Del dolce sapore di una maledizione

di shilyss
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dentro di te ***
Capitolo 2: *** Dentro di me ***



Capitolo 1
*** Dentro di te ***


 

Del dolce sapore di una maledizione

 

Dentro di te

 

Impossibile calmare i battiti del suo cuore, il respiro, il tremore che la sconvolgeva e partiva da dentro – dal centro di se stessa, dal punto più profondo e nascosto della sua anima stupita e sconvolta. Spalle al muro, i biondi capelli irrimediabilmente sciolti sulle spalle, Sigyn abbassò le ciglia scure, ma non ebbe la forza di scostare la mano dal cuore dolorante e dal battito irregolare, primo, inequivocabile, segno di un destino assurdo e beffardo. Nevicava. Piccoli fiocchi bianchi danzavano nell’aria rendendo l’atmosfera ovattata, onirica, irreale. Nel silenzio fatato di quell’istante fuori dal tempo, osò chiedersi se non stesse sognando. Se non fosse immersa in un incubo, uno di quelli così vividi e reali che rimangono appiccicati all’anima anche al risveglio, oscuri e densi come presagi. Le mancava l’aria; sentiva la testa leggera e le gambe troppo pesanti e pensò che sarebbe svenuta, perché il dolore, per le Norne, quello, era reale: partiva dal centro del cuore e si irradiava in ogni vena, bruciante e assoluto. Si accasciò lentamente, ripiegandosi come se potesse, tramite quel gesto istintivo, proteggersi.

Aveva immaginato per sé un futuro diverso Sigyn, dea della fedeltà per un disegno imperscrutabile di Skuld. Fedele al suo cuore e fiera di quest’interpretazione del fato, aveva attraversato con sicura grazia ogni momento della sua esistenza, fino a dimenticarsi completamente della profezia della Voluspa, ancora troppo lontana nel tempo e nello spazio. Anzi, era arrivata a sperare che le Norne non avessero intrecciato il filo rosso del suo destino con nessuno. Una prospettiva rara che, dopo un iniziale smarrimento, alla fine si era rivelata decisamente consolante, persino auspicabile. Nessun laccio significava essere liberi di decidere per sé senza vincoli imposti dal caso, perché c’era qualcosa di spaventoso e magnifico, nell’attrazione inequivocabile che legava ogni essere vivente all’altra metà della sua anima perduta e ritrovata. Un annullamento che dicevano fosse la sublimazione di ogni desiderio, anelito, speranza, ma che suggeriva anche l’instaurarsi di una schiavitù eterna, di un legame che aveva il sapore di una maledizione. In un mondo dove non c’è scelta e anche la morte è scritta tra le righe di una vecchia profezia pronunciata da una veggente cieca e forse folle, l’amore imposto dal destino è solo l’ennesima catena.

 

Dei passi si confusero con il battito forsennato del suo cuore. Era Thor. Le si avvicinò pallido e nervoso, con le labbra tirate e un’ombra cupa che gli velava lo sguardo franco e azzurro. Non dormiva da troppe ore e sul suo volto virile c’erano ancora le tracce inconfondibili dell’ultima battaglia, vinta per un soffio. Le sue spalle larghe e possenti erano leggermente incurvate, schiacciate da un peso inesorabile, da una disperazione stanca e senza soluzione. Il suo amore, pensò Sigyn amara, aveva la purezza della spontaneità e della scelta. Non era scritto nel cuore né scorreva nelle vene; per questo era perfetto. Gli invidiò la possibilità di guardarsi attorno e amare chi volesse. Non come lei, che non osava nemmeno pensare al suo destino già segnato.

“Vi appartenete,” le disse a bruciapelo, senza mezzi termini. “Mio fratello sta morendo e voi due vi appartenete.”

 

Sigyn si morse le labbra e sostenne il suo sguardo, ma non riuscì ad alzarsi. Il dolore la inchiodava ancora contro quella parete. La frase del principe degli Asi era, allo stesso tempo, un ordine e una supplica e un ammonimento su cui gravava il peso di un fato tremendo. Se lui morirà, morirai anche tu. Non fisicamente, ma dentro. La tua anima si prosciugherà e ti sentirai, fino alla Voluspa, vuota, spezzata, incompleta. Il tonante le tese una mano, ma lei scosse il capo e, traballando, si rialzò da sola, seguendolo attraverso i corridoi zeppi di barelle, feriti, guaritori. Rifecero lo stesso tragitto che la ragazza aveva percorso correndo non più di una manciata di minuti prima: un lasso di tempo che, nella mente di Sigyn, si era ormai dilatato a dismisura, come avviene talvolta quando si sogna. Le sembrò che fossero passati anni, decenni dal momento in cui il fato le si era rivelato bruciandole il cuore. Con occhi pietosi, prestò attenzione a ciò che prima aveva notato, sì, ma non abbastanza. Asgard aveva vinto l’ultima, atroce battaglia, ma non la guerra e il prezzo che aveva dovuto pagare per poter sventolare, ancora una volta, i vessilli conquistati dei nemici sconfitti, era stato altissimo.

 

Loki di Asgard volse con difficoltà il capo, vedendoli arrivare. Puntò loro addosso i suoi occhi febbricitanti quasi trasparenti, color dell’acqua, e provò a increspare le labbra in qualcosa che assomigliava a un ghigno mesto. Respirava a fatica. Il petto nudo, coperto solo dalle bende intrise di sangue, si alzava e abbassava a un ritmo che suggeriva quanto gli costasse anche solo tenere le palpebre aperte.

La vide avanzare verso il letto su cui forse sarebbe morto – che fine indegna, per un Ase, morire sotto l’occhio pietoso di un guaritore, anziché nel fango della battaglia – e avvertì di nuovo quello strappo all’altezza del cuore. S’inumidì le labbra nel tentativo di far uscire dalla gola l’ennesima delle sue frasi beffarde, pungenti, affilate come rasoi. Non gli riuscì.

Vide Sigyn tirare su la manica dell’abito per mostrare al guaritore la pelle bianca, mentre quello le stringeva un laccio attorno al braccio e le infilava un ago sotto la pelle. La osservò serrare le labbra, incrociare con i suoi gli occhi grigi, liquidi, dolci. L’aveva ammirata? Le Norne avevano deciso che i fili delle loro vite avrebbero dovuto intrecciarsi insieme, fondendosi in una cosa sola come il sangue che avrebbero condiviso. Sigyn, pallida e seria in volto, non guardava l’ago, ma continuava a fissare lui. Loki Laufeyson aveva fatto ogni cosa in suo potere per evitare quel momento e ingannare le Norne. Sentì il sangue della ragazza fluirgli nelle vene, avvertì, grazie ai sensi acuiti dal seiðr, il potere di quel liquido vermiglio che avrebbe impedito al suo cuore di fermarsi, sentì le sue membra contrarsi sotto la spinta di quell’impulso vitale che il caso aveva voluto derivasse da lei, solo da lei.

“È un’aberrazione unire la fedeltà all’inganno. È un errore delle Norne, una beffa del destino.” Raccolse le parole e disse questo, prima di perdere i sensi.

 

 

“Devi stenderti. Sei pallida, dovresti riposare.” La voce di Thor era carica di qualcosa a metà strada tra il senso di colpa e l’imbarazzo.

Sigyn parve non ascoltarlo. Era rigidamente seduta accanto al dio dell’inganno, intenta a scrutarne ogni lineamento e a farlo suo. Non era la prima volta che lo vedeva, ma la consapevolezza di essere legata a lui per sempre e che fosse vivo grazie a lei, glielo fece apparire improvvisamente sotto una luce nuova, diversa, strana. Si soffermò sulla mascella affilata, sul naso diritto e virile, sulle sopracciglia scure, sulle labbra sottili appena segnate da una vecchia cicatrice rimediata, chissà come, in battaglia. I suoi occhi scivolarono sul fisico slanciato e asciutto, incredibilmente tonico, fatto di muscoli e nervi pronti a scattare. Le numerose fasciature non riuscivano a nascondere le forme scultoree del suo corpo. Petto ampio e largo, torace di guerriero, braccia scolpite dall’uso costante e prolungato dei suoi pugnali affilati. Nemmeno ora che era privo di sensi, Loki sembrava innocuo. C’era, in lui, una perenne tensione che le fece pensare alle fiamme guizzanti di un falò che si rincorrevano, lambendosi e sfiorandosi. Era bello, certo. Di più, era perfetto. L’aveva mai pensato? Prima di quel pomeriggio, era mai giunta a quella considerazione o il ragionamento appena fatto era solo frutto del destino?

Alle volte, le sue amiche si erano divertite a commentare le gesta eroiche degli affascinanti figli di Odino, per poi lanciarsi in paragoni e apprezzamenti interrotti da risatine basse e imbarazzate. Alla domanda secca su chi dei due preferisse, Sigyn aveva sempre risposto sicura che, certamente, come tutte, avrebbe desiderato essere corteggiata da Thor, ma il pensiero di Loki e delle tenebre che si tirava appresso le aggrovigliava lo stomaco, generando una ridda di sensazioni che non aveva mai avuto il coraggio di confessare. Si era ritrovata più volte a detestare, però, le amiche più impavide che osavano dar voce a ciò che lei non sapeva nemmeno se era giusto provare: il figlio ribelle di Odino era bello, e non aveva importanza che si dedicasse allo studio del seiðr e padroneggiasse anche le arti più oscure, né che le sue abilità diplomatiche si sposassero fin troppo spesso con una crudeltà d’intenti rara. Chi era, Loki, per lei?

 

Thor le posò una delle sue mani grandi e forti sulla spalla e Sigyn, finalmente, si riscosse. “Potrei servirgli ancora,” gli ricordò con voce atona. “Hai sentito cos’ha detto il guaritore.”

“Sei sfinita.”

Lei si voltò appena, increspando le labbra in un sorriso mesto. “Ti dispiace. Adesso ti dispiace.”

Accanto a loro, Loki era ancora privo di sensi, ma il colorito leggermente più roseo indicava come, lentamente, si stesse riprendendo, vincendo la feroce battaglia contro la morte che l’aveva portato a un passo dai cancelli di Hel. Un braccio elegante dell’Ase giaceva abbandonato sopra coperta e Sigyn si domandò se fosse giusto o lecito, prendere la mano dell’ingannatore tra le sue. Se lui se ne sarebbe accorto, se quel tocco lo avrebbe consolato in qualche modo. Era la sua anima gemella e il destino aveva sancito che avrebbero dovuto amarsi e innamorarsi, ma lei non era certa di provare qualcosa se non vuoto, sgomento, terrore. La blanda fascinazione che il principe cadetto le suscitava non poteva essere quel sentimento profondo e totale che spezzava le vene, lasciava sfiniti.

Thor si schiarì la voce. “Non lo sapevo.”

Era sincero, Sigyn ne era consapevole, eppure non riuscì a perdonargli la violenza e la mancanza di tatto che le aveva dimostrato nelle ultime due ore. Non si era fatto scrupolo alcuno nell’irrompere nella sua casa trascinandola via e gridando che doveva fare il suo dovere e aiutarlo. Ai suoi genitori sbigottiti e preoccupati, ma soprattutto a lei, aveva regalato la verità così com’era, nuda e cruda, senza abbellimenti né giustificazioni. Non c’era tempo, certo. La vita del dio degli inganni era appesa a un filo sottilissimo e già i suoi occhi incredibilmente verdi avevano iniziato a velarsi. Senza il tuo sangue, mio fratello morirà. Sei la sua anima gemella.

 

“Per quello che vale,” proseguì il tonante con un sospiro, gettando un’occhiata preoccupata al letto dove Loki giaceva ancora privo di conoscenza, “l’ho saputo oggi anche io ed ero sconvolto quanto te. Posso immaginare come tu ti senta, adesso.”

Un sorriso triste, dita che tormentavano la gonna di velluto scuro. “No, non puoi.”

“Sigyn, è il destino.”

“Voglio rimanere sola. E preferisco rimanere qui, in questa stanza con lui, ma non per il motivo che immaginate tu o i guaritori.”

 

Thor parlò con gli inservienti. Dopo qualche minuto, le portarono una branda dove potesse stendersi, una coperta, una bevanda calda e nutriente che fosse in grado di scaldarle l’animo spezzato, costretto in un vincolo che le sembrava alieno, che cozzava contro i suoi principii, ideali, sogni. Loki.

Un nome breve, immediato, composto di due sole sillabe, capace, però, di racchiudere al suo interno promesse oscure e un destino infausto. Era il figlio maledetto di Odino, l’astuto principe e mago che si divertiva a seminare e incantare, imbrogliare e truffare. Una mente brillante e astuta quanto letale, che non si era fatta scrupolo di mentire e corrompere perché bruciata da una sete di potere che, forse, nemmeno il trono di Asgard avrebbe potuto saziare fino in fondo. Occhi verdi, sguardo inquieto, voce ironica sempre in bilico tra verità e menzogna. Condannato e fuggito dalla sua prigionia per eludere il Titano che, alla fine, lo aveva quasi ucciso. Ecco l’uomo che Sigyn avrebbe dovuto amare.

 

“Te lo chiedo di nuovo: posso fare qualcosa per te?”

La voce di Thor era stanca, eppure non priva di una nota gentile. Ora che lei aveva fatto ciò che doveva e le condizioni del fratello apparivano, seppur critiche, stabili, ogni traccia della furia con cui l’aveva trascinata presso i guaritori era svanita.

Sigyn sorseggiò la bevanda calda, concentrandosi sul volto ancora pallido di Loki. Esitò un momento, perché ciò che si apprestava a chiedere al dio del tuono contravveniva alle leggi di Asgard, ma ricordò le ultime parole che l’ingannatore aveva pronunciato prima di perdere i sensi e pensò che avesse ragione: la fedeltà e l’inganno insieme erano un’aberrazione, un ossimoro. Eppure.

“Portami uno dei pomi di Iðunn[1].”

“Sei troppo giovane,” sospirò Thor scuotendo la testa.

“Voglio sapere cosa si sente. Le Norne mi hanno legata a tuo fratello: se mangerò la mela, m’innamorerò di lui, scoprirò che è il solo che voglio e posso amare. Così dicono le nostre leggi. Prima o poi deve accadere comunque, no?”

“Ti faresti solo più male. Hai la prova che è vero. È vivo grazie a te.” Il primo figlio di Odino si rese conto di capire il senso della sua richiesta. Avrebbe violato la consuetudine degli Aesir, vero, ma in fondo lui non era stato costretto a fare lo stesso per salvare la vita di Loki? Non le aveva imposto un fardello che suo fratello, da parte sua, aveva accuratamente tenuto nascosto non solo a lei, ma a chiunque?

“È diverso, Thor. Lo sai.”

 

Thor aggrottò la fronte, incerto sul da farsi. Uscì dalla stanza avvolta nella penombra, limitandosi a lanciare solamente un ultimo sguardo alla figura supina del fratello e a quella, sottile, della ragazza. Anime gemelle. Gli tornò alla mente il lampo di divertita sfiducia che illuminava gli occhi verdi di un giovanissimo Loki quando, per una ragione o per l’altra, si ritrovavano a parlare dell’argomento. Già allora, i discorsi del futuro dio degli inganni erano intrisi di una logica lucidissima, inscalfibile, razionale. Sosteneva si trattasse di autosuggestione. Di un’illusione, in cui il malcapitato di turno sprofondava perché vittima della superstizione che girava attorno a quel concetto di predestinazione che lui riteneva fondamentalmente ingiusto. Con il passare del tempo, l’esperienza aveva avuto modo di mostrare a Loki gli effetti della presunta, enorme bugia. Impassibile, ma forse solo all’apparenza, era stato costretto a valutare con occhio critico come i destini che le Norne tessevano e intrecciavano con apparente disinteresse si fondessero effettivamente gli uni con gli altri. L’anima gemella non era un mito o una fiaba romantica, ma esisteva davvero: altrimenti, come riuscire a spiegare la forza dei legami che si venivano a creare da un momento all’altro? Donne e uomini che, fino al giorno prima, non si erano mai nemmeno guardati, dopo aver mangiato i pomi di Iðunn, non solo cristallizzavano il loro aspetto nella perenne giovinezza propria degli Aesir, ma si guardavano con occhi nuovi e cadevano nella trappola di un’attrazione fatale che c’era perché così era stato scritto.

Quando era toccato a Loki e a Thor, di diventare adulti e mordere il frutto della conoscenza, il cibo degli dèi, i fratelli si erano guardati negli occhi per cercare una traccia qualsiasi del mutamento. Nessuno dei due aveva avvertito alcuna differenza. Padre Tutto e le antichissime leggi degli Aesir avevano stabilito fosse giunto per loro il momento di fermare il tempo e i giovani principi, che scalpitavano per diventare adulti, avevano adempiuto senza riflettere troppo sulle implicazioni che il morso dato alla mela avrebbe comportato nelle loro vite. Combattevano già da anni, del resto, da quando avevano le guance lisce come quelle delle ragazze, perché così vuole la tradizione degli Aesir. Loki e Thor, giovani, arroganti e tronfi com’erano, non si erano risparmiati mai nulla, trascinati dal desiderio di veder brillare, nell’unico occhio di Odino, una scintilla, una sola, d’orgoglio. Così avevano mangiato il pomo gustandone la polpa dolciastra ed erano diventati uomini, pur senza esserlo davvero. Semplicemente, avevano compiuto un rito di passaggio che li avrebbe portati, presto, a divenire tali, aprendo alle Norne la possibilità di riconoscere – sentire – chi fosse lei, l’anima gemella, l’altra metà del proprio cielo.

All’inizio, avevano scherzato a lungo sul fiabesco e strano incontro. Erano ragazzi, dopotutto. Nelle taverne dove andavano a festeggiare la buona riuscita di qualche prodezza o durante i banchetti allietati da qualche ospite straniera o da ancelle particolarmente affascinanti, entrambi avevano finto platealmente d’innamorarsi in virtù del goliardico impulso a gonfiare ogni evento, finanche l’attrazione, attribuendogli connotati esagerati, farseschi. Giocavano e, così facendo, dissacravano il timore di un legame che appariva come odioso. L’ombra cupa e incombente dell’agognato Hliðskjálf aveva fatto il resto, cancellando dai loro volti le risate e gli scherzi legati a quel destino non cercato né voluto – donare la propria anima a un altro essere vivente in virtù di qualcosa deciso da Skuld[2], che cosa assurda – ma mentre Thor aveva continuato a guardarsi distrattamente attorno senza trovare in nessun luogo l’anima gemella promessa, Loki, invece, l’aveva incontrata. E non gliene aveva fatto parola.

 

Il dio del tuono non avrebbe dovuto stupirsi per quella scelta, in fondo. Suo fratello era questo. Un bugiardo, un mistificatore, dotato d’una mente scaltra quanto contorta. Dietro a quel suo ghigno astuto, perennemente increspato, si era nascosta, a suo tempo, l’ira terribile che lo aveva spinto a rivelare ai giganti di ghiaccio di Jotunheim i sentieri noti a pochissimi che conducevano ad Asgard. Lo aveva fatto per mettersi in luce con Odino, per persuaderlo di essere lui il figlio degno, per vincere una partita truccata in partenza. Loki era stato al suo fianco per secoli. Insieme avevano giocato, vissuto, lottato fino a prevedere esattamente l’uno le mosse dell’altro, ma, nonostante questo, suo fratello gli aveva tenuto nascosto, per chissà quanto tempo, di aver incontrato la propria anima gemella. Sentiva di essere stato tradito, eppure, allo stesso tempo, non resisteva all’impulso di domandarsi cosa potesse aver significato, tenere dentro di sé così a lungo una simile consapevolezza, correre un rischio tanto grande. Il perché non lo avesse rivelato alla diretta interessata, invece, gli era fin troppo chiaro, purtroppo.

 

 

 

La morte aveva un tocco freddo, penetrante e, forse, persino viscido.

A Loki Laufeyson restò in mente questo pensiero, mentre riemergeva a fatica dalle nebbie d’oblio in cui era precipitato. Riprendere conoscenza fu doloroso. Il suo corpo d’Ase – di Jotunn, in realtà – non era avvezzo a una tale sofferenza: mai, nella sua lunga vita di guerriero scaltro ed esperto, aveva riportato ferite tanto gravi. Era arrivato lì con uno squarcio orrendo. Lo avevano ricucito e, di questo, ne aveva contezza nella sofferenza sparsa che gli mordeva i muscoli a ogni movimento, respiro, battito del cuore, quasi. Gli ci volle del tempo, per ritornare in sé e capire esattamente dove fosse, cos’era successo. I ricordi si mescolavano continuamente ai sogni, alle idee e agli incubi, creando una matassa che persino lui, il brillante dio dell’inganno, trovò dapprincipio troppo complesso sciogliere.

Iniziò aggrappandosi a delle certezze e s’accorse, con un brivido, che erano poche.

 

Il Titano lo voleva morto perché non gli era riuscito di controllarlo, non fino in fondo, almeno. Loki si era liberato dagli influssi della Gemma della Mente che avevano esasperato quanto già c’era di oscuro nel suo petto, slegandosi dalla tenaglia di una schiavitù intollerabile; aveva alzato fieramente il capo ribellandosi contro il piano aberrante di un mostro[3].

Tentò di muoversi, ma i punti ancora freschi gli strapparono un gemito basso.

Il Titano lo voleva morto perché non poteva controllare il caos; meglio spezzarlo, allora, punendo l’irriverenza di colui che aveva osato, per curiosità o bisogno, farsi consumare dal potere delle Gemme al solo scopo di scoprire quale fosse il punto di rottura, il limite da non superare. Un gesto inevitabile e razionale, intrapreso in virtù di un ostinato desiderio di sopravvivere in attesa di tempi migliori.

La nascita è una misteriosa e imprevedibile scommessa delle Norne, ma la morte, quella, può essere scelta, decisa. La perenne oscillazione tra il male e il bene tra cui il dio degli inganni si era diviso nel corso della sua esistenza in nome di una neutralità glaciale e spesso egoistica, si era infine piegata verso l’alleanza necessaria con Thor.

Loki recuperò il ricordo del momento preciso in cui lui e il fratello si erano lanciati lo sguardo d’intesa e l’impercettibile sorriso che li aveva trasformati, di nuovo, nella squadra perfetta che aveva reso Asgard grande. Sì, le Norne avevano tessuto un destino crudele, per Loki figlio di Laufey e di Odino: lasciato a morire su un picco di ghiaccio, era stato salvato solamente dalla pietà mescolata all’arguzia di un re astuto in cerca dell’ennesima reliquia da rubare, ma aveva avuto finalmente l’occasione di poter morire in maniera degna, da re, sul campo di battaglia.

La sua fibra particolarmente robusta, tuttavia, l’aveva in qualche modo tradito, condannandolo a un’agonia da cui, forse, non si sarebbe ripreso. Se la lancia con cui Thanos lo aveva trafitto fosse riuscita a ucciderlo sul colpo, il suo destino si sarebbe compiuto; invece, era ancora più o meno vivo e la lotta contro il Titano e la morte era ancora aperta, sebbene disperata.

Deglutì a fatica. Cercò nella sua mente ancora annebbiata dai farmaci, l’immagine di Thor che, disperato, invocava il suo nome ordinandogli di sopravvivere, tamponava la ferita orrenda con le mani e tentava di tenerlo sveglio; avrebbe fatto qualsiasi cosa per non vederlo morire un’altra volta davanti ai suoi occhi. Una consapevolezza vaga e nuova lo raggiunse: batté più volte le palpebre per svegliarsi totalmente, definitivamente. Era in una delle stanze dei guaritori perché suo fratello, alla fine, era riuscito a portarlo in salvo, ma qualcosa era andato storto, terribilmente. Volse a fatica il capo di lato: accanto al suo letto, c’era una piccola branda su cui era stesa lei, per le Norne. Lei.

La memoria della battaglia lasciò posto alle immagini sbiadite e confuse degli ultimi momenti concitati che aveva vissuto prima di perdere definitivamente i sensi. Rivide i volti pallidi e terrorizzati dei guaritori, sorpresi che fosse ancora vivo nonostante l’orrenda ferita e tutto il sangue perso, disillusi all’idea che potesse superare la notte. Udì nuovamente la voce stentorea di Thor maledire e minacciare di ucciderli a mani nude se non avessero fatto qualcosa, avvertì ancora una volta il brivido di terrore che lo aveva colto quando aveva capito che suo fratello si era detto disposto a cedergli il suo sangue lì, ora. Raccogliendo le ultime forze rimaste, aveva strappato dal proprio braccio l’ago che doveva servire a trasferire nelle sue vene il fluido vitale del fratello[4]. Si erano guardati negli occhi per un momento e Loki, ormai allo stremo e tormentato dal dolore, gli aveva rivelato quel segreto che celava da anni, che non aveva osato neppure ammettere a se stesso. La voce era uscita dalla sua gola simile a un rantolo spezzato.

“Sigyn! Tu non puoi, tu mi ucciderai. Solo lei, serve lei… serve il suo sangue.” Le ultime parole, le aveva pronunciate boccheggiando. “È l’anima gemella, Thor.”



[1] Nella mitologia norrena, i pomi di Idunn servivano a mantenere gli dèi giovani. In questa storia hanno anche un’altra funzione, come si scoprirà leggendo: servono a indicare alle persone chi è la loro anima gemella, la soulmate.

[2] Skuld è la Norna che fila il futuro, Urd il passato e Verdandi il presente. La funzione delle Norne scaldiche è simile a quella delle Parche.

[3] Le ultime dichiarazioni della Marvel sostengono che Loki fosse sotto l’influenza della Gemma della Mente. Ho cercato di coniugare il canone con quanto si vede nei film e rendere coerente questa “brillante” trovata.

[4] Essendo un soulmate! AU ci troviamo in una realtà alternativa dominata da codeste regole. Per quanto concerne la trasfusione: Asgard possiede astronavi e i suoi abitanti sanno usare armi automatiche; è ragionevole che pur in un ambiente differente dal nostro, dove i medici diventano i guaritori, alcune pratiche come la trasfusione esistano e vengano svolte accanto alle pratiche runiche (?).

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Capitolo 2
*** Dentro di me ***


Dentro di me

 

 

 

Sigyn dormiva rannicchiata con le ginocchia al petto, i biondi capelli sparsi sul cuscino, le labbra dolcemente schiuse. Un’immagine delicata e fragile che la penombra in cui era avvolta la stanza contribuiva a rendere più eterea, irreale. Loki Laufeyson piegò le labbra in una smorfia indispettita, vedendola al suo capezzale. Erano anni che limitava ogni incontro, evitava qualsiasi contatto, per ingannare le Norne e dir loro che si erano sbagliate, su lui e la ragazza. Che la Lingua d’Argento di Asgard non aveva padroni né catene, né tantomeno morbidi lacci di seta a stringergli il petto. Suo fratello si era irrigidito e aveva fatto un passo indietro, quando aveva ammesso che lei c’era, esisteva. Era corso a cercarla senza voltarsi, nascondendo nel silenzio la delusione per essere stato tagliato fuori dalla sua vita. Loki s’inumidì le labbra secche e riarse per svegliarla e mandarla via, ma scoprì di avere la gola secca e di non riuscire, lui che era signore e padrone della retorica e dei bei discorsi, ad articolare nemmeno una frase. Colpa delle pozioni curative che ancora lo stordivano. Si mosse appena e il movimento, seppur limitato, gli strappò un lamento cupo. Quando tornò a guardarla, Sigyn lo stava fissando.

 

La ragazza si sollevò leggermente. Era scarmigliata, pallida, visibilmente stanca. Non dovevano essere passate troppe ore, da quando aveva offerto il suo braccio candido e sottile per donargli la vita che gli stava sfuggendo dalle dita. Il fatto di vederlo sveglio la dovette sorprendere e spaventare, perché si tirò a sedere e tentò di dargli sollievo bagnandogli le labbra con dell’acqua, posando una mano sulla fronte per capire se avesse la febbre. Tutti gesti che aveva senz’altro già fatto diverse volte, ma che ora, sapendolo sveglio, le risultavano sicuramente innaturali e difficili. Dovuti, persino.

“Chiedimelo.” La voce di Loki suonò come un ordine rauco.

Sigyn s’immobilizzò, torcendo tra le dita sottili la pezza bagnata. Gli concesse un’occhiata lunga e severa, poi si sedette rigidamente al suo capezzale, stando ben attenta a non toccarlo più del dovuto, a non sfiorarlo neanche.

“Sei rimasto privo di conoscenza a lungo. I guaritori hanno dovuto usare molto seiðr e infinite cure, per evitare che tu raggiungessi Hel. Non è il momento per chiederti niente.”

Il dio degli inganni non aveva abbastanza forza per ironizzare sulle sue condizioni, come altrimenti senz’altro avrebbe fatto, né per chiederle se anche lei, come tutti, si era lasciata trasportare dall’illusione e dal senso del dovere ed era accanto a lui solo perché doveva esserci, nient’altro.

Aggrottò la fronte, rendendosi conto di essere ancora troppo debole per affrontare un discorso, ma curioso, questo sì, di vedere la maschera che Sigyn indossava creparsi, cadere a pezzi.

Chiuse una mano a pugno e colpì il materasso: il gesto improvviso gli causò una fitta lacerante.

“Chiedimelo! Adesso!”

Sigyn si alzò circospetta, continuando a fissarlo con quei suoi occhi grandi e spaventati, rotondi e grigi. Quanto, del suo sangue, era servito? Loki valutò la figura esile e sottile della ragazza e la paragonò col suo fisico alto e slanciato, di guerriero. L’analisi lo lasciò insoddisfatto. Non era rimasta lì solo per un mero senso del dovere, no. Per rimetterlo in sesto ed evitare che morisse, a lei era stato tolto forse persino più del dovuto e quella branda posta accanto alla sua era servita per consentirle di riprendersi da un gesto che l’aveva lasciata stanca, sfinita e bisognosa di cure.  Seminascosta dalla stoffa della veste che indossava, l’Ase vide la macchia scura e violacea che deturpava il braccio candido della ragazza. Durante il necessario scambio di sangue, una delle vene si era spezzata.

 

“Da quanto tempo?” Le labbra di Sigyn tremavano. “Da quanto, lo sai?”

Il dio degli inganni pensò che fosse la domanda giusta e le rivolse un sorriso breve e laterale, nient’altro che l’eco sbiadita del ghigno scaltro che era solito rivolgere ad avversari e alleati. Sostenne il suo sguardo con la fierezza del re che avrebbe potuto – dovuto – essere.

“Anni.”

Lei impallidì. “Menti.” La voce le era uscita simile a un sussurro sottile.

“Vorresti che mentissi? Che ti ingannassi?”

“Lo hai già fatto. Nascondere una cosa così importante è stato…”

“Orribile? Spaventoso? Contro la natura e le regole di noi Aesir?” La stava incalzando per provocarla e costringerla a fuggire, per insinuare nei suoi occhi grigi il sospetto. “Non è la prima delle leggi che infrango, né sarà l’ultima. Sai come mi chiamano, cos’ho fatto.”

“Mentre eri sotto effetto dei sedativi, hai parlato.”

Una risata secca e ironica, dolorante. “Mi pareva di aver augurato a Thor di farsi sbranare da un troll, in effetti…”

“Più volte.” Il tono di Sigyn ora si era fatto più dolce, gentile. “Quello gliel’hai augurato più volte, ma hai parlato anche d’altro. Hai chiesto di fermare Odino, di non organizzare nessuna cerimonia, nonostante il vincolo che ci lega.”

Le labbra dell’Ase ferito si piegarono in una smorfia. “E cosa ci lega, Sigyn?”

“Le Norne hanno intrecciato il nostro destino. Nelle tue vene scorre il mio sangue.”

“È una maledizione, quella che ci unisce. Una suggestione, un inganno. Dicono che le nostre anime si completano: tre esseri fuori dal tempo e dallo spazio l’hanno deciso, ma allora rispondimi, piccola, cara, spaventata Sigyn: perché di fronte all’altra metà del tuo cielo provi terrore? Perché l’idea di dovermi amare è così spaventosa, atroce? Lo vedo nel tuo sguardo. Ti senti in trappola.”

La ragazza sussultò, colpita dall’arguzia maligna di quelle parole. Era come se Loki, pure se costretto in un letto e ferito, con i suoi occhi freddi e verdi avesse avuto il potere di scandagliarle il cuore. Aveva parlato, e le sue frasi non erano suonate come un’ipotesi o il tentativo di comprenderla: possedevano il sapore amaro di una sentenza implacabile, assoluta. Ma allora dov’era, l’inganno? Lingua d’Argento le aveva scavato il cuore rivelandole il terrore che aveva popolato i suoi incubi nelle ultime, dolorose ore come se l’avesse visto.

Gli rispose accusandolo. “In trappola, dici? Tu hai mangiato il frutto della conoscenza degli dèi; tu hai addentato il pomo di Iðunn e, pur facendolo, non hai rispettato la nostra tradizione, non mi hai chiesta in moglie. Tu mi hai nascosto ogni cosa. Tu sei il dio degli inganni che ha tradito Asgard, che ha ucciso il re di Jotunheim. Non so davvero chi sei né cosa vuoi, Loki figlio di Odino.”

“Ogni cosa che posso conquistare, tranne un legame imposto. Ogni cosa tranne te, noi.” L’ingannatore lo disse con lentezza, sforzandosi di raccogliere le parole. Il discorso, seppur breve, aveva esaurito le sue energie non ancora ritrovate di convalescente, senza però fiaccare il sarcasmo perfido. “Ti ringrazio per avermi salvato: metà dell’universo ti odierà per questo, ma io ti sono comunque riconoscente.”

Incapace di rimanere anche solo un minuto di più nella stanza, bisognosa d’aria, Sigyn si allontanò senza nemmeno voltarsi, quasi fuggendo.

 

 

Gli appartieni, sei sua come lui è tuo, tanto che l’unica creatura in grado di salvargli la vita, in tutto l’universo, sei tu. Parole martellanti che avevano il sapore di una maledizione e riuscivano a dare vita a una ridda di domande destinate a non avere quasi nessuna risposta. La consuetudine li avrebbe obbligati a stare insieme, le Norne avevano unito tra loro i fili rossi del loro fato. Loki avrebbe dovuto chiedere la sua mano e il segreto che si era ostinato a celare – a negare – l’aveva quasi portato alla tomba.

Da soli, avrebbero sofferto. Sigyn raggiunse l’esterno, lasciandosi alle spalle la severa struttura dove i guaritori, avvolti nelle loro lunghe tuniche bianche, s’affaccendavano celeri e silenziosi fingendo di non guardarla.

Il dio degli inganni non era un totale estraneo. C’era una conoscenza superficiale, blanda, tra loro. Diverse volte si erano incrociati nella ricca biblioteca di Asgard, ma il principe cadetto non le aveva mai riservato altro che qualche occhiata lunga e attenta e un saluto lieve fatto col capo. Una volta, qualche anno prima, le serviva il medesimo testo che stava consultando lui e Loki l’aveva chiuso di scatto, porgendoglielo rapido con una smorfia quasi indispettita.

Poco tempo dopo, era avvenuto che Asgard vincesse una cruenta battaglia; si vociferava di come Odino fosse intenzionato a nominare il suo erede diretto di lì a poco[1]. L’idromele scorreva a fiumi, danzatrici e musici allietavano il banchetto con le loro canzoni allegre e incalzanti. Loki, un braccio al collo e un sorriso furbo sulle labbra sottili, raccontava le sue gesta eroiche – l’incantesimo di una nebbia fittissima che aveva permesso all’esercito Aesir di cogliere di sorpresa gli avversari – affascinando le dame con cui, a turno, danzava. Anche quando si trovò di fronte a lei, ballò. A Sigyn parve che il ghigno sbieco e soddisfatto del bel principe mutasse in altro – disappunto, probabilmente – e credette che l’ingannatore non la reputasse alla sua altezza o abbastanza bella. Si detestò per quel pensiero vanesio, perché non avrebbe dovuto interessarle l’opinione di un guerriero troppo tronfio e sicuro di sé. Loki la fece danzare esattamente come aveva fatto con le ragazze prima di lei, ma evitò di raccontarle aneddoti succulenti sulla battaglia da cui era uscito lievemente ferito, sì, ma trionfante. Così, Sigyn si era convinta che il principe cadetto la disprezzasse. L’inesperienza e la giovane età le avevano coperto gli occhi sulla probabile natura delle vere intenzioni del dio degli inganni: fuggire da un destino già scritto.

 

 

Rallentò il passo. Sottile e minuta com’era, si era indebolita terribilmente in quegli ultimi giorni. Si ritrovò stanca e spossata e fu per quello che non s’accorse immediatamente del canto. Era una nenia mormorata appena da una donna, una vecchia ballata che Sigyn aveva sentito infinite volte dalla bocca di sua nonna. Una di quelle che crediamo di non ascoltare e, invece, si scolpiscono nella nostra memoria per riemergere con un senso nuovo anni dopo: quand’era bambina aveva trovato il canto noioso e fin troppo infelice, ma, in quel momento, le strofe le salirono alle labbra colme di un significato nuovo, inaspettato, struggente. Sigyn seguì il suono della voce melodiosa che cantava e finì per avvicinarsi a una finestrella oltre cui un’anziana sposa si accomiatava per l’ultima volta, forse, dal vecchio consorte morente. Vorrei perdermi così tanto in te, da non voler più trovare altro, cantava la donna carezzando con dita lievi la fronte ormai calva dall’uomo riverso nel letto. Ogni suo movimento era carico d’una dolcezza totale, infinita. Si rese conto di stare osservando l’amore in una delle sue forme più totalizzanti e si sentì in colpa perché, con la sua presenza, violava la sacralità di un momento perfetto e doloroso assieme. Come mai la coppia aveva rinunciato a nutrirsi dei pomi di Iðunn? Quanti anni, decenni, secoli, avevano passato credendo che le Norne avessero unito il loro destino? Anche loro, come lei e Loki, quand’erano stati giovani si erano ritrovati sgomenti e furiosi di fronte a un fato imposto e, per questo, ritenuto ingiusto?

 

Vorrei perdermi così tanto in te, da non voler più trovare altro, diceva la strofa antica e mesta. Sigyn sentì il cuore batterle con più forza nel petto, perché anche lei si era persa: una parte del suo sangue scorreva nelle vene del dio degli inganni e si era mescolata col suo, consentendogli di sopravvivere all’orrenda ferita e guarire. Si era persa dentro di lui, aveva accantonato ogni cosa per potergli essere d’aiuto, ma davvero non voleva più trovare altro? Si sarebbe innamorata, mangiando il pomo? Lo era già? Ma che significava, poi, amare? I guaritori e le ancelle preposte alla cura dei malati avevano definito il suo comportamento congruo e nobile. Aveva fatto ciò che tutti si aspettavano – dedicarsi all’uomo scelto per lei dalle Norne fin quasi a mettere a repentaglio se stessa – ma, così facendo, era riuscita solo a scontentare lui, il furbo e scostante e volubile dio dell’inganno, che sosteneva a testa alta come l’amore imposto dal fato fosse una maledizione, nient’altro. Un’infezione del cuore, una suggestione, l’illusione su cui si reggeva un regno abitato da creature che venivano chiamate dèi destinate a vivere troppo a lungo e a congelarsi nelle proprie meschinità, debolezze, virtù. Non la voleva, come se ritenesse semplicemente ripugnante l’idea di trascorrere l’esistenza con lei, anzi, peggio: pareva che non ci fosse niente di più orrendo e ingiusto che il loro stare insieme, nell’universo tutto.

Sigyn si allontanò dalla finestra, lasciando la vecchia coppia alla sua tenerezza: è un’aberrazione unire la fedeltà all’inganno. È un errore delle Norne, una beffa del destino. Così aveva detto Loki quando, circondato dai guaritori per le orrende ferite, aveva posato gli occhi su di lei, riconoscendola prima di perdere i sensi. Nella fretta concitata di quei minuti terribili, Sigyn non aveva fatto abbastanza caso al modo in cui l’aveva fissata, ma ora, ripensandoci, le sembrò di aver trascurato un dettaglio importante, per poi chiedersi se non stesse inventando ad arte un ricordo per giustificare pensieri e intenzioni. Le pupille verdi di Loki l’avevano scrutata quasi trapassandola, ma c’era, in quello sgiardo, una luce incomprensibile, strana. Da interpretare e travisare. Era come se l’ingannatore avesse, di lei, una conoscenza profonda e intima. Le aveva confessato di conoscere da anni il responso delle Norne crudeli e allora Sigyn si chiese se l’Ase non si fosse messo a tenerla d’occhio per cercare di capire che radici possedesse il legame che pareva dovesse unirli. Eppure, forse, Loki mentiva, perché questo era il suo potere: era il dio scaltro e bugiardo che truffava e irretiva il prossimo, che lo incantava col suo sorriso lupesco e affilato, trascinandolo in una ridda di illusioni. Sigyn lo sapeva. Lo aveva visto mille volte corteggiare e convincere, insinuare e spiegare. Il brivido che le scorreva lungo la schiena di fronte a quelle labbra sottili leggermente segnate da una cicatrice ormai bianca, che si piegavano fin troppo spesso in un ghigno divertito e sarcastico, più volte l’avevano confusa e resa inquieta.

C’era sempre stato qualcosa di profondamente oscuro e sbagliato, in Loki.

 

 

 

“Sei tornata. Mossa prevedibile, ma sciocca.”

Loki stava decisamente meglio. Sebbene ancora costretto a letto, aveva trovato il modo per tenersi occupato; sopra le coperte, giacevano libri aperti e appunti scribacchiati. Sigyn rimase sulla soglia, esitante. Per alcuni giorni, aveva evitato accuratamente di recarsi nella stanza ampia e spaziosa del dio degli inganni mentre lui era sveglio. Il pensiero che fosse l’uomo della sua vita continuava a esserle estraneo, alieno. Era il tramonto. Una luce calda e rossastra filtrava dalle imposte rendendo l’atmosfera sospesa, quasi irreale. La ragazza avanzò fino a raggiungere il punto in cui c’era stata la branda dove aveva riposato, ora sostituita da una poltrona dai manici intarsiati con draghi marini, guerrieri e drakkar dalle prue snelle. Si sedette anche se lui non l’invitò a farlo. Si chiese se Loki potesse leggerle nella mente e scoprire che anche lei voleva violare la legge degli Aesir. Sarebbe stata costretta a farlo, perché attendere che trascorressero altri due cicli completi delle stagioni rimanendo con un simile peso sul cuore, non era qualcosa di accettabile né possibile. Meglio affrettare i tempi e mordere di nascosto il frutto proibito di Iðunn, allora.

Durante le sue brevi e tormentate visite notturne, il figlio cadetto di Odino dormiva sempre placidamente e, sul suo bel viso affilato, Sigyn non aveva scorto traccia alcuna del fuoco in grado di animarlo da sveglio. Cos’era, lei? La dea della fedeltà. Così avevano detto le Norne. E cosa significava, esattamente? Il respiro del dio degli inganni, abbandonato in chissà che sogni, era lento e profondo e, alla luce della luna, le sue fattezze di guerriero suggerivano l’idea di come fosse agile e svelto; cosa che, in effetti, corrispondeva a quanto aveva sentito dire più volte della Lingua d’Argento di Asgard, imprevedibile e rapida, pericolosa e terribile. Qualcosa continuava ad attirarla lì al suo capezzale; alcuni l’avrebbero chiamata attrazione, spiegando che si trattava del principio dell’inscindibile legame che li avrebbe uniti. Sigyn, invece, si sforzava di chiamarlo senso del dovere e curiosità, ma un paio di volte aveva osato ammirarlo e accarezzargli i capelli scuri, sfiorare il petto ampio e scoperto. Quel contatto l’aveva lasciata confusa e piena di ancora più domande.

 

“Cosa siamo, Loki?”

“Maledetti. Mi pareva di avertelo detto.” Aveva smesso di leggere non appena era entrata, mettendola ulteriormente a disagio con quel suo sguardo aguzzo e feroce.

Sigyn sospirò. “Le altre persone, nella nostra condizione, s’innamorano l’uno dell’altra. Per noi è diverso, hai ragione. L’idea di vivere tutta la mia esistenza con te mi spaventa.”

“Fai bene.”

“Quando tuo fratello mi ha portata qui, prima di perdere i sensi hai detto che unire la fedeltà all’inganno era un’aberrazione,” ricordò, “ma possiamo davvero ribellarci al destino?”

Lingua d’Argento sollevò fieramente il mento. Non sarebbe potuta che andare diversamente, tra di loro, ma c’era, nella voce di Sigyn, il principio di una nota accorata che non piacque all’Ase. Sapeva delle sue visite notturne rapide e brevi e intuiva, dal tormentarsi nervoso delle sue dita sottili, quanto fosse ancora profondamente scossa per quella rivelazione. Desiderava stargli lontana, ma non riusciva a tenere fede a quella promessa per più di qualche ora, lei, che era la dea della fedeltà.

 

Eppure, pensò Loki, Sigyn non era così. Non era da lei farsi mangiare l’anima da dubbi e confusioni; quell’esitare accanto al suo letto, quel tornare da lui in cerca di spiegazioni vane, era indice senz’altro di come anche lei stesse cadendo nella favola mesta delle anime costrette ad amarsi dal destino. L’aveva osservata a lungo, da quando le Norne erano riuscite a rivelargli il destino tessuto per lui. Si era messo in testa di studiarla per capire cos’avesse di speciale. Aveva scoperto che dietro l’aspetto grazioso c’era un’intelligenza acuta e attenta, uno spirito temperante che, quando si appassionava a talune cause, le difendeva con coerenza e costanza. La magia nascosta nel pomo della dea Iðunn gli si era rivelata tra gli scaffali polverosi della biblioteca, un lontano pomeriggio d’autunno. Lei era in piedi e leggeva un volume che aveva appena estratto da uno scaffale e non si era accorta che Loki la stava osservando. Se anche avesse alzato le ciglia nere verso il dio dell’inganno, tuttavia, non sarebbe cambiato nulla, perché lei non aveva ancora morso la mela incantata, per fortuna.

 

“Voglio sapere cosa si prova,” mormorò Sigyn, “voglio vedere le sbarre della mia prigione. Tu parli di un inganno, di una maledizione, ma saresti morto, se non avessi condiviso con te il mio sangue. Quindi questo legame è vero, è reale.”

“La dipendenza, la compatibilità lo è,” concesse Lingua d’Argento socchiudendo le palpebre. “Per giustificare la necessità di avere il più vicino possibile colui o colei che può salvarci la vita, ci siamo inventati la favola d’un amore eterno, a prima vista, a eterna vista, a ultima vista,” ironizzò amaro, chiudendo con un gesto secco il libro che aveva posato sulle gambe. “È solo il bisogno di sopravvivere, che ci lega.”

Sigyn si tese sulla sedia. Vorrei perdermi così tanto in te, da non voler più trovare altro, diceva la vecchia ballata che l’aveva fatta riflettere tanto a lungo sul senso di quella condivisione. Non desiderava appartenere al dio degli inganni, non riusciva a figurarsi tra le sue braccia o nel suo letto. Così si disse. Il bisogno impellente di essere lì, in quella stanza, era suggestione, curiosità. Nient’altro, non poteva essere nient’altro.

“Parli di vantaggi, ma tu, mantenendo il segreto, hai rischiato seriamente di morire. Perché?”

Loki non rispose immediatamente. Si concesse di guardare la sfumatura color miele dei capelli di Sigyn, di posare lo sguardo sull’arco ben delineato delle sue sopracciglia, sulle labbra probabilmente dolci, sul viso delicato. L’incanto delle Norne era qualcosa da cui sarebbe fuggito ancora e per sempre, anche se il prezzo da pagare sarebbe stato continuare a sognarla all’improvviso, perché questo era lei. Una luce scintillante impossibile da scacciare, che veniva a tormentare sogni di gloria e a scuotere ambizioni, ma senza spezzarle.

“Conosco il peso delle catene, cara Sigyn,” sorrise col tono di chi ha visto centinaia di cieli e di mondi. “Sono nato per essere re e ho provato l’ebbrezza di sedermi su un trono e il rancore per essere stato incarcerato. L’amore è una schiavitù da cui desidero liberarti.”

La sera avanzava lenta oltre le finestre. L’arancio e l’oro sfumavano leggermente verso il viola e l’azzurro e gli occhi del dio degli inganni, verdi e quasi trasparenti, a volte assumevano una sfumatura diversa, quasi cerulea.

“Lo dici come se lo conoscessi a fondo,” osò fargli notare la ragazza.

“Sei giovane.” Una smorfia attraversò il viso affilato dell’Ase. “Sei ancora troppo giovane. È attrazione, quella che senti, nient’altro. Se ti ci abbandonerai, sarà il caos.”

“Hai detto che hai scoperto anni fa che ero io. Cos’hai provato, allora? Cos’hai sentito? Cosa senti, ora?”

“Il peso di un vincolo che non ho chiesto,” fu la risposta secca e crudele. “Unire la fedeltà e l’inganno è un’aberrazione, è un’ingiustizia. Tutto qui.”

Sigyn tremò, scossa, come sempre, dal peso terribile di quelle parole. “Da allora combatti? Contro cosa stai lottando?”

“Non voglio legarti a me, Sigyn. Sono il dio degli inganni e non cambierò la mia natura o i miei desideri perché le Norne hanno deciso che devi esserci tu, al mio fianco. Fidati delle mie parole, non c’è pentimento, in me, per quello che ho fatto. Nemmeno adesso, neanche ora che il Titano ha deciso di volgere il capo verso i Nove Regni,” puntualizzò mascherando il brivido d’orrore che gli provocava il pensiero di Thanos. “Rifarei tutto, pagherò per ogni cosa, ma non m’importa. Non sono un eroe senza macchia, come mio fratello. Io sono il principe bugiardo, il truffatore di Asgard, il lupo in mezzo al gregge. Le Norne non possono averti condannata a pagare per le mie scelte, né io lo vorrei.” Un ghigno gli attraversò il bel viso affilato. “La verità è che Thor è stato troppo zelante, non avrebbe dovuto chiamarti.”

Di fronte a quella spiegazione, Sigyn pensò che avrebbe donato il proprio sangue non una, ma cento, mille volte a quel principe maledetto fiero e feroce, nobile e crudele, ambizioso e astuto. In qualche modo che ancora non sapeva descrivere a fondo, era nobile in ognuno dei suoi gesti, anche il più esecrabile. Gli cercò la mano e la prese tra le sue.

“Mi vuoi proteggere da te, Loki?”

L’Ase non ribatté.

S’impose di soffocare ancora una volta l’istinto primitivo che lo spingeva a prenderle il viso tra le mani e a baciarla, però. A prometterle regni e troni e poteri di cui a lei non sarebbe importato nulla, ma ai quali Lingua d’Argento non avrebbe saputo mai rinunciare, perché era proprio questo il dramma: il dio degli inganni desiderava avere tutto, ogni cosa, persino Sigyn, e non era in grado di rinunciare davvero a niente, Thor lo sapeva fin troppo bene. Eppure, legarla a sé era fuori discussione: l’avrebbe avuta per poi perderla, condannandola a esaltare la sua natura di dea della fedeltà imprigionandola in un’attesa senza fine, costringendola a dividere il peso di colpe non cercate né meritate, in una punizione eterna. Non l’avrebbe mai saputa amare con la dedizione e l’esclusività che lei meritava e glielo disse quella sera e lo ripeté quelle in cui lei, ostinata, ritornò.

 

Le raccontò come sarebbe stata infelice, insieme a lui, ad attenderlo invano in un letto troppo freddo, a implorare Odino di non punirlo con eccessiva severità, ad addormentarsi senza sapere sotto quali cieli lui fosse nascosto, in che trame avesse deciso di infilarsi, oppure scoprendolo e, per questo, soffrire ancora di più. Spiegò e immaginò ogni cosa e lo fece assaggiandole le labbra in una sera di pioggia, l’ultima che passarono insieme a dirsi perché dovevano ribellarsi alle Norne crudeli e cieche. Troppe volte l’aveva scacciata dai suoi sogni e dalle sue fantasie dicendosi che era il corpo sottile e ben fatto di lei, ad attirarlo, nient’altro. Che lo stesso trasporto, sepolto sotto strati d’indifferenza e inganni, avrebbe potuto nutrirlo per qualsiasi altra ragazza, che quel battito mancato del cuore non significava niente. Sì, Loki Laufeyson aveva lottato a lungo con ogni fibra del suo essere contro l’attrazione sbagliata verso Sigyn. Probabilmente, il desiderio di lei si era acuito proprio per colpa di quella voluta assenza, della rigida imposizione che si era dato di non cedere alla curiosità di sapere se fosse vera, la leggenda in cui erano intrappolati.

 

“Ti rinnego oggi, per non farti soffrire domani,” spiegò con le labbra ancora sopra le sue, le dita perse tra le ciocche bionde, un braccio a cingerle la vita stretta. Era, allo stesso tempo, un addio e una scommessa, quel bacio intenso a lungo cercato ed evitato, dato poche ore prima che l’ultima offensiva di Asgard contro l’immenso esercito di Thanos avesse inizio. Il pegno rubato d’un principe fiero e feroce che non avrebbe cambiato i suoi piani nemmeno in nome del vincolo imposto dalle Norne e sancito dai pomi di Iðunn. Le assaggiò le labbra, le sfiorò appena per poi gustarle con lentezza e scoprì che erano morbide e dolci da baciare e che Sigyn lo desiderava forse con la stessa intensità con cui lui voleva lei. Colpa dei fili rossi delle loro esistenze che erano stati intrecciati con indifferente perizia o delle parole che si erano scambiati mentre il giorno scivolava nella sera, nella quiete delle ampie stanze dei guaritori? O era la morte racchiusa nell’eco di uno schiocco, spettro invisibile e spaventoso, a rendere necessario quell’abbraccio febbricitante e disperato, l’ultimo e l’unico che avevano giurato di scambiarsi?

Era dolce, il sapore della maledizione che li univa. Questo pensarono mentre le loro labbra si accarezzavano e lambivano, cercavano e consolavano.

“Sei libera, Sigyn. Voglio che tu sia libera,” ordinò l’Ase con voce roca.

Lei gli sfiorò il mento affilato e sbarbato con le dita sottili. “Ho mangiato il pomo, oggi,” confessò.

“Hai violato le leggi di Asgard. Sei troppo giovane.”

Loki, irritato, provò a staccarsi da lei, ma la ragazza lo trattenne.

“L’ho mangiato e non è cambiato niente, vedendoti. Mi sento ancora libera. Era già successo, credo.”

“Sai chi sono e dove sto andando. Non aggrapparti a un vincolo che ti porterà solo sofferenza.”

La voce dell’Ase era severa e aveva in sé il tono d’una profezia, ma a Sigyn non importò. Si strinse contro la corazza robusta di pelle intrecciata e gli rivolse un’unica, sola preghiera.

“Torna da me, Loki, dio degli inganni.”

 

 

Forse fu colpa delle Norne che, divertite dall’ostinazione del fiero principe degli Asi, diedero fortuna alla terrificante impresa, o forse dei pomi incantati di Iðunn oppure del tempo trascorso assieme a raccontarsi il disincanto verso la leggenda d’un amore immortale e inevitabile, ma c’è chi racconta che davvero l’ingannatore, alla fine, tornò da lei per rivolgerle quel suo sorriso furbo e affascinante.

 

 

Fine

 

 

 

Note Autore:

Cosa sono le Soulmate!Au?

Sono universi paralleli dove esiste l’Anima Gemella. Esiste veramente. Ho pensato a lungo a come potesse essere scritta la vicenda di Loki e Sigyn in questa chiave di lettura precisa, e il contest indetto da Fiore di Cenere “Share with me” mi ha dato l’occasione di cimentarmi in una di queste storie generalmente molto drammatiche e romantiche. Come sempre quando si tratta di me, ho mescolato tantissimo mito e canone MCU.

La questione relativa ai pomi di Iðunn è un canone norreno: nel mito, gli dèi di Asgard mantengono un aspetto giovane perché si cibano regolarmente di queste mele. Quando non possono mangiarle, iniziano a invecchiare, come racconta l’Edda (l’UNICA cosa cui faccio riferimento). Le mele di Iðunn ricordano molto da vicino quelle del famoso albero della tradizione biblica, ed ecco che ho tirato fuori il concetto della soulmate. Giunti all’età adulta, gli Aesir mangiano il pomo e bloccano la loro crescita biologica, acquisendo così la conoscenza necessaria e utile a poter scoprire (prima o poi) la Soulmate. Poiché Sigyn non aveva ancora raggiunto l’età adeguata, era solo Loki a conoscere il segreto riguardo la loro predestinazione e il solo a sapere che Sigyn era l’unica che potesse donargli il sangue in caso di necessità. Come forse (spero) si sarà capito, prima di trovare la Soulmate la condivisione del sangue è possibile con chiunque.

La vicenda si colloca a metà strada tra Thor: The Dark World e Infinity War, di cui ho ridato una rilettura più positiva.

Gli elementi del pacchetto sono stati usati interamente: la scena si svolge in un ambiente ospedaliero (o vicino all’ospedale), c’è la Soulmate! AU che era da considerarsi come bonus, mentre la frase, ricorrente nel testo, è stata tradotta come Vorrei perdermi così tanto in te, da non voler più trovare altro (in originale era I wanna be so far gone in you / so far nothing else will ever do", da "So far gone" dei Thousand Foot Krutch). L’elemento di condivisione, neanche a dirlo, era il sangue che Sigyn offre a Loki.

Note di stile: talune ripetizioni sono efficaci ai fini della lettura, mentre per quanto concerne alcune mie scelte stilistiche (trattino – non chiuso alla fine come spesso usato da Mazzucco nelle edizioni Einaudi e virgola dopo “e”) sono da intendersi come precise scelte stilistiche e non come refusi.

Generalmente, la “mia” Sigyn sceglie Loki; anche qui lo fa, si innamora di lui ancora prima di mangiare il pomo. E allora, le Norne avevano ragione? Che ne dite?

Ero parecchio indecisa se postare o meno questa storia e la sua genesi non è stata facile per tante, tantissime ragioni: la vedete scritta e postata “per colpa” ♥ di una serie persone che mi hanno sostenuta in questi non facilissimi giorni. Augurandomi che possa essere comunque stata di vostro gradimento, ringrazio chi avrà la forza di arrivare fin qui. E a chi ha ascoltato tutte le mie paturnie, ovviamente.

Un caro saluto,

 

Shilyss



[1] La connotazione temporale di questo missing moment inventato è da imputarsi alla scena tagliata del primo Thor in cui Loki si vanta di aver vinto la battaglia di Nornheim.

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