Star Trek Universe Vol. IV: Segreti di famiglia

di Parmandil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Galatea ***
Capitolo 3: *** Le voci della guerra ***
Capitolo 4: *** La società perfetta ***
Capitolo 5: *** A mali estremi... ***
Capitolo 6: *** ... estremi rimedi ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Star Trek Universe Vol. IV:

Segreti di famiglia

 

 

SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA.

QUESTI SONO I VIAGGI DELLA

NAVE STELLARE ENTERPRISE.

LA SUA MISSIONE È ESPLORARE

STRANI, NUOVI MONDI,

SCOPRIRE NUOVE FORME DI VITA

E NUOVE CIVILTÀ,

FINO AD ARRIVARE LÀ

DOVE NESSUNO È MAI GIUNTO PRIMA.

 

 

-Prologo:

Data stellare 2538.211

Luogo: Tantalus V

 

   Dicono che chi nasce cieco riesca a muoversi nella propria camera come se ci vedesse. Chiunque avesse coniato quell’espressione, evidentemente non aveva mai avuto una compagna di stanza come Delara. Era una delle sue magliette, buttata a terra chissà quando e lì dimenticata, che aveva fatto scivolare la ragazza cieca. Passato lo shock, la teenager si rialzò. A parte un dolore sordo al fondoschiena non si era fatta male. Afferrò la maglietta di Delara e la schiaffò nell’armadietto della compagna. Era certa che non fosse una delle sue maglie: lei non le dimenticava mai in giro. Sedette sul suo letto, perfettamente rifatto (contrariamente a quello di Delara, su cui sembrava passata una mandria) e si tastò delicatamente le garze che le coprivano gli occhi. Il bruciore era passato da un pezzo. Forse era arrivato il momento di toglierle. In quella il sibilo della porta l’avvertì che qualcun altro era entrato in camera.

   «Ah, sei qui! Ti ho cercata dappertutto!» trillò la voce inconfondibile di Delara.

   «Bastava chiedere al computer» rispose flemmatica la ragazza con le garze.

   «Dicevo così per dire. Dai, Ninì, fammi vedere gli occhi!» chiocciò la compagna di stanza, accompagnandosi con una risatina infantile.

   «Te lo chiedo per l’ultima volta... non chiamarmi Ninì» rispose l’altra con voce strascicata. «Io sono Neelah. E presto sarò la dottoressa Neelah» puntualizzò.

   «Sissì... allora, me li fai vedere o no, i tuoi nuovi occhi?» chiese Delara. A giudicare dalla voce, le era venuta appresso.

   «Come sono le luci?».

   «Abbassate del 30%. Non ti accecherai».

   «Okay... allora vediamoli» sospirò Neelah. Si portò le mani agli occhi e cominciò a sfilare lentamente le garze. Il materiale intelligente venne via senza problemi. Non restava che sollevare le palpebre.

   «Sei emozionata?» chiese Delara.

   «Un po’» ammise Neelah. Era un eufemismo: aveva atteso quel momento per quasi tutta la sua giovane vita. Socchiuse gli occhi e le tenebre si dissiparono. C’era luce nella camera, ma faticava a mettere a fuoco gli oggetti. Resistette alla tentazione di stropicciarsi gli occhi, anche se li sentiva pungere fin quasi a lacrimare.

   «Oh, Ninì... hai gli occhi azzurri!» esclamò Delara, che sembrava più emozionata di lei. «Piacerai un sacco ai ragazzi!».

   «Non ci tengo a piacere a nessuno» brontolò Neelah, cercando di focalizzare la visione. «Questo l’ho fatto solo per me».

   «Beh, ma non c’è niente di male a voler piacere. Guarda me... io piaccio a tutti!» gongolò Delara, le cui avventure amorose erano note in tutta la scuola. «Oh, ma dove ho la testa... computer, modalità specchio!» ordinò.

   Neelah si trovò di fronte il proprio ologramma, che faceva da specchio tridimensionale. Mentre i suoi occhi si abituavano a funzionare, la visione divenne più nitida. Finalmente Neelah poté vedersi... non attraverso l’elaborazione di un Visore, ma allo stesso modo in cui la vedevano gli altri.

   Come tutti gli Aenar – i rari Andoriani albini – aveva la pelle bianca e i capelli ancora più candidi. Le sottili antenne craniali avevano un accenno di biforcazione in punta. Tutto questo lo sapeva già; ciò che la colpì fu l’aria generale. Davanti a lei c’era una teenager magra fino all’osso, dai capelli corti un po’ disordinati e una faccia che sembrava non aver sorriso mai. Su quel volto scarno, gli occhi spiccavano enormi e un po’ febbricitanti. Almeno non erano più rosa e senza sguardo. Ora avevano pupille nere e iridi azzurre, che... sì, erano proprio carine.

   «Hai visto, Ninì? Sei bellissima! Oh, sono così felice per te!» pigolò Delara, abbracciandola.

   «Groan... va bene, sei stata abbastanza chiara» sospirò Neelah, cercando di scollarsela di dosso. Guardò anche lei, per pura curiosità accademica... e forse per mettersi a confronto. Delara era una Betazoide, come indicavano le enormi pupille nere, che le riempivano quasi del tutto gli occhi. Aveva un viso tondo, ben curato, e lunghi capelli rossicci un po’ mossi. Le sue forme erano più femminili, notò Neelah con una punta d’invidia; ma si disse che era irrilevante. «Computer, disattiva specchio» ordinò.

   «Allora, sei soddisfatta?» chiese Delara, sedendo a gambe incrociate sul suo letto sfatto. Invitò Neelah a fare altrettanto.

   «Ti saprò rispondere quando avrò fatto i test ottici» rispose l’Aenar con prudenza. «Se avrò i dieci decimi che mi hanno promesso, allora sì, sarò soddisfatta». Sedette anche lei a gambe incrociate, davanti alla compagna di stanza.

   «La solita perfezionista!» la canzonò Delara. «Senti, non volevo chiedertelo prima, ma... questa cosa è sicura?».

   «Certo, perché non dovrebbe?».

   «Beh, ti sei iniettata delle nanosonde Borg... non è una cosa che fanno tutti...» mormorò Delara, improvvisamente a disagio.

   «Nanosonde Borg modificate» puntualizzò Neelah, sollevando l’indice ossuto. «Non mi assimileranno, se è questo che temi. Però mi hanno ricostruito gli occhi e i nervi ottici, partendo da quei resti vestigiali che avevo. Era l’opzione migliore, anche meglio della terapia genica».

   «Oh, Ninì, il tuo DNA non ha niente che non va...».

   «Come no, è perfetto... per chi si accontenta di vivere nelle grotte. Io voglio di più». Era da quando aveva memoria che Neelah desiderava di più. Vivere nelle caverne ghiacciate di Andoria non faceva per lei. Sentiva, in modo prepotente, di essere chiamata a un destino più alto. Aveva solo sei anni quand’era stato chiaro che le scuole normali sarebbero state una perdita di tempo per lei. Il suo quoziente intellettivo e il livello ESP esagerati richiedevano un’istruzione speciale. I suoi genitori si chiedevano che fare, dove mandarla per assicurarle il futuro migliore. Così, quando si erano presentati gli emissari di una “scuola per giovani dotati” gestita dalla Flotta Stellare, era parsa una manna dal cielo. I suoi genitori avevano firmato un contratto, perché fosse questa agenzia – dal bizzarro nome di Sezione 31 – a occuparsi della sua formazione.

   Da allora, Neelah li aveva visti sì e no una volta l’anno. La Sezione 31 l’aveva portata su Tantalus V, assieme ad altri “giovani dotati” che aveva radunato, per studiare a fondo le loro capacità e spingerli a dare il massimo. Nei dodici anni successivi, Neelah aveva fatto ogni sorta di test per misurare le sue facoltà intellettive e i suoi poteri telepatici. Aveva studiato molte discipline, ma si era progressivamente concentrata sulla biologia, in particolare sulle tecniche d’ingegneria genetica. Aveva anche approfondito la nanotecnologia, studiando le nanosonde Borg. Quando i suoi insegnanti dissezionavano un drone sotto i suoi occhi, Neelah non ci trovava nulla di strano; non stava a chiedersi come facesse la Sezione 31 a procurarselo. Per quanto ne sapeva, cose del genere avvenivano su tutti i pianeti federali. Non immaginava quanto invece fossero rare e pericolose. Quanto al suo problema, la cecità congenita degli Aenar, Neelah vi sopperiva con un Visore elettronico. Talvolta ne faceva a meno, sfruttando la telepatia per crearsi una mappa mentale dell’ambiente circostante. Ma per leggere e per fare lavori minuziosi le serviva il Visore. Aveva cambiato più volte modello, cercandone sempre di migliori. Poco alla volta aveva compreso che stava studiando biologia per liberarsene. Voleva vedere il mondo con i suoi occhi, non con un pezzo di tecnologia che potevano toglierle in qualunque momento.

   Poco alla volta gli anni di sacrifici avevano cominciato a dare frutti. I potenziamenti genetici avevano innalzato ulteriormente il suo livello ESP, oltre a renderla più forte e veloce. Ma ottenere la vista era la svolta fondamentale: non solo per avere una vita normale... ma anche perché era opera sua. Era stata lei a modificare le nanosonde per ottenere questo risultato. Aveva preso la natura per la gola, obbligandola a darle ciò che voleva. Era una sensazione inebriante... ed era solo l’inizio.

   «Sai, le nanosonde non mi servono solo per vedere» spiegò l’Aenar, contenta di avere un pubblico, per quanto ristretto. «D’ora in poi mi terranno in ordine tutto l’organismo. E mi aiuteranno a cicatrizzare più in fretta le ferite». Fu tentata di tagliarsi per controllare quanto in fretta, ma si trattenne. C’erano modi meno sanguinosi di appurarlo.

   «Quindi sei diventata una specie di supereroina?» chiese Delara, un po’ divertita e un po’ spaventata.

   «Beh, in un certo senso...» sogghignò Neelah. «In effetti non sono mai stata così bene. Mi sento piena d’energia. E quanto a questo...» aggiunse, agguantando il Visore che teneva sul comodino «... non lo indosserò mai più!». Lo torse fra le mani, fino a spezzarlo in due, e gettò i pezzi nel cestino.

   «Ora mi fai paura, Ninì» mormorò Delara, arretrando con la schiena contro la testata del letto. «Quel Visore era fatto di metalli durissimi. Come l’hai...».

   «Te l’ho detto, sto diventando più forte» spiegò Neelah, con voce bassa e seria. «Così mi farò rispettare. La prossima volta che qualcuno mi tocca il sedere, gli stronco il braccio».

   «Dave faceva solo per scherzare...».

   «Dave capirà che a me non piacciono gli scherzi» ribatté l’Aenar, digrignando i denti. «Ma non preoccuparti, tu sei al sicuro».

   «Uhm... non è che da un momento all’altro estrai gli iniettori Borg e me li cacci nel collo?» chiese Delara, ancora un po’ intimorita.

   «Non ho gli iniettori... non ancora» la rassicurò Neelah. «Comunque non faccio tutto questo solo per me. Le nanosonde hanno potenzialità inesplorate. Continuerò a studiarle, per correggere altri difetti genetici... curare le malattie... prolungare la vita. Insomma, per migliorare le specie. Un giorno il mio lavoro beneficerà milioni di persone!» sostenne, dandosi importanza.

   «Quindi hai deciso, continuerai a studiare nanotecnologia» disse Delara, facendosi seria.

   «Senza dubbio» confermò l’Aenar. «C’è una facoltà su Denobula che fa al caso mio... se non è troppo provinciale. Forse dovrei andare sulla Terra. Ho sempre sognato di vedere la capitale, ci sarà un bell’ambiente cosmopolita...».

   «Quindi te ne andrai» precisò Delara.

   «Certo che me ne andrò!» rispose Neelah. «Sono stata su questo sputo di pianeta per dodici anni. Non vedo l’ora di cambiare aria. È così anche per te, no? Mi hai sempre detto quanto vorresti tornare su Betazed, e poi vedere i pianeti più griffati...».

   «Infatti è così» assicurò Delara. «Ho tanta voglia di rivedere i miei genitori. E di gustarmi un po’ di Galassia. Ma mi spiace anche lasciare questo posto... in fondo ci sono cresciuta. Tutte le mie amiche sono qui».

   «Sciocca sentimentale» si disse Neelah, schermando i propri pensieri perché la Betazoide non li captasse. «Sono certa che avrai successo anche altrove» disse più diplomaticamente.

   «Grazie, Ninì!» s’illuminò Delara. «Sai, sono sempre più convinta che farò l’insegnante. Già qui mi sono un po’ occupata dei piccoli del primo anno. Continuerei volentieri a farlo su Betazed».

   «E tutte le ricerche sulla telepatia?» chiese Neelah. «Hai passato anni a spingere i tuoi poteri al limite. Ora che li padroneggi, non vuoi usarli per qualcosa di... di grande?» chiese. Stava per dire di “importante”, sottintendendo che insegnare non lo era.

   «Sono stanca di questa disciplina para-militare che c’impongono» confessò Delara. «Ho già sacrificato tanto per accontentare la Sezione 31. I nostri insegnanti hanno i dati psico-fisici che volevano. Ora vorrei una vita normale».

   «Sì, capisco» si addolcì Neelah. «Anch’io non ne posso più di questo regime. Per questo non entrerò mai nella Flotta Stellare. Qualunque cosa faccia, resterò nel ramo civile» disse con decisione.

   «Ben detto. Sai, vorrei avere più tempo per conoscere la nuova te» sospirò la Betazoide. «Purtroppo ci resta poco. Fra qualche giorno saremo maggiorenni e prenderemo strade diverse» aggiunse malinconica.

   «Già...» annuì Neelah, meditabonda. I loro compleanni cadevano ad appena sette giorni di distanza. E poiché stavolta compivano diciotto anni, tutto sarebbe cambiato. Quando uno dei “dotati” diventava maggiorenne, il contratto firmato dai suoi genitori perdeva validità e doveva essere rinegoziato dal diretto interessato. Naturalmente la Sezione 31 non voleva perdere i suoi pupilli, dopo aver speso tanto tempo a istruirli. Perciò cercava di convincerli a rimanere come Agenti Operativi. Perché era quella la verità che i “dotati” comprendevano poco alla volta: la Sezione 31 non era una branca qualunque della Flotta Stellare. No, era un servizio segreto. E i suoi metodi erano poco ortodossi. Chi ne faceva parte sceglieva una vita di anonimato e di pericolo. Gli altri – quelli che se ne andavano – potevano invece rifarsi una vita normale. Malgrado le loro differenze, Neelah e Delara miravano entrambe a questa opzione, la più comoda e sicura.

   «Ninì, promettimi che resteremo in contatto» disse Delara. Parlava come se la sua vita dipendesse da questo.

   «Eh? Sì, certo» fece l’Aenar distrattamente. Fece per scendere dal letto, ma Delara la trattenne.

   «Dico sul serio! Giuralo sulle tue antenne!» insisté la Betazoide, porgendole il dito mignolo con aria drammatica. Era difficile compiere quel gesto con drammaticità, ma lei ci riuscì in modo ammirevole.

   «Oh, per l’amor...!» pensò Neelah, senza nemmeno schermare i suoi pensieri. Sapeva quanto fosse cocciuta Delara. Solo perché condividevano la stanza, quella pellerosa pensava che fossero amiche del cuore. Ma Neelah non aveva mai avuto amiche e non ne sentiva la mancanza. Delara le serviva solo per sfogarsi, di tanto in tanto. Decise di accontentarla, giusto per levarsela dai piedi. «Va bene... giuro sulle mie antenne che ci terremo in contatto, qualunque cosa accada» disse con sopportazione, incrociando il mignolo con quello di Delara. Se li strinsero con forza per qualche secondo.

 

   Nei giorni successivi, Neelah superò con successo i test ottici. I suoi nuovi occhi erano all’altezza delle aspettative, il che la riempiva di soddisfazione. Qualcuno dei ragazzi le fischiò dietro, ma lei non ci badò. Contava i giorni che mancavano alla maggiore età. Ma prima c’era il compleanno di Delara. Per quanto vivessero in un austero centro d’addestramento, la Betazoide riusciva sempre a trasformare le feste in una baraonda. Quella poi, essendo l’ultima, sarebbe stata la più sfrenata di tutte. Così, la sera della vigilia, Neelah uscì sulla superficie del pianeta per godersi il silenzio e la tranquillità. Per lei era come prendere una boccata d’aria, prima del chiasso che l’aspettava la sera successiva.

   Tantalus V era un deserto roccioso, su cui crescevano pochi arbusti stentati. Di conseguenza il centro d’addestramento era in gran parte sotterraneo, anche se alcune attività – come i corsi di sopravvivenza – si svolgevano in superficie. Vista da fuori, l’installazione sembrava composta da pochi prefabbricati isolati, contenenti gli ascensori. Ma il suo sviluppo nel sottosuolo era notevole; in tanti anni Neelah non aveva mai scoperto la sua estensione. Ogni volta che s’informava su un livello veniva a sapere di un altro sottostante, ancora più top secret. Alla fine aveva smesso di pensarci. Preferiva la superficie, per quanto arida. E poi c’era quel bellissimo anello bianco che solcava il cielo, frutto di un’antica luna disgregata. Neelah osservò il tramonto con i suoi nuovi occhi, trovandolo bellissimo. Quando il sole svanì dietro l’orizzonte l’aria si raffreddò di colpo, com’è tipico dei deserti. Nata per vivere tra i ghiacci di Andoria, l’Aenar non ne soffrì. Ma il regolamento vietava di stare fuori dopo il tramonto, quindi si affrettò verso l’ingresso del centro.

   Fu allora che scorse due persone che passeggiavano davanti al basso edificio grigio. Ne riconobbe subito una: era la Direttrice Vanth, colei che gestiva la scuola. In quegli anni l’aveva vista di rado, più che altro in occasione dei discorsi che rivolgeva agli studenti. Più spesso l’aveva sentita all’altoparlante. Non che ci tenesse a vederla in faccia. La Direttrice era una Tiloniana: aveva spesse arcate ossee che le circondavano la fronte e s’incurvavano sugli occhi, dandole un’aria schizoide. Portava sempre un dispositivo applicato alla tempia, che bloccava i poteri telepatici degli studenti, perché nessuno leggesse la sua mente. Era la prima volta che Neelah la vedeva in superficie; di solito se ne stava rintanata nei livelli inferiori, come una termite regina. L’Aenar si nascose dietro una roccia e schermò i suoi pensieri, non volendo farsi scoprire. Se la Direttrice l’avesse sorpresa fuori a quell’ora, sarebbero state grane. La sua severità era leggendaria.

   Neelah si sporse appena dal riparo, per capire con chi stava passeggiando Vanth. Ora che il sole era calato, si era fatto subito buio. Intravide però un ufficiale, vestito con l’uniforme nera della Sezione 31. Aveva la pelle blu e corti capelli bianchi, da cui facevano capolino due antenne. Un compatriota! Da quando era su Tantalus, Neelah aveva visto ben pochi Andoriani. Si chiese chi fosse quello; probabilmente un pezzo grosso della Sezione 31. Spinta dalla curiosità, la ragazza cercò di ascoltare la conversazione. La Direttrice e il suo ospite erano abbastanza lontani, ma il silenzio del deserto rendeva udibili le loro voci.

   «Allora, Sheev, com’è andata la missione con gli Tzenkethi?» chiese la Direttrice, rivelando il nome del collega.

   «Abbastanza bene, ma sai com’è... se ti rivelassi i dettagli, poi dovrei ucciderti» ridacchiò l’Andoriano. Da come si parlavano, sembravano avere una certa familiarità. «Veniamo a te, piuttosto. Ho letto le schede che mi hai mandato. C’è senz’altro del materiale interessante. Il Soggetto 379, per esempio».

   «Uhm, sì. Ragazza promettente... peccato che voglia lasciarci» annuì Vanth.

   «Fa’ in modo che resti dei nostri» ordinò bruscamente Sheev.

   Neelah rimase interdetta. Non sapeva chi fosse il Soggetto 379: non aveva mai sentito usare quella terminologia per riferirsi agli studenti. Ma la prossima ragazza che avrebbe lasciato la scuola era Delara, l’indomani. Quel tipo voleva impedirle di andarsene e la Direttrice non faceva obiezioni... ma in che modo volevano costringerla a restare? Neelah ascoltò ancora più attentamente, conscia che si stavano decidendo le sorti della sua compagna di stanza... la cosa più simile a un’amica che avesse.

   «Non sarà un problema» disse la Direttrice, nel tono di chi fa spesso discorsi del genere. «L’abbiamo preparata per anni. Sai, è un eccellente soggetto... estremamente ricettiva al trattamento subliminale. Quando abbiamo superato quel po’ di resistenza iniziale, si è rivelata del tutto malleabile. Abbiamo fatto un lavoro di fino con lei; sarà un’ottima Agente...». La Tiloniana tacque e si guardò attorno, sondando le tenebre con gli occhi schizoidi. Terrorizzata, Neelah si appiattì dietro le rocce e abbassò il più possibile i suoi segni vitali, per non essere rilevata.

   «C’è qualche problema?» chiese Sheev.

   «Non dovremmo stare all’aperto» rispose Vanth, sibillina. «Di queste cose è meglio discutere nel mio ufficio».

   «Scendiamo, allora. Prima le signore...» disse l’Andoriano, con galanteria un po’ beffarda. Seguì la Direttrice all’interno del prefabbricato e poi nell’ascensore che portava sottoterra.

   Neelah rimase all’esterno per un pezzo, cercando di calmarsi. Aveva davvero sentito quelle parole o aveva frainteso? Sfruttando la sua memoria fotografica, le ripassò al setaccio. No, nessun equivoco. La Direttrice e quell’altro tipo stavano davvero parlando di condizionamenti mentali inflitti agli studenti, per costringerli a restare. Le peggiori tesi complottiste che la ragazza aveva udito trovavano improvvisamente conferma, e dalla bocca della Direttrice!

   «Delara... l’ho sempre saputo che eri una testa vuota, ma adesso so perché!» si disse Neelah. Ora capiva il suo insano attaccamento a quel luogo, che contrastava con la voglia di tornare a Betazed. Forse, se l’avesse informata di cosa le avevano fatto, Delara avrebbe trovato la forza di opporsi. «È pur sempre una telepate, anche se non in gamba quanto me» pensò Neelah. Non volendo che le telecamere registrassero il suo rientro dopo la Direttrice, andò verso un’altra entrata: un ingresso di servizio abbandonato, che qualche studente aveva riaperto di nascosto per sgattaiolare in superficie. Le ci volle un po’ per raggiungerlo, anche perché doveva stare attenta a dove metteva i piedi. Il suolo roccioso diventava una trappola, nell’oscurità, e una caviglia slogata avrebbe rivelato che era stata all’aperto in orario proibito. Raggiunse l’ingresso con il cuore che batteva a mille.

   Ridiscesa nell’installazione, Neelah corse in camera, ma la trovò vuota. La sua compagna di stanza non le aveva lasciato nemmeno un messaggio. Ed essendo scattato il coprifuoco, non poteva cercarla in giro per la scuola. «Computer, localizza Delara Livras» disse con voce tremante.

   «La studentessa Livras è stata chiamata a colloquio dalla Direttrice Vanth» rispose la voce asettica del computer. Neelah si sentì sprofondare. Dovette sedersi sul letto per calmarsi. La Direttrice non aveva perso tempo. Appena stabilito di tenersi Delara, l’aveva chiamata per... che cosa? Far scattare il condizionamento? Costringerla a firmare un nuovo contratto che l’avrebbe incatenata alla Sezione 31? Era più che probabile. Ma lei che poteva fare per aiutarla?

   Niente, si disse Neelah. Era solo una povera studentessa di biologia, non poteva mettersi contro i servizi segreti federali. Sarebbe stata fortunata a sfuggire la punizione per aver violato il coprifuoco. Il meglio che poteva fare era tener duro per quell’ultima settimana, rifiutarsi categoricamente di firmare impegni e andarsene da quell’istituto degli orrori. Allora sì, sarebbe stata padrona di se stessa, libera di proseguire gli studi e diventare qualcuno. Ma non poteva salvare Delara, né gli altri che erano stati indottrinati a loro insaputa. Con questo pensiero, Neelah andò a letto; ma si rigirò tra le coperte per più di un’ora, senza pace, prima di trovare sonno.

 

   Il mattino dopo, Delara non era ancora tornata. Neelah passò una mattinata orribile, cercando di non pensare a cosa le avessero fatto. Fu solo all’ora di pranzo che la incontrò in sala mensa.

   La Betazoide era irriconoscibile. Venne verso di lei con movenze robotiche e si sedette senza una parola. Dagli occhi cerchiati si sarebbe detto che aveva passato la notte insonne. I capelli rossi erano ora raccolti in una severa crocchia, che la faceva sembrare di dieci anni più matura. «Ciao, Neelah» la salutò. Era la prima volta che la chiamava col suo nome.

   «Uh, ciao» mormorò Neelah, guardandola di sottecchi. «Non ti vedo da ieri... dov’eri finita? Hai passato la notte fuori camera».

   «Sono stata chiamata a colloquio dalla Direttrice Vanth» rispose Delara, con voce asettica quanto quella del computer.

   «Ah... e di che avete parlato?» chiese l’Aenar con un groppo in gola. Stava torturando un cubetto vegetale con la forchetta, senza mai portarlo alla bocca.

   «Del mio futuro nella Sezione 31» disse la Betazoide, sedendo rigida.

   «Credevo che volessi tornare a casa per fare la maestrina o qualcosa del genere» azzardò Neelah.

   «Come tu stessa mi hai fatto notare, sarebbe uno spreco di talento» rispose rigidamente Delara. «La Direttrice Vanth mi ha aperto gli occhi. La Sezione 31 ci ha addestrate per uno scopo. Le nostre capacità devono porsi al servizio della Federazione. Prima non lo capivo, ma ora è tutto chiaro».

   «Quindi... non tornerai su Betazed?» chiese Neelah. Era una domanda idiota, a quel punto, ma l’Aenar non trovava di meglio che fare la finta tonta.

   «No» rispose Delara, senza traccia di rimpianto. «Ho già firmato l’impegno per diventare Agente Operativo. Naturalmente il resto dell’addestramento non avverrà qui. Non so dove mi manderanno, ma non importa».

   «Tu hai firmato per diventare Agente Operativo» ripeté Neelah, fissandola allibita. Sperava che da un momento all’altro Delara scoppiasse a ridere e le dicesse che era tutto uno scherzo... uno stupido scherzo d’addio. Quanto l’avrebbe voluto!

   Ma la Betazoide sembrava aver dimenticato cosa fosse l’umorismo. «Sì, esatto» rispose. «Spero vivamente che farai altrettanto, Neelah. Saresti un elemento prezioso per la Sezione 31». Da quando si era seduta non aveva ancora sbattuto gli occhi.

   «E cosa devo alla Sezione 31?» rispose Neelah, reprimendo la collera.

   «Tutto. Tu e io le dobbiamo tutto» rispose Delara a bassa voce. «I nostri poteri mentali superiori al normale ci rendevano delle disadattate. La Sezione 31 ci ha dato una casa, un’istruzione e – cosa più importante – uno scopo. Ormai è diventata la nostra famiglia. Non credi che si debba fare tutto, per la famiglia?».

   Neelah cercò di sondare la mente della Betazoide, per capire l’entità del danno e come intervenire per rimediare, ma si scontrò con un muro invalicabile. Davanti a lei c’era un’estranea. Si chinò in avanti, accostandosi a Delara, e le sussurrò la sua risposta all’orecchio. «Io non ho famiglia» sibilò con voce velenosa. «A me non serve una famiglia».

   Scambiò un’ultima occhiata torva con l’ex compagna di stanza, fredda come una statua, e si ritiro. Quella sera, tornata in camera, scoprì che la roba di Delara era sparita. Il computer le confermò che la festa d’addio era stata annullata e che la ragazza se n’era già andata con un trasporto. La destinazione era riservata.

   «Ancora una settimana e sarò fuori da questa gabbia di matti» si disse Neelah, raggomitolandosi nelle coperte. Mai come allora le era mancato il disordine della sua compagna di stanza. Persino il suo russare le sarebbe giunto gradito, in quel momento.

 

   Nei giorni successivi, Neelah vide avvicinarsi il suo compleanno non più con trepidazione, ma con ansia. Aveva visto Delara stravolgersi dall’oggi al domani, dopo che la Direttrice le aveva fatto scattare il condizionamento mentale. Non poteva fare a meno di chiedersi quanti altri, dei loro compagni di scuola, avessero subìto lo stesso trattamento. Di certo non tutti. Nel corso degli anni, Neelah aveva visto molti compagni scegliere di non restare con la Sezione 31. La maggior parte degli studenti abbandonava per sempre l’organizzazione, andando a farsi una vita dove meglio credeva. Questo la faceva ben sperare per sé. D’altra parte, non era realistico che un servizio segreto condizionasse così tanti dei suoi membri. Inoltre non tutti gli Agenti Operativi della Sezione 31 venivano dalla “scuola per dotati”. La stragrande maggioranza non aveva poteri telepatici ed era reclutata tramite canali tradizionali.

   Questa era una magra consolazione per Neelah, visto che lei era lì. C’era stata per dodici anni, e anche se non aveva legato granché con insegnanti e compagni, non era nemmeno rimasta con i sensi sempre all’erta. Soprattutto nei primi tempi, quand’era una bambina piccola, era stata vulnerabile. Non poteva sapere se le avevano nascosto qualcosa nel cervello, prima che diventasse abbastanza grande da alzare le sue barriere. Così, giorno dopo giorno, la sua inquietudine crebbe. L’unica consolazione era che, avendo preso coscienza della trappola, poteva cercare di opporsi. Se ne aveva la forza.

   L’Aenar non poteva nemmeno confidare le sue angosce, perché dopo quel che aveva sentito dalla bocca della Direttrice non si fidava di nessuno. Poteva contare solo su se stessa. Così si concentrò al massimo sul suo obiettivo, uscire da lì, cercando di rafforzare la sua determinazione. Mise in atto tutte le tecniche che conosceva per proteggersi la mente dalle influenze esterne.

   Venne la vigilia del suo compleanno. Neelah non avrebbe mai immaginato di trascorrerla in un simile stato d’animo. La sera stava meditando nella sua camera – grigia e spoglia, dopo la partenza di Delara – quando la voce del computer la fece sobbalzare.

   «La studentessa Neelah è desiderata nell’ufficio della Direttrice per un colloquio» disse la voce senz’anima.

   «Ci siamo» pensò l’albina, osservandosi all’olo-specchio. Si chiese se la mattina dopo sarebbe stata ancora se stessa. Non c’era che un modo per scoprirlo, pensò deglutendo. Uscì dalla cameretta e si avviò tremante verso l’ufficio della Direttrice, come un agnello al macello.

 

   La mattina dopo, i compagni di corso di Neelah non la videro a colazione. Sapendo che era il suo compleanno, con ciò che comportava a livello burocratico, non se ne dettero pena. Fu solo dopo pranzo che l’Aenar apparve nella sala ricreativa, dov’erano riuniti in molti.

   C’era indubbiamente qualcosa di diverso in lei. Che cosa fosse, i compagni lo capirono solo quando aprì bocca. «Salve, ragazzi!» esordì con un’aria baldanzosa del tutto insolita per lei. «Vengo a dirvi che io me ne vado. Le mie cose sono già imballate. Lascerò il pianeta entro sera».

   «Hai accettato di diventare Agente Operativo, come Delara?» chiese Dave, un po’ preoccupato dal modo in cui sparivano le ragazze.

   «Che?! Neanche per sogno!» esclamò Neelah. «Non ho firmato nessun contratto-capestro, io. Perciò sono libera come l’aria. Ora vado su Denobula ad approfondire gli studi di nanotecnologia. Ho chiuso con la Sezione 31!». A quel punto fu chiaro a tutti in cos’era cambiata. Aveva una nuova sicurezza, una nuova fiducia in se stessa, che traspariva dalla voce come dallo sguardo. In lei c’era la soddisfazione di chi ha superato una prova, uscendone più forte.

   «Caspita... temevo che saresti restata» fischiò Dave.

   «Ho detto a tutti che non l’avrei fatto».

   «Molti di quelli che lo dicono cambiano idea all’ultimo momento» borbottò il giovane.

   «Peggio per loro. Io non cambio idea dall’oggi al domani» rispose Neelah con fierezza.

   «Ma dicci di più. Com’è andata? Che ha detto la Direttrice?» insisté Dave, accostandosi.

   «Ha cercato di convincermi a restare, naturalmente» ammise l’Aenar. «Ha sfoggiato i classici ricatti psicologici, dal “non puoi lasciarci dopo tutto quel che abbiamo fatto per te” al “noi siamo la tua famiglia”. Ma io ho tenuto duro, mi sono imposta. E indovina un po’? La vecchia megera non aveva niente per trattenermi. Niente! A parte una dannata clausola del vecchio contratto, che per qualche acrobazia burocratica è ancora in vigore. In pratica la Sezione 31 potrebbe richiamarmi come “consulente esterna”, in caso d’emergenza. Spero che non succeda mai. Ho i miei studi, e una vita da vivere» disse con arroganza.

   «Hai ben poca gratitudine per chi si è curato di te in questi anni» disse un giovane Ulliano, facendosi avanti. «Come hai ben poca lealtà per la Flotta» aggiunse duramente.

   Quest’accusa fece ribollire il sangue di Neelah. Preferiva essere un’ingrata, ma di sua spontanea volontà, piuttosto che coltivare una fede cieca imposta da qualcun altro. Era decisa a lasciare la Sezione 31 già da tempo. Ma dopo aver origliato quella conversazione tra la Direttrice e Sheev, aveva capito di doversene andare soprattutto per dimostrare a se stessa che non era stata influenzata. Si avvicinò all’Ulliano. «Mi sono presa ciò che mi serviva e ora levo le tende» sibilò. «Consiglio a tutti voi di fare altrettanto. La Sezione 31 non è quella madre amorevole che credete. Vuole semplicemente usarci per i nostri poteri. Beh, io credo che chi ha poteri non dovrebbe stare al servizio di chi non li ha!».

   «Wow, oggi sei una tigre!» disse Dave, ammirato. «Quindi vai su Denobula... in che zona, di preciso?».

   «Non ti darò il mio nuovo indirizzo, se è questo che chiedi» avvertì Neelah. «Scusa, ma non sei il mio tipo».

   «Oh, beh... buona fortuna coi tuoi studi» mormorò il ragazzo, deluso.

   «Non montarti troppo la testa» disse però l’Ulliano. «Stai voltando le spalle a qualcosa di grandioso; un giorno potresti pentirtene». Neelah si accorse che, a parte Dave, gli studenti mostravano ostilità nei suoi confronti. Poco male; stava per lasciarseli tutti alle spalle.

   «Pensala come vuoi, ma resta il fatto che ora sono libera, a differenza di voi» disse Neelah, osservando gli ex compagni. Quand’era cieca e debole l’avevano sempre maltrattata; ora si aspettavano che tenesse a loro? «Glielo farò vedere, quanto ci tengo» pensò l’Aenar. Girò sui tacchi e uscì a grandi passi dalla sala ricreativa. «Addio, branco di perdenti!» esclamò, alzando la mano in un gestaccio. La porta si richiuse alle sue spalle, separandola dal suo passato. Adesso non le restava che il futuro.

   Entro sera, Neelah caricò le sue poche cose sulla nave trasporto e lasciò Tantalus V, il luogo della sua infanzia e della sua adolescenza. Si augurò di non rivederlo mai più. La sua strada portava a Denobula e poi forse alla Terra. Solo un rimpianto l’assalì, quando vide il globo grigio-bruno di Tantalus che rimpiccioliva. Delara. Non sapeva dove fosse finita, né che le stessero facendo. «Inutile darmi pena... probabilmente non la vedrò mai più» si disse, lasciando l’oblò per tornare in cabina. Si augurò che fosse così. Perché se l’avesse rivista, Delara non sarebbe più stata la sua compagna di stanza, ma un Agente Operativo della Sezione 31.

 

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Capitolo 2
*** Galatea ***


-Capitolo 1: Galatea

Data stellare 2554.180

Luogo: colonia Galatea

 

   Il pianeta galleggiava nello spazio come una perla verde, bianca e blu. Nessuna macchia lo deturpava; una vista rara, di quei tempi. Gli ufficiali di plancia dell’Enterprise lo fissarono rapiti. Dopo anni di guerra e orrori, quel luogo idilliaco era un balsamo per gli occhi. Tutt’intorno a lì, la Federazione e i suoi alleati, Klingon e Romulani, bruciavano per gli attacchi del Fronte Temporale. Dalle ceneri non riusciva ancora a sollevarsi la nuova Unione Galattica. Ma per un bizzarro disegno della sorte, quell’angolo di spazio all’incrocio fra le tre civiltà era rimasto intonso. Finora.

   «Eccola qui, l’ultima delle Colonie Perdute» disse Chase, osservando il pianeta lussureggiante. «Terry, vuol darci un ragguaglio prima del contatto?».

   «Certo, Capitano» disse l’Intelligenza Artificiale. «Galatea è una delle colonie fondate dagli Umani nel convulso secolo tra l’invenzione della curvatura e la nascita della Federazione. All’epoca la Terra si stava ancora risollevando dalla Terza Guerra Mondiale ed era quindi piagata da fame e malattie, oltre che dagli effetti delle radiazioni. In questo quadro caotico, le prime nazioni capaci di costruire navi a curvatura lanciarono arditi programmi di colonizzazione. Quei progetti davano il miraggio di una nuova vita a chi aveva perso tutto o si sentiva ancora perseguitato; ma soprattutto univano per uno scopo comune chi restava sulla Terra. Il risultato fu un esodo disordinato di astronavi primitive. I coloni non sapevano cosa li aspettava nello spazio, né potevano tenersi in contatto con la Terra. E il viaggio a bassa curvatura era così lento che la maggior parte di loro lo trascorreva ibernato.

   Con la nascita della Federazione, una nuova generazione di navi stellari fu inviata sulle tracce delle vecchie navi coloniali. Alcune furono trovate in fretta, ma in altri casi non era per nulla chiaro dove si fossero spinte. Talvolta avevano cambiato rotta, per scelta o per sfuggire a qualche pericolo, il che le rendeva irrintracciabili. La riscoperta di queste Colonie Perdute durò fino al XXIV secolo inoltrato. Molte di esse avevano dato luogo a bizzarri esperimenti sociali. Alcune erano fallite: distrutte o cadute nell’anarchia. Ma altre si erano notevolmente sviluppate. Certe colonie furono felici di riallacciare i rapporti con la madrepatria e farsi riassorbire nella Federazione, che poteva offrire loro aiuti umanitari e anche prodotti di lusso. Altre, però, erano orgogliose della loro indipendenza – ottenuta con generazioni di sacrifici – e non vollero perderla. Preferirono quindi isolarsi dalla Federazione e dalle altre potenze, approfittando talvolta della posizione periferica».

   «Non è il caso di Galatea» commentò Ilia. «Si trova alla confluenza dello spazio federale, Klingon e Romulano. Come ha fatto a tenersi fuori da tutti i conflitti?».

   «Con una politica di totale isolazionismo e di equidistanza dalle tre potenze» rispose Terry. «La Federazione si è rassegnata a non riaverla. Klingon e Romulani si sono trattenuti dall’occuparla perché temevano che all’ultimo i Galateani avrebbero chiesto aiuto alla Federazione, provocando la guerra. Anche così, è un caso estremamente fortuito che Galatea sia sopravvissuta ai momenti di conflitto. Credo che le tre potenze si siano sostanzialmente dimenticate della sua esistenza, o abbiano accettato questo piccolo cuscinetto neutrale».

   «Beh, sembra che la fortuna dei Galateani si sia esaurita» disse Chase. «Le anomalie non guardano in faccia a nessuno. Che dicono i sensori, com’è il pianeta?».

   «Indubbiamente di classe M» rilevò l’IA. «La temperatura media è di 20ºC e l’inclinazione minima dell’asse fa sì che non ci siano sbalzi stagionali. Le terre emerse sono frammentate in una moltitudine di isole e piccole masse continentali, così che non ci sono entroterra desertici. Flora e fauna sono rigogliose a tutte le latitudini...».

   «Basta così, o ci farà venire voglia di sbarcare in massa» sospirò Chase. «Che mi dice della popolazione?».

   «Si trova nell’emisfero sud» rispose Terry. «Rilevo 30.000 segni vitali, tutti Umani. Due terzi si concentrano nella capitale, gli altri sono sparsi fra isole e micro-continenti».

   «Non molti» notò Ilia. «Potremo trasferirli tutti in un solo viaggio».

   «La nave Galatea con cui arrivarono era piccola, conteneva poche centinaia di coloni ibernati» spiegò l’IA.

   «Da poche centinaia a 30.000... il loro pool genetico sarà molto ridotto» commentò T’Vala.

   «Se non volevano incrociarsi fra parenti, dovevano accettare i contatti» fece Lantora, arricciando il naso.

   «Li accetteranno adesso, volenti o nolenti» disse Chase. «Signor Grog, trasmetta alla capitale». Il Capitano conosceva il copione. Doveva recitare lo stesso discorso che aveva già fatto troppe volte, con minime variazioni. Cercò di non sembrare un impiegato distratto: su quel pianeta c’erano persone che stavano per vedersi stravolta la vita.

   «Qui è il Capitano Chase della nave stellare Enterprise. Siamo spiacenti di violare il vostro spazio, ma dobbiamo informarvi di un grave pericolo che incombe su di voi. Come saprete, la Federazione e i suoi alleati sono in lotta contro il Fronte Temporale, un’alleanza di specie votate a distruggerci. I capi del Fronte, i Tuteriani, sono invasori di un’altra dimensione che cercano di rimodellare lo spazio con pericolose anomalie, per adattarlo alla loro fisiologia. Le altre specie – Krenim, Vorgon e Na’kuhl – si sono unite a loro per impadronirsi delle sacche di spazio non trasformato. Finora questa guerra vi aveva risparmiati, ma disgraziatamente non è più così. Il vostro pianeta corre un gravissimo pericolo e noi abbiamo l’ordine di evacuarlo prima che sia troppo tardi. So che non è facile da accettare...». L’Enterprise si scosse leggermente e Chase s’interruppe.

   «Questi sono colpi di cannone a impulso» rilevò Lantora. «Gli scudi reggono».

   «Qui Chase» riprese il Capitano senza scomporsi. «Non è carino sparare a chi vi rivolge la parola, specialmente se il nuovo arrivato è qui per salvarvi. Come vedete, le vostre armi non sono una minaccia per noi. Perciò non potrete difendervi nemmeno dal Fronte, quando arriverà. Nel vostro interesse, è tempo di abbandonare l’isolazionismo. Vi ha salvati finora, più per fortuna che per altro; ma state certi che non vi salverà adesso».

   «Ci chiamano, Capitano» disse Grog.

   «Dopo averci sparato... che simpatici» mormorò Chase, scambiando un’occhiata eloquente con Ilia. «Sentiamoli».

   «Qui è il Sindaco Vargas, che vi parla da Eidola City» disse un uomo di mezz’età col pizzetto, apparendo sullo schermo. Era vestito con impeccabile eleganza... per un uomo di quattro o cinquecento anni prima. Finora Chase aveva visto le cravatte solo nelle immagini e nei filmati storici. Si chiese che senso aveva arrotolarsi un pezzo di stoffa intorno al collo, quasi fosse un cappio. «Siamo al corrente della vostra guerra... l’ultima di una lunga serie. Ma non ci faremo coinvolgere neanche stavolta» disse il Sindaco. «Abbiamo prosperato per quattro secoli tra le grandi potenze, ritagliandoci quest’oasi di tranquillità. Non l’abbandoneremo solo perché qualcuno grida “al lupo!”».

   «Signor Sindaco, lei è la più alta autorità del pianeta?» chiese il Capitano. Sembrava una domanda sciocca, ma considerando il tipo di colonia, piccola e isolata, era probabile che fosse proprio così.

   «Certo» confermò l’uomo col pizzetto. «Non ci servono Presidenti, Cancellieri, Pretori o Imperatori» disse sarcastico, mostrando di conoscere Klingon e Romulani. «Il nostro governo è semplice. La mia carica ha durata quadriennale, con possibilità di rielezione; infatti sono al secondo mandato. Sono coadiuvato da una Giunta di Assessori e tanto basta per condurre i nostri affari in pace». L’inquadratura si allargò, mostrando gli Assessori che contornavano il Sindaco. Suddivisi equamente fra uomini e donne, erano allineati lungo lo stesso lato di un lungo tavolo. Gli uomini avevano tutti la cravatta. Le donne indossavano abiti meno standardizzati, ma anch’essi antiquati agli occhi dei federali.

   «Sindaco, mi spiace essere brutale, ma Galatea non sopravvivrà fino al termine del suo mandato» disse Chase. «La vostra pace sta per essere violata in ogni caso. Potete scegliere fra il trasferimento a opera nostra... e l’annientamento a opera del Fronte».

   «Le perdono la brutalità, Capitano. Ma deve capire che per noi è inconcepibile abbandonare questo Paradiso che i nostri avi trovarono dopo un lungo viaggio» spiegò il Sindaco. «Già questa conversazione viola le nostre usanze. Il suo allarmismo deve essere convalidato da prove, prima che noi si possa pensare ad azioni così drastiche». Anche il linguaggio dell’uomo suonava antiquato, nell’accento e nella scelta dei termini. Il lungo isolamento dei Galateani aveva influenzato la loro parlantina, che come la moda era rimasta simile al passato.

   «Vi fornirò tutti i dettagli, se mi permettete di scendere su Galatea» disse Chase. «O preferite salire voi a bordo?».

   Il Sindaco tentennò. Ne approfittò una degli Assessori, la più giovane, che si alzò in piedi. «Chiedo il permesso di parola, signore» disse. Questo creò una certa sorpresa fra gli altri, ma il Sindaco – che sembrava aver perso la voce – annuì. La donna si rivolse allora direttamente al Capitano. «Sono Karen Mallory, assessore alla Salute e alla Difesa. Sono disposta a salire sulla vostra nave per prendere coscienza della situazione. Dopo di che riferirò al Sindaco e alla Giunta».

   Chase la studiò. Era strano accorpare Salute e Difesa, ma considerando il secolare isolamento di Galatea, la Difesa doveva essere una carica perlopiù simbolica. Karen Mallory era una donna sui trentacinque anni, dai capelli castani raccolti e gli occhi più vispi che Chase scorgesse in quella tavolata. Farla salire a bordo poteva essere la mossa giusta, se poi riusciva a smuovere gli altri. «Saremo lieti di averla a bordo» disse. «Abbasseremo gli scudi per teletrasportarla, dietro la promessa che non ci attaccherete di nuovo».

   «Veramente noi siamo contrari al teletrasporto» spiegò Karen con educazione. «Verrò in navetta, se permettete».

   «Certo, gliene mando subito una» disse il Capitano. Queste fisime dei Galateani non facilitavano il dialogo, ma da parte dell’Assessore sembrava esserci buona volontà, per cui bisognava assecondarla il più possibile. «Spero che resti a cena con noi; c’è molto di cui discutere».

   Karen diede una rapida occhiata al Sindaco, che annuì. «Con piacere, Capitano» sorrise. «Non pensavo che avrei mai visitato una nave stellare».

 

   A ricevere l’ospite nell’hangar 1 si recarono Chase, Terry e anche il dottor Korris. Il Capitano voleva infatti un parere sulle condizioni dei Galateani, alla luce del loro problema genetico. Il dottore si presentò all’ultimo momento, in alta uniforme, solo per scoprire che gli altri avevano tenuto l’uniforme normale. Scortati da due uomini della Sicurezza, attesero che la navetta si posasse e osservarono la Galateana che ne usciva.

   Karen sembrava la visitatrice di un altro secolo, non solo per gli abiti antiquati, ma anche per l’espressione di sorpresa che aveva stampata in volto. «Salve, Capitano... che astronave imponente! Quant’è grande?» chiese in tono fanciullesco.

   «Tre km contando anche le gondole. Può accogliere diecimila persone in modo confortevole, ma adesso è semivuota perché la guerra ci ha obbligati a sbarcare i civili» spiegò Chase. «Possiamo accogliere tutta la vostra gente e sbarcarla in un giorno su Acamar, dove sarà al sicuro...». Si accorse che Karen non lo ascoltava. I suoi occhi color nocciola erano fissi sul dottor Korris, che appariva imbarazzato da quell’attenzione.

   «Mi scusi... non volevo fissarla, è solo che... non avevo mai incontrato alieni» confessò la donna. Distolse lo sguardo e arrossì un po’, vergognandosi del suo provincialismo.

   «L’equipaggio dell’Enterprise è in gran parte alieno, quindi si abituerà» disse Chase. «Comunque la maggior parte degli ufficiali è umanoide, anche se abbiamo un ponte allagato per le specie ittiche».

   «Ittiche? Oh, santo Cielo!» trasecolò Karen. Ma si riprese subito e strinse la mano agli ufficiali, uno dopo l’altro.

   «Ufficiale Scientifico Terry» si presentò l’IA quando fu il suo turno.

   «Terry? Ed è Umana?» chiese l’Assessore, stupita dall’assenza del cognome.

   «Non proprio. Sono una proiezione isomorfa» spiegò Terry. Vedendo la perplessità della Galateana, dovette spiegarsi: «Sono un’Intelligenza Artificiale, la stessa che controlla i sistemi della nave».

   «Quindi lei è il computer dell’Enterprise? Perdinci, questa visita mi riserva una sorpresa dopo l’altra!» esclamò Karen, ricorrendo a un’altra espressione antiquata. L’ultimo a cui doveva presentarsi era il dottore. Sembrava ancora un po’ intimorita dal suo aspetto, ma si fece avanti e gli strinse la mano.

   «Korris Vrel, medico di bordo» disse modestamente il dottore. Nello stringere la mano all’ospite notò che sotto la manica aveva un dispositivo simile a un bracciale tecnologico. Era sottile ma piuttosto sviluppato in lunghezza. «Benvenuta a bordo, Assessore. Scusi l’indiscrezione, ma posso chiederle cos’è quello?» domandò, accennando al dispositivo.

   «Oh, questo?» fece Karen a disagio, tirandosi su la manica per nasconderlo. «È solo un sensore medico. La mia gente teme che in questa nave piena di alieni possano esserci malattie, e che al ritorno io le trasmetta ad altri. Dovete scusarci, signori... temo che la mia gente soffra già di una malattia, chiamata provincialismo. Io stessa ne sono afflitta in forma cronica, quindi mi perdonerete certe esternazioni fuori luogo».

   I federali, in realtà, non si sentivano di biasimarla. Era evidente che la Galateana stava facendo sforzi eroici per superare la paura dell’ignoto. Considerando che non era mai stata su un’astronave e non aveva mai visto alieni, se la cavava piuttosto bene.

   «Nessun problema, Assessore» disse Chase. «Ma se vuole seguirci in sala tattica, le mostrerò perché è indispensabile evacuare il suo mondo. E perché è così urgente».

 

   Al centro del tavolo ad anello, l’ologramma multicolore mostrava la situazione tattica in quell’angolo di Galassia. Lo spazio controllato dall’Unione era segnato in blu, mentre quello occupato dal Fronte era giallo. Le zone trasformate dalle anomalie spiccavano rosse.

   «Questa è la situazione aggiornata» spiegò Chase. «Come vede, è gravissima. Il nostro spazio è ancora frantumato in diversi settori dalle anomalie e il nemico colpisce da più fronti. I Tuteriani hanno posizionato le Sfere nei punti chiave e le proteggono con le loro Dreadnought, cercando di espandere lo spazio trasformato. I Krenim lanciano attacchi con le catapulte subspaziali, che permettono loro di colpire da dietro le nostre linee. Vorgon e Na’kuhl compiono attacchi-lampo che spesso prendono di mira i convogli di rifugiati. L’anno scorso hanno colpito anche il sistema solare, con risultati catastrofici. Milioni di persone sono morte e molte di più sono rimaste vittime di armi biologiche».

   «Hanno colpito la Madre Terra?!» fece Karen, angosciata. «Oh Cielo... non avevo idea che la situazione fosse così grave. Quelle anomalie sono ovunque! Non riesco a immaginare cosa state passando... quanti sfollati dovete gestire. Ma avete piani per respingere il Fronte, vero? Alla fine prevarrete, non è così?» chiese, quasi supplicante.

   «Le migliori menti della Flotta cercano ancora di capirlo» sospirò il Capitano. «In tutta onestà le dico che la situazione è critica. Tuteriani e Krenim hanno una tecnologia che gli permette di vedere nel futuro, pianificando le mosse vincenti. E il leader dei Na’kuhl, Vosk, ha dichiarato che tornerà sulla Terra per finire il lavoro lasciato in sospeso. Da ciò che sappiamo di lui, non è il tipo che minaccia a vuoto. La sua nave ammiraglia, che chiamiamo Eclipse, è più potente dell’Enterprise. Se passasse da queste parti, non esiterebbe un attimo a distruggere il vostro mondo. E noi non potremmo impedirlo».

   Chase si fermò un attimo, vedendo che Karen si era ficcata una mano in bocca per non gridare dall’orrore. Aspettò che si fosse ripresa. «Ma il problema che ci ha portati qui è un altro. Vede, Assessore, il suo pianeta è un saliente».

   «Un cosa?».

   «Ahi, ahi... la responsabile della Difesa non conosce i termini militari!» si disse Chase. Lasciò a Terry le spiegazioni.

   «Un saliente è una parte del teatro di battaglia che si proietta in territorio nemico» chiarì l’IA. «Si trova quindi circondata da più lati, il che la rende vulnerabile. Un saliente profondo rischia di essere tagliato dal nemico sulla sua base formando una sacca, in cui gli occupanti restano isolati. Potrebbe succedervi questo... ma è ancora più probabile che il Fronte vi schiacci direttamente fra le sue linee. Osservi».

   Senza bisogno di toccare i comandi, la proiezione isomorfa aumentò l’ingrandimento di una sezione, per mostrare chiaramente la situazione di Galatea. Il suo sistema stellare era una piccola sacca blu, circondata dal nemico su tutti i lati salvo uno.

   «Questo sistema adiacente al vostro è Carraya» spiegò Terry, evidenziandolo. «Ci vivevano Klingon e Romulani, prima che i Krenim ne prendessero possesso. Hanno piazzato diverse astronavi, che potrebbero colpirvi in qualunque momento. E dall’altra parte c’è una zona di spazio invasa dalle anomalie. Al ritmo in cui crescono, potrebbero colpire Galatea fra pochi giorni. Riteniamo che il nemico vi colpirà così, senza nemmeno bisogno di scomodare le sue navi».

   «Ma avete detto che le anomalie sono generate dalle Sfere» obiettò Karen. «Non potreste distruggere la Sfera più vicina, per dissiparle?».

   «Distruggere una Sfera non è cosa da poco, neanche per l’Enterprise» spiegò il Capitano. «Prima di ogni attacco dobbiamo chiederci se il rischio vale i benefici. Nel vostro caso, mi spiace, ma la risposta è no. La Sfera più vicina è difesa da sei Dreadnought e da una ventina di Navi Vampiro dei Na’kuhl. Bisognerebbe mandare una flotta per dargli battaglia e questo non è all’orizzonte. Realisticamente dobbiamo lasciar collassare il saliente, dopo avervi messi in salvo. Come dicevo, vi porteremo ad Acamar. Lì ci sono altri gruppi di rifugiati e un presidio in grado di proteggervi».

   Karen stava ancora guardando con orrore l’ologramma. «Quanto tempo avete detto che ci resta?» chiese con un filo di voce.

   «Fra pochi giorni le anomalie cominceranno a colpirvi. È difficile dire quanto saranno intense e quanto vi danneggeranno. Certi pianeti resistono per mesi, altri avvizziscono in pochi giorni» spiegò il Capitano. «Per quanto riguarda i Krenim, potremmo trattenerli un po’... non combattendo, ma coi negoziati».

   «Quali negoziati?» chiese la Galateana.

   «Venendo qui, abbiamo intercettato una nave da guerra Krenim» intervenne Lantora con una certa soddisfazione. «Dopo un breve scambio di siluri cronotonici l’abbiamo neutralizzata e abbiamo intimato la resa all’equipaggio. Avendo il supporto vitale in avaria, sono stati costretti a cedere. Così adesso abbiamo duecento prigionieri Krenim a bordo. Non sono tutti in ottime condizioni, ma ci sono. Perciò proporremo uno scambio alla guarnigione Krenim di Carraya: i loro duecento soldati contro duecento dei nostri civili che sono prigionieri sul pianeta».

   «Ma loro hanno altri ostaggi?» domandò Karen.

   «Certo, decine di migliaia... ma non possiamo salvarli, per il momento» si rabbuiò Lantora. «Resteranno nei campi di lavoro forzato, o peggio. In realtà il Comando aveva preso in considerazione un attacco per liberare Carraya, ma l’ha cassato. Ci sono troppi altri fronti aperti, che minacciano pianeti più popolosi».

   «Capisco» disse Karen, raggelata. Gli ufficiali attorno a lei parlavano di sacrificare interi pianeti per ragioni di realpolitik, con una facilità sconcertante. Dovevano essere abituati a ragionare su quella scala. Per lei, sacrificare anche una sola vita sembrava troppo. «Cercherò di spiegare tutto questo alla mia gente. Ma forse... forse è meglio che scendiate a spiegarglielo voi stessi» disse avvilita.

   Visto il suo stato, gli ufficiali decisero di non infierire. Terry disattivò l’ologramma e Chase prese l’Assessore da parte. «La cena è alle 20:00 sul ponte 9. Nel frattempo le daremo un alloggio, così potrà darsi una rinfrescata. Spero che stasera ci racconterà qualcosa del suo mondo, così saremo più preparati, quando scenderemo».

   «Certo, anche se non c’è molto da dire» annuì Karen. «Tutte le nostre faccende sono... niente in confronto a quel che mi avete mostrato. Sono grata per il fatto che, malgrado tutto, abbiate trovato il tempo di aiutarci. Tenterò di farlo capire agli altri» promise, ma le si leggeva la preoccupazione negli occhi.

 

   Alla cena parteciparono molti degli ufficiali superiori. Ogni volta che vedeva una nuova specie aliena Karen ci faceva caso, ma poco alla volta imparò a ignorare la stranezza e prese a discorrere normalmente. Il dottor Korris, che le sedeva accanto, notò che aveva ancora il sensore medico al polso.

   «Ci dica qualcosa di Galatea» la invitò Chase al termine del pasto.

   «Ehm, credo che abbiate già i dati del pianeta, quindi vi parlerò dei suoi abitanti» disse Karen. Bevve un sorso di sintalcool per farsi coraggio e riprese. «I nostri avi lasciarono la Madre Terra 450 anni fa, spinti dalla promessa di nuovi mondi. Viaggiavano sulla SS Galatea, una nave che raggiungeva a stento la curvatura 2 e si affidava a vecchi motori chimici per le manovre subluce. Non c’erano replicatori né teletrasporto. Equipaggio e coloni erano ibernati, anche se alcuni membri dell’equipaggio si svegliavano a rotazione ogni pochi anni per controllare lo status dei sistemi e correggere la rotta. La loro unica guida era una vecchia mappa stellare acquistata dai Vulcaniani, ma non so nemmeno se abbiano seguito la rotta prevista inizialmente.

   Comunque, dopo mezzo secolo di viaggio raggiunsero questo pianeta. Ne rimasero subito affascinati... era il Paradiso che sognavano. Così sacrificarono l’astronave, smontandola per costruire il primo insediamento, che oggi è la capitale. In ricordo della Galatea, che li aveva trasportati fedelmente nello spazio per tanti anni, diedero lo stesso nome al pianeta. Purtroppo erano giunti così lontano dalla Terra che non poterono nemmeno mandare un messaggio per far sapere che erano vivi».

   Gli ufficiali dell’Enterprise sentirono una gran tristezza. Viziati dalle mille comodità della tecnologia moderna, stentavano a figurarsi cosa volesse dire viaggiare in quelle condizioni, senza sapere se si sarebbe arrivati vivi da qualche parte.

   «Mi spiace che la vostra gente abbia sofferto tanto» disse Korris, che si era emozionato più di tutti. «Cosa accadde poi?».

   «Ci furono generazioni di lavoro per costruire la colonia» spiegò Karen. «Fortunatamente il clima è mite tutto l’anno e le risorse abbondano. Non ci sono predatori né gravi malattie. Gli sforzi dei coloni furono quindi coronati dal successo. Entro un secolo la nostra qualità di vita era già ottima e da allora non ha fatto che innalzarsi. Oggi Galatea è un Paradiso e la popolazione continua ad aumentare. Abbiamo creato la società perfetta... una società priva di violenza, cupidigia e invidia, in cui tutti lavorano per il bene comune. Fino a ieri eravamo lieti che il resto della Galassia si fosse dimenticato di noi. Pensavamo di poter continuare così per sempre, in pace...» mormorò, con gli occhi lucidi di commozione. Era chiaro che amava teneramente il suo mondo e la prospettiva di lasciarlo le spezzava il cuore.

   «Forse non tutto è perduto» disse Korris, sfiorandole per un attimo la mano. «Se l’Unione prevarrà sul Fronte, la vostra gente potrebbe essere riportata su Galatea. Con le navi di oggi ci vuol poco».

   «Ma le anomalie non devasteranno l’ecosistema?» obiettò Karen. «Senza la sua natura rigogliosa, Galatea diventerà una roccia morta nello spazio. Allora che ne sarà di noi?».

   «Non sono in grado di risponderle... ma se vi appellerete all’Unione, non sarete abbandonati» disse Korris, accorato. «L’importante è che la vostra gente sopravviva. Dove lo farà, è secondario».

   «Le credo» sorrise Karen, che non sembrava più intimorita dai suoi lineamenti alieni. «Ma la prego, mi parli della Terra. Lei è il medico di bordo, giusto? Che può dirmi dell’arma biologica che l’ha colpita?».

   «Sono molte armi diverse, in realtà» spiegò Korris. «Per la maggior parte sono opera dei Vorgon, una specie anfibia esperta di manipolazioni genetiche. Ma il virus più grave è stato sintetizzato dai Na’kuhl. Noi lo chiamiamo Agente 47. Attacca il DNA e lo deteriora irreparabilmente, provocando un collasso sistemico dell’organismo. Le vittime soffrono in modo terribile... e purtroppo non esiste ancora una cura. La popolazione di Cerere, Ganimede e Tritone è stata sterminata e altri satelliti sono ancora in quarantena. Noi medici stiamo facendo tutto il possibile, ma è una lotta contro il tempo» sospirò.

   «Oh, dottore, sono certa che non ha lasciato nulla d’intentato!» esclamò Karen, emozionandosi. «Non so dirle quanto l’ammiro per i suoi sforzi. In una Galassia che brucia, lei salva la gente. Ogni vita che salva sarà un monumento al suo impegno». La Galateana aveva parlato con crescente passione, girandosi quasi del tutto verso il dottore. Ma rendendosi conto che erano ancora a tavola, e che avevano attirato gli sguardi, dovette moderarsi. Tornò a sedersi composta, guardando in avanti. Korris fece lo stesso.

   Per il resto della serata il medico e l’Assessore parlarono poco, rispondendo solo se interrogati, e non discussero più fra loro. Ma ogni tanto si davano una rapida occhiata, girando la testa solo per un secondo, e nei loro occhi cresceva l’apprezzamento.

 

   Quella sera stessa, Karen tornò su Galatea con la promessa che avrebbe riferito tutto al Sindaco e alla Giunta. Disse che avrebbe cercato di convincerli ad accogliere i federali, perché spiegassero ciò che avevano già mostrato a lei. Aveva l’aria sconfortata; l’unico momento in cui riuscì a sorridere fu quando si accomiatò dal dottore. Korris osservò la navetta che usciva dall’hangar, diretta verso il pianeta scintillante.

   «Sembra che lei abbia fatto colpo sulla nostra ospite» commentò Ilia, che gli era scivolata silenziosamente accanto. «E se non mi sbaglio di grosso, la cosa è reciproca».

   «No, ma che dice?!» fece Korris, un po’ troppo in fretta. «È solo una persona gradevole, ecco tutto. E piena di curiosità. E preoccupata per il suo popolo. E...». La sua pelle grigia assunse una sfumatura rosa.

   «Se scenderemo sul pianeta, farò in modo che venga anche lei» gli promise la Comandante.

   «Ehm, grazie» fece il dottore.

   «Non è solo cortesia. Se riesce a stabilire un’intesa con l’Assessore... ad avere la sua fiducia... faciliterà la nostra missione» gli ricordò Ilia. «Insomma, unirà l’utile al dilettevole» aggiunse con un’occhiata complice, e si ritirò discretamente.

 

   La mattina dopo il Sindaco contattò l’Enterprise, invitando il Capitano a scendere su Galatea per esporre i fatti. Parlava come se facesse una grande concessione e in fondo era vero: Chase e i suoi ufficiali sarebbero stati i primi federali a sbarcare sul pianeta. Il Sindaco fornì loro le coordinate per il teletrasporto.

   «Sembra che l’Assessore sia riuscita a smuovere le acque» commentò Ilia quando la comunicazione fu chiusa.

   «Speriamo; ormai il tempo stringe» rispose Chase.

   Mentre l’Enterprise restava in orbita sopra la capitale, il Capitano scese con Terry e Korris. Si teletrasportarono direttamente nella sala della Giunta, che era vasta e ariosa, arredata con un elegante stile d’altri tempi. C’era molto legno in vista, dal tavolo degli Assessori agli infissi delle porte. Dalle finestre aperte entrava la brezza mite di Galatea, carica di essenze. Korris individuò subito Karen, seduta al suo posto tra gli Assessori. Per quanto le circostanze dell’incontro fossero gravi, si scambiarono un’occhiata lieta.

   «Benvenuti su Galatea» li accolse il Sindaco. «Spero perdonerete l’assenza di cerimonie; non siamo abituati a ricevere ospiti».

   «Va benissimo così; non c’è tempo da perdere» assicurò il Capitano. Nella mezz’ora successiva lui e Terry ripeterono grossomodo quanto avevano già spiegato a Karen, fornendo ulteriori dettagli ogni volta che il Sindaco o uno degli Assessori faceva domande. Con un olo-proiettore portatile mostrarono anche la situazione tattica. Spiegarono come si era arrivati a quel punto e quali erano le prospettive. Alla fine dell’esposizione l’atmosfera si era fatta pesante.

   «Speravo che l’Assessore Mallory avesse enfatizzato la gravità della situazione; mi avvedo che non è così» disse infine il Sindaco. «Dovremo votare al più presto sulla questione. Nel frattempo siete nostri ospiti. Se volete visitare il palazzo, o anche il resto della città, gli inservienti vi accompagneranno. Entro sera vi comunicheremo l’esito della votazione».

   «A stasera, allora» si congedò il Capitano.

 

   I tre federali decisero di non lasciare il palazzo governativo, ma si recarono su una terrazza panoramica per osservare la capitale. Era di una bellezza incantevole. Sorgeva in una conca, circondata da basse colline verdeggianti e con un lago limpidissimo al centro. L’aria tersa permetteva di vedere i dettagli fino a grande distanza. Eidola City era una mirabile fusione di natura e urbanizzazione: il verde era ovunque, dai parchi ai filari di alberi, fino ai giardini pensili che abbellivano la sommità dei palazzi e le balconate. Le strade bianche disegnavano una rete ben organizzata, non ingolfata dal traffico. La maggior parte della gente si muoveva in bicicletta o con tram a levitazione, veloci e silenziosi. Qua e là c’erano pannelli solari e pale eoliche, perché anche l’energia veniva da fonti rinnovabili. La maggior parte degli edifici era bassa e ampia. C’erano anche palazzi più grandi e persino qualche grattacielo, ben distanziato uno dall’altro. Avevano forme organiche, ultramoderne, ed erano coperti di vetrate a specchio che li facevano brillare. Le case più basse splendevano invece di un bianco immacolato.

   Aguzzando la vista, i federali notarono i Galateani che circolavano per le strade o si rilassavano in parchi e terrazzamenti. Avevano abiti leggeri e dai colori chiari, adatti al clima mite. Sembravano le persone più gaie e spensierate della Galassia. C’erano molti bambini che si divertivano all’aperto, con giochi semplici come altalene e giostre, o rincorrendosi sul verde. Le loro risate erano i rumori più forti che si sentissero. Lontano sul lago c’erano piccoli triangoli bianchi: vele d’imbarcazioni.

   «Non pensavo che questa gente avesse realizzato tanto» ammise Chase, osservando quel paesaggio idilliaco.

   «È un vero paradiso, come ha detto Karen» disse il dottore. Si appoggiò alla balaustra, inspirando a fondo l’aria limpida e profumata.

   «Questo gli renderà difficile staccarsene» notò Terry.

   «Non lo dica a me... lo vedo da un minuto e già vorrei restare» confessò Korris in tono sognante. Ma si riscosse subito e si rivolse a Chase con serietà: «Capitano, è certo che non possiamo fare nulla per preservare questo Eden? I Galateani hanno faticato secoli per realizzarlo. Da soli, hanno costruito qualcosa che eguaglia i mondi federali più belli. E non mi riferisco solo all’architettura eco-compatibile. Guardi com’è pacifica la gente... Karen ha detto che non hanno criminalità e io le credo. Possibile che debba tutto bruciare da un giorno all’altro?».

   «Dottore, vorrei tanto che i Galateani si godessero la loro pace» sospirò Chase. «Ma conosce la situazione. Questo saliente collasserà, che sia per le anomalie o per un attacco Krenim. Se i Galateani sono così evoluti sul piano etico, sopporteranno le asprezze del trasferimento».

   «Non so... perdere una patria come questa potrebbe spezzargli il cuore» disse Korris, osservando la città verdeggiante con un groppo in gola.

 

   Ben prima che calasse la sera, i federali furono informati dell’avvenuta votazione. Gli inservienti li scortarono di nuovo nella sala della Giunta. Korris notò che Karen sedeva rigida, con lo sguardo basso. Gli sembrò un pessimo segno.

   «La Giunta comunale ha espresso il suo verdetto, riguardo la vostra proposta di evacuazione» ricapitolò il Sindaco. «Ci tengo a informarvi che anche se non ci allontaniamo dal nostro mondo, teniamo i sensori all’erta. In questi ultimi anni abbiamo captato messaggi allarmanti riguardo le anomalie e gli attacchi del Fronte. Siamo quindi disposti a credere a tutti i dettagli che ci avete fornito sulla situazione bellica. Detto questo, la Giunta ha deciso di non abbandonare il nostro mondo, esprimendosi all’unanimità meno uno» sentenziò.

   Le parole ristagnarono nell’aria, gravide di conseguenze. Il Sindaco non aveva fatto nomi, ma era chiaro chi fosse l’unico Assessore favorevole all’evacuazione. Karen Mallory sedeva con le mani in grembo e lo sguardo desolato: il ritratto dell’infelicità. Korris si sentì stringere il cuore, per lei e per tutti gli altri.

   «Signori, vi esorto a riconsiderare la decisione» disse il Capitano, chiaramente deluso. «Quando le anomalie arriveranno – cioè presto – non avrete alcuna difesa. Questo pianeta non dispone di uno scudo che possa proteggerlo. Le anomalie gravimetriche disgregano i tessuti organici. Voi e le vostre famiglie perirete di una morte atroce e niente di ciò che avete costruito vi sopravvivrà. Questa è l’amara realtà».

   «Capitano Chase, non so come funzionino le cose da voi, ma qui vige una democrazia rappresentativa» disse il Sindaco in tono di sopportazione. «Io e gli Assessori abbiamo votato, raggiungendo un verdetto inequivocabile. Anche se io fossi contrario, non avrei il potere di revocare questa decisione».

   «Oh, insomma!» sbottò Korris, facendosi avanti tra lo stupore di tutti, compresi i suoi colleghi. «Non avete ascoltato il Capitano? Questo pianeta è condannato. Restare qui significa condannare a morte voi stessi e i vostri figli. Significa vanificare tutti gli sforzi dei vostri antenati. Se davvero li onorate, allora sarete disposti a ripetere le loro gesta, trasferendovi su un altro pianeta. Solo così preserverete le vostre vite e la vostra cultura». Il dottore notò che Karen si era rianimata e pareva colpita dal suo discorso, come del resto tutti i Galateani.

   «Dottor... Korris, dico bene?» chiese il Sindaco, osservandolo corrucciato. «Lei non ci conosce abbastanza da poterci giudicare. Pensa che Galatea sia semplicemente il posto in cui viviamo. Pensa che possiamo barattarlo con una sistemazione qualunque. Beh, non è così. Questo pianeta è l’ingrediente essenziale di ciò che siamo, senza il quale tutto il resto crollerebbe. Lontani da qui, non saremmo più Galateani. La nostra filosofia di pace, che ha posto fine a tutti i crimini, si perderebbe per sempre. Sarebbe peggio che morire nel corpo: sarebbe la morte della nostra anima. È un prezzo che non siamo disposti a pagare. Pertanto dobbiamo declinare la vostra offerta, per quanto generosa».

   «Sindaco, noi ammiriamo la vostra filosofia» disse Chase, affiancandosi al dottore. «Ma se le vostre città sono paradisi, è più merito vostro che del pianeta. Non diventate schiavi di ciò che avete creato. Se siete così progrediti, saprete replicare altrove il miracolo. E per quanto riguarda la democrazia... non pensate che una decisione tanto cruciale meriti un referendum? Lasciate che sia il popolo a decidere la propria sorte. Nel frattempo l’Enterprise rimarrà in zona. Vogliamo organizzare uno scambio di prigionieri coi Krenim, che ci terrà impegnati per qualche giorno. È probabile che per allora sperimenterete le prime anomalie. Allora capirete di che si tratta. E se vi è cara la vita, accetterete il trasferimento».

   Il Capitano stava per ritirarsi, quando Karen scattò in piedi. «Aspetti! Le anomalie di cui parla... possono disattivare la rete energetica planetaria?» chiese con sguardo febbricitante.

   Era una strana domanda, ma Chase non aveva ragione di eluderla. «Certamente. Le anomalie sono dannose per le linee energetiche e in generale per tutti gli strumenti tecnologici. Perché me lo chiede?».

   «Solo una curiosità» rispose Karen, accasciandosi sulla sedia. Gli altri Galateani sembravano scioccati quanto lei. Più scioccati di quando Chase aveva parlato della disgregazione dei tessuti organici.

   «Prenderemo in considerazione il referendum» disse il Sindaco, tutto smorto. «Nel frattempo potete tornare sulla vostra nave, o anche restare nostri ospiti, come preferite».

   «Grazie» disse Chase, chiedendosi qual era il punto che gli sfuggiva. Lasciò la sala della Giunta, seguito dai suoi ufficiali. Subito prima che il massiccio portone di legno si chiudesse intravidero alcuni Assessori che si alzavano, come per avviare una discussione animata.

   «Mi scusi per prima, Capitano... ma non riesco a credere che i Galateani siano così ciechi da voler restare, pur sapendo le conseguenze» mormorò il dottore.

   «Stento a crederlo anch’io» convenne Chase. «Ora dovremmo tornare sull’Enterprise, ma... uhm... se la sente di restare per una missione speciale?» chiese squadrandolo.

   «Ehm, che missione?» si stupì il mezzo Cardassiano.

   «Non mi è sfuggito che fra lei e Karen sembra esserci una certa intesa. E la nostra ospite è indubbiamente l’Assessore che ha votato a favore dell’evacuazione» spiegò il Capitano. «Quindi vorrei che restasse qui per un po’, per scucirle la bocca riguardo a... qualunque cosa li leghi a questo pianeta. Se la sente?».

   Korris si morse la lingua. Non c’era stato assolutamente nulla fra loro, solo qualche parola rispettabile durante la cena. Eppure tutti sembravano essersi messi in testa che avessero una tresca. Per carità, non gli sarebbe dispiaciuto. Ma da una che non aveva mai visto alieni fino a due giorni prima, forse era troppo pretendere che ignorasse la sua faccia grigia da Cardassiano. «Sto ancora curando quei prigionieri Krenim. Molti di loro sono mezzi morti per le radiazioni...» disse, cercando una scusa.

   «Suvvia, ha un vasto staff che può occuparsene» obiettò Chase. «Questa missione, invece, può riuscire solo a lei».

   «In tal caso... resto volentieri, Capitano» si arrese Korris. «Proverò a parlarle, ma non garantisco il successo».

   «Faccia il possibile. Ci rivedremo domani» disse Chase. Lui e Terry premettero i comunicatori e tornarono sull’Enterprise, lasciando Korris come l’unico federale su Galatea.

 

   La brezza della sera portò nuove fragranze in città. Mentre le stelle sbocciavano in cielo, gli edifici e le strade di Eidola City si riempirono di luci. I lavoratori tornavano a casa dalle famiglie. Poco alla volta anche i parchi si svuotarono. Korris osservò tutto dalla terrazza panoramica in cima al palazzo comunale. Quella bellezza struggente gli colmava il cuore, ma lo riempiva anche d’amarezza, sapendo che era condannata.

   «Le piace la nostra città?» chiese una voce femminile alle sue spalle. Korris la riconobbe all’istante.

   «È incantevole... il più bel posto che abbia visto da quando ho lasciato Bajor» disse il dottore, voltandosi. Il cuore gli batté forte.

   Karen aveva sostituito il severo abito grigio da Assessore con qualcosa di più informale, ma di ottimo gusto. Si era anche sciolta i capelli castani. Non era una fatalona, ma aveva un fascino discreto e gentile che scaldava il cuore, soprattutto quando sorrideva. «Bajor è il suo pianeta natale?» chiese, avvicinandosi.

   «Sì, anche se sono mezzo Cardassiano» confermò Korris.

   «Mi perdoni, ma... proprio non capisco come due specie diverse possano... sì, insomma...» incespicò Karen.

   «È strano, infatti» ammise il dottore. «Quasi tutte le specie umanoidi condividono certi marcatori genetici che le rendono compatibili. E quando non lo sono, la medicina può venire in aiuto. Secondo una teoria, è perché tutti gli umanoidi sono lontani eredi di un’antichissima stirpe Proto-Umanoide, ormai estinta».

   «E lei ci crede?» fece Karen, scettica.

   «Non saprei... da quando sono nella Flotta ho visto cose incredibili, ma questa è davvero grossa. Probabilmente non sapremo mai la verità» rispose sinceramente Korris. «A proposito di genetica, c’è una cosa che mi stavo chiedendo su voi Galateani...».

   «Il collo di bottiglia genetico» disse subito Karen. «Eravamo poche centinaia all’arrivo e oggi siamo 30.000. Penserà che siamo un branco d’incestuosi».

   «La prego di non offendersi, cerco solo di capire» rispose diplomaticamente il dottore.

   «No, è una giusta domanda» ammise la donna. «Vede, quando partimmo dalla Terra portammo con noi campioni di DNA sufficienti a evitare spiacevoli problemi. Dopo tutti questi secoli non li abbiamo ancora esauriti. Prima o poi succederà, ma ormai sappiamo come manipolare il DNA per risolvere questi inconvenienti».

   «Forse vi basterebbe aprirvi un po’ al resto della Galassia» suggerì Korris. «Se non vi piacciono gli alieni, ci sono molti Umani che gradirebbero la vostra compagnia. Ma per quanto riguarda il paradiso che avete costruito qui... è condannato, Karen. Prima lo lascerete, meglio sarà per voi».

   «La prego, non parliamo ancora di questo!» fece Karen, il viso attraversato da un’ombra di dolore. «È una bella serata... dimentichiamo per un attimo i problemi della Galassia. Mi parli di lei... com’è crescere con due patrie?».

   «Nel mio caso non è stato esaltante» rivelò Korris con una smorfia. «Mia madre era una cantante bajoriana, abituata a stare in tournee e ad avere folle di ammiratori. Invece mio padre era – ed è ancora – un chimico. Non so come sia scoccata la scintilla, ma di certo non è durata a lungo. Fin da quando ho memoria ricordo le loro liti, anche su questioni irrilevanti. Quando avevo sette anni si separarono e subito presero a contendermi. Così fui sballottato più volte fra Bajor e Cardassia, senza mai sentirmi a casa in nessuno dei due mondi. Su Bajor ero insofferente ai mille rituali che scandiscono la vita quotidiana. Su Cardassia non sopportavo le manie di grandeur e lo statalismo. In entrambi i mondi, il mio essere mezzosangue faceva sì che i coetanei mi stessero alla larga o mi tormentassero. Vede, Bajor e Cardassia hanno un passato di conflitti e occupazioni che nemmeno l’appartenenza alla Federazione può cancellare. Credo sia per questo che sono entrato nella Flotta. Qui vige la filosofia dell’IDIC, Infinite Diversità in Infinite Combinazioni. Anche se, come figlio di un chimico, devo ammettere che certe miscele restano esplosive!» ridacchiò.

   «Mi spiace che tu ne abbia passate tante» disse Karen, passando a un tono più confidenziale. «Si vede che sei una persona gentile. E non preoccuparti del tuo aspetto... quello non ha importanza» aggiunse, squadrandolo nella penombra della sera.

   «E di te che mi dici?» chiese il dottore, sia per interesse personale, sia per capirne di più sulla società Galateana.

   «Sono cresciuta con una madre soffocante. Credo che abbia proiettato su di me le sue ambizioni frustrate» sbuffò Karen. «Da quando sono entrata nella Giunta non fa che pavoneggiarsi, come se fosse lei l’Assessore. Se ti si dovesse avvicinare Sophie Mallory, fuggi finché sei in tempo!» ridacchiò, rivelando inavvertitamente di avere il cognome materno.

   «E tuo padre?» indagò Korris.

   «Io non ho un padre» rispose Karen con una strana indifferenza.

   Korris ricordò la faccenda del DNA. Portarsi dei campioni dalla Terra voleva dire inseminazione artificiale, naturalmente. Come esperto in psicologia, Korris disapprovava. Per formare una psiche sana occorrevano modelli di comportamento maschile e femminile... a meno che non fossero disfunzionali come i suoi genitori, si disse con rammarico. Decise di non ostinarsi sull’argomento, per non indisporre Karen. «Sai, ci sono molti altri pianeti là fuori» disse, accennando al cielo stellato. «La guerra non li ha toccati tutti. Sono certo che alcuni piacerebbero a te e alla tua gente. Per esempio, quella stella brillante in cima al triangolo...» disse, indicando una costellazione.

   «Ti prego, non insistere!» fece Karen, tremando. Si allontanò di scatto e andò svelta verso la porta.

   «Aspetta, non volevo...» fece il dottore, inseguendola. Le arrivò appresso, ma non si azzardò a trattenerla. Non erano ancora così intimi.

   «Passa una buona serata, Korris» disse Karen, con voce incrinata, e infilò la porta.

   Deluso, il dottore andò verso i tavolini che corredavano la terrazza panoramica e si abbandonò su una sedia. Per un po’ rimase a osservare le stelle e ad ascoltare il frinire degli insetti, rimuginando sugli enigmi di quel pianeta.

 

   La mattina dopo Korris fu destato dagli allarmi. Aveva trascorso la notte in una camera degli ospiti, che faceva invidia ai migliori alberghi federali, e non si aspettava quel brusco risveglio. Corse alla finestra e le vide. Anomalie ovunque. Alcune erano semplici increspature, che attraversavano gli oggetti dando l’impressione che fossero finiti sottacqua. Altre erano nuvole rosse o arancioni che avvolgevano interi edifici. La gente correva terrorizzata per le strade, cercando di allontanarsi dalle zone colpite, ma le anomalie erano troppo veloci. Avvolgevano i fuggitivi come nubi piroclastiche di un vulcano.

   Il dottore corse al comodino e afferrò il comunicatore che vi aveva lasciato la sera prima. «Korris a Enterprise, emergenza! Qui è pieno d’anomalie!» gridò.

   «Lo sappiamo» rispose Grog. «Per adesso non possiamo teletrasportarla. Resti lì dov’è... stiamo arrivando» disse, e chiuse la comunicazione.

   «Stanno arrivando? E come?» si chiese Korris, stupito. Ma non c’era tempo di pensarci. Si vestì a precipizio e corse in strada. Anche se Grog gli aveva chiesto di restare dov’era, era pur sempre un medico, e là fuori c’era gente ferita. Se solo avesse avuto gli strumenti... ma poteva unirsi alle squadre di soccorso. Naturalmente questo comportava dei rischi. Ma nemmeno il palazzo comunale era schermato contro le anomalie, quindi rimanere all’interno non lo metteva al sicuro.

   In strada c’era il panico. La gente correva da tutte le parti, non sapendo come sfuggire alle anomalie, che cambiavano continuamente forma e dimensioni. Una zona libera poteva trasformarsi all’improvviso nel centro di una nuova distorsione. Adesso che era in strada, Korris notò che i Galateani avevano anche dei veicoli privati, simili ad automobili antidiluviane. Non erano molte, ma c’erano. Un’auto, diversa dalle altre per via del colore blu, fu sfiorata da un’anomalia e finì contro un palo. Qualcosa di bianco scattò all’interno e si gonfiò.

   «Airbag... roba d’altri tempi» si disse Korris, accostandosi per soccorrere il guidatore. Quando fu alla portiera, notò che vi era impresso il simbolo della colonia: una figura femminile che emergeva da un blocco di roccia. L’antico mito di Galatea, la statua resa umana da Afrodite. In quell’automobile doveva esserci qualche pezzo grosso del governo. D’un tratto Korris ebbe un orribile presentimento. Aprì la portiera, con qualche sforzo perché l’urto l’aveva deformata. Sollevò l’airbag e vide ciò che temeva: Karen riversa sul volante. La estrasse dalla macchina il più delicatamente possibile e l’adagiò sull’asfalto. La donna non perdeva sangue, ma poteva avere emorragie interne. Il dottore le controllò il respiro e il battito cardiaco: erano regolari. Cercò di capire se aveva fratture, tastandola con delicatezza.

   «C-che... mi è capitato?» chiese Karen debolmente. Sbatté gli occhi e si accorse di essere stesa sull’asfalto, con il mezzo Cardassiano chino su di lei. «Korris, che stai...?» gemette, cercando di rialzarsi.

   «Resta immobile; sto cercando di capire se hai delle ossa rotte» spiegò il dottore. «Andavi veloce quando ti sei schiantata. Anche se è scattato l’airbag, hai subito una compressione allo sterno. Provi un senso di oppressione al petto, difficoltà a respirare?».

   «Appena... ma non credo di avere niente di rotto» ansimò Karen. Con l’aiuto di Korris si rialzò a sedere. Si guardò attorno, disorientata: vide le anomalie e la gente terrorizzata che scappava. Una coppia correva a perdifiato lungo la strada. Erano due giovani dalla pelle scura, che scappavano tenendosi per mano; la ragazza aveva i capelli pieni di perline tintinnanti, agitate dalla corsa. Un’anomalia simile a un’increspatura li raggiunse... e li fece sparire. Non restò nulla né dei corpi, né dei vestiti. Si erano semplicemente dissolti.

   «Hai visto?! Ma che gli è successo?» domandò Karen, atterrita.

   «Non stupirtene. Ho già visto anomalie dai comportamenti imprevedibili» disse Korris. «Quando lo spazio è trasformato solo in parte, succedono cose stranissime. Forse quei due sono morti. O forse la distorsione li ha trasferiti lontano... è impossibile saperlo con certezza».

   «La tua nave può aiutarci?» chiese la donna.

   «Temo di no, ma di solito le anomalie vanno e vengono» spiegò il dottore. «Se questo è il primo attacco, non dovrebbe durare molto. Ma col tempo gli assalti si faranno più frequenti e violenti, fino a distruggervi. Ora capisci perché non potete restare?».

   Karen annuì e con l’aiuto di Korris si rimise in piedi. Guardando la sua macchina, rimase sconvolta nel vedere quanto si era accartocciato il cofano. Per fortuna l’abitacolo, costruito con criteri anti-urto, aveva retto. La Galateana barcollò, anche perché le restava una scarpa sola; l’altra era rimasta dentro la macchina. Korris le offrì il braccio e lei vi si aggrappò. «Perché il Fronte ci odia? Cosa gli abbiamo fatto di male, per meritarci questo?» gemette, osservando la rovina della sua bella città.

   «Il Fronte non ce l’ha con voi in particolare. Forse non sa neanche della vostra esistenza» spiegò il dottore, per quanto gli spiacesse dirlo. «Il suo obiettivo è conquistare gran parte della Galassia. A Vosk e agli altri non importa quanto sangue si lasciano alle spalle. Ogni giorno ci sono attacchi come questo, in giro per l’Unione...». Si arrestò, perché d’un tratto era calato il buio. Qualcosa di scuro ed enorme avanzava sopra i grattacieli più alti, oscurando il cielo.

   «È la nave di Vosk? È lui?!» strillò Karen, quasi isterica.

   Korris osservò l’imponente scafo che fluttuava sopra le loro teste. «Direi di no» disse rasserenandosi. «Quelli sono i nostri ragazzi. L’avevano detto che stavano arrivando!» gongolò.

   Il dottore non si sbagliava. Pur non potendo atterrare, l’Enterprise era scesa nell’atmosfera di Galatea e ora sorvolava Eidola City, a poche decine di metri dalle antenne più alte. Al tempo stesso estendeva al massimo gli scudi, per proteggere la città. La bolla cronofasica si allargò per chilometri, respingendo le anomalie. Era tanto grande da avvolgere completamente la capitale. Ma non poteva raggiungere gli altri insediamenti, alcuni dei quali si trovavano a centinaia di chilometri.

   «Voi della Federazione siete brave persone» disse Karen, vedendo che le anomalie si erano dissolte. «E tu in particolare sei un angelo». Senza starci a pensare, baciò il dottore.

   Quando si staccarono rimasero per un attimo interdetti. Era successo tutto in fretta, sull’onda dell’emozione. Korris pensò che il gesto di Karen era una conseguenza dello stress fisico ed emotivo. Doveva ignorarlo; così sarebbe stato un bravo medico. Stabilito questo, l’abbracciò e la baciò a sua volta.

 

   «Le anomalie sono finite, Capitano» informò Terry qualche minuto dopo.

   «Torneranno. Ma per il momento possiamo rientrare in orbita» disse Chase, osservando l’orizzonte verdeggiante dallo schermo principale. Qua e là c’erano macchie brune, dove le anomalie avevano ucciso la vegetazione.

   «Mi viene voglia di teletrasportare quelle teste dure sull’Enterprise, anche di prepotenza» disse Lantora, truce. «Se avessero accettato subito l’evacuazione, tutto questo non sarebbe accaduto».

   «Non credo si rendessero conto di che li aspettava. Forse questo attacco servirà a smuoverli» commentò il Capitano. «Peccato che debba accadere nel modo più doloroso. Quante vittime ci sono?».

   «Prima delle anomalie rilevavo 30.318 segni vitali sul pianeta» rispose Terry. «Ora sono 29.801».

   Un silenzio amaro cadde in plancia. Il primo assalto aveva mietuto cinquecento vittime, tante quante i coloni che erano sbarcati inizialmente su Galatea. Se l’Enterprise non avesse protetto la capitale, negli ultimi minuti, il bilancio sarebbe stato ancora più tragico. E quello era solo l’inizio: le anomalie si sarebbero rafforzate fino a inglobare tutto il pianeta.

   «Giù gli scudi. Terry, mi teletrasporti nel palazzo comunale» ordinò Chase, accigliato. «Stavolta dovranno ascoltarmi».

 

   «È incredibile!» ringhiò il Capitano venti minuti dopo, uscendo come un turbine dalla sala della Giunta.

   «Signore?» chiese Korris, che era lì ad attenderlo.

   «Il Sindaco e gli Assessori si profondono in ringraziamenti, ma rifiutano gli aiuti medici... chiedono solo delle unità energetiche per tenere attiva la rete planetaria» spiegò Chase, percorrendo il corridoio di buon passo.

   «E l’evacuazione?» chiese impaziente il dottore, che lo seguiva quasi correndo.

   «Dicono che ci penseranno. Ci penseranno!» fece Chase, scuotendo la testa. «Ma io gli ho spiegato che non possiamo restare qui a fargli da balia. Abbiamo quello scambio di prigionieri coi Krenim e poi dovremo lasciare il settore. Ci sono altri pianeti da proteggere, altri popoli da evacuare. Non possiamo metterli in lista d’attesa, mentre aspettiamo i comodi dei Galateani. Lei piuttosto... è riuscito a scucire la bocca a Karen?».

   «Ehm, sì e no» fece Korris, vagamente imbarazzato. «I Galateani sono complicati. Hanno un rapporto simbiotico col loro mondo. Credo davvero che molti preferirebbero morire con esso, piuttosto che abbandonarlo».

   «Ma non tutti» puntualizzò il Capitano. «Ha visto quanti bambini ci sono nei parchi? Se gli adulti sono così irragionevoli da non volerli salvare, dovremo farlo noi».

   «Rapire i bambini? Spero che stia scherzando!» inorridì il dottore.

   «Piuttosto che lasciarli morire... ma se faremo una cosa del genere, porteremo via tutte le famiglie» assicurò Chase. «Ora torno sull’Enterprise per fare il punto della situazione. Lei può restare ancora un po’, se lo trova utile per capire questa gente. Ma quando andremo dai Krenim la porteremo su, ovunque si trovi».

   «Intesi, Capitano» annuì Korris. Quando il superiore fu svanito nel raggio azzurro, il dottore lasciò il palazzo e scese in strada, per controllare la situazione. Era sorprendentemente normale. I danni strutturali agli edifici erano minimi e il traffico era già ripreso. I cittadini erano calmi... anche troppo, considerando l’esperienza traumatica appena vissuta. A parte per le squadre tecniche inviate a controllare gli edifici – soprattutto la centrale energetica – sembrava che nulla fosse accaduto. I Galateani erano indubbiamente una società disciplinata. Ma questo non bastava a salvarli, se ad ogni assalto delle anomalie cinquecento di loro perdevano la vita. Pensando a questo, Korris si stupì di non vedere cadaveri per le strade, né ambulanze. Come avevano fatto a portare via morti e feriti così in fretta? E dove li avevano portati, poi? Pensò che doveva recarsi all’ospedale. La sua faccia cardassiana lo avrebbe tradito subito come uno dell’Enterprise, ma era pur sempre un medico: che c’era di strano, se voleva dare una mano?

   Fu allora che Korris notò la coppia. Erano due giovani dalla pelle scura, che camminavano tenendosi teneramente per mano. La ragazza aveva i capelli lunghi, pieni di perline tintinnanti. Era inconfondibile. Si trattava della stessa coppia che Korris aveva visto dissolversi neanche mezz’ora prima.

   «Scusate, siete voi quelli che ho visto svanire in un’anomalia?» chiese il dottore, inseguendo i due giovani.

   «Prego?» fece il ragazzo, voltandosi. Sia lui che la compagna rimasero un po’ scioccati vedendo i lineamenti alieni di Korris, ma si ripresero subito: i mezzi d’informazione avevano avvisato i Galateani dei visitatori scesi dall’Enterprise.

   «Ma sì, siete quelli che scappavano lungo la via principale» insisté il dottore. «Vi ha raggiunti un’anomalia e siete svaniti... vi credevo morti. Dov’eravate finiti?».

   «Lei si sbaglia. Forse ci confonde con altri» disse la ragazza, guardandolo come lo credesse un po’ tocco.

   «Dipende; per caso avete dei gemelli che si frequentano?» chiese Korris, sarcastico.

   «Non so di che parla; noi non siamo “svaniti” né finiti altrove» disse con decisione il ragazzo, circondando col braccio le spalle della fidanzata, come per tenere Korris alla larga. «Le anomalie di cui parla non le abbiamo nemmeno viste».

   «Va beh... mi sarò sbagliato» fece Korris, decidendo che era meglio lasciar perdere. Osservò i due giovani che si allontanavano, sempre mano nella mano. I capelli della ragazza, tutti perline, erano così inconfondibili che era certo di non sbagliarsi. Si erano dissolti... e poi erano tornati senza memoria. Oppure erano bravi attori. Ma perché cercare d’ingannarlo? Ripensando alle vittime delle anomalie, Korris ricordò che c’erano casi d’amnesia. Alcuni avevano perso la memoria a lungo termine: ogni mattina si svegliavano avendo dimenticato tutto ciò che era accaduto dall’incidente in poi. Quei ragazzi potevano soffrire di un disturbo simile. Forse.

   «Korris a Enterprise... quante persone ci sono sul pianeta?» chiese il dottore, pigiandosi il comunicatore. Aveva uno strano presentimento.

   «Rilevo 30.318 segni vitali» rispose prontamente Terry. «Un momento, è impossibile... erano scesi a 29.801 dopo il passaggio delle anomalie».

   Korris avrebbe voluto essere in plancia, per vedere l’espressione dell’IA. «Come pensavo... le vittime sono tornate» disse a bassa voce.

   «Ha qualche ipotesi per spiegare il fenomeno?» chiese Terry.

   «A parte una resurrezione di massa? Non ancora» disse il dottore. «Ora la lascio... vado all’ospedale. Se scopro qualcosa glielo farò sapere. Korris, chiudo». Si guardò attorno. I Galateani percorrevano le vie pulite, muovendosi in modo ordinato, come se nulla fosse successo. Erano allegri e sorridenti come sempre. Di colpo Korris si sentì rabbrividire fino al midollo. Che diavolo stava succedendo su quel pianeta?

 

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Capitolo 3
*** Le voci della guerra ***


-Capitolo 2: Le voci della guerra

 

   L’USS Nautilus uscì dalla cavitazione nei pressi di Galatea e si avvicinò all’Enterprise, come un mollusco che si accosta a una grande manta. Era un piccolo vascello scientifico, dal design atipico: la sezione a disco si sviluppava in verticale e somigliava alla conchiglia della creatura marina che le dava il nome. Poche navi di quella classe erano state costruite, prima dell’attacco ai cantieri di Utopia Planitia. Non avendo grandi armamenti, erano usate soprattutto come trasporti, poiché i loro scudi moderni permettevano di attraversare in sicurezza le anomalie.

   L’arrivo della Nautilus era atteso. Appena si accostò all’Enterprise, abbassò gli scudi e cominciò a trasferire nuovo personale a bordo. Anni di guerra avevano provocato diverse vittime sull’ammiraglia: era il momento di rinsanguare i ranghi. C’erano anche dei carichi da trasportare; non molti, dato che i replicatori dell’Enterprise la rendevano pressoché autosufficiente. Ma soprattutto c’erano notizie da casa: lettere personali, aggiornamenti sull’Unione, comunicazioni dal Comando. Gli hangar e le sale teletrasporto dell’Enterprise si affollarono quindi di gente che aspettava qualcosa o qualcuno.

   Quando Ilia Dax si recò nell’hangar principale, trovò che vi regnava la confusione. Le navette della Nautilus atterravano una dopo l’altra, ciascuna col suo carico che doveva essere convalidato. Nuove reclute prendevano servizio per rimpiazzare i caduti. Alcune erano molto giovani. Altri ufficiali, al contrario, sembravano essere stati richiamati dal congedo. Era una Babele di voci, alcune molto concitate. In quel caos, Ilia scorse Neelah accanto a un paio di medici dell’Enterprise. L’Aenar tamburellava il piede con impazienza. «Salve, dottoressa; che ci fa qui?» chiese la Comandante.

   «Aspetto gli aggiornamenti del Comando Medico» rispose prontamente Neelah. «Sa, per la faccenda delle armi biologiche. C’è anche un vaccino per l’Agente 46».

   «E l’Agente 47?» chiese Ilia, sapendo che era il virus più pericoloso.

   «Per quello siamo in alto mare, purtroppo» ammise Neelah. «E lei, invece? È qui per le nuove reclute?».

   «Anche, ma sto aspettando una persona» rivelò inaspettatamente Ilia, con una strana espressione d’orgoglio.

   «Un parente?» chiese Neelah, percependo le sue emozioni.

   «In un certo senso» rispose Ilia, con un sorriso enigmatico. «Ah, eccolo!» si animò, vedendo un Trill che scendeva da una navetta della Nautilus. Aveva una piccola borsa per bagagli a tracolla e si guardava intorno un po’ disorientato. A giudicare dagli abiti, doveva essere un civile.

   «Ciao, Vrelik! Com’è andato il viaggio?» chiese Ilia, affrettandosi verso di lui e salutandolo con un ampio gesto.

   Non appena la vide, il Trill s’illuminò in volto. «Ilia! O dovrei chiamarti Comandante Dax?» chiese, venendole incontro con lo stesso entusiasmo.

   «Chiamami come ti pare. Puoi chiamarmi anche nonnino, come facevi da piccolo» sorrise Ilia, abbracciandolo.

   «Nonnino?!». Per un attimo Neelah pensò di aver sentito male. Quel Trill era pienamente adulto. A occhio poteva avere la stessa età di Ilia... anzi, probabilmente aveva qualche anno in più. E poi la Comandante non aveva figli, né tantomeno nipoti. Preferiva cambiare compagno – o compagna – con disinvoltura, senza impegnarsi seriamente. Neelah capì che solo la sua natura di Trill Unita poteva spiegare quella strana situazione.

   «Lascia che ti presenti i miei colleghi» disse Ilia tutta allegra, tornando verso i medici. «Questi sono i dottori Gutiérrez e Vash’Tot. Il Medico Capo, Korris, è ancora su Galatea per convincere la gente a trasferirsi. E poi c’è Neelah, la nostra consulente d’ingegneria genetica e nanotecnologia».

   «Neelah... ho sentito parlare di lei» disse Vrelik, rivolgendosi all’Aenar con ammirazione. «Il suo lavoro con le nanosonde ha rivoluzionato milioni di vite. E ora sta aiutando la Flotta ad affrontare le armi biologiche del Fronte, vero? È molto nobile... questi sono gli eroi dell’Unione che voglio intervistare!» disse, porgendole la mano.

   Lusingata, Neelah fece per stringergliela. Ma rimase stupita quando Vrelik la prese nella sua e se la portò alle labbra, inchinandosi leggermente. Un baciamano... era la prima volta che Neelah ne riceveva uno. Sarà stata la loro cultura che tesaurizzava il passato, ma certi Trill avevano un atteggiamento d’altri tempi.

   «Quindi lei è un giornalista?» chiese Neelah, ritraendo in fretta la mano. Quello sfoggio di galanteria non l’impressionava per niente, e poi era già impegnata.

   «Sì, lavoro per il Federal News come inviato di guerra» confermò Vrelik. «Negli ultimi anni sono stato in alcuni dei fronti più caldi, da Khitomer a Vulcano. Ora sono qui per intervistare gli ufficiali dell’Enterprise. E soprattutto i civili, che non sono vincolati dal segreto militare. Lei, per esempio... non vorrebbe far sentire la sua voce al popolo federale?» propose.

   «Il Federal News finora non ci ha reso una gran giustizia» rispose Neelah, squadrandolo severamente. «Avete accusato il Capitano di aver scatenato la guerra e avete persino suggerito che fosse coinvolto nella catastrofe di Khitomer. Io questa la chiamo manipolazione» disse gelida.

   Ilia distolse lo sguardo, imbarazzata. Ma Vrelik, a cui era andata l’accusa, non sembrò preoccuparsene. «Penso che stia parlando di Vaus Liin, l’uomo dei talk-show» sorrise disinvoltamente. «Le assicuro che dalla Battaglia di Sol in poi la sua stella è calante. Ora tutti sanno che l’Enterprise ha salvato la Terra da Vosk. Il pubblico è curioso, vuole i retroscena. Non potrebbe fornirglieli?».

   «No, non posso. Non mi trovavo sull’Enterprise, durante la battaglia» rispose l’Aenar schiettamente.

   «Beh, ma avrà visto molte altre cose interessanti!» insisté Vrelik, senza perdersi d’animo. «Se ritiene che finora il Federal News vi abbia fatto dei torti, perché non approfitta di quest’occasione per rettificarli? Io ascolterò tutto quel che vorrà dirmi e lo riferirò al pubblico. Non farò tagli, né manipolazioni, come le chiama lei. Solo sano giornalismo» promise.

   «Uhm... vede, al momento sono molto occupata» esitò Neelah, cercando una scusa per scollarselo di dosso. «Il mio tempo devo passarlo coi bacilli, più che coi giornalisti». Prese un campione da un carrellino medico, che un inserviente le aveva appena consegnato, e glielo agitò sotto al naso.

   «Suvvia, dottoressa... sono certa che troverà qualche minuto da dedicare a mio nipote» esortò Ilia con voce misurata.

   Accorgendosi di quanto la Comandante tenesse a Vrelik, Neelah cedette. «E va bene... passi nel mio laboratorio questo pomeriggio alle 18 e vedrò di dirle qualcosa. Ma non tutto, perché la mia collaborazione con la Flotta significa che anch’io ho degli obblighi di riservatezza» chiarì.

   «Va benissimo» assicurò il Trill. «Grazie mille, le prometto che non se ne pentirà». Accomiatatosi da Ilia, lasciò l’hangar con la borsa a tracolla, diretto al suo alloggio provvisorio.

   «Deve sempre essere così dura con tutti?» chiese Ilia, corrucciata. Non aveva mai capito cosa ci trovasse il Capitano in quell’Andoriana così fredda e scostante.

   «Scusi tanto... nonnino» rispose perfidamente Neelah. «Allora, chi è quel tipo per lei?».

   «Il mio pronipote. Beh, in realtà è il pronipote di Martis, decimo Ospite di Dax» precisò la Trill. «Mi sono tenuta in contatto con la famiglia, prima come Zarden e poi come Ilia. È bello vedere che il sangue del tuo sangue va avanti. Sa, Zarden non ha avuto figli... e non credo che io ne avrò» aggiunse, facendosi più seria. «Oltre alla mia famiglia d’origine, Vrelik è quanto di più simile io abbia a un parente. Lo so, è strano» ammise a disagio. Si scostò per lasciar passare un drappello di nuovi ufficiali della Sicurezza, appena sceso da una navetta.

   «Non così strano» disse Neelah, con gli occhi un po’ appannati. «Ho lasciato i miei genitori quand’ero molto piccola e da allora li ho visti di rado. Sono praticamente degli estranei, per me» confessò. Le capitava raramente di pensare al passato, concentrata com’era su mille progetti, ma quando lo faceva sentiva una fitta di rimpianto.

   «Neelah? Sei veramente tu, Neelah?» chiese una donna del drappello, che si era fermata davanti a lei.

   L’Aenar alzò lo sguardo sulla nuova arrivata, che aveva i gradi da Guardiamarina senior della Sicurezza. Era una Betazoide, a giudicare dalle pupille enormi. Probabilmente era stata bella, un tempo, ma ora appariva emaciata. Aveva i capelli rossi, piuttosto lunghi, tenuti con una strana piega. Il motivo balzò subito all’occhio. La sua tempia sinistra era completamente rasata, mettendo in luce un lungo e sottile impianto cibernetico. Doveva essere la conseguenza di qualche devastante trauma cerebrale. All’occhio clinico di Neelah fu chiaro che quella donna era sfuggita alla morte per un soffio e ne pagava ancora le conseguenze. «Scusi, ci conosciamo?» chiese educatamente.

   «Ci conoscevamo un tempo» disse la Betazoide, con improvvisa amarezza. «Possibile che tu non mi riconosca? Sono cambiata così tanto? Beh, forse sì» ammise, chinando il capo vergognosa. Ma subito lo rialzò di scatto, con una strana luce negli occhi. «Tu invece sei sempre giovane e bella, Neelah. Probabilmente hai smesso di pensare a me dal giorno che lasciasti la nostra scuola su Tantalus».

   Neelah si sentì assalire dalle vertigini. Fissò con occhi sbarrati quella Betazoide colpita dalle avversità, che sembrava tanto più matura di lei e invece era coetanea. Anche dopo quelle parole rivelatrici, stentava a riconoscerla. «Delara... sei proprio tu?» chiese in un sussurro. La Betazoide non ripose, ma la fissò con sdegno e ostilità.

   «Voi due eravate compagne di scuola?» chiese Ilia, cercando di capirci qualcosa.

   «Di scuola e di stanza, Comandante» confermò Delara, senza staccare gli occhi da Neelah. «Poco prima di lasciarci, promettemmo di restare sempre in contatto. Dopo di che, ci siamo perse di vista» aggiunse sarcastica.

   «Non sapevo dov’eri!» insorse Neelah. «Dicevi di voler tornare su Betazed per insegnare. Poi, l’ultimo giorno, cambiasti completamente idea. Mi dicesti che ti eri arruolata nella... Sezione 31» sussurrò.

   «La Sezione 31?» si allarmò Ilia. «Seguitemi nel mio ufficio, tutte e due!» ordinò in un tono che non ammetteva repliche.

 

   Di lì a poco erano nell’ufficio della Comandante. «Dunque, Guardiamarina Livras» disse Ilia, scrutando alternativamente la sua scheda personale e la Betazoide che le sedeva davanti. «Qui leggo che ha lavorato per i servizi segreti dal ‘43 al ‘49. Poi cos’è successo?».

   «Vuol farmi rivelare informazioni riservate?» chiese Delara, sostenendo il suo sguardo.

   «Sono il suo ufficiale comandante e le ordino di rispondermi, Guardiamarina!» ribatté Ilia con voce secca.

   «Come vuole, signore» acconsentì Delara, cambiando postura per stare più comoda sulla sedia. Intrecciò le mani, cominciando a raccontare: «Come Neelah non le avrà detto, io e lei siamo state addestrate in una “scuola per giovani dotati” gestita dalla Sezione 31. Un posticino ameno su Tantalus V, costruito nel sottosuolo per sfuggire alle tempeste di polvere».

   «Che intende per “giovani dotati”?» chiese subito Ilia.

   «Telepatici, telecinetici, precognitivi... tutti i poteri della mente» rispose Delara indicandosi la tempia, ma lasciò ricadere la mano scornata quando si accorse che stava indicando l’impianto. «La Sezione 31 riteneva che concentrarci lì fosse un buon investimento. Poteva fare tutte le analisi che voleva, spingendoci a dare il massimo. Al tempo stesso c’istruiva nei campi per cui mostravamo maggior predisposizione. E al compimento della maggiore età ci offriva una scelta. Potevamo andarcene... questa era la strada più facile e sicura, che Neelah ha scelto senza pensarci due volte. Oppure potevamo restare con la Sezione 31 e proseguire l’addestramento per diventare Agenti Operativi, come ho fatto io».

   «Se avete potuto scegliere, di che si lamenta? Ognuna ha fatto quel che si sentiva» notò Ilia.

   «Io ho scelto... ma tu?» intervenne Neelah. «Credo che tu abbia subito... pressioni indebite per farti restare. Altrimenti non avresti cambiato idea così di botto». Non fece parola della conversazione che aveva origliato la vigilia del suo diciottesimo compleanno.

   «Ti sbagli, ho solo riflettuto a fondo su quali erano i miei doveri» rispose Delara con freddezza. Neelah provò una gran pena per lei: ancora non si rendeva conto di cosa le avevano fatto. Forse era meglio non informarla. La Betazoide aveva una brutta cera e l’Aenar non voleva destabilizzarla ulteriormente.

   «Quindi è diventata Agente Operativo» incalzò Ilia, per riprendere il discorso. «Poi cos’è successo?».

   «Me la sono cavata per qualche anno... ma poi è andato tutto a rotoli» disse Delara, incupendosi. «Ho fallito una missione nello spazio talariano. Un mio collega è morto. Io sono mezza morta» disse, indicandosi l’impianto cibernetico. «E la mia identità segreta è stata svelata. Così la Sezione 31 mi ha buttata fuori a calci, diciamo. A quel punto non sapevo dove andare». Di colpo apparve vulnerabile.

   «Potevi tornare su Betazed» disse Neelah a mezza voce.

   «Dopo ventitré anni d’assenza? Nemmeno i miei familiari mi avrebbero riconosciuta» rispose Delara con amarezza. «E poi non volevo che mi vedessero in questo stato. Non mi restava che la Flotta Stellare. Ci sono delle facilitazioni, per gli ex agenti dei servizi. Sono entrata nella Sicurezza perché è la cosa più simile a ciò che facevo prima. Entro un anno è scoppiata la guerra; da allora sono stata sempre al fronte». Delara tacque, avendo concluso la sua storia. Aveva un’aria indifferente, come se non le importasse la reazione della Comandante.

   «Mi spiace che lei abbia pagato un prezzo così alto per la sua lealtà» disse Ilia. «Qui sull’Enterprise non approviamo i metodi coercitivi della Sezione 31. Come Guardiamarina senior, lei ha i diritti e i doveri del suo grado. Finché seguirà il regolamento non guarderemo al suo passato. Ma se quel passato tornasse a influenzarla... allora ci saranno conseguenze, eccome» ammonì. Si alzò, girò intorno alla scrivania e si avvicinò alla Betazoide. «Mi dica un’ultima cosa... lei si considera un ufficiale di carriera?» chiese.

   «La mia carriera ormai è compromessa» rispose Delara, alzando gli occhi alla Comandante. «Non ho grandi prospettive».

   «Allora accetti un consiglio» disse la Trill. «Lei ha già sacrificato tanto per la Federazione. Se dovesse sentirsi stanca o depressa, non esiti a mollare. Non c’è vergogna in questo... non per chi ha già dato tutto come lei. Betazed è ancora lì che l’aspetta. Sono certa che il suo popolo – e la sua famiglia – sarebbero lieti di riabbracciarla. Questo è il mio pensiero... ma lei faccia come meglio crede!» raccomandò.

   Delara si alzò a sua volta. Le ultime parole di Ilia sembravano averla colpita. «Ci penserò, Comandante; ma per il momento prendo servizio. Posso andare?» chiese, evitando il suo sguardo.

   «Certo, Guardiamarina» rispose Ilia, turbata nel vederle l’impianto così da vicino.

   Delara si girò svelta e lasciò l’ufficio, senza degnare Neelah di uno sguardo. Quando la porta si fu chiusa alle sue spalle, Ilia emise un sospiro e si rivolse all’Aenar: «Che ne pensa?».

   «La sua mente è serrata» fu la sconsolata risposta. «Percepisco solo la disillusione nei confronti di tutto e tutti. E l’astio nei miei confronti. Delara pensa che io l’abbia abbandonata, ma si sbaglia. È stata lei a piantarmi in asso. Era nella Sezione 31, come facevo a tenermi in contatto? Non sapevo nemmeno che l’avessero espulsa!».

   «Si calmi, non la sto accusando di niente» assicurò Ilia. «Che intendeva, quando ha parlato di “pressioni indebite”?».

   «L’hanno condizionata in qualche modo, negli anni dell’addestramento» confessò Neelah. «Non è facile influenzare un telepate a sua insaputa, ma lei era molto piccola quando la presero. Possono averle imposto dei blocchi mentali. Forse hanno persino degli stimoli-chiave per riattivarla e farle fare ciò che vogliono».

   «Allora la cosa è più grave di quanto pensassi». Gli occhi di Ilia erano pieni di sdegno e preoccupazione. «Crede che l’abbiano piazzata qui per spiarci, o per compiere una missione?».

   «Non so che pensare» sospirò Neelah. «Non sappiamo nemmeno se sia davvero fuori dalla Sezione 31. Delara può mentire e i suoi dati possono essere falsificati. Forse è ancora un Agente Operativo».

   «Dovremo tenerla d’occhio; ne parlerò col Capitano» disse Ilia. «Stia all’erta anche lei... se quella donna nutre astio nei suoi confronti, per quanto ingiustificato, potrebbe cercare vendetta. Per nessun motivo deve restare sola con lei. E se Delara dice o fa qualcosa d’insolito, riferisca subito a me o al Capitano» raccomandò.

   «Intesi» annuì l’Aenar. «Sa, è buffo... c’è stato un tempo in cui Delara era la persona di cui più mi fidavo. L’unica a cui confidassi i miei pensieri» disse malinconica. «Come cambiano le cose, eh?».

   «Come il giorno e la notte» convenne Ilia. Finalmente cominciava a capire qualcosa di quell’Andoriana così riservata.

 

   La Nautilus lasciò Galatea, proseguendo il suo giro di rifornimenti lungo il fronte Klingon-Romulano. Sull’Enterprise il Capitano Chase andò nel suo ufficio. Sedette alla scrivania, percorsa da una lunga crepa, e inserì un’unità di memoria nell’apposito lettore. Subito si attivò un oloschermo, che gli mostrò l’Ammiraglio a lui più familiare.

   «Salve, Capitano» disse Nelscott. «Spero che la Nautilus le consegni questo messaggio al più presto. Non mi sono azzardato a trasmetterlo per timore delle intercettazioni».

   Il Capitano intrecciò le dita sino a farle scrocchiare e ascoltò ancora più attentamente.

   «So che è ancora a Galatea per quella faccenda dei coloni» disse l’Ammiraglio. «In altre circostanze la rimprovererei per la sua lentezza, ma le cose sono cambiate. Ora è provvidenziale che si trovi in zona. Nelle ultime settimane, le nostre stazioni di rilevamento hanno triangolato gli spostamenti delle navi Krenim. Abbiamo cercato di capire quali sono le loro rotte abituali, per risalire ai punti di lancio delle catapulte subspaziali. E finalmente... abbiamo individuato un bersaglio».

   Il viso severo dell’Ammiraglio lasciò il posto a una mappa del settore in cui si trovava l’Enterprise. Le rotte delle navi Krenim erano evidenziate in giallo. Formavano una fitta ragnatela, il cui centro era vicinissimo a Galatea.

   «Lo vede? Le rotte subspaziali portano al sistema di Carraya» disse Nelscott con soddisfazione. «C’era da aspettarselo, essendo alla confluenza dei tre spazi. Ma più importante ancora... sappiamo che al momento i Krenim hanno solo una ventina di navi a difesa delle catapulte».

   Chase si sentì accapponare la pelle, sapendo cosa significava.

   «È l’occasione che aspettavamo» proseguì l’Ammiraglio. «Quei congegni sono il perno dell’espansione Krenim nel Quadrante Beta. Distruggiamoli e comprometteremo la loro campagna. Sarà una debacle per tutto il Fronte Temporale».

   Chase avrebbe voluto chiedergli cosa contava di fare per il pianeta, ma non poteva fare domande a una registrazione. Si rassegnò ad ascoltare il messaggio sino in fondo, sperando che fosse esauriente.

   «Al momento non possiamo mobilitare una grande flotta, quindi le invierò una task-force per un attacco lampo» spiegò Nelscott. «Ci saranno rappresentanti delle tre potenze dell’Unione, ma il comando dell’operazione spetta all’Enterprise, quindi faccia rigar dritti Klingon e Romulani. L’attacco sarà diretto contro le catapulte e per essere considerato un successo dovrà distruggerle tutte. Non si fermi a colpire le navi Krenim. E soprattutto non faccia mosse avventate col pianeta. Non ha forze di terra sufficienti a liberarlo e se si attarda esporrà la task-force alla rappresaglia Krenim. Perciò elimini le catapulte e se ne vada alla svelta. Ci sarà un giorno in cui libereremo Carraya, ma non è oggi» sottolineò l’Ammiraglio, per poi dissolversi. Il messaggio era già finito.

   Chase si massaggiò le tempie. C’erano parecchi prigionieri su Carraya, più che altro Klingon e Romulani. «Quando i Krenim vedranno i pezzi delle catapulte subspaziali che piovono dal cielo come stelle cadenti, che gli faranno?». Non era difficile immaginarlo. Li avevano già rinchiusi in campi di concentramento; non restava che girare la manopola del gas per vendicarsi dell’Unione.

 

   Vrelik indugiò davanti alla porta del laboratorio di Neelah. Aveva con sé microfoni e registratori, tutto il necessario per svolgere il suo lavoro. Terry lo aveva guidato fin lì a voce, evitando che si smarrisse nell’enorme astronave. Ma ora che c’era, il Trill preferì aspettare qualche minuto, fino alle 18 esatte. La biologa era una perfezionista e già sembrava non gradirlo molto; non voleva presentarsi in anticipo.

   Quando furono le 18 in punto, Vrelik si accostò all’ingresso, che rimase chiuso. Premette allora un comando laterale.

   «Identificazione, prego» disse una voce computerizzata, diversa da quella di Terry. Vrelik sorrise, riconoscendo un sistema di sicurezza autonomo. L’Aenar teneva decisamente alla sua privacy.

   «Sono Vrelik, il giornalista... si ricorderà di me» disse con voce suadente. «Mi aveva promesso un’intervista. E io le avevo promesso di renderle giustizia. La prego, mi faccia entrare... prima cominciamo, prima finiamo».

   Un sensore installato in cima alla porta lo sondò da capo a piedi, proiettandogli addosso una griglia azzurrina. «Impronta vocale e scansione retinica confermati. Prego si accomodi, signor Vrelik» disse la voce impersonale del computer. L’ingresso si aprì e Vrelik scattò dentro, prima che Neelah cambiasse idea.

   «Caspita... lei lavora qui?» chiese il giornalista, osservando la sala piena di strani attrezzi, resi ancor più inquietanti dalla penombra. Sulla parete di fondo c’era persino un’alcova di rigenerazione Borg.

   «Di solito sì» ammise l’Aenar, uscendo da un’altra stanza. «Ma ultimamente passo molto tempo nell’infermeria, con Korris e gli altri dottori. Sa, cerchiamo rimedi contro le armi biologiche» spiegò, avvicinandosi.

   «Ecco, questo è un ottimo argomento da cui iniziare» suggerì Vrelik. «I cittadini devono sapere che le loro cure vengono da posti come questo. Io non appartengo alla Flotta Stellare, come mia nonna, ma ne riconosco l’importanza. Mi aiuti a farla capire anche agli altri!» disse in tono accorato.

   «Ci proverò» disse Neelah, allargando le mani. «Vuole sedersi?».

   «Volentieri» annuì il Trill. Andarono a un tavolino e si accomodarono su due seggiole, a poca distanza. Vrelik cavò di tasca il registratore, lo posò sul tavolo e lo attivò. «Bene... cominciamo» disse, pregustando una delle chiacchierate più interessanti della sua carriera.

 

   «Proprio non puoi restare?» chiese Karen, avvicinandosi a Korris. Quando passò davanti alla finestra, il sole di Galatea fece brillare la sua vestaglia bianca, rendendola abbagliante.

   «È escluso, mia cara» sospirò Korris, appuntandosi il comunicatore sull’uniforme. «Mi hanno chiamato poco fa dall’Enterprise, quando ancora dormivi. Non mi hanno dato i dettagli, ma... qualcosa di grosso bolle in pentola».

   «Lo scambio di prigionieri coi Krenim?».

   «Anche quello, ma potrebbe esserci dell’altro. Non so... devo tornare a bordo per informarmi» spiegò il dottore.

   «Quanto tornerai?» chiese la donna.

   «Non so di preciso, ma non credo che staremo via molto» rispose Korris per confortarla. «C’è ancora l’evacuazione... se la tua gente accetterà».

   «Mi batterò nella Giunta perché accada. Spero solo che...». Karen si morse il labbro inferiore. «Spero che vada tutto bene. Oh, vorrei che le anomalie non avessero mai colpito il nostro piccolo mondo!» si lamentò. «Però in quel caso non ti avrei mai conosciuto. Non avrei mai capito quanti limiti abbiamo su Galatea. Siamo paghi della nostra pace... ma è una pace fredda, senz’amore».

   «Tu non mi sei sembrata così» sorrise il dottore, carezzandole i capelli castani. «Tornerò il prima possibile. Ma capirai che quando sarete in salvo su Acamar l’Enterprise se ne andrà. A quel punto potrebbe passare molto tempo, prima di rivederci» si rattristò.

   «Lo so» annuì Karen, malinconica. «Siamo legati alle nostre responsabilità. Beh, vada come deve andare. Che il Cielo ti protegga, ovunque ti porti la tua astronave».

   Si baciarono teneramente. Poi, con estrema riluttanza, Korris si portò la mano al comunicatore. «Korris a Enterprise... uno da teletrasportare» disse. Il raggio azzurro lo dissolse e Karen rimase sola in camera. Anche se aveva promesso di battersi, intravedeva già dove avrebbe portato l’ostinazione dei suoi colleghi. Sedette sul letto sfatto, si prese la testa fra le mani e pianse silenziosamente.

 

   A metà strada fra Galatea a Carraya, l’Enterprise fronteggiava tre navi da guerra Krenim, armate fino ai denti. I vascelli avevano le armi puntate; una sola parola dei comandanti poteva innescare la battaglia.

   «Ci rispondono» disse Grog, stabilendo il contatto.

   Un ufficiale Krenim dall’uniforme marroncina e guanti di pelle nera apparve sullo schermo. «Sono il Capitano Morlish, della Marina Imperiale» si presentò con orgoglio. «Vi avremmo già attaccati, se non fosse per la vostra trasmissione. Che volete?».

   «Morlish... per caso conosce l’Ammiraglio Hortis?» domandò Chase.

   «Certo, ho avuto l’onore di essere al suo comando. Perché me lo chiede?» indagò il Krenim.

   «Perché Hortis sa che persino in guerra esistono certe regole» disse l’Umano. «Ad esempio le tregue dopo le battaglie, per soccorrere i feriti. O gli scambi di prigionieri».

   «Lei ha dei prigionieri Krenim che vorrebbe scambiare?» si accigliò Morlish.

   «Ne ho duecentocinque, acquisiti di recente. Alcuni sono feriti, ma li stiamo curando» spiegò il Capitano.

   «Quindi siete stati voi a distruggere la nostra astronave» comprese il Krenim. «E ora volete rivenderci i nostri. Che insolenza!».

   «Quando avete invaso il nostro spazio, sapevate che potevano accadervi di questi inconvenienti» rispose Chase, soave. «E quanto ai prigionieri, non vi fate problemi a prenderne. Su Carraya IV, per esempio, ne avete 30.000. Duecentocinque in meno non faranno differenza».

   «Forse no» ammise Morlish. «Dunque proponete uno scambio 1:1?».

   «È il più equo. Nessuna considerazione di parte, solo matematica. Dovrebbe piacervi» ironizzò Chase. «In realtà lo scambio è a vostro favore. Duecentocinque vostri militari contro altrettanti nostri civili; e sceglierete voi quali darci. Ma se posso esprimermi... spero ci darete i bambini e i malati che altrimenti non sopravvivrebbero».

   «Mmmhhh... si può fare» fece Morlish, meditabondo. «Ne parlerò coi miei superiori, ma sì, penso di poter organizzare la cosa. L’Ammiraglio Hortis ha sempre detto che lei è un uomo di parola. Naturalmente quando lo scambio sarà fatto torneremo nemici come prima».

   «Naturalmente» convenne Chase.

 

   La maggior parte dei Krenim detenuti sull’Enterprise era in cella o in una stiva di carico convertita in prigione. I feriti più gravi dello scontro, però, erano ancora in infermeria per il trattamento anti-radiazioni. Visto che erano pur sempre soldati nemici, addestrati a combattere anche quando non erano al massimo della forma, si rendevano necessarie delle precauzioni. Alcune guardie presidiavano le sale dell’infermeria principale. I bio-letti erano circondati da campi di forza, o in alternativa i pazienti avevano delle restrizioni che li immobilizzavano. Non era un bello spettacolo, si disse Neelah entrando in infermeria. Ma di una cosa era certa: i prigionieri dell’Unione in mano ai Krenim non avevano dottori che si prodigavano per curarli.

   «Può dire al Capitano che anche gli ultimi otto pazienti sono fuori pericolo. Saranno dimessi entro domani» stava dicendo Korris a Lantora.

   «Bene... più ne sopravvivono, più ostaggi avremo indietro» rispose rudemente l’Ufficiale Tattico.

   «Li avrei curati in ogni caso; è il mio lavoro» rispose Korris con garbo.

   «Uhm» fece lo Xindi, ritirandosi. Da quando avevano attaccato Khitomer a tradimento, i Krenim non gli stavano per nulla simpatici. «Neelah...» salutò distrattamente, passando accanto alla dottoressa.

   «Neelah!» fece Korris, più cordiale. «La stavo aspettando. Ha letto i dati del Comando Medico?».

   «Solo in parte... è un bel po’ di roba» ammise l’Aenar. «E ieri ho perso tempo con quel giornalista petulante».

   «Ah, Vrelik... il nipotino della Comandante!» ridacchiò il dottore. «L’ho incontrato in sala mensa. Sembra un tipo a posto... non è un Trill Unito, vero?».

   «Non gliel’ho chiesto... ma direi di no» rispose Neelah, giocherellando con qualcosa che aveva in tasca. «Si capisce, quando un Trill è Unito. Hanno quel non so che nello sguardo. Ilia ce l’ha; Vrelik per niente». Si avvicinò distrattamente a un lettino medico, su cui giaceva un soldato Krenim privo di sensi. Metà del suo volto mostrava lesioni da plasma e radiazioni. Un dispositivo medico ad anello correva avanti e indietro lungo il bio-letto, riparando i danni. Neelah ne ebbe compassione: era molto giovane.

   «Uno dei nostri ospiti» fece Korris, con un sorriso agrodolce. «Sembra che lo scambio ci sarà, alla fine. Bravo Capitano... ma sono preoccupato per gli altri prigionieri di Carraya».

   «E per i Galateani» indovinò Neelah.

   «Soprattutto per i Galateani» ammise Korris, dandole le spalle per riordinare alcuni strumenti. Non voleva che la dottoressa vedesse il dolore cocente che aveva in volto. «Ho trascorso un po’ di tempo con loro, per capire come mai sono così abbarbicati al loro mondo. Per carità, non è difficile da immaginare... Galatea è un paradiso. Se troverà il tempo di visitarlo, lo vedrà coi suoi occhi. Ma assodato che sta per morire, quale pazzo si tratterrebbe lì? Eppure i Galateani non vogliono saperne di partire, nemmeno dopo aver assaggiato le anomalie. E c’è qualcos’altro all’opera... qualcosa di molto strano» aggiunse, pensando che poteva confidarsi con la biologa. Si girò di nuovo verso di lei e si avvicinò, abbassando la voce. «Sa che dopo l’attacco delle anomalie c’erano pochissimi feriti? E i morti... c’erano dei morti, all’inizio. Ma mezz’ora dopo i sensori indicavano che la popolazione era già tornata ai livelli precedenti».

   Neelah lo ascoltava con le mani in tasca e l’espressione perplessa, quasi imbambolata. Si capiva che stentava a credergli. «Questo è impossibile» si riscosse. «Forse le anomalie disturbavano i sensori, nascondendo parte dei segni vitali».

   «Ma i sensori hanno rilevato questi dati anche dopo che le anomalie si erano dissolte» insisté Korris.

   «Magari gli scomparsi si erano semplicemente rifugiati in bunker, o dietro campi di forza che li sottraevano alle analisi» ipotizzò ancora l’Aenar.

   «Anche Terry è di questo parere, per quanto sia strano che i Galateani sfuggano ai suoi sensori. La loro tecnologia non è molto evoluta, per via del lungo isolamento» disse il dottore, camminando avanti e indietro. «Ma c’è di peggio. Ho visto coi miei occhi una giovane coppia sparire colpita da un’anomalia e riapparire poco dopo, senza ricordare nulla!» rivelò, sempre più concitato.

   «È certo che fossero proprio le stesse persone?» inquisì la biologa.

   «Ma sì, crede che le racconterei una cosa del genere se non ne fossi più che sicuro?!» chiese il mezzo Cardassiano, infastidito da quello scetticismo.

   «D’accordo, non si agiti» disse Neelah, levando le mani di tasca e sollevandole con i palmi aperti, come per calmarlo. Non era abituata a vedere il pacato dottore in quello stato. «Una spiegazione ci sarà per forza. Probabilmente la troveremo quando i Galateani saliranno a bordo».

   «Se saliranno» corresse il medico.

   «Conosco Alexander... li teletrasporterà a forza, piuttosto che lasciarli morire» disse l’Aenar con convinzione.

   «Probabilmente sì» ammise Korris, confortato da questo pensiero. «Allora, è qui in visita di cortesia o...».

   «Certo, dove ho la testa?» si riscosse Neelah. Tuffò la mano in una tasca del camice e ne estrasse un contenitore di sicurezza per agenti biologici, ben sigillato. «Ho sintetizzato il vaccino per l’Agente 46 e poi ci ho giocato un po’, per vedere se riuscivo a estenderlo. Questa è la prima cosa che ho sfornato. È solo un tentativo, ma se vuol darci un’occhiata...» disse, lanciandoglielo in mano.

   Korris si affrettò a prendere il contenitore prima che cadesse a terra. Era una precauzione inutile, visto che quelle unità erano costruite per essere infrangibili. Ma il dottore non sopportava ugualmente di farselo cascare. Riuscì ad afferrarlo e lo ripose su una mensola. «Grazie, Neelah. Lo dico sempre che lei saprebbe dirigere questo reparto meglio di me» sorrise.

   «Scherza? Non riuscirei a gestire bene tutta questa gente» disse l’Aenar, notando il viavai di medici e infermieri. «Preferisco lavorare da sola».

   «Ma la medicina – come tutte le scienze – è un gioco di squadra» obiettò Korris.

   «Mmmhhh...» fece Neelah, avviandosi verso l’uscita.

   «Va a rituffarsi nei rapporti del Comando Medico?».

   «Per forza».

   «Se ne avrà l’occasione, scenda un po’ su Galatea, prima che lasciamo il settore» consigliò il medico. «Potrebbe farle bene un po’ di relax».

   «Dormo già bene» assicurò l’Aenar. «Stamattina non ho nemmeno sentito la sveglia. E mi sento più in forma che mai!».

   «Non sarà tornata a rigenerarsi in quell’orribile alcova, vero?» chiese Korris, apprensivo.

   «Tranquillo, ho sospeso gli esperimenti sulla rigenerazione da un pezzo» fece Neelah tutta allegra. «Ad Alexander non faceva piacere e anch’io devo ammettere che era scomodo passare la notte in piedi». Sebbene si rivolgesse ancora a Korris, si era tanto avvicinata all’uscita che il sensore le aveva già aperto la porta. Si voltò per varcarla, ma si trovò di fronte Delara. La Betazoide aveva un fucile phaser a tracolla e lo sguardo tagliente. Per un attimo, la biologa temette che fosse lì per disintegrarla. Balzò indietro spaventata e Delara ne approfittò per entrare.

   «Ciao, Neelah» la salutò freddamente. «Che ci fai qui? Pensavo che non uscissi dal tuo laboratorio».

   «Esco quando mi pare!» fu la risposta acida.

   «La dottoressa Neelah è una mia preziosissima collaboratrice» chiarì Korris, facendosi avanti con piglio deciso. «Lei piuttosto, che ci fa qui?». Il dottore era stato informato dell’ambiguo passato di Delara.

   «Cambio di turno» disse annoiata la Betazoide. Andò in un angolo dell’infermeria, sostituendo una delle guardie che tenevano d’occhio i pazienti Krenim. «Si rilassi, faccia come se io non ci fossi» aggiunse un po’ beffarda.

   «Alla prossima, dottore» salutò Neelah, e infilò svelta la porta. Non ci teneva a restare nella stessa stanza con Delara.

 

   «Intervistare un Krenim?» chiese il Capitano, interdetto. Quando Ilia gli aveva portato il “nipote” nell’ufficio si era aspettato una richiesta d’intervista... ma non al nemico!

   «Certo, perché no?» fece Vrelik, animato. «Come giornalista devo offrire il quadro più completo dello scenario, perché il pubblico possa formarsi un’opinione. Devo cercare le storie che nessun altro racconta. I suoi ufficiali – e anche alcuni civili – sono stati così gentili da concedermi delle interviste. Ma questa è solo metà della storia! L’altra metà...».

   «... è il Fronte Temporale» finì Chase al posto suo. «Immagino che finora non abbia avuto molti Tuteriani da intervistare. Né Vorgon o Na’kuhl. Ma i Krenim sono più malleabili e guarda caso noi ne abbiamo una scorta a bordo. Così vuol fare lo scoop».

   «Può biasimarmi?» chiese Vrelik. «Capitano, io credo che ogni contesto abbia sempre due facce. Ci sono le ragioni degli uni e degli altri. Non dico che i Krenim facciamo bene a invaderci, sia ben chiaro» si cautelò, notando il cipiglio del Capitano. «Ma la mia deontologia dice che se posso ascoltare la voce del nemico, devo farlo. La conoscenza reciproca non è forse il primo passo per superare i conflitti?».

   «Questo non è un conflitto come gli altri» avvertì Chase. «Chi lo perde rischia d’essere cancellato dalla Storia, interviste comprese».

   «Pure, io credo di fare un servizio utile, riferendo le voci d’ambo i contendenti» insisté il Trill.

   «Glielo consenta, Capitano» pregò Ilia. «La trasparenza è una merce rara, in tempo di conflitti. Se lasciamo parlare i Krenim, mostreremo di non temerli. Anzi, proveremo d’essere saldi nelle nostre convinzioni».

   «E io non renderò le cose troppo facili all’intervistato» aggiunse Vrelik. «Se ci sono contraddizioni o ipocrisie nelle sue affermazioni, le farò venire a galla».

   «Quand’è così... vi autorizzo a procedere» cedette il Capitano. «Si occupi lei della cosa, Comandante. A patto che troviate un Krenim disposto a farsi intervistare. E mi raccomando, tenete alte le misure di sicurezza. Voglio che ci sia un campo di forza sempre attivo fra lei e l’intervistato... per il suo bene» aggiunse, squadrando Vrelik.

   «La ringrazio, Capitano. Ero quasi certo che avrebbe accettato» sorrise il Trill, stringendogli calorosamente la mano. «Chi teme il nemico cerca di tappargli la bocca, ma è chiaro che lei non ha paura dei Krenim. Cosa di cui sono grato» disse, e si ritirò.

   «Grazie» disse più quietamente Ilia, quando Vrelik fu uscito dall’ufficio.

   «Lasci stare... suo nipote è nel giusto» ammise Chase. «Ma non immagina ciò che stiamo per fare ai Krenim, appena concluso lo scambio. E non deve saperlo, intesi? Non vorrei che si tradisse con l’intervistato o con altri. Non possiamo permetterci una fuga di notizie alla vigilia di un attacco lampo».

   «La mia bocca è cucita» garantì Ilia.

   «Deve essere ben strano avere un... nipote della sua stessa età» commentò il Capitano dopo qualche secondo.

   «Pronipote, ad essere esatti. Sì, è strano» convenne la Trill. «Ma è il genere di cose cui porta l’Unione. Prima di avere Dax ignoravo chi fosse Vrelik. Ma ora ho tanti di quei ricordi che tengo a lui come se fosse mio discendente».

   Chase si domandò se la scelta di Ilia di non mettere su famiglia dipendesse in parte da questo. Forse si sentiva appagata dagli eredi di Martis. L’Unione era proprio una strana cosa; anche se conosceva Ilia da anni, la Trill continuava a sorprenderlo.

 

   «Il suo nome?» chiese Vrelik, sedendo composto davanti alla cella.

   «Cormak. Caporale della Marina Imperiale Krenim» proclamò il giovane con orgoglio, dall’altra parte del campo di forza. La metà destra del suo volto era guarita; non c’era traccia delle lesioni che l’avevano deturpato fino al giorno prima.

   «Bene, Cormak, ora le farò qualche domanda» disse Vrelik con calma. «Le hanno spiegato che questo non è un interrogatorio, vero? Sono solo un giornalista. Significa che lei è libero di non rispondere. Ma se vuol far sentire la sua voce – la voce dei Krenim – al popolo federale, questa è l’occasione».

   «Certo che voglio far sentire la voce dell’Impero!» disse il giovane, guardandolo con aria di sfida, sebbene fosse rinchiuso in cella. «Così capirete quant’è folle opporsi a noi».

   «La prego, si limiti a rispondere alle domande» esortò Vrelik. La conversazione era registrata da microfoni e telecamere. Dal suo ufficio, Chase la seguiva con grande interesse. Notò che Vrelik ci sapeva fare. Il suo compito era reso senz’altro più facile dalla giovane età dell’intervistato. Quel ragazzo arrogante non sapeva trattenersi dal fare proclami. Dovevano averlo indottrinato per bene, prima di spedirlo al fronte come carne da cannone.

   «Lei ha mai partecipato a battaglie?» chiese Vrelik per prima cosa.

   «Certo! Le ho detto che sono caporale dell’esercito» rispose Cormak.

   «Me ne può citare qualcuna?».

   «La Battaglia di Khitomer. Quella di Vulcano. E naturalmente la conquista di Carraya IV» disse fieramente il Krenim.

   «Sono state battaglie sanguinose, specialmente la prima che ha citato» notò il giornalista. «Avrà visto la morte da vicino».

   «Alcuni dei miei amici sono morti, sì» ammise il giovane, rabbuiandosi.

   «Lei è mai stato ferito?».

   «In modo serio? Solo di recente, quando...». Cormak esitò.

   «Quando...? Prego, continui».

   «Quando l’Enterprise ha distrutto la nostra nave e ci ha presi in ostaggio» confessò il Krenim.

   «Lei è stato ferito in modo serio» ripeté Vrelik con voce misurata. «Ma ora vedo che sta bene. Come mai?».

   «Sono stato... i medici mi hanno curato» incespicò il giovane, imbarazzato.

   «I nostri medici» puntualizzò l’intervistatore. «Lei prova gratitudine per questo?».

   «No. Ci avete curati solo perché vi servivamo vivi, per lo scambio di prigionieri» rispose Cormak. «Altrimenti ci avreste lasciati morire».

   «Ne è convinto?».

   «Certo! Siamo in guerra, funziona così».

   «Le regole di guerra possono variare da una cultura all’altra. La nostra cultura afferma che dobbiamo curare i feriti, persino se sono nostri nemici» spiegò Vrelik.

   «Per questo vi batteremo» disse il giovane con sicurezza. «Noi non temiamo di fare ciò che va fatto».

   «Voi uccidete i nemici presi in ostaggio?».

   «Dipende. Sono i Capitani a decidere» spiegò il Krenim. «A volte lo fanno. In altri casi li tengono prigionieri. Ma noi non offriamo vitto e alloggio gratis ai nostri nemici. Devono lavorare, per guadagnarsi il cibo».

   «E dove lavorano?».

   «Nei campi di lavoro, no?».

   «Ah. Voi dividete le famiglie?».

   «Dividiamo i maschi dalle femmine. Quindi sì, le dividiamo».

   «E che succede ai bambini? Ai vecchi? Ai malati e ai feriti? Insomma, a tutti quelli che non possono lavorare?».

   «I bambini ricevono ugualmente il cibo. Non siamo dei mostri, se è questo che crede» disse Cormak con sguardo tagliente. «Ma gli altri finiscono male. Se non possono lavorare, niente cibo».

   «Quindi muoiono di stenti. Le sembra giusto infliggere questo trattamento a civili inermi?».

   «Non sono io a stabilirlo. Sono i superiori che decidono cosa fare. Loro sanno cos’è meglio per l’Impero» fu la risposta che Chase temeva.

   «Lei non ha un’opinione personale sull’argomento?».

   «No, nessuna. Salvo che...».

   «Sì? Vada avanti».

   «Queste sono le asprezze della guerra. Se la vostra Unione si arrendesse, finirebbe tutto».

   «Ah, e come finiremmo? Sterminati dalle anomalie? Internati nei campi di lavoro forzato?» chiese Vrelik, facendosi polemico.

   «I sudditi dell’Impero Krenim sono trattati con magnanimità, a patto che obbediscano alle nostre leggi» rispose Cormak.

   «L’Impero Krenim è nel Quadrante Delta, a mezza Galassia di distanza» gli ricordò il giornalista. «Che ci fate così lontani da casa?».

   «Combattiamo a fianco degli alleati del Fronte. Conosce Vosk? Lui è un grande leader. Come il nostro Ammiraglio Hortis».

   «Ma perché l’Impero Krenim si è lasciato invischiare in una guerra così lontana dai suoi confini? Anche se riusciste a conquistare parte dell’Unione, poi non potreste controllarla» insisté Vrelik, arrivando al cuore del problema.

   «Troveremo il modo di farlo. Abbiamo sempre superato le avversità» dichiarò il giovane.

   «Ma perché combattete così lontano? Perché non vi concentrate sui nemici che vi accerchiano, piuttosto che aggredire chi non vi ha mai minacciato?» incalzò il giornalista.

   «I comandanti avranno le loro buone ragioni» s’incaponì Cormak. «Loro decidono cosa fare. Noi soldati lo rendiamo possibile. Col nostro sacrificio, alla fine prevarremo. E grazie al controllo delle linee temporali, l’Impero Krenim durerà quanto il tempo stesso».

   «Questo sembra un proclama del vostro Ammiraglio Hortis».

   «È la verità. Ve l’ho detto, tutto questo sta accadendo perché vi ostinate a non ammettere la sconfitta. Se l’accettaste, vivreste sotto la nostra protezione» giunse a dire il Krenim.

   «Ah, ci proteggerete. E da chi? Dai vostri alleati, come i Tuteriani e Vosk?» chiese Vrelik, facendosi severo.

   «Noi... s-sì, se necessario» balbettò il giovane, ma aveva perso la sicumera.

   «Facevate meglio a lasciare che fossimo noi stessi a difenderci, invece di aiutare quei massacratori» obiettò il giornalista. «Sa che il Fronte Temporale è responsabile dei peggiori crimini di guerra che la Federazione abbia mai subito? L’anno scorso il suo idolo Vosk ha attaccato il sistema solare, usando anche armi biologiche. Milioni di persone stanno ancora morendo, mentre i medici si affannano a cercare le cure. Alcuni di quei dottori ho avuto l’onore d’intervistarli io stesso. E intanto lei è qui... perfettamente sano, perché quegli stessi medici hanno salvato anche lei» concluse Vrelik.

   «Io... non risponderò ad altre domande» mormorò Cormak, che era arrossito fino alla radice dei capelli.

   «Ne è certo?».

   «Sì, basta con quest’intervista. Lasciatemi stare». Il giovane voltò le spalle all’intervistatore.

   «Da Vrelik, per il Federal News... questo è tutto» concluse il giornalista, alzandosi.

   Il Capitano Chase sorrise e spense l’oloschermo. Sulle prime quel Vrelik non gli aveva fatto una buona impressione. Il modo in cui aveva approfittato della “parentela” con Ilia per averne il supporto gli era parso un po’ meschino. Ma in quest’intervista si era comportato bene, mettendo in luce l’ideologia dei Krenim. Dopo anni di servizi giornalistici che parteggiavano ignobilmente per il nemico, Chase era lieto di aver trovato un reporter equilibrato. Dopotutto era un rampollo di Dax; non poteva essere tanto male.

 

   L’Enterprise lasciò Galatea, diretta all’incontro coi Krenim. Poiché nessuna delle due parti voleva attirare l’altra in profondità nel suo spazio, l’appuntamento era fissato a metà strada fra i sistemi di Galatea e Carraya. C’era una certa apprensione tra i federali. Finora gli scambi di prigionieri con il Fronte erano stati rarissimi. I Krenim potevano sfruttare l’occasione per introdurre bombe sull’Enterprise, o persino spie. Era un’occasione ghiotta ed era preferibile che lanciarsi all’assalto di una classe Universe. Le misure di sicurezza dovevano quindi essere elevate al massimo.

   Mentre l’Enterprise si presentò da sola all’incontro, i Krenim si erano rafforzati con una quarta nave. I minacciosi vascelli giallastri avanzarono in formazione serrata, con gli scudi alzati.

   «Quattro navi... se passeranno all’attacco, sarà dura» commentò Lantora.

   «Potevano prenderne di più, invece si sono moderati» ragionò Chase. «Significa che non vogliono sguarnire Carraya IV. Bene... le loro forze devono essere davvero ridotte, come diceva l’Ammiraglio».

   «Anche se le possibilità di colpire le catapulte sono buone, resta del problema degli ostaggi sul pianeta» ricordò Ilia.

   «I pianeti a rischio sono due» corresse Terry. «Calcolo un’alta probabilità che, dopo l’attacco alle catapulte, i Krenim reagiscano con un assalto a Galatea».

   «Allora dovremo evacuare i Galateani prima dell’attacco, che lo vogliano o no» disse Chase. «Nel frattempo riprendiamoci questi duecento civili».

   «Ci chiamano dall’ammiraglia Krenim» informò Grog.

   «Sullo schermo».

   «Bene... è giunto puntuale, Chase» esordì il Capitano dei Krenim.

   «Anche lei, Morlish. E ha portato qualche amico in più» rispose l’Umano.

   «Solo spettatori di un’amichevole transazione» assicurò Morlish, con un sorrisetto ironico. «Se la sente di procedere o ci ha ripensato?».

   «No, leviamoci il dente. Sa, non posso dedicarle troppo tempo» lo punzecchiò Chase.

   «Allora diamo inizio al trasferimento» disse Morlish, indispettito. «Poiché nessuno di noi vuole abbassare gli scudi, il teletrasporto è escluso. Useremo le navette, agganciando i boccaporti. E prima di portare a bordo i nostri li analizzeremo, per evitare spiacevoli sorprese».

   «Non ce ne saranno, da parte nostra. La Federazione è di parola» assicurò Chase.

   «Lo è anche l’Impero Krenim» dichiarò Morlish, e chiuse la comunicazione.

   Terry aveva seguito il battibecco con interesse, trovandolo utile al suo studio sulle manifestazioni di leadership fra gli Organici. Inserì la registrazione nel suo database, accanto ai documentari sulle lotte fra galli. Al tempo stesso pianificò l’attività delle navette, per sbrigare lo scambio il più in fretta possibile.

   Le operazioni furono svolte nel modo più efficiente, sia dai Krenim che dai federali. Per qualche ora vi fu un andirivieni di navette, rallentato solo dalla necessità di perquisire i prigionieri per accertarsi che fossero davvero ciò che sembravano. La tecnologia del XXVI secolo offriva molti modi per mascherare persone e oggetti. Ma non si scoprirono tranelli da parte dei Krenim, né i federali avevano pianificato tiri mancini. Entrambe le parti erano provate da anni di lotta e sapevano che le battaglie peggiori erano ancora da combattere; per stavolta si accontentarono di riavere la loro gente.

   Gli ultimi shuttle rientrarono a bordo delle rispettive astronavi. Sull’Enterprise c’erano adesso duecentocinque civili di Carraya IV, perlopiù Klingon e Romulani di giovane età. Sull’ammiraglia Krenim erano rientrati i soldati della nave distrutta. Il Capitano Morlish li osservò mentre uscivano dalle navette, nell’hangar principale. Camminavano in fila, mesti e silenziosi. La cattura era un disonore, aggravato dal fatto che invece di evadere si erano fatti riscattare.

   «Come ti chiami, ragazzo?» chiese Morlish, fermando il soldato più giovane della fila.

   «Cormak, s-signore. Caporale Cormak» rispose il giovane, irrigidendosi nel saluto militare. Era pallido e tremava leggermente.

   «Riposo, Caporale. Come vi hanno trattato i federali?» volle sapere Morlish.

   «Bene, Capitano. Ci hanno nutriti... e hanno anche curato le nostre ferite» ammise Cormak, sfiorandosi il lato del volto, dove non restava traccia delle ustioni.

   «Vi hanno interrogati?».

   «Alcuni di noi, sì. Ma non ci sono state torture» rispose onestamente il giovane.

   «Niente torture...» ripeté il Capitano, assorto.

   «Io sono stato – ehm – intervistato» aggiunse Cormak.

   «Come sarebbe, intervistato?» si stupì Morlish.

   «Non ho rivelato niente, signore!» si affrettò a precisare il giovane. «Ho solo spiegato a uno dei loro giornalisti che farebbero meglio ad arrendersi all’Impero».

   «E lui ti è stato a sentire?».

   «Sì... ha detto che riferirà le mie parole al popolo federale. Glielo giuro, non ho rivelato alcuna informazione sensibile» insisté Cormak, temendo le ire del Capitano.

   «Questi federali sono strani» commentò Morlish, incerto sul significato della cosa.

   «Signore, se posso permettermi...».

   «Sì?».

   «È vero che Vorgon e Na’kuhl usano armi biologiche contro i civili?» chiese Cormak.

   «Questo non la riguarda, Caporale» ribatté Morlish seccamente. «Pensi ai suoi compiti, ora che è di nuovo a bordo. A vincere la guerra pensiamo noi ufficiali».

   «Certo, signore. Scusi, signore» mormorò il giovane, prima di riunirsi ai commilitoni. Era ancora pallido e aveva anche cominciato a sudare.

 

   Senza ulteriori comunicazioni, le navi giallognole fecero dietrofront e rientrarono in tutta fretta nel sistema di Carraya. Anche l’Enterprise ripartì, ma prima di tornare a Galatea si recò ad Acamar per sbarcarvi i civili. Tutto era andato bene; l’unica amarezza era che i riscattati, perlopiù bambini, erano stati strappati ai loro parenti, ancora detenuti su Carraya. Chase ne fu acutamente consapevole quando un piccolo Romulano gli chiese se i suoi genitori l’avrebbero raggiunto presto.

   «Faremo il possibile per loro. Purtroppo siamo in una situazione difficile... non so come andrà a finire» rispose sinceramente il Capitano. Pensò all’imminente attacco contro Carraya IV e a ciò che avrebbe comportato per i prigionieri.

   «Ma voi potete fare tutto. Avete le astronavi!» protestò il bambino dalle orecchie a punta.

   «Ce le hanno anche loro, questo è il problema» rispose Chase, senza indorare la pillola.

   «Allora dovreste spaccargliele» suggerì il piccolo, tutto serio.

   «Ci proveremo. Vai, ora» lo esortò Chase, dandogli un colpetto sulla spalla per farlo salire sulla pedana del teletrasporto. «Ci proveremo» ripeté poi fra sé.

 

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Capitolo 4
*** La società perfetta ***


-Capitolo 3: La società perfetta

 

   Galatea splendeva più bella che mai: un pianeta azzurro, costellato d’isole verdeggianti e nuvole come fiocchi di cotone, immerso nella calda luce della sua stella. Sulla superficie, i Galateani conducevano vite pacifiche e operose, a stento consapevoli dei tormenti della Galassia intorno a loro. Beh, si disse Chase, le cose stavano per cambiare. «Signor Grog, chiami il Sindaco» ordinò, alzandosi dalla poltroncina.

   «Capitano, lieto di rivederla» disse Vargas non appena si fu messo in linea. «Com’è andato lo scambio di prigionieri?» chiese cordialmente, come se si fossero incontrati per un caffè.

   «Bene, per fortuna» disse Chase. «Ma tra poco ci sarà battaglia nel sistema di Carraya. Se non saranno le anomalie a distruggervi, ci penseranno i Krenim con la loro rappresaglia. Quindi il tempo dei rinvii è finito. In un modo o nell’altro, voi Galateani salirete sull’Enterprise. Preferirei che lo faceste spontaneamente. Ma in caso contrario...».

   «... ci deporterebbe contro la nostra volontà?» si rabbuiò il Sindaco. «Le pagine più buie della storia terrestre sono cominciate con deportazioni coatte».

   «Ma oggi sono i Krenim che hanno i campi di concentramento» obiettò Chase. «È lì che finirete, se non vi annientano prima le anomalie. Immaginate di vivere tutti sulla stessa isola, e che quest’isola stia per saltare in aria a causa di un vulcano che si risveglia. Non sarebbe saggio accettare un passaggio per un’isola vicina? Non è deportazione... è sopravvivenza».

   «Di questo abbiamo discusso a fondo durante la vostra assenza» assicurò il Sindaco. «Abbiamo già avuto un assaggio delle anomalie. E non dubitiamo che peggioreranno. Poiché la guerra ci assedia da ogni parte... e poiché ci offrite l’unica via di salvezza... dobbiamo accettare. Abbandonare Galatea sarà come strapparci il cuore, ma dobbiamo farlo, per il bene dei nostri figli». Se quell’uomo avesse appena annunciato la sua intenzione di suicidarsi, il suo viso non sarebbe stato più affranto. Ma per Chase quelle parole erano il tamburo della vittoria.

   «Comprendiamo la vostra sofferenza» disse con tatto. «È la stessa che abbiamo visto in tanti altri popoli costretti a trasferirsi. Spero con tutto il cuore che Galatea sopravviva e che un giorno possiate tornarci; ma ciò che più conta è che vi salviate. Ovunque sarete voi, lì sarà Galatea».

   «Ben detto, Capitano... vi chiediamo solo un ultimo favore» disse il Sindaco.

   «Dica» lo invitò Chase, sperando che non fosse un’altra rogna.

   «Molti dei nostri sono ancora spaventati dal teletrasporto. Vorremmo che usaste le navette per portarci a bordo».

   «Temo che sia impossibile» spiegò Chase con tatto. «Siete 30.000 e noi abbiamo solo 30 navette. Anche caricandole al massimo, ciascuna di loro dovrebbe compiere cento viaggi. Il che significa lavorare giorno e notte per una settimana. È troppo».

   «Almeno cominciate» supplicò il Sindaco. «Quando un certo numero di Galateani sarà a bordo, e avrà parlato coi parenti rimasti a terra, sarà più facile convincere gli altri a farsi teletrasportare».

   «E va bene» cedette Chase, «ma le operazioni devono cominciare immediatamente. Non voglio ritardi, per nessuna ragione».

   «Non tema, Capitano... noi Galateani abbiamo grande spirito di disciplina. Ora che ci siamo risolti a partire, vedrà che nessuno vi creerà problemi» promise il Sindaco. «Ho già ordinato agli abitanti di recarsi nelle piazze, in attesa delle vostre navette. Porteranno dei bagagli a mano, piccoli e leggeri, con lo stretto indispensabile. Quelli potete teletrasportarli, se lo trovate più comodo».

   «Penso che lo faremo» disse Chase. «Fate in modo che abbiano tutti il nome dei proprietari».

   «Senz’altro. E, Capitano...».

   «Sì?».

   «A nome del popolo di Galatea, grazie di tutto. E scusateci, se vi abbiamo creato problemi. Era l’amore per questa terra e le nostre cose a trattenerci. Ma vi siamo grati per quanto state facendo» disse il Sindaco, con voce genuina.

   «Sembra che ce l’abbiamo fatta anche stavolta» commentò Ilia, quando la comunicazione fu chiusa. «Non sono stati neanche i più difficili da trasferire».

   «Ma senza teletrasporto i tempi si allungheranno» si lamentò Chase. «Mandiamo subito le navette. Anche l’Auriga: è abbastanza grande da accogliere intere famiglie» disse, alludendo al suo shuttle personale.

   «Capitano a equipaggio» disse poi, premendo un comando sul bracciolo. «Il trasferimento dei Galateani comincia in questo istante. Il loro timore del teletrasporto ci costringe a usare le navette, almeno per il momento. Questo significa doppi turni per tutti. Dato il numero dei Galateani, ci aspettano giorni di confusione e affollamento. Rimanete professionali e abbiate pazienza coi nostri ospiti, che non sono avvezzi a certe tecnologie. Chase, chiudo». Il Capitano si appoggiò allo schienale, augurandosi che i Galateani fossero disciplinati come Vargas aveva promesso.

 

   Da lì a poche ore, Chase dovette ricredersi. Gli abitanti di Galatea erano davvero il popolo più composto che avesse mai visto, salvo i Vulcaniani. Le famiglie si presentavano all’imbarco in file ordinate, portando bagagli poco ingombranti. Attendevano tranquille il loro turno e s’imbarcavano come se lo facessero tutti i giorni. Persino i bambini stavano calmi durante il viaggio. All’arrivo i Galateani scendevano con ordine, senza spingere né strillare, lasciando le navette pulite come se non le avessero toccate. Riprendevano i bagagli, ricevevano il numero del loro alloggio e vi si recavano tranquillamente. Chi doveva accamparsi con sacchi a pelo nelle aree pubbliche della nave, per ragioni di spazio, non si lamentava. Gli ufficiali, che temevano di vedersi subissati di richieste e problemi, tirarono un sospiro di sollievo.

   Fra i primi Galateani che vennero a bordo, con lo yacht del Capitano, vi furono il Sindaco e gli Assessori, ufficialmente per dare il buon esempio alla popolazione. Si poteva anche interpretarlo come il desiderio di sfuggire quanto prima alle anomalie. Il dottor Korris, unitosi al comitato di benvenuto, cercò subito il volto familiare di Karen. La vide, tutta composta nel morigerato abito da Assessore, e le sorrise. Karen rispose con un sorriso appena accennato, non volendo dare spettacolo, ma il dottore si sentì ugualmente battere forte il cuore.

   Le più alte cariche di Galatea scesero dall’Auriga accompagnate da pochi inservienti. Solo allora Chase notò qualcosa che gli era sfuggito, durante la sua precedente visita del pianeta. «Benvenuti, signori» li accolse. «Abbiamo preparato alloggi per voi e il vostro staff. Ma non avete forze di sicurezza?» chiese.

   «No, che dice? La nostra società è del tutto pacifica» spiegò il Sindaco.

   «Non avete neanche poliziotti? Guardie del corpo?» si stupì Lantora.

   «A che ci servirebbero? È passato un secolo dall’ultima volta che un crimine è stato commesso su Galatea» fu la sorprendente risposta.

   «Quando dice “crimine” intende omicidio o...» fece lo Xindi.

   «No, intendo proprio crimini in generale. Non conosciamo furti, né violenze, né frodi» assicurò il Sindaco con orgoglio.

   «Questo stento a crederlo» disse Chase. «Da quando esiste la Federazione, il tasso di criminalità sulla Terra e gli altri mondi centrali è fortemente diminuito. Ma non è sceso a zero, né lo farà mai».

   «La natura umana rende impossibile una società utopica come quella che ci descrive» confermò Terry. «Emozioni come l’orgoglio, l’invidia e la rabbia sono inscritte nel DNA e portano inevitabilmente alcuni individui a violare le leggi».

   «Eppure su Galatea non abbiamo tribunali né prigioni» insisté il Sindaco. «Se esaminate la capitale e i villaggi coi vostri avanzatissimi sensori, vedrete che non scherzo».

   Terry piegò la testa di lato, accogliendo senz’altro la sfida. Le bastarono pochi secondi per scandagliare tutti gli insediamenti. «Dice il vero. Non rilevo caserme di polizia, né tribunali, né penitenziari» ammise con aria incredula, mentre il gruppo si avviava verso l’uscita dell’hangar.

   «Ma come fate?» chiese il Capitano, allibito.

   «Se vivesse su Galatea, lo capirebbe» intervenne Karen. «Tutto, sul nostro pianeta, ispira la pace. Ai bambini insegniamo i buoni sentimenti, così che crescendo l’idea di delinquere non li sfiori nemmeno».

   Chase si chiese come avrebbe reagito Neelah – la sua caparbia e vulcanica Neelah – nell’udire un’affermazione del genere. Lui personalmente non poteva prenderla per vera. Gli dispiacque che, a due anni dalle dimissioni di Navarro, l’Enterprise non avesse ancora un Consigliere di bordo a cui chiedere un parere. Ma c’era Korris... posto che in quella faccenda fosse obiettivo. «Lei che ne dice, dottore? I Galateani hanno scoperto il segreto del Nirvana?» gli chiese in tono leggero, ma con lo sguardo gli fece capire che era una domanda seria.

   «Eh? Ehm... da quel che ho visto, vivono in grande armonia con l’ambiente e gli uni con gli altri» rispose Korris. «Ma cent’anni senza crimini... stento a crederlo».

   «Allora lo scopra». Le labbra di Chase non si erano mosse, ma Korris capì, solo dagli occhi, che il Capitano voleva questo. Guardò Karen, che gli camminava a poca distanza, e capì che doveva parlare seriamente con lei.

   La Galateana si stava guardando attorno, sempre ammirata dall’Enterprise. Ma quando raggiunsero l’ingresso dell’hangar, incrociò lo sguardo di uno dei sorveglianti. Era Delara, con la tempia rasata e il brutto impianto cibernetico in evidenza. La Betazoide squadrò i Galateani come se fossero insetti molesti. Aveva una certa fissità nello sguardo; in particolare non sbatteva quasi mai la palpebra sinistra, quella vicina all’impianto. Questo le dava un’aria inquietante, robotica. Vedendola, Karen rabbrividì e si avvicinò ai federali. Quando dovette passare accanto alla cyborg cercò la mano di Korris e gliela strinse, per darsi coraggio. Delara la seguì con lo sguardo, girando la testa in modo strano, e continuò a fissarla anche quando fu nel corridoio.

 

   Il giorno dopo, T’Vala e Delara furono chiamate nell’ufficio del Capitano. «Voleva vederci, signore?» chiese la timoniera, impeccabile come al solito. Di fianco a lei, Delara appariva trasandata.

   «Sì, vi ho chiamate perché siete due delle migliori telepati dell’Enterprise» spiegò Chase. La terza era Neelah, ma in quei giorni si affaccendava sui dati del Comando Medico. Data l’importanza del lavoro, Chase non voleva disturbarla. «Nelle ultime ventiquattro ore abbiamo imbarcato un gran numero di Galateani» disse il Capitano, prendendola larga. «Avrete notato la loro educazione e il loro spirito di disciplina. Nessuno si lamenta, nessuno perde la calma. Ma la cosa più sorprendente è che, sul loro mondo, hanno completamente eliminato la criminalità. Non hanno nemmeno forze dell’ordine. Tutti rispettano le leggi, come se le avessero scritte nel DNA».

   «Questo è strano» ammise T’Vala.

   «Già, anche più strano del loro legame col pianeta. E c’è la faccenda dei Galateani scomparsi dopo le anomalie, che sono misteriosamente tornati» aggiunse Chase.

   «Quindi vuol sapere da noi se abbiamo captato qualcosa, nelle loro menti, che faccia luce sui misteri» tagliò corto Delara.

   «In breve, sì».

   Le due telepati si scambiarono un’occhiata, dopo la quale fu T’Vala a parlare: «Le loro menti sono stranamente opache, per degli Umani. Non percepisco nemmeno le loro emozioni, men che meno i singoli pensieri. Forse ce la farei con una Fusione Mentale».

   «Per quella ci servirebbe una scusa» notò Chase. «Da un lato non vorrei indisporli: ci fa comodo che siano così ordinati. Ma dall’altro...».

   «Teme che abbiano qualche scheletro nell’armadio» completò Delara. «Devono avercelo per forza. Niente crimini da un secolo? Non è umano».

   «Sono rimasti isolati per quattrocento anni, ma stento a credere che Galatea li abbia cambiati così tanto» disse Chase. «Ho chiesto a Terry di controllare se il pianeta ha qualcosa che somigli al campo metafasico di Ba’Ku, ma l’esito è negativo. È un mondo ridente, ma oltre a questo non ha nulla di portentoso».

   «Se permette un consiglio, dovremmo sondarli in modo approfondito» propose Delara. «Trovi una scusa per effettuare una Fusione Mentale. O li porti in infermeria e li faccia esaminare da Korris... sempre che si fidi del dottore».

   «Che intende?» si accigliò Chase.

   «Suvvia, Capitano... non occorre essere telepati per capire che il buon dottore è attratto da Mallory» disse Delara, con una smorfia sprezzante. «Questo potrebbe compromettere il suo giudizio, se non proprio la sua lealtà».

   «Korris è uno degli elementi più affidabili di questa nave» obiettò Chase. «Più affidabile di te» pensò.

   Dall’espressione di Delara s’intuì che aveva captato quel pensiero, ma la Guardiamarina non reagì.

   «Quindi che facciamo, Capitano?» chiese T’Vala.

   «Non voglio creare attrito coi Galateani mentre li stiamo ancora caricando» decise Chase. «Per il momento lascerò correre; ma state all’erta. Siete autorizzate a sbirciare nei loro pensieri, se ci riuscite, e a riportarmi qualunque stranezza».

   «Se fossi ancora nella Sezione 31, li farei cantare come fringuelli» commentò Delara.

   «Ma lei è passata alla concorrenza, quindi non farà nulla senza mio ordine» ammonì il Capitano. «Potete andare».

   Le due telepati si ritirarono e Chase, rimasto solo, si carezzò il mento. Delara lo inquietava quanto i Galateani. Era una telepate ed era stata nella Sezione 31... se non c’era ancora. Era una combinazione pericolosissima. E Neelah gli aveva raccontato del loro passato su Tantalus V. Qualunque cosa le fosse accaduta, su quel pianeta e in seguito, aveva trasformato Delara in una mina vagante. Prima o poi qualcuno l’avrebbe fatta esplodere. Che il Cielo aiutasse quel povero disgraziato.

   «Chase a Korris» disse il Capitano, premendosi il comunicatore. «Venga nel mio ufficio, dobbiamo parlare».

 

   Un’ora dopo Korris si presentò all’alloggio di Karen, in abiti informali. La Galateana impiegò diversi secondi, prima di aprire la porta, anche se era vestita in modo impeccabile. «Ciao, Vrel... che ti porta qui?» chiese con aria stupita e – si sarebbe detto – un po’ preoccupata.

   «Non posso farti un saluto? Da quando sei tornata a bordo non ti ho praticamente vista» rispose il dottore.

   «Beh, sai, devo gestire le operazioni d’imbarco...».

   «Ma ora sei qui. L’alloggio è di tuo gradimento?».

   «Oh, sì. Sapevo che l’Enterprise è grande, ma non mi aspettavo che fosse così spazioso. E lussuoso» rispose Karen, guardandosi un attimo alle spalle. C’era qualcosa di strano in lei. Era nervosa e non aveva ancora fatto entrare Korris.

   «Non tutti i tuoi compatrioti hanno le stesse comodità, tuttavia si comportano in modo ammirevole» sottolineò il dottore. «Non abbiamo avuto un solo incidente, né una lamentela. Forse avevi ragione... siete davvero la società perfetta».

   «Adesso esageri...».

   «No, dico sul serio. Allora, vuoi tenermi alla porta o posso entrare?» chiese garbatamente Korris.

   «Certo, accomodati» disse Karen, sempre più nervosa. Si scostò per farlo passare.

   «Ho sentito che siamo a un quarto dell’imbarco» disse Korris, guardandosi attorno. L’alloggio era in perfetto ordine. Non sembrava nemmeno abitato. «Presto vi porteremo ad Acamar, e poi... le nostre strade si divideranno».

   «Dobbiamo parlarne ogni volta?» si accigliò la donna.

   «Scusa, mia cara. È solo che... sento già la tua mancanza. Speravo che trovassimo qualche momento per noi, in questi ultimi giorni che ci restano» disse Korris, carezzandole la guancia.

   «Mi piacerebbe» disse la donna, socchiudendo gli occhi e inspirando a fondo. «Non sai quanto. Ma fra poco ho una riunione. Stasera, magari».

   «Sei così tesa... sarà lo stress di questi giorni» notò Korris. «Lascia che ti massaggi il collo e le spalle» propose, sgusciandole dietro.

   «No, davvero...» fece Karen, cercando di sganciarsi.

   «Insisto. Dopo starai meglio». Korris le pose delicatamente le dita sulle spalle. Cominciò a massaggiarle la base del collo con i pollici, lente mosse circolari che scioglievano la tensione.

   «Mmmhhh...» tubò Karen, rilassandosi. «Hai anche questo fra le tue specializzazioni, dottore?».

   «Certo, sono un medico eclettico».

   «E massaggi il collo a tutte le donne che ti capitano in infermeria?».

   «Solo a quelle che mi fanno perdere la testa. E tu sei la prima da un pezzo» ammise Korris, guidandola verso una sedia.

   «Uhm... fra poco devo andare, ma... va bene, solo un minuto» cedette Karen. Si sedette e si sfilò le scarpe, per stare più comoda. Korris le si accomodò dietro e prese a massaggiarla con più energia.

   «Allora, come te la cavi con le nuove tecnologie? Qual è la tua preferita?» chiese il dottore.

   «Sicuramente i replicatori alimentari» sorrise Karen. «Su Galatea abbiamo dei risequenziatori di proteine, ma nulla di paragonabile. La maggior parte dei pasti sono ancora preparati manualmente».

   «Capisco... e poi che altro?» chiese Korris. Mentre con una mano continuava a frizionarle il collo, si portò l’altra in tasca e ne estrasse un tricorder medico. Prese a sondarla con discrezione, approfittando del fatto che Karen era girata.

   «Beh, non saprei. Di certo avrete medicine molto sofisticate, anche se su Galatea non ne abbiamo bisogno... non ci sono malattie» disse la donna. «Invece il teletrasporto mi fa ancora un po’ paura».

   «Anch’io ti facevo paura, all’inizio» notò Korris, continuando a esaminarla di nascosto. «Mi sa che quel timore ti è passato».

   «Certo, sei la persona più dolce che abbia mai conosciuto» sorrise Karen. «Un po’ più giù, per favore... ecco, così».

   «E i ponti ologrammi, li hai provati?» chiese ancora Korris, sempre più concentrato sul tricorder.

   «Non ne ho avuto il tempo. Dovrei?» chiese la Galateana.

   «Se ti capita... sono sorprendenti. Riescono a simulare tutti gli ambienti. E non solo quelli».

   «Cioè?».

   «Simulano anche gli abitanti. Ti sembra che siano persone vere... invece sono imitazioni, fatte di fotoni e campi di forza. Alcuni sono semplici programmi che seguono istruzioni prestabilite. Ma altri sono molto più complessi e ingannevoli». Korris sentì che Karen era tornata rigida di colpo, ma continuò: «Ricordi quando ti abbiamo detto che Terry è una proiezione isomorfa? Si tratta di un ologramma estremamente realistico. Qui sull’Enterprise può muoversi senza problemi, perché ci sono olo-emettitori in quasi tutti gli ambienti. Ma quando è scesa su Galatea ha dovuto mettersi l’Emettitore Autonomo. Ricordi, quella specie di bracciale?». Una sfumatura maligna si era fatta strada nella voce del dottore.

   «Sì, lo ricordo» disse Karen, rigida come un manico di scopa. «Ora scusa, devo proprio andare». Si alzò di scatto, ma Korris la trattenne per un braccio.

   «Al tempo, mia cara. Tutti i Galateani saliti a bordo hanno le maniche lunghe. Ci sarà un motivo... avete tutti i sensori medici? E tu hai ancora paura di me? Fammi vedere!». Le tirò su la manica, scoprendo il bracciale tecnologico che le avvolgeva il polso.

   «Ehi, ma che fai?!» protestò Karen, divincolandosi. «Lasciami subito! E cos’hai in mano?».

   «Solo un tricorder medico» spiegò Korris, mostrando lo strumento. «Rileva i tuoi segni vitali. Sono così perfettamente nella norma da sembrare finti. E infatti l’analisi micro-cellulare dice che sono finti. Sei una proiezione isomorfa straordinariamente sofisticata, Karen. Qui sull’Enterprise, solo Terry fa di meglio. E quel tuo “sensore medico” è un Emettitore Autonomo miniaturizzato. Chi vi ha venduto la tecnologia, i Ferengi?».

   «S-sì» ammise Karen, chinando il capo vergognosa. «La ricchezza del nostro mondo non sta solo nei paesaggi ameni. Abbiamo anche una miniera di latinum. Quando i mercanti Ferengi scendono da noi, ci danno tutto quel che chiediamo, in cambio di poche tonnellate».

   «Tonnellate!» esclamò Korris, lasciandole finalmente il braccio. «Quelli vi fregano alla grande. Con una tonnellata di latinum si compra un’astronave. Se seguiste i canali regolari di commercio, Galatea sarebbe uno dei mondi più ricchi del Quadrante Beta».

   «Lo sospettavo... ma non importa, visto che lo stiamo lasciando» disse Karen, risistemandosi la manica. «Beh, ora conosci il mio segreto. Intendi spifferarlo a tutti o posso sperare che rispetterai la mia privacy?».

   «Se fosse solo per te, certo che la rispetterei» assicurò il dottore. «Anche se non dovresti nasconderti. Molti ologrammi vivono bene integrati nella nostra società. E per quanto mi riguarda... non è una cosa che mi faccia arretrare» aggiunse.

   «Dici sul serio?» si emozionò Karen. «Temevo che saresti scappato a gambe levate». Tornò ad accostarsi, con gli occhi che brillavano.

   «Non è così. Non m’importa se sei di carne e sangue, o di fotoni e campi di forza» garantì Korris, guardandola affettuosamente. Per un attimo sembrò che avessero ritrovato l’intesa. Ma poi il dottore s’incupì. «Il problema sono gli altri Galateani. Non avete criminalità né polizia. Quando vi hanno colpito le anomalie, temevate solo gli scompensi alla rete energetica. E le persone “uccise” dalle anomalie... sono tornate perché le avete ripristinate. Ecco perché non c’erano cadaveri. Avete persino rifiutato il teletrasporto, per non farvi scoprire. Tutto ciò mi porta a una sola conclusione» disse Korris, fissando Karen con gravità. «Voi Galateani siete tutti ologrammi, non è così? Com’è potuto accadere?».

   «Con grande naturalezza, in realtà» disse la proiezione isomorfa. «Era il XXIV secolo quando i Ferengi cominciarono a visitarci. Le fatiche della colonizzazione erano finite da un pezzo, la nostra vita era comoda. Ma con le loro tecnologie poteva diventarlo ancora di più. Quando ci proposero gli ologrammi, ne restammo affascinati. All’inizio li usammo per svago... non avevamo molti divertimenti, oltre a vecchissimi film terrestri. Ma non impiegammo molto a intuirne le potenzialità. Gli ologrammi non erano utili solo come passatempi o lavoratori. Erano anche i figli perfetti».

   «I figli!» gemette Korris, dando quasi in escandescenze. «Oh, Profeti benedetti... perché?!».

   «Non lo immagini? Un ologramma è molto più facile da gestire» rispose Karen. «All’inizio molti aspiranti genitori si prendevano un figlio olografico solo per allenarsi, in previsione di farne uno vero. Ma poco alla volta gli si affezionavano come se fosse lui quello vero. Alcuni dimenticavano letteralmente che fosse un ologramma. Si auto-convincevano che il figlio era reale, che aveva solo qualche “bisogno speciale”. Se qualcuno provava a levarglielo, lo difendevano con le unghie e con i denti. Ci furono dibattiti, proteste, manifestazioni a non finire. Molti Galateani fecero scioperi della fame per convincere il governo a equiparare i figli olografici a quelli organici. La definivano una “battaglia di civiltà”. Ci fu persino chi si diede fuoco per protesta. Così si giunse all’equiparazione. Non pensar male di noi... è stato l’amore a guidarci!» disse con foga.

   «Quello, e anche l’opportunismo» disse Korris, scorgendo la realtà. «Il guaio peggiore dei figli è che pensano con la propria testa. Possono essere cocciuti come muli e deluderti di brutto. Ma con un figlio olografico è tutto diverso!» disse, percorrendo l’alloggio a grandi passi. «Puoi programmarlo perché sia sempre buono e obbediente. Puoi stabilire fin da subito il suo carattere e apportare correzioni in corso d’opera. Puoi averla vinta in ogni discussione, resettandolo con una parola-chiave. Insomma, ce l’hai in pugno. E poi ci sono tutti i vantaggi medici!» aggiunse, numerandoli sulle dita. «Niente disagi della gravidanza né dolori del parto. Niente ciccia né smagliature. Potete persino scegliere l’età di partenza, evitando le incombenze della prima infanzia. Niente pannolini da cambiare! Niente notti insonni cercando di far dormire il pupo! Anche le spese sono contenute, visto che i bisogni di un ologramma sono ridotti all’osso. Sì... è molto allettante. Ora capisco come avete fatto a eliminare la criminalità. Obbedite tutti alle leggi perché non avete scelta».

   «Mi fai vergognare di me stessa» mormorò Karen, avvilita.

   «Tu non ne hai colpa» disse Korris, commosso. L’abbracciò e la baciò sulla fronte. «Sono solo preoccupato. Quel marpione di un Sindaco potrebbe farti scattare con un comando?».

   «Noi Assessori abbiamo più libertà di manovra» rivelò Karen. «Quando siamo eletti, riceviamo codici di sicurezza extra».

   «Ma come funziona la vostra società? Tu hai sempre saputo di essere un ologramma o...».

   «Mi ero accorta di certe stranezze» ammise Karen. «A volte ero arrabbiata con mia madre, poi di colpo le davo ragione. Mi capitava di cambiare opinione bruscamente, anche su temi importanti. Ma tutti i miei coetanei si comportavano così. Pensavo fosse una caratteristica degli adolescenti. Poi divenni maggiorenne e un funzionario mi spiegò la realtà, leggendomi diritti e doveri degli ologrammi. Avrei dovuto esserne scioccata... invece mi sembrò tutto naturale».

   «Perché eri stata programmata per accettare la cosa senza traumi».

   «Penso di sì. Capii che tutte le famiglie avevano figli olografici, ma glielo nascondevano fino alla maggiore età. È il segreto che tutti noi custodiamo gelosamente».

   «Ed è quello che vi ha portati all’estinzione» disse Korris con gravità. Vedeva Karen come un individuo, ma se pensava ai Galateani in generale non poteva fare a meno di considerarli imitazioni. «Dopo due secoli di sostituzioni, dimmi... c’è un solo Organico fra di voi?».

   «No... l’ultimo è morto l’anno scorso» ammise la proiezione isomorfa.

   «Mi domando...» fece Korris, osservando il suo vestito antiquato. «È per questo che siete rimasti così indietro in certe cose, pur avendo un canale d’accesso alle moderne tecnologie. Siete Intelligenze Artificiali complesse, ma avete scarse capacità creative».

   «Se qualcosa funziona, la conserviamo immutata» confermò Karen. «Guarda i nostri abiti... già quand’eravamo Organici erano retrò. Da quando siamo diventati Ologrammi, non sono cambiati per niente».

   «Beh, non è così grave» disse Korris, cercando di convincersi che Karen era vera quanto lui. «Potevate dircelo fin da subito che siete ologrammi. Vi avremmo accettati senza problemi».

   «Non è solo questo» bisbigliò Karen, muovendo appena le labbra.

   «Che intendi? Cosa mi nascondi ancora?» si allarmò il dottore. C’era qualcosa, nell’atteggiamento della sua amata, che gli metteva i brividi.

   «I nostri predecessori Organici erano orgogliosi del loro lavoro su Galatea. Non volevano che gli eredi olografici lo vanificassero, abbandonando il pianeta» disse Karen, fissandolo con occhi tragici e sbarrati. «Così ci programmarono perché fossimo determinati a restare. Faremmo qualunque cosa per Galatea. Uccideremmo cento, mille mondi per conservare il nostro. Ora capisci? Non avevamo scelta» sussurrò.

   «Oh, Profeti...» gemette Korris, sentendo le vertigini. «Che avete in mente di fare?».

   «A quest’ora lo stiamo già facendo» rivelò Karen. «Perdonami, amore mio. Farò in modo che non ti facciano del male. Ma l’Enterprise... quella ci serve per proteggere Galatea».

 

   «Benvenuti» disse Chase, accogliendo in plancia il Sindaco e un nutrito gruppo di funzionari. C’erano quasi tutti gli Assessori, ma stranamente mancava Karen Mallory, quella che finora si era più prodigata per l’imbarco. «Mi hanno detto che vuol fare una dichiarazione alla sua gente, Sindaco».

   «Sì, Capitano» confermò Vargas. «Vorrei che mi mettesse in comunicazione coi Galateani che sono già sull’Enterprise, così gli dirò qualche parola d’incoraggiamento. Poi contatterò quanti si trovano ancora in superficie, esortandoli a fidarsi del teletrasporto. Così vi ruberemo meno tempo e fatiche».

   «Lo apprezzo molto» disse Chase, con un cenno del capo. «Signor Grog, apra un canale con tutta la nave».

   «Canale aperto».

   «Qui è il Sindaco Vargas, che si rivolge al popolo di Galatea» disse l’uomo, sfiorandosi inavvertitamente il braccio, coperto dalla manica lunga. «Voglio ringraziarvi per il coraggio e la disciplina che avete mostrato. Queste sono le qualità che ci permetteranno di sopravvivere. Ma quanto fatto sinora non basta, serve un ulteriore sforzo. Pertanto... che l’Operazione Scudo abbia inizio» disse con voce chiara e forte.

   «Di che si tratta?!» si stupì Chase.

   «La vostra nave è lo scudo, Capitano. E serve a noi» disse il Sindaco con gravità. Con uno scatto rapidissimo gli portò le dita alla tempia e ve le immerse, trasmettendo una scossa bio-elettrica. Chase svenne all’istante, ma il Sindaco lo afferrò e lo sostenne, perché non si ferisse nella caduta. «Mi spiace, spero che un giorno capirà» disse addolorato, distendendolo sul pavimento.

   Nello stesso attimo, anche gli altri Galateani scattarono contro i federali. T’Vala, che essendo seduta al timone dava loro le spalle, non si accorse nemmeno di che stava accadendo. Fu colpita alla tempia e crollò sul quadro comandi, svenuta. Grog e altri ufficiali furono storditi prima di poter tentare qualunque resistenza.

   «Traditori!» gridò Lantora. Impugnò il phaser, che portava sempre in cintura, e fece fuoco contro un Assessore che gli veniva contro. Il raggio attraversò l’uomo come se non esistesse. «Ma che...?!» gemette lo Xindi. Cercò di bloccarlo con una presa di lotta, ma l’avversario era troppo forte e rapido. In un attimo gli assestò la scossa bio-elettrica, facendogli perdere i sensi. Dieci secondi dopo l’inizio dell’attacco, la plancia era silenziosa; solo gli ologrammi restavano in piedi.

   «Siete come me» constatò Terry con distacco. Solo lei non era stata aggredita: i Galateani sapevano di non poter stordire un’altra proiezione isomorfa.

   «Siamo quello che siamo. E abbiamo un dovere da compiere, per quando penoso» disse il Sindaco. «Ora ci dia il comando della nave, così sbarcheremo l’equipaggio su Galatea. Lì i suoi colleghi potranno vivere felici e in pace. Hanno già sofferto tanto per la guerra; gli dia questa ricompensa».

   «Il vostro attacco è destinato a fallire» avvertì Terry, mentre tutte le consolle si spegnevano. «Ho dirottato i comandi e disattivato le interfacce. Non avete il controllo, né lo avrete mai. Ho già allertato la Sicurezza».

   «Come temevo» sospirò il Sindaco. «Speravo di evitare lo scontro, che ci è odioso, ma lei non mi lascia scelta».

   «La vostra scelta è rinunciare a questa folle insurrezione» disse gelidamente Terry. Aveva già sondato i colleghi a terra, scoprendo che erano solo storditi. Se li avesse trovati morti... i Galateani in superficie avrebbero assaggiato la furia dell’Enterprise.

   «Non possiamo» disse Vargas in tono che non ammetteva repliche. «Se necessario combatteremo in ogni stanza, corridoio e tubo di Jefferies della nave. Faremo tutto il possibile perché non ci siano vittime. Noi desideriamo solo il vostro meglio. Ma se continuerete a fare resistenza... allora dovremo ricorrere alla violenza». S’inginocchiò accanto a Chase. «Uccideremo ogni Organico a bordo della nave, a partire dal vostro Capitano» disse, accostandogli la mano alla tempia.

   Subito Chase e gli altri ufficiali svanirono, teletrasportati via. «Prima dovrete trovarli» disse Terry, con un sorriso tagliente.

   «Li troveremo» assicurò il Sindaco, rialzandosi. Era calmo come nel momento in cui aveva messo piede in plancia. «Siamo molto pazienti. E siamo dalla parte del giusto».

   «Voi finirete come sorci» rispose Terry, con veemenza insolita da parte sua. Le IA delle astronavi potevano essere pericolosissime, se si arrabbiavano. Di conseguenza i progettisti davano loro dei caratteri miti e tranquilli. Ma se c’era una cosa che mandava Terry fuori dai gangheri, erano le minacce alla vita del suo equipaggio. L’IA si avvicinò al Sindaco senza timore, finché i loro volti furono a un palmo di distanza. «Che sia per mano nostra o del Fronte... non ve la caverete. Avete passato il segno» avvertì. Si dissolse, diretta ad altre parti della nave.

 

   L’hangar principale dell’Enterprise ferveva di attività. Le navette atterravano, scaricavano i passeggeri e ripartivano subito. I Galateani muovevano in file ordinate verso le uscite, recuperando i bagagli. Alcuni ufficiali della Sicurezza vigilavano sulle operazioni, anche se finora non c’era stato il minimo incidente.

  Quando Ilia entrò nell’hangar, per un controllo, vide che tutto procedeva normalmente. I Galateani erano i migliori passeggeri che avessero mai avuto. Nessuno si fermava per protestare o chiedere qualcosa, quindi non c’erano file. Ilia notò che solo tre ospiti si attardavano in un angolo. Avvicinatasi, vide che suo nipote era con loro. Li stava intervistando, naturalmente. La Trill sorrise, lieta di vederlo così coscienzioso. Vrelik alzò gli occhi dai Galateani, la vide e le fece un rapido saluto. Ilia rispose con un cenno altrettanto veloce, ma non si fermò a parlare. Non c’era motivo d’interromperlo.

   La Comandante passò avanti. L’unica cosa che la impensieriva era la vista di Delara tra le guardie. La Betazoide con l’impianto cibernetico non aveva ancora fatto strane mosse, ma restava una fonte di preoccupazione. Però era ingiusto prendere provvedimenti contro di lei, finché rigava dritto.

   «Qui è il Sindaco Vargas, che si rivolge al popolo di Galatea» disse una voce dall’altoparlante. «Voglio ringraziarvi per il coraggio e la disciplina che avete mostrato. Queste sono le qualità che ci permetteranno di sopravvivere. Ma quanto fatto sinora non basta, serve un ulteriore sforzo. Pertanto... che l’Operazione Scudo abbia inizio».

   Ilia si era appena chiesta cosa fosse l’Operazione Scudo, quando i Galateani che affollavano l’hangar interruppero le loro attività e si gettarono compatti sui federali. Uomini e donne si mossero in silenzio, come guidati da un’unica volontà. Toccarono i federali alle tempie, affondando prodigiosamente le dita, e li tramortirono all’istante.

   «Ehi, ma che...?!» fece Vrelik, guardandosi attorno sbalordito. Arretrò precipitosamente, ma i tre Galateani gli balzarono addosso. Il giornalista ebbe la prontezza di bloccarne uno, con una mossa d’autodifesa. Ma un altro gli sfiorò la tempia, facendolo crollare.

   «Vrelik!» gridò Ilia, correndo verso di lui. «Comandante Dax a Sicurezza, emergenza! I Galateani si ribellano!» disse, premendosi il comunicatore. Vide le guardie – tra cui Delara – aprire il fuoco contro i Galateani, per stordirli. In mezzo alla gragnola, un bimbo piccolo era rimasto abbandonato e piangeva disperatamente a terra. Ilia si sentì stringere il cuore. Qualunque follia avesse colpito i suoi genitori, lui non ne aveva colpa. Si tuffò in mezzo ai raggi phaser, prese in braccio il bambino e corse a rifugiarsi dietro una navetta. Solo allora notò che i phaser erano inefficaci contro i Galateani. Li attraversavano come se fossero...

   «Ologrammi» comprese Ilia, vedendo i dispositivi che avevano ai polsi. Altro che sensori medici: quelli erano Emettitori Autonomi. Il cuore le batté con violenza, mentre osservava il bimbo che aveva ancora in braccio. Gli scostò la manica e vide con orrore il piccolo bracciale argenteo. L’attimo dopo, l’altra manina paffuta le s’immerse nella tempia. Ilia sentì lo shock bio-elettrico che l’attraversava e tutto divenne buio.

 

   La battaglia dilagò per tutta l’Enterprise. I Galateani erano così numerosi da soverchiare le forze di Sicurezza, anche perché i colpi li attraversavano. Dopo il primo attimo di shock, le guardie furono costrette ad arretrare. Terry isolò i ponti, bloccando i turboascensori e sigillando i tubi di Jefferies. Alzò campi di forza nei corridoi. Tolse energia alle sale teletrasporto, perché i Galateani non chiamassero rinforzi dal pianeta.

   «Sono ologrammi» disse Terry, apparendo alle guardie in fuga dall’hangar. «Per eliminarli dovete colpire i loro Emettitori Autonomi».

   «E come facciamo? Li tengono nascosti sotto le maniche!» protestò Delara.

   «Regoli il phaser su massima dispersione».

   Delara seguì il consiglio, inondando l’intero corridoio alle sue spalle. Funzionò, ma servì una lunga esposizione per mandare in corto gli Emettitori. I Galateani che vennero dopo furono più guardinghi. Si appostarono dietro agli angoli e fecero fuoco con i phaser strappati alle guardie.

   «Così non va!» disse la Betazoide, gridando per farsi sentire sopra la gragnola. «Non può teletrasportarli via?».

   «Non riesco ad agganciarli, ci sto lavorando» spiegò Terry. «Andate a proteggere la sala macchine. Mando altre squadre nelle zone chiave. Non dobbiamo perdere la nave». Si dissolse prima che Delara avesse il tempo di replicare.

   «Sentito, ragazzi? Leviamo le chiappe da qui!» gridò la Betazoide, sporgendosi per un’ultima sventagliata. Un raggio phaser le passò a un centimetro dalla faccia. A sparare era stato un ragazzo di forse quindici anni. L’ordine del Sindaco lo aveva trasformato in soldato, come tutti gli altri. Delara era stata nella Sezione 31 per anni e sapeva cosa fare. Etica, compassione... erano catene di cui era liberata da tempo. E poi quello non era un ragazzo vero, ma solo un gioco di luci. La Betazoide prese accuratamente la mira e lo centrò al braccio, disintegrandogli l’Emettitore. Il ragazzo svanì in uno sfrigolio elettronico. Delara non versò una lacrima. Era certa che da qualche parte, su Galatea, ci fosse una copia di back-up. Si riparò dietro l’angolo, sfuggendo al fuoco di rappresaglia, e corse a perdifiato verso la sala macchine. Dopo una vita come la sua, quella battaglia era roba di tutti i giorni.

 

   «Devi fermare questa follia!» gridò Korris, scuotendo Karen per le spalle. Sentiva i raggi phaser che ronzavano nel corridoio.

   «Non posso» rispose la proiezione isomorfa con tristezza.

   «Vargas a Mallory» la chiamò il Sindaco dal comunicatore. «Perché non era con noi in plancia? Dove si trova al momento?».

   «Sono stata trattenuta... ma è tutto a posto, non si preoccupi» assicurò Karen. «Procedo con l’operazione».

   «La plancia e l’hangar principale sono nostri, ma Terry ha dirottato i controlli e ci ha privati degli ostaggi. Stiamo avanzando verso la sala macchine. Ci raggiunga lì, dobbiamo impadronircene al più presto» ordinò il Sindaco. «Vargas, chiudo».

   «Devo andare» disse Karen, scattando come una molla, ma Korris la trattenne.

   «Ah no, tu resti! E mi dici come rimediare a questo disastro!» esclamò il dottore.

   «Non si può fermare» rispose la proiezione isomorfa. «Dopo aver conquistato la nave vi sbarcheremo nell’altro emisfero di Galatea, fornendovi il necessario per sopravvivere. Useremo l’Enterprise come difesa dalle anomalie e dagli attacchi del Fronte».

   «Siete pazzi... volete privare l’Unione di una delle sue maggiori difese, solo per vigilare il vostro fazzoletto di terra» disse Korris, costernato. «Popoli interi contano sull’Enterprise per salvarsi. Se non li sfolliamo noi, non lo farà nessun altro! Siete... siete degli egoisti» disse, non trovando termini migliori.

   «Siamo programmati per anteporre gli interessi di Galatea a ogni altra considerazione» disse Karen, sconsolata.

   «Ma il vostro piano non funzionerà. Le anomalie peggioreranno sempre più, fino ad avvolgere tutto il pianeta» spiegò Korris. «E c’è dell’altro. Una task-force dell’Unione arriverà qui da un momento all’altro. Se troverà che vi siete impadroniti dell’Enterprise, farà di tutto per riconquistarla. Piuttosto che lasciarla in mano vostra, la distruggerà».

   «I federali non colpiranno una nave sorella!» obiettò Karen.

   «Forse i federali no» concesse il dottore. «Ma nel gruppo ci sono anche Klingon e Romulani. Loro non ci penseranno due volte. Possono distruggerci in un lampo, se ci trovano con gli scudi abbassati e metà dei sistemi offline, come adesso».

   «Oh, Vrel... non avrei mai voluto che arrivassimo a questo punto!» singhiozzò Karen, seppellendogli il viso contro il petto.

   «Ti prego, aiutami a fermare questo delirio» supplicò Korris, carezzandole i capelli castani. «Sei l’Assessore alla Salute e alla Difesa. Conoscerai pure qualche trucco!».

   Karen rialzò la testa, fissandolo con intensità. «C’è un’estrema risorsa... qualcosa che non è mai stato usato» rivelò. «Un codice segreto per disattivare le proiezioni isomorfe. Solo il Sindaco e pochi Assessori lo conoscono. Lo progettarono i Galateani organici per stroncare un’eventuale rivolta degli ologrammi. Anche dopo la scomparsa degli Organici non è mai stato rimosso, perché ci tornerebbe utile, se qualche sottoposto aggirasse la programmazione». La sua immagine sfrigolò per un attimo, rivelando il grave stress delle subroutine.

   «Questo codice... ce l’hai qui con te?» chiese subito Korris.

   «Ce l’ho in memoria. I vantaggi di essere un tostapane» disse Karen, con un sorriso triste. «Non distruggerà i miei simili, si limiterà a spegnerli. Potrete raccattare gli Emettitori e riportarli su Galatea. Promettimi che lo farete!».

   «Sì, lo prometto» disse Korris, anche se non poteva garantire le decisioni dei suoi superiori. «Per farlo funzionare... basta trasmetterlo?».

   «Sulla giusta frequenza subspaziale, sì. Conosco anche quella» rivelò Karen, subendo un secondo sfrigolio elettronico.

   «Allora dobbiamo sbrigarci, finché possiamo trasmettere!» disse Korris, precipitandosi al terminale del computer. «Korris a Terry, mi ricevi? Sono con Karen Mallory. È dalla nostra e possiede un codice che può disattivare i Galateani. Devi solo trasmetterlo in tutta la nave via subspazio. Ti daremo anche la giusta frequenza».

   «Dottore, lei si fida di Mallory?» fu la fredda risposta.

   «Sì, e dovresti farlo anche tu. Non che abbiamo alternative, dico bene? Qual è la situazione?».

   «I Galateani hanno conquistato due terzi della nave e continuano ad avanzare» ammise Terry malvolentieri. «Stanno assediando la sala macchine. Mandano avanti i ragazzi perché le nostre guardie esitano a sparare su di loro».

   «Con questo codice finirà tutto» promise Korris. «Coraggio, Karen... inseriscilo».

   La proiezione isomorfa aveva un aspetto orribile. Con passo malfermo, venne verso la postazione e si lasciò cadere sulla sedia. Tremava da capo a piedi ed era percorsa da sfrigolii elettronici.

   «Sono in attesa» disse Terry.

   «Ti prego, amore... ti prego...» supplicò Korris, toccando le spalle di Karen per inclinarla verso i comandi.

   Con mani tremanti, la proiezione isomorfa inserì la frequenza subspaziale. Esitò un attimo, attraversata da una scarica particolarmente violenta. Strinse i pugni fino a conficcarsi le unghie nei palmi e scosse la testa, lottando contro la sua programmazione profonda. Era evidente che si trattava di uno sforzo titanico.

   «Non stai tradendo Galatea» le disse Korris all’orecchio. «Tradimento sarebbe lasciare che la tua gente s’impadronisca dell’Enterprise, solo per essere poi distrutta. No, tu stai salvando il tuo mondo. Io so che è così. E lo sai anche tu. Passata questa crisi, troveremo il modo per salvare i Galateani».

   «Salvare i Galateani... salvare i Galateani... salvare i Galateani...» ripeté Karen, con voce sempre più fioca, digitando il codice. Le disfunzioni del suo programma peggioravano a vista d’occhio. Perse i colori, riducendosi a una figura grigia, dai pixel sempre più sgranati. Anche la sua voce si deformava. Korris le restò accanto, pieno d’orrore. Aveva capito dove l’avrebbe portata quel terribile sforzo. Voleva strapparla dalla consolle, prima che si danneggiasse irrimediabilmente... ma non poteva. C’erano in gioco troppe vite. Pianse, osservando il suo amore che si deprogrammava.

   «Salvare... i... Galatzzzhhhh...». La voce di Karen divenne un ronzio incomprensibile. Ma le sue mani pixelate continuarono a muoversi, finché terminarono l’ultima sequenza. Allora la proiezione isomorfa ricadde sullo schienale, in preda agli sfrigolii.

   «Sequenza completata» riconobbe Terry. «La trasmetto subito in tutta la nave». L’attimo dopo i colpi di phaser nel corridoio si arrestarono. In tutta la nave, le squadre di Sicurezza si fecero avanti, guardinghe. I Galateani erano scomparsi. A terra restavano solo i phaser e gli Emettitori Autonomi disattivati.

 

   «La sequenza ha funzionato» disse Terry dal microfono del computer. «I Galateani a bordo si sono spenti, la crisi è risolta. Ottimo lavoro, dottore. E grazie anche a lei, Assessore Mallory. Assessore?».

   Non udendo risposta, l’IA si materializzò nell’alloggio. Korris era inginocchiato a terra, davanti a un Emettitore Autonomo spento. «Se n’è andata...» mormorò, alzando gli occhi pieni di lacrime verso Terry.

   «No, dottore. È solo disattivata, l’ha detto lei stesso» disse Terry con gentilezza. «Possiamo riaccenderla facilmente. Guardi». Raccolse l’Emettitore e se lo rigirò fra le mani, esaminandolo con attenzione. Dopo averci armeggiato brevemente lo rimise in funzione. Karen riapparve, ma era evidente che non stava bene. La sua immagine sfrigolava e si sgranava, senza riuscire a stabilizzarsi.

   «Karen!» gemette Korris, cercando di prenderle le mani, ma l’attraversò come se fosse un fantasma. Barcollò, trattenendo a stento i singhiozzi.

   «La mia gente si è disattivata? L’Enterprise è salva?» chiese la proiezione isomorfa, tra i disturbi elettronici. Terry la guardò addolorata, riconoscendo la gravità del danno.

   «Sì amore, è tutto finito. Ci hai salvati... ora smetti di tormentarti, ti prego» disse il dottore.

   «Voglio credere che sia vero... che la mia gente si salverà lo stesso» disse Karen. «Ma il mio programma di base... non lo sa con certezza. Il dubbio... mi lacera. Le subroutine... cedono» disse, parlando a scatti.

   «Oh, tesoro, perdonami» singhiozzò Korris, con la vista annebbiata dalle lacrime. «Non avrei dovuto...».

   «Ti perdono, amore» disse Karen, riuscendo persino a sorridere. «Non ti addolorare. Mi sono sentita più viva in questi ultimi giorni, che in una vita intera». Le interferenze peggiorarono. «Va bene così... Vrel... ora devo lasciarti... ricordati di me... ricordati di noi...». La proiezione isomorfa si dissolse e l’Emettitore Autonomo cadde a terra, coperto da scariche elettrostatiche. Karen non c’era più.

   Il dottore sentì che le gambe gli cedevano. Cadde in ginocchio, tremando e singhiozzando davanti al dispositivo guasto. Non aveva la forza di toccarlo, né di andarsene. Impietosita, Terry s’inginocchiò accanto a lui.

   «Forse non è tutto perduto, dottore» rivelò. «Porterò l’Emettitore al reparto di ricerca olografica. Quei ragazzi ci sanno fare. E io li aiuterò. Vedrà che ripareremo il danno. Riavrà la sua Karen, proprio com’era» promise.

   «No» disse inaspettatamente Korris, rialzando la testa.

   «Perché no?» si stupì Terry. «Possiamo farlo, davvero».

   «Non ne dubito» disse Korris, contemplando l’Emettitore inerte. «Ma lei non lo vorrebbe. E io nemmeno».

   «Perché?!» chiese ancora Terry, confusa.

   Il dottore le mise una mano sulla spalla e la fissò con uno sguardo che l’IA non avrebbe mai dimenticato. «Perché sono le macchine che si possono riattivare» disse. Si rimise in piedi con un certo sforzo e lasciò l’alloggio.

 

   Qualche ora dopo, i membri dell’equipaggio che avevano ricevuto la scossa bio-elettrica si erano ristabiliti. Pochi erano ancora in infermeria per accertamenti. Gli Emettitori Autonomi disattivati erano stati raccattati da tutta la nave e rispediti su Galatea, perché gli altri abitanti potessero riattivarli. Chi era stato distrutto con le armi fu ripristinato, ricorrendo a copie di back-up. Solo una persona non godette di questo trattamento. Il bilancio finale dell’insurrezione era di una sola vittima: Karen Mallory.

   «Signor Grog, chiami Eidola City» ordinò il Capitano Chase, seduto rigidamente. I suoi ufficiali avvertirono che era in collera per l’attacco. Una collera tanto più pericolosa in quanto era fredda. La cosa non li preoccupò eccessivamente. Loro stessi erano furiosi per il modo in cui erano stati aggrediti a tradimento.

   Il viso familiare del Sindaco apparve sullo schermo. «Capitano... spero che lei e il suo equipaggio stiate bene» disse premuroso.

   «Non grazie a voi» rispose Chase gelidamente. «Ci avete mentito. Avete abusato della nostra generosità. E quando vi abbiamo accolti a bordo, ci avete azzannati alle spalle».

   «Non avevamo scelta. Ma deve credermi se le dico che non abbiamo mai inteso farvi del male» disse il Sindaco.

   «Avete minacciato di uccidere l’equipaggio, a partire dal Capitano, se non vi avessi ceduto il controllo della nave» corresse subito Terry.

   «Basta con la commedia» tagliò corto Chase. «Sappiamo cosa siete. Potevamo lasciarvi nell’oblio elettronico, ma abbiamo preferito riportarvi su Galatea».

   «Cosa che apprezzo molto» assicurò il Sindaco. «Ma considerando il modo in cui ci avete disattivati e la scomparsa dell’Assessore Mallory, deduco che almeno lei sia ancora a bordo. L’avrete ricompensata lautamente per il suo tradimento».

   «Sbaglia in entrambi i casi» corresse il Capitano. «Karen Mallory non è sopravvissuta allo sforzo di opporsi alle direttive. Le sue subroutine si sono deprogrammate».

   «In tal caso, vi considero responsabili non solo di averla plagiata, ma anche del suo assassinio» disse il Sindaco con gravità. «Se mai doveste scendere di nuovo su Galatea, sarete chiamati a rispondere di questi crimini».

   «E in che modo? Non avete polizia, né sistema giudiziario!» esclamò Chase, sprezzante. «Forse vi basta quel trucchetto con la mano per eliminare chi sgarra» aggiunse, imitando il loro gesto stordente. «Sinceramente non so più che fare con voi. Potrei teletrasportarvi a forza nelle nostre prigioni, ma siete troppo numerosi. Forse dovrei prima disattivarvi. Il guaio è che, se vi portassi su Acamar o su un qualunque altro pianeta, voi rubereste subito un’astronave per tornare indietro. Dico bene?».

   «Non possiamo farne a meno».

   «E aggredireste chiunque cercasse di fermarvi» proseguì il Capitano. «Quindi dovrei sbarcarvi su un pianeta disabitato e abbandonarvi lì, senza neanche un trasmettitore per chiamare aiuto. Non serve nemmeno che sia un pianeta di classe M. Siete ologrammi, ve la cavate ovunque».

   «Ma abbiamo famiglie, che vogliono offrire ai loro figli qualcosa di più che un deserto» obiettò il Sindaco. «Se ci abbandonerete su una luna rocciosa, compirete un crimine contro l’umanità».

   «Ma voi non siete umani!» lo gelò Chase, alzandosi di scatto. Per qualche secondo cadde il silenzio.

   «Siamo comunque esseri senzienti» si riprese il Sindaco.

   «La vostra intelligenza vi porta all’autodistruzione» obiettò il Capitano. «Pertanto non siamo più in grado di salvarvi. Ho già informato il Comando di Flotta della situazione. I miei superiori convengono che, in queste circostanze, il trasferimento è impossibile».

   «Quindi distruggerete la Sfera che ci minaccia?» chiese il Sindaco, aggrappandosi all’ultima speranza. «Con la task-force in arrivo potreste farcela».

   «La task-force ci serve per l’attacco a Carraya, che è improrogabile» spiegò Chase. «Dopo di che, le navi superstiti si scioglieranno per recarsi su altri fronti. Questo vale anche per noi. Mi spiace, Sindaco... ma la vostra programmazione è diventata la vostra condanna».

   «Allora non c’è più nulla da dire» mormorò Vargas, con sguardo spento. «Informerò la mia gente che la vostra guerra sta per distruggerci. Addio, Capitano». Chiusa la comunicazione, il globo ridente di Galatea riapparve sullo schermo.

   «Signore... è certo che non possiamo fare nulla per loro?» chiese Ilia. «Dopo Carraya, potremmo attaccare la Sfera».

   «Le altre navi non si lasceranno convincere a sobbarcarsi una battaglia extra» disse Chase. «Senza di loro, non possiamo farcela. Quella Sfera è troppo difesa».

   «Quindi è la fine dei Galateani?» chiese Ilia, osservando il pianeta condannato.

   «Se sopravvivremo a Carraya, torneremo qui per decidere il da farsi» concesse il Capitano. «Ma per come la vedo io, Comandante... i Galateani si sono già estinti».

 

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Capitolo 5
*** A mali estremi... ***


-Capitolo 4: A mali estremi...

 

   La task-force dell’Unione arrivò il giorno dopo. C’erano due agili navi federali, la Paladin e la Theseus. A loro si aggiungevano due sparvieri klingon e due falchi da guerra romulani. Era una forza d’urto notevole, trattandosi di navi moderne e agguerrite. L’Enterprise aveva però il comando dell’operazione, essendo l’astronave più potente. I nuovi arrivati furono sorpresi di vedere che Galatea non era ancora evacuata. Chase convocò i capitani in sala tattica e li informò sinteticamente dell’accaduto, esortandoli a non cadere nei tranelli dei Galateani. L’obiettivo era Carraya IV e il tempo stringeva, perché i Krenim potevano ricevere rinforzi in ogni momento. Così, dopo una sola riunione, la flottiglia si lanciò all’attacco.

   Carraya IV era un pianeta verde, coperto in gran parte di foreste. Piccoli mari maculavano la sua superficie e nubi bianche la striavano. Nell’orbita stazionavano le famigerate catapulte subspaziali Krenim. Erano una meraviglia ingegneristica, capace di abbattere i tempi di percorrenza delle distanze siderali, proiettando le astronavi nel subspazio. Come aveva affermato il loro inventore Tash – prima che i Krenim se ne impadronissero – facevano sembrare la curvatura “lenta come una slitta di legno”.

   Il corpo principale era una stazione a forma di torre, che ospitava il nucleo energetico, un complesso reattore tetrionico. Questa struttura si collegava a uno dei “bracci” simmetrici della catapulta. Si trattava di strutture arcuate, lunghissime ma esili. Sei proiettori di gravitoni erano fissati a ciascun braccio, per un totale di dodici. La coppia superiore e quella inferiore restavano fisse in posizione, delimitando la finestra di lancio. Le quattro coppie intermedie erano quelle fondamentali per il lancio. I loro raggi gravitonici bluastri agganciavano delicatamente le navi e le proiettavano nel subspazio. Il progetto originale aveva una gittata massima di 10.000 anni luce, ma i Krenim lo avevano migliorato, rendendo possibile attraversare mezza galassia. In tal modo avevano raggiunto lo spazio federale. Appena arrivati avevano immediatamente costruito nuove catapulte, che si erano portati smontate nelle stive di carico. Così potevano scagliare le loro navi dietro le linee nemiche, anche se il ritorno era assai più lento e incerto.

   Le navi dell’Unione si avvicinarono occultate e in silenzio subspaziale. Sull’Enterprise, Chase osservò le esili strutture delle catapulte che s’ingrandivano contro lo sfondo verde di Carraya IV. Erano circondate dalle sagome più tozze delle navi da guerra Krenim, schierate in posizione difensiva. «Rapporto sensori» richiese.

   «Le navi Krenim hanno gli scudi alzati» rilevò Terry.

   «Come se ci stessero aspettando» notò Ilia.

   «Questa non ci voleva... e il pianeta?» volle sapere Chase.

   «Rilevo 30.000 segni vitali di specie dell’Unione, perlopiù Klingon e Romulani» riferì Terry. «Ci sono anche un migliaio di segni vitali Krenim, ma sono molto deboli».

   «Si saranno già rifugiati nei bunker» disse Chase. «È chiaro che abbiamo perso l’effetto sorpresa. Speriamo che almeno non sappiano dei rinforzi. Procediamo come da programma».

   «Se ci aspettavano, potrebbero aver sistemato delle mine» notò T’Vala.

   «Non ne rilevo» disse Terry.

   «È un rischio che dobbiamo correre. Avanti a un quarto d’impulso» ordinò il Capitano.

   «Sì, signore» disse la timoniera, celando la preoccupazione dietro l’imperturbabilità vulcaniana.

   La flottiglia dell’Unione avanzò mantenendosi occultata. Fortunatamente non incappò in mine o altri ostacoli. Procedette adagio, finché fu in mezzo alle catapulte e alle navi da guerra nemiche. Per quanto determinati, gli attaccanti rabbrividirono nel vedere così da vicino la potenza dei Krenim. Quelle erano le tecnologie che avevano dato al nemico le sue maggiori vittorie. «Non più» pensò Chase, osservando le strutture scheletriche. «Giù l’occultamento, attacchiamo» ordinò.

   I Krenim sapevano che l’Enterprise si trovava nelle vicinanze di Carraya, mentre ignoravano la presenza dei rinforzi (o così si sperava). Di conseguenza l’Enterprise fu la prima a uscire dall’occultamento. Attaccò subito le catapulte, ignorando le navi da guerra. L’idea era compiere un passaggio ravvicinato, per stuzzicare il nemico, e subito dopo allontanarsi, cercando di farsi seguire da più navi possibile. Appena i Krenim avessero sguarnito le catapulte, il resto della task-force si sarebbe rivelato, distruggendole. Era un piano semplice, ma poteva funzionare, se i Krenim non si aspettavano i rinforzi.

   Il primo assalto dell’Enterprise superò le aspettative. Chase pensava che avrebbero appena danneggiato qualche catapulta, invece ne distrussero una e colpirono seriamente altre due. I potenti siluri dell’Enterprise facevano a pezzi le esili strutture, ma la nave non poteva soffermarsi. Fatto un volo radente, si diresse verso lo spazio aperto, lasciandosi dietro fiamme ed esplosioni. Due navi da guerra Krenim si lanciarono all’inseguimento. Le altre diciotto mantennero la posizione.

   «Ahi ahi... non ci cascano» commentò Lantora. «Hanno fiutato la trappola».

   «È tardi per cambiare i piani» disse il Capitano. «Sbarazziamoci in fretta di queste navi e torniamo indietro ad aiutare gli altri».

   Vedendo che il grosso delle forze Krenim non si muoveva, il resto della task-force ruppe gli indugi. I primi a uscire dall’occultamento furono i Klingon, impazienti di vendicarsi degli odiati Krenim. Questo costrinse anche i Romulani a palesarsi. Per ultime, la Theseus e la Paladin si unirono alla battaglia. Le sei navi dell’Unione si concentrarono nell’abbattere le catapulte, il che le esponeva all’attacco dei Krenim, tre volte più numerosi. Stranamente, però, solo otto navi Krenim aprirono il fuoco. Le altre dieci rimasero inerti. Era inspiegabile, ma gli aggressori non potevano lamentarsi della loro fortuna. Una dopo l’altra, le catapulte andarono in pezzi. I loro frammenti incandescenti precipitarono su Carraya IV, rigandone il cielo azzurro. Alcuni giunsero a terra, appiccando vasti incendi boschivi.

   A poca distanza dal pianeta, l’Enterprise fece dietrofront, affrontando gli inseguitori. Due navi da guerra Krenim erano un ostacolo impegnativo, anche per l’ammiraglia federale. Ma quel giorno i Krenim non sembravano in forma. Le loro navi manovravano con goffaggine e non usavano neanche tutte le armi. Quando l’Enterprise le colpì, non cercarono nemmeno di adattare gli scudi. La loro traccia energetica era irregolare.

   «Ma che hanno?» si chiese il Capitano, notando la stranezza. «Sembrano già danneggiate».

   «Questi non sono problemi di hardware» comprese Ilia. «È l’equipaggio che non sta manovrando a dovere. Guardi le letture energetiche» disse, osservando la propria consolle. «È come se non avessero nessuno in sala macchine a regolare i flussi».

   «Un imprevisto, fortunato sviluppo» disse Chase, tamburellando sul bracciolo. «Liberiamocene e andiamo in soccorso degli altri».

   Ilia e Terry si scambiarono un’occhiata inquieta, ma non contestarono l’ordine.

   «Ho agganciato i loro nuclei, lancio i siluri» disse Lantora. Le navi Krenim, già indebolite dai raggi anti-polaronici e dai cannoni a impulso dell’Enterprise, non ressero al nuovo assalto. Prima una e poi l’altra si aprirono in una rosa di fuoco. L’ammiraglia federale sfrecciò tra le esplosioni e si gettò a capofitto nella battaglia intorno a Carraya.

   Gran parte delle catapulte era già stata distrutta; le rimanenti avevano gli scudi indeboliti. L’arrivo dell’Enterprise fu come un uragano che schianta i pali della luce. Uno dopo l’altro, i reattori tetrionici esplosero e gli esili bracci delle catapulte si frantumarono. Frammenti affilati schizzarono ovunque, danneggiando navi di entrambi gli schieramenti. Ma l’Unione era chiaramente in vantaggio. Dieci navi Krenim restavano inerti e le altre otto cominciavano a cedere.

   «Missione compiuta. Dovremmo ritirarci, ora» notò Terry.

   «Conosco il piano» rispose il Capitano. «Ma laggiù ci sono 30.000 prigionieri che subiranno la rappresaglia dei Krenim, se non li salviamo. E per salvarli... dobbiamo sbarazzarci di queste navi».

   Gli ufficiali si scambiarono occhiate perplesse e in certi casi preoccupate. «Signore, gli ordini del Comando...» cominciò Terry.

   «Il Comando è a centinaia di parsec da qui» l’interruppe Chase. «Ora che siamo a Carraya, rifiuto di abbandonare i prigionieri. Signor Grog, informi la task-force che l’attacco proseguirà fino alla completa liberazione del pianeta».

   «S-sì, Capitano» balbettò il Ferengi, timoroso.

   «Sta cercando di fare ammenda per la mancata evacuazione di Galatea?» chiese Ilia a bassa voce.

   «Cerco di non pensare a Galatea» fu la risposta. «Questa è un’altra missione. Portiamola a termine nel modo più umano: salvando gli ostaggi».

   «Bene, signore» disse Lantora, che la pensava come lui. L’Ufficiale Tattico martellò le navi Krenim con tutta la potenza di fuoco dell’Enterprise. Ben presto fu chiaro che anche quelle navi avevano lo stesso problema delle altre. Le loro manovre erano goffe, gli attacchi disordinati. Agivano in modo sparso, più che come una flottiglia. Riuscirono a distruggere una nave klingon e una romulana, e lì si fermarono. Troppo danneggiate per nuocere ancora, erano condannate. I federali si sarebbero accontentati di metterle fuori uso, ma Klingon e Romulani intendevano vendicare le loro navi distrutte e continuarono l’attacco. Erano lì per espellere i Krenim dal loro spazio, non per fare sfoggio di cavalleria.

   «L’ammiraglia Krenim ci chiama».

   «Sullo schermo».

   Per la terza volta, Chase si trovò di fronte il Capitano Morlish. Stavolta, però, stentò a riconoscerlo. Il Krenim era pallido e sudato, con gli occhi cerchiati di rosso e sfoghi qua e là sul viso. Chase conosceva quei sintomi. Li aveva visti su tanti volti, nei sistemi attaccati dai Na’kuhl. Era il famigerato Agente 47, l’arma biologica che l’Unione non riusciva a contrastare.

   «Capitano Chase...» rantolò Morlish. «Mi ero sbagliato sul suo conto. Lei non conosce né fedeltà alla parola data, né onore sul campo di battaglia. Ha approfittato della nostra buonafede per colpirci nel modo più vile».

   «Non so di che parla, Morlish» rispose Chase, sulla difensiva. «Che vi è successo?».

   «E ancora c’insulta, fingendo di non sapere!» ringhiò il Krenim, scattando col capo in avanti. «Potrei capire se fossimo stati solo soldati. Ma c’erano 10.000 coloni Krenim su Carraya IV, appena giunti dall’Impero. Lei sapeva che il contagio si sarebbe esteso anche a loro!» inveì, ma fu assalito da un violento attacco di tosse. Si portò una mano alla bocca. Piccole gocce scarlatte macchiarono il guanto nero. Sangue... stava tossendo sangue.

   «Signore, rilevo appena venti segni vitali sulla nave Krenim, contro i 250 standard» avvertì Terry. «Sono molto deboli... come quelli sul pianeta».

   Chase rimase ammutolito. Ora capiva la scarsa resistenza offerta dai Krenim. Le dieci navi inerti contenevano solo cadaveri. Quanto alle altre... chiunque non fosse morto era moribondo. I Krenim non avevano abbastanza equipaggio per manovrarle a dovere e i pochi ancora in piedi stavano così male che agivano quasi a casaccio. Chase segnalò a Grog di togliere l’audio dalla comunicazione. «I prigionieri dell’Unione ci sono ancora tutti?» chiese a Terry.

   «Si direbbe di sì... sono quasi 30.000» confermò l’IA.

   «Perciò la malattia colpisce solo i Krenim» comprese il Capitano.

   «I sintomi corrispondono a quelli dell’Agente...».

   «Lo so» disse Chase, segnalando di ripristinare l’audio. «Morlish, quand’è iniziato il contagio?» volle sapere.

   «E me lo chiede? Subito dopo lo scambio d’ostaggi!» rispose il Krenim con voce roca. «Li abbiamo esaminati alla ricerca di sensori o camuffamenti, ma non credevamo che foste così vili da infettarli. Quando li abbiamo ridistribuiti fra le nostre astronavi, hanno diffuso il contagio fra gli equipaggi. E i soldati scesi sul pianeta l’hanno trasmesso sia alla guarnigione, sia ai coloni! Diecimila civili, maledetti!» inveì, sollevando il pugno. «Dite che Vosk è l’incarnazione del Male, e non vedete di essere uguali a lui» aggiunse più sconfortato. Il braccio gli ricadde stancamente.

   Scioccato, Chase non seppe che ribattere. In compenso si fece avanti Terry. «Perché non vi siete accorti prima del virus?» chiese l’IA.

   «Siete stati abbastanza astuti da dargli un tempo d’incubazione» rispose Morlish. «Quando il primo paziente ha manifestato i sintomi, era già tardi per circoscrivere l’epidemia. E non ci è sfuggito che i nostri prigionieri stanno bene. Avete progettato il virus su misura per noi». Il Capitano si portò ancora la mano alla bocca, sputacchiando sangue. «Avremmo potuto sterminare la vostra gente, per rappresaglia. Ma a che sarebbe servito? Non certo a rendere la vita ai nostri. Se tenete tanto a quei prigionieri, prendeteli! A che prezzo li avete riscattati».

   Morlish cadde in avanti quando la sua nave fu squassata dal fuoco dei Klingon. Si udirono grida sulla sua plancia. Sulla parete di fondo una consolle esplose in fiamme.

   «Chase a sparviero Klingon, sospendete l’attacco!» ordinò il Capitano.

   «C’ignorano» rilevò Terry. «Mirano al nucleo dell’ammiraglia Krenim».

   «Allora frapponiamoci» ordinò Chase, sperando che questo non portasse a un confronto con gli alleati.

   «Lasci stare, Capitano» disse Morlish, rialzandosi a fatica. «Preferisco morire così, sulla mia nave, piuttosto che vomitando sangue in una vostra prigione. Mi conceda almeno questo, di morire col mio equipaggio».

   I  due Capitani si fissarono negli occhi e Chase annuì in modo appena percettibile. Poi si alzò e si avvicinò allo schermo. La plancia Krenim tremava e le consolle esplodevano a cascata; la fine era imminente.

   «Qual era il paziente 0?» domandò Chase.

   «Come?!» fece Morlish, strabuzzando gli occhi cerchiati. Doveva reggersi al bracciolo della sua poltrona per non cadere ancora.

   «Mi ha sentito. Chi ha diffuso il contagio, chi è stato la prima vittima?» chiese l’Umano, conscio che restavano pochi secondi.

   «Il Caporale Cormak» rivelò Morlish. «Vigliacchi... era solo un ragazzo... ma perché lo chiedete?».

   «Per fare giustizia» rispose Chase.

   Morlish aggrottò la fronte, chiedendosi se l’Umano fosse sincero. Ma non ebbe tempo di scoprirlo. I siluri Klingon raggiunsero il nucleo della sua nave, facendola esplodere in una girandola di frammenti incandescenti. Era l’ultima delle navi da guerra dotate di equipaggio. Quanto alle navi inerti, i Krenim non potevano lasciarle in mano al nemico. Quindi avevano piazzato i timer, attivandoli nel momento in cui si erano visti sconfitti. Nello stesso attimo, dieci astronavi Krenim brillarono ed esplosero come immani fuochi d’artificio, riversando un’ultima ondata di rottami nell’orbita. Con quello spettacolo, la Battaglia di Carraya IV ebbe il suo finale inglorioso.

 

   Nei giorni successivi, Chase delegò ai suoi ufficiali gran parte delle incombenze, che erano molte. Bisognava mandare squadre su Carraya IV, per assumere il controllo delle installazioni e liberare i prigionieri dai campi di lavoro. Molti erano denutriti o ammalati, così che bisognava prendersene cura. Ma i loro carcerieri stavano peggio. Il 90% dei Krenim sul pianeta era morto e gli altri stavano riversi a terra, sputando sangue. Osservando le file interminabili di cadaveri, chiusi in sacchi di plastica, Chase si chiese quali promesse o inganni li avevano portati così lontano da casa e se non avrebbero preferito restarci. Intanto i medici dell’Enterprise esaminavano i morti e i moribondi, trovando conferma ai loro sospetti.

   «È una mutazione dell’Agente 47» disse Neelah durante una riunione. Accanto a lei, Korris stava silenzioso. Non si era ancora ripreso dalla morte di Karen.

   «Mutazione o manipolazione?» chiese il Capitano.

   «Giusto, è più corretto dire manipolazione» convenne l’Aenar. Ingrandì l’immagine olografica del virus, proiettata al centro del tavolo tattico. Sembrava un poliedro, coperto di “tentacoli” che in realtà erano lunghe molecole. «Il virus è stato riprogrammato per colpire solo i Krenim. Una volta che si sviluppa nell’organismo, il contagio avviene tramite l’aria».

   «C’è pericolo per noi?» chiese Lantora. Tutte le squadre sbarcate avevano equipaggiamento protettivo, ma non si poteva dire lo stesso per gli ostaggi liberati, che bisognava caricare a bordo.

   «È la prima cosa che ho pensato, ma sembra che il virus non possa sopravvivere in un organismo non adatto» spiegò Neelah. «Se non può riprodursi, la sua membrana cede, uccidendolo in poche ore».

   «Questa versione del virus può essere usata come cura dal ceppo originale?» chiese Ilia.

   «Temo di no» rispose Neelah. «Sotto molti aspetti è più debole. Se li mettiamo a contatto, il ceppo originale prende il sopravvento. Ma stiamo cercando di capire in che modo il virus è stato alterato. Potrebbe essere la base per sviluppare una cura».

   «Bene... ma intanto che ne sarà dei Krenim?» chiese il Capitano.

   «Ne restano poche centinaia, ormai» disse Korris, prendendo finalmente la parola. «Io... non credo che potremo salvarli. Finita l’incubazione, il decorso è rapidissimo. Li perderemo entro poche ore». Cadde un silenzio di piombo.

   «Capitano, i Klingon e i Romulani ci chiedono di aiutarli a trasferire i loro civili su Acamar, prima che i Krenim lancino una controffensiva» disse infine Terry.

   «Sì, facciamolo» disse Chase stancamente. «Non abbiamo potuto portarci i Galateani. Almeno salviamo loro».

   «E per il resto, come intende procedere?» chiese l’IA.

   «Apriremo un’inchiesta» saltò su Lantora. «Dobbiamo capire chi ha contagiato Cormak».

   «Non che la lista dei sospetti sia lunga» disse Korris, senza allegria. «Ci siamo io e gli altri medici che l’hanno avuto in cura. Quanto a Vrelik, che l’ha intervistato, non gli è mai arrivato a contatto. C’è sempre stato un campo di forza a dividerli».

   «Perché, sospetta forse di mio nipote?» chiese Ilia, con sguardo durissimo.

   «No, e le ho appena detto il motivo» sospirò Korris. «Gli unici che hanno potuto toccare Cormak siamo noi medici e...».

   «Le guardie dislocate in infermeria» completò Ilia.

   «Pensa che uno dei miei uomini...» s’indignò Lantora.

   «Non un uomo. Una donna» corresse la Comandante. «Abbiamo già parlato del Guardiamarina Livras, vero?».

   «È indubbiamente una persona danneggiata» riconobbe Chase. «Non sappiamo cosa le ha fatto la Sezione 31, né se la controlli ancora, in modo diretto o occulto. Ma il fatto stesso che sia invischiata coi servizi segreti è sospetto. Chiunque abbia diffuso quel virus non è uno squilibrato qualunque. Saranno serviti fior di medici per alterare l’Agente 47. Qui sull’Enterprise, ad esempio, chi ne sarebbe in grado?».

   «Pochi, anche fra noi dottori» convenne Korris. «Non credo che nessuno possa farlo da solo. Sarà stato un lavoro d’equipe».

   «E diffondere un virus è il genere d’azione immorale di cui la Sezione 31 non esita a macchiarsi» aggiunse Ilia. «Lo fecero già coi Fondatori, nella Guerra del Dominio».

   «Va bene, ricostruiamo l’accaduto» disse Lantora. «La Sezione 31 sa della situazione a Carraya IV e dell’attacco imminente. Sa che, nel migliore dei casi, distruggeremo le catapulte subspaziali, senza intaccare il controllo Krenim della superficie. Venuta a sapere che abbiamo degli ostaggi, e che intendiamo fare uno scambio, decide di darci una mano» aggiunse con una smorfia. «Sintetizza una variante dell’Agente 47, se non l’aveva già fatto prima. Una variante che colpisce solo i Krenim, risparmiando le altre specie. Forse pianifica d’usarla estesamente e vuole usare Carraya come banco di prova. Quindi affida un campione al suo agente, o ex agente, Delara Livras. La manda sull’Enterprise con la scusa del rimpasto di personale. Alla prima occasione Delara infetta un Krenim, il Caporale Cormak. Poi attende. Il virus ha qualche giorno d’incubazione, quanto basta per realizzare lo scambio d’ostaggi. Si nasconde così bene nell’organismo che i Krenim non lo notano. Credo che a quel punto Cormak avesse già contagiato i compagni di prigionia. Così l’epidemia dilaga sia sulle navi che sul pianeta. E quando arriviamo noi, abbiamo gioco facile». Un muscolo si contrasse dolorosamente sulla sua guancia.

   Neelah aveva ascoltato tutto con interesse. Stava ancora rimuginando su chi, oltre a Delara, poteva aver contagiato Cormak. Ripensò a quando aveva visitato Korris, per consegnargli la sua versione dell’Antidoto 46. C’erano i medici, le guardie... e Lantora. Anche lui aveva fatto una capatina in infermeria, per parlare con Korris, sebbene gli bastasse usare il comunicatore. Neelah studiò lo Xindi, che parlava ancora animato. Ormai lo conosceva da qualche anno. Lantora era un po’ irruento e certo odiava il Fronte, specie da quando aveva perso un occhio in duello. Anche se l’occhio artificiale gli aveva restituito la vista, aveva ancora un conto in sospeso. Però Neelah non ce lo vedeva a pianificare un massacro di civili. No, aveva ragione lui: Delara era l’unica sospetta. Non che questo confortasse l’Aenar. Fino all’ultimo aveva sperato che la Betazoide si fosse liberata dalla Sezione 31, ma gli indizi erano troppi.

   «È una ricostruzione convincente, anche se i tempi sono tirati» ammise Chase. «Pochi giorni d’anticipo nello scambio di prigionieri e Delara non sarebbe arrivata in tempo. Pochi giorni di ritardo e ci saremmo accorti del virus. Ma conoscendo la Sezione 31, non mi stupisco che ci abbiano provato».

   «Ma come faceva Delara a sapere che l’avreste inviata a sorvegliare i prigionieri?» chiese Korris. Gli sguardi si appuntarono su Lantora.

   «Sono stato io a darle quell’incarico» ammise lo Xindi. «È prassi comune affidare la sorveglianza al nuovo personale. Mi assumo la responsabilità dell’errore. Livras era troppo compromessa per darle quel compito. Ma ho pensato che fosse ingiusto escluderla a causa del suo passato, senza nulla di concreto in mano».

   «Infatti sarebbe stata un’ingiustizia» convenne Chase. «Non la biasimo per quanto ha fatto. Tutti noi abbiamo voluto dare una possibilità a Delara, ma...». Scosse la testa, assalito dai rimorsi.

   «Dottoressa Neelah, lei conosce Delara meglio di tutti» disse Terry. «Crede che sia cosciente di ciò che ha fatto o che sia un’Agente in Sonno?».

   «Non so che dire... questa non è la stessa Delara che conoscevo anni fa» rispose l’Aenar sconsolata. «La Sezione 31 ha giocato col suo cervello in modi che non conosciamo. Pensate a quell’impianto neurale che le ha messo. Forse è così che la controlla».

   «Cioè potrebbe avere la Sezione 31 nel cervello, che la muove come una marionetta?» rabbrividì Lantora.

   «Signori, devo avvertirvi di un problema logico» intervenne T’Vala, fino ad allora silenziosa. «L’ipotesi della colpevolezza di Delara segue una logica coerente. Ma resta pur sempre un’ipotesi. Abbiamo diversi indizi e anche il movente, ma nessuna vera prova. In che modo Delara ha contagiato Cormak? E prima ancora, come ha contrabbandato il virus sull’Enterprise?».

   «Se ci servono prove, perquisiamo il suo alloggio» propose Lantora. «Ci sono gli estremi per farlo».

   «D’accordo» disse Chase. «Prima chiudiamo quest’indagine, meglio è. Nel frattempo trasferiamo i civili su Acamar. Non voglio essere qui, quando i Krenim lanceranno la controffensiva». Il Capitano si alzò, imitato dagli ufficiali. «Potete andare» disse.

   La maggior parte dei presenti lasciò la sala tattica, ma Grenk e Terry rimasero, segnalando a Neelah di fare altrettanto. Chase s’incuriosì. Erano settimane che l’Ingegnere Capo si faceva vedere pochissimo. Anche durante l’insurrezione dei Galateani e l’attacco a Carraya era rimasto defilato. Aveva persino trascorso la riunione senza aprir bocca, chiaro segno che qualcosa di grosso bolliva in pentola. «Allora, che succede?» chiese, quando rimasero in quattro.

   «Signore, ce l’abbiamo fatta» disse il Tellarita, guardandosi attorno come se temesse che ci fossero spie anche lì. «Il nostro progetto segreto... quello per cui ho consumato il mio genio nell’ultimo anno e mezzo... è completato. Ho il sensore temporale che può localizzare il Tox Uthat».

 

   Chase impiegò qualche secondo a metabolizzare; si era quasi dimenticato della faccenda. Tutto era iniziato poco prima dell’attacco di Vosk alla Terra. Un incidente con la navetta temporale Phoenix aveva catapultato Neelah e pochi altri nel passato, dove avevano incontrato un altro naufrago del tempo, Kal Dano. Quel genio in esilio era l’artefice del Tox Uthat, un’arma capace di far esplodere le stelle. Neelah aveva avuto un breve contatto con la mente di Kal Dano, prima che fosse ucciso dai Vorgon, e si era convinta che il Tox Uthat potesse distruggere anche le Sfere dei Tuteriani. Senza di quelle, gli invasori extra-dimensionali avrebbero dovuto ritirarsi, innescando lo sfaldamento del Fronte. Neelah era così convinta della sua idea che si era lanciata alla ricerca dell’Uthat, inseguendolo da un’epoca all’altra. Dopo l’ultimo scontro coi Vorgon, la loro base subacquea era stata inondata. Neelah si era salvata a stento, usando il teletrasporto temporale Vorgon per tornare nella propria epoca. Aveva perso l’Uthat, sprofondato in chissà quale oceano alieno. Ma lo aveva tenuto in mano abbastanza a lungo da leggere la sua traccia quantica. Questo permetteva di rintracciarlo... a patto d’inventare un sensore temporale. Per un anno e mezzo Terry e gli ingegneri si erano dedicati a questo compito. Ora l’attesa era finita e la caccia al Tox Uthat poteva ricominciare.

   «Signori, non finirete mai di sorprendermi!» disse Chase, dando una gran pacca sulla spalla al piccolo Tellarita. «È la notizia migliore che sento da... non so nemmeno quando. E lei, Grenk, merita il Premio Daystrom!».

   «Sssshhh... con tutte queste spie a bordo, meno persone lo sanno e meglio è!» fece Grenk, agitatissimo. «Allora, come procediamo? Perché ci ho pensato, sa... e mi sono reso conto che inventare il sensore è solo metà dell’opera. Il suo raggio è limitato a pochi anni luce e la Galassia è grande».

   «Uhm, sì. È come cercare un ago nel pagliaio» ammise Chase, rabbuiandosi.

   «Più come cercare un sasso in mezza Galassia» precisò Terry. «Potremmo non trovarlo mai».

   «Dobbiamo restringere il campo» disse Neelah con decisione. «Anche col sensore temporale, non troveremo mai l’Uthat se rimane spento. Ci occorre che qualcuno lo accenda. L’unico che può farlo è l’informatore dei Vorgon... il capo della Cabala... il Tizio del Futuro, insomma. Lui conosceva le coordinate del pianeta in cui si è perso l’Uthat. Andrà a recuperarlo e lo accenderà. Potremo captarlo a partire da quel momento».

   «Questo ci aiuta?» chiese Grenk.

   «Moltissimo» disse l’Aenar con decisione. «La base Vorgon potrebbe essere ovunque. Ma quando ho intravisto il Tizio del Futuro, aveva l’aria di essere un Romulano. La Repubblica Romulana ormai è nostra alleata, quindi resta lo Stato Imperiale. Ecco dove dobbiamo cercare».

   «Non si entra facilmente nello Stato Imperiale» commentò l’Ingegnere Capo, sconsolato.

   «Non ci andremo con l’Enterprise!» disse Neelah con trasporto. «Quel sensore, quant’è grande?».

   «Misura 150x50x40 cm» rispose Terry con l’immancabile precisione.

   «Quindi possiamo stiparlo in una sonda di classe 9!» gongolò l’Aenar.

   «Non proporrai di...» fece Chase.

   «Non c’è altra strada» disse Neelah, scuotendo la testa così vigorosamente da agitarsi i capelli bianchi. «Dobbiamo replicare molte copie del sensore e installarle su sonde di classe 9. Cerchiamo di fare in modo che le sonde siano anche occultate. Poi disseminiamole lungo il confine dello Stato Imperiale. Naturalmente dovremo programmarle perché lo esplorino nel modo più efficiente».

   «Posso progettare una griglia esplorativa» si offrì Terry.

   «Sì, e poi...» fece Neelah, trionfante.

   «Poi non ci resta che aspettare» disse Chase. «Considerando il volume di spazio da sondare, è probabile che la guerra finirà prima che avremo un responso. E non dimentichiamo che il Tizio del Futuro potrebbe abitare fuori dai confini dello Stato Imperiale. Non siamo nemmeno certi che sia un Romulano».

   «Se penso che ho avuto l’Uthat in mano...» disse Neelah, tremando da capo a piedi per la stizza. Aveva promesso a Kal Dano, subito prima che morisse, di recuperare l’arma. Si era impegnata a distruggerla, se necessario, piuttosto che lasciarla in mani sbagliate. Era un dovere che non aveva mai dimenticato.

   «Non tormentarti» la esortò Chase. «Pochi sarebbero arrivati fin dove sei giunta tu. Per il resto... dobbiamo confidare nella fortuna. O nel destino».

   «Le mie cognizioni escludono l’esistenza dell’una o dell’altro» avvertì Terry.

   «Grazie dell’incoraggiamento!» sbuffò Grenk. «Ma sì, le sonde sono l’unico modo sensato di procedere. Sperando di non fare un regalino allo Stato Imperiale».

   «Dobbiamo fare in modo che si autodistruggano, se sono intercettate» raccomandò Chase.

   «Groan... preparare una sola sonda del genere è una faticaccia. E io devo approntarne decine!» si lamentò l’Ingegnere Capo.

   «Faccia le cose con calma» consigliò Chase. «Preferisco lanciare quelle sonde fra qualche settimana, sapendo che sono affidabili, piuttosto che in pochi giorni, ma con meno garanzie. E lei, Terry, gli dia una mano».

   «Mando subito le mie proiezioni in ingegneria» garantì l’IA.

   «Bene... inutile dire che dobbiamo mantenere il riserbo, finché c’è una spia della Sezione 31 a bordo» aggiunse Chase.

   «Vuole che manteniamo il monopolio della caccia all’Uthat, eh? Giusto!» approvò Grenk. «In fondo siamo stati noi ad arrivare fin qui. Perché un altro dovrebbe soffiarcelo?».

   «Non è solo questione di trofei» disse Chase, preoccupato. «Abbiamo visto che la Sezione 31 non esita a sacrificare gli innocenti. Immaginate che il Tox Uthat non riesca a distruggere le Sfere. Potrebbe comunque usarlo come Kal Dano l’aveva progettato».

   «Intende...?» esalò Grenk.

   «Hai ragione» disse Neelah, cupa. «La Sezione 31 potrebbe mettersi a distruggere tutti i sistemi stellari conquistati dal Fronte. Non baderà ai civili, di una parte e dell’altra».

   «Crede che arriverebbe a tanto?» chiese Terry al Capitano, impressionata.

   «Crederei volentieri il contrario, ma...» disse Chase.

   «Lo farebbe» disse Neelah, cupa. «Sono capaci di tutto, quelli. Finché avranno un agente sull’Enterprise, dobbiamo stare attenti. Possiamo fidarci solo di noi stessi».

 

   Le navi dell’Unione caricarono in fretta i civili liberati da Carraya IV. Abbandonarono il sistema prima che arrivasse la reazione del Fronte, lasciandosi dietro solo una sonda. Raggiunto Acamar vi trasferirono gli sfollati. Il pianeta ne aveva già accolti molti dai sistemi vicini, ma poche decine di migliaia non facevano una gran differenza. Per ironia della sorte, erano numerosi quanto i Galateani che ci si aspettava in loro vece. Fatto questo, la task-force dell’Unione si divise: le navi erano richiamate su altri fronti. Quanto all’Enterprise, l’aspettava un’ultima visita a Galatea per decidere il da farsi. Ma prima c’era un’indagine interna da compiere.

   Quando la Sicurezza la informò che doveva perquisire il suo alloggio, Delara reagì indignata. «Non penserete che abbia infettato Cormak? Sono un soldato, io. Quello è un lavoro da medici» sostenne.

   «Non dico che sia stata lei a sintetizzare il virus» spiegò Lantora. «Ma può benissimo aver fatto da corriere». Presero a discutere di fianco all’ingresso, per far passare il personale incaricato della perquisizione.

   «Mi sospettate perché ero nella Sezione 31, ma sbagliate» disse la Betazoide. «Da quando mi hanno espulsa, non ho più avuto a che fare coi servizi segreti».

   «In tal caso non ha niente da temere» disse Lantora. «La consideri una pura formalità».

   «Uhm... è stata Neelah ad accusarmi, vero?» sibilò Delara, con sguardo velenoso. «Quella piccola traditrice!».

   «Si sbaglia. Il suo nome è emerso durante la riunione, ma Neelah non ha lanciato accuse» corresse Lantora. «Però il suo atteggiamento sprezzante verso la dottoressa non l’aiuta, Guardiamarina. Quindi stia calma e ci lasci fare il nostro lavoro».

   «Perquisirete anche gli alloggi delle altre guardie? E dei medici?» chiese la Betazoide.

   «Se qui non troveremo niente, sì» confermò lo Xindi. «Non la prenda sul personale. È un atto dovuto».

   «Beh, io non ho nulla da nascondere, quindi fate quel che vi pare. Perderete solo un po’ di tempo» disse Delara, allargando le braccia.

   Ma di lì a poco i fatti la smentirono. Terry e Korris uscirono dall’alloggio con sguardo cupo. Il dottore reggeva una busta trasparente per le prove, con dentro una siringa ipospray. «Abbiamo trovato questa» disse, mostrandola a Lantora. «Era nascosta in un’intercapedine dei circuiti del replicatore».

   «Ma che dice?! Sta vaneggiando!» protestò Delara, imporporata. «Io non ho nascosto nessuno stupido ipospray!». Fece per afferrare la busta, ma il dottore la ritrasse svelto.

   «Contiene ancora tracce del virus modificato che ha colpito i Krenim» disse Korris con gravità. «Anche se non ci sono impronte, l’abbiamo trovata nel suo alloggio. Questo lascia ben pochi dubbi».

   «Ma... ma...» balbettò Delara, guardandosi attorno come un animale in trappola. «Vi state sbagliando, tutti voi. Questa non è opera mia. Mi hanno incastrata... qualcuno mi ha incastrata!» gridò pateticamente.

   «Guardiamarina Livras, la dichiaro in arresto per alto tradimento e attentato bio-terroristico nei confronti dei civili di Carraya IV» disse Lantora, estraendo le manette elettroniche. «Tutto ciò che dirà da ora potrà essere usato contro di lei. Se non può permettersi un avvocato, la Flotta gliene assegnerà uno d’ufficio».

   «No, vi state sbagliando... ma insomma, siete tutti ciechi?! Non sono stata io!» gridò Delara, agitandosi istericamente.

   «La prego, non peggiori ulteriormente la sua posizione» disse Terry. L’afferrò e la immobilizzò contro la parete, permettendo a Lantora di ammanettarla. «Le accuse sono molto gravi» aggiunse l’IA. «L’aspetta l’ergastolo in un carcere di massima sicurezza».

   «E se c’è un Dio, che possa avere pietà della sua anima» aggiunse Korris, che reggeva ancora la siringa incriminata.

   «Non sono stata io... il colpevole è ancora in circolazione... non sono stata io...» mormorò Delara, con occhi spenti. Continuò a ripeterlo meccanicamente mentre le guardie la portavano via.

   «Beh, è stata l’indagine più breve che io ricordi» disse Lantora, passandosi una mano tra i capelli.

   «Però è strano che Delara non abbia distrutto l’ipospray, dopo averlo usato» notò Korris.

   «Molto strano» ammise Terry, turbata.

 

   «Anomalie» disse Terry, ricevendo il rapporto della sonda lasciata a Carraya. «Hanno superato Galatea e ora stanno avvolgendo Carraya IV. La sonda non trasmetterà a lungo».

   «Non è la risposta che ci aspettavamo, ma è sempre una risposta» commentò Chase.

   «Quindi abbiamo tolto Carraya ai Krenim solo perché se la prendessero i Tuteriani» notò Lantora con amarezza. Un senso di sconforto si diffuse in plancia. Anche le maggiori vittorie contro il Fronte sembravano inutili. Se una delle sue fazioni arretrava, un’altra ne prendeva subito il posto. In questo caso la sconfitta dei Krenim andava a tutto vantaggio dei Tuteriani.

   «Non è stata una vittoria inutile» disse Chase, per confortare l’equipaggio. «Abbiamo distrutto le catapulte subspaziali, ostacolando l’espansione Krenim. Abbiamo salvato 30.000 ostaggi dalla schiavitù. E per quanto riguarda i Tuteriani... il loro comportamento opportunista finirà per spazientire i Krenim. L’Ammiraglio Hortis non è uno stupido. Capirà che i Tuteriani li stanno usando, avvantaggiandosi delle loro vittorie come delle loro sconfitte. Prima o poi si sfilerà dal Fronte».

   «Se non ne temerà di più la ritorsione» obiettò Ilia. «Ora che si fa, torniamo su Galatea?».

   «I civili sono sbarcati tutti?».

   «Sì, Capitano» confermò Terry.

   «Allora andiamo».

   «Non dovremmo prima consegnare Delara alla giustizia?» ricordò Lantora. «Mi sono già accordato col tribunale federale per il trasferimento».

   «No» disse Chase con decisione. «Sento ancora puzza di bruciato in questa faccenda. Voglio interrogare a fondo Delara, prima di consegnarla ad altri. Dica al penitenziario che dovrà aspettare, perché ci sono... accertamenti in corso».

   «Come vuole, Capitano» annuì lo Xindi.

   Pochi minuti dopo l’Enterprise lasciò l’orbita. Chase si rilassò contro lo schienale della poltroncina, mentre il globo industrializzato di Acamar usciva dallo schermo. Conclusa la manovra, le stelle lasciarono il posto al condotto bianco-azzurro della cavitazione.

 

   Vista dallo spazio, Galatea sembrava il paradiso di sempre. Ma quando l’Enterprise entrò nell’orbita bassa, fu chiaro che qualcosa era cambiato. Le violente anomalie che l’avevano attraversata, durante l’assenza dei federali, avevano lasciato il segno. Le isole verdi si erano ingiallite, là dove la vegetazione era morta. Un cupo autunno sembrava investire, per la prima volta, tutto il pianeta.

   «Eidola City non risponde alle chiamate» riferì Grog.

   «Vediamola» ordinò Chase, sentendo stringersi lo stomaco.

   Inquadrata sullo schermo, la città sembrava bella e ordinata come sempre. Le case bianche e i palazzi coperti da superfici a specchio non avevano subito danni rilevanti. Solo la vegetazione era appassita. Ma osservando con attenzione, Chase notò quel che temeva. Le strade e le piazze erano deserte. Nessuna imbarcazione solcava il lago. La città era immobile e silenziosa, come un cadavere ancora incorrotto.

   «Com’è la rete energetica?» chiese il Capitano.

   «Disattivata in tutto il pianeta» rilevò Terry. «Le centrali sono spente. I pannelli solari e le pale eoliche funzionano ancora, ma le linee di trasmissione sono compromesse. Il black-out è totale».

   «Segni vitali?» domandò Chase con un tuffo al cuore.

   «Nessuno».

   I federali osservarono la città che scorreva sotto di loro, in un silenzio di morte. I palazzi avveniristici, le case confortevoli, le strade pulite, i parchi e le aiuole ben curate... tutto portava l’impronta dei proprietari. Ma loro non c’erano più. E si poteva argomentare che non ci fossero più da un pezzo, da quando i Galateani erano divenuti il simulacro di se stessi. Cos’era Galatea, se non una finzione che si auto-perpetuava? Eppure i suoi abitanti tenevano alla vita, né più né meno che se fossero stati Organici. Dove finiva la simulazione e dove iniziava la realtà?

   «Ci abbiamo provato» disse Terry, intuendo che il Capitano si sentiva responsabile. «Purtroppo non tutti possono essere salvati. I Galateani erano così condizionati dal loro programma da non sapere cosa facevano. Ogni loro azione li ha portati verso il baratro».

   «Già» sospirò Chase, osservando la città deserta. «Non potevamo salvarli... ma qui sull’Enterprise c’è ancora qualcuno che, forse...». Un’idea si stava formando nella sua mente. Qualcosa che metteva in fila gli strani eventi degli ultimi giorni.

   «Capitano?» chiese l’IA.

   «Potremmo esserci sbagliati» disse Chase, distogliendo a fatica lo sguardo dallo schermo. «Ma forse siamo ancora in tempo per rimediare. Che nessuno lasci l’astronave, per alcun motivo. E bloccate ogni trasmissione!» ordinò, improvvisamente agitato.

   «Capitano, che succede?» si allarmò Ilia.

   «Dobbiamo proseguire l’indagine» disse il Capitano con decisione. «T’Vala, lei è abilitata alle Fusioni Mentali. Se la sente di provarci con Delara?».

   «Posso tentare» rispose T’Vala, circospetta. «Ma quella mente sarà piena di blocchi. Ha subito così tanti condizionamenti e traumi, che non so se riuscirò a cavarci qualcosa» disse con onestà.

   «Faccia il possibile; nessuno le chiede di più» la rassicurò Chase. «Ma venga subito... il tempo è essenziale. Qualcuno la sostituisca al timone» ordinò, affrettandosi verso il turboascensore.

   «Insomma, che succede?!» chiese Lantora, confuso e preoccupato.

   «Non c’è tempo per spiegare. Metta guardie negli hangar e tenga d’occhio anche le capsule di salvataggio. Ma sia discreto... i passeggeri non devono accorgersi che siamo in allarme» ordinò Chase. Lui e T’Vala sparirono nel turboascensore.

 

   Le celle di massima sicurezza dell’Enterprise erano piccole. Contenevano un letto dal materassino sottile e un lavandino. Sulla parete di fondo si apriva la porta del bagno, ancora più angusto. I pasti erano introdotti con il teletrasporto e gli avanzi erano portati via con lo stesso sistema. La parete anteriore delle celle era trasparente, per sorvegliare di continuo i prigionieri, e irrobustita da un campo di forza. Non c’erano ingressi. Il teletrasporto era il solo modo per entrare e uscire in quegli ambienti inespugnabili. Dieci celle del genere erano disposte intorno a un salone centrale, dove si trovavano le guardie e i comandi della prigione. Solo una era occupata, al momento.

   Quando Chase e T’Vala si avvicinarono, Delara era seduta a terra, a gambe incrociate. Indossava la tuta grigia e monopezzo dei carcerati. Teneva le mani sulle ginocchia, aveva gli occhi chiusi ed era perfettamente immobile.

   «È in quella posizione da ore» disse il carceriere, bisbigliando sebbene le celle fossero insonorizzate. «Non capisco se sta meditando, se dorme o che altro».

   «Non sta dormendo» disse T’Vala. «Sa che siamo qui».

   «Ci metta in comunicazione» ordinò Chase. Il carceriere attivò l’altoparlante. Il Capitano e la timoniera avanzarono lentamente, finché furono proprio davanti alla cella. Delara era a meno di due metri da loro, dietro la lastra di metallo trasparente.

   «Salve, Capitano Chase» salutò Delara, che aveva ancora gli occhi chiusi. «E salve a lei, Tenente Shil. Prego, venite pure nel mio nuovo alloggio. È rilassante, anche se un po’ spartano».

   «Il Tenente Shil entrerà... per compiere una Fusione Mentale» disse Chase con calma.

   «Fusione Mentale!» sibilò Delara, aprendo finalmente gli occhi. Si alzò senza far leva sulle mani, con grazia serpentina, e fissò la timoniera. «Certo... orecchie a punta e quelle orribili sopracciglia all’insù. Avrai anche gli occhi da Betazoide, ma il tuo sangue è verde!» disse con disprezzo.

   «Mio padre è Vulcaniano» confermò T’Vala, sostenendo l’esame con dignità. «Grazie a lui ho avuto i migliori maestri di telepatia».

   «Ma non hai completato il kolinahr!» esclamò Delara, trionfante. «Sei una Vulcaniana Senza Logica».

   «La mia logica è impeccabile» si difese T’Vala, con una punta d’orgoglio.

   «A chi credi di darla a bere?» rise Delara. «Io sono una Betazoide pura. Ho percepito la tua paura nel momento in cui sei entrata. Paura di fallire, di non essere all’altezza. Poi... vediamo che altro c’è» aggiunse, socchiudendo gli occhi. «Ah, ecco... inadeguatezza. Temi di non andar bene né come Betazoide, né come Vulcaniana. E poi, e poi... lutto. Hai perso tua madre in tenera età. Queste sono emozioni potenti! E tu ne sei impregnata, cara la mia Vulcaniana!» disse in tono maligno.

   T’Vala vacillò e si portò una mano alla tempia, cercando di respingere i tentacoli mentali che la sondavano.

   «Basta così» ordinò Chase. «Questa Fusione Mentale è l’unica cosa che può evitarle l’ergastolo, Guardiamarina. Quindi le consiglio di collaborare».

   «Cos’è, ora si è convinto della mia innocenza?» chiese Delara, sprezzante.

   «Non ancora. Diciamo che sono aperto alla possibilità che lei sia stata la pedina di un gioco più grande» rispose in tono misurato il Capitano. «E lei non è curiosa di saperlo?».

   «Che me ne viene in tasca?» domandò subito la Betazoide, ancora sulla difensiva.

   «Se si rivelerà innocente, verrà scarcerata. E se scopriremo che è solo una fiancheggiatrice, la sua pena sarà ridotta» rispose Chase. «Questa è la sua unica possibilità, prima che la consegni al tribunale federale di Acamar. Quindi ci pensi bene, prima di rispondermi».

   «Come se avessi scelta!» disse Delara, fissandolo cupa. «Molto bene, faccia entrare la sua mezza Vulcaniana, e vediamo che sa fare» aggiunse in tono di sfida.

   «Se la sente?» chiese il Capitano, osservando T’Vala con un pizzico d’apprensione.

   «Sì, signore» rispose lei, con un respiro profondo.

   «Se avverte un pericolo per sé, spezzi il legame all’istante» raccomandò Chase. L’ultima cosa che ci voleva era un’altra telepate con la mente sconvolta.

   «Intesi, Capitano». T’Vala si recò sulla piccola pedana del teletrasporto che corredava il salone. Il carceriere azionò i comandi, trasferendola in cella.

   «Fai come se fossi a casa tua» l’accolse Delara, beffarda. Le due donne sedettero sul lettino, una davanti all’altra. T’Vala era girata in modo che il Capitano la vedesse in volto.

   «Andremo per gradi» disse la timoniera. «Libera la mente, non indugiare su pensieri che...».

   «So come funzionano le Fusioni» tagliò corto Delara. «Ho fatto ben altro, su Tantalus». Prese la mano di T’Vala e se la pose sulla guancia.

   «Bene allora, procediamo» disse la mezza Vulcaniana, aggiustando la posizione delle dita. «La mia mente nella tua mente. I tuoi pensieri nei miei pensieri. Le nostre menti si fondono... le nostre menti sono una sola». Una concentrazione dolorosa le distorse i lineamenti. Aggrottò la fronte per lo sforzo di entrare nella mente sigillata di Delara. «Non opporti» boccheggiò, come se stesse annegando. «Cerco di aiutarti».

   «Non mi sto opponendo» rispose la Betazoide, digrignando i denti per lo sforzo. «È solo che la Sezione 31 mi ha fatto... delle cose. Hanno messo... blocchi nella mia mente. C’erano cose che non dovevo sapere. Ho dei... buchi nella memoria. Non so...». Tacque, ma dalla tensione del suo corpo e dai respiri affannosi si sarebbe detto che avesse un principio d’infarto.

   «Calma, stai calma» disse T’Vala, stringendole saldamente il viso. «La mia mente nella tua mente... i tuoi pensieri nei miei pensieri... urgh...» ripeté fra i lamenti.

   «Tutto bene?» chiese il Capitano, che le osservava con crescente preoccupazione. Non aveva mai visto una Fusione Mentale così difficile e dolorosa.

   «La sua mente è... oh, povera creatura!» gemette la mezza Vulcaniana. «Che ti hanno fatto?».

   «Piano... mi fai male...» mormorò Delara. Stava piangendo. E T’Vala pianse con lei.

   «Signore, la sua mente è una foresta irta di spine... un labirinto pieno di porte sprangate» disse la timoniera fra i singhiozzi. «Serviranno anni di terapia per aiutarla. E non credo che guarirà mai del tutto».

   «Come temevo» mormorò Chase. «Riesce a capire se è stata lei a contagiare Cormak?».

   «Sei... stata... tu? Siamo... state... noi?» mugolò T’Vala.

   «Noi... non ricordiamo... noi... non sappiamo...» rispose Delara con la stessa voce.

   «Così non va» si disse Chase, scuotendo il capo. Era evidente che T’Vala compiva un terribile sforzo solo per mantenere il legame. Non poteva chiederle di rimettere in ordine quella mente torturata. Come aveva detto lei stessa, servivano anni di terapia. Ma di lì a poco l’Enterprise avrebbe dovuto consegnare Delara al tribunale. Bisognava accorciare i tempi.

   «T’Vala, mi ascolti» disse Chase, picchiando sulla parete trasparente. «Lasci perdere i Krenim, il contagio e tutto il resto. Mi dica una cosa sola».

   «Q-quale?».

   «Il nome in codice di Delara durante l’addestramento su Tantalus. Neelah mi ha detto che i “giovani dotati” erano numerati, anche se a loro insaputa» spiegò il Capitano. «Però credo che Delara conosca la sua designazione, a livello inconscio. Che numero era?» chiese con una strana urgenza.

   «Che numero siamo?» chiese T’Vala, dando fondo a tutte le sue capacità mentali. «Qual è la nostra designazione?».

   «Delara Livras, Agente Operativo...» rispose la Betazoide, schiumando come se avesse la rabbia. La voce di T’Vala si sovrappose alla sua; parlavano all’unisono. «Io sono... leale alla Sezione 31. Questa è la mia... famiglia. Questo è il mio... scopo. Io... io sono... io sono il Soggetto...».

   «Sì? Chi sei tu, Agente?!» gridò Chase, sui carboni ardenti.

   «Soggetto 378, pronto a servire!» gridarono Delara e T’Vala all’unisono. La loro pelle si accapponò, come se avessero ricevuto una scossa. Si staccarono di botto e ricaddero all’indietro, una verso la testata del letto e l’altra verso il fondo. Avevano il respiro affannoso, i volti pallidi e sudati, con gli occhi stralunati.

   «Povera me... la peggior Fusione... della mia vita!» gemette T’Vala, portandosi le mani alle tempie.

   «Che bastardi... sapevo che mi avevano frellato il cervello, ma...» boccheggiò Delara.

   «Ho quel che mi serviva. La porti via» ordinò Chase al sorvegliante. T’Vala fu subito teletrasportata fuori dalla cella. Era ancora accasciata a terra. Chase l’aiutò a rialzarsi e poi la sostenne, perché aveva le gambe molli. «Bravissima, T’Vala. Mi spiace di averla costretta a un simile sforzo, ma non c’era alternativa. Ora si riposi» raccomandò.

   «Perché ha voluto sapere il suo numero?» chiese T’Vala, asciugandosi il sudore dalla fronte. «Di tutte le cose che potevo cercare, perché proprio quello?».

   «Era il tassello mancante» spiegò Chase. Vedendo che T’Vala era più salda sulle gambe, la lasciò andare e si rivolse alla prigioniera: «Ho buone notizie per lei, Delara. Ora so che è innocente».

   «Davvero?» si stupì la Betazoide. «Come può saperlo, se non lo so nemmeno io?».

   «Perché ho trovato il vero colpevole» spiegò Chase, facendosi torvo. «Sarà meglio che gli faccia visita, prima che accada qualcos’altro d’irreparabile». Se ne andò di corsa, lasciandosi dietro due telepati esauste e piene di domande.

 

   Il laboratorio di Neelah era sigillato come sempre, ma quando i sensori d’ingresso riconobbero Chase lo fecero entrare senza difficoltà. La stanza principale era il solito guazzabuglio di tecnologie mezze smontate. Le luci erano basse e l’aria fredda, a imitare le condizioni ambientali di Andoria. Le consolle alle pareti mostravano che i computer erano al lavoro sul rompicapo medico che affliggeva l’Unione: trovare una cura per l’Agente 47. Le sequenze genetiche del virus scorrevano sugli schermi.

   «Ciao, Alexander!» sorrise Neelah, vedendolo entrare. «Che ti porta qui?».

   «Ero in pensiero per te» rispose il Capitano, mantenendo le distanze.

   «In pensiero? Perché?!» si stupì l’Aenar, accorgendosi anche dalla sua espressione che qualcosa non andava.

   «Ci sbagliavamo su Delara» spiegò Chase. «Lei è innocente, ora ne ho la prova».

   «Davvero?» fece Neelah, ancora più meravigliata. «Eppure sembrava tutto contro di lei. Beh, sono contenta. Hai anche trovato il colpevole?».

   «Oh, sì» annuì Chase, guardandola come se la vedesse per la prima volta. «E indovina un po’? Si trova proprio qui, nel tuo laboratorio».

   «Alexander, ma che dici?» mormorò Neelah, arretrando spaventata. Se avesse potuto impallidire l’avrebbe fatto.

   «Dico che dovresti scegliere meglio i tuoi ospiti» rispose il Capitano, osservando la porta che dava sulla stanza di sinistra. Sentì rumore di passi e vide una figura umanoide stagliarsi sulla soglia.

 

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Capitolo 6
*** ... estremi rimedi ***


-Capitolo 5: ...estremi rimedi

 

   Era Vrelik.

   «Capitano, io ho indubbiamente i miei difetti» disse il Trill, facendosi avanti con un sorriso spigliato, «ma nessuno mi ha mai accusato d’essere un cattivo ospite».

   «No? Eppure dicono che l’ospite è come il pesce... dopo tre giorni puzza» rispose Chase sardonico. «Lei non doveva sbarcare ad Acamar? Eppure è ancora qui. Cosa l’ha trattenuta?».

   «Volevo sapere come sarebbe finita l’evacuazione di Galatea» si giustificò subito Vrelik. «Certo non mi aspettavo un esito così infausto. Le mie condoglianze, Capitano. Forse si sente in colpa, ma non deve. I Galateani si sono scavati la fossa da soli».

   «E lei l’ha scavata ai Krenim, senza nemmeno sporcarsi le mani» ribatté brusco Chase.

   «Capitano, lo scherzo è durato abbastanza» disse Vrelik. «Ora comincia a diventare grottesco». Fece per andarsene, ma Chase era fra lui e l’uscita. Per forza di cose dovette passargli a fianco. Il Capitano gli calò la mano meccanica sulla spalla, trattenendolo.

   «Che ci fa qui dentro, Vrelik? Credevo che Neelah le avesse concesso quell’intervista già da un pezzo».

   «Il mio pubblico è così entusiasta che ne ha chieste altre e la dottoressa è stata così gentile da acconsentire» spiegò il giornalista.

   «Dice la verità, lascialo andare!» esortò Neelah, preoccupata dalla strana piega degli eventi.

   «Eppure finora lei ha pubblicato solo un trafiletto» obiettò Chase. «Che strano... eppure qualcosa deve aver fatto, in tutto il tempo che ha passato qui con Neelah».

   «Capitano, la credevo una persona evoluta. Questa scenata proprio non le si addice» disse Vrelik, con aria ferita. «Le giuro sul mio onore che il rapporto fra me e Neelah è puramente professionale».

   «E io le credo» disse Chase a sorpresa, lasciandolo andare. «Purtroppo la sua professione non è il giornalismo. Dico bene... Agente Operativo?». Il Capitano indietreggiò, per mantenersi fra il Trill e l’uscita.

   «Lei ha perso la ragione» disse Vrelik, con lo sgomento in volto. «In queste condizioni non può dirigere l’astronave. Informerò il Comandante Dax, perché le subentri nel comando».

   «Lasci Ilia fuori da questa storia... se l’è già lavorata abbastanza, approfittando della vostra pseudo-parentela» disse Chase, implacabile.

   «Alexander, stai delirando!» gemette Neelah, sconcertata. «Come puoi credere che Vrelik lavori per la Sezione 31?».

   «Beh, sappiamo con certezza che una spia a bordo c’è» rispose Chase. «È giunta da poco, con l’ordine di contagiare i Krenim di Carraya IV e d’andarsene subito dopo. Ma Delara era venuta sull’Enterprise per restarci. Il nostro amico Vrelik, invece, è qui solo per fare qualche intervista, dopo di che se ne andrà. Quella di giornalista è la copertura perfetta. Può ficcare il naso dove vuole e intervistare chiunque. Ha avuto accesso persino al tuo laboratorio, che di solito è off-limits per gli estranei».

   «E queste sarebbero prove? Capitano, dovrà fare meglio di così!» esclamò il Trill, sprezzante.

   «Ci sto arrivando» rispose Chase, imperturbabile. «Vede, c’erano alcune domande che mi ronzavano in testa. Come ha fatto Delara a contrabbandare l’Agente 47 a bordo? Come ha contagiato Cormak senza farsi notare? E soprattutto, perché non ha distrutto la siringa – la prova che l’ha inchiodata – subito dopo?».

   «E quale fantasiose risposte si è dato?» chiese Vrelik.

   «Tanto per cominciare, mi sono detto che il modo più logico di procedere non era portarsi dietro l’Agente 47» spiegò il Capitano. «Era molto più facile portarsi la ricetta – nascosta nei suoi file di giornalista – e sintetizzare il virus qui a bordo, sfruttando le strutture mediche. Non quelle dell’infermeria, certo: parlo di queste» disse, indicando le attrezzature di Neelah.

   «Se Vrelik avesse sintetizzato un virus letale nel mio laboratorio, io me ne sarei accorta!» protestò l’Aenar.

   «Non l’ha sintetizzato lui» disse Chase, sconcertandola ancora. «Vedi, dobbiamo smettere di pensare che il colpevole sia uno solo. In realtà sono due. C’è il mandante, chiamiamolo così... e l’esecutrice. Quest’ultima è un’Agente in Sonno della Sezione 31, che può essere riattivata con poche parole-chiave».

   «Fammi capire» disse Neelah, passeggiando nervosamente avanti e indietro. «La Sezione 31 ha mandato Vrelik con la ricetta del virus. Gli ha dato la falsa identità di giornalista per permettergli di aggirarsi indisturbato sulla nave e parlare con tutti. Una volta qui, Vrelik ha riattivato Delara e l’ha costretta a sintetizzare il virus... nel mio laboratorio» aggiunse, incredula. «E poi cos’è successo? Delara ha contagiato Cormak in infermeria?».

   «No, è solo per un caso fortuito che si sono trovati nella stessa stanza» spiegò il Capitano. «Nemmeno la Sezione 31 poteva immaginare che Lantora avrebbe designato proprio Delara alla sorveglianza dei Krenim feriti».

   «E allora com’è avvenuto il contagio?» chiese l’Aenar.

   «Capitano, la sua teoria fa acqua da tutte le parti!» sbottò Vrelik. «Delara non ha avuto altre occasioni di accostarsi a Cormak. Io l’ho intervistato, è vero... ma siamo sempre rimasti separati da un campo di forza».

   «Infatti, questo è il punto che non mi spiegavo» convenne Chase. «Ma l’ipospray nell’alloggio di Delara era stato chiaramente piazzato lì per incriminarla. Considerando il suo passato nella Sezione 31 e le sue condizioni mentali precarie, i sospetti erano già tutti su di lei. In realtà, Delara non è mai stata riattivata. Lei se n’è servito come di un comodo parafulmine, per stornare i sospetti dalla vera colpevole!» accusò.

   «Afferma che ci sia un terzo agente della Sezione 31 a bordo?» chiese Vrelik, ormai oltre lo stupore.

   «Sappiamo entrambi che c’è» rispose il Capitano con la massima tranquillità.

   «E chi sarebbe?!» esclamò Neelah, sempre più sconcertata.

   «La tua mente rifiuta di comprendere» disse Chase, fissandola serissimo. L’Aenar vide qualcosa nel suo sguardo... paura. Paura per lei. Se ne sentì contagiare, anche se non sapeva perché. Il Capitano la fissò per qualche secondo, assorto. Poi le fece una domanda all’apparenza slegata: «Neelah, tu conosci la designazione di Delara su Tantalus V?».

   «Ma che c’entra?» chiese la dottoressa, confusa da quel saltare di palo in frasca.

   «Rispondi, per favore».

   «Te l’ho detto... Soggetto 379».

   «Sbagliato: è Soggetto 378!» disse Chase, come se questa fosse la prova decisiva.

   «Tu come lo sai?».

   «Poco fa ho chiesto a T’Vala di effettuare una Fusione Mentale con Delara» spiegò il Capitano. «Povera donna... la sua mente è torturata come poche. Serviranno anni di terapia per rimetterla in sesto. Ma a dispetto dei blocchi mentali, che nemmeno la Fusione riusciva a schiudere, Delara ha ricordato un dettaglio. La sua designazione su Tantalus era Soggetto 378».

   «Ti dico che è impossibile... era il Soggetto 379» insisté l’Aenar.

   «Come lo sai, tu?».

   «Perché ho ascoltato la Direttrice che ne parlava con Sheev».

   «So che hai una memoria fotografica, Neelah. Devo chiederti di ripetere le esatte parole che udisti allora».

   «Ma sono passati tanti anni... okay, ci provo» cedette Neelah, vedendo la preoccupazione di Chase. Chiuse gli occhi e piegò le antenne, sforzandosi di ricordare. «Sheev disse che aveva letto la scheda del Soggetto 379, una ragazza promettente che stava per lasciare la scuola. Ordinò alla Direttrice Vanth di farla restare. Allora la Direttrice rispose qualcosa come “non c’è problema, l’abbiamo preparata per anni. È un eccellente soggetto, estremamente ricettiva al trattamento subliminale. Quando abbiamo superato la resistenza iniziale si è rivelata del tutto malleabile. Abbiamo fatto un lavoro di fino, sarà un’ottima Agente Operativa”».

   «Agente Operativa? Non dissero solo Agente?» suggerì Chase.

   «Ora che mi ci fai pensare, sì... dissero solo Agente. Che differenza fa?» chiese Neelah, riaprendo gli occhi.

   «Moltissima. Loro non parlavano di un’Agente Operativa, ma di un’Agente in Sonno» rivelò il Capitano. «Quella sera tu ascoltasti le loro parole, ma non capisti a chi si riferivano. Loro non parlavano affatto di Delara».

   «Come no?! Parlavano di una studentessa che stava per lasciarli!» esclamò Neelah, agitatissima.

   «Appunto» disse Chase, fissandola addolorato. «Neelah, hai un’intelligenza straordinaria. Possibile che tu non veda ancora la realtà? Il Soggetto 379... quello così malleabile... non è Delara. Sei tu».

 

   Tre persone si fronteggiavano nel laboratorio freddo e semibuio. Due di loro erano Agenti della Sezione 31. Il terzo era un Capitano della Flotta Stellare.

   «Capitano, lei ha costruito un assurdo castello di carte» disse Vrelik in tono misurato. «La mente di Delara dev’essere un pandemonio. Non può cavarne fuori un numero e dire che è la prova d’un complotto».

   «Sono una telepate addestrata; nessuno controlla la mia mente» aggiunse Neelah con fierezza.

   «Addestrata da chi? È stata la Sezione 31 ad allevarti» obiettò Chase. «Dimmi, hai mai usato i tuoi poteri per sondare i loro Agenti?».

   «N-no, mai» ammise l’Aenar di malavoglia.

   «Perché no? Una curiosona come te!» ironizzò Chase. «Neelah, la Sezione 31 studiava voi telepati, ma vi temeva anche. Così vi ha presi da bambini e vi ha fatto il lavaggio del cervello, per accertarsi che non usaste i vostri poteri contro di essa. E ti sei mai chiesta come mai sei così brava nella lotta corpo a corpo? Due anni fa hai messo KO la T’Vala dello Specchio, una combattente abile quanto spietata. È il segno che la Sezione 31 ti ha preparata a lottare!». La voce di Chase era andata alzandosi, ma quando il Capitano riprese fiato scese di tono. «Ho temuto per te già quando mi dicesti che avevano condizionato Delara, senza renderti conto che potevi aver subìto un trattamento analogo. La differenza tra voi è che, la sera del tuo diciottesimo compleanno, la Sezione 31 decise di non far scattare il condizionamento».

   «Perché no?» chiese l’Aenar.

   «Delara voleva tornare su Betazed per fare la maestrina!» rispose con foga il Capitano. «Se l’avesse fatto, la Sezione 31 non avrebbe potuto usarla per niente di utile. Anni di fatiche e addestramento sarebbero andati in fumo. Così la fece scattare, per tenerla come Agente Operativo. Anni dopo, però, Delara fallì miseramente una missione e fu espulsa. La Sezione 31 non l’ha più riattivata, accontentandosi d’usarla come capro espiatorio in questa faccenda.

   Tu sei tutt’altro discorso. A diciott’anni eri già una brillante mente scientifica, esperta d’ingegneria genetica e nanotecnologie. Saresti certamente finita in posti interessanti, con incarichi di responsabilità. Così la Sezione 31 preferì tenerti come Agente in Sonno, pronta a riattivarti in ogni momento. Basta qualche parola chiave per farti svolgere gli incarichi, che poi dimentichi. Naturalmente ciò significa che un Agente Operativo deve fornirti le istruzioni».

   Chase si rivolse a Vrelik, senza più nascondere la collera. «Il giorno stesso del suo arrivo sull’Enterprise, lei ha ottenuto un’intervista da Neelah. Vi siete dati appuntamento proprio in questo laboratorio. Un laboratorio che è una vera fortezza, tra l’altro... mi chiedo se anche qui non ci sia lo zampino della Sezione 31» aggiunse, osservando il tetro stanzone. «Comunque, lei si è fatto accogliere da Neelah con la scusa dell’intervista. Appena dentro l’ha messa in trance e le ha dato istruzioni. Le ha fornito la ricetta del virus e Neelah l’ha sintetizzato. Le ha detto di recarsi in infermeria con una scusa e contagiare un prigioniero. Neelah ha fatto anche questo. Infine, come ciliegina sulla torta, uno di voi due ha nascosto l’ipospray compromettente nell’alloggio di Delara, sapendo che l’avremmo ritrovato. Ecco fatto... i Krenim sono morti e Delara è in attesa della corte marziale. Avete sfruttato per bene il vostro Agente in Sonno e avete trovato un’utilità anche per l’altra, quella che vi aveva deluso» concluse il Capitano, applaudendo beffardo.

   «Vrelik?!» chiese Neelah, fissando il Trill con sguardo omicida. Questi se ne stava con le mani in tasca e guardava dappertutto, tranne che verso gli altri due.

   «Se vuoi sapere la verità, Neelah, sonda la sua mente» disse Chase con pacatezza. «Non ci riesci? È naturale. Lui è della Sezione 31. E tu sei condizionata per non leggere quelli della Sezione 31».

   Neelah si torse le antenne, nello sforzo disperato di leggere la mente del Trill. Ma era tutto inutile, non ci riusciva. Anzi, peggio ancora... non voleva.

   «Va bene, Capitano, mi arrendo!» sorrise Vrelik, alzando un attimo le mani nella parodia di una resa. «Ottimo detective... è lei che avremmo dovuto reclutare. Ora calmiamo gli animi, visto che siamo tutti dalla stessa parte».

   «Io e lei non abbiamo niente in comune» ringhiò Chase.

   «Però il mio lavoro le ha fatto comodo!» insorse Vrelik. «Se non avessi diffuso il morbo fra i Krenim, avreste salvato i prigionieri di Carraya? Certo che no! Sarebbero ancora nei campi di concentramento. Avreste distrutto le navi da guerra? Niente affatto. E soprattutto, avreste eliminato tutte le catapulte subspaziali? Anche qui, mi conceda di dubitarne» disse con un sorriso sprezzante. «Eravate in pochi, vi avrebbero fatti a pezzi. Se non fosse stato per me, i Krenim avrebbero ancora la supremazia tattica. Invece, grazie al mio piccolo intervento, le sorti della guerra girano contro di loro. La loro lotta nel Quadrante Beta si fa difficile, i Klingon lanceranno una massiccia controffensiva. E l’opportunismo dei Tuteriani, che stanno già impadronendosi di Carraya, obbligherà i Krenim a farsi qualche domanda sul loro ruolo in questa guerra. A conti fatti, Capitano, lei dovrebbe ringraziarmi. Ho fatto i tre quarti del suo lavoro. E le ho lasciato il 100% della gloria».

   «Non c’è gloria nel massacrare i civili con armi biologiche» ribatté Chase. «Le fa Vosk, queste porcate».

   «Questo è il motivo per cui Vosk sta vincendo!» gridò Vrelik, preso da una collera subitanea. «Non vede, Capitano? Dietro l’uniforme luccicante della Flotta Stellare c’è sempre stata la Sezione 31. Noi facciamo quello che nessun altro osa fare. Viviamo nell’ombra perché possiate godervi la luce. Ci sporchiamo le mani di sangue perché le vostre restino pulite. Non è che ci piaccia; ma se non lo facciamo noi, non lo fa nessun altro. E paghiamo il nostro tributo di sangue» aggiunse, gesticolando animato. «Dall’inizio della guerra, gran parte delle nostre basi sono state distrutte dal Fronte. Vosk in persona si è presentato a Tantalus V con la sua nave ammiraglia e ha spaccato in due il pianeta. Abbiamo persino dovuto rivelare la nostra base di ricerca temporale su Plutone, dopo l’attacco al sistema solare». Vrelik prese fiato e si accostò a Chase, parlando con più calma: «Quindi non venga a dirmi che siamo i cattivi. Noi combattiamo e moriamo per il bene della Federazione, proprio come voi. Mi spiace che a volte qualche innocente ci vada di mezzo, ma anche lei ha preso decisioni difficili. Ognuno fa la sua parte. Io ho fatto la mia. E ora che la missione è compiuta, me ne vado. Addio, Capitano» disse, cercando di sgattaiolare verso l’uscita. Ma Chase si frappose nuovamente.

   «Che ne sarà di Delara?» chiese l’Umano.

   «Anche lei è una vittima di guerra. Almeno vivrà» rispose il Trill.

   «E Neelah?».

   «Starà bene».

   «Fino alla prossima volta che vi servirete di lei» obiettò Chase. «È vero, tutti fanno la loro parte, nella Flotta come nella Sezione 31. Ma Neelah aveva scelto di starne fuori. Però voi non l’avete accettato, così le avete messo i vostri legacci. Ora che conosce la realtà, sarà tormentata per sempre dai rimorsi. Lei... ma perché ne parlo come se non ci fosse?» si corresse il Capitano. «Neelah, dimmelo tu. Che devo fare con questo... Agente Operativo?».

   «Devi arrestarlo» disse Neelah con sguardo iroso. «Costringilo a testimoniare al processo. Così Delara sarà scagionata e dietro le sbarre ci andrà lui».

   «Ottima idea» convenne Chase.

   «Voi non vi rendete conto...» disse Vrelik, passando lo sguardo dall’uno all’altra. «Non potete trattenermi».

   «Perché no?» fece Neelah, fissandolo come se volesse farlo a pezzi con le sue mani.

   «Perché ho un nuovo incarico» rivelò l’Agente. «Capitano, lei si domandava perché non sono sceso su Acamar. In fondo la mia missione è terminata. Invece mi sono trattenuto. Perché crede che l’abbia fatto?».

   «Dopo la Battaglia di Carraya, avrà interrogato di nuovo Neelah per sistemare qualche dettaglio» rispose Chase con lentezza. «E quindi ha scoperto che...» lasciò in sospeso.

   «No!» gridò l’Aenar, portandosi una mano alla testa. «Era il mio segreto più importante!».

   «Tu non hai segreti per la tua famiglia» sorrise Vrelik. «Quel Tox Uthat sembra un’arma portentosa. Mi chiedo che effetto avrà sulle Sfere dei Tuteriani. Anche se fallisse, potremmo sempre usarlo nel modo tradizionale. Far esplodere le stelle, eh? Sembra un buon deterrente contro il Fronte. Perché dovrebbe conquistare i nostri sistemi, se poi resta con un pugno di polvere? Perché dovrebbe sfidarci, se possiamo annientare i suoi sistemi in un batter d’occhio?» chiese, leccandosi le labbra.

   «Tu non metterai le mani sul Tox Uthat!» ringhiò l’Aenar. «Ho giurato a Kal Dano di distruggerlo, piuttosto che farlo cadere in mani sbagliate».

   «La decisione non spetta a te» la rintuzzò Vrelik con leggerezza. «La prima volta che ne abbiamo parlato mi hai fornito la traccia quantica del Tox Uthat. E poco fa mi hai dato i piani del sensore temporale di Grenk. Con queste due cose, la Sezione 31 può cercare l’arma dentro e fuori lo spazio romulano. Altro che le vostre ridicole sonde! Noi garantiremo che nessun’altra fazione delle Guerra Temporale s’impadronisca dell’Uthat. Né i Vorgon, né Vosk, né quel fantomatico Tizio del Futuro».

   «E come crede di consegnare quei dati alla Sezione 31?» chiese il Capitano. «Finché si trova sull’Enterprise, lei è in trappola».

   «Finché si trova in questo laboratorio, lei è in trappola» ribatté Vrelik con un sorriso sinistro. Toccò un comando su un pannello e subito un campo di forza si attivò, dividendo Chase dagli altri due.

   «Capitano a Sicurezza, venite subito nel laboratorio di Neelah» ordinò Chase, premendosi il comunicatore. Non ebbe risposta. «Capitano a Terry, emergenza. Mi senti?» chiese, con un orribile presentimento.

   «Non sprechi il fiato, Chase. Questo laboratorio blocca le trasmissioni» rivelò Vrelik. «E io ho bloccato la porta» aggiunse, vedendo che l’Umano cercava di uscire nel corridoio.

   Il Capitano si girò come un leone in gabbia. Era bloccato fra l’ingresso del laboratorio, sigillato, e il campo di forza. Neelah si trovava dall’altra parte della barriera... con Vrelik.

   «Ti libero io, Alexander» disse l’Aenar, marciando verso il pannello di controllo, ma il Trill la intercettò.

   «Calma, Soggetto 379! Non ho ancora finito con te» le disse, sollevando l’indice.

   «E io non ho nemmeno iniziato, con te!» sibilò la dottoressa. Gli afferrò il braccio e glielo piegò dietro la schiena, in procinto di spezzarglielo. «Ti piace il mio laboratorio? Io lo trovo un po’ sporco. Vediamo se migliora, strofinandoci la tua faccia!». Costrinse l’Agente a piegarsi fino a terra.

   «Ouch! Calma, Neelah... sappiamo tutti che non puoi farmi davvero del male» ridacchiò Vrelik, anche se dall’espressione si sarebbe detto che soffriva. «Credi che ti abbiamo condizionata solo su Tantalus? Sciocchina! Quando la Sezione 31 ti richiamò su Plutone, per quella faccenda dei Parassiti Neurali, ne approfittò per rinfrescarti la memoria».

   «Che?!» ringhiò Neelah, voltandolo per vederlo in faccia.

   «Certo, dovevamo assicurarci che dopo tanti anni rispondessi ancora al trattamento. E indovina un po’? Sei stata di nuovo un successo completo!» sorrise Vrelik.

   «Cerca di minare la tua autostima» l’avvertì Chase. «Non ascoltarlo. Mettilo subito KO!».

   «Credi di essere salita spontaneamente su questa nave?» proseguì Vrelik, implacabile. «Non volevi neanche saperne, di Chase! Fu il Direttore Sheev a dirti la parolina magica, proprio sotto al naso del Capitano, e tu obbedisti. Sei qui solo perché noi l’abbiamo voluto».

   «No, no!» gemette Neelah. Lo lasciò andare e barcollò all’indietro, con la testa fra le mani.

   «Sì, invece» disse Vrelik, rialzandosi. «Sei sempre stata una nostra creatura. Come sai che anche la tua relazione col Capitano non è frutto di un nostro ordine?» ammiccò, muovendo il braccio per riavviare la circolazione.

   Dietro il campo di forza, Chase si sentì mancare. Ricordava perfettamente il primo incontro con Neelah, nel laboratorio su Plutone. Ricordava come l’Aenar fosse acida e sprezzante, finché il direttore Sheev aveva detto quella parola, itoat. Chase pensava che fosse un’imprecazione. Invece era un comando. Solo dopo averla udita Neelah aveva accettato d’imbarcarsi sull’Enterprise.

   «Maledetti... mi avete piazzata dove volevate, e poi mi avete usata per sterminare una colonia!» si disperò Neelah.

   «Non dolertene» disse Vrelik con voce dolce e comprensiva. «Sbarazzarci dei Krenim era indispensabile per far capire al Fronte che l’Unione è determinata a sopravvivere. Vedi, la giustizia è equilibrio. Loro distruggono i nostri mondi come se niente fosse. Devono capire che rischiano lo stesso. Se il messaggio di Carraya non basterà, sono certo che il Tox Uthat glielo farà capire».

   «Occhio per occhio, dente per dente» commentò Chase da dietro il campo di forza.

   «Io direi piuttosto: a mali estremi, estremi rimedi» corresse Vrelik.

   «Se non siamo migliori del Fronte, per cosa combattiamo?» insisté il Capitano.

   «Per la vita, tanto per cominciare. E per tutto quello che bene o male riusciamo a infilarci dentro» rispose il Trill senza scomporsi. «Ma basta parlare, si è fatto tardi. Io devo andare».

   «Ho ordinato ai miei ufficiali di non far uscire nessuno dall’Enterprise e di bloccare ogni trasmissione» avvertì Chase.

   «Ora darà ordini contrari» disse Vrelik. «Lasci perdere le trasmissioni... non mi sarei azzardato a inviare messaggi così importanti nel subspazio. Consegnerò i dati di persona, così leverò anche il disturbo» disse, mostrando un’unità di memoria che aveva in tasca. Conteneva indubbiamente il progetto del sensore temporale e la traccia quantica dell’Uthat, i due elementi indispensabili per trovarlo.

   «Tu non vai da nessuna parte!» ringhiò l’Aenar. Balzò verso una consolle e aprì un comparto segreto, estraendone un phaser. Lo puntò dritto al petto di Vrelik.

   «No!» gridò Chase, presagendo il peggio. «Stordiscilo con le mani e abbassa il campo di forza, ma lascia stare le armi. Potrebbe...».

   «Tranquillo, Alexander. Ora lo controllo io, il gioco» disse Neelah. Si avvicinò a Vrelik, tenendolo sotto tiro. Ma lui continuava a sorridere, come se fosse tutta una ragazzata. La biologa aggrottò la fronte e strinse i denti, nello sforzo disperato di premere il grilletto. Ma le dita sembravano diventate di marmo. Contrasse i muscoli, ma niente: non riusciva a muovere l’indice, sebbene tremasse da capo a piedi per lo sforzo.

   «Avanti, Neelah... spara, se ne sei capace» disse dolcemente il Trill. «Non puoi, vero? Certo che no. Come non hai potuto spezzarmi il braccio, prima. Come non puoi leggermi la mente. Nel profondo del cuore, sai che sono un tuo collega... un tuo superiore. E ai superiori non si spara. Ai superiori si obbedisce».

   «Viscido pezzo di...».

   «Sssshhhh, sssshhhh» fece Vrelik, avvicinandosi senza alcun timore del phaser. «Va tutto bene... tutto sta andando come deve. Ora ascoltami attentamente. Itoat» disse in tono di comando. Neelah lo fissò con occhi spiritati.

   «Dannazione, non ascoltarlo!» ruggì Chase. «Mettiti le dita nelle orecchie, se devi, ma non ascoltarlo!».

   «Buono, Capitano. Non vede che sto lavorando?» fece Vrelik, sollevando il palmo per esortarlo a tacere. L’attimo dopo aveva dimenticato Chase ed era tutto concentrato su Neelah. «Ascoltami, ti dico. Concentrati sulla mia voce. Ph’nglui mglw’nafh Cthulhu R’lyeh wgah’nagl fhtagn!» disse tutto d’un fiato.

   L’effetto fu immediato, come se l’Agente avesse premuto un interruttore nel cervello di Neelah. Le braccia dell’Aenar ricaddero lungo i fianchi. La presa venne meno e il phaser le scivolò dalle dita, cadendo a terra. Le palpebre calarono e la testa le ciondolò in avanti, con le antenne abbassate. Sembrava che dormisse in piedi.

   «Bravissima» sorrise Vrelik. Le prese delicatamente le spalle e cominciò a farla oscillare come un metronomo. «Tranquilla, andrà tutto bene. Sei con la tua famiglia» disse con voce profonda. «Ora rilassati e svuota la mente. Fai respiri profondi... così, lenti e regolari. Inspira... ed espira. Molto brava. Lasciati andare... abbandona i dispiaceri... e fidati della tua famiglia...» cantilenò.

   L’espressione di Neelah, prima sofferente, si rasserenò. Il suo respiro si regolarizzò, facendosi lento e profondo, come se dormisse. Tutta la postura si rilassò. Ogni parola del Trill aveva un effetto immediato ed evidente su di lei.

   «Adesso che sei tranquilla e sicura, puoi ricordare tutto» proseguì Vrelik con voce suadente. «Ricorda le tue sedute. Ricorda le tue terapie. Ricorda chi sei veramente, Soggetto 379. Sì... ora ricordi tutto con chiarezza. Sei pronta a riprendere servizio?».

   A queste parole Neelah rialzò il capo e anche le antenne. Inspirò a fondo e aprì gli occhi: erano spalancati, con le pupille contratte, e non sbattevano mai. «Soggetto 379 pronto a servire. Quali sono gli ordini?» chiese con voce innaturalmente calma.

   «Raccogli il phaser» disse Vrelik. Neelah eseguì con gesti lenti e fluidi, poi si fermò, in attesa di ulteriori input.

   «Che c’è, vuol prendermi in ostaggio?» chiese il Capitano, non ancora rassegnato alla brutta piega degli eventi. «Voi due non riuscirete nemmeno ad avvicinarvi a un hangar. Quando l’equipaggio vedrà che mi tenete sotto tiro, sarete circondati da squadre della Sicurezza. E Terry teletrasporterà via il phaser».

   «Io non voglio prenderla in ostaggio» disse Vrelik con calma. «Soggetto 379, regola il phaser su uccisione».

   Neelah armeggiò con i controlli dell’arma e Chase non dubitò che avesse eseguito l’ordine. Guardò Vrelik stralunato.

   «Ah ah, tranquillo, Capitano!» ridacchiò il Trill. «Non la ucciderei mai. Lei è troppo prezioso per la Flotta Stellare. Deve restare al comando di questa nave, così ci darà altre vittorie. Neelah, d’altro canto... potrei sacrificarla, per l’Uthat» aggiunse, osservando l’Aenar. «Mia cara, ora voglio che ti punti il phaser alla tempia».

   Senza la minima esitazione, Neelah si puntò l’arma regolata per uccidere. I suoi occhi rimanevano inespressivi, le labbra semiaperte.

   «Cosa crede di fare, Vrelik?» chiese il Capitano, allarmato da quella svolta inattesa.

   «Tra poco potrei chiederti di premere il grilletto, Soggetto 379» disse dolcemente il Trill, ignorando l’Umano. «Tu che farai, in quel caso?».

   «Premerò il grilletto» rispose l’Aenar con voce atona.

   «Bravissima. Lo premerai subito, vero? Senza un secondo di ritardo» la istruì Vrelik.

   «Senza ritardo...» ripeté Neelah, trasognata.

   «Disse quella che controllava il gioco!» ridacchiò il Trill. «Non coglie l’ironia, Capitano? La sua amichetta possiede poteri mentali che io manco mi sogno. È più forte, più veloce, più resistente di me. Devo ammettere che è anche più intelligente. Tuttavia... sono io che reggo i fili!» sottolineò, passeggiando davanti al campo di forza.

   «Lei è pazzo... dove vuole arrivare?» chiese l’Umano.

   «A una navetta. Ora le spiego come funziona il gioco» disse Vrelik, con una scintilla di divertimento negli occhi. «Abbasserò il campo di forza e ripristinerò le comunicazioni col resto della nave. Lei ordinerà al suo equipaggio di lasciar andare me e Neelah, per ragioni riservate. Se dirà qualcosa di diverso... o se avrò il sospetto che stia dando istruzioni in codice... ordinerò a Neelah di uccidersi. E lei obbedirà, ne stia certo. Vero che obbedirai?».

   «Vero...» confermò l’Aenar, tranquillissima.

   «Dopo di che, Capitano, la stordiremo e la chiuderemo qui da qualche parte» riprese Vrelik, guardandosi attorno. «Quando i suoi ufficiali la troveranno, saremo già lontani. Un balzo a cavitazione quantica e nemmeno l’Enterprise potrà rintracciarci. Così saremo tutti felici e contenti. La Sezione 31 potrà cercare l’Uthat. Neelah sarà finalmente un Agente Operativo. E lei, beh... la Galassia è grande. Si trovi una donna meno problematica».

   «Avrà la sua navetta, ma lasci qui Neelah» disse Chase, trafiggendolo con lo sguardo.

   «Sigh... non afferra che questa non è una trattativa» disse Vrelik, sconsolato. «Neelah non può restare sull’Enterprise, lo capisce? Ormai è bruciata, come Agente in Sonno. Quando me ne andrò, l’affiderà ai suoi medici perché la deprogrammino. Così noi perderemo il suo splendido cervello» disse, sfiorando la guancia dell’Aenar. «Se la porto con me, invece, sarà ancora utile alla Sezione 31. Anche se è bruciata nella Flotta, ci sono missioni sotto copertura per cui andrà benissimo. E tu sei impaziente di servire, vero?».

   «Sì, impaziente...» confermò Neelah. Chase tremò nel vedere che si puntava ancora il phaser alla tempia. La minima contrazione del dito avrebbe fatto partire il colpo mortale.

   «Ottimo» disse Vrelik, fregandosi le mani. «Ora, Capitano, stia bene attento. Sto per abbassare il campo di forza e ridarle la comunicazione. A quel punto lei che farà? Su, lo dica... non abbiamo tutto il giorno!» esortò.

   «Ordinerò di farvi andare con una navetta. Tutti e due» disse Chase, odiandosi per ogni sillaba che gli usciva dalle labbra.

   «Bravissimo, vede che anche lei conosce i suoi doveri?» applaudì Vrelik, deliziato. «Poi si farà un bel sonnellino, mentre noi ce ne andiamo. Coraggio, si va in scena!». Si recò alla consolle e disattivò il campo di forza, mentre Neelah continuava a puntarsi il phaser alla testa.

   Con gesto rallentato, Chase si portò la mano al comunicatore. «Capitano a plancia» disse.

   «Sì, signore?» rispose Terry.

   Chase ebbe la fortissima tentazione di avvertirla con una delle parole concordate per casi del genere. Il guaio era che Vrelik, come Agente della Sezione 31, le conosceva. Finché teneva Neelah sotto scacco, Chase non se la sentiva di rischiare. «La situazione è cambiata» disse con voce incolore. «La dottoressa Neelah deve recarsi immediatamente su Acamar. Già che c’è, porterà Vrelik con sé. Date loro una navetta e non fategli perdere tempo. Io devo trattenermi ancora un po’ nel laboratorio... poi vi spiegherò».

   «Ne è certo, signore?» chiese Terry con una traccia di preoccupazione. «Ci aveva ordinato di non far uscire nessuno».

   «E ora vi do nuovi ordini» disse Chase, sotto lo sguardo divertito di Vrelik. «È di vitale importanza che facciate come ho detto, mi sono spiegato?».

   «Sì, signore» cedette Terry. «Prepariamo subito la navetta. Neelah e Vrelik possono prenderla quando vogliono. Plancia, chiudo». Se aveva fiutato la trappola, non si era azzardata a farla scattare.

   «Ammiro i suoi ufficiali» disse il Trill. «Fanno quel che gli dice senza tante storie. Devono rispettarla molto».

   «Finiamola, Vrelik» disse Chase, tagliente. «Le faccia abbassare l’arma».

   «Tutto a suo tempo» avvertì l’Agente. «Soggetto 379, punta il phaser contro il Capitano e regolalo su stordimento». Neelah eseguì anche questo comando. «Ora dimmi... dove possiamo rinchiuderlo, perché non ci dia fastidio per un po’?» chiese il Trill.

   «Ho dei campi di contenimento... e la cella frigorifera» rispose l’Aenar.

   «Vada per la cella, così ci metteranno di più a trovarlo» decise Vrelik. «Si muova, Capitano».

   Tenuto sotto tiro, Chase dovette andare nella stanza di destra, dov’erano custoditi vari campioni. Neelah lo seguiva a breve distanza, col phaser spianato, e Vrelik chiudeva la fila. Chase camminò adagio, per guadagnare qualche secondo.

   «Ascoltami, Neelah. So che ci sei ancora, che puoi sentirmi. Non devi fare come dice lui. Non è né la tua famiglia, né il tuo superiore. Si sta solo approfittando di te. Sai che è vero» disse il Capitano, con voce lenta e chiara.

   «Ci risparmi il monologo zuccheroso» fece Vrelik, esasperato. «Il Soggetto 379 ascolta solo me. La sua lealtà alla Sezione 31 è indiscutibile, vero?».

   «Indiscutibile...» confermò Neelah, per nulla toccata dalle parole di Chase. Erano già arrivati alla cella frigorifera. Si trattava di uno stanzino alto abbastanza da starvi in piedi, ingombro d’inquietanti resti biologici, interi o a pezzi. Vrelik aprì il portello, mentre Neelah sorvegliava Chase. Furono investiti da un’ondata di gelo.

   «Diceva di non volermi uccidere» notò il Capitano. «Là dentro morirò in pochi minuti».

   «Non se prima equalizziamo la temperatura» spiegò Vrelik, strappandogli il comunicatore con gesto svelto. Andò ai comandi della cella e disattivò il refrigeratore. Con la porta aperta, la temperatura prese subito ad aumentare. Entro pochi minuti sarebbe diventata tollerabile.

   «Ti sta controllando, Neelah» disse ancora Chase. «Combattilo... come hai combattuto il Parassita Neurale. So che hai la forza di liberarti».

   «Sigh... perché insiste?» si chiese Vrelik. «Il Parassita Neurale era un organismo alieno che controllava forzosamente il suo sistema nervoso. Le nanosonde di Neelah non ci hanno messo molto a ucciderlo. Ma stavolta non c’è alcun corpo estraneo da aggredire. È solo la mente di Neelah che è fatta così. Nessuno dei suoi potenziamenti può aiutarla».

   «Per quanto la influenzi, non può cambiare la sua natura profonda» obiettò il Capitano.

   «E sarebbe? Una sociopatica narcisista?» ridacchiò Vrelik.

   «No. Neelah, io ti conosco meglio di lui» disse Chase, rivolgendosi direttamente all’interessata. «So che in fondo – molto in fondo – ti preoccupi per le persone. Sei diventata una dottoressa per curare le malattie e i difetti genetici. Volevi migliorare la vita della gente. Ma la Sezione 31 ti ha fatto uccidere degli innocenti. E se gli darai il Tox Uthat ne ucciderà molti di più. So per certo che non lo vuoi» disse con fermezza.

   Neelah aggrottò la fronte. I suoi occhi si socchiusero e le pupille si dilatarono, mostrando una scintilla di riconoscimento. «N-no, io non voglio... uccidere gli innocenti...» disse con un filo di voce.

   «Non ci sono innocenti nel Fronte!» la zittì Vrelik. «Anche i civili Krenim sapevano di occupare le terre strappate a qualcun altro. Hanno dormito nei letti ancora caldi dei proprietari, che intanto morivano nei campi di lavoro. Perciò mi aiuterai a respingerli, Soggetto 379. Itoat!» strepitò.

   Neelah rialzò subito il mento, come se avesse ricevuto una sferzata. La sua fronte si spianò e gli occhi azzurri tornarono vitrei, con le pupille ridotte a capocchie di spillo. La presa sul phaser si rinsaldò. Passato l’attimo d’esitazione, era di nuovo sotto il pieno controllo dell’Agente.

   Chase si morse la lingua, sapendo che restava pochissimo tempo. La cella frigorifera si stava riscaldando, presto lo avrebbero chiuso dentro. A quel punto non li avrebbe fermati più nessuno. «Neelah, so che hai le tue... direttive» disse con difficoltà. «Ma ora sei chiamata a disobbedire per un bene più grande. Ricorda cos’ha fatto Karen Mallory pochi giorni fa. Era un ologramma con direttive implacabili, eppure ha trovato la forza di opporsi... perché sapeva che era la cosa giusta».

   «E guardi com’è finita!» ribatté Vrelik. «Ha ottenuto solo di distruggersi. E non è nemmeno riuscita a salvare gli altri Galateani. Il suo sacrificio è stato vano. È questo che vuole per Neelah?».

   «Karen Mallory non è morta inutilmente» obiettò Chase. «Ha salvato tutti noi, evitando una battaglia fra navi dell’Unione. Ha salvato anche lei, Vrelik. E poi, Neelah non è un ologramma». Si rivolse di nuovo all’Aenar. «Puoi sconfiggere le direttive e sopravvivere. Devi solo volerlo. Pensa a quante vite puoi salvare, ribellandoti a questo verme».

   «Basta così, la cella è abbastanza calda» constatò Vrelik, avvicinandosi al Capitano. «Spara, Soggetto 379. Poi ficcalo dentro e chiudi il portello».

   «Sii te stessa, Neelah. Non ti chiedo altro» disse Chase, fissandola intensamente.

   «Spara, ho detto!» ordinò Vrelik, seccato da quella breve esitazione. Lui e Chase si fronteggiavano davanti alla cella frigorifera. Neelah stava più indietro e un poco di lato, con il phaser puntato. Vrelik non poteva vederla, ma Chase sì. Con sguardo vacuo, l’Aenar prese la mira e fece fuoco.

 

   Chase e Vrelik s’irrigidirono entrambi, udendo il ronzio del phaser. Per un attimo si fissarono con odio. Poi uno dei due si accasciò, sotto lo sguardo dell’altro.

   «Ordine eseguito, signore» disse Neelah con voce strascicata. «Ma avresti dovuto ripetermi fino all’ultimo a chi dovevo sparare». Si accostò al corpo riverso di Vrelik e lo voltò con un calcio, per vederlo in faccia. «Se penso che ti sono stata a sentire...» mormorò, fissandolo con sconfinato disgusto.

   Accanto a lei, Chase dovette appoggiarsi un attimo alla paratia per riprendersi. Era quasi certo che Neelah l’avrebbe colpito. Passato lo shock, abbracciò stretta l’Aenar. «Sei di nuovo tu?» le chiese.

   «Credo di sì» rispose Neelah. Posò il phaser su una mensola vicina e ricambiò l’abbraccio con trasporto. «In un certo senso non me ne sono mai andata, ma ero come... sommersa. Volevo fare una cosa, ma il mio corpo ne faceva un’altra. Era orribile».

   «Non sono mai stato tanto spaventato in vita mia» confessò Chase. Considerando quel che aveva passato nel corso degli anni, non era un’affermazione da poco. Si baciarono e poi si staccarono quel tanto che bastava da guardarsi negli occhi, pur restando abbracciati.

   «Mi spiace d’averti spaventato... non sapevo cosa mi avesse fatto la Sezione 31, fino a poco fa» spiegò Neelah. «Ma ora ricordo tutto».

   «Cosa ricordi?».

   «Le sedute di condizionamento, su Tantalus e su Plutone. I loro sporchi trucchi. Mi chiedo cos’altro mi abbiano ficcato in testa... e se riusciranno ancora a controllarmi con qualche parola» si avvilì l’Aenar.

   «Chiederemo ai nostri dottori di darti una ripulita» disse Chase, incoraggiante. «Hai già fatto i primi passi, i più importanti. Ti sei ribellata a un ordine e hai recuperato la memoria. Ci sono terapie che ti aiuteranno a disfarti anche del resto».

   «E che sarà di... noi?» chiese Neelah, angosciata.

   «Ne abbiamo già passate. Supereremo anche questa» sospirò Chase, carezzandola tra collo e guancia.

   «M-ma come faccio a sapere se quello che sento per te...» gemette l’Aenar. Lacrime cocenti le solcarono il viso.

   «Temi che sia impiantato anche quello?» s’incupì il Capitano. «Da parte mia ti amo, e questo non cambierà. Da parte tua... solo tu puoi saperlo. Solo tu puoi decidere cosa fare, d’ora in poi».

   «Ricordo i loro ordini. La nostra relazione non era tra quelli» disse Neelah, tirando su col naso. «Spero solo di ricordare tutto. E comunque... quel che provo ora è autentico. Io vorrei continuare... se per te va bene. Altrimenti capirò. Chi vorrebbe questo disastro di fidanzata?».

   «Io, lo voglio. E smettila di svalutarti» consigliò Chase.

   «Devo farlo» disse Neelah. «Sono sempre stata così arrogante... credevo di essere la mente più forte su questa nave. Invece...».

   «Tu sei forte. Sei la prima che ha vinto il condizionamento della Sezione 31 da chissà quanto. Credo che questo ti renda ufficialmente la più tosta della Galassia» scherzò Chase, asciugandole le lacrime. Quando sentì che si era un po’ ripresa, la lasciò e andò a perquisire Vrelik. Gli ci vollero pochi secondi per trovare l’unità di memoria con i dati rubati. «Questa ce la riprendiamo... nessun altro cercherà l’Uthat» commentò, mettendosela in tasca. Recuperò anche il comunicatore.

   «Groan...» gemette il Trill, cominciando già a riaversi.

   Chase recuperò subito il phaser e lo prese di mira. «Buongiorno, Vrelik. La informo che il gioco è cambiato. Non è più lei che fa le regole».

   «Aspetti a dirlo» mugugnò l’Agente. Si massaggiò le gambe, cercando di rialzarsi. «Questo è solo un incidente di percorso. Con una parolina posso obbligare Neelah a ucciderla, Capitano. O a uccidere se stessa!» minacciò, il viso distorto in una smorfia.

   «Davvero?» chiese Neelah, avvicinandosi. Vrelik sorrise, sicuro di sé, e per un attimo Chase temette che riuscisse ancora a controllarla. Ma l’Aenar afferrò il Trill per la gola e lo sollevò di peso, lasciandolo a sgambettare a mezz’aria. «Dimmi, “signore”... come farai a pronunciare quella parolina, se non riesci nemmeno a respirare?» sibilò Neelah. Rafforzò la stretta, costringendo Vrelik ad annaspare in cerca d’aria.

   «Piano... ricorda che ci serve vivo, per scagionare Delara» le ricordò Chase.

   «Non l’ho dimenticato. Voglio solo divertirmi un po’» spiegò Neelah, godendosi i rantoli di Vrelik.

   «Dopo il processo, magari» suggerì il Capitano.

   «E sia!». La dottoressa scaraventò l’Agente dritto nella cella frigorifera, mandandolo ad atterrare malamente sui campioni biologici. Prima che si rialzasse lo chiuse dentro, sigillando bene il portello. La sua mano corse subito ai comandi del freezer. «Facciamo venti gradi sottozero?» propose.

   «Sotto il punto di congelamento sarebbe tortura» le ricordò Chase.

   «Dieci sottozero... per non danneggiare i miei campioni» mercanteggiò l’Aenar.

   «Okay, tanto non ci resterà a lungo» acconsentì il Capitano. Si premette il comunicatore. «Chase a Sicurezza, voglio subito una squadra nel laboratorio di Neelah» ordinò.

   «Capitano, sta bene?» rispose la voce preoccupata di Lantora. «Quegli ordini di prima ci hanno fatto temere che fosse in pericolo».

   «Lo ero, ma ora è risolto» spiegò Chase. Passò un braccio attorno alle spalle della partner, scambiando un sorriso incoraggiante. «Piuttosto, dica a Ilia di venire. Ho una brutta notizia per lei» aggiunse, tornando a incupirsi mentre osservava la cella frigorifera.

 

   Ilia ascoltò l’accaduto in un silenzio composto, ma era chiaro che soffriva in ogni fibra. Quando Chase terminò le spiegazioni, sospirò dolorosamente. «Che intende fare con la spia?» chiese, rifiutando persino di nominare il “nipote”.

   «Porteremo Vrelik ad Acamar, per il processo» rispose il Capitano. «Così Delara sarà del tutto scagionata».

   «E lei, Neelah?» chiese Ilia, angustiata.

   L’Aenar tenne gli occhi bassi, incerta su quanto l’aspettava.

   «Non eri in te, quando hai contagiato Cormak» disse Chase, cingendola ancora con il braccio. «Te la caverai. Io testimonierò a tuo favore. Sarà la Sezione 31 a finire nei casini».

   «Speriamo!» ringhiò Lantora, aprendo finalmente la cella frigorifera. Vrelik ne uscì tutto intirizzito e subito si trovò circondato da guardie coi phaser spianati.

   «Scortate il signor Vrelik in una cella di massima sicurezza» ordinò Chase. «E liberate immediatamente il Guardiamarina Livras».

   «Con piacere» disse Lantora, puntando il phaser alla schiena del Trill. «Muoviti!» abbaiò.

   Con passo strascicato, Vrelik si diresse verso l’uscita. Quando passò accanto a Ilia si fermò un attimo e alzò gli occhi su di lei. «Guarda cosa fanno a tuo nipote, solo perché ha servito la Flotta Stellare!» disse nel tono di chi subisce un’orribile ingiustizia.

   «Tu non sei mio nipote» rispose Ilia, fissandolo con durezza. «E non hai servito la Flotta».

   Lantora tamburellò il phaser contro la schiena di Vrelik, perché ripartisse. Il Trill sospirò e passò avanti, con l’aria di un martire. «Siamo in guerra, Capitano» disse quando fu sulla soglia. «Nessuno di noi ne uscirà con le mani pulite».

   «Almeno decideremo noi cosa fare» rispose il Capitano.

   Quando la Sicurezza si fu allontanata con il prigioniero, Ilia rimase sola con Chase e Neelah. «Ci dà un minuto, signore?» chiese la Trill.

   «Certo» annuì Chase, recandosi nella sala principale del laboratorio.

   Fra Ilia e Neelah cadde un silenzio imbarazzato. Fissavano il pavimento, senza che nessuna delle due si decidesse a parlare.

   «Mi spiace» disse infine la Trill. «Ero così accecata dalla gioia di avere Vrelik a bordo che non ho badato a cosa faceva».

   «Non è colpa sua. Vrelik è stato abile a nascondere le sue mosse» rispose Neelah. «Nessuno poteva sospettare chi fosse realmente».

   «Credevo di conoscerlo» disse Ilia con voce incrinata. «Quella di giornalista non era una copertura temporanea. Sono anni che leggo i suoi articoli. Chissà se era lui a scriverli o se glieli passava qualcun altro. Nel seguire la sua carriera mi sentivo una sorta di... zia orgogliosa, o di cugina. Ricordo anche quand’era piccolo, nella mia vita passata. Se avessi immaginato...». Scosse la testa, avvilita.

   «Era il vostro segreto di famiglia» commentò Neelah. «Le famiglie dei Trill Uniti devono essere molto complicate».

   «Beh, lui è parente di Martis, non mio» si consolò Ilia. «Devo smetterla d’identificarmi con gli Ospiti passati e di attaccarmi alle loro famiglie. Ormai la mia famiglia è qui, sull’Enterprise. E lei ne fa parte» assicurò, guardandola finalmente negli occhi. «Quindi, se le servisse qualcosa, non esiti a chiedere. Sarò dalla sua» promise.

   «Grazie, davvero. Ma non credo che mi serva nulla» rispose Neelah con modestia, prima di ritirarsi.

   Rimasta sola, Ilia riuscì a sorridere. Ora capiva perché, con tutte le possibilità che c’erano a bordo, il Capitano si era legato proprio alla dottoressa. C’era davvero del buono, sotto il ghiaccio di Andoria.

 

   L’Enterprise era di nuovo nell’orbita di Acamar, per sbrigare le ultime faccende prima di lasciare il settore. A qualche anno luce di distanza, i sistemi di Carraya e Galatea erano ormai invasi dalle anomalie, che facevano avvizzire i mondi abbandonati. In compenso i Krenim avevano smesso di espandersi in tutto il Quadrante Beta. Privati di un cospicuo numero di catapulte subspaziali, erano costretti a fortificare le loro postazioni, in attesa della controffensiva Klingon. Il Federal News diede ampio risalto alla notizia.

   Il processo militare su Acamar, invece, si tenne a porte chiuse. Come suo solito, la Sezione 31 negò ogni coinvolgimento, pur non riuscendo a spiegare da dove venisse la variante dell’Agente 47. Ma le testimonianze di Chase, T’Vala e Neelah non potevano essere ignorate. Il giorno della sentenza, gli ufficiali superiori dell’Enterprise erano tutti nell’aula del tribunale.

   «Questa corte proscioglie il Guardiamarina Livras da tutti i capi d’accusa, in quanto estranea ai fatti» lesse il giudice. «La corte ritiene altresì che la dottoressa Neelah non fosse in grado d’intendere e di volere, nel momento in cui contagiò il Caporale Cormak. Come conferma la perizia psichiatrica del dottor Korris, la dottoressa aveva subìto un intenso e prolungato condizionamento mentale, riattivato con alcune parole chiave. La corte la proscioglie quindi dalle accuse, assegnandole una terapia di recupero sull’Enterprise».

   Chase e Neelah si scambiarono uno sguardo trionfante.

   «Nel caso del signor Vrelik, invece, la corte lo ritiene pienamente responsabile di tutti i capi d’accusa» riprese il giudice con severità. «Vrelik, lei è condannato all’ergastolo per cospirazione, manipolazione, attacco bio-terroristico e depistaggio. La condanna sarà scontata nella colonia penale di Jaros II. Le indagini proseguiranno per accertare la presenza, su Tantalus V, di una struttura illegale per il condizionamento e il reclutamento di agenti. Così è deciso, l’udienza è tolta» sentenziò il giudice, picchiando col martelletto.

   «Sarà difficile che trovino qualcosa su Tantalus» commentò più tardi Neelah, quando si riunì a Chase. «Vosk ha lasciato il pianeta in briciole».

   «Comunque è un bello scossone per la Sezione 31» rispose il Capitano. «Credo che Sheev ci penserà due volte, prima di tornare a romperci le scatole». Stavano scendendo a braccetto lungo la scalinata del tribunale.

   «Mi basta qualche mese» disse Neelah, truce. «Poi potrà dire le parole d’ordine che gli pare... potrà anche cantare e ballare... ma non m’impedirà di annodargli la spina dorsale!».

 

   «Sei certa di non voler restare?» chiese Neelah, osservando Delara. La Betazoide era in abiti civili e portava una borsa a tracolla, con le sue poche cose. Era la loro ultima conversazione, in sala teletrasporto.

   «Più che certa» confermò Delara. «Anche se Vrelik non mi ha riattivata, un altro Agente Operativo potrebbe farlo in ogni momento. L’unico modo che ho per non far danni è stare lontana dalle astronavi e dall’azione. Inoltre ho ripensato alle parole del Comandante Dax. È vero, mi sento stanca di questa vita. Stanca di dover combattere ogni giorno, contro i nemici di fuori... o quelli di dentro» sospirò.

   «Il dottor Korris è molto bravo. Mi sta aiutando a superare... tutto questo» disse Neelah, indicandosi la tempia e tracciando un cerchietto con l’indice. «Può aiutare anche te».

   «Forse» disse Delara, malinconica. «Ma ho nostalgia di casa. È una vita che non vedo Betazed. Voglio rivedere il sole che tramonta nell’Oceano Thaxan. E soprattutto voglio rivedere la mia famiglia. Non so come mi accoglieranno, dopo tutto questo tempo, ma...». Si aggiustò i capelli, cercando di nascondere l’impianto neurale.

   «L’amore non guarda in faccia» rispose Neelah a bassa voce. «E tu ne meriti tanto, dopo quello che hai passato».

   «Grazie» sorrise Delara, confortata. «Ti dirò... ora che ho dato le dimissioni, mi sento già meglio. Come se mi avessero tolto un peso dal cuore. Anche se la guerra continua».

   «Non durerà per sempre. Prima o poi il Fronte cederà» disse Neelah, più come augurio che come valutazione. «Allora, cosa conti di fare su Betazed?».

   «Non lo so ancora» ammise Delara. «Chissà se c’è posto per un’insegnante un po’ deteriorata!» disse, ricordando il suo sogno adolescenziale. Lei e Neelah scoppiarono a ridere. Delara dovette portarsi una mano alla bocca per calmarsi. Da quant’era che non rideva! «Ora devo andare, il trasporto per Betazed sta per partire» disse quando si fu ripresa. Si aggiustò la tracolla della borsa, per evitare che le scivolasse dalla spalla.

   «Certo» fece Neelah, indietreggiando di un passo. «Fai buon viaggio».

   Delara aveva già un piede sulla pedana, quando ci ripensò e scese. «Ah, un’ultima cosa» disse, tutta seria.

   «Sì?».

   «Promettimi che resteremo in contatto, Ninì. Sul serio, stavolta!» disse, porgendole il mignolo.

   Neelah ci mise un attimo a ricordare quel gesto e quel soprannome. Un grande sorriso le illuminò il volto albino e subito incrociò il mignolo con quello di Delara. «Giuro sulle mie antenne che ci terremo in contatto, qualunque cosa accada... amica mia» disse con convinzione.

   Si strinsero con forza i mignoli; per un attimo fu come essere ancora diciottenni, emozionate per la nuova vita che si apriva loro innanzi. Poi Delara si ritirò e salì sulla pedana del teletrasporto. Con i capelli sciolti, l’impianto neurale non si notava quasi per niente. «Buona fortuna, Ninì».

   «Anche a te, Delara». Neelah osservò la sua amica dissolversi nel teletrasporto azzurro dell’Enterprise. Che strano, pensò. Quando aveva ritrovato Delara, l’aveva sentita più distante che mai. E ora che se n’era andata, non l’aveva mai sentita così vicina.

 

   «Itoat» disse il dottor Korris con voce chiara e forte.

   Neelah chiuse gli occhi e si concentrò, cercando di resistere. Affondò le unghie nel materassino del bio-letto.

   «Non mi hai sentito, Soggetto 379? Ti ho detto di alzare il braccio destro. Itoat» ripeté paziente il medico, seduto accanto al lettino.

   «Urgh... non ne ho una gran voglia...» gemette Neelah. Stava contraendo tutti i muscoli del braccio: sia quelli flessori, sia quelli estensori. Di conseguenza l’arto tremava, ma ancora non si sollevava.

   «La tua volontà è irrilevante, ti ho dato un ordine. Solleva il braccio destro, subito» disse Korris, in un tono che non ammetteva repliche. «Itoat!» disse ancora, così seccamente da farla sobbalzare.

   «Col frell che lo sollevo!» ansimò Neelah, spalancando gli occhi. I muscoli si rilassarono e il braccio restò posato sul materasso.

   «Bene, stai facendo progressi» constatò Korris, soddisfatto. «Stavolta non l’hai alzato per niente. E a giudicare da quel che vedo qui, non hai avuto nessun intervallo d’amnesia» aggiunse, osservando le letture cerebrali sull’interfaccia accanto alla testata del letto.

   «Sta diventando più facile» disse Neelah, incoraggiata. «Fra poco potremo provare col codice 2».

   «Un passo alla volta. Prima ti liberiamo del tutto da questo comando, poi passiamo al prossimo» disse Korris con calma. «So che vuoi sempre bruciare le tappe, ma stavolta devi prenderti il tempo che serve. Non ci sono scorciatoie».

   «Okay, dottore» cedette Neelah. «Senti, se hai altro da fare... queste sedute posso svolgerle con qualcuno del tuo staff».

   «Preferisci qualcun altro?».

   «No, preferisco te!» assicurò l’Aenar. «Era solo per non farti perdere tempo».

   «Oh, tranquilla... i miei esperimenti col vaccino non cambieranno risultato, se gli stacco gli occhi per un’oretta al giorno» garantì Korris.

   «Beh, allora grazie. Per la tua presenza e per... la discrezione» aggiunse Neelah. Erano soli nella saletta: Korris non faceva entrare nessuno, durante le sedute, per non mettere l’Aenar a disagio.

   «Sono vecchio stile. Il rapporto di segretezza fra medico e paziente è sacro» sorrise Korris. «In realtà... questi incontri fanno bene anche a me» sospirò. «Mi tengono impegnato e mi fanno sentire ancora utile, dopo... dopo Karen».

   Neelah comprese che la morte di Karen Mallory era una ferita ancora aperta nell’animo del dottore. Forse non si sarebbe mai richiusa. «Mi spiace per la tua perdita» disse con sincerità. «Ma Karen sarebbe orgogliosa di vedere come ti batti contro l’Agente 47. Se qualcuno troverà la cura, sarai tu con la tua squadra».

   «Sarei ugualmente felice se fosse qualcun altro» disse Korris con semplicità. «Ma apprezzo le tue parole. Ora, visto che abbiamo ancora qualche minuto, che ne dici di un’altra prova? Potremmo controllare le reazioni più fini, come i movimenti oculari».

   «Per me va bene» disse Neelah, ma in quella entrò Chase.

   «Scusate, vi ho interrotto?» chiese il Capitano. «È che ho un aggiornamento importante...».

   «Qualcosa di riservato?» chiese Korris.

   «In effetti sì. Non fraintenda, dottore... ha la mia piena fiducia» assicurò Chase. «Ma non vorrei darle altri pensieri. Ne ha già abbastanza».

   «Va bene, vi lascio» acconsentì Korris, alzandosi. «Domani alla stessa ora, Neelah» raccomandò quando fu sulla porta. «Controlleremo i movimenti oculari e le reazioni pupillari».

   «Certo, a domani» annuì l’Aenar.

   Quando la porta si fu chiusa dietro al dottore, Chase sedette sulla sedia lasciata vuota. «Allora, come procede la terapia?».

   «Bene, penso. Ma la strada è lunga, mi sto ancora disintossicando dal primo comando» sospirò Neelah. «Almeno Korris è discreto. Allora, che volevi dirmi?» chiese, alzandosi a sedere sul lettino.

   «Buone notizie!» disse il Capitano, con lo sguardo delle grandi occasioni. «Ho parlato con l’Ammiraglio Nelscott. L’Enterprise costeggerà lo Stato Imperiale Romulano per disegnare la mappa aggiornata delle anomalie e tracciare gli spostamenti delle flotte Vorgon e Na’kuhl».

   «In altre circostanze ti direi che è una pessima missione... lunga e pericolosa» commentò l’Aenar. «Ma stando così le cose, è un’ottima copertura».

   «Sì, ci permetterà di disseminare le sonde» annuì Chase. «Terry ha preparato la griglia esplorativa e sta aiutando Grenk a costruirle. È un lavoraccio, sai. Bisogna ficcarci dentro un sacco di hardware: motori, occultamento, il sensore temporale e un’autodistruzione che scatti se qualcuno cerca d’impadronirsene. Il difficile è trovare la formula per costruire la prima, dopo di che sarà facile replicarle».

   «Speriamo che ne valga la pena» disse Neelah. «Dopo la fatica che hai fatto per salvare questo progetto dalla Sezione 31, pensa che beffa se non ci servisse a niente!».

   «Il tentativo va fatto, se non altro per metterci il cuore in pace» rispose il Capitano. «Se sarà un buco nell’acqua, pazienza. Ma se avremo successo... il Tox Uthat cambierà le sorti della guerra» affermò. Di lì a poco, l’Enterprise iniziò a costeggiare lo Stato Imperiale. Il suo lungo lavoro era appena cominciato.

 

 

FINE

 

 

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