La guardiana della famiglia

di yonoi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La signora dagli occhi rossi ***
Capitolo 2: *** Colei che avanza tra i miei più segreti pensieri ***
Capitolo 3: *** La solitudine e l’abbandono ***



Capitolo 1
*** La signora dagli occhi rossi ***


La Guardiana della famiglia

 

 
 
 
            “Siamo fatti della materia
Di cui son fatti i sogni:
e nello spazio e nel tempo di un sogno
è rinchiusa la nostra breve vita”
 
(W. Shakespeare, “La tempesta”)
 

         1. La Signora dagli occhi rossi

 
            Residenza reale di Sandringham House, Contea di Norfolk, 14 gennaio 1892
 
            Il parco della tenuta era immerso in una caligine che saliva direttamente dalla terra come fosse il respiro di un corpo vivente, disteso tra le aiuole e, più oltre, nel folto della riserva di caccia reale: una foresta corroborante e silenziosa, dimora di fagiani, di lepri e volpi guardinghe.
        Nella notte invernale, la condensa del freddo s’impigliava tra i rami e la luce lunare  emanava una tenue fosforescenza: quei drappi di nebbia trasformavano gli alberi in velieri incagliati in un mare immaginario, fatto di prati ondulati, di colline basse e selvagge.
           Folate di foglie secche si accalcavano fin sulla soglia del cottage: le finestre erano occhi chiusi dietro a lunghissime tende, e l’intera dimora pareva immersa nel sonno e totalmente disabitata. Solo, di tanto in tanto, un lume scivolava fioco dietro alle tende, un fuoco fatuo o il segno di una presenza umana.
            In quell’ora estrema, malgrado l’apparenza di totale abbandono la residenza era affollata come mai prima d’allora.
           Nelle stanze più interne, raccolte dalle tende e dall’ovale giallo, tiepido delle candele, e fin nei corridoi non raggiunti dal fuoco vivo dei caminetti, una folla silenziosa vegliava le ultime ore del principe Eddy, nato Alberto Vittorio: nipote della regina Vittoria del Regno Unito, secondo nella linea di successione al trono.
            Fuori, l’unica voce era quella del vento che imperversava nei prati aperti e s’insinuava lungo i sentieri: poi ritornava indietro e urtava contro gli spigoli netti dell’edificio, formando mulinelli di rabbia.
            In notti come quelle, diceva il popolino, i folletti e gli spiriti andavano a passeggio a cavallo del vento, a far scherzi agli incauti che avevano la sventura di venire a trovarsi sul loro cammino.
         Ma per le strade del villaggio che sorgeva oltre i confini della tenuta non si aggirava un’anima, e il vento ruzzolava furibondo e impetuoso senza incontrare ostacoli: soltanto una colonia di gatti randagi si faceva coraggio a frugare nell’immondizia di un vicolo. Per il resto la febbre regnava per le strade con i suoi occhi rossi, il tremito delle mani e il sangue che bolliva e scaldava anche l’inverno.
           L’epidemia che stava consumando tutta l’Europa come un moccolo di candela giunto agli estremi era una lunga falce che passava a guado i torrenti, attraversava le campagne ed era giunta fin lì: in quel remoto paese non lontano dal mare, dove in estate giungevano l’odore della salsedine e le strida dei gabbiani che inseguivano i mercantili.
            La signora dagli occhi rossi non faceva differenze: gli uomini morivano nelle grandi città, scaldati dai camini ma gelati dal sudore e, paradossalmente, arsi fin nelle ossa; morivano nelle campagne, nei villaggi di case addossate l’una all’altra come pecore spaventate; nelle cascine isolate dove faceva tappa il calesse del medico, e che arrivasse in tempo oppure troppo tardi, dopo aver constatato i sintomi restava ben poco da fare. Morivano a strati nelle fosse dei cimiteri, tutti con gli occhi rossi che bruciavano le ciglia, anche quand’erano chiusi: e tutti somigliavano, nell’ora della morte, alla loro signora dalla carne consunta e la pelle tirata, gialla, sopra alle ossa.
            Anche il principe Eddy non faceva eccezione: e l’unica parvenza di vita sul suo volto già per natura pallido giungeva, in quel momento, dai bagliori del fuoco acceso nel caminetto.
          Il crepitio dei ciocchi era l’unica voce che andava e veniva, borbottando dietro agli arazzi e alle tappezzerie. Il resto era silenzio, rigido nelle spalle di Vittoria del Regno Unito, costernato sul volto della giovane fidanzata, la principessa May: la data del matrimonio con il principe Eddy era stata fissata per il mese di febbraio di quello stesso anno. Ma la signora dagli occhi rossi, la malattia che volava sulle ali del vento, la febbre che struggeva gli uomini come candele, era giunta prima di lei.
           Quell’ospite inattesa, a cui nessuno desiderava aprire le porte ma che entrava ugualmente nelle case dei ricchi e tra la povera gente, si era insinuata fin negli appartamenti reali: col suo strascico di inutili medicamenti, lenzuola fradice di sudore e deliri dell’ultima ora.
         Inesorabilmente aveva aggirato tutti i rimedi, le cure e gli artifici dei medici reali, che ora attendevano solo di compiere l’ultimo ufficio con la stesura dell’atto di morte: per questo, di tanto in tanto, tastavano il polso sempre più flebile dell’ammalato, stringendosi nelle spalle una volta di più.
            L’ultimo tepore sulla mano già fredda di Alberto Vittorio, per tutti il principe Eddy, veniva dalla stretta con cui May si ostinava a tenerlo stretto a sé: nata Mary di Teck, figlia della prima cugina della regina Vittoria, sedeva al capezzale col volto e l’abito bianco, come una sposa abbandonata sull’altare.
            Forse pensava all’abito scintillante di nozze, frutto di lunghi mesi di cucito e di prove, che ora giaceva in una cassapanca avvolto dalle essenze di fiori d’arancio, e là sarebbe rimasto. Per lei, la veste prossima sarebbe stata quello del lutto, come da tradizione per il tempo necessario a sanare le ferite del cuore. E forse il cuore non si sarebbe rimarginato mai più, proprio com’era accaduto a Vittoria del Regno Unito, in lutto stretto dai giorni dell’ultima malattia del principe consorte: Vittoria l’aveva amato fin dal tempo della sua adolescenza, quando Alberto di Sassonia le era stato presentato durante un ricevimento. Quella sera stessa aveva scritto di lui, entusiasta, nel suo diario.
        Secondo l’etichetta, poiché Alberto era inferiore per rango, era stata Vittoria a inoltrare la domanda di matrimonio: durante la celebrazione aveva inaugurato la tradizione delle spose in abito bianco, colore ritenuto fino ad allora di malaugurio da quando Mary Stuart, la regina decapitata, lo aveva indossato in occasione delle sue nozze.
           Dopo oltre vent’anni di condivisione, di vita privata e pubblica e nove gravidanze, Alberto di Sassonia era venuto a mancare: Vittoria aveva continuato ad amarlo al di là della morte, sigillando la corporatura imponente in abiti vedovili, ed esiliandosi nella nostalgia del passato.
           La fedeltà alla memoria conservava le sue vestigia anche presso l’antico castello di Windsor, dove Alberto di Sassonia era passato all’altra vita immerso nell’atmosfera ovattata della Blue Room: la stanza di malattia interamente rivestita di tappezzerie azzurre, arredi e tendaggi in tinta.
            Dopo la sua morte, Vittoria del Regno Unito aveva dato disposizioni affinché la Blue Room fosse sigillata intatta, alla maniera di uno scrigno consacrato al ricordo. Nella stanza di malattia la vita dell’estinto doveva continuare come se la morte non avesse mai osato varcarne la soglia: fiori freschi e ghirlande, rinnovati freschi ogni giorno, sfiorivano nell’oppressione di quelle stanze chiuse, mentre una brocca d’acqua calda e fumante era regolarmente posata sul lavabo.
         L’orologio era fermo all’ora della morte, e il bicchiere utilizzato per assumere l’ultima dose di medicina continuava a gettare la propria ombra sul comodino del defunto.
            Molto probabilmente, il medesimo destino sarebbe spettato all’alcova su cui il principe Eddy, quella sera, era in procinto di abbandonare questo mondo per inoltrarsi nei domini della signora dagli occhi rossi, a ventotto anni compiuti: la stessa eternità, che non doveva conoscere oblio né corruzione, li attendeva entrambi.
            Nel caminetto, rintuzzato a intervalli dalla mano di una serva che era poco più di un’ombra, il fuoco continuava le sue acrobazie, e il suo bagliore era l’unica parvenza di vita sul volto del morente e su quello dei presenti: oltre a Vittoria e May, Alberto Edoardo principe di Galles, primo nella linea di successione al trono, la sua consorte Alessandra di Danimarca e il loro secondogenito, principe Giorgio. I genitori del prescelto dalla signora dagli occhi rossi e il fratello minore componevano una sorta di fondale angoscioso, inquadrato da un arazzo a intrecci floreali che dava all’appartamento il nome di Room in Bloom.
            Tra le cortine del baldacchino il canonico Hervey, cappellano dei principi di Galles, accompagnava l’anima del morente senza parole, leggendo da un libricino.
          Al capezzale si avvicendavano con premura ma senza fretta i medici personali di Vittoria del Regno Unito, e a rispettosa distanza tre infermiere preparavano bacinelle d’acqua calda, destinate ad alleviare il sudore dell’ammalato e, a breve, a ripulire il corpo dalle scorie dell’agonia.
            Nei locali adiacenti, più vicini o distanti secondo un ordine d’importanza che s’era imposto naturalmente, nello stesso silenzio vegliava un’altra folla di addetti alla casa.
           La governante insieme alle giovani cameriere, maggiordomi e preposti alle scuderie e ai giardini, fino agli ultimi fittavoli del villaggio tendevano le orecchie al minimo rumore: fosse una porta che si accostava, un fruscio cauto di passi o addirittura un ultimo respiro proveniente da quelle stanze remote.
            Dopo un tempo che nessuno fu in grado di misurare, sulla soglia della Room in Bloom si materializzò dapprima un’ombra, di seguito l’anziana che si era occupata di mantenere vivo il fuoco del camino: non disse una parola, ma si diresse verso lo specchio che occupava un’intera parete dell’anticamera. Lo coprì con un drappo e spalancò le finestre.
          Il seguito fu un’eco di quei gesti misurati, eppure carichi di una gravità definitiva: a partire dalle sale più vicine alla Room in Bloom, fino all’ultimo vestibolo che portava alle scuderie, gli specchi furono coperti da spessi panni neri, e le finestre aperte nella notte invernale: sguinzagliato come un cane rabbioso per le stanze, il vento iniziò subito a correre da ogni parte.
           Spinti da quel fragore che creava correnti, frenava e tornava indietro in una bolgia di lamenti, i presenti si sentirono liberati dal peso del silenzio, e autorizzati finalmente a dire la loro:
            “In fondo, è stato un bene: non sarebbe mai stato in grado di regnare.”
            “Esiste una Provvidenza anche per l’Inghilterra.”
            “Provvidenza o giustizia. La febbre che lo possedeva era di tutt’altro genere, e i medici di Sua Maestà lo sapevano bene.”
            “Voi invece sapete che al riguardo non esistono prove, soltanto dicerie.”
            “A volte le prove sono le stesse voci che corrono.”
            “Il principe non è morto.” Queste ultime parole, mormorate a bassa voce, sortirono l’effetto di far voltare tutti verso l’oscurità dell’ultimo corridoio, quasi a ridosso del portone d’ingresso. A parlare era stata una bambina pallida, che si riparava a stento dal gelo sotto a un vecchio mantello e una cuffia sdrucita. La cuffia, in particolare, doveva essere il lascito di una donna adulta, perché calzava fuor di misura al piccolo viso: un pugnetto di gote che suggerivano in tutto e per tutto l’idea di essere febbricitanti.
            Sotto al mantello che, a ben guardare, pareva piuttosto una gualdrappa da scuderie, l’abito troppo leggero appariva tinteggiato malamente di nero, come usavano i poveri che non potevano permettersi un nuovo guardaroba per il tempo del lutto: si tingeva alla meglio quello di tutti i giorni, e in questi casi il lutto finiva per durare finché durava l’abito.
            Nessuno sapeva chi fosse la bambina con la cuffia, che era accompagnata da una serva di poco più giovane e ugualmente dimessa: non appena ebbe pronunciato quelle parole così fuori luogo e palesemente assurde, la sua accompagnatrice la tirò accanto a sé, nascondendola nella penombra. Ma la gravità del momento e del tono con cui aveva espresso quel breve pensiero, finirono per attirare l’attenzione di tutti su quella strana creatura:
            “Tu chi sei, ragazzina?” Il silenzio assoluto che era caduto a un tratto, insieme a una sensazione improvvisa di gelo, aveva levato la parola di bocca a tutti i presenti. La voce che ora interrogava la fanciulla proveniva da un angolo ancora più riposto di quel corridoio buio, simile a una galleria sotterranea.
          “Il principe non è morto”, ripeté la bambina avanzando di un passo, fino ad apparire nella debole luce che entrava, insieme al vento, da una delle finestre: “sembra, ma non lo è.”
            Aveva occhi chiari, resi lucidi da una misteriosa chiaroveggenza: intorno a lei, diffondevano un inquietante chiarore. Fuori dalla finestra, veleggiava una nebbia dello stesso colore.
            Sottovoce, la bambina riprese la parola, invitando i presenti a tendere l’orecchio:
            “Non sentite che si allontana?”
           “Chi? La febbre maligna?” di nuovo la voce di prima, intraprendente solo perché si trovava a debita distanza. Tutti, a quel punto udirono un battito di mani: un ritmo scandito come per accompagnare una danza o forse un lamento, e un fruscio di passi che percorreva i giardini con una rapidità prodigiosa, fino a scomparire nella foresta.
           “La Guardiana della famiglia” precisò a quel punto la piccola veggente “era venuta per piangere la morte del Principe Alberto, ma la febbre lo ha lasciato proprio in questo momento. Per questo lei ora torna da dove è venuta.”
         Stavolta, lo sconosciuto interlocutore della bambina - che si appurò in seguito essere semplicemente uno degli stallieri - non trovò il coraggio per chiedere chi fosse questa Guardiana, e soprattutto come facesse la piccola a sapere che la morte del Principe, in realtà, era solo apparente.
            Passarono alcune ore. Al di là di quel pronostico che nessuno ebbe il coraggio di riferire, tanto pareva assurdo, il principe Alberto Vittorio incominciò a mostrare i segni tipici del trapasso, senza possibilità di equivoci né ombra di dubbio.
            Nel fermento dei preparativi funebri nessuno diede peso alle parole della piccola veggente, liquidandole come semplice effetto di suggestione: si venne a sapere che la bambina, tale Georgina figlia di padre ignoto, era sopravvissuta chissà come alla febbre che, nell’inverno di Londra, aveva falciato interi quartieri assieme alla miseria.
           Secondo alcuni si trattava di una parente della serva che, quella sera, l’aveva condotta per mano. Ma alle domande dei più curiosi, la serva in questione si era limitata a rispondere che Georgina era figlia di una sua conoscente, che la madre era morta lasciandola sola al mondo e lei non se l’era sentita di lasciarla in orfanotrofio. L’aveva portata a Sandringham sperando di riuscire a trovarle un lavoro, e contava di riuscirvi perché Georgina era laboriosa e assennata, anche se probabilmente i postumi della febbre dovevano averle fatto girare qualche rotella: perché con tutta la serietà di questo mondo la bambina sosteneva di vedere gli spiriti come fossero in carne e ossa, le anime dei defunti e ogni sorta di cose che più si stava a sentirla e più ci si spaventava.
          Erano in molti a credere, del resto, che senza gli opportuni accorgimenti ci fosse il rischio i morti continuassero a gironzolare per la casa: per questo, nelle ore immediatamente successive al decesso di Alberto Vittorio, a partire dalla stanza che ospitava la salma fino alle scuderie, le finestre furono spalancate per consentire all’anima di raggiungere l’al di là senza restare intrappolata in qualche stanza.     
            Per lo stesso motivo, tutti gli specchi vennero prontamente coperti: in segno di lutto, ma anche perché si credeva che la loro superficie fosse in grado di catturare le anime trapassate mentre ancora si trovavano in casa, disorientate per il distacco prematuro. Un panno nero posto a oscurare il riflesso serviva ad impedire che il defunto rimanesse nei paraggi più del dovuto.
          Una volta convinto ad abbandonare Sandringham House, grazie all’efficacia dei rimedi tradizionali, il principe Alberto Vittorio avrebbe trovato una nuova dimora nel castello di Windsor, presso la cappella dedicata a San Giorgio: dove molti regnanti l’avevano preceduto insieme alle loro consorti, nell’eternità dei monumenti funerari vegliati da statue piangenti e imponenti angeli alati.
           Vittoria del Regno Unito aveva già dato le opportune disposizioni per la costruzione di un imponente sarcofago, che riproducesse le fattezze del nipote a grandezza naturale. Un’opera del genere avrebbe richiesto un lavoro di mesi, ma di fatto lo scultore non ebbe il tempo di dare un solo colpo di scalpello: durante la veglia funebre, un insolito trambusto fece accorrere i servi nella stanza del principe Eddy, dove la camera ardente era stata allestita con profusione di fiori e di sali per coprire il fetore aspro della malattia.
           I primi ad accorrere si trovarono di fronte a uno spettacolo impressionante: a quanto pareva, malgrado le finestre completamente spalancate l’anima del defunto non era partita in volo, ma aveva preferito tornarsene nel corpo dove aveva dimorato fino a ventiquattr’ore prima.
           I servi della casa rimasero sbalorditi, immobili sulla soglia: la visione che apparve dinanzi ai loro occhi si fissò così fortemente nella memoria che anche a raccontarla a distanza di anni pareva di riviverla come fosse accaduta allora.
         Seduto sul giaciglio che ancora recava l’impronta sudata del trapasso, emergendo da una trapunta di ghirlande, fiori ed erbe aromatiche, il principe Alberto Vittorio stringeva a sé colei che aveva continuato a vegliarlo senza riposo, stringendogli la mano e senza mai allontanarsi dal suo capezzale. Tra le braccia del suo amato, la principessa May sorrideva radiosa, come una sposa sull’altare delle sue nozze.
 
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           Dopo le prime sgomente reazioni, dopo gli accertamenti dei medici reali che decretarono ufficialmente - ove ce ne fosse ancora il bisogno - di trovarsi di fronte a un caso straordinario di morte apparente, la vita a Sandringham House riprese il suo corso, pur con le necessarie cautele per consentire al Principe un adeguato periodo di convalescenza.
          Della sua esperienza ai confini tra la vita e la morte, il principe Eddy non parlò mai: nessuna rivelazione varcò la soglia degli appartamenti reali, nessuna confidenza fu affidata alle orecchie discrete della principessa May. Dal punto di vista di Vittoria del Regno Unito, l’intera vicenda trovò la più logica spiegazione nell’incompetenza dei sanitari:
           “Non sapere distinguere un vivo da un moribondo, qui sta l’enormità di tutta questa faccenda.”
        I medici reali ribadirono che, alla stesura dell’atto di morte, il cuore del principe Eddy aveva cessato di battere da più di sessanta minuti. Dalle constatazioni eseguite col più moderno stetoscopio a loro disposizione risultava l’assenza di attività cardiaca, e ogni altra evidenza aveva confermato la cessazione del respiro e di risposta agli stimoli.  
            “La Vostra Maestà del resto era presente, e ha potuto verificare che ogni accertamento è stato eseguito con perizia e senza ombra di dubbio.”
            “Chissà cosa avrete sentito, con quei vostri imbuti di legno.”
            Vittoria del Regno Unito liquidò la questione ricordando il vecchio adagio secondo cui il paziente campa di più e meglio se non incontra mai il medico: dichiarò il caso chiuso con tanta decisione che nessuno si prese l’impiccio di riferirle ulteriori stranezze, tanto meno le parole pronunciate da quella bambina che sosteneva di vedere gli spiriti, ma forse per certe cose ci azzeccava più dei dottori.
          Nei giorni successivi, la data delle nozze tra il principe Alberto Vittorio e Mary di Teck fu confermata ufficialmente: accantonati i preparativi per le esequie, nonché il progetto per il monumento sepolcrale, furono avviati quelli per i festeggiamenti. 
           La convalescenza del principe Eddy ebbe un decorso ordinario, senza scosse e clamori, come se l’ammalato si stesse riprendendo da una banale indisposizione: il suo carattere schivo e l’inguaribile timidezza, che facilmente veniva scambiata per disinteresse nei confronti del mondo intero, non registrarono alcun mutamento.
           Quell’evento inspiegabile di cui era stato protagonista sembrava non averlo neppure sfiorato: al punto che non solo tra il personale di servizio, ma addirittura tra i membri della famiglia reale si cominciò a ironizzare sul fatto che tra il principe Eddy redivivo e Eddy sul catafalco non c’era veramente nessuna differenza.
            La poca considerazione che si aveva di lui partiva dall’alto, dal carattere determinato di suo padre, Alberto Edoardo principe di Galles, che era l’opposto speculare del figlio. E risaliva al tempo faticoso della sua infanzia, quando le ore non passavano mai e la mente di Eddy divagava spontaneamente: finendo per trovarsi sempre da un’altra parte quando il canonico Dalton, suo precettore, lo destava dal mondo dei sogni per interrogarlo.
         Cosa sognasse Eddy invece di seguire le lezioni di storia, grammatica e latino, neppure lui in realtà avrebbe saputo dirlo: a un’eventuale domanda, molto probabilmente avrebbe risposto che quando ci si sveglia i sogni fuggono via, e nessuno può trattenerli.
           Da principio si pensò che a impedirgli di seguire le lezioni fosse una sordità incipiente, possibile eredità di sua madre, Alessandra di Danimarca: all’esito di approfonditi accertamenti non risultò alcun difetto, a riprova del fatto che non c’è peggior sordo di chi non voglia ascoltare.
           Questo era per lo meno il parere di Dalton, che considerava Eddy un’autentica spina nel fianco.
          Con la sua voce monocorde che già di per sé conciliava il sonno, il precettore sfogava la sua frustrazione durante i colloqui con l’augusto genitore del suo svogliatissimo alunno:
            “Questo ragazzo è pigro” esordiva il canonico, salvo poi precisare:
            “Non solo è negligente, il che sarebbe solo una questione di disciplina. Oserei dire che lo stato ordinario della sua mente è un sonno così profondo che pare quasi impossibile riuscire a destarlo.”
            Analoghe osservazioni riguardavano il profitto del principe Giorgio, fratello minore di Eddy e allievo parimenti insipiente. I due studiavano assieme: nel caso di Giorgio, la mediocrità si attestava nei limiti della norma. Di Eddy, invece, si diceva più o meno apertamente che era proprio il cervello a mancare all’appello. 
            In molte occasioni, questi giudizi trancianti vennero pronunciati alla presenza dei due ragazzi: Giorgio chinava il capo mortificato, mentre Eddy pareva del tutto indifferente, come se quelle parole non lo riguardassero affatto. In realtà dentro bruciava, moriva di umiliazione.
          “Tu non hai amor proprio” rincarava la dose il principe di Galles, e l’unico risultato che riusciva a ottenere era che quel po’ di autostima che si nascondeva sotto alla cappa di timidezza del figlio, si assottigliava sempre di più. Sentendosi incompreso, a maggiore ragione Eddy si rifugiava nel suo universo fantastico, e la logica conseguenza era che i suoi voti colavano a picco senza rimedio.
            L’unica ad intuire quel circolo vizioso fu la nonna Vittoria, che in breve proibì al canonico di sfogare le sue paturnie in presenza dei nipoti:
         “Carissimo reverendo, se lo metta ben in mente: se un allievo non impara, di qualsiasi allievo si tratti, la colpa è del precettore che non sa come insegnare.”  
            Di certo Eddy era un sognatore, e molto probabilmente non possedeva le qualità necessarie a un regnante. Ma Vittoria del Regno Unito avvertiva una particolare sintonia col nipote: dietro alla sua presunta lentezza mentale scorgeva un tratto di purezza, che nessuno dei suoi numerosi figli e nipoti possedeva. Eddy era un carattere dolce, persino affascinante nella sua estrema riservatezza.
           Fu solo dopo una lunga e accidentata ricerca che la nonna riuscì a scovare qualcosa in grado di interessarlo. Un giorno si trovavano a percorrere i corridoi della biblioteca di Windsor, con Eddy che si divertiva ad arrampicarsi sulle scale appoggiate agli scaffali, col rischio di cadere e rompersi l’osso del collo: Vittoria riuscì ad attirare la sua attenzione mostrandogli un prezioso volume illustrato.
           Mentre entrambi erano intenti a sfogliare le pagine, con grande disappunto della Regina apparve chiaro che Eddy, a undici anni compiuti, faticava ancora a scandire le sillabe: ma l’altra scoperta, ben più entusiasmante, fu che il libro suscitò nel ragazzo un fascino irresistibile.
            Le pagine erano impreziosite da tavole che mostravano le terre selvagge dell’India, una giungla di tigri con occhi di smeraldo e pantere a riposo sui rami degli alberi. Lungo gli argini di un fiume lentissimo e senza fine, processioni di elefanti scortavano principesse accovacciate su baldacchini variopinti.
            “Voglio andarci, in questo posto” disse Eddy sognante, senza riuscire a staccare lo sguardo da quel mondo incredibile che si stava svelando dinanzi ai suoi occhi.
          “L’India è colonia inglese” aveva risposto compiaciuta la nonna, “ci potrai andare quando sarai più grande, e soprattutto quando avrai imparato a leggere.”
            Il piccolo Eddy prese quella promessa alla lettera: nessuno seppe mai se a smuoverlo fu il desiderio di recarsi al più presto in quei luoghi misteriosi, oppure il semplice fascino dei racconti di avventure. Fatto sta che, di lì a breve, imparò a leggere speditamente.
            L’occasione era troppo ghiotta perché Vittoria rinunciasse a prendersi una rivincita nei confronti di Dalton:
            “Ha visto, reverendo? Nella necessità, occorre sempre aguzzare l’ingegno.”
            In preda a una vera e propria febbre della lettura, il principe passò ben presto alle storie di folletti, fantasmi e di paura. Facilmente impressionabile e dotato di una fervida immaginazione, trascorreva notti insonni per buona parte immerso col naso dentro ai volumi: per il resto con gli occhi spalancati nel buio che si riempiva di voci, di immagini evanescenti, di ombre e di domande.
            Fu in quel periodo che, dopo una lunga e dolorosa malattia morì lady Forster, una delle più affezionate dame di compagnia della Regina Vittoria. Sua Maestà aveva da poco ricevuto la notizia in via confidenziale, quando Eddy la raggiunse nei suoi appartamenti recando un grande volume, che aprì dinanzi a lei per mostrarle un’illustrazione.
            La figura su cui il nipote richiamò la sua attenzione rimase a lungo impressa nell’animo di Vittoria, già turbato dalla notizia appena ricevuta, come una delle immagini più spaventose che avesse mai visto.
            Quasi si dispiacque di avere spinto il nipote nel mondo fascinoso e impervio delle letture. La biblioteca reale custodiva sì dei tesori, ma anche volumi non adatti ai bambini: in ogni caso, quel trombone di Dalton avrebbe dovuto vigilare più attentamente sul genere di libri che finivano tra le grinfie del suo pupillo.
        La tavola in questione, intitolata “La banshee” raffigurava una donna vestita solo delle sue ossa e da una sorta di sudario insanguinato: i capelli scarmigliati le ricadevano disordinatamente sul volto, i cui tratti erano ridotti alle mere cavità di un teschio scarnito. Al posto degli occhi due ombre, un’altra ombra era il naso e la bocca appariva deformata in un grido.
           “Perché occupi il tuo tempo a guardare queste cose?”
           Profondamente impressionata, Vittoria ritenne opportuno redarguire il nipote:
          “Ecco perché di notte non riesci a prendere sonno, e poi durante il giorno ti addormenti a lezione. Il canonico è di nuovo insoddisfatto del tuo rendimento, il che significa altri guai in vista con tuo padre.”
           “Nonna, voi conoscete la Guardiana della Famiglia?” il piccolo Eddy era troppo eccitato dalla scoperta per far caso a tutto il resto, comprese le possibili punizioni paterne. Seduto al tavolino accanto a Sua Maestà, aprì quel volume che era quasi più grande di lui, e cominciò a leggere:
          “Tra gli abitatori del regno delle fate, la banshee appartiene alla categoria degli spiriti solitari. La sua presenza è legata ai casati di antica origine, presso le quali suole manifestarsi in occasione della morte di uno dei suoi componenti, specie se si tratta di un personaggio illustre. Per questo è anche detta la Guardiana della famiglia. Il suo lamento funebre, accompagnato dal battito ritmico delle mani, è un annuncio di morte imminente.”
            Ce n’era già a sufficienza perché a Vittoria del Regno Unito i capelli si rizzassero dritti sotto alla cuffia:
            “Queste sono leggende delle contee d’Irlanda, semplici superstizioni da contadini. Senza contare che tu sei troppo grande per credere alle favole.”  
            “Nonna, avete mai udito il canto della Guardiana?” I grandi occhi celesti del principe Eddy erano pieni di timore, ma anche di un’irrefrenabile curiosità.
            Vittoria ebbe un moto di esasperazione: si trovò quasi a rimpiangere il tempo non lontano in cui il Eddy si limitava a inseguire le nuvole durante le sue lezioni.
            “Io l’ho udito l’altra notte”, proseguì il giovane principe, “l’ho udito poco prima che lady Forster morisse. L’orologio della torre aveva appena terminato il rintocco di mezzanotte, quando ho udito quel pianto e il battito delle mani che andava e veniva, e girava attorno alle mura. Mi sono affacciato alla finestra della mia camera, ma era molto buio e non ho visto nessuno.” 
          “Ci credo che non hai visto nessuno, figliolo: sono tutte fantasie, queste storie ti hanno messo la confusione in testa e tu chissà cos’hai creduto di sentire.”
            Vittoria era spazientita e anche inquieta. In realtà la notizia della morte di lady Forster, avvenuta nel lontano castello di Balmoral in Scozia, era giunta da poco e non era stata ancora resa nota agli altri membri della famiglia.
            Come sempre accadeva quando non sapeva come trarsi d’impaccio, decise di tagliar corto e di chiudere immediatamente la questione:
            “Adesso basta, Eddy: consegnami quel libro. Ti proibisco di continuare con queste letture, che non sono adatte alla tua età e ti portano solo scompiglio e allucinazioni.”
            Dopo aver consegnato a malincuore il volume, Eddy tornò a immergersi nei racconti di viaggi ed esplorazioni, e di quella fosca vicenda non si parlò mai più. 
 
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           Baia di Darmouth, Devonshire, 1877
 
            Di fatto, il desiderio di Eddy di conoscere il mondo trovò il suo compimento ben prima dell’età adulta. A tredici anni compiuti, insieme al fratello Giorgio e al canonico Dalton, s’imbarcò per volontà di suo padre sulla nave da addestramento della Royal Navy Britannia.
          Il principe di Galles era convinto che un vigoroso tirocinio in Marina fosse fondamentale per educare i figli alla disciplina: evitò di aggiungere “utile soprattutto a svegliare i dormienti”, solo perché la Regina Vittoria era presente.
            A bordo della Britannia, Eddy portò con sé il proprio bagaglio di impacci, timidezza e difficoltà a rapportarsi con gli altri. La prima lezione che imparò suo malgrado fu che tra la quiete protetta della sua amata biblioteca e il mondo in carne, ossa e cannoni della Britannia c’era una differenza più grande del mare che si apriva nella baia di Dartmouth, sulla Manica.
          Dartmouth offriva un paesaggio di varia umanità: porto attivo fin dall’epoca delle Crociate, era un mosaico di vicoli e scalinate di pietra, severe costruzioni sorrette da colonne, marciapiedi che correvano in discesa fino all’orizzonte azzurro del porto.
            La banchina era un crogiuolo di attività lecite e furfantesche: c’erano i magazzini all’ingrosso del pesce e i banchi per lo smercio al dettaglio, affollati di compratori e mendicanti che contendevano gli scarti a colonie di gatti. L’odore era insopportabile, e le secchiate d’acqua che alcune energiche popolane gettavano di tanto in tanto sul marciapiede, contribuivano solo a mandarlo più in là, fin sulla soglia degli empori di articoli coloniali: qui si vendevano lo zenzero e la cannella, il tabacco e il thè di Darjeeling, spezie di tutti i colori in grandi sacchi aperti, che a passarci vicino veniva da starnutire.
            Abituato alla tranquillità degli appartamenti reali, all’ordine rigoroso imposto dall’etichetta, Eddy era frastornato: non aveva mai visto un simile formicolio di gente indaffarata, occupata a contrattare, litigare o ondeggiare qua e là in preda ai fumi dell’alcool. Le navi attraccavano per consegnare la merce o provvedere al rifornimento di carburante: il molo era un andirivieni di scaricatori e marinai con le spalle piegate sotto al peso dei carichi, su e giù dalle passerelle dei pescherecci, delle navi militari, dei mercantili dalle stive immense. Le taverne dei vicoli erano affollate di carbonai e manovali, militari in libera uscita, donne in abiti sgargianti, borseggiatori che approfittavano della ressa per muoversi indisturbati.
            Nel negozio di coloniali, visitati dai due ragazzi con Dalton perennemente alle calcagna, parrocchetti verdi e gialli gonfiavano le penne dentro a eleganti gabbie di ferro battuto, pappagalli giganti guardavano di traverso e parlavano a segno come cristiani. Zanne d’avorio di dimensioni colossali, pelli maculate di leopardo e di zebra, persino un’enorme tigre impagliata diedero a Eddy un assaggio di quelle terre esotiche che avrebbe tanto desiderato visitare.
            Aveva ancora negli occhi le visioni dei suoi romanzi quando uscì dal negozio, passando dalla penombra alla luce viva del marciapiede: sempre seguito da Dalton col naso nel fazzoletto, che starnutiva per via delle spezie.
            Quel momento di temporanea distrazione non passò senza conseguenze: il principe Eddy si sentì urtare con violenza e fece appena in tempo a vedere un ragazzetto che fuggiva a gambe levate.
            Istintivamente portò la mano alle tasche e scoprì che portafoglio e orologio avevano preso il volo, tra le grinfie di quel furetto che aveva visto solo di spalle ma non poteva avere più di cinque o sei anni.
            L’imperturbabile Dalton, invece, non si era reso conto di nulla: soltanto a tarda sera, nei locali dell’accademia, realizzò di esser stato vittima a sua volta di un borseggio: spariti la tabacchiera, l’orologio da taschino, il portafogli e persino il fazzoletto da naso, che gli era indispensabile forse più di tutto il resto.
            Mentre il canonico imperversava furibondo, invocando tutti i diavoli dell’inferno sulla gente del porto, e sui bobbies che si facevano prendere per il naso da quei ladruncoli che s’infilavano dappertutto, Eddy era pensieroso.
            Un fatto in particolare l’aveva impressionato: la vista delle baracche a ridosso dei magazzini di carbone, catapecchie di legno da cui aveva visto uscire marmocchi a frotte, donne con altri piccoli tra le braccia e attaccate alle gonne. Pareva che quelle baracche contenessero un’umanità senza limiti di numero e di miseria. A un tratto, attirati dal muggito di un mercantile all’attracco, una folla di uomini si era affrettata fuori da quei tuguri: erano giovani ma anche anziani malandati, e tutti correvano a frotte verso la banchina, per aggiudicarsi il diritto di provvedere allo scarico.
           In quello stesso momento, dal lato opposto del molo un’altra folla stava accorrendo, sicché era nata una contesa che immediatamente era passata alle vie di fatto.
           A quel punto erano intervenuti i poliziotti, ma la rissa era andata avanti per un pezzo: era ancora in corso quando il canonico Dalton, che si era attardato a far scorta di tabacco, era riuscito a riacciuffare i due rampolli reali e a trascinarli via da quell’increscioso spettacolo.
           Per la prima volta da quando era stato affidato alla sua tutela, il principe Eddy aveva tempestato il precettore di domande, ovviamente non riguardanti la storia dell’Inghilterra o le declinazioni latine, bensì la scena sanguigna a cui aveva assistito.
           Di fronte alle risposte evasive di Dalton aveva cavato fuori una grinta inaspettata, tale da lasciare il canonico stupefatto:
           “Quando io sarò re” aveva dichiarato ad alta voce Eddy, con i toni vibranti di un giuramento solenne, “non ci saranno più i poveri: ci penserò io a dare ad aiutare tutti, e non dovranno più vivere in quelle orrende baracche.”
           Il vecchio canonico aveva sorriso. A suo parere, ben peggiore della miseria di tutti i porti del mondo era l’idea che un giorno quel ragazzetto, così scarso di volontà e di cervello, potesse salire al trono. Quella sarebbe stata la vera tragedia, e c’era da augurarsi che Sua Maestà la Regina e il principe di Galles campassero in eterno, perché un danno del genere non avesse mai a verificarsi.
           Tuttavia, la fermezza con cui il principe Eddy era riuscito a esprimere un suo pensiero, per la prima volta da quando era al mondo, era piaciuta a Dalton: il principe di Galles aveva ragione a dire che la Marina forgiava uomini forti. E sì che il corso di addestramento vero e proprio non era ancora iniziato.
           Una volta salpati dal porto di Dartmouth, quando le esercitazione cominciarono sul serio,  iniziò anche il calvario per il principe Eddy. Chi si forgiò in quel tempo, anche se non nel senso che intendeva suo padre, fu il principe Giorgio: impegnato a tempo pieno a difendere suo fratello, e anzitutto se stesso, dalle angherie feroci degli altri cadetti.
           Come accadeva in tutte le caserme del mondo, i più anziani vessavano le reclute nei modi più bizzarri, persino fantasiosi. Rimanere rinchiusi dentro a una cassa per ore, finché non si riusciva a liberarsi da soli. Trovare una coda di topo nella minestra, essere costretti a cercare la chiave della propria cabina frugando la Britannia da cima a fondo, a costo di passare la notte sul ponte: tutto faceva parte di un percorso iniziatico che era ampiamente tollerato dai superiori.
            Si poteva mettere fine al tormento soltanto dimostrando di non essere un debole, e la via più breve per dimostrarlo era spuntarla in una rissa di almeno tre contro uno.
            Non erano previste eccezioni, né sconti: come recitava un vecchio adagio dell’accademia, sulla Britannia si salpava da pivelli e si tornava da uomini.
            Pivello per eccellenza, per vocazione e forse anche per scelta, il principe Eddy era il bersaglio prediletto da quella torma di aristocratici ben consapevoli dei loro privilegi, primo tra tutti quello di maltrattare gli inferiori: e più inferiore di Eddy, a bordo della Britannia e a dispetto della sua ascendenza regale, non c’era proprio nessuno.
            Giorgio si difendeva, imparò a fare a botte e a menare certe sventole da voltare la faccia a individui grandi il doppio di lui. Ben presto conquistò il posto che gli spettava nella scala gerarchica del Royal Naval College, mentre Eddy si limitava a incassare: sicché il suo destino fu di salpare da pivello e di tornare tale e quale, anzi persino più timido e incapace.
          Come sempre accadeva nei momenti di crisi, Eddy trovò rifugio tra le pagine dei suoi libri: tutto il suo tempo libero lo trascorreva nella cabina sotto coperta, a leggere e a lasciarsi cullare dal rollio dolce della Britannia. Contrariamente alle abitudini dormiglione che aveva acquisito a corte, e allo scopo di ritagliarsi momenti di solitudine, all’alba era già sul ponte: sgattaiolava a prua e ascoltava il canto del vento, vedeva il sole sorgere disegnando un scia di luce sul mare, un crepitio tra le onde.
           Durante il passaggio dello stretto di Gibilterra, Eddy incontrò i delfini: costeggiando le bianche scogliere, che formavano un orizzonte di ali pronte ad alzarsi in volo - erano infatti innumerevoli i gabbiani che di là si levavano, all’inseguimento dei pescherecci - la Britannia aveva diminuito la velocità di crociera. Fu allora che l’oceano dalla parte di prua ebbe un fremito, e dinanzi agli occhi stupefatti di Eddy prese la forma di un guizzo, di una capriola, e di un’infinità di grida festose: i suoni dei delfini erano vocalizzi prolungati e gioiosi, come di bimbi che giocassero a rincorrersi, e colmi di un’armonia che era pura forza vitale.  
            Un intero branco impegnato in volteggi e balzi sull’acqua accompagnò a lungo il tragitto della Britannia. A Eddy che gettava minuzie di pane e aringhe sotto sale, i delfini offrirono il meglio della loro natura scherzosa: salti al volo e sorrisi che ben potevano dirsi da un orecchio all’altro, spruzzi d’acqua salata che nel sole dell’alba parevano diademi.
            Di tutto il suo periodo di addestramento in Marina, il principe Eddy ebbe cura di conservare solo i ricordi migliori: la danza dei delfini, il mistero del mare aperto, le colonie di pesci che spesso si scorgevano sotto al pelo dell’acqua.
            Contemplando la natura si sentiva in armonia con il mondo: per questo era anche disposto a sorbirsi le interminabili lezioni di nautica, a imparare quegli assurdi termini marinareschi, a sopportare le molestie degli altri cadetti. I quali a un certo punto, rendendosi conto che le loro trovate ai danni del principe Eddy si risolvevano nel il più totale disinteresse, persero il gusto del gioco e decisero di lasciar perdere.
 
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Capitolo 2
*** Colei che avanza tra i miei più segreti pensieri ***


“Ma chi sei tu,
che avanzando nel buio della notte,
inciampi nei miei più segreti pensieri?”
 
(W. Shakespeare, “Romeo e Giulietta”)
 

         2. Colei che avanza tra i miei più segreti pensieri
           

            Abbazia di Westminster, Londra, 27 febbraio 1892
           

            Le nozze tra Sua Altezza Reale il principe Alberto Vittorio e Vittoria Maria di Teck, detta familiarmente May, furono celebrate secondo la data originariamente fissata: il 27 febbraio 1892 poco dopo mezzogiorno, nella cornice solenne dell’Abbazia di Westminster.
            Dieci dame scortarono la sposa fino all’altare, avendo cura del prezioso strascico ricamato: fini trame d’argento brillavano in quella mattina di luce incerta, simili alle gocce che a tratti piovigginavano da un cielo rannuvolato.
            L’uso dell’abito bianco, inaugurato da Vittoria del Regno Unito in occasione del suo matrimonio, era già tradizione: dal giorno in cui la giovane regina l’aveva sfoggiato, sottraendolo al guardaroba del mezzo lutto, per tutte le nobildonne e le ricche borghesi divenne tassativo adeguarsi alla nuova tendenza.
            Era la moda del momento, alla stessa maniera degli uccelletti impagliati, dei fiori e frutti posticci che appesantivano i cappelli delle signore durante i pic-nic. Solo in seguito il bianco, da allora in poi associato alla sacralità della celebrazione, si appropriò dei significati di purezza e innocenza.
            Poiché un matrimonio reale era l’evento popolare per eccellenza, tutta Londra era in festa e si accalcava lungo il percorso da Buckingham Palace a Westminster. Per l’occasione gli uffici osservarono la chiusura festiva, nei mercati si aggiravano solamente i randagi e le uniche botteghe in pieno fermento erano gli atelier di sartoria: pronti a copiare i particolari del velo, dei guanti e delle scarpe, e a riprodurre in centinaia di modelli l’abito della sposa, non appena questa fosse scesa dalla carrozza.
             Un applauso spontaneo salutò l’ingresso della principessa in cattedrale, per la simpatia istintiva che suscitò il suo sorriso, il leggero rossore, ma anche la disinvoltura con cui si chinò a raccogliere un guanto, col rischio di far crollare tutta l’impalcatura complicata del velo.
            Raccolse un guanto e subito le sfuggì di mano quell’altro, e da quel momento May entrò nel cuore di tutti: piacque ai bimbi con gli occhi sgranati in cima alla folla, issati sulle spalle dei padri e dei fratelli; ai piccoli lustrascarpe, strilloni e spazzacamini arrampicati addirittura sui lampioni; agli anziani con gli occhi lucidi, che ancora ricordavano le nozze di Vittoria; alle giovani che sognavano con il capo posato sulle spalle dei fidanzati, che non erano nobili ma semplici lavoratori a giornata, però c’era l’amore e allora quella festa riguardava anche loro.
            Ciò che tutti intuivano era che il matrimonio che si stava celebrando non era il frutto di piani studiati a tavolino, ma un vero matrimonio d’amore. Probabilmente anche questa era una novità introdotta da Vittoria del Regno Unito, che al di là di tutti i preamboli che avevano favorito l’incontro con il suo sposo, si era recata all’altare ben convinta di avere trovato la sua metà: sfidando la consuetudine secondo cui prima ci si sposa e dopo ci s’innamora, o quanto meno s’impara ad andare d’accordo.
            La stessa emozione che i popolani avevano intuito nei gesti un po’ nervosi di May, appariva moltiplicata sul volto e nei movimenti ancora più impacciati del principe Eddy, che per tutta la celebrazione non levò neppure per un istante gli occhi dalla sua sposa: degnò appena di uno sguardo l’arcivescovo di Canterbury, impegnato a celebrare insieme a tutto il capitolo, riservò appena un cenno agli illustri presenti, alle decine di teste coronate da tutta Europa, e fece cadere a terra per ben due volte l’anello nuziale.
            Alla seconda volta che gli sfuggì di mano, l’anello rotolò con tale entusiasmo che dovettero rincorrerlo in due lungo la passatoia, Eddy e l’aitante principe Adolfo di Teck, fratello della sposa.
            Secondo la tradizione, un evento del genere era considerato di buon auspicio, segno che tra gli sposi vi era autentico amore e che il matrimonio era fonte di emozioni forti.
            Non mancò chi colse l’occasione per sottolineare l’ennesima gaffe di Eddy, ad ulteriore prova - semmai ce ne fosse bisogno - della sua sconvenienza e mancanza d’intelligenza:
            “Domani appariranno le solite caricature con Sua Maestà che corre su e giù inseguendo l’anello. Magari a quattro zampe, tanto per rammentare a tutti certi fatti.”
            I fatti in questione risalivano a qualche anno prima, e si riferivano a una vicenda che aveva tenuto banco per mesi nei salotti, diffondendosi a macchia d’olio fino alle ultime bettole dei sobborghi. Chi non sapeva leggere le cronache dei giornali, si affidava alle chiacchiere e ci metteva del suo: la fantasia galoppava, soprattutto da quando si era emerso il coinvolgimento di persone vicine alla corte, forse addirittura di un membro della Casa reale.
            L’intera faccenda era nata da una banale denuncia di furto ai danni di un ufficio postale londinese.
            Tutti i dipendenti erano stati interrogati, e un fattorino era stato trovato in possesso di una somma notevolmente superiore al salario settimanale. Per sottrarsi alle accuse, il ragazzo s’era buttato dalla padella nella brace, rivelando che il gruzzolo rappresentava il compenso per certe prestazioni effettuate a favore di ricchi interessati, presso una certa casa in Cleveland Street.         
            Vuotando a fondo il sacco aveva tirato in ballo altri colleghi, giovani fattorini e telegrafisti che a loro volta adottarono la stessa strategia difensiva: una volta avuta in mano la patata bollente, cercare di disfarsene lanciandola a qualcun altro. Le accuse rimbalzarono sempre più alto, con tutto il loro carico di imbarazzi, pubblico disonore nonché il rischio di ritrovarsi appioppati fino a due anni di lavori forzati.
            Questa era la prospettiva che arrivò a togliere il sonno al maggiore Arthur Somerset, capo delle scuderie del principe di Galles, nonché ufficiale delle guardie reali.
            Correva voce che nel rapporto inviato al Procuratore, il nome di lord Somerset figurasse nascosto sotto a una finestrella a mo’ di collage, per quanto era scottante. Si diceva che per distogliere l’attenzione dalle accuse a suo carico, su consiglio del suo avvocato Somerset fosse ricorso al solito espediente di nascondersi dietro a un pesce più grosso: e che la sigla PAV, con cui il pesce in questione venne identificato nei rapporti di polizia - neanche i collage, a questo punto, erano sufficienti a celarne l’enormità - corrispondesse alle iniziali del principe Alberto Vittorio.
            Il nome di Alberto Vittorio non uscì mai nei rapporti: ma l’intromissione del principe di Galles nelle indagini, il fatto che di lì a poco Somerset ottenesse il permesso di espatrio, lasciando il Regno Unito per non fare mai più ritorno, vennero interpretate come un’implicita ammissione del presunto coinvolgimento di Eddy.
            Nessun cliente illustre fu mai processato e solo i pesci piccoli, fattorini e telegrafisti, finirono per rimetterci la libertà e la faccia: l’intera vicenda finì insabbiata, e ciò contribuì a far fiorire le dicerie secondo cui il proverbiale riserbo di Eddy nascondeva ben altro che semplice timidezza.
            In quel periodo, il principe aveva terminato da poco la sua istruzione a Cambridge, nell’atmosfera ovattata e protetta del Trinity College. Per la prima volta si era trovato separato dal fratello, destinato a proseguire la carriera in Marina. Durante il periodo degli studi era apparso tranquillo, e della sua intimità non si poteva dir nulla: all’esterno appariva ancora più introverso, avvolto da un’aria di malinconia che forse era dovuta alla lontananza dal principe Giorgio, forse soltanto al vuoto che stazionava perennemente nel suo cervello.
            I compagni lo invitarono a unirsi a vari gruppi di studio, ma Eddy preferiva ritirarsi nella sua stanza: il confronto con gli altri non faceva che aumentare la sua timidezza, e in realtà non pareva particolarmente interessato alle dispute intellettuali e alla vita accademica.
            Gli fu affiancato un tutor, un giovane insegnante che pubblicava versi ed era conosciuto nell’ambiente letterario, certo James Kennet Stephen. Come già ai tempi delle sciroppose lezioni del canonico Dalton, Eddy studiava da privatista: seguiva i corsi in aula ma il resto del lavoro lo svolgeva col tutor, essendo dispensato dal sostenere esami - particolare che certo non contribuì a farlo uscire dal guscio.
            Riguardo al suo rendimento, le opinioni erano discordi. Indubbiamente Stephen si affezionò al suo protetto: lo incoraggiava e lo difendeva persino con troppa enfasi, sostenendo che il principe non aveva nessuna difficoltà a imparare e si trattava solo di trovare il metodo giusto.
            Il parere del tutor coincideva con quello già espresso da Vittoria del Regno Unito in tempi non sospetti: ma quale fosse il metodo inventato da Stephen per allargare le vedute del suo protetto, nessuno lo seppe mai.
            Quella strana alleanza si diceva non fosse puramente didattica: dal canto suo il duca di Cambridge, incaricato dal principe di Galles di vigilare su Eddy, era fermamente convinto che il ragazzo fosse “un inguaribile perditempo”.
            Di Stephen si diceva che detestasse le femmine, e indubbiamente il giovane tutor era attraente: occhi azzurri e capelli scuri, colto e affascinante, pareva fatto apposta per far cadere ai suoi piedi chiunque avesse l’occasione di conoscerlo. Era ben altra cosa rispetto al vecchio Dalton: ma anche ammesso che gli ambigui sentimenti attribuiti a Stephen contenessero un fondo di verità, restava da provare che Eddy li ricambiasse.
            Riguardo a questo, nessuno poteva dire niente: anche se i due passavano molto tempo insieme, la condotta del principe non superò mai i limiti della mera cortesia.
            Almeno pubblicamente.
            “Non riesce a entusiasmarsi per nulla.”
            “È gelido e pare senz’anima. Francamente mi chiedo se un individuo del genere provi dei sentimenti, qualcosa che vada al di là della buona educazione.”
            “Secondo me, non è neppure capace di pensare qualcosa con la sua testa.”
            Questo, in breve, il parere degli studenti che ebbero l’occasione di avvicinare Eddy.
            Il principe era decisamente un solitario: Non accettò mai di unirsi ai compagni di corso neppure per un pic-nic, una gita a cavallo, una scappata a Londra nei fine settimana. Eppure a Londra ci andava, insieme al suo tutore e più spesso da solo. Poco dopo lo scandalo di Cleveland Street, qualcuno si azzardò a dire che il principe era stato visto da quelle parti, e che probabilmente, invece di fermarsi a scambiare quattro chiacchiere con gli altri studenti, preferiva andare a Londra e usare il telegrafo.
            Come sempre succede, le chiacchiere s’infittirono e più la storia girava, più si arricchiva di dettagli che in realtà nessuno poteva verificare.
            Finché un giorno qualcuno ebbe la pessima idea di parlarne senza considerare che Stephen si trovava a portata d’orecchio. La reazione del tutor fu immediata:
            “Ditemi, come fate a essere così bene informato? Eravate lì anche voi?”
            Colto alla sprovvista, il pettegolo di turno rimase senza parole. Stephen giocò al rialzo:
            “Qual è il vostro nome?”
            “Mi chiamo Evans, sir.”
            “Ebbene, mister Evans, voi sapete che per questo genere di cose è prevista l’espulsione immediata dal college.” Il tutor non lasciò allo studente il tempo di riaversi e di chiedere a quali cose si riferiva: se quelle in particolare, oppure il semplice fatto di sghignazzare alle spalle di un principe ereditario.
            L’incauto Evans si trovò a un tratto nella scomoda posizione di doversi giustificare: dopo molti “io non c’ero, sono voci che girano”, “chi ha messo in giro la voce? Io non lo so, si dice”, la faccenda fu lasciata cadere per prudenza e non se ne parlò più.
            O almeno si evitò di parlare apertamente.
 
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            Tenuta di Sandringham House, Norfolk, qualche anno prima
           
            Lo stato malinconico che pareva aver preso stabile dimora nel principe Alberto Vittorio era dovuto in realtà a qualcosa che i suoi detrattori, ma anche il fascinoso e possessivo Stephen, non avrebbero mai immaginato, per quanto era banale.
            Fu durante gli studi a Cambridge che il principe iniziò ad appassionarsi alla poesia, a scrivere lunghe lettere che poi, per reticenza, non osava spedire dal post office del college: si recava personalmente a imbucarle in qualche sperduto ufficio di Londra, servendosi di un taxi nel più completo anonimato. Era vero quindi che Eddy soleva fare brevi visite alla capitale, allo scopo di ricorrere ai servigi delle poste e telegrafi: ma certo non nel senso che intendevano gli altri studenti.
            Chi fosse il destinatario di quelle missive non lo sapeva neppure il tutor, il quale era convinto che il suo pupillo avesse scoperto la poesia grazie a quei versi che lui stesso scriveva e pubblicava con un discreto successo.
            In realtà, i versi di Stephen trattavano di satira e questioni letterarie, nulla di più lontano dagli interessi di Eddy, che attingeva piuttosto alle opere di Shakespeare ed era attratto dagli istanti di grande commozione: nella voce del bardo il principe cercava l’eco della propria, e ritrovava i propri sentimenti nei Sonetti, nei dialoghi appassionati di Romeo e Giulietta, e più leggeva più capiva se stesso, o almeno così gli pareva.
            Vedendolo chino sui libri con aria sognante, Stephen cercava di attirare la sua attenzione con lunghe spiegazioni sulla metrica e le tecniche di scrittura poetica: ben presto lo sguardo di Eddy si appannava, e il principe entrava in quella sorta di stato catatonico che era il suo modo per difendersi dalla noia.
            Dormiva ad occhi aperti, nell’attesa che il suo interlocutore si stancasse e lo lasciasse in pace: quando si trovava nuovamente da solo riprendeva vigore, e ritornava sotto al balcone di Giulietta con il cuore carico di emozioni. Attendeva che a quel balcone si affacciasse colei che, in maniera del tutto inattesa, era riuscita a far breccia nella sua proverbiale riservatezza.
            Il principe Alberto Vittorio aveva approfondito la conoscenza di Mary di Teck, ventitré anni splendenti, durante una vacanza a Sandringham House, e ne era rimasto incantato.
            La presenza di May a corte non era una novità: fin da bambini i suoi fratelli avevano condiviso, con il principe Giorgio e il timidissimo Eddy, quei momenti di pura gioia che sono i giochi lontani dagli sguardi degli adulti.
            Lasciati a briglia sciolta, liberi dai lacci della buona educazione almeno per qualche ora, i fratelli di May e i rampolli reali si lanciavano in avventurose scorribande: erano pirati all’arrembaggio di un galeone immaginario, ricavato da un tronco caduto nel bosco; Robin Hood e i suoi seguaci, che tendevano agguati e salivano sugli alberi con grande spargimento di calzoni strappati: re Artù e i cavalieri della Tavola Rotonda, che tenevano consiglio attorno al ceppo gigantesco di una quercia, ricoperto di muschio e avvolto dal silenzio mistico della foresta.
            A May, primogenita dei quattro figli del duca di Teck, spettava il compito di sorvegliare gli avventurieri: a soli dieci anni era una miniatura di energia e di buon senso, in grado di rimediare a ginocchia graffiate e capitomboli, metter fine a baruffe che non si confacevano a nobili cavalieri senza macchia - a parte le strisciate d’erba sui pantaloni - e senza paura.
            Fin da quei tempi leggendari e scatenati, il principe Alberto Vittorio aveva stuzzicato la curiosità di May per quell’aria di solitudine posata, ma anche impenetrabile, che lo rendeva così diverso dai ragazzetti della sua età: che Eddy fosse immerso in chissà quali pensieri, mentre gli altri giocavano e lui vagava per la tenuta di Sandringham come se non vi fosse mai stato prima, era un’idea che May si mise in testa fin da allora, con tutta la testardaggine dei suoi dieci anni di bambina giudiziosa.
            Non ci fu verso di farle cambiare parere neppure quando May venne a sapere che a corte Eddy era considerato meno di zero: a partire dal principe di Galles suo padre, tutti erano convinti che nella testa di Eddy dimorasse solo il vuoto, e che il suo stato abituale fosse la sonnolenza, come soleva dire il canonico Dalton.
            Eppure, Eddy incuteva soggezione alla principessa May, che dovette fare appello a tutta la sua intraprendenza per rivolgergli la parola, durante uno di quei pomeriggi di libera uscita.
            Mentre Giorgio e i cugini scorrazzavano nei boschi giocando ai cavalieri crociati di Terrasanta, May aveva scovato Eddy in disparte, immerso nella lettura di un poderoso volume:
            “Antiche leggende di Scozia, d’Inghilterra e del Galles.
            Sorprendendolo alle spalle, May scandì a voce alta il titolo del libro: “Mi piacciono le storie, vorreste leggere per me?”
            Era il periodo in cui il principe, tredici anni schiacciati da studi noiosissimi e dalla fama di stupido che lo inseguiva ovunque, aveva scoperto le consolazioni della lettura: da quel giorno in cui Vittoria del Regno Unito lo aveva iniziato ai segreti della biblioteca di Windsor, non appena ne aveva la possibilità correva a rifugiarsi col naso dentro a un volume.
            Non ammetteva interferenze, e quel giorno venne meno alle regole della più elementare cortesia: non si prese neppure la briga di rispondere ma scacciò la cugina con un solo gesto deciso, chiudendo il volume e voltandole le spalle per andarsene altrove.  
            “Sei cattivo, non si fa così!” protestò May, improvvisamente regredita alla sua età naturale di dieci anni.
            Di lì a poco i cugini si persero di vista: Eddy e Giorgio salparono a bordo della Britannia, poi seguirono i lunghi mesi di studi a Cambridge, e per Giorgio l’arruolamento definitivo in Marina.
            Trascorsero molti anni prima che Mary di Teck avesse l’occasione di tornare alla carica, durante un soporifero pomeriggio mondano presso la residenza di Sandringham House.
            Stavolta andò a colpo sicuro: lo cercò in biblioteca, e là riprese le fila di quel discorso che Eddy aveva troncato sul nascere.
            Quel giorno, il ricevimento aveva raggiunto un tale apice di monotonia che persino Vittoria doveva trattenersi per non sbadigliare, mentre riceveva gli ospiti e ascoltava la conversazione delle signore.
            Nulla di più insopportabile delle chiacchiere delle femmine, aveva sempre pensato il principe Eddy, che peraltro moriva di noia anche quando era costretto ad ascoltare i discorsi degli uomini: sui divanetti e davanti al thè con biscotti si parlava d’amore e di fidanzamenti, poco più in là tra sigari e pipe si parlava di donne, al massimo di cavalli e di battute di caccia.
            Poiché Eddy non era interessato a nessuno degli argomenti, non perse l’occasione per esercitare l’arte in cui da tempo era diventato maestro: quella di defilarsi senza dare nell’occhio.
            Solitamente si rifugiava in biblioteca, e in estate all’aperto in compagnia di un libro.
            Mimetizzato tra gli scaffali e le siepi, riprendeva contatto con se stesso e respirava a lungo e profondamente, col naso tra le pagine: l’odore della carta lo ridestava da un prolungato intontimento.
            “Vorreste leggere per me?”
            Quella domanda sembrava provenire dalle pieghe del tempo, da quel remoto pomeriggio in cui una voce infantile l’aveva riscosso dai suoi sogni ad occhi aperti. Levando appena lo sguardo come da una trincea, Eddy s’era trovato di fronte Mary di Teck, come un esercito schierato e pronto all’assedio.
            Eddy abbassò lo sguardo con tre secondi di ritardo, il tempo sufficiente perché il volto di lei si stampasse nel suo cuore, nella memoria, persino sulla pelle: ovunque e definitivamente.
            Riparando di nuovo dietro la trincea del libro, si rese conto di avere ormai perduto il segno, e di non essere più in grado di ritrovarlo: i suoi occhi erano colmi del sorriso di May, dei piccoli pendenti che portava alle orecchie e del tenue riverbero che il fuoco del camino donava alle sue guance - o forse era soltanto una traccia di imbarazzo.
             Nelle ore che seguirono, finché qualcuno si accorse della loro scomparsa e si cominciò a cercarli per tutto il palazzo, Eddy e Mary di Teck restarono seduti accanto al caminetto acceso in biblioteca: senza avere neppure il coraggio di guardarsi - tutta la sfacciataggine aveva di colpo abbandonato la principessa May - sfogliarono le pagine del volume che Eddy era intento a consultare, e che narrava la storia dell’Olandese volante, il mitico vascello fantasma che tuttora infestava le rotte delle colonie.
            A un certo punto Eddy, forse per la prima volta nella sua vita, si abbandonò alle confidenze.
            Raccontò a Mary di Teck della solitudine patita a bordo della Britannia, quand’era ancora un bambino e aveva impegnato un giorno e una notte per ritrovare la chiave della cabina, salvo scoprire che i cadetti dell’accademia l’avevano buttata a mare. Qualche anno dopo, e prima di iniziare gli studi al Trinity College, insieme al principe Giorgio aveva effettuato un lungo viaggio nelle colonie, alla scoperta di quelle terre così a lungo sognate sui libri di avventure.
            La corvetta Bacchante faceva parte di una squadra incaricata di pattugliare le rotte dell’Impero. Varata da molti anni, sulla sua solidità Vittoria del Regno Unito aveva nutrito parecchie riserve, sicché l’imbarco era stato preceduto da una messa a prova in piena regola: la vecchia corvetta fu lanciata attraverso una possente tempesta, superandola indenne, sicché i rampolli reali poterono imbarcarsi senza rischiare il naufragio.
            Accompagnati dall’onnipresente Dalton, Giorgio e Eddy avevano visitato le Americhe sino alle gelide Falkland; avevano doppiato il capo di Buona Speranza al largo del Sudafrica, dove l’oceano possedeva la stessa trasparenza, fulgida e incontaminata, di quando il mondo era stato fatto da un giorno.
            A Eddy era sembrato di sentire i leoni ruggire nella savana, ma aveva taciuto per non passare da visionario, ed essere deriso per quel vizio di sognare ad occhi aperti che si addiceva ai poeti, non a un futuro re.
            Da tempo, confidò a Mary, aveva imparato a tenere per sé i suoi pensieri. Non venne meno a quella promessa neanche quando, al largo delle coste australiane, lo colse una visione terribile e affascinante.
            Quella notte, la Bacchante era impegnata a fronteggiare una burrasca così vigorosa che non si capiva più se era il mare ad arrampicarsi fino al cielo, o se era la pioggia a scaricare più acqua di quanta ne potesse contenere l’oceano.
            Mentre Eddy si trovava sul ponte, spaventato dal continuo ondeggiare della cabina, diritto verso prua gli era parso di scorgere una strana luminescenza: avvolti in quella bruma crepuscolare, spiccavano distintamente gli alberi, le vele lacerate, e infine la sagoma di una nave rosa dalla salsedine.
            Pareva reduce da una lunga permanenza in acqua, da secoli di naufragio.
            Nessun segno di vita, nessuna presenza umana s’intravedeva a bordo, e il velame pendeva come se, nel cuore della tempesta, non soffiasse neppure un alito di vento.
            Eddy s’era voltato per avvertire i marinai, ma il ponte era in subbuglio: un susseguirsi di ordini gridati nella pioggia che il vento scagliava qua e là, insieme alle vele ammainate come stracci inutili sui pennoni. Immense onde schiumose saltavano il parapetto e invadevano il ponte, trascinando la Bacchante da una parte e dall’altra, col rischio di capovolgerla.
            Inutile dire che a Eddy non badava nessuno. Solo per un istante al principe parve di scorgere la sagoma di Dalton: il vecchio canonico s’era accorto che il principe non era in cabina ed era uscito a cercarlo in mezzo al nubifragio. Come un’ombra vagava senza vedere nulla, aggrappandosi ovunque per non finire in mare.
            Eddy provò a chiamarlo, ma il frastuono dei flutti copriva ogni voce.
            Di nuovo rivolse il suo sguardo a prua, verso quell’apparizione ch’era sorta dal nulla o forse dall’al di là.
            Ma a quel punto la nave spettrale era scomparsa, e soltanto un bagliore, presto annientato da un fulmine, restava ad indicare il luogo in cui s’era mostrata per un istante.
            Quella notte Eddy si convinse di avere assistito a un’apparizione del famigerato vascello fantasma, conosciuto come l’Olandese Volante.
            Le leggende a proposito dei supposti avvistamenti non si contavano.
            Ancor più numerosi erano i racconti sull’origine del mito: tra le varie versioni che circolavano tra i marinai, si narrava di un capitano che, incappato in una tempesta con tutto il suo equipaggio, piuttosto che attraccare alla baia più vicina, per avidità o per sfida decise di proseguire comunque la navigazione. Sebbene una voce lo implorasse di invertire la rotta, egli preferì scendere a patti col demonio in cambio della salvezza del suo prezioso carico, destinato a fruttuosi commerci nelle Indie olandesi. Il diavolo lo convinse a dirigere il vascello nell’occhio del ciclone, e là il vascello scomparve con tutto il suo equipaggio.
            Né il relitto né i corpi furono mai ritrovati. Ma nel corso dei secoli, lungo le rotte percorse dal capitano olandese, il vascello maledetto fu avvistato più volte: perennemente avvolto da una bruma spettrale e facendo puntualmente rizzare i capelli ai lupi di mare più esperti.
            Qualcuno giurava di aver visto sulla nave un equipaggio di fantasmi, o addirittura il capitano accovacciato sul ponte di prua, intento a giocare a scacchi col diavolo.
            Poiché era risaputo che ad ogni apparizione dell’Olandese seguiva sempre qualche disgrazia, Eddy non fece parola a nessuno di ciò che aveva visto: sperava in questo modo di sottrarre la Bacchante ad ogni possibile conseguenza nefasta.
            Eppure il giorno seguente a bordo si verificò un incidente inspiegabile: il mare era tornato alla consueta bonaccia, e senza alcun preavviso un pennone si ruppe come se fosse stato segato nel mezzo, precipitando a prua e uccidendo sul colpo un anziano marinaio. Solo poche ore prima, la vittima aveva raccontato di aver visto, nella notte, una nave ferma al limitare della tempesta, avvolta da un riverbero come in pieno giorno.
            “Io non ho mai visto un fantasma”, commentò May alla fine, “in fondo non ci credo, però mi sarebbe piaciuto essere lì con voi”.
            Il tardo pomeriggio incominciava a scivolare nella notte, e dalle anticamere le voci degli ospiti iniziarono a congedarsi.
            Qualcuno, forse addirittura la regina Vittoria, si era accorto dell’assenza dei nipoti, e gli addetti alla casa erano stati sguinzagliati in perlustrazione: si udiva il cigolio di porte che si aprivano, l’eco di passi e voci in avvicinamento.
            “Dobbiamo andare”, decise Eddy a quel punto, “già pensano di me tutto il male possibile.”
            “Davvero avrei voluto essere lì con voi”, ripeté Mary, in un soffio. Un fremito la percorse, ma non era timore.
            “Voi c’eravate”, le rispose il principe Eddy, “eravate già nel mio cuore, molto prima che arrivassi a conoscervi.”
 
~~†~~
           

            Bachelor’s Cottage, presso la residenza reale di Sandringham House
 
            Chi aveva ipotizzato che le nozze reali, e soprattutto la condotta impacciata del principe, fossero l’occasione per dare aria nuova a vecchie dicerie, e tornare a parlare di Cleveland Street, rimase deluso. Sui notiziari, e persino sulle riviste di satira più feroce, non apparve alcuna vignetta allusiva con Eddy che inseguiva l’anello a quattro zampe sul pavimento - posizione strategica per ben altre manovre: si diede risalto invece, su tutte le prime pagine, ai banchetti di arrosti che per disposizione di Alberto Vittorio erano stati allestiti nei quartieri popolari, ai pasti caldi offerti agli ospedali pubblici e ai vassoi di dolci consegnati agli orfanotrofi.
            I consiglieri di corte e il principe di Galles acconsentirono di buon grado a quella prodigalità in occasione delle nozze, ritenendola un’ottima strategia per accrescere la popolarità della Corona:
            “Per una volta tanto, un’iniziativa sensata.”
            I veri motivi del gesto - il ricordo dei bambini dediti ai furtarelli al porto di Dartmouth, la malattia recente, la consapevolezza che la signora dagli occhi rossi, la febbre perniciosa, aveva spopolato interi rioni - non furono resi noti a nessuno, e condivisi soltanto con la principessa May.
            A riprova che Eddy probabilmente non era una cima d’intelligenza, ma aveva buona memoria.
            Vittoria del Regno Unito, dal canto suo, si era astenuta dal fare domande: la sua esperienza di vita e la profonda sintonia con Alberto Vittorio le avevano già suggerito ogni risposta.
            Molti anni dopo, quando ormai la regina si accingeva ad abbandonare questo mondo, Eddy aveva ritenuto di doverle delle spiegazioni, affinché tra loro non restassero ombre.
            Sfinita dalla vecchiaia, dai reumatismi e da oltre sessant’anni di regno, Vittoria gli aveva preso il volto tra le mani, sorridendo bonaria:
            “Tu non mi dici nulla che io non sappia già. Abbiamo avuto dei sovrani guerrieri, conquistatori, politici avveduti. Ma un re benefattore mancava, in questa casa.”
            Quello fu il loro ultimo incontro. In quel momento, Vittoria avvertiva una sorta di premonizione. In ogni caso ci teneva a far sapere al nipote il suo punto di vista, e a consegnargli il suo testamento:
            “Per tutta la vita ho udito persone intorno a me dirmi che tu mancavi del tutto d’intelligenza. Chissà se poi ne occorre così tanta per regnare, o se si tratta solo di barcamenarsi tra i calcoli. Temo che lascerò la vita con questo dubbio. Ma tu ricorda sempre che dove l’intelligenza non arriva, perché non si può mai arrivare dappertutto, il cuore è sempre avanti di un passo. Seguendolo, non sbaglierai.”
            Dopo i festeggiamenti, Eddy e Mary di Teck si trasferirono nella tenuta di Sandringham House, occupando il Bachelor’s Cottage, dono personale di nozze del principe di Galles.
            Si trattava di un villino disabitato da tempo, dall’apparenza spettrale[1].
            Sorgeva al limitare di uno stagno di acque verdastre, ricoperte da una pellicola mucosa.
            Una famiglia di pellicani aveva nidificato nel folto di un canneto altissimo e inestricabile: una sorta di palizzata, da dove provenivano fremiti da spavento quando i cinerei ospiti si levavano in volo.
            “Accogliente, non c’è che dire”, fu il primo commento della principessa May.
            Mary di Teck nutriva ben poca simpatia per il principe di Galles, ed ebbe l’impressione che quel luogo cadente riflettesse in pieno l’opinione del suocero riguardo al principe Eddy:
            “Non temete”, disse affrettando il passo verso l’ingresso del cottage, e tirandosi dietro il coniuge un po’spaesato, “evidentemente, vostro padre sa che siete un appassionato di storie di fantasmi. Provvederemo noi a rendere questo luogo abitabile, non solo per i pellicani e i pipistrelli.”
            Oltre ai pellicani, il villino infatti ospitava una colonia di pipistrelli che dormivano indisturbati nel sottoscala, simili a una fila di ombrelli a testa in giù: fu May a imporre lo sgombero degli inquilini indesiderati, mentre Eddy si manteneva prudentemente a distanza. Persino i domestici esitavano a mettere piede in quella casa, che si diceva infestata.  
            In origine, il cottage era stato costruito per alloggiare gli ospiti di Sandringham House, quando nell’edificio principale non si trovavano camere a sufficienza. Già allora il personale era soggetto a un continuo ricambio: maggiordomi e cameriere, cuochi e giardinieri venivano assunti e si licenziavano dopo pochi mesi, per non dire che fuggivano a gambe levate.
            A quanto si diceva, proprio in quei luoghi era solita manifestarsi, in occasione di eventi luttuosi, la Guardiana della famiglia: lo spettro che annunciava, con alte grida e il battito ritmico delle mani, la morte di qualcuno dei membri della Casa reale.
            In più occasioni, chi si trovava al cottage aveva sperimentato la sgradevole sensazione di sentirsi osservato o addirittura seguito, pur essendo in realtà completamente solo: sicché alla fine gli ospiti avevano cominciato a declinare gli inviti, mentre i nuovi assunti facevano le valige ancor prima della scadenza del periodo di prova.
            Mentre Eddy ripensava a quella notte in cui lady Forster era morta al castello di Balmoral, e lui aveva udito i lamenti della Guardiana a molte miglia di distanza, la principessa May aveva tagliato corto:
            “Quante sciocchezze. Tutte le case disabitate d’Inghilterra hanno il loro bravo fantasma: dovesse saltar fuori, ma io ho parecchi dubbi, vorrà dire che gli offriremo una tazza di thè.”
            Di fatto, il primo fantasma dal passato si presentò in carne e ossa, nella persona dell’ex sovrintendente alle scuderie del principe di Galles, nonché principale accusatore di Alberto Vittorio durante la vicenda di Cleveland Street: lord Arthur Somerset, rientrato dall’esilio per il tempo necessario a sistemare alcune faccende, si presentò al Bachelor’s Cottage in maniera del tutto imprevista, per presentare le proprie scuse al principe Eddy.
            Fu Mary di Teck a riceverlo: sin dal tempo dei giochi infantili nel bosco, quando il fascino ingenuo di Alberto Vittorio l’aveva conquistata per sempre, si era ripromessa di proteggerlo da qualsiasi ingiustizia, anche a costo di scendere in guerra col mondo intero.
            False accuse e pettegolezzi: quelli sì erano spettri di cui aver paura, altroché le leggende che spaventavano il popolino.
            Quando si presentò al cottage, lord Somerset pareva anche lui un fantasma fatto e finito: a May raccontò che l’idea di accusare Alberto Vittorio gli era stata suggerita dal suo avvocato, allo scopo di provocare un intervento della Corona e impedire che l’istruttoria facesse il suo corso.
            Personalmente, non aveva mai avuto occasione d’incontrare Eddy in quel luogo: sapeva però che circolavano voci a questo riguardo, e le voci si sa, non nascono mai per caso.
             Lì per lì, May non diede peso alle allusioni di Somerset. Tuttavia la presenza dell’ospite le suscitò a un tratto un’invincibile ripugnanza: sicché accettò le scuse e lo licenziò su due piedi, invitandolo a non farsi rivedere mai più.
            In quel momento Eddy si trovava a Sandringham, occupato a ricevere i capomastri in vista dei lavori di restauro del cottage. Al suo rientro, May non fece parola della visita dell’ex capo delle scuderie reali: il dubbio però aveva già cominciato a insinuarle un tarlo nell’anima, sicché Mary di Teck si strinse nello scialle, avvertendo improvvisamente un brivido di freddo
 
~~†~~
 
 

[1] Il Bachelor’s Cottage (“villino dello scapolo”), originariamente costruito per accogliere gli ospiti in soprannumero di Sandringham House, fu offerto nel 1893 come dono di nozze da Alberto Edoardo principe di Galles al figlio Giorgio, duca di York (il futuro Giorgio V) e alla sua sposa, Mary di Teck. Giorgio amava in modo particolare questa residenza, in seguito ribattezzata York Cottage, che gli ricordava “tre pub assemblati insieme”. Nonostante ciò, il villino godrebbe di una fama sinistra: sarebbe infestato proprio dal fantasma del principe Eddy, morto prematuramente nel 1892.

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Capitolo 3
*** La solitudine e l’abbandono ***


 




“È una bella prigione, il mondo”
 
(W. Shakespeare, “Amleto”)
 

3. La solitudine e l’abbandono

 
Clarence Cottage, in un inverno di inizio secolo
 
       La Guardiana della famiglia tornò a fare udire il suo lamento in occasione della morte della regina Vittoria, che passò da questa vita al crepuscolo del 21 genaio 1901, dopo sessantatré anni, sette mesi e due giorni di regno. L’anziana sovrana si trovava presso la residenza di Osborne House, sull’isola di Wight, ove amava recarsi per trascorrere le festività natalizie e il capodanno.
      Fin dall’inizio della sua vedovanza, Vittoria del Regno Unito aveva sviluppato una predilezione per la vita ritirata, e l’isola di Wight, sul canale della Manica, ben si prestava a soddisfare i suoi bisogni di intimità e riposo. A suo tempo, la residenza era stata restaurata secondo un progetto elaborato da Alberto di Sassonia, il mai dimenticato principe consorte: ragione di più per prediligere quel luogo e farne il proprio rifugio, lo scrigno dei ricordi di una vita felice.
     Quella sera di fine gennaio, Vittoria si era sentita particolarmente esausta: aveva quindi espresso il desiderio di una gita in carrozza per i boschi della tenuta, allo scopo di respirare aria tonificante e distrarsi. Durante il tragitto, si assopì dolcemente. La sua accompagnatrice, lady Lyndon, fece cenno al cocchiere di rientrare a Osborne House mantenendo il passo e in silenzio, per non disturbare Sua Maestà immersa in quel sonno provvidenziale.
Vittoria, tuttavia, non si destò mai più.
      La notte precedente, presso la residenza di Bachelor’s, che a seguito dei restauri intrapresi da Eddy, duca di Clarence, aveva preso il nome di Clarence Cottage, una certa Georgina si destò di soprassalto, avendo udito un lamento prolungato e straziante giungere dal cortile.
      Era una cantilena che andava e veniva col vento, e pareva girare tutt’intorno alla casa.
      Clarence Cottage si trovava a più di cinquecento miglia da Osborne House: questo particolare contribuì a diffondere l’inquietudine, quando la notizia della morte di Vittoria diventò di dominio pubblico. Ma a rendere la vicenda ancor più sinistra fu il fatto che quel canto, che a quanto pare preannunciava la morte della grande sovrana, fu udito solamente da due persone: la suddetta Georgina, impiegata come sguattera nelle cucine, e il principe Alberto Vittorio, entrambi sopravvissuti alla signora dagli occhi rossi.
      Turbato da sogni paurosi, che a lungo gli lasciarono un senso di smarrimento, Eddy s’era destato nel cuore della notte: una voce di donna, che pareva dibattersi nella più dolorosa afflizione, proveniva da un punto imprecisato dell’oscurità.
      Nella stanza del principe, dietro alle cortine del letto a baldacchino, c’era solo il silenzio.
      Fuori, nel breve scorcio del parco di proprietà che circondava il cottage, una nebbia d’acqua morta saliva dallo stagno.
      Quel canto, che procedeva alternato al battito delle mani, era melodioso e potente ma anche aspro e selvaggio: decisamente, metteva la pelle d’oca.
    Il principe aveva attraversato il salottino comune e si era affacciato a controllare nella camera di May: sprofondata sui cuscini, Mary di Teck riposava tranquillamente.
      Scendendo al piano terra, Eddy si rese conto che l’intera dimora era immersa nel sonno: nessuno dei domestici faceva capolino dal lungo corridoio destinato alla servitù, anche se nella corte si udivano i latrati impauriti dei cani. Quanto ai pellicani, a partire da quella notte abbandonarono i nidi e nessuno li vide più. 
     Mentre ancora tentava di capirci qualcosa, Eddy percepì a un tratto una presenza accanto a sé. Si trattava di una ragazza dall’età apparente di quattordici, quindici anni, vestita con l’abito da lutto dei poveri e una cuffia logora: di sotto al drappeggio che quel vecchio copricapo le calava sulla fronte, la luce della lampada che Eddy, sgomento, levò dinanzi a sé illuminò un viso minuto, ma anche colmo di una strana saggezza:
     “La sentite anche voi?” domandò la ragazza, continuando a fissare un punto fuori dalla finestra, “prima era più vicina a Sandringham House. Ora è arrivata qui.”
      Alzò lo sguardo su Eddy. I suoi occhi chiarissimi parevano in preda a un accesso di febbre:
      “Anche quando voi eravate malato, la Guardiana ha pianto a lungo. Poi però se n’è andata.”
     “Stavolta, non se ne andrà?” domandò il principe, assorto. Aveva l’impressione di muoversi dentro a un sogno: “Sto dormendo”, pensò, “tutto questo non è reale.  È solo un incubo che domani svanirà senza lasciare traccia. Forse mi sveglierò con il solito mal di testa.”
      Eppure quella strana creatura pareva così reale: il breve gesto con cui soffocò uno starnuto nelle pieghe di un mantello stazzonato, che pareva una gualdrappa da scuderie, e il gelo che regnava nelle sale del pianterreno per via dei camini spenti, richiamarono Eddy alla possibilità che non si trattasse affatto di un sogno.
      “Hai freddo, ragazzina?” avvicinatosi al caminetto, Eddy si adoperò per muovere la brace e ravvivare la fiamma, aiutandosi maldestramente con un soffietto.
      “Ma tu chi sei?” domandò a un tratto. “Non ti ho mai visto qui al cottage.”
       La piccola figura avvolta nella gualdrappa continuava a scrutare l’oscurità del parco: un buio e una nebbia che si sarebbero potuti tagliare col coltello.
      “Io lavoro in cucina. Per questo non mi avete mai visto.”
     In effetti, Georgina trascorreva tutto il tempo in quella sorta di corridoio fumoso e basso dove si preparavano i pasti per la casa. In quel perenne via vai di camerieri, cuochi e inservienti, fattorini addetti alla consegna delle derrate, le sue mansioni erano occuparsi delle stoviglie, controllare che non mancasse nessun pezzo ai servizi da pranzo e a quelli da thè. Più prosaicamente, spettava a lei rigovernare le decine di piatti e bicchieri, di ogni forma e dimensione, che ogni giorno passavano sulla tavola del Clarence Cottage.
      Pareva che nello svolgimento dei suoi compiti fosse seria e precisa: neppure un bicchiere cadeva a terra, né un piatto scivolava quand’era al lavatoio. Lei stessa provvedeva a riscaldare l’acqua, appendendo i grossi secchi nel camino ch’era grande come una fornace, e infatti ancora al tempo dei restauri del cottage i muratori lo usavano per cuocere i mattoni.
      Riguardo al suo lavoro, non c’era nulla da dire.
      Quanto alle sue origini, si poteva dire ancor meno.
      La governante sapeva soltanto che Georgina era giunta a Sandringham House la stessa notte in cui il principe Alberto Vittorio era stato sul punto di passare da questo mondo. La serva che l’aveva condotta con sé aveva negato qualsiasi parentela, e anzitutto di essere la madre naturale:
      “È la figlia di una poveretta del mio quartiere, a Londra”, aveva risposto a chi la interrogava, nella fattispecie il sovrintendente alle cucine reali, “la mia vicina non è sopravvissuta all’influenza, e ora questa piccola è rimasta sola al mondo. La signora dagli occhi rossi ha risparmiato Georgina, che è senz’altro un po’ strana ma è brava nelle faccende. E se vorrete prenderla a lavorare con voi, farete senza dubbio un’opera di carità.”
     In realtà, la donna non vedeva l’ora di levarsela di torno: infatti, quando Georgina iniziò a lavorare nelle cucine, la sua accompagnatrice non fu più vista a Sandringham.
      Contro ogni aspettativa, il sovrintendente che l’aveva accolta per pietà si rese conto di aver fatto un ottimo affare: Georgina era bizzarra d’aspetto e nel parlare, ma lavorava sodo e con tale destrezza che era in grado di sbrigare le stoviglie di un pranzo di gala in meno di due ore.
     Quando, in occasione delle nozze reali, fu decisa la riapertura del Bachelor’s Cottage, lo stesso sovrintendente la raccomandò per la bontà dei suoi servigi: sicché la ragazzina entrò a far parte del personale di cucina del principe Eddy.
      Nella nuova dimora, Georgina era benvoluta anche se si diceva che le mancasse qualche rotella, perché sosteneva di vedere i folletti e di fare conversazione con gli spiriti dei morti. Le storie che raccontava a questo proposito erano così paradossali, che persino in quell’epoca così affascinata del soprannaturale nessuno le dava credito.
      “È una svitata, poverella”, concludevano quelli che avevano avuto la ventura di ascoltarla, “sarà anche sopravvissuta alla signora, ma ha quasi sempre la febbre, non c’è da meravigliarsi che sragioni.”
      C’era piuttosto da stupirsi che un’ammalata lavorasse in cucina. Per questo Mary di Teck, una volta venuta a conoscenza della faccenda, si preoccupò di farla visitare da un medico: impose alla ragazza il più stretto isolamento, e una volta constatata l’incapacità dei medici di orientarsi su una diagnosi, la rispedì a Londra, nella prima casa d’accoglienza per fanciulle povere che si rese disponibile ad accoglierla.
      Quando le era stato domandato se avesse parenti, Georgina si era limitata a stringersi nelle spalle.
      “In molti quartieri, a Londra, c’è la tubercolosi”, avevano constatato i medici reali, “la carenza di ossigeno può provocare amnesie, persino allucinazioni.”
      Ma Georgina non diede mai un colpo di tosse.
      “C’è anche la sifilide. Per quel che ne sappiamo, potrebbe essere nata col mal francese, di qui gli attacchi di febbre, oppure le visioni.” Eppure Georgina lavorava dall’alba, e fino a notte fonda a ritmi prodigiosi. Oltre a sbrigare centinaia di stoviglie, era anche esperta nell’arte di filare la lana: a fine giornata, conservava energie sufficienti per far girare l’arcolaio a ritmi industriali.  
     Ma quando le domandarono se avesse lavorato in qualche impresa tessile, Georgina si strinse di nuovo nelle spalle, e non sapeva o forse non voleva rispondere.
     Stanca di queste tavole rotonde scientifiche, Mary di Teck dispose l’allontanamento immediato della piccola sguattera: di qualunque morbo pernicioso si trattasse, a preoccupare May non era tanto il timore di un eventuale contagio, quanto l’interesse che Eddy mostrava nei confronti di quel mucchietto di stracci.
    Dalla notte in cui quei due visionari s’erano messi in mente di avere udito il lamento della Guardiana, il principe aveva cominciato a dedicare troppo tempo e troppe chiacchiere - assurde oltre ogni limite - a quella povera cosa che bruciava di febbre sotto a una coperta da stalliere.
    “La banshee, ammesso che esista, disturba il sonno dei contadini irlandesi”, precisò May, con lo stesso cipiglio che Vittoria del Regno Unito aveva esibito, un giorno, di fronte al piccolo Eddy. “Fino a prova contraria, noi siamo inglesi. Quanto a voi, in particolare, un giorno sarete re. Non c’è altro da aggiungere. Abbiate piuttosto cura della vostra salute”.
      May non l’avrebbe mai ammesso: ma tra le ragioni che l’avevano spinta a mettere alla porta la piccola veggente vi erano le chiacchiere che avevano iniziato a circolare con sempre maggiore insistenza.
     Si diceva che Georgina fosse figlia di padre ignoto; veniva dai bassifondi, eppure non solo era stata assunta a corte, ma il principe le riservava numerose attenzioni: di qui a pensare che si trattasse di una figlia illegittima di Alberto Vittorio, c’era soltanto un passo. Una volta compiuto quel passo, si poteva anche dire che la febbre che un giorno era stata sul punto di spacciare il principe Eddy, era la stessa che rendeva perennemente lucidi gli occhi di quella ragazza: tubercolosi o sifilide. Poiché anche Eddy tossiva raramente, il cerchio si stringeva.
      Ecco perché dopo nove anni di matrimonio, i duchi di Clarence non avevano ancora concepito un erede. Si diceva che Eddy varcasse raramente la soglia del salottino che metteva in comunicazione la sua camera da letto con quella della moglie; che addirittura il matrimonio non fosse mai stato consumato, e che si trattasse di una semplice copertura.
      “Non dimentichiamoci infatti”, suggeriva qualcuno, “di Cleveland Street. Anche Cleveland Street si trova a Londra, e certo non è un caso.”
      Di fronte alle dicerie, May reagì come di consueto: all’inizio non vi diede peso, considerandole un accidente inevitabile nella vita di un membro della Casa reale.       In seguito, decisa a spazzar via quel castello di carte, licenziò non soltanto Georgina, ma anche qualche lingua particolarmente svelta. Cominciò a insinuarsi nella sua mente il sospetto che Eddy avesse una doppia vita, forse anche più di una. Insieme al timore che Georgina fosse sua figlia, tornò a farsi viva quella pulce che lord Somerset le aveva messo nell’orecchio, nel corso della sua unica e sgraditissima visita.
      May era ancora convinta di essere l’unica a conoscere a fondo il principe Eddy: continuava a subire il fascino della sua fragilità, di una mente che pareva del tutto incapace di concepire cattivi pensieri. Ma di fatto, anche per May il principe continuava a restare un enigma.
      Dopo un periodo iniziale di intimità e confidenze, Eddy si era rinchiuso nuovamente nel guscio della sua introversione. Nei confronti della moglie, non mancava di dimostrare una quieta affezione: quando si assentava, le scriveva lunghe lettere che uscivano dalla busta assieme alla fragranza di fiori ed erbe aromatiche.
      Spesso, sopra al vassoio della prima colazione, May scopriva brevi messaggi di buongiorno, colmi di tenerezza e di ammirazione.
      Nella pompa dei funerali di Vittoria del Regno Unito, il principe si mostrò sinceramente addolorato, addirittura oltrepassando i limiti dell’etichetta con i suoi pianti da ragazzino: eppure, nel quotidiano, si aveva l’impressione che Eddy vivesse altrove, in qualche remoto paese della sua immaginazione. Quando suo padre lo stanava dal guscio per prepararlo al suo ruolo di futuro regnante, Alberto Vittorio presenziava come un’ombra alle inaugurazioni, alle parate militari, agli incontri con i ministri, alle visite di stato.
       Alla morte di Vittoria, il principe di Galles era salito al trono con il nome di Edoardo VII.
     Aveva già sessant’anni, e non contava di avere dinanzi a sé un lungo regno: ma la sua premura non sfiorava evidentemente il principe Eddy, del quale già si diceva che forse avrebbe abdicato a favore del fratello.
      “Come farete quando vi troverete a regnare con le vostre sole forze?”
      Eddy conveniva che il padre aveva ragione: per un certo periodo dava prova di maggiore impegno, ma presto ripiombava nella consueta inerzia. 
      Anche i tentativi di May di affrontare di petto certe questioni - quella possibile filiazione illegittima, e soprattutto i fatti di Cleveland Street - si risolsero in un nulla di fatto.
      “Mi meraviglio di voi”, rispose Eddy, glaciale. “Dite sempre di non credere ai fantasmi, eppure siete disposta a farvi suggestionare da queste dicerie.”
      Da quel momento, divenne ancor più sfuggente.
      Fu allora che May incominciò a sfogare le sue preoccupazioni, pene matrimoniali incluse, con il principe Giorgio. Il fratello di Eddy aveva condiviso con lui gli anni dell’infanzia, i primi viaggi per mare: certo poteva aiutarla a schiarirsi le idee riguardo agli aspetti più incomprensibili del carattere del marito.
Giorgio, a quel tempo, era ancora felicemente scapolo. Non essendo soggetto ad alcuna pressione per ragioni ereditarie, si dedicava ai passatempi del suo rango: amava la caccia ed era l’anima delle feste, ma soprattutto era un appassionato filatelico. Dimorando nel mondo, aveva sviluppato un temperamento estroverso, e la sua conversazione era brillante e piacevole.
      May si scoprì ad attendere con gioia le sue visite, che la beneficiavano di un autentico rilassamento dell’anima.
      Quanto a Eddy, tuttavia, anche il principe Giorgio aveva poco da dire:
      “È l’anello debole della nostra famiglia”, si lasciò scappare in un momento di confidenza, “senz’altro è molto buono, e non credo sia in grado di compiere una sola delle enormità che si dicono in giro. So che va spesso a Londra, a occuparsi di non so quali associazioni di beneficienza. Ma devo essere sincero: col tempo, ho imparato a conoscere ogni tipo di francobollo, ma ancora adesso so ben poco del carattere di Alberto Vittorio”.      
 
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      Il corpo di Vittoria del Regno Unito, composto tra i paramenti della bara scoperta, era bianco sul bianco. L’anziana sovrana aveva dato precise disposizioni riguardo alle sue esequie, e anche questa volta, come già in occasione del suo matrimonio, era andata controcorrente: pur avendo osservato il lutto stretto per tutti gli anni della sua vedovanza, Vittoria non amava il dispiegamento in forze del nero, che il protocollo imponeva per gli addobbi della camera ardente, gli abiti dei presenti e addirittura per i cavalli che trainavano le carrozze dei morti.
      Quando si dedicò a organizzare fin nei dettagli l’ultima cerimonia a cui avrebbe preso parte, l’anziana sovrana scelse il bianco: in abito da sposa, con il velo sul capo, fu seppellita accanto ad Alberto di Sassonia come se fosse di nuovo sull’altare delle sue nozze.
     “Si muore per ritrovarsi”, aveva confidato a Eddy in occasione di quell’ultimo Natale in cui la famiglia s’era riunita ad Osborne House. “Non è educato farsi attendere oltre il dovuto. Sono ormai quarant’anni che il caro Alberto mi aspetta, io al suo posto mi sarei già stancata da un pezzo.”   
       Dall’isola di Wight, dove la regina era entrata nel suo ultimo sonno, la salma era stata condotta in processione a bordo del piccolo yacht Alberta, seguito dalle più spaziose imbarcazioni che ospitavano i membri della famiglia reale. Al suo passaggio, il corteo ricevette gli omaggi di otto cacciatorpediniere attraccati nello stretto: mentre l’Alberta scivolava su uno specchio d’acqua immobile, che era pura luce nell’ora del tramonto, le grandi navi da guerra facevano ala al suo passaggio sparando colpi a salve.
       I membri degli equipaggi erano schierati sul ponte, gli ufficiali salutavano e le guardie marine presentavano le armi.
Il trasporto via terra fu effettuato da uno speciale convoglio che viaggiava a velocità ridotta, per consentire al popolo di rendere omaggio a Sua Maestà durante tutto il percorso. La tratta verso Londra si trasformò in una passatoia coperta di fiori: si rese necessario aggiungere una seconda locomotiva, per trasportare gli addetti alla pulizia dei binari.
      Nelle città, le bandiere pendevano smorzate a mezz’asta. Le botteghe osservarono la chiusura per lutto ed esibivano drappi neri sulle vetrine.
     Quando il feretro entrò nella cappella di san Giorgio a Windsor, alle campane a lutto fecero eco i rintocchi degli edifici pubblici di tutto il Paese. Nelle stazioni ferroviarie tacquero gli annunci degli arrivi e delle partenze, mentre i treni sostavano nell’aperta campagna. Per strada, le carrozze accostarono e i vetturini scesero insieme ai passeggeri, ai tramvieri fermi a lato dei loro mezzi, ai passanti raccolti in silenzio nelle piazze: tutti parteciparono della stessa eternità a cui andava incontro Vittoria del Regno Unito, nella sua bara posta su un affusto di cannone.
      La perdita della nonna lasciò nel cuore di Eddy un vuoto immenso: ancora più di May, la grande regina l’aveva compreso e protetto, rimproverando bonariamente i suoi eccessi di fantasia, prendendo le sue difese ogni volta che al principe veniva rimproverata la sua indolenza, la mancanza di volontà, la scarsa intelligenza.
      In piedi accanto al padre che quella stessa mattina, nel corso di una cerimonia ufficiale, era stato proclamato re col nome di Edoardo VII, il principe Alberto Vittorio si era lasciato andare pubblicamente allo sconforto, attirandosi le solite critiche:
      “Non è neppure in grado di controllarsi. Sarà una disgrazia per tutti, quando diventerà re.”
      Quella volta, la critica era giunta direttamente dalla fila di blasonati che occupavano i posti dietro di lui. Ignorando la stretta di May sul suo braccio, per una volta tanto Eddy ritenne opportuno rispondere a tono: si voltò dunque incrociando gli sguardi esterrefatti dell’imperatore di Germania, Guglielmo II, e dell’erede al trono di Austria e Ungheria, arciduca Francesco Ferdinando.
      Non sapendo a chi rispondere, si limitò a sussurrare:
      “Non è mai una disgrazia piangere per qualcuno che si ama sinceramente.”
     Questa battuta fece naturalmente il giro del mondo: complice la commozione generale, la popolarità della Casa regnante raggiunse picchi mai visti, con grande soddisfazione di Edoardo VII.     
     “Avete effettivamente mancato di cortesia nei confronti dei nostri ospiti”, osservò più tardi il re, “ma devo ammettere che in un frangente come questo, anche la nostra beneamata Vittoria avrebbe risposto per le rime, e probabilmente con maggiore impertinenza.”
     Nella sua qualità di principe ereditario, Eddy si trovò presto ad affiancare il re nel suo ruolo pubblico. Finché era stata in vita, Vittoria del Regno Unito aveva puntualmente estromesso il futuro Edoardo VII dal governo: nessun documento ufficiale era mai capitato, neppure per sbaglio, sulla scrivania del suo figlio maggiore.
      Consapevole del fatto che regnare esigesse un minimo di pratica, Edoardo ritenne opportuno coinvolgere non solo Alberto Vittorio, ma anche colui che occupava il secondo posto nella successione al trono, ossia il principe Giorgio.
     Nel tentativo di cavare qualcosa da quei mucchi di carte, Eddy ricorreva puntualmente a sua moglie: nella maggior parte dei casi le passava direttamente i fascicoli, e poiché Mary di Teck si appoggiava a Giorgio furono questi ultimi, di fatto, a imparare a regnare. 
      Dal canto suo, oltre che alla lettura nella quiete serafica della sua biblioteca, Eddy amava dedicarsi a iniziative umanitarie: era membro di decine di associazioni che si occupavano di migliorare le condizioni degli ospedali, dei ricoveri per anziani, degli orfani e i minori impiegati per dodici ore al giorno nelle fabbriche e nelle miniere.
      Neppure May era al corrente di tutte le iniziative a cui partecipava, e sicuramente avrebbe trovato sconveniente che il marito frequentasse certi quartieri, portando carbone e sacchi di farina nelle case, lavando piaghe infette negli squallidi stanzoni delle degenze, accarezzando le teste degli orfani sempre piene di pidocchi.
      Per evitare di essere giudicato un insensato persino da sua moglie, nonché per una forma invincibile di pudore, Eddy non rivelò mai a nessuno come occupava il tempo libero dalle carte di suo padre. Solamente Vittoria l’aveva sempre saputo, incoraggiandolo a essere un re benefattore.
     La pressione che Eddy si trovò a sostenere durante il regno di Edoardo VII fu senza dubbio enorme: i più semplici incarichi che gli furono assegnati, affinché cominciasse a prendere confidenza col suo ruolo politico, si rivelarono altrettanti ostacoli insormontabili.
      Fu May a preparare il discorso per l’inaugurazione di un nuovo parco giochi per i bambini a Sandringham. Fu invece Giorgio a leggerlo, perché all’ultimo momento la timidezza di Eddy aveva preso il sopravvento.
     Di lì a breve, tutti i compiti di affiancare il sovrano nelle sue attività furono portati avanti dal nuovo sodalizio tra Giorgio e Mary di Teck: di fatto estromesso da questioni che pure non avevano mai stimolato il suo interesse, Eddy era ben lontano dal sentirsi sollevato.
      La sua sensibilità lo avvertiva dei pericoli legati all’amicizia e ai molteplici argomenti che suo fratello condivideva con May. Il suo temperamento non lo spingeva ad affrontare le questioni di petto: si limitò a esprimere il proprio disappunto chiudendosi nel mutismo. Di lì a poco rinunciò definitivamente ad apparire in pubblico e a partecipare ad eventi mondani.
     La sua assenza da cerimonie, parate e inaugurazioni divenne un’abitudine a cui nessuno fece più caso: al punto che tra il popolo erano in molti a credere che l’erede al trono fosse il principe Giorgio, e che Mary di Teck fosse la sua consorte.
     Negli ospedali sovraffollati e fatiscenti, nelle case umide e buie della povera gente Eddy si presentava in incognito, come gli suggerivano ragioni di sicurezza ma soprattutto la sua inguaribile ritrosia. In quegli ambienti oppressi dalla fame e dal freddo, dove nessun valore avevano le formalità imposte dall’etichetta, usciva finalmente dal mondo dei sogni per calarsi nella realtà.
     La sua intelligenza assopita si risvegliò: Eddy sapeva intuire i bisogni più urgenti e indovinare i mezzi più adatti a soddisfarli con una disinvoltura, un acume e persino un senso dell’umorismo che parevano opera di magia.
     Presso le associazioni di cui era membro onorario e principale benefattore, era stimato per la sua cortesia, l’amabile pazienza, la disponibilità a farsi carico dei servizi più umili: come a dire che non si limitava a versare nelle casse buona parte del suo vitalizio, ma che quando si trattava di consegnare una partita di legna o un sacco di carbone, Eddy metteva a disposizione senza indugio le sue regali spalle. La sua proverbiale indolenza spariva completamente quando si trattava di salire decine di rampe fino ai sottotetti più squallidi, dove vivevano i piccoli spazzacamini, o di scendere nei vicoli intasati di ogni genere di immondizie, dove campavano a stento intere famiglie.
     L’unica condizione su cui non transigeva era la riservatezza: nessuno doveva sapere che a tirare i carretti ricolmi di stoviglie, medicinali e coperte era il duca di Clarence, erede designato al trono d’Inghilterra. Riguardo a questo, Eddy era irremovibile: quando una delle associazioni commise l’imprudenza di spendere il suo nome allo scopo di ottenere un prestito bancario, Eddy sborsò sull’unghia la somma necessaria, ma a partire dal giorno dopo non si fece più vedere.
Calarsi nel mondo reale, che non era quello dei discorsi preparati a tavolino ma quello più immediato della necessità, gli faceva scorrere il sangue due volte più veloce, e gli metteva letteralmente le ali ai piedi: al punto che nei quartieri di Londra e Sandringham era conosciuto come l’atleta.
     “Sono un atleta danese,” amava scherzare Eddy calandosi nel ruolo e imitando l’accento di sua madre, Alessandra di Danimarca “ho praticato il pugilato per anni, quindi vedete bene di non farmi arrabbiare.”
      Alto almeno una spanna più di tutti i volontari, con i capelli chiari e un chiarissimo sorriso, Eddy non faceva nessuna fatica a recitare la parte del pugile vincitore di mille incontri: anche se al tappeto c’era finito spesso da quando era bambino, sentirsi utile a una causa gli donava un tale vigore che nessuno avrebbe potuto scambiarlo per quell’ombra che sfigurava puntualmente accanto a Edoardo VII. 
     Malgrado la simpatia e persino le prodezze che sfociavano nella leggenda - non sapeva nuotare, eppure si diceva che avesse salvato un suicida buttandosi nel Tamigi e cavandogli dalle tasche le dozzine di pietre che lo dovevano affondare - il principe Alberto Vittorio conservava inalterata la sua semplicità: ne fu prova un fatto che si verificò durante uno degli ultimi inverni del regno di Edoardo VII.
     In quel periodo, Eddy si sentiva particolarmente avvilito: aveva ricominciato a soffrire di febbricole e attacchi di spossatezza, come se la signora dagli occhi rossi fosse tornata all’attacco.
    Quello stesso pomeriggio, capitando per caso nel soggiorno del Clarence Cottage, gli era sembrato di vedere May intrattenersi in atteggiamenti sin troppo confidenziali con il principe Giorgio. Entrambi erano chini sulla grande scrivania a consultare dei documenti, sicché quella vicinanza ben poteva imputarsi alla concentrazione: però la mano di Giorgio posava con apparente noncuranza sopra a quella di May, e sul volto di lei affiorava un sorriso appena percettibile, un rossore che forse era dovuto al calore del caminetto, e forse invece no.
     Questa scena ispirò a Eddy un disgusto così potente da spingerlo ad allontanarsi dalla tenuta, per ritrovarsi a vagare, solitario e già a tarda ora, per le vie della città vecchia di Sandringham. 
      Fu là che si sentì rivolgere la parola da un tizio che faceva capolino da un vicolo.
      Aveva iniziato a nevicare fino dalla mattina, e il marciapiede era un candido tappeto senza rumore.
     “Heilà, bel signore!” e poiché Eddy, soprappensiero, aveva tirato dritto: “signore, dico a voi! Fa freddo questa sera, e questo è un brutto quartiere. Forse vi siete perso? In cambio di due penny, vi accompagno dove volete!”
     Eddy sostò, incerto. Nella pozza di luce giallastra dei lampioni apparve un volto giovane, dall’aria sveglia e singolarmente attraente. Un ricordo lontano affiorò improvvisamente nella mente del principe:
      “Sir Stephen di Cambridge? Cosa ci fate qui?”
      Il giovane scoppiò a ridere: “Ma quale sir Stephen! Io sono Ian, e magari fossi sir!”
      Eddy avvertiva il peso di una stanchezza infinita:
      “Cosa posso fare per te, Ian?”
      “Semmai sono io che posso fare qualcosa per voi, sir. In cambio di dieci penny, anzi facciamo dodici, tutto quello che volete.”
      “Ragazzo, non voglio offenderti” replicò Eddy, severo, “ma non sono interessato a questo genere di scambi.”
      “Andiamo, bel signore, qua fuori è molto freddo, a casa mia è ancora peggio e io non ho neppure un pezzo di carbone da mettere nella stufa. Stasera con questo tempo non c’è nessuno in giro, niente affari niente minestra, e neanche un goccio di gin. Se non siete interessato, almeno potreste offrirmi qualche cosa da bere.”
      Pochi minuti dopo, il bel signore era seduto in una taverna bassa e buia come una grotta, raccolta intorno a un grande camino infernale che era anche la maggiore fonte di luce.
      Accasciati qua e là con la testa sui tavoli, o sulla fila di panche che girava tutt’intorno a un muro di pietre vive e spifferi tormentosi, gli altri avventori parevano fantasmi: un girone di anime che pareva aspettare soltanto il proprio turno per finire tra quelle fiamme, al momento occupate ad arrostire lunghi spiedi di frattaglie.
     L’unico a dare segni di vita, oltre all’oste che si aggirava nella penombra, era il giovane accompagnatore di Eddy: già sbronzo, il ragazzotto continuava a chiacchierare in preda a una felicità lugubre e insensata.
      Le sue mani spaccate in più punti dal gelo erano in preda a un tremito incontenibile: anche se in quella locanda, satura di fumo e del fetore di tutte le possibili miserie, almeno non c’era freddo.
      Accanto a quegli stracci di carne che pendevano dagli spiedi, nel camino bolliva un paiolo di minestra punteggiata da occhi gialli di unto: il colore era indefinibile ma l’odore era buono, sicché Eddy invitò il suo ospite a ordinare da mangiare, anziché limitarsi a tracannare un bicchiere dopo l’altro.
      “Ma certo, bel signore!” rise l’altro completamente ubriaco, “tutto quello che volete, a vostra disposizione!”
      La voce di Ian era stridula, e intrisa di una tale disperazione da riuscire a forare quella cappa di inerzia che avvolgeva i presenti: alcuni degli avventori alzarono il capo, salvo poi ripiombare nel loro sonno di sasso; altri, appena più svegli, si voltarono a guardare quei due seduti al tavolo in angolo, uno composto e chiaramente imbarazzato, l’altro uno straccione come ce ne sono tanti.
      Eddy abbassò gli occhi, sentendosi osservato: aveva l’impressione che tutti riconoscessero in lui non soltanto l’atleta danese, ma addirittura il principe ereditario in persona.
      Quando l’oste si avvicinò per sussurrargli all’orecchio, stava già per rispondere “vi sbagliate, non sono io.” Ma l’oste si limitò semplicemente ad avvisarlo:
     “Non andate con quello, signore, è malato. Se lo desiderate, ho un paio di ragazze brave e in salute. Al vostro posto, quel tizio non lo toccherei neppure con un dito. Non vedete come trema? Gli si legge chiaro in faccia che sta per morire”.
 
~~†~~
 
      Abbazia di Westminster, 22 giugno 1911

 
      La fronte di Eddy bruciava, e il principe ebbe un brivido al contatto con le lunghe dita dell’arcivescovo di Canterbury, che gli tracciarono un segno di croce sul capo, sul palmo delle mani ed infine sul cuore: a fianco della massima autorità della Chiesa anglicana, il decano di Westminster, un ometto basso e paffuto che pareva affogare nelle vesti cerimoniali, reggeva l’ampolla dell’olio e un cucchiaio finemente intarsiato, da cui si sprigionava una fragranza così intensa che persino l’arcivescovo, complice l’emozione e certo la pesantezza dei paramenti, ebbe una sensazione di mancamento. Quanto a Eddy, fin dall’inizio della cerimonia di incoronazione aveva l’impressione che la gigantesca navata, affollata di teste coronate e di rappresentanze dei dominions e delle colonie, a tratti ondeggiasse come un guscio di noce su un mare in tempesta: simile alla Bacchante tra i flutti del nubifragio, nella notte in cui era apparso, nella caligine spettrale della bonaccia, l’Olandese Volante.
      Assiso sul trono, nella penombra di un baldacchino che sapeva di polvere ma almeno riparava i suoi occhi arrossati dall’eccesso di luce, Eddy si rilassò: approfittò del fatto che la cerimonia dell’unzione era considerato un rito riservato al sovrano, che aveva luogo senza il concorso del popolo e quindi lo sottraeva, almeno per un poco, agli sguardi indiscreti.
     Quasi un anno prima, il canto della Guardiana era tornato a farsi sentire in una notte di luna a Clarence Cottage: il giorno successivo re Edoardo VII, affetto da una bronchite trascurata per troppo tempo, dopo una breve agonia aveva lasciato questo mondo all’età di sessantotto anni, di cui nove di regno.
      Era il 6 maggio 1910, un quarto d’ora prima del rintocco di mezzanotte.
      L’annuncio era stato dato nella formula consueta: “Il Re è morto, lunga vita al Re!”
      In quella stessa notte, il principe ereditario era stato proclamato sovrano del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda, e imperatore d’India con il nome di re Vittorio I.
     Secondo la tradizione, la cerimonia dell’incoronazione seguì a distanza di molti mesi, una volta esaurito il periodo del lutto: nel caso di Eddy trascorse un intero anno, che fu impiegato nei preparativi per l’evento, di cui Mary di Teck si occupò personalmente.
      Il principe Giorgio ebbe un incontro chiarificatore con suo fratello: “Inizia un tempo difficile ma io sarò al vostro fianco, con la stessa fedeltà con cui ho agito finora. E potete star certo che la mia parola è sincera.”
      Eddy accettò di buon grado le scuse del fratello: non badò al fatto che Giorgio, molto probabilmente, era interessato a mantenere il proprio ruolo di consigliere acquisito sotto Edoardo VII, magari trasformandolo in una sorta di reggenza più o meno diretta.
      Quando Eddy guardava a Giorgio, rivedeva il bambino che aveva condiviso con lui le lunghe ore di studio e di noia sotto la direzione del canonico Dalton; vedeva gli occhi di suo fratello appesantirsi, mentre il precettore scandiva le declinazioni latine con quella voce incolore che propiziava il sonno, salvo poi ridestare i suoi apatici alunni con un colpo di bacchetta seguito da uno starnuto. Più avanti negli anni, aveva ritrovato accanto a sé Giorgio nelle vesti del cadetto che prendeva le sue difese a bordo della Britannia; e poi del ragazzino che giocava a Robin Hood, strappando i calzoncini per arrampicarsi sugli alberi della tenuta di Sandringham.
      L’affetto che Eddy provava per i suoi si nutriva di aneddoti, di ricordi custoditi con la medesima cura dei Gioielli della Corona: che ora, dopo una lunga opera di ripulitura e restauro, gli venivano offerti durante le varie fasi di quella cerimonia che si stava protraendo da più di due ore.  
      Il nuovo re aveva già ricevuto lo scettro sormontato dalla colomba, simbolo dello Spirito Santo, e quello con la Croce, a sigillo del giuramento prestato poco prima:
    “Promettete solennemente e giurate di governare il popolo del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda e di tutti i territori appartenenti alla nostra Patria, e di esercitare il vostro potere secondo la legge, usando il discernimento della retta giustizia e la virtù della compassione in ogni circostanza?[1]
     “Agirò con compassione” aveva mormorato Eddy, tra sé. Poi di seguito ad alta voce, ansante per la febbre e la fatica che gli costava starsene inginocchiato davanti all’arcivescovo:
     “Lo farò, come è mio dovere.”
      Di nuovo l’alto prelato aveva preso la parola, mentre le ginocchia di Eddy imploravano pietà:
     “Giurate di mantenere il Regno Unito nella religione riformata protestante come stabilito dalla legge, e di preservare la Chiesa d’Inghilterra e la sua dottrina?”
     “Tutte queste cose, io le prometto” rispose Eddy secondo la formula di rito. “Tutto ciò che ho promesso, m’impegno a mantenerlo e a metterlo in pratica”.
      E di seguito, con un filo di voce: “Che Dio mi aiuti”.
    Quest’ultima affermazione, pur prevista dal protocollo, era giunta dalle profondità del suo animo fiaccato da continui malesseri, dolori misteriosi e febbricole ricorrenti che non trovavano spiegazioni, a parte le innumerevoli diagnosi che giravano, come di consueto, nelle chiacchiere della corte.  
     Molti medici in proposito erano stati consultati, compresi i più rinomati cattedratici chiamati a consulto dall’estero: Guglielmo II, imperatore di Germania nonché nipote della compianta Vittoria, aveva inviato i più illustri accademici delle università tedesche, e altri erano giunti grazie alla rete di parentele che Vittoria, a suo tempo, aveva tessuto grazie ai suoi nove figli e quarantadue nipoti, in tutta l’Europa.
      Nella sala da ricevimento del Clarence Cottage aveva avuto luogo un congresso medico in piena regola, che peraltro era sfociato nell’impossibilità di ricondurre a un quadro clinico conosciuto la grande varietà di segni e di sintomi che affliggevano il principe:
      “Potrebbe essere sifilide, ma nell’ultimo stadio dovrebbero prevalere i disturbi della coscienza”, osservò uno dei medici della corte, evidentemente disposto a dar credito alle solite voci riguardo alle supposte aberrazioni del principe, “mentre lo stadio caratterizzato da febbre e cefalea è di breve durata, e non suole certamente trascinarsi per anni.”
       “Potrebbe trattarsi di consunzione, ma manca il dato dell’espettorato sanguigno.”
       “Esimi colleghi, non avete considerato l’ipotesi più semplice, ossia che possa trattarsi di un banale raffreddore, che tende a riproporsi in quanto trascurato. Vedete bene l’esempio di Edoardo VII, e dove può condurre la semplice negligenza.”
     Mentre i grandi luminari procedevano ormai a tentoni e per esclusione, un giovanotto imberbe appena uscito da Oxford riuscì a raggranellare il coraggio necessario per prendere la parola:
       “A mio parere, si tratta di una forma di malinconia. Una sofferenza dell’anima, che tende a ripercuotersi sugli umori del corpo.”
       Il giovanotto fu immediatamente tacciato di presunzione dai colleghi più esperti:
      “La malinconia, com’è noto,” precisò uno dei professori di Norimberga, col tono didascalico di chi parla a uno scolaretto, “rientra nella classificazione delle malattie della mente, e non porta certo febbre, cefalea persistente e dolori articolari.”
     “Eppure la malinconia riconosce anche sintomi fisici,” rincarò il giovane talento di Oxford, “quali la debolezza e l’affaticamento, e anche l’inappetenza. I dolori articolari potrebbero essere dovuti al clima di queste zone, notoriamente umido, e al processo di invecchiamento, considerato che il principe ha già quarantasei anni.”
      “Esimi colleghi, è il colmo” sbottò a quel punto un altro dei luminari tedeschi, “a quanto pare siamo giunti fin qui per prendere lezioni da uno studentello.”
    L’illustre consesso rischiò a quel punto di trasformarsi in rissa: fu May a riportare l’ordine, presentando le proprie scuse e ringraziando tutti i presenti, ma precisando altresì che “questo interessante e fruttuoso dibattito è causa di disturbo al riposo dell’ammalato.”
     May aveva parlato per conto di Eddy, il quale aveva seguito tutta la discussione dai propri appartamenti: senza neanche il bisogno di aguzzare troppo l’orecchio, visti i toni di voce e i volumi stentorei raggiunti dalla disputa. In poche parole, aveva espresso a May il proprio punto di vista:
    “Rimandate a casa quegli imbecilli, rispediteli a Vienna, a Parigi, a Norimberga, da dove diavolo vengono. E fate venire qui quel ragazzo di Oxford. A partire da questo momento, lo si consideri di pieno diritto medico personale di Sua Maestà il Re.”
     Nei mesi che seguirono, Eddy fece del giovane il proprio confidente. Riconobbe che gran parte dei suoi acciacchi erano dovuti, principalmente, alla stanchezza di vivere, una stanchezza per cui l’arte medica non conosceva rimedio.
   “Parlarne può servire,” suggerì il nuovo medico, che rispondeva al nome suggestivo di Victor König, “aiuta a sgombrare l’animo da molte preoccupazioni, e a valutare i fatti con maggiore chiarezza.”
     Eddy lo prese in parola: in presenza di May, sfogò la sua amarezza nel trovarsi di fatto estromesso dal regno a causa della propria mancanza d’intelletto.
    Quella stessa mancanza era stata motivo di scandalo proprio negli ultimi mesi di vita di suo padre, quando la famiglia di un nobile della corte, che frequentava i sobborghi con il nome di Ian, l’aveva accusato di aver contagiato il ragazzo: costui, ormai all’ultimo stadio di una malattia che il senso del pudore vietava di nominare, era stato internato a forza in un manicomio.
    Ridotto all’ombra di se stesso, guardato a vista nel reparto degli agitati e sottoposto spesso alla camicia di forza, il giovane aveva approfittato di un attimo di distrazione degli inservienti per scardinare le sbarre di una finestra e a gettarsi di sotto: era precipitato in un fortunale di vetri infranti, e quando lo ritrovarono, quattro piani più sotto, era ridotto a una povera carcassa sfigurata.
     Per tutto il tempo della degenza, Ian si era vantato di essere stato l’amante dell’atleta danese dei bassifondi, o meglio del principe ereditario: Sandringham era una piccola città, e tutti erano a conoscenza della vera identità dell’atleta, per quanto lui si ostinasse a nasconderla, evidentemente allo scopo di dar sfogo ai suoi vizi. E anche di questo tutti si facevano beffe.
    Re Edoardo VII era intervenuto personalmente, offrendo una somma alla famiglia di Ian a patto che la supposta parte lesa si cucisse la bocca, andasse a vivere all’estero con una buona rendita e di loro non si sentisse parlare mai più.
    Eddy non era stato neppure interpellato, ad ulteriore prova di quanto poco valesse la sua versione dei fatti.
   Di lì a pochi mesi re Edoardo era spirato, ufficialmente per una bronchite che lo assillava da tempo, in realtà - secondo Eddy - per il cruccio di avere messo al mondo un incapace.
   “Io non ho mai sfiorato quel tale neppure con il pensiero”, assicurò Eddy a May, “ho cercato di trovargli un’occupazione, ho ottenuto per lui un sussidio grazie agli enti benefici che operano a Sandringham. Questa è la verità e tuttavia non conta nulla, perché persino la parola di gente sconosciuta, di volgari ricattatori, valeva più della mia agli occhi di mio padre.”
   “Il vostro compito è il regno,” rispose May, pensosa, “e regnare significa anche affrontare le meschinità e rialzarsi a testa alta. Ricordate cosa vi dissi quel giorno, quando parlammo a lungo nella vostra biblioteca? Da allora, voi non vi siete più confidato con me, eppure ve lo ripeto: anche in questa difficoltà, avrei voluto essere accanto a voi.”
   “Voi c’eravate, May” rispose Eddy, sfinito, chiudendo gli occhi per concedersi un poco di riposo, “voi siete sempre con me.”
 
~~†~~
 
       Nell’abbazia di Westminster, la cerimonia era giunta al culmine: per mano dell’arcivescovo, fu posata sul capo del nuovo sovrano la Corona Imperiale di Stato. I presenti salutarono con la tradizionale acclamazione, “Dio salvi il re!”, mentre Eddy si sentiva svenire dal mal di testa sotto al peso di quasi un chilo di pietre preziose e intarsi in filigrana.
       Solitamente, in questa fase si utilizzava la Corona di sant’Edoardo: l’imponente manufatto con cui il re confessore, patrono dell’Inghilterra e protettore dei sovrani, era stato incoronato nella notte di Natale del lontano 1065.
      Di seguito preservata dalle alterne vicende della storia, la corona del re santo era stato utilizzata nei secoli da tutti i suoi successori: finché Vittoria non era intervenuta a innovare il protocollo anche in questa occasione, decretando che l’augusto gioiello, con i suoi due chili e passa di peso, era decisamente troppo pesante:
        “Quel giorno”, aveva detto alludendo alla sua incoronazione, “avrò già il mal di testa per parecchi motivi: non aggiungiamoci anche questo.”
      Decisa ad alleggerire il peso del regno laddove era possibile, Vittoria del Regno Unito commissionò la realizzazione della Corona Imperiale di Stato: la sua grandiosità ovviamente incideva sul peso, che si riuscì a ridurre, grazie alla manodopera di orefici sapienti, a poco meno di un chilogrammo.
      Durante il suo lungo regno, Vittoria la utilizzò ogni anno in occasione della cerimonia di apertura del Parlamento. Soggetta ad essere manipolata con più frequenza, capitò che una volta la Corona cadesse dal cuscino che la reggeva in corteo. Il gioiello subì conseguenze rovinose, e Vittoria non mancò di rilevare l’aneddoto sul suo diario, non senza umorismo:
         “…era così ammaccata da avere tutto l’aspetto di un pudding spiaccicato, su cui qualcuno, senza pensarci, fosse passato sopra.”
        In occasione dell’incoronazione di Vittorio I, il pudding fu ricomposto e alleggerito in alcune sue parti, per ordine di May:
        “Sua Maestà soffre di frequenti cefalee. Facciamo dunque il possibile affinché sopravviva all’intera funzione.”
      In effetti, e anche se sbiancato da un pallore spettrale, Eddy era ancora in piedi quando si giunse all’ultimo atto del rituale: durante la cosiddetta processione finale, era previsto che il re si recasse nella cappella di sant’Edoardo, annessa all’abbazia, per deporre sull’altare la corona e tre spade, portate solennemente da altrettanti valletti; la Spada della Giustizia temporale, quella che simboleggiava la Giustizia spirituale ed infine la Sword of Mercy, la Spada della Clemenza.
       Di questa si diceva che la lama fosse stata spezzata un angelo, per impedire ai sovrani di commettere ingiustizie.
     Tra i simboli del regno, era l’unico con cui Eddy si sentiva in sintonia: del resto anche lui, quel giorno, si sentiva spezzato da un peso insormontabile, che non sarebbe riuscito a reggere con le sue sole forze nemmeno per un giorno.
     “Non credo di potercela fare,” aveva confidato a Mary di Teck poco dopo la morte di Edoardo VII. “forse dovrei abdicare a favore di mio fratello.”
     “Voi siete il re benefattore, e vostro fratello vi aiuterà. Potete regnare insieme.”
      Eddy aveva fissato May lungamente, e l’espressione di lei gli era parsa sincera.
     Ora Mary di Teck lo seguiva in processione, dopo essere stata incoronata col titolo di regina consorte. Eddy avvertiva la quieta forza di lei sostenerlo alle spalle, mentre percorreva la lunga navata dell’abbazia fino all’immenso portale, spalancato nella luce del pieno giorno. Aveva la sensazione che la corona lo stringesse in una morsa. Sotto ai numerosi strati delle vesti da cerimonia, il corpo si riempì di un sudore gelido: aveva l’impressione che qualcosa dentro di lui stesse lottando per fuggire, liberarsi dal peso di quelle membra indolenzite e febbricitanti.
     “È la mia anima che se ne va,” rabbrividì Eddy, impressionato dalla calma con cui era arrivato a formulare questo pensiero: il suo spirito avvertiva la stessa profonda quiete e la stessa distanza che molti anni prima avevano condotto le spoglie di Vittoria, ormai alleggerite dal peso dell’anima, attraverso il mare aperto, a bordo di una piccola imbarcazione diretta verso il tramonto.
     “Regnerà mio fratello, a partire da domani”, pensò in un istante di premonizione.
      Non provò dispiacere, e neppure rimpianto per quella vita che lo stava abbandonando lasciandogli in cambio una quieta malinconia.
     Il sole era ormai alto nel mezzogiorno, quando uscì dalla penombra della navata di Westminster: nella luce lo accolse lo strepito degli applausi, due ali di folla immensa che gettava fiori ai suoi piedi, il luccichio delle armi del picchetto d’onore. In lontananza, l’eco dei colpi sparati a salve in vari punti della città.
    Il resto della giornata trascorse nella fatica, tra bagni di folla e gli omaggi da parte dei rappresentanti delle colonie e dei dominions, e a seguire un pranzo interminabile in onore degli ospiti coronati giunti da tutta Europa.
     A metà del pranzo in questione, apparve chiaramente che le condizioni di salute del re erano peggiorate: la mano gli tremava, il viso era tirato e se possibile ancora più pallido della mattina.
      A intervalli soffriva di momenti d’assenza, e dava l’impressione di non rendersi conto di dove si trovava: il suo sguardo limpido e azzurro vagava sui presenti con un’espressione stupita, come se non riuscisse a comprendere che cosa ci faceva là tutta quella gente.
      Il suo aspetto spettrale cominciò a essere notato dai presenti, dapprima con discrezione, poi sempre con maggiore preoccupazione.
     In almeno due momenti non riuscì a riconoscere il kaiser Guglielmo II, che gli sedeva di fronte, e addirittura il principe Giorgio. All’inizio si pensò che scherzasse, ma quando faticò in maniera evidente a riconoscere May, fu chiamato seduta stante il medico personale, sir Victor König.
    “Mi sento bene, ora.” Queste furono le ultime parole di Eddy, prima di sprofondare in uno stato comatoso da cui non si ridestò più. Prima di pronunciarle, Vittorio I accennò un breve sorriso, che pareva provenire da un’immensa distanza. Chi riuscì a coglierlo, perché realmente durò lo spazio di un attimo, riferì che in quel momento il viso del re sprigionava una luce particolare: il suo volto pareva improvvisamente ringiovanito, nel pieno delle forze, al punto che lo stesso Guglielmo II, spiazzato, ebbe a osservare:
    “Con un po’ di riposo, la Vostra Maestà riprenderà senz’altro il suo vigore.”
    Eddy annuì, volse un ultimo sguardo alla tavola dei suoi ospiti, ammutoliti sulle rispettive poltrone e congelati nel silenzio più assoluto. Poi chiuse gli occhi e si abbandonò sulla spalla del dottor König, e fu in quel momento che May lo sentì: un lamento gridato da una voce di donna, e cadenzato dal battito ritmico delle mani, si stava avvicinando, provenendo da chissà dove.
     Poiché si era alzato il vento, quella strana cantilena s’intrufolò a folate da una finestra aperta: quando May si alzò per richiuderla e si sporse a guardare nel parco sottostante, non vide nessuno.
    Eppure quel canto era reale, era persino dolce: esprimeva un dolore sincero ma contenuto, senza alcuna traccia di disperazione. Non portava con sé l’angoscia della morte né infondeva timore, com’era accaduto quando la Guardiana della famiglia era giunta dall’al di là per annunciare la morte della grande Vittoria, e di re Edoardo VII: adesso, la sua voce ricordava le canzoni che cantano le mamme per addormentare i loro piccoli, perché non facciano brutti sogni e non abbiano paura del buio.
    La regina May chiuse gli occhi, si appoggiò al pesante tendaggio della finestra, e solo per un istante, si fermò ad ascoltare.
 

[1] La formula è in realtà molto più lunga e articolata, e si compone di più domande. Ho ritenuto opportuno sintetizzare per non appesantire la narrazione.

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