One in a million

di little_psycho
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** High hopes ***
Capitolo 2: *** Volcano ***
Capitolo 3: *** Planetary (GO!) ***
Capitolo 4: *** I'm going slightly mad ***



Capitolo 1
*** High hopes ***


I
High hopes
 
“Had to have high, high hopes for a living
Shooting for the stars when I couldn't make a killing”
 
Hazel Lavesque non era mai stata una ragazza di grandi pretese. Si accontentava dell’appartamento in periferia dove viveva con sua madre, quando andava a casa di suo padre ignorava cordialmente la sua matrigna e se il gelataio sbagliava e metteva la panna sopra e non sotto al cono, lei scrollava le spalle e non faceva questioni.
Più che in qualche sorta di divinità, lei credeva nel caro e buon vecchio karma. Tutti avrebbero avuto quel che si meritavano, perché era come una ruota.
E forse quella ruota in particolare aveva deciso di schiacciarla, per qualche motivo a lei oscuro. Ma avendo completa fiducia nel fatto che il karma fosse irrimediabilmente corretto, era stata investita, sì da una ruota, ma da quella della Sfortuna, che aveva la cattiva abitudine di girare imbizzarrita dappertutto senza uno schema preciso.
Fatto stava che poteva aver scontato la punizione per qualche malefatta o poteva essere passata sotto una scala con un gatto nero in mano rovesciando saliere che rompevano specchi, lo stesso era caduta a faccia per terra in un corridoio non deserto. Nemmeno semi deserto.
Oh, ma perché doveva fare sempre figuracce quando meno lo voleva?
Non che di solito lo volesse, ovvio, ma se proprio avrebbe dovuto scegliere, di certo avrebbe optato per tutti i luoghi e per tutte le ore tranne l’esatto luogo e l’esatto momento in cui il ragazzo che le piaceva fosse a neanche tre metri di distanza da lei. 
«Oddio, ti sei fatta male?»
Hazel valutò se fosse il caso di fingere che sì, si era fatta malissimo, in modo che lui la portasse in infermeria (così avrebbero passato più tempo insieme!), o di dire semplicemente la verità sperando che lui si scordasse che fosse caduta ai suoi piedi.
Inciampata, se proprio si voleva essere pignoli.
Sospirò, se se ne fosse dimenticato sarebbe stato davvero fantastico.
«Eh? Oh, no quasi non l’ho sentito!»
Ma la sua dignità che si frantumava l’aveva sentita, eccome.
Il ragazzo in questione era Frank Zhang, amico di suo fratello. Beh, amico era una parola grossa, perché nonostante Frank avesse le spalle larghe quanto un armadio e tanta massa muscolare, aveva la sacra paura di Nico, che era a stento un terzo di lui.
Ma non era per niente minaccioso. Aveva gli occhi leggermente a mandorla così scuri e profondi, un sorriso imbarazzato costantemente sul volto, come se già sapesse di doversi scusare per qualcosa che non aveva fatto ancora cadere. C’era da dire che sulla goffaggine loro due sarebbero stati un’accoppiata fantastica – o catastrofica, dipendeva dalla vicinanza con la cristalleria più vicina.
In sintesi era un orsacchiotto gigante. Eh, già. Un dolcissimo, imbranatissimo e carinissimo orsacchiotto cino-canadese da abbracciare e spupazzare.
Era adorabile. E tutti sapevano che il fattore adorabilità era incisivo nella scelta di un fidanzato!
Frank era ancora lì, in mezzo al corridoio non  deserto – mannaggia a quella ruota! –  imbambolato.
Prima che l’occasione d’oro le sfuggisse dalle mani, Hazel fece la sua mossa.
«Nico mi ha detto che sei molto bravo in matematica, ed ecco, mi chiedevo se volessi aiutarmi. Per uno del terzo anno, le cose del primo sono facilissime!»
Ah, l’aveva fatto! Sì sì sì!
Silenzio. Troppo silenzio. La ragazza si chiese se avesse sbagliato qualcosa, e probabilmente così fu. Altrimenti non si sarebbe potuto spiegare perché l’altro avesse emesso un basso squittio per poi scappare via, spintonando due o tre poveri malcapitati.
Altro che ruota della Sfortuna, borbottò fra sé e sé Hazel, quello era proprio un carro armato.
 “I was gonna be that one in a million
Always had high, high hopes”
 
Una macchia rossa indistinta entrò ed uscì dalla visuale di Leo nel tempo di un battito di ciglia.
Una molto imbronciata Rachel Elizabeth Dare sedeva vicino a Piper, lamentandosi della fonte di tutti i suoi guai, Ottaviano.
Nessuno lo chiamavo mai per cognome, o con un diminutivo. Era solo quello, Ottaviano.
«E poi continua a dire che lui il dono ce l’ha davvero, che le carte gli sussurrano o altre cazzate del genere. E fa sempre tutto il leccapiedi e, dei immortali, quanto lo voglio morto! Quello spaventapasseri! Quello schifoso!» riprese un attimo il fiato, per poi concludere.
«Quello schifoso spaventapasseri!» 
A quanto pareva esisteva una specie di club di divinazione a scuola, molto alla Harry Potter. Peccato che al posto della professoressa visionaria ce ne fosse uno completamente disinteressato, che lasciava gli studenti a briglia sciolta, convinto che l’immaginazione dei giovani dovesse scorrere senza barriere. Ma non si era rivelata proprio un’ottima idea, perché…
«Come se non bastasse mi ritrovo l’imbottitura dappertutto! Lui e la sua cretina idea di squartare i peluche per leggere le viscere! Voglio dire, è tutta ovatta, ma dove le vede le viscere! O l’intestino! Perché adesso si è fissato di essere un augure romano e di trovare il futuro dentro quei cosi… »
Ecco, appunto. Fai un attimo la pausa caffè, e quando torni c’è un cimitero di innocenti pupazzi sventrati ad attenderti.
«Ma» cambiò improvvisamente tono, tutta pimpante. Estrasse qualcosa dallo zaino e lo sventolò trionfante, come se fosse un biglietto dorato di Willy Wonka, o un campione di DNA per clonare le Kardashian. Ehi, un ragazzo può sempre sperare!
«Gli ho preso questo!»
Un delfino di pezza. Leo si chiese perché ancora sperasse in qualcosa.
«Che carino! È tuo, Rachel?» una voce fuori campo fece girare Leo ad una velocità così impressionante da mandargli scariche di dolore dietro la nuca.
«Diavolo Solace, mi hai ucciso!»  Dopo un’occhiata perplessa da parte del biondo davanti a lui stava per continuare la spiegazione, ma Rachel lo precedette.
«Will, abbassa la voce!» si guardò intorno guardinga, con gli occhi spalancati, come se qualcuno potesse spuntare da dietro il carrello dei vassoi sporchi, prendere il peluche e scappare verso l’uscita urlando come un pazzo.
Quasi quasi l’avrebbe fatto Leo.
«L’ho rubato a tuo cugino!» sussurrò, eccitata. «Così dopo non avrà niente
Ah giusto, c’era da aggiungere che Ottaviano era il cugino di, tipo, sesto grado di Solace. Dall’espressione sconfortata di Will, quello non era esattamente in modo in cui voleva nuocere ad Ottaviano.
Piper finalmente emerse dal libro di storia, si guardò intorno, alzò le sopraciglia e fece per dire qualcosa, ma appena vide l’espressione allucinata di Rachel chiuse la bocca, per una volta senza parole, e abbassò di nuovo lo sguardo su “Le pagine della nostra vita”.
Detto così sembrava un romanzetto rosa scadente, ma era davvero il nome di quel mattone da cinquanta chili e passa. Era uno di quei libri alternativi, pieno di immagini, dove le date erano scritte tutte colorate e dieci volte più grandi rispetto al resto; a quanto pare pensavano che così i ragazzi avrebbero appreso più in fretta.
La buona trentina che componeva la classe di recupero di storia, dimostrava la grandissima idiozia di quell’esperimento.
«Ciao, ragaz- Non ditemi che anche lei vuole mandare in estinzione i peluche.»
Hazel puntò un dito accusatore contro il pupazzo e Rachel, che lo aveva ancora in mano come una reliquia religiosa.
«Non ne posso più di Ottaviano! Prima o poi gli ficcherò quelle viscere giù per la gola.»
Ancora quello là! C’erano persone molto più interessanti. Tipo lui.
«Non me ne parlare.» borbottò Rachel, prima di girarsi verso l’altra per chiederle:«Oggi pomeriggio mi aiuti a rimettere a posto quel tripudio di ovatta?»
«Non posso. Vado al poligono di tiro con Bianca e le altre.»
“Le altre” erano quel gruppetto tutto al femminile capitanato da Talia Grace che praticamente vivevano al poligono di tiro e trovavano i maschi ripugnanti. Un così tale spreco di belle ragazze…
L’ultima loro conquista era Bianca di Angelo, la sorella maggiore di Nico e sorellastra di Hazel.
«Mica vorrai unirti a loro?» Leo sottolineò quell’ “unirti” con un tono più che serio. Pure Hazel, no!
«Pensa a Nico! Non gli rimarrà neanche una sorella!» Eh già, il senso di colpa salva le ragazze dalla strada di non ritorno.
«Non essere paranoico! È solo per una volta.» Hazel si svolazzò la mano sul viso, come per cacciare quell’idea molesta.
Leo si guardò intorno, notando che Percy, Annabeth e Jason brillavano per la loro assenza. Chissà se avrebbe dovuto mettere da parte almeno qualche mela per loro.
“Mama said
Burn your biographies
Rewrite your history
Light up your wildest dreams”
«Jason, ti prego, fermala!»
«No, Percy. Devi studiare. Hai mai sentito questa parola?»
«Beh, Annabeth, in realtà non so fino a che punto potrà essere utile fargli leggere due o tre pagine durante la pausa pranzo.»
«Ehi, ma tu da che parte stai?»
Percy sbuffò, completamente d’accordo con Jason. E pensò a quel budino ai mirtilli che lo aspettava, chiedendosi che fine avesse fatto.
«Sto dalla parte che impedirà a Percy di prendere un’altra insufficienza, e la tua non lo è.»
Con le braccia incrociate sul petto, l’espressione burbera e il tono di disapprovazione, Jason sarebbe stato un ottimo professore.
«Hai qualche idea migliore? Dopo scuola lo vuoi legare in modo che non scappi?»
Uno scintillio pericoloso negli occhi, un sorriso sardonico.
«Perché no?»
Il rumore di due mani traditrici che si battono il cinque.
“Mama said don't give up, it's a little complicated
All tied up, no more love and I'd hate to see you waiting”

 
Quando Luke vide Annabeth e Jason in casa Grace, sembrava tutto normale.
Ma dopo essere scivolato su una bustina vuota di liquirizie ai mirtilli e aver visto almeno un centinaio di bustine come quelle ricoprire il tavolo della cucina, due domande se le fece.
«Percy?»
«Percy.»
Quel ragazzo si sarebbe dovuto far curare.
Si spaparanzò su uno sgabello, strappando una liquirizia con i denti e rivolgendosi ad Annabeth.
«Che ha fatto adesso?»
«Cosa non ha fatto, vorrai dire.»
Era carina Annabeth, con i capelli ricci sciolti e il sorriso esasperato.
Sempre all’erta, vigile, con lo sguardo tagliente ma la lingua ancora di più. Da quanto tempo la conosceva? Dieci anni, cazzo. Era davvero passato così tanto da quell’afosa mattina di luglio, quando l’aveva vista per la prima volta, sola – e poi avrebbe scoperto che sola era l’unico modo che conosceva di esistere, bambina con i genitori divorziati e speranze infrante.
Le tirò un ricciolo biondo, che come una mola ritornò alla forma originaria, sovrappensiero.
 «Sarebbe a dire?»
«Sarebbe a dire, che per tutto il primo mese di scuola non ha aperto un libro! E adesso ci sono un sacco di verifiche da recuperare, un trilione di argomenti da fargli entrare in testa, praticamente un terzo del programma! Ovviamente non posso stargli dietro passo passo, perché…»
«Sta scappando.»
«Anch’io ho i miei impegni e… aspetta, cosa?!»
«Sta scappando, Annabeth.» Ripeté Luke, divertito. «A quanto pare il mio fascino ti ha distratto dal tuo prezioso studio.»
Si sistemò meglio sullo sgabello, addentando un’altra liquirizia con un sorriso sornione mentre Annabeth impallidiva dalla rabbia e schizzava fuori verso la porta, così velocemente che quasi si aspettava di vedere la nuvoletta di vapore dove prima si trovava lei, come nei cartoni animati.
 La sua risata svegliò di soprassalto Jason, che si stropicciò gli occhi e si guardò intorno confuso, ritrovandosi con due persone mancanti all’appello, una che non aveva visto arrivare e delle caramelle attaccate alle stanghette degli occhiali.
Aveva conosciuto Jason lo stesso anno di Annabeth, ma non c’era lo stesso rapporto di intimità. L’altro si era semplicemente abituato ad averlo intorno in giro per casa, dato che da quando era andato a sbattere contro Talia, aveva passato più tempo in quella che nella propria.
 Jason era l’opposto della sorella. Con quei capelli sempre in ordine, gli occhiali e quel suo modo di avere la schiena dritta, su cui Talia scherzava sempre, dicendo che aveva un bastone ficcato nel sedere, sembrava un soldato.
Era il più disciplinato di tutto il gruppo, perfino di Annabeth, che una vene di ribellione ce l’aveva sempre avuta – quella scintilla negli occhi d’argento ti lanciava una sfida muta che proprio non potevi non accettare.
Inizialmente c’erano solo loro tre – il ladruncolo, la punkettona disagiata e la bimba solitaria.
Perché Jason era ancora più piccolo di Annabeth, lui di anni ne aveva sei, ma l’età non c’entrava. Era oscurato da lei.  Come se l’altra fosse una supernova in procinto di esplodere, e chi avrebbe mai guardato anche le altre stelle?
Annabeth per i suoi sette anni era così matura e seria, così diversa. Annabeth aveva già capito come girava il mondo.  A Luke c’erano voluti quattordici anni e una buona dose di rimpianti.
«Annabeth mi fa male! Ahia! No ti prego, basta!»
Quando entrarono di nuovo in cucina, Percy aveva un orecchio così rosso che non era difficile tirare ad indovinare con avesse fatto la ragazza.
«Hai provato a scappare! Dèi, ma ti rendi conto? Io e Jason siamo qui per te, e tu te ne vai!»
«Non stavo scappando. Mi stavo semplicemente allontanando.»
«Ahia!»
«Non mi interrompere!»
Percy si massaggiò il braccio, aggrottando le sopracciglia.
«Ma se mi hai dato un pizzicotto!»
«Zitto!»
Luke conosceva Percy da cinque anni, ma era bastato qualche giorno per capire come funzionasse quella testolina “piena d’alghe”, per citare Annabeth.
«Ehi, amico, lo sai che per continuare a frequentare i club scolastici devi avere una media superiore alla sufficienza in tutte le materie?»
«Io… ehm, voglio dire… certo! Non vorrai… cosa?!»
Annabeth spalancò gli occhi, capendo subito l’antifona.
«Beh, mica vorrai essere sbattuto fuori, vero? Immagina quanto sarebbe contento Tritone.»
Non che quello fosse il vero nome del capitano della squadra di nuoto, ma era di una bravura sovrumana, si diceva, e gli era valso quell’appellativo.
Inutile dire che lui e Percy litigassero per la leadership di quel branco di pesci palla mancati.
Prima che potesse dire qualche altra cosa, il tintinnio delle chiavi avvisò tutti i presenti che Talia Grace era tornata a casa dall’ennesima lezione di tiro con l’arco spesa a gridare contro poveri ragazzini, la cui unica colpa era essere nati maschi.
 




Notes

Ecco il mio primo tentativo di fare una long!
Non ho molto da dire, spero solo che sia piaciuta! La canzone è "High hopes" dei Panic!At the Disco. Non ho messo OOC fra le avvertenze perchè non volevo assolutamente caderci dentro...volevo cerare un'AU in cui i nostri amati protagonisti mantengano la loro identità.
Per adesso ho solo il primo capitolo, il secondo e il terzo sono in fase di gestazione...ma sapere che la storia è piaciuta mi farebbe lavorare più velocemente! ;)
Alla prossima
little_psycho 

 
 

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Capitolo 2
*** Volcano ***


II
Volcano

The world is spinning fast tonight
You can hurt yourself tryin’ to hold on
To what you used to be
I’m so glad the past is all gone”
 
Che quella casa mettesse in soggezione, Nico l’aveva sempre saputo.
C’era qualcosa di assolutamente sbagliato nell’intonaco grigio scuro, nel cancelletto nero così ben oleato da non cigolare mai, in quei fiori così vivaci da stonare con tutto il resto. I fiori davanti ai quali doveva passare tutte le mattine, perché stavano proprio , davanti all’ingresso, e non si potevano mettere in nessun altro luogo, nossignore. Altrimenti lei avrebbe iniziato a lamentarsi, dicendo che quello era l’unico luogo in cui stavano bene, perché il sole si tuffava fra le montagne di fronte e lo avrebbero avuto per tutta la giornata.
Quei fiori, Nico li odiava più di tutto il resto. Il ricordo costante ancora prima di entrare in quella casa, che c’era lei  ad attenderlo.
 Lei che non aveva mai avuto una parola gentile né per lui o Bianca o Hazel. Solo accuse intrise di quell’odio velenoso che tutta la mattina le uccideva  il fegato, e lei aspettava che rientrasse per sputarglielo addosso, per alleviare il dolore, il rancore, la gelosia.
Ma ogni notte il fegato ricresceva, e tutto ricominciava.
Bloccato in una punizione di Prometeo al contrario.
Perché il fegato non era il suo, l’odio non era il suo, eppure quel circolo vizioso andava a colpire anche lui. Chissà se qualcuno l’avesse mai compatita quell’aquila, costretta tutti i giorni a fare sempre le stesse cose, non potendo mai volare via. Alla fine la punizione aveva preso anche lei. Si chiese se più il tempo passasse e più l’aquila diventasse cattiva con Prometeo, accusandolo di averla incastrata, fino a che il sangue che le bagnava il becco fosse l’unica cosa a darle sollievo.
C’era giorni in cui neanche Nico sapeva chi era l’aquila. A volte il veleno di adolescenza rubata e figli mai avuti, altre, è lui.
«Cambiati in fretta, fra cinque minuti si mangia.» Nonostante tanto per una volta le parole che le uscivano di bocca non erano cattive, Nico riusciva a percepirlo il veleno.
Ma alla fine già era tanto che cucinasse anche per lui, dato che se fosse stato per Persefone ormai vivrebbe segregato nella sua stanza, con uno spioncino intagliato nella porta da dove gli passerebbero i viveri.
La guardò, anche se  avrebbe dato di tutto per dimenticarsi della sua faccia, della sua voce e delle sue occhiatacce.
L’unica lancia che spezzerebbe mai in suo favore, sarebbe per il suo coraggio, o per la sua faccia tosta, difficile dirlo.
Perché aveva trent’anni, venticinque quando aveva sposato suo padre – il padre di Nico, non di lei, perché altrimenti la situazione sarebbe diventata inquietante – e si sa, le vicine pettegole sono dure a morire.
 Ma tutti i giorni usciva a testa alta, con i capelli biondo scuro legati in una lunga treccia e i vestitini a fiori. Aveva sempre sospettato che lo facesse di proposito, per sembrare ancora più bambina agli occhi delle cinquantenni in menopausa che già sguazzavano nei pettegolezzi secondo i quali Ade Erebis avesse avuto tre figli da due donne diverse, e che poi avesse abbandonato tutti e cinque per sposarsi con una ragazza fresca di laurea.  
Pettegolezzi fondati, a dire il vero. Ma Ade aveva già abbandonato le due donne quando Persefone era entrata nella sua vita, di conseguenza non era esattamente lei il problema.
In realtà all’inizio non l’aveva neanche presa molto male, l’importante era che ognuno se ne stesse in casa propria e che andasse a trovare il padre solo nei week end.
Poi Maria di Angelo era morta e tutto era cambiato.
«Mi passi il formaggio?» la voce di Bianca gli arrivò fin troppo chiara all’orecchio, e la fulminò con un’occhiataccia. Poteva benissimo parlare con un tono di voce che non fosse comprensibile anche ai delfini, dato che erano gomito a gomito. Per non parlare del fatto che il formaggio era più vicino a lei che a lui.
Da quando aveva iniziato a frequentare quelle squinternate arciere figlie dei fiori, era diventata ancora più insopportabile. Non avrebbe mai capito con quale pazienza Jason convivesse con Talia senza averla mai sbattuta fuori di casa.
«Come vuoi, sorellona.» Si piegò per prenderle quel benedettissimo formaggio, e nel farlo le fece cadere il cucchiaio in quella brodaglia arancione che Persefone si ostinava a chiamare zuppa, schizzandole sulla maglietta.
«Ehi!»
«Oh, scusa, non l’ho fatto apposta. Magari il formaggio ti farà stare meglio!»
«Se ti ci affogassi col formaggio, allora sì che starei meglio!»
La mano del padre che dava un leggero colpo sul tavolo e il suo sguardo stanco, impedirono a Nico una morte per soffocamento con il formaggio.
 
“Been out in the wild
Been out in the night
Been out of your mind
Do you live here or is this a vacation”

 
Leo chiuse con un piede la porta di ingresso, mentre si dirigeva verso la cucina.
«Sono a casa!» urlò, in modo che suo padre potesse sentirlo, ma se si trovava nell’officina, beh, era tutto fiato perso.
Si diresse verso la cucina, contento di trovare qualcosa di commestibile e non in scatola! Era un giorno memorabile, da segnare sul calendario in rosso, come Natale o il suo compleanno.
No, Leo Valdez non era per niente egocentrico.
Mentre metteva a scaldare i tacos – slurp! – andò il cerca del suo animaletto da compagnia, Festus. Lo vide un po’ abbattuto, perché se ne stava sul suo letto fermo, emettendo vaghi pigolii.
«Ehi bello, che ti succede?» chiese vagamente preoccupato, e anche offeso, a voler essere sinceri. Si aspettava delle feste, la coda scodinzolante, del vapore dalla bocca, che rigurgitasse dell’olio come segno del suo affetto; già, cose così.
«Adesso papà Leo ti rimette apposto!» Annunciò, piegandosi per prendere la chiave inglese dal comodino. La sua stanza era molto più simile allo studio di un meccanico che alla camera di un sedicenne. C’erano cacciaviti, tronchesi, ingranaggi di ricambio, una bottiglia che conteneva olio per motori, giornaletti di macchine, il letto sfatto e pieno di progetti in fase di lavorazione.
La vera tana di un maschio, citando una Piper vagamente nauseata. Okay, forse molto nauseata.
Anche se il realtà tutto il piccolo appartamento si sarebbe potuto definire la vera tana di un maschio.
Nonostante la cherokee sopracitata avesse usato la parola “tana” per sottolineare che  fosse regredito allo stato animale, Leo a volte non poteva proprio darle torto.
La vera tana di un maschio, per regola, non doveva avere una passata di vernice, o una mano femminile che rifaceva i letti e sfoderava lo sgrassatore al limone davanti alla sua scrivania.
La vera tana di un maschio, di conseguenza, rispecchiava l’animale che aveva imparato a vivere in solitario, senza bisogno di contatti col mondo e soprattutto con il gentil sesso. La vera tana di un maschio, in sostanza, sapeva di abbandono e decadenza.
E anche suo padre l’aveva accettato. Forse era quello il motivo per cui quando Piper era entrata armata di guanti di gomma e ogni genere di diavoleria per scrostare via gli anni di trascuratezza, Efesto aveva scrollato le spalle, per bofonchiare qualcosa sul parquet che aveva bisogno di un detersivo particolare.
Era sicuro di aver visto anche lo scintillio dell’antica vivacità rifarsi vivo, dopo le lamentele di Piper perché “là neanche l’aspirapolvere passavano” e i suoi “ma in fondo che si ci può aspettare dai maschi?”
Leo aveva avuto una sorta di déjà-vu. Il ricordo nitidissimo di sua madre che rassettava i cassetti e passava lo straccio per pulire, che per l’esasperazione di sentire l’odore di grasso ovunque andasse, spruzzava il profumo in tutte le stanza. Inutile dire che suo padre non apprezzasse particolarmente odorare come una donna, ma per amor dei nervi di Esperanza la lasciava fare.
Ovviamente rifaceva sempre la stessa domanda tutte le volte. Perché se anche lei lavorava in officina e si sporcava le mani con il “sano e duro lavoro”, era così fissava con la pulizia e lo rimbrottava sempre?
E sua madre rispondeva con un tono che faceva sempre ridere a crepapelle il Leo di sette anni.
Perché era un essere umano, e gli essere umani avevano la strana tendenza a non voler puzzare di grasso. Cose che suo marito non avrebbe mai capito, mica era un essere umano, lui.
Non lo diceva con cattiveria, ma con ilarità, sottolineando le parole tracciando trattini invisibili nell’aria.
Ma le cose belle raramente durano, e lei era morta in un incendio divampato in officina quando Leo aveva otto anni, sette mesi e ventuno giorni.
Neanche suo padre era durato senza la sua risata, il suo profumo e i suoi trattini invisibili impressi nell’aria. Ci aveva provato, Leo lo sapeva, ad andare avanti, a portarlo a scuola, a cucinargli la cena, ad accorgersi quando i vestiti si facevano troppo piccoli.
Avevano anche dovuto violare il Tempio Sacro.
Il bagno di servizio, dove c’erano lo stendi panni, la lavatrice, lo sgrassatore al limone e il suo profumo impresso sulle pareti.
Sua madre era sempre sua madre, perciò trovarono anche dei cacciaviti appoggiati vicino allo specchio, l’orologio della cucina smontato sullo sgabello e la sua salopette da lavoro ad asciugare, linda e pulita.
Era stato strano, entrare nel Tempio Sacro. Tutta la vita gli era stato ripetuto di non andarci, perché anche la mamma aveva bisogno dei suoi spazi, e quello era il suo spazio. Ma lei era un cadavere in decomposizione, e i cadaveri in decomposizione non avevano bisogno dei loro spazi.
Era rimasto, però, come un gioco fra lui e suo padre, il Tempio Sacro. Per non dimenticare, per sentirla ogni giorno un po’ più vicina, un po’ meno morta.
«Cugino, lo sai che la cucina sta fumando, vero?»
La cucina stava fumando, sì, davvero molto interessante e costrut… oh cazzo i tacos.
Corse in cucina, e con uno strofinaccio cercò di scacciare tutto quel fumo che veniva dal microonde. Perché poi non si fermato da solo? Ah, giusto. Perché lui non aveva messo il timer, di conseguenza aveva semplicemente continuato a girare e girare fino a che quei bellissimi tacos fossero diventati della bellissima colla.  Sapeva dell’esistenza di fornetti più moderni, dove il timer era d’obbligo altrimenti non partivano, o avevano tante fantastiche opzioni per una cottura diversa per ogni tipo di pietanza, ma suo padre caparbiamente continuava sempre e comunque ad aggiustare quel vecchio coso arrugginito.
Avrebbe potuto benissimo costruirne uno, ma perché perdere tempo a costruire qualcosa di così poco utile?
«Ah, primo, se non ci fossi tu!» Esclamò Leo, svolazzando lo strofinaccio con fare drammatico.
Il ragazzone afroamericano rise, e si sedette sul tavolo.
«Nonostante capisca che Festus si prenda tutta la tua attenzione» disse, con voce sognante,
«dovresti stare attento ai tacos facilmente incendiabili.»
Leo, annuì, pensando al Festus originale, quello di Charles.
Tutto era iniziato perché il cugino si era comprato un’iguana. Un’animale noiosissimo, e raccapricciante. Se ne stava ferma, enorme e squamosa, facendo serpeggiare la lingua di tanto in tanto. L’aveva chiamata “Festus”, che il latino significava “felice”.
Con che coraggio chiamare quel coso indescrivibile felice, andiamo!
Comunque restava il fatto che fosse noiosissima. Così ben presto Leo aveva iniziato a prenderle le misure, ad analizzare le varie parti del corpo, a raccattare tutti gli ingranaggi utili dall’officina, e voilà, in otto mesi era uscito fuori Festus II , l’iguana meccanica.
Inutile dire che era un fantastiliardo di volte meglio rispetto a quella cosa smorta, e piano piano quel “II” era sparito, come a significare che al massimo l’originale  potesse essere una copia venuta male di quello meccanico.
Charles ne era rimasto estasiato, e anche suo padre si era congratulato con lui, di nuovo se stesso anche se per poco. Festus era diventato componente della famiglia, sempre pronto a vibrare come se facesse le fusa appena Leo si avvicinava.
L’unica cosa di Festus che Charles non mandava proprio giù, erano gli occhi. Di vetro, rossi e luminosi, diceva che sembravano demoniaci. Lui li avrebbe fatti di un bel verde o magari neri, ma di certo non rossi.
Il telefono si illuminò, e appena lesse il messaggio, si girò verso il cugino, con un’idea assolutamente suicida e altrettanto divertente in testa.
«Ehi, Charles, che ne dici di andare al poligono di tiro con l’arco?»
«Certo! Posso invitare anche Silena?»
Oh, Leo non aspettava altro.
«Come no!»
 
“Volcano
You don’t wanna, you don’t wanna know
Volcano
Something in you wants to blow
Volcano
You don’t wanna, you don’t wanna know”
 
 
In quanto ad efficienza, Talia e le sue amiche si sarebbe meritate tutte le stelline dorate che Piper si sarebbe potuta comprare dal cartolaio.
Ogni cosa era in ordine, le frecce vaganti venivano subito raccolte, i ragazzi che volevano lanciarle come giavellotti per vedere se avrebbe centrato il bersaglio, venivano placcati. Il tutto sotto lo sguardo vigile e glaciale di Artemide, la proprietaria della “Freccia di Diana”. Era una donna sui quarantacinque anni, con lunghi capelli ramati e occhi grigi.
Non era sposata, né aveva figli, da quello che le aveva detto Annabeth, a cui lo aveva detto Talia a sua volta.
Anzi, alle parole “maschio”, o “marito”, alzava gli occhi al cielo e arricciava il naso, come se avesse sentito una squallida battuta trita e ritrita.
Era anche la zia di Will Solace, il quale scherzava sempre dicendo che probabilmente stare sette mesi con suo padre rinchiusa nella pancia di sua madre le avesse fatto venire il disgusto dal genere maschile. Piper non riusciva proprio a capacitarsene come fosse possibile, dato che il padre di Will era un uomo molto, ma molto sexy. Irrimediabilmente e dannatamente sexy. Mentre la sua mente perversa andava contemplando gli occhi azzurri, i capelli biondi e il volto cesellato dell’uomo – sarebbe potuto essere suo padre, dannazione! –, il ringhio basso di Talia la fece girare, preoccupata. Seguì il suo sguardo, e capì che la catastrofe era vicina.
Quell’idiota di Leo aveva portare Silena Beauregard nella tana del lupo.
 
 Your eyes were like landing lights
They used to be the clearest blue
Now you don’t see so well
The future’s gonna land on you”

 
Fra il sorriso di sfida di Silena, lo sguardo assassino di Talia, quello preoccupato di Piper e quelli confusi di Charles e Hazel, tutti nascosti malamente sotto espressioni tranquille, era come giocare a una partita di poker con dei bambini.
Lui era quello che se la spassava, ovviamente, perché sapeva tutte le dinamiche.
Quando Charles era andato ad un seminario fuori  città, un sacco di tempo prima, Annabeth e Piper avevano pensato bene di portare la loro adorabile e romantica amica francese al poligono di tiro, per farla distrarre con della sana compagnia femminile.
Dopo un paio di giorni la sorella di Jason aveva pensato bene di chiederle se volesse lavorare lì e diventare di conseguenza una del gruppo. Ma non aveva idea che fosse felicemente  e irrimediabilmente fidanzata.
Peccato che le “Cacciatrici” avessero leggi severissime contro i maschi – orrore e raccapriccio! – e contro delle relazioni amorose con i suddetti – doppio orrore e triplo raccapriccio!
«Allora, Silena, com’è andata con il tuo ragazzo in queste due settimane?»
Aveva per caso detto “un sacco di tempo”? Beh, erano due settimane. Ma per un iperattivo due settimane erano secoli.
«Bene. E il lavoro qui come procede?»
Il fatto che le ginocchia di Silena non stessero tremando dalla voglia di scappare sotto lo sguardo di fuoco di Talia, era sicuramente da ammirare.
Non che le ginocchia di Leo stessero tremando. Erano esattamente al loro posto, immobili.
 Charles si piegò e gli sussurrò all’orecchio, confuso: «Perché stai tremando? Mi dovrei preoccupare?»
Più o meno immobili.
«Senza maschi in giro lavoriamo benissimo.»
Altri sguardi truci.
Prima che risolvessero la questione alla vecchia maniera, Leo pensò che fosse il caso di intervenire.







 
Notes
Ecco qui il secondo capitolo.
 Era abbastanza indecisa se pubblicarlo o meno, dato che non ho riscontrato molti responsi positivi. Comunque ho deciso di fare un altro tentativo, per tastare il terreno.
 Dovendo scrivere una storia con ben sette protagonisti principali, per i primi capitoli cercherò di procedere a gruppi, in modo di poter dare un quadro generale. Via via apparirà tutta la combriccola al completo, giuro!
Volendo rimanere il più possibile fedele alla trama originale, i vari genitori morti rimarranno tali. Quelli divini saranno nella vita dei figli in corrispondenza al rapporto che avevano nei libri. Non ho mai notato Leo particolarmente frustrato nei confronti di Efesto, quindi l’ho “introdotto” nella sua vita. In base a questo, farò così anche con gli altri.
Ovviamente non ho avuto il cuore di uccidere Bianca!
“La freccia di Diana” è un riferimento al meraviglioso mondo di Shadowhunters. Mi sembrava particolarmente azzeccato, poi.
La canzone “Volcano” è degli U2, fantastica band.
Vorrei sapere come consideriate la storia, se valga la pena continuarla, se la caratterizzazione dei personaggi vi soddisfi.
Un bacio
little_psycho 

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Capitolo 3
*** Planetary (GO!) ***



III
Planetary (GO!)
 
 
  “There might be something outside your window
But you'll just never know
There could be something right past the turnpike gates
But you'll just never know”

 
 
«Hai…hai un ragazzo?!» L’ultima parola l’aveva sputata fuori come se fosse veleno e le stesse bruciando la lingua.
Silena continuò a guardarla confusa, gli occhi azzurri spalancati e lo sguardo perso.
«Ehm, sì. Dov’è il problema?»
Prima che Talia potesse rispondere che era proprio lì, il problema – fra il suo “sì” sconsiderato e la sua incapacità di vederlo – l’altra la precedette.
«Oh, ma non mi distrarrà dal lavoro! Sono una persona precisa. Verrò agli orari prestabiliti.»
“Gli orari prestabiliti”. Eh già. Ma lei non ne aveva proprio idea che le Cacciatrici andavano alla “Freccia di Diana” senza un orario prestabilito, ma semplicemente quando se la sentivano. Erano una famiglia, che diamine! Sì, Artemide le pagava, ma non c’entrava nulla. Silena lo prendeva come un vero lavoro. Ma se avesse saputo che era fidanzata non gliel’avrebbe chiesto a prescindere, ovviamente. Le ragazze innamorate erano così problematiche! Mai in orario, mai pronte a prendere il posto di un’altra, sempre fra le nuvole, sempre a pensare al loro benedettissimo fidanzato.
All’inizio ci avevano provato, a non fare distinzioni. Ma era troppo lampante per non passare inosservata, quella marcata differenza, quell’abisso fra le sane di mente e le invasate con gli occhi a cuoricini.
Sentì la collera salire, dirompente, verso Silena. Nonostante sapesse che non aveva colpe. La colpa era tutta sua, sua per essersi fidata di nuovo, ma non avrebbe commesso lo stesso sbaglio, neanche per sogno. Fu la rabbia per quello, o per se stessa, ma iniziò ad urlare.
«Dov’è il problema?! Il problema è che sei fidanzata, Silena! Dopo tutti i discorsi che abbiano fatto sulla dipendenza e il maschilismo negli sport, mi vieni a dire che per te erano solo cazzate e che hai un fidanzato?»
E forse non le stava urlando verso Silena, quelle parole, ma verso lei, stava rivivendo il loro litigio, e le stava vomitando addosso tutto quello che non aveva avuto il coraggio di dire quel giorno.
«M-mai io credo nella dipendenza e nella emancipazione femminile, nel maschilismo negli sport, in tutto quello di cui abbiamo parlato. Non capisco cosa c’entri Charlie in tutto questo.»
Charlie. Aveva davvero detto “Charlie”?
Eppure sembrava così spaesata, ma possibile che non avesse ancora afferrato l’antifona? «Charlie fa nascere il fottutissimo problema. Artemide ed io le Cacciatrici le vogliamo con un po’ di sale in zucca, non delle fessacchiotte che sognano ad occhi aperti l’amore a prima vista con tanto di fuochi d’artificio, e dedicano frasi riciclate da qualche cioccolatino ai propri fidanzatini su Instagram!» Stava urlando, probabilmente anche sputacchiando un po’, e non aveva più fiato in gola.
«Quindi pensi che io non possa avere un po’ di sale in zucca, se sono innamorata? E che non potrei fare bene il mio lavoro, se sogno ad occhi aperti l’amore a prima vista con tanto di fuochi d’artificio?» Anche lei stava urlando, con una vena in rilievo sul collo e le mani strette a pugno.
«Lavoro.» La beffeggiò Talia. «Ma allora non ti entra in testa? Se accetti il posto qui diventi una Cacciatrice, una del gruppo. Non si tratta solo di lavoro. Trovi una seconda famiglia! Per alcune di noi è anche la prima.»
Dato che urlare implicava sprecare fin troppo fiato, si fermò un attimo, per fare dei respiri profondi. Poi riprese, ancora più ferma nelle sue convinzioni.
«Ma la famiglia non accetta un sentimento insulso e fuorviante come l’amore romantico. Si basa su principi più solidi, più duraturi. Che sia la prima cotta o l’amore con la lettera maiuscola, prima o poi finirà. Lealtà, gratitudine, affetto fraterno, sono cose che non si dimenticano. Più profonde.»
Silena stava tentennando, indecisa su come ribattere. Gli occhi guizzavano a destra e sinistra, le mani stringevano la stoffa della maglietta, i denti martoriavano il labbro inferiore.
«Anche l’amore non si dimentica.» Fu la sua risposta, un sussurro sottile e poco chiaro contro le urla appassionate di Talia.
La risatina beffarda di quest’ultima la svegliò dalla sua indecisione, punta sul vivo. «Allora forse non voglio far parte della famiglia. Di certo non ho bisogno di un manipolo di pazze armate di arco e frecce che già pensano di sapere come giri il mondo e si comportano come tredicenni, per sentirmi a casa!»
La consapevolezza che a Talia servisse proprio quello – un manipolo di pazze armate di arco e frecce che già pensano di sapere come giri il mondo e che si comportano come tredicenni – per sentirsi protetta, e la decisione di Silena di rifiutare quell’affetto incondizionato che avrebbe potuto avere, quella sicurezza che quando il mondo ti sta per cadere addosso c’è qualcuno che ti sorreggerà sempre, tutto per un ragazzo, fece male.
Fece male accettare che esistesse qualcuno che non avesse poi così tanto bisogno di quello che per Talia era fondamentale come l’ossigeno. Sminuì momentaneamente quegli ultimi quattro anni lì. Come faceva uno stupido fidanzato essere più importante di quello?
Non aveva mai avuto una relazione amorosa, lei. Come nessuna delle altre. Sol sesso rabbioso nel retro dei locali, solo con ragazze di cui non sapeva il nome. Per Artemide andava bene, limitarsi al contatto fisico. Andava bene, scaricare la tensione sui corpi sudati di ragazze brille con sorrisi invitanti. Andava bene, andarsene subito dopo senza lasciare traccia. Che poi, che se ne sarebbe fatta anche di quell’amore? Tutto quello che riceveva dalle Cacciatrici, da Jason, da Annabeth e Luke, era più che sufficiente. Bastava.
«Torna quando avrai cambiato idea, Silena.» Disse, glaciale.
«Allora mi sa che è proprio un addio, Talia
 
Eh no, dopo a stento due settimane da dall’ennesimo litigio con l’ennesima ragazza innamorata, quell’addio non era per niente definitivo.
Silena Beauregard la stava guardando convinta delle proprie idee da ragazzina in calore, accompagnata da quello che doveva essere il fantomatico Charlie. Non sapeva bene cosa si sarebbe aspettata, ma di certo non lui. Qualcuno con un soprannome come Charlie sarebbe dovuto essere decisamente più minuto, o basso, o meno grosso. Si era fatta l’idea di un biondino con il ciuffo mantenuto con una quantità scabrosa di gel, forse un po’ muscoloso, e la perenne espressione da costipato, che sarebbe dovuta apparire affascinante.
Invece, Charlie, era un ragazzone di colore, alto sul metro e novanta, con grandi occhi scuri, larghe spalle e mani callose, da lavoratore, forse fabbro. Talia se ne intendeva, che a furia di tendere la corda dell’arco anche le sue erano messe abbastanza male. La cosa che più non sopportò, era che le ispirò simpatia. Sembrava davvero un bravo ragazzo, per niente in linea con i suoi pensieri. Per niente in linea con l’altro.
La testa riccioluta di un ispanico che per sua immensa sfortuna conosceva, le fece collegare i puntini molto più velocemente.
Per la cronaca, i puntini uniti illustravano il disegno di un Leo Valdez riverso per terra, con una moltitudine di frecce che spuntavano dal petto.
 
“If my velocity starts to make you sweat
Then just don't let go
And if the heaven ain't got a vacancy
Then we just, then we just, then we just, then we just
Get up and go”
 
«… e così lei mi ha risposto che sono un’immatura, che quando avrò scoperto le “meraviglie dell’amore” la capirò, e blablabla…»
«Forse intendeva le “maniglie dell’amore”.» Suggerì Luke, in un fugace istinto suicida, vista l’occhiataccia che ricevette da parte di Talia.
«Passi troppo tempo con Percy.» Costatò Annabeth, sconsolata, pensando come la stupidità potesse essere così facilmente trasmettibile.
 L’altro alzò gli occhi al cielo, divertito. «Ma sei tu che te lo porti sempre appresso!»
«E che dovrei fare, lasciarlo abbandonato a se stesso in mezzo ad una strada?»
«Dèi, Annabeth, non è un cucciolo di cane!»
«Ehi, gente!» Esclamò Talia, facendo il segno del time-out con le mani. «Io starei qui a cercare di raccontare com’è andato lo scontro.»
«Finisce con un ispanico con un occhio nero, una Piper traumatizzata probabilmente a vita e  voi due che ve le date di santa ragione tirandovi capelli e schiaffi?» Chiese Luke disinteressato, stiracchiandosi sulla sedia.
«Ehm… in effetti…» All’improvviso Talia non aveva tanta voglia di continuare a parlare, o di guardare Annabeth negli occhi.
«Talia, non dirmi che hai picchiato Leo e Silena!» Quasi urlò Annabeth, scandalizzata, coprendosi la bocca con la mano.
«È stato lui a volersi immischiare e lei a rispondere!»
 
“Ladies and gentleman, truth
Is now acceptable fame
Is now injectable process the progress
This core is critical faith
Is unavailable lives
Become incredible now
Please understand that”
 

L’occhio nero di Leo era messo peggio di quello che Annabeth si aspettasse. Molto peggio. Si erano riuniti alla caffetteria “Mezzosangue”, a pochi metri da casa di Talia e Jason. L’ennesimo posto in cui Luke aveva lavorato per un periodo piuttosto breve della sua vita, per poi essere licenziato e in cui aveva rubato tutti i soldi dalla cassa per ripicca.  
Aveva avuto il posto grazie a Grover, che adesso guardava Frank confuso.
«Gelato senza lattosio?»
«Sì, per favore.»
Il cameriere si mosse a disagio, grattandosi i ricci castani con la penna che aveva in mano.
«Senti, amico, non siamo abbastanza all’avanguardia per il gelato senza lattosio.» Lo disse come se fosse strano anche solo pronunciarlo. Si sporse un po’ e abbassò drasticamente il tono di voce. «Ora che ci penso, tutto il gelato che abbiamo si limita ad una vaschetta al pistacchio scaduta due mesi fa.»
Dal colorito verdognolo che assunse la faccia di Frank, forse non era stata una mossa vincente dirglielo.
«Ah.» rispose infatti quest’ultimo, con le sopracciglia alzate fino all’attaccatura dei capelli. «Un caffè?» Lo tolse dall’impiccio Grover, prendendo il silenzio di Frank come un sì.
«Della carne surgelata farebbe comodo, qui.» Si lamentò Leo, indicando l’occhio tumefatto.
Grover lo guardò impietosito dal suo metro e cinquanta, dal lavoro sottopagato e dal grembiule arancione fluorescente. Certo che Leo era messo parecchio male.
«Talia Grace, vero?» Annuì, saputo. «Non impara mai.» 
Mentre Luke non poté trattenersi dallo sghignazzare – perché quel “non impara mai” comprendeva un ballo scolastico, un lento disastroso e probabilmente il peggior corteggiamento della storia – Jason lo guardò stranito, pensando probabilmente a quante cose sulla sorella fosse bellamente all’oscuro.
«Ma Percy dov’è?» Chiese ad un certo punto Luke, ripresosi egregiamente dal ridere.
Leo roteò gli occhi, annoiato, tamburellando le dita sul bordo della sedia. «A scuola ad allenarsi.»
Altri sbuffi a fare da coro a quella già divertentissima riunione. Anche essere l’unica femmina della situazione in quel momento era a suo sfavore, perché non si sarebbe potuta girare verso nessuno ed iniziare un’interessante discussione su come i maschi tendano a comunicare come se fossero nell’età della pietra. A volte anche a camminare, ingobbendosi e strascicando i piedi, come se non ci fossero stati millenni di evoluzione darwiana per permettergli di avere una posizione eretta. Oppure a mangiare, spalancando la bocca e masticando rumorosamente, manco fosse scotch, quello che avevano fra i denti.
O magari in realtà si stava svolgendo il processo inverso. L’essere umano, ormai completamente differente dai suoi antichi antenati primati, stava regredendo sempre di più, secolo dopo secolo, fino ad arrivare al punto di partenza, sotto forma di Australopiteco. Davanti alle quattro forme di vita vagamente scimmiesche che Annabeth si ritrovava davanti, ipotesi del genere erano più che legittime.
Trattenne la stupida idea di avvicinare gli occhi alle mani di Frank, che stava spargendo briciole di torta dappertutto, per vedere se già i suoi pollici opponibili stessero dando problemi. Avvicinarsi alla bocca di Leo per vedere se c’erano già segni di prognatismo o denti più grandi del normale, era escluso. Quel cupcake ai frutti di bosco era spiaccicato metà sulla sua guancia, l’altra metà a zonzo nei presi delle labbra.
Represse un versetto di disgusto, decisa ad essere un esempio di buone maniere a cui ispirarsi.  
«Andiamo a vedere come se la cava!» Esclamò poi Leo, alzandosi dalla sedia e prendendola per il braccio, trascinandola fuori dal locale.
Inutile dire che non si diede nemmeno la pena di pulirsi la crema violacea rimastagli sul mento.

 
“I can't slow down,
I won't be waiting fo
r you,
I can't stop now because I'm dancing”


 
Era tutta colpa di Nico che l’aveva fatto spaventare, che era andato a prendere Hazel, quindi forse la colpa era di quest’ultima. Ma lei era rimasta per dare una mano a Rachel al club del macabro – occulto, pardon – e la colpevolezza passava alla rossa isterica. Ma la suddetta aveva dovuto levare l’imbottitura dei peluche di quell’altro pazzo di manicomio, e la causa del guaio diventava Ottaviano. Per concludere, la colpa era di una certa Lou Ellen, una ragazza che si era diplomata due anni prima e che Leo non conosceva e che non c’entrava niente di niente, anzi, eccome se c’entrava, perché se non avesse voluto indire quel cavolo di club per trucchetti di magia di seconda mano, la serra non starebbe bruciando, no no. Neanche un po’. E non ci sarebbe una giardiniera furiosa che lo incolpava puntandogli la paletta al petto.
Che poi, da quando i fiori prendevano fuoco così facilmente?
Che poi, da quando Leo conosceva la strada per la serra della scuola?
Era esclusivamente per il club di giardinaggio – ma di chi era stata l’assurda idea di fare tutte quelle attività extra-curriculari così balorde, Dio, ci mancava solo il club dell’uncinetto – no, non del club di giardinaggio, delle presidentesse del sopracitato club. Già, presidentesse, al plurale. Era ben tre. Roba da matti, se solo Ottaviano avesse saputo che era possibile avere più presidenti in carica…
E davanti a lui si stagliava la più terribile, Calypso. Davvero, avrebbe preferito le Gardiner, addirittura insieme, ma non lei.
Il fatto che fosse così carina, e che fosse infuriata fino all’inverosimile, mandava Leo in tilt. Maledì ancora se stesso per la sua abitudine a perdere la testa appena una ragazza che arrivava anche solo leggermente sopra l’asticella del “decente”, incrociava il suo sguardo. Letteralmente. Se si doveva mettere in mezzo l’argomento, Chione era l’esempio più vergognoso e lampante…
Sentì un dolore sordo sul dorso della mano, e cacciò un urletto non proprio virile.
Era stato picchiato troppo spesso, da troppe ragazze e in troppi punti vulnerabili.
« Ahia! Lo sai che è male educazione picchiare le mani altrui con le palette da giardino?»
«E tu lo sai che è male educazione bruciare i fiori altrui?»
«Bruciare fiori?» Chiese fintamente innocente, facendo posare lo sguardo dappertutto tranne che sui vasetti dietro di lui. «Di quali fiori stai parlando?»
Con un ringhio gli diede degli scossoni alle spalle, facendolo girare di malavoglia a centoottanta gradi.
«Oh, perbacco!» Aggiunse poi, imbastendo un’aria di finto interessamento. «Di quei fiori.» Poteva ancora scorgere l’accendino che gli era volato di mano ed aveva acceso il primo fiore. Ma quello stronzo si era piegato verso quello del vasetto vicino, come a raccontargli un segreto all’orecchio, e quell’altro era stato fomentato a sua volta. Questo si era ripetuto per tutte le decine di vasi che stavano su quel carrellino.
«Perbacco sì!» Disse, o meglio urlò, Calypso. La forma del naso era vagamente familiare, ma davvero non sapeva dire dove già l’avesse visto. Anche le labbra avevano un ché di noto, ma c’era il vuoto cosmico in quel momento nei suoi pensieri.
«Le mie campanule! Ci abbiamo messo così tanto tempo a farle crescere!»
Doveva sentirsi in colpa? Perché non lo era, nemmeno un po’. Ma per compensare era davvero impaurito da cosa gli avrebbe potuto fare una psicopatica giardiniera in erba.
Dovrebbero allontanare certi soggetti dalla scuola, non fa bene ai primini, no no.
E neanche ai terzini, sicuramente.
Si poteva dire “terzini”?
«Valdez! Mi stai ascoltando?»
No.
Avrebbe potuto biascicare qualche scusa in cui nemmeno credeva, avrebbe potuto allontanarsi e magari ridere sopra quell’assurda situazione  con Jason e Piper, avrebbe potuto fare tante cose e dirne il doppio, ma evidentemente il suo cervello non voleva ascoltarlo – ma non doveva essere il contrario? Non doveva essere lui a non dar ascolto al suo cervello?
«Potrei darti una mano.»
Cosa?! Davvero, cervello? Una mano!
Quella insieme alla mano si sarebbe presa pure il braccio – a morsi.
Lei lo guardò spiazzata. Ha ha! 1-o per il grande Leo!
Per essere bella era bella, ma se solo non parlasse sarebbe perfetta. Forse non era proprio un pensiero corretto – pregò chiunque si trovasse in quel Posto Molto In Alto che Talia non venisse mai a sapere cosa aveva appena iniziato. Il suo essere femminista gli avrebbe procurato un altro occhio nero e un’altra occhiata impietosita del primo cameriere che incontrava.
«Benissimo.» Assottigliò così tanto le labbra da ricordare terribilmente la professoressa McGrannit di Harry Potter. Entrambe bisbetiche e con pericolosissime. Forse l’età non coincideva, ma Calypso sembrava una di quelle persone vecchie dentro, quindi il problema non si poneva.
«Dopodomani alle 17 qui.»
Sembrava, no, era un ordine. Gli si sarebbe potuta allagare casa, ma lei non avrebbe cambiato la data per niente al mondo. Era una di quella principessine sul pisello, una di quelle che si aspettavano tutto servito su un piatto d’argento – quel genere di persone da cui fuggiva da una vita, ma in cui continuava ad imbattersi. Il ricordo di Chione che bruciava come se fosse la prima volta.
Improvvisamente, dal non sopportarla passò all’odiarla, un nodo che si stava attorcigliando nel suo stomaco e che stava risalendo lentamente per la gola – avrebbe potuto sputarle ai piedi tutto il suo rancore?
«Perfetto.» Rispose solo, anche se di perfetto quella situazione non aveva proprio niente.
 
 “This planet's ours to defend
Ain't got no time to pretend
Don't fuck around, this is our last chance”
 
«Casa tua è troppo piccola per una festa.»
«Mh, in effetti hai ragione. Secondo te Piper accetterebbe di farla da lei?»
La seconda domanda era rivolta ad Annabeth, che era decisamente impegnata a fare ben altro. Tipo guardare gli altri componenti del club di nuoto che si tuffavano in piscina.
Certo che ce n’era di roba da guardare. Possibile che in tutta la squadra di nuoto, l’unico che conosceva era fra i meno muscolosi? Un’ingiustizia bella e buona.
«Quando ti arrapi sbavi.» Percy era abbastanza stizzito, anche per mettere un po’ di ironia in quella frase, la prima che lei gli avesse mai rivolto.
«Lo sai che quando dormi sbavi?» L’aveva chiesto davvero a titolo informativo, perché se fosse stata in lui e l’avesse saputo, non si sarebbe mai sognata di addormentarsi sul banco con altra gente a guardare di sfuggita mentre la professoressa era distratta.
Ma lei non si sarebbe addormentata in classe per principio, perché sarebbe stata una ben misera figura se la Dodds l’avesse scoperta.
«Io, ehm…» Neanche una frase di senso compiuto sapeva formulare, quello. A dodici anni compiuti.
«Comunque sono Annabeth.» Non aveva nessuna voglia di stringergli la stessa mano con cui si era asciugato la saliva ai bordi della bocca, quindi non tese la sua.
«Io Percy.» “Lo so” avrebbe voluto rispondere lei, ma avrebbe fatto la parte della saputella. Cosa dicevano Luke e Talia? Qualcosa riguardo a tenere a freno la lingua lunga e non far sentire degli idioti tutti i suoi interlocutori, perché altrimenti sarebbe rimasta senza amici e quando loro sarebbero stati vecchi avrebbe dovuto fargli da balia.
Da come si era presentato in classe, aveva capito che era come lei. Semplice, d’altronde, dato che aveva subito messo in chiaro – di fronte alla solita domanda sulla famiglia – che non conosceva suo padre e tanti saluti. Aveva pensato che sarebbe stato più facile fare amicizia con qualcuno che avesse problemi familiari simili ai suoi, invece di essere guardata con compatimento da tutti gli altri che avevano una felicissima famiglia.
Ma avrebbe dovuto saperlo, che più gli anni passavano più attirava casi umani con così tanti casini in famiglia da far venire mal di testa solo a pensarci.
«Non sono arrapata.» Rispose piccata, sentendosi come se l’avesse scoperta con le mani nella marmellata e dovesse assolutamente scusarsi. Ma non stava facendo niente! Al massimo la stava ammirando da lontano, la marmellata, ma di certo non avrebbe aperto il vasetto. Né tantomeno infilato la mano.
«Ragazzi, per poco non diventavo un delizioso sufflè alla Leo!» Una figura stava correndo a perdi fiato per il bordo della piscina al chiuso, rischiando di fare un bagno fuori programma.
Splash.
Beh, di certo l’aveva fatto fare al quel ragazzo biondo che fino ad un secondo prima si trovava davanti a lui.
«E perché, esattamente?» Chiese Luke con un sopracciglio alzato.
Dannazione, ma come faceva? Annabeth avrebbe tanto voluto saper alzare un sopracciglio anche lei, perché era una cosa terribilmente figa sia nei cartoni animati sia nella realtà, e avrebbe dato alle sue risposte argute un’aria ancora più arguta, appunto.
«Nico si è presentato di soppiatto alle mie spalle, ma io lo sto dicendo da anni che dobbiamo mettergli una campanella al collo, quel ragazzo è un pericolo pubbl- ma non è questo il punto! Beh, in realtà è uno dei punti, ma non il più importante. Comunque, mi ha fatto fare un volo dalle scale di dieci metri, lo giuro…»
Mentre continuava il suo racconto di mirabolanti avventure – dalla faccia di Luke si capiva che avrebbe preferito mangiarsi la lingua per tornare indietro nel tempo e prendersi a schiaffi da solo, prima di poter chiedere qualunque cosa a Leo – Percy era andato negli spogliatoi a cambiarsi, e stava appena tornando.
«E allora quella schizzata dice una cosa, ma io ne capisco un’altra e…» Il modo di parlare di Leo, mettendo troppe congiunzioni, troppe parole cambiate con il generico “cosa”, era allucinante.
«Chi sarebbe la schizzata in questione?» Chiese Annabeth, che aveva perso il filo del discorso da circa, diciamo, l’inizio.
«Calypso Nigh-qualcosa, penso. Non conosco il cognome.»
Percy spalancò gli occhi – la bocca e le braccia.
«Calypso?!» Aveva la voce strozzata. «Ė la presidentessa del club di giardinaggio?! Da quando? Con i capelli rossicci? Alta più o meno così?» Indicò un punto indefinito vicino al proprio orecchio.
« “Calypso” non mi sembra un nome molto comune, probabilmente nell’intera scuola solo lei si chiama così. Comunque sì, passione per le piante e tutto. Forse è un po’ più alta.»
«O forse sei tu troppo basso.» Considerò Luke, con un ghigno, guadagnandosi un pugno sul braccio da Annabeth.
«Pensi sia Calypso la tua ex delle medie?» Chiese quest’ultima a Percy, girandosi e facendo dondolare la coda bionda.
«Come ha detto Leo, non è che il suo nome sia molto comune…» Percy si grattò la testa, sovrappensiero.
«La tua cosa?»
«Ahhh, adesso mi ricordo!»
Dissero gli altri due all’unisono.
«La sua ex-ragazza» Spiegò Luke. «Più che alle medie, furono fidanzati l’estate fra le medie e le superiori. Non andò molto bene, mi pare. Percy probabilmente sbava anche quando bacia, e non solo quando dorme.»
«Ehi!» Il diretto interessato a quanto pareva l’aveva presa sul personale.
«Comunque devo darle una mano con le campanule dopodomani.» Disse Leo, lanciando un sguardo di vittoria a Percy, al quale non pareva importare granché.
«Buona fortuna, allora. Pensa che ne ho ancora una piantina sul davanzale, mamma la annaffia sempre.»
Ad Annabeth piacque pensare che il ringhio basso di gelosia fosse venuto da Leo, e non da lei.
 







Notes
Ma chi sarà la misteriosa ragazza di cui parlava Talia all’inizio del capitolo?
Finalmente è entrata in ballo anche la Caleo, e un pizzico di Percabeth! Sono curiosa di sapere se vi piacciono questi flashback. Anche perché non sono proprio bravissima ad inserirli. Insomma, sarebbe abbastanza bruttino scrivere “flashback” e poi metterlo, no? Ma d’altronde ho paura che vi sia venuto mal di testa a leggere tutto in corsivo – un paio di volte mi è capitato, quindi…
La caratterizzazione iniziale di Calypso com’è? Vi piace? O no? Oddio, dovrei riscrivere il capitolo, mi sa che è meglio.
Ma non mi sono scordata degli altri, non vi preoccupate – e chi si preoccupa, c’è ancora qualcosa che legge le note finale? – appariranno nel prossimo capitolo! E in quello dopo ancora, che dovrei scrivere, o almeno trovare un’idea.
Non sono neanche molto sicura sui dialoghi, abituata a scrivere One shot e Flash fic venivano leggermente glissati – sì, usiamo l’eufemismo del secolo!
La canzone “Planetary (Go!) è dei My Chemical Romance.
Come al solito, la vostra considerazione della storia e di come sta procedendo è importantissima per me! E per la mia autostima latente.
Un bacio
little_psycho ♥

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Capitolo 4
*** I'm going slightly mad ***


IV
I’m going slightly mad
 
“When the outside temperature rises
And the meaning is oh so clear
One thousand and one yellow daffodils
Begin to dance in front of you, oh dear
Are they trying to tell you something?”
 
Che ci facesse Leo Valdez nei pressi della serra, un luogo così pacifico e silenzioso, proprio non riusciva a capirlo. Probabilmente per rovinarne la tranquillità, dedusse.
Anche lui, esattamente, non sapeva perché fosse lì. Non avrebbe mai ammesso che si era perso, neanche sotto tortura. Due anni in quella scuola, e niente, il vuoto totale.
Stava per mettersi ad urlare e pestare i piedi come un bambino, perché, sul serio, dove accidenti si trovava?
«Ti sei perso?» Sì, cazzo, si era perso! Chi era l’idiota che stava interrompendo il suo momento di autocommiserazione?
«No!» Rispose con più enfasi del dovuto.
«A me pare proprio un “sì” lampeggiante al neon sopra la tua testa.»
Sbuffò, squadrando il biondino di fronte a lui. Era alto, con una zazzera di capelli biondi che Jason spostati, e un paio d’occhi azzurro intenso che, davvero, Jason vatti a fare un giro.
«Forse.» Concesse, perché aveva un sorriso davvero carino e perché Hazel lo stava aspettando.
«Dove dovresti ipoteticamente andare?»
«Al club dell’occulto.» Dopo l’occhiata stranita che l’altro gli aveva lanciato, specificò. «Non lo frequento io, ma mia sorella.»
Attimi di silenzio, che non era imbarazzante, era solo silenzio. Nessuno dei due che cercava di riempirlo, semplicemente se ne stavano là, a fissarsi, immobili come statue.
«Sei terribilmente fortunato, allora.»
Ma davvero? Era una delle cose più inesatte che qualcuno avesse mai detto su di lui.
«Anch’io devo andare lì per prendere una persona. Che coincidenza!»
Dopo averlo guardato attentamente, lo riconobbe.
«Aspetta, ma sei Will Solace! L’amico di Talia Grace.»
« “Amico” è una parola grossa. Diciamo solo che essendo il nipote del suo capo non vorrebbe vedermi infilzato da una freccia.»
«Conoscendola, è un grande risultato.»
Rise, guardandolo da sotto i riccioli biondi che gi coprivano la fronte. Diavolo, di quel passo avrebbero conquistato tutta la faccia, una versione californiana del Cugino Itt della Famiglia Addams. Se solo fossero stati più lisci e più scuri…
Aveva l’abitudine di paragonare ogni ragazzo che incontrava con Percy Jackson. Era più forte di lui. Semplicemente, mentre parlavano, nella sua mente l’immagine del interlocutore si fondeva con lui, e il confronto era inevitabile. Nessuno aveva gli occhi abbastanza verdi, nessuno faceva battute abbastanza demenziali, nessuno sorrideva in quel modo. Nessuno gli spezzava il cuore ogni volta che non lo guardava, nessuno l’aveva salvato dai bulli, solo lui.
Sarebbe stato sempre e solo lui, e Nico non ci avrebbe potuto fare niente. O voluto. Forse era quello il problema, la sottile differenza fra il poter fare e il voler fare.
Forse, per lui era più comodo galleggiare nel limbo di quell’amore impossibile, a tratti platonico, piuttosto che metterci una pietra sopra e andare avanti. Non poteva – eccola lì, di nuovo, il precipizio fra il potere e il volere – ammettere che gli piacevano i ragazzi.
Quel limbo in cui galleggia, lo proteggeva da ogni confronto. A lui non piacevano i maschi, no, a lui piaceva solo Percy, e se quell’amore sarebbe potuto sbiadire, avrebbe iniziato ad interessarsi alle ragazze.
 Sapeva che non era la verità, sapeva che erano solo bugie che facevano da barriera fra lui e la cruda realtà. La realtà che gli ricordava che  l’unico bacio che avesse mai dato, ad una ragazza di cui non ricordava manco il nome, a tredici anni, fosse stato decisamente orribile. Le sue labbra avevano un odore nauseabondo, ed erano tutte appiccicose.
 Lucidalabbra alla fragola, puah. Le labbra di Percy non sarebbero mai state così. Sarebbero state morbide, calde e la bocca avrebbe avuto un retrogusto di mirtilli, non di gomma alla menta neanche sputata. Le aveva sognate tanto quelle labbra, quella bocca, quel corpo, lui, così tanto che a volta era difficile distinguere il sogno dalla vita di tutti i giorni.
«A che stai pensando?»
Si erano incamminati per il corridoio, ma lui non se n’era proprio accorto, assorto com’era.
«A n-niente. Quindi, com’è essere il nipote di Artemide Papadopulous? »
 «Cresci con una non così sana paura dell’altro sesso. Non capirò mai come papà sia riuscito a sopravvivere fino all’età adulta.»
«Tuo padre…il dottor Apollo…aspetta, sono confuso.» Era abbastanza sicuro che i calcoli non tornassero.
Will rise – per quella che era la terza volta? Di certo Percy rideva molto di meno, si limitava a piccoli sorrisi luminosi… e la cosa stava degenerando, cazzo! – giocherellando con una fascetta che aveva sul polso.
«Mi stavo appunto chiedendo quando ci saresti arrivato. Vedi, papà prima di essere medico voleva sfondare nel mondo della musica, e per un certo periodo c’è anche riuscito. Ma comunque, il cognome “Papadopolous” non è qualcosa che la gente potesse apprezzare, o pronunciare. Quindi smise di usarlo. Poi sposò mamma e disse che non avrebbe inflitto quel cognome orripilante anche a suo figlio, così andò all’anagrafe e semplicemente lo fece cancellare.»
«Ed è legale?»
«Oh sì! Tantissime persone lo fanno.» Girò l’angolo del corridoio – ma era sempre lo stesso, o era un altro? – con una piroetta, e Nico fu costretto ad aumentare il passo per non perderlo di vista.
«Gentile da parte di tuo padre, evitarti quel cognome.» Considerò Nico, con un leggero affanno.
Il suo, di padre, neanche il cognome gli aveva dato. E se sua madre non fosse morta, probabilmente l’avrebbe visto una volta ogni sei mesi, visto l’enorme interesse che provava per la sua progenie. Per non parlare di Hazel, che praticamente era andata a cercarlo…
«Sicuro! Ti immagini all’appello? Ogni giorno risatine sotto i baffi e prese in giro!» Esclamò in tono drammatico, portandosi una mano alla fronte, nella migliore imitazione di una fanciulla dell’Ottocento in procinto di svenire.
Nico ridacchiò, divertito. «Dovresti fare recitazione. Sei una drama queen nata.»
«Dovresti vedere mio padre, allora! Che, pensandoci, è stato anche attore per un paio d’anni…»
C’era qualcosa che quell’uomo non avesse fatto?!
«Andiamo, non fare quella faccia! Semplicemente, segue il detto “impara l’arte… ehi, mi stai ascoltando?» Gli passò una mano davanti agli occhi sbarrati. «Terra chiama Nico.»
Finalmente anche lui decise di seguire lo sguardo dell’altro.
«Pensi che potremmo denunciarlo per atti osceni in luogo pubblico?»
Quei peluche l’avrebbero fatto senza remore, se solo non fossero stati spappolati.
«Aspetta, papà?!»

“You're missing that one final screw
You're simply not in the pink my dear
To be honest you haven't got a clue”
 
Jason Grace era carino quanto stupido.
Piper aveva partorito tale perla in quell’esatto momento, dopo che al suo “Sai, dovremmo uscire insieme solo noi due, qualche volta”, l’altro aveva risposto “Certo! Che ne dici domani in biblioteca? Dovrei proprio ripassare per il compito”.
O semplicemente non era interessato a lei. Perché francamente, dopo tutti gli sforzi che ci stava mettendo per farsi vedere come più di un’amica, quello era troppo.
Insomma, se avesse voluto invitarla da qualche parte, l’avrebbe già fatto. Invece, niente. Una landa desolata ricoperta da uscite di gruppo – sempre, ma proprio sempre,
dovevano starci tutti, ma che poi, perché erano così tanti? – e da “Secondo te, quante liquirizie entrano nel naso di Percy?”
Quindici, per la cronaca. Sei in una narice e nove in un’altra. Perché Percy Jackson avesse una narice più spaziosa dell’altra, lei non era assolutamente intenzionata a saperlo. Sarebbero stati problemi di Annabeth, in futuro. Se solo quei due prosciutti avessero capito che erano fatti per stare insieme, sfornare pargoli, e comprarsi la casa col giardino, che alla fine i cani piacciono tanto ai bambini e ci vuole spazio.
Ora che ci ragionava per bene – sì, vedere le proprie aspettative in fumo le dava tanto su cui riflettere – se magari qualcuno dei loro amici si fosse fidanzato, magari Jason avrebbe aperto gli occhi. E se magari uno dei loro amici si fosse messo insieme con qualcun altro del gruppo, nel biondo ottuso davanti a lei sarebbe potuta scattare qualche molla, e si sarebbe accorto che – ma guarda un po’! – Piper faceva proprio al caso suo.
Troppe speranze e troppi “magari”, in ogni caso.
Avrebbe tanto voluto avere il fascino di sua madre, la sua eleganza, il suo aspetto. Almeno se la ricordava così – affascinante elegante e bella – dall’ultima volta che l’aveva vista.
 Un mese prima? Non lo ricordavo con precisione. Era sempre in giro – Parigi, Londra, Milanoper sfilate, per promuovere la sua nuova linea di creme per il viso, per farsi una vacanza in qualche posto sperduto solo all’apparenza, ma in realtà pieno di paparazzi pronti a fotografare le sue curve perfette.  Giustamente doveva prendersi un attimo di respiro, dalla sua sfiancante vita, volta all’indossare abito firmati e al scordarsi completamente di avere una figlia sedicenne a cui mancava.
Ormai ci aveva fatto il callo, ad aspettarla davanti alla porta, per vedersi arrivare un SMS in cui si scusava del ritardo, che non sarebbe arrivata quel giorno, né quella settimana. A volte neanche quel mese.
Per fortuna, i suoi genitori catalizzavano tutta l’attenzione dei giornali, e quasi nessuno dei loro milioni di fan sapeva che in realtà avevano una figlia liceale.
Ne era davvero contenta. Non voleva che qualche impiccione la fotografasse in mezzo alla strada, che scrivesse a lettere cubitali che aveva “scovato” la figlia di Afrodite e Tristian McLean che usciva dal supermercato con i capelli sparati in tutte le direzioni e carica di  buste della spesa, e che si prolungasse sul fatto che non assomigliasse per niente alla leggendaria madre. Non aveva né i lunghi capelli biondo scuro, né le sue gambe slanciate e magre, per non parlare della pelle chiara.
Se anche avesse voluto entrare nel mondo dello spettacolo, con tutto il peso dei nomi dei suoi genitori, ne sarebbe rimasta schiacciata. Le avrebbero dato della raccomandata al primo vero ruolo, della viziata se ci fosse stato un litigio con qualcuno, che era stata abituata troppo bene se avesse deciso di rifiutare un contratto.
Era meglio rimanere nell’ombra, in un’omonima scuola pubblica – non in quella di ragazze di buona famiglia dove per poco non era finita anche Rachel –, con i suoi vestiti omologati comprati da H&M – non quelle camicette di seta che a volte suo padre le faceva trovare sul letto –  e i suoi capelli tagliati con le forbicine rosa dalla punta arrotondata – non dal parrucchiere italiano, l’unico che aveva il permesso di armeggiare con la chioma di sua madre.
A volte le ragazze erano cattive, certo, ma capitava a tutti di essere schermiti da gente più popolare. Di certo non avrebbe fatto saltare la sua “copertura” per un paio di ochette, urlando di essere la figlia di uno degli attori più richiesti del momento e della modella più famosa dell’ultimo decennio.
Solo perché non voleva quei capi costosissimi, non significava che dovesse mettersi la prima cosa trovata nell’armadio presa al mercatino delle pulci. Solo perché non voleva i capelli sempre perfetti, non significava che non potesse andare dal parrucchiere sotto casa per una spuntatina, ogni tanto.  Solo perché non voleva che i giornali la notassero in nessun modo, non significava che non potesse mettersi un filo di matita o fondotinta.
Non sapeva neanche lei perché continuasse così imperterrita a comportarsi in quella maniera. Forse voleva solo che sua madre le desse un’occhiata,
una volta tanto, e inorridisse davanti a quei capelli e a quelle felpone. Che borbottasse che così non andava bene e la portasse a fare shopping e alla SPA. Che le desse consigli di moda, che le chiedesse se ci fosse qualche ragazzo che le interessava, che si comportasse da mamma, ecco.
Si sentiva una bambina, a credere in quelle stupide fantasie, ma alla fine era il suo modo di tirare avanti. A fuori di ciocche asimmetriche e pantaloni a vita bassa fuori moda.
 
“I'm going slightly mad
I'm going slightly mad
It finally happened, happened”
 
Bello.
Bello come il sole.
 Di una bellezza assolutamente pulita, perfetta, ma non per quello noiosa. Non era un’ acerba alba che stava spuntando, né tantomeno un intrigante tramonto rossastro. No. Era il sole di mezzogiorno, quel momento in cui il cielo è azzurro e le nuvole così bianche e paffute da sembrare disegnate. Era il sole che ti faceva ballare puntini colorati davanti agli occhi se lo guardavi per troppo tempo, quello per cui dovevi socchiudere le palpebre, quello che in cinque minuti esatti ti scottava la pelle.
Quell’uomo doveva essere il sole, senza dubbio. Perché le stavano saltellando i puntini davanti agli occhi, quel sorriso era così seducente che aveva dovuto socchiudere le palpebre per non rimanerne accecata, e il suo sguardo le mandava scariche di fuoco per tutta l’epidermide.
Ancora non aveva aperto bocca, o forse la sua mente semplicemente procedeva per gradi. Prima metabolizzarlo tutto, poi decifrare cosa stava uscendo da quelle labbra così belle…
«Datti un contegno!» Le sussurrò biasimevole Hazel, dandole un pizzicotto sul braccio.

In effetti Hazel non sembrava catturata da quella visione paradisiaca, ma ci avrebbe scommesso qualunque cosa che quando era entrato anche i suoi occhi ambrati si era spalancati sorpresi.
Le dite le prudevano dalla voglia di prendere il suo block notes e disegnarlo. Già sapeva che quel naso greco sarebbe stato un’impresa non da poco, e quel sorriso… Avrebbe potuto ricreare quella magia su uno stupido pezzo di carta?
«E quindi è questo il club di dell’occulto!»
L’affascinante sconosciuto si era rivolto ad Ottaviano con un tono gioviale, guardandosi attorno attentamente.
Prese il mazzo che ti trovava sul tavolino, e si girò di nuovo verso lo spaventapasseri ambulante.
«Le sai leggere?»
Il ragazzo si fece tutto rosso, e bofonchiò qualcosa che doveva più o meno assomigliare ad un “No, melone”. O forse era signore, difficile dirlo.
Rachel si fece avanti quasi saltellando, con un sorriso che andava da un orecchio all’altro.
«Io sì.»
Ah, gioia immensa! Lo sguardo d’odio puro che Ottaviano le lanciò fu impagabile. Per non parlare di quello improvvisamente interessato dell’uomo.
«Oh, davvero? È fantastico! Sono un artista. Amo tutte le forme d’arte: disegno, musica, predizione del futuro, tiro con l’arco…»
«Il tiro con l’arco è una forma d’arte?» Chiese piano Hazel, con le sopracciglia corrucciate.
«Ma certo! Il movimento del braccio deve essere armonioso, come se si stesse ballan– vi ho detto che mi piace anche il ballo? Comunque, si devono avere grazia e un sangue freddo notevole, quando scocchi la freccia. Devi metterti anima e corpo per padroneggiarlo bene, le dita devono essere dure ma al contempo morbide.»
 Sventolò le sue leggermente callose come prova. «Ci ho impiegato dieci anni per carpirne tutti i segreti.»
Il modo in cui ne parlava, così preso, così appassionato…
«Ah.» Esordì Hazel, anche lei colpita dalla spiegazione.
Rachel, trovandosi sempre più in sintonia con quell’essere meraviglioso, annuì estasiata.
«Anche a me piace il disegno! Ho iniziato da piccola, e mi sono iscritta a tantissimo corsi per affinare la tecnica.» Indicò con il mento alle carte che ancora l’uomo stringeva in mano. «Quelle là le ho fatte io. Pensavo che essendo create da me avrei potuto decifrarle più facilmente.»
Gli occhi dell’altro brillarono. «Ed ha funzionato?»
«Sì! Mi sono resa conto che un mazzo estraneo mi bloccava la visione, come un muro. Mentre questo è stato l’effetto opposto. Mi ha creato un varco, un sentiero verso la più chiara interpretazione. Non mi sarei mai aspettata questo risultato!»
«Incredibile!» Sussurrò, più a se stesso che a Rachel.
«Io non ci ho mai pensato… Ho speso anni per abbattere il muro di cui parli, quando la soluzione era così vicina…»
Posò le carte con cautela, guardandole amorevolmente, e poi le strinse le mani. Una presa calda, forte e sicura.
«Sei una ragazza piena di talento!»
Probabilmente era un tutt’uno con i capelli.
«Sai anche suonare?» Chiese speranzoso, le guance rosse e gli occhi pieni d’aspettativa.
Si ricordò di quelle orribili lezioni di piano prese con quell’ancora più orribile professoressa tedesca. Era stata costretta da suo padre, perché “una ragazza dell’alta società deve saper suonare almeno uno strumento”.
Aveva otto anni ed era durate sei mesi a stento. Poi la professoressa aveva avuto una crisi di nervi per la sua mancanza di volontà e aveva sbraitato contro suo padre – per una volta non riuscendo a mantenere né il suo aplomb, né il severo chignon – che lei aveva una mentalità troppo grezza per riuscire a seguirla.
 Era stato uno dei momenti più belli della sua vita.
«Beh, so fare qualcosa al piano…» Rispose imbarazzata.
«Ma sono molto arrugginita! Mio padre mi costrinse da piccola, ma poi smisi…» Aggiunse frettolosamente.
«Costretta?! Oh no! Non si dovrebbe mai costringere qualcuno alla musica, lo si deve accompagnare attraverso i suoi campi melodiosi, aiutare durante la ripida salita della scala musicale... Ineccepibile!» Adesso un velo copriva i suoi occhi, e Rachel si sentì profondamente in colpa.
«Vorrei assolutamente cancellare dalla tua mente la brutta esperienza, se me lo permetti. Io faccio corsi di musica, e potresti venire a provare.» Si fermò un momento, poi continuò dolcemente. «Sempre se tu voglia.»
Ovvio che voleva! L’avrebbe seguito in capo al mondo, poco ma sicuro.
«C-certo! Mi farebbe piacere.»
Quel sorriso raggiante era così…paterno.
«Non vedo l’ora!» Si frugò nella tasca posteriore del jeans – Rachel dovette appellarsi a tutta la sua forza di volontà per non pensare cosa coprisse quelle tasche – e tirò fuori un bigliettino rettangolare, da visita.
 C’erano disegnati vari tipi di strumenti: chitarre, minuscoli pianoforte, violini, xilofoni, arpe, lire, cedre…
Lo sfondo era celestino con delle nuvole, e delle colonne greche di trovavano ai bordi del fogliettino, come a reggere il tutto.
Molto elaborato e d’impatto, poco ma sicuro.
«Ti piace? L’ho disegnato io. Un tempo facevo anche corsi di disegno ma sono molto più impegnativi… e come mi sarebbe rimasto il tempo per i turni all’ospedale?»
«Sei un dottore?» Hazel continuava a fare interventi leggermente a caso, sentendosi a disagio, il terzo incomodo ad un appuntamento a due. Ottaviano, poi, era proprio immobile, rosso in viso e con gli occhi lampeggianti. Di lì a poco avrebbe iniziato a uscirgli il fumo dalla orecchie.
L’uomo le rivolse l’ennesimo caldo sorriso. «Sì. Non si può campare solo d’arte a volte… Anche se devo ammettere che da ragazzo ci provai, e anche con un discreto successo.»
«Perché abbandonasti?» Hazel si sentiva molto più sicura di sé, adesso che si era quasi introdotta nel discorso.
«Volevo fare di più, presumo. Essere di più.»
Nonostante fino a quel momento tutte e due le ragazze avevano usato un confidenziale “tu” per rivolgersi allo sconosciuto senza nome, Hazel si rese conto in quel momento che alla fin fine non poteva avere meno di trent’anni. Avrebbe voluto usare il “lei”, ma sarebbe risultato strano cambiare di punto in bianco. E se poi si fosse offeso?
«Ma sei un musicista, un disegnatore, un medico, un arciere, leggi le carte… Non sono neanche sicura che si possano fare tutte queste cose in una sola vita!»
«Troppo gentile. Sono un essere volubile, purtroppo. Uno dei miei difetti peggiori.»
Poi si riscosse da quella malinconia in cui era caduto, e le fece l’occhiolino.
«Ma che dico, il mio unico difetto!»
Hazel ridacchiò. «Nessuno è perfetto.»
«Sono l’essere che più si avvicina alla perfezione!» Disse, imbastendo un finto tono ampolloso. Anche Rachel stavolta non riuscì a nascondere un sorriso.
«Nel tuo lungo e gratificante elenco delle mie superbe capacità, mia cara, hai però dimenticato una cosa: la poesia. Ah, no, forse due. Anche la recitazione.»
«La poesia?» Chiese scettica Rachel.
«Una delle più alte forma d’arte! Come ho fatto a dimenticarmene! Sono molto amante degli haiku in questo periodo. Sono stato da poco in Giappone per lavoro e…»
«Cosa?» Sussurrò Rachel all’orecchio di Hazel, visibilmente perplessa.
L’uomo si girò di scatto, indicandola con il dito, come se avesse compiuto una malefatta imperdonabile.
«Mi stai dicendo che non hai mai sentito parlare degli haiku?! Ma com’è possibile?!» Si rivolse verso Hazel. «Tu?» Chiese speranzoso.
«Ehm, no. Mi dispiace.»
«Per vostra informazione, è una poesia composta da tre versi, 17 sillabe seguendo lo schema 5/7/5 e solitamente parla di natura.»
Poi si strofinò le mani ed esclamò:«Allora sturatevi bene le orecchie ragazze mie, perché sentirete uno dei miei migliori haiku!»
«“Sturatevi” non è un’espressione molto poetica, però.» Obbiettò Hazel con un sorriso scanzonato.
«Sì che lo è! È una metafora!1 Indica che le vostre orecchie sono dei gabinetti, per colpa della robaccia che avranno sicuramente sentito prima di incontrare me!»
«Allen Ginsberg è considerato “robaccia”?» Si informò interessata Rachel.
«Ovviamente no2! Beh, allora non tutto quello che avete sentito fino ad ora è robaccia…»
«E Whitman?» Continuò Hazel, imperterrita.
«Ma se sparate tutti i nomi dei poeti importanti che conoscete è ovvio che non sono robaccia!» Si rivolse sarcastico ad una Rachel in procinto di parlare:«Stai per dire Rimbaud, vero?» 
«In realtà Baudelaire.» Si discolpò con una scrollata di spalle.
Alzò le braccia al cielo e probabilmente avrebbe iniziato un excursus sull’importanza della poesia, se Hazel non l’avesse interrotto.
«Allora quest’haiku? Adesso sono curiosa.»
Con un sorriso sicuro si schiarì la voce.
«Il vento soffia/I rami si spezzano/Natura va3»
«Dove?» Chiese Rachel, sentendosi un po’ stupida.
L’altro sembrò rimanerci male, aspettandosi probabilmente degli applausi.
«Che vuoi dire?»
«“Natura va”, ma dove?»
L’uomo sospirò. «È poesia. Non devi per forza comprenderla. La natura va, scorre libera, prosegue il suo corso.»
«Oh.»
L’uomo le diede un buffetto sulla testa – non avrebbe più guardato allo stesso modo in sua capelli – e disse:«Se vuoi posso darti anche qualche lezione di poesia!»
Il suono di uno strappo li fece girare tutti e tre in simultanea.
«Ma è ancora qui?» Sussurrò seccata Hazel a Rachel, che ridacchiò piano.
Le previsioni di Hazel si erano rivelate corrette, perché sembrava che gli stesse davvero uscendo il fumo dalle orecchie.
Anche gli occhi chiari erano iniettati di sangue e aveva un sorriso folle.
«Beh, che c’è, zio? Non vuoi vedere quanto sono bravo a leggere il futuro?»
«Zio? È completamente uscito fuori di testa.» Annunciò Rachel, supportata da Hazel.
«Forse ha delle allucinazioni.»
«Altro che allucinazioni, lui è allucinante.»
«Aspetta, papà?!»
La voce a cui apparteneva quest’ultima battuta non era altro che di Will, che faceva un’accoppiata insolita con il tenebroso Nico di Angelo.
«Papà.» Scandì Hazel lentamente, ripresasi dallo shock prima dell’amica.
«Sì, esatto! Papà!» Esclamò felice l’unico adulto nella stanza, e di conseguenza l’unico probabile “papà”. In realtà, se quell’appellativo fosse stato rivolto ad Ottaviano, Hazel ne sarebbe rimasta meno sorpresa.
«Papà.» Questa volta fu il turno di Rachel, con gli occhi verdi spalancati e la voce monocorde.
Insomma, aveva copulato – beh, ovvio che avesse copulato, nessuna si sarebbe fatta scappare quel marcantonio senza le dovute precauzioni – sì, dire preservativo le faceva strano, okay? – e aveva generato – tecnicamente la moglie l’aveva fatto, ma…oh no, mica aveva anche la moglie? – della prole.
Della prole che doveva avere la sua età, per inciso. Di conseguenza veniva spontaneo chiedersi: ma quanti aveva la sua nuovissima cotta?
«Papà?» Nico aveva un tono interrogativo, come se non avesse ancora collegato bene le due cose. Quanto voleva esserci Rachel al suo posto!
«Sì, gente, papà. Certo che siete proprio duri di comprendonio!»
Il “papà” guardò l’orologio sul suo polso e si scrocchiò le dita.
«Beh, William, ti aspettiamo per la cena!» Prese per il colletto della camicia Ottaviano e lo trascinò fuori dalla stanza. Arrivato allo stipite della porta si girò verso Rachel.
«Aspetto anche te in questi giorni!»
Poi sparì dalla visuale.
 
“I'm one card short of a full deck
I'm not quite the shilling
One wave short of a shipwreck
I'm not my usual top billing
I'm coming down with a fever”
 
«Perché non mi hai detto che tuo padre era così?» Urlò Rachel per la centesima volta contro il povero Will.
Si erano spostati in biblioteca da Piper e Jason, ma si sarebbero potuto anche trovare ad un funerale e il tono della rossa non sarebbe cambiato.
«Così come?»
«Così…così!» Cercò di spiegare Rachel, facendo mosse strane con le mani.
Piper ovviamente sapeva dove voleva andare a parare Rachel: così bello, così affascinante, così istruito… così perfetto.
Gli aveva parlato solo per pochi minuti un giorno, alla Freccia di Diana, ed era stato intenso, sicuramente.
Ma di certo non potevano andarlo a dire al figlio, che era in procinto di una crisi di nervi. 
Sorprendendo tutti i presenti, fu Nico a prendere la parola.
«Lascialo in pace, gli stai facendo scoppiare la testa!»
Stava parlando quel Nico di Angelo? Il tenebroso emo che lanciava occhiatacce a tutti? Quello con l’anello a forma di teschio e completamente vestito di nero?
Quel Nico di Angelo  si era rivolto con affetto nei confronti di un’altra persona al di fuori delle sue sorelle?
Beh, wow.






 








 
Notes
Volevo iniziare ad accennare a Piper, ma forse quell’excursus senza né capo né coda non è stato un’idea così brillante! Approfondirò l’argomento in seguito.
Ve lo dico da subito: shippo Rachel e Apollo. Niente da fare. Semidio avvisato mezzo salvato!
  1. Beh, almeno credo.
  2. In “L’oracolo nascosto” Apollo accenna alla Beat Generation, in maniera positiva. Di conseguenza ho voluto dare un piccolo tributo ad un movimento letterario che adoro.
  3. È tutta farina del mio sacco, giuro! Per le 17 sillabe – CONTATE – ho scoperto che in realtà dovrebbero essere “more”, ma non ho idea di cosa Wikipedia volesse dire, quindi perdonate la mia ignoranza e accettate questo coso.  
Come vi è sembrato Apollo? Too much? Ho aggiunto il disegno fra le sue passioni, anche perché essendo protettore delle arti insieme alle Muse, doveva esserci per forza! Dato che non sapevo come far avere a Rachel mistiche possessioni spiritiche, ho ripiegato sui cari vecchi e fidati tarocchi.
La canzone “I’m going slightly mad” è dei Queen.
Avevo già questo capitolo nel Word, ed ero indecisa se pubblicare, ma alla fine ho pensato che era meglio non far ammuffire roba nel computer. Avrei un paio di idee su come si dovrebbero svolgere in seguito le vicende, ma non sono sicura che valga la pena spenderci tempo ed energie…
Fatemi sapere che ve ne pare della storia!
Un bacio
little_psycho

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