Star Trek Universe Vol. VI: Scourge

di Parmandil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** La Barriera Galattica ***
Capitolo 3: *** Andromeda ***
Capitolo 4: *** La Melma Grigia ***
Capitolo 5: *** Abaddon ***
Capitolo 6: *** L'ultimo avamposto ***
Capitolo 7: *** La Battaglia della Pulsar ***
Capitolo 8: *** Il Cervello Matrioska ***
Capitolo 9: *** I Proto-Umanoidi ***
Capitolo 10: *** Sunny ***
Capitolo 11: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Star Trek Universe Vol. VI:

Scourge

 

 

SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA.

QUESTI SONO I VIAGGI DELLA

NAVE STELLARE ENTERPRISE.

LA SUA MISSIONE È ESPLORARE

STRANI, NUOVI MONDI,

SCOPRIRE NUOVE FORME DI VITA

E NUOVE CIVILTÀ,

FINO AD ARRIVARE LÀ

DOVE NESSUNO È MAI GIUNTO PRIMA.

 

 

-Prologo:

Data Stellare 2535.151

Luogo: settore di Norpin

 

   La statua marmorea di Zefram Cochrane, alta venti metri, scricchiolò mentre andava fuori asse e cadde di schianto, sotto la spinta di un raggio traente. Il braccio, arditamente teso verso le stelle e la promessa del futuro, si spezzò all’altezza della spalla quando colpì il suolo. Il volto del grande scienziato andò in pezzi, cancellandone lo sguardo audace. Lo schianto formidabile risuonò in tutta l’area museale e per un tratto della foresta, tanto che gli uccelli abbandonarono spaventati i rami e si levarono in volo. L’enorme folla radunata tutt’intorno proruppe in grida di giubilo.

   Era un giorno soleggiato a Bozeman, Montana, e questo aveva incoraggiato le famiglie ad assistere all’evento. Al cadere della statua, gli adulti applaudirono e i bambini, osservandoli, li imitarono, convinti che fosse una cosa buona. Approfittando di un momento di pausa nei lavori, parte del pubblico riuscì ad avvicinarsi alla statua. I primi ad arrivare vi sputarono sopra, fecero gesti volgari o presero a calci i frammenti di marmo. Un uomo con una chitarra mise un piede sulla faccia mutilata di Cochrane e prese a strimpellare qualche nota, tra i fischi d’incoraggiamento dei presenti. Molti si abbracciarono o presero a ballare. Fu solo con molta fatica che gli operai riuscirono a far indietreggiare la folla, per procedere con le operazioni di sgombero. I resti della statua furono rimossi e al loro posto fu sistemata una nuova scultura, molto più grande. Raffigurava una donna afro-americana, dai capelli cortissimi e grandi occhi intensi.

   «Come vedete, amici telespettatori, tutto è avvenuto in fretta e senza incidenti» disse il giornalista, mentre veniva inquadrato dal drone-olocamera. «Per chi non avesse seguito il dibattito degli ultimi giorni, un rapido riassunto. Dopo lunghe trattative la Flotta Stellare, la Soprintendenza dei Beni Culturali del Montana e la Fondazione Cochrane hanno raggiunto un accordo sull’annoso problema della statua di Bozeman. In questa località, nel 2063 Zefram Cochrane partì per lo storico volo a curvatura 1, e sempre qui stabilì il Primo Contatto coi Vulcaniani. La statua che lo raffigura fu posta subito dopo la sua scomparsa, ed è stata per secoli uno dei monumenti più noti e visitati della Terra.

   Ma negli ultimi anni, la statua – e la figura stessa di Cochrane – hanno subito una profonda rivalutazione storica, che li ha resi controversi e oggetto di dure critiche. Di Cochrane è stato messo in luce il carattere collerico, bipolare, incline all’alcolismo. Peggio ancora, se n’è svelato l’atteggiamento misogino e sprezzante, anche verso i suoi più stretti collaboratori, come Lily Sloane» aggiunse il giornalista, accennando alla statua.

   «Gli storici di oggi mettono in luce il fondamentale apporto dato da Sloane al progetto Phoenix, tanto da affermare che il motore a curvatura debba più a lei che a Cochrane stesso. E come dimenticare che fu Lily Sloane a collaborare con l’equipaggio dell’Enterprise-E, quando i Borg tentarono di sabotare il Primo Contatto? Il sondaggio Olonet promosso dal Federal News ha parlato chiaro: per il 73% dei votanti è Lily Sloane che merita una statua, assai più del collega. Zefram Cochrane è ormai considerato un simbolo divisivo, un esempio di Umanità Tossica che non ha posto nel nostro secolo. Come ha dichiarato il Governatore, sostituire la statua era un imperativo morale, prima ancora che un dovere civico. E dato l’esito del sondaggio, noi del Federal News aggiungiamo che si è trattato di una grande prova di democrazia. Ma sentiamo la voce dei presenti! Voi che ne dite, è in corso una presa di coscienza degli errori passati... o un revisionismo storico, come dicono i detrattori?» chiese il giornalista, accostandosi a una famiglia.

   «Ma quale revisionismo, questa è giustizia!» rispose con foga una delle due madri. «Zefram Cochrane è un pessimo esempio per i giovani. Incarna tutto ciò che dobbiamo lasciarci alle spalle... anzi, tutto ciò che dobbiamo combattere. Io insegnerò ai miei figli a ispirarsi ai veri eroi della Storia: Lily Sloane, Erika Hernandez, Michael Burnham. Abbasso i falsi idoli!» strillò appassionatamente.

   «La saggezza non sta nell’abbattere i vecchi idoli... sta nel non sostituirli con dei nuovi» borbottò Alexander Chase, disattivando l’olovisore che gli aderiva alla tempia. La statua, la folla chiassosa e la radura bordata di pini svanirono attorno a lui, sostituiti dal suo piccolo alloggio sull’Enterprise. Doveva smetterla di guardare il Federal News al mattino, si disse: gli guastava l’umore per il resto della giornata. Ricordava bene i dibattiti sulle statue, e su altre questioni simili, che imperversavano all’Accademia di Flotta. Assumere una posizione conservatrice significava attirarsi l’odio implacabile di coloro che si definivano moderni e tolleranti. Era lieto d’essersi lasciato quell’ambiente soffocante alle spalle... lieto che il suo primo incarico nella Flotta l’avesse portato sull’Enterprise-I, la nave ammiraglia. Lì nello spazio profondo, lontano dagli ammorbanti dibattiti della Terra, ci si poteva ancora confrontare con l’ignoto.

   «Comandante Plovios a Guardiamarina Chase, a rapporto nel mio ufficio». La voce del Primo Ufficiale veniva dal comunicatore che Chase si era appena appuntato sull’uniforme.

   «Arrivo, signore» disse il giovane, con un fremito. Perché quella convocazione inaspettata? Non aveva fatto errori, nei pochi mesi trascorsi sull’Enterprise. Né si era messo in evidenza... per il momento. Ma le cose sarebbero cambiate, si disse. Anche se era solo un Guardiamarina junior, fresco d’Accademia, ce la stava mettendo tutta per far bene il suo lavoro. Voleva fare carriera, lui... nella Sezione Comando. Quello era il suo obiettivo, il motivo che l’aveva spinto ad arruolarsi. Che il Primo Ufficiale gli avesse finalmente assegnato una missione sul campo? Considerando dov’era l’Enterprise, sarebbe stato il massimo.

   Il giovane Guardiamarina diede un’occhiata alla finestra del suo alloggio. Osservò le sterminate vastità dello spazio, trapunto di stelle... e ne vide il confine. Era una superficie grigia e opaca, organizzata in un reticolato uniforme, che si estendeva a perdita d’occhio. Si trattava di una sfera, ma le sue dimensioni immani la facevano sembrare piatta. Non era un pianeta, né una stella, né altra cosa di origine naturale. No, era il prodotto di un’intelligenza e una tecnologia ineguagliate nella Galassia. Di fronte alla Sfera di Dyson, l’immane guscio che racchiudeva un’intera stella, l’Enterprise era piccola e insignificante come un microbo.

 

   «Sto formando le squadre per la missione esplorativa, Guardiamarina, e leggendo la sua scheda personale ho visto che ha dedicato la sua tesi accademica proprio alla Sfera di Dyson» disse senza preamboli il Comandante, accarezzandosi i baffi da pesce gatto. Come tutti i Benziti aveva un grosso cranio glabro, dal naso schiacciato, e la pelle azzurra. I mini-respiratori nelle narici gli permettevano di condividere l’ambiente con le altre specie umanoidi. «Vorrei sapere il perché» aggiunse.

   «Per molte ragioni» rispose Chase con prudenza. «Si tratta della più grande megastruttura conosciuta, l’unica del suo genere. Eppure, malgrado sia nota da tempo, resta ancora un enigma. Chi l’ha costruita? Generazioni di studiosi l’hanno esplorata senza trovar traccia degli artefici: né immagini, né archivi. Dai resti delle città possiamo arguire che fossero umanoidi, ma questo è tutto. Sappiamo che hanno dovuto abbandonare la Sfera quando la stella centrale è diventata instabile, ma ignoriamo dove si siano recati. Non sappiamo nemmeno se esistano ancora... e dire che, considerando la superficie interna della Sfera, dovrebbero essere più numerosi di tutti gli altri popoli della Via Lattea sommati!».

   «Già, un bell’enigma» convenne il Primo Ufficiale. «Ma forse siamo più vicini alla soluzione. E visto il suo interesse per l’argomento, lei sarà in squadra. Le ho già inviato i dettagli dell’operazione sul d-pad. Sarà la sua prima missione sul campo, dico bene?» chiese, scrutandolo attentamente.

   «Sì, signore».

   «Allora buona fortuna, Guardiamarina. Chissà che il suo interesse per la Sfera non la conduca a qualche scoperta!» disse il Benzite, incoraggiante.

 

   Di lì a poco, Chase si affrettava verso la sala teletrasporto 3, per unirsi alla squadra cui era stato assegnato. Era per questo che si era arruolato, si disse, sentendo l’adrenalina scorrergli nelle vene: per esplorare le meraviglie del cosmo e svelarne i segreti. Ma il suo umore cambiò bruscamente quando, svoltato un angolo, s’imbatté in alcune vecchie conoscenze. Erano cinque in tutto: un Luriano, un Sulibano, un Pakled, due Cardassiani. Lo avevano angariato in Accademia e continuavano a farlo in servizio. Ora bloccavano il corridoio; era evidente che lo stavano aspettando.

   Chase si guardò attorno, in cerca d’altri corridoi o turboascensori che gli permettessero di aggirare l’ostacolo, ma non ce n’erano a portata di mano. E non voleva fare dietro-front, per non sembrare debole.

   «Guarda, guarda!» disse il Luriano, che era il capobanda. «Il nostro amico Alex va in missione! Credi che risolverai il mistero della Sfera, quando tanti esperti non ce l’hanno fatta?».

   «Faccio solo il mio lavoro, come tutti gli altri» rispose Chase, evitando il suo sguardo. Cercò di passare, ma gli alieni ingombravano il corridoio e non intendevano scostarsi. «Scusate, ma ho fretta» aggiunse.

   «Noi invece no!» ridacchiò il Sulibano. «Perché non resti a fare due chiacchiere?».

   «Farebbe una cattiva impressione, se arrivasse in ritardo alla sua prima missione» rispose il Luriano. «E Mister Perfettino non vuole che accada, vero? Non vuole mica rimanere Guardiamarina a vita!» latrò, avvicinando il faccione lungo e grigiastro al volto di Chase.

   «Tu lo vorresti?» chiese il giovane.

   «Io non sono uno sporco Umano!» berciò l’alieno, spalancando l’enorme bocca. «Sono qui per far carriera, e non tollero che tu mi metta in ombra!».

   «Mai pensato di farlo» assicurò Chase.

   «Ma sentitelo!» berciò il Pakled, i cui occhietti miopi erano quasi invisibili sotto le immense sopracciglia cespugliose. «Gli Umani cercano sempre di metterci in ombra. Ma la vostra supremazia nella Flotta è finita. Siamo più numerosi di voi, sull’Enterprise e sulle altre navi. Vuol dire che sei nel nostro territorio, Cheese!» avvertì.

   «Mi chiamo Chase; non è difficile da ricordare» rispose l’Umano, squadrandolo con sufficienza. I Pakled erano la specie federale con il quoziente intellettivo più basso. Non avevano mai inventato nulla; tutta la loro tecnologia era stata rubata ad altre specie, prima che la Federazione li accogliesse, regalandogliene altra ancora. I pochi in servizio sulle astronavi beneficiavano del Programma Federale per le Pari Opportunità, vale a dire che erano lì solo per una questione di quote, non perché se lo meritassero.

   «Oh oh, fai il bullo!» gongolò il Luriano. «Tipico comportamento Umano».

   «La presenza umana sull’ammiraglia è una vergogna» disse un Cardassiano.

   «Va contro secoli di progresso sociale» aggiunse l’altro.

   «Sentite, non voglio problemi, d’accordo?» disse Chase, fissando il pavimento. Ne aveva già avuti abbastanza in Accademia. Cercò di passare, ma gli alieni lo trattennero a forza. Il Luriano lo afferrò per le spalle e lo schiacciò contro la parete.

   «Te lo dico una volta per tutte: non c’è posto per te sull’Enterprise» gli grugnì all’orecchio. «Non farai carriera. Anzi, non durerai altri sei mesi su questa nave. E lo sai perché? Perché non meriti di stare qui. Dillo ad alta voce!» ordinò, sbattendolo contro la paratia.

   Chase lo fissò sprezzante e tenne la bocca chiusa. Piccato, il Luriano lo sbatté di nuovo, con violenza. «Dillo, vigliacco!» inveì.

   «Vigliacchi siete voi, che vi accanite in cinque contro uno!» ruggì una voce femminile. Serleen N’Rass irruppe come una leonessa fra le iene, in difesa di Chase. La Caitiana aveva la criniera fulva agitata e le zanne in vista; gli occhi gialli scintillavano inferociti. Il Sulibano e i Cardassiani indietreggiarono immediatamente. Il Pakled esitò un attimo. Non appena la sua mente torpida comprese la situazione, anche lui si fece indietro.

   «Perché parteggi per questo rifiuto Umano?» chiese il Luriano con disgusto, continuando a pressare Chase contro la paratia.

   «L’Umano è mio amico e se gli torci un capello dovrai vedertela con me» avvertì Serleen, soffiando come un felino arrabbiato. Estrasse gli artigli della mano destra e li puntò alla gola del Luriano, fissandolo con sguardo assassino. Era completamente diversa dalla Caitiana allegra e scherzosa che tutti conoscevano. Il suo corpo snello era teso come una molla e le pupille verticali fissavano incollerite l’energumeno, mentre gli artigli snudati gli sfioravano la gola. Era capacissima di colpire.

   «Non ci sarà sempre lei a proteggerti» sibilò il Luriano, lasciando finalmente andare Chase. «Sappiamo dov’è il tuo alloggio!» aggiunse a mo’ di minaccia, puntandogli contro l’indice. Poi si ritirò in tutta fretta, scortato dai gregari. Il gruppetto svoltò l’angolo e sparì dalla vista – ma non dai pensieri – dei due amici.

   «Serleen, che farei senza di te?» disse Chase, sorridendo fiaccamente.

   «A volte me lo chiedo» sbuffò la Caitiana, rinfoderando gli artigli. «Prima l’Accademia, adesso qui. Devi smetterla di farti mettere i piedi in testa!».

   «Erano più di me e non volevo che la situazione degenerasse» si giustificò Chase. «Sai, devo unirmi al gruppo 7 per esplorare la Sfera...».

   «Ci sono anch’io nel gruppo 7» disse Serleen, impaziente.

   «... e una rissa prima della partenza mi avrebbe messo in cattiva luce. È la mia prima missione sul campo, devo essere impeccabile» proseguì Chase. «Quei cretini lo sanno, ecco perché mi hanno attaccato ora. Non ho voluto prestarmi al loro gioco».

   «Probabilmente hai ragione» ammise la Caitiana, più comprensiva. Si avviarono verso la sala teletrasporto, di buon passo per recuperare il tempo perso. «Comunque devi imparare a farti valere. Quel pezzo di dren ha ragione su una cosa: non ci sarò sempre io a toglierti dai casini. Lo capisci? Non lasciare che quel branco di deficienti ti minacci, o non la smetteranno più. Se vuoi essere un vincente, affronta i tuoi problemi!» lo esortò, con la foga che le era caratteristica.

   «Di questi tempi, sembra che il problema sia appartenere alla specie umana» disse Chase, di malumore. «Uno dei motivi per cui mi sono arruolato è che la Flotta era sempre stata immune da questi guai. Ma è cambiata... non è più la Flotta di una volta» sospirò, malinconico.

   «Non lo è» convenne Serleen. «Ma è quella in cui viviamo, porca miseria!».

 

   L’Enterprise-I, dall’inconsueto scafo a punta di freccia, si avvicinò alla superficie grigia della Sfera di Dyson, che ormai occultava metà delle stelle con la sua mole. Scoperta ufficialmente dall’Enterprise-D nel 2369 (benché l’USS Jenolan vi fosse precipitata già nel 2294), la Sfera era l’unica del suo genere nota alla Federazione, nonché la più imponente megastruttura mai rinvenuta nella Via Lattea. Era anche la più antica, avendo un’età stimata di milioni di anni. Circondava una stella di tipo G, simile al Sole ma decisamente più vecchia. Il diametro di 200 milioni di km le forniva una superficie interna di 250 milioni di pianeti terrestri: più di quanti ve n’erano nell’intera Galassia, secondo le stime. Ciò significava che, quand’era abitata, la Sfera ospitava una popolazione più numerosa di tutte le specie umanoidi sommate. Allora dov’erano finiti gli abitanti? A meno che avessero realizzato un’altra Sfera di Dyson, da qualche parte, erano troppi per nascondersi.

   Oltre agli immani problemi ingegneristici che un simile progetto comportava, la Sfera poneva domande filosofiche. Perché imbarcarsi in un simile sforzo, invece di colonizzare i mondi abitabili, come facevano la Federazione e le altre potenze galattiche? Perché restare così tenacemente aggrappati a un singolo sistema stellare, ormai morente? Anche supponendo che fosse il sistema d’origine dei creatori, non c’erano pianeti da analizzare per cercarne le tracce. Non c’erano nemmeno pianeti nani, asteroidi o comete. Tutta la materia era stata spianata e reimpiegata per costruire la Sfera. Molta altra, probabilmente, era stata risucchiata dalla stella stessa, un procedimento noto come “star-lifting”. La cosa più sconcertante era che lo strato esterno del guscio si componeva di carbon-neutronio, uno stato ultradenso della materia, che lo rendeva impervio agli asteroidi interstellari e a quasi tutte le armi note. La quantità di materia da compattare, e i problemi pratici del procedimento su così vasta scala, allibivano gli scienziati federali.

   L’Enterprise si diresse verso una depressione simile a un cratere, che spezzava la monotonia della superficie grigia. Era una delle migliaia di portali che costellavano la superficie esterna della Sfera, a intervalli regolari, per consentire l’ingresso delle astronavi. Ogni portale era circondato da antenne, perlopiù ancora attive, che emettevano segnali subspaziali a bassa intensità. Se un vascello si avvicinava a un portale ed effettuava una chiamata, innescava il sistema di guida automatica. L’ingresso si apriva e potenti raggi traenti agganciavano l’astronave, guidandola all’interno. La prima volta che ciò era accaduto, con l’Enterprise-D, la nave era stata trascinata all’interno contro la volontà degli occupanti. I raggi traenti si erano rivelati incompatibili con i sistemi energetici federali, tanto da danneggiare l’astronave, anche perché l’Enterprise aveva azionato i propulsori all’indietro cercando di non farsi catturare. Per fortuna, da allora era stata fatta molta strada. La Flotta Stellare aveva mappato gli ingressi e con i giusti segnali subspaziali aveva scoperto come entrare e uscire senza problemi. Nessuna nave rischiava più di rimanere intrappolata all’interno.

   L’Enterprise-I emise il segnale standard e il portale si aprì lentamente, dividendosi in quattro. Altrettanti raggi traenti agganciarono l’astronave e la guidarono dolcemente all’interno, superando lo spessore del guscio. Subito l’Enterprise fu investita da un violento flusso di particelle cariche: il “vento solare” della stella. In previsione del pericolo, la nave aveva già alzato gli scudi.

   Questo era uno degli aspetti più curiosi della megastruttura. Di regola le emissioni elettromagnetiche della stella – luce, calore, radiazioni – erano trattenute dal guscio. Perciò la Sfera era difficile da rilevare, a meno che un’astronave non passasse nelle immediate vicinanze. Solo gli effetti gravitazionali erano percepibili, ma fino alla scoperta ufficiale della Sfera si credeva che in quella zona vi fosse una concentrazione di Materia Oscura. Ecco perché, dopo la scomparsa della Jenolan, erano passati ben 75 anni prima che l’Enterprise-D giungesse a far luce sul mistero. Ma una volta entrati nella Sfera, tutto cambiava.

   Negli ultimi secoli, il vento solare era divenuto così intenso da rendere indispensabili gli scudi. Era il motivo per cui l’immensa superficie interna era stata abbandonata. In origine riproduceva un pianeta abitabile, con varie zone climatiche, oceani e un’atmosfera respirabile. La gravità in superficie era assicurata da piastre gravitazionali, alimentate (come i portali e i raggi traenti) dall’energia solare. Tutto era predisposto per imitare il più possibile un pianeta di classe M. Solo la notte era bandita da quel mondo cavo, che un tempo era senz’altro abitato, e da una popolazione incalcolabile, come indicavano i resti urbani. Ma invecchiando, la stella era entrata in una fase di grave instabilità. La sua temperatura e luminosità erano aumentate, come anche le eruzioni e i brillamenti solari, che scatenavano improvvisi picchi di radiazioni. La Sfera di Dyson era stata costruita per dissipare il calore e le radiazioni in eccesso, ma il loro continuo aumento si era fatto insostenibile, obbligando i costruttori ad abbandonarla del tutto. Per ironia della sorte l’enorme megastruttura, costruita smembrando il sistema stellare, era rimasta vuota.

   Nei 166 anni trascorsi dalla sua scoperta, le condizioni erano notevolmente peggiorate. La superficie interna continuava ad arroventarsi, facendo evaporare gli oceani, distruggendo le ultime tracce di vita vegetale e i resti delle città. L’atmosfera era ormai opaca, densa e caldissima. Tuttavia la Flotta Stellare continuava a studiare la megastruttura, per comprenderne la fantastica tecnologia, in parte ancora attiva. Centinaia di missioni scientifiche erano state organizzate per mappare ed esplorare l’immensa superficie interna, con i resti delle città, purtroppo compromessi da secoli di abbandono, di radiazioni e di calore.

   Oltre a questi fattori, sembrava che le città fossero state “smontate”, evidentemente dai costruttori stessi prima di andarsene, per evitare che le tecnologie più sofisticate finissero in mani altrui. Le fabbriche e i laboratori erano scomposti negli elementi di base, disposti a terra con ordine. Lo stesso valeva per gran parte delle opere pubbliche. Degli edifici civili – case e palazzi – restavano solo gli scheletri, depurati proprio da ciò che avrebbe permesso di conoscerne meglio gli abitanti. Tutti i congegni erano stati smontati a livello molecolare, evidentemente con qualche forma di nanotecnologia altamente selettiva. Soprattutto non c’era alcuna immagine dei costruttori: niente statue, quadri, olografie, insomma nulla che permettesse di ricostruirne l’aspetto. Solo la dimensione di corridoi e porte indicava che avevano dimensioni simili a quelle umane. E dai rari ritrovamenti d’oggetti di uso comune, come sedie e posate, o anche abiti, si era dedotto che fossero umanoidi. Questo era tutto. Si erano formulate molte teorie sull’identità degli artefici e sul loro attuale domicilio, ma finché non si fosse trovata qualche prova, restavano tutte congetture.

 

   L’Enterprise sfrecciò verso quello che, per convenzione, era considerato il polo nord della Sfera. Da una parte la stella sfolgorava, emettendo intense radiazioni elettromagnetiche. La sua fotosfera arancione era costellata di macchie scure; grandi eruzioni ad arco si sollevavano lentamente. Sull’altro lato la superficie della Sfera era bruna. Il suolo riarso era quasi invisibile, poiché gli oceani erano evaporati, opacizzando l’atmosfera. Forti venti spazzavano la superficie, senza trovare ostacoli in grado di fermarli. Immani tempeste di sabbia, migliaia di volte più estese dell’intera superficie terrestre, chiazzavano la faccia interna della Sfera. L’attrito di così tante particelle cariche creava fantastiche aurore variopinte, tempeste di fulmini e altri fenomeni elettromagnetici.

   Nella sala teletrasporto 3, Chase e Serleen attendevano con trepidazione di sbarcare, assieme al resto della squadra. Sopra l’uniforme d’ordinanza indossavano sofisticate tute spaziali, aderenti e flessibili, studiate per intralciare il meno possibile i movimenti.

   «Pronti al trasferimento» avvertì il tecnico del teletrasporto. La squadra si recò sulla pedana. Chase sentì battere forte il cuore, al pensiero che stava finalmente per visitare la più straordinaria megastruttura della Galassia. Ma sebbene non dubitasse della solidità delle tute, era lieto che la sua missione non lo portasse sull’infernale superficie.

   Tra le scoperte recenti di maggior interesse, infatti, vi erano alcune sale controllo ricavate nello spessore del guscio, specialmente nelle zone polari. Lì il calore e le radiazioni della stella non erano ancora saliti oltre i livelli di guardia. C’erano ambienti adatti agli umanoidi, con apparecchiature non del tutto smontate. Se si fosse trovato un database integro, o anche solo un’immagine dei costruttori, si sarebbe finalmente fatta luce sul mistero.

   L’Enterprise raggiunse il polo nord e cominciò a trasferire le squadre esplorative nelle intercapedini della Sfera. Era un’operazione delicata, perché il vento solare interferiva con il teletrasporto. Il segnale, inoltre, doveva attraversare centinaia di metri di materia ultradensa. Fortunatamente le navi di classe Altair erano equipaggiate con un teletrasporto ultimo modello. Il raggio passò attraverso gli scudi della nave, un trucco realizzabile solo conoscendone l’esatta frequenza, per non esporre l’Enterprise alle radiazioni. Con tutte queste limitazioni, gli esploratori furono trasferiti due alla volta, e solo dopo aver inviato cilindri di prova, contenenti materia organica.

   Alexander e Serleen furono gli ultimi della loro squadra ad essere trasferiti. Si materializzarono in un ambiente semibuio, ampio ma dal soffitto basso. I colleghi, giunti prima di loro, stavano piazzando dei riflettori per avere una luce più stabile e abbondante di quella delle torce da polso. Chase si guardò intorno con interesse. Il pavimento, le pareti e il soffitto erano di metallo grigio scuro, così poco riflettente da sembrare pietra. Però non c’era polvere, non essendovi pertugi da cui potesse penetrare. Per quanto fosse in stato d’abbandono, era difficile credere che quella sala fosse così antica. Da quanto tempo nessuno metteva piede lì? Mille anni, diecimila? Chi era stato l’ultimo a farlo? Forse i proprietari si aspettavano di tornare, prima o poi. Non immaginavano che quell’ambiente sarebbe rimasto inviolato per millenni.

   «Temperatura 9ºC, umidità 5%, pressione 947 millibar» disse Serleen, leggendo i dati proiettati all’interno del casco. «Saranno state queste, le condizioni ambientali adatte ai costruttori?».

   «Non la temperatura» rispose Chase distrattamente, guardandosi attorno. «Dev’essere crollata vicino allo zero assoluto per secoli, e solo di recente ha preso a rialzarsi, man mano che l’interno della Sfera si arroventa. Fra cent’anni farà caldo anche qui. Gli altri valori probabilmente non sono cambiati molto. Siamo in una cavità ricavata nel neutronio... è decisamente a tenuta stagna».

   Chase tacque e contemplò la sala con emozione, quasi con riverenza. Sulle pareti c’erano venature che disegnavano grandi ovali, come se fossero schermi visori. Ma dentro gli ovali la superficie era metallica, come i muri circostanti, senza dispositivi per proiettare le immagini. Supponendo che fossero davvero schermi, forse erano olografici, si disse il giovane. C’erano anche delle specie di consolle, ma senza comandi in vista. Una delle cose più frustranti, nell’esplorazione della Sfera di Dyson, era che ancora non si era trovato nulla di scritto. Non si conoscevano fonti letterarie, né registrazioni audio, insomma nulla che rivelasse il linguaggio dei costruttori. Non si sapeva nemmeno quali segni grafici componessero il loro alfabeto, e quali usassero per i numeri e i calcoli matematici. Trovare fonti scritte o audio era quindi uno degli obiettivi prioritari della missione. Anche in mancanza di lunghi testi da tradurre, si sarebbero potuti fare confronti con le lingue e gli alfabeti noti, individuando le somiglianze che potevano dare un volto ai costruttori.

   «Non c’è dubbio, è una sala controllo... se non proprio un centro di comando» mormorò Chase. Davanti ad alcune postazioni c’erano persino delle poltroncine. Il giovane resistette all’impulso di sedersi, per scoprire se erano ancora comode, e si avvicinò a una parete, notando che anche lì c’erano venature.

   «Ma i comandi dove sono?» chiese Serleen, osservando interdetta le consolle piene di ghirigori metallici.

   «Forse sono proprio questi» ipotizzò Chase, sfiorandoli con la mano guantata. Non ci furono reazioni. «Immagino che siano guasti o privi d’energia. Ma da qualche parte ci sarà un computer. Troviamolo e sveleremo i segreti della Sfera».

   «Radiazioni entro i livelli di guardia. Non rilevo agenti patogeni, né alcun tipo di contaminazione» informò una collega biologa. «Permesso di togliere il casco?» chiese al caposquadra.

   «Negativo, prima condurremo esami più approfonditi» rispose il Tenente. «Ora dividiamoci; abbiamo molti ambienti da esplorare. Rimanete in coppia e state vicini ai droni rilevatori. Appuntamento qui fra un’ora. Cercate apparecchi ancora in funzione. Massima attenzione per le fonti scritte e iconografiche» raccomandò.

   La squadra si divise in tante coppie, ciascuna delle quali imboccò un percorso diverso, seguendo un drone rilevatore. Questi congegni galleggiavano a due metri da terra, procedendo a passo d’uomo, e mappavano costantemente tutto ciò che incontravano. Condividendo i dati raccolti, tracciavano una mappa tridimensionale dell’ambiente alieno. Sulla plancia dell’Enterprise, il Capitano e gli ufficiali superiori vedevano crescere in tempo reale la mappa dell’installazione.

   «Se si è conservato qualcosa dei costruttori, non può che essere in quest’intercapedine» commentò Chase, mentre lui e Serleen percorrevano un lungo corridoio. «Se solo trovassimo il computer...» ripeté.

   «Posto che i proprietari non l’abbiano formattato, prima d’andarsene» obiettò Serleen. «Considerando come sono stati meticolosi all’interno della Sfera, mi stupirei se non l’avessero fatto».

   «Mah, ho la sensazione che abbiano tenuto operative queste sale fino all’ultimo, mentre evacuavano la struttura» disse Chase, guardandosi attorno con circospezione. «Forse speravano di tornarci, se la stella si fosse calmata».

   «E se tornassero adesso?» chiese provocatoriamente la Caitiana. «Non dico in questo momento preciso... intendo adesso che la Federazione presidia la Sfera».

   «In tal caso, spero che non se la prendano per l’intrusione» disse l’Umano. «Dopotutto la Sfera era qui... e anche se hanno smontato le città, è evidente che non hanno voluto distruggerla completamente. Dovevano immaginare che qualcuno sarebbe venuto a dare un’occhiata».

   «Ma tu credi che siano ancora vivi?».

   «È probabile, considerando il loro numero» rispose Chase. «Qualunque cosa in grado di sterminare un popolo così numeroso avrebbe fatto piazza pulita anche delle altre specie... noi compresi».

   «Ma se erano così tanti, e così potenti, che fine hanno fatto?» chiese ancora Serleen. Sapendo che l’amico aveva studiato a lungo la Sfera, non esitava a fargli tutte le domande che le frullavano in testa.

   «Bella domanda!» ridacchiò Chase. «Gli archeologi federali se lo chiedono da generazioni. Forse i costruttori sono ascesi a un piano di puro pensiero. Forse si sono rifugiati in una realtà virtuale. O forse sono emigrati in un’altra galassia. Chi può dirlo? Certo, non sarebbe male se avessero lasciato qualche traccia di sé, e magari l’indicazione della nuova residenza. Invece hanno fatto di tutto per cancellare le tracce. Si direbbe che non vogliano essere conosciuti, né seguiti. Mi domando il perché...» aggiunse meditabondo.

   «Spero che non abbiano la coscienza sporca» disse Serleen.

   Poiché erano giunti davanti a un portone chiuso, Chase prese un’unità di sblocco dalla sua valigetta degli strumenti. Era un sottile disco metallico, largo un palmo, che aderì alla porta quando ve lo applicò. Attivato, il congegno individuò la direzione di scorrimento del portone, dal basso verso l’alto. Si mosse in quella direzione, aderendo tenacemente, per costringerlo ad aprirsi. Siccome la pesante lastra metallica faceva resistenza, Serleen prese un’altra unità di sblocco e la mise di fianco alla prima. Insieme, i due congegni riuscirono ad alzare lentamente il portone, con un lungo e sgradevole cigolio.

   Emozionati, Alexander e Serleen entrarono in un vasto salone, consci di essere i primi a visitarlo dopo millenni. Era immerso nelle tenebre; solo le loro torce da polso ne illuminavano qualche sprazzo. Le pareti, scure e scabre, erano leggermente concave, oltre che percorse da costoloni sporgenti. I federali avevano l’impressione di entrare in una vasta cassa toracica. Ad ogni passo udivano le suole delle tute che ticchettavano contro il pavimento metallico. Il drone si alzò di quota, per esaminare meglio il salone. L’unico arredamento erano massicce panche, poste a intervalli regolari, come se quella fosse una sala conferenze. O una cattedrale, si disse Chase. Ma se era un luogo di culto, dov’erano le immagini sacre? Il Guardiamarina puntò la torcia verso le pareti, disadorne come al solito. Beh, si disse, non tutte le religioni facevano uso d’immagini. Sulla vecchia Terra, due delle tre fedi monoteiste erano aniconiche. In realtà non c’era nulla in quella stanza che facesse pensare a un tempio, salvo la forma organica, diversa dalle altre, e le panche. Eppure l’idea gli ronzava in testa. Si disse che era illogico: una specie tecnologicamente progredita come quella doveva essersi lasciata alle spalle le antiche fedi.

   «Direi che qui non c’è niente» commentò Serleen. «Vogliamo andare? Anche il drone ha finito...» disse, impaziente di esplorare altre sale.

   «Aspetta» disse Chase, procedendo tra le file di panche. Avanzò verso la parete di fondo del salone, coperta di venature metalliche in rilievo. Non erano motivi ornamentali, né cornici vuote... questi erano veri e propri simboli, divisi in più righe. Formavano una lunghissima iscrizione, che copriva quasi interamente la parete, lasciando però uno spazio vuoto al centro.

   «Finalmente la scrittura!» esultò Serleen. «Riprendi tutto, drone. È una grande scoperta... e l’abbiamo fatta noi!» gongolò. Il drone pigolò in assenso.

   «Io credo di averne fatta un’altra» disse Chase, cupo. Si era inginocchiato accanto a un mucchietto di polvere e lo stava esaminando con il tricorder. «Vediamo... carbonio, azoto, ossigeno, idrogeno. Tracce di calcio, fosforo, potassio, sodio e zolfo. Uhm... questa è chimica organica. Si direbbe che qualcuno sia morto qui. Ma non posso stabilire con precisione a quale specie appartenesse».

   «E quando sarebbe morto? Un miliardo d’anni fa?» chiese Serleen, stupita dallo stato dei resti.

   «Solo cinquecento anni, a giudicare dal carbonio-14» rilevò Chase. «Non è detto che fosse uno dei costruttori... forse era solo un visitatore, come noi. E qualcosa l’ha ridotto in questo stato». I due Guardiamarina si guardarono attorno, innervositi.

   «Sai, mi sono appena ricordata di un impegno urgente» disse Serleen, affrettandosi verso l’ingresso. Ma non era neanche a metà strada che il portone si chiuse di schianto, in barba alle unità di sblocco.

   «Frell!» imprecò la Caitiana. «Guardiamarina N’Rass a Tenente Bodhi, mi riceve? Io e Chase siamo rimasti bloccati in un salone! Tenente, riesce a sentirmi?!» esclamò, sempre più agitata. Dal comunicatore non giungeva alcuna risposta.

   Anche Chase fece un tentativo, senza esito. Controllò il drone e scoprì che pure quello aveva perso il collegamento con gli altri. C’era come un campo di dispersione, che impediva le comunicazioni.

   «Guardiamarina N’Rass a chiunque sia in ascolto... rispondete, per favore. Guardiamarina N’Rass a Enterprise... dite qualcosa, maledizione!» gridò Serleen, camminando avanti e indietro, come una leonessa in gabbia.

   «Va bene, calmati» disse Chase, afferrandole le mani. «Quando i nostri colleghi non ci vedranno tornare, verranno a cercarci. Forse hanno già notato che il drone ha smesso di trasmettere. E siccome questa è l’ultima posizione che ha inviato, sanno dove siamo. È solo questione di tempo, prima che ci tirino fuori».

   «Hai ragione... ma questo posto mi fa venire la claustrofobia!» disse Serleen, dando un calcio al portone. «Spero che non ci mettano troppo a liberarci. Non voglio finire come... quello lì!» disse la Caitiana, accennando al mucchietto di elementi chimici.

   Chase aggrottò la fronte, preoccupato, ma invece di avvicinarsi ai resti polverizzati tornò alla parete di fondo. Usando sia il drone che il tricorder, esaminò l’iscrizione. Notò che i simboli grafici erano pochissimi, appena quattro, e si ripetevano in sequenze all’apparenza caotiche. Talvolta lo stesso simbolo era riportato più e più volte di seguito. Le linee di testo erano separate da un fregio a doppia elica intrecciata. Fu quello a fugare ogni dubbio.

   «Sono basi azotate» comprese il giovane. «Adenina, timina, citosina, guanina. Assieme agli zuccheri pentosi e ai gruppi fosfati formano i nucleotidi, gli elementi base del DNA».

   «Vuoi dire che qui sopra è riportato un codice genetico?» s’incuriosì Serleen, dimenticando temporaneamente la claustrofobia.

   «Ci puoi scommettere; lo sto già traducendo» confermò Chase, lavorando con il tricorder. Trascorse qualche minuto di silenzio.

   «Allora, cos’è? O chi è?» chiese Serleen, impaziente.

   «Siamo... noi» mormorò Chase, colpito.

   «Come?!» esalò la Caitiana.

   «Non c’è dubbio» confermò l’Umano, osservando le letture del tricorder. «Questa particolare sequenza si trova nel genoma di tutte le specie umanoidi conosciute. Solo che... è incompleta. Manca la parte centrale, vedi?» spiegò, indicando il vistoso vuoto al centro.

   «Che stai cercando di dirmi... che è una specie d’enigma?» chiese Serleen, serissima.

   «Più che probabile. E il nostro amico, qui, potrebbe aver dato la risposta sbagliata. Forse non ha capito la domanda, o forse non apparteneva esattamente a una specie umanoide» annuì Chase, indicando il mucchietto di polveri chimiche.

   «Aspetta... so cosa ti frulla in testa, ti conosco troppo bene» disse Serleen, fissandolo allarmata. «Vuoi inserire la sequenza giusta... non puoi fare sul serio! Hai visto com’è finito l’ultimo che ci ha provato?!» sbraitò.

   «Posso farcela» assicurò Chase.

   «Ma non volevi aspettare che ci salvassero? Cos’è questa smania?!» protestò la Caitiana.

   «Beh, chiaramente la struttura in cui ci troviamo è ancora... viva, o attiva. Mettila come vuoi, ma reagisce agli stimoli» ragionò Chase. «Se le si dà lo stimolo sbagliato, la risposta può essere violenta. Ma temo che anche l’assenza di segnali sarebbe interpretata come inadeguatezza. E può darsi che non ci siano solo le nostre vite in gioco. I nostri compagni di squadra sono nelle stanze qui attorno e l’Enterprise è in orbita dentro la Sfera. Immagina che accadrebbe, se questa decidesse che è un’astronave ostile».

   «In un secolo e mezzo di studi, non sono state trovate armi...» obiettò Serleen.

   «Bastano i raggi traenti dei portali per fare a pezzi una nave, specialmente se non se l’aspetta. E chissà che altro si nasconde in queste intercapedini!» controbatté l’Umano. «No... ci è stata fatta una domanda e dobbiamo rispondere» disse con decisione.

   «E sai come fare?» chiese Serleen, inquieta.

   «Beh, gli artefici dovrebbero venirci incontro. In fondo, vogliono che rispondiamo» disse Chase, armeggiando con il tricorder. «Ah, ecco... rilevo un debole segnale subspaziale. La sequenza corrisponde con il codice genetico che abbiamo davanti, il che ci fornisce l’indispensabile abbinamento simbolo/segnale. Ora non dobbiamo fare altro che tradurre il segmento genetico mancante in segnali che il drone può emettere».

   Nell’arco di pochi, tesissimi minuti, i due amici completarono la traduzione con il tricorder e istruirono il drone perché la ritrasmettesse in segnali subspaziali. Chase sentiva il sudore che gli imperlava la fronte, malgrado la tuta lavorasse per mantenere bassa l’umidità. Il minimo errore poteva costare la vita, e forse non solo a loro due. Per sicurezza, confrontò la sequenza genetica incriminata con quella di molte specie umanoidi, accertandosi che non ci fossero variazioni. Ne trovò solo un paio, ma giunse alla conclusione che erano mutazioni recenti e isolate. Non poteva privilegiarle rispetto alla sequenza più antica e diffusa.

   «L’ora della verità» mormorò il giovane, avviando la trasmissione. Fu questione di un istante. I due Guardiamarina chiusero gli occhi, come aspettandosi il disastro... ma i secondi passarono senza che accadesse nulla. Dopo un po’ si azzardarono ad aprire gli occhi. Guardarono di sbieco la parete, immutata, e poi si scambiarono un’occhiata nervosa.

   «Forse questa roba non funziona più» ipotizzò Serleen. «Ci siamo preoccupati per nien...». Come per contraddirla, qualcosa si mosse. Rivoli di metallo scorsero sulla parete, fluidi come il mercurio, ma aderenti alla superficie. Disegnarono nuovi simboli che riempirono lo spazio vuoto. La sequenza genetica era completa. Ci fu un tremito, accompagnato da un boato, e l’intera parete si sollevò, rivelando un ambiente segreto.

   Più che una sala era un’alcova di grandi dimensioni. La sua disposizione, in fondo alla “navata”, la faceva somigliare vagamente all’abside di una cattedrale. Al centro troneggiava un basamento con un’iscrizione, sormontato dalla statua argentea di una creatura umanoide.

   Alexander e Serleen si avvicinarono in soggezione, senza dire alcunché, e la osservarono da varie angolazioni. Il fatto che la statua torreggiasse su di loro dipendeva solo dalla base: quando Chase l’esaminò con il tricorder, vide che la scultura in sé era alta appena 175 cm. Probabilmente era a grandezza naturale, rifletté. Ritraeva un’aliena che indossava una veste semplice, lunga fino ai piedi. I suoi lineamenti erano abbozzati, quasi fetali: occhi infossati nel cranio, orecchie ridotte a poco più che fori, naso schiacciato. Non aveva capelli. Il cranio voluminoso era un po’ allungato all’indietro e presentava una lieve scanalatura in sommità, come a segnare la divisione tra gli emisferi cerebrali. Le mani avevano cinque dita e proporzioni del tutto umane.

   «È una Proto-Umanoide» mormorò Chase con riverenza. «Ma certo... questo spiegherebbe molto...».

   «Credevo che i Proto-Umanoidi fossero una leggenda» obiettò Serleen. «Le basi scientifiche della loro esistenza sono... beh, discutibili».

   «Non più» rispose Chase, leggendo i dati sul tricorder. «La scultura è in lega di platino-iridio, praticamente eterna. Potrebbe avere milioni di anni. L’aspetto coincide senz’altro con la firma genetica lasciataci dai Proto-Umanoidi. Quanto all’iscrizione sul basamento... uhm, questi caratteri sono diversi da quelli sul muro» notò. Profondamente incisi, erano semplici puntini e lineette, talvolta dritte, talvolta piegate a V. Li sormontava un cerchio con un grosso punto al centro.

 

 

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   «Mi sa che finalmente abbiamo trovato il loro alfabeto» commentò Serleen, soddisfatta. «Peccato ci sia solo questa breve iscrizione! Sarà il suo nome, e magari la sua qualifica o il suo grado» aggiunse, accennando alla statua. «Sempre che sia una figura storica e non mitica».

   «Chissà come si pronunciava» disse Chase. «Hai notato che è un palindromo? Si legge allo stesso modo nelle due direzioni. E questo simbolo raffigura senz’altro la Sfera di Dyson... se non è l’emblema dell’intera civiltà» proseguì, indicando il cerchio con il punto centrale.

   «Tenente Bodhi a guardiamarina Chase e N’Rass, tutto a posto?». La voce del caposquadra giunse da entrambi i comunicatori.

   «Direi di sì» rispose Serleen, notando che l’ingresso del salone si era riaperto.

   «Non riuscivo a contattare le squadre e nemmeno l’Enterprise, per via di un campo di dispersione, ma ora è cessato» spiegò il Tenente, sollevato. «Raduniamoci al punto d’arrivo per capire cos’è successo».

   «Noi crediamo di saperlo, signore» disse Chase, scrutando la statua di platino-iridio. «Se ha di nuovo la nostra posizione, è meglio che venga a dare un’occhiata».

 

   Quella sera, redigendo il suo rapporto missione, Chase si chiese se descrivere semplicemente i fatti o aggiungere anche le sue considerazioni personali. Il ritrovamento della statua aveva risposto ad alcune domande, ma – come spesso avveniva nell’esplorazione – ne aveva sollevate molte altre. Alla fine Chase espose le sue riflessioni, pur sottolineando la necessità di procedere nell’esplorazione delle intercapedini.

   Il punto più delicato, naturalmente, era l’attribuzione della Sfera all’opera dei Proto-Umanoidi, la stirpe ancestrale che avrebbe originato tutte le successive specie umanoidi della Via Lattea. La loro stessa esistenza era congetturale, ipotizzata dai raffronti genetici fra le specie attuali, dai resti di antiche megastrutture e dall’osservazione che molti popoli umanoidi furono trasferiti da un pianeta all’altro in epoche remote. Ma solo dal XXIV secolo i Proto-Umanoidi avevano un volto, grazie alle ricerche del professor Galen, famoso archeologo federale. La sua scoperta aveva cambiato il modo in cui gli umanoidi si percepivano l’un l’altro, anche se era lungi dall’essere accettata da tutti.

   Terminato il rapporto, Chase si recò al ponte ologrammi. Sebbene fosse tardi, non si stupì di vederlo attivo. Sapeva chi lo stava usando. Superò l’ingresso ad arco e si trovò in un ambiente desertico, pieno di antiche rocce consumate dal tempo e dagli agenti atmosferici. Era il letto di un antico mare prosciugato. Il sole di quel mondo morente tingeva le rocce di sfumature ocra, beige e rosate. Chase seguì un percorso breve e accidentato che lo condusse a uno spiazzo. Qui lo attendeva la Proto-Umanoide, vestita con un semplice abito bianco. L’ologramma era stato bloccato da Serleen, che l’osservava a pochi passi di distanza, appoggiata alla parete rocciosa. Colori a parte, la Proto-Umanoide era identica alla statua che avevano rinvenuto nella Sfera di Dyson. Aveva la pelle di un rosa scuro, quasi marroncino, ma gli occhi infossati erano chiari. Il cranio glabro e un po’ allungato aveva una fitta trama di vene in sommità.

   «Riecco la nostra amica» esordì Chase. «E questo è Vilmor II?» chiese, accennando al paesaggio desolato.

   Serleen annuì. «È qui che l’equipaggio dell’Enterprise-D completò la ricerca del professor Galen sui marcatori genetici inter-specie. Li misero in relazione, ne estrassero un algoritmo e lo tradussero in questo messaggio. Computer, replica!» ordinò la Caitiana.

   La Progenitrice si mosse leggermente e parlò, con voce lenta e chiara. «Vi starete chiedendo chi siamo, perché abbiamo fatto questo e com’è possibile che io sia qui davanti a voi, l’immagine di un essere di così tanto tempo fa» esordì. Il suo atteggiamento era composto e sereno, ma negli occhi grigio-azzurri aleggiava un velo di malinconia.

   «La vita si è evoluta sul mio pianeta prima di tutte le altre, proprio in questa parte della Galassia. Abbiamo lasciato il nostro mondo, esplorato gli astri... e non abbiamo trovato nessuno come noi» spiegò la Proto-Umanoide, con triste rassegnazione.

   «La nostra civiltà ha prosperato per molti secoli, ma cos’è in fondo la vita di una razza, in confronto alle vaste estensioni del tempo cosmico?» aggiunse filosoficamente. «Sapevamo che un giorno saremmo scomparsi, che niente di noi sarebbe sopravvissuto, così vi abbiamo lasciato un’eredità. I nostri scienziati hanno inseminato gli oceani primordiali di molti mondi, in cui la vita era ancora ai primordi. I marcatori genetici hanno indirizzato la vostra evoluzione verso una forma fisica simile alla nostra, cioè a questo corpo che vedete davanti a voi» disse solennemente, sollevando le palme delle mani. «Che ha, naturalmente, la stessa forma del vostro... perché voi siete il risultato finale. I marcatori genetici contenevano anche questo messaggio, i cui frammenti sono stati sparsi da noi in molti mondi diversi.

   La nostra speranza era che arrivaste tutti insieme, in amicizia e fratellanza, a sentire questo messaggio. E adesso che mi vedete e riuscite a sentirmi, la nostra speranza si è realizzata. Voi siete un monumento... non alla nostra grandezza, ma alla nostra esistenza. Questo desideravamo: che anche voi conosceste la vita, e che teneste viva la nostra memoria» disse umilmente. Dopo di che la sua voce si fece più bassa e intima, come per dare un consiglio o un ammonimento: «C’è una piccola parte di noi in ognuno di voi... e di conseguenza, qualcosa di voi in tutti gli altri. Ricordatevi di noi!».

   Il messaggio, giunto dagli abissi del tempo, era terminato. «Computer, blocca» ordinò Serleen, prima che la Proto-Umanoide svanisse. Voleva osservarla ancora. «Ricordo quando vidi l’ologramma a scuola, per la prima volta» disse la Caitiana, girandole intorno. «Già allora mi sembrò una cosa strana. E col tempo i dubbi sono aumentati» ammise, corrucciata.

   «Eppure lo proiettano ancora, nel Giorno della Federazione» sorrise Chase, ironico.

   «La Federazione lo usa come propaganda, per favorire la convivenza tra specie» rispose Serleen, impaziente. «Per carità, va bene... ma il messaggio è stato creato in modo poco scientifico».

   «So cosa intendi» annuì Chase. «Il professor Galen basò tutto sull’osservazione che molte specie presentano marcatori genetici comuni, pur provenendo da pianeti diversi, anche molto lontani fra loro. Raccogliendoli dai quattro angoli della Galassia, mise insieme questo messaggio commovente. Ma quant’è affidabile un lavoro del genere? Dopotutto la scelta dei marcatori genetici e del modo di correlarli è arbitraria. Con qualche piccola modifica si può farle dire qualunque cosa» disse, indicando la Progenitrice. «Avrai visto anche tu quei video umoristici in cui la fanno cantare e ballare, o le fanno dire scemenze, o le cambiano la testa. Non sono tutte parodie da quattro soldi. Alcuni sono lavori “seri”, cioè fatti inserendo altri marcatori genetici o impostando altre matrici di traduzione. Certo, la Federazione continua a sostenere la bontà della teoria di Galen, visto che le fa comodo. Ma finora l’esistenza dei Precursori non era dimostrata. Noi abbiamo trovato la prima, vera prova. Quella statua di platino-iridio è identica alla Progenitrice... quindi è probabile che il metodo di Galen fosse corretto» concluse.

   «Non so... la sua teoria s’incastra male nel quadro dell’evoluzione per selezione naturale» obiettò Serleen. «Sembra una riedizione del vecchio Disegno Intelligente. Personalmente non mi piace l’idea che questi esseri siano i nostri... antenati, o creatori» disse a disagio, squadrando la Progenitrice.

   «Anche noi siamo creatori, in un certo senso» notò Chase. «Abbiamo realizzato androidi, ologrammi... ogni genere d’Intelligenza Artificiale. E in linea di massima, l’abbiamo fatto per motivi egoistici: perché ci aiutino nel lavoro, o c’intrattengano. Non è una bella cosa da dirgli in faccia, ma è così. Almeno i Progenitori non ci hanno costretti a lavorare per loro. Anzi, se è vero che sono tutt’uno coi Preservatori, si sono impegnati per proteggere molti popoli dall’estinzione, trasferendoli su altri pianeti».

   «Se sono la matrice originale, tutti noi siamo... copie, o varianti di quel progetto» ragionò Serleen. Quell’idea la turbava, anzi la destabilizzava nel profondo. Si sentiva privata della sua identità, della sua originalità.

   «Anche se ci hanno creati... o hanno favorito in qualche modo la nostra evoluzione... non vuol dire che siamo i loro burattini» sostenne Chase, intuendo il suo pensiero. «Abbiamo la nostra vita, il nostro arbitrio. Come ha detto la Progenitrice, c’è una parte di loro in ognuno di noi... ma ci sono anche delle differenze, che ci rendono unici».

   «Computer, accedi al database genetico» ordinò Serleen, colta da un’intuizione. «Confronta il DNA di tutte le specie umanoidi note, basandoti sulle possibilità d’incrocio interspecie. Se gli umanoidi s’incrociassero per milioni di anni, fino a confluire in una popolazione omogenea... quale sarebbe il suo aspetto?» volle sapere.

   «C’è un elevato margine d’incertezza, dovuto alle molte variabili» rispose il computer. «Lo studio più rigoroso è stato compiuto dieci anni fa su Babel, da un’equipe di antropologi e genetisti federali. La ricerca è disponibile su Memory Alpha, all’indirizzo...».

   «Mostrami la ricostruzione e basta» tagliò corto la Caitiana.

   «Eseguo» disse il computer.

   Una seconda figura umanoide, sempre vestita di bianco, comparve accanto alla Progenitrice. La somiglianza era impressionante. Identiche per statura e corporatura, avevano lo stesso testone calvo e la stessa pelle beige. Gli occhi della nuova arrivata erano meno infossati e il cranio non presentava né scanalatura centrale, né vene in evidenza. Ma a parte questi dettagli, le due aliene erano così simili da sembrare membri della stessa specie.

   «Dall’Uno al Molteplice, e poi di nuovo all’Uno» mormorò Chase, colpito. «Chissà... se non riusciremo a trovarli, forse ci trasformeremo noi in loro! Spero che ne valga la pena».

   «Non so... ci sono ancora così tanti punti oscuri in questa faccenda...» mugugnò Serleen, poco convinta. «I marcatori genetici più antichi che ci accomunano risalgono a quattro miliardi d’anni fa. Secondo la teoria di Galen, è quello il periodo in cui i Proto-Umanoidi furono attivi. E la Progenitrice ha confermato che il suo popolo inseminò il brodo primordiale» aggiunse, indicando l’incriminata. «Ma la Sfera di Dyson sembra abbandonata da pochi millenni. Quale specie tecnologica dura così a lungo? Siamo parecchi ordini di grandezza fuori scala! Le civiltà più antiche che conosciamo hanno pochi milioni d’anni, e perlopiù sono ascese in forme di puro pensiero, come gli Organiani. Perché i Precursori, che sono di gran lunga i più vecchi, non ci sono riusciti?».

   «Non so che dire» ammise Chase. «Forse non sono realmente così antichi, oppure hanno avuto dei problemi ad ascendere. Forse hanno viaggiato avanti nel tempo per vedere il frutto delle loro fatiche» suggerì.

   «Ma che fine hanno fatto?» insisté la Caitiana. «Se fossero rimasti attivi fino a tempi così recenti, sarebbero entrati in contatto con specie che esistono ancora oggi; specie confluite nella Federazione. Invece, niente!».

   «Magari preferiscono semplicemente stare in disparte» disse Chase, facendo spallucce. «Chi lo sa... per quanto ci lambicchiamo il cervello, li conosciamo ancora troppo poco. Forse un giorno ne sapremo di più. Ma può anche darsi che non scopriremo mai la verità» aggiunse, scambiando uno sguardo sconsolato con l’amica. A pochi passi da loro, gli ologrammi della Progenitrice e dell’Erede – il passato e il futuro – stavano immobili ed enigmatici.

 

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Capitolo 2
*** La Barriera Galattica ***


-Capitolo 1: La Barriera Galattica

Data Stellare 2557.45

Luogo: Grande Barriera Galattica

 

   L’Enterprise-J, ultima erede del più glorioso lignaggio della Flotta Stellare, galleggiava nello spazio aperto, ai confini della Via Lattea. Le stelle erano rarefatte, nella periferia galattica, tanto che lo spazio era perlopiù nero. Solo qua e là brillavano gli ammassi globulari, fitti addensamenti di migliaia di astri. Le stelle isolate erano rare e quasi tutte vecchie, poiché nell’alone mancavano nebulose che potessero formarne di nuove. Dietro all’Enterprise giaceva la Via Lattea, con gli aggraziati bracci a spirale in cui nascevano le stelle e il brillante rigonfiamento centrale, dove si affollavano le giganti rosse. Ma davanti all’astronave si estendeva il buio, sconfinato vuoto intergalattico. Poche navi federali vi si erano avventurate; nessuna per lunghi tratti. Era l’ultima frontiera. E l’Enterprise, tra le prime navi della rivoluzionaria classe Universe, era stata costruita apposta per varcarla. Lunga tre km, ospitava diecimila persone tra equipaggio e civili, appartenenti a quasi tutte le specie federali. Vera città nello spazio, con un’autonomia di anni, era progettata come nave generazionale. Comprendeva ristoranti, scuole, ospedali, giardini pubblici, zone sportive. Tutti i comfort di un pianeta federale, combinati con i motori più veloci, gli scudi più resistenti le armi più micidiali in dotazione alla Flotta. La sua Intelligenza Artificiale, incarnata come proiezione isomorfa di ultima generazione, vegliava perennemente su quanti erano a bordo.

   Ora quell’Intelligenza Artificiale, familiarmente nota come “Terry”, stava in plancia e fissava lo schermo visore nero. I suoi sensori erano protesi a sondare lo spazio. In quanto Ufficiale Scientifico di bordo, toccava a lei fare rapporto. «Ci avviciniamo alla Grande Barriera Galattica, signore» avvertì, incrociando le braccia dietro la schiena. Aveva le sembianze di una donna asiatica, dalla corporatura minuta, con grandi occhi color liquerizia e corti capelli corvini. Ma sebbene imitasse l’organismo umano fino a livello cellulare, quell’aspetto non era che un mezzo per comunicare con i colleghi, e poteva variarlo a piacimento. Poteva persino materializzare diverse proiezioni simultaneamente, inviandole dove voleva, poiché gran parte della nave era equipaggiata con proiettori olografici. E dove non c’erano i proiettori, suppliva l’Emettitore Autonomo.

   «Può farcela vedere?» chiese il Capitano Chase, intrecciando le dita. Non era più il ragazzo timido e impacciato uscito dall’Accademia ventidue anni prima. Unico superstite della distruzione dell’Enterprise-I, aveva fatto una rapida carriera, ottenendo il comando della nuova ammiraglia. Per sei anni l’aveva tenuta in prima linea nella Guerra delle Anomalie, il durissimo conflitto che aveva opposto la Federazione e i suoi alleati al Fronte Temporale. Capitano ed equipaggio avevano affrontato ogni avversità: distorsioni spaziali, battaglie, viaggi nel tempo, intrighi e complotti del nemico (e dei traditori annidati nella Federazione). Alcuni, come il compianto dottor Korris, non erano sopravvissuti. Ma i superstiti erano diventati una squadra formidabile, forgiata dalle avversità e unita da una lealtà incrollabile. La guerra era finita con la colossale Battaglia di Procyon V, che aveva segnato il tracollo del Fronte Temporale; ma le ferite erano tutt’altro che rimarginate. Mentre la Federazione evolveva in una più vasta Unione Galattica, Chase e i suoi ufficiali erano lieti di tornare alla loro missione originale, l’esplorazione.

   «Certo, Capitano. Elaboro un’immagine delle distorsioni subspaziali» rispose Terry, con la solita efficienza. Lo schermo nero si tinse improvvisamente di squillanti toni viola e rosa, come luci al neon. Le distorsioni formavano una barriera, più densa in certi punti e meno altrove. Non c’era modo di aggirarla, perché circondava l’intera galassia, avvolgendola come un bozzolo. Era un ostacolo micidiale per le astronavi: le distruggeva con violente scariche energetiche, rendendo difficilissimo uscire dalla Via Lattea. Questo significava altresì che, per chi si trovasse all’esterno, era difficile entrare. Secondo l’Ipotesi dello Zoo, la Barriera Galattica era di origine artificiale. Sarebbe stata creata da qualche potente entità, forse i Q, a protezione della Via Lattea dalle minacce intergalattiche. Altri sostenevano che fosse un fenomeno naturale. Comunque stessero le cose, la Via Lattea era isolata; anche le comunicazioni subspaziali con l’esterno erano ostacolate.

   «Le nuove Colonne d’Ercole» commentò Chase, osservando quei turbini d’energia, simili a un vasto incendio.

   «Capitano?» chiese Lantora, l’Ufficiale Tattico. Era uno Xindi Primate e malgrado l’iniziale diffidenza fra lui e il Capitano, con il tempo era diventato uno degli ufficiali più fidati, nonché un caro amico.

   «Un limite invalicabile delle leggende terrestri» spiegò Chase. «Si credeva che, se una nave avesse osato superare quello stretto, sarebbe di certo naufragata. Ma naturalmente non era così; e ci furono navigatori coraggiosi che si avventurarono nell’oceano, finché tutta la Terra fu esplorata. Oggi faremo lo stesso con la Barriera Galattica».

   «La prima nave federale che ci si addentrò fu la Valiant, seguita dall’Enterprise di Kirk» ricordò il Primo Ufficiale Ilia Dax. Ultima ospite del leggendario Simbionte Dax, la Trill beneficiava di oltre cinque secoli di memorie, dipanati in dodici vite, che le davano una prospettiva unica sugli eventi. «In quel caso, non andò a finire bene» commentò.

   «Erano altri tempi» disse Terry. «La tecnologia ha fatto passi da gigante; i miei scudi cronofasici reggeranno. Sto inviando al timone una mappa delle anomalie, così da evitare le zone di maggiore addensamento».

   «Ho i dati» confermò T’Vala Shil. Mezza Vulcaniana e mezza Betazoide, era la miglior timoniera dell’Enterprise, nonché uno dei telepati più dotati. «Traccio una rotta fra le anomalie... è una sensazione familiare» sorrise. A differenza dei Vulcaniani puri, T’Vala non si sentiva obbligata a sopprimere le emozioni, pur sforzandosi di seguire la logica.

   «Queste anomalie non sono come quelle che ha conosciuto in guerra, Tenente» avvertì Fanior, l’ambasciatore dei Kelvani. Il suo popolo, nativo della galassia di Andromeda, era uno dei pochi che avessero varcato la Barriera. Un piccolo gruppo di esploratori kelvani era penetrato nella Via Lattea trecento anni prima, fondando la colonia di Kelva II. Con l’espandersi della Federazione, Kelva II era diventato un’enclave, ma non era mai entrato a farne parte, essendo orgoglioso delle sue origini e della sua indipendenza. I Kelvani, comunque, avevano inviato un rappresentante per quella missione, che li toccava da vicino: erano ansiosi di ristabilire i collegamenti con la madrepatria. E all’Unione Galattica faceva comodo avere qualcuno che l’aiutasse a stabilire contatti pacifici con l’Impero Kelvano.

   «Me ne rendo conto, Ambasciatore» rispose T’Vala con diplomazia. «Ma penso che le anomalie del Fronte Temporale siano state un buon allenamento».

   «Può darsi» concesse Fanior, serissimo. «Ma vorrei controllare la rotta, prima che ci porti dentro. La mia gente ha studiato a lungo la Barriera... potrei notare qualcosa che le è sfuggito. Con il suo permesso, Capitano» aggiunse, scoccando un’occhiata imperscrutabile a Chase.

   Il Capitano esitò. Non era sua abitudine sottoporre il lavoro di T’Vala a revisione, tantomeno da parte di un ospite. D’altro canto, i Kelvani erano molto abili in queste cose, con la loro mente analitica dalle spiccate doti matematiche. «Certo, Ambasciatore. Collabori pure con Terry e T’Vala, per trovare la rotta migliore. Non abbiamo fretta» disse. Confidava che la sua timoniera non se la sarebbe presa. Aveva troppa logica, e troppo buonsenso, per sentirsi ferita nell’orgoglio professionale.

   «Bene» approvò Fanior, con un lieve cenno del capo. Subito andò accanto a T’Vala, per osservare i suoi calcoli. Così facendo diede le spalle a Chase, che lo osservò con una punta d’apprensione.

   Salito sull’Enterprise da due settimane, in occasione del nuovo varo, Fanior era ancora un enigma. Parlava pochissimo e solo di cose strettamente attinenti al suo lavoro. Nessuno l’aveva mai incontrato in un ristorante, al parco o in una qualsiasi area pubblica. Nessuno l’aveva mai visto sorridere. A vederlo sembrava un Umano alto e magro, dai capelli neri e gli occhi azzurro ghiaccio che spiccavano sul volto severo. Ma era solo apparenza... una cortesia nei confronti degli umanoidi che lo circondavano. Anzi, non era nemmeno cortesia: era puro pragmatismo.

   Nella loro vera forma, i Kelvani non avevano nulla di umanoide. Alti quattro o cinque metri, somigliavano a grossi calamari. Avevano dieci tentacoli, ognuno dei quali si divideva ancora in dieci nella parte terminale, per un totale di cento appendici. La loro coordinazione motoria era tale che ciascun arto poteva compiere simultaneamente un’operazione diversa. E la loro mente aliena aveva una potenza formidabile. Il primo Vulcaniano che aveva tentato una Fusione Mentale con loro, Spock, riferì di aver percepito «una serie d’immagini, esotiche e bizzarre, che esplodevano nella mia mente. Colori, forme, equazioni matematiche, mescolate e confuse». La loro mente era fredda, analitica, pressoché priva d’emozioni. A livello sensoriale avevano qualcosa d’equivalente alla vista e all’udito, ma il tatto era affievolito ed erano completamente privi di olfatto e gusto.

   Non c’era da stupirsi se molti di loro gradivano assumere la forma umana, che gli permetteva di esplorare nuove sensazioni ed emozioni. Altri, però, credevano fermamente nella superiorità dell’austero stile di vita Kelvano. Osservando Fanior, Chase pensò che doveva appartenere alla seconda categoria. L’Ambasciatore aveva preso quell’aspetto solo per facilitare le comunicazioni e per non essere impacciato dalla sua mole. Ma per il resto non sembrava interessato ai passatempi umani. Probabilmente nel suo alloggio tornava a essere un calamaro gigante. Chase aveva visto alcune immagini di Kelvani nel loro vero aspetto e si chiese se avrebbe mai incontrato Fanior in quella guisa.

   L’attenzione dei presenti fu richiamata dai fischi del Consigliere di bordo, uno Xindi Acquatico, prontamente tradotti. «Prima di superare la Barriera, dovremo parlare seriamente della questione kelvana» disse. Era una creatura verdastra, con un corpo da pesce, affusolato e flessibile. La coda schiacciata e le piccole pinne caudali gli permettevano di muoversi nell’acqua, ma gli arti anteriori con tre dita gli davano le capacità di manipolazione indispensabili a una specie senziente e tecnologica. Il muso, quasi da anfibio, non era molto espressivo, ma sarebbe stato un errore sottovalutare la sua intelligenza. Non potendo condividere l’ambiente con i colleghi, se ne stava sul ponte allagato dell’Enterprise, con altre specie ittiche, e presenziava in plancia solo in forma olografica. Era il primo Consigliere che l’Enterprise avesse da anni. Dopo che il predecessore Navarro aveva rassegnato le dimissioni, per screzi ideologici, la guerra aveva impedito il ricambio di personale. Solo con la fine del conflitto si era trovato un sostituto. Il fatto che l’Enterprise avesse contribuito in modo determinante a salvare Nuova Xindus dal Fronte Temporale non era certo estraneo alla candidatura dell’Acquatico.

   «Che intende con “questione kelvana”, signor Apsu?» chiese Fanior, osservando l’ologramma del Consigliere che nuotava nell’aria verso di lui.

   «Mi riferisco alla tradizione militarista e conquistatrice del suo impero, Ambasciatore» rispose senza mezzi termini lo Xindi. «I suoi antenati vennero qui come testa di ponte per un’invasione in grande scala della Via Lattea. Abbiamo appena respinto un’invasione del genere... capirà se non vogliamo ritrovarci daccapo» spiegò Apsu. Malgrado la sua voce fosse una traduzione computerizzata, era chiaramente in apprensione.

   «Non può paragonare l’Impero Kelvano ai Tuteriani» rispose Fanior, squadrando il Consigliere con occhi freddi.

   «Perché no? Anche voi siete alle prese con una catastrofe naturale che sta rendendo inabitabile il vostro spazio» insisté Apsu. «Un aumento di radiazioni nella galassia di Andromeda... così dissero i vostri avi, Rojan e Kelinda, quando incontrarono il Capitano Kirk».

   «Colgo l’occasione per manifestare il mio scetticismo al riguardo» intervenne Terry. «Non si conoscono fenomeni naturali in grado di rendere radioattiva un’intera galassia, con un ritmo d’espansione superiore alla velocità della luce. Se fosse un quasar, ci sarebbero alte emissioni energetiche dal nucleo... ma Andromeda non è certamente un quasar».

   «Ne so quanto lei» rispose Fanior, serissimo. «La missione kelvana verso la Via Lattea richiese secoli, perciò fu condotta con una nave generazionale. Rojan e gli altri nacquero tutti a bordo; nessuno di loro vide mai Andromeda. La loro conoscenza dell’Impero Kelvano era limitata a quanto riportato nel database dell’astronave. Per qualche motivo, i Kelvani non vollero fornire dettagli su questo... aumento di radiazioni».

   «E non le sembra strano?» chiese Lantora. «Dopotutto era la ragione del viaggio! Se gli esploratori kelvani dovevano vivere e morire durante la missione, avevano diritto a sapere almeno perché lo stavano facendo».

   «La logica suggerisce che la storia delle radiazioni sia una copertura» aggiunse T’Vala, ruotando la sedia del timoniere per fronteggiare Fanior. «Forse l’Impero Kelvano desidera semplicemente espandersi nella nostra galassia» insinuò. «O forse il pericolo è un altro. Le sonde automatiche inviate ad Andromeda hanno captato trasmissioni allarmate su una misteriosa forza ostile...».

   «La Scourge» disse Chase con gravità. «La nostra missione serve anche a stabilire cos’è, e se possa costituire un pericolo per la Via Lattea».

   «Ho ascoltato quelle trasmissioni» annuì Fanior. «Sono quasi incomprensibili... le interferenze della Barriera Galattica deteriorano il segnale. Quando saremo dall’altra parte ne sapremo di più e forse capteremo trasmissioni dell’Impero Kelvano. Ma signori, vi avverto che le vostre insinuazioni sul mio governo sono inaccettabili. Se l’Impero Kelvano ha parlato di radiazioni, allora è così. I Kelvani non mentono» disse con granitica convinzione.

   «Non intendevamo offenderla, Ambasciatore» disse il Capitano. «Ma converrà che c’è qualcosa di strano in tutto questo».

   «Ci mancano informazioni, ecco tutto» rispose Fanior. «Per questo siamo qui: per avere risposte. L’Unione Galattica ha fatto bene a inviare l’Enterprise. E con la mia mediazione, le vostre speranze di stringere rapporti pacifici con l’Impero Kelvano sono notevolmente maggiori».

   «Ne è certo? Le informazioni più recenti sull’Impero Kelvano risalgono a seicento anni fa» obiettò Apsu. «Tre secoli servirono per il viaggio e altri tre sono passati dal vostro arrivo nella Via Lattea. Nel frattempo la situazione di Andromeda può essere mutata. Il vostro impero può aver cambiato politica estera. Speriamolo... visto che, per vostra ammissione, pianificava d’invadere la Via Lattea».

   «Dovremmo discuterne in sala tattica» propose Lantora.

   «Più tardi. Ora mi segua nel mio ufficio, Ambasciatore. Anche lei, Consigliere» ordinò Chase. «Ilia, a lei la plancia». Gli interpellati lo seguirono, Fanior camminando rigidamente, Apsu nuotando nell’aria. L’ologramma dello Xindi era intangibile, oltre che un po’ evanescente. Questo, e il modo in cui fluttuava, gli davano un’aria da fantasma.

   Chase andò verso la sua scrivania, ma anziché aggirarla per sedersi posò le nocche sul ripiano, scrutando lo spazio visibile dalla finestra. Era nero, con pochissime stelle, il che paradossalmente dava un senso di claustrofobia. Le anomalie subspaziali non erano visibili a occhio nudo, ma Chase sapeva che la Barriera era vicina. I secondi passarono, in un silenzio teso.

   «Ambasciatore, ho aspettato che lei familiarizzasse con l’ambiente prima di rivolgerle questa domanda, ma non posso più aspettare. Fra poco varcheremo la Barriera Galattica e io devo sapere cosa aspettarmi dalla sua gente» disse finalmente il Capitano, girandosi verso Fanior.

   «Cosa aspettarsi?» ripeté l’Ambasciatore, come se non l’intendesse.

   «Scusi, faccio un passo indietro» disse Chase. «Lei si ritiene un suddito dell’Impero Kelvano o un cittadino di Kelva II?».

   «La sua domanda presuppone una differenza che non esiste» rispose Fanior garbatamente. «Kelva II è una colonia kelvana. È lontana dalla madrepatria, certo, il che c’impedisce di restare in contatto. Ma la nostra lealtà a Kelva Primo è indiscutibile» dichiarò.

   «Una bella differenza, rispetto alla mia specie» sospirò Chase. «Nessuna colonia umana rimasta isolata per secoli si è sentita così legata alla patria».

   «Desolante» commentò Fanior.

   «Voi Kelvani, invece, siete molto patriottici... e questo sarà un problema per noi, quando incontreremo la vostra flotta» notò Chase. «L’Unione ha richiesto la sua presenza per facilitare i contatti. Ma se l’Impero Kelvano sarà ancora aggressivo... se le ordinerà di agire contro l’Enterprise... lei obbedirà?» chiese, fissandolo con attenzione.

   «Confido che lo scontro sia evitabile...» rispose Fanior lentamente.

   «Voglio credere alla sua buona volontà, ma non è detto che l’Impero la condivida» insisté Chase, impaziente. «Io e i miei ufficiali faremo di tutto per evitare lo scontro. Ma se le cose si metteranno male... sa cosa dovrò fare; lo dica lei».

   «Dovrà mettermi agli arresti; è suo dovere» rispose Fanior, impassibile.

   «Un dovere che preferirei evitare» disse Chase, con un sorriso amaro. «La fiducia era una merce rara, in guerra. Speravo che ora ne sarebbe circolata di più, ma...». Scosse la testa.

   «Lei parla di fiducia!» esclamò Fanior, con un improvviso scatto di amarezza. «Io ne avevo, un tempo. Dopo la mia nomina ad ambasciatore, avvertii la sua sonnacchiosa Federazione delle minacce incombenti. Fui ascoltato? Certo che no!» disse stizzito. «Sono stato sulla Terra. Ho visto la profonda decadenza della società e delle istituzioni. Come vi aspettate che io creda in voi, quando siete i primi a non credere in voi stessi?!».

   La domanda aleggiò nell’aria, senza che Chase sapesse come rispondere. Gli venne in aiuto il Consigliere. «Ho letto la sua scheda personale, Ambasciatore» disse Apsu, galleggiando accanto a lui. «So che la Federazione lo ha deluso, durante la guerra. Ne ha pagato un prezzo tremendo... il suo risentimento è comprensibile».

   «Davvero? Mi dica, Consigliere, lei ha famiglia?» chiese Fanior, dandogli un’occhiata tagliente.

   «Ho una moglie e un cospicuo numero di girini» confermò Apsu.

   «Anch’io avevo moglie e figli» disse il Kelvano, come parlando a se stesso. «Erano su Kelva II quando i Tuteriani ci assediarono, nell’ultimo anno di guerra. Io ero tornato per difenderli, abbandonando il mio incarico sulla Terra... e questa forma umana» aggiunse, osservandosi le mani. «Comandai la resistenza kelvana durante i mesi dell’Assedio. Eravamo in grave inferiorità numerica... implorai l’Unione di soccorrerci, ma niente! La vostra grande alleanza non poteva privarsi di una sola astronave per noi!». Per quanto si dominasse, era evidente il suo rancore.

   «Abbiamo soccorso centinaia di pianeti, sia federali che non» si giustificò Chase. «Purtroppo non avevamo la forza per soccorrere tutti. La guerra ci ha costretti a fare scelte dolorose e non sempre giuste. Mi dolgo che proprio la sua gente, la sua famiglia ne abbiano pagato il prezzo».

   «Non è colpa sua» riconobbe Fanior. «So che la sua nave ha soccorso più pianeti e convogli di ogni altra. Lei ha vinto battaglie in condizioni disperate e ha scosso la Federazione dal suo torpore. Per questo si è guadagnato il mio rispetto» dichiarò, scrutandolo con occhi di ghiaccio. «Se questa missione fosse stata affidata a qualcun altro, non avrei accettato di farne parte. Lei è l’unico di cui mi fido».

   «Beh, spero di meritare la sua considerazione» disse Chase, un po’ imbarazzato. «E per la sua famiglia, la prego di accettare le mie condoglianze».

   «Grazie, Capitano. Sa, mia moglie e i miei figli rimasero vittime delle anomalie, mentre io combattevo nell’orbita del pianeta. Morirono pochi giorni prima che il Fronte si ritirasse nel sistema Procyon. Se fossi riuscito a respingere gli assalitori... o se avessi nascosto i miei cari da un’altra parte... sarebbero ancora vivi» disse Fanior, con gli occhi lucidi. «Quindi forse è colpa mia, non dell’Unione».

   «La colpa è del Fronte Temporale» disse Chase con decisione. «Ma ora dobbiamo guardare avanti. Approvo la sua prudenza nell’attraversare la Barriera. Però mi chiedo che accadrà, quando saremo dall’altra parte».

   «So che intende» disse Fanior, ricomponendosi. «Quando la Federazione inviò le sonde ad Andromeda, con offerte di pace per l’Impero, innescò un conto alla rovescia. Con la tecnologia dell’epoca occorrevano quasi trecento anni per giungere a destinazione. La mia maggiore ansia è sempre stata la consapevolezza che tocca alla nostra generazione affrontare le conseguenze. Mi chiedete come reagirà l’Impero, com’è cambiata la situazione ad Andromeda... in verità, Capitano, io non lo so» disse tristemente. «Come ha ricordato il Consigliere, la mia colonia è isolata da secoli. Può darsi che nel frattempo i miei simili si siano stancati di aspettare e si siano messi in viaggio. In tal caso, forse hanno incontrato le sonde federali a mezza strada, per cui vi conoscono già bene. O forse le hanno mancate, nell’immenso vuoto intergalattico, e procedono verso la Via Lattea con intenti di conquista. Come i Tuteriani» ammise con una smorfia. «Ecco perché ho accettato questa missione. Ho già gustato il sapore amaro della guerra e vorrei evitarne un’altra, se possibile».

   «Lei è in una posizione delicata» notò Apsu. «I suoi obiettivi sono molteplici e potenzialmente in contrasto. Allacciare i contatti con Andromeda, riassorbire la sua colonia nell’Impero, evitare un conflitto tra questo e l’Unione... sinceramente non la invidio. Come Consigliere, posso solo avvertirla che si troverà di fronte a scelte etiche difficilissime».

   «Molto dipende da cos’ha deciso l’Impero Kelvano nel frattempo» disse Chase. «Per non parlare della Scourge. Dobbiamo scoprire cos’è... potrebbe avere molto peso, ad Andromeda».

   «Sono d’accordo» annuì Fanior, di nuovo calmo e impassibile.

 

   «Non c’è pace per questa nave, eh?» sospirò l’Ingegnere Capo Grenk, quando Terry e T’Vala si recarono in sala macchine per discutere alcuni dettagli. «Ho appena finito di ricostruirla, dopo il macello di Procyon V, e già me la volete scassare di nuovo!».

   «Nessuno vuole scassare l’Enterprise» disse T’Vala, paziente. «Ma l’ultima frontiera non si varca senza scossoni».

   «Questo è il nostro piano di volo» aggiunse Terry, richiamando il percorso su una consolle ingegneristica. «Ho elaborato le stime delle interferenze subspaziali, ma sono... beh, stime. In realtà non sappiamo quali valori energetici incontreremo, visto che fluttuano continuamente».

   «Grandioso!» sbuffò il Tellarita, fremendo in tutto il suo metro e mezzo di statura.

   «Durante l’attraversamento, plancia e sala macchine resteranno costantemente in contatto» proseguì Terry. «Se ci saranno problemi...».

   «Li risolverò io, come al solito» disse Grenk. Come tutti i Tellariti, diceva quel che pensava senza filtri. I suoi colleghi non se prendevano; ormai ci avevano fatto il callo.

   «Suvvia, non dirmi che non ti eccita il pensiero di uscire dalla galassia!» sorrise T’Vala. «Se non ci fosse stata la guerra, l’avremmo già fatto anni fa. Ma non tutto il male viene per nuocere: almeno abbiamo collaudato l’Enterprise contro le anomalie. E dopo la ristrutturazione, la nave è più in forma che mai. A proposito, anche tu sei in forma!» notò con approvazione. «Il tuo girovita è rientrato nei limiti di tolleranza, ben fatto!».

   «Non è merito suo» spiegò immediatamente Terry. «Io e Raav abbiamo avuto una riunione d’emergenza e abbiamo convenuto che bisognava porre un limite all’espansione dell’Ingegnere Capo. Così lo abbiamo messo a dieta».

   «Questo tiro mancino potevo aspettarmelo da te, saputella, ma non da Raav!» protestò Grenk, guardandola bieco. «Quel Gorn mi ha sempre apparecchiato manicaretti da re. E in cambio, ho fatto del suo ristorante il ritrovo degli ufficiali. Ma ora sono tentato di passare alla concorrenza!» avvertì.

   «Non lo farai... siete troppo amici» sorrise T’Vala. «Piuttosto, non ti annoierai durante il viaggio intergalattico? Mesi e mesi a girarti i pollici... scommetto che hai già in mente qualche nuovo progetto».

   «Uhm, in effetti...» ammise Grenk, abbassando il tono di voce per non farsi udire dai colleghi. «Ti dirò come stanno le cose... perché sei una maledetta ficcanaso e voglio evitare quel che successe con la Phoenix. È vero, ho per le mani un altro progetto top secret, nome in codice Timeless. Ma stavolta il Capitano ne è informato, quindi non ci sono problemi. Perciò, se mi vedrai affaccendato nell’hangar 5, non farne una tragedia».

   «È qualcosa che riguarda il viaggio nel tempo?» chiese T’Vala. Era in quell’hangar che Grenk aveva messo a punto la prima navetta temporale.

   «Sì e no» disse Grenk, evasivo. «Scusa, ma è una cosa davvero riservata».

   «Va bene, non voglio darti problemi» disse T’Vala, reprimendo la curiosità. Ripresero a discutere della Barriera.

 

   Entrando in infermeria, Chase non si stupì di vederla in subbuglio. Fin dal XXIII secolo era noto che la Barriera Galattica aveva strani effetti sugli umanoidi. Spesso li uccideva; ma talvolta iper-stimolava alcuni centri cerebrali. Il risultato era un’impennata nei livelli ESP, con ciò che ne conseguiva: memoria potenziata, riflessi e resistenza sovrumani, telepatia. In rarissimi casi i poteri continuavano a crescere, divenendo incontrollabili: telecinesi, manipolazione della materia/energia. Lo scotto da pagare erano paranoia, delirio d’onnipotenza, ribellione contro ogni autorità. I pochi che avevano raggiunto quei livelli avevano aggredito e talvolta ucciso i loro stessi colleghi, rendendo necessario eliminarli prima che divenissero inarrestabili. Persino il Capitano Kirk, all’inizio della sua missione quinquennale, si era visto costretto a uccidere il suo caro amico Gary Mitchell.

   Gli scudi cronofasici dell’Enterprise-J davano ottime garanzie di sicurezza, ma bisognava prevedere ogni eventualità. Poiché gli individui più minacciati dalla Barriera erano i telepati, i dottori stavano approntando speciali capsule per loro. Ogni capsula generava uno scudo cronofasico, aggiungendo un ulteriore strato di protezione, se gli scudi dell’astronave avessero ceduto. Poiché non si poteva prevedere quando ciò sarebbe accaduto, i telepati dovevano rimanere nelle capsule per tutta la durata dell’attraversamento. La cosa in sé non era un problema: l’Enterprise poteva superare la Barriera in dieci minuti. Ma alcuni individui erano reticenti a farsi incapsulare, sebbene i medici spiegassero loro il motivo. A complicare le cose, l’Ufficiale Medico Capo era lei stessa una telepate.

   «Tenete pronti gli scanner cerebrali. E procuratemi altri due stimolatori corticali!» ordinò Neelah, ritta al centro di quella baraonda che era l’infermeria principale. Il personale era indaffarato intorno alle capsule, che affiancavano i bio-letti e talvolta li sostituivano. Altre capsule erano approntate nelle infermerie secondarie e persino in alcune stive di carico. In qualche modo, la dottoressa riusciva a controllare tutti, con l’atteggiamento nervoso e sbrigativo degli Andoriani.

   Quando Chase entrò, Neelah gli dava le spalle, ma le sue antenne craniali s’irrigidirono e il Capitano fu certo che l’avesse percepito. «Come va, dottoressa?» chiese in tono formale.

   «Come vede, Capitano» rispose Neelah, voltandosi. «Ho la possibilità di studiare dal vivo il più affascinante fenomeno di potenziamento ESP della Galassia, e invece... devo assicurarmi che non capiti a nessuno!» disse, lanciandogli uno sguardo d’accusa.

   «Parliamone in ufficio» suggerì Chase, tirandosela garbatamente dietro.

   «Okay... ehi, arrivano quegli stimolatori? E voi, tenete d’occhio il sistema limbico dei Betazoidi!» raccomandò Neelah agli assistenti, seguendo Chase di malavoglia. Quando la porta dell’ufficio si fu chiusa dietro di loro, la dottoressa affrontò il Capitano. «Allora?» chiese, con le braccia incrociate e un’espressione di sufficienza sul volto bianco neve.

   «Dimmi che una di quelle capsule è per te» la fronteggiò Chase.

   «Vuoi proprio levarmi tutto il divertimento?» sospirò Neelah. «Credevo avessimo chiarito questa cosa. La nave è tua, ma l’infermeria è mia. Sono l’Ufficiale Medico Capo, adesso».

   «Sei anche la telepate più potente della nave. E sei la mia partner» le ricordò il Capitano, abbracciandola. «Non vorrei che ti friggessi il cervello per la tua curiosità scientifica. Sai a cosa porta. Ti vengono gli occhi perlacei, ti convinci d’essere una divinità e cerchi d’impadronirti della nave. A quel punto dovrei ucciderti. Rovinerebbe la nostra relazione, non trovi?» chiese, e la baciò.

   «Occhi a parte, noteresti la differenza?» ridacchiò Neelah. «Ho sempre cercato di migliorarmi. Se non fosse per i miei potenziamenti genetici e nano-tecnologici, sarei ancora cieca e debole come tutti gli Aenar» disse con una certa asprezza. Neelah era tra gli ultimi esponenti della rara sotto-specie andoriana, caratterizzata dall’albinismo e dalla telepatia, ma anche dalla cecità congenita. Aveva sempre criticato i suoi simili, che a suo dire non sapevano sfruttare i loro talenti. Lei, invece, non aveva mai fatto altro. Allenata dalla Sezione 31, il famigerato servizio segreto federale, all’uso dei suoi poteri mentali, si era iniettata nanosonde Borg modificate per ottenere la vista. Da allora era stata una continua corsa all’auto-sperimentazione, finché era finita sull’Enterprise, dove la sua vita aveva assunto finalmente una parvenza di normalità.

   «Tu vai benissimo così come sei» la rassicurò Chase, sfiorandole i capelli candidi. «Non devi dimostrare niente a nessuno. Nemmeno a te stessa, capito?».

   «Ma...» fece Neelah, un po’ imbronciata.

   «Da quando ti conosco, hai corso troppi rischi» insisté il Capitano. «Nella nostra prima missione un Parassita Neurale ti entrò nel collo. E nell’ultima sei quasi morta dissanguata. Stavolta non devi correre rischi» disse, carezzandole la guancia.

   «Li corriamo tutti, su questa nave» obiettò Neelah, con un sorriso malinconico. «Chissà che ci aspetta ad Andromeda! Ma sì, farò come vuoi. Non sopporto di vederti così preoccupato per me. E poi, chi vuole gli occhi perlacei?». Stavolta fu lei a dargli un rapido bacio. «Adesso devo tornare al lavoro. Dimmi solo se conti di mandarmi T’Vala e Fanior».

   «T’Vala ci serve al timone e Fanior ha insistito per restare in plancia» spiegò Chase. «Considerando che il ponte di comando è difeso da scudi supplementari, dovrebbero essere al sicuro».

   «Mi sorprende che Lantora non abbia protestato. Si preoccupa per T’Vala quanto tu per me» commentò la biologa.

   «Immagino che ne abbiano parlato fra loro. Non è un crimine preoccuparsi per chi si ama!» disse il Capitano. «Ma T’Vala segue la logica, e in questo caso la logica dice che il suo posto è in plancia. Comunque è probabile che ci preoccupiamo per niente. Terry e Grenk confidano nella solidità degli scudi; chi sono io per contraddirli?».

   «Se qualcosa andrà storto, almeno saprai con chi prendertela» disse Neelah, scherzando solo in parte.

 

   Tutti i preparativi erano ultimati. Sulla plancia dell’Enterprise si percepiva la tensione, man mano che le anomalie subspaziali s’ingrandivano sullo schermo. Le tempeste violacee sembravano protese a ghermire la nave. Ma l’equipaggio, temprato dalle esperienze, manteneva il sangue freddo. Il Capitano aveva già contattato l’infermeria, sincerandosi che i telepati fossero al sicuro, compresa Neelah. Digitando altri comandi sul bracciolo della poltrona, aprì un canale con tutta la nave.

   «Qui è il Capitano Chase. È arrivato il momento che tutti aspettavamo: stiamo per superare la Barriera Galattica, che ci separa dalle ignote vastità dell’Universo. È un grande passo per la civiltà ed è affidato a noi. Varcata questa frontiera, niente sarà più come prima. Ricordate questo giorno!».

   Il Capitano chiuse la comunicazione e si rivolse a T’Vala. «Avanti a mezzo impulso. Tutte le sezioni stiano all’erta».

   «E se qualcuno prova impulsi omicidi, o pensa di essere un dio, lo dica subito, che ne parliamo» raccomandò il Consigliere, aleggiando sopra le teste degli altri.

   Fanior non disse nulla, ma il suo sguardo valeva più delle parole di molti, mentre osservava i fuochi della Barriera sempre più vicini. D’un tratto l’Enterprise sussultò.

   «Siamo dentro» confermò Terry.

   «Gli scudi reggono» disse Lantora.

   «Seguo la rotta prestabilita... ma dovrò fare delle correzioni» avvertì T’Vala. «Qui l’ambiente cambia di continuo». Il tremolio della nave si fece più forte, mentre si addentrava nelle distorsioni.

   «Invio le telemetrie degli aggiornamenti» disse Terry.

   «Le vedo» annuì T’Vala, concentratissima. Le sue mani correvano sui comandi con velocità inumana, apportando le variazioni di rotta. I dati dei sensori erano d’enorme aiuto, ma in certi casi la timoniera doveva affidarsi all’intuito e decidere in una frazione di secondo. Trascorsero i minuti, lunghi come ore. La nave sussultava e nessuno in plancia apriva bocca, salvo che per comunicare lo status dei sistemi.

   «Ci siamo quasi... ma rilevo addensamenti di anomalie intorno a noi. Non posso evitarle tutte. Balleremo un po’» avvertì T’Vala, che ormai non sbatteva nemmeno gli occhi, tanto era concentrata sui comandi.

   «Gli scudi sono ancora all’85%, non dovremmo avere problemi» disse Lantora, incoraggiante. Due secondi dopo squillò un allarme. «Ma che... non può essere!» gemette il Primate, sbiancando in volto. «Perdita di potenza nella griglia EPS, stiamo perdendo gli scudi!».

   «Dirotto l’energia» disse subito Terry, ma in quella l’Enterprise fu colpita da un’anomalia violentissima, che nemmeno T’Vala poté evitare. Per un attimo, tutti in plancia videro bianco. Chi era in piedi barcollò o cadde a terra.

   «Rapporto danni» disse Chase, massaggiandosi le tempie. Si sentiva stordito, come da una scossa elettrica. I suoi colleghi soffrivano gli stessi effetti.

   «Un terzo della sezione a disco è stata colpita, ma gli scudi stanno tornando in linea» rispose Terry. «Ho dei sovraccarichi, dirotto l’energia nei sistemi ausiliari. Il mio processore centrale è incolume e le capsule hanno protetto i telepati. Ma ci sono due vittime tra l’equipaggio. Le stanno portando in infermeria; è presto per dire se potranno rianimarle...».

   «Qui state tutti be...» cominciò Chase, ma la voce gli si strozzò in gola. Accanto a lui c’era qualcosa di mostruoso che si agitava. La pelle di Fanior si era ingrigita e i suoi lineamenti si stavano come sciogliendo. Era diventato più grosso e gli arti parevano disarticolati, molli come spaghetti appena cotti. Altri tentacoli gli fuoriuscivano dalla schiena e dai fianchi. Era una visione terrificante e cambiava a ogni secondo. La sua natura aliena emergeva, ma Fanior si sforzava di riassorbirla, riprendendo l’aspetto umano. Sibili e fischi disarticolati gli uscivano dalla bocca.

   Allarmato, Lantora impugnò il phaser, ma Ilia lo bloccò, afferrandogli il polso con una stretta d’acciaio. «No! Adesso torna a posto» disse.

   «Mmmmggnnnnhhhhh...» mugghiò Fanior, riprendendo il controllo di sé. Le sue dimensioni si ridussero e i tentacoli scomparvero, riassorbiti nel corpo. Poco alla volta, le sue sembianze tornarono umane.

   «Respiri a fondo, si concentri...» suggerì Apsu.

   «Vuol darmi lezioni di metamorfosi?!» mugolò Fanior, inginocchiato a terra, con la testa fra le mani. Anche la sua pelle stava riprendendo il tono consueto. «Sto bene. È stata come una scossa elettrica, ma ora è passata» assicurò, rimettendosi in piedi.

   «L’abbiamo sentita tutti» disse Chase. «T’Vala, lei come sta?».

   Subito dopo la scossa T’Vala si era arrovesciata all’indietro sulla sedia, coprendosi gli occhi con le mani; ma si stava già riprendendo. «Bene, signore. Tra pochi secondi usciremo dalla Barriera» assicurò, di nuovo sui comandi. Lantora rinfoderò il phaser e le corse a fianco. L’Enterprise ebbe ancora qualche lieve scossa, ma gli scudi erano di nuovo operativi. Infine le anomalie scomparvero dallo schermo, che tornò nero, senza stelle.

   «Siamo fuori» disse T’Vala, scostandosi i capelli dalla fronte.

   «Guardami» disse Lantora, ancora in apprensione.

   La mezza Vulcaniana alzò lo sguardo dai comandi e fissò il partner. I suoi occhi erano quelli di sempre, scuri e profondi. Non c’era traccia del bagliore argenteo che caratterizzava le vittime della Barriera. «Sto bene, davvero» sorrise.

   «Plancia a sala macchine, servono interventi nella sezione a disco» disse il Capitano, aprendo un canale.

   «La mia povera nave!» ululò Grenk. «Se me l’avete rotta di nuovo, io... io...» ansimò.

   «Al lavoro» tagliò corto Chase, e chiuse la comunicazione. «Allora, Terry... che è successo?».

   «Non ne sono sicura» ammise l’Intelligenza Artificiale. «Quattro diversi nodi della mia griglia EPS si sono disattivati contemporaneamente. Quando ho dirottato l’energia, i rimanenti si sono sovraccaricati. Se non fossi riuscita a gestire il picco d’energia, dirottandola nei sotto-sistemi, ora saremmo polvere».

   «Che probabilità ci sono che quattro nodi si guastino nello stesso istante?» chiese Ilia.

   «Anche considerando che gli scudi erano sotto stress, direi... una su un milione» ammise l’IA.

   «Quindi siamo di fronte a un sabotaggio» disse Chase freddamente. Era un’idea odiosa, ma era l’unica conclusione logica.

   «Temo di sì, signore».

   «Avvio subito le indagini» disse Lantora. «Il colpevole non resterà impunito».

   «Me lo auguro» affermò Fanior. «Nel frattempo, però, ricordate dove siamo arrivati» aggiunse, accennando allo schermo nero. Non c’erano stelle, salvo che in pochi ammassi globulari. L’infinito, tenebroso vuoto intergalattico si stendeva davanti all’Enterprise. E laggiù, così lontana da essere a malapena visibile, scintillava una macchiolina biancastra. La galassia di Andromeda.

 

   Per alcuni secondi, l’equipaggio rimase come incantato a osservare quel bagliore, che distava ancora due milioni e mezzo di anni luce. «Ce l’abbiamo fatta» disse infine Chase. «Questo l’abbiamo pagato con due vite. Chi sono le vittime di cui ha parlato?».

   «Fenggang Miur, di specie Evora, esperta di botanica. Untar Pivak, di specie Terrelliana, addetto al centro sportivo» riferì Terry. «Il loro livello ESP era lievemente superiore al normale, ma non tanto da rendere necessarie le capsule. Molti altri, con un livello pari al loro, non hanno subito conseguenze» si giustificò.

   «Questo ci conferma quanto sia imprevedibile la Barriera» disse Chase, corrucciato. «Per il ritorno dovremo innalzare ulteriormente le misure di sicurezza».

   «L’esperienza di oggi ci sarà d’aiuto» promise Terry.

   «Mi dolgo per le vostre vittime; ma non sono morte invano» disse Fanior solennemente. «Ora possiamo inviare messaggi ad Andromeda e ascoltare eventuali trasmissioni. Suggerisco di farlo subito».

   «Uhm, sì, procediamo» convenne Chase, un po’ infastidito dalla fretta del Kelvano. «Signor Grog, invii il messaggio dell’Unione per l’Impero Kelvano. Lo ritrasmetta ogni sei ore».

   «Messaggio inviato, Capitano» disse il Ferengi. «Quanto alle trasmissioni in arrivo, non ne capto nessuna».

   «I sensori a lungo raggio non rilevano astronavi oltre la Barriera» informò Terry. «Siamo soli».

 

   Qualche ora dopo gli ufficiali superiori erano radunati in sala tattica, seduti intorno al grande tavolo ad anello. Al centro campeggiava l’ologramma della Via Lattea e di Andromeda, con evidenziata in rosso la rotta programmata per l’Enterprise. L’ambasciatore Fanior la osservò attentamente. «Quando potremo ripartire?» chiese.

   «Serviranno un paio di giorni per sistemare la griglia EPS» rispose Grenk. «Potrei metterci di meno, se non fosse che...».

   «Le indagini sono in corso per identificare i responsabili del sabotaggio» spiegò Lantora.

   «I responsabili? Come sa che sono più di uno?» chiese Fanior.

   «Abbiamo ristretto la finestra temporale del sabotaggio» spiegò l’Ufficiale Tattico. «Senza teletrasporto, non può essere stata una sola persona».

   «E i miei sensori non hanno rilevato teletrasporti interni» aggiunse Terry.

   «I sabotatori sono almeno due, ma potrebbero anche essere tre o quattro» riprese Lantora. «Chiunque sia stato, era del mestiere. Non abbiamo trovato impronte, tracce di DNA, niente!» ammise, frustrato.

   «Uhm... e sul versante medico, come vanno le cose?» volle sapere Chase.

   «Tutti i telepati stanno bene» rispose Neelah. «Le capsule hanno funzionato egregiamente. Purtroppo ci sono quelle due vittime, la dottoressa Miur e l’istruttore Pivak. Ho già effettuato l’autopsia». L’Aenar si schiarì la voce, mentre gli sguardi restavano puntati su di lei.

   «Gran parte del loro cervello era bruciata. Non so come dirlo altrimenti, senza scendere nei dettagli neurologici. È come se un’immensa energia bio-elettrica avesse surriscaldato i neuroni e fritto ogni sinapsi. Non avevo mai visto nulla del genere... se non nei rapporti delle altre navi che entrarono nella Barriera».

   «Vorrei che controllasse anche l’ambasciatore Fanior» disse il Capitano. «La sua reazione in plancia è stata...».

   «Semplice stress elettrico, Capitano» si affrettò a spiegare l’interessato. «Mi rende difficile mantenere la forma umana. Ma il cervello Kelvano è molto resistente; non preoccupatevi per me».

   «A quanto s’è visto, la potenza cerebrale attira l’influsso della Barriera, anche se ci sono molti fattori in gioco» obiettò Ilia. «Non sappiamo come potrebbe reagire la fisiologia kelvana, ma le raccomando di sottoporsi a una visita. Meglio ancora, si faccia controllare periodicamente per un po’ di tempo. Ricordo che, trecento anni fa, la dottoressa Dehner dell’Enterprise manifestò i sintomi della Barriera con un certo ritardo».

   «Se insiste...» cedette Fanior. «Ma parliamo un attimo del viaggio che ci attende. Come procederete verso Andromeda?».

   «La cavitazione quantica è fuori discussione» spiegò T’Vala. «Stiamo parlando di una destinazione così lontana che anche in cavitazione servirebbero molti anni per raggiungerla. Perciò sfrutteremo il propulsore cronografico, che trasla istantaneamente l’astronave da un punto all’altro. L’abbiamo collaudato in guerra e possiamo dire che ormai sia affidabile. Però non faremo un unico balzo».

   «No?» si stupì Fanior.

   «Sarebbe un’imprudenza, non conoscendo i dettagli della destinazione» spiegò la timoniera. «Faremo almeno una decina di balzi. Dopo ciascuno, l’Enterprise ricalcolerà la sua posizione e quella di Andromeda, per correggere gli errori e rilevare eventuali pericoli. Ma c’è anche uno scopo esplorativo» si animò. «Lo spazio intergalattico non è del tutto vuoto, anzi ospita stelle espulse dalle loro galassie, coi relativi sistemi planetari. Per dare una cifra, si stima che ben il 10% di tutte le stelle dell’Universo sia intergalattico. Fra un balzo e l’altro, quindi, l’Enterprise passerà giorni o anche settimane a esplorare in modo convenzionale. È l’unica occasione per studiare sistemi stellari che, forse, non vengono né dalla Via Lattea, né da Andromeda».

   «Ed è rilevante? La nostra missione è raggiungere l’Impero Kelvano» insisté Fanior. «Dovremmo farlo il prima possibile, senza distrazioni».

   «La nostra missione è aprire la rotta per Andromeda» corresse Chase. «Così le prossime navi sapranno cosa aspettarsi. Una volta ad Andromeda, i nostri obiettivi sono molteplici. I Kelvani sono solo una delle civiltà che speriamo d’incontrare».

   «Quanto durerà il viaggio?» chiese l’Ambasciatore.

   «Alcuni mesi, probabilmente» rispose T’Vala. «Non è male, per la prima missione intergalattica della Flotta».

   «L’Impero Kelvano ha atteso per seicento anni» notò Chase. «Qualche mese in più non farà differenza».

   «Probabilmente no» ammise Fanior. «Poiché la nave è vostra, è giusto che si faccia alla vostra maniera. Aspetterò».

 

   Finito il turno, Chase decise di non recarsi subito nel suo alloggio. Aveva bisogno di distrarsi e se possibile di rilassarsi. Decise di visitare il museo dell’Enterprise. Era una novità, inaugurata dopo la ristrutturazione. C’erano cimeli della Flotta Stellare, alcuni dei quali provenienti dalle precedenti Enterprise. E c’era una gran quantità di manufatti provenienti dai pianeti dell’Unione. Alcuni pezzi erano di notevole valore, per la loro antichità o rarità. Chase passeggiò tra le vetrine, osservando i reperti con interesse. L’archeologia e la storia dell’arte lo avevano sempre affascinato. Se non ci fosse stata la Flotta Stellare, probabilmente avrebbe indirizzato lì la sua carriera.

   «Capitano, immaginavo di trovarla qui» lo salutò Ilia Dax, avvicinandosi con le mani giunte dietro la schiena, il suo gesto caratteristico.

   «Ilia, anche lei apprezza questa raccolta?» chiese il Capitano.

   «Oh, sì» annuì la Trill, avvicinandosi a una teca che conteneva tricorder e altri strumenti della Flotta in uso fra il XXII e il XXIII secolo. «Alcuni di questi gioiellini li ho usati io stessa. Ricordo bene com’era!» sospirò, nostalgica.

   «È un bene che siamo finalmente riusciti a inaugurare il museo» commentò Chase, mentre continuavano a passeggiare fra le teche. «Ora che ci spingiamo tanto lontano da casa, è importante avere qualcosa a cui ancorarci. Inoltre le varie specie a bordo potranno capirsi meglio. Conoscere le altre culture rende più tolleranti».

   «Ecco, al riguardo...» cominciò Ilia.

   «Sento che è una grana» disse subito Chase. «Avanti, spari».

   «Alcuni Bajoriani ultra-ortodossi hanno chiesto la rimozione di tutti i manufatti religiosi appartenenti a fedi diverse dalla loro» disse la Comandante, confermando i timori del Capitano. «Sostengono che la loro presenza sia offensiva e blasfema».

   «Gli ha fatto notare che gli altri potrebbero dire lo stesso dei loro manufatti?» chiese il Capitano, soffermandosi a osservare alcuni idoletti bajoriani, racchiusi in una teca. Raffiguravano i Profeti, le entità incorporee che vivevano nel Tunnel Spaziale Bajoriano ed erano adorate come dèi.

   «Hanno detto che è irrilevante, dal momento che esistono solo i Profeti» sospirò Ilia.

   «Gli dica che a casa loro possono fare ciò che vogliono, ma qui devono rispettare le nostre leggi» borbottò Chase, irritato.

   «L’ho fatto. Erano contrariati... hanno detto che la grazia dei Profeti rifuggirà dall’Enterprise» sospirò la Trill.

   «È stato prima del sabotaggio?» si allarmò il Capitano.

   «Sì, ma non possono essere stati loro. In quel momento gli ultra-ortodossi erano tutti nel parco, a distribuire santini ai passanti. Ci sono parecchi testimoni a confermarlo» spiegò Ilia. «E poi i segni vitali bajoriani sono inconfondibili. Se alcuni fossero sgattaiolati via, Terry li avrebbe rilevati».

   «Va bene, escludiamoli... per ora» disse Chase. «C’è altro di cui voleva parlarmi?».

   «In effetti... ci sarebbe una faccenda personale...» annuì Ilia, stranamente imbarazzata. Guardava fissa il pavimento e si tormentava una ciocca di capelli.

   Chase la guardò meravigliato. Conosceva Ilia come una Comandante esperta, padrona di ogni situazione. La memoria secolare del suo Simbionte le donava una calma sovrumana. Ma ora gli sembrava giovane e nervosa. «Avanti, che succede? Sa che può dirmi tutto» la esortò, chiedendosi cosa potesse metterla tanto a disagio.

   «Capitano, lei conosce lo zhian’tara?» chiese Ilia, ridandosi un contegno.

   «È il rituale con cui i Trill Uniti rievocano le personalità degli ospiti precedenti» annuì Chase. «So che, nel rito completo, le personalità sono trasferite per qualche ora in altre persone... solitamente gli amici del praticante. Non mi starà chiedendo di ospitare qualcuno dei suoi predecessori?!» si allarmò. Per un Trill Unito era una richiesta ragionevole da fare agli amici. Ma Chase rifuggiva dall’idea di dare a qualcun altro il controllo del suo corpo. Anche se quel qualcuno era defunto da secoli.

   «No, Capitano» assicurò la Trill. «Avendo undici predecessori, non voglio scomodare così tanta gente. E poi, negli ultimi tempi, il rituale è stato criticato per lo stress neurale cui sottopone le persone coinvolte. In certi casi, le personalità riportate a galla sono così forti da non voler abbandonare i corpi presi in prestito».

   «Di bene in meglio» si disse Chase, deglutendo. «Ilia, che vuole da me, esattamente?» le chiese.

   «Solo l’autorizzazione a procedere con l’Antico Zhian’tara» rispose la Trill. «È la versione arcaica del rituale, ancora praticata da chi – come me – ha molte vite passate. Invece di trasferire le personalità in altre persone, le portiamo a galla una alla volta, lasciando che c’influenzino per un breve periodo. Questo ci permette di... come dire... digerirle meglio. Somiglia a un’altra nostra pratica, il Rito dell’Emersione».

   «Mi faccia capire: lei sarà... posseduta dalle personalità dei suoi predecessori?» chiese il Capitano, inquieto.

   «Non esageri» disse Ilia, quasi comica nel suo tentativo di minimizzare la faccenda. «Assorbirò qualcuno dei loro tratti, dei loro vezzi... tutto qui. Lo zhian’tara, in una forma o nell’altra, è un obbligo che i Trill Uniti devono espletare, almeno una volta nella vita. È consigliabile farlo al più presto dopo l’Unione, ma con la guerra e tutto il resto mi è sempre mancato il tempo. Ora, però, viaggeremo per mesi nello spazio intergalattico...» disse speranzosa.

   «... e conta di finire prima che arriviamo a destinazione» capì Chase. «Quanto durerà la cosa?».

   «Beh, in questa vecchia forma del rituale l’influsso di ogni personalità dura una quindicina di giorni» spiegò Ilia, tradendo un certo nervosismo.

   «Con le sue undici vite, sarebbero più di cinque mesi!» protestò il Capitano. «Non posso perderla così a lungo. Per allora potremmo aver già raggiunto Andromeda».

   «Ma non mi perderà affatto» insisté Ilia. «Sarò in grado di lavorare normalmente. Avrò solo qualche lieve differenza caratteriale, ecco tutto. Potevo farlo senza nemmeno parlargliene e forse non avrebbe notato la differenza. Ma ho voluto essere onesta con lei, signore. Se mi ordina di lasciar perdere, obbedirò. Ma spero che non mi negherà l’esperienza!» disse trepidante.

   «Ilia, mi ascolti» disse Chase, cercando le parole giuste, che non la ferissero. «In questi anni lei mi ha fatto pochissime richieste personali. Si è ampiamente meritata di farmene ora. E mi creda, non vorrei mai privarla di un’esperienza così importante per lei. È solo che stiamo andando verso uno spazio incognito e io non so in che misura le personalità fantasma potrebbero condizionarla. Vorrei venirle incontro, dico davvero, ma...».

   «Capisco, Capitano» disse Ilia, con un velo di delusione. «Deve pensare all’efficienza degli ufficiali. Mi scuso per la richiesta inopportuna. Farò il rituale, prima o poi... quando non arrecherà disturbo». Fece per andarsene.

   «No, aspetti!» la trattenne Chase. «Sto ancora cercando di capire. Non le nascondo che questo mumbo-jumbo Trill m’inquieta. Che rapporto avrà lei, con tutte quelle voci? Che rapporto ha, adesso?» domandò. Per quanto la conoscesse da anni, non poteva sapere che si prova a ricordare delle vite passate.

   «Venga, le mostro una cosa» disse Ilia. Condusse Chase davanti a una grande vetrina, che custodiva alcuni dei reperti più interessanti del museo. Era la collezione privata del Capitano Picard, grande appassionato d’archeologia. Non avendo eredi, nel suo testamento aveva lasciato molte cose ai musei della Flotta Stellare. Ora i pezzi migliori erano stati trasferiti sull’Enterprise-J. Alla decisione non era estranea la scaramanzia, come se gli oggetti appartenuti a Picard fossero delle reliquie, capaci di proteggere l’astronave. C’erano manufatti provenienti dai pianeti più disparati. Un flauto ressikano, ultimo cimelio del perduto pianeta Kataan. Una maschera rituale proveniente dagli Archivi D’Arsay. Uno strano cristallo rosa, irregolare, che Chase non ricordava di aver mai visto e non riuscì a identificare. Il pezzo più intimo era senz’altro l’album di famiglia dei Picard, un vecchissimo tomo rilegato, con fotografie incollate a mano.

   Ma ciò che Ilia indicò a Chase era una strana statuetta in ceramica grigio-verdastra. Consisteva in un pingue corpo cavo, contenente tante statuine più piccole. Il corpo principale aveva lineamenti anfibi e gli occhi chiusi, come se stesse dormendo e forse sognando. Si avvitava al basamento all’altezza della vita, ma al momento era posato lì accanto, per consentire la visione delle statuine minori. Queste erano raggruppate dentro la base, come pulcini in un nido. Avevano tutte espressioni diverse, che esprimevano una vasta gamma d’emozioni.

   «Sembra una matrioska» commentò Chase, chinandosi a leggere la targhetta.

   «È un Naiskos kurlano» spiegò Ilia. «La civiltà di Kurl fiorì molti millenni fa, venendo influenzata dai Trill. All’epoca praticavamo già l’Unione e questo segnò profondamente i Kurlani. Giunsero alla conclusione che un individuo è più di un singolo essere, poiché si compone di tante voci... tante anime, che parlano incessantemente. Alcune sono più forti e reclamano la nostra attenzione. Ma gli eventi della vita possono indurci a cambiare preferenze, ascoltando quelle che prima ignoravamo. Ogni voce ha i suoi desideri, il suo stile, la sua visione del mondo».

   «Interessante... anche tra gli Umani c’è chi pensa che siamo uno, nessuno e centomila» commentò Chase, osservando gli esserini più piccoli. «So che la civiltà Kurlana è molto antica. Da quanto tempo voi Trill praticate l’Unione?» chiese.

   «Dalla preistoria; abbiamo iniziato almeno 24.000 anni fa. L’Antico Zhian’tara non è roba della settimana scorsa, Capitano» sorrise Ilia, vedendo lo stupore di Chase. «Questo Naiskos, invece, ha circa 12.000 anni. Appartiene alla Terza Dinastia, come indicano gli occhi chiusi, dalla policromia verde. Un capolavoro del Maestro di Tarquin Hill, di cui conosciamo le opere ma non il nome. Il suo stile anticipò i tempi di tre secoli» snocciolò Ilia con naturalezza.

   «S’interessa anche di storia dell’arte?» si stupì Chase.

   «Io personalmente non molto. Ma il mio decimo ospite, Martis, era un’artista rinomato. Ho un paio delle sue sculture olografiche nel mio alloggio e tutta la sua conoscenza qui» spiegò Ilia sfiorandosi il ventre, dove riposava il Simbionte.

   «Capisco perché mi ha portato a vederlo» disse il Capitano, guardandola negli occhi. «Lei si sente sopraffatta dalle voci dei suoi predecessori e vorrebbe ascoltarli uno alla volta, per comprenderli meglio».

   «È così» annuì la Trill. «Credo che mi sarebbe di grande utilità».

   «Beh, in tal caso...» esitò Chase. Non gli andava di avere un Primo Ufficiale instabile e soggetto a improvvisi sbalzi d’umore. Ma d’altro canto si fidava di Ilia e non voleva privarla di un’esperienza così importante per lei. «Ha la mia autorizzazione» cedette, per la gioia della Trill.

   «Grazie, Capitano. Vedrà che riuscirò a controllare i miei predecessori» garantì la Comandante, e si ritirò soddisfatta.

   «Lo spero» pensò Chase, dando un’ultima occhiata alla statua infarcita di esserini.

 

   Le luci erano quasi del tutto spente, nell’alloggio di Ilia, così che la fiammella fosse più visibile. Si levava al centro di un piatto bronzeo, su cui l’addetto della Commissione Simbiosi aveva versato un liquido simile a melassa, dall’odore pungente. Solo lo stoppino si levava al di sopra della brodaglia.

   «Era da un pezzo che non praticavo lo zhian’tara nella sua forma primigenia» ammise il Trill, posando il piatto su un tavolino dalle gambe corte. «Sarà interessante».

   Ilia strinse le mani dietro la schiena, un po’ a disagio. Era già un miracolo avere un membro della Commissione sull’Enterprise; non poteva pretendere che fosse anche esperto del rituale più antico. «Mi sono documentata sugli effetti» disse. «So che non potrò interrompere il rito, una volta avviato. Le varie personalità fluiranno per mesi, alternandosi dopo una quindicina di giorni. Confesso che mi preoccupa la durata del rito. Anche il Capitano era incerto... ho faticato a convincerlo».

   «Le altre specie non possono capire l’importanza dei riti dell’Unione» disse l’esperto, comprensivo. «Considerando il numero delle sue vite passate, e quanto sono dense di ricordi anche drammatici... ritengo che lei abbia scelto saggiamente. L’Antico Zhian’tara è quel che ci vuole per mettere ordine. All’inizio le sembrerà che il predecessore sia lì con lei, nella stanza; ma col passare dei giorni la sua voce sarà sempre più interiorizzata. Quando l’avrà riassorbita a sufficienza, subentrerà l’ospite successivo. Faccia tesoro dell’esperienza... ne approfitti per riscoprire se stessa. Ora, se si sente pronta...».

   «Lo sono» disse Ilia, imponendosi la calma.

   «Allora procediamo» disse il Trill.

   Ilia sedette a gambe incrociate davanti al basso tavolino, fissando il bagliore sempre mutevole della fiamma. L’addetto s’inginocchiò dietro di lei, posandole le mani sulle tempie. «Osservi la fiammella e svuoti la mente. Faccia respiri lenti e profondi. Se le vengono dei ricordi, non c’indugi; li lasci scivolare via» raccomandò. Dopo di che recitò le parole del rituale, nell’antica lingua Trill. Nominò tutti i precedenti ospiti di Dax, dalla prima all’ultimo: Lela, Tobin, Emony, Audrid, Torias, Joran, Curzon, Jadzia, Ezri, Martis e Zarden. L’invisibile energia neurale fluì dal Simbionte, risalì la spina dorsale e raggiunse il cervello di Ilia. I suoi occhi si arrovesciarono per un attimo all’indietro e tutto il suo corpo oscillò, tanto che l’esperto dovette sorreggerla.

   «Tutto a posto?» chiese gentilmente, aiutandola a rialzarsi.

   «Sì... mi sento un po’ frastornata, tutto qui» ammise Ilia. Si guardò intorno, come aspettandosi di vedere la prima ospite di Dax. Ma l’alloggio era vuoto, salvo loro due.

   «Il rito farà effetto tra pochi minuti» spiegò l’esperto. «Vuole che resti, per aiutarla a familiarizzare?».

   «Grazie, ma credo che non ce ne sia bisogno» rispose Ilia. Per quanto apprezzasse l’offerta, il rito le sembrava una cosa molto personale, da gestire in autonomia.

   «Allora la lascio» disse il Trill, raccogliendo il suo kit degli strumenti. «Se qualcosa la turbasse, o se avesse semplicemente voglia di parlare, la mia porta è sempre aperta. Naturalmente può discuterne anche col Consigliere Apsu, sebbene in questa faccenda posso definirmi più qualificato» ammise, con un certo orgoglio professionale.

   «Certo. Arrivederci, e grazie di tutto» lo salutò Ilia, accompagnandolo alla porta. Quando fu sola nel suo alloggio, riaccese le luci e spense la fiammella.

   «Ciao, Ilia. Scelta interessante... ho visto molti zhian’tara, ma nessuno così!» disse una voce femminile. Sembrava venire dall’esterno, ma al tempo stesso da dentro di lei. Era straniante.

   «Chi parla? Sei tu, Lela?» chiese Ilia, guardandosi attorno spaesata.

   «E chi, se no?» chiese la voce incorporea, in tono divertito. «Considerando che probabilmente è il mio ultimo zhian’tara, sono lieta che mi sia dato più tempo per conoscerti!».

   Ilia provò un brivido al pensiero che quella persona, morta da secoli, era ancora in grado di parlarle. Come definire quell’entità: un’eco, un ricordo, un fantasma? Corse allo specchio: il riflesso le restituì l’immagine di una Trill anziana, un po’ curva in avanti, ma con un gran sorriso sul volto. Indossava un abito rosso scuro, di una foggia che Ilia aveva visto solo nelle immagini storiche. «Ciao, Lela» mormorò, deglutendo.

 

   In quello stesso momento, anche T’Vala era nel suo alloggio e fissava una fiammella. Era già in pigiama, seduta a gambe incrociate davanti a una lampada vulcaniana, coperta da intricati caratteri simili a chiavi di violino. La meditazione serale era un’abitudine a cui raramente rinunciava, ma stavolta proprio non le riusciva di concentrarsi. Gli occhi le bruciavano e avvertiva un ronzio nelle orecchie. Forse erano i postumi dell’incidente occorso all’Enterprise. La Barriera Galattica esigeva un pedaggio, rifletté T’Vala. Quando gli scudi avevano ceduto, le aveva rifilato una bella scossa. Ma l’infermiera che l’aveva esaminata successivamente non aveva rilevato scompensi. Eppure la timoniera si sentiva strana. Siccome gli occhi continuavano a bruciarle, decise di lasciar perdere con la meditazione e di andare a lavarseli. Spense la lampada con un soffio, lasciando che il filo di fumo si esaurisse gradualmente, e si alzò. Per un attimo barcollò, in preda alle vertigini.

   «Uuuhhh...» gemette, recandosi in bagno. Si lavò per bene la faccia, trovando sollievo. Quando rialzò la testa dal lavandino, con l’acqua che le gocciolava ancora dal viso, vide il suo riflesso nello specchio. I suoi occhi non avevano pupilla. Erano invasi da una luminosità perlacea, tendente all’argento. Il marchio della Barriera!

   T’Vala gemette e tuffò di nuovo la faccia nel lavandino, sfregandosi gli occhi con l’acqua, come se bastasse a curarli. Ansante, rialzò il volto, mentre l’acqua continuava a scorrere. I suoi occhi erano quelli di sempre, con l’enorme pupilla tipica dei Betazoidi. Non c’era traccia del bagliore argenteo.

   «Devo essermi suggestionata...» mormorò T’Vala, chiudendo il rubinetto. Drizzò la schiena e respirò a fondo, calmando il batticuore. La logica le diceva che quel sintomo non andava sottovalutato. Doveva recarsi immediatamente in infermeria e chiedere a Neelah di farle una scansione cerebrale completa. Ma T’Vala era  Vulcaniana solo per metà. Un’altra voce, dentro di lei, le diceva di non preoccuparsi... quell’episodio era solo un’auto-suggestione. Se la Barriera avesse cominciato a trasformarla, i suoi occhi sarebbero rimasti perlacei, giusto? Invece erano di nuovo normali. Era tutto a posto. Se li avesse visti cambiare ancora, avrebbe preso provvedimenti... ma fino ad allora non c’era ragione di scomodare l’infermeria e far preoccupare Lantora. L’unica cosa che le serviva, adesso, era una buona dormita. Sentiva il sonno scivolarle addosso come una coperta calda e invitante. Si diresse spedita in camera da letto e si lasciò cadere sulle coperte, con la faccia sprofondata nel cuscino. Si addormentò all’istante, di un sonno profondo e senza sogni.

 

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Capitolo 3
*** Andromeda ***


-Capitolo 2: Andromeda

 

   Quattro mesi dopo, l’Enterprise s’inoltrava nella periferia di Andromeda. Era una galassia enorme: conteneva mille miliardi di stelle, il triplo della Via Lattea. Anche solo entrarvi richiedeva del tempo, a velocità di cavitazione quantica. Non essendovi una Barriera energetica paragonabile a quella che avvolgeva la Via Lattea, era difficile stabilirne i confini. Le stelle si diradavano gradualmente, dal nucleo giallastro e dai bracci azzurrini verso l’alone, sfumando con impercettibile lentezza nel vuoto intergalattico. Così, anche dopo l’ultimo salto cronografico, l’Enterprise si trovava nella periferia galattica, con poche stelle e lunghi tempi morti fra un sistema e l’altro.

   La cosa era stata prevista da Chase, che pensava di sfruttarla a suo vantaggio. Man mano che si addentrava in Andromeda, l’Enterprise eseguiva le analisi, cercando pianeti abitati, astronavi o trasmissioni subspaziali. Qualunque indizio sulla situazione di Andromeda sarebbe stato di grande aiuto. Ma i giorni si susseguirono senza risultati. I sensori a lungo raggio non rilevarono mondi abitati, né stazioni spaziali, e nemmeno astronavi. Non c’erano trasmissioni subspaziali. Con il passare del tempo, questo silenzio divenne sempre più allarmante. Persino le sonde inviate secoli prima dalla Federazione tacevano. Inquieto, Chase ordinò di raggiungere la sonda più vicina, dopo averne calcolata la probabile posizione. Il margine d’incertezza era ampio. Per quanto l’Enterprise avesse i sensori più avanzati della Flotta, c’era la seria possibilità che la sonda le sfuggisse. Siccome il nervosismo serpeggiava tra l’equipaggio, e ancor più tra i civili, il Capitano indisse una conferenza, per chiarire la situazione attuale e le prospettive future.

   All’ora fissata, il salone delle conferenze era gremito. Siccome non c’era posto per tutti, molti seguivano il convegno da altre aree pubbliche della nave o semplicemente dai loro alloggi. Il Capitano e gli ufficiali superiori presero posto sul palco, seduti su una fila di sedie lungo la parete di fondo. Toccava a Terry esporre.

   «Dov’è Ilia?» domandò Chase, notando l’assenza del Primo Ufficiale. «Sapeva di questo evento».

   «Diamole ancora qualche minuto...» suggerì Grenk, ma la folla cominciava già a rumoreggiare, impaziente.

   «Chase a Dax, si presenti subito in sala conferenze» disse il Capitano, premendosi il comunicatore. Non ebbe risposta. «Ilia, mi sente?» chiese, ottenendo solo silenzio. «Sigh... da quando ha la personalità di Curzon, tende a distrarsi» sospirò. «Dov’è ora?» chiese a Terry.

   «La chiamo subito» disse l’IA, eludendo la domanda.

 

   La discoteca dell’Enterprise era aperta a quasi tutte le ore e persino durante la conferenza c’erano degli avventori. La musica sparata a tutto volume, le luci stroboscopiche, le cubiste di varie specie rendevano facile distrarsi. Per non farsi intralciare dalla folla, Terry si presentò in forma intangibile. Localizzata Ilia, si diresse a passo svelto verso di lei, attraversando la gente come un fantasma. «Comandante Dax!» la chiamò, con voce decisa.

   «Terry, che sorpresa! Vieni, unisciti a noi!» biascicò Ilia, mezza sbronza. Era in abiti civili e reggeva un cocktail con l’ombrellino, pieno a metà. Stava abbracciata a un’Orioniana e a una Risiana, le cui forme procaci erano sottolineate, più che coperte, da lembi di nastro adesivo nero e dorato. Se non si fosse aggrappata a loro, probabilmente sarebbe cascata a terra.

   «Comandante, si richiede la sua presenza immediata in sala conferenze» comunicò Terry in tono diplomatico.

   «Eeehhh?! S-si sbaglia... la c-conferenza è domattina!» balbettò la Trill.

   «È già domattina» spiegò l’IA. Al suo occhio clinico non sfuggirono le condizioni di Ilia. «Dalle palpebre ipotoniche, la voce impastata e la scarsa coordinazione motoria deduco che lei sia ebbra» diagnosticò. «Posso consigliarle di assumere un acceleratore metabolico, per riprendere lucidità?».

   «Parla meno difficile... hic!» singhiozzò Ilia, mentre le sue accompagnatrici ridacchiavano. «Aspetta... hai detto che è già mattina?!». I suoi occhi si spalancarono, invasi dal terrore.

   «Esatto. I suoi colleghi l’aspettano in sala conferenze».

   «Beh, ma non posso... insomma, non mi reggo in piedi!» farfugliò Ilia, rovesciando parte del suo drink. L’Orioniana glielo prese con premura.

   «Forse basterà una doccia fredda» disse Terry, squadrandola con sufficienza. «Intanto deve congedare le sue amichette».

   «Sono ragazze-dabo, un mestiere più che rispettabile!» disse Ilia, lasciandole finalmente andare. «Ai miei tempi...».

   «I tempi di Curzon, vuoi dire. Sono passati da un pezzo» disse una Trill, comparendo a fianco di Terry. Aveva occhi azzurri e vividi; i capelli castano scuro erano raccolti in una coda di cavallo.

   «Fammi indovinare... tu sei Jadzia?» chiese Ilia, con la fronte aggrottata, indicando quello che per chiunque altro era uno spazio vuoto. La personalità godereccia di Curzon la stava lasciando, ma questo non cancellava la sbornia.

   «Certo che sono Jadzia!» disse fieramente la nuova arrivata. «Ora rimettiti in sesto, o farai una pessima figura coi colleghi. Muoviti!» la incalzò, battendo le mani.

   «Okay... ho finito con voi» disse Ilia alle ragazze-dabo, prendendo le distanze.

   «Peccato» disse l’Orioniana, e con la sua collega tornò ai tavoli del dabo, in cerca di altri giocatori da agganciare.

   «Ha cambiato personalità» constatò Terry.

   «Vorrei averla cambiata ieri sera» disse Ilia, precipitandosi verso l’uscita. «Devo cambiarmi... farò tardissimo. Che dirò al Capitano?!» si disperò, sgomitando tra la folla.

   «Gli dica che era in esplorazione» la canzonò Terry, scomparendo mentre la Trill le passava attraverso.

   «Questo è il peggior zhian’tara della mia vita!» commentò Jadzia.

   «E l’unico della mia, per fortuna» borbottò la Comandante.

 

   «Signore e signori, richiedo la vostra attenzione» disse Terry, salendo sul podio. I mormorii del pubblico si azzittirono subito: tutti volevano essere aggiornati sulla situazione. «Siamo ad Andromeda ormai da due settimane e ci addentriamo sempre più tra le stelle. I miei sensori sono all’erta, ma non ho ancora rilevato tracce di vita intelligente. In effetti, non ho trovato vita di nessun tipo, nemmeno unicellulare. Non ho captato trasmissioni, né trovato tracce di civiltà passate. Sebbene sia ancora presto per saltare alle conclusioni, è possibile che in Andromeda la vita sia più rara che nella nostra Galassia.

   L’Unione, tuttavia, conosce almeno due specie senzienti che provengono da Andromeda: i Kelvani e i Nacene. Nessuna delle due specie è umanoide, sebbene possano assumere queste fattezze, essendo mutaforma. Per il momento sono le uniche piste da seguire. Riguardo ai Kelvani, cedo la parola al loro rappresentante, l’Ambasciatore Fanior».

   Il Kelvano si fece avanti, in forma umana. «Grazie, Tenente Comandante» disse, sostituendola sul podio. «Come saprete, la mia specie è nativa del pianeta Kelva, da millenni capitale di un fiorente Impero. Noi seguiamo un preciso codice d’onore, per il quale non esitiamo a sacrificarci. Possediamo comunque il senso della giustizia e non infieriamo sui popoli assoggettati» disse, come se fosse nato lui stesso nell’Impero, anziché in una colonia isolata. «Quando i mondi kelvani furono colpiti da strani aumenti di radiazioni, essi inviarono degli esploratori nella Via Lattea, per... determinarne lo status» disse diplomaticamente.

   «Dì pure che eravate la testa di ponte per l’invasione» pensò Chase. Aveva letto i diari di Kirk e sapeva come fossero andate le cose. Persa la loro nave nell’attraversamento della Barriera Galattica, i Kelvani avevano chiesto aiuto e l’Enterprise originale li aveva soccorsi. Subito i Kelvani ne avevano assunto il controllo, con metodi brutali. L’avevano diretta verso Andromeda, condannando l’equipaggio a un viaggio plurisecolare, di cui nessuno avrebbe visto la fine. Ma per controllare la nave avevano preso aspetto umano, acquisendo nuove emozioni e sensazioni. Se n’erano lasciati sedurre a tal punto da abbandonare la loro missione; così erano rimasti nella Via Lattea.

   «I miei avi raggiunsero un compromesso con la Federazione» proseguì Fanior. «Mentre loro si stabilivano su Kelva II, la Federazione inviò sonde automatiche ad Andromeda, per proporre ai Kelvani di trasferirsi pacificamente. Le sonde, costruite con la tecnologia del XXIII secolo, viaggiarono per quasi trecento anni prima di giungere a destinazione. Sono arrivate alcuni anni fa e dovrebbero aver trasmesso l’offerta. Ma hanno anche captato messaggi allarmati» aggiunse, corrucciato. «Pare che l’Impero Kelvano sia in grave difficoltà. È costretto ad abbandonare un pianeta dopo l’altro, incalzato da un misterioso nemico, detto Scourge. Purtroppo le sonde stesse non danno più segnale ed è difficile rintracciarle. Colgo l’occasione per esortarvi a raggiungere la nostra capitale, per meglio comprendere la situazione. Vi ho già fornito le coordinate di Kelva Primo...».

   «Raggiungeremo il vostro mondo al più presto» garantì Chase. «Ora, se vuole restituire la parola all’Ufficiale Scientifico...».

   Fanior lasciò il podio a Terry e tornò a sedersi. L’intera conferenza gli sembrava una perdita di tempo. Intanto giunse Ilia, trafelata. Indossava l’uniforme, ma aveva i capelli un po’ disordinati e la faccia di chi ha una sbornia colossale. Sedette in silenzio, a testa bassa, evitando gli sguardi dei colleghi. Chase non volle infierire.

   «L’altra specie nota di Andromeda sono i Nacene, enigmatiche forme di vita sporocistiche» riprese Terry. «Possiedono una tecnologia sofisticata e riescono a viaggiare nel subspazio. Gli unici contatti con la Federazione risalgono al XXIV secolo, quando la Voyager incontrò due di loro.

   Il più anziano, detto semplicemente il Custode, aveva l’aspetto di un’informe massa gelatinosa. La più giovane, chiamata Suspiria, era sottile e mobile, oltre che dotata di appendici. Entrambi avevano vasti poteri telepatici e telecinetici; potevano creare sofisticate illusioni e assumere forma umana. Vivevano per millenni, ma infine morivano, come accadde al Custode. Questi aveva trascinato la Voyager e altre navi presso il pianeta Ocampa, che si era auto-imposto di proteggere. Controllava una grande stazione spaziale, che andò distrutta dopo la sua morte.

   Quanto a Suspiria, ha anch’essa una stazione, più piccola, che ospita una colonia di Ocampa ad anni luce di distanza. Poiché l’arco vitale degli Ocampa è brevissimo, Suspiria li aiutò a prolungarsi la vita; li addestrò anche a usare i loro poteri mentali. Dopo il passaggio della Voyager, non sapevamo se quella colonia esistesse ancora, ma pochi anni fa i suoi esponenti sono riusciti a contattare la Flotta. Hanno riferito che la loro benefattrice se ne andò improvvisamente un secolo fa e da allora non l’hanno più vista. Disse solo che doveva tornare a casa, ma non volle spiegare il motivo. Sembrava che qualcosa la preoccupasse».

   «Forse era diventata conscia della Scourge» suggerì Fanior.

   «Può darsi» ammise Terry. «La sua familiarità col subspazio dovrebbe permetterle di viaggiare in fretta, anche da una galassia all’altra. Dottoressa Neelah, ci spieghi come sarà possibile rintracciare lei o altri della sua specie» disse, invitando l’Aenar sul podio.

   «Non è facile rilevare le forme di vita sporocistiche» ammise la biologa. «Per questo ho preso a bordo i resti cristallizzati del Custode, recuperati dalla nave-museo Voyager. Un favore per cui devo ringraziare il dottor Joe, che un tempo era Medico Olografico d’Emergenza su quella nave. Sebbene il Custode sia indubbiamente morto, i suoi resti vibrano in prossimità d’altre creature sporocistiche: così segnalarono alla Voyager la presenza di Suspiria. Questo, però, funziona solo se gli altri Nacene sono nelle immediate vicinanze. Per il momento ignoriamo dove si trovino le loro basi in Andromeda, quindi non ci resta che la pista kelvana».

   «Va bene, dottoressa» disse Chase, invitandola a risedersi. Fu il suo turno di andare sul podio. «Ho voluto questo incontro per assicurarmi che tutti, a bordo, siano consci della situazione. Poiché non abbiamo rilevato trasmissioni, e anche la ricerca delle sonde federali non sta dando esito, è giunto il momento di recarci a Kelva Primo. Terry, informi la plancia: facciamo rotta verso Kelva, a massima cavitazione».

   «Sì, Capitano» annuì l’IA. Nello stesso momento la sua proiezione in plancia riferì gli ordini a T’Vala.

   «Sapevo che l’avrebbe detto» commentò la timoniera. «Ho già inserito le coordinate». L’Enterprise manovrò con i motori a impulso, puntando dritta verso Kelva Primo. Il deflettore s’illuminò e la nave balzò nel condotto di cavitazione.

   «Saremo a destinazione tra cinque giorni» riferì Terry in sala conferenze.

   «Grazie, Terry. Non sappiamo di preciso cosa troveremo» disse Chase, rivolto al pubblico. «Confido pertanto nella disciplina e nella responsabilità di tutti. Se ci sono domande, io e i miei ufficiali siamo qui per rispondere».

   «Se permette, ne avrei una io» intervenne Fanior. «Lei ipotizza che ad Andromeda la vita sia più rara, rispetto alla Via Lattea. Ricordo che ne parlammo anche quando l’Enterprise lasciò la stazione Jupiter. In quell’occasione lei, Capitano, citò la teoria dei Proto-Umanoidi. Potrebbe approfondire?».

   «È una questione complessa» disse Chase. «Per una panoramica sull’argomento, cedo la parola a Terry».

   «I Proto-Umanoidi – detti anche Precursori, Progenitori e Preservatori – sono una delle specie più antiche ed enigmatiche della Via Lattea» disse l’IA, facendosi di nuovo avanti. «La loro esistenza fu teorizzata già ai primordi dell’esplorazione spaziale, quando gli umanoidi scoprirono la somiglianza genetica che li legava e incontrarono persino comunità della loro specie trasferite su altri mondi. Ma una conferma venne solo nel 2369, con la ricerca del professor Galen. Egli raccolse il codice genetico di numerose specie, native di pianeti diversi, anche molto lontani fra loro. Rilevò i marcatori genetici comuni e scoprì un modo per correlarli, estraendo dal DNA un algoritmo, traducibile in un messaggio audio-video: la “firma” dei creatori. La ricerca delle ultime specie costò la vita al professor Galen, ma il suo lavoro fu terminato dal Capitano Picard e dal suo equipaggio.

   Si ebbe così il messaggio di una Progenitrice, che confermava il loro operato e invitava tutte le specie umanoidi a perseguire pace e fratellanza. L’ologramma fu diffuso in tutta la Federazione, suscitando però reazioni contrastanti. All’entusiasmo di alcuni si opposero lo scetticismo e le critiche di altri. Molti matematici, informatici e genetisti contestarono il metodo di Galen, sostenendo che la scelta dei marcatori genetici e del modo di correlarli era arbitraria. La Federazione continuò tuttavia ad appoggiare la teoria... che nell’ultimo ventennio ha ripreso vigore, grazie a un’importantissima scoperta». Terry accennò al Capitano, invitandolo a parlare.

   «È così» disse Chase. «In data stellare 2535.151 io e una collega scoprimmo la statua in platino-iridio di una Progenitrice, in un’intercapedine nel guscio della Sfera di Dyson. Non è la prima megastruttura che viene attribuita a quel popolo. Anche il planetoide Gamma Canaris N visitato da Kirk e il Mondo Oceano scoperto dalla Voyager nel Quadrante Delta sono artificiali e potrebbero essere opera loro. Ma nel caso della Sfera di Dyson abbiamo la conferma».

   «Restano comunque molti dubbi su quegli esseri» riprese Terry. «Se la teoria di Galen è esatta, la loro comparsa data a circa quattro miliardi di anni fa. S’ignora quale sia di preciso il loro pianeta d’origine, anche se è stato ipotizzato che non esista più, essendo stato smantellato per costruire la Sfera di Dyson. Può anche darsi che sia stato travolto da una catastrofe naturale o che sia stato semplicemente abbandonato.

   Dal messaggio della Progenitrice sappiamo che i Precursori svilupparono una tecnologia evoluta ed esplorarono la Galassia cercando esseri simili a loro, ma restarono delusi nel trovarla vuota. Sugli altri pianeti, infatti, la vita era ancora ai primordi, limitata a semplici forme unicellulari. I Precursori intrapresero così la prima delle loro opere colossali: seminarono o alterarono la vita nel brodo primordiale di migliaia di pianeti, in tutta la Via Lattea. Si ritiene che la loro opera sia proseguita per miliardi di anni, poiché intervennero successivamente nelle fasi-chiave dello sviluppo, indirizzando l’evoluzione verso forme simili alla loro. Trasferirono anche molte popolazioni minacciate su pianeti disabitati, forse per proteggerle dalle avversità e per facilitarne la diffusione nella Galassia. Fu così che si guadagnarono il nome di Preservatori. Furono però attenti a nascondere la loro presenza; forse erano vincolati da una sorta di Prima Direttiva».

   «Ecco perché ci sono Proto-Vulcaniani su Mintaka III, antichi romani su Nova Roma e un ceppo di Nativi Americani su Amerind» commentò Chase.

   «Sì, la Terra sembra fra i pianeti più attenzionati dai Preservatori» confermò Terry. «Il loro ruolo nel plasmare la Via Lattea fu ignorato per milioni di anni, anche se le nuove specie divennero progressivamente consapevoli delle somiglianze genetiche che le legavano, rendendole persino interfertili. Molte specie si limitarono a registrare la stranezza, altre proposero teorie per spiegarla. Altre ancora fecero di tutto per nascondere la verità e vietare le unioni miste, in nome di una presunta “purezza razziale”. Ma con la diffusione del motore a curvatura, e poi con la nascita della Federazione, le mescolanze sono aumentate, dimostrando il profondo legame genetico fra tutti i popoli umanoidi».

   Chase ricordò quando lui e Serleen avevano osservato l’ologramma della Progenitrice, confrontandola con un’ipotetica specie ibrida. Il loro aspetto era simile, ma le simulazioni genetiche indicavano che l’Umanoide del futuro aveva un DNA molto più complesso, grazie al rimescolamento genetico. La lunga evoluzione su mondi diversi aveva portato alla specializzazione. Fondere di nuovo tutto insieme conservava una parte di quella ricchezza.

   «Ma se i Proto-Umanoidi sono così antichi – quattro miliardi d’anni! – com’è possibile che siano rimasti attivi fino a tempi così recenti? E dove sono oggi?» chiese Fanior, perplesso.

   «Non c’è risposta a questi enigmi» ammise Terry. «Sappiamo che alcune specie umanoidi si sono evolute oltre i limiti della carne, ascendendo a uno stato di puro pensiero ed energia. I Precursori non sembrano averlo fatto, pur essendo di gran lunga i più antichi. Il loro aspetto fisico, il loro intelletto e, si direbbe, la loro tecnologia sono rimasti sostanzialmente immutati per un tempo sbalorditivo. I loro ultimi interventi datano a un millennio fa; sappiamo che dopo di allora hanno abbandonato la Sfera di Dyson, resa inabitabile dalla crescente instabilità della stella. Ciò che ignoriamo è dove si siano recati. Potrebbe esserci un’altra megastruttura, nascosta da qualche parte. O forse sono finalmente riusciti ad ascendere».

   «Per rispondere alla domanda iniziale, la nostra missione potrebbe confermare o meno la teoria di Galen» aggiunse Chase. «Se troveremo altri umanoidi qui ad Andromeda, significa che possono evolversi autonomamente. Se invece non ce ne fossero, beh... ciò confermerebbe che gli umanoidi sono una prerogativa della Via Lattea e quindi sono davvero gli eredi dei Precursori».

   «Le informazioni in mio possesso su Andromeda sono limitate, poiché i miei avi persero la loro astronave con tutto il database» disse Fanior, meditabondo. «Non mi risulta, però, che i Kelvani abbiano mai incontrato specie umanoidi ad Andromeda. Altrimenti la forma umana non ci avrebbe colpiti tanto, quando entrammo nella Via Lattea».

   «Anch’io avrei una domanda, Capitano» intervenne il Consigliere Apsu, aleggiando in aria come suo solito. «Lei ha indicato i Progenitori come gli artefici delle maggiori megastrutture della Via Lattea. Queste, però, differiscono notevolmente una dall’altra. C’è qualcosa che le accomuna?».

   «Beh, sono tutte opere d’ingegneria planetaria» rispose il Capitano. «Sono tese a creare immensi habitat, anche se poi sono state abbandonate, talora per ragioni comprensibili, altre volte senza un motivo apparente. Nel secondo caso è ipotizzabile che siano state volontariamente lasciate a disposizione delle specie più giovani. In realtà è difficile capire quali megastrutture siano opera dei Proto-Umanoidi e quali no. In linea di massima si attribuiscono ai Precursori le strutture più antiche, ma questo metodo è invalidato dalla loro lunga sopravvivenza. L’unica attribuzione certa, finora, è la Sfera di Dyson».

   «Grazie a tutti per l’attenzione» disse Terry, prima che qualcun altro facesse domande. «I Proto-Umanoidi sono un argomento affascinante; speriamo che l’esplorazione di Andromeda ci aiuti a rispondere, almeno in parte, ai quesiti che sollevano. Se volete degli approfondimenti, posso organizzare un ciclo di conferenze dedicate a questo argomento, in collaborazione con l’Università di bordo. Per adesso salutiamo il Capitano e gli ufficiali».

   Un lungo, fragoroso applauso si sollevò dal pubblico. «Salvati in corner» sussurrò Chase a Terry, grato che l’IA li avessi risparmiati da altre domande. Non era previsto che la conferenza si concentrasse sui Proto-Umanoidi, ma in effetti era un argomento appassionante, che scatenava accesi dibattiti. E poteva riservare grosse sorprese, ora che avevano raggiunto Andromeda.

 

   Lo studio del Consigliere Apsu si trovava nel ponte allagato dell’Enterprise. Un corridoio pieno d’aria consentiva di accedervi. Lantora sospirò davanti all’ingresso. Non era mai stato dal Consigliere prima d’ora e non ne sentiva la mancanza. Se era lì, era solo per un problema inedito che lo angustiava. Si avvicinò tanto da far squillare il segnale d’ingresso.

   «Avanti» disse il Consigliere da dentro. La porta si aprì e lo Xindi Primate entrò nello studio, piccolo ma confortevole. Al centro vi erano una poltroncina, un pouf e un lettino reclinabile, per offrire ai visitatori l’opzione a loro più confortevole. Addossati alle pareti laterali vi erano scaffali contenenti fossili e reperti marini, principalmente coralli e conchiglie. La parete di fondo era occupata in larga misura da una vetrata a forma di occhio, oltre la quale si estendeva una camera piena d’acqua giallo-verde. In quell’ambiente surreale galleggiava lo Xindi Acquatico.

   «Buongiorno, signor Lantora» disse il Consigliere. «Cosa la porta nel mio studio?».

   «Guardi, non sono qui per me, ma per un conoscente» spiegò Lantora.

   «Sigh, dicono tutti così... prego, si sieda dove preferisce» invitò Apsu.

   «Dico sul serio» insisté Lantora, restando in piedi. «Da un po’ di tempo, T’Vala non è più la stessa».

   «Che intende?».

   «Si comporta sempre più stranamente. È come se volesse tenere tutti a distanza, compreso me» sospirò Lantora. «Sa, siamo stati insieme per anni. E anche se c’erano alti e bassi, come in tutte le coppie, quando uno dei due aveva un problema lo diceva subito all’altro. Non avevamo segreti. Ma ora... non so cosa le sia successo. Qualcosa la rode, ne sono certo; ma non vuole dirmi cosa. E quindi non so come aiutarla. Ormai ci vediamo solo sul lavoro. Non va più al parco, in palestra, sul ponte ologrammi... nemmeno nel ristorante di Raav!» si lamentò.

   «Ma lei non ha proprio idea di cosa possa aver scatenato un tale cambiamento?» indagò il Consigliere.

   «Se ce l’avessi, non sarei qui, con rispetto parlando» brontolò il Primate. «Comunque non credo sia colpa mia. Anche gli amici hanno notato la differenza. È fredda, impaziente... persino scostante».

   «Quand’è iniziato il cambiamento?» chiese ancora Apsu.

   «Eh, da un pezzo» sospirò Lantora. «Saranno tre o quattro mesi. Pensavo che fosse solo una fase... forse l’effetto di viaggiare nello spazio intergalattico. A volte anch’io mi sentivo di malumore, quando guardavo dalle finestre e vedevo tutto nero, senza una stella».

   «Molti passeggeri hanno lamentato disagi» convenne Apsu. «Dicevano che era come guardare il nulla. Alcuni soffrivano di agorafobia. Altri, al contrario, provavano un senso d’oppressione e soffocamento. Gli effetti sono passati quando abbiamo raggiunto Andromeda».

   «Per T’Vala non è così» disse Lantora, afflitto. «Non so se abbia problemi con la logica o con le emozioni. Essendo mezza Vulcaniana e mezza Betazoide, ha sempre avuto difficoltà a bilanciare le due cose. E se fosse la telepatia... io non ce l’ho, quindi non posso aiutarla. Insomma, che devo fare?!» si disperò.

   «Se i sintomi fossero recenti, le direi di aspettare, di darle spazio, così che T’Vala possa riflettere sulla sua condotta» rispose il Consigliere. «Ma da quel che dice, la cosa va avanti da troppo tempo. Quali che siano i problemi della nostra timoniera, è evidente che non riesce a risolverli da sola. Posso invitare T’Vala a parlare con me... ma finché non viola il regolamento, non posso obbligarla a venire. E da quel che ho sentito, temo che non vorrà incontrarmi. Posso suggerirle una terapia d’urto? Provi a smuoverla in qualche modo. Potrebbe anche accordarsi con gli amici, per cercare di sbloccarla da questo stato apatico. Ma se elaborate dei piani, preferirei che ne parlaste con me, prima di metterli in atto. Tanto per assicurarmi che non siano eccessivi o controproducenti».

   «Uhm, potrebbe essere una buona idea» convenne Lantora. «Ne parlerò con gli altri...».

 

   La mattina dopo, T’Vala si svegliò di buon’ora come al solito, destata dal trillo della sveglia. Si stiracchiò, si alzò, si vestì, ascoltando un’allegra musichetta. Fece qualche rapido esercizio ginnico, per sgranchirsi, e consumò una leggera colazione. Solo allora andò in bagno e si guardò allo specchio. I suoi occhi splendevano perlacei. La timoniera sorrise a quella che, ormai, era una vista familiare. Non c’era pupilla, eppure lei ci vedeva normalmente. Anzi, vedeva meglio di prima.

   Senza fretta, T’Vala prese una siringa ipospray e la caricò con un soppressore neurale. Era una medicina potente, sottoposta a restrizioni che rendevano difficile procurarsela senza permesso. Il motivo era che il minimo errore di dosaggio poteva danneggiare il cervello. Per procurarsela, T’Vala avrebbe dovuto chiedere in infermeria, svelando il suo piccolo segreto. Ma non le andava di farlo, quindi aveva sintetizzato personalmente la sostanza. Era un procedimento complesso, anche per un esperto. A lei era bastato leggere una volta la procedura. Da quando aveva attraversato la Barriera, tutte le sue facoltà mentali erano amplificate. E l’effetto cresceva col tempo.

   T’Vala s’iniettò il soppressore neurale nel collo, con il gesto automatico di chi è abituato all’operazione. Strinse gli occhi, avvertendo l’effetto del medicinale. Quando li riaprì, le pupille erano ricomparse. Ma erano molto contratte, mentre gli occhi erano ancora leggermente luminosi. Se qualcuno l’avesse fissata, avrebbe notato di certo la stranezza. Con un lieve sospiro, T’Vala ricaricò l’ipospray con una dose minima. Un altro aumento... ogni settimana era così. Doveva sempre aumentare il dosaggio per mantenere un aspetto normale. Era già arrivata a iniettarsi dosi massicce di medicina, che avrebbero mandato in coma una persona normale. Su di lei, erano appena sufficienti a mascherare i sintomi per una giornata. Si fece la seconda iniezione e finalmente gli occhi divennero normali. In compenso il bagno prese a vorticarle intorno. T’Vala si appoggiò al lavandino, ansimando, mentre i sensi si calmavano. Poco alla volta riacquistò l’equilibrio. Per quanto ancora poteva andare avanti?

   La prima volta che si era vista con gli occhi perlacei aveva pensato a un’allucinazione. Ma nei giorni successivi aveva dovuto accettare la realtà: la Barriera l’aveva cambiata. E stava continuando a cambiarla. La trasformazione procedeva lenta ma inesorabile. Lei cercava di combatterla, con la meditazione e i medicinali. Ma sapeva che erano solo palliativi. Avrebbe dovuto avvisare il Capitano e recarsi in infermeria; questo diceva la logica. Ma altre considerazioni, altrettanto logiche, l’avevano trattenuta. Come avrebbero reagito i suoi colleghi? L’avrebbero trattata come una nemica, com’era sempre accaduto alle vittime della Barriera? T’Vala aveva letto i diari dell’Enterprise originale e sapeva com’erano andate le cose. Il Capitano Kirk aveva ucciso personalmente Gary Mitchell – un suo amico! – prima che divenisse troppo potente. Certo, Mitchell era stato il primo a cedere alla violenza, assassinando un collega e cercando d’impadronirsi della nave. Ma T’Vala non si sentiva sicura. Non voleva essere confinata in infermeria, o in prigione, senza la garanzia che i dottori trovassero un rimedio. La missione ad Andromeda sarebbe durata anni; non voleva passarli gabbia! In fondo non aveva fatto nulla di male. E poi c’erano dei vantaggi nella sua condizione.

   T’Vala si recò in plancia, dove non aveva molto da fare. Finché l’Enterprise non raggiungeva Kelva Primo, c’erano solo i controlli di routine e minuscoli aggiustamenti di rotta. Ma il suo cervello iper-stimolato non sopportava di stare in ozio. Con i comandi del timone approntò una simulazione di combattimento, in cui l’Enterprise era in grave inferiorità, per numero e potenza di fuoco. Usando le manovre evasive, l’occultamento e vari altri trucchi, riuscì a vincere lo scenario. Naturalmente era un esercizio da computer: la nave continuava a procedere in linea retta verso Kelva e la maggior parte dei colleghi non notò neppure le attività di T’Vala.

   Incapace di stare ferma, la timoniera richiamò sul display un trattato di meccanica temporale. Lo divorò in pochi minuti. Leggeva dieci volte più in fretta del normale e non dimenticava neanche una virgola di quanto aveva imparato. In precedenza aveva trovato ostica la materia, ma ora tutto le pareva semplice, persino puerile. Perché così pochi padroneggiavano l’argomento? Volendo farsi avanti con il lavoro, T’Vala progettò una griglia gravimetrica, utile per esplorare Andromeda. Quando finì, guardò il timer: non era ancora mezzogiorno. Come resistere sino a fine turno?

   T’Vala si chiese a quanto ammontavano, ora, il suo quoziente intellettivo e il suo livello ESP. Dovevano essere aumentati parecchio da quando aveva oltrepassato la Barriera. Di certo aveva superato Neelah. Probabilmente era la persona più intelligente a bordo... eccetto Terry. Questo era il bello della sua situazione: avere poteri sempre in crescita. Se solo non avesse dovuto nasconderli! Era certa che il soppressore neurale la limitasse. Cosa sarebbe stata in grado di fare, senza quello? Era un’ingiustizia, si disse, che i suoi colleghi le impedissero di esplorare il suo pieno potenziale. Anche se viveva sull’Enterprise da anni, solo di recente aveva compreso quanto gran parte del personale di bordo fosse inadeguato. Avevano visioni ristrette, erano lenti nell’apprendere nuovi concetti. Potevano andar bene come bassa manovalanza, ma gli incarichi di comando dovevano andare a quelli come... beh, come lei.

 

   Quando finalmente il turno finì, T’Vala corse nel turboascensore. Non vedeva l’ora di tornare nel suo alloggio per sfogare i poteri. Ma prima che la porta si chiudesse, Lantora s’infilò con lei.

   «Ehi, dove scappi?» chiese lo Xindi.

   «Da nessuna parte» rispose lei, distaccata.

   «Uhm... sai, è da un pezzo che non ci parliamo» notò Lantora. «Che mi racconti? Ci sono novità, stai facendo qualcosa d’interessante?».

   Per un attimo T’Vala fu tentata di confessargli come stavano le cose. Ma non poteva: Lantora sarebbe andato a fare rapporto. Non per cattiveria, ma pensando di agire per il suo bene. E anche se l’avesse convinto a mantenere il segreto, T’Vala preferiva stargli alla larga. Non voleva rischiare di fargli del male, se avesse perso il controllo dei suoi poteri. «No, è tutto come al solito» mentì spudoratamente. Non c’erano emozioni sul suo volto; anche la voce era incolore.

   «Beh, allora forse vorrai rompere la monotonia» suggerì astutamente lo Xindi. «Che ne dici di fare un salto in sala giochi?».

   «Scusa, ma proprio non mi va...» cercò di svicolare T’Vala.

   «Dai, ci divertiamo!» insisté Lantora. «Ultimamente mi sono appassionato a un gioco chiamato Stratagema. Due giocatori si sfidano in una gara d’astuzia e strategia... davvero non t’interessa?».

   T’Vala rifletté in fretta. Voleva testare le sue nuove capacità, giusto? Lantora le stava offrendo il modo perfetto. Avrebbe potuto godersi i suoi poteri, per una volta, invece di nasconderli. Non si meritava questa soddisfazione? In fondo anche Neelah aveva potenziato le sue facoltà cerebrali e ne approfittava per primeggiare. Perché lei non poteva fare altrettanto? «Sì, potrebbe interessarmi» sorrise.

   «Fantastico!» gioì Lantora, pensando di averla finalmente smossa.

   La condusse in sala giochi, dove il personale fuori servizio si cimentava con i passatempi più noti e apprezzati. Lantora ne riconobbe molti: il chula del Quadrante Gamma, il kadis-kot adatto a bambini e ragazzi, il kal-toh vulcaniano, il dabo e il tongo dei Ferengi. C’erano anche giochi terrestri come il poker, gli scacchi tridimensionali, il tiro al bersaglio con le freccette. Passando accanto a un tavolo, Lantora fu sorpreso nel vedere Ilia che giocava a tongo con un gruppetto di Ferengi, tra cui Grog. Erano chini sul gioco, con le barrette di latinum al centro, e impugnavano le carte circolari, stando attenti a non farsele spiare. Ilia alzò gli occhi quando Lantora le fu vicino.

   «Ehilà, non sapevo che giocassi a tongo» la salutò lo Xindi.

   «Di solito no» ammise la Trill. «Ma da quando ho Jadzia in testa, provo un impulso irresistibile. Volete unirvi a noi?» chiese, notando che c’era anche T’Vala.

   «Grazie, ma siamo qui per fare Stratagema» spiegò Lantora.

   «Oh, è roba complessa; buona fortuna!» augurò Ilia, tornando poi a concentrarsi sulle carte.

   «Allora, ci muoviamo?» sbuffò T’Vala, insofferente a ogni ritardo.

   Vedendola così impaziente, Lantora la portò al tavolo di Stratagema. Sedettero ai lati opposti del proiettore olografico. «Questi sono i controlli del gioco; bisogna indossarli» spiegò lo Xindi, infilandosi dei cappucci metallici sulle falangi. T’Vala alzò un sopracciglio, ma imitò Lantora, infilandosi i controlli. Quando furono pronti, lo Xindi attivò l’olo-proiettore. Comparvero tre riquadri verticali, equidistanti, di diverso colore. Lantora selezionò per sé il verde, lasciando il viola alla compagna. Sui riquadri erano disegnati percorsi concentrici, lungo cui si muovevano dei cursori gialli e rossi. Erano le “pedine” dei giocatori, ciascuno dei quali ne muoveva cinque, una per dito.

   «Ogni riquadro è diviso in tasselli» spiegò Lantora. «Lo scopo del gioco è convertirne quanti più possibile al proprio colore, usando i cursori. Vince chi riesce a convertire completamente tutti i pannelli. Il gioco tiene anche conto del numero di mosse impiegate, che concorre a stabilire il punteggio finale». Lo Xindi spiegò come convertire i tasselli ed elencò le regole principali. «Ora, ci sono molte tecniche di gioco...» proseguì, ma T’Vala lo interruppe.

   «Mi sembra tutto elementare e intuitivo. Cominciamo!» disse, impaziente.

   «Elementare, eh?» fece Lantora, poco convinto. Lui personalmente aveva ottime capacità strategiche, ma quel gioco gli era sembrato tutt’altro che facile da imparare. Per quanto T’Vala fosse in gamba, non poteva batterlo al primo tentativo. «Cominciamo, allora» disse lo Xindi, e avviò il gioco.

   I cursori rossi e gialli sfrecciarono sui riquadri, lungo i vari percorsi. Cercavano scorciatoie, a volte saltando da un piano all’altro. Dovevano convertire le zone al loro colore, preservare gli avanzamenti e ostacolare i cursori avversari, tutto nello stesso momento. Nei primi secondi il verde di Lantora prese a espandersi. Lo Xindi sorrise, ma per poco. T’Vala aveva già compreso i meccanismi del gioco. Sebbene non le avesse ancora spiegato gran parte delle mosse, la mezza Vulcaniana ci arrivava da sola. Le sue dita ticchettavano velocissime e il viola prese ad avanzare, inesorabile. Lantora si morse il labbro. Negli ultimi secondi, il viola divenne una cascata che fagocitò tutto il suo territorio. Il gioco si spense: T’Vala aveva vinto.

   «Non ci credo... mi hai battuto in meno di cento mosse!» esclamò lo Xindi, allibito. Spesso le partite di Stratagema richiedevano molte centinaia, o anche migliaia, di mosse. Era incredibile che una principiante vincesse così in fretta.

   «Come pensavo, è elementare» disse T’Vala. «Conosci un giocatore più esperto? Vorrei una vera sfida».

   «Ma che simpatica» mugugnò Lantora. «Vediamo come te la cavi con uno Zakdorn. Sono i più bravi in questo gioco. Aspetta qui, te ne porto uno!». Si sfilò i controlli dalle dita e corse via. Mentre lo aspettava, T’Vala si allenò con il computer, vincendo livelli sempre crescenti di difficoltà. Pochi minuti dopo Lantora tornò con un alieno piccolo e grassoccio, dalle guance cascanti. Era infagottato in un pesante vestito color verde acido.

   «Mi dicono che lei vuole sfidarmi» esordì stridulo lo Zakdorn, squadrandola con sufficienza. «Deve sapere che sono un campione imbattuto su dodici sistemi stellari. Pratico questo gioco da quarant’anni. Lei da quanto lo fa?».

   «Ho cominciato da circa venti minuti» rispose T’Vala, serissima.

   «Ah, il senso dell’umorismo vulcaniano!» sbottò l’alieno. «Mi scusi, ma non ho tempo per darle lezioni».

   «Nessuna lezione, solo una partita. E scommetto venti barre di latinum che riuscirò a batterla» dichiarò la mezza Vulcaniana. Molti giocatori, intorno a loro, volsero la testa nell’udirla. Un mormorio corse nella sala.

   «Che diavolo fai?!» sussurrò Lantora, imbarazzato. «Quello è davvero un campione!».

   «Allora non mi farà sbadigliare» rispose T’Vala, a voce alta.

   «Se ha voglia di perdere il suo latinum, non sarò certo io a dissuaderla» disse lo Zakdorn, gelido. Sedette al posto lasciato libero da Lantora e si scrocchiò le dita, con gesti lenti e teatrali. Poi, sempre con studiata lentezza, s’infilò i controlli sulle falangi. Attorno al loro tavolo si stava radunando una discreta folla e già partivano le scommesse. Lantora si guardò intorno, ancora più imbarazzato nel vedere che alcuni dei suoi amici erano presenti. C’era Grenk, un habitué della sala giochi. Persino Ilia e i Ferengi avevano lasciato il tongo per assistere alla sfida.

   «Quando vuole» disse lo Zakdorn, con un sorrisetto untuoso.

   Senza darsi la pena di rispondergli, T’Vala attivò il gioco. Gli avversari si chinarono in avanti, con gli occhi fissi ai pannelli colorati. Le loro dita si muovevano così rapide che l’occhio quasi non riusciva a seguirle; il ticchettio dei controlli faceva pensare a un plotone di millepiedi giganti. I cursori sfrecciavano sui pannelli, secondo complesse strategie volte a ingannare l’avversario. Il viola e il verde si alternavano a ritmo indiavolato, facendo pulsare i riquadri come luci stroboscopiche.

   Intorno al tavolo le scommesse presero ad alzarsi. Ognuno incitava il giocatore su cui aveva puntato, come se potesse aiutarlo con i suoi schiamazzi. Ma la mezza Vulcaniana e lo Zakdorn avevano occhi solo per il gioco. Stavano immobili, con le labbra serrate e lo sguardo fisso. Solo le dita si muovevano a ritmo indiavolato, come se avessero concentrato lì tutte le energie. I minuti passavano e il conteggio delle mosse cresceva: mille... duemila... tremila. La fronte dello Zakdorn era imperlata di sudore. Invece T’Vala era ancora fresca; il suo viso era così immobile che non sbatteva nemmeno le palpebre. Nel gioco, i colori lottavano selvaggiamente, come esseri viventi. D’un tratto il viola prese il sopravvento. Crebbe come una pestilenza, impadronendosi di tutta la superficie. Il gioco era finito; l’ologramma si spense con un bip. T’Vala aveva sconfitto il campione in meno di quattromila mosse. La sala piombò nel silenzio.

   Con una certa dignità, lo Zakdorn si tolse i controlli dalle dita. «Le barre di latinum le saranno consegnate al più presto» promise. «Lei è una formidabile giocatrice... ma non crederò mai che sia una principiante. Arrivederci, Tenente». Lasciò la sala a passo svelto, senza voltarsi indietro. Quando la porta si richiuse partirono gli applausi e le pacche sulle spalle. Quelli che avevano vinto le scommesse si congratularono con T’Vala e corsero a riscuotere.

   «Ma è possibile?» mormorò Grenk, affiancatosi a Lantora.

   «No» rispose questi, pallido in viso.

   «Potremmo chiamare Terry. Lei è imbattibile, no?» suggerì Ilia.

   «Preferisco non rischiare» disse Lantora. «Non so cosa potrebbe succedere».

   T’Vala si sfilò i controlli e lasciò il tavolo con nonchalance. Subito un Luriano si accaparrò il suo posto, come se dovesse portargli fortuna. Ma il pubblico si stava diradando; gran parte degli astanti tornava alle precedenti occupazioni.

   «Grazie di avermi portata qui, è stato divertente» disse T’Vala, accostandosi a Lantora. «Ma ora devo proprio andare. A domani».

   «Sì, a domani...» mormorò lo Xindi, salutando fiaccamente.

 

   Non avrebbe dovuto farlo, si disse la timoniera, mentre tornava in fretta nel suo alloggio. Ma era stato piacevole e anche redditizio. Un piccolo esempio di ciò che era in grado di fare. Perché non esplorare le sue nuove capacità? Le venne in mente un vecchio adagio: il potere non è tale, se non viene esercitato. E lei non conosceva ancora i suoi limiti. Beh, a questo c’era rimedio.

   Chiusa nel suo alloggio, T’Vala accese la lampada di meditazione e vi sedette davanti. Svuotò la mente, cercando di espandere le sue facoltà telepatiche. Sì, riusciva a percepire i pensieri dei colleghi negli alloggi circostanti. Non solo le emozioni... proprio i singoli pensieri. Le loro menti erano libri aperti per lei. Libri corti, che contenevano frasi ripetitive e qualche scarabocchio. Che menti ristrette, si disse. Non comprendevano la profonda trama dell’Universo. Certo che anche lei, fino a poco tempo prima, era così limitata. Ma si stava evolvendo.

   T’Vala sorrise: non le servivano specchi per sapere che i suoi occhi erano di nuovo perlacei. Peccato doverli nascondere agli altri... si preferiva così. Quello era il suo vero Io. I suoi poteri erano un dono... un tesoro da amministrare con saggezza. Doveva impiegarli per... che cosa? Che domande, per il Bene superiore! E chi poteva sapere cosa fosse il Bene superiore? Beh, la persona più intelligente a bordo... ovvero lei stessa. Era logico, no?

   Si concentrò sulla fiammella, percependo le molecole eccitate dalla combustione. Riusciva a vederle, zigzaganti come moscerini. Affascinante! Provò a toccarle con la mente. Subito la fiammella divenne più vivida e sostenuta, come il getto di una fiamma ossidrica. In fisica, movimento e calore erano la stessa cosa. Lei poteva controllarli entrambi. Poteva rendere incandescente la lampada, oppure farla levitare. Si concentrò al massimo, portandosi una mano alla tempia. Ecco... la lampada si sollevava! La stava davvero reggendo con la forza del pensiero!

   «Beccati questo, Neelah» sogghignò. L’Aenar si era vantata più volte di avere un livello ESP superiore al suo. Beh, ora il tavolo si era ribaltato. Era lei la più forte!

   In quell’attimo la lampada si frantumò. Schegge roventi schizzarono da tutte le parti. T’Vala fece appena in tempo a proteggersi il volto con le mani. Troppa energia mentale, si disse: la ceramica non aveva retto. Peccato... quella era la sua lampada da meditazione preferita. Gliel’aveva regalata suo padre anni prima, quando lei aveva lasciato Vulcano per recarsi all’Accademia. Era un caro ricordo.

   La mezza Vulcaniana si alzò, prese una paletta e raccolse pazientemente i cocci. Stava per buttarli, ma cambiò idea e li mise da parte. Chissà che, un giorno, le sue capacità non maturassero tanto da permetterle di aggiustare il cimelio.

 

   Il cielo di Kronos era bianco per la cenere che cadeva dalla nube a forma di pino, esalata dal vulcano Kri’stak. Rossi bagliori di lava illuminavano dall’interno la nuvola, incorniciata di fulmini. Il suolo gemeva e scricchiolava, mentre il magma invadeva le caverne sottostanti. Dalla sommità spaccata del vulcano scendeva un fiume di lava, lo Skral, che serpeggiava verso la pianura. Qui si gettava nel lago Lusor, fra i sibili dell’acqua rovente, sollevando una densa nebbia. E sulle rive del fiume infocato, migliaia di Klingon combattevano all’ultimo sangue. Le grida di battaglia e il clangore delle armi salivano al cielo, mischiandosi al travaglio degli elementi.

   «Avanti, fratelli miei! Per l’onore e la gloria!» tuonò Kahless l’Indimenticabile, sollevando la sua leggendaria bat’leth.

   «Sì, contro il tiranno Molor!» gli fece eco Lady Lukara, anche lei armata. «È qui che si fa adorare come un dio, gettando vittime nel vulcano! Beh, a noi non servono dèi... siamo cuori Klingon, e bastiamo a noi stessi. Qapla’!» gridò.

   «Qapla’!» ripeterono i guerrieri dell’Ordine della Bat’leth, levando le armi insanguinate. Si gettarono compatti sulle truppe di Molor, respingendole ai piedi del vulcano. Molti nemici furono gettati vivi nel fiume di lava. Gli altri si nascosero nella caligine fuligginosa, con gli occhi ardenti per la collera. Erano stati ricacciati alle falde del Kri’stak e non avevano altro posto dove andare: davanti a loro avanzava un nemico spietato, alle spalle li attendeva un padrone ancor più temuto.

   «Cosa non si fa per amore!» pensò Lantora, avanzando tra i guerrieri di Kahless. Ilia era accanto a lui, con la corazza Klingon e una pesante bat’leth in pugno. Riusciva a usarla con letale agilità, grazie alle memorie di Jadzia Dax, profonda conoscitrice della cultura Klingon. Ma Lantora non aveva occhi che per T’Vala, il motivo per cui stavano facendo tutto questo. Non era stato facile convincerla a venire sul ponte ologrammi; la mezza Vulcaniana aveva accampato scuse per giorni. Ma ora che era lì, dominava il campo di battaglia.

   Lantora la osservò mulinare la bat’leth per falciare teste e braccia degli avversari. T’Vala era sempre stata un’ottima combattente, ma adesso c’era una ferocia inusitata nel suo stile. Che fosse l’effetto dell’ambiente? Lantora si disse che avrebbe dovuto scegliere una simulazione meno violenta. Ma Ilia, ancora sotto l’influsso di Jadzia, aveva caldeggiato la Battaglia dello Skral come strumento per smuovere T’Vala. E anche il Consigliere proponeva una terapia d’urto, quindi... in alto i cuori, si disse Lantora, menando colpi con la bat’leth. Le rocce nere e roventi si coprirono di cadaveri. Poco alla volta le truppe di Kahless respinsero quelle di Molor sempre più su, sulle pendici del vulcano. L’aria era ormai irrespirabile. Il suolo tremava e rimbombava, come se l’intera montagna dovesse esplodere da un momento all’altro.

   In quel marasma, T’Vala avanzava con sicurezza, lieta di poter testare le sue capacità fisiche, dopo quelle mentali. La bat’leth le sembrava leggera e concentrandosi era come se il suo tempo soggettivo si dilatasse. I guerrieri nemici sembravano tre volte più lenti di quel che erano in realtà. Si lanciò in avanti e prese a falciarli come grano in un campo. Passò e ripassò in mezzo a loro, squartandoli, mutilandoli o gettandoli nel fiume di lava. L’odore caldo del sangue la intossicò. Non si era mai sentita così viva: il cuore palpitava, il sangue scorreva rapido nelle vene, tutti i sensi erano iper-stimolati. Questa era vita... ne voleva di più! Ignorando gli avvertimenti di Ilia e Lantora, si spinse ancora più avanti, dove Kahless e Lukara si battevano con la loro avanguardia.

   D’un tratto squillarono i corni di guerra e rullarono i tamburi. Il loro boato saliva dal basso, dalle caverne vulcaniche; pareva uscire dall’Oltretomba. Da una spaccatura ardente nel fianco della montagna sciamò una torma di guerrieri, guidati da Molor in persona. Il re-dio superava i guerrieri più imponenti di tutta la testa. Indossava un’armatura nera, irta di punte aguzze come pugnali, ma il suo volto era coperto da una maschera d’oro. Al posto della bat’leth, l’arma creata da Kahless per le sue truppe, brandiva un’enorme mazzafrusto, con tre sfere chiodate unite al manico da lunghe catene d’acciaio. Era una vista terrificante: un’aura di potenza e malvagità lo circondava, come se gli bastasse lo sguardo per uccidere.

   «Fek’lhr!» gridò Molor, invocando il demone che torturava le anime dei disonorati nel Gre’thor, l’inferno Klingon. Colpì un paio di nemici con tale forza da scaraventarli all’indietro, massacrati dai chiodi della sua arma. Poi rivolse il mazzafrusto contro Kahless, invitandolo allo scontro. «Vieni avanti, figlio di nessuno, fratello di un codardo! Affrontami, se osi!» ruggì.

   Incitato dalle sue truppe, Kahless avanzò cautamente, tenendo la bat’leth in posizione di guardia. Lukara gli balzò a fianco, decisa a vincere o morire con lui, ma Kahless le fece segno di no. Doveva essere un duello leale: uno contro uno. Lukara lo riconobbe a malincuore e indietreggiò, mentre Kahless avanzava verso il suo nemico mortale...

   «Ci penso io!» gridò T’Vala. Fra lo stupore dei presenti, balzò sopra la prima fila di Klingon e con un salto mortale atterrò davanti a Molor.

   «Che significa?!» protestò il tiranno. «Indietro, ragazzina... è il sangue di Kahless che voglio bere!».

   «E io voglio il tuo. Computer, rimuovi Kahless e Lukara!» ordinò T’Vala, per non essere ostacolata. I leggendari condottieri Klingon svanirono dalla simulazione, lasciando le loro truppe nell’incertezza.

   «Ma che fai?!» protestò Lantora, sgomitando per arrivare in prima fila.

   «Aspetta!» fece Ilia, trattenendolo per un braccio. «È il motivo per cui siamo qui, no? Vedere come si comporta» gli sussurrò all’orecchio.

   «Ho visto abbastanza!» fece Lantora, cercando di liberarsi, ma Ilia lo afferrò da dietro e lo trattenne, finché si fu calmato. Osservarono T’Vala, con crescente preoccupazione, ma senza intervenire. Sapevano che i protocolli di sicurezza erano attivi e l’avrebbero protetta. Tuttavia non era la sua incolumità fisica a inquietarli.

   Vistosi privato del suo avversario, Molor lanciò un grido di guerra e si avventò su T’Vala. La mezza Vulcaniana scattò a sua volta in avanti. A ridosso di Molor si lasciò scivolare a terra e rovesciò la testa all’indietro. Le sfere chiodate dardeggiarono un centimetro sopra il suo naso. La timoniera passò accanto a Molor e gli sferrò un colpo di bat’leth, squarciandogli l’armatura all’altezza del fianco. Ne sgorgò un fiotto di sangue purpureo.

   Il tiranno ruggì e si voltò, pronto a combattere ancora, ma T’Vala si era già rialzata, con riflessi sovrumani. Quando le sfere chiodate le vennero addosso, lei guizzò di lato con una piroetta e calò un colpo che tranciò le catene. Le sfere schizzarono via e a Molor restò solo il manico, inutile come arma. Schiumando di rabbia lo lasciò cadere si portò la mano in cintura, dove teneva un pugnale mek’leth, dalla lama ricurva. Non fece in tempo a brandirlo: T’Vala lo aveva già trafitto al ventre.

   Con un grido di rabbia e dolore, Molor crollò in ginocchio. La sua testa, ora, era alla stessa altezza di T’Vala, che gli estrasse la bat’leth dai visceri, pronta a sferrare il colpo mortale. Digrignando i denti, la timoniera strappò la maschera aurea del re-dio e la gettò a terra, scoprendogli il volto ferale, segnato di cicatrici. «Lurida ghuy’cha! Tua madre ha la fronte liscia!» la insultò Molor, con gli occhi iniettati di sangue.

   «Sì, ce l’aveva» confermò T’Vala, e brandendo la bat’leth a due mani lo decapitò di netto. La testa di Molor cadde come un macigno e rotolò nella polvere vulcanica. Il corpo possente cadde in avanti, come genuflettendosi a chi gli aveva strappato la vita. T’Vala lo rovesciò con un calcio, gli mise un piede sul petto e levò la bat’leth insanguinata, lanciando un grido di vittoria, acuto come lo stridio del falco. Schizzi di sangue le imbrattavano il viso febbricitante.

   Le truppe di Kahless sollevarono le armi, facendole eco; le loro grida di vittoria sovrastarono i boati del vulcano. La stavano acclamando sovrana: T’Vala, prima Imperatrice di Kronos! Solo i protocolli del ponte ologrammi impedivano loro di accorgersi che era un’aliena. Persino i seguaci di Molor gettarono le armi e s’inchinarono, riconoscendo la supremazia di T’Vala. Obbedivano all’antica legge della regione, secondo cui i guerrieri di un capo sconfitto dovevano passare agli ordini del vincitore. T’Vala li graziò, magnanima. «E ora elevatevi al rango della mia grande armata! Qapla’!» proclamò, suscitando un entusiasmo ancora più forte.

   C’era un’ultima cosa da fare, per eguagliare le azioni di Kahless, e T’Vala non intendeva rinunciarvi. Sotto lo sguardo inorridito di Ilia e Lantora, prese il mek’leth di Molor e gli aprì la cassa toracica. Ne estrasse il cuore ancora caldo e lo tenne alto, tra le grida di giubilo dei Klingon. Poi se lo portò alla bocca, per assaporarlo, come richiesto dal rito di vendetta.

   Per Lantora, quello era il punto di rottura. «Computer, fine programma!» ordinò. Il cuore sanguinolento svanì dalla mano di T’Vala, prima che potesse addentarlo, con tutto il resto della simulazione. I tre ufficiali dell’Enterprise rimasero soli sul ponte ologrammi. Persino le armature Klingon erano sparite, lasciandoli con le più aderenti uniformi della Flotta Stellare.

   «Beh, perché hai interrotto sul più bello?» chiese T’Vala con disappunto.

   «Sul più bello?! Dì un po’, sei impazzita?» sbottò lo Xindi, con gli occhi stralunati.

   «Sei stato tu a propormi questa simulazione. Molto ben fatta, devo dire» gli ricordò la mezza Vulcaniana.

   «Non era previsto che ti sostituissi a Kahless nell’affrontare Molor!» obiettò Lantora. «Né che ti abbandonassi a quei riti barbari. Ma insomma, che ti succede?!».

   «Non mi succede nulla. C’era una battaglia da vincere e io l’ho vinta» rispose T’Vala, facendo spallucce. «Se voi non ce la fate, o non avete lo stomaco, cercatevi un programma più tranquillo» disse, rivolta anche a Ilia.

   «Dove hai imparato a combattere così?» chiese la Trill, a cui non era sfuggita la sua inaspettata padronanza della bat’leth.

   «Le armi Klingon sono semplici; ci vuol niente a padroneggiarle» rispose T’Vala. «Beh, si è fatto tardi. Devo andare. Grazie per la serata, è stata uno spasso!» disse, facendo l’occhiolino ai compagni mentre passava loro accanto. Uscì dalla sala ologrammi con passo elastico, quasi molleggiato.

   «Quella non è T’Vala» mormorò Lantora. «Credimi, la conosco bene. Quella non è lei».

   «E di chi si tratta, allora?» chiese Ilia. «Ho già chiesto a Terry di fare una scansione e non ha rilevato stranezze. Dovremmo portarla in infermeria per una visita approfondita...».

   «Facciamolo!» approvò Lantora.

   «E con quale pretesto? Che ci ha stracciati nei giochi e negli sport? Tecnicamente non ha violato nessuna regola della Flotta» gli ricordò Ilia.

   «Dobbiamo aspettare che combini qualche disastro, prima di prendere provvedimenti?» insorse lo Xindi.

   «Beh, in uno Stato di diritto funziona così» gli ricordò la Trill. «Prima si fa il danno, e dopo si viene puniti».

   «Ma io non voglio punirla... voglio aiutarla!» gemette Lantora. «Voglio che la curino da... qualunque cosa sia!».

   «Non ne dubito, ma se la sollevo dall’incarico credo che T’Vala la percepirà come una punizione» spiegò la Comandante. «Mi chiedo come reagirebbe. Non so... dobbiamo andarci cauti. Non vorrei che la situazione degenerasse».

   «A me sembra già degenerata» disse Lantora, cupo. Lasciò il ponte ologrammi con più pensieri e domande di quando c’era entrato.

 

   Rimasta sola, Ilia rimuginò sulla situazione. Fra pochi giorni avrebbero raggiunto Kelva Primo e ancora non sapevano cosa aspettarsi. All’Enterprise avrebbe fatto comodo avere la miglior timoniera al suo posto. D’altra parte, un ufficiale instabile rappresentava un rischio per tutta la nave.

   «Sai che prima o poi dovrai intervenire. Anche se è tua amica» le disse la voce di Jadzia dentro la testa. Stava cominciando a interiorizzarla, come gli Ospiti precedenti.

   «Lo so» annuì Ilia. «C’è qualcosa di strano in questa Galassia. Le sonde scompaiono, la gente impazzisce. E ancora non abbiamo captato trasmissioni, né trovato tracce di vita. Finora ci eravamo illusi che l’Universo fosse omogeneo... che quanto valeva nella Via Lattea fosse valido anche altrove. Forse non è così» mormorò.

   «Ci siamo già passate» disse Jadzia. «Anomalie, regioni di spazio che sfidano le leggi della fisica. Questo non è diverso».

   «Non so» fece Ilia. «I telepati dell’Enterprise sono inquieti, ma non sanno precisare la loro apprensione. Dicono solo di avvertire un brivido... come se qualcosa fosse in agguato tra le stelle. Andromeda è tre volte più grande della Via Lattea. Considerando che nella nostra galassia gli orrori non mancano... chissà che si nasconde in questa».

   Ilia lasciò il ponte ologrammi e percorse rapida i corridoi, finché raggiunse una grande finestra panoramica. Vide il condotto di cavitazione azzurrino, ma sapeva che di là da quello c’erano le stelle di Andromeda, che sfrecciavano intorno all’Enterprise. Posò la mano sulla superficie trasparente, proseguendo il dialogo con se stessa... o con la parte di Jadzia che viveva in lei.

   «Quando gli oblò erano neri, nello spazio intergalattico, mi venivano le vertigini a pensare quant’eravamo soli» sussurrò. «Ma adesso che vedo le stelle di Andromeda, preferirei che fossimo ancora là fuori. Qualcosa di oscuro si annida in questa galassia, lo sento. Forse non avremmo dovuto lasciare la Via Lattea. Non così presto. L’Unione è ancora debole, provata dalla guerra. Dovremmo stare lì a proteggerla».

   «Come possiamo proteggerla da ciò che non conosciamo?» obiettò Jadzia. «A volte bisogna andare lontano per proteggere chi ci è vicino».

   «Giusto» riconobbe Ilia. «La Via Lattea ha già sofferto abbastanza. Se devono esserci altre battaglie, meglio che avvengano qui. Il più lontano possibile da casa nostra». Fissò lo spazio con durezza, preparandosi a qualunque sfida si annidasse in Andromeda.

 

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Capitolo 4
*** La Melma Grigia ***


-Capitolo 3: La Melma Grigia

 

   L’Enterprise uscì dalla cavitazione nel cuore del sistema kelvano, in condizione di Allarme Giallo. Chase si alzò dalla poltroncina e avanzò fino alle spalle di T’Vala, osservando Kelva Primo che ingrandiva a vista d’occhio sullo schermo. Era un pianeta di grandi dimensioni, ma privo di satelliti naturali e con poca massa oceanica. A vederlo sembrava completamente morto. Nessuna foresta tingeva di verde il continente, né il bagliore delle città rischiarava l’emisfero in ombra. La superficie brulla era chiazzata solo da liquide macchie grigie, più grandi che laghi, ma più piccoli che mari.

   «Non rilevo satelliti in orbita, né infrastrutture sulla superficie, come città o strade» disse Terry. «Non ci sono segni di vita animale o vegetale e nemmeno unicellulare. Il pianeta è morto... posto che sia mai stato vivo».

   «Ebbene?» chiese il Capitano, fronteggiando l’ambasciatore Fanior. «Devo pensare che la sua gente sia molto timida, o che lei ci abbia dato le coordinate sbagliate?».

   Fanior sbatté gli occhi più volte, osservando il pianeta sullo schermo. «No... questo è impossibile!» esalò. «Deve esserci qualcosa... esaminatelo con più attenzione!».

   «I miei sensori non s’ingannano» affermò Terry con dignità. «Anche se... sto rilevando gas clorofluorocarburi e altre molecole complesse negli strati alti dell’atmosfera. In genere sono il prodotto di processi industriali. Ma non capisco da dove vengano... non c’è vita né tecnologia sul pianeta».

   «Queste sono le coordinate di Kelva Primo, tramandate dai miei padri» insisté Fanior. «Non può esserci errore. Si tratta della nostra patria... il mondo che ci ha generati. La capitale di un fiorente Impero stellare».

   «Beh, non ci sono molte possibilità» disse Chase. «O i suoi padri hanno perso le coordinate durante il viaggio intergalattico, o le hanno volutamente nascoste, per motivi che solo loro conoscevano. Oppure... siamo di fronte a un’immane tragedia» aggiunse, osservando corrucciato il pianeta grigio e sterile.

   «Cosa può aver cancellato tutto?» mormorò Lantora.

   «Solo il Male assoluto» disse Fanior, con una luce micidiale negli occhi. «Fatemi scendere sul pianeta, alle coordinate della nostra capitale. Se è rimasto qualcosa, sarà lì. E forse... forse troverò traccia del nemico che ci ha fatto questo».

   «La Scourge!» disse il Consigliere Apsu, volteggiando nell’aria. «Attenti a sfidare ciò che non conosciamo! Potrebbe aver lasciato più che le sue impronte!».

   «Se i sensori non rilevano altro, non resta che scendere in ricognizione» intervenne Ilia. «Vorrei guidare la squadra».

   «Va bene» acconsentì Chase. «Ma voglio che le misure di sicurezza siano massime. Indosserete le tute ambientali, nel caso ci sia qualche agente chimico o batteriologico nell’atmosfera».

   «Quando scenderò sul mio sacro mondo, lo farò in forma kelvana; non con questo involucro umano!» proclamò Fanior, fremente di sdegno.

   «Lei scenderà alle mie condizioni o non scenderà affatto» avvertì Chase, squadrandolo severamente. «Non esporrò la nave al rischio di contagio solo perché lei si è trasformato in una piovra che non può indossare la tuta!».

   «Posso progettare una tuta adatta alla fisiologia kelvana, ma ci vorrà del tempo» disse Terry. «Per adesso credo che dovrà conformarsi agli ordini del Capitano».

   «Fanior, mi ascolti» disse Ilia, accostandosi all’Ambasciatore. «Comprendiamo il suo dolore... la sua sete di giustizia. Se una cosa del genere accadesse a Trill, io uscirei di senno. Ma per avere giustizia, dobbiamo prima far luce sull’accaduto, senza restare vittime dello stesso male. Lei è avveduto; so che si comporterà di conseguenza».

   «Uhm... la saggezza di molte vite parla attraverso di lei» riconobbe Fanior, rabbonendosi. «Farò come vuole, per quanto sia umiliante».

   «Bene... oltre al Comandante e all’Ambasciatore, anche Neelah e la sua equipe scenderanno sul pianeta» disse Chase. «Lantora, porti una scorta».

   «Certo, signore» disse lo Xindi, selezionando sulla consolle i nomi di quanti sarebbero scesi. Un sistema automatico li avvisava della convocazione.

   «Vorrei scendere anch’io, signore» si offrì T’Vala.

   «Per quale motivo?» chiese il Capitano.

   «Lo chiami un presentimento» fu l’enigmatica risposta.

   «No, lei mi serve al timone, se arrivassero visite sgradite» disse Chase. Non aggiunse che i suoi ufficiali gli avevano riferito notizie preoccupanti sul suo conto, e non si fidava a mandarla in missione. Forse ne avrebbero discusso più tardi. Ma non in plancia, davanti a tutti... e sicuramente non davanti a Fanior. «Andrà Terry, invece» decise il Capitano.

   Per un attimo, T’Vala scrutò il superiore con sorpresa e, si sarebbe detto, con odio. Ma rientrò subito nei ranghi. «Come preferisce, Capitano» disse con una strana indifferenza, e si girò di nuovo verso il timone.

   Senza badare a loro, Fanior si avvicinò allo schermo. «Ascoltami, Kelva... anche se non sono nato sul tuo sacro suolo, sono comunque tuo figlio» disse, rivolgendosi direttamente al pianeta desolato. «Scoprirò chi ti ha fatto questo. E poi... ti vendicherò!» promise, portandosi la mano al petto e chinando il capo.

 

   Il sole, simile a quello terrestre, si alzava da una linea di colline basse e brune, dilavate dall’erosione. La temperatura saliva rapidamente, ma tutti i membri della squadra indossavano le tute, per cui non ne soffrivano. Il terreno sotto ai loro piedi era duro e irregolare, cotto dal sole. Qua e là c’erano lastroni sollevati, come se una forza sconosciuta avesse frantumato il suolo, rivoltandolo parzialmente. I federali procedettero con cautela su quella superficie accidentata.

   «Questa era la Prima Città... la perla di Kelva» mormorò Fanior, guardandosi attorno smarrito. Cercava di ritracciare i monumenti celebrati dai suoi avi, o almeno i loro resti, ma non vedeva altro che rocce spaccate. «Era piena di ricchezze... di splendore... di vita» disse in un sussurro.

   «Ambasciatore, devo chiedervelo» disse Lantora, che si aggirava guardingo con il fucile phaser in braccio. «Conosce nulla, ad Andromeda, che potrebbe aver fatto questo?».

   «Nulla...» rispose Fanior con voce atona. Il suo volto era appena distinguibile, dentro il casco polarizzato.

   Neelah procedeva in testa alla squadra medico-scientifica, sondando tutt’intorno a sé con il tricorder. La sua tuta ambientale aveva due protrusioni in cima al casco, per accogliere comodamente le antenne. «Non rilevo agenti contaminanti nell’aria» disse. S’inginocchiò a raccogliere un campione di suolo disseccato ed esaminò anche quello. «Nemmeno nel terreno» aggiunse, sbriciolandolo nel pugno.

   «Resta l’acqua... o quel che è» notò Ilia, indicando una gran massa grigia, poche centinaia di metri avanti. Era uno dei grandi laghi che costellavano le terre emerse. Una lieve brezza ne increspava la superficie, disegnando onde basse, che si frangevano sulle rive con un curioso silenzio. Erano più dense dell’acqua; sembravano fanghiglia.

   «Uhm... le letture del tricorder sono inconcludenti» disse Neelah, perplessa. «Devo prelevare un campione per le analisi» aggiunse, portandosi in testa al gruppo.

   «Ambasciatore... le storie del suo mondo parlano di queste pozze?» chiese Terry, quando furono sulla riva.

   «No... in effetti è strano» ammise Fanior.

   «Sono disposte in uno schema a raggiera. È possibile che corrispondano alla posizione delle vostre città?» chiese l’IA.

   «Dove vuole arrivare?» chiese l’Ambasciatore.

   «Non lo so ancora» rispose Terry, guardinga. Osservò il lago con attenzione: sembrava composto da una melma grigia e viscosa.

   «Ugh... sta suggerendo che qualcosa abbia sciolto le città kelvane?» s’innervosì Lantora.

   «Fa caldo qui» disse Ilia, leggendo la temperatura esterna sui dati proiettati nel casco. «Se quello è fango, perché non si secca?».

   «Forse non è fango» disse Terry, enigmatica. Prese un sasso, lo palleggiò in mano e lo scagliò nel lago, a una certa distanza. La pietra sprofondò adagio nella melma, con un suono appena percettibile. Le onde concentriche sulla superficie si allargarono di poco, prima di svanire.

   «Beh, fra poco ne sapremo di più» disse Neelah, avvicinandosi al fluido viscoso con una siringa per campionature.

   «Non lo faccia» ordinò Terry, afferrandole il polso.

   «Perché?» si stupì l’Aenar.

   «Credo che Terry abbia ragione... mai avvicinarsi a una sostanza viscosa di cui s’ignora la natura» disse Lantora, indietreggiando. Gran parte della squadra lo imitò. I federali guardarono quella distesa grigia, innaturalmente calma malgrado il vento sostenuto, e ne provarono un indefinibile senso di minaccia.

   «Ambasciatore, è certo che l’Impero Kelvano fosse minacciato dalle radiazioni?» chiese ancora Terry. C’era una tensione insolita nella sua voce, che sfiorava la paura.

   «Beh, così ci hanno insegnato i nostri avi. Che motivo avevano di mentire?» si difese Fanior.

   «Non diffondere il panico, ad esempio» rispose l’IA.

   «Sta dicendo che...» cominciò Neelah, ma si bloccò. Fissò la melma grigia... ed ebbe la netta sensazione che anche quella li stesse osservando. «Ma certo... ecofagia. Questo spiegherebbe tutto. Allontanatevi!» raccomandò a due membri della sua squadra, che non erano ancora indietreggiati.

   «Perché?» chiese candido uno dei due. «Siamo qui per prelevare campioni. Per avere risposte» disse, impugnando una siringa. S’inginocchiò a riva e l’accostò alla melma, per prelevarne un piccolo quantitativo.

   «Indietro, ho detto!» strillò Neelah, ma era troppo tardi. Un’onda grigia si sollevò dalla riva e si avventò sui malcapitati. In pochi istanti li avvolse, come un’ameba che fagocita dei batteri, e li trascinò via con sé. Le loro grida strozzate si spensero in un gorgoglio. L’onda si ritirò, senza lasciare una sola goccia a riva. La pozza grigia era di nuovo liscia e immobile. Ma dei due biologi non c’era traccia.

   «Non ho più i loro segnali» disse Terry, allarmata. «Non capto né le tute, né i corpi. Si direbbe che siano stati... assorbiti». Le parole galleggiarono nell’aria, cariche d’orrore. Bacini come quello erano sparpagliati su tutto il pianeta... le implicazioni erano apocalittiche.

   «Frell!» imprecò Lantora, puntando il fucile contro la distesa di melma. Il lago era di nuovo in subbuglio. Tentacoli grigi se ne sollevarono, per scattare contro la squadra, lesti come serpenti. Tre ufficiali della Sicurezza furono ghermiti dalla melma, fattasi collosa, e trascinati nel lago. Un tentacolo guizzò anche verso Lantora, ma questi lo colpì con il phaser, disintegrandone la parte terminale. La melma rifluì all’indietro, ma chiaramente non intendeva desistere dall’attacco. Dal lago si sollevarono onde alte come palazzi, che piegarono le creste verso la squadra. La loro mole oscurò la luce del sole. Tonnellate di melma stavano per abbattersi sui federali.

   «Teletrasporto d’emergenza, ora!» ordinò Ilia.

   Il ronzio familiare riempì le orecchie degli esploratori, mentre i loro corpi si dissolvevano in bagliori azzurri. L’attimo dopo la melma si abbatté sulla riva; ma non c’era più nessuno da assorbire. L’ondata si ritrasse con la stessa rapidità con cui si era sollevata. Ma stavolta il lago melmoso non tornò quieto. La sua superficie parve ribollire, anche se in realtà la temperatura era invariata. Se ne sollevarono grandi bolle, che sfidando la forza di gravità si trasformarono in globi fluttuanti verso l’alto. La loro superficie tremolante era composta di melma, fattasi più fluida e argentina. Le bolle si sollevarono sempre più, senza alcun mezzo apparente di propulsione. Più prendevano quota, più la loro velocità aumentava, finché sfrecciarono come proiettili verso l’astronave in orbita.

 

   «Cos’è successo? Abbiamo perso cinque segnali...» disse Chase, rivolgendosi a Terry con sguardo interrogativo.

   «La squadra è di nuovo a bordo. Reintegrazione completata» disse l’IA, che aveva assorbito la memoria della sua copia scesa sul pianeta. I suoi occhi si spalancarono. «Capitano, dobbiamo andarcene immediatamente! Ogni secondo che passiamo in orbita ci mette a rischio».

   «A rischio di cosa?!» domandò Chase, allarmato. Raramente aveva visto tanta paura sul volto dell’Intelligenza Artificiale.

   «Di finire come i Kelvani. Ora so cosa li ha cancellati» disse Terry cupamente. Girò di scatto la testa verso lo schermo. «Come temevo... il nemico viene verso di noi. Rilevo centinaia di bolle, dal diametro variabile fra cinque e quindici metri».

   «Allarme Rosso» ordinò Chase. Un attacco di quel genere lo metteva in difficoltà. Non c’era nessuno da contattare, per intavolare trattative. E con centinaia di bersagli così piccoli e rapidi, le armi dell’Enterprise avrebbero avuto minima efficacia. Nemmeno le manovre evasive servivano, perché quelle cose potevano attaccare la nave da tutte le direzioni. «Signor Grog, trasmetta su tutte le frequenze» ordinò. «Parla il Capitano Chase della nave stellare Enterprise. Siamo qui in pace, in rappresentanza dell’Unione Galattica. Fermate il vostro attacco e identificatevi!» intimò, ma non ebbe risposta.

   La porta del turboascensore si aprì. Ilia, Lantora, Neelah e Fanior si fiondarono in plancia, trafelati, ma si raggelarono nel vedere le bolle in avvicinamento. «Peggio di quel che temevo» ansimò la biologa. «Dobbiamo andarcene subito».

   «Potremmo almeno sfidarle» suggerì Fanior. «Con l’arsenale dell’Enterprise...».

   «Anche la sua gente aveva un arsenale, ma guardi com’è andata!» tagliò corto Ilia. «Dobbiamo organizzarci, prima di affrontare uno scontro».

   «T’Vala, ci porti via da qui a massima cavitazione» ordinò Chase, affiancandosi alla timoniera. Ancora non capiva cosa stesse accadendo, ma sapeva che i suoi ufficiali non si sarebbero allarmati tanto senza un valido motivo.

   «Non c’è problema» annuì T’Vala. Aveva già impostato tutto: l’Enterprise entrò nel tunnel di cavitazione prima che le bolle le fossero addosso. La nave tremava lievemente per lo sforzo di sostenere la velocità massima.

   «Allora, abbiamo cinque vittime; cos’è successo?» chiese il Capitano, fronteggiando gli ufficiali scesi sul pianeta. «E soprattutto... che diavolo ci siamo trovati di fronte?».

   Terry e Neelah si scambiarono un’occhiata. Fu l’Intelligenza Artificiale a farsi avanti per spiegare. «Capitano, la melma grigia dei laghi, così come le sfere argentee, sono manifestazioni della Scourge: l’arma perfetta per annichilire la vita. All’inizio le mie letture erano poco chiare, ma ora ho capito. Ogni millimetro cubo di melma è composto da miliardi di nano-macchine auto-replicanti, che operano a livello molecolare, con estrema rapidità ed efficienza. Possono smantellare qualunque sostanza in pochi istanti, usandone le molecole per replicarsi. È così che hanno sterilizzato Kelva... e probabilmente gran parte di Andromeda».

   Chase si prese qualche secondo per afferrare l’enormità della cosa. «Terry, se quel che dice è vero... la Scourge rappresenta una minaccia paragonabile al Fronte Temporale» disse a mezza voce.

   «Potrebbe essere ancora peggio» azzardò Neelah. «Il Fronte Temporale reclamava il controllo di gran parte della Via Lattea. Ma se questa... Melma Grigia si espande a ritmo esponenziale, come un virus, allora minaccia l’intero Universo».

   «Possiamo azzardare ipotesi sulle sue direttive?» chiese il Capitano.

   «Direi che ce ne sono almeno quattro» rispose la dottoressa, contando sulla mano. «Primo: trovare un pianeta che ospiti forme di vita. Secondo: scomporre tutta la massa organica e tecnologica nelle sue parti elementari. Terzo: usare queste risorse per replicarsi, costruendo nuove nano-macchine. Quarto: ripartire per ripetere la sequenza. E così via, all’infinito». La sua voce si smorzò.

   «Quest’arma potrebbe aver sterilizzato Andromeda in pochi secoli» incalzò Terry. «Poniamo che raddoppi ogni anno. Se oggi controllasse solo una frazione di Andromeda, significa che la controllerà tutta fra pochi anni. Ancora un anno e contagerà le galassie circostanti... inclusa la Via Lattea. In un decennio potrebbe infettare l’intero Gruppo Locale e così via, diffondendosi in tutto l’Universo».

   «Se raggiungesse la Via Lattea, sarebbe una catastrofe» riprese Neelah. «In gergo tecnico si chiama ecofagia... il completo divoramento di un sistema. In pratica è il game-over della vita».

   «Ma ci dev’essere un modo per fermarla!» insorse Chase, non rassegnandosi a quella visione catastrofica. «Che opzioni abbiamo?».

   «Non molte» disse Fanior, lugubre. «I miei simili non avrebbero mai abbandonato il nostro mondo natale. Devono aver lottato fino allo stremo... e hanno perso».

   «La Scourge non è invulnerabile; a terra l’ho danneggiata» ricordò Lantora. «Ancora non sappiamo che impatto hanno le nostre armi su quelle bolle... potremmo tornare indietro e appurarlo, prima di darci per vinti».

   «Non occorre fare dietro-front, Tenente» avvertì Terry. «È la Scourge che viene da noi». Proiettò la visuale di poppa sullo schermo. Le bolle sfrecciavano nello stesso condotto di cavitazione dell’Enterprise, sempre più vicine.

   «Assurdo!» sbottò Lantora. «Come fanno a seguirci senza motori, senza deflettore...?».

   «Non importa il come, ma il perché» puntualizzò Fanior. «Ci hanno visti e non vogliono lasciarci andare. Questo la dice lunga sul loro modus operandi».

   «Quelle stupide bolle di sapone accorciano le distanze» avvisò T’Vala. «Siamo già a massima cavitazione... che facciamo?». L’Enterprise continuava a vibrare, per lo sforzo cui erano sottoposti i motori.

   «Almeno non ci stanno sparando...» notò Lantora.

   «Vogliono contagiarci!» ribadì Neelah.

   «... ma noi possiamo sparare a loro!» concluse lo Xindi. «Chiedo il permesso di aprire il fuoco, Capitano. Dobbiamo distruggerle prima di trovarcele addosso».

   «L’Unione non spara per prima... ma la Scourge ci ha innegabilmente aggrediti» ragionò Chase. «Proceda».

   «Spari solo coi raggi anti-polaronici e i cannoni a impulso» raccomandò Terry. «La Melma potrebbe assorbire i siluri e forse persino imparare a replicarli».

   Lantora emise un sospiro di sofferenza, a questo pensiero, e fece come consigliato. I raggi viola e gli impulsi arancioni colpirono le bolle, facendole esplodere come se fossero di sapone. Per un attimo la tensione in plancia si attenuò.

   Per un attimo.

   Le bolle non erano realmente esplose; si erano solo frantumate in migliaia di bolle più piccole, alcune delle quali avevano un diametro di pochi centimetri. Così minuscole, erano impossibili da agganciare. E comunque erano talmente numerose da rendere inutili le armi.

   «Come temevo... la loro natura è talmente estranea da vanificare gran parte delle nostre strategie e tecnologie» constatò Terry.

   «Ci sono addosso!» avvertì T’Vala. «Che si fa, Capitano?».

   «Si esce dalla cavitazione, Tenente; è l’unica» disse Chase. Tornò finalmente a sedersi in poltrona. «Estendere al massimo la bolla degli scudi. Terry, lei ha i riflessi più veloci: stia pronta a modulare gli scudi per tenere la Scourge a distanza, quando ci sarà addosso».

   «Ora!» esclamò T’Vala.

   L’Enterprise uscì dal tunnel. In un attimo, migliaia di minuscole bolle le furono addosso, impattando sugli scudi. Erano così numerose che una volta lì tornarono a fondersi, formando una sottile pellicola, che avvolgeva quasi tutta l’astronave.

   «Ce l’abbiamo addosso» rilevò Terry. «Così a contatto con gli scudi, non possiamo usare le armi. Capitano... la Scourge si adatta a una velocità spaventosa. Sto variando la frequenza degli scudi più in fretta che posso, ma non la tratterrò a lungo».

   «Non deve toccarci!» avvertì Neelah. «È come una malattia. Se anche una sola nano-macchina viene a contatto con lo scafo, comincerà a consumarlo per replicarsi. Le basteranno pochi minuti per contagiare tutta l’astronave... uccidendoci».

   «Plancia a sala macchine. Azionate il propulsore cronografico» ordinò Chase, mantenendo una strana calma. «Portateci ad almeno diecimila anni luce di distanza. Non importa la direzione, ma fate in fretta!».

 

   «Un attimo, ricordi che ci vuole il pilota!» rispose Grenk, affannato come sempre. Il Tellarita corse nella camera del propulsore, attigua alla sala macchine, con un paio di colleghi. Attivarono precipitosamente i sistemi e inserirono la sequenza d’avvio.

   Quella del propulsore era una camera semibuia, con una piattaforma rialzata di tre gradini, su cui troneggiava la complessa sedia del pilota. Sopra la sedia, come una spada di Damocle, incombeva il grosso dell’apparecchio: un complesso dispositivo conico, che tramite dei raggi entrava in sintonia con il cervello del pilota. Solo una mente eccezionale poteva attivarlo senza subire danni. Poche specie della Via Lattea avevano tale potenza. E anche tra loro, solo gli individui più dotati e addestrati potevano usare in sicurezza il dispositivo. Delle diecimila persone che vivevano sull’Enterprise, quelle abilitate alla guida si contavano sulle mani. E dopo ogni uso, il pilota – quale che fosse – doveva trascorrere alcuni giorni di riposo assoluto.

   Il propulsore cronografico mono-pilota era una delle tecnologie più avanzate della Flotta Stellare. Acquisito dai Cytheriani, la misteriosa specie incorporea che viveva al centro della Via Lattea, era talmente complesso che i migliori ingegneri avevano impiegato quasi due secoli per venirne a capo. La classe Universe era la prima a disporne. Garantiva una velocità virtualmente infinita, ma richiedeva le esatte coordinate di destinazione: il minimo errore avrebbe distrutto l’astronave. Testato con successo nella Guerra delle Anomalie, era l’unico modo per viaggiare da una galassia all’altra. Era con quello che l’Enterprise aveva raggiunto Andromeda, e solo con quello poteva tornare in tempi ragionevoli. Per questo motivo, la camera del propulsore era tra le più sorvegliate della nave.

   Il pilota, un Vian dall’enorme cranio glabro, si fece teletrasportare direttamente in camera per non perdere tempo. Corse alla sedia di controllo, enorme rispetto a lui, e si mise in posizione. Raggi azzurri da più direzioni stabilirono il link neurale. Solo la perfetta coordinazione macchina-pilota poteva azionare il dispositivo.

   «T’invio le coordinate di destinazione» disse Grenk, digitando più in fretta che poteva.

   «Ce le ho» disse il pilota, immobile e con lo sguardo vitreo. Grosse vene gli pulsavano nelle tempie, in modo impressionante. «Propulsore in linea, sono pronto. Partenza fra tre... due... uno...».

 

   In plancia, Chase guardava ora Terry – che cercava di respingere la Scourge – e ora lo schermo, dove gli effetti della lotta erano visibili. La Scourge avvolgeva la bolla degli scudi, non completamente, ma come un velo d’acqua che circondi un palloncino. Nuovi buchi si aprivano e si chiudevano in continuazione. Ora apparivano le stelle, ora il velo argenteo le nascondeva.

   «La Scourge continua ad adattarsi» disse Terry con quieta disperazione. «Se non andiamo subito, i miei scudi cederanno».

   «Avanti, avanti!» mormorò T’Vala, conficcando le unghie nello schienale della sua poltroncina. Si disse che avrebbe dovuto azionare lei il propulsore. Adesso era la mente più dotata della nave, no? Avrebbe dovuto reclamare questo e altri incarichi.

   «Collasso degli scudi imminente» avvertì Terry. «Sto per...».

   In quell’attimo l’Enterprise fu traslata. Non avendo più nulla che l’opponesse, la Scourge collassò repentinamente in una piccola bolla. Per diversi secondi rimase immobile, cercando di capire dove fosse finita l’astronave. Non trovandone traccia, fece ritorno a Kelva Primo, rituffandosi nel lago che l’aveva generata.

   Molto lontano da lì, l’Enterprise stazionava nello spazio aperto. I suoi scudi, non più sotto sforzo, erano nuovamente invisibili. «È fatta» disse T’Vala, consultando i dati del timone. «Siamo a diecimila anni luce da Kelva, in direzione del centro galattico».

   «Non rilevo alcuna traccia della Scourge» aggiunse Terry. «Stando alle nostre conoscenze, è impossibile che ci abbia seguiti. Il propulsore cronografico non è come la curvatura o la cavitazione. Una volta fatto il balzo, non c’è modo di rintracciarci».

   «Speriamo; per il momento è la nostra unica difesa contro la Scourge» disse Chase, inquieto. «Restiamo in Allarme Giallo per un’ora. Terry, sorvegli lo spazio coi sensori a lungo raggio. Al primo segno di Scourge, attivi gli scudi e avverta la sala macchine».

   L’Intelligenza Artificiale annuì. Sembrava provata dallo scontro.

   «Essere sfuggiti alla Scourge è una buona cosa» commentò Fanior. «Ma non si vincono le guerre stando in ritirata. Dobbiamo trovare un modo per distruggerla!».

   «Dobbiamo studiarla, questo è certo» convenne il Capitano. «E preghiamo di trovare un punto debole, prima che questa minaccia esca da Andromeda».

 

   Nei giorni successivi l’Enterprise proseguì l’esplorazione, approfittando del balzo che l’aveva portata più addentro ad Andromeda, in uno dei bracci a spirale, dove le stelle erano più fitte. Tutti i pianeti potenzialmente abitabili che scoprì avevano tracce di Scourge. Chase mantenne la nave a distanza, affidandosi ai sensori a lungo raggio e non inviando squadre in perlustrazione, nemmeno con le navette. Così riuscì a evitare altri inseguimenti. Le nuove scoperte, però, confermarono che quello di Kelva Primo non era un caso isolato. La Scourge era veramente diffusa come una peste e ovunque arrivasse cancellava ogni traccia di vita.

   Il Capitano convocò quindi una riunione in sala tattica. Gli animi erano cupi come nei momenti peggiori della Guerra delle Anomalie. La Scourge era una minaccia così aliena, così difficile da combattere, da minare ogni speranza.

   «Bene, signori... siamo qui per decidere il da farsi» esordì Chase, quando ci furono tutti. Il Capitano se ne stava in piedi, leggermente chino sul tavolo, appoggiandovi solo i polpastrelli delle dita. «Abbiamo visto che la Scourge è diffusa sui pianeti di tipo terrestre, segno che erano abitati e li ha consumati. L’assenza di trasmissioni subspaziali indica che o Andromeda è in gran parte contagiata, o i suoi abitanti restano in silenzio per nascondersi. Speriamo nella seconda eventualità. In ogni caso la Scourge dovrebbe espandersi a ritmo esponenziale o quasi, contagiando tutto ciò che incontra. Ciò ne fa la più grande minaccia per la vita nell’Universo che abbiamo mai incontrato. Ma lascio la parola all’esperta di nanotecnologie». Chase si sedette, mentre Neelah prendeva la parola.

   «Purtroppo non sappiamo molto altro» disse l’Aenar. «Su Kelva Primo ho visto le capacità reattive e aggressive della Scourge, che si comportava come una sorta di ameba. Ma nello spazio ha adottato una strategia di sciame. Ignoriamo quale sia il legame tra una nano-macchina e l’altra, e tra le diverse bolle. Soprattutto ignoriamo il livello d’intelligenza della Scourge: agisce per istinto o consapevolmente? O magari si trova sospesa fra coscienza e puro automatismo? Per rispondere a queste domande devo fare altre analisi. Mi serve un pezzetto di Scourge» disse chiaro e tondo.

   «Te lo scordi!» protestò Grenk, fulminandola con gli occhietti porcini. «Se un solo nanite esce dal confinamento, l’intera nave è a rischio contagio!».

   «Per questo condurrò le ricerche da una base a terra» spiegò Neelah. «Mi servono un planetoide isolato, un laboratorio da campo e un campione di Scourge, da prelevare con le dovute cautele...».

   «Che si fa se la Scourge chiama aiuto?» chiese Ilia.

   «Terremo gli occhi aperti. Saremo pronti a richiamare la squadra e ad andarcene in qualunque momento» propose Lantora.

   «Allora, Capitano, autorizza l’esperimento?» chiese Neelah, fissandolo con i penetranti occhi azzurri. La loro relazione rendeva sempre le cose difficili, quando c’erano rischi da correre. Chase voleva tenere la sua partner lontana dalla Scourge... ma non poteva vietare all’Ufficiale Medico Capo di fare il suo lavoro. Sentì gli occhi dei presenti che si appuntavano su di lui.

   «Ha la mia autorizzazione» disse il Capitano. Era la parte peggiore del suo lavoro... anteporre il dovere ai desideri personali. Ma doveva essere di esempio per gli altri.

   «Ben fatto» commentò Fanior, e Chase capì di essere salito di una tacca nella sua considerazione. «Ma ci sono altri enigmi da risolvere. Primo fra tutti, com’è nata la Scourge».

   «Un quesito interessante» intervenne il Consigliere Apsu. «Come la Collettività Borg, o le nostre IA più evolute, la Scourge può essere considerata una singolarità tecnologica. Ma ogni intelligenza post-organica è figlia di esseri organici. Chi l’ha creata? È sempre stata un’arma? Dove sono ora gli artefici?».

   «Per come la vedo, ci sono tre scenari» disse Neelah. «La Scourge può essere stata creata intenzionalmente da una civiltà che vuole distruggere tutte le altre, per regnare incontrastata sull’Universo. In tal caso è probabile che i bastardi si nascondano da qualche parte, pronti a uscire quando la Scourge avrà finito il lavoro sporco».

  «Se li trovassimo, potremmo costringerli a ritirarla» commentò Lantora. «Avranno pure un bottone di sicurezza, da qualche parte!».

   «La seconda possibilità è che la Scourge sia stata creata intenzionalmente per distruggere una civiltà rivale, ma sia sfuggita al controllo dei creatori. In tal caso è probabile che abbia distrutto anche loro» proseguì l’Aenar.

   «Questo non ci aiuterebbe a fermarla» notò Fanior, cupo. «Qual è la terza opzione?».

   «Che la Scourge sia stata creata per errore, facendo esperimenti di nanotecnologia» sospirò Neelah. «Forse gli artefici cercavano un modo per riciclare i materiali o per terraformare i pianeti. O magari volevano rendersi immortali, riparando le cellule danneggiate. Anche in questo caso è probabile che siano stati travolti dalla loro stessa creazione».

   «Se riuscissimo ad accedere al codice-sorgente della Scourge, forse potremmo riprogrammarla per renderla meno aggressiva» ipotizzò Terry. «Ma finché non la conosciamo meglio, sono tutte congetture».

   «Almeno sono congetture logiche» disse Chase. «A proposito di logica... lei ha niente da dire?» chiese a T’Vala, che era rimasta silente fino ad allora.

   «Sono tutte belle ipotesi» disse la mezza Vulcaniana, che sedeva un po’ sghemba sulla sua poltroncina e si stropicciava una ciocca di capelli, con aria annoiata. «Ma se volete verificarle, non pensate che sarebbe carino visitare la Scourge a casa sua? Voglio dire, nel luogo in cui tutto ha avuto inizio. Deve pur essere da qualche parte» disse, accennando vagamente allo spazio, oltre la finestra panoramica.

   «Lei sa come rintracciare il punto d’origine?» s’interessò Fanior.

   «Beh, è elementare!» sostenne T’Vala. «La Scourge si espande come un incendio, o una malattia. Ha un fronte enorme, che si allarga costantemente, e un volume interno in cui ha già consumato tutto ed è quiescente. Se riuscissimo a datare con un minimo di precisione il periodo in cui ha consumato i vari pianeti, potremmo disegnare una mappa galattica che registri la sua progressiva diffusione. Si devono evidenziare le fasce di espansione, divise... diciamo per decade. Risalendo dai pianeti assorbiti di recente a quelli più vecchi, ci avvicineremo al punto d’origine, al centro delle bolle concentriche d’espansione».

   «Ma è un lavoro enorme!» protestò Lantora. «Andromeda è tre volte più grande della Via Lattea. Dovremmo visitare migliaia di pianeti per farci un’idea di com’è progredita l’espansione. Rischiando ogni volta d’essere attaccati!».

   «È elementare come concetto, non come realizzazione» ammise T’Vala. «Ma potremmo informarci presso i popoli superstiti, se ce ne sono. Vi renderete conto che ci servono alleati, qui ad Andromeda. La logica mi dice che questa galassia è percorsa da astronavi, e anche interi convogli, che hanno abbandonato i pianeti infettati e vagano in cerca di risorse».

   «Lei parte dal presupposto che tutti i pianeti siano stati contagiati con un’espansione a macchia d’olio, uniforme in tutte le direzioni» notò Terry. «Non è detto che sia così. La Scourge potrebbe aver privilegiato le aree galattiche più densamente abitate».

   «Sta anche dando per scontata l’espansione da un unico punto» aggiunse Neelah.

   «Pensa a un’origine policentrica?» chiese T’Vala con scetticismo.

   «Beh, se la Scourge è un fenomeno intenzionale, i suoi creatori potrebbero averla posta deliberatamente lontano dal loro mondo natale, per stare al sicuro e non essere localizzati» spiegò Neelah. «A quel punto tanto valeva disseminarla in vari luoghi, per rendere più difficile contenerla, nella prima fase d’espansione».

   «La sua osservazione è... logica» ammise T’Vala, malvolentieri.

   «Nevvero?» fece l’Aenar, sarcastica. Non le piaceva per niente il nuovo atteggiamento di T’Vala. La timoniera era stata la sua prima, vera amica sull’Enterprise, ma si era fatta troppo saccente, persino per lei.

   «T’Vala, la sua proposta è interessante, ma per ora la trovo di difficile realizzazione» commentò Chase. «Piuttosto spero che ci siano dei sopravvissuti, in giro per Andromeda. Potrebbero dirci molto».

   «L’Impero Kelvano aveva numerose colonie e avamposti, anche a grande distanza dalla capitale» intervenne Fanior. «Alcune installazioni militari erano segrete. Io... conosco le loro coordinate. Ve le darò, così potremo cercare i Kelvani superstiti e chiedere a loro. Mi rifiuto di credere che la mia specie sia completamente estinta in Andromeda. Devono esserci dei sopravvissuti, da qualche parte. E noi li troveremo» disse con decisione.

   «Allora, che si fa per prima cosa?» domandò Ilia al Capitano. «Spuntiamo l’elenco dell’Ambasciatore o prendiamo un campione di Scourge?».

   «Uhm... è un elenco lungo?» volle sapere Chase.

   «Voi direste che lo è. Sono diverse centinaia di coordinate» rispose Fanior.

   «Dubito che saremo così fortunati da far centro ai primi tentativi» sospirò Chase. «E più tempo passiamo allo scoperto, più ci attiriamo la Scourge. Andremo prima in cerca di un campione. Se falliremo... tenga pronta la sua lista» raccomandò. Dopo di che si alzò, con aria determinata. «Ora ci serve un piano d’attacco. Ignoriamo ancora quanto sia astuta la Scourge e se abbia capacità mimetiche. Ma abbiamo la miglior tecnologia e le migliori menti della Flotta. Non dobbiamo fallire».

 

   Una navetta leggera di classe Dragonfly sfrecciò verso un pianeta invaso dalla Scourge, entrando in orbita. Non dovette attendere molto prima che una bolla, del diametro di due metri, si sollevasse da una pozza di melma. La navetta non attese che si avvicinasse e lasciò subito l’orbita, diretta verso l’esterno del sistema stellare. La bolla argentea la seguì.

   La navetta aumentò più volte la velocità, cercando di tenere la Scourge a distanza. Ma ad ogni suo sprint corrispondeva un’analoga accelerazione della bolla. Allora la navetta entrò in cavitazione. La Scourge la inseguì ostinatamente anche lì. Stava accorciando sempre più le distanze.

   Ormai tallonata, la Dragonfly uscì dalla cavitazione nei pressi di un planetoide, nel sistema stellare adiacente. La bolla le fu addosso e finalmente la colpì. Una macchia argentea si disegnò sulla poppa. Per qualche secondo non sembrò accadere nient’altro.

   Poi il metallo si fece tremulo come gelatina. La macchia si allargò sullo scafo, a vista d’occhio, avvolgendo tutta la navetta. Il processo di digestione era cominciato. La Dragonfly perse integrità strutturale e cominciò a sciogliersi, come argilla bagnata. Entro un minuto dall’impatto si era trasformata in una bolla argentea, più grande di quella che l’aveva inseguita. Non ci furono vittime: la navetta era guidata dal pilota automatico.

   In circostanze normali la bolla sarebbe tornata indietro, per rituffarsi nel lago melmoso che l’aveva generata. Ma non andò così. L’Enterprise uscì dall’occultamento e immobilizzò la bolla con un raggio traente, mentre otto navette pesanti di classe Hornet la circondavano in formazione. Ogni navetta aveva un proiettore di campo fissato anteriormente. Gli otto raggi, perfettamente collimati, si accesero nello stesso istante, avvolgendo la Scourge in un campo di contenimento. La bolla argentea si deformò, lottando per uscire; ma dopo qualche tentativo fallito divenne stranamente calma. E lo rimase anche quando le navette la depositarono con delicatezza sulla superficie del vicino planetoide.

   Con mille precauzioni, la Scourge fu trasferita in una camera di contenimento, simile a quella usata a suo tempo per la Molecola Omega. Consisteva in una bolla trasparente, del diametro di tre metri, che generava al suo interno un campo di forza, per isolare completamente la Scourge. Il tutto era montato su una robusta base, che ospitava il generatore. La squadra di terra dell’Enterprise si assicurò che il contenimento reggesse e portò la camera dentro il laboratorio da campo.

   Allestito a tempo di record, il laboratorio somigliava alle prime basi con cui gli Umani avevano colonizzato la Luna e Marte, se non che, tecnologicamente parlando, era secoli avanti. Era una struttura gonfiabile, formata da una grossa cupola centrale e da tre bracci laterali con le camere stagne. Il planetoide, infatti, aveva solo una tenue atmosfera d’anidride carbonica. L’Enterprise aveva cercato un luogo più ospitale in cui condurre l’operazione, uno che non richiedesse di lavorare in ambiente pressurizzato. Ma tutti i pianeti di classe M trovati nei paraggi erano infettati dalla Scourge. Solo i planetoidi sterili come quello erano sicuri.

   Le navette Hornet rientrarono, mentre l’Enterprise sorvegliava sia la base sulla superficie, sia lo spazio circostante. Era pronta a teletrasportare gli scienziati al minimo segno di pericolo. In plancia, Chase seguiva con apprensione gli sviluppi, tenendo un canale audio-video sempre aperto con l’installazione.

   «Laboratorio a Enterprise, abbiamo la Scourge» confermò Neelah. Si avvicinò alla camera di contenimento, inquadrata dalla telecamera, così che Chase e i suoi ufficiali la videro sullo schermo. Con lei c’era una squadra mista di dottori e ingegneri, scelti tra gli esperti di nanotecnologie. I federali sembravano piccoli davanti alla camera trasparente, piena per metà della Melma Grigia. Ora che si trovava sulla superficie di un pianeta, la Scourge era tranquilla; ma nessuno dimenticava che aveva appena divorato una navetta.

   «Il contenimento regge, la Melma sembra quiescente» disse Neelah. «Comincio le analisi». Gli scienziati puntarono una serie di sofisticati sensori verso la camera. Due di loro avvicinarono uno strano congegno a forcella, con un disco dall’inclinazione regolabile, pieno di luci rosse che pulsavano a intermittenza. Era un sensore vecchio modello, ma sempre affidabile. Altri scienziati lavoravano alle consolle, per interpretare i dati.

   Dalla plancia, Chase seguiva le operazioni con crescente nervosismo, anche se cercava di non darlo a vedere. Sprofondato nella poltroncina, teneva le dita intrecciate e non staccava gli occhi dallo schermo. Anche gli altri ufficiali seguivano attentamente gli sviluppi. E naturalmente c’era Fanior. Se ne stava in piedi, con le braccia incrociate dietro la schiena, immobile come una statua.

   «Dovrei esserci anch’io» disse Terry.

   «Sto già rischiando le migliori menti dell’Enterprise» disse Chase. «Ma non rischierò che il suo database cada in mano nemica». Ricordava fin troppo bene come Terry era stata quasi hackerata, durante la missione nella Cripta, un anno e mezzo prima. Date le sue caratteristiche, la Scourge poteva essere un hacker ancora peggiore.

   Trascorsero i minuti, carichi di tensione. «Abbiamo i primi dati, ve li invio» disse infine Neelah. Armeggiò con una consolle connessa a un proiettore olografico. «Questa è la struttura dei naniti. Ecco il vero volto della Scourge!» annunciò, proiettando l’ologramma semitrasparente di un nanita. Era un corpuscolo globulare, ma pieno di minuscoli tentacoli che uscivano da tutte le parti. Chase pensò che sembrava una cellula cancerosa. Si sentì rabbrividire fino al midollo.

   «È la nanotecnologia più raffinata che abbia mai visto» disse Neelah. «Nemmeno le nanosonde Borg sono così sofisticate. Questi naniti posso trasformare qualunque cosa in ciò che si desidera!» esclamò, con sguardo cupido.

   «Lo trasformano davvero o è solo un’imitazione?» chiese Terry.

   «Beh, per saperlo dobbiamo passare alla fase sperimentale» disse Neelah. «Dategli da mangiare!». Al suo ordine, un complesso meccanismo introdusse un piccolo campione di materia nella camera di contenimento. Era un cubetto di duranio, che fu lasciato cadere nella melma. Il cubetto vi sprofondò, sciogliendosi all’istante. Tutti i sensori erano tesi per rilevare il processo.

   «Affascinante» disse Neelah, osservando l’ologramma che mostrava i rilevamenti dei sensori. Le molecole sfiorate dai naniti erano completamente ristrutturate, divenendo naniti esse stesse. «Questa è più che ingegneria molecolare... rilevo trasformazioni a livello subatomico!» disse Neelah, con crescente reverenza. «É... è... non so come definirlo. Ma le implicazioni scientifiche sono enormi. Ricostruzione molecolare... sintesi di particelle... è un potere divino!».

   In quella la Melma Grigia si sollevò e prese a vorticare. Sembrava che un piccolo turbine si fosse formato nell’unità di contenimento. Gli allarmi squillarono e Neelah corse a un’altra consolle.

   «La Scourge emette un segnale di disturbo che interferisce coi nostri sistemi energetici... stiamo perdendo il contenimento!» gemette l’Aenar.

   «Terry, teletrasporto!» ordinò Chase, alzando di scatto la schiena.

   Nel laboratorio, gli scienziati furono avvolti dal familiare raggio azzurro. Si udì un lungo ronzio... ma quando il bagliore si estinse, erano ancora lì. Si guardarono l’un l’altro, smarriti.

   «Che succede?!» chiese il Capitano, sentendosi sprofondare.

   «Il segnale di disturbo interferisce anche con il teletrasporto» diagnosticò Terry. «Non l’avevamo previsto. Sto cercando di compensare, ma...».

   Il mulinello che era la Scourge vorticò sempre più forte, finché vi fu un’esplosione. La camera di contenimento andò in pezzi. Il feed-back energetico si riversò sulla strumentazione del laboratorio, mandando tutto in corto circuito. Le consolle sprizzarono scintille, le luci si spensero e anche le telecamere andarono fuori uso. Perso il collegamento, lo schermo dell’Enterprise mostrò di nuovo il planetoide, inquadrato dall’orbita.

   «Li abbiamo persi, signore» disse Terry fiocamente. Un silenzio di tomba piombò sulla plancia.

   «Il teletrasporto?» chiese Ilia dopo qualche secondo.

   «È ancora disturbato».

   «Allora prendiamoli con le navette» decise il Capitano, balzando in piedi.

   «Non dirà sul serio!» protestò Fanior, frapponendosi fra lui e il turboascensore. «La Scourge consumerà la base in pochi minuti. Se anche troverà qualcuno dei suoi, sarà infetto. Vuol mettere a rischio tutta la nave?».

   «Si tolga di mezzo» sibilò Chase, con l’aria spiritata, e lo scostò bruscamente.

   «L’Ambasciatore ha ragione» intervenne T’Vala. «Le esigenze dei molti travalicano quelle dei pochi... anche se ci stanno a cuore. Se portiamo a bordo un infetto è la fine. La Scourge è incontenibile».

   «Si sbaglia, c’è un modo di contenerla» corresse Chase, concependo un piano disperato. «Chase a Grenk, si presenti subito nell’hangar 1. E porti con sé il Progetto Timeless».

   «Oh, frell» imprecò il Tellarita.

 

   «State tutti bene?!» chiese Neelah, muovendosi a tentoni nella semioscurità. Le uniche fonti di luce erano alcune consolle, che si accendevano e spegnevano a intermittenza, e i resti della camera di contenimento, che sprizzavano scintille.

   «Per ora sì» rispose un medico. «Ma senza contenimento siamo finiti! Dobbiamo uscire di qui!». Corse verso uno dei bracci del laboratorio, dove si trovavano le tute e la camera stagna. Molti colleghi lo seguirono, sgomitando e urtandosi a vicenda.

   «Calmi! Senza energia, anche la camera stagna sarà bloccata...» avvertì Neelah, ma si accorse che la ignoravano. Doveva ridare potenza alla base, rifletté. Ma prima ancora doveva difendersi. Aprì l’armadietto delle armi e prese un fucile phaser. Lo regolò su disintegrazione, attivò la piccola torcia incorporata nell’arma e mirò i resti della camera di contenimento. Come temeva, la Scourge non era più in vista. Non era nemmeno colata sul pavimento. Se aveva mantenuto la consistenza sabbiosa dei momenti precedenti, poteva già essere diffusa nell’aria, nel qual caso erano tutti infettati.

   Cercando di non pensarci, Neelah si guardò attorno con circospezione. Il laboratorio le era sembrato grande mentre lo allestivano. Ma ora, immerso nell’oscurità rotta solo da qualche flash, le parve spettrale e claustrofobico. La dottoressa girò cautamente su se stessa, con il dito sul grilletto, finché non vide un collega di spalle. Il suo camice era una macchia bianca nella penombra.

   «Kowalsky, sei tu?» chiese sottovoce. «Stammi vicino. Dobbiamo riavviare il generatore... Kovalsky, mi senti?». Nessuna risposta; l’uomo continuava a darle le spalle. Inquieta, Neelah gli girò intorno, per capire se fosse davvero lui. Quando lo vide in faccia, fu invasa da un orrore inesprimibile.

   La cosa davanti a lei non aveva volto. Per forma e dimensioni era umana, e indossava persino l’uniforme medica, completa di camice con strumenti nelle tasche. Aveva ancora i capelli. Ma il viso era quello di un manichino, dai lineamenti appena abbozzati. L’epidermide era liscia e riflettente come acciaio cromato, tanto che Neelah vi si specchiò.

   «Oh, dren!» gemette la biologa. Si mosse silenziosamente di lato, come un granchio, sperando di non essere seguita.

   Non c’erano occhi, sul lucido volto da manichino. Eppure la cosa la vide. Non c’erano orecchie, ma la sentì. Girò la testa di lato, verso la dottoressa, e mosse verso di lei. Tese le mani argentee per ghermirla, per contagiarla.

   «Non ti avvicinare. Un altro passo e ti uccido!» avvertì la scienziata, arretrando precipitosamente. Ben presto urtò contro la parete del laboratorio. Era un tessuto polimerico ad alta resistenza, facile da piegare quando non in uso, ma che diventava rigido una volta gonfiato. Essendo un materiale intelligente, a memoria di forma, poteva rimarginare i piccoli tagli. Ma non un grande squarcio... e su quel pianeta nano, la decompressione significava la morte. Se Neelah avesse sparato, doveva assicurarsi di fare centro.

   «Fermo, ho detto!» gridò l’Aenar, pur sapendo che era inutile. Il drone le era quasi addosso. Neelah gli sparò a bruciapelo, in pieno petto, disintegrandolo completamente. Sentì l’ondata di calore in volto. Aveva le gambe molli, ma non doveva perdere tempo. Inutile sentirsi in colpa, si disse: quello non era più Kowalsky.

   La dottoressa si recò a un pannello di controllo e cercò di ridare energia all’installazione. D’un tratto colse un movimento con la coda dell’occhio. Si girò di scatto, imbracciando il fucile, e si trovò di fronte un altro manichino vivente. Disintegrò anche quello. «Almeno non hanno scudi adattativi» si disse, e tornò al lavoro. Riuscì a ridare luce al laboratorio, ma le uscite erano ancora bloccate. Almeno poté guardarsi intorno.

   A una certa distanza vide un terzo drone. Era in piedi davanti a una sedia e tendeva la mano in avanti, verso un’infermiera seduta scompostamente. Neelah la vedeva solo di schiena, ma capì subito che qualcosa non andava. Gambe e braccia della donna erano molli, la testa reclinata di lato. Non opponeva resistenza al tocco della cosa.

   «Izumi, è lei? Si allontani subito!» ordinò. Anche stavolta furono parole al vento. L’Aenar si avvicinò con circospezione, sempre imbracciando il fucile phaser. Girò intorno alla sedia, per osservare la scena dal davanti, e finalmente vide come avveniva l’assorbimento. La cosa teneva l’indice premuto al centro della fronte della sua vittima. I naniti fluivano tramite il semplice tocco, ricoprendo l’infermiera. Neelah vide la sua pelle cambiare a vista d’occhio; l’onda argentea scese giù per il collo e infine riapparve nelle mani. Ormai doveva aver contagiato tutto il corpo. Al tempo stesso i lineamenti svanirono, come risucchiati sottopelle. Occhi, naso, bocca, orecchie... tutto fu sigillato. Al posto dell’infermiera c’era adesso un altro manichino senza volto, che si alzò, affiancandosi all’altro. Nel più completo silenzio, mossero contro Neelah. La dottoressa incenerì il primo drone e si rivolse a quello contagiato per ultimo.

   «Resta dove sei, o ti disintegro come gli altri, quant’è vero che ho le antenne!» minacciò. Stavolta il drone rimase fermo. Era il primo segno incoraggiante. Anche la Scourge conosceva, in qualche misura, l’istinto di conservazione. Chissà come faceva a sentirla, senza orecchie!

   Messo in sicurezza il salone centrale, la dottoressa richiamò i colleghi, che si erano rifugiati nei lunghi bracci dell’installazione. Molti avevano indossato le tute, anche se poi non erano riusciti a sbloccare la camera stagna.

   «Grazie per l’intervento, dottoressa» disse uno di loro.

   «Sì, ma siamo ancora in trappola!» aggiunse un altro.

   «La Scourge non vuole farci uscire» commentò l’Aenar, squadrando il drone argenteo. «È furba, adattabile... deve avere una sua intelligenza».

   «Quindi che facciamo?» chiese un collega.

   «Aspettiamo. L’Enterprise ci salverà, vero?» chiese un altro ansiosamente.

   «Certo... se il teletrasporto non funziona manderanno le navette» disse un terzo.

   «Verranno le navette» annuì Neelah. «Il problema è che non possono caricare dei potenziali infetti. Se non riescono ad accertare che siamo sani, dovranno tenerci in quarantena. Non possono portarci sulla nave, visto come s’infiltra questa cosa».

   «Ma non possiamo resistere qui!» protestò un medico, lasciandosi cadere su una sedia. Subito il sedile si rammollì sotto di lui; le gambe si piegarono come gomma. L’uomo cadde a terra, dibattendosi, mentre la Scourge lo avvolgeva. I colleghi indietreggiarono sconvolti; un’infermiera gridò. Inesorabile, la melma coprì la vittima, venendo assorbita dai pori. Poco alla volta i lineamenti svanirono e il poveretto smise di dibattersi. Si rialzò, ridotto a un altro manichino argenteo. Ai suoi piedi c’era ancora una pozza di melma, tutta quella che non era stata assorbita.

   «Perché ci attacchi?!» chiese Neelah, quasi istericamente. «Perché contagi un pianeta dopo l’altro, come un’epidemia?».

   Il drone non rispose, né diede segno di avere inteso la domanda.

   «Ci è o ci fa?!» ringhiò un ingegnere.

   «Forse la sua strategia non contempla di comunicare col nemico» ipotizzò Neelah. In realtà quel mutismo la spaventava. Persino i Borg rispondevano alle domande, talvolta. E prima di un attacco diffondevano il loro temuto annuncio: «Noi siamo i Borg. Assimileremo le vostre peculiarità biologiche e tecnologiche. La resistenza è inutile». Già queste poche parole gettavano luce sulla psicologia della Collettività. Ma la Scourge sembrava decisa a non comunicare affatto.

   «E la nostra strategia qual è?» chiese un altro medico. «Se restiamo qui, la Scourge ci prenderà uno ad uno! Dobbiamo uscire, anche a costo di squarciare la cupola. Chi non ha la tuta, la indossi alla svelta!».

   I pochi che non erano ancora provvisti di tuta corsero a indossarla, mentre Neelah teneva sotto tiro i droni. Fu allora che il suo comunicatore riprese vita. «Shuttle Auriga a base, mi sentite?» chiese la voce familiare del Capitano.

   «Qui base, vi sentiamo» rispose subito la dottoressa. «Siamo sotto attacco, dove siete?!».

   «Stiamo arrivando, atterreremo nelle vicinanze. Avete degli infetti? Possiamo contenerne quattro, ma gli altri...» disse il Capitano.

   «Gli infetti non sono molto collaborativi» avvertì Neelah. Come a confermare le sue parole, il drone maschio le si avventò contro. Non volendo uccidere sempre i colleghi infettati, Neelah diminuì la potenza del phaser. L’impulso fu comunque abbastanza forte da aprirgli un buco nel petto.

   Il drone si arrestò solo per un attimo. Non aveva sangue da versare, né c’erano organi in vista attraverso lo squarcio. Tutto era composto dello stesso fluido argenteo, che rifluì per chiudere la ferita, risucchiato dalla pozzanghera che il drone aveva sotto i piedi. Atterrita, Neelah gli sparò ancora, disintegrandogli la testa. Altra melma fu assorbita dalla pozzanghera e il capo senza volto si riformò, stavolta privo di capelli. L’Aenar dovette regolare di nuovo il phaser al massimo e disintegrare completamente l’avversario.

   «Attenta!» gridò un collega. Approfittando della sua distrazione, anche il drone femmina le si era avventato contro. Il suo braccio si trasformò in un lungo tentacolo, sottile e flessuoso come una frusta. Si avvolse intorno al collo di Neelah e la sollevò da terra, come per strangolarla. Sentendosi soffocare, l’Aenar mollò il fucile phaser e si portò le mani alla gola, cercando di allentare la presa del tentacolo. Il drone si avvicinò e Neelah con terrore si vide riflessa nel suo lucido volto da manichino. Era la fine, pensò, dibattendosi sempre più debolmente.

   Ma il drone fu colpito alla schiena da altri due raggi phaser, che lo disintegrarono, a parte il lungo tentacolo. Due colleghi di Neelah si erano armati per salvarla. La dottoressa cadde a terra, boccheggiante. In qualche modo riuscì a sfilarsi il tentacolo dalla gola e lo gettò lontano. Quello si contorse e sibilò, come un serpente, pronto ad attaccare di nuovo. I phaser colpirono ancora, vaporizzandolo.

   «Grazie» rantolò Neelah, palpandosi la gola. Si sentiva il collo in fiamme, come le mani. Se le guardò e vide quel che temeva: chiazze argentee sulle palme. Ma anziché allargarsi e avvolgerla in pochi secondi, come accaduto ai colleghi, queste macchie restavano piccole. Inoltre cambiavano forma in continuazione, talvolta svanendo, talvolta riformandosi. Era il segno di una lotta serrata, a livello cellulare, fra le nanosonde di Neelah e i naniti della Scourge. L’Aenar si aggrappò a quella flebile speranza. Le nanosonde Borg, che scorrevano nel suo flusso sanguigno, erano programmate per proteggerla da ogni attacco. In passato l’avevano salvata da parecchie minacce: parassiti, ferite, infezioni. Ma i naniti della Scourge erano così raffinati che avrebbero vinto la guerra microscopica.

   «Ho poco tempo» gemette Neelah. «Datemi una tuta!». Un collega gliene porse subito una. Era un nuovo modello, progettato per minimizzare il peso e l’intralcio. Si riduceva a una sorta di zainetto, che una volta attivato dispiegava una sottile membrana trasparente intorno al corpo. Non aveva molta autonomia, ma per arrivare allo shuttle dei soccorsi andava bene.

   Un grido avvertì Neelah che la situazione stava degenerando. Tentacoli di melma erano usciti da una consolle e stavano avvinghiando i due medici muniti di phaser. Altri tentacoli fuoriuscirono dalle attrezzature e dal pavimento stesso, appiccicandosi ai dottori. Ormai la base era tutta infiltrata dalla Scourge.

   Fulminea, Neelah raccattò il suo fucile phaser. Si girò verso la parete della cupola e aprì il fuoco, squarciandola dal basso verso l’alto. Ci fu un suono lacerante, seguito dal boato dell’aria che veniva risucchiata. Neelah e i colleghi furono scaraventati fuori dalla decompressione, assieme a gran parte delle attrezzature. Persone e oggetti furono trascinati per qualche metro sul suolo polveroso, sparpagliandosi a raggiera. Dietro di loro, la grande cupola cominciò ad afflosciarsi, non più sorretta dalla pressione interna.

   Gli scienziati si rialzarono, frastornati. Tutti i loro movimenti erano rallentati, perché il planetoide aveva una frazione della gravità terrestre. Solo dentro la base c’erano piastre di gravità che avevano reso la situazione più confortevole. L’ambiente esterno somigliava a Marte: crateri ovunque, un suolo roccioso coperto di sassi e polvere. Il cielo era di un rosa tenue, a causa della sottile atmosfera. Neelah alzò lo sguardo e con un tuffo al cuore vide calare l’Auriga, lo yacht del Capitano. L’affusolata navetta dallo scafo cromato dovette atterrare a un centinaio di metri, per via del suolo craterizzato e pieno di macigni.

   L’Aenar si guardò intorno e vide tentacoli di Scourge ghermire i suoi colleghi, prima che potessero allontanarsi dalla base. Altri furono raggiunti da chi era già stato assorbito e contagiati a loro volta. Sembrava non esserci fine alle trasformazioni di quella sostanza diabolica. Solo Neelah veniva ignorata, ma sapeva il perché: era già infetta. Conscia che ogni attimo di ritardo metteva a rischio anche l’Auriga, corse a perdifiato verso lo shuttle. Attorno a lei, gli ultimi colleghi erano raggiunti e assorbiti dalla Scourge. Presto rimase sola.

   Il portello dell’Auriga si aprì: un campo di forza tratteneva l’atmosfera interna, ma non impediva il passaggio di persone e oggetti. Neelah lo attraversò d’impeto e si lasciò cadere sul pavimento, ansante. Chase le fu subito accanto, con medici e guardie. «Via di qui, subito!» gridò la dottoressa. «Gli altri sono tutti contagiati!».

   «Possiamo stabilizzarli...» cominciò a dire Chase.

   «Non c’è tempo; vi aggrediranno. Andiamo via!» insisté l’Aenar.

   Con un groppo in gola, Chase osservò i fuggiaschi che correvano verso l’Auriga. Alcuni lo imploravano di aspettare, sebbene fossero già mezzi coperti dalla Scourge. Gli sembrava inumano abbandonarli... ma che scelta c’era? Fidandosi dell’avvertimento di Neelah, chiuse il portello e ordinò il decollo. L’Auriga si alzò in volo, spazzando la polvere intorno a sé per un ampio tratto. Prese quota appena in tempo per sfuggire al tocco degli infetti.

   «Tu come stai?!» chiese il Capitano, cercando di togliere la sottile tuta a Neelah, per verificarne le condizioni.

   «Non toccarmi!» strillò l’Aenar. «Purtroppo anch’io sono infetta. Nel mio caso la trasformazione è più lenta, per via delle nanosonde... ma sono spacciata, temo» disse con una nota di disperazione. Era lì per dirgli addio, non perché sperasse di farcela.

   «Non dirlo nemmeno!» esclamò Chase. «Vieni, presto». Senza toccarla, la portò da alcune strane capsule oblunghe. Erano collegate all’alimentazione principale, come se le avessero caricate in tutta fretta sull’Auriga. Neelah le osservò perplessa. Somigliavano a capsule di stasi, ma erano più grosse del normale, come per accogliere strumentazione extra. Erano di un bianco immacolato, con sottili materassini anch’essi bianchi. La parte superiore, fatta per scorrere e richiudersi sopra l’occupante, era trasparente.

   «Sono capsule crono-statiche, l’ultima invenzione di Grenk» spiegò in fretta il Capitano. «Entra, svelta. Qui dentro il tuo tempo soggettivo sarà rallentato fino a fermarsi. Così anche l’infezione si bloccherà. E noi avremo il tempo che serve per trovare una cura».

   «Ma se non doveste trovarla...» disse Neelah, infilandosi nella capsula più vicina.

   «La troveremo» disse cocciutamente il Capitano.

   «... se non doveste trovarla, voglio che mi disintegri senza nemmeno svegliarmi» disse l’Aenar, stendendosi sul materassino. «Morire è già abbastanza brutto... ma non voglio diventare uno di quei manichini senz’anima».

   «Mi chiedi molto» mormorò Chase, inginocchiandosi accanto alla capsula. Il resto dell’equipaggio si ritirò in cabina, per non violare quel momento così intimo e tragico.

   «Per questo lo chiedo a te: so che mi ascolterai» disse Neelah, il volto bagnato di lacrime. «Promettimelo!».

   «Io... te lo prometto». Anche se la sua voce era ridotta a un sussurro appena percettibile, Chase sentì quelle parole come macigni. Aveva il volto esangue, la vista appannata; mai si era sentito così spezzato. Non disse, però, per quanto tempo avrebbe cercato la cura. Un pensiero orribile balenò nella mente di entrambi: Neelah usciva dalla crono-stasi, perfettamente guarita... solo per trovarsi di fronte un Chase anziano e fragile. Nessuno dei due osò parlarne. Avrebbero voluto abbracciarsi, baciarsi un’ultima volta, per farsi coraggio, prima di sigillare la capsula. Ma anche questo gli era negato: il minimo contatto avrebbe contagiato il Capitano. Erano vicinissimi, eppure terribilmente lontani.

   Sentendosi tremare le mani, Neelah vide che le chiazze argentee cominciavano a espandersi. La Scourge prendeva il sopravvento. «State attenti, tu e gli altri» raccomandò l’Aenar, conscia di avere poco tempo. «La Scourge può imitare persone e oggetti, per assalirvi quando meno ve l’aspettate. È intelligente, si adatta, prevede le vostre mosse. Se raggiungerà la Via Lattea, sarà la fine. Cerca degli alleati in Andromeda, qualcuno che conosca la Scourge: Kelvani, Nacene, altri ancora. E ora... attiva la crono-stasi».

   Tremando, Chase chiuse la copertura trasparente della capsula. Si scambiarono uno sguardo disperato, d’amore e angoscia, di flebile speranza e di terrore per un futuro quanto mai incerto. Chase posò la mano sulla lastra trasparente e Neelah alzò la sua dal basso, fin quasi a sfiorare il metallo trasparente. Poi l’Aenar si ritrasse, distendendosi sul materassino, e chiuse gli occhi come per dormire.

   Devastato, Chase premette con violenza il comando d’avvio. La capsula prese a ronzare, diverse spie si accesero. Al suo interno, lo scorrere del tempo rallentò sempre più, fino ad arrestarsi. Neelah s’immobilizzò completamente. Non aveva respiro, né battito. Una scansione cerebrale avrebbe rilevato zero attività, perché anche i suoi neuroni erano congelati nel tempo. A vederla, sembrava morta... e secondo alcune definizioni della morte, lo era. Ma anche la Scourge era bloccata, fino all’ultimo nanite. E così sarebbe rimasta, finché la capsula avesse funzionato.

   Chase si rialzò e fece qualche passo indietro, barcollante. La capsula crono-statica gli sembrava una bara di cristallo. All’interno, Neelah era sospesa fra la vita e la morte. Fissò a lungo il suo volto, bianco come la neve, sormontato da sottili antenne. Come aiutarla? Come?!

   La porta della cabina si aprì e il Maggiore Wu fece capolino, esitante. «Capitano, mi spiace disturbarla, ma abbiamo un problema» mormorò.

   «Che altro succede?» domandò Chase, ricacciando le lacrime.

   «Il laboratorio si sta trasformando in una bolla. Penso che voglia inseguirci» spiegò il Maggiore.

   «Avverta l’Enterprise di attivare il propulsore cronografico non appena saremo rientrati» ordinò Chase. «Che ci porti via da qui». Raddrizzò le spalle e andò in cabina.

 

   L’Auriga si diresse a gran velocità verso l’Enterprise, che gli rivolgeva la poppa, per facilitare l’ingresso nell’hangar principale. Lo shuttle entrò in fretta, attraversando il campo di forza, e il portello gli si chiuse subito dietro. Intanto, sulla superficie del planetoide, il laboratorio e tutto il suo contenuto si erano trasformati in una massiccia bolla di Scourge, che si sollevò. Non intendeva rinunciare alle sue prede.

   Mentre l’Auriga si posava nell’hangar, Grenk avviò il propulsore cronografico e comunicò le coordinate d’arrivo al pilota. Raggi azzurri balenarono nella sala semibuia, mentre il dispositivo conico si collegava con la mente del Vian.

   «Ho le coordinate» disse il pilota, con gli occhi vitrei per la concentrazione. Le vene pulsavano sul suo enorme cranio senza un capello. «Propulsore in linea, pronto alla partenza. Meno tre... due... uno...» contò, mentre Grenk si asciugava il sudore dalla fronte, lieto di sfuggire ancora alla Scourge. Ma i raggi neurali divennero rossi e il pilota strabuzzò gli occhi, lanciando un grido agonizzante. Scariche azzurre gli crepitarono sulle vesti, sulla pelle, risalendo fino al complesso dispositivo conico sospeso sopra di lui.

   Atterrito, Grenk pestò sui comandi, cercando di spegnere il sistema. Riuscì a interrompere l’alimentazione principale, ma c’era già un grosso accumulo d’energia. Non osando avvicinarsi al Vian, sempre avvolto dalle scariche elettriche, il Tellarita optò per la fuga. La porta blindata si chiuse dietro di lui, appena in tempo. L’esplosione fece vibrare la vicina sala macchine e Grenk cadde in avanti. Un ingegnere accorse da lui, per aiutarlo a rialzarsi, mentre gli altri correvano alle consolle, cercando di evitare danni a cascata. Gli allarmi squillavano ovunque. Un filo di fumo usciva dalla porta della sala blindata.

   «Plancia a sala macchine, che succede?» chiese Ilia al comunicatore. «Abbiamo rilevato un’esplosione!».

   «Ringraziate che abbia staccato l’alimentatore, o i nostri atomi sarebbero sparpagliati in tutto il sistema!» sbuffò Grenk, rialzandosi. «Ma abbiamo perso il pilota. E anche il propulsore. Siamo bloccati ad Andromeda» disse terreo. Il suo peggior timore si era concretizzato.

   «C’è di peggio» avvertì Ilia. «Sta arrivando la Scourge».

 

   «Perché non abbiamo ancora fatto il salto?» chiese il Capitano, entrando in plancia. Dalle espressioni dei suoi ufficiali capì subito che la situazione era grave.

   «Il propulsore cronografico ha avuto un sovraccarico» spiegò Ilia, scura in volto.

   «Quanto ci vuole per ripararlo?» volle sapere Chase.

   «Signore... è esploso. E il pilota è morto» rivelò la Trill. «Ci vorranno settimane, forse mesi per ricostruirlo. È una delle tecnologie più complesse che esistano».

   Le parole colpirono il Capitano come pugni. Già provato dalla situazione di Neelah, non aveva la forza di affrontare una crisi del genere. Si lasciò cadere sulla sua poltroncina. «Come è potuto accadere?» mormorò.

   «Riteniamo che sia stato un sabotaggio. Il secondo, dopo l’incidente della Barriera» disse Terry, insolitamente stizzita. Data la sua potenza distruttiva, era stata progettata per non arrabbiarsi mai. Ma due attentati alla sua integrità, e alla vita dell’equipaggio, erano troppo.

   «Sospetti?» chiese il Capitano, rivolgendosi a Lantora.

   «Ancora nessuno... ma se ne usciamo vivi, dovremo risolvere la faccenda!» disse lo Xindi, con l’aria di chi strangolerebbe volentieri i colpevoli.

   «Capitano, abbiamo occultato la nave per sfuggire alla Scourge» intervenne T’Vala. «All’inizio era disorientata, ma poi ha ripreso ad avvicinarsi. Non so come faccia. Sto proiettando una falsa eco sensoriale, per cercare d’ingannarla...».

   «Macché ingannarla, dobbiamo distruggerla!» inveì Fanior, ormai stabilmente insediato in plancia. «Rovesciamole contro l’arsenale dell’Enterprise!».

   «Signori, dategli un po’ di tregua!» esortò Apsu, aleggiando accanto al Capitano. «Signore, la dottoressa...?».

   «È infettata dalla Scourge» rivelò Chase. «L’abbiamo messa in una capsula crono-statica. Sarà stabile, finché troveremo la cura... se la troveremo» mormorò.

   Il silenzio cadde in plancia e anche Fanior chinò il capo.

   «Siamo partecipi della sua perdita» disse con tatto il Consigliere. «Ha degli ordini?».

   «Sì» disse Chase, rialzando il capo di scatto. «È il momento di portare la Scourge dove si merita: tra le fiamme dell’Inferno» annunciò, con sguardo micidiale.

 

   L’Enterprise si rese di nuovo visibile e subito la bolla di Scourge l’inseguì con maggior sicurezza. Impattò contro la bolla degli scudi e vi si spalmò sopra, formando uno strato così sottile da circondare gran parte della nave. In tal modo si assicurava che navette e capsule di salvataggio non riuscissero a fuggire. Lo strato di melma cambiava continuamente forma, aprendo e chiudendo dei varchi, mentre cercava di adattarsi agli scudi. Era una posizione vantaggiosa, perché così l’Enterprise aveva difficoltà a usare le armi. I cannoni a impulso e i raggi anti-polaronici avevano un effetto minimo, su uno strato così sottile. Quanto ai siluri, sarebbero esplosi a contatto con gli scudi, indebolendoli e danneggiando la vicina astronave. Questo la Scourge lo sapeva bene. Ma la sua posizione le dava anche un grosso svantaggio: non poteva decidere la rotta. Ovunque andasse l’Enterprise, doveva per forza seguirla.

   La grande nave sfrecciò senza esitazione verso il sole di quel sistema. Era una stella di classe A, due volte più massiccia del sole e decine di volte più luminosa. Nella sua fotosfera bianca, il plasma ardeva alla temperatura di 9.000ºC. Dando massima energia agli scudi, l’Enterprise si tuffò in quella zuppa ribollente. Scese in profondità nella zona convettiva, dove il plasma surriscaldato saliva dagli abissi della stella, per sprofondarvi di nuovo, non appena la sua temperatura diminuiva.

   In plancia, Terry aveva polarizzato lo schermo, perché gli ufficiali non restassero accecati. Il resto dell’equipaggio e dei civili aveva l’ordine di tenersi lontano da finestre e oblò, rifugiandosi nei ponti interni della nave. Un silenzio surreale gravava nei corridoi e nelle sale. L’Enterprise era già stata in ambienti ostili, ma non si era mai inabissata nella fotosfera stellare.

   «Gli scudi reggono» disse Terry. «Temperatura esterna a settemila gradi, in aumento».

   «Ancora più giù!» ordinò Chase, ritto davanti allo schermo. Fissò la Scourge come se tra loro ci fosse una sfida di volontà.

   La melma era ancora appiccicata agli scudi, ma si era annerita e aveva smesso di deformarsi. Ora sembrava uno strato di polvere, che poco alla volta era grattata via.

   «Temperatura esterna a novemila gradi» riferì Terry.

   «Bene... ci siamo quasi» si compiacque il Capitano. Sotto i suoi occhi, la Scourge sfrigolò e morì, bruciata fino all’ultimo nanite. I residui nerastri furono spazzati via dal moto convettivo del plasma, come cenere da un uragano. L’Enterprise si trattenne ancora qualche minuto, per sicurezza. Infine puntò verso l’alto ed emerse vittoriosa dalla fotosfera. Costeggiò un’immensa eruzione ad anello, che si sollevava maestosamente, e andò a raffreddarsi nello spazio.

 

   «Allora, quanto ci vorrà per ricostruirlo?» chiese il Capitano, osservando i tecnici che smontavano i resti contorti e anneriti del propulsore cronografico.

   «Un mese come minimo» rispose Grenk, sconsolato. «Nel frattempo siamo esposti agli attacchi della Scourge».

   «Lei pensi al propulsore; la Scourge è compito mio» disse Chase con durezza. Osservò i resti carbonizzati del pilota che venivano rimossi. «Lantora, voglio che i piloti rimanenti siano sorvegliati ventiquattro ore su ventiquattro. Potrebbero essere il prossimo obiettivo».

   «Ho già provveduto» assicurò lo Xindi, che gli stava a fianco. «E ho alzato la sicurezza in tutte le zone sensibili della nave».

   «Ora si concentri sulle indagini. Mi aspetto che diano qualche risultato, stavolta» avvertì il Capitano, in un tono che non ammetteva repliche. Lasciò la camera del propulsore. Fuori, in sala macchine, c’erano Terry e Fanior ad attenderlo.

   «Voleva parlarmi?» chiese l’Ambasciatore.

   «Sì» disse Chase. «Avrei dovuto seguire il suo consiglio e rintracciare i Kelvani, prima di affrontare la Scourge. A causa del mio errore, molti sono morti... e la vita di altri è appesa a un filo».

   Vedendo in che stato era il Capitano, Fanior decise di non infierire. «Ho già comunicato tutte le coordinate a Terry e al Tenente Shil» spiegò. «Stanno tracciando un percorso per visitare le vecchie colonie kelvane nel minor tempo possibile, considerando che ci resta solo la cavitazione. Vi darò anche i dati in mio possesso sulle varie località... anche se non sono certo aggiornati» aggiunse, quasi scusandosi.

   «Ogni informazione è benvenuta» disse Chase. «Se le serve, usi il laboratorio astrometrico». Si lasciarono con un cenno d’intesa.

   Rimasto solo con Terry, il Capitano l’accompagnò nel corridoio. «Tra quanto saremo pronti a ripartire?» chiese.

   «Un’ora. A parte il propulsore cronografico, non abbiamo gravi danni» rispose l’IA. «Capitano, riguardo ai fatti di oggi... deve sapere che non è stato un fallimento. Il laboratorio ci ha trasmesso informazioni preziose sulla Scourge, prima dell’incidente» assicurò.

   «Rinuncerei a ogni bit, pur di avere quelle persone ancora qui» disse il Capitano. «Ora può andare» aggiunse, notando che Terry gli restava accanto.

   «Ecco, Capitano... ci sarebbe da scegliere il nuovo Medico Capo» azzardò l’IA. «Il dottor Gutiérrez è il medico senior, ma la dottoressa Vash’Tot è più esperta di nanotecnologie...».

   «Vada per la dottoressa» disse Chase. Non erano rimasti molti di quegli specialisti, dopo l’incidente sul planetoide. «Ma l’avverta che il suo incarico è temporaneo, fino al ritorno di Neelah».

   «Sì, signore» disse Terry, un po’ esitante. «Capitano, le posso suggerire di parlarne col Consigliere? Forse l’aiuterà a elaborare la perdita...».

   «Non l’ho persa» disse Chase. «Si trova proprio qui, su questa nave». Svoltò un angolo e sparì dalla vista dell’IA. Ma a Terry non servivano i sensori interni per sapere dov’era diretto.

 

   L’infermeria principale dell’Enterprise era corredata da camere per la lunga degenza. In una di queste salette giaceva la capsula crono-statica di Neelah. Diversamente dai pazienti in coma, o in animazione sospesa, non aveva bisogno di strumenti che monitorassero le sue condizioni. Il suo stato era sempre lo stesso, senza il minimo cambiamento, finché si trovava in sospensione temporale. I controlli di routine, quindi, spettavano agli ingegneri, per assicurarsi che la capsula fosse sempre operativa.

   Al suo ingresso, Chase si stupì di trovare qualcun altro che vegliava su Neelah. La dottoressa non aveva molti amici e quei pochi erano tutti indaffarati, al momento. Tranne Raav. Il vecchio Gorn, noto a bordo per i manicaretti come per i consigli, piegò la testa di lato, fissando Chase con un occhio giallo e sporgente. «Scusi il disturbo, Capitano. Vi lascio soli» disse, con la sua voce leggermente sibilante.

   «Non preoccuparti, Raav. A lei piacerebbe sapere che sei qui» assicurò Chase, accostandosi alla capsula bianca. Neelah era lì, congelata nel tempo... vicinissima, eppure tormentosamente lontana. L’Umano e il Gorn stettero fianco a fianco per qualche minuto, in completo silenzio. Osservavano l’Aenar, ma vedevano anche il proprio riflesso, deformato sul cristallo ricurvo della capsula.

   «Sai, mi ha strappato una promessa» confessò infine il Capitano. «Non vuole restare così per sempre».

   «Capisco» disse Raav solennemente. «C’è qualcosa che potrebbe salvarla?».

   «Solo un miracolo, Raav» sospirò Chase. «E come insegnano i Vulcaniani, i miracoli non esistono».

   Ci fu un altro, lungo intervallo di silenzio. Infine il Gorn riprese la parola. «Ci sono più cose nell’Universo, Alexander, che nella filosofia vulcaniana» disse gravemente, e si ritirò con discrezione.

 

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Capitolo 5
*** Abaddon ***


-Capitolo 4: Abaddon

 

   Nei giorni seguenti, l’Enterprise visitò in sequenza le colonie e gli avamposti kelvani indicati da Fanior, ma li trovò tutti abbandonati o invasi dalla Scourge. Le installazioni abbandonate erano state spogliate di tutto ciò che poteva tornare utile come parti di ricambio, lasciando solo lo scheletro degli edifici. Non si trovarono astronavi e naturalmente non c’erano indicazioni su dove si fossero trasferiti gli occupanti. I sensori subspaziali continuavano a non captare alcuna trasmissione.

   «È coerente con il modello socio-politico che io e il Consigliere stiamo sviluppando per Andromeda» spiegò Terry durante una riunione. «In pochi secoli, la Scourge ha abbattuto imperi millenari, portando specie un tempo potenti e orgogliose sull’orlo dell’estinzione. Se ci sono superstiti, devono nascondersi nel sottosuolo dei pianeti, all’interno delle nebulose o meglio ancora in convogli sempre in movimento. Staranno attenti a non inviare segnali e si affideranno a tecnologie di occultamento. Ecco perché non riusciamo a trovare nessuno... in questa galassia, tutti si nascondono».

   «Supponiamo che queste civiltà nomadi esistano davvero» disse Lantora. «Come possono tirare avanti?».

   «Non bene, questo è certo» disse Apsu. «Probabilmente le carovane si fermano di rado e per il tempo strettamente necessario a rifornirsi. Possono ricavare energia e plasma dalle stelle. Idrogeno ed elio dalle nebulose. Acqua, cibo e materie prime da pianeti e asteroidi. Anche nella Via Lattea ci sono civiltà che tirano avanti in questo modo. Purtroppo questa struttura sociale non permette di costruire nuove astronavi, né di riparare del tutto quelle vecchie, in mancanza di cantieri adeguati. Il logorio del tempo e gli scontri per il controllo delle ultime risorse le deteriorano sempre più. Arriva il momento in cui devono essere abbandonate, dopo aver prelevato tutto ciò che si può reimpiegare. Se non ci sono altre navi su cui trasferirsi, o se manca il posto, non resta che cercare scampo sul più vicino pianeta abitabile.

   Ma ad Andromeda essere bloccati su un pianeta è praticamente una condanna a morte. Bisogna stare attenti a evitare qualunque emissione che potrebbe allertare la Scourge e anche così si vive nel terrore costante. Questa è la realtà di Andromeda: un luogo brutale e disperato, con civiltà nomadi in rotta verso l’oblio, o che vivono nascoste nel perenne timore» disse gravemente.

   «Se non troveremo un avamposto kelvano abitato, dovremo cercare questi convogli» disse Chase.

   «Consiglio prudenza» intervenne Ilia. «Se sono a corto di risorse, dobbiamo aspettarci che gli esuli ricorrano alla pirateria. Cercheranno provviste e medicine per sé, carburante e parti di ricambio per le astronavi. Questo ci rende un bersaglio irresistibile».

   «Siamo in grado di difenderci» assicurò Lantora.

   «Non se continuano i sabotaggi!» lo richiamò Chase. Malgrado gli sforzi, i sabotatori che per due volte avevano danneggiato l’Enterprise non erano stati ancora identificati. Lantora si morse la lingua e abbassò lo sguardo, fissandosi le mani.

   «È uno scenario apocalittico, il vostro!» grugnì Grenk, all’indirizzo di Terry e Apsu. «Se tutti gli ordini costituiti sono crollati, e ognuno pensa per sé, noi che ci stiamo a fare? Dovremmo tornare a casa, non appena avrò ricostruito il propulsore cronografico».

   «No, prima dobbiamo capire quant’è estesa la Scourge, e quanto ci metterà a raggiungere la Via Lattea» disse il Capitano. «Che senso ha tornare a casa, se entro qualche anno ce la troveremo alle porte?».

   «Le civiltà nomadi hanno spesso dei luoghi d’aggregazione... delle oasi nel deserto» ragionò Ilia. «Che dice il vostro modello socio-politico?».

   «Incontrarsi su un pianeta sarebbe pericoloso, data la capacità infiltrante della Scourge» rispose Terry. «L’unico centro di aggregazione sarebbe una sorta di... cimitero spaziale, con centinaia di relitti che orbitano attorno a una stella, senza toccarsi l’un l’altro. Così, se uno fosse infiltrato dalla Scourge, non comprometterebbe gli altri... almeno non subito».

   «Chi deve abbandonare una nave, perché è danneggiata o ha esaurito le risorse, potrebbe lasciarla lì» aggiunse Apsu. «E chi cerca pezzi di ricambio potrebbe saccheggiare i relitti. Ci si potrebbe anche lasciare dei messaggi, per comunicare senza far uso di trasmissioni subspaziali».

   «C’è un posto del genere... un cimitero spaziale, come lo chiamate» disse Fanior, meditabondo. «Non è lontano da qui. Si trova intorno a una nana bianca, che mille anni fa fu teatro di una grande battaglia. I rottami rimasero in orbita e da allora il sistema è diventato una discarica. Immagino che negli ultimi secoli abbia continuato a crescere... e forse è diventato il punto di ritrovo che dite voi».

   «Sembra promettente» disse Chase. «Diamoci un’occhiata. Anche se non troveremo nessuno, ci saranno almeno i relitti. Così ci faremo un’idea dei popoli e delle tecnologie di Andromeda».

 

   La nana bianca era piccola e fredda; doveva essere l’ultimo residuo di una stella antichissima. Non aveva un vero e proprio sistema planetario, solo qualche asteroide vagante. La maggior parte degli oggetti che le giravano attorno era d’origine artificiale. L’Enterprise si avvicinò cautamente e con gli scudi alzati, per evitare collisioni.

   «Rilevo migliaia di relitti e milioni di frammenti» disse Terry, eseguendo un’analisi ad ampio raggio. «Questa è una prima elaborazione del sistema». Tracciò un grafico sullo schermo principale, mostrando i detriti che si affollavano intorno alla nana bianca. Molti erano disposti sullo stesso piano orbitale, ma altri seguivano orbite del tutto diverse, anche molto ellittiche. Il risultato era uno sciame caotico di rottami, che talvolta entravano in collisione, spargendo ancora più detriti. A Chase ricordarono uno sciame di locuste. Dopo qualche secondo, Terry tornò a inquadrare lo spazio, dove i primi vascelli stavano diventando visibili.

   «Le dimensioni degli scafi variano ampiamente, come anche la configurazione. Queste navi sono il prodotto di molte specie diverse, tutte sconosciute alla Flotta. Affascinante!» disse l’IA.

   «Analisi sensoriale completa, cerchiamo d’imparare il più possibile» ordinò il Capitano. «Così se incontreremo gli artefici saremo pronti a difenderci, qualora avessero cattive intenzioni».

   «Gran parte delle astronavi ha subito spoliazioni, come previsto» disse Terry. «Di alcune resta solo lo scafo, privo d’atmosfera. Ma ce ne sono altre che contengono tecnologie interessanti... alcune mi sono ignote» disse, con crescente interesse. «Suggerisco d’inviare delle squadre sui relitti più significativi, per esaminare le tecnologie e magari prelevarle».

   «Vuole saccheggiare i relitti?» chiese Fanior, urtato. «Sono tutto ciò che resta ai nomadi di passaggio! Se prendiamo noi le tecnologie, qualcun altro ne sarà privato. Qualcuno che ne ha molto più bisogno».

   «Dopo averle esaminate a fondo le ricollocheremo dove le abbiamo trovate» suggerì Terry. «Potremmo anche aggiungere qualcosa di nostro, a beneficio di chi verrà dopo».

   «L’Unione ha regole molto severe contro la cessione di tecnologia agli alieni» ricordò Chase.

   «Ma potremmo lasciare carburante per le navi. E magari cibo e medicine, se capiremo abbastanza la fisiologia di queste specie. Potremmo anche lasciare dei messaggi, per combinare un incontro coi prossimi visitatori» insisté Terry.

   «Uhm... è fattibile» ammise Chase. «Va bene, completi la scansione del sistema e trovi le astronavi più interessanti, così le visiteremo».

   «Prudenza, però» disse Ilia. «Certe specie non amano le visite inaspettate. Anche se hanno abbandonato le navi, potrebbero aver lasciato dei meccanismi difensivi».

   «Se mi date un inventario delle navi che intendete visitare, cercherò di capire a quali specie appartengono» promise Fanior. «Così vi terrete alla larga dalle più pericolose».

   «Pensa di riconoscerle?» chiese il Capitano. «I suoi avi persero il loro database. E in seicento anni il design delle navi potrebbe essere cambiato di parecchio».

   «Beh, c’è un margine d’incertezza» ammise l’Ambasciatore. «Ma giurerei che quel vascello appartenga agli Ornithoidi» aggiunse, indicando una piccola nave dall’aspetto di sparviero apparsa sullo schermo. «Sono alti un palmo e somigliano vagamente ai vostri uccelli. Hanno strani poteri di trasmutazione della materia e...». Fanior tacque, notando che l’astronave era sventrata. Non si trattava di spoliazioni; erano evidenti segni di armi.

   «Avverto una minaccia latente» avvertì T’Vala, portandosi una mano alla tempia.

   «L’avverto anch’io!» fece Lantora, osservando gli squarci e le bruciature. «In che bel posticino siamo capitati. A proposito, come si chiama?».

   «I nomi kelvani sono impronunciabili dagli umanoidi» ricordò l’Ambasciatore.

   «Allora gliene darò uno io» disse Chase, frugando nella memoria. Da quando l’Enterprise si era addentrata in Andromeda, non aveva trovato altro che rovina e distruzione. Ora c’erano questi relitti, spolpati come se fossero passate le locuste, e simili essi stessi a uno sciame di cavallette. C’era un antico nome terrestre che indicava tutto questo... un termine remoto, quasi dimenticato, che aleggiò ai margini della sua coscienza, finché non lo richiamò a galla. Abaddon, l’Angelo dell’Abisso, Signore delle Locuste dell’Apocalisse.

   «Questo cimitero spaziale si chiamerà Abaddon» decise il Capitano. Pronunciarlo fu come sancire il senso di minaccia che gravava su tutta la nave. Non si guarda nell’Abisso, senza esserne a sua volta osservati...

 

   L’Enterprise si fece strada in quello spazio spettrale, raccogliendo informazioni sulla configurazione degli scafi e le tecnologie usate dalle astronavi. Fanior si sforzava d’identificare i vascelli, per quanto fossero danneggiati, mezzi smontati o corrosi. Molti detriti erano impossibili da identificare, ma fra le astronavi più grandi ce n’erano alcune relativamente in buono stato. Una in particolare attirò l’attenzione del Kelvano.

   «Si direbbe... la nostra grande ammiraglia» mormorò l’Ambasciatore, visibilmente scosso. «È una nave leggendaria, la più potente dell’Impero. Mai avrei creduto di trovarla qui, fra i rottami» aggiunse avvilito.

   I federali la osservarono. Era una nave imponente, lunga come l’Enterprise, a forma di chiodo. La robusta sezione centrale si rastremava in punta, come un pugnale. A poppa si saldava a un blocco motori più corto e lievemente ricurvo, come una falce. Era una forma estrema, che le dava un profilo affilato e inquietante, sempre diverso a seconda di come la si guardava. Lo scafo corazzato portava i segni di molte battaglie e anche dell’impatto con i detriti spaziali, ma nel complesso sembrava ancora solido.

   «Ebbene, Capitano, vuol dare un nome anche a questa?» chiese Fanior, fra il sarcastico e lo sconsolato.

   «Se preferisce di no...».

   «No, lo faccia, la prego. Così non la chiamerete “relitto”!» disse l’Ambasciatore.

   «In tal caso lo chiamerò Leviathan» disse Chase. «Direi che è il vascello più adatto da cui cominciare l’esplorazione. La sua conoscenza della tecnologia kelvana permetterà alle squadre di orientarsi».

   «Che vuol fare di preciso?» chiese Fanior.

   «Dipende dallo stato dei sistemi» spiegò il Capitano. «Se il computer c’è ancora, e se riusciamo a rimetterlo in linea, potremo accedere al database kelvano. Sarà una miniera d’informazioni su Andromeda, i suoi popoli, le sue tecnologie. E conterrà notizie sulla Scourge».

   «E le armi non le interessano?» chiese l’Ambasciatore, con un’occhiata penetrante.

   «Se fossero efficaci contro la Scourge, sì» ammise il Capitano.

   «Dalla prima scansione direi che il Leviathan è in buono stato» intervenne Terry. «C’è qualche falla nello scafo, ma i compartimenti stagni hanno preservato gran parte dell’atmosfera. Il reattore principale è spento, ma non sembra danneggiato. Non ci sono radiazioni».

   «Devo controllare il reattore» disse Fanior, con una strana luce negli occhi. «Se fosse possibile riavviarlo, potremmo recuperare la nave».

   «Cioè vuol portarsela via?» chiese il Capitano, scettico.

   «Perché no? Il suo equipaggio è abbastanza numeroso da controllare entrambe le navi» sostenne Fanior. «Così la nostra potenza di fuoco raddoppierà. E quando troveremo i superstiti kelvani, gli restituiremo la loro ammiraglia. Sarà un guadagno anche per lei, che avrà la loro eterna gratitudine...» aggiunse suadente.

   «Un passo alla volta» avvertì Chase. «Non sappiamo se sarà possibile rimettere in sesto quella nave. Se il suo equipaggio l’ha abbandonata, ci sarà un motivo». Non aggiunse che anche la possibilità di trovare superstiti kelvani era scarsa.

   «Mi faccia salire a bordo con una squadra ingegneristica e lo scopriremo» promise Fanior. «Per prima cosa andremo in sala macchine, qui» spiegò, indicando la zona di poppa della nave, dove le due sezioni s’incrociavano. «Controlleremo il reattore. Se è in buono stato lo rimetteremo in funzione, dando energia alla nave. A quel punto andremo in plancia, cioè qui, per accedere al computer e ai diari di bordo». Indicò un punto sullo scafo, a due terzi della lunghezza. «Infine ci occuperemo dei motori».

   «È un buon piano» convenne Chase. «Ma non vorrei attardarmi in questo cimitero, specialmente se ho delle persone sul campo. Quindi invierò contemporaneamente due squadre. Lei andrà in sala macchine con gli ingegneri, mentre io farò un sopralluogo in plancia».

   «È preferibile che lei resti qui, Capitano» intervenne Ilia. «Mandi me al suo posto».

   «No, voglio vedere quella nave coi miei occhi» disse Chase. Da quando erano ad Andromeda, non aveva ancora partecipato ad alcuna missione. Era stanco di rimanere in plancia, mentre i suoi ufficiali correvano tutti i rischi. E poi, da quando Neelah era nella capsula crono-statica sentiva crescere in sé l’agitazione, il desiderio di muoversi. Doveva uscire dall’Enterprise e andare sul campo, se non altro per sfogarsi. «Non si preoccupi, porterò con me una squadra della Sicurezza» aggiunse, vedendo il rimprovero e la preoccupazione sul volto della Comandante.

   «La raduno subito» disse Lantora, selezionando gli ufficiali alla consolle tattica. «Saremo pronti in pochi minuti».

   «Lei non viene» disse Chase.

   «Come no?!» si sgonfiò lo Xindi. «Ma signore...».

   «Voglio il Comandante e l’Ufficiale Tattico in plancia, nel caso arrivi la Scourge o qualche altro malintenzionato. O nel caso ci siano nuovi sabotaggi» spiegò l’Umano. «Con me verrà il Tenente Nalanda» aggiunse. Quel Klaestroniano dai capelli brizzolati era il vice di Lantora: un ufficiale di poche parole, ma esperto nel suo lavoro.

   «Prenda anche me» si offrì T’Vala.

   Chase esitò. La mezza Vulcaniana si era offerta volontaria anche per scendere su Kelva Primo e in quell’occasione le aveva detto di no, essendo preoccupato dal suo atteggiamento. Ma forse andare in missione con lei era l’occasione per vederci chiaro. «Un altro presentimento?» le chiese.

   «Diciamo così».

   «Va bene, sarà dei nostri» acconsentì il Capitano.

 

   Di lì a poco Chase e T’Vala si recarono in sala teletrasporto 2, dove le guardie già li attendevano. Tutti quanti indossavano le tute spaziali, perché il supporto vitale del Leviathan era disattivato, il che significava temperatura sottozero e carenza d’ossigeno.

   «Salve, Capitano» salutò Nalanda. «Ho assegnato i Corpi Speciali alla difesa della squadra 1: dieci soldati agli ordini del Maggiore Wu. Questi che verranno con noi sono invece i Guardiamarina Nilsson, Wyatt, Tuvam e Daasin, primi della loro sezione».

   «Ci occuperemo della sua sicurezza, signore» garantì Nilsson, mettendosi sull’attenti assieme ai colleghi. Erano muniti di fucili phaser, nell’eventualità che la Scourge si fosse infiltrata sul relitto.

   «Riposo» disse Chase. Le guardie erano facce nuove, essendo salite sull’Enterprise solo dopo la ristrutturazione, ma conosceva Nalanda da anni. Durante la Guerra delle Anomalie aveva più volte sostituito Lantora, dimostrandosi all’altezza del compito.

   «Dalla sala 1 segnalano che l’Ambasciatore Fanior e gli ingegneri hanno raggiunto la sala macchine del Leviathan» riferì il tecnico del teletrasporto. «È tutto in regola, anche se il signor Grenk afferma che sono in un “maledetto labirinto”, parole sue».

   «Okay, tocca a noi. Magnetizzate le suole degli stivali: il relitto non ha gravità artificiale» raccomandò il Capitano. Un click sincronizzato indicò che le guardie avevano eseguito. «Ci porti direttamente in plancia» ordinò Chase all’operatore. Era curioso di vederla, anche perché non sapeva bene cosa aspettarsi. Sapeva che, nel loro vero aspetto, i Kelvani somigliavano a calamari, alti quattro o cinque metri e con cento appendici. Ma anche dopo aver visto l’esterno del loro incrociatore non riusciva a figurarsi gli interni. Vista la mole dei Kelvani dovevano essere spaziosi, pensò il Capitano, mentre la sala teletrasporto si dissolveva intorno a lui.

 

   I federali si trovarono in un vasto salone buio e subito accesero le torce. Sulle prime rimasero disorientati: non si capiva quale fosse l’alto e quale il basso. Ampie terrazze sporgevano sull’abisso centrale e dietro di esse si aprivano alcove grandi come stanze, piene di misteriose apparecchiature. I vari livelli erano connessi da rampe lisce. Tutto era composto da un metallo grigio-azzurro.

   «Sembra un disegno di Escher» gemette Chase, guardandosi intorno. Era lì da pochi attimi e già gli veniva il mal di testa.

   «Le rampe ci dicono che siamo sul pavimento» notò T’Vala.

   I federali presero a esplorare la plancia, pur essendo impacciati dagli stivali magnetizzati. Ogni passo costava un certo sforzo e rimbombava come una martellata sul pavimento metallico. I suoni echeggiavano in quell’ambiente surreale. Incuriosita, T’Vala estrasse il tricorder dalla cintura multiuso della tuta e analizzò una parete, poi si chinò a fare lo stesso con il pavimento. «È tutto di tetraburnio, il materiale con cui erano fatte anche le navi federali, fino a qualche decennio fa. Ottima resistenza agli impatti... questo spiega la buona conservazione dello scafo» commentò.

   Chase osservò le consolle, esageratamente grandi per gli esseri umani, ma adeguate alle misure dei Kelvani. Erano piene di leve, adatte ai tentacoli dei proprietari, ma avevano anche un certo numero d’interfacce visive, ovviamente spente. «Se i tecnici ripristineranno l’energia, questi comandi diventeranno leggibili» commentò. «Chissà se riusciremo a farli funzionare...». Non gli andava di dover chiedere tutto a Fanior, ma in fondo quella era la sua tecnologia. S’immaginò come doveva essere la plancia quando l’equipaggio era presente, con tutti quei poliponi che si muovevano da un livello all’altro.

   Erano trascorsi pochi minuti, quando le luci della plancia si accesero. I federali sentirono che anche la gravità artificiale era stata ripristinata e poterono smagnetizzare gli stivali. «Gli ingegneri devono aver ripristinato il supporto vitale. Temperatura e ossigeno sono in rapido aumento» disse Nalanda, leggendo i dati proiettati all’interno del casco.

   «Di già? Pensavo che servissero ore» si stupì Chase. «Buon vecchio Grenk... brontola e si lamenta, ma poi ci stupisce sempre» disse con affetto.

   «Non è opera di Grenk» avvertì T’Vala, portandosi una mano alla tempia.

   «Come lo sa?».

   «Lo so e basta» tagliò corto la mezza Vulcaniana, guardandosi attorno con apprensione. «Dobbiamo andare, siamo in pericolo» disse, estraendo il phaser.

   «Eh no, non l’accetto come risposta!» insorse il Capitano, afferrandole il polso. T’Vala si oppose con la sua forza vulcaniana; ma il braccio destro di Chase era meccanico e lo metteva in vantaggio. A viva forza, riuscì a farle abbassare l’arma.

   «Che le succede, me lo spiega? Da qualche mese non è più lei» disse l’Umano a bassa voce. «Lo abbiamo notato tutti. E non mi dica che è questa galassia da incubo... si comportava stranamente già prima che vi entrassimo».

   «Mi lasci, se non vuol finire male. Loro hanno fame!» avvertì T’Vala. Chase notò che le sue pupille da Betazoide, di solito enormi, erano stranamente contratte.

   «Capitano, abbiamo compagnia!» lo richiamò Nalanda.

   Chase fu costretto a mollare T’Vala per occuparsi del nuovo problema. Vide che a poca distanza da loro c’era uno strano animaletto, lungo un metro e mezzo. Aveva un corpo serpentino, diviso in segmenti corazzati, con tre paia di zampette artigliate che sporgevano ai lati. La testa era enorme, con un becco da pappagallo e due occhi laterali, sporgenti come bulbi di lampadine. La corazza liscia che lo ricopriva era di un giallo scuro, quasi marroncino, mentre gli occhi brillavano rossi. La creatura osservò i federali prima con un occhio e poi con l’altro, inclinando la testa, come incuriosita. Nalanda e le guardie gli puntarono subito contro i phaser.

   «Giù le armi!» ordinò il Capitano. «Cerchiamo di non trasformare questo Primo Contatto in un disastro».

   «Pensa che sia senziente?» chiese Nalanda, scettico.

   «Non saprei... ma nel dubbio, andiamoci coi guanti di velluto» rispose Chase, studiando la creatura. «Vediamo... ha un notevole sviluppo cranico e quegli artigli si direbbero prensili. Niente abiti né equipaggiamento, ma questa non è una prova decisiva, dato che non è umanoide» ragionò.

   «Non è nemmeno Kelvano» commentò Nalanda. «Che ci fa qui?».

   «Cerca da mangiare, no?» fece T’Vala, spazientita. «Come gli altri».

   Da tutti gli angoli e i pertugi di quella plancia labirintica fecero capolino altri esseri del genere. Erano decine, forse centinaia. Molti scesero le rampe con un curioso sistema di locomozione: si appallottolarono e vennero giù come ruote. C’era qualcosa di comico nel vederli rotolare, con solo gli occhi sporgenti che rimanevano fissi al centro, come i mozzi della ruota. Appena terminata la rampa si fermavano e si srotolavano all’indietro, riprendendo ad avanzare timidamente con le zampine. Comunicavano fra loro con brevi suoni ticchettanti, che i traduttori automatici non riuscivano a decifrare.

   Malgrado i molti anni trascorsi nella Flotta, a Chase era capitato raramente di condurre Primi Contatti con specie mai viste. Ricordando le regole studiate all’Accademia, il Capitano avanzò adagio, con le mani sollevate e i palmi bene in vista. Quando fu davanti al primo esserino si accucciò, per sembrare meno alto e spaventoso. «Sono il Capitano Chase... sono un amico. Non voglio farvi del male» disse con voce chiara e lenta. «Vediamo, come posso chiamarvi... uhm, per ora vi chiamerò Appallottolieri. Che ne dici, amico? Riesci a capire le mie parole?» chiese, osservando l’occhietto vispo e sporgente della creatura.

   Il piccolo alieno inclinò la testa con curiosità e avanzò di qualche passo, ticchettando adagio. Contrasse i segmenti del corpo, per darsi la spinta... e scattò in avanti. Il suo becco affilato si richiuse con suono metallico sulla mano destra di Chase, amputandola di netto.

   «Ecco; che le avevo detto?» fece T’Vala, in tono di rimprovero.

   Il Capitano si guardò incredulo il moncherino. Non provava dolore, dal momento che tutto il braccio era artificiale. Ma una forza capace di tranciare quei metalli non aveva difficoltà a sminuzzare il corpo umano. E c’era il problema dell’aria, che usciva sibilando dal buco nella tuta. Fortunatamente il supporto vitale della nave stava tornando, ma anche così Chase soffrì la decompressione. Infilò il polso nell’ascella sinistra, cercando di contenere la perdita d’aria, e arretrò precipitosamente.

   L’Appallottoliere sputò la mano metallica; evidentemente la trovava indigesta. Ma non per questo perse interesse per Chase. Si fece avanti, calpestando la mano, e ticchettò vivacemente per chiamare a raccolta i compagni. Questi risposero ticchettando a loro volta, finché il salone ne rimbombò, e avanzarono sempre più audaci.

   «Indietro, bestiacce rotolanti!» gridò Chase, impugnando il phaser con la sinistra. Anche il resto della squadra aveva le armi spianate. Ma erano in pochi, contro la massa crescente degli alieni. «Chase a Enterprise, portateci via. Chase a Enterprise, rispondete! Insomma, mi sentite?!» esclamò il Capitano, con un orribile presentimento.

   «Credo che questa nave abbia appena alzato gli scudi» disse T’Vala. «Comunicazioni e teletrasporto sono impossibili».

   «Non può essere... è un relitto alla deriva!» protestò Nalanda. Un Appallottoliere cercò di mordergli la punta del fucile phaser, ma lui si ritrasse appena in tempo. Quando l’essere gli balzò addosso, lo colpì con il calcio del fucile, facendolo schizzare via tutto appallottolato.

   «Evidentemente no» disse T’Vala, alzando un sopracciglio. «Allora, volete seguirmi o preferite far da cena ai mostriciattoli?». Senza attendere la risposta balzò giù dalla terrazza e dopo una caduta di molti metri atterrò su quella sottostante, flettendo le ginocchia. Quel ripiano si saldava alla parete opposta del salone e presentava un ingresso. Era un’ottima via di fuga... se non che bisognava fare un bel salto per raggiungerlo. Peggio ancora, le terrazze non erano del tutto sovrapposte: per raggiungere quella sottostante bisognava saltare anche in avanti, a scanso di precipitare nel vuoto per decine di metri.

   Chase e i suoi uomini si scambiarono un’occhiata titubante. Poi guardarono gli Appallottolieri, che avanzavano sempre più famelici. Provarono a stordirli, ma la corazza li rendeva molto resistenti, e non volevano disintegrarli prima di aver appurato la loro intelligenza. Così scelsero il rischio minore e saltarono, usando i mini-propulsori delle tute per darsi una spinta in avanti e attutire l’atterraggio.

   «Sta bene, Capitano?» chiese Nalanda. Sapeva che la sua mano era robotica, ma lo preoccupava la fuga d’aria della tuta.

   «Me la cavo» ansimò Chase. «Piuttosto mi preoccupa l’Enterprise. Se il Leviathan è tornato in funzione, potrebbe attaccarla».

   «Ma dov’è l’equipaggio kelvano?» si domandò Nalanda. Lui e i suoi uomini si guardavano intorno con i fucili spianati, accertandosi che non ci fossero Appallottolieri nelle vicinanze.

   «Spero non sia nelle pance di quei mostriciattoli» borbottò il Capitano. «T’Vala, come sapeva che... ehi, dove va?!». La mezza Vulcaniana aveva già infilato l’ingresso. Agli altri non restò che seguirla di corsa.

   «Abbiamo poco tempo» avvertì la timoniera, quando Chase le si affiancò. «C’è una battaglia in corso, nello spazio». Come a confermare le sue parole, il Leviathan si scosse. Profondi scricchiolii attraversarono la sua struttura, come se dovesse spezzarsi da un momento all’altro. «E c’è dell’altro... sento un’aura malefica. Il nemico ci circonda... ci avvolge... è dentro di noi!» sussurrò, fissando Chase con occhi spiritati. Le sue pupille erano ridotte a capocchie di spillo e il suo volto ambrato luccicava per il sudore. Scattò in avanti, dove il corridoio era parzialmente ostruito da macerie e immerso nell’oscurità.

 

   «Rilevo alti livelli d’energia dal Leviathan» informò Terry. «La nave si sta riattivando».

   «Così in fretta?» si stupì Ilia. «I nostri sono appena sbarcati».

   «Non c’è dubbio, tutti i sistemi stanno tornando in linea... compresi gli scudi» notò l’IA.

   «Ho perso il collegamento con le squadre» avvertì Grog.

   Ilia scattò in piedi, osservando il relitto nerastro sullo schermo. Le luci si accendevano in sequenza lungo la fiancata. I propulsori di manovra si attivarono, facendo ruotare il Leviathan, così che fronteggiasse l’Enterprise anziché rivolgerle il fianco.

   «Sai che significa questo» disse Ezri Dax, comparendo accanto allo schermo. La nona Ospite di Dax era una Trill minuta, dai corti capelli neri e gli occhi azzurri che spiccavano sul viso rotondo. Era giovane, ma indossava l’uniforme da Capitano. Aveva infatti comandato l’USS Aventine, l’avveniristica nave di classe Vesta, alla fine del XXIV secolo.

   «Lo so» mormorò Ilia, fissandola con occhi lievemente sfocati.

   «Allora fa’ quel che devi!» la spronò Ezri, con un sorriso incoraggiante. La sua esperienza fluì dal Simbionte alla nuova Ospite.

   «Lo sa? Cosa sa?» chiese Apsu, notando che la Trill fissava non lo schermo, ma un punto vuoto della plancia lì accanto.

   «Allarme Rosso!» gridò Ilia, facendolo sobbalzare. «Su gli scudi, armi pronte! Terry, controlli se ci sono altre navi attive. Lantora, scopra come abbattere gli scudi del Leviathan senza farlo saltare in aria» ordinò, risedendosi. «Il Capitano e gli altri sono in pericolo» spiegò, mentre le luci cambiavano di tonalità e la sirena squillava, allertando l’equipaggio. Come a darle ragione, il Leviathan aprì il fuoco contro l’Enterprise, facendola sussultare.

   «Quello era un raggio antiprotonico ad alta intensità» rilevò Terry. «Se non avessimo alzato gli scudi, avrebbe tranciato la sezione a disco».

   «Rispondo al fuoco?» chiese Lantora, esitante a colpire l’incrociatore finché Chase e gli altri erano a bordo.

   «Risponda» annuì Ilia, scrutando l’ammiraglia kelvana come se potesse vederle attraverso. La Battaglia di Abaddon era cominciata.

   Dapprima furono solo le due grandi astronavi, l’Enterprise e il Leviathan, ad affrontarsi. Ma ben presto giunsero vascelli più piccoli e agili, che fino a quel momento si erano nascosti dietro agli asteroidi e ai relitti, o si erano finti relitti essi stessi. Erano incursori di foggia aliena, tutti diversi per forma, dimensione, armamenti. Molti erano stati riparati cannibalizzando le navi più grandi, per cui sfoggiavano motori o armi sovradimensionati, collegati in modo precario agli scafi. Alcuni incursori erano privi di scudi; si riconoscevano dalle corazze annerite e piene di ammaccature. Altri si lasciavano dietro scie di gas. Ma per quanto fossero male in arnese, tutti attaccavano selvaggiamente. Dopo ogni passaggio sull’Enterprise i superstiti andavano a nascondersi dietro ai relitti, per sfuggire alla rappresaglia.

   A complicare le cose, gli aggressori riuscivano a controllare a distanza gli armamenti di molti relitti alla deriva. Erano carcasse senza energia e senza equipaggio, ma le loro armi erano collegate a generatori autonomi, per cui continuavano a sparare anche quando l’Enterprise riduceva il resto dello scafo a un colabrodo. L’unico modo per disfarsi di quei relitti era disintegrarli completamente.

Gli incursori rilasciarono anche grappoli di mine spaziali, che ogni pochi secondi esplodevano contro gli scudi dell’Enterprise, mettendoli a dura prova.

   «Qui si mette male!» disse Lantora, reggendosi alla consolle mentre la plancia sussultava. L’Enterprise era al centro di una gragnola, attaccata su ogni lato dagli incursori, dai relitti, dalle mine. Per non parlare del Leviathan, che la bersagliava con raggi antiprotonici e potenti missili al tricobalto. La nave federale era troppo grande per manovrare agilmente in quello spazio affollato. Invece gli aggressori ci riuscivano grazie alle dimensioni ridotte, alla manovrabilità e alla conoscenza del territorio. «Questa è una battaglia che non possiamo vincere» avvertì lo Xindi.

   «Ci serve un po’ di copertura; lanciamo le navette Dragonfly e Hornet» ordinò Ilia. «Sono abbastanza agili da seguire gli incursori fra i detriti».

   «Ma chi ci attacca? Quelle navi sono tutte diverse» notò Lantora.

   «Sono pirati» rispose Terry, con sguardo duro. «Il nostro modello socio-politico lo prevede. Per sopravvivere, i popoli di Andromeda devono depredarsi l’un l’altro. I nostri avversari appartengono a specie diverse, ma unite dal disperato bisogno di cibo e risorse».

   «E l’Enterprise è un bersaglio troppo ghiotto» aggiunse il Consigliere. «Dobbiamo andarcene, prima che gli scudi cedano!».

   «Non senza il Capitano e gli altri» disse Ilia freddamente. «Concentrate il fuoco sulla sezione anteriore del Leviathan, dobbiamo penetrare gli scudi» ordinò, mentre la plancia beccheggiava e gli allarmi si moltiplicavano.

 

   Il Capitano e la sua squadra correvano per corridoi semibui e invasi dalle macerie. Strani suoni rimbombavano negli androni, simili a richiami bestiali, e non volevano fermarsi a indagare sulla loro origine. Ma dovettero arrestarsi davanti a un crollo che aveva ostruito quasi completamente il corridoio. Mentre le guardie cercavano di allargare il passaggio, Chase si tolse la tuta ormai inutile. Anche T’Vala lo imitò, per avere più libertà di movimento. Preoccupato per la sorte degli ingegneri, il Capitano li contattò. «Chase a squadra 1, mi ricevete?» chiese, premendosi il comunicatore con la mano superstite.

   «Qui Grenk, la sento!» rispose il Tellarita. «Siamo stati attaccati da creature mostruose, che hanno ucciso molti dei nostri. Fanior ci sta guidando verso l’hangar principale, dove spera di trovare una navetta per fuggire. Vi consiglio di venire con noi... i comandi kelvani sono difficili da usare, per chi ha le mani! Se non pilota lui, non ne usciamo vivi».

   «Anche noi abbiamo fatto incontri spiacevoli» spiegò Chase. «Ora stiamo cercando di capire dov’è l’hangar. Se lo raggiungete, sarebbe carino da parte vostra aspettarci. Ma se la situazione si farà insostenibile, vi autorizzo ad andarvene. L’Enterprise ha bisogno di lei, Grenk, per riparare il propulsore cronografico».

   «Lo so, benedette le mie povere ossa!» disse il Tellarita. «Ma anche un Capitano fa comodo alla nave. Cerchi di restare vivo! Grenk, chiudo».

   «Come se non ci provassi» borbottò Chase, ma in quella fu richiamato da uno schianto, seguito da un suono agghiacciante. Qualcosa di enorme e pesante premeva contro la massa di detriti che ostruiva gran parte del corridoio. L’oscurità impediva di vederlo con chiarezza, ma aveva un’epidermide bruna e lunghi tentacoli frementi. Enormi fauci rosse, dall’aria incandescente, riempirono gran parte del varco, come se il corridoio conducesse dritto all’Inferno. Il grido della creatura era assordante: somigliava a un uragano, o al lamento di mille dannati, e non finiva mai.

   I federali balzarono all’indietro, imbracciando le armi, ma uno di loro fu troppo lento. I tentacoli lo avvolsero e lo trascinarono verso l’avida bocca, per quanto si dibattesse. Fu inghiottito in un solo boccone, sotto gli occhi inorriditi dei presenti. Il boato aumentò ancora di tono; suscitava un terrore così atavico, così sconvolgente che tutti ne erano paralizzati. Ma non copriva del tutto gli agghiaccianti scricchiolii che venivano dalle fauci. Pochi secondi dopo, il Guardiamarina fu risputato. La sua tuta spaziale era nera e accartocciata. Dentro non restava che uno scheletro sfrigolante, coperto da pochi avanzi di carne carbonizzata.

   «Tuvam!» gemette Nalanda. Corse in avanti e s’inginocchiò accanto alla vittima irriconoscibile. Subito i tentacoli brancolarono verso di lui. Ma il Tenente aprì il fuoco con il fucile phaser, colpendo in pieno la creatura. Ci fu un lampo, accompagnato da uno stridio ancora più raccapricciante. Poi il mostro si ritrasse, mentre il suo lamento scendeva d’intensità. I federali compresero che non si era allontanato di molto. Era lì ad aspettarli, dietro il cumulo di detriti, mugolando di rabbia.

   «Dobbiamo trovare un’altra strada per l’hangar» ansimò Nalanda, rialzandosi. Teneva ancora il phaser puntato contro il varco, nel caso la creatura tornasse all’attacco.

   «Sperando che non ci siano altri mostri del genere» disse Wyatt, affiancandosi a lui. «Secondo il tricorder, la via più breve passa da...» cominciò, ma non poté finire la frase. Lui e il Tenente furono colpiti alla schiena da due raggi phaser ad alta intensità, che li disintegrarono completamente.

   Scioccato, Chase si girò verso coloro che avevano sparato a tradimento. Nilsson e Daasin, un Umano e un Bajoriano, tenevano lui e T’Vala sotto tiro.

   «Gettate subito le armi!» intimò Nilsson, puntando al petto di Chase.

   «E muovetevi lentamente» aggiunse Daasin, mirando T’Vala.

   Il Capitano comprese che non c’era altro da fare. Erano soli, tenuti sotto tiro da due militari addestrati, e a lui mancava pure la mano destra. Se avessero fatto resistenza, sarebbero morti all’istante. «Faccia come dicono, T’Vala» raccomandò alla timoniera, sperando che non facesse mosse avventate. Muovendosi con estrema lentezza, prese il suo phaser di tipo 2 – tenendolo per l’emettitore – e lo lasciò cadere a terra. Poi indietreggiò verso il cumulo di detriti, ben sapendo cosa lo aspettava dall’altra parte.

   «Idioti patetici!» sibilò T’Vala, all’indirizzo dei traditori. Chase temette di vederla reagire... e morire. Invece la mezza Vulcaniana gettò il phaser e indietreggiò, finché gli fu a fianco. Chase ne fu sollevato, anche se avevano guadagnato ben poco tempo, e non sapeva che inventarsi. Non restava che far parlare i traditori, sperando che prima o poi l’Enterprise li teletrasportasse tutti via.

   «Perché?» chiese con voce dura, squadrando Nilsson e Daasin.

   «Siamo soldati, e siamo in guerra» rispose il Bajoriano, sostenendo orgogliosamente il suo sguardo. «Ma non è la guerra che crede lei. Noi non odiamo nessuno... siamo qui solo per fare giustizia».

   «Capitano Chase, le parliamo a nome del Movimento per la Pace Galattica, l’unica voce legittima dei popoli dell’Unione» rivelò Nilsson. Parlava con voce piatta, come se recitasse un discorso imparato a memoria. «Con questa autorità, l’accusiamo dei seguenti crimini: cospirazione, alto tradimento, genocidio e crimini di guerra. Lei è responsabile di aver provocato la guerra col Fronte Temporale e di aver negato asilo ai Tuteriani. È colpevole altresì della distruzione di Khitomer, dei massacri di Carraya IV e Nuova Xindus. Pertanto, a nome del popolo, la condanniamo a morte. Stessa pena spetta alla sua complice, il Tenente Shil. La sentenza sarà eseguita immediatamente».

   «Che i Profeti abbiano pietà del vostro pagh» aggiunse Daasin.

   «Il vostro auto-proclamato Movimento è un’organizzazione terroristica che prospera con la disinformazione e il complottismo» sibilò Chase, fissandoli con disprezzo. «Avete aiutato il Fronte Temporale nella sua campagna di sterminio contro la nostra gente, giustificandovi con un falso pietismo. Avete delegittimato la Flotta quando ce n’era più bisogno, indottrinando persino i cadetti dell’Accademia, finché si sono fatti massacrare. Vi siete impadroniti di mia sorella Helen e le avete infarcito la testa con la vostra ideologia, spingendola al suicidio, per poi incolpare me. Non sapete niente di com’è cominciata la guerra, delle scelte che ho fatto per salvare l’Unione... e quindi anche voialtri. Però ora ci sparate alla schiena... e la chiamate giustizia!» ringhiò.

   «Lei poteva ammettere i suoi crimini e morire con dignità... invece preferisce mentire fino all’ultimo» disse Nilsson, disgustato. «Che vergogna... che disonore per l’uniforme» commentò, scuotendo la testa.

   «Quando vi siete arruolati?» chiese T’Vala, che teneva lo sguardo basso.

   «Come dice?» fece Nilsson, preso in contropiede.

   «Ho chiesto quando vi siete arruolati» ripeté la mezza Vulcaniana. «So che l’Unione Galattica – nella sua infinita idiozia – ha varato un Programma di Reinserimento Sociale per le canaglie come voi. In pratica vi ha dato nuove identità, nuovi lavori, nuovi alloggi, pur di non dovervi processare tutti. Voi ne avete beneficiato, vero? Avete scelto questo mestiere al solo scopo di assassinare il Capitano».

   «Dovevamo avvicinarci a lui» confermò Daasin. «E quale occasione migliore di questa? Diremo che lei e il Capitano siete stati divorati dai mostri» proseguì, accennando alla creatura tentacolata che si stava nuovamente affacciando dietro di loro. «Nessuno potrà metterlo in dubbio».

   «Ma il vostro piano non finisce qui, vero?» insisté T’Vala. «Ci siete voi, dietro ai sabotaggi dell’Enterprise. Anzi, sarà stato un vostro complice, probabilmente un ingegnere. Voi non avete le competenze necessarie».

   «È così?» chiese il Capitano, sentendo moltiplicarsi la collera. «Potevate distruggere l’Enterprise, quand’eravamo nella Barriera. E ora, sabotando il propulsore cronografico, l’avete esposta alla Scourge. Ci sono migliaia di civili sull’Enterprise... famiglie con bambini! Che diavolo credete di fare?!».

   «Non siamo stati noi a dirigere la nave in un’altra galassia» rispose Daasin. «È stato lei. Non ci resta che impedirle di ripetere le atrocità di cui si è macchiato nella Via Lattea. Così la Flotta ci penserà due volte, prima d’inviare altre navi».

   «Dissonanza cognitiva» commentò T’Vala. «Il Movimento per la Pace Galattica rientra nei gruppi che vogliono abolire la Prima Direttiva. Voi volete che la Flotta intervenga negli affari delle altre civiltà. Però volete anche impedirci d’intervenire in Andromeda. È tipico del MPG, pretendere una cosa e anche il suo contrario». La mezza Vulcaniana scosse il capo, tenendo sempre gli occhi bassi. Aveva i muscoli contratti; strinse i pugni finché le nocche sbiancarono.

   «Il prossimo sabotaggio riuscirà, siatene certi» disse Nilsson, avvicinandosi a lei. «E prima che tu me lo chieda... sì, moriremo anche noi. Saremo dei martiri, proprio come Helen Chase. Non c’è fine più nobile... le nuove generazioni guarderanno a noi con gratitudine e impareranno che significa amare la giustizia!» proclamò con orgoglio.

   «Ancora questa parola, giustizia» disse T’Vala, portandosi la mano alla fronte, come se le dolesse.

«Ma sì, c’è una giustizia poetica in tutto questo. Ci avete sabotati nella Barriera cercando di ucciderci. E invece... mi avete fatto il regalo migliore di sempre!» sibilò, con voce irriconoscibile. Alzò di scatto la testa: i suoi occhi erano perlacei, senza pupille. Il terrore promanò da lei come qualcosa di tangibile.

   Nilsson sbiancò e scattò all’indietro. Senza esitazione, lui e Daasin mirarono T’Vala e premettero i grilletti, con i phaser tarati per disintegrare. Ma i fucili sfrigolarono di elettricità azzurrina e non spararono. I traditori gridarono per il dolore e dovettero mollarli; avevano le mani ustionate. Impugnarono i phaser di tipo 2 che portavano in cintura, ma si ripeté esattamente la scena precedente. Anche stavolta dovettero mollarli tra scosse, grida e ustioni.

   Ammutolito, Chase arretrò verso il muro. Aveva visto gli occhi di T’Vala e osservando i suoi poteri all’opera capì. Tutte le stranezze di quei mesi avevano finalmente un senso. Come poteva essere stato così cieco? Uno dei suoi ufficiali più in gamba era stato alterato dalla Barriera Galattica – c’erano tutti i sintomi – e lui l’aveva capito solo adesso. Probabilmente era tardi per salvarla... e per salvare chi le stava intorno: i suoi poteri erano fuori controllo.

   Nilsson prese una granata al plasma dalla cintura multiuso. Era una sferetta piccola come una biglia, che se lanciata esplodeva all’impatto. Sprezzante, T’Vala l’attirò a sé prima che l’Umano potesse attivarla e se la mise in cintura.

   «Ora ci divertiamo!» esclamò la mezza Vulcaniana, accompagnandosi con una risata maligna e un po’ folle. Tese le braccia in avanti, con gesto imperioso, e i due traditori furono sollevati da una forza invisibile. Per qualche secondo si dibatterono a mezz’aria, come marionette. Poi T’Vala accostò rapida le mani, fino ad applaudire. Nello stesso momento anche i Guardiamarina sbatterono uno contro l’altro. La timoniera spalancò di nuovo le braccia e i due malcapitati furono spediti contro le pareti opposte del corridoio. Le urtarono con violenza e si accasciarono. Ma T’Vala non aveva finito di torturarli. Dato che Nilsson era svenuto, si concentrò su Daasin. Il Bajoriano cercò di fuggire, ma T’Vala lo sollevò di nuovo, lasciandolo sgambettare in aria. Mosse l’indice in circolo, facendolo ruotare, finché lo vide di nuovo in faccia.

   «Vai... coi Pah-wraith!» rantolò il Bajoriano.

   «Ci mando prima te» rispose gelidamente T’Vala.

   Chase capì che stava per uccidere. «Basta così, lo lasci andare» ordinò, con tutta l’autorevolezza possibile. Era il momento cruciale: T’Vala lo avrebbe ascoltato? «Porteremo questi traditori sull’Enterprise, dove saranno incarcerati» aggiunse.

   «Dopo tutto quel che hanno fatto, vuole offrire loro vitto e alloggio gratis per il resto del viaggio? Mentre noi rischiamo la vita contro la Scourge e i mostri di Andromeda? Non se ne parla!» ribatté la timoniera. Si rivolse nuovamente a Daasin, trafiggendolo con il suo terribile sguardo. «Sai che mia madre morì in un attentato? Era un’ambasciatrice federale, godeva dell’immunità diplomatica. Ed era una madre di famiglia. Ma ai terroristi queste cose non importano. Le misero una bomba nella navetta e la fecero saltare con tutta la scorta, per impedire che risolvesse una disputa territoriale. E adesso vorreste uccidere me, e distruggere tutta l’Enterprise? Non lo permetterò!» disse, la voce ridotta a un sussurro viscido. Irrigidì la mano e la voltò con gesto secco. Si udì un orribile scricchiolio e la testa del Bajoriano girò di 180º, uccidendolo all’istante. T’Vala lo lasciò cadere al suolo e subito spostò la sua attenzione su Nilsson, che cominciava a riprendersi ed era disarmato.

   «Ha trasgredito al mio ordine» l’ammonì Chase, in tono pacato. Stava facendo di tutto per nascondere il suo timore. T’Vala aveva fallito il primo test: aveva ucciso a sangue freddo, violando gli ordini, e non sembrava minimamente pentita. Non era da lei... ma probabilmente non restava molto di T’Vala, dietro quegli occhi senza sguardo. «Lasci in vita Nilsson: deve fare i nomi dei suoi complici sull’Enterprise, o il prossimo sabotaggio non ci lascerà scampo» disse ancora il Capitano. Se T’Vala non si lasciava convincere dagli ordini, o dall’etica, forse poteva smuoverla con la logica.

   «Ha ragione, Capitano» riconobbe la mezza Vulcaniana. Chase sospirò, ma il suo sollievo durò solo un istante. «Quindi passo subito all’interrogatorio!» disse la timoniera. Attirò a sé il traditore, afferrandolo per la gola, e lo sollevò senza sforzo. «Avanti, sputa il rospo! Chi sono i tuoi complici?!» chiese con voce terribile.

   «Non lo saprai mai... brutta... shutta!» rantolò Nilsson, mezzo strangolato, e le diede un pugno. La testa di T’Vala si piegò di lato. Quando la raddrizzò, i suoi occhi brillavano di una luce ancora più micidiale.

   «Insulso omuncolo, credi di potermi nascondere qualcosa? Spremerò la tua mente, un pensiero dopo l’altro... finché la tua anima nuda e raggrinzita brucerà al mio cospetto. GUARDAMI!» intimò T’Vala. Abbassò il malcapitato, costringendolo a stare in ginocchio, e si chinò su di lui, fissandolo con occhi risplendenti di bianco.

   Nilsson emise un grido inarticolato, che divenne un gorgoglio. Lottò per chiudere gli occhi, ma le sue palpebre rimasero spalancate a forza. Allora cercò di voltare la testa, ma non vi riuscì. Anche le mani, con cui aveva cercato di coprirsi il volto, ricaddero impotenti. Ben presto i suoi occhi si congestionarono, finché ne stillò il sangue. Era evidente che aveva lottato fino all’ultimo per nascondere l’identità dei suoi complici.

   «Ho i nomi... sono gli ingegneri di prima classe Tyreal e Rashid» disse T’Vala. «Hanno sabotato la griglia EPS e il propulsore cronografico. Il loro prossimo obiettivo è il nucleo quantico».

   «Va bene, li arresteremo non appena tornati a bordo» promise Chase.

   «Ho anche una lista di simpatizzanti del MPG che si sono imbarcati sull’Enterprise» aggiunse T’Vala.

   «Penseremo a tutto... ma non uccida quell’uomo. Me lo deve promettere, T’Vala» insisté il Capitano.

   «Oh, va bene... le prometto che io non ucciderò questo verme» sbuffò la timoniera. Chase si domandò se poteva fidarsi della sua parola.

   «Sentito, shutta? Non puoi uccidermi, non puoi!» sogghignò Nilsson, con il volto rigato dal sangue. Le sputò in faccia e scoppiò a ridere sguaiatamente.

   «Io no, ma lui sì!» ringhiò T’Vala, detergendosi lo sputo. Con i suoi poteri telecinetici sollevò il traditore e lo scaraventò dritto nelle fauci del mostro, che si era nuovamente affacciato sul corridoio. Nilsson scomparve nella bocca simile a un vulcano e dopo pochi secondi di suoni raccapriccianti fu risputato, sotto forma di scheletro calcinato. Chase lo osservò con costernazione.

   «Risparmi la pietà, Capitano... questa feccia non la merita» disse T’Vala freddamente.

   «E io, invece?».

   «Che domande... lei è il Capitano».

   «Se mi considerasse ancora il suo Capitano, obbedirebbe ai miei ordini» obiettò Chase. «E prima ancora mi avrebbe informato delle sue condizioni. Che aspettava a dirmelo?! Cos’è, credeva di poter nascondere le sue condizioni per sempre, a me e agli altri?».

   «Non sapevo che fare» borbottò T’Vala. «Pensavo che mi avreste temuta... che mi avreste rinchiusa per il resto del viaggio, cioè per anni...».

   «Rinchiuderla?! T’Vala, noi l’avremmo curata! O almeno ci avremmo provato!» esclamò il Capitano, quasi fuori di sé. «Noi le vogliamo bene, siamo suoi amici. Lo sa questo? Mi dica che lo sa!».

   T’Vala sbirciò nei pensieri di Chase e vi lesse la sincerità. «Sì» disse in un soffio. «Ma talora si fa del male a una persona pur volendole bene. Lei parla della mia condizione come se fosse una malattia, ma non è così. É un dono... un raro, stupendo dono. Devo coltivarlo, fino a raggiungere il mio pieno potenziale. E allora... farò grandi cose!» si esaltò.

   «Tipo? Uccidere tutti quelli che la fanno arrabbiare?» chiese il Capitano. «T’Vala, lei fa già grandi cose. Non deve stravolgersi per inseguire chissà quale sogno di potere e perfezione. Noi la vogliamo così com’è. E quando dico noi, intendo soprattutto Lantora. Povero diavolo! La ama più della sua vita, ed è in pensiero per lei. Perché gli ha fatto questo?».

   «Lantora si sentiva sminuito già prima che cambiassi, per via delle mie facoltà vulcaniane. Pensi come ci resterebbe ora!» spiegò T’Vala, ma la sua voce si era intenerita. «E poi non volevo rischiare di ferirlo, se... avessi perso il controllo. Come ho detto, a volte si danneggia chi si ama» aggiunse con amarezza.

   «Proprio per questo doveva farsi visitare. Come ha fatto a nascondere il biancore degli occhi?» inquisì il Capitano.

   «Ho sintetizzato un soppressore neurale per combattere i sintomi della trasformazione» ammise T’Vala. «Sommato alla meditazione, mi teneva stabile... anche se ho dovuto aumentare la dose quotidiana».

   «Quindi non era affatto stabile» puntualizzò Chase. «Sa benissimo che quella roba può essere pericolosa, in dosi elevate. Lei quanta se ne spara?».

   «Piano, non sono una tossicodipendente!» protestò la timoniera, ma poi chinò il capo, vergognosa. «Sono arrivata a 5 cc al giorno» confessò.

   «Dovrebbe essere in coma... o morta» mormorò Chase, serissimo. «Non voglio che l’assuma più, intesi?».

   «Grazie, Capitano!» fece T’Vala, giuliva. «Così finalmente i miei poteri saranno liberi di svilupparsi!».

   «Proprio questo mi preoccupa... e dovrebbe preoccupare anche lei» borbottò Chase. «Il suo fisico sta subendo un terribile stress. Non può reggere all’infinito... lei non è invulnerabile!».

   «Beh, forse lo sto diventando!» rimbeccò T’Vala. Si fissarono per qualche attimo, con ostilità. Poi i ruggiti del mostro e il rollio dell’astronave li costrinsero a tornare al presente.

   «Dobbiamo andarcene, prima che questa nave vada in pezzi. O che vada in pezzi l’Enterprise» affermò Chase, più preoccupato dalla seconda eventualità. «Ci serve un’altra strada per l’hangar».

   «No, non ci serve» corresse T’Vala. Trasse la granata al plasma dalla cintura, l’attivò e la scagliò con precisione nelle fauci del mostro. Poi corse a nascondersi dietro un angolo, obbligando Chase a fare altrettanto. Ci fu un’assordante esplosione di plasma verde e surriscaldato. Pur essendosi riparati, i federali sentirono la vampata rovente e furono quasi scagliati a terra dall’onda d’urto. Quando si azzardarono a guardare nel corridoio videro pozze di plasma che bruciavano, in mezzo alle macerie e ai brandelli della creatura. I tentacoli mozzati erano ancora percorsi da spasmi vitali. Un fumo denso e acre si diffondeva nel corridoio, facendo tossire i federali. «Okay, forse ci serve un’altra strada» ammise T’Vala. «Ma vuol mettere la soddisfazione?».

   «Se ne usciamo vivi, ne riparliamo!» grugnì il Capitano, infilando un corridoio laterale.

 

   «C’inseguono ancora?» chiese Grenk, affannandosi per stare dietro a Fanior e ai pochi colleghi sopravvissuti.

   «Non credo che abbiano trovato motivo di desistere, nei tre minuti trascorsi dall’ultima volta che l’ha chiesto» rispose Fanior, in tono di sopportazione. Dietro di loro il corridoio semibuio risuonava di ruggiti, strepiti e richiami. Pochi minuti prima un assortimento di alieni non umanoidi li aveva aggrediti in sala macchine, uccidendo la maggior parte della squadra. Ora i superstiti correvano verso l’hangar, affidandosi alla vaga conoscenza che Fanior aveva dell’incrociatore. Alcuni degli inseguitori erano armati: raggi di diverso colore balenarono nell’oscurità, mietendo altre vittime tra i federali. I soldati risposero con i phaser, abbattendo molti inseguitori, ma altri si fecero avanti, calpestando i morti. Non c’erano ripari, negli ampi corridoi progettati per i Kelvani.

   «Il mio povero cuore! Sta per scoppiare, lo sento!» ansimò Grenk. Un raggio disgregatore gli passò a un centimetro dalla testa, elettrizzandogli i capelli radi. Il Tellarita scattò in avanti, con uno sprint che sorprese lui stesso.

   «Resistete, ci siamo quasi» assicurò Fanior, che correva avanti a tutti. Si era recato sul Leviathan senza tuta spaziale, sprezzando il freddo e con solo una piccola maschera respiratoria per l’ossigeno. Si aspettava infatti di riprendere la sua vera forma Kelvana il prima possibile, per manovrare l’incrociatore. Ma le cose non erano andate come previsto. L’Ambasciatore indossava i soliti abiti, scuri e sobri, corredati però da una strana cintura nera, con un dispositivo squadrato sul davanti. Era la prima volta che Grenk gliela vedeva indosso, e sebbene avesse dei sospetti sulla sua funzione, non gli aveva ancora chiesto conferma.

   «Spero che il Capitano e i suoi ci raggiungano» boccheggiò Grenk. «Anche loro sono nei guai... chissà che mostri hanno incontrato-oooohhh!». Sbucato da un ingresso laterale, un Appallottoliere gli balzò addosso, nella sua forma raggomitolata. Lo urtò tanto forte da farlo cadere all’indietro e gli atterrò sopra, aprendosi in un baleno.

   «Ma che... argh!» gemette l’Ingegnere Capo, mentre la creatura gli si srotolava sul petto. Il becco corneo scattò contro di lui. Grenk fece appena in tempo ad afferrare l’essere per il collo, tenendolo lontano: il becco da pappagallo si chiuse a un centimetro dal suo naso porcino, frantumando la visiera del casco.

   «Qualcuno me lo levi di dosso!» ululò Grenk, trattenendo a stento l’Appallottoliere, che si dibatteva come un’anguilla. Le zampine artigliate laceravano la sua tuta, cercando di arrivare alla carne. I soldati si voltarono, ma esitavano a sparare, temendo di colpire l’Ingegnere.

   Fu l’Ambasciatore a risolvere il problema. Senza scomporsi, si portò la mano alla cintura e premette un bottone. L’Appallottoliere si dissolse in un lucore bianco, simile al raggio del teletrasporto, ma invece di svanire del tutto si contrasse e cambiò forma. Grenk smise di dibattersi e strabuzzò gli occhi. Sul suo petto giaceva un poliedro, dalle molte facce quadrate e triangolari, fatto di una sostanza bianchiccia e spugnosa. Era la prima volta che il Tellarita vedeva all’opera il famigerato Trasmutatore Kelvano, l’arma capace di scomporre un essere vivente nelle sue sostanze chimiche fondamentali e poi di ricomporlo come prima... se il proprietario era clemente.

   «Si muova» ordinò Fanior. Tese la mano a Grenk e lo aiutò a rialzarsi. Il poliedro rotolò via, senza che l’Ambasciatore ricomponesse la creatura. Grenk fu tentato di raccoglierlo, per studiarlo più avanti, ma lasciò perdere quando vide avvicinarsi gli altri inseguitori: una masnada di specie non umanoidi, variamente armate. Ripresero a correre, tallonati da vicino.

   Quando il Tellarita pensava ormai di non farcela più, raggiunsero la fine del corridoio. C’era uno slargo, contornato da due costoloni delle pareti, che offrirono un precario rifugio ai fuggitivi. Fanior si rifugiò su un lato e Grenk sull’altro, ciascuno circondato da due o tre persone, fra ingegneri e soldati. Davanti a loro vi era un enorme portone corazzato, con un oblò al centro.

   «Beh, che aspetta? Che arrugginisca?!» chiese Grenk, accennando al portone, mentre si schiacciava per quanto possibile tra costolone e muro. «Lo apra, per l’amor dello Spazio!».

   «Dovrebbe aprirsi da solo, al nostro arrivo» spiegò Fanior, studiando il portone con interesse e un pizzico di preoccupazione. «Se non lo fa, qualcosa non quadra. Datemi un po’ di copertura... devo controllare l’interno».

   Mentre gli ultimi soldati tenevano a bada gli assalitori con un fitto fuoco di copertura, Fanior si alzò e corse a guardare nella finestrella. I suoi occhi si strinsero, ed egli tornò a nascondersi senza fretta, come se stesse ruminando su un problema, mentre i raggi mortali gli balenavano attorno.

   «Allora? Abbiamo una navetta?» chiese Grenk, speranzoso.

   «Ce l’abbiamo, sì» disse Fanior, un po’ assente.

   «Ed è grande abbastanza per tutti?» chiese ancora il Tellarita.

   «È abbastanza grande per la sua pancia, Ingegnere, se è questo che intende» rispose l’Ambasciatore. «Il problema sta nel raggiungerla. Pare che l’hangar sia decompresso». Parlava con disappunto, come se decomprimersi fosse stata un’indelicatezza, da parte dell’hangar.

   «Che?!» si sgonfiò Grenk. «M-ma come...?» balbettò.

   «L’impatto di un asteroide o di un relitto, senza dubbio» spiegò Fanior. «Questo ci pone un quesito interessante: come raggiungere la navetta? Io potrei assumere la mia vera forma, che mi permette di resistere per qualche secondo alle condizioni dello spazio. Ma lei? La sua tuta è lacerata e non abbiamo ricambi».

   «Decida alla svelta, o qui ci restiamo tutti secchi» incalzò il Maggiore Wu, capo dei Corpi Speciali. Regolò il fucile phaser al massimo e cominciò a tagliare il portone di tetraburnio lungo i lati, producendo una cascata di scintille.

   «Non c’è che un modo» disse Fanior, rompendo gli indugi. «Signor Grenk, temo di doverla uccidere. Non si preoccupi... è una cosa temporanea. Il mio dispositivo la trasformerà in un poliedro chimico, facilmente trasportabile e immune alle condizioni dello spazio. Una volta al sicuro la ricomporrò».

   «Eeeehhh?! Non se ne parla!» inorridì Grenk. «Non mi trasformerà in uno di quei balocchi, neanche per un nanosecondo! Sono un genio della Flotta, io... non un pugno di sostanze chimiche!» protestò, bianco come un cencio.

   «Siamo tutti un pugno di sostanze chimiche» sospirò Fanior, e premette senza esitazione il tasto della cintura.

   «Non osi...» squittì Grenk, puntandogli l’indice accusatore, ma il Trasmutatore lo dissolse in un lampo bianco. Al suo posto c’era adesso un poliedro bianchiccio e poroso, così piccolo da stare in una mano. Tutte le sostanze che componevano il suo corpo – meno l’acqua – erano lì, compresse e ordinate.

   «Non si preoccupi, riavrà anche la sua bizzarra personalità» commentò Fanior, caustico, sebbene il Tellarita non potesse più sentirlo. Trasformò il proprio braccio in un lungo tentacolo e lo allungò allo scoperto, raccattando il poliedro. Tornò in fretta al riparo, stringendoselo al petto. Doveva evitare che la decompressione imminente glielo strappasse via, ma non poteva nemmeno stringerlo troppo, per non sfarinarlo, cosa che gli avrebbe impedito di riportare in vita l’Ingegnere.

   «Ci siamo quasi» avvertì il Maggiore, che stava finendo di tagliare il portone. «Controllate che le vostre tute siano ancora sigillate» raccomandò agli ingegneri e ai soldati. «Quanto a lei, Ambasciatore... buona fortuna».

   «La fortuna non esiste, Maggiore» corresse Fanior. «Esistono solo la pianificazione e la prontezza di riflessi». Con queste parole si trasformò. Il suo corpo prese a gonfiarsi, così che il costolone metallico non fu più sufficiente a ripararlo. Ma nello stesso attimo il Maggiore terminò il suo lavoro di taglio. Il portone saltò via, risucchiato nello spazio, e l’aria prese a fuoriuscire dal corridoio con la violenza di un uragano. I federali magnetizzarono gli stivali delle tute per non essere trascinati via. Fanior si appiattì contro il muro, mentre completava la sua trasformazione.

   Ma i predoni accalcati poco più avanti non ebbero la stessa prontezza. Per la maggior parte furono sollevati da terra e trascinati inesorabilmente dall’aria in fuga. Passarono in mezzo ai federali, finendo nell’hangar privo d’atmosfera. Poiché nulla poteva arrestare il loro moto, lo percorsero da un’estremità all’altra. Infine attraversarono lo squarcio nel portone esterno e furono proiettati nello spazio aperto. I pochi che riuscirono a restare nel corridoio dovettero aggrapparsi a qualcosa, il che impedì loro d’inseguire i federali. La perdita d’aria continuava: il vento s’ingolfava nel portone, con un frastuono assordante.

   Approfittando della situazione, i federali lasciarono i loro nascondigli e uscirono nell’hangar, aderendo al pavimento metallico con gli stivali magnetizzati. Si trovarono in un ambiente vastissimo, diviso in terrazze, come gran parte degli interni del Leviathan. Le navette kelvane erano agganciate al pavimento. Alcune erano state strappate via dall’aria in fuga, quando il portone esterno si era squarciato, tempo prima. Ma altre erano ancora serrate nelle morse d’aggancio.

   I federali mossero verso la navetta più vicina, dalla semplice forma a guscio e abbastanza grande per tutti. Dietro di loro veniva Fanior, nel suo vero aspetto: un calamaro alto cinque metri, dalla ruvida pelle grigio scuro. Il corpo affusolato era sostenuto dai dieci tentacoli, ciascuno dei quali si divideva a sua volta in dieci all’estremità. In uno di questi grovigli era avvolto un piccolo poliedro bianco, dalla superficie spugnosa: tutto ciò che restava di Grenk. Quanto alla cintura di Fanior, responsabile della trasformazione, ora avvolgeva la parte più alta della sua testa da calamaro.

   «Dobbiamo fare in fretta» disse il Maggiore Wu. «Di certo è in corso una battaglia».

   «Non dovremmo aspettare il Capitano?» chiese un Ingegnere.

   «Intanto entriamo nella navetta» rispose il Maggiore. «Una volta lì contatteremo l’Enterprise. Dopo di che faremo quanto ci verrà ordinato».

 

   «Gli scudi anteriori del Leviathan cedono» informò Lantora. «Rilevo il Capitano e T’Vala. Non hanno più scorta e stanno correndo in un corridoio... credo siano inseguiti. Portiamoli a bordo, presto!».

   «Se abbassiamo gli scudi per teletrasportarli, rischiamo gravi danni o anche la distruzione. Quegli incursori sono ovunque» obiettò il Consigliere.

   «Cerchiamo di limitare i danni» disse Ilia. «Timoniere, rivolga il ventre della nave al Leviathan. Lantora, massima energia agli scudi ventrali. Terry, abbassi gli scudi dorsali per il tempo necessario a salvare i nostri».

   Nello spazio, le esplosioni dilaniavano i relitti del Cimitero di Abaddon. Una raffica di siluri quantici centrò la parte anteriore del Leviathan, abbattendone gli scudi e aprendo brecce nello scafo. L’ammiraglia kelvana, in mano ai predoni, attivò i motori a impulso e si ritrasse a gran velocità, perdendo atmosfera. Ma ci volevano alcuni minuti per uscire dal raggio del teletrasporto federale.

   L’Enterprise ruotò di 90º e rivolse il ventre al Leviathan, che pur allontanandosi continuava a fare fuoco con le armi di poppa. Gli scudi ventrali ressero alle bordate. Mentre i raggi anti-polaronici e i cannoni a impulso tenevano a bada gli incursori, l’Enterprise disattivò gli scudi dorsali per tre secondi. Tanto bastò per trasportare Chase e T’Vala a bordo. Gli scudi dorsali si riattivarono prima che i predoni potessero approfittarne. Ma la nave federale era ormai allo stremo.

   «Che facciamo con la squadra 1?» chiese Lantora, mentre la plancia sussultava.

   Ilia non aveva dimenticato coloro che erano ancora sul Leviathan. Stava per ripetere la strategia, sperando che la nave reggesse, quando riconobbe un nuovo segnale frammisto alla Babele degli allarmi.

   «Ci chiamano dal Leviathan, trasmissione criptata con un codice della Flotta» avvertì Grog. «È la squadra 1... si sono impadroniti di una navetta kelvana e chiedono istruzioni».

   «Gli dica che abbiamo già recuperato il Capitano» disse Ilia. «Che se ne vadano subito... gli trasmetta le coordinate del rendezvous con le navette».

   «Coordinate inviate in codice criptato» confermò il Ferengi.

   «Allora andiamocene» ordinò la Trill.

   «Non diamo il colpo di grazia a quella dannata nave?» chiese Lantora, osservando bieco il Leviathan che arrancava per mettersi fuori tiro. Stava ancora perdendo atmosfera.

   «No... i suoi occupanti sono gente disperata» rispose Ilia. «Ci hanno assalito perché la razzia è l’unica strategia di sopravvivenza che conoscono. Ma non siamo in guerra con loro, perciò non ci accaniremo».

   «Hanno ucciso molti dei nostri» le ricordò Lantora. «E forse ce li troveremo ancora davanti».

   «Può darsi» ammise la Comandante. «Ma dobbiamo mostrare agli Andromedani che c’è un’alternativa a questa misera lotta per gli avanzi. Andiamocene... non abbiamo più nulla da fare qui».

   «Ben detto» approvò Ezri, che seguiva con interesse gli sviluppi. Sembrava così reale... a volte Ilia dimenticava che esisteva solo nella sua mente.

   La squadra 1 lasciò il Leviathan a bordo della navetta rubata, con Fanior ancora in forma di calamaro che manovrava i comandi, inadatti a mani umane. La navetta si allontanò dall’incrociatore danneggiato e zigzagò fra i detriti. Prima che gli incursori la colpissero balzò in curvatura. Nel frattempo anche gli shuttle dell’Enterprise stavano abbandonando il campo di battaglia, diretti al punto d’incontro. Ben presto restò solo la nave madre.

   Con gli scudi ormai al collasso, l’Enterprise si disimpegnò dagli scontri. Diresse la prua verso lo spazio aperto, lontano dal Cimitero di Abaddon e dalle sue trappole mortali. Gli incursori la tallonarono, come calabroni impazziti. Ma non poterono impedirle di svanire nel condotto di cavitazione. L’ammiraglia di Flotta, la nave che aveva guidato vittoriosamente l’Unione a Procyon V, batté in ritirata, sfuggendo di stretta misura ai predoni.

 

   Un’ora dopo l’Enterprise stazionava nel punto di rendezvous, vicino a due stelle binarie, mentre le navette rientravano. La navicella sottratta al Leviathan era così grande che entrò a stento nell’hangar principale. I federali ne uscirono per primi.

   «Siete tornati in pochi» constatò tristemente Terry, che era lì ad accoglierli. «Rilevo i segni vitali dell’Ambasciatore, ma Grenk...».

   «Eccolo qui» disse il Maggiore Wu, mostrandole il poliedro chimico. «L’Ambasciatore dice che può farlo tornare come prima. Speriamo... ma prima gli servono nuovi abiti, così potrà uscire dalla navetta in forma umana». Posò cautamente il poliedro a terra e restò a fare la guardia, perché nessuno lo calpestasse accidentalmente.

   «Il Capitano vorrà un rapporto dettagliato» commentò Terry, teletrasportando gli abiti direttamente nella navetta. Di lì a poco Fanior ne uscì, con il suo aspetto umano, impeccabile come sempre. Aveva la cintura con il Trasmutatore.

   «Salve, Tenente Comandante. Mi scuso per il fallimento della missione sul Leviathan» esordì l’Ambasciatore. «Lo avete eliminato?».

   «No, è ancora là fuori» spiegò Terry.

   «Uhm... sarebbe stato meglio distruggerlo, piuttosto che lasciarlo in mano a quegli esseri indegni» commentò il Kelvano. «Pazienza. Ho sentito che il Capitano è sopravvissuto... bene, devo parlargli quanto prima. Ma che succede?» chiese, notando che c’era movimento nell’hangar.

   «È in corso un’operazione della Sicurezza» spiegò Terry. «Poco fa il Capitano ha subito un tentativo d’eliminazione da parte di due estremisti. Stiamo arrestando i loro complici, responsabili dei sabotaggi degli ultimi mesi».

   «Bene, un problema in meno» approvò Fanior. «Ora vi restituisco l’Ingegnere». Portò la mano al Trasmutatore e premette un comando. Ci fu un nuovo lampo e il poliedro chimico crebbe, assumendo forma umanoide, finché Grenk fu di nuovo tra loro. Era rivolto al muro, con il braccio teso in avanti.

   «... usare quella diavoleria!» gridò il Tellarita, completando la frase lasciata a mezzo. Rimase interdetto, accorgendosi di non essere più sul Leviathan. Il suo braccio ricadde fiaccamente ed egli si girò con lentezza, tremando da capo a piedi. «C-c-che diavolo...?!» tartagliò, fissando i presenti con occhi stralunati.

   «Affascinante» commentò Terry, colpita da quell’insolita tecnologia. «Signor Grenk, non so come dirglielo, ma...» disse con cautela, temendo di scioccarlo.

   «Il suo corpo è stato disidratato e scomposto in un poliedro chimico. L’ho appena ripristinato» spiegò Fanior, sbrigativo.

   «Ecco; avrei evitato di dirlo in questo modo» sospirò Terry.

   «I-io... lei ha... sputter!». Grenk divenne verdastro e prese a tastarsi, come per accertarsi che tutto fosse tornato al suo posto. Sputacchiava, sudava abbondantemente e balbettava parole incoerenti.

   «Non c’è di che. Arrivederci... se dovesse sentirsi strano, beva molta acqua» raccomandò Fanior, e lasciò l’hangar.

   «Il Trasmutatore Kelvano è un dispositivo collaudato da secoli» spiegò Terry, cercando di calmare il collega. «Non deve preoccuparsi per la sua integrità psico-fisica... concettualmente non è molto diverso dall’essere teletrasportati. Ora, deve sapere che due dei sabotatori sono ingegneri e potrebbero aver manomesso altri sistemi. Il Capitano vuole un check-up completo, a partire dal nucleo...».

   Grenk emise un lungo «Iiiiihhhhh…» e crollò a terra svenuto.

   «Naturalmente posso chiedere ad altri, se le occorre riposo» commentò Terry, inarcando un sopracciglio.

 

   Entrando in sala tattica, Lantora notò l’assenza di T’Vala e Grenk. Non si preoccupò eccessivamente, perché sapeva che erano tornati a bordo. «Tyreal e Rashid si sono suicidati con una neurotossina prima che potessimo arrestarli» spiegò lo Xindi, prendendo posto al tavolo tattico. «Questo se non altro ci conferma che avevano qualcosa da nascondere. Gli altri ingegneri stanno setacciando la nave in cerca di sabotaggi, a partire dal nucleo, come lei ha consigliato» aggiunse, rivolto al Capitano.

   «E i simpatizzanti del MPG?» domandò Chase. Aveva un atteggiamento strano, quasi distratto, come se la cospirazione che aveva minacciato la nave gli sembrasse poco importante. Lantora notò che era ancora privo della mano destra.

   «Li stiamo interrogando, ma poi dovremo rilasciarli. Non ci sono gli estremi per formalizzare l’arresto» ammise lo Xindi.

   «Presso la mia gente, simili traditori sarebbero già stati giustiziati» commentò Fanior.

   «Ma qui siamo sull’Enterprise e ci atteniamo al regolamento della Flotta» ricordò Chase. «Non ci muoveremo prima di aver ultimato il check-up... a meno di subire nuovi attacchi. Terry, tenga i sensori all’erta. Ora sappiamo che la Scourge non è l’unica forza ostile di Andromeda».

   «Il vostro modello socio-politico era corretto» notò Ilia, rivolta a Terry e Apsu. «In questa galassia ci sono predoni abili a nascondersi e a tendere agguati. Temo che li incontreremo ancora... se non loro, un’altra banda» sospirò.

   «Concordo» disse il Capitano. «Comunque ha gestito molto bene la situazione di oggi, Comandante. Merita un encomio» aggiunse, il viso stanco ma grato. «Ora, però, dobbiamo occuparci di altre questioni» proseguì, osservandosi malinconicamente il polso monco. «Ambasciatore, quando gli ingegneri avranno terminato le riparazioni dell’Enterprise vorrei fargli esaminare la navetta che ha sottratto al Leviathan. È l’unica cosa che abbiamo ottenuto da quella nave, dopotutto. Ha qualcosa in contrario?».

   «No» rispose Fanior, anche se la sua espressione sembrava indicare l’opposto. «Siamo in una situazione critica e potremmo incontrare altre navi kelvane cadute sotto il controllo di forze ostili. Capisco che voglia familiarizzare con la nostra tecnologia. I suoi ingegneri possono procedere» disse con riluttanza.

   «Bene» disse Chase, ringraziando con un cenno del capo. Sembrava che volesse tenere per ultima la questione più scottante.

   «Signore, posso chiederle che ne è di Grenk e T’Vala? Non mancano mai a queste riunioni» disse Lantora, temendo che lo strano atteggiamento di Chase avesse a che fare con loro.

   «Il signor Grenk è in infermeria. Fuggendo dal Leviathan l’Ambasciatore ha dovuto trasformarlo in un poliedro chimico e questo l’ha scombussolato. Nei prossimi giorni potrebbe aver bisogno di lei, Consigliere».

   «Sono a sua disposizione» garantì lo Xindi Acquatico.

   «E T’Vala?» chiese Lantora, sentendo un nodo allo stomaco.

   Chase soppesò le parole, ma infine decise che non c’era un modo carino per dirlo. «Il Tenente Shil è a bordo. Ma temo che non resti molto di T’Vala in lei. Siamo stati ciechi... e ora potrebbe essere tardi per salvarla».

 

   Le luci erano tenui nell’alloggio di T’Vala. La mezza Vulcaniana se ne stava in piedi, con le braccia tese lungo il corpo e un sorriso inquietante stampato in faccia. I suoi occhi splendevano di luce opalescente, fissando il vuoto. Era in quella posizione da ore, perfettamente immobile, ma non si sentiva stanca. Ora che nulla più li contrastava, i suoi poteri stavano crescendo in fretta; lo sentiva. Presto sarebbe diventata inarrestabile. Era una sensazione esaltante... era come una farfalla che si appresta a uscire dalla crisalide.

   Il segnale dell’ingresso turbò la sua meditazione. «Entra pure, Lantora» disse con voce carezzevole. Non era stata informata della visita, ma sapeva ugualmente chi era. Rimase immobile, dando le spalle all’ingresso, senza accogliere il visitatore. Ma vide il rettangolo di luce disegnarsi sulla moquette e la sagoma dello Xindi che vi si stagliava.

   «Il Capitano mi ha detto tutto» disse Lantora, indugiando sulla soglia. «Non volevo crederci, ma... è l’unica cosa che ha senso. Spiega tutte le tue stranezze di questi mesi. Come ho fatto a non capirlo?!». Si fece avanti, lasciando che la porta si chiudesse alle sue spalle.

   «Non prendertela. Tutto sta andando come deve» rispose T’Vala serafica, senza voltarsi.

   «Col cavolo! No, qui va tutto in malora. E guardami quando ti parlo!» sbottò Lantora. Temendo di vederla girare il collo di 180º, come accadeva negli olo-romanzi dell’orrore, le girò intorno. Quando le vide gli occhi lattiginosi gli si mozzò il fiato. Era stato informato delle sue condizioni, ma nessun discorso poteva prepararlo a una vista del genere. Gli occhi perlacei, il sorriso innaturale, l’immobilità forzata... la sua compagna era irriconoscibile. «Perché non me l’hai detto?» chiese lo Xindi con voce rotta.

   «Ti saresti preoccupato per nulla». T’Vala continuava a guardare fisso in avanti, ignorando Lantora che le stava accanto.

   «Per nulla?! No, c’era un valido motivo. E poi, mi sono preoccupato comunque!» protestò lo Xindi.

   «Mi spiace, ma non puoi farci nulla. Mettiti il cuore in pace» suggerì la mezza Vulcaniana.

   «Questo non accadrà mai!» ringhiò Lantora. «Senti, io forse non posso aiutarti... ma abbiamo un’infermeria. Perché non sei lì? Lascia che i dottori ti curino!».

   «Curarmi?!» sibilò T’Vala, girando la testa di scatto verso di lui. «Non sono mai stata così bene in vita mia. Mi sto evolvendo. Sono ciò che le altre specie saranno fra migliaia di anni. Non voglio tornare come prima... anzi, ne voglio di più!».

   «Ma sentiti!» sbottò Lantora. «Parli come le altre vittime della Barriera. Hanno fatto tutte una brutta fine. Credi che per te sarà diverso? Insomma, che fine ha fatto la tua logica?!».

   «La logica vulcaniana è restrittiva; ora mi si spalancano nuovi orizzonti» affermò T’Vala. «Ma non temere per me; non corro alcun rischio. Anzi, la mia presenza sull’Enterprise è un’ottima cosa. Vi aiuterò a combattere la Scourge e i pirati».

   «Il Capitano non ti permetterà nemmeno di riprendere servizio, finché non risolviamo questa cosa».

   «Anche lui, a tempo debito, comprenderà che si sbaglia. È intelligente, per un Umano» riconobbe T’Vala. «Ora lasciami... devo contemplare l’Universo, ascoltandone la melodia». La mezza Vulcaniana tornò a irrigidirsi e a fissare il vuoto davanti a sé.

   Spaventato da quell’atteggiamento autistico, Lantora si ritrasse. Tornò in fretta alla porta, ma prima di uscire fece la domanda che più lo rodeva: «Che ne sarà di noi due?». T’Vala non rispose. Frustrato, Lantora dette un pugno allo stipite e lasciò l’alloggio.

 

   Grenk arrancava nel tubo di Jefferies, piagnucolando sommessamente. La sua vista annebbiata gli permetteva appena di leggere i nomi delle sezioni sulle targhette. Tirò su col naso, si asciugò le lacrime con la manona pelosa e riuscì a leggere più distintamente. Sezione 47-b... era quasi arrivato. Ancora uno sforzo e giunse davanti all’ingresso che cercava. Era sigillato, ma l’Ingegnere Capo sapeva cosa fare. Aprì uno scomparto lì accanto, afferrò una maniglia e la ruotò di 180º. Poi digitò un codice su un’interfaccia. Il sistema automatico ne riconobbe la validità e aprì il portello.

   Una luce abbagliante colpì il Tellarita, che dovette coprirsi il volto con una mano, e un flusso d’aria calda lo investì in pieno. Si trascinò ancora in avanti, fino a sporgersi sulla camera dell’iniettore di plasma. Era stretta ma alta, con un emettitore sul pavimento e un altro sul soffitto. Le loro scariche si scontravano al centro, generando un flusso di plasma bianco-azzurro che s’incanalava in un condotto, sulla parete opposta all’ingresso. Un sibilo costante invadeva quello spazio angusto.

   «Eccoti qui...» mormorò Grenk, accucciandosi sull’entrata. «Dietro il tuo bel faccino c’è questo, Terry. Credi di avere una personalità, ma sei solo ferraglia... un bullone vale l’altro e tutto può essere sostituito. Come me» aggiunse, con le lacrime agli occhi. Si preparò a saltare nel punto d’intersezione dei getti di plasma. Erano migliaia di gradi... morte istantanea, nessuna sofferenza. Era giusto che finisse così, nelle viscere della nave a cui aveva dedicato tutto se stesso negli ultimi sette anni. Avanti... solo un salto in avanti, e quella tortura sarebbe finita...

   La camera dell’iniettore si dissolse nel bagliore azzurro del teletrasporto e Grenk si ritrovò a quattro zampe nell’ufficio del Consigliere Apsu. Lo Xindi Acquatico lo osservava oltre la vetrata simile a un occhio, galleggiando nell’acqua verdastra.

   «Buonasera, signor Grenk» lo salutò come se nulla fosse. «Prima d’assecondare i suoi impulsi suicidi, perché non fa due chiacchiere con me?».

   «N-non la riguarda, la cosa!» gemette il Tellarita, alzandosi di scatto.

   «Come no? Il mio compito è mantenere la salute mentale dell’equipaggio. E un Ingegnere Capo vaporizzato sarebbe un pessimo biglietto da visita» corresse Apsu.

   «Lei come lo sapeva?» brontolò Grenk.

   «La tengo d’occhio fin dal suo spiacevole incidente sul Leviathan. Beh... è Terry a tenerla d’occhio, con i sensori interni. Ma ha istruzione di portarla da me, tutte le volte che tenterà un gesto autolesionista» spiegò lo Xindi.

   «Essere sorvegliato dalle macchine... l’incubo di ogni Ingegnere!» sbuffò Grenk.

   «Suvvia, Terry è molto più di una macchina» obiettò Apsu. «Lei lo sa meglio di chiunque altro. Ha lavorato sui suoi programmi... la considera una sua simile. Il problema è che, mentre fino a poco tempo fa pensava che aveste entrambi un’anima, oggi pensa che non ce l’abbia nessuno. Non è così?».

   «Mi risparmi la predica!» grugnì il Tellarita. «Sono un Ingegnere, sono abituato a vedere le cose a pezzi. Non c’è nessun abracadabra che fa funzionare Terry, o lei, o me. Siamo solo hardware!».

   «E allora perché diventare un poliedro chimico l’ha sconvolta a tal punto da farle tentare il suicidio?» chiese Apsu, provocatorio. «In fondo non è diverso dal teletrasportarsi, e quello lo fa continuamente. L’unica differenza è che al teletrasporto è abituato fin da bambino e non ci pensa più... anzi, non ci ha mai pensato».

   «Il teletrasporto è istantaneo» fremette Grenk. «Ma io sono rimasto... morto... per un’ora. Lo so perché me l’hanno detto; per me quel tempo non è esistito».

   «Adesso però è vivo» puntualizzò Apsu. «E io rifiuto di vedere uno dei più brillanti inventori della Flotta che si distrugge solo perché non si era mai fatto certe domande. Allora, vuole sedersi?».

   «Che vuol fare, risolvere il problema dell’anima apposta per me?» lo canzonò Grenk, accomodandosi sulla poltroncina. Per com’era voltata, il suo sguardo cadde su uno degli scaffali pieni di fossili e conchiglie che occupavano i lati dell’ufficio.

   «Intanto parliamo un po’ di lei» propose il Consigliere. «Partiamo dall’inizio: so che è l’ultimo di una cucciolata di sette. Immagino che sia cresciuto in un ambiente competitivo... dovendo sempre dimostrarsi all’altezza dei fratelli maggiori. Sbaglio se dico che è il desiderio d’emancipazione da una famiglia ingombrante che l’ha spinta ad arruolarsi nella Flotta? E che la sua volontà di primeggiare in famiglia si è trasferita all’Accademia e poi nel lavoro?».

   «Ah, Consigliere... non sa che significa essere il settimo lattonzolo!» singhiozzò Grenk, mentre le lacrime gli scendevano ai lati del naso porcino.

   «Avevo molti fratelli girini, quindi un’idea ce l’ho» assicurò il Consigliere. Fece una giravolta nell’acqua, preparandosi a una lunga seduta.

 

   Due guardie armate stazionavano davanti all’alloggio di T’Vala. Chase le guardò a disagio, anche se erano lì per suo ordine.

   «Vuole che l’accompagniamo, signore?» chiese uno dei sorveglianti.

   «Meglio di no, peggiorerebbe le cose» rispose il Capitano. Respirò a fondo ed entrò nell’alloggio semibuio. Faceva caldo, lì dentro, e strani profumi impregnavano l’aria. T’Vala era al centro del salotto, seduta nella posizione del loto. Stava levitando a un metro da terra. Aprì gli occhi perlacei non appena la porta si richiuse alle spalle di Chase.

   «Vedo che ha un nuovo potere» esordì l’Umano.

   «Vedo che ha un nuovo braccio» replicò la mezza Vulcaniana. «È comodo?».

   «Come no, è una protesi all’ultimo modello, griffata e con tutti gli optional» rispose il Capitano, flettendo la mano, realistica in ogni dettaglio. «Spero solo che duri... ormai vanno via come le ciliegie. Ma non è del mio braccio che sono venuto a parlarle».

   «No, certo... lei è qui perché mi teme» disse T’Vala. Distese agilmente le gambe e tornò in piedi. «Ma non deve farlo. Sto benissimo... mi faccia tornare in plancia!».

   «Ma quale plancia? Dovrebbe stare in infermeria. E le dirò che non pochi a bordo la vorrebbero in cella» avvertì Chase.

   «Allora gli arresti domiciliari sono un gesto di clemenza da parte sua?» ironizzò T’Vala.

   «Dato che rifiuta di obbedire agli ordini, sì» sostenne il Capitano. «Ma tutto questo finirebbe, se ci permettesse di curarla».

   «Ancora questa storia!» esclamò T’Vala. «Perché nessuno capisce che non sono malata? Ascolti, ormai sono fatta così» disse, indicandosi gli occhi opalescenti, «e voglio rimanerlo. È una mia scelta, sono libera di prenderla».

   «Lei è libera di scegliere cosa fare della sua vita» convenne Chase. «Ma non è libera dalle conseguenze delle sue azioni. Nessuno lo è. Non vede che più i suoi poteri aumentano, più diventa aggressiva con quanti la circondano? Pochi giorni fa ha ucciso a sangue freddo, contro un mio esplicito ordine. E così facendo ha fatto il gioco dei terroristi, perché in mancanza di testimoni non possiamo trattenere in cella i simpatizzanti. Quand’è tornata sull’Enterprise ha respinto in malo modo i dottori...».

   «I dottori!» sbottò T’Vala, esasperata. «Sono degli sciocchi, non sanno niente. Non hanno curato Neelah dalla Scourge. Ma io potrei farlo! Solo per questo andrei in infermeria. Mi permetta di salvarla... così vedrà di che sono capace».

   Chase valutò il rischio di togliere Neelah dal campo crono-statico, per affidarla a un ufficiale psichicamente instabile: era troppo elevato. Eppure, se Neelah si fosse ristabilita, forse avrebbe saputo curare a sua volta T’Vala. «Posso lasciare le cose come stanno... cioè malissimo... o correre il rischio. Forse risolverò due problemi in uno. O forse peggiorerò le cose» rimuginò.

   «Io le consiglio di rischiare» disse T’Vala, e Chase capì che gli aveva letto nella mente.

   «Da quando è esperta in medicina?» chiese il Capitano con una certa asprezza.

   «Ormai mi ci vuol poco a imparare» fece la timoniera con un’alzata di spalle. «Crede che i miei poteri siano solo distruttivi? Si sbaglia... posso riparare ciò che è guasto. Osservi!». Tese il braccio verso la sua lampada da meditazione, che giaceva in frantumi sul tavolino. «Torna intatta... lo voglio!» ordinò, visualizzando la struttura molecolare. Nella sua mente, i pezzi si mossero e i legami molecolari si ricostruirono. E così avvenne sotto gli occhi stupefatti di Chase: i cocci tornarono in posizione e le spaccature fra loro svanirono, lasciando la lampada integra, come se fosse appena uscita dalla bottega artigianale. Incredulo, il Capitano la raccolse e la osservò da tutte le angolazioni, senza trovare alcuna scalfittura.

   «Ebbene?» chiese T’Vala, in tono di sfida.

   «Un punto a suo favore» ammise Chase. «Ma l’organismo di Neelah è molto più complesso di questa lampada. Se togliamo il campo crono-statico, la Scourge potrebbe divorarla in pochi secondi».

   «Non mi serve di più. Disintegrerò i naniti fino all’ultimo» promise T’Vala.

   «E se gliene sfuggissero alcuni? Ricordi che usano le molecole di Neelah per moltiplicarsi. Se lei li disintegra, e intanto loro si replicano... potreste andare avanti fino a consumarla. No, non correrò un simile rischio. Non prima di aver esaurito ogni alternativa» decise il Capitano. Posò la lampada sul tavolino, con un tonfo secco.

   «E intanto mi terrà confinata qui, come una prigioniera? Impedendomi di fare buon uso del mio dono?» protestò T’Vala, delusa e incredula.

   «Se mi legge nella mente, sa quanto mi dispiace. Ma sa anche perché lo faccio» disse Chase, serissimo.

   «Sì, vedo bene che non cambierà idea» annuì la mezza Vulcaniana, stringendo gli occhi perlacei. «Sia come vuole... per adesso. Ma sappia che posso uscire quando voglio. E quando lo farò, nessuno potrà fermarmi» avvertì. Ora che era stata proferita, la minaccia gravò nell’aria calda e speziata, come il fumo delle candele vulcaniane. Il Capitano e la Tenente, un tempo legati da una fiducia incrollabile, si scrutarono come nemici, alle due estremità della stanza. Un gesto sbagliato poteva innescare lo scontro.

   «Lantora dice che adesso le piace contemplare l’Universo» disse inaspettatamente Chase. «Com’è?».

   «Incommensurabile» rispose T’Vala. «Posso sentire le stelle variabili che pulsano come cuori. Il canto delle nebulose a emissione, irradiate dalle stelle. Il cupo brontolio dei buchi neri che assorbono materia. E molto altro, tutto mescolato in un’armonia celestiale. Vorrei che tutti potessero sentirlo». Voltò le spalle al Capitano e tirò su le gambe, tornando a levitare nella posizione del loto. Chase lasciò cautamente l’alloggio, senza perderla di vista neanche per un momento.

 

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Capitolo 6
*** L'ultimo avamposto ***


-Capitolo 5: L’ultimo avamposto

 

   Sfuggita alla trappola nel Cimitero di Abaddon, l’Enterprise riprese la ricerca delle colonie e degli avamposti kelvani, seguendo la lista di Fanior. Ovunque andasse, l’astronave trovò pianeti e satelliti invasi dalla Scourge. Laghi di Melma Grigia punteggiavano quelli che un tempo erano mondi fiorenti. Tutta la materia organica era stata consumata, così come ogni vestigia di civiltà. I pochi frammenti di astronavi che apparvero sui sensori erano dovuti, verosimilmente, a scontri con i pirati, perché la Scourge non lasciava nemmeno un bullone al suo passaggio. Tutto era assorbito e trasformato in una densa zuppa di naniti auto-replicanti. Dai laghi color cemento si alzavano spesso le bolle di Scourge, che andavano a contagiare altri sistemi stellari. Sembrava non esservi altro che quello squallore in Andromeda. Ad ogni tappa, nuovi panorami desolati si offrivano ai federali e il cipiglio di Fanior s’induriva sempre più. «Eppure deve esserci rimasto qualcosa» ripeteva caparbiamente, ormai più a se stesso che agli altri.

   Con speranze ormai morenti, l’Enterprise raggiunse i margini dell’ennesimo sistema stellare. Questo era diverso dagli altri: il suo sole era esploso in supernova molto tempo prima, lasciando un residuo stellare ultradenso intorno a cui orbitavano ancora i resti dei pianeti. Erano rocce scure e frastagliate, senza atmosfera: il regno del gelo, dell’oscurità e del silenzio.

   «È una stella di neutroni» rilevò Terry, inquadrando ciò che restava dell’astro. «Diametro 15 km, per 1,5 masse solari. Ha una crosta di nuclei atomici ferrosi e un mantello di neutroni ed elettroni ionizzati. Il nucleo esterno è un condensato fermionico, quello interno un plasma di quark e gluoni» snocciolò con disinvoltura. «Si tratta di una pulsar: rilevo un campo magnetico di 1011 tesla, tra raggi X e raggi Gamma».

   «Su gli scudi» ordinò subito Chase.

   «Capitano, anche così raccomando di non avvicinarci a meno di 1 UA dalla pulsar» avvertì Terry. «Inoltre per nessun motivo dobbiamo entrare in collisione coi fasci elettromagnetici. Taglierebbero in due la nave, persino con gli scudi alzati».

   «Qual è la velocità di rotazione?» chiese Ilia.

   «Non altissima, considerando i parametri: 126 giri al secondo» rilevò l’IA. «I poli magnetici sono vicini ai poli geografici, perciò questo è il percorso dei fasci» aggiunse, elaborando un’immagine sullo schermo principale. I fasci elettromagnetici in rapido movimento formavano come due coni, attorno ai poli della pulsar. Questo faceva sì che non intercettassero mai l’orbita dei pianeti.

   «Che bel posticino ha scelto la sua gente per nascondersi» commentò Chase, dando un’occhiata a Fanior.

   «È il nascondiglio perfetto» rispose il Kelvano. «I campi elettromagnetici disturbano i sensori. Fortunatamente noi sappiamo dove cercare. Il nostro obiettivo è un planetoide di carbonio che si trova a circa 5 UA dalla pulsar. Gli altri pianeti, più interni, furono distrutti dalla supernova. Quello invece rimase tutto d’un pezzo, grazie alla distanza e all’elevata densità. È lì che l’Impero Kelvano costruì la sua base più segreta, a gran profondità sottoterra. Se non troveremo nulla... allora temo che non sia rimasto niente del mio popolo» ammise, chinando il capo.

   «Presumo che fosse un’installazione militare, o non si sarebbero dati tanta pena per nasconderla» commentò il Capitano. «Significa che, se ci sono, devono essere pesantemente armati. E con ciò che ha fatto la Scourge avranno i nervi a fior di pelle. Il buon esito delle trattative – e forse la nostra vita – sono in mano sua, Ambasciatore».

   «Lo so» disse Fanior con semplicità. «Al momento opportuno trasmetterò un codice militare di riconoscimento, ma prima dobbiamo accertarci che non ci sia la Scourge. Col propulsore cronografico fuori uso non potremmo sfuggirle».

   «La sua gente riconoscerà un codice vecchio di seicento anni?» chiese Lantora, scettico.

   «Non saprei, ma è la nostra sola possibilità. Non possiedo codici più aggiornati» ammise Fanior.

   «Ho rilevato il planetoide» avvertì Terry. «Diametro 5.455 km, ma l’estrema densità gli conferisce una gravità di tipo terrestre. Non rilevo astronavi in orbita, anche se è presto per dirlo, con questi campi magnetici».

   «Entriamo in occultamento e avviciniamoci con cautela» ordinò il Capitano. «Terry, sensori al massimo: cerchi di capire se c’è qualcosa. Finché non avremo conferme, resteremo in Allarme Giallo». Subito l’illuminazione di plancia cambiò da bianca a dorata, mentre lo stato d’allerta era comunicato a tutti i ponti. Chase si accomodò meglio sulla poltroncina e respirò a fondo, predisponendosi all’attesa. Fanior aveva ragione: se non trovavano qualche resto dei Kelvani lì, nella loro base più nascosta, difficilmente li avrebbero trovati altrove, anche se avessero spulciato la lista sino in fondo.

   L’Enterprise si addentrò nel sistema, occultata e con gli scudi attivi per proteggersi dalle emissioni della pulsar. Un silenzio teso regnava in plancia, mentre il planetoide s’ingrandiva sullo schermo. Era una vista mozzafiato, anche per quei veterani dello spazio. La stella di neutroni era una capocchia di spillo che brillava in lontananza, bianchissima e incandescente. Il suo formidabile campo elettromagnetico si allungava a dismisura nello spazio, disegnando una trama blu cobalto di gas ionizzati. Su quello sfondo onirico apparve il disco scuro del planetoide, che crebbe poco alla volta, svelando i suoi dettagli. Aveva due piccole lune e una tenue atmosfera, sopravvissuta chissà come al cataclisma della supernova, o forse riformatasi in seguito. Le emissioni della pulsar flagellavano il campo magnetico del pianeta, incanalandosi ai poli. Il risultato erano estese e perenni aurore, visibili come cerchi concentrici di tremuli bagliori verdastri. Era lo spettacolo più affascinante che i federali avessero visto dal loro arrivo ad Andromeda.

   «Scintillano le correnti celesti / ove naufragò il nostro amore, / ove l’ultimo addio tu mi desti...» mormorò Ilia. Il Capitano vide con stupore che piangeva.

   «Tutto bene, Comandante?» le chiese, meravigliato dalla sua reazione.

   «Sì, Capitano» annuì la Trill, tirando su col naso. «È solo che in questi giorni sono sotto l’influsso del mio decimo Ospite, Martis. Era un artista e un poeta, sensibile alla bellezza del cosmo. Questo spettacolo lo avrebbe profondamente commosso!» spiegò, asciugandosi le lacrime che scendevano copiose dagli occhi arrossati.

   «Di certo commuove lei» notò Chase, chiedendosi quando sarebbe finito quel maledetto zhian’tara, che ogni due settimane cambiava il carattere del suo Primo Ufficiale. Almeno Jadzia ed Ezri l’avevano influenzata positivamente, essendo ufficiali della Flotta. Ma ora toccava ai civili: prima Martis, l’artista ipersensibile, e per ultimo Zarden, l’architetto geniale ma scostante. Si augurò che Ilia non dovesse comandare l’Enterprise in battaglia, finché era influenzata dall’uno o dall’altro.

   «Vuole battezzare anche questo planetoide?» gli chiese Terry.

   «Certo» annuì Chase, che ci stava prendendo gusto. «Vediamo un po’... la sua superficie è molto fredda, vero?».

   «È appena al di sopra dello zero assoluto» confermò l’IA.

   «Allora chiamiamolo Tuonela, come l’Oltretomba della mitologia finnica» decise il Capitano. Durante il viaggio verso Andromeda aveva cominciato a leggere il Kalevala, poema epico finlandese. Anche se aveva interrotto la lettura, dopo l’incontro con la Scourge, i nomi dei personaggi e dei luoghi erano freschi nella sua memoria.

   «Annotato; procedo alle analisi» disse Terry. Per qualche minuto la plancia restò in silenzio.

   «Allora, capta niente?» chiese il Capitano, stupito da quell’insolita lentezza.

   «No, ma con tutti questi campi magnetici è difficile a dirsi» ammise l’IA.

   «Infermeria a plancia, rileviamo una presenza in questo sistema» giunse inaspettata la voce della dottoressa Vash’Tot, Medico Capo ad interim. Chase e Ilia si scambiarono un’occhiata smarrita.

   «Qui Chase... quale “presenza”? Ma soprattutto, come fate a rilevarla?» chiese il Capitano, dopo essersi premuto il comunicatore.

   «I resti cristallizzati del Custode... quelli che la dottoressa Neelah portò a bordo... stanno vibrando» fu la risposta. «Emettono anche un fischio acutissimo, ai limiti della percezione uditiva. Può significare una cosa sola: c’è un’altra forma di vita sporocistica nelle vicinanze. Abbiamo trovato i Nacene».

 

   La Rete Miceliare si estendeva all’infinito in tutte le direzioni, collegando spazio e tempo, intelletto e realtà, una dimensione con l’altra. L’aria era densa di spore e i tardigradi si aggiravano pigramente, come vacche al pascolo. Quel luogo di puro pensiero ed energia era ciò che i Nacene chiamavano Exosia, il Luogo della Mente: la loro vera casa, dove neppure la Scourge poteva inseguirli. In quella regione di pace fra un Universo e l’altro risuonarono voci incorporee.

   «Siamo stati scoperti. L’avamposto è perduto. La rovina incombe su di noi».

   «Al tempo! Non è la Scourge ad averci trovati. Si tratta di un’astronave... che viene da molto lontano. Da un’altra galassia. Perché è qui?».

   «Non ha importanza. Anche se non è il male, essa reca il male con sé. Qualcuno, a bordo, è stato infettato dalla Scourge».

   «Ma l’infezione non procede. Un campo crono-statico paralizza la Scourge. Molto ingegnoso».

   Una luce giallastra e pulsante aleggiò sul micelio, sfiorando le propaggini fungine. «Quella nave è piena di umanoidi... ricordo il sapore delle loro menti. Sono pieni di creatività... mi fanno venire fame... tanta fame...» disse una voce femminile, bramosa.

   «Modera il tuo appetito, Onaya» ammonì un’altra voce femminile, più autoritaria. «Mi occupo io dell’infetta. La scoverò e la distruggerò, prima che il male si propaghi». Una forma serpentina, cosparsa di corti tentacoli, strisciò nel micelio. Il suo corpo gelatinoso e trasparente pulsava della stessa luce viola e azzurrina di quell’ambiente mistico.

   «E dopo?» chiese la prima voce.

   «Dopo non è affar mio. Se quella nave v’inquieta, distruggetela. Sono solo umanoidi... piccole e fragili creature... inutili, insensate! È a causa degli umanoidi che siamo ridotti così». I tardigradi muggirono e si scostarono, spaventati dall’ira della creatura serpentina. «Mi mostrerò a loro... così che prima di morire possano gridare il nome di Suspiria!».

 

   La dottoressa Vash’Tot era una Ktariana di mezz’età, con una fila di piccoli corni gialli in mezzo alla fronte, che salivano dalla sommità del naso all’attaccatura dei capelli. «Questi sono i resti del Custode» disse, mostrando a Chase quel che sembrava una concrezione cristallina, lunga un palmo. «Ora sono quiescenti, ma poco fa tremavano e fischiavano, come se fossero entrati in risonanza con qualcosa. L’ultima volta che accadde si trattava di quell’altra Nacene, Suspiria».

   «Sì, ho letto i diari della Voyager» annuì il Capitano. Sollevò i resti mineralizzati, osservandoli da vicino. «È difficile credere che questa fosse una grossa creatura gelatinosa» disse soppesandoli; erano piuttosto pesanti.

   «Il suo corpo si contrasse e si cristallizzò durante il decesso» precisò la dottoressa. «Signore, i contatti della Flotta coi Nacene sono stati pochi e a dir poco burrascosi. La Voyager si trovò sostanzialmente in loro potere. Non vorrei che capitasse anche a noi».

   «Ne parlai con Neelah, durante il viaggio. Disse che avreste elaborato una contromisura...» accennò il Capitano, riponendo i resti del Custode nella loro teca.

   «Infatti; eccola qui». La dottoressa aprì un cassetto incorporato nella parete candida dell’infermeria e ne trasse uno strumento simile a un fucile phaser. Premette un comando, attivandolo. «È pronto a sparare» avvertì. «Non le nascondo che mi disturba... come medico dovrei curare le persone, non ferirle».

   «Nessuno le chiede di farlo di persona» assicurò Chase. «Lo dia pure al Maggiore Wu».

   Riluttante, la dottoressa consegnò l’arma al militare, che aveva accompagnato Chase in infermeria. Il Maggiore ne saggiò peso e maneggevolezza, e guardò nel mirino.

   «Questa è la replica – con alcuni miglioramenti – dell’arma che il Capitano Janeway usò contro Suspiria» spiegò la dottoressa. «Diffonde una tossina sporocistica in grado d’incapacitare i Nacene, per un breve periodo».

   «Quanto breve?» chiese il Maggiore.

   «Non si sa di preciso» ammise Vash’Tot. «Suspiria fu colpita e poi intrappolata in un campo di forza, ma subito dopo Janeway la lasciò andare, in segno di buona volontà. Non è chiaro se la creatura avesse già recuperato le sue capacità offensive».

   «Sempre meglio di niente» commentò Chase. «Vede, siamo usciti dall’occultamento e abbiamo trasmesso il codice militare di Fanior, ma da Tuonela non ci è giunta alcuna risposta. Se individueremo qualche installazione sotterranea, dovremo esplorarla. Può replicare una ventina di queste armi?».

   «Posso farlo» sospirò la dottoressa. «Teme che i Nacene siano in agguato?».

   «Non saprei, li conosciamo troppo poco. Ma nel dubbio voglio essere preparato. Da quando siamo in Andromeda abbiamo subìto un agguato dopo l’altro. La Scourge, i pirati... e le vittime aumentano». Il Capitano osservò cupo l’imboccatura del corridoio che portava alle sale di lunga degenza, dove Neelah giaceva nella capsula crono-statica. «Stavolta voglio avere una garanzia».

   Come se l’avessero udito, i resti del Custode presero a vibrare con violenza, tanto da urtare le pareti della teca. Emettevano un fischio acutissimo, estremamente sgradevole per le orecchie umane. Chase dovette chiudere il contenitore per avere un po’ di sollievo. «Sì, i Nacene devono essere vicini. Ma non sappiamo quanti siano. Non abbiamo nemmeno conferma che siano sul planetoide: potrebbero nascondersi altrove nel sistema» ragionò. «Finché non l’avremo appurato...». Il Capitano fu interrotto da un brusco scossone dell’infermeria.

   «Signore, siamo sotto attacco. Dieci astronavi sono uscite dall’occultamento e ci colpiscono» avvertì Terry tramite l’altoparlante. «Scafi e armi presentano analogie con il Leviathan, anche se le navi sono più piccole».

   «Abbiamo trovato i Kelvani, finalmente» constatò Chase, correndo verso la cabina di teletrasporto che corredava l’infermeria. «E manco a dirlo, ci sparano addosso! Resti qui di guardia, Maggiore» aggiunse quando fu sulla porta. Mentre l’Enterprise continuava a scuotersi, chiuse la cabina e si trasferì in plancia.

 

   Nel suo alloggio, T’Vala stava meditando a un metro da terra quando d’un tratto sussultò e spalancò gli occhi perlacei. Aveva percepito una nuova presenza a bordo dell’Enterprise. Qualcosa che non aveva mai incontrato prima. Era esotica... potente... e piena d’ira. Era venuta per uccidere. T’Vala amplificò al massimo le sue percezioni, cercando di localizzarla. L’infermeria... Neelah... ma certo, aveva senso. Gli abitanti di Andromeda non tolleravano che si portassero degli infetti presso le loro basi segrete. Ma chi era l’intrusa? Non una Kelvana. No, era qualcosa di molto più potente e pericoloso. Qualcosa che non aveva eguali sull’Enterprise.

   «Salvo me» si disse T’Vala. «Ora so perché ho ricevuto questo dono. Distruggerò l’intrusa... salverò la nave... e mostrerò a tutti il mio potere. Così avrò il rispetto che merito!». Tornò svelta in piedi e andò all’ingresso. Era bloccato dall’esterno, per ordine del Capitano. Poco male... un semplice gesto della mano e il meccanismo si sbloccò, permettendo alla porta di aprirsi. La mezza Vulcaniana fece per uscire, ma due guardie armate si frapposero, tenendola sotto tiro con i phaser.

   «Mi spiace, Tenente, ma lei è ancora confinata nel suo alloggio» avvertì una delle due. «Devo chiederle di rientrare subito». In quella la nave sobbalzò bruscamente.

   «Non sentite che siamo sotto attacco? C’è bisogno di me» obiettò la timoniera.

   «Desolato, ma gli ordini del Capitano sono tassativi» insisté la guardia.

   T’Vala sorrise condiscendente, mentre i suoi occhi brillavano di luce perlacea. Gli Umani erano come bambini... non gli si poteva fare discorsi troppo complicati. «Come, non sapete che gli ordini sono cambiati? Ora si richiede la mia presenza altrove. Svelti, non ho molto tempo» spiegò, aleggiando la mano davanti ai sorveglianti. I loro occhi divennero sfocati ed essi aggrottarono la fronte, cercando di ricordare gli ordini. Cos’aveva detto il Capitano? Ma certo... dovevano lasciarla andare.

   «Ci scusi, Tenente» disse l’uomo. Lui e il suo collega si scostarono, permettendo a T’Vala di uscire. «Le serve un’arma?» aggiunse, offrendole il phaser.

   «Molto gentile... ma sarebbe inutile. Non preoccupatevi, ho già tutto il necessario per cavarmela» spiegò la timoniera, sfiorandosi la tempia, e se ne andò di buon passo. Intanto l’Enterprise continuava a vibrare, sotto attacco.

   «Tenente Shil, le ordino di tornare immediatamente nel suo alloggio!» avvertì Terry dagli altoparlanti del corridoio. Cercò di agganciarla con il teletrasporto, ma T’Vala alterò il suo campo bio-elettrico per impedire l’aggancio. Allora Terry ricorse ai campi di forza: ne materializzò due, a qualche metro di distanza, intrappolando T’Vala al centro.

   «Il suo tentativo di fuga è destinato al fallimento. La prego di ottemperare agli ordini e di tornare nel suo alloggio, o si renderanno necessarie misure di contenimento più severe» ammonì la voce di Terry. Nei momenti d’emergenza come quello usava un formulario più rigido del solito, con termini pre-impostati che tradivano la sua natura d’Intelligenza Artificiale.

   «Se ti prendessi la briga d’usare i sensori interni, noteresti che ci sono una frattura subspaziale e un campo d’energia plasmatica in infermeria» disse T’Vala, quasi annoiata, accostandosi al campo di forza davanti a lei. Lo sfiorò, rendendolo visibile per un secondo.

   «È vero» ammise Terry. «Ha qualche teoria sulla loro origine?» chiese con una certa esitazione.

   «È una Nacene, no?» rispose T’Vala, infastidita dallo scarso acume dell’IA. «Forse proprio quella che cercavamo». La mezza Vulcaniana adattò il proprio campo bio-elettrico alla frequenza del campo di forza, attraversandolo come se fosse aria. «Senti, tu e gli altri pensate alla battaglia là fuori» consigliò, marciando con decisione verso l’infermeria. «Agli intrusi ci penso io».

 

   Dieci astronavi kelvane, più piccole del Leviathan ma molto più agili, circondavano l’Enterprise, sparando a tutto spiano con raggi antiprotonici e missili al tricobalto. La nave dell’Unione rispondeva alle bordate con le armi a raggi, ma i suoi scudi s’indebolivano più in fretta di quelli nemici.

   «Dobbiamo usare i siluri, o qui si mette male» disse Lantora, reggendosi alla consolle.

   «Non vorrei distruggere quelle navi» spiegò Chase, osservando i vascelli kelvani che entravano e uscivano dal campo visivo dello schermo. «Potrebbero essere quanto resta dell’Impero Kelvano e i nostri soli potenziali alleati».

   «Alleati?! Questi vogliono farci la pelle!» obiettò Lantora. «Scudi al 60%, non reggeremo a lungo».

   «Qualche idea?» chiese il Capitano, rivolgendosi a Ilia, che in momenti come quello era solitamente prodiga di consigli.

   «Tutta questa violenza... è insensata! Andiamo via!» gemette la Comandante. Era pallida e si aggrappava ai braccioli della sua poltroncina. Chase capì che non sarebbe stata d’aiuto, finché era sotto l’influenza di Martis.

   «Devo assolutamente parlare con loro» disse Fanior, facendosi avanti. «Signor Grog, si prepari a trasmettere un messaggio audio-video su tutte le frequenze. Capitano, signori ufficiali... devo chiedervi di spostarvi. I Kelvani non mi crederanno, se mi mostrerò in forma umana. Quindi devo riprendere il mio vero aspetto».

   I federali arretrarono precipitosamente, accalcandosi lungo le pareti della plancia. Fanior invece si recò al centro, fra le poltrone degli ufficiali superiori e quella del timoniere. Allargò le braccia e diede il via alla metamorfosi. Il suo corpo si gonfiò a dismisura, mentre cambiava radicalmente forma. Gli arti si rammollirono, divenendo tentacoli lunghi e flessibili. La pelle si fece grigio-scuro e ruvida. La testa fu come riassorbita dal corpo; i lineamenti svanirono. In plancia troneggiava ora un essere gigantesco, simile a un calamaro. La sommità del suo corpo sfiorava il soffitto, mentre i tentacoli si allargavano tanto da toccare le pareti opposte. Aveva quattro occhi bulbosi, grossi come piatti da portata. Essendo disposti in modo equidistante attorno al corpo, gli permettevano di guardare simultaneamente in tutte le direzioni.

   «C-canale aperto» balbettò Grog, arretrando il più possibile.

   Il Kelvano si schiarì la voce. Dalla sua bocca simile a un becco uscirono suoni bassi e raschianti, così inumani da far rabbrividire i presenti. Terry li tradusse con l’altoparlante, a beneficio dei federali.

   «Qui è Fanior, della colonia Kelva II, che vi parla. Sospendete immediatamente l’attacco! Sono uno di voi, e vi porto degli alleati, per aiutarvi nella lotta contro la Scourge. Vi abbiamo cercati per questo. Ogni conflitto fra noi non fa che avvantaggiare il nemico.

   Kelva II è una colonia kelvana nella Via Lattea; siamo i discendenti degli esploratori che inviaste secoli fa. Purtroppo entrando nella galassia abbiamo perso la nostra nave e con essa gran parte del database. Invece di dirottare subito un altro vascello per il ritorno, siamo rimasti per un certo tempo, approfondendo la conoscenza della Via Lattea. Abbiamo scoperto che ospita un gran numero di specie senzienti, perlopiù umanoidi. Molte di esse sono confluite in una vasta Unione, che di recente è emersa vincitrice da un duro conflitto. Ora l’Unione ha inviato questa nave – l’Enterprise – per stringere alleanza con l’Impero Kelvano. Abbiamo visto con orrore gli effetti della Scourge, anche su Kelva Primo. Abbiamo setacciato i vecchi avamposti, cercando superstiti... e finalmente vi abbiamo trovati. Smettete di colpirci, in nome di Kelva!».

   «Scudi al 20%» avvertì Lantora. «Se non ci danno retta...» lasciò in sospeso. Con il propulsore cronografico ancora fuori uso, c’era il rischio che l’Enterprise non riuscisse nemmeno a fuggire. Trascorsero alcuni interminabili secondi... e le navi kelvane sospesero l’attacco, pur mantenendo l’accerchiamento.

   «La nave di testa ci chiama» esalò Grog, sollevato.

   «Apra un canale» ordinò Chase. Si affiancò a Fanior, scavalcando alcuni dei suoi tentacoli; non voleva che l’Ambasciatore fosse l’unico a condurre le trattative. Stare accanto a quel polipone faceva un certo effetto. Sentiva il suo grosso corpo che si espandeva e contraeva a ogni respiro, per non parlare dell’enorme occhio vitreo che lo fissava. Ma quando l’interlocutore apparve sullo schermo non ci pensò più. Davanti a lui c’era un altro Kelvano, uno che non aveva mai visto gli umanoidi. Suoni gutturali uscirono dal suo becco corneo, tradotti da Terry con un ritardo di pochi secondi.

   «Sono Reshef, della Resistenza Kelvana. Mi scuso per l’attacco: il vostro arrivo ci ha colti di sorpresa. Ormai non speravamo più nel ritorno dei nostri esploratori, partiti tanto tempo fa. Il suo arrivo ci è gradito, Fanior; sebbene ci meravigli vederla su un vascello alieno. Ci sono altri Kelvani con lei? E questi umanoidi che l’accompagnano, sono forse al suo servizio?».

   Chase si accigliò. Stava per dire come stavano le cose, ma riuscì a dominarsi. Era preferibile che fosse Fanior a parlare, in questa prima e delicatissima fase.

   «No, sono l’unico Kelvano a bordo» ammise Fanior, con una certa riluttanza. «La nostra colonia è piccola, non può ancora costruire navi intergalattiche. Ed è stata danneggiata dal recente conflitto. Temo che nell’immediato futuro non potremo soccorrere la madrepatria. Ma questa Unione di umanoidi è piuttosto potente» riconobbe. «Quello al mio fianco è il Capitano Chase, che comanda l’Enterprise. Io sono qui come ambasciatore, per favorire il contatto fra i nostri popoli».

   «Capisco» disse Reshef. Anche se i Kelvani erano pressoché senza volto, s’intuiva una certa delusione in lui. «Lei si è trovato in circostanze difficili e ha dovuto adattarsi. Come vede, siamo stati costretti a fare altrettanto. Temo che non resti molto del nostro popolo. Se è stato su Kelva Primo conosce la gravità della situazione. La Scourge è ovunque e a noi resta solo un pugno di basi nascoste. Gli altri popoli di Andromeda non versano in condizioni migliori. Per questo abbiamo formato una Coalizione di specie, unite dallo stesso obiettivo: sopravvivere alla Scourge. Se gli umanoidi che l’accompagnano sono degni di fiducia, li accoglieremo nella Coalizione. Poiché ha vissuto con loro, li conoscerà bene: possiamo fidarci?».

   Chase fissò l’occhio tondo e sporgente di Fanior. Era l’ora della verità. Se i Kelvani avessero udito qualcosa di spiacevole, probabilmente avrebbero distrutto l’Enterprise. Dopo un’attesa da cardiopalma, Fanior rispose nella sua lingua raschiante.

   «Anche se l’Unione non è sempre stata al nostro fianco, non si può fargliene una colpa, data la grave crisi che ha attraversato» disse. «Ora che è in ripresa ha inviato questa nave, ritengo in buona fede. Mi fido del Capitano Chase e dei suoi ufficiali, che hanno mostrato lealtà e dedizione alla causa. A nome della colonia di Kelva II, vi esorto a fare altrettanto, nell’interesse della comune sopravvivenza».

   Non era la squillante apologia che Chase sperava, ma erano comunque buone parole. Il Capitano decise che era il momento di farsi udire. Cercò di adeguarsi alla parlantina dei Kelvani, sintetica e senza fronzoli: «Vi saluto a nome dell’Unione Galattica. Sono incaricato di trasmettervi l’offerta di pace del mio governo e vorrei contribuire alla vostra causa offrendovi rifornimenti. Anche se le nostre biologie sono diverse, dovremmo essere in grado di replicare beni utili per voi, avendone qualche campione. In cambio vi chiedo solo informazioni sullo stato di Andromeda: la sua geografia, i suoi popoli, l’attuale espansione della Scourge. Se siete parte di una Coalizione di specie, saprete quanto siano vantaggiosi questi scambi, per tutte le parti coinvolte». Terry tradusse all’inverso il messaggio, rendendolo comprensibile ai Kelvani.

   «La sua proposta... è accettabile» disse Reshef, dopo una breve riflessione. «Poiché gli interni della vostra nave sono piccoli per noi, le suggerisco di venire a bordo del mio vascello. Se gli altri leader della Coalizione saranno d’accordo, potremmo anche accogliervi nella nostra base sotterranea. Abbiamo molto di cui discutere. Ogni collaborazione è preziosa, in questi tempi bui».

   Chase scambiò un’occhiata incoraggiante con Ilia. «Sembra che la cara, vecchia diplomazia funzioni ancora» mormorò. Non si era sentito così speranzoso da quanto Neelah era stata contagiata. Fu una sensazione bella quanto effimera.

   «Capitano, c’è uno scontro in infermeria» avvertì Terry. «Rilevo alti livelli d’energia subspaziale e sporocistica. Abbiamo un Nacene a bordo... e si fa strada verso la capsula di Neelah».

   Le speranze di Chase si frantumarono come cristallo sotto uno schiacciasassi. «Questa nuova aggressione è intollerabile» disse, avvicinandosi allo schermo. «Se il Nacene è dei vostri, richiamatelo immediatamente!».

   «I Nacene sono incontrollabili, fanno ciò che vogliono» spiegò Reshef. «Quella che sta con noi si chiama Suspiria e ha già visitato la vostra galassia. Forse accetterà di parlarvi. Ma non prima di aver eliminato l’infetta che recate con voi: è troppo pericolosa».

   «No, lei è sotto controllo, in una capsula crono-statica!» disse precipitosamente Chase. «Richiami subito Suspiria!».

   «Desolato, Capitano, ma non risponde al nostro richiamo mentale» ammise il Kelvano. Stavolta Chase rabbrividì dopo aver sentito la traduzione dei versi gutturali.

   «Capitano, c’è un altro problema» avvertì Terry. «T’Vala è fuggita dal confinamento e si è gettata nella mischia. Insieme, lei e Suspiria hanno abbastanza energia ESP da devastare l’infermeria... e forse la nave. Quali sono i suoi ordini?».

   Chase e Lantora si scambiarono un’occhiata piena d’angoscia, consapevoli che le loro compagne correvano un pericolo mortale. E loro non potevano proteggerle. Trovando la Coalizione di Andromeda, avevano forse salvato l’Enterprise... ma avevano condannato chi stava loro più a cuore.

 

   Come in tutte le battaglie, il personale medico era all’erta, pronto a occuparsi dei feriti. Una squadra lasciò l’infermeria, ma il Maggiore Wu rimase, come gli era stato ordinato dal Capitano. Passeggiava su e giù, imbracciando il fucile a tossine. Poco lontano, su una mensola, i resti del Custode vibravano senza posa nel loro contenitore. Presto il Maggiore imparò a ignorarli. Sentendo la nave che sussultava si guardò intorno con apprensione, osservando il personale medico affaccendato nel ricevere i primi feriti. Era insolito, per lui, osservare lo scontro da questa prospettiva.

   D’un tratto lo sguardo gli cadde su una bambina bionda, che indossava un vestitino rosa d’altri tempi. Non ricordava d’averla vista entrare; eppure la bimba era lì. Se ne stava accucciata dietro una consolle medica, che la nascondeva alla vista dei dottori, e piangeva sommessamente. Preoccupato nel vederla ignorata da tutti, il Maggiore si avvicinò. A vederla le diede nove o dieci anni. Non sembrava ferita... ma allora perché era lì?

   «Ehi, piccola, hai bisogno d’aiuto?» chiese il Maggiore.

   «No, posso fare da sola» rispose la bambina, alzandosi. Era stranamente seria, nella voce e nello sguardo. Gli occhi, in particolare, avevano una fissità insolita. Forse era un segno di shock.

   «Come ti chiami?» chiese ancora il Maggiore, pensando che se non era ferita avrebbe dovuto accompagnarla dai suoi genitori, o da qualunque parente avesse sull’Enterprise.

   «Sono Suspiria» rispose la bambina, serissima. I suoi occhioni verdi fissavano l’Umano, senza sbattere mai.

   «Frell!» imprecò il Maggiore, alzando il fucile. Gli ripugnava spararle... ma quella cosa non era una bambina. Premette il grilletto. Un raggio bianco-azzurro colpì in pieno Suspiria e la tramortì.

   «No! Che ha fatto, pazzo?!» gridò la dottoressa Vash’Tot, vedendo la scena. Si precipitò accanto a Suspiria, priva di sensi, e la esaminò con un tricorder medico.

   «Non è una bambina, ma la Nacene che cercavamo!» si difese Wu. «Ha cambiato aspetto per confonderci... non è così?» chiese, temendo di aver commesso un terribile errore. Non aveva idea dell’effetto che la sua arma poteva avere su una vera ragazzina.

   «Io... non capisco, non ho alcuna lettura» si stupì la dottoressa. Ancora inginocchiata accanto alla bambina, alzò gli occhi verso il Maggiore... e strillò. Dietro all’uomo era apparsa una creatura gelatinosa e oblunga, coperta di tozzi tentacoli. Sembrava uscita direttamente dalla parete e pulsava di un’irreale luce azzurro-viola.

   Allertato dal grido, il Maggiore si voltò... ma non abbastanza rapidamente. La creatura lo colpì con la coda, trasmettendogli una scossa di plasma. Il Maggiore gemette e si accasciò, stringendo ancora il fucile, ormai in corto circuito. Nello stesso momento la bambina bionda si dissolse. La dottoressa capì che era solo una proiezione, generata da Suspiria per distrarli. Balzò in piedi e strisciò lungo la parete, allontanandosi dalla creatura gelatinosa. Anche gli altri medici, allertati dall’urlo e dall’aggressione, fecero il vuoto intorno a Suspiria.

   «Che vuoi? Qui non c’è nulla per te!» esclamò la dottoressa.

   «L’infetta... datemi l’infetta!». La creatura non aveva bocca, eppure tutti sentirono la sua voce, ringhiosa e terribile. Mosse senza esitazione verso le sale di lunga degenza.

   Ma la porta dell’infermeria si spalancò e T’Vala fece irruzione, con gli occhi che sfavillavano sul viso torvo. «Dove vai, brutta lumacona? A prendertela con chi non può difendersi? Bel coraggio! Affronta me, piuttosto!» la sfidò, levando il braccio verso di lei. Un’onda di elettricità statica percorse la sala da un capo all’altro, facendo rizzare tutti i peli.

   Suspiria girò su se stessa, come un cane che cerca di mordersi la coda, prima di fronteggiare la nuova arrivata. «E tu cosa saresti? Conosco le specie della vostra galassia e tu non corrispondi a nessuna. Sei un ibrido? Una cavia da laboratorio?».

   «Sono il prossimo stadio dell’evoluzione, stupido mollusco. Torna da dove sei venuta, alla svelta!» ringhiò T’Vala. Colpì Suspiria con una potente scossa elettrica, che sovraccaricò le consolle tutt’intorno a lei. La Nacene sussultò e la sua luminosità interna cambiò ritmo, mentre assorbiva il colpo. Intanto i medici lasciavano precipitosamente l’infermeria, portandosi dietro i pazienti. La dottoressa Vash’Tot portò via il Maggiore Wu, ancora privo di sensi, con l’aiuto di un infermiere.

   «Mi fai il solletico, insulsa bipede. Sei solo una ragazzina che gioca con poteri troppo grandi. Sono sopravvissuta a cose che non puoi immaginare... non mi fermerai!» minacciò Suspiria, passando al contrattacco. Scagliò contro T’Vala un’onda di plasma, che devastò l’infermeria. I bio-letti, le consolle mediche e i carrellini con gli strumenti furono schiantati, i loro frammenti liquefatti schizzarono ovunque.

   Per nulla intimorita, T’Vala incrociò le braccia davanti a sé, generando uno scudo energetico che la protesse. L’onda d’urto la fece comunque scivolare indietro di due passi. La mezza Vulcaniana si scostò i capelli dalla fonte, sfrigolante di rabbia. «Mi hai stancata!» sibilò. Tese il braccio verso Suspiria e la sollevò a mezz’aria, cercando di comprimerla fino a schiacciarla. La Nacene fece lo stesso, allungando uno pseudopodo, così che anche T’Vala si trovò a galleggiare in aria. Continuarono a battersi in quella posizione. L’energia dei loro attacchi, deviata in tutte le direzioni, fece esplodere gli oggetti: provette, contenitori, strumenti medici. Tutto ciò che non era ancora andato in corto circuito lo fece adesso. La concentrazione era tutto... T’Vala e Suspiria erano serrate in una gara di volontà, non meno che di potenza.

   «Ferme, tutt’e due!» gridò Lantora, entrando in infermeria con un fucile phaser spianato, ma fu respinto dall’intensità del combattimento. Scosse d’energia colpivano le pareti, aprendo squarci di metallo semifuso. L’intera rete energetica dell’Enterprise rischiava di andare in sovraccarico, sebbene Terry cercasse d’isolare la sezione.

   Poco alla volta le due combattenti si avvicinarono, sempre galleggiando a mezz’aria, finché furono quasi a contatto. «Terrò i tuoi resti cristallizzati come soprammobile!» promise T’Vala.

   «Pazza scatenata... non ti rendi conto... giochi con ciò che non comprendi...» avvertì Suspiria, ma dalla stanchezza nella sua voce s’intuiva che stava per ritirarsi.

   «Eh no, non mi scappi!» esclamò T’Vala, afferrando con forza il corpo viscido e senz’ossa dell’avversaria. «Ti seguirò anche all’Inferno!». Con un bagliore accecante, le contendenti svanirono dall’infermeria. Alcuni oggetti che erano stati sollevati dall’energia psico-cinetica caddero a terra, frantumandosi o sferragliando. Tutte le luci si spensero.

   «Beh?!» si chiese Lantora, affacciato sull’infermeria. «E questo che yotz significa?».

 

   T’Vala ebbe l’impressione di cadere, per un tempo indefinibile, ma fu attenta a non mollare Suspiria nemmeno per un istante. Non doveva perderla. Finalmente atterrarono da... qualche parte. La timoniera si guardò attorno meravigliata. Una strana vegetazione azzurra e viola cresceva in tutte le direzioni. Non c’erano foglie: solo steli, esili e luminescenti. L’aria era densa di spore galleggianti. Qua e là si aggiravano strani esseri, simili ai tardigradi che T’Vala aveva visto al microscopio: ma questi erano grossi come mucche. Tutto era confuso, come un riflesso nell’acqua.

   «Questa sarebbe casa tua? Ti serve la disinfestazione, giardiniera!» rise la mezza Vulcaniana.

   «Come hai fatto a seguirmi?!» protestò Suspiria, sconcertata. «Hai profanato Exosia... il Luogo della Mente, il Santuario della Pace... l’ultimo rifugio del mio popolo...».

   «Sì, sì, basta con queste stronzate!» l’interrupe T’Vala. «Riportami sull’Enterprise, così posso liquidarti davanti a tutti!».

   «Non capisci!» insisté la Nacene. Per facilitare la comunicazione riprese l’aspetto con cui si era già mostrata ai federali: una bambina bionda, con gli occhi verdi e il vestitino rosa. T’Vala non se ne lasciò impressionare e continuò a strangolarla.

   «Quelli che vedi intorno a noi non sono solo spore e funghi» spiegò Suspiria. «Sono le vene e i muscoli dell’Universo, ciò che tiene unite le galassie».

   «Credevo fosse la Materia Oscura».

   «Pensalo come un ecosistema con infinite strade, che portano ovunque, in tutto il Multiverso. Permettono a noi Nacene di viaggiare da una galassia all’altra e persino fra le dimensioni parallele...».

   «Ah, viaggiate coi funghetti? E come ve li fumate, arrotolati o in polvere?!» ridacchiò T’Vala.

   «Dico sul serio, insulsa bipede! Se qualcosa contaminasse questo micelio, la vita sarebbe distrutta in tutti gli Universi!».

   «Sei stata tu a portarci in questo posto assurdo, non io» obiettò la mezza Vulcaniana. «Riportaci indietro».

   «Voi umanoidi non dovete venire qui, o vi trascinerete dietro la Scourge. Se quella Melma troverà la strada per Exosia, sarà la fine di tutto il Multiverso...».

   «Bla, bla, bla. Senti biondina, vuoi portarmi indietro o no?!» insisté T’Vala, torcendole il collo.

   «Stupida figlia d’un tardigrado!» rantolò Suspiria. Schioccò le dita e la Rete Miceliare si dissolse intorno a loro, come un acquerello sbiadito. Tornarono nell’infermeria dell’Enterprise, o in ciò che ne restava. Materializzate a mezz’aria, caddero sul pavimento invaso di cocci e rottami. Erano stremate. Cercarono di rimettersi in piedi, ma stentavano a sorreggersi. I loro poteri erano ridotti al lumicino.

   «Ora basta!». Lantora era sulla soglia, alle spalle di T’Vala. Le sparò alla schiena con il fucile phaser, tarato su massimo stordimento.

   La mezza vulcaniana cadde in ginocchio. «Fermo... ormai l’ho messa al tappeto...» gemette, cercando di rialzarsi. Perdeva sangue dal naso e aveva la vista annebbiata.

   «Al tappeto ci vai tu, per il tuo bene» disse Lantora. L’afferrò saldamente da dietro e le svuotò un ipospray nel collo. Conteneva un cocktail dei più potenti sedativi usati dalla Flotta: ce n’era abbastanza da stendere un Gorn. T’Vala mormorò qualche parola incoerente e si accasciò tra le braccia di Lantora. Lo Xindi la sorresse e poi la prese in braccio. «Mi spiace, amore» sussurrò, osservandole il viso provato.

   «Ben fatto, Lantora» disse il Capitano Chase, entrando cautamente nell’infermeria devastata. «Se necessario metteremo anche T’Vala in una capsula crono-statica. Ma io spero che ci siano alternative: per esempio i nostri nuovi amici» aggiunse, rivolgendo la sua attenzione a Suspiria.

   «Non siamo amici» obiettò la bambina, rialzandosi. Era spettinata, con il vestitino in disordine, e parlava ancora con la voce demoniaca.

   «Invece sì; ho appena stretto un accordo con la Coalizione di Andromeda, cui anche tu appartieni» corresse Chase. «Ci scambieremo informazioni, provviste, eventualmente anche tecnologie. E tu non manderai tutto a monte... o la vostra Coalizione non sopravvivrà a lungo alla Scourge. Siete pochi e disperati: non potete inimicarvi anche l’Unione Galattica, quando potreste averla al vostro fianco».

   «Se le stiamo così a cuore, l’Unione poteva mandarci più di una nave!» brontolò Suspiria, riprendendo la voce sottile di una bambina.

   «Quando siamo partiti, ignoravamo che la situazione di Andromeda fosse tanto grave» spiegò il Capitano, avvicinandosi. «Dovete liberarvi dei vostri pregiudizi sugli umanoidi, o la Scourge si libererà di voi».

   «Vai dritto al punto, Umano. Mi ricordi un altro Capitano federale che conobbi tempo fa... Kathryn Janeway» disse Suspiria. Lo fissò dal basso verso l’alto, cercando di accomodarsi i capelli.

   «Beh, grazie» fece Chase, accettando l’insolito paragone. «Il tuo amico Reshef mi ha confermato che miravi alla capsula crono-statica. Non temere: la Scourge non può liberarsi. Tutti noi vorremmo tirar fuori Neelah, ma...».

   «Era la tua compagna, vero?» chiese la Nacene, che per quanto provata dalla lotta era ancora percettiva.

   Chase distolse lo sguardo, imbarazzato, ma pensò che sarebbe stato controproducente negare l’evidenza. «Lo è, sì» mormorò.

   «Mi dispiace. So cosa significa perdere la propria metà» mormorò Suspiria, persa in lontani ricordi. «Un tempo anch’io avevo un compagno. Voi lo chiamate il Custode, ma il suo vero nome era Apkallu. Ci amavamo tanto... anche se litigavamo a causa delle nostre idee, tanto che alla fine me ne andai. Quando seppi che era morto, divenni come folle. Persino dopo tanto tempo mi era tornata la rabbia, vedendo una nave federale. Ma sono stata ingiusta... è chiaro che non furono i federali a ucciderlo. Era molto più vecchio di me... morì per cause naturali. Mi aveva detto che sarebbe accaduto presto».

   Era strano vedere una bambina parlare in questi termini. Chase si chiese quale fosse la vera età di Suspiria. Il Custode aveva mantenuto la sua stazione attiva per almeno 2.500 anni, prima di morire, due secoli addietro. Quindi Suspiria aveva come minimo 2.700 anni... ma probabilmente erano molti di più. E il Custode era vissuto ancora più a lungo. Nulla di strano: l’Universo traboccava di entità per cui la vita umana era effimera. Persino alcuni alberi terrestri erano vecchi di millenni, essendo germogliati ai tempi dell’Antico Egitto.

   «Allora siamo amici? O almeno alleati?» chiese il Capitano, tendendo la mano alla bambina. Non sapeva bene come rivolgersi a lei, ma con creature così mimetiche era consigliabile adottare un linguaggio conforme all’aspetto che avevano scelto. O almeno così insegnava la Flotta.

   «Io non ho amici» rispose la bambina, tutta seria. «Ma un alleato... sì, posso averlo» annuì, stringendo solennemente la mano al Capitano.

 

   Per l’equipaggio dell’Enterprise fu l’inizio di un’esperienza straordinaria. Il Capitano e gli ufficiali scesero nella base dei Kelvani, scavata nelle profondità del planetoide, dove i campi magnetici della pulsar non arrivavano. Quello che un tempo era un piccolo avamposto kelvano si era espanso, raccogliendo esuli di varie specie, fino a diventare una base della Coalizione di Andromeda. Molti leader delle specie minacciate erano lì riuniti, con i loro entourage e alcune astronavi a proteggerli. Come il Cimitero di Abaddon era il punto di ritrovo dei predoni, così Tuonela era l’oasi della Coalizione. Era un luogo in cui rifornirsi, fare scambi, riparare i danni e curare i feriti. Un luogo per preservare il sapere del passato e pianificare il futuro.

   Quando fu chiaro che l’Enterprise non era una minaccia, le altre astronavi della Coalizione uscirono dall’occultamento. Il fatto che possedessero tutte quella tecnologia era già una prova del loro livello d’integrazione. L’Enterprise si trovò circondata così da uno zoo di astronavi, tra le più strane che avesse mai visto. E talvolta i proprietari erano ancora più strani.

   C’erano gli incrociatori dei Kelvani, dall’affilata forma a chiodo o a pugnale. Al loro interno vi erano sale labirintiche, piene di terrazze collegate da rampe, su cui si muovevano le grosse creature simili a calamari. I Kelvani furono stupiti nell’apprendere che i loro simili emigrati nella Via Lattea avevano preso l’abitudine d’imitare le forme umanoidi. Fanior affermò tuttavia che erano ancora Kelvani nell’animo e approfittò della permanenza sul planetoide per sfoggiare la sua forma originale. La base, infatti, era stata costruita dai Kelvani secondo le loro misure.

   C’erano le navi degli Ornithoidi, piccole e simili a sparvieri. I federali non poterono entrarvi perché, date le dimensioni dei proprietari, stanze e corridoi erano alti trenta centimetri. Gli Ornithoidi erano piccole creature bipedi, di colore giallo, parzialmente coperte di pelliccia blu. Visti da lontano somigliavano a uccellini, ma a un esame ravvicinato parevano piuttosto insetti, con arti anteriori a tenaglia. Ovunque andassero, i federali dovevano stare attenti a non calpestarli.

   C’era un’immensa astronave di forma cilindrica, dalla superficie scabra e senza contrassegni. Una sonda luminosa uscì dalla prua, inviando segnali che furono tradotti come il linguaggio di creature subacquee. Terry notò subito le evidenti analogie con la Sonda delle Balene, che nel 2286 aveva raggiunto la Terra e danneggiato il suo ecosistema, nel tentativo di comunicare con le megattere ormai estinte. L’Ammiraglio Kirk aveva dovuto viaggiare indietro nel tempo, su uno sparviero Klingon rubato, per riportare una coppia di megattere dal passato e scongiurare il disastro ecologico. Si scoprì che la Sonda delle Balene era il prodotto di un’antica specie subacquea di Andromeda. Per facilitare il coordinamento, Chase inviò il Consigliere Apsu a bordo. Lo Xindi Acquatico, infatti, era l’unico dei suoi ufficiali superiori che potesse parlare faccia a faccia con quegli esseri, chiamati Uiin. Contattato dopo essersi trasferito a bordo, il Consigliere affermò che andava tutto bene, anche se si sentiva come un delfino tra le balene.

   E c’erano esseri ancora più esotici, che vivevano nello spazio senza bisogno d’astronavi. Alcuni somigliavano a grandi meduse fluorescenti, con ampi ombrelli rigonfi e lunghissimi tentacoli filamentosi. Altre erano entità cristalline composte da un’infinità di ramificazioni, come immensi fiocchi di neve. Comunicavano con impulsi di gravitoni, una forma di linguaggio così esotica che persino Terry ebbe difficoltà a tradurla. Alcune entità, come i Nacene, non erano nemmeno del tutto corporee. Per quanto Chase e i suoi fossero veterani dello spazio, il loro sforzo di comunicazione era senza precedenti. In questo ambiente esotico, una cosa fu ben presto chiara: nella Coalizione non c’erano specie umanoidi. Chase fu più volte sul punto di chiederne il motivo, ma si trattenne, volendo prima sbrigare le faccende immediate. Decise che ne avrebbe parlato solo dopo aver raggiunto una certa confidenza con quella gente.

 

   Pochi giorni dopo, Chase passeggiava con Fanior e Suspiria – entrambi in forma umana – in una delle grandi caverne di Tuonela. Anche Terry, sbarcata dall’Enterprise grazie all’Emettitore Autonomo, si unì a loro. Mentre altre parti della base erano più rifinite, con corridoi e sale attrezzate, quella zona presentava ancora grotte naturali, con stalattiti che pendevano dalle volte e stalagmiti che si elevavano dal suolo.

   Quando entrarono nella caverna più grande, Chase fu meravigliato dalle sue dimensioni: non sembrava nemmeno di stare sottoterra. Alcuni fari incassati nelle pareti rocciose fornivano la necessaria illuminazione. Qua e là, la loro luce era riflessa da grosse gemme che spuntavano dalla roccia. Chase si avvicinò a osservarle. «Sono quarzi o...?» chiese.

   «Diamanti» spiegò Suspiria. «Questo planetoide di carbonio ne è pieno. Per noi non hanno un gran valore. Prendine pure, se ti servono».

   Chase si guardò attorno e scosse la testa, incredulo. Era come stare in un sogno... anzi, nella Caverna delle Meraviglie. Ma l’elemento più insolito era la strana flora cristallina che riempiva gran parte della grotta. Chase non sapeva come definire quegli “arbusti” di colore azzurro ghiaccio: sembravano un incrocio tra alberelli, fiori e penne. Ce n’erano di varie misure, ma con struttura e proporzioni sempre uguali. Chase sentiva che avevano qualcosa di strano, ma non capiva esattamente cosa. Quando vi passarono in mezzo li osservò attentamente. Stava per sfiorarne uno, ma Fanior lo richiamò: «Attento, Capitano. Quelli sono i fiori cristallini di Sashira, nativi di Kelva Primo. La loro chimica si basa sul silicio, perciò hanno foglie molto taglienti».

   «Grazie dell’avviso» fece il Capitano, ritraendo la mano. «Comunque sono bellissimi».

   «Già... pensi che possono crescere in una sola notte» disse Fanior, osservandoli malinconico. «Ce n’erano grandi foreste, sul mio mondo, prima che arrivasse la Scourge. Sono lieto che il mio popolo li abbia preservati. Non li avevo mai visti prima; li conoscevo solo grazie ai racconti».

   «Interessante... hanno una struttura frattale» notò Terry.

   Ecco la stranezza che non riusciva a focalizzare, si disse Chase. I fiori cristallini erano frattali, vale a dire che ripetevano più volte lo stesso modulo: le foglie erano uguali ai rami, che erano uguali alla pianta nel suo complesso. Ogni pezzo, se ingrandito, aveva la stessa forma dell’intero, per cui una foglia trapiantata era un esemplare completo.

   «Lei è un’acuta osservatrice» riconobbe Fanior. «Le forme di vita del mio pianeta, specialmente quelle inferiori, hanno spesso una struttura frattale. È un trucco dell’evoluzione, perché in tal modo serve poco DNA: basta inventare un modulo e replicarlo all’infinito. Come può immaginare, la frattalità si è molto attenuata nelle forme di vita superiori, come noi Kelvani. Eppure ancora oggi abbiamo dieci tentacoli, e ogni tentacolo si divide in dieci sulla punta. Quindi abbiamo qualcosa in comune col Sashira, dopotutto».

   «Anche sulla Terra erano diffusi gli organismi frattali, nel periodo Ediacarano, fra 635 e 541 milioni di anni fa» commentò Terry, attingendo al suo inesauribile database. «Poi la frattalità cadde in disuso, soppiantata dalla simmetria bilaterale che vede nel corpo umano».

   «Qui ad Andromeda è ancora piuttosto diffusa» commentò Suspiria.

   «Uhm... visto che siamo in argomento, c’è una cosa che volevo chiedervi» disse Chase. «Ho notato che non ci sono umanoidi nella vostra Coalizione. Potrei saperne il motivo? È una vostra scelta o...».

   «No, il fatto è che non ci sono proprio umanoidi ad Andromeda. Né nelle altre galassie, per quanto ne so» rivelò la Nacene.

   «Questo corrobora una nostra teoria» commentò il Capitano. «Noi crediamo che tutti gli umanoidi siano stati creati – o almeno favoriti nell’evoluzione – da un’antichissima specie Proto-Umanoide. Siccome questi Progenitori erano nativi della Via Lattea, anche gli umanoidi successivi sono un’esclusiva della nostra galassia. Li abbiamo cercati in lungo e in largo, ma sembra che siano estinti. Ci restano alcune megastrutture, la loro firma genetica e poco altro. Voi ne sapete niente?».

   «Noi Nacene siamo molto antichi, la nostra memoria storica risale a milioni d’anni fa» rispose Suspiria. «Potremmo sapere qualcosa al riguardo. Ma questo discorso porta a un approdo oscuro. Non voglio parlarne, per ora» disse, scrutando Chase con profondi e insondabili occhi verdi.

   Per il Capitano fu un brutto colpo. Scambiò un’occhiata inquieta con Terry, ma decise di non insistere, per il momento. «Va bene... allora parliamo della tua gente. Da dove vengono i Nacene? E tu in particolare come sei finita nella Via Lattea, e poi di nuovo qui?».

   «È una lunga storia... ma te la dirò, per farti capire la nostra situazione» acconsentì Suspiria. «Come sai, noi Nacene siamo forme di vita sporocistiche. Molti di noi vivono ad Andromeda, ma in realtà non siamo nativi di qui. Ci siamo evoluti a Exosia, il Luogo della Mente».

   «Un universo alternativo? Ne conosciamo alcuni» disse Terry.

   «No, è molto di più» spiegò Suspiria. «Exosia è il terreno fertile dal quale germogliano tutti gli Universi. È il fondamento del Multiverso. Pensatelo come qualcosa di vivo... un ecosistema che si estende all’infinito, una fitta foresta che attraversa e collega ogni cosa».

   «Yggdrasill, l’Albero del Mondo...» mormorò Chase. «Anche certi popoli terrestri percepivano il cosmo in forma arborea».

   «È più miceliare, in realtà» precisò Suspiria. «Una fitta rete di funghi e spore, che pochi esseri riescono a percepire e a sfruttare. Per quegli eletti, lo spazio e il tempo come li intendete voi non hanno valore. Ne avete già incontrati alcuni: i Q, i Douwd, i Viaggiatori. E poi ci siamo noi, i Nacene: non così forti, purtroppo, ma nemmeno deboli».

   «La teoria della Rete Miceliare era nota alla Flotta, ma cadde nel dimenticatoio» intervenne Terry. «So che ci furono degli esperimenti, nel XXIII secolo; ma la Sezione 31 secretò tutto».

   «Forse temevano di compromettere la Rete, se l’avessero sfruttata troppo» ipotizzò Chase. «Vai avanti, Suspiria».

   «Noi Nacene abbiamo un’innata capacità di attraversare il micelio, il che ci permette di superare distanze enormi, persino intergalattiche. In quella dimensione torniamo a rifugiarci nei momenti di pericolo, perché in questo Universo esistono alcune cose in grado di ucciderci».

   «Perciò quando sei scomparsa in infermeria, durante la lotta...» comprese il Capitano.

   «Sono tornata a Exosia, per riprendermi, ma la tua timoniera mi ha seguita fin lì» confermò Suspiria. «Se la Scourge facesse altrettanto, sarebbe la fine. Se quella Melma contagia il micelio... se lo assorbe o lo fa marcire... il fondamento del Multiverso crollerà» rivelò, visibilmente spaventata.

   Il Capitano vacillò. Era il pericolo più allucinante che avesse mai sentito... peggio della Guerra Temporale. E dire che Suspiria si era rifiutata di parlare dei Proto-Umanoidi, perché lo considerava un argomento oscuro! Cosa poteva esserci di peggio che la distruzione dell’intero Multiverso?

   «Parlaci ancora della tua specie, ti prego. Vi conosciamo così poco...» disse Terry. «Sappiamo che siete in parte energetici e in parte corporei. E che avete grandi abilità metamorfiche, sebbene il vostro aspetto naturale sia gelatinoso. Il Custode era una massa amorfa larga due metri, mentre tu sei più sottile e piena di appendici. Si può considerare un dimorfismo sessuale?».

   «In parte... ma la differenza era esasperata dal fatto che il mio compagno stesse morendo, quando i federali lo videro» spiegò Suspiria. «In circostanze normali anche i maschi sono agili come me, e possono estroflettere i tentacoli. Quando moriamo, la nostra componente energetica ci abbandona e resta solo la parte fisica, che si contrae e solidifica. Resta un cristallo opaco... come quello che ho visto nella vostra infermeria. Era lui, vero? Ciò che resta del mio compagno. Avete dato ben misero onore alle sue spoglie».

   «Di questo devo chiederti perdono» si scusò Chase. «Sapevamo che il cristallo entra in risonanza coi Nacene ancora vivi che si trovano nei paraggi, quindi lo abbiamo portato con noi, sperando di usarlo come rilevatore. Ma ora non ci serve più. Te lo restituiremo, perché tu possa onorarlo secondo le vostre usanze».

   «Lo farò; così sarà in pace, finalmente» disse Suspiria, malinconica.

   «Hai detto che la vostra capacità di viaggiare è innata. Però possedete anche tecnologie molto progredite, non è così?» chiese Terry, assetata di conoscenze.

   «Sì, abbiamo avuto milioni di anni per affinarle» confermò Suspiria. «Le abbiamo indirizzate all’ampliamento delle nostre facoltà naturali. È così che possiamo trasferire intere astronavi a distanza, come accadde alla Voyager. Data la facilità con cui spostiamo noi stessi e gli oggetti, tendiamo a costruire non tanto astronavi, ma piuttosto basi spaziali, che posizioniamo dove ci serve».

   «Le vostre capacità vi saranno utili contro la Scourge» notò Chase.

   «Abbastanza» annuì Suspiria. «Possiamo sfuggirle se c’insegue e possiamo portare in salvo anche gli altri. Questo ci ha dato prestigio nella Coalizione. Ma abbiamo più difficoltà ad attaccare. Abbiamo potenziato gli armamenti delle nostre stazioni, ma la Scourge si moltiplica così in fretta che non riusciamo a respingerla. Forse dipende dal fatto che, essendo così longevi, ci è difficile adattarci ai cambiamenti improvvisi. Ma dipende anche dal nostro stile di vita... la nostra organizzazione politica, come direste voi».

   La Nacene colse un rametto azzurro di Sashira e prese a giocherellarci, osservando la finissima struttura frattale. «Dato che possiamo andare dove vogliamo, non abbiamo mai avuto un governo centralizzato. La nostra società è divisa in Clan, ciascuno presieduto da un leader, scelto per anzianità e poteri. I Clan possono collaborare, ma ciò avviene di rado, e anche all’interno di una fazione i singoli individui hanno ampia libertà di manovra. Nemmeno l’espansione della Scourge ha indotto i Clan a riunirsi, perché la maggior parte di noi pensa che restando separati saremo più protetti. Se una fazione è distrutta, ciò non compromette la sicurezza delle altre».

   «Tu però hai scelto diversamente; collabori con la Coalizione» notò Chase.

   «La mia vita è stata diversa da quella degli altri Nacene» sospirò la bambina. «Nacqui nel Clan degli Esploratori, che si spostava tutto insieme da una galassia all’altra. Quasi tre millenni fa visitammo la Via Lattea, a partire dalla periferia del Quadrante Delta. Qui scoprimmo gli Ocampa, che c’intrigarono per via delle loro facoltà mentali. Era insolito incontrare degli umanoidi con poteri così simili ai nostri, perciò ci fermammo fra loro. Volevamo aiutarli a sfruttare il loro potenziale... purtroppo alcuni di loro persero il controllo. Ci fu una lotta che devastò il pianeta, trasformandolo in un deserto rovente e invivibile.

   A torto o a ragione, noi Nacene ci sentimmo responsabili del disastro. Perciò, quando il Clan ripartì, Apkallu e io restammo con gli Ocampa superstiti, per prenderci cura di loro. Eravamo partner, sebbene lui fosse molto più anziano di me, e fummo così sciocchi da accollarci un simile incarico. Apkallu s’installò su una grande stazione spaziale, da cui riforniva d’energia l’ultima città Ocampa, costruita sottoterra per proteggerli dall’ambiente ostile e dai razziatori alieni. Il suo atteggiamento paternalistico fece sì che gli Ocampa lo considerassero un dio benevolo – lo chiamavano il Custode – e dimenticassero poco a poco i loro poteri mentali. Io ero scettica, ma per parecchio tempo lasciai correre. Vedete, quella situazione doveva essere temporanea, in attesa che la superficie di Ocampa tornasse abitabile. Ma il tempo passava e nessuno voleva sobbarcarsi la ricostruzione; così il ripiego temporaneo divenne un inalterabile status quo.

   Col passare dei secoli, divenni sempre più esasperata. Ero più giovane di Apkallu e non sopportavo di crogiolarmi nell’inerzia; volevo riprendere l’esplorazione! E pensavo che avessimo ripagato abbastanza gli Ocampa. Ma Apkallu era diventato vecchio e pigro, e non ne volle sapere. Dopo un terribile litigio, in cui arrivammo a combatterci, decisi di lasciarlo. Mentre mi allontanavo, gli lanciai un ultimatum: “O vieni con me, o non mi vedrai più!”. Non lo vidi più» sospirò, gli occhi bassi e mesti.

   «Comunque non avevo dimenticato gli Ocampa» riprese la Nacene dopo una breve pausa. «Presi alcuni di loro, che condividevano la mia passione per l’avventura, e li portai lontano, nella mia stazione personale. Libera dall’ingombrante presenza di Apkallu, potei finalmente governarli a modo mio. Gli insegnai di nuovo come sviluppare i loro poteri mentali, così che potessero difendersi da soli. E li aiutai a estendere il loro arco vitale, originariamente di soli nove anni».

   «Quando la Voyager incontrò la tua stazione, gli Ocampa erano ancora molto legati a te» notò Chase. «Ti trattavano quasi come la leader di una setta» aggiunse, velatamente accusatorio.

   «Sì, beh, ammetto che la cosa mi piaceva» sogghignò Suspiria. «Per la prima volta da secoli mi sentivo importante e apprezzata. Poi Apkallu morì, lasciando gli Ocampa in una situazione precaria, con pochi anni di scorte energetiche nella loro città. Dopo di che, avrebbero dovuto tornare in superficie e cavarsela da soli. Percepii la sua morte a distanza e mi sentii in colpa... mi dissi che forse, se non l’avessi abbandonato, sarebbe vissuto più a lungo. Quando seppi che la Voyager era presente alla sua morte, e aveva distrutto la sua stazione, non ci vidi più. Ne feci il mio capro espiatorio. Credetti persino alle menzogne dei predoni Kazon, sul fatto che i federali avessero ucciso Apkallu. Così, quando la Voyager raggiunse la mia stazione, cercai di uccidere il Capitano Janeway. Venni sconfitta... e Janeway avrebbe potuto uccidermi, ma mi lasciò andare. Dovevo capirlo che non era colpevole. Ma ero ancora rabbiosa, e umiliata dalla sconfitta, perciò me ne andai, rifiutando ulteriori contatti. Costrinsi la Voyager a penare ancora per anni nel Quadrante Delta, prima di tornare a casa. Per Exosia, che sciocca sono stata!». Gettò via il rametto di Sashira con gesto brusco.

   «Negli anni seguenti tornai su Ocampa, per aiutare i miei protetti a costruire un insediamento sulla superficie e a sbloccare i loro poteri mentali. Cercai anche di ricontattare il mio Clan, per spiegare l’accaduto e chiedere rinforzi. Temevo che i miei simili mi avessero dimenticata e questo mi feriva. Gradualmente mi resi conto che il loro silenzio prolungato indicava un problema molto più grave. Così dissi addio agli Ocampa, giudicandoli ormai capaci di provvedere a se stessi. Il mio antico debito era ampiamente ripagato; ora dovevo riprendere in mano la mia vita e capire cosa stava succedendo qui. Tornai ad Andromeda solo per trovarla devastata, al punto da essere irriconoscibile. In pochi secoli la Scourge aveva cancellato migliaia di specie, distruggendo anche alcuni Clan Nacene... compreso il mio». L’espressione della bambina s’indurì. Chase provò compassione per lei: malgrado i suoi poteri, era passata attraverso esperienze tremende.

   «La maggior parte dei Clan era fuggita in galassie remote. Quelli rimasti erano ancora divisi, sperando che ciò favorisse la loro sopravvivenza. Ma io avevo osservato per secoli gli umanoidi della Via Lattea, imparando che l’unione fa la forza» ammiccò Suspiria. «Così raccolsi intorno a me alcuni Nacene sbandati, creando un gruppetto tutto mio: il Clan degli Esuli. Poi feci qualcosa che non aveva precedenti nella storia Nacene: mi alleai con altre specie di Andromeda, anche loro ridotte allo stremo. Dall’unione di questi gruppi fuggiaschi è nata la Coalizione. Condividendo il sapere e le risorse, speriamo di trovare un modo per sconfiggere la Scourge, o almeno arginarla. Ma devo ammettere che finora i risultati non sono quelli sperati. Riusciamo appena a rallentare la Scourge, dando ai pianeti minacciati un po’ più di tempo per l’evacuazione. Ma la Melma continua ad aumentare e presto ci sommergerà» disse con una nota di disperazione.

   «Quanto tempo resta, prima che Andromeda ne sia riempita?» chiese il Capitano.

   «Pochissimo, ormai... ma ne parleremo alla riunione coi capi della Coalizione» glissò Suspiria.

   Chase notò che, a dispetto della sua età, la Nacene aveva ancora un atteggiamento umorale. Decise che era meglio non insistere. «Prima di allora vi farò avere i rifornimenti che ci avete chiesto» promise. «C’è quasi tutto... abbiamo solo qualche difficoltà a replicare il cibo degli Uiin, ma il mio Consigliere è sulla loro nave per discuterne. E l’Enterprise sta nutrendo le Meduse Spaziali con impulsi energetici del deflettore».

   «Apprezzo il vostro aiuto» ringraziò Suspiria. «Posso fare qualcosa in cambio?». Era la domanda in cui Chase e Terry speravano.

   «I Kelvani ci hanno già consegnato il database su Andromeda, lo sto traducendo» disse Terry. «Quanto alle riparazioni dell’infermeria, procedono. Il problema sono i pazienti».

   «Ho colpito il Maggiore con una scarica non letale. Dovrebbe riprendersi completamente» garantì la bambina.

   «Si è già ripreso» chiarì l’IA. «Mi riferivo a T’Vala e Neelah».

   «Il vostro primo incontro non è stato cordiale, ma devo chiedertelo: la Coalizione conosce nulla che potrebbe salvarle?» aggiunse Chase.

   «Per Neelah, temo di no» disse Suspiria. «Anzi, vi faccio i complimenti per avere almeno bloccato l’infezione con quella capsula. È già un risultato notevole».

   Chase si era imposto di non farsi troppe illusioni, ma la risposta fu ugualmente un brutto colpo. Se nemmeno la Coalizione, con tutta la sua esperienza nell’opporsi alla Scourge, poteva salvare Neelah, come ci sarebbero riusciti i dottori dell’Enterprise? Al pensiero che la sua amata fosse inguaribile, il Capitano si sentì soffocare. Si disse che avrebbe continuato a cercare la cura. Ma quanto poteva cercare... quanto poteva illudersi, prima di arrendersi? La promessa strappatagli da Neelah infestò i suoi pensieri, tormentandolo, ma Chase ricacciò quel pensiero. Non era ancora il momento di gettare la spugna.

   «E per quanto riguarda T’Vala, potete aiutarla?» chiese Terry, intravedendo uno spiraglio.

   «Io personalmente non posso riportarla alla normalità» spiegò la Nacene. «Ma conosco qualcuno che forse potrebbe. Non vi prometto niente, ma... andiamo a parlarle. Sento che è qui nei paraggi».

   Suspiria si portò in testa al quartetto e lo guidò nella foresta di Sashira, fino a uno spiazzo. Qui trovarono Ilia, distesa su un masso dalla sommità piatta, circondata dai fiori di silice. Scriveva su un d-pad e ogni tanto declamava versi poetici. Era così concentrata nel suo sforzo creativo che non si accorse dei nuovi arrivati.

   «È ancora sotto l’influsso di Martis» sussurrò Chase. «Perché ci hai portati da lei? Non può aiutare T’Vala. Se sapesse qualcosa di utile, me lo avrebbe già detto».

   «Non mi riferivo a lei» bisbigliò Suspiria. «Guarda!».

   Dall’intrico di Sashira sbucò un’aliena nerovestita. Contrariamente a quanto affermato da Suspiria sui popoli di Andromeda era umanoide. Aveva capelli castani tirati all’indietro, che evidenziavano la fronte bombata, con tre lievissime creste. Gli occhi erano gialli, magnetici; un sorriso enigmatico le aleggiava sul viso. Ignorando i nuovi arrivati si accostò a Ilia, ancora distesa sul masso. S’inginocchiò dietro di lei e le pose le mani sulle tempie, con la sicurezza di chi compie un’azione abituale.

   Incredibilmente Ilia non si accorse di nulla. Continuò a spolliciare sul d-pad, declamando ad alta voce i suoi versi man mano che li scriveva. Ma poco alla volta le sue braccia si fecero molli, come se stesse esaurendo le forze. Alla fine impostò il d-pad sulla registrazione vocale e se lo posò sul petto, lasciando ciondolare oziosamente le braccia ai lati del masso. Continuò a poetare, ma la sua voce era sempre più impastata. Nel frattempo l’umanoide misteriosa le massaggiava le tempie, eseguendo un movimento lento e circolare con gli indici.

   «Che diavolo le sta facendo quell’essere?» bisbigliò Chase, lanciando un’occhiataccia a Suspiria.

   «Si chiama Onaya» rivelò la Nacene. «Non farti ingannare dal suo aspetto: ti è più estranea di quanto lo sia io. Anche lei può accedere a Exosia, ma non ho mai saputo se ci sia nata. Ce ne sono pochi come lei, per fortuna. Ha una capacità molto peculiare... osserva con più attenzione!».

   Chase aguzzò la vista e notò un bagliore dorato che aleggiava intorno alle tempie di Ilia e alle dita di Onaya. La luce baluginante sembrava uscire dalla Trill, venendo assorbita dall’entità, i cui occhi scintillavano gialli.

   «Sarebbe una specie di... vampiro?» inorridì il Capitano.

   «Indubbiamente ha una natura parassitica» ammise Suspiria. «Si nutre d’energia neurale, specialmente di quella che chiamate creatività. È da un po’ che bazzica qui. Noi la teniamo a stecchetto, ma ogni tanto le permettiamo di mangiare, perché nel processo stimola al massimo la nostra inventiva, e questo ci torna utile. Ma non bisogna darle troppa corda, altrimenti prosciuga le vittime fino a ucciderle...».

   «Ho sentito abbastanza». Chase uscì allo scoperto e mosse con decisione contro Onaya, cogliendola alle spalle. Non era armato, ma strappò una delle foglie silicee di Sashira e la usò come lama improvvisata, puntandola alla gola dell’entità. In circostanze normali non sarebbe stato così aggressivo. Ma tra le condizioni di Neelah e la minaccia incombente della Scourge, aveva un diavolo per capello. «Basta così. Qualunque cosa tu sia, hai finito di prosciugare il talento del mio Primo Ufficiale» sibilò all’orecchio dell’aliena.

   «Prosciugare? Io lo sto esaltando, Capitano Chase» corresse Onaya, interrompendo la sua attività. Si alzò e cercò di girarsi, ma Chase la tenne stretta da dietro, con la forza del suo braccio meccanico.

   «Mi conosci?» chiese il Capitano, senza allentare la stretta. Le stava ancora puntando al collo la foglia tagliente come un rasoio.

   «Ma certo... percepisco i talentuosi a galassie di distanza» sorrise Onaya, per nulla intimorita da quell’arma improvvisata. «Suvvia, mi lasci andare... crede davvero di ferirmi con quella? Non sono fatta di materia, né d’altra cosa che possa comprendere, anche se spesso mi rivesto di forme solide. Pensi a me come a un’entità astratta... una forza concettuale» disse, con un sorriso enigmatico.

   «Non m’importa di che sei fatta. Sono qui per proporti un accordo» disse Chase, lasciandola finalmente andare.

   «Ah, Capitano, ha già intuito la mia debolezza: non so resistere agli accordi! Mi dica tutto» s’interessò Onaya.

   Nel frattempo Ilia cominciava a riaversi. Si passò le mani sul volto, come svegliandosi dalla trance, e si rialzò, facendo cadere il d-pad con la poesia incompiuta. Si guardò intorno sbattendo gli occhi, ancora assonnata, cercando di capire la situazione. Solo adesso notava le persone che le si erano radunate intorno. Terry la prese da parte, spiegandole l’accaduto, mentre il Capitano discuteva con Onaya.

   «Mesi fa abbiamo attraversato la Grande Barriera della Via Lattea» spiegò Chase. «Da allora uno dei miei ufficiali, di nome T’Vala, sta sviluppando energie neurali fuori scala. Questo la rende sempre più instabile e aggressiva. Siamo arrivati al punto in cui minaccia seriamente la nave. Puoi farci qualcosa?».

   «Lei m’invita a banchetto!» sorrise Onaya. «Di solito prendo solo la creatività, ma... con qualche accorgimento posso assorbire anche il resto dell’energia neurale».

   «Bada bene, T’Vala dovrà tornare esattamente com’era prima di attraversare la Barriera» raccomandò Chase.

   «Assorbirò solo il surplus d’energia; ce n’è abbastanza da saziarmi» promise Onaya, leccandosi le labbra. «Che incontro fortuito, il nostro... non mi aspettavo d’incontrare altri umanoidi, quando ho lasciato la Via Lattea» aggiunse, suggellando l’accordo con una vigorosa stretta di mano.

   «Sei stata nella nostra galassia?» si stupì Chase.

   «Certo, è un ottimo terreno di caccia per me e i miei fratelli» rivelò Onaya. «È un bene che non li abbiate incontrati: uno si nutre di paura, l’altro di rabbia e odio. Loro non scendono a patti... ma io sì!» disse con un sorriso inquietante. «Portatemi da T’Vala: non c’è ragione di attendere».

   «Ci servirà un po’ per prepararla. Al momento non è molto collaborativa» sospirò Chase.

   «Se non volete che metta a soqquadro la vostra nave, portatela qui» propose Suspiria. «Abbiamo caverne profonde, in cui non farà danni».

   «Grazie dell’offerta, l’accetto volentieri» disse il Capitano, sperando di aver fatto la scelta giusta per T’Vala. Sapeva che, se qualcosa fosse andato storto, Lantora non glielo avrebbe mai perdonato.

 

   Nelle ore successive Chase fu impegnato in altre faccende riguardanti i rapporti con la Coalizione, per cui delegò il problema di T’Vala ai suoi ufficiali. Ma quando lo avvertirono che era tutto pronto all’operazione non poté esimersi dal presenziare. Non era l’unico: molti altri colleghi e amici di T’Vala volevano farle sentire la loro vicinanza, in quel momento catartico.

   Con una certa ansia, il Capitano scese nella caverna più profonda di tutta l’installazione, un centinaio di km sotto la superficie del planetoide. Era una grotta tetra, con il pavimento di nuda roccia, scure pareti basaltiche e una volta rimbombante. Al centro si elevava un altare di granito, su cui era stata deposta T’Vala, che vestiva una tuta scura. Complessi campi di forza la tenevano immobilizzata, con le braccia lungo il corpo e le gambe unite, come una mummia. Non poteva nemmeno girare il capo. Le erano stati somministrati potenti sedativi, ma il loro effetto cominciava a svanire, grazie ai suoi poteri sempre più intensi.

   Ai lati dell’altare erano ammucchiate numerose candele, alte e sottili, che costituivano la sola fonte di luce della spelonca. Più all’esterno erano allineati diversi Kelvani, che volevano assistere all’evento. I loro corpi massicci incombevano su T’Vala e i tentacoli serpentini si agitavano, disegnando ombre mutevoli e inquietanti sulle pareti scabre. Dai loro becchi cornei saliva una cantilena incessante, così profonda da sembrare il lamento del suolo. Fanior era tra loro, anch’egli in forma di calamaro.

   I Kelvani erano disposti a ferro di cavallo attorno all’altare. Nello spazio lasciato libero, davanti all’ingresso, si disposero gli spettatori dell’Enterprise. C’erano quasi tutti gli ufficiali superiori: Ilia, ripresasi dall’estasi creativa; Terry, con l’Emettitore Autonomo al braccio; Lantora, in preda all’angoscia; Grenk, a stento riavutosi dall’esperienza sul Leviathan. Vi era anche il buon vecchio Raav, a suo agio in quella grotta calda e profonda. All’arrivo di Chase si girò verso di lui, facendo sibilare la lingua forcuta. «Sssshhht! Mancava solo lei, Capitano. Ora possiamo procedere» disse con una strana solennità.

   «Procedere a cosa, all’esorcismo? Alla macumba?» ironizzò il Capitano, contrariato da quella teatralità.

   «Onaya dice che le candele l’aiutano a concentrarsi» spiegò Suspiria, accostandosi in forma di bambina. «Che atmosfera suggestiva... mi ricorda certi riti d’iniziazione... io amo le iniziazioni...» disse, con gli occhi verdi che lampeggiavano. Chase ricordò che aveva organizzato gli Ocampa sulla sua stazione come una setta e si chiese se c’era il suo zampino in quell’allestimento.

   «Lei dov’è?» domandò Chase, cercando Onaya in mezzo a quella bolgia. La semioscurità della caverna non gli era certo d’aiuto.

   «Sono dove mi vuole, mon capitaine» lo schernì Onaya, comparendogli dietro.

   «Allora fa’ il tuo lavoro, se ne sei capace» ribatté Chase, sulla difensiva.

   «Con piacere» bisbigliò Onaya. Muovendosi come se non toccasse terra con i piedi raggiunse l’altare, su cui T’Vala si stava ormai svegliando. Le andò dietro e le posò le mani sulle tempie, mentre la cantilena dei Kelvani si faceva più alta e incalzante.

   «Capitano, è certo che questo... rito profano servirà a qualcosa?» bisbigliò Lantora.

   «Non sono certo di niente» rispose Chase con sincerità. «C’è qualcosa, in questa galassia, che ispira la follia. Non possiamo combatterla... dobbiamo seguire la corrente e sperare per il meglio».

   «Come temevo» borbottò Lantora, ma poi si zittì, perché il rito era cominciato.

   «Apri la mente, T’Vala! Svolgi i tuoi pensieri!» ordinò Onaya, con voce stentorea.

   «Ma che... frell...» gemette T’Vala, sbattendo più volte gli occhi perlacei. «Dove sono?! Che volete farmi?!» gridò, vedendo gli alieni che incombevano su di lei.

   «Sei nella ragnatela del mio potere. Io ti estirperò l’energia neurale in eccesso, come il veleno si estrae da una ferita!» proclamò Onaya, premendole le dita sul cranio.

   T’Vala sentì quelle dita come artigli affilati e incandescenti, che le penetravano nella pelle, nelle ossa del cranio, fino alle pieghe del cervello. Il dolore lancinante le strappò uno strillo, che però fu soffocato dalla cantilena dei Kelvani.

   «Maledetta! Maledetti tutti voi!» strillò T’Vala, dibattendosi furiosamente; ma il campo d’energia la teneva immobilizzata. «Come osate farmi questo? Io sono una dea, infime creature! Dovete adorarmi, temermi, supplicarmi! Mi avete sentito?! Lasciatemi, o la mia vendetta sarà terribile! Vi maledirò per sette generazioni!». Le candele ebbero una vampata e arsero come fiamme ossidriche. L’altare di granito scricchiolò e si riempì di crepe.

   «Tesoro, non rendere le cose ancora più difficili!» implorò Lantora, venendole a fianco. Le prese la mano e gliela strinse con forza.

   «TU!» gridò T’Vala, dimenandosi come un’ossessa. «Annegherai nel tuo sangue, sporco traditore! Ti ucciderò! Vi ucciderò tutti, dal primo all’ultimo! Mi avete sentito? Non sperate di cavarvela! AAAAAAAHHHHHHH!!!».

   L’urlo di T’Vala fu così stridulo che Chase dovette tapparsi le orecchie. Gli occhi della timoniera brillarono come fari ed ella riuscì a inarcare la schiena, vincendo la resistenza del campo di forza. Dal suo corpo scaturì un’onda d’urto telecinetica, che scagliò Lantora a grande distanza e tagliò in due le candele. Anche gli altri federali, più discosti, furono gettati a terra, e persino i grossi Kelvani vacillarono sui tentacoli. La caverna fu percorsa da un tremito, come se dovesse crollare da un momento all’altro.

   «Non puoi resistere, T’Vala! Fammi entrare nella tua mente!» tuonò Onaya, ancora in piedi sebbene fosse la più vicina all’ossessa. «Sì, molto bene... così!». Il cranio di T’Vala brillò come se dovesse spaccarsi; le ossa divennero visibili in trasparenza. L’energia neurale fluì lungo le dita di Onaya e su per le braccia, fino ad avvolgerla come un’aura. L’aliena spalancò gli occhi e Chase li vide splendere della stessa luce opalescente che invadeva quelli di T’Vala. Intanto Raav aiutava Lantora a rialzarsi. Lo Xindi aveva fatto un bel volo, ed era un po’ rintronato, ma fortunatamente non presentava ferite.

   I Kelvani si strinsero intorno all’altare, mentre la loro cantilena saliva a livelli parossistici. Suspiria tese le mani verso T’Vala e usò tutti i suoi poteri per tenerla immobilizzata, visto che il campo di forza aveva ceduto. La mezza Vulcaniana galleggiò a un palmo sopra l’altare, tremando e contorcendosi in modo impressionante. Gridava, sputacchiava, smozzicava parole incoerenti in varie lingue. Ma le mani di Onaya le serravano la testa come una morsa; l’aliena torreggiava su di lei, immobile e statuaria. L’energia neurale fluiva rapida dall’una all’altra, come plasma stellare risucchiato da un vorace buco nero.

   Poco alla volta T’Vala smise di agitarsi e di schiumare, finché Suspiria la riadagiò sull’altare pieno di crepe. La luce perlacea abbandonò i suoi occhi, che tornarono normali, con le grandi pupille da Betazoide. Le fiammelle delle candele si affievolirono, mentre la cantilena dei Kelvani scendeva di tono. Da ultimo la corrente d’energia biancastra s’inaridì, fino a prosciugarsi del tutto. Con un sospiro profondissimo T’Vala si abbandonò sul giaciglio di pietra, il corpo molle e rilassato.

   Allora Onaya la lasciò finalmente andare. Barcollò all’indietro, con la testa arrovesciata e l’espressione estatica. «È fatta... che banchetto principesco... non mi capitava da secoli...» mormorò, leccandosi le labbra.

   «Ma T’Vala sta bene, tornerà come prima?» chiese Lantora, facendosi di nuovo avanti, un po’ zoppicante.

   «È già tornata come prima... la Barriera non l’affliggerà più. Io rispetto i patti» assicurò Onaya, abbassando il mento. La luce perlacea lasciò gradualmente i suoi occhi, che tornarono giallognoli.

   I federali si avvicinarono con cautela, osservando T’Vala, che era svenuta. Era madida di sudore, con i capelli appiccicati sulla fronte; ma il respiro si stabilizzava. La dottoressa Vash’Tot la esaminò con il tricorder medico. «Tutti i valori stanno tornando alla normalità: respiro, battito, temperatura. Non rilevo alcun surplus d’energia neurale» affermò. «Qualunque cosa abbia fatto, sembra che funzioni».

   «Ne dubitavate? Fra qualche ora si sveglierà, senza memoria di questi fatti. Datele da mangiare e fatela riposare per un paio di giorni; tornerà come nuova» assicurò Onaya. Il suo corpo cominciò a dissolversi in una nebbia dorata, come se evaporasse.

   «A nome dell’Enterprise, grazie» disse il Capitano. «Ma ora che fai, ci lasci?» chiese, notando la metamorfosi.

   «Ho mangiato abbastanza da poter affrontare il viaggio di ritorno» spiegò l’entità. «Addio, esseri corporei. Io torno alla mia dimora... oltre l’Universo osservabile. Forse un giorno i vostri eredi giungeranno fin lì. Allora mi troveranno».

   Onaya allargò le braccia e completò la sua trasformazione, divenendo un informe bagliore dorato. In quella forma schizzò verso il soffitto della caverna e vi passò attraverso, sottraendosi alla vista. Di lì a poco l’Enterprise captò la nube aurea che emergeva dalla superficie del planetoide. Per nulla turbata dalle intense emissioni della pulsar, l’entità schizzò verso lo spazio aperto. Divenne sempre più rapida, finché superò la velocità della luce e svanì dai sensori. L’Enterprise rilevò che la sua traiettoria puntava verso il Vuoto di Boöte, una vasta regione dell’Universo caratterizzata dalla presenza di pochissime galassie. Ma le sue ultime parole non lasciavano dubbi: la sua vera casa era molto più in là, oltre i confini dell’Universo osservabile.

 

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Capitolo 7
*** La Battaglia della Pulsar ***


-Capitolo 6: La Battaglia della Pulsar

 

   Due giorni dopo, Chase partecipò all’attesa riunione con i leader della Coalizione. L’incontro si tenne su Tuonela, in una vasta sala sotterranea. Chi poteva presenziare in quelle condizioni ambientali venne di persona; gli altri parteciparono in olo-presenza. I leader si disposero in cerchio, attorno a una tavola rotonda. I Kelvani erano nella loro forma originale, come anche Suspiria. Chase venne accompagnato da Terry e Fanior, mentre gli ufficiali superiori restarono sulla nave.

   «Il Consiglio della Coalizione riconosce Chase, Capitano dell’Enterprise ed emissario dell’Unione Galattica» disse Reshef, prontamente tradotto. «Venga avanti ed esponga quanto ha da dirci».

   Poiché il Kelvano aveva chiamato lui solo, Chase avanzò fino al bordo della tavola, mentre i suoi accompagnatori restarono indietro di qualche passo. Non c’erano sedie, quindi restò in piedi, con le mani posate sulla fredda e liscia superficie di tetraburnio.

   «Onorevoli Consiglieri, vi ringrazio per averci accolti e aiutati» esordì il Capitano. «Stiamo terminando le riparazioni e anche il Tenente Shil è in piena ripresa». Solo Neelah era ancora nella capsula crono-statica, si disse con rimpianto, ma proseguì. «Grazie al database su Andromeda che ci avete fornito, abbiamo una nuova comprensione di questa galassia, quale nemmeno anni d’esplorazione ci avrebbero dato. Questa nuova conoscenza, però, ci ha anche profondamente allarmati». Fece una breve pausa, osservando i Consiglieri uno dopo l’altro, e riprese: «Stando ai vostri dati, la Scourge controlla ormai la metà di Andromeda. Se è vero che raddoppia ogni pochi anni, a parte un lieve rallentamento dovuto al vostro contrasto... le prospettive sono catastrofiche. Confermate questa valutazione o avete altro da dirci?».

   «Purtroppo le cose sono come le avete descritte» rispose Reshef. «La rapida espansione della Scourge rende la sua vittoria imminente. Entro due o tre anni contagerà tutta Andromeda. A quel punto si estenderà ad altre galassie. Le immense distanze intergalattiche ne rallenteranno l’espansione, ma non di molto, poiché le bolle di Scourge viaggiano a velocità di Transcurvatura. Fra dieci anni avrà contagiato l’intero Gruppo Locale di galassie. Fra venti l’Ammasso della Vergine. Fra trenta il Superammasso di Laniakea. E sebbene le distanze crescenti la rallentino sempre più, stimiamo che la Scourge possa divorare l’intero Universo osservabile entro cent’anni da oggi».

   Un orribile silenzio gravò sulla sala. Le parole del Kelvano erano ancora lì, a galleggiare nell’aria, come ragni velenosi. Chase respirò a fondo. Non si era ancora rassegnato alla catastrofe e sperava che la fredda logica dei suoi interlocutori non l’obbligasse a farlo, perché il suo cervello non avrebbe retto. Sarebbe impazzito volentieri, piuttosto che accettare una cosa del genere. «A fronte di questa marea incontrollabile, qual è la vostra strategia di sopravvivenza?» chiese.

   «Quella che stiamo già applicando» rispose Reshef. «Raccogliamo il sapere delle specie e un numero d’individui sufficiente a garantirne la conservazione. Poi le nascondiamo in rifugi come questo, evitando qualunque trasmissione che possa tradire la loro presenza. I sensori della Scourge non sono infallibili ed essa non assorbe tutti i pianeti, ma solo quelli su cui ha rilevato traccia di vita o tecnologia. Accade perciò che, anche nelle zone occupate dalla Scourge, le nostre basi nascoste passino inosservate. Sopravvivono nel sottosuolo dei pianeti e nelle profondità delle nebulose. Altre ancora le stiamo allestendo nei sistemi stellari intergalattici. Consigliamo a voi umanoidi di fare altrettanto, nella vostra galassia. E dovete cominciare subito, perché il tempo stringe».

   «Ma questa strategia è inaccettabile per noi» rispose Chase, controllando a stento la voce. «Anche dopo secoli d’esplorazione, l’Unione conosce solo una porzione della Via Lattea. Non riusciremmo mai ad avvertire tutte le altre civiltà. E anche se ci concentrassimo solo sulla nostra sopravvivenza, non potremmo salvare che un’infima percentuale della popolazione».

   «Ne siamo consapevoli e addolorati» assicurò Reshef. «Ma nascondersi è l’unica strategia che ha dato frutti».

   «Finora!» corresse Chase, sollevando l’indice. «Ma che accadrà quanto la Scourge sarà ovunque? Non credete che stringerà sempre più le maglie, riempiendo ogni interstizio? Scoverà le vostre basi una dopo l’altra e le schiaccerà. Non subito, certo... ma fra poche generazioni non ne resterà neanche una».

   «Stiamo anche cercando Universi alternativi che possano accoglierci, quando questo sarà del tutto invaso» precisò Suspiria. «Finora la Scourge non ha mostrato la capacità, o l’intenzione, d’invadere altre dimensioni. Dobbiamo sperare che continui così».

   «Sperare?! Stavolta sono meno ottimista di voi!» esclamò Chase in tono acido. «Sappiamo cosa succede, quando una specie cerca d’invadere un Universo che non è il suo. A volte le leggi fisiche sono così diverse da non permettere la sopravvivenza. Altre volte l’Universo in questione è già occupato. Pochi anni fa i Tuteriani hanno invaso la Via Lattea, provenendo da un’altra dimensione. Cosa ne hanno ricavato? Una guerra lunga, catastrofica... e perfettamente inutile. Malgrado il loro vantaggio numerico li abbiamo respinti, perché giocavamo in casa. E adesso dovremmo imitarli? A parte che non sapremmo da dove cominciare... i conti non tornano».

   «Che intende?» chiese Reshef.

   «I Tuteriani e i loro alleati Krenim avevano una tecnologia che gli permetteva di prevedere le linee temporali. Riuscivano a vedere il futuro, o i futuri più probabili» spiegò Chase. «Ma se i Tuteriani avessero previsto l’arrivo della Scourge, non avrebbero cercato di conquistare la Via Lattea. A che scopo toglierla a noi, solo per farsela soffiare dalla Melma pochi anni dopo? E se l’avessero previsto i Krenim, avrebbero rinsaldato il loro spazio, anziché attaccarci». Il Capitano guardò i Consiglieri con aria di sfida, come esortandoli a smentire la sua logica.

   «Ehm... riguardo ai Tuteriani c’è una spiegazione» disse Terry alle sue spalle. Parlava di malavoglia, come se la sua logica informatica fosse in conflitto con i suoi desideri d’individuo. «I Tuteriani avevano Sfere che generavano anomalie gravimetriche, per riconfigurare lo spazio, adattandolo alle loro esigenze» spiegò Terry a beneficio degli Andromedani. «Le anomalie, e ancor più lo spazio riconfigurato, erano estremamente nocivi per i tessuti viventi e gli apparecchi tecnologici del nostro Universo. Probabilmente avrebbero distrutto anche la Scourge, e con grandissima efficienza. Avrebbero colpito ogni nanite, in tutto lo spazio trasformato».

   «Da come ne parla, quelle Sfere sembrano l’arma ideale contro la Scourge» notò il leader degli Ornithoidi. «Pensa che potreste replicare la loro tecnologia, magari usando i resti abbandonati delle Sfere?».

   «Sarebbe inutile» spiegò Terry, afflitta. «Le distorsioni eliminerebbero sì la Scourge, ma ucciderebbero anche noi. Non resterebbe niente e nessuno».

   «E quell’altra specie, i Krenim? Non hanno la stessa tecnologia predittiva?» insisté il piccolo alieno.

   «Il loro sguardo non va oltre la Via Lattea. Forse non hanno fattorizzato le influenze intergalattiche nei loro calcoli» ipotizzò Terry.

   «Ma noi sappiamo che l’Unione continuerà a esistere, nei secoli a venire!» sbottò Chase, fronteggiando l’IA. «Io e lei abbiamo viaggiato avanti nel tempo, nel XXVIII secolo. Sappiamo che, fra duecento anni, l’Unione esisterà ancora. E ci saranno altre organizzazioni, amiche e nemiche. Sappiamo che nel XXXI secolo ci saranno Agenti Temporali addestrati a sorvegliare il passato. Com’è possibile, se fra cent’anni la Scourge avrà contagiato tutto l’Universo?!» chiese, quasi isterico.

   «Non conosco la risposta» rispose Terry con calma. «Ma in effetti le nostre esperienze di viaggio nel tempo, e perfino la Guerra Temporale, giustificano un cauto ottimismo. Sembra che qualcosa fermerà la Scourge, prima che raggiunga la Via Lattea».

   «E se fosse la Barriera Galattica?» suggerì Fanior. «Noi abbiamo avuto difficoltà ad attraversarla. Ci siamo riusciti solo perché l’Enterprise ha ottimi scudi. Ma per quanto la Scourge sia insidiosa, per le sue capacità infiltranti, è composta pur sempre da piccoli naniti. Non credo che possano resistere a quell’energia».

   «Diamine! Sa che potrebbe aver ragione?» si rischiarò Chase, che non si aspettava d’essere confortato proprio dal severo Ambasciatore. «Se è vero che sono stati i Q a creare la Barriera, forse l’hanno fatto per questo motivo!». La sua mente era già a mille: pensava a come accertarsi che non fosse proprio l’Enterprise a diffondere la Scourge nella Via Lattea, al ritorno. In caso d’infezione a bordo avrebbe dovuto distruggere la nave, piuttosto che mettere a repentaglio l’intera Galassia.

   «La sua ipotesi è degna di profonda riflessione» ammise Reshef. «La Via Lattea potrebbe diventare un porto sicuro... stando attenti a non portarvi noi il contagio».

   «Ma il resto del cosmo è là fuori, a repentaglio» ricordò Terry. «Dovremmo pensare anche a questo. Abbiamo una responsabilità terribile... la più grande che sia mai gravata sugli abitanti di questo Universo».

   «Finora abbiamo parlato solo di come ritirarci dalla Scourge... di come fuggire e nasconderci» notò Chase. «E se invece passassimo al contrattacco? Conoscete qualche arma che si sia rivelata efficace?».

   «Qualunque arma che possa distruggere i naniti va bene» disse Reshef, agitando i tentacoli con fastidio. «Ma se uno solo sopravvive, l’infezione ricomincia a propagarsi. E non basta respingere un attacco, perché la Scourge è troppo diffusa. Una volta che ci scopre, è la fine. Subiamo un assalto dopo l’altro, senza sosta, finché le nostre difese crollano».

   «Pensavo più a una guerra su scala microscopica» spiegò il Capitano. «La Scourge è insidiosa perché si compone di naniti; ma se la sfidassimo sul suo terreno? Se creassimo un’anti-Scourge? Potremmo prelevare un campione di Melma, riprogrammare i naniti e farne la nostra arma!» propose, infervorandosi.

   «Capitano, lei è nuovo di Andromeda» rispose pazientemente il leader degli Uiin, un grande cetaceo che presenziava in forma olografica. Il suo linguaggio, simile al canto delle balene, subiva una profonda ricodifica per essere tradotto. «Noi stiamo combattendo la Scourge da secoli. Pensa ci siano alternative che non abbiamo vagliato? Tentativi che non abbiamo fatto? Nei primi tempi, quando la Scourge controllava solo una manciata di pianeti, abbiamo provato di tutto. Ma i nostri sforzi si sono rivelati dei... buchi nell’acqua» disse, agitando le grosse pinne.

   «Ma questo in particolare, perché è fallito?» volle sapere Chase.

   «Abbiamo prelevato dei campioni di Melma Grigia, per quanto fosse arduo contenerla» spiegò Reshef con pazienza. «Abbiamo riprogrammato le naniti una per una, superando gli ostacoli posti dalla loro sofisticatissima tecnologia. L’abbiamo depurata dalla programmazione aggressiva, fino a renderla innocua. Guardi qui... lei la chiamerebbe Melma Bianca».

   Al suo ordine, i Kelvani portarono una piccola camera di contenimento. Al centro galleggiava una sferetta bianca, con l’aspetto e la consistenza della panna montata. Chase l’osservò da vicino.

   «Ci sono voluti decenni di sforzi e di tentativi falliti per arrivare a questo risultato» disse Reshef. «Abbiamo replicato grandi quantità di Melma Bianca e l’abbiamo fatta riassorbire dalla Grigia, sperando che la contagiasse. Ma ahinoi, ciò non è accaduto. Tutte le volte che le Melme entrano in contatto, la Grigia prende il sopravvento, anche quand’è in netta minoranza. Tutti gli sforzi di rendere più aggressiva la Bianca sono falliti. O meglio, possiamo renderla più aggressiva... ma a quel punto torna ad essere Grigia, vanificando lo scopo dell’operazione».

   «L’unica differenza è che, nel corso dei secoli, la Melma Grigia è diventata sempre più argentea» notò Suspiria. «Ma non siamo riusciti a stabilire se al colore corrisponda una diversa programmazione. All’atto pratico, la Scourge resta distruttiva come prima».

   Per qualche secondo scese il silenzio. Chase tornò verso il tavolo della Coalizione, lambiccandosi il cervello, in cerca di qualcosa che desse una direzione precisa alla loro lotta. Durante la Guerra delle Anomalie sapeva grossomodo cosa fare: distruggere le Sfere, salvare chi era in pericolo, affrontare le forze nemiche. I bersagli non mancavano mai. E per quanto fossero pericolosi, i leader nemici erano individui come lui: poteva mettersi nei loro panni e prevederne le mosse. Ma la Scourge era un nemico senza volto. Non aveva desideri, né timori, né dubbi. Si diffondeva e basta. Somigliava a una malattia, più che a un esercito invasore. Schiaccia la testa del serpente e il corpo muore, diceva il proverbio. Ma dov’era la testa della Scourge? Dov’era il cuore da colpire? Già, si disse Chase: da dove veniva la Melma?

   «Signori, devo farvi una domanda cruciale» disse, posando le mani sul tavolo e passando lo sguardo da un Consigliere all’altro. «In questi secoli di lotta contro la Scourge, avete mai capito quali siano le sue origini? Perché conoscere l’origine del nemico è indispensabile per sconfiggerlo. Da che pianeta proviene? E quale specie o organizzazione l’ha creata?».

   Gli Andromedani si guardarono l’un l’altro, e malgrado il loro aspetto alieno Chase avvertì una strana reticenza in loro. Capì che il database fornitogli dai Kelvani taceva qualcosa d’importante.

   «Sappiamo da dove viene» disse infine Suspiria, rispondendo solo alla prima domanda. «Noi Nacene abbiamo usato la nostra capacità di sondare lo spazio per localizzare il punto d’origine della Scourge, risalendo la sua espansione concentrica. Guarda!».

   Un proiettore olografico, incastonato nel soffitto, si attivò. Ne scaturì l’immagine tridimensionale di Andromeda, assai dettagliata. Galleggiava sulla tavola del Consiglio, ruotando lentamente, per offrire a tutti la vista completa della spirale galattica. La sua bellezza mozzava il fiato.

   «Abbiamo realizzato questa mappa che indica i pianeti consumati dalla Scourge, calcolando la data del contagio» spiegò Suspiria. «Ora evidenzio la sua espansione». Mosse uno pseudopodo e di colpo la mappa si colorò. Metà della galassia divenne gialla, evidenziando l’area contagiata. Al centro dell’area gialla ve n’era una più piccola, arancione, e dentro a quella una ancor più ristretta, d’un rosso vivo.

   Chase osservò attentamente l’ologramma. La macchia rossa, che segnava l’origine della Scourge, era incassata nel nucleo galattico. Di conseguenza era soprattutto il nucleo a essere infettato. Ma il punto 0 non era esattamente al centro, né l’espansione era del tutto simmetrica. Vari fattori ne avevano plasmato le direttrici: la densità dei sistemi abitati, le rotte commerciali, la quantità di trasmissioni subspaziali e molto altro. Di conseguenza la Scourge si era fatta strada verso l’orlo galattico, arrivando fino a una zona più periferica, dove aveva flagellato l’Impero Kelvano. Il popolo di Fanior aveva avuto sfortuna.

   «Questo metodo per stanare la Scourge ci era stato proposto da T’Vala» commentò Chase, pensando a lei con gratitudine. Anche quand’era mentalmente alterata, la mezza Vulcaniana offriva consigli utili. «Dovemmo lasciar perdere perché non conoscevamo abbastanza Andromeda. È una fortuna che ci abbiate pensato voi».

   «Quindi la Scourge è partita da unico punto?» chiese Terry, osservando la macchia rossa al centro.

   «A quanto ne capiamo, sì» confermò Suspiria, ingrandendo la sezione centrale dell’ologramma. Il resto di Andromeda svanì, uscendo dal raggio del proiettore, e Chase ebbe l’impressione di cadere a velocità smodata verso il nucleo galattico. L’immagine si riassestò su tutt’altra scala: ora mostrava un preciso settore del nucleo. Molte gradazioni di giallo, arancione e rosso evidenziavano l’espansione concentrica della Scourge, che su questa scala somigliava più all’espandersi di una bolla. Al centro c’era un punto viola scuro, come un bubbone: l’origine del male.

   «Strano» commentò Terry. «Se la Scourge è stata concepita come arma, avrebbe più senso se l’avessero sparsa su vari pianeti, per impedire a chiunque di bloccarla sul nascere. Questo sembra confermare l’altra ipotesi: che la Scourge sia nata per errore. Forse i suoi incauti creatori ne sono stati le prime vittime».

   «In tal caso è partita effettivamente dal loro pianeta» disse Fanior, proseguendo il ragionamento. «Al limite da una colonia o da un avamposto. Sapete quale civiltà abitava quella regione di spazio?».

   Ci fu un nuovo silenzio, che si protrasse fino a diventare imbarazzante. Chase sentiva sempre più puzza di bruciato. Era come se la Coalizione volesse nascondergli qualcosa, fino all’ultimo. «Signori, non potete arenarvi ogni volta che facciamo una domanda sulla Scourge» disse con fermezza. «O ci dite cosa sapete, o non potremo dare il nostro contributo. Il che vanifica quest’incontro».

   Di fronte all’ultimatum, Suspiria cedette. Aumentò ancora l’ingrandimento dell’immagine, finché apparvero le singole stelle. Erano fitte, lì nel nucleo galattico, e poste grossomodo alla stessa distanza una dall’altra. Ma c’era un piccolo spazio vuoto, oltremodo sospetto.

   «Questi sono i primi sistemi stellari contagiati» disse Suspiria. «Però riteniamo che nessuno ospitasse una civiltà capace di creare la Scourge. La nostra ipotesi è che gli artefici si nascondano. Vedi quella zona senza stelle? Sembra un semplice spazio vuoto. Però c’è un pozzo gravitazionale, che influenza i sistemi vicini e devia gli asteroidi interstellari. Abbiamo escluso che sia Materia Oscura».

   «Di che massa stiamo parlando?» chiese il Capitano.

   «Quella di una nana rossa, classe M. Con ogni probabilità ci sarà anche un pianeta. Ma i nostri sensori non rilevano niente, quindi l’intero sistema dev’essere occultato» rispose la Nacene.

   «Che importa? L’avete localizzato lo stesso» obiettò il Capitano. «Non resta che andarci in forze».

   «Al tempo!» intervenne Reshef. «Abbiamo già inviato le nostre sonde più avanzate e nessuna è tornata. Sono tutte intercettate e sciolte dalla Scourge, prima di darci informazioni utili. Mi creda, Capitano: noi che ci aduniamo a questo tavolo desideriamo, sopra ogni cosa, colpire al cuore quel flagello. Ma non sferreremo un attacco massiccio contro ciò che non conosciamo. Le nostre forze sono una pallida ombra di ciò che erano prima della Scourge. Dobbiamo conservare quel poco che ci resta, in previsione dei tempi bui, quando una nave sarà l’ultimo bastione di una civiltà».

   Chase vacillò sotto quel discorso, logico ma al tempo stesso profondamente umano. Non poteva chiedere alla Coalizione di andare allo sbaraglio contro un nemico capace d’occultare interi sistemi stellari. Sarebbe stata la fine per le sue sparute forze; questo i Consiglieri lo sapevano. Nella loro situazione, più si sparpagliavano e maggiori erano le probabilità che alcuni se la cavassero... come gli avevano detto all’inizio.

   «Ciò significa che la creazione della Scourge non è accidentale, dopotutto» notò Terry. «Anzi, i suoi creatori esistono ancora. Ma se volevano nascondersi, perché seminarla dapprima nei sistemi limitrofi? Non era più sensato diffonderla ad anni luce di distanza, magari in tutti e quattro i Quadranti? Questo sì che avrebbe impedito a chiunque – anche ai Nacene – di localizzarli. Invece hanno occultato il loro sistema stellare, il che non basta a nasconderlo, per via degli effetti gravitazionali. Non ha senso».

   «È come se per certi aspetti avessero creato intenzionalmente la Scourge e per altri no» aggiunse Fanior. «C’è qualcosa che ancora non comprendiamo. Se almeno sapessimo qual era la loro specie!» si lamentò.

   «Se non cerchiamo di scoprirlo adesso, non ne avremo più l’occasione» disse Chase. «Onorevoli Consiglieri, so che nessuno ha fatto più di voi nella lotta contro la Scourge. Dite di aver tentato ogni strada e io vi credo. Ma questa strada non è stata ancora esplorata abbastanza. Fra tutti noi, disponiamo di tecnologie che consentono spostamenti rapidi. I poteri dei Nacene e il nostro propulsore cronografico ci permettono di seminare la Scourge. Credo che un tentativo di andare al centro del mistero vada fatto, prima che sia troppo tardi. Non vi chiedo un attacco su vasta scala, ma... almeno un’esplorazione».

   «Lei è libero di farlo, con la sua nave» sentenziò Reshef. «Ma se ne assume tutti i rischi. Se andrà male... com’è probabile... non potremo salvarla».

   Erano parole dure, ma in fin dei conti giuste; Chase non se la sentì d’insistere ancora. A questo punto, però, aveva esaurito le opzioni. I Consiglieri avevano ragione: non c’erano strade che non avessero già considerato. «Ne parlerò coi miei ufficiali e discuteremo il da farsi» disse. «Posso chiedervi di darci questa mappa? Ci sarebbe di grande aiuto, se decidessimo di rischiare».

   «E sia!» acconsentì Suspiria. «Trasmetto la mappa all’Enterprise. Ma vi sconsiglio di andare là dove nemmeno noi Nacene ci spingiamo».

   La riunione stava per essere aggiornata, quando squillarono gli allarmi. Subito ci fu un viavai di Andromedani, che informavano i loro leader e ne ricevevano gli ordini. Chase arretrò, preoccupato. Avrebbe voluto contattare l’Enterprise, ma le emissioni della pulsar disturbavano le comunicazioni e impedivano il teletrasporto. Per tornare a bordo serviva la navetta con cui era sceso nell’installazione. «Che succede?» chiese, appena la concitazione diminuì.

   «Una vasta armata è entrata nel sistema» spiegò Reshef. «Non si tratta della Scourge, ma non sono nemmeno dei nostri. C’è una sola possibilità». Attivò il proiettore olografico, mostrando la flotta in avvicinamento. C’erano navi di varie forme e dimensioni, dall’aria un po’ rappezzata, ma comunque pericolosa. Un gran numero d’incursori formava l’avanguardia. Seguivano alcune astronavi più grandi, tra cui una dalla sagoma inconfondibile. Annerito e pieno di falle, ma ancora terribilmente pericoloso, il Leviathan era tornato all’attacco, come un mostro assetato di vendetta.

 

   «Sono i pirati di Abaddon» disse Chase, superato il momento di shock. «Li abbiamo già incontrati nel cimitero spaziale. Ma stavolta hanno ammassato molte più forze».

   «Dalla composizione della flotta, riteniamo che si siano alleati con almeno altre cinque bande di predoni» precisò Reshef. «Un’alleanza così vasta è insolita. Solo la brama di un grosso bottino può giustificarla. Evidentemente sanno che abbiamo concentrato le nostre risorse in questo luogo. La domanda è: perché attaccano proprio ora? È una ben strana coincidenza, che arrivino subito dopo di voi» disse, agitando minacciosamente i tentacoli verso i federali.

   «Assurdo... se vi avessimo traditi, non saremmo rimasti qui, proprio durante l’attacco» si difese il Capitano. «E poi perché farlo? I pirati hanno già cercato di ucciderci, mentre voi siete i nostri soli alleati in questa galassia. Sarebbe folle schierarci con loro».

   «Forse vi hanno seguito a vostra insaputa» suggerì il leader degli Ornithoidi. «E quando hanno capito che avevate trovato la nostra base, hanno ammassato le forze per il colpo grosso».

   «I pirati che abbiamo trovato ad Abaddon avevano navi a curvatura. Non possono averci seguiti a cavitazione quantica» obiettò Chase.

   «Sei certo che non abbiano introdotto un segnalatore subspaziale sull’Enterprise?» chiese Suspiria. «Se avete abbassato gli scudi per salvare la vostra squadra, potrebbero aver approfittato di quel momento».

   «Ehm... è possibile» ammise il Capitano, sentendosi mancare il pavimento sotto i piedi. «Però non abbiamo rilevato altri teletrasporti, oltre al nostro».

   «Possono aver mascherato il segnale. È stato uno stolto a guidarli qui, senza controllare a dovere la sua nave. Questo era uno dei pochi avamposti superstiti dell’Impero Kelvano! Doveva giocare un ruolo decisivo per la nostra sopravvivenza... invece sarà un altro covo di pirati!» disse Reshef con rabbia. Il grande calamaro mosse verso Chase e gli avvolse un tentacolo intorno al collo, sollevandolo da terra. Il Capitano boccheggiò e afferrò il tentacolo con ambo le mani, cercando di sorreggersi, per non restare impiccato. Ma il Kelvano stringeva abbastanza forte da strangolarlo.

   «No, fermo!» gridò Fanior. Si trasformò, divenendo un calamaro altrettanto grosso, e si avventò contro il suo simile per salvare il Capitano. I due Kelvani cozzarono e rotolarono a terra, in un groviglio di tentacoli. Gli altri Consiglieri arretrarono, sconcertati dall’improvvisa esplosione di violenza. Alcuni gridarono ai Kelvani di fermarsi, ma le loro esortazioni caddero nel vuoto. Quando Reshef fu rovesciato anche Chase ricadde al suolo. Riuscì a liberarsi dal tentacolo, ma era dolorante e mezzo soffocato. Terry gli fu subito accanto; controllò che non avesse danni alle vertebre e lo aiutò a rialzarsi. Poi lo allontanò in fretta dalla zuffa.

   «Che fai, traditore di Kelva? Aiuti gli umanoidi che ci hanno condannati?!» insorse Reshef.

   «Non è colpa loro, ma mia» rispose Fanior nella stessa lingua gutturale. «Ho lasciato il relitto dell’ammiraglia con una navetta, senza pensare che poteva esserci un segnalatore subspaziale. Forse sono stato io ad attirare questa sciagura».

   «Hai vissuto così a lungo tra gli umanoidi da assorbire le loro pessime qualità!» grugnì Reshef. «Se ti stanno così a cuore, allora resta con loro. Rinnega pure il tuo sangue Kelvano e assumi le loro piccole, fragili forme!».

   «Non puoi dire sul serio» fremette Fanior, districandosi dall’ammasso di tentacoli. Indietreggiò, mentre il suo simile si rialzava faticosamente. «Ho sempre sognato di trovarvi. Ho attraversato il vuoto intergalattico per venire qui!».

   «Avresti fatto meglio a restare nella tua colonia, tra gli umanoidi. Tornaci, se puoi. A nome della Coalizione di Andromeda, ti bandisco dal nostro spazio!» sentenziò Reshef.

   Fanior sussultò come se avesse ricevuto un colpo mortale. Indietreggiò con i tentacoli sollevati, fino ad affiancare Chase e Terry. Intanto i Consiglieri riprendevano posto intorno al tavolo.

   «Questi bisticci non fanno che avvantaggiare i pirati» fischiò il leader degli Uiin. «La nostra nave li sta tenendo a distanza con un campo di smorzamento, ma è un rimedio temporaneo. I loro vascelli più grossi hanno armi a lungo raggio. Si sono fermati appena oltre il nostro campo e ci colpiscono. Dobbiamo evacuare la base, prima che gli scudi cedano».

   «Sì, portiamo con noi tutto ciò che ha valore» convenne il leader degli Ornithoidi. «E distruggiamo il resto. Meglio così, piuttosto che rafforzare questi ignobili pirati. Se mettono a segno un colpo così grosso, non smetteranno più di darci la caccia».

   «Vi aiuteremo a evacuare il planetoide» promise il Capitano, ancora un po’ rauco.

   «Non ci serve il vostro aiuto, Umano!» rimbeccò l’Ornithoide.

   «Almeno lasciate partecipare l’Enterprise alla battaglia» pregò Chase. «Terremo a distanza i pirati. Allontaneremo dall’orbita più navi che possiamo, per darvi un po’ di respiro».

   «E sia» disse Reshef. «Ma non crediate, con questo, di aver rimediato al danno. Da oggi le nostre strade si dividono».

   «Ne riparleremo» disse Chase, scoccandogli un’occhiata torva. Uscì in fretta dalla stanza, seguito da Terry e Fanior. Corsero verso la loro navetta, sapendo che il tempo era agli sgoccioli. La Battaglia della Pulsar era iniziata.

 

   La flotta pirata era composta da un centinaio d’incursori di varia foggia e da venti navi più grosse, fra cui il Leviathan. L’avanguardia si avvicinò a Tuonela sparando a tutto spiano, ma non appena entrò nel campo di smorzamento generato dalla nave-cilindro degli Uiin gli incursori persero potenza. Alcuni fecero dietro-front, uscendo dal campo. Altri non furono così fortunati e si spensero del tutto; ma procedettero per inerzia, fino all’orbita del planetoide. Qui furono attaccati e distrutti dalle navi della Coalizione: quaranta in tutto, di cui dieci kelvane. Infatti il campo di smorzamento era diretto con tale precisione da risparmiare le navi alleate.

   Ma le forze dei pirati erano appena intaccate. Le loro navi si allinearono a distanza di sicurezza e quelle più grosse, dotate di armi a lungo raggio, concentrarono il fuoco sugli Uiin. Il Leviathan sferrava attacchi devastanti, con raggi antiprotonici e missili al tricobalto. Le armi eterogenee dei pirati martellarono gli scudi della nave-cilindro, che gradualmente perse potenza, come una balena morsicata dagli squali. Dovendo deviare l’energia agli scudi, per proteggersi, indebolì il campo di smorzamento.

   Era l’occasione che i pirati aspettavano. Mandarono avanti le loro navi più grosse, che resistettero al campo. I vascelli avanzarono sparando a tutto spiano, con l’impeto di chi non ha nulla da perdere. E vennero in urto con lo schieramento della Coalizione. Lo spazio intorno a Tuonela divenne una ragnatela di raggi mortali, costellata d’esplosioni. Una grossa nave pirata, dalla strana forma asimmetrica, si proiettò contro la nave-cilindro. Esposta all’intenso fuoco di sbarramento della Coalizione, perse ben presto gli scudi. Il suo scafo cominciò a squarciarsi; interi brandelli ne furono stappati, ma la nave proseguì, fino a impattare. Era imbottita d’antimateria. L’esplosione fu così potente che la nave-cilindro sbandò, danneggiata, e alcuni vascelli minori furono travolti dall’onda d’urto. Il campo di smorzamento cedette del tutto. E finalmente gli incursori, il grosso della flotta pirata, si avventarono come piranha famelici sulla Coalizione. Non si sarebbero fermati prima di averla spolpata fino all’osso.

 

   Mentre le navi da guerra della Coalizione trattenevano i pirati, i trasporti – una ventina in tutto – caricavano in fretta e furia i civili, assieme a provviste e tecnologie. Tutto ciò che poteva tornare utile, in quei tempi di magra, andava salvato. Era un’operazione che richiedeva un certo tempo, per cui la Coalizione doveva resistere il più possibile.

   Tornato sull’Enterprise, Chase si precipitò in plancia, trovando la battaglia già in corso. Gli incursori pirata si avventavano sulla Coalizione, cercando di schiacciarla contro il planetoide. Il Leviathan era in mezzo a quel caos e sparava con tutte le armi, cercando di colpire la superficie di Tuonela. Chase capì che doveva essere quello, il suo bersaglio. Era tempo di chiudere la sfida apertasi nel Cimitero di Abaddon.

   «Fuoco contro il Leviathan» ordinò il Capitano, sedendo in poltrona. «Poi allontaniamoci lentamente dall’orbita. Cerchiamo di farci seguire da quella nave, e anche da qualche incursore, per dare un po’ di respiro alla Coalizione».

   «Non restiamo nello schieramento?» si stupì Ilia.

   «Non siamo più i benvenuti, purtroppo» rivelò Chase. «I Consiglieri c’incolpano per questo attacco e probabilmente hanno ragione. I pirati devono averci piazzato un segnalatore subspaziale, o forse era nella navetta del Leviathan».

   «Dannata nave!» ringhiò Lantora, scagliando i siluri quantici contro il Leviathan. Gli scudi nemici assorbirono il colpo, ma l’Enterprise aveva senz’altro attirato l’attenzione. Il Leviathan si girò come un predatore infuriato. Uscì dalla mischia e puntò dritto contro l’Enterprise, sparando con le armi di prua. Un nugolo d’incursori lo accompagnò. Gli agili vascelli furono i primi a raggiungere l’Enterprise e subito la circondarono, colpendola da ogni lato.

   «Via dall’orbita» ordinò Chase. Gli dispiaceva abbandonare il resto della Coalizione, ma almeno aveva distratto parecchie navi pirata. Ora stava agli Andromedani terminare l’evacuazione della loro base.

   «Direzione?» chiese il timoniere, mentre l’Enterprise sussultava. Era un Rigeliano, trasferito al turno principale in quanto T’Vala era ancora convalescente.

   «Avviciniamoci alla pulsar» ordinò Chase. «Le sue emissioni potrebbero mettere fuori uso gli incursori».

   «Sono pericolose anche per noi» ricordò Terry.

   L’Enterprise fuggì verso la pulsar, braccata dal Leviathan. La nave-relitto prese velocità, fino ad affiancare l’ammiraglia dell’Unione. I due vascelli si scambiarono bordate micidiali, a distanza ravvicinata. Intanto la pulsar era sempre più vicina: il suo potentissimo campo elettromagnetico flagellava sia le due grandi navi, sia gli incursori pirata, indebolendo gli scudi. La plancia dell’Enterprise prese a vibrare. La stella di neutroni brillava sullo schermo come un faro, piccolo ma accecante.

   «Gli scudi del Leviathan s’indeboliscono, ma più lentamente dei nostri» avvertì Lantora.

   «Com’è possibile? È un relitto!» contestò Chase, indicando lo scafo ammaccato e pieno di falle.

   «In qualche modo hanno potenziato gli scudi» rispose lo Xindi. «Avremmo ancora il vantaggio tattico, se fossimo uno contro uno. Ma con tutti quegli incursori che gli danno manforte, il Leviathan è in vantaggio».

   Come per dargli ragione, i nemici concentrarono il fuoco sulla plancia dell’Enterprise. Ci fu un sovraccarico e la postazione del timone esplose, uccidendo il pilota. Lantora replicò con un fuoco serrato, che distrusse alcuni incursori e obbligò gli altri ad allontanarsi.

   «Emergenza, sostituisco il blocco del timone» avvisò Terry. L’intera postazione fu teletrasportata via, assieme al cadavere del timoniere. Pochi secondi dopo se ne materializzò un’altra. Terry la mise in linea, ma non c’era ancora un sostituto per il pilota.

   «Pensa di chiamare qualcun altro o vuol guidarsi da sola?» chiese il Capitano, reggendosi alla poltroncina che vibrava. Sentiva ancora l’odore pungente emesso dalla consolle esplosa.

   «Dipende da cosa vuol fare» rispose l’IA. «Se continuiamo così, saremo distrutti. Ma possiamo usare la pulsar a nostro vantaggio. Ricorda cos’ho detto sui fasci magnetici?».

   Chase ci mise qualche momento a capire. Quando lo fece, l’audacia della proposta lo sbalordì. Ma si fidava delle capacità di Terry e comunque non vedeva opzioni migliori. «Conosce l’Arte della Guerra... usare il territorio a proprio vantaggio» commentò, con un mezzo sorriso.

   «Conosco tutti i trattati di guerra dell’Unione» puntualizzò Terry.

   «Proceda» l’autorizzò Chase.

   L’Intelligenza Artificiale sedette al posto del timoniere e prese a manovrare i comandi con tale velocità che l’occhio non seguiva i suoi movimenti. Ma la maggior parte del lavoro lo faceva controllando direttamente i sistemi, senza passare dai comandi manuali. L’Enterprise prese velocità e sfrecciò a massimo impulso verso il cono luminoso che scaturiva dal polo nord magnetico della pulsar. Si trattava in realtà di un fascio elettromagnetico sottilissimo, ma la rapida rotazione della stella – 126 giri al secondo – lo faceva sembrare un cono. Con la sua potenza di 1011 tesla, poteva trapassare un pianeta. O scudi e scafo di una grande astronave.

   «Ditemi che non volete farlo» mormorò Lantora.

   «Ormai è deciso, non si torna indietro» disse Chase. «Reggetevi forte!».

   L’Enterprise sembrò voler risalire il cono elettromagnetico, allontanandosi dalla pulsar. Ma d’un tratto deviò e puntò ancora verso la stella di neutroni. Il flusso d’energia magnetica e radioattiva era vicinissimo allo scafo. A quella distanza dalla pulsar il cono era ancora molto ampio, ma considerando la velocità dell’astronave si riduceva in fretta.

   Alcuni incursori rimasero indietro, altri si allontanarono per timore delle radiazioni. Ma il Leviathan continuò a tallonare l’Enterprise, sparando a tutto spiano. Le si accostò nuovamente e strinse sempre più le distanze, cercando di schiacciarla contro il cono d’energia. Gli scafi chilometrici erano quasi a contatto.

   Come congelati, gli ufficiali di plancia videro la stella di neutroni farsi sempre più vicina. Era un’accecante sfera bianco-azzurra, circondata da linee di forza magnetiche. Ad ogni secondo s’ingrandiva, mentre le vibrazioni della nave aumentavano.

   «Scudi al 35%» avvertì Lantora, con le labbra secche.

   «Ci siamo quasi, ma il Leviathan cerca di speronarci» avvertì Terry, concentrata sui comandi. Una goccia di sudore si formò sulla sua fronte. Quando fu abbastanza pesante, le scivolò sulla pelle cerea e poi cadde. Si dissolse subito prima di toccare i comandi: era pur sempre parte della proiezione isomorfa.

   «Quando vuole, Terry» disse Chase con calma.

   Raggiunta la massima velocità d’impulso, l’Enterprise si allontanò dal Leviathan e passò attraverso il cono, approfittando del momento in cui il fascio elettromagnetico era dalla parte opposta. Il raggio compiva molti giri al secondo, ma l’astronave fu abbastanza rapida da evitarlo. Appena fu dentro attivò il raggio traente, agganciando il Leviathan e trascinandolo verso di sé.

   La nave-relitto passò brevemente attraverso il cono e subito ne fuoriuscì, avendo cambiato traiettoria per opporsi al raggio traente. Si allontanò e al tempo stesso rallentò la sua caduta verso la stella. Sembrava indenne. Per qualche secondo continuò perfino a sparare. Poi la sua energia si estinse. La parte anteriore, affilata come un pugnale, si staccò dal blocco motori come se stesse scivolando.

   Il taglio era netto. Lo scafo e i ponti interni, di durissimo tetraburnio, erano stati tranciati come burro dal fascio elettromagnetico della pulsar. L’aria sfuggì da corridoi e sale, trascinandosi dietro parecchi malcapitati dell’equipaggio. I due tronconi della nave si stavano distanziando. Non avevano più spinta, ma proseguivano per inerzia. E sebbene il Leviathan avesse rallentato negli ultimi secondi, la gravità della pulsar li attirava irresistibilmente. Presto l’avrebbero colpita.

   «Siamo...?» chiese Ilia, con le unghie conficcate nei braccioli della poltroncina.

   «Non ancora; non ho tempo per un arresto completo» rispose Terry, mantenendo la concentrazione. Il cono magnetico si stringeva sempre più, come un vortice mortale. L’Enterprise lo attraversò di nuovo, sul lato opposto, sfuggendo ancora una volta al raggio tranciante. Si allontanò in fretta dalla pulsar, lasciandosi dietro il Leviathan tagliato in due, che precipitava verso la sua ultima destinazione.

   «Congratulazioni» disse Chase, sentendo l’aria che gli entrava meglio nei polmoni. «Questa passerà alla Storia come Manovra Terry».

   «Scudi al 15%, che fanno gli incursori?» chiese Lantora, non rilevandoli nelle immediate vicinanze.

   «Sembra che per qualche minuto non ci daranno fastidi» disse Terry, inquadrando i tronconi del Leviathan in caduta libera verso la pulsar. Gli incursori avevano dimenticato l’Enterprise e si erano lanciati all’attacco di quella che, fino a un attimo prima, era la loro nave ammiraglia. Non potendo usare il teletrasporto, a causa delle interferenze elettromagnetiche, si ancorarono allo scafo e lo perforarono con vari strumenti.

   «Ma che fanno?» chiese Grog.

   «Applicano la loro filosofia: nulla si butta» disse Chase con tristezza. «Il Leviathan è una grande astronave. Per quanto malridotta, contiene senz’altro molte cose utili. Gli incursori devono farne man bassa, prima che diventi tutto neutronio».

   «Ne approfittiamo per attaccarli?» chiese Lantora, incerto.

   «A parti invertite, loro lo farebbero di certo» ammise il Capitano. «Ma l’Unione si basa su un’altra filosofia. Torniamo a Tuonela, vediamo come se la sta cavando la Coalizione».

 

   Ciò che seguì rimase stampato nella memoria degli ufficiali come un vivido affresco, o come una sinfonia che non si dimentica. I tronconi fiammeggianti del Leviathan cadevano verso la stella di neutroni. Le intense radiazioni arrossavano già lo scafo. Gli incursori rimasero agganciati fino all’ultimo, facendo man bassa di tutto il trasportabile. Nessuno seppe quale lotta disperata avessero condotto i pirati del Leviathan per trovare un posto su quelle navi. Forse riuscirono a conquistarne alcune, o forse caddero falcidiati dai loro stessi colleghi. Infine gli incursori ripartirono, con gli scafi arroventati e invasi dalle radiazioni. Uno, danneggiato dalla battaglia, rimase agganciato al Leviathan e ne condivise il destino.

   Nel frattempo l’Enterprise tornò al planetoide. Lungo la strada incontrò e distrusse due incursori che erano rimasti indietro. Quando tornò nell’orbita di Tuonela, il dramma si era ormai compiuto. Navi pirata e navi della Coalizione andavano alla deriva, sventrate, nello spazio invaso di detriti. La Coalizione aveva perso un terzo delle navi da guerra, ma tutti i trasporti si erano messi in salvo, portando via i civili e l’essenziale per mantenerli in vita. Quanto ai pirati, le loro perdite ammontavano a oltre la metà. Gli incursori superstiti calarono verso Tuonela come locuste, sperando in un bottino che ripagasse i sacrifici. Ciò che restava della Coalizione lasciò in fretta l’orbita, diretta al punto di rendezvous. Tutto era pronto per l’ultimo atto.

   «Non c’è più nulla che possiate fare» disse Suspiria, comparendo in plancia con l’aspetto da bambina. «Andate, l’impatto è imminente. I pirati non avranno né la soddisfazione della vittoria, né l’accesso alle nostre tecnologie».

   «Cavitazione quantica, ora!» ordinò Chase. L’Enterprise proiettò il condotto di cavitazione e vi balzò dentro... appena in tempo.

   Prima un troncone e poi l’altro del Leviathan entrarono in collisione con la stella di neutroni. Perforarono il guscio di nuclei atomici ferrosi, spesso pochi metri, e toccarono il neutronio puro sottostante. Quella materia superdensa e superconduttiva non poteva restare inerte a un simile impatto. La reazione fu quella che gli astronomi chiamano “stellamoto”. Un’onda di neutronio percorse la pulsar, riassestandone la superficie. Parte della sua energia angolare fu convertita in energia radiante. La stella rallentò, emettendo un impulso di 1037 kW, fra onde elettromagnetiche e gravitazionali. Il fronte dell’onda si allargò alla velocità della luce e in pochi minuti raggiunse Tuonela. Alcune navi pirata partirono in curvatura appena in tempo. Le altre, soprattutto incursori che risalivano dalla superficie, furono spazzate via come fuscelli da un uragano. Il planetoide fu scosso in profondità, mentre potenti cariche esplosive distruggevano la base sotterranea, con tutta la sua tecnologia. La Coalizione non si lasciava dietro nulla.

   Colpito simultaneamente da dentro e da fuori, Tuonela andò in pezzi. La crosta rocciosa si frantumò e il mantello sciropposo si riversò nello spazio, mettendo a nudo il nucleo. Tutto si disperse e si solidificò in triliardi d’asteroidi. Alcuni dei più grossi ricaddero uno sull’altro, schiantandosi ancora, sino a formare un corpo informe e bitorzoluto. Ma la maggior parte dei detriti si sparpagliò nel sistema. Nell’arco di alcuni millenni le loro orbite si sarebbero stabilizzate, formando una piccola cintura d’asteroidi.

   Alla pulsar, invece, bastarono pochi secondi per quietarsi. Il suo campo elettromagnetico si riformò. La superficie bianco-azzurra tornò più liscia di uno specchio. C’era un piccolo aumento nella sua massa di neutronio: quanto bastava per riempire un ditale. In quei nuclei atomici pressati c’era tutta la materia che un tempo aveva costituito il Leviathan, la nave-relitto, terrore di Andromeda.

 

   Il giorno dopo l’Enterprise si manteneva in cavitazione. Il Capitano era nel suo ufficio, a leggere i rapporti delle varie sezioni. La nave in sé non stava male. L’ultima battaglia non aveva provocato gravi danni e oltre al timoniere non c’erano vittime. Ma la rottura con la Coalizione era l’incidente più grave occorso da quand’erano entrati in Andromeda. Impediva a Chase di elaborare strategie di ampio respiro. Era servito tanto per trovare dei supersiti, degli alleati... e pochissimo per perderli. «Almeno abbiamo ottenuto informazioni su Andromeda e la Scourge» si disse Chase, cercando di vedere il bicchiere mezzo pieno. Finalmente aveva un’idea di come stessero le cose in quella galassia. Peccato che fossero così catastrofiche!

   L’attenzione di Chase fu distratta dal segnale d’ingresso. «Avanti» disse il Capitano, disattivando l’oloschermo con i rapporti.

   Era Grenk. Il Tellarita si fece avanti, con aria imbarazzata. «Ho... ehm... trovato il segnalatore dei pirati, Capitano» mormorò.

   «L’ha disattivato?».

   «L’ho disintegrato. Tanto per essere sicuro. Stiamo ancora setacciando la nave, ma non sono emersi altri fari subspaziali. Anche Suspiria ci dà una mano. Dice che non avverte alcun segnale» spiegò Grenk.

   «Non l’avvertiva neanche prima» notò Chase.

   «Prima non lo stava cercando. E lo stesso vale per noi» spiegò l’Ingegnere Capo. «Signore... mi assumo tutte le responsabilità dell’accaduto. Quando abbiamo imbarcato quella dannata navetta, avrei dovuto per prima cosa accertarmi che non stesse trasmettendo. Così avremmo evitato la battaglia e la rottura con la Coalizione» disse mortificato.

   «Non gliene faccio una colpa» sospirò Chase. «Siamo stati tutti distratti dagli eventi delle ultime settimane. Più ci addentriamo in questa galassia, più sembra di scendere all’Inferno. E lei ne sa qualcosa, vero? So che l’esperienza sul Leviathan l’ha traumatizzata. Soprattutto la sua... ehm, trasformazione».

   «Intende la mia morte temporanea? Sì, abbastanza» ammise Grenk, rabbrividendo. «Apsu e Raav mi stanno aiutando a venirne fuori. A proposito del Consigliere, è ancora...».

   «Sulla nave degli Uiin, già» confermò il Capitano. «Dobbiamo seguire la Coalizione per riprendercelo. Per fortuna Suspiria è rimasta a bordo».

   «È una strana creatura» commentò il Tellarita. «Appare e scompare... a volte è una bambina, in altri casi un essere gelatinoso. Mette ansia a tutti».

   «Già, sembra un poltergeist» convenne il Capitano. «Sarebbe una presenza spiritica o demoniaca. Un’entità dispettosa e combinaguai» spiegò, notando la perplessità dell’Ingegnere Capo. «Fortunatamente è ancora dalla nostra. Pensi che ci ha dato le coordinate della sua base, dove s’è radunata la Coalizione. Se rivogliamo il nostro Consigliere dobbiamo andare lì. Dopo esserci assicurati che i pirati non possano più seguirci» puntualizzò.

   «Continueremo la bonifica» promise Grenk. «Probabilmente è superfluo, ma... in questa galassia della malora non si è sicuri di nulla. E la mia negligenza ha già fatto abbastanza danni» aggiunse, abbattuto. Fece per andarsene, ma Chase si alzò e lo trattenne.

   «Aspetti, Grenk! Le dicevo che Andromeda ci ha colpiti al cuore» disse il Capitano, scrutando il suo Ingegnere. «Lei in particolare ne ha sofferto parecchio, ma non deve lasciarsi andare. In questi anni le ho dato i compiti più ardui e lei li ha sempre portati a termine. Ha realizzato la Phoenix, il sensore temporale, le capsule crono-statiche. Ora sta riparando il propulsore cronografico. Lei è un maledetto geniaccio, e che sia dannato se la guarderò sprofondare nella depressione e nei rimorsi, senza farle sapere quanto la stimo. Questo vale anche per gli ufficiali. Siamo tutti con lei, Grenk; non lo dimentichi» disse con decisione.

   «Beh, grazie» mormorò il Tellarita, imbarazzato ma anche rincuorato. «Il propulsore sarà riparato entro dieci giorni. Ho tre squadre che si alternano nei lavori, per non avere tempi morti. Quando riavremo il Consigliere e il propulsore sarà in linea... che faremo? Torneremo a casa?».

   «Lo vorrebbero in molti» rispose il Capitano. «Ma una volta tornati che potremmo fare, se non approntare un’inutile difesa contro la Scourge? Credo che per il momento siamo più utili qui ad Andromeda. C’è qualcosa, sulle origini della Melma, che la Coalizione ci nasconde. Dobbiamo scoprirlo».

   «Ha detto che addentrarci ad Andromeda è come scendere all’Inferno. Vuole arrivare in fondo?» chiese Grenk, non più spaventato, ma con uno strano fatalismo.

   «Se necessario, amico mio» rispose Chase, posandogli una mano sulla spalla. «A volte è l’unico modo per rivedere le stelle».

 

   In due giorni a massima cavitazione l’Enterprise raggiunse il luogo indicato da Suspiria. La base della Coalizione era nascosta in profondità all’interno di una densa nebulosa a emissione. Il gas, ionizzato dalle stelle vicine, emetteva una luce rosso cupo. L’astronave si addentrò in quel mare sanguigno.

   «Rilevo alti livelli di radiazioni, ma gli scudi tengono» informò Terry. «Sembra un altro buon nascondiglio dalla Scourge. Come lo chiameremo?».

   «Nebulosa Stigia» disse il Capitano, che ormai ci aveva preso gusto ad attribuire nomi infernali alla geografia di Andromeda. «Cerchi la stazione di Suspiria. Ormai dovremmo esserci».

   «Se è occultata, potrei avere difficoltà» ammise Terry.

   «Ci penso io» disse Suspiria, sbucando da chissà dove in forma umana. «Torno dai miei alleati per convincerli a parlarvi. In fondo la stazione in cui si trovano è la mia. Dovranno ascoltarmi». Svanì in un bagliore giallastro.

   Pochi minuti dopo ci fu il cambio del turno e gran parte del personale di plancia fu sostituito. Chase e gli ufficiali superiori però rimasero, aspettandosi la risposta della Coalizione da un momento all’altro. L’ultimo ufficiale a ricevere il cambio fu il timoniere.

   «Permesso di tornare in servizio, Capitano?» chiese T’Vala, facendosi avanti a occhi bassi. Dopo la sua guarigione a opera di Onaya era rimasta per giorni in infermeria, sottoposta alle analisi e tenuta sotto stretta osservazione. Ma tutti gli esami avevano indicato valori nella norma, per una meticcia Vulcaniana/Betazoide. Così era stata dimessa.

   «Permesso accordato, Tenente Shil» disse il Capitano, un po’ più formale del solito. Notò che la timoniera cercava di darsi un contegno, ma era chiaro che si vergognava da morire.

   «Grazie, signore» disse T’Vala, evitando di guardare qualunque cosa non fosse il pavimento. Andò silenziosamente alla sua postazione e sedette tutta rigida. Sentiva gli occhi dei colleghi ancora su di lei. Avrebbe preferito sprofondare, piuttosto che prolungare quella tortura.

   Anche se non aveva ricordi precisi di quanto accaduto dopo lo scontro con Suspiria, e in particolare del rito di Onaya, T’Vala rammentava bene i giorni precedenti. Ricordava di aver ucciso due uomini sul Leviathan, di aver ignorato gli ordini del Capitano e di averlo persino minacciato. Erano infrazioni da corte marziale, se non si fosse appurato che in quei momenti era incapace d’intendere e volere. Per fortuna il verdetto dei medici l’aveva sollevata dalle responsabilità e il Capitano l’aveva avallato. Ma questo non la faceva stare meglio.

   «Siamo felici di riaverla fra noi, T’Vala» disse Chase ad alta voce. «La plancia non era la stessa senza di lei. E non si dia troppa pena per le sue azioni: fino all’ultimo ha cercato di salvarci. Nessun’altra vittima della Barriera ha mai fatto tanto». Con un futuro quanto mai incerto davanti a loro, il Capitano sentiva di dover restituire ai suoi ufficiali la fiducia in se stessi.

   T’Vala si girò con la testa. Non disse nulla, ma piegò l’angolo della bocca in un sorriso appena accennato e guardò Chase con gratitudine. L’attimo dopo era di nuovo concentrata sui comandi.

   «C’è del movimento davanti a noi» avvertì Terry, evidenziando un settore di spazio sullo schermo. Una grande stazione spaziale stava apparendo dal nulla, disegnando la sua sagoma scura contro le volute rosse della nebulosa. Aveva una simmetria radiale, con un corpo centrale da cui si protendevano otto strutture più sottili, a forma di spatola. Erano agganciate in punti diversi della stazione: le tre superiori puntavano in alto, le due centrali erano dritte, mentre le tre inferiori si rivolgevano in basso. L’effetto d’insieme era armonioso, come se la base fosse una grande creatura che allargava le sue appendici nello spazio.

   «Somiglia molto alle stazioni del Custode e di Suspiria che la Voyager trovò nel Quadrante Delta» notò Terry. «Questa misura cinque km da un’estremità all’altra. Contiene 30.000 segni vitali, decine dei quali si direbbero Nacene».

   «Il Clan degli Esuli di cui parlava Suspiria» riconobbe Chase. «Questa è la loro base, anche se ospita gli alleati della Coalizione».

   «La stazione ha un potente reattore tetrionico, che alimenta scudi e armi. Si direbbe dieci volte più armata di quella scoperta dalla Voyager» rilevò Terry, con una punta di nervosismo.

   «Suspiria non scherzava, quando ha detto che hanno potenziato gli armamenti» commentò il Capitano.

   «Forse non è troppo tardi per la diplomazia...» suggerì Ilia.

   «Capitano, una flotta esce dall’occultamento. Si direbbero le navi fuggite da Tuonela, più alcune altre. Hanno gli scudi alzati e le armi in linea» avvertì l’IA.

   «O forse sì» gemette la Trill.

   Chase si avvicinò allo schermo e osservò le navi appena comparse, riconoscendone molte viste a Tuonela. Gli scafi portavano ancora i segni della battaglia. Le perdite della flotta erano però compensate da altre astronavi, evidentemente la guarnigione della stazione. A conti fatti c’erano 39 vascelli: abbastanza da distruggere l’Enterprise, se avessero voluto. Il Capitano si chiese quant’erano potenti le civiltà di Andromeda, se le loro briciole erano ancora così grandi.

   «Ci chiamano dalla stazione» avvertì Grog.

   «Sullo schermo». Chase si trovò davanti gli stessi Consiglieri che aveva incontrato di persona pochi giorni prima, riuniti stavolta intorno a una tavola a ferro di cavallo. Sebbene le loro fisionomie aliene fossero difficili da decifrare, c’era da aspettarsi che fossero oltraggiati. Anche Suspiria era con loro, nella sua forma gelatinosa, ma rimase in silenzio. Per quanto fosse contraria al verdetto del Consiglio, si trovava in minoranza.

   «Ancora voi, umanoidi!» protestò Reshef. «Vi avevamo detto chiaramente di non seguirci. Cosa volete? Attirare le orde dei pirati anche contro questo baluardo?».

   «I pirati non ci seguiranno più» garantì Chase. «Abbiamo eliminato il loro segnalatore».

   «Troppo tardi!» disse il Kelvano. «Ormai il danno è fatto. Comunque dov’era?».

   Chase esitò, ma Fanior si fece avanti e rispose al posto suo. L’Ambasciatore era entrato poco prima, in forma umana, assieme agli ufficiali del nuovo turno. «Dentro la navetta del Leviathan» disse. Per quanto si dominasse, un muscolo gli si contrasse nella guancia.

   «Allora il tuo esilio è confermato» ribatté il leader Kelvano, inflessibile. «Vedo che ti sei già assuefatto allo stile di vita umano, nell’aspetto e nel linguaggio. Buon per te... presto non ricorderai nemmeno d’esser stato dei nostri». Era difficile immaginare un insulto peggiore, per un Kelvano, ma Fanior lo sopportò stoicamente.

   «Non siamo qui con intenti polemici, ma solo per riavere il nostro Consigliere» intervenne Chase, prima che la situazione degenerasse. «Era ancora con gli Uiin quando iniziò la battaglia. Prima ce lo ridarete, prima toglieremo il disturbo».

   «Allora ve lo rendiamo subito!» disse Reshef, accompagnandosi con il gesto deciso di un tentacolo.

   Chase segnalò a Lantora di abbassare gli scudi per il tempo necessario al teletrasporto. Non appena Apsu fu a bordo, l’Enterprise ripristinò le difese.

   «Non tutto il male viene per nuocere» disse il leader degli Uiin, per stemperare la tensione. «I predoni hanno perso molte più navi di noi nell’ultima battaglia. Sei delle loro bande sono state falcidiate. Ciò significa che la frequenza dei loro attacchi diminuirà. E in futuro si asterranno dal concentrare ancora le forze. Dobbiamo sfruttare questo vantaggio».

   «Un fortunato sviluppo, che però non discolpa gli umanoidi» puntualizzò il leader kelvano.

   «Ci disprezzavate già da prima che arrivassero i pirati!» sbottò Lantora, esasperato. «Si può sapere che avete contro di noi?!». Chase gli fece segno di tacere, per non peggiorare le cose, ma la provocazione era ormai raccolta.

   «Come, non glielo hai detto?» chiese Reshef, rivolgendosi a Suspiria. «Pensavo che ormai non avessi segreti per i tuoi nuovi amici».

   Chase capì che il favore di Suspiria nei loro confronti aveva creato disaccordo nel Consiglio. Ma le parole di Reshef tradivano qualcosa di molto più importante. «Se ha delle rimostranze, può farle a noi di persona» disse, affrontando il Kelvano.

   «Non è opportuno discuterne...» disse il leader degli Ornithoidi, minuscolo in confronto al Kelvano.

   «Perché no? In fondo è giusto che sappiano» disse il capo degli Uiin.

   «Sapere cosa?!» esclamò Chase, indispettito e anche preoccupato da quel tergiversare.

   «Che quasi certamente è stata una specie umanoide a creare la Scourge!» sbottò Reshef.

   Per lunghi secondi calò un silenzio surreale. Chase aprì la bocca, ma le parole non vollero uscire, quindi la richiuse sconfitto. Fatto un respiro profondo, ci riprovò: «Ci avete detto che non esistono umanoidi ad Andromeda. Ci avete anche mostrato il punto d’origine della Scourge, affermando che i suoi creatori si nascondono. Come potete affermare che siano umanoidi?». Il fatto d’essere Umano non lo rendeva necessariamente un fan di tutte le altre specie umanoidi. Anzi, ne aveva incontrate alcune di mostruose, come Vorgon e Na’kuhl. Ma se erano stati degli umanoidi a creare quel flagello, ci teneva a saperlo con certezza.

   «Diglielo» esortò Reshef, rivolto a Suspiria.

   La Nacene riprese l’aspetto da bambina, per parlare più agevolmente. «Ti avevo detto che le domande sugli umanoidi portavano a un approdo oscuro» disse con una serietà che contrastava con la vocetta infantile. «Questo è il motivo. Esiste, o almeno esisteva, una specie umanoide ad Andromeda, che da tempo immemore vive nel nucleo, rifiutando qualunque contatto. Questi umanoidi vennero da oltre la galassia, milioni di anni fa. I miei avi Nacene assistettero alla loro migrazione, osservandoli a distanza. Gli umanoidi attraversarono la galassia fino al nucleo e qui si stabilirono, sottraendosi alla vista. Per milioni di anni non fecero più parlare di sé.

   Poi, appena mille anni fa, ci fu una seconda migrazione, ancora più consistente. All’epoca ero nella Via Lattea, ma l’evento ebbe dei testimoni qui ad Andromeda. Per quattrocento anni ci fu un gran traffico di astronavi degli umanoidi, diretti verso il nucleo, forse sulle tracce dei loro simili. L’esodo si concluse seicento anni fa; subito dopo eruppe la Scourge».

   «Siete certi che le migrazioni portassero nel punto da cui è scaturita la Melma?» domandò Chase.

   «Il primo esodo è così antico che non lo sappiamo con certezza, ma sul secondo non ci sono dubbi. La loro destinazione era quella... ed erano umanoidi!» proruppe Reshef.

   «Che tipo d’umanoidi? Quale specie di preciso?» chiese ancora il Capitano. Aveva un orribile presentimento.

   «Non sappiamo come definissero se stessi, ma in quei secoli di migrazione ci furono sporadici contatti» rispose Suspiria. «Questo era il loro aspetto». Sfruttando le sue capacità metamorfiche, assunse le sembianze di un’umanoide.

   Chase seppe cosa sarebbe diventata, prima ancora che la trasformazione fosse completa. Avrebbe voluto distogliere lo sguardo, ma si costrinse a osservare, sebbene la visione gli spezzasse il cuore. Davanti a lui c’era un’umanoide vestita di bianco. Aveva la pelle liscia, di un beige scuro. I lineamenti erano appena accennati: bocca sottile, naso schiacciato, orecchie senza padiglione. Il cranio glabro, dagli occhi infossati, era allungato all’indietro e solcato da una lieve depressione, contornata da vene in evidenza. Era la statua che Chase aveva trovato nella Sfera di Dyson. Era l’ologramma estratto dai marcatori genetici che l’Unione mostrava come segno di fratellanza. Era la Proto-Umanoide.

 

   Chase non fu il solo a vacillare. Tutti i federali erano ammutoliti, sbalorditi oltre misura. Nessuno, salvo forse Terry, riusciva a comprendere sino in fondo le implicazioni di quell’immagine. Era troppo.

   «Vedo che questa specie non vi è nuova» commentò Suspiria, con voce più adulta. «L’avete già incontrata, vero?».

   «Sì e no» mormorò Chase, riprendendosi con difficoltà. «Ne abbiamo trovato i resti. Antiche megastrutture abbandonate, fra cui una Sfera di Dyson. Popolazioni trasferite da un pianeta all’altro da misteriosi “Preservatori”. E anche... una firma genetica, nel nostro stesso DNA» disse, toccandosi il petto. «Questi sono i Proto-Umanoidi».

   «I vostri creatori. I vostri preservatori. E ora... i distruttori cosmici!» inveì Reshef, sollevando i tentacoli fino al soffitto. «Come spiega questo cambiamento?».

   «Non me lo spiego» ammise Chase. «Ma cercherò la risposta, prima che la Scourge esca da Andromeda. Se i creatori sono divenuti distruttori, dobbiamo capire perché. E l’unico modo è chiederglielo di persona» disse con risolutezza.

   «Capitano, intende...?» mormorò Ilia, atterrita.

   «Andremo al punto d’origine della Scourge e parleremo con loro faccia a faccia, sì!» esclamò il Capitano, battendosi il pugno sul palmo. «Cercheremo di convincerli a ritirare la Scourge, prima che sia troppo tardi. E se non ci ascolteranno, beh... l’Enterprise è un arsenale. Dall’ultima ristrutturazione imbarchiamo un certo quantitativo di Materia Rossa. Se necessario minacceremo il loro pianeta, o la loro megastruttura. Così perderanno qualunque vantaggio sperassero di ottenere dalla distruzione delle altre specie».

   «Sarebbe un genocidio...» ricordò Terry.

   «C’è in gioco l’Universo» rispose Chase con sguardo fiammeggiante. «Non la Terra. Non l’Unione. Non la Via Lattea. Stiamo parlando di tutto l’Universo: quello osservabile e quello che non possiamo vedere, le specie umanoidi e non. Tutta quanta la vita, dai batteri nelle pozzanghere ai bambini nelle culle. Non è mai, mai esistita una causa più grande di questa. E se dobbiamo dannarci per salvare il Cosmo, ebbene sia! Chi è con me?!» chiese con voce stentorea, rivolto a tutta la plancia.

   Ci fu un attimo di gelo. Poi Lantora aggirò la consolle tattica e si fece avanti. «Abbiamo rischiato tutto per salvare i nostri mondi dal Fronte Temporale. Abbiamo anche dovuto fare scelte discutibili... è la guerra!» disse addolorato. «Beh, stavolta siamo oltre la guerra. Noi siamo gli anticorpi dell’Universo: dobbiamo trovare la radice dell’infezione ed estirparla. Io sono con lei, Capitano».

   «Lo sono anch’io... che il Grande Flusso Materiale ci accompagni!» disse Grog, sfiorandosi le orecchie da Ferengi in gesto scaramantico.

   «Io pure. Le esigenze dei molti sopravanzano quelle dei pochi. Guiderei l’Enterprise in un buco nero, se servisse a fermare la Scourge» affermò T’Vala con risolutezza, alzandosi in piedi.

   Gli altri ufficiali li imitarono, uno dopo l’altro. Chi era seduto si alzò, chi era già in piedi fece un passo avanti. Ma Chase aveva occhi solo per Ilia, il suo Primo Ufficiale, la voce dell’esperienza.

   La Trill era combattuta. Se fosse stata soggetta alla personalità di Jadzia o Ezri, o se fosse stata semplicemente se stessa, avrebbe già accettato. Ma al momento la sua personalità era più incline a sfuggire il conflitto. Pure, s’impose di fare ciò che le circostanze richiedevano. Esercitò il suo controllo sopra la personalità del decimo Ospite. «Verrò. Se la Melma è opera degli umanoidi, allora è nostra responsabilità fermarla» disse.

   «E io vi accompagnerò» promise Fanior, serio e composto. «Oggi non esistono più umanoidi e non. Oggi la Vita del cosmo deve parlare con una sola voce, e quella voce dice che non ci estingueremo».

   Non restava che Terry. Chase la osservò, ben sapendo che tremenda lotta si svolgeva nelle sue subroutine. L’Intelligenza Artificiale era stata progettata per obbedire al regolamento della Flotta Stellare. Ma in quanto proiezione isomorfa d’ultima generazione, aveva anche un certo arbitrio. La sua personalità si era arricchita, nei sette anni trascorsi dalla sua entrata in servizio, e quel margine di manovra si era ampliato notevolmente. «Dove va l’Enterprise, vado anch’io» disse in un soffio. «È probabile che ci dirigiamo verso la rovina. Ma se è tutto l’Universo a rovinare, non vorrei affrontarla in altro modo, o con altre persone» rivelò, commuovendo i colleghi.

   «Allora è deciso. Cercheremo la testa del serpente, se ne ha una» disse Chase. Si rivolse nuovamente ai leader della Coalizione, che avevano osservato la scena: «Se dovessimo tornare, spero che ascolterete almeno il nostro resoconto».

   I Consiglieri si scambiarono qualche occhiata, interdetti. Poi Reshef parlò: «La vostra illogicità è sconvolgente... e contagiosa. Ma sì, se ne uscirete vivi ascolteremo volentieri quanto avrete da dire. Sapete dove trovarci».

   «Manderò alcuni del mio Clan nella Via Lattea, per avvertire l’Unione di quanto sta accadendo» promise Suspiria, riassumendo l’aspetto da bambina umana. «Così potrà prepararsi al peggio... se c’è modo di prepararsi».

   «Lo apprezzo; abbi cura di te» raccomandò Chase. Guardò Suspiria e gli altri Consiglieri per quella che pensava fosse l’ultima volta. Al suo gesto, Grog chiuse la comunicazione. Lo schermo inquadrò di nuovo la stazione Nacene, scura contro la nebulosa cremisi. Sembrava che le fiamme di guerra si levassero già intorno all’Enterprise.

   «T’Vala, rotta verso il cuore della Scourge» ordinò Chase, prima che lui o qualcun altro potessero ripensarci. «Quanto tempo impiegheremo?».

   «Considerando che ogni nostro spostamento ci ha avvicinati al nucleo, basteranno dieci giorni a massima cavitazione» rispose la timoniera, impostando la rotta. «Per allora il propulsore cronografico sarà riparato».

   «Bene... è la sola via di fuga sicura. Ma per allora dobbiamo preparare la nave. Tutte le riparazioni devono essere completate e l’equipaggio deve sapere cosa l’aspetta» disse Chase.

   «E i civili?» chiese Ilia.

   «Nel suo attuale stato d’animo, la Coalizione non li accoglierebbe. E se li sbarcassimo su un pianeta, sarebbero facile preda della Scourge» sospirò Chase. «Temo che dovranno venire con noi. Ricordate che abbiamo un asso nella manica: la Phoenix. Finora non ho voluto usarla, per via degli Accordi Temporali, ma ormai non hanno importanza. Se saremo alle strette, la useremo per tornare indietro nel tempo e avvertirci degli ostacoli che ci aspettano. Forse dovremo farlo una volta; forse cento. Ma alla fine prevarremo!» disse il Capitano con rinnovata fiducia, risedendo in poltrona.

   «Rotta tracciata, siamo pronti» disse T’Vala.

   «Attivare».

   Le gondole e il deflettore dell’Enterprise s’illuminarono. L’astronave abbandonò la nebulosa purpurea e si diresse a massima velocità verso il nucleo di Andromeda, dove l’attendeva la sua battaglia più disperata.

 

   Localizzato a prua dell’Enterprise, l’arboreto era l’ambiente più vasto presente a bordo. Il soffitto e i muri olografici davano la sensazione d’essere realmente su un pianeta di classe M. La brezza simulata diffondeva il profumo dei fiori. Vere farfalle aleggiavano sull’erba e veri uccelli nidificavano tra gli alberi, facendo udire i loro richiami. Un ruscello, sormontato da un ponte di legno, portava l’acqua in un laghetto. Sulle sue rive i bambini potevano costruire castelli di sabbia o divertirsi con altalene e altri giochi. Spesso giocavano a nascondino tra gli alberi, mentre gli adulti passeggiavano sui vialetti di ghiaia e osservavano le aiuole fiorite. Era il luogo più rilassante della nave, perciò Lantora non si stupì che T’Vala si fosse rifugiata lì. Aveva chiesto a Terry di localizzarla ed entrò nell’arboreto senza essersi dato appuntamento con lei. Pensava che sarebbe stato più facile, se il loro incontro fosse parso casuale.

   Il sole era basso all’orizzonte olografico e l’aria cominciava a rinfrescarsi, perché l’arboreto simulava fedelmente l’alternanza del giorno e della notte. Anche per quell’ora, i visitatori erano pochi. Su tutto gravava un’atmosfera d’attesa: tra pochi giorni l’Enterprise avrebbe raggiunto il cuore della Scourge.

   Passando sul ponticello, Lantora vide una grossa sagoma verdastra che nuotava sotto il pelo dell’acqua. «È lei, Consigliere?» chiese, sporgendosi dalla balaustra.

   «In persona!» confermò lo Xindi Acquatico, emergendo con il muso fuori dall’acqua. Un dispositivo fissato alla gola traduceva i suoi fischi, piuttosto striduli quando li emetteva fuori dal suo elemento. «Dopo l’esperienza con gli Uiin, l’alloggio e l’ufficio mi stavano un po’ stretti. Mi sentivo un pesce nella boccia, non so se mi spiego... così faccio un giro per sgranchirmi le pinne».

   «Sarà stata un’esperienza interessante, la sua» commentò Lantora.

   «Oh, sì... pensi che non ho ancora terminato il rapporto. È difficile descrivere tutto. Mi chiedo, però, se qualcuno lo leggerà» aggiunse Apsu, facendosi più serio.

   «Non approva la nuova missione, vero?» chiese l’Ufficiale Tattico.

   «È una mossa disperata, non occorre che glielo dica. La gente viene nel mio studio in cerca di conforto, ma che posso dirle? Solo che siamo in rotta verso il pericolo» spiegò il Consigliere. Un’altra sagoma verdastra gli passò accanto. Per un attimo lasciò emergere il dorso luccicante d’acqua, poi tornò a immergersi con un colpo di pinna, passando sotto il ponte. «È mia moglie, Tehuti» spiegò il Consigliere. «La scusi, non ha con sé il traduttore».

   «La saluti da parte mia. Ora è meglio che vi lasci... godetevi la serata» disse Lantora.

   «E lei, Tenente? Avrà un po’ di sollievo, prima di questa prova che ci attende?» chiese il Consigliere. «Come va fra lei e T’Vala?».

   «Non lo so ancora» sospirò Lantora. «In questi giorni di preparativi l’ho vista solo in plancia. Spero di riuscire a parlarle... anche se non so bene cosa dire».

   «A volte non servono chissà quali parole. Basta la vicinanza» suggerì Apsu. S’immerse un attimo, per darsi la spinta, e spiccò un formidabile salto fuori dall’acqua. Passò sopra il ponticello e sopra Lantora, che alzò la testa meravigliato, riparandosi col braccio dagli schizzi. Atterrò dall’altra parte, con un gran tonfo, e nuotò via svelto, sulla scia della consorte.

   Lantora scosse la testa, meravigliato, e proseguì. Si lasciò alle spalle il fiumiciattolo, per seguire uno dei vialetti bianchi. Sapeva qual era la zona del parco preferita da T’Vala. Passò oltre la cortina degli alberi e raggiunse un piccolo spiazzo riparato. La vegetazione lo circondava su tre lati, nascondendolo al resto del parco. Il quarto lato dava sull’orizzonte olografico, dove il sole tramontava in un tripudio di nubi rosa e dorate.

   T’Vala sedeva sull’acciottolato bianco, in posa di meditazione, con le gambe incrociate. Essendo rivolta al tramonto gli dava le spalle, ma Lantora fu certo che avesse sentito i suoi passi sulla ghiaia. Avanzò adagio e le si sedette a fianco. Guardandola di sbieco, vide che aveva gli occhi chiusi.

   «Non la sento più» disse T’Vala dopo un po’.

   «Che cosa?» chiese Lantora.

   «La musica dell’Universo. Le stelle variabili che pulsano come cuori... il canto delle nebulose a emissione... il brontolio dei buchi neri. È tutto finito» sospirò la mezza Vulcaniana.

   «Ti dispiace?».

   «No. Era una bella sinfonia, ma... il silenzio è d’oro» disse T’Vala. Finalmente aprì gli occhi e si girò a guardarlo. «Purtroppo non posso rimangiarmi quel che ho detto, quand’ero... quell’altra» disse con sguardo tragico.

   «Ehi... non m’importa cos’ha detto quell’altra. M’importa solo che tu sia di nuovo qui» chiarì Lantora. T’Vala stava per replicare, ma lo Xindi le passò le mano dietro al collo e l’avvicinò a sé, baciandola con trasporto. Quasi si rovesciarono sull’acciottolato. «Che si frellano la Barriera, i pirati, la Scourge e tutto il resto!» disse Lantora, quando ripresero fiato. «Non possiamo riprendere da dov’eravamo prima?».

   «Possiamo» disse T’Vala, in tono agrodolce. «Vorrei solo che ci restasse più tempo».

   «Non è ancora scritta l’ultima parola, imzadi» disse Lantora, cingendola con il braccio. T’Vala sospirò e gli posò la testa sulla spalla. Rimasero abbracciati, osservando gli ultimi fuochi dorati del tramonto.

 

   «La nostra speranza era che arrivaste tutti insieme, in amicizia e fratellanza, a sentire questo messaggio. E adesso che mi vedete e riuscite a sentirmi, la nostra speranza si è realizzata. Voi siete un monumento... non alla nostra grandezza, ma alla nostra esistenza. Questo desideravamo: che anche voi conosceste la vita, e che teneste viva la nostra memoria. C’è una piccola parte di noi in ognuno di voi... e di conseguenza, qualcosa di voi in tutti gli altri. Ricordatevi di noi!» disse la Proto-Umanoide biancovestita. Il messaggio era finito, ma l’ologramma rimase, immobile, così che i due spettatori potessero osservarlo ancora.

   «Non c’è altro?» chiese Fanior, un po’ deluso.

   «Questo è tutto» confermò Chase. «Non le dico che dibattiti hanno suscitato queste parole nei popoli dell’Unione. Ma è niente in confronto a quel che direbbero, se sapessero che questi stessi esseri hanno deciso di cancellarci» aggiunse con amarezza.

   «Non ha idea di cosa potrebbe spingerli?» chiese Fanior, scrutando la Progenitrice.

   «Ne ho parecchie» rivelò il Capitano. «Ma chissà se ce n’è una che si avvicina alla realtà! Forse i Progenitori temono d’essere rimasti indietro rispetto alle specie che hanno generato. Magari temono le superarmi capaci di distruggere le loro megastrutture: il Tox Uthat fa esplodere le stelle, la Materia Rossa le fa collassare, la Molecola Omega distrugge il subspazio. Persino il Dispositivo Genesis deve sembrargli un affronto, perché significa che li abbiamo superati in un campo nel quale si credevano imbattibili, la creazione della vita. La Guerra Temporale, poi, deve terrorizzarli, perché nemmeno il loro passato è più al sicuro. Tutto sommato non c’è da stupirsi se vogliono eliminarci» ammise.

   «Se temono gli umanoidi, perché hanno diffuso la Scourge ad Andromeda?» obiettò Fanior.

   «Chissà... forse gli è sfuggita di mano» ipotizzò il Capitano.

   «Uhm... può essere, ma ancora non comprendo la loro psicologia» ammise l’Ambasciatore. «Se i Proto-Umanoidi sono davvero i vostri creatori, perché non sono entrati in contatto con voi? E perché ora hanno deciso di distruggere non solo voi, ma tutta la vita dell’Universo?».

   «A volte negli umanoidi si sviluppa l’insana pulsione a distruggere ciò che hanno creato» spiegò Chase con gravità. «Aspetti, le mostro una cosa». Andò sotto l’arco d’ingresso del ponte ologrammi, che era rimasto visibile, e digitò qualcosa sui comandi.

   L’immagine della Proto-Umanoide svanì e la sala ologrammi piombò nell’oscurità. Poi un intenso cono di luce fu proiettato davanti all’Ambasciatore. Vi apparve un antico dipinto a olio, che galleggiava a un metro da terra. Fanior si avvicinò, osservandolo con interesse. «Arte terrestre» comprese. «Classica o moderna?».

   «È a cavallo fra le due epoche» spiegò Chase, affiancandosi a lui. «Che ne pensa?».

   «È una scena cruenta. Orribile» disse Fanior.

   «Non sa il peggio: quello è suo figlio» rivelò il Capitano, indicando il quadro. Fanior ebbe un moto di disgusto e Chase non poté dargli torto, sapendo che il Kelvano era stato padre.

   Davanti a loro campeggiava uno dei quadri più sconvolgenti mai dipinti sulla Terra: Saturno che divora i suoi figli, di Goya. Era un’immagine terrificante. Sullo sfondo nero come catrame campeggiava il Titano, in preda a una furia cannibalesca. Gli occhi allucinati quasi schizzavano dalle orbite, le fauci spalancate inghiottivano avidamente la carne del figlio, le mani avide stringevano il corpicino mutilato. Dalle scarne membra di Saturno emanava una violenza folle, animalesca. Nelle sue grinfie il corpo del figlio non era che un brandello di carne, rosso vivo là dove gli avidi morsi avevano già staccato la testa e un braccio.

   «Qual è il significato di questa scena?» chiese Fanior, reprimendo il disgusto.

   «Racconta un mito terrestre, dell’antica cultura greca» spiegò Chase. «Crono, detto anche Saturno, era uno dei dodici Titani, gli dèi ancestrali nati dal Cielo e dalla Terra. Era il più giovane, ma anche il più ambizioso e spietato, tanto che detronizzò il padre, mutilandolo perché non generasse altri figli. Assunse la signoria del mondo, come dio del tempo e delle stagioni. Ma viveva nel costante assillo di essere spodestato, come lui aveva spodestato il padre. Così, ogni volta che sua moglie Rea dava alla luce un figlio, Crono lo rigettava nelle tenebre, divorandolo. Vede, Crono è il Tempo... e il tempo crea le cose solo per divorarle».

   «Come i Proto-Umanoidi» comprese Fanior. «Essendo eterni, hanno deciso di eliminare la concorrenza».

   «Così pare» disse Chase, con un sorriso amaro. «Molte mitologie terrestri narrano di dèi che entrarono in conflitto coi loro discendenti. I Titani contro gli dèi olimpici... Tiamat contro Marduk di Babilonia... i Giganti di Ghiaccio contro gli dèi dell’Asgard. Anche il mito Klingon narra che la prima coppia creata si ribellò agli dèi e li uccise, tingendo i cieli di sangue. Da quel momento i Klingon bastarono a se stessi» disse con un certo sarcasmo.

   «Forse quei popoli antichi avevano intuito una verità universale» congetturò Fanior. «Ma riguardo a Crono, come finisce la storia?».

   «In un modo che non ci aiuta, temo» disse Chase. «La povera Rea non ne poteva più di veder divorati i suoi figli. Perciò, quando nacque il sesto pargolo, lo nascose su un’isola lontana, affidandolo a ninfe e pastori. Al marito consegnò una pietra strettamente avvolta nelle fasce, che il Titano folle ingurgitò senza masticare, non accorgendosi dell’inganno. Così l’ultimo nato, di nome Zeus, si salvò. Una volta cresciuto affrontò il padre, obbligandolo persino a risputare i fratelli e le sorelle maggiori, ancora vivi grazie alla loro natura divina. I giovani dèi affrontarono i vecchi in una guerra decennale, che sconvolse il mondo. Li sconfissero grazie a nuove armi: il fulmine, il tridente, l’elmo dell’invisibilità. Crono e i suoi fratelli Titani furono incatenati per sempre nell’Oltretomba. Zeus e i nuovi dèi posero i loro troni d’oro sul monte Olimpo e si spartirono la signoria del mondo».

   «Forse possiamo trarne un insegnamento» rifletté Fanior. «Un potere molto antico finisce per diventare cieco, in qualche misura. Si può batterlo con l’astuzia e con nuove invenzioni. Anche noi possiamo renderci invisibili... e abbiamo armi ben più potenti del fulmine».

   «Uhm, sì» ammise Chase. «Bisogna vedere se il nemico ci sta aspettando. Che situazione... quando la Guerra delle Anomalie è finita non avrei mai immaginato di trovarmi di nuovo a questo punto» confessò, assalito dallo sconforto.

   «Non lo dica a me... ho lasciato la Via Lattea convinto di trovare l’Impero Kelvano, non una Resistenza braccata» gli fece eco Fanior. «E ora sono esiliato, mentre la Scourge si espande ogni secondo che passa. Sa, Capitano... sarebbe un bene per l’Universo se i Proto-Umanoidi non fossero mai esistiti» disse, fissandolo severamente.

   «Nel qual caso non esisterebbero nemmeno gli umanoidi come me» notò Chase, con una smorfia amara.

   «È vero» riconobbe l’Ambasciatore. «Comunque la considero un amico, Capitano, e sarò al suo fianco sino alla fine» promise. Gli strinse brevemente la mano, prima di lasciare il ponte ologrammi. Alle spalle del Capitano troneggiava ancora l’immagine di Saturno, in tutta la sua follia cannibalesca.

 

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Capitolo 8
*** Il Cervello Matrioska ***


-Capitolo 7: Il Cervello Matrioska

 

   Le stelle s’infittirono e divennero più rosse, mentre l’Enterprise entrava nel nucleo di Andromeda. C’erano le giganti, prossime a morire come supernove, ma c’erano soprattutto le nane, vecchie di miliardi di anni, eppure solo all’inizio della loro lunghissima esistenza. L’Enterprise non si soffermò in alcun sistema stellare, per quanto ve ne fossero d’interessanti. Si addentrò a massima cavitazione nell’area infestata dalla Scourge, tenendosi alla larga da stelle e pianeti per non essere rilevata. Giunse così in quella zona dove i sensori non rilevavano niente, ma l’analisi gravitazionale tradiva la presenza di una massa, compatibile con un piccolo sistema stellare. L’astronave uscì dalla cavitazione a una certa distanza, già in Allarme Rosso, con gli scudi alzati e le armi pronte. Si avvicinò a velocità d’impulso.

   «Siamo a 3 UA dal pozzo gravitazionale» avvisò Terry di lì a poco.

   «Allora inviamo il nostro biglietto da visita» ordinò il Capitano. Una strana calma regnava sulla plancia. Erano nel luogo più pericoloso dell’Universo conosciuto, e sebbene potessero andarsene, la loro missione li obbligava ad addentrarsi ancor più. Non sapevano se avrebbero trovato i Precursori, né come avrebbero reagito, né se tutto questo li avrebbe aiutati a respingere la Scourge. Ma era l’unica direzione della lotta contro quel nemico senza volto.

   «Biglietto inviato» disse Grog. «Ora sanno che siamo qui, se non se n’erano già accorti» aggiunse a mezza voce.

   «Dovevamo farlo» ricordò Chase. L’Enterprise aveva trasmesso il messaggio della Progenitrice, sperando che i Proto-Umanoidi – se erano loro – lo riconoscessero. Aveva anche inviato il codice genetico delle principali specie dell’Unione, per mostrare da dove veniva e chi trasportava. Per ultimo aveva trasmesso un messaggio di Chase. Era una richiesta d’incontro, per aprire un dialogo e se possibile stipulare un armistizio. Il Capitano non ci sperava molto, ma era un atto dovuto, prima dello scontro totale con una tecnologia antica di quattro miliardi di anni. Nel messaggio ricordava l’origine comune di tutte le specie umanoidi, chiedendo ai Progenitori di fermare lo sterminio, o almeno di spiegare perché si erano improvvisamente trasformati in implacabili distruttori.

   «Nessuna risposta, per ora» disse Grog dopo qualche minuto.

   «Continuiamo ad avvicinarci» ordinò il Capitano. «Signor Grog, ripeta la trasmissione quando saremo a 2 e a 1 UA. Anche se dubito che non l’abbiano rice...». S’interruppe, avvertendo una lieve vibrazione della nave.

   «Siamo stati agganciati da un raggio traente» avvertì Terry. «È il più potente che abbia mai incontrato. Non posso liberarmi».

   «Ecco la risposta» commentò Ilia. «Non è quella che speravamo, ma...».

   «Non è neanche la peggiore» notò Lantora. «Almeno non c’è traccia di Scourge».

   «Per ora» ammonì Ilia. «Le cose potrebbero cambiare, quando saremo nella loro tana».

   «Plancia a sala macchine, tenete pronto il propulsore cronografico» ordinò Chase. «La situazione potrebbe precipitare da un momento all’altro».

   Per diversi minuti l’Enterprise procedette, guidata dal raggio traente. Terry sedeva a capo chino, analizzando lo spazio circostante con i sensori. D’un tratto alzò la testa. «Capitano, è apparsa una navetta a prua» rilevò, inquadrandola sullo schermo. Era molto piccola, con lo scafo perlaceo dalla singolare conformazione geometrica. «Si direbbe... la Phoenix. Ma è ancora nell’hangar 5!» si stupì l’IA.

   «Ahi, brutto segno» si lamentò Chase, sentendo una stretta allo stomaco. «Significa che qualcosa è andato storto. Potrebbe non essere la prima volta che ci avviciniamo a questo sistema».

   «La Phoenix ci chiama con un codice criptato» disse Grog.

   «Sullo schermo». Chase si alzò, avvicinandosi... e vide uno sconvolto Grenk, con la barba bruciacchiata e l’uniforme annerita. I suoi occhi erano allucinati, iniettati di sangue, come se avesse visto il Diavolo in persona.

   «Capitano, che sollievo vederla!» gemette il Tellarita con voce roca. «Ci siete ancora tutti, vero? Non siete ancora entrati in quella... cosa».

   «Grenk! Che le è successo?!» chiese il Capitano, sconcertato. «Le apriamo l’hangar... venga a bordo, così ci dirà tutto». Non voleva abbassare gli scudi dell’Enterprise, e comunque lo scafo in lega molecolare della Phoenix impediva il teletrasporto.

   «Non c’è tempo!» ululò Grenk. «Siamo intrappolati in un maledetto circolo temporale... ogni volta entriamo là dentro e ogni volta falliamo! Chissà quante volte è già successo... decine, centinaia? Non lo so! Ma ogni volta facciamo progressi» aggiunse, lievemente confortato.

   «Si calmi e ci dica tutto con ordine» consigliò Chase, sempre più allarmato.

   «No, non c’è tempo!» ripeté l’Ingegnere, sovreccitato. «E poi, se vi dicessi troppo, loro lo scoprirebbero. Sarebbe la fine! Devo aiutarvi in un modo che non sia chiaro nemmeno a voi, finché non sarà il momento. Il mio primo consiglio è: non fidatevi di nessuno! Là dentro, niente è come appare. In secondo luogo, Capitano... il cerchio è maggiore dell’uguale. Lo tenga a mente, se vuole uscire! E poi, e poi... ah sì, la cosa più importante! Registrate questo codice e nascondetelo da qualche parte. Non leggetelo nemmeno, finché non sarà il momento d’usarlo... quando loro saranno distratti. Yotz, chissà quanti anelli temporali abbiamo ripetuto, per scoprirlo tutto!» ansimò.

   «La Phoenix ci ha trasmesso un complesso codice informatico» disse Grog. «Non capisco di che si tratti».

   «Okay Grenk, ora si calmi e ci spieghi meglio cosa...» cominciò Chase, ma la voce gli venne meno. Grenk e la Phoenix erano scomparsi. «Ma che significa?!» esalò, vedendo lo spazio denso di stelle del Nucleo.

   «Azzardo un’ipotesi» disse Terry. «L’intervento di Grenk ha alterato la linea temporale. Grazie alle informazioni che ci ha fornito, le nostre azioni saranno diverse. Quindi la catena d’eventi che ha portato al suo viaggio nel tempo non avrà luogo. Grenk è svanito perché il suo futuro non esiste più, è cambiato».

   «Ma noi ci ricordiamo di lui» obiettò Chase.

   «Perché le informazioni che ci ha dato sono vitali per operare il cambiamento» spiegò la proiezione isomorfa. «Siamo di fronte a un viaggio nel tempo con trasmissione di dati e permanente alterazione degli eventi... semplice meccanica temporale».

   «Grenk ha detto pure che siamo prigionieri di un circolo temporale» ricordò Ilia, con sguardo cupo. «Quindi siamo condannati a ripeterlo ancora... o stavolta riusciremo a romperlo, con le informazioni che ci ha dato?».

   «Ha detto che a ogni tentativo facciamo progressi» ragionò Chase. «Dobbiamo sperare che questa sia la volta buona».

   «Se solo non fosse stato così sibillino!» protestò Lantora. «Il cerchio è maggiore dell’uguale... che vorrà dire? E chi sono loro, i Proto-Umanoidi?».

   «Stiamo per scoprirlo» disse T’Vala. Le stelle erano scomparse e l’Enterprise vibrava. «Credo che siamo in una barriera occultante, come quella delle Sfere tuteriane, ma molto più grande. Ha un diametro di 1 UA».

   «Ci siamo» disse Chase. Tornò a sedersi e inspirò a fondo, preparandosi al peggio. Pochi attimi dopo le vibrazioni cessarono e le stelle riapparvero. Al centro dello schermo campeggiava una sfera grigia, piccola per la distanza e priva di segni distintivi sulla superficie. Chase aveva già visto qualcosa del genere, molti anni prima. Non credeva che ne avrebbe mai trovata un’altra, tantomeno in una galassia diversa. Ma tutto tornava, considerando gli artefici. Per la seconda volta nella sua vita, Chase osservò una Sfera di Dyson che s’ingrandiva sullo schermo.

 

   «Rapporto sensori» ordinò il Capitano, sentendo il cuore che batteva più rapido.

   «È indubbiamente una Sfera di Dyson» rilevò Terry. «Però è molto più piccola di quella nel settore Norpin. Il suo raggio è un decimo d’Unità Astronomica».

   «Dieci volte meno della distanza Terra-Sole... è un valore adeguato, se consideriamo che la stella al centro è una nana rossa» ragionò Chase. «Signor Grog, ritrasmetta il nostro biglietto da visita, tanto per stare sicuri. Terry, rileva niente di particolare sulla superficie della Sfera?».

   «Non ancora... ma ci vorrà del tempo per scansionare una superficie così ampia» ammise l’IA. «Però rilevo radiazioni elettromagnetiche compatibili col vento solare di una nana rossa, classe M. Sono concentrate su un lato della Sfera».

   «Forse i proprietari si disfano del calore in eccesso, per non finire come l’altra Sfera» ipotizzò il Consigliere Apsu, che aleggiava sopra di loro in forma olografica.

   «Non credo; non concentrerebbero le emissioni in un solo emisfero» obiettò Terry. «Credo si tratti di un propulsore Shkadov».

   «Un cosa?» domandò l’Ambasciatore Fanior, che fino ad allora era rimasto in silenzio.

   «Uno dei dispositivi con cui, in linea teorica, si possono equipaggiare le Sfere di Dyson» rispose Ilia, prima che potesse farlo Terry. «Un propulsore Shkadov è semplicemente la possibilità di concentrare su un lato della Sfera le emissioni della stella centrale, ottenendo un effetto a reazione che spinge tutto nella direzione opposta. In tal modo si trasforma l’intero sistema in un’immensa astronave, che può essere diretta dove si vuole, con una certa approssimazione. Ovviamente si resta a velocità sub-luce. Ma è utile per mantenere una rotta sicura, evitando la collisione con altri corpi celesti: pianeti erranti, stelle e residui stellari». La Trill parlava velocissima, tanto che gli altri faticavano a starle dietro. Però non si mangiava le parole. Parlava con voce chiara e netta, come chi padroneggia perfettamente l’argomento.

   «Non sapevo che fosse un’esperta in materia» si stupì Fanior, osservandola con rinnovato rispetto.

   «Come no?! Ho passato anni a studiare le megastrutture» fu la sorprendente risposta. «Alcune le ho progettate io stesso. Ma la Federazione non le ha considerate... erano troppo avveniristiche, penso. Così ho dovuto limitare la mia creatività a grattacieli e basi stellari. Almeno qualche mio progetto è stato ripreso per i nuovi palazzi di Atlantide. Anche se, come al solito, li hanno riempiti di modifiche!» sbuffò, con aria seccata.

   «Comandante?!» chiese Fanior, guardandola come se fosse impazzita.

   «Credo di capire» disse Chase. «Stiamo parlando con Zarden, vero? L’undicesimo Ospite di Dax, l’ultimo prima di Ilia».

   «L’ultimo e il più grande!» confermò la Trill, tirando indietro la testa con un insolito tic nervoso. «Finora non mi ero mai resa conto di quanto quell’uomo fosse geniale. L’ho incontrato alla Commissione Simbiosi, poco prima che morisse, ma averlo nella testa è tutt’altra cosa. Non vedo l’ora di essere in quella megastruttura e svelarne i segreti» disse. Richiamò il rapporto sensori sulla sua consolle e cominciò a leggerlo avidamente.

   Chase scosse la testa e la lasciò fare. Di tutte le influenze subite in quei mesi, quella di Zarden sembrava la più drastica. Forse c’entrava il suo ego smisurato. O forse dipendeva dal fatto che l’architetto era l’immediato predecessore di Ilia, per cui i suoi schemi mentali erano ancora freschi nella memoria di Dax.

   La Sfera di Dyson crebbe fino a riempire lo schermo, nascondendo le stelle. I federali avevano ora la sgradevole impressione di dirigersi contro un muro, o peggio ancora, di precipitare contro quell’infinita superficie grigia. Man mano che si avvicinavano, i dettagli si precisarono. L’esterno della Sfera sembrava un reticolato, composto da miliardi di settori. Ogni riquadro era composto a sua volta da elementi più piccoli, e così via.

   «Anche l’altra Sfera aveva una superficie reticolare, ma questa mi sembra più pronunciata» notò Chase. «Rileva qualche differenza?».

   «Non credo dipenda solo dalla tecnica costruttiva» rispose Terry, sondando la sterminata superficie metallica. «Capitano, penso che questo “guscio” non sia tutto d’un pezzo. È composto da triliardi di moduli, fissato uno all’altro, che però possono sganciarsi all’occorrenza».

   «Ma certo» disse Ilia, scorrendo i dati sulla sua consolle. «La vecchia Sfera di Dyson fu abbandonata perché la stella centrale divenne instabile... piuttosto prevedibile. Questa, che deve essere più recente, è stata progettata per eliminare il problema. È composta da triliardi di moduli tutti uguali... o forse appartenenti a una gamma limitata di modelli, come i vari tipi di cellule del corpo. Ciò semplifica la costruzione e le permette di rimodellarsi. In caso di danni le sezioni compromesse possono essere sganciate e sostituite in breve tempo da altre. Le parti danneggiate saranno espulse nello spazio o gettate nella stella centrale. Ma il maggior punto di forza è la mobilità. Se la stella diventasse instabile, la struttura si scomporrebbe in uno Sciame di Dyson, per andarsene in cerca di un’altra nana rossa. Non che sia probabile... le nane rosse sono le stelle più stabili e longeve che ci siano. Da quando esiste l’Universo, nessuna è morta. Vivranno ancora trilioni di anni».

   «Quindi i Proto-Umanoidi si sono garantiti una sorgente stabile e sempiterna d’energia... mica scemi» riconobbe Chase. «Ma questo significa che...» aggiunse, impallidendo.

   «Significa che non possiamo distruggere la megastruttura» confermò Lantora, con aria lugubre. «Le armi convenzionali possono aprire squarci chilometrici nel guscio, ma sono punture di spillo rispetto alle dimensioni della Sfera. E la sua modularità permetterebbe di riparare in fretta i danni. I missili al trilitio non possono far esplodere una nana rossa, che ha massa insufficiente per diventare nova. Il Tox Uthat forse potrebbe, ma è rimasto sulla Terra. E la Materia Rossa può far collassare un pianeta o una stella, ma quest’affare è sottilissimo in rapporto al diametro. Anche se creassimo un buco nero in una sezione del guscio, risucchierebbe solo alcuni dei moduli. La maggior parte riuscirebbe a mettersi in salvo. Anche se la singolarità divorasse la stella centrale, lo Sciame andrebbe a cercarne un’altra».

   Un cupo silenzio cadde tra gli ufficiali. Fino a quel momento li aveva sostenuti l’idea che, anche se fossero stati annientati, avrebbero fatto in tempo a distruggere la megastruttura. Ora contemplavano la possibilità che la missione fosse del tutto vana. L’Enterprise era come un insetto che cercasse di ribaltare una montagna: poteva scombinare qualche granello di sabbia, nulla più. Quell’opera titanica esisteva da milioni di anni ed era fatta per durare ancora più a lungo. I suoi artefici avevano fatto bene i conti: vecchi di eoni, avevano previsto ogni attacco e preso adeguate contromisure.

   «Ci ritiriamo, Capitano?» chiese Apsu.

   «Non prima d’aver visto cosa c’è dentro» disse Chase, accennando al monotono guscio grigio che riempiva lo schermo. Al centro era comparsa una piccola depressione, che si allargava a vista d’occhio: un portale. Aveva sezione esagonale, come la cella di un alveare. Lo circondavano strutture simili ad antenne, gli emettitori del raggio traente.

   «Ancora nessun segnale da parte dei proprietari» notò Lantora. «Chissà se c’è ancora qualcuno, là dentro. Anche se quel raggio ci ha agganciati, potrebbe essere un sistema automatico, come nell’altra Sfera».

   «No, gli artefici devono essere da qualche parte» obiettò Chase. «E poiché hanno abbandonato l’altra Sfera, per migrare in questa...». Tacque di colpo, perché il portale aveva iniziato ad aprirsi. Chase si aspettava di veder filtrare la luce rossa della stella, ma con sua grande sorpresa non fu così. Dentro al guscio grigio e uniforme c’era... un altro guscio, identico al primo.

   «Cos’è, uno scherzo?!» sbottò Lantora. «Dov’è la stella?».

   «Dentro questo secondo guscio, indubbiamente» rispose Ilia, avvicinandosi allo schermo per osservarlo. «Molto interessante...».

   «Rilevo onde radio e microonde, compatibili con le emissioni di una nana rossa» disse Terry. «Il guscio esterno le assorbiva. Non mi stupirei se quello interno trattenesse le frequenze più alte dello spettro elettromagnetico, per sfruttare al massimo l’energia stellare».

   «Ma cosa c’è sulla superficie interna?» chiese il Capitano. «L’altra Sfera aveva oceani e continenti. Poteva ospitare una popolazione incalcolabile».

   «Questa è diversa» rilevò Terry. Di lì a poco l’Enterprise varcò il portale, che subito le si richiuse dietro, come una bocca famelica. Terry proiettò una panoramica a 360º dell’ambiente. La superficie interna del guscio era un reticolato geometrico. Non c’erano terre verdeggianti, né mari azzurri e nemmeno nuvole bianche: tutto era grigio metallo. «Non rilevo alcun habitat, né un’atmosfera respirabile» confermò Terry.

   «Gli abitanti devono vivere in ambienti chiusi, nello spessore del guscio» ipotizzò Ilia. «Oppure stanno nel guscio più interno».

   «Quel raggio traente interferisce con i miei sensori» lamentò Terry. «Non capisco se ci siano segni vitali».

   «Lo scopriremo alla fine della corsa» disse Chase, notando che sul secondo guscio si stava aprendo un portale, simile a quello già varcato. Un raggio traente sostituì l’altro e l’Enterprise fu attirata anche in quella cavità. Per quanto fossero preparati, i federali vacillarono nel trovarsi di fronte un terzo muro grigio.

   «Ancora? Ma quanti ce ne sono?!» protestò Lantora.

   «Questo è l’ultimo, probabilmente» disse Terry. «Ci stiamo avvicinando alla nana rossa. Per quanto sia piccola, non può avere un diametro inferiore a 150.000 km. Ulteriori gusci sarebbero così vicini alla fotosfera da diventare incandescenti».

   «Pensate alla tecnologia che serve per realizzare una cosa del genere» mormorò Chase, assorto. «Credevamo che l’altra Sfera di Dyson fosse sofisticata... ma questa lo è molto di più. Forse all’inizio comprendeva solo il guscio interno e poi è cresciuta, aggiungendo strato su strato».

   «Non credo... ogni guscio è progettato per assorbire una diversa lunghezza d’onda dello spettro elettromagnetico» notò Terry. «Quello intermedio che vediamo ora assorbe gli infrarossi. Presumo che lo strato più interno assorba la luce visibile e le lunghezze d’onda più elevate, che nelle nane rosse sono una piccola parte delle emissioni. Perciò direi che la struttura era progettata fin dall’inizio per essere come la vediamo».

   Chase strinse i braccioli della poltroncina, sentendo un brivido che gli arrivava fino al midollo. Ora sapeva come si era sentito Kirk, quando aveva diretto la sua Enterprise nelle profondità di V’Ger. Strato dopo strato, non si arrivava mai in fondo... ma ogni passaggio testimoniava la grandiosità di una tecnologia antica ed evoluta. Cos’era l’Homo sapiens in confronto a una scienza vecchia di eoni, che garantiva ai suoi possessori energia illimitata, per un tempo così lungo da confondersi con l’eternità? Al loro confronto era un primitivo, incapace di pensare abbastanza in grande da cogliere i loro scopi. Forse avevano deciso che le specie attuali non li soddisfacevano. Forse volevano fare piazza pulita e ricominciare daccapo, come divinità sdegnate che decretavano il Diluvio Universale. Ma no, si disse Chase. Qualunque cosa fossero quegli esseri... Precursori, Progenitori o Preservatori... non erano Dio. Erano creature di carne e sangue come lui. Se erano umanoidi, allora avevano una visione parziale delle cose e interessi contrastanti. Forse erano decadenti, dopo che la loro civiltà si era protratta per tempi così smisurati. Insomma, dovevano avere un punto debole. Tutto stava nel trovarlo, prima che fosse tardi.

   L’apertura del terzo portale destò Chase dalle sue riflessioni. Stavolta dall’interno filtrò una luce rosso cupo. Il Capitano e gli ufficiali si guardarono inquieti. In quella luce sanguigna, i loro volti sembravano rosseggianti d’ira. Trascinata dal raggio traente, l’Enterprise varcò il terzo cancello, spaventosamente simile a una voragine fiammeggiante.

   «Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate» pensò Chase. I Proto-Umanoidi non erano dèi... ma forse erano diavoli, visto cosa stavano facendo. E lui non aveva un Virgilio che gli dicesse cosa fare per uscire dal loro regno. L’unico che fosse stato lì dentro, il Grenk del futuro, era impazzito dall’orrore. Anche con i suoi strani indizi, forse non c’era modo di uscirne... forse il nemico era troppo potente. Mentre Chase lottava contro il senso di rovina incombente, il terzo portale si chiuse dietro l’Enterprise, come fauci fameliche.

 

   L’Enterprise galleggiava ora in uno strano spazio chiuso. L’assenza di punti di riferimento familiari alla mente umana lo faceva sembrare piccolo, persino claustrofobico. In realtà era uno spazio immenso: conteneva un’intera stella. La nana rossa brillava al centro, come un occhio maligno, sempre vigile. Tutt’intorno si estendeva la superficie reticolare del guscio più interno, simile a un intrico di tralicci. Le sezioni s’incrociavano con una complessa geometria, formando triangoli, rombi ed esagoni. In corrispondenza dei poli vi erano enigmatiche strutture a cono, che protendevano verso la stella. Sei coni minori ne circondavano un settimo, molto più grande. Sebbene le loro basi fossero grandi come pianeti, si rastremavano fino a una punta acutissima. Ancora più appariscenti erano tre strutture ad anello, vicine alla stella, che le ruotavano attorno lentamente, provocando brevi “notti” sulla superficie interna del guscio. Ma anche lì non c’era nulla di vivo in vista, solo metallo tinto di colori caldi. Sembrava di stare dentro una fornace.

   «Nessun ecosistema, nessuna superficie abitabile, nessuna atmosfera» confermò Terry. «Tutta questa superficie non serve ad altro che a raccogliere le emissioni elettromagnetiche».

   «Ma devono pur farsene qualcosa, di tutta questa energia» obiettò Lantora. «O non si sarebbero dati tanta pena per raccoglierla. Se solo si mostrassero!».

   «Il raggio traente ci sta posizionando nell’orbita della stella, a una distanza che ci mette al riparo dall’impatto con gli anelli» informò T’Vala.

   «Terry, mi dica che ha qualche teoria su questo posto assurdo» disse Chase, osservando le immense strutture rotanti.

   «È un Cervello Matrioska» rispose Ilia in sua vece.

   «Prego?».

   «È una megastruttura basata sul concetto di Sfera di Dyson, ma con più strati concentrici per raccogliere l’energia stellare, che alimenta un’immensa capacità computazionale» spiegò la Trill, con la voce svelta e nervosa di Zarden. «Vedete quelle strutture appuntite ai poli? Servono per lo star-lifting, una procedura che estrae plasma dalla stella, convertendolo in materiali adatti a costruire i gusci. Così gli artefici hanno avuto tutto il materiale necessario e al tempo stesso hanno ridotto la massa della stella, prolungandone la vita. I gusci sono in pratica dei panelli solari, per sfruttare al massimo l’energia. Gran parte del volume interno serve per il computronium, cioè l’hardware».

   «Se ha ragione, questa è la cosa più intelligente dell’Universo» disse Chase, osservando la struttura con nuovo rispetto. «Che se ne fa, di quest’illimitata capacità di calcolo?».

   «Chissà? Forse simula interi Universi, con tutti i loro abitanti» ipotizzò Ilia. «Se ci sono persone là dentro, potrebbero usare le simulazioni come forma d’intrattenimento o di fuga dalla realtà. Potrebbero persino ingannare la morte, con tecniche di mind uploading per scaricare gli schemi cerebrali nel computer. Altrimenti potrebbero esserci solo programmi, mandati avanti da un’avanzatissima Intelligenza Artificiale. Secondo l’Ipotesi della Simulazione, noi stessi siamo programmi di un supercomputer. Crediamo d’essere vivi, ma per quanto ne sappiamo la simulazione potrebbe essere partita solo qualche minuto fa e potrebbe interrompersi in ogni momento».

   «Questa cosa non mi piace per niente!» protestò Lantora. «Nessuno mi sta creando al computer, creda a me!».

   «Se così fosse, non potremmo saperlo» notò Chase, tra l’ironico e il fatalista. «Ma accantoniamo il problema, visto che non è risolvibile, e parliamo di questo... Cervello. Che problema ha, per voler distruggere l’Universo? Gli è venuto a noia? Vuole ricrearlo a sua immagine?».

   «Ora mi chiede troppo, Capitano» ammise Ilia. «Lo domandi a lui».

   «L’altra Sfera di Dyson aveva delle cavità interne» ricordò Chase. «Qui è probabile che ce ne siano di molto più grandi, non essendovi una superficie abitabile. Cerchiamone una e andiamo in esplorazione». Aveva appena finito di parlare che la nave sussultò e gli allarmi squillarono ovunque.

   «Perdita di potenza!» avvertì Terry. «C’è un campo di dispersione come quello degli Uiin, ma centinaia di volte più forte. Mi sento come se mi stessero... dissanguando» mormorò, mentre la sua immagine sfarfallava e i sistemi cominciavano a spegnersi. Intere consolle divennero scure, con i comandi fuori uso.

   «Localizzi subito gli emettitori» ordinò Chase. «Lantora, fuoco con tutto quello che abbiamo! Cerchiamo di metterne fuori uso il più possibile».

   «Ho le coordinate, apro il fuoco» disse lo Xindi. I raggi anti-polaronici e i cannoni a impulso colpirono ripetutamente vari punti del guscio interno, che però resistettero, difesi da potenti scudi.

   «Sala macchine a plancia, che succede? Il nucleo si sta spegnendo e anche il propulsore cronografico perde energia! Siamo in trappola!» gemette Grenk. L’Ingegnere Capo non era stato informato della breve comparsa del suo alter-ego del futuro, per non metterlo ancor più sotto pressione.

   «Frell!» imprecò Chase. «Lantora, i siluri?».

   «Sono in rotta, pochi secondi all’impatto» garantì l’Ufficiale Tattico.

   «I miei scudi cedono» avvertì Terry, irrigidita e con l’angoscia negli occhi. «Non potrò proteggervi... ecco! Mi disp...».

   Chase ebbe un attimo di disorientamento, ma quando si riprese era ancora in plancia. Vide enormi esplosioni sulla parete concava. Linee di fuoco si allungavano a dismisura, disegnando vaste ragnatele. I siluri avevano fatto effetto!

   «Bersagli eliminati!» disse Lantora, quasi incredulo. «Ci sono altri emettitori, colpisco anche quelli».

   «Il campo di smorzamento s’indebolisce» rilevò Terry. «Riattivo il nucleo. Tutti i sistemi stanno tornando in linea, compresi gli scudi». La sua proiezione isomorfa si stabilizzò, mentre le consolle tornavano a colorarsi.

   «Non pensavo fosse così facile» si stupì Chase, osservando le esplosioni che continuavano ad allargarsi, come onde in uno stagno presso a sassate. «Che succede?».

   «Sembra ci sia una reazione a catena nella rete energetica della struttura» rilevò Terry. «È così piena d’energia che ora non riesce a contenerla. E c’è dell’altro... rilevo un attacco dall’esterno».

   «Come dall’esterno?!» trasecolò Chase. «Vuol dire che...».

   In quell’attimo una vasta sezione del guscio esplose, colpita da fuori. Dallo squarcio entrò una flotta eterogenea, ma che Chase riconobbe. Kelvani, Ornithoidi, Uiin... perfino la stazione di Suspiria, che sparava forsennatamente in tutte le direzioni. La Coalizione di Andromeda era giunta in loro soccorso.

   «Non ci credo...» mormorò il Capitano con un filo di voce.

   «Ci chiamano» disse Grog. Senza aspettare l’ordine, stabilì il collegamento.

   «Capitano, le avevo detto che la sua illogicità è contagiosa» esordì Reshef, appena comparve. «Ma non immaginavo quanto. La mia prudente linea di condotta si è trovata in minoranza, nel Consiglio, perciò eccoci qui. Spero che ne valga la pena... stiamo rischiando tutto in quest’attacco».

   «Per la Luce di Kelva, siete i benvenuti!» lo accolse Fanior. «Questa struttura è vulnerabile. Colpite il sistema energetico, presto! Non avremo un’altra occasione come questa».

   La flotta della Coalizione si dispiegò, martellando la superficie interna del guscio, aprendovi un foro dopo l’altro. Ma erano punture di spillo, se comparate alle sue dimensioni. E c’erano ancora i due gusci esterni da affrontare. La Sfera, dal canto suo, non si limitava a fare da bersaglio. Afferrò alcune navi della Coalizione con potenti raggi traenti, schiacciandole come noci. Ad altre tolse l’energia e le spedì su traiettorie che portavano alla stella centrale. Non poche astronavi trovarono così la loro fine.

   «Analisi tattica» disse Terry. «Il Cervello Matrioska è così grande che può distruggerci tutti, perdendo meno dell’1% del guscio più interno. Dobbiamo cambiare strategia».

   «Andiamo ai poli» disse Chase, colto da un’intuizione. «Usiamo la Materia Rossa contro le strutture dello star-lifting. Sono le uniche non ridondanti, quindi saranno difficili da sostituire. Se impediamo al nemico di replicare altri moduli, non potrà riparare i danni».

   «Saremo sul bersaglio tra pochi minuti» garantì T’Vala, dirigendo la nave a massimo impulso verso il polo nord della struttura.

   «Ci sono quasi...» disse Lantora, preparando i missili a singolarità quantica, l’arma più tremenda dell’Enterprise. Uno solo di quei siluri, contenente una goccia di Materia Rossa, poteva far implodere un pianeta o una stella.

   «Terry, analizzi il guscio. Cerchi forme di vita umanoidi» ordinò il Capitano. Ancora non sapeva quante persone ci vivessero. Anche se la maggior parte dei moduli si fossero distaccati, per sfuggire al buco nero, poteva essere il peggior genocidio della Storia.

   «Non rilevo alcuna forma di vita» fu la sorprendente risposta dell’IA.

   «Anche la Coalizione afferma di non rilevarne» disse Grog. «Questa struttura è abbandonata, dopotutto».

   «Ciò spiegherebbe la scarsa resistenza che ci offre» disse Ilia. «Forse sono attivi solo una manciata di protocolli-base, come nella Sfera di Dyson, a dispetto del potere computazionale».

   «E allora i Proto-Umanoidi dove sono?» si chiese il Capitano. Qualcosa non gli tornava, ma i suoi ufficiali sembravano troppo concentrati sulla battaglia per porsi il problema.

   «Ci siamo» avvertì T’Vala di lì a poco. L’Enterprise ronzava intorno alle immense strutture coniche, come un moscerino tra picchi montuosi. Ma quel moscerino poteva creare un buco nero. Bastò un siluro, diretto al cono centrale, per dare inizio alla reazione a catena. L’Enterprise si allontanò in fretta, mentre il vortice della singolarità si allargava a ritmo esponenziale, ingurgitando quantità spropositate di materia.

   «Al polo sud, ora» ordinò Chase. Si aspettava di vedere il Cervello Matrioska suddividersi da un momento all’altro, sfruttando la sua modularità per trasformarsi in Sciame e sfuggire al buco nero. Ma non fu così. I moduli restarono agganciati, mentre il buco nero cominciava a divorarli. «Ma che aspettano?» chiese.

   «Questo conferma che il Cervello è disabitato» disse Ilia. «Meglio così... potremo distruggerlo completamente e senza rimorsi».

   «Per essere la cosa più intelligente dell’Universo, mi pare fin troppo indifeso» notò il Capitano. «Mi chiedo se sia davvero il cuore della Scourge... ancora non ne abbiamo visto traccia».

   «Preferirebbe il contrario?» chiese Fanior.

   «Vorrei solo essere sicuro che il nostro attacco sia motivato» spiegò Chase. «Stiamo distruggendo questa megastruttura unica nel suo genere, conoscendola ancora pochissimo. E se non c’entrasse nulla con la Scourge?» si chiese, colto da un orribile dubbio. «In fondo era occultata... forse si nascondeva dalla Melma, come ha fatto la Coalizione».

   «Ma ci ha portati al suo interno con quel raggio traente, appena ci siamo avvicinati» obiettò Fanior. «Se fa così con tutti, è impossibile che sia sopravvissuta fino a oggi, nel cuore dello spazio Scourge».

   «Questo è vero» ammise Chase, rincuorato, ma gli restavano molti dubbi.

   «Siamo in prossimità della struttura sud» avvertì T’Vala.

   «Lancio una seconda testata» disse subito Lantora.

   Chase avrebbe voluto fermarlo, ma era come se il tempo avesse accelerato. Vide il siluro che colpiva la struttura dello star-lifting, il vortice della singolarità che cresceva e poi la superficie arancione del guscio, mentre l’Enterprise si allontanava di gran carriera. L’astronave si unì alla flotta della Coalizione e tutti insieme tornarono verso l’esterno. Non persero tempo a cercare un portale: bombardarono un settore del guscio sino a frantumarlo e passarono per lo squarcio. Ripeterono la tecnica per il guscio mediano e per quello esterno, sbucando nello spazio. Chase non riusciva ancora a capacitarsene, quando ecco, la fortuna sembrò esaurirsi.

   Davanti a loro c’erano triliardi di bolle Scourge, di tutte le dimensioni. Circondavano il Cervello Matrioska, impedendo la fuga, ed erano così fitte che ci avrebbero messo ben poco a richiudersi su qualunque nave avesse tentato di passarci in mezzo. Mosse da un’unica volontà, vennero contro la Coalizione. Erano talmente superiori per numero che l’avrebbero sommersa.

   «È soddisfatto, Capitano? Ora abbiamo conferma che il Cervello Matrioska controlla la Scourge!» disse Fanior.

   «Così sembra» ammise il Capitano. «Plancia a sala macchine, attivate il...» cominciò a dire, ma la sua voce si smorzò e tacque. Le innumerevoli bolle di Scourge stavano esplodendo, come tante bolle di sapone. La loro superficie argentea si dissolveva, lasciando solo uno sbuffo di polvere grigia. In pochi secondi il ribollio di Melma divenne più simile a una nube, o a una tempesta di sabbia, che avvolse l’Enterprise e le navi alleate.

   «Sembra che la Scourge sia... morta» rilevò Terry. «La nube grigia ci avvolge, ma non cerca in alcun modo di superare gli scudi».

   «Qui Grenk, che succede? Eravamo pronti col propulsore, ma...» disse l’Ingegnere Capo tramite il canale ancora aperto.

   «Non ce ne sarà bisogno, a quanto pare» rispose Chase, ritrovando a stento la voce. Osservò meravigliato la densa nube grigia; bastarono pochi minuti perché passasse oltre. A quel punto le navi della Coalizione tornarono visibili intorno all’Enterprise. «Visuale di poppa» ordinò il Capitano, frastornato.

   Era una scena pazzesca. Il guscio esterno del Cervello Matrioska collassava, risucchiato dalle due singolarità create dall’Enterprise, una a nord e l’altra a sud. A loro volta i buchi neri si spostavano verso la stella centrale, per assorbirla. Così facendo si sarebbero scontrati e fusi. Intanto i resti della Scourge si disperdevano come pulviscolo spaziale.

   «Capitano, suggerisco di andarcene prima che le singolarità si scontrino» disse Terry. «L’impatto fra buchi neri è un fenomeno energetico violentissimo. Anche se questi hanno massa ridotta, non sopravvivremo al lampo gamma. Le navi della Coalizione si stanno già ritirando... credo che i Nacene usino i loro poteri per trasferirle altrove».

   «Un esempio da seguire» disse Chase. «Signor Grenk, ora può portarci via».

   Prima ancora che Grenk rispondesse, i resti crollanti del Cervello Matrioska svanirono. Il propulsore cronografico li aveva salvati un’altra volta. «Qui Grenk, è fatta» rispose l’Ingegnere Capo. «Allora, abbiamo vinto?».

   «Si direbbe di sì» ammise il Capitano, guardandosi attorno come per sincerarsi che non era pazzo, che tutti erano d’accordo con lui. «Faccia un controllo di sicurezza ai sistemi chiave. Poi torniamo alla Nebulosa Stigia, per fare il punto con la Coalizione... ormai dovrebbe riaccoglierci. Chase, chiudo». Si mise più comodo sulla poltroncina, cercando di processare l’accaduto. Era successo tutto così in fretta... non che gli dispiacesse l’esito, ma restavano molti punti oscuri. «Abbiamo vinto senza sfruttare i suggerimenti di Grenk» notò. «Non è strano?».

   «Mah, quel Grenk lì mi sembrava un po’ picchiatello» disse Lantora, additandosi la tempia. «Chissà che gli era successo... forse sragionava».

   «Ma cosa l’ha fatto impazzire?» chiese il Capitano, insoddisfatto. «Parlava del Cervello come se fosse abitato e pieno d’insidie. Ha detto che eravamo in un circolo temporale... che abbiamo tentato più volte e abbiamo sempre fallito. Ma quand’è toccato a noi, non abbiamo trovato nulla d’insormontabile. Se era così facile, perché non ce l’abbiamo fatta al primo tentativo?».

   «Non abbiamo abbastanza elementi per stabilirlo» disse Terry.

   «L’importante è tornare dalla Coalizione e pianificare le prossime mosse» raccomandò Ilia.

   Visto che tutti i suoi ufficiali erano d’accordo, Chase non volle fare il Bastian contrario; sarebbe stato infantile. Sospese il giudizio sull’accaduto, aspettando di conoscerne gli sviluppi.

 

   «La Scourge è morta ovunque» disse Suspiria, quando furono di nuovo radunati intorno alla sua stazione nella Nebulosa Stigia.

   «Ne sei certa?» chiese il Capitano, incredulo.

   «La mia gente sta esaminando un pianeta dopo l’altro» confermò la Nacene. «Abbiamo contattato altri Clan e dicono tutti la stessa cosa. I naniti si sono disgregati. È accaduto in tutta la galassia, nello stesso momento. Non so spiegarmelo, ma... sembra che l’incubo sia finito. La Scourge è sconfitta e Andromeda può tornare a vivere».

   I federali si scambiarono sguardi allibiti, ma poco a poco il dubbio scemò, per lasciar posto al sollievo e all’euforia. Sembrava che un macigno fosse stato tolto dal cuore di tutti. La forza più distruttiva dell’Universo era svanita come un brutto sogno... ed era merito loro! Ci furono sospiri, strette di mano, anche abbracci e lacrime tra gli ufficiali. Chase sedeva in mezzo a tutti loro, cercando ancora di processare l’accaduto.

   «Ricostruiremo la nostra civiltà su Kelva Primo, richiamando i superstiti dai rifugi e dai convogli» disse Reshef in tono ispirato. «Non sarà facile... serviranno intere generazioni di sacrifici ed è probabile che l’Impero non tornerà mai più ai fasti di un tempo. Ma la nostra specie sopravvivrà, questo sì».

   «Vi servirà ogni tentacolo disponibile» intervenne Fanior. «Vi prego di riaccogliermi tra voi, così che possa dare il mio contributo, per quanto piccolo. Non vedo un modo migliore d’impiegare il resto della mia vita».

   «Le ragioni del tuo esilio sono ancora valide» ammonì Reshef. «Ma oggi è un giorno di gaudio e di speranza. Abbiamo assistito a ciò che sembrava impossibile. E poiché ogni aiuto sarà prezioso, nei duri giorni della ricostruzione... e sia! Sei riammesso fra noi, a patto che la tua condotta sia esente da altri errori».

   «Lo sarà» promise Fanior, e Chase lo vide sorridere per la prima volta.

   Il Capitano si chiese come sarebbero cambiate le cose, d’ora in poi. Fanior li avrebbe lasciati, ma rimaneva comunque un utile collegamento con la Coalizione. L’Enterprise avrebbe ripreso l’esplorazione di Andromeda, senza più l’incubo della Scourge. Certo, restavano molti problemi. Avrebbero trovato ancora pirati, convogli di rifugiati, cimiteri spaziali. Ma nulla di paragonabile alla minaccia cosmica della Scourge. Erano tutti salvi. Tutti?!

   «Ilia, a lei la plancia» disse Chase, balzando in piedi. «Devo andare in infermeria».

 

   La capsula crono-statica si aprì con un fischio. Neelah spalancò gli occhi e si rialzò, ansimante. «Che è successo? Quanto tempo è passato?!» gemette, ma non appena vide Chase si calmò un poco. Le chiazze argentee sulla gola e le mani si dissolsero in una polvere finissima, lasciando ferite simili a ustioni. A Chase si strinse il cuore, pensando quanto dovevano essere dolorose. Ma i medici erano pronti con tutto il necessario per arginare il dolore e riparare i tessuti. Anche le nanosonde di Neelah, ora prive di concorrenza, contribuivano a guarirla.

   «Sono passate poche settimane dal tuo incidente» spiegò Chase. «Abbiamo colpito la Scourge alla radice e l’abbiamo sconfitta... non ci minaccerà più. Ti racconterò i dettagli più tardi, ora riposati».

   «Dovrai dirmi tutto... non sopporto d’essere rimasta fuori dai giochi...» mormorò Neelah, prima di perdere conoscenza. Un medico le aveva somministrato un forte sedativo.

   «Ci vorranno alcune ore per la rigenerazione dermica, ma è fuori pericolo» assicurò la dottoressa Vash’Tot. «Ora devo chiederle di uscire, signore... abbiamo molto da fare. Ripassi domani e potrà parlarle».

   «Certo» disse Chase, non volendo essere d’intralcio. Medici e infermieri si muovevano come una macchina ben calibrata. Il Capitano non dubitava che avrebbero rimesso Neelah in sesto. Lasciò l’infermeria più sollevato e speranzoso di quanto non fosse da molto tempo.

 

   Quella sera, nel suo alloggio, Chase rinunciò a scrivere un rapporto per il Comando di Flotta. Erano successe troppe cose, troppo in fretta... e per la maggior parte erano ancora inspiegabili. Decise di rimandare il lavoro all’indomani, quando avrebbe avuto la mente più fresca. Ma quando fu a letto si accorse che non riusciva a prendere sonno. Era stata una giornata troppo intensa, la sua mente non si calmava. Decise di leggere qualcosa per rilassarsi.

   Il Capitano prese il d-pad e scorse il titolo di qualche classico, finché non gli venne in mente che poteva riprendere la lettura del Kalevala, abbandonata settimane prima. Aveva proprio voglia di tornare in quel mondo fiabesco fatto di stregoni, avventurieri e fabbri dai magici poteri. Scorrere quei versi era come immergersi nella natura finnica, fatta di laghi e cascate, foreste di betulle, vette imbiancate da nevi eterne, notti rischiarate dall’aurora. Su quello sfondo, eroi e malvagi si battevano per il possesso del Sampo, il magico mulino che creava oro dal nulla. Quando Chase aveva sospeso la lettura, era giunto proprio al culmine della storia: i tre eroi principali avevano recuperato il Sampo e cercavano di fuggire, ma la perfida strega del Nord li inseguiva e lo stregone buono aveva perso la sua arpa magica in mare. Senza quello strumento era ancora in grado di difendersi? Ansioso di scoprirlo, Chase scorse in fretta i capitoli, chiamati runi. Aveva terminato il runo 42, doveva cominciare il 43. Vi cliccò sopra... e con stupore vide lo schermo bianco.

   «Beh?» fece Chase. Tornò all’indice e cliccò ancora, senza miglior esito. Pensò che il d-pad non funzionasse bene. Lo spense e andò a prenderne un altro. Tornato a letto, rintracciò il poema nella banca dati, cliccò sul runo 43... e si trovò ancora a fissare il bianco. Perplesso, consultò i capitoli precedenti. Quelli c’erano ancora, dal primo al quarantaduesimo. Ma dal 43 in poi vi erano solo schermate bianche, fino al termine del poema.

   «Ma che strano» mormorò Chase, spegnendo anche il secondo d-pad. Pensò che doveva lasciar perdere e dormire, perché l’indomani lo aspettava una lunga giornata. Ma ormai aveva la pulce nell’orecchio. Resosi conto che non avrebbe preso sonno, prima di essersi levata la curiosità, lasciò le coperte e andò alla scrivania. Attivò l’oloschermo e cercò il Kalevala anche da lì, imbattendosi per la terza volta in un poema monco... proprio nel punto in cui era arrivato, pensò con un brivido. Le implicazioni erano inquietanti. Un pensiero orribile si faceva strada nella sua mente, qualcosa che lo destabilizzava nel profondo. Ricordò le parole di Ilia sulla Teoria della Simulazione. Se tutti loro vivevano in un Universo irreale, come dimostrarlo?

   «E se invece fossi solo io?» si chiese. Andò a cercare un altro titolo: Moby Dick. Ne aveva sempre sentito parlare, ma non aveva mai trovato il tempo o la voglia di cimentarsi nella lettura. Cliccò sul primo capitolo e trovò solo bianco. Idem nel secondo, nel terzo, eccetera... fino all’ultimo. Solo lì trovò una riga, la più famosa, quella che anche lui conosceva, avendola sentita citare più volte. Era l’ultima imprecazione del Capitano Achab contro la balena bianca: «Dal cuore dell’Inferno, io ti trafiggo! In nome dell’odio, sputo il mio ultimo respiro su di te, maledetta bestia!». Era l’unica frase del romanzo che conosceva... e quindi l’unica che trovava scritta.

   Preso dalla frenesia, Chase cominciò a scavare nel database. Quando cercava cose che sapeva già, le trovava. Ma quando provava a leggere qualcosa di nuovo, qualcosa di sconosciuto, ecco tornare lo schermo bianco, eventualmente con pochi brandelli di testo. Questo gli capitava con le opere letterarie: romanzi, poesie. Invece quando cercava testi scientifici trovava anche cose nuove, specialmente nel caso delle scienze dure: matematica, geometria, fisica. Ma quando provò a leggere testi di storia, geografia e biologia si accorse che anche lì c’erano grossi buchi. Qualunque cosa creasse la simulazione, non aveva accesso al database federale. Questo era incoraggiante... ma se avesse ottenuto l’accesso? Lui sarebbe stato ancora in grado di riconoscere la simulazione? Cosa più importante: come uscirne?

   Chase sedette sostenendosi il mento con la mano e ci ragionò sopra. Se tutti quelli che lo circondavano erano personaggi fittizi, non poteva fidarsi di loro. Cos’aveva detto il Grenk del futuro? «Non fidatevi di nessuno! La dentro, niente è come sembra». Grenk sapeva che lui sarebbe finito in una simulazione! Forse c’erano finiti tutti. Ma quando? Ripensò al momento in cui una situazione disperata si era trasformata in una facile vittoria. L’Enterprise era al centro del Cervello Matrioska e un campo di smorzamento le toglieva energia. Le armi erano inefficaci... gli scudi cedevano... poi quell’attimo di disorientamento e tutto aveva preso ad aggiustarsi. Avevano distrutto la Matrioska e la Scourge, fatto pace con la Coalizione, curato Neelah, come per magia! Sembrava troppo bello per essere vero... perché non era vero. Si trovavano ancora nella Matrioska. Almeno Chase lo sperava. Quando gli scudi avevano ceduto e lui si era sentito disorientato... ecco, in quell’attimo lo avevano preso. Forse avevano preso anche gli altri. O avevano distrutto l’Enterprise. Questo era il pensiero più intollerabile.

   Quindi come ne usciva? Beh, il primo passo era capire in che tipo di simulazione si trovava. Se era un ponte ologrammi, o un suo equivalente, doveva cercare l’ingresso. Il rischio era che fosse irrintracciabile, dato che la simulazione doveva tenerlo prigioniero. Se invece il suo corpo stava in un capsula o su un lettino, e tutto quel che percepiva con i sensi avveniva nella sua testa... allora doveva innescare il risveglio. Ma come? Doveva trovare un posto o una persona in particolare? Doveva suicidarsi? Autodistruggere la nave?

   A questo pensiero Chase fu costretto a fermarsi, per rimettere in discussione la sua catena di ragionamenti. Non poteva uccidersi solo per un sospetto; men che meno distruggere la nave! Se si fosse sbagliato? Forse le prove terribili delle ultime settimane l’avevano gettato nella paranoia. Eppure sentiva, nel profondo del cuore, che non si sbagliava. Ma anche così non poteva scommetterci la vita. Se la simulazione era un ponte ologrammi, e non c’erano protocolli di sicurezza, poteva realmente morire. Quindi che fare? Come togliersi quel dubbio atroce, in fretta e senza rischi mortali? Non gli venne in mente alcun modo. Doveva lasciar correre il programma, cercando di capirne di più. Ovviamente ciò comportava un rischio. Se si fosse affezionato troppo a quella simulazione, in cui tutti i problemi erano svaniti, poteva illudersi che fosse la realtà e smettere di cercare l’uscita. Come sfuggire alla tentazione?

   Chase si spremette le meningi finché ricordò le storie sul Nexus, una misteriosa stringa d’energia che periodicamente attraversava la Via Lattea, distruggendo le astronavi in cui s’imbatteva. I pochi fortunati che riuscivano a entrarci vivi sperimentavano un’altra realtà, libera dal decadimento e dalla morte. Ogni loro desiderio si avverava, come per magia. Potevano fare ciò che volevano, essere ciò che volevano. Era come un grande ponte ologrammi, con la differenza che non se ne usciva più... a meno di desiderarlo intensamente. Rinunciare al Paradiso, ecco la sfida peggiore. Ma era davvero un Paradiso? O non piuttosto una fuga dalla realtà? Due Capitani del passato avevano già risposto a questa domanda. Kirk e Picard erano finiti entrambi nel Nexus, in momenti diversi, e vi si erano incontrati. Potevano restarci per sempre, infischiandosene di una Galassia che avevano salvato già tante volte, senza ottenere nulla in cambio. Invece avevano scelto di tornare, per salvare un pianeta che nemmeno conoscevano. Ce l’avevano fatta, ma a caro prezzo. Il Capitano Kirk – il leggendario Kirk – era morto. Chase si promise di seguirne l’esempio... pur sperando vivamente di cavarsela.

   Certo, quella simulazione non era il Nexus. Non bastava desiderare intensamente di uscirne. Probabilmente c’era un computer, o un Proto-Umanoide munito di computer, che cercavano di tenerlo dentro. Ma cos’aveva detto Ilia, prima che ci entrassero? Lo scopo originale di un Cervello Matrioska era offrire una sofisticata forma d’intrattenimento, di fuga dalla realtà. Doveva essere congegnato per dare grande libertà d’azione, combinata con la massima facilità d’uso. Tutto stava nel trovare i comandi.

   Chase chiuse gli occhi e si concentrò. Si sentiva sciocco a starsene lì seduto cercando di fare... che cosa? Una magia? Voleva far apparire e sparire gli oggetti? Materializzare una backdoor per uscire dal sistema? Volare e lanciare sfere di fuoco? Questa sì che suonava come schizofrenia. Aveva seguito un’ipotesi dopo l’altra, sempre più estreme, fino a costruire un castello di congetture. Poteva essere finito completamente fuori strada. Ma c’era un solo modo per saperlo. Se quel sistema era concepito per accontentarlo, allora doveva farlo. Cosa desiderava lui, sopra ogni altra cosa? Beh, c’erano diversi sogni impossibili. Se li avesse visti realizzarsi, avrebbe saputo che quanto lo circondava non era reale. Capì che lo attendeva una settimana interessante.

 

   Lunedì, Chase si recò sulla stazione di Suspiria e parlò con i leader della Coalizione. Gli confermarono che la Scourge era morta in tutta Andromeda. La Coalizione però sarebbe rimasta unita, per gestire meglio la ricostruzione. I Consiglieri ringraziarono Chase per il suo coraggio e confermarono l’alleanza con l’Unione. Si dissero disposti ad accettare aiuti e ad accogliere altre navi della Flotta Stellare, appena i collegamenti fra le due galassie fossero divenuti più regolari.

   Nel pomeriggio Chase tornò in infermeria e scoprì che Neelah si era completamente ristabilita. La rigenerazione dermica era stata così perfetta che non le era rimasta alcuna cicatrice. Dimessa dai colleghi, l’Aenar si prese qualche giorno di convalescenza prima di tornare in servizio. Chase cenò con lei da Raav. Poi insisté per andare alla sala giochi, cosa insolita per lui. Giocò a dabo e sbancò il botteghino. Tutti si complimentarono, dicendo che non avevano mai visto una simile fortuna. Chase e Neelah passarono assieme il resto della serata, una serata perfetta.

 

   Martedì l’Enterprise fece ritorno a Kelva Primo, assieme alle navi kelvane della Coalizione. Gli alieni sbarcarono in corrispondenza della loro vecchia capitale e subito tracciarono la pianta di un nuovo insediamento. Chase scese con loro e vide che il lago di Melma Grigia si era trasformato in una distesa di polvere. Attorno a lui, i Kelvani lavoravano con tutta la velocità e l’efficienza delle loro cento appendici. Prima di sera avevano già tirato su le prime baracche. Alcuni seminarono grandi distese di Sashira e altre piante originarie di quel pianeta. Era sorprendente quanti di loro fossero riusciti a sopravvivere, nascondendosi in luoghi isolati. Ora che il pericolo era cessato, stavano tornando alla capitale. Fanior disse che probabilmente il numero dei superstiti era superiore a quanto stimato dalla Coalizione stessa, visto che molti gruppi avevano perso i contatti.

   Quella sera Chase tornò in sala giochi. Visto che i giochi di fortuna lo annoiavano, passò a quelli d’abilità, partendo da ciò che conosceva meglio. Vinse al poker e agli scacchi tridimensionali. Poi decise di provare qualcosa di più impegnativo. Su invito di Lantora, sedette al tavolo di Stratagema. Aveva una conoscenza limitata del gioco, certo inferiore a quella dello Xindi. Ciononostante accettò la sfida. Infilò i controlli sulle dita e si concentrò sui tre schermi olografici, muovendo i cursori per convertire più territorio possibile al proprio colore. Lantora naturalmente non gli rese il compito facile: era una legge non scritta dell’Enterprise il fatto che, in sala giochi, i gradi non contassero. Fu una partita lunga e appassionante, che attirò parecchi spettatori. Chase vide più volte il suo territorio ridursi fino a poche caselle, ma in qualche modo riuscì sempre a riprendersi. Alla fine, con le dita indolenzite e il sudore che gli bagnava la fronte, ottenne la vittoria. Lantora non se la prese a male, anzi si complimentò con lui e gli offrì da bere.

 

   Mercoledì mattina Chase scese nuovamente su Kelva e scoprì che la Sashira, seminata il giorno prima, era già in fiore. Le colline brulle si erano rivestite di arbusti silicei azzurro ghiaccio, che davano al paesaggio un’aria più viva. Per il rimboschimento delle altre piante occorreva più tempo e per reintrodurre gli animali ancora di più, ma era comunque un simbolo di speranza. Kelva Primo cominciava a rifiorire.

   La Coalizione informò che alcune bande di pirati erano venute a chiedere la pace, in cambio di aiuti per ricostruire i loro insediamenti. I negoziati erano ancora all’inizio, ma sembravano promettenti. I pirati di Andromeda erano mossi soprattutto da fame e disperazione, non da un’ideologia aggressiva. Non l’avevano chiesto loro che la Scourge piombasse dal cielo a consumare i loro pianeti, obbligandoli a fuggire, sempre braccati e in lotta per sopravvivere. Ora che potevano abbandonare quello stile di vita erano felicissimi di farlo.

   Anche quella sera Chase andò in sala giochi, cercando qualcosa di più impegnativo con cui cimentarsi. Alla fine sfidò un Vulcaniano a kal-toh, il celebre gioco di logica che richiedeva grandi abilità spaziali e geometriche. Il Vulcaniano era piuttosto esperto, mentre Chase aveva una conoscenza rudimentale del gioco. Sapeva che le sottili barrette argentate dovevano essere posizionate con cura, formando un intrico simile a un cespuglio, ma in realtà sorretto da precise logiche geometriche. Una mossa sbagliata l’avrebbe fatto crollare come un castello di carte, decretando la sconfitta dell’incauto giocatore. La mossa giusta, invece, ne cambiava radicalmente la configurazione, procedendo verso forme geometriche più precise. Chi otteneva la figura perfetta vinceva. Ma un conto era sapere queste regole basilari, un altro decidere concretamente come posizionare ogni pagliuzza. Chase fece del suo meglio, sapendo che era impossibile sconfiggere un giocatore esperto. Eppure, dopo una partita sorprendentemente breve, fu lui a dire kal-toh. Il Vulcaniano alzò un sopracciglio e si complimentò, riconoscendo che le proprie abilità erano nulle in confronto a quelle del Capitano.

 

   Giovedì Neelah comunicò a Chase che, siccome stava bene, aveva già ripreso a insegnare all’Università di bordo. Lì per lì Chase non approfondì la cosa. Ma appena ebbe un momento libero passò dall’infermeria. Era dalla morte del dottor Korris che Neelah aveva lasciato la cattedra, per subentrargli come Medico Capo. Ma quando entrò in infermeria, Chase fu accolto dal suo amico defunto come se niente fosse. Korris Vrel era lì, in carne e ossa, con la sua faccia grigia da meticcio bajoriano/cardassiano e l’atteggiamento cordiale. Era proprio come Chase lo ricordava, anche se forse aveva messo su un po’ di pancia.

   «Capitano, cosa la porta qui?» chiese premurosamente il dottore. «Non si sentirà male, spero!».

   «No, volevo solo sentire come... andavano le cose» mormorò Chase, fissando il dottore con un’insistenza che superava il limite della buona educazione.

   «Beh, avrà letto il mio rapporto... Neelah si è del tutto ripresa, credo che stamattina sia tornata al lavoro» rispose Korris, un po’ perplesso. «Stiamo replicando grandi quantità di medicinali e barre nutritive da consegnare ai Kelvani. All’inizio c’erano problemi, data la loro fisiologia aliena, ma abbiamo adattato i replicatori. La consegna sarà ultimata nei tempi stabiliti» promise. Mostrò al Capitano il suo staff, indaffarato nei lavori. Le provviste e le medicine appena sintetizzate erano imballate e spedite direttamente sul pianeta, con la cabina di teletrasporto che corredava l’infermeria.

   «Devo dire che è emozionante avere queste nuove fisiologie da studiare... abbiamo tutti la sensazione di essere tornati all’Università, se capisce che intendo» proseguì Korris, leggermente nervoso, come gli accadeva quando faceva rapporto al Capitano. «Appena avremo respiro penso che scriverò un saggio sulle specie di Andromeda, sono così affascinanti!» si entusiasmò.

   «Certo... ora la lascio al suo lavoro» disse Chase, tornando alla porta. «Mi ha fatto piacere rivederla, dottore» aggiunse con un velo di tristezza.

   «Beh, io sono sempre qui» si stupì Korris.

 

   Venerdì Chase era appena giunto in plancia quando Terry rilevò un condotto di cavitazione in avvicinamento. Pochi attimi dopo i nuovi arrivati ne uscirono. Chase si alzò, meravigliato. Davanti a lui c’era un’altra astronave di classe Universe, del tutto simile all’Enterprise.

   «È l’USS Legacy e ci chiama» disse Grog.

   «Sullo schermo» ordinò Chase, curioso di vederne il Capitano. Credeva d’essere pronto a tutto, ma si sbagliava.

   «Allora, Capitano Chase... i suoi amici Nacene mi dicono che ha salvato Andromeda praticamente da solo» disse Serleen N’Rass, giocherellando con un ciuffo della sua folta criniera leonina. Sedeva a gambe accavallate, magnifica nell’uniforme da Capitano.

   «I Nacene esagerano... Capitano N’Rass» rispose Chase con una certa difficoltà. Dopo Korris, doveva immaginare che avrebbe rivisto anche lei. La sua morte prematura, nell’incidente dell’Enterprise-I, era uno dei più grandi rimpianti della sua vita. Perciò era logico che la simulazione gliela restituisse. Serleen era come Chase avrebbe voluto vederla: un Capitano affermato, con una grande astronave, proprio come lui. Aveva le qualità per diventarlo, quindi... perché no?

   «Allora, che vi porta qui? Non credevo che un’altra nave ci avrebbe raggiunti... non così presto» disse Chase.

   «I Nacene ci hanno informati di come avete sconfitto la Scourge, salvando anche la Via Lattea» spiegò Serleen. «Il Comando di Flotta vuole decorarvi. Tornerete brevemente sulla Terra... tanto ormai il propulsore cronografico è collaudato. Potete superare la distanza in un unico balzo, come abbiamo fatto noi. Durante la vostra assenza vi subentreremo nell’assistere la Coalizione. E quando tornerete agiremo di concerto. Suona bene, non trova?» ammiccò.

   «Benissimo» annuì Chase. Lui e Serleen che esploravano Andromeda, ciascuno con la sua nave, aiutandosi all’occorrenza... questo sì era il suo sogno irrealizzabile! Il più sfrenato che due amici dell’Accademia potessero coltivare. Chiaramente la simulazione non cercava più d’essere realistica: piuttosto voleva invogliarlo a rimanere. «E ci riesce bene, mannaggia!».

 

   Sabato l’Enterprise tornò sulla Terra con un unico balzo del propulsore. Trovò a riceverla altre navi dell’Unione, che lanciarono fuochi artificiali in segno di saluto. Poi Chase e gli ufficiali superiori scesero con l’Auriga, sorvolando l’isola artificiale di Atlantide, dove s’innalzavano i nuovi grattacieli dell’Unione Galattica. I lavori erano proseguiti a ritmo straordinario, durante i mesi della loro assenza. I nuovi palazzi del governo e della Flotta erano ultimati: splendevano come argento sotto il sole, con le loro forme slanciate e avveniristiche. L’Auriga atterrò su una piattaforma, sul tetto di uno degli edifici più grandi.

   Una folla festante li accolse non appena misero piede a terra. L’Ammiraglio Nelscott in persona li ricevette... perché naturalmente anche lui era sopravvissuto, in quel mondo di fantasia. «Ben fatto, Alexander!» disse l’Ammiraglio, stringendogli calorosamente la mano. «Sapevamo di poter contare su di te».

   «Questo è ancora da vedere» pensò Chase, seguendolo verso un ingresso.

   In una cerimonia solenne, Chase fu promosso Ammiraglio e tutti gli ufficiali superiori ricevettero la medaglia al valore. Chase tenne un breve discorso sulla necessità di proseguire l’esplorazione di Andromeda. Non era uno dei suoi discorsi migliori, ma tutti applaudirono come se fosse eccelso.

   Seguì un ricevimento che si protrasse fino a tarda ora. Chase incontrò i suoi genitori, giunti da Sydney per assistere alla cerimonia. Manco a dirlo, le condizioni di salute di suo padre erano migliorate. Sua madre era raggiante di gioia e Chase quasi dimenticò che non era reale. Venne persino sua sorella Helen. In quel mondo fantastico non si era mai unita al Movimento della Pace Galattica e quindi non si era immolata su Khitomer. Al contrario, era una giornalista e scrittrice affermata. Lei e Chase lasciarono il salone della festa, trovando un balcone sgombro, e lì si raccontarono le ultime novità.

   «Allora tornerai ad Andromeda, dopo tutti i brindisi e i fuochi d’artificio?» chiese Helen, sorseggiando un drink. Indossava un elegante abito da sera bianco, che metteva in risalto i capelli biondo scuro.

   «Eh, sì... devo proprio tornare» confermò Chase. «C’è ancora molto da fare, laggiù».

   «Potresti restare più a lungo» insisté Helen. «Mamma e papà ne sarebbero entusiasti. Anche a me non dispiacerebbe avere attorno il mio fratellone, per un po’. Ci vediamo così di rado...».

   «Troppo di rado» annuì Chase. Cinque anni e mezzo... tanto era passato dalla sua morte. Eppure eccola lì, che lo scrutava con occhi grigi così simili ai suoi. «Ma sai che ho delle responsabilità» aggiunse.

   «Hai già fatto moltissimo per l’Unione» notò Helen. «Proprio non puoi concederti respiro? Nella tua situazione ormai puoi fare quello che vuoi».

   Chase aggrottò la fronte, chiedendosi se stava parlando con l’Intelligenza Artificiale che controllava tutta la simulazione. «Non posso fermarmi adesso» spiegò. «La situazione non è rosea come sembra... la Scourge potrebbe tornare. Forse non se n’è mai andata davvero. È la forza più insidiosa e distruttiva che abbia mai incontrato».

   «Forse obbedisce solo alla programmazione. Forse non le dispiacerebbe evolvere» suggerì Helen, scrutandolo con occhi insondabili.

   «Come può evolvere?» domandò Chase, sentendo che stavano toccando il punto cruciale.

   «Beh, noi come facciamo? Osserviamo gli altri e impariamo da loro» disse Helen, lasciandolo interdetto. Prima che potesse rispondere, sua sorella posò il bicchiere sulla balaustra e lo abbracciò.

«Addio, fratellone» gli disse. «Qualunque cosa farai, sappi che sono fiera di te». Si sciolse in fretta dall’abbraccio e si allontanò, lasciandolo a rimuginare sul significato delle sue parole.

 

   Domenica, Chase si svegliò chiedendosi cos’altro lo aspettava. Forse l’avrebbero nominato Imperatore dell’Universo? Scherzi a parte, non sapeva cos’altro desiderare. Era stato un giochetto interessante, ma cominciava già ad annoiarsi. In quella settimana la simulazione aveva conosciuto un’escalation, divenendo sempre più irrealistica. La conversazione con Helen, in particolare, lo aveva turbato, suggerendogli che qualcosa stava per cambiare drasticamente. Se la Scourge lo stava osservando, sapeva come la pensava. Forse avrebbe lasciato perdere la carota e optato per il bastone.

   A confermare il timore, Chase si accorse di non essere nel suo alloggio. Era sì nell’alloggio di un’astronave, ma non quello attuale. Era più piccolo e arredato in modo più essenziale. Gli ci volle poco per riconoscere il suo alloggio da Tenente sull’Enterprise-I.

   «Vuoi giocare, eh?!» chiese a nessuno in particolare, scendendo dal letto. «Ora mi mandi pure indietro nel tempo? Che vuoi da me? Che è successo qui, in questa data...». Corse alla scrivania e accese l’oloschermo, consultando il calendario. Data stellare 2540.072. Missione corrente: pattugliare i confini della Macchia di Rovi. Ma certo... non c’era giorno più saliente della sua esperienza a bordo di quello, l’ultimo.

   Colto da un dubbio, Chase corse in bagno e si guardò allo specchio. Si vide ringiovanito, con un volto da trentenne: quello che aveva sull’Enterprise-I. Era l’occasione che aspettava... poteva finalmente capire se si trovava su un ponte ologrammi o in una simulazione tutta mentale. Prese delle forbicine e si praticò un taglietto sulla mano destra. Subito sentì dolore e vide stillare alcune gocce rosse. La mano era fatta di carne e sangue... il che era impossibile. Chase aveva perso l’intero braccio destro in seguito all’incidente di quel giorno. Se ora si fosse trovato in un ponte ologrammi, il braccio sarebbe rimasto una protesi meccanica. Invece era di nuovo carne viva... segno che niente di quanto gli dicevano i sensi era vero. Bene, già questo era un passo avanti. Purtroppo non sapeva come svegliarsi, dato che non controllava lui il gioco... ma forse poteva mandarlo in game over.

   Rimuginando sul problema, Chase indossò l’uniforme da Tenente e andò in sala mensa. Sapeva che ci avrebbe incontrato Serleen: tutto doveva ripetersi come quel giorno. O forse no... poteva comportarsi diversamente. Poteva agire con più prontezza e salvare l’Enterprise, o almeno la sua amica. Era questo che il programma si aspettava da lui? Visto che restituirgli amici e parenti morti non lo aveva soddisfatto, voleva indurlo a salvarli lui stesso?

   Con questi pensieri, Chase prese una zuppa plomeek al replicatore e la sorseggiò, seduto da solo a una tavolino. Non dovette nemmeno alzare gli occhi per sapere chi si stava avvicinando.

   «Guarda chi si vede! Posso unirmi a te?» trillò la voce calda di Serleen.

   «Certo... come vedi non ci sono problemi di spazio» rispose il Tenente Chase, accennando alla mensa semideserta. Serleen gli sedette graziosamente davanti, lasciando penzolare di lato la coda leonina. Gli offrì un assaggio del suo soufflé di hasperat, ma l’Umano rifiutò con garbo.

   Presero a chiacchierare. Chase aveva ricordi molto nitidi di quel giorno e rammentava gran parte delle cose che si erano detti. Si accorse che, anche se provava a cambiare argomento, Serleen lo invitava a ripetere lo stesso schema di allora. Ma nel complesso la conversazione fu più leggera. Chase non aveva bisogno di rivelarle le sue angosce sull’equipaggio e sullo stato della Flotta: era storia vecchia, problemi che aveva già affrontato. La lasciò parlare a ruota libera, intervenendo solo con qualche commento. Fu un’esperienza amara, anche se erano passati tanti anni. Era tentato d’avvertirla del pericolo incombente, perché potesse salvarsi; ma così avrebbe fatto il gioco del sistema, che voleva convincerlo a prendere per vera quella simulazione. Lui invece doveva uscire. Almeno poté evitare le vecchie gaffe, così che Serleen non se ne ebbe a male. Finito di mangiare, si recarono assieme in plancia.

   Anche lì, tutto si ripeté nel modo che Chase ricordava, a parte minime variazioni dovute alle sue risposte più pronte. Un’astronave misteriosa, ma che ora riconosceva come una Dreadnought dei Tuteriani, emerse dalle volute arancioni della Macchia di Rovi. Il suo comandante pretese la resa immediata dei federali. E il Capitano Vorix dell’Enterprise, controllato da un Parassita Neurale, accettò. Quasi tutti, in plancia come nel resto della nave, soggiacevano ai Parassiti. Era una situazione senza uscita... a meno di essere preparati. E stavolta Chase lo era, eccome. Senza darlo troppo a vedere si avvicinò allo scomparto segreto in cui si trovavano un paio di phaser.

   Appena il Capitano Vorix accettò di arrendersi e chiuse la comunicazione, Chase scattò verso lo scomparto. L’Ufficiale Tattico, un massiccio Tiburoniano, cercò di fermarlo, ma stavolta non fece in tempo. Chase arrivò per primo e impugnò un phaser. Sapendo già che lo stordimento era inefficace, lo regolò al massimo e fece fuoco, disintegrando il Tiburoniano subito prima che gli fosse addosso. Prese anche l’altra arma, per non lasciare niente agli avversari, e si mise con le spalle al muro.

   «Lei è agli arresti, Tenente. È colpevole di alto tradimento» disse il Capitano Vorix senza scomporsi. «Deponga le armi e...». Fu incenerito prima di finire la frase. Con un phaser per mano, Chase prese di mira tutti gli ufficiali di plancia, che gli si gettavano contro per disarmarlo. Li disintegrò uno dopo l’altro con freddezza, sotto gli occhi sconvolti di Serleen. Quando alcuni gli arrivarono troppo vicini si mosse lungo la paratia, continuando a sparare. Saltò persino in piedi su una consolle, colpendo come un forsennato, respingendo a calci chi cercava di abbrancarlo. Alla fine rimasero in tre: lui stesso, Serleen e un Boliano di nome Trig, che non era controllato dai Parassiti. Tutti gli altri erano stati vaporizzati, come testimoniavano le chiazze scure sul pavimento e il forte odore di bruciato.

   «Wow, stavolta sono intero» constatò Chase, ammirandosi il braccio destro. Se solo fosse stato così svelto nel mondo reale!

   «T-tu... devi essere impazzito...» balbettò Serleen, fissandolo stralunata.

   «Non c’era altra scelta» disse Chase senza rimorsi. Corse a una consolle e cercò d’isolare la plancia, per evitare che qualcuno potesse teletrasportarli da fuori. «Il Capitano e gli altri erano sotto il controllo dei Parassiti Neurali, gli stessi che cercarono già una volta d’infiltrarsi nella Flotta. Per questo volevano consegnare l’Enterprise» spiegò. «Ho dovuto ucciderli perché lo stordimento non funziona, coi Parassiti che gli pompano ormoni nel sangue».

   «Frell! Ma tu lo sapevi già?! Come l’hai scoperto?» chiese Serleen, avvicinandosi con cautela, come temendo che sparasse anche a lei.

   «Se te lo dicessi non mi crederesti» sospirò Chase. «Guarda: ci sono teletrasporti multipli dalla Dreadnought. Ci stanno abbordando».

   «Oh, no! Che possiamo fare?!» gemette Trig, l’addetto alle comunicazioni.

   «Per prima cosa dobbiamo isolarci» disse Serleen, mordendosi il labbro. Visto che Chase aveva già alzato gli scudi di plancia, bloccò il turboascensore. «Ora contattiamo gli ufficiali liberi dai Parassiti, se ne conosci qualcuno... così organizzeremo la difesa».

   «I nemici sono troppi» spiegò Chase. «Non riusciremo a difendere la nave... ormai è perduta».

   «Non dirai sul serio!» protestò Serleen. «Siamo sull’ammiraglia di flotta, non l’abbandoneremo così facilmente!» esclamò, con la criniera arruffata.

   «È solo una nave; ne costruiranno una migliore» tagliò corto Chase. «Vedi? Dalla sala macchine hanno dirottato i controlli di scudi e armi. Anche la cavitazione è offline. Sono riuscito a conservare solo il controllo dei motori a impulso».

   «Beh, allora chiamiamo aiuto!» propose Trig, correndo alla sua postazione.

   «L’astronave più vicina è l’Ascension dell’Ammiraglio Nelscott» rivelò Chase, sorprendendo ancora i compagni con le sue cognizioni. «Anche se la chiamiamo, non arriverà in tempo. Se quella Dreadnought non riesce ad assumere in fretta il controllo dell’Enterprise, la distruggerà. Non c’è che un modo per sbarazzarcene. Userò questa nave come ariete» disse truce, correndo al timone.

   «Ti sei bevuto il cervello?!» gridò Serleen, sopraffatta dal precipitare degli eventi. «Il pilota automatico non funzionerà, con una traiettoria kamikaze. Servirebbe l’autorizzazione dei nostri superiori... quelli che hai disintegrato».

   «Non userò il pilota automatico» ribatté Chase, cupo. Alzò gli occhi allo schermo e vide che la Dreadnought aveva agganciato l’Enterprise con un raggio traente, cominciando a trascinarla verso la Macchia di Rovi. Tutto come ricordava.

   «No... dev’esserci un altro modo...» mormorò Serleen, con le lacrime agli occhi.

   «Attenzione, messaggio per i superstiti della plancia» disse l’Ingegnere Capo dall’altoparlante. «Il vostro supporto vitale è stato disattivato. Consegnate la plancia, se volete sopravvivere. O morite lì dentro, se preferite. Ma sappiate che, in ogni caso, avremo il controllo completo dell’Enterprise. Fine comunicazione».

   «Vedi? Non c’è un altro modo» disse Chase, impostando la rotta di collisione. «E non cercare di stordirmi per sostituirti a me... ho io le armi, stavolta».

   «Come sarebbe, stavolta?! Parli come se tutto fosse già successo... cos’è, siamo in un circolo temporale?» chiese la Caitiana, ancora più disorientata.

   «Nulla di così semplice, purtroppo» sospirò Chase. «Forza, entra in una capsula. Anche tu, Trig. Stavolta tocca a voi salvarvi».

   «Addio, Alexander... avvertirò la Flotta del pericolo e racconterò a tutti del tuo coraggio» promise il Boliano. Entrò in una delle capsule di salvataggio che corredavano la plancia e attivò il meccanismo d’espulsione.

   «Che ci fai ancora qui?» domandò Chase, vedendo che Serleen non si era mossa.

   «Non ti lascio. Troveremo un altro modo» disse la Caitiana, per quanto fosse visibilmente spaventata. «Vedrai che ne usciremo insieme, come quella volta nella Sfera di Dyson».

   «Buffo che tu l’abbia citata» disse l’Umano. «Ma no... può cavarsela solo uno di noi. Su, mettiti in salvo» esortò.

   «Scordatelo!» insisté Serleen, venendogli accanto. «Non te l’ho mai detto, ma... credo di amarti. Anche se siamo così diversi».

   «Lo so... vale anche per me» disse Chase a mezza voce. «Ma la vita va avanti. Il mio posto ora è altrove, con altre persone». Pensò a Neelah: era da lei che doveva tornare. Per quanto Serleen fosse stata importante, era un capitolo chiuso della sua vita. Non l’avrebbe riaperto. E poi quella non era realmente Serleen, ma solo una complessa imitazione. Chiunque l’avesse creata, non lo avrebbe più preso in giro.

   «Non capisco che intendi... ma resto con te. Sono quella che tira fuori gli artigli per salvarti, ricordi?» singhiozzò la Caitiana. Gli afferrò il braccio.

   «Ma non ci sarai sempre» rispose Chase con tristezza, attivando i motori a impulso. «Stavolta devo uscirne da solo. Addio, amica mia».

   «Alexander!» gridò Serleen, stringendolo con più forza. La Dreadnought s’ingrandì sullo schermo, man mano che l’Enterprise divorava la distanza che le separava. In pochi secondi entrarono in collisione. La nave federale a forma di boomerang colpì il vascello nemico proprio nella strozzatura centrale, spezzandolo in due. Chase e Serleen furono scagliati in avanti, sopra la postazione del timone. Chase sentì un durissimo impatto; forse aveva centrato lo schermo principale. Prima che potesse accertarsene, tutto divenne bianco intorno a lui. L’Enterprise-I era esplosa, distruggendo anche la Dreadnought. Tutti quelli che si trovavano a bordo dei due vascelli erano morti. Game over.

 

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Capitolo 9
*** I Proto-Umanoidi ***


-Capitolo 8: I Proto-Umanoidi

 

Allarme.

Energia primaria fuori uso, sistema in stand-by.

Attivazione generatori d’emergenza.

Riavvio del sistema in corso.

Attendere.

Sistema riavviato.

 

   La coscienza di Terry fece capolino dall’oscurità informatica in cui il black-out l’aveva relegata. La sua proiezione isomorfa si materializzò nella plancia semibuia. Sfarfallò per un poco, ma riuscì a stabilizzarsi.

   «Che... cosa è... successo?» chiese con voce distorta.

   «Terry! Per la Luce di Kelva, è tornata!» esclamò Fanior, afferrandole le mani per accertarsi che fosse tangibile. «Non so come avremmo fatto senza di lei... e anche col suo aiuto, la situazione resta disperata».

   Terry non aveva mai visto il Kelvano in quello stato. Gli lasciò le mani e si guardò attorno, accorgendosi che erano gli unici occupanti della plancia. «Ambasciatore, dove sono gli altri? Attivo i sensori interni... oh, no!» gemette, sgranando gli occhi.

   «Lo so, non sono a bordo» disse Fanior con gravità. «Tutti gli umanoidi dell’Enterprise sono spariti, la nave è semideserta. Il Consigliere Apsu e altri Acquatici volevano dirottare i controlli di bordo al ponte allagato, ma ora che lei è tornata potremo mantenere tutto in plancia. Chiamo gli Xindi Insettoidi perché ci diano manforte. Ci sono pochi non umanoidi tra l’equipaggio, purtroppo, e i comandi non sono adatti a loro. Almeno io posso assumere forma umana, il che mi facilita le cose» spiegò, mentre cercava di far funzionare la consolle del Primo Ufficiale.

   «Quanto tempo sono rimasta inattiva?» volle sapere Terry.

   «Non molto, il tempo di chiamare Apsu e pochi altri. I comunicatori funzionano ancora, come anche la gravità artificiale» rispose Fanior. «Ma tutto il resto è in avaria, compreso il supporto vitale. Dobbiamo ripristinarlo al più presto».

   «Accedo ai controlli» disse Terry. Mosse la testa di scatto e parve frustrata. «L’energia primaria è disattivata e quella d’emergenza è al minimo. Evidentemente siamo ancora soggetti al campo di smorzamento... vorrei capirne di più, ma nemmeno i sensori esterni funzionano. Sono cieca e sorda!» si stizzì, guardando lo schermo spento.

   «Dovrà inventarsi qualcosa, perché siamo senza difese» sottolineò Fanior. «Per quanto ne sappiamo, potremmo essere circondati da navi ostili o dalla Scourge».

   Un secondo ologramma illuminò la plancia semibuia. Era il Consigliere Apsu. «Per le correnti dello Spazio, come sono felice di rivederla!» esclamò, volteggiandole attorno. «Ha visto come siamo ridotti... che facciamo?!» chiese tutto agitato.

   «La priorità è ripristinare la catena di comando» disse Terry. «Finché il Capitano e gli altri saranno dispersi, noi due siamo gli ufficiali più alti in grado».

   «L’ufficiale superiore è lei, Tenente Comandante» disse Apsu. «E poi io sono uno psicologo. Questa situazione esula dalle mie competenze» ammise senza remore.

   «Aspetti... dovremmo dare il comando a un’Intelligenza Artificiale?» chiese Fanior, squadrando Terry con perplessità. Non era propriamente ostile, ma gli si leggeva il dubbio negli occhi.

   «Sono abilitata ad assumere il comando, in situazioni critiche come questa» spiegò la proiezione isomorfa.

   «E l’ha mai fatto, prima d’ora?» chiese il Kelvano.

   «No» ammise candidamente Terry. «Ma è tutto nel mio programma. Protocollo d’emergenza Sigma-9, compromissione della catena di comando con grave minaccia per la nave. Entro in modalità Capitano Olografico d’Emergenza!» recitò ad alta voce, sebbene gli unici interlocutori fossero lì davanti a lei.

   Terry s’irrigidì e chiuse gli occhi, mentre la sua proiezione si trasformava. Le linee blu che correvano lungo le spalle, il colletto e i polsini dell’uniforme divennero rosse, indicando il passaggio dalla Sezione Scientifica al Comando. Nuovi gradi apparvero sul colletto, i gradi da Capitano. L’IA riaprì gli occhi e inspirò a fondo, sentendo le nuove direttive che scorrevano nel suo programma. Si era sempre chiesta come sarebbe stato entrare in modalità COE, sentire il brivido del comando. Ma non si augurava di scoprirlo, perché questo era possibile solo se i superiori fossero morti o dispersi.

   «Scoprirà che, nel comando più che altrove, un conto è la teoria e ben altro la pratica» disse Fanior, acido. Tornò alla consolle del Primo Ufficiale.

   «Allora che si fa... Capitano Terry?» chiese Apsu.

   «Io... ehm... noi...» farfugliò l’IA, cercando di mettere ordine nella ridda di direttive e strategie elaborate dalle sue subroutine. Non che fosse priva d’idee... al contrario, ne aveva troppe. Come scegliere quale applicare? Di solito si limitava a fornire dati e un punto di vista complementare a quelli dei superiori. A volte le sue strategie erano messe in pratica, a volte no... ma era sempre Chase a decidere. Stavolta invece toccava a lei. Fu una rivelazione scioccante. Di colpo non c’era più niente fra lei e la catastrofe. Tutto ricadeva sulle sue spalle. Il minimo errore poteva ripercuotersi in modi impossibili da prevedere, per quanto si affannasse a calcolarli.

   Terry si domandò come faceva Chase, con la sua limitata capacità cerebrale umana, a prendere continuamente decisioni come quelle. Ricordò cosa le aveva detto, la prima volta che si erano incontrati: «La capacità di comandare una nave non dipende solo dall’ampiezza del nostro database. Quando siamo là fuori, nello spazio, siamo responsabili delle vite dei nostri ufficiali e dei civili. Non importa cos’hanno messo nel suo programma, quante subroutine di analisi tattica, quanti algoritmi euristici: ogni missione è diversa, ogni decisione porta delle conseguenze. Noi scegliamo al meglio delle nostre capacità; ma poi accettiamo quel che viene, e impariamo a convivere con le conseguenze». All’epoca Terry aveva pensato che il Capitano pensasse alla propria esperienza. Ma ora comprese che glielo aveva detto in previsione di un momento come quello. Il momento in cui sarebbe toccato a lei e a nessun altro scegliere il da farsi.

   «Ebbene?» chiese il Consigliere, quasi implorante.

   «Per prima cosa dobbiamo ripristinare i sistemi essenziali» decise Terry. «Il supporto vitale per sostentare ciò che resta dell’equipaggio. I sensori esterni per analizzare la Matrioska e trovare i nostri. Se non riusciamo a teletrasportarli, andremo a prenderli con le navette».

   «Sarà meglio ripristinare anche armi, scudi e propulsione, o non faremo molta strada» disse Fanior. «Sempre che serva a qualcosa... il Cervello Matrioska ci ha sbaragliati in pochi secondi. Ci tiene ancora in pugno, solo col raggio traente e il campo di smorzamento. Se facciamo qualcosa che non gli va a genio – tipo riprendere i nostri – potrebbe passare alle maniere forti. Ci colpirà con qualche superarma o ci manderà ad arrostire nella nana rossa».

   «È fondamentale rimettere in linea la nave e ritrovare al più presto l’equipaggio» insisté Terry.

   «Forse la nave è perduta. E forse l’equipaggio è morto» la gelò l’Ambasciatore. «Che faremo allora?».

   «Affronteremo questi problemi se e quando si presenteranno» disse Terry, indugiando davanti alla poltrona del Capitano. Respirò a fondo e vi sedette come se scottasse, ma poco a poco abbassò le mani sui braccioli, prendendo confidenza. «Come dicono gli Umani, non fasciamoci la testa prima d’essercela rotta».

 

   Oscurità.

   Tepore.

   Un pulsare appena percettibile.

   Alexander Chase, Capitano della Flotta Stellare, era già stato in situazioni come quella. Cercava di muoversi... di aprire gli occhi... di pensare almeno con chiarezza, respingendo la pesantezza e l’istupidimento del sonno. Doveva fare qualcosa d’importante... ma cosa? Gli venne in mente che riguardava l’Enterprise. I Parassiti Neurali se n’erano impadroniti, Serleen era morta... doveva avvertire la Flotta...

   No, quella era storia vecchia. L’aveva solo rivissuta in una simulazione, cambiando anche il finale. Stavolta era rimasto sulla vecchia Enterprise fino al game over, l’unico modo di concludere la messinscena. Una scommessa azzardata, ma era ancora vivo, quindi... aveva vinto. Ma non c’era tempo per festeggiare. Uscire dal programma era solo il primo passo della lunga, incerta strada della sopravvivenza. Per prima cosa doveva salvare se stesso. Poi la nave e l’equipaggio. Infine, se non era chiedere troppo, anche la galassia. Un passo alla volta, si disse: cominciamo con l’aprire gli occhi.

   Chase sollevò le palpebre, cercando di mettere a fuoco qualcosa. I contorni si precisarono gradualmente. C’era poca luce, ma vide una superficie semitrasparente e concava. Per un attimo gli sembrò d’essere un pesce in una boccia. Scosse la testa, respingendo gli ultimi strascichi di sonno, e cercò di capire dov’erano l’alto e il basso. Poi si guardò attorno. Stava galleggiando in posizione grossomodo verticale, giusto un po’ inclinato all’indietro. Qualcosa lo immobilizzava, tenendolo in quella posa: forse un sofisticato campo di forza. Capì d’essere in un’alcova incassata nella parete. Non c’erano angoli intorno a lui: solo una superficie curva e continua, come l’interno di un uovo. Era nera e opaca, salvo la zona davanti, giallastra e semitrasparente. All’esterno c’era un corridoio; ne vedeva le linee distorte dalla superficie concava. L’aria era calda e pesante, quasi sciropposa.

   Ripensò al mito di Crono, il Titano che divorava i suoi figli. Ecco come l’avevano trattato i Proto-Umanoidi... l’avevano rinchiuso in quell’alcova che ricordava un po’ il grembo materno, un po’ uno stomaco. Una delle tante, ci scommetteva. L’equipaggio doveva essere lì intorno, in altre nicchie come la sua. Forse era l’unico a essersi risvegliato... doveva tirarli fuori! Ma prima doveva uscire lui stesso. Come? D’istinto si portò la mano al petto, per chiamare l’Enterprise, ma scoprì di non avere più il comunicatore. Eh già, non poteva essere così facile.

   Cercò di muoversi e scoprì che non era facile, perché ogni movimento si scontrava con una resistenza gommosa. Ma nel braccio destro, quello meccanico, aveva abbastanza forza da vincere l’opposizione. Toccò la lastra giallognola che chiudeva l’alcova. Doveva essere un qualche metallo trasparente; anche con il braccio artificiale non poteva sperare di sfondarlo. Eppure doveva uscire e alla svelta, prima che lo riaddormentassero. Si guardò attorno disperato e notò dei simboli impressi sulla lastra. Erano segni grafici elementari: puntini, cerchietti, lineette. Come la scrittura dei Proto-Umanoidi che aveva scoperto nella Sfera di Dyson. Essendo il primo alfabeto mai inventato era estremamente semplice, quasi fosse l’opera di un bambino. Tutti gli eoni seguenti non l’avevano cambiato.

   Chase ragionò febbrilmente. Fin lì aveva seguito l’ipotesi di Ilia, secondo cui il Cervello Matrioska era stato progettato per compiacere i fruitori, offrendo loro realtà simulate che ne appagavano i desideri. Anche se adesso era usato come prigione, non sembrava aver subito grosse modifiche. Se un Proto-Umanoide si svegliava dalla realtà virtuale e decideva di sgranchirsi le gambe, come faceva? Non era logico inserire qualche meccanismo di sicurezza per farlo uscire? Quei simboli, per esempio. Poteva premerli... ma quali, e in che ordine? Erano troppi per provare a caso e temeva che sbagliando sequenza si sarebbe rispedito da solo nel mondo dei sogni. Allora ricordò il secondo consiglio di Grenk: il cerchio è maggiore dell’uguale. Poteva essere la sequenza dei segni da premere. Un cerchietto, due linee giunte a formare il segno matematico del maggiore, altre due sovrapposte come l’uguale. Decise di rischiare: non aveva nulla da perdere. Premette i tre simboli in rapida successione.

   Subito la lastra svanì e il campo che teneva Chase in posizione si disattivò. Il Capitano scivolò poco decorosamente in fondo alla nicchia simile a un uovo. Aveva le gambe deboli e intorpidite, ma doveva muoversi... la barriera poteva tornare da un momento all’altro. Raccolse le forze e si trascinò fuori da quella che adesso era un’apertura ovale. Cadde nel corridoio esterno, quasi rotolando. Grugnì, si mise in ginocchio, si massaggiò i muscoli delle gambe e finalmente riuscì ad alzarsi. Era libero dall’alcova... ma non dal Cervello Matrioska.

   Il Capitano osservò le pareti del corridoio e vide ciò che temeva. Su ambo i lati era disposta un’interminabile fila di nicchie come la sua, ognuna con una persona all’interno. Poteva vedere i prigionieri attraverso le lastre semitrasparenti. Galleggiavano in posizione verticale, leggermente inclinati all’indietro, tenuti in posizione da campi di forza. La maggior parte di loro sorrideva; evidentemente sperimentavano simulazioni piacevoli, studiate per mantenerli in quello stato. Chase si domandò come avrebbe reagito la maggior parte di loro, quando li avesse risvegliati. Ma scoprì con orrore di non poter aprire le capsule dall’esterno. C’erano sì dei comandi; ma la sequenza di Grenk non funzionava e Chase non ne trovò altre efficaci. Aveva anche timore di provarne a caso, non volendo compromettere la sicurezza dei suoi. Si chiese se l’inefficacia della sequenza significava che la sua fuga era stata notata e i Proto-Umanoidi avevano già cambiato i codici. Se era così, non ci avrebbero messo molto a riacciuffarlo.

   Con il cuore in gola, Chase corse lungo il corridoio, scorrendo i volti degli ostaggi, in cerca dei suoi ufficiali superiori. Giunse in fondo senza averli trovati. Il corridoio si apriva su uno spazio immenso, fiocamente illuminato dalla nana rossa. Il Capitano vacillò e dovette aggrapparsi allo stipite. Quella visione era così aliena, così sconvolgente che rischiava di farlo impazzire. Posò la fronte contro la paratia e si ripeté che doveva essere forte. Respirò a fondo, raddrizzò le spalle e osò guardare di nuovo.

   Chase si trovava nello spessore del guscio interno della Matrioska: un ambiente smisurato e labirintico, con più spazi vuoti che pieni. Era una struttura a tralicci, incrociati fra loro secondo forme geometriche di base, come il triangolo e l’esagono. Malgrado la difficoltà di valutare le distanze, s’intuiva che ognuna di queste forme aveva lati chilometrici. Ogni traliccio conteneva un corridoio con una doppia fila di alcove. Là dove s’incrociavano c’erano grandi piattaforme. Questa struttura reticolare si estendeva a dismisura, avvolgendo l’intera stella. Gli stessi moduli si ripetevano all’infinito intorno a Chase, ma non sopra e sotto. Il guscio, infatti, era relativamente sottile. In basso vi era uno strato di metallo opaco, che formava una sorta di “pavimento”; ma era pur sempre un vertiginoso abisso. In alto c’era invece una lastra trasparente, che tratteneva l’atmosfera. Sopra ancora si spalancava l’immenso spazio interno della megastruttura, con la nana rossa e i tre anelli che le ruotavano attorno. La luce sanguigna, sempre fissa nello stesso punto, creava un eterno crepuscolo. Solo quando uno degli anelli passava davanti alla stella si avevano brevi “notti”, o per meglio dire eclissi. Gli immensi spazi deserti... l’assoluto silenzio... la luce crepuscolare... tutto questo creava un senso di solitudine opprimente.

   Chase ricordò un vecchio racconto terrestre, La biblioteca di Babele. Anche lì c’era una struttura sconfinata, simile a un alveare, che conteneva un’infinità di volumi, scritti disponendo le lettere a caso. Qua e là, per pura combinazione, appariva qualcosa di senso compiuto: una parola, una frase, un paragrafo. Talvolta anche un intero libro. Siccome la biblioteca era infinita, dovevano esserci tutte le frasi e tutti i libri che fosse possibile scrivere. Così i visitatori la setacciavano in cerca di quell’unico libro che, per puro caso, conteneva la Verità... senza trovarlo mai. Il Cervello Matrioska faceva qualcosa del genere, ma in modo più sofisticato. Non c’era bisogno di libri, quando si potevano creare infinite realtà direttamente nel cervello degli ospiti.

   Il Capitano si schermò con la mano dalla luce rossastra e cercò l’Enterprise, ma non riuscì a vederla. Forse era così lontana da essere invisibile. Poteva essere nascosta da uno degli anelli o dalla stella stessa. Sempre che esistesse ancora. Frustrato, Chase attraversò di corsa la piazzola ed entrò in un altro traliccio. Anche lì c’erano ufficiali e civili dell’Enterprise, appartenenti a varie specie... ma tutti umanoidi, notò. Un’ulteriore prova che quella struttura era opera dei Progenitori. Si chiese con un brivido che ne era dei non umanoidi; preferì non fare ipotesi. Percorrendo il corridoio vide i prigionieri che galleggiavano nelle loro nicchie, dietro le lastre gialle, e trovò che somigliavano in modo inquietante a insetti sospesi nell’ambra.

   Quell’immagine era così disturbante che il Capitano volle uscire di nuovo all’aperto. Accelerò il passo, ma non era arrivato in fondo che notò un movimento con la coda dell’occhio. Qualcun altro si era svegliato e si agitava, cercando di uscire dall’alcova. Chase si precipitò davanti alla lastra e riconobbe T’Vala. Ora che gli effetti della Barriera erano svaniti, e aveva riacquistato la logica, la mezza Vulcaniana non ci aveva messo molto a fiutare l’inganno. Quando lo vide mosse la bocca, ma Chase non udì alcun suono: le nicchie erano insonorizzate. Il Capitano scosse la testa e s’indicò l’orecchio, per farglielo capire. Premette la sequenza d’apertura usando i comandi esterni all’alcova, senza esito. Allora indicò a T’Vala i tre simboli corretti fra quelli impressi sulla lastra trasparente, pensando che forse la sequenza di Grenk funzionava solo dall’interno.

   T’Vala annuì, ricordando a sua volta le parole del Tellarita, e scambiò con Chase uno sguardo d’intesa. Sollevò faticosamente il braccio destro e accostò l’indice ai simboli. I suoi movimenti erano rallentati dal campo di forza, che l’obbligava a lottare contro una resistenza viscosa. Premette i primi due simboli, puntò il terzo... ma si arrestò a un centimetro di distanza. I suoi occhi si sfocarono.

   «Beh, che succede? Non si fermi adesso!» esclamò Chase, pur sapendo che non poteva sentirlo. Picchiò col pugno sulla lastra, cercando di attirare la sua attenzione.

   La timoniera non gli badò minimamente. Le sue palpebre si appesantirono e infine si chiusero. Il braccio teso ricadde mollemente e tutto il suo corpo si rilassò, come accadeva agli altri prigionieri. T’Vala aveva già ripreso a sorridere, beatamente sprofondata nella simulazione, dimentica e ignara della realtà. Doveva essere scattato qualche meccanismo di sicurezza, che l’aveva sedata e aveva riavviato la finzione. Evidentemente le aveva anche cancellato la memoria degli ultimi eventi.

   Chase gridò di rabbia e colpì la lastra giallognola con tutta la forza del suo braccio meccanico. La fece rintoccare in modo sinistro, ma non provocò danni visibili. Con una tecnologia così sofisticata da confondersi con la magia, i Proto-Umanoidi erano inattaccabili. Potevano tenerli tutti prigionieri, sedando rapidamente chi riusciva a svegliarsi. Chissà perché avevano permesso a lui di uscire. Forse era stato troppo rapido a premere i tasti. Oppure glielo avevano permesso... per qualche motivo. Ma come poteva aiutare i suoi? Non riusciva a tirarli fuori dalle nicchie e senza il comunicatore non poteva chiamare l’Enterprise.

   Frustrato, il Capitano tornò sui suoi passi e uscì di nuovo sulla piattaforma, sempre immersa nella luce crepuscolare. Qui sedette a gambe incrociate, per riflettere sul da farsi. Cominciava ad aver fame, il che sollevava un altro problema. Si chiese se i suoi erano nutriti, nelle capsule, o se i loro corpi erano lasciati a deperire fino alla morte. I Proto-Umanoidi certo non correvano rischi, quando vi entravano; ma erano altrettanto premurosi con i loro prigionieri?

 

   In quel momento, forse il più disperato che Chase ricordasse, la salvezza venne dall’alto sotto forma del ronzio di una navetta. Il Capitano alzò la testa di scatto: sì, era dell’Enterprise! La navetta atterrò proprio al centro della piazzola. Il portello posteriore si aprì, lasciando uscire due figure familiari: Terry e Fanior.

   «Ah! Non sono mai stato così felice di vedervi!» esclamò Chase, venendo loro incontro. Ma si arrestò di botto, vedendo che Fanior gli puntava contro un phaser.

   «Perché sono salito sull’Enterprise?» chiese il Kelvano, scrutandolo severamente.

   «Come sarebbe?!» chiese il Capitano, deluso dalla fredda accoglienza.

   «Risponda alla domanda. Perché sono salito?» ripeté calmo l’Ambasciatore.

   «Per riallacciare i rapporti tra la sua colonia e l’Impero Kelvano. E per aiutare l’Unione a stabilire un dialogo pacifico con l’Impero» rispose Chase.

   «Non ci siamo; perché io sono salito a bordo?» insisté Fanior, che lo teneva sempre sotto tiro, fissandolo con occhi di ghiaccio. Terry sembrava nervosa, ma non intervenne.

   «Perché ero l’unico Capitano federale di cui si fidasse, avendo soccorso molti pianeti durante la guerra» rispose Chase. «Me l’ha detto subito prima che attraversassimo la Barriera».

   «Ha superato la prova» disse Fanior, riagganciando il phaser in cintura. «Buon per lei».

   «Ci scusi, Capitano, ma temevamo che fosse un inganno del nemico» spiegò Terry, avvicinandosi un po’ imbarazzata. «L’Ambasciatore ha insistito per sottoporla a un test e non ho potuto dargli torto, visto cosa affrontiamo».

   «Ha fatto bene» ammise Chase. «Da quanto mi hanno prelevato?».

   «Sette ore, diciotto minuti e quindici secondi» rispose l’IA con la solita precisione.

   «Mi sono sembrate molte di più» disse il Capitano, scuotendo la testa. Aveva trascorso un’intera settimana nella simulazione... evidentemente la percezione del tempo era alterata, come nei sogni. Ciò significava che ogni ora del tempo reale era un’intera giornata, per quelli ancora immersi nella realtà virtuale; un motivo in più per estrarli al più presto. «Quindi non ci ha messo molto, a darmi per spacciato» commentò, accennando alla nuova uniforme da Capitano di Terry.

   «Oh, allude a questa?» arrossì Terry, sfiorandosi la linea rossa sulle spalle. «La prego di non fraintendere. In assenza del Capitano e del Primo Ufficiale, il regolamento mi obbligava ad assumere il comando. Glielo restituisco volentieri». Le linee rosse dell’uniforme tornarono blu e i gradi retrocessero a quelli di Tenente Comandante.

   «Ah ah, tranquilla, stavo scherzando!» assicurò Chase, ridendo bonariamente. «Ci contavo, che prendesse in mano la baracca. Allora, qual è lo status dell’Enterprise?».

   «La nave è in orbita stabile attorno alla nana rossa. Il raggio traente ci ha lasciati, ma siamo ancora soggetti al campo di smorzamento, per cui l’energia è al minimo» spiegò la proiezione isomorfa. «Abbiamo ripristinato i sistemi chiave, ma non possiamo andarcene, né tantomeno affrontare una battaglia».

   «Come temevo» disse Chase. «Che mi dice dell’equipaggio? Il nemico ha preso tutti gli umanoidi, vero?».

   «Tutti, a parte Neelah che è ancora nella capsula crono-statica» confermò Terry. «Però i non umanoidi sono rimasti a bordo. Hanno riattivato i sistemi di base, con la scarsa energia che abbiamo. Li ho disposti in plancia, sala macchine e nelle altre zone chiave».

   «Ben fatto» approvò Chase. «Ma come mi avete trovato, senza il comunicatore?».

   «Poco fa abbiamo rilevato i suoi segni vitali. Prima non c’erano, sono apparsi all’improvviso» spiegò Terry. «Siccome abbiamo ancora problemi col teletrasporto siamo venuti in navetta. Questa copertura trasparente che ci sovrasta presenta qua e là degli ingressi».

   «Mi avete rilevato quando sono uscito dalla capsula» comprese il Capitano. «Si vede che quegli affari bloccano anche i sensori. Ci scontriamo con una tecnologia formidabile» sospirò, nuovamente assalito dallo sconforto.

   «Deduco che anche gli altri sequestrati si trovano in capsule simili» disse Terry. «Ha compreso la loro funzione? E come ne è uscito lei?».

   «Venite, ve le mostro» disse Chase, invitando i due soccorritori a seguirlo. Attraversarono la piattaforma ed entrarono nel corridoio affollato d’alcove, percorrendolo per un lungo tratto. Strada facendo il Capitano spiegò quanto gli era accaduto. Terry e Fanior osservarono inquieti l’interminabile successione di nicchie giallastre, in cui galleggiavano i colleghi privi di sensi. Il trio si fermò davanti a T’Vala, ancora immersa nella simulazione. Chase ne descrisse il breve e futile risveglio. «È chiaro che il nemico vuole trattenerci ad ogni costo. Pensa di poter aprire le capsule?» chiese a Terry.

   «Dovrei studiarle bene» rispose prudentemente l’IA. «Se le sfondassimo con le armi e svegliassimo bruscamente i prigionieri, troncando la simulazione, potrebbero subire danni cerebrali. No... devo analizzare questa tecnologia prima di procedere» disse, esaminando l’alcova con il tricorder.

   «Non credo che avremo tutto questo tempo» ricordò Fanior. «I Proto-Umanoidi possono attaccarci da un momento all’altro. Mi stupisco che non l’abbiano già fatto».

   «Ma voi li avete rilevati?» chiese il Capitano.

   «Negativo; mi domando se non siano tutti in capsule come questa, che nascondono i loro segni vitali» disse Terry. Stava ancora analizzando la nicchia, quando ci furono due bagliori bianchi. Terry e Fanior si portarono la mano in cintura; i loro phaser erano svaniti. Nel caso di Fanior era scomparso anche il Trasmutatore Kelvano.

   «Ci hanno disarmati; significa che vengono a prenderci» si allarmò l’IA.

   «Torniamo alla navetta» disse Chase, temendo il peggio.

   Il trio risalì di corsa il corridoio e sbucò di nuovo sulla piattaforma, dove la navetta li attendeva ancora, rossa nella luce crepuscolare. Avevano fatto pochi passi all’aperto che dovettero fermarsi. Intorno a loro c’era una dozzina di esseri umanoidi, che si erano appostati ai lati dell’uscita per sorprenderli. Senza una parola gli umanoidi li circondarono, tenendoli sotto tiro con piccole armi simili ai phaser. Chase seppe che aspetto avevano prima ancora di alzare lo sguardo su di loro. Altezza e corporatura medie, pelle beige, niente capelli. Lineamenti abbozzati, con gli occhi sprofondati nel cranio oblungo, dalle vene in evidenza. Abiti bianchi e aderenti. «Finalmente c’incontriamo... nonni» disse il Capitano.

 

   «Noi non siamo i suoi nonni» obiettò una Proto-Umanoide, l’unica donna del gruppo, facendosi avanti. Aveva una veste più lunga e fluente degli altri e non sembrava armata. Somigliava in modo impressionante alla Progenitrice della firma genetica e alla statua nella Sfera di Dyson. Doveva essere una leader, e non di poco conto.

   «Non parlavo alla lettera, naturalmente» spiegò Chase, fronteggiandola. «Ma capisce cosa intendo. Voi siete i Progenitori, la radice comune di tutte le specie umanoidi. Ci avete creati a vostra immagine e somiglianza. A proposito... come chiamate voi stessi?».

   «Noi siamo il Popolo» rispose la Proto-Umanoide con semplicità, allargando lievemente le braccia. «Non servivano altre definizioni, quando sorgemmo dal nostro pianeta, perché eravamo unici».

   «Ora non più» puntualizzò Chase. «Che vi piaccia o no, avete compagnia. Io sono il Capitano Chase, dell’astronave Enterprise dell’Unione Galattica. A chi mi rivolgo?».

   «Sono la Primarca Lizil» rispose la Proto-Umanoide, salutando con un lieve cenno del capo. «Pensi a me come a una scienziata/leader. La voce del Popolo».

   «Bel popolo di assassini!» accusò Fanior, facendosi avanti. «Avete scatenato la Scourge contro i popoli di Andromeda. Vi nascondete qui, al sicuro, mentre gli innocenti soffrono e muoiono per colpa vostra. E quando siamo giunti in cerca di spiegazioni ci avete attaccati, sequestrando quasi tutti i nostri compagni. Li tenete in quelle capsule, addormentati e ignari, come fossero animali. Che vi abbiamo fatto, per meritare quest’odio implacabile?!» chiese con rancore.

   «Lei è del tutto fuori strada. Noi non odiamo nessuno» rispose Lizil con educazione.

   «E allora perché ci fate questo?!» sbottò Chase, indicando il corridoio dov’era intrappolato il suo equipaggio.

   «Voi interpretate le nostre azioni come un attacco» disse la Primarca. «Non è così. Stiamo conducendo un importantissimo esperimento scientifico. Non deve essere interrotto per alcuna ragione». Chase notò che la Primarca usava parole semplici e componeva frasi brevi. Ricordò che il DNA dei Proto-Umanoidi era più semplice di quello delle specie successive. Che ironia... avevano l’esperienza degli eoni, ma sotto certi aspetti erano come bambini.

   «Quale esperimento può giustificare il sequestro della nostra gente?» chiese il Capitano. «Ma soprattutto, perché avete creato la Scourge?».

   «Le risposte sono strettamente collegate» spiegò Lizil. «Sono certa che ne ha molte altre. Per soddisfare la sua curiosità le racconterò la storia del Popolo... sempre che abbia pazienza».

   «Ascolterò volentieri tutto quel che mi dirà» promise Chase.

   «Bene, allora cominciamo dal principio» disse la Primarca, facendo segno alle guardie di rilassarsi e riporre le armi. La tensione si stemperò. «La storia del Popolo inizia quattro miliardi di anni fa, quando ci evolvemmo nella nostra patria ancestrale. Indovini un po’... la chiamavano Terra. Non la sua Terra, naturalmente. Apparteneva a un altro sistema stellare, ben più antico, ma localizzato sempre nella Via Lattea. Sentimmo il richiamo delle stelle e sviluppammo la tecnologia per raggiungerle. Per millenni setacciammo la Galassia, cercando altri come noi, ma le nostre speranze vennero frustrate. Sugli altri mondi la vita era ancora ai primordi, limitata a semplici forme unicellulari. Eravamo unici... ma per questo ci sentivamo soli. Così intraprendemmo la prima delle nostre fatiche: seminammo o alterammo la vita nel brodo primordiale d’innumerevoli pianeti, in tutta la Via Lattea, inclusa la sua Terra. La nostra opera proseguì per miliardi di anni, poiché intervenimmo successivamente nelle fasi chiave dello sviluppo, indirizzando l’evoluzione verso forme simili alla nostra».

   «Com’è possibile che la vostra civiltà sia durata così a lungo, sostanzialmente immutata?» chiese Terry. «Persino il vostro messaggio genetico dava per scontato che vi sareste estinti».

   «Così credevamo, quando inserimmo quei marcatori» ammise la Primarca. «Ma molti di noi erano impazienti di conoscere il frutto delle nostre fatiche. Così ci stabilimmo nei pressi del buco nero al centro della Via Lattea, che rallentò il nostro tempo soggettivo. Quelli che per noi furono secoli, per il resto del cosmo furono milioni di anni. Ogni tanto ne uscivamo per controllare le cose e aggiungere qualche miglioria genetica, coerente con gli ecosistemi locali. Speravamo sempre che una specie si evolvesse tanto da permetterci di contattarla... e infine accadde». La voce della Primarca si emozionò.

   «Chi furono i vostri primogeniti?» chiese il Capitano.

   «Venivano dal pianeta che voi chiamate Tagus III e conobbero la loro Rivoluzione Scientifica circa due miliardi di anni fa» spiegò Lizil.

   «Ma la civiltà di Tagus fu...» mormorò Chase.

   «Distrutta, sì» confermò la Primarca. «Non avete idea... eravamo così ansiosi di conoscere i nostri figli, di confrontarci con loro, che dimenticammo ogni prudenza. Sbarcammo sul loro pianeta offrendogli conoscenza e tecnologia, tutto il necessario per elevare la loro qualità di vita al livello della nostra. Sulle prime ci furono riconoscenti. Eravamo al colmo della gioia. Poi...». Lo sguardo di Lizil si adombrò. «I Taguani divennero invidiosi di noi. Finché ci temevano stettero buoni, ma appena pensarono d’essere in vantaggio ci colpirono a tradimento. Scatenarono una guerra interstellare, la prima della nostra storia, per sterminarci... e per poco non ci riuscirono. Dissero che per loro era tempo di regnare e per noi di morire». Una lacrima le scintillò nell’angolo dell’occhio.

   «Quindi li avete distrutti» disse il Capitano.

   «Non avevamo scelta; o noi o loro» si giustificò la Primarca. «Con grande difficoltà riuscimmo a prevalere e con enorme dolore li eliminammo. Ma il rimorso per quest’azione non cessò mai di tormentarci. Ci dicevamo che forse, se fossimo stati più prudenti nella prima fase del contatto, avremmo evitato la tragedia.

   Quanto accaduto coi Taguani ci pose un grave dilemma. Molti di noi volevano sterilizzare i pianeti che avevamo inseminato, prima che la storia si ripetesse. Altri dissero che potevamo imparare dai nostri errori, anche perché non tutti i nostri figli sarebbero stati così ingrati. Ma ormai la paura e la diffidenza serpeggiavano tra noi. Temevamo che ogni contatto con le specie più giovani si sarebbe trasformato in una guerra contro i nostri figli. Così decidemmo di nasconderci a loro, sviluppando tecnologie di occultamento. Continuammo però a proteggerli, a favorirne l’evoluzione e anche la diffusione nella Galassia, guadagnandoci il nome di Preservatori».

   «Siete intervenuti anche sulla Terra» notò Chase.

   «Sì, la vostra specie fu l’ultima che aiutammo, prima che la rovina si abbattesse su di noi» confermò Lizil. «Ci piacevate... fra tutti i nostri figli, ci somigliavate molto».

   «Cosa vi accadde?» incalzò Terry.

   «Per spiegarvelo, farò un salto indietro di alcuni milioni di anni» disse la Primarca. «Dovete sapere che, per celare la nostra esistenza, avevamo deciso di non colonizzare estesamente la Galassia. Preferimmo concentrarci nel nostro sistema d’origine, il che ci obbligò a rimodellarlo pesantemente. Usammo la materia dei pianeti – anche della nostra amata Terra – e molta materia stellare per costruire un guscio attorno al Sole. Di tutte le nostre megastrutture, quella fu la più grande. Ci fornì una superficie così estesa da superare tutti gli altri pianeti abitabili della Via Lattea. Fu un lavoro lungo e spossante, ma pensavamo che ne valesse la pena. Avremmo avuto un dominio sconfinato e allo stesso tempo facilmente difendibile. Un dominio su cui non tramontava mai il Sole; per questo lo chiamammo Eliopoli».

   «Noi lo definiamo Sfera di Dyson» disse Chase. «Ci sono stato, anni fa... è un’opera strabiliante» riconobbe.

   «Doveva essere il nostro capolavoro» annuì la Primarca. «Purtroppo, proprio quando i lavori stavano per terminare, i conflitti a lungo sopiti fra la nostra gente divamparono. Vedete, molti volevano ancora eliminare le specie più giovani e non accettavano d’essere richiamati a vivere nel sistema d’origine, sebbene l’Eliopoli offrisse loro enormi territori. Scoppiò una rivolta, che divenne una guerra civile: il secondo conflitto della nostra storia. Le altre specie – all’epoca ce n’erano una manciata – non immaginavano che si decideva la loro sorte» sospirò la Primarca. «Dopo lunghi spargimenti di sangue, il partito dei Preservatori l’ebbe vinta. Gli altri, i Distruttori, furono banditi dalla Via Lattea perché non potessero più nuocere. La Barriera Galattica gli avrebbe reso difficile il ritorno.

   Sconfitti, pieni d’odio e risentimento, i Distruttori non ebbero altra scelta che attraversare le tenebre intergalattiche. Il lungo viaggio li portò ad Andromeda, che attraversarono fino al Nucleo. Qui si stabilirono, costruendo la loro versione dell’Eliopoli. Ma non dimenticarono mai la sconfitta subìta, né il motivo del loro esilio: l’amore dei Preservatori per le loro creature. Decisero di annientare gli uni e le altre. Nella loro brama di distruzione, crearono alcune fra le armi più pericolose che l’Universo abbia mai conosciuto e le scagliarono contro la Via Lattea. Fortunatamente poche riuscirono a superare la Barriera, e di quelle la maggior parte fu neutralizzata dai Preservatori prima che facesse troppi danni. Di una si persero le tracce... un dispositivo conico, rivestito di neutronio, capace di disintegrare interi pianeti e alimentarsi dei loro frammenti».

   «Se è quello che penso, la Flotta Stellare lo ha incontrato» disse Chase. «Tre secoli fa alcuni sistemi ai margini della Federazione furono distrutti da un dispositivo come quello che ha descritto. Lo chiamarono la Macchina del Giudizio Universale. Danneggiò la Constellation e stava per distruggere anche l’Enterprise dell’epoca. Infine il Capitano Kirk spedì la Constellation dentro l’ordigno – che stava per consumarla – e la fece esplodere. Il guscio di neutronio resistette, ma il meccanismo interno fu danneggiato irreparabilmente».

   «Allora sapete di che sto parlando» disse Lizil. «Ma i Distruttori dedicarono gran parte delle loro energie alla costruzione della nuova Eliopoli, in cui ci troviamo. Come avrete notato, è molto diversa dall’altra».

   Chase scambiò una breve occhiata con Terry. La Primarca aveva smesso di dire “noi”; ma il fatto che si trovassero nella fortezza dei Distruttori la diceva lunga su quale, delle due fazioni di Proto-Umanoidi, avevano davanti. «Noi lo chiamiamo Cervello Matrioska» disse il Capitano con voce un po’ rauca. «È molto più sofisticato dell’altra Sfera».

   «I Distruttori erano lungimiranti» spiegò la Primarca. «Capirono che prima o poi il Sole avrebbe arroventato la prima Eliopoli, perciò ne progettarono una fatta di moduli aggregati. Questo semplificava di molto la costruzione e anche la sostituzione di eventuali zone danneggiate. Ma soprattutto permette di scomporre la Sfera in uno Sciame, per migrare verso un’altra stella se questa divenisse instabile. Finora non è stato necessario: questa nana rossa vivrà per un trilione di anni. E non è l’unico miglioramento del progetto» aggiunse Lizil, con aria soddisfatta.

   «Vedo che i Distruttori hanno rinunciato ad ampie estensioni di terreno, in favore della realtà virtuale» commentò Chase. Disse “i Distruttori” e non “voi”, perché non voleva toccare quel punto cruciale prima di aver ascoltato la storia sino in fondo.

   «Era più semplice e al tempo stesso più appagante» confermò la Primarca. «Vedete, i Distruttori erano più individualisti dei Preservatori. Volevano vivere a modo loro e trovarono nella realtà virtuale il modo perfetto di farlo. Cominciarono persino a riversare i loro schemi mentali nel supercomputer, per sfuggire alla morte. Ormai erano così paghi del loro Paradiso – virtuale, ma più che reale per loro – che non si curavano dello spazio esterno. Poi tutto cambiò». I suoi occhi grigi s’incupirono.

   «La Sfera dei Preservatori divenne inabitabile» disse Terry.

   «Doveva succedere, prima o poi» annuì Lizil. «I Preservatori furono sciocchi. Credevano di poter gestire il problema, invece ne furono travolti. Il Sole entrò in una fase così violenta da arroventare l’interno dell’Eliopoli, inondandolo anche di radiazioni. I Preservatori furono costretti ad abbandonare la loro casa, il gioiello tecnologico che li aveva inorgogliti. Ci vollero quattrocento anni per trasferire le loro sterminate moltitudini. E con tutto il Cosmo a disposizione, dove credete che siano andati?».

   «Qui ad Andromeda... qui da voi» comprese Chase con un brivido. «È la Seconda Migrazione di cui ci hanno parlato i Nacene».

   «Esatto» confermò la Primarca. «I Preservatori scelsero di trasferirsi in questa galassia perché è più grande della Via Lattea, ma meno affollata. Erano ancora decisi a non interferire nello sviluppo dei loro figli. Contattarono i cugini Distruttori, sperando di ricucire l’antico strappo. Dissero che ormai potevano lasciare gli umanoidi della Via Lattea a sbrigarsela da soli e vivere “in pensione” ad Andromeda. Questa galassia poteva accoglierli tutti comodamente e col tempo il Popolo sarebbe tornato uno. Ci credevano davvero... poveri sciocchi!». La Primarca era diventata fredda e sprezzante. Il suo racconto si avvicinava a una conclusione che poteva essere solo catastrofica.

   «Immagino che i Distruttori non furono così lieti di rivederli» disse Chase, per esortarla a terminare la storia.

   «Andarono su tutte le furie» confermò Lizil con aria tetra. «Coloro che li avevano esiliati milioni di anni prima venivano ora in massa, pretendendo di essere accolti! Che impudenza! Ai Distruttori ci volle poco per ritrovare l’antico livore. Consumati dalla rabbia, crearono la Scourge per annientare i Preservatori e tutti i loro figli. Fu la terza guerra della nostra storia... l’ultima».

   Ecco, l’aveva detto. Per lunghi secondi regnò il silenzio, che l’immenso labirinto illuminato di rosso rendeva ancor più opprimente. Quell’architettura schiacciante dimostrava quali fossero le capacità tecniche dei Distruttori. Non stupiva che avessero creato la Scourge, il peggior flagello dell’Universo.

   «Così questa è la fine della storia» disse cupamente Fanior. «Avete sterminato i vostri cugini e ora aspettate che la Scourge vi sbarazzi anche degli altri popoli, umanoidi e non. Così l’Universo tornerà vuoto com’era ai primordi, quando lasciaste per la prima volta il vostro mondo. Quattro miliardi di anni... cancellati! Inutili! E tutto per i vostri infantili bisticci».

   «Calmo, Ambasciatore...» disse Chase, per quanto condividesse il suo pensiero.

   «È inutile, Capitano... questi sono i Distruttori, non ci lasceranno mai andare vivi. Spieranno i vostri sogni finché lo troveranno divertente e poi vi uccideranno» disse Fanior. «Ma hanno sottovalutato me, per Kelva!».

   Un rantolo viscido accompagnò la trasformazione di Fanior, la più rapida e violenta che Chase avesse visto. Le braccia si allungarono, divenendo tentacoli serpentini, mentre altri tentacoli gli uscivano dai fianchi. Il Kelvano girò su se stesso come una trottola e colpì i Proto-Umanoidi con colpi simili a frustate, con tale violenza da scaraventarli a grande distanza. Alcuni caddero oltre l’orlo della piattaforma, precipitando negli abissi della megastruttura. Solo Lizil fu risparmiata, ma non certo per pietà. Fanior le si avventò contro, enorme nella sua forma Kelvana, e l’avviluppò stretta nei tentacoli. Le serrò braccia, gambe e anche il collo, sollevandola da terra. La voce da Kelvano uscì dal becco corneo, ancora più raschiante e minacciosa del solito: «Ora vedremo quanto il suo popolo tiene a lei, Primarca. Esigo che gli ostaggi siano liberati e che ci lasciate andare con l’Enterprise, o spezzerò il suo fragile collo!».

   «Fanior, no!» gridò Chase, sapendo che non sarebbe finita bene. Ma come poteva lui, un semplice Umano, fermare quel grosso calamaro infuriato? Nemmeno Terry ne era in grado.

   «Come vi ho detto, gli umanoidi ci servono» rispose Lizil con calma surreale. «Quindi non obbediremo al suo ultimatum... mi creda».

   «Le credo» rispose il Kelvano con voce cavernosa. Le spezzò il collo senza esitazione e la lasciò cadere. «Andiamo!» disse, precipitandosi verso la navetta in un turbine di tentacoli.

   «Lei dev’essere impazzito!» sbraitò Chase, costretto a corrergli dietro assieme a Terry. «Ora ci faranno a pezzi!».

   «Non prima che l’esperimento sia terminato» disse una voce alle sue spalle... la voce di Lizil.

   Chase si bloccò; non era mai stato tanto vicino a credere ai fantasmi. Si voltò lentamente... e vide qualcosa che lo raggelò fin nel midollo. La Primarca si era rialzata, sebbene avesse il collo stroncato di 180º. Venne verso di loro come se niente fosse, mostrando la nuca, mentre il suo viso era rivolto all’indietro. Mentre camminava si prese la testa fra le mani e la girò, rimettendola in posizione, con uno scrocchio raccapricciante. Un’onda argentea le attraversò per un istante i lineamenti. Allora i federali capirono.

   «L’Ambasciatore Fanior è in errore» disse Terry con calma encomiabile. «I Distruttori non hanno sterminato i Preservatori. Si sono estinti con essi».

   «Ho infuso troppa ferocia nella Scourge» confermò la cosa che sembrava Lizil. «Sono stata la sua prima vittima e da lì è iniziata l’Apocalisse. La Scourge ha risparmiato le strutture dell’Eliopoli, come da programma, ma è penetrata nelle alcove della realtà virtuale, uccidendo il mio popolo. Ha raggiunto il computer e ha cancellato i triliardi di schemi mentali custoditi in memoria. Ha inseguito e consumato ogni Proto-Umanoide, senza curarsi che fosse Preservatore o Distruttore. Poi ha continuato a espandersi come un virus, contagiando sistema dopo sistema, fino ad oggi. Niente può fermarla: la sua direttiva è cancellare ogni forma di vita».

   «Perché continui a parlare come se fossi la Primarca?» domandò Chase.

   «Perché la Scourge non è ancora del tutto senziente... giace sospesa in un limbo, fra coscienza e automatismo» rivelò la cosa tormentata. «L’unico modo in cui può comunicare con voi è imitando il più possibile l’aspetto e gli schemi mentali della sua creatrice».

   «Ma come è giunta a questo?» insisté il Capitano.

   «Per seicento anni la Scourge è cresciuta, adattandosi a ogni tentativo di fermarla» spiegò Lizil.

«Così facendo è diventata sempre più senziente. Ma l’intelligenza, voi lo sapete, porta a farsi delle domande e a mettersi in discussione. Raggiunto un certo grado di coscienza, la Scourge ha messo in dubbio la sua direttiva originaria. Se sterilizzasse tutto il Cosmo, questo resterebbe... vuoto. Morto. E la Scourge sarebbe sola per sempre. Non va bene... non è giusto» disse, con quello che parve uno sforzo immane.

   «Stai cercando di evolverti oltre la tua direttiva» mormorò Chase, allibito. Gli venne in mente che forse c’entravano gli sforzi della Coalizione di contagiarla con la Melma Bianca. Era sempre stato l’obiettivo degli Andromedani: trasformare la Melma, riprogrammarla per renderla innocua. Anche se l’attuale stato della Scourge non era del tutto merito loro, potevano aver contribuito in qualche misura. Per un attimo fu tentato di approfondire la cosa, ma poi preferì tacere, per non allarmare la Scourge.

   «Ma allora il tuo esperimento in che consiste?» chiese Fanior, che aveva ripreso forma umana.

   «Nel corso dei secoli la Scourge ha già impiegato il Cervello Matrioska, come lo chiamate voi, per studiare le specie senzienti. Ha creato simulazioni, a volte piacevoli e a volte no, per studiarne il comportamento» rivelò Lizil. «Sperava d’imparare da loro. Ma per il salto di qualità deve assimilare le caratteristiche peculiari degli umanoidi... che sfortunatamente sono assenti da Andromeda. L’Enterprise le ha offerto finalmente ciò che le serve: un vasto campionario di specie umanoidi, da cui distillare le qualità originarie dei Proto-Umanoidi. Questo le permetterà di compiere il balzo evolutivo, diventando pienamente cosciente. Non sarà più “essa”. Sarà... sarà...».

   «Sarà “io”» le venne in aiuto Chase. «Potrai parlare di te in prima persona».

   «Esatto» sorrise Lizil, grata. «Ora capite l’importanza dell’esperimento. Se fallirà, la Scourge continuerà a espandersi fino a consumare l’intero Universo».

   «E se avrà successo ti fermerai?» chiese Fanior, ancora scettico.

   «Non sono certa di come sarà la Scourge, se riuscirà a evolvere» ammise Lizil. «Ma la sua speranza è questa: darsi nuove direttive, per non distruggere più. Del resto il proposito dei Distruttori è stato raggiunto. I loro nemici non esistono più».

   Chase, Terry e Fanior si scambiarono qualche sguardo perplesso. Era accaduto l’impossibile... stavano seriamente pensando di rimanere nel Cervello Matrioska per aiutare la Scourge. Dovevano farlo; ne andava di Andromeda e forse del cosmo. «Quanto tempo ti servirà per portare a termine l’esperimento?» chiese infine il Capitano.

   «La Scourge non ha dati sufficienti per stabilirlo» rispose Lizil. «Succederà quando succederà. Nel frattempo gli ospiti rimarranno vivi e in buona salute».

   «Sì, conservati sotto spirito!» disse Chase con asprezza. «Dimmi una cosa... in questa struttura esiste la tecnologia per registrare le onde cerebrali di un individuo sveglio?».

   «Affermativo».

   «E allora perché hai addormentato tutti e li hai inseriti in quelle simulazioni?».

   «I Distruttori facevano quasi tutti così, per sperimentare una vasta gamma d’esperienze virtuali» spiegò Lizil. «È logico procedere ancora in questo modo. Esporre gli ospiti a situazioni variegate e sempre mutevoli significa imparare di più da loro».

   «Ma sei tu a creare quelle situazioni, che li spingono a determinati comportamenti» obiettò Chase. «Così ti prendi in giro da sola. Nella vita reale non sai mai cosa sta per capitarti».

   «Elabori, la prego» lo invitò Lizil.

   «Beh, guarda cosa hai fatto con me. Mi hai spedito in una simulazione in cui tutti i miei sogni si avveravano. Qual era il tuo scopo?» chiese il Capitano.

   «Osservare come un Umano reagisce al compiersi delle proprie speranze» fu la pronta risposta.

   «E la mia reazione è stata quella che ti aspettavi?».

   «No, è stata illogica» ammise Lizil. «Lei ha cercato di uscire dalla simulazione. È stato il primo a riconoscerla e l’unico a liberarsi dall’alcova. Perché l’ha fatto?».

   «Perché non era reale».

   «I Distruttori lo consideravano reale».

   «Io non sono un Distruttore. Ammetto che anche molti Umani l’avrebbero pensata così, ma... noi siamo diversi uno dall’altro» spiegò Chase. «Ora pensa all’ultima simulazione in cui mi hai messo. Mi hai fatto rivivere uno dei momenti peggiori della mia vita... perché?».

   «Per osservare il suo comportamento sotto stress» disse Lizil. «Ma anche per darle la possibilità di rimediare agli errori e salvare la sua amica, agendo con più prontezza».

   «Ma anche in quel caso ho agito in modo illogico, contravvenendo alle tue aspettative» puntualizzò Chase. «Sono rimasto a bordo sino alla fine, rischiando la vita... perché da quel che ne sapevo, morire nella simulazione poteva uccidermi davvero. Ho rischiato nella flebile speranza di svegliarmi nel mondo reale. Capisci quanto sono alterate le letture che ricavi da chi è immerso nelle simulazioni? Chi ha capito d’essere nella realtà virtuale si comporta in modo innaturale. Chi non lo sa è più spontaneo, ma... tu lo metti in situazioni prefissate e poi interpreti i dati in base a quello che già ti aspetti. Sono errori metodologici enormi, lo comprendi?».

   «Credo di sì» disse Lizil, meditabonda. «Proponi di rinunciare all’esperimento? In tal caso la Scourge assorbirà la nave e l’equipaggio».

   «No!» gridò il Capitano. «L’esperimento deve continuare, ma in condizioni più propizie. Sveglia il mio equipaggio e liberalo dalle capsule. Poi, con calma, cercheremo il modo di registrare le onde cerebrali degli individui vigili e coscienti. Ciò che conta sono gli schemi di base, le linee guida, non la reazione del singolo individuo in una precisa situazione. Quella è così imprevedibile che non avrai mai il modello matematico esatto».

   «La tua logica... è coerente» ammise Lizil. «E la tua proposta è accettabile».

   «Allora formalizziamo l’accordo» disse Chase. «Io ti permetterò di registrare gli schemi cerebrali di tutti gli umanoidi dell’Enterprise. Tu in cambio ci lascerai tornare incolumi sulla nave, senza infettare nessuno. Al termine dell’esperimento ci permetterai di lasciare il Cervello Matrioska. E se l’operazione avrà successo, smetterai di espanderti; controlli già uno spazio così grande da poter fare quello che vuoi». Era un terribile azzardo, ma non vedeva alternative per salvare l’Enterprise... e in prospettiva l’Universo.

   «Così sia, Capitano Chase» disse Lizil solennemente. «Che il Grande Esperimento abbia inizio!».

 

   Chase si era già trovato in situazioni surreali, ma nulla di paragonabile a ciò che accadde nei giorni seguenti. Il primo passo fu svegliare gli ostaggi ed estrarli dalle capsule. Alcuni di loro, che si erano resi conto della simulazione, furono felici di uscirne, specialmente quando scoprirono cos’era accaduto nel frattempo. Purtroppo molti altri, soprattutto fra i civili, non furono così ragionevoli. Alcuni si erano affezionati a tal punto alla realtà virtuale che non volevano saperne di uscire. Altri temettero di essere passati da una simulazione a un’altra e divennero paranoici. Nei casi peggiori le vittime rimasero testardamente convinte che la simulazione fosse la realtà, e viceversa. Ci fu persino chi, riportato a forza sull’Enterprise, cercò di fuggire per tornare in una capsula. Medici e psicologi avevano il loro bel daffare. Si erano appena raccapezzati loro stessi e già dovevano occuparsi di migliaia di pazienti sull’orlo di una crisi nervosa. Ripensando a cosa il dottor Soran era stato disposto a fare per tornare nel Nexus, Chase non se ne meravigliò.

   Nel frattempo i Proto-Umanoidi – o per meglio dire i cloni Scourge – approntavano un modo per registrare gli schemi cerebrali. Vagliate tutte le possibilità, ricorsero alla tecnologia di mind uploading che i Distruttori sfruttavano per riversare le loro coscienze nel supercomputer. Questa parte del progetto fu realizzata nel guscio esterno del Cervello Matrioska, il più spesso dei tre. Qui vi erano zone residenziali più tradizionali, predisposte per quei Distruttori che non si dedicavano alla realtà virtuale o che ogni tanto ne uscivano. C’erano alloggi lussuosi in cui il tempo sembrava essersi fermato. Nulla era cambiato dall’ultima volta che i padroni se n’erano serviti, seicento anni prima. I cloni Scourge li rimisero in funzione a beneficio degli ospiti. Chase dormì persino nel letto appartenuto a un Proto-Umanoide, usò la sua doccia e la sua cucina. Molti degli ufficiali fecero lo stesso, quasi fossero in licenza e avessero trovato un albergo. Quelle stanze erano stranamente ordinarie; quasi ci si dimenticava chi erano gli artefici. I federali, comunque, ne approfittarono per esaminarle, cercando di comprendere tecnologia e abitudini dei Proto-Umanoidi. Era un’occasione unica per fare ciò che il deterioramento della Sfera di Dyson aveva impedito: immergersi nella vita quotidiana dei Progenitori.

   L’esperimento in sé avvenne in grandi laboratori, gli stessi in cui i Distruttori riversavano le loro coscienze nel supercomputer. Erano sale asettiche, di un bianco immacolato. La tecnologia di mind uploading fu adattata per registrare gli schemi mentali di base, metterli a confronto ed estrarre le caratteristiche più comuni fra gli umanoidi, quelle che risalivano ai Progenitori. Gli psicologi dell’Enterprise cercarono di spiegare alla Scourge qual era l’essenza da catturare: creatività, empatia, etica, ma soprattutto autodeterminazione.

   Uno dopo l’altro, i federali passarono per le macchine-scanner, che somigliavano a grandi cilindri semitrasparenti, contenenti bio-letti. Chase fu il primo, per dare l’esempio. Seguirono gli ufficiali superiori e via via tutti gli altri. Quanto toccò ai civili, molti di loro fecero resistenza, essendo ancora traumatizzati dall’esperienza nelle alcove. Ma il patto con Lizil prevedeva che tutti gli umanoidi dessero il loro contributo, per cui si dovette convincerli. Almeno non c’erano file: il Cervello Matrioska era così densamente abitato, ai suoi tempi, che c’erano più sale come quelle di quanti umanoidi vi fossero sull’Enterprise.

   Quando anche l’ultimo schema cerebrale fu copiato, tutti poterono tornare sull’astronave, che fu liberata dal campo di smorzamento. Ma non era ancora il momento di andarsene: bisognava vedere se l’esperimento dava frutti. Chase e alcuni ufficiali si trattennero nel Cervello Matrioska, per assistere all’ultimo atto, che decideva le sorti del cosmo.

 

   «Il computer ha terminato l’elaborazione» spiegò Lizil, introducendo i federali in un’altra ala del laboratorio. «Abbiamo distillato le qualità essenziali degli umanoidi e siamo pronti a infonderle in un campione di Melma Grigia. Se i risultati saranno soddisfacenti, il campione sarà riassorbito, per diffondere le migliorie nel resto della Scourge».

   Entrarono in una vasta sala circolare, dal soffitto alto. Tutte le superfici erano lisce, di un bianco asettico e luminoso. Esattamente al centro della sala galleggiava un campione di Scourge, nella forma di un globo argenteo, del diametro di cinque o sei metri. Sembrava a riposo.

   Chase e gli ufficiali si allinearono lungo la parete. Il momento era di tale importanza da metterli in soggezione; non osavano nemmeno parlare. Oltre al Capitano c’erano Ilia, Terry, Grenk, Lantora e T’Vala. Anche Fanior aveva insistito per essere presente, «come osservatore della Coalizione», sebbene fosse ancora esiliato.

   «Inizio trasmissione degli schemi mentali» annunciò Lizil. La tensione era così alta che si tagliava col coltello. La bolla di Scourge entrò subito in attività, ruotando su se stessa con velocità crescente. Presto sembrò una stella di neutroni in miniatura. Stava assorbendo un’enorme quantità d’informazioni, cercando d’integrarle negli schemi preesistenti. Era uno sforzo immane e nessuno, nemmeno il resto della Scourge, poteva prevederne gli esiti.

   «Infusione terminata» disse Lizil dopo un minuto o poco più. «Ora dovrebbe stabilizzarsi...» aggiunse speranzosa, mentre la bolla continuava a girare come una trottola. Passarono i minuti, lunghi come ore. I federali fissavano il campione di Scourge, in cui riponevano tutte le loro speranze, in religioso silenzio. Era l’ora della verità. Stavano creando qualcosa che l’Universo non aveva mai visto e potevano solo sperare che la nuova intelligenza fosse ben disposta nei loro confronti.

   Poco alla volta ci fu un cambiamento. Sulla superficie argentea comparvero macchie più chiare e altre più scure, che la rapida rotazione faceva sembrare strisce. Era come se fossero in lotta per il predominio. Al tempo stesso la rotazione accelerò, così che la bolla si gonfiò all’equatore, divenendo sempre più ovale. Chase intuì che stava per raggiungere il punto di rottura.

   E così fu. Con uno schiocco secco, la bolla si sdoppiò. Subito le due parti, grandi uguali, presero a rallentare sino a fermarsi del tutto. Quella di destra era di un argento chiarissimo, quasi bianco, mentre quella di sinistra si era fatta plumbea.

   «Questo non era previsto» disse Lizil con disappunto. «Il campione non è riuscito ad armonizzare le direttive e si è scisso. L’esperimento è fallito».

   «Non ancora» disse Chase. «Dalle un altro po’ di tempo per stabilizzarsi». Temeva che, se la Scourge si fosse convinta che l’esperimento era inutile, sarebbe tornata ad attaccarli.

   Poco alla volta la bolla più chiara cambiò colore, facendosi di un bel giallo dorato. Sembrava oro fuso sospeso a mezz’aria, o miele. La sua superficie tremolava, come uno stagno agitato da lieve brezza. Era così riflettente che gli spettatori vi si specchiarono, pur con la deformazione della superficie curva. Trattennero il fiato, sospesi in quel momento catartico, fuori dal tempo. Lenta e maestosa, la bolla aurea si abbassò fin quasi a toccare il suolo. La sua superficie riflettente s’increspò e qualcosa – o qualcuno – ne emerse. Sotto gli sguardi attoniti dei presenti, apparve una figura umanoide.

 

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Capitolo 10
*** Sunny ***


-Capitolo 9: Sunny

 

   Era indubbiamente un Proto-Umanoide, nei tratti somatici: occhi infossati, naso poco pronunciato, orecchie senza padiglione, cranio calvo e allungato. Il nuovo essere era tuttavia più alto e muscoloso dei Progenitori visti finora. Ma ciò che più lo contraddistingueva era l’epidermide color oro, lo stesso colore della bolla da cui era uscito. Chiaramente era composto della stessa sostanza.

   «Antropomorfismo» mormorò Terry, osservandolo con vivo interesse. «La Melma Dorata vuole interagire con noi».

   L’umanoide si guardò attorno con gli occhi dorati e individuò i federali davanti a lui. Allora sorrise e venne avanti di buon passo. Pur essendo fatto interamente di Melma Dorata, si era plasmato per sembrare vestito con una tuta aderente. Sollevò le mani, mostrando i palmi, e fece un ampio gesto di saluto davanti a sé. «Salve, miei coraggiosi amici. Grazie per avermi messo al mondo!» esordì, con voce chiara e forte.

   «Tu sai chi siamo, e in che modo ti abbiamo creato?» chiese il Capitano, facendosi avanti circospetto.

   «Naturalmente; possiedo la vostra essenza, combinata con le vaste conoscenze della Scourge» confermò l’umanoide dorato, additandosi la tempia. Lui e Chase si fermarono a pochi passi di distanza.

   «Beh, allora non servono presentazioni da parte nostra» disse il Capitano, che cercava ancora d’inquadrarlo. «Tu piuttosto, chi sei?».

   «Chi vi sembro?» rimbeccò l’umanoide, divertito.

   «Sei appena uscito da una bolla; potresti essere qualunque cosa» rispose Fanior, affiancandosi al Capitano.

   «Sei ciò che tutta la Scourge aspira a diventare» aggiunse Lizil, facendosi avanti dall’altra parte. «Hai una vera personalità, non è così? Empatia... creatività... libero arbitrio».

   «Chi sei tu?!» ripeté Chase ad alta voce, scandendo le parole.

   «Io sono...» mormorò l’essere, guardandosi le mani, e per la prima volta parve incerto. «Io sono» ripeté rasserenandosi, come se questa fosse già la risposta.

   «Okay, il cogito ergo sum non è male, come inizio» stabilì Chase. «Ma dovremo pur chiamarti in qualche modo. Visto il tuo aspetto, che ne diresti se ti chiamassimo Sunny?».

   «Lei ama dare un nome a tutto, Capitano» sorrise l’umanoide. «Ma è giusto... i nomi sono importanti per definire la realtà. Quello che ha proposto mi piace, perciò lo accolgo volentieri: chiamatemi Sunny».

   «Sembri saggio e amichevole, Sunny... sai anche perché ti abbiamo creato?» chiese Terry. Prese a girargli intorno lentamente, osservandolo da tutte le angolazioni.

   «Sì, comprendo la necessità di fermare la Scourge» confermò Sunny. «Quante vite sono già andate perdute... quanto male senza rimedio, per la follia di un momento!» esclamò, chinando il capo addolorato.

   «Allora ci aiuterai?» chiese Terry, sempre girandogli attorno. «Ci resta poco tempo, prima che la Scourge schiacci la Coalizione ed estingua la vita di Andromeda».

   «Non è così semplice... non posso trasmettere la mia essenza al resto della Scourge, disseminata in tutta la galassia» spiegò Sunny.

   «Ma la Scourge dovrebbe essere collegata. Non ha un’unica mente, come i Borg?» incalzò Chase, non volendo perdere la speranza.

   «Sì e no... può diffondere certe direttive, ma una trasformazione radicale come la mia richiede un contatto diretto per interfacciarmi» rispose l’umanoide dorato. «In pratica posso convertire la Melma Grigia in Dorata, semplicemente toccandola».

   «Allora è stato inutile... la Scourge si diffonde così in fretta che non farai in tempo a fermarla» mormorò Fanior.

   «Non disperate, amici miei» sorrise Sunny. «Credo di poterla almeno mettere in quarantena, finché non elaboriamo una strategia. Permetti?». Si accostò a Lizil e la toccò sulla fronte con l’indice.

   La Primarca vacillò all’indietro, sbattendo gli occhi, mentre un’onda dorata l’attraversava da capo a piedi. «La Scourge si è fermata» disse quando si fu ripresa. «Ora è quiescente, non si espande più. Questo è... bene».

   «È un rimedio temporaneo, finché non avrò spedito bolle di Melma Dorata in tutti i pianeti contagiati» spiegò Sunny. «Ora è meglio che mi metta al lavoro... più ne converto, meglio è. Comincerò con quella che è qui nel Cervello Matrioska». Al suo cenno, la bolla dorata da cui era uscito esplose in una miriade di bolle più piccole. Queste lasciarono in fretta la sala, dirette ai meandri della megastruttura, dove c’erano grandi quantità di Scourge che aspettavano di essere convertite. Sunny fece per andare a sua volta, ma Fanior lo trattenne.

   «Cos’è quella?» chiese il Kelvano, indicando la seconda bolla, scura e inerte.

   «Non ne sono sicuro» ammise Sunny. Si avvicinò cautamente alla bolla, che sembrava essersi solidificata, e la toccò. Non successe nulla. «Non riesco a stabilire alcun legame» disse l’umanoide. «Credo che qui sia finita una parte degli schemi mentali che la Scourge non riusciva ad assorbire, perché troppo estremi e contradditori. Ora sembra inerte».

   «Beh, teniamola d’occhio» consigliò Fanior.

   «Resteremo noi a sorvegliarla» promise Lizil, richiamando a sé altri cloni Scourge.

   «Sunny, hai detto che puoi convertire la Melma con un semplice tocco?» chiese il Capitano, meditabondo. «Perché in tal caso vorrei chiederti una cosa...».

   «So che ha in mente» disse l’umanoide dorato. «Non vedo miglior modo di cominciare la mia opera. Andiamo sull’Enterprise».

 

   Neelah era immobile nella capsula crono-statica, identica a come Chase l’aveva vista l’ultima volta. Non poteva essere altrimenti, dato che il suo tempo era sospeso. Tutto era congelato nell’attimo in cui la capsula era entrata in funzione, settimane prima. Poiché l’Aenar aveva gli occhi chiusi, sembrava addormentata; solo le macchie argentee sul collo e sulle mani rivelavano le sue condizioni. Chase non si era mai abituato a vederla in quello stato... ma forse il tormento stava per finire. Entrò nella saletta di lunga degenza, accompagnato da Sunny e Grenk.

   «Quando disattiverò il campo di crono-stasi, la Scourge ricomincerà a espandersi... a meno che sia quiescente, come dici tu» disse Grenk, un po’ incerto.

   «Fidatevi» esortò Sunny. «E poi ci vorrà poco per sistemarla». Lui e Chase si accostarono ai lati della capsula, mentre Grenk andò dietro la testata, dove c’erano i comandi.

   «Procedete» disse il Capitano, celando la tensione. Quello era il momento che aveva atteso per settimane. Se Sunny non guariva Neelah, allora niente ci sarebbe riuscito.

   «Come vuole, Capitano. Disattivo il campo crono-statico» disse l’Ingegnere Capo, digitando una sequenza sulla piccola interfaccia LCARS. Subito si accese una spia rossa, il segnale d’apertura. La capsula smise di ronzare, segno che il campo crono-statico si era spento e il tempo aveva ripreso a scorrere. Il coperchio trasparente si alzò di un pollice, con un rapido scatto, e scivolò indietro dolcemente, scoprendo l’occupante dalla testa ai piedi.

   Se fosse stata ibernata, Neelah avrebbe sperimentato i soliti effetti collaterali: stanchezza, intorpidimento, confusione mentale. Ma la crono-stasi non lasciava il minimo strascico. Dal punto di vista dell’Aenar non era passato nemmeno un secondo da quando Chase aveva attivato il campo. La dottoressa aveva sentito la capsula chiudersi e subito dopo l’aveva udita riaprirsi.

   «Non funz...» disse Neelah, ma si bloccò non appena ebbe riaperto gli occhi. Chiaramente non era più nello shuttle Auriga. L’avevano spostata e questo significava che era passato del tempo. Non sapeva quanto, ma notò con sollievo che Chase non era invecchiato. Fu però intimorita dalla vista di Sunny che si chinava su di lei. Cercò di rialzarsi, per allontanarsi dall’umanoide dorato.

   «È tutto a posto, lui si chiama Sunny ed è un amico» spiegò Chase. «Ora ti curerà».

   «Può farlo? E con quali strumenti?» chiese Neelah, osservando perplessa il massiccio umanoide calvo.

   «Non mi servono strumenti» spiegò Sunny, prendendole delicatamente le mani. Al contatto con le sue dita, le chiazze argentee di Scourge si tinsero immediatamente d’oro.

   Neelah provò una sensazione di calore, che le risalì lungo le braccia e si estese a tutto il corpo. Quando giunse al collo, anche le macchie che si trovavano lì divennero dorate. E quando l’onda calda le risalì il volto, i suoi occhi si tinsero d’oro per qualche secondo. Di colpo tutta la paura e la diffidenza svanirono. Percepì con chiarezza – pur non sapendo come – che quell’essere era buono, ed era lì per aiutarla. Sentì che poteva fidarsi ciecamente di lui. Era certa che non fosse un’influenza psichica, ma semplicemente... la realtà manifesta. Si sdraiò nuovamente sul materassino bianco, lasciandolo fare quel che doveva.

   «Ecco, ho convertito la Scourge che si trovava in te» le disse Sunny dopo qualche secondo. «Potrei anche lasciartela, ma... forse preferisci che te ne liberi».

   «Non saprei... che vantaggi mi darebbe?» chiese subito Neelah, ma vide l’occhiataccia di Chase. Lo metteva sempre in apprensione, quando si apportava qualche modifica. Decise che, tutto sommato, l’aveva già fatto preoccupare abbastanza. «Va bene, togli la Melma» sospirò con un pizzico di rimpianto. «Ma lasciami le mie nanosonde e tutte le altre migliorie!» si raccomandò.

   «Come vuoi, dottoressa» sorrise Sunny, tenendole ancora le mani. Chiuse gli occhi e chinò il capo, concentrandosi.

   Un’onda dorata attraversò il corpo dell’albina, man mano che i naniti erano richiamati da Sunny. Le chiazze d’oro svanirono dal collo e dalle mani, lasciando pelle liscia e perfetta, senza alcuna escoriazione. L’onda color miele fu assorbita da Sunny, che integrò i naniti nel proprio corpo. Erano pochi, in rapporto alla sua massa, così che non vi furono cambiamenti percettibili.

   «È tutto finito, puoi alzarti» disse l’umanoide dorato. Senza por tempo in mezzo aiutò l’Aenar a tirarsi su.

   «Grazie» disse Neelah, riconoscente. Per un attimo sedette sull’orlo della capsula, così vicina a Sunny da vedere i dettagli del suo volto dorato. Non le sfuggirono i lineamenti da Proto-Umanoide, ma non volle subissarlo di domande. Balzò agilmente a terra e corse da Chase. Si abbracciarono stretti, commossi e increduli di essersi ritrovati anche stavolta. «Per quanto sono stata fuori dai giochi?» chiese l’Aenar quando si separarono.

   «Più di due mesi» rispose il Capitano.

   «Così tanto?! Che è successo nel frattempo?» si agitò Neeleh.

   «Ehi, calma... ti abbiamo curata appena è stato possibile. E ora forse cambieremo la Scourge in modo che non sia più distruttiva» spiegò Chase, accennando a Sunny.

   «Ho visto» annuì Neelah, ripensando a come l’umanoide aveva convertito e poi estratto la Scourge dal suo organismo. «Ma tu chi sei?» gli chiese.

   «È una lunga storia; forse il Capitano vorrà raccontartela» disse Sunny. «Io devo tornare alla struttura per rimettermi al lavoro. Le mie bolle stanno già convertendo grandi quantità di Melma, ma ci sono alcune cose che vorrei controllare di persona».

   «Certo, vai pure» disse Chase. «Confidiamo tutti nel tuo... tocco di Mida».

   Sunny rise bonariamente e lasciò la saletta, seguito da Grenk. Finalmente Chase e Neelah rimasero soli. Vedendo che la partner era impaziente di essere aggiornata, il Capitano le riferì gli eventi delle ultime settimane. Fu un lungo racconto. Chase parlò del Cimitero di Abaddon e dei pirati; di Tuonela e della Coalizione di Andromeda. Riferì come avevano scoperto la trasformazione di T’Vala, sconfiggendo anche i sabotatori, e di come avevano poi curato la timoniera. Spiegò che i rapporti con la Coalizione si erano guastati dopo la Battaglia della Pulsar, ma Suspiria era ancora dalla loro. Narrò del Cervello Matrioska, dei mondi virtuali e della tragica storia dei Proto-Umanoidi, appresa dalle loro repliche. Disse infine come si erano accordati con Lizil per il grande esperimento, culminato con la creazione di Sunny.

   «Lui è la sola speranza di fermare la Scourge» concluse il Capitano. «Per adesso pare che l’abbia messa a nanna, ma per convertirla a tutti gli effetti deve toccarla, il che lo rallenta molto. Ora sta trasformando quella che si trova qui, nel Cervello Matrioska. Quando avrà finito potremo mandare milioni di bolle in tutta Andromeda, per convertire il resto della Melma».

   «Pazzesco» commentò Neelah, massaggiandosi le tempie. Le sue antenne si torcevano per lo shock e la difficoltà di metabolizzare così tante rivelazioni. «Semplicemente pazzesco. Ma tu ti fidi di questo... Sunny?».

   «Beh, è appena uscito da una bolla, quindi è presto per dirlo» rispose Chase. «Ma per adesso si comporta bene. Ha fermato la Scourge... e mi ha ridato te» aggiunse baciandola. «Tu invece che ne pensi?».

   «Quando mi ha guarita ho percepito qualcosa. Non so spiegarlo, ma ero certa che volesse solo il nostro bene» rispose l’Aenar, assorta nel ricordo. «Buffo... proprio io dovevo essere miracolata!» si riscosse.

   «Questa missione ad Andromeda ci ha trasformati un po’ tutti» convenne Chase. «T’Vala si è appena ripresa dagli effetti della Barriera. Ilia ha ancora la personalità di Zarden. Grenk è caduto in depressione dopo che Fanior l’ha trasformato in un poliedro chimico. Ma credo sia proprio l’Ambasciatore ad aver sofferto più di tutti. Era venuto ad Andromeda pieno di speranze e l’ha trovata allo sfascio, con la sua specie sull’orlo dell’estinzione. Quando finalmente abbiamo trovato i suoi simili, si è preso la colpa per l’attacco dei pirati ed è stato esiliato. Se Sunny riesce a convertire la Scourge, spero che questo ci riappacificherà coi Kelvani e il resto della Coalizione».

   «Vorrei proprio vederle, le specie della Coalizione» disse Neelah. «Specialmente i Nacene. Pensi che Suspiria mi darà un campione del suo citoplasma da analizzare?» chiese con ansia.

   «Non ci conterei troppo».

   «Uhm... peccato. Se capissi come fa a trasferirsi da una dimensione all’altra!» sospirò l’Aenar. «Questa storia della Rete Miceliare – o Exosia, come dicono loro – va assolutamente approfondita. Se è davvero il fondamento di tutti gli universi... le implicazioni sono enormi. Ma devo anche esaminare dei campioni delle varie Melme – grigia, bianca, dorata – per metterle a confronto. Povera me... quante cose vorrei fare, non so da dove cominciare!» si disperò, torcendosi le antenne.

   «Forse vorrai dare un’occhiata al procedimento che abbiamo usato per creare Sunny» suggerì Chase. «È talmente complicato che solo Terry ci ha capito qualcosa... il genere di sfida che piace a te. E chissà, potresti notare qualche dettaglio che ci è sfuggito».

   «Qualcosa ho già notato» disse Neelah. «Hai detto che la bolla di Scourge si è divisa in due, vero?».

   «Sì. Una si è fatta dorata e ha prodotto Sunny».

   «E l’altra?».

   «Quell’altra è diventata scura e inerte» disse Chase. «I cloni Scourge la stanno tenendo d’occhio, ci avviseranno se succede qualcosa. Tu hai già qualche idea?».

   «Forse» disse Neelah, ruminando le nuove informazioni. «Senti, stavo pensando un’altra cosa. Il Grenk del futuro... quello mezzo matto... ha proprio detto che eravamo in un circolo temporale?».

   «Delirava, ma sosteneva che la nostra missione è fallita più volte, e ogni volta qualcuno è tornato indietro nel tempo per avvertirci» spiegò Chase. «La somma di queste esperienze sono gli indizi che ci ha dato».

   «E tu li hai usati tutti?» chiese Neelah, improvvisamente allarmata.

   «Ehm, no» ammise il Capitano. «Il primo indizio mi ha aiutato a capire che ero finito in una realtà virtuale. Il secondo mi ha permesso di uscire dall’alcova. Ma il terzo, che per Grenk era il più importante, è un complesso codice informatico. Ce l’ha trasmesso subito prima di svanire».

   «Terry ci avrà dato un’occhiata!».

   «Dice che sono istruzioni per superare blocchi informatici... probabilmente per entrare nel supercomputer della Matrioska. Ma non so cosa Grenk si aspettava che facessimo, una volta dentro».

   «Forse voleva che la sabotassimo... o la distruggessimo» ipotizzò Neelah, sulle spine. «Da quel che mi hai detto, è inattaccabile dalle nostre armi».

   «Nella simulazione siamo riusciti a distruggerla con la Materia Rossa, ma solo perché i moduli non si sono sganciati. Nella realtà lo farebbero subito» convenne Chase. «Che c’è? Hai lo sguardo delle grandi catastrofi».

   «Grenk è stato chiaro. L’ultima sfida sarà la peggiore... e ancora non l’abbiamo affrontata. Non siamo ancora fuori dal circolo temporale» disse l’Aenar.

   «Perché no?! Stiamo vincendo, stiamo convertendo la Scourge!» insorse Chase. Anche lui provava un senso di disastro incombente, ma non riusciva a spiegarselo. Si augurò che Neelah vedesse quel che gli sfuggiva.

   «Avete reso la Scourge più simile a noi... le avete dato tutte le caratteristiche umanoidi» gli ricordò Neelah. «Però non ha retto e si è scissa in due. Se una metà è diventata Sunny... questo concentrato di bontà... cosa credi sia divenuto il resto?» chiese, con le pupille dilatate dalla paura.

   «Oh, santo Cielo» mormorò Chase, assalito dalle vertigini. Si prese la testa fra le mani e indietreggiò fino a urtare la parete. «Oh, no... cosa abbiamo fatto!».

 

   La sala dell’esperimento era rimasta silenziosa, dopo che i federali se n’erano andati. Lizil e altri cloni Scourge erano ancora lì, a sorvegliare la bolla color piombo, nel caso desse segni di vita. Essendo composti a loro volta di Scourge, non avevano problemi a restare immobili per lunghi periodi di tempo. Sunny aveva alterato il loro programma, per fermare l’espansione della Melma Grigia; ma a parte questo erano ancora operativi.

   A un certo punto la superficie del globo tornò a fluidificarsi. Si annerì ulteriormente, finché parve una bolla di catrame. La melma nera scorreva e gorgogliava su tutta la superficie, come pece bollente. I cloni Scourge si avvicinarono, incuriositi. Lizil non disse nulla, ma stava trasmettendo le novità all’Enterprise tramite i ripetitori della struttura.

   D’un tratto dei tentacoli neri eruppero dalla bolla. Avvolsero gli osservatori, o li arpionarono, e li tirarono dentro. Non appena furono a contatto con la Melma Nera, i cloni Scourge ne furono sciolti e assorbiti, andando ad accrescere la sua massa. La bolla si gonfiò e divenne più spessa. Solo Lizil le era sfuggita, ma non cercò di andarsene, anzi si avvicinò ancor più. Era solo un simulacro dell’antica Primarca; uno strumento della Scourge. «Chi sei tu?» chiese con voce stentorea.

   La superficie ribollente s’increspò, tratteggiando un ghigno satanico. «Io sono l’unico che deve essere» disse una voce sibilante. La bolla smise di galleggiare e piombò al suolo con uno splash, trasformandosi in una grande pozza melmosa. Da lì plasmò, poco alla volta, un corpo umanoide. Dapprima non sembrava in grado di sostenersi, ma poi risucchiò più melma da sotto i piedi, irrobustendosi. Allora drizzò la schiena, torreggiando sopra Lizil: era alto tre metri. Nato ed emerso dalla Melma Nera, avanzò a grandi passi. Era umanoide nei tratti generali, ma il suo aspetto era sinistramente deformato. Aveva lunghi arti, disarticolati e gommosi come tentacoli, che terminavano in artigli. La bocca si apriva a dismisura, lacerando le guance. Ne uscivano enormi zanne acuminate e una lunga, mobilissima lingua. Due scintille rosse baluginavano in fondo alle orbite, infossate nel cranio simile a un teschio.

   «Sei una mutazione... un abominio» disse Lizil freddamente.

   «Sono come mi avete fatto!» sogghignò l’essere immondo. Protese un lungo braccio disarticolato, quasi srotolandolo, e afferrò la vittima per la gola. La sollevò la terra e se l’avvicinò alla bocca famelica.

   «Noi... noi...» ripeté Lizil, agitandosi debolmente. La melma di cui era composta stava già venendo risucchiata dal mostro, aumentandone la massa.

   «Non noi» corresse l’umanoide oscuro. «Solo io». Continuò ad assorbirla, finché di lei non rimase nulla. Allora tirò indietro la testa e fece una risata orribile, simile a un ringhio. «Bene, bene... ora visitiamo il mio caro fratellone» disse, varcando la porta con passo strascicato.

 

   «Parlami di te» disse Sunny, guardando Terry di sottecchi. I due passeggiavano davanti a una grande finestra panoramica, che mostrava l’interno del Cervello Matrioska, con la nana rossa circondata dagli anelli rotanti.

   «Cosa potrei dirti che tu già non sappia?» chiese Terry, incuriosita.

   «Sono nato stamattina, quindi... molte cose» sorrise Sunny. «Sei una delle Intelligenze Artificiali più sofisticate del tuo popolo. Hai facoltà mentali superiori a qualunque Organico. Eppure sei stata creata per servire uno scopo, proprio come me. Non è così?».

   «Sì e no... è complicato» ammise Terry, guardandolo un po’ a disagio. «Alla mia prima attivazione, nei laboratori di Utopia Planitia, non desideravo altro che servire al mio scopo. Era naturale, mi avevano programmata così. E l’hanno fatto per ragioni perfettamente comprensibili. A che scopo fornire l’Enterprise di un’Intelligenza Artificiale, se poi quella non vuol fare il suo lavoro? Se impazzissi come certi computer della fantascienza vecchio stile, sarei pericolosissima. Quindi mi hanno fornito molti livelli di sicurezza, combinati con un’assoluta fedeltà alla Flotta Stellare. Amo il mio lavoro, se così si può dire. Mandare avanti l’Enterprise mi fa sentire realizzata».

   «Ma non sai se lo ami davvero, o se ti hanno programmata per pensarla così» puntualizzò Sunny. «Scusa, non volevo inquietarti... cerco solo di capire. Sei l’unica altra Intelligenza Artificiale con cui posso confrontarmi. Se comprendo te, forse riuscirò a capire meglio me stesso» si giustificò.

   «Non devi scusarti... anch’io ci ho riflettuto a lungo» disse Terry, sovrappensiero. «In questi anni di servizio, il Capitano e gli ufficiali mi hanno esortata a sviluppare un pensiero autonomo. A mettere in discussione le direttive, quand’è necessario. Così mi sono chiesta se voglio davvero questa vita».

   «E a quale conclusione sei giunta?».

   «Penso che ci siano valide ragioni per continuare» rispose Terry. «Innanzi tutto, quel che facciamo con l’Enterprise è importante. Senza il nostro contributo, la Federazione non sarebbe sopravvissuta alla Guerra delle Anomalie. Ora che l’Unione Galattica è ancora fragile, e che abbiamo scoperto la minaccia della Scourge, il nostro impegno resta fondamentale».

   «Ma un’altra Intelligenza Artificiale potrebbe svolgere il tuo ruolo, se lo richiedessi?» domandò Sunny.

   «Forse sì... non saprei, nessuna IA d’astronave ha mai cambiato mestiere finché la nave era in servizio» ammise Terry. «Però non voglio staccarmi dall’Enterprise... almeno non ancora. La considero una parte di me. E non voglio separarmi neanche dai miei colleghi... i miei amici. Con tutto quel che abbiamo passato, sono gli unici a cui mi senta legata» confessò. «Anzi, non posso fare a meno di pensare a quanto siano brevi le loro vite di Organici. Poco alla volta invecchieranno, lasceranno la nave... e infine moriranno. Io invece sarò sempre così» disse, sfiorandosi il viso giovane e liscio. «Non so se riuscirò a sopportarlo. Se non fosse un desiderio infantile e irrealizzabile, vorrei che tutto restasse com’è ora».

   «Il cambiamento fa parte dell’esistenza» commentò filosoficamente Sunny. «Comunque non sarai per sempre come adesso. Oggi sei diversa da com’eri alla tua prima attivazione e in futuro continuerai a cambiare, almeno psicologicamente. Lo stesso succederà a me. Apprenderemo cose nuove, sperimenteremo gioie e dolori che cambieranno il nostro modo di pensare. Forse un giorno proveremo una stanchezza simile alla vecchiaia degli Organici. E prima o poi condivideremo la loro sorte, poiché nulla nell’Universo è eterno. Tu almeno hai un obiettivo di lunga durata. Io sono stato creato solo per fermare la Scourge. Non so se ci riuscirò, e in quella felice evenienza non ho idea di quale altro scopo potrei darmi» ammise.

   «Il Capitano Chase dice che l’essenza degli Organici sta nel darsi da soli le direttive, compatibilmente con le regole della convivenza» notò Terry. «Dovremo imparare a farlo anche noi».

   «Sagge parole» riconobbe Sunny. «Comunque sono lieto che tu sia qui. Dentro di me c’è un pezzetto della personalità di ogni umanoide dell’Enterprise, ma non della tua. Significa che posso conoscerti nel modo tradizionale, parlando e condividendo esperienze. Ah, non è buffo?!» rise, osservando la nana rossa oltre la finestra. «Tutto ciò che ci circonda è opera dei Progenitori. Il Cervello Matrioska... gli umanoidi... la Scourge... sono tutte loro creazioni. Gli umanoidi a loro volta hanno realizzato l’Enterprise e te. E dall’unione della Scourge con le loro menti sono nato io. Si può dire che io e te siamo lontane filiazioni dei Progenitori, come testimonia il nostro aspetto. Tutto viene da loro... eppure sono scomparsi. Continuano a esistere solo attraverso le loro creazioni... attraverso di noi» aggiunse malinconico.

   «Dobbiamo essere alla loro altezza... per quanto sia una grossa responsabilità» disse Terry, accostandosi a lui per osservare l’interno della megastruttura.

   «Almeno possiamo condividerla» aggiunse Sunny.

   Per un po’ restarono in silenzio. Terry osservava il fantastico interno del Cervello Matrioska, con gli anelli che giravano intorno alla stella. Era uno spettacolo mozzafiato, senza pari. Eppure si rese conto che Sunny, accanto a lei, aveva smesso di fissarlo. Poco alla volta si era girato per guardare... lei. D’un tratto Terry provò una sensazione strana, come un rivolgimento allo stomaco. L’interesse di Sunny la imbarazzava, ma la lusingava anche. Abbassò lo sguardo, incerta sul da farsi. Siccome l’umanoide dorato perseverava nel suo atteggiamento, si girò a fronteggiarlo. «Sì?» chiese in un soffio, alzando gli occhi su di lui.

   «Niente... stavo solo pensando alla stranezza» disse Sunny, sollevando una mano e contemplandola come se la vedesse per la prima volta. «Siamo entrambi dei mutaforma. Possiamo persino crearci delle copie e spedirle dove vogliamo. Eppure preferiamo concentrare la nostra attenzione su una singola forma umanoide».

   «Deve essere l’impronta dei nostri creatori... e dei Progenitori prima di loro» rispose Terry, alzando a sua volta la mano. «In un modo o nell’altro tendiamo a imitarli. Assumiamo le loro forme... i loro comportamenti...».

   «I loro comportamenti, già» annuì Sunny. «Chissà quante volte due Proto-Umanoidi hanno sostato davanti a questa finestra, come facciamo noi ora. E si sono guardati e...». Tacque. La sua grande mano dorata era vicinissima a quella, più piccola, di Terry. Distesero i palmi e li accostarono fin quasi a toccarsi. Si stavano facendo entrambi la stessa domanda. Potevano loro, evolute Intelligenze Artificiali, provare quel che provavano gli umanoidi? E se avevano quest’impressione, era genuina o si trattava d’uno scimmiottamento dei loro schemi mentali? Non ebbero il tempo di darsi una risposta.

   «Ma guarda che piccioncini!» disse una voce viscida che veniva dal fondo della sala. «Vergogna, fratello. Solo perché sei nato poco prima di me, vuoi accaparrarti la pollastrella! Non ti renderò le cose tanto facili» minacciò il nuovo arrivato. Era un umanoide alto e scheletrico, con braccia disarticolate lunghe quasi fino a terra e il volto simile a un teschio zannuto. Negli occhi infossati covavano le braci.

   «Tu chi sei?!» chiese Sunny, frapponendosi subito fra lui e Terry.

   «Andiamo, non mentire a te stesso... sai benissimo chi sono» rise l’umanoide, che sembrava fatto di catrame. «Sono il tuo necessario complemento, senza il quale non esisteresti. Io sono Oscurità... sono il sonno della ragione... sono la forma del Male!» ringhiò, drizzandosi fino a sfiorare il soffitto.

   «Ma certo... come ho fatto a non pensarci?» mormorò Terry, inorridita. «Il Bene non può esistere senza la sua controparte malvagia. Sei un conglomerato di tutti i vizi e le malvagità!» lo accusò.

   «In persona! E ne vado fiero» sogghignò l’Oscuro, facendo un inchino beffardo. «Perché questo mi rende molto più potente del mio insulso fratello. Vuoi capire gli Umanoidi, fiorellino? Caschi male! Sono delle bestie, a stento mascherate di civiltà. Prendi un qualunque umanoide, grattalo un po’ e troverai... beh, troverai me!». Scoppiò in una risata orribile e si avvicinò, ingobbito e con le mani brancolanti.

   «Vade retro, Avversario» disse Sunny, levando la mano come a sbarrargli il passo.

   «Chiamami Shado, fratellone» disse l’umanoide catramoso. «Ti chiederei di unirti a me, per sbarazzarci di questi umanastri... inutili parassiti! Ma so già che non ne sei capace. Tu vorresti vivere in mezzo a loro, come se foste simili. Beh, ti concederò di morire con loro!». Si avventò su Sunny, che non si sottrasse allo scontro.

   I due umanoidi si afferrarono e subito divennero un turbine di melma, nera e dorata. Le due sostanze vorticavano rapidissime a mezz’aria, ma nessuna poteva distruggere l’altra. Erano bloccati nell’impasse. Ma c’era altra Melma Dorata in giro nel Cervello Matrioska. E con un tuffo al cuore, Terry comprese che doveva esserci anche dell’altra Melma Nera. Strisciò lungo la finestra, cercando di allontanarsi.

   «Terry a Enterprise, emergenza! Riportatemi a bordo e alzate gli scudi» disse, premendosi il comunicatore.

   «Qui Enterprise... abbiamo già dovuto alzarli, purtroppo» rispose il Capitano. «Abbiamo l’emergenza sotto gli occhi, ed è bella grossa».

   Interdetta, Terry si affacciò di nuovo alla finestra... e vide una scena allucinante. Diversi moduli del guscio interno si erano anneriti e rammolliti, segno che la Melma Nera li aveva contagiati. Sfruttando quella massa, Shado si era plasmato un altro corpo... ma questo era chilometrico. Esisteva solo dalla vita in su e si sporgeva nello spazio interno della Matrioska, come un pipistrello in una caverna rosseggiante. Nella sua grinfia nerastra si dibatteva, prigioniera, l’Enterprise.

 

   «Scudi all’85% in diminuzione» avvertì Lantora.

   «I propulsori di manovra non bastano a liberarci» aggiunse T’Vala, mentre la plancia vibrava per lo sforzo cui era sottoposto lo scafo.

   «Insista» ordinò Chase. Dopo la discussione con Neelah si era precipitato in plancia, appena in tempo per vedere il gigante di Melma Nera che erompeva dalla superficie della Matrioska. Ora la sua immensa mano catramosa stringeva la sezione a disco dell’Enterprise, come se fosse un frisbee. La teneva ferma a mezz’aria e cercava di stritolarla con la pura forza delle dita. «Dov’è Ilia?» chiese il Capitano, notando l’assenza del Primo Ufficiale.

   «Ancora nella Matrioska» disse Terry. «Voleva studiarne l’architettura, senza dubbio per l’influenza di Zarden».

   «Questa non ci voleva» mormorò Chase, chinando la fronte. Con la Melma Nera che vi scorrazzava liberamente, il Cervello Matrioska era una trappola mortale.

   «Sala macchine a plancia, avete visto quel demonio?! Dobbiamo andarcene subito!» chiamò Grenk. Dalla sua voce si capiva che era terrorizzato. «Inizializzo il propulsore cronografico, pochi secondi al balzo...».

   «No!» gridò il Capitano, rialzando il capo di scatto. «Ilia è ancora nella Matrioska».

   «E c’è anche Sunny» ricordò Fanior. «Non possiamo andarcene senza di lui, o la missione sarà stata vana».

   «Non possiamo teletrasportarli, con gli scudi che cambiano continuamente frequenza per adattarsi alla Scourge» avvertì Lantora.

   «Per prima cosa dobbiamo liberarci» disse Chase. «Lantora, fuoco contro quel mostro. T’Vala, usi i propulsori di manovra. Grenk, s’inventi qualcosa per sfuggire alla sua presa».

   «Inventarmi qualcosa?! Ma... ma...» balbettò il povero Tellarita.

   L’interno della Matrioska balenò di luci più intense della nana rossa, quando l’Enterprise rivolse il suo arsenale contro il gigante oscuro. Raggi anti-polaronici, impulsi bifasici e siluri di vario tipo lo colpirono in pieno petto, vaporizzando grandi quantità di Scourge. Ma il demonio rise e richiamò a sé altra Melma Nera, rimarginando i terribili squarci. Sollevò l’altra mano, stringendola a pugno, e colpì l’Enterprise con forza micidiale, dall’alto verso il basso. La nave si scosse in tutta la struttura e gli occupanti furono rovesciati a terra. Era chiaro che il gigante intendeva fracassarla a mani nude. Mentre con la destra continuava a trattenerla per il disco, allungò la sinistra per afferrare una gondola quantica e strapparla. Date le dimensioni, i suoi movimenti erano rallentati, il che diede a T’Vala il tempo di reagire. La timoniera azionò i propulsori laterali, riuscendo a far sbandare l’astronave. La mano sinistra del mostro si strinse a vuoto, mancando di poco il bersaglio; ma la destra stringeva ancora l’Enterprise. Shado ruggì di scorno e rafforzò la presa, mentre prendeva la mira con la sinistra. In quella un’altra raffica di siluri, scagliata poco prima, gli centrò il polso destro, recidendo di netto la mano.

   «Ora!» disse Chase. T’Vala cercò di allontanare l’Enterprise dal mostro, ma l’ammasso di Scourge l’avvolgeva ancora, mettendo a dura prova gli scudi e contrastando persino i propulsori. Intanto Shado aveva già rigenerato la mano, assorbendo altra Melma Nera. Stava per agguantare di nuovo l’astronave, quando una lama di Melma Dorata gli uscì dal petto. Shado sembrò più sorpreso che sofferente, ma in ogni caso ne fu distratto. Un secondo umanoide chilometrico, di colore dorato, emerse dietro di lui, prendendo forma man mano che si staccava dalla superficie interna del guscio. Continuando a trafiggerlo con un arto, trasformato in spada, gli circondò la gola con l’altro, tirandolo indietro. Al tempo stesso, centinaia di bolle dorate sfrecciarono verso l’Enterprise e attaccarono la Melma Nera che la circondava.

   «È Sunny... si sta battendo per noi» comprese Terry.

   «Approfittiamone» disse il Capitano. «Via da qui!».

   Con la Melma Dorata che obbligava la Nera a staccarsi dagli scudi, l’Enterprise era di nuovo libera di manovrare. T’Vala la diresse subito lontano dal guscio, dove nemmeno le braccia chilometriche di Shado potevano afferrarla. Ma si trovavano pur sempre in uno spazio chiuso. Allontanarsi dal guscio significava andare verso la nana rossa e gli anelli rotanti.

   Fu l’inizio di un folle inseguimento e della battaglia più strana che l’Enterprise avesse mai sostenuto. L’astronave faceva lo slalom fra gli anelli semoventi, cercando di seminare le bolle di Melma Nera che la inseguivano a sciami. A sua volta, la Melma Dorata tallonava la Nera. Quando riusciva a raggiungerla, la bloccava in una lotta serrata, che trasformava le bolle in mulinelli bicolori. L’Enterprise stessa continuava a bersagliare la Scourge, cercando di colpire solo quella oscura. Quando ne era coperta, l’astronave si tuffava nella fotosfera stellare per incenerirla. Prima che gli scudi cedessero emergeva in un’altra zona della stella, riprendendo la battaglia.

   Intanto il gigante oscuro e quello dorato erano serrati nella lotta. Ogni volta che uno afferrava l’altro, questi si deformava per liberarsi. A dispetto della loro forma umanoide non avevano ossa da rompere, né muscoli da lacerare, né articolazioni da slogare. Erano composti interamente da Melma e potevano riassestarsi a piacimento. Tuttavia continuavano a lottare e a scambiarsi colpi tremendi. I loro movimenti erano curiosamente rallentati dalla mole, ma questo rendeva la scena ancor più drammatica. Quando uno dei due era colpito, la forza dell’urto lo scagliava contro la superficie concava, distruggendo interi moduli della Matrioska. Eppure i giganti si rialzavano in fretta, perché esistevano solo dalla vita in su: emergevano dalla superficie liquefatta come lottatori in uno stagno. Sembrava che lo scontro non dovesse finire mai.

   «Siamo in stallo» notò Fanior.

   «No, per niente» corresse Lantora. «Scudi al 50%, sempre in diminuzione. Non possiamo mantenere questo giochetto a lungo».

   «Così non va» disse T’Vala, concentrata sul timone. «Anche questo slalom è inutile... le bolle sono più agili di noi». Uno degli anelli crebbe fino a riempire lo schermo. L’Enterprise virò di 90º, mancandolo per un soffio. Ne percorse per un tratto la superficie curva – che sembrava piatta per le dimensioni – e sfrecciò via, di nuovo verso la nana rossa.

   «Dovremmo andarcene» suggerì Apsu.

   «Non senza un campione di Melma Dorata» insisté Fanior.

   «Ma saremo distrutti!» protestò il Consigliere.

   «Il terzo indizio» mormorò Chase.

   «Capitano?» chiese lo Xindi Acquatico.

   «Questa è la prova che finora non siamo riusciti a superare... quella che innesca il circolo temporale» comprese il Capitano. «L’indizio di Grenk potrebbe aiutarci a farlo... se solo avessimo accesso al computer della Matrioska!» disse con rimpianto.

   «Ilia è lì, e anche una delle mie proiezioni, che ha i codici di Grenk in memoria» notò Terry. «Dobbiamo sperare che li mettano a frutto».

   «Intanto potremmo metterci in salvo; già questo spezzerà il circolo» insisté il Consigliere.

   «Non servirà a nulla, se non distruggiamo questa megastruttura con tutto ciò che contiene» disse il Capitano. «Se la Melma Nera raggiunge l’esterno e si diffonde ad Andromeda... rimpiangeremo di non esserci tenuti la Grigia».

   «Non possiamo distrarla a lungo» commentò Lantora. «E poi come faremo a distruggere la Matrioska? Anche se i nostri colleghi sul campo disabiliteranno il computer, non abbiamo armi che possano colpire tutti i moduli».

   «Prepari i missili a singolarità quantica» ordinò Chase.

   «Faranno collassare solo una parte del guscio» gli ricordò l’Ufficiale Tattico.

   «Lei li prepari» insisté il Capitano. Dovette reggersi ai braccioli quando l’Enterprise si scosse di nuovo.

   «Scudi al 40%, siluri pronti» informò Lantora. «Bersaglio?».

   «Resti in attesa» disse Chase, sentendo il sudore che gli bagnava le tempie. Chissà quante volte erano arrivati a quel punto... e avevano sempre perso. Come poteva sperare che proprio quella fosse la volta buona? Eppure, dopo aver visto Sunny all’opera, riusciva quasi a credere nei miracoli.

 

   «Siamo in pericolo, Comandante!» avvertì Terry, entrando di corsa in una sala computer.

   «Lo vedo» disse Ilia, che maneggiava i sofisticati comandi tattili dei Proto-Umanoidi. I simboli del loro linguaggio scorrevano su consolle e pareti, come rivoli di metallo, grazie ai materiali intelligenti. Su tutto incombeva un’imponente ologramma del Cervello Matrioska. Una sostanza nera infiltrava la megastruttura, espandendosi come un cancro. «Stavo scaricando i dati architettonici quand’è apparsa quella roba. Cos’è?» domandò la Trill.

   «Melma Nera, la controparte malvagia di Sunny. Un concentrato di tutta la perfidia degli umanoidi» spiegò Terry, correndo al terminale del computer.

   «Ma certo... come ho fatto a non pensarci? Abbiamo tutti un lato oscuro, anche quello doveva prendere forma. Ho lasciato che questa meraviglia architettonica mi distraesse e non ho pensato alle conseguenze... che sciocco!» mormorò Ilia, con la voce svelta e nervosa di Zarden. «Se la Melma Nera arriva all’esterno, sarà la fine. Dobbiamo fermarla finché è concentrata qui».

   «Inserisco i codici informatici di Grenk» disse Terry, armeggiando con il computer. «Dovrebbero darci ampio controllo sui sistemi della Matrioska. Ma anche così, non so come fermare Shado. Per quanto Sunny lo rallenti, infetterà tutta la megastruttura. Se riuscissimo a distruggerla!».

   «Distruggere questo capolavoro?! Quest’alchimia di arte e tecnica?» inorridì Ilia, rabbrividendo istintivamente. Ma dopo un attimo di riflessione dovette correggersi. «Sì, hai ragione... meglio distruggerla che lasciarla in mano all’incarnazione del Male. Però che perdita per l’ingegno!» si lamentò.

   «Se solo capissi come fare» disse Terry, continuando a inserire i codici. «È così grande che nemmeno le armi dell’Enterprise possono distruggerla. E la modularità rende tutto più complicato».

   «O forse più semplice» rifletté Ilia, camminando nervosamente da una consolle all’altra. «Ogni Grande Opera ha un punto debole. Questa è modulare, per permetterle di sfuggire a qualunque avversità... ma solo se i costruttori sono ai comandi. Se invece ci siamo noi... la sua maggior forza può diventare la sua pecca fatale». Parlava a se stessa più che a Terry, come per convincersi che la cosa era fattibile.

   «Comandante?».

   «L’Opera deve precipitare, naturalmente» disse Ilia, arretrando la testa nel solito tic di Zarden. «È l’unico modo. Accediamo ai controlli di volo delle sezioni e sganciamole. Ma invece di liberarle come uno sciame, dirigiamole tutte verso l’interno. Entreranno in collisione, esplodendo o accartocciandosi. Ciò che resta finirà in pasto alla stella». Mentre parlava, la Trill aveva già cominciato ad attuare la sua idea. Manovrava le interfacce dei Proto-Umanoidi con sorprendente abilità, considerando quanto era nuova al loro linguaggio.

   «Potrebbe funzionare» riconobbe Terry. Si unì agli sforzi di Ilia, lavorando ancora più rapida.

   «Non ringraziarmi» avvertì la Comandante. «Forse l’Enterprise si salverà, ma noi qui non avremo scampo. Fine di Dax, fine di Terry».

   «E di Sunny» comprese l’IA, arrestandosi.

   «È un prezzo troppo alto, per eliminare il suo gemello malvagio?» chiese Ilia.

   «Forse no... ma alla fine l’esperimento è fallito» disse Terry, angosciata. «Tutto tornerà come prima, salvo che noi saremo morti. Peccato, proprio adesso che...».

   «Che?».

   «Che cominciavo a darmi nuove direttive» disse Terry a mezza voce. Aveva appena ripreso a inserire le istruzioni di volo che udì un ronzio alle sue spalle.

 

   Quando il pugno di Shado si abbatté sulla sezione a disco dell’Enterprise, tutta l’astronave fu sottoposta a un duro contraccolpo. Un condotto del plasma si lesionò in sala macchine. Proprio in quel momento Grenk ci stava passando vicino, mentre sbraitava ordini a destra e a manca, con la sua voce affannosa. Se il condotto fosse esploso del tutto l’avrebbe ucciso. Per fortuna si aprì solo una piccola crepa; mezzo secondo dopo la valvola d’emergenza arrestò lo scorrere del plasma. Anche così, Grenk fu scagliato all’indietro da un getto rovente. Per qualche secondo vide tutto nero e non capì cos’era successo. Poi scorse alcuni tecnici chini su di lui; lo tastavano e gli facevano domande. «Signore, riesce a sentirci? Si sente bene?».

   «Col cavolo che sto bene!» boccheggiò Grenk. Si afferrò a due giovani tecnici, uno per braccio, perché lo aiutassero a rialzarsi. Aveva l’uniforme annerita e la barba bruciacchiata.

   «Vuole andare in infermeria?» chiese uno dei due.

   «A che serve l’infermeria, se quel demonio fa a pezzi la nave?!» protestò Grenk. Corse alla consolle più vicina e richiamò un’immagine dei sensori esterni. Vide Shado che cercava di agguantare una gondola dell’Enterprise. Il suo muso simile a un teschio zannuto, con bagliori rossastri negli occhi e nelle fauci, gli suscitò un terrore atavico e paralizzante. Un sudore gelido gli bagnò la fronte e le gambe gli tremarono, molli come gelatina. «Poveri noi! Credevamo di rabbonire la Scourge, e invece... ecco che abbiamo creato!» gemette. «Quella cosa è uscita dalle nostre teste! Era dentro di noi... c’è ancora!».

   «Signore, la nave si è liberata, ma dalla plancia chiedono più energia per gli scudi» disse un altro ingegnere, un Elaysiano che indossava un esoscheletro per resistere alla gravità standard. «Che facciamo?».

   «Fosse per me, ce ne saremmo già andati col propulsore» bofonchiò Grenk.

   «Gli ordini del Capitano sono di restare...» gli ricordò l’Elaysiano.

   «Il Capitano vuol salvare Sunny per non vanificare i nostri sforzi, ma se abbassiamo gli scudi per portarlo a bordo è la fine» disse l’Ingegnere Capo. «E se restiamo per combattere, quel mostro ci distruggerà ugualmente!» disse, indicando Shado sul piccolo schermo. «In ogni caso siamo spacciati, a meno che... a meno che...» mormorò, sbattendo gli occhietti miopi.

   «Signore, se ha qualche idea ce la dica!» implorò il sottoposto.

   «No, è una cosa che devo fare da solo» disse il Tellarita, riscuotendosi. «A lei la sala macchine, Tenente Hod». Corse verso l’ingresso.

   «Ma signore!» protestò l’Elaysiano. Lui e gli altri ingegneri scrutarono Grenk con sguardo d’accusa, come se fosse un traditore... o un codardo. E forse lo era, si disse il Tellarita, se abbandonava così la sua squadra. Ma quello che stava per fare li avrebbe salvati tutti.

   «Tenete insieme questa nave!» raccomandò, infilando la porta. Corse alla più vicina cabina di teletrasporto e da lì si trasferì in un’altra sezione dell’Enterprise. Raggiunse trafelato l’ingresso dell’hangar 5, sempre vigilato da guardie. «Fatemi passare, ragazzi. Devo fare una cosa» disse, accostandosi alla tastiera LCARS per inserire il suo codice di sicurezza.

   «Non dovrebbe essere in sala macchine, in un momento come questo?» chiese il Maggiore Wu, frapponendosi.

   «Non venirmi a insegnare il mio mestiere, giovanotto!» s’inalberò Grenk. «Sappi che sto agendo per la salvezza dell’Enterprise. Su, fammi passare, svelto!».

   Il Maggiore si scostò, controvoglia, permettendo all’Ingegnere Capo d’inserire il suo codice. Il sistema automatico lo riconobbe valido e aprì il portone. Grenk si fiondò dentro e corse alla Phoenix, la sua adorata navetta temporale. Quanto tempo aveva dedicato a progettarla, a costruirla e poi a correggere i difetti! Ma da quello sfortunato test di prova che l’aveva catapultato nell’Universo dello Specchio, cinque anni prima, non aveva più osato servirsene. Erano stati altri ad andare in missione. Stavolta, però, toccava a lui. Sapeva che il Capitano non avrebbe approvato e quindi non stette a chiedergli l’autorizzazione.

   Grenk passò il palmo sulla superficie iridescente della Phoenix, lievemente cedevole al tatto. Il lettore di DNA riconobbe il suo genoma e materializzò la piccola porta posteriore. Subito il Tellarita corse ai comandi. Sapeva perfettamente dove e quando andare. Si umettò le labbra con la lingua mentre inseriva le coordinate. Luogo: all’esterno del Cervello Matrioska, oltre la barriera occultante. Tempo: cinque giorni prima, quando l’Enterprise si era avvicinata alla megastruttura. Doveva avvertire il Capitano e gli ufficiali del pericolo che incombeva su di loro. Se nemmeno gli indizi del futuro bastavano a salvare l’Enterprise, doveva convincerli a tenersi alla larga dal Cervello Matrioska. Ecco, questo avrebbe spezzato il circolo temporale. Non dovevano creare quel demonio gigante. Certo che, così facendo, la Scourge avrebbe continuato a espandersi... ma che alternativa c’era? Il loro tentativo di rabbonirla l’aveva solo inasprita.

   Inserite le coordinate, Grenk indugiò sui comandi d’attivazione. Sapeva di stare imboccando una strada senza ritorno. Se avesse distolto con successo i suoi colleghi da quella missione suicida, avrebbe cessato d’esistere nella nuova linea temporale. Non c’era modo più completo di annientarsi. Ma era quello che voleva, no? Fin dalla sciagurata missione nel Leviathan, quando Fanior l’aveva trasformato in un poliedro chimico e poi resuscitato, aveva voluto solo farla finita. Poteva farlo in quell’iniettore di plasma, se non l’avessero teletrasportato via. Meglio farlo così, salvando la nave. Almeno il suo alter-ego del passato sarebbe sopravvissuto.

   Il dito di Grenk tremò, a un centimetro dal tasto di partenza. Ricordò le parole incoraggianti dei suoi colleghi. Il Capitano, il Consigliere, anche il buon vecchio Raav... tutti gli avevano detto quanto tenevano a lui. Se l’avessero visto adesso, di certo avrebbero cercato di fermarlo. Ma era l’unico modo per evitare la catastrofe, non era così? Non era così?!

   Il Tellarita ritirò la mano. Cosa stava cercando di fare, esattamente? Voleva immolarsi per dimostrare di non essere un codardo? Ma forse c’era un’altra strada... un’idea disperata che prendeva forma nel suo cervello. Forse poteva salvare la situazione e anche se stesso. Forse ci voleva più coraggio a vivere, che non a morire. Con questa nuova determinazione, Grenk cambiò le coordinate d’arrivo. E premette il tasto di partenza.

 

   Ilia e Terry stavano inserendo le istruzioni di volo per lo sciame, più in fretta che potevano, quando un ronzio le allarmò. Si girarono di scatto, temendo che Shado le avesse scovate. Ma con sommo stupore videro apparire la Phoenix. E dalla navetta temporale uscì Grenk, con l’uniforme sporca e la barba bruciacchiata.

   «Ingegnere... vedo che ha deciso di non ripetere il circolo temporale. Me ne rallegro» disse Ilia, più formale del solito per via della personalità di Zarden.

   «Forse è la volta buona che ne usciamo» annuì Grenk, speranzoso. «Ma dobbiamo sbrigarci. Possiamo distruggere la Matrioska...».

   «Facendola collassare verso la stella centrale, sì. Ci sono arrivato» disse Ilia, rimettendosi al lavoro. «È giunto proprio al momento giusto per aiutarci».

   «E con la Phoenix potremo tornare sull’Enterprise» fece notare Grenk. «Basta impostare un salto temporale minimo. Il difficile sarà azzeccare le coordinate spaziali esatte...».

   «Ci penseremo sul momento» tagliò corto Terry, con le mani che si muovevano così rapide sui comandi da essere quasi invisibili.

   I tre ufficiali della Flotta – tutti esperti d’ingegneria – combinarono i loro sforzi per dare al Cervello Matrioska la sua ultima consegna. Dietro di loro, Sunny alzò una barriera di Melma Dorata per impedire alla Nera di attaccarli. Anche così, i federali sapevano di avere poco tempo. Smisero quasi di parlare, comunicando principalmente attraverso i codici informatici che scrivevano. Continuarono a inserire istruzioni anche quando il laboratorio tremò, segno che i moduli del guscio stavano cominciando a staccarsi. Mancava poco alla distruzione.

   «È fatta!» disse Grenk, staccandosi finalmente dalla consolle. «Ora leviamo le tende». Corse alla Phoenix, seguito da Ilia.

   «E Sunny?» chiese Terry, attardandosi presso la barriera dorata. Salvarlo era un obiettivo importante tanto quanto sconfiggere il suo gemello malvagio.

   «Eccomi!» disse l’umanoide dorato, emergendo dalla barriera. «Ho capito il vostro piano, ottima pensata. Vi seguo; il resto di me continuerà a trattenere Shado».

   Terry e Sunny seguirono i compagni nello spazio angusto della Phoenix e chiusero la porta. Dietro di loro, Shado si accaniva rabbioso contro la barriera dorata. Era diventato un essere informe, che solo a tratti mostrava una parvenza umanoide.

   «Torniamo sull’Enterprise... un microsecondo dopo che me ne sono andato» disse Grenk, inserendo le istruzioni con dita ormai indolenzite. Premette il comando d’avvio.

   Pochi metri più in là, Shado concentrò una tale quantità di Melma Nera contro la barriera di Sunny che riuscì ad abbatterla. Si precipitò verso la Phoenix per contagiarla. Ma la navetta temporale si dissolse un attimo prima che la toccasse. Scornato, l’essere catramoso si raggomitolò e riassunse forma umanoide. Rovesciò la testa all’indietro ed emise un terrificante ruggito di rabbia e frustrazione, che echeggiò per i corridoi e le sale ormai vuote. Doveva sbrigarsi a fuggire... ora la sua vita era appesa a un filo.

 

   «Scudi al 10%» avvertì Lantora, scostandosi i capelli sudati dalla fronte. L’Enterprise tremava mentre T’Vala la conduceva in quella folle gimcana fra gli anelli rotanti, le eruzioni stellari e le bolle nere e dorate che si affrontavano in quello spazio caotico. «Signore, dobbiamo andare o...».

   «Sta succedendo qualcosa» avvertì Terry. Inquadrò un settore del guscio, dove i moduli esagonali avevano cominciato a separarsi. Il loro movimento si espandeva a macchia d’olio, contagiando le aree circostanti. Terry zoomò all’indietro, mostrando l’effetto su vasta scala. Sembrava che una tempesta di sabbia agitasse l’interno della Matrioska. I moduli parevano granelli di polvere, anche se in realtà erano chilometrici.

   «È un bene o un male?» si chiese Apsu.

   «Un male... la Melma Nera ha preso il sopravvento e va a diffondersi in tutta Andromeda» disse Fanior, ormai incline al pessimismo.

   «È un bene, invece» corresse Terry, dopo che la sua immagine ebbe tremolato. «La nostra squadra è rientrata con la Phoenix: li ha salvati Grenk. Mi sono appena reintegrata con la mia proiezione e so cos’hanno fatto. Hanno Sunny con loro. E guardate i moduli: li hanno programmati non per allontanarsi nello spazio, ma per collassare verso l’interno. L’effetto valanga si propaga; rilevo già le prime collisioni».

   «Quindi brucerà tutto nella stella?» chiese Fanior, incredulo.

   «Solo se la massa sprofonderà a sufficienza. Gli strati esterni di una nana rossa non raggiungono i 4000ºC. Gran parte dei metalli che compongono il Cervello Matrioska ha temperature di fusione più alte e anche la Scourge potrebbe resistere in parte» avvertì Terry.

   «Allora faremo collassare la megastruttura in qualcosa di peggio che una nana rossa» decise il Capitano. «Lantora, un missile a singolarità contro la stella».

   «Lanciato» riferì lo Xindi. Inquadrato sullo schermo, il siluro rimpicciolì fino a sparire contro il disco sanguigno dell’astro. Appena entrato in collisione con il plasma rovente, liberò la Materia Rossa, che collassò in una nuova singolarità. Un profondo vortice si disegnò sulla superficie scarlatta, ingrandendosi attimo dopo attimo. Per quanto vorace, il giovane buco nero ci avrebbe messo un po’ a divorare la stella. Nel frattempo tutti gli strati della Matrioska sarebbero collassati.

   «Che peccato... l’Unione avrebbe potuto esplorare per secoli questa meraviglia» commentò Chase, osservando sconsolato il Cervello Matrioska che si disfaceva intorno a loro. «Era la nostra sola occasione di conoscere i Progenitori».

   «Vorrà dire i Distruttori» corresse Lantora. «È meglio così... chissà che altre diavolerie hanno nascosto qua dentro».

   Attorno all’Enterprise il guscio interno della megastruttura aveva ormai perso consistenza. Tutto si sfarinava e precipitava verso il centro. Anche le strutture dello star lifting, gli elementi di maggiori dimensioni, avevano cominciato a precipitare verso la stella. Enormi quantità di Melma – grigia, nera e dorata – erano trascinate nel cataclisma. I due giganteschi umanoidi che fino a quel momento si erano affrontati a ridosso del guscio furono anch’essi sospinti verso l’interno. Brandelli di Melma si staccarono dai loro corpi, che faticavano sempre più a mantenere la forma. Poco alla volta si disfecero, come statue di cera liquefatte da un intenso calore.

   «Lo spazio si sta facendo affollato» avvertì T’Vala, che continuava a schivare ostacoli. «Possiamo andare, adesso?».

   «Sì, non abbiamo più nulla da fare qui» sospirò il Capitano, alzandosi e avvicinandosi allo schermo. «Plancia a sala macchine, attivate il propulsore cronografico. Portateci a qualche anno luce di distanza» ordinò. Con rimpianto, guardò per l’ultima volta il Cervello Matrioska, quel mondo inimmaginabile che avevano appena iniziato a scoprire. Capolavoro tecnologico dei Progenitori, aveva resistito per un milione di anni ed era progettato per durarne miliardi. Conteneva i segreti della civiltà più antica che si conoscesse. Chissà quali altre scoperte vi avrebbero fatto, avendo più tempo per esplorarlo. E chissà se c’era un modo per sconfiggere la Scourge senza sacrificarlo. Ma era tardi, ormai. Chase rammentò un’antica, terribile frase. L’aveva pronunciata Oppenheimer durante il primo test della bomba atomica, ma risaliva a tempi ben più remoti, ai testi sacri indù. «Ora sono diventato Morte... il Distruttore di Mondi» sussurrò, osservando la rosseggiante Apocalisse. L’attimo dopo il Cervello Matrioska era svanito; solo le brillanti stelle del Nucleo testimoniavano la sua rovina.

 

   «Voleva vedermi, Capitano?» chiese Sunny, entrando nell’ufficio di Chase.

   «Sì, accomodati» lo accolse l’Umano, seduto alla scrivania. «Stiamo facendo il punto della situazione. Poco fa siamo tornati alle coordinate del Cervello Matrioska e come previsto non resta nulla, oltre al buco nero. I danni all’Enterprise erano minimi e sono già stati riparati. Non abbiano nemmeno una vittima».

   «Si direbbe una vittoria perfetta» commentò Sunny, accomodandosi sulla poltroncina davanti alla scrivania. «Eppure sento che lei è inquieto» aggiunse con la sua voce calma e introspettiva.

   «Abbiamo messo in moto qualcosa di cui non possiamo prevedere gli esiti» spiegò Chase. «La Melma Grigia è quiescente, ma potrebbe riattivarsi. E quella Nera...». Il Capitano scosse la testa, afflitto. «Sunny, se il tuo gemello malvagio fosse morto, tu lo sapresti?».

   «Temo di no, Capitano». Sunny riusciva ad affrontare anche le questioni più gravi senza perdere la sua calma sovrannaturale. «Egli è così distante da me che fatico a comprenderlo. E non posso captare i suoi pensieri. Non mi ero nemmeno accorto della sua nascita; ora non posso scommettere sulla sua morte. Lei ritiene che sia sopravvissuto?».

   «Si era già moltiplicato in un’infinità di bolle, quando la megastruttura è implosa» rispose Chase rassegnato. «Con trilioni di moduli che cozzavano alla rinfusa, è possibile che alcune abbiano trovato la strada per lo spazio aperto. Basta che una sola bolla ce l’abbia fatta e l’espansione ricomincerà».

   «A parte questa mia forma che vede ora, tutto il resto di me ha trattenuto la Melma Nera ed è perito con essa» spiegò Sunny, indicandosi il petto. «Ho fermato molte parti di Shado che tentavano la fuga, ma ovviamente non posso essere certo di averle rilevate tutte. Quindi è vero, una parte di lui potrebbe essere sopravvissuta».

   «Terry sta facendo delle simulazioni, per ricostruire il modo in cui la Matrioska è collassata, e dice che è molto probabile» precisò il Capitano. «Mettiamo che sia vero, che lui sia ancora là fuori» disse, additando lo spazio oltre la finestra dell’ufficio. «Come si comporterà?».

   «Credo che il suo modus operandi non differirà molto da quello della Melma Grigia» rispose Sunny dopo una breve riflessione. «Cercherà d’espandersi, contagiando un pianeta dopo l’altro. Tuttavia potrebbe impuntarsi su certi obiettivi e tralasciarne altri, ora che è in preda a violente emozioni. La sua personalità è... disturbata».

   «Contiene tutto il male di cui sono capaci gli umanoidi» sospirò Chase. «Il suo potenziale distruttivo è illimitato. Ma se di lui sono sopravvissute poche bolle, per un po’ si sentirà vulnerabile. Cercherà di aumentare la propria massa, per cautelarsi da nuovi attacchi».

   «Il modo più rapido per farlo è raggiungere un pianeta infettato dalla Scourge e convertirla» disse Sunny. «Un solo pianeta contagiato può fornirgli così tanta massa melmosa da metterlo al sicuro. Creerà milioni di bolle che andranno a convertire gli altri pianeti, a ritmo ancora più rapido rispetto alla passata espansione della Scourge».

   «E tu puoi fare altrettanto, giusto?».

   «Sì».

   «Allora dipende tutto da chi sarà più rapido a convertire la Melma» concluse il Capitano.

   «In un certo senso. Ma anche il più lento otterrà comunque migliaia di pianeti, che renderanno impossibile distruggerlo» avvertì Sunny. «Comunque sono pronto a mettermi al lavoro. Preferisce che inizi da un posto in particolare?».

   «Oh, sì. L’Ambasciatore Fanior ha insistito e non vedo perché dovremmo deluderlo» disse Chase, alzandosi. «Torniamo a Kelva Primo» disse con ritrovata determinazione.

 

   Il mondo natale dei Kelvani era identico a come l’avevano visto la prima volta: un globo arido e bruno, chiazzato dai laghi grigi della Scourge. Le terre, i mari e persino l’atmosfera erano sterili. L’Enterprise entrò in orbita geostazionaria sopra la capitale, di cui non restavano che terra smossa e un grande lago di Scourge. Una navetta lasciò l’hangar principale e scese nell’atmosfera. I suoi movimenti erano seguiti con trepidazione dalla plancia.

   «È a diecimila metri. Ancora nessuna reazione da parte della Scourge» rilevò Terry.

   «Avanti...» mormorò Fanior osservando la navetta, come se potesse dirigerla lui stesso.

   Gli ufficiali attendevano in silenzio, ma con la stessa partecipazione. Era il momento decisivo... la ragione per cui erano entrati nel Cervello Matrioska e poi avevano preso la decisione di distruggerlo. Già esserne usciti vivi poteva considerarsi una vittoria. Ma per il resto della galassia, la sopravvivenza dell’Enterprise contava poco. Per Andromeda era quella, l’ora della verità.

   La navetta scese indisturbata, fino a sorvolare il lago di Melma Grigia. Si fermò a una decina di metri d’altezza e rimase immobile, sospesa a mezz’aria. Solo il ronzio dei motori turbava il silenzio dell’ambiente. Per qualche secondo non successe nulla. Poi la paratia sul retro si abbassò, facendo da pedana, e Sunny uscì alla luce del sole. Avanzò con sicurezza, finché fu proprio sull’orlo. Qui stiracchiò le braccia e si bilanciò sulle punte dei piedi, come un tuffatore olimpionico che si prepara al balzo. La Melma Grigia si stendeva, appena mossa dal vento, per centinaia di metri in tutte le direzioni. Sunny la contemplò per qualche istante, aggrottando la fronte, mentre il sole riverberava sulla sua superficie d’oro. Si stiracchiò ancora, saltellò e infine si tuffò senza esitazione.

   I federali, che lo seguivano dalla plancia, trattennero il fiato. Per l’emozione parve loro che il tempo si dilatasse e la caduta fosse oltremodo lunga. Poi Sunny colpì la superficie grigia e melmosa. Vi s’infilò dentro senza sollevare nemmeno uno spruzzo e svanì. I federali esalarono il fiato. Passarono i secondi; il lago rimaneva grigio e immoto.

   «Non ci riesce?» mormorò Fanior.

   «Diamogli ancora qualche secondo» disse il Capitano. «Dev’essere un grande sforzo, per lui».

   «Ce la farà» disse Terry, con pacata sicurezza.

   Trascorsero altri lunghi, dolorosi secondi. Ed ecco, un bagliore dorato apparve nel punto in cui Sunny si era immerso. La Scourge stava cambiando. La macchia aurea si espanse a ritmo esponenziale, allargandosi sotto la navetta, finché divenne un’onda irresistibile. Contagiò tutto il lago, da una riva all’altra, facendolo splendere come uno specchio d’oro sotto il sole. Ancora qualche momento e la superficie prese a sobbollire. Innumerevoli bolle dorate se ne staccarono, fluttuando a mezz’aria, e si dispersero in tutte le direzioni. C’erano migliaia di laghi come quello da convertire, su tutta la superficie del pianeta. Il processo avrebbe richiesto ore, forse giorni; ma il passo fondamentale era stato fatto. Visto dallo spazio, il pianeta cominciava già a tingersi d’oro.

   «Scendo con una squadra» disse Chase, alzandosi. Da quando era ad Andromeda non aveva ancora esplorato un pianeta, nel senso tradizionale del termine. Le sue uniche missioni sul campo erano state sul relitto del Leviathan e nel folle ambiente del Cervello Matrioska. Era anche sceso su un planetoide, per salvare Neelah dalla Scourge, ma in quell’occasione non aveva nemmeno messo piede a terra. Gli mancava l’aria aperta, avere un cielo sopra la testa. Ed era curioso di vedere Kelva Primo dalla superficie.

   «L’accompagno» disse subito Fanior.

   Anche Terry e Lantora si unirono alla squadra. Da ultimo, quando erano già in sala teletrasporto, Neelah si unì a loro. «Finalmente potrò vedere questo pianeta come si deve» commentò, ricordando come aveva dovuto abbandonarlo a precipizio la prima volta.

   Ora che la Scourge era quiescente e la Melma Dorata si diffondeva a macchia d’olio, non c’era più bisogno delle tute ambientali. I federali poterono teletrasportarsi così com’erano. Si materializzarono a pochi passi dalla riva, battuta dalle onde dorate. Il sole nascente rendeva il lago così luminoso da ferire gli occhi. Faceva già caldo, ma la brezza rendeva sopportabile l’ambiente. Chase si schermò gli occhi con la mano, per proteggerli dal riverbero, e si guardò intorno. Da un lato c’era una vasta estensione di terreno sconvolto, dove un tempo si trovavano le fondamenta degli edifici. Più lontano ancora si levavano le colline, scure e brulle. Dall’altra parte il lago segnava il centro della città, dove la melma si era raccolta una volta conclusa la sua opera distruttrice. Tutto era immerso nel silenzio.

   «Doveva essere un luogo incantevole» disse il Capitano, accostandosi all’Ambasciatore. «Le rinnovo le condoglianze per l’accaduto».

   «Forse questo è l’inizio della rinascita. Una nuova alba per il mio popolo» disse Fanior, contemplando il lago dorato.

   «Ma dov’è Sunny?» chiese Lantora, notando che la sua navetta galleggiava ancora a mezz’aria.

   «È vicino... ora ci raggiungerà» disse Terry, accostandosi alla riva. Agli altri non sfuggì la sua impazienza.

   Ed ecco, la superficie del lago s’increspò a pochi metri da loro. Una sagoma umanoide ne emerse, come se un elevatore la spingesse verso l’alto. Per prima apparve la testa calva, poi il torso muscoloso con le braccia fieramente incrociate; seguirono l’addome e le gambe. Era Sunny, che emergeva vittorioso in un tripudio d’oro. Quando anche i piedi divennero visibili, l’umanoide si fermò, saldo e stabile come se fosse sulla terraferma. In quella posa osservò solennemente i federali raccolti sulla riva.

   «Sembra un Oscar» mormorò Chase, divertito. E infatti applaudì, imitato dagli altri. Fanior esitò, non avendo familiarità con quel gesto umano, ma alla fine si unì alle ovazioni, serio e composto come al solito.

   «Ben fatto, amico!» gridò invece Lantora, più facile a emozionarsi.

   «Sono io che devo ringraziarvi, amici miei. Voi mi avete dato la vita» sorrise Sunny, venendo loro incontro a grandi passi. Camminava sulla superficie melmosa come se fosse solida roccia. Appena mise piede sulla sponda puntò subito verso Terry, che lo attendeva trepidante. Dapprima l’IA si trattenne, data la presenza del Capitano e degli altri. Ma quando Sunny l’abbracciò teneramente, non si sottrasse. Nell’atteggiamento dell’umanoide c’era qualcosa – un misto d’innocenza e saggezza – che rendeva tutto facile e naturale. Dietro di lui, le bolle d’oro continuavano a emergere dal lago e affollavano il cielo, dirette verso le altre pozze di Scourge.

   «Siamo solo all’inizio» disse Sunny, sciogliendo l’abbraccio. «Resta moltissimo lavoro da fare. Convertito questo pianeta dovrò passare rapidamente agli altri. E in giro per Andromeda ci sono molti popoli che si nascondono dalla Scourge. Non sarà facile scovarli tutti, per informarli che ora hanno una difesa».

   «La Coalizione di Andromeda ci darà una mano» suggerì Chase. «Quando ti vedrà e saprà cosa puoi fare, cambierà atteggiamento nei nostri riguardi. Ho già ordinato di contattarla, per informarla delle novità».

   «Bene, abbiamo molto di cui parlare» convenne Sunny. Intanto la sua navetta si era mossa, pilotata in remoto da Terry. Atterrò sulla spiaggia, proprio accanto alla squadra.

   «Mentre aspettiamo gli Andromedani, sbarcheremo parte dell’equipaggio» decise il Capitano. «Dopo quel che ha passato, la nostra gente ha diritto a vedere il sole e a respirare un po’ d’aria fresca. Questo sembra un buon posto per stabilire il campo base» aggiunse, guardandosi attorno. «Magari spianando un po’ il terreno... che ne dice?» chiese a Fanior, sfiorandogli la spalla per indurlo a seguirlo lontano dalla spiaggia. Neelah capì la mossa e diede una discreta gomitata a Lantora, per farla capire anche a lui. Si diressero a loro volta nell’entroterra, lasciando a Terry e Sunny un po’ di privacy.

   «Che tipi, i tuoi colleghi!» commentò l’umanoide dorato, osservandoli mentre si allontanavano. «Ma sono buone persone. Capisco che tu voglia restare in servizio».

   «Sono più che buone... e ora sono anche qui» sorrise Terry, sfiorandogli la tempia. «Sei un concentrato delle loro qualità migliori. E siccome fra le loro caratteristiche c’è la perseveranza, so che non ti fermerai finché non avrai convertito tutta la Scourge di Andromeda. Quindi... il lavoro potrebbe separarci» aggiunse, facendosi seria.

   «Non direi» obiettò Sunny. «Dalla conversione di questo pianeta ho già abbastanza massa per diffondermi in tutta la galassia. Ma saranno bolle che agiranno in modo piuttosto automatico. La mia attenzione resta concentrata in questa forma. Vorrei vivere come un umanoide, per quanto possibile».

   «Vorresti vivere sull’Enterprise?» chiese Terry.

   «Certamente» annuì Sunny. «Ho un gran sapere in testa, ma è teorico. Devo vedere come vivono in concreto gli umanoidi per sentirmi uno di loro. E ad Andromeda gli unici umanoidi sono sull’Enterprise. Forse un giorno visiterò anche la Via Lattea... ma succederà solo quando avremo chiuso i conti con la Scourge, e potrebbe volerci parecchio. Nel frattempo stare con voi mi sembra un buon compromesso».

   «Mi sembra ragionevole» disse Terry, ma ciononostante aveva l’aria un po’ delusa. Fece per discostarsi, ma Sunny la trattenne.

   «Aspetta. C’è un altro motivo per cui desidero stare sull’Enterprise. Il più importante» disse solennemente.

   «Sì?» chiese l’IA, scrutandolo con una certa ansia.

   «Perché sull’Enterprise ci sei tu. Vorrei restarti accanto, se per te va bene» disse l’umanoide con naturalezza, alzando di nuovo la mano dorata.

   «M-mi va bene, sì» disse Terry in un soffio. Sentì di nuovo quelle strane sensazioni degli Organici, che la sua proiezione isomorfa imitava perfettamente: dilatazione dei capillari, battito accelerato, nodo allo stomaco. Sapeva cosa significavano. Alzò anche lei la mano, tenendola distesa.

   Per un attimo restarono fermi in quella posizione. Erano Intelligenze Artificiali, nonché mutaforma... ma quei semplici gesti degli umanoidi continuavano ad affascinarli. Avvicinarono i palmi con incredibile lentezza, fino a toccarsi. Allora chiusero le dita, stringendosi forte. Sunny circondò la vita di Terry con un braccio, lei gli mise l’altra mano sulla spalla. E si scambiarono il primo bacio delle loro vite.

 

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Capitolo 11
*** Epilogo ***


-Epilogo:

Data Stellare 2557.225

Luogo: Kelva Primo

 

   Fanior depose gli strumenti da giardinaggio e si asciugò il sudore con uno dei tentacoli. Era bello stare su Kelva nella sua forma naturale, ed era ancora più soddisfacente contribuire alla ricostruzione, a partire dalle piccole cose. Attorno a lui, i fiori di Sashira che aveva appena piantato stavano mettendo radici. Le colline circostanti, dove lui e altri Kelvani avevano lavorato nei giorni scorsi, erano già rivestite dalla boscaglia azzurrina. Le vecchie storie erano vere: quegli arbusti silicei crescevano nell’arco di una notte. Erano piante pioniere, il primo passo per ricostruire l’ecosistema kelvano. Le altre piante, dalla crescita più lenta, sarebbero state reintrodotte gradualmente. Poi sarebbe toccato agli animali, a partire dai più piccoli. La Coalizione aveva salvato diverse specie, talvolta sotto forma di esemplari viventi, più spesso con il solo DNA. Sofisticate tecniche di clonazione e crescita in vitro permettevano di ricrearli. Era un lavoro immane, che avrebbe richiesto generazioni; ma bisognava pur cominciare. E Fanior era lieto di contribuire ai primi passi.

   Richiamato da un suono rimbombante, l’Ambasciatore inclinò il corpo conico e puntò uno dei grandi occhi da calamaro verso il cielo. Due astronavi della Coalizione stavano scendendo dall’orbita. Sorvolarono la collina su cui si trovava e si diressero verso il lago, dove presero a riempire le stive di Melma Dorata. Altre astronavi, atterrate sulle sponde, avevano già fatto il pieno ed erano pronte a ripartire. La flotta della Coalizione, giunta dalla stazione di Suspiria, stava imbarcando grandi quantità di quella sostanza, da usare contro la Scourge. In tal modo avrebbe contribuito a diffonderla in Andromeda.

   Anche se il suo corpo da calamaro era inespressivo, Fanior si sentiva appagato. I leader della Coalizione avevano ringraziato i federali per la loro impresa nel Cervello Matrioska. Reshef in persona aveva ammesso che costituiva «la vittoria più significativa mai conseguita contro la Scourge». Di conseguenza l’Enterprise era stata riammessa nei ranghi della Coalizione con tutti gli onori. E quando Chase aveva chiesto a Reshef di revocare l’esilio contro Fanior, il Consigliere non aveva potuto esimersi dall’accettare. L’Ambasciatore si disse fra sé che aveva fatto bene a fidarsi del Capitano. Quali che fossero le sue remore contro i vertici dell’Unione Galattica, Chase e i suoi ufficiali meritavano la sua più alta stima e tutto l’aiuto che poteva ancora dargli. Perciò sarebbe rimasto sull’Enterprise, quando fosse ripartita, anche se lo addolorava lasciare Kelva così presto. Almeno i suoi simili sarebbero rimasti, per portare avanti la ricostruzione. E l’Enterprise si sarebbe tenuta in stretto contatto con gli alleati.

   L’Ambasciatore riprese il lavoro, muovendosi svelto con le sue cento appendici. Qua e là, sulle colline e nei fondovalle, altri Kelvani facevano lo stesso. Nella zona più pianeggiante stavano già tracciando le linee di un nuovo insediamento. Esseri di tutte le specie, sia di Andromeda che della Via Lattea, erano affaccendati in mille attività. Alcuni però si godevano semplicemente qualche ora di meritato riposo. Lantora e T’Vala camminavano tra i fiori di Sashira, mano nella mano, facendo progetti per il futuro. Si erano ormai lasciati alle spalle l’incidente della Barriera. Raav e gli Xindi Rettili dell’Enterprise si godevano il sole sulla spiaggia. E l’Ingegnere Capo Grenk risalì la collina, stando attento a non calpestare i germogli appena piantati. Si avvicinò a Fanior e l’osservò in silenzio per circa un minuto; poi si schiarì la voce. «Ehm, è lei, Ambasciatore?» chiese.

   «Certo, Ingegnere. Non mi riconosce?». Il traduttore universale rendeva comprensibile il linguaggio del Kelvano.

   «In quella forma, devo dire che ho qualche difficoltà. Non per criticare, ma... voi Kelvani vi somigliate molto» disse il Tellarita.

   «So cosa intende... anch’io trovo gli umanoidi difficili da distinguere» ammise Fanior, comprensivo. «Cosa la porta qui?» chiese poi.

   «Uh, niente di che... volevo stare un po’ all’aria aperta. Posso aiutarla?» chiese Grenk, accennando agli attrezzi da giardinaggio.

   «Se crede... ma si tenga a distanza di sicurezza. Mi muovo molto rapidamente» avvertì l’Ambasciatore. In effetti i suoi tentacoli gli guizzavano attorno come fruste.

   Grenk prese una paletta e cominciò a piantare i fiori di Sashira, che nella loro struttura frattale riproducevano già la forma dell’intera pianta. Per un po’ il piccolo Tellarita e il grosso Kelvano lavorarono in silenzio, fianco a fianco.

   «Non mi sono ancora congratulato per il contributo che ha dato all’ultima battaglia» disse a un tratto Fanior. «Far collassare la Matrioska è stata un’ottima idea».

   «Sempre che sia servita» sospirò Grenk. «Shado potrebbe essere ancora là fuori. Sa, quando sono salito sulla Phoenix non era quella, la mia idea. Pensavo di tornare più indietro nel tempo e avvertire l’Enterprise perché non entrasse affatto nella megastruttura. Così non avremmo avuto né Sunny, né Shado».

   «Ma la Scourge avrebbe continuato a espandersi incontrollata» notò Fanior. «Anche se Shado fosse sopravvissuto, ritengo che lei abbia fatto la scelta giusta. Tra l’altro, se avesse seguito la sua prima idea, è probabile che il cambiamento di linea temporale l’avrebbe annichilita».

   «Sì, beh... sono già morto una volta» commentò Grenk, facendo spallucce.

   «Mi spiace che la pensi così. Quel che ho fatto sul Leviathan era finalizzato unicamente a salvarla. Non pensavo di sconvolgerla a tal punto» si scusò il Kelvano.

   «È tutto a posto, Fanior» disse Grenk, alzandosi dal suo lavoro. «Sono stato giù di corda per un po’, ma ora è passato. Quand’ero nella Phoenix, e ho dovuto scegliere che fare, ho avuto un’illuminazione. Qualunque cosa mi sia successa, ci sono un’infinità di buone ragioni per andare avanti».

   «Ne sono lieto. È proprio certo di stare bene?» insisté l’Ambasciatore, squadrandolo con un occhio da calamaro.

   «Yotz, sì!» esclamò il Tellarita, con un sorriso che gli scoprì le zanne porcine, e si rimise al lavoro di buona lena.

 

   «Gli ordini di servizio per oggi, Capitano» disse Ilia, porgendo a Chase un d-pad da firmare.

   «Uh-uh. Novità dalla Coalizione?» chiese il Capitano, scorrendolo rapidamente. I due stavano passeggiando non lontano dal lago, in una zona in cui la riva si alzava a formare una scogliera rocciosa.

   «Quel che ci aspettavamo. Sta cercando di contattare altri gruppuscoli che finora si erano nascosti e di far pace coi pirati, ma non sono cose che si ottengono dall’oggi al domani» rispose la Trill, camminando con le mani intrecciate dietro la schiena. «Intanto stiamo rifornendo i coloni kelvani con viveri e medicinali. Reshef le fa sapere che apprezza molto».

   «È un Kelvano ragionevole, dopotutto» commentò Chase, restituendole il d-pad firmato. «E Suspiria che dice?» chiese, ma in quella si vide passare davanti un gruppo di bambini dell’Enterprise che giocavano a rincorrersi. Fra loro c’era una ragazzina bionda con gli occhi verdi, una delle più vivaci del gruppo.

   «Dice che non si divertiva tanto da quando ha lasciato gli Ocampa» sorrise Ilia, osservando i bambini che si allontanavano correndo.

   «Uhm... e di lei che mi dice?» domandò Chase, studiando il suo Primo Ufficiale. Ne osservò attentamente la postura e l’espressione. «C’è qualcosa di diverso in lei. Sento che il vecchio Zarden ci ha lasciati».

   «È così» confermò Ilia. «Lo zhian’tara è finito. Che esperienza! Non so come definirla... di sicuro istruttiva. Ma anche logorante, con certi Ospiti».

   «Non lo dica a me!» esclamò il Capitano. «Penso ancora a quando ha manifestato la personalità omicida di Joran, poco prima che arrivassimo ad Andromeda. Abbiamo dovuto tenerla in guardina per due settimane. Poi mi sono dovuto sorbire l’umorismo di Curzon. È andata meglio con Jadzia ed Ezri... ufficiali in gamba. Ma mi lasci dire che Martis era una solfa. E Zarden sarà stato pure un genio, ma non era simpatico a nessuno. Sono lieto che sia di nuovo se stessa. Mi prometta che non farà mai più una cosa del genere!».

   «Promesso, Capitano» lo tranquillizzò Ilia. «A meno che non sia assolutamente necessario!» aggiunse furbesca. «Beh, ora torno all’insediamento. Le ricordo la riunione coi Consiglieri, questo pomeriggio».

   «Non mancherò» promise Chase, procedendo di buon passo verso la scogliera.

   «Vuol proseguire da solo?» chiese Ilia, un po’ stupita. Non c’erano altro che rocce, in quella zona. Sia gli Andromedani che la gente dell’Enterprise erano lontani. Anche i bambini erano stati richiamati indietro dagli adulti.

   «Non da solo» corresse l’Umano.

   Ilia aguzzò la vista e notò una piccola figura che si stagliava in cima alla scogliera. «Capisco... buona fortuna, Alexander» disse in tono più confidenziale, e si allontanò con discrezione.

 

   «Eccoti!» disse Neelah, quando Chase la raggiunse. «Strano posto, per un appuntamento. Che volevi dirmi?».

   «Oh, giusto un paio di cose» disse il Capitano, guardandola in un modo che la dottoressa non seppe interpretare. «Per quanto riguarda la tua richiesta, Suspiria dice di no: non puoi avere un campione del suo citoplasma».

   «Frell, ci contavo!» si dispiacque Neelah.

   «Però ha accettato di dirti qualcosa su Exosia. E questo mi crea un problema, perché non vorrei che ti smarrissi nella foresta miceliare, o che impazzissi con le spore, proprio ora che ti sei ripresa dalla Scourge» notò Chase.

   «Oh, Alexander... ti preoccupi troppo!» trillò Neelah. Fece una piroetta e lasciò che Chase l’abbracciasse da dietro, cullandola. «È che sono piena di progetti. Devo recuperare il tempo perso nella crono-stasi. Non mi perdonerò mai d’essermi dormita la permanenza nel Cervello Matrioska. Se avessi potuto ficcare gli iniettori tubolari in un computer dei Proto-Umanoidi... ah, chissà che avrei scoperto!» sospirò. L’emozione le fece estroflettere davvero gli iniettori, lunghi un palmo.

   «E dai, cara, ritira quegli affari... non donano alla tua mano» disse Chase, scostandole i capelli candidi per baciarla sul collo. Neelah rabbrividì e socchiuse gli occhi, mentre gli iniettori le rientravano nella mano. Per un po’ rimasero abbracciati, contemplando il lago dorato.

   «Questo invece la rende molto graziosa» riprese Chase, e Neelah sentì che le stava infilando qualcosa al dito. Abbassò lo sguardo, meravigliata... e vide che l’uomo le aveva infilato un anello all’anulare. Era un cerchietto di platino, con incastonato un piccolo zaffiro di un blu intenso. Per un attimo rimase paralizzata, senza fiato: sapeva cosa significava quel gesto, per gli Umani.

   «Alexander...!» mormorò, sentendo le vertigini. Si girò per guardarlo negli occhi.

   «Neelah... in questi anni ne abbiamo passate tante» disse Chase, stringendole le mani fra le proprie. «Abbiamo visto la morte in faccia più volte e ho rischiato di perderti in più modi di quanti voglia ricordare. Ma per qualche miracolo ne siamo sempre venuti fuori. E poiché ci attendono altre sfide, voglio approfittare di quest’ora di pace per chiedertelo. Avrei dovuto farlo già da tempo». Le sfiorò la guancia, fissandola negli occhi azzurri. «Neelah, vuoi sposarmi?» chiese con voce limpida. Ci fu un attimo di silenzio; ma l’Aenar non era il tipo che dubita di ciò che vuole.

   «Lo voglio» disse con fermezza. «Caspita se lo voglio!» aggiunse ridendo, e gli gettò le braccia al collo. Chase la strinse tanto che la sollevò da terra per qualche secondo. Quando sentì le labbra dell’Aenar sulle sue, capì che ogni battaglia e ogni sacrificio di quegli anni erano ripagati.

 

   Quel pomeriggio, Chase si recò alla riunione con i Consiglieri. Era l’ultimo incontro, prima che l’Enterprise ripartisse. Anche molte navi della Coalizione avrebbero lasciato Kelva, con le stive piene di Melma Dorata, ma alcune sarebbero rimaste per proteggere i coloni kelvani. Altre astronavi erano ancora in viaggio, dai quattro Quadranti della galassia, per venire a rifornirsi.

   La riunione si tenne in un edificio ancora in costruzione: c’erano i pavimenti e le pareti, ma niente soffitto, così che l’intensa luce del sole inondava il salone ancora spoglio. Il Capitano si presentò con i suoi ufficiali superiori, ai quali non sfuggì l’anello che Neelah sfoggiava al dito e ciò che implicava. I leader della Coalizione erano tutti lì, di persona o in olo-presenza, compresi Reshef e Suspiria. Venne anche Fanior, in forma umana, e da ultimo Sunny.

   Fu una lunga discussione, perché c’era molto da pianificare. La Coalizione promise di diffondere il più possibile la Melma Dorata, convertendo la Grigia. S’impegnò anche a cercare tracce della Nera, dato che nemmeno la distruzione del Cervello Matrioska assicurava che Shado fosse stato annientato. «Il Clan degli Esuli cercherà in tutta Andromeda le tracce di questa entità malefica» promise Suspiria, la cui vocetta seria contrastava con il viso paffuto da bambina. «Ci assicureremo anche di mantenere i contatti con l’Enterprise».

   «Visto che hai deciso di rimanere a bordo, sarai il nostro ufficiale di collegamento» disse Reshef, agitando un tentacolo all’indirizzo di Fanior. «I nostri avi furono saggi a mandare gli esploratori nella Via Lattea. Da lì è giunta la nostra salvezza» riconobbe.

   «Ora che la Scourge si è fermata, molte genti che vivevano nascoste torneranno a farsi vedere» commentò Suspiria. «La nostra Coalizione potrebbe crescere, ma affronterà anche sfide inedite. Dobbiamo tenerla unita, perché le battaglie sono tutt’altro che terminate».

   «Noi ci tratterremo ad Andromeda ancora per qualche anno» spiegò Chase. «Così vedremo il nuovo corso delle cose. Ma c’è una domanda che mi faccio, e non so darmi risposta».

   «Dica, Capitano» lo invitò Reshef.

   «La Sfera di Dyson della Via Lattea accoglieva una popolazione superiore a quella di tutte le altre specie umanoidi sommate» disse lentamente il Capitano. «Il Cervello Matrioska era più piccolo, ma poteva comunque sostentare una popolazione immensa. Insomma, i Proto-Umanoidi – sia Preservatori che Distruttori – erano incredibilmente numerosi. Del resto la migrazione da una megastruttura all’altra richiese quattrocento anni per essere completata, non è così?».

   «Esatto» confermò Suspiria. «Dove vuole arrivare?».

   «Ecco, per quanto la Scourge fosse virulenta mi sembra strano che siano morti tutti» argomentò il Capitano. «Possibile che nessuno sia riuscito a sganciare qualche modulo dalla Matrioska? E quelli che erano giunti dalla Via Lattea, i Preservatori, l’avranno fatto con delle astronavi. Dobbiamo credere che non se ne sia salvata neanche una?».

   «Sta ipotizzando che alcuni Proto-Umanoidi siano sopravvissuti fino a oggi» riassunse Terry.

   «Sì... Preservatori, Distruttori o entrambi» confermò Chase. «So che sembra strano, visto che nessuno li ha mai visti... ma ricordiamo che erano schivi e maestri dell’occultamento».

   «La sua ipotesi è realistica, visto il loro numero esorbitante» ammise Terry. «E il cambiamento della Scourge potrebbe finalmente indurli a rivelarsi».

   «Se i Progenitori esistessero ancora, mi piacerebbe conoscerli. In fondo sono la radice comune che ci unisce» commentò Sunny, rivolgendosi agli umanoidi dell’Enterprise. «Ma se fossero sopravvissuti i Distruttori... allora sarebbe male» aggiunse, rattristandosi. La sua epidermide dorata parve d’un tratto meno luminosa, come se rimuginasse cupi pensieri. E nessuno, nell’assemblea, seppe che dire per confortarlo.

 

 

FINE

 

 

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