Padrone del tuo destino

di Tenar80
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Devono metterlo in conto, questi ragazzetti che giocano col ghiaccio. Il ghiaccio è duro e freddo. Ed è spietato, come tutte le cose dure e fredde ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***



Capitolo 1
*** Devono metterlo in conto, questi ragazzetti che giocano col ghiaccio. Il ghiaccio è duro e freddo. Ed è spietato, come tutte le cose dure e fredde ***


Rieccomi qui.

Rispetto a "Negli occhi degli amanti" vi porto indietro nel tempo, a tutto ciò che Victor non ha raccontato a Yuuri.
Per me è una storia un po' particolare, imprevista, nata dalla voglia di Yakov di raccontare il proprio punto di vista e da una frase sfuggita a Victor in tutt'altro contesto: "la mia non è, in nessun caso, una storia di speranza". Pronunciata da uno che ha vinto tutto partendo dal niente, necessitava quanto meno di una spiegazione...

Vi sono delle avvertenze, che forse è il caso di scrivere. Anche se inizia quasi come una favola, in questa storia ci sono dei ragazzini che fanno quasi ogni genere di sciocchezza. E le pagano tutte. Ci sono adulti che provano a metterci una pezza come possono, a volte sbagliando. Ci saranno delle parti, nei prossimi capitoli, che non sono state facili da scrivere, potrebbero non essere piacevoli da leggere, anche se non c'è nulla di descritto in modo esplicito.

Ci sono almeno tre dediche per questa storia.
A tutti coloro che, in qualsiasi disciplina, non ce l'hanno fatta.
A tutti i ragazzi che usano il sorriso come protezione contro il mondo.
Mentre la scrivevo, sono stata avvisata della morte di Denis Ten, pattinatore kazako ucciso da una coltellata. Una morte così assurda e triste, il cui ricordo, per me, sarà per sempre legato a questa storia.

Infine, grazie a tutti coloro che vorranno leggere.




Mosca – Dicembre 2000

 

    Yakov si sedette sbuffando sul sedile scomodo del palaghiaccio. Possibile che fossero tutti così scomodi i sedili dei palaghiacci? Il pattinaggio doveva proprio essere una sofferenza, per tutti, in modo democratico, atleti e spettatori… E poi non gliene importava niente della gara giovanile che si stava svolgendo sulla pista. O forse non voleva che gliene importasse niente. Se si fossero rivelati tutti mediocri non avrebbe dovuto farsi carico di nessuno di loro. Ognuno di quei ragazzini che volteggiavano sul ghiaccio era un groviglio di ansia, rabbia, paura, problemi di salute, paturnie sentimentali, comportamenti da correggere, studi da portare avanti… Forse doveva darsi all’addestramento dei cani. Esercizio giusto, croccantino, esercizio sbagliato, bastonata e finiva lì. Molto più facile. O forse era lui che non riusciva. Sua moglie più o meno si comportava così con le sue ballerine e la cosa, maledizione, funzionava. Mai una volta che l’avesse vista preoccupata per una di loro. Se una falliva c’erano subito altre candidate per il posto vacante. Lui, però, era un cacciatore di fuoriclasse e i fuoriclasse sono fragili e preziosi. Per niente facili né da addestrare né da lasciar andare…

    – Sei già qui? – gli chiese Dimitri.

    L’uomo più giovane si sedette al suo fianco, facendo ondeggiare i capelli lunghi.

    – Fuori nevica – grugnì Yakov, salutando con un cenno il suo aiutante.

    – Così li terrorizzi tutti.

    – Quelli che non sanno chi sono mi ignorano. Quelli che lo sanno… Beh, io voglio vedere appunto come se la cavano sotto tensione. Se basto io per spaventarli hanno sbagliato mestiere. Ecco, sono questi i nostri osservati speciali.

    Yakov passò due fogli a Dimitri.

    Su ciascuno c’era la foto di un ragazzetto sui dodici anni, un tipino magrolino e tutto naso, Georgi, e un ragazzetto biondo dallo sguardo impertinente, Kirill.

    Dimitri annuì.

    – Abbiamo già parlato con il padre di questo, vero? – disse, prendendo il foglio con la foto di Georgi. – Un tipo a posto, che si è già informato per le scuole e il pensionato… E questo invece è l’aquilotto Vladivostok… Certo che sarebbe un bel salto da lì a San Pietroburgo…

    – Sì.

    I trasferimenti erano sempre un problema. Erano ancora bambinetti, abituati ad avere la mamma sempre alle calcagna. Metà degli spettatori, del resto, erano madri ansiose.

    – Pare sia il migliore del suo anno e se vuole avere speranze negli juniores…

    Da due anni Yakov dirigeva il centro federale di San Pietroburgo. La Russia da lì a cinque anni doveva tornare ai vertici mondiale nel pattinaggio, in tutte le categorie. E singoli, a quanto pareva, erano diventati un suo problema. E lui, ovviamente, era diventato il problema con cui doveva scontrarsi chiunque volesse fare del pattinaggio qualcosa di più di un passatempo pomeridiano.

    – Ho parlato con quel mio amico – disse Dimitri, cambiando discorso. – Ha un posto da operaio. Certo, la paga è quella che è…

    Yakov fu tentato di accartocciare i fogli che aveva in mano e scagliarli verso la pista.

    – Ha sedici anni, zoppica e non ha un titolo di studio decente, non è che si possa aspettare molto di meglio – provò Dimitri, ma con dolcezza.

    – Una volta ci si prendeva più cura degli atleti.

    – Non mi diventare nostalgico proprio tu. Erano altri tempi.

    Sì. Tempi in cui si combatteva con lo sport per la grandezza dell’Unione Sovietica. In cui dovevi ubbidire e tacere. Magari morire a trent’anni per un infarto per chissà quali schifezze che ti avevano obbligato a prendere. Però se non altro ci si prendeva cura dei feriti che rimanevano sul campo.

    – Ivan… – iniziò.

    – Era il migliore, lo so – sospirò Dimitri. Ostentava noncuranza, ma anche lui era affezionato al ragazzo. – E viveva a casa tua. Ma si è distrutto un ginocchio. Sono cose che succedono. Devono metterlo in conto, questi ragazzetti che giocano con i pattini. Il ghiaccio è duro e freddo. Ed è spietato come tutte le cose dure e fredde.

    Sì. 

    Non gliene importava niente al ghiaccio del padre di Ivan, che aveva perso il lavoro, della madre, che entrava e usciva dall’ospedale. Della rabbia ostinata che covava negli occhi scuri di un adolescente che voleva in ogni modo cambiare il destino di chi gli era caro. Il loro destino, però, lo decideva il ghiaccio. Non la volontà e neppure il talento, per quanto fossero indispensabili. Riuscivi a spostare appena una gamba mentre cadevi e te la cavavi con due lividi e vincevi magari le olimpiadi. Non ci riuscivi e rimanevi zoppo per sempre.

    Yakov sospirò, guardando la pista per cercare di non pensare a quel ragazzo. Nella camera degli ospiti, a casa sua, c’erano ancora delle cose che aveva dimenticato. Un quaderno, un vecchio portachiavi a forma di dinosauro…

    Lo sguardo dell’allenatore fu attratto, quasi suo malgrado, da uno degli atleti in pista. 

    Erano tutti ragazzini tra gli undici e i quindici anni, anche se quelli sopra i quattordici che ancora non avevano cambiato categoria erano proprio scarsi. Questo poteva averne una dozzina. Era magrolino, con i capelli così chiari da sembrare bianchi. Non aveva un costume, neppure di quelli artigianali prodotti da madri o zie volenterose, solo una tuta bianca, per altro con delle tracce di macchie non del tutto cancellate. Indossava dei pattini vecchissimi, di seconda o terza mano, eppure si muoveva nei minuti di riscaldamento come se fosse il padrone assoluto della pista.

    – Quello chi è? – chiese Yakov.

    – Mah, siamo a metà, questi sono mediocri senza sper…

    Anche Dimitri si era fermato a guardarlo.

    – Adesso si ammazza – mormorò Dimitri.

    Il ragazzo stava provando un salto, un Loop, con una partenza del tutto sbagliata. 

    Riuscì comunque a portare a termine due rotazioni e ad atterrare in modo quasi discreto.

    – Non ha la più pallida idea di come si salti – disse Yakov.

    E neppure di come si impostava una trottola, constatò un attimo dopo. Eppure c’era quella sicurezza istintiva, ai limiti dell’arroganza, di chi sa di essere nel proprio elemento.

    Chi lo allenava?

    A bordo pista c’erano alcune facce note, tecnici di società giovanili con cui Yakov aveva già avuto a che fare e un uomo che non aveva mai visto, accompagnato da una giovane donna di forse venticinque anni. A quanto pareva il ragazzo era con loro. L’allenatore e… la sorella? La zia? Cicciottella com’era non poteva avere molto a che fare con il pattinaggio.

    – Fammi un favore, Dimitri, vai a capire chi è.

    – A quest’età, se non hai le basi ci vuole un miracolo – sbuffò Dimitri, ma si stava già alzando.

    Ci voleva un miracolo, certo. Eppure Yakov si rese conto di attendere con trepidazione l’esibizione del ragazzo.

    Eccolo.

    La tuta bianca era proprio il costume con cui si esibiva… Quindi? Non aveva un allenatore in grado di spiegargli i fondamentali, non aveva nessuno che gli preparasse un costume decente, ma aveva un coreografo, a quanto pareva. Perché la cosa che stava mettendo in scena aveva senso. Era un fiocco di neve, sospinto da vento, destinato a sciogliersi. Non c’era un singolo elemento tecnico che non andasse rifatto da capo eppure riusciva a dare una coerenza al tutto. Aveva un modo di pattinare che catalizzava l’attenzione, quel qualcosa che non può essere insegnato ed era perfettamente a tempo con la musica. Il resto… Yakov cercò di essere oggettivo. In uno sport in cui si dà il massimo entro i venticinque anni a dodici alcune qualità le devi già avere o è inutile buttare via il proprio tempo. La corporatura del ragazzo andava bene. Aveva l’ossatura esile, ma una buona muscolatura, poteva in effetti sviluppare il fisico del pattinatore. L’impostazione tecnica era un disastro, ma qualcuno gli aveva cucito addosso una coreografia amatoriale, certo, ma calibrata sui suoi mezzi e che il ragazzo aveva saputo eseguire in sintonia con la musica. Se non poteva avere il ragazzo voleva quanto meno parlare con il coreografo.

    Anche i giudici avevano apprezzato la performance, regalandogli un primo posto temporaneo che lo avrebbe fatto rimanere nei primi quindici al termine della giornata. Il giudizio gli regalò anche il nome del ragazzo, Victor Nikiforov. Mai sentito. Ma a quanto pareva veniva da un posto sperduto sul circolo polare, una di quelle città minerarie ai limiti della depressione.

    – Non ha un coreografo – disse Dimitri, tornando a sedersi al suo fianco.

    – Come sarebbe a dire che non ha un coreografo?

    – Non ce l’ha. L’ha fatta il ragazzo la coreografia, sulla musica che ha scelto.

    – Stai scherzando?

    – No, ma non farti illusioni, lui non lo possiamo prendere.

    – Genitori che ti hanno morso?

    – Padre in galera. La donna è l’assistente sociale. Un incubo burocratico solo portarlo qui.

 

    Yakov si era ripromesso, non più tardi di due mesi prima, di non prendere in considerazione atleti che non avessero alle spalle famiglie in grado di riprenderseli, nel caso qualcosa fosse andato storto. Non che potessero essere tutti ricchi come Ekaterina, certo, ma con le storie lacrimose di gente disastrata aveva chiuso. Chiuso. E con questo pensiero si trovò, senza ben sapere come, davanti al ragazzo, che si stava togliendo i pattini.

    Aveva i calzini macchiati di sangue, ma se li tolse senza smorfie.

    – Non sono della tua misura – grugnì Yakov.

    Il ragazzo alzò lo sguardo e sorrise.

    – Fanno il loro lavoro – disse.

    Aveva un bel visetto pulito e occhi chiarissimi, color dell’acqua.

    – Ho pattinato bene? – chiese.

    Yakov sbuffò.

    – La coreografia non era male, ma gli elementi tecnici erano un disastro.

    Il ragazzo si passò una mano nei capelli, senza smettere di sorridere, ma con un certo imbarazzo.

    – Qual è il tuo salto preferito? – chiese Yakov, addolcendo appena il tono.

    – Il Loop.

    – Il Loop? La partenza è del tutto sbagliata!

    – Fammi vedere come si fa!

    Non era una domanda, neppure un’implorazione. Era quasi un ordine, impartito da quel bimbetto che adesso aveva un’espressione ostinata.

    – Qui? – chiese Yakov.

    C’era un bel caratterino sotto quella faccia d’angelo, questo era sicuro.

    – Qui – confermò, infatti, stringendosi nelle spalle.

    L’allenatore sospirò. 

    Aveva con sé la propria valigetta, chissà poi perché, poi. Ne estrasse il portatile e proiettò sullo schermo una sequenza di foto.

    – Questa è la partenza del Loop – disse.

    Il ragazzo annuì, concentrato.

    – Lei chi è? – chiese, indicando la ragazza che era ritratta nelle fotografie.

    – Ekaterina, vice campionessa europea juniores.

    – La alleni tu?

    – Naturalmente.

    – Vitya! – esclamò una voce femminile. – Non crederai mai a chi è venuto a complimentarsi per la tua coreografia!

    Il ragazzo e l’allenatore si voltarono all’unisono.

    – Yakov Felstman, che ha vinto tre medaglie olimpiche e tre titoli del mondo – disse Victor, come se fosse la cosa più normale del mondo discutere con lui.

    – Quattro titoli del mondo – ringhiò sottovoce Yakov.

    – Ah… – la donna si bloccò, interdetta.

    – Era una bella coreografia – disse Yakov, richiudendo il computer. – Domani me ne farai vedere un’altra?

    – Certo! – replicò il ragazzo. – Domani sarò una goccia d’acqua.

    L’umiltà non sembrava proprio il suo forte.

    – Lasciami indovinare, tuta blu? 

    – Eh… Sì.

    – Allora ci si vede domani, Vitya.

    – Ehm… A domani, allora.

 

 

    – Dov’eri finito? – chiese Dimitri – I migliori stanno per iniziare.

    – Uff…

    – Dal ragazzo? Lascialo perdere, sarà già un mezzo delinquente.

    Vero, quasi sicuramente.

    – Vediamo come pattina domani, oggi può aver avuto fortuna – concesse Yakov.

    Si sforzò di concentrarsi sul gruppo che iniziava in quel momento il riscaldamento.

    Pattinavano bene, alcuni molto bene. Avevano tutti pattini della giusta misura, costumi di discreto gusto, allenatori che avevano dietro uno staff tecnico almeno elementare. Non che fosse colpa loro, certo, ma il suo compito, constatò Yakov, era valutare le potenzialità di quei ragazzi, non il valore assoluto in quel momento. Nessuno di loro avrebbe partecipato a un’olimpiade il giorno seguente. E nessuno di loro, ne era certo, si era preparato la coreografia da solo.

    Però pattinavano bene. Sopratutto Georgi e Kirill. 

    Georgi era diligente e preciso. Ascoltò con attenzione il proprio allenatore prima dell’esibizione e poi eseguì il proprio programma senza sbavature. Anche senza guizzi, certo, ma per un dodicenne non era male. Anche passando agli juniores se la sarebbe cavata bene, tra i primi dieci nel campionato nazionale.

    Kirill era ancora meglio. Si muoveva con grazia e si intuiva uno sforzo interpretativo, oltre a una tecnica impeccabile. Avrebbe vinto lui, a meno di crolli clamorosi nel libero. Non era Ekaterina, però, o Ivan. Era un giovane campione, questo era sicuro. Ed era consapevole di esserlo. A quanto pareva, il suo attuale allenatore continuava a ripeterglielo. Fin dove si poteva spingerlo? Beh, si sarebbe visto.

    Eppure continuava a pensare al ragazzino con la tuta malamente smacchiata. Come avrebbe pattinato, con i giusti mezzi a disposizione? 

    E a Ivan, che a tredici anni si sarebbe mangiato Kirill a colazione, togliendogli in un istante il sorrisetto tronfio con cui il ragazzo prese atto del proprio primo posto. Lui non se ne sarebbe andato con quel passo sicuro, ma sarebbe corso a complimentarsi con il secondo e il terzo. Adesso, però, Ivan avrebbe dovuto imparare a caricare pezzi di metallo nelle stampatrici e sarebbe stato meglio per tutti, sopratutto per lui, se si fosse dimenticato nel più breve tempo possibile cosa significava salire sul gradino più alto di un podio.

 

 

    Tuta blu. Di seconda mano anche quella. Probabilmente, pensò Yakov, mentre osservava il ragazzo durante i minuti di riscaldamento, era partito da quello, da ciò che aveva a disposizione, per costruire i propri programmi. Un’impostazione da professionista.

    L’allenatore non sembrava dargli chissà quale valore aggiunto, anzi, non sembravano proprio avere una grande confidenza.

    – Non è l’allenatore, è il dirigente del centro sportivo – disse Dimitri, che stava osservando le stesse cose. – Lo allena una ragazza che una volta è arrivata dodicesima ai campionati nazionali juniores.

    – Ci credo che non abbia le basi, allora… Quindi ti sei informato?

    Dimitri si strinse nelle spalle.

    – È un tipetto curioso. Ieri, subito dopo la gara, ha avvicinato Kirill per chiedergli un consiglio. Il nostro aquilotto gli ha risposto che prima doveva imparare a pattinare. Io gli avrei affibbiato almeno un pugno in faccia, mentre il ragazzetto ha detto che era proprio quello che stava facendo e che un giorno sarebbero saliti sul podio insieme. Per un attimo ho pensato che sarebbe stato interessante vederli allenarsi insieme.

    Yakov grugnì.

    L’aquilotto era un po’ troppo abituato a primeggiare. Un atteggiamento pericoloso, a quell’età, ma probabilmente sarebbe bastata Ekaterina a rimetterlo in riga.

    Il ragazzo, Vitya, aveva cominciato.

    Aveva scelto una canzone che parlava di pioggia e di lacrime. E no, la coreografia del giorno prima non era stata un caso. Se solo fosse stato un po’ più preciso…

    – L’impostazione del Loop è giusta! – esclamò Dimitri.

    Un doppio Loop perfetto. Fatto guardando per due minuti delle fotografie, il giorno prima. 

    – Adesso tenta una combinazione – mormorò Yakov.

    – Troppa arroganza – commentò Dimitri.

    Sì. Cadde di sedere sul secondo salto, ma si rialzò subito, recuperando la sincronia con la musica. Questo voleva dire che aveva cambiato in corsa la coreografia. Aveva nervi salvi e consapevolezza di quel che stava facendo, anche se tendeva ad esagerare.

    – Se non fosse caduto e non avesse fatto così tante imprecisioni con questo programma si giocava il podio – commentò Dimitri, quando ebbe terminato.

    – Entrerà comunque nei primi dieci, non male per la prima gara nazionale – ragionò Yakov. – Tu come te l’eri cavata?

    – Dodicesimo. Ma avevo dieci anni, ero il più piccolo. Tu?

    – Quarto. Ci sono rimasto malissimo.

    – Quindi? – chiese Dimitri.    

    Yakov sospirò. Il ragazzo aveva enormi margini di miglioramento, questo era certo. Ma tra avere una possibilità e riuscire a realizzarla c’erano in mezzo una marea di variabili, alcune del tutto imponderabili. Era una scommessa in qualsiasi caso e se le complicazioni erano troppe forse non valeva la pena di scommettere. Se c’era una cosa che Yakov odiava era creare aspettative che poi non era in grado di soddisfare.

    – Vediamo di fare una chiacchierata con i suoi accompagnatori, a fine gara.

 

    Vinse Kirill, Georgi arrivò terzo, con una performance un po’ sporcata dall’emozione. Il secondo aveva quasi quindici anni, uno di quelli che aveva preferito rimanere a primeggiare tra i Novice piuttosto che passare agli Juniores.

    Yakov andò a parlare con i suoi due osservati e i rispettivi genitori, entrambi i ragazzi sembravano ben consapevoli di cosa volessero e di cosa ci si aspettava da loro. 

    – Io voglio vincere le olimpiadi, come te – disse Kirill, alzando il mento, quando fu davanti a Yakov.

    Il padre del ragazzo, un ex militare, gli mise una mano sulla spalla in segno di approvazione.

    – Noi siamo gente nata per primeggiare – disse.

    – Allora devi metterti in testa di lavorare sodo – replicò il tecnico al ragazzo, ignorando il padre. – Più di quanto tu abbia mai fatto. Ti aspetta una giovinezza senza uscite con gli amici il venerdì o il sabato sera, senza vacanze. Ti alzerai molto prima degli altri ragazzi, tutti i giorni, avrai male da qualche parte tutti i giorni. Non deciderai tu cosa mangiare, figuriamoci cosa bere. Dovrai ripetere gli stessi esercizi fino allo sfinimento e trovarti dei ritagli di tempo per studiare, se non vorrai fare la figura dello zotico. Dovrai ubbidirmi ciecamente, anche quando mi odierai con tutte le tue forze. Tutti i tuoi amici avranno vite più semplici della tua e te lo ricorderanno ogni santo giorno.

    – Voglio vincere le olimpiadi – replicò il ragazzo, senza cambiare espressione.

    Yakov si augurò con tutto se stesso che fosse sincero.

    Per certi versi una volta era davvero meglio. Essere uno sportivo voleva dire essere un privilegiato, poter viaggiare, accedere a cose che gli altri non potevano neppure sognarsi. Yakov, da ragazzo, tornava dalle trasferte carico di musica occidentale, libri introvabili e cibi inesistenti. Erano tesori ben miseri, ma a quindici o sedici anni bastavano a fargli dire che ne valeva la pena. Adesso che la Russia era nel libero mercato da quasi dieci anni, perché mai un ragazzo avrebbe dovuto sacrificare la propria vita a un sogno quanto meno improbabile?

    – Vedremo – grugnì.

    Georgi gli diede una risposta che gli piacque di più.

    – Io sono abituato da sempre a dare il massimo… E voglio conoscere Ekaterina.

    – Ti piace, eh?

    Il ragazzo arrossì. 

    Se non altro eccellere per potersi pavoneggiare davanti a una bella ragazza era una motivazione che sarebbe cambiata per colpa della politica. Anche se… Ne aveva di strada da fare, Georgi, se voleva impressionare Ekaterina con il pattinaggio.

 

    

    Vitya era stato parcheggiato su un altro tavolo del bar del palaghiaccio con un’aranciata e degli esercizi di matematica mentre gli adulti discutevano del suo destino. 

    Yakov era convinto che in realtà avesse orecchie ben tese verso la conversazione, anche se forse non era così, forse era abituato al fatto che la sua vita fosse decisa da altri.

    – Il ragazzo ha talento – stava dicendo l’uomo che l’aveva accompagnato. – I nostri mezzi sono limitati, ma è arrivato comunque ottavo. Se ne potrebbe fare un campione.

    Voleva soldi. Non solo quelli dovuti per il cambio di società. A Yakov non piaceva per niente, non gli piaceva aver notato come il ragazzo, che non si faceva intimorire da niente, neppure da una leggenda vivente del pattinaggio come lui, sembrasse a disagio in sua presenza. Ma un giro di mazzette era la cosa più facile da gestire. I problemi veri erano altri.

    – Il padre esce di galera tra quattro mesi – spiegò Irina, l’assistente sociale. – In teoria potrebbe riprenderselo indietro, ma non ci crede nessuno. Capirete, è stato in carcere cinque anni, quasi la metà della vita del figlio, e non è che prima fosse un padre presente. Per farlo andare a vivere a San Pietroburgo ci vorrebbe qualcuno che ne chiedesse l’affido, magari disposto a convincere il padre a cederne la patria podestà.

    Insomma, altre mazzette.

    – Noi però vogliamo un atleta, non un delinquente – disse Dimitri.

    – A Vitya piace piacere – rispose l’assistente sociale. – Certo, è un po’ selvatico, come tutti quanti, ma tra questo e il pattinaggio si è quasi sempre tenuto fuori dai guai.

    – Quasi?

    – Stiamo parlando di ragazzi che o non hanno nessuno o è meglio che non avessero nessuno. Tutto il paggio della nostra nuova Russia ha fatto parte direttamente o indirettamente della loro realtà. Il nostro obiettivo è dare a loro un lavoro onesto, ci riusciamo quasi nella metà dei casi e ci riteniamo bravi – spiegò la donna. – Vitya e i suoi amici qualche mese fa hanno cercato di rubare dei cd in un negozio. Lui faceva il palo, ma si è distratto e si è fatto beccare. Una cosetta da nulla.

    Ecco. Yakov evitò di chiedere cosa la donna riteneva non fosse “da nulla”. 

    Spiò con la coda dell’occhio il ragazzo tirare su una riga sul quaderno e sospirare sconsolato.

    – A scuola come se la cava? – chiese.

    – Quello è un problema – rispose l’assistente sociale. – I professori dicono che ha la testa tra le nuvole o che non sa concentrarsi. Le materie di studio e quelle tecniche sono un disastro.

    – Perché, rimane qualcosa? – domandò Dimitri.

    – Le lingue, la musica… Però, capite, noi dobbiamo prevedere un percorso di studi che li renda indipendenti il prima possibile. Un corso da meccanico, da elettricista, una cosa così… Voi ve lo vedete Vitya a fare il meccanico?

    Yakov guardò di sottecchi il ragazzino, con le sue mani sottili, gli abiti ordinati, il talento innato per dare vita alla musica.

    – No – ammise.

    – Il pattinaggio può davvero diventare una professione? – chiese la donna.

    – Per noi è una professione – replicò Yakov. – Nell’immediato vuol dire avere tutto spesato dalla federazione, cure mediche, supporto tecnico, istruzione, almeno di base. I ragazzi dei centri federali frequentano scuole apposite, con orari pensati ad hoc. Parliamoci chiaro, i professionisti veri sono una ventina in tutto il mondo e quelli oggi hanno sponsor, opportunità che noi neppure ci siamo sognati, ma cerchiamo comunque di dare qualcosa ai tutti i nostri atleti.

    Un posto da operaio, nel peggiore dei casi. Che coincideva comunque con il meglio a cui quel ragazzo poteva aspirare stando dove stava.

    – Yakov, pensaci bene – disse Dimitri. – Dovresti prendertelo in casa, sotto la tua responsabilità fino alla sua maggiore età, qualsiasi cosa accada. Essere responsabile di tutte le sue cazzate, i reati che potrebbe commettere. E la maggior parte dei ragazzi che viene da queste realtà non è in grado di mantenere impegni a lungo termine. Alla prima difficoltà ti svaligia casa e se ne va.

    L’assistente sociale aggrottò la fronte, ma non replicò. 

    Dimitri aveva ragione, quasi sicuramente.

    E Yakov non voleva prendersi mai più un ragazzo in casa. Poteva dirgli e dirsi tutto quello che voleva, che non cambiava niente, rimaneva un atleta come un altro, ma non era vero.

    Sbuffò.

    – Ragazzo, vieni qui – chiamò.

    Docile, Vitya si avvicinò con quel suo sorriso con cui, a quanto pareva, si rigirava tutti.

    – Perché pattini? – chiese Yakov.

    Il ragazzo ci pensò un attimo.

    – Quando pattino sento di esistere. E io voglio esistere, per il maggior numero di persone possibile, il più a lungo possibile.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


San Pietroburgo – Aprile 2001

 

    – Ti sembra un Axel quella roba lì? – ruggì Yakov con il suo miglior tono da mastino infernale.

    Vide che Kirill rabbrividiva sotto la sfuriata e si diede un buon voto.

    Dopo un istante, però, il ragazzo si ricompose e alzò il mento in quella che era la sua posa tipica.

    – Beh, sono quello che lo fa meglio, qui.

    – Ekaterina, per favore, fai vedere al moccioso come si fa un doppio Axel – replicò Yakov.

    La pattinatrice, che stava già per tornare nello spogliatoio si avviò al centro della pista e, dopo un minimo di riscaldamento, saltò in modo impeccabile. 

    Stava diventando divina. Era una ragazza incantevole, con il suo aspetto da principessa Biancaneve, nulla di strano che Georgi ne fosse ipnotizzato al punto da cadere ogni volta che si rendeva conto che lei lo stava guardando. In quell’ultima stagione, però, aveva sviluppato una grazia quasi ultraterrena e pattinava come nessun’altra al mondo. Kirill, però, non sembrava impressionato.

    – Grazie tante, ha quindici anni – sbuffò.

    – E alla tua età lo faceva già così – ringhiò Yakov. – Smetti di blaterare e datti da fare.

    Kirill non migliorava come aveva sperato. 

    Migliorava, certo, rimaneva inarrivabile per Georgi. Aveva disputato una competizione tra gli juniores ed era arrivato quinto. Però non era… Non era Ivan, ecco. E forse era ingiusto, nei confronti di entrambi i ragazzi, continuare con quel paragone. Non si può chiedere a un gatto di essere una tigre.

    – Non mangiartelo, è stato di nuovo chiuso fuori dal compagno di stanza e ha passato la notte nell’anticamera – disse Dimitri, avvicinandosi.

    – Perché tu sai sempre queste cose? – chiese Yakov.

    – Perché non li terrorizzo.

    – Uff… E sai anche il perché di questo litigio?

    – Georgi ha due versioni. Kirill sa essere estremamente sgradevole, ma è perché gli mancano casa sua e suoi amici e il compagno di stanza è un vero stronzo. Quest’ultimo, però, ha anche un’altra idea, dice che a Kirill le ragazze non interessino e lui con un pervertito in camera non ci sta. Diamo atto a Georgi di averla classificata come pura maldicenza.

    Yakov si strinse nelle spalle.

    – Potrebbero essere vere entrambe – commentò.

    Il viso di Dimitri assunse un’espressione disgustata che fece sogghignare il tecnico.

    – Non dirmi che quando eri in trasferta in Europa non hai mai ricevuto un invito per andare in certi locali? – chiese.

    – Sì e li ho sempre mandati tutti a quel paese! Perché, tu no?

    – Non ne avevo bisogno. Avevano tutti troppa paura di Lilia per provarci con me. Ma non ero ne cieco ne sordo.

    Aveva partecipato a due olimpiadi e nei villaggi olimpici ne succedevano di cose…

    – Il nostro compito è far sì che pattinino bene e non si caccino nei guai – riprese. – Poi il resto a me non interessa. Kirill non può essere sbattuto fuori dalla stanza. Non lo possono mettere con Georgi?

    Era questa la parte del lavoro che proprio non sopportava. Avrebbe voluto che quei ragazzi prendessero a esistere ai suoi occhi solo all’ingresso del palaghiaccio. E invece no. Doveva occuparsi delle loro beghe sentimentali, persino dei litigi con i compagni di camera…

    – Georgi divide la camera con un ragazzo che viene dalla sua stessa città e ci si trova bene – spiegò Dimitri.

    Yakov annuì.

    A vederli così, l’aquilotto e il ragazzino magro con i capelli neri, sembrava senza dubbio Georgi il più fragile. Arrossiva appena Ekaterina lo guardava e gli venivano le lacrime agli occhi quando Yakov gli urlava dietro. Però andava d’accordo con tutti, nel giro di un paio di mesi si era inserito bene sia al pensionato che a scuola, al sabato pomeriggio andava al cinema con degli amici. Era diligente negli allenamenti e migliorava. In tutta onestà Yakov non sapeva se potesse fare di lui un campione, ma le basi per diventare un solido atleta c’erano tutte. Kirill era più forte, sia allo stato attuale, che in potenza. Era un solitario e una certa resistenza alla solitudine è una caratteristica fondamentale per i campioni. Forse, però, non era un solitario per sua scelta. In quel modo arrogante di alzare il mento c’era tanto una sfida verso il mondo quanto verso se stesso. 

    Yakov scosse il capo. I campioni, quelli veri, sono sempre complicati. Per arrivare a eccellere quasi ai limiti dell’umano ci voleva qualcosa, rabbia, determinazione o desiderio, che le persone appagate e felici non hanno. Lo riconosceva in se stesso, lo vedeva in Ekaterina, nel modo in cui ogni tanto i suoi occhi blu si rabbuiavano, sebbene, almeno in apparenza, avesse tutto. Lo fiutava in Kirill. Poteva diventare un campione o spezzarsi e Yakov era consapevole che una sua parola, una sua decisione, poteva influire in un senso o nell’altro. Ma non sapeva quale fosse la parola o la decisione.

    – Parlerò con il direttore del pensionato – disse. – E avrebbe bisogno di qualcuno al suo livello con cui scornarsi. Ekaterina è ancora troppo oltre.

    – Stai ancora pensando a Vitya? – chiese Dimitri

    Yakov sospirò.

    – Sì.

    Lilia non era per nulla entusiasta all’idea di prendersi in casa uno zotico siberiano figlio di un delinquente. O forse persino lei si era affezionata a Ivan e non era pronta a sostituirlo. In ogni caso non poteva portarsi a casa un ragazzino contro il voleva di sua moglie. Una moglie, per altro, a cui non potevi spostare neppure una pianta in vaso senza il suo consenso. 

    – L’altro giorno ha chiamato l’assistente sociale – disse Dimitri. – Vuoi tutta la lacrimevole storia?

    – No – scosse il capo Yakov. – Solo il riassunto.

    – O lo porti qua adesso o non lo fai più. 

    Yakov grugni qualcosa.

    Aggiungere un atleta a un gruppo era come inserire un elemento misterioso in una pozione alchemica. Poteva risultarne un’esplosione come la pietra filosofale. E Vitya sembrava fatto di un materiale altamente instabile.

    – Devo parlarne seriamente con Lilia.

    – Sai già come la penso – borbottò Dimitri.

    – Come no? Continui a nominarlo. Nel profondo pensi anche tu che il suo posto sia qui, a giocarsi le proprie carte con Kirill e Georgi.

 

 

 

 

Salechard – Aprile 2001

 

    Yakov si guardò intorno sperso, all’uscita dalla stazione.

    A quanto pareva la massima attrattiva locale erano due enormi statue, una a forma di mammut e una a forma di renna. Per il resto quella che aveva intorno era una città che stava giusto affacciandosi alla fine dell’inverno, tutta casermoni e industrie, con un sacco di cantieri aperti. Non c’era nessun albero, ma moltissime gru. L’emblema della nuova Russia capitalistica, insomma, con pochi imprenditori ad arricchirsi e una gran massa di poveracci la cui massima aspirazione era lavorare per due soldi ai confini del mondo nell’estrazione del gas. A meno di non essere un appassionato di mammut, pensò, solo la disperazione poteva spingerti lì.

    Yakov aveva un indirizzo in tasca, ma era metà pomeriggio e chiese al taxista di essere portato al palaghiaccio.

    – Ha l’aria di un dirigente sportivo, lei. È per la nostra squadra di hockey, vero? – commentò l’autista, tutto entusiasta. – Abbiamo dei veri campioni, lasci che glielo dica.

    – Pattinaggio di figura.

    – Eh?

    – Sono un dirigente sportivo. E mi occupo di pattinaggio di figura.

    – Belle ragazze, allora. Mica male lavorarci. Anche se sono un po’ piattine per i miei gusti… Certo, l’idea che ci siano anche dei ragazzi, con quei costumini…

    – Ci ho vinto un’olimpiade, io, con uno di quei costumini.

    – Ah…

 

    Il palaghiaccio era decisamente la patria della squadra di hockey, con tanto di foto giganti per festeggiare una recente vittoria, ma la scommessa era giusta. A quell’ora si allenava il pattinaggio artistico. Quasi tutte bambine, qualche bambino, e un ragazzetto più grande dai capelli chiarissimi che provava in disparte i movimenti di una coreografia con delle cuffie nelle orecchie e un vecchio mangiacassette attaccato alla cintura dei pantaloni. 

    Si era alzato in quei mesi, il che per un pattinatore poteva non essere necessariamente un bene. Al momento, forse, quello contribuiva a dargli un senso generale di sbilanciamento. Ci si stava mettendo d’impegno, però. Si fermò un istante, attese di avere la pista libera e provò un Axel. Partenza sbagliata, tanto per cambiare. Però l’elevazione… Non mancava di potenza, questo era certo. L’atterraggio fu incerto, salvato da una mano sul ghiaccio…

    – Lei è il padre di…? – chiese una voce femminile.

    Una donna castana sotto i trent’anni, con i pattini ai piedi, si piazzò davanti a lui. 

    L’aveva già vista in gara, anni prima, doveva essere l’allenatrice, quindi, come diavolo si chiamava? Difficilmente chi non arrivava neppure alla decima posizione gli si fissava in testa.

    – Nessuno, sono qui per vedere il ragazzo.

    – È nei guai? È della polizia?

    Inizio promettente…

    – Dovrebbe essere nei guai? – chiese. – Certo, che se salta in quel modo…

    Il secondo tentativo di Axel lo aveva portato sdraiato sul ghiaccio a faccia in avanti.

    – Non è molto concentrato di questi tempi… – commentò la donna. – Lei è?

    – Yakov! – esclamò il ragazzo che si stava rialzando.

    Attraversò veloce la pista, andando quasi a sbattere contro un paio di bambine e per un istante il tecnico ebbe il terrore stare per essere abbracciato.

    – Ma ti sembrava un Axel, quella roba lì? – ringhiò, a titolo preventivo.

    – Non mi hai fatto vedere le foto dell’Axel! Il Loop l’ho imparato bene, Annika te lo può confermare.

    – Sì – confermò la donna. – Gli è uscito qualche bel triplo.

    – Ho fatto anche un quadruplo, una volta – si inserì il ragazzo.

    – Scordateli i quadrupli prima dei quindici anni che se cadi male ti spacchi tutto – borbottò Yakov.

    Un quadruplo, davvero? Beh, la potenza l’aveva e un colpo di fortuna può capitare a tutti… Un quadruplo Loop a tredici anni? C’era chi non ci riusciva in una vita intera a farlo. E Yakov pensava a gente che si qualificava per il mondiale assoluti…

    – Quindi è vero – disse Annika. – È arrivato il principe sul cavallo bianco che ti porta via da qui.

    Diede un’occhiata significativa a Yakov e il tecnico si sentì dare un voto piuttosto basso come principe. Troppo maturo e stempiato. Proprio una città di gente simpatica, non c’era che dire…

    – Non è mica detto – borbottò. – Ci sono un sacco di cose vedere… Un Axel fatto meglio ad esempio.

    Il ragazzo si era rabbuiato. Ci sperava davvero. Beh, era ovvio. A quanto pareva lì il pattinaggio di figura era cosa per bambini e qualche ragazzina. Anche senza contare tutto il resto, i pattini che erano gli stessi che gli aveva visto in gara, ad esempio, non è che avesse molta gente con cui parlare, a bordo pista.

    Yakov sospirò e estrasse un involto dalla sacca che aveva con sé.

    – Tieni – disse tirandoglielo. – Tanto ormai ti saranno già stretti.

    Il ragazzo tirò fuori i pattini nuovi con una sorta di timore reverenziale.

    – Sono quelli standard della nazionale russa – borbottò Yakov. – Vedi di meritarteli.

 

    Nel posto dove il ragazzo viveva, un casermone in periferia con vista sui cantieri, c’era tutta la parte spiacevole che attendeva Yakov. C’era la burocrazia, con una serie di complicazioni che andava al di là di quello che il tecnico si era aspettato e c’era la parte di storia lacrimosa a base di padri usciti di galera che non si erano fatti vivi e di amici più grandi che ci erano già entrati. Nessuno, però, gli chiese del denaro aggiuntivo e in generale si respirava un’aria di pulizia. Un posto non allegro, questo era certo, ma forse non il peggiore in cui un bambino potesse finire. E poi per Vitya avevano tutti una buona parola. Volevano dargli un futuro, ma non erano felici di liberarsene. Non si poteva dire la stessa cosa per tutte le famiglie con cui negli anni aveva parlato. Nessuno dei parenti gli aveva parlato di Ekaterina con lo stesso calore con cui gli stavano raccontando di quanto Vitya fosse affezionato a Baba Yaga, il cagnone dell’istituto.

 

    Trovò il ragazzo all’esterno, seduto su una panca di cemento a guardare la sera già lunga di aprile, sporcata dai palazzi in costruzione, e il prato ancora macchiato di neve.

    – Verrò a San Pietroburgo? – chiese.

    – Non subito. Ci sono una marea di carte da fare. A fine estate, forse.

    – Va bene.

    Vitya lo stava guardando concentrato, col suo viso ancora da bambino tutto serio e una marea di domande e aspettative dietro gli occhi enormi.

    – Mettiamo le cose in chiaro – disse Yakov. – Vivrai in casa mia, ma io non sarò una sorta di padre o di amico per te. Sono il tuo tecnico. Di più, sono il padrone del tuo destino. Se non stai alle regole che ti imporrò, tornerai qui. Se non sarai all’altezza, tornerai qui. Se ti farai male al punto di non poter più pattinare decentemente, tornerai qui. E non mi importa se non vuoi fare il meccanico o l’elettricista. A me interessi solo per come pattini e per come e quanto vinci. Se non sei in grado di vincere non mi interessi. Quali che siano le cose che tu ti aspetti, io sono solo questo. Intesi?

    L’espressione del ragazzo era indecifrabile. Era stato troppo duro? Stava per mettersi a piangere? Era un bambino che lui stava portando via dal mondo che aveva sempre conosciuto, era davvero il caso di ringhiargli contro in quel modo?

    Ma il ragazzo sorrise.

    – Io, però, ho una richiesta da fare – disse.

    – Sarebbe?

    – Posso farmi crescere i capelli? Più lunghi di così non me li fanno tenere. – disse, toccandosi le ciocche che gli arrivavano appena sotto le orecchie.

    Yakov sospirò.

    – A me importa solo che tu vinca.

    – Allora vincerò.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Eccoci entrati nella seconda parte della storia. È passato un anno dal capitolo precedente e Victor vive a San Pietroburgo ormai da più di sei mesi. Sarà riuscito ad ambientarsi?



San Pietroburgo – Aprile 2002

 

    Yakov guardò con soddisfazione i suoi atleti che, a turno, provavano le coreografie che stavano preparando per la nuova stagione.

    Il primo fu Georgi. 

    Il ragazzo se l’era cavata bene, per essere la sua prima stagione da juniores. Terzo al campionato nazionale, sedicesimo agli europei. 

    – Un po’ più di grinta, che diamine, è un’aquila quella che stai interpretando, non un piccione! – gli gridò l’allenatore.

    Georgi annuì e riprese da capo i movimenti. No, non aveva il guizzo degli altri, ma sopperiva con l’impegno. Alla lunga, tra talento e impegno, non era detto che fosse il primo a prevalere. Il fatto che ci fossero altri davanti a lui non lo aveva scoraggiato, anzi. Lui era uno che continuava sulla propria strada, leggeva i suoi libri, guardava i suoi film e si innamorava ogni tre mesi di una ragazza nuova, solo per evitare di pensare a Ekaterina. Rifaceva gli esercizi tutte le volte che gli veniva detto, rispettava con scrupolo fin eccessivo la dieta, ascoltava Yakov come se fosse un dio sceso in terra. Allenarlo era quasi noioso.

    – Avanti Kirill! – l’allenatore chiamò il secondo atleta.

    Lui, certo non era noioso da allenare. Era aggressivo, umorale e, almeno per il momento, il migliore. Aveva fatto a pugni due volte con il compagno di stanza, uno nuovo, prima che Yakov riuscisse a convincere il direttore del pensionato a metterlo in una singola. Era il campione nazionale juniores ed era arrivato secondo agli europei. Come l’allenatore aveva previsto, l’arrivo di Victor in pista gli aveva fatto bene, almeno atleticamente. Forse per la prima volta da che aveva messo i pattini ai piedi, aveva visto la propria supremazia insidiata da vicino e aveva scoperto che le vittorie non erano così scontate. Adesso pattinava con un’espressione corrucciata, adatta al pezzo che stava preparando, in cui interpretava un giovane soldato, e gli occhi castani ardevano in quella particolare luce che ha chi è affamato di vittorie. Bene. Si muoveva con precisione e il pezzo gli cascava a pennello. Quanto al resto, quando vengono messi due atleti di uguale talento a stretto contatto, possono accadere due cose. O diventano grandi amici, o si odiano. E Kirill odiava Victor, con tutte le sue forze. Il contrario non era così facile da stabilire, poiché Yakov, in nove mesi di convivenza, ancora faticava a decriptare il vero carattere del siberiano.

    Vitya era, per certi versi, ancora un enigma.

    Nessuna delle fosche previsioni di chi, Dimitri in testa, lo avevano sconsigliato di prenderselo in casa, si erano avverate. Anzi, era come avere un gatto indipendente e pulito. Si alzava alle sei, che ci fosse oppure no allenamento, rassettava la propria camera e prima delle dieci di sera dormiva. Si entusiasmava per ogni sorta di sciocchezza e l’unica cosa che Yakov aveva capito che non andava fatta era lasciarlo con del denaro quando c’erano fiere, mercatini o bancarelle di qualsiasi tipo. Era già tornato a casa con un pesce rosso, deceduto in pochi giorni perché poi il ragazzo non si era ricordato di dargli da mangiare, con una collana di plastica per Lilia, dei terribili guanti tigrati che Ekaterina gli aveva fatto gettare via il giorno stesso e tre vecchie fotografie ammuffite dei tempi dello zar costatigli tutto il denaro che secondo Yakov doveva bastargli per un mese. Si era affezionato al portafazzoletti di peluche a forma di cagnolino che l’allenatore gli aveva fatto trovare in camera, che si portava dietro ovunque come un bambino con la metà dei suoi anni, ma non si era legato allo stesso modo alle persone. Era gentile, sorridente e in sostanza distante. Con un’unica eccezione. Era diventato l’ombra di Ekaterina e lei sembrava di aver ricevuto in dono un cucciolo da vezzeggiare.

    Nell’impossibilità di recuperare da un giorno all’altro tutto il guardaroba di un pre adolescente, Yakov aveva chiesto alla pattinatrice se per caso non avesse qualcosa di smesso del fratello da prestare. Ekaterina era arrivata con valige intere di abiti maschili firmati ed era rimasta tutta una domenica pomeriggio a spiegare a Victor come abbinarli e in quali occasioni andassero indossati. Da quel momento, con grande disperazione di Georgi, che in un anno non era mai riuscito a completare un discorso con Ekaterina, i due erano diventati inseparabili. Lei aveva deciso di trasformare il ragazzetto sperduto in un membro dell’alta società e lui era entusiasta di farsi addestrare. Vitya ascoltava la musica, guardava i film e quanto meno provava a leggere i libri che lei gli indicava. Da che Ekaterina gli aveva detto che sarebbe stato imperdonabile non passare l’anno scolastico si era persino messo a studiare, anche se con risultati alterni.

    Sul ghiaccio si era chissà come impadronito della particolare eleganza di Ekaterina, una cosa che in tutta onestà Yakov riteneva impossibile, che univa alla crescente potenza muscolare in un mix che l’allenatore iniziava a sospettare potesse essere unico. Ma con i pattini ai piedi Vitya era un ribelle. Negli ultimi anni a Salechard doveva necessariamente essere stato allenatore di se stesso e adesso non gli importava quante medaglie avesse vinto o fatto vincere Yakov. Doveva discutere quali elementi tecnici inserire, come farli, per non parlare del tono paritario che assumeva con Lilia quando lei vestiva i panni di coreografa. Non c’era nulla da fare, alle nazionali era arrivato secondo, perché aveva a tutti costi voluto inserire una combinazione che ancora non padroneggiava. Era caduto e questo probabilmente aveva evitato che Kirill si suicidasse in bagno. Yakov in tutta onestà non sapeva fino a che punto quell’istinto a superare i propri limiti andasse represso perché quella era la materia di cui erano fatti i record. O i brutti infortuni. Non aveva potuto portarlo agli Europei. All’ultimo momento era mancata una delle infinite firme necessarie per far espatriare un ragazzo in affido o, più probabilmente, era mancata una mazzetta. Ma, almeno, Yakov aveva imparato. Nella prossima stagione, se tutto fosse andato bene, con la coreografia che stava provando, il ragazzo avrebbe mostrato la propria esistenza a tutto il mondo.

    

    – Basta, sono stanca – disse Ekaterina, dopo aver provato un paio di volte il proprio pezzo.

    – Come sarebbe a dire “sono stanca”? – chiese Yakov.

    – Questo – replicò la pattinatrice, portandosi al bordo pista e guardando oltre le vetrate gli alberi che iniziavano appena ad aprirsi alla primavera. – Sono stanca. Mi fa male tutto e ho sonno.

    Non era da Ekaterina lamentarsi così.

    – Non abbiamo ancora iniziato la parte seria – replicò il tecnico.

    – Mi sono già allenata in palestra questa mattina. Mi fa male tutto.

    – Abituati, sono i ritmi dei professionisti – disse Yakov.    

    Il salto da juniores a senior era duro per tutti. Sopratutto se ci si portava sulle spalle il peso delle aspettative dovuto a un mondiale vinto di potenza. La vita degli atleti era un susseguirsi di allenamenti e fatica intervallati da fisioterapia, massaggi e dolore. Una volta non era richiesto null’altro. Adesso, nel così detto mondo globalizzato, ci si aspettava anche un atleta indirizzato a una carriera internazionale sapesse come muoversi, parlare quanto meno due lingue, abbozzare una risposta a domande che nulla avevano a che fare con lo sport, non rimaneva molto tempo per il riposo o per qualsiasi altra cosa. Ma era la loro vita.

    – E dopo l’allenamento hai ancora danza e… Inglese? – concluse l’allenatore.    

    – Francese – rispose la ragazza. – Ma non oggi. Basta.

    Senza chiedere ulteriori permessi, uscì dalla pista, sotto gli occhi perplessi dei tre ragazzi. Nessuno di loro si era mai neppure sognato di contraddire in quel modo Yakov. Questi sbuffò indeciso se forzare la situazione o lasciar correre.

    – Vai a farti un giro – concesse. – Ma non saltare la danza.

    Lei non rispose neppure, già avviata agli spogliatoi.

    I tre ragazzi si guardarono. Automaticamente, Kirill si mise della posizione di partenza, dando per scontato che si ripartisse da lui. Vitya invece si diresse all’uscita della pista, inseguendo Ekaterina.

    – Ragazzino, per te l’allenamento non è finito – gli gridò Yakov.

    Vitya scosse il capo, facendo ondeggiare i capelli che gli arrivavano già quasi alle spalle, e proseguì, imperterrito.

    – Non sei il suo cagnolino e non puoi saltare tre quarti di allenamento!

    Vitya, però, si limitò a girarsi verso di lui, sorridergli quasi a scusarsi, e a proseguire.

    Era un ammutinamento bello e buono. Peggio. Ekaterina era una ragazza e aveva vinto il mondiale, che gli altri tre la considerassero una creatura diversa da loro, non obbligata a seguire le loro stesse regole poteva starci. Kirill, Georgi e Victor, però, dovevano percepirsi come uguali e già non era facile, considerando che uno dei tre viveva nella stessa casa dell’allenatore. Yakov aveva già sentito Kirill lamentarsi del fatto che Victor era migliorato così tanto perché lui gli dedicava più attenzioni. Cosa che, per altro, non era del tutto vera né del tutto falsa. Yakov faceva il proprio lavoro, alla sera visionava le riprese delle competizioni degli avversari, discuteva di coreografie con Lilia. Vitya senza dubbio respirava ventiquattrore al giorno il pattinaggio, aveva accesso a tutti i testi e tutti i video sull’argomento, mentre Kirill, a quanto ne sapeva Yakov, passava le proprie sere a cercare di evitare scherzi sempre più pesanti da parte degli altri ragazzi del pensionato. Ci mancava solo che vedesse Victor uscire vincitore da uno scontro diretto.

    – Un quarto d’ora di pausa per tutti. – si inserì Dimitri, che era in un angolo della pista con il gruppetto di bambine sotto i dieci anni che seguiva. – Ho bisogno di più spazio per le mie principesse.

    Yakov scosse il capo. Dimitri era troppo tenero con i ragazzi. A neppure trent’anni aveva ancora ricordi troppo vividi di quand’era dall’altra parte della barricata. Se avesse continuato così, non avrebbe mai potuto gestire atleti sopra i dieci anni. Lui, d’altro canto, iniziava a non ricordare più cosa significasse essere adolescente. E, anche se lo faceva, erano ricordi di un’altra epoca. A neppure cinquant’anni a volte si sentiva un residuato di un mondo finito, incapace di adattarsi all’evoluzione troppo rapida dei tempi.

 

 

 

    Victor trovò Ekaterina seduta sulla panchina di pietra del giardinetto di fronte al palaghiaccio.

    C’era un sacco di pietra, lì a San Pietroburgo. A Salechard era tutto di cemento o di legno, le strutture delle fabbriche erano di metallo. Non c’era quasi nulla che avesse più di trent’anni. A San Pietroburgo era tutto vecchio, durevole, scolpito. Nessuno si sognava di dipingere i palazzi di rosso o di blu, almeno non lì, o nel centro. Era una città più bella, ma per certi versi più fredda e respingente, di quella da cui proveniva. Ekaterina sembrava l’anima della città nel corpo di un’adolescente. Bella di una bellezza antica, che avrebbe incantato in ogni tempo e in ogni luogo, fatta di contrasti, la pelle chiarissima con i capelli neri, il corpo dall’apparenza esile che nascondeva la forza della campionessa. Come la sua città, aveva un’eleganza fredda, un’alterigia un po’ sprezzante che faceva dimenticare il fatto che Ekaterina non ridesse quasi mai. Persino Kirill sorrideva più di lei.

    – Cosa succede? – le chiese, sedendosi al suo fianco.

    Lei sobbalzò, ma accettò la sua presenza, come si fa con un cane o un gatto inopportuno.

    – Niente. Sono stanca.

    – Non ti ho mai sentito lamentarti, prima.

    – Aspetta di preparati a passare nei senior – Ekateria sospirò. – Ho scoperto muscoli che neppure sapevo di avere. Ho sempre sonno e ho sempre fame. 

    – Anch’io ho sempre sonno e sempre fame. Da sempre.

    Ekaterina gli passò una mano tra i capelli.

    – Sei carino, ragazzino, ma non sai di cosa parli – disse. – Ieri era il compleanno di una mia amica. Alla festa c’erano ragazze che conosco da una vita e quasi non capivo di cosa parlavano. Studio a casa, non esco mai con loro, non conosco nessuno dei loro fidanzati. Non ho potuto mangiare quasi niente di quello che c’era, neppure la torta. A mezzanotte sono venuti a prendermi, mentre loro uscivano per andare in discoteca… Loro pensano che io giri il mondo, che veda chissà cosa, che faccia chissà che, ma vedo solo dei palaghiacci, che sono tutti uguali, in tutto il mondo.

    Aveva ragione, lui non sapeva di cosa lei stesse parlando. In quei pochi mesi la sua vita era cambiata come mai prima. Ogni volta che girava un angolo si imbatteva in qualcosa che non conosceva, a cui non sapeva come reagire. Per la maggior parte erano novità meravigliose e non gliene importava molto se rimaneva imbambolato a fissare estasiato cose che per tutti erano scontate. Era bellissimo vivere in un mondo che riservava sorprese ad ogni angolo, fossero anche solo le caramelle alla menta del distributore del palazzetto. Poi c’erano anche le cose come Ekaterina, del tutto spiazzanti. Finestre socchiuse su mondi splendidi e alieni, come nei fantasy di cui Georgi parlava sempre, in cui nessuno, però, reagiva come Victor si sarebbe aspettato.

    – Vorresti vivere come le tue amiche? – provò. – Nessuna di loro ha vinto un campionato mondiale.

    – E sai cosa gliene importa, a loro – replicò lei. – Non riescono a capire come ci si possa allenare così tanto, tutti i giorni, per esibizioni che durano pochi minuti. Uno stupido spreco di tempo. E un titolo del mondo dura un anno. 365 giorni dopo è solo una patacca che prende polvere. Tra quattro, cinque anni, magari una delle bimbette che allena Dimitri sarà al posto mio e io sarò zoppa, come Ivan. Pensaci bene, ragazzino, nel letto in cui dormi stava un ragazzo che era bravo quanto te e che adesso controlla macchine che fanno i bulloni alla periferia di Mosca.

    Victor annuì.

    Aveva sentito parlare di Ivan. Aveva dormito nella sua camera e respirato i suoi stessi sogni. Yakov aveva commentato anche con lui, alla sera, i filmati appena arrivati da gare o esibizioni sparse per il mondo. Se il tecnico l’aveva ospitato, voleva dire che anche lui non se la passava molto bene, prima. E anche lui si era sentito altrettanto speciale e predestinato. Solo che non era vero. E poteva non rivelarsi vero anche per lui.

    – Non importa – disse, per scacciare quel pensiero. – Anche se dovessi ritirarti domani, tra dieci, anche vent’anni la gente guarderà il video del tuo mondiale e ti troverà bellissima. Nessuno nel mondo del pattinaggio ti dimenticherà mai.

    – Non esiste solo il mondo del pattinaggio, ragazzino.

    – No, ma nessuno può dominare tutti i mondi. Io e te possiamo dominare questo.

    – Sei modesto, ultimo arrivato.

    – È una delle cose che non dovrei dire, vero? – domandò Victor, portandosi una mano alla bocca. – Non so mai cosa…

    Lei gli passò ancora la mano tra i capelli e poi sulla guancia.

    – Non sei modesto per niente, però sei davvero carino, ragazzino.

    La mano di Ekaterina era ancora sulla sua guancia, leggera, con le unghie blu come i suoi occhi. Occhi che erano troppo vicini, come tutto il suo viso da bambola di porcellana. Victor non arrossiva con facilità, ma pensava che, sotto il tocco di Ekaterina, il suo viso stesse per andare a fuoco.

    – Sei così carino che adesso ti darò un bacio – sussurrò la ragazza.

    Victor pensò per una frazione di secondo che forse era il caso di scappare. Perché lei era troppo bella, troppo diversa, troppo… Troppo tardi.

    Si ci avesse pensato, Victor si sarebbe aspettato un bacio da ragazzini, uno sfiorarsi appena delle labbra. Invece Ekaterina le stava succhiando, le sue labbra, socchiudendole. Ed era morbida e piacevole e non si poteva che lasciarla fare. E sperare che il mondo tornasse in asse. O che tutto continuasse così, per sempre.

    Lei staccò le mani dal suo viso, prese le sue e le appoggiò alla panchina di pietra, staccandosi.

    Victor non aveva idea di quale aspetto avesse, ma era lei ad avere le guance leggermente arrossate.

    – Non è il primo bacio che ricevi, ragazzino – disse. – Avrei preferito essere la prima.

    Adesso sicuramente Victor era arrossito.

    – È il primo bacio che sono contento di ricevere – mormorò, arretrando istintivamente verso il bordo della panchina.

    Non voleva domande. Ma Ekaterina non ne fece. Si limitò ad annuire.

    – La prima volta avevo dodici anni – sussurrò la ragazza. – Il socio di mio padre. Eravamo andati via un fine settimana con la sua famiglia. I suoi figli sono più piccoli di me… Come facevo a immaginare che fosse un porco?

    Victor non disse nulla, continuando a guardare le mani di lei, sopra alle proprie. Lui lo sapeva che era un porco, il dirigente della società sportiva di Salechard. Si era pagato con la propria disponibilità la partecipazione alle nazionali. Ed era andata bene così, visto che ora lui era lì e quell’uomo ancora in Siberia.

    Ekaterina gli prese il mento con la mano e lo obbligò a incontrare i suoi occhi.

    – Non devi dirmi niente, ragazzino. Non importa se veniamo da posti diversi. Noi siamo uguali.

    Lo erano? Con tutte le cose di cui Ekaterina parlava e che lui non conosceva? Erano cose che avevano importanza?

    – Sabato mio fratello fa una festa – proseguì la ragazza. – Ha detto che posso portare chi voglio, immagino speri in belle ragazze, ma vorrei che ci venissi tu.

 

 

    – Gli hai già fatto il discorso? – chiese Dimitri.

    Il quarto d’ora di pausa concordato era scaduto e i due allenatori si erano affacciati fuori dal palazzetto per cercare gli atleti fuggitivi, giusto in tempo per vedere Vitya e Ekaterina che si baciavano.

    – Il discorso? – mormorò Yakov, perplesso, poi capì. – Oh, dio, no!

    Toccava ai padri, quello, o hai fratelli maggiori… E quindi, supponeva, proprio a lui… Sbuffò. Ivan non gli aveva mai dato di quei problemi, ma c’era anche da dire che non era un adone, la sua bellezza la sprigionava solo in pista.

    – Dici che gli serve? Non è cresciuto in mezzo alle suore di clausura – provò a tergiversare.

    – Assicurati almeno che giri sempre con dei preservativi – continuò Dimitri, con un certo gusto per il metterlo a disagio. – Bellino com’è, dopo le gare le pattinatrici faranno a botte per portarselo a letto… Che invidia, a me non è mai successo.

    Yakov lo guardò male. Ma Dimitri aveva ragione. Portare in trasferta gli juniores, o anche i più giovani tra i senior era peggio che avere dei ragazzini in gita. Stavano tutti nello stesso albergo e alla sera, dopo le gare, avevano comunque più energia degli allenatori. Anche chiudendoli in camera a chiave, se volevano evadere lo facevano. Una volta lui era passato dalla finestra per raggiungere il party organizzato al piano di sotto, che non comprendeva donne, purtroppo, ma parecchia birra e fumo. 

    – Finché è marcato stretto da Ekaterina direi che non c’è concorrenza – ragionò.

    – Ma non sono nella stessa categoria e, sai l’occasione fa l’uomo ladro…

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Nel tragitto tra casa sua e quella della famiglia di Ekaterina, Yakov diede fondo a tutte le sue imprecazioni, in russo come in tutte le altre lingue che conosceva. E di alcune il suo vocabolario si limitava alle imprecazioni. La prima volta che lasciava uscire il ragazzino alla sera e quello si sentiva male. Sperando che non avesse bevuto. O fumato. Anche se per certi versi, per un atleta era meglio sperare in una sbornia, piuttosto che in un malanno. Magari non a quattordici anni, però.

    Trovò Vitya piegato in due, intento a buttar fuori anche l’anima, sopra un cespuglio sul retro dell’elegante palazzo in cui abitava la famiglia di Ekaterina. A tenergli la fronte non c’era la pattinatrice, ma un ragazzo alto sui diciotto anni che aveva i suoi stessi occhi blu. Occhi che si sgranarono in un viso che era la maschera dell’innocenza, appena si trovò davanti quello inferocito dell’allenatore.

    – Può aver fatto qualche tiro di spinello. Nulla di che – provò a giustificarsi. – Non pensavo di dover fare da balia a mia sorella o ai suoi amici.

    Quindi aveva fumato. E bevuto.

    – Comunque adesso prende un po’ d’aria e si riprende – continuò il ragazzo. – Vero che va già meglio, Vitya… Attento che quelle una volta erano le mie scarpe preferite.

    Il ragazzo provò ad alzare la testa, ma desistette e tornò alle prese con le proteste del suo stomaco. Se quel tipo, come si chiamava… Boris? fosse stato sottoposto in un modo qualsiasi all’autorità di Yakov si sarebbe preso un ceffone.

    – Tua sorella dov’è? – ringhiò.

    – In casa, ha mal di testa.

    Vitya si era inginocchiato a terra. A prescindere dall’età, i fisici dei pattinatori erano delicati, dovevano essere leggeri per saltare, con solo nervi e muscoli attaccati alle ossa. Si chiese se dovesse preoccuparsi sul serio.

    – Adesso tu vai a controllare come sta tua sorella. Sono minorenni. Se lei o il ragazzo finiscono al pronto soccorso ti becchi una denuncia.

    – No, si calmi… – biascicò il ragazzo. A quanto pareva Yakov era ancora bravo a far paura. – Avranno fatto qualche tiro e non sono abituati… Se lo sa mio padre mi ammazza.

    – Tuo padre non è un problema mio. Vai da lei. Subito.

    Boris fece per aggiungere qualcosa, ma in un rigurgito di saggezza ci ripensò e corse via.

    Yakov rimase a osservare Vitya che cercava di rimettersi in piedi.

    – Credi di riuscire ad arrivare all’auto? – gli chiese.

    Il ragazzo alzò il viso stravolto.

    – Sì, penso di sì.

    Aveva risposto alla stesso modo la prima volta che aveva tentato di fare il triplo Axel e si era quasi ammazzato.

    Non ci fu bisogno di portarlo al pronto soccorso. Bastò sbatterlo sotto la doccia e poi trascinarlo in cucina per fargli bere qualcosa di tiepido. Aveva una buona capacità di recupero, ma questo Yakov lo sapeva già.

    – Quindi, fammi capire, un ragazzo ti offre non sai neppure cosa da fumare e tu accetti? Dopo aver bevuto non si sa cosa che ti hanno messo nel bicchiere? – gli chiese Yakov.

    Vitya alzò dal tavolo della cucina quei suoi occhi dal colore indefinibile, tra l’azzurro, il verde e il grigio, nella sua migliore interpretazione del cane bastonato.

    – Lo stavano facendo tutti… Ekaterina voleva insegnarmi a ballare qualcosa di diverso da quello che si fa con Lilia, ma è intervenuto suo fratello, dicendo che eravamo troppo rigidi e qualcun altro ci ha detto che con due tiri ci saremmo sciolti… Poi lei ha finito per ballare con quel ragazzo e io…

    E tu per non pensare al fatto che avresti voluto uccidere quel tipo hai finito tutto quello che ti è stato messo in mano, terminò mentalmente Yakov. Che cazzo si diceva a un ragazzino, in queste situazioni? Ivan era stato la disciplina in persona e comunque lui ce l’aveva un padre adibito ai cazziatoni. 

    – Senti, ragazzino, dovresti averlo già capito da un po’ che nella vita ci vuole un po’ di giudizio – sbuffò. – Non posso portarti in giro per il mondo con l’idea che questa scena patetica si ripeta, magari prima di una gara. Sono stato chiaro?

    Sul viso di Vitya si dipinse un’espressione che Yakov non gli aveva mai visto, qualcosa di molto simile al panico. Non piangeva, ma gli tremavano leggermente le labbra.

    – Mi stai mandando via? – chiese il ragazzo.

    – No, ti porto in pista domani mattina alle otto. Così ti rendi conto da te di quello che ho detto.

    Un istante dopo, Yakov si trovò stretto in un abbraccio, come non gli capitava… Beh, forse da che aveva l’età del ragazzo. Nell’incapacità di capire come dovesse reagire, si trovò a stringerlo a sua volta tra le braccia.

    – Basta così, ragazzino, non è morto nessuno. Fammi sentire come sta quell’altra pazza.

 

    San Pietroburgo – Maggio 2002

 

    – Adesso abbiamo smesso di giocare – disse Yakov ai suoi tre atleti, riuniti in una delle salette del palaghiaccio. – Sono arrivate le assegnazioni per il Grand Prix Juniores. L’anno scorso avete fatto una stagione di prova. Adesso si fa sul serio e mi aspetto che uno di voi tre vinca il Grand Prix.

    Georgi, Kirill e Vitya annuirono all’unisono, con gli sguardi seri. Georgi appollaiato sulla sedia in una di quelle sue posizioni assurde in cui gli arti si attorcigliavano tra loro ma da cui in qualche modo sapeva sempre districarsi, Kirill rigido e attento, pronto a balzare sull’attenti, Vitya in apparenza rilassato, ma con le mani che tormentavano il portafazzoletti di peluche. Bene, pensò Yakov, stavano prendendo la cosa sul serio. Il Grand Prix apriva la stagione internazionale e psicologicamente era un banco di prova fondamentale. Per gli juniores i ritmi erano un po’ meno serrati che per i senior, ma si veniva comunque sballottati per il mondo, costretti a gareggiare ancora sottosopra per il fuso orario e obbligati a dei testa a testa con gli altri atleti. Per esperienza, Yakov sapeva che le rivalità peggiori nascevano durante il Grand Prix. E, in questo senso, le assegnazioni non li avevano favoriti.

    – Partiamo subito con la prima tappa – spiegò. – Sia Kirill che Vitya vi parteciperanno, in Francia, a Courchevel, dal 21 al 25 agosto

    I due ragazzi si guardarono, Vitya un po’ spaesato, Kirill minaccioso.

    – Georgi andrà invece negli Stati Uniti un mese dopo e poi ognuno di voi si farà una tappa diversa, con mia grande gioia, che a ottobre non faccio un fine settimana che sia uno a casa, Kirill in Germania, Vitya in Cina e Georgi in Italia. Tutti e tre avete le carte per arrivare alla finale e sarei molto deluso di scoprire che il vincitore non sta adesso qui in questa stanza.

    Georgi sospirò, stirandosi le braccia.

    – Io mi chiamo fuori da questo – disse. – Farò del mio meglio e voglio entrare in finale, ma per vincere devo far fuori i miei compagni di allenamento.

    – Puoi vederla come una sfortuna o una fortuna, Georgi – replicò Yakov, serio. – Se fossi nato in un qualsiasi altro stato del mondo saresti il migliore della tua nazione. Ma qui ti confronti ogni giorno con il meglio. Se riesci a tenere il loro passo, riesci a tenere il passo di chiunque e non ci sarà nessuno, là fuori, che potrà mai intimidirti.

    Il ragazzo fece un sorriso poco convinto nel volto magro e affilato. Non era facile per niente la sua posizione. Lavorava più degli altri due, studiava più degli altri due, era l’unico ad avere dei voti decenti a scuola, e comunque non riusciva a primeggiare. Non era ancora riuscito a fare un triplo Axel come si doveva, mentre gli altri pensavano già a mettevano già nelle combinazioni. Yakov al posto suo avrebbe pensato seriamente ad avvelenare il cibo della concorrenza e invece Georgi cercava in tutti i modi di farsi amici le due primedonne. 

    Kirill invece sbuffò.    

    – Voglio modificare i programmi – disse. – Sono il più grande e il più bravo. Ho diritto a portare un programma più difficile di quello di Vitya.

    – Ah, sì? – replicò il tecnico. – I diritti voi tre ve li conquistate sul ghiaccio. Se potete fare una cosa dovete farla e poche storie. Mi aspetto di vedere il vostro meglio e solo la classifica finale ci dirà chi di voi è il più forte.

    Kirill sostenne il suo sguardo.

    – Vincerò io, non certo un bambino con il pupazzetto – sbuffò.

    – Hai qualcosa da dire, Vitya? – chiese Yakov.

    Il ragazzo era rimasto per tutto il tempo a fissare il peluche, ma ormai il tecnico lo conosceva abbastanza per sapere che stava ribollendo di rabbia.

    – Voglio partire nel libero con una combinazione con due tripli – disse, alzando lo sguardo. – Triplo Lutz e triplo Toe Loop.

    Yakov lo guardò perplesso.

    – Non è che sia proprio il tuo cavallo di battaglia, il Lutz – commentò. – Ma sei libero di provarci. Kirill?

    – Io lo faccio dopo l’Axel il triplo Toe Loop.

    Con una difficoltà ancora maggiore della combinazione proposta da Vitya.

    – Molto bene. La sfida è aperta.

    I due ragazzi si fissarono senza parlare.

    Nessuno dei due sarebbe progredito in quel modo senza l’altro. E tuttavia Yakov doveva capire anche quale fosse il momento di fermarli, per evitare che si distruggessero a vicenda.

    – Adesso filate a cambiarvi, vi aspetto in pista tra dieci minuti.

 

 

    Era in ritardo, ok. I dieci minuti erano passati e Victor avrebbe dovuto essere già in pista e non diretto ai distributori nell’atrio del palaghiaccio. È che aveva bisogno di schiarirsi le idee. E di caramelle alla menta. Poche cose non potevano essere migliorate dalle caramelle alla menta, quelle gommose, a forma di ditale, con la polvere di zucchero sopra. Ne teneva sempre un pacchetto infilato dentro al portafazzoletti, per averle a disposizione e evitare che gli venissero fregate. Non che ce ne fosse davvero il rischio, era solo una vecchia abitudine dei tempi in cui poteva trovarsi a scuola senza neanche l’ombra di un mozzicone di matita nell’astuccio. Si cacciò subito una caramella in bocca. Non aveva una gran voglia di andare in pista a schiantarsi con il Lutz. Era di gran lunga il salto che gli veniva peggio. Peggio perfino dell’Axel, che richiedeva più forza e concentrazione. Non avrebbe avuto davvero difficoltà, lui, a mettere a punto la combinazione che aveva proposto Kirill e questo era proprio il motivo per cui sapeva di doversi concentrare sul Lutz. Perché il Grand Prix voleva vincerlo. Non per battere Kirill. Non gliene importava niente di lui, non davvero, anche se sul momento poteva essere irritante.

    «Chi è quello?» avevano chiesto in molti, alle nazionali, la stagione precedente, quando era arrivato secondo. E lo avevano chiesto gli amici del fratello di Ekaterina, due settimane prima, alla festa. E le risposte che aveva sentito sussurrare erano una variazione del tema: «il siberiano. Vive con l’allenatore perché pare che il padre sia un poco di buono. Era in istituto». Non era una cosa che volesse rinnegare, ma non sopportava le illazioni che seguivano, sopratutto quelle che aveva sentito a casa di Ekaterina. «Tua sorella se lo porta in casa? Con tutto quello che si potrebbe portare via?». Non sarebbe stato molto più semplice se la risposta alla domanda «Chi è quello?» fosse diventata «Quello che ha vinto il Grand Prix Juniores al primo tentativo, a quattordici anni». Le illazioni sarebbero state diverse. «Yakov se lo tiene stretto, eh, il campioncino, non vuole neppure che stia in pensionato, vive con lui». «Ah, non era la stessa competizione che ha vinto anche tua sorella?». Sarebbe stato tutto più facile. E se avesse vinto abbastanza, a un certo punto non gliene sarebbe importato più niente a nessuno delle sue origini e certo avrebbero smesso di preoccuparsi per l’argenteria. Persino Yakov, i primi tempi, aveva tenuto tutti i cassetti e tutte le ante chiuse a chiave. Come se, per altro, appena arrivato a San Pietroburgo avesse già saputo come e dove rivendere gioielli e cucchiaini d’argento.

    – Eh, ragazzino, hai intenzione di ignorarmi ancora per molto?

    Victor sobbalzò, sentendo la voce di Ekaterina.

    Lei stava entrando in quel momento. Aveva indosso una banalissima tuta da allenamento, non era truccata, aveva i capelli raccolti in uno chignon e persino gli occhiali riposavista. Era l’Ekaterina che lui era abituato a vedere tutti i giorni, bellissima così com’era. Non la ragazza nell’abito scintillante, con le labbra virate al violetto e le ciglia lunghe il doppio della sera della festa, con cui non sapeva bene come interagire. Non sapeva neppure dire se gli piacesse. Di certo non quanto gli piaceva ora.

    – Non ti sto ignorando, pensavo che non mi volessi tra i piedi, non quando hai… Igor?

    Il ragazzo con cui aveva ballato, che era al primo anno di università e certo non indossava vestiti di seconda mano. Lui era rimasto a guardarli inebetito, mentre Boris, con quei suoi occhi così uguali a quelli della sorella, lo prendeva in giro e gli passava quella maledetta canna.

    Ekaterina si strinse nelle spalle.

    – Non sono abbastanza elegante per lui. E non ho abbastanza tette – disse, accennando al petto quasi piatto.

    – A me piaci così.

    Gli si avvicinò e gli passò una mano sulla guancia.

    – Bene. Quindi vedi di smetterla di ignorarmi. Io odio essere ignorata.

 

 

 

    – Ok, basta così. Andate a cambiarvi tutti e due – disse Yakov.

    L’allenamento in pista sarebbe dovuto terminare venti minuti prima, ma né Kirill né Vitya volevano mollare. Entrambi avevano deciso di inserire una combinazione che partiva con un salto che non dominavano ancora del tutto e entrambi avevano deciso che lo avrebbero padroneggiato prima del rivale. Erano dieci giorni che provano e riprovavano con ostinazione. Vitya aveva allungato anche gli allenamenti in palestra e quelli di danza, per aumentare potenza ed elasticità. Si era beccato un voto pessimo perché si era addormentato durante una lezione e la sera prima era praticamente crollato sulla cena. Kirill stava tenendo più o meno i suoi stessi ritmi, ma aveva più resistenza. Prima che Yakov terminasse di parlare era già partito per il salto. Un triplo Axel perfetto, da sei tondo, con atterraggio impeccabile. Georgi, a bordo pista, applaudì di cuore e anche Ekaterina, che stava provando dei passi sotto la supervisione di Dimitri, accennò a un mezzo inchino. Quello era un triplo Axel da campionato del mondo senior.

    – E con questo possiamo dire di aver chiuso in bellezza – approvò Yakov.

    Era bello vedere Kirill soddisfatto, per una volta. Non era simpatico, era un dato di fatto, ma non era colpa sua. Yakov doveva essere oggettivo. Era un ottimo pattinatore e bisognava che lo sapesse.

    – Andiamocene – disse.

    Vitya, però, non aveva nessuna intenzione di uscire dalla pista.

    – Un ultimo tentativo e arrivo.

    Aveva saltato maluccio ed era caduto un paio di volte. Ma dare la vittoria morale della giornata a Kirill gli scocciava da morire.

    – Ultimo – concesse Yakov.

    Errore. Il ragazzo era stanco e ammaccato. Non avrebbe dovuto permettergli di saltare ancora.

    Il tecnico vide subito la partenza fuori asse, il tentativo maldestro di completare le rotazioni e poi la caduta, con le gambe una sotto l’altra… Una caduta così simile a quella di Ivan che per un istante Yakov si sentì mancare.

    – Non riesco ad alzarmi – disse Vitya un attimo dopo.

    Aveva le mani appoggiate sul ghiaccio e la fronte corrucciata, con i capelli lunghi che gli ricadevano sul viso. Era atterrato col sedere sul pattino destro e caviglia e ginocchio…

    – Datti un attimo, può essere solo la botta – disse Yakov, con una sicurezza che non sentiva.

    Kirill era solo a pochi metri da lui, lo guardava imbambolato, ma col cavolo che faceva un movimento per dargli una mano. Fortuna che Dimitri era in pista con i pattini ai piedi e si stava già muovendo. Raggiunse Vitya in pochi movimenti e controllò immediatamente la gamba.

    – È una distorsione al ginocchio. Farà male, ma non è nulla che non possa guarire – disse un attimo dopo.

    – Sei sicuro? – mormorò il ragazzo, con voce flebile.

    Aveva la stessa espressione di quella sera, il terrore che fosse tutto finito.

    – Cos’è, è la prima volta che ti fai male? – chiese Kirill, che finalmente si era degnato di avvicinarsi.

    Vitya non replicò. Era la prima volta che Yakov lo vedeva davvero a un passo dalle lacrime.

 

    – È davvero terrorizzato, non l’ho mai visto così – sussurrò Ekaterina.

    Yakov annuì. Si fidava di Dimitri, ma aveva comunque chiamato il medico che seguiva i ragazzi e in quel momento si stava occupando di Vitya nell’infermeria del palaghiaccio.

    – Non lo facevo un piagnone – disse ancora la ragazza.

    – Non è per l’infortunio in sé – replicò Yakov. – Dorme nella stessa camera di Ivan e lui non ha nulla a cui tornare.

    Ekaterina annuì.

    – È così brutto là dove stava? – chiese.

    – La Russia è piena di posti peggiori in cui crescere – rispose il tecnico. – Ma non è il posto per lui, non dopo aver provato tutto questo.

    Yakov un paio di volte aveva chiamato Ivan. Il ragazzo si era sempre sforzato di mostrarsi positivo. Sua madre stava meglio, il padre lavorava di nuovo. Nella fabbrica apprezzavano la sua precisione, l’abitudine alla fatica. Si era fatto degli amici, usciva anche con una ragazza. Se la sarebbe cavata. Sarebbe diventato magari capo reparto, magari meglio. Si sarebbe fatto una famiglia, avrebbe comprato un appartamento in un casermone di periferia. Lui che, nella mente di Yakov, a febbraio di quell’anno avrebbe dovuto vincere le olimpiadi. E Ivan era solido, ancorato alla realtà e con una buona dose di senso pratico. Vitya in una fabbrica sarebbe durato quindici giorni.

    Sospirando, il tecnico si mosse verso l’infermeria. Incrociò il medico sulle scale.

    – Lo stai spremendo troppo quel ragazzo – gli disse l’uomo, sistemandosi gli occhiali. – Il ginocchio torna a posto in due settimane di riposo, il resto sono solo lividi. Sta piangendo come una fontana, però, ma credo sia sollievo. È crollato quando ha capito che davvero sarebbe andato tutto a posto. Non sono ritmi per ragazzi di quest’età. Dovresti farli seguire anche sul piano psicologico. Quasi tutte le squadre europee, di qualsiasi disciplina, ne hanno uno.

    Yakov grugnì qualcosa di incomprensibile. Odiava gli psicologi.

    – Una volta non avevamo di questi problemi – ringhiò.

    – Erano altri tempi. Si veniva su indottrinati, questa è una generazione persa, nati in mezzo al guado, non più sovietici, non ancora russi. 

    Il tecnico scosse il capo. Sapeva che il medico aveva ragione, a sessantacinque anni aveva visto generazioni di sportivi. Era anche uno dei pochi che vedesse gli atleti come individui e non come macchine da medaglie. Evitava di somministrare certi farmaci che in Russia giravano con troppa facilità e Yakov sapeva che quando si fosse ritirato avrebbe perso un tassello fondamentale del proprio staff. E tuttavia gli psicologi per lui rimanevano quelli che ti dicevano che era normale sognare di portarsi a letto la propria madre.

    Vitya era ancora in infermeria e Yakov si fermò appena fuori dalla porta socchiusa, da dove poteva sbirciare dentro senza farsi vedere.

    Il ragazzo era sul lettino, il ginocchio era stato fasciato e inserito in un tutore, anche la caviglia era fasciata e aveva un aspetto gonfio. Lui si stava asciugando quasi con rabbia le lacrime che suo malgrado continuavano a colargli dagli occhi, estraendo uno dopo l’altro i fazzoletti dal cagnolino. Ekaterina gli teneva una mano sulla spalla e guardava preoccupata ora lui e ora Dimitri, in piedi al suo fianco. Con sorpresa, Yakov si accorse che anche Kirill era nella stanza, in un angolo, come fosse lì per caso, ma non riusciva a staccare gli occhi dal compagno di allenamento.

    – Odio farmi vedere così – stava dicendo Vitya.

    Yakov non stentava a crederlo, il ragazzo era vanitoso come un gatto. Forse era meglio rimanere lì, senza imporgli anche la propria presenza.

    – Guarda che lui non ti lascerà andare – disse Dimitri. – Non importa cosa ti abbia detto o quanto abbia ringhiato. Di una cosa potete essere certi, tutti quanti, qualsiasi problema abbiate, qualsiasi cosa vi possa capitare, Yakov non vi lascerà andare, a meno che non siate voi a voler partire.

    – Ma Ivan… – iniziò Kirill.

    Tutti avevano sentito la sua storia. E ne erano terrorizzati.

    – Non poteva più pattinare – raccontò Dimitri. – E voleva tornare dalla sua famiglia. Chi pensate che abbia smosso mari e monti per trovare qualcuno disposto ad assumerlo da un giorno all’altro e con stipendio pieno? Io ho trovato il contatto, ma è stato lui a ungere gli ingranaggi. E se invece Ivan avesse voluto studiare si sarebbe trovata un’altra soluzione.

    Anche dalla sua posizione, Yakov vide l’incredulità negli occhi dei ragazzi. Bene, quindi lo pensavano davvero senza cuore? Beh, lui ci si metteva davvero d’impegno perché lo pensassero. Ma non era così bello constatare che l’obiettivo era stato raggiunto.

    – So di cosa parlo – continuò Dimitri. – Io sono uno di quelli che non ce l’hanno fatta. Ho avuto sfiga, pura e semplice sfiga. Dovevo andare a Lillehammer. Non avrei vinto, questo no, ma avevo vent’anni ed era un sogno che si realizzava. Ma mi sono fatto male durante quella stagione, una brutta caduta in una tappa del Grand Prix. Ho dovuto essere operato e hanno sbagliato qualcosa. Ho provato a imbottirmi di farmaci, ma non c’è stato niente da fare, la schiena non regge più il contraccolpo dei salti. Avevo vent’anni, il che vuol dire essere giovane per un sacco di cose, ma vecchio per altre. Non avevo uno straccio di titolo di studio, tanto per dirne una, allora non si dava peso a queste cose. Yakov non era il mio allenatore, anche se ovviamente nell’ambiente ci si conosceva tutti e mi ha preso su, come si prende un cucciolo abbandonato, offrendomi un lavoro che proprio allora non sapevo fare, ed eccomi qui, otto anni dopo. Credetemi, ragazzi, vi sembreranno tanto fighi gli europei e gli americani, con i loro tecnici a contratto, con le loro università, ma in tutto il mondo non potevate capitare meglio che con Yakov.

    L’allenatore fece un passo indietro. Adesso, pensò, non era proprio il caso di entrare. 

    – Grazie – disse più tardi a Dimitri, quando anche lui fu riemerso dall’infermeria. – Ho sentito quello che hai detto hai ragazzi.

    – E di che? Ho detto la verità – replicò l’uomo, facendo ondeggiare i capelli lunghi, che portava legati in una coda.

    – Pensi che sia il caso di farli seguire da uno psicologo, come fanno in Europa e in America?

    – Dio, no. Così quello convince Kirill che andare con gli uomini sia bello e normale!

    Yakov si strinse nelle spalle.

    – Guarda che per un tecnico un atleta gay è più facile da gestire, lo puoi sempre ricattare.

    – Sì, ma io nella stessa stanza con uno di quelli non ci voglio stare. Kirill è ancora salvabile e di certo non voglio che qualcuno lo incoraggi!

    – Dimitri, noi siamo cresciuti con la consapevolezza di essere soldati. Non era bello, non era giusto, ma sapevamo cos’eravamo. Loro non lo sanno. Combattono, senza neppure la consapevolezza della battaglia.

    L’uomo più giovane scosse il capo.

    – Lo scopriranno. Cadranno, si faranno male. Qualcuno lo perderemo come atleta. Ma tutti diventeranno adulti.


NOTE A MARGINE
Questo racconto non è stato inizialmente pensato per EFP, quindi dividerlo in capitoli è un po' problematico. Sto anndo a casaccio, interrompendo dove mi sembra un buon punto per farlo, ma inevitabilmente alcuni saranno molto più brevi di altri.

Qualche appunto sportivo, Victor, Georgi e Kirill fanno parte della stessa generazione atletica la cui unica (o quasi) esponente ancora competitiva è Carolina Kostern, che avrebbero in effetti potuto incontrare nella tappa francese del Grand Prix Juniores.
Rispetto ad allora il sistema di punteggi è stato rivoltato come un calzino e le combinazioni progettate da Victor e Kirill sono oggi (quasi) normale amministrazione, ma per quegli anni erano in massimo che si riusciva a fare. Devo qui un ringraziamento particolare alla mia "spacciatrice di pattinaggio" per aver scomposto alcune esibizioni juniores d'annata per ricostruire un programma credibile per i nostri baby pattinatori.

Infine, un grazie sincero a chi sta seguendo questa storia anomala, che procede lenta nel seguire i contorni delle ombre delle vite dei giovani campioni.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


– Quasi quasi ti invidio – sospirò Ekaterina, leccando il proprio gelato, minuscolo e alla frutta. – Ancora dieci giorni di riposo assoluto. Vorrei quasi farmi male io…

    – Non dire sciocchezze – replicò Victor, secco.

    Era sabato pomeriggio e il ragazzo aveva zoppicato dietro a Ekaterina fino al centro, dove finalmente lei aveva accettato di fermarsi su una panchina del parco dietro la cattedrale. Aveva caldo, odiava la stampella, il tutore, odiava stare lontano dalla pista, sentiva la mancanza dei pattini ai piedi quasi gli avessero amputato un arto, e odiava dover farsi offrire il gelato da Ekaterina. Non che Yakov non gli passasse dei soldi, se glieli chiedeva, ma aveva dimenticato di farlo, o forse lo aveva evitato, perché era sempre un momento imbarazzante. Doveva tornare al più presto in pista. E doveva vincere. Da juniores con le vittorie si iniziava a guadagnare. Insomma, non si poteva in nessun modo sentirsi a proprio agio con una bella ragazza se non si aveva neppure la possibilità di offrirle un gelato o si indossavano i vestiti smessi di suo fratello. Mentre si allenava non pensava mai a quelle cose, al mondo fuori dal palazzetto. Anzi, era più giusto dire che non pensava. Stando fermo, però, i pensieri riemergevano. E non sempre era un bene.

    Lei guardò l’orologio.

    – Andiamo a casa mia – propose la ragazza.

    Abitava nel pieno centro cittadino, in un palazzo antico proprio sulla Prospettiva Nevskij.

    – A quest’ora non c’è nessuno, mio fratello è a studiare da un amico, mio padre è via per lavoro e mamma è col suo amante – spiegò, come fosse la cosa più normale del mondo.

    Victor la guardò, senza commentare.

    – Le famiglie sono cose complicate, ragazzino – disse, stringendosi nelle spalle. – Sopratutto le famiglie ricche, dove ognuno ha il suo ruolo da interpretare. Io sono quella graziosa da esporre, come la ballerina di un carillon, e un giorno da far sposare a qualcuno che voglia imparentarsi con gli affari di papà. 

 

    Victor non era mai stato nella stanza che un adolescente aveva abitato fin dalla prima infanzia. C’era tutto lo stratificarsi dell’esistenza di Ekaterina, lì. Dei peluche sui toni del rosa abitavano il fondo del grande letto. Sugli scaffali, serie di libri di scuola, alcuni consumati, altri quasi nuovi. Quaderni in disordine sulla scrivania di legno scuro sopra cui era appesa una lavagnetta di sughero dove delle puntine dalla capocchia in plastica colorata tenevano ferme delle foto. Ekaterina da bambina a delle competizioni, o sul podio, sui dodici anni, con delle amiche in un parco divertimenti, con un abito lungo nero e il volto truccato a una qualche cerimonia. Sulle ante degli armadi erano appesi poster raffiguranti cantanti che lui non conosceva. Era un territorio del tutto nuovo, per lui, pieno di fascino e di pericolo.

    Su uno scaffale c’era uno stereo nuovissimo, che la ragazza accese con un gesto noncurante. Ne uscì della musica ad altissimo volume, che fece sobbalzare Victor.

    – Che roba è? – chiese, quasi urlando.

    Ekaterina rise.

    – Non è possibile che non li conosci! È musica vecchissima, i Nirvana, un cd di mio fratello.

    Victor scosse il capo, a disagio.

    – Da Yakov e Lilia solo classica, vero? – chiese la ragazza.

    Lui annuì. E gli piaceva. Quando aveva accesso alla radio preferiva il pop o certe canzoni in italiano, di cui non capiva le parole, ma gli piaceva il suono di quella lingua. Quella roba urlata lo disturbava. Eppure, in qualche modo, si adattava bene a Ekaterina, che ora muoveva la testa a ritmo, facendo fuggire i capelli neri dalle forcine. Lui rimase a guardarla ipnotizzato, in bilico sulla gamba sana come un fenicottero, fino a che lei si avvicinò, gli diede una spinta che lo sbilanciò e lo fece cadere sul letto. Victor si attendeva di vederla saltare al suo fianco, regalandogli una vicinanza che gli faceva nascere al solo pensiero una sorta di tremore a metà del petto, che per fortuna rimaneva interiore, del tutto segreto. Ekaterina invece, sempre muovendosi a tempo, cercò qualcosa sotto il letto e un attimo dopo estrasse da una scatola uno spinello e un accendino.

    – Ancora con quella roba? – esclamò Victor.

    Il ricordo di quanto era stato male era ancora vivido. Per non parlare della reazione di Yakov. Non era affatto sicuro di voler ripetere l’esperienza. 

    – Non è forte come quella che girava alla festa – disse lei. – E non abbiamo bevuto niente. È solo per lasciarsi andare, non pensare… Tu cosa fai quando vuoi smettere di pensare?

    – Pattino – replicò Victor, sulla difensiva.

    – Ma adesso non lo puoi fare. E non lo farai neppure questa sera o domani. Un tiro a testa. Non gareggi fino ad agosto. Non può farti male in nessun modo.

    – Ma tu…

    – Io secondo Yakov devo fare il triplo Axel – disse Ekaterina, accendendo lo spinello. – Devo. Non posso o devo provare. Devo. E sono stanca. E ho paura di farmi male. E quel salto alle donne porta sfortuna. E non ci voglio pensare.

    Victor pensava che sarebbe stata splendida su quel salto che pochissime al mondo erano state in grado di completare in gara. Doveva essere bellissimo essere tra i pochissimi al mondo a riuscire a fare qualcosa, anche solo uno stupido avvitamento sul ghiaccio. Forse, però, Ekaterina non aveva bisogno di essere tra i pochi al mondo a fare qualcosa per sapere di essere speciale. Lo era già.

    Il fumo, buttato fuori dalle labbra di Ekaterina gli arrivò proprio in faccia, con quel suo odore inconfondibile, facendolo tossire.

    – Dai, ragazzino, un tiro soltanto.

    E poi, senza sapere bene come fosse successo, Ekaterina era a cavalcioni sopra di lui, i Nirvana ancora a tutto volume e il mozzicone spento che fumava su uno specchietto adibito a portacenere, sul comodino. Victor sentiva il respiro accelerato di lei e la guardava fisso negli occhi color della crepuscolo. Sentiva il cuore che martellava e una vaga sensazione di fluttuare. Ekaterina gli prese le mani e le portò ai propri fianchi, facendole insinuare sotto la maglietta.

    – Baciami, e non pensare a niente – sussurrò. – Ma prima dimmi se almeno è la prima volta che ti trovi in una situazione così.

    – È la prima volta.

    – Bene.

    La pelle di Ekaterina era calda sotto le sue mani. I suoi fianchi erano magri, la punta delle sue dita sentivano gli addominali tonici, quasi come quelli di un ragazzo. Questa volta un brivido percorse tutto il corpo di Victor, mentre lei si chinava per baciarlo. E davvero non c’era più modo di pensare.

 

 

 

 

    San Pietroburgo – Giugno 2002

 

    – Vieni con me, dobbiamo parlare – disse Yakov a Kirill.

    All’interno del palazzetto il tecnico aveva una sorta di ufficio che di fatto usava pochissimo, se non per riporre e compilare le scartoffie. Aveva scatoloni che strabordavano dall’unico armadio e un’unica fotografia alle pareti, di quando ancora gareggiava, che ogni volta che entrava si riprometteva di togliere. Fu lì, comunque che condusse il ragazzo.

    Ragazzo che aveva il naso gonfio e uno zigomo viola.

    – Allora, cos’è successo? – chiese, dopo che ebbe chiuso la porta e indicato a Kirill una sedia.

    – Niente, sono caduto.

    Yakov sbuffò.

    – Il mio lavoro è veder la gente cadere. So riconoscere i lividi dovuti ai pugni. È la prima volta?

    Kirill si fissava intensamente le mani.

    – Così, sì – borbottò.

    – Quando è iniziato?

    Il ragazzo scosse il capo. 

    – Quando è iniziato? – ripeté Yakov, alzando la voce.

    – Dall’inizio. Da quando il mio primo compagno di camera ha frugato tra le mie cose e ha trovato…

    Il tecnico sospirò.

    – Se non è roba illegale non mi importa cos’ha trovato, vai pure avanti.

    – Era il catalogo di un parrucchiere – ringhiò Kirill, alzando lo sguardo. – Solo uno stupido catalogo di parrucchiere. E da allora sono iniziate le prese in giro. E gli scherzi. E le notti chiuso fuori dalla camera. Anche adesso che dormo in singola. Mi mettono le cicche masticate nella toppa e non riesco a inserire la chiave. 

    Yakov annuì. Nulla che non avesse già visto. Il ragazzo non era riuscito a farsi nessun amico. Era isolato e questo da solo faceva di lui una vittima perfetta per altri ragazzi lontani da casa e annoiati. Faceva pattinaggio, aveva il fisico esile dei pattinatori e persino a lui, molti anni e molti chili prima, avevano dato della ragazzetta. 

    – Non ti avevano mai picchiato prima, però – commentò.

    – Non le ho proprio solo prese – sbuffò il ragazzo. Mentendo, molto probabilmente. – Comunque prima almeno gli amici di Georgi mi lasciavano stare.

    – Prima di cosa?

    Aveva litigato anche con Georgi, quindi, che, in effetti, era in ritardo, per la primissima volta. Ci voleva un bell’impegno. Georgi non si offendeva mai, a meno che non si parlasse male della ragazza di cui era innamorato in quel momento. Non si era offeso neppure qualche giorno prima, quando aveva chiesto a Vitya un parere sulla propria coreografia e il siberiano aveva risposto che era un bell’esercizio adatto alle bambine del gruppo di Dimitri. 

    Adesso però Kirill era arrossito e si stava di nuovo guardando le mani.

    – Siamo andati al cinema e un suo amico più grande mi ha toccato il sedere. Io l’ho insultato, sono andato via. E il giorno dopo ne ho trovati tre di quelli soliti ad aspettarmi.

    Anche quella era una storia già sentita. Al pensionato con Kirill e Georgi stavano parecchi universitari. Qualcuno di loro aveva vigilato fino a quel momento perché la situazione non degenerasse. Nulla di disinteressato, a quanto pare. Che lo accettasse oppure no, a Kirill piacevano i ragazzi. Era abbastanza evidente. Quando pensava di non essere visto si mangiava con gli occhi Dimitri, con suo grande disappunto. Il suo protettore occulto aveva gli stessi gusti, ma visto che era stato rifiutato aveva abbandonato Kirill al proprio destino. Una storia già vista e piuttosto squallida. Da cui, però, non era così facile uscire. Lividi a parte, il ragazzo aveva delle occhiaia che, unite al naso affilato, contribuivano al suo aspetto da rapace smagrito. Si allenava con rabbia, cercando di canalizzare lì la propria aggressività. Non si era fatto male, ma non ci voleva un fine occhio medico per capire che era sull’orlo dello sfinimento.

    Yakov sospirò.

    – Senti un po’ ragazzo, sei simpatico come la peste bubbonica e questo non aiuta. Ma quello che stai passando non è colpa tua. E finirà. Dimmi i nomi di chi ti ha pestato.

    Il ragazzo prese un respiro, come prima di iniziare salto difficile.

    – Puoi ospitare anche me, almeno per qualche tempo? – chiese.

    Il tecnico rimase un istante immobile, interdetto. Non ne aveva alcuna voglia. 

    – Io… Potrei mettere una brandina nella stanza dove sta Vitya. Ma devo sentire cosa ne pensa mia moglie e anche Vitya – prese tempo.

    Il siberiano sarebbe stato entusiasta, di sicuro, di dividere la camera, la prima che avesse avuto tutta per sé, con uno che lo odiava. E sua moglie altrettanto di avere per casa uno perennemente arrabbiato con il mondo.

    Intanto, però, Kirill stava già scuotendo il capo.

    – Lascia stare. Sono stato stupido a chiederlo. Lo so che è lui il preferito di tutti. Anche se è del tutto fuori di testa e parla col proprio peluche.

    Lo sguardo del ragazzo era così spento, così disilluso, che Yakov si trovò proprio malgrado a deglutire l’aria. Perché aveva ragione. Il suo dovere di allenatore era l’imparzialità. Oltre tutto quei due al momento si equivalevano. Kirill aveva più tecnica, Vitya più espressività. Il suo dovere era proteggerli entrambi allo stesso modo. Un allenatore, a volte, non dovrebbe essere anche un essere umano.

    – Ho bisogno di chiedere, anche al fuori di testa – si sforzò di dire. – Intanto forse Dimitri ha una stanza.

    Dimitri, che sarebbe stato felicissimo di portarsi a casa uno schifoso pervertito.

 

 

 

    – Non ce la faccio – disse Ekaterina, a carponi, con le mani sul ghiaccio.

    – Sì che che la fai – la contraddisse Yakov. – Ce l’hai fatta ieri e anche settimana scorsa.

    – Non ce la faccio – protestò di nuovo lei.

    – Sarebbe tutto più facile se tu andassi a dormire a un’ora decente e conducessi una vita un po’ più regolata.

    – E se invece non me ne fregasse un cazzo del tuo triplo Axel? – ringhiò lei.

    – Vai a farti un giro, Ekaterina. Poi riprendiamo.

    Non gli piaceva la piega che stava prendendo Ekaterina. Che si portasse dietro Vitya come fosse un cagnolino poteva andare. Non aveva fatto “Il discorso” al ragazzino, ma con due battute si era assicurato che non fosse davvero ingenuo come a volte sembrava. Quello che non andava bene era che tornasse a casa con gli abiti che puzzavano di fumo. Non che questo fosse un problema per le prestazioni del siberiano. L’incidente lo aveva spaventato. Era tornato in pista due giorni prima del termine stabilito. La sua droga, quella vera, era il ghiaccio. Ne aveva bisogno. Bisogno di sapere di essere bravo, bisogno di crogiolarsi nell’ammirazione degli spettatori. Fuori dalla pista scondinzolava dietro alla ragazza appena lei faceva un cenno, ma aveva declinato alcuni inviti serali. A quanto pareva, portarlo in pista con ancora i postumi del post sbornia, dopo quella festa, era servito. Vitya odiava farsi vedere cadere o sbagliare e quella, almeno, era un’ottima leva per un allenatore. 

    Ekaterina, invece, a quelle feste ci andava. A quanto pareva quella vita serale era molto più attrattiva, ai suoi occhi di sedicenne, di quella diurna tra pista e palestra. E in quelle feste circolava un po’ di tutto. Quelli che la ragazza frequentava erano giovani russi ricchi. La prima generazione cresciuta nell’agio. Famiglie che si erano arricchite in pochi anni e che davano ai figli ampia disponibilità economica, solo per dimostrare che potevano farlo. E, quindi, ragazzi che compravano tutto quello che potevano per lo stesso motivo. Yakov non era un ingenuo, né aveva vissuto come un monaco. Si era ubriacato, aveva provato il fumo e aveva fatto le olimpiadi tra gli anni settanta e gli ottanta, quando girava di tutto. Ma i soldi erano pochi, le vittorie cose importanti e quindi prima si vinceva e poi, se mai, si festeggiava, comunque senza folleggiare. Ekaterina non aveva bisogno di vincere per accedere a tutto quello, era già suo di diritto. E forse, era stata per talmente tanto tempo la più brava che dava per scontato che avrebbe continuato ad esserlo. L’allenatore sperava con tutto se stesso che qualche bella sconfitta nelle prime gare internazionali la rimettesse in riga.

    – Ehi, ragazzi, pausa, hanno appena consegnato i costumi! – gridò Dimitri, arrivando correndo a bordo pista.

    Anche da lui non erano arrivate grandi notizie. Aveva borbottato per mezza giornata, ma ovviamente si era portato a casa Kirill. Che a quanto pareva, quando pensava che nessuno potesse sentirlo, verso le due di notte, in una camera chiusa a chiave, piangeva disperato.

    Di giorno, al palaghiaccio, Kirill mostrava la sua abituale maschera di supponenza, e fu con quella che si voltò, mentre Vitya quasi lo travolse nella foga di raggiungere l’uscita.

    – Voglio vedere il mio del lungo, subito! – esclamò il siberiano.

    Georgi lo guardò sogghignando, come se avesse dieci anni di più di lui, invece che sei mesi di meno.

    – Pausa costumi, dunque – concesse Yakov.

    Quando lui, Georgi e Kirill arrivarono nell’atrio per prendere in carico gli scatoloni appena consegnati, scoprirono che Vitya li aveva già aperti, come un cane che scava alla ricerca di un osso.

    – Eccolo! – esclamò, trovando ciò che cercava.

    Yakov non poté fare a meno di sorridere. Vitya apriva i pacchetti con l’entusiasmo di un bambino di quattro anni. Era quasi certamente perché non l’aveva fatto per tutta una vita. Tuttavia era talmente immerso in quella sua gioia infantile che era difficile non rimanerne contagiati. Persino Lilia una paio di volte era tornata a casa con dei cioccolatini, minuscoli, dentro elaborati pacchetti per il puro gusto di vederglieli aprire.

    – È bellissimo! – mormorò il ragazzo, con gli occhi che scintillavano.

    Il costume era bianco e grigio, decorato con delle piume sulle spalle e i polsi. La coreografia del libero di Vitya era una rielaborazione, creata da lui e Lilia, di quella della prima esibizione a cui Yakov aveva assistito. Non più un fiocco di neve, ma una piuma, portata dal vento, destinata a sporcarsi. Il ragazzo aveva una forza interpretativa che non aveva mai visto e che al momento sopperiva alle carenze tecniche ancora presenti. L’allenatore sospettava che quello che Vitya metteva in scena fosse il racconto danzato di una perdita dell’innocenza. Qualcosa che forse aveva molto a che fare con i suoi pomeriggi con Ekaterina…

    – Ma dai! Con quello e i tuoi capelli sembrerai Odette – commentò Kirill, che stava estraendo il suo costume da cosacco. – Yakov deve averti scambiato per una delle ballerine di sua moglie.

    Vitya stava per ribattere qualcosa, ma fu preceduto da Georgi.

    – Ma senti da che pulpito! – disse. – Intanto Vitya sta con Ekaterina, alla faccia dell’essere una ballerina.

    C’era del rammarico in quelle parole, che il ragazzo consolò accarezzando il proprio costume, che aveva dei fulmini sulle braccia, un omaggio non dichiarato a Harry Potter.

    – Io non sono la ragazza di nessuno – disse Ekaterina, che arrivava nell’atrio in quel momento. – Di certo non di un bambino di quattordici anni, per quanto grazioso.

    Il costume bianco e grigio cadde a terra, mentre Ekaterina, che si era già messa la tuta e dava per terminato l’allenamento, usciva con i propri pattini sulle spalle.

    Due secondi dopo, Vitya la seguiva.

    – Ehi, ho detto qualcosa di sbagliato? Non volevo… – mormorò Georgi.

    Yakov gli mise una mano sulla spalla.

    – Mai intromettersi nelle liti tra innamorati – disse. – A meno che non ci sia di mezzo una gara importante.

 

 

 

    – Come sarebbe a dire che non sei la ragazza di nessuno? – disse Victor, mettendole una mano sulla spalla.

    Erano proprio davanti alla panchina su cui si erano baciati la prima volta.

    In quell’ultimo mese, poi, ogni scusa era buona, Victor personalmente usava il fatto che lei lo aiutava con i compiti, per scivolare insieme nella camera di Ekaterina, il sabato pomeriggio, o anche la sera subito dopo cena. Una volta aveva persino bigiato le lezioni. Non sempre c’erano stati i Nirvana, per fortuna, non sempre gli spinelli, sempre per fortuna, ma sempre erano finiti sul letto. Con sempre meno vestiti addosso. L’ultima volta era rimasta solo la biancheria. Ekaterina si era lamentata dei propri seni troppo piccoli e lui aveva ribadito quanto li trovasse perfetti, studiandoli attraverso il pizzo.

    – Non è che il fatto di pomiciare ti dia un qualche potere su di me, ragazzino – disse lei, senza voltarsi.    

    – Ah, no? Quindi per te è che cosa… Un’abitudine? Una cosa che fai con tutti i tuoi amici?

    Non si era mai sentito in quel modo. No, non era vero. Era lo stesso senso di dissanguamento che aveva provato l’anno precedente, quando aveva capito che suo padre, anche se era libero, non aveva la minima intenzione di vederlo. All’improvviso faceva freddo, anche se non era vero, e i colori intorno a lui si erano fatti smorti.

    – Non sono cazzi tuoi quello che faccio o non faccio con gli altri – replicò Ekaterina.

    Victor pensò che se ne sarebbe andata senza neppure voltarsi, invece si sedette sospirando sulla panchina.

    – Noi ci facciamo compagnia, ragazzino, perché siamo uguali, nessuno ci vuole bene e non vogliamo bene a nessuno, non ha senso mentirci – disse, con voce dolce e triste.

    – Io ti voglio bene – disse Victor, con tutta la sicurezza che seppe trovare.

    – No, ragazzino. Noi non sappiamo neanche cosa via voler bene, perché non l’abbiamo mai provato. Siamo bravi a recitare una parte, sappiamo come sembrare adorabili. Ma non siamo «qualcuno» per le persone che abbiamo intorno, siamo «qualcosa». Atleti, una figlia da esibire, un problema da sistemare. E siamo abituati a pensare agli altri come «qualcosa». Lo so che è così anche per te, ragazzino. Persino quando pomiciamo, a volte non è me che stai abbracciando.

    Victor abbassò gli occhi fino a incontrare le proprie scarpe da ginnastica. Non erano di Boris, quelle, le aveva comprate lui stesso, con dei soldi che Yakov gli aveva dato “come anticipo sui tuoi futuri guadagni”. Com’era possibile che quelle cose, che neppure lui riusciva a dire a se stesso con tanta chiarezza, uscissero da una ragazza che era, in apparenza, l’esatto opposto di lui? 

    – Io però ti voglio bene – disse ancora, con ostinazione, forse per convincere se stesso che era vero.

    – Davvero, ragazzino? Se davvero vuoi bene a una persona dovresti essere disposto a fare qualsiasi cosa per lei, anche a rinunciare alla cosa che ami più al mondo. Smetteresti di pattinare per me?

    Victor rialzò lo sguardo, per incrociare gli occhi seri di lei.

    – Ma sei matta?

    – Andiamocene. Prendiamo due cani e giriamo l’Europa come artisti di strada, sappiamo ballare, io so suonare. Andiamo il più lontano possibile da qua.

    – È molto comodo dire queste cose quando si ha comunque un posto a cui fare ritorno – commentò Victor, piatto.

    Non gli piaceva per nulla quella conversazione. Non gli piaceva la freddezza che vedeva nel viso di Ekaterina, come se davvero fosse pronta a fare qualsiasi follia, solo per provare a se stessa di esistere. E lui la capiva quella sensazione, la necessità di spingersi oltre i propri limiti per sentire davvero che il sangue pulsava nelle sue vene. La provava ogni volta che scendeva in pista e infinitamente più forte quando c’era un pubblico. Cosa sarebbe accaduto se l’avesse persa, se un giorno anche pattinando non fosse riuscito a sentirsi vivo?

    – Forse non siamo uguali come credi – disse.

    Inaspettatamente, la mano di lei si posò sulla sua guancia.

    – No, lo siamo, invece, ed è il motivo per cui tu non faresti davvero una sciocchezza per me – c’era molta tristezza in quelle parole. – Il sono «qualcosa» per te. Una porta per un mondo che non avevi mai visto e che ti piace da matti.

    Si alzò dalla panchina, guardando la propria tuta.

    – Devo andare, starò via qualche giorno con i miei – disse, come se fino a quel momento avessero parlato del tempo. – Non prendertela a male. Io non sono la tua ragazza, ma tu sei carino davvero.

    Victor la guardò allontanarsi verso la fermata dell’autobus. Sentiva le lacrime che gli colavano sulle guance. Io sono una porta per un mondo che non avevi mai visto e che ti piace da matti. Era davvero solo quello Ekaterina, per lui? Ma era anche quello, senza dubbio. E il fatto che le parole di lei fossero vere le rendeva più taglienti. Facevano così male che forse neppure il suono delle lame dei pattini sul ghiaccio ne avrebbe attutito il dolore.

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


San Pitroburgo – Luglio 2002

 

    – Ma guardatevi! Manca un mese alla vostra prima gara e Georgi potrebbe battervi entrambi a occhi chiusi! – ruggì Yakov.

    Sia Vitya che Kirill si guardarono i pattini con l’identica espressione da cucciolo avvilito. 

    Ecco perché era così maledettamente snervante lavorare con gli juniores. Adolescenti. Uno in crisi d’identità e con nostalgia di casa e l’altro in piena sindrome da abbandono. Ancora una volta il tecnico pensò che l’addestramento dei cani sarebbe stata una carriera molto più adatta a lui. Molto più rilassante.

    – Yakov – lo chiamò Dimitri, avvicinandosi. – C’è Ekaterina in ufficio. Vuole parlarti in privato.

    – Eh, alla buonora.

    Non la vedeva in pratica da un mese e mezzo. Era stata via con i suoi, una pausa concordata. Era tornata in pista un paio di volte, poi si era data malata, poi un altro paio di allenamenti e poi ancora malata. Quell’apparire a sprazzi, non dare confidenza a nessuno e poi sparire di nuovo era la causa delle pessime prove di Vitya. Che sorrideva come sempre, si entusiasmava per qualsiasi cazzata come sempre e poi ogni tanto si perdeva in se stesso, sospirando come un cagnolino abbandonato. E non era in grado di concentrarsi su alcunché, figuriamoci il pattinaggio.

    – Ti lascio i due disgraziati, vedi di spremerli meglio di come sono riuscito a fare io.

    Ekaterina lo aspettava seduta davanti alla scrivania. Non era in tuta, jeans e maglietta, nessuna intenzione di allenarsi, quindi. Maledetta adolescenza. 

    – Cosa c’è, vuoi prolungare ancora la vacanza? – disse, sedendosi.

    – Sono incinta.

    Yakov rimase del tutto immobile. Forse con la bocca aperta, come nei cartoni animati. Se era uno scherzo, era di pessimo gusto. Se non era uno scherzo ed era stato Vitya… Lo avrebbe ammazzato.

    – È successo quando ero via. Un amico di mio fratello venuto per studiare – disse lei, come se gli avesse letto nel pensiero. – L’ho appena scoperto. E sei la prima persona a cui mi è venuto in mente di dirlo.

    Aveva ostentato sicurezza, fino a quel momento, ma sull’ultima frase la voce le si era incrinata. Suonava quasi come una richiesta di aiuto. Yakov la allenava da che lei aveva dodici anni. negli ultimi anni era probabile che avesse passato più tempo con lui che con i suoi genitori, anche se non si poteva dire che parlassero gran che. Ma era abituata a contare su di lui. Solo che in quel momento Yakov non aveva la più pallida idea di cosa fare.

    – Vedremo di sistemare la cosa. Mia moglie ha decisamente più esperienza di me in merito a… – scosse il capo. – Devi dirlo ai tuoi, però.

    – Sistemare le cose… E se io non volessi? – replicò lei.

    Yakov la fissò, sicuro di aver frainteso.

    – E cosa vorresti fare? La mamma? A sedici anni? Buttando all’aria studio e carriera?

    – Non sarei certo la prima. E avrei già diciassette anni, quando…

    – Una donna vissuta, proprio. E il resto?

    Ekaterina si strinse nelle spalle.

    – È… Come l’Axel, no? Un salto nel vuoto… Ma io… Forse riuscirei ad amare qualcuno e a essere amata…

    Si era stretta le braccia al petto. Altro che donna vissuta. Sembrava una bambina infreddolita, abbandonata sul ciglio di una strada.

    Yakov aveva una voglia quasi insopprimibile di darle un ceffone.

    – Non è un gioco, questo, Ekaterina. Hai sedici anni. Vai alle feste, bevi e fumi. Stai buttando all’aria una carriera sportiva per cui un sacco di gente ucciderebbe. E adesso pensi che una gravidanza possa essere un sballo più forte? Lo sa il grand’uomo che ti ha messo incinta? I tuoi lo sanno? Sei minorenne, non sei l’unica ad avere voce in capitolo, qui!

    Lei sbatté le palpebre. Pur conoscendo il suo carattere non si era aspettata una sfuriata.

    Yakov scosse il capo.

    – Pensaci su. Senti il tuo principe azzurro. Parla con i tuoi. In qualche modo una soluzione si trova.

 

 

    – Ma quanti problemi che ti fai, Yakov – sospirò Lilia, mentre versava il the nella propria tazza. – La ragazzina va presa e fatta abortire, senza troppe storie. Ne va del tuo buon nome, oltre che della sua carriera. Chi ti affiderebbe più un’atleta, se si sapesse in giro?

    – Non è così semplice. E comunque lei non è affidata a me, sta dai suoi, grazia al cielo.

    – E pensi che la gente veda la differenza? Ascolta, adesso sarà sconvolta e magari sogna di fuggire con il principe azzurro che ha fatto la frittata che, a proposito, siamo proprio sicuri non sia il ragazzetto che dorme di là?

    – Pare non sia lui.

    – Bene. Vedi che appena lui si dilegua e i genitori minacciano di cacciarla di casa torna a più miti propositi. Due giorni in clinica, fai trapelare la voce di un infortunio, e non è successo niente. Tu hai di nuovo la tua atleta, lei la sua vita.

    – E se lei non la rivolesse più, la sua vita?

    – Se lei fa un esaurimento nervoso, beh, meglio adesso che più avanti, vuol dire che non è adatta a questa vita. Ti guardi intorno e ne tiri su un’altra.

    – Ekaterina non è una ballerina di fila che si possa sostituire con un’audizione.

    – Certo, e Ivan era destinato a diventare il pattinatore migliore che la Russia avesse mai visto e non più tardi di un mese fa «Vitya però ha doti che Ivan non ha mai avuto». Il problema è che ti affezioni, mentre gli atleti sono solo il tuo lavoro.

    – Ma come cazzo fanno a essere solo lavoro, Lilia! A volte mi chiedo che razza di donna io abbia sposato.

    – E io mi chiedo come uno come te abbia potuto vincere un’olimpiade… Senti la famiglia della ragazza, che sarà d’accordo con me, e fatela abortire, volente o nolente. Alla lunga capirà che era la cosa migliore. E tu non farti il sangue amaro, nel corpo di ballo capita almeno una volta ogni cinque anni.

    – E si riprendono, dopo?

    Lilia si strinse nelle spalle.    

    – Alcune sì, altre no. È la vita.

    Yakov scosse il capo e intercettò con la coda dell’occhio un movimento di capelli chiari oltre la porta socchiusa della cucina.

 

 

 

    Victor tornò in camera e aprì la finestra. A Salechard dalla finestra della camera in cui stava vedeva un cielo sconfinato, pieno di stelle di cui non conosceva il nome. In inverno, da bambino, aveva passato ore a immaginare di danzarci dentro, incontrando creature fantastiche. In quel periodo dell’anno, poi, il cielo era di uno strano colore, tra l’arancio e il violetto e solo nelle ore più buie si vedevano le stelle. A San Pietroburgo a metà luglio la notte era già tornata, anche se era ancora brevissima, ma sembrava che le stelle non vi brillassero. Il cielo, poi, era solo un rettangolo stretto tra un palazzo e l’altro.

    Era con Igor che Ekaterina era finita a letto? O con qualcun altro? Era importante? Era la prova che lei gli aveva chiesto, assumersi il rischio di una vita ribaltata di colpo? O semplicemente lui non ci aveva pensato? Victor sapeva quanto fosse facile non pensare, nelle braccia di Ekaterina. Ma lei, di sicuro, ci aveva pensato. Era un modo per fuggire. Non erano uguali, loro due. Pur provandoci con tutto se stesso, Victor non riusciva a capire perché mai lei volesse fuggire proprio dalla vita che lui desiderava così tanto. Su una cosa, però, aveva avuto ragione. Erano soli, lo erano sempre stati, senza essere amati da nessuno. In quegli ultimi tempi lui si era illuso che le cose fossero cambiate. Lo sapeva che quella stanza, gli abiti, tutto ciò che Yakov gli aveva messo a disposizione, non gli apparteneva. Le stesse attenzioni dell’allenatore erano subordinate ai suoi risultati. Ma l’affetto di Ekaterina si era illuso fosse diverso. 

    La notte di luglio, a San Pietroburgo non era una vera notte, ma lo era di più dei giorni senza fine delle estati siberiane. Per la prima volta, Victor sentì nostalgia di casa. Là, almeno, non aveva avuto illusioni che potessero spezzarsi. 

 

 

 

    Mancava meno di un mese alla gara, la prima della sua carriera internazionale, ammesso di poterne avere una, ed era così difficile concentrarsi. Non funzionava neppure più il vecchio trucco per cui, sul ghiaccio, Victor smetteva di pensare. Non serviva più neppure constatare come Kirill si fosse rimesso in riga e stesse approfittando della sua crisi. Andarsene dal pensionato doveva avergli fatto bene o gli faceva bene vederlo pattinare male. In ogni caso ormai a lui la combinazione che si era proposto riusciva quasi sempre, per non parlare della coreografia, le trottole e tutto il resto. Victor si schiantava sul triplo Luzt ancora una volta su tre e solo raramente riusciva a ripartire per un secondo salto, figuriamoci un triplo…

    Sospirò, fermandosi a metà pista, con il fiato corto e una bella voglia di mollare tutto. Kirill e Georgi stavano andando così bene… Beh, Georgi non benissimo, bene per i suoi standard, che erano piuttosto mediocri.

    – Tutto bene? – gli gridò Dimitri.

    Yakov non c’era.

    Ufficialmente Ekaterina era infortunata e lui la stava accompagnando a una visita medica. La seconda parte era vera, ma l’infortunio la ragazza l’aveva nell’anima e nel cuore. E chissà perché, lei che una famiglia l’aveva, aveva chiesto all’allenatore e non al padre o alla madre di accompagnarla…

    – No – rispose. – Ho bisogno di dieci minuti di pausa.

    Dimitri, al contrario di Yakov, le pause le concedeva. Non sbraitava tutto il tempo dietro agli errori commessi. Eppure, forse proprio per questo, Victor sentiva una gran mancanza del tecnico più anziano.

    – Tutto bene? – chiese di nuovo Dimitri, dieci minuti dopo.

    Victor non era tornato in pista, sedeva nella panca dell’atrio, con il cagnolino peluche in braccio, succhiando una caramella alla menta. Alcune cose neppure le caramelle alla menta riuscivano a migliorarle.

    Si sforzò di annuire all’allenatore più giovane. Per la prima volta pensò che un po’ si somigliavano. Dimitri era più alto di Yakov e portava i capelli lunghi in una coda, come adesso faceva lui. Chissà se alla sua età anche lui sarebbe riuscito ad essere così sicuro di se stesso. 

    – Yakov mi ha detto che sei preoccupato per Ekaterina, che sai cosa le sta succedendo – provò il tecnico.

    Victor annuì di nuovo. Non gli piaceva quel genere di discorso. A Salechard c’era sempre chi cercava di portarlo su quella strada. Persone a cui non gliene fregava niente di lui, stavano facendo un lavoro, al termine del quale gli davano magari un voto, da cui dipendeva a volte anche la sua possibilità di continuare a pattinare. Aveva imparato a sorridere sempre in quelle occasioni e a cercare di dire quello che volevano sentirsi dire. Un’esibizione, come durante le gare. Anche a San Pietroburgo, almeno all’inizio, era sembrata la strategia migliore. 

    – Non mi va di parlare – disse, optando per la sincerità.

    Dimitri annuì e si sedette al suo fianco.

    – Io ho detto a Yakov di non portati qui in ogni modo possibile. Sai, tutti quegli stupidi pregiudizi… Adesso, invece, penso che mi spiacerebbe davvero tanto se tu pattinasti male. Chi sa qualcosa di te penserebbe che Yakov ha fatto una cazzata e che non sei in grado di reggere la tensione, per gli altri saresti solo il “russo a rimorchio”.

    – Il russo a rimorchio?

    Dimitri si strinse nelle spalle.

    – La Russia ha tante scuole di pattinaggio, mica solo questa. Quindi tanti atleti, sopratutto juniores. È abbastanza normale che nelle gare del Grand Prix juniores ne capitino due, uno forte e uno debole, a rimorchio. Facile da battere. Io sono stato per anni il russo a rimorchio è non è una bella posizione. D’altro canto, se invece pattinassi bene, un sacco di gente ti vedrebbe. A chi sa qualcosa, a chi ti ha mormorato dietro, in questi mesi, la metteresti proprio in quel posto. Qualcuno, ci scommetto, lo faresti davvero felice. Tanti altri penserebbero solo che è bello vederti pattinare.

    – Non dovresti tifare per Kirill, dato che abita con te?

    – Ah, ma io ho fatto più o meno lo stesso discorso anche a lui, così magari prende quel tanto di sicurezza che gli serve per cercarsi una camera altrove e smetto di chiudermi a chiave in bagno quando faccio la doccia per paura che mi venga a guardare le chiappe.

    Questo riuscì a far sorridere Victor.

    – Pensavo al bambino di Ekaterina, che tutti pensano che è meglio se non nasce – si trovò a dire, senza volerlo davvero. – Anch’io voglio che tutto torni come prima e che lei torni ad allenarsi e a gareggiare… Lei quando pattina è… Una nota nella musica… Non credo ci siano altre persone così… Però… Io non so niente di mia madre. Sicuramente un sacco di gente pensava che era meglio se non fossi nato.

    Dimitri sospirò.

    – Questa non è una decisione tua e non è un peso tuo – disse. – Ognuno di noi esiste o non esiste per una serie imponderabile di variabili. Puoi credere che sia il caso, o il destino, o Dio. Tu sei qui, adesso, e puoi dimostrare a tutti che la tua esistenza vale qualcosa. Non è una cosa che capiti a tutti. A me quell’occasione è stata sottratta.

    – Non è vero, come ci avevi detto, che a quelle olimpiadi non avevi possibilità di andare a medaglia – concluse Victor.

    Non tirava a indovinare. A casa di Yakov c’era tutta la documentazione che serviva. Dimitri non era diventato un grande campione da Juniores, ma non tutti gli atleti esplodono subito. Lo stava diventando, però, subito prima dell’infortunio.

    – Fa male, sai, rendersi conto che una cosa era possibile, e non l’hai fatta – commentò l’allenatore. – Guardandosi indietro è tutto più facile. Quindi non giudicare male Ekaterina, qualsiasi cosa decida di fare, o noi adulti, che annaspiamo quanto voi nel mare delle possibilità. E vivi la vita che hai a disposizione ora, perché nessuno ti assicura che tu la possa avere anche domani.


NOTE A MARGINE
Purtroppo non mi è uscita una puntata molto natalizia... Questo non mi impedisce di augurare buone feste a tutti voi che siete arrivati a leggere fin qui!

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Courchevel – Agosto 2002

    

    – Sono meravigliose! Guarda quanta neve… Sono come la Siberia, ma in verticale!

    – Non siamo un po’ troppo bassi? Non è che rischiamo…?

    – No, Kirill, goditi il panorama, una buona volta – disse Yakov.

    Sorrideva ed erano giorni che non lo faceva.

    Ma l’emozione dei due ragazzi, la prima volta che sorvolavano le Alpi era una cosa che andava vista. Non avevano alcuna esperienza di montagne e in quel momento sembrava che si potesse mettere una mano fuori dal finestrino e sfiorare una vetta o raccogliere una manciata di neve da un ghiacciaio. Il suo lavoro, dopo tutto, era anche questo, accompagnare dei ragazzi in giro per il mondo, far vedere loro cose che senza il pattinaggio non avrebbero mai potuto neppure immaginare. E a volte il loro viso in quelle occasioni ripagava di tutto. Yakov si lamentava moltissimo delle continue trasferte, dei fusi orari, della scomodità dei voli e degli alberghi, ma in realtà era una delle cose che preferiva. Quando gli capitava di vedere immagini come quella della faccia di Vitya praticamente schiacciata contro il finestrino dell’aereo, gli occhi enormi nel tentativo di assorbire tutto, era difficile dire che non ne valesse la pena. Cosa che, invece, aveva pensato di continuo nel mese precedente.

    Le cose erano andate esattamente come Lilia aveva predetto. Maledetta donna che aveva quasi sempre ragione. Il ragazzo che aveva messo incinta Ekaterina si era dileguato appena saputa la notizia, a diciannove anni si era trincerato dietro la famiglia, a un padre che giurava che non fosse stato il suo figlio, che non avrebbe mai fatto alcun test per sincerarsene e che comunque lei era una poco di buono. Una facile, che andava con tutti, compreso un ragazzetto figlio di un delinquente. Queste cose Yakov le aveva sapute in prima persona perché i genitori di Ekaterina erano interessati solo al fatto che non si sapesse niente e quindi erano stati ben disposti a mascherare il tutto come un infortunio sportivo e lasciare nelle sue mani l’intera gestione della cosa. E con quello, la voglia di schiaffeggiare Ekaterina gli era passata del tutto. 

    La ragazza non aveva mai pianto, tra tutti, sembrava l’unica ad aver mantenuto intatta la propria dignità. Una volta Yakov aveva visto un film su Anna Bolena. Ekaterina si era avviata a tutte le visite mediche e anche alla clinica privata e di comprovata discrezione esattamente con lo sguardo che aveva Anna Bolena in quel film quando saliva sul patibolo. Ma, dopo tutto, Ekaterina era una regina. Lo era sempre stata e avrebbe continuato ad esserlo. Per certi versi, Yakov non era mai stato tanto orgoglioso di lei, anche se era quasi certo di averla persa. Erano stati i suoi genitori a spingerla a pattinare, era stato il loro sogno vederla diventare una campionessa. Non c’era nulla di male in questo, la maggior parte dei ragazzini iniziava uno sport per gli stessi motivi. Ma di certo Yakov al posto suo non avrebbe più fatto nulla per compiacerli. In altri tempi, quando era lui a pattinare, una ragazza di quel talento non sarebbe stata lasciata andare. A costo di ricorrere alle minacce o ai ricatti. Lo aveva visto succedere. Un talento doveva per forza servire alla causa sovietica. Adesso, però, vivevano nel tempo della libertà. E, forse, anche quello di non sviluppare il proprio talento era un diritto.

    – Allacciatevi le cinture, stiamo per atterrare – disse ai ragazzi.

    Intercettò i loro sguardi di colpo ansiosi. Per Kirill era la seconda gara internazionale, per Vitya era tutto nuovo.

    – Oh, certo, qualcuno riderà di voi – disse. – Perché siete impacciati e il vostro inglese, sopratutto quello di Vitya, è tutt’altro che perfetto. Ma solo fino a che non sarete scesi in pista. E in ogni caso la maggior parte dei ragazzi che incontrerete è esattamente come voi, si sentono stranieri, sono in ansia per la gara e non sanno come comportarsi. Siete qui per vincere, questo è certo, ma anche per imparare a gestirvi nel mondo. Ed è una buona occasione per iniziare a fare amicizia con altri atleti che magari pattineranno con voi per anni.

    – Io non ci faccio amicizia con i nemici – ribatté Kirill.

    – E quando mai tu fai amicizia? – sospirò Yakov. – Comunque non devi per forza legare con gli avversari diretti, ci sono le ragazze e i ragazzi delle coppie di artistico e di danza. Magari succede un miracolo e trovi qualcuno che non ti è insopportabile.

    Quello che pensava davvero era del tutto censurabile. Qualcuno che ti cacci la lingua in bocca e migliori un po’ il tuo umore. Yakov aveva seguito per quattro anni un atleta che aveva una relazione segreta con un pattinatore canadese che faceva danza su ghiaccio. Mai avuto un ragazzo così desideroso qualificarsi per le competizioni internazionali. Per Dimitri, all’epoca, era stato un avversario quasi imbattibile. Yakov era diventato amico del tecnico canadese ed entrambi avevano convenuto che era una delle situazioni più facili che a un allenatore potesse capitare. Atleti motivati che avrebbero fatto qualsiasi cosa per evitare che la notizia trapelasse.

    Kirill, però, si limitò a sbuffare, guardando con malcelata preoccupazione la pista che si avvicinava.    

 

 

 

    Bene, o, almeno, meglio del previsto.

    Alla mattina dell’ultimo giorno di gara, Kirill guidava la classifica e Vitya era al terzo posto. Il siberiano il primo giorno era parso ancora un po’ frastornato dalle troppe novità, dagli gli annunci di gara in inglese che non sempre capiva agli gli avversari che avevano tutti più esperienza, anche quelli più giovani, e sapevano come intimidire. Si era adattato in fretta, però. La malinconia che lo avvolgeva da che Ekaterina non veniva più in pista non era sparita, ma la sua innata curiosità lo aveva portato già quel pomeriggio a esplorare il paesino francese, che poi era una manciata di case di legno circondate dai monti, ed era tornato in compagnia di un inglese e una polacca con cui comunicava con un misto di russo, inglese e gesti. Courchevel era infinitamente più sicuro di una qualsiasi festa a casa di Ekaterina e i ragazzi erano tutti atleti con le stesse esigenze e responsabilità e Yakov era stato ben felice di lasciarlo alla trasgressione di una pizza senza adulti alle calcagna. 

    Kirill, ovviamente, era più ombroso ma le cose non giravano così male. Divideva la camera con Vitya, ma a quanto pareva non si erano ancora azzuffati e il fatto di dominare la gara aiutava. Aveva persino scambiato due parole con un ragazzo americano. Nulla di più che informazioni banali sulla provenienza e la specialità di gara, il ragazzo faceva coppia di figura e a quanto pareva era in fuga dalle crisi d’ansia della propria partner, ma, dato che si trattava di Kirill, era un successo non da poco.

    Adesso, durante l’allenamento pre gara, si muoveva sicuro, con la convinzione di non poter che confermare le prestazioni precedenti. Quello che invece andò ad abbracciare il ghiaccio fu Vitya, nel tentativo di provare la sua sempre incerta combinazione.

    – Vieni qui, ragazzo – lo chiamò, a fine allenamento.

    – Ho fatto schifo, vero? – disse Vitya, con uno di quei sorrisi che ormai il tecnico riconosceva come “schermo anti sfuriata”.

    – Abbastanza. Quindi non strafare. Fai il doppio dopo il Lutz. Se cadi sulla prima combinazione non ne esci più. 

    – Sì, ma vincere sarebbe impossibile.

    – Mantieni la terza posizione. È la tua prima gara internazionale. Se vai a podio in tutte e due le qualificazioni entri di sicuro in finale.

    L’espressione del ragazzo non era affatto convinta.

    – Che cosa c’è?

    Vitya si guardò intorno, riluttante a parlare.

    – Non pensavo che fosse così, una gara internazionale.

    – Così come?

    – Diversa dalle nostre… Piena di cose, di persone… Io vorrei… Conquistarmi il diritto di restare in questo mondo?

    – Allora vedi di mantenere la posizione e non fare idiozie.

    Eppure stava pensando qualcosa e Yakov non sapeva se fosse un bene o un male. Per i ragazzi era la prima partecipazione al Grand Prix e quindi era un po’ la prima volta anche per lui, dato che, pur conoscendoli, non sapeva come avrebbero reagito alla tensione. Kirill era ringhioso e concentrato, come i giorni precedenti e come all’europeo, l’anno prima. Quindi Yakov supponeva che andasse tutto bene. Vitya sembrava… Un segugio in un bosco troppo pieno di selvaggina. Attento ad ogni stimolo, teso e con un sottofondo d’inquietudine. Dal momento che non l’aveva mai visto così, Yakov non aveva idea neppure di cosa fare o se aspettarsi un disastro o un miracolo. E un disastro andava evitato a tutti costi. Meglio una prestazione mediocre che una caduta rovinosa nella propria gara d’esordio.

    Stavano pattinando tutti bene, maledizione a loro. L’inglese, che era quinto, piazzò anche lui una combinazione con due tripli, Loop e Toe Loop, che fece digrignare i denti a Kirill, ma applaudire di cuore Vitya e si guadagnò un punteggio da podio sicuro.

    Anche il quarto il classifica, un giapponese, gli asiatici stavano iniziando a diventare un problema, se la cavò in modo più che dignitoso.

    Vitya si tolse la felpa, rivelando il costume bianco e grigio, e assestò un carezza al proprio peluche, come se fosse un cane vero.

    – Tutte le ragazze sono già innamorate di te – gli disse Yakov, sperando di far leva sulla sua vanità. – Adesso vai a far vedere chi sei e ricordati che cosa ti ho detto.

    Vitya annuì.

    – Sì – sembrava che stesse per buttarsi nel vuoto. – I diritti qui si conquistano sul ghiaccio e se posso fare una cosa la devo fare.

    Non erano le frasi che Yakov aveva in mente, ma lo sguardo del ragazzo era cambiato del tutto. Sembrava ancora un segugio, ma che avesse trovato la sua preda.

    Gli altoparlanti annunciarono il suo nome e Yakov si godette lo sguardo degli altri tecnici quando il nome fu ripetuto anche come quello del coreografo del pezzo, insieme a quello di Lilia. Le altre esibizioni erano state prove generali, la gara di Vitya era quella.

    Il ragazzo partì benissimo. Lui, beh, Yakov se n’era accorto subito. Ci sono atleti che sanno attirare gli sguardi, hanno un’eleganza innata. Vitya, con i capelli lunghi e il costume chiaro sembrava un cigno o un angelo e nessuno poteva togliergli gli occhi di dosso. Questo, però, voleva dire che ogni sbavatura tecnica sarebbe stata notata. In una prestazione mediocre, un buon salto veniva apprezzato dai giudici. In una sublime una sbavatura poteva essere penalizzata moltissimo da una giuria esigente. E il sistema di valutazione era tale che l’umore dei giudici diventava un elemento determinante.

    Ecco la combinazione… Yakov ebbe la tentazione di chiudere gli occhi.

    Triplo Luzt, perfetto. Triplo Toe Loop, atterraggio non meraviglioso, ma senza bisogno di appoggiare una mano. Altro che non strafare. Subito di seguito aveva un’altra combinazione, triplo Axel e doppio Toe Loop, la versione più facile di quella di Kirill… No. Non la versione più facile. Triplo Axel, il triplo Axel ormai perfetto di Vitya, e triplo Toe Loop. Maledetto siberiano. Ecco perché aveva insistito tanto per quella combinazione che non gli usciva così bene. Testa dura e ribelle. Avrebbe dovuto dirgli cos’aveva in mente! Quella era una cosa da far vedere in finale o ai mondiali, non alla prima gara. Ora tutti gli atleti avrebbero alzato l’asticella della difficoltà, rendendo le gare successive un incubo… Ma Yakov non ci pensava davvero. Come tutti era ipnotizzato dalla piuma, l’angelo o quel che era e la sua caduta verso la dannazione. Finché non intercettò lo sguardo di Kirill. Era come se qualcuno gli avesse sparato a tradimento nella schiena.

 

 

 

    Victor si preparò ad entrare in camera, rassegnato alla fine della propria giornata perfetta.

    Quindi vincere voleva dire quello. Essere al centro degli sguardi, del flash delle fotografie, delle domande. Gli avevano persino lanciato dei fiori sulla pista, al termine dell’esibizione. Pensava capitasse solo alle ragazze. E invece si era ritrovato a raccogliere una rosa e aveva trovato la cosa un po’ assurda. Che cosa se ne faceva di una rosa che sarebbe appassita prima ancora del proprio ritorno in Russia? Eppure era così bella, del rosso intenso del sangue, e aveva pensato che era un fiore che a Salechard non viveva e che non gli sarebbe mai capitato in mano, se fosse rimasto là. Di certo non avrebbe mai avuto i soldi per comprare rose da regalare a qualcuno, per San Valentino. Lì invece ne avevano tirata una ai suoi piedi, poteva persino calpestarla, o ignorarla, invece che raccoglierla. Più tardi aveva chiesto a Yakov come dovesse fare per farla seccare e conservarla, per ricordarsi di tutto quello che poteva raggiungere. Yakov aveva borbottato qualcosa sull’appenderla a testa in giù e sul fatto che forse c’erano degli sponsor che magari gli avrebbero passato dei vestiti. L’allenatore era stato un bel miscuglio di rimbrotti e orgoglio, ma più tentava di fare la voce grossa e più lasciava in realtà trapelare la soddisfazione. Poi c’era stata ancora la cena con gli altri ragazzi, non solo l’inglese e la polacca e lui si era trovato a offrire le bevande a tutti, capendo perché Yakov gli aveva infilato nella tasca della giacca due banconote da cinquanta euro. A quanto pareva anche le vittorie avevano dei costi. C’era stato un velo di imbarazzo, al momento di scambiarsi i numeri di cellulare con gli altri, quando aveva ammesso di non averne uno, ma nessuno aveva approfondito l’argomento. Ci si poteva dare semplicemente appuntamento alla prossima gara o alla finale.

    Ormai era quasi mezzanotte e la stanchezza iniziava a pensare, non c’erano più scuse per non rientrare in camera, dove c’era Kirill.

    Non che Victor avesse pensato davvero a lui nel corso della giornata, anzi. Ma era un fatto che avesse pattinato malissimo, cadendo proprio sul triplo Axel e finendo quarto. Poi si era eclissato. Victor era stato trascinato via dal flusso degli eventi, ma non ricordava di aver visto il connazionale da nessuna parte. Quasi sicuramente, però, lo avrebbe trovato in camera e di certo di pessimo umore. Sperare che già dormisse era pura utopia.

    – Perché cazzo l’hai fatta, la mia combinazione?

    Eh no, non dormiva. Victor non era neppure riuscito a richiudersi alle spalle la porta della camera. 

    La stanza, tutta arredata in legno, come del resto l’intero albergo, aveva la luce spenta, filtrava appena quella del corridoio, da sotto la porta, eppure Victor intravedeva gli occhi di Kirill, come quelli di una tigre in agguato.

    – Per vincere. E non mi sembra che salti e trottole possano diventare proprietà privata – disse, gettando la giacca dove sperava ci fosse il proprio letto.

    – Era la mia combinazione! Tu avevi il tuo cavolo di Luzt, non avevi il diritto di portarmela via!

    – Dovevo rimontare. Se tu l’avessi fatta meglio di me avresti vinto e io sarei arrivato secondo. Ero convinto che sarebbe andata così.

    Iniziava a essere un po’ eccessivo per i suoi gusti. Dove cavolo era l’interruttore?

    – È da quando sei arrivato che non fai che portarmi via tutto!

    – Eh?

    Davvero eccessivo. Victor finalmente riuscì ad accendere la luce.

    Kirill aveva pianto. Forse, dalla faccia, aveva pianto dal termine della gara. Il suo letto era disfatto e sembrava fosse esplosa una bomba tra le sue cose.

    – Tu non hai idea della vita che ho fatto per arrivare qui! – stava gridando il ragazzo. – Delle cose che ho sopportato! Io sono il Campione di Russia, lo ero da novice, lo sono da juniores, io devo diventare il più grande! Ma tutti hanno sempre e solo occhi per te. Sei il favorito di Yakov, ci vivi in casa, avevi la tua bella camera spaziosa mentre la mia testa veniva infilata nei water del pensionato. Non c’è un cazzo di giorno in cui Georgi o Dimitri o persino una delle bambine non mi dica quanto hai fatto bene questo o quello, quanto sei bello o gentile o dolce! Sei pazzo, cazzo, ti sei portato dietro un peluche tutto il giorno eppure vedono tutti solo te.

    Victor aveva fatto d’istinto un passo indietro, investito da quel fiume di parole gridate tra i singhiozzi e le lacrime. Kirill aveva le mani strette a pugno, ma sembrava pronto a colpire piuttosto se stesso. 

    – Dobbiamo fare a gara a chi ha avuto la vita più schifosa? – domandò, freddo.

    – Certo, come no! Tu sei quello che non ha nessuno, quello che «chissà cos’ha passato?», con lo sguardo da cucciolo. Te li rigiri tutti. Yakov, Dimitri, Ekaterina. Scommetto che è sempre stato così. Ovunque tu sia stato, ti è sempre bastato guardare qualcuno con quei tuoi occhioni per averlo dalla tua parte.

    – Sì, è andata proprio così – replicò Victor, con tono neutro.

    Era vero. 

    Aveva pensato più di una volta negli ultimi mesi che, al netto delle cose possedute, lui era sempre stato più felice di Ekaterina. Forse gli era persino stato voluto più bene. E di certo non era mai stato pestato come era successo a Kirill, né gli era mai stata infilata la testa nel water. Tutti pensavano che dovesse aver vissuto chissà cosa in istituto. Non era vero. Lì era stato protetto, aveva avuto degli amici. Solo che poi c’era il resto, il mondo di fuori. E l’ufficio soffocante nella palazzina accanto al palaghiaccio di Salechard e quei ricordi con cui non era ancora venuto a patti. Quello che ho fatto per arrivare qui…

    – Hai finito? – domandò, togliendosi la felpa.

    Voleva che il rancore di Kirill gli scivolasse addosso, insieme ai ricordi che aveva riportato in superficie, voleva spegnere ancora la luce, buttarsi nel letto e sognare il colore delle rose o le risate in pizzeria.

    – No, non ho finito! Vorrei che tu sparissi. O che almeno mi guardassi con qualcosa di diverso da questa indifferenza. Andrebbe bene anche l’odio, sarebbe comunque qualcosa! Vorrei che te ne andassi dalla mia testa e dai miei sogni!

    Detto questo, Kirill fuggì in bagno. 

    Chiuse la porta sbattendola e un attimo dopo si udì il rumore dell’acqua che scorreva.

    Victor rimase un istante a guardare la porta chiusa del bagno e poi si lasciò cadere sul proprio letto. Tirò fuori il cagnolino peluche dalla tasca della giacca e lo tenne tra le mani. Si era aspettato rabbia da Kirill. Ma non aveva immaginato di rappresentare un’ossessione per lui. La rabbia poteva capirla, a ruoli invertiti l’avrebbe provata lui stesso. Le ultime parole invece… Quanti pensieri, e di che genere, Kirill gli aveva dedicato? Era persino possibile che nessuno, certo non Ekaterina, avesse pensato così tanto a lui… 

    Guardò il peluche, mentre in bagno l’acqua scorreva, di certo per coprire i singhiozzi.

    – Sarebbe molto più facile, Kirill, se anche tu fossi entrato almeno una volta nei miei sogni – sospirò.

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


   – Certo che è snervate vederti sempre con un atleta sul gradino più alto del podio… Deve essere facile la vita, quando hai tutta la Russa per andare a caccia di talenti.

    – Taci, tu. Hai uno stato che è grosso come un francobollo, ma sei sempre tra i piedi.

    Karpisek, l’allenatore svizzero, rise, sistemandosi a fianco del russo al bancone bar dell’hotel. Yakov notò con piacere che ormai era più grasso e stempiato di lui. Questo, però, gli ricordava anche quanto fosse passato dai tempi in cui l’avversario poteva permettersi di fare il cretino con Lilia, le rare volte in cui lei veniva a vedere una gara.

    – Si chiama “solida tradizione sportiva”… E comunque dove l’hai scovato uno che ti piazza due combinazioni così in sequenza? Non mi sembra di averlo mai sentito, prima.

    – Beh, adesso diventerà una spina nel fianco per tutti, te lo assicuro.

    Anche per Yakov stesso.

    L’allenatore lanciò uno sguardo al proprio atleta, che stava valutando il buffet della colazione, per essere sicuro di non andarsene senza aver assaggiato tutto. Bisognava in qualche modo che imparasse a gestirlo, o quella sua propensione a esagerare in gara lo avrebbe rovinato…

    – Ma tanto adesso ti sei dato alle coppie, niente scontri diretti tra noi, non più – disse, per cambiare discorso.

    – Non cantare vittoria troppo presto. Ho per le mani un novice che promette benissimo, ha solo undici anni, certo…

    – E sappiamo benissimo quante cose possono succedere

    Il collega però scosse il capo. Aveva un’aria svagata e il suo viso tondo e sorridente era facile da sottovalutare, ma tutte le volte che Yakov l’aveva fatto se n’era pentito amaramente.

    – Devi crescerli tu – disse lo svizzero. – Prenderli il prima possibile, evitare che finiscano in cattive mani… Le cose possono andare storte anche così, certo. Mi è spiaciuto per quell’altro tuo ragazzo. Contro certi infortuni siamo disarmati, per altre cose, invece, possiamo attrezzarci.

    Yakov grugnì qualcosa, poco convinto, anche se sapeva che l’altro aveva ragione. 

    Vitya e Kirill usavano schermi diversi, il sorriso il primo, l’ostilità il secondo, per nascondere il loro vero io e le ferite ricevute dalla vita, non solo, ma anche, sospettava Yakov, nell’ambiente del pattinaggio. 

    – E invece all’altro che cos’è successo? – chiese ancora Karpisek. – Sembrava che dovesse spaccare il mondo e poi si è afflosciato come un soufflé cotto male.

    – Giornata storta. Capita a tutti – tagliò corto Yakov.

    Crollo emotivo bello e buono. Di quello si trattava. Vitya, probabilmente senza rendersene conto fino in fondo, ne aveva triturato l’ego con i pattini, scippandogli il privilegio di essere l’unico atleta in tutto il Grand Prix Juniores a portare una combinazione con un triplo dopo il triplo Axel. Adesso Kirill sedeva a una tavolino, il capo chinato su un libro di scuola. Rispondeva a monosillabi, privo persino delle sue battutine acide e più di ogni altra cosa evitava di incrociare lo sguardo di Vitya. 

    Quando l’allenatore svizzero si fu allontanato per recuperare i suoi due atleti, Yakov fece lo sforzo di andare a sedersi di fianco al ragazzo.

    – Vengono a prenderci tra mezz’ora, hai già portato giù la valigia? – chiese, per rompere il ghiaccio.

    Ghiaccio che rimase intatto, dato che Kirill si limitò a stringersi nelle spalle e ad annuire.

    – Ragazzo, dopo una sconfitta non ci si rintana come un orso in letargo – borbottò Yakov, che già sentiva di stare per perdere la pazienza. – Che poi, sconfitta… Un quarto posto alla gara d’esordio al Grand Prix… Georgi neppure se lo può sognare.

    – Io non sono Georgi.

    – No. E neppure Vitya. Sei Kirill e puoi cavartela benissimo in quanto te stesso.

    Il ragazzo gli lanciò uno sguardo tutt’altro che convinto.

    – Non ti senti bello o spigliato? Chisseneffotte. Percorri la tua strada, pattina i tuoi programmi. Non vincerai tutto? Chissenefotte. Vinci abbastanza. Sarai rispettato. Il rispetto, alla lunga, conta, in questo ambiente più di qualsiasi altra cosa.

    Kirill si limitò a sbuffare.

    – Sei arrabbiato con Vitya e invidioso di lui? Bene. Mi sembra appropriato. Rendigli il favore. Rubagli tutti i salti.

    – Tu lo sapevi che avrebbe fatto anche la mia combinazione? – chiese il ragazzo, aspro.

    Ah, c’era anche questo. Beh, come dargli torto?

    – No. Non l’ho allenato in segreto per sfavoriti, se è quello che hai pensato – disse, cercando di mantenere un tono neutro. –  Non l’ha provata neppure una volta. L’ha imparata solo vedendotela fare.

    Yakov sospirò. Non ci avrebbe creduto neppure lui se non glielo avesse già visto fare la primissima volta, con il Loop.

    Kirill annuì.

    – Se lo odiassi davvero sarebbe più facile, perché potrei trasformale l’odio in determinazione – disse, dopo un certo tempo. – Ma c’è qualcosa che si è inceppato in me e non funziono nel modo giusto.

    Quello che non funziona, pensò Yakov, è che sei stato pestato e costretto a fuggire per qualcosa di cui non hai nessunissima colpa. È che hai l’autostima di un gatto investito in autostrada e tutto quello a cui ti aggrappavi era il fatto di essere il più bravo sul ghiaccio. Solo che hai trovato sulla tua strada qualcuno che è più bravo di te.

    – Non c’è nulla che non vada, in te. Sei quello che sei. Potenzialmente un atleta da podio olimpico. Ed è l’unica cosa che a me interessa.

 

 

 

    San Pietroburgo – Settembre 2002    

 

    Erano rientrati dalla Francia da una settimana, quando il telefono suonò alle due di notte.

    – Arrivo subito – mormorò Yakov, mettendo fine alla chiamata.

    Alzò gli occhi e si trovò gli sguardi assonnati in attesa di Lilia e di Vitya, più indietro, sulla soglia del salotto, come se non sapesse se aveva diritto oppure no di partecipare a quell’emergenza.

    – Kirill sta male – disse. – Lo hanno portato in ospedale. Raggiungo Dimitri.

    Lilia annuì e Vitya fece lo stesso. Nessuno dei due chiese che cosa avesse.

    Trovò Dimitri davanti al pronto soccorso, senza giacca, nonostante le notti fossero già fredde, con i capelli che fuggivano alla coda in cui li legava e il maglione al contrario.

    – Non era il caso che venissi, tanto non ci lasciano salire da lui – disse l’uomo più giovane. – Non è brutta come sembrava. Mi hanno detto che domani già lo possono fare uscire, per l’aspetto medico… Mi hanno fatto un sacco di domande, però, sul perché stava con me… Domani devo vedere anche dei poliziotti…

    Yakov annuì.

    – Kirill starà bene – disse. – Il nostro medico ha chiamato il primario. Adesso tu vieni a bere qualcosa e mi racconti tutto.

    Aveva visto solo una volta Dimitri in quello stato, completamente annientato, quando aveva provato a tornare a gareggiare, dopo l’operazione e aveva capito davvero che la propria carriera era finita, a un passo dalle olimpiadi. Solo che questa volta la colpa era sua, che gli aveva scaricato il ragazzo in casa, senza capire quanto seria fosse la situazione, solo perché… Beh, perché Kirill aveva ragione e lui tra i due preferiva Vitya.

 

    – Dio, non faccio che chiedermi se non sia colpa mia, se non abbia fatto una battuta di troppo. Sicuramente ne ho fatte…

    Dopo una vodka e un caffè lungo, nel primo bar aperto che Yakov aveva visto, Dimitri faticava ancora a ritrovare un minimo di coerenza.

    – Non è colpa tua, quello che è successo – disse l’allenatore più anziano. – Ma è grazie a te che è arrivato in ospedale in tempo utile.

    Dimitri scosse il capo.

    – No… Gli deve essere tremata la mano… Cazzo, però… Per fortuna lei non ha voluto salire da me… Non avrei mai pensato di poter dire una cosa simile… La vasca era tutta rossa. Lui era ancora semi cosciente e io, cretino, per prima cosa ho chiamato l’ambulanza. Così mentre ero al telefono è svenuto e la testa gli è finita sott’acqua…

    Yakov gli poggiò una mano sulla spalla.

    – Lo hai salvato. È questo che hai fatto. 

    Dimitri bevve quello che rimaneva del caffè.

    – Tu lo sapevi che era messo così male? – chiese poi.

    – Avrei dovuto – replicò Yakov. – Pensavo che toglierlo dal pensionato avrebbe migliorato le cose, ma…

    Kirill si sentiva marcio dentro e la gara in Francia gli aveva tolto l’ultimo orgoglio che avesse. Avrebbe dovuto capirlo, quel giorno all’hotel, quanto vicino fosse al limite. Avrebbe dovuto capire quanto soffocata si sentisse Ekaterina. Avrebbe dovuto…

    – Dici che è colpa mia, per tutte quelle frasi sui froci…

    – Dimitri, te l’ho già detto, tu sei quello che gli ha salvato la pelle.

    Anche se supponeva che quelle frasi d’aiuto non fossero state. Ma se c’era qualcuno che poteva essere identificato, se così si poteva dire, come la causa scatenante, era Vitya. I due ragazzi erano stati piuttosto cauti uno verso l’altro, negli ultimi giorni. Kirill sembrava aver optato per un atteggiamento meno ostile, ma il siberiano non si era scostato da sua gentile indifferenza che solo Ekaterina era riuscita davvero a scalfire. 

    – Ha scritto delle lettere – disse Dimitri, a bassa voce. – Le ho messe in tasca all’ultimo momento e ho dato una scorsa mentre ti aspettavo… Ce n’era una per me e una per te, oltre che per la famiglia. A leggerlo non è proprio il ragazzo che abbiamo in mente, che prenderemmo a ceffoni un giorno sì e l’altro anche. Ha solo parole gentili per noi. A quanto pare il padre, un ex militare, ha preso il fatto che abbia chiesto di andarsene dal pensionato come una prova di debolezza. Avrebbe dovuto farsi valere, come se… Beh, se c’è una rissa di qualche tipo, noi pattinatori siamo sempre quelli che le le prendiamo. Ovviamente si fa schifo per… Beh, per quello che gli piace. Si scusa con entrambi noi, per non essere stato all’altezza delle nostre aspettative. Dice che non è colpa mia o tua, che lo abbiamo aiutato e non gli abbiamo fatto pesare le sue debolezze, solo non sopportava di essere mediocre… Ne ha iniziata anche una per Vitya, ma non è andato oltre l’intestazione.

    – Perché non sapeva se scrivere un’invettiva o una dichiarazione – commentò Yakov, con voce stanca.

    – Già… Che vita d’inferno che faceva, sotto i nostri occhi.

    Yakov sospirò.

    – Sì, ma non gli sarebbe andata meglio altrove. Deve far pace con se stesso, Kirill, prima di poter vivere una qualsiasi vita.

    – E adesso che si fa con lui?

    Yakov si strinse nelle spalle.

    – Quello che ci dicono i medici. Poi lo mandiamo a casa per una bella vacanza, dopo esserci assicurati che il padre militare non finisca il lavoro, con buona pace della stagione agonistica. E speriamo che torni. Ma se fossi un padre ci penserei due volte prima di rimandare mio figlio dove ha cercato di tagliarsi le vene.

    – … Ekaterina tornerà?

    – Io non credo. E così ne abbiamo persi due. Quelli che sembravano gli acquisti più sicuri…

    Adesso era Yakov che sentiva il bisogno di una vodka.

    – Ti ricordi cosa ci ha detto quell’assistente sociale, la prima volta che ci siamo interessati a Vitya? – disse Dimitri. – Che ne salvavano la metà e si sentivano bravi per quello.

    Yakov emise un sospiro stanco.

    – Noi non siamo assistenti sociali.

    – No, siamo allenatori di uno sport in cui si arriva ai vertici mondiali quando si è ancora poco più che ragazzini e nessuno, a quell’età, se un minimo sano di mente, si butta in questa vita. Forse dovremmo sentirci bravi anche noi, se riusciamo a portarne avanti la metà.

    – Forse… – mormorò Yakov, poco convinto.

NOTE A MARGINE
Siamo quasi arrivati in fondo. Vorrei, vorrei con tutta me stessa, che ci fosse un finale più lieto per tutti. Spero che un po' la storia di Kirill vi abbia toccato, come ha toccato me quando l'ho immaginata. Mi chiedo quanti Kirill ci siano nel mondo, distrutti dal fatto di essere quasi i migliori, quasi perfetti e incapaci di accettare quella che considerano un''imperfezione e invece li rende umani.
La prossima volta scopriremo che ne è stato di Ekaterina e gli effetti su Vitya di questi eventi.
Per il momento grazie a tutti coloro che hanno letto fin qui.

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


E con questo ultimo capitolo e l'epilogo arriviamo in fondo a questa storia anomala, che di sicuro verrà invalidata dal film di Yuri on Ice, che avevo comunque bisogno di scrivere.
GRAZIE, GRAZIE DAVVERO DI CUORE A TUTTI COLORO CHE SONO ARRIVATI A LEGGERE FINO A QUI


Appena era giunto a San Pietroburgo, poco più di un anno prima, Victor si era innamorato della pista secondaria del palaghiaccio, con le vetrate che davano su tre lati. Aveva pensato che avrebbe voluto pattinare lì per il resto della sua vita.

    Georgi si avvicinò. Con il suo viso affilato, a Victor sembrava un topo, ma si sforzò comunque di sorridere.

    – Siamo rimasti noi due – disse Georgi.

    – Così pare – non aveva davvero voglia di parlare.

    – Tu lo sai cos’è successo a Kirill.

    Non era una domanda. 

    – Domani torna a casa sua – disse Victor. – Il padre ha litigato con Yakov. Se lo rivedremo, sarà in qualche gara, con il suo vecchio allenatore.

    Victor, volente o nolente, aveva ascoltato la metà di quel litigio telefonico, dato che Yakov, quando si arrabbiava, faceva in modo che tutta San Pietroburgo lo sentisse. Padre e allenatore si erano accusati a vicenda di essere la causa di quello che era capitato. Alla fine Yakov aveva buttato giù il telefono ed era uscito di casa sbattendo la porta. Lilia era via per lavoro e l’allenatore era rientrato tardi, aveva lasciato in cucina del cibo d’asporto per lui e poi si era chiuso in camera. Per la prima volta Victor aveva avuto la sensazione che forse anche Yakov potesse essere un essere umano.

    – Sei stato un bastardo con quella combinazione – disse Georgi.

    – Lo so. Ma io volevo solo vincere – replicò Victor.

    Adesso non era più sicuro di essere contento per quella vittoria. O, peggio, si sentiva in colpa per esserne ancora contento. 

    La sera prima aveva chiamato Irina, la donna che lo aveva accompagnato, in una vita precedente, alla gara in cui aveva conosciuto Yakov. A quanto pareva, lassù erano tutti estasiati per quella vittoria. Lui, però, non era stato in grado di raccontare tutto ciò che era successo. Cosa doveva dire? Ho fatto uno sgarbo al mio compagno di allenamento che poi ha cercato di uccidersi, anche perché, forse, era innamorato di me e io neppure me n’ero accorto? Invece la ragazza di cui forse sono innamorato io ha abortito il figlio di un tipo che non è neppure andato a trovarla in ospedale, e io non dovrei neanche saperlo, perché ufficialmente si è fatta male in allenamento… Era stato più semplice, anche più bello, offrire la versione breve della storia. A un anno dalla sua partenza aveva vinto la sua prima competizione internazionale. Irina aveva fatto in modo che gli altri ragazzi vedessero la registrazione della gara. «La maggior parte di voi è convinta di non valere niente» aveva detto. «È bello dimostrare che non è vero. Ricordatelo, Vitya, se diventerai famoso, un sacco di ragazzi trarrà ispirazione da te, non solo gli sportivi». Non sapeva come rapportarsi con quelle parole o con le proprie omissioni. Quando quella notte Yakov era rientrato, ormai erano quasi le cinque del mattino, dopo aver raccontato in breve quello che era accaduto, gli aveva messo una mano sulla testa e gli aveva detto solo: «non è colpa tua». Victor non sapeva neppure se lo pensasse. Si sarebbe comportato diversamente, se avesse saputo cosa passava nella testa di Kirill? Forse la verità era che del compagno d’allenamento non gliene era mai fregato niente.

    – Lo so – disse Georgi, riportandolo al presente. – Sai, è una fortuna che io non abbia il talento di Kirill. Io lo so che potrò batterti solo se ti troverò in una pessima giornata, ma sapere di avere la possibilità di pattinare come te e non riuscirlo a fare dev’essere terribile.

    – Kirill, qui, era più bravo di me – replicò Victor.

    Lo pensava davvero. Aveva iniziato prima di lui, con allenatori migliori. Era più tecnico e preciso.

    Georgi scosse il capo.

    – Tu non ti vedi, quando pattini. Ah, non sei sempre perfetto. Ogni tanto fai degli errori imbarazzanti… Però ipnotizzi. Mi spiace per tutti quelli che si scorneranno con te, anche perché della maggior parte di loro non ti accorgerai neppure… Vuoi venire al cinema, sabato pomeriggio?

    La domanda prese Victor in contropiede.

    – Perché me lo chiedi?

    – Perché io vado al cinema con i miei amici del pensionato e tu mi sembri piuttosto sprovvisto di compagnia… E io non posso passare il resto della mia vita fingendo che tu non esista o odiandoti.

    – Non Harry Potter…

    – L’era glaciale. Tranquillo, è un cartone animato per bambini, al tuo livello intellettuale.

    Victor gli fece una linguaccia. 

    Non vedeva molte possibilità di diventare davvero amico di Georgi, ma provare non costava nulla…

    Guardò fuori e, attraverso le vetrate, vide una figura magra che camminava verso il palaghiaccio.

    – Ekaterina! – esclamò.

    Senza pensarci, senza chiedere il permesso a Dimitri, Victor uscì dalla pista per correrle incontro.

    

    La intercettò nell’atrio e le gettò le braccia al collo prima ancora che lei avesse il tempo di metterlo a fuoco.

    – Ekaterina! Sei tornata!

    – Ehi, ragazzino, mi soffochi…

    Lei gli mise le mani sulle spalle e arretrò di un passo.

    – Non sono tornata, vado via, ero passata per salutare Dimitri… Non fare così, ragazzino, vieni fuori, parliamo un po’.

    Victor annuì, usando tutta la sua forza di volontà per non piangere.

    Finirono sulla solita panchina. Per i pochi metri necessari a raggiungerla, Ekaterina aveva evitato di guardarlo in faccia, ma non aveva lasciato la sua mano.

    – Tu sapevi quello che mi era successo e non l’hai detto a nessuno, credo di doverti ringraziare – esordì, quando furono seduti, sempre senza guardarlo.

    – Ekaterina, non avrei mai…

    – Pensavo che, tra tutti, tu fossi quello più arrabbiato con me.

    – E perché mai?

    Poteva sentirsi ferito da Ekaterina, ma non avrebbe mai provato rabbia nei suoi confronti.

    Lei sorrise, un sorriso triste, nel viso che era ancora più magro di quanto Victor ricordasse.

    – Sei proprio strano, ragazzino.

    – Che cosa farai adesso?

    – Vado via. I miei mi hanno iscritta a una scuola internazionale, a Parigi. Per aiutarmi a dimenticare, dicono. In realtà sono loro che vogliono dimenticare. E dimenticarmi. E evitare che la cosa si sappia. Perché loro farebbero una brutta figura.

    Victor annuì. La Francia era lontana, ma, aveva scoperto, non irraggiungibile.

    – Tornerai ad allenarti? Potremo vederci durante le gare, quando anch’io passerò tra i senior.

    Ekaterina scosse il capo.

    – Non lo so. Non credo di voler pattinare sotto qualcuno che non sia Yakov. Non credo neppure di voler pattinare… Iniziare di nuovo, una vita in cui non ci sia sempre qualcosa che mi faccia male, in cui essere solo una qualsiasi, non è un’idea che mi dispiaccia.

    Anche se non voleva, una lacrima scese sulla guancia di Victor.

    – Ekaterina, ma tu sei… Sei come una dea sul ghiaccio.

    Lei raccolse la sua lacrima con la punta dell’indice e rimase a guardarla. Il cielo era di un grigio uniforme e la lacrima non rifletteva alcuna luce.

    – Forse lo sono, ma non è una cosa che ho scelto io… – Ekaterina prese un respiro. – Ascolta, ragazzino, mi sono quasi distrutta nel tentativo di essere quello che volevano gli altri. Volevo essere la bella bambolina da esibizione per i miei, l’atleta perfetta per Yakov… Con Igor ci sono finita a letto, senza pensare davvero al dopo, solo perché speravo che poi mi guardasse come a volte mi guardi tu, quando dici che sono una dea. Non ne vale la pena. Non ci ho guadagnato niente. A parte Yakov, se la sono data tutti a gambe quando le cose sono andate storte… Noi siamo uguali, ragazzino, ma tu non fare come me. Fregatene di quello che vogliono gli altri. Tutti quanti, persino Yakov. Vivi la vita che desideri, pattina fino a che ti va di farlo, smetti quando non ti va più. Fai il contrario di quello che la gente si aspetta da te, perché forse è quello ciò di cui la gente ha bisogno.

    – Resta qui – mormorò Victor, anche se sapeva che era una richiesta puerile e impossibile.

    Sapeva anche, però, che non era in grado di dire se quello che provava per Ekaterina fosse amore, ma di certo lei era l’unica persona con cui, lì a San Pietroburgo, non si sentisse solo.

    – Lasceresti tutto per venire tu via con me? – chiese lei, con dolcezza.

    – No – rispose Victor.

    Neppure Ekaterina valeva la sensazione che aveva provato al termine della gara, in Francia.

    – E allora resta… Ma se un giorno tu trovassi una persona per cui senti di poter andare anche in capo al mondo, non chiederti se sia o no un capriccio, se ne valga la pena. Vai.

 

EPILOGO

 

    Sofia – Gennaio 2004    

 

    Non voleva dire niente. Potevano andare storte una marea di cose. Nessuno meglio di lui lo sapeva. Era la terza volta in cinque anni che si trovava in quella situazione e due volte le promesse non si erano realizzate. Beh, si concesse, non era proprio la stessa cosa. Questa volta sul podio del mondiale juniores due gradini su tre erano occupati dai suoi atleti, Vitya primo e Georgi terzo. Tra tutti e due gli avevano fatto perdere dieci anni di vita. Georgi, con una mezza crisi di panico prima della gara e Vitya con quella sua maledetta mania di fare di testa propria, anche a costo di sbagliare e di finire quinto dopo il programma breve. Lo avrebbero fatto morire giovane quei due. Guardò il maledetto cagnolino di peluche che Vitya gli aveva affidato. Beh, almeno quella era l’ultima volta, il ragazzo aveva promesso  che una volta approdato alla massima categoria avrebbe smesso di portarselo dietro.

    Sospirò, più stanco che se avesse gareggiato lui. Due volte. Almeno adesso, mentre i suoi atleti andavano a cambiarsi e a fare il giro delle foto e delle interviste, avrebbe avuto il tempo per un panino.

    – Yakov! – lo chiamò Dimitri. – Guarda chi è venuto a salutarci.

    Dietro il suo collega c’era una giovane coppia. Lui era sui vent’anni, alto, bruno e con un accenno di pizzetto. Yakov lo fissò interdetto, poi ne riconobbe gli occhi grigi.

    – Ivan! – esclamò.

    L’adolescente spigoloso che ricordava era diventato un giovane uomo proporzionato, in grado, sopratutto, di mostrare quel piglio sicuro che una volta mostrava solo in gara.

    – Cosa ci fai in Bulgaria? – chiese, stingendogli la mano con calore.

    – Sono qui per lavoro, la mia ditta sta aprendo qui un nuovo stabilimento e io devo controllare che i macchinari siano montati a dovere. La mia ragazza è venuta a trovarmi per il fine settimana e non potevo perdere l’occasione di presentartela.

    Così dicendo invitò la biondina a fare un passo avanti.

    – Anna – disse Ivan. – Questo è Yakov, che una volta è riuscito a farmi diventare campione del mondo e poi ha raccolto i cocci quando sono andato in pezzi.

    L’allenatore le diede un buon voto, anche se era un po’ troppo bassa e rotondetta per i suoi gusti, ma aveva uno sguardo buono, e Ivan si meritava tutta la bontà del mondo.

    – Venite, andiamo a prenderci qualcosa da bere, prima che debba recuperare i due scapestrati – li invitò.

 

    In pochi sorsi di caffè Ivan aggiornò i suoi vecchi allenatori sulla propria vita, il ginocchio che faceva male solo se lo forzava, i viaggi di lavoro e i propositi a lungo termine di Anna, che studiava lingue all’università. Non era la vita che Yakov aveva immaginato per lui, ma era, ammise, comunque una vita. 

    – Hai fatto carriera – constatò.

    Ivan si strinse nelle spalle.

    – So cosa vuol dire la fatica, parlo bene inglese, sono abituato a viaggiare e non mi spaventa alzarmi presto – disse. – Sono tutte cose che davo per scontate, perché le fa anche quello che oggi è arrivato ultimo, ma a quanto pare nel vasto mondo esterno non è poi così comune per i ragazzi della mia età.

    Anna, intanto, stava guardando il peluche appoggiato al tavolino del bar, ma non osava chiedere.

    – È di quel pazzo che ha vinto – si giustificò Yakov. – È in grado di rimontare cinque posizioni con tre salti, ma se gli perdo il pupazzo è capace di fare una crisi isterica.

    La ragazza sorrise.

    – Lei è davvero come Ivan l’ha descritto.

    Yakov fece una smorfia.

    – È il capitano di una nave in continua tempesta – citò Anna, mentre Ivan arrossiva per l’imbarazzo. – Non è il padrone del destino, ma se tutto dovesse andare storto, ci ha comunque insegnato anche a nuotare.

NOTE A MARGINE
Qui si conclude questo escursus nel passato di Victor. Ekaterina e Kirill escono da questa storia, ma non dai miei pensieri. Ekateriana continuerà a vivere a Parigi, non tornerà mai più a pattinare. Non so se riuscirà mai a essere davvero felice, ci sono troppi nodi irrisolti dentro di lei. Nella mia testa, lei e Victor si incontreranno di nuovo, brevemente, molti anni dopo.
Kirill per un certo tempo continuerà la sua carriera di pattinatore seguito dal proprio vecchio allenatore, ma senza Yakov non riuscirà più a competere davvero con Victor. Proverà di nuovo a fingere di essere il figlio perfetto che desidera suo padre, ma a un certo punto troverà il coraggio di trasferirsi all'estero. Lo immagino molti anni dopo in Germania, professore di educazione fisica in un liceo, ormai in pace con se stesso e con qualcuno al suo fianco. Penso che comunque il fatto che Yakov gli abbia sempre detto, in totale sincerità, che non c'era nulla di sbagliato in lui lo abbia aiutato a ricostruire la propria personalità.

Infine devo ringraziare di cuore tutti voi che siete arrivati a leggere fin qui. Chi ha speso un poco del proprio tempo per commentare, Syila, che mi ha preso per mano e accompagnato per tutta la storia, le ElinaFD, senza di loro neppure avrei guardato Yuri on Ice, Lele (che forse non passa di qui), che aveva paura di questa storia ma mi ha comunque incoraggiato a scriverla.

Che  ne è dei personaggi ora? Nei miei archivi c'è ancora parecchio materiale su di loro. Ho bisogno di qualche giorno per riogranizzarmi e riorganizzarlo, ma, per chi vorrà, credo  ci sarà la possibilità di leggere qualcosa. Ho una mezza idea di portarvi alle olimpiadi.
    

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