Dentro di me
Sigyn
dormiva rannicchiata con le ginocchia al petto, i biondi capelli sparsi
sul
cuscino, le labbra dolcemente schiuse. Un’immagine delicata e
fragile che la
penombra in cui era avvolta la stanza contribuiva a rendere
più eterea,
irreale. Loki Laufeyson piegò le labbra in una smorfia
indispettita, vedendola
al suo capezzale. Erano anni che limitava ogni incontro, evitava
qualsiasi
contatto, per ingannare le Norne e dir loro che si erano sbagliate, su
lui e la
ragazza. Che la Lingua d’Argento di Asgard non aveva padroni
né catene, né tantomeno
morbidi lacci di seta a stringergli il petto. Suo fratello si era
irrigidito e
aveva fatto un passo indietro, quando aveva ammesso che lei
c’era, esisteva.
Era corso a cercarla senza voltarsi, nascondendo nel silenzio la
delusione per
essere stato tagliato fuori dalla sua vita. Loki
s’inumidì le labbra secche e
riarse per svegliarla e mandarla via, ma scoprì di avere la
gola secca e di non
riuscire, lui che era signore e padrone della retorica e dei bei
discorsi, ad
articolare nemmeno una frase. Colpa delle pozioni curative che ancora
lo
stordivano. Si mosse appena e il movimento, seppur limitato, gli
strappò un
lamento cupo. Quando tornò a guardarla, Sigyn lo stava
fissando.
La
ragazza si sollevò leggermente. Era scarmigliata, pallida,
visibilmente stanca.
Non dovevano essere passate troppe ore, da quando aveva offerto il suo
braccio
candido e sottile per donargli la vita che gli stava sfuggendo dalle
dita. Il
fatto di vederlo sveglio la dovette sorprendere e spaventare,
perché si tirò a
sedere e tentò di dargli sollievo bagnandogli le labbra con
dell’acqua, posando
una mano sulla fronte per capire se avesse la febbre. Tutti gesti che
aveva
senz’altro già fatto diverse volte, ma che ora,
sapendolo sveglio, le
risultavano sicuramente innaturali e difficili. Dovuti, persino.
“Chiedimelo.”
La voce di Loki suonò come un ordine rauco.
Sigyn
s’immobilizzò, torcendo tra le dita sottili la
pezza bagnata. Gli concesse
un’occhiata lunga e severa, poi si sedette rigidamente al suo
capezzale, stando
ben attenta a non toccarlo più del dovuto, a non sfiorarlo
neanche.
“Sei
rimasto privo di conoscenza a lungo. I guaritori hanno dovuto usare
molto seiðr
e infinite cure, per evitare che tu raggiungessi Hel. Non è
il momento per
chiederti niente.”
Il
dio degli inganni non aveva abbastanza forza per ironizzare sulle sue
condizioni, come altrimenti senz’altro avrebbe fatto,
né per chiederle se anche
lei, come tutti, si era lasciata trasportare dall’illusione e
dal senso del
dovere ed era accanto a lui solo perché doveva
esserci, nient’altro.
Aggrottò
la fronte, rendendosi conto di essere ancora troppo debole per
affrontare un
discorso, ma curioso, questo sì, di vedere la maschera che
Sigyn indossava
creparsi, cadere a pezzi.
Chiuse
una mano a pugno e colpì il materasso: il gesto improvviso
gli causò una fitta
lacerante.
“Chiedimelo!
Adesso!”
Sigyn
si alzò circospetta, continuando a fissarlo con quei suoi
occhi grandi e
spaventati, rotondi e grigi. Quanto, del suo sangue, era servito? Loki
valutò
la figura esile e sottile della ragazza e la paragonò col
suo fisico alto e
slanciato, di guerriero. L’analisi lo lasciò
insoddisfatto. Non era rimasta lì
solo per un mero senso del dovere, no. Per rimetterlo in sesto ed
evitare che
morisse, a lei era stato tolto forse persino più del dovuto
e quella branda
posta accanto alla sua era servita per consentirle di riprendersi da un
gesto
che l’aveva lasciata stanca, sfinita e bisognosa di cure. Seminascosta dalla stoffa
della veste che
indossava, l’Ase vide la macchia scura e violacea che
deturpava il braccio
candido della ragazza. Durante il necessario scambio di sangue, una
delle vene
si era spezzata.
“Da
quanto tempo?” Le labbra di Sigyn tremavano. “Da
quanto, lo sai?”
Il
dio degli inganni pensò che fosse la domanda giusta e le
rivolse un sorriso
breve e laterale, nient’altro che l’eco sbiadita
del ghigno scaltro che era
solito rivolgere ad avversari e alleati. Sostenne il suo sguardo con la
fierezza del re che avrebbe potuto – dovuto –
essere.
“Anni.”
Lei
impallidì. “Menti.” La voce le era
uscita simile a un sussurro sottile.
“Vorresti
che mentissi? Che ti ingannassi?”
“Lo
hai già fatto. Nascondere una cosa così
importante è stato…”
“Orribile?
Spaventoso? Contro la natura e le regole di noi Aesir?” La
stava incalzando per
provocarla e costringerla a fuggire, per insinuare nei suoi occhi grigi
il
sospetto. “Non è la prima delle leggi che
infrango, né sarà l’ultima. Sai come
mi chiamano, cos’ho fatto.”
“Mentre
eri sotto effetto dei sedativi, hai parlato.”
Una
risata secca e ironica, dolorante. “Mi pareva di aver
augurato a Thor di farsi
sbranare da un troll, in effetti…”
“Più
volte.” Il tono di Sigyn ora si era fatto più
dolce, gentile. “Quello gliel’hai
augurato più volte, ma hai parlato anche d’altro.
Hai chiesto di fermare Odino,
di non organizzare nessuna cerimonia, nonostante il vincolo che ci
lega.”
Le
labbra dell’Ase ferito si piegarono in una smorfia.
“E cosa ci lega, Sigyn?”
“Le
Norne hanno intrecciato il nostro destino. Nelle tue vene scorre il mio
sangue.”
“È
una maledizione, quella che ci unisce. Una suggestione, un inganno.
Dicono che
le nostre anime si completano: tre esseri fuori dal tempo e dallo
spazio
l’hanno deciso, ma allora rispondimi, piccola, cara,
spaventata Sigyn: perché
di fronte all’altra metà del tuo cielo provi
terrore? Perché l’idea di dovermi
amare è così spaventosa, atroce? Lo vedo nel tuo
sguardo. Ti senti in trappola.”
La
ragazza sussultò, colpita dall’arguzia maligna di
quelle parole. Era come se
Loki, pure se costretto in un letto e ferito, con i suoi occhi freddi e
verdi
avesse avuto il potere di scandagliarle il cuore. Aveva parlato, e le
sue frasi
non erano suonate come un’ipotesi o il tentativo di
comprenderla: possedevano
il sapore amaro di una sentenza implacabile, assoluta. Ma allora
dov’era,
l’inganno? Lingua d’Argento le aveva scavato il
cuore rivelandole il terrore
che aveva popolato i suoi incubi nelle ultime, dolorose ore come se
l’avesse
visto.
Gli
rispose accusandolo. “In trappola, dici? Tu hai mangiato il
frutto della
conoscenza degli dèi; tu hai addentato il pomo di
Iðunn e, pur facendolo, non
hai rispettato la nostra tradizione, non mi hai chiesta in moglie. Tu
mi hai
nascosto ogni cosa. Tu sei il dio degli inganni che ha tradito Asgard,
che ha
ucciso il re di Jotunheim. Non so davvero chi sei né cosa
vuoi, Loki figlio di
Odino.”
“Ogni
cosa che posso conquistare, tranne un legame imposto. Ogni cosa tranne
te, noi.”
L’ingannatore lo disse con lentezza, sforzandosi di
raccogliere le parole. Il
discorso, seppur breve, aveva esaurito le sue energie non ancora
ritrovate di
convalescente, senza però fiaccare il sarcasmo perfido.
“Ti ringrazio per
avermi salvato: metà dell’universo ti
odierà per questo, ma io ti sono comunque
riconoscente.”
Incapace
di rimanere anche solo un minuto di più nella stanza,
bisognosa d’aria, Sigyn si
allontanò senza nemmeno voltarsi, quasi fuggendo.
♦
Gli
appartieni, sei sua come lui è
tuo, tanto che l’unica creatura in grado di salvargli la
vita, in tutto l’universo,
sei tu. Parole
martellanti che avevano il sapore di una maledizione e riuscivano a
dare vita a
una ridda di domande destinate a non avere quasi nessuna risposta. La
consuetudine li avrebbe obbligati a stare insieme, le Norne avevano
unito tra
loro i fili rossi del loro fato. Loki avrebbe dovuto chiedere la sua
mano e il
segreto che si era ostinato a celare – a negare –
l’aveva quasi portato alla
tomba.
Da
soli, avrebbero sofferto. Sigyn raggiunse l’esterno,
lasciandosi alle spalle la
severa struttura dove i guaritori, avvolti nelle loro lunghe tuniche
bianche,
s’affaccendavano celeri e silenziosi fingendo di non
guardarla.
Il
dio degli inganni non era un totale estraneo. C’era una
conoscenza
superficiale, blanda, tra loro. Diverse volte si erano incrociati nella
ricca
biblioteca di Asgard, ma il principe cadetto non le aveva mai riservato
altro
che qualche occhiata lunga e attenta e un saluto lieve fatto col capo.
Una
volta, qualche anno prima, le serviva il medesimo testo che stava
consultando
lui e Loki l’aveva chiuso di scatto, porgendoglielo rapido
con una smorfia
quasi indispettita.
Poco
tempo dopo, era avvenuto che Asgard vincesse una cruenta battaglia; si
vociferava di come Odino fosse intenzionato a nominare il suo erede
diretto di
lì a poco.
L’idromele scorreva a fiumi, danzatrici e musici allietavano
il banchetto con
le loro canzoni allegre e incalzanti. Loki, un braccio al collo e un
sorriso
furbo sulle labbra sottili, raccontava le sue gesta eroiche –
l’incantesimo di
una nebbia fittissima che aveva permesso all’esercito Aesir
di cogliere di
sorpresa gli avversari – affascinando le dame con cui, a
turno, danzava. Anche
quando si trovò di fronte a lei, ballò. A Sigyn
parve che il ghigno sbieco e
soddisfatto del bel principe mutasse in altro – disappunto,
probabilmente – e
credette che l’ingannatore non la reputasse alla sua altezza
o abbastanza
bella. Si detestò per quel pensiero vanesio,
perché non avrebbe dovuto interessarle
l’opinione di un guerriero troppo tronfio e sicuro di
sé. Loki la fece danzare
esattamente come aveva fatto con le ragazze prima di lei, ma
evitò di
raccontarle aneddoti succulenti sulla battaglia da cui era uscito
lievemente
ferito, sì, ma trionfante. Così, Sigyn si era
convinta che il principe cadetto
la disprezzasse. L’inesperienza e la giovane età
le avevano coperto gli occhi
sulla probabile natura delle vere intenzioni del dio degli inganni:
fuggire da
un destino già scritto.
Rallentò
il passo. Sottile e minuta com’era, si era indebolita
terribilmente in quegli
ultimi giorni. Si ritrovò stanca e spossata e fu per quello
che non s’accorse
immediatamente del canto. Era una nenia mormorata appena da una donna,
una
vecchia ballata che Sigyn aveva sentito infinite volte dalla bocca di
sua
nonna. Una di quelle che crediamo di non ascoltare e, invece, si
scolpiscono
nella nostra memoria per riemergere con un senso nuovo anni dopo:
quand’era
bambina aveva trovato il canto noioso e fin troppo infelice, ma, in
quel
momento, le strofe le salirono alle labbra colme di un significato
nuovo, inaspettato,
struggente. Sigyn seguì il suono della voce melodiosa che
cantava e finì per
avvicinarsi a una finestrella oltre cui un’anziana sposa si
accomiatava per
l’ultima volta, forse, dal vecchio consorte morente. Vorrei perdermi così tanto in te, da non
voler più trovare altro,
cantava la donna carezzando con dita lievi la fronte ormai calva
dall’uomo
riverso nel letto. Ogni suo movimento era carico d’una
dolcezza totale,
infinita. Si rese conto di stare osservando l’amore in una
delle sue forme più
totalizzanti e si sentì in colpa perché, con la
sua presenza, violava la
sacralità di un momento perfetto e doloroso assieme. Come
mai la coppia aveva
rinunciato a nutrirsi dei pomi di Iðunn? Quanti anni, decenni,
secoli, avevano
passato credendo che le Norne avessero unito il loro destino? Anche
loro, come
lei e Loki, quand’erano stati giovani si erano ritrovati
sgomenti e furiosi di
fronte a un fato imposto e, per questo, ritenuto ingiusto?
Vorrei
perdermi così tanto in te, da
non voler più trovare altro, diceva la strofa
antica e mesta. Sigyn sentì il cuore
batterle con più forza nel petto, perché anche
lei si era persa: una parte del
suo sangue scorreva nelle vene del dio degli inganni e si era mescolata
col
suo, consentendogli di sopravvivere all’orrenda ferita e
guarire. Si era persa
dentro di lui, aveva accantonato ogni cosa per potergli essere
d’aiuto, ma
davvero non voleva più trovare altro? Si sarebbe innamorata,
mangiando il pomo?
Lo era già? Ma che significava, poi, amare? I guaritori e le
ancelle preposte
alla cura dei malati avevano definito il suo comportamento congruo e
nobile.
Aveva fatto ciò che tutti si aspettavano –
dedicarsi all’uomo scelto per lei
dalle Norne fin quasi a mettere a repentaglio se stessa – ma,
così facendo, era
riuscita solo a scontentare lui, il furbo e scostante e volubile dio
dell’inganno, che sosteneva a testa alta come
l’amore imposto dal fato fosse
una maledizione, nient’altro. Un’infezione del
cuore, una suggestione,
l’illusione su cui si reggeva un regno abitato da creature
che venivano
chiamate dèi destinate a vivere troppo a lungo e a
congelarsi nelle proprie
meschinità, debolezze, virtù. Non la voleva, come
se ritenesse semplicemente
ripugnante l’idea di trascorrere l’esistenza con
lei, anzi, peggio: pareva che
non ci fosse niente di più orrendo e ingiusto che il loro
stare insieme,
nell’universo tutto.
Sigyn
si allontanò dalla finestra, lasciando la vecchia coppia
alla sua tenerezza: è
un’aberrazione unire la fedeltà
all’inganno. È un errore delle Norne, una beffa
del destino. Così aveva
detto Loki quando, circondato dai guaritori per le orrende ferite,
aveva posato
gli occhi su di lei, riconoscendola prima di perdere i sensi. Nella
fretta
concitata di quei minuti terribili, Sigyn non aveva fatto abbastanza
caso al
modo in cui l’aveva fissata, ma ora, ripensandoci, le
sembrò di aver trascurato
un dettaglio importante, per poi chiedersi se non stesse inventando ad
arte un
ricordo per giustificare pensieri e intenzioni. Le pupille verdi di
Loki
l’avevano scrutata quasi trapassandola, ma c’era,
in quello sgiardo, una luce
incomprensibile, strana. Da interpretare e travisare. Era come se
l’ingannatore
avesse, di lei, una conoscenza profonda e intima. Le aveva confessato
di
conoscere da anni il responso delle Norne crudeli e allora Sigyn si
chiese se
l’Ase non si fosse messo a tenerla d’occhio per
cercare di capire che radici
possedesse il legame che pareva dovesse unirli. Eppure, forse, Loki
mentiva,
perché questo era il suo potere: era il dio scaltro e
bugiardo che truffava e
irretiva il prossimo, che lo incantava col suo sorriso lupesco e
affilato,
trascinandolo in una ridda di illusioni. Sigyn lo sapeva. Lo aveva
visto mille
volte corteggiare e convincere, insinuare e spiegare. Il brivido che le
scorreva lungo la schiena di fronte a quelle labbra sottili leggermente
segnate
da una cicatrice ormai bianca, che si piegavano fin troppo spesso in un
ghigno
divertito e sarcastico, più volte l’avevano
confusa e resa inquieta.
C’era
sempre stato qualcosa di profondamente oscuro e sbagliato, in Loki.
♦
“Sei
tornata. Mossa prevedibile, ma sciocca.”
Loki
stava decisamente meglio. Sebbene ancora costretto a letto, aveva
trovato il
modo per tenersi occupato; sopra le coperte, giacevano libri aperti e
appunti
scribacchiati. Sigyn rimase sulla soglia, esitante. Per alcuni giorni,
aveva
evitato accuratamente di recarsi nella stanza ampia e spaziosa del dio
degli
inganni mentre lui era sveglio. Il pensiero che fosse l’uomo
della sua vita
continuava a esserle estraneo, alieno. Era il tramonto. Una luce calda
e
rossastra filtrava dalle imposte rendendo l’atmosfera
sospesa, quasi irreale.
La ragazza avanzò fino a raggiungere il punto in cui
c’era stata la branda dove
aveva riposato, ora sostituita da una poltrona dai manici intarsiati
con draghi
marini, guerrieri e drakkar dalle prue snelle. Si sedette anche se lui
non
l’invitò a farlo. Si chiese se Loki potesse
leggerle nella mente e scoprire che
anche lei voleva violare la legge degli Aesir. Sarebbe stata costretta
a farlo,
perché attendere che trascorressero altri due cicli completi
delle stagioni
rimanendo con un simile peso sul cuore, non era qualcosa di accettabile
né
possibile. Meglio affrettare i tempi e mordere di nascosto il frutto
proibito
di Iðunn, allora.
Durante
le sue brevi e tormentate visite notturne, il figlio cadetto di Odino
dormiva
sempre placidamente e, sul suo bel viso affilato, Sigyn non aveva
scorto
traccia alcuna del fuoco in grado di animarlo da sveglio.
Cos’era, lei? La dea
della fedeltà. Così avevano detto le Norne. E
cosa significava, esattamente? Il
respiro del dio degli inganni, abbandonato in chissà che
sogni, era lento e
profondo e, alla luce della luna, le sue fattezze di guerriero
suggerivano
l’idea di come fosse agile e svelto; cosa che, in effetti,
corrispondeva a
quanto aveva sentito dire più volte della Lingua
d’Argento di Asgard,
imprevedibile e rapida, pericolosa e terribile. Qualcosa continuava ad
attirarla lì al suo capezzale; alcuni l’avrebbero
chiamata attrazione,
spiegando che si trattava del principio dell’inscindibile
legame che li avrebbe
uniti. Sigyn, invece, si sforzava di chiamarlo senso del dovere e
curiosità, ma
un paio di volte aveva osato ammirarlo e accarezzargli i capelli scuri,
sfiorare il petto ampio e scoperto. Quel contatto l’aveva
lasciata confusa e
piena di ancora più domande.
“Cosa
siamo, Loki?”
“Maledetti.
Mi pareva di avertelo detto.” Aveva smesso di leggere non
appena era entrata,
mettendola ulteriormente a disagio con quel suo sguardo aguzzo e feroce.
Sigyn
sospirò. “Le altre persone, nella nostra
condizione, s’innamorano l’uno
dell’altra. Per noi è diverso, hai ragione.
L’idea di vivere tutta la mia
esistenza con te mi spaventa.”
“Fai
bene.”
“Quando
tuo fratello mi ha portata qui, prima di perdere i sensi hai detto che
unire la
fedeltà all’inganno era
un’aberrazione,” ricordò, “ma
possiamo davvero ribellarci
al destino?”
Lingua
d’Argento sollevò fieramente il mento. Non sarebbe
potuta che andare
diversamente, tra di loro, ma c’era, nella voce di Sigyn, il
principio di una
nota accorata che non piacque all’Ase. Sapeva delle sue
visite notturne rapide
e brevi e intuiva, dal tormentarsi nervoso delle sue dita sottili,
quanto fosse
ancora profondamente scossa per quella rivelazione. Desiderava stargli
lontana,
ma non riusciva a tenere fede a quella promessa per più di
qualche ora, lei,
che era la dea della fedeltà.
Eppure,
pensò Loki, Sigyn non era così. Non era da lei
farsi mangiare l’anima da dubbi
e confusioni; quell’esitare accanto al suo letto, quel
tornare da lui in cerca
di spiegazioni vane, era indice senz’altro di come anche lei
stesse cadendo
nella favola mesta delle anime costrette ad amarsi dal destino.
L’aveva
osservata a lungo, da quando le Norne erano riuscite a rivelargli il
destino
tessuto per lui. Si era messo in testa di studiarla per capire
cos’avesse di
speciale. Aveva scoperto che dietro l’aspetto grazioso
c’era un’intelligenza acuta
e attenta, uno spirito temperante che, quando si appassionava a talune
cause,
le difendeva con coerenza e costanza. La magia nascosta nel pomo della
dea
Iðunn gli si era rivelata tra gli scaffali polverosi della
biblioteca, un
lontano pomeriggio d’autunno. Lei era in piedi e leggeva un
volume che aveva
appena estratto da uno scaffale e non si era accorta che Loki la stava
osservando. Se anche avesse alzato le ciglia nere verso il dio
dell’inganno,
tuttavia, non sarebbe cambiato nulla, perché lei non aveva
ancora morso la mela
incantata, per fortuna.
“Voglio
sapere cosa si prova,” mormorò Sigyn,
“voglio vedere le sbarre della mia
prigione. Tu parli di un inganno, di una maledizione, ma saresti morto,
se non
avessi condiviso con te il mio sangue. Quindi questo legame
è vero, è reale.”
“La
dipendenza, la compatibilità lo è,”
concesse Lingua d’Argento socchiudendo le
palpebre. “Per giustificare la necessità di avere
il più vicino possibile colui
o colei che può salvarci la vita, ci siamo inventati la
favola d’un amore
eterno, a prima vista, a eterna vista, a ultima
vista,” ironizzò amaro, chiudendo con un
gesto secco il
libro che aveva posato sulle gambe. “È solo il
bisogno di sopravvivere, che ci
lega.”
Sigyn
si tese sulla sedia. Vorrei perdermi
così
tanto in te, da non voler più trovare altro, diceva
la vecchia ballata che
l’aveva fatta riflettere tanto a lungo sul senso di quella
condivisione. Non
desiderava appartenere al dio degli inganni, non riusciva a figurarsi
tra le
sue braccia o nel suo letto. Così
si
disse. Il bisogno impellente di essere lì, in
quella stanza, era
suggestione, curiosità. Nient’altro,
non
poteva essere nient’altro.
“Parli
di vantaggi, ma tu, mantenendo il segreto, hai rischiato seriamente di
morire.
Perché?”
Loki
non rispose immediatamente. Si concesse di guardare la sfumatura color
miele
dei capelli di Sigyn, di posare lo sguardo sull’arco ben
delineato delle sue sopracciglia,
sulle labbra probabilmente dolci, sul viso delicato.
L’incanto delle Norne era
qualcosa da cui sarebbe fuggito ancora e per sempre, anche se il prezzo
da
pagare sarebbe stato continuare a sognarla all’improvviso,
perché questo era lei.
Una luce scintillante impossibile
da scacciare, che veniva a tormentare sogni di gloria e a scuotere
ambizioni,
ma senza spezzarle.
“Conosco
il peso delle catene, cara Sigyn,” sorrise col tono di chi ha
visto centinaia
di cieli e di mondi. “Sono nato per essere re e ho provato
l’ebbrezza di
sedermi su un trono e il rancore per essere stato incarcerato.
L’amore è una
schiavitù da cui desidero liberarti.”
La
sera avanzava lenta oltre le finestre. L’arancio e
l’oro sfumavano leggermente
verso il viola e l’azzurro e gli occhi del dio degli inganni,
verdi e quasi
trasparenti, a volte assumevano una sfumatura diversa, quasi cerulea.
“Lo
dici come se lo conoscessi a fondo,” osò fargli
notare la ragazza.
“Sei
giovane.” Una smorfia attraversò il viso affilato
dell’Ase. “Sei ancora troppo
giovane. È attrazione, quella che senti,
nient’altro. Se ti ci abbandonerai,
sarà il caos.”
“Hai
detto che hai scoperto anni fa che ero io. Cos’hai provato,
allora? Cos’hai
sentito? Cosa senti, ora?”
“Il
peso di un vincolo che non ho chiesto,” fu la risposta secca
e crudele. “Unire
la fedeltà e l’inganno è
un’aberrazione, è un’ingiustizia. Tutto
qui.”
Sigyn
tremò, scossa, come sempre, dal peso terribile di quelle
parole. “Da allora
combatti? Contro cosa stai lottando?”
“Non
voglio legarti a me, Sigyn. Sono il dio degli inganni e non
cambierò la mia
natura o i miei desideri perché le Norne hanno deciso che
devi esserci tu, al
mio fianco. Fidati delle mie parole, non c’è
pentimento, in me, per quello che
ho fatto. Nemmeno adesso, neanche ora che il Titano ha deciso di
volgere il
capo verso i Nove Regni,” puntualizzò mascherando
il brivido d’orrore che gli
provocava il pensiero di Thanos. “Rifarei tutto,
pagherò per ogni cosa, ma non
m’importa. Non sono un eroe senza macchia, come mio fratello.
Io sono il
principe bugiardo, il truffatore di Asgard, il lupo in mezzo al gregge.
Le
Norne non possono averti condannata a pagare per le mie scelte,
né io lo
vorrei.” Un ghigno gli attraversò il bel viso
affilato. “La verità è che Thor
è
stato troppo zelante, non avrebbe dovuto chiamarti.”
Di
fronte a quella spiegazione, Sigyn pensò che avrebbe donato
il proprio sangue
non una, ma cento, mille volte a quel principe maledetto fiero e
feroce, nobile
e crudele, ambizioso e astuto. In qualche modo che ancora non sapeva
descrivere
a fondo, era nobile in ognuno dei suoi gesti, anche il più
esecrabile. Gli
cercò la mano e la prese tra le sue.
“Mi
vuoi proteggere da te, Loki?”
L’Ase
non ribatté.
S’impose
di soffocare ancora una volta l’istinto primitivo che lo
spingeva a prenderle
il viso tra le mani e a baciarla, però. A prometterle regni
e troni e poteri di
cui a lei non sarebbe importato nulla, ma ai quali Lingua
d’Argento non avrebbe
saputo mai rinunciare, perché era proprio questo il dramma:
il dio degli
inganni desiderava avere tutto, ogni cosa, persino Sigyn, e non era in
grado di
rinunciare davvero a niente, Thor lo sapeva fin troppo bene. Eppure,
legarla a
sé era fuori discussione: l’avrebbe avuta per poi
perderla, condannandola a
esaltare la sua natura di dea della fedeltà imprigionandola
in un’attesa senza
fine, costringendola a dividere il peso di colpe non cercate
né meritate, in
una punizione eterna. Non l’avrebbe mai saputa amare con la
dedizione e
l’esclusività che lei meritava e glielo disse
quella sera e lo ripeté quelle in
cui lei, ostinata, ritornò.
Le
raccontò come sarebbe stata infelice, insieme a lui, ad
attenderlo invano in un
letto troppo freddo, a implorare Odino di non punirlo con eccessiva
severità,
ad addormentarsi senza sapere sotto quali cieli lui fosse nascosto, in
che
trame avesse deciso di infilarsi, oppure scoprendolo e, per questo,
soffrire
ancora di più. Spiegò e immaginò ogni
cosa e lo fece assaggiandole le labbra in
una sera di pioggia, l’ultima che passarono insieme a dirsi
perché dovevano
ribellarsi alle Norne crudeli e cieche. Troppe volte l’aveva
scacciata dai suoi
sogni e dalle sue fantasie dicendosi che era il corpo sottile e ben
fatto di
lei, ad attirarlo, nient’altro. Che lo stesso trasporto,
sepolto sotto strati
d’indifferenza e inganni, avrebbe potuto nutrirlo per
qualsiasi altra ragazza,
che quel battito mancato del cuore non significava niente.
Sì, Loki Laufeyson
aveva lottato a lungo con ogni fibra del suo essere contro
l’attrazione
sbagliata verso Sigyn. Probabilmente, il desiderio di lei si era acuito
proprio
per colpa di quella voluta assenza, della rigida imposizione che si era
dato di
non cedere alla curiosità di sapere se fosse vera, la
leggenda in cui erano
intrappolati.
“Ti
rinnego oggi, per non farti soffrire domani,”
spiegò con le labbra ancora sopra
le sue, le dita perse tra le ciocche bionde, un braccio a cingerle la
vita
stretta. Era, allo stesso tempo, un addio e una scommessa, quel bacio
intenso a
lungo cercato ed evitato, dato poche ore prima che l’ultima
offensiva di Asgard
contro l’immenso esercito di Thanos avesse inizio. Il pegno
rubato d’un
principe fiero e feroce che non avrebbe cambiato i suoi piani nemmeno
in nome
del vincolo imposto dalle Norne e sancito dai pomi di Iðunn. Le
assaggiò le
labbra, le sfiorò appena per poi gustarle con lentezza e
scoprì che erano
morbide e dolci da baciare e che Sigyn lo desiderava forse con la
stessa
intensità con cui lui voleva lei. Colpa dei fili rossi delle
loro esistenze che
erano stati intrecciati con indifferente perizia o delle parole che si
erano
scambiati mentre il giorno scivolava nella sera, nella quiete delle
ampie
stanze dei guaritori? O era la morte racchiusa nell’eco di
uno schiocco,
spettro invisibile e spaventoso, a rendere necessario
quell’abbraccio
febbricitante e disperato, l’ultimo e l’unico che
avevano giurato di
scambiarsi?
Era dolce, il
sapore della maledizione che li univa. Questo pensarono
mentre
le loro labbra si accarezzavano e lambivano, cercavano e consolavano.
“Sei
libera, Sigyn. Voglio che tu sia libera,” ordinò
l’Ase con voce roca.
Lei
gli sfiorò il mento affilato e sbarbato con le dita sottili.
“Ho mangiato il
pomo, oggi,” confessò.
“Hai
violato le leggi di Asgard. Sei troppo giovane.”
Loki,
irritato, provò a staccarsi da lei, ma la ragazza lo
trattenne.
“L’ho
mangiato e non è cambiato niente, vedendoti. Mi sento ancora
libera. Era già
successo, credo.”
“Sai
chi sono e dove sto andando. Non aggrapparti a un vincolo che ti
porterà solo
sofferenza.”
La
voce dell’Ase era severa e aveva in sé il tono
d’una profezia, ma a Sigyn non
importò. Si strinse contro la corazza robusta di pelle
intrecciata e gli
rivolse un’unica, sola preghiera.
“Torna
da me, Loki, dio degli inganni.”
Forse
fu colpa delle Norne che, divertite dall’ostinazione del
fiero principe degli Asi,
diedero fortuna alla terrificante impresa, o forse dei pomi incantati
di Iðunn
oppure del tempo trascorso assieme a raccontarsi il disincanto verso la
leggenda d’un amore immortale e inevitabile, ma
c’è chi racconta che davvero
l’ingannatore,
alla fine, tornò da lei per rivolgerle quel suo sorriso
furbo e affascinante.
Fine
Note Autore:
Cosa
sono le Soulmate!Au?
Sono
universi paralleli dove esiste l’Anima Gemella. Esiste
veramente. Ho pensato a
lungo a come potesse essere scritta la vicenda di Loki e Sigyn in
questa chiave
di lettura precisa, e il contest indetto da Fiore di Cenere “Share with me” mi ha dato
l’occasione di
cimentarmi in una di queste storie generalmente molto drammatiche e
romantiche.
Come sempre quando si tratta di me, ho mescolato tantissimo mito e
canone MCU.
La
questione relativa ai pomi di Iðunn è un canone
norreno: nel mito, gli dèi di
Asgard mantengono un aspetto giovane perché si cibano
regolarmente di queste
mele. Quando non possono mangiarle, iniziano a invecchiare, come
racconta
l’Edda (l’UNICA cosa cui faccio riferimento). Le
mele di Iðunn ricordano molto
da vicino quelle del famoso albero della tradizione biblica, ed ecco
che ho
tirato fuori il concetto della soulmate. Giunti
all’età adulta, gli Aesir
mangiano il pomo e bloccano la loro crescita biologica, acquisendo
così la
conoscenza necessaria e utile a poter scoprire (prima o poi) la
Soulmate.
Poiché Sigyn non aveva ancora raggiunto
l’età adeguata, era solo Loki a
conoscere il segreto riguardo la loro predestinazione e il solo a
sapere che
Sigyn era l’unica che potesse donargli il sangue in caso di
necessità. Come forse
(spero) si sarà capito, prima di trovare la Soulmate la
condivisione del sangue
è possibile con chiunque.
La
vicenda si colloca a metà strada tra Thor: The Dark World e
Infinity War, di
cui ho ridato una rilettura più positiva.
Gli
elementi del pacchetto sono stati usati interamente: la scena si svolge
in un
ambiente ospedaliero (o vicino all’ospedale),
c’è la Soulmate! AU che era da
considerarsi come bonus, mentre la frase, ricorrente nel testo,
è stata
tradotta come Vorrei perdermi così
tanto
in te, da non voler più trovare altro (in
originale era I wanna be so far
gone in you / so far nothing else will ever
do", da "So far gone" dei Thousand Foot Krutch). L’elemento
di
condivisione, neanche a dirlo, era il sangue che Sigyn offre a Loki.
Note
di stile: talune ripetizioni sono efficaci ai fini della lettura,
mentre per
quanto concerne alcune mie scelte stilistiche (trattino – non
chiuso alla fine
come spesso usato da Mazzucco nelle edizioni Einaudi e virgola dopo
“e”) sono
da intendersi come precise scelte stilistiche e non come refusi.
Generalmente,
la “mia” Sigyn sceglie Loki; anche qui lo fa, si
innamora di lui ancora prima
di mangiare il pomo. E allora, le Norne avevano ragione? Che ne dite?
Ero
parecchio indecisa se postare o meno questa storia e la sua genesi non
è stata
facile per tante, tantissime ragioni: la vedete scritta e postata
“per colpa” ♥
di una serie persone che mi hanno sostenuta in questi non facilissimi
giorni. Augurandomi
che possa essere comunque stata di vostro gradimento, ringrazio chi
avrà la
forza di arrivare fin qui. E a chi ha ascoltato tutte le mie paturnie,
ovviamente.
Un
caro saluto,
Shilyss
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