di fianco a lei.

«Sono i cracker senza sale, vero?» domandò mentre si apriva la confezione di yogurt e io annuii.

Cercai di finire la mia colazione il più in fretta possibile ("Megan, lo sai che non devi ingozzarti. Se masticassi più lentamente, saresti sazia prima e di conseguenza mangeresti meno."), solo per potermene andare da lei. Ogni volta mi sembrava di essere sotto esame e, francamente, dopo sedici anni cominciavo ad essere veramente stufa della distruttività delle sue critiche. Le madri degli altri amavano le figlie incondizionatamente, le vedevano perfette anche per via delle loro imperfezioni, ma la mia invece vedeva solo ciò che, a suo parere, non andava in me. Non avevo mai la forma fisica che secondo lei avrei dovuto avere: mi vedeva sempre con qualche chilo di troppo, il sedere troppo sporgente, il viso paffuto e le braccia grosse.

Anche se non era vero. Quando mi guardavo allo specchio, certamente notavo qualcosa nel mio fisico che avrei voluto cambiare, come qualsiasi altra adolescente, ma le mie insicurezze non erano legate al mio peso. Nonostante quello che diceva mia madre, ero giusta (anzi, ultimamente anche troppo magra) e proporzionata. Ma lei non riusciva a vederlo, e trasmetteva la sua negatività a me, che ero l'unica a rimetterci realmente perché perdevo autostima.

«A pranzo prenditi una bistecca, visto che di carboidrati ne hai già consumati abba...»

Senza neanche ascoltare la fine del suo discorso, mi alzai in piedi ed uscii dalla cucina, dirigendomi in camera mia. Se fossi rimasta un secondo di più in quella stanza, avrei finito per urlarle contro, e non ne avevo le forze.

Dopo essermi preparata, uscii di casa salutando mio padre ma non mia madre. Mi aveva fatta arrabbiare troppo e non volevo permetterle di rovinarmi la giornata. 
La mia vita in quei giorni era già abbastanza complicata e le intromissioni (non richieste) da parte di mia madre erano le ultime cose che mi servivano, perciò tanto valeva ignorare i suoi commenti.

Una volta a scuola, cominciai a guardarmi intorno per cercare Dylan. Volevo scusarmi con lui. In fondo, era l'unico a scuola ad avermi appoggiata, e io avevo rovinato tutto.

Lo riconobbi dai suoi bellissimi e inconfondibili riccioli neri, mentre parlava con un suo amico, e mi avvicinai a lui. Gli toccai la spalla con la mano e, quando si voltò, il suo amico ci lasciò soli. Sbarrai gli occhi, nell'accorgermi che aveva una benda sulla mano. «Che ti sei fatto?» domandai preoccupata.

«Che cosa vuoi, Megan?» fece lui, scontroso.

«Volevo dirti che mi dispiace per ieri. Avevi ragione, su ogni cosa.»

Scrollò le spalle. «Ok. C'è altro?»

Alzai gli occhi al cielo. Potevo capire che fosse ancora arrabbiato, ma non potevo accettare il fatto che avesse quell'atteggiamento menefreghista e che mi trattasse come se gli stessi facendo perdere tempo prezioso. «Se la tua intenzione era quella di non starmi neanche a sentire, avresti potuto ignorarmi non appena avermi vista.»

Lo vidi allargare le narici. Ormai conoscevo a memoria le sue reazioni e, purtroppo per me, l'avevo fatto arrabbiare di nuovo. «Quindi devi decidere tu cosa devo fare e quando lo devo fare? Se ti rincorro come un cretino, non va bene. Se ti ignoro, nemmeno. Che cosa diamine vuoi che faccia?» chiese.

«Voglio che tu non mi abbandoni. Emily non c'è più, Tracey non sta venendo a scuola, qui tutti mi detestano, ma tu sei l'unico che mi crede e non voglio perdere anche te. Ho bisogno di te. Ti prego, Dyl» praticamente lo implorai.

«Quindi vuoi solo usarmi perché non hai nessun altro? È per questo che hai bisogno di me?».

Sapevo dove voleva arrivare. Voleva che mi rimangiassi tutto quello che avevo detto il giorno prima e che ammettessi una volta per tutte ciò che provavo per lui. Voleva che cambiassi idea e decidessi di dargli una possibilità. 
E in fondo era ciò che volevo anch'io: l'attrazione che c'era fra di noi era innegabile, perciò forse avrei semplicemente dargli quello che voleva.

Feci un lungo e profondo respiro, e poi parlai. «No. Ho bisogno di te perché non riesco a farne a meno. Ho bisogno di te nella mia vita. Tu mi piaci, Dylan. Mi piaci così tanto che... che quasi mi spaventa, ed è per questo che per tutto questo tempo ho cercato di nascondermi dietro a delle futili scuse. Ma ora non voglio più farlo.»

Mi sentii sollevata, dopo averglielo detto. Ero così libera da quel macigno, che qualsiasi sarebbe stata la sua reazione, avrei continuato a sentirmi serena, rincuorata, alleggerita. 
Eppure, cominciai a preoccuparmi quando mi accorsi che, mentre il tempo continuava a scorrere, la sua risposta invece non arrivava. Guardavo dritto nei suoi occhi color dell'oceano e non riuscivo a capire cosa mi stavano comunicando.
Proprio quando stavo per perdere le speranze, inaspettatamente Dylan cambiò espressione e si lasciò andare in una risata. Non era una risata di scherno, né di divertimento. Piuttosto di allegria. «Finalmente ci sono riuscito a fartelo dire!» esclamò, prima di afferrare il mio viso fra le sue mani e riempirmi di baci sulle labbra.

Mentre sentivo le sue dolci labbra posarsi sulle mie numerose volte, l'unica cosa a cui riuscivo a pensare era se fosse ciò che volevo davvero. O meglio, lo desideravo, da tanto tempo, ma non ero sicura che fosse il momento adatto per una relazione. Eppure, con lui lì, mi sentivo felice e speranzosa, sentivo di poter dare uno sguardo in avanti, invece che continuare a guardare indietro ai demoni del passato.

Così gli diedi un ultimo grande bacio, prima di prenderlo per mano e condurlo verso il mio armadietto, così che potessi prendere i miei libri. Una volta inserita la combinazione e aperto l'armadietto, un foglio al suo interno cadde a terra. Mi chinai in basso per raccoglierlo e, subito dopo averne visto il contenuto, mi lasciai cadere a terra, appoggiando la schiena alla schiera di armadietti inferiori.

«Meg, che succede?» domandò Dylan preoccupato dalla mia reazione.

Non risposi. Continuai a guardare il foglio con le lacrime agli occhi. Chi è che ce l'aveva con me al punto da farmi quello? E soprattutto, perché? Non si rendevano conto che stavo già soffrendo abbastanza per conto mio e che non mi serviva che infierissero ulteriormente? 
Se prima era solo un presentimento, ora ho la certezza del fatto che mi credano la responsabile di tutto, pensai, dando un ultimo sguardo al foglio che avevo in mano: era stata stampata una mia foto e sopra, in rosso, c'era una sola, perfida, terrificante parola:

"ASSASSINA".

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Capitolo 8
*** Bugiarda ***


Bugiarda


Ricacciai dentro le lacrime e scattai in piedi. Accartocciai il foglio fra le mie mani e mi avviai a passi rapidi e decisi verso la porta in fondo al corridoio. Ignorai la segretaria che cercava di richiamare la mia attenzione, così come ignorai le urla di Dylan che mi chiedeva cosa avessi intenzione di fare.

«Ehi, guarda che non puoi entrare lì! C'è in corso una riunione!» esclamò la segretaria. Me ne infischiai delle sue parole e spalancai la porta della presidenza.

Non ci ero mai entrata, ma era esattamente uguale a come me la ero immaginata: una stanza piuttosto piccola, dallo stile classico, con pochi mobili. Alla mia destra c'era un poster con il logo della scuola, al di sotto del quale vi era una mensola che esibiva numerosi trofei. Nella parete adiacente c'erano due scaffali in legno, pieni di libri. A sinistra, nella parete di fronte a quella degli scaffali invece c'era solo una grande credenza, anch'essa in legno, su cui vi erano poggiate delle scartoffie. Sopra di essa c'era un'unica grande bacheca, dove era appesa la piantina della scuola e gli orari dei professori. In fondo alla stanza c'erano due finestre che si affacciavano sull'ingresso della scuola. Al centro, invece, vi era una scrivania in legno, con qualche foglio appoggiato ordinatamente sulla destra, mentre a sinistra erano incorniciate delle foto. Seduto di spalle c'era un uomo, doveva essere il genitore di qualche ragazzo. 
Seduta alla scrivania c'era invece la preside Fitzpatrick, che mi fissava con collera e disapprovazione.

«Signorina, che cosa crede di fare?» domandò, alzandosi in piedi con fare minaccioso ma rivelando, tuttavia, una figura poco imponente, considerando il suo metro e mezzo di statura.

Alle mie spalle apparve la segretaria, che si tolse gli occhiali e ci alitò sopra per pulirli, per poi rinfilarseli. «Mi dispiace, preside, ho cercato di fermarla, ma...»

«Voglio che prenda dei seri provvedimenti nei confronti di chi mi ha fatto questo!» la interruppi, avanzando verso la scrivania della preside e mostrandole il manifesto diffamatorio che mi era stato infilato nell'armadietto.

Sentii la segretaria sussultare alle mie spalle, mentre la preside, senza neanche dargli un occhio, mi restituì il foglio. «Al momento non ho tempo, se ha bisogno di un colloquio, si prenda un appuntamento come tutti gli altri. Ora esca da qui, o gli unici provvedimenti che prenderò saranno contro di lei» disse con tono pacato ma intimidatorio.

«Lo faccia. E io dirò in giro che la preside della Morgan City High School non si preoccupa dei numerosi episodi di bullismo che si verificano nella sua scuola. E, considerando che una sua alunna è venuta a mancare da poco, fossi in lei avrei più a cuore le vicissitudini dei propri studenti. Chi lo sa, magari la scuola potrebbe anche essere accusata di mancanza di vigilanza, oltre che di negligenza.»

Vidi una leggera agitazione nei suoi occhi. Proprio quando speravo di aver attirato la sua attenzione, la vidi ricomporsi in un secondo. «Come ho detto: se ha urgenza, prenda un appuntamento. Ora si diriga immediatamente in classe.»

Esitai per un secondo o due, prima di riprendermi il foglio in mano e uscire dalla presidenza, sbattendo violentemente la porta alle mie spalle. 
Un paio di studenti lì presenti sussultarono nel sentire quel brusco rumore (e sperai che la segretaria non fosse svenuta a causa dello shock di quegli eventi traumatici), prima di rivolgermi un'occhiataccia e allontanarsi. 
Poi sentii qualcuno toccarmi la spalla e mi voltai di scatto.

«Ehi, sono soltanto io.»

Era Dylan.

«Mi vuoi dire che è successo?» domandò preoccupato.

Senza dire nulla, gli passai il foglio stropicciato che tenevo in mano. Gli diede una veloce occhiata, e poi lo accartocciò nuovamente e lo gettò a terra. «È sicuramente opera di Olivia» dichiarò, stringendo i pugni.

«Lo so, ma non ne abbiamo alcuna prova» scrollai le spalle. «In più, la preside Fitzpatrick non mi ha degnato di uno sguardo, nemmeno quando le ho... Dio, che cos'ho fatto?» mi portai una mano alla fronte, riacquistando lucidità e accorgendomi di avere appena minacciato la preside della mia scuola. Era successo davvero? Io, Megan Sinclair, avevo davvero fatto una cosa del genere? Proprio non ci riuscivo, in quei giorni, a mantenere un profilo basso e a comportarmi diligentemente. Dovevo avere più autocontrollo.

Avevo passato la notte in bianco a pensare e ripensare alle parole di David, ma non ero stata in grado di assimilare la parte più importante del suo, seppur breve, discorso: "Tieniti fuori dai guai".
Sarebbe dovuto essere facile per me, lo era sempre stato, eppure nel giro di pochi giorni si era rivelata una delle imprese più difficili che mi erano state affidate. Com'era possibile che in così poco tempo avessi cominciato ad agire e a comportarmi in modo completamente diverso da come avevo sempre fatto, andando contro tutto ciò che ritenevo giusto, infrangendo i miei princìpi morali? Mi stavo trasformando in una bugiarda, che mentiva ai propri genitori, in una ricattatrice, che cercava di intimorire la preside della propria scuola... e forse ero anche un'assassina, responsabile della morte di Emily.

Bugiarda, ricattatrice, assassina.

Del resto, era ciò che pensavano i miei compagni di scuola. Era ciò che c'era scritto su quel foglio. Lo pensavano tutti, tanto che iniziai a convincermi che fosse davvero così. 
No, non ero stata io a conficcarle quel coltello in gola. Ma ero stata io ad ucciderla. L'avevo uccisa in molti modi, in effetti: estraendo il coltello dalla ferita, urlandole contro quelle parole orribili durante il nostro litigio, tradendola con il ragazzo che le piaceva, abbandonandola lì a terra, senza neanche chiamare i soccorsi, lasciandole quel messaggio in segreteria a fine serata nonostante sapessi già che era morta, soltanto per crearmi un alibi, continuando a nascondere ciò che sapevo e che avevo visto solo per proteggere me stessa. Io avevo ucciso tutto ciò che c'era di bello fra di noi.

«Sono un mostro...» dissi a bassa voce, tanto che pensai che Dylan neanche l'avesse sentito.

Infatti, non rispose e mi prese per mano, conducendomi verso l'aula di scienze. 
Prima di entrare, mi fece appoggiare con la schiena alla parete e appoggiò una mano al muro, all'altezza delle mie spalle. «Sai, venerdì abbiamo quel test di matematica... be', ecco, io non ci capisco niente di quelle robe, quindi pensavo che se ti va, potremmo fermarci in biblioteca dopo la scuola e fare un ripasso insieme. Ma solo se te la senti, altrimenti... be', che ne pensi?» propose.

Emisi un piccolo sorriso. Mi piaceva il fatto che fosse timido con me. Unita ai suoi occhi dolci e a quel viso da bimbo innocente, quella leggera timidezza lo faceva sembrare davvero tenero, il che sembrava quasi un controsenso, trattandosi di Dylan. Con gli altri era spesso scontroso, irascibile e talvolta arrogante, ma con me cercava di contenere quel suo lato aggressivo e dare spazio al lato da inguaribile romantico che in fondo sapevo che esisteva in lui.

«Sì, certo. Va bene» risposi. Forse studiare mi avrebbe aiutata a distrarmi da tutti quei drammi.

Sorrise anche lui, mostrando quella piccola fossetta sulla guancia destra. Subito dopo tornò serio. «Comunque, ti ho sentita prima. Non sei un mostro. I veri mostri sono altri. Tu sei Megan Sinclair, e non azzardarti a dimenticarti che cosa significa.»

«Come puoi dirlo? In questi giorni non ho fatto altro che comportarmi da...»

«Come, Megan?» mi interruppe, afferrandomi il mento fra l'indice e il pollice affinché lo guardassi. «Sei spaventata, hai solo reagito di conseguenza. Tutti lo siamo. La paura fa fare cose stupide alle persone, a volte. Ma questo non significa che le renda cattive. Io penso che il mondo non sia mai bianco o nero, giusto o sbagliato, lo stesso vale per te. Forse stai facendo cose che fino ad ora ritenevi sbagliate, cose in cui non ti rispecchi perché ti sei sempre comportata in modo esemplare, ma non per questo devi perdere fiducia in te stessa e colpevolizzarti. Sei sempre tu, Meg.» Si avvicinò sempre di più a me, spostando lo sguardo dai miei occhi alle mie labbra. «Sei sempre Megan, la ragazza che mi ha fatto perdere la testa.»

Sorrisi e lo baciai, colmando la distanza che ci separava.

«Walker, Sinclair, l'ambiente scolastico non è il luogo dedicato allo scambio di effusioni, perciò o entrate in classe, oppure sparite dalla mia vista.»

La voce del professor Kravitz alle nostre spalle fece sobbalzare entrambi, così, entrambi imbarazzati, entrammo dentro l'aula di scienze, seguiti dal nostro insegnante che chiuse la porta dietro di sé.

•••

A differenza di ogni mia aspettativa, la lezione trascorse tranquillamente. Sentivo ancora qualche bisbiglio e gli occhi di molti dei miei compagni puntati su di me, ma con Dylan al mio fianco riuscii a non darci peso e a ignorare il tutto. Ogni qualvolta sentivo l'impulso di girarmi ed inveire contro qualcuno, mi bastava stringergli la mano per tornare in me. Allo stesso tempo, questo semplice gesto era di aiuto anche a Dylan, il quale aveva sicuramente un temperamento più impulsivo e irruente rispetto al mio. Non volevo che si scontrasse con qualcuno a causa mia, come era successo il giorno prima con Olivia. A ripensarci, per quanto quest'ultima non mi andasse a genio, Dylan era stato molto duro con lei. Era forse la cosa che meno mi piaceva di lui: perdeva la calma con niente e, quando succedeva, non riusciva più a contenersi e finiva col ferire le persone. Io stessa ne avevo avuto avuto la prova in prima persona. A volte mi chiedevo fin dove potesse spingersi quando era in preda alla collera, se la sua ira potesse sfociare in violenza, se fosse in grado di fare del male a qualcuno...

Ripensai alla benda avvolta attorno alla sua mano, e al fatto che per tutto il giorno avesse sviato il discorso ogni qualvolta cercassi di scoprire in che modo si era procurato quella ferita. Così, arrivata ormai l'ora di pranzo, ci rinunciai definitivamente.

Dal momento che a scuola ero ormai diventata un'emarginata, Dyl era rimasto al tavolo con me. Nessun altro voleva farlo. Nessuno mi voleva parlare. Sapevano soltanto parlare di me alle mie spalle, oppure squadrarmi da lontano. «Se non altro, tutta questa storia è servita a capire chi sono davvero le persone di cui ci si possa fidare, le persone leali... tutti gli altri sono solo delle doppie facce» disse Dylan, appoggiandomi una mano sulla spalla. «Non ne vale nemmeno la pena di perdere tempo dietro a certi stronzi. Tu sai chi sei, Meg.»

Aveva ragione, eppure ultimamente mi sembrava più semplice credere alle parole degli altri sul mio conto, piuttosto che all'idea che avevo io di me stessa. Ero Megan la brava ragazza del quartiere, oppure ero Megan la bugiarda, Megan la ricattatrice, Megan l'assassina?

Bugiarda, ricattatrice, assassina. Mi si addicevano bene.

«Scusate, penso proprio di essermi perso qualcosa.»

Distolsi lo sguardo da Dylan e lo puntai sul ragazzo in piedi davanti a noi. Era Herman. Appoggiò il suo vassoio sul tavolo e si sedette di fronte a noi.

«Allora, quando è successo?» domandò, facendo un cenno alle mie mani intrecciate a quelle di Dylan. Quest'ultimo sorrise imbarazzato, mentre io trattenni le risate, ripensando a ciò che mi aveva raccontato Tracey il giorno prima riguardo a Herman.

«Ti vedo bene, Herm» dissi semplicemente, commentando il suo aspetto sereno, rilassato, felice. «Merito di qualcosa in particolare?»

«Perché, Tracey ti ha detto qualcosa?» chiese a bassa voce.

«Oh, mi ha detto tutto» risposi, facendolo arrossire.

Dylan si intromise. «Qualcuno potrebbe spiegarmi di che state parlando?» Mi avvolse un braccio attorno allo schienale della sedia.

A quella sua richiesta, seguì un lungo silenzio, finché Herman non riuscì a inventarsi qualcosa per evitare di spifferare la vita privata sua e della sua ragazza a Dylan, il quale per lui era solo un comune conoscente: «Tracey è riuscita a rimediare due biglietti per la partita dei New Orleans Saints di questa domenica».

«Pensavo fossero già tutti esauriti da un pezzo!» esclamò Dyl sconsolato. «Volevo andarci con mio padre ma non sono riuscito a trovarli da nessuna parte.»

Mentre Herman e Dylan presero a parlare animatamente di football, lasciandomi fuori dai loro discorsi, vidi la segretaria di quella mattina entrare dentro la mensa e dirigersi a passi rapidi, seppur incerti, verso di me. Non era di certo un buon segno. Sentii le mie guance avvampare e il battito cardiaco aumentare ad ogni passo che muoveva. «La... la preside Fitzpatrick ha richiesto di vederti... proprio ora, nel suo ufficio» disse con voce flebile, timorosa che magari potessi lanciarle addosso il mio piatto di insalata (o che la accoltellassi alla gola. Magari anche lei credeva ai pettegolezzi che giravano su di me).

Annuii e mi alzai in piedi, mormorando un «Torno subito» a Dylan, il quale neanche se ne accorse.

Sentii l'ansia crescere dentro di me e mi si formò un nodo in gola. Seguii la segretaria restando in silenzio, non so se per timore di peggiorare in qualche modo la situazione, o per la mia difficoltà a respirare regolarmente. Una volta assolto il suo compito, la segretaria mi lasciò sola, davanti alla porta della presidenza. Mi tremavano le mani, ma fui lo stesso in grado di bussare e successivamente aprire la porta per entrare. La preside Fitzpatrick mi trucidò con lo sguardo non appena mi vide. In effetti, aveva un aspetto alquanto autoritario e intimidatorio, finché rimaneva seduta.

«Si sieda» ordinò con voce fredda.

Rimasi imbambolata per qualche secondo, tanto che dovette ripetermi il comando un'altra volta: «Ho detto, si sieda».

Deglutii e poi feci come detto. Solo nel momento in cui la trovai a pochi centimetri da me, proprio come quella mattina, presi a parlare: «Preside Fitzpatrick, non so cosa mi sia preso questa mattina, mi dispiace immensamente per il mio comportamento, sono disposta ad accettare qualsiasi punizione vorrà darmi, la prego di accettare le mie scuse e...»

«La smetta» mi interruppe. «Ho riflettuto sulle sue parole, in queste ore. Devo complimentarmi con lei per la sua audacia.»

«Davvero?» domandai incredula.

«A differenza di molti altri studenti, lei affronta i suoi problemi invece che evitarli. Ha fatto bene a notificarmi l'episodio di cui è stata vittima: molti altri sarebbero rimasti in silenzio al suo posto, preferendo subire il bullismo invece che combatterlo. Lei invece ha fatto la cosa migliore: si è rivolta ad un adulto, ad un'autorità che sia in grado di aiutarla, e le assicuro che sia io sia il corpo docenti faremo il possibile per scovare il colpevole, oltre che a intervenire con provvedimenti disciplinari se dovessero verificarsi altri episodi spiacevoli di questo tipo. 
«Sebbene mi dispiaccia ammetterlo, aveva ragione: non mi sono mai occupata a sufficienza del bullismo all'interno di questa scuola, poiché non ero mai venuta a conoscenza di fatti come quello che si è verificato quest'oggi. Forse è stato solo perché nessuno ha mai avuto il coraggio di venirmelo a dire, come invece ha fatto lei.»

Rimasi in silenzio, scioccata. Temevo di essere finita seriamente nei guai per via del mio comportamento inappropriato, impulsivo e irresponsabile, invece avevo ottenuto il sostegno da parte della preside.

«Be', non dice niente? Questa mattina non mi era sembrata una di poche parole.»

«Io... i-io la... la ringrazio» balbettai. «Inoltre, le prometto che non irromperò mai più nel suo ufficio in quel modo, sono stata davvero maleducata e imperdonabile, e...»

«Basta così» mi interruppe una seconda volta. «Piuttosto, mi dica: ha idea di chi potrebbe averle fatto questo? La segretaria l'ha trovato a terra vicino al mio ufficio» disse, mostrandomi il foglio diffamatorio, ormai stropicciato, che Dylan aveva gettato a terra qualche ora prima.

Ci riflettei a lungo. Chiaramente i miei sospetti ricadevano tutti su Olivia, ma non avevo alcuna prova, se non la sua insofferenza nei miei confronti, ma questo non bastava a far sì che potessi accusarla. Inoltre, non sembrava l'unica ad avercela con me a scuola. Anzi, forse le uniche persone che potevo escludere con certezza erano Dylan e Herman. Le altre... chissà.

«No» risposi infine.

Una parte di me, tuttavia, desiderava ardentemente farla pagare ad Olivia. Lo volevo così tanto, che ero sul punto di dire alla preside Fitzpatrick quali fossero realmente i miei sospetti. In fondo, la mia era solo una considerazione, un'opinione, non un'accusa vera e propria... mi era concesso esprimere la mia opinione, ossia pensare che fosse stata Olivia a stampare quel foglio in cui mi accusava di essere un'assassina? Avevo delle motivazioni più che valide per pensarlo, considerati i nostri trascorsi, facendo riferimento anche a quello che mi aveva detto il giorno prima. 
Se dire alla preside che i miei sospetti riguardavano Olivia era una cosa sbagliata, allora perché mi sembrava la cosa più giusta da fare in quel momento? Volevo così tanto che pagasse per quello che mi stava facendo passare. Se io stavo passando l'Inferno, forse sarebbe stato giusto dividere la mia dannazione insieme a lei.

«Va bene. Ora la lascio tornare al suo pranzo» la voce della preside mi salvò da quei pensieri peccaminosi.

Restai ancora una volta stupita. Finiva così il nostro colloquio? Non voleva nemmeno assegnarmi una punizione? Informare i miei genitori della mia condotta deplorevole?

Ancora confusa e incerta, mi alzai in piedi e mi avviai verso la porta. «Arrivederci» dissi solamente, prima di uscire.

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Capitolo 9
*** Saresti dovuta morire tu ***


Saresti dovuta morire tu

«Ehi, che cosa ti avevo detto? Prima lo studio, e poi il resto» rimproverai Dylan, facendo fallire il suo tentativo di baciarmi, appoggiandogli l'indice sulle labbra e allontanandolo dal mio viso.

Dylan sbuffò: «Se avessi saputo che saresti stata un'insegnante così intransigente, non ti avrei mai chiesto di farmi da tutor».

«Non sarei così severa, se tu non ti distraessi di continuo» gli feci notare.

«È impossibile rimanere concentrati quando ti ho così vicina.»

«Ah, quindi sarebbe colpa mia?» domandai, avvicinandomi nuovamente a lui.

«Diciamo che se essere bellissima fosse un crimine, allora meriteresti senza ombra di dubbio la più alta delle pene.»

Avvampai e subito mi si formò un sorriso in volto. Sebbene una parte di me interpretò in senso pessimistico le sue parole (la più alta delle pene la otterrò di certo, ma la condanna sarà ben diversa, pensai), il mio fu comunque un sorriso autentico, spontaneo, senza forzature. Mi avvicinai quel poco che bastava affinché potessi toccare le sue labbra con le mie, ma lui, sorprendentemente, si allontanò: «Ehi, frena, la regola vale per entrambi. Prima lo studio e poi il resto, ricordi?».

Alzai gli occhi al cielo. «D'accordo, allora continuiamo. Per le quattro voglio aver finito, sappilo» dissi.

«A me va benissimo. Anzi, prima finiamo, e prima posso riscuotere il mio premio» rispose, dando uno sguardo malizioso alle mie labbra.

Sorrisi ancora, e Dylan sembrò stupirsi di quella mia improvvisa ilarità. «Com'è che da quando sei tornata in mensa, sei tornata magicamente di buonumore? Che è successo con la preside?»

Mi strinsi nelle spalle. «Niente di che, ha accettato le mie scuse e poi ha detto che cercherà di scoprire chi è il responsabile di quel volantino.»

«Tutto qui? È per questo che sei così felice?»

«Sì, perché so di aver fatto la cosa giusta.»

Senza chiedere ulteriori chiarimenti, Dyl si mise a svolgere l'esercizio che gli avevo assegnato.

•••

Una volta finito di esercitarci per la verifica che si sarebbe tenuta due giorni dopo, io e Dylan uscimmo dalla biblioteca e successivamente da scuola. Per non far sì che ci salutassimo subito, si offrì di fare la strada insieme a me e accompagnarmi a casa, sebbene, così facendo avrebbe allungato il suo tragitto, dal momento che abitava quasi dalla parte opposta della città rispetto a me. Durante tutta la camminata ci tenemmo per mano, parlammo, ci scambiammo qualche bacio e qualche sorriso finché, purtroppo, arrivò il momento di separarci. Mi accompagnò fino alla porta d'ingresso e, prima che aprissi la tasca dello zaino per prendere le chiavi, appoggiai entrambi le mie mani sulle sue spalle. Lo fissai per qualche istante, senza dire né fare nulla. A volte mi piaceva semplicemente perdermi a guardarlo, a passare in rassegna ogni singolo dettaglio del suo viso, a partire da quei deliziosi riccioli neri che adoravo, le sopracciglia scure e definite, quei magnifici occhi di mille sfumature di azzurro, il naso leggermente all'insù e con pochissime lentiggini quasi invisibili, le labbra morbide e carnose al punto giusto, la dentatura perfetta, le guance rosate e la pelle chiarissima che diventava bordeaux non appena si agitava o si arrabbiava.

«Che c'è? Perché mi fissi?» domandò e io mi riscossi. Normalmente mi perdevo a guardarlo da lontano, soltanto quando lui non poteva accorgersene perché era da un'altra parte. «Niente» risposi, sperando che bastasse.

«Megan...» disse con tono preoccupato e che fece agitare anche me al tempo stesso.

«Che c'è?» chiesi, afferrandogli una mano, quella che non era bendata. Quel mio banale gesto sembrò rassicurarlo, così che si convinse a vuotare il sacco.

«Tu mi piaci, davvero tanto. Mi piaci perché sei altruista, pensi agli altri prima che a te stessa, perché rifletti prima di agire, cerchi di fare la cosa più giusta, perché sei leale, sincera, perché sei intelligente...»

Mi sembrava quasi che stesse descrivendo un'altra persona. In quei giorni non avevo fatto altro che pensare a me stessa, mentire, fare cose stupide, senza riflettere. Mi sembrava quasi impossibile poter tornare ad essere quella di una volta, quasi quanto mi sembrava impossibile credere che una volta fossi stata davvero come mi stava descrivendo lui.

«Ti sto facendo tutto questo discorso, non so neanch'io perché, ma per dirti che... io non sono come te, non sono come magari vorresti che fossi: sono istintivo, irascibile, faccio cose di cui poi mi pento, tipo... vuoi davvero sapere come mi sono procurato questo?» domandò, sollevando in aria la mano bendata. «Dopo che abbiamo litigato ieri, ero così accecato dalla rabbia che ho tirato un pugno allo specchietto del mio motorino. Per questo oggi sono venuto a piedi e per questo ho la benda, perché mi sono tagliato. Io... non so perché faccio così, né perché te l'ho detto, considerando che adesso penserai che sono fuori di testa e non vorrai più avere a che fare con me, ma il fatto è che... che se davvero sta per nascere qualcosa fra noi, io voglio che ci sia completa sincerità, trasparenza. Voglio che tu sia consapevole del fatto che io non sono il principe azzurro e che non posso darti la storia da favola che meriti, posso solo essere me stesso e, purtroppo, sono fatto così. Quindi se ora non vorrai...»

«Non dirlo neanche per scherzo» lo interruppi, afferrando il suo viso fra le mie mani. «A me non importa. Se ho deciso di dare una possibilità a noi due, credi che non abbia pensato a tutto quello che c'era in ballo? Io so come sei fatto, Dylan, lo sapevo già prima che prendessi questa scelta e, come vedi, non l'ha influenzata. Ho scelto di iniziare questa cosa con te, assumendomi tutte le responsabilità e i rischi che ne derivano, ho scelto di infischiarmene di quella parte di te che tanto critichi, perché per me non è importante come il resto. È vero, sei impulsivo e facilmente irritabile, ma non sono le uniche caratteristiche che ti contraddistinguono. Sei anche onesto, e non nel senso che fai sempre la cosa giusta, ma nel senso che dici sempre quello che pensi, giusto o sbagliato che sia, sei protettivo nei miei confronti, mi fai sentire sempre al sicuro, ti preoccupi per me e sei l'unico a cui importi veramente il mio stato d'animo, l'unico che riesce a farmi sentire meglio. Ed è esattamente così che vorrei che fossi, non cambierei niente. Non mi serve nessun principe azzurro finché ci sei tu.»

«Dici sul serio?» fu l'unica cosa che mi disse.

Senza rispondere, mi avvicinai a lui in punta di piedi e lo baciai con intensità. Dopo un attimo di immobilità da parte di Dylan, dovuta al fatto che l'avessi colto di sprovvista, ecco che si lasciò andare e ricambiò il bacio con la mia stessa passione.

•••

In quei giorni, anche quelle attività più tranquille e normali, tipiche della mia routine, apparivano di una difficoltà immane. E non mi riferivo solo alla scuola, ma anche ai pasti insieme ai miei genitori. Per quei pochi minuti al giorno in cui stavamo insieme per mangiare, la situazione era sempre tesa: io troncavo ogni loro tentativo di fare conversazione, rispondendo a monosillabi ad ogni domanda che mi veniva posta, finendo col dare spazio ad un angoscioso silenzio interrotto solamente dal rumore delle nostre posate sui piatti.

Quella sera, in particolare, fu la peggiore. I miei non dissero nulla per tutto il tempo, limitandosi a scambiarsi delle occhiate preoccupate durante tutta la durata della cena. Mia madre non aveva persino commentato la mia scelta di mangiare quel mezzo pezzo di carne in più. Quando stavo ormai per alzarmi e tornare in camera mia, vidi mio padre irrigidirsi e alzarsi in piedi, in direzione della porta della cucina.

«Che c'è?» chiesi.

Diede un'ultima occhiata a mia madre, la quale venne al mio fianco, appoggiandomi una mano sulla spalla.

«Che c'è?» ripetei, con tono più preoccupato e agitato.

Mio padre esalò un lungo respiro, prima di rispondere alla mia domanda: «Domani mattina c'è il funerale di Emily».

Mi sentii come se mi fosse stato trafitto un coltello nel petto. Avvertii la ferita farsi via via più grande, fino a diventare una vera e propria voragine nel mio cuore. Mi parve persino di udire una voce nella mia testa che gridava: «Basta, fallo smettere». Non ce la facevo più a ricevere pessime notizie ogni giorno, a stare sempre peggio, volevo che finisse tutto.

Annuii soltanto, e poi mi diressi in camera mia. Mi adagiai sul letto, appoggiandomi con la schiena alla testiera e avvicinando le ginocchia al petto. Dopo uno o due minuti passati così, immobile, a fissare il vuoto stando in silenzio, presi il cellulare dal comodino e scrissi a Tracey.

"Hai saputo?".

Fissai insistentemente il display del mio cellulare finché non mi rispose, cosa che, per mia fortuna, avvenne dopo pochi secondi.

"Sì, i miei hanno sentito i suoi poco faNon riesco ancora a credere che dovremo definitivamente dirle addio."

Dopo esserci scambiate qualche altro messaggio, decisi di riappoggiare il telefono sul comodino e mettermi a dormire, sebbene fossero appena le 21.

•••

L'indomani mattina, dopo un'altra notte passata quasi completamente in bianco, trascorsi almeno un'ora a passare in rassegna ogni capo di abbigliamento presente nel mio armadio alla ricerca di quello adatto. Non perché cercassi l'abito che mi facesse apparire bella agli occhi degli altri, ma perché volevo essere impeccabile per lei, per Emily. Sarebbe stata la mia ultima occasione di dirle addio, considerando che il venerdì precedente mi ero limitata a correre via dopo averla trovata in quelle condizioni, e non volevo sprecarla. Forse era un'idea stupida la mia, non sapevo bene neanch'io perché mi stessi complicando così tanto la vita per cercare un vestito, ma volevo indossare qualcosa che ricordasse un po' anche lei, qualcosa che mi rendesse degna di partecipare al suo funerale.

Così, dopo una lunga e frustrante ricerca, trovai l'indumento perfetto: era un semplice abito nero con maniche lunghe in pizzo e gonna a pieghe, che avevamo preso entrambe l'autunno scorso. Non appena lo indossai, finalmente, mi sentii pronta ad affrontare quella giornata. Mi sentii quasi come se lei fosse lì affianco a me a dirmi: «Non preoccuparti, ci sono io con te. Andrà tutto bene».

Ormai è evidente, sto impazzendo, mi dissi. Eppure, continuare a pensarla in quel modo, mi diede davvero la forza di cui avevo bisogno.

•••

Non appena arrivammo davanti alla chiesa, mi accorsi dell'esagerata quantità di gente presente. Ero sicura che più della metà di quelle persone nemmeno conosceva Emily. La maggior parte, anzi, erano giornalisti, oppure persone fanatiche che non avevano di meglio da fare. Mi feci largo fra la folla per cercare Tracey, ma non ottenni risultati.

Per di più, ebbi un'ulteriore conferma della mia follia non appena scorsi David Finnston appoggiato alla ringhiera della scalinata che portava alla chiesa. Non poteva essere davvero lui, giusto? 
C'era un solo modo per scoprirlo.
Senza pensarci troppo, camminai nella sua direzione. 
Era davvero lui. «E tu?» domandai curiosa, non appena gli fui davanti.

Mi persi per qualche istante a fissarlo. Indossava uno smoking nero, oltre che una camicia e una cravatta del medesimo colore. I capelli, a differenza della prima volta che l'avevo visto, erano tenuti ordinatamente all'indietro con il gel. 
Mi accorsi che anche lui mi stava analizzando, e non potei fare a meno di sentirmi inadeguata. Vestiti in quel modo, non c'entravamo nulla l'una con l'altro. In confronto a lui sembravo quasi una bambina, ero insulsa. Forse faceva più bella figura lui di me, il che la diceva lunga, considerando che non avrebbe nemmeno dovuto essere lì.

Scossi la testa per distogliere quei futili pensieri. Mi trovavo lì per altri motivi. Nessuno avrebbe fatto caso a come ero vestita.

«Mio padre voleva scambiare qualche chiacchiera con i conoscenti di Emily, specialmente con quelli che erano presenti alla festa» rispose, facendo cenno al padre, che proprio in quel momento stava stringendo la mano ad alcuni ragazzi della mia scuola.

Provai un certo fastidio nell'udire quella risposta. Era una giornata importante, triste, in cui si sarebbe dovuta commemorare Emily, non svolgere delle stupide indagini. Quelle potevano aspettare. Almeno in quel giorno, doveva essere lasciata in pace. 
Il fastidio crebbe non appena notai anche lo sceriffo Kowalski accompagnato da quello che aveva l'aria di essere un procuratore distrettuale.

Incrociai le braccia al petto. «Comunque avevo chiesto cosa ci facessi te qui, non tuo padre» dissi fredda.

David mi guardò stupito per via del mio tono, prima di emettere uno di quei soliti ghigni: «Volevo vederti».

Mi morsi il labbro inferiore per evitare di sorridere per via di quella sua affermazione. Il suo modo di fare ironia era così sottile che a volte era difficile coglierla. «Intendevi dire che volevi controllarmi. Non preoccuparti, non mi sono cacciata nei guai.»

Aprì la bocca per rispondermi, ma fu preceduto da Tracey, la quale corse nella nostra direzione: «Eccoti, finalmente!» esclamò.

Mi accorsi subito che indossava una collana con un piccolo punto luce che le aveva regalato Emily poche settimane prima, per il suo compleanno. Sembrava che avesse avuto la mia stessa idea, ossia di indossare qualcosa che ricordasse la nostra migliore amica. 
Poi mi concentrai sul suo viso. Aveva pianto, come dimostrato dalle profonde borse sotto agli occhi. Nel vedere l'espressione distrutta che aveva in volto, non potei fare a meno di sentirmi in colpa: io non avevo pianto.

Non avevo più pianto. Non stavo piangendo più all'incirca da due giorni. Emily se n'era andata da neanche una settimana e il mio processo di elaborazione del lutto si era già concluso? Che razza di migliore amica ero? Emily era stata una presenza fondamentale nella mia vita, com'era possibile che non riuscissi più a compiangerla? Eppure il dolore lo sentivo, eccome se lo sentivo, la voragine era sempre più aperta e profonda, tuttavia non riuscivo ad esternarlo. Rimaneva dentro di me e mi soffocava, giorno dopo giorno.

Che cosa avrebbero pensato tutti?

"Ma l'hai vista Megan Sinclair al funerale della povera Emily? Se ne stava lì, impassibile. Non ha versato neanche una lacrima."

Poi mi dissi che l'opinione degli altri, allora più che mai, non avrebbe dovuto importarmi. I commenti negativi su di me non sarebbero mancati neanche se avessi pianto a dirotto durante tutta la durata della cerimonia.

"Lacrime di coccodrillo le sue, te lo dico io. Spero solo che la polizia ce la metta tutta per incastrarla e sbatterla finalmente in prigione."

«Dov'è Herman?» chiesi a Tracey, così da potermi concentrare su altro.

«Dovrebbe arrivare fra poco» rispose. «Dio, hai visto quanti giornalisti? Perché non possono farsi gli affari loro? Un attimo, quello è lo sceriffo?»

David si intromise. «Sì, insieme al nuovo procuratore» rispose e io deglutii nel sentire la parola "procuratore".

«E tu chi sei?» domandò Tracey spaesata. Le avevo raccontato del figlio del mio avvocato, ma chiaramente, non avendolo mai visto, quello davanti a lei le sembrò solo un comune ragazzo come tanti.

«Lui è David Finnston. Lei è Tracey, invece» li presentai, e i due si strinsero la mano.

«Aspetta, quindi sei il figlio dell'avvocato di Megan?» chiese e David annuì. «Senti, so che forse non è la procedura giusta in questi casi, ma il difensore d'ufficio che mi è stato assegnato è un cretino, quindi non è che potresti prendere il suo posto?»

David emise uno dei suoi soliti ghigni. «Mi piacerebbe, ma non posso: non sono ancora un avvocato.»

«Allora non puoi convincere tuo padre a prendere anche me come cliente?»

«Mi dispiace, ma anche questo non è possibile» rispose stringendosi nelle spalle.

«Perché?» domandò Tracey confusa, e anche scocciata.

Fu a quel punto che intervenni io: «Non può farlo: o difende me, oppure difende te. Altrimenti ci sarebbe un conflitto di interessi».

Tracey sbuffò e mormorò qualcosa in merito a quanto facesse schifo la legislazione americana, mentre David mi guardò con un'espressione che non riuscii a decifrare. Non sapevo se si trattasse di semplice sorpresa, o se ci fosse pure un pizzico di ammirazione, o magari di compiacimento.

«Sì, esatto» disse, e io gli rivolsi un flebile sorriso.

A quel punto, vedemmo arrivare Herman, e quindi Tracey si allontanò lasciandoci soli. David fece qualche passo verso di me. «Le devo i miei complimenti, avvocato Sinclair» disse chinando leggermente la testa in segno di riverenza.

«Io... devo averlo letto da qualche parte, su Facebook o qualcosa del genere» risposi, scrollando le spalle. In fondo non era chissà quale scoperta.

«Ah, davvero?» domandò scettico.

«Ok, d'accordo, ho fatto delle ricerche» ammisi.

«E perché l'avresti fatto?» domandò, da una parte curioso, dall'altra forse confuso.

«Be', io...» lasciai la frase in sospeso. Non sapevo neanch'io perché l'avessi fatto. In generale, mi piaceva informarmi su argomenti di cui sapevo poco, così da arricchire le mie conoscenze. A mio parere, l'ignoranza era uno dei peggiori mali del mondo. Mi piaceva apprendere cose nuove, relative a diversi argomenti, così da non rimanere in silenzio ogni qualvolta che si affrontavano discorsi diversi dalle insulse chiacchierate adolescenziali.

«Non sarà che questa professione che tanto disprezzi, in realtà ti sembra più affascinante di quello che pensavi?» chiese con voce suadente.

«Sei fuori strada» ribattei. «È solo che visto che mi tratti sempre da ragazzina inesperta, ho pensato di informarmi e dimostrarti che...»

Fui interrotta dalla risata fragorosa del ragazzo di fronte a me. Sentii una sensazione di fastidio a livello dello stomaco. Lo stava facendo ancora, mi stava trattando come se fossi ridicola. «Quando hai finito di...»

«No, scusa, scusa, non volevo riderti in faccia» mi bloccò. «È che finalmente sono riuscito a inquadrare che tipo di cliente sei.»

Lo fissai con le sopracciglia aggrottate. «Vale a dire?»

«La categoria più insopportabile di tutte: è quel tipo di cliente che fa tutto da solo, pensando di poterla far franca senza l'aiuto di nessuno, finendo soltanto con l'aggravare la propria situazione e, cosa più importante, che legge due articoli su Internet e automaticamente pensa di essere al livello del proprio avvocato, permettendosi magari di dargli anche dei consigli su come svolgere il suo lavoro.»

Quel ragazzo aveva la capacità di farmi perdere la calma in un nano secondo. Riuscii a contenermi soltanto continuando a ripetermi che era un giorno importante e che non dovevo rovinarlo cedendo alle sue provocazioni. Non volevo di certo dare spettacolo il giorno del funerale di Emily.

Così, da persona matura e superiore, canalizzai la rabbia, gli diedi le spalle e andai altrove. Perché diamine ero andata a parlargli, se tanto ero consapevole che il risultato sarebbe stato quello?

Cominciai a guardarmi intorno e vidi i genitori di Emily. Erano davanti all'entrata della chiesa e, sebbene mi tremassero le gambe al solo pensiero, alla fine mi diressi verso di loro. Dovevo smetterla di scappare dalle mie responsabilità. Ciò significava che dovevo affrontarli, invece che ignorarli come avevo fatto lunedì mattina alla deposizione. Così, con il cuore in gola, senza badare ai loro sguardi, feci il primo passo: «Salve, signori Walsh».

Non seppi cos'altro aggiungere. Cosa avrei dovuto dire? Che mi dispiaceva? Che capivo il loro dolore? Che Emily non si meritava nulla del genere? Nulla sembrava appropriato. Forse il silenzio era la cosa migliore.

Mentre il padre, Theo, annuì soltanto, come a dire: "Va tutto bene", vidi Dorothy farsi scura in volto. Non l'avevo mai vista in quel modo. Non era solo distrutta dal dolore, c'era dell'altro. Era furiosa. La sua non era solo della semplice rabbia per la figlia che le era stata portata via ingiustamente, la sua era ira vera e propria, e sembrava volerla indirizzare tutta verso di me. Ecco quindi che, dopo pochi secondo di trepidazione, esplose: «Tu! Come hai osato venire qui? Non te lo meriti, come non meritavi di avere un'amica come Emily. Non l'hai mai meritata, e io l'ho sempre saputo. Non sei come vuoi farci credere, e so che hai fatto del male alla mia piccola Emily! Lei era il mio angelo, mentre tu sei marcia dentro. C'è del male dentro di te. Avresti dovuto essere tu al suo posto... Sì, dovresti essere tu ad essere rinchiusa in una bara in questo momento. Saresti dovuta morire tu!».

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Capitolo 10
*** Il male dentro ***


Il male dentro

«Tu! Come hai osato venire qui? Non te lo meriti, come non meritavi di avere un'amica come Emily. Non l'hai mai meritata, e io l'ho sempre saputo. Non sei come vuoi farci credere, e so che hai fatto del male alla mia piccola Emily! Lei era il mio angelo, mentre tu sei marcia dentro. C'è del male dentro di te. Avresti dovuto essere tu al suo posto... Sì, dovresti essere tu ad essere rinchiusa in una bara in questo momento. Saresti dovuta morire tu!»

Ero in preda ad un sovraccarico di emozioni. Mi sentivo ferita, umiliata, triste e anche un po' arrabbiata. Come aveva potuto dirmi quelle cose orribili? Capivo il suo dolore, aveva perso la sua unica figlia, ma questo non le dava il diritto di attaccarmi in quel modo. Specialmente perché prima che morisse ero sempre stata una delle persone con cui Emily aveva un maggior rapporto. Eravamo come sorelle. 
Come poteva credere che avrei potuto farle del male?
(Magari perché era vero).
Come poteva augurare la morte a un'altra persona, proprio in un momento in cui lei stessa, per prima, stava sperimentando quanto cordoglio e agonia portasse la perdita di una persona cara?
(Forse era ciò che meritavo davvero).
Come poteva pensare di me che fossi un essere maligno?
(A pensarci, non ero neanche così pura come tutti credevano).

Nel sentire le sue urla, in men che non si dica una grande folla si radunò attorno a noi. In prima fila, chiaramente, c'erano quei ficcanaso dei giornalisti, carichi ed eccitati per il prossimo scoop che avrebbero pubblicato.

«Vattene da qui. Non voglio e non permetterò che tu assista al funerale di mia figlia. Sparisci dalla mia vista immediatamente!» esclamò.

Le sue parole mi colpirono così tanto che vacillai, perdendo l'equilibrio e indietreggiando di qualche passo. Non poteva dire sul serio. Non mi stava davvero cacciando. Era il funerale della mia migliore amica, dovevo dirle addio, lei non poteva impedirmelo... giusto?

In quel momento, il padre di Emily intervenne. «Dorothy, forse...»

«No» lo interruppe, trucidandolo con lo sguardo. «Io non la voglio.»

Il minuscolo barlume di speranza che si era acceso non appena il signor Walsh si era mosso in mia difesa, si spense in un attimo.

«Non puoi decidere per lei, se...»

Questa volta fui io a interrompere il signor Walsh: «No, non si preoccupi. Ha ragione lei. È sua madre, ha tutto il diritto di cacciarmi, quindi se non mi vuole qui, allora toglierò il disturbo. Vi chiedo di perdonarmi per il male che ho causato».

Pronunciai quelle parole con voce tremolante, quasi biascicando, ma non riuscii a fare altrimenti. Poi mi voltai ed ebbi la conferma che tutti avevano assistito alla scena. Vidi Tracey, Herman, Dylan, persino l'avvocato Finnston e suo figlio. C'erano anche i miei genitori. Se gli altri sembravano solo scioccati, questi ultimi sembravano contrariati e anche delusi. Delusi da cosa? Da me? Dal fatto che non ero più la figlia che si aspettavano che fossi?

I giornalisti si avventarono su di me, cominciando a pormi domande insensate per i loro stupidi articoli a cui non diedi neanche ascolto, cosa che mi venne facilitata dallo stato di trance in cui ero caduta: ogni suono mi pareva ovattato, le persone mi sembravano solo ombre, l'unica cosa che riuscivo a vedere con nitidezza era la strada davanti a me. Così, dopo essere riuscita a crearmi spazio per potermi allontanare da quell'affollamento di persone, scesi di corsa dalle gradinate e sparii dalla loro vista, come mi era stato ordinato.

Cominciai a camminare senza una meta precisa, seguendo il tragitto delineato dal marciapiede, continuando a fissare per terra. Non avevo la benché minima idea di dove mi stessi dirigendo, le mie gambe si muovevano da sole e non ne volevano sapere di fermarsi. Era come se cercassero di fuggire, di scappare. Ma scappare da cosa, precisamente? Dalla mia mente, dai miei pensieri. Peccato che non fosse possibile.

O meglio, un modo c'era.

Mi arrestai all'improvviso e scesi dal marciapiede, mentre nella mia mente si riproducevano le parole che mi erano state rivolte pochi minuti prima.

"Sei marcia dentro."

Feci qualche passo in avanti, barcollando.

"Avresti dovuto essere tu al suo posto."

A chi sarebbe importato?

"C'è del male dentro di te."

Portavo solo sofferenza e dolore nella vita degli altri.

"Dovresti essere tu ad essere rinchiusa in una bara in questo momento."

Avrei fatto un favore a tutti.

"Saresti dovuta morire tu."

Perché non accontentarli?

Ogni volta che, ingenuamente, da bambina, attraversavo la strada correndo, senza stare attenta, ricevevo sempre, in cambio, una bella sgridata da parte dei miei genitori: «Non me ne frega niente se non vedi nessuno o se ti sembra che la macchina ti abbia vista. Basta solo un secondo, Megan, un solo secondo».

Non mi ero mai resa conto di quanto fossero vere quelle parole, fino a quel momento. Era solo un semplice secondo. 
Quando sentii il clacson emettere quel rumore assordante, capii che l'auto davanti a me si era fatta ormai troppo vicina, che avevo raggiunto il punto di non ritorno, così chiusi gli occhi e rimasi con i piedi incollati a terra, pronta per quello che sarebbe successo di lì a poco.

O forse, quello che speravo sarebbe successo ma che non accadde.

Mi sentii tirare con forza per un braccio e fui trascinata fuori dalla strada. Allora riaprii gli occhi e, invece che trovarmi a faccia a faccia con il dio degli Inferi, mi trovai David Finnston ad appena cinque centimetri di distanza. «Ma dico, sei impazzita? Che cosa diavolo ti dice la testa?» chiese facendo una leggera pressione sul mio braccio.

Non l'avevo mai visto in quel modo. Per la prima volta, fui in grado di decifrare la sua espressione. Era furioso, spaventato e forse anche sconvolto.

Che cosa mi diceva la testa? Troppe cose, ultimamente.

«Lasciami!» fu l'unica cosa che riuscii a dirgli, cercando di liberarmi dalla sua presa, invano.

«Non ci penso proprio» rispose.

Dopodiché la macchina ci si accostò di fianco: «Guarda dove vai, cretina! Non eri neanche sulle strisce!».

David rispose al posto mio. «E tu guarda la strada invece che stare al telefono!» urlò, mentre l'autista ripartiva alla massima velocità.
Poi tornò a guardarmi. «Non ti lascio finché non mi dici perché stavi per fare una cosa del genere.»

«Senti, lasciami in pace! Non hai idea di quello che...»

Mi interruppe prontamente. «È così che pensi di porre fine ai tuoi problemi? Lanciandoti sotto una macchina? Pensavo che dopo quello che è successo alla tua amica, avessi compreso quanto valore abbia davvero la vita. Credi che lei sarebbe contenta se tu te la togliessi, dopo che a lei è stata strappata ingiustamente?»

«No, ma forse rimedierei a quello che le è successo... e poi... e poi a nessuno importerebbe se io morissi» dissi, con un nodo in gola.

David strinse le labbra in un un sorriso amaro. Era evidente che gli facessi pena. «Megan, ormai è morta: non puoi rimediare. A maggior ragione perché non è colpa tua se è successo. Ma tu hai l'immensa fortuna di non esserlo, anche se ora non te ne rendi conto, quindi non provare mai più a cercare di buttare la tua vita nel cesso per via di qualche idea stupida che ti frulla nel cervello!»

«Non c'è nessuna idea stupida che mi ha portato a farlo! Io... mi odiano tutti. A scuola la situazione è ingestibile, sono un'emarginata perché i miei compagni mi reputano un'assassina. Farei solo un favore a tutti se mi togliessi dai piedi.»

«Sono sicuro che non è così. Ma se davvero ritieni che la tua vita abbia così poco valore e se davvero sei la Megan Sinclair così buona e altruista di cui tutti parlano, allora non farlo per te: fallo per gli altri. Fallo per tua madre e tuo padre, per Tracey che non potrà farcela a subire un'altra perdita così importante, fallo per i tuoi amici, fallo per quel disgraziato che avrebbe rischiato la prigione se ti avesse investita e ti avrebbe avuto per sempre sulla coscienza... e fallo per Emily. Non puoi rimediare alla sua morte, ma puoi darle la giustizia che merita, dimostrando la tua innocenza e dando la possibilità a chi è di competenza di scovare il vero colpevole, l'unico che dovrebbe pagare per tutta questa storia.»

Interruppi il contatto visivo che avevamo mantenuto fino a quel momento e abbassai lo sguardo. «Io non ce la faccio più...» ammisi, esprimendo tutto il mio sconforto. «Vorrei... vorrei soltanto andare dallo sceriffo a dirgli che sono stata io, solo per poter porre fine a questa storia.»

«Tu provaci, e giuro che...»

«Prova a capirmi! Cosa faresti tu se ti trovassi nella mia situazione?» lo interruppi, risollevando lo sguardo e puntandolo nuovamente sul suo.

«Te l'ho già detto. Lotterei con tutte le mie forze e con tutti i mezzi a mia disposizione, affinché sia resa giustizia. Dimostra a tutti che si sbagliano sul tuo conto.»

«Come faccio a farlo se tutti mi hanno voltato le spalle? Persino i miei genitori erano delusi da me...»

«Non lo erano. Dopo che te ne sei andata, tuo padre ha dovuto trattenere tua madre per impedirle di fare una scenata contro la madre di Emily. Le ha detto che non avrebbe mai dovuto permettersi di parlarti in quel modo, che non aveva nessun diritto di umiliarti e accusarti pubblicamente, che lei per prima, per via di tutto quello che stava passando, avrebbe dovuto capire quanto fosse inappropriato augurare la morte a qualcuno, a maggior ragione a te, che eri una delle migliori amiche di Emily.»

Sollevai le sopracciglia in segno di stupore. Mia madre mi aveva difesa, davanti a tutti. Normalmente era una di quelle persone che dava sempre ragione agli altri. Per lei l'unica cosa importante era sempre stata fare buona figura, non prendeva mai le mie difese, per lei avevano sempre ragione gli altri. «D-davvero?» domandai, ancora incredula.

David ammorbidì lo sguardo e annuì, lasciando la presa sul mio braccio. «Ora muoviti, che ti riaccompagno a casa.»

Avrei voluto contestare quelle sue imposizioni e dirgli che sarei stata in grado di arrivarci da sola, ma rinunciai in partenza: niente sarebbe riuscito a smuoverlo da quella decisione. Ormai mi vedeva come la ragazza che aveva cercato di togliersi la vita, perciò era evidente che non mi avrebbe permesso di andare a casa da sola.

Grandioso, pensai, l'unica cosa che volevo era porre fine ai miei problemi, ma l'unico risultato che ho ottenuto è stato quello di avere un'altra persona a preoccuparsi per me.

Tutto perché non ero capace di gestire le situazioni difficili, perché ero talmente debole da farmi buttare giù con niente, perché l'unica soluzione ai problemi che riuscivo a trovare era sempre quella più semplice, che avrebbe aiutato soltanto me a discapito degli altri. Quando avrei imparato a badare da sola a me stessa, a fare le scelte giuste, a smetterla di dipendere dagli altri?

Mentre facevo quelle considerazioni, venni interrotta dalla voce di David, che avvertii almeno a dieci passi da me: «Ti vuoi muovere? Guarda che ho lezione fra meno di due ore e ci metto un'ora e mezza ad arrivare a New Orleans!».

Allora mi attivai e cominciai a camminare, giungendo in poco tempo al fianco di David. Passammo i primi cinque minuti in silenzio e poi, quando sentii il suono delle campane della chiesa, presi a parlare per distrarmi: «Io non gioco a fare l'avvocato».

«Lo so, mi dispiace» disse, ma io gli parlai sopra: «Fammi finire. Stavo cercando di spiegartelo anche prima. A me piace leggere, specialmente cose che non conosco, così da poter imparare qualcosa di nuovo».

Per la seconda volta mi rivolse quello sguardo, un misto fra sorpresa e compiacimento, sebbene il mio timore più grande era sempre quello di apparire ridicola.

«E poi... pensavo che se fossi riuscita ad impressionarti, avresti smesso di trattarmi come fai sempre.»

«Vale a dire? Come ti tratto?» chiese confuso.

«Come se non te ne accorgessi» risposi alzando gli occhi al cielo. «Mi metti in soggezione, mi tratti da completa idiota e ogni volta mi fai sentire... ridicola.»

«Se proprio vuoi saperlo, non penso che tu sia stupida, né ridicola.»

«Davvero?» domandai sorpresa.

«Sì,» rispose «sei soltanto incredibilmente fastidiosa».

Mi voltai di scatto nella sua direzione. «Scusami?» domandai alzando un sopracciglio.

«Il fatto è che non riesce proprio a entrarti in testa che devi lasciar fare a chi è di competenza. Tutto ciò che devi fare, è fidarti e smetterla di mentire a me e a mio padre, oltre che immischiarti in cose con cui non c'entri nulla, pensando di poter risolvere il problema.»

«Guarda che dopo averti mentito sabato scorso, non ho più fatto niente! Tutto ciò che sai, è ciò che è successo venerdì sera, non c'è nient'altro.»

Mi fissò con espressione corrucciata. Non se l'era bevuta. Per un attimo mi ero dimenticata quanto, purtroppo, fosse trasparente il mio viso. Lasciava intravedere ogni emozione, specialmente quando mentivo.
Così, seppur consapevole del fatto che avrei assistito ad un'altra sua sfuriata, gli dissi "l'altro" che era successo.

«Be'... tralasciando forse un... un possibile inquinamento delle prove» ammisi, mordendomi il labbro superiore. A quanto pare, anche appropriarsi dell'arma del delitto costituiva un reato. «Ma... ma in realtà non è merito mio!» mi affrettai ad aggiungere.

David rimase calmo, e non seppi se interpretarlo come un buono oppure cattivo segno. Sembrava stesse riflettendo. Tuttavia, dal momento che non arrivò una sua risposta, gli diedi maggiori chiarimenti. «Non lo sapevo prima di martedì. Il coltello sul quale c'erano le mie impronte... ecco, l'ha preso Tracey. E, lo so cosa stai pensando, ma io le credo. L'ha soltanto fatto per me, per evitare che andassi nei casini.»

Sospirò. «È tutto?»

«Sì, non c'è altro» risposi, sebbene fossi rimasta un po' disorientata dalla sua reazione. Mi aspettavo come minimo un'altra lezione dal grande professore che credeva di essere.

•••

Durante il resto della nostra camminata, David cercò di risollevarmi il morale, dicendomi che, sebbene mi conoscesse da poco, era convinto che tutto ciò che la madre di Emily aveva detto sul mio conto fosse errato.

«Se c'è una cosa che ho imparato in questi anni, anche prima che iniziassi a studiare legge, dato che ho assistito a molti dei processi di mio padre, è che, nonostante da piccoli ci insegnino che esistono persone buone e persone cattive, non è così: tutti abbiamo il male dentro di noi. Fa parte della natura umana. Così come c'è anche il bene. E noi siamo liberi di scegliere come agire. Perciò, sono le scelte ad essere sbagliate oppure giuste, non le persone ad essere cattive oppure buone. E, sebbene non sappia molto di te, se tralasciamo le stupidaggini che hai fatto quella notte, sento che tu sei una di quelle che sceglie sempre il bene» aveva detto.

Mi fece piacere sentire quelle parole. Peccato che dentro di me sapessi bene quanto tutto ciò fosse falso.

•••

Una parte di me, tuttavia, desiderava ardentemente farla pagare ad Olivia. Lo volevo così tanto, che ero sul punto di dire alla preside Fitzpatrick quali fossero realmente i miei sospetti. In fondo, la mia era solo una considerazione, un'opinione, non un'accusa vera e propria... mi era concesso esprimere la mia opinione, ossia pensare che fosse stata Olivia a stampare quel foglio in cui mi accusava di essere un'assassina? Avevo delle motivazioni più che valide per pensarlo, considerati i nostri trascorsi, facendo riferimento anche a quello che mi aveva detto il giorno prima. 
Se dire alla preside che i miei sospetti riguardavano Olivia era una cosa sbagliata, allora perché mi sembrava la cosa più giusta da fare in quel momento? Volevo così tanto che pagasse per quello che mi stava facendo passare. Se io stavo passando l'Inferno, forse sarebbe stato giusto dividere la mia dannazione insieme a lei.

«Anzi, in realtà, ora che ci penso...» attirai la sua attenzione: «Sì? Mi dica».

«Ecco, non ne sono sicura al cento per cento, tuttavia... È risaputo fra noi studenti del terzo anno che un'alunna abbia una certa insofferenza nei miei confronti. E proprio stamattina, poco prima che trovassi quel volantino, mi è sembrato di averla vista uscire dal laboratorio dei computer. Forse doveva solamente stampare una ricerca, non lo so, in fondo molti studenti utilizzano quel laboratorio, ma considerando i nostri precedenti...»

«Chi è questa ragazza?» chiese la preside Fitzpatrick con impazienza.

«Olivia. Olivia Goldberg.»

•••

Come ogni domenica, ecco il nuovo capitolo!

Le terribili parole della madre di Emily hanno scosso così tanto Megan, che stava quasi per fare la scelta più sbagliata che un essere umano possa fare: togliersi la vita. Il dolore per la perdita della sua amica, il senso di colpa, la situazione a scuola, l'insonnia, lo stress e la perdita di fiducia in se stessa non hanno fatto altro che portare ad un accumulo di pensieri negativi e, quelle parole piene di odio nei suoi confronti, non hanno fatto altro che far traboccare il vaso.

Al momento Megan ha una mente instabile per via di quello che sta vivendo e pensa che potrà vedere la luce in fondo al tunnel e quindi porre fine ai suoi problemi, soltanto facendola finita. Per fortuna in suo soccorso viene David,  che cerca anche di farla ragionare: soltanto stringendo i denti e lottando fino alla fine, riuscirà a lasciarsi quella storia alle spalle e dare a Emily la giustizia che merita.

Scusate se il ritmo del capitolo è un po' lento, tuttavia sono presenti molti indizi non indifferenti per i capitoli successivi. Per esempio, la reazione di David dopo aver scoperto del coltello, non è da sottovalutare...

Infine, si scopre che Megan non è riuscita a trattenersi e, per una volta, ha scelto il male, mentendo alla preside e dando la colpa a Olivia per quel foglio diffamatorio che aveva ricevuto nel suo armadietto. Quali conseguenze pensate che avrà questa sua decisione?

Fatemi sapere che ne pensate!

 

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Capitolo 11
*** È una città piccola ***


È una città piccola


Quando mi svegliai venerdì mattina, mi chiesi com'era possibile che fosse già passata una settimana da quella dannata festa. Era già passata una settimana da quando Emily era morta. Era già passata una settimana da quando la mia vita era cambiata per sempre. 
E forse anch'io stavo cambiando. Il mio timore più grande era proprio quello di non riuscire più a tornare la Megan di un tempo. Forse sarei riuscita a superare il trauma e a riavere indietro la mia vita, ma ciò non stava a significare che avrei riavuto anche quella parte di me che era stata danneggiata. Forse mi sarei portata quella voragine dentro di me per sempre, non si sarebbe mai rimarginata del tutto.

Feci quelle riflessioni mentre fissavo il mio corpo nudo stando in piedi davanti allo specchio della mia camera. Ero pressoché la stessa, all'esterno. Ma dentro di me, sentivo che era in atto una trasformazione. Sperai soltanto che sarei stata una persona migliore di quella che ero stata fino a quel momento (bugiarda, ricattatrice, assassina).

Dopo essermi vestita e preparata per un'altra sicuramente burrascosa giornata di scuola, presi in mano il cellulare.

"Ti prego, non dire a nessuno di ieri."

Scrissi il messaggio e poi, al momento di inviarlo, titubai per qualche secondo. Poi feci un respiro profondo e lo spedii, prima di prendere lo zaino di scuola dalla sedia e uscire di casa.

Sebbene una parte di me fosse ansiosa di ricevere una risposta e avesse l'istinto di controllare il cellulare ogni dieci secondo, alla fine ebbe la meglio la parte di me più razionale, e difatti lo ripresi in mano solo una volta dopo essere arrivata a scuola.

L'arrivo dell'autunno si stava facendo sentire: c'era molto vento, le prime foglie stavano iniziando a cadere dagli alberi e il cielo appariva grigio e uggioso, quasi a riflettere il mio stato d'animo. Sperai solo che non si mettesse a piovere. Detestavo la pioggia. Non ci trovavo nulla di bello né romantico, era solo incredibilmente fastidiosa. Inoltre, considerando che indossavo solo un maglione e non avevo con me nessun ombrello, non sarei riuscita a ripararmi e avrei finito con l'ammalarmi. 
E, sebbene mi avrebbe fatto piacere starmene a casa per un po', in quei giorni avevo già fatto troppe assenze, e non avrei voluto continuare in quel modo per il resto dell'anno scolastico.

Una volta arrivata al mio armadietto, tirai fuori il cellulare per leggere la risposta. Aveva inviato due messaggi.

"Starò zitto."

"Ma solo se tu ti farai aiutare da qualcuno."

Alzai gli occhi al cielo. Eppure, aveva ragione, e io lo sapevo.

Non avevo mai considerato il suicidio. Anzi, ero sempre stata dell'idea che chi compiesse un gesto del genere, fosse solo un vigliacco, che non aveva né la voglia né la forza per affrontare i propri problemi. E poi anch'io ero diventata come coloro che tanto criticavo.

Come avevo potuto essere tanto stupida? Tanto superficiale? Se solo David non fosse stato lì... sarei morta per davvero. (Magari. Sarebbe finito tutto).

"Lo farò."

Poi sentii qualcuno appoggiare le mani sul mio ventre e il mento sulla mia spalla. Mi girai leggermente a sinistra e subito incontrai gli occhi di Dylan. Appoggiai le mani sopra le sue, facendo sì che mi stringesse più forte.

«Ti ho chiamata ieri. Almeno cinque volte» disse, lasciandomi un piccolo bacio sul collo.

«Avevo il telefono spento, scusa» risposi solamente.

«Mi dispiace per ieri. Quello che ti ha detto la signora Walsh è stato orribile, scorretto e inappropriato. Dopo averti vista andare via, avrei voluto seguirti e non partecipare al funerale. Sono rimasto solo per... be', per Emily. Era giusto dirle addio.»

A quelle parole, mi innervosii e tolsi le sue mani dalla mia vita. «Non mi va di parlarne» dissi fredda, voltandomi nella sua direzione.

Io non le avevo detto addio. Non avevo potuto farlo. E ancora non ero riuscita a piangere. Perché diamine non piangevo più, se il dolore era tale da soffocarmi?

«Si può sapere che hai?» domandò Dylan.

«Che razza di domanda è? Pensi che mi faccia piacere parlare di come mi sono sentita di merda per tutto il giorno, ieri? Era la mia, di migliore amica, e mentre persone a cui non fregava niente di lei, fra cui anche te, che fino a prima che morisse neanche ti ricordavi il suo nome, hanno potuto stare al suo funerale, io invece sono stata cacciata e umiliata davanti a tutti!» esclamai, attirando numerosi sguardi su di me.

«Ok, ho capito, non ne parleremo più. Ora però calmati, Meg» afferrò la mia mano e cominciò a carezzarne il dorso. Poi si avvicinò fino a far toccare le nostre fronti. Mi bastò fissare i suoi occhi per qualche secondo, affinché riuscissi a calmarmi, affinché la rabbia che si era accumulata in pochi secondi sparisse in altrettanto tempo. «Va meglio?» domandò e io annuii, stampandogli un bacio sulle labbra.

Lui mi restituì altri due baci, prima che venissimo interrotti da una voce stridula appartenente a una delle persone che sopportavo di meno. «Tu sei morta, Megan Sinclair!»

Sia io che Dyl sussultammo e ci voltammo verso quella voce. «Quando capirai che devi lasciarla in...» Dylan venne interrotto da Olivia: «Non aspetto altro che tutta la verità su di te venga fuori, così che tutti sappiano che persona di merda sei!».

«Da che pulpito!» esclamò Dylan.

«Non sono io a essere un'assassina.»

«Nemmeno io, e il fatto che tu continui ad accusarmi di esserlo, mi dà la conferma che soa stata tu a mettere quel foglio nel mio armadietto» intervenni.

«Davvero pensi che perderei tempo dietro a te? Non sono stata io a farlo, nonostante la balla che hai detto alla preside Fitzpatrick. C'è mancato poco che mi sospendesse! Per fortuna non aveva prove, se non le tue parole.»

«Che cosa hai fatto?» mi chiese Dylan, intromettendosi di nuovo.

«Fossi in te starei attenta» disse Olivia con tono glaciale.

«A chi? A te?» domandai guardandola con sufficienza.

«Oh no, magari. Ma mi lusinga che tu mi veda come la tua minaccia più grande. Io però le cose te le dico in faccia. Ma è chiaro che qualcuno qua a scuola la pensi come me e abbia deciso di prenderti di mira» disse, prima di allontanarsi.

Non capii il significato delle sue parole, finché Dylan non mi picchiettò la spalla con le dita. Mi voltai e mi accorsi che stava indicando, anche lui sconvolto, decine e decine di fogli con il mio volto sparsi per tutta la scuola. Alcuni erano attaccati agli armadietti, altri appesi alle bacheche, altri semplicemente buttati a terra.

Assassina. Assassina. Assassina.

•••

«Che stronzi» sputò Herman, accartocciando e lanciando a terra uno dei tanti volantini diffamatori che si era trovato sulla sedia in mensa.

«Lascia perdere, Herm. Prima o poi si stuferanno» risposi, sperando con tutto il cuore che fosse vero.

«La preside non ha detto che ti avrebbe aiutata?»

Scrollai le spalle: «Sì, ma a quanto pare non è riuscita a fare molto. Probabilmente organizzerà uno dei suoi incontri contro il bullismo per "sensibilizzare gli studenti", come dice sempre».

«Ah già, sicuro sarà utile» commentò sarcastico. «Cambiando discorso, dov'è la tua nuova fiamma?».

«Non lo so. Starà arrivando.»

Poi presi il cellulare in mano e vidi che mia madre mi aveva mandato un messaggio: "La psicologa ti aspetta nel suo studio alle 16:30. Ti ricordi come arrivarci?".

Roteai gli occhi e non le risposi. Inevitabilmente, ripensai al giorno precedente, quando David mi aveva riferito che mia madre aveva preso le mie difese e aveva affrontato la signora Walsh. Per la prima volta mi ero sentita amata, benvoluta da mia madre...

Invece, non mi ero mai sbagliata tanto: quando tornarono a casa, mia madre cominciò a lamentarsi per l'accaduto spostando tutte le attenzioni su di lei, senza neanche chiedermi come stavo io, ossia la persona che era stata attaccata davanti a tutti: «Ma dico, Robert, l'hai sentita quella stronza? Come si è permessa di dire quelle cose a Megan? Non mi sono mai sentita così umiliata! Io dico, chissà cosa avranno pensato tutti i presenti di me! Che non sono stata in grado di educare mia figlia, forse? Io dico, come si è azzardata a denigrarci tutti così? Insomma, è una città piccola... Dovrebbe importare anche a te, ne va della nostra reputazione!».

Dopo aver sentito quelle parole, mi ero a dir poco infuriata, così ero subito corsa in camera a mia, sbattendo la porta alle mie spalle e poi chiudendola a chiave. Ci rimasi per tutta la sera, uscendo di tanto in tanto solo per andare in bagno. Ma tanto nessuno, in quella dannata casa, ci fece caso. Mia madre era troppo occupata a pensare a se stessa, mentre mio padre era troppo occupato a fare il suo cane da compagnia.

«Meg.» La voce di Dylan mi riportò alla realtà. Mi voltai alla mia destra e lo vidi intento ad appoggiare il vassoio sul tavolo e a sedersi al mio fianco. «Oggi vieni a vedermi agli allenamenti?» domanda.

«Allenamenti di cosa?»

«Football. Sono riuscito a entrare nella squadra, te l'ho detto prima» rispose, lasciando intravedere un po' di scocciatura.

«Ah, giusto. Comunque non posso, ho un impegno questo pomeriggio.»

Dylan storse il naso. «Mi spieghi cos'hai?»

«Non ho niente.»

«Allora perché continui a comportarti da stronza da tutto il giorno?».

«Se vuoi, vengo a vederti io» si intromise Herman, ricevendo un'occhiataccia da entrambi.

«Non mi comporto da stronza...» dissi, sebbene io stessa non fossi totalmente convinta delle mie parole.

«Ma se è da quando mi hai visto stamattina che non fai che rispondermi male e mi guardi come se fossi un peso di cui devi disfarti al più presto! Se non ti interesso più, basta dirmelo e tolgo il disturbo.»

«Forse è meglio che lo tolga io...» Herman, vedendo la situazione farsi infuocata, prese il suo vassoio e andò a sedersi altrove.

Guardai Dylan. Era confuso, arrabbiato e ferito. Il tutto a causa mia. Non sapevo nemmeno io che cosa mi stesse succedendo quella mattina. Ero distaccata e scontrosa con tutti. Ma di una cosa ero sicura.

«Scusami. Ho mille cose per la testa e sono nervosa di continuo. Ma quello che provo per te non ha niente a che fare con questo.»

«Allora parlamene» disse, prendendo la mia mano. «Non c'è bisogno che ti tenga tutto dentro».

Rimasi in silenzio. Non volevo che lui, come tutti gli altri, continuasse a preoccuparsi per me. Non volevo più essere vista come quella che non poteva farcela da sola, che aveva sempre bisogno degli altri.

Per fortuna, Dylan interpretò il mio silenzio nella maniera corretta e decise di non insistere: «Oppure, se non te la senti, non farlo. In ogni caso, sappi che io non andrò da nessuna parte. Ci sarò sempre per te».

Posò le labbra sul dorso della mia mano, prima di lasciarla e mettersi a mangiare.

•••

"Dottoressa Victoria Blackburn", così diceva la targhetta d'oro appesa vicino al citofono.

Non ero mai stata da una psicologa e, non appena suonai al campanello dello studio, sentii l'ansia crescere dentro di me. Che cosa avrei dovuto dirle? Come avrei dovuto iniziare? Mi avrebbe fatto lei delle domande? Mi avrebbe mostrato quei disegni strani fatti con l'inchiostro nero, sottoponendomi al cosiddetto test di Rorschsach? Quanto avrei potuto raccontarle? Vigeva il segreto professionale fra psicologo e paziente? Si sarebbe accorta di eventuali bugie da me raccontate per evitare di dirle tutta la verità?

Mentre mi ponevo queste e altre mille domande, ecco che la porta si aprì e una donna alta, all'incirca sulla quarantina, con i capelli color mogano legati in una coda di cavallo e gli occhi verdi, mi rivolse un sorriso. «Sei Megan, giusto? Io sono la dottoressa Blackburn, ma se preferisci puoi chiamarmi Victoria! Prego, entra dentro!» mi accolse, spostandosi di lato per permettermi di entrare.

Il suo studio era piuttosto piccolo: era un appartamento monolocale, con due poltrone di pelle nera al centro, separate da un tavolino in legno su cui erano appoggiati diversi fogli e delle penne. Alle pareti erano appesi dei quadri e diversi diplomi e attestati, fra cui uno in particolare che attirò subito la mia attenzione: "Master post-dottorato in psicofarmacologia clinica".

Ciò significava che aveva l'autorizzazione a prescrivere farmaci ai pazienti.

«Vuoi una tazza di tè, Megan?» domandò, facendo cenno a una teiera appoggiata su un mobile vicino alla porta.

«No, grazie.»

Il tè non avrebbe fatto altro che tenermi sveglia ulteriormente.

«Allora direi che possiamo iniziare!» esclamò, con un entusiasmo che non capivo a cosa fosse dovuto di preciso.
Mi fece accomodare su una delle due poltrone in pelle nera, prima di sedersi in quella di fronte a me. «Dunque, Megan, perché sei qui?» chiese.

Ah. Quindi avrei dovuto iniziare io. Iniziare da cosa?

«Io... ehm...»

Mi voltai un'altra volta verso l'attestato del master in psicofarmacologia. Non avrei potuto chiederle solamente dei farmaci, non me li avrebbe mai dati.

«Sì, Megan?» domandò, e tornai a guardarla, chiedendomi se lo facesse apposta a ripetere il mio nome ogni singola volta che mi parlava.

«Da quanto tempo è una psicologa?» chiesi e lei assunse un'espressione confusa.

«Dunque... mi sono laureata nel 1999, quindi ormai sono diciannove anni. Come mai sei interessata a saperlo?».

«I suoi pazienti sono sempre riusciti a tornare quelli di una volta? A "guarire", se così si può dire?».

«Ecco, forse dovresti essere più specifica, Megan. Mi occupo di diversi tipi di pazienti. Alcuni hanno problemi più lievi, se così possiamo dire, come bambini con difficoltà a farsi degli amici per via della timidezza, altri hanno subìto dei veri o propri traumi, come violenza sessuale, stalking, oppure hanno dei disturbi alimentari, altri hanno delle vere e proprie malattie mentali, dalle quali non possono guarire. Ognuno di loro ha avuto bisogno di rivolgersi a me perché non riusciva ad aiutarsi da solo, insieme abbiamo iniziato un percorso e ora riescono a combattere contro i loro problemi o disturbi, a condurre una vita tranquilla.»

«Ma sono... cambiati?»

«Sì, certamente sono cambiati, in meglio. Hanno imparato a conoscere se stessi, ad ascoltarsi e ad amarsi per come sono. Detta così sembra banale, ma la causa principale dell'origine di molti problemi è la mancanza di autostima. È di questo che hai paura, Megan, del cambiamento?»

Mi bastò quella semplice domanda, per riuscire a sbloccarmi. Iniziai a parlare, a dire ogni cosa, senza fermarmi più. «Sì, perché io non so più chi sono da quando la mia migliore amica è morta. Penso sappia anche lei di chi si tratta, è una città piccola e sicuro l'avrà sentito al telegiornale, si chiamava Emily Walsh. Da quando lei non c'è più, io sono diventata un'altra persona. Non dormo, spesso non riesco a respirare correttamente, non sopporto più mia madre, salto la scuola, rispondo male alle persone a cui tengo, mento di continuo, e ieri ho persino...» mi fermai appena in tempo. Se le avessi detto del mio tentativo di buttarmi sotto una macchina, non avrebbe mai acconsentito a darmi dei farmaci per dormire, per timore che potessi abusarne per cercare di uccidermi. Così inventai velocemente un'altra cosa da dire: «No, mi scusi, mi sono confusa, era l'altro ieri. Ho mentito alla preside della mia scuola, affinché incolpasse una studentessa per qualcosa che non aveva commesso, solo perché volevo fargliela pagare. E non mi sono neanche sentita in colpa per averlo fatto. Ma io non sono così, non lo sono mai stata.»

La dottoressa rimase in silenzio a fissarmi. Perché non diceva niente? Forse persino lei era rimasta senza parole, forse si chiedeva chi diamine le era capitato davanti. O magari aveva letto il giornale di quella mattina, in cui venivano riportate le parole della signora Walsh al funerale e mi aveva riconosciuta come quella persona senza cuore che aveva fatto del male alla figlia. Magari anche lei credeva, come ormai tutti in quella maledetta città, che ero stata io ad aver ucciso Emily, e quindi aveva paura che avrei potuto fare del male anche a lei.

Poi finalmente parlò. «Dunque, mi sembra di capire che tu sia molto stressata, e che tutto abbia avuto origine da quel spiacevole episodio della settimana scorsa. Ma sei sicura che sia davvero così, e che certi problemi non fossero presenti già da prima? Mi sembra che tu sia troppo ancorata all'immagine che gli altri hanno di te. Pensi di doverti comportare in un determinato modo solo perché gli altri si aspettano che tu sia così?»

«Io... be', non lo so... credo di sì. Insomma, tutti mi hanno sempre vista come la brava ragazza del quartiere» risposi.

«E quindi per via di questa etichetta, ti senti in dovere di assecondare l'idea che gli altri hanno di te, giusto?» chiese e io annuii: «Io non voglio deludere nessuno, tutto qui. Eppure ho l'impressione di farlo continuamente».

«Perché non provi a fare soltanto ciò che ti senti di fare, a essere te stessa, senza pensare a soddisfare le aspettative che gli altri si sono fatti su di te?»

«Sì, ci proverò» dissi, e lo pensavo sul serio.

•••

Parlare, o meglio, sfogarmi con la dottoressa Blackburn era sicuramente servito. Subito dopo essere uscita dal suo studio, mi ero sentita più leggera e rilassata, e sapere di essere ascoltata senza essere giudicata, mi faceva sentire bene. Per la prima volta, potevo essere totalmente me stessa, dire quello che pensavo, senza dovermi preoccupare delle conseguenze. Ed ero solo all'inizio: ancora non avevo parlato di mia madre, non avevo approfondito i miei problemi di insonnia, i miei perenni sensi di colpa, le continue bugie che raccontavo.
Eppure mi sentivo bene.

A interrompere quella bella sensazione, ci si mise mia madre, che mi telefonò non appena fui uscita dallo studio. Ignorai la chiamata, e decisi anche di intraprendere la strada più lunga, così da allungare il mio ritorno a casa e di conseguenza ritardare il momento in cui l'avrei rivista. 
Neanche venti metri dopo, ecco che mi richiamò. Ignorai anche la seconda e la terza chiamata. Fu così che decise di passare ai messaggi.

Considerata la sua insistenza, più asfissiante del normale, mi decisi a leggerli. Avrei voluto non averlo mai fatto.

"Mi vuoi rispondere?"

"Perché hai un cellulare se non lo usi quando serve?"

"Megan, allora?! Torna subito a casa."

"Ho sentito l'avvocato Finnston. L'udienza preliminare è stata fissata fra due settimane."

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Capitolo 12
*** New Orleans ***


New Orleans

«Udienza preliminare? E in che cosa consiste?»

«Be', stando a quanto ho letto, è una sorta di processo più breve in cui verrà stabilito se il crimine di cui sono accusata sussiste. Se ci saranno sufficienti prove o argomentazioni a mio carico, allora si passerà a un processo vero e proprio.» La mia voce appariva ferma, quasi atona, non lasciava intravedere quanto, al contrario, mi sentissi terrorizzata e perennemente agitata.

«E quali prove hanno finora? Le loro sono solo congetture. Stai tranquilla, Meg, andrà tutto bene» disse, sedendosi di fianco a me sul letto e poggiandomi una mano sulla spalla.

«Per te è semplice dirmi di stare tranquilla, non sei te a essere stata accusata di omicidio e a doverti presentare davanti a un giudice fra due settimane!» esclamai sconsolata, portandomi le ginocchia al petto e indietreggiando fino ad appoggiarmi con la schiena alla testiera del letto.

Inoltre, informandomi avevo scoperto che anche un'accusa basata solamente su prove indiziarie, ossia prove che suggerivano qualcosa ma non la dimostravano direttamente, poteva portare a una sentenza di condanna. Perciò, sebbene fossi innocente, non ero sicura che sarei riuscita a scamparla tanto facilmente.

«Comunque sia, parliamo d'altro! Per esempio... il figlio del tuo avvocato.»

Inarcai le sopracciglia. «Cioè? Cosa ci sarebbe da dire su di lui?»

Tracey roteò gli occhi. «Intanto avresti potuto dirmi che è un figo pazzesco! L'hai già cercato su Instagram?» domandò e io scossi la testa: «Perché dovrebbe interessarmi?».

«Perché è tremendamente sexy e affascinante, non so, ha quel carisma, e poi lo sguardo, unito a quello smoking... insomma, ci ho parlato solo due minuti, eppure...»

«Sì, lo so,» la interruppi «ha preso dal padre. Anzi, no, è più fastidioso del padre. E anche egocentrico. Comunque sia, non pensi che sarebbe strano se iniziassi a seguire il figlio del mio avvocato su Instagram?».

Come se già non mi reputasse una pazza, pensai.

«Non ho detto che tu debba seguirlo. Solo che dovresti andare a curiosare un po' nel suo profilo. Va bene, se tu non vuoi, lo faccio io. David, giusto? Come fa di cognome?» chiese.

Alzai gli occhi al cielo: «Non te lo dico».

«Vuoi vedere che lo trovo comunque?» disse guardandomi con aria di sfida. Tracey si mise a digitare ossessivamente sulla tastiera del suo cellulare e, neanche mezzo minuto dopo, esclamò: «Eccolo! L'ho trovato, @Finnston96_official».

Come diamine ci era riuscita?

Rimasi a bocca aperta per lo stupore, prima di ricompormi. «Official? Te l'ho detto, è pieno di sé.»

«Quindi non sei curiosa di vedere?»

Bastarono quelle semplici parole affinché mi avvicinassi a lei per poter guardare le foto dal suo cellulare. Non erano molte, all'incirca una quindicina. Non sembrava un tipo molto attivo sui social, tanto che l'ultima foto pubblicata risaliva al 2014.

Strappai il cellulare dalle mani di Tracey per poter ingrandire la foto e analizzarla meglio. Era in compagnia di una ragazza, con gli occhi castani e i capelli, leggermente mossi e ondulati, le arrivavano alle spalle. Entrambi indossavano la toga e il tocco, di colore verde scuro, mentre i risvolti all'interno erano bianchi, i due colori della mia scuola. David, all'epoca un diciottenne appena diplomato non era cambiato molto: il taglio di capelli era pressoché lo stesso, l'unica differenza era che non aveva la barba, e questo lo faceva sembrare molto più piccolo, a momenti sembrava quasi avesse la mia età. La ragazza in foto sorrideva guardando l'obiettivo fotografico davanti a lei, mentre David le dava un bacio sulla guancia, tenendo un braccio avvolto attorno alle sue spalle.
La descrizione alla foto diceva solamente: "Indispensabile".

«La fai vedere anche a me?» sbottò Tracey, riprendendosi il cellulare. Rimase un attimo in silenzio a fissarla. «Dici che stanno insieme? Mmh, no, di certo non più. Sono passati quattro anni, è abbastanza improbabile... e comunque non è detto che fosse la sua ragazza, potrebbe anche trattarsi di un'amica... tu che dici?»

«Non lo so. Guardiamo le altre foto.»

Quella era l'unica foto con quella ragazza. Tutte le altre erano solamente foto di gruppo con dei suoi amici, spesso scattate fuori da scuola oppure al Lake End Park durante i mesi estivi. Dopodiché dammo un occhio alle foto in cui era taggato e trovammo anche dei post più recenti. Notammo che molto spesso si trovava in un locale notturno a New Orleans, detto "Masquerade Night Club". Spinte dalla curiosità, andammo a cercarlo su Internet. 
Era una stanza a forma esagonale con una capienza enorme, i colori e le luci davano tutte sul viola e sul rosa, una parte della parete era destinato all'area ristoro, dove erano presenti numerosi tavoli e sedie, oltre che poltroni e divani, mentre il resto del locale era costituito dalla pista da ballo. Al centro c'era un'ampia e imponente colonna cilindrica luminosa, che ricordava un'enorme lava lamp. La base della colonna poteva essere raggiunta mediante una scala che portava ad una sorta di balconcino, probabilmente destinato alla console del dj. Al di sotto di questa, invece, c'era il bar e il relativo bancone, circondato da sgabelli.

«Wow, è stupendo!» esclamò Tracey e non potei fare a meno di essere d'accordo con lei.

«Peccato che da noi non ci siano posti del genere» sospirai, sconsolata. Morgan City era una delle città più vuote e anonime degli Stati Uniti: non c'era niente per i giovani, tranne un paio di locali scadenti.

«Questo non ci vieta di andarci! I miei possono prestarmi la macchina.»

Dopo quelle sue parole, improvvisamente mi tornarono in mente le immagini della settimana scorsa, quelle in cui mi trovavo nella sua macchina dopo quello che era successo. Ricordai la mia immobilità, il mio rifiuto di credere a quello a cui avevo appena assistito, le mie mani sporche di sangue, la mia camicia sporca di sangue che poi mi ero vista costretta a buttare, il messaggio in segreteria che avevo dovuto lasciare a Emily porgendole le mie scuse per cancellare i sospetti su di me (cosa che, a quanto pare, non era servita a un bel niente).

Per via di quei pensieri, mi sentii attanagliare dal dolore ed ecco che, una giornata che avrei dovuto passare fingendo di essere una ragazza normale, si trasformò in un'altra giornata d'inferno. L'unica cosa positiva era che mia madre era uscita e sarebbe stata fuori casa fino a pomeriggio inoltrato.

«Meg, ci sei?» Tracey mi sventolò una mano davanti alla faccia e mi riscattai.

Come ci riesce?, mi chiesi, io non riesco a darmi pace, mentre lei riesce a simulare il tutto e a sembrare tranquilla.

Se fossi rimasta una settimana a casa come ha fatto lei, da sola tutto il giorno, soltanto con i miei pensieri, probabilmente sarei morta.

"Lei non ha ucciso la sua migliore amica" mi disse la voce dentro la mia testa.

Non l'avevo fatto neanch'io, eppure mi sentivo lo stesso responsabile.

"Il lutto prima o poi finisce, ma il senso di colpa te lo porterai dentro per sempre."

Bugiarda, ricattatrice, assassina.

«Non ho voglia di uscire» dissi.

«Scherzi? È sabato sera! Ho già scritto a Herm. E se ho convinto quel pigrone a muovere il culo e a uscire di casa, non permetterò a Megan Sinclair di rimanerci!»

Roteai gli occhi. Poi mi ricordai che avevo promesso a Dylan che ci saremmo visti. Eppure erano già le cinque e mezza e non gli avevo ancora fatto sapere niente. Avrei potuto invitarlo a uscire con noi, ma non sapevo come dirlo a Tracey. Un modo però avrei dovuto trovarlo, e alla svelta. «Ti va se... sempre se non è un problema, se venisse anche Dylan?» chiesi, a momenti bisbigliando.

Tracey sbarrò gli occhi e mi guardò stranita. «Dylan? Intendi proprio...»

«Sì. Sono una persona di merda?»

Non c'era niente di più difficile e rischioso che confessare un segreto a qualcuno a cui volevi bene, la cui opinione ti interessava, il cui giudizio temevi più di qualsiasi cosa.

«Megan...»

Lasciò la frase in sospeso, il che risultò persino peggio di qualsiasi altra cosa avrebbe potuto dirmi.

«Lui ti piace tanto?» domandò poi, rivolgendomi uno sguardo più morbido.

Annuii soltanto, senza dire nulla.

«L'avevo sempre sospettato. Vedevo come lo guardavi quando passava nei corridoi, e come lui guardava te... Ma perché non l'hai detto subito? Perché non l'hai detto a Em?»

«Come avrei potuto? Era completamente cotta di lui.»

«Ma teneva di più a te. Si sarebbe tirata indietro e a quest'ora...»

«A quest'ora sarebbe ancora viva» la interruppi. «Se non avessimo litigato e lei non si fosse allontanata, allora...»

«Come puoi saperlo? Magari si sarebbe potuto evitare tutto, o magari sarebbe successo lo stesso, fatto sta che è accaduto e non puoi tornare indietro. Non puoi continuare a torturarti in questo modo, Meg. Fai soltanto del male a te stessa. E a Dylan, a questo punto. Non rovinare tutto con lui. Vai avanti, sii felice.»

E a quale prezzo stavo pagando la mia felicità? Ma soprattutto, ne valeva la pena?

•••

Quando Tracey si metteva in testa una cosa, niente e nessuno era in grado di dissuaderla. Anzi, molto spesso era capace di far cambiare idea agli altri e convincerli a fare ciò che voleva lei. Motivo per cui poche ore dopo mi ritrovai nella sua auto, insieme a Herman e Dylan, diretta a New Orleans.
Mentre Herm insisteva come un bambino per sapere dove eravamo diretti, io me ne stavo in silenzio nei sedili posteriori insieme a Dylan.

«Comunque sei bellissima stasera» sussurrò a un certo punto, allungando la mano e poggiandola sulla mia.

«Certo che è bellissima, l'ho truccata io» intervenne Tracey, che essendo nel posto davanti a Dylan aveva sentito tutto.

«Contro la mia volontà» precisai. Fino a una settimana prima mi piaceva truccarmi, lo facevo ogni giorno e spesso trascorrevo anche pomeriggi interi a guardarmi tutorial di make-up per poi tentare di riprodurli su di me, ma poi ecco che tutto aveva iniziato a sembrarmi inutile e avevo smesso completamente di farlo.

«Oh, ha parlato finalmente» si intromise Herman. «Pensavo avresti passato tutta la serata a fare la mummia. A proposito, giusto l'altra sera ho visto un film che si intitolava proprio così, quello con Tom Cruise, e pensa che la notte me la sono persino sognata... non te, Megan, la mummia. Eppure non mi aveva fatto tanta paura, non che fosse fatto male, ma comunque...»

«Amore, chiudi quel becco. Mi deconcentri» fu interrotto da Tracey.

«Te l'ho detto che avrei potuto guidare io. Non voglio che guidi quando è buio. Se solo mi dicessi dove stiamo andando, allora potrei prendere il tuo posto e...»

Smisi di ascoltare la loro conversazione nel momento in cui Dylan si slacciò la cintura di sicurezza e slittò nel posto centrale per stare più vicino a me. Si riallacciò la cintura dopo essere stato ammonito da Tracey e mi avvolse un braccio attorno alle spalle. Nascosi il viso nell'incavo del suo collo, inspirando il suo profumo e lasciandoci dei baci di tanto in tanto. «Va tutto bene?» chiese.

«Ora sì» risposi e lui sorrise e mi strinse più vicina a sé.

•••

Nel corso della mia vita ero stata rarissime volte a New Orleans, e mi fu subito chiaro il perché: il viaggio durò un'ora e venti minuti, e altri dieci minuti buoni li impiegammo a trovare parcheggio, ma poi finalmente riuscimmo a giungere a destinazione. Eppure, mi pentii di non esserci andata più spesso: sembrava un mondo completamente diverso rispetto a Morgan City. Ogni via metteva quasi di buon umore per via delle tante luci colorate provenienti dai diversi negozi e locali che illuminavano la città. Magari non era neanche nulla di speciale per chi ci viveva, ma per noi, quattro ragazzi cresciuti in mezzo al nulla, sembrava un paradiso.

«Masquerade? Non è un locale di travestiti, vero?» domandò Herman, dando un'occhiata alla grande insegna luminosa che riportava il nome del locale. «Questo mi ricorda di quella volta che sono andato...» Tracey lo attirò a sé tirandolo per la camicia e lo baciò per zittirlo.

«Grazie a Dio» bisbigliò Dyl, prima che iniziassimo a metterci in fila per entrare.

Fortunatamente non ci volle molto e circa dieci dopo eravamo già dentro. Mi persi qualche istante ad ammirare il locale, che si rivelò all'altezza delle aspettative mie e di Tracey. L'unico problema era che, essendo molto grande, era anche molto dispersivo, perciò dovevamo stare attenti a rimanere sempre insieme per non rischiare di perderci di vista.

Dopo aver lasciato le nostre giacche al guardaroba, andammo subito in pista. Ballare era forse l'unica cosa in grado di distrarmi dagli avvenimenti di quegli ultimi giorni. Afferrai i polsi di Dylan, che si trovava alle mie spalle, e feci sì che mi cingesse la vita con le braccia, mentre io cominciai a muovermi a tempo di musica. Tracey, invece, se ne stava con una mano sulla fronte e scuoteva la testa in segno di disapprovazione, nel vedere Herman che si scatenava muovendo braccia e gambe in modo totalmente scoordinato. Nonostante l'imbarazzo della mia amica, il suo ragazzo era riuscito a strappare un sorriso a me e Dyl.

«Andiamo a sederci da qualche parte?» mi chiese quest'ultimo a un certo punto. Avvisai Tracey e Herm che ci saremmo allontanati e poi lo presi per mano e lo guidai in cerca di un tavolo libero a cui sederci. Trovammo soltanto un divanetto con un solo posto non occupato, perciò Dylan ci si sedette e poi mi fece mettere in braccio a lui. Gli passai una mano fra i capelli per spostarglieli dal viso. Lui mi diede un bacio sulla guancia, per poi lasciarmene uno altro vicino all'angolo delle labbra e infine afferrò il mio mento fra l'indice e il pollice per farmi voltare verso di lui e darmi un ultimo e lungo bacio.

Dopo pochi minuti, cominciai a sentire la gola secca, così ci alzammo e andammo in direzione del bancone del bar per prendere qualcosa da bere. Non appena ci mettemmo in fila, mi parve di sentire qualcuno fare il mio nome così iniziai a guardarmi intorno per capire se qualcuno mi stesse effettivamente chiamando oppure se me l'ero soltanto immaginato.

«Megan» sentii nuovamente e mi voltai alla mia destra, restando a bocca aperta.

Non avrei dovuto essere sorpresa, considerando che ero stata io ad andare nel locale che lui era solito frequentare, eppure una parte di me non credeva che l'avrei realmente incontrato, considerando anche le dimensioni estese del locale.

«Ciao» dissi solamente, prima di spostare lo sguardo sulla sua accompagnatrice, che lo teneva stretto a braccetto. Non era la stessa ragazza della foto che avevo visto quel pomeriggio.

Dopodiché calò un silenzio piuttosto imbarazzante, in cui nessuno dei presenti sapeva bene cosa dire, ma allo stesso tempo nessuno aveva il coraggio di andarsene senza aggiungere nient'altro. Dylan mi rivolse uno sguardo confuso, come a dire: «Chi sono queste persone?», ma io scossi semplicemente la testa.

Per mia fortuna, alla fine fu David a portare avanti il discorso.

«È la prima volta che vieni qui?» domandò e io annuii: «Per te invece?» chiesi, facendo finta di non sapere nulla a riguardo.

«Oh no, veniamo qui praticamente ogni sabato sera!» rispose la ragazza al suo posto. «È praticamente frequentato da tutti i ragazzi del campus.»

«È molto bello» commentai.

«Già! Praticamente è il mio preferito!» esclamò. Praticamente non sapeva dire altro che la parola praticamente. «Comunque io mi chiamo Serena! Tu sei Megan, giusto? Sei una delle matricole con cui ci prova Dave? Praticamente non ti ho mai vista.»

Mi chiesi se in qualche modo fosse imparentata con la dottoressa Blackburn, vista la sua "particolarità" di ripetere sempre la stessa parola, così come la psicologa ripeteva in continuazione il mio nome.

A quel punto, "Dave" intervenne: «Non è una matricola, ha sedici anni».

Lo disse quasi come se avere la mia età fosse qualcosa di ignobile e non potei fare a meno di provare un leggero fastidio.

«E comunque non ci provo con le matricole. Non mi piace fare il baby-sitter.»

«Ma smettila di fare l'altezzoso! Sappi, Dave, che molte sono di gran lunga più mature di te» Serena tirò a David una sberla sul braccio, e io la ringraziai mentalmente. «Comunque sia, presentiamoci come si deve» aggiunse, stringendomi la mano. Poi la tese verso Dyl, il quale, sebbene fosse ancora un po' disorientato, sorrise e gliela strinse: «Dylan».

Subito dopo lo vidi mentre squadrava David da capo a piedi, il quale invece se ne stava lì con un certo ghigno compiaciuto, anche se non mi fu chiaro il perché. «David Finnston» si presentò, neanche gli stesse lasciando un biglietto da visita. Dylan gli strinse la mano con un certo vigore che ci mise anche David.

«Dai, perché non venite al tavolo con noi?» chiese Serena, prima di venire fulminata da David. «Insomma, praticamente siamo sempre le solite quattro persone ed è una noia!»

Stavo per rifiutare, ma Dylan accettò la proposta prima che potessi dire qualsiasi cosa. Così iniziò a seguire Serena, mentre io lo avvisai che l'avrei raggiunto dopo aver preso una Coca-Cola. David rimase al mio fianco, ricevendo dal barman il drink che aveva ordinato. «Ora che so che questo posto è frequentato dai sedicenni, forse dovrei smettere di venirci» disse.

«Ora che so che questo posto è frequentato da universitari snob e altezzosi, forse non ci verrò più» replicai.

Emise uno dei soliti ghigni irritanti, prima di fare un sorso dal suo drink.

«Comunque solo perché ho sedici anni, non significa che io sia una bambina.»

Così come il fatto che lui ne avesse ventidue, non stesse a significare che fosse un adulto.

«Megan, la prima volta che ti ho vista, ti sei presentata a casa mia con i pantaloni del pigiama e una felpa con le stelline.»

Il barman mi tese il bicchiere contenente la Coca-Cola che avevo ordinato e, dopo averlo afferrato, fulminai David con lo sguardo. Poi diedi un'occhiata a come era vestito e inarcai le sopracciglia. «Non sono io quella che non sa abbottonarsi bene la camicia» lo canzonai, vedendo che aveva invertito alcuni bottoni, prima di allontanarmi e dirigermi verso il tavolo a cui erano seduti Dyl, la presunta Serena e altre due persone, un ragazzo e una ragazza.

Mi presentai e così fecero loro. Dopodiché mi sedetti di fianco a Dylan e poco dopo si aggiunse anche David, che si sedette di fronte a noi.

«Stavo proprio dicendo a Dylan che mi sembrate molto carini» disse Serena. «Praticamente mi ricordate me e il mio primo ragazzo del liceo. Va avanti da tanto?»

«Oh, no, noi non stiamo insieme» risposi.

«Sì, appunto» si aggiunse Dylan. «Dev'esserci stato un fraintendimento. Non sono tipo da certe cose.»

«Un po' come te, eh Dave?» si intromise una cosiddetta Lea, facendo un cenno al moro, il quale si limitò a scrollare le spalle e a bere a goccia il suo drink. Dopo averlo finito, lo appoggiò sul tavolo e richiamò l'attenzione di un cameriere, per farsene portare un altro. «Ma che simpatia stasera, sei proprio di compagnia» aggiunse seccata la ragazza.

«Scusate, devo andare un attimo in bagno» disse a quel punto Dylan, alzandosi in piedi e allontanandosi, senza neanche darmi il tempo di replicare.

Mi era sembrato scocciato, e sperai che non fosse per ciò che avevo detto.

Passai il successivo quarto d'ora a rispondere alle domande dei tre ragazzi, i quali sembravano ossessivamente interessati ai dettagli della mia vita, facendomi sentire come se fossi sotto esame. A quasi ogni mia risposta, sospiravano e poi rievocavano i loro tempi passati, ossia quelli di appena sei anni prima. Per come si ponevano nei miei confronti, mi ricordavano gli amici dei miei genitori, il che era davvero assurdo, considerando che avevano appena ventidue anni. Anzi, Markus, il più giovane dei quattro, ne aveva appena venti, era al secondo anno di college.
Poi c'era David che, quando non era impegnato a bere, interveniva per fare qualche commento sarcastico. Ad un certo punto, quando sembrava che l'alcol avesse ormai fatto effetto, si alzò verso la pista da ballo e in poco tempo venne avvicinato da delle ragazze che cominciarono a strusciarglisi contro.

Diedi un'occhiata all'orario sul display del cellulare, e mi resi conto che erano passati diversi minuti da quando Dylan si era allontanato, così decisi di andare a cercarlo. «È stato un piacere conoscervi» simulai un sorriso e mi congedai.

Passai in rassegna tutto il locale e poi finalmente lo trovai seduto a terra in un angolino con la schiena appoggiata al muro.

«Dylan» lo chiamai e lui appoggiò i gomiti alle ginocchia, nascondendo il viso: «Vattene, Megan. Non ti voglio parlare» disse con voce fredda.

«Mi spieghi che cosa ti ho fatto?».

«Stai scherzando?» si alterò, alzandosi in piedi e comparendo davanti a me. «Smettila di prendermi per il culo, non ho alcuna intenzione di essere il tuo giocattolino che ti porti dietro quando esci con gli amici, qualcuno che usi solo per non restare sola!»

«Non è così, infatti, e lo sai.»

Vidi le sue iridi infuocarsi dopo le mie parole. «Oh, risparmiamelo! Quindi noi due non stiamo insieme, giusto? Allora che cazzo siamo?»

«L'ho detto solo perché non voglio accelerare le cose. Questo non è il momento migliore della mia vita per avere una relazione, ho un sacco di cose per la testa, lo sai benissimo. Io voglio fare le cose con calma. Non ci conosciamo neanche così bene, prima dell'inizio dell'anno non ci eravamo neanche quasi mai parlati, te ne rendi conto? Non voglio affrettare nulla, voglio che ci prendiamo ogni momento per...»

«Smettila di rifilarmi delle stronzate» mi interruppe. «Se davvero fossero state queste le tue motivazioni, allora perché non me ne hai mai parlato prima?»

Era possibile che con lui non si poteva mai avere una conversazione civile? Si doveva sempre alzare la voce, e si finiva col dire con cose che non si pensavano davvero. O meglio, sperai che ciò che mi disse dopo non fosse la verità.

«Comunque, sai che c'è? Non ho mentito prima: non sono fatto per queste cose. Proprio come te, nemmeno io cerco una relazione e per me sei solo un paio di tette e un bel culo.» Dopo quelle parole, ricche di odio e cattiveria, se ne andò urtandomi con la spalla.

•••

«Lo sai che cosa sei, Emily? Sei soltanto un'insicura in cerca di attenzioni! Non hai autostima, pensi che nessuno possa amarti, ed è per questo che cerchi solo ragazzi a cui non interessi, così da confermare quelle che sono le tue paure. E sei anche una stronza ipocrita: adesso incolpi me, eppure non ti sei fatta problemi quando due anni fa ti sei messa con Ethan, sapendo che avevo una cotta per lui da mesi» dissi, sfogando tutta la rabbia che avevo in corpo.

«Il problema non sono le mie insicurezze, Megan, ma il fatto che tu non ti renda conto di come stanno realmente le cose! Tu non piaci a Dylan, non piaci realmente a nessun ragazzo. Credi che ti andrebbero dietro in così tanti se non fosse per il tuo aspetto fisico? Lo sanno tutti a scuola: Tracey è quella intelligente, io quella simpatica, mentre tu sei solo quella "bella". Quindi complimenti, hai appena buttato la nostra amicizia nel cesso per uno che ti vede soltanto come un buco in cui infilare il suo pene!»

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Capitolo 13
*** Combatti ***


Combatti


«Parlami di tua madre, Megan.»

«Ha altri appuntamenti dopo il mio? Potrebbe volerci un po'.»

«Non preoccuparti, hai tutto il tempo che ti occorre.»

Feci un respiro profondo. «Dunque, mia madre... Mia madre è una maniaca del controllo. Io non posso decidere nulla, devo solo attenermi a quello che dice lei, a ciò che ritiene più giusto, per me e per gli altri. Quello che penso io non ha alcuna importanza. Inoltre, ha una particolare fissazione per il cibo, ancor di più per quello che mangio io. Per lei devo mangiare poco e sano, non sia mai che possa mettere su qualche chilo di troppo, che mi venga la cellulite, che la pancia mi diventi troppo gonfia. Mi dice: "Megan, ti vedo le braccia grosse e flaccide, perché non vai un po' in palestra?". Poi però: "Ti si sono ispessite le cosce a furia di allenarti, non vorrai mica sembrare un uomo. Non è il caso di smettere?". Oppure: "Se mangi troppo cioccolato, guarda che ti finirà tutto sul culo. Vedo già che hai i fianchi più larghi". A volte ha tentato di "motivarmi" a perdere peso dicendo: "Ai ragazzi piacciono le ragazze magre". Ma il meglio, o forse il peggio, c'è stato quando, dopo a giorni passati quasi del tutto a digiunare in seguito alla morte di Emily, dopo avermi finalmente vista mangiare qualcosa, se n'è uscita con: "Hai passato giorni a non mangiare praticamente niente e poi ora ti abbuffi. Io dico, lo sai che è a causa di continue oscillazioni di peso che vengono le smagliature? Per non parlare della cellulite! Te l'ho detto che devi stare attenta". 
«È un inferno vivere con lei, non la sopporto più. Mi sembra di essere sempre sotto osservazione, che ogni mia azione venga giudicata negativamente... Le madri degli altri stanno vicino alle figlie, gli danno il loro appoggio, magari gli danno dei consigli, ma non gli impongono come vivere, come agire. Soprattutto, ora più che mai, avrei bisogno di essere capita, di essere messa al primo posto. Ma per lei l'unica cosa importante è ciò che appare agli occhi degli altri, quello che provo io non conta. Il giorno del funerale di Emily, quando sono stata cacciata dalla signora Walsh, mia madre è intervenuta scagliandosi contro di lei soltanto perché, dal momento che sua figlia era stata screditata, automaticamente era stata messa in cattiva luce lei. Quando a me è stato dato dell'essere demoniaco, dell'assassina e mi è stata persino augurata la morte, io ho incassato il colpo senza batter ciglio, mentre mia madre ha continuato a pensare a se stessa e alla sua immagine, come sempre. Sa che cos'ha detto vedendo le mie foto sui giornali di quel giorno? "Comunque sei venuta bene".»

Mentre io davo libero sfogo alle frustrazioni che mi attanagliavano da sedici anni e che negli ultimi giorni si erano moltiplicate in modo notevole, la dottoressa Blackburn rimase ad ascoltarmi educatamente in silenzio, guardandomi negli occhi. Cominciò a prendere degli appunti sul suo quaderno solo una volta che finii di parlare. Sebbene si trattasse solo di una piccolezza, il fatto che rimase a guardarmi fino alla fine mi fece sentire bene. Mi aveva dedicato la sua piena attenzione e mi aveva fatta sentire ascoltata.

Dopo essersi assicurata che non avessi nient'altro da aggiungere, parlò: «Quindi forse è stato l'atteggiamento di tua madre ad aver generato in te questa mania di fare sempre la cosa giusta, Megan. Forse, seppur inconsciamente, ha prodotto qualcosa di buono, di positivo. Ha cresciuto una figlia in grado di riflettere sulle azioni che commette, che pensa alle conseguenze a cui tali azioni potrebbero portare e agli effetti che potrebbero avere sugli altri.»

Avvertii una leggera sensazione di fastidio a livello dello stomaco. Stava forse difendendo mia madre? Pensavo che il mio monologo fosse servito a farle capire quanto mi sentissi oppressa da lei. Tuttavia, decisi di aspettare la fine del suo discorso.

«Ma c'è un limite a tutto, non è così, Megan? I genitori, come dici tu, dovrebbero consigliare i figli, indirizzarli, ma non soffocarli. Altrimenti, ciò che potrebbe essere qualcosa di bello, ossia la tua capacità di giudizio, potrebbe trasformarsi in una e vera propria ossessione, che ti porta a vivere male le tue relazioni sociali. Sei grande ormai, puoi prendere le tue decisioni da sola, così come puoi finalmente affrontare tua madre. Hai mai provato a dirle come ti senti?» domandò e io scossi la testa. «Perché?» chiese a quel punto.

«Non lo so. Forse ho paura. Forse sono soltanto una vigliacca.»

Mi tornò subito alla mente la frase che avevo letto a casa dell'avvocato Finnston la prima volta che ci ero stata: «Sapere ciò che è giusto e non farlo è la peggior vigliaccheria».

«Sapere di esserlo è già un passo per cambiare, se è questo che vuoi. Non essere più codarda, Megan. Sii coraggiosa e combatti per ciò in cui credi, per ottenere ciò che vuoi. E non sentirti mai in colpa se stai lottando per la tua felicità, perché è la cosa più importante, senza la quale non puoi davvero dire di vivere. Se sarai davvero determinata, allora gli altri ti capiranno e non potranno fare a meno di accettarti per come sei.»

«D'accordo, le parlerò. Spero che sia come dice lei.»

«Lo spero anch'io, Megan» disse rivolgendomi un flebile sorriso. «In merito a ciò che mi hai detto riguardo all'alimentazione... Dunque, io credo di te che tu sia una ragazza consapevole, perciò non ci girerò intorno e mi aspetto da te che tu sia sincera: hai dei problemi con il cibo?» chiese.

«Se si riferisce a quei giorni in cui non ho mangiato praticamente nulla, ecco... so che le sarà parso un comportamento strano, io stessa non ne comprendevo il motivo, dal momento che non era mai successo prima... Quindi mi sono informata e ho letto che l'inappetenza, oltre a essere dovuta a cause patologiche, farmacologiche e fisiologiche, può essere legata anche a cause emotive come tristezza, ansia, depressione o lutto. Ma ora mi è passata: sto mangiando regolarmente. Quindi... be', non penso di avere problemi con il cibo, a parte quelli che mi crea mia madre.»

La dottoressa parve sorpresa per via delle mie ricerche, così come lo era stato David il giorno del funerale di Emily. Tuttavia, decise di non soffermarcisi troppo. «Sì, d'accordo. Ma stai comunque molto attenta» disse. Poi diede un'occhiata all'orologio che portava al polso e si avviò alle sue solite conclusioni: «Mi raccomando, per qualsiasi cosa, anche la più banale, sappi che puoi sempre scrivermi o chiamarmi. Se hai urgenza, puoi venire direttamente qui e sarò disposta ad ascoltarti il prima possibile. Poi durante questa settimana ci metteremo d'accordo per il prossimo appuntamento, va bene? Mi racconterai le novità su tua madre, se ce ne saranno, e poi potremo passare ad altro, Megan».

Annuii e mi alzai in piedi, andando a dirigermi verso la porta. Così fece anche la dottoressa Blackburn. «Ah, alla fine non mi hai parlato di quel ragazzo con cui hai discusso... Ho ancora dieci minuti, se vuoi possiamo parlarne ora» disse.

«No, non si preoccupi. Ho capito come risolvere le cose. Grazie tante e buona giornata.»

•••

Una volta arrivata a casa lunedì sera, dopo una faticosa giornata di scuola e un'altrettanto stancante seduta dalla psicologa, mi stravaccai sul divano e mi coprii con una coperta in pile. Se durante il giorno ero riuscita a tenermi impegnata, una volta che mi ritrovai finalmente a casa, da sola, fui invasa dai soliti pensieri angosciosi.

Mancavano undici giorni all'udienza preliminare e non avevo la benché minima idea di come sarebbe andata, mi chiedevo se ce l'avrei fatta, se si sarebbe risolto tutto. Non volevo dubitare delle capacità dell'avvocato Finnston, era sicuramente un uomo abile, con tanti successi accumulati nel corso degli anni, ma non volevo nemmeno affidarmi totalmente a lui e illudermi che sarebbe andato tutto bene. Faceva parte della natura umana analizzare ogni aspetto della propria vita e cercare di rilevarne i rischi e le complicazioni: nessuno era in grado di conoscere il proprio futuro, però poteva cercare di prevederlo e manovrarlo sulla base delle scelte compiute.

E, sebbene era a Frederick Finnston che spettava occuparsi di tutto e io avrei dovuto lasciarlo fare senza immischiarmi, forse avrei potuto dare un minimo contributo che sarebbe stato utile alla mia causa.

•••

Non appena arrivai a scuola di martedì mattina, mi separai da Tracey, la quale già dal giorno prima, per fortuna, era tornata a scuola, e mi diressi verso il bar. C'era un gruppo numeroso di studenti ammucchiato davanti al bancone. Alcuni sorseggiavano del caffè, altri mangiavano delle brioche, altri ancora compravano delle mentine o delle barrette al cioccolato. Fra di loro scorsi una testa dai riccioli neri e, dopo essermi fatta spazio fra le diverse persone che mi intralciavano la strada, riuscii a raggiungerla.

Gli poggiai una mano sul braccio per far sì che si accorgesse della mia presenza e, quando si voltò, mi sorrise. «Ehi» disse.

«Ehi» ripetei io, ricambiando il sorriso.

Mi stampò un veloce bacio sulle labbra, prima di voltarsi verso l'addetta al bar e dirle: «Potrebbe darmi un'altra brioche al cioccolato? È per la mia ragazza».

Mise particolare enfasi nella parola "ragazza" e, sentirglielo dire, fece accelerare il mio battito cardiaco.

La signora mi passò il croissant e Dylan le porse i soldi, prima di tornare a guardarmi: «Ancora non ci credo che da ieri sei ufficialmente la mia ragazza».

«Invece è così, e non potrei esserne più felice.»

«Io... io non pensavo che mi avresti perdonato dopo quello che ti ho detto. Megan, tu mi piaci, mi piaci davvero. E mi piaceresti a prescindere dal tuo aspetto, e quello che ho detto...»

«Lo so. L'hai detto perché eri ferito. Sei fatto così, reagisci male e dici cose che non pensi» lo interruppi. «Per questo ho deciso di lasciarmi tutto alle spalle. E anche perché, come ti ho già detto settimana scorsa, ho bisogno di te.» Mi avvicinai a lui e lo baciai, un attimo prima che suonasse la prima campanella e ci dirigessimo in classe.

Alla fine l'avevo fatto. Avevo dato ascolto a David.

•••

«Mi è sembrata giusto un po' tesa la situazione fra voi due. E mi riferisco a prima della litigata.»

Sobbalzai. Non mi ero accorta che David era apparso al mio fianco, né che aveva assistito alla discussione fra me e Dylan. Aveva in mano un altro drink e, a giudicare dal tono della sua voce, sembrava davvero su di giri. Ora i primi tre o quattro bottoni della camicia erano slacciati e lasciavano intravedere il suo petto, che si stava alzando e abbassando frequentemente.

«Non preoccuparti, sono solo drammi da stupidi ragazzini sedicenni.» La mia voce non apparve dura e ferma come avrei voluto, anzi, sentivo che stavo per mettermi a piangere a ripensare alle parole dette da Dylan. Tuttavia, riuscii a impedire che accadesse.

Cresci, Megan, mi dissi, le lacrime non risolveranno i tuoi problemi, devi occupartene da sola.

«No no, io non mi preoccupo di solito. È inutile e controproducente. Inoltre fa anche sudare. E a me non piace sudare.»

Non riuscii a capire il senso delle sue parole, ma d'altronde non c'era da stupirsi: aveva bevuto così tanto da non essere più capace di intendere e di volere, ossia di rispondere delle sue azioni. E delle sue parole.

«Dai, dimmi tutto» aggiunse e lo guardai stranita: «Perché dovrei raccontarti gli affari miei?».

Pensavo di essere soltanto una bambina e che a lui non piacesse fare il baby-sitter.

«Perché sono bravo con le parole e mi piace ascoltare il suono della mia voce» rispose, e io inarcai le sopracciglia. «Dai, mettimi alla prova!» mi incalzò e, non so per quale motivo, decisi di dargli corda e gli spiegai in modo sintetico il tutto: «Mi ha detto che l'unico motivo per cui ci ha provato con me, è per via del mio fisico, e che non gliene frega niente di avere una relazione con me».

Emily aveva ragione. I ragazzi si interessavano a me solo per via del mio aspetto.
Avevo sempre creduto che gli altri mi vedessero come "Megan Sinclair la brava ragazza", invece avevo scoperto di essere "Megan Sinclair, quella con la quarta di seno" oppure "Megan Sinclair, quella con il bel culo".

«Be', mandalo a quel paese.» Scrollò le spalle, come se fosse una cosa di poco conto e risolvibile in pochi secondi.

«Magari fosse così semplice.»

Era la cosa più giusta da fare, ma non era di certo la più facile: Dylan mi piaceva, e tanto. Anche se forse io non piacevo a lui nel modo in cui avevo creduto fino a cinque minuti prima.

«Non deve esserlo» rimarcò. «Scelte di questo tipo non lo sono mai. Io lo so bene.»

«Ah sì? Non si direbbe di te che sei il tipo che ha questo tipo di problemi» lo canzonai, ripensando alle ragazze con cui l'avevo visto ballare in modo non propriamente casto pochi minuti prima.

«No, ti sbagli» ribatté, cominciando a guardare un punto indefinito davanti a sé, come a rievocare dei vecchi ricordi. «Sono stato innamorato. Non è finita bene... e alla fine ci ho rimesso soltanto io».

Rimasi in silenzio, non sapendo cosa sarebbe stato più giusto dire. Forse si riferiva alla ragazza della foto sul suo profilo che avevo visto quella mattina, ma decisi di non indagare, anche perché ero sicura che non avrebbe voluto addentrarsi nel discorso.

Mi accorsi che David, dopo le sue ultime dichiarazioni, aveva riacquistato un po' di lucidità. «Non avrei dovuto parlartene» disse, passandosi quindi una mano sulle labbra, come a voler impedire che trapelassero altre informazioni in merito a quell'argomento. «Mi sa che sono ubriaco» disse, prima di scuotere la testa ripetutamente, come a volersi liberare della sbronza. Metodo piuttosto discutibile, a mio modesto parere. «Non parlo mai di me stesso a meno che non sia ubriaco» aggiunse.

«Perché? Io ti parlo di me, mentre io non so nulla di te.»

Ignorò completamente la mia ultima affermazione. «Perdonalo» disse riprendendo il discorso precedente, tornando a guardarmi.

«Scusami? Mi hai appena consigliato il contrario e...»

«Non pensava davvero ciò che ti ha detto. Ti ha detto quelle cose solo perché hai ferito il suo stupido orgoglio maschile, negando che ci sia qualcosa fra voi» mi interruppe.

«Come fai a dirlo con certezza? Neanche lo conosci.»

«Non serve: non conoscevo nemmeno te una settimana fa, eppure sono riuscito a capirti in un attimo. Lui è cotto di te, era evidente da come ti guardava e, se davvero non gliene importasse niente di te, non avrebbe mai reagito in quel modo, non ti pare?» chiese in maniera retorica. «Sono un genio» si disse poi da solo.

«Resta il fatto che non avrebbe mai dovuto dirmi quelle cose. Sono arrabbiata con lui e non ho intenzione di averci mai più a che fare.»

Roteò gli occhi. «Dai, non fare la melodrammatica. Perdonalo» ripeté. «Passaci sopra. Lui ti piace e hai bisogno di lui».

«Che ne sai te di cosa ho bisogno io?» domandai e la risposta che ricevetti fu certamente inaspettata: «So che non ti piacerebbe averlo come nemico. Se all'udienza che ci sarà fra due settimane, lui sarà chiamato a testimoniare e ce l'avrà ancora con te, forse potrebbe dire cose che potrebbero andare a tuo svantaggio, considerando la facilità con cui gli escono di bocca cose che non pensa realmente. Perciò, perdonalo e tienitelo buono fino ad allora».

Spalancai la bocca e arricciai il naso in segno non solo di disprezzo, ma anche di disgusto nei suoi confronti. «Ma che razza di persona sei? Le persone non sono oggetti, non vanno usate come mezzi per raggiungere degli scopi!» esclamai.

«Giusto, tranne per il fatto che è esattamente ciò che accade in ogni processo. E poi non è così tragica la cosa: non ti ho chiesto di prostituirti. Lui ti piace, non dovrebbe pesarti la cosa. Digli che vuoi metterti insieme a lui, che senza di lui non puoi stare e altre cazzate simili che si dicono di solito le persone innamorate, e il gioco sarà fatto.»

«Forse gli avvocati lo fanno, ma le persone normali hanno a cuore i sentimenti degli altri. Io ce li ho. E se questo è il tuo modo di agire, allora forse il tuo grande amore ha fatto la scelta più saggia a disfarsi di un verme come te!».

Forse avrei dovuto evitare di tirare fuori la storia di quel cosiddetto amore che l'aveva fatto soffrire, dal momento che la sua reazione mi suggerì che l'avevo offeso, eppure non seppi controllarmi. Come aveva potuto consigliarmi di fare una cosa del genere?

Serrò le labbra e deglutì, abbassando lo sguardo. Poi bevve in un solo sorso il drink che non aveva toccato per tutta la durata della nostra conversazione e risollevò lo sguardo, puntandolo sul mio. Era raro che accadesse, ma riuscii a scorgere ciò che provava in quel momento, forse perché per via dell'alcol era senza filtri. Così, con gli occhi colmi di dolore a causa delle mie parole, mi disse: «Bene. Ora finalmente lo so: non sei così buona come vuoi far credere a tutti».

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Capitolo 14
*** Non sei stata tu ***


Non sei stata tu

La situazione a scuola sembrava essersi tranquillizzata. Non del tutto, ovvio. Ma le persone, esattamente come accade ai bambini dopo pochi giorni dall'aver ricevuto il giocattolo nuovo, sembravano essersi già stufate. Erano stufe di parlare di me, di Emily, volevano soltanto andare avanti.

Persino Olivia sembrava aver mollato la presa, ma forse era solo perché la convocazione nell'ufficio della preside Fitzpatrick l'aveva spaventata al punto di cessare la guerra e smetterla di diffondere quei volantini, i quali erano spariti dalla circolazione. Tutti tranne uno, che avevo conservato e consegnato all'avvocato Finnston, il quale non aveva fatto altro che ripetermi, fin dall'inizio, che avrei dovuto informarlo di qualsiasi cosa e che anche un'apparente banalità sarebbe potuta essermi utile all'udienza preliminare, quindi l'avevo avvisato di quegli episodi successi a scuola e gli avevo fornito la prova di quanto dicevo.

Feci quelle riflessioni mentre ero intenta ad aprire il mio armadietto, che proprio quella mattina aveva deciso di non collaborare ed essere più difettoso del solito. «Ti prego, almeno tu vedi di funzionare!» lo implorai, cosa che, purtroppo, servì a poco.

«Perché stai cercando di scassinare l'armadietto di un altro studente?»

Non riconobbi subito la voce di chi mi rivolse la parola, così come compresi subito il senso di ciò che mi disse. Pertanto decisi di rinunciare alla mia impresa, almeno per il momento, e di voltarmi nella direzione di chi aveva parlato. Scorsi Lucy, la quale mi rivolse un piccolo sorriso: «Quello è il mio. Il tuo è questo qui» disse, indicando un armadietto posto proprio di fianco a quello che mi stavo affaccendando ad aprire già da un quarto d'ora.

Mi passai una mano sulla fronte e scossi la testa: «Scusa, non ci avevo proprio fatto caso». Poi mi spostai verso il mio armadietto e in quattro e quattr'otto riuscii ad aprirlo.

«Tranquilla, non c'è problema. Comunque alla fine ho parlato con Tracey e mi ha detto che per lei va bene, e anche la preside Fitzpatrick ci ha dato il via libera.»

Annuii, prima di rendermi conto che non avevo idea di a che cosa si riferisse. «Aspetta, il via libera per cosa?»

«Per la commemorazione di Emily, questo venerdì alla partita» rispose, e la mia espressione sembrò suggerirle che ne avevo piene le scatole di quella faccenda, perché aggiunse: «So che forse vorresti non sentir più parlare di questa storia, ma in fondo penso che anche la scuola debba poter avere la sua occasione di dirle addio. Ti sembrerà strano, penserai che a nessuno importasse di lei prima che succedesse tutto e che quindi non abbia alcun senso organizzare una cosa del genere, ma in fondo un senso ce l'ha: era una ragazza che veniva nella nostra scuola, della nostra età, con cui forse in molti non hanno mai parlato, compresa me, ma la vedevamo comunque ogni giorno... e ora non c'è più. Paragonato a quello che starai provando tu non sarà niente, ma ti assicuro che sono rimasta davvero molto scossa, e come me molti altri.»

Mi irrigidii, sentendo la voragine farsi più ampia e il respiro cominciare a mancarmi. Poi, non so come, riuscii ad assumere il controllo delle mie emozioni e a impedire che prendessero il sopravvento. Ed ecco che la voce dentro la mia testa, la stessa che mi incolpava di tutto, la stessa che mi aveva suggerito di farla finita il giorno del funerale di Emily, la stessa che mi teneva sveglia la notte, la stessa che mi aveva resa un'altra persona, mi disse: "Mantieni la calma. Respira. Puoi farcela. Tu sei Megan Sinclair".

E funzionò: ripresi la calma, evitando l'ennesimo attacco d'ansia.

«È davvero così?» chiesi a quel punto a Lucy, la quale attendeva una mia risposta.

«Certo, ha lasciato tutti sconvolti e sono stati in molti ad aver ritenuto giusto fare un ultimo piccolo gesto in suo onore.»

«Non è un piccolo gesto: è molto bello quello che volete fare, Lucy. Se Emily fosse... sì, insomma, lo apprezzerebbe» dissi.

Lucy mi rivolse un altro sorriso, forse l'unico spontaneo e sincero che mi aveva dedicato fino a quel momento, l'unico che non mostrava pena nei miei confronti. Poi fece per voltarsi e dirigersi in classe, ma io la richiamai: «Ehi, aspetta. Posso farti una domanda?».

«Qualsiasi cosa» scrollò le spalle.

«Perché sei così gentile con me? Tutti gli altri a scuola mi evitano come la peste, mentre tu... be', non lo fai. E mi parli con spontaneità, senza timore che possa aggredirti da un momento all'altro, o qualsiasi altro sia il motivo che spinge tutti gli altri a evitarmi.»

«Come altro dovrei comportarmi?» domandò, come se le avessi posto una domanda sciocca. La mia espressione parlò ancora una volta per me, e infatti si affrettò a giustificare la sua risposta: «Lo so, lo vedo come ti trattano gli altri, e personalmente non li capisco: come possono pensare che tu possa aver fatto una cosa del genere?».

Era così convinta di quello che diceva, che per un attimo riuscii a sentirmi più leggera, come se fossi innocente.

"Ma tu sei innocente, anche se non vuoi crederci: non sei un'assassina."

«Se sono rimasti sconvolti da questa storia come dici tu, forse è proprio per questo che hanno reagito così: hanno soltanto paura.» Esitai un attimo, prima di porle la domanda che morivo dalla voglia di farle e attorno alla quale stavo girando già da un po': «Tu perché non ne hai, di paura?».

Scoppiò in una risata fragorosa. «Fai sul serio? Da quando una litigata fra migliore amiche basta a far sì che una uccida l'altra? Se così fosse, allora dovrebbero triplicare il numero delle carceri presenti negli Stati Uniti, non ti pare? E poi, a differenza di quello che si dice in giro, io so che non sei stata tu l'ultima a vederla. Non è dopo la vostra litigata che Emily è scomparsa dalla festa: poco dopo la vostra discussione l'avevo vista parlare con Dylan.»

•••

Non sapevo come iniziare il discorso con Dylan senza far sì che il tutto degenerasse in un'altra litigata. Eppure un modo dovevo trovarlo: non me ne sarei stata zitta, senza sapere che cosa si erano dette le due persone che, a quanto sapevo, non avevano mai avuto a che fare l'uno con l'altra.

«Hai tolto la benda» dissi, passando delicatamente le mie dita sulla sua mano. Notai che gli era rimasta una cicatrice, doveva essersi procurato un taglio davvero profondo. Smisi di fissare la ferita nel momento stesso in cui intrecciò le sue dita alle mie e si portò la mia mano sul viso. «Ti va di fare la strada con me?» gli proposi.

«Non torni con Tracey ora che ha ripreso a venire a scuola?»

«Lo farei, ma preferisco passare un po' di tempo da sola con il mio ragazzo» risposi, prima di avvicinarmi e dargli un veloce bacio sulle labbra.

Sorrise e cominciammo ad avviarci verso casa mia, mano nella mano. Una volta arrivati circa a metà strada, presi coraggio e parlai: «Allora, sei carico per la partita di venerdì?».

«Megan Sinclair che si interessa allo sport? Che succede?» domandò fingendosi sorpreso. Gli tirai una sberla scherzosa sul petto. «In effetti non mi interessa, ma verrei solamente per vedere te giocare.»

«Non devi farlo se non vuoi. In fondo ci sono già le cheerleader a fare il tifo per me, sai, quelle tizie in gonnella, generalmente con gambe chilometriche...» A quel punto lo interruppi, facendo il suo stesso gioco: «Mmh, no, non ho presente. Di solito mi concentro più sui giocatori, sai, quelli con quelle braccia muscolose e quei didietro ben allenati».

«E da quando guardi i didietro dei maschi?».

«Tutte le ragazze lo fanno» risposi semplicemente.

«Ciò significa che guarderanno anche il mio questo venerdì?» chiese incuriosito, e anche un po' confuso.

«Ci devono solo provare» dissi e Dyl scoppiò in una forte risata che contagiò anche me. Poi mi attirò a sé e mi baciò più e più volte, prima di sorridere e dirmi: «Tanto lo sai che in quel momento io avrò occhi solo per la palla. Scherzo, scherzo! Anche per te» tese le mani in avanti, come a volersi proteggere da me.

Solo allora mi accorsi che avevo deviato completamente il discorso e che non avrei dovuto parlargli di questo, bensì di Emily. Eppure, quando ero con lui, mi era difficile seguire ciò che diceva la mia mente, il più delle volte mi lasciavo guidare soltanto dal cuore, e la mia concentrazione ne risentiva. «Comunque,» ripresi a quel punto il discorso «prima della partita ci sarà anche una commemorazione in onore di Emily, eseguita dalla banda o qualcosa del genere» dissi.

La sua espressione mutò subito da rilassata a seria. «La gente non ha proprio niente da fare, eh?» commentò.

«Sì, ma in realtà mi sembra una cosa carina. È stata un'idea di Lucy» dissi.

«Lucy? Lucinda Bailey? Come mai le importa così tanto di Emily?» chiese e io scrollai le spalle: «Lei dice di essere davvero dispiaciuta per questa storia, e di volerle dire addio a modo suo. Ah, e poi mi ha anche detto di credere in me, nella mia innocenza. Mi sembra surreale, se ci penso, eppure è così: non tutti a scuola mi reputano un'assassina».

«Meno male» disse solamente, e dall'aria che aveva sembrava molto nervoso.

«Mi ha anche detto una cosa che potrà essermi utile all'udienza, ossia che non sono stata io l'ultima persona che ha visto Emily prima che scomparisse... sei stato tu a parlarci dopo di me.»

Mi parve quasi di vedere una goccia di sudore formarsi sulla sua fronte, da quanto era agitato.

Perché?

«Perché non me l'hai detto?» chiesi, cercando di mantenere un tono affabile, in modo da non farlo preoccupare. O meglio, in modo da riuscire a farlo parlare.

«Non pensavo fosse importante...».

«Lo è per me! Che cosa vi siete detti?» domandai, non riuscendo più a mantenere la calma.

«Ci ho parlato perché mi dispiaceva che aveste discusso a causa mia, e quindi volevo farle capire che era stato tutto merito mio e che tu mi avevi ripetuto milioni di volte che la vostra amicizia era più importante ma che io non avevo voluto ascoltarti. L'ho fatto per te, mi ero sentito una merda dopo che ci aveva beccati... tu piangevi, lei pure... perciò volevo cercare di rimediare.»

«E... e lei che cosa ti ha detto?»

«Be', era ancora troppo arrabbiata e ferita per poter vedere le cose in modo lucido, perciò mi ha urlato contro e si è allontanata» rispose, eppure avevo la sensazione che non fosse tutto. Oppure era soltanto ciò che desideravo: volevo che ci fosse dell'altro, qualcosa che mi avrebbe permesso di ottenere delle risposte, qualcosa che forse non avrei mai scoperto. Il timore più grande che avevo era che la morte di Emily Walsh sarebbe rimasta sempre un mistero, e che io non avrei mai avuto pace.

Abbassai lo sguardo, sconsolata e delusa. «Non c'è nient'altro?».

«No, Meg, ti ho detto tutto.»

Quindi era così. Emily era morta, odiandomi. Io non avevo saputo fare niente per sistemare le cose e la mia migliore amica era morta, detestandomi. Lei non mi aveva mai perdonato, non ne aveva neanche avuto il tempo, perciò come avrei potuto, io, perdonare me stessa?

•••

«Com'è andata a scuola?» chiese l'avvocato Finnston tre giorni dopo, dopo avermi fatta accomodare nel suo studio. Così come il resto della casa, era anch'esso raffinato, elegante e ordinato, tranne per la scrivania, anch'essa di vetro come il tavolino nel salotto, ma che invece era piena di scartoffie. Uno dei tanti fascicoli sembrava essere dedicato proprio a Emily, e recava il timbro del dipartimento di polizia di Morgan City. Dovevano essere le prove e gli indizi che avevano raccolto fino a quel momento.

«Bene» risposi semplicemente e lui parve sorpreso: «Davvero?».

«Meglio del solito: i miei compagni non mi prendono più di mira, e inoltre...»

Fui interrotta dalla porta del suo studio che venne aperta, e dalla quale entrò David. Non appena incrociai il suo sguardo, lo distolsi e lo puntai sui lacci delle mie scarpe, che improvvisamente si erano trasformati nell'elemento più interessante all'interno di quella stanza.

«David, non si bussa?» domandò il padre con un cipiglio in fronte. Il figlio, in risposta, scomparve dietro la porta, solo per bussare e poi rientrare. Sebbene non lo stessi guardando in volto, ero sicura al cento per cento che aveva esibito quel suo solito ghigno strafottente. Poi avanzò di qualche passo e appoggiò sulla scrivania del padre, in modo non propriamente delicato, una cartelletta contenente numerosi fogli. «Quello che mi avevi chiesto» disse. Fece per allontanarsi, ma il padre lo richiamò: «Non sei andato all'università oggi, o sbaglio?».

La situazione si stava presentando alquanto comica. Quando era con me, David si comportava come se fosse un adulto indipendente, responsabile e sicuro di sé, ma davanti al padre pareva come un quindicenne ribelle che ne combinava una ogni giorno e che temeva le conseguenze che ci sarebbero state nel caso in cui i genitori lo avessero scoperto.
Tornai a guardarlo e notai che si sentiva a disagio per via della domanda posta dal padre. Si morse il labbro inferiore e poi finalmente rispose: «La professoressa di diritto costituzionale è una vecchia sessantacinquenne che ha già perso metà dei denti e puzza di lettiera di gatto, nessuno segue mai le sue lezioni: sono una perdita di tempo».

Mi rigirai verso l'avvocato, che si limitò a rimanere in silenzio e a guardare il figlio con disapprovazione. A quel punto spostai nuovamente l'attenzione su David, che si passò una mano fra i capelli: «Come credi che avrei potuto prepararti quei documenti se fossi andato a lezione? Quindi, visto che te li ho portati e praticamente costituiscono ciò che ti farà vincere il processo... domani posso essere il secondo difensore?».

Come se fossi una pallina da ping-pong che si muove da un campo all'altro in continuazione, mi voltai un'altra volta verso l'avvocato, che roteò gli occhi: «Dave, sei al primo anno, non puoi ancora prendere parte a un processo. A maggior ragione perché salti metà delle lezioni.»

«Le leggi posso studiarmele da solo, non ho bisogno di qualcuno che me le spieghi, ho bisogno di qualcuno che mi insegni a metterle in pratica, e dovrò aspettare fino all'anno prossimo per poter fare il tirocinio» ribatté il figlio, lasciando intravedere un velo di impazienza e frenesia.

L'avvocato Finnston sospirò, annoiato, cosa che mi fece pensare che conversazioni di quel genere avvenivano con una frequenza più alta del normale.

«D'accordo. Sai che ti dico? Fammi vedere come te la cavi con un processo simulato: ti do un'ora di tempo per preparare Megan all'udienza che avrà luogo il 19 ottobre. Io sarò il giudice, mentre tu farai la parte dell'accusa.»

Mentre David esibì uno dei suoi soliti ghigni di compiacimento per via dell'incarico che gli era stato assegnato, io assunsi un'espressione più affranta, dal momento che mi sentivo ancora in colpa per via di quello che gli avevo detto il sabato prima e avrei preferito avere a che fare con lui il meno possibile.

«Forza, vai» ordinò al figlio.

Così, ritrovandomi senza molta scelta, dovetti alzarmi e uscire dall'ufficio dell'avvocato Finnston insieme a David, il quale mi ricondusse in salotto. Mi sedetti nella medesima posizione di tutte le altre volte, mentre lui rimase in piedi, oltre il tavolino. Persi qualche secondo a osservarlo: indossava una camicia blu scuro, le maniche arrotolate fino al gomito, dei pantaloni eleganti neri sorretti da una cintura e, immancabilmente, le scarpe.

Mi chiesi ancora una volta come potessero, sia lui sia il padre, sentirsi comodi indossando le scarpe in casa. Mi sembravano due persone fin troppo impostate, poco spontanee.
Come potevano apparire così impeccabili in ogni situazione? Qualcosa mi suggeriva che persino dietro ai capelli spettinati e sbarazzini di David, in apparenza naturali, ci fosse in realtà un lungo processo di lavorazione dietro e che quindi fosse un effetto appositamente voluto.

«Perché mi fissi?» disse quest'ultimo incrociando le spalle al petto, distogliendomi dai miei pensieri.

Non mi era mancato per niente quel suo modo di farmi sentire a disagio in ogni situazione.

Mi portai una ciocca di capelli dietro l'orecchio e puntai lo sguardo sul pavimento. «Volevo scusarmi» risposi.

«Non farlo» disse secco.

Alzai gli occhi al soffitto. Era davvero irritante. «Be', voglio farlo, invece, io...»

«Smettila» mi interruppe. «Non devi scusarti per qualcosa che pensi, a maggior ragione perché non me ne frega niente dell'opinione che hai su di me. Ora possiamo iniziare?».

Capii dal suo tono che non avrebbe ricevuto un no come risposta, perciò decisi di rinunciare alla mia impresa. Eppure mi diede fastidio il fatto che non mi aveva dato la possibilità di scusarmi. Non l'avrei fatto solamente per lui, l'avrei fatto soprattutto per me: lui aveva detto di non reputarmi una brava persona, e le brave persone erano in grado di ammettere i propri errori e di rimediare.

«Sì, iniziamo.»

Notai che non aveva dato ascolto alle mie parole, poiché troppo impegnato a osservare il display del mio cellulare, che avevo appoggiato sul tavolino e che si era appena illuminato in seguito all'arrivo di un messaggio. Sollevò le sopracciglia in senso di stupore e poi mi rivolse un sorriso soddisfatto: «Quindi alla fine l'hai fatto».

Afferrai il cellulare in mano e vidi che il messaggio era da parte di Dylan. Tornai a guardare David e riappoggiai il cellulare sul tavolino, con lo schermo rivolto verso il basso stavolta. «Guarda che non l'ho fatto perché me l'hai detto tu. L'ho deciso io.»

«Certo, come vuoi» disse con tono colmo di superbia.

Sebbene mi fossi imposta di mantenere la calma e di comportarmi da persona matura, non riuscii a trattenermi. Mi alzai in piedi e mi posizioni davanti a lui, puntandogli il dito contro: «Vuoi spiegarmi chi ti credi di essere?».

«Uno che è laureato in scienze sociali» rispose pacatamente. Sembrava quasi divertito dalla mia reazione.

«Sei soltanto un presuntuoso» incrociai anch'io le braccia al petto.

«Lo so» rispose, come se ne andasse realmente fiero. «Però sono anche bravo, no?» aggiunse.

«Perché sei sempre in cerca di complimenti?» domandai, e l'espressione che assunse mi suggerì che avevo appena toccato uno di quegli argomenti di cui non gli andava di parlare. Il suo silenzio mi permise di giungere da sola alla risposta, che non era poi così scontata come speravo. Il suo non era solo puro egocentrismo. «È per tuo padre. Lavori sodo per aiutarlo ma lui non ti riconosce mai niente, non ti fa sentire apprezzato e questo in realtà ti fa sentire insicuro, perciò ti comporti così.»

La sicurezza svanì dai suoi occhi e lo vidi serrare le labbra, segno che non si aspettava che riuscissi a cogliere quel particolare della sua vita.

Da una parte lo capivo, anch'io provavo lo stesso con mia madre: qualsiasi cosa facessi, non andava mai bene. Era come se non dessi mai il massimo, il mio meglio non era mai il meglio assoluto, si aspettava sempre che facessi di più.
Io però avevo imparato a passarci sopra e a sopportare, il più delle volte, quel suo modo di fare; lui, al contrario, sembrava esserne ossessionato e, i complimenti che non riceveva dal padre, andava a cercarli sempre altrove.

«Ti ricordi che cosa ti ho detto sabato scorso? Io non parlo di me.»

«Ricordo anche che la prima volta che ci siamo visti, una delle prime cose che hai fatto è stato raccontarmi delle tue avventure con il professor Kravitz. Parli di te solo quando ti conviene?» domandai indispettita.

Allo stesso tempo pensai che il suo fare ribelle che aveva da adolescente fosse un altro modo per farsi notare dal padre e ricevere le attenzioni che non gli dava.

«Sì: dico solo quello che voglio che la gente sappia.»

•••

Dopo quell'ultima affermazione, dichiarò ufficialmente chiuso il discorso e iniziò a prepararmi per quel cosiddetto processo simulato. Inizialmente non ne capii subito il senso né tantomeno l'utilità, ma una volta rientrata nello studio dell'avvocato Finnston potei rendermi conto della rilevanza che invece aveva. Infatti, sebbene mi trovassi in compagnia soltanto del mio avvocato e del figlio e, sebbene David mi avesse dato delle dritte su come rispondere, una volta che cominciarono le domande da parte di quest'ultimo, iniziai subito a sentirmi in soggezione, quasi come se fossi sottoposta a un vero processo.

«Quindi lei conferma di aver lasciato la festa intorno alle 23:10 e le 23:30?»

«Sì. Me ne sono andata intorno a quell'ora, dopo aver chiamato Emily e non aver ricevuto risposta.»

«Ha quindi ritenuto opportuno andarsene dalla festa, sebbene non fosse stata in grado di trovare la sua amica?»

Il signor Finnston si schiarì la gola, segnale che stava per rimproverare il figlio. «Avvocato, sta chiedendo all'imputato un'opinione.»

David sembrò perdere la sicurezza che aveva mantenuto fino a quel momento, ma dopo aver fatto un lungo respiro, riuscì a riprendersi. «Riformulo, Vostro Onore» disse al padre, prima di tornare a rivolgersi a me: «Perché se n'è andata dalla festa, signorina Sinclair? Non ha pensato che il fatto che Emily Walsh non rispondesse alle sue chiamate, potesse essere legata al fatto che la suddetta si trovasse in una situazione di pericolo?».

L'avvocato Finnston intervenne ancora: «Avvocato, si fermi: sta suggerendo all'imputato la risposta».

David roteò gli occhi e mostrò segni di frustrazione. Era partito bene, ma aveva ancora molto da imparare ed era del tutto normale che commettesse certi errori, spesso commessi anche dagli avvocati più bravi, eppure sembrava non accettare di non risultare perfetto e impeccabile agli occhi del padre.

Si passò una mano fra i capelli e, mantenendo la calma, riprese: «Signorina Sinclair, sapeva che Emily Walsh era in pericolo nel momento in cui ha deciso di andarsene dalla festa?».

Sentii la gola farsi secca. La domanda era precisa, mirata: certamente sapevo che si trovasse in pericolo, avevo visto il suo cadavere. «Non è che fossi...» Fui interrotta dall'avvocato Finnston. «Risponda alla domanda con un semplice sì o un no, signorina Sinclair.»

Rimasi in silenzio. Se mi fossero state realmente poste quelle domande al processo, che cosa avrei potuto fare per uscirne? Non avrei potuto mentire, ma neanche dire la verità.

Cominciai a sudare freddo. Poi ripensai ai suggerimenti che mi aveva dato David poco prima: «Se sai che stai per auto incriminarti rispondendo a una domanda, allora mostrati confusa, scossa, di' che non ricordi bene, che non eri lucida poiché turbata dalla discussione appena avuta».

Così tentati la mia unica via d'uscita: «Non mi ricordo» risposi.

«Cosa non ricorda?»

Aggrottai la fronte. «Io non... non mi ricordo. Ero turbata perché avevamo discusso e... ricordo solo di averla chiamata e poi di essermene andata.»

«Lei afferma di non ricordare, eppure durante la sua deposizione fatta lunedì 1 ottobre presso il dipartimento di polizia, non ha mostrato alcun segno di amnesia. È esatto?» domandò e io annuii, mordendomi il labbro inferiore.

«Eviti i cenni con la testa e risponda alla domanda con le parole» mi ricordò l'avvocato Finnston.

«Sì» dissi a quel punto. Se stava andando così male un processo simulato, cosa sarebbe mai potuto succedere all'udienza preliminare?

«La sua deposizione è perciò da considerarsi totalmente inattendibile. Ma forse questa versione dei fatti riuscirà a trovare la giusta combinazione con la sua: lei ha trovato Emily Walsh inerme, in una pozza di sangue e un coltello conficcato in gola, ha evitato di prestarle soccorso chiamando chi di dovere, ha estratto il coltello dalla ferita e se n'è andata. Ha poi ripulito l'arma del delitto e l'ha nascosta. È corretto, signorina Sinclair?»

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Capitolo 15
*** Vulnerabile ***


Vulnerabile

Dopo le parole di David, scattai subito in piedi e uscii dalla stanza, interrompendo il processo simulato.

Pochi attimi dopo, l'aspirante avvocato giunse alle mie spalle: «Che cosa credi di fare?» domandò.

Mi voltai e lo guardai con gli occhi ridotti a due fessure. «Io? Cosa credi di fare tu? Tu... hai infranto il segreto professionale!» esclamai e lo vidi emettere uno dei soliti fastidiosissimi ghigni di scherno: «Non sono il tuo avvocato, Megan, non c'è nessun segreto professionale fra di noi. E poi davvero credevi che mi sarei tenuto per me quelle confessioni e che non le avrei raccontate a mio padre?».

Sbuffai. «Comunque potevi avvisarmi che mi avresti fatto certe domande, sei stato un vero...»

Mi interruppe prima che potessi aggiungere altro: «Credi che il procuratore ti darà un foglio con tutte le domande che ti porrà e sulle quali potrai prepararti come per un'interrogazione? Ci sono andato anche abbastanza leggero, comunque. Ma volevo farti capire che non è solo la condanna per omicidio quella che devi temere, ma anche altri reati relativamente meno gravi come l'inquinamento delle prove e l'omissione di soccorso».

«Ok, e quindi come posso fare a superare l'udienza se qualsiasi cosa mi chiederanno sarà un'ulteriore conferma della mia colpevolezza?» chiesi.

Rimase un attimo in silenzio e sollevò le sopracciglia, come se si aspettasse che ci arrivassi da sola. Ma come avrei potuto capirlo? Non sapevo niente di giurisprudenza, se non quelle poche cose basilari su cui avevo fatto delle ricerche la settimana scorsa. Corrucciai la fronte alla ricerca di una risposta dentro la mia mente, e poi finalmente capii. «Mi hai mentito!» esclamai. «Mi hai fatto credere che avrei dovuto dirti ogni cosa che era successa perché non avrei potuto dichiarare il falso in aula, ma il giuramento dev'essere fatto solo dai testimoni, mentre io sono l'imputato, ciò significa che posso dare la versione dei fatti che voglio.»

Sorrise compiaciuto: «Ah, allora finalmente l'hai capito».

«Sei un bugiardo, calcolatore e anche subdolo!»

Per non dire stronzo.

«Ti ringrazio. E comunque l'ho fatto solo perché tu non volevi deciderti a raccontarmi tutta la verità. Ho dovuto farlo.» Lo disse quasi come se non avesse avuto altra scelta, come se la manipolazione non fosse il mezzo cui amava ricorrere più spesso. Eppure sapevo benissimo che non era così e che i raggiri facevano parte del suo modo di fare.

«Allora, che è successo?» sentii la voce dell'avvocato Finnston e lo individuai appoggiato alla porta del suo studio. Questa volta il suo tono non era calmo come di consueto.

Nessuno fra me e David seppe cosa rispondere, così l'avvocato si avvicinò a noi e si rivolse a me con tono più tranquillo e comprensivo: «È stato troppo pesante?».

Annuii e il signor Finnston mi diede un leggero colpo sulla spalla. «D'accordo, per oggi basta così. La prossima volta, se non riesci a sostenerlo, avvertimi e farò fermare tutto, d'accordo?»

Ci sarebbero stati altri pomeriggi infernali come quello?

Sembrò leggermi nel pensiero perché poi aggiunse: «È importante fare delle prove per cercare di essere il più preparati possibili a ciò che ci troveremo davanti fra una settimana. Oggi è andata così perché era la prima volta, vedrai che dalla prossima volta ti sentirai già più sicura».

Il suo tentativo di rassicurarmi andò in porto non tanto per le parole che mi disse, nelle quali credevo poco, quanto per il tono affabile con cui si rivolse a me. Poi si voltò verso il figlio: «Riaccompagnala a casa. E poi torna a New Orleans».

Stavo per obiettare, dicendo che avrei potuto andare tranquillamente a piedi, ma David non me ne diede nemmeno il tempo poiché tirò fuori le chiavi della macchina e si diresse verso la porta. «Quindi?» mi incalzò, come se i miei dieci secondi di titubanza a lui fossero parsi come dieci ore di attesa. Allora augurai una buona giornata all'avvocato Finnston, prima di seguire il figlio fuori dalla porta.

David mi aspettava appoggiato con la schiena alla sua auto, parcheggiata pochi metri più in là di casa sua. Aveva uno sguardo scocciato e impaziente, così affrettai il passo e lo raggiunsi. Stavo per fare il giro del veicolo e sedermi di fianco a lui, ma ciò che mi disse mi bloccò: «Ehi, ferma: i bambini si siedono dietro».

«Spero che tu stia scherzando» dissi, pronta a scaricare su di lui tutta la rabbia che stavo canalizzando in quegli istanti.

«Sì, certo che stavo scherzando. Dio mio, rilassati» rispose, prima di aprire la portiera e salire in auto. Feci lo stesso e, dopo aver richiuso la portiera ed essermi allacciata la cintura, incrociai le braccia al petto: «Non è divertente».

«Non è divertente» mi fece il verso, prima di mettere in moto.

«Chi è il bambino adesso?»

Sorrise, rimanendo tuttavia in silenzio. Strano, pensai, si è lasciato scappare l'occasione di ribattere e di mettermi in ridicolo un'altra volta. Approfittai del silenzio per prendere il cellulare. Notai che si erano già fatte le sei e che quindi mi ero trattenuta a casa dell'avvocato per più del dovuto. Fortunatamente non avevo ricevuto nessun messaggio da parte dei miei in cui mi assillavano come loro solito, ma in compenso avevo ricevuto un messaggio da parte di Dylan.

"Ti va di venire un po' prima dell'inizio della partita così stiamo insieme?"

Mi si formò automaticamente un sorriso in volto e, senza neanche perdere chissà quanto tempo a rifletterci, accettai la sua proposta. Quella settimana non avevamo avuto molte occasioni di stare da soli, perciò mi sembrava un'ottima idea.

"Ti aspetto al bar" mi disse Dylan. A quel punto mi voltai a sinistra, verso David. «Ehi, senti, non è che potresti lasciarmi a scuola invece che a casa?» gli chiesi.

Annuì e, una volta giunto all'incrocio, girò a destra per tornare sulla strada della scuola. «Che cosa vai a fare a scuola a quest'ora?» domandò poi.

«C'è la partita di Dyl. Cioè, di Dylan» risposi.

«Sì, l'avevo capito. A cosa gioca?»

«Football.»

«L'allenatore è ancora il coach Humpfrey?» domandò.

«Sì. Giocavi anche te al liceo?»

Scosse la testa e sorrise: «No, per carità di Dio, no». Notò il mio sguardo interrogativo e così diede maggiori chiarimenti: «Diciamo che ci sono persone portate per gli sport, qualsiasi, non importa quale, perché eccellono in tutti. E poi ci sono persone come me, che sono più portate per lo studio» scrollò le spalle.

«A dire il vero, non mi sembra proprio che ti ammazzi di studio, o sbaglio?» contestai, ripensando anche ai rimproveri del padre.

«Be', nemmeno tu, da quello che mi è sembrato.»

«Ho tanta memoria, ci metto poco a imparare e mi ricordo facilmente le cose» risposi semplicemente.

Non avevo mai avuto grandi difficoltà a studiare. Metà del lavoro lo facevo stando attenta a scuola e prendendo appunti e poi, una volta a casa, mi bastava ripetere una o due volte per sapere bene tutto.

«Ecco, allora ti sei risposta da sola. E considerando che diritto è una materia principalmente mnemonica, non faccio così tanta fatica, al contrario dei miei compagni di università.»

Era una cosa stupida, eppure non avrei mai detto che potessimo avere qualcosa in comune e, scoprirlo, fece sì che mi si formò un lieve sorriso in volto, che cercai di nascondere girandomi verso il finestrino.

«E scommetto che ti odiano per questo» dissi poi, riferendomi ai suoi compagni. «Non è mica colpa mia se sono stato baciato dalla fortuna» scrollò le spalle.

Poi mi sorse spontanea una domanda. «Scusa, ma se sei così bravo perché hai scelto l'università a New Orleans? Ad Harvard la facoltà di legge è la seconda migliore degli Stati Uniti.»

«Perché avevo una media penosa al liceo. Sai, il classico "ha le potenzialità ma non si applica". Ero pigro, svogliato e l'unica cosa che mi interessava era finire al più presto, non mi importava del dopo.»

«Quindi non hai sempre voluto fare l'avvocato?»

Scosse la testa: «No. Mi sono iscritto al college solo per seguire i miei amici e non perderli di vista dopo la fine della scuola. Poi però ha iniziato a piacermi, le materie insegnate mi interessavano e quindi ho iniziato a prenderlo più sul serio e sono arrivato fino in fondo. E poi una volta arrivato all'ultimo anno di college, iniziai a chiedermi cosa avrei fatto dopo la laurea. Gli sbocchi professionali sarebbero stati tanti ma nessuno sembrava fare al caso mio. Un giorno uno dei miei professori mi consigliò di provare a sostenere gli LSAT, i test di ammissione alla facoltà di legge e io mi lasciai convincere. E così, eccomi qua, quasi per caso» spiegò.

Avevo sentito parlare di quei test. Su Internet avevo letto di persone che l'avevano sostenuto almeno tre volte prima di riuscire a passare, considerata l'estrema complessità. «Sei passato al primo tentativo?» chiesi così, sorpresa.

Emise un ghigno. «Centosettantatré su centottanta.»

Sbarrai gli occhi. «Wow, tuo padre sarà stato sicuramente orgoglioso di te!» esclamai.

«A dire il vero pensava avessi barato. Come era possibile che quel fallito di suo figlio fosse riuscito a passare un test così difficile al primo colpo e per giunta con un punteggio così alto? E poi, lui alla mia età l'aveva passato con centosettantacinque. Non avevo dato il meglio.»

Sembrò accorgersi soltanto dopo di avermi rivelato qualcosa di più personale che lo riguardava. Infatti lo vidi scurirsi in volto e mordersi il labbro inferiore, pentendosi di avermi detto quelle cose, di essersi fatto vedere vulnerabile. Così si richiuse a riccio e non disse nient'altro.

Ma perché?

Avrei voluto sapere tante di quelle cose ancora... Era una persona così chiusa, impenetrabile, che era impossibile, senza conoscerlo a fondo, farsi un'idea su di lui. Praticamente era tutto il contrario di me. Io ero facile da leggere, mentre lui era indecifrabile.

«Puoi lasciarmi anche qui, non preoccuparti» dissi poi per uscire da quella situazione di imbarazzo che si era creata. Eravamo arrivati davanti a scuola e avrebbe potuto semplicemente lasciarmi scendere, senza dover andare a cercare parcheggio.

Tuttavia, non mi diede ascolto e si addentrò nel parcheggio della scuola. Dopo aver posteggiato l'auto, non mi diede neanche il tempo di realizzare quello che stava facendo che subito aprì la portiera e uscì dalla macchina. Così, ancora disorientata, mi affrettai a uscire a mia volta. «Che cosa hai intenzione di fare?».

«Mi mancava questo posto» rispose e basta. Si guardò intorno con un bel ghigno stampato in faccia, prima di muovere dei passi verso l'entrata, seguito a ruota da me.

«Non puoi entrare qui!» esclamai.

«Perché no, scusa? Voglio vedere la partita» rispose, abbassando la maniglia della porta ed entrando dentro scuola.

«No, non è vero. Tu hai qualcosa in mente» mi posizionai davanti a lui per sbarrargli la strada e incrociai le braccia al petto.

Aveva sempre qualcosa in mente.

Inarcò le sopracciglia, prima di rilassare il viso. «Voglio andare a salutare il professor Piton, in effetti. È proprio là, guarda» fece cenno al professor Kravitz, che proprio in quel momento stava passando lungo il corridoio, scortando uno studente chissà dove. «Te le insegno io le buone maniere» gli sentii dire e, David, nell'ascoltare la sua voce dopo tanti anni, si portò una mano sul cuore. «Ancora mi batte il cuore all'impazzata nel sentire queste parole.»

«Poi mi prometti che te ne andrai dritto all'università?» gli chiesi e mi guardò stranito: «Perché ti interessa tanto se resto qui oppure no?».

La risposta alla sua domanda arrivò proprio in quel preciso istante. «Ehi, Meg, allora sei venuta!».

Mi morsi il labbro inferiore e chiusi gli occhi per meditare per qualche secondo. Poi mi voltai e mi trovai faccia a faccia con Dylan, il quale immediatamente fulminò David con lo sguardo. Gli presi le mani affinché distogliesse lo sguardo da lui e si concentrasse su di me. «Sì, eccomi.»

«Ciao» si intromise David, ricevendo questa volta un'occhiataccia da parte mia oltre che da Dylan.

«Ciao» ripeté quest'ultimo, con tono glaciale. Il suo però più che un saluto di apertura, era un saluto di chiusura della conversazione, perché subito dopo mi prese a braccetto e mi allontanò da David.

Mi portò in prossimità del bar della scuola, dove c'era una sorta di sala comune degli studenti, costituita da quattro divani posti in cerchio attorno a un tavolino, sopra al quale erano poste delle riviste di diverso genere: sport, gossip, cucina. Ci accomodammo su uno dei divani e io subito appoggiai la testa sulla sua spalla, tenendomi ancora ancorata al suo braccio.

Eppure lui appariva teso, quasi distaccato. «Va tutto bene?» domandai, spostandogli il ciuffo di capelli all'indietro.

«Cosa ci fa quello qui?» chiese lui, senza nemmeno guardarmi in faccia.

Alzai istintivamente gli occhi al cielo. Me lo sentivo. Sin da quando David era uscito dalla sua auto ed entrato dentro scuola, avevo iniziato a temere che potesse essere visto da Dyl, insieme a me di per giunta. E così era successo.

«Lo sai che ero dal mio avvocato questo pomeriggio e che lui è il figlio. Era lì e si è offerto di accompagnarmi a scuola, tutto qui. Ora sicuramente se ne andrà» risposi, sperando gli bastasse come spiegazione e che non sfociasse in un'altra discussione.

«E c'era bisogno di entrare?» sbottò infastidito.

«Ne ha approfittato per venire a salutare i suoi vecchi professori. Qual è il problema, Dyl? Vuoi giocare la partita di pessimo umore, per caso?»

«Quel tipo non mi piace. A pelle. E penso che dovresti stare attenta: mi sembra uno che ronza fin troppo attorno alle ragazzine» disse. Non compresi le sue parole finché non seguii il suo sguardo e vidi David in fondo al corridoio, dove l'avevamo lasciato, mentre si intratteneva a parlare con Olivia Goldberg. Lei lo fissava impreziosita, mentre lui le sfoggiava uno di quei soliti, insopportabili ghigni. Ma di certo doveva esserci un'altra spiegazione, diversa da quella di Dylan. Figuriamoci se ci stava provando con Olivia. Lei aveva solo sedici anni mentre lui ventidue, non lo avrebbe mai fatto.

Infatti, a conferma della mia tesi, dopo pochi secondi Olivia tese il braccio in avanti, indicandogli la strada che conduceva al campo esterno, dove si sarebbe tenuta la partita. Lui le dedicò un altro piccolo ghigno, prima di allontanarsi.

«Dai, Dyl, che dici? Ti pare che ci proverebbe mai con una ragazzina?»

Mi tornarono subito in mente le parole che disse alla sua amica, Serena, la sera al Masquerade.

"E comunque non ci provo con le matricole. Non mi piace fare il baby-sitter."

Ciò significava che non gli sarebbe mai passato nell'anticamera del cervello di tentare di abbordare una sedicenne.

«A me dà proprio l'aria di essere un viscido. Quanti anni avrà in più di noi, undici?»

«No, soltanto sei. E, fidati di me, non c'è alcuna malizia nel comportamento che ha con me, come non c'era nella conversazione che ha avuto con Olivia.»

«Però ancora non capisco perché tu abbia a che fare più con lui che con il tuo avvocato...»

«Perché se ne sta tutto il giorno a non fare niente e il padre vuole farlo sgobbare un po', presumo. Così gli assegna alcuni incarichi da svolgere, quelli che è in grado di fare da solo sebbene non sia ancora un avvocato» risposi, appoggiando una mano sul suo petto, mentre lui avvolse un braccio attorno alle mie spalle.

«Mmh, capito.»

«Ancora non mi credi? Dyl, il rapporto che c'è fra me e lui si limita solo a...»

«Ti credo» mi interruppe. «Ma comunque mi è difficile credere che abbia questo rapporto confidenziale con tutti i clienti di suo padre.»

«Ok, e io che posso farci, scusa?» domandai, esasperata. Per quanto mi riguardava, David non era altro che il figlio del mio avvocato.

«Vorrei che cercassi di vederlo il meno possibile. Puoi farlo per me?» chiese, afferrando il mio mento fra le sue dita e avvicinando il mio viso al suo. A quella vicinanza, mi persi nei suoi occhi, azzurrissimi come sempre. Poi sorrisi e annuii: «Sì, non è un problema».

Sorrise a sua volta e mi baciò, procurandomi, come sempre, dei brividi lungo tutto il corpo.

Purtroppo, quel piccolo momento di intimità di cui avevamo sentito la mancanza già da diversi giorni, fu prontamente interrotto.

«Ehi, Dyl... ah, cazzo, scusate. Va be', aspetto che finiate, continuate pure.»

Dylan sembrava intenzionato a far finta di niente e continuare a baciarmi, ma io ero ormai troppo imbarazzata per farlo, così, a malincuore, mi separai da lui.

Davanti a noi c'era un ragazzo, con indosso la giacca da football con il logo della scuola.

«Dimmi, Gary» disse Dyl, senza nascondere un tono innervosito.

«Il coach Humpfrey ci vuole in spogliatoio.»

«Ma fra la commemorazione e il resto la partita non inizierà prima di un'ora!» sbottò scocciato.

«Lo so, ma essendo la prima partita del campionato, ha detto che vuole farci una sorta di discorso per darci la carica, o qualche cazzata simile» spiegò l'altro.

Dyl alzò gli occhi al cielo. «Che palle. D'accordo, ora arrivo» disse infine, prima di stamparmi un ultimo bacio sulle labbra e alzarsi dal divano. «Ci vediamo dopo, amore» mi disse prima di allontanarsi.

Provai una sensazione strana nel sentirmi chiamare in quel modo. Non sapevo bene descrivere come mi sentissi a riguardo. Ne fui sicuramente felice, infatti sorrisi, eppure una parte da me rimase disorientata da quella parola. Non era troppo presto perché mi chiamasse così? Stavamo insieme soltanto da lunedì, era decisamente presto. Eppure, non doveva essere necessariamente un male, no? Se lui se la sentiva già adesso di chiamarmi in quel modo, forse avrei soltanto dovuto lasciarlo fare.

•••

«Buonasera a tutti! Lo so, siete tutti carichi per la partita, ma prima che cominci, è giusto e doveroso fermarci un attimo. Riflettere.» Lucy iniziò il suo discorso con molta sicurezza, senza lasciar intravedere nessuna agitazione, sebbene si trovasse da sola al centro del campo, con tutte le luci puntate su di lei, davanti a tutta la scuola. Io, al posto suo, penso che sarei morta dalla vergogna.

Dietro di lei era presente un tavolo, sul quale era appoggiato un computer e al quale era seduto un ragazzo che si stava occupando di far funzionare tutto, a partire dal microfono con cui stava parlando Lucy, fino ad arrivare al televisore posto qualche metro più in là. Doveva essere almeno di cento pollici, poiché era ben visibile a tutti, anche a me, che ero seduta in una delle ultime file.

Sebbene si stesse ormai facendo buio, guardandomi intorno riuscii a scorgere Dylan seduto in panchina, con il casco da football in mano. Lo salutai con la mano e gli sorrisi.

«È libero?» mi chiese qualcuno.

Era David.

Rimasi un attimo in silenzio prima di rispondere, infatti lui ne approfittò per fare uno dei suoi soliti commenti sarcastici: «Allora? Non ti ho mica chiesto di illustrarmi in che modo la difesa riuscì a vincere nel caso Hodgman contro Pennsylvania.»

«Non ho la benché minima idea di che cosa stai parlando. E comunque sto tenendo questi due posti per Herman e Tracey» risposi.

«Perché vi infossate qui in fondo? Non è meglio se andate più vicini?»

«Di solito in fondo si siedono coloro che sono qui solo per fare presenza, ma che generalmente sono estranei a ogni avvenimento all'interno di questa scuola. Almeno non sentirò nessuno indicarmi e darmi dell'assassina durante la commemorazione.»

«... una di noi, una ragazza che veniva a scuola, una ragazza di soli sedici anni, piena di sogni, desideri progetti per il futuro che non potrà mai realizzare.»

Ora la voce di Lucy appariva più spezzata, come se fosse sul punto di piangere. Mi faceva quasi tenerezza, per come si era sentita coinvolta in questa storia, avrei voluto quasi correre da lei e dirle di stare calma. 
Poi mi resi conto di quanto suonasse ridicolo: io avrei dovuto essere distrutta, non lei. Certamente lo ero, ero lacerata all'interno, ma all'esterno potevo dire di stare quasi bene, tralasciando l'insonnia.

«Avevi detto che avevano smesso di prenderti di mira» disse David, ignorando quanto gli avevo detto prima e sedendosi ugualmente al mio fianco.

Quanto ci stavano mettendo Tracey e Herman?

«Sì, è così infatti. Ma comunque preferisco isolarmi da certe persone.» I miei pensieri volarono subito a Olivia. Ogni volta che la vedevo parlare con qualcuno, specialmente se sottovoce, avevo il terrore che stesse dicendo qualcosa contro di me, che stesse diffondendo delle voci, che stesse creando altri "nemici" attorno a me, se così potevano essere definiti.

«... e certamente di parole ce ne sarebbero ancora da dire, ma forse sarebbe molto più opportuno ed efficace il silenzio. Intanto godiamoci questo video: noi ti ricorderemo così, Emily.»

Le luci si spensero, e l'unica fonte di illuminazione proveniva dal televisore, dove dopo pochi secondi apparvero delle foto di Emily. Subito mi si mozzò il respiro, nel vederla su quello schermo. Sebbene fossimo state io e Tracey a selezionare le foto da esibire e a passarle a Lucy perché creasse il video, vedere la mia amica lì, su quel televisore, davanti a tutti gli studenti che se ne stavano in perfetto silenzio, mi fece quasi commuovere. Quasi. Perché non piangevo più ormai.

A ogni nuova foto di Emily che compariva, perdevo un battito.

Ogni tanto sentivo il rumore di qualche naso che veniva sfregato contro un fazzoletto e raramente era qualcuno che Emily conosceva a piangere. Ma forse era come diceva Lucy: in molti erano rimasti sconvolti da quella storia ed erano riusciti a immedesimarsi al punto di versare un fiume di lacrime per lei.

Ad un certo punto, lo schermo divenne nero, eppure erano ancora molte le foto da far vedere, perciò non poteva essere già finito.

In molti iniziarono a guardarsi confusi, forse anche delusi: era già finita lì? Un banale video da trenta secondi era ciò che chiamavamo "commemorazione"?

Finché, all'improvviso, il video riprese.

Apparve Emily, ripresa di lato, la sera della festa. Non faceva parte delle foto scelte da me e Tracey. Anzi, non era nemmeno una foto, bensì una ripresa. E io riconobbi subito quale momento della festa era stato ripreso.

«Ti ho detto che non devi parlarmi mai più, Megan! Mai più! Vaffanculo, Megan!» esclamò, il volto rigato dalle lacrime.

Apparvi anch'io nell'inquadratura, correndo verso di lei e afferrandole il braccio affinché mi guardasse, ma lei si liberò violentemente dalla mia presa. «Lasciami! Non toccarmi!»

«Emily, ti prego... Mi dispiace! Ascoltami, posso spiegarti ogni cosa» dissi, accelerando il passo e piazzandomi davanti a lei, per sbarrarle la strada.

«Cos'altro c'è da spiegare, se non che ti sei trasformata in una puttana?»

La me in quel video scosse la testa e si passò una mano sul viso per asciugare le lacrime: «Hai ragione, ho sbagliato, però ti prego perdonami. Io non...»

«Basta, Megan! Non voglio sentire nient'altro che provenga dalla tua boccaccia. Tu... tu come hai potuto?»

«Io... io non volevo, te lo giuro! Dylan per me non conta un accidente, non me ne frega niente di lui e non mi piace, lo sai. È stato lui a baciarmi, io...»

Mi interruppe un'altra volta: «Ah, e come vedo tu l'hai rifiutato! Risparmiamelo, Megan. L'hai fatto apposta, per dimostrarmi ancora una volta che tutti i ragazzi preferiscono te. Perché tu sei Megan Sinclair, certo. Devono essere sempre tutti tuoi.»

«Che cosa stai dicendo? E comunque non è colpa mia se gli piaccio io e non tu. Ma non è importante, perché la nostra amicizia vale più di ogni altra cosa e per me...»

«Sei proprio una stronza» mi interruppe ancora, carica d'odio. «Brava, sbattimelo in faccia! È proprio così che funziona fra amiche, giusto?»

«Possiamo almeno andare a parlarne dove nessuno possa sentire o dev'essere tutto di dominio pubblico?» le domandai, abbassando il tono della voce.

«Non me ne frega un cazzo di quello che dici, Megan. E poi penso che tutti meritino di sapere che grandissima stronza sei!»

A quel punto persi la pazienza. «Lo sai che cosa sei, Emily? Sei soltanto un'insicura in cerca di attenzioni! Non hai autostima, pensi che nessuno possa amarti, ed è per questo che cerchi solo ragazzi a cui non interessi, così da confermare quelle che sono le tue paure. E sei anche una stronza ipocrita: adesso incolpi me, eppure non ti sei fatta problemi quando due anni fa ti sei messa con Ethan, sapendo che avevo una cotta per lui da mesi» dissi, sfogando tutta la rabbia che avevo in corpo.

«Il problema non sono le mie insicurezze, Megan, ma il fatto che tu non ti renda conto di come stanno realmente le cose! Tu non piaci a Dylan, non piaci realmente a nessun ragazzo. Credi che ti andrebbero indietro in così tanti se non fosse per il tuo aspetto fisico? Lo sanno tutti a scuola: Tracey è quella intelligente, io quella simpatica, mentre tu sei "la bella". Quindi complimenti, hai appena buttato la nostra amicizia nel cesso per uno che ti vede soltanto come un buco in cui infilare il suo pene!»

Dopo quelle parole Emily si allontanò per andare altrove, mentre io, ancora con le lacrime agli occhi, mi guardai intorno e mi accorsi di tutte le attenzioni rivolte su di me. Molti dei presenti avevano il cellulare in mano e avevano ripreso tutto l'accaduto. «Che diavolo avete da guardare?»

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Capitolo 16
*** Una persona migliore ***


Una persona migliore

«Grazie, Trace» dissi solamente, una volta che accostò la sua auto di fronte al vialetto di casa mia. Cominciai a fare pressione sulla maniglia così da poter aprire la portiera e uscire, ma fui interrotta da Tracey, che mi poggiò una mano sul braccio per trattenermi. «Meg, stai bene?» domandò.

«No» risposi, in tutta sincerità. «Come posso stare bene? Stava finalmente cambiando tutto... questa settimana era diverso, lo sentivo, e... e invece non è cambiato proprio un bel niente. Non mi sono mai sentita così umiliata, e poi... perché devo essere l'unica a pagare per qualcosa che non ho neanche commesso? Io ho sbagliato quella sera, lo so, e il mio prezzo da pagare sarà quello di non avere più la mia migliore amica e di convivere per sempre con il senso di colpa. Non è già abbastanza? E poi da quando in qua litigare con qualcuno è sufficiente per essere reputata un'assassina?»

Tracey mi guardava compatita, carezzandomi il braccio come per darmi conforto, ma niente sarebbe servito a farmi tornare di buon umore. Anzi, quest'ultimo peggiorò non appena mi resi conto di aver usato le stesse parole di Lucy. Oltre all'umiliazione pubblica davanti a tutta la scuola, mi sentivo anche tradita da lei.
Tracey sembrò leggermi nel pensiero, poiché disse: «La preside ha subito convocato Lucy e quell'altro ragazzo nel suo ufficio non appena te ne sei andata. Ma il ragazzo era solo uno a caso scelto all'ultimo fra gli spalti per far partire il video, quindi non può essere stato, mentre per quanto riguarda Lucy sembra che la preside Fitzpatrick stia pensando a una sospensione».

«Ha confessato?» chiesi.

Colei che era una delle poche ad avermi mostrato il suo supporto, si era rivelata in realtà la più falsa di tutte. E a che scopo poi? Cosa le avevo fatto di male? E pensare che le avevo anche creduto, maledetta la mia ingenuità.

«Da quello che ho sentito, ha negato tutto fino all'ultimo. Sembra si sia messa a piangere e che abbia continuamente chiesto di te, dicendo che voleva scusarsi o cose simili, che lei non c'entrava niente con quanto accaduto.»

Roteai gli occhi. «Sì, certo... che stronza.»

«Non so, in realtà da lei non me lo sarei mai aspettato. Ha quella faccia angelica, il cerchietto, il crocifisso sempre appeso al collo... e poi la sua condotta fino a questo momento è sempre stata impeccabile. E se qualcuno avesse davvero voluto incastrarla?»

«Qualcuno tipo Olivia? Non so, dopo essere stata convocata nell'ufficio della preside settimana scorsa secondo me si è presa un bello spavento e, per quanto la detesti, non è tanto stupida da fare un'altra mossa azzardata.»

Poi ripensai a una frase che mi aveva detto il giorno dopo il funerale di Emily.

"Mi lusinga che tu mi veda come la tua minaccia più grande. Io però le cose te le dico in faccia. Ma è chiaro che qualcuno qua a scuola la pensi come me e abbia deciso di prenderti di mira."

Che si riferisse a Lucy già allora? E se non lei, allora chi altro?

In quel momento pensai che forse Olivia sapeva più di quanto dava a vedere.

«Ora vado. Grazie del passaggio, Trace.»

«Di niente. Domani fatti sentire, va bene, Meg?».

Annuii e poi scesi dalla sua auto. Aprii la borsa per prendere le chiavi, mentre nel frattempo mi incamminavo verso la porta d'ingresso. Dopodiché entrai in casa e mi diressi subito in camera mia, mi tolsi le scarpe e appoggiai la borsa e la giacca sulla sedia.

«Megan, sei a casa?» sentii mia madre chiamarmi dall'altra stanza.

«Sì!» risposi, urlando.

«È pronta la cena, vieni a tavola!».

Il mio stomaco sembrò ricordarsi soltanto in quel momento che erano già le 19:45 e che io non avevo mangiato nulla dall'ora di pranzo. Infatti, non appena sentii mia madre chiamarmi in cucina, cominciai ad avvertire un profondo vuoto allo stomaco, accompagnato da un leggero brontolio. Così uscii dalla mia camera e andai a sedermi in cucina.

«Dove sei stata fino ad adesso?» chiese mio padre.

«C'era la partita, ve l'avevo detto» risposi, scrollando le spalle.

«Ah, sì, è vero. Com'è andata? Dorian ha giocato bene?»

«Si chiama Dylan» lo corressi, roteando gli occhi. Adoro come presti sempre attenzione ai dettagli della mia vita, papà, pensai. E no, non l'aveva sbagliato di proposito, né tantomeno era geloso come normalmente lo sono tutti i padri delle figlie: a lui non importava mai niente.

"Scusa, Megan, puoi ripetere? Non stavo facendo attenzione."

"Scusami, tesoro, sono stanco. Magari me lo racconti un'altra volta?"

"Esci con Tiffany? Ah, sì, Tracey, è vero. Mi confondo sempre."

Il picco l'aveva raggiunto giovedì scorso, dopo il funerale, con: "Senti, mi dispiace per la perdita della tua amica, so quanto Tracey fosse importante per te, ma ti assicuro che prima o poi riuscirai a superarle. Come dici? Si chiamava Emily? Ah, sì, fa niente".

«Ma certo, Alan, come fai a confonderti? Suo padre è Seth Walker. Perché una sera non lo inviti a cena per farcelo conoscere, questo Dyaln? I suoi genitori hanno quell'enorme villa, non è vero? Credo di aver sentito da qualche parte che suo padre è amministratore delegato di quell'importante azienda a New Orleans... Chissà, magari potresti invitare anche i suoi genitori» propose mia madre, dimostrando ancora una volta quanto poco le importasse di me e quanto l'unica cosa a cui tenesse fossero le amicizie vantaggiose e un buon stato sociale.

Non potendomela prendere con lei, me la presi con il risotto sul mio piatto, appiattendolo energicamente e in modo frenetico con la forchetta.

«Sì, d'accordo» risposi simulando un sorriso.

Sperai che le loro futili domande fossero terminate, ma purtroppo per me, erano appena cominciate. «Stai studiando in questi giorni? Sei quasi sempre fuori casa» constatò mio padre.

«Ho preso B+ nel compito di matematica della settimana scorsa.»

«Solo?» chiese mia madre.

Sì, solo, scusa se la mia mente era più concentrata sulla mia migliore amica defunta e non sono riuscita a dare il massimo, pensai. Dio, in che mondo vivevano i miei genitori?

Il risotto sembrava ormai una schifosa poltiglia gialla, ma la fame mi stava uccidendo, così cercai di non farci caso e ne presi un boccone, prima di mandarlo giù con un sorso d'acqua.

«Megan, non lo sai che bere durante i pasti è sconsigliato? Sarebbe meglio farlo prima, aiuta a perdere peso.»

A quel punto non seppi più trattenermi e battei un pugno sul tavolo, facendo sussultare mia madre e ricevendo un'occhiata stralunata da mio padre. «Basta! Dio, vi rendete conto di quello che dite? Per voi sono davvero vostra figlia oppure sono solo un bambolotto a cui fate fare tutte le cose che volete, a cui imponete cosa mangiare, come vestirsi, cosa dire, come comportarsi? E sebbene mi impegni per seguire i vostri ordini alla lettera, non siete mai soddisfatti, non sono mai come mi volete, non sono mai... perfetta. Sono stufa! Non mi ascoltate mai, non vi interessate mai a me, a quello che succede nella mia vita, a quello che passa davvero nella mia testa!» esclamai, scattando in piedi.

«Megan, come ti permetti?» domandò mia madre, alzandosi anch'essa in piedi. Fu subito seguita da mio padre: «Vedi di moderare i toni, non stai parlando con uno dei tuoi amici».

Alzai gli occhi al soffitto. «I miei amici? Quali? Dorian e Harry, oppure Tiffany?».

«Abbassa la voce, Megan» disse mia madre.

Mi uscì una risata nervosa. «È l'unica cosa che sai dirmi? Non ci provi nemmeno a giustificarti, a dire che non è vero che non ti interessi a me, che tu fai di tutto per me, che ti preoccupi per me? Non lo fai perché sai che non è così. E la cosa vale per entrambi: siete così occupati a pensare soltanto a voi stessi, alla vostra immagine, alla vostra reputazione, da non accorgervi di quanto stia soffrendo in questo periodo. E se proprio volete saperlo, ho cercato di farmi investire da una macchina settimana scorsa!»

«Tu... tu cosa?». Mia madre si accasciò sulla sedia, portandosi una mano tremolante sulle labbra e scoppiando in lacrime. Mio padre, anch'egli sconvolto, mosse invece qualche passo verso di me e mi appoggiò una mano sulla spalla, mentre io rivolsi lo sguardo verso il pavimento. «Perché... perché non ce ne hai parlato?» chiese, ma la sua voce venne prontamente sovrastata da quella di mia madre: «Perché l'hai fatto? Dio, Megan, tu sei... tu sei la mia bambina, come hai potuto pensare di farmi una cosa del genere?».

Emisi un sorriso amaro e deglutii, sentendo un grosso nodo formarmisi in gola. «Ancora non l'hai capito, mamma? Non riguarda te, ma me. Non si tratta sempre di te!»

«Non è così, no... io... Non avevo idea che ti sentissi così nei miei confronti... tu con me non parli, non so mai quello che pensi.»

«A detta di tutti sono la persona più trasparente del mondo» ribattei. «Solo due persone superficiali e disattente come voi non sono in grado di capirmi.»

«Hai ragione» asserì mio padre, asciugandosi una lacrima da sotto l'occhio. «Abbiamo sbagliato. Per tanto tempo. Ma ti prometto che... che cambierà tutto. Saremo dei genitori migliori.»

«Ma tu... tu giura che non proverai mai, mai più a fare una cosa del genere... giuralo, Megan.»

Esitai un attimo, più che altro perché non riuscivo realmente a credere che, per la prima volta, mi avevano ascoltato. Per anni mi ero tenuta tutto dentro, per paura che non avrebbero capito, che, anche parlandogli, non sarei giunta a niente. Invece, forse, ci ero finalmente riuscita. Sarebbe cambiato tutto.

«Lo giuro.»

•••

«Hai intenzione di startene tutto il pomeriggio lì seduta?» chiese Dylan accigliato, sdraiandosi a pancia in giù e poggiando entrambi i gomiti sul materasso.

In risposta, feci roteare la sedia girevole e gli diedi le spalle, volgendomi verso la scrivania.

«Ehi!» esclamò. Poi si stese in avanti fino a raggiungermi e, tirando il bracciolo della sedia, la spostò fino a farla giungere di fianco al suo letto. Appoggiò anche l'altra mano sull'altro bracciolo, imprigionandomi di conseguenza fra le sue braccia. «Quindi, che fai?» domandò con un ghigno strafottente.

Roteai gli occhi e infine mi rassegnai. Posai le mie mani sulle sue spalle fino a farlo arretrare e far sì che si sdraiasse supino sul letto, prima di stendermi a cavalcioni su di lui.
Dylan afferrò una ciocca dei miei capelli e se la arrotolò attorno al dito, sorridendo. Poi passò la mano sulla mia testa e mi scompigliò tutti i capelli. In cambio ricevette da me un pizzicotto proprio sul capezzolo. «Ahia!» esclamò, cominciando a massaggiarsi quel punto con la mano. «È già il terzo che mi dai oggi.»

«Ma piantala, guarda che non ti ho fatto niente» cercai di difendermi, incrociando le braccia al petto.

«Ah no? Vuoi che tolga la maglia e ti faccia vedere le forti lesioni da te causate?»

Sorrisi e scossi la testa. «No, non serve.»

Poi sollevò il busto, facendo sì che mi ritrovassi seduta fra le sue gambe, con le mie avvolte attorno alla sua vita. Restammo per un po' di tempo in silenzio, a non fare nulla se non guardarci negli occhi. Pian piano lo vidi avvicinarsi sempre di più al mio viso. «Mi dispiace per ieri» disse a un certo punto.

«Avrei dovuto prevederlo. Ma fa niente, ormai è successo» risposi io, scrollando le spalle. Ormai stavo imparando a farmi scivolare addosso le cose, a non darci lo stesso peso che gli avrei attribuito un tempo. Ci ero stata molto male e ci stavo male tuttora, ma preferivo non pensarci. «Almeno avete vinto la partita. Scusa se me ne sono andata prima che iniziasse» aggiunsi poi, per cambiare discorso.

«Ma scherzi? Non devi scusarti di nulla, Meg» disse, a un centimetro dalle mie labbra. Mi diede un piccolo bacio, che io gli restituii. Con le sue labbra sulle mie, la mia mente tornò inevitabilmente indietro all'ultimo bacio che ci eravamo dati la sera prima, e a quello che mi aveva detto subito dopo. «Dyl...».

«Sì?»

«Ieri sera, prima che andassi negli spogliatoi, mi hai chiamato...»

Mi interruppe subito: «Sì, scusa, lo so, ho sbagliato. Tu hai detto che vuoi andarci piano e io... con quella parola ho rovinato tutto. È solo che... quello che provo con te io... io non l'ho mai provato con nessuna, mi è venuto quasi naturale. Mi dispiace».

Scossi la testa. «No, perché ti dispiace?» gli diedi una carezza sulla guancia. «In realtà, mi è piaciuto che tu mi abbia chiamata così.»

«Quindi non ti è sembrato strano?» chiese preoccupato. «Io non... non voglio rovinare...»

«Dylan» lo interruppi io. «Va bene così. Non ci sono regole per queste cose, è tutta una questione di... di istinto, e sentimenti. Lo so che ti ho detto che non voglio affrettare le cose, ma... ma forse è meglio viverci tutto giorno per giorno, senza rifletterci troppo.»

Del resto, perché dovevano sempre esserci delle regole? Non era meglio vivere con spensieratezza?

«Perché hai cambiato idea, tutto a un tratto?» domandò, incuriosito.

Sospirai. «Perché la vita è soltanto una, ed è preziosa quanto imprevedibile. Non si può mai sapere cosa può succedere da un momento all'altro, ma se la vivi lasciandoti guidare dai sentimenti, non potrai mai pentirti di aver fatto oppure non aver fatto qualcosa.»

Dyl rimase in silenzio, con un piccolo sorriso dipinto in volto. Mi fissò per una manciata di secondi, prima di abbracciarmi e attirarmi sempre più a sé, fino a farmi sdraiare su di lui. Nascose il viso nell'incavo del mio collo, lasciandoci dei baci di tanto in tanto e soffiandoci sopra subito dopo. «Amore mio.»

•••

«Megan, lo sai che dopo quello che mi hanno raccontato i tuoi genitori, non potrò prescriverti quei farmaci che mi avevi chiesto? Non posso di certo rischiare che tu...»

«La prego, dottoressa Blackburn» la interruppi. «Ne ho bisogno, ho perso il conto delle notti insonni che ho trascorso da quando Emily... la prego.»

«Ti rendi conto che il tuo è stato un gesto molto avventato, Megan?»

«Sì, certo che me ne rendo conto. Io... io ero sconvolta, non sapevo più cosa fare, non ne potevo più di tutta quella storia... so di aver sbagliato, ma ora è passato. Sono ancora viva, come vede, e non ho intenzione di riprovarci di nuovo a... a togliermi la vita.»

«Il problema è che tu ci abbia provato, Megan, anche soltanto una volta.»

«Era prima che iniziassi con le sedute. Non avevo nessuno con cui parlare, non mi sentivo capita, sembrava che tutto il mondo ce l'avesse con me... Ma ora non è così. L'ha detto anche lei che sono migliorata, venire da lei mi sta aiutando, sul serio. Ho anche affrontato i miei genitori, come mi aveva consigliato di fare, e loro stanno cercando di porsi meglio nei miei confronti, ho Tracey, il mio ragazzo. Non mi serve nient'altro. Ora come ora, non cercherei mai più di fare una cosa del genere, lo giuro.»

«Vorrei crederti, Megan» rispose, rivolgendomi uno sguardo dispiaciuto. «Anzi, ti credo. So che ci stai mettendo tutta la buona volontà, ma il fatto è che tu hai una mente molto istintiva, ti lasci trasportare troppo dalle emozioni, quindi non si può sapere come reagirai la prossima volta che qualcuno ti attaccherà verbalmente, che sia a scuola o a un funerale o magari al supermercato. Perché accadrà, tienilo a mente. Le persone non si fermeranno e non è detto che dopo l'udienza cesseranno di avercela con te, forse continueranno per sempre. E tu hai solo sedici anni, Megan, non sarà per niente facile.»

«Mi creda, dottoressa Blackburn: io sto cambiando. Sto imparando a controllarmi di più, ho smesso di piangere per qualsiasi cosa come facevo prima, ho smesso di aspettare che qualcuno venga a consolarmi, sto imparando a dipendere prima di tutto da me stessa, a cavarmela da sola. Io non sarò più debole.»

Rimase in silenzio a fissarmi a lungo, come per studiarmi, per valutare la situazione, per decidere se fidarsi o meno delle mie parole.

«D'accordo. Parlerò con i tuoi genitori e, se saranno d'accordo, allora ti prescriverò la ricetta.»

Sospirai di sollievo: «Grazie mille, dottoressa Blackburn!».

«Megan, dovrai stare molto attenta: non si scherza con i farmaci, possono avere effetti collaterali anche gravi. Dovrai seguire alla lettera le indicazioni che ti darò e dovrai prenderli solo e soltanto in presenza dei tuoi genitori, hai capito?»

«Sì, ho capito. Non la deluderò» tentai di rassicurarla.

«Mi auguro davvero che sia così.»

•••

Dopo la visita dalla dottoressa Blackburn di ogni lunedì pomeriggio, uscii dal suo studio con un gran senso di soddisfazione. Mi sentivo sempre così ogni volta che lasciavo quella casa: più leggera, libera, e anche più sicura di me stessa. Non pensavo realmente che andare da una psicologa mi sarebbe servito, ma mi sbagliavo. Era vero ciò che avevo detto alla dottoressa Blackburn, che grazie a lei stavo cambiando, sentivo di star diventando una persona migliore, una che avrebbe quasi potuto piacermi, a differenza di prima.

Mentre mi incamminavo verso casa, sentii il cellulare vibrare nella tasca dei jeans. A quel punto lo tirai fuori, e vidi un messaggio da parte di Tracey.

"Meg, forse è il caso che tu torni a scuola. Io e Herm dobbiamo dirti una cosa."

Quel semplice messaggio fece sì che cominciassi ad allarmarmi.

Cos'altro c'è?, mi chiesi, cos'altro può andare storto ora che sta già andando tutto in frantumi?

"Tra dieci minuti sono lì" risposi, accelerando il passo e dirigendomi verso la mia scuola.

Avevo il cuore in gola e un pessimo presentimento. Ero così ansiosa di sapere che l'ultimo tratto di strada lo percorsi correndo.

Tracey mi aveva detto di raggiungerla nell'aula dei computer, così una volta entrata dentro scuola, non persi tempo e mi diressi immediatamente lì.
Lei e Herm erano girati di spalle, bisbigliavano qualcosa. Non tentai nemmeno di cercare di capire cosa stessero dicendo, ero troppo impaziente che mi feci subito notare non appena entrai: «Eccomi!» esclamai, prima di fermarmi un secondo a riprendere fiato. «Di... di che... di che si tratta?».

Nel vedermi, sia Trace che Herm si ammutolirono. Tracey si portò una mano sulla bocca, cominciando a mordersi nervosamente le unghie, mentre Herman sembrava quasi paralizzato.

Cosa poteva essere di così orribile?

«Allora?» chiesi con tono incalzante. «Sono corsa fin qui non appena ho... non appena mi hai scritto. Ditemi di che si tratta, vi prego.»

Trace tirò una gomitata a Herm, il quale si riscosse e mosse un paio di passi verso di me. «Io ho... ecco, la professoressa di letteratura inglese ci ha assegnato una ricerca da fare a coppie per questo venerdì, da presentare sotto forma di presentazione su Power Point. Io sono in coppia con Dylan, e oggi ci siamo visti per iniziarlo. Poi lui aveva gli allenamenti e quindi gli ho detto che se mi avesse lasciato la sua chiavetta USB, sarei potuto andare avanti io per un po'. Così, una volta finito il mio lavoro, l'ho salvato sulla sua pen drive e... so che non avrei dovuto farmi gli affari suoi, ma... be', sai come sono fatto, è più forte di me... In fondo non pensavo che ci avrei trovato qualcosa di importante, così ho curiosato un po' fra le sue cartelle e... ho trovato questa.»

Mi indicò un file salvato sul computer di fronte a lui. Mi sedetti e, sebbene la mano mi tremasse un po', aprii il file.

Rimasi a bocca aperta.

Avevo appena detto alla professoressa Blackburn che stava cambiando tutto, che mi stavo trasformando in un'altra persona, una persona più forte.

E invece rieccomi alla situazione di partenza. Ancora una volta, mi sentii profondamente sola, tradita, ingannata, abbandonata. L'aria prese a mancarmi, i respiri divennero sempre più scostanti e affannati, la gola si fece secca, le mani cominciarono a tremarmi, gli occhi a riempirsi di lacrime, che però non fuoriuscirono mai, bloccate non si sa da cosa.

«Mi dispiace, Meg» disse Tracey, chinandosi un po' e avvolgendomi in un abbraccio.

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Capitolo 17
*** Io ti ho difesa ***


Io ti ho difesa


Mi svegliai di colpo, spaventata e sudata. Era la terza volta, in quelle settimane, che sognavo di essere inseguita da uno sciame di api, pronto a pungermi. Secondo quanto letto su Internet, un sogno del genere poteva significare che mi sentivo in pericolo, minacciata da qualcosa, o qualcuno.

Insomma, i miei sogni riflettevano alla perfezione la realtà. Peccato che mi impedissero di passare delle nottate tranquille. Per fortuna, l'indomani la dottoressa Blackburn mi avrebbe procurato i farmaci per la cura dell'insonnia. Così forse uno dei miei tanti, troppi problemi sarebbe scomparso.

Rimaneva ancora il più importante di tutti: l'udienza preliminare, fra esattamente tre giorni. Fino ad allora, sarei dovuta andare a casa dell'avvocato Finnston ogni pomeriggio per prepararmi al meglio. 
Ora che sapevo che non avrei dovuto dire a tutti i costi la verità essendo l'imputata, ero certamente più tranquilla, ma ciò non significava che mi avrebbero creduto. E poi non sapevo quali prove avevano a mio carico, quali domande mi avrebbero fatto, quali testimoni avrebbero chiamato a deporre e cosa gli avrebbero chiesto.

L'avvocato Finnston non faceva che rassicurarmi, dirmi che sarebbe andato tutto bene, che la mia situazione non era così grave, ma io non riuscivo a fidarmi ciecamente delle sue parole. Tentare di alleggerire i miei problemi faceva parte del suo lavoro, ma comunque non significava che ci sarebbe riuscito. Dovevo solo aspettare per scoprirlo.

•••

Una volta giunta a scuola, mi resi conto di non avere idea di come avrei affrontato Dylan. Il giorno precedente avevo ignorato tutti i suoi messaggi e le sue chiamate, ma a scuola era chiaro che non avrei potuto evitarlo.

Infatti, non appena misi piede dentro scuola, lo vidi appoggiato al mio armadietto. Mi stava aspettando.

Sospirai, stanca. Non avevo neanche più le forze per sostenere l'ennesima discussione. Ma dovevo. Era ciò che avrebbe fatto una persona adulta, matura. Non sarei mai più scappata davanti ai problemi.

E comunque morivo dalla voglia di sapere. Così, mi feci coraggio e, una volta preso un respiro abbastanza profondo da infondermi la forza necessaria, mi avvicinai a lui.

«Meg, mi spieghi che ti è preso ieri? Non mi hai risposto per tutto il giorno e mi sono preoccupato, pensavo che... cos'è quella?».

Lanciò un'occhiata confusa alla chiavetta USB che tenevo in mano. La sua. Il giorno prima avevo chiesto a Herm di lasciarmela, così da poterla usare per ottenere delle risposte.

Eppure... la sua espressione era confusa. Solo confusa. Non intimorita. Né tantomeno agitata. Doveva saper fingere veramente bene, se l'aveva fatto per tutto quel tempo.

«Come, non la riconosci?» chiesi.

«Sembrerebbe la mia chiavetta, ma...»

«No, non sembra, lo è» lo interruppi. «E sai che cosa ci ho trovato dentro?» domandai e lui scosse la testa. Quell'espressione apparentemente ignara di tutto mi mandò fuori di me e, il mio piano di mantenere la calma, di fare la persona matura, razionale, andò completamente in fumo. «Ti diverti così tanto a prendermi per il culo? Da quanto va avanti questa storia? Eh, da quanto?»

«Meg, mi spieghi cosa...»

«Non chiamarmi così!» lo interruppi. «Devi esserti divertito davvero tanto a vedermi piangere e stare male per giorni, sapendo di essere tu il responsabile del mio malessere! Per tutto questo tempo ho sempre sospettato di Olivia, ma avrei dovuto sapere che la strada più facile non è mai quella giusta, e che sono le persone di cui non dubiteresti mai a tradirti. Perché l'hai fatto?»

Lo vidi allargare le narici e stringere i pugni. Ce ne voleva di coraggio da parte sua ad arrabbiarsi, dopo quello che mi aveva fatto. Dopo ciò che avevo passato a causa sua. «Vuoi dirmi quale cazzo è il problema, Megan? Parla chiaro.»

«Sei stato tu. A diffondere quei volantini in giro per la scuola, quelli con la mia foto, con la scritta "assassina". E qui dentro, nella tua chiavetta, ce n'è la prova. Il file originale è qui dentro» risposi, con un nodo in gola. Guardarlo negli occhi mentre gli dicevo quelle cose faceva male. Dirlo a voce alta lo rendeva vero, reale.

«Meg, ti sbagli, guarda che io...»

«Smettila!» lo interruppi ancora una volta. «Non so per... che cosa ti abbia spinto a comportarti così, che cosa ti abbia fatto di male affinché tu abbia voluto farmi una cosa del genere, ma so che non voglio mai più avere a che fare con te.» Feci per allontanarmi e dirigermi altrove, ma Dylan mi bloccò afferrandomi per il braccio. «Che cazzo stai facendo? Tu ora non te ne vai finché non ascolti ciò che ho da dire io! È troppo semplice accusarmi e convincerti che io sia il cattivo basandoti su delle tue congetture, senza prima sentire delle spiegazioni!» urlò, attirando l'attenzione di molti dei presenti.

Sospirai. Per quanto mi costasse ammetterlo, aveva ragione. Però quello non mi sembrava il luogo né il momento più adatto per discutere di certe cose. Avremmo soltanto rischiato di dare spettacolo e, francamente, ero stufa di sentire il nome Megan Sinclair sulle bocche di tutti a scuola.

«Ok. Ma non... non qui» dissi, guardandomi intorno e notando molti occhi posati su di noi.

«Cioè, tu prima vieni qui a fare il gradasso e accusarmi davanti a tutti, e poi ti rimangi tutto non appena ti accorgi che la conversazione prende la piega che non avevi previsto? Molto maturo.»

Roteai gli occhi. «Non voglio rendere i nostri problemi di dominio pubblico. Vediamoci fuori da scuola dopo le lezioni. Tieni» gli tesi la chiavetta USB e lui la afferrò. «Almeno avrai qualche ora in più per inventarti qualche altre stronzata da rifilarmi» aggiunsi con tono tagliente, prima di allontanarmi senza dargli il tempo di ribattere.

•••

Per tutto il resto della giornata non parlai molto, perlopiù tacqui. Restai schiva tutto il tempo, persino con Tracey e Herm. Dire che mi sentivo di pessimo umore era del tutto superfluo. Ciò che mi innervosiva maggiormente, era il fatto che fosse stato Dylan a condizionare il mio umore. Avevo passato delle settimane di inferno, e il tutto si era verificato anche per causa sua. Ciò che mi risultava più difficile da capire, oltre al motivo per cui avesse diffuso quei volantini in giro per la scuola, era come era riuscito, ogni volta, a far finta di nulla, a starmi vicino, a consolarmi. Lui si trovava con me entrambe le volte e, entrambe le volte, non aveva fatto che abbracciarmi, cercare di risollevarmi lo spirito, ripetermi quanto non mi meritassi niente di tutto ciò. Doveva essere proprio un attore professionista. O io incredibilmente stupida.

Attesi con impazienza il suono dell'ultima campana, così da poter mettere un punto a quella situazione. Quando finalmente quel momento arrivò, salutai Tracey e le dissi di non aspettarmi per il ritorno, prima di catapultarmi fuori da scuola. Stavo per raggiungere Dylan, appoggiato al muretto vicino al parcheggio, un bel po' di metri più in là, ma la strada mi venne sbarrata da Lucy. Istintivamente, alzai gli occhi al cielo. «Vattene» ordinai fredda.

«No, è da due giorni che aspetto di parlarti! Non ho alcuna intenzione di...»

«E io non ho alcuna intenzione di sentirti!» la interruppi. «Sei spregevole, Lucy» dissi, guardandola con disprezzo.

«Megan, io non c'entro niente, devi credermi! Perché mai avrei dovuto rischiare così tanto, secondo te? Sono stata in ballo due settimane per ricevere le autorizzazioni necessarie dalla preside, per convincerti a farmelo fare, per coinvolgere metà scuola nell'organizzazione di tutto... E a che scopo, mandare tutto a monte con una bravata di quel tipo?». I grandi occhi castani le si fecero lucidi, sembrava sul punto di piangere. «A scuola... tutti mi evitano. Pensano di me che sia una bulla, che abbia davvero esagerato e che mi sia comportata da... da stronza» disse, con la voce tremolante.

Non so come, ma riuscì quasi a farmi pena. Forse perché anch'io ero stata in quella stessa situazione. L'unica cosa positiva che era risultata dalla "sorpresa" che mi aveva riservato venerdì sera alla partita, era che le persone avevano iniziato a cambiare idea sul mio conto. Non che i pettegolezzi su di me si fossero esauriti ma, se non altro, i miei compagni di scuola sembravano avermi compatita alla partita, e avevano preferito avventarsi sull'artefice di tutto, ossia Lucy, invece che su di me.
E ora che ne ero finalmente uscita, non avevo alcuna intenzione di ricascarci: «Be', mi dispiace, Lucy, ma sembra che la ruota stia finalmente cominciando a girare» le dissi con un sorriso beffardo stampato in volto.

Mi voltai, facendo per raggiungere Dylan, ma venni bloccata ancora una volta dalle parole della ragazza bassa e minuta alle mie spalle: «Io ti ho difesa, Megan Sinclair! Anche se non ci conoscevamo, mi sono schierata dalla tua parte, a differenza di tutti gli altri. Tu più di chiunque altro dovresti sapere cosa significa sentirsi con le spalle al muro, soli, con una schiera di nemici attorno e senza nessuno di cui fidarsi».

Deglutii, rimanendo tuttavia immobile. Se voleva farmi sentire in colpa, ci stava riuscendo alla grande. Ma io non potevo. Non potevo fidarmi.

«Ogni volta che mi veniva fatto il tuo nome, pensavo sempre: "Megan Sinclair è una brava ragazza, lo dicono tutti". Avrei dovuto sapere fin da subito che le voci dicono sempre un sacco di stronzate ed evitare di dargli ascolto, a quest'ora non mi sarei trovata in questa situazione!» esclamò.

Quelle parole mi colpirono ancora più di quelle precedenti. Ciononostante, tentai di mostrarmi impassibile e, senza nemmeno voltarmi a guardarla, proseguii dritto fino a giungere da Dylan.

Incrociai le braccia al petto e presi a camminare, con lui al mio fianco, mantenendomi tuttavia a debita distanza.

«Io ti... ti ho preso questi» disse, tirando fuori dallo zaino un pacchetto di caramelle. Erano i vermicelli gommosi zuccherati, i miei preferiti. Girai la testa dall'altra parte: «Non li voglio» dissi fredda, aumentando il passo.

In quel momento mi parve di scorgere in lontananza David, in compagnia di Olivia. Aguzzai la vista: erano proprio loro. Lei era seduta su uno dei panettoni gialli vicino al parcheggio della scuola, mentre lui era in piedi davanti a lei.

Che ci facevano insieme? Di nuovo, tra l'altro. Una volta poteva essere un caso, ma due... Che quanto temeva Dylan non fosse poi così assurdo da credere? Si stavano realmente... frequentando?

Distolsi lo sguardo anche da loro e lo puntai a terra.

«Be', quindi? Non dici nulla?» chiesi a Dylan. «Se credevi che le caramelle bastassero per farmi dimenticare tutto, allora sei soltanto un illuso.»

«Megan, almeno guardami» disse Dylan, appoggiando una mano sulla mia spalla e facendomi voltare. Non avevo la forza di sostenere il suo sguardo, così lo abbassai. Fu a quel punto che Dylan mi sollevò il mento con le dita e si avvicinò talmente tanto da far sì che fossi costretta a guardarlo. «Io non ho fatto niente, te lo giuro.»

Puttanate.

«Come posso crederti se la prova è in quella dannata chiavetta?» chiesi, arretrando di qualche passo.

«Qualcuno deve avermi incastrato! Innanzitutto, com'è che ce l'avevi tu la chiavetta? Io l'avevo prestata a...»

«Sì, è stato proprio Herman a dirmelo» lo interruppi. «Che c'è? Ora vuoi farmi credere che è stata sua la colpa? Lo conosco dal primo anno ed è mio amico.»

«E io sono il tuo ragazzo, Cristo santo!» esclamò in preda alla collera. «Perché pensi che avrei mai dovuto fare una cosa del genere? Pensi davvero che cercherei di farti soffrire?» domandò.

«Non sarebbe la prima volta. Devo ricordarti cosa mi hai detto due sabati fa al Masquerade? Oppure le parole che hai usato il martedì dopo la deposizione al dipartimento di polizia? E poi...»

Non terminai la frase, poiché mi venne in mente un dettaglio a cui prima non avevo pensato: «Ho trovato il primo volantino il giorno dopo che avevamo discusso. Io ero venuta da te a scusarmi e poi abbiamo chiarito tutto, ma chissà che cosa avevi appena fatto prima, quando ancora ce l'avevi a morte con me. Chissà, magari avevi appena stampato quel foglio e l'avevi infilato nel mio armadietto.»

«Pensi davvero che solo perché ero arrabbiato con te sarei caduto così in basso?» domandò guardandomi incredulo, come se lo avessi accusato di aver rubato i soldi delle offerte in chiesa.

«Sì, Dylan, lo penso! Sai perché? Perché sei fatto così: ti arrabbi, perdi il controllo e ferisci le persone.»

Interruppe il contatto visivo fra noi puntando lo sguardo a terra. Strinse i pugni così tanto che le nocche delle sue mani divennero bianche. Il suo petto si alzava e si abbassava sempre più frequentemente. Non sapere cos'avrebbe fatto o detto di lì a poco, mi procurava una sensazione di angoscia e inquietudine. Il cuore prese a martellarmi nel petto e gli occhi a farsi lucidi, mentre trattenevo il fiato.

Poi, tutto a un tratto, rilassò le mani e stabilizzò il suo respiro. Tornò a guardarmi, e l'occhiata che mi rivolse era così infuocata che vacillai un po'. «Ok. Va bene. Credi pure quello che vuoi. Credi al fatto che ti detestavo così tanto dopo l'ennesimo rifiuto, al punto da decidere di renderti la vita un inferno. Credi al fatto che sia un pazzo sadico e malato di mente che si divertiva a consolarti mentre soffrivi per un dolore che in realtà ti avevo causato io. Che ci posso fare, insomma? Sono un povero disgraziato che l'unico modo che trova per gestire la rabbia che ha dentro è ferire i sentimenti delle persone. 
«E che mi dici della partita? Magari ora pensi che anche quello sia stato opera mia. Oppure sei così ovvia e scontata da credere davvero che sia stata Lucy? No, in realtà è stato un lavoro di gruppo, l'abbiamo fatto insieme. Ma l'idea è partita da me, chiaramente. Ero così annoiato dopo che tutti avevano smesso di prenderti per il culo, che iniziai a provare un desiderio irrefrenabile di distruggere quel poco di felicità che ti era rimasta.» Si passò una mano sul cuore. «Scusami, Megan, davvero, ma sono un ragazzo problematico, non riesco a controllarlo. Sono fatto così.»

Rimanemmo entrambi in silenzio, per una manciata considerevole di secondi. A un certo punto, Dylan si avvicinò il più possibile al mio viso, fino a che potei sentire il suo respiro sulla mia pelle. «Che c'è? Non mi credi neanche adesso? Se nego, non mi credi; se confermo tutto, nemmeno. Mi sembra che ci sia qualcosa che non vada. Scegli da che cazzo di parte stare, Megan.»

Mi diede un ultimo sguardo, partendo dai miei occhi, dopodiché il naso, e infine si soffermò in modo particolare sulle mie labbra. Poi lo vidi contrarre le mandibola e voltarsi di scatto, allontanandosi e lasciandomi da sola sul marciapiede.

E ora? Che cosa avrei dovuto credere?

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Capitolo 18
*** Non è giusto ***


Non è giusto

Suonai al citofono della casa dell'avvocato Finnston, ancora scossa per la terribile discussione avvenuta con Dylan, e quella ancora prima con Lucy.

Le loro parole continuavano a sovrapporsi fra loro nella mia mente, procurandomi un mal di testa non indifferente.

La mia mente continuava a ripetermi che non avrei dovuto credere a nessuno dei due, né a nessun altro. Ero stata fregata così tante volte da essere ormai diffidente nei confronti di chiunque, oltre che poco disposta a concedere seconde possibilità a chi mi aveva dimostrato di infischiarsene di me.

«Ciao. Prego, entra.»

Sollevai lo sguardo e notai che l'avvocato Finnston mi aveva aperto la porta, accogliendomi, come di consueto, con un caloroso sorriso. Con me era sempre così gentile e premuroso. Chissà come si comportava all'interno di un'aula di tribunale. Lo avrei scoperto fra tre giorni.

Solo tre giorni. Quella consapevolezza mi terrorizzava a dir poco.

Mi sforzai di ricambiare il sorriso ed entrai in casa sua, che ormai vedevo tanto frequentemente quanto la mia.

Fin da subito mi accorsi del silenzio e della quiete che c'era in casa dell'avvocato. David non c'era. Anche l'ultima volta, del resto, era arrivato dopo, quando io e l'avvocato Finnston eravamo già nel suo ufficio. Quindi magari, dopo la sua uscita con Olivia, ci avrebbe raggiunti.

Ancora non potevo crederci. Fra le tante cose che mi avevano lasciata senza parole in quella giornata, vederlo insieme a lei si posizionava sicuramente fra le più sorprendenti. Insomma, non riusciva a trovarsene della sua età? Ero sicura che al college ci fossero tantissime ragazze stupende, con le quali avrebbe potuto provarci.

A maggior ragione perché secondo le leggi della Louisiana, solo a partire dai diciassette anni una persona veniva considerata consenziente ad avere rapporti con una persona di qualsiasi età, mentre lei ne aveva sedici. Non che necessariamente si sarebbero dovuti spingere fino a quel punto, ma... Oddio. A fare quei pensieri, non potei fare che sentirmi veramente ridicola, tanto che cancellai la cronologia del browser non appena lessi quelle informazioni.

Magari avevo soltanto frainteso tutto. Forse erano parenti, o magari amici da tanti anni. Il fratello di Olivia doveva avere all'incirca l'età di David, magari erano stati compagni di superiori e per questo si conoscevano. Le alternative erano molteplici, eppure nella mia mente continuava ad avere la meglio la prima ipotesi.

Mi chiesi se il signor Finnston ne fosse a conoscenza. O almeno se sapesse dove si trovasse il figlio in quel momento. Cercai di impegnarmi per trovare un modo sottile di chiederglielo, facendo sì che passasse come una domanda completamente disinteressata e che non fosse fuori luogo in quel momento.

«David non c'è?»

Be', non provo quello che intendevo.

Non solo gli avevo fatto una domanda che non c'entrava niente in quel momento, ma non ero nemmeno riuscita a usare un tono indifferente. Ero sicura che l'avvocato si fosse accorto della mia apprensione, totalmente immotivata, tuttavia rispose alla mia domanda senza darci troppo peso: «No, è all'università».

Sì, certo.

Annuii, fingendo di essere soddisfatta dalla risposta, e lasciai che cominciasse con la mia preparazione all'udienza.

•••

Una volta rientrata a casa, ero completamente sfinita. Eppure, pian piano, stavo iniziando ad avere più fiducia. Essere l'imputata, per quanto assurdo sembrasse dirlo, aveva anche i suoi vantaggi. Potevo inventare la storia che volevo. Potevo decidere se rispondere con sincerità o meno alle domande che mi venivano poste. Certo, dovevo riflettere attentamente e dare risposte che potessero risultare il più possibile credibili, ma almeno non ero vincolata a nessun giuramento, a differenza dei testimoni. Il fatto di poter avere anche solo un minimo di controllo della situazione, mi faceva sentire più sicura.

Non appena svoltai l'angolo dell'anticamera e giunsi in salotto, vidi mia madre inginocchiata a terra vicino al divano, con decine di fotografie sparse attorno a lei.

«Che stai facendo, mamma?» chiesi, prima di sedermi a terra di fianco a lei.

Scrollò le spalle: «Sfogliavo i vecchi album di famiglia».

Normalmente in quelle situazioni mi sarei ritirata di corsa in camera mia, per evitare che iniziasse a fare paragoni rispetto agli anni precedenti e a farmi notare quanto fossi più magra e in forma rispetto a ora, ma in quel caso sapevo che era diverso. Aveva un'aria più malinconica. Teneva in mano una foto in cui c'era lei sul letto d'ospedale, con me in grembo, appena nata. «Sei cresciuta così tanto. E in fretta.»

«Non che adesso sia così tanto grande» le feci notare. «In fondo ho solo sedici anni.»

«Diciassette fra soli tre mesi» puntualizzò. «Però è vero, sei ancora molto giovane. Troppo giovane. Hai ancora tutta la vita davanti, o così dicono. Ma a volte la vita è così ingiusta che potrebbe esserti strappata in modo brutale e crudele, da un momento all'altro.» Si stava riferendo a Emily. Iniziai subito ad avvertire un nodo formarmisi in gola, il battito cominciare ad accelerare. «Per questo non devi mai, mai e poi mai darla per scontato. Devi goderti ogni momento fino in fondo, e non devi mai privarti di qualcosa solo perché hai paura.»

Sembrava quasi un discorso banale, a cui nessuno avrebbe dato mai davvero ascolto, eppure lo feci. Diedi un'importanza colossale a quelle parole. Quasi mi sembrava irreale pensare di essere la stessa persona che poco meno di due settimane prima aveva cercato di buttarsi sotto una macchina.

Rimasi in silenzio e abbracciai mia madre. Dopodiché notai una mia foto in compagnia di un altro bambino, mentre giocavamo a lanciarci la palla in giardino. Dovevo avere all'incirca quattro o cinque anni, mentre il bambino, un po' cicciottello, sembrava avere il doppio dei miei anni. Ci impiegai un po' a riconoscerlo, specialmente perché non ne avevo alcuna memoria, ma poi riuscii a identificarlo. Era cambiato tantissimo.

Mia madre si accorse del mio sguardo confuso, così mi diede ulteriori delucidazioni: «Lo sai che Frederick è nostro amico dai tempi del college, no? A volte veniva a trovarci e tu giocavi con suo figlio. Sebbene fosse un bel po' più grande di te, vi trovavate lo stesso bene. Non facevi che chiedere di lui, sai?».

Mi si formò un sorriso spontaneo in volto. Avevo davvero rimosso ogni ricordo a riguardo. Trovai altre foto, tra cui alcune in cui ero in braccio all'avvocato Finnston, non dovevo avere più di due anni. 
Poi, quasi d'istinto, mi sorse un dubbio. In nessuna di quelle foto era presente la mamma di David. «E sua madre?» chiesi. Nemmeno nelle foto in cui lui dimostrava circa sei anni e io ero una neonata era presente. Non ci avevo mai fatto tanto caso a dire il vero, fino a quel momento. Forse si sono solo separati, pensai.

Ma l'espressione che assunse mia madre mi suggerì ben altro. Si rabbuiò in volto. «Ah, una vera tragedia... è venuta a mancare pochi mesi dopo la nascita di suo figlio. Suicidio. Dico io, come si può anche solo pensare di lasciare solo un figlio appena nato e suo marito a crescerlo?»

Come al solito la sfrontatezza di mia madre non aveva limiti. Se, dopo averle parlato, stava imparando a essere più delicata nei miei confronti, rimaneva comunque nella sua indole, e la sua lingua spesso non aveva freni.

Ci rimasi malissimo. Io ero cresciuta con tutti e due i genitori e, sebbene avessi incontrato molte difficoltà nel mio rapporto con loro, almeno li avevo sempre avuti con me. Non riuscivo neanche a immaginare come fosse crescere senza un genitore.

Al dispiacere, poi, si aggiunse un impetuoso senso di colpa. Con tutte le persone che avrebbero potuto impedirmi di fare quel gesto stupido e avventato, era stato proprio David a farlo. Lui che, più di tutti gli altri, sapeva il dolore che si provava nel perdere qualcuno che si era tolto la vita.
In quel momento, più che mai, desiderai di non essere stata così idiota, debole, superficiale e stupida. Avrei voluto cancellare tutto, così da far svanire il senso di colpa. Ma forse l'unico modo che avevo per rimediare era il più semplice di tutti: vivere. 
Vivere per davvero, cogliere l'attimo, senza avere paura delle conseguenze, non lasciarmi perdere nessuna occasione.

•••

«Io, ehm... devo dirti una cosa» fu la prima cosa che mi disse Tracey non appena salii nella sua auto il mattino seguente. Sembrava tesa e preoccupata. L'ultima volta che l'avevo vista con quell'espressione, avevo saputo che Dylan aveva diffuso in giro per la scuola quei dannati volantini

Cos'altro c'è?, mi venne spontaneo chiedermi.

«Dimmi.»

«Mi prometti che non ti arrabbierai?» chiese.

«Trace, di che si tratta?» domandai a mia volta.

«Meg, promettimelo.»

Roteai gli occhi, cominciando a spazientirmi. «Non posso decidere di controllare le mie reazioni prima ancora di sapere che cosa vuoi dirmi.»

«Be', provaci. Perché... perché è per te che l'ho fatto.»

Fatto cosa?

«Tracey...»

Lo sguardo angosciato e preoccupato di Tracey non prometteva nulla di buono.

Prese un respiro profondo e poi parlò. «Non è stata Lucy ad aver sabotato la commemorazione di Emily mandando in onda quel video. Sono stata io.»

Boccheggiai per una decina di secondi, incapace di dire qualsiasi cosa. «Per... perché diamine l'avresti... perché l'hai fatto?»

«Non ce la facevo più a vederti star male per il fatto che tutti ti evitassero a scuola, così ho pensato che...»

«Cosa cazzo hai fatto?» la interruppi, montando su tutte le furie e preparandomi a uscire dalla sua auto. Al momento sentivo soltanto il bisogno di stare il più possibile lontano da lei.

Mi afferrò per il braccio prima che aprissi la portiera, costringendomi a rimanere: «Meg, non lo capisci? Ora tutti ce l'hanno con Lucy e sono dalla tua parte. Ha funzionato!».

La guardai con disdegno. «Già, e Lucy? Lei come sta adesso, a causa tua?»

«Non mi importa di Lucy, né di chiunque altro ci fosse stato al tuo posto: per me conti tu, Megan. Tu stavi male e io ho cercato di porre fine al tuo malessere, tutto qui.»

Non sembrava minimamente risentita, non dava segno di nessun senso di colpa. Era del tutto convinta di quello che aveva fatto.

Ma come poteva non rendersi conto di quanto fosse sbagliato? Aveva cercato di salvarmi dai bulli diventando una bulla lei stessa. Nei confronti di Lucy, che non c'entrava niente e che, anzi, forse era stata l'unica persona a essere stata sincera con me.

«Se davvero non riuscivi a startene con le mani in mano e volevi aiutarmi, avresti potuto farlo in altri modi. Perché hai dovuto fare un torto a Lucy?»

Proprio durante la commemorazione di Emily. Non poteva scegliere un momento peggiore.

«Perché è giusto così! Chi dice che il male si sconfigge con il bene, allora non ha capito niente di come funziona realmente il mondo. A volte bisogna tirare fuori gli artigli. Mi dispiace per Lucy, davvero, ma andava fatto e lo rifarei.»

Scossi la testa, profondamente delusa e contrariata. «E riguardo a Dylan? Mi hai mentito anche su quello?» chiesi poi, incrociando le spalle al petto.

«Certo che no! Allora non hai capito niente del discorso che ti ho fatto?»

«Ho capito che mi hai mentito, tanto per cominciare.»

Tracey roteò gli occhi. Con quale coraggio?, mi chiesi. «Davvero vuoi avercela con me? Io l'ho fatto solo e unicamente per te. Se non te l'ho detto subito, era perché temevo che avresti avuto questa reazione. Non ti ho mentito allo scopo di ferirti. La mia è stata solo una piccola bugia bianca» disse.

«Ok, ma ti rendi conto che quello che hai fatto a Lucy è sbagliato e non era per niente necessario?»

«Per quanto mi riguarda, ho la coscienza pulita. In fondo una brutta azione, se fatta per le persone a cui teniamo, non è poi così brutta, no?»

Ripensai a quando avevo scoperto che Tracey aveva preso l'arma del delitto di Emily, sulla quale c'erano le mie impronte. L'aveva fatto per me, anche quella volta. L'aveva fatto, pur correndo il rischio di mettersi seriamente nei guai con la polizia distrettuale nel caso in cui l'avessero scoperto. Soltanto per me, per proteggermi.

Ecco che mi resi conto, ancora una volta, di quanto fossi fortunata ad avere un'amica come Tracey. Lei era sempre stata pronta a rischiare tutto per me, da quella sera in avanti. E io invece ero solo stata capace di urlarle contro, senza capire realmente fino a che punto teneva a me e alla nostra amicizia.

«Scusami...» sibilai. «Sono una pessima amica.»

Trace mi appoggiò una mano sulla spalla: «No, Meg, che dici?».

«Sono sempre stata una pessima amica. Prima con Emily, ora con te.»

Emise un sorriso amaro. «Megan... tutti sbagliamo, sempre. Le persone imparano a convivere con i loro sbagli, ma tu... tu ti demolisci da sola, di continuo. So che i tuoi ti stressano con questa storia dell'essere sempre al massimo e perfetta in ogni cosa, ma forse è il caso di imparare a essere semplicemente te stessa. Sei umana, accettalo. Non puoi continuare a vivere nel passato.»

Annuii. «Sì, lo so... Ci sto lavorando.» A quel punto, dopo avermi dato un buffetto affettuoso, Tracey mise in moto e cominciò a dirigersi verso scuola.

Dopo pochi minuti, una volta assimilato e rielaborato il tutto nella mia testa, mi sorse spontanea un'altra domanda: «E ora che ne sarà di Lucy?».

«La preside Fitzpatrick l'ha ritenuta colpevole e per punizione le ha assegnato trenta ore di servizi sociali, tipo raccogliere l'immondizia o robe simili, in aggiunta ad averle imposto di partecipare a dei seminari contro il bullismo.»

«Non è giusto» commentai, scuotendo la testa.

«Lo so, ma ormai non possiamo farci niente.»

Una cosa potevo farla, invece. Non sarebbe servito a rimediare le cose, ma forse mi avrebbe aiutata a sentirmi meno in colpa: avrei dovuto scusarmi con lei.
Anche se ancora non sapevo come avrei fatto a farlo senza mettere in mezzo Tracey, avrei dovuto necessariamente trovare un modo.

•••

Fu la prima persona che cercai una volta arrivata a scuola. Non fu tanto difficile, dal momento che il suo armadietto era di fianco al mio. Riconobbi subito il suo caschetto biondo e ondulato e mi avvicinai a lei. «Lucy» tentai di attirare la sua attenzione, e subito la vidi sussultare.

«Megan» disse, evitando di guardarmi negli occhi.

«Io... io penso di doverti delle scuse.» Sollevò lo sguardo e lo puntò sul mio, rivelando un'espressione sorpresa e anche spaventata. «Ci ho riflettuto e... è altamente improbabile che sia stata tu, fra tutti, a farmi una cosa simile. Perdonami per non averti dato nemmeno il tempo di spiegarti, il fatto è che... scoprire di essere stata tradita da una delle poche persone che mi avevano dato il loro appoggio... ecco, faceva troppo male per poter pensare lucidamente. Mi è venuto più semplice ereggere un muro piuttosto che fidarmi di nuovo e rischiare di rimanere scottata un'altra volta.»

Rimase in silenzio fino alla fine del discorso. Poi mi guardò di sottecchi, con un'espressione vispa. «Tu hai scoperto chi è il vero colpevole, non è così?»

Boccheggiai alla ricerca delle parole adatte per una decina di secondi. Non mi aspettavo che fosse così sveglia. Poi mi ricordai che io ero Megan Sinclair, e che anche una finestra avrebbe potuto capire tutto di me soltanto guardandomi. Deglutii. «Ho un sospetto. Ma non ne sono realmente sicura.»

I suoi occhi si animarono. «Chi? Ti prego, Megan, devi dirmelo! Tutti devono sapere chi è il vero responsabile.»

"Pensa, Megan, pensa."

L'unica cosa che potevo fare per poter uscire da quella situazione, era sacrificare qualcun altro. Ma chi? Olivia era ormai troppo scontata. C'era solo un'altra persona a cui avrei potuto dare la colpa...

«Dylan.»

Lucy sgranò gli occhi. «Cosa? Ma è... voi due non state mica insieme?» domandò confusa.

«No. Sì. Non più... credo. Io ho scoperto che è stato lui che ha diffuso in giro per la scuola quei volantini su di me. Non mi stupirei se avesse anche manomesso il video di venerdì sera.»

Corrugò la fronte. «Ma perché l'avrebbe fatto? Sei sicura al cento per cento che sia stato lui a creare quei volantini? Magari anche lui è stato incastrato.»

Avrei potuto pensarla in quel modo, se non fosse stato Herman a dirmelo. Di lui mi fidavo tanto quanto mi fidavo di Tracey. E poi ne avevo le prove, no?

«Hai provato a controllare il registro delle firme?» chiese.

«Il... il cosa?»

«Be', per usare i computer del laboratorio bisogna sempre firmare un apposito registro, lasciando anche il numero del proprio documento, così che nel caso in cui il tecnico noti qualche stranezza o danneggiamento da riportare, possa sapere chi è stato in quell'aula, in che giorno e a che ora» rispose, scrollando le spalle. «Così puoi vedere se Dylan è stato lì, e quando.»

Non me lo feci ripetere due volte: iniziai letteralmente a correre verso l'aula dei computer, così da poter avere le conferme che cercavo prima che suonasse la campana. Proprio di fianco alla porta dell'aula, era appesa una bacheca sulla quale vi erano appesi i fogli di cui parlava Lucy. Li consultai tutti, fino ad arrivare al giorno prima che comparisse il primo volantino, il giorno in cui si era diffusa la notizia che Emily era morta. Fotografai ciascun foglio, così da potermi concentrare in seguito sui nomi che erano riportati.

Il nome di Dylan non c'era da nessuna parte. Non era stato lui.

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Capitolo 19
*** Tutto finito ***


Tutto finito


Non era stato lui. Dylan non c'entrava niente. Lucy non c'entrava niente. Mi ero sbagliata su entrambi.

Con Lucy era stato facile scusarmi e ricevere il suo perdono... ma con Dylan? Forse avevo rovinato tutto per sempre con lui. Non mi avrebbe mai perdonata. In fondo le mie non erano state proprio accuse da niente.

Ma la mia priorità al momento era, se non altro, farglielo sapere. Che gli credevo. Che mi fidavo di lui. E che non avrei mai più dubitato della sua parola né delle sue azioni.

Sfortunatamente, la campana che segnava l'inizio delle lezioni suonò dopo aver consultato il registro delle firme, così dovetti dirigermi subito in classe, rimandando le mie scuse con Dylan al prossimo cambio d'ora, che attesi con la stessa impazienza di un bambino che aspetta la mezzanotte la sera di Natale per poter aprire finalmente i regali.

Quando quel momento finalmente arrivò, uscii di fretta dalla classe e mi misi a cercarlo per ogni angolo dei corridoi. Avevo solo cinque minuti prima dell'inizio della lezione, e non avevo alcuna intenzione di rimandare ancora la nostra conversazione. Sospirai di sollievo quando lo vidi intento a parlare con alcuni dei suoi compagni di squadra, vicino agli armadietti.

Mi feci coraggio e giunsi alle sue spalle. I suoi amici si ammutolirono. Fra di loro riconobbi Gary, il quale sembrò fare un cenno nella mia direzione a Dylan, il quale subito dopo si voltò. Non appena incastrai i miei occhi nei suoi, sentii il respiro mancarmi. Il suo invece accelerò, come testimoniato dal suo petto che prese ad alzarsi e ad abbassarsi sempre più frequentemente. Mi rivolse un'occhiata gelida, come l'ultima volta che ci eravamo parlati.

Poi si voltò verso i suoi amici, che annuirono comprensivi e ci lasciarono soli. Tornò a guardarmi, incrociando le spalle al petto. «Che cosa vuoi questa volta?» domandò.

A quel punto avrei dovuto iniziare a riempirlo di scuse, magari anche implorare il suo perdono, invece le parole mi morirono in gola. Quel suo sguardo, freddo e distaccato da una parte, impaziente e accusatorio dall'altra, mi metteva a dir poco sotto pressione.

Così sperai che i fatti riuscissero a esprimere ciò che io non riuscivo a dire a parole. Mi sollevai sulle punte e mi avvicinai a lui, poggiando le mie mani sulle sue guance. Si irrigidì all'istante e afferrò i miei polsi con le mani, con l'intenzione di allontanarli dal mio viso e riportarmelo lungo i fianchi. Tuttavia, aspettò a farlo. Il suo sguardo si addolcì un poco, e anche la presa sui miei polsi si fece via via sempre più leggera.

Allora cercai di diminuire la distanza che ci separava avvicinando lentamente il mio viso al suo. Dylan deglutì, spostando lo sguardo sulle mie labbra, sempre più vicine alle sue. Poi scosse la testa. «Oh, fanculo.»

Senza neanche darmi il tempo di rispondere, unì le sue labbra alle mie baciandomi con impeto e passione. Gli avvolsi subito le braccia attorno al collo, mentre lui affondò le mani fra i miei capelli. Avrei voluto far continuare quel momento all'infinito, tuttavia fummo interrotti poco dopo dal suono della campanella. Il lato positivo era che la prossima lezione ce l'avevamo insieme, così non avremmo dovuto separarci. Quindi, tenendoci per mano, ci dirigemmo in classe.

Una volta seduti, Dyl lasciò la presa sulla mia mano e mi diede un bacio sulla guancia. «Tu mi farai impazzire» disse sottovoce, rimanendo vicino al mio viso. «Non capisco più niente quando mi sei vicino» aggiunse.

«Scusami.»

«No, Meg, il mio era un complimento» disse, accennando un sorriso.

«Non mi riferivo a quello. Mi riferivo a ieri. Sono stata davvero una stronza.»

«In realtà, mi ha stupito più il tuo comportamento di oggi rispetto a quello di ieri. Com'è che hai cambiato totalmente idea nell'arco di ventiquattrore?» domandò.

«Be', potrei spiegartelo, oppure potrei direttamente mostrartelo» risposi.

•••

«Ce l'hai la tua chiavetta?» chiesi, mentre nel frattempo ci segnavamo nel registro delle firme, al cambio d'ora.

Annuì e me la passò. A quel punto, entrammo nell'aula dei computer. Ce n'erano almeno una ventina, così impiegai parecchio tempo ad avviare Power Point in ognuno di loro. Dylan nel frattempo mi fissava con le braccia incrociate e un'espressione a dir poco disorientata dipinta in volto. «Cosa stai cercando di fare?» chiese.

«Sh» lo zittii, prima di trovare, dopo aver girovagato fra i vari computer, il file che corrispondeva a quello sulla chiavetta. Fra i file recenti memorizzati all'interno del software, infatti, era presente quello del volantino con la mia faccia, prova che era stato creato a scuola. «Vieni qui» dissi a Dylan, il quale, sebbene fosse ancora piuttosto turbato, obbedì senza dire nulla e giunse al mio fianco. A quel punto cliccai su "File" e poi su "Informazioni", dove era presente anche la voce "Proprietà", in cui erano inseriti tutti i dati tecnici del file, inclusa la data della sua creazione. «Lo vedi? È stato creato il 2 ottobre, il giorno dopo che si è saputo della morte di Emily» spiegai.

Poi inserii la pen drive nell'apposito foro e aprii lo stesso file. Dopodiché, andai ancora una volta a visualizzare la data di creazione del file, per mostrargli che le date di creazione dei due file combaciavano. «Questo maledetto volantino è stato creato qui a scuola, in questo computer. Eppure il tuo nome non appare su quel registro all'entrata. Quindi ora so, per certo, che non sei stato tu.»

Il suo volto dava ancora qualche segno di confusione. Poi, tutto a un tratto, si rattristò, prima di assumere, infine, un'espressione più dura e fredda. «Wow, devo dire che ti sei data un granché da fare per trovare le prove che cercavi» disse con tono sprezzante.

«E con questo cosa vorresti dire?» domandai, non cogliendo dove volesse andare a parare.

Roteò gli occhi, visibilmente innervosito. «Sai, ho ancora impresso bene in mente il modo in cui mi guardavi ieri. Non eri solo arrabbiata o offesa, eri anche disgustata, mi guardavi quasi come se avessi appena tirato un calcio a un cucciolo di cane. Praticamente mi avevi già condannato a morte. Poi poco fa sei venuta qui, da me... ed era tutto finito.»

Lo fissai con un'espressione interrogativa in volto, senza comprendere il senso del suo discorso.

«Pensavo che fosse perché ci avevi riflettuto e avevi deciso di fidarti di me, non perché avevi trovato il modo di provare per certo la mia innocenza» continuò.

«Che differenza fa?»

Allargò le narici e chiuse le mani a pugno. «Che differenza fa? Se non avessi fatto le tue approfondite ricerche e non avessi scoperto ciò che hai scoperto, avresti continuato a ritenermi colpevole di tutto, ecco che cazzo di differenza fa!» esclamò.

«Ok, quindi vuoi dirmi che tu, al mio posto, non mi avresti accusata come ho fatto io?» chiesi. Era assurdo. Come avrei potuto credergli se le uniche prove che avevo, fino al giorno prima, erano tutte contro di lui?

«No, porca puttana, non avrei mai dubitato di te! Sei la mia ragazza e di te mi fido ciecamente, perché è così che funziona in una relazione: dovremmo fidarci l'uno dell'altra, a prescindere da qualsiasi cosa.»

Mi morsi il labbro inferiore, prima di incrociare le braccia al petto. «Lo sai che non... lo sai che non posso! Come posso, dopo tutto quello che è successo, continuare a fidarmi ciecamente delle persone che mi stanno intorno, se ho la consapevolezza che qualcuno, qui a scuola, è un vero assassino e ha ucciso la mia migliore amica? Mi dispiace, ma non riesco a fare a meno di mettere le mani avanti ed evitare di fidarmi del primo che passa.»

Sgranò gli occhi e mi guardò incredulo. «È questo che sono per te? Il primo che passa?»

«No, dannazione, è solo un modo di dire!» esclamai, sentendo le guance avvampare. «Mi sono espressa male, ok? Il fatto è che... quando dico che non riesco più a fidarmi di nessuno, dico sul serio, non dipende neanche più da me: davvero non ci riesco. Io... io ho dubitato persino di Tracey, l'unica amica che mi è rimasta, ma lei a differenza tua cerca di capirmi e non me lo fa pesare!»

I suoi occhi erano colmi d'ira, incredulità e quasi repulsione nei miei confronti. Non finirà bene, mi dissi, non finirà affatto bene questa conversazione.

Tentai di prepararmi psicologicamente alla sua sfuriata e alle urla che l'avrebbero accompagnata entro breve.

Eppure non fu così. Lo vidi tranquillizzare il suo respiro e tirare un ultimo e lungo sospiro, quasi come se non trovasse neanche più la forza di arrabbiarsi e di urlarmi contro.

E sapevo bene che in casi come quello, in cui la rabbia svaniva, entrava in gioco la delusione, e con lei l'indifferenza.

Fu così che mi guardò: con indifferenza.

«Dici davvero, Megan? Nominami qualcuno che abbia cercato di capirti più di quanto lo abbia fatto io. Ci provo da un mese, almeno. Sono sempre stato al tuo fianco, in ogni situazione, e ho perdonato tutte le tue stronzate colossali di queste settimane, perché tengo a te molto più di quello che avrei mai immaginato. Tu quando mi avresti dimostrato di tenerci? Non appena ti è sorto il dubbio che io potessi aver fatto qualcosa contro di te, non ci hai pensato due volte ad accusarmi e ad allontanarmi da te. Ma ora, francamente, mi sono stancato di correrti dietro. Adesso è il tuo turno.»

Aprii la bocca per ribattere, ma fui interrotta dal suono della campanella. Fosse stato per me, avrei continuato a parlare con lui per poter chiudere la conversazione in modo decente, ma Dylan sembrò pensarla diversamente, dal momento che uscì subito dall'aula senza neanche darmi il tempo di battere le ciglia.

•••

Non era quello l'epilogo che avevo immaginato. Pensavo che Dylan sarebbe stato contento per il fatto che avessi deciso di credergli, di certo non avevo previsto che il tutto sarebbe sfociato in quella lite disastrosa.

Da una parte capivo il suo punto di vista, mentre dall'altra non riuscivo a comprendere come potesse stupirsi del fatto che avessi cominciato a essere diffidente nei confronti di tutti. Una piccola parte di me era persino arrabbiata con lui per il fatto che non riuscisse a capire e ad accettare che stavo cambiando.

Se all'inizio l'idea di cambiare mi terrorizzava a dir poco, arrivata a quel punto, giorno dopo giorno non potevo non capacitarmi di quanto fosse stata la cosa migliore che mi fosse mai capitata. Io stavo cambiando. Stavo crescendo. Stavo imparando ad affrontare i problemi che mi si ponevano davanti con un approccio diverso, più razionale e maturo. Soprattutto, non ero più la ragazzina ingenua di un tempo. Prima c'erano tanti lati del mio carattere che non mi piacevano, tante cose che non apprezzavo del mio modo di fare, e soltanto adesso stavo iniziando a fare qualcosa di concreto per migliorare tutto ciò. Come poteva essere qualcosa di negativo?

"Se lui non riesce a capirlo, forse dovresti lasciarlo andare."

Però anche lui non aveva tutti i torti. Fino ad allora non avevo mai fatto niente di concreto per dimostrargli quanto tenessi a lui. Il più delle volte mi ero comportata davvero di merda nei suoi confronti. Anche senza farlo apposta, non avevo fatto che ferirlo.

In realtà, ci ferivamo a vicenda. Accadeva di continuo. A un giorno stupendo insieme a lui ne seguivano tre in cui non ci parlavamo.

Non appena Herman e Tracey si erano messi insieme, erano subito entrati nella tipica fase "luna di miele", in cui stavano appiccicati tutto il giorno e tutto sembrava roseo e pacifico.

Perché era così difficile? Perché io e Dylan continuavamo a scontrarci? E, soprattutto, valeva davvero la pena continuare in quel modo?

«Megan...» Mia madre aprì la porta della mia stanza, distogliendomi dai miei pensieri.

Restai per qualche istante sdraiata sul fianco sinistro, dandole le spalle e continuando a contemplare il nulla, prima di sollevare il busto e mettermi seduta sul letto. «Sì?» domandai.

Entrò nella mia stanza e si sedette al mio fianco sul materasso. «Com'è andata dall'avvocato Finnston?»

David non c'era stato nemmeno quel pomeriggio.

Non sapevo neanche spiegarmi perché mi importasse così tanto se ci fosse o meno. Avevo già troppe cose a cui pensare e lui non doveva rientrare fra quelle.

Scrollai le spalle. «Bene.»

Dopo avermi fatto qualche altra domanda, sentii le chiavi di casa girare nella serratura, prima di sentire la porta chiudersi, segnale che anche mio padre era tornato da lavoro. Lo sentii percorrere i passi che lo separavano dalla mia stanza e, in poco tempo, giunse davanti a me e mia madre. Aveva un piccolo sacchetto in mano, da cui poi tirò fuori una confezione di compresse per la notte.

A quella vista, mi si illuminarono gli occhi. La breve euforia nel vedere i farmaci si spense poco dopo, quando i miei genitori iniziarono a elencare una serie di raccomandazioni e indicazioni a cui avrei dovuto attenermi. Mi fecero leggere ad alta voce il foglietto illustrativo e mi fecero ripetere ciò che c'era scritto riguardanti l'utilizzo, le dosi e gli effetti collaterali. «Questo non è un gioco, Megan, ok?» domandò mio padre, e io annuii.

Dopo cena, invece che rifugiarmi subito nella mia stanza, mi trattenni in cucina. Mia madre prese un bicchiere e lo riempì d'acqua. Poi me lo passò. Misi in bocca la prima compressa e poi la mandai giù aiutandomi con l'acqua. Poi restituii loro la confezione di compresse e mi congedai in camera mia, mentre loro cercavano un luogo in cui custodire le mie medicine dove io non avrei potuto trovarle e, secondo loro, abusarne.

Una volta dopo essermi preparata per andare a dormire, mi stesi sul letto e sospirai, con un gran sorriso stampato in volto.

"Allora buonanotte, Megan" mi dissi da sola.

•••

L'indomani mi svegliai, per la prima volta, carica di energie. La sera prima ero crollata subito in un sonno profondo, intorno alle nove e mezza. Così, quando sentii la sveglia del cellulare suonare alle sette e un quarto del mattino seguente, non provai l'impulso di gettare il telefono fuori dalla finestra. Mi sentivo calma, tranquilla, riposata.

Notai che, anche a scuola, la mia concentrazione era già notevolmente migliorata rispetto ai giorni precedenti, riuscivo a seguire le lezioni senza quasi alcuna difficoltà, proprio come un tempo.

Quel giorno Tracey era assente perché doveva andare a fare le analisi del sangue e, in tutta sincerità, una piccola parte di me ne fu lieta.

Era stata lei a chiamarmi al telefono due giorni prima e a dirmi, insieme a Herman, che era stato Dylan a diffondere quei volantini, cosa che si era in seguito rivelata falsa. Quindi come ci era finito quel file sulla chiavetta di Dylan?

Ormai non sapevo più a cosa o a chi credere. Se non altro, l'assenza di Tracey avrebbe posticipato la mia decisione a riguardo.

A pranzo, mi sedetti di fianco ad alcuni miei compagni del corso di scienze. Riuscii ad avere con loro una conversazione normale, senza che mi guardassero in modo sospetto o che sussurrassero cattiverie o prese in giro alle mie spalle. Riuscii a sentirmi come una ragazza sedicenne che mangiava il suo pranzo in compagnia dei suoi compagni di scuola. Fu tutto molto spontaneo e... normale. Io mi ero sentita normale. Magari mi era passata la lebbra.

I primi problemi cominciai ad avvertirli una volta entrata dentro la casa dell'avvocato Finnston. O meglio, in realtà, quando ero ormai in procinto di andarmene. Quella era l'ultima volta che l'avrei visto prima dell'udienza. Avevo passato molto tempo a vaneggiare sull'udienza del giorno seguente, ma solo quando si fece realmente vicina, iniziai a provare una vera e vivace angoscia, quasi soffocante. Non sarebbe più stato solo nella mia mente: sarebbe successo davvero.

Il mio futuro dipendeva dalla sentenza del giudice. Innocente o colpevole. Libera o in prigione.

«Mi raccomando, cerca di riposare il più possibile stanotte e di essere rilassata domani.» Lo fissai con le sopracciglia inarcate e lui colse subito il mio scetticismo perché aggiunse: «No, dico davvero, il peggio non sarà domani. Alla prima convocazione di solito parlano solo la difesa e l'accusa, non sarai chiamata a deporre».

Forse avrei preferito non sapere quel particolare. Pensavo che sarei stata la prima persona interrogata. Una cosa del tipo "via il dente, via il dolore". «E quando dovrò farlo?» chiesi, con un nodo in gola.

Scrollò le spalle. «Tu per ora non preoccuparti.» Se c'era una persona che era ancora più impenetrabile di David, era certamente suo padre. Ma in fondo sta solo facendo il suo lavoro, mi dissi.

Perciò annuii, fingendo che quella risposta mi fosse bastata. «A domani, signor Finnston» dissi con un lieve sorriso, avviandomi verso la porta.

«A domani, Megan.»

Una volta fuori da casa Finnston, il senso di inquietudine che provavo a pensare all'udienza, si intensificò man mano che camminavo. Man mano che il tempo scorreva. Man mano che il fatidico momento si avvicinava.

Chissà se David verrà, mi chiesi a un certo punto.

Era altamente improbabile che andasse a vedere ogni processo del padre, ma in fondo c'era anche qualcosa di suo in quello che si sarebbe tenuto l'indomani. Era stato lui a prepararmi per la deposizione presso il dipartimento di polizia. Mi aveva sempre aiutato dandomi un sacco di consigli.

E poi... sì, ecco, volevo vederlo. Ne avevo bisogno. Per quanto suonasse assurdo, avevo bisogno di sentire una di quelle sue frasi che erano un misto fra uno spiccato sarcasmo e pura antipatia, che mi facevano sempre saltare i nervi, ma che erano anche terribilmente vere. Almeno mi avrebbero tenuta occupata la mente su quello e non avrei pensato a quella dannata udienza.

Ma comunque l'udienza era fissata per le dieci e qualcosa mi suggeriva che suo padre stesse tenendo sotto controllo la sua frequenza alle lezioni universitarie, perciò avrei dovuto farne a meno.

Scossi la testa con vigore per cercare di scacciare quei pensieri ridicoli. Non era di David che avevo bisogno, ma di un bravo avvocato. E ce l'avevo già: suo padre. Non lui. Suo padre.

«Ciao, Megan.»

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Capitolo 20
*** Sei pronta? ***


Sei pronta?


Sollevai lo sguardo e per poco non persi l'equilibrio.

Certo, forse non avrei dovuto sorprendermi più di tanto nel vedere David davanti a me, considerando che mi trovavo a pochi metri da casa sua.

Eppure il fatto che si fosse materializzato davanti a me proprio quando stavo pensando a quanto avessi bisogno di vederlo prima dell'udienza, mi fece illudere in qualche modo di aver ereditato qualche potere psichico di cui non sapevo nulla fino a quel momento.

"Vorrei avere un conto bancario da dieci milioni di dollari."

No, niente. Be', valeva almeno la pena provare.

«Ciao» risposi, portandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

«Stavi andando da mio padre?» domandò.

«No, in realtà ho appena finito.»

Annuì soltanto, senza dire nulla. Eppure una parte di me non poté a fare a meno di pensare che ci fosse dell'altro. Forse si trovava lì perché avrebbe voluto essere presente al mio ultimo giorno di preparazione prima dell'udienza. O magari era appena tornato da un'altra uscita con Olivia. O forse io avrei dovuto smetterla di fare congetture su congetture. Sì, avrei dovuto decisamente smetterla.

«Vuoi che ti accompagni a casa? Ho la macchina parcheggiata qui vicino.»

Scossi la testa. «No, non preoccuparti. Però grazie» risposi con un lieve sorriso.

Si morse il labbro inferiore, dando uno sguardo a casa sua. La mia risposta sembrò non essergli bastata, dal momento che si sentì in dovere di insistere: «È che si sta facendo buio, mio padre mi ucciderebbe se venisse a sapere che ti ho...»

«Siamo a Morgan City,» lo interruppi «vado in giro da sola anche alle undici di sera da quando ho dodici anni!» esclamai.

«Lo sai che questa è una delle tipiche frasi che dicono le persone nei film prima di venire uccise?»

Aggrottai le sopracciglia, prima di rilassare il viso e scoppiare in una genuina risata. «Per fortuna che non siamo in un film, allora.»

Quasi mi era sembrato di sentire qualcun altro ridere al posto mio. Non ridevo in quel modo veramente da troppo tempo, tanto da non ricordare nemmeno il suono della mia stessa risata.

David invece rimase impassibile. A quel punto lo fissai di sottecchi. «Non sarai mica preoccupato?» chiesi, con un ghigno simile a quelli che faceva lui di solito.

Scosse la testa. «Mmh, no, io non mi preoccupo. È inutile e...»

«... e fa sudare. E a te non piace sudare» completai la frase al posto suo. Mi fissò confuso. «Me l'avevi già detto, quando ci siamo parlati al Masquerade» aggiunsi, per chiarire le sue incomprensioni.

Annuì e basta. Così feci per voltarmi e continuare nella mia direzione, ma mi fermai prima di poter muovere il primo passo. Tornai a guardarlo, e finalmente ebbi il coraggio di porgli una domanda che mi frullava in testa già da qualche tempo: «Fai così anche con gli altri?» chiesi.

«Gli altri?»

«I clienti di tuo padre» precisai. «Sei così premuroso con tutti o solo con me?»

Mi sembrava davvero strano credere che avesse un rapporto di tipo confidenziale con ogni cliente di suo padre con cui lavorava.

Che avesse il numero di ognuno di loro, che gli offrisse passaggi, che avesse con loro conversazioni anche non riguardanti i loro casi.

Esitò un attimo, prima di rivelare l'ennesimo ghigno. «Be', in realtà è piuttosto raro che abbiano la tua età, di conseguenza non hanno bisogno che li riaccompagni a casa. La maggioranza ha l'età di mio padre, sarebbe piuttosto strano.»

Tutto lì?

«Qual è il problema, Megan?» domandò, cogliendo la delusione nel mio sguardo.

Già, qual era il problema?

Il problema era che non ero rimasta per niente soddisfatta dalla sua risposta, perché speravo che ci fosse dell'altro. Ma in fondo era una cosa stupida. Non era il mio avvocato, quindi non era tenuto ad avere un atteggiamento professionale come quello del padre, poteva permettersi anche più libertà. Eppure una parte di me continuò a essere convinta che certe libertà se le prendesse solo con me.

«No, è che... niente» tagliai corto.

«No, adesso me lo dici» disse, avanzando di qualche passo verso di me e giungendo a una ventina di centimetri dal mio viso.

Cercai in tutti i modi di evitare di guardarlo negli occhi, per impedirgli di fare uno dei suoi giochetti psicologici per capire ogni cosa solamente guardandomi.

L'unico modo che mi venne in mente per poter deviare la sua domanda, era quello di cambiare discorso. Così feci un tentativo. «Sai, in realtà ho cambiato idea. Mi va bene se mi accompagni. Ma non in macchina, ho voglia di camminare. Ti va?»

Una parte di me sperava che avrebbe detto di no, così da potermi lasciare andare via da sola. All'altra in realtà non sarebbe dispiaciuta poi così tanto la sua compagnia.

Rimase a fissarmi in silenzio prima di rispondere, probabilmente era indeciso se continuare a insistere oppure se dimenticare tutto ed evitare di farmi l'interrogatorio.

Poi emise un lieve sorriso. «Certo. Andiamo.»

Davvero? Contando andata e ritorno avrebbe perso all'incirca mezz'ora per accompagnarmi e ritornare a casa. Non aveva niente di meglio da fare?

Sospirai di sollievo e cominciai a camminare con lui al mio fianco.

Per i primi minuti non dicemmo nulla, il che era strano, dal momento che mi sembrava uno che aveva sempre tanto da dire. Quasi come se mi avesse letto nel pensiero (ok, forse io non avevo nessun potere psichico, ma si poteva dire lo stesso di lui?), ecco che cominciò a parlare.

«Sei pronta per domani?» chiese.

«No» risposi, in tutta sincerità. «Ma tuo padre mi ha detto che non sarò chiamata a deporre.»

«Sì, be', probabilmente non solo domani.»

Mi voltai alla mia sinistra e gli rivolsi uno sguardo confuso. «Perché lo pensi?»

«Ecco, io ho saputo che hai detto ai tuoi di... quella cosa.»

Non ci fu bisogno di specificare, capii subito a cosa si riferiva. Improvvisamente sentii come se ci fosse un peso a comprimermi il torace, che mi impediva una corretta respirazione. Tentai di non pensare a ciò che avevo saputo su sua madre per evitare di sentirmi ancora più in colpa di quanto già non mi ci sentissi normalmente. «Sì, qual è il problema?» domandai.

«Il problema è che ora che i tuoi genitori e la tua psicologa lo sanno, allora in tribunale non è detto che ti lasceranno deporre.»

«Perché no?»

«Perché prima dovranno sottoporti a una perizia psichiatrica per valutare la tua salute mentale.»

Era serio? Quella proprio mi mancava. «Non ho disturbi mentali» dissi, stringendo i denti.

«Ah, no? Tentare il suicidio ti sembra una cosa che tutte le persone farebbero? La tua mente è instabile, non ragioni correttamente e di conseguenza la tua deposizione in tribunale sarà sicuramente considerata inattendibile.»

Non seppi dire nulla per ribattere. Era vero. Però detestavo la schiettezza con cui me lo disse. Anche se non potevo biasimarlo, forse era più forte di lui: il gesto che avevo tentato di fare era lo stesso che gli aveva portato via sua madre quando era appena nato, era più che normale che manifestasse apertamente, ancor più di altre persone, la sua disapprovazione nei confronti di tale atto.

«Una difesa basata solo sui testimoni non mi sembra tanto solida» dissi.

Come avrei potuto essere dichiarata innocente qualora l'udienza si fosse conclusa prima che riuscissi a deporre?

«No, non lo è» mi diede ragione David. «Perciò devi metterci tutta la forza di volontà che possiedi per riuscire a passare la perizia.»

Forza di volontà. Fino a una settimana prima non sapevo nemmeno più cosa fosse, talmente mi sentivo vuota e persa.

•••

Dal momento che parlare dell'udienza mi metteva non poca angoscia, alla fine cambiammo discorso e parlammo di altri argomenti. A un certo punto, non so come, ma finimmo col parlare di Dylan. Gli raccontai di ciò che era successo in quei giorni e, mentre parlavo, la rabbia, mista al senso di colpa, mi fece andare a fuoco le guance. Poi passai in rassegna ogni singola cosa che non era andata bene fra di noi. Arrivai a un punto in cui non ero neanche più in grado di formulare un vero e proprio discorso, praticamente farneticavo e basta, così mi fermai e ripresi fiato. David mi ascoltava in silenzio, intervenendo di tanto in tanto esponendo il suo punto di vista che, forse per la prima volta, coincideva spesso con il mio.

Ricominciai alla carica poco dopo. «E poi è troppo geloso! Quando siamo andati in discoteca non voleva lasciarmi sola nemmeno per un secondo. Per lui la situazione ideale è quella in cui io non parlo con nessun che sia del genere maschile, non importa se sia Herman oppure il mio vicino di casa oppure il...» mi fermai, non appena mi ricordai che era stato geloso persino di David e che mi aveva chiesto di averci a che fare il meno possibile. E io avevo pure acconsentito. «Voglio dire, è normale che gli dia fastidio ed è bello che sia geloso perché vuol dire che gli importa, ma...»

Venni subito interrotta da David: «Normale? Magari se fossimo nel 1952 oppure se vivessimo in Giappone dove le donne camminano dietro passi dietro i loro mariti. Megan, la gelosia non va mai bene. E più si avvicina alla possessività, meno è bello, credimi. A nessuno piace avere una relazione malata, e in pochi se ne accorgono per tempo e riescono a uscirne».

Era quello il tipo di relazione che avevo Dylan? Una relazione tossica? Certo, c'erano molti aspetti da migliorare, ma non l'avevo mai intesa in quel modo...

«Be', in realtà credo di esserci riuscita, a uscirne. Sembra che sia finita fra noi, o così credo...»

«Mi sembri più arrabbiata che triste» constatò, fissandomi con le sopracciglia aggrottate.

«No, non è vero, io... io sono triste. Davvero. Dylan mi piace, altrimenti non avrei mai iniziato a frequentarlo, quindi ovvio che mi dispiace.»

«Ti dispiace ma non hai il cuore spezzato. Sentiamo, cos'è che ti piace di lui?» domandò, puntando lo sguardo sul mio. «Al di là dell'aspetto fisico.»

«È... è una domanda seria?» chiesi, corrugando la fronte.

«No, macché. È una domanda che fa spezzare in due dalle risate» rispose.

Touché.

Cominciai a pensare a una risposta, e mi resi conto che forse era la prima volta che ci riflettevo sul serio. Essendo una persona molto istintiva, non mi ero mai soffermata troppo a pensare a certe cose. Mi era sempre bastato sapere che con lui stavo bene, che con lui mi sentivo serena, protetta, amata.

Ma che cos'era realmente a piacermi di lui?

«Come pensavo.» David mi guardava con le sopracciglia inarcate, quasi come se se lo aspettasse. Io gli restituii uno sguardo confuso, e anche leggermente indispettito: «Cosa vorresti dire?».

«Non sai neanche cosa dire.»

«Io... ci sto pensando, non è così... così facile» cercai di difendermi.

Invece avrebbe dovuto esserlo. Avrei dovuto stilare una lista interminabile di motivi per cui ero interessata a Dylan, ma in quel momento non me ne veniva in mente neanche uno.

«Megan... non l'hai ancora capito? Non è lui a piacerti. A te piacciono le attenzioni che ti dedica, ti piace sentirti corteggiata, desiderata, ti piace l'idea di avere qualcuno a cui appoggiarti quando hai bisogno... non ti piace lui, ma quello che prova lui per te.»

In altre situazioni avrei ribattuto prontamente. Non mi conosceva così bene, né conosceva Dylan, perciò come poteva anche solo pensare o pretendere di sapere ciò che provavo per lui?

Eppure, nonostante ciò, sentendo le sue parole, non trovai nulla a cui appigliarmi per potermi opporre.

«Non ci si innamora di un paio di occhi, per quanto azzurri possano essere, né di un sorriso perfetto, né tantomeno di un addome scolpito. Quella è pure attrazione fisica. L'amore è un'altra cosa.
«Per quanto mi riguarda, è molto più semplice di così. È un insieme di piccole cose: può essere il modo di camminare, specialmente se goffo e scoordinato; la risata, anche se rumorosa e imbarazzante; il mangiarsi i capelli dal nervoso, per quanto sia disgustoso da guardare; o magari l'atteggiamento saccente di chi pensa di poter sapere tutto su tutto, soltanto facendo delle patetiche ricerche su Internet, nonostante sia incredibilmente fastidioso.»

Emisi un sorriso, prima di fargli una linguaccia. Poi mi schiarii la gola, pensando che avrei dovuto dire qualcosa, anche se non sapevo cosa. Fu lui a parlare di nuovo. «Ma questa è soltanto la mia opinione. Puoi anche dirmi se sbaglio.»

Distolsi lo sguardo. Fino all'ultimo non ebbi il coraggio di ammettere la verità, anche se ero sicura che il mio silenzio stesse dicendo già abbastanza. Ma lui non sarebbe stato contento finché non sarebbe riuscito a sentirselo dire, come dimostrato dal modo incalzante con cui mi fissava.

«Non sbagli...» ammisi con un tono sommesso e scoraggiato. «Be', ehm... Wow. Questo... immagino dica molto sul tipo di persona che sono.»

Superficiale sarebbe stato l'aggettivo più adatto. Più ci riflettevo, e più le parole di David sembravano avere senso. Più cercavo di negarlo a me stessa, dicendomi "no, non fa al caso mio", più mi rendevo conto di quanto quella sua visione rispecchiasse alla perfezione la mia situazione con Dylan. 
Giunsi persino alla conclusione che quest'ultimo aveva iniziato ad attrarmi soltanto nel momento in cui aveva iniziato a manifestarmi apertamente il suo interesse, a corteggiarmi, come aveva detto David.

«Solo che sei molto giovane» rispose, usando un tono più morbido. Lo apprezzai. L'aveva detto apposta per farmi capire che lui non mi giudicava, e che forse io avrei dovuto fare lo stesso: «Non devi prendertela con te stessa. Capita a un sacco di persone, specialmente a sedici anni. Alla tua età è molto facile confondere l'amore con una semplice infatuazione».

«Tu quanti anni avevi quando ti sei innamorato la prima volta?» chiesi. A quella domanda si scurì in volto e si ammutolì. Avrei dovuto prevederlo. «Giusto, come dimenticarlo: "Io non parlo di me"» citai le sue testuali parole.

Emise uno dei suoi soliti ghigni e continuò a rimanere in silenzio. Perché doveva sempre essere così imperscrutabile? Cosa c'era di male nel raccontarmi qualcosa in più?

Quasi come se fosse stato in grado di leggere la mia mente, risollevò lo sguardo e lo puntò sul mio, pronto a rispondere alla mia domanda. «Forse volevi dire la prima, e anche unica volta.»

Inarcai le sopracciglia. «Solo una?» chiesi incredula.

Annuì. «Avevo soltanto quattordici anni, era la mia prima storia seria, non pensavo nemmeno sarebbe durata, in fondo cose di questo tipo durano al massimo quattro mesi. Invece durò sette anni.»

Sgranai gli occhi. Sette anni?

«Lo so, non si direbbe guardandomi, eh?» mi sorrise amaramente.

«Perché è finita?» mi venne spontaneo chiedergli.

«Perché tutte le cose belle prima o poi giungono a una fine. Nulla è eterno. Anche la storia più bella con il tempo si consuma e anche l'amore più grande si esaurisce.»

Forse non si era esaurito da parte di entrambi, considerando il tono triste e l'espressione affranta con cui ne parlava.

«Non ti facevo così poetico» dissi per sdrammatizzare.

Per fortuna la prese bene e sorrise. «Ho un carattere molto versatile. Mi adatto a ogni situazione.»

Sorrisi anch'io. «Qualcuno la tua versatilità potrebbe definirla disturbo della personalità multipla.»

Scoppiò in una risata fragorosa. «Questa come ti è uscita?» chiese, fra una risata e l'altra. «Giuro, è la prima volta che me lo dicono!».

Scrollai le spalle. «Non lo so ma, voglio dire, puoi darmi torto? Tu sei... ecco, non lo so neanch'io come sei, perché cambi continuamente modo di fare. Ogni volta che parliamo, scopro qualcosa su di te e sul tuo carattere che non mi sarei mai immaginata, e... sì, insomma, sono così tante che mi sembra impossibile pensare che ci sia soltanto una persona ad albergare nella tua testa.»

Dicendo quelle cose ad alta voce, non potei che rendermi conto di quanto suonassero ridicole. Immediatamente mi sentii in imbarazzo per essermi esibita in quel teatrino idiota. Davanti a lui. Se ci fosse stato chiunque altro al suo posto, mi sarei vergognata, ma neanche tanto, ma con lui... lui mi faceva sentire ridicola di continuo, qualsiasi cosa dicessi. O forse ero proprio io che non riuscivo a fare a meno di mettermi in ridicolo davanti a lui.

«Non... oddio, dimentica tutto, ok?» gli chiesi, quasi implorandolo. Fece cenno di no con la testa, con un ghigno divertito. Non era di certo nei miei piani renderlo così euforico e dargli un altro motivo per prendersi gioco di me.

«Su, togliti quel broncio dalla faccia» disse, prima di lasciare spazio a un'altra risata.

Rimasi in silenzio e gli rivolsi uno sguardo fulmineo. «Dai, Megan... Guarda che non stavo ridendo di te, ok? Stavo ridendo di me stesso, dico sul serio. E ti conviene ridere con me finché ne hai la possibilità, altrimenti Rob potrebbe prendere il sopravvento e potrei trasformarmi in un serial killer. Ah, cazzo, non dovevo dirtelo. Non lo dirai alla polizia, vero?» chiese allarmato, portandosi una mano sulla bocca.

Lo fissai con la fronte corrucciata ancora per qualche istante, prima di rilassare il viso e ridere, seguita a ruota da lui.

«Rob?» domandai, inarcando un sopracciglio.

«Rob il serial killer non ti piace? In alternativa ho anche Philip l'atleta e Donald il poeta.»

Risi ancora. «E David Finnston che cos'è? L'aspirante avvocato o il comico mancato?».

«Nessuna delle due: David Finnston è l'eroe ribelle» disse tirandosela come suo solito, passandosi una mano sui capelli.

«Ah sì? Pensavo il narcisista montato. L'unica cosa che hai di ribelle è quel ciuffo che ti ricade sempre sulla fronte» gli feci notare, indicando il solito ricciolo corvino.

Aprì la bocca per ribattere, ma fu interrotto dal mio cellulare che cominciò a squillare. Lo tirai fuori dalla tasca dei jeans e sbuffai non appena lessi il mittente della chiamata.
Lo lasciai suonare qualche secondo e David si insospettì, così si avvicinò per vedere chi fosse. «Perché non gli rispondi?».

«No, è che...»

Mi interruppe prima che potessi inventarmi una giustificazione che avesse senso. «Tanto praticamente siamo arrivati. Me ne vado, così potete parlare e chiarire le vostre... cose. A domani, Megan.»

Avrei voluto inventarmi una scusa per farlo rimanere, ma sembrava quasi non vedesse l'ora di dileguarsi, così mi ritrovai a dire: «Ciao, a domani» e a guardarlo mentre si allontanava.

Il cellulare stava ancora squillando e io fissai il display finché non scomparve l'avviso di chiamate.

Io e Dylan non avevamo più niente da dirci.

•••

«Come sto?» chiese Emily per la milionesima volta, non appena fummo davanti alla porta della casa di Dylan.

«Esattamente come stavi dieci minuti fa» rispose Tracey, roteando gli occhi.

«Em, non devi farti così tante paranoie solo per un ragazzo. L'importante è che tu stia bene con te stessa» dissi, posandole una mano sulla spalla.

E cosa potevo mai saperne io di stare bene con me stessa, se per tutta la vita ogni mia azione era stata condizionata da quello che diceva e pensava mia madre?

Mi veniva fin troppo facile dare lezioni di quel tipo agli altri, eppure io ero la prima a farmi paranoie su paranoie.

Se non altro, incoraggiare Emily mi aiutava a sentirmi meno una merda, dopo quello che era successo la settimana prima con Dylan.

Anche se forse stavo facendo la cosa sbagliata, dal momento che sapevo a chi era davvero interessato lui, e spronarla inutilmente non sarebbe servito a nulla.

Così, una volta dentro, non appena Emily propose di passare accanto a Dylan e urtarlo con la spalla per farsi notare, tentai di dissuaderla. «No, non farlo.»

Dovevo essere apparsa più rude e allarmata di quanto sperassi, dal momento che mi fissava con un'espressione alquanto confusa. «Guarda, si sta strusciando contro quella tipa. Non ne vale la pena» aggiunsi a quel punto.

Che cosa diavolo passava per la testa di quel ragazzo?

«Ti farò pentire di non avermi voluto.»

Quelle erano state le ultime parole che mi aveva rivolto la settimana scorsa, dopo che gli avevo ripetuto ancora una volta che fra noi non sarebbe mai successo nulla. Non potevo fare una cosa del genere a Emily.

A quanto pare, quello era il suo modo per farmi pentire: tentare di ingelosirmi. E, per quanto mi risultasse assurdo crederlo, ci stava riuscendo. A fatica riuscivo a staccare gli occhi da lui, aggrovigliato a quella ragazza, con le mani strette addosso alle sue chiappe.

«Che porco» commentò Trace e non potei che darle ragione.

Non che io fossi da meno, dal momento che mi ero rivelata una vera stronza, dopo ciò che avevo fatto la settimana prima. Avrei dovuto trattenermi e impedire che accadesse, ma non ne ero stata capace: mi era bastato guardarlo negli occhi per non capire più niente.

Basta, Megan, smettila di pensarci e guarda altrove, mi dissi. Così tentai di concentrarmi per capire di cosa stavano parlando le mie amiche. A quanto pare di Herman che stava per arrivare con la sua auto.

«Ha passato l'esame?» domandai sorpresa. Quella per lui era la terza volta che lo sosteneva.

Tracey annuì. «Ormai manchi solo tu, Meg!».

«Lo so, ma non sono ancora sicura. Voglio fare ancora altre guide. Prometto che entro fine ottobre avrò anch'io la patente!» esclamai, tentando di ignorare le occhiate insistenti che mi stava lanciando Dylan.

Non appena l'avevo visto in compagnia di quella ragazza, avevo sperato che avesse finalmente capito che con me non ci sarebbe stato nulla e che avesse trovato qualcun altro che gli piaceva, invece sembrava proprio che lo stesse facendo per farmi ingelosire.

La sola idea mi dava la nausea (o forse era qualcos'altro a procurarmi tutto quel subbuglio a livello dello stomaco): un conto era cercare di attirare la mia attenzione lanciandomi occhiatine in mensa, fare in modo che ci sedessimo vicini in classe, oppure passarmi davanti innumerevoli volte in corridoio, ma ora stava esagerando. Stava usando una ragazza che non c'entrava niente, solo per colpire me.

Ancora non capivo cosa fosse ad attrarmi così tanto in lui se, evidentemente, era come tutti gli altri. Non che avessi avuto tanti altri ragazzi con cui paragonarlo, a dire il vero.
Il mio primo e ultimo fidanzato risaliva alla seconda media. Ci eravamo baciati solo una volta, ed era stato a dir poco traumatizzante.

Assolutamente niente a che vedere con... No, basta.

Nel frattempo Herman era arrivato e Tracey si era allontanata insieme a lui dopo avermi fatto un cenno a cui risposi con un sorriso.

Fu in quel momento che arrivò la fatidica domanda da parte di Emily. «Ehi, dite che mi sta guardando?» domandò, prima di accorgersi che c'ero solo io con lei.

Mi morsi il labbro inferiore. Cosa avrei dovuto dirle? Mentirle ancora oppure risponderle con sincerità? In entrambi i casi, non sarebbe finita bene.

«Forse... sì, sì ti sta guardando!» mentii, sperando che non facesse caso alla poca convinzione con cui lo dissi.

«Quindi che faccio?» domandò agitata, prima di aggiungere: «Andiamo a ballare vicino a lui!».

Era davvero una pessima idea, ma prima che potessi dire qualsiasi cosa, Emily si era già impossessata del mio braccio e mi aveva trascinata di fianco a lui. Cominciò a ballare con scioltezza, mentre io rimasi piuttosto rigida. Quasi mi mancava il respiro. Con la coda dell'occhio vedevo che mi fissava ancora, mentre continuava a ballare con quella ragazza, e io avrei soltanto voluto saltargli in braccio e riempirlo di baci.

"I miei complimenti, sei un'ottima amica" mi dissi da sola.

Ma del resto, cosa potevo farci? Piaceva a entrambe e, sì, Emily era arrivata prima, ma che importanza aveva, se comunque ero io a piacergli?

"È solo un ragazzo, ce ne sono a migliaia. Ma non riavrai indietro alla tua amica se fai cazzate.»

Ripresi a respirare non appena vidi che si era allontanato. Era andato a prendersi un bicchiere e, per mia fortuna, si era fermato a bere di fianco alla cucina, appoggiato alla parete, distante da me.

Emily però era di tutt'altro avviso, e mi propose di andare a bere, così da passargli di fianco.

«Em, lo sai che non bevo» risposi. E soprattutto non avevo alcuna intenzione di riavvicinarmi a lui.

«Allora fai finta» mi prese per mano per portarmi in direzione della cucina, ma io protestai: «No dai, non ho voglia. Preferisco rimanere a ballare. Facciamo che ti aspetto qui fuori» dissi, cercando comunque di rimanere a debita distanza da Dylan che, guarda caso, aveva lo sguardo puntato su di me.

«D'accordo» scrollò le spalle, prima di sparire dentro la cucina.

Incrociai le braccia al petto, sperando con tutto il cuore che Emily si muovesse.

«Sei bellissima, stasera.» La voce di Dylan era vicinissima. Era alle mie spalle, e mi aveva scostato una ciocca di capelli dietro le spalle, lasciandomi il collo scoperto.

Chiusi gli occhi e presi un respiro profondo. «Anche la tua amica» risposi acida, riaprendoli e voltandomi nella sua direzione.

Dio, quegli occhi...

Mi pentii subito di avergli risposto in quel modo, dal momento che era come se gli avessi appena dimostrato che mi importava. Ma del resto io ero fatta così: reagivo lasciandomi guidare dai sentimenti e, tentare di reprimerli, non era altro che un tentativo inutile.

Ma mi andava lo stesso di provare. «E comunque adesso non mi va di parlare con te, quindi se me lo concedi...»

«No, non è vero» mi interruppe. «Sei venuta alla mia festa, a casa mia, non dirmi che non avevi tenuto in conto che ci saremmo parlati. Non aspettavi altro che questo momento.»

Qualcosa mi suggeriva che l'alcol in circolo nel suo corpo aveva iniziato a fare effetto, come testimoniato dal suo sguardo vacuo e perso.

«Senti, io... non possiamo parlarci qui, Emily è lì dentro e potrebbe tornare in un...»

Mi interruppe di nuovo: «E a me che importa?».

Alzai gli occhi al cielo. «Quand'è che capirai che fra noi non potrà mai succedere niente? Lasciami in pace e basta.»

«Ti devo ricordare quello che è successo settimana scorsa dopo che mi avevi detto queste stesse parole? Perché io me lo ricordo benissimo, ci penso ogni momento.»

Già, anche io.

«E l'iniziativa è partita da te, non sono stato io a incominciare.»

«Senti, basta, davvero! Va bene, parliamo. Ma non qui» mi rassegnai.

Sorrise soddisfatto. «Perfetto, seguimi.»

 

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Capitolo 21
*** Ti farà bene ***


 

Ti farà bene


Il palazzo di giustizia di St. Mary era un edificio piuttosto anonimo. Visto da fuori, le mura di un banalissimo bianco e con una grande quantità di finestre, non sembrava altro che un insieme di uffici, non rispecchiava di certo l'idea che mi ero fatta. Anche perché nei miei incubi notturni lo vedevo come un luogo tetro, al pari della casa di Hill House.

Eppure molto spesso erano le cose apparentemente normali, quelle a inquietare davvero. Infatti, non appena scesi dall'auto di mio padre, venni assalita dal terrore. Non appena presi a tremare, più dalla paura che dal freddo, mi strinsi nel bomber nero che indossavo.

"Andrà tutto bene. Mantieni la calma."

Presi mia madre a braccetto e, insieme a mio padre, entrammo tutti e tre dentro l'edificio.

Era contrassegnato da ampi corridoi e numerosissime stanze, da cui continuavano a entrare e uscire persone che sembravano molto indaffarate. In fondo, poi, riuscii a scorgere l'aula di tribunale in cui si sarebbe svolta l'udienza preliminare. Mentre attendevo, mi tenni il più possibile lontano da quella porta.

Andai a sedermi su una delle sedie che erano poste lungo il corridoio. Avevo così tanti pensieri in testa che mi era difficile decidere su quale concentrarmi. Tentai di allontanare quelli che mi causavano angustia, ossia circa l'ottanta per cento. Così, escludendo la mia udienza, Dylan che non faceva che chiamarmi ininterrottamente dal giorno prima, Lucy che mi faceva pressioni affinché la aiutassi a scoprire chi era stato a incastrarla, Tracey che si era accorta che la stavo evitando e insisteva nel voler sapere il motivo, il tutto unito al giornaliero cordoglio per la morte della mia migliore amica, al senso di colpa legato al fatto che continuavo a essere convinta di averla causata io stessa, mi rimaneva solo un pensiero che, in confronto agli altri, era di certo meno angosciante: David.

«A domani.» Così mi aveva detto.

Ciò significava che ci sarebbe stato? Se sì, perché non era già lì? Era l'unico con cui avrei voluto parlare, dal momento che praticamente mia madre mi fissava come se il giudice avesse già emanato la mia sentenza di condanna, mentre mio padre fingeva di essere interessato a me chiedendomi ogni cinque minuti come stessi, per poi attaccarsi subito al cellulare a parlare con i colleghi che erano in ufficio e che chiedevano il suo aiuto per svolgere dei lavori.

Ero quasi tentata di prendere il cellulare e scrivergli e, anzi, forse l'avrei persino fatto, se non avessi volutamente deciso di lasciarlo a casa per evitare le persone sopracitate.

Mi alzai immediatamente dalla sedia non appena vidi l'avvocato Finnston entrare dentro l'edificio e dirigersi verso i miei genitori. Sorrisi, nel vedere David apparire dietro di lui. Sia lui che il padre indossavano uno smoking nero e avevano i capelli tirati all'indietro con il gel. Dio, che spettacolo.

Mia madre mi fece cenno di venire a salutare, e non me lo feci ripetere due volte.

«Buongiorno, signor Finnston» dissi, rivolta al mio avvocato. Poi mi voltai verso David per salutare anche lui, ma ecco che mi precedette: «Quale dei due? Siamo entrambi il signor Finnston, o sbaglio?».

Mia madre rise sommessamente, così come mio padre, mentre io, al contrario, gli lanciai un'occhiataccia.

Poi i miei genitori si allontanarono con suo padre, lasciandoci soli. Vidi in lui una sorta di espressione d'attesa, così decisi di accontentarlo: «Buongiorno, signor Finnston».

«Buongiorno, signorina Sinclair» rispose con un piccolo ghigno. «La vedo bene, rilassata.»

«Merito dei fiori di Bach, a dire il vero» precisai. Mia madre aveva preferito darmi qualche goccia per aiutarmi a rilassarmi. Anche se, in realtà, stavano funzionando solo in parte.

«Lo sai che hanno solo un effetto placebo?»

«E tu che ne sai? Hai anche una laurea in medicina, per caso?»

«No, la laurea in medicina si prende in...»

«Lo so, quattro anni di college, poi quattro di scuola medica e in seguito la specializzazione!» lo interruppi.

Ottimo. Se fino a quel momento ero rimasta piuttosto calma, se non altro agli occhi degli altri, ecco che in meno di cinque minuti era riuscito a farmi perdere il controllo.

Mi guardava stralunato per via della mia reazione, forse da lui considerata eccessiva. Io, invece, lo fissavo adirata, con le braccia conserte. Dal momento che mi era passata la voglia di parlare con lui, feci per voltarmi e dirigermi dai miei genitori, ma le sue parole mi bloccarono: «Davvero te la sei presa per una cosa così minima?» chiese, quasi ridacchiando.

Mi voltai e lo incenerii con lo sguardo. «Sì, me la sono presa. Smettila di ostentare di continuo quanto tu sappia sempre ogni cosa! Sei fastidiosamente saccente» esclamai.

Rise ancora sotto i baffi. «Be', lo prendo come un complimento. Sempre meglio che sentirmi dire "sei incredibilmente ignorante".»

Roteai gli occhi. «Perché sei qui, comunque?»

Aggrottò le sopracciglia, quasi come se non avesse capito bene la domanda. «Cioè?» chiese.

«Be', ci sono i miei genitori e il mio avvocato. Tu che c'entri?»

Al momento non mi importava nemmeno di risultare scortese.

«E i tuoi amici, dove sono?»

«A scuola» risposi, senza comprendere cosa c'entrasse in quel momento quella domanda.

«Appunto. Ti pare che ti avrei lasciata da sola? E poi, non appena ti ho vista, eri tesa come una corda di violino, mentre adesso sei solo incazzata» disse, quasi come se ne andasse fiero.

«E ti aspetti che ti ringrazi per avermi fatta arrabbiare?»

«No, non mi aspetto nulla, sta a te» scrollò le spalle.

Non esisteva nessuno che mi mandava più in confusione di lui.

Comunque sia, dopo che me l'aveva fatto notare, ecco che avevo ricominciato a preoccuparmi per l'udienza e il mio livello di angoscia aveva ripreso a salire. «Se davvero sei venuto fin qui per aiutarmi a pensare ad altro, allora impegnati di più» dissi con un flebile sorriso, incoraggiandolo a svolgere per il bene il suo cosiddetto incarico.

Emise un piccolo ghigno e annuì, prima di passarsi la lingua sulle labbra come per riflettere su cosa dire. L'illuminazione gli venne pochi istanti dopo. «Ho saputo che settimana prossima avrai l'esame per la patente.»

Mi era arrivato un messaggio di promemoria due sere prima. Mi ero prenotata per l'esame mesi prima, dal momento che i tempi in genere erano sempre molto lunghi perché gli iscritti erano tanti, di conseguenza me ne ero completamente dimenticata. Inoltre, dopo ciò che era successo a Emily, non avevo nemmeno più fatto pratica con le guide. «Sì, ma in realtà non penso che lo sosterrò. Dovrò rimandarlo ancora, altrimenti è sicuro che sarò bocciata.»

«Secondo me invece dovresti darlo» affermò. «Io penso che ti farà bene concentrarti su altro. Io guido sempre quando c'è qualcosa che mi angoscia, mi aiuta a rilassarmi. Magari vale anche per te.»

«No, direi di no. Ogni volta che guido sono in costante ansia, ho il terrore di investire qualcuno, di andare a sbattere contro qualche cartello oppure di prendere una multa per aver sbagliato qualche parcheggio. E poi non ho mai tempo.»

«D'accordo, come vuoi. Il mio era solo un consiglio» disse, scrollando le spalle.

Anche se ormai il discorso si era chiuso, rimasi ancora qualche istante a rifletterci. Avevo detto alle mie amiche che avrei preso la patente entro fine ottobre, e la fine del mese si stava avvicinando.

Forse avrei potuto fare lo stesso un tentativo. Del resto, prendere la patente costituiva un passo importante per ogni adolescente e io, in quel momento più che mai, avevo bisogno di sentirmi una normale adolescente come tutti gli altri.

Pochi secondi dopo, venimmo affiancati nuovamente dai nostri genitori, che ci comunicarono che era ora di entrare in aula. Così, ancora tremolante, mi avviai verso la porta alla fine del corridoio, il quale sembrava quasi essersi allungato di dieci metri rispetto a prima. Rimasi ferma qualche istante a fissare la porta. Mi riscossi non appena l'avvocato Finnston la aprì e mi invito a entrare.

Così misi piede dentro la stanza, identica a tutte quelle che si vedevano in tv, se non che le dimensioni erano notevolmente più ridotte.

Erano presenti le solite panche in legno per il pubblico, che vennero occupate soltanto dai miei genitori e altre poche persone che non c'entravano assolutamente niente e che, a quanto pare, non avevano nulla di meglio da fare.

Dopodiché, davanti alla prima panca, era posta una serie di sedie, in una delle quali si sedette David. Poi c'erano i due tavoli, quello dell'accusa, destinata al procuratore distrettuale, come specificato dalla targhetta dorata su cui era scritto "Procuratore Harry G.", e quello della difesa, destinato a me e al mio avvocato. A destra dei tavoli, invece, c'era la zona dedicata alla giuria, contraddistinta da un muretto da cui era circondata, anch'esso in legno.

E infine, il banco dei testimoni e quello destinato al giudice.

Man mano che i secondi passavano e le persone prendevano posto, iniziai a essere lieta del fatto che quel giorno non sarebbe toccata a me. Soprattutto, fui sollevata nel non vedere i genitori di Emily. Ancora non avevo dimenticato le parole che mi aveva rivolto la madre di Emily il giorno del suo funerale, oltre che il modo in cui mi guardavano, con quegli occhi, tristi, persi, vuoti.

Neanche un secondo dopo essermi seduta, il giudice fece il suo ingresso in aula e dovetti rialzarmi. Ebbi quasi l'istinto di aggrapparmi alla giacca dell'avvocato Finnston per paura di cadere a terra, ma di certo non sarebbe stato il caso.

Il giudice Sullivan, stando a quanto scritto nella targhetta sul suo banco, si schiarì la gola e prese a parlare. «Che l'udienza preliminare a carico di Megan Ellen Sinclair, accusata di manslaughter volontario nei confronti di Emily Loren Walsh, abbia inizio. Starà alla giuria decidere se le prove a carico dell'imputata sussistono, in quanto valide oltre ogni ragionevole dubbio. In tal caso, l'udienza si dichiarerà conclusa e l'imputata sarà sottoposta a un processo per attestare la sua colpevolezza o non colpevolezza. Procuratore, a lei la parola.»

A quel punto tutti si sedettero, mentre il procuratore alla mia destra rimase in piedi. «Grazie, Vostro Onore» asserì, facendo un cenno col capo.

Subito dopo diede il via a un lungo, noioso, interminabile monologo di cui ascoltai sì e no dieci parole. Forse avrei dovuto stare attenta, dal momento che stava illustrando il mio caso e stava quindi parlando di me, ma i suoi giri di parole, accompagnati da una quantità interminabile di articoli del codice penale da lui elencati, mi fecero venire una forte emicrania e mi fecero perdere la concentrazione poco dopo. Ascoltai solo una delle prime frasi: «Il capo di accusa è di manslaughter volontario, ossia un comportamento idoneo a uccidere e di cui la morte è conseguenza prevista o voluta, quando il reato sia commesso in un particolare stato d'ira determinato da altrui provocazione. La tale provocazione deve essere proporzionata, idonea cioè a indurre una persona di media moralità in uno stato d'ira tale da rendere comprensibile una reazione omicida».

Insomma, volendo guardare il lato positivo, non mi era andata così male. Non mi ritenevano una psicopatica, bensì una persona di "media moralità" che però aveva perso le staffe e aveva ucciso la sua migliore amica.

Mentre il procuratore andava avanti con la sua arringa iniziale, l'avvocato Finnston di tanto in tanto prendeva appunti su un foglio, probabilmente per segnarsi i passaggi più importanti del discorso e usarli per controbattere.

E così fu. Dopo almeno una buona mezz'ora, il procuratore sembrò soddisfatto del suo discorso e, dopo essersi schiarito la gola un'altra volta, si risedette. A quel punto si alzò l'avvocato Finnston. Prima di iniziare, rivolse un ghigno strafottente, quasi sprezzante, al procuratore. Tale padre, tale figlio, pensai. Qualcosa mi diceva che anche David, in quell'esatto momento stava sogghignando.

«Vostro Onore, innanzitutto ci terrei a ringraziare il procuratore in carica, per l'ottimo lavoro nell'esporre un breve resoconto del caso, nonostante sia già tutto iscritto nei documenti di cui ha gentilmente offerto una copia a entrambi prima che ci riunissimo in aula. Mi sento in dovere di comunicargli quanto ritengo che si sia rivelato utile.»

Sgranai gli occhi, nell'assistere a quel sarcasmo pungente ma allo stesso tempo velato. Ripensai a ciò che mi aveva detto David la seconda volta che ci eravamo visti.

«Ti potrà anche sembrare una persona tranquilla, forse lo reputi inadatto a fare un lavoro come questo, ma lo pensi solo perché non hai mai visto come si trasforma all'interno di un aula di tribunale.»

Ora finalmente capivo. Era totalmente un'altra persona.

E, sebbene io apprezzassi vederlo in quelle vesti, c'era qualcuno che ne era avverso. Dopo aver dato un colpo di tosse per richiamare l'attenzione, infatti, il procuratore si sentì in dovere di replicare: «Vostro Onore, secondo le procedure, è doveroso riportare per filo e per segno...»

«E, sempre secondo le procedure, questo non dovrebbe essere il mio momento di parlare, senza dover essere interrotto da inopportuni sproloqui?» lo interruppe l'avvocato Finnston.

Mi girai verso di lui. Aveva ancora un bel ghigno stampato in faccia. Probabilmente lo stava facendo apposta, si stava divertendo.

Non so in che tipo di rapporti fosse con il procuratore, certamente non ottimali, considerando il suo desiderio di irritarlo volutamente. O magari era solo una tattica, per metterlo in crisi e farlo apparire poco convinto nelle sue argomentazioni future.

Ci pensò il giudice Sullivan a spegnere il suo entusiasmo. «Avvocato, proceda» disse con tono pacato ma allo stesso tempo indispettito. Guardandolo in faccia, sembrava volesse essere da tutt'altra parte in quel momento. Spesso tamburellava le mani sul banco a cui era seduto, o controllava l'ora sull'orologio al polso. Una volta l'avevo persino colto nel bel mezzo di uno sbadiglio. In quale altro posto avrebbe dovuto trovarsi un giudice? Dubitavo che qualcuno l'avesse obbligato a svolgere quel lavoro.

«La ringrazio, Vostro Onore, per aver riportato l'ordine e avermi dato la possibilità di continuare. È importante per me, come sicuramente anche per lei, che tutto avvenga in un clima rispettoso e decoroso, consono agli argomenti di cui stiamo trattando» si esibì in una deliziosa sviolinata, prima di riprendere il discorso. «Infatti, senza nulla togliere all'eccellente lavoro svolto dalla polizia e l'ufficio del procuratore, vorrei soffermarmi su un particolare non irrilevante: il legame di amicizia fra la vittima e la mia cliente.» Fece una pausa, dando un'occhiata alla giuria selezionata. Era costituita quasi unicamente da donne, alcune giovani, all'incirca dell'età di David, mentre le altre erano adulte, circa sulla quarantina o poco più.

Capii il motivo di quella scelta non appena terminò la sua ultima frase. Aveva deciso di iniziare facendo leva innanzitutto sui sentimenti e sulle emozioni. E una giuria prevalentemente femminile sarebbe stata più semplice da impietosire e, chissà, magari convincere della mia innocenza.

Il mio futuro sarebbe stato deciso da quelle dodici persone sedute alla destra dell'aula. Restai non so quanto tempo a fissarle una a una, finché non mi sembrò che si sentissero a disagio per via dei miei sguardi. Del resto loro erano dodici comuni cittadini, mentre io ero la ragazza che, fino a prova contraria, tutti ritenevano un'assassina.

«... quindi perché, a fronte delle prove da me fornite, fra tutte le persone presenti a quella festa, l'unica ritenuta capace di tale atto è la mia cliente?»

Ero sicura che il discorso dell'avvocato Finnston fosse stato molto sentito e appassionato, tuttavia ripresi ad ascoltarlo solo quando era ormai finito.

•••

Il tempo restante fu impiegato dall'avvocato Finnston e dal procuratore distrettuale per confrontarsi e, talvolta, anche rimbeccarsi su alcune questioni.

Quando il giudice intervenne, quasi a malincuore, per rimandare l'udienza alla settimana successiva, quasi non ci credevo che era già finita.

Me ne resi conto quando l'avvocato Finnston mi posò una mano sulla spalla e allora mi riscossi. Mi alzai in piedi e mi accorsi che ormai eravamo rimasti solamente noi due in aula, persino i miei genitori erano usciti.
A quel punto seguii il mio avvocato fuori dalla stanza. «Considerando il procuratore a cui hanno affidato il caso, non hai di che temere» disse con tono incoraggiante. «Andrà tutto bene.»

Avrei voluto sentirmi sollevata nel sentire quelle parole, ma non ci riuscivo proprio, a tranquillizzarmi. Tuttavia gli rivolsi un sorriso. «Grazie per quello che sta facendo.»

«Figurati, è il mio lavoro.»

Subito dopo venne affiancato dal procuratore. Nel vederlo così vicino a me, non potei fare a meno che sussultare. Il cuore prese a battermi all'impazzata.

«Frederick, era da tanto tempo che non lavoravamo insieme, eh?» chiese, tirandogli una pacca sulla spalla.

«Noi non lavoriamo insieme, Harry. Tu lavori per quegli incapaci dello Stato, mentre io lavoro per me stesso» rispose tagliente.

«Allora aspetto con ansia il momento in cui io e quegli incapaci per cui lavoro ti tireremo un bel calcio in culo!» esclamò. Mi lanciò un'occhiata che mi fece rabbrividire, poi guardò sprezzante l'avvocato Finnston e infine se ne andò. Per fortuna venni subito raggiunta dai miei. Li abbracciai, nella speranza che potessero darmi l'energia necessaria ad affrontare tutta quella situazione.

«Si è già fatta ora di pranzo» constatò mio padre, guardando il cellulare. «Devo tornare a lavoro fra un'ora, ma se ti va possiamo andare a mangiare qualcosa insieme» propose all'avvocato Finnston, il quale acconsentì.

Istintivamente mi guardai intorno alla ricerca di David, prima di accorgermi, con delusione, che non c'era. Se n'era già andato.

Non avrebbe dovuto per forza fermarsi a pranzare con noi, ma avrebbe almeno potuto salutare.

Era davvero venuto lì solo per dirmi un paio di frasi motivazionali e per sparire nel nulla dopo la fine dell'udienza? Forse in realtà, fra le due cose, era interessato di più alla seconda: voleva solo assistere all'udienza e ascoltare il padre, così da poter imparare qualcosa da poter mettere in pratica in un futuro prossimo.

Mentre ci stavamo tutti dirigendo fuori dal palazzo di giustizia, io con un'espressione ancora più affranta di quella che avevo appena ero entrata, vidi l'avvocato Finnston allontanarsi per fare una telefonata. «Dove sei finito? Mi hai stressato per giorni affinché ti lasciassi venire, e poi sparisci così? E allora fai in fretta. Noi stiamo andando... sì, ho capito. David, non farmi incazza... ti avevo detto di no. Ecco. Va bene, ti mando la posizione.» Mise giù e, facendo finta di nulla, ci rivolse un grande sorriso.

«Allora viene?» chiese mia madre e l'avvocato annuì.

 

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Capitolo 22
*** Un fallimento ***


Un fallimento

Andammo a pranzare in un ristorante lì vicino, così da poter fare in fretta. Io e David ci sedemmo uno di fronte all'altra. Anche se forse non mi riguardava, non riuscii a fare a meno di chiedergli perché se ne fosse andato improvvisamente.

«Che fine avevi fatto? Rob aveva una vittima da sacrificare?» chiesi.

Sogghignò. «Mi hai scoperto.»

Non aggiunse nient'altro, così capii che avrei anche potuto mettermi l'anima in pace ed evitare di insistere.

Lo detestavo quando faceva così. Ossia circa il novanta per cento del tempo.

Così, una volta dopo aver rinunciato, mi concentrai sul mio piatto. Dopo i primi bocconi, ecco che mia madre, seduta al mio fianco, tirò fuori la dietologa che era convinta di essere, sebbene in realtà facesse l'architetto.

«Megan, sei sicura di volerla finire tutta? È una porzione molto grande.»

Ci risiamo, mi dissi.

Alzai gli occhi al cielo. «Sì, mamma, la mangio tutta» risposi, tentando di mantenere la calma.

«D'accordo, ma forse...»

«Non ho fatto colazione stamattina, ricordi?» la interruppi.

Era incredibile che facesse quelle scenate anche davanti ad altre persone.

«Fa bene, gli adolescenti devono mangiare tanto» si intromise l'avvocato Finnston.

Ovviamente, per non fare brutta figura davanti ad altri, mia madre gli diede ragione, il che mi portò ad alzare nuovamente gli occhi al cielo.

Incredibile.

•••

Una volta usciti dal ristorante, cominciammo ad avviarci a piedi verso il parcheggio, che purtroppo avevamo trovato piuttosto lontano.

Mentre camminavamo, mia madre mi si affiancò e mi prese sottobraccio. «A proposito, quand'è che inviterai Dylan a cena da noi?» chiese.

Istintivamente, mi voltai verso David, quasi come sperassi che fosse lui a trovare una soluzione che mi permettesse di sfuggire a quella situazione. Tuttavia, si strinse semplicemente nelle spalle. Del resto non lo riguardava.

«Non c'è fretta, mamma» risposi soltanto.

«Ma come no? Scommetto che lui te li ha già fatti conoscere i suoi. Chissà cosa pensano di noi, che siamo una famiglia di cafoni a non esserci ancora fatti vivi!» esclamò, portandosi una mano alla fronte.

«Veramente sua madre lavora a Chicago e torna solo nei fine settimana, mentre suo padre è quasi sempre in ufficio.»

«Lo credo bene! È un socio di maggioranza, sai quanto lavoro ha sulle spalle... comunque perché non li inviti sabato prossimo?»

«Ok, poi glielo chiederò» dissi, solo per liquidarla.

In tutto ciò, mio padre se n'era stato al telefono per tre quarti del pranzo, per poi uscire frettolosamente dal ristorante e dirigersi a passo spedito verso il parcheggio, insieme all'avvocato Finnston.

Mi liberai dalla presa di mia madre e mi avvicinai a David, il quale emise uno dei suoi soliti ghigni. «Simpatica tua madre» commentò, ma più che sarcastico sembrava addirittura serio.

«È insopportabile» sbottai, sottovoce.

«Dai, mi sembra una a posto. Forse un po' troppo legata alle apparenze, ma non la biasimo. In una città come questa, non c'è niente di peggio che avere una brutta reputazione.»

«E allora chissà quanto deve odiarmi per avergliela infangata.»

David aggrottò le sopracciglia. «Non ti odia. Anzi, anche se forse può sembrarti il contrario, a modo suo ti ama. Tanto.»

«Il problema è proprio quel "a modo suo", temo. Mi fa sentire limitata e oppressa in tutto» confessai, portandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

«Gliene hai mai parlato?»

Annuii. «È un po' migliorata la situazione da allora, ma di certo non cambierà mai.»

«Almeno non ti considera un fallimento...»

Lo fissai confusa. Aveva uno sguardo malinconico. «A chi ti riferisci?»

Non rispose, ma diede uno sguardo a suo padre, che si trovava diversi metri più avanti. Così capii. E non potevo che dargli torto. «Ma che cosa dici? Tuo padre non ti considera...»

Mi interruppe: «Sì, invece». Ne era davvero convinto, e non riuscivo a capirne il motivo.

«Anche se è severo e non ti dà i riconoscimenti che meriti, non significa che non ti voglia bene.»

«No, invece. Mi detesta da quando...» Deglutì, lasciando la frase in sospeso. Ma io ormai volevo sapere, così non mi arresi. «Da quando?» lo incalzai.

Rimase in silenzio per una dozzina di secondi, ma poi, finalmente, parlò: «Hai mai sentito parlare di depressione post partum? Tende a svilupparsi intorno alle prime quattro settimane dopo aver partorito. Non si sa ancora bene a che cosa sia dovuta, ma è abbastanza diffusa, e i sintomi sono proprio quelli del disturbo depressivo: sbalzi d'umore, inappetenza, insonnia, senso di stanchezza, senso di colpa e di inadeguatezza nel ruolo di madre, frequenti crisi di pianto, tendenza a isolarsi. Spesso le madri non chiedono aiuto per vergogna, eppure è molto importante per la sicurezza dei neonati e delle madri stesse, che ci sia qualcuno ad assisterle e ad aiutarle a superare quel momento difficile».

Fece una pausa e deglutì. «Ma a volte non è abbastanza» riprese a parlare, puntando il suo sguardo sul mio. Vidi l'emozione crescere nei suoi occhi, i quali divennero cristallini. Mi colpì il fatto che si stesse lasciando andare a pieno, non solo raccontandomi qualcosa di così intimo e personale, ma anche decidendo di non vergognarsi a mostrare apertamente il suo dolore attraverso lo sguardo. Per una persona chiusa e schiva come lui, doveva essere enormemente difficile aprirsi così, tanto che mi chiesi perché lo stesse facendo proprio con me. «Mia madre non ha mai superato quel momento, nonostante l'aiuto degli psicologi e il supporto di suo marito. Quando è successo io ero dai miei nonni, era ormai da qualche giorno che si rifiutava di mangiare e di conseguenza non aveva latte a sufficienza per nutrirmi. Mio padre sarebbe dovuto venire a prendermi per le 20:30, dopo aver finito di lavorare, ma non venne mai fino alla settimana seguente.
«Tardò più di quanto avrebbe dovuto a riportarmi a casa, il tutto perché non voleva vedermi. Lui non mi voleva. L'ultima cosa di cui aveva bisogno dopo aver perso la donna che amava, era avere in casa tutto il giorno il moccioso che gli ricordava lei e la cui nascita era stata la causa della sua morte. Se io non fossi nato, lei sarebbe ancora viva. E, nonostante siano passati ventidue anni da allora, ciò che prova nei miei confronti è rimasto immutato. Ecco perché mi odia.»

Scossi la testa, rifiutandomi di credere alle sue parole. «Non è così. Non è vero. Non è colpa tua, né di nessun altro.»

Distolse lo sguardo, puntandolo sul pavimento. «Per anni ho cercato il modo di convincermi del contrario, ma non ci sono mai riuscito fino in fondo, perché questa è la spiegazione più plausibile al suo comportamento.»

David era ostinato. Del resto aveva passato tutta la sua vita con quella convinzione, non potevo di certo pretendere di riuscire a fargli cambiare idea. Anche se era la cosa che desideravo di più in quel momento: aiutarlo.

Non potevo sopportare che si colpevolizzasse in quel modo. Il suicidio di sua madre non era dipeso da lui, ma dalla sua malattia. E se suo padre aveva assunto un atteggiamento distaccato da allora, forse c'erano altre motivazioni, oppure era semplicemente ottuso come lo era il figlio.

Come si può incolpare un neonato e negargli l'amore che merita per così tanti anni?

Inoltre, c'era un motivo ben preciso per cui mi sentivo così tanto coinvolta in quella storia: mi sentivo tremendamente in colpa a causa di ciò che avevo tentato di fare due settimane prima. Ma forse proprio perché ci ero passata, ero anche l'unica a potergli dare un po' di conforto. E così tentai, sperando di poter lenire anche solo per poco quel dolore e quel senso di colpa che si portava dietro da più di vent'anni.

«Io ci sono passata. E sono l'unica persona da incolpare per questo» dissi, attirando l'attenzione di David. «Ciò che stavo cercando di fare, non lo stavo facendo a causa di qualcuno. Lo stavo facendo a causa mia, di quella vocina che risiedeva e risiede tuttora nella mia testa e guida tutti i miei ragionamenti, anche quelli più sconsiderati e stupidi. E sai che cosa pensavo in quegli istanti? "Voglio che finisca tutto". Non pensavo agli altri, ai miei amici, ai miei genitori, pensavo soltanto a me stessa, ero l'unica persona di cui mi importava. 
«E con chi te la sei presa tu quando mi hai fermata? Con me. Perché era partito tutto da me, dalla mia mente instabile. Non hai incolpato i genitori di Emily per ciò che avevano detto, né i miei per la mancanza di attenzioni nei miei confronti, ma soltanto me. Perché era colpa mia, era una decisione mia. E quindi tuo padre non può odiare te per una scelta fatta da qualcun altro.»

David non rispose. Eravamo arrivati al parcheggio, così dovemmo separarci e prendere ognuno la direzione della propria macchina. Non ci dicemmo più nulla, eppure quando mi voltai un'ultima volta verso di lui prima di entrare nell'auto di mio padre, mi sembrò di scorgere un'espressione di riconoscenza da parte sua, che ricambiai con un sorriso.

•••

In confronto agli avvenimenti di venerdì e a quelli che colpirono la settimana seguente alla mia prima apparizione in tribunale, il weekend passò rapido e tranquillo, specialmente perché decisi di tenere il cellulare spento per due giorni, per evitare qualsiasi contatto con persone con cui al momento non mi andava di parlare.

Perciò, non sapendo come occupare il tempo, provai a leggere un libro che avevo lasciato in sospeso da settimane, ma ormai erano passati così tanti giorni da quando avevo smesso di leggerlo, che non riuscivo più a riprendere il filo della storia e a collegare i pezzi e i personaggi, a maggior ragione perché la mia concentrazione non era delle migliori.

Così ripensai alle parole di David e al fatto che secondo lui sarebbe stata una buona idea riprendere con le guide e dare l'esame giovedì. Constatai che tentare non costava nulla, così sabato pomeriggio chiesi a mio padre di accompagnarmi a esercitarmi con le guide.

Pessima scelta.

Io ero sì arrugginita, considerando che non guidavo da settimane, ma lui ingigantiva il tutto e non faceva che mettersi a urlare e sbraitare a ogni minimo sbaglio, o a quelli che lui considerava sbagli ma che invece erano solo piccole imperfezioni dovute alla mia mancanza di pratica. Alla fine dopo tre quarti d'ora giunsi al limite della sopportazione e cominciai a guidare verso casa.

Il giorno dopo andò notevolmente meglio, tanto che mio padre mi consigliò di esercitarmi almeno per un'ora ogni giorno, e di dare l'esame giovedì.

Nel frattempo arrivò lunedì, e insieme a lui anche uno sfiancante giorno di scuola. Come immaginavo, non trovai Tracey fuori da casa mia alla solita ora e, sebbene fossi davvero stanca e non avessi le forze per farmela a piedi fino a scuola, una parte di me ne fu lieta. Almeno avrei avuto un po' di tempo per pensare a cosa dirle.

Perché sì, avrei dovuto affrontarla. Non potevo continuare a scappare da lei. A maggior ragione perché questo, a lungo andare, avrebbe potuto significare perderla. E non potevo perdere anche lei.

Una volta messo piede dentro scuola, venni subito affiancata da Herman, che sbucò quasi dal nulla e mi fece prendere un bello spavento.

«Oddio scusa, Meg, ti ho spaventato? Sì, sei saltata indietro di tre passi praticamente. Scusami, non volevo. Sai, il fatto è che ho un passo molto felpato, il nonno me lo dice sempre che ho preso da lui. È ottimo per la caccia: ti avvicini il più possibile agli animali così da poter prendere meglio la mira e poi, prima ancora che possano rendersi conto della tua presenza, si ritrovano a terra senza sensi. Ok, detta così forse sembra orribile, ma è una buona qualità. Dai, non guardarmi così, se non ci fossero persone come mio nonno, con cosa diavolo ti nutriresti?»

Ma la mia espressione era data principalmente dal fatto che mi ero svegliata appena tre quarti d'ora prima e lui era riuscito già nell'intento di farmi pentire dell'essere uscita di casa.

«Herm, sono le otto meno un quarto, come fai a essere già così... vivace?» chiesi, tentando di scegliere un aggettivo che non lo offendesse.

«Anche Trace me lo dice sempre, però a lei piace la mia energia, se sai cosa intendo» rispose con un ghigno malizioso.

In quel momento mi sentii in imbarazzo al posto di Tracey, la quale in realtà aveva ormai smesso da tempo di vergognarsi a causa delle battute inopportune del suo ragazzo.

Scossi la testa e ignorai le sue parole. «A proposito di Tracey, sai dov'è?» domandai.

«Era qui fino a due minuti fa, mi ha detto che sarebbe andata in bagno.»

Lo ringraziai e mi diressi rapidamente verso il bagno delle ragazze. Non appena varcai la porta, vidi Trace intenta a lavarsi le mani. Si voltò verso di me e si fermò. Non ci fu bisogno che le dicessi nulla: non appena mi vide, finì di fare quello che stava facendo e mi seguì fuori dal bagno, alla ricerca di un posto in cui parlare.

Entrammo nel laboratorio di scienze, che era l'aula vuota più vicina che riuscimmo a trovare.

Esitai per qualche istante, poi presi coraggio e le parlai a cuore aperto, senza filtri: «Non so che cosa ti prenda ultimamente. Che cosa ci prenda, anzi. Tutta questa storia ci sta cambiando, Trace, com'era prevedibile che accadesse. È normale, non torneremo più quelle di una volta. Ognuna di noi sta commettendo degli errori, io per prima ammetto di star sbagliando di continuo. Quello che non capisco, però, è perché tu abbia iniziato a dirmi cazzate».

Gli occhi scuri di Tracey mi fissavano con apprensione, eppure non disse nulla.

«Io ti voglio un sacco di bene, Trace, sei l'unica persona che mi è rimasta e non potrei sopportare di perdere anche te, però non so più che cosa pensare.» Notai che la sua espressione era mutata, ora più che preoccupata sembrava soltanto confusa, così decisi di chiarirle le idee: «Non è stato Dylan a diffondere quei volantini.  Lo so per certo, perché nelle ultime settimane lui non è mai stato nell'aula dei computer, eppure il file originale è stato creato qui a scuola».

Tracey appariva agitata, come se non si aspettasse quelle parole. O come se non si aspettasse che scoprissi la verità. «Meg, di che cosa mi stai accusando?»

«Penso sia evidente» risposi. «Sei stata tu a chiamarmi martedì scorso e a mostrarmi quel file sulla sua chiavetta.»

Una parte di me attendeva e sperava che iniziasse a difendersi, a giustificarsi e a fornirmi delle spiegazioni valide, tuttavia non lo fece. Non subito. E l'altra parte di me si aspettava che avrebbe reagito così.

Per un po' rimase in silenzio, senza sapere che cosa dire, il che non era da Tracey. Lei trovava sempre qualcosa da dire e sapeva sempre che cosa fare, ma quella volta sembrava davvero ai ferri corti.

«Meg, lo so che ho sbagliato, ma...»

Sentii una fitta allo stomaco. Quindi lo stava ammettendo. Non c'era nessun'altra spiegazione, l'aveva fatto e basta.

«Trace, perché... perché l'hai fatto? Perché continui a ferirmi in questo modo?» chiesi, con gli occhi che cominciarono a riempirmisi di lacrime, così come i suoi. «Dovremmo restare unite e guardarci le spalle a vicenda, non cospirare l'una contro l'altra. Io ormai ho soltanto te.»

Ancora una volta, non rispose.

«Ti prego, di' qualcosa. Dev'esserci un motivo perché tu l'abbia fatto, perché mi rifiuto di credere che tu l'abbia fatto al puro scopo di ferirmi» aggiunsi.

Una lacrima le rigò la guancia, seguita poi da una seconda e da una terza. «La verità è che... che tutto è precipitato da quando è iniziata questa tua storia con Dylan. Tu e Emily avete litigato a causa sua e poi lei è...»

«È morta?» la interruppi, incredula. «Stai incolpando me e Dylan per questo? Mi hai sempre ripetuto di smettere di torturarmi pensando a queste cose, mi hai detto di vivermi questa storia al meglio, di essere felice.»

Perché tutto a un tratto aveva cambiato idea? Lei mi aveva sempre incoraggiata.

«L'avevo detto prima di rendermi conto che ti stavi addentrando in una storia malata. Tu non eri felice con lui, Megan. Tu avevi bisogno di qualcuno che ti aiutasse a superare questo brutto periodo, ma con lui affianco, stavi mille volte peggio.»

«Questo non stava a te giudicarlo» ribattei. «E, anche se tu avessi ragione, non avresti dovuto immischiarti e rovinare la mia relazione in questo modo, agendo alle mie spalle, senza parlarmene prima.»

Tracey si asciugò le lacrime. «Quindi che cosa vuoi fare?» chiese, tirando su col naso.

Non sapevo che ne sarebbe stato del mio rapporto di amicizia con Tracey, ma al momento sentivo che non riuscivo a perdonarla. «È stato un colpo basso, Tracey. Specialmente la scelta di ritirare fuori la storia di quei volantini, sapendo quanto mi avevano fatto male.»

«Lo so, ma comunque non me ne pento. Fra te e Dylan sarebbe finita comunque.Lui è sbagliato per te, non ha fatto altro che farti soffrire e sono certa che in futuro ti farà ancora del male.»

Rimasi scioccata dalle sue parole. Come poteva dirmi certe cose? Sembrava che la storia di Emily avesse tirato fuori il peggio di ogni persona, in particolare di Tracey. Ormai più pensavo a quello che diceva e a quello che faceva e meno riuscivo a riconoscerla.

«Ho un'altra domanda, e poi potremo anche non parlarci più: se siete stati tu e Herman a mettere quel file nella chiavetta di Dylan, chi ha creato il file?» domandai.

«Herman stava lavorando al progetto di cui ti ha parlato, quando tra i file nel cestino del desktop ha trovato quello del volantino» rispose. «Ma Meg, ti prego, non possiamo metterci una pietra sopra? Non voglio perdere la tua amicizia, io...»

Non le lasciai neanche il tempo di finire: «Forse avresti dovuto pensarci prima» dissi, un istante prima che suonasse la campanella che segnava l'inizio delle lezioni.

Prima che potessi pentirmi di quella scelta (ardua, ma necessaria), le diedi le spalle e uscii dall'aula.

Un ragazzo per poco non mi travolse, passandomi davanti di corsa. Neanche cinque secondi dopo, altri due ragazzi mi passarono davanti in modo frettoloso, e poi altri ancora. Stava di certo succedendo qualcosa.

Così cercai di seguire i ragazzi e le ragazze che,  con foga, si stavano radunando di corsa attorno a una folla.

La scena che mi si presentava davanti mi lasciò completamente attonita: Dylan teneva Herman stretto per il collo della maglia, con un pugno alzato e puntato contro il suo viso, pronto a colpirlo. Herman aveva il terrore negli occhi, intrappolato com'era fra gli armadietti e il corpo di Dylan.

C'era chi esultava, chi incitava e chi semplicemente assisteva in silenzio, con i nervi a fior di pelle.

Io facevo parte di un'altra categoria: quella che avrebbe agito per fermarli.

Sebbene fossi un po' timorosa e titubante, mi feci spazio fra la folla di studenti e avanzai verso di loro.

«Dylan, cos'hai intenzione di fare?» chiesi, cercando di dare alla mia voce un tono il più fermo possibile. Non mi rispose e non mi degnò di uno sguardo, ma io non mi arresi: «Dylan, fermati. Lascialo stare!» esclamai.

«Meg, non importa, me lo sono merit...» Herm provò a intervenire, ma in risposta, Dylan gli diede un forte scossone.

«Dylan, basta! Devi lasciarlo stare! Se vuoi prendertela con qualcuno, prenditela con me. Non è a lui che devi farla pagare.»

A quel punto, sempre senza lasciare la presa su Herman, Dylan si voltò verso di me e mi rivolse un'occhiata che mi gelò il sangue nelle vene.

Ci fissammo per degli istanti che a me parvero interminabili. Lo sguardo di Dylan era così infuocato che per un attimo ebbi davvero paura e valutai se continuare a insistere oppure lasciarlo semplicemente perdere. Quando era così furioso, mi era difficile prevedere cos'avrebbe potuto fare da un momento all'altro.

Tutto a un tratto, però, il suo sguardò si ammorbidì. Lasciò la presa su Herman, che immediatamente scattò corse lontano da lui, poi tornò a guardarmi con i pugni serrati. Digrignò i denti, e infine se ne andò.

 

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Capitolo 23
*** Significa qualcosa? ***


Significa qualcosa?

Quel pomeriggio, passai come sempre dalla dottoressa Blackburn per il nostro appuntamento settimanale del lunedì, la quale mi riferì che aveva notato notevoli miglioramenti e progressi in me nell'ultima settimana, e che era ne era lieta.

Ne rimasi sorpresa, dal momento che ero praticamente rimasta sola. Dicevano sempre tutti che la cosa peggiore nella vita, per tuti, non solo per chi ha vissuto un trauma, era non avere nessuno attorno a cui appoggiarsi, eppure io avevo iniziato a migliorare solamente dopo aver fatto un po' di pulizia fra le persone che mi erano vicine. Forse dipendeva dal fatto che esse facevano parte di quegli elementi dannosi dei quali dovevo liberarmi, e ci ero riuscita. Era per questo che stavo cominciando a risalire.

Persino la dottoressa, come David, trovò ideale la mia intenzione di sostenere l'esame per la patente. «Ottimo, Megan. Iniziare a pianificare dei progetti futuri, specialmente se così determinanti nella tua vita - la patente nella vita di un adolescente è il primo passo verso l'indipendenza, vi fa sentire un po' più adulti - è un segno che sei sempre più pronta a ritornare sui tuoi passi e ristabilire il controllo sulla tua vita, Megan» mi spronò quindi.

Mi diede molti consigli, fra cui, cosa ancora più sorprendente, quello di approfondire la mia conoscenza con David. Lo sentiva spesso nominare durante le mie sedute, tanto che mi chiese se fra noi ci fosse qualcosa di più. «Oddio, insomma, no, direi di no...» risposi, seppur incerta. A quel punto iniziai a chiedermelo anch'io. C'erano molti suoi comportamenti che non mi spiegavo, ma mai prima di quel momento li avevo associati alla possibile esistenza di qualcosa di più. E neanche da parte mia sapevo cosa ci fosse. Del resto, avevo anche appena rotto con Dylan. «È solo il figlio del mio avvocato, dubito che... No, voglio dire, poi lui è più grande di me di un sacco di anni...»

«Di quanti?» domandò, interrompendomi. «Tu sei anche molto matura per la tua età, Megan. Sì, ovvio, tutta questa esperienza ha influito molto sulla tua crescita, ma in fondo credo che tu lo fossi già da prima.»

«Sei, all'incirca» risposi, dandole poi torto sull'altra parte del suo discorso: «Il fatto è che io sono ancora una ragazzina, mentre lui è un adulto, abbiamo mentalità diverse, non penso che...»

«E pensi che l'amore possa farci qualcosa, Megan? Colpisce chi vuole e non guarda in faccia nessuno.» A quell'affermazione, diventai paonazza, prima che tutto il calore andasse a depositarsi sulle mie guance. Mi sembrava prematuro parlare di amore. Mi sembrava prematuro parlare persino di semplice interesse!

Fortunatamente, la dottoressa Blackburn colse il mio crescente imbarazzo (a cosa sarà stato dovuto? Se in fondo ero sicura che fra me e David non ci fosse niente di più, perché mai avrei dovuto sentirmi in imbarazzo?) e cambiò discorso, concentrandosi sull'udienza. «Io credo che tu sia pronta, Megan. Puoi farcela» disse.

«Quindi pensa che potrò deporre entro la fine dell'udienza?» chiesi speranzosa.

«Lo spero vivamente. Il problema ora non risiede più nel valutare la tua sanità mentale, che abbiamo appurato come perfetta, ma le tempistiche: non sappiamo se l'udienza verrà rinviata una terza volta o se quella di venerdì sarà anche quella in cui la giuria prenderà la decisione definitiva. Ma il tuo avvocato è in gamba, Megan, sono certa che sarà in grado di prolungare ancora i tempi e darti la possibilità di deporre» rispose, prima che iniziassi a prepararmi per tornare a casa dopo la conclusione della seduta.

•••

L'ansia per le verifiche in confronto non era nulla. Non avevo mai avuto problemi in nessuna materia a scuola, ma l'ansia era in grado, ogni giorno, di ribaltare la situazione e farmi dimenticare concetti che avevo ripetuto fino allo sfinimento e che credevo immagazzinati in modo permanente nel mio cervello, rischiando così di farmi fallire le prove.

Ed ecco che temevo stesse succedendo lo stesso con il mio esame per la patente. L'esaminatore era un uomo sulla cinquantina, basso, con i capelli brizzolati, i baffi e le sopracciglia rigogliose, e occhi piccoli e per nulla in grado di infondere sicurezza. Mi bastava un suo sguardo affinché mi si gelasse il sangue nelle vene. 
Mentre guidavo, vedevo rivoli di sudore che mi cadevano sulla fronte attraverso lo specchietto retrovisore, il che mi stupì, dal momento che non ero solita sudare in modo così evidente. La cosa peggiore era che non mi segnalava apertamente i miei errori, ma me li faceva capire storcendo il naso e guardandomi con quegli occhietti inquisitori.

«D'accordo, basta così» disse a un certo punto, schiarendosi la gola. «Accosti pure lì.»

Feci come disse e poi mi voltai a guardarlo. Ero terrorizzata, ma dovevo cercare di non darlo a vedere. «Dunque, in autostrada non ha rispettato la distanza di sicurezza, sebbene non di molto, ma guidava troppo lenta. Nelle strade urbane, invece, a parte qualche inaccortezza, non se l'è cavata male.»

Chiusi gli occhi, pronta a sentire le parole: «Lei è bocciata».

Poi li riaprii, per sentire il cosiddetto verdetto (avrei dovuto farci l'abitudine). «Megan Ellen Sinclair, lei ha passato l'esame» disse, lasciandomi stupefatta.

Dal canto suo, l'esaminatore non mostrò il minimo entusiasmo nel dirlo, ma doveva essere chiaramente nella sua indole.

Io esultai. Ce l'avevo fatta. Ci ero riuscita.

Una volta tornata a casa, lo annunciai ai miei genitori, i quali si congratularono e mi abbracciarono. Poi andai in camera mia e tirai fuori il cellulare, ritrovandomi un messaggio da parte di David, inviato all'incirca un'ora prima. Sorrisi automaticamente e poi lo aprii: "L'hai passato?".

Se l'era ricordato.

E questo significa qualcosa?, mi chiesi.

"Solo che devi smetterla di pensarci e scovare significati più profondi nelle sue azioni."

Eppure era normale farsi delle domande, no?

"Hai già abbastanza problemi, lui non deve aggiungersi a quelli che hai già."

Così tentai di togliermi dalla mente quelle idee.

•••

Secondo giorno dell'udienza. Ancora non mi ero abituata alla cosa, e provavo la stessa inquietudine della prima volta che ero entrata in quell'edificio. Ero seduta sulle sedie dell'altra volta, ma quest'oggi al mio fianco c'era anche David.

Ero felice che avesse deciso di essere presente.

Di solito riusciva a tranquillizzarmi, ma non quella mattina. Anzi, la sua vicinanza, più che tutto il resto, era ciò che mi rendeva così tanto nervosa.

In quei giorni non avevo fatto che pensare alle parole della dottoressa Blackburn ed ero giunta alla conclusione che, sì, David non mi era affatto indifferente. Era ancora troppo presto per poter definire quello che sentivo stando insieme a lui, o semplicemente che sentivo pensando a lui, ma di una cosa ero certa: non lo vedevo solo come il figlio del mio avvocato, né come un potenziale amico.

Fissavo il pavimento con le braccia incrociate, mentre il mio tic nervoso alla gamba si faceva sempre più insistente, tanto che sembrava quasi avessi una crisi epilettica in atto.

«Smettila di tremare» disse David a un certo punto, posandomi una mano sul ginocchio affinché cessassi di muovermi.

Inconsciamente non fece che peggiorare le cose, dal momento che quel semplice tocco mi mozzò il fiato. Tuttavia mi sforzai comunque di dire qualcosa: «Non è una cosa che posso controllare».

«Impegnati più a fondo. Le persone innocenti non temono il giudizio degli altri. E tu sei innocente, ricordi?» chiese addolcendo un po' il suo tono.

Annuii. «Chi sentiranno oggi?» domandai poi.

«Perché rovinarti la sorpresa?» rispose con uno dei suoi soliti ghigni.

Quelle sue parole non promettevano niente di buono.

•••

La prima a essere interrogata fu Olivia Goldberg, niente di peggio per cominciare. Mossa astuta da parte del procuratore, usare colei che avrebbe fatto di tutto per mettermi in cattiva luce.

Mi chiesi perché David ci si trovasse così bene, prima di ripetermi che quello non era il momento adatto per farmi certe domande e che avrei dovuto concentrarmi sull'andamento dell'udienza. Eppure era difficile rimanere attenta, se Olivia non perdeva occasione per sputarmi merda addosso.

«E poi è noto a tutti a scuola che Megan abbia evidenti problemi nel controllare i suoi impulsi.»

Ah, davvero?

«A questo proposito, circolano voci all'interno della scuola secondo cui lei, signorina Goldberg, il giorno in cui l'imputata è rientrata a scuola, è stata attaccata verbalmente e minacciata di morte da quest'ultima. Cos'ha da dire in merito?»

Che stronza.

Prima che Olivia potesse anche solo maturare un solo pensiero, l'avvocato Finnston si attivò e si alzò in piedi: «Obiezione, Vostro Onore! Sentito dire».

«Riformulo. Conferma che l'imputata ha espresso le seguenti parole: "Ti conviene starmi alla larga, altrimenti potrei uccidere anche te"?».

Che stronza. Di nuovo.

Aveva raccontato ogni singolo dettaglio al procuratore.

Ma l'avevo fatto anch'io. Ed ecco che, infatti, l'avvocato Finnston si mosse nuovamente in mia difesa: «Obiezione, Vostro Onore! La frase è stata riportata priva di un contesto. Perché non domanda alla testimone cos'ha portato l'imputata all'utilizzo di quelle che, decontestualizzate, sembrerebbero parole molto pregiudizievoli?».

Il giudice Sullivan, a quel punto, intervenne: «Respinta. Avvocato, invece che fornire indicazioni al procuratore su come svolgere il suo lavoro, perché non attende il momento del controinterrogatorio per poter porre le domande che preferisce?». L'avvocato Finnston, con un sospiro profondo e irritato, si risedette. Iniziò a tamburellare le dita sul tavolo con fare impaziente e frustrato. «Bene, signorina Goldberg, risponda alla domanda» continuò il giudice, spazientito. Come sempre, sembrava desideroso che terminasse tutto al più presto.

«È tutto vero. Avevo solo espresso liberamente la mia opinione in merito a ciò che è successo, e Megan ha risposto in quel modo. Siamo in un Paese libero, no? Non ci ho visto nulla di male.»

Digrignai i denti. «Non badare a lei. Mantieni la calma» sentii sussurrare David alle mie spalle. Non potevo voltarmi, ma avrei tanto voluto farlo e incrociare il suo sguardo.

«Quale pensa sia stato il motivo di una così ingiustificata veemenza, al di là dei vostri infelici trascorsi?»

«Obiezione, sta chiedendo al teste un'opinione.»

«Accolta.»

«Vostro Onore, tutto ciò mi serve per poter dimostrare...»

«Dimostrare cosa?» lo interruppe l'avvocato Finnston, rialzandosi in piedi. «Lo scopo di quest'udienza non è scavare nella psiche della mia cliente, bensì verificare l'esistenza di prove a carico della mia cliente in merito all'assassinio di Emily Walsh. Mi rifiuto di sentire un'altra domanda inquisitoria e assolutamente irrilevante se non strettamente legata alla ricerca di prove!» esclamò. «Le opinioni e le congetture ideate dalla mente della signorina Goldberg sono soltanto frutto del suo profondo astio nei confronti della mia cliente, pertanto non dovrebbero essere prese in considerazione» aggiunse.

Il giudice Sullivan sbatté il martelletto con decisione, intenzionato a riportare l'ordine in aula. «Avvocato Finnston, non mi costringa a ricorrere a una sanzione disciplinare.»

«Se la può infilale su per il culo la sanzione disciplinare...» bisbigliò l'avvocato Finnston, suscitandomi un piccolo sorriso.

Tuttavia, dopo qualche istante di silenzio, vidi l'avvocato emettere un ghigno compiaciuto, come se sapeva ciò che avrebbe detto il giudice di lì a breve. «Procuratore, sebbene la deplorevole condotta dell'avvocato Finnston gli ha quasi rischiato che gli negassi di avere ragione, mi ritrovo costretto a dargli ascolto. Siamo alla ricerca di prove vere, tangibili. Se la testimonianza della signorina Goldberg non è volta a fornirle, allora forse è il caso di passare agli altri testimoni.»

Fui soddisfatta nel sentire quelle parole, in fondo avevamo perso già mezz'ora solamente per sentire le inutili accuse di Olivia. Tuttavia, mi diceva che il giudice Sullivan avesse deciso di dare ascolto all'avvocato Finnston, soltanto perché desiderava che terminasse tutto al più presto.

Si passò quindi al controesame di Olivia, in cui l'avvocato si impegnò per smontare tutte le sue accuse. Ci vollero non più di dieci minuti per ridicolizzarla.

«... per poi concludere con: "Tanto lo sappiamo tutti che l'hai uccisa tu". È esatto? E dopo queste parole, ha deriso la mia cliente per le lacrime da lei versate in seguito alle sue accuse, cosa che l'ha portata a difendersi utilizzando quell'affermazione. Quindi, una frase come quella della cliente può essere considerata sì una minaccia, così come il comportamento attuato dalla signorina Goldberg può essere categorizzato come bullismo, oltre che diffamazione. Ah, e prima che me ne dimentichi, conferma che nella giornata del 5 ottobre 2018, si è avvicinata alla mia cliente gridando a gran voce le parole: "Tu sei morta, Megan Sinclair!". Non è forse anche questa una minaccia di morte?»

Olivia si era ormai fatta sempre più piccola, teneva le spalle incurvate ed era indietreggiata fino ad aderire il più possibile allo schienale della sedia. «Io... ecco, non ricordo benissimo questa cosa, ma...»

«Non si preoccupi, se non rammenta posso sempre fornirle il contesto. Ne ha necessità?» chiese l'avvocato Finnston, fingendo un tono cortese.

Olivia rimase in silenzio. Messa alle strette, non era più così spavalda.

A quel punto intervenne il procuratore: «Vostro Onore, temo che l'avvocato abbia confuso il teste con l'imputata!» esclamò puntandomi il dito. «Non è la signorina Goldberg a essere sotto processo, inoltre ritengo che le sue domande non siano mirate a fornire prove della non colpevolezza dell'imputata, bensì a mortificare il teste.»

«Grazie per la brillante osservazione, illustrissimo procuratore. Non ho altre domande» rispose pacato l'avvocato, risedendosi.

•••

In seguito fu annunciata una pausa di venti minuti. Vidi Olivia correre in bagno a piangere. Quando uscì, si fermò a scambiare qualche parola con David, ma prima che potessi avvicinarmi per poter sentire i loro discorsi, fummo chiamati a ritornare in aula. Furono sentiti gli altri testimoni del procuratore, ma gli interrogatori e rispettivi controinterrogatori furono piuttosto brevi, finché non arrivò il turno di sentire coloro che erano stati scelti dall'avvocato Finnston per testimoniare a mio favore.

La prima fu Tracey. Appariva tranquilla, eppure la sua eccessiva rigidezza e compostezza mi fecero capire quanto in realtà stesse morendo di paura. La conoscevo bene.

E in quel momento avevo paura anch'io. Paura che potesse mettermi nei guai, dal momento che non eravamo più in buoni rapporti. Specialmente perché era vincolata al giuramento.

«Giura di dire la verità, tutta la verità, nient'altro che la verità?»

«Lo giuro» rispose, con un tremolio nella voce.

Aveva ricevuto qualche dritta dall'avvocato Finnston, ma restava comunque tutto imprevedibile. Bastava una domanda sbagliata da parte del procuratore per mandare tutto in fumo.

Forse il fatto che avrebbe cominciato l'avvocato Finnston, era un vantaggio.

Fin dalle prime domande che pose, tuttavia, mi resi conto che le intenzioni dell'avvocato Finnston erano ben diverse da quelle che pensavo.

«Signorina Gomez, secondo i tabulati telefonici lei è stata chiamata al telefono dall'imputata la sera della festa, intorno alle 23:30. Lo conferma?»

«Sì, è esatto.»

«Perché? Dove si trovava in quel momento?»

«Come ho detto alla polizia, mi trovavo ancora dentro la casa di Dylan a partecipare alla festa, mentre Megan era uscita a cercare Emily.»

«Ne era al corrente, di dove fosse andata la signorina Sinclair, prima che la chiamasse?»

«No, non lo sapevo. Dopo la loro litigata le avevo entrambe perse di vista.»

«Quindi invece che mettersi alla loro ricerca, ha preferito continuare a godersi la festa come dichiarato poco fa?»

Ancora non capivo dove volesse arrivare l'avvocato, eppure lui sembrava avere le idee ben chiare.

Tracey tentennò, prima di annuire: «Sì, ero lì con il mio ragazzo e...»

«Però era venuta alla festa insieme alle due sue amiche, giusto?» la interruppe. «Quindi, perché se eravate arrivate alla festa in tre, l'avete lasciata in due?»

Persino per Tracey in quel momento era difficile nascondere le sue emozioni. La questione si stava facendo davvero pesante per lei e, nonostante il male che mi aveva procurato, una parte di me era dispiaciuta.

«Io... ecco, Megan aveva già chiamato Emily e lei non aveva risposto, quindi...»

Tracey non terminò la frase poiché venne interrotta dall'avvocato Finnston: «Quindi lei, dopo aver saputo che la sua amica Emily Walsh non aveva risposto al telefono all'amica Megan Sinclair, con la quale aveva appena avuto una pesante discussione e con la quale non avrebbe di certo voluto parlare in quel momento, ha ritenuto opportuno lasciare la festa senza cercarla, facendo sì che dovesse incamminarsi da sola a casa?».

«Obiezione, Vostro Onore, l'avvocato sta testimoniando» si intromise il procuratore.

«Accolta. Avvocato, continui con le domande.»

L'avvocato Finnston roteò gli occhi, scocciato. «Mi perdoni, Vostro Onore. Signorina Gomez, di chi è stata l'idea di lasciare la festa?»

«Mia.»

«Sua? Per quale motivo?»

«Megan era scossa per la litigata, quindi ho cercato di convincerla che le avrebbe fatto bene andare altrove.»

«Convincerla? Sta dicendo che la mia cliente non era inizialmente intenzionata ad andarsene dalla festa?»

Tracey a quel punto capì di essersi fregata con le sue stesse parole. E io capii dove volesse arrivare l'avvocato Finnston.

«Lei afferma, signorina Gomez, di aver manipolato le scelte della mia cliente, spronandola ad abbandonare la festa, senza che nessuna delle due fosse a conoscenza delle reali condizioni in cui si trovasse la vostra amica, decidendo quindi volontariamente di abbandonarla?»

«Io... io non potevo immaginare che Emily... che si trovasse in pericolo in quel momento» balbettò.

«Eppure non rispondeva al telefono e nessuno la trovava. Perché non se n'è preoccupata e ha trovato più urgente manipolare la mia cliente?»

«Non l'ho affatto manipolata!» esclamò.

«Però ha riferito che in quel momento la mia cliente era molto scossa, pertanto non era nelle giuste condizioni per intendere e volere e la sua mente era facilmente condizionabile.»

«Io... cercavo solo di aiutare la mia amica.»

«L'amica che era visibile e rintracciabile a tutti, certo.» Tracey trasalì, piena di lacrime agli occhi. L'avvocato Finnston capì di averla torturata abbastanza, così diede un'occhiata alle carte che aveva sul tavolo e le sistemò, per darle un attimo di tregua.

«Ho solo un'ultima domanda, Vostro Onore. Lo riconosce questo, signorina Gomez?» chiese a Tracey, sollevando e mostrando a Tracey e poi alla giuria il volantino diffamatorio con la mia faccia.

«Sì» rispose semplicemente Tracey.

«Non ha nient'altro da dire a riguardo? Per esempio, sa che per poter utilizzare l'aula dei computer della Morgan City High School, bisogna compilare un foglio lasciando una firma, oltre che il numero del proprio documento, la data e l'ora in cui si entra nel laboratorio? E sa che questo documento proprio è stato creato proprio in quella scuola, il 2 ottobre 2018, alle ore 15:45? Curioso, lei quel giorno ha depositato la sua firma alle ore 15:42.»

Nel sentire quelle parole, non fu Tracey quella a rimanere più sconvolta. Mentre le lacrime le sgorgavano dagli occhi e le ricadevano sulle guance, mi mimò le parole: «Mi dispiace».

Era stata lei.

•••

L'udienza, dopo la testimonianza di Tracey, fu rimandata ancora alla settimana successiva.

Finora non erano stati fatti grandi passi per dimostrare la mia innocenza, tuttavia l'avvocato Finnston era riuscito a ripulire la mia immagine e la mia reputazione. Ora apparivo come la ragazza debole con cui se l'erano presa i bulli come Olivia e che era stata manipolata e poi diffamata dalla sua stessa amica. Da imputata, ero apparsa quasi come la vittima di tutta quella storia.

Prima di andarmene a casa, sebbene fosse stata una mattinata stancante, c'era un'ultima cosa che mi sentivo di fare.

«Olivia!» richiamai la sua attenzione e lei si voltò.

«Che c'è, Megan?» domandò, incrociando le braccia al petto e roteando gli occhi, che avevano ancora qualche residuo di mascara sbavato.

Mi morsi il labbro inferiore, titubante. Lo stavo davvero facendo? Stavo davvero per chiederle di David?

«Ecco, ehm... ti ho vista parlare con David, prima...»

Mi fermò prima che potessi terminare la frase: «Aspetta, chi diavolo è David?».

Indicai il ragazzo che se ne stava seduto qualche metro più in là a sorseggiare una tazza di caffé, e Olivia prese a ridere sguaiatamente. «Quello? Non si chiama David, idiota! È Dominic Foster, lavora nell'ufficio del procuratore.»

Domi... cosa? Che diavolo si era inventato David?

«E perché parla con te?» chiesi, ignorando per il momento il nome che gli aveva attribuito.

Alzò gli occhi al soffitto. «Mmh, non so, secondo te perché un maschio e una femmina si parlano? L'ho conosciuto la sera della partita, era lì per vedere il fratello giocare. E, be', non appena mi ha vista... ha pensato di tentare un approccio, ovviamente. Deve aver capito fin da subito che io sono diversa da tutte le altre ragazzine della mia età. E in fondo anch'io sono stufa di quei soliti bambini immaturi del liceo. Ci siamo trovati.»

Vorrei avere anche un solo briciolo della sua autostima, pensai. Ma potevo tranquillamente rinunciarvi, se avesse significato ereditare anche la sua incredibile ingenuità.

«Congratulazioni, allora» dissi con un sorriso strafottente, ma che lei non colse. Senza neanche aspettarmi una sua risposta, mi voltai dalla parte opposta e mi diressi verso David. Aveva ormai finito di bere il suo caffè, e si era diretto fuori dal palazzo di giustizia di St. Mary. Uscii dall'imponente edificio e lo seguii fino al parcheggio. Giunsi alle sue spalle un attimo prima che entrasse in auto. «I miei complimenti» dissi applaudendo.

Quest'ultimo si voltò e mi fissò confuso. Forse si era anche preso uno spavento nel vedermi apparire dietro di lui dal nulla, motivo per cui mi lanciò un'occhiata torva. «Per quanto adori i complimenti, non mi è chiaro a cosa siano dovuti i tuoi» replicò, aggrottando le sopracciglia.

«Dominic Foster? Cos'è, un'altra delle tue numerose personalità?»

Rilassò il viso e rise di gusto. «Ah, quindi l'hai saputo» disse con tono fiero e orgoglioso.

E di che cosa?

«Per che cos'è che ti vanti tanto?» chiesi, incrociando le spalle al petto. «Cosa vuoi da Olivia?»

«E a te che importa?» domandò avvicinandosi leggermente a me, così da potermi fissare bene negli occhi e, chissà, magari capire le mie intenzioni.

Peccato che non ce le avessi chiare nemmeno io. In che guaio mi stavo cacciando?

Scrollai le spalle e indietreggiai di un bel po' di passi: «Mi importa perché lei è convinta che tu ci stia provando con lei».

Emise uno di quei soliti ghigni. «E allora? È vero, è ciò che ho fatto finora. O meglio, ciò che ho finto di fare.»

«Cosa dovrebbe significare?»

Più passavano i secondi, più mi pentivo di essergli andata a parlare e più le sue motivazioni si facevano intricate e misteriose.

Roteò gli occhi, seccato e deluso. «Ancora non ci sei arrivata?». Scossi la testa, perciò aggiunse: «Qual è il cognome di Olivia?».

«Goldberg. Ma questo cosa...»

Non mi lasciò il tempo di finire: «E come si chiama il procuratore distrettuale in carica a questo processo?».

Procuratore Harry G. La G doveva stare per Goldberg. Procuratore Goldberg.

Ecco che tutto sembrò acquisire un senso.

«Avevo bisogno di lei per riuscire ad avere delle informazioni sulle ricerche del padre,» spiegò «ma non potevo rischiare che sapendo il mio vero nome mi ricollegasse a mio padre e capisse quindi da che parte stavo, così mi sono finto un'altra persona. Dominic Foster esiste davvero, è un tirocinante che lavora nell'ufficio del procuratore. Ho finto di essere lui, così da conquistare la fiducia di Olivia e farle più domande possibili su quanto scoperto dal padre senza che si insospettisse, facendole credere di ammirare molto il procuratore Goldberg e mostrandomi particolarmente interessato alle sue ricerche in merito al tuo caso. Un semplice e puro bluff.»

Una parte di me fu sollevata nel sapere che fra Olivia e David non c'era assolutamente nulla in ballo. Ma dall'altra... Che razza di persona meschina e subdola avevo davanti?

«Quindi tu hai sedotto una sedicenne solamente per i tuoi scopi. Ripeto: complimenti» commentai sarcastica.

«Ti ringrazio. Anche se in realtà dovresti essere tu a ringraziare me, considerando che l'ho fatto per aiutare te e il tuo caso.»

«Ci sono anche altri modi per aiutarmi.»

Modi più legali che adescare una ragazza ingenua.

«Forse, ma io preferisco agire così. Non vuoi neanche sapere che cosa ho scoperto? Sono stato bravo.»

«No!» risposi scontrosa. «E comunque non avresti dovuto immischiarti, non lavori tu per me, lo fa tuo padre. È stato lui a chiederti di farlo?» domandai.

«Secondo te? È stata una mia idea.»

«Un'idea stupida» rimarcai.

Sbuffò. «Qual è il problema? Non ho fatto nulla di male.»

«No, infatti, a parte illudere una sedicenne provandoci con lei!» ripetei.

«Sai, questa tua reazione la capirei se ti importasse qualcosa di lei, ma da ciò che ho potuto vedere fra voi due non scorre buon sangue. Vorresti davvero farmi credere che ti stiano a cuore i suoi sentimenti? A me sembra più che tu sia gelosa!» esclamò, forse senza neanche riflettere più di tanto sulle ultime parole che aveva pronunciato.

Abbassai lo sguardo, per evitare di guardarlo negli occhi e non risposi. Questo fece sì che fra di noi calò un lungo e imbarazzante silenzio.

Cosa avrei dovuto rispondergli? In quel momento mi resi conto che aveva pienamente fatto centro, come tutte le volte. E proprio per questo motivo, non avrebbe avuto senso mentirgli, tanto l'avrebbe capito. Lo capiva sempre.

«Megan?» cercò di richiamare la mia attenzione, ma la sua voce apparve poco convinta. E, proprio come sospettavo, il mio silenzio fece sì che dedusse tutto da sé. Mi accorsi che aveva trovato da solo una risposta alla sua domanda quando si schiarì la gola e riprovò ad attirare la mia attenzione, usando un tono più deciso: «Megan».

Alzai finalmente lo sguardo e gli risposi. «Che c'è?» scrollai le spalle. «Ti sembra così impossibile da credere? Non penso di essere quel tipo di ragazza che si inventa cose che esistono solo nella sua testa, quindi...»

«No, no, fermati» mi interruppe, cominciando ad agitarsi. «Scordatelo: non affronteremo quel discorso.»

«Perché no?»

Chi era che si stava comportando da bambino immaturo in quel momento?

Approfittai del fatto di averlo colto di sorpresa e che quindi non sapesse come ribattere, per muovere diversi passi verso di lui. Mi fermai solo quando la distanza fra noi due divenne minima, tanto da poter sentire il suo respiro caldo sul mio viso. A quella vicinanza, proprio il suo respiro, si fece più frequente e affannato, mentre il mio cuore cominciò a battere all'impazzata.

«Se io non avessi sedici anni...» Non finii la frase perché David girò il viso di lato, quasi come cercasse una sorta di scappatoia, un aiuto esterno. Colta da un improvviso coraggio che non pensavo di possedere, presi il suo volto fra le mie mani, per attirarlo più vicino a me e costringerlo a guardarmi. Non appena i suoi occhi incontrarono i miei, deglutì e poi schiuse le labbra. Persi un battito, ma cercai di rimanere concentrata.

Una volta che fui sicura di avere la sua completa attenzione e che non avesse nessuna via di scampo, ripresi a parlare: «Se io non avessi sedici anni, se ne avessi ventidue, o come minimo diciotto, oppure se tu non fossi maggiorenne e avessi la mia età... cambierebbe qualcosa fra noi?» chiesi, ma in realtà la mia non era altro che una domanda retorica. Lo sapevo. La sua reazione non faceva che dimostrarmelo. Non mi ero inventata tutto. Gli passai una mano sui capelli, spostandogli all'indietro quelle piccole ciocche ribelli che gli ricadevano solitamente sul viso. «Dopo quello che ho vissuto, ho smesso di sognare, oramai resto con i piedi ben saldi a terra, perciò ciò che vedo, ciò che sento, ciò che provo, non è più frutto della mia immaginazione, di qualche fantasia tipicamente adolescenziale, ma è ciò che accade realmente attorno a me. Io so di non essere solo una stupida ragazzina che ha mal interpretato tutto, e lo sai anche tu. Continuare a mentire, prima di tutto a te stesso e poi a me, non servirà a nulla. Quindi... dillo. Di' ciò che sappiamo bene entrambi e che è inutile continuare a negare e nascondere. Ti... ti prego.»

David non si mosse, né emise un singolo suono. Continuò a tenere lo sguardo fisso su di me, sui miei occhi, ma alla fine del mio discorso si tradì e lo spostò sulle mie labbra. Deglutì di nuovo, e io persi un altro battito. Per un secondo quasi impercettibile, mi parve che stesse per annullare la distanza fra noi, ma durò troppo poco affinché potessi averne la certezza. Subito dopo aveva già riposizionato lo sguardo sul mio.

L'unica cosa sicura, in quel momento, era che stavo letteralmente impazzendo nell'aspettare una sua risposta, nell'essergli così vicina e non poter fare niente.

"Ti prego, ti prego, ti prego".

Quelle due parole continuavano a riecheggiare nella mia mente, rendendomi ancora più impaziente.

Finché, ad un certo punto, David si protese ancora un po' in avanti, fermandosi a un centimetro dalle mie labbra e sorridendomi. Mi convinsi che stesse per cedere, così emisi un flebile sorriso anch'io.

Ma mi sbagliavo: non era un sorriso di gioia il suo, piuttosto uno dei soliti ghigni beffardi. Afferrò i miei polsi e, guardandomi in modo sprezzante, staccò le mie mani dal suo viso, riportandomi le braccia lungo i fianchi.

«Ora ascoltami molto bene, così che debba ripetertelo una sola volta: non c'è e non ci sarà mai niente.»

Esitò un attimo, prima di darmi le spalle ed entrare dentro la sua auto. In men che non si dica, accese il motore e si dileguò. Rimasi soltanto io, di fianco al posto auto lasciato vuoto dalla sua macchina, e con una nuova crepa sul mio cuore.

 

 

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Capitolo 24
*** Tutto a causa tua ***


Tutto a causa tua


Se solo non fosse stato per i farmaci prescritti dalla dottoressa Blackburn, quella notte l'avrei sicuramente passata in bianco, esattamente come facevo fino a poche settimane prima.

Avevo così tanti pensieri, ansie, timori che si accatastavano nella mia testa fino a procurarmi una forte emicrania, che ero preoccupata che la notte fra il venerdì e il sabato l'avrei trascorsa a girarmi e a rigirarmi nel letto (fianco destro, fianco sinistro, pancia in su, poi in giù), ma per fortuna le mie pastiglie per il sonno fecero il loro dovere e mi addormentai dopo poco tempo, dimenticandomi per qualche ora dei miei problemi.

Peccato che dovetti interfacciarmi con essi al mio risveglio, e la cosa fu più dolorosa che mai.

Tracey aveva creato quel documento, quel volantino. Era stata lei fin dall'inizio. Non solo mi aveva mentito più volte in merito a quel volantino, nonostante le avessi dato la possibilità di dirmi la verità, ma cosa più grave, era stata lei a crearlo e a diffonderlo per la scuola. Perché? Più ci riflettevo e meno trovavo un senso logico. Tracey era mia amica, quindi perché ferirmi in quel modo? Insomma, se davvero mi avesse fin da subito ritenuta l'assassina di Emily, quella sera non mi avrebbe coperta, non mi avrebbe aiutata e avrebbe fatto tutto il possibile per incastrarmi. Chi diavolo avevo avuto di fianco fino a quel momento?

E poi c'era Herman. Sebbene con lui non avessi un rapporto stretto quanto quello con Tracey e Emily, era mio amico. E avevo perso anche lui.

All'improvviso mi tornò in mente la nostra ultima conversazione avvenuta a scuola, quel lunedì mattina, dopo che Dylan se n'era andato.

Avevo continuato a tremare e a sentire le palpitazioni come minimo per tutti i cinque minuti successivi. Nemmeno le sentivo le parole di Herman al mio fianco. Incredibile, ma era lui a cercare di tranquillizzare me. Lui, che era appena quasi stato preso a botte da Dylan.

A un certo punto, quando la confusione dentro la mia testa si era ormai fatta insostenibile, capii che c'era solo una cosa che avrei potuto fare: esternarla. Così parlai, innanzitutto per fermare quella macchinetta senza batterie al mio fianco: «Herm, ho capito. Ne ho parlato anche con Tracey, lo so cos'avete fatto. Ma non per questo Dylan è legittimato a prenderti a pugni, perciò smettila di giustificarlo e dire che te lo saresti meritato!» avevo esclamato.

«Ah, quindi lo sai? Mi dispiace, Meg, ti giuro che non l'abbiamo fatto per male, lo sai che ti vogliamo bene. E, comunque, sì forse da lui non mi meritavo un pugno, ma tu se te la senti puoi tirarmelo, così saremo pari e torneremo amici come sempre, va bene? E dai, non guardarmi in quel modo! Guarda che scherzavo, lo so che la violenza è sbagliata, me l'ha insegnato mio nonno, sai? La verità è che anche se il lavoro dei cacciatori spesso è disprezzato e malvisto dall'opinione pubblica, devi sapere che non siamo dei mostri. Mio nonno usa una tecnica umana e indolore per uccidere gli animali che caccia. Te lo spiego, è molto semplice: prima si piega il collo, in modo da avvicinare il mento al torace. Poi si posiziona il coltello vicino alla giugulare e subito dopo si recide con un semplice taglio netto. Dopo poco, l'animale giunge in uno stato di immobilità. Inizia a dissanguarsi, senza sentire nulla. Oh, scusa, ti sto intontendo di nuovo? Mi dispiace, Meg, ora...»

«Herman!» lo avevo interrotto, perdendo la pazienza. «Mi stai facendo scoppiare la testa, dannazione! Non me ne frega niente né delle tue scuse né degli animali che uccide tuo nonno. Lasciami in pace, da ora in avanti.» Senza neanche attendere una risposta, dal momento che sapevo benissimo che se gli avessi dato ulteriormente corda, mi avrebbe tenuta a sentire i suoi interminabili e insensati discorsi per almeno altri venti minuti, mi ero allontanata e mi ero diretta in classe. Come può una persona essere logorroica al punto da portare all'esaurimento nervoso le persone?, mi ero chiesta.

Eppure, a pensarci, quella sua logorrea mi mancava. Parlava troppo e il più delle volte diceva cose inopportune o senza senso, ma era quel suo modo di fare a renderlo speciale, quella sua perenne allegria, la sua spontaneità, a renderlo Herman. E mi mancava.

Era passato quasi un mese dalla morte di Emily, assolutamente troppo poco tempo per aver perso così tanto.

E poi rimaneva sospesa la questione di David. Considerando come si era chiusa la nostra conversazione, non potevo che sentirmi una stupida per avergli dichiarato apertamente i miei sentimenti in quel modo, nell'illusione che lui facesse lo stesso, eppure era ciò che mi sentivo di fare in quel momento.

Non ero mai stata in grado di nascondermi più di tanto, le mie emozioni prendevano sempre il sopravvento su tutto e iniziai a pensare che non fosse per forza una cosa negativa: almeno io sapevo di essere vera. Impulsiva, emotiva, ma vera. Ed era ciò che mancava a tutti gli altri.

A David specialmente. Lui non si lasciava quasi mai andare, aveva sempre addosso quella corazza e quella maschera che lo rendevano imperscrutabile ed enigmatico. Ma con me a volte rinunciava a nascondersi, quindi mi sembrava assurdo di essermi sbagliata di così tanto. Se non sentisse di avere un legame profondo con me, perché mai mi avrebbe detto certe cose così personali su di lui? Non era uno che si apriva facilmente con le persone, perché mai avrebbe dovuto farlo con me, se per lui non contavo nulla?

•••

Passai praticamente tutta la mattinata a letto, a torturarmi la mente come mio solito, senza riuscire a trovare la forza di reagire e riprendermi. 
Mia madre notò fin da subito che c'era qualcosa che non andava, dal momento che, per la sua contentezza, non mi ingozzai a pranzo. Tuttavia, decise saggiamente di non porre domande, forse nel timore che potessi urlarle contro.

Durante il pomeriggio provai a mettermi a studiare, invano. Non riuscivo a trovare la giusta concentrazione, pertanto ci rinunciai, per evitare di perdere tempo. Perciò mi rimisi a letto e presi il cellulare, nella speranza che, per qualche sconosciuto motivo, magari avessi ricevuto un messaggio da parte di David. Cosa che non accadde, e in cuor mio già lo sapevo.

Tuttavia vidi un messaggio da parte di Dylan e subito sobbalzai sul letto. Ero indecisa se aprirlo o meno, dal momento che ero, come sempre, intenzionata a ignorarlo. Ma alla fine lo lessi: "Megan, io non ce la faccio più. Ho bisogno di parlarti. Non ha senso continuare a evitarci in questo modo, non facciamo che farci del male a vicenda. Non hai idea di quanto stia male senza di te, ho bisogno di vederti. Ho bisogno di parlarti. Anche se tu dovessi voler chiudere per sempre, ho bisogno di sentirlo da te, che tu me lo dica di persona. Fra dieci minuti sarò sotto casa tua. Dammi almeno questa possibilità. Poi ti lascerò in pace per sempre".

Rimasi almeno due minuti a rileggere più volte le sue parole, prima di convincermi che avrei dovuto accettare di vederlo. Almeno per mettere un punto definitivo a tutta quella storia, così che entrambi potessimo darci pace e così che potesse smetterla di tartassarmi di messaggi e chiamate senza mai ricevere risposta.

Quindi accettai, e poi cominciai a prepararmi più in fretta che potei. Misi dei jeans, una maglia qualsiasi e poi indossai un bomber nero, considerando che era ormai autunno inoltrato e iniziava a fare freddo. Poi uscii di casa e mi ritrovai subito Dylan davanti, a pochi metri dalla porta d'ingresso.

Mi si mozzò il respiro non appena lo vidi, e lo stesso sembrò accadere a lui.

«Ciao» disse, ma in realtà gli uscì solo un leggero bisbiglio.

Io risposi solo con un cenno della testa. Poi avanzai di qualche passo e camminai fino a raggiungere il marciapiede. Lui mi seguì e iniziammo ad andare in giro a zonzo, senza una meta precisa.

«Quindi? Non dici niente?» chiesi, per invogliarlo a parlare. Lui mi guardò con le sopracciglia aggrottate: «In realtà mi aspettavo che fossi tu a parlare».

Gli restituii lo stesso sguardo confuso. «Mi hai chiesto tu di vederci» gli feci notare.

«Sì, per avere delle risposte. Ho cercato di darti il tuo tempo, e...»

«Darmi del tempo? Non hai fatto che assillarmi inviandomi continuamente messaggi e lasciarmi chiamate e messaggi in segreteria. E in più ora ti sei pure presentato sotto casa mia dandomi un preavviso di appena dieci minuti» lo interruppi, incrociando le braccia al petto. «E comunque non ho bisogno di tempo. Ho già preso la mia decisione, e pensavo fosse chiara anche a te» aggiunsi.

Schiuse un attimo le labbra, forse per lo stupore, forse per la durezza con cui gli parlai, poi le serrò e vidi le sue narici allargarsi. «Ok, quindi ora pensi che io sia un cazzo di stalker?»

Non sarebbe la prima volta che si piomba a casa mia senza dirmi nulla prima, pensai, almeno questa volta mi ha avvisata.

«E poi che cosa aspettavi a informarmi della tua decisione? Che cosa pensavi, che la cosa sarebbe potuta rimanere in sospeso ancora per molto?»

Alzai gli occhi al cielo. «È vero, ho temporeggiato, perché, sai, sono piena di problemi e per un po' volevo evitare di pensarci!» sbottai. «Ok, forse ho sbagliato, ho fatto la vigliacca, ma... be', prova a capirmi.»

Questa volta roteò lui gli occhi. «E si ritorna ancora qui. Prova tu a capire me, porca puttana, Megan!» esclamò. Poi strinse i pugni e sembrò tranquillizzarsi. «Per una volta, una volta...»

«Evidentemente non ci riesco, ok? Mi dispiace, ma ho capito che... che non siamo fatti per stare insieme.» Sentii i brividi nel pronunciare quelle parole, ma allo stesso tempo mi sentii anche sollevata. Non volevo ferirlo, ma era anche l'unica cosa da fare.

Emise un ghigno sprezzante. «Certo, me l'aspettavo. Dimmi soltanto una cosa, e ti prego di non mentirmi più: ti sono mai interessato?»

Sgranai gli occhi. Come poteva chiedermi una cosa del genere? Lo sapeva benissimo. «Spero che tu stia scherzando.»

«Rispondimi, cazzo!» alzò ancora la voce.

«È assurdo che tu mi chieda una cosa del genere, dopo che per te ho rinunciato a tutto! Ho rinunciato a tutto a causa tua! Ero disposta a rinunciare alla mia amicizia per Emily per te! Poi lei è morta, e io cos'ho fatto? Sono diventata la tua ragazza, nonostante il fatto che tutti avessero assistito alla litigata fra me e Emily alla tua festa, nonostante da allora abbiano iniziato a far girare voci e pettegolezzi su di me, a vedermi come una stronza, una puttana e chissà quante altre cose.»

«Ancora con questa storia che ti senti in colpa? Io non capisco come tu...»

Non gli lasciai terminare la frase, interrompendolo: «Ma io ero disposta a passare sopra a tutto, pur di rimanere con te!».

«Eri? Quindi non ci vuoi riprovare?» domandò, da una parte deluso e da una parte sorpreso.

A quel punto smettemmo di camminare, e lui si sedette sul bordo del marciapiede. In un primo istante, preferii rimanere in piedi, ma in seguito mi sedetti a mia volta, nel momento in cui lo vidi chinare la testa fino a toccarsi le ginocchia. «Dyl, non...»

Sollevò la testa di scatto e tornò a guardarmi, con gli occhi colmi di lacrime. «Non chiamarmi così, Megan!» esclamò, colmo d'ira. Poi tornò ad assumere un'espressione rattristata. «Io... io lo so che sono sbagliato, ma... ma possiamo risolvere tutto, possiamo farla funzionare. Ti prego, Meg, non lasciarmi.» Una lacrima gli solcò il viso dai tratti delicati, che divenne improvvisamente rosso, come quando si arrabbiava. Ma stavolta stava piangendo, a causa mia.

Mi sentivo male a vederlo in quello stato, anche se avevo confuso i miei sentimenti per lui per qualcosa di più grande, in fondo rimaneva comunque una persona con cui avevo condiviso dei momenti, sia belli sia brutti, a cui avevo imparato a voler bene. Ma non abbastanza da poter continuare qualcosa che non avrebbe mai dovuto iniziare.

«Dylan, la nostra non era una relazione sana. Io ti facevo del male per via del mio comportamento incerto e instabile e tu ne facevi a me, arrabbiandoti per qualsiasi cosa e reagendo... reagendo in modo violento. Hai quasi preso a pugni Herman, lunedì scorso» gli feci presente.

Tirò su col naso e si strofinò gli occhi con le mani per scacciare via le lacrime. «Lo so, e mi dispiace, ma possiamo sistemare tutto, te lo prometto. Cambierò atteggiamento. Io... io stavo migliorando, con te al mio fianco. Sei tu l'unica che mi può aiutare. Io ti amo, Megan.»

Rimasi con il fiato sospeso nel sentire quelle parole. Non poteva dire sul serio. Eravamo stati insieme veramente per meno di un mese, e comunque prima dell'inizio dell'anno scolastico non ci eravamo neanche quasi mai parlati. Lui non mi amava.

«Dylan, io...»

«Ti amo» ripeté, e ancora mi sentii mozzare il respiro. «Sei la persona più importante per me, non ho mai provato niente del genere con nessuna. Per questo sono sicuro che se siamo disposti a impegnarci davvero, allora tra noi potrà finalmente funzionare.» Si avvicinò vertiginosamente a me, afferrando il mio viso fra le sue mani e cercando di baciarmi, ma io girai la testa di lato, per evitarlo. Ci riprovò una seconda volta, finché io non decisi di alzarmi in piedi.

«Dylan, basta! Pensavo che avessi voluto incontrarmi per sentire ciò che avevo da dire, non per forzarmi a tornare con te!» esclamai.

Si alzò in piedi anche lui. «Non voglio forzarti, sto solo cercando di farti capire che siamo fatti per stare insieme.»

«Invece mi stai convincendo sempre di più del contrario» ribattei, incrociando le braccia al petto. Dopo aver udito quelle parole, mi accorsi che la sua espressione e il suo sguardo erano mutati radicalmente. Per qualche ragione che non seppi spiegarmi, mi trasmettevano un senso di inquietudine, come testimoniato dal battito del mio cuore che prese a battere all'impazzata.

Sgranò gli occhi. «Tu... tu non puoi lasciarmi!» urlò.

«Basta, Dylan! Ora mi hai stancata, me ne torno a casa.» Lui avanzò di qualche passo e mi afferrò per il polso. «Lasciami!» esclamai, tentando, invano di liberarmi dalla sua presa.

«No, non vai da nessuna parte. Tu sei mia! Sei mia!»

Strinse sempre di più la presa sul mio polso, arrivando addirittura a farmi un male non indifferente.

Ora il senso di inquietudine si trasformò in terrore allo stato puro. Stavo letteralmente tremando dalla paura, la pelle d'oca si sparse su ogni centimetro del mio corpo e sentii ogni tentativo di parlare morirmi in gola. Dal momento che non l'avrei convinto a lasciarmi andare con le parole, c'era solo un modo in cui avrei potuto scamparla: mi protesi ancora un po' in avanti e gli tirai una ginocchiata in mezzo alle gambe. Mollò immediatamente la presa sul mio polso e si accasciò a terra. Approfittai del suo momento di impotenza per mettermi a correre più veloce che riuscivo.

Giunsi a casa mia col fiatone, ma per qualche motivo, sebbene avessi chiuso ogni serratura, non riuscivo a sentirmi al sicuro neanche lì, dal momento che Dylan sapeva dove abitavo ed era il primo luogo dove sarebbe venuto a cercarmi. Non riuscivo a respirare, sapendo che lui avrebbe potuto raggiungermi da un momento all'altro. Mi sentivo la testa scoppiare. Allora, ancora sotto shock, presi una decisione avventata ma che mi sembrò la cosa più adatta da fare in quel momento: afferrai la copia delle chiavi dell'auto di mia madre e successivamente uscii di nuovo di casa, salii sulla sua auto e misi velocemente in moto, direzione New Orleans.

•••

Impiegai ben più di un'ora per arrivare al Delgado Community College, eppure a me parve di impiegarci poco tempo, dal momento che quando posteggiai l'auto nel parcheggio, sentivo ancora quel senso di terrore con la stessa intensità di quando ero partita.

Nel frattempo aveva cominciato a diluviare. C'erano lampi e tuoni ogni due minuti, e io non avevo niente per coprirmi, così non appena scesi dall'auto, mi infradiciai tutti i vestiti e i capelli, ma non mi importava.

Entrai dentro il campus e iniziai a destreggiarmi fra un gran numero di studenti del college, senza capire precisamente dove mi stessi dirigendo, dato che non conoscevo il posto e non ero di certo in grado di orientarmi. Mi guardavano tutti disorientati, ma non mi importava. A un certo punto mi imbattei in una faccia che mi parve di conoscere. Anche la ragazza mi fissava come se mi avesse già vista da qualche parte. Infine si avvicinò a me con un gran sorriso stampato in volto: «Ehi! Tu sei l'amica di Dave, giusto? Ci eravamo incontrate al Masquerade, ricordi? Praticamente una vita fa! Che fai qui? Caspita, praticamente sei fradicia dalla testa ai piedi!».

Era Serena. Fui sollevata di averla trovata, dal momento che così avrebbe potuto aiutarmi. «Ho bisogno di trovare David, ti prego, aiutami.» Nel pronunciare il suo nome, mi si ruppe la voce a un certo punto. Stavo per scoppiare, ma non dovevo piangere. Dovevo rimanere forte ancora per un po'.

«Ehi, va tutto bene? Sei così pallida, praticamente sei un latticino. Dave dovrebbe essere nella sua stanza, la 153, vuoi che ti accom...»

«Grazie mille, Serena!» la interruppi, riprendendo a correre alla ricerca della stanza. Probabilmente le sembrai una pazza, ma in quel momento non era fra le mie priorità apparire sana di mente. Presi una rampa di scale e cominciai a salirle di corsa, scivolando pure un paio di volte poiché le mie scarpe erano bagnate e rischiavo di cadere a ogni passo. Quando arrivai al piano del dormitorio dei ragazzi, vedevo tutto girare, così mi accasciai un attimo al muro del corridoio, per riprendere fiato ed evitare di perdere i sensi. Ma in realtà non ci riuscivo, a riprendere ad avere una respirazione regolare. Così ripresi a camminare fino a trovare la stanza di David.

Provai a calmarmi, ma ogni tentativo era vano. Bussai rumorosamente alla porta, finché non si aprì e apparve David, il quale pareva abbastanza alterato: «Ehi, che motivo c'è di fare tutto questo... Megan?».

Rimase a bocca aperta nel vedermi lì, ma non gli diedi il tempo di fare domande. «Mi dispiace, io... io non sapevo dove altro andare, non ce la facevo a rimanere a Morgan City, ho una paura tremenda, non riesco a respirare, mi scoppia la testa e... e non volevo venire qui, mi dispiace, ma non... io ho bisogno del tuo aiuto, non so a chi altro rivolgermi... lui è impazzito e io penso che...» Mi arrestai non appena mi appoggiò entrambe le mani sulle spalle. «Hai un attacco di panico?» chiese.

Non attese neanche una mia risposta, mi prese per mano e mi fece sedere sul suo letto, prima di prendere una coperta e avvolgerla attorno al mio corpo. Poi si inginocchiò davanti a me e mi prese entrambe le mani. «Ehi, respira, respira. Fai come me.» Inspirò, trattenne il fiato per qualche secondo e poi espirò.

«N-non... non ci riesco, scusa...»

«Non ci provare nemmeno a scusarti, hai capito? Riprovaci» mi esortò, con un tono dolce e un piccolo sorriso che, inavvertitamente, riuscì a tranquillizzarmi un poco. Feci come disse e pian piano riuscii a regolarizzare il mio respiro. «Brava, così, così. Va meglio ora?» chiese e io annuii.

«Non sarei dovuta venire qui» dissi poi, dopo aver riacquistato un po' di lucidità, separando le mie mani dalle sue. Non avrei proprio dovuto farlo, dopo ciò che era successo il giorno prima. Era l'ultima persona che avrei voluto vedere.

«Hai guidato fin qui da sola?» domandò sorpreso. «Comunque ormai sei qui. Dimmi che è successo.»

Sollevai le maniche del bomber, dal momento che cominciavo a sentirmi accaldata. Poi feci per iniziare a parlare, ma David non me ne diede il tempo: «Megan, chi è stato a farti questo?».

Mi guardai il polso e notai un grande segno rosso, quasi sul viola. La presa di Dylan mi aveva lasciato il segno. Improvvisamente gli occhi cominciarono a riempirmisi di lacrime e il respiro prese a mancarmi di nuovo.

«No, non di nuovo, stai tranquilla, mantieni il controllo.»

«Devi aiutarmi, David. Devi aiutarmi a fargliela pagare. Deve andare in prigione» dissi, ma dal modo in cui mi guardava sembrava quasi stessi delirando.

«Aspetta, di chi stai parlando? Chi deve andare in prigione? Chi è stato?»

«Dylan! È stato lui a uccidere Emily!» esclamai, lasciando David di stucco. «Ne sono certa, è stato lui, non so per quale ragione, ma so che è stato lui! È stato lui a farmi questo» spiegai, facendo cenno al mio polso. «Lui è... è malato! Perde il controllo e ferisce le persone. Pensava che fossi di sua proprietà e... e io sono certa che lui c'entri con la morte di Emily. Ti prego, dimmi che mi aiuterai a sbattere in carcere quel bastardo.»

David annuì, serio. «Se ne sei convinta, allora ti aiuterò, lo giuro.»

«Anche se... anche se non so per quale motivo avrebbe potuto farlo, ma magari non è sufficiente, non so fin dove avrebbe potuto spingersi con me, se non fossi riuscita a scappare, ma...»

Mi fermai quando notai un'espressione strana sul volto di David. Sapeva qualcosa che io non sapevo. Così lo esortai a parlare. «Tu... tu non lo sai?» domandò e io scossi la testa, non avendo la più pallida idea di ciò a cui si stesse riferendo. «Ero convinto che ne fossi a conoscenza. Dylan e Emily hanno avuto una storia durante l'estate.»

 

 

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Capitolo 25
*** L’avresti fatto? ***


L'avresti fatto?


Trascorsero dieci minuti durante i quali né io né David dicemmo una sola parola. Rimanemmo zitti, seduti ai due poli opposti della scrivania. La copertina del manuale di diritto costituzionale di fronte a me si era trasformata, tutto a un tratto, nella cosa più attraente in quella stanza.

Avrei dovuto aspettarmi che la situazione si sarebbe presentata tesa, considerando che era passato un solo giorno da quando... Solo non pensavo così tanto.

Forse era arrivato il momento di togliere il disturbo. «Be', ora io... ora vado.» Mi alzai dalla sedia e feci per dirigermi verso la porta del dormitorio, ma lui mi si parò davanti con uno scatto fulmineo: «Scordatelo. Ti ammalerai stando così, sei bagnata fradicia dalla testa ai piedi».

«Fa niente. Non vedo alternative. Al massimo mi prenderò un'aspirina quando arrivo a casa.»

David scosse la testa, irremovibile. Poi si grattò il capo, come se stesse pensando a una soluzione. «Facciamo così: ti fai una doccia e metti i tuoi vestiti sul calorifero. Resterai qui mentre aspettiamo che si asciughino.»

«No, non...»

«Non ti lascio andare via in queste condizioni» mi interruppe. «E poi ti farà bene una doccia, ti aiuterà a riprenderti.»

Indugiai qualche istante, e infine accettai, sebbene la cosa mi imbarazzasse non poco.

Entrai nel bagno e chiusi la porta a chiave. Poi cominciai a spogliarmi e ad appoggiare i vari strati di vestiti che mi toglievo sul calorifero sotto la finestra. Una volta che mi fui tolta tutti i vestiti, mi accorsi di avere la pelle d'oca lungo tutto il corpo. E dai miei capelli grondavano delle goccioline gelide che, a contatto con la mia schiena nuda, mi procuravano altri brividi. David aveva ragione, avrei rischiato di ammalarmi se fossi uscita in quelle condizioni.

Entrai in doccia e cominciai a far scorrere l'acqua. Non appena venni a contatto con il calore che emanava, iniziai a sentirmi meglio. David aveva ragione anche su quel punto: una doccia calda e rilassante mi avrebbe aiutato a scaricare la tensione.

Spensi l'acqua e afferrai il flacone di shampoo, cominciando a insaponarmi la testa. In quel momento sentii delle voci provenire dall'altra stanza. Una era di David, mentre l'altra doveva essere del suo compagno di stanza. Parlavano a voce piuttosto bassa, quindi anche sforzandomi non riuscii a sentire la maggioranza delle parole del loro discorso. O almeno finché la voce dell'altro ragazzo non si fece più alta e vicina: «Vado a pisciare!» esclamò, e ringraziai il Cielo di essermi chiusa a chiave. Infatti, non appena provò ad aprire la porta, questa fece resistenza.

Anche la voce di David si fece vicina. «No, non entrare! C'è Megan lì dentro.»

Avevo sentito bene? Gli aveva fatto il mio nome?

«Intendi quella Megan? David, in che cosa ti stai...»

Si interruppe prima di finire la frase. Ripresero a parlare sottovoce e dopo pochi secondi sentii la porta sbattersi, segnale che se n'era andato.

Ma che cosa si erano detti? E che sapeva quel ragazzo su di me?

Tentai di togliermi quelle domande dalla testa e feci scorrere nuovamente l'acqua, per lavarmi via lo shampoo dai capelli.

Dopo essermi lavata via anche il bagnoschiuma uscii dalla doccia, appoggiando i piedi bagnati su un tappetino steso a terra. Poi cominciai a guardarmi intorno, alla ricerca di un accappatoio in cui avvolgermi, ma non lo trovai. «D-David!» lo chiamai, ancora imbarazzata all'idea di trovarmi nuda nel suo bagno.

«Sì? C'è qualcosa che non va?» chiese allarmato.

«Non c'è... l'accappatoio» risposi, iniziando tra l'altro ad avere di nuovo freddo.

«Oh, merda, è vero! Oggi l'ho portato in lavanderia insieme ai vestiti... Be', ormai per quest'ora sarà pronto. Aspetta due minuti!».

Non ebbi neanche il tempo di rispondergli, che udii la porta della stanza sbattersi un'altra volta. Pochi minuti dopo, che a me, per via del freddo parvero secoli, si riaprì. Bussò cortesemente alla porta del bagno. Girai la chiave nella serratura e aprii un piccolo spiraglio, necessario ad afferrare l'accappatoio. Poi la richiusi e avvolsi il mio corpo bagnato nel tessuto di micro fibra. Tirai anche su il cappuccio e cominciai a strofinarmelo sulla testa, così da togliere un po' di umidità dai capelli.
Dopodiché mi avvicinai al calorifero, per controllare a che punto fossero i miei vestiti. La biancheria intima fortunatamente era già asciutta e anche i leggings; per la felpa, il bomber e la maglia invece sembrava ci volesse più tempo.

«Va tutto bene?» chiese David.

«Sì, ehm, posso usare il phon?».

«Certo, non chiederlo nemmeno. Usa tutto ciò che ti serve.»

Attaccai il phon alla presa e cominciai a passarlo sui capelli. Ci avrei messo un'infinità di tempo ad asciugarli tutti, perciò mi preoccupai di passarlo principalmente sulla nuca e sulle radici. Dopodiché passai qualche colpo di calore anche sulla maglietta.

Una volta soddisfatta, mi tolsi l'accappatoio e lo appesi all'appendino accanto alla porta. Mi rivestii in fretta e uscii dal bagno. David era seduto alla scrivania, intento a ricopiare qualche appunto. Non appena si accorse della mia presenza alle sue spalle, si arrestò e si voltò. «Non startene lì in piedi, siediti» disse con un sorriso, facendo cenno alla sedia accanto alla sua.

Feci come disse. In un attimo, ritornò tutto alla situazione di partenza: entrambi in silenzio, ognuno intento a fare le proprie cose senza badare all'altro. O meglio, questo valeva solo per David. Io me ne stavo lì a non fare niente, se non a cercare di resistere all'impulso di girarmi a guardarlo ogni dieci secondi.

A un certo punto, il cellulare di David prese a squillare e, sebbene inizialmente sembrasse intenzionato a non rispondere e a continuare la stesura dei suoi appunti, alla fine si alzò in piedi e lo afferrò dal letto per rispondere. «Ehi, Ser. Sì... sì, sì lo so, ma... di nuovo? Ok, è vero, ma... Va bene. Ok, sì, sì, va bene, ci vediamo lì.»

Chiuse la chiamata e riappoggiò il cellulare sulla scrivania.

Capii che era arrivato realmente il tempo di andarmene, a maggior ragione perché aveva anche smesso di diluviare e non c'era niente a trattenermi lì: «Be', grazie di tutto. Ora ti lascio alle tue cose».

«Hai ancora i capelli bagnati» mi fece notare.

«Sono umidi. E poi tanto la macchina è proprio qui sotto, non saranno due minuti a...»

«Credi davvero che ti lascerei andare via da sola? Si sta facendo buio e tu hai appena preso la patente, non puoi guidare la sera» mi interruppe.

«Sì che posso: non mi è consentito guidare dalle undici di sera fino alle cinque del mattino» precisai. «Invece sono le sette.»

«Lo so, ma non è prudente. Per me non è un problema: guido io con la tua macchina e ti riaccompagno. Dormirò da mio padre e poi domani mi farò venire a riprendere da Trevor, il mio compagno di stanza.»

«Ma non devi uscire con i tuoi amici?» chiesi.

«Non potrei comunque. Per fare andata e ritorno ci impiegherei tre ore, si farebbe troppo tardi.»

Non riuscivo a capire il motivo di tutta quella insistenza. Sembrava quasi che si stesse inventando una scusa dopo l'altra. «Allora non farlo. Non voglio che rinunci a uscire a divertirti il sabato sera solo per riaccompagnare me.»

Non ribatté, perciò lo interpretai come una rinuncia da parte sua. Proprio quando stavo per dirigermi in bagno a riprendere le mie cose, tuttavia, parlò di nuovo. «Magari un'altra soluzione c'è... Che cosa hai visto di New Orleans finora?»

«Praticamente niente, perché?» domandai con la fronte corrucciata.

«Perfetto: allora andiamo.»

Continuai a fissarlo confusa e disorientata, mentre radunava alcune delle sue cose come la giacca di pelle nera, il portafoglio e le chiavi del dormitorio. Poi lo vidi mentre spense il cellulare e se lo infilò in tasca.

«Cosa...» Non terminai neanche la frase, poiché non sapevo come proseguire.

«Allora, vieni o no?» chiese, e seguendolo con lo sguardo lo vidi già davanti alla porta, pronto a uscire.

Esitai per una manciata di secondi, prima di tornare dentro al bagno, recuperare la felpa e il bomber e, infine, uscire. Mi infilai gli indumenti, i quali erano ancora leggermente bagnati, e seguii David fuori dal studentato.

Ero ancora parecchio confusa in merito a quello che stava accadendo, ma preferii non fare domande.

«Dov'è la macchina?» chiese una volta che fummo arrivati nel parcheggio.

Gliela indicai e poi tirai fuori le chiavi. Schiacciai l'apposito pulsante per aprire l'auto, e proprio in quel momento David mi strappò le chiavi di mano. «Guido io» si impose, andando verso la portiera e salendo sul posto del guidatore.

«È la mia macchina» protestai.

«No, non è vero. È di tua madre, e dubito che te l'abbia data con il suo consenso. Insomma, praticamente è un'auto rubata. E secondo le leggi della Louisiana, un furto d'auto comporta conseguenze penali quali...»

«D'accordo, guida tu!» esclamai, profondamente irritata. Salii sul posto del passeggero e sbattei violentemente la portiera per chiuderla.

«Inoltre, qualsiasi danneggiamento apportato al veicolo rubato, comporta un'addizione della pena a...»

«Scusami, tu non dovevi uscire con i tuoi amici?» lo interruppi e questo bastò affinché si ammutolisse.

Sogghignai soddisfatta, per essere riuscita a farlo restare senza parole, per una volta.

Mise in moto e poi accese il riscaldamento, così che potessero asciugarmisi i vestiti. Poi uscì dal parcheggio del college, dirigendosi verso il centro di New Orleans.

•••

La prima tappa che visitammo fu il Quartiere Francese. «Se non sei stata qui, non puoi dire di essere stata a New Orleans» disse David. Non potei dargli torto: era stupendo. Le vie erano variopinte e illuminate e a ogni passo vi erano musicisti di ogni genere che si esibivano oppure artisti che mettevano in mostra le proprie opere, oltre che una gran quantità di locali di ogni genere, quali ristoranti, jazz club, cocktail bar. C'erano anche delle bancarelle d'artigianato. Gli edifici però erano la parte più bella: avevano tinte di qualsiasi colore, dall'azzurro, al rosa, al giallo, al rosso, e ricordavano molto lo stile tipicamente europeo. Infatti il Quartiere Francese costituiva il centro storico di New Orleans.

Io e David camminavamo per la via l'uno di fianco all'altra. Lui era molto paziente, si fermava quando io mi fermavo, sorrideva quando mi vedeva spalancare la bocca e indicare qualcosa davanti a me, e mi spiegava con chiarezza le diverse cose che ci si presentavano davanti.

Mi sorpresi di me stessa, per essere riuscita a resistere all'impulso di prendergli la mano. Eppure avrei voluto. Avrei voluto così tanto.

Man mano che il cielo si scuriva, il panorama diveniva sempre più bello.

«Hai fame?» chiese David a un certo punto.

«Sì. Per me va bene qualsiasi posto, quindi decidi...»

«No, la seconda tappa è proprio questa: cenare da Antoine's» mi interruppe. «Ha sopravvissuto alla Guerra Civile, le due Guerre Mondiali, la Grande Depressione e il Proibizionismo, oltre che all'uragano Katrina nel 2005. Esiste ormai da centosettantotto anni, è d'obbligo andarci.»

«Non che abbia scelta, comunque.»

«No, infatti» asserì e io sorrisi.

Il ristorante si trovava pochi metri più avanti, come testimoniato dalla grossa insegna che diceva: "Antoine's Restaurant". Mi colpì immediatamente lo splendido balcone in ghisa, sul quale erano appese tre bandiere: quella americana, quella francese e quella della Louisiana, blu, raffigurante un pellicano che nutre i suoi piccoli nel nido.

Il ristorante, mi disse David, era uno dei più antichi ristoranti a gestione familiare degli Stati Uniti, costituitosi nel 1840. La specialità stava nella cucina creola, ossia appartenente alla popolazione cosiddetta meticcia, di origine sia indigena sia europea. Alla cucina creola, si aggiungevano le tradizioni tipiche della cucina francese. Nel corso degli anni, poi, la cucina di Antoine's aveva subito influenze anche da parte della tradizione cajun, un gruppo etnico che nel corso del Settecento furono espulsi dall'Acadia canadese e deportati in Louisiana, stabilendosi prevalentemente a New Orleans.

Avrei passato altre mille ore a fissarlo e ad ascoltarlo mentre mi parlava, era riuscito nell'impensabile intento di farmi interessare alla storia. Probabilmente avevo imparato più cenni storici con lui in quella serata, che in undici anni di scuola.

All'interno il ristorante appariva piuttosto antico e tradizionale, come testimoniato da molti mobili in legno e dai grandi lampadari. Allo stesso tempo, comunque, era molto raffinato.

Una volta che il cameriere ci scortò al nostro tavolo, calò il silenzio e ci concentrammo nel dare uno sguardo ai nostri menù. Mi accorsi, in breve tempo, che non capivo assolutamente nulla, dal momento che i nomi dei piatti erano tutti in francese. Così decisi di fidarmi di ciò che mi consigliava David, sperando di aver fatto la scelta giusta.

I piatti arrivarono non molto dopo.

«Che cosa sarebbe?» domandai scettica a David.

«Prima assaggia e poi te lo dico» disse, prima di tagliare la sua portata e mangiarne un boccone.

Feci lo stesso e, nonostante il gusto un po' particolare e saporito, dovetti constatare che era davvero buono. «Quindi cos'è?» chiesi nuovamente.

«Code di aragosta marinate in salsa di alligatore, vino bianco e salsa Rochambeau» rispose in tutta tranquillità, mentre io ebbi quasi l'istinto di sputare il boccone nel tovagliolo.

«Stai scherzando?»

Scosse la testa. «La cucina creola è molto particolare. Alcune portate prevedono anche tartarughe, ogni tipo di mollusco, le tradizionali escargot francesi e anche pesci rossi.»

Solo a pensarci stava per venirmi il vomito, mentre David, al contrario, continuava imperterrito la sua deliziosa cena. A un certo punto sollevò lo sguardo e lo puntò sul mio. La mia espressione dovette sembrargli esilarante, dal momento che scoppiò a ridere ininterrottamente per almeno due minuti.

Si arrestò solo quando aveva ormai le lacrime agli occhi, passandosi una mano sull'addome.

«È... è soltanto petto di pollo, avvolto nel prosciutto affumicato, riso salato e condito con salsa Rochambeau e Béarnaise. Come hai fatto a non accorgertene?» chiese, riprendendo a ridere.

Lo fissai con la fronte corrucciata e le braccia conserte. «Le salse coprono tutto» tentai di giustificarmi.

«Ti pare che ti avrei lasciato mangiare certe cose?»

«Non lo so, l'avresti fatto?»

«No, credimi.»

•••

Una volta dopo aver avuto la certezza di non aver introdotto nel mio organismo salsa di alligatore piuttosto che tartarughe, la cena proseguì nel migliore dei modi.

Parlammo tanto, scherzammo, ridemmo, a volte anche troppo sguaiatamente, tanto che più volte i presenti si voltarono per guardarci male. Mi chiesi cosa pensassero di noi le persone che erano lì. Chissà se pensavano che stessimo insieme. Io stessa non sapevo a cosa pensare. A che gioco stava giocando?

Non appena ci trovammo davanti alla cassa, mi resi conto che non avevo con me nulla per pagare, se non una cosa come sette dollari e quindici centesimi. Dubitavo fortemente sarebbero bastati.

Non appena lessi il totale del conto, quasi mi uscirono gli occhi dalle orbite. «David, io non ho... non ho portato niente con me.»

«Lo so. Non potevi sapere che ti avrei portata qui. Non preoccuparti, faccio io.» Tirò fuori il portafogli, allungando una carta di credito al cameriere.

«Sei impazzito ad avermi voluto portare qui? Domani ti riporto i soldi, ma...»

«Megan» mi interruppe. «Non c'è alcun problema.»

«Sì, invece. Tuo padre non si arrabbierà quando...»

Mi interruppe nuovamente: «Direi che a ventidue anni ho acquisito la consapevolezza necessaria a spendere come voglio i miei soldi. Stai tranquilla». Dopodiché mi avvolse un braccio attorno alle spalle e io quasi rabbrividii per quel semplice tocco. Avrei voluto prendergli la mano che teneva poggiata sulla mia spalla, ma riuscii a trattenermi. Un altro rifiuto da parte sua era l'ultima cosa che cercavo.

«Mademoiselle, il est temps de terminer la soirée en profitant de la vue ailleurs» disse, con un perfetto accento francese. Peccato che non avessi capito una sola parola. «Sai che per quel che ne so in questo momento potresti benissimo avermi mandata a quel paese?»

Rise sommessamente. «Davvero non studi francese? Quale lingua straniera hai scelto?»

«Tedesco. È molto più semplice del francese.»

«A parte per il fatto che ogni parola assomiglia a un insulto. Comunque, ora andiamo verso la macchina, il prossimo posto è un po' più lontano. Alles klar

«Guido io, però.»

«Non puoi guidare a quest'ora.»

«Posso, invece. Mi restano ancora venti minuti.» Dopodiché cominciai a correre per poter arrivare all'auto prima di lui.

«Dai, Megan!» esclamò svogliato.

Mi arrestai un attimo. «Su, non fare il vecchio! Chi arriva per primo all'auto, guida.» Subito dopo ripresi a correre, senza nemmeno attendere una sua risposta e senza guardarmi indietro. Pensai che non avrebbe ceduto, tuttavia, neanche un paio di minuti dopo, ecco che mi aveva raggiunto. Poi, con uno scatto fulmineo, mi superò. Rimasi interdetta per qualche istante, prima di ricominciare a correre.

Non pensavo che fosse così veloce.

«Ho vinto» esultò, appoggiandosi all'auto con la schiena per riprendere fiato. «Niente male per un vecchio, eh?»

«Avevi detto... avevi detto che... che non te la cavavi negli... negli sport.» Andai di fianco a lui e mi appoggiai come un peso morto alla sua spalla, tentando di regolarizzare il mio respiro.

«Io no, Philip sì. Ogni mattina si alza alle sei per andare a correre.»

Gli lanciai un'occhiataccia. «Sei un bugiardo.»

«E tu sei una perdente.» Si spostò senza preavviso per salire in auto e, dal momento che mi stavo reggendo in piedi solo grazie a lui, per poco non caddi a terra. Poi, dal momento che ero ancora arrabbiata, salii su uno dei sedili posteriori, per evitare di avercelo di fianco. Vidi il suo ghigno riflesso nello specchietto retrovisore e gli rivolsi un dito medio.

Pochi minuti dopo giungemmo in un altro quartiere di New Orleans, Bayou St. John. Si affacciava sul lago Pontchartrain. Le luci dei diversi edifici che si riflettevano sull'acqua del lago, davano un aspetto meraviglioso e suggestivo al tutto.

«È bellissimo» dissi, avvicinandomi sempre di più verso la riva. David mi raggiunse poco dopo. Mi chinai a terra, sull'erba, e immersi la mano dentro l'acqua. Era gelida, ma allo stesso tempo era rilassante spostare l'acqua con la mano.

Approfittai di un momento in cui David era distratto, per agitare la mano bagnata e schizzargli l'acqua in faccia. A quel punto mi afferrò per un braccio e mi fece alzare in piedi.

Emisi una piccola smorfia di dolore. Avevo ancora il segno rosso che mi aveva lasciato Dylan. Deglutii, per evitare di pensarci.

Poi gli passai una mano sui capelli, che erano ancora in disordine per via della piccola maratona di poco prima. Eppure, nonostante i miei sforzi, c'era ancora un minuscolo riccio che non ne voleva sapere di restare su.

Con il passare del tempo, mi accorsi che lì l'aria era certamente più fredda che nel resto della città, così cominciai ad avere la pelle d'oca.
Non appena si accorse che stavo tremando, David mi avvolse un braccio attorno al fianco e io cercai di stringermi il più possibile a lui.

Sapevo che non avrei dovuto più espormi, non dopo quello che era successo il giorno prima nel parcheggio del palazzo di giustizia. Eppure il suo profumo, unito a quella serata perfetta, al fatto che fosse stato lui a organizzare tutto, che fosse stato lui a volermi lì, con lui, che avesse rinunciato a uscire con i suoi amici pur di passare una serata insieme a me, fece sì che non riuscii più a trattenermi.

Mi avvicinai a lui con l'intenzione di baciarlo, ma proprio quando mi trovavo ormai a un centimetro dalle sue labbra, spostò la testa di lato.

«Maggie, no, non posso...» disse, eppure dal tono che usò non sembrava crederci neanche lui.

A quel punto persi la pazienza. «Perché? Non puoi perché non ti piaccio? Se è per questo, allora dimmelo subito, invece che girarci intorno. Sono stufa di passare per una disperata che ti rincorre! Perciò dimmelo, così posso mettermi l'anima in pace» esclamai.

Ormai non mi importava più nascondere quello che provavo per lui, lo sapeva. Ma era giunta l'ora che sapessi, una volta per tutte, cosa provava lui nei miei confronti.

«È tardi, i tuoi genitori si staranno sicuramente...» Lo interruppi, iniziando a innervosirmi: «Non cambiare discorso, David! Dimmelo!».

Non disse nulla. Per un po' tenne lo sguardo fisso su un punto indefinito alla sua destra, prima di riposizionarlo sul mio. Visti da così vicino, i suoi occhi castani erano molto più eloquenti di quello che avrei mai immaginato. Erano tristi, ma c'era anche dell'altro. Desiderio. Se la sua bocca, fino a quel momento, aveva sempre espresso un rifiuto, ecco che, guardandolo attentamente negli occhi, mi resi conto che un rifiuto era l'ultima cosa a cui pensava in quel momento.

«Tutto questo è sbagliato» disse deglutendo, lo sguardo tenuto fisso sulle mie labbra. Anch'io, a mia volta, ero attratta dalle sue come una calamita. Ma non potevo sfiorarle. Lui non me l'avrebbe permesso. «Se succede adesso invece che fra due anni, che differenza fa?» domandai, esasperata.

Non avevamo vent'anni di differenza, nemmeno dieci, solamente sei. Anzi, per essere più precisi, cinque anni e cinque mesi. Ma quando eravamo insieme quella differenza appariva ancora più minima.

Davvero quel pezzo di carta in cui c'era scritta la mia data di nascita era così tanto vincolante per lui?

Senza replicare, mi strinse a lui in un abbraccio. La mia testa trovava un incastro perfetto sotto il suo mento. Inspirai il suo profumo, sperando che mi rimanesse addosso anche una volta tornata a casa. Mi lasciò un bacio sui capelli.

Tentai di godermi quel momento il più possibile, concentrandomi soltanto su di me e su di lui, ma non ci riuscivo. Continuavo a pensare al fatto che fra noi non sarebbe cambiato niente, al fatto che non capissi cosa ci fosse fra di noi, al perché avesse voluto passare quella serata con me, se poi continuava a comportarsi così...

Mi veniva quasi da piangere, così decisi di allontanarmi bruscamente. «Si è fatto tardi» dissi con il tono più duro e freddo che riuscii a simulare, facendo per tornare verso la macchina.

Non replicò, si limitò ad annuire e a seguirmi. Dal momento che il viaggio in auto sarebbe stato lungo e non avevo voglia di fingere che stessi bene, chiusi gli occhi, nella speranza di addormentarmi.

Fortunatamente, David non ostacolò le mie intenzioni, evitando di trovare un modo di fare conversazione.

Anche con gli occhi chiusi, non facevo che pensare a lui, tanto che, prima di crollare nel mondo dei sogni, mi parve di sentire una frase, che non riuscii a capire se fosse stata realmente pronunciata da David, oppure se facesse già parte del mio sogno.

«Se solo non avessi sedici anni...»

•••

Quando mi svegliai, eravamo ormai arrivati a Morgan City. David stava cercando parcheggio nella via di casa mia. Io intanto non facevo che ripensare a tutto ciò che era successo quella sera, in particolare a quelle parole.

"Se solo non avessi sedici anni."

L'aveva detto davvero? O me l'ero immaginato?

Forse non aveva così tanto importanza, la cosa davvero importante era un'altra. «Cosa succederà dopo la fine dell'udienza?» chiesi, con la voce ancora rauca, non appena spense il motore.

«Cosa succederà?» domandò confuso.

«Sì. Fra di noi. Se la giuria dovesse giudicarmi innocente e io non dovrò più avere bisogno di tuo padre, andremo avanti con le nostre vite e non ci vedremo più, oppure...» Non terminai neanche la frase, quando lo vidi sospirare, quasi come se non ne potesse più di quel discorso.

Ero io a non poterne più. Ero io l'unica a essersi messa in ridicolo. Ero io ad aver diritto a una risposta. Mi bastava solo un sì o un no. Poi avrei potuto darmi pace.

«Forse in questi due giorni non sono stato abbastanza chiaro» disse a un certo punto.

«Cioè?»

Sentivo una sensazione strana a livello dello stomaco. Una parte di me era speranzosa, l'altra ci aveva già rinunciato. Ma quella sensazione che provavo mi suggerì che quello che mi avrebbe detto David di lì a breve mi avrebbe fatto molto male.

Fece un altro sospiro, prima di voltarsi verso di me per guardarmi negli occhi. «Io per te sono solo il figlio del tuo avvocato, niente di più. Dopo il verdetto della giuria, prenderemo strade diverse, non ci vedremo e non ci parleremo più. Sai perché? Perché tu non mi piaci. Ora l'hai capito oppure hai bisogno che ribadisca un'altra volta il concetto?»

Dire che quelle parole mi ferirono era un eufemismo. Mi sentii quasi morire.

Ancora una volta, sentivo che stavo per piangere. Lottai contro me stessa per impedire che accadesse. Non avevo pianto per settimane per cose assolutamente più importanti, non avrei di certo permesso che accadesse per un ragazzo. Mi voltai verso il finestrino e ricacciai dentro le lacrime.

Poi tornai a guardarlo. Se non l'avessi guardato negli occhi come lui aveva fatto con me, avrebbe pensato che ero debole. E io non lo ero. «Grazie per la sincerità. Buonanotte.»

Poi abbassai lo sguardo. Lo vidi slacciare la cintura, prima di uscire dall'auto senza dire nient'altro.

Allora io presi le chiavi ancora infilate nell'apposito foro. Uscii dall'auto. Mi guardai intorno, David era già scomparso, diretto a piedi verso casa sua.

Tirai fuori dal bomber le chiavi di casa ed entrai, chiudendo la porta alle mie spalle.

 

 

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Capitolo 26
*** Perché è giusto ***


Perchè è giusto


La settimana trascorse lenta. Lentissima, anzi. Non feci altro che trascorrere le giornate aspettando che arrivassero al termine.

Ebbi così modo di accorgermi di quanto fosse curioso il fatto che più si aspettasse con tanta foga e frenesia un momento, più questo non facesse che tardare ad arrivare. Specialmente perché i miei genitori mi fecero una sfuriata sabato sera quando rientrai e mi misero in punizione per essere uscita di casa senza avvisare nessuno ed essere tornata tardissimo, dopo aver "rubato" l'auto di mia madre. Rimanere segregata in casa sembrò allungare ulteriormente le mie giornate, ma io non mi diedi per vinta: prima o poi quel venerdì sarebbe arrivato, e così anche la fine di questa storia.

Avevo detto che non sarei riuscita a darmi pace finché l'assassino di Emily non avesse pagato, e quel momento era quasi arrivato, o almeno lo speravo. Avevo sempre sentito dire che le più grandi vittorie richiedevano tanti dolori e tanti sacrifici e in fondo così era stato anche per me. Se non altro, era ciò di cui cercavo di convincermi, che tutto ciò che avevo passato e tutto ciò che avevo perso dalla morte di Emily fino a quel momento, erano soltanto parte di una fase che mi avrebbe portato a una ricompensa più grande: ottenere giustizia per Emily. Era l'unica cosa che mi permise di andare avanti quella settimana, anzi, l'unica cosa che, fin dall'inizio, mi aveva dato la forza di continuare e mi aveva permesso di arrivare fino a quel momento.

La strada, tortuosa, in salita e piena di ostacoli, che avevo percorso in quell'ultimo mese, non era stata casuale, doveva avere un senso, doveva portarmi fino a qui.

Non volevo prendere in considerazione nessun'altra spiegazione se non quella che mi ero data. Non potevo permettere che mi sfiorasse anche solo l'idea che non fosse realmente così che dovesse andare, perché io non mi ero meritata tutto quel male, e doveva esserci per forza un senso a tutto quello che avevo provato ultimamente.

Continuai a ripetermi queste cose per tutta la settimana, con più intensità mentre guardavo i lividi che mi aveva lasciato sul polso quel mostro, che nel corso di quei giorni divennero dapprima rossi, poi violacei, in seguito verdognoli e infine gialli, quasi marroni.

Continuai a ripetermele anche mentre mi addentravo, forse per l'ultima volta, dentro l'aula di tribunale del palazzo di giustizia di St.Mary, accompagnata dai miei genitori, dal mio avvocato e... e anche da David, o forse avrei dovuto dire "solo il figlio del mio avvocato".

Quel giorno avrei finalmente deposto, ma non prima della testimonianza di quel vile assassino. E io ero più pronta che mai.

•••

Per primo venne chiamato al banco dei testimoni un esperto di medicina legale, colui che aveva eseguito l'autopsia di Emily.
La sua deposizione non durò molto, l'avvocato Finnston gli fece poche domande tecniche e specifiche, le cui risposte, tuttavia, si dimostrarono molto utili al mio caso.

«Secondo i risultati della sua analisi, sarebbe possibile risalire all'arma del delitto?» chiese l'avvocato.

«È stata utilizzata un'arma da taglio dalla lama piuttosto lunga, approssimativamente fra i venti e i trenta centimetri» rispose il medico legale.

«Per via delle dimensioni da lei specificate, ritiene che potrebbe trattarsi di un coltello da chef?»

Il procuratore Goldberg si alzò in piedi e protestò: «Obiezione, sta chiedendo al teste un'opinione!».

L'avvocato Finnston volse le spalle al testimone e nel farlo, sollevò, in modo quasi impercettibile, gli occhi verso il soffitto, prima di rivolgersi al giudice Sullivan: «Vostro Onore, il teste è un esperto di medicina legale, le sue considerazioni non maturano pertanto da opinioni personali, bensì da conoscenze da lui acquisite nel corso degli anni. Inoltre, ritengo sia nell'interesse di tutti avere più informazioni sull'arma del delitto, dal momento che non è ancora stata rinvenuta e saperne di più potrebbe essere di grande aiuto nelle ricerche».

Dopo aver esitato per un istante, il giudice Sullivan fece un cenno con la mano all'avvocato Finnston: «Obiezione respinta. Avvocato, proceda».

«La ringrazio immensamente, Vostro Onore, e sono lieto che lei capisca a pieno la vitale importanza di queste indagini e che sia sempre propenso a dedicarvi tutto il tempo necessario.» Dopo la deliziosa sviolinata, ricca anche di frecciatine, dal momento che, come sempre, il giudice non aspettava altro che la conclusione di quel processo, l'avvocato si volse nuovamente al testimone e ripeté la domanda, a cui seguì una risposta affermativa: «Sì. Per la dimensione e la profondità della ferita inferta alla vittima, il taglio potrebbe essere stato causato da un coltello da chef, denominato anche coltello francese».

«Un utensile da cucina, dunque, presente in tutte le case. E, da quelle che sono state le sue analisi, quali altri dettagli sono emersi? La ferita al collo è stata quella mortale per la vittima o ve ne sono state delle altre?» domandò.

«Sì, vi sono state altre ferite, come dei ripetuti colpi in varie zone del capo, che tuttavia non sono state abbastanza forti da fracassare il cranio della vittima, pertanto la morte è avvenuta a causa della ferita alla giugulare.»

Cominciarono a pizzicarmi gli occhi nel sentire quei racconti dettagliati, che subito mi riportarono indietro a quella sera del 28 settembre. Io ero lì, pensai, ero lì con Emily quando è morta. E niente mi faceva più male che rivedere quelle immagini nella mia mente.

Ma mi sforzai di continuare ad ascoltare. «Inoltre, sotto le unghia della vittima erano presenti delle tracce di pelle, come se la vittima si fosse aggrappata con le unghie a qualcuno in un dato momento, con così tanta forza da avergli staccato dei sottili lembi di pelle.»

«E secondo il test del DNA da lei eseguito, a chi corrispondevano quelle tracce di pelle?»

Il medico legale non rispose a parole, si limitò ad allungare il braccio davanti a lui e indicare coloro seduti in mezzo al pubblico. Così dovetti voltarmi, soltanto per accorgermi che il dito era stato puntato contro una persona specifica: Dylan.

Mentre lo stupore generale si levava in aula, generando un tumulto non indifferente, io non potei che emettere un ghigno compiaciuto. I miei genitori, al contrario, lo fissavano inorriditi, come anche gran parte del pubblico e della giuria. Il terrore, mischiato a un leggero imbarazzo, era impresso nei suoi occhi, ma non solo: anche il senso di colpa. Quello che solo un assassino si meritava di provare.

«La ringrazio, non ho altre domande.»

L'avvocato Finnston tornò a sedersi di fianco a me e ci scambiammo uno sguardo complice. Stava andando tutto bene.

Era il turno del procuratore Goldberg di fare le domande. Ancora scosso da quelle dichiarazioni che, evidentemente non si aspettava, si alzò in piedi incerto e si guardò intorno spaesato. Si passò la lingua fra le labbra per inumidirsele, e poi si risedette: «Non ho nessuna domanda».

La cosa mi lasciò ancora più attonita. L'udienza stava ormai giungendo al termine ed era lì che stava finalmente prendendo forma, una piega che mai mi sarei aspettata. Sperai che, in base ai dati emersi, la giuria stesse iniziando a convincersi della mia non colpevolezza.

•••

Dopo una breve pausa di quindici minuti, fu il turno di Lucy, che affermò di aver visto Dylan e Emily discutere la sera della festa, dopo la litigata fra me e Emily, dando prova del fatto che non ero stata io l'ultima a vedere Emily prima che morisse.

In seguito, Dylan venne chiamato alla sbarra. Lo vedevo confuso, insicuro e, soprattutto, spaventato a morte. Dopo aver prestato giuramento, si sedette, aderendo con tutto il corpo allo schienale della sedia, rimanendo poi immobile. Pessima idea, pensai. Se già non si trovava in una buona situazione, quel suo atteggiamento non faceva che dimostrare ancor di più il suo timore e la sua voglia di allontanarsi da quella situazione.

Dylan era stato chiamato per testimoniare a mio favore, ma l'avvocato Finnston travisò completamente il tutto, cambiando la maggioranza delle domande.

«Afferma di essere Dylan Valentine Walker, nato il 12 maggio 2002 a Morgan City, in Louisiana?»

«Sì.»

«Bene. Afferma di essere fidanzato con la mia cliente, Megan Ellen Sinclair?»

A quel punto Dylan schiuse la bocca e il suo sguardo si posò automaticamente sul mio. Non appena incrociai i suoi occhi, spostai il mio sguardo altrove. Non ce la facevo. Non ce la facevo a guardare in faccia quell'assassino.

«No. Non stiamo più insieme» rispose, con un leggero tremolio nella voce.

«Da quanto tempo vi siete lasciati?»

«Da quasi una... scusi, ma che c'entra questo?»

«Lei risponda alla domanda» insistette l'avvocato Finnston, mostrando un velo di nervosismo.

Dylan aprì la bocca per rispondere, ma fu interrotto dal procuratore: «Obiezione, non è rilevante!».

«Ci arriverò a breve!» ringhiò l'avvocato Finnston. «Sempre se Vostro Onore il giudice Sullivan mi darà la concessione di continuare» aggiunse, con tono più pacato.

Il giudice acconsentì: «Signor Walker, risponda alla domanda».

«Ci siamo lasciati sabato scorso» rispose.

«E perché?»

Dylan deglutì. Gli occhi gli si erano fatti lucidi, sembrava quasi sul punto di piangere ancora. Ma questa volta non mi lasciai impietosire, e così non fece nemmeno l'avvocato Finnston, che continuò a guardarlo con severità.

Dylan sospirò e poi rispose: «Mi ha lasciato lei, in realtà. Le cose non andavano più bene, anzi, secondo lei non sono mai andate e basta».

«Più nello specifico? Cos'è che non andava?»

Vidi Dylan stringere i pugni e arricciare il naso. Stava iniziando a innervosirsi e, forse, entro breve avrebbe perso la calma. Probabilmente era ciò a cui mirava l'avvocato. «Io. Non andavo bene io» disse, digrignando i denti.

L'avvocato si rivolse allora al giudice: «Vostro Onore, richiedo di poter trattare il teste da testimone ostile, dal momento che ho motivo di pensare che possa nutrire profondi risentimenti nei confronti della mia cliente dopo aver troncato con lei la loro relazione amorosa, e che per tale motivo possa pregiudicare la sua testimonianza per una cosiddetta ripicca».

Dylan si intromise. «Cosa? Non lo farei mai! Non farei mai del male a Megan!» esclamò.

Sebbene fosse girato di spalle, ero ben certa che l'avvocato Finnston stesse sogghignando dopo quell'affermazione di Dylan. «Mai? Quindi, non ha mai aggredito verbalmente la mia cliente nel corso di un'accesa discussione? L'ha mai aggredita fisicamente per via di un eccesso d'ira?»

Dylan sbiancò. Sentivo il suo sguardo posato sul mio, ma lo evitai appositamente.

«La sua natura violenta, in effetti, non è una novità. Conferma che poco più di una settimana fa ha quasi preso a pugni un suo compagno di scuola?»

Dylan rimase ancora zitto, messo alle strette da quelle domande così dannose per lui, dando così la possibilità all'avvocato di continuare.

«E che mi dice di Emily Walsh? Ha dichiarato alla polizia di aver avuto una relazione con lei durante l'estate, è corretto? E poi che è successo, perché è finita? Finita, con la morte della stessa.»

Il procuratore si intromise nuovamente, urlando a gran voce: «Obiezione, l'avvocato sta testimoniando!».

«Accolta.»

Ma l'avvocato non si fermò. «In base a quanto emerso poco fa dalla testimonianza della signorina Lucinda Bailey, è stato lei ad aver visto la vittima l'ultima volta. Stavate discutendo. La discussione è sfociata in una terribile litigata, lei ha perso la calma come fa sempre e l'ha aggredita fisicamente, prima con quei colpi in testa, e in seguito afferrando un coltello da chef, un utensile da cucina di cui lei, abitando in quella casa, conosce perfettamente l'ubicazione.»

«Obiezione!»

«Accolta. Avvocato, si fermi!» esclamò il giudice Sullivan che, fino a quel momento, non si era mai mostrato così tanto coinvolto.

A quel punto Dylan sbatté un pugno sul banco al quale era seduto, facendo sussultare me e anche molti altri dei presenti. «Io non l'ho uccisa!» urlò.

L'avvocato Finnston avanzò di qualche passo, fino a toccare con le punte dei piedi il banco dei testimoni. «Sta mentendo sotto giuramento» lo accusò.

«Avvocato, se dice ancora qualcosa, sarò costretto a...»

La voce del giudice venne sovrastata da quella di Dylan. «Io non sto mentendo!»

«Allora perché non risponde alle mie domande?»

Dylan rimase zitto e l'avvocato Finnston non andò oltre, così finalmente il giudice Sullivan poté parlare.

«Avvocato! Non le ho dato il mio consenso per trattare il testimone come ostile, perciò si fermi immediatamente o sarò costretto a invalidare l'intera testimonianza e a sospendere lei per cattiva condotta!» si infiammò il giudice Sullivan. «Signor Walker, se non vuole rispondere, può sempre appellarsi al quinto emendamento, che sancisce come segue: nessuno sarà tenuto a rispondere di reato, che comporti la pena capitale, o che sia comunque grave, se non per denuncia o accusa fatta dal Grand Jury, a meno che il caso riguardi membri delle forze di terra o di mare, o della milizia, in servizio effettivo, in tempo di guerra o di pericolo pubblico; e nessuno potrà essere sottoposto due volte, per un medesimo reato, a un procedimento che comprometta la sua vita o la sua integrità fisica; né potrà essere obbligato, in qualsiasi causa penale, a deporre contro sé medesimo, né potrà essere privato della vita, della libertà o dei beni, senza un giusto processo; e nessuna proprietà privata potrà essere destinata a uso pubblico, senza equo indennizzo» recitò il giudice Sullivan, visibilmente scocciato per l'aver dovuto perdere ulteriore tempo per ripetere uno dei dieci emendamenti contenuti nella Carta dei Diritti della Costituzione americana.

Dopo aver esitato per qualche secondo, forse per riflettere, forse per comprendere il significato di quel fiume di parole, infine Dylan annuì e disse: «Mi... mi appello al quinto».

Ormai è fatta, mi dissi. Dylan aveva scelto di non rispondere per non auto incriminarsi, e non ci sarebbero state conseguenze per lui, in quel processo. Tuttavia, se io fossi stata dichiarata innocente dalla giuria, il procuratore Goldberg avrebbe dovuto aprire una nuova pista e scovare un altro colpevole, e io ero certa che le indagini sarebbero partite proprio da lui.

L'avvocato Finnston si voltò nella mia direzione e non poté fare a meno di rivolvermi un piccolo ghigno, e la cosa mi infuse sicurezza, vuol dire che stava andando bene. «D'accordo, Vostro Onore, non ho altre domande» disse, prima di tornare a sedersi.

•••

Era ormai arrivato il mio turno, anche se ormai il grosso era fatto. Mancava solo un mio piccolo contributo affinché la giuria si convincesse che non ero stata io ad aver ucciso Emily, bensì quella bomba a orologeria senza freni e senza limiti.

«... ha iniziato a urlare, a dirmi che io ero sua e soltanto sua, che non potevo lasciarlo e... e poi...»

«Si prenda tutto il tempo che le serva, signorina Sinclair. Comprendiamo quanto sia difficile parlare di questi spiacevoli eventi» tentò di tranquillizzarmi l'avvocato Finnston, sebbene fosse consapevole che in realtà io ero tranquillissima e la mia era solo una recita. Covavo solo odio e rabbia nei confronti di Dylan e la cosa che desideravo di più in quel momento era vedere la sua faccia dietro le sbarre e, se per riuscirci, era necessario interpretare la parte della ragazza debole, fragile, dalla mente facilmente condizionabile e impaurita da tutti, allora l'avrei fatto con piacere. Dovevo solo rimanere concentrata e stare attenta a non incrociare lo sguardo di Dylan, seduto ora su una delle prime panche del pubblico.

«Ho cercato di andarmene, di scappare da lui, ma lui mi ha afferrato per il polso e ha continuato a stringerlo... non riuscivo a liberarmi e... e ho iniziato a temere che... che sarebbe andato oltre e che avrebbe potuto seriamente farmi del male» dissi, deglutendo.

«Si è sentita in pericolo e si sente tuttora in pericolo al pensiero di rincontrarlo?»

«Sì» affermai. Così come poco prima, mi sentivo gli occhi di Dylan addosso. Dovetti impiegare ogni mia forza residua per riuscire a non guardarlo. Sapevo che lo stavo ferendo, ma non mi importava. Al contrario, quella consapevolezza aveva uno strano effetto su di me: ne ero felice e, sapere di avere il potere di fargli del male solo attraverso le mie parole, non faceva che rendermi ancora più determinata. «Prima, quando era lì, mi guardava e io mi sono sentita... Lui ha una mente instabile, non riconosce i suoi limiti, non importa chi gli stia davanti.» Mi strofinai gli occhi e tirai su col naso, sebbene non stessi affatto piangendo.

«Obiezione, Vostro Onore! Tutto ciò non è rilevante!» protesto nuovamente il procuratore Goldberg.

«Mi perdoni, Vostro Onore. Anzi, chiedo umilmente perdono anche al procuratore Goldberg, perché in questo caso ha perfettamente ragione. Siamo andati fuori tema, perciò passiamo a un'altra domanda: chi era davvero per lei Emily Walsh?».

«Non era la mia migliore amica. Era più di questo, era come una sorella.» Mi fermai un istante, voltandomi verso la giuria, cercando qualche traccia di compassione nel loro sguardo. Rinunciai dopo poco, in fondo ero io il libro aperto, le cui espressioni erano facili da decifrare. E sperai che, almeno in quell'occasione, la cosa mi sarebbe stata d'aiuto, che avrebbero creduto al fatto che non avrei mai fatto del male a Emily. «Facevamo sempre tutto insieme, almeno una volta a settimana andavamo a dormire l'una a casa dell'altra. Ci dicevamo tutto, e ogni volta che c'era un problema, sapevo che potevo contare su di lei, e viceversa. E... e o-ora che non c'è più, io...» Mi interruppi, nel momento in cui mi resi conto di avere la vista annebbiata per via degli occhi pieni di lacrime. Li chiusi per trattenerle dentro.

«Signorina Sinclair, ha bisogno di prendersi una pausa?» chiese il giudice Sullivan.

Scossi la testa e riaprii gli occhi. In quel momento incrociai lo sguardo dell'avvocato Finnston, il quale, subito dopo, diede un'occhiata al suo orologio da polso. L'udienza stava durando già da parecchie ore, temeva che l'avrebbero rimandata di nuovo. «Vostro Onore, magari mentre la mia cliente tenta di riprendersi, sarebbe possibile ascoltare il messaggio in segreteria da lei lasciato alla vittima la notte in cui quest'ultima è venuta a mancare?» chiese, facendo riferimento al televisore che era posto vicino al banco dei testimoni e che fino a quel momento era stato inutilizzato.

Il giudice acconsentì e io sospirai di sollievo. La registrazione del mio messaggio in segreteria era il piano di riserva: dal momento che non ero riuscita a impietosire a sufficienza la giuria, quella registrazione l'avrebbe fatto al posto mio. Se non altro, sarebbe riuscita a rendere giustizia al rapporto di amicizia fra me e Emily.

L'avvocato si avvicinò al televisore e pigiò un tasto del telecomando per far partire la registrazione audio. «Ehi. Emily, sono io, Megan. Mi dispiace per quello che è successo, davvero. Non avrei dovuto trattarti così, dirti quelle cose. Sai che non le penso davvero. Tu sei una delle persone più importanti per me e non vorrei buttare via la nostra amicizia per nulla al mondo, figuriamoci per un ragazzo.
Ne abbiamo passate tante insieme, ricordi? Eri con me la prima volta che ho pianto per un ragazzo, eri con me quando stavo male perché mio padre era in ospedale, così come io ero lì, a tenerti i capelli, quando eri chinata sul water a smaltire la tua prima sbronza e giurasti che non avresti mai più toccato una sola goccia di alcool in tutta la tua vita, ed ero con te quando appena due settimane dopo quell'affermazione, ti aiutai a scolarti quell'intera bottiglia di vodka, nonostante sapessi che non mi piace bere. Ero con te quando i tuoi si sono separati. Ero con te quando hai vinto una delle competizioni di ginnastica artistica più importanti della tua vita. Ero con te quando hai pianto perché hai dovuto smettere di praticarla per quel problema alla schiena. Ci sarebbero altri mille esempi che potrei elencare per farti capire quanto sia stata importante la tua presenza nella mia vita. Insieme abbiamo riso, abbiamo pianto, ci siamo sostenute a vicenda e soprattutto siamo cresciute. Senza di te io non sarei la stessa. Quindi non voglio perderti. Scusami se ti ho ferita, non era mia intenzione.
Io... io n-non... io non ti farei mai del male, Emily. Ti prego, perdonami.»

Trattenni il respiro per tutta la durata di quell'audio e mi venne la pelle d'oca solo a ricordare quel momento: le lacrime che non la smettevano di sgorgare dai miei occhi, la voce rotta, la consapevolezza che quel messaggio non l'avrebbe mai ascoltato. E poi, nel momento in cui lo riascoltai, ero rimasta quasi impassibile, se non altro all'apparenza: rigida, sangue freddo, non una sola lacrima. Eppure dentro mi sentivo scoppiare.

Dopodiché l'avvocato Finnston ne approfittò anche per mostrare le foto mie e di Tracey all'interno del Golden Rose, scattate nel locale quella stessa sera.

Si passò poi al controesame del procuratore Goldberg che, dopo aver sistemato alcune carte sul suo banco, mi rivolse uno sguardo che mi gelò il sangue nelle vene. Assurdo come non mi sia accorta prima della somiglianza con la figlia, mi dissi, mi fissa con lo stesso disprezzo.

Si schiarì la gola e cominciò con le domande. «Dunque, signorina Sinclair, lei ha dichiarato più volte di considerare la vittima come una vera e propria sorella, eppure non sapeva della sua relazione con il signor Dylan Walker. Come lo spiega?»

Mi trattenni dall'alzare gli occhi al soffitto. Ora riteneva che avessi ucciso Emily dopo aver saputo che lei e Dylan erano stati insieme? La sua pista era ancora così scontata e banale?

«Non lo spiego» risposi scrollando le spalle. «Tutti hanno dei segreti, non mi stupisce che anche Emily ne avesse.»

«Dunque lei non ne era a conoscenza nel momento del vostro litigio?»

«No» mi affrettai a negare. «L'ho scoperto questa mattina» aggiunsi, non riuscendo a evitare di lanciare uno sguardo verso David, il quale, tuttavia, lo teneva fisso sul pavimento. Su Youtube circolava pure un video in cui era stata registrata interamente la nostra litigata, che era stato mostrato a tutta la scuola durante la commemorazione di Emily, in cui lei non aveva nominato neanche una volta una sua presunta relazione estiva con Dylan.

«D'accordo. E la sua frequentazione con il signor Walker quando è iniziata? Prima o dopo la sera della festa?» chiese.

«Dopo.»

«Eppure quando lei e il signor Walker siete stati sorpresi in atteggiamenti intimi dalla vittima, non era la prima volta che vi scambiavate effusioni, è esatto?»

Schiusi le labbra. Dylan aveva detto ogni cosa alla polizia. Ogni cosa riguardante me, se non altro. «Sì, è esatto» ammisi.

«E quando è successo sapeva dei sentimenti che provava la vittima nei confronti del signor Walker?»

«S-sì, lo sapevo» risposi, deglutendo. Ed ecco che ritornai, in meno di un secondo, a sentirmi una merda. Probabilmente era ciò che stavano pensando tutti all'interno di quell'aula di tribunale, giuria compresa.

Tutto quell'impegno e quella fatica, in particolare dell'avvocato Finnston, per convincere i giurati della profondità del rapporto di amicizia fra me e Emily, ed ecco che un paio di domande erano riuscite a far scemare il tutto. Solo a causa di un errore che avevo commesso.

Un errore che avevo continuato a commettere nel corso del tempo. Avevo trascorso settimane a tentare di convincermi che i sentimenti che provavo con Dylan fossero veri, forti e autentici, solo perché era l'unica cosa che mi avrebbe permesso di sentirmi meno in colpa per aver buttato via la mia amicizia con Emily a causa sua, solo per riuscire a sentirmi meno colpevole per la sua morte. Mi ero detta: «Lei ora non c'è più, quindi adesso le cose fra me e Dylan devono necessariamente funzionare, dal momento che è per lui che ho perso lei».

«Quindi questo mi dà motivo di pensare che la vostra amicizia non fosse così pura come vuole farci credere, a maggior ragione perché non era neanche presente al suo funerale.»

Quello fu un colpo basso. L'avvocato Finnston stava già per aprire bocca per obiettare, ma si fermò non appena incrociò il mio sguardo. Avrei potuto usare la cosa a mio vantaggio, per portare nuovamente la giuria dalla mia parte. «Ero presente, all'inizio» dissi. «Ma poi sono stata cacciata dai suoi genitori, che mi hanno impedito di partecipare al suo funerale. Comprendo a pieno il loro dolore, è lo stesso che provo io, sebbene non mi spieghi perché, fra tutti, abbiano deciso di indirizzare il loro odio verso di me. Ciò che non comprendo è perché persone sconosciute a Emily, sia della scuola, sia della polizia, sia giornalisti, abbiano potuto avere l'occasione di partecipare al suo funerale, mentre a me è stato negato questo diritto. Il diritto di salutarla, di dirle addio. Ogni giorno mi sveglio con un senso di vuoto, lasciato da Emily e che, forse, partecipare al suo funerale avrebbe colmato almeno in parte.» Ero nuovamente vicina alla commozione, quindi smisi di parlare. Incrociai lo sguardo dell'avvocato Finnston, il quale fece un segno di assenso, a significare che me l'ero cavata.

E me la cavai, all'incirca, anche con tutte le domande successive, quelle che l'avvocato prevedeva che mi sarebbero state poste, e sulle quali mi ero preparata alla meglio.

•••

Giunse poi il momento delle arringhe finali. Essendo quello del procuratore un discorso molto lungo, forse durato almeno mezz'ora, non riuscii a seguire ogni parola, specie perché non fece che ripetere le stesse cose più e più volte.

In particolare, mi preoccupò molto il fatto che persino l'avvocato Finnston non sembrasse particolarmente attento a ciò che diceva. Perlopiù sembrava stesse approfittando di quel momento per riposarsi.

Sbarrai gli occhi nel momento in cui mi accorsi che, se da una parte il procuratore Goldberg si era preparato dei fogli interi con su scritto cosa dire, l'avvocato Finnston aveva davanti a sé un solo foglio bianco in cui le uniche parole scritte erano: "Arringa finale, 02/11/2019".

Deglutii. Non aveva preparato nulla. Cos'aveva intenzione di fare nel momento in cui fosse stato il suo turno? Avrebbe davvero improvvisato? L'arringa era il momento più importante dell'udienza, ciò che avrebbe dovuto convincere definitivamente la giuria a prendere la decisione giusta.

«È pertanto verosimile credere che la fautrice di tale orribile atto sia la ragazza che poco fa era seduta alla sbarra. Grazie per l'attenzione. Ripongo la mia totale fiducia nella giuria a mio lato» concluse infine il procuratore. Solo nel momento in cui il procuratore si schiarì la gola e si risedette, vidi l'avvocato Finnston attivarsi e scrivere qualcosa.

A quel punto, dopo qualche istante di esitazione passato a osservare il foglio davanti a lui, sul quale erano scritte sì e no dieci parole, l'avvocato Finnston si alzò in piedi, sorprendendomi ancora una volta. «Vostro Onore, prima di incominciare vorrei evidenziare ancora una volta la sostanziale importanza del caso che stiamo esaminando: una giovane vita che è stata strappata ingiustamente e brutalmente e che ci ha lasciato troppo presto. La sacralità di una vita umana è stata violata in modo irreversibile. Ma quanto vale esattamente una vita umana? Per un genitore, quella di un figlio vale più di qualsiasi somma di denaro. E quando il proprio figlio o la propria figlia viene a mancare, il genitore non riesce a darsi pace, viene schiacciato dal dolore e dalla incommensurabile tristezza, tanto che anche una piccola parte della sua anima muore. Se la prende innanzitutto con se stesso, chiedendosi cosa possa mai aver fatto di male per meritarsi un tale supplizio. Poi supera quella fase e, accompagnato dalla perenne e quotidiana sofferenza, inizia a porsi un'altra domanda: chi è stato? Quello diventa il suo unico pensiero, dal quale non riesce a scappare, neanche di notte. 
Ed ecco che la sua nuova ragione di vita, il primo obiettivo da perseguire, è soltanto uno: scovare il suo carnefice. Scoprire la verità. Ottenere giustizia. 
«Pertanto, ricollegandomi all'illuminante discorso del brillante procuratore Goldberg, ci terrei a soffermarmi su una sua scelta linguistica in particolare: mi ha colpito molto l'utilizzo della parola "verosimile". Egli ha infatti affermato che "è pertanto verosimile credere che la fautrice di tale orribile atto sia la ragazza che poco fa era seduta alla sbarra". È questo che cercano dei poveri e addolorati genitori? Oppure cercano la verità, la reale versione dei fatti? Sono certo che, per quanto straziante possa essere, sia sempre meglio venire a conoscenza della verità, piuttosto che accontentarsi di una semplice congettura.
«Quindi ora diamo un'occhiata ai fatti, le cose certe e vere. Non è la mia cliente l'ultima persona ad aver visto la vittima prima che morisse. Non è la mia cliente ad aver avuto una relazione con lei durante l'estate. Non è la mia cliente ad aver problemi nel gestire la rabbia. Non è la mia cliente colei che ha una perfetta conoscenza dell'ubicazione degli utensili da cucina all'interno di quella casa. Non è la mia cliente colei la cui pelle, come comprovato dal test del DNA, era stata trovata sotto le unghia della vittima, a testimoniare un'aggressione. Non è la mia cliente ad aver trasportato il cadavere e ad averlo lanciato nel fondale del Lake End Park, dal momento che è stata testimoniata la sua presenza presso il locale Golden Rose nelle ore successive alla festa. Eppure è la mia cliente a essere accusata di omicidio. È la mia cliente, la persona ad avere il legame più stretto con la vittima, a essere stata accusata per prima. È la mia cliente, colei che ha sempre avuto una reputazione impeccabile, colei che è stata diffamata e calunniata più volte. È la mia cliente che la sera del 28 settembre ha avuto una terribile discussione con la vittima, come testimoniato da video che sono stati girati e diffusi in giro per la scuola senza il suo consenso. Fra litigare e commettere un omicidio c'è differenza, eppure alla polizia distrettuale è stato sufficiente per fondare le proprie accuse. Un'argomentazione piuttosto debole, se messa a confronto con l'entità delle accuse fatte. Oppure, per citare le parole usate dall'illustrissimo procuratore, è un'argomentazione verosimile. Se la polizia distrettuale non è riuscita a fare di meglio, spero che la mia esposizione riesca nel suo intento di dare chiarezza, basandosi la mia dimostrazione su fatti veri.
Pertanto richiedo, Vostro Onore, una sentenza di non colpevolezza nei confronti della mia cliente Megan Ellen Sinclair, oltre che un risarcimento per i danni morali, biologici ed esistenziali inflitti alla sua persona, che nelle ultime settimane è stata manipolata, è stata vittima di bullismo, ha sofferto di disturbi del sonno e si è sentita in pericolo di vita in seguito a delle minacce verbali ricevute.
Confido che la giuria riuscirà a prendere la decisione migliore.»

•••

Dopo numerosi minuti di attesa, quando l'ora di pranzo era passata ormai da un pezzo e sentivo il mio stomaco reclamare per questo, fummo richiamati all'interno dell'aula per udire la sentenza della giuria.

Anche il giudice Sullivan utilizzò numerosi giri di parole, ed ero così tesa che non riuscii ad ascoltare niente. Davvero. Non ascoltai una singola parola. Mi trovavo come in uno stato di trance, in cui ogni suono appariva ovattato, in cui l'unica cosa che riuscivo ad ascoltare erano i miei pensieri e il battito del mio cuore.

A un certo punto sollevai lo sguardo, nel momento in cui mi accorsi di una certa confusione generale. Mi resi conto che mia madre e mio padre erano giunti al mio fianco. Mia madre aveva le lacrime agli occhi e mi gettò subito le braccia al collo.

Allora cominciai a temere il peggio. Non ce l'avevo fatta. Ero stata condannata. Le prove indiziarie avevano avuto la meglio sulla difesa del mio avvocato, e sarei stata sottoposta a un vero e proprio processo. Mi guardai intorno, l'avvocato Finnston mi guardava, inizialmente con sguardo indecifrabile. Mi appoggiò una mano sulla spalla, come a volermi dare conforto. Non capivo se fosse deluso, amareggiato, oppure se in fondo se l'aspettava.

Poi aprì la bocca per parlare e finalmente capii ogni cosa: «Ce l'hai fatta».

A quelle parole, spalancai la bocca e mi sentii mancare il respiro. Mi avviai di fretta fuori dall'aula di tribunale e corsi in cerca del bagno, accasciandomi sulla parete una volta entrata.

A quel punto sentii qualcosa di umido bagnarmi la guancia e sollevai lo sguardo in alto, temendo che ci fosse qualche perdita dal soffitto. Nel farlo, mi accorsi di avere la vista annebbiata. Sentii ancora una goccia e allora non mi rimase più nessun dubbio: stavo piangendo. Io stavo piangendo. Non succedeva da così tanto tempo che non mi ricordavo neanche più cosa si provava. E dopo le prime due lacrime, ne seguirono altre a dirotto, non riuscivo più a fermarmi. Anche se il respiro era affannato, anche se la vista era sempre più annebbiata, mi sentii sollevata.

Eppure non avrei dovuto. Perché lei era morta. Emily era morta. Non c'era più. Non sarebbe tornata indietro. Non l'avrei riavuta indietro. E, con lei, anche una parte di me era persa per sempre.

La porta del bagno si aprì e io mi alzai in piedi di scatto, asciugandomi in fretta le lacrime. Sentii una fitta nel petto, non appena incrociai gli occhi castani di David.

«Eccoti. I tuoi genitori ti stanno cercando» disse, senza mostrare il minimo imbarazzo. Ma, in fondo, ero io quella che aveva fatto una figuraccia dopo l'altra e che era stata rifiutata da lui ancora una volta poco meno di una settimana prima. Ero io quella ridicola.

Senza dire nulla, gli passai di fianco e uscii dal bagno. Mi sforzai di non guardarmi indietro e continuai a percorrere il corridoio, sebbene sentissi la sua presenza alle mie spalle. «Megan» mi chiamò.

A quel punto strinsi i pugni e mi voltai nella sua direzione.

«Va tutto bene?» chiese.

Considerando il mio stato d'animo, un vero e proprio turbine di emozioni contrastanti, non me la sentii neanche di mentire. «Ho pianto. Io... io non... non piangevo da un mese. Da quel martedì in cui ero fuggita da scuola, il giorno dopo la deposizione. Da quel momento non sono più riuscita a piangere, e poi ora, tutto a un tratto, mi è piombato tutto addosso e... e mi chiedo come mi sia stato possibile resistere per tutto questo tempo» confessai.

«Perché stai crescendo. Gli adulti non piangono per qualsiasi cosa.»

"Sì, ma io non sono un'adulta".

O forse per lui lo stavo diventando?

Feci per voltarmi ancora, ma non lo feci. «Io non ti ho mai ringraziato» dissi, cogliendolo di sorpresa. Poi avanzai di qualche passo e continuai. «Mi hai salvato la vita, quel giorno. E io non ti ho mai ringraziato per questo. Dovresti odiarmi per ciò che ho tentato di fare, per... per via di tua madre, e invece mi sei stato affianco, fino alla fine. Quindi grazie» dissi, prima di finire col posare il mio sguardo sulle sue labbra.

Rimase in silenzio, stupito dalle mie parole. Sembrava quasi sul punto di dire qualcosa, ma non lo fece.

Poi sentii la voce di mia madre dal fondo del corridoio e mi volsi un secondo per farle cenno che l'avrei raggiunta a breve, prima di tornare a guardare David.

«Perché queste tue parole suonano come un addio?» domandò, sorprendendomi. Pensavo che fosse ciò che volesse, ma in fondo non ero mai riuscita a capirlo fino in fondo.

Ma avevo imparato a capire ciò che era giusto per me, e mi bastava. «Perché lo è. L'udienza è conclusa. Io non avrò più bisogno dell'aiuto di tuo padre. E noi non ci vedremo più» dissi con voce ferma e decisa.

Mi parve quasi deluso, ma ancora una volta rimase in silenzio.

Così gli voltai le spalle e mi allontanai.

A quel punto vidi Dylan parlare con due uomini della polizia distrettuale e automaticamente mi si formò un ghigno in volto. Avevo ottenuto ciò che volevo.

Non appena si accorse di me, cominciò a chiamarmi, ma io lo ignorai.

«Megan! Megan, perché diamine mi hai fatto questo?» continuava a urlare, mentre veniva accompagnato dai due poliziotti fuori dal palazzo di giustizia.

"Perché è giusto."

Sebbene avessi fatto una scelta moralmente discutibile, facendo di tutto per incastrarlo, non avrei smesso di essere una brava persona. A volte c'è bisogno che le brave persone compiano delle brutte azioni, così che le persone cattive possano ricevere la punizione che meritano, mi dissi. E lui se lo meritava.

Ce l'avevo fatta. Era tutto finito finalmente.

Non seppi spiegarmi perché, quindi, in un momento in cui avrei dovuto esplodere dalla gioia, all'improvviso mi tornarono in mente delle parole che, apparentemente non avevano un senso, ma che di fatto mi aprirono gli occhi e mi fecero crollare il mondo addosso un'altra volta.

«Mio nonno usa una tecnica umana e indolore per uccidere gli animali che caccia. Te lo spiego, è molto semplice: prima si piega il collo, in modo da avvicinare il mento al torace. Poi si posiziona il coltello vicino alla giugulare e subito dopo si recide con un semplice taglio netto. Dopo poco, l'animale giunge in uno stato di immobilità. Inizia a dissanguarsi, senza sentire nulla.»

Mi sentii quasi svenire nel momento in cui realizzai che avevo sbagliato ogni cosa. Avevo appena mandato in prigione un innocente, che non c'entrava nulla, mentre il vero colpevole era ancora a piede libero.

Come avevo potuto essere così stupida da non capirlo subito? Quelle parole, se analizzate a fondo, erano tutt'altro che insensate. Se viste con occhio più critico e attento, costituivano praticamente una confessione.

Non era stato Dylan a uccidere Emily.

Era stato Herman.

 

 

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Capitolo 27
*** Epilogo ***


Epilogo


«Come sto?» chiesi un'ultima volta alle mie amiche, prima di entrare dentro la casa di Dylan.

«Esattamente come stavi dieci minuti fa» rispose Tracey, roteando gli occhi.

«Em, non devi farti così tante paranoie solo per un ragazzo. L'importante è che tu stia bene con te stessa» disse Megan, mettendomi una mano sulla spalla.

Certo, per lei era facile dirlo. Megan era praticamente perfetta: un fisico da urlo, le forme giuste, le gambe magre, la pancia piatta, capelli sempre in ordine, un viso stupendo, occhi grandi e dolci, sembrava quasi una bambola.

Ogni volta che la guardavo, la mia autostima andava a farsi fottere.

Non che avessi mai avuto tanta autostima. Quasi per niente, a dirla tutta. Ma quell'estate, quando esistevamo soltanto io e Dylan, ero riuscita a sentirmi speciale, per una volta. Non mi ero più sentita come l'amica di Megan Sinclair, ma ero soltanto io, Emily Walsh.

E Dylan aveva occhi solo per me.

Poi era finito tutto. La scuola era rincominciata, e così io ero tornata a vivere all'ombra della mia migliore amica.

Una volta dentro, cercai subito Dylan con lo sguardo, e lo vidi accerchiato da alcuni dei suoi amici. Non mi avvicinai per salutarlo, rimasi in disparte in un angolo della casa con Meg e Trace.

«Lo sai che quando torneremo a scuola tutto questo finirà?» mi aveva detto prima dell'inizio della scuola.

Per lui ero stata solo come un buco, nient'altro. Mi aveva usata durante l'estate e basta. E io, come una stupida, gliel'avevo permesso. Che sarà mai?, mi ero detta, lo fanno tutti. Non pensavo che mi sarei legata così tanto a lui. E invece, come prevedibile, mi ero presa una bella sbandata.

«Magari potrei passargli di fianco e urtarlo di proposito con la spalla» dissi, continuando a guardarlo da lontano.

Meg scosse subito la testa: «No, non farlo».

Che c'era di male? Lei e Trace non sapevano niente di quell'estate. Avevamo deciso entrambi di mantenere il segreto. Quindi perché Megan sarebbe dovuta essere contraria? Per quel che ne sapeva lei, Dylan aveva iniziato a interessarmi neanche un mese fa.

Sembrò notare il mio sguardo confuso, perciò aggiunse: «Guarda, si sta strusciando contro quella tipa. Non ne vale la pena».

Mi voltai nuovamente verso Dylan e lo vidi mentre ballava in modo poco dignitoso con una ragazza. Sentii subito il mio stomaco contorcersi dal fastidio, dalla gelosia.

Perché lo stava facendo? Non era tipo da fare certe cose, non lo era mai stato. Anzi, solitamente era uno abbastanza timido con le ragazze.

«Che porco» commentò Trace, proprio quando Dyl strinse le sue dita attorno alle chiappe di quella ragazza.

Dio solo sa cosa farei affinché toccasse me in quel modo, pensai.

«Dov'è Herman?» chiesi poi a Tracey, per cambiare discorso.

Il vero porco era il suo ragazzo, che tre giorni prima avevo sorpreso a scoparsi Olivia Goldberg nello spogliatoio delle ragazze durante l'ora di educazione fisica. L'avevo avvertito: o lo dici a Tracey entro una settimana, oppure lo farò io.

«Sta arrivando. Sta cercando parcheggio» rispose.

«Ha passato l'esame?» domandò Meg, sorpresa.

Anch'io ero sorpresa, considerando che era stato bocciato già due volte all'esame per la patente. Quel ragazzo viveva sulle nuvole.

Tracey annuì. «Ormai manchi solo tu, Meg!».

«Lo so, ma non sono ancora sicura. Voglio fare ancora altre guide. Prometto che entro fine ottobre avrò anch'io la patente!» esclamò.

Inevitabilmente, tornai a posare lo sguardo su Dylan, ora intento a esplorare la cavità orale di quella ragazza. 
I suoi baci. Mi mancavano i suoi baci. Chissà se anche a lui mancavano i miei...

Lo vidi sollevare lo sguardo a un certo punto, e puntarlo nella mia direzione. Immediatamente sentii un'intensa fonte di calore dirigersi verso le mie guance e infiammarle. «Ehi, dite che mi sta guardando?» domandai voltandomi di nuovo verso le mie amiche.

Mi accorsi in quel momento che Tracey si era allontanata insieme a Herman, e che eravamo rimaste solo io e Meg.

Teneva il labbro inferiore stretto sotto i denti e la vista aguzzata. «Forse... sì, sì ti sta guardando!» esclamò. Non ne sembrava molto convinta, ma le credetti lo stesso: in fondo era ciò che speravo, ciò che volevo sentire.

Una parte di me si convinse che Dylan stava cercando di attirare la mia attenzione, che voleva soltanto provocarmi. 
Non appena erano ricominciate le lezioni, mi aveva dapprima ignorata, come ci eravamo accordati, fingendo che non ci conoscessimo, ma era da qualche giorno che, invece, si comportava in modo strano. Faceva sempre in modo di passarmi davanti due o più volte nei corridoi, in mensa non staccava gli occhi dal tavolo in cui ero insieme alle mie amiche. 
Forse si era pentito del nostro accordo, e aveva intenzione di provarci seriamente con me.

«Quindi che faccio?» domandai agitata a Meg. Aprì la bocca per rispondere, ma io la precedetti: «Andiamo a ballare vicino a lui!».

La afferrai per un braccio e la trascinai in mezzo alla sala, dove c'erano altre persone che ballavano. Appoggiai entrambe le mani sulle spalle di Meg e cominciai a muovermi a ritmo, lanciando di tanto in tanto delle occhiatine a Dylan. Infatti, si era allontanato dalle labbra di quella ragazza e ora stava ballando esattamente come noi. Sentivo di avere i suoi occhi posati su di me, ma non volevo voltarmi, volevo ignorarlo, fingere di non averlo notato. Continuai a ballare sorridendo, a far oscillare i miei fianchi e muovere il bacino. A un certo punto, tuttavia, non riuscii più a resistere e mi voltai nella sua direzione.

Il mio sorriso si spense nell'accorgermi che se n'era andato. Lo cercai a lungo con lo sguardo, finché non lo trovai appoggiato alla parete, vicino alla porta della cucina, con un bicchiere in mano.

«Andiamo a bere» proposi a Megan.

«Em, lo sai che non bevo» rispose e roteai gli occhi: «Allora fai finta.»

La presi per mano per farmi seguire fino in cucina. «No dai, non ho voglia» protestò. «Preferisco rimanere a ballare. Facciamo che ti aspetto qui fuori» disse, restando a pochi metri dalla cucina.

«D'accordo» mi rassegnai.

Prima di entrare, guardai Dylan negli occhi, ma lui distolse subito lo sguardo e continuò a bere dal suo bicchiere.

A che gioco stava giocando?

Sul tavolo erano presenti diverse bottiglie. Ne scelsi una di tequila e me ne versai un po' in un bicchiere, a mo di shot. La bevvi tutta in un sorso, così me ne versai un altro po'. Poi fu il turno del Malibu, che mischiai con la Coca-Cola. Forse se fossi riuscita a ubriacarmi un po', avrei avuto il coraggio di affrontare finalmente Dylan una volta per tutte. Uscii dalla cucina, con un bicchiere mezzo pieno ancora in mano, ma non trovai più Dylan. Istintivamente lo cercai dove era prima a ballare, vicino al divano, ma non era nemmeno lì. Nemmeno Megan c'era.

In compenso vidi Tracey e Herman seduti una in braccio all'altro su una poltrona. «Ehi, avete visto Megan?» domandai.

«Sì. Un metro e sessantacinque circa, bionda, occhi verdi... sì, insomma, la conosci anche tu» rispose Herman. Roteai gli occhi. «Ora, l'avete vista ora?» chiesi spazientita.

«Non era mica con te?» domandò Tracey, confusa. «Magari è andata in bagno.»

Mi scolai il bicchiere che tenevo in mano e poi lo appoggiai sul tavolino del salotto, prima di dirigermi verso il primo dei tre bagni che c'erano. Conoscevo bene la casa di Dylan, ci avevo passato gran parte dell'estate. Perquisii tutti i bagni, salii anche al piano di sopra, dove c'erano la camera dei genitori di Dylan e lo sgabuzzino, ma di Megan non c'era traccia. Dove diavolo era finita?

L'ultima stanza che rimaneva da controllare era quella di Dylan. L'idea di ritornare lì dentro, mi fece battere forte il cuore. La mia prima volta era stata proprio su quel letto. E anche la sua. Com'era possibile che per lui non fosse contato nulla? Avevamo condiviso tutto in quella stanza. Non era stato solamente sesso.

Sebbene mi tremasse un po' la mano al solo ricordo, abbassai la maniglia della porta e la aprii. E poi li trovai, entrambi. Sia Megan che Dylan. Avvinghiati l'uno all'altra.

No.

No.

Non poteva essere.

«Megan...» mi uscì un solo flebile sussurro. Mi mancava il fiato.

Lei si staccò dalle labbra di Dylan e si alzò dal letto con uno scatto. «No, Em, ti prego...» si avvicinò a me ma mi allontanai prontamente.

«Stammi lontano! Non parlarmi mai più, Megan!» esclamai, le lacrime che cominciavano ad accumularsi nei miei occhi. Attraversai il corridoio e tornai in salotto.

Megan giunse alle mie spalle. «Emily, no, ascolta...»

«Ti ho detto che non devi parlarmi mai più, Megan! Mai più! Vaffanculo, Megan!» esclamai, mentre mille lacrime cominciarono a rigarmi il volto. Si avvicinò a me e tentò di afferrare il mio braccio, ma io mi liberai dalla sua presa in modo brusco. «Lasciami! Non toccarmi!»

«Emily, ti prego... Mi dispiace! Ascoltami, posso spiegarti ogni cosa» disse, piazzandosi davanti a me.

«Cos'altro c'è da spiegare, se non che ti sei trasformata in una puttana?»

Si passò una mano sul viso per asciugarsi le lacrime. Perché diamine piangeva? Ero io a essere stata tradita dalla mia migliore amica, non lei. «Hai ragione, ho sbagliato, però ti prego perdonami. Io non...»

«Basta, Megan! Non voglio sentire nient'altro che provenga dalla tua boccaccia. Tu... tu come hai potuto?»

«Io... io non volevo, te lo giuro! Dylan per me non conta un accidente, non me ne frega niente di lui e non mi piace, lo sai. È stato lui a baciarmi, io...»

Che bella faccia tosta. «Ah, e come vedo tu l'hai rifiutato!» la interruppi prontamente. «Risparmiamelo, Megan. L'hai fatto apposta, per dimostrarmi ancora una volta che tutti i ragazzi preferiscono te. Perché tu sei Megan Sinclair, certo. Devono essere sempre tutti tuoi.»

In fondo era sempre stato sempre così.

«Che cosa stai dicendo? E comunque non è colpa mia se gli piaccio io e non tu. Ma non è importante, perché la nostra amicizia vale più di ogni altra cosa e per me...»

«Sei proprio una stronza» la interruppi di nuovo. «Brava, sbattimelo in faccia! È proprio così che funziona fra amiche, giusto?»

Come diavolo avevo potuto essere sua amica per tutto quel tempo?

«Possiamo almeno andare a parlarne dove nessuno possa sentire o dev'essere tutto di dominio pubblico?» domandò, affievolendo il tono della voce.

«Non me ne frega un cazzo di quello che dici, Megan. E poi penso che tutti meritino di sapere che grandissima stronza sei!»

E poi ecco che le sue parole mi ferirono come se fossi stata trafitta da mille lame. «Lo sai che cosa sei, Emily? Sei soltanto un'insicura in cerca di attenzioni! Non hai autostima, pensi che nessuno possa amarti, ed è per questo che cerchi solo ragazzi a cui non interessi, così da confermare quelle che sono le tue paure. E sei anche una stronza ipocrita: adesso incolpi me, eppure non ti sei fatta problemi quando due anni fa ti sei messa con Ethan, sapendo che avevo una cotta per lui da mesi.»

Non sapevo come ribattere, in fondo aveva ragione. Aveva sempre saputo come mi sentivo nei suoi confronti, e aveva pensato bene di sbattermelo in faccia. Ciò che spaventava di più nel conoscere qualcuno da tanti anni, era essere a conoscenza dei suoi punti deboli, imparare cosa avrebbe potuto ferirla. Lei aveva ferito me. Così decisi di ferirla anch'io. «Il problema non sono le mie insicurezze, Megan, ma il fatto che tu non ti renda conto di come stanno realmente le cose! Tu non piaci a Dylan, non piaci realmente a nessun ragazzo. Credi che ti andrebbero indietro in così tanti se non fosse per il tuo aspetto fisico? Lo sanno tutti a scuola: Tracey è quella intelligente, io quella simpatica, mentre tu sei "la bella". Quindi complimenti, hai appena buttato la nostra amicizia nel cesso per uno che ti vede soltanto come un buco in cui infilare il suo pene!»

Del resto, era ciò che aveva fatto con me d'estate.

Mi allontanai, rifiutandomi di sentire qualsiasi altra cosa uscisse dalla sua bocca.

Andai a rifugiarmi nel bagno al piano di sopra, vicino alla camera dei genitori di Dylan. Mi chiusi a chiave, così da essere sicura che nessuno mi avrebbe disturbata. Mi accovacciai a terra fra la doccia e il water e diedi libero sfogo alle mie lacrime, scoppiando in un pianto sconsolato.

Circa quindici o venti minuti dopo sentii qualcuno bussare alla porta. «Occupato!» urlai, tirando su con il naso.

«Emily, sei tu?»

Sussultai. Era la voce di Dylan.

«Emily, aprimi, voglio parlarti!»

«Vaffanculo, Dylan» risposi. Cercai di dare un tono forte la mia voce, ma stavo così male da non averne la forza e la mia voce si spezzò non appena pronunciai il suo nome.

Tuttavia, alla fine decisi di alzarmi in piedi e aprirgli. Avrei chiuso con lui una volta per tutte. Girai la chiave nella serratura e aprii la porta, prima di uscire dal bagno. Mi trovai Dylan a solo un paio di centimetri e, non appena incrociai i suoi occhi, persi un battito. Gli appoggiai una mano sul petto e lo spintonai, affinché si distanziasse da me.

«Mi dispiace, ok? Io non...»

Lo interruppi: «Ti dispiace? Ti ricordi l'ultima volta che l'abbiamo fatto? Il 30 agosto. Ti è bastato così poco tempo per dimenticarmi e... e per provarci con la mia migliore amica?»

Deglutì e poi si voltò verso le scale, da cui provenivano dei passi. Vedemmo Lucinda Bailey salirle tenendosi per mano con un ragazzo. Ci diede uno sguardo curioso, disorientato. Doveva essere una scena pietosa. Io che piangevo e lui, così come lei, che mi guardava con compassione, anche se in realtà non gliene fregava un cazzo.

Con la stessa rapidità con cui erano saliti, scesero di nuovo le scale, lasciandoci soli.

«Eravamo d'accordo. Una volta a scuola...»

«Lo so, cazzo, lo so! Ma di certo non mi aspettavo di vederti qui a slinguazzarti quella ragazza, prima di fare lo stesso con Megan! Per te non è contato niente quello che c'è stato?» chiesi, con la vista annebbiata dal pianto.

«Più di quello che pensi. Tu sei stata importante per me, davvero, sei stata la prima ragazza con cui l'ho fatto, e non credere che per noi ragazzi non conti niente una cosa del genere. Ciò che c'è stato fra noi non si potrà cancellare, mai. Una parte di me... sì, insomma, resterà sempre legata a te.»

«Allora perché... perché...»

Lasciai la frase in sospeso, e lui afferrò il mio viso fra le sue mani, asciugandomi le lacrime con una carezza. Soltanto quel semplice tocco mi fece andare a fuoco. «Mi dispiace, davvero. Ma ora... ora provo qualcosa per lei e....»

Lo interruppi: «Provi lo stesso che provavi con me?».

Rimase in silenzio un po', prima di rispondere. «Non lo so... davvero non lo so» scrollò le spalle.

Ma io non volevo ancora credere che era finita. Non potevo lasciarlo andare. Non volevo. Sarei stata disposta a tutto pur di averlo ancora con me. Mi alzai in punta di piedi e tentai di baciarlo, ma lui si scostò. «Perché no?» domandai. «Se... se vuoi possiamo continuare come quest'estate, a me non importa...»

Lo afferrai per la cintura dei pantaloni e cominciai a slacciargliela. Mi misi in ginocchio e gli abbassai i boxer, ma lui mi fece rialzare in piedi e si risistemò i pantaloni. «Emily, no» disse serio.

«Perché no? Non ti piaccio più nemmeno per quello? Perché rifiutare? Sai quanti ragazzi vorrebbero essere al tuo posto in questo momento...»

«Non ho alcuna intenzione di approfittarmi di te» mi interruppe.

«Perché no? L'hai fatto per tutta l'estate. Io non... non voglio perderti, quindi non è un problema se...»

«A me piace Megan. Mi piace da impazzire, più di quanto mi piacessi tu. Non è solo attrazione fisica quella che c'è fra noi. L'unico motivo per cui sono venuto a cercarti era per mettere le cose in chiaro, e anche per assumermi la colpa di tutto... Non è stata colpa di Megan, lei tiene a te, sono stato io a...»

Non gli lasciai terminare la frase, gli tirai un sonoro schiaffo sulla guancia. Nonostante questo, non si fermò e riprese a parlare. «Se vuoi odiare qualcuno, ti prego, odia soltanto me. Lei non voleva ferirti, me l'ha detto mille volte che l'amicizia con te era più impo...»

«Basta! Non voglio sentire niente!» lo bloccai, cominciando a colpirlo ripetute volte sul petto.

Non provò nemmeno a fermarmi. Quasi come se sentisse di meritarsele quelle botte, quasi come se volesse soltanto lasciarmi sfogare. Fui io a fermarmi dopo una trentina di secondi, quando cominciai ad avere il fiatone e le forze presero a mancarmi.

«Mi dispiace» ripeté un'ultima volta, facendo per allontanarsi ma io lo attirai nuovamente a me per non lasciarlo andare. Strinsi così forte il suo avambraccio al punto da piantargli le unghia nella pelle e lasciargli dei segni. Infatti fece una piccola smorfia di dolore e, a quel punto, mi rassegnai e lasciai che si allontanasse.

Rimasi immobile per qualche secondo, in mezzo al corridoio, il cuore che mi martellava nel petto. Sembrava quasi stesse per uscirmi dalla cassa toracica. Sperai quasi che accadesse. Desiderai che la mia vita finisse. Ero stufa di stare male per dei ragazzi a cui non importava nulla di me.

Per via del silenzio generale in cui versavo, riuscii a scorgere dei rumori provenire dalla stanza dei genitori di Dylan. In altre circostanze non ci avrei dato molto peso, ma in quel momento avevo bisogno di pensare ad altro.

«Sì, così... ah... sì, ti prego, oh...»

Riconobbi la fastidiosa voce da cornacchia di Olivia, ancora più acuta del normale. Non mi ci volle molto per capire cosa stava facendo. Ma il problema era con chi. Normalmente non l'avrei fatto, ma dopo l'episodio cui avevo assistito appena tre giorni prima, decisi di aprire la porta e verificare chi se la stesse spassando con lei in quel momento.

Rimasi a bocca aperta. «Dio, che schifo! Siete tutti uguali voi uomini!» esclamai, nel confermare i miei timori. Lo stava facendo di nuovo.

Nel sentire la mia voce, Herman sobbalzò, mentre Olivia si nascose sotto le coperte. Peccato fosse troppo tardi. Il moro si infilò le mutande e cercò di rivestirsi il più in fretta possibile, ma io nel frattempo stavo già per avviarmi verso le scale. «Emily, aspetta!» esclamò venendomi dietro. Mi afferrò il polso e mi fece voltare verso di lui. Aveva ancora i capelli spettinati, il rossetto di Olivia sparso su tutto il viso e sul collo, oltre che le scarpe slacciate.

«Non dire una parola di più, sei solo un verme! Ora vado a dire tutto a Tracey!»

Mi afferrò entrambi i polsi stavolta, e mi sbatté contro il muro. «No, tu non dirai niente e guai a te se verrà a saperlo» mi minacciò, riuscendo quasi a farmi paura per il tono serio con cui lo disse.

Mi aspettavo che sarebbe scoppiato a ridere da un momento all'altro, come era solito fare nei pochi momenti in cui era serio, ma non lo fece.

Sollevai il mento. «Lasciami andare.»

«No, finché non mi giurerai che terrai la bocca chiusa.»

Provai una sensazione di inquietudine per via delle sue parole. Non avevo mai visto Herman sotto quella luce. Herman Waldorf era conosciuto da tutti come il ragazzo solare, un po' svampito, innocuo. Ma non c'era niente di innocente nel modo in cui mi stava guardando.

Così decisi di acconsentire, solo per potermi liberare dalla sua presa. «Lo giuro. Ora lasciami.»

Esitò qualche secondo, prima di mollare finalmente la sua presa su di me. Ancora con il cuore in gola, scesi le scale quasi correndo, per sfuggire da lui.

Ne avevo avuto abbastanza di quella dannata festa, così decisi di andarmene. Ma non ce l'avrei mai fatta a guardare negli occhi Tracey, dopo ciò che avevo scoperto. Era stato già abbastanza difficile in quegli ultimi giorni, ma dopo ciò che avevo appena visto (o meglio, rivisto), ero ancora troppo scossa per poter fingere che fosse tutto normale.

Così evitai di andare a cercarla per salutarla, e uscii dall'abitazione di Dylan. Sarei tornata a piedi. Morgan City era la città più noiosa di tutti gli Stati Uniti d'America, pertanto non avrei di certo corso il rischio di incontrare qualche malcapitato. 
Scesi gli scalini della veranda e mi diressi verso la strada, prima di sentire una voce alle mie spalle.

«Ferma lì, Emily.»

La sua voce mi gelò il sangue nelle vene, tanto che ebbi quasi paura a voltarmi, ma alla fine lo feci. Non avevo mai visto Herman così scuro in volto.

Aprii la bocca per parlare, ma non so perché non mi uscì alcun suono. Ero davvero così terrorizzata da non riuscire a parlare? Terrorizzata per cosa, poi?

Mi schiarii la gola. «Me ne sto andando» dissi soltanto.

«Non posso lasciartelo fare» scosse la testa, facendo qualche passo verso di me, mentre io presi a indietreggiare. «Come posso avere la certezza che non dirai niente a Tracey?»

«Da me non saprà niente, ti ho dato la mia parola, no?» dissi, indietreggiando ancora. Oramai eravamo finiti praticamente dietro casa di Dyl, dove c'erano i cassonetti della spazzatura. Non c'era nessuno lì, nessuno che avrebbe potuto aiutarmi. Aiutarmi da cosa, poi? Ero in pericolo?

«Per quanto hai intenzione di continuare così? Se non la ami più, lasciala. Ma non farle questo.»

«Quello che faccio non ti riguarda» rispose secco.

Alzai gli occhi al cielo. Certo che mi riguardava. «È la mia migliore amica, tengo a lei e non voglio vederla soffrire» dissi.

«Ecco perché non devi dire nulla. E mi assicurerò che tu non lo faccia. Mai.»

A quelle parole, mi pietrificai. Da sotto la felpa tirò fuori un coltello. Sgranai gli occhi, che si riempirono di lacrime ancora una volta. «N-no... che... che cosa vuoi f-fare?» balbettai, indietreggiando ancora.

«Rilassati. Non sentirai niente» si avvicinò ancora a me.

Se prima pensavo che volesse solo spaventarmi, dopo quella frase non ne fui più tanto sicura.

Era forse impazzito?

«Herman, c-cosa...»

«Shh» si portò l'indice sulle labbra, mimandomi di stare zitta.

Avrei voluto urlare, scappare, mettermi in salvo. Ma ero talmente in preda al terrore che non riuscivo a muovermi.

Camminò attorno a me, facendomi sentire in trappola. Mantenni lo sguardo basso, seguendo il coltello con gli occhi. Dopo aver fatto un giro completo intorno alla mia figura, si fermò alle mie spalle, avvolgendomi un braccio attorno al collo per impedirmi di muovermi.

«No, no, ti prego... ti prego!» esclamai.

Nel sentirmi piangere e urlare, rise divertito.

«Tu sei... un pazzo» sibilai. «Uno psicopatico» aggiunsi.

A quel punto mi afferrò per i capelli e sbatté la mia testa contro uno dei cassonetti dell'immondizia. Proprio mentre stavo per urlare dal dolore, mi tappò la bocca con la sua mano. «Stai zitta, cazzo, zitta!» ordinò. Poi mi fece sbattere ancora una volta la testa. E un'altra.

Allora ecco che tutto attorno a me prese a girare. Vedevo tutto sbiadito, indefinito, e non riuscivo nemmeno a reggermi in piedi senza barcollare.

«Mmh, ora mi piaci già di più» sentii dire dal mio aggressore.

«Lasciami... andare» dissi io, intontita, accasciandomi a terra.

«No, non ancora» rispose in tutta tranquillità, come se avesse appena rifiutato una tazza di tè.

Mi tirò su con un violento strattone, e si riposizionò alle mie spalle. Quella volta, però, attorno al mio collo non c'era il suo braccio, bensì quel coltello. Cominciai a respirare in modo affannato. Ogni volta che inspiravo, sentivo la lama gelida venire a contatto con la mia gola.

«Mio nonno mi ha insegnato come cacciare già all'età di dieci anni. Sai, ai suoi tempi era molto peggio, i poveri animali soffrivano davvero. Ma ora è tutto diverso... quelle bestiacce nemmeno se ne accorgono. Ecco, non ho mai provato a farlo sulle persone, ma penso che sia lo stesso. Non ti farò del male, te lo prometto.» Mi piegò il collo di lato e ci soffiò sopra. «O se così non fosse, in ogni caso il danno sarà già fatto.»

Sentii la lama perforarmi la pelle, un taglio netto. Avrei voluto reagire, fare qualcosa, ma avevo perso totalmente il controllo sulle mie facoltà motorie. Così come quelle sensoriali. I suoni cominciarono a farsi sempre più ovattati, la vista diede spazio al buio più totale. Sentii solo l'impatto con il cemento quando caddi a terra, poi non mi accorsi più di nulla.

Solo il vuoto.

Il nulla.

 

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