Star Trek Universe Vol. III: L'ora più buia

di Parmandil
(/viewuser.php?uid=1094760)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Le strade si dividono ***
Capitolo 3: *** Riflessi oscuri ***
Capitolo 4: *** Kal Dano ***
Capitolo 5: *** Il mondo oceano ***
Capitolo 6: *** Immagine speculare ***
Capitolo 7: *** I Grigi, la Nordica e il Rettiliano ***
Capitolo 8: *** Il mondo oscuro ***
Capitolo 9: *** La testa del serpente ***
Capitolo 10: *** Sudore, lacrime e sangue ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Star Trek Universe Vol. III:

L’ora più buia

 

 

SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA.

QUESTI SONO I VIAGGI DELLA

NAVE STELLARE ENTERPRISE.

LA SUA MISSIONE È ESPLORARE

STRANI, NUOVI MONDI,

SCOPRIRE NUOVE FORME DI VITA

E NUOVE CIVILTÀ,

FINO AD ARRIVARE LÀ

DOVE NESSUNO È MAI GIUNTO PRIMA.

 

 

-Prologo:

Data stellare 2553.045

Luogo: Bajor

 

   Il convoglio umanitario si radunò nell’orbita di Bajor. Le grandi navi cargo di classe Emissary, Opaka e Shakaar erano scortate da vascelli più piccoli, molti dei quali costruiti per usi civili e riconvertiti in gran fretta al trasporto dei generi di prima necessità. Il governo bajoriano ne aveva acquistato la maggior parte, ma alcuni erano ancora proprietà privata. Speciali accordi di partnership permettevano ai cittadini più abbienti e generosi di unirsi all’operazione di soccorso. E grazie alle accorate prediche del clero bajoriano, molti avevano risposto. Quando le astronavi decollate da Bajor si unirono a quelle provenienti dai satelliti del pianeta, e dagli altri mondi del sistema bajoriano, ne risultò una flotta di tutto rispetto.

   «Attenzione, qui Capitano Tava Miel alla flotta di Jeraddo; correggete il vettore d’ingresso» disse la responsabile delle operazioni dalla nave ammiraglia. «Vi stiamo inviando il piano di volo, perché possiate uniformarvi al resto della flotta». Intorno a lei, gli ufficiali di plancia erano affaccendati in mille operazioni. Per la maggior parte erano anch’essi bajoriani, e come il Capitano portavano l’orecchino che ne sanciva la fede religiosa. C’erano anche membri di altre specie, compresi un paio di Umani. Pure loro indossavano l’orecchino; da quando Bajor era entrato nella Federazione, un secolo e mezzo prima, la religione dei Profeti si era ampiamente diffusa.

   «Quelli di Jeraddo sono sempre in ritardo» si lamentò il Primo Ufficiale, un Bajoriano dalla pelle scura e la testa rasata.

   «Non possiamo partire senza di loro, le pare?» fece il Capitano, conciliante. «Abbiamo bisogno di ogni nave, di ogni replicatore e di ogni anima volenterosa. La situazione su Angosia continua a peggiorare...» aggiunse, facendosi più seria.

   «Ci sono novità?» chiese il Primo Ufficiale.

   «Le anomalie hanno reso inabitabile un terzo del pianeta, gli sfollati sono più di un miliardo. Se il nostro convoglio non sarà lì nelle prossime 72 ore, sarà una catastrofe umanitaria» rispose il Capitano, corrucciata.

   «Se la Federazione distruggesse più Sfere, non saremmo messi così male» borbottò il Primo Ufficiale, scuotendo la testa.

   «Se i Tuteriani non le riempissero di civili, lo farebbe» rispose il Capitano, leggendo gli aggiornamenti olografici sul bracciolo della poltrona. «Ah, bene. La flotta di Jeraddo è quasi pronta» commentò, soddisfatta.

   «Speriamo solo che non si perdano per strada!» ridacchiò il Primo Ufficiale.

   «Più che i ritardatari, mi preoccupa il fatto che la nostra scorta sia ridotta all’osso» commentò l’Ufficiale Tattico.

   «Con la Flotta sovraesposta, non si poteva fare di meglio» sospirò il Capitano. «Seguiremo il piano di volo in formazione serrata. Terremo gli scudi alzati e resteremo sempre in contatto con le altre navi. E in caso di attacco...».

   «... che i Profeti ce la mandino buona» disse il Primo Ufficiale.

   «In caso di attacco, sapete tutti cosa fare. La scorta tratterrà il nemico, mentre i cargo torneranno qui, per rotte diverse. I Tuteriani non riusciranno a intercettarli tutti» disse il Capitano. «Tenente, ha trasmesso i piani di volo per il rientro, se le cose si mettessero male?» chiese all’Ufficiale Tattico.

   «Certo, Capitano. Ho appena informato quelli di Jeraddo» rispose questi, chino sul suo quadro comandi. «Confermano la ricezione».

   «Allora possiamo muoverci» disse il Capitano. «Dispiegate la flotta, lasciamo l’orbita. Che i Profeti veglino sul nostro viaggio» aggiunse, sfiorandosi l’orecchino. Non era mai stata molto praticante; quella era la prima volta che invocava i Profeti a una partenza, rifletté. Ma osservando il globo sfolgorante di Bajor che usciva dallo schermo, si sentì trafiggere dall’angoscia. Quanta gente da salvare, quanta disperazione da affrontare, prima di rivedere il suo mondo natale! Il sistema bajoriano aveva già accolto molti profughi e presto ne avrebbe ospitati ancora di più, in fuga da Angosia. Ma non poteva accogliere tutto il settore; presto avrebbe raggiunto il collasso. E allora sì che ci sarebbe voluto un miracolo.

   «Capitano, rilevo l’apertura del Tunnel Spaziale!» disse l’addetto ai sensori, meravigliato. «Ma non c’erano arrivi previsti dal Quadrante Gamma».

   «Forse New Bajor c’invia altri aiuti?» chiese il timoniere, speranzoso.

   «Non credo, tutte le navi promesse sono già qui» commentò il Primo Ufficiale, perplesso.

   «Sullo schermo» ordinò il Capitano, alzandosi. Davanti a lei comparve la girandola d’energia del Tunnel in apertura, dorata al centro e azzurra alle estremità. La sua religione insegnava che non era un semplice tunnel spaziale, come tanti nella Galassia: quello era il Tempio Celeste, sede dei Profeti, le benevole entità che vegliavano sul popolo bajoriano...

   Una vasta sagoma scura, di forma appiattita, si stagliò contro lo splendore del Tunnel Spaziale. Il Capitano vide che una nave federale, dalla vasta sezione a disco e le gondole sottili. L’astronave restò un attimo in controluce, nera sullo sfolgorio del Tunnel, e dopo la sua chiusura divenne quasi invisibile nel buio dello spazio. Ma il suo scafo ellittico eclissava le stelle. Mentre si avvicinava il Capitano cominciò a notarne i dettagli, finché riconobbe la configurazione. Rimase di stucco.

   «Capitano, quella è una classe Universe» mormorò l’addetto ai sensori, in tono reverente. «Non capisco. Ce ne sono pochissime e nessuna si trova nel Quadrante Gamma, in questo periodo».

   «Ci chiamano» disse l’addetto alle comunicazioni. «Capitano... è l’Enterprise» aggiunse, ancor più meravigliato.

   «Credevo fosse sulla Terra» commentò il Primo Ufficiale.

   «Lo credevo anch’io. Apriamo un canale» ordinò il Capitano, avvicinandosi allo schermo. Intrecciò le mani dietro la schiena e raddrizzò le spalle. Quella visita inaspettata la turbava. Non osava sperare che l’ammiraglia di Flotta fosse lì per scortarli: se la ragione era un’altra, ne sarebbe rimasta troppo delusa.

   «Enterprise a convoglio bajoriano; salve!» esordì il Capitano Chase, comparendo sullo schermo. Il Capitano Tava inarcò un sopracciglio. Aveva visto Chase due settimane prima, in oloconferenza, e come al solito il Capitano dell’Enterprise non aveva la barba. Adesso invece se l’era lasciata crescere, il che gli dava un’aria strana. O forse non era la barba; c’era qualcosa d’insolito nella sua espressione – un sorrisetto indecifrabile – e persino nella sua postura.

   «Capitano, la sua visita ci giunge inaspettata... per quanto gradita» precisò Tava. «Non sapevamo nemmeno che l’Enterprise fosse nel Quadrante Gamma. Quando ci siete andati? Deep Space Nine non ha rilevato il vostro ingresso».

   «Sarei lieto di fornirle i dettagli, ma... sono riservati, al momento» rispose Chase, con aria ammiccante. «Non se la prenda! Presto chiariremo tutto. Prima, però, vorrei conoscere il vostro carico e il piano di volo» aggiunse. C’era qualcosa di pressante, nella sua voce, che faceva apparire quella richiesta come un ordine.

   «Come? Questa è la missione Lacrime dei Profeti. Ne abbiamo parlato nell’ultima oloconferenza con l’Ammiraglio Falas. Lei era presente» rispose Tava, sempre più perplessa.

   «Sì, sì. Voglio solo averne conferma» si affrettò a spiegare Chase.

   «Perché, dovete scortarci?» chiese il Primo Ufficiale, accostandosi a sua volta. Tava gli fece segno di pazientare.

   «Non esattamente, ma ho facoltà di lasciare alcuni ufficiali della Sicurezza sulle vostre navi. Oltre a forniture e personale medico, naturalmente» aggiunse Chase.

   «Capitano, l’Enterprise è a distanza di teletrasporto» informò l’addetto ai sensori.

   Se un visitatore del sistema bajoriano fosse passato in quel momento, avrebbe assistito a un singolare rendezvous. Da un lato c’era il globo bianco-azzurro di Bajor. La sua orbita bassa era densa di piattaforme di difesa orbitale, mentre possenti generatori a terra potevano proiettare in qualunque momento uno Scudo Planetario. Nell’orbita alta, il convoglio umanitario era ormai pronto a partire, ma la sua nave di testa era fronteggiata dall’Enterprise. L’ammiraglia di flotta si era molto avvicinata, eclissando il sole bajoriano; il suo cono d’ombra avvolgeva la nave di Tava.

   «Capitano, l’Enterprise ci sta sondando» riferì l’addetto ai sensori. «Non solo noi; tutto il convoglio».

   «Non c’è bisogno di passarci al setaccio, Capitano. Le stiamo inviando quanto ha chiesto: carico, personale, piano di volo. Tutte le specifiche della missione» disse Tava, segnalando ai suoi di trasmettere.

   «Lo apprezzo molto. Deve scusare il mio Ufficiale Scientifico: le Intelligenze Artificiali talvolta sono troppo impazienti» disse Chase, accennando all’ufficiale alla sua sinistra. Era una donna asiatica, con i gradi da Tenente Comandante. Tava ricordò che i computer delle Universe erano ufficiali a tutti gli effetti. Potevano circolare per la nave in più copie simultaneamente, grazie ai proiettori olografici, e persino lasciarla con gli Emettitori Autonomi. Ma i Bajoriani preferivano che i computer restassero tali, e che fossero persone in carne e ossa a occuparsi di tutto. Perciò il ruolo degli ologrammi, sulle loro navi, era ridotto al minimo.

   «Capitano Chase, diceva che potrebbe fornirci delle guardie?» chiese Tava.

   «Sì, qualche squadra dei Corpi Speciali» annuì l’Umano, studiando i dati del convoglio sull’oloschermo della sua poltrona. «Sa come sono gli Angosiani» disse, leggendo la destinazione. «Un popolo fiero, con un penchant per i potenziamenti genetici. Tutto bene, finché le istituzioni reggono. Ma nel caos in cui si trovano ora, beh... i vostri volontari rischieranno grosso, quando si troveranno di fronte le bande di sciacalli» sospirò.

   «Temo di sì» ammise Tava. Era una triste realtà della Galassia che raramente i bisognosi mostrassero riconoscenza – o anche solo pietà – per i soccorritori. Molti volontari, trascinati dal fervore umanitario, si separavano dal gruppo e facevano una brutta fine, nei quartieri diroccati delle città abbandonate.

   «Abbassate gli scudi e dite alle altre navi di fare altrettanto» ordinò Tava. «Che tutti accolgano il personale dell’Enterprise».

   «Scudi abbassati. Le squadre dell’Enterprise sono in arrivo» riferì l’Ufficiale Tattico. «Un momento! Si trasportano nelle plance, nelle sale macchine, nelle armerie. E rilevo teletrasporti multipli dalle stive di carico. L’Enterprise ci sta sottraendo le scorte! Viveri, medicine, replicatori industriali... tutto!». Il Bajoriano strabuzzò gli occhi, incredulo. «Capitano, rilevo scontri a fuoco sulle nostre navi! Quelli dell’Enterprise ci attaccano!» disse con voce strozzata.

   In quell’attimo la plancia fu scossa e alcune consolle esplosero. L’Enterprise aveva aperto il fuoco a tradimento. I suoi raggi polaronici e i cannoni a impulso colpirono i punti deboli della nave bajoriana, lasciandola indifesa e alla deriva. Immediatamente passarono a quella dopo, e così via. Raffiche di siluri furono lanciate contro altre navi del convoglio: un siluro a ciascuna, per lasciarle danneggiate e poterle depredare con calma. Gli armamenti dell’Enterprise erano così formidabili, il suo attacco così inaspettato e furioso, che decine di navi furono messe fuori uso nei primi secondi. Le altre alzarono gli scudi e ruppero la formazione, precipitandosi verso Bajor. Le piattaforme difensive e lo Scudo Planetario offrivano una certa sicurezza, ma le navi bajoriane erano così pressate che un paio entrarono in collisione, finendo anch’esse in avaria. In quei caotici momenti, il panico si era diffuso a bordo e nessuno sapeva cosa fare. Persino le navi scorta ci misero un po’ a rendersi conto che l’attacco veniva dall’Enterprise, e quei secondi persi furono fatali, perché molte furono messe fuori combattimento.

   Tava fu gettata a terra dalla violenza degli scossoni. Quando si rialzò, la plancia era illuminata solo dalle basse luci dell’Allarme Rosso. C’era una fuga di gas dal soffitto e almeno un paio di ufficiali erano feriti dalle esplosioni delle consolle. Da ogni postazione ancora funzionante squillavano gli allarmi.

   «Capitano Chase, è impazzito?!» gemette Tava, rendendosi conto che le navi scorta rimaste non avrebbero retto a lungo il confronto con l’Enterprise. «Perché ci attacca? Siamo ufficiali della Flotta Stellare come lei e abbiamo civili a bordo!».

   «Io non riconosco l’autorità della vostra... Flotta Stellare» disse Chase con disprezzo. «Sono il Capitano della ISS Enterprise, della Flotta Imperiale, e reclamo il vostro carico come bottino di guerra. Il primo di molti» sorrise compiaciuto.

   Attorno a lui, la plancia si dissolse per poi riformarsi. Era una simulazione olografica, comprese Tava. La vera plancia era molto più oscura e inquietante. Al posto delle tre poltrone affiancate per il Capitano, il Primo Ufficiale e l’Ufficiale Scientifico ve n’era una sola, quella di Chase, simile a un trono. Tutti gli ufficiali portavano una vibro-lama in cintura e una mostrina raffigurante la Terra trafitta da un pugnale. Le uniformi femminili, inoltre, erano ridicolmente succinte: avevano profonde scollature e scoprivano il ventre. Ma nessuno, sulla nave bajoriana, era in vena d’ironia. Avevano riconosciuto il simbolo dell’Impero Terrestre, la dittatura che reggeva con pugno di ferro centinaia di pianeti nell’Universo dello Specchio.

   Tava scambiò un’occhiata disperata con l’Ufficiale Tattico. «Armi e scudi disattivati, motori in avaria» disse quest’ultimo, asciugandosi il sudore dalla fronte mentre leggeva i dati dalla consolle lampeggiante. «Siamo indifesi».

   «La Federazione non lascerà impunito questo vile atto di guerra» sibilò Tava.

   «La vostra Federazione ha altro a cui pensare; sta cadendo a pezzi!» ridacchiò una Trill dai lunghi capelli ramati, affiancandosi a Chase. Cercò di passargli un braccio intorno alla schiena, ma lui la respinse bruscamente, senza degnarla di uno sguardo.

   «Comando una classe Universe» disse Chase. «Le stelle non hanno mai visto una simile potenza. Che dovrei temere da voi?» chiese con freddezza. Accanto a lui, anche l’IA olografica si era trasformata. Il suo corpo era diventato una griglia informatica blu, percorsa da piccoli lampi bianchi che visualizzavano le sue attività di elaborazione. Gli occhi brillavano rossi.

   «Capitano, continuano a colpire le nostre navi» mormorò l’Ufficiale Tattico alle spalle di Tava. «Svuotano le stive, e poi... le distruggono». Lo spazio attorno a Bajor era ormai una distesa di relitti alla deriva, punteggiata da nuove esplosioni. Le squadre d’assalto dell’Enterprise erano richiamate a bordo subito prima che le navi saccheggiate fossero distrutte. I raggi polaronici e gli impulsi bifasici balenavano ovunque, mentre i siluri si abbattevano su ogni nave che osasse ancora resistere. Gli equipaggi correvano verso le navette e le capsule di salvataggio, o cercavano di teletrasportarsi su Bajor.

   «Siete un vigliacco e un criminale di guerra!» accusò Tava, fronteggiando il Chase dello Specchio. «Voi Imperiali non resterete impuniti... la Flotta Stellare vi darà la caccia per tutto il firmamento».

   «Ci conto, Capitano» sorrise Chase. «Così mostrerò la supremazia dell’Impero Terrestre sulla patetica Federazione. Sarà di esempio per entrambi gli Universi. Terra firma!» proclamò, levando il braccio nel saluto militare.

   La comunicazione era finita e Tava rimase a fissare l’ISS Enterprise, contornata di relitti. Richiamate a sé le squadre, aveva alzato gli scudi, proteggendosi dal fuoco delle navi scorta. Altri rinforzi erano in arrivo da Bajor, ma l’Enterprise non aveva più motivo di trattenersi. Lanciò un’ultima salva di siluri azzurrini e si proiettò nel corridoio di cavitazione quantica, svanendo dal sistema bajoriano.

   «Vengono verso di noi!» gridò l’Ufficiale Tattico.

   «Abbandonare la nave!» ordinò il Primo Ufficiale. Lui e gli altri si precipitarono verso il turboascensore, accalcandosi per entrare. Ogni volta che le porte stavano per chiudersi, quelli ancora in plancia le riaprivano, nel disperato tentativo di pigiarsi dentro. Ma era inutile, pensò il Capitano Tava, ancora in piedi davanti allo schermo: mancavano pochi secondi all’impatto. Si girò a guardare la morte in faccia. I siluri quantici, puntati dritti verso la plancia, l’abbagliarono con la loro luce. Forse era così nel Tempio Celeste, si disse la Bajoriana: solo luce e pace. L’attimo dopo la sua nave, il suo equipaggio e il suo stesso corpo furono annichiliti.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Le strade si dividono ***


-Capitolo 1: Le strade si dividono

Data stellare 2553.046

Luogo: Terra (Sol III)

 

   «Salve, amici olospettatori. Qui è Vaus Liin, che vi parla dall’Accademia della Flotta Stellare a San Francisco. Il Capitano Chase ha appena tenuto il suo controverso discorso ai cadetti, suscitando le reazioni già anticipate nei giorni scorsi». L’olocamera, che mostrava il giornalista in primo piano, allargò di molto l’inquadratura. Si alzò a mostrare il palazzo dell’Accademia e spaziò poi nei giardini circostanti, affollati di cadetti che protestavano.

   «Per chi non avesse seguito il Federal News in questi giorni – e sappiamo quanto sia difficile, con le anomalie – facciamo un breve riepilogo degli eventi» spiegò il giornalista. «Due giorni fa, l’Enterprise è tornata in orbita terrestre, richiamata dal Comando di Flotta. Al Capitano Chase era stato chiesto di tenere una conferenza all’Accademia, per riferire ai cadetti dei suoi incontri coi Tuteriani e i loro alleati. Era opinione del Comando che la sua esperienza potesse giovare agli ufficiali di domani.

   Ma la reazione delle associazioni studentesche è stata dura. I cadetti hanno firmato una petizione per chiedere che l’invito di Chase fosse cancellato, a causa delle sue posizioni oltranziste. Un istruttore dell’Accademia, che chiede di restare anonimo, ci ha ricordato poco fa che la petizione non era stata autorizzata dal Consiglio Accademico ed è perciò da considerarsi illegale. Il Capitano Chase, infatti, ha tenuto ugualmente il suo discorso. Ma molti cadetti lo hanno disertato e continuano tuttora le proteste. Anche fra i presenti in sala non è mancato chi ha fatto sentire il suo dissenso. Vi mostriamo ora alcuni estratti della conferenza».

   Su miliardi di oloschermi e di visori immersivi apparve l’immagine di Chase sul palco. Attorno a lui, seduti in poltrona a semicerchio, vi erano parecchi istruttori dell’Accademia. Chase parlava ad alta voce e il microfono amplificava le sue parole, perché fossero intese da tutti nel vasto salone ellittico. Ma nemmeno gli architetti dell’aula conferenze avevano previsto contestazioni così violente. I cadetti – che erano pochi, per un salone così grande – esibivano striscioni olografici e strillavano slogan come “teniamo i Discorsi d’Odio fuori dall’Accademia”. Molti di loro si dimenavano come ossessi e lanciavano insulti, i volti congestionati dalla rabbia. C’era chi si strappava i capelli, chi tempestava di pugni il seggio su cui sedeva, chi pestava i piedi in terra.

   «Intervistiamo ora il promotore della petizione: il cadetto Okuz, iscritto all’ultimo anno d’Accademia» disse il giornalista, e l’olocamera tornò a inquadrarlo. Accanto a lui c’era adesso un ragazzone grassoccio, con un accenno di barba. Era Umano, ma portava l’elaborato orecchino dei Bajoriani che simboleggiava la fede nei Profeti.

   «Mi dica, cadetto: come giustifica la sua iniziativa e le altre proteste?» chiese il reporter.

   «Io e i miei compagni d’Accademia riteniamo che siano le azioni di Chase a giudicarsi da sole» rispose prontamente il cadetto. «Quel guerrafondaio non dovrebbe neanche trovarsi nella Flotta Stellare. Noi riteniamo che Alexander Chase debba essere processato per Discorsi d’Odio, terrorismo psicologico e xenofobia. Accusando i Tuteriani d’essere causa della guerra, lui cerca di prolungarla. Oltre che d’ostacolare le indagini sul suo operato. È possibile che, a un anno dall’olocausto di Khitomer, quell’uomo sia ancora al comando dell’Enterprise? Siamo atterriti dall’incapacità della Flotta d’accertare le responsabilità di Chase nello scoppio della guerra e nella distruzione di Khitomer!». Nel parlare il giovane si era agitato sempre più, ma ora si sfiorò l’orecchino, cercando di calmarsi.

   «La ringrazio per la sua testimonianza» disse Liin. «E ora, amici spettatori, vi mostreremo le reazioni degli altri cadetti, per trasmettervi un quadro completo di questa giornata». La sua immagine svanì dagli oloschermi, lasciando il posto a un serrato repertorio di cadetti che dicevano la loro, o erano semplicemente filmati nel bel mezzo delle loro reazioni. Alcuni si dicevano scioccati e traumatizzati dalla visita di Chase.

   «Credevo che non avrei più visto nulla di terrificante come la distruzione di Khitomer, ma mi sbagliavo. Che i Discorsi d’Odio entrino nell’Accademia avrà conseguenze molto più gravi...».

   «Uno spettacolo grottesco. Il momento più assurdo è stato quando Chase ha detto che bisogna ricacciare i Tuteriani nel loro spazio. Mi sono sentita davvero in pericolo, al pensiero che quell’Umano comanda l’Enterprise, e tanti altri come me hanno avuto la stessa sensazione...».

   «Il problema non sono i Tuteriani, ma i guerrafondai come Chase! I loro discorsi xenofobi hanno creato il conflitto. Sono loro che obbligano i Costruttori di Sfere a difendersi! Viva i Costruttori!».

   «Diciamo le cose come stanno: a Chase non interessa la nostra sicurezza. A lui importa solo la Supremazia Umana nella Flotta Stellare...».

   «Come vedete, amici spettatori, i nostri ragazzi in uniforme si sono formati un’opinione critica e non temono di affermarla» concluse Vaus Liin, soddisfatto. «Ma coloro che non se la sono sentita di assistere alla conferenza hanno trovato rifugio negli Spazi Sicuri. Visitiamone uno!».

   Il giornalista e il cadetto grassoccio percorsero un viottolo di ghiaia bianca, contornato di siepi ben potate, ed entrarono in una delle strutture dell’Accademia, seguiti dal drone-olocamera che li filmava. Sbucarono in una sala vasta, divisa in settori da sporgenze nei muri poste a intervalli regolari. Lì si erano rifugiati molti cadetti, e parecchi c’erano ancora, sebbene la conferenza fosse conclusa. Il drone-olocamera, simile a una grossa libellula, ronzò in giro, per offrire agli spettatori varie inquadrature dello Spazio Sicuro. Sembrava l’interno di un asilo, con pareti color pastello, tavoli e sedie di plastica dai bordi smussati. I cadetti – tutti maggiorenni – potevano fare disegni, giocare con pupazzi e plastilina, guardare video di cuccioli. Alcuni parlavano dei loro “disagi” e “sofferenze psicologiche” con rinomati Consiglieri. Tutte queste attività erano condite da musichette rilassanti emesse dagli altoparlanti, vere ninne-nanne.

   «Usate spesso questi spazi?» chiese il reporter.

   «Certo!» rispose Okuz. «Gli Spazi Sicuri sono essenziali per creare un clima di comprensione e dialogo. Non credo sia possibile liberarsi dai pregiudizi militaristi e umano-centrici senza trascorrere del tempo qui dentro. Voglio dire, non mi fiderei mai di un ufficiale della Flotta che non li abbia frequentati... come Chase, ad esempio. Quand’era cadetto lui erano meno diffusi, ma ho sentito che non c’è mai entrato, neanche una volta. Da pazzi! Ci credo che è mentalmente instabile» sospirò, giocherellando con un pezzo di plastilina colorata.

   «Bene, con questo ci avviamo alla conclusione del nostro servizio» disse Vaus Liin. «C’è un’ultima dichiarazione che vuol fare, per riassumere il senso di questa giornata?».

   «Certo. Tutti gli abitanti della Federazione devono ignorare chi, come Chase, cerca di diffondere la paura» dichiarò Okuz, fissando dritto nella telecamera. «Perché la paura porta all’odio, alle divisioni, e ci rende i peggiori nemici di noi stessi. Ecco perché diciamo no alla paura, no all’odio!» gridò, attirando l’attenzione degli altri cadetti in sala, che subito gli si raccolsero attorno. «Diciamo alla pace, all’amore!» proseguì Okuz, battendo le mani e muovendo qualche passo di danza. I suoi compagni lo imitarono prontamente, improvvisando una coreografia.

   «No alla paura, no all’odio! Sì alla pace, sì all’amore!» urlarono in coro, dimenando le braccia come polpi ubriachi.

   «Bravi, così! Sapete che mi è venuto in mente? Organizzeremo un grande ballo collettivo, nei giardini dell’Accademia, per esprimere la nostra contrarietà alla guerra!» gongolò Okuz. Era visibilmente emozionato e inorgoglito da questa sua pensata. «Lei ci sarà, vero? A filmarci col drone. Tutta la Federazione deve vederci, è importante!» disse in tono perentorio.

   «Certo, con molto piacere» sorrise Liin. «Come vedete, amici spettatori, l’Accademia della Flotta Stellare è ancora un luogo sano, capace di produrre valori positivi. Da Vaus Liin è tutto, arrivederci al prossimo servizio».

 

   L’Enterprise era in orbita geostazionaria su San Francisco. Navette cargo e Work Bee l’attorniavano come uno sciame d’insetti attorno a un pachiderma. L’ammiraglia doveva essere rifornita un po’ di tutto. C’erano piccole riparazioni in corso e anche parte del personale sarebbe stato sostituito. All’interno la frenesia era anche maggiore; squadre tecniche si aggiravano per ogni dove, trasportando materiali e sostituendo le parti logore o danneggiate. Era da un anno che l’astronave non era tanto affollata: da quando l’inasprirsi della guerra aveva indotto quasi tutti i civili ad abbandonarla. Da allora l’Enterprise sembrava vuota, triste e persino un po’ sinistra: i quartieri civili erano deserti, le aree ricreative fuori servizio. Terry, l’Intelligenza Artificiale di bordo, vi teneva spente le luci, a meno che qualcuno dell’equipaggio passasse di lì. Anche così, c’era qualcosa di spettrale nel vedere le luci che si accendevano al proprio passaggio, solo per spegnersi alle spalle, facendo ripiombare interi ponti nel buio. Molti marinai sostenevano di sentire strani echi, che li rendevano nervosi e irritabili. Solo l’impegno costante del Capitano e degli ufficiali superori manteneva la disciplina a bordo.

   «A che si deve questa convocazione urgente?» chiese il dottor Korris, incrociando l’Ingegnere Capo Grenk in un corridoio. Tutti e due si dirigevano in sala tattica di gran carriera.

   «E lo chiede a me? Che ne so?» grugnì il Tellarita. «Sono stato convocato un attimo fa, come lei».

   «Lo sapevo che non saremmo rimasti a lungo sulla Terra» sospirò Korris. «Chissà dove ci chiameranno stavolta. Forse verso il confine romulano. Ultimamente c’è un gran trambusto da quelle parti, vero?».

   «C’è casino dappertutto, ultimamente» bofonchiò Grenk, richiamando il turboascensore con le dita tozze e pelose.

   «Beh, non qui sulla Terra» commentò Korris. «Qui sembra che la vita non sia cambiata».

   «Non ancora» disse Grenk, cupo. Lui e il dottore entrarono nel turboascensore e rimasero in silenzio per il resto del tragitto verso la sala tattica.

 

   «Lieto di rivedervi» disse il Capitano Chase in tono sbrigativo, quando furono tutti riuniti.

   «Capitano, com’è andata la conferenza?» chiese Korris. Se ne pentì immediatamente.

   «Non siamo qui per quella» rispose Chase, fulminandolo con lo sguardo. «Poche ore fa c’è stato un attacco contro il convoglio umanitario in partenza da Bajor. Sapete, quello che avrebbe dovuto soccorrere gli Angosiani. Le navi sono state saccheggiate e distrutte. Molte imbarcavano volontari civili. Si contano diecimila morti ed è solo una stima provvisoria. Il risultato è che Bajor ha chiuso le frontiere e non autorizzerà più missioni del genere, se la Flotta non garantisce di scortarle a dovere. E in ogni caso non possiamo più aspettarci che i Bajoriani siano così soccorrevoli, dopo questa catastrofe. Intanto Angosia III continua a essere flagellata e i suoi abitanti muoiono a milioni» concluse, il volto duro come pietra.

   «Quindi andremo noi ad Angosia?» chiese Korris, presagendo la peggior catastrofe umanitaria della sua carriera. L’Enterprise era spaziosa, ora che i civili l’avevano abbandonata in massa. Ma non poteva evacuare un intero pianeta, o anche solo una grande città.

   «No» disse Chase inaspettatamente. «Il Capitano Foley sta conducendo una task-force in zona. Cercheranno di distruggere qualche Sfera, per dare tregua ad Angosia, mentre aspettano l’arrivo di un nuovo convoglio umanitario. La nostra missione sarà diversa».

   «Andremo a caccia dei bastardi che hanno attaccato il convoglio?» chiese Lantora, l’Ufficiale Tattico.

   «Precisamente; il nemico deve sapere che un simile attacco non resterà impunito» annuì Chase. L’Umano e lo Xindi si scambiarono un’occhiata d’intesa. Condividevano la stessa, feroce determinazione. «Inoltre serve una classe Universe per questa particolare minaccia» aggiunse Chase.

   «Perché, chi li ha attaccati?» volle sapere Lantora. «Tuteriani, Krenim o una forza congiunta?».

   «Né gli uni né gli altri» rispose il Capitano, suscitando ancora più sorpresa. Un mormorio nervoso corse tutt’attorno alla tavola rotonda.

   «Vuol dire che c’è una nuova fazione?» chiese lentamente lo Xindi. «Qualche pianeta-canaglia, forse?».

   «Direi di no» rispose Chase. C’era un’estrema gravità in lui, ma sembrava stranamente reticente a vuotare il sacco. Digitò alcuni comandi sull’interfaccia LCARS davanti a lui. «Questa registrazione è stata fatta da una nave del convoglio attaccato. Ci è giunta pochi minuti fa» disse.

   Gli ufficiali trattennero il fiato mentre l’oloproiettore al centro del tavolo si attivava. E videro l’Enterprise-J che apriva il fuoco contro le navi bajoriane, distruggendole una dopo l’altra. Il gelo scese in sala. La scena durò mezzo minuto, poi l’Enterprise sparò verso la nave che effettuava le riprese. L’immagine crepitò, si distorse e infine svanì. Le luci, che si erano abbassate durante la proiezione, tornarono al livello consueto. I presenti si guardarono l’un l’altro, frastornati. Ciascuno sperava di aver avuto le traveggole, ma leggeva negli occhi altrui che non era così.

   «Era un’altra nave di classe Universe, o...» cominciò Ilia Dax, il Primo Ufficiale.

   «No, era proprio l’Enterprise» sospirò Chase.

   «Le mie analisi del filmato lo confermano» aggiunse Terry. «Il nome e il numero di registro sono i miei». Richiamò un fotogramma della registrazione e zoomò sulla parte dello scafo in cui campeggiava il nome Enterprise. La ripulì dai disturbi con qualche algoritmo, aumentando il dettaglio, finché la scritta divenne inequivocabile.

   «Ma è assurdo!» esplose Lantora. «Negli ultimi due giorni siamo rimasti in orbita terrestre. E c’è sempre stato un via vai di personale da qui alla superficie. Nessuno ha rubato l’Enterprise!».

   «Tecnologia olografica» disse Ilia. «Quella nave è equipaggiata con proiettori che le permettono di assumere l’aspetto voluto. Così può ingannarci e metterci uno contro l’altro. Ricordo che i Romulani fecero qualcosa del genere, quattrocento anni fa».

   «Anch’io in un primo momento ho formulato quest’ipotesi, ma l’analisi dettagliata del filmato mi porta a escluderla» intervenne Terry, con quella prontezza che era preziosa per la nave, ma talvolta molesta per i colleghi. «La nave attaccante ha sfoggiato un armamento che corrisponde perfettamente al nostro. Non può essere un’altra nave camuffata».

   «Ma allora che diavolo...» cominciò Lantora, grattandosi la tempia. Si bloccò e si girò con lentezza verso Grenk e T’Vala, che fino a quel momento erano rimasti silenziosi. Nel caso del Tellarita, era un fenomeno più unico che raro. L’Ingegnere Capo si fissava le mani raccolte in grembo e non sembrava intenzionato a dire alcunché.

   «L’attacco al convoglio ha una sola spiegazione logica» disse T’Vala, rivolgendosi al Capitano. «Quella nave è l’ISS Enterprise, che io e Grenk visitammo l’anno scorso, nell’Universo dello Specchio. Evidentemente non è stata distrutta». Nella sala tattica scese un silenzio di tomba.

   «Ho letto i vostri rapporti» disse infine Chase. «E ricordo i vostri alter-ego dello Specchio. Mi basta per sapere in che pericolo si trova la Federazione. Se l’Impero Terrestre ha scoperto come trasferire le sue forze nel nostro universo, ci troviamo di fronte a una minaccia senza precedenti. Un nemico con le nostre stesse tecnologie, ma animato da una brutale volontà di conquista. Non mi stupirebbe se il mio... doppione dello Specchio si alleasse coi Tuteriani, per approfittare del caos in cui versa la Federazione» ammise sconfortato.

   «Sappiamo come hanno raggiunto il nostro universo?» chiese Grenk, riscuotendosi. «Io e T’Vala sfruttammo il Tunnel Spaziale per tornare qui. Se l’ISS Enterprise ha attaccato presso Bajor, immagino che abbia fatto lo stesso».

   «Sì, nei rapporti si afferma chiaramente che la nave è uscita dal Tunnel» confermò Chase. «Per questo la Flotta Stellare ha deciso di minarlo. Niente deve più entrare o uscire da lì, finché la crisi non sarà risolta».

   «Minare il Tunnel Spaziale?! Ma l’ultima volta è stato fatto...» cominciò Korris.

   «... nella Guerra del Dominio, centottanta anni fa» concluse il Capitano. «Conosco la storia. Ora se ne stanno occupando i Bajoriani, con l’aiuto di Cardassiani e Ferengi».

   «Spero che le mine non siano di fabbricazione Ferengi, altrimenti potrebbero non esplodere. I nostri amici dalle grandi orecchie dicono che sono troppo costose per sprecarle così» commentò Lantora, sarcastico.

   «Oltre a quelle, ci saranno anche piattaforme difensive» disse Chase, ignorando il commento. «Qualunque cosa esca, sarà distrutta all’istante. Naturalmente hanno spedito boe d’avvertimento dall’altra parte del Tunnel, per evitare che qualche nave del Quadrante Gamma faccia una brutta fine».

   «Non possono isolare New Bajor a lungo» mormorò Korris, preoccupato. «Sarebbe una tentazione troppo forte per il Dominio».

   «Ogni cosa a suo tempo» tagliò corto Chase. «La nostra missione è dare la caccia all’ISS Enterprise, prima che faccia altri danni. Siamo autorizzati a distruggerla».

   «Non sarà facile da trovare» ammise Lantora. «Ha l’occultamento, vero?».

   «Sì, ma non saprei dire se sia avanzato come il nostro» rispose Grenk. «Quand’ero a bordo non ho avuto tempo di studiare tutti i sistemi».

   «Capitano, anche se riuscissimo a scovare l’Enterprise dello Specchio, resta il fatto che abbiamo la stessa potenza di fuoco» fece notare T’Vala. «La logica dice che otterremo solo di annientarci a vicenda».

   «Spero che la nostra maggiore conoscenza del territorio e delle anomalie ci darà un vantaggio» rispose Chase. «Ma sì, è una sfida dura. Chiederò al Comando di Flotta di fornirci qualche nave di supporto, prima della partenza... ma non contateci troppo».

   Il Capitano si alzò, imitato dai suoi ufficiali. «Tutti ai propri posti, ora. L’Enterprise lascerà l’orbita terrestre fra dodici ore».

 

   «Frell, questa non ci voleva!» imprecò Grenk, entrando come una furia nell’hangar 5.

   «Che succede, capo?» chiese un giovane ingegnere Umano. Lui e i Bynari, gli alieni dediti alla matematica che lavoravano sempre in coppia, erano affaccendati intorno alla Phoenix. Quel prototipo di navetta temporale era il progetto più ambizioso di Grenk: vi si era dedicato prima su Plutone, per conto della Sezione 31, e poi sull’Enterprise. Era stato un incidente di collaudo con quella navetta a spedire lui e T’Vala nell’Universo dello Specchio.

   «Succede che fra meno di dodici ore saremo nello spazio profondo, diretti verso la missione più pericolosa!» sbottò Grenk. «Possiamo scordarci il nuovo test».

   «Ma capo, è assurdo!» protestò l’Umano. «Qui è tutto pronto, possiamo fare il test anche adesso!».

   «Mi hai sentito? L’Enterprise sta per partire e il Capitano non autorizzerà un’altra prova in un momento così concitato».

   «Signore, lavoro con lei alla navetta da un anno, e sono stati sempre momenti concitati» protestò il giovane. «Un giorno sono i Tuteriani, un altro i Krenim, un altro ancora le anomalie. Se ci fermiamo ogni volta, non progrediremo mai. Ma dobbiamo farlo, perché i nostri nemici sono terribilmente avanti nello studio del tempo. Possiamo distruggere Sfere ogni giorno, ma non servirà a niente, se non li battiamo sul loro terreno. Questo progetto... questa navetta... è la risorsa più importante della Flotta Stellare. Lei lo sa, signore; l’ha costruita. Ed è il momento del test decisivo. Andremo indietro nel tempo non di qualche misero minuto, ma di secoli! Mi faccia condurre il test, signore» disse, quasi supplicando. «Non la deluderò, quant’è vero che mi chiamo Berlinghoff Rasmussen!».

   «Giovanotto, ammiro il tuo entusiasmo» sospirò Grenk. «Anch’io mi sentivo così, un anno fa. Ma il mio primo volo è stato un disastro. Se non fossi finito sull’Enterprise dello Specchio, quella maledetta nave non mi avrebbe seguito fin qui. E ora non saccheggerebbe i nostri convogli!» disse, quasi urlando.

   «Oh, questo è... sconveniente» ammise Rasmussen. «Ma è una ragione più per acquisire il vantaggio tecnologico. La Phoenix ci permetterà di sapere in anticipo dove passerà l’altra Enterprise e di aspettarla al varco. Mi faccia condurre quel test! Posso partire immediatamente e tornare... ancor prima di essermene andato!» disse, esaltandosi.

   «Niente da fare. Non farò più esperimenti improvvisati, l’ho promesso al Capitano» disse Grenk, scuotendo la grossa testa porcina. «Ora fa’ il bravo e spegni il nucleo temporale. I Bynari ti aiuteranno».

   «Sì, signore... mi scusi» disse Rasmussen, mortificato.

   «Io vado in sala macchine; appena finite raggiungetemi lì. C’è molto da fare, se vogliamo partire in orario» disse il Tellarita. «E mi raccomando, sigillate quest’hangar! Nessuno deve metterci piede, finché la caccia all’altra Enterprise non sarà conclusa».

   «Agli ordini…».

   «… signore». Come di consueto, i Bynari si completavano le frasi. Quando Grenk fu uscito, entrarono nella piccola navetta, simile a un cristallo dai riflessi iridescenti. Rasmussen li seguì, meditabondo. Restò a osservarli da dietro, mentre i piccoli alieni dai testoni calvi parlottavano fra loro e armeggiavano con i comandi. Un piano disperato stava prendendo forma nella sua mente. Da un lato lo spaventava, ma dall’altro era elettrizzante.

   «Mi occupo io del nucleo temporale» disse, aprendo uno scomparto sul pavimento. «Potete passarmi la chiave isolineare? E anche un misuratore di tachioni, per cortesia. Voglio fare un’ultima scansione, prima di mettere a nanna la Phoenix» aggiunse.

   «Subito» dissero in coro i Bynari, uscendo dalla navetta. Rasmussen sapeva che, per prendere gli strumenti richiesti, avrebbero dovuto raggiungere i container dalla parte opposta dell’hangar. Ciò gli dava quei pochi secondi che gli erano necessari. Richiuse il pannello sul pavimento e si fiondò al posto del pilota. Attivati i comandi olografici, per prima cosa chiuse la porta sul retro della navetta.

   Il sibilo attirò l’attenzione dei Bynari. Gli alieni si voltarono, con movimenti sincronizzati, e capirono cosa stava per succedere. Si precipitarono verso la Phoenix, ma era troppo tardi. Rasmussen aveva avviato la sequenza di lancio e la navetta temporale era chiusa ermeticamente.

   «Bynari a Rasmussen...».

   «... si fermi immediatamente!» dissero gli alieni, premendosi i comunicatori. Non ebbero risposta. Dentro la Phoenix il loro collega, con la fronte sudata, stava digitando la sequenza finale.

   «E fu così che Berlinghoff Rasmussen entrò nella Storia!» mormorò. «Quattro secoli nel passato... vedrò l’alba della Federazione».

   «Attenzione, il nucleo temporale ha raggiunto il potenziale di cascata» avvertì il computer di bordo.

   «S-spero solo che, dopo essere entrato nella Storia, riuscirò anche a uscirne!» balbettò Rasmussen. Chiuse gli occhi e premette l’avvio. La Phoenix si dissolse davanti agli occhi dei Bynari.

   «Umani... sono incorreggibili» disse il Bynario 0.

   «Le conseguenze possono essere gravissime» aggiunse il Bynario 1.

   Restarono in silenzio per parecchi secondi, fissando il punto in cui era svanita la Phoenix.

   «Non c’è ragione per cui non debba impostare il ritorno a pochi secondi dopo la partenza» commentò 0.

   «Concordo» annuì 1.

   «Il suo ritardo mi fa ipotizzare che abbia incontrato delle difficoltà».

   «Concordo».

   «Dobbiamo considerare l’eventualità che il nostro collega non torni mai più».

   «Concordo anche su questo».

   «Dovresti informare l’Ingegnere Capo di questo sfortunato evento».

   «Non concordo. Vacci tu!» disse 1. Il suo gregario lo guardò meravigliato: era rarissimo che i loro pensieri non fossero allineati. In quella la Phoenix riapparve. I Bynari emisero un sospiro di sollievo, il massimo consentito alla loro specie, aliena alle emozioni violente.

   «Radiazioni tachioniche nella norma» commentò 0, analizzandola con il suo strumento.

   «Lo scafo non mostra segni di cedimento» aggiunse 1, studiando la superficie di tritanio plastificato.

   «Entriamo, allora». Il Bynario 0 posò la mano sulla griglia azzurra del lettore di DNA, sul retro della navetta. Riconoscendolo, il computer materializzò l’ingresso al centro della sezione esagonale.

   «Oh, questo è... sconveniente» disse 0, scrutando all’interno della navetta.

   «Molto sconveniente» gli fece eco 1. Perché la Phoenix, di ritorno dal suo viaggio nel tempo, era vuota.

 

   «È assurdo! Non potete togliermi il Primo Ufficiale e l’Ufficiale Tattico, alla vigilia della battaglia con l’altra Enterprise!» protestò Chase. Si aggirava nel suo ufficio come un leone in gabbia, quasi ignorando l’Ammiraglio Nelscott, seduto sul divanetto.

   «Non è una decisione presa alla leggera, Alexander» disse l’Ammiraglio. «Ma i servizi segreti ci dicono che i Tuteriani stanno trattando con altre specie. Presto la lista dei nemici potrebbe allungarsi, senza nemmeno dover tirare in ballo lo Specchio. Ci servono informazioni più dettagliate, e ci servono subito».

   «Perché proprio i miei ufficiali?» insisté Chase, fronteggiando l’Ammiraglio. «Questo è un lavoro per la Sezione 31».

   «La Sezione 31 non se la passa bene, ultimamente» spiegò Nelscott a malincuore. «I Tuteriani hanno colpito diverse sue installazioni. Ci sono inchieste, ai massimi livelli della Flotta, che vogliono fare chiarezza sul suo operato. Persino il Direttore Sheev è indagato».

   «Oh, riuscirà a cavarsela. Come sempre» commentò Chase.

   «È probabile, ma al momento non può lanciarsi in operazioni troppo ardite. Preferisce tenere un profilo basso, finché passerà la burrasca».

   «E si aspetta che i miei ufficiali facciano il suo lavoro?!» s’indignò il Capitano. «Quell’Andoriano ha esagerato con la birra!».

   «Alexander, sono solo due ufficiali...» insisté l’Ammiraglio.

   «Sappiamo entrambi che Ilia Dax e Lantora non sono due ufficiali qualunque» ribatté Chase, sedendosi finalmente a fianco del superiore.

   «No, infatti; la Sezione 31 li ha selezionati fra migliaia di candidati» ammise Nelscott. «L’esperienza di Dax è insostituibile. E Lantora è uno Xindi: la loro tecnologia organica somiglia a quella che incontrerà in missione, sul pianeta Vorgon. Entrambi, inoltre, sono esperti nelle tecniche di sopravvivenza in ambienti selvaggi. Non fraintendermi, non li spediremo laggiù da soli. Con loro ci saranno agenti scelti della Sezione 31. Considerala una partnership» disse, con un sorriso conciliante.

   Chase esitò. La richiesta dell’Ammiraglio non era eccentrica come poteva sembrare. La Sezione 31 non aveva mai esitato a reclutare personale dalle altre branche della Flotta, quando le faceva comodo. Né era strano che, per quella missione, avesse selezionato Ilia e Lantora. Gli ufficiali in gamba come loro scarseggiavano, purtroppo.

   Chase l’aveva sempre saputo, ma l’ultimo anno di guerra glielo aveva reso ancor più evidente: c’era una cronica carenza di preparazione nel personale di Flotta. Gli ufficiali della Sicurezza spesso si facevano prendere dal panico e fuggivano, anche quand’erano in superiorità numerica. Era successo persino che, scappando, abbandonassero le armi sul campo, permettendo al nemico d’impossessarsene. Ciò dipendeva dal fatto che i requisiti psico-fisici erano stati enormemente abbassati, rispetto ai vecchi tempi, per non discriminare nessuno e per sopperire alla “crisi delle vocazioni”.

   Il problema era palpabile anche nelle altre sezioni. Quante volte Grenk si era lamentato che i suoi ingegneri non capivano le loro stesse macchine! Ormai la tecnologia era così progredita che pochi riuscivano a comprenderla. Intere astronavi erano state distrutte perché piccoli danni non erano stati riparati in tempo. Idem per i medici, costretti a operare con strumenti quasi incomprensibili a loro stessi. E gli ufficiali al comando? Quanti errori madornali avevano commesso nell’ultimo anno! Si ritiravano quando potevano vincere, o lasciavano fuggire il nemico, o addirittura credevano di poter intavolare trattative e si facevano rapire. Poi naturalmente cedevano sotto tortura, rivelando informazioni sensibili; e come ricompensa erano giustiziati dai Tuteriani.

   «Allora, posso dire al tuo amico azzurro che accetti?» chiese Nelscott, vedendo che Chase era titubante.

   «Mi attengo ai suoi ordini, Ammiraglio.  O preferisce che l’operazione resti ufficiosa?» chiese il Capitano.

   «Vedo che hai colto il punto. Vorrei davvero che la gestissimo nella massima discrezione, Alexander» sorrise Nelscott.

   «Mi faccia indovinare... se io aiuto Sheev, lui mi dovrà un favore» sospirò Chase, che detestava questo atteggiamento della Sezione 31.

   «Non è la prima volta che vi scambiate favori» ricordò Nelscott. «L’anno scorso ti ha permesso di tenere a bordo quel prototipo di crono-navetta. E prima ancora, durante la crisi dei Parassiti Neurali, ti fornì quella scienziata Andoriana... la Bacia-Blatte» ridacchiò. «Ti è stata utile, no?».

   «Altroché» annuì Chase. La prima volta che aveva incontrato la dottoressa Neelah, gli era parsa fredda e scostante ai limiti della sociopatia, per quanto fosse geniale come scienziata. Ma già la prima missione nella Macchia di Rovi gli aveva fatto intravedere qualcos’altro. E dopo i primi due anni a bordo, durante i quali si erano tenuti prudentemente a distanza, tutto era cambiato. Chase aveva scoperto che sotto i ghiacci di Andoria batteva un cuore caldo. Alla fine, si somigliavano: erano così concentrati sul lavoro che avevano sempre trascurato gli affetti, non accorgendosi nemmeno di quanto ne avessero bisogno. Ma ora, finalmente, lo avevano capito. La loro relazione durava ormai da un anno, anche se era portata avanti così discretamente che pochi a bordo ne erano consapevoli. «Terry, attiva il protocollo Lambda-17, per cortesia» ordinò Chase, alzandosi. «Ricerca focalizzata sull’Ammiraglio Nelscott».

   «Ricevuto, Capitano». L’Intelligenza Artificiale si materializzò di fianco all’Ammiraglio e lo afferrò per un braccio. Prese a sondarlo con un tricorder.

   «Ehi, che sta facendo? Mi lasci subito!» protestò Nelscott. Ma non c’era modo di sfuggire alla presa d’acciaio della proiezione isomorfa. «E lei, Capitano, cosa crede di fare? Cos’è il protocollo Lambda-17?!».

   «Ricerca conclusa. L’Ammiraglio Nelscott risulta attualmente a Parigi, per un incontro con il Presidente Ektius» disse Terry. «I miei sensori rilevano che questo individuo sfrutta un camuffamento olografico».

   «Questo risponde alla sua domanda... Sheev, dico bene?» fece il Capitano, avvicinandosi con aria minacciosa.

   «Lei sta rischiando la corte marziale!» minacciò l’Ammiraglio, furibondo.

   «È lei quello sotto indagine, Direttore. E a giudicare dalla sua messinscena, ha proprio l’acqua alla gola» disse Chase. «Allora, dove vuole andare? In infermeria per l’esame del DNA, o direttamente in cella?».

   «Signore, è certo che sia proprio lui?» chiese Terry, esitante.

   «Abbastanza» rispose il Capitano. Studiò il prigioniero, osservandogli in particolare la testa, dai cortissimi capelli neri. E scattò ad afferrare qualcosa d’invisibile, pochi centimetri sopra il suo cranio.

   «Ahio! Dannato pellerosa!» gemette l’impostore.

   «Disattivi l’ologramma, o giuro che le strappo l’antenna!» minacciò il Capitano. Per dimostrare che faceva sul serio gliela torse brutalmente, strappandogli un gemito di dolore.

   «Va bene, ha vinto!» si arrese l’impostore. Con la mano libera premette tre volte sul comunicatore, in rapida sequenza, e si trasformò sotto gli occhi dei due ufficiali. Ora aveva la pelle di un blu intenso, capelli più lunghi e bianchi come la neve, e due antenne che fuoriuscivano dal cranio. Quella di sinistra era in mano a Chase, che la lasciò andare, continuando però a scrutare l’Andoriano, con truce soddisfazione.

   «Nessuno mi aveva mai preso per un’antenna!» protestò Sheev, tastandosi la parte dolorante. «Quando ha capito che ero io?».

   «Il sospetto ce l’avevo fin dall’inizio. Quando parliamo della guerra, l’Ammiraglio mi chiama col mio grado o per cognome; mai per nome» spiegò Chase. «Ma la conferma l’ho avuta quando ha chiamato Neelah col nomignolo Bacia-Blatte. Solo in quel laboratorio su Plutone la chiamavano così».

   «Ottimo spirito d’osservazione» riconobbe Sheev. «Ma la missione su Vorgon resta da farsi. Se necessario manderò altri agenti. Speravo però che lei ne cogliesse l’importanza. Se i Tuteriani trovano nuovi alleati nel Quadrante Beta, dobbiamo saperlo prima di trovarci davanti le loro navi».

   «Conosco il problema dei Vorgon» disse Chase. «Sono ancora un enigma: sappiamo così poco della cultura, della tecnologia...».

   «Il loro pianeta natale è sempre stato off-limits. Fino a poco tempo fa non sapevamo nemmeno dove fosse di preciso» rincarò Sheev. «Ma ora i miei agenti l’hanno localizzato. Abbiamo persino immagini dettagliate della superficie. Ci serve solo una squadra che vada sul posto per raccogliere ulteriori dati. Una nave occultata porterà gli agenti fin là. Sappiamo dove sbarcarli e abbiamo un piano di estrazione. A terra si affideranno all’occultamento individuale».

   «Il tempo è così essenziale? Non potete aspettare che staniamo l’ISS Enterprise?» domandò Chase.

   «Sa bene che potrebbe essere una caccia lunga» rispose Sheev. «E noi abbiamo captato indizi di un conto alla rovescia. Qualcosa di grosso si muove, su quel pianeta, e dobbiamo saperne di più».

   «Temo che abbia sprecato il suo tempo, venendo qui» disse Chase. «Se me l’avesse chiesto in un altro momento l’avrei preso in considerazione, ma...».

   «Mandi me» intervenne Terry.

   «Cosa? Non se ne parla!» protestò Chase.

   «Le mie subroutine tattiche indicano che la mia partecipazione alla missione incrementerebbe in modo rilevante le probabilità di successo» insisté l’IA. «Inoltre, inviando una mia proiezione munita di Emettitore Autonomo, non verrei a mancarle durante la nostra missione principale».

   «Buona idea» riconobbe Sheev. «Naturalmente dovremo prendere precauzioni... non possiamo permettere che il suo database finisca in mano al nemico, se le cose andassero male».

   «Eliminerò le informazioni sensibili dalla memoria dell’Emettitore» promise Terry. «E se verrò catturata, cancellerò del tutto il mio programma» aggiunse come se niente fosse.

   «Se lo scordi. Non la manderò dietro la Cortina di Ferro con una pillola di cianuro!» si adombrò Chase.

   «Un’analogia storica interessante, Capitano» sorrise Terry. «Ma la cancellazione di una mia proiezione non mi ucciderà. Il mio processore centrale resterà a bordo dell’Enterprise. Continuerò a funzionare regolarmente».

   «Ascolti, lei è abituata ad avere molte proiezioni attive simultaneamente» disse Chase. «Quando non ne ha più bisogno, vengono... reintegrate nel processore centrale, giusto?».

   «Corretto».

   «Ma in tutte le sue missioni sul campo, non è mai capitato che l’Emettitore fosse distrutto».

   «Corretto» ripeté Terry, con la stessa voce ed espressione di prima. Quando faceva così, somigliava meno a un essere umano e più a un computer. Eppure Chase era convinto che il suo Ufficiale Scientifico fosse più che sequenze di codici.

   «Immagini di essere in missione ad anni luce dall’Enterprise, del tutto separata dal processore» proseguì il Capitano. «Se il suo Emettitore fosse distrutto, o se lei cancellasse il suo programma, sarebbe come morire».

   «La mia consapevolezza cesserebbe di esistere, sì» riconobbe Terry. Parlava con la stessa calma di quando chiacchieravano fuori servizio. «Ma sono stata programmata per anteporre la sicurezza della Federazione alla mia sopravvivenza. Se necessario, ho l’ordine di... eliminarmi dall’equazione» disse, fissando Chase con gli enigmatici occhi a mandorla.

   «Un giorno o l’altro dovremo sostituire il personale di Flotta con le proiezioni isomorfe!» ridacchiò Sheev. «Sono molto più disinteressate ed efficienti di noi, non le pare?».

   «Già, anche troppo» si rammaricò Chase. Diede le spalle a entrambi e andò verso la sua scrivania, meditabondo. L’aggirò lentamente e sedette in poltrona. «Parlerò con Ilia e Lantora. Se accetteranno la missione, autorizzerò anche Terry» stabilì.

   «Splendido! Le devo un favore» s’illuminò Sheev.

   «No, lo deve ai miei ufficiali» corresse il Capitano.

 

   «Sono in un mare di guai, amico mio» confidò Grenk, con la testa fra le mani. Il Tellarita era seduto al suo solito posto nell’Antro del Drago, il pittoresco locale gestito da Raav, l’unico Gorn a bordo. Da quando i civili avevano abbandonato in massa l’astronave, anche i ristoranti affacciati sulla Piazza Centrale avevano chiuso i battenti. Solo Raav aveva deciso di tener duro. Il fatto che l’Antro del Drago fosse l’unico locale aperto faceva sì che, malgrado la fuga dei civili, i clienti non mancassero. Anzi, Raav doveva ammettere che, senza la concorrenza, gli affari andavano meglio di prima.

   «Dimmi tutto con calma e forse troveremo una soluzione» disse il Gorn, sedendosi accanto all’amico.

   «Ricordi quel giovane genio della meccanica temporale di cui ti ho parlato?».

   «Sì, quel Bergil... Bernil...» incespicò Raav.

   «Berlinghoff Rasmussen» corresse Grenk. «Pensavo che fosse una fortuna averlo in squadra. Grazie a lui abbiamo fatto passi da gigante con la Phoenix. Eravamo pronti a un nuovo test, il viaggio nel tempo a lungo raggio: secoli e secoli nel passato!».

   «Non ha funzionato?» chiese il Gorn.

   «Oh, ha funzionato fin troppo bene. Radiazioni tachioniche basse, integrità strutturale alta, e la Phoenix ha ancora energia da vendere. Peccato che non ci sia traccia di Rasmussen».

   «Dunque si è perso per strada. Brutta storia» si dispiacque Raav. «Ma la nave è tornata».

   «Il pilota automatico era regolato per riportarla qui dopo un certo tempo».

   «Bene, no? Vuol dire che puoi tornare indietro a cercarlo».

   «Fosse facile! Quello sciocco è partito senza permesso. Fra poche ore l’Enterprise andrà in missione e io devo ancora dire al Capitano cos’è successo» gemette Grenk, versandosi un whisky di Aldebaran verdissimo. Scolò il bicchierino in un solo sorso. «Sai, stavo quasi pensando che anche la missione di salvataggio dovrebbe essere... ufficiosa» rivelò. «Prendo la Phoenix, vado nello stesso momento del passato in cui era l’impiastro, lo teletrasporto a bordo e torno qui».

   «Sssshhhht! Te lo sconsiglio» fece Raav, sibilando alla maniera dei Gorn. «Questi segreti ti hanno già messo nei guai col Capitano. Un altro pasticcio temporale non segnalato e ti giochi la carriera. Oltre a mettere sottosopra il continuum spazio-temporale, in cui viviamo noi poveri diavoli» aggiunse, tra il serio e il faceto.

   «Hai ragione, vecchio mio» sospirò Grenk. Per un attimo cadde il silenzio. Fu allora che l’illuminazione del locale ebbe un breve black-out. Durò solo un secondo, poi le luci si riaccesero. Siccome il salone era illuminato anche da un braciere centrale, per ricreare l’atmosfera delle caverne Gorn, gli avventori non ci fecero molto caso. Ma a Grenk quel calo di potenza non poteva sfuggire.

   «Beh, hai problemi all’illuminazione?» si accigliò. «È già successo prima?».

   «Qualche volta, negli ultimi giorni» borbottò Raav, di malumore. «Sssshhht! Sai, anch’io devo farti una confessione» sibilò, facendo guizzare la lingua violacea tra le fauci. «È da mercoledì scorso che abbiamo un’infestazione di pulci fotoniche. Quelle bastardelle s’infilano nei condotti e succhiano energia».

   «Dovevi informarmi subito!» protestò Grenk. «Se raggiungono qualche sistema chiave dell’Enterprise...».

   «Sssshhht! Terry ha isolato i condotti con campi di forza e la squadra di disinfestazione è al lavoro» si affrettò a spiegare il Gorn, a bassa voce. «Ora ti sarei grato se abbassassi il tono. Non mi va che i clienti sappiano di questo problemino» disse, guardandosi nervosamente attorno.

   «Oh, scusa» bisbigliò Grenk, calmandosi. «Ma da dove sono spuntate?».

   «Da quel carico di Farpoint, probabilmente. Non credo vengano dalla Terra» rispose Raav.

   «No di certo. Sono native del Quadrante Delta» spiegò il Tellarita. «A Farpoint sono stati avvistati degli Hirogeni, e persino qualche Krenim, ultimamente. Possono benissimo esser stati loro a portare i parassiti» proseguì. «Beh, se dovessero uscire dalla zona di quarantena, fammelo sapere» raccomandò, facendo per alzarsi. Ma Raav gli mise una pesante manona artigliata sul braccio, costringendolo a restare.

   «Allora che farai, con la Phoenix?» chiese il rettile.

   «Ne parlerò al Capitano. Se mi autorizzerà, andremo a salvare il mio protégé» rispose l’Ingegnere Capo.

   «Ottimo. Ma stavo pensando... ti farebbe comodo sapere che gli è successo, prima di esporti allo stesso rischio» notò Raav. «Che so, potresti cercare tracce di DNA, per sapere se qualcuno ha abbordato la navetta».

   «Eh sì, dovrei. E c’è un altro guaio» borbottò Grenk. «Dalla mia esperienza nello Specchio, ho una certa... fobia del viaggio nel tempo. Finché lavoro sulla navetta non c’è problema, ma effettuare personalmente il trasferimento... mi vengono i brividi. Non so se riuscirei a restare lucido. Ma non vorrei neanche mandare un altro al mio posto. Frell, non c’è via di scampo!» imprecò.

   «Ti serve una persona fidata da coinvolgere» suggerì Raav. «Qualcuno che sappia pensare in modo creativo. Magari che non faccia nemmeno parte della Flotta Stellare» aggiunse inaspettatamente.

   «Chi?! Non restano molti civili sull’Enterprise, e nessuno con le competenze per...». Grenk s’interruppe, vedendo che Raav – pur tenendo le braccia posate sul tavolo – tendeva un artiglio, indicando discretamente un cliente vicino. Il Tellarita si girò adagio. Neelah sorseggiava una birra andoriana blu, mentre rileggeva i suoi appunti sul d-pad. Sul tavolino davanti a lei c’erano ancora gli avanzi del suo spuntino vegetariano.

   «L’albina con le antenne? No, mai!» protestò Grenk.

   «È una tua scelta» disse Raav, scrollando le spalle.

   Che li avesse sentiti, o che avesse percepito i loro pensieri, fatto sta che l’Aenar alzò gli occhi azzurro ghiaccio dal d-pad e li piantò su Grenk. Si alzò con aria teatrale e gli venne incontro a passo svelto. Il Tellarita sentì rizzarsi i peli sul collo. C’era una sorta di elettricità che accompagnava la telepate. O forse era solo il timore di quel che stavano per fare, si disse l’Ingegnere Capo.

   «Posso aiutarla?» chiese la dottoressa, squadrandolo con occhi gelidi. «Sento che è alle prese con un problema tecnologico. Il genere di cose che rompe la monotonia. Su, mi dica... non sia timido!».

   «Buona fortuna» disse Raav, facendo l’occhiolino a Grenk. Il Gorn scivolò via dalla sedia, lasciando il posto alla biologa.

   «Ehm... salve» squittì Grenk, asciugandosi il sudore dalla fronte. «So che lei è sempre stata affascinata dalle nuove tecnologie... che non teme di sperimentarle».

   «Che è successo alla Phoenix?» tagliò corto Neelah.

   «Caspita, è una telepate di prim’ordine!» fischiò Grenk.

   «È vero, ma non le stavo leggendo la mente. Signor Grenk, non credo che sarebbe così nervoso nemmeno se fosse in corso una rottura del nucleo» precisò l’Aenar.

   Il Tellarita deglutì e si versò un altro bicchiere di whisky aldebarano. Ne aveva bisogno.

 

   I due combattenti in armatura giravano l’uno intorno all’altro, disegnando un cerchio quasi perfetto al centro dell’arena. Armati di lunghi bastoni in fibra di carbonio, vi giocherellavano, cambiando spesso posizione di guardia, e studiavano l’avversario, per cogliere l’attimo in cui si scopriva. Erano silenziosi e circospetti, ma pronti a scattare. Le loro protezioni ricordavano le corazze degli antichi samurai. Una era bianca, l’altra vermiglia; solo gli orli dei vari elementi, dai colori invertiti, ne spezzavano l’uniformità.

   Il guerriero in rosso attaccò, con una serie di colpi veloci e potenti. L’avversario riuscì a pararli tutti, indietreggiando di qualche passo. Scartò di lato, disimpegnandosi, e passò al contrattacco. Colpì un paio di volte dall’alto. Poi il guerriero in bianco si abbassò repentinamente, schivando un laterale che l’avrebbe colto alla spalla, e colpì il nemico alle ginocchia, facendolo cadere. Prima che potesse rialzarsi, gli puntò il bastone alla gola.

   «Ti vedo distratto» disse il vincitore. «In un vero scontro, la distrazione si paga con la vita».

   «Lo so» rispose il samurai rosso, allontanando il bastone dell’avversario con un gesto. «Ma la partita non è ancora finita. Alla meglio dei tre, ricordi?». Sollevò le gambe e si rimise in piedi con un colpo di reni, tornando subito all’attacco.

   Il duello ripercorse lo schema di prima. Anche stavolta il samurai bianco parò a fatica una serie di attacchi, ma poi riprese l’iniziativa. Si abbassò nuovamente, provando a falciare il samurai rosso. Questi, però, gli sfuggì con un salto e al tempo stesso caricò un poderoso fendente. Il samurai bianco, che era ancora a terra, riuscì a proteggersi appena in tempo con una parata alta. Ma il rosso, riatterrato, lo colpì alla spalla con un calcio, rovesciandolo all’indietro. E gli puntò il bastone alla gola prima che potesse riprendersi.

   «Anche l’eccessiva sicurezza si paga con la vita» disse il samurai rosso.

   «Il terzo round decide tutto» notò il samurai bianco, e tornò agilmente in piedi.

   I contendenti ripresero a girarsi intorno. Ogni tanto simulavano un attacco, cercando di far scoprire l’avversario. Arrivarono a scambiarsi qualche colpo, ma dopo poche parate tornavano a distanziarsi e il gioco ricominciava.

   «Non ho tutto il pomeriggio» disse il samurai rosso.

   «Allora finiamola» rispose il bianco, e partì all’attacco.

   Lottarono senza darsi tregua, alternando attacchi, parate, finte. Il vantaggio passava dall’uno all’altro ogni pochi secondi, ma nessuno riusciva a segnare un punto valido. Entrambi, però, erano determinati a vincere. La loro ostinazione prolungò lo scontro ben oltre il normale. Infine le distanze si accorciarono tanto che ciascuno dei due afferrò il bastone dell’altro. Rimasero avvinghiati in quella posizione. Mugolii affannosi uscivano dalle maschere protettive. Infine il samurai bianco effettuò una torsione, che avrebbe sollevato l’altro per poi buttarlo a terra. Ma il rosso gli fece lo sgambetto, provocando la caduta di entrambi. Si rotolarono sul pavimento dell’arena, ancora avvinghiati e con i bastoni in mano. Finalmente il rosso riuscì a restare di sopra, schiacciando a terra l’avversario. I bastoni, incrociati, divennero una forbice che avrebbe preso nel collo il samurai bianco, se avesse esaurito le forze.

   «Allora, ti arrendi?!» ringhiò il guerriero in rosso.

   «No, mi sto divertendo troppo!» rise il bianco. Gli puntò i piedi contro lo stomaco, sollevandolo da terra. Il samurai rosso fece una capriola in aria e atterrò con violenza dietro all’avversario. Tutti e due scattarono di nuovo in piedi, per riprendere lo scontro; ma erano così esausti che si appoggiavano ai bastoni, più che usarli come arma. Si scambiarono ancora qualche colpo, sempre più fiacco. Alla fine rimasero a guardarsi ansimanti.

   «Diciamo che è un pareggio?» suggerì il rosso.

   «Diciamolo» convenne il bianco, sollevandosi la maschera protettiva. Apparve il bel volto ambrato di T’Vala, che però in quel momento era sudata e stanca. «L’Anbo-jytsu dovrebbe insegnare disciplina e misura delle forze» commentò con disappunto. «Questo round è stato l’opposto».

   «Mi spiace... mi sono lasciato andare» si scusò il combattente in rosso, alzandosi a sua volta la maschera. Era Lantora, anche lui provato dallo scontro.

   «Non era una critica nei tuoi confronti, ma nei miei» spiegò T’Vala. «Di solito riesco a controllarmi meglio» aggiunse delusa.

   «Ehi, era solo un allenamento... un gioco!» osservò Lantora, avvicinandosi. «I giochi servono a sfogarsi. Per stare seri c’è il resto della vita».

   «Io sono mezza Vulcaniana».

   «E che vuol dire?!» protestò lo Xindi. «Che non puoi mai divertirti? Chi l’ha stabilito? E poi, sei anche mezza Betazoide. Non dicevi di aver imparato a bilanciare i due aspetti?».

   «Siamo in guerra. Ogni giorno corriamo dei rischi» spiegò T’Vala, percependo la sua frustrazione. «Finché durerà questo stato di cose, preferisco tenere a bada l’emotività. Mi rende più efficiente sul lavoro. E ci sarà meno da soffrire, se dovesse succedere qualche disgrazia».

   «Parli della tua sofferenza o di quella altrui?».

   «Di entrambe».

   «Niente sofferenza... ma anche niente gioia. Niente soddisfazioni. Niente amore» osservò Lantora. Era molto vicino, adesso, e fissava T’Vala negli occhi. «Tanto varrebbe essere già morti. Se non possiamo vivere come vogliamo, qual è il senso di questa guerra?».

   «Tu come vorresti vivere, Tenente?» chiese T’Vala, quasi in un sussurro. Non si allontanò dallo Xindi, anzi accostò ulteriormente il viso. Percepiva le emozioni nei suoi confronti e non le dispiacevano affatto. Anzi la lusingavano. Ma voleva sentirle articolare, prima di prendere una decisione.

   Lantora si perse nel suo sguardo nero e liquido. Avrebbe voluto baciare quelle labbra morbide, sentirne il sapore, ma si ritrasse. «Vorrei solo che le cose fossero meno complicate... e che avessimo più tempo» disse, eludendo la domanda. Si diresse verso l’uscita.

   «Se vuoi possiamo continuare questi incontri» suggerì T’Vala alle sue spalle. «Martedì e venerdì, va ancora bene?» chiese con una certa formalità.

   «Mi piacerebbe... ma temo che dovremo sospenderli per un po’» rispose Lantora. «Sto per partire».

   «Cosa?! E per dove?» chiese T’Vala, scioccata. Adesso capiva la strana tensione che percepiva nello Xindi. Lo inseguì, ma lui si voltò un attimo prima di uscire dall’arena.

   «È un’infiltrazione su un pianeta ostile. Massima segretezza. Meno ne sai, meglio è. Comunque non sarà più pericoloso che dare la caccia all’Enterprise dello Specchio» rispose l’Ufficiale Tattico, indugiando sulla soglia.

   «Sì, invece» ribatté T’Vala. «Molto di più. E tu lo sai». Si rese conto che Lantora temeva di non rivederla e provò la stessa angoscia. Ma riuscì a mascherarla, almeno in parte.

   «Sai qual è il bello di essere illogici ed emotivi? Che si può sperare» disse lo Xindi, guardandola di sottecchi. «Anche se tutte le flotte nemiche ci dividessero, io spero che ci rivedremo. E che avremo un po’ di... tempo» concluse malinconico. Uscì dalla sala.

   La mezza Vulcaniana aveva alzato la mano nel tradizionale saluto a V. Ma prima che potesse aprire bocca, rimase sola. Lasciò ricadere mestamente il braccio. «Ci voglio credere anch’io» mormorò.

 

   Il Capitano Chase entrò in sala teletrasporto con un groppo in gola. Ilia, Terry e Lantora erano già lì, pronti alla partenza. Indossavano uniformi nere, semicorazzate, ed erano armati. La tensione era palpabile.

   «Situazione?» chiese il Capitano, avvicinandosi.

   «La Sojourner ci ha appena dato il via libera. Siamo pronti, Capitano» disse Terry, che portava l’Emettitore Autonomo al braccio.

   «Lo sa? Vorrei che aveste scelto diversamente» disse Chase. La dedizione al dovere dei suoi ufficiali lo commuoveva, ma raramente era stato così in pensiero per le loro vite.

   «Lo avrei fatto solo in caso di malfunzionamento delle mie subroutine tattiche, signore» rispose l’IA.

   «E questo vale anche per noi?» chiese Lantora, un po’ indispettito. «Sta dicendo che saremmo stati pazzi a rifiutare questa missione?». Non disse “missione suicida”, ma il tono era quello.

   «Basta così» tagliò corto Ilia, facendosi avanti. «Capitano, siamo consci dei rischi. E accettiamo di correrli. Né più né meno di come sta facendo ogni altro ufficiale di questa nave».

   «Addentrarvi in una giungla aliena non...» cominciò il Capitano, ma s’interruppe, incrociando gli occhi verde acqua del suo Primo Ufficiale. C’era qualcosa di molto vecchio e saggio, dietro la loro apparente giovinezza. «Molto bene, procedete» riprese Chase. «Ma tenete gli occhi aperti. Sarete i primi federali a mettere piede su Vorgon. Nessuno sa cosa incontrerete. Perciò restate uniti e non esitate a rientrare, in caso di pericolo. Alla Flotta è più utile che torniate con un rapporto parziale, piuttosto che non avere alcun rapporto» raccomandò.

   «Intesi, Capitano» disse Ilia, salendo sulla piattaforma di teletrasporto. Fu assalita da una sensazione familiare: quel misto di timore ed eccitazione che aveva provato nelle sue vite passate, ogni volta che era partita per una missione rischiosa. Non ci si poteva mai realmente abituare. Ai loro tempi, Jadzia ed Ezri erano state messe alla prova in ogni modo concepibile. Ora toccava a lei dimostrare che era qualcosa di più dei loro ricordi; qualcosa di più del verme Dax raggomitolato nel suo addome.

   «Registrerò tutto con la massima attenzione» assicurò Terry, seguendola.

   «Lantora...» mormorò Chase, mentre anche lo Xindi gli passava a fianco.

   «Veglierò su di loro» promise l’Ufficiale Tattico, fermandosi solo un istante per scambiare un’occhiata d’intesa. E salì sul teletrasporto.

   «Capitano?» fece Ilia, quando furono tutti e tre in posizione.

   «Sì, Comandante?».

   «Cerchi di non ammaccare l’Enterprise, in nostra assenza» lo punzecchiò. E si dissolse nel teletrasporto, assieme ai colleghi.

   «Farò del mio meglio» sospirò Chase, rimasto solo con il tecnico del teletrasporto. Ma non erano passati due secondi che un’altra proiezione di Terry comparve al suo fianco.

   «La Sojourner ci segnala l’okay» disse la proiezione isomorfa. «Sta già lasciando l’orbita terrestre». Attivò uno schermo sulla parete, inquadrando la nave a testa di martello che si allontanava. La Sojourner puntò dritta verso il Quadrante Beta, attivò i motori e scomparve nel tunnel di cavitazione.

   «Saranno a destinazione in...» cominciò Terry.

   «Lasci stare» l’interruppe Chase, alzando una mano. Si chiese se Sheev aveva ragione: la Flotta Stellare doveva affidarsi agli ologrammi? Dopotutto erano invulnerabili a gran parte delle debolezze degli Organici. E potevano stare in più posti contemporaneamente, come dimostrava Terry: mentre una sua copia sfrecciava verso Vorgon, il processore centrale e la maggior parte delle proiezioni rimanevano sull’Enterprise. Se anche la copia in missione fosse stata distrutta, ciò non avrebbe inficiato il funzionamento della nave. Ma Chase sapeva che considerare così spendibili degli esseri intelligenti – perché tali erano gli ologrammi – voleva dire prendere una china molto pericolosa. E non era detto che una squadra composta da Intelligenze Artificiali, che ragionavano in modo simile, fosse più efficace di una di Organici, in cui ogni elemento forniva un apporto originale.

   «Capitano, ho un altro aggiornamento per lei» disse Terry, distraendolo dai suoi pensieri.

   «Riguarda la Phoenix?» domandò Chase, che era stato messo al corrente della scomparsa di Rasmussen.

   «No, Grenk e la sua squadra stanno ancora cercando di determinare l’accaduto» spiegò Terry. Lasciarono la sala teletrasporto, diretti in plancia. «Il problema riguarda le pulci fotoniche che infestano la sezione ristorativa. Ne sto rilevando anche negli altri settori. Temo che le mie procedure di contenimento siano fallite».

   Chase, che camminava a passo svelto, si fermò di botto. Squadrò la collega dai capelli corvini, che gli stava accanto con le mani incrociate dietro la schiena. «Mi faccia capire: lei... ha le pulci?!» chiese, incredulo.

   «Non in questa mia proiezione, ovviamente» si difese Terry, con la massima dignità. «Ma se si riferisce a me come Enterprise... temo di sì».

   «Quali sono gli effetti?» volle sapere il Capitano.

   «Locali perdite di potenza. Nulla che non possa compensare, per il momento» spiegò l’IA. «Ma a volte le pulci succhiano troppa energia e s’ingrossano fino a scoppiare. Ciò può provocare dei picchi energetici che minacciano la mia griglia EPS».

   «Terry, apra bene le orecchie» disse Chase, accigliato.

   «Sono aperte, signore» fece l’IA, un po’ stupita. «Vuole che cambi la loro conformazione?».

   «No, ci mancherebbe solo che diventasse Ferengi. Intendevo dire “mi ascolti”» sospirò Chase.

   «Io l’ascolto sempre».

   «Stavolta mi ascolti più del solito» precisò il Capitano. «Stiamo per affrontare un’astronave che ha la nostra stessa potenza e io mi trovo senza due ufficiali superiori. Se al momento dello scontro avremo dei cali d’energia, o dei sovraccarichi, sarà la fine. Il mio doppione dello Specchio non è uno stupido. Ci distruggerà, se gli diamo l’occasione».

   «Certo, signore» annuì Terry. «Le pulci fotoniche sono difficili da rilevare, ma tenterò. Nel frattempo chiamo tutte le squadre di disinfestazione».

   «Informi l’equipaggio. Dica a tutti di stare all’erta» raccomandò Chase. «Non voglio che qualcuno si sieda su una pulce e corra in giro coi pantaloni in fiamme».

 

   «Questo è certamente DNA umano» disse Neelah, sondando l’interno della Phoenix con un tricorder medico. «Ma non è di Rasmussen. Qualcun altro è entrato e ha toccato i comandi».

   «È come temevo» disse Grenk, che sedeva sulla sedia del pilota, afflitto. «Berlinghoff non sarebbe uscito dalla navetta per fare una scampagnata nel passato. Qualcuno lo ha sorpreso... forse ucciso».

   «Com’è possibile? Ha detto che la sua missione consisteva in toccata e fuga» obiettò l’Aenar. «Doveva solo accertarsi di essere finito nell’anno giusto... e poteva farlo dallo spazio, esaminando la Terra».

   «Invece è dovuto scendere» spiegò Grenk. «Ho esaminato il diario di bordo e le registrazioni dei sensori. Il viaggio temporale in sé è andato bene; ma una volta arrivato, il nucleo temporale ha avuto una fluttuazione. Berlinghoff è dovuto atterrare per ricalibrarlo. E lì qualcosa è andato storto. Povero ragazzo!».

   «Fossi in lei, non mi preoccuperei troppo» disse Neelah, continuando a sondare l’interno della navetta per capire quanti ospiti indesiderati c’erano stati. «Il passato non scappa. Quando avremo compreso l’accaduto, potrà tornare indietro a salvarlo».

   «Ecco, questo è il punto» disse Grenk, torcendosi le mani. «Dovrei farlo?».

   «Perché no?» chiese Neelah, distogliendosi dal suo lavoro. Fronteggiò Grenk, con le antenne protese e la fronte aggrottata. «Rasmussen era nella sua squadra. Ha disobbedito ai suoi ordini, ma non è una buona ragione per abbandonarlo nel passato. Che c’è di diverso dall’andare a soccorrere un disperso?».

   «C’è che Berlinghoff è morto» disse Grenk, fissando l’Aenar con insolita gravità. «Sia che l’abbiano assassinato, sia che abbia trascorso la vita nel passato, sta di fatto che è morto e sepolto. Che diritto abbiamo di... risvegliare i morti? Oh, mi risparmi quello sguardo!» sbottò, notando il cipiglio di Neelah. «Pensi che succederà, se si afferma l’idea che la Flotta Stellare deve salvare tutti i suoi ufficiali che sono morti nel passato! Dovremmo andare a salvare Kirk da Veridiano III? Sisko dalle Caverne di Fuoco? Ogni singolo ufficiale che ha dato la vita per la Flotta? E i civili? Sarebbe un delirio, sarebbe... proprio la Guerra Temporale che speravo di scongiurare!» gemette.

   «Ma Berlinghoff non è morto come un qualunque ufficiale in missione» obiettò Neelah. «È finito disperso durante un test temporale. E se non vuole inquinare il passato, farà meglio a riprenderlo».

   «Forse la linea temporale è già cambiata» s’incupì Grenk. «Forse ci troviamo in un universo alternativo!».

   «Se anche fosse, l’unico modo per rimediare è andare nel passato a riprendere quell’uomo, prima che faccia danni» ripeté la biologa. «A proposito, in che periodo è finito?».

   «Metà del XXII secolo» rispose Grenk, attivando l’interfaccia olografica dei comandi. «Ecco, guardi qui: ha regolato il timer su 400 anni esatti. Al povero Berlinghoff piaceva tanto quel periodo: i tempi di Archer, gli albori della Flotta!».

   «Sarebbe a dire il 2153, l’anno della Crisi Xindi» commentò Neelah, per nulla entusiasta. «Doveva proprio scegliere un momento in cui le difese terrestri erano all’erta? Potrebbero avergli sparato a vista!».

   «La navetta è intatta, ma non mi stupirei se gli avessero sparato una volta sbarcato» disse Grenk. «Allora, come vanno i suoi esami? Ha determinato il numero degli intrusi?» chiese poi.

   «Almeno due» rispose la biologa. «Uno era Umano e ha lasciato le sue impronte digitali dappertutto. Ma c’è anche una mezza impronta che non sembra umana. La traccia è incompleta, ma... si direbbe Klingon» aggiunse, lavorando con il tricorder.

   «Il mistero s’infittisce» commentò Grenk, che stava consultando il computer di bordo. «Dopo essere stata nel 2153, la Phoenix ha fatto un balzo in avanti di oltre due secoli, nel 2368. Poi qualcuno ha regolato il pilota automatico per riportarla nel XXII secolo, nel... New Jersey» lesse, meravigliato. «Però, chiunque sia stato, ha pasticciato coi comandi. Il computer era impostato per riportare qui la navetta, se il pilota fosse stato inabile. Nell’ultimo salto, questa direttiva ha sostituito le coordinate che erano state impostate. Ecco perché la Phoenix è tornata da noi... che fortuna!» sospirò.

   «Mi piacerebbe sapere cos’è successo» commentò Neelah, riponendo il tricorder.

   «Credo di avere la risposta» disse Terry, entrando nella navetta. «E posso anche comunicargliela, dato che ormai fa parte del progetto. Perché ne fa parte, vero?» chiese, squadrando Grenk.

   «Certo, la dottoressa Neelah può ancora esserci utile» confermò l’Ingegnere Capo. «Ci serve un biologo che studi gli effetti del viaggio nel tempo sui tessuti viventi. Ma non tenerci sulle spine! Che hai scoperto?».

   «Ho acceduto a un rapporto risalente alla mia antesignana Enterprise-D» spiegò Terry.

   «Ah, la vecchia Galaxy!» si animò Grenk. «Mi è sempre piaciuta, quella. Che hai scoperto?».

   «Nel 2368 l’Enterprise, che si trovava a Penthara IV, ricevette la visita di uno strano visitatore» spiegò Terry. «Venne a bordo di una navetta che, stando al rapporto, posso identificare con la Phoenix. Disse di essere uno storico del futuro... cioè del nostro secolo. Si presentò come dottor Berlinghoff Rasmussen».

   «Che?!» sobbalzò Grenk.

   «Non era lui» svelò subito Terry. «Quell’impostore disse di essere lì per ragioni di studio. Fece persino compilare dei questionari agli ufficiali dell’Enterprise e gli chiese quali erano, secondo loro, le invenzioni più importanti degli ultimi due secoli».

   «Gli ufficiali furono incauti a rispondere» commentò Neelah. «Io avrei sondato il visitatore per benino – soprattutto il cervello – prima di rispondere a qualunque domanda».

   «Aveva una parlantina convincente e la sua navetta era indiscutibilmente più avanzata dell’Enterprise, che non riusciva nemmeno ad analizzarla» spiegò Terry.

   «Certo, per via dello scafo molecolare» disse Grenk, sfiorando la paratia iridescente come una bolla di sapone. «Come andò a finire?».

   «L’impostore rubò alcuni congegni di bordo – come tricorder e phaser – e cercò persino di sequestrare il Tenente Comandante Data» disse Terry, con un distacco che celava l’irritazione per chiunque considerasse le Intelligenze Artificiali come oggetti. «Tuttavia fallì e fu arrestato. Gli oggetti che aveva rubato furono estratti dalla navetta, prima che si dissolvesse. Alla fine il criminale confessò di non venire dal futuro, ma dal passato».

   «Il XXII secolo» mormorò Grenk.

   «Precisamente. Era un inventore fallito, fino al giorno in cui incontrò un vero visitatore del futuro: l’ingegnere Rasmussen» disse Terry. «Allora lo uccise e ne prese il posto. Andò in un futuro più prossimo per rubare oggetti da riportare nella sua epoca. Avrebbe finto di essere l’inventore, sfornandone uno all’anno: così si sarebbe arricchito. Invece rimase prigioniero del XXIV secolo per il resto della sua vita. Quanto alla navetta, non se n’è più saputo nulla... finora» concluse Terry.

   «Affascinante» disse Neelah. «Ha la sua risposta, Ingegnere. Ora che intende fare? Tornerà nel XXII secolo per salvare Rasmussen? O lo considera un martire della scienza?».

   «Se torno indietro, rischio di cancellare l’intera serie di eventi» mormorò Grenk, massaggiandosi le tempie. «Sarebbe un paradosso temporale».

   «Non se riporta qui Rasmussen, lasciando la Phoenix in mano all’impostore» obiettò Neelah. «Tanto la navetta tornerà comunque in mano nostra. Lo ha già fatto!».

   «Ma ne siamo sicuri? Questo circolo temporale è già abbastanza intricato» disse Grenk. «Se lo modifichiamo ancora, gli effetti saranno imprevedibili. Se l’impostore non incontra Rasmussen potrebbe elaborare un piano diverso. Potrebbe visitare altre epoche, o persino smontare la navetta. Creerebbe ulteriori paradossi e noi non riavremo la Phoenix!» si lamentò.

   «Sì, è possibile» confermò Terry. «Devo ammettere che nemmeno i miei elaboratori riescono a prevedere tutti gli esiti del paradosso. È frustrante» ammise.

   «Allora Rasmussen è perduto» mormorò Neelah.

   «Temo di sì» disse Terry. In quella le luci dell’hangar sfarfallarono per un attimo. I tre, ancora nella navetta, se ne accorsero tramite l’ingresso aperto.

   «Ma che succede?» volle sapere Neelah. «Stamattina anche nel mio laboratorio c’erano cali di tensione».

   «Le pulci fotoniche non sono più confinate nel ristorante di Raav» si scusò Terry. «Persino alcune mie proiezioni hanno dei malfunzionamenti. Per questo ho indossato un Emettitore Autonomo» disse, accennando al congegno che portava al braccio.

   «Dì ai ragazzi in sala macchine di occuparsene» disse Grenk. «Io li raggiungo prima possibile. Ho ancora qualche lavoretto da fare qui».

   «Vado... ma lei non scherzi con il tempo, Ingegnere» ammonì Terry, prima di lasciarli.

   «Sto scaricando il rapporto dei sensori» spiegò Grenk a Neelah, che lo guardava con aria interrogativa. «Sono pur sempre informazioni utili. Poi farò un check-up dei sistemi. Quanto a lei, credo che il suo lavoro sia finito. O le è rimasto qualche dubbio?».

   «L’impronta Klingon a bordo... deve essere di Worf, l’Ufficiale Tattico dell’Enterprise-D. L’avrà lasciata quando entrò a recuperare gli oggetti rubati» disse l’Aenar, meditabonda. «Comunque ci sono ancora degli esperimenti che vorrei fare, se me lo permette. Tipo esporre dei microrganismi alle radiazioni tachioniche del nucleo. O anche esaminare il flusso tachionico con un sensore ottico Borg che mi sono procurata. Non mi aspetto grandi scoperte, ma...».

   «Va bene, prenda ciò che le serve e lo porti qui» concesse Grenk. Mentre parlava, le luci dell’hangar tremolarono ancora. «Frell! Come si fa a lavorare, se la luce va e viene?!» protestò.

   «Dovrebbe risolvere il problema, prima che diventi un pericolo per la nave» commentò Neelah.

   «Uhm, già. Chiederò ai Bynari di sostituirmi» convenne Grenk. «Lei faccia pure i suoi esperimenti coi microbi, ma non tocchi i comandi».

 

   Quando Neelah tornò con i campioni di microrganismi, trovò i Bynari al lavoro sulla navetta. Erano chini sul pavimento: avevano messo a nudo il nucleo temporale e stavano facendo dei rilevamenti.

   «Salve, dottoressa».

   «L’Ingegnere Capo ci ha avvisati del suo coinvolgimento nel progetto».

   «Se vuole esporre i microbi alle radiazioni del nucleo, potrà farlo...».

   «... non appena avremo terminato i rilevamenti».

   «Non ho fretta» sorrise Neelah, divertita da come i Bynari si completavano le frasi. Portò i campioni a bordo e sedette sulla poltroncina del copilota, osservando i piccoli alieni all’opera. Era passato meno di un minuto, quando una grossa sagoma si stagliò sulla porta della Phoenix, lasciata aperta per favorire il via vai.

   «È permesso?» chiese Raav, strizzandosi per passare dalla porticina.

   «Tu che ci fai qui?!» chiese Neelah.

   «Ho sentito che il povero Rasmussen non tornerà. Sssshhht! Un brutto colpo per Grenk» spiegò il Gorn. «Volevo dargli questo, per consolarlo» disse, porgendo un cartoccio caldo. «Involtini tellariti, il suo piatto preferito».

   «Siamo certi che l’Ingegnere Capo apprezzerà il pensiero...».

   «... ma come vede non è qui» dissero i Bynari.

   «È dovuto correre in sala macchine, per la faccenda delle pulci fotoniche» aggiunse Neelah. «Tu ne sai niente? Mi pare che siano spuntate dal tuo ristorante...».

   «Respingo ogni accusa. Sssshhht! Il mio ristorante è un tempio dell’igiene e del cibo sano!» protestò Raav.

   «Già, così sano che a volte è ancora vivo» ridacchiò Neelah.

   «Signore, questa è un’area riservata...».

   «... dobbiamo chiederle di andarsene immediatamente...».

   «... o chiameremo la Sicurezza» avvertirono i Bynari.

   «Ma sì, ora vado» disse Raav, scuotendo il lungo muso da rettile. Fece per voltarsi, ma si bloccò. «Sssshhht! Grande Coccodrillo, ne avete una qui!» avvertì, indicando un puntino luminoso che ronzava presso un pannello smontato.

   «Se avessi un retino elettromagnetico sottomano...» disse Neelah.

   «Ci penso io» assicurò Raav, avanzando con le zampe tese, come se volesse schiacciare una mosca.

   «Si fermi» intimò il Bynario 0.

   «Così rischia di peggiorare le cose» aggiunse il Bynario 1.

   Stipati nell’angusta navetta, i quattro fissarono con apprensione la pulce fotonica, che brillava di una calda luce dorata. Si era attaccata a un cavo scoperto e ne assorbiva l’energia, facendosi sempre più grossa e brillante.

   «Potrebbe esplodere» avvertì 1.

   «Dobbiamo rimuoverla, ma senza danneggiare i cavi» aggiunse 0.

   Neelah si guardò attorno cercando uno strumento, fra i tanti ammucchiati sul pavimento, che fosse abbastanza lungo e sottile. Ne raccolse uno che sembrava adatto, ma quando si avvicinò alla pulce fotonica era troppo tardi. La creaturina, gonfia d’energia, esplose come un petardo. Gran parte dell’energia rifluì nei cavi scoperti, mandandoli in sovraccarico. L’ingresso della Phoenix si chiuse alle spalle di Raav, mentre il nucleo temporale brillava di luce bianco-azzurra e ronzava sempre più forte.

   «Uh-oh» fece Raav, portandosi un artiglio al mento.

   Il Bynario 0 chiuse lo scomparto del nucleo temporale. Appena in tempo. Le pareti brillarono iridescenti e la Phoenix fu attraversata da una vibrazione violentissima. Il ronzio crebbe ancora, finché un lampo bianco abbagliò i passeggeri. Infine la navetta si calmò, anche se sul quadro comandi rimasero molte spie accese. Neelah si accasciò contro la paratia; aveva le vertigini e un senso di malessere allo stomaco. I Bynari fissarono Raav dal basso verso l’alto, silenziosi ma con aria accusatrice.

   «Mi sono appena ricordato che ho lasciato qualcosa sul fuoco» disse il Gorn nervosamente. «Ci vediamo, eh? Grunt, come si apre quest’affare?» chiese, tastando la sezione esagonale in fondo alla navetta, senza riuscire a materializzare la porta.

   «Le consiglio di non aprire l’ingresso...».

   «... se non vuole decomprimere l’abitacolo» dissero i Bynari, correndo ai comandi.

   «Decomprimere?» chiese Raav con un filo di voce.

   «Esatto. Ci troviamo fuori dall’Enterprise...».

   «... in orbita attorno alla Terra» spiegarono gli ingegneri.

   La Phoenix non aveva una finestra anteriore come le navette ordinarie, perché nulla doveva interrompere lo scafo di lega molecolare. Per capire la posizione, i Bynari avevano consultato i sensori. Le loro parole furono confermate quando attivarono lo schermo olografico. Da un lato era visibile la Terra, dall’altro la Luna; ma dell’Enterprise non c’era traccia. Né si rilevava l’Hangar Spaziale Terrestre. L’orbita era stranamente sgombra.

   «Quando?» chiese Neelah, con voce rauca. «Quando siamo finiti, di grazia?» domandò, mentre le sue antenne si torcevano come impazzite. Nessuno rispose.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Riflessi oscuri ***


-Capitolo 2: Riflessi oscuri

 

   «Diario del Capitano, data stellare 2553.056. La nostra caccia all’ISS Enterprise ci ha condotti sull’orlo delle Badlands, una delle regioni di spazio più pericolose per la navigazione. Per chi vive nei mondi centrali della Federazione, il nome “Badlands” evoca forse qualche vecchia olo-novela. Conosciamo tutti le storie romantiche dei Maquis che sfruttavano le tempeste di plasma per nascondersi dai Cardassiani, o della Voyager che da qui fu attirata nel Quadrante Delta. Ma trovarsi davvero nelle Badlands per combattere è tutt’altra cosa. Non che in passato fosse diverso; gratta via l’aura romantica dei “bei tempi andati”, e scopri che anche all’epoca la vita era dura da queste parti. Oggi, almeno, abbiamo i Cardassiani dalla nostra. Ma le tempeste di plasma sono peggiorate e metteranno a dura prova gli scudi dell’Enterprise.

   Oggi abbiamo trovato il relitto di un mercantile Ferengi. Era sventrato e non c’erano superstiti, malgrado avesse lanciato molte capsule di salvataggio. Il carico era stato razziato. Dall’analisi del relitto e dai residui energetici delle armi riteniamo che sia opera dell’ISS Enterprise. La nostra gemella dello Specchio non si accontenta di fare bottino; dopo aver saccheggiato una nave la demolisce. Ma non credo che il mio alter-ego lo faccia per puro spirito di distruzione. Credo piuttosto che voglia testare la nostra capacità di reagire, di localizzarlo, di dargli battaglia. È sia l’esca che il predatore. E se si convincerà che la Federazione non è capace di fermarlo... beh, temo che questi attacchi saranno solo il preludio a un’invasione. Vorrei sperare altrimenti. Ma l’Impero Terrestre ha mostrato di che pasta è fatto. Nessuna nostra... consanguineità potrà risparmiarci, se fiutano la nostra paura. Ecco perché questa missione non deve fallire. Fine registrazione».

   Il Capitano Chase lasciò la poltroncina e passeggiò nervosamente per l’ufficio. Si fermò davanti alla finestra, osservando lo spazio fuori dall’accogliente guscio dell’Enterprise. Di solito nei momenti di sconforto lo spazio gli sembrava molto buio, e freddo, e solitario. Ma non stavolta. Questa volta, l’oscurità cedeva il passo a un incendio giallo-arancio di plasma infuocato, che s’arricciava in nubi sempre mutevoli. Tra una nube e l’altra si aprivano varchi abbastanza grandi da permettere il passaggio delle astronavi. Ma anche i varchi mutavano; una via poteva chiudersi appena imboccata. In questo caso si poteva solo sperare che gli scudi reggessero per il tempo necessario a uscire dal plasma surriscaldato. E anche nei varchi più ampi, improvvisi vortici di fuoco potevano materializzarsi in ogni momento, collegando una nube con l’altra. Si aggiravano come trombe d’aria incandescenti; erano imprevedibili e letali. Molti piloti esperti si erano pentiti di averli sfidati. Quello era il territorio in cui si rintanava l’ISS Enterprise.

   Chase sollevò le mani e posò i palmi aperti sulla finestra. Chiuse gli occhi e avvicinò il viso, fino a sfiorare con la fronte il metallo trasparente. Poteva quasi sentire il suo doppione che lo sfidava a entrare nella trappola infuocata delle Badlands, per dimostrare alla Galassia chi era il migliore.

   «Diario del Capitano, supplemento» disse Chase. «La missione sarebbe più facile se i miei ufficiali Ilia e Lantora fossero qui. Mi pento di averli lasciati andare in missione. La loro esperienza mi sarebbe preziosa. Certo si può pensare che, con tremila ufficiali in servizio, la loro assenza dovrebbe notarsi appena. Ma ogni giorno che passa mi accorgo di come fossero insostituibili. È buffo: non ci accorgiamo di quanto vale chi ci sta intorno se non quando lo perdiamo. Certo, io conto di rivederli a fine missione...».

   Chase sospirò stancamente e lasciò la finestra, tornando in poltrona. «Quel che mi preoccupa maggiormente, invece, è la scomparsa della Phoenix» confessò. «Se n’é andata dieci giorni fa e ancora non ne sappiamo nulla, nemmeno la sua destinazione. E anche se la sapessimo, non abbiamo altre crono-navette da mandarle dietro». Il Capitano piantò i gomiti sulla scrivania e prese a massaggiarsi le tempie.

   «Questo nuovo incidente conferma la pericolosità dei viaggi nel tempo. Prima abbiamo perso Rasmussen. E ora mancano all’appello in quattro, tra cui due ottimi ingegneri... e Neelah». Chase sospirò nuovamente. «Se c’è qualcosa di peggio di un Capitano con un equipaggio incompleto, è un Capitano emotivamente coinvolto. Ma non posso permettermi alcuna distrazione. Devo rimanere concentrato sulla missione. Eppure... non so che darei per sapere dove si trova lei, se ha bisogno d’aiuto, perché non riesce a tornare. Non so che darei per riaverla con me. Fine registrazione». Chase inclinò la poltroncina all’indietro, fin quasi a toccare il muro con la nuca.

   «Capitano, ho rilevato alti livelli di stress e di depressione nella sua voce. Posso fare qualcosa per aiutarla?» trillò la voce di Terry. Quando redigevano i loro diari personali, gli ufficiali si affidavano a un sotto-programma autonomo del computer, per ragioni di privacy. Ma pur essendo esclusa dai contenuti, Terry poteva analizzare le inflessioni vocali, traendone le sue conclusioni. Per non sembrare troppo invadente parlò tramite il microfono della scrivania, senza materializzare alcuna proiezione isomorfa.

   «Mi spiace, Terry, ma stavolta non puoi farci niente» rispose il Capitano.

   «Se si riferisce ai dispersi della Phoenix, devo darle ragione» ammise Terry. «Ma i nostri colleghi su Vorgon sono accompagnati da una mia proiezione».

   «Cosa di cui sono grato» riconobbe Chase. «Ma dimmi... non ti disturba il fatto che un pezzo di te sia a spasso ad anni-luce di distanza?».

   «No, perché? Sono programmata così».

   «Beata te».

   Trascorse qualche secondo di silenzio. Chase credeva che la conversazione fosse finita. Invece Terry si fece nuovamente sentire. C’era qualcosa di strano nella sua voce: una sorta di ritrosia, come se temesse di essere indiscreta.

   «Capitano, lei si sente... incompleto, al momento?».

   «In un certo senso».

   «Quale parte di lei ritiene mancante?» chiese Terry, vagamente in apprensione.

   «Non c’è bisogno di allertare l’infermeria. Fisicamente sono al completo, non mi manca nulla» la rassicurò Chase.

   «Deduco che il suo senso di privazione sia psicologico. Riguarda la scomparsa della dottoressa Neelah?» chiese Terry.

   «Sì, contenta?!» sbottò Chase. «Ma cosa te ne parlo a fare? Che sa un ologramma dell’amore?!».

   «Conosco tutto lo scibile della Federazione sull’argomento» puntualizzò Terry. «Ma se si riferisce all’esperienza pratica, devo darle ragione. Non ho mai provato quello che voi Organici chiamate amore».

   «Mi spiace» disse Chase, più comprensivo. «Ma ne saresti capace, dico bene? Hai emozioni proprio come noi».

   «Sì, Capitano. Ma la mia entrata in servizio risale ad appena tre anni fa, quando fu varata l’Enterprise. Ho preferito evitare coinvolgimenti emotivi, finché non avessi maturato abbastanza comprensione della vita umana da saperli gestire».

   «Molto saggio» riconobbe Chase. «Ma spero che un giorno anche tu troverai l’anima... pardon, il software gemello».

   «Espressione interessante. Capitano, per quanto apprezzi le nostre conversazioni filosofiche, devo interromperla» avvertì Terry. «Ho ultimato l’analisi multi-spettrale dei relitti. La nave Ferengi è stata distrutta meno di sei ore fa. E non c’è traccia di cavitazione quantica entro un anno-luce. L’ISS Enterprise deve essere ancora in zona. E poiché nemmeno i miei sensori anti-occultamento riescono a captarla, c’è un’alta probabilità che si nasconda nelle Badlands».

   «L’avevo messo in conto. È quel che farei io» commentò Chase.

   «Capitano, ha riflettuto sul fatto che, come lei presagisce le mosse dell’avversario, altrettanto potrebbe fare lui?» chiese Terry.

   «Stai dicendo che potrebbe essere lui a incastrarmi. Sì, naturalmente ci ho pensato» disse Chase, alzandosi. «Per questo conto sui tuoi consigli. La tua omologa dello Specchio è una specie di sorvegliante orwelliano... questo la rende molto diversa da te. Più di quanto l’altro Chase sia diverso da me, forse» ammise a malincuore, tornando a fissare l’incendio delle Badlands dalla finestra.

   «Le mie subroutine psicanalitiche dicono che lei è tormentato dalla natura di questo avversario» rilevò Terry. «Gli Umani trovano disturbante l’esistenza di alter-ego: li considerano un affronto alla propria individualità. E ora lei deve affrontare la versione ostile di se stesso, proveniente da un Universo parallelo. Molti Umani lo definirebbero il loro peggiore incubo».

   «Grazie, Terry, la tua analisi mi fa stare molto meglio» disse Chase, sarcastico.

   «Sempre lieta di essere utile, signore» disse Terry, non cogliendo l’ironia. «Posso consigliarle, nei prossimi giorni, una dieta a base di pesce? Gli acidi grassi Omega-3 potenzieranno le sue facoltà cognitive, fornendole un lieve vantaggio sulla sua controparte dello Specchio... sempre che non segua una dieta analoga» rifletté.

   «Se c’incontreremo, glielo chiederò» promise Chase, sempre ironico. «Ma ora diamoci da fare». Il Capitano lasciò l’ufficio, tornando nella grande, luminosa, sofisticatissima plancia dell’Enterprise. Una proiezione isomorfa di Terry lo attendeva lì, seduta al suo posto, alla sinistra della poltrona di comando. Ma sulla destra, la poltroncina di Ilia era tristemente vuota. E dietro ai tre seggi, la postazione tattica era occupata dal sostituto di Lantora. Si chiamava Nalanda ed era un Klaestroniano, dalle tempie leggermente sporgenti e i capelli brizzolati. Era un buon ufficiale, ma non aveva quel quid che rendeva insostituibile lo Xindi.

   «Allarme Giallo» ordinò Chase. «T’Vala, tracci una rotta per esplorare le Badlands, ma cerchi di evitare gli addensamenti di plasma» aggiunse il Capitano, sedendo in poltrona.

   «Già fatto, signore; immaginavo che saremmo entrati» disse la timoniera, attivando i motori a impulso.

   Chase sorrise per quell’efficienza che ormai non lo meravigliava più, ma lo rincuorava ogni volta. «Plancia a sala macchine» disse poi. «Come procede la disinfestazione? Ci stiamo addentrando nelle Badlands e a breve potremmo scontrarci con l’altra Enterprise. Non possiamo permetterci cali di potenza».

   «Qui Grenk. Capitano, le piacerà sapere che le pulci fotoniche sono state debellate» rispose l’Ingegnere Capo, con palese soddisfazione. Lui e i suoi colleghi della sala macchine erano raccolti intorno a un’unità di contenimento semisferica. La superficie era opaca come vetro affumicato, ma dall’interno traspariva un caldo bagliore dorato. Chi aveva le orecchie più sensibili percepiva anche un lieve ronzio, come di migliaia d’api.

   «Abbiamo modificato sensori e teletrasporto, riuscendo finalmente ad agganciarle» spiegò Grenk. «Le abbiamo trasportate in un’unità di contenimento. Ora sono sotto controllo».

   «È sicuro di averle ingabbiate tutte?» chiese il Capitano.

   «Ehm, abbastanza. Voglio dire, i sensori non ne rilevano altre» borbottò Grenk. «Ma se anche ne saltasse fuori una che ci era sfuggita, andrebbe subito a far compagnia alle sue sorelline».

   «Ottima soluzione» approvò Chase. «L’aggiunga alle Procedure Speciali di Contenimento».

   «Sì, Capitano» disse Grenk, consultando gli indicatori su una consolle. «La nostra griglia energetica è nuovamente al massimo. Non c’è tempesta di plasma che possa impensierirci» assicurò.

   In plancia, Chase scambiò un’occhiata con l’Ufficiale Tattico. «Scudi operativi al 100%» confermò Nalanda.

   «Capitano, avrei una domanda» disse Grenk dal comunicatore.

   «Dica pure».

   «Che cosa... ehm... ne facciamo delle pulci fotoniche?».

   «Sono classificate come specie protetta?» chiese il Capitano, rivolgendosi a Terry.

   «No, sono una specie infestante» rispose subito l’IA. Sembrava impaziente di disfarsene, come lo sarebbe stato un cane con le sue pulci.

   «Capitano, non vorrà proiettarle nello spazio!» si preoccupò Grenk.

   «No, stavo pensando a un uso più costruttivo» disse Chase, con uno strano sorriso. «Fra poco verrò giù da lei e ne parleremo».

   «Come vuole... sala macchine, chiudo» disse il Tellarita.

   «Ci siamo, Capitano» avvisò T’Vala, richiamando l’attenzione generale sullo schermo. «Stiamo entrando nelle Badlands». Protetta dagli scudi cronofasici, l’Enterprise s’infilò tra due nubi di plasma infuocato. Tornado incandescenti la circondavano da ogni parte.

   «Sembra di stare all’inferno» mormorò Chase, vedendo i mulinelli di plasma che danzavano sullo schermo. Ogni pochi secondi uno di essi minacciava l’Enterprise, ma T’Vala li schivava sempre con rapidi cambi di rotta. Date le dimensioni dell’astronave, era prevedibile che prima o poi qualcuno l’avrebbe colpita. Ma una classe Universe poteva passare indenne attraverso molte tempeste di plasma. Certo che, se avesse dovuto contemporaneamente sostenere una battaglia, le cose si sarebbero messe male.

   Consapevole di questo, T’Vala diresse l’Enterprise con la massima attenzione, mentre Terry scandagliava lo spazio con i sensori. Cercava qualunque indizio potesse metterli sulle tracce dell’altra Enterprise. In plancia la tensione era palpabile. Nessuno parlava, se non per riferire qualche dato sulle tempeste di plasma; anche il Capitano rispondeva a monosillabi.

   «Capitano, permesso di parlare liberamente?» disse Terry a un certo punto.

   «Certo».

   «Secondo le mie stime, all’attuale velocità d’impulso impiegheremo vent’anni, tre mesi e sedici giorni per coprire tutto lo spazio delle Badlands» spiegò l’IA. «Per condurre l’operazione in tempi ragionevoli servirebbero centinaia di navi. Trovandoci da soli, potremmo sopperire con le sonde».

   «Le sonde non dureranno a lungo in queste tempeste» rifletté il Capitano. «E non mi entusiasma la prospettiva che l’altra Enterprise ne catturi una, accedendo alla nostra tecnologia».

   «Signore, nel tempo che ho trascorso a bordo, ho constatato che il nostro livello tecnologico è pressoché equivalente» intervenne T’Vala. «Non impareranno granché, da una semplice sonda».

   «E va bene» cedette il Capitano. «Terry, si prepari a lanciare la nostra intera dotazione di sonde, dalla classe 1 alla 9. Conservi solo una... no, due sonde per ogni classe».

   «Ne è sicuro, Capitano?» chiese l’IA.

   «Se è necessario dispiegare una rete di sonde, facciamolo bene. Potremmo non avere una seconda possibilità» confermò Chase.

   «Per rendere la rete più efficace, dovrà essere ben distribuita» ragionò Terry. «Le sonde di classe 1 e 2, che non hanno capacità di curvatura, dovranno essere depositate dall’Enterprise nelle loro zone. Sarà un’operazione lunga».

   «Ha fretta di andare altrove?» chiese Chase bonariamente.

   «No, signore. Elaboro una griglia di rilevamento che permetta di ottimizzare la ricerca dell’ISS Enterprise» disse Terry. Il suo sguardo si fece vitreo, come se stesse concentrando tutte le sue capacità di calcolo nello sforzo immane di dare ordine a quella caotica regione di spazio. Rimase così per qualche se secondo.

   «Convochi pure tutto il personale scientifico che le occorre» disse Chase, premuroso.

   «Griglia di rilevamento completata. Invio le coordinate al timone e ai responsabili delle sonde» rispose Terry, riavendosi.

   «Sa, alle volte credo che non avrebbe bisogno di noi, per mandare avanti la baracca» sospirò Chase.

   «Al contrario, la presenza di Organici a bordo aumenta considerevolmente la mia efficienza» corresse Terry. «Inoltre non vorrei mai andare in missione da sola. È snervante vedere se stessi da tutte le parti. Non potrei mai dirmi niente che già non sappia».

   «Capitano, siamo pronti con la prima sonda» disse T’Vala.

   «Rilasciatela» ordinò Chase. Per un attimo la sonda apparve sullo schermo, simile a un piccolo proiettile; poi scomparve contro l’orizzonte fiammeggiante.

   «Molte sonde saranno distrutte dai vortici di plasma, aprendo buchi nella griglia di rilevamento» commentò Terry. «Ma confido che la loro agilità, combinata con le piccole dimensioni, permetta alla griglia di durare abbastanza a lungo».

   «La prima sonda è in posizione» disse T’Vala. «Ne restano 71» aggiunse, con un piccolo sospiro. «Dirigo verso il punto di lancio della seconda?».

   «Diriga» confermò Chase. «E T’Vala... quando si sentirà stanca, si faccia pure sostituire, anche se il suo turno non fosse finito. Al timoniere serve massima concentrazione, finché rimarremo nelle Badlands».

   «Grazie, signore». La mezza Vulcaniana diresse l’Enterprise verso le coordinate inviatele da Terry. E così, sonda dopo sonda, l’astronave si addentrò sempre più nel cuore infuocato delle Badlands.

 

   «Patetico» disse il Capitano Chase dell’ISS Enterprise. In piedi davanti allo schermo, con le braccia incrociate dietro la schiena, osservava l’USS Enterprise intenta a sganciare l’ennesima sonda. «Potremmo passare a un metro dal loro scafo e ancora non ci vedrebbero» commentò.

   «È il momento perfetto per attaccare» suggerì Ilia, avvicinandosi da dietro. «Li coglieremo alla sprovvista, come abbiamo fatto con gli altri».

   Chase si girò, squadrando la Trill che gli sorrideva con complicità. L’apprezzava in plancia come a letto, ma raramente seguiva i suoi consigli. Da quando Ilia gli si era ammutinata contro, cercando di ucciderlo, Chase aveva compreso la necessità di... rivedere i parametri del loro rapporto. Così, dopo aver stroncato la rivolta, aveva sottoposto Ilia a un trattamento completo sulla Lobo-Sedia, ultima e più geniale invenzione del compianto dottor Korris. Tre ore di lavaggio del cervello l’avevano trasformata nell’ufficiale – e nell’amante – più devota che gli fosse mai capitata. Non poteva nemmeno pensare di ribellarsi ancora, o di disobbedire agli ordini. La sua programmazione era rigida quanto quella di Trudy, l’Intelligenza Artificiale dell’astronave. Ma per quanto Chase non dovesse più temere tiri mancini, preferiva pur sempre decidere da solo.

   «Non dica sciocchezze, Comandante» disse rigido il Capitano. «Stavolta non si tratta di attaccare qualche Bajoriano pacifista, o quei sudici Ferengi. Quella nave» disse indicando l’USS Enterprise «ha i nostri stessi armamenti. Anche se attaccassimo per primi, non è una garanzia di vittoria».

   «Elaboro» disse Trudy, avvicinandosi. «Cogliendoli alla sprovvista abbiamo il 51% di probabilità di vittoria. Significa il 49% di probabilità d’essere distrutti. E anche se prevalessimo, subiremmo gravi danni, che ci esporrebbero alle tempeste di plasma».

   «Tranquilla, mia cianotica amica» disse Chase, ammirando il corpo bluastro della proiezione isomorfa. «Non metterò così a repentaglio la nave» disse, con l’amarezza che veniva dai brutti ricordi. Diede un’occhiata malinconica alla plancia.

   C’era voluto un anno per riparare l’Enterprise da tutti i danni subiti nell’ultima battaglia contro i Breen. Un anno in cui l’Ammiraglio N’Rass aveva preso le redini della guerra, portandola al suo inevitabile epilogo: con la distruzione del pianeta centrale, la Confederazione Breen era piombata nel caos. Nulla più ostacolava l’Impero Terrestre nella sua espansione nel Quadrante Alfa. Naturalmente tutta la gloria era andata a N’Rass, che ora estendeva la sua influenza persino sulla Corte Imperiale. Per Chase, invece, c’era stato solo disonore. Era fortunato a non aver perso il comando dell’Enterprise, o anche la sua stessa vita. Aveva dovuto umiliarsi davanti all’Ammiraglio, implorare un’ultima occasione. Si era salvato solo promettendole nuove, incredibili conquiste in un luogo ancora inviolato: l’Universo oltre lo Specchio. Adesso che era lì, non poteva permettersi errori. Quell’avventura in un’altra dimensione lo avrebbe innalzato ai massimi onori dell’Impero o lo avrebbe affondato per sempre.

   «Dobbiamo far sì che quella brutta copia dell’Enterprise s’indebolisca, dobbiamo farle subire dei danni» ragionò Chase, sfiorandosi la corta barba. «Solo allora attaccheremo con tutto quel che abbiamo».

   «E come? Non possiamo aspettare che le tempeste di plasma indeboliscano i loro scudi» obiettò Ilia. «Siamo nelle Badlands da più tempo; saranno i nostri scudi a consumarsi per primi».

   «Infatti ci occorre ben altro» convenne Chase. «Dobbiamo offrire al mio doppione un’esca irresistibile».

   «Intende...?» chiese Ilia, apprensiva.

   «Timoniere, tracci una rotta verso il centro delle tempeste» ordinò il Capitano. «È il momento di salutare i padroni di casa» sogghignò, pregustando la vittoria.

 

   Korris uscì dalla cabina di teletrasporto, spingendo un carrello anti-gravità carico d’attrezzature. L’Enterprise era così grande che non se l’era sentita di fare tutta la strada a piedi. Per fortuna le cabine erano distribuite in modo uniforme su tutta la nave, e una era vicina al laboratorio di Neelah. Il dottore spinse il carrello fino all’ingresso e si avvicinò al sensore sulla parete.

   «Korris Vrel, Ufficiale Medico Capo» disse stancamente, mentre il sistema di sicurezza autonomo installato da Neelah lo sondava.

   «Impronta vocale, scansione retinica e codice genetico confermato. Prego, si accomodi, dottor Korris» disse il computer, aprendo l’ingresso.

   «Sigh... sei ancora paranoica, vero?» sospirò Korris, spingendo dentro il carrello. Il laboratorio di Neelah non era cambiato dall’ultima volta che l’aveva visto. Era sempre pieno di strane apparecchiature ibride, assai diverse dagli strumenti usati nelle infermerie e negli istituti di ricerca della Flotta Stellare. C’erano tecnologie raccolte dagli angoli più sperduti della Galassia. Molte erano pericolose o illegali. Neelah aveva una quantità di permessi speciali, ma Korris temeva che sarebbe finita nei guai, se qualcuno si fosse preso la briga d’inventariare le sue attrezzature. In fondo alla stanza c’era persino un’alcova Borg, con i comandi attivi. Sui tavoli e nelle unità di contenimento vi erano esperimenti ancora in corso, monitorati dai sistemi automatici. Così a occhio, Korris riusciva a capirne solo alcuni, sebbene fosse l’Ufficiale Medico Capo dell’Enterprise.

   «Sei sempre la stessa: vulcanica, disordinata, affaticata su cento progetti...» mormorò Korris, cominciando a scaricare le apparecchiature dal carrello. Erano quelle che Neelah aveva lasciato in infermeria, al momento della sua sparizione, due settimane prima. Ormai era chiaro che non sarebbe tornata a reclamarle e Korris non sopportava di vederle tutto il giorno; le ricordavano troppo la collega scomparsa. Non che lui e Neelah fossero realmente colleghi. L’Aenar si era sempre rifiutata di entrare nella Flotta Stellare. Ma grazie alla sua consulenza, Korris e la sua equipe avevano fatto passi da gigante nel combattere gli effetti nocivi delle anomalie. Di quelle scoperte stavano beneficiando interi popoli. Sì, Neelah avrebbe lasciato il segno nella storia della medicina... oltre che nei ricordi di qualche amico. Era uno strano sodalizio, il loro; entrambi parlavano poco di sé e non facevano domande sull’altro. Nonostante ciò – o forse per questo – lavoravano bene.

   Korris finì di sistemare l’ultimo attrezzo. Si guardò malinconicamente attorno. I poeti bajoriani dicevano che, a lungo andare, i luoghi finivano per assomigliare ai loro abitanti, fino a rispecchiarne l’anima. E quel laboratorio, un po’ inquietante, ma pieno di straordinarie ricerche e invenzioni, diceva molto dell’Aenar che ci aveva lavorato. Figlia di una specie in via d’estinzione, dispersa chissà dove nel passato...

   «Addio, amica mia» mormorò Korris. «Ovunque tu sia, che i Profeti veglino sul tuo cammino» aggiunse, e uscì spingendo lentamente il carrello.

 

   «La sonda 32 segnala qualcosa, signore» disse Terry.

   «Sia più specifica» ordinò Chase, accigliato. In una settimana di ricerche, non avevano trovato nulla. Non sapevano nemmeno se l’ISS Enterprise fosse ancora nelle Badlands.

   «Frammenti di scafo riconducibili ad almeno tre vascelli» rivelò Terry. Questo ridestò l’attenzione del Capitano e degli ufficiali.

   «Vascelli federali?» domandò Chase, preoccupato.

   «No, signore... l’analisi dei relitti indica che erano Dreadnought tuteriane» rispose Terry, fissando il Capitano con occhi un po’ distanti, come se fosse concentrata sulla lontana voce della sonda. La tensione in plancia salì ulteriormente.

   «Tre Dreadnought distrutte» disse Chase, unendo le punte delle dita. «Poche navi sono in grado di farlo».

   «Io posso... e anche la mia gemella dello Specchio» disse Terry. «Se è opera dell’ISS Enterprise, potrebbe essere ancora nei paraggi».

   «È la nostra unica pista, seguiamola» disse Chase. «Invii la rotta al timone».

   «Sì, Capitano... ma l’avverto che i relitti si trovano nella zona centrale delle Badlands, la più ostile. Le nubi di plasma sono particolarmente dense» informò Terry.

   «Gli scudi resisteranno?».

   «Potrebbero resistere dentro una protostella» assicurò Nalanda. «Naturalmente sarà tutt’altra cosa, quando l’altra Enterprise ci sparerà addosso».

   «Procediamo» ordinò il Capitano. «Scudi al massimo, sensori all’erta. E che la fortuna arrida agli audaci».

   «Il Capitano Kirk disse che la fortuna arride ai pazzi, ai bambini e alle navi chiamate Enterprise» commentò Terry. «Non so perché mi accomunasse alle altre due categorie» aggiunse, sovrappensiero.

   «I Capitani delle Enterprise imparano ad aspettarsi sempre l’imprevedibile» disse Chase. E tornò a fissare lo schermo, assorto.

 

   I relitti delle Dreadnought erano sparpagliati in una vasta area e continuavano a disperdersi. Un grosso pezzo di scafo fu intercettato da un vortice di plasma sotto gli occhi dei federali, che lo videro sfrigolare, arrossarsi e infine andare in frantumi.

   «Dalla dispersione dei rottami, direi che la battaglia ha avuto luogo quattro o cinque ore fa» rilevò Terry.

   «Traccia delle armi dell’Enterprise?» chiese il Capitano.

   «Non posso stabilirlo» rispose inaspettatamente Terry. «Ci sono forti interferenze gravimetriche che ostacolano i miei sensori».

   «Ha detto gravimetriche?» si accigliò Chase. «Sono le stesse radiazioni delle Sfere. Non sarà che i Tuteriani ne hanno piazzata una anche qui?».

   «Questo spiegherebbe le Dreadnought di guardia» commentò Nalanda.

   «È possibile» annuì Terry. «Rilevo una concentrazione di onde gravimetriche a 3.500 km davanti a noi. Potrebbe essere una Sfera avvolta da un campo occultante». In quella l’Enterprise sobbalzò, colpita da un vortice di plasma.

   «Mi spiace, Capitano» disse T’Vala. «I vortici qui sono come impazziti. Sono più grandi e molto più violenti che in qualunque altra zona».

   «Ma gli scudi sono ancora al 90%» precisò l’Ufficiale Tattico. «Non si registrano danni a bordo. Aspetti... il dottor Korris si lamenta che lo scossone gli ha rovinato un esperimento in corso da tre settimane. Beh, in sostanza nessun danno» ripeté il Klaestroniano, senza scomporsi.

   «Uhm... può darsi che la Sfera influenzi le tempeste di plasma, rendendole più violente?» chiese il Capitano, rivolgendosi a Terry.

   «Una teoria affascinante, ma al momento non posso convalidarla» rispose l’IA. «Potrebbe essere un tentativo, da parte dei Tuteriani, di controllare i fenomeni distruttivi della nostra dimensione. Sarebbe molto più rapido che riplasmare lo spazio e altrettanto efficace nel danneggiarci».

   «Dobbiamo scoprire come stanno le cose» disse Chase. «T’Vala, ci porti nella zona di massima interferenza gravimetrica».

   «Ma signore... non dovremmo cercare l’ISS Enterprise?» esitò la timoniera.

   «Sarà più facile localizzarla senza le interferenze e con le tempeste di plasma ridotte» rispose Chase. «Avanti a un quarto d’impulso».

   «Sì, Capitano» disse T’Vala, reprimendo il suo scetticismo. Era convinta che quella distrazione fosse un errore, ma non voleva contraddire il Capitano. C’era già fin troppa tensione in plancia. Diresse l’Enterprise in uno slalom fra i vortici di plasma, finché la nave prese a sussultare con violenza.

   «Stiamo attraversando un campo di occultamento» confermò Terry. «Ma le emissioni gravimetriche sono molto più alte del normale. Capitano... l’unica volta che registrai livelli così alti fu tre anni fa, nella Macchia di Rovi, quando c’imbattemmo nella Super-Sfera» avvertì.

   «Un’altra megastruttura? Ma quante risorse hanno i Tuteriani?!» sbottò Chase, esasperato. «Allarme Rosso, pronti alla battaglia» ordinò, memore di come l’altra volta fossero riusciti a stento a distruggere una Super-Sfera ancora incompleta. Le sirene squillarono, mentre le luci si facevano più rosse e lampeggianti. Pochi attimi dopo l’Enterprise uscì dal campo occultante. E si trovò di fronte uno spettacolo inusitato.

 

   Al posto delle consuete Sfere c’era una struttura molto più complessa. Era formata da numerosi globi, che differivano considerevolmente per diametro. La loro superficie grigiastra, percorsa da linee a rilievo, ricordava le tipiche Sfere dei Tuteriani; ma queste erano collegate da un reticolato metallico che le teneva in posizione. I tralicci sembravano sottili, rispetto alla loro lunghezza; ma considerando le dimensioni dell’insieme, non lo erano poi molto.

   «E che questo che significa?» mormorò Chase, sbalordito. «Sembra un gioco a incastro per bambini!».

   «Devono essere bambini molto speciali, Capitano» disse Terry. «Ci sono diciotto Sfere, tutte collegate e tenute in posizione da quella struttura armillare. La più piccola ha un diametro di otto km, mentre la più grande sembra una consueta sfera di 19 km. I segmenti che le uniscono sono spessi 500 metri. La struttura, da un’estremità all’altra, misura 160 km di lunghezza, 80 di larghezza e altrettanti di profondità. Ogni sfera emette forti onde gravimetriche, che si combinano secondo una geometria non euclidea».

   «Stanno operando a pieno regime?» volle sapere Chase.

   «Probabilmente no, Capitano, ma è difficile stabilire...». Terry s’interruppe quando un vortice di plasma colpì l’Enterprise. Poi un altro. E un altro ancora.

   «Capitano, credo siano controllati dalle Sfere. Ci stanno attaccando» avvertì T’Vala, immergendosi nel suo lato vulcaniano. La paura si dissolse, lasciandola con la mente lucida: un requisito essenziale per sopravvivere in quel frangente. Diresse l’Enterprise fra un vortice e l’altro, evitandone la maggior parte.

   «Signor Nalanda, fuoco a volontà contro le Sfere» ordinò Chase. «Prima le distruggiamo, prima questo attacco avrà fine».

   «Bene, signore» disse il Klaestroniano. Lanciò una salva di siluri quantici contro la sfera più vicina, una delle minori. I siluri furono come assorbiti dalla sua superficie: riflessi bluastri di energia corsero per tutta la struttura armillare.

   «Ma che brutto» mormorò Chase.

   «Nessun danno... non è possibile! Quella sfera dovrebbe essere sventrata!» protestò l’Ufficiale Tattico, incredulo. Aprì il fuoco con le altre armi: raggi anti-polaronici, cannoni a impulso e per finire i siluri cronotonici. Anche stavolta i colpi furono assorbiti. Lampi di energia rimbalzarono fra una sfera e l’altra.

   «Assurdo... niente può fermare i siluri cronotonici» mormorò Nalanda.

   Chase ragionò in fretta. Che gli avrebbe detto Ilia, se fosse stata lì? Probabilmente avrebbe suggerito di ritirarsi, prima di subire danni, per studiare i dati raccolti ed elaborare una strategia. Ma prima di questo, lo avrebbe dissuaso dall’interessarsi alle anomalie. Come aveva detto T’Vala, con la sua logica impeccabile, erano lì per scovare l’altra Enterprise. Per le diavolerie dei Tuteriani c’era tempo in seguito.

   «T’Vala, ci porti fuori di qui» ordinò Chase. Ma l’Enterprise sussultò con violenza ancora maggiore e una consolle s’incendiò.

   «Quella era una salva di siluri» disse Terry, visibilmente scossa. «L’ISS Enterprise è appena uscita dall’occultamento. È sopra di noi, a ore sei, e ci attacca!».

   «Energia d’emergenza agli scudi dorsali. Rispondere al fuoco!» ordinò Chase.

   «Siluri transfasici lanciati, bersaglio colpito!» esultò il Klaestroniano. «Si allontanano».

   «Vediamoli» ordinò Chase. Si alzò, avvicinandosi allo schermo, e per la prima volta vide l’ISS Enterprise. Sfrecciava fra i vortici di plasma, che ora si accanivano anche contro di lei.

   «Poiché ora vediamo come in uno specchio, oscuro...» mormorò Chase, percorso da un brivido che partì dalla spina dorsale e arrivò a rizzargli i peli sulla nuca. Il suo alter-ego, il criminale di guerra dello Specchio, era lì... per ucciderlo! Se finora aveva coltivato qualche speranza di prenderlo vivo, adesso doveva rinunciarvi. Un destino incombeva sulle due Enterprise: una delle due avrebbe distrutto l’altra, ne era certo.

   «Capitano?» chiese Nalanda.

   «Bibbia, Corinzi 13.12» rilevò Terry. «Capitano, è sicuro che un versetto dell’era pre-curvatura possa aiutarci?».

   «T’Vala, ci porti all’interno della struttura» ordinò Chase, afferrando la poltroncina della timoniera, tanto era teso. «Passi tra una Sfera e l’altra, stando a non urtare i tralicci. Se ci avviciniamo tanto, i vortici di plasma non potranno colpirci. Non senza danneggiare la struttura stessa».

   «Okay, Capitano... ci provo» disse T’Vala, deglutendo. La paura tornava a farsi sentire: paura di non essere all’altezza, di fallire. Se avesse colpito uno dei tralicci, ad alta velocità, avrebbe tranciato in due l’Enterprise. Con grande sforzo, la timoniera represse i timori e si concentrò unicamente sulla sua mansione. L’Enterprise prese a zigzagare all’interno della megastruttura. Subito i vortici di plasma divennero più rari. Qualcuno scoccava ancora, ma per la maggior parte colpivano le Sfere. Bagliori di fiamma si riverberavano per tutta la struttura.

 

   «La mia brutta copia crede di sfuggirmi?» disse il Capitano Chase, sul ponte della ISS Enterprise. «Povero sciocco! Sta solo ritardando l’inevitabile» aggiunse, giocherellando con la vibro-lama d’ordinanza.

   «Non può farlo a lungo» commentò Ilia. «Entrerà in collisione con la struttura».

   «Non lascerò che una trave si prenda la mia gloria» disse Chase, sollevando lo sguardo verso lo schermo. «Timoniere, portaci dentro la struttura armillare».

   «Signore?» fece il timoniere, guardandolo come se lo credesse impazzito.

   «C’è qualche problema, Tenente?» chiese il Capitano, in tono minaccioso. «Lei è Umano, mentre il mio grezzo doppione fa guidare la sua nave agli alieni. Dimostriamogli quanto vale la nostra specie. All’inseguimento dell’Enterprise! Non ci sono marchingegni, né tempeste di plasma che possano separarci dalla preda! Avanti, in nome dell’Impero!» ordinò, portandosi il pugno al petto e levando poi il braccio nell’antico saluto. In quel momento la sua voce risuonò così imperiosa, così trascinante, che il timoniere obbedì e nessuno in plancia ebbe l’ardire di obiettare.

   L’ISS Enterprise si mise alle costole della gemella ed entrambe sfrecciarono fra le Sfere e i tralicci, scambiandosi bordate micidiali. I raggi anti-polaronici rigavano lo spazio, violacei. I cannoni a impulso sparavano senza posa. I siluri martellavano le astronavi, scuotendole in tutta la loro struttura. Era solo questione di tempo prima che una delle due cedesse.

 

   «Rapporto danni!» ordinò Chase, mentre il ponte dell’Enterprise vibrava e gemeva. Un’altra consolle andò in pezzi, ustionando l’addetto.

   «Scudi al 50% in rapida diminuzione» rispose Terry. «Gli scudi nemici sono al 70%, anche se rilevo maggiori indebolimenti in certe zone. Capitano, questa è una battaglia che non possiamo vincere».

   «Non lo dica più. Ogni battaglia può essere vinta; ogni battaglia!» gridò Chase, sebbene lui stesso fosse incerto e spaventato. Vide che la struttura tuteriana, colpita sia dai vortici di plasma che dai colpi andati a vuoto delle due navi, continuava a riverberare, come se l’energia andasse distribuita fra tutte le Sfere. Ma quando un siluro dell’ISS Enterprise colpì un traliccio, lo spezzò. Le estremità rotte brillarono d’energia bianca.

   «Ho capito...» mormorò Chase. «Tenente, miri ai tralicci. Se spezziamo il collegamento fra le Sfere, interrompiamo anche l’effetto diapason».

   «Potrebbe funzionare» riconobbe Terry. «Invio alla postazione tattica le coordinate dei bersagli».

   «Ce li ho» disse il Klaestroniano. «Faccio fuoco ora!». L’Enterprise scaricò il suo vasto arsenale contro i punti intermedi dei raccordi. Ogni volta che ne troncava uno, il successivo diventava più facile da distruggere, finché lo spazio fu ingombro dei loro frammenti. Intanto le Sfere, non più tenute in posizione, cominciarono a spostarsi. Alcune si allontanarono, andando alla deriva fra le tempeste di plasma. Altre si avvicinarono a tal punto da entrare in collisione. Erano abbastanza resistenti da non rompersi, così che rimbalzavano nella direzione opposta. Ma la situazione caotica fece sì che i loro effetti, prima coordinati, divenissero imprevedibili. Strane anomalie spaziali presero a comparire un po’ ovunque.

   «Scudi al 20%... Capitano!» gemette Terry, mentre la nave sobbalzava con particolare violenza. Un condotto si spezzò, facendone uscire gas, prima che Terry ne interrompesse l’afflusso.

   «Cos’è successo?» domandò Chase.

   «Un’anomalia ha superato gli scudi. I ponti da 15 a 20 del quarto anteriore destro sono stati colpiti e rilevo danni a cascata nella mia griglia energetica. C’è stata un’esplosione anche in sala macchine» riportò Terry.

   «Sala macchine a plancia; che diavolo state facendo?!» risuonò la voce di Grenk. «Qui abbiamo quattro feriti – due gravi – e una perdita di refrigerante! Se fossi stato tre metri più avanti, ora di me rimarrebbero solo le ossa!» protestò il Tellarita.

   «V’inviamo una squadra medica; voi sigillate la perdita» ordinò Chase.

   «E secondo lei che stiamo facendo?! Capitano, abbiamo perso la cavitazione. La griglia EPS è mezza fritta; un altro colpo così ed è la fine!» avvertì l’Ingegnere Capo, che in quel momento correva da una consolle all’altra, in un caos di fumo e grida. Un campo di forza d’emergenza circondava la perdita di gas refrigerante, che altrimenti avrebbe ucciso gli ingegneri.

   «Scudi ripristinati al 12%» disse Terry. «Capitano, l’altra Enterprise ci sta sempre dietro. Non possiamo distruggere le Sfere e affrontarla nello stesso tempo. Dobbiamo scegliere un bersaglio».

   «I suoi scudi?» chiese il Capitano.

   «Sono ancora al 40%» rispose l’IA, con una traccia di disperazione. I suoi capelli corvini, solitamente lisci e assettati, erano tutti in disordine e il suo viso cereo era annerito dalle esalazioni. Chase notò con stupore che aveva gli occhi arrossati e lacrimanti. Ecco cosa succedeva alle proiezioni isomorfe, quando somigliavano troppo agli Organici! Chase non aveva mai visto il suo Ufficiale Scientifico in quelle condizioni. Si rese conto che la sua strategia non funzionava: stava distruggendo l’Enterprise.

   «Aveva detto che in alcuni punti i loro scudi sono più deboli...» disse, aggrappandosi all’ultima speranza.

   «28% nella sezione motori, ma non riesco ad avere un aggancio con le armi» rispose Terry, frustrata.

   «Non pensavo a quelle. Ricorda le nostre Procedure Speciali di Contenimento?» chiese il Capitano.

   In quella l’ISS Enterprise urtò il troncone appuntito di un traliccio con la parte inferiore della sezione motori. Come una spina nella carne, l’estremità tagliente tracciò un lungo graffio nello scafo. L’astronave sbandò vistosamente e dovette rallentare la sua corsa. Anche così, sfregò contro una Sfera con l’orlo della sezione a disco, procurandosi altri danni.

   «Ecco, ora!» gridò Chase, puntando il dito contro la nave ferita. Era la loro ultima speranza di salvezza.

 

   «Rapporto!» gridò il Capitano Chase dell’Impero Terrestre, balzando in piedi dalla poltrona. Attorno a lui c’erano fumo e consolle in fiamme. Un uomo era a terra, incosciente, con metà del volto sfigurata dal fuoco. Chase gli passò accanto, ignorandolo, e si avvicinò a un’interfaccia ancora funzionante.

   «Brecce sui ponti da 75 a 79, i campi di forza reggono» l’informò Trudy.

   «Energia d’emergenza agli scudi!» ordinò Chase, stringendo i pugni.

   «Scudi anteriori al 35%, posteriori al 19%» rilevò Trudy. «Abbiamo ancora il vantaggio tattico sull’USS Enterprise, a meno di ulteriori collisioni».

   «Non ce ne saranno» disse Chase. «Allontaniamoci da questa struttura che si sfascia. Colpiremo il nemico da lontano... tanto non gli resta molto».

   «Siamo a 50 km dalla struttura... 100… 150 km» disse il timoniere.

   «Basta così» ordinò Chase, andandogli alle spalle.

   «Ne è sicuro, Capitano? Siamo ancora vicini...» osò dire l’uomo. Non si voltò, perché doveva rimanere concentrato sui comandi.

   «Eccome» disse Chase, impugnando la vibro-lama. Il resto dell’equipaggio, che gli stava alle spalle, vide il gesto; ma nessuno proferì parola. «Come sono certo che non farai altri errori» aggiunse, squadrando il timoniere. Attivò la lama e gliela conficcò alla base del cranio. La rigirò un poco e poi l’estrasse, mentre l’uomo si accasciava sui comandi; la morte era stata istantanea.

   «Questo è per aver rigato la carrozzeria» disse Chase. Pulì accuratamente la vibro-lama dal sangue, strofinandola sull’uniforme della vittima; poi la disattivò e se la rimise in cintura. «Sostituiscilo» ordinò a Ilia. «E qualcuno distrugga l’USS Enterprise, se non vi è di troppo disturbo». Il cadavere fu teletrasportato via. Ilia sedette sulla poltroncina ancora calda, senza fare commenti.

   «Siluri agganciati sul bersaglio» disse Trudy.

   «Ci chiamano, Capitano» avvertì l’addetto alle comunicazioni.

   Con un gesto, Chase segnalò a Trudy di aspettare. «Sullo schermo» ordinò. «Voglio vedere il mio doppione in faccia, prima di annientarlo».

   Stabilito il collegamento, i due Capitani si studiarono per lunghi momenti. Osservarono anche le rispettive plance, cercando di dedurre l’entità dei danni subiti dall’avversario. Dietro di loro, gli equipaggi si guardavano in cagnesco.

   «Finalmente c’incontriamo» esordì il federale. «Mi spiace che avvenga in queste circostanze».

   «Al contrario, non vorrei che fosse altrimenti» rispose l’imperiale. «La battaglia è verità. Solo battendoci al limite delle forze possiamo dimostrare chi siamo veramente. Lei, Capitano, si è battuto con onore; ma è finita. La sua nave non può competere con la mia. Come la sua pavida Federazione non può competere con la forza dell’Impero. Lo accetti e potrà morire con la dignità di un Capitano: assieme alla sua nave».

   «E dopo che succederà? Ci ha pensato?».

   «Che intende?».

   «Intendo dopo questa battaglia» disse il federale con semplicità. «Dopo le altre che seguiranno. Prima o poi si troverà braccato dalla Federazione. Potrà anche avere le stive piene, ma la sua nave avrà accumulato danni. Che farà?».

   «Mi commuove vederla così interessato a me!» ridacchiò l’imperiale. «Ma le sue preoccupazioni sono ingiustificate. Quando sarò soddisfatto del mio giro d’acquisti, tornerò a casa».

   «Spero si renda conto che la Federazione presidia il Tunnel Spaziale. Tornare là dentro non sarà facile come lo è stato uscirne. Non ora che deve attraversare un campo minato» si azzardò a rivelare Chase.

   «Capitano, se spera di salvare il suo equipaggio vendendomi informazioni, la invito a desistere. Non è degno di... noi».

   «Veramente speravo di salvare il suo equipaggio. Perché lo ha condotto in quest’avventura senza ritorno?».

   «Suvvia, Capitano. Sa bene che un arsenale come il mio apre tutte le porte» rispose l’imperiale. «Se avrò difficoltà a entrare nel Tunnel, comincerò a bombardare Bajor. Distruggerò una provincia ogni cinque minuti, finché non avranno disattivato le mine».

   «Queste carneficine sono inutili» insisté Chase. «La Federazione è composta da centinaia di specie che hanno imparato a convivere in pace. Con altre, che non hanno voluto farne parte, siamo ugualmente in buoni rapporti diplomatici. Poteva essere così anche con l’Impero Terrestre. Ognuno avrebbe governato i propri territori come preferiva, senza interferenze».

   «Non è così che l’Impero Terrestre ha ottenuto la grandezza» rispose duramente il Chase-Specchio. «I successi vengono sempre dalla conquista. Il giorno che lo dimenticheremo, diverremo come voi: deboli e pronti a cadere. Ecco perché devo declinare la sua maldestra richiesta di pietà. Guai ai vinti, Capitano!» minacciò, e interruppe la comunicazione. Sullo schermo riapparve l’USS Enterprise, che galleggiava in un marasma di Sfere e travature infrante, nera contro il plasma infuocato.

   Il Capitano imperiale scambiò un’occhiata con Ilia, che gli sorrideva radiosa. Assaporò il momento di trionfo. «Trudy, li hai sempre in aggancio coi siluri?» chiese.

   «Sì, Capitano».

   «Allora apri il...» Chase si bloccò, vedendo che l’USS Enterprise gli svaniva davanti. «Occultamento!» sibilò. «Quei vigliacchi credono di potermi sfuggire».

   «Non ci riusciranno, Capitano» assicurò Trudy. «Fra le tempeste di plasma e le radiazioni gravimetriche, riesco a rilevare la loro posizione, con un certo margine d’errore. Una metà dei colpi andrà a vuoto, ma l’altra...».

   «Basterà. Quando i primi colpi andranno a segno il loro occultamento cederà e potremo finirli» disse il Capitano, tornando a sedersi. «Signori, oggi la fortuna ci arride!» aggiunse, scambiando un’altra occhiata trionfante con Ilia.

   «Signore, stiamo perdendo gli scudi!» avvertì l’Ufficiale Tattico.

   «Com’è possibile?!» esalò il Capitano.

   «Non lo so... perdiamo energia da tutti i sistemi!» ansimò l’ufficiale, scorrendo gli indicatori di potenza. «Anche i banchi polaronici si prosciugano».

   «Mi sento come se mi stessero... dissanguando» mormorò Trudy, irrigidita e con gli occhi chiusi. La sua proiezione cominciò a sfarfallare.

   «Capitano a sala macchine: esigo una spiegazione!» strepitò Chase, picchiandosi sul comunicatore.

   «Signore, quaggiù è un delirio!» gemette Grenk, che correva con le braccia intorno alla testa, circondato da sciami di pulci fotoniche. Si posavano sui giunti di potenza, sui condotti, persino sul nucleo, assorbendone l’energia. Data la tensione altissima della potenza di bordo, alcune di loro scoppiavano, facendo danni peggiori. I tecnici cercavano di scacciarle, ma non avevano gli strumenti adatti. I Corpi Speciali erano già sul posto, ma anche loro esitavano. Non potevano mettersi a sparare in sala macchine, contro quelle creature minuscole e sfuggenti: avrebbero colpito il nucleo.

   Il Capitano vide la scena sullo schermo e si morse il labbro fino a farlo sanguinare. Non era possibile... la vittoria gli sfuggiva di nuovo fra le dita! «Da dove vengono quelle...» mugugnò.

   «Pulci fotoniche, signore» rispose Trudy. «Devono averle trasferite a bordo quando gli scudi hanno vacillato. La chiamata di Chase serviva solo a farci perdere tempo. In questi pochi minuti, le pulci si sono moltiplicate e hanno aggredito i miei sistemi chiave. Scudi anteriori al 30% in diminuzione» avvertì. La nave si scosse un’altra volta e l’illuminazione di plancia mancò per un istante. «L’Enterprise ha aperto il fuoco. Colpo diretto, scudi anteriori al 20%. Ordini, Capitano?» chiese la proiezione isomorfa.

   «Possiamo ancora vincere...» mormorò Ilia, incapace di accettare l’improvviso ribaltamento di forze.

   «No, finché perdiamo energia» disse Chase, livido in volto. «Ritiriamoci, finché possiamo. Usciamo dalle Badlands e troviamo una zona tranquilla, per disfarci delle... pulci».

   «Sì, Capitano» sussurrò Ilia, avvilita.

   «Questa non è una sconfitta» disse Chase con decisione, rivolto a tutta la plancia. «Ci ritiriamo per combattere un altro giorno. Faremo tesoro di quanto abbiamo appreso sulle debolezze del nemico. E al prossimo incontro lo schiacceremo. Riscatteremo il nostro onore e dimostreremo una volta per tutte la supremazia dell’Impero Terrestre. Terra firma!».

   L’ISS Enterprise si allontanò dalla struttura tuteriana, avventurandosi di nuovo tra i vortici di fiamma delle Badlands. Un getto di plasma colpì la sezione a disco, scuotendola. L’attimo dopo, l’astronave entrò nel tunnel di cavitazione.

 

   Sulla plancia dell’USS Enterprise, tutti videro la ritirata della nave nemica. Ma nessuno esultò. La missione era catturarla o distruggerla; farsela sfuggire significava che altri obiettivi federali sarebbero stati attaccati.

   «La cavitazione è ancora offline» disse T’Vala. «Non possiamo inseguirli, Capitano».

   «Me l’aspettavo» sospirò Chase. Notando lo sconforto degli ufficiali, capì di dover fare un breve discorso. «Signori, questa non è una sconfitta» disse con decisione. «Siamo sopravvissuti per combattere un altro giorno. Faremo tesoro di quanto abbiamo appreso oggi sul nemico. E al prossimo incontro lo batteremo. Porremo fine ai suoi attacchi e dimostreremo quanto vale la Flotta Stellare». Si premette il comunicatore. «Capitano a sala macchine, situazione».

   «Non mi chieda di andare a cavitazione! Non potremo farlo per ore, forse per giorni» rispose subito Grenk.

   «Veramente volevo complimentarmi per l’Operazione Pulci» disse Chase. «Se non le avesse sbolognate ai nostri alter-ego non so come ne saremmo usciti. Le ha mandate tutte, vero?».

   «Quasi, signore. Il dottor Korris ha insistito per averne un paio da analizzare» spiegò l’Ingegnere Capo.

   «Spero non gli venga in mente di farle riprodurre» commentò Chase. «Oggi ci sono state utili, ma non credo che il giochetto funzionerà ancora».

   «Non si sa mai» grugnì il Tellarita. «Ora devo lasciarla... c’è un bel casino, quaggiù. Le farò avere un rapporto quanto prima».

   «Cerchi di darci ancora un po’ d’energia per le armi. Non abbiamo finito di bonificare l’area».

   «Farò il possibile. Sala macchine, chiudo».

   Chase si rivolse all’Ufficiale Tattico e gli accennò la struttura tuteriana, nuovamente inquadrata sullo schermo. Quasi tutti i globi si erano staccati e andavano alla deriva. Alcuni urtavano i tralicci che in precedenza li avevano collegati; altri erano colpiti dalle tempeste di plasma che loro stessi scatenavano, ma non riuscivano più a dirigere con precisione.

   «Quando vuole, Tenente» invitò Chase.

   «Lancio i siluri transfasici. Uno per sfera basterà, ora che sono danneggiate» disse il Klaestroniano.

   I siluri sfrecciarono verso i loro obiettivi, cogliendo una dopo l’altra le Sfere alla deriva. Le esplosioni si allargarono sui gusci grigi, fratturandoli. L’effetto si propagò ben presto ai generatori centrali. Ogni volta che un reattore esplodeva, il guscio esterno si polverizzava in una miriade di frammenti incandescenti, che si allargavano perdendo gradualmente la forma sferica. Le onde d’urto s’incrociarono, divenendo sempre più caotiche. Era uno spettacolo unico, di una bellezza che mozzava il fiato e faceva rabbrividire. Per qualche istante i federali ne furono rapiti, tanto da dimenticare la maggior parte dei loro guai.

   «Signore, i detriti stanno per colpirci» avvisò Terry. «I miei scudi sono troppo deboli per proteggerci. Dobbiamo allontanarci subito».

   «Sentito, T’Vala? Ci porti via di qui» ordinò Chase.

   «Con piacere» disse la timoniera, impostando la rotta per uscire dalle Badlands. L’Enterprise sfrecciò via a massimo impulso, mentre i resti della megastruttura esplodevano come immani fuochi d’artificio.

 

   Sebbene fosse passata un’ora dalla battaglia, il ponte 15 era ancora buio e senza energia. In quel punto l’anomalia aveva colpito duramente, mettendo fuori uso la griglia EPS. Squadre d’ingegneri erano arrivate tramite i tubi di Jefferies, perché sia le cabine di teletrasporto che i turboascensori erano ancora inattivi. Ora gli esperti stavano cercando di ripristinare l’energia, lavorando alla luce delle torce o di piccoli droni fluttuanti. Ma non c’era lavoro solo per gli ingegneri. Il dottor Korris e la sua squadra si affrettarono verso la sala controllo ausiliaria, in cui lavoravano stabilmente sei addetti. Con l’impatto dell’anomalia, ogni comunicazione era cessata. E i sensori interni danneggiati non riuscivano nemmeno a stabilire se l’equipaggio fosse vivo o morto.

   «Ci siamo» disse Korris, leggendo la targhetta accanto all’ingresso. Si avvicinò, ma la porta, senza energia, rimase chiusa. «Uhm... non hanno nemmeno tentato di aprirla dall’interno. Brutto segno» commentò il medico. «State pronti, ragazzi». Prese un’unità di sblocco, simile a un disco sottilissimo delle dimensioni di un palmo, e l’applicò alla porta. Premette il comando al centro e indietreggiò di un passo. L’unità di sblocco si mosse di lato, aderendo tenacemente alla porta e obbligandola quindi ad aprirsi. Dentro era buio pesto.

   «Ugh... cos’è questo fetore?» chiese un’infermiera.

   «Nulla di buono» rispose Korris, indugiando sulla soglia. Faceva freddo, perché anche il riscaldamento era spento. Ogni respiro dei medici si condensava in una nuvoletta bianca. Ma non era per quello che Korris si sentiva tremare da capo a piedi. «Oh, insomma... sei l’Ufficiale Medico Capo!» si disse. «Sei abituato a queste cose». Richiamò i tre droni-torcia al seguito della squadra e ordinò loro di entrare, illuminando la sala controllo. Respirò a fondo e li seguì, primo del suo team a entrare nella stanza maleodorante.

   «Oh, Profeti benedetti!» mormorò, guardandosi attorno. Non c’era nulla da fare per i sei ufficiali, salvo rimuovere i loro resti e procedere alle autopsie. Ma anche quello si preannunciava laborioso. I suoi colleghi, dietro di lui, imprecarono man mano che entravano. Alcuni non riuscirono a reggere la vista, sebbene fossero medici esperti, con anni di servizio. Uno di loro si portò le mani alla bocca e si precipitò fuori dalla sala controllo. Gli altri, rimasti all’interno, udirono i suoni poco gradevoli dei suoi conati di vomito. Le infermiere erano inorridite e non osavano toccare nulla, né addentrarsi nella sala, il cui pavimento era invaso dal sangue e da altri fluidi corporei.

   Korris si umettò le labbra con la punta della lingua. «Dobbiamo portarli in infermeria» disse. «Sapete... per l’autopsia».

   «Il sangue si è coagulato, incollandoli al pavimento» mormorò un altro medico. «Come... li stacchiamo, signore?» chiese.

   «Con martello e scalpello, se necessario» ripose Korris, stringendo gli occhi mentre osservava quei corpi scempiati. Mai come in quel momento aveva odiato i Tuteriani. Anche se era un medico, e aveva giurato di proteggere la vita, si augurò che la Federazione li ricacciasse tutti nell’Universo vuoto e caotico da cui provenivano.

 

   «Il personale della sala controllo ausiliaria è morto» disse Korris, quando andò a fare rapporto al Capitano nel suo ufficio. «Tutti i corpi sono stati invertiti anatomicamente» aggiunse senza enfasi.

   «Sono stati cosa?» domandò Chase, alzando gli occhi dal d-pad in cui stava leggendo il rapporto danni di Grenk.

   «Invertiti anatomicamente» ripeté Korris. «Significa che l’anomalia li ha rivoltati come calzini. Gli organi e le ossa erano sparpagliati sopra la massa dei tessuti muscolari, connettivi ed epiteliali. L’autopsia ha... insomma... io ritengo che la morte non sia stata istantanea» aggiunse, fissando il pavimento.

   Per un attimo l’orrore di quelle parole galleggiò nell’ufficio di Chase. Il Capitano e il dottore stettero immobili e muti; il silenzio era tale che Korris sentiva il sangue pulsargli nelle orecchie.

   Chase posò il d-pad sulla scrivania e alzò gli occhi verso Korris. «Sapevo che poteva succedere» disse in tono asciutto.

   «Lo sapeva?!» sbottò Korris.

   «Secoli fa, una nave Klingon che attraversava la Distesa Delfica incontrò un’anomalia simile» spiegò Chase. «Quando i Vulcaniani li trovarono, scoprirono che  erano stati... rovesciati all’infuori» spiegò Chase.

   «Avrebbe dovuto pensarci due volte, prima di attaccare quella Sfera multipla!» protestò Korris.

   «Distruggere le Sfere è il nostro incarico» rispose il Capitano. «Se non lo facciamo noi, chi ci penserà?».

   «Il suo incarico, Capitano, era inseguire l’Enterprise dello Specchio» gli rammentò Korris.

   «Non l’ho dimenticato. Ma in quel momento la distruzione della struttura aveva la precedenza» ribatté Chase. «È come quella volta nella Macchia di Rovi. I Tuteriani cercavano di amplificare un fenomeno naturale a nostro danno, ma li abbiamo fermati prima che operassero a pieno regime. Missione compiuta; ora possiamo riprendere la caccia all’altra Enterprise».

   «Missione compiuta?! Ma ha sentito cos’ho detto?» insorse il medico, posando le mani sulla scrivania di Chase e chinandosi su di lui. «Quattro uomini e due donne sono stati rivoltati come calzini! Non posso nemmeno ricomporre i cadaveri per le esequie, e lei parla di missione compiuta!».

   «Sì, dottore!» tuonò il Capitano, alzandosi di scatto. «Ogni giorno ci sono missioni che riescono e altre che falliscono, in tutti gli angoli della Federazione. Ciascuna ha un prezzo. Sa quante lettere di condoglianze ho firmato, da quand’è cominciata questa dannata guerra? All’inizio le scrivevo tutte da cima a fondo. Poi ho preparato una circolare, che personalizzo cambiando i nomi e qualche dettaglio, perché altrimenti non avrei il tempo. Ma continuo a svolgere le missioni... perché se non lo facessi, interi pianeti morirebbero».

   «E continuerà a inseguire l’altra Enterprise per tutto il Quadrante Alfa?» chiese Korris.

   «Certo. E anche per gli altri tre, se necessario» rispose il Capitano. «Non permetterò che un’altra potenza c’invada. L’ISS Enterprise deve essere la prima e l’ultima nave dello Specchio che osi attaccarci».

   «La sua forza eguaglia la nostra. Il Comando di Flotta doveva assegnarci qualche nave di supporto...».

   «Ne convengo, ma non l’ha fatto. E io devo arrangiarmi con quello che ho».

   «Capitano, questa è una battaglia che non può vincere!» insisté Korris, con una veemenza insolita per lui. «Il primo scontro ha danneggiato entrambe le navi; il prossimo le distruggerà. Non ci saranno vincitori. Lei combatte contro se stesso... contro la sua parte oscura che vede personificata nel Chase dello Specchio. Non tollera la sua esistenza; non vuole ammettere che, se lei fosse cresciuto nell’Impero, forse ora sarebbe come lui. Perciò le chiedo: è disposto a trascinare questo equipaggio verso la rovina, solo per soddisfare i suoi demoni personali?!». Korris aveva le labbra che gli tremavano e il suo viso solitamente grigiastro si era colorato di rosa per l’emozione. Non aveva mai parlato con tanta asprezza al suo Capitano.

   Alexander Chase scattò in piedi e diede un violento pugno alla scrivania. Usò il braccio destro, quello meccanico, e non tentò minimamente di contenerne la forza. Una crepa si allungò sulla liscia superficie di duranio, dividendo il mobile pressappoco a metà.

   «Torni subito in infermeria» ordinò Chase con sguardo bieco. «Rimetta in piedi i feriti; mi servono». Tornò a sedersi, prese il d-pad e riprese a leggere i danni.

   «Agli ordini... Capitano Achab» disse Korris a denti stretti, e lasciò l’ufficio.

 

   Una settimana dopo l’Enterprise lasciò finalmente le Badlands. Le tempeste di plasma si erano notevolmente affievolite dopo la distruzione delle Sfere. Quando l’astronave emerse dalle ultime propaggini delle Badlands, i sistemi principali erano tornati in piena efficienza. I feriti erano stati dismessi e si erano tenute le esequie dei caduti.

   «Signor Grog, contatti il Comando di Settore a Bajor e gli trasmetta il rapporto missione» ordinò Chase. Il Capitano vi spiegava come, dopo il loro primo scontro con l’ISS Enterprise, non avessero più avuto contatti con il nemico. Le sonde dispiegate nelle Badlands non avevano segnalato nulla, ma considerando quant’era avanzato l’occultamento dell’ISS Enterprise, era possibile che la nave fosse uscita dal perimetro. Chase detestava dover inviare un resoconto così inconcludente, ma voleva che la Flotta Stellare sapesse almeno che la struttura tuteriana era stata distrutta e che le Badlands erano meno pericolose. Quanto all’Enterprise dello Specchio... la sua balena bianca, come aveva suggerito Korris... Chase sospettava che fosse ormai lontana. Le Badlands le erano servite per tendere un agguato, non per nascondersi.

   «Ci chiamano da DS9, signore» disse Grog di lì a poco.

   «Sullo schermo».

   «Enterprise, mi ricevete? Qui è l’Ammiraglio Rota Falas» disse una Bajoriana dai capelli grigio ferro, comparendo tra qualche interferenza.

   «Qui Capitano Chase; la riceviamo».

   «Potete lasciar perdere la vostra inconcludente ricerca nelle Badlands, Capitano. L’ISS Enterprise si trova all’altro capo della Federazione» informò la graduata.

   «Come lo sa?».

   «Poche ore fa, una nave di classe Universe ha attaccato un’installazione federale al confine con lo spazio romulano» rivelò l’Ammiraglio.

   Chase ebbe un moto di sconforto. Ci mancavano i Romulani! «Si riferisce alla Repubblica o allo Stato Imperiale?» chiese.

   «Alla Repubblica, fortunatamente. Almeno non dovrete temere attacchi, mentre cercate l’Enterprise» spiegò Rota.

   «Ammiraglio, devo sapere quale installazione è stata attaccata» intervenne Chase.

   «Le stiamo inviando questa informazione in modalità criptata».

   «Ce l’ho» disse Grog. «Attivo matrice di decrittazione».

   Chase lesse il nome e le coordinate sull’interfaccia della sua poltrona. «Oh» mormorò, sentendosi raggelare. «Questo cambia tutto».

   «Se sperava di catturare l’ISS Enterprise, lasci perdere» disse la Bajoriana. «Ora ha l’ordine tassativo di distruggerla».

   «Non posso farlo solo con l’Enterprise» avvertì Chase. «Mi occorre qualche nave di supporto».

   «La Flotta è impegnata a difendere i pianeti più popolosi e altri sistemi chiave» rispose severamente l’Ammiraglio. «Le forze rimanenti devono scortare i convogli di rifugiati. Non possiamo offrirle aiuto, al momento».

   «E la task-force lungo il confine con lo Stato Imperiale?».

   «Quella deve restare dov’è, nel caso i Romulani approfittassero del caos per attaccarci».

   «Ammiraglio, con tutto il rispetto, non siamo più nel XXV secolo» disse Chase, soppesando le parole. «Dalla morte di Sela, lo Stato Imperiale non ha fatto che disgregarsi. Ormai è uno Stato eremita... orgoglioso a parole, ma privo di peso politico. Non ce lo vedo a lanciare un’invasione; e poi la Repubblica Romulana non lo permetterebbe».

   «Questi Stati eremiti, come li chiama lei, sono molto pericolosi» obiettò l’Ammiraglio.

   «Se l’altra Enterprise ha ottenuto... l’arma, è quella il pericolo maggiore» insisté Chase.

   «Allora le consiglio di muoversi» disse l’Ammiraglio. «Non si preoccupi per il Tunnel Spaziale. Ci sono mine e piattaforme automatiche: nemmeno l’Enterprise dello Specchio può passare. Ma lei deve darle la caccia e distruggerla, prima che sia troppo tardi. Ammiraglio Rota, chiudo». La Bajoriana terminò il collegamento prima che l’Umano potesse obiettare.

   «Che succede, signore? Cos’hanno preso i nostri doppioni?» chiese Nalanda.

   «Hanno attaccato la base segreta su Kolarus VI» rivelò Chase. «Non so come l’abbiano scoperta, ma non importa. Quella base fu stabilita durante la Guerra Civile Romulana e in seguito fu mantenuta come baluardo contro lo Stato Imperiale. Vi era custodito un certo quantitativo di Materia Rossa».

   Il gelo scese fra gli ufficiali di plancia. Come la Molecola Omega, la Materia Rossa era uno dei segreti militari più gelosamente custoditi dalla Flotta Stellare, e a ragione. Messa a punto dai Vulcaniani nel 2387, era un nuovo stato della materia, particolarmente instabile. A contatto con la materia ordinaria collassava, creando un buco nero. Se ciò accadeva su un pianeta, la singolarità cresceva tanto da risucchiarlo in pochi minuti.

   «Signore, durante la mia permanenza sull’ISS Enterprise ho appreso che la Materia Rossa è l’unica arma federale che l’Impero Terrestre non possiede ancora» disse T’Vala. «Se il suo alter-ego l’ha ottenuta, cercherà di riportarla nello Specchio».

   «Per questo l’Ammiraglio si è assicurato che niente possa attraversare il Tunnel Spaziale» disse Chase. «Vuole intrappolare l’ISS Enterprise nella nostra dimensione. Ma dato che anche qui ci sono pianeti da distruggere – i nostri! – dobbiamo neutralizzarla prima che accada l’irreparabile».

   «Capitano, dobbiamo presumere che l’ISS Enterprise abbia riparato i danni e si sia sbarazzata delle pulci fotoniche, dato che ha violato una delle nostre installazioni più protette» disse Terry.

   «Temo di sì» convenne Chase.

   «Ha anche attraversato lo spazio federale in pochi giorni» aggiunse T’Vala. «Ora potrebbe essere ovunque. Se aggiungiamo che dispone di un occultamento perfetto... come facciamo a trovarla?».

   «Speravo che me lo dicesse lei, con la sua logica vulcaniana» disse Chase, sconsolato.

   «La logica mi dice che è impossibile trovarla... ma essendo Vulcaniana solo a metà, potrei sbagliarmi» rispose prudentemente T’Vala.

   «Anche le mie subroutine tattiche giungono alla stessa conclusione» intervenne Terry. «L’ISS Enterprise ha un’autonomia di anni. Bloccarla nel nostro Universo non basta per metterla alle strette».

   «Potrebbe usare il teletrasporto modificato come collegamento con lo Specchio» aggiunse Grenk, che era stato informato degli ultimi sviluppi da Terry e partecipava alla discussione da un oloschermo.

   «Ritiene che potrebbe usarlo per trasferirvi la Materia Rossa?» chiese il Capitano.

   «Per quanto ne sappiamo, la Materia Rossa non si può teletrasportare: è troppo instabile» rispose Grenk. «Ma se l’analizzano a fondo, potrebbero capire come produrla. E quindi potrebbero trasmettere nello Specchio la ricetta» spiegò.

   «Non credo che il mio alter-ego oserebbe farlo» disse Chase. «Se rivela il segreto a qualcun altro, rischia di perdere il merito. No, riporterà la Materia Rossa di persona o non la riporterà affatto» comprese.

   «Questo ci riporta al problema iniziale: come lo staniamo?» chiese Nalanda.

   «Forse non ne abbiamo bisogno» disse lentamente Chase, con una scintilla di trionfo nello sguardo.

   «Capitano?» fece Terry, perplessa.

   «Il mio alter-ego ha già ottenuto un grande successo» disse Chase. «Fosse solo per quello, potrebbe pensare al ritorno. Ma sento che non è così. C’è qualcosa che continua a rodergli la mente. Qualcosa che tormenta le sue notti e gli impedisce persino di gioire delle vittorie».

   Gli ufficiali di plancia lo fissarono, sorpresi e inquieti.

   «Sto parlando di me e di questa nave» spiegò Chase. «Finché io vivo, lui non si sentirà unico. E finché esiste l’USS Enterprise, la sua nave non gli sembrerà la migliore. Ecco perché verrà lui a cercarci. La nostra stessa esistenza lo tormenta. Come lui tormenta me» ammise con una smorfia.

   «Quindi... che rotta devo impostare?» chiese T’Vala.

   «Ci porti a Kolarus VI» ordinò Chase, intrecciando le dita. «È l’ultimo luogo in cui è stata avvistata l’ISS Enterprise. Inoltre voglio vedere i resti della base».

   «Sì, signore» disse T’Vala, maneggiando i comandi con la solita efficienza. «Rotta impostata, pronti alla cavitazione».

   «Attivare!» ordinò Chase. L’USS Enterprise lasciò il Settore Bajoriano in un lampo bianco. Era diretta all’estremità opposta della Federazione, sul confine romulano, per la resa dei conti con la sua nemesi.

 

 

-Intermezzo 1:

 

Un milione di anni fa

Luogo: Organia

 

   «Basta, non ne posso più!» gemette la donna.

   «Sono ancora dietro di noi, non possiamo fermarci!» ansimò l’uomo, afferrandole la mano.

   La coppia correva a perdifiato nel claustrofobico tunnel d’acciaio, con il respiro mozzo e il cuore che batteva a mille. A tanti metri sottoterra, l’aria era così fredda che persino il sudore della corsa si raggelava sui loro corpi, facendoli rabbrividire. Ogni passo affondava nel rigagnolo fangoso, tutto ciò che restava del flusso d’acqua che una volta aveva rifornito la città sopra di loro. Il fango gli imbrattava le gambe e il rumore degli spruzzi tradiva la loro posizione. L’unica fonte di luce, era una piccola torcia portatile, con cui l’uomo illuminava l’imboccatura delle tubature secondarie ogni volta che ne incrociavano una. Entrambi si sforzavano di leggere le targhette arrugginite con il nome della sezione, ma non trovavano mai quella desiderata. E così continuavano a correre.

   «Finirà mai quest’incubo? Combattere, scappare... questa non è vita!» protestò la donna, che aveva il viso emaciato e sporco di fango.

   «Finirà solo quando loro lasceranno il nostro mondo» rispose l’uomo, che aveva una benda insanguinata su un occhio e altre macchie di sangue sugli abiti. Quello rosso era il suo. Quello giallastro invece no.

   La luce biancastra della torcia indugiò sull’imboccatura di un tunnel. La targhetta mancava. «Maledizione!» imprecò l’uomo. «Non ricordo se è qui che dobbiamo svoltare».

   «Decidi in fretta!» esclamò la donna. Si girò con la pistola in pugno, scrutando l’oscurità del condotto dietro di loro, per proteggere il compagno mentre questi cercava di ricordare.

   «Quanti proiettili ti restano?» chiese l’uomo.

   «Quattro, ed è l’ultimo caricatore» rispose la donna, tirando su col naso. «Poi avremo solo i coltelli per difenderci».

   L’uomo tirò rabbiosamente un calcio contro la parete. «Dannazione, non ricordo! Questo condotto può essere la nostra salvezza o la nostra fine. Dobbiamo rischiare».

   «Aspetta, lo senti anche tu?».

   «Cosa?».

   «Il silenzio. Se ci stessero ancora inseguendo, farebbero rumore. Invece... niente».

   «Hai ragione. Forse li abbiamo seminati» convenne l’uomo, aggrappandosi a quella flebile speranza. Spense la torcia, per evitare che gli inseguitori ne cogliessero il bagliore da lontano. Sia lui che la compagna restarono immobili, senza fiatare, avvolti dall’oscurità. Aspettavano il rumore dei passi. Ma udirono solo il monotono flusso dell’acqua.

   «Siamo salvi, mia adorata» mormorò l’uomo, con voce rotta dall’emozione. Afferrò la compagna e la baciò con trasporto, anche se nel buio le sue labbra incontrarono le guance infangate, prima di centrare la bocca.

   «Che quadretto commovente» disse una terza voce, più profonda e rasposa. Una debole luce sanguigna rischiarò il tunnel secondario.

   La coppia sobbalzò e si sciolse; ogni speranza era infranta e non restava che un’ultima, disperata resistenza. L’uomo impugnò la pistola e la puntò contro la sagoma alta e magra che gli incombeva davanti. Ma prima che potesse sparare, un raggio violaceo gli colpì l’arma, sciogliendola. Il poveretto gridò, sentendosi ustionare la mano, e mollò la pistola inservibile. Cadde in ginocchio, immergendo la mano nell’acqua fangosa, per trovare un po’ di sollievo.

   «Maledetto!» gridò il ferito. «Puoi anche ucciderci... non fa differenza, noi non siamo importanti. Ma la luce di Organia non si spegnerà mai».

   «Che immagine suggestiva. Dovevi fare il poeta, anziché il soldato... certo avresti reso di più» sogghignò il Nemico, che aveva il volto in ombra. «Ma non voglio uccidere né te, né la tua compagna. Sono qui solo per chiedervi di un certo luogo... se mi darete risposte attendibili, vi lascerò andare. Avete la mia parola» disse con voce melliflua.

   «Non riuscirai a corromperci» disse l’uomo, rialzandosi a fatica.

   «Puoi anche torturarci; ma non saprai mai dove si trova il nostro Quartier Generale» aggiunse la donna.

   «Sei fuori strada, mia cara» rispose il Nemico. «Io sto cercando un luogo molto più importante della vostra misera tana. Si trova su un altro pianeta».

   «Che pianeta?» chiese l’uomo, incerto.

   «Non ha nome. Molti lo chiamano il Pianeta del Tempo» rispose il Nemico, e per quanto il suo volto restasse in ombra, sembrò che sogghignasse. «Su quel pianeta c’è una grande città... bella, dicono, e piena di vita. La Città attorno al Guardiano del Sempre».

   «Tu vuoi il Guardiano!» esclamò l’uomo con voce strozzata. Il timore per le loro vite era nulla in confronto a quella tremenda prospettiva.

   «No, io voglio dominare tempo. Il Guardiano è solo uno strumento» rispose il Nemico, con voce carezzevole.

   «Il Guardiano esisteva prima che il nostro sole brillasse ed esisterà ancora quando si sarà estinto» rispose fieramente l’uomo. «Né tu, né altri avete il diritto di servirvene».

   «Povero me, voi Organiani siete tutti uguali» sospirò il Nemico. «Spero che la tua donna, almeno, sia un po’ più ragionevole». Aumentò la potenza della sua arma e aprì il fuoco, disintegrando l’Organiano. Per un attimo il bagliore illuminò il tunnel, rivelando i tratti vampireschi del Nemico. Ma la donna aveva occhi solo per il compagno. Quando il condotto tornò buio, di lui restava solo un acre odore di bruciato.

   «Serpente!» gridò la donna, con voce rotta. «Non avrai il Guardiano. E non avrai nemmeno Organia. Credi che non sappiamo difenderci?!».

   «La vostra incapacità di difendervi è assodata» ribatté il Nemico, divertito.

   «Lo credi solo perché vivevamo in pace, prima che la tua specie immonda ci attaccasse. Non sprecavamo le nostre energie per costruire armi» disse la donna. «Noi coltivavamo il pensiero: arti, lettere, musiche. Tutto quel che innalza lo spirito. Noi esploravamo le infinite potenzialità dell’essere. E quando saremo progrediti sul sentiero dell’illuminazione, avremo un tale potere che il tuo popolo non potrà più nuocerci».

   «Può darsi» ammise il Nemico. «Ma fino ad allora continuerete a riempire le fosse». Puntò l’arma verso di lei. Prima che potesse aprire il fuoco, l’Organiana tese la mano, attirando a sé il disgregatore. I suoi occhi lampeggiarono nella penombra, tradendo lo sforzo mentale. I ruoli si erano invertiti: adesso era l’Organiana che teneva sotto tiro il Nemico.

   «Vedi? Se esploriamo noi stessi, otteniamo un potere sconfinato!» esultò la donna.

   «E cosa farai con quel potere? Mi ucciderai, come io ho appena ucciso il tuo compagno?» chiese il Nemico, con vivo interesse.

   «Ne avrei certamente voglia. Te lo meriti!» gridò l’Organiana.

   «Mia cara, non sai nemmeno quanto» ridacchiò il Nemico. «Ma se mi uccidi a sangue freddo, per vendetta, non sarai così diversa da me. Che fine farà la tua filosofia di pace? Dove ti condurrà la crescita spirituale di cui vai tanto fiera?» chiese. Non c’era la minima paura in lui, sebbene fosse sempre sotto tiro.

   «Tu meriti la morte» ripeté la donna, lentamente. «Ma io non macchierò il mio spirito a causa tua. E poi, se ti uccidessi, un altro come te verrebbe subito a rimpiazzarti». L’Organiana deglutì, raccogliendo tutta la propria forza d’animo. Rivolse il disgregatore verso se stessa. «No, figlio dell’Oscurità: io ti lascio vivere. Che tu possa roderti in eterno nelle tenebre, mentre ciò che brami continua a sfuggirti!».

   La donna chiuse gli occhi, respirò a fondo e ripulì la mente da ogni emozione negativa. La paura, la rabbia e il dolore svanirono. C’era solo pace in lei, come nei giorni sereni prima dell’invasione, quando percorreva i giardini di Organia, mano nella mano con il compagno della sua vita. Premette il grilletto. E si dissolse in un lampo di luce.

   «Che spreco inutile» mormorò l’alieno, rimasto solo nelle tenebre. «Ma sì, sciocchi Organiani, continuate pure a crescere nello spirito, mentre noi cresciamo in potenza. Solo il Tempo, alla fine, dirà chi ha ragione». Socchiuse gli occhi rossi, si girò di scatto e tornò da dove era venuto, senza voltarsi indietro.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Kal Dano ***


-Capitolo 3: Kal Dano

 

   Dopo il suo ingresso nell’orbita terrestre, la Phoenix sorvolò terre verdeggianti e mari che scintillavano al sole, finché s’immerse nel cono d’ombra del pianeta. La notte improvvisa rese le stelle ancor più brillanti. Da un lato, la luna scintillava come argento fuso; dall’altro, la vecchia Terra era avvolta da tenebre innaturali. Non c’erano luci di città, né di strade, né di alcuna opera umana. Le ragnatele dorate dell’urbanizzazione, che solitamente ricamavano i continenti, svelando la presenza dell’Homo sapiens, erano svanite come se qualcuno le avesse spolverate via. Al loro posto vi era solo la tenebra, densa di mistero.

   «Non è possibile» mormorò Neelah, fissando quell’oscurità spaventosa tramite lo schermo olografico. «La specie umana si è... estinta? O non si è ancora evoluta? Ma insomma, in che secolo buio siamo capitati?» si chiese.

   «Il picco energetico nel nucleo temporale ci ha portati più indietro del dovuto» disse 0, leggendo i dati sul quadro comandi.

   «Siamo certamente nell’era pre-curvatura della Terra» aggiunse 1.

   «Non rilevo tracce di energia atomica, né elettrica, e nemmeno segni d’industrializzazione primaria» proseguì 0.

   «L’analisi paleo-climatologica e i dati sull’urbanizzazione suggeriscono che ci troviamo nell’Alto Medioevo» concluse 1.

   «Oh, poveri noi!» gemette Neelah, accasciandosi su un sedile. «Ho letto qualcosa della storia terrestre... questi sono davvero i Secoli Bui».

   «Conosci la storia della Terra antica?» si meravigliò Raav. «É un argomento piuttosto lontano dalle tue ricerche».

   «Volevo capire meglio la cultura umana. Il modo di pensare degli Umani. Sapete, uhm...» esitò l’Aenar, inazzurrendosi per l’imbarazzo.

   «Tranquilla, sapientona. Sappiamo di te e del Capitano» ridacchiò il Gorn.

   «La cosa non ti riguarda!» tagliò corto Neelah, scoccandogli un’occhiata torva. «L’essenziale è capire le condizioni del nucleo temporale. Funzionerà ancora, dopo quel picco energetico?».

   «Stiamo cercando di stabilirlo» assicurarono in coro i Bynari. Per i minuti successivi, i due piccoli alieni trafficarono con il nucleo e i comandi, parlottando a bassa voce fra loro. Neelah e Raav li osservavano con apprensione, senza osare interromperli. La loro speranza era appesa a un filo. Gradualmente i visetti glabri dei Bynari si fecero più seri e il loro parlottio scese di tono, mentre i loro gesti divennero più concitati.

   Neelah sentì un crescente senso di vertigine, tanto che dovette poggiare la schiena contro la parete della navetta. Chiuse gli occhi e inspirò a fondo, cercando di calmarsi.

   «Abbiamo determinato la situazione» disse finalmente un Bynario.

   «E quindi?!» esalò Neelah, spalancando di nuovo gli occhi.

   «Il nucleo temporale ha subìto alcuni danni...».

   «… dobbiamo atterrare per ripararlo...».

   «… ci vorranno approssimativamente sei ore».

   «Ah, bene!» fece Neelah, sollevata.

   «Bravi ragazzi! Venite qui, teste di lampadina!» ruggì Raav, abbracciandoli così forte che quasi li stritolò.

   «Urgh! Aspetti a gioire, chef!» gemette 0.

   «Il picco d’energia ci ha riportati indietro di circa duemila anni...» proseguì 1.

   «… prosciugando le nostre riserve energetiche» concluse 0.

   «M-ma che state dicendo?» balbettò Neelah. «Quanta energia ci resta?».

   «Abbastanza per fare qualche orbita...».

   «… scansionare la Terra...».

   «… scegliere dove sistemarci...».

   «… e atterrare».

   «E poi?» fece Raav, interdetto.

   «Poi, signor chef, con l’energia rimasta potrà friggerci un uovo» rispose 1, sconsolato.

   «Mi prendi in giro, nanerottolo?!» ruggì il Gorn, che stavolta era inferocito. Afferrò il Bynario per il bavero e lo sollevò da terra.

   «Mai passato per la testa» rantolò quello.

   «Signore, la prego di non stropicciare il mio gregario» disse educatamente 0, sollevando l’indice. «Avrò bisogno di lui, per farci arrivare a terra».

   «Ma... ma... che faremo, una volta lì?» si sgonfiò Raav, posando a terra il Bynario.

   «Ottima domanda» disse 1, ricomponendosi.

   «Non credo che in quest’epoca gli Umani abbiano familiarità con le nostre specie» proseguì 0.

   «La nostra sopravvivenza sarà costantemente minacciata...».

   «… e non potremo nemmeno rivelarci agli indigeni, per non violare la Prima Direttiva Temporale».

   «Dovremo affidarci alle conoscenze storiche della dottoressa Neelah».

   «Dottoressa, ci sta ascoltando?».

   Neelah si era afflosciata lungo la parete. Le vertigini si erano trasformate in un principio di svenimento. Sentiva un ronzio nelle orecchie e la vista tremolava come se fosse sott’acqua. Le mancava l’aria.

   «I-io... questa navetta... la Terra...» boccheggiò, con una mano alla gola e l’alta che annaspava nell’aria.

   «Ehi, sapientona... stai bene?» chiese Raav, avvicinandosi con aria preoccupata.

   «NO CHE NON STO BENE! STO MALE, STO!» tuonò l’Aenar, balzando contro il Gorn come se fosse posseduta. «Mezz’ora fa me ne stavo tranquilla sull’Enterprise. Adesso sono dispersa nei Secoli Bui su questo sputo di navetta, e mi dite che non si torna indietro?! Che passeremo la vita su un mondo alieno e primitivo?! Che non sapremo mai se la Federazione sopravvivrà alla guerra?!» strillò, con quanto fiato aveva in gola.

   Calò un silenzio spiacevole. I Bynari tenevano gli occhi bassi e persino Raav sembrò farsi piccolo. Neelah si guardò attorno, ansimante: doveva decidere su chi sfogarsi.

   «Sei stato tu!» sibilò, rivolgendosi di nuovo a Raav. «Se non fosse per le tue dannate pulci fotoniche, e per il tuo ingresso non autorizzato, non sarei frellata!».

   «Hai ragione, ho commesso errori imperdonabili» ammise il cuoco, che non cercava nemmeno di difendersi. «Ma non siete gli unici a pagarne il prezzo. Anch’io sono bloccato in un tempo che non mi appartiene, lontano dalla mia gente». I suoi occhi, grossi e sporgenti come palle da tennis, s’inumidirono di lacrime.

   Neelah sentì sbollire la rabbia, almeno in parte. Si lasciò cadere su una poltroncina, chiuse gli occhi e prese a massaggiarsi le tempie.

   «Ehi, piccoletti... avete detto che il danno al nucleo è riparabile» disse Raav dopo un po’.

   «Lo confermiamo» disse 0.

   «Ma senza energia, siamo bloccati in quest’epoca» aggiunse 1.

   «E se trovassimo qualcosa per alimentare il nucleo?» chiese il Gorn.

   «Che cosa? La principale fonte di energia sulla Terra, al momento, sono i forni a legna» intervenne Neelah.

   «Potremmo cercare qualche antica razza che possieda già una tecnologia evoluta, come i Vissiani... o persino gli Organiani...» suggerì Raav.

   «Senza energia, non possiamo muoverci nemmeno nello spazio» spiegò 0.

   «Possiamo solo decidere in che punto della Terra scendere; e lì rimarremo» aggiunse 1.

   «Forse non dovremmo affatto scendere» mormorò Neelah. Gli altri tre la guardarono perplessi. «La nostra presenza contaminerà la linea temporale» spiegò l’Aenar, con cupa rassegnazione. «Nessuno di noi è Umano. Quando i terrestri primitivi ci vedranno, avranno paura di noi. Sapete, in quest’epoca erano molto superstiziosi. E aggressivi. Ci scambieranno per mostri o demoni, cercheranno di ucciderci. Ma anche se riuscissimo a sfuggirgli per il resto della vita, c’è sempre la Phoenix. Non potremo tenerla nascosta... non dopo che saremo morti. La sua presenza altererà in modo imprevedibile la storia umana, e quindi di tutta la Federazione».

   «Grande Coccodrillo!» imprecò Raav. «Che si può fare?».

   «Attivare l’autodistruzione. O meglio ancora, dirigere la Phoenix verso il Sole» rispose Neelah, sconsolata. «Non possiamo permettere che questa navetta diventi una reliquia degli Umani. O che i primi alieni di passaggio captino la sua tecnologia temporale e se ne impadroniscano».

   «Eh, no! Ci deve essere un modo d’uscirne, senza arrostirci in nome della Direttiva Temporale o come cavolo si chiama!» protestò Raav.

   «Se hai suggerimenti, ti ascolto» disse Neelah, amara.

   «Beh, ehm... intanto potremmo sondare il sistema solare, per vedere se c’è qualche nave aliena di passaggio» suggerì Raav.

   «È improbabile: prima del volo di Cochrane, la Terra era fuori dalle principali rotte spaziali» spiegò Neelah. «Ecco perché non fu contaminata da altre culture».

   «Mia cara disfattista, questo lascialo dire ai sensori!» obiettò Raav.

   I Bynari si scambiarono un’occhiata d’intesa e andarono ai posti di comando. Per il successivo quarto d’ora scansionarono il sistema solare su tutte le frequenze possibili. Ma nessun bip dei sensori confortò le speranze ormai morenti dei passeggeri della Phoenix.

   «Temo che l’ultima speranza ci abbia abbandonati» disse infine 0.

   «Abbiamo cercato segnali alieni, dalle onde radio alle trasmissioni subspaziali...».

   «Non abbiamo rilevato nulla».

   «Stiamo ancora sondando il sistema solare, cercando vascelli di passaggio...».

   «… ma a questo punto è vano sperare in un contatto».

   In quell’attimo la Phoenix uscì dal cono d’ombra terrestre. Lo schermo olografico mostrò l’alba vista dallo spazio: il sole sorse dall’orizzonte ricurvo del globo e i quattro passeggeri furono inondati di luce.

   Blip blip blip!

   Tutti s’irrigidirono, fissando i comandi olografici, su cui s’era accesa una lucetta rossa. Lampeggiava a tempo con il suono della spia.

   «In nome della Prima Lucertola, qualcuno risponda!» esclamò Raav.

   Neelah si fiondò ai comandi, con tale rapidità che i Bynari barcollarono nella sua scia. «Non è una trasmissione, ma i sensori rilevano qualcosa» disse, maneggiando freneticamente l’interfaccia olografica. «È un oggetto cilindrico, di tre metri per sette. Composizione...». Neelah aggrottò la fronte. «Strano, i sensori non riescono a penetrare lo scafo».

   «Ma dove si trova di preciso?» chiese Raav.

   «Vediamo... oh, questa poi!» esclamò l’Aenar. Fissò il globo verde-azzurro della Terra, striato di soffici nubi bianche. E vi puntò il dito contro.

   «Laggiù? Avevo capito che ci trovavamo nell’era pre-curvatura!» si stupì il Gorn.

   «Infatti siamo tornati indietro di duemila anni terrestri» confermò 0.

   «Questo è il VI sec. d.C., secondo il loro vecchio calendario» precisò 1.

   «Vi risulta che qualche specie antica bazzicasse la Terra in questo periodo?» chiese Raav.

   «Ci sono rapporti non confermati sui Platoniani...».

   «… e su entità come Apollo, che si sarebbero spacciate per divinità...».

   «… ma in questo periodo dovrebbero avere ormai abbandonato la Terra».

   «Uno di loro non l’ha fatto, evidentemente!» gioì Neelah, leccandosi le labbra per l’impazienza. «Andiamo a fargli visita. Imposto le coordinate; il nostro amico si trova in Cornovaglia» commentò, dirigendo la Phoenix verso l’obiettivo.

   «Prudenza con l’atterraggio» raccomandò Raav. «Non credo che i nativi abbiano mai visto una navicella spaziale. E ricorda che, una volta a terra, non avremo energia per ripartire» ammonì.

   «Uhm, già» si rabbuiò Neelah. «Spero tanto che quell’oggetto non sia un relitto abbandonato. Non sappiamo nemmeno se c’è qualcuno dentro. Vediamo se risponde alle chiamate». Armeggiò con i comandi. «Sto provando con varie frequenze, ma... niente!» disse, stizzita. «Dovremo scendere per sapere se può esserci utile».

   «Tentiamo; i sensori non hanno rilevato nient’altro di tecnologicamente avanzato» commentò Raav.

   «Stiamo entrando nell’atmosfera» disse Neelah, concentrata. «Seguo una traiettoria di risparmio energetico. Reggetevi, potremmo ballare un po’».

 

   La Phoenix sfrecciò come una meteora nei cieli del continente europeo. Sorvolò Costantinopoli, arroccata sul Bosforo, dove per ordine di Giustiniano stava sorgendo la grande cupola di Santa Sofia, dai preziosi marmi policromi e i mosaici dorati. Passò sopra i tormentati Balcani, dove i barbari calati dalle steppe contendevano il territorio all’Impero d’Oriente. Superò l’Adriatico e sorvolò Ravenna, capitale dell’esarcato bizantino, dov’era in costruzione la Basilica di San Vitale. La navetta virò poi a nord, superando le Alpi e il regno dei Burgundi. Oltrepassò la Gallia, dove si consolidava il regno dei Franchi, e sorvolò il canale della Manica, ormai a bassa quota.

   Durante il tragitto Neelah e i Bynari tennero attivi i sensori, registrando informazioni sul mondo in cui, forse, erano condannati a restare. Con un occhio alla rotta e uno alle letture dei sensori, l’Aenar apparve sempre più sconfortata. «È un’epoca barbara!» gemette. «Guardate qui: guerre, carestie, epidemie! Le civiltà crollano, i popoli migrano, nessuno è più al sicuro. Come hanno fatto gli Umani a sopravvivere?».

   «Come noi, nei momenti difficili» rispose Raav. «Quasi tutte le civiltà hanno un passato di sofferenze e lotte».

   «Ma non hanno neanche un po’ di tecnologia!» insisté Neelah, sconvolta. Un conto era informarsi sul database della Federazione, un altro vedere con i propri occhi quel mondo tormentato.

   «Credi che i popoli abbiano sempre avuto i replicatori, il teletrasporto, i ponti ologrammi e tutte le comodità moderne che c’impigriscono?» la rimproverò Raav. «Sei troppo viziata dalle tecnologie!».

   Neelah avrebbe voluto ribattere, ma non trovò argomenti. Tornò a guardare lo schermo, dove apparivano le scogliere della Cornovaglia. «Ci siamo quasi» avvertì. «Dobbiamo andare di poco nell’entroterra».

   La Phoenix sorvolò le coste bretoni, esposte alle scorrerie di Angli, Sassoni e Juti. Seguì l’invisibile traccia dei sensori fino ai resti di una fortezza romana, abbandonata e invasa dalla vegetazione. Gli arbusti e i cespugli erano così fitti che quando la navetta vi atterrò in mezzo, la nascosero quasi completamente alla vista. Ci fu un frastuono di rami schiantati; uno stormo di pernici prese il volo e un paio di conigli fuggirono nel sottobosco. Poi il silenzio ridiscese sulle mura cadenti, coperte d’edera e muschio.

   «Forse è stato un errore far atterrare la navetta» commentò 0.

   «Non possiamo nasconderla del tutto» aggiunse 1.

   «Ma possiamo ancora autodistruggerla, se le cose si mettessero male» notò la biologa.

   «Speriamo di non arrivare a tanto» si augurò Raav. «Mi sa che sarebbe una bella esplosione, e qui attorno potrebbe vivere qualcuno».

   «Stiamo per scoprirlo» disse Neelah, corrucciata. Si agganciò in cintura l’unico tricorder e l’unico phaser di cui disponevano, dopo di che andò in fondo alla navetta e aprì la porta. Esitò per un attimo sulla soglia, inspirando a fondo l’aria tersa e fredda che entrava. Poi si fece coraggio e mise piede in quel mondo alieno. Avanzò tra gli sterpi, guardandosi attorno nervosamente, con tutti i sensi all’erta. Già il fatto di trovarsi in mezzo alla vegetazione selvaggia la inquietava. Aveva trascorso gran parte della sua vita su astronavi o basi stellari. Era abituata agli ambienti artificiali, in cui ogni fattore – luce, temperatura, umidità – era controllato. Il semplice fatto di camminare su un terreno accidentato, anziché per corridoi lisci, era un’esperienza insolita e spiacevole.

   Accorgendosi di essere seguita dai compagni, Neelah si girò verso di loro. «Raav, tu sei il meno umanoide di noi. Dovresti restare qui, mentre noi andiamo in esplorazione».

   «Anche voi non passate inosservati» commentò il Gorn. «Tu per esempio, cosa conti di fare con le antenne?».

   Neelah alzò lo sguardo, impensierita. Si afferrò le antenne e le abbassò gentilmente sul cranio. Poi si disfece la lunga coda di cavallo e si arruffò i capelli bianchissimi, cercando di far sì che coprissero le antenne. Rivolse ai compagni un’occhiata speranzosa. I Bynari le andarono a fianco, uno per lato, e alzarono gli occhi verso di lei, perplessi.

   «Fantastico, ora sì che sei mimetizzata!» esclamò Raav, alzando gli occhi al cielo. Tornò verso la navetta. «Fatemi sapere se c’è bisogno di un Gorn» disse in tono abbattuto, e sparì nella porticina.

   «Muoviamoci» disse Neelah, consultando il suo tricorder. «Quella navetta, o qualunque cosa sia, è vicina».

   Il terzetto avanzò con difficoltà fra gli arbusti, fino a uscire dalla zona più densa. Fuori dalla macchia c’erano le mura della fortezza, diroccate e incrostate di rampicanti. Su un lato erano crollate, così che lo sguardo poteva spaziare sulla pianura circostante.

   Neelah girò lentamente su se stessa, mentre esaminava la zona con il tricorder. Si fermò puntando in direzione di una capanna, costruita a ridosso delle mura. Era lunga, con le pareti di legno e il tetto in paglia. «L’oggetto è lì dentro» disse l’Aenar. Si avvicinò circospetta, continuando a scansionare con il tricorder. Ma poi si bloccò, avendo udito un rumore alle sue spalle. Le antenne fremettero sotto i capelli.

   La scienziata si girò lentamente e vide tre cavalieri venirle incontro a spron battuto, attraverso il varco nelle mura. Ai suoi occhi inesperti, il loro equipaggiamento parve un barbaro miscuglio di stili, sebbene in realtà fosse il più indicato in quell’epoca di transizione. Indossavano maglie di ferro con frange di cuoio ed elmi romani che scoprivano il volto, permettendo una buona visuale. Avevano scudi di legno ovali, con figure dipinte: un leopardo, un drago, un pentacolo. Portavano lunghe spade, per il momento ancora nel fodero, e brandivano lance acuminate. Pantaloni di tela e stivali in cuoio completavano il loro abbigliamento.

   «Andiamocene, presto!» bisbigliò un Bynario, facendo per correre verso la Phoenix. Neelah lo bloccò, agguantandolo per la collottola.

   «Sarebbe inutile: ci hanno già visti» disse l’Aenar. «L’unico modo per non peggiorare le cose è tenerli alla larga dalla Phoenix».

   «M-ma sono armati e pericolosi!» squittì l’altro Bynario.

   «E io no?!» sibilò Neelah, con una luce micidiale negli occhi. Sapeva che un ufficiale della Flotta Stellare si sarebbe fatto catturare e persino uccidere, piuttosto che violare la Prima Direttiva. Ma lei non apparteneva alla Flotta; cosa di cui era particolarmente grata, in quel frangente.

   I cavalieri giunsero in uno scalpitare di zoccoli e si fermarono a un passo dagli alieni, puntandogli in faccia le lance.

   «Fermi, in nome del re!» intimò il cavaliere al centro, quello con il leopardo sullo scudo.

   «Quale re?» chiese Neelah, lieta che almeno i traduttori universali funzionassero a dovere.

   «Ah ah, avete sentito?!» rise l’uomo, scambiando occhiate divertite con i compari. «Donna, io sto parlando dell’unico rex di queste terre: Artorius, figlio di Uther Pendragon!» proclamò con orgoglio.

   «Artorius?» ripeté Neelah, perplessa. «Oh, state parlando di... re Artù? Quindi voi sareste i Cavalieri della Tavola Rotonda?» chiese, ricordando vagamente l’antica leggenda terrestre.

   «Siamo cavalieri di Castra Legionum, o Cærleon, come dicono i villici» rispose il guerriero a muso duro. «Io sono sir Lancelot du Lac, e questi sono i miei leali compagni, sir Gawain e sir Parsifal. Ma spetta a voi, stranieri dalle bizzarre fattezze, rivelarci chi siete e donde provenite!» ordinò, puntando la lancia dritta contro il mento di Neelah.

   «Di certo non sono Sassoni» commentò sir Gawain.

   «E nemmeno Angli o Juti» aggiunse sir Parsifal.

   «Siamo solo di passaggio, veniamo da... un’isola molto lontana» disse Neelah, sondando con cautela le loro menti, per capire come comportarsi. Percepì la durezza e il sospetto di chi era abituato a combattere e uccidere senza farsi troppe domande. Erano molto diversi dagli Umani che l’Aenar aveva incontrato. Più vedeva nelle loro menti, meno capiva come comportarsi per non farli arrabbiare.

   «Quale isola sarebbe? Eriu la verde? O la remota Terra dei Ghiacci, ai confini del mondo?» chiese Lancelot.

   «Io dico la Terra dei Ghiacci: guarda il pallore del suo viso!» commentò Gawain, il più giovane dei tre, e anche il più amichevole.

   «È innaturale» disse Parsifal, che dal suo arrivo stava squadrando Neelah con sospetto. «È apparsa dal nulla proprio qui, dov’è caduta quella stella tonante» disse, riferendosi alla Phoenix. «Il suo viso ha il pallore dei morti... non è di questo mondo! Guardate le sue strane vesti, che aderiscono al corpo come se fosse un... demonio tentatore. E che dire di quei nani deformi che l’accompagnano? Ehi, strega... sono forse i tuoi servi?».

   «Servi a chi?!» s’inalberò 0. «Noi siamo specialisti in meccanica temporale!».

   «Già, siamo tra le maggiori menti scientifiche del nostro tempo!» aggiunse 1. «Non come voi tre analfabeti!».

   «Dicono cose insensate e rifiutano di risponderci» commentò Lancelot, rivolto ai compagni. «Non possiamo lasciarli andare impunemente. Leghiamoli e portiamoli al castello. Qualche giorno in ceppi scioglierà loro la lingua».

   «Sarei lusingata di essere la prima Andoriana alla corte di re Artù... ma devo declinare l’invito» disse Neelah.

   «E allora parla, mala foemina!» gridò Lancelot. «Dicci il tuo nome, la tua terra, il tuo sovrano!» ordinò, dardeggiandole la lancia davanti al naso.

   «Mi chiamo Neelah, vengo da Andoria» rispose finalmente la biologa, scoccandogli un’occhiata di ghiaccio. «Non ho mai avuto un sovrano, né lo avrò mai. E levami di dosso questo stupido giavellotto!». Afferrò la lancia subito sotto la punta, con i suoi riflessi potenziati, e la strattonò con violenza. Lancelot, che non si aspettava una simile forza in una donna, perse l’equilibrio e cadde in avanti, a faccia in giù in una pozzanghera. Il suo cavallo nitrì e s’impennò.

   «Avete sentito?! È dama Nimue e viene da Avalon, l’Isola dei Morti!» esclamò Parsifal. «Vuole trascinarci con sé!» gemette, facendo gli scongiuri.

   «Ce la rispedisco io, all’Isola dei Morti!» ringhiò Lancelot, rialzandosi tutto inzaccherato. «Lei e i suoi folletti dalla testa gonfia!» minacciò, sguainando la spada.

   «Devi solo provarci, troglodita!» sibilò Neelah. Spezzò la lancia contro il ginocchio e gettò a terra i tronconi.

   In quella si udì un ruggito e Raav emerse dalle sterpaglie. «Giù le mani dalla mia amica, piccoli mammiferi coperti di ferraglia, o diventerete carne in scatola!» minacciò, agitando gli artigli e facendo guizzare la lingua violacea tra le fauci.

   «Un drago! Che San Michele e San Giorgio ci assistano, hanno anche un drago!» si disperò Parsifal. «Ma noi siamo cavalieri di Artorius e non temiamo né mostri, né demoni!». Prese il corno che portava in cintura, lo accostò alle labbra e vi soffiò con forza, traendone una lunga nota squillante.

   I Bynari si strinsero a Neelah, terrorizzati. Lancelot gli venne contro con la spada in pugno, mentre gli altri due cavalieri si avventavano su Raav. L’Aenar impugnò il phaser, prendendoli di mira...

   «Fermi, cavalieri del re!» tuonò una figura avvolta in un mantello grigio con cappuccio, comparendo in cima al muro diroccato del fortilizio. «Questi stranieri non sono una minaccia. Garantisco io per loro e li prendo sotto la mia protezione!» disse con voce stentorea. Gawain e Parsifal si fermarono, incerti.

   «Non intrometterti, Myrddin!» berciò Lancelot. «Essi mi hanno offeso gravemente. La mia spada farà giustizia!». Fece per avventarsi su Neelah, ma questa aprì il fuoco, disintegrandogli l’arma. Frammenti liquefatti della lama schizzarono in tutte le direzioni, accompagnati da un boato. Gawain e Parsifal, che erano ancora a cavallo, non riuscirono a controllare gli animali imbizzarriti e furono a loro volta disarcionati. Lancelot indietreggiò sconcertato, fissando ora l’elsa col mozzicone sfrigolante, ora l’Aenar.

   «Tanti saluti alla Direttiva Temporale» sospirò 0, passandosi la mano sulla fronte.

   «Se mai torneremo sull’Enterprise, finiremo a spurgare i condotti del plasma» aggiunse 1, sconsolato.

   «Stammi bene a sentire, pellerosa!» disse Neelah. Disarmò Lancelot con un calcio, facendogli schizzare via di mano il mozzicone di spada. Poi lo afferrò per la cotta di maglia e, sebbene fosse più piccola di lui, lo sollevò da terra. «Sono venuta in pace, ma sono pronta a battermi, se necessario. Vorrei solo capissi che non sono il nemico, né il diavolo. Il vostro regno ha ben altri problemi, da quanto ho visto: miseria, invasioni... la vostra forza dovrebbe porsi al servizio dei più deboli. Così sareste davvero degni del vostro nome. Comprendi?».

   Poiché lo sforzo stava diventando eccessivo anche per lei, Neelah posò a terra il cavaliere. Ma continuò a sondargli la mente, cercando un punto debole. Vide molte battaglie sanguinose, ma finalmente trovò qualcosa di utile.

   «Noi cavalieri di Artorius abbiamo giurato di servire la virtù» rispose Lancelot, ricomponendosi. «Siamo pronti a morire, piuttosto che rinnegare questo impegno».

   «Ma certo. So che non tradiresti mai la fiducia del re... o l’onore della regina Ginevra» aggiunse Neelah, con un sorriso sardonico, per fargli intuire che conosceva la loro tresca.

   Lancelot arrossì e indietreggiò di qualche passo. Senza guardare i compagni, prese il suo cavallo per le briglie e cercò di calmarlo, dandogli carezze e colpetti sul muso. «Se non avete intenzioni malvagie, allora non avete nulla da temere» disse infine. «E se lo stregone garantisce per voi... bene, potete rimanere suoi ospiti, finché vorrà».

   «E questo mostro verde?» chiese Gawain, additando Raav.

   «Questo mostro ti capisce, quindi bada alle tue parole» disse Raav, guardandolo bieco.

   «Nessuno di loro insidierà le terre del re» promise la figura incappucciata. Saltò giù dal muro, atterrando quattro metri più in basso, senza alcuno sforzo. «Essi sono miei... simili, malgrado le apparenze».

   «Ombre e magie!» esclamò Lancelot. «Ho ben visto che ci sono prodigi all’opera. E sia, Myrddin... occupati tu di questi strani esseri. Ma noi resteremo in zona!» avvertì, rimontando a cavallo. I suoi compagni lo imitarono, dopo aver calmato gli animali. Tutti e tre galopparono via, attraverso il varco nelle mura. Per quanto cercassero di darsi un contegno, era evidente dalla loro velocità che non vedevano l’ora di mettersi a distanza di sicurezza dai visitatori.

 

   «Signori, sono lieto di vedervi, ma anche turbato» disse Myrddin. «La Flotta Stellare ha forse abbandonato le direttive temporali?».

   «Io non appartengo alla Flotta» disse Neelah con fierezza.

   «Nemmeno io» disse Raav.

   I Bynari tacquero, ma gli si leggeva la colpevolezza negli occhi.

   «Voi invece sì!» disse Myrddin. «Meno male... cominciavo a temere di essere incappato nei pirati temporali. Un gruppo male assortito, certo... ma non sono i più pericolosi?» ammiccò da sotto il cappuccio.

   «Perché non parliamo un po’ di te, amico?» chiese Raav, andandogli appresso. «Conosci la Flotta Stellare e il viaggio nel tempo. È chiaro che anche tu vieni dal futuro».

   «E non fingerti chiaroveggente, mago Merlino!» aggiunse Neelah sarcastica. «Potrai infinocchiare questi barbari pre-industriali, ma non noi».

   «Invero» sospirò lo sconosciuto, calandosi il cappuccio grigio e sdrucito. I quattro dell’Enterprise l’osservarono meravigliati.

   Era un umanoide, di specie indefinibile. Calvo, senza barba, aveva giusto un accenno di sopracciglia. La pelle, lievemente translucida, sembrava rosea o grigia in base all’illuminazione e all’angolo dell’osservatore. Aveva grandi occhi giallastri, sormontati da una fronte alta, su cui spiccava un’escrescenza simile a linee intrecciate. Le orecchie avevano un accenno appena percettibile di punta.

   «Non riconosco la tua specie... e sì che ho girato la Galassia» disse Raav, scrutandolo attentamente. Inspirò a fondo, cercando di riconoscerlo almeno dall’odore. «Uhm... a fiuto direi che sei uno Shirna, ma c’è dell’altro. Sei un meticcio, non è vero?».

   «Mi dichiaro colpevole» sorrise l’alieno. «Sono Shirna per la maggior parte. Ma fra i miei antenati vi erano anche Umani, Vulcaniani e Lukari. Sapete, questi miscugli non sono insoliti, da dove vengo io... cioè dal XXVII secolo».

   «Sssshhht! Ci superi di cent’anni, amico!» fischiò Raav. Neelah alzò la mano per zittirlo, ma era troppo tardi.

   «Davvero? Nella vostra epoca i viaggi nel tempo erano ancora un po’ rischiosi» commentò lo Shirna. «Non c’è da stupirsi che siate così male in arnese».

   «Anche tu sei messo maluccio» intervenne Neelah. «O devo credere che reciti la parte del mago per divertimento? Di certo esistono secoli più interessanti di questo».

   «Ogni secolo ha i suoi punti d’interesse» fece l’alieno, in tono pratico. «Una volta, assieme a un gruppo d’archeologi, ho assistito alla costruzione della piramide di Cheope. È stato emozionante!» sorrise.

   «Immagino che nel XXVII secolo i viaggi nel tempo siano comuni come le gite al parco» disse Neelah. «Ma nel nostro lo sono un po’ meno. Siamo qui per sbaglio. E continuiamo a non sapere chi sei realmente». Le antenne di Neelah sbucarono dalla massa dei capelli e puntarono verso l’alieno, mentre l’Aenar si concentrava, cercando di carpire i suoi pensieri. Si scontrò con una barriera impenetrabile. Non era un muro... somigliava più a una nebbia grigia e indistinta, in cui l’Aenar arrancò senza meta.

   «La tua telepatia è notevole, giovanotta» ammise lo Shirna. «Ma io ho buona disciplina mentale».

   «Non quando ti avrò annodato la spina dorsale!» ringhiò Raav, agguantandolo per la gola e sollevandolo senza sforzo.

   «Urgh! Cercate di capire... non posso dare troppa confidenza ai primi viaggiatori del tempo che incontro. Non dopo quel che ho passato!» rantolò l’alieno.

   «Ma vuoi tornare a casa, sì o no? Perché noi lo vogliamo!» avvertì il cuoco.

   «Voi Gorn siete così deliziosamente primitivi... ti troveresti a tuo agio, qui» gracchiò lo Shirna, paonazzo. «O-ora lasciami... cough... ti prego...» supplicò, sul punto di perdere i sensi. Raav mollò la presa, lasciando cadere a terra l’alieno.

   «L’oggetto che abbiamo rilevato dalla Phoenix è certamente lì» disse un Bynario, indicando la capanna mentre consultava il tricorder.

   «Potrebbe essere la sua navetta temporale» aggiunse l’altro.

   «Guscio» corresse l’alieno con voce rauca, palpandosi la gola. «Si chiama guscio temporale».

   «Finalmente qualche progresso!» si compiacque Neelah. «Ora ti spiego come stanno le cose, amico» aggiunse, chinandosi sullo Shirna. «Noi prenderemo quel guscio per tornare a casa. Se non funziona, lo cannibalizzeremo per riparare la nostra navetta. E ti porteremo con noi: ci sono celle molto confortevoli, nel nostro secolo».

   «Celle!» s’indignò lo Shirna, rialzandosi. «Dovreste metterci quelli che m’inseguono. Non capite che sto cercando di salvare la Storia? Si combatte una dura Guerra Temporale e dobbiamo fare scelte difficili per evitare la catastrofe!».

   «Che sai della Guerra Temporale?» chiese Neelah. L’argomento era stato sfiorato in alcune riunioni sull’Enterprise a cui aveva partecipato, ma la sua curiosità era inesausta.

   «Più cose di voi, senza dubbio. Avete appena cominciato a sondare il tempo; non avete idea di cosa vi aspetta».

   «E allora parla, maledizione!» ruggì Raav. «Chi t’insegue, e perché?».

   «Se non ti fidi di noi, sappi che veniamo dall’Enterprise-J. Combattiamo in prima linea contro un nemico che il tempo lo conosce fin troppo bene» rivelò Neelah. «Ecco, ricevi i miei pensieri... le mie memorie. Esse non mentono». Puntò la mano – e anche le antenne – verso lo Shirna, trasmettendogli i ricordi del conflitto con i Tuteriani.

   «Sì, ora vedo!» esclamò lo Shirna, sfiorandosi la tempia. «Come ho fatto a non riconoscervi? Voi dell’Enterprise siete degli eroi, nel mio secolo. Questi anni d’esilio devono avermi rammollito il cervello. Ma ora so...». Spalancò gli occhi, che erano arrovesciati all’indietro. «Quanto avete sofferto... e il peggio deve ancora arrivare! Se sapeste che vi attende... la Terra, Procyon V... migliaia di navi... no!» gridò, barcollando all’indietro.

   «Gasp!» boccheggiò Neelah, cadendo in ginocchio, con le mani sulle antenne. Aveva sbirciato nella sua mente, ottenendo alcune informazioni sparse, ma faticava a metterle in ordine. Di una cosa era certa: la guerra contro i Tuteriani avrebbe devastato la Federazione.

   «Sei più forte di quanto credessi, figliola» ansimò lo Shirna. «Pochi riescono a leggere i miei pensieri. Ma ho dovuto troncare il collegamento. Cerca di capire... rischierei di alterare la Storia».

   «Ah! Ma ti sei guardato intorno?!» chiese l’Aenar in tono beffardo. Si rialzò, ancora un po’ barcollante, e indicò le rovine con un ampio gesto del braccio. «La Storia è già alterata. Noi veniamo dal futuro, non dovremmo neanche essere qui. La Guerra Temporale divampa, e tu... devi tornare al futuro con noi!».

   «Ci proverò, parola di Kal Dano» promise lo Shirna, ancora scosso. «Ora conoscete il mio nome» aggiunse, rivolto ai quattro visitatori. «Ero molto famoso nel mio secolo. La Guerra Temporale mi ha fatto naufragare qui, in questo tempo barbaro, strappandomi a tutti coloro che amavo. Ma col vostro arrivo, forse il mio esilio è giunto al termine!» s’illuminò.

   Kal Dano guidò gli ospiti all’interno della capanna addossata alle mura. C’era paglia in terra, davanti all’ingresso, ma gran parte dello spazio era occupata dal guscio temporale. Era un oggetto grossomodo cilindrico, con la superficie percorsa da nicchie e sporgenze. Due segmenti tronco-conici protendevano da un’estremità, forse la prua. Altri quattro elementi sporgevano a metà lunghezza del cilindro, posti a intervalli equidistanti sulla superficie curva. Lo scafo, grigio e opaco, appariva corroso in più punti. Questo era tutto. Non c’era alcuna finestra anteriore, né sistemi propulsivi visibili dall’esterno.

   «Immagino che non funzioni, o te ne saresti già andato» commentò Neelah.

   «In teoria funziona, ma in pratica non posso servirmene» corresse Kal Dano. «Il nucleo temporale presenta delle micro-fratture e con ogni probabilità esploderebbe, se tentassi un altro salto. Potrei attivare il faro temporale e chiedere aiuto, ma i miei nemici hanno captato la frequenza e potrebbero raggiungermi per primi» aggiunse sconsolato.

   «Non c’è modo di riparare i danni al nucleo?» chiese Raav.

   «Ci ho provato, ma... non ho la familiarità che pensate con questa tecnologia» ammise lo Shirna. «Voi, piuttosto... avete creato la Phoenix, vero?» chiese ai Bynari.

   «Praticamente sì» ammise 0.

   «Con solo un piccolissimo aiuto del nostro capo» aggiunse 1.

   «Possiamo ripararla...».

   «... specie se lei ci offrirà la sua assistenza».

   «L’unico vero problema è che la Phoenix ha esaurito l’energia...».

   «... e quindi il nucleo non può raggiungere il potenziale di cascata».

   «Beh, questa vecchia carcassa ha ancora un bel po’ d’energia nelle sue viscere» disse Kal Dano, posando la mano sulla scabra superficie del guscio. «Devo solo trovare il modo di trasferirla. Ma affrontiamo un problema alla volta: ora occupiamoci della vostra navetta».

 

   Kal Dano e i Bynari si affaccendarono con la Phoenix per tutta la giornata. Come annunciato, il danno al nucleo non era grave: entro sera fu riparato. Neelah avrebbe voluto aiutarli, ma quello era un lavoro da ingegneri. Così non poté fare molto; ma osservò il più possibile. Raav, dal canto suo, gironzolò per la fortezza in rovina, ma al calar del sole tornò tutto intirizzito. Si era nell’autunno inoltrato e dal nord spirava un vento freddo. Quando le ultime luci del tramonto si estinsero, il cielo si coprì di nubi e caddero alcuni fiocchi di neve.

   Allora i naufraghi del tempo accesero un falò davanti all’ingresso della capanna e si sistemarono subito all’interno, seduti sulla paglia, abbastanza vicini al fuoco da sentirne il tepore. Neelah, che proveniva dal mondo ghiacciato di Andoria, non soffriva per il rigore del clima. Ma i Bynari si stringevano tremanti, imbacuccati nel mantello che Kal Dano gli aveva prestato. Quanto a Raav, un rettile a sangue freddo, si era sistemato vicino alle fiamme, ma anche così era lento e torpido.

   «Hai pensato a come trasferire energia alla Phoenix?» chiese Neelah allo Shirna, che stava attizzando il fuoco con aria meditabonda.

   «La tecnologia del mio guscio è molto diversa: non possiamo collegare cavi di alimentazione o scambiare celle energetiche» spiegò Kal Dano.

   «E quindi?» incalzò Neelah, sulle spine.

   «Se il vostro nucleo regge, potrei realizzare una trasfusione diretta di energia a distanza» rivelò Kal Dano. «Un po’ come fanno le vostre astronavi col deflettore. Ma in questo caso si bypassa il deflettore e si trasferisce direttamente energia da un nucleo all’altro. Dovrebbe funzionare... tutto sta nel trovare la giusta frequenza e nel dosare la potenza». Diede alcune istruzioni ai Bynari, che andarono sulla Phoenix per prepararla. Quanto a lui, aprì uno sportello sul lato del guscio e vi entrò.

   Neelah e Raav rimasero fuori, in un silenzio imbarazzato. Kal Dano non gli aveva detto di stare fuori, ma non li aveva neanche invitati a entrare. L’Aenar, però, non voleva perdere l’occasione di sbirciare in quella meraviglia tecnologica. Trascinata dalla curiosità, seguì lo Shirna, chinandosi per passare dal piccolo ingresso. L’interno del cilindro ospitava una sedia di controllo, ma per il resto era sorprendentemente spoglio. C’erano pochissimi comandi in vista. Quasi tutte le superfici erano grigie e scabre come lo scafo esterno. «Tutto qui?» chiese la biologa, delusa.

   «Non fermarti alle apparenze» consigliò lo Shirna. «Qui dentro c’è più di quanto appaia... se sai dove cercare» aggiunse con un sorriso enigmatico. Aprì un pannello rettangolare sul pavimento, rivelando uno scomparto con alcune sacche blu, che Neelah riconobbe come gelatine bio-neurali. Pensò che lo scienziato volesse farci qualcosa, invece Kal Dano le estrasse e afferrò una maniglia sottostante, rigirandola. Aprì un’ulteriore botola, rivelando l’imboccatura di un pozzo circolare. Era corredato di scala a pioli e sembrava profondissimo: i pioli si perdevano nell’oscurità.

   «Assurdo... le pareti di questo guscio saranno spesse trenta centimetri al massimo» commentò Neelah, aggrottando la fronte. «Sarà un ologramma. Ma a che serve?».

   «Mentre ci pensi, mi occupo del trasferimento energetico» rispose Kal Dano, e sparì nel pozzo.

   Neelah sbatté gli occhi, allibita. Ciò che aveva visto non era fisicamente possibile. Doveva avere le traveggole. Si sporse dall’orlo del pozzo e vide Kal Dano che scendeva, un piolo dopo l’altro. «O l’Universo è impazzito, o lo sono io» si disse, allungando la mano nel vuoto.

   «Che fai?!» le chiese Raav, sbirciando dentro il guscio attraverso il portello.

   «Sembra che le leggi fisiche abbiano deciso di prendersi una vacanza» rispose Neelah, guardandolo stralunata. «Quasi quasi, lo faccio anch’io» decise. E si calò nel pozzo, lasciando il Gorn senza parole.

   Fu una lunga discesa, condotta in silenzio e nella semioscurità. Neelah contò i pioli, per capire quanto si stava calando. Ma a un certo punto della discesa si accorse di un ingresso tondo ritagliato nella parete del pozzo, sul lato opposto alla scala. Portava a un’altra saletta, anch’essa di forma cilindrica, ma sviluppata in verticale. Kal Dano era lì e armeggiava con strani comandi sulle pareti.

   «Salve, Alice... benvenuta nella tana del coniglio» ridacchiò lo Shirna.

   Neelah si rigirò per quanto possibile e sporgendosi dai pioli riuscì a entrare nella cameretta cilindrica. Al centro vi era un congegno che si elevava dal pavimento, e un altro simile scendeva dal soffitto, ma non arrivavano a toccarsi. Poteva essere un nucleo quantico, o una bobina di transcurvatura, o chissà che altro. Comunque c’erano domande più pressanti.

   «Dove siamo?!» chiese Neelah, quasi gridando. «Fuori era un cilindro di tre metri per sette. Come fa a contenere quest’ambiente? E la scala scende ancora! Quante altre stanze ci sono?».

   «In effetti è un bel labirinto» ridacchiò Kal Dano. «Non scenderci da sola, o potresti perderti».

   «Ma com’è possibile? Non può essere più grande dentro che fuori!» insisté l’Aenar.

   «Eppure eccoci qui» sorrise lo Shirna. «Devi dubitare dei tuoi sensi... o delle tue conoscenze. Perché definisci impossibile ciò che semplicemente esula dalla tua cognizione?».

   «Non sono così sprovveduta» si riprese l’Aenar. «So che esistono altri Universi oltre al nostro. Una volta sono stata persino in una bolla subspaziale a metà strada fra due dimensioni. Ma questo è diverso. Siamo sempre nella nostra realtà, solo che lo spazio è... piegato, come se qualcuno ci avesse aggiunto degli scomparti».

   «Tecnologia di Compressione Dimensionale» annuì Kal Dano. «È comodo, sai... avere un volume interno superiore a quello esterno. Così si possono aggiungere spazi nuovi, mentre i vecchi sono ristrutturati o eliminati in base alle esigenze. Molto utile per la valigia delle vacanze!» ridacchiò ancora.

   «Non credo che fra soli cent’anni saremo a questi livelli» ragionò Neelah, guardandosi attorno a disagio. L’ambiente era troppo alieno, troppo lontano dallo stile della Flotta Stellare. «Questo guscio non viene dal tuo secolo, vero?» chiese.

   «No, infatti» ammise Kal Dano. «Viene dal XXXI e contiene segreti che sconvolgerebbero sia te che me, se riuscissimo a comprenderli» rivelò.

   «Come hai fatto a impadronirtene?».

   «È una lunga storia. Forse te la racconterò... o forse no. Hai già visto troppe cose» sospirò lo scienziato. «Le persone che costruiscono questi arnesi sarebbero furiose, se lo sapessero. Ma neanche loro riescono a scoprire tutto, per fortuna» ammiccò.

   «So che dal XXXI secolo provengono Agenti Temporali dislocati nei punti chiave della Storia» disse l’Aenar, quasi sussurrando, come se potessero sentirla. «Combattono una Guerra Temporale contro fazioni che vorrebbero cambiare gli eventi a loro vantaggio. In pratica cercano di far rispettare a tutti la Prima Direttiva Temporale».

   «Gli Accordi Temporali» corresse Kal Dano. «La vostra Direttiva sta per evolversi in un trattato più complesso. Molti rifiuteranno di firmarlo. Altri vi saranno costretti, ma ciò non gl’impedirà di tramare. La lotta contro i Costruttori di Sfere è solo un capitolo di questo immane conflitto» sospirò. «Nel tuo secolo, come nel mio, sono ancora pochi quelli che comprendono l’enormità della sfida. Noi due potremmo definirci... illuminati» aggiunse, con una smorfia tragicomica. Tornò a concentrarsi sui comandi e per parecchi minuti lavorò in silenzio. Poco alla volta, un ronzio salì dal nucleo – o qualunque cosa fosse – e si stabilizzò.

   «Così dovrebbe andare» sorrise Kal Dano. «Torniamo di sopra».

   Neelah avrebbe preferito scendere ancora, per esplorare gli altri ambienti del guscio, ma non si azzardò a contestare lo scienziato. Non sapeva quali assi nella manica nascondesse ancora.

 

   Kal Dano e gli ospiti tornarono a sedersi attorno al fuoco. Alle loro spalle, dal guscio, saliva un ronzio ritmico. Ogni tanto uno degli scienziati andava alla Phoenix, nascosta poco lontano fra gli arbusti, per controllare che il travaso d’energia procedesse regolarmente.

   «Ci vorranno alcune ore per completare il trasferimento» spiegò Kal Dano. «Ho tenuto il voltaggio basso, per sicurezza. Possiamo cenare e dormire. Domattina la vostra navetta sarà carica e potremo partire. Staremo molto stretti... ma ce la faremo».

   «E che sarà del tuo guscio?» chiese Raav.

   «Anche dopo il travaso, gli resterà abbastanza energia per un ultimo salto temporale. Ne imposterò uno col pilota automatico» spiegò Kal Dano. «Lo rimanderò nel suo secolo e farò in modo che ricompaia nello spazio aperto. Così, se le micro-fratture del nucleo lo distruggeranno, non farà del male a nessuno».

   «Buona idea... ma parliamo un attimo della destinazione. Perché noi intendiamo tornare al XXVI secolo» chiarì Neelah. «Una volta lì, gli ingegneri dell’Enterprise rimetteranno a nuovo la Phoenix. Sono certa che il Capitano permetterà a qualcuno di accompagnarti nel tuo tempo».

   «Va benissimo» assicurò Kal Dano, attizzando il fuoco. «È meglio così, piuttosto che sia io ad accompagnarvi nel XXVII secolo. Avete già visto troppo del futuro» disse, accennando al guscio temporale. Poi si alzò in piedi. «Prendo qualcosa da mangiare. Sapete, ho costruito la baracca per nascondere il guscio, ma solitamente vivo nel vecchio posto di guardia dentro le mura» spiegò. Si avventurò sotto la neve, che cadeva rada, e sparì in un ingresso della fortezza, seminascosto dai rampicanti. Fu di ritorno pochi minuti dopo con piatti e cibarie. Si trattava più che altro di pane e ortaggi, ma c’era anche un po’ di carne, che Raav arrostì allo spiedo. Un secondo viaggio in dispensa e Kal Dano tornò con fiaschi e bicchieri.

   «Sfamatevi pure, ho la dispensa ben fornita!» ridacchiò. «Gli abitanti del posto, e persino sire Artorius, sono lieti di approvvigionarmi, in cambio di consigli e di qualche piccola... ehm, “magia”. Mi avevano offerto di vivere a palazzo, ma ho preferito restare qui, per sorvegliare il guscio e limitare le interferenze coi nativi».

   «E accusavi noi di alterare la Storia!» disse Neelah, scuotendo la testa. Stava mangiando pochissimo, perché le sembrava tutto terribilmente anti-igienico. Cercando di non farsi vedere, scansionò il pane con il tricorder, ottenendo la conferma che era pieno di batteri.

   «Devo pur sopravvivere» si giustificò lo Shirna. «Suvvia, mangia. Sono sopravvissuto per anni con la cucina locale: tu potrai sopportare una cena!».

   Con scarso entusiasmo, Neelah prese a mordicchiare una cipolla. Aveva le antenne flosce e l’espressione di una martire.

   «Sapete? È strano, ma credo che mi mancherà questo posto» disse Kal Dano, guardandosi attorno con malinconia. «Ormai credevo che ci avrei passato la vita... mi ero quasi abituato all’idea».

   «Allora è una serata speciale» commentò Raav. «E richiede un racconto speciale. Non puoi dirci qualcos’altro di te? Manterremo il segreto!» promise.

   «In altre circostanze potreste scordarvelo» disse Kal Dano. «Ma siete dell’Enterprise-J. Combattete su uno dei fronti caldi della Guerra Temporale ed è giusto che sappiate. Potrebbe fare la differenza, negli anni a venire» disse, con lo sguardo che indugiava su Neelah. Si accovacciò più comodamente sulla paglia e levò lo sguardo verso le faville del focolare, che salivano verso il cielo notturno, incrociando i radi fiocchi di neve.

   «La mia è una strana storia, che comincia nel futuro, alla fine del XXVII secolo» esordì Kal Dano, con voce limpida. «Ero il capo di un’equipe scientifica della Flotta. Avevamo ripreso gli studi sul trilitio, il decalitio e altre cosucce del genere. Combinando i saperi di molte specie diverse, e con un procedimento incredibilmente complesso, ecco che creammo il Tox Uthat» disse con reverenza, come se parlasse di una reliquia. «È un inibitore di fase quantistica, capace di bloccare le reazioni nucleari nel cuore delle stelle» spiegò, notando la curiosità dei presenti. «Può impedire che una stella esploda, salvando i pianeti circostanti. Sarebbe stato utilissimo al tempo della supernova di Hobus. Ma può anche essere usato all’inverso, per destabilizzare i processi del nucleo e accelerarli. Tanto potere, in un oggetto così piccolo da stare in mano! Può salvare intere civiltà... o condannarle. Un’arma tremenda, se cadesse nelle mani sbagliate!» ammonì lo Shirna, scrutando il suo uditorio.

   «Noi stessi, dopo averlo costruito, ci rendemmo conto che le sue potenzialità erano inesplorate e ne fummo spaventati. Avrei dovuto distruggerlo, con tutti gli appunti di lavoro; ma non ne ebbi la forza. E prima ancora che la Flotta fosse informata del nostro traguardo... loro arrivarono». Gli occhi dello scienziato s’incupirono, mentre fissava le fiamme crepitanti, e la bocca si contrasse in una smorfia.

   «Loro chi?» sussurrò Neelah, che gli sedeva accanto a gambe incrociate. Il suo viso pallido rifletteva i colori del falò, spiccando sullo sfondo buio come brace ardente.

   «I Vorgon» rispose Kal Dano, come se quel nome gli lasciasse l’amaro in bocca. «Voi non li conoscete ancora. Sono una specie anfibia, esperta di biotecnologie e cibernetica. Acerrimi nemici del mio popolo, gli Shirna. Quando entrammo nella Federazione, pensammo che questo ci avrebbe protetti. Ci sbagliavamo. I Vorgon avevano informazioni dettagliate sul nostro laboratorio, ottenute da un informatore segreto. Sapevano come colpirci. Le Ruote da Guerra – così si chiamano le loro astronavi – bombardarono la nostra installazione. I miei colleghi, gli amici con cui lavoravo da anni, morirono per i crolli e le esplosioni». L’espressione di Kal Dano era cupa, mente ricordava quei terribili momenti.

   «Inviai un SOS alla Flotta, ma sapevo che i rinforzi non sarebbero arrivati in tempo. Ero rassegnato a morire, quando apparve dal nulla un Agente Temporale. Si chiamava Daniels e proveniva dal XXXI secolo. Disse che per salvaguardare la Storia dovevo sopravvivere e che la mia invenzione non doveva cadere in mano ai Vorgon. M’invitò a salire sul suo guscio temporale con il Tox Uthat e fuggimmo appena in tempo» aggiunse, indicando l’oggetto alle sue spalle. «Credevo d’essere in salvo, ma mi sbagliavo. In seguito fummo attaccati da un nemico ancor più orribile, una specie nemica della luce. Persi i contatti con Daniels e divenni un naufrago del tempo».

   «E ti sei nascosto nel passato? Perché non sei tornato nella tua epoca?» chiese Neelah.

   «I Vorgon avevano un informatore, ma non so chi. Temevo che la Flotta fosse compromessa» spiegò Kal Dano. «Dovevo nascondermi in un posto in cui non mi avrebbero mai trovato e pensare con calma alla prossima mossa. Ma non venni subito qui» precisò, prevenendo le domande. «Vedete, dovunque andassi, due di loro mi braccavano con un teletrasporto temporale. Erano una femmina, chiamata Ajur, e un maschio di nome Boratus. Non c’era luogo, non c’era epoca in cui non mi scovassero. Temetti che, se anche fossi tornato alla Flotta, avrebbero violato ogni barriera di sicurezza. Dovevo batterli in astuzia. Perciò nascosi una copia del Tox Uthat in una caverna di Risa, nel XXII secolo, e feci in modo che la ritrovassero. Così si sarebbero convinti che non funzionava e avrebbero smesso di tallonarmi».

   «Bella pensata!» riconobbe Raav.

   «Grazie... ma in realtà le cose non andarono come previsto» spiegò Kal Dano. «Il simulacro fu ritrovato dal Capitano Picard, che era in vacanza su Risa nel 2366. Incontrò i Vorgon e, per impedire che prendessero l’Uthat, lo distrusse col teletrasporto. Poi se ne andò, convinto d’aver fatto il suo dovere» ridacchiò, divertito dall’ingenuità del Capitano. «Naturalmente i Vorgon tornarono indietro nel tempo e presero l’Uthat prima che Picard lo trovasse. Ma videro che non funzionava e se ne andarono con le pive nel sacco. Il vero Uthat era nascosto altrove... no, non qui» precisò lo scienziato, notando che gli ascoltatori si guardavano attorno nervosamente.

   «Dopo averlo nascosto compii un altro paio di salti temporali, per confondere le acque. Mi apprestavo a tornare a casa, per discutere il problema dei Vorgon con la Flotta... vedete, l’unico modo per fermarli è localizzare la loro base nel futuro. E bisogna anche scoprire chi è il loro informatore. Dicevo che mi apprestavo al ritorno, quando il guscio temporale si guastò e rimasi bloccato qui, nella Britannia arturiana. Fu colpa mia: così tanti viaggi di seguito avevano stressato il nucleo. Dovevo prevederlo, sono stato uno sciocco... ma ero in preda alla paranoia».

   «E quei due Vorgon, si sono più fatti vivi?» volle sapere Neelah.

   «Da Risa in poi, non li ho più visti» rispose Kal Dano. «Ma non dubito che siano ancora da qualche parte, intenti a sondare il tempo in cerca del Tox Uthat... implacabili come l’entropia» sospirò.

   Per molto tempo nessuno si mosse, né disse alcunché. Tutti gli occhi andavano ai ciocchi di legno crepitanti e alle fiamme che danzavano nella notte.

 

   La mattina dopo, Neelah si svegliò quando il sole era già alto e del falò non rimanevano che ceneri fredde. Era indolenzita per la scomodità del giaciglio di paglia, a cui non era abituata, e aveva fame. Si guardò intorno: Raav dormiva ancora, mentre Kal Dano e i Bynari non erano in vista. Per un folle attimo temette che lo Shirna se ne fosse andato con la Phoenix, abbandonandoli in quel mondo ostile. Poi ricordò che i Bynari avevano codificato i comandi della navetta.

   Più calma, l’Aenar si alzò e si diede una rassettata. Rimpiangeva di non poter fare una doccia e di non potersi nemmeno guardare allo specchio: era certa di avere un aspetto spaventoso. Uscì dalla capanna e trovò Kal Dano che parlottava con i Bynari.

   «Tutto a posto» disse lo Shirna. «La Phoenix è al massimo della carica; non resta che reinserire gli iniettori del plasma. E naturalmente devo programmare il mio guscio per il suo ultimo... viaggio...» mormorò, schermandosi gli occhi con la mano per osservare qualcosa in controluce. «Abbiamo visite» avvertì.

   Neelah si voltò e vide due cavalieri che si avvicinavano a spron battuto, attraverso il varco nelle mura. Temette che fossero gli stessi del giorno prima, ma poi si accorse che erano un uomo e una donna, quest’ultima seduta di traverso per via dell’abito lungo.

   «Andate dentro, presto!» disse Kal Dano, facendo segno a Neelah e ai Bynari di nascondersi nella capanna. Si tirò il cappuccio sul capo e avanzò verso i visitatori, sempre più vicini. I tre dell’Enterprise rientrarono di corsa nella baracca, svegliando Raav, e da lì spiarono quanto accadeva all’esterno.

   Il cavaliere aveva una cotta di maglia scura e un grande elmo sormontato da un puntale, in cui era conficcato un teschio umano. Portava una spada e un grande scudo senza blasone. La dama aveva lunghi capelli corvini e un abito anch’esso scuro, impreziosito da orli dorati nelle maniche e nello scollo. Entrambi montavano cavalli neri.

   «Non mi piace» mormorò Neelah, vedendo Kal Dano che avanzava verso quei loschi figuri. Impugnò il phaser, che dal suo arrivo aveva sempre tenuto in cintura.

   «Sssshhht! Aspetta!» sibilò Raav, trattenendola per un braccio. Il Gorn era ancora intorpidito dal freddo e i suoi movimenti erano lenti. «Lasciamo che se la sbrighi da solo. In fondo è sopravvissuto qui per anni. Sa come trattare i nativi. Siamo noi che attiriamo troppo l’attenzione!».

   Neelah si morse il labbro, sapendo che il rettile aveva ragione, e continuò a osservare la scena con apprensione.

   «Benvenuto, sir Mordred. E benvenuta anche voi, lady Morgause. Cosa vi porta al mio remoto asilo?» chiese Kal Dano, inchinandosi profondamente. Stava di nuovo recitando la parte dello stregone.

   «I prodigi della scorsa giornata, mio buon Myrddin» rispose Mordred, scendendo da cavallo. Aiutò la dama a fare lo stesso.

   «Stavamo tornando a Cærleon, dopo aver fatto visita a mia sorella Morgana, quando scorgemmo quella... cosa che scendeva dal cielo» spiegò Morgause. «Compresi subito che era un presagio».

   «Poi abbiamo incontrato tre cavalieri che avevano parlato con voi» proseguì Mordred. «Ci hanno detto dei vostri singolari visitatori. Vorremmo conoscerli... e invitarli a palazzo. Sono certo che mio zio li accoglierà volentieri. Avranno molte cose strane e meravigliose da raccontarci».

   «Siete generoso, principe Mordred, ma temo che i miei ospiti non possano seguirvi» rispose Kal Dano. «Sono qui solo di passaggio e devono assolutamente riprendere il cammino a breve. Portate pure i loro omaggi a sire Artorius».

   «Vi prego, saggio stregone, concedeteci almeno d’incontrarli!» insisté Morgause. «Così potremo porgere loro il saluto, prima che ripartano. Sarebbe scortese passare di qui e non vederli neanche in viso».

   «Sono desolato, mia signora, ma non posso esaudirvi» disse Kal Dano in tono umile. «Anzi, devo pregarvi di tornare a Cærleon. Non chiedetemi perché... ma abbiate fiducia che agisco per il vostro bene».

   Mordred e Morgause si scambiarono un’occhiata d’intesa. «Non il nostro, no» disse Mordred. «È solo per la tua gente che hai costruito il Tox Uthat, e ora lo consegnerai a noi!». Lui e Morgause si sfiorarono la tempia e si trasformarono. Non erano di Cærleon. In effetti non erano neanche Umani.

   Neelah sobbalzò per l’inaspettato precipitare degli eventi. Sebbene appartenessero a una specie mai vista prima, non dubitò che fossero Vorgon. Indossavano strane tute marroni, dalla superficie granulosa, con balze orizzontali e fregi perlacei all’altezza della vita e delle spalle. Le tute si prolungavano a coprire anche le mani, che avevano quattro dita fuse insieme come una spatola; solo il pollice era separato. Le teste erano grosse, coniche, con l’epidermide viscida dai colori sgargianti. Al posto del naso avevano tre brachie, che si allungavano sulle guance. Sulle tempie vi erano chiazze iridescenti, là dove gli strati superiori della pelle mancavano, mostrando i tessuti sottostanti. Sul lato sinistro le chiazze erano più piccole, per fare spazio a un pulsante quadrato. Kal Dano aveva detto che i Vorgon padroneggiavano le biotecnologie e la cibernetica...

   «Ancora voi! Sapevo che sareste tornati!» gemette Kal Dano.

   «Allora perché nasconderti? Hai sprecato i tuoi anni e la nostra pazienza... per cosa, poi? Non puoi fermarci» disse la femmina, Ajur. Gli puntò contro una sottile arma rossastra, che sembrava una matita.

   «Potete anche uccidermi, non vi servirà a nulla» avvertì lo Shirna, con feroce soddisfazione. «Il Tox Uthat non è qui. Siete arrivati... in ritardo!» ridacchiò.

   «Non ancora» ribatté Ajur, sparandogli a bruciapelo. Un raggio verde-azzurro, molto diffuso, lo colpì, e Kal Dano cadde a terra.

   «NO!» gridò Neelah, aprendo il fuoco con il phaser. Pur essendo allo scoperto, i Vorgon non cercarono di scansarsi. Furono colpiti, e per due volte il raggio phaser si arrestò contro i loro scudi individuali.

   «Sciocchi; ci credevate inermi?» chiese il maschio, Boratus, e aprì il fuoco con la sua arma.

   Neelah si ritrasse dentro la capanna; il raggio azzurrognolo si estinse contro lo stipite di legno. «Siamo fortunati, sparano per stordire» disse ai compagni che le stavano accanto. «Forse Kal Dano è ancora vivo».

   «Ancora per poco» disse una voce alle sue spalle, e l’Aenar si sentì colpire dal raggio Vorgon.

   «Frell! Come...» imprecò Neelah. Si girò con il phaser in pugno, ma ogni movimento era rallentato, come se dovesse lottare contro una resistenza gommosa. Vide che Boratus era dentro la baracca e la teneva sotto tiro. Prima che potesse sparargli, le forze l’abbandonarono e si accasciò. Non era propriamente stordita, ma sembrava che il corpo non le rispondesse più.

   Soddisfatto, Boratus sparò anche a Raav, tenendo fisso il raggio paralizzante su di lui. Ma il Gorn resistette e gli venne contro. I suoi movimenti, già lenti per il freddo mattutino, erano più impastati ad ogni passo, ma ancora non si fermava. In quella Ajur si materializzò accanto al compagno e sparò a sua volta. I due raggi, concentrati, fecero crollare Raav.

   Terrorizzati, i Bynari corsero fuori dalla capanna. E si trovarono di fronte i due Vorgon, che li paralizzarono con un colpo per uno. Lo scontro si era già concluso. Sulle prime Neelah non si capacitò di come avessero fatto i Vorgon a sdoppiarsi. Poi capì.

   «Vedete? Non potete opporvi a chi padroneggia il tempo» disse il Boratus all’esterno.

   «Non avete l’aria di Agenti Temporali» commentò l’Ajur al suo fianco. «Ma volete fare il loro sporco lavoro. Questo è inaccettabile».

   «Potete andare, ora. Qui bastiamo in due» disse l’Ajur dentro la capanna.

   «Direi proprio di sì» convenne l’altra.

   I Vorgon all’esterno si premettero il pulsante nella tempia e svanirono in un bagliore verde-azzurro. Gli altri due rimasero. Erano astuti, dovette ammettere Neelah. Grazie al viaggio nel tempo potevano aiutarsi da soli negli scontri, tornando indietro di pochi minuti. Così disorientavano gli avversari, apparendo in due posti contemporaneamente. Inoltre quelli che erano tornati indietro nel tempo conoscevano già l’esito dello scontro. Come si poteva battere un nemico del genere?

   «Questo lo prendo io» disse Ajur, requisendo il phaser di Neelah. «Vai nel guscio» ordinò poi a Boratus. «Accedi al computer. Dobbiamo conoscere tutte le tappe dello Shirna. Le controlleremo una ad una, se necessario».

   Boratus fece un cenno d’assenso ed entrò nel guscio temporale, che era ancora aperto. Ajur invece uscì dalla capanna e raggiunse Kal Dano, che giaceva riverso a terra. Gli parlò nel tono lento e soddisfatto di chi ha la vittoria in pugno: «Accedere ai dati del guscio è solo una precauzione, visto che ti porteremo con noi. Come saprai, le nostre tecniche chirurgiche sono piuttosto avanzate... non sarà difficile estrarti dal cervello quel che ci occorre».

   «Poveri sciocchi! Non avete idea della potenza del Tox Uthat» avvertì Kal Dano, muovendo la bocca con difficoltà, mentre il resto del corpo era ancora paralizzato. «Vi ho fatto un favore a nasconderlo. Se lo trovaste, vi distruggereste da soli».

   «Ma che premuroso!» ironizzò la Vorgon. «Perché crearlo, allora? Rispondi, Shirna!» ordinò, ribaltandolo sulla schiena con un calcio.

   «Perché voi Vorgon capite solo la forza. Con un buon deterrente avremmo posto fine ai vostri attacchi» rispose Kal Dano, ansimando.

   «Intimidazione, dunque. Ma ogni buon deterrente deve essere usato una o due volte, perché tutti lo temano» commentò Ajur. «E so come pensavi di usarlo. Con quel guscio volevi tornare a prima che inventassimo il viaggio interstellare, quand’eravamo tutti su Vorgon. E col Tox Uthat avresti distrutto la nostra stella, sterminandoci. Il deterrente era per gli altri!».

   «Che assurdità!» gemette Kal Dano, lottando contro la paralisi. «Se fosse stato quello il mio piano, l’avrei realizzato col primo salto temporale. Non sarei fuggito da un’epoca all’altra. Che senso avrebbe?».

   «Forse volevi renderti irrintracciabile, prima di procedere. O forse la tua invenzione è incompleta... ne saprò di più quando l’avrò recuperata» ribatté Ajur, impassibile.

   Dalla sua posizione, accasciata subito all’interno della baracca, Neelah aveva seguito la conversazione. Girando il collo dall’altra parte, per quanto le riusciva, vide Boratus uscire soddisfatto dal guscio temporale. Capì che non restava molto tempo. Rimase immobile mentre Boratus le passava accanto, ma appena fu uscito si scosse, cercando di rialzarsi. Il suo fisico geneticamente potenziato si stava riavendo. Ma era sola e disarmata; come opporsi a due Vorgon armati e muniti di teletrasporto temporale?

   «Ho le coordinate dei salti» disse Boratus, mostrando una sacca di gel bio-neurale. Sembrava che l’avesse strappata brutalmente dal suo alloggiamento. «Possiamo andare».

   «Non ancora» corresse Ajur. «Abbiamo non uno, ma ben due veicoli temporali sottomano. È la migliore occasione che ci sia mai capitata. Prendiamo il più avanzato e distruggiamo l’altro».

   «Siete pazzi... creerete paradossi irreparabili!» inveì Kal Dano. «Non avreste mai dovuto impadronirvi del viaggio nel tempo... siete incapaci d’usarlo».

   «Taci!» gridò Boratus. Si avventò su di lui, per colpirlo, ma si bloccò a metà del gesto. «Agenti Temporali» sibilò, estraendo la sua arma.

   «Dove?!» chiese Ajur, armandosi a sua volta. Seguì lo sguardo del complice, ma non vide nulla.

   «Ce n’era uno lì, un attimo fa!» rispose Boratus, indicando l’ingresso della guardiola. Sparò in quella direzione, ma il raggio verde-azzurro colpì solo le pietre.

   «Non rilevo niente» disse Ajur, sondando la zona con la sua arma, che evidentemente fungeva anche da tricorder. «Non soffrirai di afasia sensoriale? Abbiamo fatto molti viaggi...».

   «So quel che dico... eccolo!» si agitò Boratus, indicando stavolta la sommità delle mura. Sparò di nuovo senza esito; il raggio si perse nel cielo. «Maledizione, hanno l’occultamento... o forse sono ologrammi!» si disperò.

   «Uhm, qui c’è qualcosa di strano» mormorò Ajur. Ma in quella udì una voce alle sue spalle: «In nome degli Accordi Temporali, vi dichiaro in arresto. Deponete le armi e arrendetevi». La Vorgon finse di mollare l’arma, ma all’ultimo istante la riafferrò e si gettò di lato. Rotolò a terra, sparando dove credeva ci fosse l’Agente Temporale. Colpì solo il muro.

   «Ma che fai?!» chiese Boratus.

   «Come, non l’hai sentito?».

   «Sentito cosa?».

   Mentre i Vorgon bisticciavano, Kal Dano intravide Neelah, che si sporgeva da dietro la porta della baracca. L’Aenar era di nuovo in piedi; si premeva la tempia con due dita e puntava le antenne contro i nemici. Kal Dano comprese che stava proiettando delle illusioni nelle loro menti, uno sforzo terribile anche per lei.

   Approfittando della distrazione dei Vorgon, che si erano allontanati, lo Shirna riuscì a rialzarsi. Valutò la possibilità di sopraffarli in un corpo a corpo e la scartò. Era solo, disarmato e ancora intorpidito dal raggio paralizzante. Se avesse afferrato un Vorgon, inoltre, c’era il rischio che quello lo portasse con sé nel futuro: proprio ciò che doveva evitare. Lo scienziato barcollò verso la baracca, con le gambe ancora rigide. Gli bastavano pochi metri...

   Neelah scosse la testa. Non voleva che Kal Dano tentasse la fuga, non ancora. I Vorgon erano pur sempre armati. Cercò di tenerli distratti, ma non riusciva a influenzarli contemporaneamente. Mentre proiettava un’illusione nella mente di Boratus, Ajur vide lo Shirna in fuga con la coda dell’occhio.

   «Tu non vai da nessuna parte!» gridò la Vorgon, aprendo il fuoco. Nel suo stato sovreccitato, regolò l’arma per uccidere. Invece del raggio diffuso, la “matita” emise un impulso azzurro molto più concentrato, che colpì Kal Dano fra le scapole. Lo Shirna lanciò un lungo grido, arrovesciando la testa all’indietro, e in qualche modo riuscì a barcollare fino all’ingresso della capanna. Si accasciò tra le braccia di Neelah, che lo trascinò dentro.

   Ajur stava per inseguirlo, ma Boratus la trattenne per un braccio. «Ci sono Agenti Temporali ovunque, dobbiamo andarcene!» esclamò. «Tanto abbiamo già quel che volevamo» aggiunse, accennando alla gelatina del computer che aveva ancora con sé.

   «Va bene, tanto sappiamo dove ritrovare lo Shirna» cedette Ajur. I Vorgon si premettero il pulsante sulla tempia, svanendo in due bagliori verde-azzurri.

 

   Neelah tirò un sospiro di sollievo, vedendo che i Vorgon lasciavano il campo. Dovevano essere terrorizzati dagli Agenti Temporali per filarsela così, abbandonando Kal Dano, la Phoenix e il guscio. Probabilmente erano abituati a fuggire nel futuro ogni volta che incontravano un pericolo. Ma non c’era tempo di gioire. Kal Dano era a terra, e sebbene non avesse ferite visibili, sembrava in agonia.

   «Resisti» disse l’Aenar. «Ti porteremo sull’Enterprise...».

   «No, ci manca il... tempo» boccheggiò Kal Dano. «Gli iniettori della Phoenix sono ancora smontati e io morirò prima che possiate sistemarli. Ma c’è una cosa che devo fare a ogni costo. Portami al guscio temporale!».

   Neelah sapeva cos’aveva in mente Kal Dano. Quell’oggetto doveva assolutamente lasciare la Terra e lui era l’unico che potesse pilotarlo. A causa dei danni al nucleo, il guscio sarebbe esploso al momento della rimaterializzazione... ma Kal Dano stava già morendo.

   «Ci dev’essere un altro modo» sussurrò l’Aenar, con gli occhi lucidi. Si guardò intorno: Raav e i Bynari erano ancora paralizzati. Nessuno poteva aiutarli.

   «È tutto nelle vostre mani, ora» mormorò Kal Dano, scuotendo la testa. Le ginocchia gli cedettero, così che Neelah dovette sorreggerlo. Aveva il viso sudato e il respiro sempre più affannoso. Non occorreva essere dottori per capire che gli restava poco. Neelah lo portò dentro il guscio e lo aiutò a sedersi sulla poltrona del pilota. Notarono che Boratus aveva aperto lo scomparto sul pavimento, pasticciando con le gelatine bio-neurali. Oltre a strapparne una, aveva rotto le altre: il loro contenuto blu era spiaccicato sul fondo dello scomparto. Fortunatamente non aveva aperto la botola che conduceva alle misteriose sale inferiori.

   «Oh, no!» gemette Kal Dano. «Quei barbari hanno compromesso le gelatine. Non riuscirò nemmeno a fissare le coordinate spazio-temporali. Ma non importa... il guscio esploderà all’arrivo». Si piegò sui comandi, digitando la sequenza d’avvio. «Trova il Tox Uthat prima dei Vorgon, o interi popoli saranno distrutti... cancellati dalla Storia» sussurrò.

   Neelah si sentì tremare. Di solito le piaceva darsi qualche aria; in fondo le sue ricerche contribuivano al benessere di milioni di persone. Ma reggere il destino d’interi popoli... no, quello era troppo. «Ma dov’è?!» chiese con voce rotta dalla disperazione.

   Kal Dano le fece segno di avvicinarsi e le sfiorò la tempia, stabilendo il contatto mentale. «Accogli i miei pensieri... custodisci le mie memorie!» bisbigliò con voce roca, fissandola negli occhi.

   «Sì, lo vedo» ansimò Neelah. Anche negli ultimi istanti, la mente di Kal Dano aveva una potenza formidabile. L’Aenar sentì che gli occhi le lacrimavano.

   «Ora và, presto!» ordinò lo Shirna, terminando il contatto mentale. «Riporta l’Uthat alla Flotta... o meglio ancora distruggilo, così che non cada in mani sbagliate. Ahimè... non avrei mai dovuto inventare quella macchina infernale!».

   «S-sì, te lo prometto» balbettò Neelah, indietreggiando verso il portello. Fissò Kal Dano negli occhi per l’ultima volta. «Addio, grazie di tutto» mormorò. Si girò e saltò fuori dal guscio, subito prima che il portello si richiudesse alle sue spalle. Barcollò all’esterno, ancora frastornata. Il guscio temporale emise un ronzio e svanì in un bagliore verdastro. Kal Dano era andato e la maggior parte dei suoi segreti era morta con lui.

 

   Per circa un minuto, tutto rimase immobile e silenzioso. Poi Raav emise un ringhio profondo, come un coccodrillo; l’effetto della paralisi stava svanendo. Si stiracchiò e riuscì ad alzarsi. «È andato...» mormorò incredulo. «Il Tox Uthat!» esclamò, ricordando la minaccia incombente. «Ti ha detto dov’è?».

   «Certo» rispose Neelah, avvicinandosi. «E io gli ho promesso che lo prenderemo prima dei Vorgon».

   «Come si può fare qualcosa prima di loro? Anche se riuscissimo a precederli, loro lo saprebbero e tornerebbero ancora più indietro nel tempo!» protestò Raav.

   «Lo so» ammise Neelah, preoccupata. «Ma li dobbiamo battere, o quei folli distruggeranno interi sistemi stellari».

   L’Aenar e il Gorn lasciarono la baracca e andarono in soccorso dei Bynari, che cominciavano appena a riprendersi.

   «Considerando la pericolosità del Tox Uthat...» disse 0.

   «... l’azione più logica è distruggerlo» concluse 1.

   «Sì, anche Kal Dano lo voleva» rivelò Neelah. «Ma non posso farlo!» aggiunse inaspettatamente. Aveva una strana luce negli occhi.

   «Perché no? Pericoloso com’è...» osservò Raav.

   «Sì, è molto pericoloso... e non solo per stelle e pianeti!» rivelò la biologa.

   «Spiegati».

   Neelah prese a camminare nervosamente su e giù, con le mani dietro la schiena. «Negli ultimi istanti, quando abbiamo unito le nostre menti, Kal Dano mi ha spiegato come funziona l’Uthat. Non è potuto scendere nei dettagli, ma ho capito che il congegno altera la costante cosmologica nel raggio di un anno-luce. Per questo la conversione materia/energia diviene impossibile. Ora, riuscite a immaginare che succederebbe se lo usassimo contro le Sfere?».

   «Collasso gravimetrico totale» disse 0, affascinato.

   «Le Sfere esploderebbero e nessuno scudo potrebbe impedirlo» aggiunse 1.

   «Esatto! Il Tox Uthat può essere l’arma definitiva contro i Tuteriani!» esclamò Neelah, trionfante. «Capite perché dobbiamo impadronircene? Ci permetterà di vincere la guerra, di salvare la Federazione!».

   «In tal caso è ancora più importante tornare sull’Enterprise» disse Raav. «Così informeremo il Capitano e lui invierà una squadra per affrontare i Vorgon».

   «Uhm... Kal Dano sembrava convinto che dovessimo essere noi a farlo» mormorò Neelah, ricordando i pensieri che le aveva trasmesso nell’ultimo contatto. «Ma considerando la pericolosità dei Vorgon e la posta in gioco...» aggiunse, meditabonda.

   «Conveniamo sulla valutazione strategica...» disse 0.

   «… ma dobbiamo avvertirvi di un problema riguardo al viaggio di ritorno» aggiunse 1.

   «Il sovraccarico energetico che ci ha mandati indietro di duemila anni potrebbe ripetersi, se tornassimo avanti nel tempo di così tanto».

   «E un secondo sovraccarico di quella portata potrebbe distruggere la Phoenix».

   «Raccomandiamo perciò di suddividere il viaggio di ritorno».

   «Due salti di mille anni sottoporranno la Phoenix a minor stress temporale e ci faranno correre meno rischi».

   «E se fossero millecinquecento e cinquecento anni?» chiese Neelah.

   «Sarebbe sempre entro i limiti di tolleranza» rispose 0, dopo averci riflettuto un attimo.

   «Ma perché dividere il balzo in questo modo?» chiese 1.

   «Perché così, col primo balzo, raggiungeremo l’Uthat» rivelò Neelah. «Avremo la nostra occasione. E se fallissimo... voi due potreste tenervi lontani dallo scontro e fare il secondo balzo, avvertendo l’Enterprise» disse ai Bynari. «Vale anche per te; non voglio obbligare nessuno» aggiunse, rivolgendosi a Raav.

   «Vuoi affrontare quei mostri da sola?!» si stupì il Gorn.

   «Avranno anche la tecnologia, ma credo che siano un po’ fessacchiotti» sogghignò l’Aenar. «Sono già riuscita a confonderli. E stavolta potrei presentarmi in anticipo, studiare il terreno, preparare una trappola. Non so come dirvelo... ma dall’ultima fusione con Kal Dano ho la netta sensazione che debba andare così» disse, meravigliandosi delle sue parole. Data la sua formazione scientifica, era sempre stata abituata ad agire nel modo più razionale. Le sue scelte dipendevano dalla fredda valutazione di costi e benefici. Eppure adesso stava scommettendo tutto in base a un’indefinibile sensazione.

   «Dottoressa, lei è una scienziata!» protestò 0, scandalizzato.

   «Come può affidarsi alle sensazioni?!» rincarò 1.

   «Senti, senti!» sibilò Raav. Si accostò a Neelah, scrutandola con i grossi occhi gialli, come se la vedesse per la prima volta. L’annusò persino. «I sapientoni hanno ragione, vuoi fare una cosa molto illogica».

   «Si sente in colpa per non aver salvato Kal Dano e vuole rimediare» cercò di razionalizzare 0.

   «Sarebbe un errore, però, affrontare di nuovo i Vorgon da soli» aggiunse 1.

   Neelah stava per obiettare, ma all’ultimo istante cambiò idea e tenne la risposta per sé. Le era venuto in mente che, se fossero stati soverchiati da una squadra federale, i Vorgon sarebbero comunque fuggiti nel futuro. E lì, con calma, avrebbero architettato un piano per cambiare gli eventi a loro vantaggio. L’unico modo per sconfiggerli davvero era inseguirli nella loro base e distruggere le apparecchiature. Ma era un viaggio senza ritorno.

   «Forse l’unico modo di prevalere, in una guerra temporale, è fare cose inaspettate» disse lentamente Raav, socchiudendo gli occhi. «Neelah, tu sei l’unica che ha percepito i pensieri di Kal Dano. Se lui era convinto che fosse la nostra battaglia... e se tu sei d’accordo... allora sono con te. I Gorn non indietreggiano davanti al pericolo, sssshhhht!» sibilò, ergendosi in tutta la sua statura.

   I Bynari si scambiarono un’occhiata incredula; erano così allibiti che non sapevano nemmeno come replicare.

   «Grazie» sorrise Neelah, commossa da quella dimostrazione di fiducia. «Ma prima di andarcene, dobbiamo setacciare la fortezza» aggiunse, osservando l’ingresso della guardiola. «Kal Dano ha lasciato in giro degli strumenti. Alcuni potrebbero venire dal guscio temporale. È roba del XXXI secolo, non possiamo lasciarla qui. E potrebbe servirci contro i Vorgon» aggiunse speranzosa.

   Le antenne dell’Aenar fremettero, mentre immaginava i possibili esiti dello scontro. Sconfiggere i Vorgon era la priorità. Se non ci riusciva, anche distruggere il Tox Uthat era inutile, perché loro lo avrebbero ripescato dal passato. Ma se si liberava di quei pirati temporali, niente le avrebbe impedito di portare l’Uthat nel suo secolo e scatenarlo contro i nemici della Federazione.

 

 

-Intermezzo 2:

 

600.000 anni fa

Luogo: Tkon

 

   Il sole di Tkon splendeva quasi allo zenith, illuminando la capitale con i suoi giardini fioriti, le ampie strade trafficate, i canali ben curati e i monumenti che quell’Impero sempiterno aveva innalzato nel corso dei millenni. C’erano immense piramidi a gradoni, con le pareti percorse da scalinate; sulle cime piatte posavano le astronavi Tkon. C’erano le statue colossali dei grandi eroi di Tkon: imperatori, condottieri, legislatori. E anche esploratori, filosofi, scienziati. Migliaia di generazioni al servizio dell’Impero più vasto e duraturo che il Quadrante Alfa avesse mai conosciuto. Molti si perdevano nelle nebbie di un passato così remoto che le loro storie erano leggenda e le statue mostravano i segni dell’erosione.

   Ma tra gli splendori di Tkon spiccavano soprattutto i templi, sorretti da foreste di colonne, con i portali circondati da bracieri sempre accesi. Anche chi vi passava davanti senza entrare poteva udire, più volte al giorno, i canti sacri, intervallati dal battito dei gong; e poteva sentire i profumi che accompagnavano le cerimonie. Dai templi partivano grandi vie processionali, fiancheggiate da centinaia di statue colossali. Come fili di una ragnatela, le strade convergevano nella grande piazza centrale, sbucandovi attraverso imponenti archi trionfali.

   Quel giorno la piazza era gremita da una folla immensa e variopinta. Il popolo di Tkon era accorso con gli abiti più belli e le molte lingue dell’Impero si mescolavano armoniosamente. Ma quando i grandi gong furono percossi, ogni voce tacque. Tutti gli occhi si alzarono alla Grande Piramide, che portava impresso sulla parete frontale l’emblema dell’Impero Tkon, simile a una fiamma verde. Sotto di esso, in un terrazzamento, erano raccolte le massime cariche dello Stato: funzionari, generali, governatori. Si divisero in due ali e s’inchinarono rispettosamente, mentre avanzava l’Imperatore, solenne nell’abito verde e oro. Lunghe piume variopinte adornavano il suo elaborato copricapo. Quando l’Imperatore fu sull’orlo della terrazza, il gong rintoccò ancora e i sudditi s’inchinarono.

   «Figli di Tkon, questo è un giorno molto speciale!» esordì l’Imperatore. La tecnologia, ben nascosta dietro i marmi pregiati, amplificava la sua voce, diffondendola in tutta la piazza.

   «Oggi il nostro Impero compie centomila anni! Questo stupefacente traguardo è stato reso possibile dalla devozione e dal sacrificio d’innumerevoli generazioni» proseguì l’Imperatore. «Mentre gli altri popoli sorgono e cadono, noi resistiamo. Abbiamo varcato le grandi Ere del cosmo, superando i travagli che segnano la fine di un’Era e l’inizio della successiva.

   Sorgemmo nell’Era di Bastu, remota nelle nebbie del passato, quando tutto era nuovo e incontaminato. Le stelle non avevano nome, il nostro respiro era tutt’uno con quello della Natura. Era il tempo dei prodigi: gli dèi camminavano fra noi, sogno e realtà ancora si confondevano.

   Poi venne l’Era di Cimi, quando le cose divennero chiare e nette. La terra fu coltivata, le strade furono tracciate, le dimore furono innalzate. Le stelle ci chiamarono e noi c’innalzammo verso di esse, superando gli abissi dello spazio, fino a scoprire nuovi mondi.

   Seguì l’Era di Xora, quando misurammo la nostra forza con quella di altri popoli, e scoprimmo che era grande. Molti nemici cercarono di distruggerci, ma riuscimmo sempre a prevalere, perché ne comprendemmo la natura, scoprendo le loro debolezze. Umiliammo i potenti e liberammo gli schiavi. Portammo legge e ordine tra le stelle.

   Ora siamo nella fulgida Era di Makto e godiamo di una meritata pace. Molte favelle aliene ci chiamano Signori, molte genti ci rendono tributo. Ma, figli di Tkon, non dobbiamo mai calare la guardia. Le profezie dicono che dopo l’Era di Makto ve ne saranno altre. Nell’Era di Ozari, i vecchi poteri cadranno e ne sorgeranno di nuovi. Nell’Era di Fendor, infine, tutto diverrà instabile e convulso. Sorgeranno popoli più giovani, ansiosi di battersi per la supremazia. In mezzo a tanti cambiamenti, il nostro Impero dovrà reggersi saldo...».

   La voce dell’Imperatore si affievolì e tacque, perché d’un tratto il sole si era oscurato. Non c’erano nubi, né poteva trattarsi di un’eclisse. Si era semplicemente... spento, come una lampadina. Restava solo un disco color sangue, che smoriva verso il bruno. L’aria si raffreddò immediatamente e stormi di uccelli si levarono in volo. Un brusio salì dal popolo radunato in piazza: suoni di sgomento, d’incredulità, di paura. I bambini più piccoli presero a piangere.

   L’Imperatore esitò: fissava ora il sole agonizzante, ora il popolo sempre più spaventato. Infine si ritirò verso i suoi dignitari. «Che significa?» chiese, indicando il prodigio sopra le loro teste.

   «Maestà, una piccola astronave ha superato la nostra griglia protettiva con qualche dispositivo d’occultamento» disse un generale, accorrendo trafelato. «Sono diventati visibili solo mentre lanciavano un missile verso il sole».

   «Un missile?» chiese l’Imperatore, confuso. Poi il suo volto aristocratico sbiancò ed egli vacillò come se l’avessero colpito a morte, facendo frusciare i paramenti regali. «Avete un’immagine dell’astronave? Devo vederla!» ordinò, quasi gridando.

   «Ecco» disse il generale, proiettando dal bracciale un piccolo schermo olografico. Mostrava la stella di Tkon, subito prima che si spegnesse. Contro la luce bianca apparve una sagoma nera e mostruosa. Non si capiva quale fosse la parte anteriore e quale la poppa. C’era solo una massa informe, da cui protendevano numerose escrescenze simili a spine: alcune dritte, altre ricurve. Puntavano in varie direzioni, come aculei velenosi che cercassero una preda da trafiggere. Era una forma così aliena, così disturbante, che il solo guardarla mozzava il fiato e dava la sensazione d’impazzire. L’astronave lanciò un missile, simile a una spina nera, verso il sole. Poi si occultò di nuovo. La fotosfera prese a oscurarsi con incredibile rapidità.

   «Na’kuhl» sussurrò l’Imperatore, con il volto esangue. «Hanno fatto ciò che gli riesce meglio: hanno spento la luce della Galassia».

   «Volete dire che era un missile al trilitio?!» gemette un dignitario, leggendo la tremenda verità sul volto dei presenti. Sopra le loro teste, il sole emise un’onda d’urto rossastra, che si allargava di secondo in secondo. Le voci concitate dei generali e dei funzionari si sovrapposero e si confusero, ma l’Imperatore le sentiva appena.

   «Il sole dista sette minuti-luce. Se noi vediamo l’esplosione, vuol dire che è già avvenuta...».

   «L’onda d’urto viene subito dopo...».

   «Il pianeta ha pochi minuti di vita!».

   «Impossibile, Tkon non può morire! Dev’esserci qualcosa che possiamo fare...».

   «Tutto il sistema è condannato, dobbiamo andarcene subito!».

   «Venite, Maestà, la vostra nave attende...» disse il generale con urgenza, accennando al vascello imperiale sulla sommità della Grande Piramide, molto al di sopra delle loro teste.

   «No» rispose l’Imperatore, guardando giù dal terrazzamento. Il popolo di Tkon gridava, piangeva, malediva quel giorno. Molti cercavano di fuggire, ma una folla di quelle dimensioni non poteva defluire rapidamente, malgrado le molte uscite della piazza. Molti erano già stati schiacciati nella calca. Nel resto della capitale, la gente correva verso le piramidi e saliva le ripide scalinate fino alla sommità, dov’erano posate le astronavi. Alcuni vascelli già decollavano, vomitando fiamme dagli ugelli. Ma su Tkon vivevano miliardi di persone; non c’erano abbastanza navi per salvarle tutte, di certo non nell’arco di qualche minuto.

   «No, io non sopravvivrò a Tkon» disse l’Imperatore. Si tolse l’elaborato copricapo, il simbolo della sua carica, e lo lasciò cadere a terra: dimenticato, privo d’importanza. «Generale, porti la mia famiglia sulla nave. Decollate subito» ordinò. «Voi potete andare, se ne avete la forza; vi libero da ogni obbligo nei miei riguardi» aggiunse, rivolto ai funzionari.

   «Altezza, vi prego di riconsiderare...».

   «Cos’è Tkon senza la vostra guida?».

   «Già, cos’è Tkon?» mormorò l’Imperatore. «Centomila anni di storia stanno per essere cancellati. Le vittorie... le sconfitte... niente ha più importanza. Muore la casa e muoiono gli abitanti. Questa è la fine dell’Era di Makto. Lasciate che anch’io finisca con essa».

   Vedendo che il sovrano era irremovibile, e che l’onda d’urto nel cielo si allargava sempre più, la corte imperiale si diede a una fuga disordinata verso l’astronave. Solo il generale e un manipolo di guardie mantennero la disciplina: fecero quadrato attorno alla famiglia imperiale, sollecitando donne e bambini a correre più in fretta verso la salvezza.

   «Figli di Tkon!» tuonò l’Imperatore, rivolgendosi di nuovo alla folla sottostante. «Questa è la nostra ora più buia, il crepuscolo dell’Era di Makto. Non c’è salvezza per noi e per la patria. Ma i nostri avamposti perdureranno. Il seme di Tkon continuerà a vivere... come vive il Nemico che ci ha fatto questo».

   L’Imperatore sentì decollare la sua astronave dalla cima della Grande Piramide. Lo stesso avevano fatto gli altri vascelli, dalle piramidi minori. Sciamarono verso il cielo corrusco, quasi del tutto invaso dall’esplosione. Erano misere briciole, in confronto a ciò che non poteva essere salvato.

   Meno di un minuto dopo, il suolo cominciò a tremare e spaccarsi. Le glorie di Tkon crollarono nelle voragini, che risucchiavano anche le folle disperate. Il boato apocalittico salì alle orecchie dell’Imperatore, gli risuonò fin nel midollo, ed egli chiuse gli occhi. Levò la sua ultima preghiera: non che gli Tkon si vendicassero, ma che scampassero all’estinzione. Poi l’onda d’urto della nova raggiunse il pianeta. La crosta si frantumò e il mantello fluido fu soffiato via, mettendo a nudo il nucleo solido. Poche astronavi fecero in tempo a entrare in curvatura, sfuggendo all’Apocalisse.

 

   «Avete visto, miei fidi? La fiamma di Tkon... si è estinta!» disse la leader dei Na’kuhl, dal ponte di comando della nave nera. Si erano allontanati da Tkon tanto da osservare la sua distruzione senza correre rischi. Fissavano l’apocalisse dallo schermo principale, immobili e silenziosi nella plancia densa di ombre.

   «È la natura dell’Universo: ogni luce, prima o poi, si spegne» disse la Leader Suprema, ritta davanti al suo seggio simile a un trono. Nella semioscurità della plancia si distinguevano solo i contorni del suo corpo alto e magro. La severa uniforme riluceva debolmente, come la pelle scagliosa di un serpente. I capelli bianchissimi le scendevano lisci fino alle spalle, mentre gli occhi rossi brillavano sul volto vampiresco come carboni ardenti. Le labbra esangui si piegarono in un sorriso crudele. «Solo l’oscurità è eterna. E noi con essa».

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Il mondo oceano ***


-Capitolo 4: Il mondo oceano

 

   L’USS Sojourner uscì dalla cavitazione quantica già occultata, per non correre alcun rischio. Era nel sistema di Vorgon, in un settore remoto del Quadrante Beta, e in caso di difficoltà non poteva contare su un rapido aiuto. Il pianeta Vorgon, mondo natale dell’enigmatica specie anfibia, giganteggiava sullo schermo di plancia. Ilia, Terry e Lantora lo osservarono con attenzione. Durante il viaggio avevano letto il dossier della Sezione 31 sul pianeta, cercando di familiarizzare con la sua geografia. Ma vederlo dal vivo era tutt’altra cosa.

   Suo malgrado, Ilia si trovò a pensare che era uno dei pianeti più incantevoli su cui avesse mai posato gli occhi. Le terre emerse costituivano appena il 20% della superficie. Leggermente più giovane della Terra, il pianeta era anche più grande; ma la sua scarsa densità faceva sì che la gravità fosse simile a quella terrestre. Il clima era tropicale: le isole e le poche masse continentali brillavano di verde smeraldo sugli oceani blu. Un paio di cicloni vorticavano nell’emisfero australe, come enormi batuffoli di cotone. Non c’era quasi traccia di calotte polari.

   Ma l’elemento più appariscente di Vorgon era lo stupendo sistema di anelli. Faceva invidia a molti giganti gassosi; ed era di un bianco abbagliante, perché i frammenti erano composti da ghiaccio d’acqua.

   «I sensori confermano i dati dell’intelligence» disse l’Ufficiale Scientifico della Sojourner. «È un pianeta di classe M, tendente all’oceanico. Diametro 15.680 km, pressione atmosferica 1,32 al livello del mare. La giornata dura 30 ore. Atmosfera al 63% azoto e al 34% ossigeno, col restante 3% di anidride carbonica e gas innocui».

   «C’è un sacco di ossigeno» commentò Lantora. «La mia fisiologia Xindi lo può reggere, ma un Umano ammattirebbe».

   «Ecco perché non ci sono Umani nella squadra» annuì Ilia. «A meno di non contare lei, Terry» aggiunse, rivolgendosi all’Intelligenza Artificiale.

   «La mia fisiologia è una replica fedele di quella Umana, fino a livello cellulare» spiegò Terry. «Questo vale anche per i meccanismi della respirazione. L’atmosfera di Vorgon mi manderebbe in iperossiemia... se non avessi la capacità di alterare la mia struttura corporea, adeguandola alle necessità».

   «Provveda subito» ordinò Ilia.

   Terry annuì e si concentrò. La sua figura fu attraversata da un’onda, che la percorse dalla testa ai piedi. Sembrò quasi che sprofondasse sott’acqua. «Modifiche completate, sono operativa per la missione» disse l’IA con naturalezza.

   «Terry, certe volte la invidio» commentò la Trill, scuotendo la testa.

   «E la sua fisiologia non risentirà dell’atmosfera?» chiese Lantora.

   «Non penso... anche se Dax non è più un giovincello» ammise Ilia di malavoglia. Per un Simbionte più giovane non ci sarebbero stati problemi. Ma con un Simbionte vecchio di oltre cinquecento anni, bisognava stare più attenti in tutto quel che si faceva. Le condizioni ambientali di Vorgon erano al limite della sicurezza, ma lei non intendeva farlo pesare sulla squadra. «Comunque avremo tute in grado di filtrare l’atmosfera» aggiunse. «Se avrò problemi, metterò il casco».

   «Il clima è caldo-umido» avvertì l’Ufficiale Scientifico della Sojourner, proseguendo le scansioni. «Nella zona in cui vi sbarcheremo ci sono 40°C e un’umidità relativa del 95%».

   «Che serra! Forse dovevate prendervi uno Xindi Rettile... o un Acquatico» commentò Lantora, osservando il vasto oceano planetario sullo schermo. Stavano per andare in un posto caldo, umido, pieno d’ossigeno e con un’alta pressione atmosferica; non proprio il luogo adatto agli sforzi fisici. Ma la missione li richiedeva senz’altro. E lui, pur non avendo la conoscenza enciclopedica di Terry, né l’esperienza di Dax, doveva proteggerle entrambe.

   «Dati sulle forme di vita?» chiese la Trill.

   «Le terre emerse sono coperte da foreste pluviali» rispose l’Ufficiale Scientifico, leggendo il rapporto dei sensori. «A ciò concorre l’inclinazione quasi nulla dell’asse planetario: su Vorgon non ci sono stagioni. Le terre emerse hanno un clima monsonico, la biodiversità è eccezionale. E negli oceani è ancora maggiore. Le piattaforme continentali ospitano mari bassi e caldi, ricchi di barriere coralline».

   «E le città?» chiese Lantora, stupito che ancora non se ne fosse parlato.

   «L’urbanizzazione è ridotta al minimo» spiegò l’addetto ai sensori. «In tutto il pianeta ci saranno sì e no un miliardo di Vorgon. Le città sono piccole e concentrate sulle coste. Rilevo villaggi su palafitte, sulle barriere coralline e su piattaforme galleggianti».

   «Combacia con la natura anfibia dei Vorgon» commentò Ilia. «I loro centri sono vicini all’acqua. Ma che mi dice dell’industrializzazione?».

   «Minima anche quella» rispose l’ufficiale. «Non rilevo cantieri per la costruzione di astronavi: né in orbita, né sulla superficie. E non c’è nulla che somigli a fabbriche di armi pesanti. Anche la rete viaria è pressoché inesistente. I trasporti sono perlopiù marittimi e fluviali».

   «Non sembra una civiltà militarista» commentò Lantora, avvicinandosi a Ilia e lanciandole un’occhiata dubbiosa. «Anzi, non sembra nemmeno dotata di curvatura!».

   «Eppure i loro vicini Shirna lamentano attacchi con astronavi molto potenti» obiettò Terry. «E poiché hanno fatto domanda per entrare nella Federazione, c’è d’aspettarsi che i Vorgon se la prendano anche con noi. Per questo dobbiamo capire quali siano effettivamente le loro forze e dove le nascondano».

   «Inutile fare congetture... lo sapremo una volta sbarcati» disse Ilia, avvicinandosi al Capitano Prasad della Sojourner.

   «Vi teletrasporteremo appena possibile» assicurò questi, distogliendosi dall’ingannevole bellezza di Vorgon. «La stella è soggetta a frequenti brillamenti; ne aspetteremo uno abbastanza intenso da mascherare la traccia di teletrasporto. Nel frattempo potete equipaggiarvi e recarvi in sala».

   Ilia si mosse verso il turboascensore, seguita dai suoi ufficiali. Ma nel passare accanto al Capitano si fermò un attimo e gli rivolse un’occhiata penetrante. «Contiamo su di voi per l’estrazione, a missione conclusa» disse. «Ma state attenti! Non sappiamo quanto siano avanzati i sensori Vorgon».

   «Non si preoccupi, la Sojourner ha un occultamento perfetto» rispose Prasad. «Aspetteremo tutto il tempo necessario».

 

   Non dovettero aspettare molto. Un brillamento solare intenso, alcuni accorgimenti per mascherare la traccia di teletrasporto e si trovarono nell’asfissiante giungla di Vorgon. Per essere certi di sfuggire a ogni rilevamento si erano materializzati in una zona selvaggia, ma la missione prevedeva di raggiungere la città nelle vicinanze. Era il più vasto agglomerato urbano del pianeta, quasi certamente la capitale. La Sezione 31 riteneva che il governo Vorgon fosse ubicato lì e che un sopralluogo avrebbe svelato il loro potenziale bellico. Ma prima bisognava superare la foresta pluviale.

   Ilia, Terry, Lantora e i sei agenti segreti che completavano la squadra si materializzarono su una zolla muscosa, circondata da acquitrini. Indossavano tute semi-corazzate, mimetiche, adatte all’ambiente paludoso. Le tute avevano alcuni elementi rigidi, specialmente sul petto, ed erano dotate di guanti e caschi a tenuta stagna. In caso d’emergenza potevano fungere da scafandri o persino da tute spaziali, anche se la loro autonomia era limitata. Tutti i membri del commando avevano le armi pronte e recavano con sé le provviste per molti giorni, oltre a parecchi congegni che potevano essere utili. La maggior parte del carico stava negli zainetti che ciascuno portava in spalla, ma gli strumenti più importanti erano appesi in cintura.

   I federali mossero i primi passi in quell’ambiente selvaggio. Intorno a loro si levavano alberi alti e sottili, dalla struttura semplice, a candelabro. La corteccia, tutta a rombi, somigliava a scorza d’ananas. Le basi degli alberi sprofondavano negli stagni limacciosi, mentre le loro chiome svettavano a grande altezza, contendendosi la luce. Molti tronchi erano caduti e quelli in piedi avevano molti rami spezzati dalla furia dei cicloni. C’erano anche canne palustri e altre piante di piccola taglia. Più che foglie, tendevano ad avere lamelle simili ad aghi di pino, ma flessibili e radunate in corolle. Il verde era ovunque: persino gli stagni avevano quel colore, essendo coperti da piccole alghe simili a coriandoli.

   «Non rilevo agenti patogeni» disse Lantora, consultando il tricorder. «Chiedo il permesso di togliere il casco; vorrei risparmiare autonomia».

   «Accordato; me lo tolgo anch’io» disse Ilia. Premendo un comando sul bracciale, i due ufficiali fecero ritirare il casco nel collo della tuta. Furono investiti dal calore, dall’umidità e dall’odore sgradevole del legno in decomposizione.

   «Che sauna... beh, non è così male» disse Lantora, scostandosi i capelli neri, già sudati.

   «Se non fosse per l’odore» aggiunse Ilia, arricciando il naso. Cercò di calmare la respirazione. L’abbondanza d’ossigeno, sommata all’alta pressione e all’umidità, aveva un effetto stordente. Sembrava di stare in un bagno a vapore: i pensieri si sfilacciavano, scorrevano pigri. Era difficile concentrarsi e prendere decisioni. Ma Ilia sapeva di dover restare vigile.

   La squadra si rimise in marcia. Lantora procedeva in testa, con i sensi all’erta e il fucile phaser a tracolla. Ilia stava al centro, circondata dagli agenti della Sezione 31, mentre Terry faceva da retroguardia. Sulle prime non videro animali. Ne sentivano però i rumori: il ronzio degli insetti, lo sciaguattare degli anfibi nelle pozze. Poi gli insetti arrivarono a sciami, e furono ben visibili. Erano enormi. Alcuni, simili a libellule, avevano un’apertura alare di 70 cm e ronzavano come il motore di una navetta. A terra, sui lembi di suolo asciutto, zampettavano ragni e scorpioni giganti: alcuni sfioravano il metro di lunghezza. Ma i più grandi di tutti erano centopiedi e millepiedi; neri e lucidi, erano lunghi anche due o tre metri.

   «Affascinante» commentò Terry. «Questo pianeta somiglia alla Terra del periodo Carbonifero, fra 359 e 299 milioni di anni fa. Le piante, ad esempio, ricordano molto i lepidodendri, le sigillarie, gli equiseti, i licopodi e le felci arboree di quel periodo. Il clima tropicale, senza sbalzi stagionali, ha permesso l’eccezionale sviluppo della vegetazione. Ciò ha innalzato il livello d’ossigeno nell’atmosfera, permettendo agli invertebrati di crescere sempre più. Se fosse una spedizione scientifica, dovremmo raccogliere campioni...».

   Terry s’interruppe, notando l’aria stravolta di Ilia e Lantora. Avevano la pelle arrossata e il respiro affannoso. Il sudore gli inzuppava i capelli, scorreva lungo il volto e giù per il collo. Non sembravano in vena di apprezzare le sue considerazioni. Lei, invece, non risentiva del clima: aveva sospeso molte funzioni avanzate del suo programma per non farsene impacciare. Adesso somigliava più a un ologramma di vecchio tipo: non sudava, non si stancava, non mangiava né beveva e non poteva ferirsi. La sua sopravvivenza, però, dipendeva dall’Emettitore Autonomo che portava al braccio. La mortalità era una sensazione piuttosto nuova, per lei, e assai sgradevole. Si accorse che la distraeva.

   «Non siamo qui per i campioni» tagliò corto Ilia. «Muoviamoci, dobbiamo fare più strada possibile prima che il sole sia a picco. A quel punto farà così caldo che dovremo sostare all’ombra».

   Camminarono in fila indiana per tre ore, scambiandosi pochissime parole. Lantora era sempre in testa e apriva la pista per i colleghi. Malgrado il clima asfissiante e l’odore di legno marcio, doveva ammettere che la natura rigogliosa di Vorgon era incantevole. Gli unici vertebrati erano anfibi, assai diversi per forma e dimensioni. Molti erano di un verde mimetico, ma altri avevano tinte vivaci – giallo, rosso, blu – che facevano pensare a un segnale d’allarme. Probabilmente la loro pelle era velenosa, come quella delle rane tropicali terrestri.

   La maggior parte degli anfibi galleggiava pigramente negli acquitrini, tenendo solo gli occhi inespressivi sopra il pelo dell’acqua. Altri zampettavano nel sottobosco umido e alcuni provavano persino a scalare i tronchi a buccia d’ananas. Lantora cercò delle costanti, nel loro aspetto, e notò che molti avevano zampe con solo due dita, allargate come spatole. Al posto delle narici, inoltre, avevano tre aperture orizzontali e sovrapposte, simili a branchie. Gli stessi tratti dei Vorgon, per quel poco che sapeva del loro aspetto.

   Attraverso un varco nel fogliame, Lantora vide un pezzo di cielo. Era attraversato dalla fascia bianca degli anelli, un altro spettacolo mozzafiato. Con il sole quasi allo zenith, la temperatura era salita ulteriormente, divenendo intollerabile. «Dovremmo fare quella pausa» disse, detergendosi il sudore dalla fronte.

   «D’accordo» boccheggiò Ilia, rossa in volto. «Fermiamoci qui, dove il terreno è asciutto. Beviamo per reintegrare i liquidi. Poi riposeremo all’ombra per un’ora o due».

   «Era meglio teletrasportarci più vicini alla città» sbuffò Lantora.

   «Dovevamo assicurarci che il teletrasporto non fosse rilevato» gli ricordò Ilia. «Ed è meglio osservare la città Vorgon da fuori, prima di entrarci: potremmo notare qualcosa che è sfuggito ai sensori».

   «Sarà...» brontolò Lantora, estraendo una bottiglietta d’acqua dal suo zaino. Dubitava di averne abbastanza per tutta la missione. Al peggio, aveva lo strumento di depurazione. Ma osservando le pozze verdi e melmose, piene di microrganismi sconosciuti, decise di non rischiare. Avrebbe razionato al massimo quella che aveva.

   Il gruppo sostò all’ombra di uno strano albero, simile a un fascio di rami sottili e flessuosi, che uscivano direttamente dal terreno, puntavano in alto e poi ricadevano tutt’attorno. Mentre i colleghi bevevano e consumavano una barretta proteica, due agenti della Sezione 31 perlustrarono le immediate vicinanze, per assicurarsi che la zona fosse sicura. Uno di loro notò un albero da cui pendevano grossi frutti arancioni, di forma oblunga, picchettati di nero. Si avvicinò col tricorder, per capire se erano commestibili. Poiché la scansione era incoraggiante, si tolse il casco e fece per cogliere un frutto. Ma quando fu a un metro, scattò un imprevedibile meccanismo difensivo. I puntini neri sui frutti erano fori, da cui furono sparati degli aculei. Erano duri e acuminati come spilli. Colpirono l’agente in più punti: la tuta corazzata resistette, ma alcuni lo colsero al volto. Il federale cadde con un gemito soffocato, senza riuscire nemmeno a chiamare soccorso.

   «Agente a terra!» avvertì Terry. Tutti si precipitarono in soccorso, ma l’IA li fermò. «Quei frutti hanno un meccanismo difensivo. Non avvicinatevi» avvertì.

   «Ma dobbiamo pur recuperarlo, no?» fece Lantora.

   «Ci penso io» disse Terry. Piantò bene i piedi a terra e tese le braccia in avanti, allungandole a dismisura. Sollevò l’agente, allontanandolo dai frutti spara-dardi. Lo posò al suolo a distanza di sicurezza, per poi tornare alla normalità. Mentre i colleghi esaminavano il ferito, Lantora fissò Terry. «Da quanto lo sa fare?» chiese allibito.

   «Da sempre» rispose l’ologramma. «È solo per comodità che mantengo questo aspetto, ma posso alterarlo a piacimento» spiegò, chinandosi poi sull’agente ferito.

   «È gravissimo» disse Ilia, che lo aveva esaminato con il tricorder medico. «Niente respirazione, niente battito. Quei dardi contengono la neurotossina naturale più potente che abbia mai visto. Kit medico, presto!». Con estrema cautela, la Trill estrasse i dardi dal volto dell’agente. Poi gli iniettò vari composti, cercando di neutralizzare il veleno e stimolare il corpo a reagire. Uno dopo l’altro, i rimedi fallirono.

   «Frell, non funziona nemmeno l’inaprovalina!» disse la Trill, sempre più frustrata. «Non riesco a riavviare il battito, il respiro, niente! Stimolatore corticale... macché, le terminazioni nervose non funzionano come dovrebbero».

   «Lo stiamo perdendo?» chiese Lantora, incredulo.

   «L’abbiamo già perso. Nessuna attività cerebrale» lesse Ilia dal tricorder. «Ora del decesso registrata. È finita». Si alzò, sentendo il gusto amaro del fallimento. Non erano nemmeno in vista della città Vorgon e avevano già la prima vittima.

   «Attivo il Protocollo Cenere?» mormorò Lantora.

   «Sì; non dobbiamo lasciare tracce» confermò Ilia, arretrando di un passo.

   Avvilito, Lantora regolò il phaser e lo puntò al petto del caduto. Aprì il fuoco, mantenendo il raggio per qualche secondo, fino a disintegrare il collega. Nessun resto avrebbe tradito il passaggio del commando federale.

   «Prendete cibo e acqua dal suo zaino. Se c’è qualche strumento che vi manca, o che volete per riserva, prendetelo. Disintegrate il resto» ordinò Ilia. L’ultima volta che aveva dato ordini così draconiani era stato durante la Guerra del Dominio. Aveva sperato di non trovarsi più in situazioni del genere.

   «Brutta fine» borbottò Lantora, frugando nello zaino del caduto. Si augurò che i colleghi, prima o poi, non dovessero frugare nel suo zaino. Ma non aveva ancora finito l’ispezione che un grido lo avvisò di una nuova emergenza.

   Ilia si dibatteva a parecchi metri d’altezza, avvolta da un ramo flessibile e serpentino. Inorridito, Lantora vide che l’albero presso cui avevano deposto gli zaini – quello dai rami flessuosi che uscivano dal terreno – si agitava come una piovra. Un agente impugnò il fucile phaser, ma un ramo gli strappò l’arma di mano, come prevedendone l’uso.

   «Resista!» urlò Lantora, impugnando il phaser. Mirò al ramo che serrava Ilia, ma era un bersaglio sottile e distante, oltre che in continuo movimento. E lui temeva di colpire la Comandante. Sparò due volte a vuoto. Al terzo colpo prese il ramo di striscio, senza provocargli danni visibili. Sudando copiosamente, Lantora aumentò la potenza del phaser. Se avesse colpito Ilia con quell’energia, l’avrebbe vaporizzata.

   «Si sbrighi, quest’affare ha una stretta micidiale!» gemette Ilia, che non riusciva più a respirare. Temeva di svenire o di sentire le ossa che si spezzavano. Dalla sua posizione soprelevata, vide il centro dell’albero-piovra che si apriva come una bocca famelica, rivelando una voragine irta di spine. Il ramo la stava portando lì. Sentì un tanfo di putrefazione: non era la prima vittima della pianta carnivora.

   Lantora stava per sparare di nuovo, quando un ramo serpentino gli avvolse la caviglia. Lo Xindi abbassò subito il phaser e aprì il fuoco, tranciandolo di netto. L’albero-piovra rabbrividì, come se soffrisse, ma subito dopo raddoppiò l’attacco. Un altro ramo avvolse la caviglia di un agente e schizzò verso l’alto. Il poveretto cadde all’indietro, sbattendo la nuca al suolo. Poi fu sollevato in aria e restò a penzolare per la caviglia, dibattendosi furiosamente. Nel tentativo di liberarsi, estrasse una vibro-lama simile a un machete. Ma stando appeso a testa in giù, aveva difficoltà a piegarsi tanto da raggiungere il ramo che gli serrava la caviglia.

   Lantora stava ancora prendendo la mira per salvare Ilia, ma fu preceduto. «Non si muova, Comandante» disse Terry, mirando da più lontano con un fucile phaser. Il raggio azzurro tranciò il ramo, prima che portasse Ilia sulla verticale della “bocca” spinosa. La Trill precipitò per parecchi metri. All’ultimo fu intercettata da un altro ramo, che le avvolse le gambe, e restò a penzolare a testa in giù. Lantora le afferrò subito una mano, contrastando la forza della pianta che cercava di risollevarla. Con la mano libera, lo Xindi sparò ancora e al terzo tentativo riuscì a tranciare il ramo. Ilia gli cadde addosso. Rotolarono al suolo – leggermente in pendenza – per qualche metro, prima di fermarsi, sconvolti e doloranti.

   L’altra vittima dell’albero-piovra non fu così fortunata. Il ramo che gli aveva avvolto la caviglia sembrò presagire l’attacco con la vibro-lama. Sbatté l’agente al suolo, con tale violenza da tramortirlo. Poi lo scagliò in alto, lasciandolo andare. Il federale disegnò un arco a mezz’aria e ricadde fatalmente al centro della pianta carnivora, nel pozzo irto di spine, che subito si richiusero su di lui, come un tritacarne.

   «Dannato mostro!» gridò un altro agente. Sparò più volte contro il fascio centrale di rami, nel punto in cui uscivano da terreno. Uno dopo l’altro, i rami-tentacoli crepitarono e andarono in pezzi. Ma i rimanenti divennero ancor più frenetici. Uno si tese e scattò in avanti come un serpente, colpendo il commando al basso ventre. Lo sollevò da terra e lo schiacciò contro il tronco di un albero ordinario, con tanta forza da trafiggerlo. Poi lo sollevò, cercando di portarlo alla “bocca” centrale; ma un colpo di Terry lo spezzò. Il commando cadde in una pozza verdastra e non riemerse.

   I superstiti della squadra si radunarono a debita distanza dall’albero-piovra. Persi tre compagni, erano rimasti in sei. «È possibile che queste piante siano state bio-ingegnerizzate dai Vorgon per fungere da sistemi difensivi?» chiese Ilia, ancora dolorante.

   «Può darsi, ma servirebbe un’analisi comparata dei genomi per stabilirlo» rispose Terry.

   «Dobbiamo stare più attenti» disse la Trill. «Altre perdite c’impedirebbero di completare la missione».

   «A me sembra già abbastanza compromessa» brontolò Lantora. «Dovremmo chiedere rinforzi alla Sojourner».

   «Impossibile, siamo troppo vicini alla città» avvertì Terry. «A questa distanza i Vorgon potrebbero rilevarci».

   Ilia valutò le opzioni e si rese conto che ce n’era solo una. «Abortire la missione vanificherebbe il sacrificio dei nostri compagni. Quindi procediamo» ordinò.

 

   Camminarono in silenzio un’altra ora. Lantora apriva il sentiero a colpi di vibro-lama. Più proseguiva, più stranezze notava. Ad esempio c’erano piccole creature simili a polpi che si muovevano fra i rami e le liane, come fossero gibboni. Si afferravano a un rametto con un paio di tentacoli, oscillavano avanti e indietro fino ad avere la spinta giusta e si proiettavano in avanti, afferrando il ramo successivo con altri due tentacoli. Dopo di che scioglievano i primi due e ricominciavano il movimento. Ciò richiedeva continue giravolte e grande coordinazione motoria. Talvolta balzavano da un ramo all’altro con dei salti mortali, staccando tutti i tentacoli. Lantora se li vide saltare davanti parecchie volte.

   D’un tratto i federali sbucarono in una radura, dal suolo scuro e melmoso. Qua e là torreggiavano strane strutture coniche, color fango, spesso radunate a grappoli. Sembravano tronchi d’albero, ma erano completamente privi di rami e foglie. I più alti arrivavano anche a otto o nove metri ed erano incurvati dal loro stesso peso. Diffondevano un lezzo ancor più disgustoso delle paludi.

   «Che sono questi affari? E perché puzzano tanto?» gemette Lantora.

   «Affascinante» commentò Terry, avvicinandosi a un gruppetto di quegli obbrobri maleodoranti. «Si direbbero funghi giganti, simili ai Prototaxites che fiorirono sulla Terra nel periodo Devoniano. Vorrei avere il tempo di studiarli... questo pianeta è uno squarcio sulla Terra del passato» disse, esaminando le fungosità con il tricorder.

   «Ma non sente la puzza?!» protestò Lantora, turandosi il naso.

   «Ho escluso i recettori olfattivi a inizio missione, per non farmi distrarre» spiegò Terry con nonchalance.

   «Come ho detto, a volte la invidio» commentò Ilia, passandole accanto, anche lei con il naso turato. «Sbrighiamoci a passare oltre».

   «Agli ordini» disse Lantora. Aveva fatto sì e no tre passi, che sprofondò nel suolo molliccio fino alle ginocchia.

   «Tenente, lei ha appena scoperto una zona di sabbie mobili» diagnosticò Terry, sempre con un tono da documentario.

   «Lo vedo anch’io, eh!» sbottò lo Xindi. «Vuol darmi una mano, invece di starsene impalata?!».

   «Se non si muove, smetterà di affondare» suggerì Terry. «Quanto alla mano, eccola». L’IA allungò prodigiosamente il braccio, per afferrare Lantora stando a distanza di sicurezza. Cercò di tirarlo via, ma le sabbie mobili facevano resistenza. Allo Xindi pareva di avere le gambe dentro il cemento a presa rapida.

   Gli altri membri della squadra accorsero per prestare aiuto. Ma dovettero arretrare con le armi spianate, perché dalle tane nel fango e dagli angoli bui tra i funghi stavano emergendo degli enormi invertebrati. C’erano ragni, scorpioni, scolopendre e molte altre creature aliene. Facendo ticchettare i complessi apparati boccali, si scagliarono contro i federali.

   «Mi sa che vuol dire “la cena è servita”» mormorò Ilia, prendendo la mira con il fucile phaser. Disintegrò un ragno gigante, ma l’unico effetto fu di eccitare ancor più gli altri invertebrati.

   «Resista, Tenente» disse Terry, mollando Lantora per dar manforte al resto della squadra.

   «No, aspetta...» gemette lo Xindi, sentendosi di nuovo sprofondare. Doveva liberarsi da solo. E visto il pericolo che incombeva sui colleghi, doveva farlo alla svelta. Puntò il braccio verso uno dei funghi colonnari, attivando un’opzione della tuta. Dal bracciale corazzato partì un sottile cavo di nano-polimeri che si ancorò al fungo. A forza di braccia, Lantora prese a trascinarsi fuori dalle sabbie mobili.

   Nel frattempo la schermaglia volgeva al peggio. Uno degli agenti fu intrappolato contro una fila di funghi giganti. Sparò all’impazzata, disintegrando un gran numero di aracnidi. Ma una creatura dalle lunghe zampe brancolanti e la coda a pungiglione si era arrampicata su un fungo alle sue spalle. Gli piombò in testa, serrandogli il casco tra le zampe da tarantola. L’agente si scosse tutto, ma non riusciva a scrollarselo di dosso. La creatura inarcò il pungiglione e colpì sul collo, perforando la protezione. Il commando s’irrigidì e cadde in avanti, paralizzato. Fu immediatamente sepolto dalle zampe brancolanti e dai corpi segmentati degli aracnidi.

   Un altro operativo fu afferrato dalle tenaglie di quattro diversi scorpioni, neri e giganteschi. Ciascuna creatura gli aveva preso un arto e tirava con forza verso di sé, decisa a non condividere il pasto con i suoi simili. Il risultato fu che prima un braccio, poi l’altro furono strappati. Alla fine partì anche una gamba. Lo scorpione vincitore trascinò via il corpo mutilato, reggendolo per la gamba rimanente.

   L’ultimo agente disintegrò un aracnide dopo l’altro, saltando persino sulla schiena di un ragno gigante per finirlo da sopra. Lanciò una granata stordente contro i mostri che lo incalzavano, ma l’onda d’urto fu abbastanza forte da scagliare anche lui contro un fungo gigante. Il fusto, già indebolito, si spezzò. L’interno brulicava di animaletti neri, simili a formiche. Sciamarono addosso al federale, ricoprendogli tuta e casco, tanto da impedirgli la visuale. In qualche modo riuscirono a insinuarsi dentro e cominciarono a mangiarlo. Il disgraziato gridò e si tolse il casco, cercando di levarsi le creature, ma questo non fece che peggiorare la situazione. Altre “formiche” gli s’infilarono nel colletto. Alcune scelsero la via più breve: gli entrarono nella bocca, nelle narici, nelle orecchie. Il disgraziato si rotolò a terra, agonizzante. Invertebrati di tutti i generi si avventarono su di lui, unendosi al banchetto.

   Sul campo di battaglia restavano solo Ilia e Terry. Schiena contro schiena, disintegravano un mostro dopo l’altro con colpi chirurgici, ma presto sarebbero state travolte anche loro.

   «Comandante, c’è il 99,8% di probabilità che lo scontro si concluda con la nostra morte» avvertì Terry.

   «Con la mia morte, vorrà dire!» obiettò Ilia. «Lei è un ologramma, non possono mangiarla. O sì?» chiese, incerta.

   «Nell’attuale modalità dovrei cavarmela. Ma se restassi da sola in questo ambiente, le mie probabilità di tornare sull’astronave sarebbero scarse e quelle di completare la missione pressoché nulle» precisò Terry. Attivò la vibro-lama e decapitò di netto una scolopendra gigante, mentre con la destra continuava a sparare.

   «Qualunque cosa mi accada, lei non deve arrendersi» disse Ilia, disintegrando l’ennesimo mostro con una fucilata polaronica. «Si riunisca a Lantora e... dov’è?!» esclamò, guardando oltre il brulichio d’invertebrati. Le sabbie mobili erano vuote. O lo Xindi ci era sprofondato del tutto, o ne era uscito. Ma in quel caso non era in vista.

   «Non può essersene andato...» mormorò Ilia, pallidissima.

   «Sarebbe contrario alla sua personalità» ammise Terry. «Naturalmente la psicologia non è una scienza esatta» precisò. Calciò via un ragno e mozzò una coda di scorpione gigante. Lei personalmente non poteva stancarsi, ma sapeva che la Comandante si stava affaticando. Da un momento all’altro avrebbe mancato il bersaglio e sarebbe accaduto l’irreparabile.

   «Lantora!» ululò Ilia, disintegrando a mezz’aria delle specie di cavallette che cercavano di saltarle in faccia. «Per tutti i buchi neri, dove s’è cacciato?!».

   «Eccomi!» risuonò la voce dello Xindi, calda e rassicurante. Il Tenente giunse in groppa a un millepiedi gigante, che aveva imbrigliato come un cavallo, usando il cavo con cui era uscito dalle sabbie mobili. In piedi sul dorso nero e lucido dell’animale, tirò le briglie improvvisate, facendolo deviare verso le colleghe. «Volete un passaggio?» chiese.

   Ilia e Terry si scambiarono un’occhiata e saltarono su quel treno insperato, dietro a Lantora. Il dorso del millepiedi era così scivoloso che la Trill dovette afferrarsi allo Xindi per restare in groppa. A sua volta Terry si aggrappò a Ilia.

   «Su, bello! Yu-huuu!» gridò Lantora, scuotendo le “briglie”. Il millepiedi partì verso il folto della giungla, in un ticchettio di zampette. Era così grosso che gli altri invertebrati si scostavano al suo passaggio e così veloce che in breve se li lasciò tutti dietro. Fece lo slalom fra le zone di sabbie mobili, flessuoso come un serpente. Riusciva a percepire i punti in cui il terreno non era solido, forse usando le antenne carnose che aveva sul muso. Infine lasciò la zona dei funghi, tuffandosi nel sottobosco.

 

   «Come ha fatto ad addomesticare questa cosa?» chiese Ilia, stringendosi alle spalle di Lantora mentre sfrecciavano nella foresta. Dovevano stare piegati in avanti, per ridurre l’impatto con il fogliame.

   «Ho fatto pratica con le larve di Xindi Insettoidi» rispose il Primate. «Non so spiegarlo, è come una comunione di spirito».

   «Una comunione di spirito» ripeté Ilia, interdetta. «Questa mi mancava».

   «Se riusciamo a mantenere questa velocità, raggiungeremo la costa in venti minuti» informò Terry alle sue spalle, quasi gridando per farsi sentire.

   «Sicuro!» garantì Lantora. «Ma ha senso procedere? Siamo partiti in nove, siamo rimasti in tre... e ancora non abbiamo raggiunto la città. Non crede che laggiù ci attenda di peggio? Non riusciremo a infiltrarci! Ormai la missione è finita...».

   «Non è finita finché non lo dico io, Tenente!» gli ricordò Ilia. «E io dico di procedere».

   Lantora grugnì qualcosa che la Trill non capì, ma tenne la direzione. Il torpedone vivente li portò avanti, sempre più avanti, verso il suono della risacca e l’odore di salsedine.

 

   La capitale scintillava nella calda luce pomeridiana. Cinta da un’alta muraglia, sorgeva alla foce di un fiume. Parte degli edifici era lungo la costa, parte sugli isolotti del delta e parte sulla barriera corallina che arrivava a pelo d’acqua. Ulteriori quartieri erano ricavati su piattaforme galleggianti. C’erano palazzi in vetro e acciaio, dalle strane forme organiche, che riverberavano abbaglianti. Ma la città vecchia, costruita lungo la costa, comprendeva edifici più antichi, realizzati con grandi blocchi di pietra. La vegetazione vi si arrampicava sopra, tingendo di verde i terrazzamenti e i tetti, o pendendo dai balconi. Libellule giganti ronzavano tra un palazzo e l’altro. Il lento tramonto di Vorgon tingeva d’oro il cielo, solcato dagli anelli, e anche il mare. I federali osservarono lo spettacolo dal limitare della giungla, dopo aver lasciato andare il millepiedi.

   «Bisogna ammettere che è incantevole» disse Terry.

   «Questo mondo incantevole ha già ucciso sei dei nostri» le ricordò Lantora. «Ora che siamo qui, osservi tutto con la sua vista fotografica». Lui stesso attivò il casco e lo impostò affinché registrasse quel che vedeva.

   «Uhm, fin qui corrisponde tutto a quanto visto dall’orbita» commentò lo Xindi. «Le mura tengono fuori la giungla e i suoi animali, ma non c’è particolare sorveglianza. I Vorgon non si aspettano attacchi dalla foresta». Attivò il visore telescopico del casco, finché vide i dettagli delle mura. Alte trecento metri, erano bianche e lisce. Qua e là c’erano le chiazze verdi dei rampicanti, che arrivavano fin quasi in cima.

   «Vedete lì, dove gli alberi arrivano a ridosso delle mura? È un buon punto per entrare» disse Ilia, che osservava le mura a occhio nudo. «Useremo l’occultamento, che una volta dentro sarà la nostra sola protezione. Ricordate che dobbiamo essere rapidi... la sua autonomia è limitata» aggiunse, sfiorando il dispositivo che teneva in cintura. Piccolo e semisferico, poteva essere scambiato per un ornamento, se non fosse che la tenuta da commando non lasciava spazio all’estetica.

   «Quindi è ancora decisa a entrare» disse Lantora. «Comandante, le ricordo che perdere due terzi della squadra comporta il fallimento della missione, secondo l’articolo...».

   «Non mi citi il regolamento!» scattò Ilia. «Sono nata secoli prima che lo scrivessero e se avessi sempre seguito ogni direttiva, non sarei durata così a lungo».

   «No, Dax è nato secoli prima» puntualizzò Lantora. «Oggi le ho salvato la vita due volte... ma se entriamo in quella città, dubito che ci riuscirò ancora».

   «Per essere un Ufficiale Tattico, sembra piuttosto spaventato dal pericolo!» accusò Ilia, in tono acido. Quell’affondo su Dax la mandava fuori dai gangheri. «Ma sapeva che non è una missione facile».

   «È una missione disperata» rispose lo Xindi. «E anche l’obiettivo è vago: determinare le capacità offensive del nemico e l’eventuale collusione coi Tuteriani! Servirebbero mesi d’intelligence per capirlo. Noi tre non possiamo fare granché. Riportare indietro qualche filmato della capitale può già essere considerato un successo. Così quelli che verranno dopo di noi avranno qualcosa su cui basarsi, per condurre operazioni più mirate».

   «Non possiamo aspettare tanto!» inveì Ilia, rossa in volto e con il respiro affannoso. «I Vorgon potrebbero scendere in guerra da un momento all’altro. Se sono in contatto coi Tuteriani, dobbiamo saperlo subito. E dobbiamo avere conferma delle loro capacità militari!».

   «Comandante, le suggerisco di mettersi il casco» intervenne Terry. «Credo che sia in iperventilazione».

   «Il Simbionte mi mantiene il giusto livello d’ossigeno nel sangue» tagliò corto Ilia.

   «Lei stessa ha ammesso che Dax non è più un giovincello» le ricordò l’IA. «Se va in iperossiemia non è più abile al comando, ai sensi dell’articolo...».

   «Ancora il regolamento!» sbottò Ilia. «Sentite, sono perfettamente in grado di guidare la missione... fintanto che obbedirete agli ordini» disse, ma attivò il casco. Il viso, che le si era arrossato, tornò a schiarirsi. «Procediamo. Attivate l’occultamento». Premette il tasto sulla cintura e parve dissolversi nell’aria.

   Terry e Lantora si scambiarono un’occhiata. Quando l’IA si premette il comando, allo Xindi non restò che fare altrettanto. Gli sembrò d’immergersi nell’acqua. Poco alla volta tornò a vederci bene, anche se la luce era meno di prima. La visiera tecnologica del suo casco, sincronizzata sulla frequenza d’occultamento delle colleghe, gli permetteva di vederle, anche se parevano dei fantasmi grigi. Lui stesso appariva come una sagoma spettrale ai loro occhi.

   «Tre fantasmi all’assalto della Città d’Opale!» ridacchiò Lantora. «Scusate, era una vecchia fiaba Xindi... okay, niente più battute» promise, notando lo sguardo tagliente di Ilia.

   La Trill partì di buon passo verso le mura, cercando di tenersi al riparo della vegetazione. Gli altri due la seguirono con le armi spianate. Notarono che le mura, nel tratto visibile, presentavano una sola porta, molto larga e circondata da contrafforti. Ma non c’erano strade: era il fiume a ingolfarsi dentro. Le acque passavano attraverso una barriera perlacea, forse un campo di forza, che impediva di vedere all’interno. La loro attenzione fu attirata da una chiatta che scendeva la corrente. Sembrava fatta di corallo rosso, ma galleggiava senza problemi. Si diresse verso la barriera opalescente senza rallentare e l’attraversò, come del resto faceva l’acqua. Ma i federali intuivano che se la corrente avesse portato qualcosa di sgradito, il campo di forza l’avrebbe respinto. Non si azzardarono a tentare quella strada.

   Giunta a ridosso delle mura, Ilia vi applicò quattro congegni adesivi, piccoli e discoidali. Li dispose come gli spigoli di una porta e li attivò. Ci fu un ronzio e il rettangolo di muro divenne semitrasparente. Era come guardare attraverso un vetro affumicato o un banco di nebbia. La Trill vi passò una mano attraverso.

   «Bene... almeno i gadget della Sezione 31 funzionano» commentò Lantora.

   «Sono Sfasatori Dimensionali» precisò Terry. «Mettono la materia leggermente “fuori fase” rispetto al nostro continuum spazio-temporale, consentendoci d’attraversarla».

   «Entriamo» ordinò Ilia. «Mi raccomando, state in guardia». Con uno strano senso di déjà-vu, la Trill s’immerse nella nebbia grigiastra. Era già stata in posti sconosciuti e ostili. Aveva scoperto il Tunnel Spaziale Bajoriano con Sisko ed era stata su Cardassia durante la Guerra del Dominio. Ma erano le sue vite precedenti. Stavolta toccava a lei.

   Sbucò oltre la nebbia e si trovò in una città monumentale, indaffarata ma anche ordinata. Le strade erano piene di Vorgon che si spostavano a piedi o su mezzi di trasporto che volavano raso terra. Qualche navetta sfrecciava più in alto, fra i palazzi di pietra e i grattacieli in vetro e acciaio. Tutti i veicoli sembravano scolpiti nel corallo e avevano frange mollicce dall’incerta funzione. Ciò confermava che la tecnologia Vorgon era in gran parte organica.

   Quanto ai Vorgon, finalmente poté vederli da vicino. Ce n’erano migliaia, di tutte le età e di ambo i sessi. Avevano grosse teste coniche, branchie al posto del naso e mani a spatola. Indossavano tute di vari colori e la loro stessa epidermide aveva tinte sgargianti. Visti così, non sembravano pericolosi. Ma Ilia sapeva che le apparenze ingannano.

   Alle sue spalle, anche Terry e Lantora attraversarono la barriera. L’IA attivò una funzione degli Sfasatori Dimensionali, che si spostarono sul lato interno delle mura. Così poté disattivarli e staccarli dalla muraglia, che tornò solida e impenetrabile come prima, senza alcun segno d’effrazione. Cosa ancora più importante, gli Sfasatori restavano in mano ai federali.

   «Questo pianeta è incredibile» mormorò Lantora, osservando la città. Era pulita e ordinata come solo i pianeti federali più ricchi potevano vantarsi. Piante esotiche abbellivano i palazzi e gli anelli planetari rendevano il cielo dorato ancor più incantevole. Ilia e Lantora si assicurarono che le visiere dei loro caschi registrassero tutto. Quanto a Terry, non ne aveva bisogno: i suoi occhi registravano sempre ogni cosa.

   «Dobbiamo individuare i punti strategici: edifici governativi, installazioni militari, hangar di lancio...» disse Ilia.

   «Cerchiamo uno stradario?» chiese Lantora, fra il serio e lo scherzoso.

   «Forse ci basterà seguire la persona giusta... o il carico giusto» rispose la Trill, indicando la chiatta che avevano visto entrare in città. La calotta superiore si era ritirata come una capote, mettendo a nudo il carico. Era una strana bestia amorfa, di consistenza gelatinosa, con la pelle traslucida. Aveva le dimensioni di una balena e non sembrava in grado di spostarsi autonomamente.

   «Cos’è quell’orrore?» chiese Lantora.

   «É una Gormagander o Balena Spaziale» spiegò Terry. «Sono creature miti, che di norma vivono nello spazio, nutrendosi di vento solare. Sono protette dalla Federazione fin dal XXIII secolo, perché il basso tasso di riproduzione e la crescita lenta le mettono a rischio d’estinzione».

   «Ma non sono native di Vorgon» disse Ilia.

   «No, affatto. Vivono sul confine Klingon-federale» confermò Terry. «Dubito che i Vorgon le conoscano bene. Se sono interessati alle tecnologie organiche, è probabile che la portino in laboratorio per studiarla».

   «O magari dal macellaio, per farla a fettine» obiettò Lantora.

   «Non credo» disse Ilia. «Stiamole vicino... potrebbe essere il nostro biglietto per accedere alle aree riservate».

   «Uhm... per avvicinarci alla Gorgamander dovremo camminare in mezzo ai Vorgon» notò lo Xindi, preoccupato.

   «Gormagander» corresse Terry.

   «Facciamolo» disse Ilia. «Mi raccomando, non fate rumore. E attenti a non urtare nessuno».

 

   I federali raggiunsero la banchina su cui i Vorgon stavano scaricando la creatura, servendosi di repulsori gravitazionali. Si avvicinarono ai responsabili dell’operazione tanto da cogliere i loro discorsi, che i traduttori universali resero comprensibili.

   Come previsto, la cattura della Balena Spaziale era un fatto nuovo per i Vorgon. Molti civili si avvicinavano incuriositi, tanto che fu necessario formare un cordone di guardie per permettere agli addetti di trasportarla senza incidenti. I federali, però, riuscirono a sgusciare non visti dentro il perimetro. Di lì a poco giunse un Vorgon con una tuta azzurrina e un impianto cibernetico nella tempia, che aveva tutta l’aria di essere uno scienziato. Osservò soddisfatto la creatura e si mise a parlottare con il capitano della chiatta.

   «Stupendo, è ancora viva! Quando l’avete catturata?».

   «Tre giorni fa. Un nostro incrociatore l’ha intercettata al confine con lo spazio Shirna».

   «Dovevate portarla direttamente qui».

   «Pensavamo fosse di competenza della nostra prefettura...».

   «Nel mio ultimo messaggio le ho spiegato chiaramente che non è così» puntualizzò lo scienziato. «Queste creature hanno una biologia straordinaria ed è la prima volta che possiamo studiarne una viva. Dobbiamo portarla subito alle Vasche Centrali. Il suo lavoro è finito, subentriamo noi».

   «Certo, signore. Lode all’Autarca!». Con quello strano saluto, il capitano della chiatta si congedò. Al suo equipaggio subentrò una squadra scientifica, che caricò la Gormagander su un treno a levitazione, sempre di materiale corallino.

   «Su!» ordinò Ilia. Approfittando delle operazioni, i federali salirono anch’essi sul treno. C’era uno stretto spazio, tra la massa gelatinosa della creatura e la parete di fondo del vagone, in cui riuscirono a pigiarsi. Quando il container fu chiuso, fecero il punto della situazione.

   «Non mi piace» mormorò Lantora. «Ci saranno controlli, barriere di sicurezza. L’occultamento potrebbe non bastare. E se scaricano bruscamente la Gorgolander, resteremo indietro».

   «Gormagander» corresse Terry.

   «A tutto c’è rimedio» disse Ilia. «Conosce la leggenda terrestre di Giona?».

   «Sì, l’ho imparata in un gran brutto modo» rispose Lantora, ricordando la missione nel Collettore Subspaziale, tre anni prima. «Ehi, non starà pensando...» ansimò, osservando la creatura sfatta e molliccia che mugolava tristemente al suo fianco.

   «Spero che non abbia l’olfatto delicato, perché dopo quest’avventura puzzeremo di pesce per una settimana» disse Ilia.

   «Ho fatto esperienza con gli Xindi Acquatici» le ricordò Lantora. «Che sarà mai una Gormalander?».

   «Gormagander» corresse Terry.

   «Quello che è». Lantora dispose gli Sfasatori Dimensionali sul fianco della creatura, impostando la massima penetrazione. Serviva un bel po’ per arrivare allo stomaco.

 

   Il treno a levitazione sfrecciò lungo il percorso che gli era riservato, addentrandosi nella capitale Vorgon. Aggirò alcuni palazzi, ne attraversò altri tramite gallerie. Procedette fino al mare, ma nemmeno lì si fermò. Senza rallentare, il treno s’infilò in acqua. La sua forma affusolata lo fece immergere con pochissimi spruzzi. Il tracciato proseguiva sul fondale, sempre più in profondità. Dall’alto filtrava la luce del tramonto, interrotta solo quando il veicolo passava sotto una delle piattaforme galleggianti che facevano da quartieri.

   Nello stomaco della Gormagander, grande come una navetta, i tre federali si guardavano nervosamente, alla luce dei faretti incorporati nei fucili phaser. Ilia teneva d’occhio il tricorder, cercando di capire cosa succedeva fuori dal nascondiglio.

   «Siamo sott’acqua» disse con una punta di nervosismo. «Il fondale scende in modo costante. Dieci metri... quindici... venti...». Contò fino a duecento metri, dopo di che il fondale divenne piatto.

   «Forse i Vorgon hanno preso troppo alla lettera il concetto di Balena Spaziale» ridacchiò Lantora.

   «Trattandosi di una specie anfibia, era prevedibile che avessero installazioni subacquee» disse Terry.

   «C’è una barriera davanti a noi» avvertì Ilia, sempre concentrata sul tricorder. «Immagino che stiamo per entrare nelle Vasche Centrali... qualunque cosa siano».

   Lantora era più preoccupato dal pensiero di come ne sarebbero usciti, ma si trattenne. Aveva già manifestato più volte la sua contrarietà a continuare la missione, ma la Comandante aveva fatto di testa sua. Non gli restava che obbedire agli ordini.

   Il treno subacqueo sfrecciò verso una muraglia della stessa sostanza corallina largamente impiegata dai Vorgon per i veicoli. Era la base di una vasta struttura a cupola, eretta sul fondale marino. S’innalzava per un centinaio di metri ed era collegata a cupole minori tramite condotti. Il treno raggiunse la base della struttura, dove si aprì un ingresso a diaframma, di poco più largo dei veicolo. Un campo di forza opalescente brillava nell’apertura, trattenendo l’acqua. Il treno, avendo un codice autenticato, lo attraversò senza nemmeno rallentare. Il diaframma si richiuse subito dopo il suo passaggio. Nemmeno una goccia d’acqua era entrata nella base; persino la superficie del treno era asciutta, grazie alla barriera idrorepellente.

   Il veicolo si arrestò di lì a poco e subito cominciarono le operazioni di scarico della Gormagander. La creatura fu trasferita su una piattaforma antigravità, con cui fu portata ancora più addentro nella base.

   «Se volevamo raggiungere un’area riservata, direi che ce l’abbiamo fatta» commentò Lantora. «Ma se ora sondano la Gornagamber, potrebbero rilevarci. È il momento di andare».

   «Gormagander» corresse Terry.

   «Sì, muoviamoci» convenne Ilia. Dispose gli Sfasatori Dimensionali sul fondo dello stomaco, impostando di nuovo la massima penetrazione. Si formò così un pozzo nel quale saltò senza esitazione.

   «Prima le signore» disse Lantora, facendo cenno a Terry di saltare.

   «Io sono un’astronave» gli ricordò Terry, e si tuffò.

   «Ti preferivo quando potevi lanciare siluri contro i malintenzionati» borbottò Lantora. Saltò a sua volta, atterrando sotto la piattaforma antigravità. Recuperò in fretta gli Sfasatori e sgusciò via, casomai i Vorgon avessero deciso di spegnerla.

   «La prossima volta chiudi il canale» gli suggerì Ilia, che come Terry aveva sentito il commento. I tre federali si guardarono attorno. Erano in un vasto salone cilindrico, al centro della base. Il soffitto era una finestra trasparente, oltre la quale si scorgeva il mare. Sui lati si vedevano i vari livelli dell’installazione. Alcuni erano allagati e contenevano strane creature.

   «Dev’essere il più bello zoo da qui a Talos» commentò Lantora. «Ma non credo che lascino in pace quelle povere bestie».

   Nel salone centrale in cui si trovavano c’era un gran numero di strumenti per le analisi. Alcuni avevano l’aria piuttosto invasiva. Scienziati Vorgon in tuta azzurrina si affaccendavano intorno alla Gormagander, che non pareva gradire quelle attenzioni. Quando i Vorgon cominciarono a farle i primi prelievi, la povera creatura si scosse tutta. Ma il suo organismo, fatto per fluttuare nello spazio, non poteva muoversi sulla superficie del pianeta.

   «La lasciamo qui?» chiese Terry, dispiaciuta. «Appartiene a una specie protetta e i Vorgon potrebbero ucciderla».

   «Sa bene che la missione ha la precedenza» la richiamò Ilia. «La creatura ci è servita per arrivare fin qui, ma non possiamo liberarla. Su, andiamo». Anche a lei dispiaceva per la Balena Spaziale, ma non c’era nulla da fare. Andò verso l’uscita del laboratorio, seguita da Lantora.

   «Mi spiace» mormorò Terry, rivolta alla Gormagander sofferente, sebbene questa non potesse udirla. Stando a contatto con gli Organici, l’IA cominciava ad assumere i loro illogici comportamenti. Si riscosse e seguì i colleghi, lasciando la creatura al suo destino.

 

   I federali si aggirarono non visti nei laboratori, accedendo a zone sempre più riservate. Forti dell’occultamento e degli Sfasatori Dimensionali, potevano entrare praticamente ovunque. Ma avevano il costante timore che qualche sensore li rilevasse. Il piano d’estrazione prevedeva che inviassero un segnale alla Sojourner e se necessario attivassero gli intensificatori di teletrasporto che corredavano le loro tute. Ma i laboratori subacquei Vorgon erano protetti da campi di forza e di smorzamento. Nemmeno il sofisticato teletrasporto della Sojourner poteva agganciarli finché stavano lì. E ancora non avevano un’idea precisa di come uscirne.

   Nel frattempo osservavano la peculiare tecnologia Vorgon. Invece di basarsi sull’elettronica e l’informatica, come quella federale, era in gran parte di natura organica. I veicoli erano fatti crescere in speciali vasche, come se fossero coralli. Quando la crescita era ultimata, gli scienziati li estraevano e apportavano gli ultimi ritocchi. Progettare qualcosa, in pratica, significava assemblare il suo DNA. Non si partiva da zero: c’erano milioni di sequenze genetiche collaudate che facevano da base. Volendo si potevano persino incrociare due marchingegni, per vedere cosa ne scaturiva. La fecondazione avveniva in vitro, usando campioni genetici adeguatamente preparati. I federali videro un bel po’ di “macchine viventi” in vari stadi di crescita, o anche singoli componenti che venivano fatti crescere sottovetro per essere poi innestati dove occorreva.

   Erano scoperte interessanti, ma ancora non decisive per quanto riguardava le capacità militari Vorgon. Quello era lo scopo della missione e Ilia non intendeva fare marcia indietro. Sapeva che non sarebbe mai tornata lì, nel sancta sanctorum dei Vorgon, e non voleva che la Flotta dovesse inviare qualcun altro per proseguire il lavoro.

 

   La svolta nella missione fu annunciata da un fischio. Stavano percorrendo un ampio corridoio bianco, con vetrate sui lati, che collegava la base-cupola a un’altra struttura simile. Erano quasi in fondo, quando l’ingresso a diaframma si aprì alle loro spalle, lasciando entrare un piccolo corteo. C’erano guardie armate, scienziati con impianti cibernetici e altri individui che sembravano burocrati. Al centro vi era un Vorgon corpulento, rivestito da fruscianti vesti dorate.

   «Sembra un pezzo grosso» notò Lantora.

   «Contro la parete, presto» ordinò Ilia. I federali si schiacciarono il più possibile contro la vetrata, per lasciar passare il pezzo grosso e il suo seguito. Poi seguirono il corteo, attraversando la porta-diaframma prima che si richiudesse. Sbucarono in un’altra base-cupola, dall’aria più militaresca. Muovendosi furtivi, i federali si avvicinarono al Vorgon ammantato d’oro, per ascoltare la conversazione fra lui e gli scienziati.

   «... come indicato nel mio ultimo rapporto, Autarca, la nostra flotta è al completo. Non siamo mai stati così potenti» stava dicendo il capo degli scienziati, con un misto di compiacimento e servilismo. «Le nuove centraline a nido d’ape ci danno finalmente l’energia necessaria per gli scudi. I nostri Incrociatori, ad esempio...».

   «Ho letto le specifiche, Navarca» l’interruppe l’Autarca. «Quel che m’interessa sono le Ruote da Guerra. Siete certi di avere eliminato ogni debolezza strutturale?».

   «Gli ultimi test condotti nello spazio parlano chiaro, Eccellenza» confermò il Navarca. «Integrità strutturale al 100%, anche nei momenti di massima sollecitazione. Tra i rinforzi allo scafo e i nuovi scudi, sopporterebbero l’atmosfera di un gigante gassoso!» ridacchiò.

   «Può darsi che lo verificheremo a breve» lo gelò l’Autarca. «La guerra incombe, o non avrei finanziato tutte le vostre ricerche».

   «Eccellenza, gli Shirna non hanno mai visto nulla del genere» assicurò il Navarca. «Quando le Ruote da Guerra oscureranno i loro cieli, malediranno il giorno in cui ci hanno sfidati».

   «Non andiamo dagli Shirna» disse l’Autarca, in tono quasi casuale, mentre consultava un dispositivo che aveva al polso.

   «Non...? Mi perdoni, illustrissimo, ma non capisco. Tutti questi anni di preparativi... la crescita accelerata delle navi... che scopo hanno, se la flotta non va in guerra?».

   «Ho detto che non andiamo dagli Shirna... almeno non subito» spiegò l’Autarca. «Non che ci asterremo dal combattere».

   «Volete colpire i loro alleati federali?» chiese lo scienziato, con un filo di voce. Lui e i colleghi avevano perso la sicumera. Per quanto avessero potenziato la flotta, i Vorgon erano pur sempre una potenza locale. Avevano pochissime colonie e controllavano una regione di spazio ridotta. Non disponevano neanche lontanamente delle risorse della Federazione, dei Klingon o della Repubblica Romulana.

   «Basta così» disse il capo della sicurezza, scostando bruscamente lo scienziato. «Nessuno fa domande all’Autarca».

   «Eccellenza, mancano dieci millicicli alla riunione...» mormorò uno dei burocrati, accostandosi al superiore.

   «Lo so» disse l’Autarca. «Voglio vedere l’ammiraglia. Seguirò la riunione da lì».

   «Informo subito l’equipaggio» disse il funzionario, sfiorandosi l’impianto cibernetico sulla tempia. Simili impianti erano comuni nei Vorgon, ma sembravano diversi uno dall’altro, in base alle esigenze del proprietario. Nel suo caso doveva essere un comunicatore.

   Giunsero davanti a una grande finestra ovale, che si aprì a diaframma, consentendo la vista panoramica del fondale marino. Tutto era immerso in una tremula luminosità azzurrina. Le luci della stanza si abbassarono, per consentire una vista migliore dell’esterno.

   «Ammirate, Autarca!» disse il Navarca, che aveva ritrovato l’orgoglio. «Ecco le zanne e gli artigli di Vorgon! Con questi e con la vostra guida, prevarremo su ogni nemico». Indicò teatralmente il fondale marino.

   L’Autarca e i suoi tirapiedi si accostarono al finestrone, osservando le nuove astronavi e scambiandosi commenti soddisfatti. Anche i federali, sempre invisibili, si avvicinarono con prudenza e si misero in punta di piedi, cercando di vedere all’esterno. Quel che videro gli gelò il sangue.

   Il fondale marino era costellato di astronavi da guerra, dalle forme anomale e spaventose. C’erano sciami di caccia simili a vespe e file di bombardieri che sembravano granchi. In lontananza, dove il mare si faceva più profondo, giganteggiavano le sagome scure degli incrociatori. Ma soprattutto c’erano le Ruote da Guerra, semisepolte nel fondale melmoso. Erano strutture colossali, appiattite come frittelle e contornate da escrescenze appuntite, che le facevano sembrare ruote dentate. Se ne stavano sparpagliate sul fondale, come immense stelle marine. Alcune erano lì da così tanto che il fango e le concrezioni le avevano coperte; solo la mole le rendeva ancora riconoscibili.

   «Frell... è peggio di quanto pensassi» mormorò Lantora. Poteva parlare normalmente, perché solo Ilia e Terry lo sentivano tramite i comunicatori delle tute. Ma non riusciva proprio ad alzare la voce, lì di fianco ai capi Vorgon.

   «Molto peggio» annuì Ilia.

   «Vedo otto Ruote da Guerra e cinque Incrociatori... ma la flotta è senz’altro più estesa» disse Terry, fissando quell’arsenale sommerso. «Ed è logico presumere che altre flotte come questa siano nascoste nei mari del pianeta. Se i Vorgon sono militarizzati come sembra, il loro potenziale bellico è enorme. Possono spazzare via gli Shirna e le altre specie confinanti. Potrebbero persino aprire un nuovo fronte nella guerra».

   «Ho visto abbastanza» disse Lantora, allontanandosi di gran carriera. «Usciamo; dobbiamo dare l’allarme».

   «Fermo lì, Tenente!» lo richiamò Ilia. «Prima dobbiamo comprendere i loro piani. L’Autarca ha detto che non intende colpire subito gli Shirna. Ma forse sta preparando un attacco contro la Federazione. Ha detto che sta per andare a una riunione: non dobbiamo mancarla».

   «Ma...».

   «Abbiamo l’occasione di spiare lo Stato Maggiore dei Vorgon e scoprire i loro piani» insisté Ilia. «Se scopriamo dove attaccheranno, eviteremo una catastrofe. Potremmo persino neutralizzare la minaccia Vorgon sul nascere! Ma se non conosciamo il loro bersaglio, avvertire la Federazione servirà a poco».

   Lantora tacque per qualche secondo, combattuto. Vedeva la logica del Comandante, ma temeva che, tirando troppo la corda, l’avrebbero spezzata. Se i Vorgon li localizzavano, tutte le loro scoperte sarebbero morte con loro. «Lei che ne dice?» chiese a Terry.

   «Le mie subroutine tattiche concordano con il Comandante» disse Terry. «Ma dobbiamo impedire che la nostra eventuale cattura determini il fallimento della missione. La soluzione più logica è che voi due torniate in superficie e vi teletrasportiate sulla Sojourner, per dare l’allarme. Io proseguirò l’infiltrazione».

   «Terry, ha scelto un pessimo momento per farsi venire le orecchie a punta!» protestò Lantora. «Sarà già un miracolo cavarcela restando uniti. Dividerci è un suicidio. E poi, mi spiega perché la parte più pericolosa la riserva a sé? L’Ufficiale Tattico sono io».

   «E il suo dovere è proteggere il Comandante» aggiunse Terry, accennando a Ilia. «Per farlo dovrà starle accanto. Io posso cavarmela da sola. E comunque la mia perdita sarebbe meno grave, perché il mio mainframe sull’Enterprise rimarrà intatto. Se mi catturano, cancellerò il mio programma; così non avranno ostaggi da interrogare».

   «Non lo dica mai più» si accigliò Ilia.

   «Cosa non devo dire?».

   «Che la sua perdita è meno grave. Non è così» disse la Trill con decisione. Si avvicinò abbastanza da guardare l’IA negli occhi, malgrado indossassero il casco e apparissero sfocate per l’occultamento. «Terry, so che in questi anni non siamo andate sempre d’accordo. Non le nascondo che a volte trovo molesti il suo zelo e la sua mania di precisione. Ma la rispetto come ufficiale e come persona. Quindi non la lascerò tra gli squali, mentre noi ce la squagliamo. Succeda quel che succeda, resteremo insieme» disse, tendendo la mano. Terry esitò un attimo, ma poi la strinse calorosamente.

   «Signore, detesto interrompere questo momento toccante, ma l’Autarca e la sua combriccola si muovono» avvertì Lantora. «Se volete ascoltare la riunione, dobbiamo stargli appresso».

   «Sì, muoviamoci» convenne Ilia, seguendo la delegazione con passo felpato. Anche se l’occultamento li rendeva invisibili, i tre ufficiali non erano intangibili. E sebbene parlassero fra loro via radio, c’era il rischio che facessero rumore camminando. Questo li obbligava a stare sempre all’erta.

   «Speriamo che non abbiano ascensori stretti» commentò Lantora, ultimo della fila.

 

   La sala riunioni era posizionata nella parte centrale e più protetta della Ruota da Guerra. Di forma circolare, con il soffitto alto, era immersa nella penombra. Lungo il perimetro correva una serie di proiettori olografici, installati nel pavimento. L’Autarca si recò al centro della sala, in una zona contrassegnata da un cerchio iridescente: doveva essere il proiettore che avrebbe inviato la sua immagine olografica agli alleati. Alcuni dei suoi gerarchi più fidati furono ammessi in sala, ma restarono vicini all’ingresso, fuori dalla portata del proiettore. Altri, di grado più basso, si assieparono lungo una balconata che correva tutt’intorno al salone, a metà altezza. Non c’era una scala che permettesse loro di scendere e non avevano permesso di parola durante la riunione.

   Fu su quella balconata che trovarono posto Ilia, Terry e Lantora. Il loro occultamento era sempre attivo, ma anche così era stata un’impresa seguire lo Stato Maggiore fino in quel luogo di massima sicurezza; e non sapevano come uscirne per dare l’allarme.

   «È ora, Eccellenza» disse un inserviente, che manovrava una consolle vicino all’ingresso.

   «Apri il canale» ordinò l’Autarca, raddrizzandosi il più possibile. Malgrado la distanza e la penombra, i federali notarono il suo nervosismo.

   Sul proiettore davanti all’Autarca comparve la Messaggera dei Tuteriani. Il proiettore in realtà era spento, perché i Tuteriani trasmettevano da un altro Universo e potevano far comparire l’immagine dell’emissaria dove preferivano. Per la Messaggera, manifestarsi sulla pedana era solo un atto di cortesia. I due proiettori ai lati, invece, si attivarono. A sinistra della Messaggera comparve l’Ammiraglio Hortis, rappresentante dell’Impero Krenim. Alla sua destra si materializzò una sagoma alta e magra, ma sprofondata nelle ombre.

   «I miei rispetti, signori» esordì l’Autarca, inchinandosi leggermente. Considerando che era la massima carica del suo pianeta, era un gesto inusitato; ma davanti a lui c’erano alcuni tra gli individui più potenti e temuti della Galassia.

   «Autarca Cletus, lieta di rivederti» disse la Messaggera, con un sorriso enigmatico.

   Lantora afferrò la balaustra e la strinse con violenza. Erano passati tre anni dal suo incontro con quella manipolatrice, nel Collettore Subspaziale. In quell’occasione la Messaggera aveva cercato di portarlo dalla sua, con minacce e promesse, affinché tradisse il Capitano Chase. E nessuno, a parte Lantora, sapeva quanto si fosse avvicinata al successo. Da allora, lo Xindi non l’aveva più rivista... salvo che nelle trasmissioni Olonet, dove la Messaggera si era presentata più volte per lanciare i suoi strali contro la Flotta Stellare. Fisicamente era sempre la stessa: calva, con la pelle grigia e i lineamenti appena abbozzati. Gli occhi dai riflessi metallici erano sprofondati nelle orbite. Indossava il solito abito violaceo delle precedenti apparizioni. Lantora si chiese ironicamente se era sempre lo stesso, o se il guardaroba della Messaggera conteneva tanti modelli identici.

   «Onorato di conoscervi, Autarca» salutò Hortis. Indossava l’uniforme bruna della Marina Imperiale Krenim, con la cintura e i guanti neri. Era anziano, con i capelli grigi profondamente stempiati. I lineamenti aristocratici erano stanchi: le borse sotto agli occhi rivelavano le notti insonni e le rughe erano infittite dalle preoccupazioni. Ma lo sguardo era vigile e astuto come sempre. Hortis era una delle più grandi menti scientifiche del suo popolo, oltre che un condottiero astuto e carismatico. Dalla sua entrata in guerra, l’anno prima, aveva vinto più di una battaglia in condizioni d’inferiorità numerica.

   Il terzo ospite rimase in silenzio, limitandosi a salutare con un lievissimo cenno del capo. Era così in ombra che nessuno riusciva a scorgere i suoi lineamenti. Si capiva solo che era un alieno umanoide, calvo, con un’uniforme nera che ricordava la pelle scagliosa di un serpente. I tre federali lo scrutarono con apprensione. Conoscevano la Messaggera e Hortis, ma non riuscivano a immaginare chi fosse costui. Il fatto che fosse ammesso alla riunione, e trattato come pari grado dagli altri, non faceva presagire nulla di buono.

   «Ebbene, hai meditato sulla nostra offerta?» chiese la Messaggera.

   «L’ho fatto» confermò l’Autarca. «È senz’altro generosa. Ma c’è una cosa che voglio mettere in chiaro: non mi serve il vostro aiuto per sconfiggere gli Shirna. Ho appena completato il potenziamento della mia flotta da guerra: è forte abbastanza da garantire al mio popolo quanto gli spetta».

   «Nessuno ne dubita, considerando quant’è distratta la Federazione» sorrise la Messaggera. «Ma devi essere lungimirante. Perché conquistare un mondo, o dieci, o cento? Le nostre anomalie li distruggeranno. Risparmieremo solo quelli che decidiamo di conservare. Per il vostro bene, vi consiglio di entrare in quella lista».

   «Ricordate che, in ogni caso, il crollo della Federazione è imminente» aggiunse Hortis, più diplomatico. «Questa è la vostra ultima occasione per schierarvi. Per i nostri alleati ci saranno grandi benefici... ma per i nostri nemici ci sarà una rovina molto più grande».

   «E per i neutrali?» si azzardò a chiedere l’Autarca.

   «Non esiste la neutralità. Chi non è con noi è contro di noi!» esordì l’ospite misterioso, levando il pugno chiuso. «Perciò sii accorto, perché dalla tua scelta dipenderanno le sorti della tua gente».

   «Ne sono consapevole» disse l’Autarca, senza riuscire a nascondere un tremito. «Questo conflitto cambierà il volto della Galassia e noi Vorgon saremo finalmente una potenza. Ma in tutto questo mi sembrate troppo sicuri di voi; ed è un errore che si paga a caro prezzo».

   «Che intendi?» chiese la Messaggera.

   «Date già per scontato che la Federazione stia per crollare. Ma sono tre anni che distruggete le sue navi e avvelenate i suoi mondi con le anomalie. E ancora non siete riusciti a piegarla. Perciò mi chiedo: cos’è cambiato?».

   La Messaggera e l’Ammiraglio accennarono al loro misterioso alleato. Nessuno dei due sorrideva. «La differenza è che ora i Na’kuhl scenderanno in guerra» disse costui, con voce profonda. «Abbiamo finito di nasconderci tra le ombre. Io, Leader Supremo Vosk, so come imprimere la svolta decisiva al conflitto. Non ci saranno più strategie di logoramento; niente attacchi sprecati contro obiettivi insignificanti. Colpiremo la Federazione al cuore. E quando la Terra morirà, noi ascenderemo a padroni della Galassia!» tuonò.

   Così dicendo, Vosk si rese visibile: il suo volto era una maschera di crudeltà e corruzione. La pelle cadaverica mostrava un reticolo di vene azzurrine e, più inquietanti ancora, le intricate suture delle ossa craniche. Il naso piatto, le orecchie appuntite e gli zigomi sporgenti gli davano un’aria da vampiro. Ma più infernali ancora erano gli occhi: rossi come il sangue, senza iride, con solo le pupille nere al centro. Erano gli occhi di un predatore lucido e implacabile, non ottenebrato da pietà, perdono o rimorsi.

   «Voi... volete attaccare la Terra?» mormorò Cletus, intimorito.

   «La mia politica è chiudere questo conflitto nel modo più rapido e vantaggioso» disse Vosk. «Ma se volete parlare di strategia, suggerisco d’incontrarci di persona. Per quanto siano protetti i nostri canali, non è da escludere che i federali riescano a intercettarci. Sarebbe sconveniente se prendessero cognizione dei nostri piani».

   «Noi quattro non ci siamo mai incontrati di persona» commentò Hortis, meditabondo. «Che luogo sceglieremo? Un favoritismo geografico creerebbe tensioni inopportune nel Fronte. Ma incontrandoci in campo neutro ci esporremmo al rischio di essere colpiti dalla Federazione».

   «Possiamo allestire in breve tempo un nuovo Collettore Subspaziale, irraggiungibile dai federali» propose la Messaggera.

   «Il che non sarebbe un campo neutro!» insorse Cletus. «Tanto varrebbe trovarci qui su Vorgon, o sull’ammiraglia Krenim, o...».

   «Na’kuhl Primo» disse Vosk. «Così si chiama il mio mondo d’origine. E sì, è il luogo più indicato per il nostro vertice. È più difeso della vostra ammiraglia» disse rivolgendosi a Hortis, «e più nascosto del vostro pianeta» proseguì volgendosi di nuovo a Cletus.

   «La nostra sede sarebbe comunque più protetta» insisté la Messaggera.

   «Vero, ma la mia non è una richiesta: è una condizione» la gelò Vosk. «Accettatela, se ci volete nel Fronte di Liberazione Temporale. Oppure sparite per sempre. Decidete ora».

   «Non tollero ultimatum, Vosk!» insorse la Messaggera, fremente di sdegno. «Se non fosse per noi, sareste ancora confinati su quella roccia nera...».

   «Quella roccia nera presto sarà uno dei luoghi più importanti della Galassia; sempre che accettiate i consigli di chi conosce l’arte della guerra meglio di voi» rispose Vosk, impassibile. Poi si rivolse all’intero auditorio. «Non vedete? Dovreste forgiare una potente alleanza e invece siete qui a bisticciare come bambini. Aspettate di entrare nei dettagli strategici e vedrete come crollerà in fretta il vostro Fronte! Come un palazzo costruito con mattoni di foggia diversa. Io solo posso darvi quella disciplina e quella coesione che conducono alla vittoria».

   «Bada a come parli; noi dominiamo un intero Universo!» lo redarguì la Messaggera, che non era avvezza a farsi mettere in riga. «Voi avete un solo pianeta, ed è così malandato che presto non potrete contare nemmeno su quello!».

   «Ah, ma non è stato sempre così. Un tempo eravamo temuti in tutta la Galassia... abbattevamo gli Imperi... interi popoli tremavano al nostro apparire» disse Vosk, lo sguardo lontano. «Poi la Storia ha fatto il suo corso. Ma noi siamo ancora qui. E condurremo il Fronte alla grandezza, oppure ne osserveremo la disfatta» disse, tornando a concentrarsi sugli interlocutori. «Ebbene, accettate la mia condizione?».

   «Nell’interesse del Fronte di Liberazione Temporale, accetto» disse Hortis. Scambiò un’occhiata con la Messaggera, esortandola silenziosamente alla diplomazia.

   «E sia, Vosk» cedette la Tuteriana. «Ma non credere, con questo, di dettar legge al Fronte. Noi lo abbiamo creato e noi ne restiamo i leader. Senza le nostre anomalie, non piegherete mai la Federazione».

   «Bene, due favorevoli!» sogghignò Vosk, facendosi ancor più sinistro. «E tu, Cletus, che mi dici? Vuoi entrare nel consesso dei Signori del Tempo? Perché è di questo che si tratta. Il Fronte di Liberazione Temporale garantisce ai suoi associati la piena libertà nello sviluppo del viaggio nel tempo. Ognuno potrà raggiungere il suo pieno potenziale. Ognuno plasmerà il proprio destino!» disse contraendo il viso in una smorfia, che gli scoprì i denti affilati.

   «Io... accetto» disse l’Autarca con un filo di voce. «Vi aiuterò a distruggere la Federazione. Acconsento anche all’incontro sul vostro pianeta... del quale dovrete fornirmi le coordinate» aggiunse.

   «Te le sto inviando» annuì Vosk. «Poiché ora siamo alleati, e in guerra il tempo è essenziale, suggerisco che tu ci raggiunga subito» si rivolse poi a Cletus. «Così ci mostrerai la tua nuova, formidabile flotta» aggiunse, stringendo gli occhi scarlatti. Non era chiaro se intendesse lusingare l’Autarca o deriderlo.

   «S-sì, Leader Supremo. Verrò con la mia flotta d’assalto, e una volta lì... discuteremo della strategia» disse Cletus, tutto smorto.

   «Non vedo l’ora» disse Vosk, scoprendo nuovamente i denti acuminati. «Ti suggerisco però di non farti seguire dalla nave federale che sta spiando il tuo pianeta».

   «Come?!» sobbalzò l’Autarca, mentre un chiacchiericcio allarmato si diffondeva tra i suoi gerarchi.

   «Non lo sapevi?» infierì Vosk. «È in orbita sopra la capitale, a 2.500 km dalla superficie. Se inondi lo spazio con radiazioni tetrioniche dovresti rilevare l’ombra dei suoi scudi. Distruggila immediatamente». Era un ordine perentorio.

   «Inaudito... una nave federale, qui?!». L’Autarca si prese la testa fra le mani, sgomento. «E voi come fate a saperlo? Non importa... la distruggerò subito. Grazie dell’avvertimento».

   «Di nulla, amico mio. Quando te ne sarai sbarazzato, raggiungimi sul mio pianeta. Ti aspetto con ansia... vi aspetto tutti» disse Vosk, passando in rassegna gli alleati con i suoi occhi infernali.

   «La riunione è aggiornata» sentenziò la Messaggera, restituendo uno sguardo indecifrabile.

   L’Autarca s’inchinò, molto più profondamente rispetto a quando i suoi ospiti erano comparsi. L’attimo dopo Vosk era scomparso. Anche Hortis chiuse il collegamento; sulla sua fronte ampia le rughe di preoccupazione si erano approfondite. Per ultima svanì la Messaggera.

   «Eccellenza, siete certo che sia stata una scelta saggia?» si azzardò a chiedere un generale.

   «Era l’unica scelta» rispose Cletus, ancora grigio in volto. «Chi non è con loro subisce le anomalie... e presto potrebbe essere cancellato dalla Storia. Si avvicina il giorno in cui il Fronte Temporale dominerà la Galassia. Se vogliamo sopravvivere, dobbiamo farne parte».

   L’Autarca uscì dal cerchio del proiettore olografico e tornò fra i suoi sottoposti. Stava lentamente riprendendo colore. «Ammiraglio, faccia decollare la Ruota. Anzi, porti in orbita tutta la Prima Flotta» ordinò. «E sparate un fascio di tetrioni nello spazio. Quando la nave federale diverrà visibile, colpitela con tutto quel che abbiamo. Non possiamo permettere che avverta la Federazione della nostra partenza».

   «Agli ordini, Eccellenza. Venite in plancia, così assisterete al dispiegamento della flotta e alla fine delle spie» disse l’Ammiraglio, invitandolo a uscire per primo. Uno dopo l’altro, i gerarchi e i burocrati Vorgon seguirono il loro Autarca fuori dalla sala riunioni.

   Anche la balconata superiore andò rapidamente svuotandosi. Tutti correvano ai propri posti, perché quella breve riunione aveva sancito l’entrata in guerra dei Vorgon. In sala rimasero solo Ilia, Terry e Lantora, così sconvolti da non avere parole. L’orrore nei loro occhi era sufficiente per intendersi.

   «Dobbiamo avvisare immediatamente la Sojourner» disse Lantora.

   «La Federazione» corresse Ilia. «L’essenziale è informare la Federazione dell’attacco imminente. Quanto alla Sojouner... temo che sia tardi».

   «Terry, mi dica che può inviare un segnale d’allarme!» disse lo Xindi, quasi supplichevole.

   «Ci ho provato, ma il segnale non passa attraverso lo scafo» rispose l’IA. «E più ci provo, più aumentano le probabilità che i Vorgon lo rilevino. Non possiamo permettere che ci scoprano... siamo la sola speranza della Federazione».

   «Ma non serviamo a niente, se rimaniamo bloccati qui!» protestò Lantora.

   «Dobbiamo fuggire» disse Ilia. «Anche a costo di dividerci. Almeno uno di noi deve farcela». Respirò a fondo e corse verso l’uscita, seguita dai due ufficiali. «Cerchiamo un hangar navette. O delle capsule di salvataggio. O la sala teletrasporto. Qualunque cosa possa portarci via da qui».

   Prima ancora che lasciassero la sala riunioni, questa si mise a tremare. Le luci lampeggiarono e squillò un allarme stridulo, simile al grido di un predatore. «Attenzione, tutto l’equipaggio ai propri posti» disse una voce Vorgon all’altoparlante. «La Ruota da Guerra sta decollando. Ripeto, la Ruota da Guerra sta decollando. Pronti a ingaggiare il nemico».

   «Oh, no» gemette Ilia.

 

   I mari di Vorgon, bassi e caldi, erano un paradiso per innumerevoli specie viventi. La luce intensa che filtrava dalla superficie permetteva la crescita di una gran quantità di alghe. Le alghe, a loro volta, fornivano ossigeno e nutrimento per una sterminata varietà di animali. Molte specie trovavano riparo negli anfratti corallini.

   Nel caso delle acque che lambivano la capitale, i coralli erano gli scafi delle astronavi Vorgon. C’erano gli Incrociatori affusolati, i piccoli caccia e i bombardieri simili a crostacei, ma soprattutto le imponenti Ruote da Guerra, mezze sprofondate nel fondale fangoso. D’un tratto le acque calde furono attraversate da una vibrazione sconosciuta. Gli animali avvertirono subito il pericolo. I pesci, i molluschi e tutte le creature in grado di nuotare si allontanarono precipitosamente. I crostacei e gli altri animaletti muniti di appendici zampettarono via. I vermi strisciarono. Gli animali fissi agli scafi, invece, non avevano scampo. Chi aveva una conchiglia poté solo nascondersi dentro.

   Sotto la spinta dei motori, le astronavi si mossero. Intorbidirono l’acqua, l’agitarono e infine la fecero ribollire. Uno dopo l’altro, gli scafi si sollevarono. Raggiunsero la superficie del mare, sollevando onde colossali, e si proiettarono verso il cielo. Superarono le nubi come avevano fatto con l’acqua. In breve raggiunsero lo spazio, disponendosi in formazione d’assalto.

   All’ordine dell’Autarca, le navi organiche energizzarono le armi e gli scudi. Al tempo stesso scandagliarono l’orbita con radiazioni tetrioniche. Le radiazioni si dispersero uniformemente nello spazio, salvo che per una zona in cui vennero riflesse: una bolla, grande abbastanza da contenere un’astronave.

 

   «Non c’è dubbio, Capitano. È una flotta da guerra e viene dritta verso di noi» disse l’Ufficiale Tattico della Sojourner. «Rilevo quaranta astronavi discoidali e il doppio oblunghe. Altre stanno ancora decollando».

   «Non possono vederci» sostenne il Capitano Prasad, alzandosi dalla poltroncina. Andò verso lo schermo, che mostrava la flotta Vorgon in avvicinamento.

   «Alzo gli scudi?» chiese l’Ufficiale Tattico, innervosito.

   «Negativo» disse il Capitano. «Alzando gli scudi ne risentirebbe l’occultamento e potrebbero rilevarci. Restiamo zitti e buoni. Quando ci avranno superati potremo lasciare il sistema. Dopo aver recuperato la squadra, se possibile. Perché se Dax e i suoi continuano a non risponderci, è probabile che li abbiano presi. In effetti questa partenza improvvisa potrebbe essere il segno che sono stati scoperti...» ragionò, corrugando la fronte. Non poté proseguire, perché la nave sussultò sotto il fuoco pesante.

   «Ci attaccano con armi al plasma!» gridò l’Ufficiale Tattico. «Danni alle gondole, alle armi, alla griglia energetica! Sta saltando tutto, non riesco a dare energia agli scudi!». Gli altri ufficiali di plancia proseguirono l’elenco delle cattive notizie.

   «Il timone non risponde, manovre evasive impossibili...».

   «Ci sono esplosioni in sala macchine...».

   «Decompressione nell’hangar principale...».

   «Com’è possibile?!» gemette il Capitano. La nave si scuoteva così violentemente da farlo barcollare in mezzo alla plancia. «Non importa, la Sojourner è perduta. Evacuare la nave, ripeto, evacuare la nave! Tutti alle capsule di salvataggio!» ordinò. Diede un’ultima occhiata allo schermo e vide una raffica di colpi plasmatici azzurri diretta contro la plancia.

   «Dax, cos’è successo laggiù?!» si chiese l’uomo. Spinse lo sguardo oltre i colpi al plasma, oltre gli Incrociatori e le Ruote da Guerra, verso il pianeta sottostante. Un pianeta molto bello, tutto azzurro e verde, striato di nubi bianche. Un paradiso della Natura. Qualcosa che sarebbe durato più a lungo delle guerre, forse. Fu il suo ultimo pensiero, prima che la plancia esplodesse.

 

   Da una finestra panoramica della Ruota da Guerra, i tre ufficiali dell’Enterprise assistettero impotenti all’attacco contro la Sojourner. L’astronave fu crivellata di colpi al plasma. Le prime raffiche partirono quand’era ancora invisibile e alcune mancarono il bersaglio. Ma i colpi che andavano a segno perforavano subito lo scafo, perché la classe Mjölnir non poteva tenere gli scudi alzati con l’occultamento attivo. Le esplosioni sembravano avvenire nello spazio vuoto, ma quando si dissolvevano restava uno squarcio ardente. In pochi secondi l’occultamento cedette e la Sojourner divenne visibile. Il suo scafo squadrato era già costellato di falle.

   «Abbandonate la nave, frell! Che aspettate?!» sussurrò Lantora, fissando la scena con occhi sbarrati.

   «Li hanno presi alla sprovvista...» mormorò Ilia.

   «La nave ha pochi secondi di vita» avvertì Terry.

   Intorno a loro, la flotta Vorgon continuava a sparare, implacabile. Gli Incrociatori facevano fuoco con i cannoni al plasma anteriori. Le Ruote da Guerra, invece, giravano su se stesse come trottole. In questo modo le armi, disposte lungo tutta la circonferenza esterna, si alternavano nel colpire, garantendo un fuoco continuo. Solo la Ruota in cui si trovavano loro rimaneva ferma, così che la Sojourner ferita a morte restava sempre visibile dalla finestra. Probabilmente era una cortesia dell’equipaggio verso l’Autarca, che in tal modo poteva assistere alla distruzione della nave federale.

   Esplosioni sempre più grandi eruppero dallo scafo della Sojourner, finché il nucleo cedette, annichilendo l’astronave. I federali distolsero lo sguardo per non essere accecati. Durò pochi secondi, poi lo spazio tornò buio. Una vibrazione percorse la Ruota da Guerra, così lieve che solo Terry la percepì.

   «E ora, Comandante?» chiese Lantora, con la bocca secca.

   «Ora, Tenente, siamo soli» rispose Ilia.

   Attraverso il finestrone, videro lo spicchio lucente del pianeta Vorgon ridursi fino a sparire, mentre la Ruota da Guerra correggeva la traiettoria, puntando verso lo spazio profondo. Il resto della flotta si dispiegò, assumendo la formazione di volo.

   «Attenzione, pronti al salto in transcurvatura» gracchiò la voce all’altoparlante. «Tempo previsto per l’arrivo a Na’kuhl Primo: tre giorni».

   La Ruota da Guerra vibrò leggermente. Sulla finestra, le stelle lasciarono il posto al condotto azzurrino della transcurvatura. L’energia fluiva con un ritmo regolare. Dietro l’ammiraglia, le altre Ruote da Guerra procedevano alla massima velocità, così come gli Incrociatori e le navette minori. Andavano all’appuntamento con Vosk.

 

 

-Intermezzo 3:

 

500.000 anni fa

Luogo: Arret

 

   Le Navi Vampiro e i Caccia Ombra ronzavano intorno al globo grigio smorto di Arret. Fino a poco prima era un mondo vivo e rigoglioso, con mari azzurri e verdi foreste ben visibili dallo spazio. Ma tutto era finito con straordinaria velocità. L’atmosfera si era dispersa, gli oceani erano evaporati, le foreste arse. Le grandi città erano state annientate una dopo l’altra; al loro posto restavano profondi crateri.

   «Scansione completata» disse un ufficiale Na’kuhl sul ponte dell’ammiraglia. «Nessun segno di vita dalla superficie. Ma non posso escludere che ci sia qualche rifugio schermato, molto in profondità nella crosta».

   «Distruggiamo completamente Arret?» chiese l’Ufficiale Tattico.

   «Perché distruggere un pianeta già morto?» chiese il Leader Supremo, tamburellando sul bracciolo della sedia-trono. «Se anche ci fossero dei superstiti, moriranno nei loro bunker. No, lasciamo che gli altri popoli della Galassia vedano quel poco che resta di Arret. Così sapranno cosa succede alle civiltà che si credono divine: si annientano da sole!».

   «Gli Organiani, però, non si sono annientati» mormorò il Primo Ufficiale, una Na’kuhl che conosceva molti dei pensieri e dei piani del Leader Supremo.

   «Con gli Organiani abbiamo commesso un errore: dovevamo sterminarli quando ne avevamo la possibilità» disse il leader. «Ora che stanno ascendendo, non possiamo più toccarli. Ma con Arret abbiamo agito in tempo. Avevano poteri semidivini, ma non la maturità per controllarli. È stato divertente spingerli uno contro l’altro».

   «Chissà se negli ultimi momenti si sono resi conto che eravamo noi a manovrare il conflitto?» si chiese il Primo Ufficiale.

   «Non credo. Di sicuro non se n’è accorta la fazione di Enoch: stupidi arroganti, invasati dai loro poteri! Quanto alla fazione di Sargon...». Il Leader Supremo si alzò dal seggio e avanzò verso lo schermo visore. «Mi senti, Sargon? Dov’è la tua saggezza, a che hanno portato i tuoi lunghi studi? Sei riuscito a ingannare la morte?» chiese, levando il pugno in atteggiamento di sfida. «E Thalassa, la tua dolce metà, è ancora lì con te? Rispondimi, se puoi!» gridò. Ma la sfida non fu raccolta; sulla plancia della Nave Vampiro gravava un silenzio di morte.

   «Credo che non sentiremo più parlare di loro» disse il Primo Ufficiale, compiaciuta. «Congratulazioni, Leader Supremo. Prima hai sconfitto i costruttori di androidi di Exo III, ora i titani di Arret! Non c’è fine alle tue vittorie. Quale sarà il tuo prossimo obiettivo?».

   «Non ci ho ancora pensato» ammise il Leader Supremo. «Com’è andata la tua esplorazione di quel lontano pianeta, Bajor?».

   «È primitivo quanto inoffensivo» rispose la Na’kuhl. «C’è una sola città degna di questo nome, B’hala. Gli altri sono minuscoli villaggi, o tribù nomadi. Per la maggior parte venerano degli esseri detti “Profeti” e sono retti da matriarcati» aggiunse con una sfumatura divertita.

   «Se non hanno una tecnologia evoluta, non sono pericolosi; possono sopravvivere» disse il Leader Supremo in tono magnanimo. «Ma se dovessero volgersi alle stelle, conosceranno il fato di Arret» decretò. Stava per ordinare di lasciare il sistema, quando notò un satellite artificiale che sfrecciava molti km più in basso. «Miei fidi, voglio un bombardamento dei satelliti e delle basi spaziali» ordinò. «Tutto ciò che orbita attorno ad Arret dev’essere abbattuto. Fatelo e il nostro lavoro sarà finito».

   «Agli ordini, Leader Supremo» disse l’Ufficiale Tattico.

   Le Navi Vampiro e i Caccia Ombra si diressero a sciami verso Arret. Raggi violacei balenarono contro i satelliti artificiali, disintegrandoli uno dopo l’altro. Così, dopo che la superficie di Arret era stata devastata, anche i cieli furono spogliati d’ogni residuo di civiltà. La speranza, se c’era, covava in profondità sotto la crosta. Conclusa l’opera distruttiva, le astronavi Na’kuhl si radunarono in un vasto sciame e abbandonarono il sistema di Arret, dirette al loro mondo tenebroso.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Immagine speculare ***


-Capitolo 5: Immagine speculare

 

   «Qui è il Comandante Ubar-tutu della base Event Horizon della Flotta Stellare, chiedo immediata assistenza!». La voce del Kelpiano era intrisa di terrore e i suoi occhi azzurri, sbarrati, spiccavano sul volto segaligno. I recettori del pericolo sulla sua nuca erano completamente estroflessi.

   «Mezz’ora fa un’astronave di classe Universe è entrata in orbita sopra la nostra installazione. Dal numero di registro sembrava l’Enterprise e anche il collegamento video con la plancia pareva confermarlo. Il Capitano Chase ci ha chiesto di abbassare gli scudi per teletrasportare se stesso e una squadra, ma non ha saputo fornire spiegazioni convincenti per il suo arrivo, né aveva i giusti codici di riconoscimento. Pertanto mi sono visto costretto a respingere la sua richiesta». Il Kelpiano s’interruppe un attimo, mentre la sala controllo in cui si trovava era squassata dalle vibrazioni. Alcune consolle esplosero, mentre da un condotto in un angolo scaturì una perdita di gas. L’equipaggio correva da tutte le parti, cercando di evitare la catastrofe.

   «Per tutta risposta, l’Enterprise ci ha bombardati dall’orbita» riprese Ubar-tutu. «I nostri scudi non potevano resistere a lungo, pertanto mi sono visto costretto ad accettare l’ultimatum di Chase. Ho abbassato gli scudi, permettendo a una squadra d’assalto dell’Enterprise di requisire la nostra scorta di Materia Rossa. Il Capitano Chase aveva promesso di risparmiarci, invece ha ripreso il bombardamento. Temo che da un momento all’altro...».

   «Comandante, ci hanno colpiti con un siluro modificato!» avvertì un ufficiale. «Impatto a dieci km da qui. Le letture gravimetriche sono fuori scala... hanno usato la Materia Rossa!» si disperò.

   «Allora il mio appello è vano; non abbiamo speranza» disse il Kelpiano, chinando il capo. «Tra pochi minuti questa installazione, e l’intero pianeta, saranno divorati da un buco nero. Avrei dovuto farlo io stesso... togliere il contenimento alla Materia Rossa prima che l’Enterprise la requisisse. Ma speravo che accontentando Chase avrei salvato l’equipaggio. Per colpa mia, quella nave pirata – che non può essere la vera Enterprise – dispone ora di un’arma tremenda. A chiunque ascolti questo messaggio, chiedo d’informare tempestivamente il Comando di Flotta. E alla Flotta raccomando estrema cautela nell’affrontare la falsa Enterprise. Può annientare interi mondi... non dovete permetterlo...». La trasmissione divenne sempre più disturbata, finché s’interruppe.

   «Era l’ultimo messaggio inviato da Kolarus VI» disse Terry. «Il collasso del pianeta è avvenuto pochi minuti dopo».

   «E gli altri pianeti del sistema Kolariano?» chiese il Capitano. «So che Kolarus III è abitato da una specie pre-curvatura...» si preoccupò.

   «I miei sensori a lungo raggio indicano che gli altri pianeti sono in ordine. Le loro orbite non mostrano alterazioni» rispose Terry, mostrando uno schema del sistema kolariano sullo schermo principale. Le orbite dei pianeti erano segnate da ellissi di vari colori. «Il buco nero che ha assorbito Kolarus VI ha massa pari a quella del pianeta e nulla più. Pertanto anche la sua gravità è rimasta invariata».

   «Ma ai Kolariani non piacerà avere un buco nero nel loro sistema, quando cominceranno a viaggiare nello spazio» commentò Chase.

   «Il che avverrà a breve, considerando il loro stadio di sviluppo industriale» disse Terry. «La Flotta Stellare avrebbe dovuto evacuare l’installazione e trasferire altrove la Materia Rossa».

   «Ne convengo» disse Chase, scuro in volto. «T’Vala, quanto manca all’ingresso nel sistema?».

   «Pochi secondi, Capitano» rispose la timoniera.

   «Diriga verso Kolarus VI, mantenendo la distanza di sicurezza» ordinò il Capitano.

   «Sì, signore». L’Enterprise uscì dalla cavitazione quantica vicino a ciò che un tempo era un pianeta grande come la Terra, e adesso era un buco nero del diametro di otto millimetri. L’astronave aveva gli scudi alzati e le armi pronte, nell’eventualità che la sua gemella dello Specchio fosse ancora in agguato.

   «Terry, analizzi lo spazio circostante. Veda se ci sono navette o capsule di salvataggio della base».

   «Negativo, Capitano. Non rilevo superstiti» si dispiacque Terry.

   «Gli è mancato il tempo di fuggire...» disse Chase, cupo. «E che mi dice dell’ISS Enterprise?».

   «Non la rilevo, ma sappiamo che il suo occultamento è così avanzato da eludere persino i miei sensori» ammise Terry, frustrata.

   «Non capisco!» sbottò Nalanda, l’Ufficiale Tattico ad interim. «Ogni ufficiale che abbia la Materia Rossa in custodia ha l’ordine di attivare l’autodistruzione, piuttosto che consegnarla al nemico. Ubar-Tutu avrebbe dovuto disattivare il campo di contenimento e lasciare che la singolarità collassasse. Invece ha tradito la Federazione... senza per questo salvarsi. Come ha potuto essere così cieco?!» inveì.

   «Il Comandante Ubar-Tutu era un Kelpiano» spiegò Terry. «La sua specie è nota per il temperamento pavido e arrendevole».

   «E allora perché metterlo al comando di un’installazione così sensibile?» insisté Nalanda.

   «Il collocamento di Kelpiani in ruoli di comando rientra nel Programma Federale per le Pari Opportunità» rispose Terry. «Ai Kelpiani, come ad altre specie, è stata assegnata una quota minima di partecipazione nell’organigramma di Flotta, il che facilita molto la loro carriera».

   «L’hanno promosso perché apparteneva a una minoranza» commentò Chase, aspro. «Sono queste idiozie che stanno mettendo in ginocchio la Flotta. Signor Grog, contatti la Stazione Tango Sierra e chieda se ci sono aggiornamenti sull’ISS Enterprise. Sparizioni di navi, echi nei sensori... qualunque indizio».

   «Sì, Capitano» disse il Ferengi. «Altro che indizi!» fischiò subito dopo. «Due navi remane sono state distrutte vicino a Dessica. E un Falco da Guerra romulano è scomparso nel sistema Devron, meno di sei ore fa!».

   «Uhm... Devron è un sistema conteso» ricordò Chase. «Quel Falco era della Repubblica o dello Stato Imperiale?».

   «Un momento» disse Grog, consultando il traffico subspaziale. «Secondo un comunicato di Nuovo Romulus, non apparteneva alla Repubblica» disse infine. «Da Rator III non dicono nulla... ma lo Stato Imperiale non s’è mai vantato delle sue sconfitte».

   «Va bene, diciamo che erano imperiali» convenne Chase. «Se andiamo laggiù potremmo incontrarne altri, ma è un rischio da correre. T’Vala, ci porti nel sistema Devron. Terry, attivi l’occultamento. Signor Nalanda... tenga pronte le armi».

   «Signore, il Comando di Flotta ha raccomandato di non fare nulla che possa irritare lo Stato Imperiale» ricordò Terry. Con la guerra in corso, la Federazione doveva stare attenta a non allungare la lista dei nemici.

   «Ci ha anche ordinato di fermare l’ISS Enterprise» rispose Chase. «Quella nave sta distruggendo tutto ciò che incontra. Non rinuncerò a seguirla solo per un confine su una mappa. Gli ordini sono confermati».

   «Sì, Capitano» si arrese Terry. Comprendeva la logica del Capitano, ma i suoi archivi storici le dicevano che molte Enterprise del passato si erano trovate nei guai per aver violato lo spazio romulano. Si augurò che non toccasse anche a lei.

 

   «Ebbene, Ingegnere?» chiese il Capitano Chase dell’ISS Enterprise, tamburellando lo stivale nero sul lucido pavimento della sala macchine.

   «È un prodigio della scienza, Capitano» rispose Grenk, osservando reverente la camera di contenimento in cui era stipata la Materia Rossa. Parecchi cavi ad alta energia la collegavano alle apparecchiature della sala. La Materia Rossa galleggiava al centro della camera come una bolla di melassa. Potenti campi di forza la tenevano al suo posto, assicurandosi che non sfiorasse mai la materia ordinaria. Bastava poco per avviare il collasso gravitazionale.

   «Questo lo so; Kolarus VI è collassato in pochi minuti» disse Chase. «Ma ho bisogno che lei analizzi la Materia Rossa. Scopra come è stata prodotta, così potremo replicare il processo».

   «Non sono certo che sia possibile farlo qui sull’Enterprise» rispose Grenk prudentemente.

   «Perché no? Abbiamo i laboratori più avanzati della Flotta!» scattò subito Chase. «Il personale non le manca. Usi tutte le risorse che le occorrono. Deve scoprire il segreto».

   «Non si preoccupi, Capitano» tubò Ilia, strusciandosi contro di lui. «Per distruggere un pianeta basta una sola goccia di Materia Rossa. Qui ce n’è abbastanza da distruggere tutti i pianeti federali. E tutti i nemici dell’Impero, quando torneremo a casa».

   «Questo è vero» ammise Chase, confortato. Passò il braccio intorno alla vita della Trill. «Ma devo pensare a ogni evenienza. Se perdessimo il campo di contenimento dovremmo evacuare la nave. Perderemmo tutta la Materia Rossa in un colpo solo. Ecco perché averne un campione – anche abbondante – non mi basta. Voglio la ricetta». Scostò bruscamente Ilia e tornò a concentrarsi su Grenk.

   «Mi metto subito al lavoro» promise il Tellarita. «Ma devo avvertirla: se perdiamo il contenimento, non avremo tempo di evacuare la nave. Sarà la fine per tutti noi».

   «Tutto o niente... e sia!» disse Chase, osservando la Materia Rossa. L’ambizione gli bruciava negli occhi, nel cuore; gli formicolava addosso come elettricità statica. Aveva messo le mani sul più grande bottino della sua carriera, qualcosa che avrebbe capovolto i rapporti di forza tra lui e l’Ammiraglio N’Rass. Qualcosa che, sapientemente usato, lo avrebbe messo in condizioni di detronizzare l’Imperatore.

   «Ingegnere, crede che sia possibile teletrasportare la Materia Rossa nel nostro Universo?» chiese Ilia.

   «Temo proprio di no» rispose il Tellarita. «Il Teletrasporto Multidimensionale, che ho usato per tornare, è delicatissimo. La Materia Rossa lo destabilizzerebbe. L’unico modo sicuro di portarcela dietro è attraverso il Tunnel Spaziale».

   «Che disdetta» fece Ilia.

   «È una fortuna, invece» disse Chase. «Non mi va di separarmene. La porterò all’Impero con tutta la nave o non la porterò affatto. Per lo stesso motivo, le vieto di trasmettere la ricetta... quando l’avrà» si rivolse a Grenk. Più che un ordine, era una minaccia. «Non tollererò che N’Rass o qualcun altro godano delle mie conquiste».

   «Certo, Capitano. Comincio subito le analisi» promise l’Ingegnere.

   «Proceda... e non faccia caso ai Corpi Speciali. Sono qui per sorvegliare la Materia Rossa» disse, accennando ai soldati allineati lungo le pareti. Erano tutti Umani, armati pesantemente, con fucili phaser e granate al plasma. Le mostrine con il teschio scintillavano sulle loro spalle.

   Grenk deglutì, allargandosi il colletto, che improvvisamente gli sembrava così stretto da soffocarlo. Si mise subito al lavoro.

 

   «Perché siamo ancora qui?» chiese Ilia.

   «Pensavo ti piacesse» rispose Chase, baciandola sul collo da dietro. Erano immersi nella vasca idromassaggio, uno dei privilegi di cui godevano i Capitani della Flotta Imperiale. L’acqua era così calda che ne esalava un lieve vapore.

   «Non parlo di noi due, qui. Mi riferisco all’Enterprise» spiegò Ilia, piegando la testa di lato per facilitare le cose al Capitano. «Hai la Materia Rossa... l’arma più potente che l’Impero abbia mai sognato. Che aspetti a tornare per avvantaggiartene?».

   «Ogni cosa a suo tempo» rispose Chase, fermando le effusioni. «Ho ancora un conto in sospeso in questo Universo».

   «L’altro Chase» sospirò Ilia. «Non avrai pace finché non riuscirai ad ammazzarlo, vero?».

   «Quel verme mi ha umiliato davanti all’equipaggio. E prima ancora, ha inviato i suoi agenti a sabotare la mia nave. Non gliela farò passare liscia» disse Chase, rigirandosi la Trill fra le braccia per guardarla negli occhi.

   «Ma non può più ostacolarti...» insisté Ilia.

   «Non importa! Mi ha sfidato e deve pagarla» tagliò corto Chase. «Se non lo distruggo, l’equipaggio non mi rispetterà più come prima. E a me serve fedeltà, per quando torneremo a casa» aggiunse.

   «Stai pensando all’Ammiraglio N’Rass, vero?» chiese la Trill, abbracciandolo. «Quella brutta gattaccia si pentirà di averti creato tante difficoltà...».

   «Si pentirà di essere nata» sogghignò Chase. «Metterò in chiaro che nessun alieno deve scalare i ranghi della Flotta».

   «Ma tesoro... non pensi a me?» bisbigliò Ilia, mordicchiandogli l’orecchio.

   «Per te farò un’eccezione» promise Chase. L’aveva tenuta per ore sulla Lobo-Sedia, condizionandola in modo irreparabile, per assicurarsi la sua lealtà. Ora che ce l’aveva, non intendeva rinunciarvi.

   «Ma fin dove vuoi spingerti?» chiese ancora la Trill.

   «Fin dove potrò» disse il Capitano. «Solo così si conquista la grandezza». La baciò a lungo, stringendola a sé.

   «Hai ragione... ma è un gioco spietato, amore mio. Il minimo errore può esserci fatale» ammonì Ilia. «E per quanti siano i tuoi vantaggi, io ho paura. La ruota della fortuna potrebbe girare in qualunque momento. Tu perderesti tutto... e io perderei te» sospirò. «Non te l’ho mai chiesto, ma... sicuro che non possiamo accontentarci?».

   Chase rimase interdetto. La precedente Ilia non si sarebbe mai accontentata di niente; non era nella sua indole. Ma l’Ilia che si era rialzata dalla Lobo-Sedia ragionava in modo diverso. Essere leale a qualcuno la riempiva di dubbi e preoccupazioni. Questo atteggiamento poteva andar bene per i sottoposti, ma non per un Capitano d’astronave. Un Capitano doveva essere forte, sempre.

   «Ti dirò... a volte me lo chiedo anch’io» confessò Chase, la voce ridotta a un sussurro. «Una parte di me vorrebbe fare come dici: stare al mio posto, accontentarmi. Ci sono stati giorni in cui volevo ascoltare quella voce. Ma poi l’ho vista personificata nell’altro Chase. E mi sono accorto di quant’è debole e patetico. Lui non combinerà mai niente di grandioso. E io non voglio essere insignificante come lui! Non sprecherò la mia occasione!» ringhiò, con l’ambizione che gli divampava nuovamente negli occhi. Per un po’ rimasero in silenzio.

   «Sarai con me?» sussurrò infine Chase, carezzandole i capelli. Sapeva che Ilia poteva rispondere solo di sì, ma aveva ugualmente bisogno di sentirla.

   «Lo sarò, amore mio. Fino all’ultimo» promise la Trill, posandogli il mento sulla spalla.

 

   «Diario del Capitano, Data Stellare 2553.087. Siamo a Devron da due giorni e non ci sono segni dell’ISS Enterprise. Non abbiamo incontrato nemmeno astronavi remane, o dello Stato Imperiale, il che può essere considerata una fortuna. Ho ordinato d’imbarcare alcuni rottami del Falco da Guerra, nel caso contengano tecnologie o informazioni utili. Non mi aspetto grandi scoperte, ma viviamo in tempi difficili. E per quanto lo Stato Imperiale non possa più atteggiarsi a potenza, è bene non sottovalutarlo.

   L’equipaggio dà segni di nervosismo e non posso biasimarlo. L’ultimo scontro con l’Enterprise dello Specchio è stato duro; il prossimo sarà peggiore. Per ora stiamo ancora giocando a nascondino... ma quando ci troveremo, per una delle due parti sarà la fine. Me lo sento. Vorrei fare qualcosa per aumentare le nostre chance, ma cosa posso inventarmi che il mio alter-ego non sappia prevedere? Siamo la stessa persona... o le due facce della stessa persona».

   Il Capitano sospirò, inclinando all’indietro la poltroncina. Nell’intimità del suo ufficio non era obbligato a rimanere composto come in plancia. «In questo momento, più che mai, vorrei il consiglio dei miei ufficiali: Ilia, Lantora... loro saprebbero darmi un’altra prospettiva. Diamine, rimpiango anche le chiacchierate con Raav! E poi c’è Neelah. Ancora non so che le sia capitato. Comincio a pensare che non la rivedrò». Osservò malinconicamente l’olo-foto che aveva messo sulla scrivania: ritraeva l’Aenar in uno dei suoi rari sorrisi. Forse avrebbe dovuto toglierla: era così tormentosa che lo distraeva.

   «Fra i dispersi e gli ufficiali in missione, sono a corto di buoni consiglieri, alla vigilia della battaglia più difficile. Ah... quando ho accettato di comandare l’Enterprise, non avrei mai immaginato di sentirmi così impotente!» ammise. Passò lo sguardo sul piano della scrivania, ancora crepato da quando lo aveva colpito con il pugno meccanico, al culmine della lite con Korris.

   Il bip discreto del computer lo avvisò che c’erano novità. «Fine registrazione» disse Chase. «Che succede, Terry?».

   «Venga in plancia, Capitano». L’urgenza nella voce dell’IA indicava qualcosa di grave. Forse era il momento. Chase scattò in piedi e uscì a passo svelto dall’ufficio, trovando la plancia in preallarme.

   «Ebbene?».

   «Abbiamo ricevuto una richiesta d’aiuto da parte di un convoglio romulano. Anche se la trasmissione è molto disturbata, credo di averlo identificato...» cominciò Terry.

   «Aspetti, perché è così disturbata?» volle sapere il Capitano.

   «Viene dalla Fenditura Bassen, dove le distorsioni elettromagnetiche ostacolano le comunicazioni a lungo raggio» spiegò Grog.

   «In base alle informazioni forniteci dalla Repubblica Romulana, deve trattarsi del convoglio che trasporta i profughi di Zeta Trianguli, colpito dalle anomalie» riprese Terry. «Sono diecimila civili romulani, in viaggio verso la colonia federale di Gamma Pavonis che gli ha offerto asilo. Con questo gesto, la Federazione sperava di smuovere la Repubblica, ottenendo sostegno militare».

   «Indizi su chi li ha assaliti?» domandò Chase, presagendo il peggio.

   «Fra le interferenze si riconosce il nome Enterprise» disse Grog.

   «Pensate che qualcun altro abbia ricevuto il segnale?» chiese immediatamente il Capitano.

   «Improbabile, a meno che i Romulani abbiano navi nelle immediate vicinanze» rispose Terry.

   «Se i Romulani credono che siamo stati noi ad attaccarli, possiamo scordarci il loro aiuto» ragionò Chase. «Penseranno che li abbiamo colpiti nella Fenditura per nascondere la nostra colpevolezza».

   «La Repubblica si sentirà tradita... potrebbe persino riavvicinarsi allo Stato Imperiale in funzione anti-federale» commentò T’Vala. Essendo mezza Vulcaniana, si era sempre interessata alla situazione dei “cugini” romulani.

   «Forse è questo il piano dell’ISS Enterprise» convenne il Capitano. «Dobbiamo intervenire. Signor Grog, informi Nuovo Romulus della situazione. Dica che andiamo nella Fenditura Bassen per salvare il convoglio dall’attacco di una finta Enterprise».

   «Non la manderanno giù facilmente» commentò Nalanda.

   «Sarebbe peggio se non dicessimo nulla» ribatté Chase. «Se prevarremo, avremo tempo per spiegare tutto. Ma se sarà l’altra Enterprise a distruggerci, non dobbiamo lasciare che questo metta la Repubblica Romulana contro la Federazione».

   «Messaggio inviato» disse Grog, con un groppo in gola.

   «Rotta verso il convoglio, massima cavitazione. Allarme Rosso, tutti ai posti di combattimento!» ordinò Chase. Vedendo il tunnel di cavitazione apparire sullo schermo, seppe che là in fondo lo attendeva la sua nemesi. E come Picard con Shinzon, anche lui l’avrebbe affrontata nella Fenditura Bassen, circondato dai Romulani, in una battaglia che decideva le sorti del Quadrante.

 

   L’Enterprise uscì dalla cavitazione in mezzo alle volute verde veleno della Fenditura. Era un posto adatto a incontrare i Romulani, rispecchiava il colore del loro sangue e delle loro astronavi. Il convoglio era lì: una quindicina di navi da carico, progettate per le merci e riconvertite in tutta fretta al trasporto dei rifugiati. Erano vecchie e male in arnese, già prima di venire attaccate.

   L’ISS Enterprise sostava a poca distanza, con gli scudi alzati e le armi puntate. Quando l’USS Enterprise si avvicinò, non aprì il fuoco né si mosse. Quale che fosse il suo piano, prevedeva di mantenere la posizione.

   «Rapporto sui Romulani» disse Chase.

   «Hanno subìto gravi danni. Motori e scudi fuori uso. Hanno perso anche il supporto vitale: fra mezz’ora sulle navi più piccole mancherà l’ossigeno» informò Terry. «Aspetti, c’è dell’altro. Rilevo dei droni agganciati agli scafi. Sono due o tre per vascello, non capisco cosa...». I suoi occhi si sgranarono. «Capitano, sono bombe al tricobalto. Deve averle agganciate l’ISS Enterprise. Credo possa farle esplodere in qualunque momento. Se accadesse... sono abbastanza potenti da disintegrare i trasporti».

   «Possiamo disturbare il segnale?» chiese subito Chase.

   «Ci posso provare, ma i nostri alter-ego avranno previsto questa mossa. Anche bloccando il segnale, è probabile che le bombe abbiano un timer» rispose Terry.

   «Ecco la trappola» disse Chase. «I Romulani sono l’esca. E da un momento all’altro...».

   «L’ISS Enterprise ci chiama» disse Grog.

   «... ci detteranno le condizioni» concluse Chase. «Apra un canale».

   Sullo schermo apparve la plancia dell’ISS Enterprise, inquadrata ad ampio raggio. Il Capitano Chase se ne stava sulla poltrona isolata e simile a un trono, con l’aria tronfia di chi ha già vinto la partita. Ilia da una parte e Trudy dall’altra gli facevano ala: una mente lobotomizzata e un computer progettato per servire, i trofei del Capitano.

   «Lieto di rivederti, vecchio mio» disse il Chase dello Specchio. «Avrai notato che quei droni agganciati agli scafi contengono una discreta quantità di tricobalto».

   «Loro non c’entrano» disse Alexander Chase.

   «Come?» chiese il Chase-Specchio, sbattendo gli occhi.

   «È una faccenda fra te e me. Quei civili non devono essere coinvolti».

   «Beh, si da il caso che lo siano già» sorrise il Chase-Specchio. «Non sarebbe successo, se fossi riuscito a ucciderti al primo scontro. La tua abilità nel sopravvivere ha portato a questa spiacevole situazione... che si concluderà con un bagno di sangue, se non fai esattamente ciò che ti dico».

   «Sei un vigliacco» lo gelò Chase. «Mi avete sentito, voi là dietro?» si rivolse agli ufficiali dell’ISS Enterprise, facendo un ampio cenno col braccio. «Il vostro Capitano sa di essere un debole, perciò ha architettato quest’inganno. La vostra fiducia in lui è mal riposta... vi porterà alla rovina». Guardò il suo alter-ego negli occhi e vide montargli la collera. Se aveva capito la psicologia dell’Impero Terrestre, gli aveva assestato un colpo basso.

   «Speravo che potessimo avere una conversazione civile, tu e io. Da uomo a uomo» disse il Chase-Specchio, pallido come un cadavere. «Siccome non è così, ti parlerò come si fa a un animale. Vieni qui, Alex. Vieni dal tuo padrone» ordinò, con un orribile tono in falsetto, impregnato d’odio. «Altrimenti ucciderò ogni Romulano su quelle navi. Poi distruggerò la tua nave. E farò sfilare i rottami davanti al Palazzo Imperiale» aggiunse, in tono più basso e ringhioso. «Hai dieci minuti per decidere, a partire da ora» sentenziò, facendo un gesto secco a Trudy, che recepì l’ordine. «Se ti arrendi, dovrai abbassare gli scudi e teletrasportarti sulla mia nave... facciamo nell’hangar 1. Non vedo l’ora d’incontrarti faccia a faccia. Così i nostri equipaggi vedranno chi è il solo e unico Capitano Chase». Un altro gesto e il collegamento fu troncato. Sullo schermo riapparve l’ISS Enterprise, vasta sagoma nera che spiccava sulla nebulosa verdissima. In un angolo stavano i trasporti romulani, la cui sorte era appesa a un filo.

   Sulla plancia dell’USS Enterprise cadde un silenzio di tomba. Tutti aspettavano una parola di Chase, che però ne era terribilmente a corto. La sua mente esaminava il problema da ogni angolazione, senza trovare una via d’uscita.

   «Forse non doveva prenderlo così di petto» mormorò Grog.

   «Aveva già predisposto l’ultimatum; me l’avrebbe lanciato comunque» ribatté Chase.

   «Capitano, non ceda al ricatto» raccomandò T’Vala, girandosi verso di lui. «Il suo alter-ego la torturerà, per strapparle informazioni sulla Flotta Stellare. Poi la torturerà ancora, per soddisfare il suo patologico desidero di rivalsa. Infine la ucciderà nel più crudele dei modi».

   «E questo non salverà i Romulani. Sono pronto a scommettere che li farà esplodere comunque, solo perché... può farlo» aggiunse Nalanda.

   «Se abbassiamo gli scudi, sarà la fine» rincarò Terry. «L’ISS Enterprise aprirà il fuoco, o teletrasporterà altri esplosivi a bordo, o sequestrerà gli ufficiali di plancia. O tutte queste cose assieme. Forse è questo il loro piano... non tanto averla a bordo, ma indurci ad abbassare le difese. Nemmeno il mio scafo può reggere al fuoco pesante di un’altra classe Universe. Sarò distrutta in pochi secondi».

   «Signori, avete detto tutti cose sensate» disse Chase. Si alzò e andò al centro della plancia, rivolgendosi a tutti i presenti. «Se fosse solo per me, potrei anche consegnarmi. Ma abbiamo constatato che quelli dello Specchio non hanno onore. Nell’attimo in cui ci vedranno senza scudi, attaccheranno con tutto quello che hanno» proseguì. «Poi torneranno nello Specchio con la Materia Rossa. Laggiù, probabilmente, il mio alter-ego si metterà a distruggere pianeti, finché i superstiti lo proclameranno Imperatore. E se tornerà mai qui, lo farà con una flotta d’invasione. Ecco perché, indipendentemente dalla nostra salvezza, dobbiamo fermare l’ISS Enterprise. Terry, quanto manca?».

   «Sette minuti e venticinque secondi».

   «Tenga il conto, minuto per minuto» ordinò Chase. Il suo cervello andava a mille. Sette minuti erano un sacco di tempo... un’eternità. Sette minuti potevano cambiare il mondo. Doveva essere così.

   «Sette minuti».

   «Terry, questo è un buon momento per usare le subroutine tattiche» disse Chase, sentendosi la fronte sudata. Sapeva che nel database dell’IA c’erano tutti i trattati di strategia militare: da Sun Tzu a Garth di Izar, da Kahless a Kathryn Janeway. Era il momento di vedere se servivano a qualcosa.

   «Ho elaborato 126 possibili strategie, che ci permetterebbero di respingere l’altra Enterprise o anche distruggerla» rispose in fretta Terry. «Ma in nessuno di questi scenari riesco a salvare i Romulani. E non ho tempo di spiegarveli tutti. Col suo permesso, ne selezionerò uno – in base alle probabilità di successo – e lo metterò in atto, assumendo il controllo diretto dei sistemi».

   «Se la Flotta Stellare servisse a questo, non ci saremmo noi nelle astronavi» commentò T’Vala, insolitamente dura. «Lei può elaborare quanti scenari vuole, ma il Capitano fornisce un apporto creativo. E prende le decisioni».

   «Il Capitano lotta contro il suo alter-ego: questo può condurre solo all’annientamento reciproco» rispose Terry. «Sei minuti».

   «Mettiamola come volete, ma i Romulani sono spacciati» disse Nalanda. «Non resta che concentrarci sulla battaglia».

   «La Regola dell’Acquisizione numero 76 dice: “Ogni tanto dichiarate la pace, questo confonderà a morte il nemico”» suggerì Grog.

   «Korris a plancia, Terry mi ha informato della situazione» si udì la voce del dottore. «Vi prego di non rinunciare a salvare quei civili. La Flotta Stellare esiste per questo».

   «Dottore, sono aperto ai suggerimenti» disse Chase.

   «Se riuscissimo a levare i droni esplosivi dagli scafi romulani, li salveremmo senza piegarci al ricatto» suggerì il medico.

   «Eh, già». Una scintilla d’intuizione si accese nella mente del Capitano, che guardò l’ISS Enterprise con occhi del tutto nuovi. Le loro astronavi erano identiche: nell’occultamento, negli armamenti, nelle capacità di teletrasporto. Solo l’ideologia che le muoveva era diversa. E se...

   «Cinque minuti» avvertì Terry. «Capitano, mi permetta di...».

   «So cosa fare» l’interruppe Chase, fissando l’ISS Enterprise come se potesse vederne in faccia il Capitano. «Ti ho in pugno» sussurrò.

 

   I gas della Fenditura Bassen delineavano complessi arabeschi nel vuoto. Essendo in movimento, questi drappi erano sempre cangianti, anche se solo una lunga osservazione poteva mostrarlo. Il colore verde smeraldo era dovuto all’insolita concentrazione di ossigeno, eccitato dalla radiazione ionica delle stelle più vicine. Il gas era più tenue dell’atmosfera terrestre: solo l’effetto cumulativo dovuto alla profondità dava alla nebulosa la sua brillantezza. Le radiazioni, inoltre, ostacolavano le comunicazioni con l’esterno. Nella Fenditura Bassen nessuno poteva sentirti gridare.

   Le due Enterprise sostavano a breve distanza, muso contro muso. La ISS Enterprise era in posizione leggermente soprelevata. L’USS Enterprise, d’altro canto, aveva assunto una posizione difensiva nei confronti dei trasporti romulani. Non si era esattamente frapposta fra questi e il nemico, ma stava loro a fianco, in posizione più avanzata. Era come un cane pastore che cerca di difendere le pecore da un grosso lupo. Ma il lupo aveva agganciato delle bombe al tricobalto alle sue prede e il cane pastore non poteva farci nulla... non finché aveva gli scudi alzati ed era sotto tiro.

   «Tre minuti» avvertì Trudy, che teneva il conto.

   «Allora, mio caro gemello?» chiese il Capitano Chase dal ponte dell’ISS Enterprise. Aveva le dita intrecciate e fissava l’USS Enterprise sullo schermo, con crescente impazienza. «Qual è la tua mossa? Conosco il tuo stupido regolamento... t’impone di salvare gli alieni anche a costo della vita. Se lo fai, sei morto. Se non lo fai... non sei poi così diverso da me» sogghignò.

   «Mio signore, secondo le mie subroutine tattiche è probabile che i federali terranno gli scudi alzati» disse Trudy. «Sanno che altrimenti li spazzeremo via».

   «Probabile quanto?» chiese Chase.

   «Al 96%» rispose l’IA. «Ciò significa che rinunceranno a salvare i Romulani e ci daranno battaglia».

   «E noi siamo pronti» disse Chase. «Appena i loro scudi avranno un cedimento, teletrasporterai in plancia un ordigno al tricobalto. Sarà la fine della loro storia».

   «E l’inizio della tua leggenda» sorrise Ilia.

   «Due minuti» avvertì Trudy.

   «Tenetevi pronti» disse Chase. Malgrado la sua millantata sicurezza, aveva le tempie sudate e gli occhi iniettati di sangue. Le mani stringevano i braccioli della poltrona come se volessero strapparli. Fissò l’USS Enterprise come se ne vedesse il Capitano... e all’improvviso non vide più niente. Perché l’USS Enterprise si era occultata.

   «Cosa?!» esalò.

   «Il nemico riconosce la sconfitta e si dà alla fuga» suggerì l’Ufficiale Tattico.

   «Vogliono privarmi della gloria, i vigliacchi!» sibilò Chase. «Ma non m’impediranno di distruggere i trasporti. Ripeterò la strategia con un altro convoglio... anzi, la prossima volta attaccherò un intero pianeta. Chase deve presentarsi, se non vuole che annienti la sua preziosa Federazione, un mondo alla volta!» ringhiò.

   «Capitano, li rilevo di nuovo» informò Trudy. Mentre parlava, l’USS Enterprise tornò visibile. Era nella stessa posizione di prima.

   «Stato?».

   «Ho difficoltà ad analizzarli, forse usano un campo di dispersione. Ma sembra che gli scudi siano ancora attivi» rispose Trudy, a disagio.

   «Vogliono instillarci il dubbio. Molto astuto, Capitano... ma non ti basterà» disse Chase, mimando un applauso. «Quanto manca allo scadere dell’ultimatum?».

   «Trenta secondi».

   «Quando arriverà a zero, distrugga i trasporti».

   «Sì, mio signore... aspetti, ci chiamano» disse l’IA.

   «Apra un canale».

   «Capitano Chase a Capitano Chase... mi arrendo» disse il federale, comparendo sullo schermo. Rispetto a pochi minuti prima, sembrava un’altra persona. Era un uomo curvo, avvilito, spezzato. L’imperiale sorrise, conscio di essere stato lui a spezzarlo, con la sua strategia superiore.

   «Risparmi il convoglio... e in nome della Terra, nostra comune patria, risparmi i miei uomini» supplicò il federale. «Loro obbedivano ai miei ordini. Lei è un soldato, lo capisce. Se vuole vendetta su di me, se la prenda. Ma lasci che sia la fine della contesa».

   «Tre, due uno...» contò Trudy.

   «Ferma!» ordinò il Chase-Specchio, accompagnandosi con un gesto repentino. «Capitano Chase, ero certo che sarebbe giunto a più miti consigli. Ma non creda che il suo spettacolo di poco fa sia passato inosservato. Perché ha occultato la nave?» inquisì.

   «Ero sul punto di ritirarmi» rispose Chase. «Ma non posso farlo. Non vivrei, sapendo che quei civili sono morti al mio posto».

   «Vede, Capitano? Lei credeva che la sua moralità facesse di lei un uomo migliore, un uomo superiore» disse il Chase-Specchio, in tono quasi comprensivo. «Ma guardi dove l’ha portata. Io posso prevedere tutte le sue mosse perché, pur essendo forte, comprendo la debolezza. Lei invece non può prevedere le mie perché, essendo debole, non può capire la forza. Ma almeno ha avuto il coraggio di consegnarsi, e questo in parte la riabilita. Contrariamente a ciò che crede, noi non siamo barbari. Accolgo la sua preghiera e le prometto che l’esecuzione sarà rapida e indolore».

   «L’esecuzione, già» mormorò Chase. Si fissarono negli occhi, indovinando il non detto. Il Chase-Specchio aveva promesso magnanimità nell’esecuzione, non nell’interrogatorio.

   «Le mie condizioni sono immutate: abbassi gli scudi e si teletrasporti nel mio hangar 1... anzi, saremo noi a teletrasportarla» si corresse l’imperiale. «Non faccia scherzi, o questa nebulosa diverrà ancora più verde col sangue romulano».

   «Non desidero nulla del genere; ha la mia parola» disse il federale. Lo fissò negli occhi, e perfino l’imperiale non vi lesse altro che sincerità.

   «Bene, allora... fra tre minuti abbasserete gli scudi e noi faremo altrettanto» disse il Chase-Specchio. «Lei sarà mio prigioniero. Trenta secondi dopo farò detonare i droni-bomba: è il tempo che concedo alla sua nave per imbarcare i Romulani».

   «Potrebbero non bastare...» azzardò Chase.

   «Sono appena sufficienti, in base alle capacità di teletrasporto della mia nave... e quindi anche della sua» puntualizzò il Chase-Specchio. «Così mi assicurerò che il vostro teletrasporto sia impegnato, mentre abbiamo gli scudi abbassati».

   «Mi prometta che dopo lascerà andare la mia nave, con l’equipaggio e i rifugiati» disse Chase.

   «Sì, potranno ritirarsi» concesse l’imperiale. «Non ho più ragione di punirli».

   «Intesi... da Capitano a Capitano» disse Chase, e chiuse la comunicazione. Subito drizzò la schiena e riprese il suo cipiglio autorevole.

   «Terry, ora dipende tutto da lei. Dovrà essere rapida e precisa».

   «Sì, signore... non si preoccupi» garantì Terry. «Sarà molto più facile col suo piano, che se dovessi teletrasportare diecimila persone in trenta secondi».

   «Ma il rischio è alto» disse Chase, sentendo il cuore che batteva forte. «Signori, se qualcosa andasse storto... sappiate che è stato un privilegio prestare servizio con voi».

   «Un minuto allo scambio» avvertì Terry.

   «L’ora della verità» disse Chase gravemente, risedendosi al suo posto. Il suo piano gli sembrava ancora disperato e si rimproverava di non averne trovato uno più sicuro. Ma era il meglio che aveva saputo inventarsi nel poco tempo a disposizione. E confidava che cogliesse impreparato il suo implacabile alter-ego.

 

   «Un minuto allo scambio» avvertì Trudy.

   «L’ora del trionfo» disse Chase, ma il suo sguardo era ancora iniettato di sangue. «Ricorda: devi teletrasportare l’equipaggio di plancia e lasciare al suo posto la bomba al tricobalto».

   «Sì, mio signore. Quando saranno in mano nostra, ho il permesso di procedere agli interrogatori?» chiese L’IA.

   «Puoi interrogare tutti, ma non Chase. Lui è mio» rispose truce il Capitano.

   «Sì, signore. Trenta secondi allo scambio» avvisò Trudy. «Venti... dieci... cinque... ora!».

   Le due Enterprise abbassarono gli scudi simultaneamente. Trudy cercò subito di agganciare l’equipaggio di plancia, ma ebbe strane letture dell’USS Enterprise. Era come se la nave non esistesse, a parte il ponte di comando. Ne dedusse che i federali avevano attivato un campo di dispersione, nella speranza di proteggere il resto della nave. Poco male: a lei bastava avere un varco in plancia. Agganciò una quindicina di segnali: il capitano Chase e i suoi ufficiali. Come da ordini, li teletrasportò tutti nell’hangar 1, dove i Corpi Speciali li attendevano con le armi spianate. Al tempo stesso, Trudy trasferì sulla plancia dell’USS Enterprise un ordigno al tricobalto, programmato per esplodere entro pochi secondi. Era abbastanza potente da mettere fuori uso l’astronave federale, lasciandola in balia degli imperiali.

   Quindici bagliori di teletrasporto illuminarono l’hangar 1. Il Capitano Chase e l’equipaggio di plancia si guardarono intorno confusi. Davanti a loro c’era lo Squadrone della Morte dell’ISS Enterprise, con i fucili phaser puntati. «Mani in alto!» intimò il Maggiore Wu, puntando l’arma al petto di Chase. «Siete prigionieri dell’Impero Terrestre. Non fate resistenza o sarete giustiziati!».

   «Lo sapevo... ha preso anche voi...» mormorò Chase, guardando afflitto i suoi ufficiali. Ai federali non restò che alzare le mani, ma il Capitano avanzò verso i soldati imperiali. Aveva lo sdegno scolpito in volto. «Il vostro Capitano è un bugiardo e un vigliacco. E codardi siete voi, che gli obbedite!» sibilò.

   «Taci!» berciò il Maggiore. Lo colpì allo stomaco con il calcio del fucile phaser, facendolo piegare in due. Poi arretrò di qualche passo e contattò la plancia. «Maggiore Wu a Capitano, abbiamo i prigionieri. Sembrano disarmati, ma procediamo alla perquisizione».

 

   «Ostaggi a bordo» disse Terry. «Ehi, ma...!» esclamò scioccata. Una terza Enterprise era apparsa in campo, proprio di fianco alla nave federale, in posizione lievemente soprelevata.

   «Cosa?!» esalò Chase, scattando in avanti sulla poltroncina. «Su gli scudi, presto!».

   «Scudi alzati... ma ho rilevato teletrasporti multipli sulla nostra nave» avvertì Trudy.

   «Quanti?» chiese il Capitano con un filo di voce.

   «Quaranta. Tutti nei punti critici, compresa la sala macchine» rispose l’IA con voce incrinata. Nei suoi occhi rossi covava la paura.

   Chase tremò da capo a piedi. Quaranta erano le cariche esplosive agganciate ai trasporti romulani. Fissò le due Enterprise sullo schermo, chiedendosi che diavoleria fosse quella. D’un tratto la prima Enterprise – quella su cui avevano trasferito la bomba – si dissolse. Al suo posto rimase una navetta di grossa taglia. Lo scafo era coperto di strane antenne, che Chase comprese essere proiettori olografici.

   In un lampo, l’imperiale capì la strategia dei federali: nel momento in cui si erano occultati, avevano spostato l’USS Enterprise, sostituendola con la copia olografica generata dalla navetta. La vera Enterprise era rimasta invisibile. Quando le navi avevano abbassato gli scudi, la ISS Enterprise si era concentrata sul bersaglio sbagliato, mentre l’USS Enterprise aveva approfittato dei pochi secondi a disposizione per fare la sua mossa. Non aveva salvato i Romulani, perché non ne aveva il tempo. Ma aveva fatto di peggio.

   La bomba al tricobalto esplose, distruggendo la navetta irta di antenne. A qualche km di distanza, l’USS Enterprise – che aveva rialzato gli scudi – rimase illesa.

   «Maggiore Wu a Capitano, abbiamo i prigionieri. Sembrano disarmati, ma procediamo alla perquisizione». Era il capo dei Corpi Speciali, che non aveva idea della situazione. «Ehi, ma... Capitano, sono svaniti! Erano tutti ologrammi!» si corresse, sbalordito.

   «Proiezioni isomorfe con Emettitori Autonomi» mormorò Trudy. «Dobbiamo...». Non fece in tempo a concludere la frase. Quaranta ordigni al tricobalto, tratti dagli scafi romulani e ricollocati nei punti più delicati dell’ISS Enterprise, detonarono simultaneamente. La sala macchine, le sale controllo ausiliarie, il deflettore di navigazione, gli iniettori di plasma, le armerie, le camere di lancio siluri furono distrutti. Lo scafo fu squarciato in più punti: interi brandelli ne furono strappati e andarono a perdersi nello spazio. Al loro posto rimasero paurose voragini, piene di esplosioni. Un terzo dell’equipaggio morì sul colpo, un terzo rimase ferito più o meno gravemente. Tutti gli altri furono colpiti dalle radiazioni.

   In sala macchine, Grenk aveva sentito il ronzio del teletrasporto, ma sulle prime non capì che cosa era stato portato. Gli ci volle mezzo minuto per trovare, in un angolo buio della sala, la bomba al tricobalto. Era una di quelle che lui stesso aveva preparato, poche ore prima. Si precipitò a controllare, e aguzzando gli occhietti porcini vide il timer. Meno tre secondi... due... uno...

   «Oh, yotz» disse il Tellarita, maledicendosi per aver parlato al Capitano dell’Universo oltre lo Specchio. A pochi metri da lui c’erano il nucleo quantico e la camera di contenimento della Materia Rossa. Ma fu l’esplosione del tricobalto a ucciderlo. Con lui morì il personale della sala macchine e lo squadrone dei Corpi Speciali. Il nucleo quantico fu distrutto. E la camera di contenimento fu ridotta in atomi.

   Non più confinata dal campo di forza, la Materia Rossa schizzò in tutte le direzioni, entrando in contatto con i detriti dei ponti circostanti. La sua natura supercritica provocò collassi gravitazionali immediati. I pezzi dell’Enterprise si contrassero fino a dimensioni subatomiche, superando il raggio di Schwarzschild, oltre il quale nemmeno i fotoni potevano sfuggire alla loro gravità. I pozzi gravitazionali divennero infiniti. Erano nate delle singolarità quantiche, volgarmente note come “buchi neri”. Le gocce di Materia Rossa ancora presenti lì attorno ne aumentarono l’instabilità. In una frazione di picosecondo, le singolarità si fusero, creando un solo buco nero più massiccio. Nel marasma di esplosioni e detriti, il buco nero cominciò a risucchiare altra materia, a ritmo esponenziale. Avrebbe continuato a crescere finché ci fosse stata materia da assorbire.

 

   Sulla plancia dell’USS Enterprise, Chase e gli ufficiali fissarono gli scoppi che dilaniavano l’astronave imperiale. Per un attimo l’ISS Enterprise fu invisibile, nascosta dall’esplosione, e Chase pensò che fosse stata distrutta. Ma la fiammata si dissolse nello spazio e l’astronave ricomparve, così lacerata da essere a stento riconoscibile. Suo malgrado, Chase provò ammirazione per la sua robustezza: qualunque altra nave sarebbe stata annientata da quelle esplosioni.

   «Rapporto danni».

   «Rilevo squarci multipli sullo scafo» disse Terry. «Tutti i sistemi sono fuori uso. E dalle letture gravitazionali posso affermare che la Materia Rossa è collassata».

   «Raddoppiamo la distanza» ordinò il Capitano. «Terry, continui a tenere d’occhio l’altra Enterprise. Cerchi di stabilire se ci sono superstiti che possiamo salvare».

   «Sì, Capitano... ma la singolarità cresce a ritmo esponenziale. Fra pochi minuti avrà consumato tutta la nave» avvertì l’IA.

 

   «Rapporto danni!» gridò il Capitano Chase dell’ISS Enterprise. La plancia era in fiamme, gran parte degli ufficiali erano morti. Lui stesso era stato proiettato in avanti, dritto contro la postazione del timoniere, ed era stato fortunato a non rompersi la testa. Aveva però un taglio sulla guancia e il sangue gli usciva anche dal naso. Lo schermo principale era inattivo, come quasi tutti i comandi.

   «Sala mcchh... distrttt... armi e scudi fuorrsshhh... motori inattivi... supprtvit inatt...» biascicò Trudy. Con il 90% dei suoi circuiti distrutto, aveva difficoltà a formulare frasi coerenti. La sua proiezione isomorfa sfarfallò: pezzi del corpo apparivano e sparivano, dissolvendosi nella nebbia informatica. Gli occhi rossi lampeggiavano come semafori. «Perdita del contn... Materia Ross... brzzzzttt…». Trudy divenne un bagliore sfocato, fisso al centro della plancia, che non rispondeva più agli ordini.

   «La Materia Rossa!» gemette Ilia, rialzandosi a fatica. Aveva un lato del volto ustionato e un principio d’incendio ai capelli. Riuscì a spegnerseli con le mani e le maniche. «L’Enterprise collassa, dobbiamo fuggire!» gridò.

   «Non c’è tempo di raggiungere un hangar. Né le capsule» disse Chase, avvicinandosi. La prese fra le braccia e la sorresse, perché si stava accasciando. «È finita... ci siamo battuti e abbiamo perso...» aggiunse con voce roca.

   «Non è giusto!» singhiozzò Ilia. «Eravamo così vicini... potevamo vincere... se solo...».

   «Se solo non fossi stato così cieco» ammise Chase, stringendola forte. Le baciò il volto ferito e rigato di lacrime. «Ero così concentrato su quel che potevo avere, da non scorgere ciò che avevo già. Tu e l’equipaggio ne avete pagato il prezzo. Mi dispiace, tesoro... perdonami, se puoi». Le paratie scricchiolavano intorno a loro. Non era un problema della plancia. Tutta l’Enterprise stava collassando: il suo scheletro di yiterium gemeva e si rompeva. Restavano pochi secondi.

   «Ti perdono, amore mio» disse Ilia, riuscendo a sorridere fra i singhiozzi. «Ricordi? Ho promesso che sarei rimasta con te fino all’ultimo». I lamenti dello scafo aumentarono. Le paratie cominciavano ad accartocciarsi.

   «Sapevamo che poteva finire così. Almeno siamo insieme... non è il modo peggiore di andarsene...» mormorò Chase, stringendola al petto e seppellendo il viso fra i suoi capelli ramati.

   «Non lo è... finché siamo insieme...» convenne Ilia. Rimasero abbracciati, mentre le esplosioni crescevano intorno a loro e lo scafo si piegava.

 

   «Allora, riesce ad agganciare qualcuno?» chiese il Capitano Chase dell’USS Enterprise.

   «Negativo, ci sono troppe interferenze elettromagnetiche e gravitazionali» rispose Terry.

   I federali fissarono la nave condannata. La ISS Enterprise si piegò e si accartocciò come se fosse di carta stagnola. Il movimento, dapprima lento, crebbe a ritmo esponenziale. Le inarrestabili leggi della fisica fecero il loro corso. L’orgogliosa ammiraglia dell’Impero Terrestre – la nave che aveva sbaragliato flotte nemiche, bombardato pianeti, terrorizzato interi settori – implose silenziosamente. Tutti i suoi atomi furono compressi in un punto, circondato da un microscopico orizzonte degli eventi. Solo i sensori di Terry potevano localizzarlo: un piccolo mostro spaziale, impotente per via della distanza. Avrebbe assorbito un po’ di gas nebulari nei milioni di anni a venire, ma non sarebbe mai cresciuto molto. E la Flotta Stellare avrebbe aggiornato le sue mappe, avvertendo le astronavi del pericolo.

   «È finita» disse Terry. «Registro la posizione del micro buco nero».

   Il Capitano risedette stancamente in poltrona. Ora che l’adrenalina della battaglia lo stava lasciando, si sentiva spossato. Aveva neutralizzato l’Enterprise dello Specchio e tutto il carico di Materia Rossa, salvando al tempo stesso i rifugiati. La sua nave e il suo equipaggio erano illesi. Tutto questo gli dava sollievo. Ma la morte dei loro alter-ego lo aveva scosso profondamente. Si chiese in che modo il suo gemello dello Specchio aveva affrontato la morte.

   «I Romulani ci chiamano» avvisò Grog.

   «Apra un canale».

   «Qui è il Capitano Velek della Apnex» disse un Romulano, comparendo sullo schermo. Il tipico caschetto di capelli neri era in disordine e sulla guancia gli correva un taglio verde, rimarginato in fretta con il kit da pronto soccorso. Alle sue spalle, anche gli altri ufficiali sembravano provati; ma erano vivi. «Abbiamo visto tutto. A nome della Repubblica, voglio dirvi grazie».

   I Romulani intorno a lui applaudirono. Non era un gesto comune per la loro specie; Chase capì che lo facevano in segno di rispetto. «A titolo personale, Capitano, aggiungo che da oggi ha un amico nella Repubblica Romulana» aggiunse Velek.

   «Ne sono lieto» rispose Chase, alzandosi. «In questi tempi difficili, niente è prezioso quanto la fiducia. A conferma di questo, permetteteci di aiutarvi. So che le vostre navi hanno subito gravi danni. Avete i motori in avaria e il supporto vitale disattivato...».

   «In effetti comincia a fare freddo qui» ammise Velek. «E tra poco sulle navi più piccole mancherà l’ossigeno. Gradiremo qualsiasi aiuto».

   «L’Enterprise è grande abbastanza da accogliervi tutti» assicurò Chase. «Preparatevi al teletrasporto. Se avete carichi particolari, useremo anche le navette. La nostra Intelligenza Artificiale, Terry, si coordinerà con voi per le operazioni».

   «Eccellente!» sorrise Velek. «Avverto subito le altre navi. E, Capitano...».

   «Sì?».

   «Quando avrà sbarcato i civili su Gamma Pavonis, vorrei che riaccompagnasse me e gli ufficiali su Nuovo Romulus. Così potrò riferire al Senato ciò che ha fatto oggi. Sono certo che il Pretore Neral ne sarà favorevolmente colpito».

   Chase scambiò un’occhiata con Terry. Erano anni che la Federazione premeva sul Senato romulano per ottenere il suo aiuto contro i Tuteriani. Forse questa era la volta buona. «Sarà un piacere riaccompagnarvi» disse.

 

   Il trasferimento dei civili fu completato con calma, sfruttando il teletrasporto e le navette. Parecchi Romulani erano stati feriti nell’attacco iniziale dell’ISS Enterprise; Chase avvertì Korris di occuparsene. Le infermerie dell’Enterprise furono messe a dura prova, ma i medici gestirono l’emergenza.

   Poi, mentre squadre miste romulane e federali cercavano di prolungare il supporto vitale sui trasporti, si procedette a trasferire il carico. Non era molto: le famiglie romulane avevano portato solo lo stretto indispensabile. Alla fine si rinunciò a salvare i trasporti, preferendo saccheggiarli anche delle provviste e delle parti di ricambio. Come promesso da Chase, infatti, l’Enterprise riusciva ad alloggiare tutti i Romulani. Bisognava ringraziare il fatto che i civili federali se ne fossero andati, svuotando gran parte della nave. L’Enterprise lasciò i trasporti romulani alla deriva, proseguendo l’attraversamento della Fenditura Bassen. Le nubi verdi non celavano più alcuna minaccia.

   Quella sera Chase e i suoi ufficiali cenarono con il Capitano Velek e i suoi sub-comandanti. Il dottor Korris annunciò che i feriti giunti sull’Enterprise in condizioni critiche erano tutti fuori pericolo. Per festeggiare, Velek offrì della birra romulana, che si era premurato di salvare dal suo carico. Poi ci fu una lunga chiacchierata sullo stato della Federazione e della Repubblica. I due Capitani convennero che, siccome le anomalie colpivano indiscriminatamente l’una e l’altra, l’opzione più logica era aiutarsi. Il dialogo fu facilitato da T’Vala, che sapeva come parlare ai Romulani per dare ancor più forza agli argomenti di Chase. Ad ogni brindisi, le speranze dei federali crescevano.

   «Una serata niente male» disse Korris verso la fine del ricevimento, prendendo da parte il Capitano.

   «Insomma... temo di aver esagerato con la birra romulana» rispose Chase, avvertendo un cerchio alla testa. Si massaggiò la fronte.

   «Mi riferivo agli ospiti» precisò il dottore, osservando Velek che chiacchierava fitto fitto con T’Vala. «Sembrano davvero nostri amici, ora».

   «Lo spero» annuì Chase. «A proposito, la ringrazio per il lavoro in infermeria. Nessuna vittima... un risultato eccellente».

   «Alcuni sono ancora in terapia intensiva. In effetti è meglio che torni a controllarli» spiegò Korris, posando il suo cocktail.

   «Dottore... mi spiace per la nostra discussione nelle Badlands» disse Chase, osservando il mezzo Cardassiano di sottecchi. «Anche se possiamo avere delle divergenze, sappia che la stimo e apprezzo il suo lavoro sull’Enterprise».

   «La stima è reciproca, Capitano» disse Korris. «Ed è un bene che io mi sbagliassi sull’ISS Enterprise. Che fosse o meno la sua balena bianca, alla fine ce la siamo cavata. Mi chiedo solo... è sicuro che non fosse possibile salvare nessuno di loro?».

   «Le interferenze del buco nero erano troppo forti» spiegò Chase. «Terry può spiegarle i dettagli».

   «Ma se avesse potuto salvare il suo doppione, lo avrebbe fatto?» insisté Korris. Si fissarono negli occhi per qualche secondo.

   «Sì» disse infine Chase. «Ma non per pura cortesia».

   «Che intende?».

   «Quando Grenk e T’Vala sono stati nello Specchio, hanno scoperto che il mio alter-ego era agli ordini dell’Ammiraglio N’Rass» spiegò il Capitano.

   «Sarebbe il corrispettivo di Serleen? La Caitiana che la salvò sull’Enterprise-I?» chiese Korris, inquieto.

   Chase annuì. «Grenk e T’Vala affermano che è l’unico Ammiraglio non Umano dell’Impero Terrestre. Deve avere qualità non comuni... e avendo conosciuto Serleen, non stento a crederlo» spiegò. «La domanda è: che farà, vedendo che l’ISS Enterprise non torna?».

   «Concluderà che l’abbiamo distrutta» ipotizzò Korris.

   «E crede che ce la farà passare liscia?» chiese il Capitano. «Ricordi la dottrina dell’Impero Terrestre: mai perdonare un affronto. E distruggere l’ammiraglia di Flotta è il peggiore che potevamo infliggergli» sospirò. «La reazione di N’Rass sarà selvaggia. Ecco perché vorrei aver salvato il mio alter-ego: per prepararmi alla vendetta dell’Impero».

   Il Capitano e il dottore si osservarono per lunghi momenti, senza aggiungere altro. Poi il medico si congedò e tornò ai suoi doveri.

 

   Come d’accordo, l’Enterprise sbarcò i passeggeri su Gamma Pavonis. Era la prima volta che una colonia federale accoglieva profughi romulani, da quand’era finita la loro guerra civile. Poi l’Enterprise ripartì, per riportare a casa gli ufficiali. Il viaggio fu completato in pochi giorni e senza incidenti.

   «Siamo a Nuovo Romulus» disse T’Vala, mentre uscivano dalla cavitazione. Un bel pianeta verde e azzurro, circondato da cantieri spaziali, galleggiava sullo schermo. «Ho sempre desiderato vederlo» ammise la timoniera.

   «Anch’io non c’ero mai stato» disse Chase.

   «Vi piacerà» assicurò Velek, che sedeva sulla poltrona del Primo Ufficiale «Certo non può eguagliare la bellezza dell’antico Romulus...» sospirò, pensando ai rovesci della Storia.

   Quel pianeta era diventato capitale quasi per caso. Sino alla fine del XXIV secolo si chiamava Mol’Rihan ed era una colonia romulana. Poi, nel 2387, la supernova di Hobus aveva distrutto Romulus e Remus, gettando l’Impero nella più grave crisi della sua storia. Al termine della Guerra Civile erano emerse due fazioni. Quella dell’Ammiraglio Donatra si era insediata lì, ed essendo la più democratica aveva beneficiato degli aiuti federali. Questa fazione comprendeva membri della Resistenza Remana e del Movimento per la Riunificazione con Vulcano (orfano di Spock, sacrificatosi per fermare la supernova). Con il tempo si era sviluppata nella Repubblica Romulana, reclamando gran parte dello spazio imperiale, ma governandolo con più tolleranza.

   L’altra fazione, guidata dall’Imperatrice Sela, si era stabilita su Rator III, sfruttando gli agenti della Tal’Shiar e persino mercenari alieni, come gli Hirogeni, per rafforzarsi. Con il tempo si era organizzata nello Stato Imperiale Romulano, un regime dispotico che governava col terrore. Dopo la morte di Sela, lo Stato Imperiale era entrato in un’inarrestabile decadenza, perdendo un sistema dopo l’altro; ma i suoi pianeti centrali erano ancora impenetrabili.

   «Ci chiamano dalla capitale» disse Grog.

   «Sullo schermo» ordinò Chase. Lui e Velek si alzarono, mentre appariva il Pretore Neral in persona.

   Era un Romulano avanti con gli anni, dai capelli grigi tendenti al bianco; uno degli ultimi nati sull’antico Romulus prima che la supernova lo distruggesse. «Salve, Enterprise. Qui è il Pretore Neral, che vi parla in rappresentanza del Senato» esordì.

   «Pretore...» salutò Velek, eseguendo il saluto militare.

   «Molto onorato» disse Chase. «Chiedo il permesso di sbarcare gli ufficiali che ho soccorso nella Fenditura Bassen».

   «Permesso accordato. Capitano Velek, mi aspetto al più presto il suo rapporto. Capitano Chase, ha la gratitudine del Senato e del popolo Romulano» disse il Pretore. «Spero accetterà la mia ospitalità: per stasera è fissato un ricevimento nella capitale».

   «Verrò con piacere. Vorrei portare il mio Ufficiale Scientifico, Tenente Comandante Terry, e il mio timoniere, Tenente T’Vala Shil» disse subito Chase.

   «Sono le benvenute» annuì il Pretore. «E se lei vorrà parlare al Senato, le fisserò un’udienza nei prossimi giorni» aggiunse dopo una breve pausa.

   «La ringrazio, Pretore» disse il Capitano. «La Guerra delle Anomalie continua a inasprirsi e potremmo essere vicini a una svolta decisiva. Solo un profondo coordinamento fra i nostri governi può scongiurare la catastrofe».

   «Se avessimo raggiunto una simile intesa al tempo della supernova di Hobus, non le parlerei da qui» sospirò il Pretore. «Vediamo che si riesce a fare stavolta».

 

 

-Intermezzo 4:

 

200.000 anni fa

Luogo: Iconia

 

   Lo Scudo Planetario, sottoposto a un bombardamento troppo intenso, cedette di schianto. La sottile barriera energetica che per molte ore aveva protetto la superficie di Iconia si dissolse e il pianeta trascolorò dall’azzurro al suo vero colore verde e giallo. Non era l’ultimo cambiamento in programma.

   Le flotte della Coalizione scesero nell’orbita bassa, aprendo il fuoco con tutte le armi. Iccobarani, Dewani, Dinasiani: popoli che avevano beneficiato degli insegnamenti Iconiani, e che adesso si rivoltavano contro i maestri. Per millenni avevano temuto e riverito in ugual misura i “demoni dell’aria e delle tenebre”, che giungevano con misteriosi portali. Poi avevano imparato da loro. Leggi, tecnologie... persino la lingua Iconiana si era diffusa in decine di sistemi stellari. Forti dei loro portali, che permettevano di trasferirsi da un pianeta all’altro senza bisogno di astronavi, gli Iconiani avevano fondato l’Impero più vasto e longevo dai tempi di Tkon. Avevano prosperato per ventimila anni. Ma bastarono poche ore per ridurre in cenere la superficie del loro pianeta.

   Le grandi città caddero una dopo l’altra: sgretolate dai laser, dai colpi al plasma, dagli ordigni nucleari. Funghi atomici si accendevano ogni pochi secondi, rilasciando radiazioni mortali sulle città. Il vento trasportava il fallout radioattivo ancora più lontano. Visto dallo spazio, il pianeta si chiazzò di rosso e bruno. Le macchie si allargarono, si unirono, consumarono le ultime isole verdi.

   Naturalmente gli Iconiani non si arresero senza combattere. Nel momento in cui lo Scudo Planetario cedette, i cannoni a particelle e i lanciamissili installati sulla superficie colpirono le navi attaccanti. Se fosse stato solo per i ribelli, la difesa avrebbe potuto reggere. Ma al centro della Coalizione c’era qualcosa di più oscuro e micidiale. Le Navi Vampiro e i Caccia Ombra dei Na’kuhl calarono su Iconia, eliminando le ultime difese. Le piccole astronavi nere volarono senza difficoltà in mezzo alle esplosioni.

   «Colpite i portali iconiani» ordinò la Leader Suprema dalla plancia della sua astronave, assai più grande delle altre. «Dobbiamo impedire ai civili di mettersi in salvo. Se gli Iconiani sopravvivranno, allora i nostri sforzi saranno stati inutili».

   «Milioni di civili sono fuggiti mentre lo Scudo Planetario era attivo» notò l’Ufficiale Tattico. «A quest’ora saranno sparpagliati in mezza galassia».

   «La nostra intelligence ci ha fornito l’elenco delle loro colonie. Quando avremo finito con Iconia, penseremo al resto» spiegò la Leader Suprema. «Sarà un lavoro tedioso, ma è necessario».

   «I nostri alleati non ci seguiranno così lontano» commentò l’Ufficiale Tattico. «Loro vogliono solo distruggere Iconia e impadronirsi dei portali».

   «Così gli ho promesso» sorrise la Leder Suprema. «Ma lei sa cosa fare, al momento giusto».

   «Sì, Leader Suprema» confermò l’Ufficiale Tattico, i cui occhi rossi scintillavano nella penombra della plancia.

   La distruzione di Iconia era il capolavoro della Leader Suprema. Per un secolo aveva tramato nell’ombra, istigando i popoli assoggettati a ribellarsi. Aveva fatto leva sulla loro invidia, sul loro desiderio di rivalsa. Gli aveva promesso che, con la distruzione degli Iconiani, avrebbero conquistato la loro tecnologia e con essa il loro benessere. Ma non era nella natura dei Na’kuhl condividere il bottino.

 

   Qualche ora dopo, di Iconia non restavano che macerie, sepolte sotto strati di nubi arancioni e brune. La superficie era ancora incandescente per gli incendi e le radiazioni, ma qua e là cominciavano a scrosciare le prime piogge acide. La vita, sia animale che vegetale, era stata spazzata via. Anche i piccoli mari erano diventati grigi o giallastri. Creature morte galleggiavano sulla loro superficie ribollente.

   «La prima fase della battaglia è terminata» disse l’Ufficiale Tattico.

   «Diamo inizio alla seconda» ordinò la Leader Suprema.

   La flotta della Coalizione si stava già sfaldando. Ogni specie radunava le sue navi e puntava verso le zone meno colpite di Iconia, dove sperava di trovare dei portali ancora in funzione. Ma quelle navi non toccarono mai la superficie. I Na’kuhl le assalirono alle spalle, martellandole con disgregatori violacei. Li tenevano accesi a lungo e li muovevano lungo gli scafi, squarciandoli. I vascelli della Coalizione esplosero uno dopo l’altro o precipitarono come stelle cadenti sulla superficie di Iconia, aggiungendo distruzione alla distruzione. Visto dallo spazio, l’emisfero in ombra del pianeta era rigato di bagliori, ognuno dei quali era un’astronave che precipitava.

   «La Coalizione è allo sbando» disse l’Ufficiale Tattico. «Molte navi cercano di fuggire».

   «Dobbiamo impedirlo» rispose subito la Leader Suprema. «Inviate i droni».

   La superficie nera dei vascelli Na’kuhl s’increspò come se fosse liquida. I piccoli droni a forma di zecca se ne staccarono a migliaia, riversandosi verso le navi sbandate e in fiamme. Perforarono gli scafi, assorbirono l’energia dei reattori e infine esplosero, facendo a brandelli le astronavi. Intanto i Na’kuhl continuavano a bersagliarle con i raggi disgreganti, simili a rasoiate.

   «La seconda fase è terminata» disse l’Ufficiale Tattico, quando i vascelli Na’kuhl rimasero unici padroni del campo di battaglia.

   «Iniziamo la terza» ordinò la Leader Suprema. «Gran parte delle nostre forze è già sparpagliata nella Galassia, per colpire gli avamposti iconiani. Diamo loro manforte. Se tutto va bene, entro un anno ci riuniremo su Na’kuhl Primo. E gli Iconiani saranno solo un ricordo».

   I vascelli neri abbandonarono l’orbita di Iconia, lasciando poche Navi Vampiro a sorvegliare il campo di battaglia, nell’eventualità che qualche membro della Coalizione mandasse altre navi a indagare. Il grosso della flotta si sparpagliò per la Via Lattea, dal nucleo profondo all’alone, per distruggere le ultime vestigia della civiltà Iconiana.

   «Stavolta nemmeno i loro portali li salveranno» gongolò la Leader Suprema, accavallando le gambe sul suo seggio. «Come disse un mio predecessore... ogni luce si spegne. Solo l’oscurità è eterna, e noi con essa».

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** I Grigi, la Nordica e il Rettiliano ***


-Capitolo 6: I Grigi, la Nordica e il Rettiliano

 

   «Salve, mi chiamo Anton e per oggi sarò la vostra guida» esordì il giovanotto, accennando al cartellino con il nome sulla sua uniforme da guida turistica. «Il Parco Nazionale di Yellowstone è il più antico al mondo, fondato nel 1872 dal presidente Grant» disse con voce un po’ monotona. Quando aveva cominciato il lavoro parlava con più grinta; ma le cose tendono a farsi noiose, quando le ripeti centinaia di volte. «È la più grande riserva naturale degli Stati Uniti e dal 1978 è Patrimonio mondiale dell’Umanità. È uno dei più vasti ecosistemi intatti della zona temperata; mediamente lo visitano quattro milioni di persone l’anno. È diviso in cinque zone...».

   «Sì, ma dicci dei cosi, dei ga... ga...» lo interruppe uno dei turisti. Aveva calzoncini corti, un’orribile maglietta hawaiana, occhiali da sole e una macchina fotografica al collo, che rimbalzava contro la pancia prominente. Il tipico turista, in una tipica comitiva, in una tipica giornata dell’estate 2017.

   «I geyser sono tipici della zona in cui ci troviamo, la Geyser Country» spiegò Anton. «Ce ne sono più di trecento, tra cui il Vecchio Fedele, il più famoso al mondo. In realtà non è sempre puntuale come un orologio. Ha eruzioni brevi – di due o tre minuti – e altre lunghe. Dopo un’eruzione breve impiega 65 minuti a ricaricarsi, ma dopo una lunga gliene servono 90, con piccole variazioni. Ma lo vedrete fra poco».

   Mentre parlava, la guida camminava lentamente, precedendo la comitiva lungo il sentiero bordato da una staccionata di legno. La bellezza mozzafiato del parco naturale li circondava da ogni lato, salvo che alle loro spalle, dove ancora si vedevano le biglietterie intasate dai visitatori. Era una bellissima giornata: il sole splendeva nel cielo senza nubi, ma un vento fresco e sostenuto impediva che diventasse troppo caldo. L’aria portava il profumo degli abeti, misto all’odore – per la verità meno piacevole – delle sorgenti solforose.

   «Oltre ai geyser, ci sono ben 10.000 sorgenti calde e altre zone geotermiche interessanti, anche se meno appariscenti. Tutto ciò è il residuo dell’intensa attività vulcanica e dei sommovimenti tettonici che formarono le Montagne Rocciose...».

   «Senti, ho visto su You Tube che sotto le nostre chiappe c’è un super-vulcano» disse un altro turista, con lunghi capelli rastafariani. «È vero che prima o poi farà il botto?».

   «Sì, sì, è successo anche in un film!» chiocciò una donna con estrosi occhiali da sole a forma di farfalla.

   «Secondo i vulcanologi, sotto questo parco si nasconde una camera magmatica di 75 per 55 km» rispose pazientemente la guida. «Si trova suppergiù alla profondità di 14 km. Deve contenere una certa quantità di magma, per alimentare tutta quest’attività idrogeologica, ma non se ne conoscono i dettagli. Comunque il parco è costantemente vigilato dagli esperti, che hanno piazzato i loro strumenti un po’ ovunque. Se ci fosse un’eruzione imminente lo capirebbero, quindi potete dormire sonni tranquilli...».

   «Ne dubito. I vostri geologi hanno una conoscenza ancora primitiva della struttura terrestre» intervenne un’altra visitatrice, in tono critico. «Il fatto che non abbiano dati sufficienti a prevedere un’eruzione non significa che sia da escludere. E quando avverrà, gli effetti saranno catastrofici. Perché non avete ancora evacuato il continente, in via cautelare?».

   I turisti si scostarono un po’ dalla donna che aveva parlato, osservandola con una certa ansia, e anche Anton la osservò perplesso. Aveva un’aria strana, indefinibile. Di corporatura minuta, era imbacuccata in abiti da turista male assortiti e troppo grandi per lei. Aveva occhialini con lenti rosa e tonde, un cappello da sole di paglia, una camicia hawaiana particolarmente spaventosa e jeans a zampa di elefante, stracciati sulle ginocchia. Portava anche un assortimento di collanine e braccialetti e una borsetta di perline. La cosa più strana, però, era il colore della pelle: bianca come la neve, poteva spiegarsi solo con l’albinismo.

   «Mi scusi, lei è un’esperta in materia?» chiese Anton.

   «Se lo fossi, vi avrei già dato una previsione attendibile sulla prossima eruzione» rispose la donna. «Ma anche così, potrei spiegare parecchie cose ai vostri esperti».

   «Certo, come no» sospirò la guida. «Per rispondere alla sua domanda: già evacuare la zona nord-occidentale del Wyoming sarebbe impraticabile. Di farlo in via cautelare non se ne parla, ci vivono mezzo milione di persone. Se scoppiasse un’emergenza, suppongo che si dovrebbe tentare... ma si fidi degli esperti, okay? Non corriamo pericoli».

   «Un’affermazione avventata, non supportata dall’evidenza».

   «L’ostinazione a vivere in aree sismiche e vulcaniche denota una sconcertante mancanza di pianificazione sociale».

   A parlare erano stati due nanerottoli, gli unici turisti rimasti vicini all’albina. Anche loro erano vestiti in modo improponibile, con abiti molto più grandi della loro taglia. Avevano testoni enormi, su cui tenevano calcati dei gran cappelloni. I capelli sembravano finti e gli occhi erano nascosti dietro occhialoni neri. La loro pelle aveva qualcosa di strano: era pallida, glabra, quasi translucida. I loro volti erano stranamente inespressivi. Solo dopo qualche secondo Anton capì di che si trattava: non avevano sopracciglia.

   «Sentite, queste cose sono molto più controllate negli Stati Uniti che nel resto del mondo» disse, cominciando a spazientirsi. Possibile che i matti capitassero tutti a lui? «Ora, tornando ai geyser... questi fenomeni nascono dall’incontro fra l’acqua piovana, che filtra nel terreno, e le calde rocce sottostanti. Compressa e sottoposta a pressione elevata, l’acqua non riesce a raggiungere il punto di ebollizione e neppure a evaporare, e cerca canali di risalita. Se la pressione è bassa, esce in rivoli termali arricchita di sostanze minerali. Ma se trova sbocchi improvvisi può eruttare con violenti getti dal terreno, i geyser. Sentite quest’odore di uova marce? È lo zolfo. Fra poco vedrete laghetti circondati da rocce arancioni e gialle, a causa dei depositi sulfurei».

   Camminarono a lungo, passando fra geyser e sorgenti calde. Anton sciorinava le solite spiegazioni, ma non perse di vista l’albina e i due nanerottoli. C’era qualcosa di strano in quei tre: stavano sempre vicini, parlottavano fra loro e non scattavano foto. A volte, però, la donna maneggiava la borsetta come se dentro ci fosse uno smartphone, e lei volesse usarlo senza essere vista.

   Verso mezzogiorno la comitiva sostò presso un laghetto rotondo, dai colori vivaci come la tavolozza di un pittore. Blu cobalto al centro, diventava giallo zafferano e rosso ruggine ai lati, per via dei cristalli di zolfo. Vapori caldi si levavano dalla sua superficie, formando una nebbiolina. La comitiva sostò per il pranzo al sacco, approfittando dei tavoli di legno e delle panchine. L’albina e i nanerottoli, però, rimasero discosti dagli altri. Stavano in piedi vicino alla staccionata che separava l’area turistica dalle sponde del lago, ma invece di scattare foto o osservare il panorama continuavano a parlottare. Sempre più incuriosito, Anton decise di approfittare della sosta per attaccar bottone con la donna e scoprire qualcosa sul suo conto.

   «Allora, non è una vista mozzafiato?» chiese avvicinandosi. «Tutte quelle tinte...» disse, accennando al lago sulfureo.

   La donna ficcò lo smartphone, o quello che era, in fondo alla borsetta e si girò bruscamente verso di lui. «Sì, è incantevole» ammise. «Sembrano i geyser di Io... sa, la luna più interna di Giove».

   «Non ci avevo pensato» mormorò Anton, colto un po’ alla sprovvista. «Posso sapere il tuo nome?» chiese in tono amichevole, accorciando ancor più le distanze.

   «Sono la dottoressa Neelah» rispose lei, abbassandosi leggermente gli occhialini rosa. Anton colse uno sguardo di ghiaccio.

   «Nila? È un nome insolito. Hai anche uno strano accento... scommetto che vieni dall’estero».

   «Oh, sì. Molto dall’estero» confermò la visitatrice, con un sorriso enigmatico.

   «Ne ero sicuro!» gongolò Anton, sempre più intrigato. «Sono bravo a riconoscere gli accenti. Allora, fammi indovinare di dove sei esattamente... Polonia? Ucraina? O perché no, Russia? Non c’è niente di male... anche la mia famiglia viene da lì».

   «Però, non ti sfugge niente» sorrise Neelah.

   «E i due piccoletti sono con te?» chiese Anton sottovoce, approfittando del fatto che si erano allontanati un po’.

   «Sì, siamo... colleghi» ripose la dottoressa.

   «Ma allora sei qui per lavoro o per piacere?».

   «Ti dirò, il nostro viaggio è cominciato quasi per caso» ammise Neelah. «Poi sono successe parecchie cose strane... incontri, coincidenze... ed eccoci qui».

   «Ah, capisco» fece Anton, che non capiva per niente. «Beh, se vuoi sapere qualcosa sul parco... sono qui apposta».

   «In effetti sto cercando una zona particolare... una caverna» ammise Neelah, assumendo un’aria da cospiratrice. Si guardò intorno, assicurandosi che non ci fossero turisti vicini, e gli bisbigliò all’orecchio una serie di caratteristiche precise: dimensioni, profondità, composizione minerale.

   «Beh, così su due piedi non saprei... dovrei consultare le mappe geologiche» ammise il giovane. «Certo, questa non è la zona più montuosa del parco, il che restringe le possibilità. Ma perché cerchi quel posto?».

   «Ho le mie ragioni» disse Neelah, elusiva.

   «Senti, questo non è un tour speleologico. E la caverna che cerchi potrebbe non essere neanche accessibile al pubblico» avvertì Anton. «Ci sono percorsi da seguire, qui. Norme di sicurezza da rispettare. Prometti che non svicolerai mentre non guardo. Nel migliore dei casi verresti multata, nel peggiore ti capiterà un brutto incidente. E ci andrei di mezzo anch’io, che sono responsabile della comitiva...».

   «Signor Anton, la sua egoistica preoccupazione di subire un danno a causa nostra è fuori luogo» intervenne il Bynario 0.

   «Questo percorso turistico viola già le norme di sicurezza» aggiunse 1.

   «Invece di preoccuparsi per noi...».

   «... dovrebbe tracciarne uno migliore».

   «Non sono io che stabilisco i sentieri. E poi smettetela di darmi lezioni!» protestò Anton, indispettito.

   «Calma, ragazzo...» disse Neelah, sfiorandogli il braccio.

   «No, calmati tu, lunatica!» sbottò il giovane, scostandosi. «E dì agli Hobbit di fare meno i saccenti!» gridò ancora più forte. Si allontanò in tutta fretta, verso il gruppo dei turisti che pasteggiavano. Quando fu lontano, i Bynari guardarono Neelah con aria perplessa.

   «Hobbit? Non conosciamo questa specie».

   «Sai mica da quale pianeta provengono?».

   «Mai sentiti» rispose Neelah, interdetta. «Credevo che in quest’epoca gli Umani non fossero in contatto con civiltà extraterrestri».

 

   Il giro turistico proseguì senza incidenti, anche se Neelah e i Bynari si tenevano sempre un po’ in disparte. L’Aenar sondava discretamente la zona con il tricorder, in cerca della caverna che Kal Dano le aveva indicato. Ne individuò alcune, ma nessuna coincideva esattamente. Non restò che seguire la comitiva, mentre continuava a familiarizzare con la cultura dell’epoca. Questo significava ascoltare con discrezione le chiacchiere dei turisti e captare i loro pensieri.

   Era un’esperienza straniante. Neelah aveva già visitato mondi alieni ed era stata su astronavi e basi che raccoglievano le specie più diverse. L’Enterprise stessa era un crogiolo di popoli e culture. Ma nel contesto della Federazione, tutte le specie erano nella fase post-curvatura: sapevano le une delle altre e agivano di conseguenza. Invece gli Umani d’inizio XXI secolo credevano ancora di essere soli nell’Universo, o quantomeno non avevano prove dell’esistenza di vita extraterrestre. Erano ancora divisi in più nazioni, spesso nemiche. Ed erano afflitti da flagelli che Neelah associava a un passato barbaro e remoto: carestie, epidemie, guerre intestine. Ma erano pur sempre Umani. Stare in mezzo a loro era stranissimo: un momento prima le erano familiari, quello dopo le sembravano del tutto estranei.

   Concluso il giro, la comitiva tornò alla zona dei pullman e dei ristoranti, dove si sciolse in piccoli gruppi e coppie. Anton notò che l’albina e i nanerottoli se ne andavano insieme, ma non nella direzione degli altri. Sgusciarono fra i caseggiati, approfittando delle lunghe ombre del tramonto, e scomparvero alla vista. In quella direzione non c’erano ristoranti, né parcheggi: solo le propaggini della foresta di abeti.

   «Ciao, Anton; com’è andata oggi?» chiese un suo amico, che lavorava come guardia forestale.

   «C’erano tre tipi un po’ svitati, ma innocui. A parte quello, tutto bene» sorrise Anton. «E tu?».

   «Insomma... ci sono stati parecchi furti nella zona dei camper» rispose il guardiano, arricciando il naso.

   «Roba di valore?».

   «Solo pochi spiccioli. Perlopiù hanno rubato vestiti».

   «Ah» fece Anton, intuendo che i tre svitati non erano poi così innocui. «Mi diresti che tipo di vestiti?».

 

   Neelah e i Bynari camminavano silenziosi su un soffice tappeto di aghi caduti. Attorno a loro svettavano gli abeti, dai tronchi slanciati e le chiome verde cupo. Il sottobosco divenne sempre più buio, man mano che il sole calava. Finalmente videro una luce, che li aiutò a ritrovare la piccola radura eletta a campo base. Raav era lì, seduto davanti alla Phoenix, e arrostiva un po’ di carne su un fuocherello improvvisato. Li riconobbe dall’odore prima ancora di udire i loro passi nel sottobosco.

   «Ehilà, bentornati!» disse, agitando la zampa con tre dita. «Piaciuta la gita?».

   «È stata istruttiva» rispose Neelah, entrando nel cerchio di luce del falò. «Della caverna, però, nessuna traccia. Dovremo riprovare domani, con un altro percorso».

   «Vi serviranno soldi per i biglietti. E per comprarci da mangiare» notò Raav.

   «Il furto non era quel che avevo in mente, quando siamo arrivati» sospirò Neelah, sedendo accanto al Gorn. «Non vorrei mettere in allarme la sorveglianza. Potrebbero setacciare i boschi e trovare la Phoenix».

   «Sarebbe una violazione della Prima Direttiva Temporale...» cominciò 0.

   «... oltre che il fallimento della nostra missione» completò 1.

   «Grazie tante, piccoletti!» grugnì Raav. «Beh, ditemi che mi sono perso. Come sono gli Umani di questo secolo?» s’interessò.

   «Mah, non riesco a inquadrarli» sospirò Neelah. «Sono sempre Umani, ma... diversi da quelli che conosciamo. Sprecano le risorse naturali come se non ci fosse un domani. Fuori dai parchi come questo, avvelenano l’ambiente. E vivono nel perenne timore di un conflitto nucleare. Perdono tempo ed energie su questioni irrilevanti, mentre tralasciano i veri problemi. Non so come siano sopravvissuti a un periodo del genere. Stento a credere che Alexander... che il Capitano sia uno di loro».

   «Sei sempre severa con gli Umani» notò Raav. «Eppure, quali che siano i loro problemi, fra mezzo secolo scopriranno la curvatura. E dopo altri cent’anni metteranno in piedi la Federazione».

   «Dovranno prima sopravvivere alla Terza Guerra Mondiale e all’Orrore Post-Atomico» ricordò Neelah. «Avrei una gran voglia di avvertirli. Di spiegargli che possono arrivare comunque alle stelle, ma con meno sofferenze nel mezzo. Capisco perché c’è chi vuole alterare la Storia» ammise, fissando le fiamme crepitanti.

 

   Il giorno dopo, Anton tenne gli occhi aperti fin dall’alba. Come immaginava, l’albina e i nanerottoli erano ancora lì a ronzare nelle aree turistiche. Stavolta non si accodarono al suo giro, ma scelsero un altro percorso. A sera, Anton incontrò il collega che li aveva avuti nel suo gruppo e lo interrogò privatamente. Scoprì che anche a lui avevano fatto domande sulle caverne.

   «Pensi che dovremmo allertare la sicurezza del parco?» chiese il collega.

   «Non ancora... vediamo che succede domani» disse Anton. Subito dopo, però, andò dal suo amico guardiano e scoprì che anche quel giorno c’erano stati furtarelli. Era sparito un portafoglio, che poi era misteriosamente riapparso nel deposito degli oggetti smarriti. Dentro c’erano ancora tutti i documenti, ma il denaro si era volatilizzato. E non c’erano impronte digitali, salvo quelle del proprietario. Inoltre mancavano alcune cartine della zona: non quelle vendute ai turisti, ma le mappe geologiche usate dagli esperti. Proprio ciò di cui i tre misteriosi visitatori avevano bisogno.

   Il terzo giorno Anton chiese un permesso, per potersi muovere senza problemi di orario e senza il solito codazzo di turisti. Spiò da lontano i tre lunatici che partivano con un’altra comitiva, cambiando ancora percorso, e aspettò il loro ritorno. Fu un’attesa snervante. Continuava a fare ipotesi sulle loro intenzioni, fantasticando di complotti internazionali e piani degni dei cattivi di James Bond.

   Quella sera, come al solito, l’albina e i nanerottoli svicolarono dal flusso dei turisti e sgattaiolarono verso la foresta. Ma Anton li attendeva al varco: ormai conosceva la zona in cui passavano ed era pronto a seguirli. In punta di piedi, si addentrò nell’abetaia. Aveva con sé una torcia, anche se al momento la teneva spenta, per non dare nell’occhio. Aveva anche il cellulare, con cui chiamare i guardiani del parco o anche la polizia, una volta scoperte le macchinazioni dei tre. E per buona misura, portava con sé una pistola. Non era una pistola d’ordinanza: quelle ce le avevano solo i guardiani. Era una sua proprietà privata. Una delle cose che gli piacevano, degli Stati Uniti, era la facilità di procurarsi un’arma. Quella ce l’aveva da un anno e finora non aveva mai dovuto usarla. Sperava che non fosse necessario neanche stavolta... ma averla al fianco gli dava sicurezza.

   Anton seguì i tre misteriosi individui per un tragitto così lungo che, malgrado la sua familiarità con il parco, temette di perdersi. Per fortuna nello smartphone aveva le applicazioni adatte a ritrovare la strada. Ma quando calarono le tenebre cominciò a spaventarsi e fu sul punto di tornare indietro. In fondo non sapeva chi fossero quei tre. Potevano essere dei pazzi o dei criminali. Forse persino spie o terroristi. La sua mente eccitata gli suggeriva ipotesi sempre più spaventose. Ma lasciar perdere adesso, dopo tutta quella strada, gli sembrava una viltà. Passò la mano sul calcio della pistola, per farsi coraggio, e proseguì.

   Finalmente raggiunsero una piccola radura, rischiarata da un focolare. «Prima infrazione: avete acceso un fuoco nella foresta. Siete nei guai, ragazzi!» pensò. Nascosto dietro il tronco di un abete, il giovane sbirciò nello spiazzo. Non sapeva esattamente che aspettarsi. Poteva essere un ritrovo di spacciatori, o un piccolo rave party, o un incontro fra agenti segreti. Ma nemmeno le sue congetture più fosche lo prepararono a ciò che vide.

   Nella radura c’era uno strano oggetto scintillante, con una porticina sul retro: una navetta fantascientifica. E lì davanti... il pilota. Era proprio come gli alieni rettiliani di cui Anton aveva letto su Internet: alto, nerboruto, con la pelle verde. Aveva zampe artigliate, per squartare gli Umani. Un’enorme bocca piena di denti aguzzi, per azzannarli. E grandi occhi a palla, per ipnotizzare le sue vittime e succhiargli le energie psichiche. «Deve averlo già fatto con quei tre. Altrimenti perché gli andrebbero incontro?». Nell’emozione del momento, Anton non si soffermò a notare che il Rettiliano stava rosolando un pollo sullo spiedo.

   Assalito da una morbosa curiosità, il giovane continuò a guardare. E vide qualcosa di raccapricciante. I nanerottoli si tolsero cappelli e parrucche, rivelando crani glabri e bulbosi, ancor più sproporzionati di quanto non sembrasse prima. Le orecchie erano come sprofondate nella testa. E sulla tempia – uno a destra, l’altro a sinistra – avevano impianti cibernetici. Di certo gli servivano per controllare gli Umani. Perché quelli erano i Grigi, gli alieni specializzati nel rapire i terrestri, sottoponendoli a orridi esperimenti.

   Ma il peggio doveva ancora venire. Anche la donna si tolse il cappello di paglia, scoprendo due lunghe e sottili antenne. Non potevano esserci dubbi: le antenne fuoriuscivano direttamente dal cranio. Questo spiegava il pallore del viso e dei capelli. Non era un’albina: apparteneva al terzo tipo di visitatori alieni, i Nordici. Anton sapeva che erano alti e longilinei, dai capelli bianchi o biondo chiari, con il viso d’angelo... sì, tutto corrispondeva. La donna con cui aveva chiacchierato veniva da un altro mondo e forse voleva portarlo via con sé.

   Il giovane si premette una mano sulla bocca, per non urlare. Era un’invasione aliena in piena regola! Le tre specie note all’ufologia – Grigi, Nordici, Rettiliani – si erano radunate lì davanti a lui! Quali subdoli piani stavano tramando per soggiogare l’umanità? Doveva ascoltare... poteva andarne della salvezza del mondo!

   «Mia nonna diceva che la terza volta è quella buona. Dimmi che è così... sono stanco di poltrire in questa radura, sssshhht!» si lamentò Raav.

   «Non ti perdi granché. Comunque potremmo esserci» disse Neelah. «Ho individuato una caverna simile a quella che ho visto nella memoria di Kal Dano. È fuori dai percorsi turistici e credo sia del tutto chiusa al pubblico. Domani ci daremo un’occhiata».

   «Spero proprio che sia quella buona... ormai non ci resta molto tempo» le rammentò il Gorn. «Fra poco arriverà Kal Dano e lascerà l’Uthat. I Vorgon compariranno subito dopo. Quindi abbiamo un margine ristretto».

   «Ci basterà, se ce la giochiamo bene» disse Neelah. «I Vorgon non si aspettano di trovarci. La sorpresa è dalla nostra».

   «E se invece di aspettare che Kal Dano se ne vada lo avvertissimo del pericolo?» propose Raav. «Così salveremmo sia lui che l’arma».

   «Se Kal Dano viene via con noi, non finirà mai disperso nel passato» obiettò l’Aenar. «Si creerebbe un paradosso temporale. No... per quanto mi piacerebbe salvare Kal Dano, non credo sia fattibile».

   «Ma ci serve un piano B, se le cose andassero storte» insisté il Gorn.

   «Il piano B sono i Bynari» disse Neelah. «Resteranno qui con la Phoenix e se non ci vedranno tornare la riporteranno sull’Enterprise, spiegando l’accaduto».

   «Così saremo solo in due» notò Raav.

   «Se non te la senti...».

   «Sssshhht! Certo che me la sento!» sibilò il Gorn. «È solo che... che...» ripeté annusando l’aria.

   «Che?».

   «Abbiamo compagnia» avvertì Raav, sondando le tenebre con gli occhi gialli.

   L’Aenar e i Bynari si misero subito in allarme. Neelah estrasse il phaser e il tricorder dalla borsetta. «Ottimo fiuto» si complimentò. Il tricorder era inequivocabile: c’era un segno vitale pochi metri più avanti, subito dietro un albero. «Vieni fuori con le mani in alto!» ordinò. «Conterò fino a tre».

 

   Anton sentì un tuffo al cuore. Stava filmando gli alieni con lo smartphone, per dimostrare al mondo la verità, quando il Rettiliano l’aveva fiutato e la Nordica aveva lanciato l’ultimatum. Tre secondi non erano molti per decidere. Infilò il cellulare in tasca e nascose la pistola dietro il cappello da guida, che sollevò ben sopra la testa.

   «Arrivo... non sparate, vi prego!» mormorò, con voce più tremante di quel che avrebbe voluto, e lasciò il riparo del tronco. Lentamente, come in un incubo, avanzò nel cerchio di luce della radura. E vide gli alieni da vicino. Erano ancora più orridi di quanto parevano a distanza. I Grigi dai crani rigonfi, la Nordica con le antenne, il Rettiliano dalla pelle scagliosa e gli occhi gialli... chissà che volevano fargli! Nila – se così si chiamava – lo teneva sotto tiro con un’arma da fantascienza.

   «Ehilà... allora non vieni dalla Russia, eh?» pigolò Anton.

   «Tu?!» fece l’Aenar, strabuzzando gli occhi. Sulle prime aveva temuto che fosse un Vorgon. Era lieta di sbagliarsi, ma si trovava comunque alle prese con una seria contaminazione temporale. «Che ci fai qui?».

   «Non fare l’innocente... ascoltavo i vostri piani malefici per soggiogare la Terra!» ribatté Anton. «Non importa che mi farete... non conquisterete mai il nostro pianeta!».

   «Non siamo noi a... ma che hai lì, sotto il cappello?» chiese la biologa, dando un’altra rapida occhiata al tricorder.

   «Se vuoi saperlo...!». Anton lasciò cadere il copricapo, rivelando la pistola. Siccome da quella posizione non poteva prendere la mira, abbassò le braccia, puntando l’arma al cuore di Neelah. «Adesso posa la tua arma!» gridò, il volto madido di sudore.

   «Senti, figliolo, perché non ragioniamo, invece di...» cominciò Raav.

   «Non si ragiona con gli extraterrestri!» l’interruppe Anton, con il cuore che rullava. «Da dove venite, eh? Dalle Pleiadi? Da Sirio? O dal pianeta Nibiru? Il 2012 è passato da un po’, ma forse i Maya avevano ragione!».

   «Questo è tocco» commentò Raav, additandosi la tempia.

   «Signor Anton, riconsideri la sua linea d’azione» suggerì 0.

   «Lei è solo, emotivamente sconvolto e non sa chi siamo» proseguì 1.

   «Vede da sé che non può vincere».

   «Noi siamo qui per salvare la Terra».

   «La prego, si fidi di noi...».

   «Fidarsi? Non è sul mio vocabolario!» berciò Anton. «Credete che non sappia niente? Sono anni che ci studiate! L’incidente di Roswell, il complotto lunare, il Triangolo delle Bermuda...».

   «Ne ho abbastanza» tagliò corto Neelah. Sparò alla pistola di Anton, disarmandolo. Il giovane rimase a bocca aperta, paralizzato dal terrore. L’ultima speranza di cavarsela era svanita...

   «Non so di che parli, ma ti assicuro che nessuno di noi vuol farti del male» disse l’Aenar. Era da un po’ che gli puntava contro le antenne, cercando di captare i suoi pensieri: ma erano un tale guazzabuglio di complottismo e paranoia che non ci capiva molto. Sapeva però di doverlo calmare, in qualche modo. «Adesso mettiamo via le armi, d’accordo? E parliamo come persone civili» disse, riponendo il phaser. Intanto uno dei Bynari era andato a raccogliere la pistola di Anton.

   «Il governo sa di voi?» chiese il giovane con un filo di voce.

   «Perché dovrebbe? Siamo appena arrivati» rispose Raav.

   «Beh, sanno tutto, quelli» disse Anton. «Hanno i satelliti in orbita per spiarci. E gli aerei che emettono scie chimiche. E il dispositivo HAARP in Alaska per controllare il clima – e forse le menti – coi campi elettromagnetici...».

   «Oh, possono fare questo? Notevole!» riconobbe Raav.

   «Non credo proprio» disse Neelah, che cominciava a farsi strada nella mente del giovane. «Questa è tutta fuffa pseudo-scientifica».

   «Meglio non rischiare. Io uso la stagnola per proteggermi dalle onde elettromagnetiche!» spiegò Anton, con l’aria di chi rivela un grande segreto. Raccolse il cappello da guida e mostrò l’interno ai quattro alieni: effettivamente era foderato di carta stagnola.

   «Senti, genio, lascia perdere il governo» disse Neelah, avvicinandosi. «Siamo qui per una faccenda molto importante. Potrebbe andarne della sopravvivenza del tuo pianeta... e anche dei nostri. Quando avremo finito, ce ne andremo» promise, cercando di suonare rassicurante. «Ma tu non parlerai di noi con nessuno. Vedi, il tuo pianeta non è ancora pronto a incontrarci. A proposito...».

   Rapida come un serpente, l’Aenar gli cavò lo smartphone di tasca. Anton cercò di riprenderselo, ma lei gli schiaffeggiò la mano. Poi si ritrasse, armeggiando con il cellulare. Immaginava che il congegno potesse anche riprendere filmati, ma non aveva familiarità con una tecnologia così antiquata. Non poteva permettere che il video le sfuggisse o che Anton lo scaricasse in rete. Così risolse il problema stritolando lo smartphone e gettandone i resti nel falò.

   Quella dimostrazione di forza sovrumana spaventò di nuovo l’Umano. «Ma insomma, che siete venuti a fare?» chiese, quasi piagnucolando.

   I quattro alieni confabularono brevemente. Avere una guida del parco dalla loro sarebbe stato utilissimo per trovare in tempo la caverna. Ora che Anton li aveva visti, sembrava illogico non approfittare del suo aiuto... sempre che riuscissero a convincerlo.

   «Siamo qui per recuperare un congegno alieno da una caverna» rivelò infine Neelah. «È uno strumento pericoloso e voi Umani non sapete ancora maneggiarlo. Dobbiamo impedire che cada in mano ad altri alieni... due malintenzionati che ne farebbero cattivo uso. Lo porteremo via dalla Terra, così che non possa più minacciarvi. Ma dobbiamo ancora localizzare la caverna e abbiamo poco tempo prima che arrivino i cattivi. Ci saresti utile, dato che conosci il territorio. Possiamo contare su di te?» chiese.

   Il giovane chinò il capo e rimase così a lungo in silenzio che sembrò non dovesse rispondere affatto. Ma d’un tratto alzò la testa e guardò Neelah negli occhi. «Voi alieni siete proprio come nei film. Con tutto l’Universo a disposizione, venite a nascondere le vostre diavolerie proprio sulla Terra!» disse.

   «Ehm, in effetti è strano...» concesse Raav.

   «Non posso sapere se dite la verità, o se siete voi i cattivi» proseguì Anton. «Vorrei credere che siete dalla nostra parte, ma... se mi sbaglio, tutta l’umanità ne pagherà il prezzo».

   «Capisco il tuo dilemma. Anch’io avrei paura, se fossi al tuo posto» ammise Neelah. «Ma i cattivi di cui ti parliamo s’impadroniranno certamente dell’oggetto, se non li fermiamo. E lo useranno per distruggere molte specie. Guardaci: noi apparteniamo a tre specie diverse, eppure collaboriamo. Se fossimo una dittatura, lo faremmo? O non ci sarebbero piuttosto padroni e schiavi?».

   «Quel che dici sembra sensato» ammise Anton. «Ma dimmi una cosa: avete mai rapito degli Umani per studiarli?».

   «Noi personalmente no» ripose Neelah, prudente. «E a quel che mi risulta, neanche i nostri simili». In realtà non era tanto sicura dei Gorn, che avevano un passato di ostilità con la Federazione... ma tacque per non allarmare il giovane.

   «Perché dovremmo studiarvi, poi? Non siete mica nostri clienti!» aggiunse Raav.

   «Se trovate il vostro McGuffin, mi promettete di andarvene subito? E di non tornare più?» chiese ancora Anton.

   «Ti prometto che non torneremo... in questo secolo» disse Neelah. «Ma prima o poi, voi Umani troverete la via delle stelle. E noi saremo lì, ad aspettarvi».

   «Va bene, allora... facciamolo!» disse Anton.

   Neelah riconobbe qualcosa nel suo sguardo... una scintilla d’audacia, che aveva visto talvolta negli occhi di Chase. Era la parte migliore degli Umani, che si risvegliava nei momenti difficili. «Benvenuto in squadra, allora» sorrise, stringendogli la mano. «A proposito, quel è il tuo nome completo? Hai detto di chiamarti Anton, ma so che gli Umani hanno anche un cognome».

   «Oh, non te l’ho detto?» si stupì il giovane. «Sono Cochrane. Anton Cochrane».

 

   Sulle prime nessuno fece commenti. Ma quando ebbero preso accordi con Anton per incontrarsi l’indomani, e il giovane si fu allontanato, i Bynari sollevarono il problema.

   «Il giovane Cochrane ha un cognome illustre» disse 0.

   «Lo stesso di Zefram, l’Umano che inventò la curvatura» aggiunse 1.

   «Pensate che siano parenti?» chiese Raav.

   «Zefram Cochrane nacque nel 2020 e compì il primo volo a curvatura il 5 aprile 2063» ricordò Neelah. «Attualmente ci troviamo nel 2017, quindi... il giovane Anton potrebbe essere suo padre. Cioè, il suo futuro padre» concluse.

   «Fammi capire: se i Vorgon lo ammazzano, cambia tutta la storia galattica?» chiese Raav.

   «È possibile» ammise Neelah.

   «Sssshhht! Odio i viaggi nel tempo».

   Sebbene Neelah si fidasse di Anton, i quattro decisero di spostare la Phoenix in un’altra radura, nell’eventualità che l’Umano ci ripensasse e gli spedisse contro la polizia o la guardia nazionale. Con il favore delle tenebre, l’operazione fu rapida e senza incidenti. Poi i quattro cenarono e finalmente si concessero una notte di riposo. Li attendeva una giornata impegnativa.

 

   Alle prime luci dell’alba, Neelah e Raav si recarono all’appuntamento con Anton davanti all’imboccatura della caverna. I Bynari rimasero nella Phoenix, ma li tenevano d’occhio con i sensori. La crono-navetta era già impostata per tornare nel XXVI secolo di lì a qualche ora e il diario di bordo riportava tutte le loro scoperte.

   Anton giunse con le attrezzature da speleologo: corde, rampini, torce. Aveva anche un elmetto per sé, ma non per i compagni: la testa di Raav era troppo grossa e quella di Neelah aveva le antenne. «Non sono sicuro di come sia là dentro, e non voglio correre più rischi del dovuto» si giustificò, mostrando l’attrezzatura.

   «Ottimo» disse Neelah. Aveva deciso di non parlargli della sua illustre progenie, per non stressarlo ulteriormente.

   «Abbiamo tutta la giornata a disposizione» proseguì Anton. «Io mi sono dato malato e questa zona è chiusa al pubblico, quindi nessuno ci disturberà».

   «Nessuno tranne i Vorgon» corresse Neelah. «Così si chiamano i nostri avversari. Potrebbero sbucare quando meno ce l’aspettiamo. Se accadrà, tu devi andartene subito. Dico davvero... non indugiare, non voltarti indietro. E non tornare a salvarci. È la nostra lotta, non la tua».

   «Sembrano molto pericolosi» si preoccupò Anton.

   «Lo sono, purtroppo. Noi li abbiamo già incontrati, sappiamo di che sono capaci» confermò l’Aenar, ricordando la morte di Kal Dano. Qualunque cosa succedesse, Anton non doveva fare la stessa fine.

   Varcarono l’ingresso della caverna e scesero lungo un budello di roccia che portava sempre più in profondità. Alla luce delle torce, videro depositi sulfurei stratificati nelle pareti rocciose. Il piano di calpestio era irregolare, un ammasso di rocce taglienti intervallate da spaccature. In certi punti i sassi erano inumiditi da infiltrazioni d’acqua, divenendo scivolosi, il che rendeva la discesa ancor più azzardata. Le corde e i rampini forniti da Anton si rivelarono indispensabili. I tre esploratori si legarono in cordata: Neelah apriva la fila, Anton seguiva e Raav veniva per ultimo. Essendo il più pesante, il Gorn era quello che poteva trattenere i compagni, se fossero scivolati. E in un paio di occasioni capitò davvero che Neelah, malgrado l’attenzione, mettesse un piede un fallo. La seconda volta si trascinò dietro anche Anton, ma Raav tenne duro e li trasse indietro tutti e due.

   «Grazie» ansimò Neelah. «Non sono abituata a questi ambienti. Ho sempre vissuto in posti dal pavimento liscio!».

   «Io invece mi sento come a casa» disse Raav. «Sul mio pianeta ci sono molte caverne, che vengono ancora usate. Beh, di solito sono più grandi questa» precisò, dopo aver sbattuto la testa contro una stalattite.

   «Allora non venite da Nibiru?» chiese Anton, un po’ deluso. «Peccato... speravo mi parlaste degli Anunnaki e dei loro esperimenti genetici con gli esseri umani».

   «Che?!» fece Neelah.

   «Sì, parlo degli antichi cosmonauti che vennero sulla Terra in cerca di risorse e usarono l’ingegneria genetica sui nostri progenitori. Forse si accoppiarono anche con loro. Infine se ne andarono, dopo una guerra nucleare; ma ci sono un sacco di piramidi e megaliti che testimoniano il loro passaggio» spiegò Anton, con l’aria di chi la sa lunga.

   «Altro che l’epoca di Artù... sono questi i Secoli Bui!» pensò Neelah, rinunciando persino a rispondergli. Nel frattempo continuavano a calarsi in profondità.

   «Perché dei visitatori avrebbero dovuto darsi tanta pena? Ci sono pianeti con più risorse della Terra» disse Raav. «E voi Umani non siete così attraenti da spingere le altre specie all’accoppiamento... di solito» aggiunse, lanciando un’occhiata ironica a Neelah, che divenne un po’ azzurra e accelerò il passo.

 

   Giunsero in una caverna piuttosto spaziosa, che riceveva luce da un’apertura nella volta. Un piccolo sprazzo di cielo azzurro brillava là in alto, così luminoso che i loro occhi dovettero riabituarsi. Al suolo, un minuscolo laghetto sulfureo era incassato fra sponde giallastre. Tenui vapori se ne sollevavano, assieme al tipico odore di uova marce.

   «Sì, è questa» disse Neelah, dopo averla osservata con attenzione. «Corrisponde perfettamente al ricordo di Kal Dano. Il Tox Uthat è lì» aggiunse, indicando il laghetto.

   «Allora prendiamolo... sono curioso di vederlo» disse Anton.

   «No, il tuo lavoro è finito» corresse Neelah. «Ora che abbiamo trovato il posto, è meglio se ce la sbrighiamo da soli».

   «Come, mi mandate via sul più bello?!» protestò il giovane.

   «Credici, è meglio così» disse Raav, sciogliendosi dalla cordata. «I Vorgon sono tipi pericolosi. Più gli stai alla larga, meglio è».

   «Si nutrirebbero della mia energia psichica?».

   «No, ti accopperebbero e basta» disse Neelah, riconsegnandogli le corde. «Torna su. Sarà più facile, ora che abbiamo messo i rampini nei punti critici. Ma stai attento. Buona fortuna e grazie per l’aiuto».

   «Quindi è un addio?» chiese Anton, malinconico.

   «Credo di sì» confermò Neelah, con più tatto possibile.

   «Beh, salutatemi il Pianeta X... o come si chiama il posto da cui provenite» disse il giovane, stringendole la mano.

   «Tu però devi mantenere il segreto su questi eventi, o contaminerai la tua cultura. E i Vorgon potrebbero ricavarne un vantaggio» ammonì Raav.

   «Va bene, lo prometto. Tanto non mi crederebbero in molti... solo qualche svitato» sorrise Anton. Indugiò sull’ingresso della galleria, guardando un’ultima volta i due alieni. Scosse lievemente la testa, come se ancora non si capacitasse di averli incontrati, e li lasciò.

   «Tempo?» chiese Raav.

   «Fra tre ore arriverà Kal Dano. Lascerà il Tox Uthat e noi lo prenderemo subito dopo» rispose l’Aenar.

   «Potrebbe non essere sufficiente per precedere i Vorgon» obiettò il Gorn. «Se non trovano l’arma, torneranno più indietro nel tempo, fino a raggiungerci».

   «Ecco perché tenderemo loro un agguato» disse Neelah, estraendo un congegno dalla tasca. L’aveva trovato fra le cose che Kal Dano si era lasciato dietro, nella guardiola della fortezza romana. Era un dispositivo che si agganciava alla mano, chiudendosi in modo da coprirne il dorso e parte delle dita. Alla scienziata non era servito molto per capirne il funzionamento: era uno Sfasatore Dimensionale, ma molto più sofisticato di quelli in uso nel suo secolo. Invece di aprire un passaggio attraverso un muro, dislocava il corpo del proprietario, trasformandolo in un “fantasma” capace di attraversare gli oggetti solidi. L’Aenar non conosceva la sua autonomia, perciò non se n’era servita per facilitare la discesa. Ma contro i Vorgon intendeva usarlo.

   Neelah prese anche l’unico phaser di cui disponevano, mentre Raav dovette accontentarsi della pistola che avevano requisito ad Anton. Era un’arma antiquata e con i suoi artigli riusciva appena a premere il grilletto, ma era meglio di niente. Lui, però, sperava di arrivare abbastanza vicino ai Vorgon da mettergli le zampe addosso. Si disposero dietro alcune rocce, in punti diversi della caverna, e aspettarono.

 

   Fu l’attesa più snervante che Neelah ricordasse. Ogni minimo suono, fosse anche il gocciolio dell’acqua o Raav che cambiava posizione, la metteva in allarme. Ma finalmente Kal Dano venne. Si materializzò con il teletrasporto, anziché scendere lungo la galleria. Rivederlo fu un’emozione agrodolce. Neelah avrebbe voluto corrergli incontro, presentarsi, avvertirlo del pericolo che incombeva su di lui. Ma era stato proprio lo Shirna ad ammonirla sui rischi dei paradossi temporali. Era disposto a sacrificare la vita, pur di proteggere la Storia, e Neelah non poteva che rispettare la sua decisione. Ma soffrì fino in fondo al cuore, nel vederlo così vicino senza poterlo avvertire.

   Kal Dano portava con sé una valigetta metallica, color argento, che evidentemente conteneva la sua invenzione. Si guardò attorno, circospetto, e raggiunse le sponde del laghetto sulfureo. Fatta qualche misurazione con il tricorder, forse per accertarsi della profondità, v’immerse la valigetta.

   «Spero proprio di rivederti, quando il pericolo sarà passato» disse lo Shirna alla sua creazione, invisibile sotto l’acqua che sobbolliva. «Ma se così non fosse... spero che nessuno ti ritrovi. Non avrei mai dovuto inventarti; da quel giorno è andato tutto storto. Maledetti Vorgon e maledetta Guerra Temporale!» inveì. Poi si teletrasportò via.

   Neelah e Raav rimasero soli, ma sapevano che non sarebbe durato a lungo. Ancor più di prima, si sforzarono di restare immobili e silenziosi. Non osavano andare a recuperare l’Uthat, per timore che i Vorgon li sorprendessero proprio in quel momento. Non c’era modo di sapere quando sarebbero arrivati. Neelah attivò lo Sfasatore Dimensionale, sperando che la proteggesse dalle loro armi. Attivando una funzione del congegno, si assicurò che la mano con cui impugnava il phaser – e il phaser stesso – fossero ancora solidi; così avrebbe potuto sparare.

   Come previsto, i pirati temporali non si fecero attendere. Apparvero al centro della caverna, nel bagliore verde-azzurro del loro teletrasporto. Si guardarono intorno e, non vedendo nessuno, mossero verso il laghetto. Avevano fatto pochi passi quando Neelah uscì dal nascondiglio e li colpì alla schiena. Aveva regolato il phaser su un settaggio altissimo, sperando di penetrare i loro scudi individuali. Funzionò. Ajur e Boratus si disintegrarono in un bagliore color fiamma, senza nemmeno avere il tempo di gridare.

   «Questo è per Kal Dano» disse Neelah freddamente e disattivò lo Sfasatore Dimensionale.

   «È già finita?» chiese Raav incredulo, uscendo dal suo nascondiglio. Non aveva neanche fatto in tempo a sparare.

   «Sembra di sì» disse la dottoressa. Non andava fiera di aver colpito i nemici alle spalle, ma la guerra era guerra. Uccidendoli aveva salvato interi pianeti; non poteva che sentirsi sollevata. «Adesso recuperiamo l’Uthat» disse, agganciandosi il phaser in cintura.

   Sostarono sull’orlo del laghetto, tutto incrostato di cristalli solforosi. «L’acqua è molto calda. Puoi immergerti senza rischi?» chiese Neelah.

   «Ah ah! Noi Gorn ci facciamo il bagno in pozze come questa!» rise Raav, e vi andò dentro senza esitazione. Sguazzò un po’ nell’acqua fumigante, tastando il fondale basso, finché i suoi artigli non trovarono quel che cercava. Trionfante, sollevò la valigetta di Kal Dano. «È nostro!» ruggì soddisfatto, tornando all’asciutto.

   «Bene... ma controlliamo, prima di portarlo via» si raccomandò Neelah. «Non si sa mai. Kal Dano aveva una mente tortuosa». Aprì la valigetta con il phaser, provando varie gradazioni per assicurarsi di non danneggiare il contenuto. E finalmente ne estrasse il Tox Uthat.

   Era ancora più piccolo di quanto la valigetta facesse immaginare, tanto che stava in una mano. Sembrava un grosso cristallo multi-sfaccettato. A seconda di come l’Aenar se lo rigirava tra le mani, scintillava in vari modi, ma non aveva una tinta prevalente: somigliava piuttosto al diamante. Emetteva una debole luce propria, simile a un bagliore lattiginoso.

   «Tutto qui? Questo diamantone fa esplodere le stelle?» chiese Raav, perplesso e un po’ deluso.

   «Anche le Sfere, mi auguro» disse Neelah. Per quanto fosse ansiosa di tornare alla Phoenix, estrasse il tricorder e cominciò a esaminarlo.

   «Allora, com’è?» chiese il Gorn.

   «Ha una struttura stranissima... non rilevo componenti tecnologici come noi li intendiamo» disse la scienziata, sforzandosi d’interpretare le strane letture. «È tutto fatto con questa matrice cristallina. Credo sia uno stato esotico della materia. Mi chiedo come si faccia a usarlo. Non vedo interfacce di sorta» commentò, rigirandoselo fra le mani.

   «Ci giocherai sull’Enterprise. Qui rischi di far esplodere il Sole» avvertì Raav. «Su, andiamo».

   «Solo un momento... cerco di rilevare la sua traccia quantica» disse Neelah. «Ecco, ci sono». Registrò la traccia sul tricorder e per buona misura se la impresse nella memoria.

   «Grazie per averci risparmiato il bagno. Ora consegnateci l’arma» disse una voce familiare alle loro spalle. L’Aenar e il Gorn si sentirono raggelare.

   «Non è possibile... vi ho uccisi!» gemette Neelah, voltandosi lentamente. Ajur e Boratus erano lì, incolumi, e li tenevano sotto tiro con le loro strane armi simili a matite rosse.

   «Quelle erano proiezioni isomorfe che abbiamo mandato in avanscoperta» spiegò Ajur. «Dopo la zuffa tra le antiche rovine, abbiamo imparato a non sottovalutare Kal Dano... né i suoi strambi alleati».

   «Stavolta non sperate di cavarvela» aggiunse Boratus. «Abbiamo capito che gli Agenti Temporali erano solo allucinazioni. Non ci cascheremo più».

   «Consegnateci l’Uthat e niente scherzi!» intimò Ajur, tenendo sotto tiro Neelah, che aveva ancora il cristallo in mano.

   «Stupidi anfibi, state giocando con poteri che oltrepassano la vostra comprensione!» sibilò l’Aenar, fulminandoli con lo sguardo.

   «Taci e dammelo!» gridò Boratus, avvicinandosi. Tese la mano a spatola per strapparle l’Uthat. Ma all’ultimo istante Neelah riattivò lo Sfasatore Dimensionale. La mano di Boratus le passò attraverso e il Vorgon incespicò in avanti. Ajur sparò, ma il raggio azzurro attraversò Neelah e l’Uthat senza danneggiarli.

   «Scappa!» gridò Raav. Afferrò Boratus per un braccio e lo scagliò dritto nella pozza sulfurea, sollevando alti schizzi. Ma fu colpito dal raggio paralizzante di Ajur e vacillò.

   Neelah esitò, restia ad abbandonare l’amico in una situazione del genere. Si passò l’Uthat nell’altra mano ed estrasse il phaser. Le servì qualche secondo per regolare lo Sfasatore in modo che la mano tornasse solida, permettendole di sparare. Nel frattempo la situazione precipitò.

   Anton Cochrane uscì dalla galleria e lanciò il suo zaino contro Ajur, per distrarla. Corse dietro ad alcune rocce, per non fare da bersaglio. Ma invece di sparargli, la Vorgon si toccò la tempia e svanì.

   «Ehi, dov’è finita?» si stupì il giovane.

   «Che ci fai qui?! T’avevo detto di andartene!» strillò Neelah, spaventata dal rischio che Cochrane correva.

   «Vi do una mano, no?» fece Anton, uscendo allo scoperto. Corse verso la sua pistola, che Raav aveva lasciato cadere. Nello stesso momento, Boratus emerse dal laghetto bollente, annaspando per tornare a riva. Ma Ajur riapparve alle spalle di Anton e gli puntò l’arma alla testa.

   «Bell’aiuto!» sbottò Neelah. Non si azzardò a sparare. Una mossa falsa e il futuro da cui proveniva sarebbe andato in fumo.

   «Getta il phaser o i tuoi amici moriranno. A cominciare da lui» minacciò Ajur, tenendo Anton sotto tiro. Boratus uscì dall’acqua e la raggiunse, puntando la propria arma contro Raav.

   Furiosa, Neelah fu costretta a obbedire. Gettò il phaser verso l’ingresso della caverna, sperando di poterlo recuperare. Intanto Boratus raccolse la pistola di Anton. La osservò con disprezzo e la gettò nel laghetto sulfureo. Con le sue mani a spatola, non avrebbe potuto usarla.

   «Bene. Ora consegnami l’Uthat» intimò Ajur, sempre minacciando Anton.

   Raav emise un ringhio cavernoso, guardando Boratus come se avesse voluto farlo a pezzi. Ma per quanto i Gorn fossero resistenti, nemmeno lui poteva sfidare la sua arma. Odiandosi per quanto stava facendo, Neelah disattivò lo Sfasatore Dimensionale. Dopo di che posò a terra il Tox Uthat e indietreggiò di qualche passo.

   «Finalmente!» esclamò Ajur. Avanzò per raccoglierlo, ma senza lasciarsi distrarre: si muoveva adagio e teneva Neelah sotto tiro. «Dopo tutte queste ricerche...» disse, sul punto di afferrare l’Uthat.

   «Indietro o apriremo il fuoco!» disse un’altra voce. I Bynari erano all’imboccatura della galleria e 0 aveva raccolto il phaser.

   «Ancora? Ma quanti siete?!» protestò Boratus, esasperato.

   «Vattene, Anton» ordinò Neelah.

   «Ma voglio aiutarvi...».

   «L’unico modo che hai di aiutarci è non fare da bersaglio. Vai, ho detto... la posta in gioco è più alta di quanto immagini!» disse l’Aenar seccamente.

   Controvoglia, Anton si diresse verso l’uscita. I Bynari tenevano Ajur sotto tiro, ma anche Boratus aveva l’arma alzata, contro Raav. Neelah aveva sempre lo Sfasatore Dimensionale, ma era disarmata. Il Tox Uthat era a terra, fra lei e Ajur. Anton pensò che non era una bella situazione in cui lasciare i suoi amici. La sparatoria poteva scoppiare in qualunque momento. Sempre più riluttante, il giovane passò dietro ai Bynari e imboccò la galleria.

   «Sali, svelto» gli disse 0.

   «Corri in superficie e non voltarti indietro» rincarò 1.

   «Però, tenete molto a quell’Umano» commentò Ajur. «Dev’essere importante per voi». Come per un tacito accordo, Boratus si girò e sparò ad Anton.

   Accadde tutto in pochi secondi. Il Bynario 1 fece scudo ad Anton, venendo colpito in testa dal raggio azzurro del Vorgon, che lo disintegrò. La morte del gregario fu un tale shock, per 0, da farlo accasciare in preda alle convulsioni. Anche Ajur rialzò l’arma e sparò, colpendo la parte alta della galleria e provocandone il crollo. Voleva intrappolare i nemici sottoterra. Ci fu uno schianto assordante e tonnellate di roccia franarono, sollevando una densa nuvola di polvere sulfurea.

   Anton Cochrane sollevò le braccia sopra la testa, per proteggersi, ed evitò il crollo risalendo la galleria. Corse per un lungo tratto, con il cuore che batteva all’impazzata, tossendo per la polvere che riempiva il tunnel. Sentiva il rumore delle rocce che continuavano a franare dietro di lui. Temeva che, se si fosse fermato per un solo istante, il crollo l’avrebbe raggiunto. Così continuò a risalire la galleria, inciampando nel buio, sbucciandosi mani e ginocchia. In qualche modo arrivò in cima e sbucò alla luce del sole. Arrancò ancora di qualche passo, mentre la polvere si sollevava dietro di lui. Aveva l’impressione che il parco gli girasse intorno e che la luce venisse meno: un principio di svenimento. Si lasciò cadere a terra, esausto e pieno di graffi, ma vivo.

 

   Sottoterra le cose non andarono meglio. Il Bynario superstite si rotolò in avanti, sfuggendo al crollo, ma perse il phaser. In ogni caso era così sconvolto che non sarebbe riuscito a usarlo. Raav scattò verso Boratus e gli afferrò il polso, torcendolo per fargli mollare l’arma. Con l’altro artiglio lo afferrò alla gola e prese a strozzarlo. Neelah disarmò Ajur con un calcio, prima che potesse sparare di nuovo. Poi le balzò addosso, la sbatté al suolo e l’immobilizzò con una presa di lotta. La Vorgon cercò di liberarsi, ma l’Aenar era molto più forte di lei. A terra, a pochi metri da loro, il Tox Uthat luccicava debolmente. Il Bynario 0 avrebbe potuto raccoglierlo, ma se ne stava raggomitolato al suolo, singhiozzando per la perdita del gregario.

   «Siamo in una situazione di stallo» constatò Ajur, smettendo di dimenarsi.

   «Non direi!» ringhiò Raav, continuando a strozzare Boratus.

   «Non vi conviene ucciderci» sogghignò la Vorgon. «Ora che la galleria è crollata, restereste intrappolati qui. Il nostro teletrasporto temporale è la vostra sola speranza di salvezza».

   «Sssshhht! Non ci veniamo con voi nel futuro!» sibilò Raav.

   «Sì, invece... è l’unica soluzione» comprese Neelah. «Lo Sfasatore Dimensionale può portare fuori solo uno di noi. Ecco, 0... prendilo». Si sganciò il congegno dalla mano e lo fece scivolare a terra, verso il Bynario. «Sai come usarlo. Prendi l’Uthat ed esci di qui. Torna alla Phoenix... e poi nel nostro secolo» raccomandò.

   Ma 0 era così sotto shock che non raccolse né lo Sfasatore, né l’Uthat, sebbene fossero a un metro da lui. Continuava a singhiozzare, raggomitolato al suolo in posizione fetale.

   «Sbrigati!» lo esortò Neelah, sentendo che la volta della caverna scricchiolava paurosamente. Un secondo, definitivo crollo era imminente.

   «Sciocchi!» gridò Ajur. Spalancò la bocca, facendone uscire una lunghissima lingua da ranocchia. Centrò l’Uthat e lo attirò a sé. Al tempo stesso batté la tempia al suolo, premendo il tasto. Tanto bastò perché il teletrasporto temporale la richiamasse a casa. Ajur svanì in un bagliore verde-azzurro, con il Tox Uthat in bocca. E con lei svanì anche Neelah, che le stava avvinghiata.

   «Dove sono finite? Dov’è Neelah?!» ringhiò Raav, strozzando Boratus ancora più forte.

   «Lo sai già... a casa nostra, nel XXVII secolo» rantolò il Vorgon. «E noi le seguiamo». Si portò una mano alla tempia e premette il pulsante. Il teletrasporto temporale fece svanire sia lui che il Gorn.

   Rimase solo il Bynario 0, nella grotta sempre più instabile. Mentre i sassi ricominciavano a franare, si trascinò verso lo Sfasatore Dimensionale e lo infilò nella piccola mano. Riuscì ad azionarlo appena prima che un macigno gli sfracellasse il cranio. Poi si mise ad arrancare al buio, attraverso la roccia solida. Le ultime parole di Neelah gli ronzavano in testa: tornare alla Phoenix... e poi nel suo secolo. Doveva raccontare cos’era successo. Sì... raccontare quanto erano stati vicini a prendere l’Uthat. Ma all’ultimo avevano fallito. E con la morte del suo gregario, il Bynario sentiva che non si sarebbe mai ripreso. Non era più 01010011; adesso era solo uno “zero”, nel vero senso della parola. Non sapeva dove fossero finiti Neelah e Raav, o come fare a salvarli.

 

   La sensazione del teletrasporto fu strana, diversa dal solito. All’arrivo Neelah e Raav si guardarono intorno stupiti. Si trovavano in una nicchia nella parete di un vasto salone, dal soffitto alto, ingombro di strumenti dall’incerta funzione. Tutto aveva colori sgargianti e un aspetto organico. Doveva essere la base Vorgon: Kal Dano aveva detto che erano esperti in cibernetica e biotecnologie.

   L’ambiente in cui si trovavano sembrava un laboratorio. La nicchia del teletrasporto aveva le pareti iridescenti e due sole pedane affiancate. Lì vicino c’era una piattaforma rialzata, sormontata da uno strano proiettore che pendeva dal soffitto. Più avanti notarono un pozzo, orlato da una sottile balaustra. Il salone era ingombro di strumenti diagnostici, salvo che per la parete di fondo, lasciata sgombra.

   «Benvenuti nel XXVII secolo» disse Ajur. «Ora lasciateci andare, se non volete finire in atomi».

   Due droni simili a pesci palla, irti di spine, galleggiavano a mezz’aria. Avevano un sottile visore rosso e una bocca da fuoco azzurrina subito sotto. Appena rilevarono gli intrusi, li presero di mira.

   Frustrata, Neelah lasciò andare Ajur. Ma Raav non sembrava disposto a fare altrettanto con Boratus e continuò a stringergli la gola. L’Aenar dovette chiedergli di fermarsi, per timore che i droni aprissero il fuoco. Il Gorn lasciò la presa con riluttanza e Boratus crollò sul pavimento, boccheggiante.

   «Ci avete dato un bel daffare» ammise Ajur. «Ma è finita. Kal Dano è morto e il Tox Uthat è in mano nostra».

   «Accertati che sia quello vero, stavolta» ansimò Boratus, rialzandosi.

   «Tra un attimo. Muovetevi, voi... in fondo alla stanza!» ordinò Ajur. Tenuti sotto tiro dai droni, Neelah e Raav obbedirono. Passando accanto al pozzo, l’Aenar vi sbirciò dentro, ma vide solo oscurità. Non sembrava un reattore... ma con la strana tecnologia Vorgon, era difficile indovinare la funzione delle cose.

   Ajur posò il Tox Uthat su un lungo tavolino e prese a sondarlo con vari strumenti. «La traccia energetica corrisponde... la struttura cristallina anche. Stavolta ci siamo, socio. È quello autentico!» si emozionò.

   «Splendido. Ora perché non uccidi i due guastafeste?» chiese Boratus, che si palpava ancora la gola.

   «Fra un attimo. Prima voglio parlare con... lui» disse Ajur. Mollò un sensore con cui aveva appena studiato l’Uthat. Stranamente, invece di posarlo sul tavolino, lo lasciò cadere a terra. Per un attimo barcollò, disorientata.

   «E che ci parliamo a fare? Abbiamo quel che volevamo. Lui non ci serve più» protestò Boratus, in tono polemico.

   «Chi può dirlo? Forse vorrà interrogare le due spie. Forse vorrà che gliele inviamo col teletrasporto» ribatté Ajur, con voce stridula.

   «Embé? Non siamo mica i suoi fattorini!» s’incaponì Boratus.

   Entrambi i Vorgon avevano un atteggiamento strano. Barcollavano, parlavano a voce alta ed erano sempre più litigiosi, malgrado quello fosse il loro momento di trionfo.

   «Ma che hanno?» bisbigliò Raav all’orecchio di Neelah.

   «Credo che soffrano di afasia sensoriale» rispose l’Aenar, ricorrendo alla telepatia per non essere sentita dagli alieni. «Colpisce chi fa troppi viaggi nel tempo, o chi usa un dispositivo non perfettamente calibrato. Somiglia a una sbornia: provoca malessere, aggressività, vuoti di memoria. Se non viene curata, può degenerare nella psicosi temporale».

   «Mi sa che ci sono dentro fino al collo» commentò Raav, osservando i Vorgon che continuavano a battibeccare. «Ben gli sta!».

   «Può essere la nostra occasione» avvertì Neelah. «Tieniti pronto!».

   «E questi?» fece Raav, accennando ai droni che li tenevano sotto tiro.

   «Quelli sono ancora più interessanti» trasmise Neelah. «Sono droni bio-meccanici, mossi da un sistema nervoso simile al nostro. Con le mie capacità telepatiche, riesco a sentire i loro... pensieri, chiamiamoli così. Se mi sforzo potrei confonderli. Forse riesco persino ad assumerne il controllo».

   «Ragazza, certe volte mi fai paura» mormorò il Gorn.

   «Basta, io lo chiamo!» gridò Ajur, trafficando con una consolle vicina al tavolino. Le luci si abbassarono e uno strano ronzio si diffuse nell’ambiente. Un cono di luce azzurrognola piovve dall’emettitore sul tavolino sottostante. Al suo interno si delineò una figura umanoide.

   Era una sagoma grigia, sfocata. Per quanto Neelah e Raav aguzzassero la vista, non riuscirono a vederne i lineamenti. Anche il vestito non presentava dettagli riconoscibili. Gli unici indizi venivano dalla sagoma generale della figura. Era umanoide, di corporatura maschile. I capelli erano a caschetto o comunque tagliati corti. Alto, magro e rigido, portava un abito attillato, forse un’uniforme. Le spalle erano piuttosto quadrate.

   «Ebbene, avete il Tox Uthat?» chiese lo sconosciuto con impazienza, senza nemmeno salutare. Anche la voce era maschile.

   «Certo, ne dubitavi? Eccolo qui!» rispose Boratus, agitandogli il cristallo sotto al naso.

   «Sicuro che sia quello buono?» insisté il misterioso individuo, come se non si fidasse.

   «Ehi, Tizio del Futuro, per chi ci prendi?» protestò il Vorgon. «L’abbiamo analizzato. Cioè... lei l’ha analizzato» disse, indicando Ajur.

   «Ci sono altre buone notizie» rivelò la Vorgon, avvicinandosi alla pedana. «Kal Dano è morto, l’ho ucciso io stessa. E abbiamo due prigionieri: un’Andoriana e un Gorn. Erano con Kal Dano e sembrano bene informati sui suoi affari. Hanno cercato di metterci i bastoni tra le ruote... ma non erano alla nostra altezza. Se vuoi interrogarli...».

   «Grazie dell’offerta. Ma se avete l’Uthat è superfluo. Sbarazzatevi di loro» disse il Tizio del Futuro.

   «Ehi, piano!» protestò Boratus. «Ricorda che non siamo ai tuoi ordini».

   «Siamo alleati» concesse lo sconosciuto. «Pertanto mi aspetto che onoriate l’accordo. Se non fosse stato per le mie informazioni, non avreste mai trovato Kal Dano. È merito mio se l’Uthat è in mano vostra. Merito una contropartita di uguale valore. Inviatemi le specifiche del vostro teletrasporto temporale».

   «Sì, questo era l’accordo» disse Ajur, con un sorriso infido. «E devo dartene atto: senza di te non avremmo mai conquistato questo tesoro. Ma dandoti la nostra stessa tecnologia, ci creeremmo un concorrente. Cosa t’impedirà di rubarci il Tox Uthat?».

   «La Galassia è grande abbastanza per soddisfarci tutti» rispose il Tizio del Futuro. «Ma non lo è abbastanza per nascondervi, se mi sfiderete!» avvertì.

   «Ma sentilo, ci minaccia!» rise Boratus, che non sembrava minimamente preoccupato. «Puoi ringhiare quanto vuoi, ma sei senza denti. Anche se vieni da cent’anni nel futuro, sei molto più arretrato di noi. Non puoi viaggiare nel tempo e non hai alcuna possibilità di colpirci! Non ora che possiamo annientare interi sistemi stellari!» esultò, innalzando l’Uthat.

   Il Tizio del Futuro allungò bramosamente una mano verso il cristallo. Ma gli passò attraverso, impotente. In fondo alla sala, Neelah e Raav s’interessavano all’alterco. Non gli era sfuggita la rivelazione: se l’informatore trasmetteva da cent’anni nel futuro, allora viveva nel XXVIII secolo.

   «Mi sottovalutate, stupidi Vorgon!» avvertì il Tizio del Futuro. «Ho servitori in ogni secolo. Vi staneranno e vi uccideranno come le bestie che siete».

   «E come faranno a consegnarti l’Uthat, sentiamo?!» chiese Boratus.

   «Gli ordinerò di nasconderlo in una località che rimarrà inviolata per un secolo. Poi, con calma, andrò là a ritirarlo» rispose lo sconosciuto, glaciale.

   «Bada a come parli... ora siamo i Signori del Tempo» avvertì Ajur. «Se ci sfidi, saremo noi a distruggerti. Anzi, a cancellarti dalla Storia!».

   «Siete due poveri balordi che hanno messo le mani su una tecnologia troppo complessa per padroneggiarla» ribatté il Tizio del Futuro, sprezzante. «Non dimenticate che è stato il vostro governo, non voi, a bombardare il laboratorio di Kal Dano. Voi avete solo approfittato della situazione. Non avete grandi risorse, solo questa miserabile base. E se non mi date subito il teletrasporto temporale, ci morirete come sorci».

   «Con quello che abbiamo in mano, presto prenderemo il posto dell’Autarca» affermò Boratus. «A quel punto distruggeremo gli Shirna, te e chiunque osi sfidarci!». Picchiò i pugni sui comandi, disattivando il collegamento. Il Tizio del Futuro svanì com’era apparso e le luci si riaccesero.

 

   «Beh, siete ancora qui?» fece Boratus, accorgendosi che Neelah e Raav avevano visto tutto. «Ora che non siamo più in affari con quel tipo, non c’è ragione di tenervi in vita».

   «Ma chi era?» chiese Raav.

   «Boh? È stato lui a contattarci, la prima volta» rispose il Vorgon. «Ci è stato molto utile... ma ora non più. Ora non ci serve più nessuno». Posò il Tox Uthat sul tavolo. «Droni, uccidete i prigio...».

   «Aspetta, ho un’idea migliore!» l’interruppe Ajur, su di giri per la psicosi temporale. «Visto che non sono mai stati nel nostro secolo, facciamogli vedere com’è». Andò a un’altra consolle e premette un comando. La parete di fondo del laboratorio, alle spalle di Neelah e Raav, divenne trasparente, lasciando filtrare una luce azzurrina. I due si girarono, meravigliati: era una grande finestra. E dall’altra parte nuotavano i pesci. La base giaceva sul fondale di un mare poco profondo, così che i prigionieri potevano vedere le creature marine che nuotavano a varie altezze.

   «È il vostro pianeta?» chiese Neelah.

   «No, ma gli somiglia» spiegò Boratus. «È la base perfetta da cui agire indisturbati. Lo conosciamo solo noi; nessun’altro ci abita».

   «Qui dentro siamo al sicuro, ma la vita là fuori è... come dire... piuttosto aggressiva» sogghignò Ajur. «Se vi trasferisco in acqua, i pesci ci metteranno pochi minuti a spolparvi. Sarà un bello spettacolo. Avanti, salite sulle pedane!» ordinò. Non le venne in mente che, per i prigionieri, sarebbe stato più sensato rifiutarsi di obbedire e farsi disintegrare dai droni. La psicosi temporale comprometteva il giudizio dei Vorgon, ma ciò non li rendeva meno pericolosi.

   «Neelah!» gemette il Gorn, vedendosi a mal partito.

   «Ci sono...» mormorò l’Aenar, toccandosi le tempie. Le sue antenne puntavano verso i droni. Questi ronzarono più forte e ondeggiarono a mezz’aria, come se avessero difficoltà a mantenere l’assetto. Lentamente, puntarono uno verso l’altro.

   «Ma che fate, stupidi aggeggi? Scortate i prigionieri al teletrasporto! E se fanno resistenza, sparategli!» urlò Boratus.

   «No!» esclamò Neelah, lottando per mantenere il controllo sui centri nervosi dei droni. Gli puntò contro le mani, con gesto imperioso. Raramente aveva portato così al limite le sue capacità telepatiche. Sentiva una scarica di adrenalina, ma sapeva che non sarebbe durata. Stringendo i denti e piegando le antenne per lo sforzo, impartì un ordine ai droni: annientarsi a vicenda. Sottolineò il comando con un gesto. Tese le braccia e accostò le mani, prima lentamente, poi più rapida, fino a batterle con forza. Quando le mani batterono, i droni si spararono a vicenda. Ed esplosero. L’onda d’urto scagliò Neelah all’indietro, contro la finestra. Lì si accasciò, stremata.

   Il laboratorio risuonò del ruggito cavernoso di un Gorn. Trionfante, Raav si scagliò contro i Vorgon. Niente poteva più trattenerlo. Piombò su Boratus, che era rimasto paralizzato dallo shock, come un tirannosauro sulla preda. Gli afferrò la brutta testa conica e gliela torse con violenza. Si udì l’orribile scrocchio delle vertebre cervicali e Boratus cadde senza vita.

   «No!» gridò Ajur, scioccata dalla morte del compagno. Corse al bancone, afferrando sia l’Uthat che l’arma-matita. La regolò su uccisione e sparò contro Raav, ma l’afasia sensoriale le fece mancare il bersaglio. Il Gorn si nascose dietro alcuni macchinari.

   «Maledetti!» strillò la Vorgon. «Non uscirete vivi da questa base. Ma io me ne andrò col mio premio!» disse, stringendo l’Uthat come se fosse un infante. Corse verso l’uscita, sulla parete opposta del salone. Al tempo stesso sparava a raffica contro il nascondiglio di Raav, impedendogli di esporsi. Diversi colpi andarono a vuoto e danneggiarono gli strumenti del laboratorio. Ci furono fiammate e getti di fumo, mentre il pavimento si macchiava di liquidi organici simili a sangue. Ajur rise istericamente, continuando a sparare, e arretrò verso la porta. Così facendo passò molto vicina al pozzo. E da dietro la balaustra scattò Neelah, ancora debole, ma decisa a fermarla.

   Ajur la vide con la coda dell’occhio e si girò, sparando all’impazzata. Ma prima che potesse mirarla, l’Aenar le fu addosso. Le afferrò i polsi, per costringerla a mollare sia l’arma che l’Uthat. Il risultato fu che un raggio azzurro colpì la finestra e la perforò, tracciando un lungo squarcio. Un fiotto d’acqua marina si riversò nel laboratorio, con la violenza dovuta alla pressione sullo scafo esterno. In pochi minuti l’ambiente si sarebbe allagato.

   «Molla!» gridò Neelah. Ruppe il polso destro all’aliena, facendole cadere l’arma-matita. Subito la calciò via, verso l’acqua che saliva a ondate. Intanto Raav uscì dal suo nascondiglio fumigante e corse a darle manforte.

   Pur nel suo stato mentale precario, Ajur comprese di essere spacciata. Neelah la teneva impegnata, Raav stava arrivando e l’acqua saliva. Ma poteva ancora vanificare i loro sforzi. «Non l’avrete mai! Se non sarà mio... non sarà di nessun altro!» strillò la Vorgon. Si liberò la mano sinistra con uno strattone e scagliò il Tox Uthat dritto nel pozzo.

   «No!» gemette Neelah. Mollò Ajur e si precipitò alla balaustra. Non c’era niente da fare: l’Uthat era scomparso nell’inghiottitoio. Era un pozzo profondo, con le pareti lisce. Nulla poteva arrestare la caduta del cristallo. L’Aenar si accasciò sulla balaustra, esausta e svuotata. Era stato tutto vano.

   «Che c’è là in fondo?!» ruggì Raav, afferrando Ajur per la gola.

   «Condotti di energia e serbatoi del carburante organico che alimenta l’installazione. Non ritroverete l’Uthat... non ora che l’acqua sta salendo!» rise la Vorgon. «La base è piccola, non ci metterà molto a riempirsi. Moriremo insieme... e l’Uthat finirà ai pesci!». Continuò a ridere come una demente.

   «Forse moriremo... ma tu ci precederai, brutta ranocchia!» ringhiò Raav. Le spezzò il collo come aveva fatto con Boratus e scaraventò via il corpo senza vita.

   «Non è detto» disse Neelah, staccandosi quasi controvoglia dalla balaustra. «Abbiamo il loro teletrasporto temporale. Possiamo andare dove – e quando – vogliamo».

   «Riesci a usarlo?» si stupì Raav.

   «Questo è il problema» ammise l’Aenar, correndo verso la consolle di comando. «La tecnologia Vorgon è molto diversa dalla nostra. Sono brava a capire le interfacce aliene, ma... stavolta mi manca il tempo». Prese ad armeggiare con i controlli.

   «Cerco di dartene un po’» disse Raav. Prese i resti di una consolle distrutta, strappandoli completamente dal basamento, e li usò per tenere aperta la porta del laboratorio. Così l’acqua che continuava a entrare si sarebbe sparsa per tutta l’installazione. Fuori dal laboratorio c’era un corridoio con altre porte. Il Gorn fece in modo che restassero aperte, ingombrandole con vari oggetti, per guadagnare altri minuti preziosi. Tuttavia, quando tornò nel laboratorio, l’acqua era così alta che superava la balaustra e precipitava nel pozzo, con un rombo da cascata. «Allora?» chiese a Neelah, china sui comandi del teletrasporto.

   «La matrice linguistica del tricorder ha tradotto la lingua Vorgon» spiegò la scienziata, senza neanche alzare gli occhi. «Sto cercando di orientarmi. Qui c’è un indice temporale» disse, indicando un complesso display. «Posso inserire le coordinate spazio-tempo d’arrivo e il computer mi indica i principali eventi storici che troverò. Questo, per esempio, è l’inizio della Guerra delle Anomalie». Doveva quasi urlare per farsi sentire sopra lo scroscio dell’acqua.

   «Bene, ma noi dobbiamo andare tre anni dopo».

   «Sì, sto cercando di trovare il punto esatto» annuì la dottoressa, scostandosi i capelli bagnati dalla faccia. «Questa è la distruzione di Khitomer. Ecco, qui è pressappoco dov’eravamo prima dell’incidente con la Phoenix!».

   «Giorno più, giorno meno, non importa. Mandaci da qualche parte sulla Terra!» raccomandò il Gorn, mentre l’acqua continuava a salire.

   «Ci provo... ma cos’è quest’avviso?» si stupì l’Aenar. «Battaglia di Sol... data stellare... un mese dopo la nostra partenza!» lesse, sgranando gli occhi.

   «Non dovremmo conoscere il futuro...».

   «Questo è troppo importante. Dice che i Vorgon hanno attaccato...» lesse Neelah, ma la voce le morì in gola. «Oh, no. Dobbiamo avvertirli» mormorò, sentendosi come sprofondare. Le sue dita guizzarono sui comandi, inserendo la destinazione. «Se avessi più tempo, potrei calibrare meglio l’arrivo...».

   «Non ne abbiamo. L’acqua sta salendo e questi circuiti potrebbero andare in corto da un momento all’altro» avvertì Raav, preoccupato. «Se non andiamo subito, è finita. Non potremo avvertire nessuno!».

   Ormai l’acqua arrivava a un metro d’altezza e saliva sempre più in fretta. Alcuni pesciolini erano passati dallo squarcio e nuotavano nel laboratorio allagato. Il pozzo si era colmato, ma il Tox Uthat non galleggiava, quindi doveva trovarsi ancora sul fondo, irraggiungibile.

   «Ecco, ci sono!». Neelah impostò i comandi finali e si precipitò sulla pedana del teletrasporto. Ormai bisognava nuotare, più che camminare. Raav le venne a fianco, intirizzito dall’acqua fredda.

   «Sarà il secondo trasferimento in pochi minuti» disse la scienziata. «All’arrivo potremmo soffrire di una lieve afasia sensoriale. Ma dobbiamo mantenere la lucidità. Dobbiamo dare l’allarme, altrimenti...».

   Il teletrasporto si attivò prima che terminasse la frase. Il raggio verde-azzurro dei Vorgon agganciò Neelah e Raav, trasferendoli indietro di oltre un secolo, ad anni luce di distanza. Pochi attimi dopo un corto circuito mise fuori uso il sistema energetico principale. La base Vorgon continuò a imbarcare acqua, fino a riempirsi completamente. A quel punto non era che un relitto abbandonato, sul fondo di un mare alieno. E il Tox Uthat riposava ancora nelle sue viscere. Chiuso in quella tomba metallo-organica, ancorata in fondo al mare, il cristallo attese: spento, ma non distrutto.

 

 

-Intermezzo 5:

 

100.000 anni fa

Luogo: Terra

 

   «Quanto ghiaccio» commentò il Leader Supremo, osservando il globo bianco e azzurro della Terra dallo schermo principale. Le calotte polari erano incredibilmente estese. Quella artica, in particolare, copriva metà dell’Europa. Trilioni di tonnellate di ghiaccio schiacciavano il continente, serrandolo in un inverno perenne. Lo stesso accadeva in Siberia e nel Nord America. Con tutta quell’acqua congelata, il livello dei mari era molto basso. Le piattaforme continentali erano messe a nudo e lingue di terra collegavano le isole maggiori ai continenti. Persino l’Australia era connessa al sud-est asiatico.

   «È in corso un’era glaciale, come spesso accade su questo pianeta» disse l’addetto ai sensori. «Eppure i nativi riescono a sopravvivere, padroneggiando il fuoco. Ci sono diverse specie e sotto-specie, molte delle quali interfertili».

   «Si accoppiano tra diverse sotto-specie... che animali» commentò il Leader Supremo, arricciando il naso disgustato. «Che altro sappiamo di loro?».

   «Le squadre esplorative hanno riferito che i nativi riescono a cacciare grandi animali, con lance dalla punta indurita sul fuoco» proseguì l’ufficiale. «Scolpiscono statuette, dipingono le pareti delle caverne. Alcuni seppelliscono i morti, altri li mangiano».

   «Disgustoso. Ma per fortuna i giorni della barbarie stanno per terminare» disse il Leader Supremo. «Questi selvaggi si adatteranno a servirci. Elimineremo le razze più primitive. Coltiveremo i ceppi più intelligenti... e più obbedienti. Alla fine ci saranno grati. Qual è il luogo migliore da cui cominciare?».

   «Sicuramente quel grande continente» rispose l’ufficiale, indicando l’Africa. La porzione settentrionale era una terra verde e bella, costellata di laghi e fiumi. Ci vivevano grandi mammiferi, cacciati dalle molte sotto-specie del genere Homo. Una di esse, l’Homo sapiens sapiens, già scrutava il cielo, chiedendosi cosa fossero quei puntini luminosi che rischiaravano la notte. A sera, attorno al fuoco del bivacco, gli anziani delle tribù raccontavano storie di spiriti e antenati, ignari della minaccia che gravava su di loro.

   «Sì, ottima bio-diversità» annuì il Leader Supremo, leggendo lui stesso il rapporto dei sensori da uno schermo olografico. «È il luogo più promettente. Richiamate gli esploratori e dite alle truppe di prepararsi».

   «Agli ordini, Leader Supremo».

   L’interesse per le specie primitive era insolito nei Na’kuhl. Avevano prosperato per centinaia di millenni, in quasi totale isolamento. Legati al loro mondo d’origine, non si erano sparpagliati nella Galassia come altre specie. Non avevano costruito grandi imperi come gli Tkon e gli Iconiani, perché sapevano a cosa ciò avrebbe portato: diluirsi nei loro nemici fino a sparire. No, i Na’kuhl erano fermamente determinati a restare puri, sia nella cultura, sia nel genoma. Ma la Galassia attorno a loro cambiava. Il numero di specie avanzate cresceva in modo esponenziale. I Na’kuhl avevano compreso che presto ne sarebbero stati circondati, sommersi, soffocati. Dovevano allargare i loro confini e sottomettere altre specie. Conquistare pianeti come la Terra, abitati da popoli selvaggi, pareva loro un buon inizio.

   «Ora basta, creature immonde! Avete passato il segno!» tuonò una voce cavernosa, che non sembrava venire da un punto preciso.

   «Chi osa?!» esclamò il Leader Supremo, balzando in piedi.

   «Noi siamo i Q: entità di puro pensiero, che vivono oltre la vostra limitata concezione di spazio e tempo» disse la voce, che parve scomporsi in un coro. Tre luci intensissime comparvero in plancia. I Na’kuhl, abituati all’oscurità, ne furono abbagliati e dovettero distogliere lo sguardo. «Per Ere interminabili abbiamo osservato le vostre malefatte e il nostro disgusto non ha fatto che crescere» disse il terribile coro di voci.

   «Siete come gli Organiani?» chiese il Leader Supremo, schermandosi gli occhi con le mani.

   «Noi siamo oltre Organia... noi siamo eterni. Esistevamo prima del Big Bang, esisteremo ancora quando il vostro Universo si raggelerà» fu la terribile risposta. «Quando davate la caccia ai pacifici Organiani, noi eravamo lì. Quando distruggevate il sole di Tkon, quando aizzavate la guerra civile su Arret, quando istigavate i sudditi di Iconia a rivoltarsi... noi vedevamo tutto. E soffrivamo per la vostra perfidia. Abbiamo atteso, perché il sorgere e il tramontare delle potenze fa parte dell’ordine naturale del cosmo. Ma voi siete divenuti una piaga, un cancro della Galassia. Voi non tramontate mai; e se qualcun altro accende una luce, voi la spegnete».

   «È la sola via per la grandezza: non avere eguali» sogghignò il Leader Supremo. «Ha sempre funzionato bene».

   «Ora non più. Il nostro tribunale ha raggiunto il verdetto, ed è unanime» annunciò la voce dei Q. «Sarete relegati in eterno su quella roccia nera che vi ha generati. La sentenza è senza appello e sarà eseguita seduta stante. Così dice il Continuum Q».

   «Follia! Non avete il diritto d’intervenire nei nostri...» cominciò il Leader Supremo, ma il bagliore divenne così accecante che dovette coprirsi gli occhi. Ci fu un ronzio ed ebbe la sensazione di venire teletrasportato. Quando osò riaprire gli occhi, vide che i Q avevano abbandonato la plancia. Ma anche la Terra era svanita dallo schermo. Al suo posto vi era il disco nero di Na’kuhl Primo. E al di là di esso...

   «Cos’è quel graticcio?» chiese il Leader Supremo. Lo spazio intorno a Na’kuhl era circondato da un reticolato di barre luminose, bianche e arancioni.

   «Qualcosa di mai visto prima» disse l’Ufficiale Scientifico, scorrendo allibito il rapporto dei sensori. «Sembra un campo di forza d’incredibile potenza, ma oscilla come se fosse un corpo solido. La sua estensione...». Il Na’kuhl non impallidì solo perché era già cadaverico. «Mio signore, forma una bolla che circonda completamente il pianeta! E le nostre flotte!».

   «Non è possibile!» gridò il Leader Supremo.

   «C’è di più... ogni singola nave e caccia che avevamo dispiegato nella Galassia si trova qui. Ci chiamano a migliaia. E ci chiamano anche dal pianeta. Sembra che tutti i nostri coloni siano lì. La nostra intera civiltà è stata... riportata a casa» aggiunse sgomento.

   «No, no... sparate contro quella barriera! Voglio che ogni nave apra il fuoco, immediatamente!» ordinò il Leader Supremo, vagando nella plancia come una belva in gabbia.

   «Agli ordini».

   Migliaia di Navi Vampiro e Caccia Ombra diressero i loro raggi disgregatori verso la barriera dei Q, senza alcun esito. I Droni Zecca la raggiunsero, ma non riuscirono ad agganciarsi alla sua superficie cangiante, né ad assorbirne l’energia. Poterono solo esplodere; ma anche questo non sembrò indebolirla. Il campo di forza formava una bolla perfetta, riempiendo anche le maglie della rete, che evidentemente erano solo le zone di massima energia. I Na’kuhl erano in trappola.

   «Le nostre armi sono inefficaci...».

   «Alcune navi stanno cercando di aprire dei tunnel spaziali, ma senza esito...».

   «Possiamo ricevere le trasmissioni dall’esterno, ma non trasmettere...».

   Le voci concitate dei Na’kuhl si confusero nella mente del Leader Supremo. La testa gli girava, tanto che dovette tornare a sedersi, con il capo fra le mani. La sua mente analitica esaminava una possibilità dopo l’altra e fatalmente le scartava. I Q erano potenti e astuti: avevano previsto ogni contromossa.

   «È inutile che vi affanniate» tuonò un’ultima volta la voce dei Q. «Questa barriera è fatta per durare in eterno. Nessuna forza del vostro Universo potrà mai scalfirla. Questa è la vostra condanna».

   «No» gracchiò il Leader Supremo, vedendo sgretolarsi i suoi piani di conquista. La sua specie superiore... ridotta all’impotenza in un istante, per il capriccio di quelle entità sconosciute! Non era giusto. Non doveva finire così. Non poteva essere finita.

   «No, no... NOOOOOOO!!!» ululò, gettando indietro la testa glabra e scoprendo i denti acuminati. Gli echi di quel grido animalesco si rincorsero per i corridoi della nave tenebrosa e infine morirono, lasciando un gelido silenzio.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Il mondo oscuro ***


-Capitolo 7: Il mondo oscuro

 

   «Che cosa sappiamo dei Na’kuhl?» chiese Lantora.

   «Quasi nulla» rispose Terry. «Sono una delle specie più misteriose del Quadrante Alfa: finora solo i Breen hanno avuto limitati contatti con loro».

   «E anche i Breen non sono esattamente tipi socievoli» commentò Ilia, ricordando la prigionia patita nella Guerra del Dominio. I tre federali erano nascosti in una stanza con una fontana che emetteva un fluido organico scuro, simile a petrolio. Otto canaletti, disposti la raggiera, lo indirizzavano nelle varie zone della Ruota da Guerra. Se fosse carburante, lubrificante o altro, non lo sapevano; ma l’odore non era dei più gradevoli.

   «Pare che Na’kuhl Primo sia un pianeta errante, orfano della sua stella» proseguì Terry, seduta con la schiena contro la fontana. «Si trova da qualche parte oltre lo spazio Breen, probabilmente non lontano dal confine con il Quadrante Gamma. Ma le sue coordinate precise sono ignote».

   «Ma che sa dei suoi abitanti?» insisté Lantora, seduto di fianco a lei.

   «Nulla di certo; su di loro circolano più che altro leggende» spiegò Terry.

   «Ce le dica comunque» esortò Ilia, seduta dall’altro lato.

   «A quanto pare i Na’kuhl hanno origini antichissime, ma sono xenofobi e isolazionisti» rivelò l’IA. «L’aspetto di Vosk corrisponde alle loro descrizioni: umanoidi alti e pallidi, con gli occhi rossi. Essendosi evoluti su un pianeta senza sole sono foto-fobici. Pare inoltre che abbiano il sangue giallo, perché a base d’iridio: un fenomeno rarissimo tra le specie umanoidi» aggiunse Terry. «Della loro scienza non si sa nulla... ma essendo così antichi, è probabile che abbiano raggiunto un elevato livello tecnologico».

   «È strano che la Flotta non ci tenga informati; sembrano tipi pericolosi...» commentò Lantora.

   «Come dicevo, fino a oggi erano considerati praticamente una leggenda» spiegò Terry. «Si dice che in un remoto passato fossero potenti e terrorizzassero la Galassia. Ma un giorno sparirono dalla circolazione e nessuno sa perché».

   «La Messaggera ha detto che il suo popolo li ha liberati dal confinamento» ricordò Ilia. «Questo può spiegare tutto. Ai Tuteriani servono alleati e sono andati a cercare i più pericolosi: quelli che hanno perso l’antico potere e vogliono vendetta contro le specie più giovani».

   «Probabilmente è così» convenne Terry. «Dobbiamo scoprire il più possibile sui Na’kuhl, il loro mondo e la loro tecnologia».

   «Devono essere potenti, o i Tuteriani non si sarebbero scomodati a reclutarli» disse Lantora.

   «Ormai sappiamo l’essenziale» tagliò corto Ilia. «Vosk ha detto che colpirà la Federazione al cuore. Dobbiamo avvertirla».

   «La tecnologia Vorgon è diversa dalla nostra: anche se c’impadroniamo di un veicolo, non sarà facile pilotarlo» rifletté Lantora. «Per fortuna abbiamo un’esperta in tecnologie esotiche» aggiunse, guardando Terry speranzoso. Ma l’IA non rispose.

 

   Nei giorni seguenti, i federali tentarono inutilmente di lasciare la Ruota da Guerra. Ma scoprirono che ogni caccia e ogni navetta aveva comandi che riconoscevano il DNA del pilota: nemmeno un altro Vorgon avrebbe potuto impadronirsene, figurarsi un alieno. I comandi avevano inoltre interfacce neurali, che richiedevano ai piloti di avere microchip impiantati nel cervello. Nemmeno Terry, con le sue abilità di mutaforma, poteva imitare una tecnologia organica così complessa e in gran parte sconosciuta. Più di una volta i federali rischiarono di essere scoperti, finché si arresero all’evidenza: non erano in grado di lasciare l’astronave.

   «Potremmo tentare il tutto per tutto» suggerì Lantora. «Prendiamo in ostaggio l’Autarca! Lo useremo come scudo, obbligando i Vorgon a lasciarci andare su una navetta».

   «Ci avevo pensato» disse Ilia. «Finora il nostro unico vantaggio è che i Vorgon non sanno di averci a bordo. Se assaltiamo la plancia, ci troveremo a combattere in condizioni sfavorevoli. I Vorgon hanno una tecnologia evoluta, che ancora non comprendiamo. E giocano in casa. Potrebbero teletrasportare in salvo l’Autarca o trasportare noi in cella. No... non può finire bene».

   «Crede che quando saremo su Na’kuhl Primo le cose andranno meglio?» chiese Lantora, scettico.

   «Sarei folle a pensarlo» ammise Ilia, con un sorriso amaro.

 

   Dopo tre giorni di viaggio, l’altoparlante avvertì che la Ruota da Guerra era uscita dalla transcurvatura. I tre federali si precipitarono alla finestra da cui avevano osservato la distruzione dell’USS Sojourner. Videro la flotta Vorgon dispiegata: Ruote da Guerra contornate da escrescenze affilate, Incrociatori da cui spuntavano sottili tentacoli, piattaforme da bombardamento simili a meduse, caccia e bombardieri che sfrecciavano ovunque.

   «Potrebbero prendere d’assalto il sistema solare con queste sole forze» constatò Ilia, sconfortata. «Ma dove sono i Na’kuhl?».

   «Laggiù» disse Terry, indicando uno scuro disco che occultava le stelle. A prima vista poteva sembrare un buco nero, ma non c’era distorsione luminosa ai margini: era un pianeta roccioso. In mancanza di luce non si riusciva a scorgere la sua conformazione geografica. I pianeti erranti erano piuttosto comuni nella Galassia, poiché le complesse interazioni gravitazionali che portavano alla formazione dei sistemi stellari ne espellevano spesso uno o più corpi. Di solito la mancanza di luce e calore ne faceva delle lande gelide. Non erano adatti a far nascere la vita, a meno che non avessero sorgenti idrotermali. Anche così, era difficilissimo che gli organismi si sviluppassero in forme complesse e intelligenti. Na’kuhl Primo era uno di quei rari casi.

   La Ruota da Guerra mosse decisamente verso il pianeta nero, tanto che i federali ebbero l’impressione di precipitarvi contro. Potenti fari scaturirono dalle navi Vorgon, illuminando alcuni settori della superficie. Per pochi secondi, i federali ebbero la visione di quel mondo.

   Era l’esatto opposto di Vorgon. Terribilmente vecchio, coperto da rocce basaltiche nere che gli davano un aspetto corrugato e malvagio, Na’kuhl Primo era fortemente craterizzato. Se fossero impatti d’asteroidi, vulcani estinti o le cicatrici di antiche esplosioni, non era dato sapere. Vi erano montagne dalle creste affilate, lunghi canyon sbadiglianti, vasti deserti rocciosi dal suolo scuro e riarso. Non c’era acqua in superficie, né allo stato liquido, né sotto forma di ghiaccio. Di conseguenza non c’era segno di vegetazione, che peraltro non avrebbe mai potuto evolversi, in mancanza di luce.

   «Sembra completamente privo d’atmosfera e idrosfera. Mi chiedo come abbiano fatto i Na’kuhl a evolversi» commentò Terry.

   «Forse le condizioni non sono sempre state così ostili» ipotizzò Ilia, ma anche lei era stupita e preoccupata da quello spettacolo.

   «La mancanza d’acqua sarà un problema» notò Lantora. «A lei quanta ne resta, Comandante?».

   «Poca» sospirò la Trill, controllando le sue scorte. Nei tre giorni a bordo, i federali non erano riusciti ad approvvigionarsi. Avevano barrette proteiche ancora per parecchi giorni, ma presto la sete li avrebbe minacciati.

   «Se penso a quanta acqua c’era su Vorgon...!» si rimproverò Lantora.

   «Guardate» li richiamò Terry, indicando il paesaggio oltre la vetrata. La Ruota da Guerra, che negli ultimi minuti aveva sorvolato un deserto costellato di crateri, stava perdendo quota. Al tempo stesso rallentava, permettendo di vedere meglio la superficie. Era una landa spettrale, disseminata da rocce nere, simili a zanne uscite dal terreno. L’astronave si fermò sopra quello che sembrava un profondo cratere.

   «I Na’kuhl avranno trasmesso ai Vorgon delle coordinate precise» disse Lantora. «Ma che bisogno c’è d’atterrare? L’Autarca poteva teletrasportarsi dall’orbita».

   «Non credo che atterreremo» disse Terry, enigmatica.

   «E allora che...» cominciò lo Xindi, ma si fermò a metà frase. La Ruota da Guerra si era lasciata cadere verso il basso. Gli smorzatori inerziali mantennero la gravità a bordo, ma il paesaggio esterno fu sostituito dalle pareti buie del pozzo, poco più ampio dell’astronave.

   «Non è un cratere, ma un ingresso» constatò Terry. «Ce ne saranno altri, mimetizzati fra i crateri autentici. In mancanza d’atmosfera, è chiaro che i Na’kuhl vivono in profondità nella crosta del pianeta».

   «Forse è tutto crosta» ipotizzò Lantora. «Potrebbe essere un pianeta di classe C, geoinattivo».

   «Accetto la sua ipotesi per la litosfera e il mantello» disse Terry, osservando la finestra buia e cercando di valutare la velocità alla quale scendevano. «Ma credo ci sia un nucleo attivo, dal quale gli alieni ricavano energia. Altrimenti non vedo come potrebbero sopravvivere».

   «Se questo schifo di pianeta è l’unico che hanno, non mi stupisco che vogliano espandersi» disse lo Xindi. «Se solo non fosse a nostro danno!».

 

   Dopo una lunghissima discesa, la Ruota da Guerra si adagiò in una vasta caverna, dal soffitto debolmente illuminato di rosso. Terry calcolò che fossero a migliaia di km nel sottosuolo. Una sezione dello scafo inferiore della Ruota si abbassò come una pedana, consentendo all’Autarca e alla sua delegazione di sbarcare. I Na’kuhl li attendevano a poca distanza.

   Era il momento di muoversi. Attivato l’occultamento, i federali seguirono il variopinto corteo Vorgon giù per la rampa. Avevano attivato il casco, ma le letture atmosferiche confermarono che c’era aria respirabile. D’altronde l’Autarca e gli altri Vorgon procedevano a capo scoperto. L’atmosfera era l’opposto di Vorgon: secca e rarefatta, povera d’ossigeno. Sulla Terra c’erano condizioni simili solo in alta montagna; ma lì si era migliaia di km nel sottosuolo, tra il mantello e il nucleo del pianeta.

   Innervosito, Lantora osservò la volta della caverna. La luce fioca e rossa veniva da chiazze che potevano essere di muschio o lichene. Qualunque vegetazione fosse, evidentemente non era fotosintetica, visto che emetteva luce anziché assorbirla. «Non mi piace avere tutta questa roccia sopra la testa. Siamo come sorci in gabbia, se mi passate il termine» disse via radio.

   «Mi chiedo quale sia la stabilità geologica del pianeta» commentò Terry. «Se l’intera civiltà Na’kuhl abita il sottosuolo, il sistema di caverne dev’essere molto esteso. A questa profondità, ciò può influire negativamente sull’integrità planetaria».

   «Sta dicendo che il pianeta potrebbe andare in pezzi?!» esclamò Lantora, sentendosi ancora più schiacciare dalla volta rocciosa.

   «Se il perforamento è abbastanza esteso, sì. Come accadde a Praxis, la luna di Kronos» confermò Terry.

   «Restate concentrati» li richiamò Ilia. La delegazione Vorgon era ormai davanti al comitato di ricevimento. C’erano Na’kuhl di ambo i sessi. Gli uomini erano tutti calvi, con rozzi lineamenti da vampiro e occhi rosso fuoco. Le suture craniche in evidenza e l’intrico di vene azzurre che correvano sottopelle li rendevano ancora più sinistri. Le donne, invece, avevano lunghi capelli lisci, bianchi come la neve. I lineamenti erano più fini, ma gli occhi erano uguali, scarlatti e inquietanti. Maschi e femmine avevano la pelle pallida, con diverse sfumature che andavano verso il grigio cenere, il beige o anche il violetto. Le uniformi, aderenti e senza orpelli, ricordavano la pelle scagliosa dei serpenti. Ce n’erano di bronzee e di verdognole; quella di Vosk era nera.

   «Benvenuti nella mia umile dimora» esordì Vosk, con una punta d’ironia. «Apprezzo che siate giunti con tanta rapidità».

   «Non c’era ragione d’attendere» rispose Cletus. «Come lei ha giustamente notato, dobbiamo agire in fretta per cogliere il nemico di sorpresa. E sono impaziente di scoprire quali siano i suoi piani per la Terra».

   «Soddisferò la tua curiosità, Autarca, non appena il nostro consesso sarà al completo» rispose Vosk. «La Messaggera può manifestarsi quando vuole, ma l’Ammiraglio Hortis è in viaggio. Mi ha informato che gli occorre ancora un giorno per raggiungerci. Nel frattempo tu e il tuo seguito siete miei ospiti».

   A nessuno sfuggì che, mentre l’Autarca usava una certa deferenza nel rivolgersi a Vosk, questi gli dava del tu. Per quanto parlasse in termini rispettosi, rimarcava in continuazione la propria supremazia.

   «Aspetterò» disse Cletus. «Ma credo che lo farò sulla mia nave; la vostra atmosfera scarseggia d’ossigeno».

   «Spero che non vi sentiate male» disse una Na’kuhl dai capelli lunghi e la pelle violetta. Aveva un’uniforme nera e sembrava uno dei maggiori gerarchi di Vosk. «Il nostro pianeta è molto diverso dal vostro».

   «È una differenza tollerabile, almeno per qualche ora, signorina...?» chiese l’Autarca.

   «Stratega Ifrit» si presentò la Na’kuhl, ma invece di avvicinarsi andò accanto a Vosk, come per rimarcare l’alta considerazione di cui godeva. Malgrado le buone maniere, c’era qualcosa di beffardo in lei: forse il tono di voce, forse la piega della bocca.

   «Bene, uhm... visto che dovrò trattenermi un po’, perché non mi dice qualcosa del suo mondo?» domandò Cletus, rivolgendosi nuovamente a Vosk. «Ora che siamo alleati, me lo deve».

   «Ti ho già fatto una concessione notevole, invitandoti qui» disse Vosk. «La posizione di questo pianeta è un segreto che deve essere conservato. Ma se fosse per te, sarebbe già arrivato all’orecchio della Federazione!» aggiunse in tono di rimprovero.

   «Ehm, al riguardo, volevo ringraziarla per avermi informato della nave federale» balbettò Cletus, imbarazzato. «Le piacerà sapere che l’abbiamo distrutta. E dalle scansioni tetrioniche non risulta che ce ne fossero altre. Dev’essere stata una mossa degli Shirna: non sono ancora nella Federazione e già ci fanno spiare!».

   «Uhm, forse» disse Vosk, ma sembrava poco convinto. «Ad ogni modo, stai più attento alle spie. Non possiamo permetterci una fuga di notizie». I Na’kuhl scrutarono la delegazione Vorgon con i loro occhi rossi.

   Dietro ai Vorgon, i tre federali s’immobilizzarono. Per quanto le loro tute occultanti funzionassero perfettamente, avevano motivo di stare in ansia. Vosk aveva rilevato la Sojourner occultata in un altro sistema stellare, a mezzo quadrante di distanza dal suo pianeta. Anche se probabilmente aveva una sonda nelle vicinanze, era un’impresa notevole. Possibile che non si accorgesse della loro presenza, lì a pochi passi? Se i Na’kuhl avessero fatto scansioni approfondite degli ospiti, era possibile che rilevassero gli intrusi. E solo un folle si sarebbe aspettato un trattamento meno che crudele.

   «Sorvegli i suoi confini, che noi sorveglieremo i nostri» disse Cletus, rompendo il silenzio imbarazzante. «Quanto alla mia richiesta, è perfettamente legittima. È chiaro che voi ci conoscete piuttosto bene. Io, invece, mi domando perché rimaniate su questo pianeta che – diciamo la verità – non è adatto a sostentarvi. Perché non vi siete trasferiti?».

   «Leader Supremo... se i Vorgon combatteranno al nostro fianco, meritano qualche spiegazione» intervenne Ifrit, conciliante.

   Vosk la guardò stupito, ma poi si adeguò al suo tono. «Molto bene, ve lo concedo» disse ai Vorgon. «Naturalmente non divulgherete queste informazioni» aggiunse, con un tono discorsivo che però tradiva la perentorietà di un ordine.

   Il Leader Supremo prese a passeggiare accanto all’Autarca, mentre i rispettivi gerarchi li seguivano a breve distanza. I federali, rimasti indietro, osarono finalmente muoversi. Lantora aveva trattenuto il fiato. Gli sembrava che gli occhi rossi dei Na’kuhl avessero il potere di penetrare l’occultamento e leggergli finanche i pensieri. Ma almeno per il momento era evidente che non era così. Con passo felpato, i federali seguirono il doppio corteo, che si stava infilando in una galleria.

   «Dovete sapere che noi Na’kuhl siamo uniti al nostro mondo da un legame che oso definire mistico» spiegò Vosk. «Mentre l’atmosfera si dissolveva, portando via con sé l’acqua e la vita in superficie, i nostri remoti progenitori si evolsero nelle caverne. Le altre specie viventi si estinguevano intorno a noi, vinte dalla mancanza di risorse, ma i nostri avi resistettero. Impararono a essere forti, astuti, perseveranti. Così diventammo ciò che siamo: una razza forgiata da un’evoluzione spietata, che ci ha purificati da ogni imperfezione. Mentre il tempo scorreva incalcolabile, scavammo insediamenti sempre più profondi, per attingere al calore in esaurimento del nucleo. Al tempo stesso perfezionammo le nostre tecnologie, consci che non avremmo potuto scendere in eterno: prima o poi avremmo dovuto innalzarci alle stelle.

   E venne il giorno in cui solcammo gli abissi dello spazio. Scoprimmo alcuni mondi vergini e li piegammo alle nostre necessità. Ma non sentivamo il bisogno di disperderci più di tanto, legati com’eravamo al nostro aspro, ma beneamato pianeta. Per molto tempo osservammo una Galassia selvaggia, popolata da specie brute. Poco alla volta, alcune si elevarono, minacciando di soppiantarci. Non potevamo permetterlo; così indirizzammo la nostra tecnologia allo sforzo bellico. Combattemmo gli Organiani prima che ascendessero. Abbattemmo l’Impero Tkon, distruggendo la sua stella, e poi l’Impero Iconiano, sobillando i popoli assoggettati. Portammo alla rovina i titani di Arret e i costruttori d’androidi di Exo III. Se una civiltà era primitiva le consentivamo di vivere indisturbata... ma se sfidava la nostra supremazia, presto o tardi ne pagava il prezzo».

   I federali si scambiarono sguardi inorriditi. «Questo riscrive completamente la storia galattica» mormorò Terry. «I Na’kuhl potrebbero aver rallentato il progresso dei popoli per milioni di anni».

   «Li hanno sterminati» disse Lantora con voce roca. «Noi siamo stati risparmiati solo perché eravamo primitivi».

   «Ma cosa li ha fermati?» si chiese Ilia.

   Intuendo la curiosità dei Vorgon, il leader Supremo rispose al quesito: «La nostra politica funzionò a lungo, ma col tempo la Galassia cominciò a farsi affollata. Le nuove specie erano sempre più numerose e intraprendenti. Vedendo che colonizzavano pianeti molto più in fretta di noi, decidemmo di cambiare strategia. Anche noi avremmo fondato un Impero, assoggettando i primitivi. Ma il destino, ahimè, aveva altro in serbo». Vosk chinò il capo e strinse gli occhi, finché divennero due fessure scarlatte.

   «Una specie onnipotente, i Q, emise una tremenda condanna contro di noi: trasferì tutta la nostra civiltà indietro su questo pianeta e lo circondò con una barriera impenetrabile. Navi, teletrasporto, tunnel spaziali... nulla poteva uscire. Eravamo confinati qui, per l’eternità. O meglio, fino all’esaurimento delle risorse... che per noi significa il raffreddamento del nucleo. Avevamo già scavato a fondo per inseguire il calore morente. Dovemmo farlo ancora. Per una lunga era di stenti, perforammo il nostro povero pianeta fin quasi al nucleo. Le nostre città sono fatte a livelli: man mano che il calore diminuiva, noi ne aggiungevamo altri, sempre più profondi, abbandonando quelli superiori. Ed ecco il risultato della nostra condanna!».

   Il tunnel sbucò in un’immensa caverna. La parete di fronte in realtà non era molto lontana, ma quelle laterali si perdevano in lontananza, e lo sviluppo in altezza sembrava ancora maggiore. I Vorgon si guardarono intorno sbalorditi, così come i tre federali.

   Licheni rossi rilucevano sulle pareti, creando un perenne crepuscolo sanguigno. Il soffitto si perdeva in vapori scuri, lontani come nuvole. E le pareti rocciose erano traforate, come uno sterminato formicaio. Sezioni orizzontali, di eguale spessore, ne scandivano tutta l’altezza: erano i livelli della città, scesa sempre più, per inseguire il calore morente del nucleo. I livelli superiori dovevano essere abbandonati da millenni, ma i tre più bassi erano ancora abitati. Sottili ponti neri collegavano le due pareti rocciose più vicine ed erano percorsi da civili Na’kuhl, accalcati per il poco spazio. Altri Na’kuhl volavano su piccoli veicoli scuri, simili a mosconi.

   Anche Vosk e i suoi ospiti percorsero un ponte, stretto e senza balaustra, che collegava la zona degli hangar con le estensioni urbane. I federali si azzardarono a sbirciare giù e videro che molte centinaia di metri più in basso rosseggiava la lava incandescente.

   «Quello è il nucleo» rivelò Vosk, indicando il magma ribollente. «Continua a raffreddarsi, ma non possiamo più inseguirlo, perché il nostro pianeta è prossimo al collasso geologico. Se scaviamo ancora cederà e migliaia di livelli urbani abbandonati ci crolleranno addosso. Capite che abbiamo raggiunto il punto di non ritorno: dobbiamo abbandonare il nostro mondo o perire con esso. Per quanto sia una scelta dolorosa, noi scegliamo di sopravvivere».

   «Quanto tempo vi resta?» osò chiedere Cletus.

   «Anche senza scavare più, non molto» ammise Vosk. «Il pianeta è così fragile che secondo i nostri geologi collasserà da solo entro due, massimo tre secoli. Per allora dovremo trasferirci altrove. È questo il compito che mi sono assunto quando ho acquisito la carica di Leader Supremo. Se per farlo dovrò passare sui cadaveri dei federali, così sia» disse, con un cipiglio duro e orgoglioso.

   «Ma che ne è della barriera con cui i Q vi avevano imprigionati? Noi non ne abbiamo rilevato traccia» notò Cletus.

   «La Barriera è un problema superato» disse Vosk seccamente. «Ora basta, vi ho detto anche troppo. Sappiate che il mio popolo pagherà qualsiasi prezzo per vincere questa guerra. E ci aspettiamo la stessa determinazione da voi. Non tollereremo nulla di meno che una dedizione totale alla causa!» disse, trafiggendo l’Autarca con il suo sguardo rovente.

   «Certo, Leader Supremo... non vi deluderemo» promise l’Autarca, facendosi piccolo piccolo. Era terrorizzato e non tentava nemmeno di nasconderlo.

   «La Barriera è superata, certo; ma non grazie a voi!» disse una voce familiare. La Messaggera dei Tuteriani era apparsa in fondo al ponte, a conferma che non c’era luogo nella Galassia in cui non riuscisse a manifestarsi. Le guardie Na’kuhl estrassero le armi, ma sapevano di non poter colpire una semplice proiezione.

   «Madame, le consiglio di ripassare» disse Vosk, gelido. «Finché Hortis non sarà fra noi, non ha senso discutere».

   «Oh, ma io voglio che l’Autarca sappia tutta la storia!» rispose la Messaggera, leccandosi le labbra sottili. «Deve sapere che voi Na’kuhl sareste ancora confinati su questo ciottolo, in attesa dell’estinzione, se non fosse stato per noi. Quando vi confinarono, i Q dissero che nessun potere di questo Universo avrebbe mai potuto liberarvi. Ebbene... avevano ragione» disse, con una pausa a effetto. «C’è voluta la nostra tecnologia per eliminare la Barriera. Vi abbiamo dato un’occasione di salvezza. Non sprecatela!» avvertì, e scomparve.

   Vosk era ancora più pallido del solito, ma in qualche modo riuscì a dominarsi. «Scoprirete che la nostra tecnologia non ha nulla da invidiare a quella tuteriana» disse, rivolto ai Vorgon. «La nostra alleanza, peraltro, ci porterà a condividerne molta. Soprattutto in materia di viaggio nel tempo!» aggiunse famelico.

   Attraversato il ponte, i Na’kuhl e i loro ospiti Vorgon varcarono una soglia monumentale, che li introdusse nella città vera e propria. Appena furono passati, una grata si chiuse alle loro spalle: colò dal soffitto come se fosse fluida, ma s’indurì appena raggiunse il suolo. Era fatta di una sostanza nera e lucida, evidentemente un composto a memoria di forma. Calò così in fretta che i tre federali non riuscirono a passare in tempo.

   «Frell, li perdiamo!» imprecò Lantora, osservando Vorgon e Na’kuhl che si allontanavano. Fece per prendere gli Sfasatori Dimensionali, per aprirsi un varco, ma Ilia lo fermò.

   «Forse è meglio così» disse la Trill. «Potevano scoprirci da un momento all’altro. Quando è apparsa la Messaggera, ho temuto il peggio».

   «Allora che facciamo, Comandante?» chiese lo Xindi, guardandosi intorno. La zona in cui si trovavano era chiusa ai civili, ma a lato e sopra di loro c’erano altri ponti, costantemente trafficati.

   «Dobbiamo lasciare il pianeta» sospirò Ilia, conscia della difficoltà del problema. «Siamo andati ben oltre la missione e abbiamo scoperto una minaccia ben più grave. Ora dobbiamo assolutamente informare la Flotta».

   «La tecnologia Vorgon era ostica e temo che quella Na’kuhl non sarà più semplice da maneggiare» rifletté Lantora. «Non so proprio come ne usciremo» ammise sconsolato.

   «Dobbiamo valutare la possibilità di non uscirne affatto» disse Terry. «Per avvertire la Federazione basta un segnale subspaziale. Ma quello delle nostre tute non è abbastanza potente. Credo che non arriverebbe neanche in superficie. Quindi ce ne occorre uno più forte».

   Cadde un pesante silenzio. Tutti e tre ci avevano già riflettuto, ma dirlo così ad alta voce lo aveva reso in qualche modo ufficiale: la missione era senza ritorno.

   «Leviamoci da qui, siamo troppo esposti» decise Ilia, tornando verso il ponte.

   «Un attimo, sto analizzando questo materiale» disse Terry, che già da un po’ studiava la grata con il tricorder. «Molto interessante».

   «Presto!» la richiamò Lantora, che già seguiva Ilia sul ponte. Terry attese ancora per qualche pericoloso secondo, il tempo di completare la scansione; poi seguì i colleghi.

 

   Invece di tornare alla Ruota da Guerra, i federali svoltarono in un tunnel laterale che si apriva nella galleria percorsa all’andata. Di condotto in condotto, si trovarono in zone sempre meno urbanizzate: il metallo lasciava posto alla roccia liscia, poi alla roccia grezza. Presto si trovarono in un dedalo di caverne naturali, molte delle quali avevano dimensioni ragguardevoli. I computer delle tute registravano il percorso, quindi potevano tornare indietro.

   Quando furono abbastanza lontani dai Na’kuhl, Ilia e Lantora si azzardarono a mangiare un boccone e bere un sorso della poca acqua rimasta. Finora avevano risparmiato l’ossigeno. Respirare in quelle gallerie era come stare in alta montagna, con la differenza che c’erano le esalazioni sulfuree del nucleo. Fortunatamente i caschi filtravano l’aria, facendo passare il poco ossigeno disponibile e trattenendo i gas nocivi. Anche così, i federali sapevano di non poter resistere a lungo.

   «È il pianeta più orribile su cui sia stato» disse Lantora, guardandosi intorno. «Fuoco in basso, gelo in alto, e nel mezzo queste sudice caverne con poco ossigeno!».

   «In effetti somiglia ai luoghi di tormento delle antiche mitologie» convenne Terry. «L’Inferno degli Umani, il Gre’thor dei Klingon, le Caverne di Fuoco dei Bajoriani...».

   «Sì, mi sono fatto un’idea» l’interruppe Lantora, che non era dell’umore migliore. «Allora, che c’era di tanto interessante in quella grata, di là dal ponte?».

   «Le sbarre sono composte da Materia Degenere» rivelò Terry.

   «Sul serio?» s’interessò Ilia. Studiò il tricorder dell’IA. «Eh sì, non c’è dubbio. Questo complica ancora le cose».

   «Che brutto pianeta! Anche la materia, qui, è degenere» commentò Lantora. «Comunque di che si tratta esattamente?» chiese.

   Ilia lasciò volentieri le spiegazioni a Terry. «La Materia Degenere è un particolare stato della materia, caratterizzato da una densità elevatissima» cominciò l’IA.

   «Non sarà più densa del neutronio; niente può batterlo!» obiettò lo Xindi.

   «No, ma ci si avvicina» spiegò Terry. «La pressione che s’instaura in un corpo di Materia Degenere, chiamata pressione di degenerazione, dipende dal fatto che le particelle-base della materia non possono occupare lo stesso stato quantico. Pertanto, se si prova ad avvicinarle ancora, al punto che la loro posizione diventa indistinguibile, esse devono posizionarsi in stati energetici differenti. La riduzione forzata del volume a loro disposizione costringe le particelle a occupare anche gli stati quantici ad alta energia. Come vede dalle equazioni di campo sul mio tricorder, la risoluzione degli integrali mostra che la degenerazione è completa. L’energia delle particelle c’informa che siamo di fronte a materia degenere estremamente relativistica, che...».

   «Mi risparmi i paroloni; sono uno Xindi d’azione» l’interruppe Lantora. «Insomma, che fa questa roba?».

   «È incredibilmente densa e pesante» riassunse Terry, in tono di sufficienza. «Le nostre armi non possono distruggerla. In natura la Materia Degenere si trova nel nucleo delle nane bianche e sulla superficie delle stelle di neutroni».

   «Aspetti, ha detto che le nostre armi sono inutili?!» gemette Lantora.

   «Un grande quantitativo di antimateria, come quella dei siluri, dovrebbe distruggerla» precisò Terry. «Ma nel complesso, anche uno strato sottilissimo di questo materiale è molto resistente alle nostre armi».

   «Quindi se le loro astronavi fossero corazzate con la Materia Degenere...» mormorò Lantora.

   «Sarebbero quasi invulnerabili» confermò Terry.

   «Insomma, non c’è fine alle disgrazie?» sbraitò lo Xindi, dando un calcio a un sasso.

   «Direi di no» avvertì Ilia, indicando qualcosa davanti a sé. «Abbiamo compagnia».

 

   Non erano Na’kuhl, ma non per questo erano innocui. Formavano un grande sciame, che riempiva tutta la caverna, così che non si poteva evitarli. Inizialmente i federali li scambiarono per pipistrelli, poi si accorsero che somigliavano più a grosse falene dalle ali cinerine. Il corpo era lungo una quindicina di centimetri, ma l’apertura alare era molto maggiore.

   «Non muovetevi» ordinò Ilia. «Potrebbero spaventarsi».

   I federali chiusero i caschi e s’immobilizzarono mentre lo sciame li circondava. Speravano che le falene sarebbero passate oltre, invece indugiarono attorno a loro. A ogni secondo il vortice si stringeva, finché alcuni insetti si posarono sulle tute. Lantora fu coperto quasi completamente, Ilia solo in parte, mentre Terry fu snobbata.

   «Perché ce l’hanno con me?» brontolò lo Xindi.

   «Stia calmo, cerchi di non schiacciarle» ordinò Ilia.

   «Qualcosa non va, sento un freddo cane» disse Lantora. «Ehi, la mia tuta perde energia!» si allarmò, leggendo l’indicatore all’interno del casco.

   «Succede lo stesso anche a me» si accorse la Trill. Di colpo le sembrava di essere in un congelatore. Notò che Terry aveva estratto la vibro-lama. «Uhm, che vuole fare con quella?» chiese, un po’ allarmata.

   «Verificare una teoria». L’ologramma prese la mira e affettò un paio di falene che si erano posate sulla tuta della Trill. Molte altre volarono via in un frullio d’ali, anche se continuarono a ronzarle intorno.

   «Per caso sente più caldo?» chiese Terry.

   «Direi di sì» ammise Ilia, notando che la perdita energetica della tuta si era arrestata. «Ma... sono le falene a raffreddarci?» si stupì.

   «Evidentemente. Non c’è che dire, uno straordinario adattamento evolutivo» rilevò Terry. «Questi lepidotteri devono essere una delle poche specie superstiti. Saranno scesi verso il centro del pianeta, come i Na’kuhl, traendo energia direttamente dal calore. Ecco perché ignorano me, che nell’attuale settaggio non ne emetto, mentre hanno un moderato interesse per lei e addirittura una passione per il Tenente: la temperatura corporea degli Xindi Primati è superiore a quella dei Trill».

   «L-lieto di s-saperlo!» balbettò Lantora, che si sentiva come se l’avessero immerso nel ghiaccio. Sulla sua tuta, coperta di falene, aveva cominciato a formarsi la brina. Per quanto si dimenasse, le falene gli restavano tenacemente attaccate, oppure s’involavano per pochi secondi e subito gli tornavano addosso. Persa la pazienza, lo Xindi estrasse la vibro-lama e cominciò a fare strage di falene. Se le strappava di dosso e le tagliava in due, oppure tranciava a mezz’aria quelle che ancora gli volavano intorno.

   «Cerchiamo di andarcene» suggerì Ilia. Ma per quanto corressero, le falene gli stavano sempre dietro. I federali si trovarono costretti a menare fendenti di vibro-lama a destra e a manca, contro uno sciame sempre più isterico e ronzante.

   «Potrei stecchire queste bestiacce settando il phaser su massima dispersione» suggerì Lantora.

   «Se ci mettiamo a sparare, rischiamo di far crollare la caverna o di essere rilevati dai Na’kuhl» obiettò Terry. «E poi, considerando il loro metabolismo, dubito che i phaser le neutralizzerebbero. Sarebbe come rimpinzarle» disse, continuando a colpirle con la vibro-lama. A differenza dei colleghi, l’IA non era distratta dalla necessità di difendersi. Poteva combattere e al tempo stesso fare le sue osservazioni, con la stessa calma e precisione che se fossero stati sull’Enterprise.

   «Magari farebbero indigestione» si augurò Lantora, affettando una falena dopo l’altra.

   Indietreggiando, i federali imboccarono una strettoia che li portò sempre più in profondità. Sbucarono in una caverna più vasta, che si apriva su un abisso rosseggiante. Un gran calore promanava dal basso, accompagnato da fumo e vapori sulfurei. Spinti sul ciglio dell’abisso, i federali videro il magma ribollente.

   «Siamo arrivati al nucleo?!» si stupì lo Xindi. «Non mi sembrava che fossimo scesi tanto».

   «Forse è una risalita di magma, ma poco importa» disse Ilia. «Più in basso di così non si va».

   «Sentite, io non ne posso più» disse Lantora, tutto intirizzito. Ogni volta che una falena lo sfiorava sentiva un brivido, che si trasformava in un’ondata di gelo quando riusciva a posarsi su di lui. Siccome lo sciame ne contava centinaia, era una battaglia persa. «Questa caverna sembra solida e siamo lontani dalla città Na’kuhl. Io uso il phaser!» disse, impugnando l’arma.

   «Aspetti!» lo fermò Ilia. Le falene si stavano radunando. In pochi secondi formarono uno sciame coeso, che imboccò l’uscita. Il ronzio si spense man mano che si allontanavano.

   «Oh, l’hanno capita, finalmente!» esclamò lo Xindi, tirando un sospiro di sollievo.

   «Strano che si siano ritirate così all’improvviso» rifletté Ilia, osservando la caverna. «Mi domando cosa le abbia... oh!». Aveva appena notato che il suolo era disseminato di scheletri. Le ossa erano sparpagliate e in pezzi. Ma riconobbe alcuni teschi Na’kuhl, dalle suture craniche in evidenza.

   «Credete sia un cimitero?» chiese Lantora.

   «Non conosciamo abbastanza la cultura Na’kuhl per stabilirlo» disse Terry, prudente. «Però è inconsueto che una specie evoluta tratti con tanto disprezzo i resti dei propri defunti».

   «Dai Na’kuhl mi aspetto di tutto» disse lo Xindi, guardandosi attorno nervosamente.

   «Se vuole la mia ipotesi, siamo nella tana di qualche creatura» disse Terry. «Un superpredatore, che si nutre d’animali più piccoli e occasionalmente anche degli umanoidi...». Aveva appena finito di parlare che un lungo aculeo la trafisse, sollevandola a mezz’aria. Essendosi settata come un semplice ologramma, Terry non sanguinò e non provò nemmeno dolore. Si afferrò il pungiglione che le usciva dal petto, ma in quella posizione non poteva liberarsi.

   Scioccati, Ilia e Lantora gridarono il nome della compagna. Non si erano accorti della creatura alle sue spalle, se non quando si era mossa. Grande come un elefante, somigliava a un crostaceo, coperto da una corazza nera e chitinosa. Il corpo era un informe ammasso di chele, corredato da una coda da scorpione e una bocca circolare, irta di zanne affilate. Non aveva occhi visibili, ma sembrava consapevole della posizione dei federali. Muovendosi su dieci zampe ticchettanti, il mostro si proiettò verso Ilia e Lantora, che lo evitarono tuffandosi in direzioni opposte. Lo Xindi rotolò fra gli scheletri dei Na’kuhl e d’altre creature innominabili, mentre la Trill riuscì a rimettersi subito in piedi e fece fuoco. Tranciò la coda da scorpione, che cadde a terra, sempre con Terry impalata. Ilia sparò di nuovo, stavolta contro il corpo del mostro. Ma il phaser emise un debole raggio, che fece sfrigolare la corazza senza perforarla.

   «Beh?» fece Lantora. Sparò a sua volta, ma ebbe una brutta sorpresa: il suo phaser era ancor più scarico dell’altro.

   «Le falene non assorbono solo il nostro calore» comprese Ilia. «Hanno prosciugato le cariche delle armi».

   «Frell!» imprecò Lantora, rimettendosi in cintura il phaser quasi scarico. «Va bene, ce la vedremo alla vecchia maniera» disse, impugnando la vibro-lama.

   Mentre Terry cercava di estrarsi il pungiglione che ancora la trafiggeva, Ilia e Lantora girarono intorno al mostro, sui lati opposti. Armati solo di vibro-lame, osservarono la creatura, cercando di coglierne i punti deboli. Il crostaceo girava sulle zampe ticchettanti, fronteggiando ora l’uno e ora l’altra. Una delle chele scattò contro Lantora, che si ritrasse appena in tempo e sferrò un colpo obliquo: intercettò l’articolazione la tranciò di netto. La chela mozzata cadde al suolo e dalla ferita sgorgò un sangue giallo, oleoso. Il crostaceo si scosse tutto e il ticchettio salì d’intensità. Un’altra chela scattò verso lo Xindi: non riuscì ad afferrarlo, ma lo colpì con violenza, scaraventandolo contro la parete rocciosa. Lantora si accasciò semi-stordito. Il suo posto fu preso da Terry, che si era estratta l’aculeo ed era nuovamente in grado di battersi.

   La lotta proseguì sul ciglio del burrone. Ilia e Terry scattavano velocissime, evitando le chele del mostro, talvolta amputandole con precisi colpi di vibro-lama. Ma il corpo centrale era così corazzato che non riuscivano a trafiggerlo.

   «Ci serve una strategia!» gridò Ilia. Spiccò un salto, per sfuggire a una chela che le avrebbe tranciato le gambe.

   «Io ne ho una» disse Terry, che in quel momento fronteggiava il “muso” del mostro, riconoscibile dalla bocca. Gli corse incontro e si rotolò a terra, passando sotto al corpo nero e bitorzoluto. Si rialzò dall’altra parte, vicino a Ilia, e la prese per un braccio, costringendola a indietreggiare. «Giù!» gridò.

   Il mostro si girò per fronteggiarle. Stava per inseguirle, quando la granata che Terry gli aveva attaccato al ventre esplose. La creatura fu rovesciata sulla schiena: rotolò un paio di volte e scomparve oltre l’orlo del precipizio. A terra rimasero macchie di sangue giallastro.

   «È andato» ansimò Ilia. Si avvicinò al ciglio del dirupo e guardò giù, aspettandosi di vedere il mostro mezzo sprofondato nel magma. Invece lo vide attaccato alla parete rocciosa, pochi metri sotto di lei. Prima che potesse reagire, il crostaceo si proiettò verso l’alto, atterrando nuovamente sull’orlo del burrone. Così facendo colpì Ilia e Terry, scaraventandole al suolo con violenza. Inchiodò Terry con una chela e con un’altra colpì Ilia.

   La Trill udì lo schianto della tuta corazzata che si frantumava e sentì un dolore lancinante al ventre. Gridò con quanto fiato aveva in gola. Con gli occhi annebbiati dal dolore e dalle lacrime, vide che il sangue rosso le sgorgava dal fianco, andando a mescolarsi con quello giallognolo del crostaceo. La ferita era profonda e forse aveva compromesso il Simbionte.

   «Comandante!» gridò Terry, schiacciata al suolo di fianco a lei. La chela l’aveva trafitta: anche se non poteva morire, l’IA era comunque immobilizzata.

   «Dax...» gemette Ilia. Premuta a terra, si guardò attorno e vide che la vibro-lama era ancora a portata di mano. La raccolse e con le ultime forze l’immerse nel ventre del crostaceo, dove la granata aveva squarciato la corazza, mettendo a nudo i tessuti molli. Al suo fianco, Terry fece lo stesso. Ma per quanto trafiggessero il mostro, quello non cedeva, anzi continuava a schiacciarle. Ilia si sentì sul punto di perdere i sensi.

   Un grido di guerra percorse l’aria fuligginosa. Lantora balzò sulla groppa del mostro, trovò una giuntura fra le placche della corazza e v’immerse la vibro-lama fino all’elsa. Il crostaceo non emise suoni, ma s’inarcò tutto e sgroppò, cercando di liberarsi dello Xindi. Nel far questo liberò le due donne. Terry si rialzò all’istante, mentre la sua olo-materia rimarginava la spaventosa ferita. Raccolse Ilia, che era mezza svenuta, e la portò via.

   Lantora era ancora sulla schiena del mostro. Estrasse la vibro-lama, fumigante di sangue giallo, e l’immerse di nuovo, rigirandola nella ferita. Il crostaceo sussultò e s’inarcò con tale violenza da rovesciarsi all’indietro... precipitando nel baratro.

   Il tempo sembrò dilatarsi per Lantora: i secondi della caduta scorrevano come al rallentatore. Lo Xindi mollò la vibro-lama e puntò il polso verso la parete rocciosa, vicino alla sommità. «Rampino!» ordinò al computer della tuta. Il cavo nano-polimerico scaturì dal mini-lanciatore nel bracciale e si fissò alla pietra. Lantora fletté le ginocchia, pronto ad assorbire la violenza dell’impatto contro la parete rocciosa. Ma si accorse che il crostaceo, cadendo poco sotto di lui, aveva proteso una chela, afferrandogli lo zainetto. Che fosse un gesto consapevole o istintivo, l’avrebbe trascinato con sé verso la morte.

   «Rilascia zaino!» ordinò Lantora. Le cinghie si staccarono con uno schiocco, appena in tempo. Il mostro, con lo zaino ancora stretto nella chela, precipitò per cinquanta metri. Nella caduta urtò contro la parete rocciosa, ma stavolta non riuscì ad aggrapparsi, anzi rimbalzò nella direzione opposta, dove non c’erano appigli. Cadde nel magma con tanta forza da sprofondarvi per metà.

   Lo Xindi, invece, fu proiettato contro la parete di roccia, ma assorbì l’urto flettendo le gambe. Strinse il cavo con ambo le mani. «Riavvolgi!» ordinò. Vide l’orlo del burrone farsi sempre più vicino, man mano che il cavo rientrava nel mini-lanciatore. Quando fu del tutto riavvolto, però, mancavano ancora un paio di metri alla sommità e la roccia non offriva appigli.

   «Prenda la mia mano» lo invitò Terry, sporgendosi dal bordo.

   «Ma è troppo lonta... come non detto» disse lo Xindi, afferrandola. L’ologramma si era allungata il braccio. Lantora staccò il rampino e si lasciò sollevare, finché Terry lo depose al sicuro. Poi, con naturalezza, l’IA contrasse il braccio, riportandolo alla misura consueta.

   Lantora diede un’ultima occhiata al magma che ribolliva in fondo al crepaccio. Il crostaceo era una macchia nera che si contorceva, in preda agli spasmi. L’alto peso specifico del magma gli impediva di affondare, ma non poteva neanche liberarsi; e nel frattempo si rosolava. «Stasera, aragosta arrosto» commentò lo Xindi.

   Il lamento di Ilia gli spense il sorriso. La Trill era stesa a terra, con il sangue che le sgorgava dalla ferita nel fianco. Terry s’inginocchiò accanto a lei e prese gli strumenti da primo soccorso, cercando di rimarginare la ferita.

   Lantora maledisse di aver perso lo zaino, con il kit di soccorso e tutto il resto; dovevano cavarsela con gli altri due. Si chinò sul Comandante, osservando la ferita. Non aveva un bell’aspetto. «Allora?» chiese a Terry, sapendo che l’IA aveva tutte le competenze di un Medico Olografico di Emergenza.

   «La ferita è profonda. Sto cercando di fermare l’emorragia e di capire se c’è danno agli organi» spiegò l’ologramma, senza fermarsi.

   «Non pensi a me... pensi a Dax!» gemette Ilia. «Controlli se ha subito danni».

   «In questo momento la sua vita ha la priorità, Comandante!» protestò Lantora, temendo che Terry le obbedisse.

   «Si sbaglia. Se io muoio, Dax può vivere... e trasmettere i suoi ricordi a un altro Trill» disse Ilia, il viso contratto in una smorfia di dolore. «Ma se il Simbionte muore, anch’io muoio... e fine della storia» ansimò, pallidissima.

   «La faccia parlare» disse Terry allo Xindi, mentre le sue mani si muovevano con velocità inumana, occupandosi delle ferite.

   Lantora annuì e si leccò le labbra secche, cercando di farsi venire in mente qualcosa. «Okay... allora è così che funziona?» chiese alla Trill. «Quando accettate l’Unione, vi mettete in questa situazione di dren. Cos’è, ve lo scrivono in piccolo sul contratto?».

   «Nessun inganno, conosciamo i rischi» rispose Ilia, con la fronte bagnata di sudore. Strinse i denti per una fitta dolorosa.

   «Vorrei che non si fosse mai unita a Dax. Poteva essere comunque un gran Comandante» disse Lantora.

   «Me lo chiedo spesso... che sarei senza di lui?» ammise Ilia. «Non molto, forse. Anche così, guardate dove vi ho portati. Avrei dovuto ascoltarla, Lantora, e tornare indietro quando potevamo».

   «Ma così non avremmo scoperto la minaccia Na’kuhl» obiettò lo Xindi, cercando d’incoraggiarla.

   «A che ci serve, se moriremo qui sotto?» ribatté Ilia. Sembrò abbandonarsi, ma poi ebbe uno scatto. «Mi ascolti!» ordinò, afferrandogli il polso con forza inaspettata. «Voglio che lei e Terry ve ne andiate. Dico davvero: prendete il mio equipaggiamento, le provviste, tutto ciò che vi serve. Cercate un modo per lasciare il pianeta o almeno per informare la Federazione».

   «E lei?» chiese Lantora.

   «Io vi rallenterei. Questo non deve accadere. Andate, ho detto!» gridò Ilia, cercando di respingere le cure di Terry. Ma le forze l’abbandonarono e svenne. L’ologramma si alzò e rimase a fissarla con aria combattuta.

   «Che diavolo sta facendo?!» protestò Lantora, alzando gli occhi verso di lei.

   «L’ordine del Comandante è logico, e coerente con le direttive della Flotta Stellare» spiegò Terry. «Le sue condizioni la rendono un peso morto e diminuiscono notevolmente le nostre speranze di salvezza. In questa gravissima situazione, le mie direttive sono chiare». Preparò un ipospray.

   «Al tempo! Che c’è lì dentro?» chiese Lantora, con un orribile presentimento.

   «Tenente, la prego di non ostacolarmi» disse Terry. «In questi casi, l’eutanasia è considerata il trattamento più rispettoso verso il paziente e più in linea coi Diritti dei Senzienti».

   «E più comodo per noi!» rimbeccò lo Xindi. «Sa che avrei fatto io, se avessi pensato alla mia sicurezza? Avrei lasciato che quel mostro vi facesse a pezzi e me la sarei filata! Invece sono rimasto a combattere... perché era la cosa giusta».

   «Comprendo la sua linea di pensiero, ma ho le mie direttive. Non posso permettere che una valutazione soggettiva interferisca...».

   «Al diavolo le direttive!» ringhiò Lantora. «Le regole devono essere dei cartelli indicatori, non delle catene! Perché la vita ci mette continuamente di fronte a nuove sfide e nessun legislatore può prevederle tutte. Nessun burocrate della Flotta ha previsto che ci saremmo trovati in questa situazione. Una situazione così disperata che solo l’esperienza di Dax, forse, ci salverà. Ma in ogni caso... se non aiutiamo i nostri compagni, i nostri amici, che senso ha questa guerra? Per cosa combattiamo? Risponda!» urlò lo Xindi, sentendosi ribollire il sangue.

   Terry rimase zitta così a lungo che Lantora temette di aver danneggiato il suo programma. Quando un’IA di vecchio tipo era messa di fronte a un dilemma insolubile, spesso si bloccava. Ma Terry era un’IA estremamente sofisticata e si riprese.

   «I principi su cui si fonda la Flotta sono nobili... ma la loro applicazione a volte è fallace» ammise. «Provo stima e affetto per il Comandante Dax. Anche se le mie direttive sono chiare... e corroborate dalla logica... cercherò di salvarla» promise. Ripose l’ipospray e tornò a curare Ilia.

   «Grazie, Terry» mormorò Lantora. «Sapevo che sei una brava persona». Raccolse la vibro-lama di Ilia, avendo perso la propria. La ripulì dal sangue, ripiegò la lama e si mise l’arma in cintura. Poi ispezionò i phaser. Erano quasi del tutto scarichi, ma fortunatamente c’erano celle energetiche di riserva negli zaini. Quando le ebbe sostituite, tornò dalle colleghe e consegnò un phaser a Terry. «Come sta?» chiese, accennando a Ilia.

   «L’ho stabilizzata, ma ha perso molto sangue. I danni agli organi interni non sono del tutto riparati» spiegò Terry. Le aveva tolto la tuta, ma aveva collegato una mascherina respiratoria al serbatoio dell’ossigeno, per aiutarla a riprendersi.

   «E il Simbionte?» chiese Lantora.

   «Dax è molto vecchio. Ho fatto il possibile, ma non sono certa che sopravvivrà» disse Terry con un sospiro. «E se muore Dax, muore anche Ilia».

   «Almeno ci abbiamo provato» disse Lantora. «Vada come vada, non avremo nulla da rimproverarci. Quanto tempo serve, per sapere se è fuori pericolo?».

   «Un intero ciclo di sonno. E almeno un altro giorno di cure e riposo, prima di spostarla» rispose Terry. «È meglio se dormi anche tu. Io farò la guardia; a me il sonno non serve». Dopo il teso confronto su Ilia, si parlavano in tono più familiare. Si erano resi conto che, nella loro situazione, certe piccole formalità non avevano più significato.

   «D’accordo» cedette Lantora, sdraiandosi a poca distanza. Dal dolore che provò ai muscoli e alle giunture si accorse di quanto anche lui fosse provato.

   «Lantora?».

   «Sì?».

   «Gli Sfasatori Dimensionali erano nel tuo zaino. E la tuta di Ilia è danneggiata. L’occultamento funziona, ma con una superficie irregolare avrà difficoltà a creare un campo stabile. Potrebbe esserci una distorsione luminosa».

   «Lo so, siamo nel dren» convenne Lantora. «Ci penseremo domattina». Si girò e sprofondò quasi all’istante in un sonno senza sogni.

 

   L’Ammiraglio Hortis scese dalla sua navetta, preceduto da una nutrita scorta armata. Per quanto i Krenim fossero abituati alla vista di tecnologie e mondi alieni, molti di loro si guardarono attorno innervositi. La discesa nelle viscere del pianeta dava loro la sensazione di essere in trappola e il comitato di ricevimento Na’kuhl non aveva un aspetto rassicurante. Ma i Krenim erano pur sempre veterani, induriti dalla guerra, e non indugiarono.

   «Ammiraglio, le do il benvenuto su Na’kuhl Primo» disse Vosk, in testa al comitato d’accoglienza.

   «Lieto d’incontrarla di persona» rispose Hortis, avanzando tra due ali di soldati. Con la sua tipica gravitas, tese la mano al Leader Supremo. Questi però non la strinse: si limitò a fissarlo, con i rossi occhi imperscrutabili e le mani incrociate dietro la schiena. Vedendo che il Na’kuhl aveva un atteggiamento ancor più marziale di lui, Hortis ritirò la mano. «L’Autarca è già qui?» chiese.

   «Ci sta aspettando in sala riunioni. E non dubito che, quando saremo lì, anche la Messaggera si farà vedere» confermò Vosk.

   «Bene; c’è molto di cui discutere» disse Hortis. «Naturalmente la scorta verrà con me».

   «Pensa che qualcosa possa minacciarla? Finché saremo alleati, lei è più al sicuro qui che in ogni altro luogo del Quadrante» assicurò il Leader Supremo.

   «Confortante» disse Hortis, con un mezzo sorriso. Fece segno alla scorta di procedere, pur sapendo che probabilmente Vosk aveva ragione. Non gli avrebbe torto un capello... finché fossero rimasti alleati.

   «Leader Supremo, mi perdoni questa digressione, ma deve sapere che ho sempre nutrito grande curiosità per le culture che incontro» disse Hortis, camminando a fianco di Vosk. «La vostra è antica e affascinante. Se fosse così cortese da fornirmi alcuni esempi della vostra musica, lo apprezzerei moltissimo».

   «Musica?» fece Vosk, rallentando il passo.

   «Sì, noi Krenim l’associamo alla matematica e io in particolare ne sono un culture» spiegò Hortis. «Le belle melodie stimolano la mia creatività e sono un balsamo per i dispiaceri. Naturalmente ricambierei il dono con un’ampia selezione di musica Krenim» aggiunse premuroso.

   «Temo di non poterla accontentare» disse Vosk. «Noi Na’kuhl non abbiamo alcun tipo di musica».

   «Ma come, proprio nulla?!» si meravigliò Hortis. «Eppure è un linguaggio così universale che quasi tutte le specie lo possiedono. Persino i popoli primitivi suonano semplici strumenti come...». La voce di Hortis si smorzò e tacque.

   «Stava dicendo?» chiese Vosk. Non era propriamente minaccioso, eppure Hortis si sentì rizzare i peli sul collo. C’era qualcosa, nei Na’kuhl, che gli suscitava un profondo disgusto... e un timore ancora più grande. Una specie senza musica? Il loro cervello doveva essere molto diverso da quello degli altri umanoidi.

   «Lasci stare... non è importante» borbottò Hortis. Di solito imparava molto sui suoi amici, e sui nemici, ascoltandone la musica. I Na’kuhl non ne avevano... ma anche questo gli diceva qualcosa sulla loro natura. Qualcosa d’inquietante.

 

   «Avreste dovuto andarvene, come vi avevo ordinato» disse Ilia, mentre Terry le controllava la ferita.

   «Fammi rapporto, Comandante... quando saremo tornati» rispose Lantora, ironico.

   «Da te me l’aspettavo, Lantora, ma Terry...».

   «È meglio se la lasci stare. Dev’essere stato un grosso sforzo, per lei: temevo che fosse andata in crash» ammise lo Xindi.

   «È fuori pericolo» disse Terry, leggendo i dati del tricorder medico.

   «La prima buona notizia!» esultò Lantora.

   «Aspetta a gioire» lo redarguì l’IA. «Comandante, lei è sulla strada della guarigione... ma le condizioni di Dax sono ancora serie. Ha subito un violento schiacciamento».

   «Come temevo» sospirò Ilia. Ogni respiro le provocava una fitta all’altezza della milza, dove i Trill Uniti custodivano il Simbionte. «E con l’occultamento danneggiato, sono due volte vulnerabile. Siete ancora in tempo per abbandonarmi».

   «Mentre riposava, ho ricalibrato l’occultamento. Dovrebbe essere a posto» spiegò Terry.

   «Sei un angelo» sorrise la Trill. «Ma con la perdita dello zaino di Lantora, le nostre risorse sono al limite. Poco cibo, niente acqua... abbiamo perso anche gli Sfasatori. La tecnologia Vorgon e Na’kuhl è così estranea che non possiamo usare le loro navi per fuggire... e ormai anche Hortis sarà qui...» disse mesta, elencando le disgrazie. Ma di colpo rialzò la testa, con una nuova luce di determinazione negli occhi. «Ma certo, Hortis. Non si sarà teletrasportato attraverso tutto il mantello del pianeta. Se è sceso con una navetta, potrebbe averci offerto la via di fuga. Aiutatemi ad alzarmi... non abbiamo molto tempo».

 

   «Signori e signora, questo è un momento storico» disse Vosk, ritto sul suo podio. «Oggi ci ribelliamo alla tirannia del Tempo, e all’ancor più odiosa tirannia di chi vorrebbe limitarne i viaggi. Oggi prendiamo in mano il nostro destino e dichiariamo che noi, soltanto noi, forgeremo il nostro percorso nella Storia».

   Si trovavano in una colossale camera cilindrica, in fondo a cui ribolliva il magma incandescente. Le pareti erano di Materia Degenere, nera e senza ornamenti, e dal soffitto pioveva una bassa luce sanguigna. Quattro piattaforme sorgevano a metà altezza, ancorate alla parete. Ciascuna ospitava una delegazione: la Messaggera per i Tuteriani, Hortis per i Krenim, Cletus per i Vorgon e il padrone di casa Vosk per i Na’kuhl. A parte la Messaggera, che era sola, tutti gli altri erano accompagnati da dignitari, comandanti e guardie.

   «La nostra infrangibile alleanza sarà imperniata su tre punti» proseguì Vosk. «Primo: un impegno bellico totale contro la Federazione e i suoi alleati. Secondo: la condivisione delle conoscenze sulla previsione delle linee temporali, nonché sul viaggio nel tempo vero e proprio. Terzo: un’equa spartizione della Galassia a guerra ultimata. Le sfere d’influenza saranno stabilite da un’apposita commissione congiunta, che terrà conto di fattori come la popolazione, l’impegno bellico, la presenza storica delle nostre razze. Ogni potenza sarà libera di governare i propri territori come meglio crede. I Tuteriani potranno riplasmare lo spazio per adattarlo alle loro esigenze».

   Vosk fece una breve pausa e osservò gli alleati, poi riprese con voce stentorea. «Un’alleanza di questa portata esige un perfetto coordinamento dei nostri comandi, per massimizzare le offensive su un così gran numero di fronti. Organizzeremo linee di comunicazione sicure allo scopo. Ma ci tenevo ad avervi presenti qui, in quest’ora fatale. Sì... proprio in quest’attimo, in questa sala, nasce il vero Fronte Temporale!» gridò, sollevando le braccia.

   Gli altri tre leader le sollevarono a loro volta. Le delegazioni Krenim e Vorgon lanciarono grida di giubilo e si misero ad applaudire; anche molti Na’kuhl si unirono alle ovazioni. La sala a tamburo ne riecheggiò e Vosk si godette il suo momento di trionfo.

 

   Localizzare la navetta di Hortis non richiese molto tempo. Si trovava in un piccolo hangar spoglio; il suo scafo giallastro spiccava sul pavimento nero, come una pepita sul carbone. Era una navicella dalla conformazione tradizionale, con due robuste gondole di curvatura ai lati, unite sul retro a formare una U. Poiché Hortis si era portato dietro quasi tutte le guardie, era rimasta una sorveglianza minima. Due Krenim sostavano all’esterno, ai lati della rampa di accesso. Dentro, con ogni probabilità, c’erano i piloti.

   Mentre Ilia rimaneva a distanza, date le sue condizioni precarie, Terry e Lantora entrarono in azione. Approfittando dell’invisibilità, scivolarono alle spalle delle guardie e salirono a bordo. Trovarono i piloti e li stordirono. Poi, imitando la lingua e il timbro vocale dei Krenim, Terry attirò anche le guardie all’interno, con una scusa. Lantora era pronto: con un phaser in ciascuna mano, le stordì prima che capissero che qualcosa non andava. Una breve ispezione della nave confermò che era pronta al decollo. C’erano armi e scudi, ma i federali non li attivarono, per non allarmare i Na’kuhl. Dovevano far salire Ilia, dopo di che sarebbero decollati alla massima velocità, risalendo il pozzo che portava alla superficie del pianeta.

   «Non mi piace... potrebbero esserci portelli o campi di forza lungo il condotto» disse Lantora, osservando nervosamente i comandi. Non sapeva se fare una scansione con i sensori, o se anche questo avrebbe messo in allarme i Na’kuhl. E poi, capiva così poco quei comandi alieni che temeva di fare dei pasticci. Era meglio lasciar fare a Terry, molto più abile nel decifrare le interfacce.

   «Cerco di stabilirlo» disse Terry, sedendo al posto del pilota. «Mal che vada, potremo inviare un segnale subspaziale alla Federazione quando saremo vicini alla superficie. Vai a prendere il Comandante, mentre familiarizzo con gli strumenti».

   «Corro... non vorrei che qualcuno notasse la sparizione delle guardie» disse Lantora, precipitandosi all’esterno. Avevano deciso di non comunicare a distanza con Ilia, per timore che il segnale fosse intercettato. Quindi Lantora doveva uscire per avvertirla che erano pronti. E doveva aiutarla a reggersi, visto che era ancora debole.

   Lo Xindi corse sul pavimento nero dell’hangar, chiedendosi se anche quello fosse di Materia Degenere. A che scopo sprecare tanto materiale per un semplice pavimento? Eppure, a occhio, gli sembrava proprio quella materia supercompatta.

  Ci fu un risucchio che non prometteva nulla di buono. Lantora era già all’ingresso dell’hangar, e vedeva Ilia che zoppicava verso di lui, quando lo sentì. Vide che la Comandante si fermava e anzi indietreggiava, con espressione terrificata. Presagendo il disastro, lo Xindi si voltò, con il phaser in pugno. Ciò che vide fece morire in lui ogni speranza.

   Il pavimento sotto la navetta era diventato molle come sabbie mobili e lo scafo Krenim vi affondava. Era incredibile che quella materia superdensa avesse un simile comportamento. Doveva servire una quantità spropositata d’energia per far scorrere gli atomi pressati e un sistema di controllo oltre ogni immaginazione per regolare il movimento. Tecnologie che la Flotta Stellare manco si sognava. Il fatto che la navetta di Hortis subisse questo trattamento poteva significare una cosa sola: erano stati scoperti. Per un attimo, Lantora pensò che il sistema di sicurezza si sarebbe limitato a trattenere la navetta. Si sbagliava.

   Lunghi aculei neri uscirono dal pavimento. Erano lievemente ricurvi e puntavano verso la navetta. La trafissero uno dopo l’altro, attraversando i duri metalli Krenim come se fossero burro. Lantora comprese che i Na’kuhl avevano un tale controllo sulla Materia Degenere da poterla riplasmare a piacimento. Ciò che prima era un innocuo pavimento, l’attimo dopo era una trappola mortale. A questa considerazione ne seguì un’altra: Terry era ancora nella navetta.

   «Terry, esci subito! Sta per esplodere!» gridò, dopo aver riattivato il canale fra le tute. La sua voce si sovrappose a quella di Ilia.

   Terry si stagliò sull’ingresso. Aveva appena cominciato a muoversi, quando la navetta esplose. Fortunatamente il nucleo e le gondole erano ancora disattivati. Anche così, l’esplosione fu abbastanza intensa da scagliare Lantora all’indietro, come un fuscello.

   Ilia si riparò appena in tempo a lato dell’ingresso, evitando l’onda d’urto. Vide Lantora, scagliato come un proiettile fuori dall’hangar, urtare la parete del corridoio e accasciarsi con il casco rotto.

   «NO!» gridò la Trill, riaffacciandosi sull’hangar. Il pavimento stava tornando alla normalità, ma della navetta non restavano che fiamme e rottami. Da quell’inferno, in qualche modo, emerse Terry. Il suo Emettitore Autonomo era annerito e semifuso. L’ologramma sfarfallava ogni pochi secondi.

   «Fermi, spie!» intimò una dura voce femminile. Ifrit, la stratega di Vosk, sbucò nel corridoio, in testa a un plotone Na’kuhl. Un altro manipolo di soldati venne dalla direzione opposta, bloccando i federali nel mezzo. Potevano entrare nell’hangar, ma lì c’erano fiamme e la Materia Degenere ad attenderli.

   «Ci arrendiamo» disse Ilia, alzando le mani. Non restava altro da fare. I Na’kuhl indossavano visori che evidentemente penetravano l’occultamento. L’ultimo vantaggio era perduto.

   «Sporchi federali, come osate introdurvi nel nostro mondo? Non conoscevate ancora la ruota, l’ultima volta che qualcuno osò tanto!» sibilò Ifrit, puntandole un disgregatore al petto. Un Na’kuhl la colpì al plesso solare, facendola cadere in ginocchio. Per Ilia, che soffriva ad ogni respiro, fu un dolore atroce. Ansimò e tossì, senza fiato. Si accorse vagamente che un altro Na’kuhl le toglieva il dispositivo d’occultamento dalla cintura.

   Pochi metri più in là, Lantora si rialzò con un grugnito, solo per trovarsi circondato da nemici con le armi spianate. Sputò a terra una boccata di sangue. «Te l’avevo detto che era la rotta sbagliata» disse a Ilia, in tono di rimprovero. Poi si rivolse a Ifrit: «Io e le mie amiche stavamo andando in vacanza a Risa, ma abbiamo fatto confusione. Sa, le donne e le mappe stellari! Siamo finiti un po’ fuori rotta. Controlli pure i nostri zaini, vedrà l’equipaggiamento per il trekking nella foresta pluviale!» aggiunse, con la massima faccia tosta.

   Ilia ammirò quella boutade estrema e persino Ifrit sorrise, come se la cosa la divertisse. «Non vi bastava spiare i Vorgon; avete anche scroccato un passaggio fin qui. Notevole» riconobbe. «Ma quando il Leader Supremo avrà finito con voi, rimpiangerete di non essere morti nella giungla» aggiunse, e gli strappò il dispositivo d’occultamento.

   «Stratega, quella federale è un ologramma!» avvertì uno dei Na’kuhl, sondando Terry con uno strumento incorporato nel fucile disgregatore. Subito la maggior parte delle armi fu puntata su di lei.

   «Splendido!» sorrise Ifrit. «Analizzeremo a fondo le sue subroutine. Sono certa che apprenderemo molto sulla Federazione. Se sarai fortunata, il Leader Supremo potrebbe riprogrammarti e tenerti come consigliere per l’attacco alla Terra».

   «Non succederà» disse Terry, sfrigolando sempre più. «Perché presto non ci saranno subroutine da esaminare. Ho attivato la Sequenza di Terminazione».

   «No!» gridarono Ilia e Lantora all’unisono.

   «Sì, invece. È mio dovere... ed è meglio delle alternative» disse Terry. Tirò su col naso e fece un sorriso tirato. «Vorrei che i miei progettisti non mi avessero dato queste emozioni... perché ho paura. Accidenti se ne ho!» ammise. La sua voce sembrava più giovane, più sottile del solito, come quella di una ragazzina spaventata. «Ma sono lieta che il mio processore centrale si trovi al sicuro. Finché resterà intatto, io continuerò a esistere. E voi avrete qualcosa da temere!» aggiunse all’indirizzo di Ifrit e dei suoi.

   «Terry...» mormorò Ilia, con le lacrime agli occhi.

   «Addio Ilia, addio Lantora. Siete stati buoni amici, mi avete fatta sentire una persona vera. Non mollate!» raccomandò Terry. Lo sfrigolio elettronico si estese fino a cancellarla del tutto. L’Emettitore Autonomo cadde al suolo, bruciato e inservibile.

 

   «Ogni momento che viviamo, ci muoviamo nel tempo. Guadagniamo il diritto di scegliere la direzione da prendere» disse il dottor Kravik, massimo esperto in meccanica temporale dei Na’kuhl. I rappresentanti del Fronte lo ascoltavano con attenzione. Le luci si erano smorzate, nel vasto salone cilindrico. C’era solo il bagliore del magma, sufficiente a vedere i contorni dei corpi.

   «Tutti noi abbiamo accettato questa verità e ci siamo incaricati di dominare sempre più il nostro cammino» proseguì lo scienziato, con gli occhi rossi che scintillavano nella semioscurità. «Naturalmente abbiamo esaminato la questione da diverse prospettive. Tuteriani e Krenim sanno come sondare le linee temporali, prevedendo i possibili esiti. In tal modo potete dirigere gli eventi nella direzione più favorevole. Ma riuscite a fattorizzare solo i grandi fenomeni. Le piccole fluttuazioni continuano a sfuggirvi, e sono proprio quelle a contagiare il resto, aumentando l’indeterminatezza. Questo pernicioso effetto domino riesce a vanificare gran parte dei vostri sforzi.

   Perciò propongo di concentrarci meno sulla previsione e più sul viaggio nel tempo vero e proprio. Il nostro traguardo sarà un dispositivo sicuro, che richieda meno materiali possibili, così che eventuali naufraghi possano costruire un condotto temporale in loco, usando le tecnologie disponibili. Sarà altresì un viaggio nel tempo occultato, per impedire agli Agenti Temporali di rintracciarlo. Questa è la chiave per disarticolare la loro organizzazione e divenire gli unici Signori del Tempo...».

 

   «No!» gemette Lantora, vedendo l’Emettitore di Terry cadere al suolo. Non riusciva a credere che quell’Intelligenza Artificiale così sagace e piena di risorse fosse persa per sempre. Che il mainframe dell’Enterprise fosse ancora intatto, in quel momento, non gli era di grande consolazione. La Terry che li aveva accompagnati fin lì, salvandoli più volte, era distrutta. E la responsabile aveva un volto.

   «Maledetta!» ruggì lo Xindi, all’indirizzo di Ifrit. «Ti credi forte perché sei nella tua tana. Credi di appartenere a una specie superiore. Beh, dimostralo! Battiti con me!» la sfidò, impugnando la vibro-lama.

   Ilia avrebbe voluto fermarlo, ma era così provata che le parole le rimasero in gola. Osservò Ifrit, temendo che reagisse con furia omicida a quella provocazione. Ma non fu così.

   «Una sfida personale... ti sembro forse una Klingon? Noi ci siamo lasciati alle spalle queste contese infantili!» rise Ifrit.

   «È come immaginavo: vi date tante arie, ma siete dei codardi. Volete il viaggio nel tempo perché sapete che solo così otterreste qualcosa. In uno scontro leale, siete e rimarrete sempre dei perdenti!» insisté Lantora.

   Stavolta Ifrit non rise. I suoi occhi rossi, puntati su Lantora, si strinsero malvagi. «Perdenti? Ti mostrerò cos’è la sconfitta, insulso Xindi» sibilò. Con gesti lenti e teatrali, trasse dalla cintura una vibro-lama di fattura Na’kuhl, l’impugnò a due mani e l’attivò. Dall’elsa si srotolò una lama nera e ricurva, con incisi dei simboli rossi simili a graffi, la scrittura Na’kuhl. Ifrit fece un saluto di scherma e si mise in posizione di guardia alta, con la lama puntata al cuore dell’avversario.

   «Stratega, il Leader Supremo vorrà interrogare entrambi i prigionieri» fece notare un Na’kuhl.

   «Mi assicurerò che il suo cervello e la sua lingua restino intatti» promise Ifrit. «Ma non posso garantire per il resto».

   «Fatti sotto!» ringhiò Lantora. «Rimpiangerai ciò che hai fatto a Terry!» gridò, avventandosi sulla Na’kuhl. Assestò un colpo potente, ma Ifrit lo parò quasi con disprezzo, sgusciò di lato e tornò in posizione di guardia. Lantora attaccò ancora, in modo diverso, e di nuovo la Na’kuhl parò senza la minima difficoltà. Le sue labbra sottili, quasi nere, s’incresparono leggermente. Il duello s’infiammò.

   Un osservatore inesperto avrebbe pensato che Lantora era in vantaggio, visto che attaccava di continuo, mentre Ifrit restava perlopiù in difesa. Ma Ilia sapeva che non era così. Dalla sua posizione inginocchiata, con i disgregatori puntati alla testa, seguì lo scontro sapendo già come sarebbe finito.

   Lantora era stanco, malconcio e infuriato. Combatteva senza risparmiarsi, perché era uno Xindi di profondi sentimenti e non aveva più nulla da perdere. Ifrit invece era riposata, illesa e perfettamente padrona di sé. Giocava con l’avversario come il gatto col topo. Non poteva ucciderlo, ma umiliarlo... questo sì. Lasciò che Lantora le rovesciasse addosso un attacco dopo l’altro. Li parava con la massima facilità, senza smettere di sorridere, conscia della propria superiorità. A volte si limitava a indietreggiare, o sgusciare di lato, per sfuggire alla vibro-lama avversaria. Quando Lantora si sbilanciò troppo in avanti, lo fece cadere a terra con uno sgambetto. Avrebbe potuto calargli la lama sul collo, invece si limitò a dargli un calcio nello stomaco, rovesciandolo. Lo Xindi rotolò a terra e si rialzò, sudato e con il cuore che gli martellava in petto. Sapeva che Ifrit stava giocando con lui, ma non poteva farci niente. Forse la Na’kuhl si sarebbe creduta talmente in vantaggio da abbassare la guardia, consentendogli di vibrare un colpo mortale.

   Il duello riprese, con Lantora sempre più stanco e in difficoltà. Ifrit, al contrario, sentiva le sue forze ancora intatte. Smise di stare in difesa e passò al contrattacco. Le vibro-lame cozzarono con violenza, sprizzando scintille. Quella di Ifrit dardeggiò più volte a un soffio dalla gola di Lantora, dalla testa, dal cuore. Per qualche secondo gli avversari incrociarono le lame, in una prova di forza. Poi Ifrit respinse Lantora, sbattendolo contro la parete, e gli assestò un colpo che l’avrebbe ucciso, se lo Xindi non si fosse abbassato appena in tempo. La lama nera colpì il muro e vi affondò, tracciando un lungo solco di metallo fuso. La Na’kuhl continuò ad attaccare, spingendo Lantora nell’hangar, ancora cosparso di rottami. Duellarono tra le fiamme e i resti di metallo contorto.

   «Come ti chiami, spia?» chiese Ifrit, fermandosi un attimo.

   «Non ha importanza... ti basti sapere che sono uno Xindi» rispose Lantora. «Una volta fummo usati e poi traditi dai Costruttori di Sfere. La stessa Messaggera ora siede a consiglio col tuo Leader Supremo. Tradirà anche voi... è la sua natura».

   «Quando avremo la piena padronanza del tempo, non dovremo temere più nessuno. Nemmeno i Tuteriani» replicò Ifrit. «E poi, la loro dipendenza dalle anomalie li rende deboli. Per quanto si vantino, saranno sempre dei pesci fuor d’acqua in questo Universo».

   La Na’kuhl tornò all’attacco, con più aggressività. Le sue movenze divennero acrobatiche: ora saltava, ora si piegava all’indietro, ora si fletteva di lato. I suoi lunghi capelli le vorticavano attorno come una tempesta di neve. Cominciò a mettere a segno dei colpi, perforando la tuta corazzata di Lantora. Erano ferite superficiali, alle braccia e alle gambe: ma si aggiungevano alle condizioni precarie dello Xindi. Poi Ifrit si concentrò sul busto: poco alla volta, la tuta corazzata di Lantora andò in pezzi. Il Tenente combatteva come mai prima d’ora, ma era inutile. Esausto e sanguinante, seppe che la fine era vicina.

   Un altro calcio poderoso lo spedì attraverso un muro di fuoco. Atterrò di schiena, con i capelli strinati, e tossì sentendo il sapore del sangue. Prima che potesse rialzarsi, Ifrit gli saltò addosso, al di sopra delle fiamme. Gli atterrò sopra, schiacciandolo a terra, e sferrò un colpo che Lantora parò a stento. Premuto contro il pavimento, lo Xindi era allo stremo. Se avesse ceduto, la vibro-lama di Ifrit gli avrebbe piantato la sua stessa spada nella gola. Sentì i gomiti piegarsi: millimetro dopo millimetro, la Na’kuhl gli avvicinò la lama alla carotide.

   «Il Leader Supremo vuole che i prigionieri gli siano consegnati immediatamente». La voce veniva da un altoparlante e suonava perentoria. Ifrit emise un sibilo di frustrazione, mentre Lantora riuscì a sorridere.

   «Non credere che sia un bene, per te» disse la Na’kuhl. «Ti porterò da Vosk... ma prima devo finire la lezione». Rapida come un serpente, staccò una mano dall’elsa e la proiettò verso la faccia di Lantora. Lo Xindi fece appena in tempo a vedere la mossa... e fu l’ultima cosa che vide con l’occhio sinistro. Le unghie appuntite di Ifrit gli entrarono nell’orbita, afferrarono il globo oculare e lo strapparono via. Il sangue vermiglio schizzò dalla ferita, misto a residui di umori, e gl’insudiciò il volto, levandogli la vista anche dell’altro occhio. Un dolore atroce si diffuse dall’orbita e gli affondò fino al cervello; sembrava che tutto il cranio dovesse esplodergli. Lantora gridò, con quanto fiato aveva in gola, e tutto l’hangar risuonò del suo dolore. L’urlo si spense in un gorgoglio, ma il dolore continuava, mentre il sangue scorreva dall’orbita vuota. Lo Xindi mollò la vibro-lama e si portò le mani al volto, ma premere la ferita aumentava solo la sofferenza. Desiderò essere morto... una stoccata al cuore sarebbe stata meglio di quell’agonia.

   «Ecco... cominci a capire la sconfitta» disse Ifrit con distacco, rialzandosi. Contemplò l’occhio di Lantora, che stringeva ancora fra il pollice e l’indice. «Essere nel giusto o nel torto è soggettivo. Ma il dolore... quello è indiscutibile». Lasciò cadere l’occhio e lo schiacciò per bene sotto lo stivale.

   Lantora si alzò in ginocchio, piegato in avanti, con le mani premute sul volto sanguinante. Sentiva appena le parole di Ifrit. Dall’occhio sano vedeva solo rosso, dall’altro il dolore gli saliva a ondate, pulsando con ogni battito cardiaco. La testa gli girava così tanto che faticava persino a stare in ginocchio; di alzarsi in piedi non se ne parlava.

   «La prossima lezione sarà la disperazione» proseguì Ifrit, sorridendo compiaciuta. Gli dette una botta in testa con l’elsa della vibro-lama. Fu un piccolo dolore, a paragone di quello che s’irradiava dall’orbita, e Lantora lo accolse con piacere. Privo di sensi, avrebbe sofferto meno.

   Molti metri più in là, sulla porta dell’hangar, Ilia aveva intravisto la scena attraverso le fiamme. Quando vide cadere lo Xindi, colpito alla testa, anche lei si accasciò. Tutto era perduto. Si accorse appena che due Na’kuhl la sollevavano per le braccia e la trascinavano via, facendole strisciare le gambe a terra. Solo la risata stridula di Ifrit le rimase impressa nella memoria.

 

   «Le spie federali, Leader Supremo» disse Ifrit, introducendo Vosk nella stanza in cui Ilia e Lantora erano tenuti prigionieri. I federali erano sospesi a mezz’aria, entro cilindri d’energia violacea che andavano dal soffitto al pavimento. Qualunque cosa fosse, campo di forza o altro, impediva loro di muoversi. Era come lottare contro una resistenza gommosa: ci si poteva spostare al massimo di qualche centimetro. Accanto a loro c’erano altri campi di stasi, disattivati. Guardie Na’kuhl armate erano disposte lungo il perimetro della sala.

   «Beh, eccovi qui. Sono spiacente per le circostanze del vostro arresto... ma come saprete, non siamo abituati a ricevere ospiti. Specialmente quelli che s’invitano da soli» esordì Vosk.

   «Anche noi cominciamo ad averne abbastanza. Infatti dovreste chiedere il permesso alla Federazione, prima d’invaderla» rispose Ilia. Lei e Lantora erano entrambi coscienti. Un medico Na’kuhl aveva rianimato lo Xindi e gli aveva arrestato l’emorragia, per evitare che morisse prima del dovuto.

   «Ifrit mi aveva detto del vostro umorismo; vedo che non esagerava» commentò Vosk, mantenendo la compostezza. «Devo ammettere che sono colpito. Siete arrivati là dove nessun federale era mai giunto prima. Siete anche pronti a pagarne il prezzo?».

   «Abbiamo già cominciato» tossì Lantora, il volto reso grottesco dall’orbita vuota.

   «Se non fosse per la guerra che i suoi amici Tuteriani ci hanno scatenato, non avremmo mai violato il vostro territorio» disse Ilia. «Ma la guerra ci costringe ad agire da soldati... e anche da spie, se necessario. Non l’abbiamo voluta, non l’abbiamo cominciata... ma dobbiamo combatterla».

   «È comprensibile» ammise Vosk. «Ma la vostra missione di spionaggio finisce qui. Non abbiamo accordi di estradizione con la Federazione... e anche se fosse, penso che il Comando di Flotta negherebbe la vostra esistenza. Siete completamente soli. Assodato questo, passiamo alla prima domanda: quanto sapete dei nostri piani?».

   Ilia guardò Lantora nell’occhio superstite. Lo Xindi fece segno di no, ma il Comandante sapeva che cucirsi la bocca era inutile. I Na’kuhl avevano la tecnologia necessaria per estorcere qualunque informazione. «Sappiamo che si è alleato con gli invasori di un altro Universo» rispose freddamente la Trill. «E sappiamo che intende colpire alla Terra a tradimento. Ma la nostra cattura non le renderà le cose più facili. Non conosciamo i dettagli delle difese terrestri».

   «Mentono, Leader Supremo!» intervenne Ifrit. «Lasciate che sia io a interrogarli, e sapremo...».

   «No, perché dovrebbero mentire?» disse Vosk a sorpresa. «Mandarci delle spie aggiornate sulle difese terrestri sarebbe folle. E poi sappiamo già quanto basta per l’attacco. Una sola cosa ha importanza: avete informato la Federazione delle vostre scoperte?» chiese, fronteggiando i prigionieri. Stavolta non ebbe risposta.

   «Non hanno inviato segnali subspaziali a lungo raggio, o li avremmo intercettati» ragionò Ifrit. «Ma c’è sempre un margine di rischio. Vuole... posticipare l’attacco?» chiese.

   Vosk camminò avanti e indietro, riflettendo. Aveva appena presentato ai suoi alleati un piano dettagliato di attacco alla Terra. Ritirarlo precipitosamente, per paura di due spie, lo avrebbe fatto passare per inetto. La sua ambizione di controllare il Fronte si sarebbe arenata sul nascere.

   «I nostri piani sono completi: non li cambierò solo per timore di due intrusi» decise il Leader Supremo. «Farci sospendere l’attacco è proprio ciò che vogliono. Se Tuteriani e Krenim non noteranno gravi oscillazioni delle linee temporali, procederemo come previsto. La Terra morirà... e senza di quella, la debole impalcatura della Federazione crollerà» disse, lanciando un’occhiata ferina ai prigionieri. Fece per andarsene, ma la voce di Ilia lo fermò.

   «Aspetti, Vosk! Crede davvero che uccidere miliardi d’innocenti aiuterà la sua causa?!» chiese la Trill. Era un tentativo disperato, ma andava fatto.

   Il Leader Supremo tacque per qualche secondo, dandole le spalle. Poi si girò lentamente. «Non esistono innocenti e colpevoli; solo sopravvissuti ed estinti» disse perentorio. «Non provo piacere nell’organizzare questo attacco, ma... ci darà buoni risultati».

   «Attaccare a tradimento la Federazione non vi salverà. Al contrario, vi trascinerà nell’abisso» insisté Ilia. «Se accettaste di trattare pacificamente, sono certa che la Federazione vi concederebbe alcuni pianeti in cui trasferire la vostra gente, prima che questo collassi».

   Vosk le si avvicinò, minaccioso. «Trattare, già. Voi federali non sapete fare altro» disse con disprezzo. «Vi siete illusi che mettere tante specie nello stesso recinto, senza che si azzannassero, volesse dire farle prosperare. Ma non è così. Per evitare che si distruggessero l’un l’altra, avete dovuto spegnerle. Avete sacrificato lo spirito dei vostri popoli: tutto ciò che li rendeva grandi, tutto ciò che li rendeva unici, è perso per sempre. Il vostro errore è, in parte, scusabile solo perché le vostre specie sono giovani. Ma noi, che siamo antichi, sappiamo bene a dove conduce tutto questo».

   «A dove conduce, sentiamo?» lo provocò Lantora.

   «Davvero non riuscite a vederlo? Alla fine di quell’utopia che chiamate Federazione» disse Vosk. Nella sua voce dura si fece strada una nota diversa, quasi di compassione. «Finché l’utopia era il vostro obiettivo, è stata il fuoco che vi ha permesso di espandervi e riplasmare interi mondi. Ma quando l’avete conseguita, beh... l’utopia come pratica è stagnazione, putrefazione; alla fine è la morte. Che è precisamente dove vi trovate ora. I Tuteriani sono la prima seria minaccia che affrontate da un secolo a questa parte e vi stanno piegando».

   «I Na’kuhl saranno antichi, ma la mia memoria è più vecchia della sua, Vosk» avvertì Ilia. «E io ricordo che molti hanno profetizzato la caduta della Federazione; eppure siamo ancora qui».

   «E in che condizioni? Siete popoli fieri e orgogliosi della vostra identità? Macché! La Federazione non ha valori, semplicemente perché non esistono valori comuni a tutti i vostri membri. Perciò i vostri cittadini non hanno nulla per cui battersi, salvo i meschini interessi personali. Arte, letteratura, filosofia... avete schiacciato tutto sotto il rullo compressore della Federazione, e così facendo vi siete rotti da soli la spina dorsale» constatò Vosk.

   «Persino il vostro DNA si sta annacquando» proseguì il Leader Supremo, passeggiando davanti ai prigionieri. «Con l’aumento incontrollato delle unioni miste, le vostre razze stanno confluendo in un guazzabuglio indistinto. Guardate che succede agli Umani, i creatori dell’ideologia federale! Si mescolano a tal punto con le altre specie che entro pochi secoli saranno estinti. E voialtri – Trill, Xindi – li seguite passo passo sul rovinoso sentiero della dissoluzione. È una perdita così incalcolabile che viene da soffrirne a me; voi dovreste esserne agghiacciati. Invece siete ancora qui a cianciare di leggi e diritti! C’è una sola legge nell’Universo, quella dell’evoluzione tramite selezione ambientale. Voi lo avete dimenticato o fingete di non capirlo; noi invece l’abbiamo ancora ben presente. Ecco perché voi siete il passato e noi il futuro. Dobbiamo solo stendere la mano e prendere quanto ci spetta» concluse il Leader Supremo. Ifrit lo aveva ascoltato attentamente e ora lo guardava con ammirazione, quasi con venerazione.

   «Fallirete» disse Ilia, anche se le sue parole l’avevano annientata. Sotto sotto, non poteva fare a meno di chiedersi se Vosk avesse ragione. Molte disfunzioni della Federazione e della Flotta, che lei conosceva fin troppo bene, si spiegavano in questi termini. Accanto a lei, anche Lantora rimuginava, chiedendosi se gli Xindi avessero sbagliato a fidarsi della Federazione.

   «Si vedrà; e lo vedrete anche voi» assicurò Vosk, incrociando le braccia dietro la schiena. «V’imbarcherò sulla mia nave, così che possiate assistere alla caduta di tutto ciò che ritenete grande e nobile. Allora mediterete sulle mie parole, e forse le comprenderete. Ma non avrete molto tempo, perché presto cominceranno gli interrogatori. Le vostre menti saranno esplorate dalle nostre psico-sonde, per estrarre ogni informazione utile. Alla fine di tutto potrei anche riprogrammarvi e mandarvi indietro come spie. Oppure, se mi sentirò misericordioso, vi permetterò di morire».

 

   Per ordine di Vosk, i prigionieri furono trasferiti sulla nave ammiraglia. Se ne stava incassata fra le rocce del mantello, come un drago dormiente, in attesa di essere risvegliato. Non era piccola come le Navi Vampiro e i Caccia Ombra: lunga cinque chilometri, era una massiccia struttura a T, rivestita di Materia Degenere. I bordi erano affilati come rasoi e dallo scafo potevano distaccarsi vascelli più piccoli, pronti all’attacco. Era una nave antica, costruita dai Na’kuhl in previsione della rivincita sulla Galassia; e quel momento era arrivato. Ufficiali e truppe vi entrarono, sfilando in ranghi ordinati, mentre gli ingegneri attivavano i sistemi di bordo. La macchina bellica Na’kuhl si stava finalmente muovendo, con la disciplina e l’efficienza che le erano proprie. Dalla plancia spoglia e tenebrosa, Vosk coordinava l’intera flotta, aiutato da Ifrit e altri gerarchi.

   In una saletta posta a metà lunghezza dello scafo principale, Ilia e Lantora attendevano la catastrofe. La stanza non era stata concepita come prigione. Era più probabile che fosse una sala d’osservazione, il che spiegava la grande finestra che riempiva quasi tutta la parete di fondo. Per adesso mostrava solo roccia, ma presto sarebbero apparse le stelle. La saletta, comunque, era priva d’arredo e la porta era sigillata. I federali erano appesi alla parete interna con dei ceppi, che gli serravano i polsi. I ceppi non erano fissati alla parete: erano parte di essa. Tutta la stanza, infatti, era rivestita di Materia Degenere, con l’eccezione del finestrone. Quando i federali erano stati messi contro il muro, questo si era mosso, avvolgendogli i polsi in una morsa invincibile. Era una trappola da cui non si scappava.

   In quella posizione innaturale, ogni respiro era faticoso. Soprattutto per Ilia, che aveva ancora danni interni, sia al suo organismo che al Simbionte. Ogni boccata d’aria le provocava una fitta dolorosa. Quanto a Lantora, era coperto di ferite a malapena rimarginate. L’orbita vuota, in particolare, continuava a pulsargli dolorosamente. Ma i Na’kuhl gli avevano risparmiato l’altro occhio, perché vedesse la morte della Federazione.

   «Resisti, Comandante» disse Lantora, sentendo che la sua collega ansimava. «Respira lentamente».

   «Ci sto provando» boccheggiò Ilia. «Ma forse non dovrei. Ho visto il sorgere della Federazione... non voglio assistere al suo tramonto».

   «Vosk non ha ancora vinto» disse Lantora. «Può uccidere noi. Può persino colpire la Terra. Ma non abbatterà la Federazione, finché ci saranno Capitani come Chase a difenderla».

   «Chase... chissà che sta facendo, ora. Chissà dov’è l’Enterprise» mormorò Ilia.

   «Stava dando la caccia all’Enterprise dello Specchio, ricordi? Scommetto che l’ha già fatta a pezzi» disse lo Xindi. «Ora sarà in rotta verso la Terra. Se conosco Chase, arriverà giusto in tempo per...».

   «Distruggere questa nave? Può darsi. È la nostra sola speranza» disse Ilia, e tossì.

   «Già, non è granché» convenne Lantora. Per qualche minuto regnò un silenzio opprimente. «Senti un po’... è tanto che volevo chiedertelo, e non credo che avrò altre occasioni...» disse infine lo Xindi.

   «Dì pure».

   «Tu ricordi undici vite, prima della tua. E altrettante morti. Com’è?».

   «Morire? Dipende tutto dal modo» rispose Ilia. «I primi ospiti di Dax – Lela, Tobin, Emony, Audrid – si spensero tranquilli nei loro letti. Ricordo che fu come addormentarsi. L’unica cosa diversa era il rimpianto, sapere che era finita; solo preservare i loro ricordi in Dax li confortava. Torias, il quinto ospite, morì in un incidente con una navetta, meno di un anno dopo l’Unione. Essere schiacciato dalle lamiere fu... orrendo.

   Poi ci fu Joran. Con lui il legame andò male: divenne sempre più aggressivo, finché assassinò un medico che l’aveva indicato come non adatto all’Unione. Fu braccato dalla polizia... e alla fine ucciso. Altri brutti ricordi per Dax; pensa che l’incidente fu coperto e la memoria del Simbionte fu bloccata. Ma in seguito il blocco cedette e i ricordi tornarono.

   Fu la volta di Curzon, il grande Ambasciatore. Era più godereccio della maggior parte dei Trill... morì su Risa, in seguito al jamaharon con la sua amante Arandis».

   Lantora non conosceva la lingua risiana, ma non ci voleva un’aquila per immaginare che fosse qualcosa di estremo. «Almeno è morto felice» commentò.

   «Macché. Non morì sul colpo e fu ricoverato» rivelò Ilia. «I suoi ultimi giorni li trascorse in un letto d’ospedale, urlando contro i dottori che cercavano di tenerlo in vita. Alla fine gli espiantarono il Simbionte e morì circondato dai familiari che erano accorsi».

   «Caspita, questo non l’avevo letto nel suo profilo di Memory Alpha» commentò Lantora.

   «Poi ci fu la morte peggiore, quella di Jadzia» proseguì Ilia. «Aveva sposato Worf da un anno, stavano cercando di avere un bambino... ma tutti i sogni andarono in cenere quando arrivò Gul Dukat».

   «Il governatore di Bajor all’epoca dell’Occupazione Cardassiana» disse Lantora, che conosceva la storia federale. «Circolano molte leggende su di lui».

   «Alcune sono vere» disse Ilia. «Dopo la riconquista di Deep Space Nine, perse il potere a Cardassia e divenne un adoratore dei Pah-wraith, i demoni di Bajor. Ne liberò uno, che s’impadronì di lui... e gli dette il potere di uccidere con un gesto. Ricordo un calore atroce, come una fiamma che mi bruciasse viva, fino al midollo...» mormorò Ilia, chiudendo gli occhi. Di colpo le sembrò di rivivere la sua morte.

   «Mi spiace, non avrei dovuto chiedertelo. Non adesso» si scusò Lantora.

   «E quando, sennò?» fece Ilia, con un sorriso amaro. «Almeno Ezri, Martis e Zarden non hanno sofferto tanto. Ma noi due...» deglutì, «... vorrei che fossimo morti prima, perché credo che niente eguagli la crudeltà dei Na’kuhl». Riprese a tossire, affaticata dalla lunga conversazione.

   In quella l’astronave si mosse. Fu una vibrazione appena percettibile, ma la conferma venne dalla finestra panoramica. La roccia prese a scorrere verso l’alto, dapprima lentamente, poi così veloce che gli strati di roccia si confusero. Lasciato il suo giaciglio di pietra, l’ammiraglia di Vosk risaliva il mantello del pianeta. Finalmente la roccia svanì e le stelle brillarono attraverso il finestrone. I federali videro anche la superficie di Na’kuhl Primo, scura e butterata di crateri. Già all’arrivo l’avevano trovato un mondo orribile. Ma adesso era il luogo in cui Terry era morta... e in cui loro sarebbero tornati, per essere torturati e uccisi.

   Con l’occhio superstite, Lantora intravide del movimento sulla superficie. Aguzzò la vista e capì: era la flotta Na’kuhl. Centinaia di Navi Vampiro, nere e irte di aculei, sbucavano come pipistrelli dalle caverne e dai crateri, che camuffavano le cime dei pozzi. Migliaia di Caccia Ombra sciamavano intorno, come insetti malefici. Era una forza militare schiacciante: alta tecnologia, perfetta organizzazione e la potenza del numero. Non si trattava di un assalto improvvisato: i Na’kuhl avevano impiegato anni a progettarlo. E si erano assicurati di avere degli alleati.

   La flotta Vorgon, dalle forme più organiche e tondeggianti, si unì alle scheletriche e affilate navi Na’kuhl. Il contrasto era stridente; ma le due flotte coalizzate potevano scatenare un attacco devastante. Da una parte c’erano astronavi viventi, equipaggiate con cannoni al plasma e pilotate con interfacce neurali. Dall’altra una scienza antichissima schierava astronavi quasi invulnerabili, armate di disgregatori e capaci di mutare configurazione in base alle esigenze. Uscivano dagli abissi del pianeta nero come demoni appena liberati, ansiosi di vendicarsi della lunga prigionia.

   Ilia e Lantora si guardarono e ciascuno vide la propria disperazione riflessa nel viso dell’altro. Non dissero nulla; non ce n’era bisogno. Entrambi si chiedevano se quella era la fine della Federazione: l’utopia per cui si erano battute intere generazioni. Intorno a loro le flotte si dispiegarono, assumendo la formazione d’attacco. Poi l’ammiraglia di Vosk attivò la propulsione e la finestra panoramica si riempì del bagliore violaceo del condotto di transcurvatura. Il Fronte Temporale aveva iniziato l’attacco, senza che la Federazione ne avesse sentore. Nemmeno la scomparsa della Sojourner, in un settore remoto del Quadrante Beta, poteva far presagire la catastrofe.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** La testa del serpente ***


-Capitolo 8: La testa del serpente

 

   I cantieri spaziali di Utopia Planitia erano fra i più imponenti della Federazione. Il titanico Hangar Spaziale Terrestre, dalla bizzarra forma a fungo, stupiva e incantava i visitatori per la sua mole. La Stazione Jupiter conteneva laboratori di ricerca tra i più avanzati della Flotta, in campi come le comunicazioni, la tecnologia olografica e la fisica subatomica. Ma era Marte, il Pianeta Rosso, la vera fucina della Flotta Stellare. Dozzine di cantieri spaziali galleggiavano appena oltre le tenui propaggini atmosferiche del pianeta terra-formato. Ognuno conteneva l’ossatura di una nave in costruzione. Lunghi bracci meccanici posizionavano le gondole, altri si occupavano delle saldature. Navette da trasporto e Work Bee sciamavano come api intorno agli scafi mastodontici. E migliaia d’ingegneri in tuta spaziale si affollavano intorno alle parti incompiute, eseguendo i compiti più disparati. Ogni volta che una squadra finiva il turno, un’altra subentrava. Era una catena di montaggio che non si fermava mai.

   Non c’era da stupirsi se il lavoro era così alacre. Con la Flotta martoriata da tre anni di anomalie e di attacchi nemici, c’era un disperato bisogno di rimpiazzare le perdite. Il volto della Flotta sarebbe uscito trasformato dopo il conflitto: non più navi concepite per missioni di pattugliamento e rilevamenti scientifici, ma potenti vascelli orientati alla battaglia. Nuove classi erano varate: Theseus, Paladin, Sagittarius, fino alle gargantuesche Universe e Celestial. Erano le prime, vere navi da battaglia progettate da oltre un secolo. I ritmi di costruzione erano accelerati per compensare le perdite, mentre i vascelli che pattugliavano i confini rientravano per subire aggiornamenti. Le navi sacrificavano gli strumenti scientifici per le necessità belliche; anche modelli come Altair e Mjölnir erano riconfigurati con armamenti supplementari.

   Naturalmente le difese planetarie erano state incrementate dopo la catastrofe di Khitomer. Nuove piattaforme automatiche orbitavano intorno a Marte, la cui superficie si era riempita di lanciasiluri e armi a energia. Memore dell’attacco Breen nella Guerra del Dominio, la Flotta Stellare aveva incrementato anche le difese terrestri e lunari. Ma con tante armi di distruzione di massa in circolazione, non si poteva mai dormire sonni tranquilli.

   Questi e altri pensieri passavano nella mente dell’Ammiraglio Nelscott mentre, nel suo ufficio sulla Majestic, leggeva gli aggiornamenti dei cantieri spaziali. Fin da prima della guerra, era stato il principale fautore del potenziamento bellico della Flotta. Questo gli aveva fruttato le accuse più becere: di essere un guerrafondaio, di aizzare il conflitto, di mirare al colpo di Stato. Solo lui sapeva quanto le accuse fossero infondate. Se la Galassia avesse esaudito i suoi desideri, la Flotta Stellare sarebbe stata dedicata all’esplorazione, alla ricerca scientifica, al pattugliamento delle rotte spaziali: gli scopi per cui era stata fondata. Ma nella Galassia così com’era, una Flotta siffatta era incapace di proteggere la Federazione. Infatti solo le astronavi più moderne e armate stavano dimostrando una certa superiorità nei confronti di Tuteriani e Krenim. Per assicurarsi che la loro produzione continuasse, Nelscott doveva passare quasi tutto il suo tempo sulla Terra, a battibeccare con il Consiglio federale e il Comando di Flotta, e su Marte, a sovrintendere direttamente la costruzione. Gli restava ben poco tempo per guidare la Majestic in battaglia e comunque esitava a privare il sistema solare della sua difesa.

   «Ammiraglio, una comunicazione urgente per lei dagli Uffici Presidenziali a Parigi» avvertì la voce del computer di bordo.

   «Va bene, Majel, passamela qui» rispose Nelscott, chiamando l’IA con il suo soprannome. Si alzò in piedi, rispettosamente, mentre l’ologramma appariva davanti a lui. Pensava che fosse il Presidente Ektius, ma si sbagliava. Era una messaggera di catastrofe.

 

   «Salve, amici spettatori. Qui è Vaus Liin, in diretta per il Federal News. Vi parlo dall’Accademia della Flotta Stellare a San Francisco» disse il giornalista, assicurandosi che i giardini ridenti e gli scintillanti palazzi dietro di lui fossero inquadrati dal drone-olocamera. «Come annunciato ormai settimane fa, i cadetti si sono radunati per una protesta che scuoterà le coscienze della Flotta Stellare. Ma lasciamo la parola sul significato di questo happening al suo promotore, il cadetto Okuz!» sorrise il giornalista.

   L’inquadratura si allargò, e dovette farlo molto per includere la mole del cadetto. Gli spettatori videro che stava nell’ampio piazzale tra il palazzo dell’Accademia e i giardini, di cui s’intravedevano gli alberi e le siepi ben curate.

   «Salve a tutti!» gongolò Okuz, puntando i pollici in su e scuotendo le spalle in un accenno di danza. Nemmeno l’uniforme da cadetto poté impedire alla sua pancia grassa di tremolare. «Sììì, ci siamo radunati in questa stupenda giornata per trasmettere un messaggio di pace e fratellanza!» disse con voce stridula. «Crediamo che la musica e la danza siano gli strumenti più adatti per aprire le menti. Ricordate, gente... tuuutti noi possiamo essere tuuutto ciò che vogliamo!» chiocciò.

   «A nome degli spettatori, grazie per questo bellissimo messaggio!» sorrise Vaus Liin. La sua voce quasi si perse in uno scroscio di applausi, perché attorno a Okuz si andava ingrossando un folto gruppo di cadetti, pronti a ballare. Tra applausi, strette di mano e pacche sulle spalle, ci volle un bel pezzo perché la commozione si placasse. «Ora, tornando al significato di questa protesta danzante...» invitò il giornalista.

   «L’abbiamo pensata per opporci ai movimenti ripetitivi che la Flotta ci chiede di fare a bordo delle astronavi» spiegò Okuz. «Ogni giorno dobbiamo ripetere gli stessi gesti, le stesse parole. Questo non va bene... anche gli schemi mentali diventano ripetitivi. La nostra danza serve a ripristinare la creatività, la libertà, la vitalità. È la protesta pacifica e colorata di chi vede la vita non come il mezzo per ottenere qualcosa, ma come il fine ultimo! Vogliamo che i nostri corpi pulsino al ritmo delle nostre emozioni, delle nostre sensazioni. Vogliamo che il nostro grido d’amore si fonda coi nostri nervi, che nuove idee c’illuminino l’encefalo come fuochi d’artificio, che nuove linee di pensiero ci riconfigurino il sistema nervoso!» si esaltò.

   «Grazie... grazie a te per questa lezione di vita, e grazie a tutti voi per essere qui! Siete speciali, siete meravigliosi!» sorrise Vaus Liin, salutando con ampio gesto l’enorme folla che si era radunata alle spalle di Okuz. I cadetti avevano ormai preso posizione, riempiendo il piazzale, e fronteggiavano il palazzo dell’Accademia come se fosse il nemico. Ma erano così numerosi che solo una piccola parte aveva trovato posto lì. Molti di più gremivano i giardini: ogni piazzola, ogni sentiero serpeggiante nel verde, ogni ponticello sui canaletti.

   «A nome del Federal News, vi ringrazio per il contributo che state offrendo alla Flotta Stellare. E ora... date inizio alle danze!» invitò Vaus Liin, indietreggiando. Il suo drone-olocamera si alzò di quota, raggiungendo altri droni simili, che effettuavano riprese panoramiche dell’evento.

   Dagli altoparlanti, installati qua e là nei giardini, partì una musica spaccatimpani. Era molto semplice e ripetitiva, perché solo così i cadetti di tante specie diverse potevano seguirla. «Sìììì... scateniamo la nostra positività!» gongolò Okuz, cominciando a ballare in modo sgraziato. Quelli dietro di lui lo imitarono. La brutta danza si diffuse come un’onda in tutta la piazza, risalendo i vialetti retrostanti. In pochi secondi, migliaia di cadetti erano impegnati a fare ciò che, secondo loro, era più utile alla Flotta Stellare.

 

   In quel preciso momento, senza alcuna dichiarazione formale di guerra, le flotte Vorgon e Na’kuhl uscirono dalla transcurvatura all’interno del sistema solare. Avevano mascherato le tracce in avvicinamento, per cogliere la Federazione alla sprovvista. Con la perfetta coordinazione richiesta dal piano di Vosk, la flotta si divise in due armate principali.

   I Vorgon attaccarono Marte, in particolare i cantieri di Utopia Planitia, per distruggere le astronavi in costruzione o in riparazione, approfittando della loro vulnerabilità. L’annientamento dei cantieri spaziali era un colpo terribile per la Flotta Stellare, perché ne bloccava la macchina bellica. Sarebbero serviti mesi, forse anni per riavviare i cantieri, e nel frattempo la Flotta non avrebbe potuto sostituire le astronavi perse in battaglia.

   I Na’kuhl si concentrarono invece sul sistema Terra-Luna. Il loro obiettivo erano le grandi città, oltre ovviamente alle astronavi e alle stazioni in orbita. La priorità era distruggere le installazioni chiave della Federazione e della Flotta Stellare, uccidendone al contempo i leader. Ma lo sterminio della popolazione era altrettanto importante. Avrebbe gettato la Federazione nel panico; perché se un nemico poteva colpire la Terra, allora nessun luogo era sicuro. L’azione dei Na’kuhl dimostrava questo: la Federazione, nata per portare pace e sicurezza nella Galassia, aveva fallito.

   Oltre alle due flotte maggiori, altri distaccamenti Vorgon e Na’kuhl attaccarono i restanti obiettivi nel sistema solare. Tutte le colonie umane, tutti gli avamposti federali furono martellati, ovunque si trovassero: sui pianeti, sui satelliti, sugli asteroidi maggiori. L’attacco fu pressoché simultaneo ed ebbe un effetto catastrofico. Milioni di persone morirono nei primi istanti, senza nemmeno sapere chi le stesse attaccando.

   Coloro che sopravvissero alla tempesta di fuoco dei primi momenti videro esplodere dei missili nell’atmosfera. Non erano siluri mal funzionanti. Si trattava di armi chimiche e biologiche, che rilasciavano agenti contaminanti e terribili virus, capaci di diffondersi nell’aria e nell’acqua. Il peggio della tecnologia organica Vorgon e dell’antico sapere Na’kuhl si era combinato per un unico scopo: lo sterminio dell’umanità.

 

   Quando gli allarmi squillarono nei cieli di San Francisco, la popolazione restò interdetta. La maggior parte dei residenti non sapeva nemmeno cosa significasse quel frastuono. I cadetti che stavano ballando sulla piazza e nei giardini dell’Accademia, invece, lo sapevano. Dapprima rimasero sgomenti: molti smisero di ballare e si guardarono l’un l’altro, increduli. Possibile che ci fosse un bombardamento imminente?

   «Attenzione, allarme generale!» tuonò la voce del Direttore dell’Accademia, sostituendo la musica dagli altoparlanti. «La rete di sicurezza del sistema solare è stata violata. Navi ostili, non identificate, stanno attaccando le installazioni della Flotta e i maggiori centri urbani. Per ordine del Presidente, lo Scudo Terrestre è stato attivato». Mentre il Direttore parlava, i cadetti alzarono gli occhi. Videro il cielo farsi più scintillante, segno che il potente campo di forza planetario si era acceso, nell’estremo tentativo di proteggere la Terra.

   «Questo messaggio ha priorità 1» proseguì il Direttore, in tono grave e urgente. «Il personale della Flotta Stellare si rechi immediatamente alle postazioni di combattimento. L’ordine è esteso ai cadetti dell’ultimo anno. Tutti gli altri cadetti hanno l’ordine di recarsi immediatamente alle sale teletrasporto, alle navette e ai bunker, in base ai piani d’evacuazione. Mantenete la calma e non intralciate il personale operativo. E restate in attesa di ordini: tra poco potrebbe esservi chiesto di collaborare alla protezione dei civili. Questa non è un’esercitazione. Ripeto: questa NON è un’esercitazione!».

   Terminato il messaggio, rimasero solo le sirene automatiche. I cadetti continuarono a fissarsi, confusi. Molti di loro erano rimasti bloccati nella posizione di danza, come aspettando che le sirene tacessero per riprendere a ballare. Qualcuno cominciava già ad allontanarsi, in base al piano d’evacuazione. Ma quando Okuz li vide, si riprese immediatamente dalla paralisi.

   «Fermi! Dove andate?!» strillò. «Non crederete a questa buffonata? La Flotta Stellare vuole rovinare il nostro evento, perché teme che le nostre coscienze si risveglino! Ma noi siamo già svegli e non ci faremo abbindolare! Niente e nessuno deve rovinare la nostra manifestazione... ricordate che siamo in diretta!» aggiunse, accennando ai droni-olocamera che ronzavano come grossi insetti sulla testa dei cadetti. Per la verità, molti droni si erano allontanati in tutta fretta. Ma altri continuavano a inquadrare i giovani. E a Okuz bastava che ce ne fosse ancora uno puntato su di lui, per sentirsi obbligato a proseguire lo spettacolo.

   «Ne sei sicuro?» chiese un cadetto Kelpiano, spaventato. «A me sembra una faccenda seria... hanno anche attivato lo Scudo Planetario».

   «Non avrai creduto al discorso di Chase!» lo rampognò Okuz, riferendosi alla conferenza di qualche settimana prima. «Quel guerrafondaio farebbe qualunque cosa per convincerci che Tuteriani e Krenim sono nemici. Scommetto che c’è lui dietro questo falso allarme!».

   «Ma se non ci fosse alcun inganno? Se ci stessero davvero attaccando?» insisté il Kelpiano.

   «Allora è ancor più importante diffondere il nostro messaggio di pace!» disse Okuz, perentorio. «La Flotta ci dice che siamo in guerra perché abbiamo dei nemici... ma io vi dico che l’unico nemico è la nostra paura. Ho deciso di liberarmene... di sostituirla con l’amore. Fatelo anche voi e cambieremo la Galassia!» disse, con gli occhi lucidi di commozione.

   «Sì, bravo!» lo acclamarono i suoi sostenitori più fidati, strategicamente posizionati a intervalli regolari in mezzo alla folla. Avevano l’ordine di sostenerlo, qualunque cosa facesse, per influenzare gli indecisi; ed erano fermamente decisi a obbedire. Molti ripresero a ballare o a battere le mani.

   «Bene, così! Non cediamo alla paura!» insisté Okuz, sentendo di poter ancora dominare la folla. Prese ad agitare le mani come un direttore d’orchestra, cercando di far ripartire le danze. «Vogliamo costruire ponti, non muri! Guardate quello scudo sopra le nostre teste... è orribile, è una barriera mentale! Dobbiamo abbatterla! Ma prima dobbiamo accertarci di non essere portati via contro la nostra volontà».

   «Ci pensiamo noi!» disse una sua sostenitrice, correndogli a fianco. Mise un dispositivo a terra e ne estrasse una lunga antenna. Quando l’attivò, lo strumento prese a ronzare. Altri sostenitori di Okuz stavano facendo lo stesso in vari settori della piazza e dei giardini. «Stiamo attivando gli inibitori di teletrasporto, così non potranno portarci via» spiegò la cadetta.

   «Ben fatto!» si congratulò Okuz, abbracciandola. «Sono fiero di te. Sentito, ragazzi? Nessuno ci fermerà!» aggiunse, rivolto alla folla. «Su, rimettete la musica... non dobbiamo fermarci!».

   «A tutti i cadetti, rinnovo l’ordine d’evacuazione!» risuonò la voce del Direttore. «Questa non è un’esercitazione! Sono il Direttore dell’Accademia e vi ordino tassativamente di...». La sua voce, per quanto amplificata, fu sommersa dalle proteste dei cadetti. Gli inibitori ronzarono più forte, segno che stavano bloccando il teletrasporto. Alcuni ufficiali della Sicurezza raggiunsero le propaggini della folla e cercarono di trascinare via i dimostranti, ma si scontrarono con una resistenza formidabile. Quanto a Okuz, era inavvicinabile, circondato da un nugolo compatto di fedelissimi.

   «Resistete! Non facciamoci intimidire! Dobbiamo dare l’esempio!» gridò Okuz, il cuore che batteva a mille. Sentiva che quella era l’ora del trionfo. Ai suoi ordini, i cadetti distrussero tutti gli altoparlanti che riuscivano a raggiungere. Le sirene scesero di tono, come anche la voce del Direttore. Al loro posto, i cadetti posizionarono altri altoparlanti, che diffusero nuovamente la musica di prima. Una navetta dell’Accademia sorvolò la piazza, ripetendo messaggi d’allarme, ma i cadetti la bersagliarono con tutto ciò che avevano sottomano e risero quando se ne andò.

   «Vedete? Non hanno alcun potere su di noi!» gridò Okuz, indicando la navetta inzaccherata che batteva in ritirata. «Siamo invincibili, perché non crediamo nella paura, ma nell’amore! Proprio come diceva Helen Chase... una donna coraggiosa, che hanno infangato con accuse assurde! Ma un giorno sapremo la verità, un giorno avremo giustizia!».

   Era il momento clou della manifestazione. Gigantografie olografiche di Helen Chase comparvero dietro a Okuz, assieme al logo del Movimento per la Pace Galattica. La sua messa al bando, un anno prima, non ne aveva fermato la diffusione, nemmeno tra le mura dell’Accademia. Anzi, il fatto che fosse fuorilegge gli aveva dato un’aura romantica. Le teorie del complotto sugli eventi di Khitomer si erano diffuse e il Movimento era cresciuto clandestinamente, come una setta. Così, mentre il sistema solare era sotto attacco, l’Accademia scoprì che una buona metà dei suoi studenti – il futuro della Flotta Stellare – consideravano la Flotta stessa come il male.

   «Sì, sì! Viva la Pace Galattica! Giustizia per Helen Chase, la Martire di Khitomer!» gridò Okuz a squarciagola, dimenando il corpo obeso. I cadetti lo seguirono in una danza sempre più sfrenata. Pochi di loro ricordavano che c’era stato un allarme. E di questi, ancor meno si sfilarono dalla folla festante, per correre verso la salvezza.

 

   I cantieri spaziali di Utopia Planitia erano nel caos. Le Ruote da Guerra Vorgon si aggiravano tra i bacini di carenaggio e gli scafi incompiuti, sparando simultaneamente in tutte le direzioni. I loro cannoni al plasma non erano le armi più potenti in circolazione, ma erano efficaci contro le esili strutture dei bacini e le astronavi ancora prive di scudi. Le Ruote erano così al centro della baraonda e così circondate dalle esplosioni che molti frammenti le colpivano; ma i loro scudi resistevano. Una dopo l’altra, le nuove astronavi che dovevano ridare speranza alla Federazione esplosero senza aver mai lasciato i cantieri. Scafi progettati per resistere alle avversità della Galassia, e per durare secoli, erano squassati dalle esplosioni. Con loro se ne andavano progettisti e ingegneri, che si trovavano a bordo durante l’attacco e non erano riusciti a fuggire: tutto personale qualificato, difficile da rimpiazzare.

   Intanto i massicci Incrociatori prendevano di mira le piattaforme di difesa orbitale. Era una dura battaglia e ogni pochi minuti c’erano esplosioni da una parte e dall’altra. Ma i Vorgon si stavano giocando tutto in quell’attacco. Gli Incrociatori continuavano a combattere anche dopo aver perso gli scudi, e quand’erano ridotti a rottami fiammeggianti cercavano di schiantarsi sulle città marziane, per infliggere ancora più danni. I caccia sfrecciavano dappertutto, prendendo di mira le navette e le Work Bee, o anche singoli tecnici in tuta spaziale che si erano trovati esposti al momento dell’attacco. Tutta l’orbita di Marte era un marasma di esplosioni, detriti fuori controllo, navi impazzite e raggi mortali.

   Più in basso, i bombardieri colpivano le città marziane, compresi i quartieri sotterranei, che risalivano alla prima colonizzazione di Marte. Le volte di pietra non erano progettate per resistere ad attacchi del genere, e così crollavano, seppellendo gli abitanti. Le città maggiori erano protette da scudi a cupola, ma anche quelli cominciavano a cedere sotto i raid dei bombardieri e i colpi delle grandi navi dall’orbita.

   In quella rovina apocalittica, una sola astronave rimaneva stabile: la Majestic dell’Ammiraglio Nelscott. Era una delle poche navi di classe Celestial e si era già distinta in battaglia. Ora si aggirava come un guerriero oltraggiato, terribile nella sua collera. Più grande persino delle Ruote da Guerra, faceva fuoco a volontà. Dovunque passasse, si lasciava dietro una scia di scafi Vorgon sventrati e bolle di liquidi organici, che uscivano dagli squarci come sangue. Annientava intere squadriglie di caccia, sgominava gli Incrociatori e schiantava persino le Ruote da Guerra.

   Ma il nemico continuava l’assalto, ondata dopo ondata, e persino gli scudi della Majestic s’indebolivano. Sul ponte di comando, Nelscott e il suo equipaggio davano il meglio di sé, ma si rendevano conto che Marte e i cantieri sarebbero stati demoliti, prima che la flotta Vorgon si esaurisse. In plancia le spie rosse aumentavano e Majel, l’Intelligenza Artificiale, snocciolava previsioni tattiche poco incoraggianti. Nelscott dovette ordinarle di tacere, perché non demoralizzasse l’equipaggio. Sentendo la nave vibrare, l’Ammiraglio affondò le mani scure nei braccioli della poltrona, come se volesse tenere insieme la Majestic con le sue forze.

   «Avanti, vecchia mia, resisti» mormorò, mentre gli scricchiolii aumentavano e alcune consolle sprizzavano scintille. «Se solo l’Enterprise fosse qui a darci manforte...» aggiunse, corrucciato. Da quando l’Enterprise aveva inseguito la sua gemella nella Fenditura Bassen, nessun rapporto era pervenuto alla Terra. Forse era colpa delle anomalie, che interferivano nelle comunicazioni a lungo raggio. O forse era il segno che l’Enterprise dello Specchio aveva prevalso e nuove sciagure si addensavano sulla morente Federazione. «Forza Chase, lo so che sei là fuori da qualche parte... aiutaci a salvare i pianeti, finché c’è qualcosa da salvare...».

 

   Sopra il sottile e perlaceo Scudo Planetario della Terra infuriava un’altra battaglia all’ultimo sangue. Le Navi Vampiro, piccole e agili, sfrecciavano fra i più massicci scafi federali. La corazza di Materia Degenere le rendeva quasi invulnerabili: solo l’antimateria dei siluri riusciva a perforarla. Quanto alle armi phaser e polaroniche, anche il fuoco più concentrato le intaccava a malapena. Forti del loro vantaggio, le astronavi nere facevano scempio di vascelli e stazioni federali.

   Ogni Nave Vampiro era armata con un potente disgregatore anteriore, che sprigionava un raggio violaceo. Invece di colpire con una breve scarica, i Na’kuhl tenevano il raggio acceso per molti secondi e lo spostavano sul bersaglio, tracciando un lungo squarcio. Miravano ai punti deboli delle navi federali: il modulo della plancia, il disco del deflettore, i piloni delle gondole. Dopo queste rasoiate, le astronavi andavano alla deriva, con le gondole staccate e il disco tranciato dalla sezione motori. Allora gli alieni le distruggevano metodicamente.

   Questo compito spettava ai Caccia Ombra, piccole unità monoposto di forma conica, e soprattutto ai Droni Zecca. Cosa fossero questi, i federali non lo intuirono se non quando fu troppo tardi. Dapprima lo scafo della nave ammiraglia di Vosk sussultò, come percorso da plotoni di formiche. Forme più piccole se ne staccarono, plasmate in pochi secondi dalla Materia Degenere. Sciamarono via a migliaia, simili a uncini o a pugnali dalla lama ricurva. Si conficcarono negli scafi federali e assorbirono l’energia, caricandosi fino a raggiungere la soglia critica. Allora esplosero, distruggendo i bersagli e riempiendo lo spazio di schegge taglienti.

   Su tutto dominava l’ammiraglia di Vosk, unica grande astronave della flotta Na’kuhl. Armata di potenti disgregatori sub-nucleonici, era una fortezza invulnerabile. Diresse il disgregatore primario sull’Hangar Spaziale Terrestre, perforandone gli scudi, e tracciò una lunga ferita lungo tutta la sua lunghezza. Ne uscirono aria, rottami e cadaveri. Centinaia di Droni Zecca si conficcarono nella stazione e cominciarono a prosciugarne l’energia. Esplodendo aprivano grandi crateri, in cui i Na’kuhl concentravano i loro attacchi.

   L’enorme struttura fungiforme, costruita nel XXIII secolo, si scosse tutta. Era ancora una delle più grandi stazioni federali: larga 3.810 metri nell’ombrello e lunga 5.795 metri, aveva una massa di 58 milioni di tonnellate. I suoi 1.200 ponti ospitavano 15.000 ufficiali e 35.000 civili. Gli armamenti erano stati potenziati, ma lo scafo era ancora quello originale, in duranio e tritanio. I raggi disgregatori Na’kuhl vi affondavano come coltelli nel burro. Ci furono esplosioni interne che travolsero gli hangar, i laboratori, le sale controllo, propagandosi fino alle zone residenziali. Non ci si poteva neanche teletrasportare via, perché Terra e Luna erano protette da scudi planetari. Molti cercarono di fuggire con navette e capsule, ma i Na’kuhl abbattevano anche quelle.

   Troppo grande per esplodere in un colpo solo, l’Hangar Spaziale roteò fuori controllo, perdendo atmosfera da migliaia di squarci. E i Na’kuhl continuarono a bersagliarlo con tutto quello che avevano. Interi brandelli di scafo, grandi come astronavi, presero a distaccarsene. La distruzione totale era solo questione di tempo.

 

   Sulla plancia della sua nave, Vosk dirigeva la battaglia con lucida freddezza. Da quasi tutte le parti arrivavano rapporti favorevoli: le difese federali cedevano, la vittoria si avvicinava. Eppure il Leader Supremo non era soddisfatto. La sua intenzione era sorprendere gli Umani prima che attivassero gli scudi planetari, distruggendo i generatori per lasciare indifesi i mondi. Questa parte del piano era fallita. Per quanto presi alla sprovvista, gli Umani avevano fatto in tempo ad attivare le difese. Di conseguenza la battaglia sarebbe durata più a lungo: forse ore, durante le quali potevano andare storte molte cose. I federali potevano ricevere rinforzi, o riorganizzarsi e contrattaccare. Potevano evacuare milioni di civili dalle città... e lo sterminio dei civili era una parte essenziale del piano di Vosk. Più ne morivano, più la Federazione si sarebbe spaventata e indebolita.

   «La stazione federale è condannata» lo informò Ifrit, consultando la consolle tattica. «Ancora pochi minuti e sarà a brandelli».

   «Bene, continuate a colpirla» disse Vosk, passeggiando su e giù davanti al grande schermo olografico che mostrava la battaglia in corso. Invece di costruire la plancia in posizione esposta, come le altre specie si ostinavano scioccamente a fare, i Na’kuhl avevano incassato la loro in profondità dentro l’astronave. Era il luogo più protetto, l’ultimo che sarebbe saltato in aria in caso di gravi danni. «Distruggere l’Hangar Spaziale danneggerà le capacità comunicative e organizzative della Flotta» ragionò il Leader Supremo. «Inoltre ci sbarazzeremo di molti ufficiali. Ma il risultato più importante sarà simbolico: i federali l’hanno costruito nel loro periodo di ascesa e assistere alla sua distruzione ne logorerà il morale».

   «Siete sempre il più saggio» si complimentò Ifrit, avvicinandosi. «Questo è il giorno del vostro trionfo. Ci avete assicurato un grande futuro... nessun Leader Supremo ha mai fatto tanto».

   «E allora perché mi sento così inquieto?» obiettò Vosk, studiandola con gli occhi rossi. «Sarà per via dello Scudo Planetario. Gli Umani non dovevano riuscire ad alzarlo».

   «Hanno guadagnato poche ore di terrore, prima della disfatta; tutto qui» lo rassicurò Ifrit. «Anzi, la cosa potrebbe tornare a nostro vantaggio. Se gli diamo una speranza di salvezza e poi li annientiamo ugualmente, ne abbatteremo ancor più il morale. Veder fallire le proprie speranze è peggio che lottare senza speranza».

   «Questo è vero» ammise Vosk. «Ghrath, cosa dicono i Tuteriani delle nostre possibilità di successo?».

   «Ci stanno inviando i dati» rispose il sottoposto, osservando l’interfaccia olografica rosso sangue davanti a lui. «La Vate afferma che abbiamo il 42,4% di probabilità di una vittoria completa». Era lo scenario auspicato da Vosk: la completa sterilizzazione del sistema solare. «La vittoria parziale, invece, è al 54,5% ». In questo scenario, alcuni milioni di Umani sarebbero sopravvissuti, nelle zone rurali dei pianeti maggiori e nelle installazioni più piccole, sfuggite all’attacco. Ma tutte le grandi città sarebbero state rase al suolo.

   «Quindi c’è il 3,1% di probabilità che gli Umani se la cavino con danni moderati» commentò Vosk, infastidito. «Che dicono i Krenim?».

   «Secondo loro abbiamo la vittoria completa al 44,3% e la vittoria parziale al 52,9%, con un 2,8% di probabilità d’infliggere danni limitati» rispose Ghrath.

   «Se i nostri alleati fossero bravi come credono, i valori non sarebbero così diversi» borbottò Vosk.

   «Pochi punti di percentuale non cambiano la realtà dei fatti: stiamo vincendo» disse Ifrit, accorciando ancor più le distanze. «E tutto grazie a voi, Leader Supremo. Vorrei esprimere la mia riconoscenza personale per la vostra saggia guida» disse, facendosi audace.

   «Forse potrai farlo, mia cara» sussurrò Vosk, sfiorandole rapidamente la guancia e il collo. Ifrit era un ufficiale fedele: forse l’unica di cui Vosk si fidasse completamente. E secondo gli standard Na’kuhl, era una bella donna. Sebbene gran parte dei suoi pensieri fosse orientata alla guerra, Vosk non era insensibile al suo fascino. C’era tempo per ogni cosa... anche per scegliersi una compagna.

   «Sono completamente a vostra disposizione, Leader Supremo... per qualunque cosa» assicurò Ifrit, scoprendo i denti affilati in quello che i Na’kuhl consideravano un sorriso seducente. Tra i due corse uno sguardo d’intesa. Poi Ifrit si ritrasse e tornò alla sua consolle, per sorvegliare l’andamento della battaglia. Vosk le diede le spalle, incrociò le braccia dietro la schiena e tornò a fissare lo schermo olografico, con occhi imperscrutabili.

 

   Appesi alla parete, Ilia e Lantora osservavano con amarezza lo svolgersi della battaglia dalla finestra panoramica. Memore degli attacchi dei Borg e del Dominio, la Federazione aveva radunato centocinquanta navi per proteggere il sistema solare. Nessun altro sistema federale era così presidiato. E poi c’erano le piattaforme orbitali e gli armamenti dell’Hangar Spaziale. Ma era tutto inutile contro i Na’kuhl. Le astronavi, vecchie e nuove, erano fatte a pezzi dai raggi trancianti. Le piattaforme coperte di Droni Zecca esplodevano a causa della loro stessa energia. E l’Hangar Spaziale era sempre più sventrato dagli attacchi dell’ammiraglia di Vosk.

   La Trill e lo Xindi videro che le esplosioni si estendevano sullo scafo a fungo. Era questione di momenti... ed ecco, l’Hangar Spaziale fu annientato da un’abbagliante esplosione bianca. I nuclei energetici multipli avevano ceduto e 50.000 persone erano morte. L’esplosione travolse anche parecchi Caccia Ombra che ronzavano intorno alla stazione, ma era una magra consolazione.

   «Ricordo l’inaugurazione, trecento anni fa...» sussurrò Ilia, con le lacrime agli occhi. «Non pensavo che avrei visto la sua fine». Il Simbionte ferito continuava a dolerle nella sacca addominale e ogni respiro era una tortura.

   «Abbiamo fatto il possibile» disse Lantora, cieco da un occhio e coperto di ferite. «Nessuno potrà negarlo».

   «Sempre che qualcuno sopravviva per parlare di noi» corresse Ilia. «Io temo che questa sia la caduta della Federazione».

   «Mi sono sempre detto che era impossibile... che la Federazione era troppo grande per crollare» disse Lantora, con le labbra secche e screpolate. «Ma la verità è che la Galassia ha già visto civiltà come la nostra. Si credevano eterne, ma oggi sono polvere. Scommetto che negli ultimi momenti si sentivano come noi adesso».

   «Almeno sapevano che non sarebbero stati gli ultimi» disse Ilia. «Ma ora... con lo spazio trasformato dalle anomalie, sopravvivranno solo i Tuteriani. E i loro alleati, in qualche sacca di spazio normale. Finché anche loro non si distruggeranno con la Guerra Temporale».

   «Non so cosa sia peggio: che la Galassia resti in mano a quei mostri o che resti vuota» disse Lantora, digrignando i denti. «Se solo potessimo...!». Quasi impazzito dalla rabbia e dal dolore, si scosse con tutte le forze che gli restavano. Ma avrebbe dovuto essere fatto di neutronio per incrinare i ceppi di Materia Degenere. Alla fine si abbandonò, esausto. Con l’occhio che gli restava, notò che i Na’kuhl avevano cominciato a bombardare lo Scudo Planetario. Considerata la facilità con cui penetravano gli scudi delle astronavi, non dubitò che avrebbero fatto presto a perforarlo.

   «Beh, Comandante, che mi dici di te?» chiese lo Xindi. «Hai qualche rimpianto... a parte la fine di tutto?».

   «Sì, uno» confessò Ilia. «Rimpiango di non poter trasmettere il Simbionte Dax a un nuovo Ospite. Cinque secoli e dodici vite di ricordi moriranno con me... perché ho fallito. E tu, Tenente? Cos’è che ti brucia?».

   «Un po’ tutto» borbottò Lantora. «Ho fatto tante sciocchezze. Ho detto cose di cui mi sono pentito. E alcune che avrei dovuto dire, invece, mi sono rimaste in gola. In particolare... con T’Vala». Al pensiero che non l’avrebbe rivista, gli sembrò che il cuore gli si spezzasse in petto. Chinò il capo e pianse silenziosamente.

   «Avevo notato che ti piaceva» disse Ilia, comprensiva. « Dopo sei vite da donna e sei da uomo, certe cose le capisco. La nostra timoniera è in gamba... ma anche tu non sei da buttare. Perché non ti sei dichiarato?».

   «È mezza Vulcaniana e mezza Betazoide. Tutti quei poteri mentali, quella logica, quella padronanza di sé... mi sembrava irraggiungibile» confessò lo Xindi. «Pur essendo suo ufficiale superiore, mi sembrava troppo in alto».

   «Ascolta la parola di un Comandante: ci si sente soli, a stare in alto» disse Ilia. «Con questo non voglio dire che ti avrebbe corrisposto di sicuro. Negli affari di cuore non si può mai sapere. Però mi spiace che tu non sia riuscito almeno a dirglielo».

   «Già. Siamo una bella coppia di perdenti, io e te. Senza offesa, Comandante» biascicò Lantora, mezzo svenuto per la debolezza e lo sconforto.

   «Nessuna offesa, amico mio» assicurò Ilia, anche lei prossima a perdere i sensi. «Nessuna offesa».

 

   «Scudi al 10% in diminuzione» avvertì l’IA della Majestic. «Non possiamo resistere a lungo».

   Sottoposta all’intenso bombardamento di cinque Ruote da Guerra, che l’avevano circondata, l’astronave era sul punto di cedere. Eppure continuava a contrattaccare. Concentrò il fuoco su una Ruota e riuscì a distruggerla. Ne danneggiò un’altra, che sbandò e colpì un cantiere spaziale, tranciandolo in due con l’astronave incompiuta che conteneva. Le tre Ruote rimanenti continuarono ad attaccare selvaggiamente.

   «Scudi al 5%, integrità strutturale compromessa» avvertì Majel. A quel punto un Incrociatore Vorgon, con la poppa in fiamme, speronò la Majestic. Con la prua corazzata colpì la gondola di sinistra, spezzandola. L’Incrociatore proseguì la corsa, impattando contro la sezione motori della Majestic. Come le gondole, anche la spina posteriore era stretta e allungata. Non riuscì a reggere l’urto e si spezzò. Hangar, stive e laboratori furono tranciati. Fortunatamente la sala macchine era più avanti, vicina alla saldatura con il disco, così che il nucleo quantico fu risparmiato. L’Incrociatore emerse dall’esplosione e passò oltre, avvitandosi su se stesso. L’impatto aveva inflitto danni catastrofici. Con la sezione motori semidistrutta e tutti i sistemi in avaria, la Majestic era inerme.

   «Squarci multipli sullo scafo, perdita totale di energia!» avvertì Majel, mentre la sua proiezione sfarfallava. «Non abbiamo scudi né armi. I campi di forza d’emergenza non si attivano. Perdita d’assetto, i motori a impulso non rispondono... siamo alla deriva, Ammiraglio».

   Nelscott si rialzò. L’impatto era stato così violento da farlo ruzzolare davanti alla sedia del Primo Ufficiale. Anche il resto dell’equipaggio era stato scaraventato di lato e cominciava appena a riaversi. C’era fumo in plancia e gli allarmi suonavano ovunque.

   «Frell!» imprecò Nelscott, mentre un ematoma gli si allargava sulla guancia. Sullo schermo principale, ancora miracolosamente in funzione, vide le Ruote da Guerra che si avvicinavano, circondate da vascelli più piccoli. «È finita, abbandonare la...» cominciò, ma s’interruppe. Invece di attaccare, le astronavi Vorgon si allontanavano. Proprio ora che potevano dare il colpo di grazia alla Majestic, qualcos’altro le distraeva.

   «Ma che succede?» chiese l’Ammiraglio, lasciandosi cadere sulla poltrona di comando.

   «È in arrivo un’altra flotta» avvertì Majel.

   «Sono i nostri?» chiese Nelscott speranzoso, anche se non riusciva a immaginare quale flotta federale potesse raggiungere il sistema solare così in fretta.

   «No, Ammiraglio» disse Majel, alzando un sopracciglio. Sforzò al massimo i sensori danneggiati, cercando di vederci chiaro. «Oh, questa poi...».

 

   Lo Scudo Planetario della Luna cedette e le scheletriche navi Na’kuhl iniziarono il bombardamento dei centri abitati. Poco lontano continuavano a martellare le difese terrestri.

   «Lo Scudo della Terra è al 47%» informò Ifrit. «Concentrando l’attacco, potremmo penetrarlo con il disgregatore primario».

   «Procedete» ordinò Vosk. «Kraul, mira alla loro capitale: la città che chiamano San Francisco».

   «L’ho inquadrata» confermò il gerarca.

   Il Leader Supremo sollevò il braccio e quando lo fece ricadere Kraul aprì il fuoco. Un potentissimo raggio disgregante scaturì dall’ammiraglia e colpì lo Scudo Planetario sopra San Francisco, ionizzando l’atmosfera. Dalla loro prigione, Ilia e Lantora videro il raggio viola diretto alla costa ovest americana e capirono qual era il bersaglio. Quasi tutte le strutture chiave della Federazione e della Flotta erano concentrate a San Francisco. La loro distruzione era una stilettata al cuore.

   Nello stesso momento, molti ponti più sotto, anche Vosk osservava il raggio disgregante. Sapeva che ad ogni secondo lo Scudo Planetario s’indeboliva e presto avrebbe ceduto. Ifrit gli si accostò nuovamente, per non perdersi la scena.

   «Lo vedi?» chiese Vosk, indicando la superficie terrestre. «Laggiù è pieno di quelli che le spie federali definiscono innocenti. Molti sono bambini. Uccidendoli, noi ci qualifichiamo come mostri ai loro occhi».

   «Agiamo nel nostro interesse. La loro ideologia dovrebbe condizionarci?» chiese Ifrit.

   «No» rispose Vosk. «È innocente non colui che è incapace di uccidere... ma colui che uccide senza rimorsi».

   In quell’attimo il disgregatore sub-nucleonico trapassò lo Scudo. Non lo abbatté del tutto: lo Scudo era ancora operativo e continuava a bloccare gran parte dell’energia. Ma un 10% riusciva a passare, ed era sufficiente per gli scopi dei Na’kuhl. Il raggio viola si tuffò nel mare, facendolo ribollire, e scavò una voragine nel fondale. Con precisione chirurgica, l’ammiraglia Na’kuhl si mosse, puntando l’arma verso il primo obiettivo: il palazzo del Consiglio federale. Strada facendo, il raggio intercettò il Golden Gate e lo tranciò. I tronconi s’inclinarono e il manto stradale si piegò scricchiolando. I veicoli che volavano raso terra caddero nel mare ribollente. I cavi d’acciaio, tagliati di netto, schizzarono indietro colpendone altri.

   Rapidissimo, il raggio disgregatore raggiunse la costa e tagliò in due la città, vaporizzando palazzi e grattacieli. Raggiunse la sede del Consiglio, una vasta semisfera argentea, circondata da palazzi amministrativi minori. In quegli edifici si concentravano le massime autorità federali: legislatori, ministri, ambasciatori. Lì si erano prese le decisioni fondamentali che avevano plasmato la storia federale per quattrocento anni. Bastò un secondo per disintegrare tutto.

   Il raggio si diresse poi verso il Quartier Generale della Flotta Stellare. Lì, ancor più che nelle sale della politica, si erano prese decisioni cruciali per la sorte di pianeti e civiltà, sparpagliati per migliaia d’anni luce. Molte specie pre-curvatura non sapevano nemmeno che il loro destino era stato discusso in quelle stanze. Ma sotto l’attacco Na’kuhl, tutto fu dissolto in un lampo.

  E il raggio mortale si mosse ancora, tracciando una scia di distruzione, verso il suo terzo obiettivo. Mentre i Vorgon distruggevano le astronavi in costruzione, i Na’kuhl dovevano assicurarsi che la Flotta Stellare non potesse rimpiazzare gli equipaggi. Il che significava annientare l’Accademia.

 

   Okuz stava ancora dirigendo la danza e i cori forsennati dei compagni, quando ci fu un boato e la terra tremò. «Ma che è, il terremoto?!» balbettò. Poi vide un raggio viola piovere dal cielo. Quasi tutti gli altri cadetti, che erano voltati dall’altra parte per fronteggiare il palazzo dell’Accademia, non l’avevano ancora notata. Solo Okuz e quelli che lo attorniavano poterono vederla, al di sopra dei palazzi. Per qualche secondo la fissarono, mentre si spostava, senza capire cosa fosse. Poi udirono un fragore ancor più assordante e videro innalzarsi le esplosioni, seguite da colonne di fumo. A quel punto anche gli altri cadetti si voltarono e videro il raggio distruttore sempre più vicino.

   Allora scoppiò il panico. La folla, fino a un attimo prima compatta nel suo intento, si trasformò in una massa brulicante d’individui terrorizzati che cercavano di fuggire. Ma non potevano farlo, perché erano troppo pressati in uno spazio ristretto. Il risultato fu che i cadetti più massicci gettarono a terra i compagni più deboli e li schiacciarono. Alcuni morirono così, calpestati dai loro amici. L’addestramento della Flotta avrebbe dovuto prevenire tali comportamenti irrazionali; ma quei cadetti erano cresciuti sentendosi dire che le loro opinioni ed emozioni erano la realtà, e se qualcosa li contrariava, era colpa della società. Questo infantilismo impediva loro di dominarsi in condizioni di effettivo pericolo. Molti pigiarono sui comunicatori, chiedendo d’essere trasferiti nei rifugi, ma non avevano disattivato gli inibitori di teletrasporto. E ormai i congegni erano irraggiungibili: rovesciati a terra, nascosti dai corpi dei caduti.

  Sballottato da tutte le parti, Okuz cercò di rintracciare il giornalista, Liin. Di certo aveva una navetta nelle vicinanze. Ma non riuscì a trovarlo. Da quando era squillato il primo allarme, nessuno l’aveva più visto. Persino i droni-olocamera si erano dileguati. Gridando tutti gli insulti che conosceva, Okuz tentò di fuggire. Ma non aveva fatto molta strada quando si vide venire addosso il raggio. Gli splendidi giardini dell’Accademia svanirono, assieme ai cadetti che li affollavano.

   «Non è possibile... non è giusto!» pensò Okuz. Il suo ultimo pensiero fu che doveva essere un complotto della Flotta Stellare: sterminare i cadetti intelligenti e tenersi i pecoroni, rovesciando la colpa su qualche specie innocente. L’entità di questo crimine lo fece inorridire. Poi il raggio raggiunse la piazza, disintegrandolo con gli altri cadetti, e rase al suolo il palazzo dell’Accademia.

   Non era ancora finita. Per ordine di Vosk, i Na’kuhl diressero la loro arma verso altre strutture chiave della Flotta Stellare: il Centro Ricerche Comunicazioni, il Comando Medico. Quest’ultimo era di vitale importanza, perché lì i dottori cercavano contromisure contro gli effetti delle anomalie. Molti dei migliori medici della Flotta morirono quel giorno, assieme ai loro assistenti, agli infermieri, ai pazienti che avevano in cura.

   Dopo aver devastato San Francisco, il raggio Na’kuhl proseguì verso sud-est, seguendo la costa americana lungo la faglia di Sant’Andrea. Si lasciava dietro una voragine piena di magma ribollente, ancor più larga e profonda di quella inflitta secoli prima dalla sonda Xindi. Distrusse tutti i centri minori lungo la sua strada, finché raggiunse Los Angeles. Solo allora l’arma perse energia e si spense.

 

   «Non male come primo colpo a segno» commentò Vosk, osservando lo sfregio nero e fumante sulla costa americana. «Tra quanto potremo aprire nuovamente il fuoco?».

   «Cinque minuti per la ricarica» rispose Kraul.

   «Intanto lo Scudo Planetario è sceso al 39%» aggiunse Ghrath. «Il prossimo attacco farà ancora più danni».

   «Il prossimo attacco dovrà distruggere gli uffici presidenziali a Parigi» ordinò Vosk. «Da lì proseguirete fino a Londra. Poi ci occuperemo dell’India, della Cina, del Brasile. A quel punto lo Scudo Planetario cederà del tutto e la flotta eseguirà un bombardamento totale con missili ad antimateria. Ridurremo la crosta terrestre in lava».

   La nave ammiraglia percorse una frazione di orbita. Sorvolò il continente americano e l’Oceano Atlantico Settentrionale, su cui spiccava un’immensa isola bruna, chiazzata di verde.

   «Rapporto sensori» ordinò Vosk.

   «Si tratta di un’isola artificiale» rilevò Ifrit. «Probabilmente l’hanno realizzata per guadagnare spazio edificabile».

   «Umani! Hanno così tanta acqua sul loro pianeta che per loro è un problema!» commentò Vosk, con una punta d’invidia.

   «I lavori sembrano ultimati, ma è in gran parte disabitata» notò Ifrit. «Credo che gli Umani stiano ancora costruendo gli edifici e impiantando flora e fauna».

   «Purtroppo per loro, non potranno goderne» commentò Vosk. «Se è quasi disabitata, passiamo oltre. Colpite Parigi, secondo il piano».

   L’ammiraglia Na’kuhl proseguì l’orbita, scortata dai vascelli più piccoli, fino a sorvolare l’Europa. Vosk osservò il continente, fittamente urbanizzato. Era notte, lì, e le luci delle città disegnavano i profili delle coste. I centri maggiori erano macchie lucenti, circondati da fitte ragnatele di strade. Vosk riconobbe la chiazza dorata di Parigi e del suo circondario.

   «Pronti al fuoco» avvertì Kraul.

   Il Leader Supremo alzò il braccio, come prima. Stava per calarlo, dando il segnale d’attacco, quando davanti a lui si materializzò un disco nero, che occultò il reticolato urbano. Altre macchie scure, più piccole, gli comparvero attorno. Una vasta flotta era appena uscita dall’occultamento.

   «Che succede?!» fece Vosk, meravigliato. Non aspettava rinforzi e d’altro canto aveva pianificato l’attacco affinché non ci fossero flotte federali o Klingon capaci di accorrere in tempo. Aguzzò la vista, ma nemmeno i suoi occhi sensibilissimi riconoscevano i nuovi arrivati nell’oscurità del cono d’ombra terrestre. Stava per chiedere dettagli ai suoi ufficiali, quando la nave sussultò, colpita selvaggiamente.

 

   Fu così che, nell’ora più cupa della Federazione, la flotta principale della Repubblica Romulana giunse in soccorso del sistema solare. Duecento Falchi da Guerra d’ogni forma e misura si lanciarono in un attacco senza quartiere contro le navi del Fronte. Una sessantina di Falchi colpì i Vorgon attorno a Marte, mentre altri settanta attaccarono i Na’kuhl nell’orbita terrestre e lunare. I rimanenti si sparpagliarono nel resto del sistema, per proteggere le colonie sui pianeti nani e i satelliti. La flotta romulana era giunta occultata, ad alta curvatura, riuscendo a mascherare il proprio arrivo fino all’ultimo. I Vorgon, e persino i Na’kuhl, furono presi alla sprovvista. Nemmeno i loro alleati Krenim e Tuteriani avevano considerato la possibilità che i Romulani intervenissero in quel momento e così massicciamente. Di colpo il massacro dell’Umanità si trasformò in una battaglia che era possibile vincere.

   Ma non sarebbe stato facile. Passato il primo attimo di sgomento, Na’kuhl e Vorgon raddoppiarono la ferocia dell’assalto. I Falchi da Guerra subirono il fuoco serrato dei cannoni al plasma e dei disgregatori sub-nucleonici. Contro il plasma si dimostrarono assai resistenti; ma non contro i disgregatori. Molti Falchi da Guerra furono disabilitati, tranciando loro le ali o i moduli della plancia. I Droni Zecca li ricoprirono, assorbendo l’energia residua e infine esplodendo su di essi.

   Supportata da sei Falchi da Guerra di classe Donatra, il meglio della flotta repubblicana, l’Enterprise puntò dritta contro l’ammiraglia di Vosk. Le sette astronavi le rovesciarono contro una tale quantità di fuoco che, se al suo posto ci fosse stato un pianeta, l’avrebbero disintegrato. Ma l’incrociatore Na’kuhl resistette e, da solo, rispose all’attacco, uguagliando la loro potenza. Fu l’inizio di una lotta titanica, che negli anni a venire divenne leggendaria e fu narrata su molti pianeti. L’Enterprise e i Falchi da Guerra compivano rapidi passaggi sulla nave nera, scambiando tremende bordate. Quando i loro scudi stavano per cedere si ritiravano, rigenerandoli mentre altre navi prendevano il loro posto. E così via, in un braccio di ferro di cui non si vedeva la fine. I siluri cadevano sull’ammiraglia Na’kuhl come pioggia in un temporale estivo. I raggi polaronici e disgregatori la intrappolavano al centro di una ragnatela mortale. Eppure quella nave formidabile resisteva e anzi rispondeva colpo su colpo.

   «L’ammiraglia ci chiama, Capitano» disse Terry.

   «Sullo schermo» ordinò Chase. Era insolito rivolgersi al nemico durante la battaglia, ma l’equipaggio dell’Enterprise era così esperto che il Capitano confidava non si sarebbe lasciato distrarre.

   Alto e lugubre, Vosk comparve sullo schermo. Era circondato dal suo Stato Maggiore: Ifrit, Ghrath, Kraul. Gli occhi rossi del Leader Supremo incontrarono quelli grigi di Chase e lo fissarono come se potessero incenerirlo. Tra i due corse una sorta d’elettricità, una corrente d’odio palpabile.

   «Sono Vosk, Leader Supremo dei Na’kuhl» si presentò l’alieno. «Vi parlo in rappresentanza del Fronte di Liberazione Temporale, che si oppone al vostro dispotico controllo del viaggio nel tempo. Il vostro futile contrattacco non salverà la Terra, né cambierà le sorti del conflitto. Ci sono cose in movimento che nessun potere della Galassia può arrestare».

   «Sono il Capitano Chase, dell’astronave Enterprise... e non credo neanche a una parola» rispose l’Umano a muso duro. «Questa vile aggressione ai nostri pianeti è fallita. Ritiratevi e risparmieremo ciò che resta della vostra flotta».

   «Capitano Chase, le suggerisco di dare un’occhiata alla costa ovest americana e all’orbita di Marte» obiettò Vosk. «I vostri cantieri spaziali sono distrutti. Il Consiglio federale e le strutture della Flotta sono distrutte. Voi Umani siete sconfitti... come la Federazione degenerata che avete creato a vostra immagine».

   «Noi Umani siamo sempre risorti dalle ceneri» rispose Chase. «Lo faremo ancora e torneremo più forti di prima».

   «Ah ah!». Anche la risata di Vosk fu spaventosa. «Buon per voi, allora! Lo vede, Capitano? La guerra è la sola igiene del cosmo. Ci affila come armi, ripulendoci dalle incrostazioni del superfluo.

Ci rivela chi siamo... ci dà uno scopo... ci permette di raggiungere il nostro pieno potenziale. Perciò, se voi Umani sopravvivrete, dovrete esserci grati!». Con queste parole, il Leader Supremo chiuse la comunicazione.

   «Terry, analisi tattica su quella nave» ordinò subito Chase.

   «È armata con un disgregatore sub-nucleonico frontale e con altri disgregatori minori» disse l’IA. «Gli scudi sono più potenti dei nostri, ma stanno cedendo. Lo scafo...». Terry aggrottò la fronte, mentre l’Enterprise sussultava.

   «Allora?».

   «Capitano, il loro scafo è composto da Materia Degenere la cui densità rasenta quella del neutronio» rivelò Terry. «Consiglio di usare soprattutto i siluri e di comunicare ai Romulani di fare altrettanto».

   «Li sto informando» disse Grog, reggendosi alla consolle mentre la nave beccheggiava ancora.

   «I loro scudi cedono, Capitano» informò Nalanda.

   «Terry, continui ad analizzare il loro scafo in cerca di punti deboli. Se ne trova, trasmetta le coordinate alla postazione tattica» ordinò Chase.

   I siluri dell’Enterprise e dei Romulani martellarono l’ammiraglia Na’kuhl, scavando crateri sul suo scafo nero. Ma la corazza era così spessa che le falle erano poche. E quando se ne apriva una, la Materia Degenere entrava in uno stato di fluidità, riversandosi dalle zone circostanti dello scafo in quella colpita, fino a riempire lo squarcio. Così, in pochi secondi, lo scafo tornava integro e resistente come prima.

   Su tutta la superficie della nave, c’era solo una sala d’osservazione dotata di finestra panoramica non composta da Materia Degenere. Terry la rilevò e la segnalò come bersaglio all’Ufficiale Tattico, senza sospettare chi vi era imprigionato.

 

   «Non avrei mai immaginato che i Romulani ci aiutassero» disse Ilia, sentendo rinascere la speranza. Attraverso la grande finestra aveva una visuale drammatica della battaglia spaziale. I Falchi da Guerra sfrecciavano da tutte le parti, sparando a volontà.

   «Non solo i Romulani» corresse Lantora, riconoscendo una sagoma familiare. «C’è una classe Universe... scommetto che è l’Enterprise!».

   «Ma non stava inseguendo l’Enterprise dello Specchio? Forse è un’altra» obiettò Ilia.

   «No, sento che è l’Enterprise» insisté Lantora, sebbene non avesse prove. «Sapevo che Chase sarebbe tornato. Yu-huuuu! Cantagliele chiare, Capitano!» gridò, come se Chase potesse sentirlo.

   L’Enterprise compì un passaggio ravvicinato e scaricò una raffica di siluri vicino alla zona in cui si trovavano. La camera si scosse e scricchiolò paurosamente. Un’ampia crepa si allungò sulla parete di fronte, da destra a sinistra, estendendosi sulla finestra. L’aria ne fu risucchiata con violenza. Ilia e Lantora furono trascinati in avanti; solo i ceppi che gli serravano i polsi gl’impedirono di essere trascinati fuori.

   Si udì gracchiare un allarme, mentre i sistemi d’emergenza della nave rilevavano il danno. Subito la Materia Degenere fluì come melassa, saldando la spaccatura. In pochi secondi il danno allo scafo fu riparato. Ma la Materia Degenere non si allungò sulla finestra, che era fatta di qualche altra sostanza, trasparente e assai meno robusta. Lì la crepa rimase, continuando a risucchiare l’aria, che usciva come uno sbuffo nello spazio.

   Ai due federali sembrò di trovarsi in una tempesta, con l’aggravante che pressione e temperatura stavano precipitando. La porta della sala era sempre sigillata e il ricambio d’aria non bastava a compensare la perdita. Anzi, era probabile che il condotto dell’aria si fosse chiuso, per non dilapidare l’atmosfera. Il risultato era una rapida decompressione.

   «Beh, Comandante... sempre meglio dell’ospitalità Na’kuhl!» commentò Lantora, gridando per farsi sentire. «Ma avrei preferito che la nave esplodesse. Non ce ne saremmo nemmeno accorti!».

   «Almeno la Terra sopravvivrà!» gridò Ilia in risposta. «Comunque hai ragione. Speravo che la mia ultima morte fosse più pacifica... ma suppongo di dovermi accontentare!».

   Il respiro le mancò. Le orecchie le dolevano come se stessero per saltarle i timpani, il suo corpo si raggelava. L’ultima cosa che videro i suoi occhi sofferenti fu l’Enterprise che effettuava un passaggio ravvicinato.

 

   «Gli scudi Na’kuhl hanno ceduto, Capitano» informò Terry. «Il loro scafo rigenera i danni, ma non può farlo all’infinito».

   «Cerchi segni vitali a bordo e si prepari a teletrasportarli» ordinò Chase. «Dobbiamo prendere Vosk, vivo o morto... è lui la testa del serpente».

   «La Materia Degenere interferisce con i miei sensori» disse Terry. «Cerco di compensare. Capitano, credo di aver individuato la loro plancia. È sepolta all’interno dell’astronave e protetta da campi di forza supplementari. Non rilevo nulla al suo interno».

   «È lì che si rintana Vosk» disse Chase. «Se non riesce ad avere un aggancio sulla plancia, provi a scandagliare i ponti più esterni. Anche catturare dei soldati semplici ci rivelerà qualcosa sui Na’kuhl».

   «Ho centinaia di letture» confermò Terry. «I loro segni vitali sono insoliti... hanno il sangue a base d’iridio. Cerco di prenderli a bordo». L’IA sforzò al massimo i sensori, mentre l’Enterprise e le navi romulane continuavano a scambiare colpi terribili con l’ammiraglia Na’kuhl. Di colpo spalancò gli occhi. «Non è possibile... Capitano, rilevo un segno vitale Trill e uno Xindi!» avvertì.

   Chase si sentì raggelare. Non poté fare a meno di pensare a Ilia e Lantora, partiti per una missione ad alto rischio su Vorgon. La Sojourner, che li aveva portati lì e avrebbe dovuto recuperarli, non dava più notizie da molti giorni. E adesso i Vorgon stavano aiutando i Na’kuhl nell’assalto al sistema solare. Difficilmente era una coincidenza. «È certa delle letture?» domandò Chase, non sapendo se augurarsi o meno che fossero i suoi ufficiali.

   «Assolutamente, Capitano» confermò Terry. «Sono fianco a fianco, in una zona che si sta decomprimendo. Signore, i loro segni vitali precipitano» si allarmò. «Potremmo perderli da un momento all’altro».

   Se la notizia scosse Chase, per T’Vala fu come una pugnalata. Da quando Lantora era partito, si era immersa nel suo lato vulcaniano, per non soffrirne la mancanza e perché doveva rimanere concentrata sul lavoro. Ma sapere che lo Xindi era sulla nave nemica, e che stava morendo, l’atterrì. Sentì appena la voce del Capitano.

   «Li teletrasporti in infermeria e avverta il dottor Korris» ordinò Chase.

   «Dovrei abbassare gli scudi» ricordò Terry, mentre la nave vibrava per l’ennesimo colpo.

   «Cerchi uno schema negli attacchi Na’kuhl, per abbassarli il tempo strettamente necessario» ordinò il Capitano.

   «Elaboro» disse Terry. «Signore, i Na’kuhl concentrano il fuoco su un Falco da Guerra. È il momento... avviciniamoci per un migliore aggancio».

   «T’Vala, esegua» ordinò Chase.

   «S-sì» balbettò la timoniera. Con uno forzo sovrumano allontanò il batticuore e si concentrò sui comandi. Il nemico era lì davanti a lei, con Lantora e Ilia in ostaggio. La possibilità di salvarli dipendeva dalla sua capacità di pilotare la nave. Non c’era spazio per il minimo errore.

   Mentre l’ammiraglia Na’kuhl bersagliava il Falco romulano, l’Enterprise eseguì un sorvolo ravvicinato. T’Vala scelse una traiettoria che esponeva la nave a pochi disgregatori nemici. Terry disattivò gli scudi per meno di tre secondi, il tempo necessario a salvare Ilia e Lantora, trasferendoli direttamente in infermeria. I Na’kuhl se ne accorsero, ma reagirono con un istante di ritardo. Quando i disgregatori colpirono la nave federale, questa già si allontanava, rilasciando una raffica di siluri transfasici contro la sala panoramica vuota. Stavolta la finestra fu centrata in pieno. L’esplosione dilagò nei ponti interni dell’astronave, che scricchiolò lungo tutta la sua struttura. Nuovi squarci si aprirono, stavolta dall’interno, punteggiando di rosso lo scafo.

   «Li abbiamo, Capitano» sorrise Terry. «Rilevo esplosioni a catena sulla nave nemica. L’abbiamo colpita duramente».

 

   «Rapporto danni!» gridò Vosk, rialzandosi. La plancia era piena di fumo e le pareti stesse sembravano deformate da una forza immane. I suoi ufficiali, sbalzati a terra come lui, si rialzarono e si precipitarono alle consolle. L’elenco dei guasti era lungo.

   «Disgregatore primario fuori uso».

   «Integrità dello scafo compromessa, perdiamo atmosfera».

   «Energia al 30%, abbiamo ancora la propulsione».

   «I federali hanno colpito la sala d’osservazione» aggiunse Ifrit, china sulla consolle dei sensori. I suoi capelli bianchi erano bruciacchiati e in disordine. «Ma prima si sono ripresi le loro spie. Inoltre... oh, no!» gemette, spalancando gli occhi rossi.

   «Che succede?» chiese bruscamente Vosk, raggiungendola.

   «I Vorgon ci stanno abbandonando» rispose Ifrit, indicando il rapporto dei sensori. Decine di navi si allontanavano da Marte e dalle altre zone assegnate ai Vorgon. Le tracce di transcurvatura erano inequivocabilmente le loro.

   «Codardi!» sibilò Vosk. «Ma se credono di poter lasciare il Fronte alla prima difficoltà, si sbagliano».

   «Leader Supremo, vi prego... questa è una battaglia che non possiamo più vincere» disse Ifrit tristemente. «Come vostra Stratega, vi esorto a ordinare la ritirata. Vivremo per combattere un altro giorno».

   «E sia... la vittoria è solo rimandata» cedette Vosk. «Ma prima chiamate l’Enterprise».

 

   «I Vorgon si ritirano da tutti i fronti» disse Terry, sollevata. «Ma l’ammiraglia Na’kuhl ci chiama ancora».

   «Sullo schermo» ordinò Chase. Per la seconda volta fissò gli occhi rossi del Leader Supremo. «Ah, Vosk!» lo salutò sarcastico. «Un conto è proclamare la guerra. Un altro è farla sul serio, e perderla».

   «Le sorti di questa guerra sono ancora a mio vantaggio, Capitano» ribatté Vosk. «Lei è un degno avversario, lo ammetto; ma lotta per una causa persa. La Federazione è un esperimento sociale fallito. Stava già crollando prima che scendessi in campo e continuerà a disfarsi. Ma io e lei c’incontreremo ancora sul campo di battaglia. E per tutti voi sarà la fine!» minacciò, socchiudendo gli occhi scarlatti mentre passava in rassegna gli ufficiali dell’Enterprise.

   «Sarà la fine per una delle due parti» corresse Chase. «A quel giorno, allora». Al suo cenno, la comunicazione fu chiusa.

   L’ammiraglia Na’kuhl tornò a campeggiare sullo schermo. Si allontanò dall’orbita terrestre, mentre l’Enterprise e i Romulani continuavano a bersagliarla. Un Falco da Guerra, già pesantemente colpito nei concitati momenti del salvataggio di Ilia e Lantora, le tagliò la strada. Ma il titanico vascello nero tirò dritto, impattandovi contro. Lo scafo romulano si accartocciò contro la muraglia di Materia Degenere, finché il nucleo cedette. Un’esplosione verdastra illuminò lo spazio, facendo tremare le navi circostanti. L’ammiraglia di Vosk emerse dalla nuvola di vapori e detriti, senza aver riportato gravi danni, e balzò in transcurvatura. Le Navi Vampiro e i Caccia Ombra la seguirono. In tutto il sistema solare, i Na’kuhl si ritirarono dagli scontri. La Battaglia di Sol era terminata.

 

   «Potevano colpire noi, prima di ritirarsi» mormorò Grog. «Perché accanirsi contro i Romulani?».

   «Valutazione tattica» spiegò Terry. «Il Falco da Guerra era danneggiato. Avevano più probabilità di distruggerlo».

   «Quel Falco da Guerra era il Mir’val?» chiese T’Vala, girandosi verso Terry. Aveva l’espressione incrinata.

   «Sì, Tenente» confermò l’IA.

   «Era la nave del Capitano Velek» disse la timoniera con amarezza. «Senza di lui, forse non avremmo mai convinto il Pretore ad aiutarci».

   Dopo che avevano salvato il suo convoglio nella Fenditura Bassen, Velek era stato tra i più forti sostenitori dell’alleanza. Aveva pronunciato un discorso trascinante al Senato Romulano, prima di cedere la parola a Chase, fornendogli un aiuto impareggiabile. Sapere che era morto nella prima battaglia congiunta fu un duro colpo.

   «Anche se non abbiamo trascorso molto tempo con lui, una cosa è chiara: Velek metteva il dovere prima di tutto» disse Chase con gravità. Si alzò e andò al centro della plancia, rivolgendosi a tutti gli ufficiali. «Si è sdebitato con noi a costo della vita. Ora dobbiamo continuare a batterci, per tenere viva l’alleanza che ci ha aiutati a forgiare. Addio, Capitano... e grazie di tutto» concluse. Fece un saluto militare, osservando i resti del Falco da Guerra che ingombravano lo schermo principale.

 

   Ci vollero giorni per stilare il bilancio della battaglia. Era catastrofico. Un centinaio di navi federali e altrettanti Falchi da Guerra erano stati distrutti. La maggior parte delle piattaforme difensive era distrutta. Le colonie lunari e marziane avevano subito pesanti bombardamenti. I cantieri di Utopia Planitia erano devastati, privando la Flotta Stellare delle nuove astronavi, oltre che di personale tecnico specializzato. L’Hangar Spaziale Terrestre, da tre secoli simbolo della Flotta, era distrutto. E la costa ovest americana, da San Francisco a Los Angeles, era percorsa da un lungo sfregio ribollente che aveva cancellato intere città. Il fumo ne saliva ancora, oscurando l’atmosfera terrestre come non accadeva dall’estinzione dei dinosauri. Le principali infrastrutture federali erano distrutte: il Consiglio della Federazione, il Quartier Generale e l’Accademia di Flotta, il Centro Ricerche Comunicazioni e il Comando Medico.

   Fortunatamente lo Scudo Planetario aveva retto per il tempo necessario a evacuarle. Gran parte dei leader politici e militari della Federazione si erano salvati, con i loro entourage e il resto del personale federale. Ma i cadetti che manifestavano davanti all’Accademia, e si erano rifiutati di mettersi in salvo, avevano pagato un prezzo altissimo. I pochi che erano fuggiti al primo allarme si erano salvati; ma di quelli rimasti, il 99% era stato ucciso. E i pochi superstiti erano talmente sotto shock che probabilmente non sarebbero più usciti dagli ospedali psichiatrici. Anche nel Comando Medico c’erano state molte vittime, per la difficoltà di evacuare pazienti sottoposti a cure complesse e talvolta sperimentali. Alcuni medici erano rimasti con i loro pazienti fino all’ultimo.

   Quanto alle città, teletrasporti e navette avevano lavorato senza sosta per mettere in salvo i civili. Molti di loro, però, avevano una conoscenza insufficiente dei piani d’evacuazione e non si erano presentati nelle zone di raccolta. Nelle aree più densamente abitate c’era semplicemente troppa gente per salvarla tutta. E sugli altri pianeti l’evacuazione era ancor più complessa. La ricerca dei dispersi proseguì per settimane e il conteggio delle vittime continuò a salire, man mano che lo spazio o le macerie restituivano altri corpi. Alla fine, il bilancio complessivo delle vittime fu ancor più tragico di quello stimato nelle prime ore. I morti erano trecento milioni, in prevalenza Umani; ma vi era anche un cospicuo numero di alieni, che vivevano e lavoravano nel sistema solare. I feriti erano ancora più numerosi e gli sfollati si contavano a miliardi. Le distruzioni erano tali che non si riusciva nemmeno a quantificarle. Il Presidente Ektius dichiarò una settimana di lutto, per commemorare una delle peggiori catastrofi della storia federale.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Sudore, lacrime e sangue ***


-Capitolo 9: Sudore, lacrime e sangue

 

   La scrivania di Chase era ancora solcata dalla crepa che questi aveva provocato sbattendovi il pugno, al culmine dell’alterco con il dottor Korris. Il Capitano lo notò durante una pausa dal suo lavoro. Stava ancora leggendo il rapporto dei danni alle strutture federali, che si aggiornava di momento in momento, per stabilire dov’era più urgente inviare il personale dell’Enterprise. Gran parte della nave era già svuotata. Ma Chase voleva mantenere un equipaggio sufficiente a governarla, nel caso che il Fronte avesse lanciato un altro attacco.

   Con la distruzione delle principali strutture federali, il centro di comando provvisorio della Flotta era la Stazione Jupiter. Orbitante attorno a Giove, era la più grande stazione del sistema solare ancora intatta. Le autorità civili si erano invece radunate a Parigi, dove il palazzo presidenziale si era conservato. Milioni di sfollati erano stati trasferiti su Atlantide, l’isola artificiale recentemente inaugurata nell’Oceano Atlantico. Lo scoppio della guerra, tre anni prima, aveva rallentato il programma di popolamento: un fatto provvidenziale, ora che c’era bisogno di ampi territori in cui collocare milioni di persone. La Flotta avrebbe voluto trasferirvi anche i profughi da Luna, Marte e altre colonie del sistema, ma tutto era complicato dal fatto che quei mondi erano stati colpiti con armi biologiche. Il pericolo che il contagio si diffondesse anche sulla Terra era troppo grande. Così i luoghi colpiti erano stati messi in quarantena. Solo il personale medico autorizzato poteva spostarsi fra l’uno e l’altro, con molti controlli di sicurezza.

   Più leggeva gli aggiornamenti, più Chase si rendeva conto della portata storica degli eventi. C’erano un prima e un dopo, divisi dall’attacco, dopo il quale niente era più come prima. La Federazione era cambiata e avrebbe dovuto cambiare ancora radicalmente se voleva sopravvivere. Gli equilibri istituzionali che l’avevano sorretta per quattrocento anni erano saltati e il futuro era terra incognita.

   Eppure una parte della Federazione ignorava ancora l’accaduto. Le anomalie gravimetriche erano sempre lì, a ostacolare le comunicazioni subspaziali e gli spostamenti delle astronavi. Sarebbero occorse settimane, forse mesi perché la notizia raggiungesse ogni propaggine della Federazione e fosse udita dalle altre potenze galattiche. Chase si chiedeva come avrebbero reagito queste ultime. Per adesso i segnali che venivano dagli altri sistemi federali non erano incoraggianti.

   Già nelle prime ore dopo l’attacco, decine di pianeti federali avevano fatto domanda per diventare la nuova capitale. Nelle piazze, così come sull’Olonet, s’inneggiava alla fine della – presunta – Supremazia Umana. Persino gli Umani delle colonie extrasolari, intervistati, facevano discorsi sul “destino” e il “karma”, che secondo loro aveva punito la madrepatria per la sua arroganza. Era la retorica del Movimento per la Pace Galattica, sempre presente in clandestinità. Non c’era niente da fare, si disse Chase: c’era qualcosa di spregevole in certa gente. Invece di portare aiuto, stavano già pensando a quali vantaggi trarre dalla carneficina. Si poteva solo sperare che, come dopo la Terza Guerra Mondiale, fossero rimaste abbastanza brave persone per ricostruire dalle macerie.

   Lasciando questi cupi pensieri, Chase tornò a osservare la crepa sulla scrivania. Ogni volta che la vedeva si riprometteva di farla riparare e ogni volta se ne dimenticava, distratto da ben altre incombenze. Ma ora che intere città erano rase al suolo, Chase decise di lasciarla lì, come promemoria. L’avrebbe accomodata solo se il Fronte Temporale fosse stato sconfitto.

   «Capitano, comunicazione urgente per lei dalla Stazione Jupiter» avvertì la voce di Terry. «È ancora l’Ammiraglio Nelscott».

   «Passamelo qui» rispose Chase distrattamente. Quando l’Ammiraglio si materializzò in forma olografica, non alzò neanche lo sguardo dagli ordini di servizio che stava redigendo. Era la terza chiamata di Nelscott quel giorno. «Bentornato, signore. Com’è andato il briefing coi Romulani?» chiese.

   «Non c’è male» disse Nelscott, che sembrava invecchiato di dieci anni in pochi giorni. «Il Pretore sta tornando su Nuovo Romulus col suo Falco da Guerra e altri due di scorta, ma ha accettato di lasciare qui gli altri, per difenderci. Non so di preciso quanto resteranno, ma...».

   «Ogni minuto è prezioso. Grazie, Ammiraglio» disse Chase. «Ha degli ordini?».

   «Vi stiamo inviando i dettagli sulle operazioni di soccorso» rispose Nelscott. «Con te volevo solo chiarire le linee generali. Per il momento resta in orbita terrestre. C’è bisogno dell’Enterprise, se il nemico tornasse. Ma con le navette sì, i tuoi ufficiali possono raggiungere altre zone del sistema. Mi raccomando, però: rispettate le procedure di quarantena».

   «Potremmo aiutarvi con la Majestic» suggerì Chase.

   «Due rimorchiatori la stanno già portando alla Stazione Jupiter» spiegò l’Ammiraglio. «Arriverà in giornata».

   «Ma ne vale la pena? Voglio dire, è recuperabile o...».

   «I miei ingegneri dicono di sì. Certo, la sezione motori è distrutta, la gondola di sinistra non c’è più... ma il disco è ben conservato. Possiamo agganciarlo a un’altra classe Altair».

   «Questo ci porta al problema dei cantieri» disse Chase, alzandosi finalmente a fronteggiare l’Ammiraglio. «Immagino che alla Stazione Jupiter possano occuparsi della Majestic... ma ci vorrà un anno e non gli resterà spazio per altre navi. Dovremmo dare la priorità alle riparazioni più rapide».

   «Ci stiamo attrezzando» assicurò Nelscott. «Stiamo rimettendo in funzione i vecchi cantieri abbandonati. Navi trasporto ne porteranno altri prefabbricati, rapidi da montare. Inoltre... qualcosa si muove su Plutone» aggiunse, con lo sguardo complice delle grandi occasioni. «La Sezione 31 potrebbe metterci a disposizione i suoi cantieri segreti... che a quel punto non saranno più segreti, ma tant’è».

   «Sarebbe ottimo» convenne Chase. «Se non riesco a contattare Sheev, glielo dica lei: se apre Plutone, mi restituisce il favore che mi deve».

   «Devi avergli fatto un favore bello grosso!» si stupì Nelscott.

   «Enorme» confermò il Capitano, con sguardo tagliente. «Due miei ufficiali sono ancora in infermeria».

   «Uhm... a proposito dell’infermeria, preparati a ricevere altri feriti dalla Terra» disse l’Ammiraglio. «E a sbarcare altro personale medico, se puoi privartene».

   «Sono due cose difficili da conciliare» obiettò Chase. «Abbiamo già convertito le zone disabitate della nave a infermerie improvvisate, gli alloggi vuoti a sale di degenza. I dottori lavorano senza sosta da... dal giorno dell’attacco» spiegò. Aveva talmente perso la cognizione del tempo che non sapeva neanche quanti giorni fossero passati: due, tre? «Ma tornando ai cantieri, mi dica: che ricadute ci saranno sulla produzione, realisticamente? Terry ha ipotizzato una riduzione del 90%».

   «L’85%, secondo i miei ingegneri» corresse Nelscott. «Dovremo puntare soprattutto sui cantieri di Beta Antares e di Trailain IV. Li stavamo già ampliando... ma bisognerà difenderli a dovere» aggiunse. «Bene, torno al mio lavoro... se non hai altre domande».

   «Solo una» disse Chase. «Come mai gli scudi planetari erano già attivi, quand’è arrivato il nemico? Mi sembra di capire che nessuno si aspettasse l’attacco».

   «Come, non te l’ho detto?» si stupì l’Ammiraglio. «No, credo di no. Con tutto questo caos... beh, te lo dico ora. Siamo stati avvisati. Lei non aveva prove... ma mi ha contattato, e le ho creduto. Perché so che ti fidi di lei».

   «Aspetti, di chi sta parlando?» chiese il Capitano. Gli sembrava di essersi perso una parte del discorso e stava cercando di ritrovare il filo.

   «Della dottoressa Neelah» rivelò Nelscott. «Si è materializzata nell’ufficio del Presidente con un teletrasporto temporale, assieme a un Gorn che sostiene di essere il tuo cuoco. Erano bagnati fradici e gridavano che l’Apocalisse era vicina... molto teatrale, come entrata in scena. Le forze di sicurezza volevano arrestarli, ma quando mi hanno chiamato ho fatto pressione per il loro rilascio. Poi c’è stato l’attacco e... non so dove siano finiti, ma Parigi è stata risparmiata, quindi confido che stiano bene. Pensavo che ormai ti avessero contattato. Sarà colpa di questo caos se hanno problemi».

   «Chiamo subito Parigi» disse Chase, con il cuore che batteva forte e il viso accalorato. «Devono rintracciarli: è merito loro se la Terra non è stata spaccata in due. Chase, chiudo».

 

   Molte cose accaddero in quei giorni. Milioni di persone si cercavano disperatamente in tutto il sistema solare. Alcuni riuscivano a trovarsi, altri continuavano a cercare. Molti non sapevano nemmeno se i loro cari fossero vivi o morti.

   Su Plutone, nei laboratori di ricerca avanzata della Sezione 31, apparve una navetta temporale. Per la prima volta la Phoenix tornava nel luogo in cui era stata costruita. Era danneggiata: il nucleo temporale aveva riparazioni di fortuna e si era del tutto scaricato. Dall’ingresso posteriore uscì un Bynario sporco e inebetito. Fu identificato come 01010011, membro della squadra di progettazione della crono-navetta. Quando i colleghi riuscirono a cavargli qualcosa, scoprirono che aveva perso il suo gregario. Per un Bynario, era la perdita più intima e dolorosa che potesse esserci. Gli sventurati che la subivano non si riprendevano mai del tutto; molti rimanevano in stato catatonico.

   La situazione fu notificata all’Enterprise. Il Capitano Chase e l’Ingegnere Capo Grenk ne discussero a porte chiuse e convennero che il trauma subito da 0 era troppo profondo per permettergli di riprendere servizio. Così, quando arrivò la lettera di dimissioni, Chase le accettò. Il Bynario prese il primo trasporto in partenza per il suo pianeta natale. Lì c’erano medici e psicologi specializzati che potevano aiutarlo, per quanto possibile, a metabolizzare la perdita. La Guerra delle Anomalie continuava; ma per 0, la guerra era finita per sempre.

 

   Sull’Enterprise un’Aenar e un Gorn si materializzarono sulla pedana del teletrasporto. Trovarono il solo Chase ad accoglierli. Congedato il tecnico del teletrasporto, il Capitano aveva manovrato lui stesso i comandi.

   «Capitano...» mormorò Raav, scendendo per primo. Nel passare accanto a Chase scambiò una breve occhiata d’intesa. Uscì svelto dalla sala, lasciando soli gli altri due. Solo allora Neelah scese dalla pedana. Contrariamente al suo solito, non fece battute sarcastiche e non cercò di svicolare. Andò verso il Capitano adagio, con le antenne basse e lo sguardo incerto.

   «Ciao» farfugliò. «Non sapevo se ti avrei rivisto. Non sapevo nemmeno se tu avresti voluto rivedermi. Sono successe così tante cose... e avrei potuto gestirle meglio, se solo...». Le mancò la voce. Da tre giorni non sentiva altro che catastrofici bollettini di guerra. La Sicurezza di Flotta l’aveva interrogata sul suo viaggio nel tempo e l’avrebbe fatto ancora, passata la crisi.

   Chase non rispose, ma si avvicinò, fissandola con intensità. Le posò le mani sulle spalle, come per sincerarsi che fosse lì in carne e ossa. Poi, di scatto, l’attirò a sé e la baciò. Fu il bacio più lungo, più dolce, più commosso che si fossero mai scambiati. Quando si separarono, avevano entrambi le lacrime agli occhi.

   «Non importa cos’è successo» disse Chase, carezzandole la guancia. «Non sono mai stato così felice di vederti. Ti amo, Neelah, e non voglio perderti di nuovo».

   «Nemmeno io» disse l’Aenar in un soffio. «Qualunque cosa accada, voglio rimanere sull’Enterprise. Ma devo parlarti di quel che è successo nel passato. Ho incontrato uno scienziato, Kal Dano, e ho trovato la sua invenzione, il Tox Uthat. È lo strumento che ci farebbe vincere la guerra, ma è perduto...».

   Si avviarono nel corridoio, parlando fittamente per tutto il tragitto da lì al laboratorio di Neelah. Chase sbloccò l’ingresso, che era stato sigillato dopo la scomparsa della dottoressa, ed entrarono. Quel laboratorio era uno degli ambienti più isolati della nave; i sistemi anti-intrusione erano degni della Sezione 31. Lì, al riparo da orecchie indiscrete, Neelah rivelò la parte più importante della sua esperienza nel passato. Fornì dettagli che, per il momento, non aveva rivelato nemmeno alla Flotta. Quando terminò il resoconto, Chase era assorto.

   «Sei sicura che il Tox Uthat possa distruggere le Sfere?» chiese il Capitano.

   «Beh, ovviamente mi manca la prova pratica» ammise la scienziata. «Ma Kal Dano mi ha trasmesso le nozioni basilari e non credo di sbagliarmi. Il Tox Uthat altera la costante cosmologica. In un certo senso somiglia alle Sfere, ma può innescare un collasso gravimetrico che le annienterebbe».

   «Proprio l’arma che ci serve...» sospirò Chase. «Non è colpa tua, se è smarrito; ti sei trovata in una situazione disperata. Ma sei certa di non poter localizzare la base Vorgon?».

   «Mi spiace, non ho trovato nomi né coordinate» confermò l’Aenar, avvilita. «Ma non credo che fosse il loro mondo natale. Ajur e Boratus erano una piccola fazione: criminali, più che soldati o spie. Gli serviva una base nascosta».

   «Allora l’Uthat è perso per sempre» concluse il Capitano. «Anche se Grenk rimetterà in sesto la Phoenix, non posso autorizzare una missione di recupero. La linea temporale è già abbastanza ingarbugliata. Ulteriori interventi creerebbero paradossi imprevedibili... le cose di cui è fatta la Guerra Temporale».

   «Forse c’è un’altra strada» rivelò Neelah. «Quando ho avuto il Tox Uthat fra le mani, ho visto la sua traccia quantica. Dovrei parlarne con Terry e Grenk, ma... in linea teorica, credo si possa costruire un sensore temporale per captarlo».

   «Cioè potreste localizzarlo?!» si stupì Chase. «Non credevo fosse così facile. Com’è che i Vorgon non l’hanno rintracciato subito?».

   «Non avendolo mai visto da vicino, non conoscevano la traccia quantica» spiegò la dottoressa. «Ma c’è dell’altro. Per captarlo deve comunque emettere qualche segnale... un sensore temporale è pur sempre un sensore. Quindi ci serve che qualcun altro trovi l’Uthat e lo accenda».

   «Distruggendo una stella?».

   «Non è necessario che lo usi» precisò la scienziata. «È come accendere un banco polaronico dell’Enterprise. L’arma si attiva, riceve energia, emette un segnale rintracciabile... ma ancora non spara. Con l’Uthat è la stessa cosa».

   «Ci serve comunque che qualcuno, nel futuro, trovi l’Uthat e ci si balocchi» osservò Chase. «Mi sembra improbabile. Nessun altro sa dell’arma... tranne il misterioso informatore dei Vorgon» si corresse.

   «Lui sa quanto basta» disse Neelah. «Conosce le coordinate della base Vorgon. Se ha qualche servitore nel XXVII secolo, lo manderà in perlustrazione e scoprirà che è stata allagata. Probabilmente ne sarà contento. Anche se l’Uthat è sott’acqua, è ancora integro e incustodito. Quel Tizio del Futuro se ne impossesserà facilmente. Non conosciamo ancora la sua fazione, ma... sono tutte pericolose».

   «Mi hai detto che non può viaggiare nel tempo» ricordò Chase. «Riesce solo a trasmettere la sua voce e un’immagine confusa».

   «Una sagoma grigia, sì» confermò l’Aenar. «Ma non gli serve altro. Se è l’unico a conoscere l’ubicazione dell’Uthat, può recuperarlo nel suo presente. Non gli servono crono-navette o teletrasporti temporali... è il tempo stesso che gli fa da fattorino».

   «Mi stai dicendo che una fazione sconosciuta della Guerra Temporale potrebbe impadronirsi di una delle armi più potenti mai concepite?» chiese il Capitano, agghiacciato. Gli sembrava di sprofondare in un pantano: più si dibatteva, cercando una via d’uscita, più i paradossi temporali lo sommergevano. Come si poteva vincere una guerra del genere?

   «In pratica sì» ammise Neelah, sconfortata. «Ecco perché spero in quel sensore temporale. Ci permetterebbe di stanare il Tizio del Futuro prima che faccia qualcosa d’irreparabile».

   «Purtroppo non sappiamo ancora niente di lui» sospirò Chase. «Ma tu eri lì, l’hai visto da vicino. E so che hai occhio per i dettagli. Perciò dimmi... hai notato qualcosa che ci permetta d’identificare almeno la sua specie? Un particolare del volto o dell’abito. Oppure un gesto, una parola, un modo di dire. Pensaci!».

   «Era una sagoma grigia e sfocata, senza alcun dettaglio visibile» spiegò Neelah, lo sguardo vacuo mentre si sforzava di ricordare ogni particolare dell’incontro. «Penso che lo facesse apposta, per conservare l’anonimato. Però sembrava che avesse i capelli a caschetto. E il vestito, o l’uniforme, gli faceva le spalle quadrate. Aveva una postura militaresca, la voce secca di chi è abituato a dare ordini. Anche l’atteggiamento, il modo d’esprimersi, sembravano quelli di un militare».

   «Hai detto capelli a caschetto e uniforme con le spalle quadrate» ripeté lentamente Chase. «Vuoi dire che...?».

   «Non ne sono certa» si affrettò a dire Neelah. «Forse era una proiezione olografica e il suo vero aspetto è completamente diverso. Ma da quel che ho visto, sì... sospetto che fosse un Romulano».

   L’Umano e l’Aenar tacquero a lungo, rimuginando sulle implicazioni. L’aria stessa sembrava impregnata di dubbi e timori. Ogni scoperta sollevava nuovi interrogativi e la fine del tunnel era ancora lontana. Intanto la Federazione era allo sbando e sempre più specie si alleavano con i Costruttori di Sfere.

 

   «Diario dell’Ufficiale Medico Capo, data stellare... quella che è» biascicò il dottor Korris, faticando a tenere gli occhi aperti. «Mi sembra di vivere in un incubo. Da quattro giorni affrontiamo la peggiore crisi umanitaria che abbia mai visto. Ricordo che, quando salii sull’Enterprise, rimasi strabiliato dalla capienza delle infermerie, dalla modernità degli strumenti, dalla professionalità dello staff. Pensai che non c’era emergenza superiore alle nostre forze.

   Volete saperlo? Stiamo affrontando un’emergenza superiore alle nostre forze. Ho trasformato due terzi dell’Enterprise in un ospedale improvvisato e ancora non basta. I feriti continuano ad arrivare, molti in condizioni critiche, e non so più dove metterli. Sto usando come infermieri anche il personale generico della nave e Terry ha attivato tutte le proiezioni di cui è capace. Eppure non stiamo dietro al lavoro. Io e i miei colleghi risentiamo della mancanza di sonno. Temo che, da un momento all’altro, la fatica ci faccia commettere qualche errore coi pazienti. Devo fare in modo che tutti, me compreso, dormano qualche ora, a turni scaglionati.

   La situazione non migliorerà, almeno non a breve. Dopo la Terra e la Luna, ci sono Marte e i planetoidi minori di cui occuparci. Lì il nemico ha rilasciato armi biologiche, che stanno infettando la popolazione attraverso l’aria e l’acqua. Se non riusciamo a fermare subito il contagio, le vittime supereranno quelle del bombardamento iniziale. È una situazione disperata, non so proprio come ne usciremo. Fine registrazione».

   Lottando contro la stanchezza, Korris passò tra le file di lettini medici, controllando i segni vitali dei pazienti e somministrando ipospray a quanti ne avevano bisogno. Quando si fu accertato che tutti fossero stabili, andò verso un’altra fila di bio-letti, circondati da tendine azzurre per questione di privacy. Ne scostò una e vide che la paziente aveva ripreso i sensi.

   «Ben svegliata, Comandante» la salutò, controllando i suoi segni vitali.

   «Korris! È bello rivederla... ma dov’è Lantora? Sta bene?» chiese ansiosamente Ilia, alzandosi con il busto. Una fitta di dolore al ventre la costrinse a riadagiarsi.

   «Sta come lei... più o meno» rispose il dottore. «È vivo e si riprenderà. Eravate conciati male, quando vi hanno trasportati in infermeria. Ferite da taglio, emorragie interne, ossa incrinate. Per non parlare dei danni da decompressione e congelamento. Pochi secondi di ritardo e vi avremmo persi. Invece eccovi qui, in via di guarigione» sorrise Korris.

   «Devo vedere Lantora e fare rapporto al Capitano» disse Ilia, cercando ancora di alzarsi.

   «Alt! Lei è ancora mia paziente, lo dico io quando si può alzare» avvertì Korris. Le posò una mano sulla spalla, esortandola gentilmente ma con fermezza a rimanere sdraiata. «Il suo Simbionte ha subìto un grave trauma. Ora si sta riprendendo, ma ha bisogno di riposo assoluto per almeno una settimana».

   «Ma devo...».

   «Può compilare il suo rapporto da qui» disse Korris, consegnandole un d-pad. «Quanto a vedere il suo collega, eccolo». Scostò la tendina azzurra, rivelando il bio-letto adiacente. Lantora era lì, sveglio, e fissava il soffitto. Rispetto a quando Ilia l’aveva visto l’ultima volta, sembrava rinato: era pulito, con le ferite rimarginate e i capelli in ordine. Ma c’era qualcosa di diverso in lui: una malinconia nello sguardo, una solennità nella voce. Non era lo stesso Xindi con cui aveva lasciato l’Enterprise.

   «Salve, Comandante» disse Lantora, inclinando appena la testa verso Ilia. «Alla fine ce la siamo cavata. Chi l’avrebbe detto?».

   «Oh, Lantora!» esclamò Ilia, con voce rotta dall’emozione. Avevano trascorso ore appesi al muro, nella prigione Na’kuhl, in attesa della morte. Stavano fianco a fianco, sofferenti, ma non potevano raggiungersi. Adesso però Ilia tese il braccio verso lo Xindi e questi ricambiò, stringendole con forza la mano. Si tennero a lungo, scambiandosi lo sguardo profondo di chi è sopravvissuto all’inferno. «Come sta il tuo...» esitò la Trill, quando si separarono.

   «Il mio occhio? Benissimo» rispose Lantora, indicandosi quello sano. «È l’orbita vuota che mi mette un po’ a disagio» aggiunse, girando finalmente il viso. Una garza bianca gli copriva l’orbita e gran parte della metà sinistra del volto.

   «Ho rigenerato i tessuti circostanti, ma l’occhio non c’è più» disse Korris sommessamente. «Però non si disperi. La nostra tecnologia oculistica è molto sofisticata. Appena possibile le impianterò una protesi indistinguibile dall’originale. Per fortuna ho la sua cartella clinica con le scansioni dell’occhio perduto. E posso imitare quello superstite».

   «Fantastico, divento un Borg» mormorò Lantora. «Chiamatemi Zero di Zero».

   «Non deve sentirsi menomato... milioni di persone hanno occhi artificiali e conducono una vita normale» cercò d’incoraggiarlo Korris. «Pensi anche al Capitano Chase: lui ha un braccio meccanico, ma nessuno potrebbe immaginarlo... tranne quando picchia sulla scrivania».

   «Già, posso chiederle tutti i gadget» ridacchiò Lantora, ritrovando un po’ di buonumore. «Può darmi la vista a raggi X?».

   «Vedo con piacere che non ha perso l’umorismo» sorrise Korris. «Ora, se permettete, ho molti altri pazienti di cui occuparmi» aggiunse, facendo per andarsene.

   «Ehi, un momento!» fece Lantora. «Potrei mettermi una benda nera sull’occhio. Così l’Enterprise sembrerebbe una nave pirata. Se ci mettiamo degli orecchini d’oro e qualcuno tiene un animaletto sulla spalla...».

   «Non c’è dubbio che lei si sia ripreso, Tenente» commentò Korris.

   «Un’ultima cosa, dottore» lo trattenne Ilia. «Vorrei che ci mandasse Terry».

   «Ah, capisco» fece Korris, senza più sorridere. Sapeva che una proiezione dell’IA era partita con loro e non aveva fatto ritorno. «Le sue proiezioni sono un po’ dappertutto, ve ne mando una».

 

   Terry ascoltò con attenzione il resoconto di Ilia e Lantora, interrompendoli solo sporadicamente per chiarire alcuni dettagli. Quando seppe tutto, restò un attimo in silenzio, fissando il pavimento. «Quando ho proposto di mandare una mia proiezione con voi, sapevo che poteva finire così» disse senza enfasi. «Almeno averla in squadra vi ha aiutati a sopravvivere. Significa che ha fatto il suo dovere».

   «Terry, non riesco a immaginare cosa significhi tutto questo per te» disse Ilia, mortificata. «Sarà come aver perso una parte di te stessa...».

   «Sto bene, Comandante. La mia funzionalità non è compromessa» assicurò Terry.

   «Ma io non sto bene» insisté la Trill. «Vederti morire e poi ritrovarti qui...».

   «Posso fare qualcosa per aiutarla?» chiese l’IA, serena e impeccabile come sempre.

   «Ascolta... durante il nostro viaggio, l’altra Terry è cambiata» spiegò Ilia, con difficoltà. «Verso la fine sembrava meno un ologramma e più un’Organica. Ci considerava suoi amici. E aveva paura di morire. Io... vorrei rivederti, nei prossimi giorni, per cercare di spiegarti a fondo quel che è successo. Non so se tutto questo ha senso, ma... vorrei trasmetterti quel che l’altra Terry ha imparato, se ci riesco» aggiunse, un po’ impicciata.

   «Se lo ritiene utile, Comandante» concesse Terry. Stava per congedarsi, quando Lantora la richiamò.

   «Quel che vogliamo dirti è che sei più di un computer. Prova ad agire di conseguenza» suggerì lo Xindi. «Ascolta una canzone, invece di scaricarla direttamente nel tuo software. Leggi barzellette e cerca di afferrarne il senso. Indossa un abito vero, invece di farteli sempre olografici, e magari vesti casual quando non sei in servizio. Insomma, prova a vivere più come un’Organica. Potresti anche farti assegnare un alloggio».

   «Sono idee interessanti» ammise Terry. «Ci penserò».

 

   «Allora, vi sembra fattibile?» chiese il Capitano.

   «Signore, non saprei neanche da dove cominciare!» protestò Grenk, grattandosi i capelli radi in cima al testone.

   «Un sensore temporale è fattibile in teoria, ma in pratica non è mai stato realizzato» spiegò Terry. «Tra l’altro non sappiamo quasi nulla del Tox Uthat».

   «Lavorerò con voi, vi dirò tutto quello che so» promise Neelah. I quattro si erano incontrati nell’hangar 5, dove la Phoenix era appena rientrata. Ora che aveva aperto Plutone alla Flotta Stellare, la Sezione 31 aveva anche reso la crono-navetta ai proprietari.

   «Non possiamo cominciare subito» spiegò il Tellarita. «Con questo finimondo sono sommerso di lavoro. Anche le mie squadre tecniche sono tutte impegnate per rappezzare la Flotta. Certa gente si aspetta che vada su un’astronave e la ripari così» disse, schioccando le dita.

   «Prima o poi lasceremo il sistema solare e avrà più tempo» disse Chase.

   «Beh, dovrò prima rimettere in sesto la Phoenix» notò Grenk, guardando sconsolato la navetta temporale. «Sapere dov’è l’Uthat non ci servirà a nulla, se non potremo raggiungerlo. Povero me... quando lavoravo sulla Phoenix, i Bynari erano sempre lì ad aiutarmi. Ora dovrò far senza quei ragazzi».

   «L’aiuterò io» promise Terry.

   «Bene... e se necessario coinvolgeremo altro personale» disse il Capitano. «Voglio essere chiaro: appena superata l’emergenza, la Phoenix e il sensore temporale saranno le vostre priorità».

   «Rimetteremo a nuovo la Phoenix, ma sul sensore non posso farle promesse» avvertì l’Ingegnere Capo. «Non so nemmeno se sia realizzabile».

   «Ho visto un bel po’ di tecnologia temporale nel mio viaggio» disse Neelah. «Vi assicuro che si può fare. È solo questione di... tempo».

 

   «È permesso?» chiese T’Vala, un po’ esitante, scostando la tendina azzurra.

   Nel vederla, Lantora rimase come inebetito. Aveva ancora la garza sull’occhio, ma per il resto stava bene. «Certo... avvicinati» farfugliò. Accanto a lui, Ilia gli fece l’occhiolino e tirò la tendina che li separava, per dargli un po’ di privacy.

   T’Vala si accostò al lettino e osservò Lantora con attenzione, indugiando sull’occhio bendato. Un muscolo le si contrasse nella gola. «Sono lieta che sia di nuovo qui» disse, restando in “modalità vulcaniana”. «L’Enterprise non era la stessa, senza di lei. Abbiamo sentito tutti la sua mancanza».

   «Ve la siete cavata bene» obiettò Lantora. «Mi hanno detto com’è andata con l’Enterprise dello Specchio e i Romulani. Mi sono perso un sacco di cose, mentre giocavo all’esploratore».

   «La sua missione non è fallita» disse T’Vala con decisione. «Lei e il Comandante ci avete fornito moltissime informazioni sui nemici».

   «Le abbiamo pagate a caro prezzo» mormorò lo Xindi, pensando a Terry e al resto della squadra. «A proposito, ho sentito che sei stata tu a lanciare l’Enterprise verso la nave di Vosk, per salvarci. Grazie».

   «Dovere, Tenente. E poi, con chi mi sarei allenata ad Anbo-jytsu?» chiese T’Vala. «Spero che riprenderemo gli incontri quanto prima».

   «Mi sa che per un po’ avrò un angolo cieco» disse Lantora con un sorriso mesto, accennando all’occhio perduto.

   «Conosco tecniche di lotta vulcaniana che enfatizzano altri sensi, oltre alla vista» rispose prontamente T’Vala. «Potrei insegnargliele».

   «Grandioso!» sbuffò Lantora. «E a parte questo, tutto rimane come prima».

   «Non vedo cosa dovrebbe cambiare» rispose la mezza Vulcaniana, sempre formale. «Ora, se vuole scusarmi...» disse, ritraendosi.

   «Eh, no!» protestò lo Xindi, afferrandole il polso. «Non te la cavi così!». L’attirò a sé, mentre lui stesso si alzava dal lettino, e la baciò. Gli sembrò che le labbra morbide di T’Vala valessero più di tutte le medicine della Flotta Stellare. Prolungò quel momento il più possibile, sentendo T’Vala, inizialmente rigida, che si rilassava. Quando il bacio finì, rimasero abbracciati.

   «Scusa, ma non capirò mai il tuo lato vulcaniano» disse Lantora, il respiro un po’ affannoso. «Perciò mi rivolgo alla Betazoide che è in te. Ti amo, T’Vala. Ho pensato a te ogni giorno, quando eravamo lontani. Ti ho pensata quando sono stato ferito e quando stavo appeso al muro in quella nave. Il timore di non rivederti mi ha fatto quasi impazzire. Mi sono giurato che, se l’avessi scampata, ti avrei detto cosa provo. Non pretendo che tu ricambi, ma... almeno devi saperlo». In realtà, da come la stringeva ancora, era chiaro che sperava di essere corrisposto.

   «Lo sapevo» rispose T’Vala, fissandolo con gli occhi nerissimi, quasi tutti pupilla. «E non solo perché sono telepatica. Il tuo attaccamento era evidente. Ma volevo sentirtelo dire».

   «E...?» incalzò Lantora, sui carboni ardenti.

   «Ti amo anch’io, stupido Primate» si sciolse T’Vala, e stavolta fu lei a baciarlo. Quasi gli cadde addosso sul lettino. «E non preoccuparti per la mia metà vulcaniana. Quella mi serve per essere efficiente sul lavoro. Ma nella vita privata so essere molto Betazoide» assicurò.

   «Meno male!» fece Lantora, sollevato. Le carezzò i capelli a caschetto, scendendo lungo la guancia. «Dopo la tua esperienza nello Specchio, temevo che non volessi più saperne di me».

   «I nostri alter-ego si amavano, a modo loro» ricordò T’Vala. «Perché non dovrebbe funzionare anche fra noi? Ti chiedo solo di non tenere la benda sull’occhio. Somiglieresti troppo al Lantora dello Specchio» si raccomandò, sollevando l’indice.

   «Peccato, stavo pensando che darebbe un look piratesco alla plancia» fece Lantora, fintamente dispiaciuto. «Ma per te questo e altro. E poi, Korris mi ha già fatto un discorso sulle meraviglie degli occhi artificiali... deve averne un cassetto pieno, da qualche parte. Ehi, che dici se ne approfitto per potenziarmi la vista? Che so, potrei rilevare le mine occultate o le anomalie temporali. Oppure ci sono i buoni, vecchi raggi X» sogghignò.

   «Per vedere sotto le uniformi delle altre donne? Te lo scordi, bello. Se vuoi che questa cosa funzioni, devi accontentarti di vedere sotto la mia» avvertì T’Vala, ingelosita.

   «Volevo solo vedere la tua faccia» la rassicurò Lantora, ridendo. «Sì, penso proprio che funzionerà, fra noi» disse, tornando ad abbracciarla.

 

   «Un succo di pesce. Caldo, mi raccomando» disse Korris.

   «Eccolo qui» fece Raav, passandogli una bottiglietta dalla forma sbilenca e un bicchiere. Erano nel settore bar che faceva d’anticamera all’Antro del Drago e a quell’ora il dottore era l’unico cliente. Se ne stava appoggiato al bancone con l’aria di chi vuole prendersi una sbornia. Si versò il succo, grigio e denso come melassa, fino all’orlo, e lo svuotò tutto d’un sorso.

   «Sei incredibile» commentò Raav. «La cucina bajoriana è apprezzata in tutta la Galassia. Ma ogni volta che vieni qui, mi chiedi roba cardassiana».

   «Che ci posso fare? Ho il palato di mio padre» disse il mezzo Cardassiano, posando il bicchiere. Tornò a riempirlo, ma stavolta se lo rigirò tra le dita. «Allora hai deciso di rimanere» commentò. «Non me l’aspettavo. Tutti gli altri ristoratori della nave se la sono svignata da un pezzo».

   «Non credo di rischiare più qui, che su un qualunque pianeta federale» obiettò Raav. «Prima Khitomer, poi il sistema solare... nemmeno gli Scudi Planetari riescono a difenderci» disse cupo.

   «Beh, male non fanno» obiettò Korris. «Almeno la Terra è risparmiata dal contagio. Ma sugli altri pianeti, le armi virali continuano a fare vittime. Non ho mai visto virus come quelli... si adattano, mutano, resistono a ogni terapia» sospirò.

   «Ma voi dottori troverete una cura, no? Ci riuscite sempre» disse il Gorn, speranzoso.

   «La distruzione del Comando Medico è stata un brutto colpo» spiegò Korris. «Sai, stavano cercando di curare i danni delle anomalie. Certi pazienti accusano terribili perdite di memoria: ogni mattina si svegliano senza ricordare cos’è successo dal giorno in cui sono stati colpiti. Per fortuna abbiamo recuperato quasi tutte le ricerche dai database degli altri ospedali terrestri. Ma alcuni dottori sono morti e altri risultano ancora dispersi. Credo che l’Enterprise, al momento, abbia le infermerie migliori del sistema solare. Ecco perché mi sto facendo spedire tutto quel che sappiamo sulle nuove epidemie. Con ogni aggiornamento il bilancio si aggrava. È una lotta contro il tempo... tra un attimo torno in infermeria» disse, e si scolò il secondo bicchiere.

   «Ma l’Enterprise non rimarrà a lungo nel sistema solare» obiettò Raav. «Presto faranno sbarcare i pazienti e ci manderanno in missione da qualche parte».

   «Continuerò a cercare una cura col mio staff» promise Korris. «Non avrò pace finché non l’avrò trovata». Per un po’ rimasero in silenzio, rimuginando sulla situazione. Poi Korris pagò il succo di pesce e lasciò il bar, portandosi sottobraccio la bottiglia mezza piena.

 

   L’atmosfera turbinosa di Giove era uno spettacolo maestoso. Le bande colorate di gas scorrevano a centinaia di km orari, segno dell’energia furiosa racchiusa nelle profondità del gigante gassoso. Qua e là spiccavano piccole macchie, in realtà enormi tempeste anticicloniche. Quanto alla Grande Macchia Rossa, per secoli il segno più distintivo del pianeta gigante, si era dissolta da tempo.

   Dalla sala conferenze della Stazione Jupiter, dotata di finestra panoramica, la vista era straordinaria. Ma quel giorno nessuno se ne lasciava distrarre: la situazione era troppo grave. Le armate del Fronte Temporale imperversavano nei quadranti Alfa e Beta, con attacchi-lampo spesso diretti ai convogli in fuga dalle anomalie. Le nuove armi chimiche e biologiche introdotte da Vorgon e Na’kuhl si sommavano all’effetto disastroso delle anomalie nel mietere vittime. Ad ogni ora giungevano nuove, allarmanti notizie dai fronti di guerra. Era il momento di prendere decisioni cruciali per la sopravvivenza.

   La Stazione Jupiter ricordava l’Hangar Spaziale Terrestre nelle linee generali, ma le strutture fungiformi erano due, ciascuna dotata di tre “ombrelli” sovrapposti, ed erano più esili. Ristrutturata più volte, aveva subìto di recente un’implementazione di armi e scudi, che le aveva permesso di resistere alle poche navi Vorgon inviatele contro. Con la distruzione dell’Hangar Spaziale, era la più grande stazione rimasta nel sistema solare e uno dei luoghi più fortificati. In quel momento molte astronavi l’attorniavano, vigilando sulle autorità lì riunite. C’era l’Enterprise, che aveva sbarcato i feriti ed era pronta a tornare in missione. C’era la Martok, l’incrociatore del Cancelliere Kuntagh, massima autorità dell’Impero Klingon. E c’era la Jarok, l’ammiraglia del Pretore Neral, leader della Repubblica Romulana. Le tre navi colossali erano accompagnate da navi-scorta più piccole e caccia.

   La sala conferenze della stazione era gremita. Finiti i posti a sedere, il pubblico si era allineato in piedi lungo le pareti. I droni-olocamera ronzavano discretamente, puntati sul palco delle autorità. Qui erano radunati i leader politici e militari delle tre grandi potenze. Il Presidente federale e gli Ammiragli di Flotta sedevano fianco a fianco con il Cancelliere e il Pretore, anch’essi accompagnati dai loro entourage. Il pubblico era composto soprattutto da responsabili civili della Federazione e da giornalisti. C’erano anche dei semplici cittadini, scelti fra i volontari che avevano contribuito alle operazioni di soccorso. Sapevano che doveva essere fatto un annuncio importante, ma ne ignoravano la natura e parlottavano fra loro cercando d’indovinarlo.

   Quando le luci si abbassarono, il pubblico si zittì all’istante. Il Presidente Ektius salì sulla pedana dell’oratore, alzata di un ulteriore gradino rispetto al palco. «Benvenuti» esordì. «Saluto voi e quanti ci stanno seguendo dai mondi federali, klingon e romulani. Nell’ultimo mese, le nostre delegazioni hanno compiuto un intenso lavoro diplomatico, consapevoli che dobbiamo prendere decisioni drastiche per garantire la sopravvivenza. E ora siamo riuniti per un annuncio di portata storica. Ma voglio affidare il preambolo a colui che si è adoperato senza posa per questa triplice intesa e che ha salvato il sistema solare dall’annientamento. Sto parlando del Capitano Chase dell’USS Enterprise!» esclamò, stringendo calorosamente la mano al Capitano.

   Un mormorio perplesso attraversò il pubblico, abituato all’immagine non esaltante di Chase diffusa dai media. Ma le parole e i gesti del Presidente erano inequivocabili e quando Chase salì sul palco gli applausi scrosciarono. Il Capitano non se ne stupì. Per la maggior parte degli umanoidi, il confine fra canaglia ed eroe era molto sottile. Comunque la scelta di affidare a lui il preambolo l’aveva sorpreso. Ma riflettendoci aveva compreso la scelta. Agli abitanti della Federazione serviva un simbolo: qualcuno che combattesse di persona, uno per cui tifare. Chi meglio del Capitano dell’Enterprise, impegnato sul fronte ma estraneo agli schieramenti politici?

   «Salve, onorevoli autorità» esordì Chase. «E salve a tutti voi cittadini». Il cuore gli batté forte: quel che stava per dire sarebbe stato filmato e ritrasmesso su centinaia di pianeti. Ogni parola, ogni espressione, ogni minimo gesto sarebbe stato vagliato da eserciti di giornalisti, commentatori, psicologi, politologi. E forse dagli storici, se fosse rimasta una Storia da studiare. Ma a lui era stato detto solo quella mattina che avrebbe parlato e non aveva fatto in tempo a preparare un discorso come si deve.

   «Oggi siamo qui riuniti non per piangere i morti, ma per tenere in vita i superstiti» riprese il Capitano con più vigore, parlando praticamente a braccio. «Affrontiamo la più grande sfida mai lanciata alle nostre civiltà. Molti secoli fa John Adams, secondo Presidente degli Stati Uniti d’America, disse: “Devo studiare la politica e la guerra in modo che i miei figli abbiano la possibilità di studiare la matematica e la filosofia, la navigazione, il commercio e l’agricoltura, per poter fornire ai loro figli la possibilità di studiare la pittura, la poesia e la musica”. Oggi affrontiamo di nuovo questa sfida drammatica.

   Il nostro nemico più astuto e spietato, Vosk, sostiene che la Federazione sia un esperimento sociale fallito, che stava già crollando prima del suo attacco. Per quanto mi ripugni ammetterlo... c’è del vero. Perché questa non è la Federazione che i nostri avi hanno edificato. Quella Federazione era fondata sul dovere, la lealtà, il sacrificio... e su tanto duro e onesto lavoro. Oggi non è più così».

   Un mormorio costernato corse fra il pubblico, ma Chase lo ignorò. Il suo discorso era polemico, ma non poteva essere altrimenti: doveva risvegliare le coscienze, o tutti gli sforzi diplomatici sarebbero stati vani.

   «Abbiamo lasciato proliferare spinte autodistruttive in nome di un malinteso senso di tolleranza. Abbiamo rinunciato a far rispettare le nostre leggi. Ci siamo cullati nell’autocompiacimento per il presente e nel disprezzo per un passato che consideriamo barbaro e scorretto, ma che è alla base del nostro attuale benessere. In breve, abbiamo tagliato il ramo che ci sosteneva» disse con foga.

   «Un anno fa, l’autoproclamato Movimento per la Pace Galattica ha distrutto Khitomer, trucidando un miliardo di cittadini, nel tentativo di spingerci a una resa che significa lo sterminio. Un mese fa, i cadetti dell’Accademia hanno ignorato i ripetuti allarmi degli insegnanti e si sono lasciati massacrare. Se questo è lo stato della Federazione e della Flotta – le istituzioni a cui ho dedicato la vita – ebbene, Vosk ha ragione. Se odiamo a tal punto noi stessi, se dubitiamo così tanto della nostra causa, che vinca il Fronte! Anche i nostri fratelli Klingon e Romulani sanno che significa perdere l’unità. Troppe volte sono stati colpiti da insensate guerre civili». Chase respirò a fondo, avviandosi al clou del discorso.

   «Ma io rifiuto di arrendermi, di credere che siamo giunti all’epilogo. So che in questa Galassia martoriata battono ancora dei cuori onesti e volenterosi. A loro dico: muovetevi! Fate la differenza, o non la farà nessun altro. Ricostruite una casa o un’astronave. Curate i feriti e gli ammalati. Arruolatevi nella Flotta per respingere il nemico. Fate che le vostre parole e le vostre azioni abbiano un significato che trascende voi stessi.

   Non applauditemi! Ricordate questo: la libertà va conquistata col sudore, le lacrime e il sangue. È giunta l’ora di versarli. Ma è anche il momento di riorganizzarci, rinnovando gli assetti istituzionali. Pertanto i mondi federali, Klingon e Romulani confluiranno in una nuova Unione Galattica! Questa è l’ultima frontiera... esploriamola insieme!» concluse, riecheggiando un antico discorso del Capitano Archer, e restituì il palco al Presidente.

   Il pubblico esplose in grida d’entusiasmo misto a stupore, che rimbombarono in sala. Chi era seduto si alzava in piedi e tutti agitavano le mani o altre appendici. Il frastuono era assordante. Chase si domandò come doveva essere sui pianeti che stavano seguendo in diretta la conferenza. Probabilmente erano nel caos. Molti cittadini saranno stati sbigottiti, spaventati o anche infuriati dal suo annuncio. Questa riforma li avrebbe sconvolti più dell’attacco al sistema solare. Ma non era stato lui a deciderla: era la Storia che faceva il suo corso.

   Il Capitano tornò a sedersi, scambiando un’occhiata d’intesa con l’Ammiraglio Nelscott, e lasciò al Presidente l’arduo compito di calmare gli animi. La conferenza era appena all’inizio: i tre leader maggiori dovevano rivolgersi ai loro popoli per fornire dettagli sull’Unione Galattica. Chase li conosceva già, perciò ascoltò distrattamente.

   «L’Unione Galattica sarà un’istituzione più snella e agile, adatta alle nuove sfide» stava dicendo il Presidente. «Naturalmente ci vorranno anni, anzi decenni per definirne gli assetti istituzionali. Per adesso l’Unione comporterà un crescente coordinamento nella lotta contro il Fronte Temporale e nell’impegno per salvare i rifugiati...».

   Chase notò che l’Enterprise faceva capolino dalla finestra panoramica. Spiccava contro le nubi striate di Giove, incantevole come sempre e pronta a nuove missioni. In plancia, in sala macchine e negli altri ambienti l’equipaggio ascoltava in diretta la conferenza. Probabilmente lo stavano vedendo anche in quel momento, a margine delle inquadrature. Fissò una delle telecamere e sorrise, certo che i suoi ufficiali avrebbero capito.

   Ripensò a loro, uno dopo l’altro. Non a tutti i tremila che prestavano servizio sull’Enterprise, ovviamente. Pensava a quella cerchia ristretta che aveva lavorato più sodo, combattuto più duramente e si era conquistata la sua stima incrollabile. Ilia, che appena dimessa dall’infermeria era tornata subito in plancia, a dirigere le operazioni di soccorso. Terry, che ultimamente si comportava in modo più umano e si era scelta persino un alloggio personale. Lantora, al quale l’occhio artificiale non aveva tolto né la determinazione né il senso dell’umorismo. Grenk, che aveva riparato la Phoenix e già faceva progetti sul sensore temporale. Korris, che si era adoperato senza sosta per soccorrere i feriti e ora studiava contromisure contro le epidemie. T’Vala, abile nel guidare l’Enterprise fuori da ogni trappola, così come nel suggerire un modo logico per superare gli ostacoli. Neelah, forse la mente più brillante a bordo, nonché l’amore della sua vita. E Raav, che forniva a tutti gli altri i drink e i consigli grazie a cui riuscivano a fare così bene il loro lavoro. Quelle persone erano la sua famiglia. E sebbene per la neonata Unione Galattica fosse scoccata l’ora più buia, con loro a fianco Chase non temeva il futuro.

 

 

FINE

 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3816409