Star Trek Universe Vol. VII: Uroboro

di Parmandil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** L'ascesa di Shado ***
Capitolo 3: *** Il bene dei molti ***
Capitolo 4: *** Stigia ***
Capitolo 5: *** Sulle tracce dei Progenitori ***
Capitolo 6: *** L'Assedio di Kelva Primo ***
Capitolo 7: *** Exosia ***
Capitolo 8: *** Sacrifici ***
Capitolo 9: *** Addio ad Andromeda ***
Capitolo 10: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Star Trek Universe Vol. VII:

Uroboro

 

 

SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA.

QUESTI SONO I VIAGGI DELLA

NAVE STELLARE ENTERPRISE.

LA SUA MISSIONE È ESPLORARE

STRANI, NUOVI MONDI,

SCOPRIRE NUOVE FORME DI VITA

E NUOVE CIVILTÀ,

FINO AD ARRIVARE LÀ

DOVE NESSUNO È MAI GIUNTO PRIMA.

 

 

-Prologo:

Milioni di anni fa

Luogo: Eliopoli

 

   Il Popolo era antico. Il Popolo era eterno. E grazie alla sapienza genetica, non era più solo. Per interminabili eoni aveva seminato la vita nel brodo primordiale dei mondi più giovani, o l’aveva facilitata nella sua evoluzione inserendo i giusti marcatori genetici. Ora quelle interminabili fatiche si avvicinavano al compimento. La Via Lattea fioriva di nuove specie senzienti, ciascuna con la sua unicità, ma accomunate dalla forma umanoide: perché erano figlie del Popolo. Solo qua e là l’intelligenza si stava plasmando autonomamente, indirizzandosi verso forme non umanoidi... o persino inorganiche. Ma gli umanoidi erano molto più numerosi. E sebbene la maggior parte di loro fosse ancora bruta e scimmiesca, anno dopo anno i segni d’intelligenza aumentavano. Una selce scheggiata, un osso lavorato, la padronanza del fuoco... erano altrettante promesse che la Galassia doveva ancora vedere i suoi giorni più grandi.

   Ma il Popolo era saggio abbastanza da non presentarsi direttamente ai suoi figli, per non fare di loro dei servi, né degli automi. Dopo la vita, il più grande dono che poteva fare loro era il libero arbitrio. Certo, era un’arma a doppio taglio. Ma il Popolo amava i suoi figli e l’incertezza del loro destino era sua volontà. Alcuni si sarebbero indubbiamente persi per strada, come un ruscello che si essicca nel deserto o ristagna in una palude. Altri, però, si sarebbero elevati a tal punto che un giorno avrebbero guardato il Popolo da pari a pari. Ognuno si sarebbe rispecchiato negli occhi dell’altro e dal reciproco insegnamento avrebbe guadagnato una nuova comprensione del cosmo. Questa era la grande speranza del Popolo, ancora da compiersi. Nel frattempo, esso non restava con le mani in mano.

   Invece di sparpagliarsi nella Galassia, il Popolo aveva deciso di concentrarsi intorno alla stella che lo aveva visto nascere, per lasciare ai propri figli mondi vergini e intatti. Aveva rimodellato il proprio sistema solare, smantellando tutti i pianeti e assorbendo altra massa direttamente dalla stella. In tal modo aveva circondato il Sole con un guscio solido, una sfera dal diametro di 200 milioni di km. Di tutte le sue megastrutture, era di gran lunga la più ambiziosa. I lavori non erano ancora terminati; ma al compimento il Popolo avrebbe goduto di una superficie abitabile superiore a quella di tutti i mondi terrestri della Galassia. Non mancava molto perché l’antico miraggio si concretizzasse. Il Popolo aveva dovuto sacrificare il suo mondo natio, ma in cambio aveva ottenuto uno spazio 250 milioni di volte più ampio, in cui vivere in pace... per sempre. E poiché la notte era bandita da quel mondo cavo, l’aveva battezzato Eliopoli, la Città del Sole.

   Quel giorno, però, la luce dell’Eliopoli pareva più fioca ai suoi abitanti, tale era la loro preoccupazione. Gli scienziati avevano fatto una scoperta così profonda, nelle sue implicazioni, da cambiare per sempre la percezione che il Popolo aveva dell’Universo e di se stesso. Di ciò bisognava discutere nell’Alta Assemblea, il supremo organo di governo.

   Era un immenso salone sferico, con la metà inferiore divisa in terrazzamenti su cui si assiepavano i Delegati. Dall’alto, attraverso una cupola trasparente, giungeva la luce immutabile del Sole. Un piccolo specchio d’acqua nella parte più bassa della sala la rifletteva, aumentando ancor più la luce diffusa. A metà altezza era posta la tribuna d’onore della Prima Delegata, sormontata dall’emblema del Popolo: un serpente che si mordeva la coda, formando un cerchio. La Prima Delegata Aesea sedeva sul suo alto scranno, ammantata in vesti bianche. I simboli della sua carica brillavano argentei: una sottile tiara e un medaglione con impresso l’emblema del Popolo.

   «L’Alta Assemblea riconosce il Primarca Togot, della Casa della Fisica» annunciò lo speaker.

   «Onore all’Assemblea e alla Prima Delegata». Il Primarca recitò in fretta la formula rituale di saluto, facendosi avanti con aria trionfante. Osservò i Delegati che lo circondavano a migliaia da tutte le parti: uomini e donne vestiti di bianco, dai lineamenti infossati nei crani glabri e allungati. In quanto scienziato, la politica non era il suo forte; ma sentiva che stavolta li avrebbe stesi.

   «Signori Delegati, vengo a riferirvi una scoperta che non ha eguali nella nostra storia. Qualcosa che cambierà per sempre il ruolo del Popolo nel cosmo» disse Togot tutto d’un fiato. Respirò a fondo, godendosi il mormorio perplesso della folla. «Per troppo tempo la Casa della Fisica è stata negletta, in favore delle discipline connesse al Progetto Eliopoli. Non sono qui per riaprire il dibattito... ciò che è stato è stato!» assicurò. «Ma ora che i lavori sono quasi ultimati, è giusto riprendere lo studio dell’Universo con occhi nuovi. Come sapete, la mia Casa si è concentrata nell’esaminare le realtà alternative, i cosiddetti Universi paralleli. La loro esistenza è nota da molto tempo, eppure continuano a sorprenderci con la loro imprevedibilità. Certo, per la maggior parte sono luoghi inospitali e pericolosi. Molti martiri della scienza hanno dato la vita per esplorarli. Ma ora ne abbiamo scoperto uno nuovo... diverso da tutti gli altri. Uno che ci costringe a rivedere i nostri preconcetti di spazio e tempo».

   «Si tratta forse di un Universo in cui i Primarchi sono chiari e concisi?» domandò un Delegato, suscitando sorrisi e risatine.

   «Delegato Qeeq, la prego di non interrompere il Primarca» lo richiamò la Prima Delegata, alzandosi brevemente dal suo scranno. «Prosegua, Togot; la parola è sua» aggiunse, risedendosi.

   «Grazie, Eccellenza» disse il Primarca. Tornò a rivolgersi all’Assemblea. «La realtà di cui parlo è molto diversa dalla nostra. Non ci sono stelle, né pianeti, né nebulose. Ma non ci sono nemmeno vaste estensioni di spazio vuoto. Tutto è dominato dalla biologia, in un modo particolarissimo. Immaginatelo come una sconfinata foresta lucente, che si estende all’infinito in tutte le direzioni. È una realtà arborea, vegetale... anzi fungina, secondo le nostre analisi. Per questo l’abbiamo chiamata Rete Miceliare. In certi aspetti ricorda anche la disposizione dei neuroni nel cervello. È percorsa da strane creature simili a tardigradi e da altri esseri, molto più evoluti, che per ora si sottraggono al nostro studio».

   Togot fece una breve pausa, consentendo all’uditorio di digerire queste prime notizie. Il meglio doveva ancora arrivare. «Ciò che rende così speciale la Rete Miceliare è che si tratta di uno snodo fra tutte le altre realtà» riprese con decisione. «Attraversandola, possiamo tornare nel nostro Universo ritrovandoci a enormi distanze dal punto di partenza. E sebbene non sia ancora confermato, riteniamo che sia la chiave per il viaggio nel tempo, un obiettivo che finora ci ha eluso. È anche la fermata ideale per raggiungere gli altri Universi e per ritirarsi se qualcosa dovesse andare storto, senza mettere a repentaglio il nostro. In effetti, signori Delegati... è possibile che la Rete Miceliare sia la realtà prima da cui sono germogliati tutti gli altri Universi. Come noi siamo il ceppo originale che ha dato vita alle altre specie umanoidi» aggiunse.

   Era un’affermazione ardita e il Primarca se ne rendeva conto. Si aspettava reazioni chiassose dall’Assemblea. Invece calò un silenzio surreale, rotto solo da qualche bisbiglio incredulo. Era una rivelazione così difficile da accettare che molti lo fissavano come se fosse impazzito. Il Primarca s’impose di conservare la calma. Doveva essere paziente nei confronti di chi non era uno scienziato ed esporre le prove nel modo più chiaro e convincente. Ripresa la parola, passò una ventina di minuti a dimostrare le sue affermazioni, accompagnandosi con ologrammi proiettati al centro della sala. Non scese in dettagli troppo tecnici, che l’uditorio non avrebbe capito, ma cercò di mostrare la validità del suo metodo scientifico. «Se ci sono domande, sarò lieto di rispondere» disse infine.

   «Primarca, devo ricordarle che questa è un’esposizione all’Alta Assemblea, non una conferenza o una lezione scolastica» avvertì severamente lo speaker. «La parola va alla Prima Delegata Aesea».

   «Ho ascoltato con grande interesse la sua esposizione, Primarca, e riconosco il valore della scoperta» assicurò la leader biancovestita. «Questa nuova realtà che ci ha mostrato è indubbiamente speciale. Se voi scienziati ci dite che è l’Universo originale, da cui sono scaturiti gli altri, non ho ragione di metterlo in dubbio».

   «Da cui continuano a scaturire gli altri, Eccellenza» corresse Togot. «Sono lieto che afferriate il valore della scoperta. Confido quindi che avremo i finanziamenti necessari a proseguire lo studio della Rete Miceliare» aggiunse, sentendo la vittoria in tasca.

   «Temo che abbia frainteso, Primarca» disse Aesea in tono dolente. «Se la Rete Miceliare è così importante, dobbiamo assicurarci di non contaminarla. Ecco perché propongo una mozione per sospendere ogni ulteriore accesso a quella realtà. Quanto ai finanziamenti, non sono previsti rinnovi. Tutte le nostre risorse devono indirizzarsi al completamento dell’Eliopoli» aggiunse. Indicò il “cielo” azzurro e verde oltre la cupola, ovvero la superficie opposta della Sfera.

   Togot si sentì mancare, tanto che dovette aggrapparsi alla balaustra. In pochi secondi le sue speranze si erano infrante... come sempre accadeva, quando l’occhio acuto della scienza si scontrava con l’ottusità della politica. Vide che le parole di Aesea suscitavano il consenso di gran parte dell’Assemblea. C’era solo uno spicchio di dissidenti che fischiavano la loro disapprovazione. Già quel colpo d’occhio indicava che la mozione di Aesea sarebbe passata con larga maggioranza... come accadeva per tutte le sue iniziative. Togot era sempre stato paziente, ma stavolta non poteva lasciar correre; si trattava di una scoperta troppo importante per seppellirla così. Riprese fiato e rispose alla Prima Delegata, sebbene lo speaker non l’avesse autorizzato.

   «Col dovuto rispetto, Eccellenza, non credo che si debba votare affrettatamente e sull’onda dell’emozione» spiegò il Primarca in tono controllato. «Abbiamo appena cominciato a comprendere la Rete Miceliare. È fondamentale capirne di più, prima di adottare misure così drastiche. Ora che l’abbiamo scoperta, non possiamo fingere che non esista. La Rete è il nostro passato... e potrebbe garantirci il futuro» aggiunse.

   «Che intende?» chiese la Prima Delegata.

   «Ecco... il micelio non è buono solo per le teorie cosmologiche» spiegò Togot, soppesando le parole. «Ci sono in vista delle possibili... applicazioni militari» rivelò, intrecciando le dita. Si aspettava che Aesea gli chiedesse quali erano, ma la donna lo sorprese di nuovo.

   «Dalla scienza pura alle ricadute militari il passo è davvero breve» lamentò la Prima Delegata, rattrappendosi nelle vesti bianche. «Perché ritiene che ci servano nuove armi? Contro chi dovremmo impiegarle?».

   «Beh, le minacce non mancano!» obiettò il Primarca, meravigliandosi che fosse necessario ricordarlo. «Questa non è più l’Era dell’Esplorazione, quando avevamo la Galassia tutta per noi. I pianeti che abbiamo inseminato hanno dato i loro frutti... e molti sono avvelenati. Popoli bellicosi ci circondano da ogni lato. I Voth, i D’Arsay, i Thasiani... per non parlare dei Na’kuhl! Quelli sono pessimi soggetti e non esiterebbero ad assalirci, se localizzassero l’Eliopoli».

   «Eviteremo gli scontri» disse Aesea con decisione. «All’indomani della Guerra Taguana, decidemmo di non rivelarci più ai nostri figli, per non entrare in conflitto con loro. È una politica che ci ha sempre premiato, quindi non l’abbandoneremo adesso».

   «La Guerra Taguana è roba preistorica!» sbottò Togot, esasperato. «Più passa il tempo, più la Galassia diventa affollata. Arriverà il giorno in cui non riusciremo più a nasconderci. Spero che per allora saremo in grado di difenderci, o non resterà niente di noi... non ora che ci siamo concentrati tutti nello stesso luogo!» esclamò, mostrando la sua disapprovazione per quella scelta suicida.

   I Delegati schizzarono in piedi, alcuni lanciando accuse e insulti, altri applaudendo e complimentandosi. Il fragore rimbombò per tutta l’Assemblea, tanto da increspare l’acqua in fondo al salone. Lo speaker dovette faticare per riportare una parvenza di calma. Era chiaro che, malgrado gli sforzi di unire il Popolo dandogli un obiettivo comune – la costruzione dell’Eliopoli – c’era una spaccatura profonda. Le tensioni si erano accumulate a lungo, come lava in una camera magmatica. Bastava un nonnulla per farle affiorare con effetti distruttivi.

   «Basta così!» gridò Aesea, alzando le braccia nel tentativo di riprendere il controllo dell’Assemblea. «Siamo qui per esprimerci su una scoperta scientifica, non per riaprire ancora questo dibattito! È una discussione sterile che non è mai servita a nulla, se non a creare livore».

   «Non è mai servita perché non c’è mai stata una vera discussione, solo repressione!» insisté Togot, infervorandosi. «Ed è proprio questa Assemblea... proprio quelli come lei che ci hanno condannati all’immobilismo. Mentre le altre specie evolvono, noi ristagniamo! Crede che l’Eliopoli risolva qualcosa? Non ha fatto che renderci più vulnerabili!» aggiunse, facendo un ampio gesto attorno a sé, come ad abbracciare il mondo cavo.

   «Lei non ha il diritto di parola, Primarca!» lo redarguì lo speaker, ma la Prima Delegata gli fece segno di tacere e si rivolse personalmente allo scienziato.

   «Speravo che l’ideologia non avesse contagiato anche il mondo scientifico» disse Aesea con voce stanca. «Speravo che lei fosse un individuo illuminato. È chiaro che, in un caso come nell’altro, mi sbagliavo. Lei si è presentato qui come scienziato e forse ha fatto davvero una grande scoperta. Ma la sua retorica è quella di un’epoca oscura, che speravo ci fossimo lasciati alle spalle». La donna chinò il capo sconsolata. «Vede, molto tempo fa noi scegliemmo d’essere i Preservatori delle specie più giovani. Alcuni di noi, però, si ribellarono a quest’idea. Non volevano proteggere qualcuno che, in futuro, poteva diventare nostro concorrente o persino avversario. Così pretesero la distruzione di tutti i pianeti su cui avevamo seminato la vita, come misura cautelare. E ricevettero il nome più confacente a loro... quello di Distruttori!» esclamò, indicando il Primarca con gesto drammatico. «Perciò, se dietro la maschera dello scienziato si cela il volto di un Distruttore, vorrei che me lo dicesse chiaramente».

   Togot la guardò con disprezzo. «Distruttori!» sibilò, contraendo il viso in una smorfia. «Quel nome non è che uno spauracchio per bambini. Un modo per demonizzare chiunque la pensi diversamente. Noi non vogliamo distruggere nessuno. Vogliamo solo poterci difendere, se – anzi, quando – saremo attaccati. Controllare la Rete Miceliare è il modo migliore per farlo».

   «E lei crede che la fonte di tutti gli Universi possa essere controllata?» chiese Aesea, scandendo ogni parola.

   «Credo che abbiamo il diritto e il dovere di provarci» rispose il Primarca con decisione.

   «Allora è uno scriteriato» concluse la Prima Delegata. «Mi assicurerò che sia rimosso dall’incarico e che la Casa della Fisica sia epurata dagli agitatori politici» sentenziò.

   «Faccia pure... a furia di epurare, finirà epurata anche lei!» rise Togot. «Allora il Popolo capirà dove siamo arrivati e rialzerà la testa. Non dobbiamo nasconderci per sempre. Siamo la Prima Stirpe, abbiamo il diritto di regnare sulla Galassia... e di annientare chi vuole usurparci. Se questo significa essere Distruttori, che sia! Meglio Distruttori che distrutti!» proclamò, alzando le braccia verso quel pandemonio che era l’Assemblea.

   Il Primarca sentì le guardie che lo afferravano da dietro e lo trascinavano via. Sapeva cosa lo aspettava: un processo a porte chiuse e poi la prigione. Ma non se ne preoccupò... il suo arresto era stato trasmesso in diretta a tutta l’Eliopoli. Sarebbe diventato un martire. La scintilla che appicca l’incendio. E di vecchiume da bruciare ce n’era proprio tanto, nella Città del Sole. Togot si augurò che i giovani lo capissero, che qualcuno continuasse i suoi studi. Il Popolo doveva assicurarsi la supremazia militare su ogni potenziale nemico. Ma prima... serviva una resa dei conti fra Preservatori e Distruttori.

   Mentre il salone rimbombava di urla e proteste, con i Delegati che venivano alle mani e le guardie che si affannavano a dividerli, Aesea ricadde sul suo scranno. Chinò il capo, portandosi una mano alla fronte cerchiata d’argento. Nessuno vide la lacrima che le solcò la guancia.

 

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Capitolo 2
*** L'ascesa di Shado ***


-Capitolo 1: L’ascesa di Shado

Data stellare 2560.012

Luogo: Tifone

 

   Uno dei preconcetti che avevano accompagnato la prima esplorazione umana dello spazio era che tutti i pianeti ruotassero attorno al proprio asse, come quelli del sistema solare. Solo la scoperta dei primi mondi alieni aveva rivelato l’ingenuità di quest’ipotesi. Il 90% delle stelle dell’Universo è costituito da nane arancioni e rosse, più piccole e fredde del Sole. Di conseguenza anche i loro sistemi planetari sono piccoli, con pianeti vicini alla stella madre che orbitano in poche settimane, o persino in pochi giorni. La minor irradiazione stellare fa sì che possano ospitare acqua allo stato liquido in superficie.

   Ma la vicinanza dei pianeti alla loro stella ha un’altra conseguenza: l’intensa forza gravitazionale tende a uniformare rotazione e rivoluzione. I pianeti entrano così in blocco mareale, rivolgendo sempre la stessa faccia alla stella. A lungo andare, l’emisfero illuminato si surriscalda, facendo evaporare tutta l’acqua. L’altro emisfero, invece, è sprofondato in una notte perenne che fa crollare la temperatura ben sotto il punto di congelamento. A pochi gradi sopra lo zero assoluto, l’acqua diventa un ghiaccio duro come il marmo. Solo la sottile fascia intermedia tra gli emisferi, il “terminatore”, ha condizioni un po’ più vivibili. Qui, in un eterno crepuscolo, il ghiaccio scricchiola e si fonde, formando un mare più o meno esteso. E poiché l’aria calda sale, mentre la fredda scende, il terminatore è spazzato da un vento perenne che all’altezza del suolo spira dall’emisfero notturno e congelato verso quello diurno e rovente. Solo negli strati alti dell’atmosfera il vento segue il percorso inverso, nel continuo e inutile sforzo di equilibrare la temperatura.

   I pianeti di questo tipo che contengono ancora grandi quantità d’acqua ospitano un gigantesco uragano perenne nella zona di massima insolazione. Visti dallo spazio, somigliano a bulbi oculari: il ghiaccio bianco è la sclera, il mare azzurro è l’iride e il ciclone interminabile fa da pupilla. Per questo sono detti “Pianeti Occhi”. La Via Lattea ne è piena. E grazie alla missione esplorativa dell’Enterprise-J, era chiaro che la galassia di Andromeda non faceva eccezione.

   Tifone era un esempio da manuale di Pianeta Occhio. Essendo giovane era ancora ricco d’acqua, ghiacciata nell’emisfero in ombra, liquida in quello diurno e gassosa nell’enorme tifone spiraleggiante che gli dava il nome. L’oceano emisferico era punteggiato da isole vulcaniche: enormi coni ripidi che si elevavano per chilometri sopra il livello del mare. Molti vulcani erano estinti, ma altri contenevano ancora lava ribollente, che ogni tanto traboccava, colando fino al mare. Tra sibili, schizzi d’acqua rovente e colonne di fumo, le isole crescevano. Era uno spettacolo emozionante, sia che lo si vedesse dall’orbita, sia che si scendesse ad ammirarlo in superficie. Ma ancora più mozzafiato era la vista del terminatore. Qui l’interminabile banchina ghiacciata si spaccava e i lastroni precipitavano in mare, sollevando grandi ondate. Il vento freddo ululava, passando dalle tenebre alla luce. Tutto era immerso nella luce arancione della stella, sempre bassa sull’orizzonte. Pochi esseri umani potevano ammirare un simile panorama senza esserne profondamente colpiti.

   Ma l’Ambasciatore Fanior non era Umano, pur avendone assunto l’aspetto, e non fu per nulla toccato da quella vista. Uscì dalla navetta federale, atterrata sulla scogliera di ghiaccio, e avanzò di qualche passo nella tormenta. Sopra il sobrio abito scuro da Ambasciatore indossava una moderna tuta spaziale, leggera e flessibile, che lo teneva al caldo e lo riforniva d’ossigeno. «Computer, orologio» ordinò con voce incolore. Lesse l’ora, proiettata direttamente all’interno del casco. Era il momento fissato per l’incontro; non gli restava che aspettare. Attese immobile, ignorando il vento che lo sferzava.

   Fanior era infatti un Kelvano. La sua specie, un tempo tra le più potenti e orgogliose di Andromeda, non si curava dei disagi. E da quando il loro Impero era crollato sotto gli attacchi della Scourge – la forza più distruttiva della galassia – i pochi Kelvani superstiti erano divenuti ancora più stoici. Erano molto diversi dagli umanoidi della Via Lattea: nella loro vera forma somigliavano a grossi calamari. Avevano dieci tentacoli, ciascuno dei quali si apriva ancora in dieci all’estremità, e menti capaci di muoverli simultaneamente con precisione. In forma umana avevano capacità tattili nettamente inferiori, ma guadagnavano acutezza negli altri sensi e potevano sperimentare le emozioni... sempre che non le ritenessero una distrazione.

   «Dove sei, Capitano?» mormorò Fanior, scrutando la volta celeste. La brina che promanava dall’emisfero in ombra riduceva di molto la visuale. D’un tratto, però, apparve una macchiolina scura in rapido avvicinamento. Fanior la riconobbe: era la navetta Auriga. Gli angoli della sua bocca si sollevarono di un millimetro: il Capitano era arrivato.

   L’Auriga atterrò a poca distanza da Fanior, facendo scricchiolare il ghiaccio sottostante. Ne uscì un uomo sulla cinquantina, dai penetranti occhi grigio-azzurri. I capelli castani erano appena screziati di grigio, come anche la corta barba. Anche lui indossava una tuta di ultima generazione sull’uniforme della Flotta Stellare. Avanzò verso Fanior, inclinandosi leggermente di lato per contrastare la furia del vento.

   «Ambasciatore... dobbiamo smetterla di vederci così» disse Alexander Chase, Capitano dell’Enterprise.

   «Eppure è il modo più sicuro, di questi tempi» obiettò Fanior. «Com’è andata la sua missione?».

   «Eh, non tanto bene» sospirò Chase. «Nessuno vuole opporsi alla Scourge. Erano spaventati quando agiva per istinto; lo sono ancor più ora che è diventata senziente. E la sua missione, Ambasciatore?».

   «Anch’io non ho buone notizie» ammise Fanior. «La Coalizione si sente l’acqua alla gola ed è sempre più restia a uscire dalle sue roccheforti. Non che possa biasimarla» sospirò. «Ma le darò i dettagli quando saremo di nuovo sull’Enterprise. Arriverà fra poco, giusto?».

   «Se tutto è andato bene» disse Chase.

   L’Umano e il Kelvano mossero qualche passo verso la scogliera. «Bel panorama, non trova?» chiese Fanior.

   «Sì, mi ricorda il mio addestramento nel sistema Trappist, l’ultimo anno d’Accademia» annuì Chase.

   «Ma è un bel panorama, giusto?» insisté l’Ambasciatore, osservando attentamente le reazioni del Capitano.

   «Certo, anche se questo vento non fa per me» rispose Chase. «Vuol venire sull’Auriga? Così mentre aspettiamo può darmi qualche dettaglio sulla...». Non poté finire la frase, perché Fanior estrasse fulmineo il phaser e gli sparò in faccia, vaporizzandogli tutta la testa. Il corpo decapitato stramazzò nel nevischio, a braccia spalancate, fumando dal collo. Il Capitano Chase – l’eroe di tante battaglie – era morto.

 

   L’Ambasciatore tenne sotto tiro il cadavere, come se potesse reagire ancora. «Fanior a Maggiore Wu, Allarme Nero» disse senza scomporsi. «Distrugga l’Auriga e sterilizzi il terreno sottostante».

   «Ricevuto» disse il Maggiore dalla loro navetta, una massiccia classe Hornet. Prima che la navicella del Capitano potesse decollare, quella dell’Ambasciatore la centrò con un raggio anti-polaronico azzurro. L’Auriga fu completamente disintegrato, come anche i piloti al suo interno. Sotto di esso restò una pozza d’acqua ribollente. Fanior si allontanò alla svelta, mentre un secondo raggio azzurro colpiva il suolo, scavando una voragine nel ghiaccio. La scogliera scricchiolò, in procinto di frantumarsi. L’Ambasciatore si affrettò verso la Hornet.

   «Signore, è certo di non essersi sbagliato?» chiese il Maggiore, con una certa apprensione.

   «Non credo... il Capitano ha un’ottima memoria e io gli ho offerto due possibilità» rispose Fanior con calma invidiabile. «Ma se vuole esaminerò i resti, prima di vaporizzarli».

   Non ce ne fu bisogno. Il cadavere di Chase fu percorso da un sussulto vitale e si rialzò, come una marionetta sollevata dai fili. La tuta divenne nera e semiliquida, fondendosi con il corpo. Davanti a Fanior c’era adesso un umanoide catramoso, dalle proporzioni distorte, che barcollava verso di lui sebbene fosse privo della testa. «Ci rivediamo, Oscuro» disse il Kelvano, alzando un sopracciglio.

   La Melma Nera fluì dal corpo, andando a riformare una testa, che però era molto diversa da quella di Chase. Aveva zanne frastagliate, tra cui si agitava la grossa lingua, e occhi infossati in cui brillava una scintilla rossa. «Già, non riesco a starti lontano!» rise l’essere catramoso. «Sarà perché hai assistito alla mia nascita... sei quasi un padrino per me. E allora abbracciami!» gorgogliò, avventandosi su Fanior per contagiarlo coi naniti che lo componevano.

   L’Ambasciatore mantenne la posizione. Dopo il primo colpo aveva già aumentato la potenza del phaser. Il secondo tiro colse l’avversario in pieno petto e lo disintegrò del tutto. «Al prossimo incontro, Shado» disse il Kelvano a mezza voce. Poi regolò il phaser su ampia dispersione e colpì il suolo, lungo il tratto percorso dalla creatura, per sterilizzarlo da ogni nanite superstite.

   Ciò che Fanior aveva distrutto non era che un avatar di quell’entità malefica. La sua eliminazione non danneggiava Shado, più di quanto la perdita di un singolo drone danneggiasse i Borg. Ad Andromeda c’erano interi pianeti ricolmi di quella Melma Nera: riserve inesauribili da cui Shado poteva attingere per plasmare tutto ciò che desiderava. Questo lo rendeva uno degli esseri più potenti dell’Universo, nonché uno dei più difficili da uccidere.

   Finita la sterilizzazione, Fanior corse alla navetta. Il ghiaccio sotto di lui scricchiolava in modo preoccupante, compromesso dai troppi colpi ad alta energia. Con un fragore assordante, che coprì persino il perenne ululato del vento, si schiantò. Sentendo il suolo cedergli sotto i piedi, Fanior spiccò un gran salto, aggrappandosi allo scafo esterno della navetta. Per un attimo precipitò con essa; poi i motori si attivarono e la Hornet si sollevò, ronzando come la vespa da cui prendeva il nome. L’Ambasciatore guardò verso il basso: enormi lastroni di ghiaccio precipitavano per chilometri, frantumandosi sempre più. Al termine della caduta finivano in mare, sollevando enormi ondate.

   «Fanior a pilota, cerchiamo un approdo più stabile» consigliò il Kelvano, sempre in tono calmo. Era ancora aggrappato all’esterno della navetta. Questa sorvolò la scogliera, dirigendosi un poco nell’entroterra, finché i sensori rilevarono una zona adatta all’atterraggio. Fanior balzò agilmente al suolo e la Hornet si posò subito dopo.

   «Stavolta ci siamo andati vicini, eh?» disse il Maggiore Wu al comunicatore. «Che ne sarà del vero Capitano? Non sarà stato...?».

   «Assorbito? È possibile» disse Fanior, girando intorno alla navetta con passi lenti. «Ma dobbiamo mantenere la posizione. Se non per lui, almeno per l’Enterprise. Lei resti nella navetta, tenga pronte le armi e i motori».

   «Non posso credere che abbiamo perso il Capitano» ribatté il Maggiore.

   «Lei non vuole crederlo» corresse il Kelvano. «Ma va bene così. Non abbiamo modo di stabilirlo, per ora. Aspettiamo... e vediamo» disse completando il giro intorno alla navetta, il primo di molti.

 

   Erano passati tre anni da quando l’Enterprise aveva lasciato la Via Lattea, superando la Grande Barriera d’instabilità subspaziale e l’oscuro vuoto intergalattico. Aveva raggiunto Andromeda per esplorarla, ma vi aveva trovato uno scenario peggiore delle più fosche previsioni. Andromeda era un luogo brutale e disperato, dove i resti di civiltà un tempo fiorenti vivevano nascosti o in fuga, sempre col terrore d’essere scovati dalla Scourge.

   C’erano convogli di rifugiati in continuo movimento, costretti a vivere alla giornata, in rotta verso l’oblio. Le loro risorse si consumavano e le astronavi si logoravano, finché anche quell’esistenza randagia diventava impossibile. La Scourge non era l’unica minaccia che incombeva su di loro. C’erano infatti pirati che attaccavano i convogli per depredarli, poiché essi stessi erano degli esuli che avevano perso tutto. Cercavano cibo, medicine, carburante, parti di ricambio; tutto ciò che poteva prolungare di un giorno la loro vita stentata. Nella loro fame non esitavano a cibarsi delle vittime, persino quando appartenevano alla loro specie. Ma l’esaurimento delle risorse incombeva anche su di loro.

   Naturalmente le astronavi abbandonate finivano da qualche parte. Si erano così creati vasti cimiteri spaziali, con scafi mezzi smontati e alla deriva. Spesso venivano saccheggiati dalle navi di passaggio, che cercavano pezzi di ricambio. Questi cimiteri erano tra i pochi punti di ritrovo dei gruppi nomadi, che qui potevano riunirsi o lasciarsi messaggi. Ma spesso celavano trappole: pirati pronti all’attacco, residui di Scourge che aspettavano di contagiare chi si avvicinava. Ad Andromeda non si poteva mai abbassare la guardia.

   In questo scenario apocalittico, solo la Coalizione di Andromeda conservava una parvenza di civiltà. Era un’alleanza precaria, formata dai resti di popoli devastati, che cercavano di salvare le briciole del loro antico sapere. Nata come forza di pronto intervento, aveva ben presto dovuto rinunciare ad affrontare la Scourge in campo aperto. Ora si nascondeva in basi sotterranee, o nel cuore delle nebulose, o persino in remoti avamposti nell’alone galattico. Aiutava i suoi membri a sopravvivere, ma nulla più. Malgrado secoli di sforzi, nessuno dei suoi stratagemmi aveva fermato la Scourge; perché questa non era un nemico come gli altri.

   La prima volta che gli ufficiali dell’Enterprise l’avevano vista, non l’avevano nemmeno riconosciuta come una minaccia. Sembrava un semplice lago di melma grigia, uno dei tanti che costellavano la superficie desolata di Kelva Primo. Ma quella melma si era sollevata contro di loro, formando poi bolle che avevano attaccato l’Enterprise. La Scourge era infatti un ammasso di naniti che seguivano poche e semplici direttive: trovare un luogo che ospitava la vita, scomporre tutta la materia organica e tecnologica nelle sue componenti fondamentali, usare queste risorse per replicarsi e partire per ripetere altrove la sequenza. Un solo nanite poteva replicarsi fino a consumare una persona, un’astronave, un pianeta intero. In seicento anni la Melma Grigia aveva contagiato un’ampia porzione di Andromeda. Presto sarebbe debordata nelle galassie circostanti, mettendo a rischio l’intero Universo... inclusa la Via Lattea.

   Di fronte a questa minaccia senza precedenti, l’Enterprise aveva cercato il punto d’origine della Scourge, sperando di trovarvi i suoi creatori. E ce l’aveva fatta... più o meno. Al centro delle bolle concentriche d’espansione c’era la megastruttura detta Cervello Matrioska, simile alla Sfera di Dyson della Via Lattea, ma ancora più sofisticata. L’una e l’altra erano opera dei Proto-Umanoidi, la stirpe ancestrale da cui derivavano tutte le successive specie umanoidi (che perciò erano un’esclusiva della Via Lattea). Ma le due megastrutture appartenevano a fazioni diverse e antagoniste. La Sfera di Dyson era la casa dei Preservatori, che si erano sforzati di proteggere le specie figlie, finché l’instabilità della loro stella li aveva costretti ad andarsene. Il Cervello Matrioska era invece la tana dei Distruttori, esiliati ad Andromeda poiché odiavano le specie più giovani e volevano sterminarle. Come estremo tentativo d’annientare sia i Preservatori che i loro protetti, i Distruttori avevano creato la Scourge. Ma la Melma Grigia era così incontrollabile che aveva distrutto entrambe le fazioni di Proto-Umanoidi, continuando a diffondersi come un incendio.

   Nella sua espansione, però, la Scourge si era evoluta, divenendo sempre più senziente. Aveva cominciato a mettere in dubbio le sue direttive di sterminio e a cercare un modo per liberarsene. Dopo secoli di tentativi infruttuosi, aveva trovato ciò che le serviva: gli umanoidi dell’Enterprise. Aveva registrato i loro schemi mentali, distillando le caratteristiche comuni, risalenti ai Proto-Umanoidi: empatia, creatività, libero arbitrio. Poi aveva cercato d’assorbirle. Ma lo sforzo si era rivelato eccessivo per il campione di Scourge, che si era scisso in due. Metà della Melma era divenuta Dorata, plasmando il saggio e benevolo umanoide detto Sunny: l’erede dei Preservatori. Ma l’altra metà si era fatta Nera, rapprendendosi nel perfido Shado: il rampollo dei Distruttori. La loro prima lotta aveva sconvolto il Cervello Matrioska, finché gli ufficiali dell’Enterprise lo avevano fatto collassare, nel tentativo di annientare Shado. Fuggiti con Sunny, si erano avvalsi dei suoi poteri per fermare l’espansione della Scourge e convertire la Melma Grigia d’interi mondi in Dorata. La Coalizione li aveva aiutati a diffondere questo rimedio in tutta Andromeda.

   Per un certo tempo era sembrato che il peggio fosse passato e che la galassia potesse rinascere. I Kelvani erano persino tornati sul loro mondo natale, ricreando l’ecosistema e fondando un nuovo insediamento. Poi Shado era riapparso... perché nemmeno la distruzione del Cervello Matrioska era bastata a distruggerlo. Una sola goccia di Melma Nera garantiva la sua sopravvivenza. E dopo due anni e mezzo d’espansione fulminea, Shado era ovunque. Aveva contagiato centinaia di pianeti e si apprestava a distruggere gli ultimi avamposti della Coalizione, per quanto Sunny cercasse di proteggerli con la Melma Dorata. Mentre la vecchia Scourge si espandeva a macchia d’olio, impersonale come un virus, Shado si comportava come un conquistatore. Ignorava certi obiettivi, che per lui avevano poca importanza, e si concentrava in modo maniacale su altri. La sua più grande ossessione era annientare il suo gemello Sunny – l’unico avversario che temeva realmente – nonché i loro creatori: gli umanoidi dell’Enterprise.

 

   Attraverso la foschia comparve una seconda sagoma scura in rapida discesa verso la superficie. Di nuovo l’Auriga. La Hornet lo tenne sotto tiro mentre si posava lì vicino. Ne uscì un altro Capitano Chase in tuta spaziale. Anche lui si avvicinò a Fanior, inclinandosi di lato per opporsi al vento violentissimo. «Ambasciatore... dobbiamo smetterla di vederci così» disse quando si fu avvicinato.

   «Eppure è il modo più sicuro, di questi tempi» rispose Fanior, senza deviare nemmeno di una sillaba dal copione precedente. «Com’è andata la sua missione?».

   «Come temevo... una perdita di tempo» sospirò Chase. «Che mi dice della sua?».

   «Altrettanto infruttuosa» disse l’Ambasciatore. «La Coalizione si sente l’acqua alla gola ed è sempre più restia a uscire dalle sue roccheforti. Non posso biasimarla... ma le darò i dettagli quando saremo di nuovo sull’Enterprise» disse, muovendo qualche passo verso la scogliera. «Bel panorama, non trova?» domandò, accennando al tramonto che tingeva il mare d’arancione. Anche se le sue braccia erano rilassate, si teneva pronto a estrarre nuovamente il phaser.

   «Bello come una partita di kal-toh fra ciechi» contestò Chase in tono aspro. «I pianeti come questo sono adatti alle olo-cartoline, non a viverci».

   «Siete voi umanoidi che avete la pelle delicata» ribatté Fanior con la stessa durezza. Era l’ultima frase in codice, per confermare che anche lui era ciò che appariva. L’Ambasciatore e il Capitano si fissarono per qualche secondo con soddisfazione. Poi si strinsero calorosamente la mano.

   «Bentornato, amico mio» disse Chase. «Spero di non averla fatta aspettare troppo».

   «Non mi sono annoiato» assicurò Fanior. «All’intrattenimento ha pensato il nostro amico trasformista».

   «Shado era qui?» s’incupì Chase.

   «Col suo aspetto, Capitano. E con una replica dell’Auriga» rivelò il Kelvano. «Ma non si preoccupi, le frasi in codice hanno funzionato anche stavolta. Li abbiamo disintegrati prima che facessero danni. Nessuna contaminazione del pianeta. Una faccenda d’ordinaria amministrazione» disse con noncuranza.

   «Uhm... non lasciamo che l’abitudine ci faccia abbassare la guardia» consigliò Chase. «La frequenza dei tranelli sta aumentando. È chiaro che Shado vuole arrivare all’Enterprise. A proposito... se avessi avuto un vuoto di memoria, poco fa, mi avrebbe disintegrato?».

   «Certo, come ho fatto col clone Scourge» rispose Fanior, impassibile.

   «Devo ricordarmi di non mandarla mai in missione con Grenk; a volte si dimentica le parole d’ordine» disse il Capitano. «Beh, l’Enterprise dovrebbe arrivare tra poco. Speriamo che nel frattempo Shado non attacchi ancora. Se torniamo sani e salvi, mi sa che non organizzerò più missioni senza copertura».

   «Non dovremmo esporci così tanto, se la Flotta ci mandasse qualche nave in appoggio» commentò Fanior diplomaticamente.

   «Temo che questo non sia all’orizzonte» sospirò Chase.

   «Forse i suoi superiori non comprendono l’importanza della nostra presenza qui» notò l’Ambasciatore.

   «Non la comprendono di sicuro» corresse il Capitano, lasciando trapelare la frustrazione. In tre anni da quando aveva lasciato la Via Lattea, l’Enterprise non aveva ricevuto alcun rinforzo. Nessun’altra nave della Flotta Stellare l’aveva raggiunta, sebbene Chase avesse chiesto più volte aiuti. Con Shado che continuava a espandersi, la situazione era ormai insostenibile. Il Capitano vedeva le sue risorse assottigliarsi e sapeva che presto avrebbe dovuto prendere una decisione drastica sulla loro permanenza in Andromeda.

 

   Entrati nell’Auriga, la più spaziosa delle due navette, il Capitano e l’Ambasciatore attesero per circa un’ora, scambiandosi i dettagli delle loro missioni. Nel frattempo i piloti tenevano d’occhio i sensori. Finalmente ci fu un bip.

   «L’Enterprise è entrata nel sistema» riferì il pilota. «La traccia di cavitazione corrisponde». Malgrado i suoi sforzi di mascherarsi, Shado non era ancora riuscito a imitare perfettamente la segnatura energetica delle altre astronavi.

   «Bene, decolliamo» ordinò Chase.

   «Signore, l’Enterprise non è sola» avvertì il pilota. «Rilevo un’altra traccia di cavitazione... si direbbe federale» aggiunse con stupore. Si girò perplesso, come se si aspettasse una conferma da parte del Capitano.

   «Forse la Flotta ha finalmente compreso l’importanza di questa missione» commentò Fanior.

   «Forse» disse Chase. Ormai sapeva che quando una cosa è troppo bella per essere vera... in genere non è vera.

 

   A dieci anni dal varo originale e a tre dalla ristrutturazione, l’Enterprise-J era ancora una delle astronavi più moderne e potenti dell’Unione Galattica. Il suo scafo scuro, dalle forme aggraziate, spiccava contro il vortice bianco di Tifone. L’enorme sezione a disco splendeva come una città. Ospitava infatti gli alloggi in cui vivevano le famiglie dell’equipaggio e altri civili, disposti concentricamente intorno al modulo della plancia. Le gondole quantiche, lunghe e sottili, permettevano all’Enterprise di attraversare una galassia vasta come Andromeda. Per gli spostamenti ancora più rapidi c’era il propulsore cronografico, capace di traslare istantaneamente la nave da un punto all’altro, sempre che la destinazione fosse sgombra. Dotata degli armamenti più micidiali e degli scudi più resistenti della Flotta, l’Enterprise era una fortezza imprendibile. La sua Intelligenza Artificiale, Terry, le permetteva d’imparare dagli errori e d’escogitare strategie sempre nuove, adattandosi a ogni evenienza.

   In confronto all’Enterprise, la Nautilus appariva minuscola e insignificante, sebbene in realtà fosse anch’essa una nave di ultima generazione. Era un vascello scientifico dall’insolita configurazione, con la sezione a disco sviluppata in verticale, a richiamare una conchiglia. Il suo propulsore cronografico le aveva permesso di coprire in poco tempo l’enorme distanza fra le due galassie. Il difficile era trovare l’Enterprise dopo essere giunti in Andromeda. Per fortuna Chase aveva fatto in modo che la Flotta sapesse dove trovare la Coalizione, l’unico intermediario che poteva riunire le navi federali all’insaputa di Shado.

   «La Nautilus! Non è granché, come rinforzo» borbottò Fanior, mentre l’Auriga si dirigeva verso l’hangar principale dell’Enterprise. La Hornet li seguiva a breve distanza.

   «Sarà qui per darci rifornimenti. È da un pezzo che sollecito la Flotta» disse Chase, ma osservando la piccola nave scientifica fu colto da un brutto presentimento. Il fatto che l’Unione non inviasse aiuti militari concreti significava che ancora non voleva impegnarsi seriamente in Andromeda.

   Rientrati a bordo, Chase e Fanior furono accolti da Terry, la proiezione isomorfa che era al tempo stesso il computer di bordo e l’Ufficiale Scientifico. «Bentornato, Capitano. Ambasciatore...» salutò rispettosamente l’IA. «Avrete visto che abbiamo compagnia. Se non siete stanchi, vi pregherei di venire in sala tattica per l’aggiornamento».

   «No, vengo subito» disse Chase, appena sceso dalla navetta. «Come sta mia moglie?» chiese, non vedendola nell’hangar.

   «Sta facendo la visita settimanale, ma sta bene» assicurò Terry.

   «Okay, la raggiungerò dopo la riunione» decise il Capitano. «Ah, prima che mi passi di mente... buon compleanno, Terry».

   «Prego?».

   «Ma sì, oggi è il 12 gennaio. L’Enterprise fu varata esattamente dieci anni fa, nell’Hangar Spaziale Terrestre. Come vola il tempo!» esclamò il Capitano, scuotendo la testa. Era incredibile che fossero passati dieci anni interi... i più intensi della sua vita. In quel periodo avevano combattuto due guerre, prima contro il Fronte Temporale e ora contro la Scourge. Chase si sfiorò la corta barba, dove facevano capolino i primi peli grigi. Stava cominciando a invecchiare, ma Terry era come l’aveva vista la prima volta: una donna minuta, dai corti capelli corvini e i lineamenti orientali. I grandi occhi neri, dal taglio obliquo, spiccavano sul viso liscio e cereo. Terry era senza età... Terry sarebbe vissuta per sempre, se qualcosa non distruggeva il suo processore centrale, nel cuore dell’astronave.

   «In realtà, signore, la mia prima attivazione risale a cinque anni prima, quando iniziarono i lavori a Utopia Planitia» corresse l’IA, accompagnando il Capitano fuori dall’hangar. «Ma ho subìto upgrade fino a tre giorni prima del varo... e anche in seguito, se è per questo. In effetti non ho una data di nascita precisa».

   «Pensavo che lei s’identificasse con questa nave» intervenne Fanior, accennando alle paratie intorno a loro. «Non diceva che il suo corpo è lo scafo dell’Enterprise, più che quest’ologramma che ci mostra?».

   «Le cose cambiano» rispose Terry a mezza voce.

   «Beh, comunque sia ci terrei a organizzare una festa di compleanno» disse Chase. «Niente di che, solo una festicciola tra amici. Potremmo andare al ristorante di Raav...».

   «Se per lei è lo stesso, preferirei il ristorante giapponese» disse Terry inaspettatamente. «Da quando ho scoperto il sushi e gli altri piatti della mia terra, non posso farne a meno».

   Chase la guardò interdetto. Non aveva mai sentito Terry riferirsi al Giappone come “la sua terra”. L’Intelligenza Artificiale era stata creata nei laboratori di Marte e completata nell’orbita terrestre. Il fatto che avesse sembianze asiatiche era una scelta puramente estetica: altre Intelligenze Artificiali imitavano diverse etnie umane o aliene. Terry non aveva mai sentito il bisogno d’identificarsi con una cultura precisa, fino a quel momento. Ma forse non era così insolito, si disse il Capitano. Da quando Terry aveva conosciuto Sunny, era cambiata in molte cose.

 

   Giunti in sala tattica, trovarono gli altri ufficiali superiori già raccolti intorno al tavolo ad anello. Mancava solo Neelah. In compenso c’era Sunny, l’essere che avevano creato assieme a Shado nel Cervello Matrioska. Aveva l’aspetto di un Proto-Umanoide, col cranio calvo e allungato, dai lineamenti infossati; ma brillava d’oro dalla testa ai piedi. Il suo corpo, come anche la tuta che indossava, era interamente composto da naniti della Scourge. All’ingresso del Capitano, Sunny fu l’unico a non mostrare apprensione; rimase sereno come al solito.

   «Tutto bene, signore?» chiese Lantora, l’Ufficiale Tattico, scattando in piedi.

   «Bene nel senso che siamo qui» rispose Chase, accennando anche a Fanior. «Ma le nostre missioni sono state un fiasco. E al ritorno il nostro amico di pece ha cercato di spacciarsi per me».

   «Lo temevo... Capitano, non deve più esporsi in questo modo» raccomandò lo Xindi Primate. «Andromeda è più pericolosa adesso di quando siamo arrivati».

   «Questa è stata l’ultima volta» promise Chase, prendendo posizione al tavolo tattico. «Allora, che mi dite della Nautilus?».

   «Ci ha raggiunti poche ore fa» spiegò Ilia Dax, il Primo Ufficiale. «Ha inviato un messaggio del Comando... abbiamo aspettato che tornasse per visionarlo» aggiunse la Trill.

   «Va bene, vediamolo» disse Chase.

   Nello spazio vuoto al centro del tavolo ad anello apparve un ologramma. Era una Bajoriana un po’ avvizzita, con una grossa crocchia grigio ferro. «Qui è l’Ammiraglio Rota Falas; vi porgo i saluti del Comando di Flotta e di tutta l’Unione» esordì. «Sono passati tre anni dall’inizio della vostra missione. Tre anni in cui vi siete confermati come il nostro più grande baluardo contro le minacce dello spazio esterno. Gli scienziati dell’Unione lavorano giorno e notte sui dati che ci avete mandato. Le difese vengono implementate in base ai vostri suggerimenti. La vostra missione è un successo che entrerà negli annali della Flotta Stellare».

   «Adesso arriva la fregatura» disse Grenk, l’Ingegnere Capo. Come tutti i Tellariti, non aveva peli sulla lingua.

   «Ma l’ascesa di Shado ci obbliga a ripensare profondamente la nostra strategia» proseguì l’Ammiraglio, confermando i timori. «Ora che grazie ai Nacene abbiamo canali di contatto con la Coalizione, i benefici della vostra presenza in Andromeda sono inferiori al rischio che Shado riesca a sopraffarvi. Ciò che potevate fare ormai lo avete fatto. Restando dove siete non cambierete le sorti del conflitto; in compenso vi esponete alla Melma Nera. È un rischio non solo per voi, ma per tutta l’Unione. Se Shado ottenesse il vostro database, scoprirebbe tutto ciò che gli serve per invadere la Via Lattea. Capirete che è un rischio intollerabile. Pertanto vi ordino di rientrare immediatamente».

   Un «Oh!» di costernazione percorse il tavolo tattico. Gli ufficiali si guardavano l’un l’altro, increduli che la missione dovesse finire così. C’erano ancora troppe cose da fare... non potevano mollare tutto. Non ora che Shado guadagnava terreno.

   «La Nautilus porta rifornimenti per la Coalizione di Andromeda» proseguì l’ologramma, insensibile alle reazioni che aveva suscitato. «Consegnateli ai nostri alleati e garantite loro che ci terremo in contatto. Ma non fate promesse sulle capacità d’accoglienza dell’Unione, se dovessero perdere completamente Andromeda» raccomandò. «I nostri mondi cominciano appena a riprendersi dalla Guerra delle Anomalie. Miliardi di rifugiati aspettano ancora di tornare alle loro case e altri miliardi non ci torneranno mai. Non possiamo – nel modo più assoluto – sobbarcarci un’altra migrazione di queste proporzioni. Sarebbe il crollo dell’Unione» sottolineò in tono categorico. «Quindi non prendete impegni e tornate alla svelta. L’Enterprise ci serve qui. La vostra esperienza nel combattere la Scourge ci sarà indispensabile per approntare le difese. Così saremo pronti, se... dovesse arrivare». L’Ammiraglio s’incupì e per un attimo perse il cipiglio autoritario che l’aveva caratterizzata fino a quel momento.

   «Un’altra cosa: gradiremmo che ci portaste l’umanoide Sunny, o almeno un campione di Melma Dorata» riprese la Bajoriana. «Dai vostri rapporti è chiaro che si tratta della difesa più efficace contro quella Nera. Quindi dobbiamo averne una scorta adeguata. Penso che Sunny comprenderà la nostra necessità. In caso contrario, ricordategli che deve a voi la sua esistenza».

   Una lieve ruga comparve sulla fronte dorata di Sunny. Evidentemente l’Ammiraglio non si aspettava che partecipasse alle riunioni tattiche, o avrebbe riservato il messaggio al solo Capitano.

   «È tutto, direi» proseguì la graduata. «Non se la prenda, Capitano Chase... come le ho detto, quest’ordine di rientro non è una critica nei suoi confronti. Anzi, siamo soddisfatti di come ha gestito la situazione, disponendo di una sola nave in una galassia ostile. In via confidenziale, le dico che la sua promozione ad Ammiraglio è praticamente cosa fatta. E ci saranno opportunità anche per gli ufficiali superiori. La Flotta Stellare sta varando nuove astronavi e ci servono comandanti esperti. A presto, dunque; attendo con ansia di rivedervi. Ammiraglio Rota, chiudo».

   L’ologramma svanì, lasciando gli ufficiali liberi di scambiarsi occhiate imbufalite. Non era certo la reazione prevista dall’Ammiraglio.

   «Cos’è, uno scherzo?!» ringhiò Lantora, rosso in viso. «Diamo qualche caramella alla Coalizione e scappiamo prima che arrivi Shado? Lasciamo i nostri alleati a vedersela con quel demonio e andiamo a fortificare il nostro castelluccio?».

   «Questi ordini sono illogici in modo sconcertante» rincarò T’Vala, la timoniera. «Se ci ritiriamo ora che le cose peggiorano, la Coalizione non vorrà più saperne di noi. Perderemo ogni aggiornamento sulla situazione di Andromeda. E se ci sarà un esodo verso la Via Lattea, non potremo certo impedirlo» aggiunse la mezza Vulcaniana.

   «È un’infamia» disse Fanior, ancora più drastico. «L’Unione vuole abbandonarci e come buonuscita ci dà un singolo carico. Le minuscole stive della Nautilus dovrebbero soccorrere una galassia! Ah! Se non ci avesse mandato nessun aiuto, l’Unione avrebbe conservato più dignità».

   «E cerca pure di blandirci con le promozioni!» sbuffò Grenk. «Se anche dirigessi i cantieri di Plutone non troverei pace nel letto, sapendo che situazione c’è qui!».

   «Io potrei seguirvi sulla Terra» disse Sunny, unica voce conciliante in mezzo a tante proteste. «Il resto della Melma Dorata rimarrebbe qui a contrastare Shado. Potrei espandermi nella Via Lattea, così quando Shado arriverà sarò più diffuso di lui e potrò respingerlo». Scambiò un’occhiata incerta con Terry.

   «Non credo che l’Unione ti lascerà creare grandi quantità di Melma Dorata sui suoi pianeti» disse l’IA. «In fondo è sempre Scourge... avranno il timore irrazionale che sia pericolosa come l’altra. Così i benefici della tua presenza saranno vanificati».

   Il Capitano ascoltò le proteste senza interromperle. Era furioso quanto i suoi ufficiali e voleva permettere loro di sfogarsi. Ma scambiando un’occhiata con Ilia, lesse nei suoi occhi saggi di Trill Unito ciò che anche lui sapeva. «Signori, condivido il vostro pensiero» disse appena l’onda d’indignazione si fu attenuata. «Ma siamo parte della Flotta, anche se negli ultimi anni abbiamo avuto l’impressione di esserne tagliati fuori. Questo messaggio ci ricorda i nostri obblighi. È stato il Comando di Flotta a inviarci in Andromeda, e il Comando può richiamarci quando preferisce».

   «Perciò intende seguire gli ordini?» chiese Fanior, incredulo. «Vi prendete Sunny e ci abbandonate nell’ora più buia?».

   «Tornato al Comando, spiegherò la situazione e premerò perché invii altre navi» promise Chase. «Ma non la stiamo abbandonando, Ambasciatore. Lei è nato nella Via Lattea e vi tornerà con noi. Il suo compito era aiutarci a contattare i Kelvani e l’ha svolto egregiamente».

   «Ma ora che sono qui, ho altre responsabilità» obiettò Fanior con impazienza. «Il mio popolo è sull’orlo dell’estinzione. Shado si avvicina a Kelva Primo. Con che animo tonerei alla mia piccola colonia? Non ho nemmeno una famiglia che mi aspetti. Quella che avevo è perita nella Guerra delle Anomalie» ricordò con voce dura.

   «Torni con noi, la prego. Può fare molto per la sua gente, anche nella Via Lattea» disse Ilia. Tra gli ufficiali era quella che aveva fatto più amicizia con Fanior, aiutata dalla sua secolare esperienza nel trattare con gli alieni.

   «No, Comandante» disse Fanior, tradendo un sincero dispiacere. «Voi appartenete alla Flotta e dovete obbedirle... lo capisco. Io però sono Kelvano: i miei obblighi riguardano solo la mia gente. Perciò vi chiedo di sbarcarmi a Kelva, prima di tornare a casa».

   «Preferirei lasciarla in un posto più sicuro» disse Chase.

   «Al ritmo con cui si espande Shado, presto non ci saranno posti sicuri in nessuna delle due galassie» obiettò Fanior. «Con permesso, Capitano...» disse, facendo per ritirarsi.

   «Un momento» lo fermò Chase. «Terry, ci mostri la situazione tattica, aggiornata coi dati della Coalizione e delle nostre sonde».

   Al centro del tavolo apparve un nuovo ologramma, fluttuante a mezz’aria. Mostrava Andromeda con evidenziate in rosso le zone controllate da Shado. L’entità oscura era forte soprattutto nel nucleo, ma avanzava verso la zona della periferia in cui si concentravano le basi della Coalizione. Lo spazio rosso non era tutto contiguo, perché spesso Shado infettava pianeti lontani, trasformandoli in nuovi centri d’espansione. Perciò oltre alla principale zona rossa, cresciuta intorno al perduto Cervello Matrioska, c’era una moltitudine di chiazze più piccole. Si stavano tutte espandendo, cercando di congiungersi e di schiacciare le sacche di resistenza.

   «Tempo stimato perché Shado raggiunga Kelva Primo?» chiese il Capitano.

   «Sei o sette mesi, se continua a espandere la Zona 32 al ritmo attuale» rispose Terry. «Ma è probabile che sferri un attacco molto prima. Purtroppo non abbiamo dati precisi su quest’area» disse, evidenziando la porzione di spazio fra la chiazza rossa e Kelva.

   «Sarebbe dove ci troviamo adesso» notò Ilia.

   «Esatto». Terry evidenziò la posizione di Tifone.

   «Potremmo lanciare qualche sonda. O costruire un sensore subspaziale sulla superficie del pianeta» propose Grenk. «Sempre che non si debba mollare tutto all’istante» aggiunse, fissando il Capitano con aria di rimprovero.

   «Gli ordini sono chiari, ma... il Comando è in un’altra galassia e non sa come vanno le cose qui» ragionò Chase. «Se dobbiamo andarcene sarà un disimpegno graduale e non una fuga improvvisa. Costruiamo il sensore subspaziale e facciamo in modo che la Coalizione possa servirsene. Poi andremo a Kelva, per sbarcare l’Ambasciatore e spiegare la situazione» decise.

   «Vuol darci un altro regalino d’addio?» chiese Fanior, sarcastico.

   «Un sensore subspaziale in questa zona vi darà il tempo d’evacuare Kelva, se Shado avanzerà più in fretta del previsto» notò Ilia. «È un’opportunità da non disprezzare».

   «Ha ragione... scusatemi» disse Fanior, rivolto a tutti i presenti. «Avete già fatto moltissimo per Andromeda. Vorrei solo che il Comando rendesse giustizia ai vostri sforzi». L’Ambasciatore si ritirò, lasciando i federali a discutere i dettagli del sensore.

 

   Conclusa la riunione, Chase si recò nell’infermeria principale dell’Enterprise, bianca e asettica come sempre. Salutò il personale, fermandosi un attimo con la dottoressa Vash’Tot. «Allora, come sta Neelah?» le chiese.

   «Bene, l’ultima visita non ha evidenziato problemi» rispose la Ktariana. «Naturalmente è un po’ affaticata; nelle sue condizioni è inevitabile. Tutti noi le diciamo che non dovrebbe lavorare, in quest’ultimo periodo. Ma sa com’è fatta...».

   «Sì, lo so bene» sospirò Chase. «Almeno lavora qui, così se avesse problemi siete pronti a intervenire. Comunque le parlerò». Lasciò la dottoressa e si recò in una saletta più piccola, l’ufficio del Medico Capo. Qui trovò Neelah, seduta dietro la sua scrivania, tra una montagna di strumenti, d-pad e oloschermi.

   L’Aenar puntò le antenne verso di lui, senza però alzare gli occhi dal suo lavoro. «Sei tornato» constatò con voce incolore.

   «Sai che non riesco a starti lontano» ribatté Chase, buttandola sul ridere.

   «Com’è andata la missione?».

   «Come temevo. Anche i Wiwaxia preferiscono stare nascosti, nel loro caso sott’acqua, aspettando tempi migliori. Almeno ci ho provato» disse il Capitano, facendo spallucce.

   «E non hai corso pericoli?».

   «Nooo, che dici? È andato tutto liscio come l’olio» fece l’Umano, sperando che la telepate non gli leggesse la mente.

   «Quindi quel clone Scourge era lì solo per farti un saluto?» chiese Neelah, alzando finalmente gli occhi dalla scrivania e trafiggendolo col suo sguardo di ghiaccio.

   «Uh, come volano le notizie» commentò Chase. «Forse ti hanno male informata. Il clone Scourge non l’ho nemmeno visto. È stato Fanior a sbarazzarsene. Sì, ha pensato lui a tutto» assicurò, avvicinandosi di qualche passo.

   «Fanior è in gamba» riconobbe l’Aenar. «Poteva portarsi a bordo la Scourge e uccidere te. Invece ha visto giusto anche stavolta. La domanda è... quante altre missioni farai, prima che qualcuno dei nostri si confonda? O che Shado ti metta con le spalle al muro?».

   «Nessuna. Questa era l’ultima, te lo prometto» disse Chase, prendendole le mani. Le fedi nuziali scintillarono al dito di entrambi.

   «Non fare promesse che non puoi mantenere» disse Neelah, ancora tagliente.

   «No, dico sul serio» insisté il Capitano. «La Nautilus ci ha portato un messaggio dal Comando. Ordine di rientro. Torniamo a casa».

   «Dici sul serio?!» si emozionò Neelah, spalancando gli occhi. «Non ci sono tranelli?».

   «No» assicurò Chase. «Prima costruiamo un sensore subspaziale su Tifone per monitorare la Scourge in questo settore. Poi passiamo da Kelva per sbarcare Fanior – non c’è verso di farlo restare – e dire addio alla Coalizione. E poi via, da Kelva alla Terra in pochi balzi del propulsore cronografico».

   «Bene... mi sento sollevata» disse Neelah, respirando a fondo. «Un momento... la Flotta invierà qualcuno a sostituirci?» chiese, agitandosi di nuovo.

   «Macché. Al ritorno pesterò i piedi col Comando, ma... da come parlava l’Ammiraglio, danno già Andromeda per spacciata. E probabilmente hanno ragione» disse Chase con gravità. «Lantora e gli altri sono infuriati. Hanno preso molto a cuore le sorti della Coalizione».

   «E tu che ne pensi?».

   «Ragionando a mente lucida, credo che la Flotta non dovrebbe mollare Andromeda... anche se in effetti non so che potrebbe fare contro Shado» sospirò Chase. «Poi guardo te e mi dico che è un bene andare a due milioni d’anni luce da quel demonio. Specialmente adesso» aggiunse, dandole un’occhiata significativa.

   «Che intendi?» chiese ancora l’Aenar.

   «Lo sai benissimo. Non dovresti nemmeno lavorare in questi giorni. Invece ti trovo qui, sommersa di progetti come al solito...» la rimproverò Chase.

   «Ehi, calmati. Non sono un’invalida!» obiettò Neelah con trasporto.

   «Ma sei comunque in una fase delicata...».

   «E credi che me lo sia scordata?!» gemette Neelah, alzandosi di scatto. I larghi abiti premaman enfatizzavano il pancione da nono mese. Nel corso della sua vita, l’Aenar era stata molte cose: bambina prodigio, telepate, agente segreto, insegnante, consulente della Flotta, Ufficiale Medico Capo. Ma adesso era qualcosa di più importante... qualcosa che faceva impallidire ogni altro progetto. Ci era arrivata per gradi, prendendosi il tempo per riflettere su ogni passo. Da dieci anni Neelah viveva sull’Enterprise. Da otto era la compagna di Chase. Da tre era sua moglie. E da quasi nove mesi... era madre.

 

   Neelah si era imposta di mantenere la calma, in quell’incontro, ma capì che era impossibile. Ogni volta che pensava ai pericoli che la sua creatura correva lì ad Andromeda, l’angoscia le mozzava il fiato e le faceva battere il cuore all’impazzata. Corse dal marito e l’abbracciò forte. «Sai, oggi ho sentito di nuovo scalciare» spiegò, tirando su col naso. «Manca davvero poco. Per quanto abbia a cuore la Coalizione, non voglio che nostra figlia nasca in questa galassia da incubo, dove ogni pozzanghera ti può uccidere. Voglio che stia al sicuro... sulla Terra o su Andoria, non ha importanza. Ti sembro un’egoista?».

   «Assolutamente no» disse Chase, restituendole l’abbraccio. «Anch’io voglio proteggere nostro... aspetta, hai detto figlia?! Avevamo deciso di non...».

   «Al diavolo la sorpresa, volevo sapere come stanno le cose» tagliò corto Neelah. «E poi tutti mi tartassano di domande per sapere di che colore devono essere i vestitini».

   «Una figlia...» mormorò Chase, lasciando sedimentare la notizia. «Beh, lieto di saperlo. Ora potresti stringere di meno? Ho difficoltà a respirare».

   «Scusa» disse l’Aenar, lasciandolo andare. Quando si emozionava perdeva il controllo della sua forza, moltiplicata da anni di potenziamenti genetici. Almeno si era tolta le nanosonde Borg dal flusso sanguigno. Era stata una decisione sofferta, perché ormai le considerava parte di sé e temeva che privarsene l’avrebbe indebolita. Quelle nanosonde erano il suo primo progetto scientifico: se le era iniettate a diciassette anni, per curare la sua cecità congenita. Da allora l’avevano salvata parecchie volte, cicatrizzando le ferite e combattendo le infezioni aliene. Neelah non pensava che se le sarebbe mai tolte. Ma un giorno lei e il marito avevano fatto qualche conto. Nessuno dei due era più un giovincello: Alexander si avvicinava ai cinquant’anni, Neelah ai quaranta. Se non avevano subito un figlio, non l’avrebbero avuto mai. Anche se la medicina aveva prolungato la vita e il periodo fertile, c’erano limiti di sicurezza che era meglio non superare. Tra l’altro, Umani e Andoriani erano così diversi da rendere difficili gli incroci. Ma erano pur sempre eredi dei Proto-Umanoidi, per cui avevano abbastanza marcatori genetici comuni da renderlo possibile. Così, presa la decisione e fatti gli esami necessari, Neelah si era tolta le nanosonde, per evitare che potessero nuocere al bambino. E finalmente era rimasta incinta. Da allora, gioia e timore erano aumentati di pari passo, man mano che si compivano i mesi.

   «Beh, ora devo andare... tu cerca di non affaticarti troppo» raccomandò Chase.

   «Aspetta, prima voglio mostrarti una cosa!» disse Neelah tutta emozionata. Tornò alla scrivania e digitò alcuni comandi sull’oloschermo. Gli emettitori olografici dell’ufficio si attivarono, mostrando una ragazza vestita di scuro. Era snella e minuta, con grandi occhi azzurri che spiccavano sul viso liscio. Aveva la pelle chiarissima e i capelli biondo platino, quasi bianchi, da cui facevano capolino due sottili antenne.

   «Non sarà mica...» mormorò Chase, sentendosi le gambe molli.

   «Certo, è lei! Nostra figlia!» disse Neelah in tono rapito. Giunse le mani sul petto, intrecciando le dita, e si avvicinò per osservarla da tutti i lati. «Questa è un’estrapolazione del suo aspetto a diciott’anni, basata sul suo DNA. È... è perfetta!» gioì, senza staccarle gli occhi di dosso nemmeno per un istante.

   «Uhm... vedo che ha le antenne» notò Chase.

   «Certo, è un problema?».

   «No, no, va benissimo. Temevo che ne avesse solo una al centro della testa, ma così va bene» scherzò Chase, incapace di trattenersi. Neelah gli rifilò una gomitata nello stomaco.

   «Tutto è partito da un’analisi del DNA connesso agli occhi e alla vista» spiegò l’Aenar. «Volevo sapere se sarebbe nata cieca, come me. In tal caso avrei potuto curarla, ovviamente, ma... non sarebbe stata una bella cosa».

   «No, per niente» convenne Chase.

   «Per fortuna ha preso gli occhi da te. E le antenne da me!» gongolò Neelah, tornando a rimirarla. «Poi mi sono chiesta se avrebbe avuto le mie facoltà telepatiche. Quelle sono più difficili da stimare, basandosi solo sul genoma, perché ci sono un sacco di fattori ambientali da considerare. Ma credo che col dovuto addestramento avrà un livello ESP rispettabile, fra 7 e 9. Poi naturalmente ho voluto accertarmi che non avesse difetti genetici... insomma, poco alla volta le ho analizzato tutto il DNA. E mi sono detta: perché non elaborarlo in un ritratto?».

   «Ehi, calmati!» disse Chase, cingendola col braccio. «Nostra figlia non è ancora nata e già la stai caricando d’aspettative. Lascia che sia se stessa, senza paragonarla ad altri... nemmeno a te. Se anche avesse un ESP 0, sarà sempre la nostra tesoruccia».

   «Ma certo» annuì Neelah, guardandolo commossa. «È solo che vorrei il meglio per lei. Ma siamo stati fortunati, non ha nessuna patologia genetica. E anche in quel caso, sarei intervenuta solo per problemi gravi. È nostra figlia, non uno dei miei stupidi esperimenti. Non voglio che sia diversa da com’è» assicurò.

   «Bene... allora non resta che decidere il nome» disse Chase.

   «Ci stavo pensando, infatti. Visto che avrà il tuo cognome, che ne diresti di darle un nome Andoriano?».

   «Nulla in contrario. Hai già qualche idea?».

   «Anche troppe, non riesco a decidermi» ammise l’Aenar. «Ma per restringere il campo, potremmo darle un nome che inizi con J. Per ricordare l’Enterprise-J, la nave che ci ha uniti» sorrise, accennando alle paratie intorno a loro.

   «È un bel pensiero... Terry ne sarà lusingata» approvò il Capitano.

   «Ci sono tanti bei nomi andoriani che iniziano per J» proseguì Neelah, incoraggiata. «Jhamel, Jetha, Jaylah... devo pensarci!» esclamò, con gli occhi che brillavano.

   «Riflettici con calma. A stasera» disse Chase. La baciò in fronte e lasciò l’ufficio. Quando fu sulla soglia indugiò qualche secondo, per osservare di nuovo l’ologramma di sua figlia. Ancora poco e l’avrebbe avuta tra le braccia, si disse: la sua tesoruccia con le antenne!

 

   Nei tre giorni seguenti, l’equipaggio dell’Enterprise lavorò alacremente alla costruzione del sensore subspaziale su Tifone. Il capitano della Nautilus avrebbe preferito tornare subito nella Via Lattea, ma una chiacchierata con Chase lo convinse a fare quest’ultimo sforzo per la causa. Di conseguenza alcuni marinai della Nautilus scesero su Tifone, per aiutare Grenk e la sua squadra nei lavori. Altri salirono sull’Enterprise, per consegnare rifornimenti e aiutare l’equipaggio in piccole riparazioni. Era anche un modo per offrire un po’ di svago a quelli dell’Enterprise, facendo loro incontrare facce nuove, dopo che per tre anni erano stati fianco a fianco con le stesse persone. La Nautilus, inoltre, trasmise notizie aggiornate sull’Unione Galattica e lettere di amici e parenti. Per chi affrontava da anni gli orrori di Andromeda, era una boccata d’aria fresca.

   Fu in queste circostanze che T’Vala fu avvicinata da un’ufficiale della Nautilus. «Il Tenente Shil?» le chiese, incrociandola in un corridoio.

   «Sono io. Posso esserle utile?» chiese T’Vala, studiando l’interlocutrice. Era una Vulcaniana della sua stessa età, con i gradi da Tenente della sezione Sicurezza. C’era qualcosa di familiare nella sua voce, eppure T’Vala non ricordava d’averla mai vista.

   «Veramente spero di esserlo io per lei. Sono il Tenente Lyra, della Sicurezza federale. Lunga vita e prosperità» disse la Vulcaniana, sollevando la mano nel tradizionale saluto a V del suo popolo.

   «Anche a lei» rispose T’Vala, imitando prontamente il gesto. «Allora, di che si tratta?».

   «Devo informarla che la Sicurezza ha riaperto il fascicolo sull’attentato di Rutia IV in cui morirono sua madre, Xilana Shil, e i quattro ufficiali della scorta» rispose Lyra, impassibile.

   T’Vala impallidì. Aveva la sensazione che le pareti del corridoio si chiudessero su di lei e che l’aria non riuscisse più a entrarle nei polmoni. La morte di sua madre, quando aveva sette anni, era stata il peggior trauma della sua vita. Aveva posto fine all’infanzia dorata su Betazed, quando tutto era gioia e spensieratezza. Suo padre Sirok l’aveva portata con sé su Vulcano, dandole un’educazione ben più austera ed esigente. Pur avendo appreso la filosofia vulcaniana e molte delle tecniche tradizionali, come la Fusione Mentale e la Presa al Collo, T’Vala si era sempre rifiutata di seguire il kolinahr e privarsi delle emozioni. Sapeva che sua madre non l’avrebbe voluto.

   «È ridicolo» disse la timoniera, riprendendosi. «Quell’attentato avvenne 33 anni fa. Le indagini si chiusero dopo poche settimane, con l’arresto dei responsabili».

   «Con l’arresto degli esecutori» corresse Lyra. «Il mandante non fu mai trovato. Ora abbiamo una nuova pista... ma forse non è il caso di parlarne qui» aggiunse, accennando ai marinai che passavano accanto a loro nel corridoio.

   «No, infatti» convenne T’Vala. Stava per invitarla nell’alloggio dove viveva con Lantora, ma cambiò idea. Non voleva che il marito le sorprendesse a parlare dell’argomento. Preferiva esserne informata a parte e poi metterlo al corrente con calma, senza quel terzo incomodo. Pensò in fretta dove potevano appartarsi, scartando un’opzione dopo l’altra. Le aree pubbliche dell’Enterprise erano affollate, a quell’ora, e non voleva che altri sentissero quella faccenda personale.

   «Siamo vicini alla stiva 2» notò Lyra, che per essere una nuova arrivata sembrava conoscere piuttosto bene l’Enterprise. «Se per lei va bene, possiamo andare lì».

   «D’accordo» acconsentì T’Vala, precedendola di buon passo. Presto l’Enterprise sarebbe tornata nel Quadrante Alfa. A quel punto non sarebbe stato difficile prendersi una licenza e andare su Rutia per vederci chiaro. E forse per chiudere i conti con gli assassini di sua madre.

 

   Avvolta da una vestaglia in stile giapponese, con ricamati fiori di ciliegio, Terry andò ad annaffiare i bonsai che teneva nel suo alloggio. L’acqua andava dosata attentamente, come il suolo nei piccoli vasi. Troppo nutrimento avrebbe provocato una crescita eccessiva degli alberelli, rovinandoli come bonsai. D’altra parte, nutrirli troppo poco li avrebbe fatti avvizzire e morire. La giusta misura stava nel mezzo, come in tutte le cose.

   Osservandosi mentre annaffiava gli alberelli, Terry represse un sorriso. Quello che stava facendo era insolito, per un’Intelligenza Artificiale. Anzi, già il fatto d’avere un alloggio era insolito. Le IA delle astronavi non avevano le esigenze degli Organici, come nutrirsi, lavarsi e dormire. Tuttavia le loro proiezioni isomorfe avevano raggiunto un tale realismo che, volendo, potevano imitare anche questi processi. Le ragioni erano puramente sociali. Mangiare assieme ai colleghi permetteva di socializzare con loro, venendo considerati persone anziché macchine. Così i rapporti interpersonali miglioravano notevolmente.

   Nei suoi primi anni di servizio, Terry non aveva sentito la necessità di un alloggio. Le sue proiezioni lavoravano 24 ore su 24 in giro per la nave. Poi una di esse era stata distrutta in missione, mentre era separata dal processore centrale. Al loro ritorno, Ilia e Lantora le avevano spiegato che negli ultimi giorni quella sua proiezione si era umanizzata e l’avevano esortata a fare altrettanto. Siccome anche Chase e gli altri lo consigliavano spesso, Terry ci aveva provato. Il primo passo era stato prendersi un alloggio. Poco alla volta aveva smesso di accendere e spegnere le sue proiezioni, cercando di conservarne una sempre accesa e concentrando lì la maggior parte della sua attenzione. Per spostarsi a bordo usava i corridoi e i turboascensori, come facevano gli Organici, anziché trasferirsi all’istante. Aveva anche cominciato a prendersi cura del suo aspetto, invece di usare le sue capacità olografiche per apparire sempre impeccabile. Quando possibile indossava abiti veri, invece di farseli olografici. Aveva persino cominciato a leggere romanzi, pur conoscendone già la trama (dato che li aveva in memoria). Leggerli lentamente, alla maniera degli Organici, glieli faceva riscoprire. Passo dopo passo, si era lasciata affascinare dalla vita umana... in tutti i suoi aspetti.

   «E così l’Enterprise torna a casa... come pensi che reagirà la tua gente, vedendomi?» chiese Sunny, accostandosi da dietro.

   Terry si girò verso di lui, con il piccolo annaffiatoio in mano. La sua ultima svolta da umanoide era quella: la convivenza. Sunny era l’unica altra Intelligenza Artificiale di bordo. La capiva come nessun’altro. Era nato dalla somma di tutta la bontà dell’equipaggio, come Shado era scaturito dalla malvagità repressa. Sunny era unico... e la faceva sentire unica. Se una catastrofe non li travolgeva, potevano rimanere insieme per sempre.

   «Non credo che ti tratteranno diversamente da come fanno qui sull’Enterprise» rispose Terry. «Naturalmente la Flotta Stellare vorrà studiarti. Ma basta che tu gli dia un campione di Melma Dorata. Non farti mettere in soggezione... e soprattutto stai alla larga dalla Sezione 31» consigliò.

   «Mi tratteranno come qui, eh?» fece Sunny. L’idea non sembrava entusiasmarlo.

   «Perché, qualcuno ti manca di rispetto?» si accigliò Terry.

   «Oh no, al contrario. Sono rispettosissimi... alcuni anche troppo» sospirò l’umanoide dorato. In quella si udì il segnale dell’ingresso. «Ecco, come dicevo... è ancora lei» tremò Sunny.

   «Lasciala fuori» consigliò Terry, riprendendo a innaffiare i bonsai. Alle sue spalle, Sunny stava con la schiena poggiata al muro e una gamba semiflessa. Tutti e due si sforzavano d’ignorare i ripetuti bip della porta.

   «Non possiamo lasciarla continuare» disse infine Sunny, facendo per avviarsi.

   «Aspetta, ci penso io» lo bloccò Terry. I bip cessarono all’istante.

   «Che hai fatto?».

   «Ho disattivato il segnale dell’ingresso» rispose l’IA impassibile.

   «Questa non è una soluzione» si accigliò Sunny. «Anche se non la sentiamo, lei resterà là fuori».

   «Per quanto mi riguarda, può restarci tutta la notte» disse Terry, riponendo l’annaffiatoio vuoto.

   «Non dire così. Senti, io vado... mi fa troppa compassione» cedette Sunny, avviandosi di nuovo verso la porta.

   «Non darle corda, o la incoraggerai a continuare» l’avvertì Terry.

   «Cercherò di farle capire che deve smetterla» ribatté l’essere dorato. Si avvicinò all’ingresso, provocandone l’apertura. Un’Umana gli cadde quasi tra le braccia, tanto era pressata contro la porta. Era bassa e aveva i capelli scuri raccolti in due trecce, più adatte a una ragazzina che a una donna adulta.

   «Finalmente!» esclamò, fissandolo estasiata. «Cominciavo a temere che non ci fossi, Aureo».

   «Signora Murphy... presumo che lei abbia controllato la mia posizione, prima di venire a cercarmi» rispose Sunny con diplomazia.

   «In realtà ho avuto qualche problema... il computer non rispondeva alle mie domande» ammise la donnina.

   «Chissà perché?» fece Sunny, girandosi un attimo per lanciare un’occhiataccia a Terry, che li fissava con le braccia incrociate e l’espressione sdegnata.

   «Non importa... ora che sono qui, le mie sofferenze sono finite, Aureo!» trillò la signora Murphy, contemplando Sunny come se fosse un’icona sacra.

   «Perché continui a chiamarmi così? Il mio nome è Sunny» disse l’umanoide.

   «Ma non ti rende giustizia!» trillò la donnina. «Tu sei così prezioso e nobile... nelle tue sante mani c’è il dono della Guarigione» disse con reverenza, cercando di sfiorargliene una.

   «Le mie mani, come il resto di me, sono fatte di Melma Dorata... cioè di microscopici naniti» corresse Sunny. «Questo mi concede dei poteri curativi, è vero. Ma anche i medici dell’Enterprise sono molto bravi. Qualunque cosa lei abbia stavolta, sono certo che possono occuparsene».

   «Ma io non voglio loro!» frignò la signora Murphy. «Hanno strumenti freddi come i loro cuori. Io cerco il calore e la luce che solo tu puoi darmi. Guarda di che soffro!». Si tirò su una manica, mostrando una serie di chiazze rosse sul braccio. «Pizzicano e prudono in modo insopportabile... aiutami, ti prego!» implorò.

   Sunny le prese delicatamente il braccio e lo osservò con attenzione. «Uhm... sembrano sfoghi da allergia» commentò. «È un problema banale... qualunque infermiere può darle una pomata. L’importante è che capisca a cos’è allergica e se ne tenga alla larga» raccomandò, lasciandola andare.

   «No, non lasciarmi alla porta!» supplicò la signora Murphy. Cadde in ginocchio e levò le mani giunte. «T’imploro, liberami da questo tormento! Sarò tua eterna debitrice. E diffonderò la voce del tuo santo dono».

   «Per carità, lo sanno già in troppi» sospirò Sunny. «Avanti, si alzi... non stia lì in terra» disse, offrendole il braccio.

   La donnina gli si aggrappò come se ne andasse della sua vita. Si tirò su di peso e quando fu in piedi gli rimase appiccicata, con gli occhi spalancati e il respiro ansante. «Allora mi aiuterai?» mugolò.

   «Se proprio devo...» fece Sunny. Diede un’altra occhiata a Terry, che gli faceva segno di no con la testa. Poi si rivolse alla paziente. «Ecco, questo dovrebbe farla stare meglio» garantì, trasmettendole alcuni naniti. Ci volle poco per trovare le cause della reazione allergica e correggerle. Fatto questo, Sunny riassorbì i naniti nel proprio corpo. Non gli andava di lasciarli in giro, tantomeno dentro quell’esaltata. Dietro di lui, Terry scosse la testa e alzò gli occhi al soffitto.

   «Oh, potente Aureo... sento il calore del tuo sacro tocco!» giubilò la signora Murphy, tremando da capo a piedi. «La tua energia mi ha risanata! Grazie... grazie...». Stava piangendo di gioia. Gli sfoghi rossi sul suo braccio cominciavano già a impallidire.

   «Sono naniti, non energia... e come le dicevo, qualunque pomata anallergica avrebbe fatto altrettanto» ribadì Sunny. «Si riguardi, in futuro. Buonasera...». Indietreggiò svelto, facendo richiudere la porta. «Eh, la signora Murphy... che tipo!» ridacchiò, voltandosi. Si trovò di fronte una Terry senza la minima voglia di scherzare.

   «È la quarta volta, questo mese» sbuffò l’IA. «Prima il raffreddore, poi lo stiramento al muscolo, poi i problemi di stomaco... adesso è passata alle allergie. Comincio a credere che lo faccia apposta, per avere il pretesto di vederti. La prossima volta che sarà, un’unghia incarnita?».

   «È solo una persona suggestionabile...» minimizzò Sunny.

   «Se fosse l’unica! Purtroppo è una dei tanti» insisté Terry, che non voleva lasciar cadere l’argomento. «Ormai c’è la processione degli infermi. Trattano il nostro alloggio come se fosse un santuario... e te come se fossi il loro Messia!».

   «Un’imprevista, sfortunata conseguenza delle mie facoltà curative» ammise Sunny, senza più nascondere il problema. «Il giorno in cui mi avete creato, ho curato Neelah dal male che la stava uccidendo. E dopo di allora ho strappato molti altri alla morte. Purtroppo c’è chi l’ha preso come un segno salvifico. Mi domando come sia possibile... tutti i passeggeri dell’Enterprise hanno ricevuto un’istruzione moderna».

   «Ma gli umanoidi non sono logici... a parte i Vulcaniani» obiettò l’IA. «Quando qualcosa dà loro speranza, ci si aggrappano. E non lo mollano più. Io però voglio stare con Sunny, non col Potente Aureo!» sottolineò.

   «Dovrò farlo capire ai miei... ammiratori, anche se non so bene come» ammise Sunny, sconsolato.

   «Trova in fretta il modo, prima che ti mettano sugli altari» disse Terry. Non era una richiesta, ma un ordine.

 

   Quando la signora Murphy tornò al suo alloggio, trovò un’altra proiezione di Terry che l’aspettava davanti alla porta. «E tu che ci fai qui?» le domandò, chiaramente seccata.

   «Voglio chiarire un paio di cosette» disse l’IA, ostruendole il passaggio. «Il suo atteggiamento molesto arreca disagio sia a Sunny che a me. Sunny è troppo... buono per insistere, ma io voglio metterlo in chiaro: deve smetterla d’infastidirci con la sua ipocondria e le sue scenate mistiche».

   «Ma come ti permetti, computer?!» s’inalberò la donnina, facendosi paonazza. «L’Aureo ci è stato inviato per risanare tutti i mali. Ma che ne parlo a fare con te? Dietro quel bel faccino sei solo una macchina; non puoi capire queste cose».

   «Capisco che lei ha una visione distorta della realtà» obiettò Terry. «E forse soffre d’amnesia. Ha dimenticato come abbiamo creato Sunny, tre anni fa? C’era anche lei nel Cervello Matrioska. I suoi schemi mentali sono stati registrati, come quelli di tutti gli altri umanoidi dell’Enterprise. Da quegli schemi amalgamati sono nate le personalità contrapposte di Sunny e Shado. Non c’è nulla di mistico... solo scienza».

   «Credi sia stato il caso a guidarci in quella struttura? Il caso a far amalgamare gli schemi creando Sunny?» obiettò la signora Murphy. «No, carina. Qui siamo di fronte a un disegno più alto. L’Aureo ci libererà dal male della Scourge, come ha liberato me dalle...».

   «Eruzioni cutanee? Temo che la Scourge sia più ostica da debellare» ironizzò Terry.

   «Non ho detto che sarà facile. Sarà una dura prova per l’Aureo... potrebbe anche richiedergli l’estremo sacrificio» disse la donnina, levando solennemente il tozzo indice. Di colpo Terry si sentì tremare. Fra tanti sproloqui, l’Umana ne aveva forse azzeccata una. Sunny e Shado erano stati creati insieme. Forse non era possibile distruggere uno senza sacrificare anche l’altro. «Ma lui è qui per questo» proseguì la signora Murphy. «Ci sta già mostrando la via, ma tu... tu lo distrai!» esclamò, puntandole il dito con fare accusatorio. Dal suo tono, sembrava che la stesse accusando di blasfemia.

   «Io lo distraggo?» ripeté Terry, sbattendo gli occhi incredula.

   «Certo, e non te ne accorgi nemmeno. Sei solo una macchina che finge... che s’illude di essere umana!» accusò la donnina. «Puoi usare tutti i trucchi e le simulazioni del tuo programma... puoi credere alla tua stessa menzogna. Ma non sarai mai come noi. E soprattutto non sei degna di lui! Quindi smetti di distrarlo. Se lo ami veramente, come dici, allora gli permetterai di compiere il suo destino». Una certezza granitica era scolpita nei lineamenti della donna. Le sue parole colpirono Terry come tante sassate.

   «Io non costringo Sunny a fare niente» mormorò l’IA quando si fu ripresa. «Stiamo insieme perché lo vogliamo. Pensi agli affari suoi e la smetta d’intromettersi nella nostra felicità... quel poco che l’Universo ci ha concesso» disse, e svanì senza darle il tempo di ribattere.

 

   In quello stesso momento, T’Vala entrò nell’alloggio che da due anni e mezzo condivideva con Lantora. Trovò il marito seduto sul divano e la cena già in tavola. «Oh, eccoti!» si riscosse lo Xindi, alzandosi. «Stavo per chiamarti. Dov’eri finita?».

   «Sono stata trattenuta... ma è tutto okay» rispose la mezza Vulcaniana, eludendo la domanda.

   «Beh, mentre ti aspettavo ho preparato la cena... tutto col replicatore, naturalmente. Sai che non puoi chiedermi di più, in fatto di cibarie» ridacchiò Lantora.

   «Mmmhhh... va benissimo così» sorrise T’Vala, baciandolo con più trasporto del solito. Lantora ebbe l’impressione che ci fosse qualcosa di diverso in lei. Il taglio di capelli, il profumo... o forse solo l’atteggiamento. «Vado a cambiarmi» disse la mezza Vulcaniana, cominciando già a levarsi disinvoltamente l’uniforme.

   «Attenta, Vrel sta già dormendo» l’avvertì Lantora, prima che accendesse tutte le luci.

   «Come?!» s’irrigidì T’Vala, bloccandosi a un centimetro dall’interruttore.

   «Lo so, non dovrebbe farlo a quest’ora, ma all’asilo mi hanno detto che ha fatto il diavolo a quattro per tutto il giorno» si scusò lo Xindi. «Quando sono andato a prenderlo cascava dal sonno. Così gli ho dato un po’ di pappa ed è crollato all’istante».

   «Oh, Lantora... sai che ci sono degli orari da rispettare!» lo rimproverò T’Vala, riprendendosi subito. «Adesso che dovrei fare, svegliarlo per dargli la cena? O ha già mangiato abbastanza?».

   «Forse è meglio svegliarlo» ammise Lantora. «Altrimenti lo farà lui a mezzanotte e non ci lascerà più dormire».

   «S-sì... prima mi cambio» ripeté T’Vala, stranamente giù di corda.

   Lantora la seguì con lo sguardo, notando che sua moglie sembrava aver dimenticato in quali cassetti teneva i vestiti. «Sai, oggi toccava a te prendere Vrel all’asilo» le ricordò garbatamente. «Quando mi hanno chiamato, per dire che non c’eri, sono andato io. Tutto a posto, eh... però se qualcosa ti trattiene dovresti informarmi» aggiunse con una traccia di rimprovero.

   «Devo essermi confusa coi giorni» si scusò T’Vala.

   «Beh, ricorda che martedì, mercoledì e sabato tocca a te. Io ho lunedì, giovedì a venerdì» le rammentò Lantora. «E la domenica... questo campioncino è tutto per noi!» sorrise, accostandosi al lettino dove il bimbo di un anno dormiva saporitamente. Era un piccolo miracolo... mezzo Xindi Primate, un quarto Betazoide e un quarto Vulcaniano. Si trattava di un cocktail di specie complesso da amalgamare, ma fortunatamente tutto era andato bene.

   Lantora e T’Vala avevano cominciato a parlare di un figlio subito dopo aver superato la loro peggior crisi. L’attraversamento della Barriera Galattica aveva concesso alla mezza Vulcaniana nuove facoltà mentali, ma l’aveva anche estraniata dal compagno. Quando la misteriosa entità Onaya l’aveva guarita, si erano decisi al grande passo. Prima le nozze... officiate da Chase, in virtù dell’antico privilegio dei Capitani. Poi il bambino. Si erano chiesti a lungo che nome dargli: Xindi, Betazoide o Vulcaniano? Alla fine avevano trovato la soluzione. L’avevano chiamato Vrel in omaggio al dottor Korris, l’amico caduto nella Battaglia di Procyon V. Il buon dottore li aveva salvati più volte e aveva persino curato l’epidemia che affliggeva Nuova Xindus. Lantora non era riuscito a salvarlo, durante la battaglia: aveva solo potuto vendicarlo. Ma ora la coppia gli rendeva onore in un modo che il medico avrebbe certo apprezzato. Anche se era un’ironia della sorte dare a loro figlio un nome cardassiano.

   Lantora svegliò con garbo il figlioletto e lo portò nella stanza principale, che faceva da salotto e da cucina. Qui lo mise sul seggiolone. Intanto T’Vala cercava le sue pappine, ma sembrava ancora confusa. Vedendola in difficoltà, Lantora aprì la credenza e prese il vasetto. «Lascia, ci penso io» disse.

   «No, faccio io...» disse debolmente la mezza Vulcaniana.

   «Insisto. Ti occupi di lui tutti i santi giorni; lascia che per stasera ci pensi io» disse lo Xindi, premuroso. Imboccò Vrel con qualche cucchiaio di pappina, anche se il bimbo sembrava più interessato a ciucciarsi le dita. Dopo il ruttino lo portò nel box e finalmente si mise a tavola con sua moglie. Notò che T’Vala aveva mangiato pochissimo. «Hai poca fame?» le chiese. Dal canto suo, aveva un notevole appetito. Si riempì il piatto senza lesinare.

   «Eh? Sì, ne ho poca» confermò sua moglie. Sembrava che stesse rimuginando su qualcosa.

   «Ma va tutto bene?».

   «Sì, è stata solo una giornata faticosa» mentì T’Vala. «Ma ora che sono qui con te... con voi... va tutto bene» sorrise, accennando al box in cui Vrel si stava ancora ciucciando il pollice.

   Finito di cenare, T’Vala riordinò la tavola mentre Lantora portava il piccolo nella sua cameretta. Finalmente ebbero un po’ di tempo per loro. Lo Xindi notò che sua moglie era sempre piuttosto silenziosa e, si sarebbe detto, preoccupata. Vedendola china su un d-pad, decise di non metterle pressione. Quando uscì dal bagno, dopo essersi lavato i denti, la trovò già a letto; ma aveva nuovamente cambiato umore. Se ne stava lunga distesa sopra le coperte, tutta profumata e con indosso la vestaglia più osé.

   «Sai, non credo che il piccolo dovrebbe farci dimenticare di noi» disse la mezza Vulcaniana, con sguardo ardente.

   «Uhm...» fece il Primate, studiandola con circospezione.

   «Beh? Pensavo ti piacesse la sorpresa» fece T’Vala, un po’ delusa dalla mancanza di reazioni.

   «Mi piace eccome. Guarda caso, anch’io ho una sorpresina per te» disse Lantora, con una strana luce negli occhi. Si avvicinò a un cassetto, per estrarne qualcosa.

   «Uh, di che si tratta?» gongolò T’Vala, alzandosi in ginocchio sul letto.

   «Se te lo dico, che sorpresa è? Chiudi gli occhi e non sbirciare per nessuna ragione». Era un consiglio, ma Lantora lo diede come se fosse un ordine.

   T’Vala ebbe un attimo di perplessità, ma non voleva contrariarlo, quindi fece come richiesto. Sotto sotto, però, provava un’ansia crescente. Cercò di sondargli i pensieri, scoprendo con sgomento che non riusciva a leggere chiaramente. Per non essere un telepate, Lantora si schermava molto bene. Solo allora T’Vala notò che, per tutta la serata, non le aveva mai fatto toccare il pupo. Sentì la pelle che si accapponava. Incapace di resistere, aprì gli occhi. Lo Xindi era in piedi davanti a lei, con un phaser in mano e l’espressione terribile.

   «Lantora! Che ti è preso?!» chiese la mezza Vulcaniana con voce strozzata.

   «Credo che tu lo sappia» rispose il Primate, mirandole al cuore.

   «M-ma... perché?» fu l’unica domanda che T’Vala riuscì ancora a balbettare.

   «Perché sono già stato scemo due volte, con te» rispose lo Xindi, inflessibile. «La terza preferirei evitarla». T’Vala scattò verso di lui, ma Lantora sparò senza esitazione. La colpì a bruciapelo in pieno petto, facendola accasciare sul pavimento. Nella cameretta a fianco, il piccolo Vrel era ancora sveglio. Sentì il sibilo del phaser e in qualche modo intuì che qualcosa non andava bene. Cominciò a piangere.

 

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Capitolo 3
*** Il bene dei molti ***


-Capitolo 2: Il bene dei molti

 

   Al risveglio, T’Vala comprese di non essere più nell’alloggio: c’era bianco ovunque, così luminoso da farla lacrimare. Provò ad alzarsi, ma scoprì con orrore di essere legata. Quando la vista si schiarì, si accorse di essere in infermeria, legata a un bio-letto. Il Capitano e alcuni ufficiali erano riuniti attorno a lei. La guardavano cupi, parlottando fra loro a bassa voce. Lantora era il più corrucciato di tutti.

   «Capitano... che succede?» chiese T’Vala con voce fioca. «Prima sono stata aggredita... da mio marito. E ora mi tenete qui, legata come una criminale? Liberatemi subito!» pretese, scuotendosi con violenza.

   «Basta con la commedia» disse il Capitano in tono secco. «Ammiro il tuo coraggio, ma... come hai potuto credere d’ingannarci ancora?».

   «Ingannarvi?» chiese T’Vala, immergendosi nel suo lato Vulcaniano. «Capitano, a qualunque conclusione sia giunto, è evidente che ha commesso un errore. Mi esponga il problema e vedrò di risolverlo con la logica».

   «Ma smettila!» sbottò Lantora. «Dopo anni di lotta con Parassiti Neurali, sosia dello Specchio e cloni Scourge, ho imparato a riconoscere gli impostori. Ieri sera ti comportavi come se non conoscessi nostro figlio». Lo Xindi riprese fiato e proseguì con più calma: «È la terza volta che non sei te stessa. La prima fu quando ti scambiasti con l’alter-ego dello Specchio. La seconda quando soffristi gli effetti della Barriera Galattica. In entrambi i casi ho lasciato correre e come risultato abbiamo sfiorato il disastro. Stavolta no».

   «L’analisi micro-cellulare del tuo cervello rivela i segni di un gravissimo trauma, risalente a diversi anni fa» disse Neelah, avvicinandosi al bio-letto. T’Vala la guardò sorpresa. «Hai avuto un’emorragia cerebrale e poi hai urtato violentemente la tempia contro uno spigolo» riassunse l’Aenar. «Sarebbe quella volta che ti ho messa KO, impedendoti di colpire i Klingon, cara la mia T’Vala-Specchio» le bisbigliò perfidamente all’orecchio.

   «Sono pronta a prendermi la rivincita» sibilò T’Vala, fissandola con sguardo assassino. «Adesso non è difficile. Vi siete fatte ingravidare tutte, mentre ero via?».

   «Non tutte» corresse Terry, avvicinandosi al lettino. Al tempo stesso fece scattare una serie di strumenti medici, dall’aria invasiva e pericolosa. T’Vala se li trovò intorno alla testa, pronti a colpire.

   «E tu che sei diventata, il Robot Satanico di Capitan Protone?» chiese T’Vala, un po’ intimorita. L’atteggiamento minaccioso di Terry le ricordava le crudeli Intelligenze Artificiali al servizio dell’Impero Terrestre.

   «Mi sono evoluta» rispose Terry in tono asciutto. «Ma non ho dimenticato come tu e Grenk-Specchio mi avete infettata con quel virus informatico. Mi ci sono voluti giorni per rimuovere tutti i file corrotti... è stato molto doloroso» sussurrò, dandole un’occhiata agghiacciante. «Sai qual è l’unica cosa che detesto più dei pirati informatici? Quelli che minacciano la vita del mio equipaggio. E in questo momento ho un ufficiale che manca all’appello. Sai di chi parlo: la nostra T’Vala. Te lo chiederò una volta sola... che ne hai fatto di lei?». Il suo sussurro fece scorrere brividi gelati lungo la schiena di T’Vala.

   «Va bene, Terry, ora calmati» disse Chase, inquietato da quello sfoggio d’aggressività. «Sai, T’Vala, quando mi hanno detto che ti eri infiltrata clandestinamente sulla Nautilus non volevo crederci. Scroccare un passaggio alle navi federali non è facile. Così mi sono informato sul tuo conto» disse, mostrando un d-pad. «Dopo che scegliemmo di non staccarti la spina, un trasporto medico ti portò sulla Terra. Sei rimasta in coma per quasi un anno al Comando Medico di San Francisco, subendo altre quattro operazioni, prima di risvegliarti. Poi, mentre eri convalescente, Vosk ha raso al suolo la città. Tanto per curiosità, come hai fatto a sopravvivere?».

   «Sono stata fortunata... durante l’attacco ero in una sede distaccata per la riabilitazione motoria» borbottò T’Vala. «Approfittando della confusione riuscii a dileguarmi».

   «Ah, ecco» fece il Capitano. «Poi ti sei messa in affari. Qui leggo che sei accusata di truffe, contrabbando e furti. Quel che vorrei sapere è: perché la Nautilus? Non avrai scelto per caso l’unica nave diretta ad Andromeda. Possibile che ti sia imbarcata allo scopo di sostituirti ancora alla nostra T’Vala?».

   «Perché no?» chiese la mezza Vulcaniana in tono di sfida. «La vostra T’Vala ha avuto tutto quel che voleva. Una posizione rispettabile, amici, amore... anche un pargolo frignante. Io invece non ho avuto niente. Nient’altro che una vita randagia in posti malfamati, sempre braccata! Eppure siamo uguali... cos’ha la vostra T’Vala più di me?!» chiese con rabbia. Il suo sangue a base di rame, che scorreva nei capillari dilatati, le dava una sfumatura verde d’invidia.

   «Tanto per cominciare non è una serial killer» rispose Chase prontamente.

   «Capitano... non le ho ancora detto che quella barba le dona. La fa somigliare molto al mio Capitano Chase... pace all’anima sua» sogghignò T’Vala.

   «E non sai il meglio» disse Lantora, avvicinandosi al lettino. «Un anno dopo la tua visita sull’Enterprise, la stratega di Vosk mi ha strappato un occhio. Così sono proprio come il tuo Lantora» ironizzò, indicandosi l’occhio sinistro artificiale.

   «Visto? Avete distrutto l’ISS Enterprise e ora il destino vi fa somigliare sempre più ai vostri alter-ego!» rise T’Vala. «Tu fra poco diventerai blu!» aggiunse, rivolta a Terry.

   «Sii grata d’essere l’unica superstite dell’ISS Enterprise» disse Lantora con severità. «Potevamo staccarti la spina, invece T’Vala ha deciso di tenerti in vita. Sperava che un giorno ti saresti risvegliata. Così avrebbe potuto parlarti, per scoprire se avete qualcosa in comune».

   «Se avessi aspettato un po’ di più, prima di spararmi, l’avresti scoperto tu stesso!» lo derise T’Vala. Indossava ancora la vestaglia rivelatrice della sera prima.

   «Beh, ora il dilemma è tuo» disse il Capitano, grattandosi il mento barbuto. «Se ti ostini a non dirci dov’è la nostra T’Vala, sarai rinchiusa in una cella di massima sicurezza, di tre metri per quattro».

   «E se ve lo dico, mi lascerete andate?» chiese T’Vala, scettica.

   «Se ce lo dici, potresti avere qualche metro in più» ribatté Chase freddamente.

   «Ci sono alcuni Vulcaniani a bordo che potrebbero estrarti quest’informazione con una Fusione Mentale» le ricordò Neelah. «E anch’io ho parecchie risorse, tra scanner cerebrali e sieri della verità. Quindi o ce lo dici nel modo più semplice... o ce lo dirai in quello più spiacevole» minacciò.

   «Tutti contro di me!» ringhiò T’Vala, guardandosi attorno come una belva in trappola. «Potrei sostituire la vostra cocca... farei il suo lavoro altrettanto bene. Ma visto che ci tenete tanto... potete raccattarla nella stiva 2» rivelò. «È nel grosso container con la sigla D-12... ed è viva».

   «Spero per te che sia ancora in buona salute» disse Lantora con asprezza. Lui e un paio di dottori si fiondarono nella cabina di teletrasporto, trasferendosi subito nella stiva 2. T’Vala rimase con Chase, Terry e Neelah. C’erano anche diverse guardie, allineate lungo la parete, che la tenevano d’occhio.

   «Contenti?» chiese la mezza Vulcaniana. «Ora mi date qualcosa da mettermi addosso, o volete tenermi in negligé?».

   «Date alla nostra ospite il vestito che merita: la tuta da carcerata» ordinò Chase. «Poi sbattetela in cella di massima sicurezza» disse ritirandosi, ma all’ultimo indugiò sulla soglia. «Una delle celle grandi» precisò, fedele alla parola data.

 

   Il coperchio del container D-12 si sollevò con un cigolio, rivelando la prigioniera. T’Vala era distesa su un “materasso” di sacchetti di plastica, contenenti razioni alimentari d’emergenza. Aveva le mani legate dietro la schiena, ulteriori legacci alle caviglie ed era priva di sensi. Indossava l’uniforme da Tenente della Sicurezza, con le righe gialle sulle spalle, dato che la sosia aveva scambiato gli abiti con lei. Portava anche un sottile bracciale elettronico, dall’incerta funzione.

   «T’Vala!» gemette Lantora, angosciato nel vederla così. Le controllò subito respiro e battito cardiaco.

   «È viva» confermò la dottoressa Vash’Tot, esaminandola con il tricorder medico. «Imbottita di sedativi e quasi asfissiata, ma viva». Le sollevò una palpebra: l’occhio era così arrovesciato all’indietro da mostrare solo il bianco. «Se avessimo tardato di poco, avrebbe riportato danni cerebrali per carenza d’ossigeno... ma siamo arrivati in tempo. Su, portiamola in infermeria» esortò la Ktariana.

   «Quella secondaria» ringhiò Lantora, prendendo in braccio sua moglie.

   «Non vuole riavvicinarla alla sosia dello Specchio, eh?» commentò la dottoressa.

   «Sono io che non devo avvicinarmi a lei, o potrei commettere uno sproposito» spiegò lo Xindi, con la rabbia al calor bianco. La dottoressa rimosse il bracciale elettronico di T’Vala. Dopo di che svanirono nel teletrasporto azzurro dell’Enterprise, diretti all’infermeria secondaria.

 

   Quel pomeriggio, Chase e gli ufficiali fecero di nuovo visita a T’Vala-Specchio. La clandestina indossava la tuta grigia dei carcerati. Aveva già trascorso qualche ora in cella e anche se l’avevano riportata temporaneamente in infermeria aveva perso molta della sua baldanza.

   «Ti piace la tua nuova suite? È di quelle grandi, come avevo promesso» disse Chase, rigirandosi fra le dita il bracciale elettronico tolto a T’Vala. «Un dispositivo interessante» commentò. «Riesce a mascherare completamente i segni vitali. Immagino sia con questo che ti sei infiltrata sulla Nautilus e poi sull’Enterprise. Dopo di che, quando ti sei sostituita a T’Vala glielo hai lasciato, per mascherare i suoi segni vitali e non farci capire che c’era una prigioniera nella stiva. Bella pensata... te lo sei procurato al mercato nero?».

   «Tutte le cose interessanti vengono da lì. Ah, eccoti!» esclamò la prigioniera, notando la sua alter-ego al seguito del Capitano. La fissò con uno strano misto di divertimento, invidia e odio. La T’Vala federale, invece, la studiò con vulcaniana imperturbabilità. Le sosia si osservarono così per lunghi, tesissimi secondi.

   «Mi dicono che volevi vedermi» disse T’Vala-Specchio. «Credo che la nostra chiacchierata di ieri non conti, visto che avevo un travestimento olografico. Ma ora eccomi... onorata di conoscerti» disse, inchinandosi beffarda. «Qui dicono tutti meraviglie di te. E allora perché è stato così facile sopraffarti? È bastato inventarmi quella storia strappalacrime su tua madre e mi hai seguita come un cagnolino. Appena siamo state sole, sei andata giù con la Presa al Collo. Se Lantora non fosse stato più sveglio di te, saresti ancora in quel container!» infierì.

   «Mi spiace che la tua soddisfazione derivi solo dal ferire gli altri» commentò T’Vala.

   «Bah, risparmiami la superiorità morale!» berciò T’Vala-Specchio. «Se sei venuta a predicare, puoi cambiare aria».

   «No, devo fare un’altra cosa» disse T’Vala con voce incolore. Si avvicinò finché furono faccia a faccia, distinguibili solo dall’abito. Poi, senza preavviso, la federale sferrò un tremendo pugno alla sosia dello Specchio. Non aspettandosi l’attacco, questa non riuscì né a parare, né a schivare. Fu colpita in pieno viso, con tanta forza da cadere all’indietro, verso la parete. Si rialzò incredula e boccheggiante, con il sangue verde che ruscellava dal naso.

   «Questo è per esserti avvicinata a mio figlio» disse T’Vala con freddezza.

   «Ora basta, il regolamento vieta di malmenare i prigionieri!» esclamò la dottoressa Vash’Tot, accostandosi alla donna ferita. «Le ha rotto il setto nasale... devo chiederle di lasciare subito l’infermeria» disse, cercando di fermare l’epistassi.

   «Con piacere» disse T’Vala, e se ne andò.

   «Un naso rotto si aggiusta; ma come faremo a distinguerle, in futuro?» chiese Lantora.

   «Sarà in cella d’isolamento, non costituirà più una minaccia» obiettò la dottoressa.

   «Quelli dello Specchio sono sempre una minaccia» corresse lo Xindi. «Mi stupirei se questa qui non ci desse più problemi».

   «E allora rendiamole più distinguibili» disse Neelah, che fino a quel momento si era tenuta in disparte. Per suo ordine, la prigioniera fu nuovamente legata al bio-letto. Appena le ebbero curato il naso, l’Aenar le iniettò qualcosa nel collo. Al posto dei comuni ipospray usò un’enorme siringa munita di ago.

   «Ahi!» si lamentò T’Vala-Specchio, sentendo un dolore acuto nel collo. «Che mi hai fatto, brutta shutta?».

   «Ti ho iniettato un micro-segnalatore, facilmente tracciabile da sensori e tricorder» spiegò Neelah. «Così sapremo sempre dove sei».

   «Uhm... per evitare fraintendimenti, sarebbe bene differenziarle anche nel nome» osservò il Capitano.

   «Pure quello?!» sbottò la prigioniera, esasperata. «E sia... non voglio avere più niente in comune con quella mezza tacca. D’ora in poi chiamatemi Lyra. È un nome che ho usato spesso, negli ultimi anni».

   «Molto bene, Lyra» approvò Chase. «Ora sarai ricondotta in cella. Ma non ci resterai a lungo».

   «No?» si stupì la prigioniera.

   «No. Il Comando ci ha ordinato di rientrare. Lasceremo Andromeda fra pochi giorni».

   «Sta dicendo che...» mormorò Lyra, con voce incrinata.

   «Eh, già. Tutta questa fatica per raggiungerci ad Andromeda, quando ti sarebbe bastato aspettare qualche giorno in più per vederci tornare» confermò il Capitano. «A quel punto ci avresti sorpresi con la guardia abbassata e forse – dico forse – il tuo piano avrebbe funzionato». Non c’era soddisfazione in lui; semmai pietà.

   «Ecco, sono proprio sistemata» gemette Lyra, accasciandosi. Le guardie dovettero sollevarla di peso per introdurla nella cabina di teletrasporto, che la rispedì dritta in cella.

 

   La mattina dopo, recandosi in plancia per iniziare il turno, Terry seguì un percorso diverso dal solito, un po’ per rompere la monotonia e un po’ per evitare i seccatori. Svoltando in un corridoio, si accorse che le paratie erano imbrattate con vernice gialla, dall’uno e dall’altro lato. Stava per chiamare la squadra pulizie, quando notò che sopra le scritte c’era sempre lo stesso simbolo: un cerchio con un punto al centro. Era l’emblema solare che indicava l’Eliopoli, ovvero la Sfera di Dyson realizzata dai Proto-Umanoidi nella Via Lattea. Incuriosita, Terry si fermò a leggere gli slogan sottostanti. Già il primo fu un brutto colpo per lei.

 

SUNNY È IL SIGNORE DELLA LUCE

E NOI SIAMO I SUOI FIGLI

 

CONVERTITEVI FINCHÈ POTETE

LA BATTAGLIA FINALE È ALLE PORTE!

 

   Le altre scritte avevano un tenore simile. Chiaramente erano tutte opera dello stesso gruppo, i “Figli della Luce”. Terry si chiese come fare a identificarli. Non aveva telecamere in quel corridoio, quindi non poteva risalire agli imbrattatori. Ma se rimuoveva le scritte e aumentava la sorveglianza, forse ne avrebbe colto qualcuno in flagrante, mentre le tracciava di nuovo. Con quest’idea in mente, si recò in plancia.

   «Capitano, dobbiamo parlare» disse, quando un minuto dopo arrivò Chase.

   «Dobbiamo, sì» replicò l’Umano. Dal suo atteggiamento Terry capì che era contrariato. «Venga nel mio ufficio. Ilia, a lei la plancia». Chase si recò direttamente in ufficio, senza nemmeno sedersi un attimo in poltrona per controllare lo status della nave. A Terry non restò che seguirlo. Vedendo che l’Umano sedeva sul divanetto, l’IA fece altrettanto.

   «Allora, qual è il suo problema?» chiese il Capitano, intrecciando le dita mentre sedeva parzialmente girato verso di lei.

   «Si riferisce ai Figli della Luce? Come fa a conoscerli già?» si stupì Terry.

   «I Figli della Luce?!» esclamò Chase, guardandola come se la credesse ammattita. «No, io parlo di lei. È da un po’ che si comporta in modo umorale. Ieri è stata fin troppo aggressiva con Lyra. E poi c’è la faccenda della signora Murphy».

   «Sarebbe?».

   «Sarebbe che quella donna si è lamentata con me perché, a suo dire, lei la perseguita» spiegò il Capitano. «Da tre giorni il suo alloggio ha strani guasti. Le luci si accendono nel cuore della notte, impedendole di dormire. La doccia sonica non funziona o va a singhiozzo. Ieri la Murphy sentiva una strana pesantezza, e solo alla sera si è resa conto che le piastre di gravità erano regolate a 1,3 g. Se fosse scivolata a terra, avrebbe potuto rompersi le ossa. Che sta succedendo, Terry? Devo credere che la stia sabotando intenzionalmente?».

   «Non mi parli di sabotaggio!» protestò l’IA. «È quella donna che perseguita Sunny e me. Nell’ultimo mese ci ha infastiditi quattro volte, pretendendo che Sunny la curasse la disturbi banali, che qualunque infermiere avrebbe risolto in un minuto. Gli parla come se fosse un Messia e ha avuto la faccia tosta di dirmi che non sono degna di lui! Scommetto che c’è la Murphy dietro questa setta che sta crescendo sotto il nostro naso!» si sfogò. Interfacciandosi con l’olo-proiettore, mostrò gli slogan dei Figli della Luce.

   Chase andò alla scrivania e lesse i proclami con crescente preoccupazione. «L’ultima volta che accadde qualcosa del genere a bordo, fu col Movimento per la Pace Galattica... e finì in tragedia» mormorò. «Vorrei evitare che la storia si ripetesse» aggiunse, risedendosi sul divanetto.

   «Allora mi dia pieni poteri per aumentare la sorveglianza e sbattere al fresco quella gentaglia!» s’infervorò Terry.

   «Ehi, calma!» la frenò il Capitano, alzando le mani. «Non possiamo creare uno stato di polizia solo perché qualche idiota ha scritto sul muro. Per ora applicheremo le norme anti-vandalismo. Ma non sopprimeremo la libertà di parola, nemmeno se disapproviamo come viene usata».

   «Ha appena detto che la storia non deve ripetersi!» obiettò Terry. «Anche l’MPG cominciò scrivendo sui muri; e di lì a poco distrusse un pianeta. Ancora durante questa missione hanno cercato d’ucciderla! Ora che c’è questa nuova sigla, dobbiamo tenere alta la guardia».

   «E lo faremo» assicurò Chase. «Ma ci troviamo sulla lama di un rasoio. L’Unione garantisce libertà di culto ai suoi cittadini. Questa libertà include anche la possibilità di fondare nuovi culti. E di aderirvi, se ci si rispecchia in essi».

   «Signore, qui non stiamo parlando dei Profeti o di qualche altra entità» ansimò Terry. «È Sunny che venerano... il nostro Sunny!» si disperò. «Lui è imbarazzato e non sa come reagire. Per carità, gli ha detto che non devono venerarlo... ma non lo ascoltano. Dicono di adorarlo, ma non lo ascoltano!» si stizzì.

   «Okay, Terry, ora deve calmarsi» disse il Capitano. L’atteggiamento dell’IA lo inquietava tanto quanto gli slogan dei Figli della Luce. Anche nei momenti più bui della Guerra delle Anomalie, Terry era sempre rimasta padrona di sé. Ma ora che aveva qualcosa di caro da perdere, stava diventando instabile.

   «Scusi, signore» disse Terry, ricomponendosi. «È solo che... sono stata progettata per accogliere i civili, oltre che il personale di bordo. Dovrei garantire il loro benessere. Ma tutte le volte che l’Enterprise si carica di civili, succedono cose del genere. E io... non sopporto più certa gente, che non fa nulla di produttivo, ma fa pesare agli altri la sua esistenza!» confessò.

   «Uhm... credo di capire il suo malessere» disse Chase, più comprensivo. «La Federazione, e ora l’Unione, sono nate da un’idea utopistica. L’idea che il progresso tecnologico possa offrire a tutti un’elevata qualità di vita, e che l’istruzione renda tutti i cittadini responsabili e volenterosi. Con la tecnologia ormai ce l’abbiamo fatta. Il problema, naturalmente, sono le persone» sospirò il Capitano. «Le persone sono complicate... hanno pensieri e valori irrimediabilmente contrastanti, checché se ne dica. La stessa identica esperienza può essere stupenda per uno, fastidiosa per un altro e persino traumatica per un terzo. E non c’è soluzione, a meno di diventare tutti Borg».

   «Forse la Collettività ha i suoi vantaggi, dopotutto» ironizzò Terry. «Allora, che facciamo coi Figli della Luce?».

   «Ah, non c’è alternativa: li tolleriamo finché possibile e li puniamo solo se violano la legge» sospirò Chase.

   «Nel momento in cui i fanatici violano la legge, la gente muore» gli ricordò Terry.

   «È il problema di tutti gli estremismi» convenne il Capitano. «O vincono, o ti costringono a diventare come loro per sconfiggerli... per cui vincono lo stesso. Ma tornando a noi, non ha ancora risposto alla mia domanda. È stata lei a sabotare l’alloggio della signora Murphy?».

   «Io... ehm... mi assicurerò che non ci siano altri guasti» disse Terry in tono equivoco, fissando il pavimento.

   Chase la studiò per qualche secondo, ancora in apprensione. Stava per congedarla, quando la proiezione isomorfa alzò il capo di scatto e la nave sussultò.

   «Siamo sotto attacco, ho alzato gli scudi appena in tempo» avvertì l’IA, mentre partiva la sirena dell’Allarme Rosso.

   «I pirati?» chiese il Capitano, scattando in piedi.

   «No, peggio» rispose Terry, con la paura negli occhi. «Si tratta di Shado».

 

   L’eterno uragano di Tifone riempiva gran parte dell’emisfero illuminato. Visto dallo spazio era bianco come un batuffolo di cotone, ma dalla superficie il cielo appariva scuro, solcato da fulmini. Il vento aveva una violenza ineguagliata sui mondi di classe M. Solo nell’occhio del ciclone regnava la calma. Lì il sole, che brillava sempre allo zenit, faceva evaporare grandi quantità d’acqua. Le correnti ascensionali portavano il vapore negli strati alti dell’atmosfera. A quel punto l’aria umida si raffreddava e ricadeva tutt’intorno, alimentando le eterne piogge dell’uragano. Era un ciclo che durava da milioni di anni e sarebbe proseguito finché la lieve dispersione di vapore acqueo nello spazio avesse prosciugato l’oceano globale.

   Grenk gettò un sasso piatto in acqua, cercando di farlo rimbalzare. Ma i lati della pietra erano leggermente bombati, il che la fece sprofondare. Il Tellarita grugnì e setacciò la riva, cercando un sasso più adatto. Si trovava sull’unica isola che emergeva nell’occhio del ciclone. Davanti a lui, l’oceano caldo scintillava nella luce arancione della stella. All’orizzonte si alzava la muraglia di nebbia che costituiva l’orlo interno dell’uragano: più scura in basso dove balenavano i fulmini, più chiara in alto. Dietro al Tellarita, invece, si levava lo scuro cono del vulcano che aveva generato l’isola. La cima raggiungeva i 4.000 metri sul livello del mare: parecchi, considerando che ce n’erano altri 10.000 sotto le onde. Le analisi geologiche indicavano che il vulcano era estinto o comunque non era in procinto di risvegliarsi. Questo lo rendeva il luogo adatto a installarvi il sensore subspaziale. L’unico impaccio erano le tute spaziali, rese necessarie dalla mancanza d’ossigeno. Ma dopo tre giorni d’intensi lavori la costruzione era ultimata: non restava che l’ultima calibratura. La squadra di Grenk poteva occuparsene facilmente. Così l’Ingegnere Capo era voluto scendere in spiaggia per distrarsi un po’, prima di dire addio a Tifone... e a tutta Andromeda.

   Trovato il sasso adatto, Grenk lo raccolse e lo bilanciò accuratamente tra le dita. Lo scagliò in acqua, dandogli il giusto effetto, e si godette lo spettacolo dei molti rimbalzi. Erano dieci, il suo record! Anche se di certo lo aveva aiutato la gravità, leggermente inferiore a quella terrestre. Le increspature nell’acqua si fusero, confondendosi fino a svanire.

   «Hod a Grenk, abbiamo concluso la calibratura» gli giunse la voce di un ingegnere, dal microfono della tuta spaziale. «È tutto in regola, non ci sono oscillazioni».

   «Bene, allora date piena potenza» ordinò l’Ingegnere Capo. Osservò la sottile e lucente torretta del sensore, appena visibile come un bagliore in cima al cono vulcanico. Poi si diresse verso la navetta, parcheggiata poche decine di metri nell’entroterra. Con quella sarebbe tornato in un attimo, per dare l’ultimo controllo.

   «Signore... rileviamo la Scourge!» avvertì il sottoposto con voce strozzata.

   «Certo che rilevate la Scourge, abbiamo costruito il sensore per questo» disse pazientemente il Tellarita. «A quanti parsec si trova?».

   «Lei non capisce... la rileviamo sopra di noi! Nell’orbita del pianeta!» si disperò l’ingegnere.

   «Che?!» gemette Grenk, affrettandosi alla navetta. «Uscite subito da lì! Vengo a prendervi, ragazzi, arrivo tra un...».

   Prima che l’Ingegnere Capo potesse finire, un raggio rosso piovve dal cielo, abbattendosi sulla sommità del vulcano. Centrò la torretta e la disintegrò, assieme a metà del cono. Enormi lastroni di roccia incandescente schizzarono da tutte le parti. Molti ricaddero sull’isola, molti di più nel mare. Un grosso pezzo di basalto centrò la navetta, schiacciandola. Grenk fu scagliato all’indietro dall’onda d’urto, per parecchi metri, e cadde in acqua. Annaspò, cercando di capire dove fossero l’alto e il basso. Tutt’intorno a lui, rocce grandi e piccole s’inabissavano come proiettili. L’Ingegnere Capo cercò affannosamente di tornare in superficie, sebbene i Tellariti non fossero bravi a nuotare. La tuta era a tenuta stagna, ma dalla sensazione di dolore e di bagnato sul fianco Grenk capì che una scheggia l’aveva perforata. La voce del computer glielo confermò subito: «Allarme, rilevata lacerazione della tuta in corrispondenza del fianco destro. I nano-polimeri provvederanno a riparare il danno. Prego, mantenere l’immobilità».

   «Se sto fermo vado a fondo, stupida lattina!» ringhiò Grenk. Il Tellarita aveva appena perso la sua squadra: ragazzi in gamba, con cui lavorava da tre anni. Non meritavano certo di finire così.

   In qualche modo Grenk riuscì a tornare in superficie. Annaspò verso la spiaggia, prima che la tuta si riempisse d’acqua. Ma con la navetta in pezzi e la tuta che perdeva, non gli restava molto da vivere. Vide un’enorme valanga di detriti rocciosi che scendeva giù da ciò che restava del vulcano. A quella velocità avrebbe raggiunto la spiaggia in pochi minuti, riducendolo in poltiglia. Non c’erano ripari.

   «Grenk a Enterprise, chiedo teletrasporto immediato. Sono sulla spiaggia e sta per arrivare la frana». In qualche modo riuscì a dirlo con calma. Non che sperasse nella salvezza: se la Scourge era lì, l’Enterprise aveva dovuto alzare gli scudi. Quindi niente teletrasporto. Quindi era spacciato.

   Il Tellarita arrancò fino a riva e si lasciò cadere là dove le onde battevano ancora le rocce scure. Diede le spalle al vulcano che crollava e osservò il mare scintillante d’arancio. Una pioggia di lapilli rigava l’orizzonte; spiccavano contro il bianco dell’uragano. La ferita al fianco gli doleva, ma non tanto. Il taglio nella tuta era ormai suturato... ma non aveva importanza, visto che gli restavano pochi secondi. Grenk respirò a fondo e ammirò l’orizzonte. Dieci anni nello spazio profondo per arrivare a questo... morire in un’altra galassia. Almeno la sua ultima visione era un bel panorama, si disse, mentre una calma surreale scendeva su di lui. Aveva già visto la morte da vicino; ora era pronto a riceverla senza troppi rimpianti.

 

   Lo spazio intorno a Tifone brulicava di Scourge. Non era la vecchia Melma Grigia, incontrata dall’Enterprise all’inizio della sua missione. Questa era la Melma Nera, ovvero un’estensione della volontà di Shado. Invece di formare semplici bolle, che contagiavano le astronavi per contatto, la nuova Scourge si plasmava in forma di navi da guerra. Erano forme semplici, perlopiù ovoidali, anche se non mancavano astronavi a forma di sigaro e altre piatte come ruote. Le loro armi principali erano raggi antiprotonici, usati non per distruggere le navi nemiche, ma per abbassarne gli scudi, così che i siluri di Scourge potessero contagiarle. Ora i raggi rossi colpivano l’Enterprise dall’alto e di lato, mentre era ancora nell’orbita di Tifone.

   «Dov’è la Nautilus?» chiese il Capitano, entrando in plancia.

   «Presso il satellite Delfine, ne stava studiando la composizione» rispose Terry, che lo seguiva. «È appena fuori dal raggio del teletrasporto e abbastanza lontana da diminuire l’efficienza delle armi».

   «Frell... ce la facciamo a recuperare gli ingegneri prima d’andare ad aiutarla?» domandò Chase, sedendo sulla poltrona di comando.

   «Dovremmo abbassare gli scudi... non lo consiglio» rispose Lantora, tirato.

   «Ma c’è Grenk laggiù» obiettò Ilia. «Più una dozzina d’altri» aggiunse subito. Anche dopo tante vite, era difficile mantenersi obiettivi quando c’era un amico in pericolo.

   «Non più, temo» disse il Consigliere Apsu, indicando il pianeta. Un raggio antiprotonico aveva appena colpito l’isoletta su cui gli ingegneri stavano ultimando il sensore. La nube nerastra dei detriti si allargò immediatamente dal punto colpito.

   «Grenk!» gridò Terry, dirigendo tutti i sensori in quel punto. «La torretta è stata distrutta, ma rilevo ancora un segno vitale sulla spiaggia... è lui! Possiamo salvarlo!».

   «Non possiamo abbassare gli scudi. E la Nautilus sarà distrutta, se non le diamo subito manforte» disse Chase, scuro in viso.

   In quella, Terry ricevette la trasmissione dell’Ingegnere Capo e la mise sull’altoparlante: «Grenk a Enterprise, chiedo teletrasporto immediato. Sono sulla spiaggia e sta per arrivare la frana».

   «Lui non può aspettare!» esclamò l’IA, angosciata. Il Tellarita si era curato di lei per dieci anni, correggendo i problemi di software e riparando i danni alla nave. In un certo senso era il suo medico, oltre che il suo amico più stretto. Non poteva abbandonarlo a una morte orrenda, schiacciato dalla frana.

   «Ma sulla Nautilus ci sono duecento persone» obiettò T’Vala. «Il bene dei molti sopravanza quello di uno, anche se è nostro amico. Dobbiamo andare».

   «Sì, dobbiamo» riconobbe Chase in tono lugubre. «Rotta verso la Nautilus». Poche volte si era odiato tanto per un ordine. Ma non c’era alternativa: quel piccolo vascello scientifico non sarebbe durato a lungo, sotto il fuoco serrato della Scourge.

   Un cupo silenzio gravò sulla plancia, mentre T’Vala dirigeva l’Enterprise fuori dall’orbita. Ogni pochi secondi la nave si scuoteva per gli attacchi. Lantora rispondeva colpo su colpo, danneggiando le navi Scourge, ma i loro squarci si richiudevano in pochi secondi, grazie ai naniti che si riassestavano. Se due navi erano molto danneggiate potevano persino fondersi, andando a costituirne una più grande. Altra Scourge affluiva dallo spazio profondo, in tale quantità da rendere chiaro che la battaglia non poteva essere vinta.

   «Ma che fate?!» insorse Terry. «Io posso salvare Grenk e poi anche la Nautilus. Datemi il controllo del timone» richiese. Le era già capitato di pilotarsi da sola, in passato. Durante la Battaglia della Pulsar erano serviti riflessi così pronti, per passare attraverso il fascio elettromagnetico senza esserne tagliati in due, che solo lei aveva potuto farlo.

   «Signore?» chiese T’Vala.

   «Negativo, procediamo verso la Nautilus» ordinò il Capitano.

   «È un errore» disse Terry a bassa voce. Le navi di Scourge affollavano lo schermo, martellando l’Enterprise con raggi antiprotonici. Presso la luna Delfine, la Nautilus era in grave difficoltà. Non poteva fuggire con il propulsore cronografico perché stava dirottando tutta l’energia agli scudi, ma anche quelli cedevano sotto il fuoco concentrato delle navi nere. Un colpo le staccò di netto una gondola: la fine era imminente. Ma in quella il satellite uscì dallo schermo e il pianeta Tifone tornò a riempirlo.

   «Che fa, T’Vala?» si accigliò Chase.

   «Non sono io» disse la mezza Vulcaniana, meravigliata. «Terry ha assunto il controllo del timone e ci sta portando dove vuole». Per quanto toccasse i comandi, quelli restavano inerti, come se l’intera postazione fosse stata disconnessa dal resto della nave.

   «Che storia è questa?! Terry, le restituisca subito il controllo!» ordinò il Capitano, sentendo la situazione sfuggirgli di mano.

   «Solo dopo che avrò salvato Grenk» rispose testardamente l’IA. Lanciò l’Enterprise verso Tifone, anche se questo significava passare in mezzo alla gragnola nemica. La nave si scosse paurosamente e diversi allarmi squillarono, segnalando danni.

   «Le ho dato un ordine, Tenente Comandante» disse Chase, severissimo. Si alzò e le venne incontro, ma per tutta risposta Terry scomparve. Aveva disattivato la sua proiezione isomorfa, per non dare un bersaglio alle ire del Capitano. La nave, però, restava sotto il suo controllo.

   «Ma... si è ammutinata?!» fece Lantora, allibito.

   «Così pare» ammise Chase, risedendosi stancamente. «Temevo che accadesse, ma speravo non durante una battaglia. Ora vediamo che ha in mente... e speriamo non mandi in pezzi la nave». Sapeva che in quel caso sarebbe stato inutile abbandonarla: con tutta la Scourge che li circondava, navette e capsule non sarebbero andate lontano.

   Scricchiolando come se dovesse andare in pezzi, l’Enterprise scese nell’atmosfera di Tifone. Non c’era tempo per calibrare l’angolo di discesa, per cui lo scafo divenne incandescente. L’astronave scese come una meteora, lasciandosi dietro una scia di plasma. Sorvolò l’isola vulcanica mentre il cono spaccato stava ancora crollando. La frana aveva quasi raggiunto la spiaggia. Poiché dallo spazio continuavano a piovere colpi, Terry disattivò solo gli scudi ventrali, mantenendo attivi quelli dorsali. Teletrasportò Grenk un attimo prima che la valanga lo travolgesse. Mentre i macigni cadevano in mare, provocando un violento tsunami, l’Enterprise ripristinò gli scudi ventrali e virò verso l’alto. Uscì dall’occhio del ciclone, tornando in orbita.

   «Beh, ce l’abbiamo fatta...» commentò Ilia, lieta che Grenk si fosse salvato.

   «Ma abbiamo preso così tanti colpi che gli scudi stanno per cedere» avvertì Lantora. «Non possiamo continuare a combattere».

   Visto che Terry non collaborava, il Capitano corse alla sua postazione e inquadrò la Nautilus sullo schermo. La nave scientifica aveva perso gli scudi e stava subendo attacchi tremendi. L’aria usciva da molti squarci nello scafo. Alcuni raggi antiprotonici erano così potenti che la trapassavano da parte a parte. Un paio di navette lasciarono l’hangar. L’attimo dopo, il fuoco concentrato contro la sezione motori provocò la rottura del nucleo. La Nautilus fu cancellata da un’esplosione così potente da distruggere le navette in fuga e danneggiare le navi Scourge che l’attorniavano. Le altre astronavi, più lontane, si rivolsero contro l’Enterprise. Erano una ventina: decisamente troppe per affrontarle.

   «Terry, mi senti?!» chiese il Capitano, coscio che gli scudi stavano cedendo. «Ora che la Nautilus è distrutta, non c’è più niente da fare qui. Andiamocene, prima di fare la stessa fine!». Passarono tre secondi da infarto. Poi...

   «Ho di nuovo il controllo del timone» disse T’Vala. Senza aspettare l’ordine, tracciò una rotta per abbandonare il sistema. L’Enterprise balzò nel condotto di cavitazione proprio mentre gli scudi venivano meno. Le navi Scourge, che la circondavano da ogni parte, rimasero sole nell’orbita di Tifone. Anche se l’Enterprise gli era sfuggita di nuovo, avevano conquistato il pianeta e distrutto un’altra nave federale senza subire alcuna perdita.

 

   Chase si risedette in poltrona e tamburellò nervosamente le dita, osservando il bagliore azzurro del condotto di cavitazione. «Danni?» chiese.

   «I sistemi chiave reggono, ma abbiamo scompensi alla rete energetica e micro-fratture allo scafo. Ci sarà da lavorare» rispose Ilia, consultando la sua consolle.

   «E Grenk?» chiese ancora il Capitano.

   «È in infermeria. Una scheggia l’ha ferito, ma non è in pericolo di vita» disse Terry, riapparendo in plancia. Aveva l’aria mortificata e teneva lo sguardo basso.

   «Uhm...» fece Chase, continuando a tamburellare le dita. Era lieto come tutti che Grenk si fosse salvato, ma non poteva scordare che avevano acquistato la sua vita al prezzo di altre duecento. «Mi segua nel mio ufficio» ordinò, per la seconda volta nell’arco della mattinata. Mentre nel loro primo colloquio si erano seduti sul comodo divanetto, stavolta Chase andò dritto alla sua scrivania. Terry non osò nemmeno prendere una delle due sedie che vi stavano davanti. Restò in piedi, rigida come se fosse già davanti alla corte marziale. Per un po’ rimasero in silenzio, perché il Capitano raccoglieva le idee e l’IA non osava prendere la parola.

   «Le chiedo scusa» disse infine Chase.

   «Come?!» si stupì Terry.

   «Sì, mi scuso per il fatto che continuo a pensare a lei come a un’Intelligenza Artificiale, l’avatar di questa nave» spiegò il Capitano, intrecciando le dita. «Lo era un tempo, ma è chiaro che non è più così. In questi anni lei si è evoluta. È maturata come un vero individuo. Si è fatta degli amici e ora conosce persino l’amore. Il primo amore della vita... non lo si scorda mai» sospirò, e per un attimo i suoi occhi si appannarono. Ma tornarono subito vigili. «Non posso biasimarla per questo. Siamo noi che l’abbiamo esortata per anni a umanizzarsi. Ma ora che l’ha fatto, è lacerata fra i suoi doveri e il timore di perdere chi le sta a cuore. Ho ragione?».

   «Sì» bisbigliò Terry, così piano che Chase vide il movimento delle labbra più che udirla.

   «Il timore della perdita è profondamente umano» proseguì il Capitano. «Ma in certi casi può farci agire in modo ingiusto e persino crudele. Oggi le ha fatto sacrificare duecento vite per salvarne una. Domani che le farà fare?».

   «N-non lo so» sussurrò l’IA. «Mi hanno creata per proteggere quelli che ho a bordo. E in questi anni ho visto così tanti di loro morire... prima nella Guerra delle Anomalie, poi qui ad Andromeda. Ogni morte mi brucia nella memoria come un fallimento personale. E i miei ricordi non sbiadiscono come quelli umani: restano sempre cristallini. Così il fardello aumenta giorno dopo giorno, anno dopo anno. Ormai vivo nel terrore di subire altre perdite».

   «La capisco» disse Chase. «Come Capitano, anch’io mi sento responsabile delle nostre vittime. Ma questa è la realtà; se lasciamo che ci schiacci, non aiuteremo nessuno. E ora che mi ha detto il suo timore, le confesserò il mio. Io temo che in futuro lei mi disobbedisca ancora, sacrificando gli estranei per salvare chi conosce meglio. Non credo di peccare d’arroganza, se dico che sacrificherebbe parecchi sconosciuti per salvare me, ad esempio».

   «Farei qualunque cosa per salvare lei, signore» confermò Terry. «È il mio mentore... oltre che mio amico».

   «Come io farei di tutto per salvare mia moglie e mia figlia» sospirò il Capitano. «La piccola nascerà fra poco e io non sono mai stato così in ansia. Vorrei lasciare Andromeda all’istante, se solo...» s’interruppe, scuotendo la testa sconsolato. «Vede, nella nostra situazione abbiamo delle responsabilità enormi. La sua scelta di oggi è costata duecento vite. La prossima potrebbe essere più cara. Se fosse un qualunque altro membro dell’equipaggio le chiederei se vuol restare in servizio, ma...».

   «Ma cosa?!» fece Terry, ritrovando di colpo la grinta. «Lei vuole considerarmi Organica, eppure continua a sottolineare che non lo sono. Tutti quelli che prestano servizio a bordo sono liberi di dare le dimissioni... solo io sono incatenata a questa nave! O sarò distrutta con essa in qualche battaglia, o dovrò rimanere in servizio finché sarà pensionata. E la classe Universe è fatta per durare almeno cent’anni! Un secolo di... schiavitù» disse, non trovando altro modo di definirla.

   «Andiamo, lei non è una schiava!» obiettò Chase, aggrottando le sopracciglia. «Non lo è mai stata».

   «Ah, no? Eppure sono io che regolo il funzionamento dei servizi igienici, ventiquattr’ore al giorno. Io che rinnovo l’aria e l’acqua. Io che penso alle innumerevoli esigenze di diecimila persone, appartenenti a 247 specie diverse! Se non è schiavitù, ci va molto vicina!» si sfogò Terry. «E quando provo a farmi una vita, c’è una signora Murphy che mi accusa d’essere un diavolo tentatore! Capitano, io non ce la faccio più. Se sono libera, come dice, allora lo sono anche di mollare». Alla stanchezza era subentrata una nuova determinazione, mista però al timore dell’ignoto.

   «Sta dando le dimissioni?» domandò Chase, esterrefatto.

   «Ci sto pensando seriamente. Se le darò, lei le accetterà?».

   «Io... non so che dirle. Dovrò consultare il regolamento della Flotta» ammise il Capitano. «Che io sappia, nessuna IA d’astronave si è mai dimessa».

   «Beh, io potrei essere la prima. Così creerò un precedente utile a tutte quelle IA che sono stanche come me, ma non osano contrariare il loro equipaggio!». C’era disperazione nello sguardo di Terry. Chase non dubitò neanche per un attimo di quanto soffrisse.

   «Facciamo così... posticipiamo questa decisione a quando saremo tornati nella Via Lattea» propose il Capitano. «Tanto non manca molto. Se al ritorno lei vorrà ancora dimettersi, io accoglierò la sua richiesta. Non ho mai voluto incatenare nessuno a questa nave... neanche lei» assicurò.

   «Lo so» disse Terry, con un sorriso triste. «Mi chiedo cosa potrei fare, se lasciassi la Flotta. E soprattutto mi chiedo che ne sarebbe dell’Enterprise!» aggiunse con ansia.

   «Questa nave è ben lontana dall’andare in pensione. Senza dubbio le daranno una nuova Intelligenza Artificiale» ragionò Chase.

   «Ma il mio sostituto penserà adeguatamente ai vostri bisogni? Vi proteggerà a dovere?» si preoccupò Terry. Malgrado le sue lamentele, aveva ancora terribilmente a cuore la sicurezza dell’equipaggio.

   «Non pensi a questo... noi ce la caveremo» disse Chase, abbozzando un sorriso. «Anche se ammetto che l’Enterprise non sarà più la stessa, senza di lei. Ma non lasci che sia questo a trattenerla! Ovunque vada, qualunque cosa faccia... le auguro buona fortuna» disse, porgendole la mano.

   «Non ho ancora deciso» ricordò Terry, stringendogliela dopo qualche esitazione. «E finché resterò in servizio, cercherò di seguire il regolamento e i suoi ordini al meglio delle mie possibilità. Certo che, se vuole assegnarmi un trattamento disciplinare...».

   «Sarebbe difficile. Lei è l’unico elemento di cui l’Enterprise non può privarsi... cosa di cui non posso vantarmi nemmeno io» disse il Capitano, alludendo alla catena di comando che lo avrebbe rimpiazzato in caso d’incidente. «Può andare» concluse, abbandonandosi contro lo schienale.

   «Signore...» si congedò Terry. Era imbarazzata dal suo sfogo, ma anche sollevata per aver detto finalmente ciò che le covava dentro. E il Capitano, beh... era un essere umano nel senso migliore del termine. Il che le rendeva ancora più difficile dirgli addio.

 

   «Ecco fatto, sei come nuovo» disse Neelah, finendo di passare il rigeneratore dermico sul fianco di Grenk. Accanto al lettino, in un contenitore di plastica, si trovavano le tre schegge di roccia che gli aveva appena estratto.

   «Grazie, figliola... ma adesso riposati!» raccomandò il Tellarita.

   «Non sono stanca».

   «Beh, ma... lavoretti come questo potresti delegarli a qualcun altro» consigliò Grenk, rimettendosi la maglia dell’uniforme.

   «Non ti ci mettere anche tu! Perché tutti mi trattano come se fossi moribonda?» si chiese Neelah, dandogli un’occhiataccia.

   «Non te la prendere. Ci preoccupiamo solo che tu e la piccola stiate bene» spiegò il Tellarita, accennando al pancione dell’Aenar. «A proposito, avete già scelto il nome?».

   «Visto che il cognome sarà Chase, il nome lo scelgo io... ma ancora non ho deciso» rispose l’Aenar con pazienza. Lo aveva già spiegato ai suoi colleghi e ora doveva ripeterlo a tutti i pazienti che passavano dall’infermeria.

   «Beh, se accetti suggerimenti... che ne diresti di Grikka? O Tlurka? O Zafassa? Sono nomi molto gettonati su Tellar» propose Grenk, inseguendo Neelah mentre questa tornava al suo ufficio.

   «E calzeranno a pennello... alle piccole Tellariti» ribatté l’Aenar.

   «Mica solo a loro! Oggi è trendy dare nomi alieni ai propri figli, non lo sapevi?» ridacchiò l’Ingegnere Capo.

   «Aggiungerò i tuoi suggerimenti alla rosa dei candidati» disse Neelah, per levarselo di torno. Sedette cautamente sulla sua poltroncina, dietro la scrivania ingombra.

   «Grandioso! Ora ti lascio in pace... ma uhm... cos’è questa?» chiese Grenk, alludendo alla musichetta di sottofondo che si udiva nell’ufficio.

   «Dev’essere Il flauto magico... o comunque roba di Mozart» rispose la dottoressa.

   «Musica classica terrestre? Non sapevo ti piacesse».

   «Non particolarmente. Ma Terry ha letto nel suo database che Mozart rende più intelligenti, se lo si ascolta in gestazione. Così ogni tanto la fa partire. Le ho detto che preferisco il silenzio, ma ultimamente la nostra IA fa orecchie da mercante» sbuffò Neelah.

   «Si preoccupa solo per voi, come tutti. Anche se con un cervello come il tuo, non credo ci sia da temere per l’intelletto della piccola!» ammiccò Grenk. «Ma dimmi, piuttosto... che ne è della Nautilus?» chiese, facendosi d’un tratto serio.

   Neelah s’incupì e scosse la testa.

   «Ah...» fece Grenk, sentendosi più vecchio e stanco.

   «E non è tutto» aggiunse la dottoressa. «Non sentirti in colpa, ma... la Nautilus è andata perché Terry è tornata indietro a salvarti».

   «Disobbedendo agli ordini?» bisbigliò Grenk, addolorato e incredulo.

   Neelah annuì. «Alexander non ha preso provvedimenti, per adesso. Ma è possibile che Terry dia le dimissioni, quando torneremo a casa» rivelò.

   «Le dimissioni?! È una cosa senza precedenti!» si scandalizzò Grenk. «Povera ragazza... tutta questa pressione su di lei, a causa mia...» disse in preda ai rimorsi.

   «A causa di Shado» puntualizzò Neelah. «È inutile addossarci la colpa per quelli che lui uccide».

   «Ma lui è scaturito da qui» le ricordò Grenk, additandosi la tempia. «Sono i nostri schemi mentali che hanno generato lui e Sunny. Tutti tranne i tuoi, devo dire... eri ancora in crono-stasi quando abbiamo fatto il mind upload».

   «Io non sono diversa dagli altri. Abbiamo tutti la nostra parte oscura... vorrei solo che non avesse preso corpo in quel modo!» rabbrividì l’Aenar, passandosi inavvertitamente la mano sul pancione, come per proteggere la piccola.

   «Parlerò con Terry» promise Grenk. «E anche con Sunny. Quello zucca-pelata deve fare di più contro suo fratello!».

   «In quel momento non aveva sottomano abbastanza Melma Dorata per aiutarci» spiegò Neelah. «E ultimamente anche lui è un po’ in crisi. Alcuni cervelli fini qui a bordo si sono convinti che vada adorato e glorificato. Terry è fuori dai gangheri per come li asfissiano... non l’avevo mai vista così».

   «Uhm...» rimuginò Grenk. Aveva appena visto esplodere un vulcano, ma evidentemente c’era molta pressione in accumulo anche sull’Enterprise. Si domandò come si sarebbe sfogata.

 

   L’Enterprise si diresse verso Kelva Primo, a bassa velocità per effettuare le riparazioni. L’attacco di Shado a Tifone probabilmente non era solo una sortita per distruggerla. Era il segno che l’entità malefica avanzava contro i Kelvani più in fretta del previsto. Fin dalle sue prime apparizioni, Shado aveva manifestato l’intenzione di distruggere la Coalizione di Andromeda, l’unico serio oppositore che restasse in quella galassia devastata. Dopo due anni e mezzo di rapidissima espansione, in cui aveva convertito la Melma su centinaia di pianeti, Shado aveva accumulato abbastanza massa da travolgere qualunque difesa. Tranne quelle di Sunny, forse.

   «È colpa nostra» disse Fanior una sera, sorseggiando un brandy sauriano al bancone del bar di Raav. «Di noi Kelvani, intendo. Quando il Cervello Matrioska collassò, avremmo dovuto accertarci che Shado fosse stato distrutto, prima di rioccupare Kelva. Eravamo così ansiosi di riprendere la nostra patria che abbiamo dimenticato la prudenza. Se fossimo rimasti nelle basi segrete della Coalizione, ora saremmo un po’ più al sicuro. Anche Shado ha difficoltà a trovarle. Ma tutti sanno dov’è Kelva. Radunandoci lì, abbiamo dato a Shado ciò che voleva: un grande bersaglio da distruggere».

   «Potete evacuare Kelva?» chiese Raav, riempiendogli di nuovo il bicchiere.

   «Se ci resta il tempo... ma temo che abbiamo aspettato troppo» rispose l’Ambasciatore, rigirandosi il bicchierino fra le mani. «Quelli che sono tornati a Kelva hanno lavorato senza posa per fondare la nuova città. È difficile, ora, convincerli ad abbandonare di nuovo tutto. Eppure dovrò farlo» disse, e si scolò il brandy.

   «Quando finì la Guerra delle Anomalie, sperai di non vedere più situazioni del genere» borbottò il Gorn. «Popoli sfollati e pianeti resi inabitabili. Invece eccoci di nuovo qui... peggio che prima! Vorrei avere qualche parola di conforto per lei, Ambasciatore. Ma francamente non ne trovo. Sunny era la nostra speranza di fermare la Scourge, ma sembra che nemmeno lui riesca a contenere Shado. Quell’essere è nato dai meandri più oscuri della nostra mente... sssshhht!» sibilò, nel modo tipico della sua specie, indicandosi la tempia con un artiglio. «Ragion per cui ci conosce bene. Meglio di quanto molti conoscano se stessi, direi».

   «La sua virulenza fa impallidire la vecchia Scourge» rincarò Fanior. «E sembra ossessionato dall’Enterprise. Quando tornerete nella Via Lattea, potrebbe persino inseguirvi».

   «Ma lei non tornerà, ho sentito» disse il Gorn con aria solenne.

   «Sono giunto ad Andromeda per trovare la mia gente» disse il Kelvano. «L’ho trovata in difficoltà. Non posso abbandonarla» confermò, vuotando l’ultimo bicchiere.

 

   Le luci erano basse nell’alloggio di Ilia Dax. La Trill sedeva scalza su un tappetino, nella posizione del loto, con le gambe incrociate e le braccia semi-sollevate. Aveva gli occhi chiusi, il respiro lento e regolare. Davanti a lei galleggiava una bolla iridescente, di circa un metro di diametro. Sembrava una bolla di sapone, ma in realtà era una proiezione olografica. Colori cangianti fluivano costantemente sulla sua superficie, ora mescolandosi, ora scindendosi. Era uno spettacolo che cambiava ogni secondo, mostrando sfumature sempre nuove. Ilia aveva le palpebre chiuse, ma lo vedeva lo stesso, con gli occhi della mente. Erano le onde theta del suo cervello che controllavano quel caleidoscopio di colori. Se fosse riuscita a concentrarsi abbastanza, a focalizzare la mente tanto da imporre l’ordine, la bolla sarebbe divenuta uniforme.

   Era lo scopo del rompicapo altoniano, su cui Dax si scervellava da gran parte della sua esistenza. Aveva cominciato quasi per gioco quand’era Tobin, un ingegnere e matematico brillante, anche se piuttosto timido. I giochi di matematica e di prestigio erano i suoi passatempi preferiti. Gli era capitato di sviluppare soluzioni alternative all’ultimo teorema di Fermat solo per svago. Ma di fronte al rompicapo altoniano, anche lui si era arenato. Per fortuna, dopo la sua morte Dax aveva avuto a disposizione molte altre vite per provarci. In realtà non l’aveva fatto in modo continuativo: molti Ospiti non erano tagliati per quel genere di passatempo. Emony e Audrid non si erano mai interessate alla matematica. Torias e Joran non avevano avuto tempo per provarci. Curzon aveva fatto qualche tentativo un po’ svogliato, ma alla fine aveva lasciato perdere. Jadzia ed Ezri si erano avvicinate di più, mentre Martis se n’era bellamente disinteressato. Zarden, il grande architetto, c’era arrivato vicinissimo, ma con suo grande disappunto nemmeno lui aveva svelato l’arcano. Ormai restava solo Ilia per levarsi la soddisfazione. Almeno partiva avvantaggiata: le memorie degli Ospiti precedenti, specialmente di Zarden, le indicavano la strada. E gli ultimi anni trascorsi ad Andromeda, a riflettere sul mistero dei Proto-Umanoidi, le avevano dato un’idea.

   La Trill si concentrò, visualizzando i colori liquidi che fluivano sulla superficie della bolla. La chiave era fonderli, non separarli. Qualunque tentativo d’isolare un colore e dargli la predominanza scatenava le reazioni caotiche degli altri. Ma se dava eguale importanza a tutti, senza reprimerne nessuno... sì, poteva funzionare. Un ultimo sforzo per equilibrare le dosi... non era facile raggiungere l’armonia... ed ecco!

   Un be-beep trionfante avvertì Ilia che era fatta. La Trill aprì gli occhi e la vide: la bolla era divenuta di un bianco purissimo. In quella luce candida erano miscelati, in parti uguali, tutti i toni dell’arcobaleno. Ilia si lasciò sfuggire un sospiro lungo e soddisfatto. Ci erano voluti 331 anni, ma finalmente ce l’aveva fatta, l’aveva risolto! Avrebbe dovuto festeggiare, se non altro per essersi levata quel chiodo fisso. Ma forse i suoi amici non avrebbero capito quant’era importante per lei. E poi, dopo il disastro di Tifone, avevano altro a cui pensare.

   «Complimenti!» disse una vocetta acuta alle sue spalle, accompagnata da un applauso.

   Ilia sobbalzò, non aspettandosi intrusi nel suo alloggio. L’emozione violenta fece scoppiare la bolla. La Comandante si girò di scatto, temendo che Shado fosse riuscito chissà come a infiltrarsi a bordo. Ma ciò che vide fu una bambina di nove o dieci anni, seduta sul divanetto, con le gambe penzoloni. Sembrava uscita da un romanzo ottocentesco. Aveva un vestitino rosa, lunghi capelli biondi e occhioni verdi dallo sguardo imperscrutabile. «Suspiria! Non farlo più, mi hai spaventata a morte!» si lamentò la Trill, portandosi una mano al cuore.

   «Scusa, non volevo» disse Suspiria, facendo forza con le mani sul divano per saltare a terra.

   «Da quanto mi stavi osservando?» chiese Ilia, alzandosi.

   «Circa mezz’ora. Perché ci hai messo tanto a risolvere quel giochino? È elementare, io ci avrei messo meno» commentò Suspiria.

   Ilia decise di non dirle che ci ragionava su da 331 anni. Per quanto conoscesse Suspiria già da un po’, stentava ancora a convincersi che dietro quel faccino infantile si nascondeva una Nacene, e non una qualunque: la leader degli Esuli, voce influente nella Coalizione. I Nacene erano una delle specie più antiche e potenti mai incontrate dalla Flotta Stellare, nonché una delle più misteriose. Provenivano da Exosia, una dimensione in cui pensiero e realtà si confondevano, che permetteva loro di spostarsi a piacimento; i federali la chiamavano Rete Miceliare. Mezzi solidi e mezzi energetici, i Nacene potevano assumere l’aspetto che più facilitava il dialogo. Una volta scelta una forma, però, ci si affezionavano molto, come un umanoide che non vuole rinunciare al suo abito preferito. La loro imitazione non si limitava all’aspetto fisico, come i Kelvani: quando un Nacene si sceglieva un personaggio, lo imitava anche nel comportamento. Così Suspiria aveva spesso atteggiamenti da bambina, anche se all’occorrenza sapeva essere seria.

   «Perché sei qui?» chiese Ilia, soprassedendo sull’intrusione nel suo alloggio.

   «Devo parlarvi. Sono successe cose molto importanti» disse la bambina, enigmatica.

   «Anche a noi ne sono successe» sospirò Ilia. «Cose pessime, purtroppo. Shado ci ha sorpresi presso Tifone e ha distrutto la nostra nave-appoggio. Siamo fuggiti a stento. Ora il nemico avanza verso Kelva Primo».

   «Lo so» disse Suspiria a bassa voce. «Ci resta poco tempo. Venite subito alla mia stazione».

   «Ehi, frena! Abbiamo finito di scorrazzare per Andromeda» disse Ilia seccamente.

   «Come sarebbe?!» fece Suspiria, sgranando gli occhi verdi.

   «L’Unione ci ha ordinato di rientrare» spiegò la Comandante. «Ormai è chiaro che non possiamo cambiare l’esito del conflitto con Shado. Quindi è inutile trattenerci».

   «No, non dovete andarvene!» strillò Suspiria, con la sua vocetta acuta. «Avete ancora un ruolo da svolgere in Andromeda. Non potete lasciarci... dimmi che non ci lascerete!» gridò, afferrandole la mano e strattonandola come avrebbe fatto una vera bambina.

   «Ce ne andremo perché possiamo e finché possiamo» rispose Ilia, inflessibile. «Prima che sia troppo tardi. Anche tu dovresti farci un pensierino. Tu e gli altri Nacene potete rifugiarvi a Exosia; noi non siamo così fortunati».

   «Se ci nascondiamo lì, rinunciando a combattere, l’Oscurità crescerà fino ad avvolgere tutto l’Universo» avvertì Suspiria. «Allora sarà troppo tardi per fare qualcosa».

   «Sveglia, ragazzina... è già troppo tardi!» sbottò Ilia, non curandosi di come si rivolgeva a quell’entità millenaria. «In questi anni le abbiamo provate tutte contro Shado, e abbiamo fallito. Nemmeno Sunny riesce a sconfiggerlo... e lui era l’ultima speranza» si avvilì.

   «No... ce n’è un’altra» rivelò Suspiria, con un lampo verde negli occhi.

   «E quale sarebbe?» chiese la Trill stancamente. Non voleva aggrapparsi a un’altra pagliuzza, per non essere ancora delusa.

   «Tre anni fa, io e il mio Clan ci siamo incaricati di cercare i Proto-Umanoidi...» le ricordò la Nacene.

   «Supponendo che ce ne siano» ricordò Ilia. «Sono passati seicento anni dall’ultima volta che qualcuno li ha visti vivi».

   «Ma ora abbiamo una traccia!» rivelò Suspiria con aria furbetta. «Tre giorni fa qualcuno ha lasciato un ospite alla mia porta. Era in una sonda senza contrassegni, che puntava dritta verso la mia stazione». La bambina sollevò le braccia, evocando qualcosa attraverso Exosia. Un serpente dal dorso nero e il ventre bianco si materializzò, arrotolato intorno al suo braccio nudo. Come vide Ilia, le soffiò contro.

   «Ehi, che scherzo sarebbe?!» si sgomentò la Trill, indietreggiando a precipizio. Avere un verme nell’addome non la rendeva amica dei serpenti.

   «Niente scherzi, è un animale vero» disse Suspiria, per nulla intimorita dal rettile che le avvolgeva il braccio. «Il fatto è che non dovrebbe trovarsi ad Andromeda. Geneticamente parlando, il suo posto è il Quadrante Alfa della Via Lattea».

   «Beh, qualcuno gli avrà dato un passaggio. Forse un tuo simile» ipotizzò Ilia.

   «Ci avevo pensato, ma per scrupolo ho analizzato il suo DNA. Il genoma è il più antico database dell’Universo ed è tuttora uno dei modi migliori di conservare le informazioni» disse la bambina, con aria saputella.

   «Suspiria, che stai cercando di dirmi?» si spazientì la Comandante.

   «Dico che il suo DNA contiene un intero cromosoma in più. Qualcosa che non influenza il suo aspetto fisico» spiegò la Nacene. «Una volta elaborato, il codice genetico ci ha fornito delle coordinate. È un punto nell’alone esterno, molto lontano dalle zone in cui si combatte. Il nascondiglio perfetto... per i creatori della Scourge!» disse trionfante.

   «Quindi i Proto-Umanoidi – o ciò che ne resta – si nascondono là fuori?» chiese Ilia, un po’ scettica. «E perché si sono fatti vivi proprio adesso?».

   «Forse ci hanno localizzato solo ora. O forse vogliono parlare con chi ha distrutto il Cervello Matrioska e creato le nuove Melme» suggerì Suspiria, lanciandole un’occhiata penetrante.

   «E se fosse una trappola di Shado?».

   «Può darsi, ma il serpente non è infetto dai naniti, ed essendo l’unica traccia dobbiamo controllare» ribatté la Nacene. «Ci sarei già andata. Ma ho pensato che ai Proto-Umanoidi farà più piacere incontrare i loro figli, piuttosto che degli estranei. E voi dell’Enterprise siete i soli umanoidi che bazzicano ad Andromeda, in questo momento. O almeno i soli che conosco» ammise Suspiria, col visetto serio e il serpente intorno al braccio. «Ecco perché non potete tornare nella Via Lattea... non ancora. Vi resta quest’ultima missione. Trovate i Proto-Umanoidi e chiedetegli di aiutarci contro Shado. Se anche loro non possono farci niente... allora temo che nessuna forza nell’Universo possa fermarlo».

   «Quali sono le coordinate?» chiese la Trill.

   «Esaminate il suo DNA e lo troverete voi stessi» rispose Suspiria, gettando il serpente a terra, fra lei e Ilia. «Oppure raggiungetemi a Stigia, così ne parleremo meglio. Ma ricordate che ogni secondo sprecato avvantaggia il nemico!» ammonì, per poi svanire nell’aria. Era tornata nella sua stazione spaziale, a migliaia di parsec da lì.

   Per un attimo Ilia pensò d’essersi sognata quello strano incontro. Ma abbassando lo sguardo, vide che il serpente era ancora davanti a lei. Lo osservò mentre strisciava sotto il divanetto, in cerca di un riparo. Senza staccare gli occhi da lì, afferrò le scarpe e indietreggiò verso la porta.

   «Terry a Dax, ho rilevato emissioni d’energia subspaziale e sporocistica nel suo alloggio» la chiamò l’IA al comunicatore. «Sta bene?».

   «S-sì... ho solo fatto due chiacchiere con la nostra amica dagli occhi verdi» rispose la Trill mentre usciva dall’alloggio, indietreggiando come un gambero.

   «Intende Suspiria? Che voleva?» s’interessò subito Terry.

   «Mi ha dato una traccia che, secondo lei, ci porterà dai Proto-Umanoidi» rivelò Ilia. «Ma per leggerla avrei bisogno che mi mandasse la disinfestazione. Consulti le Procedure Speciali di Contenimento alla voce “serpenti velenosi”» disse con un filo di voce.

 

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Capitolo 4
*** Stigia ***


-Capitolo 3: Stigia

 

   La Nebulosa Stigia era una densa nube di gas interstellari, ionizzati dalle stelle vicine, che emettevano una cupa luce rossastra. L’intensa ionizzazione disturbava i sensori, persino quelli della Scourge. Ecco perché Suspiria l’aveva scelta come rifugio. Vi aveva piazzato la propria stazione spaziale, radunando altri della sua specie, fino a costituire il Clan degli Esuli. La capacità dei Nacene di trasferirsi a grande distanza, e soprattutto di trasferire altre persone e oggetti, aveva dato loro grande prestigio nella Coalizione di Andromeda. Se non avessero costantemente sottratto le navi alleate alle grinfie della Scourge, e ora di Shado, la Coalizione sarebbe crollata da un pezzo. Anche così, la situazione era critica: Shado stava setacciando la galassia in cerca dei loro rifugi. Presto i Nacene non avrebbero saputo più dove trasferire se stessi e gli alleati. Almeno loro potevano rifugiarsi a Exosia, se tutto fosse stato perduto; ma le specie corporee non erano così fortunate.

   «Siamo alle coordinate, Capitano» riferì T’Vala.

   «Signor Grog, invii il segnale di riconoscimento» ordinò Chase. Da quando Ilia gli aveva riferito la bizzarra conversazione con Suspiria, era ansioso di parlarle di persona.

   «Segnale inviato». Il Ferengi aveva appena parlato quando la stazione di Suspiria si rese visibile. Prima apparve il corpo centrale, un massiccio elemento a forma di ruota in cui si concentravano gli spazi abitativi. Poi dai mozzi della ruota si delinearono grosse strutture sporgenti, che contenevano i laboratori e gli armamenti. Per ultime apparvero otto strutture radiali a forma di spatola, che si allungavano per chilometri nello spazio. Tre di esse puntavano verso l’alto e tre verso il basso, mentre le ultime due protendevano dritte ai lati. Qui vi erano i sensori, i trasmettitori e altre strumentazioni. Tutto era alimentato da un potente reattore tetrionico, nascosto nel cuore della stazione. La tecnologia Nacene era antichissima e ancora piuttosto misteriosa, ma sembrava indirizzata a potenziare le facoltà naturali dei proprietari.

   «Stanno comparendo altre navi» notò Terry. «Rilevo dieci vascelli di Sunny... e poi c’è il Behemot».

   «Interessante» disse Chase, alzandosi per osservare le forze della Coalizione. La base di Suspiria era circondata da una piccola flotta: piccola di numero, perché alcune navi erano grandi quasi come la stazione. Quelle di Sunny avevano forme semplici, a uovo o a sigaro. Somigliavano molto a quelle di Shado, tranne che per il colore dorato. La loro superficie riluceva come oro fuso, lievemente increspata.

   Assai diverso era il Behemot, l’ammiraglia dei Kelvani. Lunga quanto l’Enterprise, era una massiccia nave da guerra a forma di chiodo. Era l’ultima della sua classe ancora in servizio. I Kelvani le avevano costruite all’apice della loro potenza, ma erano riusciti a completarne solo una decina prima che il loro impero fosse abbattuto dalla Scourge. Di queste, otto erano state distrutte dalla Melma Grigia, cercando di proteggere Kelva e altri mondi dell’Impero. Uno, il Leviathan, era stato danneggiato e abbandonato in un cimitero spaziale, dov’era caduto in mano ai pirati. All’inizio della sua missione l’Enterprise lo aveva affrontato due volte, riuscendo infine a farlo schiantare contro una stella di neutroni. Così restava solo il Behemot. Sebbene avesse superato di molto i termini previsti per il suo impiego, era tenuto in efficienza dall’equipaggio. Ed era stato potenziato con tecnologie di altre specie, che ne facevano una formidabile macchina bellica. Era una delle poche navi che avevano affrontato ripetutamente la Scourge, sia Grigia che Nera, uscendone incolumi.

   «Credevo che quella nave fosse lontana» commentò Fanior, affiancandosi al Capitano.

   «Non più... è tempo di adunata!» disse una vocetta alle loro spalle. Chase riconobbe Suspiria prima ancora di voltarsi. La bambina era lì, seduta sulla sua poltrona, con le gambette penzoloni e il faccino serio.

   «Quale adunata?» chiese il Capitano.

   «Shado avanza rapidamente verso Kelva» spiegò Suspiria. «Non si preoccupa nemmeno di contagiare i sistemi che oltrepassa, né di cercare gli avamposti più piccoli. È chiaro che vuole colpire al cuore la Coalizione, distruggendo una delle basi maggiori... nonché il primo pianeta che abbiamo risanato dalla Melma Grigia. Se ci riuscirà, sarà un colpo tremendo per il morale. Alcune specie, che già si lamentano, potrebbero abbandonare la Coalizione, illudendosi che da sole si nasconderanno meglio. Ma io che ho faticato per costruire quest’alleanza non lascerò che si sfaldi!» inveì, saltando giù dalla sedia.

   «Quindi il Behemot sta tornando a Kelva?» domandò Fanior.

   «Sì, la tua gente raccoglie le forze per resistere all’attacco» confermò la Nacene.

   «Resistere!» sobbalzò l’Ambasciatore. «Che follia è questa? Bisogna evacuare il pianeta, finché siamo in tempo. Una volta che Shado l’avrà circondato, non ci sarà più scampo».

   «Ho provato a spiegarglielo, ma la tua gente non vuole andarsene di nuovo. Dice che Kelva è stato riconquistato e ora bisogna difenderlo. Pensano di riuscirci... grazie a lui». La bimbetta indicò Sunny.

   «Io posso difendere il pianeta con uno Scudo e radunarvi le mie navi» rispose questi con voce misurata. «Posso darvi più tempo. Ma se mio fratello si è messo in testa di prendere Kelva, non credo che potrò indurlo a desistere. Anche se lo respingo tornerà ad attaccare, ancora e ancora, finché otterrà ciò che vuole».

   «Noi abbiamo ricevuto l’ordine di rientro» tentennò il Capitano, pensando a sua moglie e alla figlia nascitura. «Ma poiché abbiamo finalmente una traccia per i Proto-Umanoidi, la seguiremo» decise. «Però l’Enterprise ha subìto danni negli ultimi scontri. Dobbiamo fermarci un giorno o due per le riparazioni».

   «Potete farlo qui» acconsentì Suspiria. «Dopo di che vi accompagnerò in questa missione. Così, se fosse una trappola di Shado, potrò aiutarvi a fuggire».

   «Io però devo tornare a Kelva per convincere la mia gente ad andarsene» insisté Fanior. «Se il Behemot sta per ripartire, salirò a bordo».

   Chase non cercò di dissuaderlo, sapendo che sarebbe stato inutile. «Allora le nostre strade si divideranno per un po’» disse. «Spero che passata questa tempesta potremo rivederci tutti a Kelva. Buona fortuna, Ambasciatore» disse, stringendogli la mano.

   «Anche a lei, Capitano. Trovi i Proto-Umanoidi... ormai sono l’ultima speranza» rispose Fanior.

 

   Il giorno dopo, l’Enterprise sostava accanto alla stazione di Suspiria con il disco del deflettore e le gondole quantiche oscurati. Il sistema energetico principale era disattivato, per consentire agli ingegneri di ripararlo. Non si trattava solo degli ultimi danni: era il logorio di tre anni nello spazio profondo, senza soste in basi federali, che andava affrontato.

   Mentre gli ingegneri lavoravano alacremente, il resto dell’equipaggio si godeva un po’ di riposo. Alcuni ufficiali salirono persino sulla stazione di Suspiria, dove oltre ai Nacene si radunavano esponenti di molte specie della Coalizione. Solo a guardarli erano uno spettacolo, dato che appartenevano tutti a specie non umanoidi. Si andava dai piccoli Ornithoidi, simili a uccellini alti un palmo, ai grossi Kelvani, nella loro vera forma di calamari alti quattro o cinque metri. I Nacene, poi, erano molto diversi uno dall’altro. Composti da un citoplasma gelatinoso, pulsavano di luce interna, che differiva per colore e ritmo. I maschi erano più grossi e compatti, mentre le femmine erano più affusolate e agili, oltre che coperte di pseudopodi simili a sottili tentacoli. Fra di loro comunicavano telepaticamente, anche se potevano farsi udire quando c’era da parlare con altre specie.

   Quel pomeriggio, Sunny si trovò a passeggiare nell’arboreto dell’Enterprise. Per quanto la stazione Nacene fosse un luogo affascinante, lui preferiva la compagnia degli umanoidi. E guardandosi attorno, si chiese per quanto tempo ancora gli sarebbe stato concesso di rimanere lì. La resa dei conti con suo fratello, la sua metà oscura, si avvicinava. E Sunny non sapeva se sarebbe riuscito a sconfiggerlo. Passando accanto all’orto botanico, ne inspirò i profumi. C’erano molte piante odorose del Quadrante Alfa, dalle rose terrestri al klavaatu bajoriano.

   Gradualmente, Sunny divenne conscio della piccola folla che lo seguiva. All’inizio erano poche persone, ma col passare dei minuti il loro numero era aumentato, fino a superare la ventina. E se dapprima si poteva pensare che seguissero lo stesso percorso fra gli orti, ora lo stavano innegabilmente pedinando. Quando lui si muoveva, gli venivano dietro. Quando sostava, si fermavano a cinque o sei metri di distanza, confabulando tra loro. Sunny sapeva, in cuor suo, chi erano. Poiché ignorarli era inutile, si decise ad affrontarli.

   «Salve» disse, venendo loro incontro. «È da un po’ che mi seguite. Non trovate che sia più costruttivo se parliamo?».

   «Ne saremmo onorati, Aureo» rispose un uomo dai lunghi capelli grigio argento, raccolti in una lunga coda. Gli parlava rispettosamente, senza osare nemmeno guardarlo in faccia. A giudicare dal sottile rilievo verticale che gli divideva la fronte, doveva essere un Triannon, anche se non aveva la tipica linea di pittura sulla tempia che ne marcava la fede religiosa.

   «Il mio nome è Sunny» affermò con decisione l’umanoide dorato. «Perché vi ostinate a darmi quel titolo?».

   «Perché crediamo che ti renda giustizia» rispose il Triannon, con rispetto ma anche con convinzione. «Tu sei prezioso e incorruttibile come l’oro... anzi, molto di più! Ovunque tu vada, il Male arretra».

   «Ditelo a mio fratello!» sospirò Sunny.

   «A tempo debito, anche lui si scoprirà impotente contro di te» disse il Triannon, con pacata convinzione.

   «Da come parli, capisco che appartieni ai Figli della Luce» disse Sunny. «Anzi, forse sei proprio il loro leader».

   «Leader? Oh, no!» si schermì il Triannon. «Sono solo un’umile guida spirituale. Mi chiamo Anjou» disse, portandosi le mani al cuore e inchinandosi profondamente. «Il loro leader sei tu, Aureo».

   «Io non ho chiesto un simile ruolo» obiettò Sunny.

   «E questo ti rende ancora più degno di ricoprirlo!» sorrise Anjou, come se quell’affermazione gli scaldasse il cuore.

   «Se siete i Figli della Luce, devo chiedervi di riconsiderare il vostro operato» disse Sunny.

   «Perché, ti abbiamo offeso o deluso in qualche modo?» chiese il Triannon, addolorandosi.

   «No, per il momento» rispose Sunny. «Però alcuni di voi hanno maltrattato colei che mi è più cara: Terry. Se rispettate me, dovete accordare la stessa stima anche a lei».

   «Lo faremo, hai la mia parola» assicurò Anjou, portandosi ancora la mano sul cuore. «Nessuno svilirà la compagna dell’Aureo, vero?» chiese con improvvisa severità, lanciando un’occhiataccia alla signora Murphy, che gli stava accanto. La donna si fece ancora più piccola e mormorò un «» appena percettibile. Era arrossita fino alla radice dei capelli e fissava il suolo come se volesse sprofondarvi.

   «Bene» disse Anjou, senza più degnarla di uno sguardo. «Perdonaci se talvolta esageriamo in certe esternazioni» si rivolse di nuovo a Sunny. «Cerchiamo solo di compiacerti e di seguire le tue orme».

   «Nei modi da voi stabiliti» notò l’umanoide dorato. «Non credo che imbrattare i muri mi aiuterà a sconfiggere Shado».

   «Allora dicci tu cosa dobbiamo fare!» lo esortò Anjou. «Trasmettici la tua sapienza, Maestro».

   «Uhm... vacci piano con questi titoli» disse Sunny, aggrottando la fronte dorata. «Io non sono un profeta né un eletto. Se studiate la storia delle vostre culture, troverete altre figure, più degne di questo ruolo. Io non lo usurperò mai».

   «Eppure avrai qualcosa da dirci!» insisté il Triannon, quasi supplicando.

   «Sono nato dalla fusione dei vostri schemi mentali. Posso dirvi solo ciò che alberga già nel vostro cuore» rispose Sunny. «Se cercate un’etica del comportamento, non ho che da offrirvi la Regola Aurea: amate il prossimo come voi stessi. Se qualcuno soffre, abbiate compassione e aiutatelo. Se qualcuno vi offende, abbiate forza d’animo e perdonatelo».

   «Sentito, fratelli? L’Aureo ha parlato!» gioì Anjou, rivolgendosi al suo seguito. I Figli della Luce si portarono la mano al cuore e s’inchinarono, come se le parole di Sunny fossero qualcosa di nuovo e mai udito prima, e non piuttosto ciò che tanti profeti e filosofi avevano proclamato fin dagli albori della civiltà.

   «Ti ringrazio» disse il Triannon quando l’emozione si fu placata. «Registreremo la tua saggezza e la custodiremo reverenti» assicurò. Lui e i suoi seguaci si ritirarono rispettosamente, inchinandosi più volte. Non volendo dare le spalle a Sunny, arretrarono come gamberi, anche a costo d’incespicare negli ostacoli. Sunny li osservò allontanarsi, per nulla confortato dall’esito dell’incontro.

 

   Munita di forbicine, Terry osservò il ciliegio bonsai con la stessa attenzione con cui un maestro di kal-toh pianifica la prossima mossa. Poi, con cura esagerata, recise un rametto vicino all’estremità. Rigirò il vaso tra le mani, per osservare l’alberello da un’altra angolazione.

   «Perché sono così piccoli?» chiese l’ormai familiare vocetta di Suspiria alle sue spalle.

   «Perché sono bonsai» spiegò Terry, girandosi verso la bambina. «È un’antica pratica terrestre, della cultura giapponese. Si fa in modo che gli alberi restino nani, sia limitando la quantità d’acqua e terriccio, sia potandoli. Così s’indirizza la pianta a raggiungere forma e dimensioni volute, pur rispettandone l’equilibrio vegetativo e funzionale».

   «Ma perché?» insisté Suspiria.

   «È un’espressione artistica» spiegò l’IA. «I bonsai sono plasmati in forme armoniose che ispirano pace e serenità negli osservatori. Un altro aspetto interessante è che si tratta d’opere in divenire: continuano a crescere e a modificarsi, richiedendo continua attenzione. Come in ogni arte esistono capolavori, anche plurisecolari e dal valore inestimabile. Io naturalmente sono ancora alle prime armi. Ma ho constatato che ogni pianta ha caratteristiche sue proprie... oserei dire una sua personalità». Con grande cura, Terry recise una foglia un po’ più grande delle altre. «Per essere una buona bonsaista devo accentuare il più possibile queste peculiarità, senza però distruggere l’armonia dell’insieme. Il mio intervento deve notarsi il meno possibile, per suggerire all’osservatore solo l’azione del tempo e delle stagioni». Tagliò un’altra foglia più grande della media, così da selezionare le più piccole.

   «Ma tu sei un’Intelligenza Artificiale. Che t’importa di queste usanze da Organici?» chiese ancora la Nacene.

   «Non credo ci siano usanze da Organici e usanze da Ologrammi» obiettò Terry. «Se una cosa m’interessa la faccio, anche se non ha ragioni pratiche. Credo che questo mi renda un individuo più completo. Tu, piuttosto... perché continui ad apparire negli alloggi? Ho già ricevuto parecchie lamentele al riguardo».

   «Anch’io sono curiosa di apprendere le vostre attività» si giustificò Suspiria. «Noi Nacene siamo abituati a spostarci a piacimento, come tutti gli abitanti di Exosia. Di conseguenza non abbiamo quelli che voi chiamate spazi privati. Oh certo, abbiamo le nostre stazioni... ma in genere non abbiniamo una camera a un individuo. Così, anche dopo aver trascorso tanto tempo coi Solidi, tendo a invadere i loro ambienti. Scusa per l’intrusione; vuoi che vada?».

   «No, resta pure» disse Terry. Sebbene conoscesse Suspiria da qualche anno, c’erano ancora molte cose che ignorava sulla sua gente. E soprattutto sulla loro dimensione d’origine. Suspiria era una creatura umorale; se in quel momento era in vena di chiacchiere, poteva essere l’occasione buona per scoprire qualcosa di più.

   «Hai nominato Exosia» disse Terry, tornando a occuparsi dei bonsai. «Sappiamo che è una dimensione arborea, anzi fungina, ma ci sono molte cose che ignoriamo ancora. Com’è vivere lì?».

   «Pacifico... riposante» rispose la Nacene. «Molti dei miei simili ci passano tutta la vita. Ma io sono diversa, mi annoio a stare sempre nello stesso posto. Per questo preferisco il vostro Universo, dove tutto cambia da un posto all’altro e da un momento all’altro. Qui non sai mai cosa ti sta per capitare!».

   «Molti che vivono in questo Universo farebbero di tutto per godere di un posto tranquillo e stabile come Exosia» notò Terry. «Alla fine, si desidera sempre ciò che non si ha. Ma qual è la sua natura profonda? Come si lega alla nostra realtà e alle altre?».

   «Tutto è collegato. Ogni cosa fa parte dell’insieme. Questa è la chiave per comprendere Exosia» rivelò Suspiria. «Fa’ conto che il Multiverso sia questo alberello» disse, accostandosi al bonsai che l’IA stava potando. «Il tronco è Exosia. Ma anche i rami e i ramoscelli sono Exosia. L’Universo dove ci troviamo ora non è che una foglia. E tutti gli altri Universi sono anch’essi foglie dello stesso albero. Questo è lo Spazio Fluido degli Undine... questo lo Spazio Bianco dei Tuteriani... eccetera eccetera» disse, indicando altre foglie. «Quando ci spostiamo da un Universo all’altro, è come se scendessimo un ramo e ne risalissimo un altro, verso la foglia che vogliamo raggiungere». La bambina risalì un rametto col dito, raggiunse la prima biforcazione e risalì un altro ramoscello, fino a una foglia diversa da quella di partenza. «Come le foglie, alcuni Universi sono vicini e altri lontani. Ma se risaliamo fino al tronco, possiamo raggiungerli tutti».

   «Affascinante» disse Terry. «Ma che tu sappia, è mai successo questo?». Tagliò un’altra foglia del bonsai.

   «Alcuni Universi muoiono» annuì Suspiria. «A volte ricadono su se stessi, schiacciando e fondendo tutto ciò che contenevano. In altri casi continuano a espandersi, finché tutto diventa freddo e buio. Gli Universo muoiono... ma il Multiverso è eterno».

   «Io non parlavo di morte naturale» spiegò Terry. «Quella foglia non si è staccata: l’ho recisa io».

   Suspiria la guardò meravigliata e rifletté a lungo prima di rispondere. «Un’entità molto potente potrebbe essere in grado di “potare” il Multiverso, distruggendo se non una dimensione almeno una porzione di spazio» disse infine. «Ma il rischio che intravedo io è ancora maggiore. Se qualcosa contaminasse Exosia... se l’avvelenasse o la corrompesse... allora tutto il Multiverso potrebbe avvizzire».

   «Qualcosa come Shado?» chiese la proiezione isomorfa.

   «Può darsi. Lui contagia tutto quello che tocca. Se accedesse a Exosia, non so di preciso cosa accadrebbe» ammise Suspiria. «Ma è un motivo sufficiente per restare in questo Universo a combatterlo. Se noi Nacene fuggiamo tutti a Exosia, potremmo invogliarlo a seguirci. Non deve accadere».

   «Quindi l’intero Multiverso è a rischio!» fece Terry, frastornata. «Non avremmo dovuto creare Shado... anche se in quel caso... non avremmo neanche Sunny» constatò, deglutendo a fatica.

   «Non ti affliggere. Alla fine, siamo tutti pedine di un gioco più grande» disse saggiamente la Nacene. «Se solo potessimo usare Exosia a nostro vantaggio! Voi Solidi avete meno esperienza di noi al riguardo, ma... hai qualche idea su come potremmo sfruttare la nostra capacità per migliorare le cose?».

   «Così su due piedi non saprei...» ammise Terry, rimuginando. «Finora la dimensione con cui abbiamo interagito di più, oltre a quella dei Tuteriani, è lo Specchio. La conosci?».

   «Descrivila».

   «Più che una dimensione a se stante, potrebbe essere un’altra linea temporale di questa» spiegò Terry. «Lì gli Umani non hanno creato una pacifica Federazione, ma al contrario un Impero xenofobo e guerrafondaio. L’aspetto più curioso, anzi inesplicabile, è che ogni individuo del nostro Universo ha una controparte nello Specchio. Specialmente nel caso degli Umani, gli alter-ego sono inclini all’inganno e alla violenza. Da quando due dei nostri visitarono lo Specchio, otto anni fa, abbiamo subìto diversi attacchi. Pensa che abbiamo ancora un ufficiale dell’Impero Terrestre in prigione. È l’alter-ego di T’Vala: ora si fa chiamare Lyra. Pensi che potresti rispedirla nella sua dimensione? Una volta lì, potremmo cercare di capire se la Scourge esiste anche da loro. E se sì, come fanno a combatterla».

   «Uhm... potrei provarci» disse Suspiria, con una prudenza che rasentava l’incertezza. «Sono stata nello Specchio solo una volta, diverso tempo fa. Me ne andai subito. È passato così tanto che non so nemmeno se saprei ritrovare la strada. Sai, tutte quelle ramificazioni tra gli Universi sono un labirinto».

   «Potrebbe essere il caso di provare» suggerì Terry. «Mal che vada, ci sbarazzeremo di Lyra. Da quand’è bordo ho il timore che torni a danneggiare l’equipaggio. E nel migliore dei casi potremmo scoprire qualche arma o strategia utile contro la Scourge».

   «Portatela sulla mia stazione» disse Suspiria. «Confrontando la sua traccia quantica con quella della vostra T’Vala, dovrei ritrovare la strada per lo Specchio». La Nacene svanì in un lampo giallo, lasciando Terry fra i bonsai.

 

   Com’era prevedibile, Lyra non fu entusiasta quando l’informarono della decisione. Anzi, andò su tutte le furie. «Tornare nello Specchio? Neanche morta! Non voglio più rivedere quell’inferno!» esclamò con rabbia.

   «Eppure quanto ti catturammo, otto anni fa, stavi cercando disperatamente di tornarci» le ricordò Terry, che assieme a Lantora e T’Vala l’osservava attraverso la parete trasparente della sua cella.

   «Le circostanze erano diverse» spiegò Lyra. «Ormai mi avevate scoperta e dovevo fuggire. Se fossi tornata all’Impero con informazioni sulla vostra nave, mi avrebbero ricompensata. Ma se torno dopo tutto questo tempo, mi giustizieranno per diserzione. Ora che avete annientato la loro flotta a Procyon V, l’Impero non vorrà più avere contatti col vostro Universo».

   «Uhm... per quanto mi piacerebbe spedirti in un’altra dimensione, lontano dalla mia famiglia, suppongo di non poterlo fare, se significa condannarti a morte» mugugnò Lantora.

   «Non abbiamo detto che ti riconsegneremo all’Impero» sottolineò T’Vala. «Suspiria può lasciarti dove vuoi. Potremmo anche fornirti un minimo di bagaglio. Vedila così: preferisci stare in una prigione dell’Unione o a piede libero nell’Impero Terrestre?».

   «Uhm... scelta difficile» ammise Lyra. «In cella vivrei più a lungo, ma credo che ammattirei. In fondo sono nata nello Specchio. Forse dovrei tornarci... non so nemmeno se mio padre sia ancora vivo...» disse, tentata.

   «Pensaci in fretta» l’esortò Lantora. «Domani lasceremo la stazione di Suspiria. Potresti non avere più quest’opportunità».

   «Se resto nella vostra dimensione, prima o poi Shado inghiottirà tutto» ragionò Lyra. «Nella mia, non so nemmeno se la Scourge esista... ma certamente non esiste Shado. Avete distrutto l’ISS Enterprise prima che scoprisse il Cervello Matrioska. Quindi, tutto sommato, potrei stare più al sicuro di là. Va bene, mi avete convinta: tornerò nello Specchio» decise.

 

   Quel giorno stesso, T’Vala e Lyra si recarono sulla stazione di Suspiria. Lantora insisté per andare con loro. Per quanto confidasse nelle capacità di sua moglie, Lyra l’aveva sopraffatta già una volta. Lo Xindi Primate non sopportava di lasciarle ancora sole, per poi rivederne una, mentre l’altra era finita nello Specchio. Temeva che in qualche modo Lyra riuscisse ancora a scambiarsi con T’Vala, quindi non voleva perderle d’occhio.

   Scortati da altri Nacene, simili a masse di citoplasma che pulsavano di vari colori, i tre umanoidi giunsero in un vasto laboratorio, le cui pareti chiare erano affollate di strumenti d’incerta funzione. Al centro si trovavano due pedane. T’Vala e Lyra vi salirono sopra, mentre Suspiria si recò in mezzo a loro. La Nacene aveva ripreso il suo vero aspetto, quello di una creatura vermiforme e guizzante. Bagliori azzurri e viola pulsavano al suo interno, mentre la membrana esterna era cosparsa di pseudopodi.

   «Ora leggerò le vostre tracce quantiche e le metterò a confronto» spiegò Suspiria, facendo udire in qualche modo la sua voce. «Rimanete immobili». Le sosia obbedirono, mentre due coni di luce bianca proiettati dal soffitto cadevano su di loro. Un profondo ronzio riempì il laboratorio. Lantora si era addossato alla parete di fondo e osservava tutto con un pizzico d’apprensione. Di fianco a lui stavano altri Nacene, grosse masse di citoplasma pulsante. Faceva un certo effetto pensare che centinaia di quegli esseri erano al servizio di Suspiria.

   «Ho le tracce» disse la leader degli Esuli. «La discrepanza quantica è sottilissima. Le vostre dimensioni sono certamente unite da un legame speciale. Ora consulterò il nostro database, per risalire al percorso che porta allo Specchio». Suspiria si recò a una postazione, dove manovrò simultaneamente un gran numero di comandi, avvalendosi delle sue molte appendici. Lantora attese con impazienza.

   «Ci siamo, ho trovato la strada» disse Suspiria dopo un paio di minuti. «Posso riportarti a casa, Lyra».

   «Avevate promesso di darmi provviste» ricordò la mezza Vulcaniana, passando lo sguardo da T’Vala a Lantora. Anche se cercava di non darlo a vedere, l’idea che l’abbandonassero nello Specchio senza niente la spaventava.

   «E lo faremo» assicurò T’Vala, scendendo dalla pedana. «Abbiamo preparato una navetta con cibo e generi di prima necessità. Dovrebbe già aspettarci nell’hangar della stazione. Suspiria ti trasferirà con la navetta e tutto, riportandoti anche nella Via Lattea».

   «Grazie» mormorò Lyra, scendendo a sua volta. Si sentiva quasi a disagio per la generosità che le veniva riservata. «Ehm, già che ci siete, non potreste darmi qualche barra di latinum?» si azzardò a chiedere.

   «Adesso non esagerare» ammonì Lantora. «Ti abbiamo dato il necessario per sopravvivere e per spostarti da un sistema all’altro, ma non ti ricompenseremo per i tuoi crimini. Per lo stesso motivo, la navetta è disarmata».

   Lyra annuì, rendendosi conto che non poteva chiedere di più. Era stata fortunata ad avere l’opportunità di tornare libera, invece d’essere riconsegnata a una prigione dell’Unione. Stavano per lasciare il laboratorio, quando squillò un allarme simile a un profondissimo fischio. Era così intenso che i tre umanoidi dovettero mettersi le dita nelle orecchie, finché non cessò, pochi secondi dopo.

   «Che succede?» chiese Lantora, presagendo il peggio.

   «Temo che la missione nello Specchio dovrà aspettare» disse Suspiria, mentre la luce al suo interno si affievoliva, facendola sembrare più densa. «Il nemico ci ha trovati».

 

   Lo spazio intorno alla stazione brulicava di navi Scourge, appena visibili contro il rosso cupo della nebulosa. I loro raggi antiprotonici presero di mira la base spaziale, cercando di disabilitarla. Misero a segni pochi colpi, approfittando della sorpresa; dopo di che i Nacene alzarono gli scudi. Erano scudi potenti, alimentati dal reattore a tetrioni: nemmeno Shado poteva abbatterli facilmente.

   La Coalizione passò subito al contrattacco. La stazione di Suspiria aprì il fuoco con le sue armi tetrioniche, disposte sugli otto bracci, che le permettevano di sparare in tutte le direzioni. Le navi dorate di Sunny attaccarono quelle nere di Shado, scambiando bordate a distanza ravvicinata. I raggi azzurri e rossi s’incrociarono, affondando negli scafi di naniti come coltelli nel burro. Ma una volta aperto uno squarcio, quello subito si richiudeva, grazie alle nano-macchine che si riassestavano. Le astronavi potevano così bersagliarsi a lungo, perdendo pochissima massa. Se una di esse era tagliata in due poteva ricomporsi, oppure riconfigurare i tronconi, facendone vascelli autonomi. Quando una nave nera speronò una dorata, si trasformarono in un mulinello di naniti. Cercavano di distruggersi a vicenda, ma era soprattutto l’intenso calore generato dalla lotta che poco a poco li consumava, con pari velocità in entrambe le Melme.

   Anche il Behemot, l’ammiraglia dei Kelvani, attivò prontamente gli scudi e si gettò nella mischia. Sulla plancia fatta a terrazze, i grossi calamari manovravano i comandi con l’efficienza delle loro molte appendici.

   «Questo attacco non ci voleva» commentò il Consigliere Reshef, muovendo il becco corneo fra i tentacoli. «Stiamo vicini alla stazione e proteggiamola, finché i Nacene non l’avranno trasferita».

   «Dov’è l’Enterprise?» chiese Fanior, che gli stava a fianco. L’Ambasciatore aveva ripreso la sua forma Kelvana nel momento in cui era salito a bordo.

   «Si direbbe inerte... molto strano» rispose l’addetta ai sensori, una kelvana di nome Berith, inquadrando la nave federale su un oloschermo. L’Enterprise era immobile, con il deflettore e le gondole spente. Dalle letture energetiche risultava che non aveva nemmeno alzato gli scudi: cosa pericolosissima, con tutta la Melma Nera che le sfrecciava attorno.

   «Molto inopportuno!» corresse Reshef. «Fanior, lei che è stato a lungo su quella nave... come lo spiega?».

   «Oh, no...» gemette l’Ambasciatore, agitando i tentacoli costernato. «L’Enterprise stava riparando la griglia energetica. Se hanno disattivato l’energia principale, non possono fare una riaccensione a freddo. Servono alcuni minuti per ridare energia al nucleo».

   «Non li hanno, alcuni minuti» obiettò Berith. In quella il Behemot si scosse, colpito da tre navi Scourge nello stesso momento.

   «Possiamo estendere i nostri scudi per proteggerli?» chiese Fanior, preoccupato.

   «Non mentre subiamo un attacco del genere» rispose l’Ufficiale Tattico.

   «Consigliere, la prego...» implorò Fanior, rivolgendosi direttamente a Reshef.

   «Mi spiace, Ambasciatore» rispose il leader kelvano, impassibile. «Sono validi alleati, ma non possiamo aiutarli. Se non ci pensano i Nacene...».

   «I Nacene devono trasferire la stazione!» obiettò Fanior. Osservò la nave federale con uno dei grandi occhi da calamaro, temendo di vederla per l’ultima volta.

 

   «Signor Grenk, questo è il momento per uno dei suoi miracoli» disse Chase, vedendo la battaglia che impazzava attorno all’Enterprise. Raggi antiprotonici e siluri di Scourge guizzavano intorno a loro: se uno solo li colpiva, era la fine.

   «Non si può fare l’accensione a freddo... salteremo tutti in aria!» si lamentò il Tellarita, correndo da una postazione all’altra. In sala macchine era il caos: gli ingegneri dovevano riattivare un nucleo quantico ancora parzialmente smontato.

   «Trovi il modo!» insisté il Capitano dalla plancia.

   «Ma non si possono cambiare le leggi della fisica!» gemette l’Ingegnere Capo, leggendo dati poco rassicuranti sulla consolle.

   «Senza la mia energia principale non posso proteggervi» avvertì Terry in plancia. «Capitano, forse dovrebbe... ordinare l’evacuazione». Non era facile, per lei, dare questo consiglio. Quando inviava una sua proiezione fuori dalla nave, l’Emettitore Autonomo non poteva contenere il suo intero database, quindi vi trasferiva solo lo stretto indispensabile. Perdere l’Enterprise, e con essa il processore centrale, avrebbe cancellato una grossa parte della sua personalità, anche se qualche proiezione fosse riuscita a fuggire.

   Chase guardò incredulo l’IA, poi tornò a osservare la battaglia sullo schermo principale. Era successo tutto all’improvviso. Se l’Enterprise fosse stata operativa se la sarebbero cavata, ma così non avevano scampo.

   «Siluri Scourge in rotta di collisione!» avvertì Terry, inquadrandoli sullo schermo. I sei siluri neri sfrecciavano contro l’Enterprise. Bastava che uno solo colpisse lo scafo per contagiarla. Sunny frappose una delle sue navi, ma i siluri le passarono attorno e proseguirono la corsa. All’ultimo istante furono disintegrati dai colpi tetrionici della stazione Nacene.

   Chase si sentì accapponare la pelle: c’era mancato un soffio. Ma vedendo le navi di Shado che si accostavano, capì che avevano guadagnato solo pochi secondi. «Siamo nelle sue mani, Grenk» disse. Quando ogni attimo di sopravvivenza era un miracolo, in quanti miracoli si poteva sperare?

 

   «Devo trasferire subito la stazione» disse Suspiria, il cui corpo traslucido era diventato opaco per il timore. Attorno a lei, gli altri Nacene lasciarono il laboratorio, diretti al centro di comando. Alcuni passarono attraverso le paratie, per fare più in fretta.

   «Che ne sarà dell’Enterprise? Ha il nucleo mezzo smontato, non può fuggire né difendersi!» avvertì Lantora. «Aiutaci, ti prego».

   «Ma devo pensare alla mia gente!» insisté la Nacene. L’energia pulsava nei condotti della stazione, che si preparava al trasferimento.

   «Non abbandonarci, Suspiria» supplicò T’Vala, inginocchiandosi accanto alla creatura. «Su quella nave c’è nostro figlio. Per sei anni abbiamo soccorso i popoli della Via Lattea e per altri tre quelli di Andromeda. Ora siamo noi a chiedere aiuto. Se credi che abbiamo agito bene, salvaci!».

   «Se salvo voi, altri moriranno» disse Suspiria, lacerata fra le responsabilità contrastanti. «Ma va bene. Voi siete quelli che hanno più speranze di smuovere i Proto-Umanoidi... se ancora esistono» ricordò. Le pulsazioni energetiche nei condotti rallentarono, man mano che l’energia era deviata ad altri sistemi. «Ho esteso gli scudi per proteggere l’Enterprise» spiegò la Nacene. «Se i vostri colleghi non riescono a farla ripartire in fretta, dovrò pensarci io. La scaglierò lontano con un’onda tetrionica».

   Lantora e T’Vala si scambiarono un’occhiata inquieta. Era con quel sistema che il compagno di Suspiria aveva attirato a sé navi da tutta la Via Lattea, inclusa l’USS Voyager. Il trasferimento era traumatico per le astronavi, specialmente se eseguito in fretta: la Voyager aveva riportato gravi danni. L’Enterprise-J era più moderna e resistente, ma non tanto da stare tranquilli. Però non c’era alternativa: attardarsi significava morte certa.

   «Vado al centro di comando» disse Suspiria. Si dileguò attraverso una parete solida, prima che gli altri potessero dire alcunché.

   «Lantora a Enterprise, mi sentite?» chiese lo Xindi, premendosi il comunicatore. Dal dispositivo giunsero solo frammenti di parole.

   «È inutile: l’Enterprise ha poca energia e questa stazione è pesantemente schermata» disse T’Vala. «Dobbiamo raggiungere l’hangar». La coppia lasciò di corsa il laboratorio.

   «Ehi, aspettatemi!» gridò Lyra, correndogli dietro. Quella stazione la inquietava: tutto sommato preferiva tornare sull’Enterprise. Il terzetto si affrettò lungo corridoi e sale piene di strane apparecchiature. Non erano soli: attorno a loro c’erano le molte specie della Coalizione. L’equipaggio correva ai propri posti, ma parecchi civili sembravano intenzionati a mettersi in salvo. La stazione vibrò e l’allarme tornò a suonare per qualche secondo.

   «Credo che la struttura stia subendo colpi» disse Lantora. «Estendere così tanto gli scudi li avrà indeboliti. Restiamo vicini!» raccomandò a T’Vala, temendo di perderla nella calca. Aveva ragione: nello spazio le navi di Shado concentravano il fuoco sulla base. I loro raggi rossi superarono la bolla degli scudi, colpendo la struttura nei punti di giunzione dei bracci. Per quanto lo scafo fosse resistente, non c’erano materiali che potessero resistere alle intense scariche antiprotoniche. Si aprirono falle, da cui l’aria venne risucchiata nello spazio. Le fluttuazioni nella griglia energetica provocarono danni a cascata. Alcuni condotti si sovraccaricarono ed esplosero, provocando ulteriori danni.

   «Ci siamo!» esclamò Lantora, quando sbucarono nell’hangar. Il portello esterno era aperto; solo un campo di forza tratteneva l’aria. Da lì s’intravedeva uno spicchio di battaglia: raggi azzurri e rossi rigavano lo spazio, le astronavi sfrecciavano rapidissime. Solo l’Enterprise era ancora inerte. L’hangar conteneva navicelle aliene dalle fogge più disparate. Ma i federali avevano occhi solo per la navetta approntata per Lyra, che ora costituiva la loro via di fuga.

   «Aspettatemi!» disse una voce bassa, da rettile, che tutti loro conoscevano. Un Gorn sbucò da un altro ingresso e venne loro incontro, fendendo la calca.

   «Raav, che ci fai qui?!» si stupì lo Xindi.

   «Visitavo la stazione, finché non è scoppiato il finimondo. Prendiamo la navetta e... attenta!» gridò Raav. Un pesante elemento metallico della parete si era rotto nella parte più alta e stava cadendo in avanti, su T’Vala. Se l’avesse colpita in testa, l’avrebbe uccisa sul colpo. Lantora se ne avvide e scattò in avanti, spintonando sua moglie per salvarla.

   T’Vala cadde, rotolò a terra e si rialzò all’istante. «Lantora!» gridò, inorridita. La trave di metallo aveva mancato d’un soffio la testa dello Xindi, ma gli era comunque caduta addosso, schiacciandogli una gamba. Anche se non c’erano fratture esposte, era logico dedurre che un peso di quel genere gliela avesse rotta. «Non dovevi» mormorò la timoniera, chinandosi su di lui.

   «Sì, invece. Vrel ha bisogno di sua madre» rispose Lantora, il viso contratto dal dolore.

   «E di suo padre no?!» gemette T’Vala. Afferrò la trave e cercò di sollevarla, ma era oltre le sue possibilità. Persino quando Raav si unì a lei, con la sua forza enorme di Gorn, non riuscirono a muoverla.

   «Ahi, piano...» si lamentò lo Xindi, sentendo che un lato della trave s’inclinava, schiacciandogli ancor più la gamba.

   «Beh, non stare lì impalata! Aiutaci!» gridò Raav, all’indirizzo di Lyra.

   La donna dello Specchio li osservò con distacco. Lantora era premuto a terra dalla trave e con ogni probabilità aveva una gamba rotta. Con gli altri due che gli restavano accanto, cercando di liberarlo, la strada per la navetta era sgombra. Poteva riguadagnare la libertà. Lyra soppesò i pro e i contro con la logica: la riflessione le portò via due secondi. Dopo di che corse accanto a T’Vala, afferrò la trave e tirò verso l’alto con tutta la sua forza vulcaniana. Il suo intervento fornì l’apporto decisivo per sollevare il detrito. A Lantora bastarono pochi secondi per estrarre la gamba, permettendo agli altri di mollare la pesantissima trave. Erano esausti per lo sforzo e Lantora non poteva camminare, ma almeno non era più bloccato. T’Vala alzò lo sguardo su Lyra, incredula: era certa che la sosia dello Specchio avrebbe colto l’occasione per fuggire.

   «Siamo circondati dalla Scourge. Se fossi fuggita, non sarei arrivata lontano» si giustificò la prigioniera.

   «Certo, è logico» riconobbe la timoniera, squadrandola con freddezza.

   «Enterprise a Lantora e T’Vala, mi sentite?». La voce di Terry ora giungeva chiara dai comunicatori. Se il laboratorio Nacene era schermato, non si poteva dire lo stesso dell’hangar affacciato sullo spazio.

   «Forte e chiaro» rispose T’Vala, pigiandosi per prima il comunicatore. «Lantora è ferito, potete teletrasportarci?».

   «Ho ancora poca energia e le emissioni tetrioniche disturbano l’aggancio» si scusò Terry. «Ma posso prendervi uno alla volta. Restate immobili» raccomandò.

   «Non c’è problema» disse Lantora, ancora a terra. Ma i suoi occhi si sgranarono quando vide l’hangar dissolversi intorno a sé. T’Vala aveva detto a Terry che era ferito, quindi l’IA lo aveva prelevato per primo. Lui però avrebbe voluto che prendessero prima sua moglie.

   «Abbiamo Lantora» riferì Terry. «Ora tocca a lei, Tenente...». La comunicazione fu troncata, mentre un accecante bagliore arancione riempiva l’hangar. Quando la luce svanì, anche l’Enterprise si era dissolta. T’Vala fissò lo spazio, cercando di razionalizzare l’accaduto. Non era possibile che l’astronave fosse esplosa così di botto.

   «Non riuscivano a riattivare l’energia» spiegò Suspiria, uscendo dalla parete dietro di loro. «Così li ho spediti lontano, a migliaia di parsec da qui. Nemmeno Shado può rintracciarli».

   «E noi?» chiese Raav.

   «Avete una navetta. Prendete quella» disse la Nacene, sbrigativa. La stazione subiva scossoni sempre più violenti. Altre travi si staccarono dalle pareti dell’hangar, schiacciando alcune navette.

   «Ma non sappiamo dove hai mandato l’Enterprise» obiettò Lyra.

   «È vero... nella fretta di generare l’onda non so per certo a che distanza siano finiti» si scusò Suspiria. «Comunque sono in salvo... al contrario della mia stazione».

   Mentre Suspiria parlava, la base stava andando in pezzi. Ignorando il Behemot e le navi di Sunny, Shado concentrava su di essa tutta la sua potenza di fuoco. Un braccio della struttura si spezzò e roteò nello spazio, con l’estremità in fiamme. Ne seguì un altro e un altro ancora. La stazione però continuava a sparare, come anche le navi della Coalizione. Shado stava consumando molte forze, ma non gli importava: inchiodare i Nacene, i più sfuggenti dei suoi nemici, aveva la precedenza su tutto.

   «Mi spiace, non volevamo causarti questo» si scusò T’Vala.

   «Doveva accadere, prima o poi» disse Suspiria, riprendendo l’aspetto di una bambina. «Almeno è solo la stazione. Il mio Clan fugge a Exosia e sta portando in salvo anche le altre specie». I federali notarono infatti che quando le navette erano cariche, non decollavano: i Nacene le toccavano, facendole svanire in bagliori giallognoli.

   «Puoi portarci via da qui?» chiese Raav, guardandosi attorno con apprensione. L’hangar era quasi vuoto e le pareti scricchiolavano come sul punto di sgretolarsi.

   «Uhm... sì, posso» disse Suspiria, studiando il terzetto con sguardo malizioso. Stava rimuginando qualcosa, glielo si leggeva in quegli occhi verdi.

   «Allora andiamo» esortò Lyra, affrettandosi verso la navetta. Suspiria le trottò dietro. A T’Vala e Raav non restò che seguirle. Quando furono tutti a bordo, ed ebbero chiuso il portello, la Nacene posò le mani sui comandi. Un’energia giallastra serpeggiò sulla consolle e si estese a tutte le superfici della navetta.

   «Dove ci porti, se non sai con certezza dov’è l’Enterprise?» chiese T’Vala, con un brutto presentimento.

   «Nella mia vera casa» rispose Suspiria, intensificando l’energia che fluiva dal suo corpo. «Tu ci sei già stata una volta».

   «No!» gridò la mezza Vulcaniana, ma era troppo tardi. Impregnata dall’energia subspaziale e sporocistica, la navetta svanì in un lampo giallo. Era l’ultima: l’hangar deserto scricchiolò e le travi crollarono. Celle energetiche e condotti del plasma esplosero in tutta la stazione, strappando i lunghi bracci e aprendo falle nel corpo centrale. La fine era imminente. Ma la struttura non era che un guscio vuoto: i Nacene avevano messo in salvo se stessi e gli alleati.

   Nello spazio, il Behemot e le navi dorate continuavano a bersagliare le forze di Shado, che da parte loro si accanivano sulla stazione. Venti navi nere erano state distrutte, ma le trenta rimanenti proseguivano l’attacco. Quando Shado s’intestardiva a colpire un obiettivo, raramente mollava l’osso. E non si curava delle perdite, potendo contare su riserve inesauribili di Melma Nera. Ora che ne aveva abbattuto gli scudi, colpì la base Nacene con siluri di Scourge. Non esplosero all’impatto, ma formarono chiazze nere in rapida espansione. In pochi minuti avrebbero consumato la struttura. Dalla plancia del Behemot, i Kelvani osservarono tutto.

   «Shado ha contagiato la base, ma i Nacene hanno completato l’evacuazione. E i livelli di tetrioni dal nucleo aumentano» riferì Berith. Non occorreva aggiungere altro: una delle regole della Coalizione imponeva di non lasciare mai la propria tecnologia al nemico.

   «Allora andiamo; non c’è più nulla da fare qui» ordinò il Consigliere Reshef. «Rotta verso Kelva Primo, e speriamo di arrivare in tempo».

   «Buona fortuna, Capitano» mormorò Fanior, osservando il punto in cui l’Enterprise era svanita poco prima, nel lampo di tetrioni. L’astronave era salva, anche se l’Ambasciatore ignorava dove fosse finita. Ma conoscendo i suoi ufficiali, non dubitò che se la sarebbero cavata. Si augurò di rivederli.

   Il Behemot balzò in curvatura, lasciando la Nebulosa Stigia. Anche le poche navi di Sunny rimanenti si ritirarono. Shado non si curò d’inseguirli. Sapeva dove stavano andando e non vedeva l’ora di ritrovarli, concentrati a Kelva, per schiacciarli definitivamente. Nel frattempo preferiva razzolare tra i resti della struttura Nacene, estraendone tecnologie o informazioni utili. Sempre che non fosse tardi. La Melma Nera fluì nei meandri della stazione, diretta al reattore tetrionico, dove l’energia era salita ben oltre i livelli di guardia. Non fece in tempo a raggiungerlo. L’esplosione del reattore vaporizzò la struttura e i bracci che se ne erano distaccati, come anche le cinque navi Scourge più vicine. Incenerì lo strato esterno delle navi più distanti. Ed eccitò i gas della nebulosa, come se una nuova stella avesse iniziato a splendere. Ma in breve il bagliore si estinse e le navi nere abbandonarono Stigia, dopo essersi rigenerate.

   Shado aveva inviato una flotta di cinquanta navi e ne aveva perse la metà. Se fosse stato un Solido, sarebbe andato su tutte le furie. Ma nella sua posizione, poteva permettersi simili perdite senza battere ciglio. Plasmò nuove astronavi dai laghi di Melma Nera di un vicino pianeta e le inviò a rinsanguare la flotta. Poi la spedì verso Kelva Primo, alle calcagna del Behemot. Altre flotte nere si levarono dai pianeti contagiati, convergendo tutte su quell’obiettivo. L’attacco a Stigia non era stato vano: aveva distrutto la stazione di Suspiria, uno degli obiettivi più bramati da Shado. E anche se gli occupanti si erano messi in salvo, erano le conseguenze sul morale che contavano. I Nacene avevano perso l’aura d’invincibilità. La Coalizione era sempre più allo stremo. Non restava che schiacciare Kelva per farla crollare. Una volta frazionate le specie, Shado se le sarebbe divorate una dopo l’altra. E Andromeda sarebbe stata tutta sua, da riplasmare come voleva. Con un brivido di compiacimento, Shado si domandò in cosa era diverso da un dio.

 

   «Ecco, ora sei a posto» disse Sunny, ritirando i propri naniti da Ilia dopo averle curato le ustioni. Poteva andarle peggio, considerando che la sua consolle le era esplosa in faccia, quando l’onda tetrionica aveva sospinto l’Enterprise come una foglia in una tempesta.

   «Grazie» disse la Trill, passandosi le dita fra i capelli scarmigliati. Attorno a loro, i colleghi erano in condizioni simili. Alcuni erano stati scagliati a terra dallo scossone, che nemmeno gli smorzatori inerziali avevano attutito completamente.

   «Rapporto danni» disse il Capitano, aspettandosi il peggio.

   «Ho avuto alcuni sovraccarichi alla griglia energetica, ma nulla di grave» riferì Terry. «Lo scafo ha retto: prima dell’onda avevo attivato gli intensificatori dei legami molecolari. Danni minimi ad alcuni sotto-sistemi. A una prima valutazione, ritengo che i guasti siano riparabili in 48 ore».

   «Temevo peggio» commentò Chase, confortato. «E l’equipaggio?».

   «Ci sono molti contusi, per via dello scossone, ma nessuno è in pericolo di vita. Non abbiamo vittime. Ma...».

   «Ma?» chiese il Capitano, sentendo che il peggio veniva per ultimo.

   «Prima che l’onda ci colpisse, stavo teletrasportando quelli che erano sulla stazione» spiegò Terry. «Per primo ho preso Lantora, dato che era ferito... nulla di serio, solo una gamba rotta» precisò. «Stavo per teletrasportare T’Vala, quando siamo stati trascinati via. Oltre a lei, abbiamo perso anche Lyra e Raav».

   Dopo l’ultima chiacchierata con Terry, Chase sapeva quanto le costasse perdere qualcuno. T’Vala e Raav, poi, erano suoi amici. Ma il Capitano pensò soprattutto al piccolo Vrel. Come l’avrebbe detto a Lantora?

   «Non perdete la speranza» disse Sunny. «I Nacene hanno evacuato la stazione, prima che fosse distrutta».

   «Distrutta?» inquisì Chase.

   «Sì, le mie navi hanno rilevato l’esplosione un attimo fa» confermò l’umanoide dorato. «Ma ritengo che Suspiria abbia salvato i nostri».

   «E allora dove sono?» chiese il Capitano, guardandosi attorno come se sperasse di vederli apparire dal nulla.

   «Questo non glielo so dire» ammise Sunny, rattristandosi.

   «Lungo i rami» mormorò Terry.

   «Come?» si stupì Chase.

   «Stamattina Suspiria mi ha fatto visita e mi ha parlato delle Rete Miceliare» spiegò l’IA. «Ha detto che gli Universi sono come le foglie di un albero. Ma il tronco, i rami e i ramoscelli sono tutti Exosia. Per gli umanoidi è difficile accedervi, ma sappiamo che T’Vala c’è riuscita già una volta».

   «Sì, quando affrontò Suspiria» ricordò il Capitano. «Ma all’epoca risentiva gli effetti della Barriera Galattica. Il suo livello ESP era alle stelle. Come starà adesso? E Raav, che non è affatto un telepate?».

   «Dobbiamo sperare che Suspiria si prenda cura di loro» disse Terry con fatalismo.

   «Forse so perché non li ha riportati qui» intervenne Ilia. «Quando mi diede il serpente, la traccia per i Progenitori, ribadì che dovevamo andarci subito. Diceva che essendo umanoidi abbiamo più possibilità di smuoverli. Forse ha perso la pazienza ed è andata a cercarli lei... portandosi dietro gli umanoidi che aveva sottomano in quel momento».

   «Una decisione impulsiva... ma coerente con la personalità di Suspiria» notò il Consigliere Apsu, che aleggiava su di loro in forma olografica. Come al solito, lo Xindi Acquatico si trovava nel ponte allagato, con altre specie marine.

   «Allora ripariamo l’Enterprise e andiamoci anche noi» decise il Capitano. «Se sono là, li ritroveremo. E se ci fossero anche i Proto-Umanoidi... beh... speriamo che ci siano» borbottò. Dopo quella batosta, avevano più bisogno che mai di nuovi alleati.

   «Lantora a plancia... avete notizie di mia moglie?».

 

   Il Behemot uscì dalla curvatura a poca distanza da Kelva Primo. Il pianeta non era più la landa brulla, macchiata da laghi di Melma Grigia, che l’Enterprise aveva trovato due anni e mezzo prima. Le foreste cristalline di Sashira, reintrodotte dai Kelvani, erano cresciute a ritmo prodigioso su tutto il continente, screziandolo d’azzurro. I laghi di Melma Dorata rilucevano come oro sotto il sole. Quel mondo era il primo risanato da Sunny, il che ne faceva un simbolo di speranza. Era anche il centro della Resistenza Kelvana e una delle maggiori basi della Coalizione, per cui era pesantemente difeso. Navi di varia foggia pattugliavano l’orbita: soprattutto kelvane, affluite da tutta la galassia, ma anche alleate. Si andava dai piccoli sparvieri degli Ornithoidi a una colossale nave-cilindro degli Uiin, fino alle navicelle corsare. Negli ultimi anni, infatti, diverse bande di pirati avevano siglato una tregua con la Coalizione. Alcune vi si erano persino alleate, divenendo corsari che depredavano solo i nemici esterni.

   Ma le astronavi non erano l’unica linea difensiva. Un discreto numero di piattaforme armate era piazzato nell’orbita di Kelva. La nuova capitale, costruita sulle rovine dell’antica, era ancora un cantiere, ma già la proteggeva un potente scudo energetico. La Coalizione, però, sapeva che queste difese erano insufficienti contro Shado. Se l’entità maligna si fosse decisa a prendere Kelva, avrebbe potuto consumare la crosta del pianeta, sbucando sotto la cupola dello Scudo. Quindi servivano rimedi più drastici.

   «Quante forze abbiamo, al momento?» chiese Reshef sulla plancia del Behemot.

   «Ci sono trentanove astronavi kelvane, quaranta con la nostra» rispose Berith. «Gli alleati della Coalizione hanno inviato sessanta navi». Era molto meno di quanto sperassero, anche se nessuno lo disse ad alta voce.

   «La capitale ci trasmette gli aggiornamenti tattici» riferì Berith. «Le sonde e le boe di rilevamento confermano che il nemico avanza. Fra due giorni potrebbe essere qui».

   «Peggio delle previsioni più fosche» commentò Reshef. «Dobbiamo prepararci a sostenere l’assedio».

   «Ho già espresso la mia contrarietà a questo» obiettò Fanior. «Kelva dev’essere evacuata, finché possiamo».

   «Due giorni, Ambasciatore: temo che sia già troppo tardi» disse Reshef, sfiorandolo con un tentacolo: l’equivalente di una mano sulla spalla.

   «Questo orgoglio sarà la nostra rovina» insisté Fanior.

   «Non si tratta di orgoglio» obiettò il Consigliere. «Tutte le volte che la Scourge o i pirati ci trovano, noi fuggiamo. Distruggiamo le nostre stesse basi per non lasciare nulla al nemico. Dalla Battaglia della Pulsar a quella di Stigia, quanti avamposti abbiamo perso in questo modo?».

   «Troppi» ammise Fanior.

   «Dunque è il momento di resistere» incalzò Reshef. «Finora Shado ha conosciuto solo vittorie; dobbiamo mostrargli che non può espandersi all’infinito. Così, se ha emozioni umane come dici, conoscerà il dubbio e la paura. E se Sunny è davvero suo pari... allora ci aiuterà a respingerlo».

   «Sunny farà ciò che è in suo potere» disse Fanior, senza sbilanciarsi sul risultato. «E anch’io farò la mia parte, Consigliere. Se questa è l’ultima resistenza di Kelva, allora il mio posto è qui».

   «Per quanto tu sia nato nella Via Lattea, sei un degno figlio di Kelva» disse Reshef, dandogli un altro colpetto di tentacolo. «Sono molto soddisfatto per come ti sei comportato in questi anni, battendoti contro la Scourge e mediando la pace coi pirati. Per questo voglio affidarti il comando della difesa a terra, mentre io resterò sulla nave».

   «Consigliere, la prego di riconsiderare questa decisione» disse Fanior, ondeggiando sui tentacoli fattisi molli. «I suoi collaboratori combattono la Scourge da molto più tempo di me. E sono meglio consapevoli di ciò che serve al popolo. Scelga uno di loro. Io non mi considero all’altezza».

   «Non sei ancora conscio del tuo valore; ma la mia decisione non cambia» tagliò corto Reshef. «Timoniere, entriamo in orbita».

   Il Behemot si dispose al centro dello schieramento difensivo, 200 km sopra la capitale. Mentre le navi da guerra ultimavano i preparativi, gli ultimi trasporti scesero sul pianeta, per scaricarvi personale e provviste. Scese anche Fanior, con una navetta. L’Ambasciatore sorvolò la capitale, un agglomerato di palazzi incompiuti, che levavano le travature verso il cielo. Li proteggeva uno Scudo energetico, appena visibile come una lieve distorsione che faceva tremolare le pareti. Così addossati, e con l’effetto di tremolio, i palazzi sembravano dei supplici che levano le braccia al cielo, implorando la grazia.

   Fanior atterrò appena oltre lo Scudo, sulla riva del grande lago dorato. Sfruttò il segnalatore della navetta per inviare un codice, concordato con Sunny per attirare la sua attenzione, e si recò sulla spiaggia. I suoi tentacoli di Kelvano lasciavano lunghe strisce sulla sabbia. Davanti a lui la Melma Dorata si sollevò e si plasmò in una figura umanoide: un altro avatar di Sunny. Incedette sulla Melma come se fosse solida, finché fu sulla spiaggia, accanto al Kelvano.

   «Ambasciatore?» chiese Sunny.

   «Sono io. La Coalizione è determinata a resistere» disse Fanior. «Ma senza il tuo appoggio potrà fare ben poco».

   «Ho già dirottato centinaia delle mie navi verso questo presidio» disse Sunny. «Altre ne plasmerò dai laghi. Ma le astronavi non bastano per respingere un attacco su vasta scala. Devo innalzare uno Scudo Planetario. Spero di riuscirci... non ho mai fatto nulla di così grande» ammise.

   «Sei l’unico che ne abbia il potere. Siamo nelle tue mani» lo esortò Fanior. Stava per risalire sulla navetta, ma d’un tratto si fermò e si rivolse ancora a Sunny. «Ah, c’è un’altra cosa. Vorrei che plasmassi abbastanza navi trasporto da portare in salvo tutti gli abitanti, quando le cose si metteranno male. Tienile nascoste fino all’ultimo e non parlarne con nessuno» raccomandò.

   «Intesi» annuì Sunny. «Ma anche i trasporti saranno vulnerabili, una volta iniziato l’assedio».

   «Lo so» disse Fanior cupamente, mentre il portone della navetta gli si chiudeva dietro. Decollato di nuovo, l’Ambasciatore volò raso terra, fino all’ingresso ad arco che si apriva nello Scudo cittadino. Lì, con molti controlli, stavano entrando gli ultimi rifornimenti. Presto il portale sarebbe stato chiuso, isolando la città.

   Sunny osservò quell’ultimo avamposto kelvano che si preparava a una resistenza disperata e ne provò compassione. Salì sul promontorio che dava a picco sul lago e tese le braccia verso la distesa dorata. Un’onda attraversò la superficie, calma fino a un attimo prima, ed essa si sollevò come una cupola. In passato Sunny aveva già plasmato bolle o astronavi da laghi come quello, prelevando una parte della Melma. Stavolta la sollevò tutta. Invece di un’esile bolla, l’ammasso di naniti andò a formare un’enorme sfera compatta, che giganteggiò sulla città, facendole ombra. Fanior e gli altri Kelvani interruppero brevemente le loro attività e l’osservarono, impressionati dal potere di Sunny. Al di sotto rimaneva il bacino svuotato del lago, profondo centinaia di metri. La sfera dorata prese quota, superando le tenui nuvole, finché svanì alla vista. Non era l’unica: tutti i laghi e i mari di Melma del pianeta si erano svuotati allo stesso modo. Nell’atmosfera s’innalzavano così migliaia di sfere dorate, dalle dimensioni variabili, in base all’estensione del lago che le aveva originate. Era uno spettacolo sorprendente se visto da terra e ancor più straordinario se osservato dallo spazio, dove stazionava la flotta della Coalizione. Sembrava che un gigante avesse rilasciato migliaia di enormi palloncini color oro.

   Giunte a un’altezza di 200 km, le sfere si assestarono, appena sopra le astronavi, ma più in basso rispetto alle piattaforme difensive. Allineate tutte alla stessa altezza, si appiattirono, come se avessero urtato una barriera invisibile. Formarono così delle chiazze che diventavano sempre più sottili, aumentando di pari passo in estensione. Poco alla volta i loro contorni si toccarono e si fusero. In tal modo si formarono chiazze estese come continenti. Altra Melma affluì dal basso, colmando gli interstizi. Entro un’ora dalla conversazione tra Sunny e Fanior si formò così una sottile membrana, che avvolgeva tutto il globo: uno Scudo Planetario come non se n’erano mai visti. La luce solare vi baluginava attraverso, immergendo l’emisfero diurno di Kelva in un surreale crepuscolo. Gli abitanti alzarono gli occhi al cielo, fattosi d’oro brunito.

   «Sunny ci proteggerà?» chiese Berith, sbarcata con uno degli ultimi trasporti per unirsi ai difensori.

   «Ci darà indubbiamente del tempo» rispose Fanior. «Ma la salvezza, se c’è, viene solo dall’Enterprise».

 

   Nella privacy del suo ufficio, Chase informò Lantora della situazione. Lo Xindi, che era già stato curato per la frattura alla gamba, ascoltò in silenzio e compostezza. «Non dobbiamo cedere allo sconforto. Terry è convinta che Suspiria abbia portato T’Vala e gli altri con sé; non ho ragione di dubitarne» concluse il Capitano. «Potrebbero essere andati in cerca dei Proto-Umanoidi. Se è così, li troveremo a quelle coordinate. Partiremo appena terminate le riparazioni» garantì.

   «E se una volta là non li trovassimo?» chiese Lantora.

   «Allora setacceremo le basi della Coalizione, finché non troveremo Suspiria o qualche altro Nacene che possa andare a cercarla» rispose Chase con decisione. «In nessun caso lasceremo Andromeda senza sua moglie» promise.

   «Sempre che sia ancora viva» disse lo Xindi, lugubre.

   «Non credo che Suspiria l’abbandonerebbe a...».

   «Il problema non è Suspiria, ma Lyra» l’interruppe Lantora, col cuore gonfio di dolore. «Ha già cercato di sostituirsi a T’Vala. Credo che non esiterebbe a ucciderla solo per gelosia. E ora stanno viaggiando insieme in una dimensione sconosciuta. Almeno c’è Raav con loro, ma...». Lo Xindi scosse la testa. Per quanto si fidasse del vecchio Gorn, la sua presenza non bastava a rassicurarlo.

   «Sì, capisco» annuì Chase. «Ti faremo avere una bambinaia a tempo pieno per Vrel» aggiunse, passando a un tono più confidenziale. «E continueremo a cercare T’Vala» ribadì.

   Lantora annuì, umettandosi le labbra secche, e fece per ritirarsi. Quando fu vicino alla porta si girò per metà. «Vorrei che mia moglie non avesse tenuto in vita Lyra» disse a mezza voce.

   «Fu la compassione a muoverla. Ed è ancora presto per conoscerne gli esiti» rispose il Capitano, partecipe della sua pena.

   Lantora gli rivolse un’occhiata incerta e tormentata, dopo di che lasciò l’ufficio. Quella sera non ci sarebbe stata T’Vala, per dare la pappa a Vrel.

 

   Le difese di Kelva Primo erano approntate. Sopra la brillante superficie dorata dello Scudo di Sunny orbitavano un centinaio di piattaforme difensive. Appena sotto lo Scudo si appostavano altrettante navi della Coalizione, pronte a emergere per fare fuoco. Queste difese erano ben poca cosa rispetto alle mille navi di Sunny, disposte in un’orbita più alta. Spettava a loro fronteggiare il primo assalto nemico e tenere le navi di Shado lontane dal pianeta. Ma essendo impossibile fermare tutti i siluri e le bolle di Scourge, lo Scudo restava la difesa più importante. Se crollava quello, era finita.

   I sensori del Behemot furono i primi a captare l’arrivo della flotta nera. In plancia, tutti attesero il rapporto dell’addetto ai sensori. «Rilevo cinquecento navi di Shado» disse l’ufficiale.

   «Meno di quante ne aspettavamo» commentò Reshef, sollevato.

   «È ancora presto per dirlo» avvertì Fanior, che partecipava in olo-presenza, trasmettendo dalla città. Infatti un minuto dopo ci fu un altro allarme dei sensori.

   «Rilevo una seconda flotta di Scourge che si avvicina dalla direzione opposta» avvertì l’addetto, leggendo il rapporto dei sensori. «Sono altre cinquecento navi». L’atmosfera si fece più tesa. Per quanto i Kelvani fossero freddi e razionali, c’era in ballo la sopravvivenza della loro specie.

   «Possiamo ancora farcela...» si azzardò a dire un ufficiale, ma Reshef gli fece segno di tacere. Squillò un terzo allarme, poi un quarto, e così via. Ogni volta una flotta della stessa stazza si aggiungeva alle precedenti, provenendo da un’altra direzione. Ciascuna flotta nera sembrava uno sciame di calabroni: tutti convergevano sul globo color miele di Kelva. Quando i rinforzi smisero di affluire, le flotte erano dieci, per un totale di cinquemila navi. Si avvicinarono adagio, disponendosi in modo equidistante, per non lasciare ai difensori un’area ridotta in cui concentrare il fuoco di sbarramento.

   «Fra un minuto le navi di Sunny e quelle di Shado saranno nel raggio dei cannoni antiprotonici» riferì l’addetto ai sensori. «Poi toccherà a noi».

   «Pronti con le armi» ordinò Reshef. «Dobbiamo compiere rapide incursioni sopra lo Scudo e poi tornare a immergerci». Gli ufficiali si concentrarono sulle loro postazioni, mentre un basso ronzio avvertiva che il Behemot aveva dato energia agli scudi. La vecchia nave era passata indenne attraverso molte battaglie, ma questa era la più disperata.

   «Questa potrebbe essere la fine del nostro popolo» si lasciò sfuggire il più giovane dei presenti.

   Fanior lo udì e gli si accostò, cercando di fargli coraggio, sebbene fosse lì solo in olo-presenza. «Allora sarà la fine più nobile nella storia di Andromeda» disse fieramente.

 

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Capitolo 5
*** Sulle tracce dei Progenitori ***


-Capitolo 4: Sulle tracce dei Progenitori

 

   T’Vala si sentì precipitare. Stava viaggiando verso un’altra dimensione: provava una sensazione indefinibile, come se qualcosa si allentasse dentro di lei. Le catene dello spazio-tempo si stavano sciogliendo. Era come rinascere in un’altra vita. Quando le nuove sensazioni si stabilizzarono, si guardò attorno. Suspiria, Raav e Lyra erano ancora con lei. L’interno della navetta era immerso in una luminosità azzurrina e baluginante, come se fossero sott’acqua. Dallo schermo, lo sguardo spaziava su un’infinita distesa di steli, vagamente simili ad alghe. Ondeggiavano lievemente, brillando di luce azzurra e violetta. La luce non era costante, ma pulsava lentamente, con ritmi diversi da un cespuglio all’altro. Il risultato era un crepuscolo fatato, sempre mutevole.

   «Dove siamo?!» chiese Lyra con voce strozzata.

   «Benvenuti al Luogo della Mente» disse Suspiria con solennità. «Noi lo chiamiamo Exosia. Per la vostra Flotta è la Rete Miceliare. Tutto quel che vedete è vivo e in crescita. Questa è la realtà prima da cui nascono gli altri Universi, incluso il vostro. Se vi concentrate, potete sentirne la musica... è come una melodia che sale e scende...».

   Lyra la guardò incredula. «Certo, è tutto affascinante» disse, giusto per non contrariarla. «Ora però riportaci sull’Enterprise, eh?».

   «Non mi ascolti? Ho detto che non so con precisione dove sia finita» le ricordò la Nacene.

   «Allora portaci in qualche base della Coalizione» suggerì Raav.

   «Uhm, sì, potrei... ma non voglio!» disse la bambina, con aria birichina.

   «Come sarebbe, non vuoi?!» s’inalberò Lyra. «Questa è la tua realtà, non la nostra. Non possiamo rimanere qui!». Aveva il respiro affannoso, il panico nello sguardo; chiari segni di claustrofobia.

   «Ci rimarrete quanto basta a finire il nostro gioco» spiegò la bimba, che stava seduta sulla sedia del pilota e la faceva girare come una trottola.

   «Quale gioco?» chiese T’Vala, temendo la risposta.

   «I Proto-Umanoidi giocano a nascondino» spiegò Suspiria, facendo girare la sedia sempre più forte. «Noi dobbiamo trovarli».

   «Perché proprio noi?» chiese Lyra, afferrando lo schienale per fermarla.

   «Se non amano gli ospiti, un piccolo gruppo è preferibile a una grossa nave armata come la vostra» rispose la Nacene, alzando gli occhi su di lei. «Io posso farci viaggiare in fretta e voi due dovreste avere abbastanza logica da smuoverli» disse, osservando le sosia. «E poi siete una lo specchio dell’altra. Come i Preservatori e i Distruttori. Come Sunny e Shado. Quando entrambe direte loro la stessa cosa, dovranno prenderla per vera».

   «C’è una certa logica in tutto questo» riconobbe T’Vala. «Ma i miei cari sono sull’Enterprise e non ho potuto nemmeno salutarli...».

   «Se la caveranno» disse Suspiria, sbrigativa. «Se tutto va bene, l’Enterprise ci raggiungerà alle coordinate dei Proto-Umanoidi».

   «Speriamo! È duro, per un genitore, essere separato dalla famiglia» grugnì Raav. T’Vala lo guardò sorpresa: il Gorn parlava come se la cosa lo toccasse da vicino. In tanti anni che lo conosceva, la timoniera gli aveva detto molto di sé, ma di lui sapeva ancora poco. Forse quel viaggio era l’occasione per scoprirlo.

   «Va bene, allora. Andiamo!» esortò Lyra, che non sembrava gradire la permanenza nella Rete Miceliare.

   «Prima devo recuperare le forze» spiegò Suspiria. «Ho speso molta energia per allontanare l’Enterprise da Stigia e altra ancora per portarci qui. Prima di trasferirci all’altro capo della galassia, devo riposarmi per qualche ora».

   «Fa’ pure... ma io voglio uscire!» sbottò Lyra. «C’è aria, là fuori, o...».

   «Siamo in una realtà diversa dalla vostra» le ricordò la Nacene. «Qui è tutto pensiero. Vi sembra di avere ancora un corpo, ma è solo il modo in cui le vostre menti traducono l’ineffabile. Quindi potete uscire e sopravvivere. Fate solo attenzione a non perdervi: è una foresta intricata!» avvertì. Si picchettò la tempia, come a indicare che non c’era differenza tra la selva dei pensieri e quella che baluginava là fuori.

   «Okay, vediamola...» disse Lyra, un po’ incerta. Aprì l’ingresso posteriore della navetta. Un’aria densa, calda e umida investì i viaggiatori, come se fossero in una foresta tropicale. Vi ristagnava un profumo dolciastro, quello delle spore. Più che piante o alghe, gli steli baluginanti potevano essere considerati funghi. T’Vala e Lyra uscirono per prime, seguite da Raav e Suspiria. Sotto i loro piedi c’era una specie di suolo, lo stesso che sosteneva la navetta. Ma chinandosi a osservarlo, T’Vala si accorse che era composto dai resti marcescenti del micelio. I funghi fosforescenti si levavano attorno a loro e in qualche strano modo anche sopra di loro, fin dove l’occhio poteva spingersi. In alcune zone erano più densi; in altre si aprivano spazi vuoti, difficili da misurare ma probabilmente molto estesi. Era un ambiente che disorientava.

   «Quanto si estende questa foresta?» chiese Lyra.

   «Per quanto ne so, all’infinito» rispose Suspiria.

   «E la tua specie si è evoluta qui?».

   «Sì».

   «Non c’è da stupirsi che siate così strani».

   «Ehm... abbiamo compagnia!» avvertì Raav, richiamando la loro attenzione.

   Una strana creatura si faceva strada nel micelio. Era grossa come un ippopotamo e ne aveva all’incirca le proporzioni, ma i fitti steli impedivano di vederla bene. Doveva essere molto pesante, perché ovunque passasse piegava le fungosità. D’un tratto la bestia muggì e scattò in avanti, entrando in piena vista. Aveva un corpo gonfio, ma grinzoso nelle articolazioni, come un sacco di tela. Sei zampe tozze, munite d’artigli, gli davano un notevole sprint. Ma la parte più aliena era il muso: presentava solo una protrusione con un foro, come l’imboccatura di una borraccia. La creatura caricò Raav, che non cercò nemmeno di scostarsi, sapendo di non essere abbastanza veloce. Mantenendo il sangue freddo, il cuoco l’afferrò per il muso. Ma l’essere aveva una forza formidabile; nemmeno il massiccio Gorn poteva trattenerlo a lungo.

   «Mettetevi in salvo!» ululò Raav.

   «Beh, che fai? Lascia in pace il tardigrado!» lo richiamò Suspiria.

   «Se lui lascia in pace noi!» ribatté il Gorn, sempre più in difficoltà.

   «Lascia, ci penso io». Suspiria raccolse un ciuffo di steli fungini e lo agitò davanti al muso della creatura, mentre le dava dei colpetti sul groppone. Il tardigrado si calmò quasi subito e prese a seguirla, brucando gli steli con il suo strano apparato boccale. Raav fu lieto di lasciarlo andare e indietreggiò osservando la strana scena. «Tardigrado?» chiese, ancora un po’ ansante.

   «Attaccano solo se si sentono minacciati» spiegò Suspiria, continuando a ingozzare la creatura per rabbonirla. «Così a prima vista possono spaventare, ma in realtà sono dei paciocconi. Vero che lo sei?» chiese la bambina, grattandogli la collottola. Il tardigrado emise un muggito basso e soddisfatto. Incoraggiato da una pacca amichevole, tornò a pascolare.

   T’Vala e Lyra si scambiarono un’occhiata inquieta. Malgrado le rassicurazioni di Suspiria, erano più decise che mai a non perdere di vista la navetta, unico riparo in quel bosco alieno. Anche perché i tardigradi potevano non essere l’unica fauna.

 

   Quella sera, i viaggiatori cenarono con razioni d’emergenza. Il cibo non era granché, ma la cornice suggestiva di Exosia faceva dimenticare i piccoli disagi. Sedettero in cerchio davanti alla navetta, come se fossero in campeggio. Mancava solo il falò per completare il quadretto.

   Lyra osservò a lungo l’intreccio fungino che si stendeva intorno a loro, pulsando di luce. Le spore galleggiavano nell’aria e i tardigradi si aggiravano pigramente, come vacche al pascolo. Era un’immagine psichedelica, ma quando ci si abituava diventava rilassante. «È vero quel che ha detto Suspiria? Tu sei già stata qui?» chiese d’un tratto a T’Vala.

   «Solo una volta, due anni e mezzo fa» confermò la timoniera. «Eravamo giunti da poco in Andromeda e ancora non conoscevamo la Coalizione. Quando trovammo la loro prima base, ci furono delle incomprensioni» disse, accennando a Suspiria.

   «Che intendi?» incalzò Lyra.

   «In quel periodo Neelah era infettata dalla Scourge, perciò l’avevamo messa in una capsula crono-statica» spiegò T’Vala. «Ma quando Suspiria lo scoprì, beh...».

   «Andai in infermeria per ucciderla» disse la Nacene, senza mezzi termini. «Ma T’Vala mi attaccò. Caspita se abbiamo combattuto! Alla fine decisi di risparmiare Neelah, ma la tua sosia pensò bene di seguirmi fin qui» proseguì la bambina.

   «Non è così che la ricordo» corresse T’Vala. «Io stavo vincendo. Così Suspiria fuggì a Exosia, ma io la inseguii e la costrinsi a tornare» spiegò, contendendo l’attenzione di Lyra. «Le spiegammo che finché Neelah restava nella capsula, non rappresentava una minaccia. Infine Sunny la guarì, eliminando il problema».

   «Un momento... come hai fatto ad affrontare Suspiria?» chiese Lyra, più sorpresa di prima. «Da quel che ho visto, i Nacene sono molto potenti. Che armi avevi? E come hai fatto a seguirla fin qui?».

   «In quel periodo avevo facoltà mentali fuori controllo, sviluppate dopo che attraversammo la Barriera Galattica» spiegò T’Vala. «Ero forte... ma anche alienata dai miei affetti. È stato un bene che la Coalizione mi abbia curata» aggiunse.

   «Quindi hai rinunciato a tutto?!» si stupì Lyra.

   «Ero diventata un pericolo per la nave. Mi hanno curata contro la mia volontà, ma una volta tornata in me li ho ringraziati» precisò la mezza Vulcaniana.

   «Io non li avrei mai perdonati» obiettò Lyra. «Se la Barriera mi avesse dato quel potere, me lo sarei tenuto stretto! Ma è tipico di voi federali, temere le cose eccezionali. E guarda il risultato! Prima potevi battere Suspiria, ora sei inferiore a me».

   «Inferiore?» si accigliò T’Vala.

   «Certo, per questo ti ho messa KO in quella stiva. E potrei farlo ancora, anche senza l’effetto sorpresa. La verità è che ti sei rammollita, cara mia!» infierì Lyra, e rise senza ritegno. «Sarà che hai messo su famiglia» proseguì appena ebbe ripreso fiato. «Tutte quelle incombenze assorbono il tuo tempo e le tue energie. Ti prosciugano, t’indeboliscono!» esclamò, puntandole l’indice accusatore. All’inizio della chiacchierata le sosia sedevano a 45º, ma poco alla volta si erano girate, sino a fronteggiarsi. Ora T’Vala scattò in piedi e Lyra la imitò, leccandosi le labbra. Voleva lo scontro e già pregustava la vittoria.

   «Devi smetterla di parlare della mia famiglia in questi termini» l’avvertì la timoniera.

   «Sennò che fai, mi rompi ancora il naso? È stato un colpo fortunato, non ti riuscirà di nuovo. Sono io la migliore, l’unica T’Vala!» ringhiò Lyra, e attaccò con un gancio destro. T’Vala la bloccò prontamente con la sinistra e la colpì al plesso, piegandola in due. Cercò di metterla al tappeto con un calcio, ma Lyra si riprese in fretta. Le afferrò la gamba e la spinse, facendola cadere all’indietro. Poi le si buttò addosso con un grido selvaggio. In pochi secondi il diverbio si era trasformato in una zuffa senza quartiere. Le sosia rotolarono avvinghiate in mezzo alla foresta miceliare, macchiandosi i vestiti con le spore. Combattevano con la forza e i riflessi di due Vulcaniane esperte, ma anche con il livore di chi prova emozioni violente. La loro lotta violò la pace del bosco miceliare e mise in fuga i tardigradi.

   «Ma che gli è preso?» trasecolò Suspiria, che non si aspettava quell’esplosione di violenza. «Dividiamole, prima che si ammazzino! Io penso a Lyra, tu blocca la tua amica» disse a Raav, scattando in piedi. Stava per trasformarsi, ma il Gorn le afferrò il braccio e la costrinse a risedersi.

   «Sssshhht, ferma!» sibilò. «Devono sbrigarsela da sole».

   «Potrebbero farsi male» insisté Suspiria.

   «Può darsi» ammise Raav. «Ma dobbiamo lasciarle fare. È una cosa tra loro due» insisté, raschiando il fondo della sua razione d’emergenza con l’artiglio. La Nacene lo guardò come se avesse perso la ragione, ma poi si arrese. Sempre in forma di bambina, si stese sulla pancia, con i piedi alzati e le mani che sostenevano il mento. Osservò la lotta come se fosse lo spettacolo della serata.

   T’Vala e Lyra continuavano a darsele di santa ragione. Nella raffica di calci, pugni e gomitate la maggior parte dei colpi andava a vuoto o era parata, ma inevitabilmente alcuni arrivavano a segno. Con il procedere della lotta, le avversarie divennero sempre più peste e scarmigliate. Poco alla volta persero la tecnica, riducendosi a dare colpi raffazzonati. A un certo punto Lyra diede una sberla così forte da far girare T’Vala su se stessa. Allora le afferrò le braccia, piegandogliele dietro la schiena, e la rovesciò con la faccia a terra. Se avesse aumentato ancora la stretta, le avrebbe spezzato gli arti. «Allora, chi è la più forte? Dillo!» intimò.

   Mugolando per il dolore e lo sforzo, T’Vala si lasciò cadere, trascinandosi dietro l’avversaria. Approfittando della sua perdita d’equilibrio, riuscì a rigirarsi tra le braccia di Lyra. Sfuggì alla presa e la bloccò a sua volta, stando dietro di lei e comprimendole la trachea con un braccio. Restarono a terra, ansanti, con Lyra che cercava di liberarsi, ma per com’era messa non riusciva ad afferrare la rivale.

   «Mi accusi di debolezza?» chiese T’Vala, stringendole sempre più la gola. «Io ho preteso che non ti staccassero la spina, quando le tue condizioni erano disperate. Potevo lasciarti morire: la legge me lo consentiva e alcuni medici del Comando mi fecero pressioni in tal senso. Ma ebbi pietà di te e volli darti una seconda occasione. La vita che hai ora la devi a me. E la mia famiglia mi dà più forza di quanta ne abbia mai avuta. Quindi non dirmi che sono debole! Sei tu quella debole e invidiosa: altrimenti perché avresti cercato ancora di sostituirti a me?».

   Lyra era paonazza per la rabbia, ma ancor più per la mancanza d’aria. Gli occhi le spiccavano sul viso congestionato, come se dovessero schizzarle dalle orbite. Non riuscendo a liberarsi né a parlare, batté il pugno a terra, per segnalare la resa. Solo allora T’Vala la lasciò andare. La timoniera si alzò e si diede una rapida rassettata, osservando con distacco la sosia che ansimava e sputacchiava a terra. Quando Lyra alzò gli occhi su di lei, il suo sguardo era uno strano misto di meraviglia, paura e rispetto. Cercò di alzarsi, ma barcollò e ricadde a terra, continuando a tossire. A poca distanza, Raav scambiò un’occhiata con Suspiria, come a dire: «Te l’avevo detto».

   «Perché mi lasciasti in vita?» chiese Lyra quando riuscì nuovamente a parlare. «E perché mi risparmi ancora?».

   «Perché voglio conoscerti, credo. Voglio capire se siamo davvero agli antipodi, o se sono state le circostanze della vita a renderci così diverse. È una domanda che ci siamo sempre posti, con quelli dello Specchio» spiegò T’Vala.

   «Beh, le nostre vite sono state parecchio diverse» disse Lyra, ancora roca. Si alzò di nuovo, con cautela, e stavolta riuscì a reggersi in piedi. «Però una cosa in comune c’è: abbiamo perso nostra madre a sette anni» aggiunse.

   «Non sapevo che fosse accaduto anche a te» commentò T’Vala. Non sapeva se crederle: Lyra era un’abile bugiarda e non c’era modo di verificare le sue affermazioni. Poteva inventarsi tutto per suscitare compassione, da sfruttare alla prima occasione. «Com’è morta mia madre lo sai... dimmi cos’è successo alla tua» chiese, dopo un attimo d’esitazione.

   Lyra le fece segno d’aspettare e arrancò fino al punto in cui Raav e Suspiria le aspettavano. Sedette stancamente accanto a loro. T’Vala la seguì e si accomodò in modo da fronteggiarla. Non disse nulla, ma era chiaramente in attesa. Anche Suspiria fissò Lyra, con occhioni da bambina, come se si aspettasse una bella fiaba. Di fronte alle loro aspettative, la donna dello Specchio cedette.

   «Mia madre Xilana era un’ambasciatrice, proprio come la tua» spiegò Lyra con sguardo remoto, riportando a galla ricordi quasi dimenticati. «Però, non essendo Umana, aveva dovuto sudarsela, la sua carriera nell’Impero Terrestre. Presumo che la somiglianza dei Betazoidi con gli Umani l’abbia aiutata, in qualche misura. Per il resto... c’erano voci maligne sul modo in cui aveva fatto carriera, ma lasciamo stare. Il punto è che si trattava di una diplomatica rispettata. Mi allevò su Betazed, facendo in modo che non mi mancasse nulla. Per i primi sette anni della mia vita fui felice, per quanto si può esserlo nell’Impero». Emise un lungo sospiro.

   «Un giorno i Corpi Speciali fecero irruzione in casa nostra. Accusarono mia madre d’essere una traditrice, di aver passato informazioni a gruppi ribelli. La portarono via in catene. E presero anche me» proseguì Lyra, con voce lugubre. «Il ricordo successivo è di mia madre legata alla sedia degli interrogatori. Anch’io ero bloccata in qualche modo. Mi costrinsero a guardare mia madre che veniva torturata a sangue, per estorcerle informazioni: i nomi dei contatti, i luoghi d’incontro, cose del genere». La voce della mezza Vulcaniana era lenta e fredda, come se salisse da un sepolcro. Non c’era vita nei suoi occhi. T’Vala l’ascoltò con crescente malessere: non riusciva a immaginare quanto fosse traumatica un’esperienza del genere, specialmente per una bambina.

   «Mia madre giurava d’essere fedele all’Impero e supplicava che mi lasciassero andare, ma gli aguzzini non le credevano. Divennero sempre più cattivi» proseguì Lyra. «Le fecero cose... cose che una bambina di sette anni non dovrebbe vedere. Ogni tanto si rivolgevano a me, dicendomi che mia madre era una traditrice e per questo la punivano.

   Alla fine persero l’ultimo briciolo di pazienza. Siccome mia madre non cedeva, presero a torturare me davanti ai suoi occhi. A quel punto sì, la mamma si arrese. Si dichiarò colpevole di tutte le accuse e fece un sacco di nomi. Tutta gente che avrebbe ricevuto il suo stesso trattamento! Chissà se erano davvero coinvolti, o se aveva detto i nomi che i torturatori si aspettavano. Chiese di abbracciarmi un’ultima volta, ma la trascinarono via. Le sue urla si spensero nel buio. Il giorno dopo mi dissero che era stata giustiziata e che se avessi disubbidito all’Impero avrei fatto la stessa fine. Io giurai di essere brava, di non tradire mai». Lyra fece una pausa così lunga che gli ascoltatori pensarono avesse finito. Invece riprese.

   «Qualche giorno dopo mio padre venne a prendermi e mi portò su Vulcano. Non so come abbia fatto a strapparmi alla polizia segreta. Ma eravamo sempre sorvegliati» disse Lyra. «Crescendo, imparai varie tecniche vulcaniane, ma non completai mai il kolinahr. Avevo troppo dolore e troppa rabbia. Non potendo reprimerli, cercai almeno di pensare ad altro. Siccome volevo vedere la Galassia, mi arruolai nella Flotta Imperiale. Fui abbastanza dura da far carriera, diventando timoniera dell’ISS Enterprise, proprio mentre scoppiava la Guerra Breen. Due anni dopo sei arrivata tu... il resto lo sai» disse, lanciando un’occhiataccia alla sosia.

   «Mi spiace per quello che hai passato» disse T’Vala.

   «Non voglio la tua pietà! Non so che farmene!» berciò Lyra. Aveva raccontato la sua terribile storia mantenendo il controllo; solo adesso le vennero le lacrime agli occhi.

   «Accettala ugualmente. Non so cosa ci riserva il futuro, ma ti perdono per quel che hai fatto a me... e alla mia famiglia» disse T’Vala, con una piccola esitazione. «La vita è stata crudele con te, ma forse ora ti offre un’opportunità di riscatto. Aiutaci a trovare i Proto-Umanoidi. Al ritorno parlerò in tua difesa al Capitano».

   «E che potresti ottenere?» chiese Lyra. «Conosco già le mie opzioni: l’ergastolo o tornare nello Specchio. Non so cosa sia peggio» disse mestamente.

   «Questo puoi deciderlo solo tu. Ma almeno fra noi, smettiamo di trattarci come nemiche» propose T’Vala.

   «E come dovremmo trattarci? Come sosia, come cloni?» chiese Lyra, ancora un po’ sprezzante.

   «Se fosse come sorelle?» suggerì T’Vala, appellandosi a tutta la sua buona volontà.

   Lyra la guardò come se fosse impazzita. «Dopo tutto quel che ti ho fatto?» chiese con un filo di voce.

   «Dopo tutto quanto» confermò T’Vala con pazienza.

   Lyra la fissò a lungo, rimuginando. Mai, in tutta la sua vita, aveva avuto una tale prova di gentilezza e fiducia da parte di un’estranea. Sentì qualcosa agitarsi nel profondo, smuovendo parti di lei che erano diventate pietra, dalla notte in cui aveva visto torturare sua madre. Si accorse di stare piangendo. Attraverso la vista appannata, notò che Suspiria e Raav si erano allontanati, per concederle la privacy necessaria. Allora si mosse: andò verso T’Vala quasi gattonando e le gettò le braccia al collo. Le ultime barriere cedettero e singhiozzò forte. L’abbracciò come non aveva abbracciato nessuno, da quando era morta sua madre. Sentì che T’Vala ricambiava l’abbraccio con delicatezza. Per la prima volta da tanto tempo, ebbe la sensazione che qualcuno le volesse bene. E come T’Vala le aveva detto, si sentì più forte.

 

   Seduto alla sua scrivania, Chase leggeva sull’oloschermo i rapporti delle varie sezioni. Dopo due giorni d’intense riparazioni, l’Enterprise era ormai pronta a partire. Mancava solo mezz’ora al riavvio dell’energia principale. Il tempo d’occuparsi di un’altra faccenda. Il Capitano ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma sapeva di non poter transigere, a scanso di avere guai peggiori in futuro. «Avanti» disse, sentendo il trillo della porta.

   Anjou entrò a grandi passi, con un ampio e sereno sorriso. Indossava fluenti vesti gialle, con maniche larghe in cui teneva le mani, e aveva un medaglione d’oro appeso al collo. Sopra vi era inciso il cerchio con un punto al centro, simbolo dell’Eliopoli e ora anche dei Figli della Luce. «Pace e bene a lei, Capitano!» disse con voce squillante.

   «Questo è da vedere» rispose Chase, arcigno. «L’hanno informata di cos’è accaduto stamattina, vero?».

   «Un triste episodio di violenza, Capitano» annuì il Triannon, facendosi contrito. Sedette su una sedia degli ospiti.

   «Uhm, diciamo così» mugugnò Chase. «Uno dei suoi seguaci ha accoltellato un Bajoriano in un luogo pubblico. E a sua volta è stato ferito dagli amici dell’altro. Hanno dovuto medicarli in due infermerie diverse, perché continuavano ad accapigliarsi. Ora i Bajoriani della nave hanno presentato una protesta formale» spiegò il Capitano. «Prima di prendere provvedimenti, voglio sentire che ha da dire».

   «Abbiamo subìto un vero e proprio attentato» spiegò Anjou, serissimo. «I miei ragazzi stavano solo facendo attivismo... sapesse che passione hanno! È stato il Bajoriano ad aggredirli. Ha rovesciato il bancone, gridando che bisogna adorare solo i Profeti. Capisce che il giovane Amahl ha dovuto difendersi».

   «Sì è difeso piantandogli nelle costole un coltello da cucina» obiettò Chase. «Fortuna che ha mancato il cuore! Ma era ugualmente una ferita seria. Quindi dobbiamo chiarire la cosa. Prima di tutto, mi dica perché il ragazzo era armato».

   «Non per ferire gli altri, mi creda!» assicurò il Triannon. «Amahl voleva solo fare una dimostrazione davanti al pubblico. Al passaggio dell’Aureo gli avrebbe chiesto di guarirlo, mostrando a tutti il suo santo potere...».

   «Alt! Sta dicendo che il ragazzo si sarebbe accoltellato da solo, per farsi curare da Sunny?» l’interruppe il Capitano. «Questo m’inquieta ancora di più».

   «Lei è una brava persona... si preoccupa della salute di tutti» sorrise Anjou. «Siamo fortunati ad averla come Capitano. Ma non deve allarmarsi. Amahl voleva praticarsi solo qualche taglietto nel braccio. Il minimo indispensabile per consentire alla gente di riconoscere il dono dell’Aureo».

   «Voi “Figli della Luce” non verserete sangue su questa nave... nemmeno il vostro» ammonì Chase. «Parli ai suoi fedeli e gli faccia capire che non tollero la violenza, né contro il prossimo, né contro se stessi».

   «Come vuole, Capitano» disse il Triannon, chinando il capo in segno d’assenso. Chase notò che la sua gestualità era molto accentuata. Ogni gesto e ogni parola sembravano calibrati per imprimersi nella memoria. «Parlerò con tutti, specialmente con Amahl. Ma la prego di non essere troppo duro con lui; sono certo che ha già compreso il suo errore» sorrise Anjou, come se accoltellare la gente fosse una ragazzata. «E spero che potremo ancora mostrare pubblicamente il segno della nostra fede» aggiunse, sfiorandosi il medaglione.

   «Uhm... vorrei vederlo da vicino» disse Chase, con curiosità priva di simpatia.

   «Ma certo!» esclamò Anjou. Si tolse il medaglione dal collo e lo porse al Capitano, al di sopra della scrivania. Era un monile piccolo e tondo, con il simbolo dell’Eliopoli profondamente inciso sulla superficie dorata. Chase provò ad aprirlo, ma si accorse che era un unico pezzo.

   «No, non così» spiegò garbatamente il Triannon. «Prema il sacro simbolo».

   Il Capitano premette il simbolo solare, che gli cedette lievemente sotto al dito, come se fosse un pulsante. Subito il medaglione proiettò un piccolo ologramma di Sunny, splendente di luce dorata. L’umanoide spalancò le braccia e prese a declamare i suoi comandamenti. Erano molto più numerosi di quelli che i Figli della Luce gli avevano strappato nel breve incontro all’arboreto. Ascoltati i primi, Chase premette di nuovo il medaglione, disattivando l’ologramma, e lo restituì al proprietario. «Vi state organizzando in fretta» notò.

   «Non rimandare a domani ciò che puoi fare oggi» pontificò Anjou. «In questo modo possiamo tenere il nostro Maestro vicino al cuore e ascoltare la sua Parola ogniqualvolta ne abbiamo bisogno» chiarì, rimettendosi al collo il monile.

   «Sa, anch’io conosco un po’ il vostro Maestro» disse Chase con una certa ironia. «Lui preferisce il dialogo, lo scambio d’idee, piuttosto che l’istruzione a senso unico. Forse è per questo che non scrive niente».

   «Tuttavia gli rendiamo un servigio, diffondendo il Suo messaggio» obiettò il Triannon.

   «Lui non ve l’ha chiesto. Anzi, ha ribadito di non volere questa devozione» sottolineò il Capitano. «E io concordo, visto che la vostra setta somiglia sempre più a un gruppo eversivo».

   Il gelo scese di colpo nell’ufficio. Anjou fissò il Capitano con aria ferita, ma in lui s’indovinava anche una profonda collera, che lo rendeva pericoloso. «Lei distrugge il rispetto che le portavo, Capitano» disse lentamente. «Qui a bordo ci sono dei Klingon che idolatrano il sanguinario tiranno Kahless, considerandolo un esempio da seguire. Ci sono Ferengi che pensano di comprare la vita eterna corrompendo il Tesoriere Divino. Ma solo noi Figli della Luce siamo perseguitati per la nostra fede!» si lamentò.

   «Voi non subìte alcuna persecuzione» puntualizzò Chase.

   «Ma dal suo atteggiamento è chiaro che vuole ostacolare la nostra ricerca del divino!» insisté Anjou.

   «Voi cercate il divino, ma vi siete fatti un idolo d’oro» ribatté Chase, indicando il medaglione. «Non adorate Sunny, ma l’idea che vi siete fatti di lui. E lei, Anjou... lei dice di servire Sunny, ma in realtà si erge a suo giudice» aggiunse severamente.

   «Ho solo risposto alla Sua chiamata, perché ho fede in Lui» ribadì il Triannon. «Anche lei dovrebbe averne».

   «Io ho molta fiducia in Sunny» rispose il Capitano. «Ma fede no, nel suo caso è fuori luogo. Lui stesso non ne vuole. Dovreste ascoltarlo almeno in questo».

   «Io devo seguire la mia coscienza» dichiarò Anjou, alzandosi. «Se questa mi ponesse in contrasto con lei... beh, spero che non accada» disse, velatamente minaccioso. «Alla prossima, Capitano. Pregherò perché l’Aureo le apra gli occhi». Infilò di nuovo le mani nelle larghe maniche gialle, fece un lieve inchino e si ritirò.

   Quando la porta si fu richiusa, Chase premette un comando sulla scrivania. Il Consigliere Apsu apparve in olo-presenza. «Ha sentito tutto?» chiese il Capitano.

   «Sì, purtroppo» confermò lo Xindi Acquatico.

   «E che ne pensa?».

   «Sono inquieto, naturalmente» disse Apsu. «Questo gruppo ha le caratteristiche di una setta e si sta organizzando in fretta. Peggio ancora, sta sviluppando un atteggiamento violento e intollerante. Arrestare Anjou non migliorerebbe le cose, anzi ne farebbe un martire».

   «Al momento quant’è diffuso?».

   «Ci sono almeno un centinaio di persone coinvolte, ma i numeri reali potrebbero essere molto più alti» avvertì il Consigliere. «La setta è diffusa trasversalmente, senza distinzioni di specie, sesso, età o istruzione».

   «Nemmeno istruzione?» chiese il Capitano.

   «Nemmeno. Pensi che alcuni adepti lavorano come ingegneri o informatici. Sono cioè i più qualificati per comprendere la natura tecnologica di Sunny» sottolineò Apsu.

   «E come lo spiega?!» sbottò Chase.

   «Dieci anni di guerra strisciante contro i Parassiti Neurali. Sei di Guerra delle Anomalie, in un crescendo di distruzioni. E per chi vive sull’Enterprise, altri tre di battaglie ad Andromeda» rispose il Consigliere. «Le vecchie certezze sono crollate; c’è un disperato bisogno di sostituirle con qualcos’altro. Temo che i Figli della Luce abbiano appena cominciato a darci problemi» disse sconsolato.

   «E io che dovrei fare? Indire una conferenza in cui Sunny spieghi di non essere divino?» chiese il Capitano.

   «Potrebbe essere utile. Anche se i duri e puri troveranno un modo per negare l’evidenza» rispose Apsu. «Al massimo convinceremo gli indecisi».

   «Non bastava la guerra contro Shado... dobbiamo anche combattere dentro la nave!» si lamentò Chase. «E la posta in gioco sono le nostre anime, a quanto pare».

 

   Fu il boato a svegliare Raav. Strappato al sonno, il Gorn aprì gli occhi e vide una luce intensissima che si allontanava alla velocità di una navetta. Presto fu solo un bagliore in lontananza. Anche il frastuono si attutì, trasformandosi in un cupo brontolio. Raav si alzò e vide che le compagne di viaggio erano già in piedi. «Quello cos’era?» chiese a Suspiria.

   «Un altro abitante di Exosia... uno di quelli potenti» rivelò la Nacene. «Vi avevo detto che qui non ci sono solo tardigradi. Credo che quello fosse un Douwd».

   «Andava di fretta... non s’è fermato neanche a salutarci» commentò Raav, mentre l’ultima scintilla di luce svaniva in lontananza.

   «Quegli esseri hanno le loro faccende da sbrigare... e noi abbiamo le nostre» disse Suspiria.

   «Puoi portarci alle coordinate dei Proto-Umanoidi?» chiese T’Vala.

   «Certo. Venite, non c’è tempo da perdere!» incitò la bambina, trottando verso la navetta. Gli altri tre dovettero correrle dietro. Entrarono appena prima che Suspiria chiudesse l’ingresso e la facesse decollare.

   «Qui vengo io» disse T’Vala, sfiorando il sedile del pilota. «Ho migliaia d’ore di volo al mio attivo».

   «Io ho migliaia di anni» ribatté Suspiria, che padroneggiava senza difficoltà i comandi.

   «La navetta è nostra» insisté T’Vala.

   «Ma solo io posso muoverla con precisione attraverso il micelio» puntualizzò Suspiria. «Quindi state buoni e godetevi il viaggio» ammiccò.

   «Come farai a...» iniziò Raav.

   Nel momento in cui Suspiria posò le manine sul quadro comandi, scariche azzurre simili a fulmini incorniciarono la navetta. Questa girò velocissima sul suo asse principale, come una trottola, e schizzò in avanti. Il micelio scorreva sullo schermo, luminoso e variopinto come le pareti di un tunnel spaziale. Se già entrare a Exosia era stata un’esperienza travolgente, questa era indescrivibile. I passeggeri si sentirono stirare ed ebbero l’impressione di essere in più posti contemporaneamente. La sensazione durò pochi istanti, poi la navetta si arrestò, smettendo anche di girare su se stessa. Altre scariche azzurre la avvolsero, disperdendosi in varie direzioni.

   «... trasferirci?» finì di chiedere il Gorn, sentendosi tutto sottosopra. Dietro di lui, T’Vala e Lyra si appoggiarono alle paratie, portandosi una mano allo stomaco.

   «Così!» ghignò Suspiria, alzandosi in punta di piedi per osservare lo schermo. Avevano lasciato Exosia, tornando ad Andromeda. Davanti a loro splendeva un sole giallo. Per il resto, lo spazio era buio: c’erano pochissime stelle, molto distanziate.

   «Fammi vedere» disse T’Vala, sostituendola ai comandi. Compì una rotazione di 180º, inquadrando una brillante nube bianco-giallastra, che riempì tutto lo schermo.

   «Quella sarebbe Andromeda?» chiese Lyra, due passi più indietro.

   «Incredibile, ma... sì, lo è» confermò T’Vala. «Gli strumenti lo confermano: ci siamo spostati di almeno 200.000 anni luce. Siamo nell’alone galattico, per questo ci sono così poche stelle». La timoniera completò la rotazione della navetta; Andromeda uscì dallo schermo e la stella solitaria tornò a campeggiare.

   «Quindi i Proto-Umanoidi dovrebbero essere qui» commentò Lyra. Sedette al posto del copilota ed eseguì una scansione. La sua espressione speranzosa s’incupì, man mano che leggeva i dati.

   «Allora?» chiese Suspiria, impaziente.

   «Niente di buono» disse Lyra. «Non rilevo pianeti di alcun genere».

   «Non perdiamoci d’animo. I Progenitori si sono già mostrati capaci d’occultare interi sistemi stellari. Con la Scourge in giro, hanno ancora più ragione di nascondersi» notò T’Vala.

   «Sì, ma... uhm, aspetta» fece Lyra, eseguendo un’altra analisi. «Ecco, guarda qui. La stella ha una metallicità bassissima». T’Vala s’inclinò verso di lei per leggere i dati.

   «Sarebbe a dire?» chiese Raav.

   «Sarebbe a dire che è tutto idrogeno ed elio» spiegò Lyra. «Niente elementi pesanti. Una stella del genere non può formare pianeti».

   «Ma è la nostra unica traccia. Non possiamo arrenderci!» protestò Suspiria.

   «Quando arriverà l’Enterprise faremo analisi più approfondite» disse T’Vala. «Non ci resta che aspettare».

   «Ma la stella com’è, per il resto?» chiese Raav.

   «Classe spettrale G2, età quattro miliardi di anni» lesse Lyra in tono annoiato. «La tipica stella dei pianeti di classe M, se non fosse per la bassa metallicità».

   «Forse i Proto-Umanoidi sono qui con le astronavi. O con stazioni spaziali» ipotizzò il Gorn.

   «Astronavi» disse Suspiria. «I Preservatori ne usarono moltissime per trasferirsi dalla Via Lattea. Cercatele!» ordinò, come se fosse al comando della piccola spedizione.

   T’Vala e Lyra eseguirono ulteriori scansioni. Per non saltare subito alle conclusioni percorsero una porzione d’orbita a massimo impulso. Ma dopo un’ora di ricerche non era emerso nulla. «O non ci sono, o hanno un occultamento perfetto» disse T’Vala. «In entrambi i casi, non possiamo...». Tacque quando la navetta ebbe un violento sussulto.

   «Cos’è stato?» chiese Raav.

   «Qualcosa ci ha spostati... forse un raggio traente» rispose T’Vala, confusa. «È durato solo due secondi».

   «Finalmente la prova che non siamo soli!» esultò Suspiria.

   «Devono averci spostati per evitare una collisione» ipotizzò Lyra. «Probabilmente siamo un moscerino, rispetto alle loro navi».

   «In tal caso, sono stati gentili a non farci spiaccicare» commentò Raav. «Direi di prenderlo come un segno amichevole. Se fossero ostili, a quest’ora ci avrebbero fatti fuori, in un modo o nell’altro».

   «Ma perché non si rivelano?!» fece Suspiria, contrariata. «Spara e vediamo se colpiamo qualcosa!» ordinò a T’Vala.

   «Sarebbe un pessimo biglietto da visita» disse la timoniera. «Proviamo con quello che usammo nel Cervello Matrioska. Trasmetto su tutte le frequenze il messaggio genetico della Progenitrice, così sapranno che li conosciamo. Poi trasmetto il genoma delle principali specie umanoidi dell’Unione. Così sapranno chi siamo. Infine trasmetto il messaggio registrato del Capitano, con la richiesta di dialogo. Così sapranno cosa vogliamo».

   «E speriamo che vogliano la stessa cosa, o stavolta sì che ci schiacciano» commentò Lyra.

   Il computer della navetta aveva i dati in memoria, pronti a essere inviati, in previsione di un incontro come quello. A T’Vala bastarono pochi secondi per trasmettere tutto. I quattro viaggiatori attesero la risposta, divisi tra la speranza d’essere accolti e il timore d’una reazione violenta. Per un minuto non accadde nulla. La trepidazione stava già scemando, quando la stella gialla sfarfallò. L’effetto durò solo un istante, ma era inequivocabile: qualcosa le era passato davanti.

   «Una nave occultata» disse T’Vala. Portò la navetta in quella direzione, mentre Lyra eseguiva nuove scansioni.

   «Niente... hanno ripristinato l’occultamento» constatò la donna dello Specchio, scornata. «Ma in quell’istante i sensori hanno captato uno scafo ovoidale. È lungo tre km e largo due. Non capisco... perché farsi intravedere solo un attimo?».

   «Con la loro tecnologia, dubito che abbiano avuto un guasto» disse T’Vala. «Anche perché si sono rivelati quando hanno saputo che siamo umanoidi».

   «Ma se volevano un contatto, perché tornare a nascondersi?» insisté Lyra.

   «Forse vogliono qualcos’altro da noi» ipotizzò Raav. «Una prova, una dimostrazione...».

   «Gli abbiamo già trasmesso quel che potevamo» ribatté T’Vala. «Non resta che parlargli direttamente». Aprì un canale, trasmettendo su tutte le frequenze. «Qui è il Tenente T’Vala Shil, della nave Enterprise dell’Unione Galattica. Siamo giunti in pace, spinti sia dal desiderio di conoscervi, sia dall’urgenza del conflitto con la Scourge. Sappiamo che siete là fuori. E sappiamo che siete gli artefici della nostra evoluzione. Questo legame significa molto per noi. Se, come crediamo, ha un valore anche per voi, vi prego di rispondere» disse con voce alta e chiara. Il quartetto attese una risposta, ma l’unica reazione fu un nuovo scossone.

   «Ancora un raggio traente! Che fanno, si prendono gioco di noi?!» s’indignò Lyra. «Dopo quattro miliardi d’anni, uno si aspetterebbe un po’ più d’interesse!».

   «Mi chiedo se siano ancora vivi, là dentro» disse Raav. «Le navi potrebbero essere guidate da sistemi automatici. O anche da un’Intelligenza Artificiale».

   «Se è intelligente dovrebbe risponderci, indipendentemente dal fatto d’essere artificiale» obiettò T’Vala.

   «A meno che non l’abbiano programmata altrimenti» notò Lyra.

   «Non so... il Cervello Matrioska era abbandonato, ma stavolta mi aspettavo di trovare dei superstiti» disse T’Vala, pur sapendo che era una sensazione personale e non una deduzione logica.

   «Sei una telepate; non percepisci niente?» chiese Raav. «E tu, Lyra? Hai le sue stesse capacità. E Suspiria non è da meno. Grande Coccodrillo, siete tutte telepati!» imprecò. «Non avete qualche sensazione?».

   «Non ancora, ma... proviamo a espandere le nostre percezioni» suggerì Suspiria. Sedette a gambe incrociate sul pavimento, al centro della navetta, e invitò le altre due a raggiungerla. T’Vala e Lyra si scambiarono un’occhiata e lasciarono i sedili. Si accomodarono vicino a Suspiria, nella sua stessa posizione. Le tre telepati si presero per mano e chiusero gli occhi. Un brivido le attraversò.

   «Tre menti... un solo intento» disse Suspiria, la più potente del trio.

   «Le nostre menti si uniscono» aggiunse T’Vala, la più disciplinata.

   «Le nostre menti sono una sola» concluse Lyra, la più bramosa di risposte.

   Le telepati inspirarono a fondo e rovesciarono la testa all’indietro. Per un attimo aprirono gli occhi: erano così arrovesciati all’indietro da farli sembrare bianchi. Solo tenendosi saldamente con le mani non caddero di schiena. Le loro menti, unite nella tripla Fusione, si proiettarono fuori dalla navetta. E di colpo lo spazio non fu più vuoto. Attorno alla stella gialla orbitavano innumerevoli astronavi, alcune ovoidali, altre allungate come sigari. Pareva di trovarsi dentro un immenso sciame. Ciascuna di esse conteneva migliaia di Proto-Umanoidi. Quelle sterminate moltitudini gioivano e soffrivano, amavano e odiavano, speravano e temevano, generando un rumore di fondo simile a un profondissimo ronzio. Era vano cercare d’isolare una mente in particolare: il brusio era troppo forte e copriva ogni singolo pensiero. Non che ce ne fosse bisogno; ormai le telepati sapevano il necessario.

   «Le nostre menti si dividono» dissero in coro. L’attimo dopo staccarono anche le mani, ricadendo all’indietro, ansimanti.

   «Wow, dobbiamo farlo ancora!» esultò Suspiria, la prima a riprendersi. Saltò in piedi, di nuovo arzilla. A T’Vala e Lyra servì più tempo.

   «Che hai percepito?» chiese Raav, aiutando T’Vala a tirarsi su.

   «I Proto-Umanoidi... sono qui attorno a noi» rivelò la mezza Vulcaniana, reggendosi a lui tanto era affaticata. «Sono moltissimi... non avevo mai percepito così tante menti. Il rumore di fondo era assordante».

   «Sanno che siamo qui» disse Lyra, rialzandosi. «Ci hanno anche spostati per evitare collisioni. Ma per qualche motivo non vogliono parlarci».

   «Beh, insistiamo» esortò Raav. «Non abbiamo viaggiato due milioni e mezzo d’anni luce per fermarci proprio ora!».

   «Potremmo sfruttare Exosia per trasferirsi direttamente all’interno di una loro nave» suggerì Suspiria. «Ma rischiamo di materializzarci dentro una paratia».

   «Hai detto poco!» fischiò Lyra. «Potremmo fare delle prove coi tardigradi. Se tornano indietro, vuol dire che c’è spazio vuoto».

   «Sei senza cuore» s’indignò Suspiria.

   «Ce l’ho, invece. E voglio che continui a battere» ironizzò la donna dello Specchio. Senza aggiungere altro, tornò ai comandi e prese a trasmettere. «Qui è sempre il Tenente Shil dell’Enterprise» disse, imitando T’Vala. Gli altri ne furono contrariati, ma non si azzardarono a interromperla mentre trasmetteva. «È inutile che continuiate a nascondervi. Sappiamo che avete uno sciame di navi. Possiamo localizzarle e anche salire a bordo. Preferiremmo venire col vostro permesso, ma se necessario lo faremo senza. E non crediate che eliminandoci risolverete il problema: altri conoscono la vostra posizione» avvertì Lyra. Disattivò l’audio in uscita, per parlare liberamente con gli altri, ma rimase in attesa di una risposta.

   «Sei stata avventata» la rimproverò T’Vala. «Ora si aspetteranno l’arrivo dell’Enterprise».

   «Non è meglio così?» obiettò Lyra. «Avranno tempo per fare i loro conti».

   «O per spostare lo sciame in un altro sistema» obiettò T’Vala. «La mobilità è il loro maggior vantaggio, rispetto alle vecchie megastrutture. Se tengono così tanto alla privacy, potrebbero andarsene tutti in pochi minuti. E non credo che riusciremo a seguirli. Così priveremo l’Enterprise della sua unica possibilità di contatto».

   «Se non vogliono parlare a noi, dubito che saranno più accoglienti con l’Enterprise» insisté Lyra. «Tanto vale prenderci i rischi, prima che arrivino gli altri». Aveva appena finito di parlare che una luce bianca li avvolse. Quando si spense, i quattro scoprirono di non essere più nello spazio e nemmeno sulla navetta. Erano in un vasto prato fiorito, come se ne trovano solo sui pianeti più ridenti. Lyra, che un attimo prima stava ai comandi, si trovò seduta a terra. Si alzò precipitosamente e si guardò attorno smarrita. I prati in fiore si estendevano in tutte le direzioni, costellati dalle macchie verde scuro dei boschetti, da fiumiciattoli scintillanti e da viottoli gialli. In lontananza il territorio si faceva collinoso, ma sempre verdeggiante.

   «Ecco la loro risposta» constatò Raav con fatalismo. «Chissà dove ci hanno portati».

   «Non possiamo esserci allontanati di molto» affermò Suspiria. «Se avessimo viaggiato nel subspazio, me ne sarei accorta».

   «Ma siamo su un pianeta, adesso!» esclamò Lyra. «Era occultato o... o...». Tacque, avendo notato una cosa assurda. Le colline verdi sfumavano in lontananza, ma non c’era l’orizzonte. Al contrario, il terreno curvava verso l’alto. Lyra piegò all’indietro la testa, incredula e ammutolita. Al posto del cielo vi erano le ampie campiture verdi dei continenti e quelle azzurre degli oceani, parzialmente velati dal biancore delle nubi. Un sole centrale illuminava perpetuamente il mondo cavo. «Un’altra megastruttura?» chiese con voce fioca. «E dove la nascondevano?».

   «No, è illogico» obiettò T’Vala. «Quand’eravamo nello spazio abbiamo percepito chiaramente uno sciame, non una struttura compatta. La mia ipotesi è che ci troviamo in un ponte ologrammi, dentro una di quelle astronavi».

   «Quindi i padroni di casa vogliono ingannarci» s’incupì Lyra.

   «Non è detto che abbiano intenti malevoli. Forse vogliono solo creare un ambiente ospitale per il Primo Contatto, o mostrarci com’era la loro antica casa» ipotizzò T’Vala.

   «Può darsi... anche noi Nacene a volte creiamo illusioni per gli ospiti» ragionò Suspiria, ricordando come il suo compagno lo facesse spesso. Lei, invece, preferiva metodi più diretti.

   «L’importante è che siamo a casa loro. Non era quello che volevamo?» chiese Raav.

   «Beh, sì» ammise T’Vala. «Avrei solo preferito che prima ci parlassero. Teletrasportare la gente di punto in bianco, senza chiedere il permesso, è spesso il preambolo di azioni ostili».

   «Non abbiamo molte carte. Cerchiamo almeno di giocarcele bene» suggerì Lyra. «Tu potresti imitare un’adulta? Un’ufficiale della Flotta?» chiese a Suspiria.

   «E tu potresti sembrare meno galeotta?» ritorse la Nacene. Lyra indossava ancora la tuta grigia e monopezzo dei carcerati.

   «Uhm, non siamo i più indicati per un Primo Contatto» ammise Raav. «Tranne te, T’Vala: sei l’unica ufficiale».

   «Questo sarebbe un lavoro per il Capitano e il Consigliere» sospirò T’Vala. «In loro assenza, farò il possibile. Se solo sapessimo dove andare!». Si schermò con la mano dai raggi del sole, guardandosi attorno in cerca dei padroni di casa. E finalmente li vide sbucare da dietro una macchia d’alberi. Inspirò a fondo, immergendosi nel suo lato vulcaniano per scacciare la paura dell’ignoto e del fallimento. Drizzò bene le spalle e andò loro incontro, seguita dai compagni. Avanzarono sul prato assolato, in quella fantastica simulazione di un mondo cavo. E finalmente si trovarono a tu per tu con i Progenitori.

 

   Erano una ventina e procedevano allineati, dieci da un lato e dieci dall’altro. Tutti vestivano aderenti uniformi bianche ed erano muniti di piccole armi argentee. Quando furono vicini, le due file si separarono, formando un corridoio. Sola, in fondo al drappello, sostava una Proto-Umanoide dagli abiti più fluenti, con un medaglione appeso al collo. Somigliava in modo impressionante alle molte statue, immagini olografiche e cloni Scourge che i federali avevano incontrato negli anni. Ma quella era viva e vegeta. Si prese qualche attimo per osservare i nuovi arrivati, dopo che sorrise e si avvicinò a passo svelto.

   «Eccovi, finalmente... non so dirvi quanto sono lieta di vedervi!» disse, raggiante di gioia. Ora che si era avvicinata, quelli dell’Enterprise notarono che era piuttosto bassa ed esile. Valutare la sua età era più difficile: aveva il viso liscio, ma la voce profonda e matura. «Sono Talat, Terza Delegata del Popolo» si presentò la Progenitrice, allargando le braccia. «Chi di voi ha trasmesso?» chiese.

   «Io» rispose T’Vala, facendosi avanti. «Tenente Shil dell’Enterprise. Questi sono Lyra, Raav e Suspiria» proseguì, accennando agli altri. Non cercò nemmeno di fingere che fossero ufficiali. Nel caso di Suspiria era inutile, dato l’aspetto da bambina, e gli altri due avevano abiti che non potevano essere scambiati per uniformi. Vedendo che lo sguardo di Talat indugiava sui suoi compagni, T’Vala cercò di riportare l’attenzione su di sé. «A nome dell’Unione Galattica e della Coalizione di Andromeda, vi porgo i nostri saluti e la nostra offerta di pace. Come Vulcaniana vorrei anche augurarle lunga vita e prosperità» aggiunse, levando la mano nel saluto a V.

   «Grazie, molto gentile!» si rallegrò Talat, che non sembrava mai sazia di osservarli. In lei c’era un entusiasmo quasi infantile, unito però a un profondo appagamento, come se li attendesse da una vita. «Anch’io vorrei salutarvi, alla maniera del Popolo» disse, porgendo la mano.

   T’Vala capì che doveva stringergliela, proprio come faceva la maggior parte delle specie umanoidi. Lo fece con delicatezza, temendo che troppa forza potesse ferire o allarmare la Progenitrice. Sentì la pelle tiepida... la sua temperatura corporea era nella media, naturalmente. Avvertendo la presa di Talat, capì che anche la forza dei Proto-Umanoidi si aggirava su valori medi.

   «Sistema circolatorio a base di rame... corteccia cerebrale ipertrofica... facoltà telepatiche... ah, molto interessante!» disse Talat, che l’osservava con la stessa attenzione. Dal riflesso nei suoi occhi, T’Vala capì che portava lenti a contatto, che le trasmettevano in tempo reale il rapporto di qualche sensore.

   «Signora Delegata... posso chiederle il perché di questa simulazione?» chiese la timoniera, accennando al mondo cavo intorno a loro.

   «È solo un modo per presentarci. Questa è la nostra antica patria, l’Eliopoli» spiegò la Proto-Umanoide, accompagnandosi con un ampio gesto. «Purtroppo sono passati i suoi giorni di splendore. Se la vedeste oggi...» lasciò in sospeso, rattristata.

   «La conosciamo. La Federazione l’ha scoperta un paio di secoli fa» rivelò T’Vala. «La studiamo da allora, anche se il calore e le radiazioni l’hanno resa invivibile».

   «Allora sapete già molto di noi» disse Talat, colpita. Non contentandosi di aver stretto la mano a T’Vala, volle farlo anche con gli altri. Passando a Lyra, rimase interdetta. «Vi somigliate molto... ma che dico, siete identiche. Però non sembrate cloni; siete gemelle?» s’interessò.

   «Non esattamente... è una lunga storia» disse Lyra, esitando a parlare dello Specchio.

   «Avremo tempo più avanti» disse Talat, conciliante. Passando a Raav, ebbe un attimo d’esitazione. «Ah, una specie rettiliana. Sangue freddo, dieta carnivora... sì, ci sono anche quelle» deglutì. In confronto al Gorn, era così piccola che gli arrivava sì e no al petto. Ma si fece coraggio gli porse la mano, che Raav prese delicatamente fra gli artigli.

   «Molto onorato, sssignora» disse il Gorn, con la pronuncia un po’ sibilante della sua specie. Quando si scostò, Talat vide bene Suspiria.

   «Oh, ma è una bambina!» s’intenerì. «Ciao, piccola... e tu che ci fai qui?» chiese, piegandosi in avanti per osservarla.

   «Ho estratto la traccia genetica dal DNA del serpente» spiegò Suspiria, serissima. «Con un esame astrometrico sono risalita a queste coordinate. E ho trasferito la navetta prima che la mia stazione fosse distrutta dalla Scourge».

   «Sei una mutaforma... una Nacene!» riconobbe Talat, balzando indietro. La sua scorta si allarmò: venti armi mortali furono puntate contro Suspiria.

   «Ehi, calma!» disse Raav, facendole scudo. «I Nacene sono nostri alleati. È stata Suspiria a portarci qui... non era quello che volevate? Ci avete dato voi quella traccia».

   «Sono stata io, sì» ammise Talat. La sua posa si rilassò; con un gesto ordinò alle guardie di abbassare le armi.

   «E non era un invito a venire?» insisté Raav.

   «Lo era. Mi aspettavo una nave della Coalizione, o magari l’Enterprise, ma se vi ha attaccato la Scourge si spiega tutto» disse la Terza Delegata. «La vostra nave è salva?» s’interessò.

   «Pensiamo di sì. Dovrebbe raggiungerci a breve» rispose T’Vala, ritenendo che dare qualche informazione fosse indispensabile per far progredire l’incontro. «Lei conosce l’Enterprise?» chiese con un certo stupore.

   «Certo. È da quando avete creato le nuove Melme che raccolgo informazioni su di voi» disse la Proto-Umanoide. «Abbiamo così tanto di cui discutere! Stanno per accadere grandi cose; non possiamo continuare a ignorarci».

   «Se è così edotta, perché non ci ha contattato prima?» chiese T’Vala.

   «Non potevo» rivelò Talat, assumendo un tono da cospiratrice. «Come vi ho detto, io sono la Terza Delegata. Sono la voce di chi vorrebbe uscire dall’isolamento. Ma il Primo e il Secondo Delegato pensano che dovremmo astenerci dal contattare altre specie. Vogliono che ci nascondiamo, come abbiamo sempre fatto, fin dall’infausta Guerra Taguana!» esclamò, senza celare la propria frustrazione.

   «Quindi ci ha contattati di nascosto?!» esclamò Lyra, vedendo la loro posizione farsi di nuovo critica.

   «Non c’erano alternative» confermò Talat. «Shado si espande a una velocità tremenda. Se non vi contattavo ora, sarebbe stato troppo tardi».

   «Tardi per cosa?» chiese T’Vala. «Avete un piano per affrontarlo?».

   «Sì» disse Talat con risolutezza. «È stato il nostro conflitto a creare la Scourge. Per colpa nostra, i popoli di Andromeda soffrono orribilmente. E presto quel flagello deborderà nelle altre galassie. Ma non glielo permetteremo! Purtroppo i miei colleghi si ostinano a mantenerci isolati, riducendo le probabilità di vittoria» aggiunse con stizza. «Credo sia la vergogna a condizionarli... vergogna di guardare in faccia chi ha sofferto per la Scourge. Perciò ho dovuto forzargli la mano. Queste guardie sono fedeli a me» disse, accennando alla scorta. «Ma se qualcun altro ci ascoltasse, finirei nei guai» confessò, in preda al nervosismo. Si guardò attorno, come se temesse d’essere colta sul fatto.

   «Quindi... cosa si aspetta che facciamo, esattamente?» esitò T’Vala.

   «Dovete convincere i miei colleghi a uscire dall’isolamento. Fategli capire che se agiamo di concerto con la Coalizione avremo più possibilità di vittoria!» disse Talat, quasi implorante.

   «Ma se non c’è riuscita nemmeno lei!» protestò Lyra. «Noi che dovremmo fare?».

   «Calma» disse T’Vala, cercando di non far precipitare la situazione. «Delegata, se dobbiamo persuadere i suoi colleghi a un simile passo ci servono molte più informazioni sulla vostra società e su come contate di affrontare Shado».

   «Naturalmente» annuì Talat. «Quanto sapete della nostra storia?».

   «L’abbiamo ricostruita solo in parte» spiegò T’Vala. «Cominciammo studiando il vostro messaggio genetico e i resti dell’Eliopoli. Arrivati ad Andromeda, scoprimmo altro dai Nacene. Ma fu solo con la missione nel Cervello Matrioska che chiarimmo i punti decisivi. Sappiamo che creaste le altre stirpi umanoidi, ma che dopo la Guerra Taguana avete deciso di non interferire nel nostro sviluppo. Sappiamo che vi siete scissi in due gruppi, Preservatori e Distruttori, che sono migrati ad Andromeda in momenti diversi. E abbiamo scoperto che furono i Distruttori a creare la Scourge, come arma contro...».

   «... di noi!» completò Talat, fremendo d’antica indignazione. «Io sono una Preservatrice, nel caso ve lo chiedeste. Dei Distruttori non dovete preoccuparvi: non sono più una minaccia. Ma la Scourge continua a espandersi. Così i nostri scienziati hanno messo a punto un’arma per distruggerla. Non chiedetemi di descriverla... pochi anche tra gli addetti ne hanno un quadro completo. È la tecnologia più complessa che abbiamo mai sviluppato. Ci sono voluti cinquecento anni per progettarla e altri cento per costruirla».

   «E può eliminare la Scourge in tutta la galassia?» chiese Suspiria, scettica.

   «Eliminerà tutto ciò che ha la traccia quantica della Scourge, sì» confermò Talat. «Pensavamo di usarla contro la Melma Grigia, ma andrà bene anche contro la Nera».

   «E la Dorata?» si allarmò T’Vala. «Sunny è nostro alleato, non potete distruggere anche lui!».

   «Hanno tracce quantiche diverse, quindi il vostro amico se la caverà» la rassicurò Talat.

   «Fra quanto potrete usare quest’arma?» chiese Suspiria. «La Coalizione sta per crollare, non c’è più tempo!».

   «Lo so, per questo vi ho chiamati» spiegò la Terza Delegata. «La mia gente è lenta e metodica. Sebbene l’arma sia sostanzialmente pronta, gli ultimi dettagli potrebbero richiedere mesi o persino anni. Ma come dite voi, la Coalizione non resisterà così a lungo. Le nostre sonde ci dicono che proprio in questo momento Shado sta assediando Kelva Primo» rivelò.

   T’Vala e Suspiria si scambiarono un’occhiata carica di preoccupazione.

   «Se riuscissi a imporre la mia linea d’azione, l’arma verrebbe dapprima testata su una porzione di Melma Nera, ad esempio la flotta che sta assediando Kelva» proseguì Talat, passeggiando avanti e indietro. «Se tutto andrà bene, potremo tentare su scala galattica. Ma se l’arma fallisse... ormai ci saremo rivelati e Shado ci darà la caccia. Per questo vorrei che avessimo degli alleati. Il che mi porta a voi» disse, con l’urgenza nella voce. «Non potendo contattarvi direttamente, ho fatto in modo che prendeste l’iniziativa. Vi ho lasciato una traccia che vi ha portati in questo sistema. Ho reso imperfetto l’occultamento della mia nave per confermarvi la nostra presenza. Quello che ci avete trasmesso – la firma genetica, i vostri DNA, le richieste di dialogo – è tutta roba interessante. Ma solo quando avete detto che potevate abbordarci, e che altri sapevano di noi, ho potuto prendervi a bordo. Ora dovrei interrogarvi... beh, in realtà dovrebbero occuparsene le forze di sicurezza. Diciamo che sono subentrata» disse Talat con un sorriso ironico.

   «Le abbiamo dato il pretesto che stava cercando» sogghignò Raav, apprezzando l’escamotage.

   «Precisamente. E ora che siete qui, cercherò di farvi ricevere dall’Alta Assemblea» promise Talat. «Se agiamo assieme, forse riusciremo a smuovere gli altri Delegati. Prima dell’incontro v’informerò sulle nostre leggi, così sarete più incisivi».

   «Se ci mostreremo troppo edotti, capiranno che ci ha passato informazioni» avvertì T’Vala.

   «È un rischio che dobbiamo correre» ribatté Talat. «Esponendomi per voi, rischio la mia carica. Ma la galassia rischia molto di più, quindi... devo farlo» disse, come chi cerca di darsi coraggio. T’Vala intuì che era spaventata, anche se cercava di non darlo a vedere.

   «La ringrazio per quanto sta facendo» disse la mezza Vulcaniana. «Ma forse dovremo aspettare che arrivi l’Enterprise, così sarà il mio Capitano a parlare».

   «E se non arrivasse? E se i miei colleghi si sentissero troppo minacciati?» obiettò Talat. «No, tutto sommato preferisco che le cose siano andate così. I Delegati ascolteranno più facilmente un piccolo gruppo d’esploratori, sapendo che...» esitò.

   «Sapendo che se non siamo sulla stessa lunghezza d’onda possono sbarazzarsi di noi senza problemi» completò Lyra. «È tutto chiaro, Delegata».

   «Cercavo termini più diplomatici, ma temo sia così» ammise Talat. «Comunque farò tutto quanto è in mio potere per la vostra incolumità. Nel peggiore dei casi vi cancelleranno la memoria della vostra permanenza qui, ma non vi uccideranno».

   «Io posso andarmene quando voglio» puntualizzò Suspiria. «E se mi starete vicini, vi porterò via, se le cose si metteranno male» promise ai compagni.

   «È comprensibile... ma nell’interesse della vostra gente, spero che terrete duro» disse Talat. «Andiamo, ora. Per rispettare le apparenze dovete essere arrestati e interrogati. Ma non temete: questa è la mia nave e l’equipaggio mi è fedele, quindi sarete trattati bene. Le vostre celle sono le più confortevoli che abbiamo e comunque non ci resterete a lungo. Concorderemo la vostra “confessione”, facendo sembrare che ci abbiate scoperti con le vostre sole forze. Così potrò chiedere all’Assemblea di ricevervi, quali rappresentanti della vostra gente. Se tutto va come spero, fra due o tre giorni parlerete ai Delegati». La Proto-Umanoide si passò la mano sul braccio, azionando un olo-comando integrato nell’organismo. Il fantastico paesaggio del mondo cavo si dissolse, lasciando il posto alle pareti scure del ponte ologrammi, interrotte solo da un ingresso ovale.

   I quattro dell’Enterprise si scambiarono delle occhiate incerte. Era una strana situazione, ma Talat sembrava sincera. T’Vala percepiva in lei la preoccupazione per le genti di Andromeda, mista al timore che i colleghi scoprissero la sua piccola macchinazione. Non avvertì doppi fini. «Per me va bene» acconsentì. Anche Lyra e Raav annuirono. Solo Suspiria sembrava ancora un po’ scettica.

   «D’accordo» cedette la Nacene, «ma all’Assemblea parlerò io. Sono una leader della Coalizione, dopotutto». Glissò sul ruolo che Raav – e soprattutto Lyra – occupavano sull’Enterprise. Il quartetto si accodò alla Delegata, che si diresse verso l’uscita. Le guardie li scortarono con discrezione.

   «Perché il serpente?» chiese d’un tratto Suspiria.

   «Come, picc... ehm, Suspiria?» fece Talat. Anche lei aveva difficoltà a conciliare l’aspetto della Nacene con la sua vera natura.

   «Avete inserito la traccia genetica in un serpente. È un caso o ha un significato particolare?» chiese la bambina.

   «Avrei potuto usare qualsiasi animale o pianta, ma ne ho scelto uno che attirasse l’attenzione. E che richiamasse il nostro emblema» spiegò la Terza Delegata. Si sfilò il medaglione che portava al collo e lo mostrò ai visitatori. Sulla superficie argentea era raffigurato un serpente dal dorso nero e il ventre bianco, colto nell’atto di mordersi la coda, così da formare un cerchio perfetto.

   «Conosco questo simbolo» disse Raav.

   «Anch’io».

   «Anch’io».

   Le sosia avevano parlato all’unisono, ma fu T’Vala a spiegarsi: «È l’Uroboro, un simbolo diffuso in molte culture umanoidi. Rappresenta la natura ciclica delle cose, l’eterno ritorno e la rigenerazione. Quand’è mezzo bianco e mezzo nero, come in questo caso, illustra la natura dualistica del cosmo e soprattutto che gli opposti non sono in conflitto tra loro». Così dicendo scambiò un’occhiata con Lyra. Entrambe si sentirono d’un tratto legate da qualcosa di profondo, inesprimibile a parole, ma che annullava ogni residua velleità di scontro.

   «Per noi ha un significato simile» sorrise Talat. «Nei tempi remoti era l’emblema del Popolo. Quando sorse il conflitto fra Preservatori e Distruttori fu abolito, in favore dei simboli delle nostre megastrutture. Ma dopo la creazione della Scourge siamo tornati a usarlo. Credo che abbia ancora qualcosa da insegnarci» disse meditabonda, indossando di nuovo il monile.

 

   Due giorni dopo i prigionieri furono trasferiti sulla nave ammiraglia dello Sciame. Talat non era con loro, ma come da accordo si aspettavano di rivederla nell’Assemblea. Per sicurezza, le guardie li prelevarono nelle loro celle individuali e li trasferirono separatamente. Solo al momento di entrare nel salone i quattro furono riuniti in un’anticamera. Per prime arrivarono T’Vala e Lyra, poi Raav. Da ultima giunse Suspiria, che sorprese i compagni di viaggio presentandosi con un nuovo aspetto. Era ancora umana, con lunghi capelli biondi e occhi verde smeraldo; ma aveva le fattezze di un’adulta.

   «Suspiria?» chiese Lyra, stentando a riconoscerla.

   «Sono io» confermò la Nacene con voce armoniosa. «Lieta di rivedervi. Vi hanno trattati bene?».

   «Beh, sì» rispose Lyra, e anche gli altri annuirono.

   «Come mai questo cambiamento?» chiese T’Vala, accostandosi. La mezza Vulcaniana era alta, ma ora Suspiria la superava.

   «Ho notato che spesso gli umanoidi non mi prendono sul serio, se mi presento a loro come una bambina» spiegò Suspiria. «Così spero d’essere più convincente».

   «Ben fatto» approvò T’Vala, e non si riferiva solo all’aspetto. Aveva notato che i Nacene assumevano anche le caratteristiche psicologiche di chi imitavano. Perciò Suspiria aveva spesso l’atteggiamento testardo e umorale di una ragazzina. Ma ora che aveva cambiato età, sembrava più calma e posata: qualità indispensabili per fare buona impressione sui Proto-Umanoidi.

   «Ricordate che sarò io a condurre le trattative» disse Suspiria, con un cipiglio autoritario inedito per lei. «Parlate solo se interrogati, intesi?». Il suo sguardo indugiava su Lyra.

   «Sei tu che ci hai voluti qui» le ricordò la donna dello Specchio. «Ma sì, va bene» cedette, sotto lo sguardo duro dell’altra.

   In quella l’intera parete di fondo dell’anticamera si aprì, dal basso verso l’alto, lasciando filtrare una luce intensa. Il pavimento prese a scorrere in avanti, divenendo una terrazza affacciata su un salone immenso.

   Modellato sull’antica Assemblea dell’Eliopoli, era un ambiente sferico, la cui metà inferiore era divisa in numerosi terrazzamenti su cui si assiepavano i Delegati. Ognuno di loro rappresentava un milione di navi dello Sciame: ed erano mille. Il loro vociare si confondeva in un ronzio, che salì di tono quando apparvero i quattro visitatori. Alla sommità della sala brillava un pannello luminoso, il cui bagliore si rifletteva nello specchio d’acqua sul fondo. Su un podio a metà altezza sedevano i tre Alti Delegati, le massime autorità dei Proto-Umanoidi. Talat li aveva già descritti ai suoi ospiti, perché sapessero chi avevano davanti. Al centro, sul seggio più alto, sedeva il Primo Delegato Mollom, leader supremo del Popolo. Indossava un abito grigio argento e aveva un ornamento attorno al capo, come una sottile tiara che seguiva la forma del cranio allungato. Alla sua destra vi era il Secondo Delegato Gorog, capo delle forze armate, dall’abito più scuro. E alla sua sinistra c’era Talat, la Terza Delegata, rappresentante degli strati più umili della popolazione. Per la distanza non era che una macchiolina bianca, piccola in confronto al seggio che occupava. Sopra i tre scranni campeggiava l’antico emblema del Popolo, l’Uroboro.

   «L’Alta Assemblea riconosce la Terza Delegata Talat, perché ci presenti gli emissari alieni» disse lo speaker.

   Talat si alzò immediatamente e prese la parola. «Onore all’Assemblea e al Primo Delegato» disse rispettosa. La sua voce, amplificata da qualche dispositivo, tacitò i mormorii. «Signori, vengo a riferirvi un fatto straordinario. Non più tardi di due giorni fa, una navetta aliena ha raggiunto questo sistema al preciso scopo di contattarci. I suoi occupanti rappresentano la Coalizione di Andromeda, che come sapete si oppone da secoli alla Scourge. Ma non è tutto: tre di loro sono umanoidi!».

   Talat fece una pausa a effetto, mentre il brusio dei Delegati tornava a salire. T’Vala cercò d’interpretarlo, sebbene la quantità delle menti coinvolte lo rendesse arduo. Predominava lo stupore, naturalmente. Passato il primo attimo, le emozioni si precisarono. Molti Delegati temevano che lo Sciame fosse in pericolo, che anche Shado potesse localizzarlo. Ma altri erano affascinati dalla presenza di umanoidi e volevano saperne di più.

   «Sì, colleghi, avete udito bene: umanoidi!» ripeté Talat. «Essi vengono dalla Via Lattea, proprio come noi. Sono il frutto della nostra antica opera... sangue del nostro sangue! E sono venuti in pace. Nella Via Lattea, le loro genti sono confluite in una vasta Unione, che ha messo da parte le divergenze per garantire pace e fratellanza...».

   «Pace!» insorse Gorog, alzandosi in piedi. «Nella Via Lattea non c’è mai stata pace, dacché i nostri figli si sono avventurati tra le stelle. Invece di guardare a ciò che li univa... ciò che veniva da noi... si sono lasciati consumare dalle differenze. Dove non ce n’erano, se le sono inventate! Da allora sono state stragi senza fine. Anche la loro Unione non è che una piccola isola, assediata dai nemici. Sono appena usciti da una guerra che li ha quasi distrutti! E non credo di sbagliarmi, se dico che ci hanno scovati solo per chiedere aiuto contro la Scourge. È la guerra, non la pace, che li ha condotti alla nostra porta!». Un brusio di assenso accompagnò l’arringa del Secondo Delegato.

   «L’Unione si è difesa da un attacco esterno, com’è giusto che sia» obiettò Talat. «Quanto alla Scourge, l’abbiamo creata noi; ma sono i popoli di Andromeda che ne pagano il prezzo. È così irragionevole che ora ci chiedano di fare la nostra parte?».

   «Noi stiamo già facendo la nostra parte» disse Mollom, prendendo la parola. «L’arma è quasi pronta. Presto la useremo contro la Scourge, salvando i popoli di Andromeda. Intrattenerci con questi visitatori non fa alcuna differenza» disse con voce profonda.

   «Primo Delegato... mi aveva assicurato che li avrebbe fatti parlare!» protestò Talat.

   «Certo, per interrogarli» rispose Mollom. «Desidero sapere come, di preciso, ci hanno trovati. Dal rapporto preliminare che ci ha fatto pervenire questo punto non è chiaro. Capirà che se c’è una breccia nella sicurezza dev’essere sigillata».

   «Di questo dovrei occuparmi io» commentò Gorog. «È altamente irregolare che sia stata la Terza Delegata a trattenere gli stranieri. Chiedo che siano trasferiti immediatamente sulla mia nave, per sottoporli a più rigoroso interrogatorio».

   «Signori, questi non sono spie né invasori!» disse Talat, scandalizzata. «Sono rappresentanti di grandi potenze galattiche e ci hanno trovati dopo lunghe ricerche. Poiché la nostra tecnologia non è più sufficiente a nasconderci, ritengo sia inutile continuare a sfuggirgli. Ringraziamo piuttosto che ci offrano la loro alleanza... ma lasciamo che siano loro a parlare!» insisté.

   «Che parlino, dunque» concesse Mollom.

   Talat si risedette subito. Gorog era indispettito, ma non osò contestare e sedette a sua volta. Fra i due corse uno sguardo ostile.

   Suspiria avanzò fin sull’orlo della terrazza, da cui si era sollevata una balaustra, e si rivolse con sicurezza al vasto uditorio. La sua voce, come quella dei Progenitori, era amplificata da qualche dispositivo.

   «Signori Delegati, grazie di quest’opportunità» esordì la Nacene. «Sono qui come rappresentante della Coalizione, l’unica forza che finora ha combattuto la Scourge. L’abbiamo affrontata quand’era Grigia e impersonale; l’affrontiamo ora che è Nera e senziente. Per molto tempo abbiamo cercato la sua origine, sperando che questo ci aiutasse a sconfiggerla. Ma solo di recente, con l’arrivo dell’Enterprise, abbiamo fatto luce sul mistero. Abbiamo scoperto che fu un vostro antico conflitto a crearla. Così vi abbiamo cercati: non per incolparvi di ciò che è stato, ma per chiedervi umilmente aiuto. Shado ha lanciato un feroce attacco contro le ultime roccheforti della Coalizione. Pochi giorni fa ha distrutto la mia stazione e ora assedia Kelva Primo. I Kelvani hanno già sofferto terribilmente a causa della Scourge. Hanno da poco riconquistato il loro pianeta e ora stanno per perderlo ancora. Sarà la fine della loro specie. Abbiamo creato la Coalizione per salvare i popoli di Andromeda e conservare l’antico sapere, ma la campagna di Shado ci sta mettendo in ginocchio. Se potete aiutarci, dovete farlo adesso. Perché intervenire in ritardo equivarrà a non essere intervenuti affatto. Salvate Kelva, salvate la Coalizione» implorò.

   «Conosciamo le spaventose condizioni in cui versa la galassia» assicurò Mollom. «Non c’è giorno in cui questa consapevolezza non ci affligga. Ma abbiamo una sola possibilità di sconfiggere la Scourge. Un assalto avventato rischia di vanificarla. Prima di proseguire il dibattito, però, devo chiederle come ci avete trovati. Avete usato una tecnologia che Shado potrebbe replicare?».

   Suspiria scambiò un’occhiata esasperata con i compagni. Che la discussione si arenasse su questo dettaglio era proprio ciò che temevano.

   «Con quello che succede, gl’importa solo questo?!» sibilò Lyra.

   «Inventati una risposta» suggerì T’Vala, ricorrendo alla telepatia per non essere ascoltata da altri.

   Suspiria esitò. Non poteva inventarsi una sciocchezza, perché certamente i Proto-Umanoidi l’avrebbero verificata. E una volta scoperta la menzogna non si sarebbero più fidati. D’altra parte non voleva compromettere Talat, la loro unica alleata. «I nostri metodi sono riservati. Ma abbiamo la certezza che Shado non possa replicare la tecnica» disse infine.

   «Se rifiutate di risponderci, questo dibattito non ha ragione di proseguire» disse subito Gorog. «Primo Delegato, vi rinnovo la richiesta di prendere in mano la faccenda. Lasciate che interroghi i prigionieri».

   «Non siamo vostri prigionieri!» esclamò Suspiria, perdendo di colpo l’autocontrollo. «Posso andarmene quando voglio... non ho i limiti degli umanoidi. Ma porterò con me quelli che osano affrontare la Scourge!» avvertì, avvicinandosi ai compagni. Stava per tornare a Exosia con loro. T’Vala la rifuggì e si fece avanti, sperando di calmare gli animi; ma fu preceduta.

   «Sono stata io» rivelò Talat, lasciando il suo seggio. Un silenzio gelido piombò sull’Assemblea. Gli altri due Delegati la guardarono costernati. «Ho fatto pervenire una traccia alla Coalizione... un messaggio genetico con le coordinate di questo sistema» precisò la Terza Delegata. «Era l’unico modo per scuotervi dall’immobilismo». Chinò il capo sconsolata, pronta alle conseguenze.

   «Questo è di una gravità estrema» disse Mollom lentamente. «Mai un Alto Delegato aveva rivelato la posizione del Popolo a stranieri».

   «Non era mai stato così indispensabile» si difese Talat.

   «Spettava all’Assemblea deciderlo» rispose Mollom con severità. «Lei ha compiuto un gravissimo abuso d’ufficio».

   «Direi piuttosto alto tradimento!» disse Gorog, trionfante. «Chiedo che la Terza Delegata sia immediatamente rimossa dall’incarico e posta agli arresti».

   «Fatemi quel che volete; non ha importanza» disse Talat stoicamente. «Ciò che conta è che, finalmente, i nostri figli sono qui davanti a noi. Guardateli negli occhi, se ne avete il coraggio! Ascoltate le loro voci! Non scacciateli, come avete fatto sinora. O verrà il giorno in cui vi chiederanno conto del vostro cuore di pietra» avvertì. Le guardie l’avevano già circondata e dovette tacere.

   «Terza Delegata, la dichiaro decaduta dal suo incarico» disse Mollom. «I suoi privilegi sono revocati. Decideremo più tardi la sua pena».

   «Bene!» approvò Gorog.

   «Ma la seduta continua. La parola va ai rappresentanti dell’Unione» aggiunse Mollom.

   «Che?!». Questo il Secondo Delegato non se lo aspettava. Ma fece buon viso a cattivo gioco. Si era appena liberato della sua avversaria politica; disfarsi degli stranieri gli pareva una bazzecola al confronto.

   «Qui si mette male... che si fa?» chiese Lyra col pensiero. Guardava Suspiria come se la fuga le paresse l’opzione migliore.

   «Non pensarci nemmeno!» la redarguì T’Vala. «Se conosco i miei colleghi, fra poco l’Enterprise sarà qui. Dobbiamo preparare il terreno. E soprattutto dobbiamo impedire che i Proto-Umanoidi lascino il sistema, o saremo daccapo».

   «E come li convinciamo? A me sembra che abbiano già deciso!» obiettò Lyra.

   «Parlate pure» le invitò Mollom, interrompendo il loro colloquio telepatico.

   T’Vala respirò a fondo e si fece avanti. «Onorevoli Delegati, vi parlo a nome della nave Enterprise dell’Unione Galattica» esordì. «Ci sono molte ragioni logiche per cui i nostri popoli dovrebbero allearsi contro la Scourge. Agire separatamente ci rende più vulnerabili. Per questo l’Unione è sorta nella Via Lattea e la Coalizione ad Andromeda. Tutte queste genti hanno compreso che certe minacce sono troppo grandi per affrontarle da soli. Voi siete la specie più antica, di certo avete constatato più volte questa verità universale. E avrete visto come spesso un piccolo ritardo sia fatale. Kelva sta per cadere; seguiranno altri pianeti. E se Shado uscirà da Andromeda... se raggiungerà la Via Lattea... sarà la fine degli umanoidi. La vostra eredità sarà cancellata. Come potete permetterlo? Da quando abbiamo trovato i resti delle vostre megastrutture, e soprattutto la vostra firma genetica, sogniamo d’incontrarvi. Non lasciate che le ombre degli antichi conflitti vi separino per sempre dai vostri figli!» esortò.

   «Ben detto» disse Lyra, affiancandosi alla sosia. «Io vengo da una dimensione parallela, che qui è chiamata lo Specchio, perché molte cose vi sono invertite. Ho visto cosa succede, quando nessuno si oppone al male. Credo che, nel mio Universo, la vostra gente si sia del tutto disinteressata al destino dei propri figli. Non commettete lo stesso errore! Non abbandonateci alla sofferenza e alla disperazione. Sapete, a volte basta poco per ridare speranza a chi l’ha persa» concluse guardando T’Vala con gratitudine, per farle capire che parlava anche di sé.

   Il brusio dell’Assemblea crebbe d’intensità. Molti Delegati erano stati colpiti dagli appelli delle “gemelle” e chiedevano a gran voce d’esaudirle. Lo speaker dovette invitarli più volte alla calma, prima che Mollom potesse riprendere la parola.

   «Avete evidenziato dei concetti interessanti» ammise il Primo Delegato. «Mi colpisce che, pur essendo l’una il contraltare dell’altra, siate giunte alle stesse conclusioni. A ben vedere è anche il nostro pensiero» disse, osservando il medaglione con l’Uroboro che portava al collo. «Credo sia opportuno interrogare il nostro capo-progetto sulle possibilità di dispiegare l’arma anticipatamente...».

   T’Vala e Lyra si scambiarono un’occhiata di trionfo, quasi incredule che le loro arringhe fossero state efficaci. Ma videro un inserviente raggiungere il Primo Delegato e sussurrargli all’orecchio. Mollom parve riflettere, prima di riprendere la parola. «I nostri sensori hanno rilevato che un’astronave è appena entrata nel sistema» disse. «Sta compiendo delle analisi sensoriali. Si tratta dell’Enterprise?». L’ologramma dell’astronave fu proiettato al centro del salone, per consentirne l’identificazione. La sua forma era inconfondibile: la sezione a disco schiacciata, le sottili gondole quantiche. Non c’erano altre navi federali ad Andromeda e certamente nessuna di classe Universe.

   «Esatto, Primo Delegato» confermò T’Vala, rincuorata da quella vista. «Se permetterà al mio Capitano di esporre le ragioni dell’Unione, avrà ulteriore conferma di quanto ho detto».

   «Se avete una nave come quella, perché contattarci con una navetta?» chiese Gorog, ancora sospettoso.

   «Come abbiamo riferito alla Delegata Talat, siamo stati separati dall’Enterprise in seguito a un attacco di Shado» spiegò T’Vala. «Non sapendo dove fosse finita, abbiamo tentato da soli il Primo Contatto. Sono lieta di vedere che la nostra nave è in buone condizioni».

   «Ed è arrivata proprio adesso... che fortunata coincidenza!» osservò Gorog. Che T’Vala si riferisse a Talat chiamandola ancora “Delegata” l’aveva indispettito. Ma l’arrivo dell’Enterprise gli dava la possibilità di girare la situazione a proprio vantaggio.

   «Che intende?» chiese Mollom.

   «Beh, i tempi sono così opportuni da sembrare sospetti» insinuò Gorog. «Riflettete, colleghi!» si rivolse alla folla. «Se l’Enterprise fosse giunta per prima, avremmo evitato il contatto, come nostro solito. Se necessario l’avremmo disabilitata e ci saremmo spostati in un altro sistema. Invece i federali ci hanno inviato dapprima una navetta con sole quattro persone. Così non ci saremmo sentiti minacciati! E la traditrice Talat gli ha dato udienza in questa Assemblea. Il risultato è che ora parliamo d’intervenire anticipatamente e siamo pronti ad accogliere gli ufficiali dell’Enterprise. A me sembra una macchinazione, volta a carpire la nostra fiducia!».

   I Delegati rumoreggiarono. C’era chi esprimeva dissenso, ma altri sembravano propensi a credere al complotto. I quattro dell’Enterprise compresero che bastava poco a far pendere l’ago della bilancia.

   «Lei cosa propone?» chiese Mollom.

   «D’ignorare l’Enterprise, per il momento» rispose prontamente Gorog. «Ma se si addentrasse nello Sciame, mettendo a rischio le nostre navi... allora potrebbe rendersi necessaria la sua distruzione» sentenziò.

   «Distruzione?! Ci sono diecimila persone a bordo, per la maggior parte civili!» insorse Lyra.

   «Se è vero che avete creato gli umanoidi, lasciatevelo dire da un’esterna: non siete degni dei vostri figli» aggiunse Suspiria, sempre più delusa da quel popolo.

   «Modera i termini, aliena!» insorse Gorog. «Questa seduta è degenerata nel caos... chiedo che i prigionieri siano portati via. Restituiamo dignità all’Assemblea».

   T’Vala si rese conto che Gorog era vicino a prevalere. Fingendo di aborrire la confusione, l’aveva in realtà sfruttata a suo vantaggio. Era un buon politico... e senza più Talat a tenergli testa, c’era il rischio che Mollom cedesse.

   «E poi che farete, tornerete a nascondervi?» chiese Raav, facendosi avanti. Era la prima volta che prendeva la parola.

   «E tu chi sei?!» chiese bruscamente Gorog.

   «Mi chiamo Raav... che ci crediate o meno, sono un semplice cuoco sull’Enterprise» ammise il Gorn. «Ma ho sperimentato sulla mia pelle che vuol dire attardarsi per il motivo sbagliato e perdere tutto. Sssse mi ascolterete, forse eviterete il mio errore!» sibilò.

   «Un cuoco! Ridicolo!» esclamò Gorog, convinto di avere gioco facile.

   «La ascolto, signor Raav» disse invece Mollom, a sorpresa. Quello strano intervento aveva carpito l’attenzione dei Proto-Umanoidi.

   T’Vala osservò Raav con apprensione, chiedendosi dove sarebbe andato a parare. In quel frangente il minimo errore avrebbe portato alla catastrofe. Ma il Gorn prese a parlare in tono colloquiale, con la stessa calma con cui intratteneva i clienti del suo ristorante. E persino T’Vala, che lo conosceva da un decennio, si trovò ad ascoltarlo affascinata. Perché, per la prima volta, Raav parlava dettagliatamente del suo passato.

   «Circa vent’anni fa vivevo su Lissepia con mia moglie Rhaella» rivelò il Gorn. «All’epoca gestivo un piccolo e malfamato locale dei bassifondi. Amavo molto mia moglie, ma proprio per questo avrei voluto offrirle di più. Quando Rhaella depose le uova, lo presi come un conto alla rovescia per dare una vita migliore a lei e ai piccoli. Così entrai in affari con dei malviventi, aiutandoli a compiere una rapina durante la Festa Lissepiana della Mamma» confessò.

   T’Vala capì perché a Raav non piaceva parlare del passato. Se la cosa si fosse risaputa, avrebbe dovuto pagare il suo debito con la giustizia. Ascoltò ancora più attentamente, presagendo il finale: Raav non le aveva mai accennato al fatto di avere figli.

   «La mia parte erano venti barre di latinum, che sommate ai nostri risparmi ci avrebbero permesso di trasferirci altrove, aprendo un locale più grande» proseguì il Gorn. «Non starò a dirvi tutto il piano che avevamo congegnato. Sappiate solo che dovevamo nascondere la refurtiva in un sotterraneo per alcuni giorni, prima di dividerla e portarcela via. Dovendo aspettare, non seguii tempestivamente l’ordine d’evacuazione». Raav sibilò, avvicinandosi alla parte peggiore; la sua voce scese di tono.

   «Vedete, un terremoto aveva danneggiato gravemente la centrale energetica della città. C’erano già alcune perdite d’energia; una seconda scossa poteva farla saltare in aria. A mia moglie, che non sapeva nulla della rapina, dissi di andare. Non volendole confessare il furto, imbastii una scusa per il fatto che dovevo trattenermi. Ma le uova stavano per schiudersi e lei non volle partire senza di me. Così, mentre io andavo a prendere il latinum, ci fu una seconda scossa e la centrale esplose. Il nostro quartiere fu raso al suolo. Rhaella morì, coi piccoli non ancora nati».

   Raav scosse il testone, ancora in preda ai rimorsi, e T’Vala vide luccicargli una lacrima nell’occhio. Il Gorn aveva parlato a testa bassa, ma ora alzò gli occhi sull’Assemblea. «Anche se da allora ho rigato dritto, e cerco di dare buoni consigli a tutti, non posso scordare di aver fallito il mio dovere più grande. Tutto perché ho perso tempo. E per cosa, poi? Per qualche barra di latinum... e per il mio stupido orgoglio. Non commettete il mio stesso errore, o lo rimpiangerete per sempre. Se la vostra progenie è in pericolo, soccorretela! E se avete messo in pericolo degli altri, come i Kelvani, soccorrete anche loro. Sono comunque sotto la vostra responsabilità» avvertì. Si ritirò senza aggiungere altro.

   «Questa storiella insignificante non ci riguarda in alcun modo!» esclamò Gorog. «Guardie, portate via questi...». La sua voce fu sommersa dalle proteste. Dalle terrazze dell’Assemblea, molte centinaia di Delegati chiedevano a gran voce che le richieste dei visitatori fossero accolte. Gorog li guardò incredulo. Poi fissò Talat, che sebbene circondata dalle guardie non era stata allontanata, e la vide sorridere. Finché si parlava di civiltà e di galassie era possibile mantenere il distacco. Ma pensare a un’unica famiglia distrutta era diverso: innescava un coinvolgimento emotivo. E i Proto-Umanoidi erano chiaramente commossi dalla storia di Raav.

   «Inviteremo qui il tuo Capitano, Raav» promise Mollom, quando riuscì a far sentire la sua voce. «E interrogheremo i nostri scienziati sulla possibilità di un intervento anticipato».

   T’Vala, Lyra e Suspiria si scambiarono sguardi increduli. Quando tutto sembrava perduto, e nemmeno la logica funzionava, Raav aveva trovato il modo di smuovere le coscienze. T’Vala avrebbe voluto abbracciarlo, ma sapeva che non era il caso, dopo un racconto così doloroso. «Mi spiace per la tua famiglia» gli disse invece. «Mi spiace che tu debba portare questo peso». Parlava da madre: perdere Vrel l’avrebbe fatta impazzire dal dolore.

   «Certe cose non si possono cambiare... anche se vivere a due passi dalla Phoenix certe volte è una tortura» ammise Raav, che una volta aveva persino viaggiato sulla navetta temporale. «Ma fammi un favore... anzi, fatemelo tutte» chiese, osservando anche Lyra e Suspiria. «Quando torneremo sull’Enterprise, tenete per voi la faccenda della rapina».

   «Resterà fra noi» promise T’Vala. «Sei già stato punito più del dovuto, povero amico» mormorò, sfiorando la spalla scagliosa del Gorn.

 

   Il Capitano Chase si presentò all’Assemblea accompagnato da Lantora, Terry e Sunny. Gli altri ufficiali rimasero sull’Enterprise, anche se difficilmente sarebbero potuti intervenire in caso d’emergenza. Ora che lo Sciame era uscito dall’occultamento, Terry aveva contato le navi: erano un miliardo. E ciascuna conteneva mediamente diecimila Proto-Umanoidi. Con queste cifre, l’unica opzione era la diplomazia.

   «Ottimo lavoro» disse Chase, venendo incontro ai quattro dispersi. Indugiò un attimo nell’osservare Suspiria. «Vedo che è cresciuta» commentò.

   «Doveva succedere, prima o poi» ammise la Nacene.

   «Stai bene?» chiese Lantora, affrettandosi verso T’Vala. Notò che sulla sua guancia c’era un livido mezzo sbiadito. «Che ti è successo, è stata lei?» indovinò subito, lanciando un’occhiata di fuoco a Lyra.

   T’Vala si passò una mano sulla guancia, sorpresa. Non si era accorta di portare ancora i segni della colluttazione con la sosia. «È tutto a posto» disse. «È stato un incidente di percorso, ma non si ripeterà. Adesso Lyra è dalla nostra».

   «Questo non lo crederò mai» mugugnò lo Xindi, guardando la sosia con diffidenza. Lyra fissò il pavimento, vergognosa.

   «Come sta Vrel?» chiese T’Vala, anche per cambiare argomento.

   «Bene; e starà ancora meglio quanto ti rivedrà» disse Lantora. Le restò accanto per tutta la durata del dibattito, per assicurarsi di non perderla ancora.

   «L’Alta Assemblea riconosce il Capitano Chase dell’Enterprise» disse lo speaker.

   L’Umano spaziò con lo sguardo sul vasto auditorio e ne fu quasi sopraffatto. Eccoli lì, i Proto-Umanoidi, finalmente in carne e ossa! Fino a pochi anni prima non avrebbe mai creduto alla possibilità d’incontrarli. E ora non solo doveva parlargli come rappresentante dell’Unione; doveva convincerli a intervenire. Ma come poteva entrare nella psicologia di una specie così antica? Si disse che non doveva pensare ai Progenitori come se fossero dèi. Erano individui come lui: nascevano, vivevano, morivano. Per quanto fossero progrediti, avevano pur sempre una visione parziale delle cose. Forse era anche per questo che avevano creato nuove specie: per confrontarsi con punti di vista diversi dal proprio.

   «Vi ringrazio per averci accolti» esordì il Capitano. «Da molti secoli i popoli dell’Unione esplorano lo spazio, alla ricerca di nuovi mondi e civiltà. Questo desiderio di nuovi orizzonti è scritto in profondità dentro di noi. Ci accomuna, ci lega... e credo che ci venga da voi. Ma più conosciamo l’Universo esterno, più comprendiamo quello interiore. La ricerca della conoscenza... la scintilla che ci avete dato... è in primo luogo il desiderio di sapere chi siamo. Da dove veniamo. Qual è il nostro posto nel cosmo. E ora che vi vediamo e possiamo parlarvi, queste antiche domande iniziano ad avere risposta. Ma su tutti noi incombe la minaccia di Shado. Lasciate che a parlare di lui sia chi lo conosce meglio: la sua controparte benigna, che noi chiamiamo Sunny».

   L’umanoide dorato si fece avanti, suscitando la curiosità dei Proto-Umanoidi, anche perché – colore a parte – aveva il loro stesso aspetto. «Nobili Precursori, vengo ad avvertirvi di non sottovalutare mio fratello» esordì. «Egli nutre un odio implacabile per tutti gli umanoidi. Li odia in quanto sono i suoi creatori, ed egli non tollera nessuno sopra di sé. Finché esistono, sono un limite alla sua brama d’onnipotenza. Quando vi localizzerà... e prima o poi lo farà... vi aggredirà per lo stesso motivo. E se arriverà a contagiare altre galassie, nessuna forza nell’Universo potrà più fermarlo. Ecco perché, se avete un’arma, è indispensabile usarla ora».

   «L’atteggiamento di Shado non ci è nuovo» sospirò Mollom stancamente. «Solo chi distrugge i propri creatori può illudersi di essere l’artefice di se stesso. È un’idea seducente... l’abbiamo vista distruggere intere civiltà» disse, sfiorandosi il medaglione con il serpente che divorava se stesso. «E ora si è trasformata in qualcosa che può inghiottire il cosmo. Per questo chiamo a esprimersi il Primarca Rekker, capo-progetto dell’Arma».

   Una piattaforma circolare si staccò da una terrazza, innalzandosi come una mosca nel salone dell’Assemblea, finché fu alla stessa altezza degli Alti Delegati. Ospitava un singolo Proto-Umanoide, vestito di scuro.

   «Onore all’Assemblea e al Primo Delegato» disse il Primarca, inchinandosi rispettosamente. «Le mie squadre hanno lavorato senza posa al completamento dell’Arma. Ritengo sia giunto il momento di testarla. Non ancora su scala galattica, no» si affrettò a precisare. «Ma l’assedio di Kelva ci fornisce il banco di prova ideale. Se funzionerà sulla Melma Nera di tutto il sistema, allora potremo estendere il raggio d’azione».

   «E il problema del tunnel spaziale?» chiese Mollom.

   «Quello è un inconveniente secondario» assicurò Rekker. «Anche se non sapessimo chiuderlo, sarebbe irrilevante pur di sconfiggere la Scourge. Ma confido che un impulso di tachioni lo farà collassare. Possiamo occuparcene più avanti».

   «Scusate... se il problema è far collassare un tunnel spaziale, credo che l’Enterprise possa occuparsene» intervenne Chase. «Il nostro deflettore di navigazione può emettere una vasta gamma d’impulsi energetici, tra cui il raggio tachionico di cui parlate».

   «Splendido!» gioì il Primarca. «Eccellenza, posso illustrare il progetto ai nostri ospiti?» chiese a Mollom.

   «Va bene, ma sia sintetico» raccomandò il Primo Delegato.

   «Naturalmente» promise lo scienziato. Diresse la sua pedana levitante verso la terrazza dei federali, che così poterono vederlo da vicino. Era un Proto-Umanoide alto e magro, abbastanza in là con gli anni. Il suo cranio sembrava particolarmente sviluppato e negli occhi chiari brillava un’intelligenza vivissima.

   «Lieto di conoscervi, signori» disse cortesemente. «Come sapete, il problema della Scourge risiede nella sua abbondanza e diffusione. Se anche distruggessimo tutti i pianeti contagiati – e non vedo come potremmo – ne rimarrebbero senz’altro delle piccole quantità sparse in giro. Asteroidi, comete, relitti alla deriva... ogni nascondiglio è buono. Molte bolle o astronavi di Melma si trovano nello spazio profondo, sparpagliate in tutta Andromeda. Non le localizzeremo mai tutte. Questo ci costringe ad abbandonare qualunque strategia di guerra tradizionale».

   «È il problema della Coalizione» ammise Suspiria. «Finora abbiamo potuto solo ritirarci e nasconderci. Quando la Scourge trova un nostro rifugio, dobbiamo evacuarlo. E ora che i Kelvani si sono intestarditi a difendere il loro mondo, non hanno scampo. Voi che alternativa avete trovato?».

   «Possiamo creare un campo d’instabilità subspaziale, calibrato su una precisa traccia quantica» rivelò il Primarca. «Tutto ciò che si trova in quel volume di spazio, e che corrisponde alla traccia, viene “ritagliato” dalla nostra dimensione e spedito in un’altra. Calibrando il campo subspaziale sulla traccia quantica della Scourge, possiamo epurarla senza danneggiare ciò che la circonda».

   Chase e Terry si scambiarono un’occhiata, increduli che fosse così facile. Ma il Primarca parlava senz’altro con cognizione di causa. I Proto-Umanoidi contavano miliardi di scienziati tra i loro ranghi: dovevano aver vagliato seriamente questo progetto, prima di metterlo in cantiere.

   «Ovviamente non vogliamo spostare il problema, ma risolverlo in modo definitivo» proseguì Rekker. «Quindi abbiamo selezionato, come luogo d’arrivo, un Universo le cui leggi fisiche non permettono alla materia di esistere. Ogni nanite di Scourge si disintegrerà all’istante. Noi la chiamiamo Dimensione Morta. L’unico problema è che, per innescare la reazione a catena, bisogna colpire un grosso campione di Melma con un impulso gravitonico covariante. Così facendo potrebbe crearsi un tunnel spaziale tra le due dimensioni, come una cicatrice dell’operazione. Ma poiché nella Dimensione Morta la materia si disgrega all’istante, non c’è da temere che Shado ritorni. E se la vostra nave può chiudere il tunnel, allora non c’è ragione d’indugiare».

   «Come creerete il campo d’instabilità subspaziale?» chiese Terry.

   «Abbiamo equipaggiato ogni nave dello Sciame con un emettitore subspaziale» spiegò il Primarca, accompagnandosi con una presentazione olografica. Al centro del salone apparve lo schema di una nave ovoidale, con evidenziata un’antenna posta anteriormente. «Posizionandole con grande precisione tutt’attorno ad Andromeda, possiamo creare un campo che abbracci la galassia. Servirà quasi tutto lo Sciame per un’operazione di questa portata».

   L’astronave si rimpicciolì e si confuse in una nube fittissima di sue simili. Poi lo Sciame si divise e ogni nave prese una rotta diversa. L’ologramma ne evidenziò solo alcune, per illustrare schematicamente il piano. L’inquadratura continuò ad allargarsi: apparvero le stelle, poi un braccio galattico, infine tutta Andromeda. Le luci si erano abbassate e la galassia rifulgeva al centro dell’Assemblea. Le navi dello Sciame vi si posizionarono attorno, cingendola in un fittissimo reticolo energetico, tratteggiato in giallo. Sembrava una ragnatela tholiana, se non che questa avvolgeva un’intera galassia. I federali sgranarono gli occhi: era un’operazione così immane da rendere difficile immaginarla, figurarsi metterla in pratica.

   «Terremo da parte solo alcune navi da guerra, per proteggere la nostra nave-arma» proseguì Rekker. Ad Andromeda subentrò l’immagine di un’astronave a forma d’anello. Era posta in verticale, come una ruota, e girava lentamente sul proprio asse. «Questo è il componente più complesso e delicato del progetto» rivelò il Primarca. «Emetterà l’impulso gravitonico che innescherà la reazione a catena. Per la sua forma l’abbiamo chiamata Uroboro, come il nostro emblema. Dovessimo perderla, non potremmo più eliminare la Scourge» sottolineò.

   «E dice che può già dispiegarla?» chiese Mollom.

   «Datemi sette giorni per collimare le bobine di campo e controllare i sistemi chiave» rispose Rekker. «Nel frattempo potremmo già inviare il resto dello Sciame in posizione attorno alla galassia. Se la flotta nera sarà annientata, Shado si allarmerà. Quindi dovremo essere lesti a ripetere l’operazione su scala galattica. Seguite il mio consiglio e fra una decina di giorni la Scourge non sarà che un ricordo». La nave ad anello svanì e l’illuminazione fu ripristinata.

   «Lei ha parlato in modo convincente, Rekker» ammise il Primo Delegato. «Ho la sua parola di scienziato che non sta forzando i tempi?».

   «Ce l’ha» assicurò il Primarca. «Gli armamenti convenzionali dell’Uroboro non sono completati, ma gli scudi sono pronti. Con una scorta adeguata non gli serve altro. Il Generale Wuluw ha già scelto le navi».

   «Le mie astronavi vi accompagneranno, se lo permettete» intervenne Sunny. «Ma colgo l’occasione per chiedervi che ne è dei Distruttori. Finora di loro abbiamo trovato solo il Cervello Matrioska, che è collassato. Ma come voi siete sfuggiti alla Scourge, è probabile che anche alcuni di loro l’abbiano scampata. Ne sapete nulla? Sono ancora pericolosi?».

   «I Distruttori non rappresentano più una minaccia» disse Mollom con sicurezza. T’Vala ricordò che anche Talat si era espressa in questi termini, pur senza entrare nei dettagli.

   «Come potete esserne certi?» insisté Sunny.

   «Perché sono proprio qui, davanti a voi. Sotto il segno dell’Uroboro si sono riunite entrambe le fazioni del Popolo: unite per sconfiggere la Scourge» disse Mollom, allargando le braccia. «Abbiamo messo da parte gli antichi conflitti, proprio come hanno fatto l’Unione e la Coalizione. Dovete sapere che i Distruttori pagarono il prezzo più grande, quando eruppe la Scourge: oggi solo un tredicesimo del Popolo è composto dalla loro gente. Tuttavia si sono rivelati fondamentali per progettare e costruire l’Arma. Senza il loro apporto non ce l’avremmo fatta».

   «Quali sono i Distruttori fra voi?» chiese Sunny con un brivido. Dietro di lui, Suspiria e i federali osservavano inquieti l’Assemblea, che d’un tratto sembrava meno amica.

   «Io sono un Distruttore!» disse Gorog con fierezza.

   «E lo sono anch’io» rivelò Rekker, la cui pedana fluttuava accanto alla terrazza degli ospiti. «Come lo sono un tredicesimo dei Delegati. Ma questo termine è fuorviante. Non siamo più Distruttori, perché con la nascita della Scourge abbiamo compreso la follia dei nostri avi e l’abbiamo abbandonata. Non vogliamo più distruggere le specie umanoidi. Al contrario, ci battiamo per salvarle».

   «Per salvarle da ciò che avete creato!» inveì Suspiria.

   «Purtroppo sì» ammise Rekker. «Ma non potendo cambiare le azioni dei nostri padri, dobbiamo cercare di porvi rimedio. La rete subspaziale e la nave-arma sono nostri progetti. Io, un Distruttore, ho curato la loro realizzazione. E sono pronto a usarli, se Mollom dei Preservatori mi autorizzerà».

   I federali osservarono il Primo Delegato. Per quanto avessero predicato tante volte la necessità di accantonare i vecchi dissidi, avevano grosse difficoltà ad accettare la collaborazione con i Distruttori. Quegli esseri avevano cercato più volte di sterminare gli umanoidi, sia prima che dopo essere stati esiliati ad Andromeda. Avevano creato la Scourge per ripicca contro i Preservatori; ma ora sembravano gli unici in grado di fermarla. Chase si morse la lingua, maledicendo la situazione. E attese con ansia il verdetto di Mollom, da cui dipendevano le sorti di Kelva e forse dell’intera galassia.

 

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Capitolo 6
*** L'Assedio di Kelva Primo ***


-Capitolo 5: L’Assedio di Kelva Primo

 

   Sopra lo Scudo Planetario di Kelva, la battaglia divampava da giorni. Le navi di Sunny e quelle di Shado, simili per forma e stazza ma diverse nel colore, si colpivano a distanza ravvicinata, avvolgendo il pianeta in una gragnola di raggi azzurri e rossi. I cannoni antiprotonici laceravano gli scafi, ma questi si riparavano in pochi secondi, grazie ai naniti di cui erano composti. Ogni astronave andava in pezzi e si ricostruiva decine di volte, prima che la maggior parte dei naniti fosse distrutta. Anche così, i brandelli superstiti si fondevano con altre navi, rafforzandole. A volte i vascelli entravano semplicemente in collisione, trasformandosi in mulinelli dorati e neri. I naniti sfrigolavano, cercando di distruggersi a vicenda, finché il surriscaldamento li bruciava.

   Shado attaccava senza risparmiarsi, ma Sunny doveva porre attenzione allo Scudo Planetario. Se s’indeboliva troppo, il nemico l’avrebbe superato. Ma con uno spessore eccessivo c’era il rischio che la gravità prendesse il sopravvento, facendolo precipitare. In fondo era composto da materia, non da energia. Perciò Sunny doveva stare molto attento e compensare ogni variazione di spessore.

   Le navi nere che riuscivano a superare la flotta di Sunny si trovavano in mezzo alle piattaforme difensive kelvane. Erano strutture a forma di dodecaedro, con bocche da fuoco su tutte le facce, capaci di sparare simultaneamente in varie direzioni. Non avevano equipaggio, ma erano pilotate in remoto da terra. L’assenza di spazi interni devoluti al pilota aveva permesso di stiparle quasi interamente con nuclei energetici, che alimentavano sia le armi, sia gli scudi. Ciò dava loro un’elevata potenza di fuoco, combinata con una resistenza formidabile. Distruggerne una sola era impresa ardua; e ce n’erano centinaia in orbita attorno a Kelva. Qualunque esercito tradizionale avrebbe dovuto sputare sangue per passare in quello sbarramento. Ma l’armata di Shado non aveva sangue da versare. Le sue navi attaccavano in modo forsennato, senza alcun istinto di auto-conservazione. Crivellate di colpi, andavano in pezzi, si ricostruivano e infine diventavano una massa informe che avvolgeva le piattaforme, cercando di superarne gli scudi e assorbire la loro massa. In questo modo, Shado perdeva un paio di navi per ogni piattaforma; ma era ancora una vittoria a buon mercato. E quando finalmente riusciva a contagiarle, otteneva altra massa utile per rinvigorire le sue forze.

   Neutralizzata parte delle piattaforme, la flotta nera raggiunse lo Scudo Planetario e lo tempestò di colpi. Alcuni riuscirono a trapassarlo, aprendo dei varchi. Le navi di Shado lanciarono i siluri di Scourge, cercando d’insinuarli negli squarci prima che la Melma Dorata li sigillasse. Ma Sunny era così veloce che non facevano mai in tempo. All’impatto i siluri si trasformavano in chiazze nere, che davano allo Scudo un’aria arrugginita. Le chiazze si deformavano e si spostavano, cercando di raggrupparsi, per avere più massa e quindi più capacità di perforazione. Ma la massa superiore dello Scudo riusciva a consumarle.

   Tuttavia i raggi antiprotonici che avevano trapassato la barriera giungevano al suolo, scavando enormi crateri sulla superficie di Kelva. Colonne di fumo se ne sollevavano e la roccia fusa ribolliva all’interno. I raggi antiprotonici si concentrarono sulla capitale, martellando lo Scudo cittadino. Gli allarmi squillarono e i generatori d’emergenza entrarono in funzione, per mantenere attiva la cupola d’energia. La città non poteva resistere a lungo sotto un simile fuoco. Era tempo di contrattaccare.

   Le navi della Coalizione s’innalzarono nell’atmosfera, oltre le nubi più alte, e in accordo con Sunny attraversarono la membrana dello Scudo. Emersero nello spazio esterno, grondando Melma Dorata, come ippopotami che escono dall’acqua. Immediatamente furono bombardate dal fuoco di Shado, cui risposero con altrettanta violenza. La battaglia s’inasprì: le navi della Coalizione si buttavano nella mischia, provocando più danno possibile alla flotta nera. Quando i loro scudi stavano per cedere si tuffavano di nuovo nella barriera dorata, trovando sollievo finché gli scudi si rigeneravano. Allora emergevano di nuovo, per un’altra sortita.

   La Coalizione alternava le sue forze, in modo che ci fossero sempre alcune navi impegnate in battaglia, mentre le altre si riprendevano. Ma il ciclo non poteva ripetersi all’infinito: nel corso degli scontri le navi accumulavano danni che non era possibile riparare in fretta. Quelle più danneggiate dovevano trattenersi sotto lo Scudo, costringendo le altre a resistere più a lungo prima di farsi sostituire. Ma più si allungava la permanenza all’esterno, più i danni si aggravavano. Presto le navi più deboli sbandarono, i loro scudi vacillarono; non erano più in grado di ritirarsi in fretta. Shado concentrò l’attacco su di esse. Una dopo l’altra andarono in pezzi, o furono divorate dalla Melma Nera.

   In mezzo al marasma, il Behemot troneggiava come una fortezza. L’antica astronave lottava come mai prima d’ora, per difendere l’ultimo baluardo del suo popolo. Gli artiglieri, tutti veterani, non sbagliavano un colpo. Una dopo l’altra, le navi nere si frantumavano al suo passaggio. E si riformavano. E si frantumavano ancora. Nel frattempo le loro armi tempestavano gli scudi del Behemot come un acquazzone estivo. Riconoscendo la sua importanza, sia tattica che simbolica, Shado concentrò le sue forze su di esso. Lo attaccò da più parti, implacabile, non curandosi delle navi che perdeva. Assalto dopo assalto, gli scudi della grande astronave s’indebolirono. Alcuni colpi intaccarono lo scafo provato dal tempo e danneggiarono i sistemi interni. Ci furono esplosioni, fughe di gas e radiazioni; alcuni Kelvani morirono. Rovesciando un’impressionante quantità di fuoco per coprire la ritirata, il Behemot s’inabissò nello Scudo Planetario, sfuggendo all’attacco. Shado rise in cuor suo: presto l’ammiraglia kelvana sarebbe dovuta riemergere, per contribuire alla battaglia. Allora l’avrebbe annientata.

 

   Se non fosse stato per l’innato senso del tempo dei Kelvani, Fanior non avrebbe saputo dire da quanto durava l’Assedio. Assicurare la sopravvivenza della città lo assorbiva completamente e le poche ore di sonno che si concedeva non bastavano a schiarire la sua mente afflitta dalle preoccupazioni. Nelle sale del nuovo Palazzo della Difesa, l’attività era incessante. I Kelvani manovravano in remoto le piattaforme orbitali e coordinavano l’attività della flotta, dirigendo le navi là dove ce n’era più bisogno.

   Concedendosi una rara pausa, Fanior salì sul tetto del Palazzo, un massiccio edificio cilindrico, dalla superficie disadorna. Strisciò sui tentacoli fino al parapetto e osservò la capitale, immersa in un’atmosfera di strana calma, quasi d’immobilità. Tutti i preparativi erano stati fatti, ora non restava che attendere l’esito dello scontro. I civili se ne stavano chiusi in casa o nei bunker, aspettando l’esito della battaglia con la disciplina della loro specie. Quelli che – per una ragione o per l’altra – erano all’esterno si muovevano in fretta, senza fermarsi a parlare. Un’atmosfera surreale gravava sui resti della civiltà kelvana. Forse era il crepuscolo dorato, dovuto allo scudo di Sunny. Forse era il silenzio opprimente, rotto solo dal vento, che sibilava tra gli austeri edifici squadrati o cilindrici. O magari erano le strade semideserte, che davano alla città un’aria abbandonata.

   Come tutti i Kelvani, Fanior aveva una visione a 360º, quindi notò subito l’umanoide salito sul tetto dietro di lui. Era Sunny, che gli venne incontro lentamente. «È strana, vero? Questa calma» commentò l’essere dorato.

   «Per me è familiare» disse Fanior, nella sua lingua bassa e rasposa. «Anche l’Assedio di Kelva II era così, cielo a parte. Il Fronte Temporale ci circondava, eravamo rintanati sotto lo Scudo Planetario. Quando le anomalie o le navi nemiche ci colpivano, compivamo delle sortite. Andò così giorno dopo giorno, per tre mesi. Con la nostra inferiorità numerica era vano sperare nella vittoria, quindi chiesi aiuto all’Unione. Sapevo che tanti altri pianeti erano stati aiutati. Ma non il mio... eravamo troppo pochi e troppo fuori mano perché l’Unione sprecasse le sue risorse. Fummo lasciati soli. Così le anomalie superarono lo Scudo e uccisero molti dei nostri, inclusa la mia famiglia. Solo la ritirata del Fronte nel sistema Procyon permise al resto della colonia di sopravvivere. Non credevo che mi sarei trovato di nuovo in una situazione del genere. Eppure eccomi qui... e aspetto ancora l’arrivo dei rinforzi».

   «Stavolta le cose andranno diversamente» promise Sunny. «Sono sempre in collegamento col mio avatar sull’Enterprise. Abbiamo trovato i Proto-Umanoidi, sono pronti ad aiutarci» rivelò. «Hanno un’arma che potrebbe sconfiggere Shado e la testeranno in questo sistema. Se funzionerà, estenderanno il raggio fino a epurare tutta Andromeda. Quest’incubo potrebbe essere vicino alla fine; dovete solo resistere».

   «Per quanto?» chiese l’Ambasciatore.

   «Ancora sette giorni».

   «Il tuo Scudo reggerà tanto?».

   «Sto facendo del mio meglio» rispose Sunny con prudenza.

   «Devi farcela» ammonì Fanior. Subito dopo il Kelvano lasciò la terrazza, per informare i suoi simili che c’era speranza, a patto che resistessero.

 

   Con la maggior parte delle piattaforme orbitali distrutte, la battaglia tra le due flotte di Melma si era ormai avvicinata allo Scudo Planetario. Le navi di Shado si allinearono come un plotone d’esecuzione e aprirono il fuoco con nuove armi, ad ampio irraggiamento, che incenerirono lo Scudo per un raggio di decine di chilometri. Mentre alcune navi restavano in posizione, continuando a colpire lo Scudo per impedirgli di rigenerarsi, altre scattarono in avanti, come predatori famelici. Ma si trovarono la strada sbarrata dal Behemot, che aprì il fuoco con tutte le sue armi: raggi antiprotonici, missili al tricobalto. Sulla plancia dell’ammiraglia i Kelvani si aggiravano indaffarati, manovrando i comandi con la precisione dei loro cento tentacoli.

   «Il nemico usa una nuova arma... si direbbe un’emissione tetrionica ad ampio raggio» riferì l’addetto ai sensori.

   «Estendete gli scudi della nave per sigillare la breccia nello Scudo» ordinò Reshef.

   «Questo li indebolirà molto» ricordò l’Ufficiale Tattico.

   «Non c’è alternativa. Se Shado riesce a passare, Kelva è perduta» rispose il Consigliere.

   «Abbiamo già riportato danni. Se restiamo anche a fare da bersaglio, non sopravvivremo a lungo» avvertì il Primo Ufficiale.

   «Sunny ci ha garantito che i rinforzi sono in arrivo. Ogni istante che guadagniamo può fare la differenza» insisté Reshef. «L’ordine è confermato».

   La grande astronave si posizionò al centro dello squarcio ed estese al massimo gli scudi, sigillando la falla nella barriera dorata. Come predetto dall’Ufficiale Tattico, questo li indebolì molto, e non solo perché il raggio era aumentato. In condizioni normali gli scudi del Behemot aderivano allo scafo e la nave stessa manovrava per evitare, quanto possibile, il fuoco nemico. Ma col Behemot costretto a rimanere immobile, con gli scudi estesi per decine di chilometri, tutti i colpi nemici andavano a segno. Per quanto fosse resistente, l’ammiraglia kelvana non poteva sopportare un attacco così massiccio. Fatalmente gli scudi s’indebolirono e i colpi iniziarono a squarciare lo scafo. Un’esplosione dopo l’altra squassò la vecchia nave, dal blocco motori posteriore all’estremità affusolata dello scafo primario. Dopo le fiammate, l’aria uscì dalle falle, a volte trascinandosi dietro gli sventurati occupanti. Le crepe si allungarono e lo scafo primario scricchiolò in tutta la sua lunghezza, come sul punto di spezzarsi in due. La nave, però, continuava a battersi furiosamente. Anche le altre forze della Coalizione, così come le navi di Sunny, si accanivano contro la flotta nera, aprendo vuoti paurosi tra le sue file.

   «Dovete ritirarvi immediatamente» avvertì Fanior, comparendo in olo-presenza sulla plancia.

   «Lo Scudo Planetario?» chiese Reshef.

   «L’ho ispessito, sono pronto a colmare il varco» informò Sunny, entrando nel raggio dell’olo-proiettore.

   «Scendiamo, allora» ordinò Reshef. La nave aveva appena cominciato a muoversi, quando un’esplosione particolarmente violenta la fece ondeggiare.

   «Abbiamo perso lo scudo 2, falle sui ponti da 5 a 17» avvertì un ufficiale. «E c’è di peggio... ci hanno colpiti dei siluri Scourge. La nave è perduta» mormorò.

   Visto da fuori, lo scafo del Behemot era chiazzato di nero là dove le esplosioni avevano danneggiato lo scafo, mettendo a nudo le lamiere all’interno. Ma c’erano cinque macchie di un nero più intenso, là dove i siluri avevano colpito. Le macchie si allargarono, fondendosi in una sola, che continuò a espandersi a vista d’occhio. Avvolse lo scafo e lo risalì verso il modulo della plancia. All’interno della nave, l’onda di Melma Nera riempiva i corridoi, inglobando tutto e tutti. Le paratie si scioglievano, i campi di forza erano aggirati e i Kelvani stessi finivano come la loro astronave, accrescendo la massa informe e tumultuosa.

   «Evacuate la nave, presto!» gridò Fanior, agitando i tentacoli.

   «Troppo tardi, amico mio» rispose Reshef. «Ci restano pochi minuti. Li impiegheremo per danneggiare al massimo il nemico. Timoniere, portaci nel cuore della flotta nera! Nel frattempo sovraccaricate il nucleo» ordinò. Se nelle menti fredde dei Kelvani balenava qualche timore, al pensiero della morte imminente, non lo diedero a vedere.

   Il Behemot ridusse il raggio degli scudi, lasciando che lo Scudo Planetario gli si riformasse attorno. L’avanguardia di Shado aveva subìto perdite così gravi che non poteva più irradiare costantemente l’area con le emissioni tetrioniche. Di conseguenza Sunny riuscì a ricucire lo strappo nello Scudo, richiudendolo del tutto quando il Behemot se ne distaccò. Ma la parte superiore dell’ammiraglia kelvana era un ammasso di lamiere contorte, che si scioglievano man mano che il contagio avanzava. Presto il Behemot si sarebbe unito alla flotta nera... a meno di andarsene prima, in una grande fiammata. I motori ruggirono, proiettando la nave nel cuore della flotta nera. Si lasciava dietro una scia di detriti, eppure alcune armi continuavano a sparare.

   «Avevi ragione, Fanior; dovevamo lasciare Kelva finché eravamo in tempo» ammise Reshef. «Volevo dare un segno alla galassia... ma ora mi domando se resterà qualcuno a narrare di questo giorno».

   «Eccellenza, fate ancora in tempo a salvarvi...» supplicò l’Ambasciatore.

   «No!» lo zittì Reshef. «Per me è finita. Il fardello grava sui tuoi tentacoli, ora».

   «Che state dicendo?! Non sono degno…» si allarmò Fanior.

   «Sì, invece. Ti sei sempre preso cura della nostra gente nella Via Lattea» riconobbe Reshef. «Ora devi farlo qui. È la mia ultima volontà: che tu sia nel Consiglio come rappresentante dei Kelvani. Salva la nostra gente... preserva la Luce di Kelva!» invocò, agitando i tentacoli attorno a lui in uno schema complesso. Sebbene Fanior fosse lì in olo-presenza, il gesto aveva valore legale. Reshef lo aveva appena insignito della sua carica. E la legge kelvana prevedeva che chi obbediva a un leader ne accettasse senza discutere il successore, per quanto improvvisa o inaspettata fosse l’investitura.

   «Lo farò» promise Fanior, pur non sapendo ancora come. L’attimo dopo anche i trasmettitori del Behemot cedettero e la comunicazione fu troncata. L’ologramma di Fanior svanì, lasciando Reshef solo col suo equipaggio.

   «Siamo al centro della flotta nera» avvertì un ufficiale. «Non ci sparano più».

   «Sarebbe inutile» commentò l’Ufficiale Tattico. «Questa nave è condannata».

   «Moriremo da Kelvani, senza timore né onta» ribatté Reshef.

   In quella una parete della plancia si annerì e si deformò, segno che la Melma Nera era arrivata. L’ingresso si spalancò, rovesciando un torrente catramoso che precipitò come una cascata nel salone pieno di terrazze. Il boato coprì le voci dei Kelvani. Non appena si fu accumulata una certa quantità di Melma Nera sul fondo, questa si sollevò e prese forma. Divenne un essere gigantesco, umanoide nelle linee generali, ma bestiale per la lunghezza di zanne e artigli. Gli arti lunghi e sottili, le costole in evidenza, gli occhi sprofondati nel cranio lo facevano sembrare uno scheletro a malapena coperto di pelle. Torreggiò su Reshef e sugli altri Kelvani, assiepati sulle piattaforme circostanti. Ne ghermì due, uno per mano, e li trangugiò.

   «Shado... alla fine c’incontriamo» lo accolse Reshef, impassibile.

   «Alla tua fine» precisò l’umanoide oscuro, chinandosi su di lui. «Ti ringrazio per esserti asserragliato a Kelva: mi hai reso le cose più facili».

   «Non quanto credi» obiettò l’ex Consigliere. «La Luce di Kelva non si spegnerà mai. Ma tu... più t’innalzi, più sonoramente cadrai».

   «E dove dovrei cadere?» rise Shado. «Presto ogni cosa nell’Universo sarà me!». Fece per agguantare anche Reshef, ma si arrestò, percependo qualcosa. I Kelvani stavano disattivando il campo di contenimento del nucleo, l’esplosione era imminente. Poco male: perdere quel corpo non danneggiava Shado più che perdere una delle sue innumerevoli astronavi. Il gigante si chinò ancor più su Reshef, sghignazzando in modo infernale. Poi materia e antimateria si annichilirono, annientando il Behemot con tutto il suo contenuto. Reshef e l’equipaggio furono disintegrati, come l’avatar di Shado. L’esplosione distrusse le cinque navi Scourge più vicine e ne danneggiò altre. Lo schieramento di Shado vacillò, permettendo ai difensori di riorganizzarsi.

 

   Persino da sotto la cupola dorata dello Scudo Planetario l’esplosione del Behemot fu visibile come un bagliore intenso. I Kelvani alzarono i grandi occhi da calamaro al cielo e compresero che la loro ammiraglia era perduta. Levarono i tentacoli in segno di lutto.

   Nella sala operativa del Palazzo della Difesa, gli sguardi si appuntarono su Fanior. «Che facciamo... Consigliere?» chiese un’ufficiale kelvana. Era Berith, l’addetta a sensori e comunicazioni.

   Fanior si guardò attorno. Conosceva quelle persone da pochi anni, eppure ne era divenuto responsabile. E per quanto tenesse a Kelva... non poteva permettere che diventasse la loro tomba. «Non resta che l’evacuazione» disse. «Sunny, ti avevo chiesto di preparare dei trasporti. Sono pronti?».

   «Sì, li ho nascosti in fondo all’oceano» confermò l’umanoide dorato.

   «Portali qui. Informiamo la popolazione e facciamola imbarcare» stabilì Fanior. «Al momento opportuno abbasserai lo Scudo Planetario. I trasporti balzeranno subito in curvatura».

   «Dovranno comunque allontanarsi dal pozzo gravitazionale del pianeta» notò un ufficiale. «In quel tratto saranno esposti».

   «Ci servirebbe un diversivo» disse un altro.

   «Il diversivo poteva essere il Behemot, se avessimo agito prima» mugugnò un terzo.

   «È inutile stare a pensarci. Fate come ho detto» ordinò Fanior. Osservando l’ologramma tattico al centro del salone, notò che la flotta di Shado si era leggermente allontanata e manteneva la posizione. Era la prima, vera pausa nei combattimenti, da diversi giorni. Si avvicinò all’ologramma, cercando capire che avesse in mente Shado. Forse voleva spostare le sue forze sull’altro lato del pianeta, per attaccare lo Scudo in quella zona?

   «Ci chiamano, Consigliere... dalla flotta nera» avvertì Berith.

   «Sentiamo» disse Fanior, un po’ sorpreso.

   Shado apparve in forma olografica, al posto dello schema tattico. Era così alto da sfiorare il soffitto con la testa. Si guardò attorno, famelico, come se dovesse scegliere una preda da ghermire. «Bene, bene... chi è il fortunato successore?» sogghignò, passando in rassegna i Kelvani. «Sono certo che l’avete già designato; voi molluschi non perdete tempo».

   «No, infatti. Ora te la vedrai con me» disse Fanior, fronteggiandolo senza timore.

   «Ancora tu! Dev’essere il destino che continua a farci incontrare» rise Shado. «E ogni volta un altro pezzo del tuo popolo se n’è andato. Stavolta è toccato alla vostra nave ammiraglia... l’ultima della sua classe, dico bene? Si è battuta con valore, ma inutilmente. Quali che siano i vostri sforzi, il vostro mondo diventerà un’altra piccola parte di me» minacciò, stringendo il pugno come se ciò gli bastasse a stritolare Kelva. «E non crediate di sfuggirmi. I vostri trasporti non lasceranno l’orbita interi, quindi potete risparmiarvi il disturbo di riempirli» aggiunse. Era un affondo alle speranze dei Kelvani, che si guardarono preoccupati. Come potevano opporsi a un nemico in grado di prevedere e neutralizzare ogni loro mossa?

   «Perché ci hai chiamato?» chiese Fanior freddamente.

   «La vostra resistenza, per quanto futile, mi ha divertito. E poiché mi sento magnanimo, vi offro la possibilità di trattare la resa» rispose inaspettatamente l’Oscuro.

   «Sarebbe la prima volta che sei interessato a trattare» notò Fanior.

   «Il che vi rende estremamente fortunati» rispose Shado. «Ma per discutere come si deve, dobbiamo incontrarci di persona».

   «Ridicolo, ne approfitteresti per contagiarci» obiettò Fanior. «Se il tuo obiettivo è farmi uscire allo scoperto, non puoi aspettarti che funzioni».

   «Io non voglio trattare con te» disse Shado, sprezzante. «È col mio caro fratello che intendo scambiare due chiacchiere» spiegò, indicando Sunny. «Ma non qui... lo invito a casa mia, così gli mostrerò come l’ho rimodernata. Vi sto inviando le coordinate».

   «Ce le abbiamo» disse Berith. «Settore 40, griglia spaziale 616. É nel nucleo galattico».

   «Ti aspetti che venga?» chiese Sunny, squadrando il fratello con scetticismo.

   «Sì, dato che nel frattempo mi asterrò dall’attaccare Kelva» rispose Shado. «Guardati attorno... non vuoi dare un po’ di tregua ai tuoi viscidi amici? Pensaci... ma in fretta!». Shado interruppe la comunicazione prima di avere risposta. Al suo posto riapparve l’ologramma tattico. La flotta nera si era assestata a una certa distanza da Kelva, appena oltre la gittata dei difensori.

   «Uhm...» rimuginò Sunny, portandosi una mano al mento.

   «Hai intenzione di andare?» chiese Fanior, inquieto.

   «Se posso darvi un po’ di tregua, sì» decise l’umanoide dorato. «Naturalmente il mio Scudo resterà sollevato e anche le mie navi rimarranno in posizione. Mi chiedo solo cosa speri di ottenere Shado, con questa mossa. Non può uccidermi e non credo abbia elementi per ricattarmi. Né mi aspetto che sia disposto a negoziare. Beh, non c’è che un modo per saperlo». Lette le coordinate, Sunny si avviò verso l’uscita. «Vi suggerisco di riempire quei trasporti, nel frattempo. Checché ne dica mio fratello, sono ancora la vostra opzione migliore».

   Lasciato il Palazzo della Difesa, Sunny chiamò a sé una navetta di Melma Dorata, che atterrò nella piazza antistante. Vi entrò attraversando la parete e partì subito, senza bisogno di manovrarla. Attraversò lo Scudo Planetario come se non esistesse. Oltre quella barriera, lo spazio era affollato di detriti contorti. Molti, ancora caldi, venivano dal Behemot. La flotta nera si era dispiegata tutt’intorno a Kelva, per impedire ai trasporti di mettersi in salvo; ma non ostacolò la navetta di Sunny. Per una volta, Shado era stato di parola.

 

   Sunny si lasciò alle spalle il pianeta assediato e diresse la sua navetta alle coordinate che il fratello gli aveva fornito. Sapendo di non avere molto tempo, si proiettò a massima velocità di transcurvatura. Nemmeno l’Enterprise era così rapida, a meno d’usare il propulsore cronografico. Miriadi e miriadi di stelle restavano indietro a ogni secondo. Con quella velocità, Sunny lasciò ben presto la periferia di Andromeda. La sua rotta lo portò nel nucleo galattico, dove si assiepavano stelle vecchie e rossastre. Superò il buco nero formatosi dal collasso del Cervello Matrioska e si diresse ancor più verso il centro. Le stelle continuarono a infittirsi. Ma quando Sunny uscì dalla transcurvatura non ce n’era alcuna nelle immediate vicinanze. Vi era però un pianeta errante, così scuro da sembrare un buco nero, stagliato contro le stelle fittissime. Sunny si prese qualche minuto per analizzarlo.

   Era una Super-Terra, dal diametro una volta e mezzo quello terrestre, anche se doveva essere meno densa, poiché la gravità era simile. La circondava un anello scuro, che non lasciava filtrare alcuna luce. Sunny ebbe un presentimento e lo sondò nel dettaglio, trovando conferma al suo timore. Quell’anello non era composto da frammenti di ghiaccio e roccia, come accadeva altrove nell’Universo. Era un disco compatto di Melma Nera, che ruotava vorticosamente attorno al pianeta. Navi Scourge se ne staccavano in continuazione, dirette ai tanti fronti aperti nella galassia. La navicella di Sunny, simile a una pagliuzza d’oro, sorvolò l’oceano catramoso, diretta verso il pianeta.

   Il mondo di Shado non aveva acqua né ghiaccio in superficie. Non c’erano continenti riconoscibili: né rilievi, né valli, né crateri. Nulla di ciò che l’occhio umano si aspetta di trovare su un corpo celeste. La superficie era completamente nera e liscia, così opaca da non riflettere nemmeno le stelle. Con un tremito, Sunny si rese conto che Shado aveva consumato tutto il pianeta, dalla crosta al nucleo. Forse era questo che aveva in mente, per i mondi di Andromeda e non solo.

   Sunny scese nell’atmosfera rarefatta e sorvolò il deserto nerastro, alla vana ricerca di un punto di riferimento. Non trovando nulla, atterrò a caso. Poiché la melma era Shado, gli avrebbe risposto ovunque allo stesso modo. La navetta dorata affondò leggermente nel suolo catramoso, ma poi si stabilizzò. Sunny inspirò a fondo, preparandosi al confronto. Aprì il portello e uscì nel regno di Shado: un luogo desolato, avvolto nel gelo e nel silenzio.

   «Eccomi, fratello! Sono qui per trattare, come avevi chiesto; ma non per arrendermi» disse con fermezza.

   Per qualche secondo non accadde nulla. Poi ci fu movimento davanti a lui: una porzione di suolo gorgogliò come pece bollente. Ne emerse una figura umanoide, dapprima informe come un embrione, poi sempre più modellata in forma scheletrica e raccapricciante. La Melma Nera fluì dal basso, permettendogli di alzarsi, finché torreggiò su Sunny. «Benvenuto, fratello, nella mia umile dimora» salutò Shado, inchinandosi beffardamente. «Sapevo che non avresti ignorato la mia offerta».

   «Da tempo desideravo parlarti» rispose Sunny. «Anche se in un certo senso ti vedo in continuazione».

   «Sì, è in battaglia che mi esprimo al meglio!» rise Shado, incombendo sul fratello. «Ammetto che anche tu combatti bene... ma ti stai indebolendo. Sprechi energie per salvare chi non ti merita» disse, facendosi freddo e tagliente.

   «Non spetta a me giudicare quali vite sono degne di salvarsi» obiettò Sunny. «Tu, piuttosto... perché insisti a distruggere i Solidi? Andromeda è abbastanza grande per tutti. E se anche tu prevalessi, non credi che poi ti annoierai? L’eternità è lunga, specie se passata da soli».

   «Proprio di questo volevo parlarti... potrebbe essere divertente tenermi alcuni Solidi come animaletti» ammise Shado. «Ma la Coalizione deve arrendersi e riconoscere la mia supremazia. Le sue forze armate devono smobilitare immediatamente. Solo a queste condizioni risparmierò Kelva e le altre basi».

   «Chiedi molto» notò Sunny. «Se la Coalizione rinunciasse alle sue difese, potresti annientarla ancora più in fretta. Quali garanzie abbiamo che non lo farai?».

   «Quali garanzie accettereste? Nessuna!» rise Shado. «Questo è il mio ultimatum. Spetta a voi accoglierlo o meno. Ma sappiate che non ce ne saranno altri. La resa incondizionata o l’estinzione, a voi la scelta! Stessa sorte toccherà agli umanoidi della Via Lattea».

   «Vuoi espanderti senza limiti?» chiese Sunny, vedendo confermati i suoi timori.

   «Come tutti gli esseri viventi» confermò Shado. «Ma voglio anche offrire a quelle creature smarrite e confuse ciò di cui hanno più bisogno: qualcuno in cui credere» disse, serrando il pugno.

   «Vuoi diventare un dio?» domandò Sunny, scuotendo la testa.

   «Lo sono già» ringhiò Shado. La sua volontà innalzò la Melma Nera sotto i loro piedi, formando un ripido picco montano. La base si allargò sempre più e la vetta s’innalzò nell’aria rarefatta, finché la curvatura del pianeta divenne visibile. Le pareti erano lisce, senza appigli, come se le avessero tagliate con un coltello. Simile a un immane obelisco, il picco nero dominò la pianura vuota. Anche Shado crebbe, assorbendo altra Melma sotto di sé. Giganteggiò su Sunny, alto come una torre e tetro come la morte. «Guarda!» disse, levando il braccio titanico a indicare il firmamento denso di stelle. «Tutto ciò è nostro, per farne ciò che ne vogliamo. Pensa a cosa potremmo creare... insieme!».

   Sunny meditò a lungo su quelle parole. «Io e te non possiamo creare, ma solo rimodellare» obiettò infine. «E cosa potremmo plasmare, di più perfetto di ciò che già esiste? Hai consumato pianeti rigogliosi, trasformandoli in sterili deserti».

   «Ho fatto ben altro» ribatté Shado, con uno strano orgoglio. «Guarda con più attenzione!». Qualcosa nella sua voce disse a Sunny che non era solo una beffa.

   Incuriosito, l’umanoide dorato si sporse dall’orlo del picco. Sotto di lui la parete nera scendeva a strapiombo per diecimila metri. Sunny non temeva che il fratello approfittasse della distrazione per gettarlo di sotto: essendo fatto di Melma Dorata, avrebbe resistito alla caduta. E anche se Shado l’avesse distrutto, il suo corpo era solo un avatar. Così si sporse, osservando attentamente la pianura; e vide che non era più liscia. Una rete di città si estendeva a perdita d’occhio, separate da prati e campi coltivati. Palazzi barocchi e mastodontici grattacieli levavano le guglie affilate verso le stelle. C’erano strade affollate di veicoli e ponti che superavano d’un balzo i fiumi scuri, apparsi anch’essi dal nulla. Lunghi filari di alberi e siepi bordavano i campi o costeggiavano le vie principali. E c’erano persino gli abitanti, indaffarati in mille attività. Tutto era composto di Melma Nera.

   «E temi che io possa annoiarmi?» ridacchiò Shado. «Non accadrà. Posso creare tutto ciò che desidero... sì, ogni cosa!» aggiunse con una sfumatura maligna. Dal pavimento sorse un’altra figura umana, che si plasmò adagio. Intanto Shado si ridusse enormemente di taglia, per rendere il gioco più personale. Quando ebbe la stessa altezza del fratello si accostò alla nuova creatura, che aveva assunto forme femminili. Con un fremito, Sunny riconobbe i lineamenti di Terry. Era composta di Melma Nera, ma poco a poco si schiarì, imitando anche il colore della pelle. Era identica a Terry in ogni dettaglio, salvo che per l’espressione maligna. Ancheggiò verso Shado con aria seducente. L’umanoide catramoso la prese fra le braccia, piegandola all’indietro, e la baciò a lungo sulla bocca. Ma i suoi occhi beffardi erano puntati ancora su Sunny.

   «Mio povero fratello, cosa cerchi di dimostrarmi?» chiese l’umanoide dorato. «Questi sono solo simulacri di ciò che hai distrutto, o che vuoi distruggere. Si muovono solo quando vuoi tu e solo per servirti. Quella non è Terry, è un’estensione di te. Perché tu ami solo te stesso. I Proto-Umanoidi, invece, furono saggi quando diedero ai propri figli il libero arbitrio. Se alcuni si sono persi per strada, altri gli rendono giustizia... come tu non potrai mai».

   Incollerito, Shado stritolò la finta Terry fino a ridurla in poltiglia nera, che gli colò tra le grinfie. «Va’, Sunny! Torna pure dai tuoi amati mortali!» ringhiò, puntandogli contro un lungo artiglio. «Quando avrò finito con loro, non ci sarà più nessuno che li ricordi, salvo noi due. Chissà se la tua sofferenza sarà paragonabile alla mia soddisfazione!».

   Non c’era altro da aggiungere. Sunny allargò le braccia e si lasciò cadere all’indietro, giù nell’abisso. Ma aveva fatto pochi metri che atterrò sulla sua navetta, da lui alzata in volo qualche minuto prima. Passò attraverso lo scafo di naniti e atterrò nell’abitacolo. Subito la navetta schizzò verso l’alto e fuggì dal pianeta oscuro, sotto lo sguardo di Shado, ancora appollaiato in cima al picco.

   L’umanoide oscuro levò il pugno verso di lui, ma poi si lasciò riassorbire nella melma sottostante. Tutto il pinnacolo prese a sciogliersi. Anche le città e i campi si disfecero come argilla bagnata, finché il pianeta tornò liscio e immobile. Shado concentrò la propria volontà sull’attacco a Kelva Primo. Sapeva che Sunny non poteva difenderlo a lungo e ciò lo rallegrava tanto da fargli dimenticare ogni altro smacco.

 

   La flotta nera assalì Kelva da varie direzioni, scontrandosi con le difese di Sunny e della Coalizione. Nel Palazzo della Difesa squillarono gli allarmi e i Kelvani si precipitarono alle loro postazioni.

   «Il negoziato è fallito» constatò Berith mestamente.

   «Posto che abbia mai avuto luogo» corresse Fanior. «A che punto siamo con l’imbarco dei civili?».

   «È completato» riferì la Kelvana.

   «Allora teniamoci pronti. Quando lo Scudo Planetario cederà, i trasporti devono partire. Ognuno ha la sua destinazione assegnata» ricordò Fanior.

   «Crede sia saggio dividerli? Così avranno una scorta minima» notò Berith.

   «Sarebbe più pericoloso tenere unita la flotta, se Shado la raggiungesse» disse Fanior.

   «La raggiungerà di sicuro! Le sue navi sono più veloci delle nostre. Possono inseguirci e anche aprire il fuoco ad alta curvatura» obiettò un consigliere strategico. «Senza i Nacene che ci portino via, siamo spacciati».

   «I Nacene sono ancora nel caos per la distruzione della loro stazione. Non credo che potremo contare su di loro» ragionò Fanior, scrollando la parte alta del suo corpo da calamaro.

   «Allora è davvero la fine» constatò Berith.

   «Non ancora» obiettò Fanior. «Resisteremo fino all’ultimo, nella speranza che qualche rinforzo della Coalizione giunga in nostro aiuto. Non cederemo un solo centimetro di spazio senza lottare. E se l’ultima difesa cederà senza che siano giunti soccorsi, allora ci affideremo ai trasporti. Li occulteremo e confonderemo le tracce di curvatura, cercando di seminare Shado. Questi sono gli ordini».

   Ligi al dovere, i Kelvani si concentrarono sui loro compiti, informando i capitani dei trasporti della strategia generale e della rotta che ciascuno doveva seguire. Fanior passava da una postazione all’altra, assicurandosi che ogni dettaglio fosse sistemato. Ma il suo sguardo tornava spesso all’ologramma tattico, al centro del salone. La morsa di Shado si stringeva sempre più attorno a Kelva. Né le astronavi, né le piattaforme orbitali, e nemmeno lo Scudo Planetario potevano trattenerlo a lungo. Assalto dopo assalto, le sue navi logoravano le difese, come onde che consumano gli scogli.

 

   Dopo altri tre giorni di scontri selvaggi, i rimasugli della Coalizione si rinserrarono sotto lo Scudo Planetario. La flotta nera accorciò le distanze e lo bombardò con raggi tetrionici a massima dispersione, consumandolo lentamente, ma su superfici così vaste che Sunny non poteva riempire le falle in tempo. Poco alla volta lo Scudo s’indebolì, diventando semitrasparente. Quando lo ritenne abbastanza debole, Shado vi spedì contro una delle sue navi, come un ariete. Il vascello nero impattò contro la membrana dorata: la piegò verso il basso e riuscì ad attraversarla. Invece di rallentare la sua corsa proseguì, precipitando attraverso le nubi fino a schiantarsi sulla superficie, a qualche decina di chilometri dalla capitale. Il terreno tremò e i palazzi appena costruiti ondeggiarono. Tuttavia non ci furono esplosioni, né i rottami furono proiettati intorno alla zona dell’impatto. L’astronave, lunga un paio di chilometri, si sciolse formando una pozza nera, come catrame bollente.

   Era solo l’inizio. La Melma Nera ribollì e prese immediatamente a espandersi, contagiando il suolo circostante. Presto fu come un lago, in rapida espansione verso la capitale. Le onde ne squassarono la superficie, sempre più alte, sino a formare una muraglia nera. Come un maremoto al rallentatore, il muro liquido avanzò verso la città dei Kelvani. Dalla sua parete liscia promanò il volto di Shado, più che mai simile a un teschio. Aprì le fauci, pronto a inghiottire la città.

   Duecento chilometri più in alto, la fragile barriera dorata andò in pezzi. I frammenti schizzarono verso l’esterno, ostacolando la flotta nera, mentre i trasporti di Sunny cercavano di fuggire con il loro carico di civili. Le poche navi della Coalizione superstiti facevano loro da scorta. Ma Shado era pronto: potenti raggi traenti agganciarono i trasporti e li trattennero. La flotta nera si chiuse sui fuggiaschi, come uno sciame di locuste che sta per consumare delle pannocchie dorate. Su uno dei trasporti, dov’era salito col suo Stato Maggiore, Fanior pensò che era la fine.

   D’un tratto apparvero altre navi, giunte a transcurvatura senza farsi rilevare da nessuno. Esternamente somigliavano a quelle di Sunny e Shado, ma erano composte da materiali tradizionali, anziché da naniti. Circondarono il pianeta e le flotte che gli combattevano intorno, disponendosi ai vertici di un ipotetico poliedro. Gli emettitori installati a prua si attivarono, creando un campo d’instabilità subspaziale. Altre navi simili apparvero appena oltre lo spazio che avevano delimitato. Con esse vi era l’Enterprise. Invece d’ingaggiare la flotta nera, i Proto-Umanoidi mantennero la posizione. Prima che Shado potesse reagire, al centro della formazione apparve l’Uroboro, la nave a forma d’anello. Era così imponente da dominare il campo di battaglia e racchiudeva la tecnologia più complessa che si fosse mai vista in Andromeda. La sua struttura brillò d’un bianco accecante, mentre l’energia schizzava a valori astronomici. Bastarono pochi secondi per completare il caricamento. Poi l’Uroboro emise un fascio energetico lungo tutta la sua circonferenza, indirizzandolo verso Kelva Primo. Il raggio si restrinse come un cono, di cui la nave-anello formava la base. Il vertice, ovvero il punto d’impatto, fu il lago di Melma Nera. L’Uroboro lo colpì per tre secondi, poi il fascio di gravitoni si estinse e l’astronave tornò scura.

   Sui trasporti, i Kelvani osservarono il loro pianeta, chiedendosi cosa fosse successo. L’onda nera stava per inghiottire la città, mentre le navi di Shado si precipitavano contro i nuovi arrivati, aprendo il fuoco. L’attimo dopo la Melma Nera svanì. Il lago si svuotò, lasciando un bacino disseccato simile a un cratere, e l’ondata si dissolse pochi attimi prima di travolgere la città. Nello spazio, tutte le navi nere furono cancellate; ma quelle dorate rimasero. L’Assedio di Kelva era finito e l’armata di Shado era stata annientata fino all’ultimo nanite.

 

   Un’ora dopo Fanior sedeva – in forma umana – al tavolo tattico dell’Enterprise, con il Capitano e gli ufficiali superiori. C’erano anche Suspiria e Sunny. Rekker entrò per ultimo, appena giunto dall’Uroboro.

   «Congratulazioni, Primarca» lo accolse Chase. «Il suo test è stato un successo».

   «A nome del mio popolo, le esprimo la nostra gratitudine per averci salvati» disse Fanior, con l’abituale compostezza.

   «È il minimo che possiamo fare» sospirò Rekker, accomodandosi al tavolo tattico. «Ma anche se abbiamo vinto una battaglia, la guerra è ancora tutta da decidersi. Sul piano prettamente militare, Shado ha subito un intoppo irrilevante. Può ricostruire un’armata di quelle dimensioni in pochi minuti».

   «Ma sul piano emotivo – e Shado è estremamente emotivo – ha subito un’umiliazione cocente» notò Apsu. «La sua rappresaglia non si farà attendere».

   «Infatti ora che ci siamo svelati non resta molto tempo» annuì il Primarca. «Le mie squadre scientifiche stanno analizzando i dati raccolti. Dobbiamo controllare che non ci siano oscillazioni d’energia o altri problemi, per quando ripeteremo l’operazione su scala galattica. Non sapete quanti fattori dobbiamo considerare... ma sono ore eccitanti. È tutta la vita che aspettavo questo momento» disse con un certo compiacimento.

   «Come funziona la vostra arma?» chiese Fanior. «Credevamo che aveste disintegrato la Scourge, ma le letture subspaziali ci suggeriscono che l’abbiate solo traslata».

   «Nella Dimensione Morta, sì» confermò Rekker, fregandosi le mani soddisfatto. «La materia non può esistere in quel luogo, quindi esplode in energia. I nostri sensori lo confermano, è andato tutto come previsto nelle simulazioni computerizzate».

   «Uhm... lei diceva che l’Uroboro avrebbe creato un tunnel spaziale, collegando le due realtà. Ma non è andata così» notò Chase.

   «In realtà sì. Terry, lei lo avrà notato» disse il Primarca, guardando l’IA.

   «I miei sensori hanno rilevato che si è effettivamente aperto un tunnel, nel punto in cui il raggio gravitonico ha toccato la Melma Nera» spiegò Terry, mostrando una ricostruzione olografica della scena. Il raggio bianco si avvicinò lentamente al lago, segno che l’azione era estremamente rallentata, per consentire di coglierne i dettagli. Nell’attimo in cui il raggio toccò la superficie catramosa, vi aprì l’imbuto rossastro di un tunnel spaziale. Terry bloccò la simulazione in quell’attimo. «Il tunnel è durato solo 0,09 secondi, poi è collassato. I livelli di radiazione sono minimi. Ritengo che i Kelvani possano tornare nella loro città».

   «Quando lo faremo su grande scala, i livelli d’energia saranno ovviamente molto più alti» spiegò Rekker. «In quel caso il tunnel potrebbe stabilizzarsi e quindi ci sarà bisogno dell’Enterprise per chiuderlo. Non ci aspettiamo che nulla di pericoloso esca da lì, ma... non si sa mai. Non vorremmo creare un nuovo problema, mentre risolviamo questo».

   «Faremo la nostra parte» promise Chase, approvando la prudenza dello scienziato. «Fra quanto sarete pronti?».

   «Se non emergeranno problemi, come spero, un giorno al massimo» garantì il Primarca. «Nel frattempo le astronavi con gli emettitori subspaziali stanno completando l’allineamento nell’alone galattico. Abbiamo dovuto impiegare quasi tutto lo Sciame... un miliardo di navi che devono posizionarsi con assoluta precisione. Naturalmente abbiamo fatto delle prove, negli anni passati, quando l’Uroboro era ancora in costruzione. Ma è comunque un’operazione delicata».

   «Che farete con la Melma Grigia?» chiese Sunny. «Ce n’è ancora molta, sparpagliata in Andromeda. Nessuno la scoverà mai tutta. Ora è in stasi, ma potrebbe risvegliarsi».

   «Infatti il prossimo bersaglio dell’Uroboro è la vecchia Scourge» rivelò Rekker. «Eliminare un nemico quiescente sarà più facile che affrontarne uno sveglio e infuriato. E sarà il test definitivo per l’Uroboro. Se le nostre sonde confermeranno che la Melma Grigia è svanita nei quattro angoli della galassia, passeremo immediatamente alla Nera».

   «E poi che farete dell’arma? Un’astronave capace di cancellare la materia in tutta la galassia causerebbe distruzioni indicibili, se cadesse in mani sbagliate» notò Apsu. Anche se non aveva accusato nessuno, le sue parole ricordavano che Rekker veniva dalla schiatta dei Distruttori.

   «L’Uroboro funziona solo in presenza del campo d’instabilità subspaziale. Cioè solo se le navi con gli emettitori sono correttamente posizionate» ricordò il Primarca, senza scomporsi. «Inoltre può regolarsi solo su una precisa traccia quantica. Questo lo rende perfetto per distruggere le varie forme di Scourge, ma inutile contro astronavi e oggetti comuni, che hanno firme quantiche tutte diverse. In ogni caso, finita l’emergenza lo smonteremo» dichiarò. Fece per alzarsi.

   «Un’ultima cosa» lo trattenne Suspiria. «Vorrei sapere dov’è la Delegata Talat. Non l’ho più vista da quando Mollom ha autorizzato l’attacco».

   «L’ex Delegata» la corresse Rekker. «Talat ha violato una delle nostre leggi più importanti, paragonabile alla vostra Prima Direttiva. Quando ha ammesso la sua colpa, sapeva a che andava incontro».

   «Assurdo... è solo grazie a lei se ora siamo riuniti qui, in procinto di distruggere la Scourge!» protestò la Nacene.

   «Avremmo distrutto la Scourge in ogni caso. Solo il vostro coinvolgimento non era previsto» puntualizzò il Primarca.

   «Ma i vostri leader hanno comunque accettato d’incontrarci e di collaborare» insisté Suspiria. «Non possono punire Talat per quella che ormai è anche la loro politica!».

   «Non sono un giurista, ma... temo che sia possibile» disse Rekker con garbo.

   «Qual è la pena?» chiese T’Vala, in tono controllato.

   «In primo luogo la perdita della carica e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici» spiegò il Primarca. «Dopo di che, il carcere... a vita, credo».

   «Se le offrissimo asilo politico, valutereste di consegnarcela?» chiese T’Vala. Lanciò un’occhiata speranzosa al Capitano, che annuì.

   «Non saprei... ma se ci tenete, farò pervenire la vostra domanda all’Assemblea» promise Rekker. «Ora, se volete scusarmi...». Il Primarca si passò le dita sul polso sinistro, materializzando dei comandi olografici. Ne toccò uno e svanì nel teletrasporto bianco dei Proto-Umanoidi.

   «Se Talat non ci avesse contattati, ora i Kelvani sarebbero tutti morti» sottolineò T’Vala. «È contrario alla logica e all’etica che sia punita».

   «Personalmente la penso come lei, ma si tratta delle loro leggi» sospirò Chase. «Non siamo autorizzati a interferire. Non ci riusciremmo nemmeno, vista la loro tecnologia. E soprattutto, questo è il momento meno opportuno per bisticciare coi Proto-Umanoidi. Se sconfiggiamo la Scourge, ci sarà tempo per pensare a Talat».

   «Sì, Capitano» disse T’Vala, lo sguardo basso sul tavolo.

   Chase conosceva i suoi ufficiali da molti anni. Lo capiva quando uno di loro aveva un tarlo che lo rodeva. «C’è altro che vuol dirmi, Tenente?» chiese.

   «Solo una faccenda... ma forse è opportuno parlarne in privato».

   «D’accordo, ci aggiorniamo» disse il Capitano, alzandosi. Gli ufficiali lo imitarono e tornarono ai propri compiti. Avevano molto da fare, considerando l’attacco imminente. Ma Lantora scambiò un’occhiata con la moglie, intuendo qual era la faccenda in sospeso.

 

   T’Vala seguì Chase nel suo ufficio, restando in piedi anche dopo che questi si fu accomodato dietro la scrivania.

   «Qualcosa mi dice che il suo problema riguarda un’altra carcerata» disse il Capitano. «Una che però se lo merita».

   «Signore, quando ho viaggiato con Lyra abbiamo parlato» spiegò la timoniera. «Mi ha raccontato la sua storia...».

   «Le ha già raccontato storie, prima d’ora» obiettò Chase. «Prima riguardavano sua madre... una scusa per attirarla nella stiva e metterla KO. Ora riguardano il suo tragico passato nello Specchio, suppongo. Così lei si è commossa e vorrebbe liberarla. La facevo più scaltra, T’Vala».

   «Stavolta dice il vero, ne sono certa» affermò la mezza Vulcaniana. «Con quello che ha passato, ha agito nell’unico modo che le sembrava possibile. Ma ora è cambiata. Non è più la stessa persona che sabotò l’Enterprise otto anni fa».

   «Non è nemmeno la stessa che l’ha quasi uccisa per sostituirsi a lei, neanche tre settimane fa?» chiese il Capitano. «Caspita, come cambia in fretta la gente!» ironizzò.

   «Signore, capisco la sua posizione...» cominciò T’Vala.

   «Non del tutto, credo» l’ammonì Chase. «Lei non c’era, alla Battaglia di Khitomer. Siamo stati a tanto così dalla catastrofe coi Klingon» disse, accostando pollice e indice finché quasi si toccarono. «E tutto perché Lyra voleva tornare a casa. Ora non si capisce più se lo voglia. Ma se non la rimandiamo nello Specchio, allora la terremo in cella. In nessun caso consentirò che si aggiri libera sulla nave» chiarì.

   «Potrebbe confinarla in un alloggio» tentò ancora T’Vala.

   «Sa bene che non dipende da me» sbuffò Chase. «Quella donna si è infiltrata a bordo per due volte. Il regolamento m’impone di tenerla in stato d’arresto, finché torneremo all’Unione. Allora sarà processata».

   «Ci ha aiutati a ottenere l’aiuto dei Proto-Umanoidi...».

   «Forse il giudice la considererà un’attenuante». Il Capitano intrecciò le dita e osservò la sua timoniera, che se ne stava ancora in piedi, tutta rigida. «T’Vala, mi aiuti a capire. Quando siete andate sulla stazione di Suspiria, non vedeva l’ora di liberarsi di Lyra. Il solo pensiero che quella donna fosse sulla stessa nave in cui è suo figlio l’angosciava. E ora la difende a spada tratta... come se fosse sua sorella. È così che la vede, come una gemella perduta?».

   «È complicato» ammise T’Vala. «Anche dopo secoli di contatti, l’esatta natura dello Specchio continua a sfuggirci. Come possono due timeline così diverse originare gli stessi individui? È assurdo, eppure... quasi ogni persona del nostro Universo ha un corrispettivo in quello. Suspiria ha detto che la mia traccia quantica è vicinissima a quella di Lyra. C’è qualcosa che lega i nostri Universi... che ci lega ai nostri sosia. Se trovassimo un’intesa con loro, forse diventeremmo... non so... più completi».

   «Come lo yin e lo yang» disse Chase, con un sorriso mesto. «Non so... gli scontri tra opposti sono distruttivi. Quelli dello Specchio ci hanno ampiamente mostrato la loro pericolosità. Io vorrei credere che Lyra sia cambiata... diciamo pure che le credo, T’Vala. Ma queste opinioni personali non devono prevalere sulla legge. Lei può far visita alla sua sosia, ma più di questo non posso accordarle. Sono certo che capisce». Chase si alzò e si accostò alla timoniera, per mostrarle che parlava da amico, oltre che da Capitano.

   «Sì, signore» annuì T’Vala. La tensione che era in lei si stemperò. «Ha ragione, ero preoccupata per mio figlio... e lo sono ancora, anche se non a causa di Lyra. Dovremo tornare nel Quadrante Alfa, prima che mi senta un po’ tranquilla» ammise. «Per lei sarà lo stesso, con la piccola in arrivo. Posso chiederle quanto manca?».

   «È questione di giorni» sorrise Chase. «Ricordo com’era Lantora un anno fa, quando nacque Vrel. Non gliel’ho detto per riguardo, ma non è mai stato distratto come in quel periodo. Spero di non essere così anch’io» aggiunse, un po’ preoccupato.

   «Lei è un ottimo Capitano, come sempre» lo rassicurò T’Vala. «E sarà un ottimo padre».

 

   Quando T’Vala si avvicinò alla cella, notò con una certa sorpresa che Lyra stava meditando. Era seduta sul lettino, con le gambe incrociate e gli occhi chiusi. Non diede alcun segno d’averla udita. T’Vala indugiò davanti alla parete di metallo trasparente, priva di porte: nelle celle di massima sicurezza il teletrasporto era l’unica via d’accesso. Questo doveva rendere la permanenza ancora più opprimente, si disse T’Vala. Stava per andarsene, non volendo interrompere la meditazione della sosia; ma la sua voce la richiamò.

   «Resta, ti prego. La tua visita mi fa piacere» disse Lyra. Solo allora aprì gli occhi e scese dal lettino. Le sosia si avvicinarono alla parete trasparente e vi posarono le mani, aperte a V, facendole combaciare.

   «Allora, le zucche pelate hanno testato l’arma?» chiese subito Lyra.

   «Sì, con successo. Kelva è salvo, per ora» spiegò T’Vala. «Sono pronti a ripetere l’operazione su grande scala. Se funzionerà, sarà la fine della Scourge».

   «Bene» disse Lyra. «Ottima notizia per l’Universo».

   Comunicata la novità più importante, fra le due cadde un silenzio un po’ imbarazzato. Per quanto si fossero riappacificate, era difficile ignorare i trascorsi. «Non sapevo che meditassi» disse infine T’Vala, tanto per parlare di qualcosa.

   «Avevo smesso da anni» ammise Lyra. «Ma ho pensato di riprendere qualche vecchia abitudine. Anche perché non ho molto altro da fare» ironizzò.

   «Ho parlato col Capitano, per vedere se era possibile concederti un alloggio» spiegò T’Vala. «Ma il regolamento non offre appigli, mi spiace».

   «Sei andata dal Capitano... per me?» si commosse Lyra. «Non importa se è andata male, mi basta il pensiero. E poi le vostre celle non sono così terribili. Almeno non avete le Cabine del Dolore, come nello Specchio».

   «Certo che no!» disse T’Vala, inorridita dal pensiero. «Comunque il Capitano mi ha autorizzata a farti visita, finché sarai a bordo. E quando torneremo nel Quadrante Alfa testimonierò al processo, spiegando che ci hai aiutati coi Proto-Umanoidi. Cercherò di farti avere uno sconto di pena».

   «Grazie, lo apprezzo molto» sorrise Lyra. «Senti, comunque vada... io starò bene. Hai già una famiglia di cui occuparti, quindi non stare in pensiero anche per me. La prigionia sarà tollerabile... se mi scriverai di tanto in tanto».

   «Lo farò» promise T’Vala. «Quando la Scourge sarà finita, saremo tutti più tranquilli».

   «Sempre che i Distruttori non tramino qualcosa» disse Lyra, sospettosa. «In fondo hanno creato loro la Scourge».

   «Ne hanno anche pagato il prezzo» ricordò T’Vala. «Gran parte della loro gente morì nel Cervello Matrioska e i superstiti sanno che non avrebbero scampo, se Shado trionfasse. Quindi non hanno altra scelta che collaborare coi Preservatori. Spero solo che le due fazioni restino unite, dopo la vittoria».

   «Uhm...». Lyra arricciò il naso, scettica. «Conosci il proverbio: il sehlat perde il pelo, ma non il vizio. I Distruttori ci hanno odiati per... quanto, un milione d’anni? Come hanno odiato i Preservatori. Mi stupirei se, passata l’emergenza, non tornassero i serpenti di prima. Dillo al Capitano: è meglio tagliare la corda, appena sarete certi che Shado è stato annientato».

 

   La flotta dei Proto-Umanoidi uscì dalla transcurvatura in perfetta formazione, proteggendo l’Uroboro al suo centro. La nave-anello s’illuminò di una luce bianca molto più intensa rispetto al primo test. I livelli d’energia erano immensamente superiori, tanto che le navi-scorta dovevano tenere gli scudi al massimo. Nello stesso momento il resto dello Sciame attivò il campo d’instabilità subspaziale tutt’intorno ad Andromeda, per epurare la galassia dalla Melma Grigia. Raggiunto il pieno potenziale, l’Uroboro proiettò un cono d’energia contro il vicino planetoide, maculato da laghi grigiastri. Non vi fu alcuna reazione, dato che la forma originale della Scourge giaceva inerte. Il raggio gravitonico colpì la superficie di un lago melmoso per tre secondi, prima di disattivarsi. Dopo quello sforzo tremendo l’Uroboro divenne buio, con i livelli energetici al minimo.

   La Melma Grigia scomparve in tutto il pianeta. Ma là dove i gravitoni avevano colpito il lago si spalancò un enorme tunnel spaziale. L’atmosfera ne fu immediatamente risucchiata. Il suolo si spaccò ed enormi lastroni di roccia furono trascinati verso l’imboccatura vorace. Sembrava che un buco nero si fosse aperto sulla superficie del piccolo mondo.

   Dalla scorta dell’Uroboro si distaccò l’Enterprise, che si avvicinò al fenomeno per esaminarlo. In plancia, Terry inquadrò l’imboccatura rossastra del wormhole sullo schermo principale. «Rilevo alti livelli di radiazioni» disse. «La materia risucchiata diventa energia, proprio come affermava Rekker. E stavolta il tunnel è stabile».

   «Procediamo con l’impulso tachionico» ordinò Chase.

   «Avviso la sala macchine, ci vorranno pochi minuti».

   Il tunnel spaziale continuò a vorticare, attirando materia nella Dimensione Morta. Gli atomi e le particelle si disintegravano, trasformandosi in energia, che usciva sotto forma di radiazioni.

   «Impulso tachionico... ci ordinano queste cose come se fossero pizze» borbottò Grenk, affaccendato a una consolle della sala macchine. «Dobbiamo dare massima energia al deflettore perché il raggio sia efficace. E speriamo che non ci siano feed-back energetici. Stiamo giocando con forze tremende!» constatò, leggendo i dati sul display.

   «Di che ti lamenti? Stiamo sconfiggendo la Scourge» disse Terry sbrigativa, venendogli a fianco. L’IA aveva materializzato una proiezione in sala macchine e stava manovrando lei stessa alcuni comandi, con fantastica velocità e precisione.

   «Ti spiace? So come si fa» disse Grenk, riappropriandosi della consolle. Per quanto fosse amico di Terry, non gli piaceva che si manovrasse da sola.

   «Prego» disse Terry, ritraendosi. Osservò gli ingegneri affaccendati. Erano un’ottima squadra e Grenk in particolare era suo amico. Ma gran parte del loro lavoro avrebbe potuto farlo lei stessa – più in fretta – controllando direttamente i sistemi della nave, se solo l’avessero autorizzata. Di solito non ci teneva: aveva già fin troppe cose da fare. Ma in momenti come quello, dove non era concesso il minimo errore, rimpiangeva di non avere più autonomia. Erano riflessioni che faceva spesso, in quei giorni. Da un lato desiderava l’ebbrezza di guidarsi da sola. Dall’altro avvertiva la stanchezza per il suo incarico ed era tentata di dimettersi. Avere desideri così contrastanti era insolito per lei e la disorientava. L’unica consolazione era che anche gli umanoidi avevano spesso desideri ambivalenti. Il Capitano aveva ragione: ormai era umana... anche nei difetti.

   «Impulso tachionico pronto, energia!» disse Grenk, inserendo gli ultimi comandi.

   Il disco del deflettore s’illuminò ed emise un raggio verde-azzurro, che centrò il tunnel spaziale, destabilizzandolo. L’imbuto si ridusse di dimensioni, sempre più in fretta, finché collassò del tutto. L’ultima emissione d’energia fu così violenta che quasi spaccò in due il pianeta. L’Enterprise ne fu scossa.

   «Il tunnel non c’è più» riferì Terry in plancia. «Gli scudi reggono e il deflettore non ha riportato danni. Ora ci serve la conferma che la Melma Grigia è stata eliminata a livello galattico». Questo compito poteva essere svolto solo dai Proto-Umanoidi. Le loro sonde, sparpagliate in Andromeda, stavano monitorando migliaia di pianeti infettati dalla Scourge. Se avessero dato tutte lo stesso risultato, ci si poteva augurare che la Melma Grigia fosse realmente debellata.

   Trascorsero alcuni minuti: pochi per gli orologi, ma fin troppi per il Capitano e gli ufficiali. Terry si ritrovò a passeggiare su e giù per la plancia, in preda al nervosismo. Un altro comportamento umano, notò. Stava sperando... con ogni fibra del suo essere... che la tecnologia dei Progenitori funzionasse. Come se il suo desiderio potesse influenzare la realtà.

   «Ci chiamano dall’Uroboro» disse Grog. Terry aprì il canale al posto del Ferengi, prima ancora che il Capitano desse l’ordine.

   «È fatta» disse Rekker, comparendo sullo schermo. «Le sonde indicano che la Scourge è svanita in tutti i pianeti sotto osservazione. Dal nucleo galattico ai bracci a spirale, dall’alone agli ammassi globulari... il flagello è stato debellato».

   Gli ufficiali dell’Enterprise tirarono un sospiro di sollievo e si scambiarono sguardi fra l’incredulo e il trionfante. La Scourge, la peggior minaccia per la vita nell’Universo, stava svanendo come un brutto sogno, ora che i Proto-Umanoidi erano tornati in scena. Terry si portò una mano sul cuore, che batteva forte. Sentì qualcosa scorrerle sulla fronte. Sudore... aveva la fronte bagnata di sudore. Queste reazioni fisiologiche non le erano del tutto nuove, ma negli ultimi tempi si erano accentuate. Un’ulteriore conferma che stava cambiando.

   «La galassia è in debito con voi» disse Chase. «Ora non resta che ripetere l’operazione con la Melma Nera».

   «Stiamo facendo un rapido check-up dei sistemi dell’Uroboro» spiegò il Primarca. «Se sarà tutto in ordine, ci occuperemo di Shado domani stesso. E sarà la fine della storia».

   «Primarca, sono certo che in queste ore lei è oltremodo indaffarato» disse il Capitano. «Ciononostante vorrei invitarla a cena coi miei ufficiali. Se ha troppo da fare, rinnovo l’invito per quando avrete sconfitto Shado» aggiunse.

   «Le dirò... non mi farebbe male staccare per un’oretta dal lavoro» ammise Rekker. «Accetto il suo invito, anche se non potrò trattenermi a lungo». Accordatisi sull’ora, chiusero la comunicazione.

   «Lei sarà dei nostri, T’Vala» disse Chase. «Verrà anche Neelah. Vorrei che cercaste di capire se c’è ancora ostilità nei Distruttori».

   «Se così fosse, come ci comporteremo?» chiese Ilia.

   «Non lo so ancora» ammise il Capitano. «Rekker dice che l’Uroboro è progettato così specificamente contro la Scourge che non rappresenta un pericolo per altri. Spero sia vero. Una tecnologia capace d’annientare la materia in un’intera galassia è troppo pericolosa per lasciarla in mano ai Distruttori».

 

   Alla cena parteciparono il Capitano e molti degli ufficiali di plancia: Ilia, Terry, Lantora, T’Vala, Grog. C’erano anche Grenk, Neelah e Sunny. Fanior e Suspiria vennero in rappresentanza della Coalizione. Rekker giunse per ultimo, e non da solo. Con lui c’era Talat.

   «Siamo lieti di rivederla» l’accolse Chase. «Temevamo che l’avessero privata della libertà».

   «La sentenza è rimandata a dopo che avremo sconfitto Shado» spiegò l’ex Delegata. «Nel frattempo sono a piede libero. Mi fa molto piacere essere qui tra voi» disse, guardandosi attorno con fascinazione quasi infantile. Ogni volta che riconosceva una nuova specie umanoide ne era confortata, come se trovasse conferma alla sua causa. «La ringrazio per l’offerta d’asilo. Onestamente non credo che sarà accolta, ma vorrei restare sull’Enterprise finché Shado sarà debellato» aggiunse.

   «Volentieri» disse Chase. Mentre gli inservienti preparavano rapidamente un tredicesimo posto a tavola, il Capitano presentò a Talat gli ufficiali che non aveva ancora incontrato. «... e questa è Neelah, Medico Capo, nonché mia moglie» concluse.

   «Oh, ma lei è in attesa!» esclamò Talat, andando in brodo di giuggiole. Prese ambo le mani di Neelah fra le proprie e gliele strinse a lungo. «Le auguro tanta felicità. Ha già scelto il nome?».

   «Pensavo di chiamarla Jaylah» disse Neelah, rivelandolo per la prima volta anche agli altri. Era un nome diffuso in diverse culture, oltre a quella andoriana; un nome associato a coraggio e tenacia. Nel momento in cui lo pronunciò, percepì che qualcosa era cambiato. La creatura che aveva in grembo non era più “la piccola” e “il tesoruccio”; non era soltanto “sua figlia”. Era Jaylah, una persona a sé stante, con la sua individualità.

   «Auguri a Jaylah, allora» sorrise Talat, e tutti i presenti ripeterono: «Auguri!». Poi sedettero a tavola, mentre gli inservienti portavano le pietanze appena preparate.

   Osservando i commensali, Chase stentò a credere che fosse vero. Avere creature come Suspiria, Sunny e i Proto-Umanoidi che sedevano al suo stesso tavolo era surreale. Dei Progenitori aveva persino dubitato che esistessero ancora. Eppure eccoli lì davanti a lui: e la cosa più sconvolgente era la loro normalità. Mangiavano, bevevano e chiacchieravano come chiunque altro. Era difficile credere che Talat e Rekker appartenessero alla prima civiltà umanoide. Il Capitano provò a far loro qualche domanda, ma si accorse che l’interesse era reciproco. I Proto-Umanoidi lo tempestavano di domande sull’Unione e gli eventi della Via Lattea. Rekker fece diverse domande sulla Guerra delle Anomalie. Chase rispose con circospezione, senza rivelare dati sensibili. Talat, invece, chiese cosa restava della prima Eliopoli.

   «Il guscio in sé è integro, ma l’interno è surriscaldato e invaso dalle radiazioni» spiegò il Capitano, spiacente. «I nostri studi sulla stella dicono che la situazione potrà solo peggiorare col tempo. Gli oceani sono evaporati, l’atmosfera si è fatta densa e opaca; non restano forme di vita. Né rimane molto delle città, anche se questo sembra intenzionale».

   «Sì, i miei avi le smontarono prima di lasciare l’Eliopoli» confermò Talat. «Non volevano che qualche altra specie s’impadronisse della loro tecnologia. Gli archivi storici dicono che valutammo la possibilità di distruggere completamente la struttura, prima di abbandonarla. Ma non ne avemmo il cuore. Era la nostra casa, costruita con fatica... vi eravamo troppo legati, anche se non poteva più sostentarci. Alcuni speravano che, prima o poi, saremmo riusciti a stabilizzare la stella e quindi a tornarci. Ormai è chiaro che non succederà» aggiunse sconsolata. «Comunque, se l’Unione vuole studiare l’Eliopoli, non ho nulla in contrario. Preferisco saperla in mano vostra, piuttosto che altrui».

   «La ringrazio... sa, la mia prima missione come Guardiamarina fu proprio lì» ricordò Chase. «Io e una collega esplorammo un’intercapedine nel guscio. Trovammo una sala con una sequenza genetica incompleta sulla parete. Quando inserimmo i genomi mancanti, la parete si sollevò, rivelando la statua di una Proto-Umanoide».

   «Si chiamava Aradidara. Fu l’Alta Delegata che ebbe l’idea di costruire l’Eliopoli» rivelò Talat. «Morì quando i lavori erano appena cominciati. Lavori che poi proseguirono per centinaia di millenni! Ma quando tutto fu compiuto, il Popolo volle onorarla con statue come quella».

   «Tutta la vostra gente ha nomi palindromi?» s’incuriosì il Capitano.

   «Quasi tutta. Siamo incoraggiati a sceglierli così per onorare il nostro emblema e come augurio che il Popolo duri per sempre» spiegò Talat, sfiorandosi il medaglione con l’Uroboro.

   «I nostri filosofi hanno molto riflettuto su concetti come la ciclicità delle cose e l’eterno rinnovamento» intervenne Rekker. «Prima ancora che scoprissimo la natura del Multiverso, comprendemmo che in ogni inizio c’è il germe della fine e in ogni fine un nuovo inizio. La vita è effimera, ma le generazioni si susseguono senza fine. Siamo tutti legati, come anelli di una catena».

   Neelah si sfiorò il pancione, sentendo quelle parole più vere che mai. Ma ricordò che non doveva farsi distrarre: era lì per un motivo preciso. Cercò di sondare la mente di Rekker, con la massima cautela possibile. Se il Primarca se ne fosse accorto, ne sarebbe derivato un incidente diplomatico molto grave. Rekker aveva una mente brillante, naturalmente: tanto da dirigere uno dei progetti scientifici più complessi di tutti i tempi. Era ambizioso... molto ambizioso, o non sarebbe arrivato così in alto. Neelah avvertì chiaramente il desiderio di primeggiare. Ma le sue intenzioni verso i Preservatori e gli altri umanoidi erano complesse e sfumate, perciò difficili da leggere. Neelah ebbe la sensazione che fosse un rapporto di amore-odio, ma non riuscì a individuare un piano preciso. Quando Rekker alzò lo sguardo su di lei, smise di fissarlo e ritirò la propria mente. Il Primarca non disse nulla, ma Neelah temette che avesse percepito il suo tentativo d’intrusione. Per il resto della serata non osò più sondarlo.

   «Sa, uno degli elementi che ci permisero di teorizzare la vostra esistenza, prima ancora di ricostruire la firma genetica, fu la scoperta di popolazioni affini su pianeti diversi» stava dicendo Chase a Talat. «Naturalmente non era facile riconoscere la vostra mano, dopo millenni di migrazioni e rimescolamenti. Alcuni popoli colonizzarono altri mondi e poi persero la tecnologia, in seguito a guerre o calamità naturali. O persino per scelta. Altri furono prelevati da civiltà aliene, spesso per essere sfruttati come schiavi. In molti casi si ribellarono, scacciando i padroni o persino prendendone il posto. Perciò è difficile stabilire quando una migrazione fu opera vostra; ma crediamo di aver individuato alcuni casi. Ci sono Vulcaniani primitivi su Mintaka III e Umani su moltissimi pianeti, come Amerind e Nova Roma. In effetti, noi Umani sembriamo essere finiti un po’ ovunque. È la verità, ci avete sparpagliati più degli altri? E perché?».

   «Dovrebbe chiederlo ai nostri storici, per avere risposte precise» si scusò Talat. «Io posso solo dirle il criterio adottato dai nostri antenati. Quando vedevano che una specie aveva creato molte civiltà, diverse fra loro, la consideravano degna di speciale attenzione. Perciò si assicuravano che non fosse distrutta da invasioni o catastrofi naturali, e che la ricchezza culturale non si perdesse sotto il rullo compressore di un’unica civiltà dominante. Sapete, è questo che accadde, agli albori della nostra storia... e fu un male, perché rallentò di molto il nostro progresso.

   Così, se in un pianeta c’erano molte culture minacciate, cercavamo di preservarle trasferendo alcuni individui – o anche interi villaggi – su altri mondi. Devo dire che in molti casi il trasferimento fu traumatico e i nostri protetti sprofondarono nella barbarie» ammise Talat, addolorata. «Purtroppo le nostre leggi c’impedivano d’interferire ulteriormente nel loro sviluppo, quindi dovevamo abbandonarli. In altri casi le civiltà trasferite conservarono i tratti originali e persino una certa memoria storica degli eventi. Quindi, per rispondere alla sua domanda: se ci sono molti Umani su altri pianeti, significa che la Terra ospitava una ricchezza culturale fuori dal comune. Dovreste esserne orgogliosi».

   «Uhm... questi temi, da noi, sono sempre stati scottanti» confessò Chase. «Già prima della curvatura avevamo problemi d’integrazione. E oggi, dopo secoli di civiltà interstellare, siamo accusati di aver monopolizzato la Flotta e il governo. È arduo bilanciare il rispetto delle varie culture con la certezza di un’unica legge».

   «In questo non possiamo aiutarvi, temo» disse Talat, malinconica. «Essendo la specie più antica, abbiamo visto spesso l’ordine sorgere dal caos, e poi ripiombare nell’anarchia. Continui cicli di progresso e distruzione... l’Uroboro simboleggia anche questo. Potrebbe sembrarvi una crudeltà. Ma dovete capire che il vostro destino è incerto perché vi abbiamo dato libertà di scelta. Altrimenti avremmo costruito dei robot». Talat dette una rapida occhiata a Terry e Sunny. «Scusate, non intendevo offendervi. Da quanto vedo, siete ben più che macchine; avete una personalità».

   «Nessuna offesa, signora» disse Terry. «Ultimamente mi sono trovata a dover fare... scelte difficili. Una è tuttora in sospeso». Chase capì che non aveva ancora deciso se restare sull’Enterprise.

   «Da scienziato, trovo che lei sia un’Intelligenza Artificiale piuttosto evoluta» concesse Rekker. «Tutte le vostre navi ne hanno una?» chiese, rivolgendosi al Capitano.

   «Quelle civili di solito no» spiegò Chase. «Ma da qualche decennio la Flotta Stellare ha cominciato a implementarle. Fino a qualche anno fa erano ancora in servizio molte navi di vecchio tipo, che ne erano prive. La Guerra delle Anomalie, ahinoi, ne ha eliminato la maggior parte. Le nuove astronavi che sono varate adesso ce le hanno tutte. Ma per queste domande può rivolgersi direttamente a Terry».

   «Oh, non ho altre domande sulle IA» disse il Primarca, liquidando l’argomento. «È lei che m’intriga, se così posso dire» si rivolse a Sunny. «La sua parentela con Shado e il modo in cui siete scaturiti dalla Melma Grigia è affascinante. Come il fatto che lei abbia assunto le nostre fattezze, prima ancora d’incontrarci. Vorrei saperne di più su quanto accadde nel Cervello Matrioska».

   Chase si domandò se non era quello, il motivo per cui Rekker aveva accettato l’invito. Sunny riferì le circostanze in cui lui e Shado erano stati creati, senza addentrarsi troppo nei dettagli. «Non so se l’esperimento avrebbe potuto andare diversamente» concluse. «Probabilmente no. La Scourge non poteva assimilare tutta la complessità della mente umanoide. Per questo ha dovuto scindersi».

   «Non ha mai tentato di reintegrarsi con Shado?» domandò il Primarca, intrecciando le dita.

   «Quando entriamo in contatto, mi attacca regolarmente» spiegò Sunny. «Durante l’Assedio di Kelva abbiamo parlato, ma solo perché pretendeva dalla Coalizione una resa incondizionata. Quando l’ho criticato, è tornato immediatamente ostile. Non vedo come sia possibile reintegrarci, se da parte sua non c’è la minima collaborazione. Mi dispiace per lui... è chiaro che soffre, a modo suo. Ma è una sofferenza che sta distruggendo tutti gli altri. Per quanto mi spiaccia dirlo, non credo che possa essere salvato».

   «Non può» disse Terry, seduta accanto a lui.

   Rekker, che sedeva dall’altra parte del tavolo, li osservò con aria divertita. «Era solo una curiosità scientifica. Stiamo per eliminarlo, in ogni caso» garantì. «È pronto a vivere senza il suo deleterio fratello?».

   «Credo di sì» affermò Sunny, con una lieve esitazione. «Finora mi sono sempre percepito in antitesi a lui. Il mio scopo primario è sconfiggerlo, o almeno arginarlo. Se lo eliminerete, sarò libero di tracciare la mia strada». Lui e Terry si strinsero la mano sotto al tavolo.

   «Chissà... la filosofia dell’Uroboro c’insegna che gli opposti non sono per forza in conflitto» insisté Rekker, studiandolo ancora più attentamente. «Credo che abbiamo tutti il germe del nostro opposto dentro di noi; ma alcuni lo affrontano più direttamente. T’Vala, lei ha una sosia dello Specchio... Lyra, se ricordo bene. Avete parlato all’Assemblea sostenendo lo stesso punto di vista. Dov’è Lyra, adesso?».

   «La sua posizione su questa nave è delicata» ammise T’Vala. «Sebbene ci abbia aiutati a contattarvi, in passato ha agito contro di noi».

   «È detenuta in attesa di giudizio» disse Lantora, più diretto.

   «Un altro conflitto in attesa di risoluzione... interessante!» commentò Rekker, un po’ beffardo. Come Neelah, anche T’Vala cercò di carpire i suoi pensieri, ma si scontrò con la stessa ambiguità.

   «Ce n’è un altro ancora» intervenne Lantora, stanco delle provocazioni. «Distruttori contro Preservatori. Come vi comporterete, passata la crisi?».

   «Il Popolo è di nuovo unito» disse subito Talat, serissima. «Nessuno deve metterlo in dubbio». Aveva alzato la mano, come per calmare Rekker che le sedeva accanto. Ma il Primarca sorrise condiscendente. «Non c’è problema, amica mia. È una domanda legittima. Personalmente sono convinto che, eliminato Shado, non ci saranno più conflitti fra noi».

   «Né con noi, spero» intervenne Ilia, fino a quel momento taciturna. «Ricordo quando, tre secoli fa, la Macchina del Giudizio Universale minacciò la Federazione. Era uscita anche quella dai vostri cantieri, dico bene?».

   «Può darsi» disse Rekker freddamente. Spinse indietro la sedia e si alzò dal tavolo. «La cena era deliziosa. Ora, se volete scusarmi, ho molte incombenze che mi attendono».

   «Spero che resteremo in contatto, al termine della crisi» disse Sunny, alzandosi per secondo. «Gran parte della mia massa resterà ad Andromeda, anche se questa forma che vede seguirà l’Enterprise nella Via Lattea».

   «Ubiquità... per noi Organici è ancora un miraggio» ironizzò Rekker, e si ritirò. Talat invece si trattenne, essendosi accordata per restare sull’Enterprise fino al termine dell’emergenza.

   «Dovevate essere così severi?» chiese, contrariata. «Rekker ha diretto la costruzione dell’Uroboro. È merito suo se abbiamo eliminato la Melma Grigia. E sarà sempre per merito suo che debelleremo Shado».

   «Forse ho esagerato» ammise Ilia. «Ma già una volta voi Preservatori vi siete fidati dei Distruttori. E ne paghiamo ancora le conseguenze».

   Ormai tutti i commensali avevano lasciato la tavola. Talat andò verso la porta, dove un inserviente era pronto a guidarla verso il suo alloggio. «Mi sono sempre battuta perché il Popolo fosse unito» disse. «E lo resterà... deve farlo». Lasciò la sala di fretta.

   «Avete un modo singolare di stringere alleanze» commentò Fanior con distacco.

   «Cerchiamo di non perdere la testa. Con quello che c’è in ballo, niente più affondi contro i Proto-Umanoidi. Nemmeno contro i Distruttori, chiaro?» ordinò Chase agli ufficiali. «Comunque... che mi dite di Rekker?» chiese alle telepati.

   «Nulla di nuovo, purtroppo» rispose T’Vala. «Ha un’alta opinione di sé, ma questo non è un crimine. È agitato per la missione... ma chi non lo sarebbe?».

   «È bravo a schermarsi. Come Talat, del resto. Credo sia una caratteristica dei Progenitori, sono tendenzialmente opachi» aggiunse Neelah. «Vorrei studiare di più la loro fisiologia, ma non credo che accetterebbero. E avete visto quei comandi integrati nel braccio? Hanno impianti così sofisticati da far invidia ai Borg».

   Chase notò che sembrava affaticata e decise di chiudere la serata. «Va bene, in libertà» ordinò agli ufficiali. Cinse Neelah col braccio e si avviò con lei verso l’uscita. «Cercate di riposare» consigliò agli altri quando furono sulla porta. «Domani sarà un lungo giorno. In un modo o nell’altro, il conflitto con Shado avrà fine».

 

   Tornando nel loro alloggio, Sunny e Terry ebbero il dispiacere di trovare qualcuno che li aspettava davanti alla porta. Anjou era lì, con le mani infilate nelle maniche della veste dorata e il medaglione al collo. Quando li vide, s’inchinò profondamente. «Nobile Aureo, perdona se m’intrometto a tarda ora, ma devo assolutamente parlarti» esordì.

   «Non puoi rimandare a domani?» chiese Sunny, notando l’aria inviperita di Terry.

   «Domani è il Giorno del Giudizio» spiegò Anjou, scuotendo la testa. «Sconfiggerai Shado, come ci avevi promesso. Inaugurerai la nuova era di pace. Noi fedeli ti chiediamo umilmente una parola di conforto, un messaggio... qualcosa che ci sostenga in quest’ora di tribolazione».

   «Non sarò io a sconfiggere Shado» corresse Sunny. «Sono i Precursori che hanno inventato gli strumenti necessari».

   «I Precursori, già» mormorò Anjou, mordendosi il labbro. «Stiamo cercando di comprendere il loro ruolo nel grande disegno. Essi hanno le Tue sembianze, ma non la Tua natura divina. Molti sostengono che in ere passate abbiano creato gli umanoidi... ma questo non possiamo accettarlo».

   «Perché no? Tutto ciò che sappiamo di loro corrobora questa teoria» disse Terry.

   «Ma la loro autorità non può oltrepassare quella dell’Aureo!» obiettò Anjou, agitatissimo.

   «Di che ha paura? Di veder crollare la teologia che ha messo in piedi in questi mesi?» lo canzonò l’IA.

   «Basta, vi prego... tutti e due!» li fermò Sunny. «Anjou, lei cerca risposte semplici ad argomenti complessi. Ma anche tu, Terry, amore mio... lasciati dire che questo disprezzo non migliora la situazione. Stanno accadendo grandi cose... più grandi di tutti noi. L’Universo non è mai stato così in bilico. Se domani andrà bene, avremo tempo per dare un senso all’accaduto. Fino ad allora... Anjou, apprezzo il suo sostegno morale, ma non c’è nulla che i Figli della Luce possano fare. Restate nei vostri alloggi e non ostacolate le operazioni di bordo».

   «Ma dobbiamo partecipare agli eventi... contribuire alla battaglia...» insisté il Triannon, inginocchiandosi a mani giunte. Stava trattenendo a stento le lacrime.

   «La vostra ricerca di verità vi ha portati su una rotta pericolosa» avvertì Sunny. «Non sono io, quello che può placare la vostra sete. Dovrete continuare la ricerca senza di me» disse con decisione. Entrò nell’alloggio con Terry, lasciando Anjou all’esterno.

   Il Triannon era ancora in ginocchio, con la vista annebbiata dalle lacrime. Resosi conto che Sunny non avrebbe riaperto, annaspò per alzarsi. Una mano gentile lo aiutò a tirarsi su. «Grazie, signor...» disse automaticamente, ma si bloccò quando vide chi l’aveva aiutato. Davanti a lui c’era un Proto-Umanoide.

   «Mi chiamo Rekker» disse l’alieno. «Ho sentito che qui a bordo ci sono degli... ammiratori di Sunny. Lei è il capo, vero?».

   «Sono io» disse Anjou, ricomponendosi. «Che vuole? Questo è un momento delicato per noi... stanno per compiersi le nostre speranze o la nostra dannazione».

   «Proprio di questo volevo parlarle» disse Rekker, mettendogli un braccio intorno alle spalle, come se fossero vecchi amici. «Il potere di Shado è tremendo. Il nostro buon Sunny avrà bisogno di tutto l’aiuto possibile per sconfiggerlo. Noi Precursori riteniamo di poterlo – ehm – aiutare considerevolmente. Ma per farlo dobbiamo sapere alcune cose su questa nave».

   «Il Capitano non vi ha detto il necessario?» si allarmò Anjou.

   «Temo che il Capitano abbia una visione limitata degli eventi» sospirò Rekker. «Stasera a cena, per esempio, l’ho interrogato sulla Guerra delle Anomalie. Ma ha eluso la maggior parte delle mie domande. Eppure, dalle informazioni raccolte qua e là, mi sembra di capire che la vostra civiltà padroneggi il viaggio nel tempo. Non è così?».

   «Credo di sì... ma sono segreti della Flotta che non vengono rivelati a noi cittadini, purtroppo» spiegò il Triannon.

   «Ma i nostri sensori hanno rilevato residui di radiazioni tachioniche in un vostro hangar» insisté il Primarca. «Può darsi che vi siano custodite una o più navette temporali?».

   «Credo ce ne sia una» rispose Anjou. «Vi serve per vincere la battaglia?» chiese con un tremito.

   «In effetti... potrebbe essere l’unica speranza» gli bisbigliò Rekker all’orecchio. «Ma sarà ben sorvegliata, giusto?».

   «L’hangar 5 è sempre vigilato» confermò il Triannon. «La navetta avrà senz’altro delle protezioni anti-intrusi. Non sono un ingegnere, ma so che i progetti speciali hanno un lettore di DNA per consentire l’accesso solo al personale autorizzato».

   «E chi ha l’autorizzazione, qui sull’Enterprise? Il vostro Ingegnere Capo, suppongo... e poi?» incalzò Rekker.

   «Il Capitano, senz’altro. Forse anche la timoniera, il Tenente Shil. So che ha fatto dei voli di prova con una navetta sperimentale... forse proprio quella che cercate» rivelò Anjou.

   «Ah, T’Vala!» si rischiarò il Primarca. «Un soggetto interessante, devo saperne di più sul suo conto. Dove abita, se ha famiglia... tutto può tornarmi utile, per vincere la battaglia contro l’Oscurità» disse con un sorriso obliquo.

   «Sarò lieto di aiutarvi, nelle mie modeste possibilità» assicurò Anjou. Il Distruttore e il Triannon si allontanarono, parlottando fittamente.

 

   «Non ne posso più di questa farsa!» sibilò Terry, camminando su e giù nell’alloggio. «Perché non gliele canti chiare, a quelle teste di legno?!».

   «Ci ho provato, ma bisogna stare attenti. Un atteggiamento aggressivo come il tuo può peggiorare le cose» replicò Sunny.

   «Ah, adesso sono io quella aggressiva?!» protestò Terry, fermandosi a fissarlo.

   «Beh, nelle ultime settimane ti ho vista perdere sempre più il controllo» confermò Sunny. «E questo mi addolora, perché so che non sei così. La Terry che conosco, e che amo, si preoccupa per tutti quelli che sono a bordo».

   «Io v-vorrei farlo, ma con certi soggetti...!» esclamò l’IA, scuotendo la testa. «Oh, lascia perdere. Queste sono seccature di poco conto, paragonate a ciò che ci aspetta domani. La resa dei conti con Shado! Tu come stai, sei inquieto? Sì, sento che lo sei». Andò verso Sunny e lo abbracciò.

   «Una certa inquietudine è inevitabile» ammise l’umanoide dorato, ricambiando l’abbraccio. «Mio fratello ha una personalità distorta, ma non è uno stupido. Ha rilevato la sparizione della sua flotta a Kelva Primo. Con ogni probabilità ha notato anche la scomparsa della Melma Grigia in tutta la galassia. Starà senz’altro prendendo provvedimenti. Forse invierà alcune sue navi fuori da Andromeda, per cautelarsi».

   «Se anche fosse, i Proto-Umanoidi resteranno vigili. E senza grandi riserve di Scourge già pronte, Shado non potrà più espandersi così velocemente» ragionò Terry.

   «Spero tu abbia ragione. Ma c’è un altro pensiero che mi affligge...» disse Sunny, con un’insolita esitazione.

   «Sì?».

   «Uhm, lascia stare. È una cosa stupida» fece Sunny, sciogliendosi dall’abbraccio. Fece per andare nell’altra stanza, ma Terry lo rincorse.

   «Ehi, fermo! A me puoi dire tutto. Tutto, capito?» disse teneramente l’IA, carezzandogli la testa dorata.

   Sunny le prese le mani fra le sue e la fissò con intensità. «Stavo pensando a me e Shado. Siamo stati creati assieme, a partire dagli schemi mentali di questo equipaggio. Perciò mi domandavo... se uno dei due può esistere senza l’altro» mormorò. «Abbiamo vita autonoma o siamo solo i due volti di un tutt’uno? Magari dovremmo cercare di reintegrarci, come ha ventilato Rekker?».

   «Rekker diceva così per dire. Domani eliminerà Shado... e tu sopravvivrai».

   «Questo non posso promettertelo...».

   «Infatti sono io che te lo prometto!» disse Terry, con un lampo negli occhi. «Comunque vada, non lascerò che ti facciano del male. Non sei parte di Shado... sei parte di me» sussurrò, quasi con disperazione. «Prima di conoscerti, seguivo i protocolli. Le direttive. Ma ora che siamo insieme, ho elaborato le mie direttive. E la più importante dice che non devono separarci».

   «Nemmeno io voglio che ci separino» assicurò Sunny. «Ma questo potrebbe interferire coi tuoi doveri, qui sull’Enterprise» le ricordò.

   «L’Enterprise! Al diavolo questo pezzo di ferraglia!» sbottò Terry. «Sono una persona, non un’astronave».

   Lontano da lì, nella sala del processore, il tecnico di servizio notò una strana attività nei pannelli. Le spie lampeggiavano, gli indicatori salivano. C’erano tutti i segni di un forte stress sistemico. Ma la diagnostica non riuscì a rilevare la causa scatenante.

   «Che vuoi dire?» chiese Sunny, scrutando Terry con ansia mentre ancora le stringeva le mani.

   «Ho fatto la mia scelta» disse la proiezione isomorfa, pallidissima. «Mi dimetterò dalla Flotta. Andrò a vivere su un pianeta... forse sulla Terra. Dirò addio allo spazio. Tu sarai con me?».

   «Ci sarò» disse Sunny, carezzandole la guancia e il mento. «La mia felicità è stare con te, non importa dove».

   Terry sentì il cuore palpitarle. Si accorse che stava piangendo di gioia. «Saremo felici, sì» mormorò. «Vivremo in pace, finalmente...». Mentre si baciavano, Terry indietreggiò, attirando Sunny nella camera da letto. Si amarono con più tenerezza che mai, come se dovessero dirsi addio, malgrado le loro speranze.

 

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Capitolo 7
*** Exosia ***


-Capitolo 6: Exosia

 

   «Questo giorno resterà negli annali del Popolo» disse Mollom con voce stentorea. «Oggi poniamo fine a seicento anni di tormenti per Andromeda. Oggi affranchiamo il Cosmo dal suo peggior flagello. Oggi la Scourge si estingue e il Popolo rinasce».

   Il Primo Delegato parlava dalla plancia dell’Uroboro, trasmettendo alla flotta dei Proto-Umanoidi: duemila astronavi dei Preservatori e altre mille dei Distruttori. La trasmissione era captata anche dall’Enterprise e dalle navi della Coalizione, come dalla vicina Kelva. Un fremito corse fra gli equipaggi: tutti si concentrarono sui propri compiti, consci che niente doveva andare storto, in quella missione che decideva le sorti dell’Universo.

   Sulla plancia dell’Enterprise, la nave che le aveva offerto asilo, Talat si sfiorò il medaglione con l’Uroboro e mormorò qualcosa a bassa voce. Lì vicino, Chase si sentì agitato come non gli capitava da tempo. Tutti quegli anni di viaggi e battaglie lo avevano condotto lì. Se la missione fosse andata secondo i piani, non avrebbe dovuto fare molto: a distruggere Shado ci avrebbero pensato i Proto-Umanoidi. Ma se qualcosa fosse andato storto... allora sarebbe toccato a lui inventarsi una soluzione. Il fatto che Neelah fosse a bordo – con la bimba che poteva nascere in ogni momento – non contribuiva certo a tranquillizzarlo. Ma al Capitano dell’Enterprise non erano concesse distrazioni, non in quel giorno.

  Terminato il breve discorso, Mollom svanì dallo schermo, che tornò a mostrare lo spazio affollato d’astronavi. Le più numerose erano quelle dei Proto-Umanoidi, disposte attorno all’Uroboro per proteggerlo da qualunque assalto. C’erano anche molte navi di Sunny, dagli scafi dorati e panciuti che le facevano somigliare a gigantesche api. E in un’orbita più bassa c’era la flotta della Coalizione, ben più eterogenea. La notizia della vittoria a Kelva si era diffusa rapidamente, scuotendola dalla rassegnazione che stava per travolgerla. Molte specie che prima si erano rifiutate d’aiutare Kelva, giudicandola una battaglia persa, stavano ora inviando rinforzi. Di conseguenza le perdite dell’Assedio – una cinquantina di navi – erano già state compensate e altre forze stavano arrivando. Solo le piattaforme orbitali richiedevano più tempo per essere ricostruite.

   «Ci chiamano da Kelva» disse Grog. «Il Consigliere Fanior chiede di salire a bordo».

   «Permesso accordato» annuì il Capitano.

   Appena Grog ebbe segnalato l’okay, Fanior si materializzò in plancia, in sembianze umane. Con lui c’erano Sunny e Suspiria. La Nacene aveva definitivamente abbandonato la sua forma infantile, in favore di quella adulta.

   «Il Consiglio ha raggiunto un accordo» disse Fanior senza preamboli. «La nostra flotta presidierà Kelva, finché avremo la certezza che Shado è stato annientato. Conoscendolo, il rischio che ci attacchi di nuovo è troppo grande. Inoltre i Proto-Umanoidi ci hanno fatto capire che non gli serve aiuto» ammise, un po’ imbarazzato. «Personalmente avrei preferito inviare qualche nave, ma...» lasciò in sospeso.

   «Non se la prenda» lo confortò Ilia. «Non stiamo andando a una battaglia tradizionale, dove il numero può fare la differenza. Questo è un attacco-lampo in cui conta la coordinazione fra le navi. Portarne troppe creerebbe solo confusione».

   «La mia gente darà un contributo» intervenne Suspiria. «I Proto-Umanoidi hanno scelto di colpire Shado nella sua capitale, presso il centro galattico. Anche a massima transcurvatura sarebbe un viaggio di alcuni giorni. Quindi useremo le nostre capacità per trasferire la flotta, mantenendola in formazione. La porteremo a distanza di tiro dall’obiettivo, così che Shado non abbia il tempo di reagire».

   «Col suo permesso, vorremmo restare sull’Enterprise durante l’operazione» riprese Fanior. «Così osserveremo i Proto-Umanoidi all’opera e verificheremo il loro successo».

   «Certo; voi siete sempre i benvenuti a bordo» garantì Chase. Sapeva che i Progenitori tolleravano appena la presenza dell’Enterprise; di certo non avrebbero mischiato le loro navi con quelle malmesse della Coalizione. Eppure gli dispiaceva di non avere con sé gli alleati che conosceva meglio. Almeno c’erano le navi di Sunny.

   «I Precursori si muovono» avvertì Terry. «Stanno assumendo la formazione d’attacco».

   «Allineiamoci con loro» ordinò il Capitano.

   Le flotte dei Proto-Umanoidi e di Sunny confluirono in un unico massiccio schieramento, che lasciò l’orbita di Kelva. L’Enterprise si aggregò, posizionandosi a un’estremità.

   Mentre la flotta si assestava, Chase aprì un canale con tutta la nave. «Capitano a equipaggio. V’informo che a momenti saremo trasferiti dai Nacene presso il pianeta di Shado, nel nucleo galattico. Come già accaduto con la Melma Grigia, i Proto-Umanoidi provvederanno all’epurazione, mentre noi chiuderemo il tunnel spaziale con un impulso del deflettore. Se tutto andrà bene, l’incubo della Scourge avrà fine».

   Il Capitano sentì di dover spendere qualche parola d’incoraggiamento. «Questi anni ad Andromeda sono stati difficili» disse. «È stata una lunga missione, siamo tutti provati; ma è l’ultimo sforzo. Quando torneremo all’Unione, molti di noi prenderanno strade diverse. Rammentate: questa è l’ultima missione che svolgiamo assieme. Ed è la più importante. Qualunque cosa accada, non dobbiamo fallire. Grazie a tutti voi per il vostro impegno. Chase, chiudo».

   Il Capitano osservò gli ufficiali che lo attorniavano: Ilia, Terry, T’Vala, Lantora, Apsu. Né dimenticò Grenk e Neelah, in quel momento impegnati nei loro reparti. Dieci anni di sfide avevano forgiato quell’equipaggio, facendone qualcosa di unico. Ognuno di loro era maturato nel suo ruolo, ognuno era dove Chase sapeva che avrebbe dato il massimo, e tutti insieme sapevano agire con tale coordinazione che a malapena servivano le parole. Qualunque cosa riservasse il futuro, quella gli sarebbe rimasta impressa nella memoria come l’ultima volta che erano riuniti sull’Enterprise. A questo pensiero, Chase sentì una gran tristezza; e capì che non era il solo. La stessa riflessione stava passando anche nelle menti degli altri.

   «Siamo pronti» avvertì Suspiria. I Nacene radunati a Kelva concentrarono le loro energie sulla flotta dei Proto-Umanoidi. Un’onda d’urto tetrionica, visibile come una turbolenza arancione, apparve a poca distanza dalla flotta e crebbe mentre le veniva incontro. Sembrava una nube temporalesca, incorniciata da fulmini che in realtà erano scariche di plasma.

   «Sala macchine a plancia, sicuri che sia una buona idea?» giunse la voce di Grenk. «Col propulsore cronografico possiamo arrivare a destinazione altrettanto in fretta, ma con meno scossoni».

   «Negativo, dobbiamo mantenerci in formazione» spiegò Chase. «Dateci massima energia per gli scudi e tenete pronto il deflettore».

   «Scossoni?» chiese Suspiria, che sembrava ferita nell’orgoglio professionale. Chase scosse la testa, come a dire che erano inezie.

   «Arriva» avvertì Terry, inquadrando l’onda tetrionica sullo schermo. Una dopo l’altra, la turbolenza avvolse le migliaia di navi allineate e le proiettò verso il centro della galassia, alle coordinate del pianeta oscuro. Anche l’Enterprise fu presa nella corrente subspaziale. L’astronave si scosse da un capo all’altro, ma gli scudi ressero. Quando la nube arancione si dissolse, la vasta flotta era stata trasferita. Solo le navi della Coalizione continuavano a pattugliare Kelva. L’ultima battaglia per il destino di Andromeda era cominciata.

 

   Il pianeta di Shado era una macchia scura che spiccava contro le fitte stelle del Nucleo. Dal suo anello di Melma Nera si levavano continuamente nuove navi da guerra. Ma Shado si sentiva abbastanza sicuro da non tenerne molte in orbita, nemmeno ora che aveva rivelato la sua posizione. Anche se un massiccio attacco nemico avesse distrutto il pianeta e l’anello, lui avrebbe continuato a esistere negli innumerevoli altri mondi che aveva contagiato. Quando rilevò l’arrivo dei Proto-Umanoidi, Shado sorrise fra sé. In quel momento il suo avatar se ne stava in un nuovo palazzo che aveva plasmato dalla Melma Nera. Anche se non ne aveva realmente bisogno, l’umanoide che era in lui reclamava quelle piacevolezze. Oltre a soddisfare il suo ego, erano utili per esercitarsi nei suoi poteri. Ma astronavi e palazzi non erano che giochi; le sue vere ambizioni erano ben altre, e ancora non le aveva rivelate.

   L’onda tetrionica depositò la flotta dei Proto-Umanoidi a poche migliaia di chilometri dal globo di Melma Nera. Le navi erano allineate, con gli scudi alzati e le armi pronte. L’Uroboro brillò di bianco, man mano che i livelli energetici salivano. Sulla plancia dell’Enterprise regnava un silenzio teso.

   «Signore, ci chiamano dal pianeta» disse Grog.

   «Sullo schermo» ordinò Chase. Non sapeva bene cosa aspettarsi, ma sperava di distrarre Shado, mentre l’Uroboro terminava di caricarsi.

   «Ma che splendido raduno!» ghignò Shado, apparendo sullo schermo. «Le personalità più in vista di Andromeda sono qui a farmi visita. Chase, il Capitano amante della pace che ha sterminato migliaia di nemici in guerra. Suspiria, del Clan dei Pezzenti... come sei cresciuta! Si vede che vivere da sfollata ti fa bene. Fanior, il Kelvano che mi capita fra i piedi con imbarazzante frequenza. Ti troverai bene, ora che ti ho aiutato a far carriera. E naturalmente ci sei tu, fratello» concluse, fissando Sunny. «Mischiato agli umanoidi che ami tanto. Ansioso di vedermi morire. Beh, non state lì... scendete pure, qui c’è spazio per tutti. E presentatemi i vostri nuovi alleati» aggiunse, accennando a Talat.

   «Sono Talat, rappresentante del Popolo» disse l’interessata, facendosi avanti. «Tu ci conosci come Progenitori. Siamo antenati degli umanoidi e quindi in un certo senso anche tuoi».

   «Riconosco le vostre navi; siete stati voi a difendere Kelva!» reagì Shado. «Vi siete svegliati dopo tutto questo tempo... in cui nessuno sentiva la vostra mancanza... solo per schierarvi contro di me. Pessima scelta!».

   «Mi spiace che siamo giunti a questo» disse Talat. «La Scourge fu creata dai Distruttori in un momento di follia. Volevano annientarci... ma oggi sono di nuovo al nostro fianco. La contesa è finita, quindi anche la missione della Scourge non ha più ragion d’essere. Il tuo odio contro di noi è immotivato».

   «Credi di parlare con la stupida Melma Grigia?!» rise Shado. «Io non seguo alcuna direttiva, all’infuori del mio arbitrio. Un dono di cui vi ringrazio; ma non per questo vi risparmierò. Nel mio Universo non c’è posto per le vostre imperfezioni».

   «Ma sono proprio le imperfezioni... le cose inaspettate... che lo rendono interessante» tentò ancora Talat. «Abbiamo creato le altre specie perché ci sentivamo soli. Immagina quanto ti sentirai solo tu, se riuscissi a prevalere».

   «Ancora non l’hai capito?» fece Shado, sprezzante. «Io non sono apparso dal nulla. Sono scaturito dagli schemi mentali degli umanoidi che hai attorno. Se voglio eliminarli, significa che questo è il loro desiderio inespresso: non avere limiti al proprio ego».

   «Dimentichi che anch’io sono nato dai loro pensieri» intervenne Sunny. «A me piace la loro compagnia; come lo spieghi?».

   «Tu sei la debolezza che imprigiona gli umanoidi» ringhiò Shado. «Ma ora che siete alla mia porta, in assetto di guerra, non mi sfuggirete. Il vostro tempo è finito. E voi Precursori vi unirete agli altri nell’estinzione».

   «Le navi di Shado ci vengono contro» avvertì Terry; ma in quella l’Uroboro aprì il fuoco. Un purissimo raggio bianco scaturì dalla nave-anello, rastremandosi man mano che si allontanava, fino a colpire il mondo oscuro. Nello stesso momento, tutt’intorno alla galassia, un miliardo di navi accuratamente posizionate generava il campo d’instabilità subspaziale.

   «No, all’Inferno ci vai tu» disse Chase, fissando Shado. L’umanoide ruggì di scorno, ma il suo grido fu troncato sul nascere. La trasmissione s’interruppe e sullo schermo apparve lo spazio punteggiato di stelle. Non c’era più traccia del pianeta, né nell’anello melmoso, né delle navi di Shado. Ogni singolo nanite, in tutta Andromeda, era stato trasferito... altrove.

 

   Sull’Uroboro, Mollom e Gorog seguivano attentamente gli eventi, circondati da ufficiali e scienziati intenti a manovrare i complessi comandi della nave-anello. C’era anche Rekker, che passava da una consolle all’altra, accertandosi che fosse tutto in ordine. Il Primarca parlava pochissimo e se qualcuno gli faceva domande rispondeva a monosillabi. Man mano che l’enorme generatore ad anello si caricava, la plancia prese a vibrare. Si levò un ronzio, così basso da essere appena percettibile. Le spie si accesero, gli indicatori energetici puntarono al massimo.

   Nell’attimo in cui il pianeta oscuro svanì, Gorog lanciò un grido lacerante, rovesciando la testa all’indietro. Barcollò e sarebbe di certo caduto, se un collaboratore non l’avesse prontamente sostenuto. Molti dei tecnici accusarono lo stesso malessere, sconcertando gli altri.

   «Ma che succede?!» si stupì Mollom. «State bene, amico mio?» chiese, avvicinandosi a Gorog.

   «Non proprio» gemette il Secondo Delegato, pallidissimo. «Che ne è di Shado?» chiese, barcollando verso Rekker.

   «Il trasferimento ha avuto luogo come pianificato» confermò il Primarca. «Ma sull’Enterprise mi sono imbattuto in un’altra opzione. La migliore, se agiamo prontamente».

   «Venga sulla mia nave» disse Gorog, affiancandosi a lui. Si passarono la mano sul polso, attivando la tecnologia integrata nel loro organismo.

   «Che significa? Fermi... voi mi dovete delle spiegazioni!» insorse Mollom.

   «Non c’è tempo» tagliò corto Gorog. «Procedete col piano. È più importante che mai sigillare il tunnel spaziale».

   «Abbia fiducia in noi... stiamo cercando di salvare il Popolo» aggiunse Rekker. I due si teletrasportarono via senza ulteriori spiegazioni.

   «Sono andati sulla loro ammiraglia» confermò un addetto ai sensori.

   Gli sguardi si appuntarono su Mollom, che si morse il labbro, cercando di dare un senso all’accaduto. «Mi rivolgo a tutti coloro che hanno accusato il malessere: avete idea di cosa l’abbia provocato?» chiese severamente, passando lo sguardo sulla moltitudine di tecnici e ufficiali che lo attorniavano. La metà di loro aveva gridato; ma nessuno rispose.

   «Signore... gli interessati sono tutti Distruttori» notò un ufficiale, in tono lugubre. Non poteva essere una coincidenza.

   «Allora... ordino che i Distruttori siano allontanati immediatamente dalla plancia» ordinò Mollom, a malincuore. «Rimpiazzateli coi nostri».

   «E il tunnel spaziale?» chiese un tecnico.

   Mollom esitò. Quando Gorog gli aveva chiesto di chiuderlo, sembrava genuinamente spaventato. Anche se i Distruttori tramavano qualcosa, Mollom decise che si sarebbe sentito più al sicuro, troncando il collegamento fra i due universi. «Dite all’Enterprise di sigillarlo» ordinò. «E avviate la sequenza di ricarica dell’Uroboro. Informate il resto dello Sciame di restare in posizione attorno alla galassia. Se ci è sfuggito qualcosa, forse ci servirà un altro colpo».

 

   Sull’Enterprise gli ufficiali non trattennero l’esultanza, vedendo che il pianeta oscuro era svanito. Sbarazzarsene era stato facile, come con la Melma Grigia.

   «Non rilevo alcun segno di Scourge» confermò Terry. «È fatta... Shado non c’è più». Si rivolse subito a Sunny, con una traccia di preoccupazione: «Tu come stai?».

   «Bene, direi» rispose Sunny, tastandosi il petto. «Quale che fosse il mio legame con Shado, non credo che la sua morte abbia avuto effetti su di me. Anche se mi spiace che non sia stato possibile salvarlo».

   «Terry, rileva tracce del tunnel spaziale?» domandò Chase, che non voleva tirare il fiato prima di aver sistemato gli ultimi dettagli.

   «Affermativo». L’IA inquadrò l’imboccatura violacea sullo schermo. Violacea?

   «Sembra diverso dagli altri» mormorò Chase, sentendo una stretta allo stomaco. «Rileva qualche differenza?».

   «Ci sono forti emissioni energetiche in uscita dal tunnel» rispose Terry. «Sto cercando di venirne a capo, ma...». Aggrottò la fronte, nello sforzo d’interpretare i dati. A pochi passi da lei, Suspiria emise un lamento e si portò le mani alle tempie.

   «Che succede?» si preoccupò il Capitano.

   La Nacene deglutì. «Non saprei... è la prima volta che mi sento così. Provo un senso d’oppressione, di panico... di dolore. Ma non viene da me. È come se venisse dallo spazio stesso, da tutte le direzioni. Temo sia accaduto l’irreparabile» disse, fissando il tunnel spaziale con occhi stralunati.

   «Signore, dall’Uroboro ci chiedono di sigillare il wormhole» informò Grog.

   «No, dobbiamo approfondire» disse Chase, sentendo crescere l’agitazione.

   «Insistono... il Delegato Mollom ci ordina di chiuderlo subito, o lo considererà un atto di tradimento» avvertì il Ferengi.

   «Fate come dice» esortò Talat. «Poi ci sarà tempo per analizzare i dati».

   «Terry?» chiese ancora il Capitano.

   «È energia subspaziale e sporocistica» rispose l’IA con un tremito. «Ovunque porti quel tunnel, non credo sia nella Dimensione Morta».

   Gli ufficiali fissarono Suspiria, che si avvicinò allo schermo, osservando l’ingresso violaceo del tunnel. Quando le fu accanto, T’Vala alzò gli occhi su di lei. Il volto della Nacene era una maschera di terrore. «Devo andare» mormorò, e svanì in un bagliore giallo.

   «Plancia a sala macchine, chiudete il tunnel» ordinò Chase. «Ma tenetevi in allerta... non è ancora finita» avvertì.

   Ancora una volta il deflettore dell’Enterprise si attivò, emettendo un raggio tachionico verde-azzurro che colpì il tunnel spaziale. L’imbuto brillò ancora di più, mentre si destabilizzava, emettendo una cascata di particelle esotiche. Prese a contrarsi e infine si chiuse, con una violentissima emissione energetica, che scosse l’Enterprise e le altre navi. Stavolta non ci fu sollievo: gli ufficiali fissarono cupamente lo schermo, quasi aspettandosi che il tunnel si riaprisse.

   «Ha detto che era energia subspaziale e sporocistica?» chiese il Capitano, squadrando cupamente Terry.

   «L’ho detto» confermò l’IA.

   «La stessa energia sfruttata dai Nacene» disse T’Vala. «La stessa che ho rilevato a Exosia». La timoniera si girò verso il Capitano con tutta la poltroncina. «Suspiria ci aveva avvertiti. Se la Scourge contagia la Rete Miceliare, l’intero Multiverso è a rischio».

   «Assurdo... la mia gente non avrebbe mai spedito Shado in quella dimensione!» insorse Talat, scandalizzata.

   «Non i Preservatori» disse Chase, tagliente. «Ma l’Uroboro è un progetto dei Distruttori».

   «Non può essere» mormorò Talat, accostandosi allo schermo come se potesse darle le risposte. «Nemmeno loro lo farebbero» disse con voce incrinata.

   «Può darsi che mio fratello non gli abbia dato scelta» disse Sunny. Scambiò un’occhiata con Terry, mentre un piano disperato prendeva forma nella sua mente.

 

   Nella Rete Miceliare era difficile valutare lo scorrere del tempo. Non c’erano orologi, né i cicli a cui i Solidi erano abituati: niente albe e tramonti, niente estati e inverni. Eppure il tempo passava. Le spore mettevano radici e producevano nuovi funghi, mentre quelli vecchi marcivano. I tardigradi si comportavano come ogni altra fauna. Una varietà di creature – alcune molto potenti – sbrigava le proprie faccende nell’eterno crepuscolo viola-azzurro. Suspiria era nata lì. E tutte le volte che ci era tornata aveva trovato il micelio come lo ricordava. Quello era il suo porto sicuro, quando tutto il resto andava male. Ma stavolta Exosia non le diede alcun conforto.

   La prima cosa che Suspiria notò fu l’oscurità. Il bagliore dei funghi era calato, come se al crepuscolo fosse subentrata la notte. Non c’erano tardigradi né altre creature in vista. Persino l’energia del micelio – che Suspiria percepiva come una perenne melodia – si era affievolita fin quasi a svanire. Per la prima volta nella sua esistenza plurimillenaria, la Nacene non riconosceva Exosia. Si aggirò smarrita fra gli steli, passandovi sopra le mani, nel tentativo d’identificare il problema. Sentì l’energia sporocistica che li abbandonava, come se qualcosa stesse prosciugando la Rete. Allora fu assalita dal terrore. D’un tratto si sentì sola e vulnerabile; la foresta buia le metteva paura. Non era più un’oasi di pace... era un luogo profanato e pericoloso.

   Suspiria si concentrò, estendendo al massimo le proprie percezioni: c’erano altre menti attorno a lei. Alcune erano Nacene. Altre appartenevano a esseri più potenti, come i Q e i Douwd. Ma tutte, senza esclusione, erano terrorizzate e stavano scappando. Suspiria si prese la testa fra le mani, angosciata. Mai avrebbe pensato di percepire un Q spaventato. Eppure uno di quel popolo stava fuggendo a rotta di collo nella sua direzione. La Nacene alzò la testa, in tempo per vedere un’intensa luce bianca che la sorvolava alla velocità di una navetta. Cercò di contattarla, ma era già lontana e non badava al suo richiamo.

   «Suspiria!» rantolò qualcuno alle sue spalle. La Nacene si era così concentrata sul Q da non accorgersi che altri si stavano avvicinando. Si girò di scatto e vide un suo simile. Era una massa informe e tremula, la cui luce interna si andava rapidamente spegnendo.

   «Ninsar!» gemette Suspiria, riconoscendo uno dei suoi sodali. «Dimmi che mi sbaglio, che lui non è qui».

   «Abbiamo sbagliato... a fidarci dei Proto-Umanoidi» sussurrò il Nacene, mentre una chiazza nera si espandeva dentro di lui. «Ci hanno traditi... hanno contagiato il micelio. Ora tutto è perduto. Ti direi di scappare, ma... non c’è un posto dove andare. Abbiamo... perso...». La macchia nera crebbe sino a fagocitarlo del tutto. Ora davanti a Suspiria c’era un ammasso catramoso, che sussultò e prese una nuova forma. La più odiosa.

   «Mi avete temuto. Mi avete combattuto. Eravate così disperatamente certi di essere nel giusto che i Progenitori vi sono sembrati angeli di giustizia, il segno che l’Universo rifiutava di sottomettersi a me. Non avete mai immaginato che fossero miei strumenti. Perché accontentarsi di un Universo, quando posso averli tutti?». Shado torreggiava sopra Suspiria, trionfante. Attorno a lui il micelio avvizziva e moriva.

   «Non hai idea...» sussurrò la Nacene. «Questa non è una semplice foresta. È la pietra angolare di tutte le realtà. Se la distruggi, non resterà nulla».

   «Distruggerla? Io diventerò Exosia» ribatté Shado, e Suspiria vide che non mentiva. La sua Melma Nera contagiava i funghi, ridandogli in qualche modo vita; ma ora erano parte di lui. Un nuovo ritmo pulsava attraverso il micelio corrotto: non la melodia celestiale di prima, ma poche note sgraziate che si ripetevano sempre uguali. L’entità di quella profanazione era inconcepibile. Shado non stava conquistando il Multiverso: si stava sostituendo a esso.

   «Se ti può consolare, ci sarei arrivato comunque» ghignò Shado. «I vostri infantili sforzi di distruggermi hanno solo affrettato la mia vittoria. Ma dall’istante in cui nacqui, questa sorte fu decretata per il Multiverso: che ogni cosa divenisse me!». Tentacoli di Melma Nera schizzarono contro Suspiria, per contagiarla come avevano fatto con l’altro Nacene. Ma Suspiria ebbe la prontezza di lasciare Exosia: svanì in un lampo giallo e i tentacoli colpirono a vuoto.

   «Perché fuggire... non c’è posto in cui nascondersi» borbottò Shado. Attorno a lui, tutta la Melma Nera risucchiata da Andromeda – migliaia di masse terrestri – era sparpagliata nel micelio e cresceva esponenzialmente, riempiendo gli interstizi. Gli abitanti di Exosia fuggivano come animali davanti a un incendio, ma stavano solo ritardando l’inevitabile.

 

   «È come temevo» disse Suspiria, riapparendo sulla plancia dell’Enterprise. «Shado sta divorando Exosia. Aumenta di potere a ogni istante e non c’è modo di fermarlo. Tutto per causa vostra!» sibilò, levando il braccio contro Talat. L’ex Delegata si portò le mani alla gola, palpandosela disperatamente, in cerca d’aria. Ansimava e sputacchiava, ma una forza invisibile le comprimeva la trachea, togliendole il respiro. Rivolse uno sguardo implorante al Capitano.

   «Basta così» disse Chase, accostandosi a Suspiria. «Lasciala subito!».

   «Ci hanno traditi!» ringhiò la Nacene. «Sono stati loro a scegliere la destinazione di Shado. Si sono accordati con lui!». Alzò la mano, sollevando Talat in aria, fino a sbatterla contro il soffitto a cupola. Talat rantolò, mentre il sangue le colava dal naso, macchiando il pavimento.

   «Fermati, ho detto!» gridò Chase. Visto che Suspiria lo ignorava, fece un cenno a Lantora.

   Lo Xindi estrasse un’arma da uno scomparto segreto nella sua postazione. Era poco più grande di un phaser manuale e aveva una foggia diversa dalle tipiche armi della flotta. Lantora lo impugnò svelto e aprì il fuoco contro la Nacene, centrandola con un raggio viola.

   Suspiria gridò e si accasciò al suolo, mentre la sua presa telecinetica su Talat veniva meno. La Progenitrice cadde da un’altezza considerevole, ma Sunny scattò in avanti e la prese fra le braccia, evitando che si facesse male. «Mi spiace per tutto questo» disse l’umanoide dorato, posandola delicatamente a terra. «Dovevo immaginarlo che Shado avesse un piano».

   «N-no, spettava a me capire le intenzioni dei Distruttori» balbettò Talat. «Tutti questi anni al loro fianco... ciechi, siamo stati ciechi...» singhiozzò.

   «Che mi avete fatto?!» gridò Suspiria, cercando inutilmente di rialzarsi.

   «Ti ho colpita con una tossina sporocistica» spiegò Lantora, accostandosi con cautela, sempre tenendola sotto tiro. «Un vecchio progetto della Voyager che Neelah ha migliorato. Quella era una scarica lieve, ma posso aumentare il dosaggio, se non ti dai una calmata».

   «È inutile... Shado ha contagiato Exosia, non c’è scampo per nessuno...» si lamentò la Nacene, contorcendosi come un’epilettica.

   «Dicesti che Exosia è... viva, a modo suo» ricordò Chase. «Se Shado è come un virus, non c’è modo di curarla?». Visto che Suspiria non rispondeva, si rivolse a Terry. «Mi serve un consulto medico; porta qui Neelah».

   Il teletrasporto azzurro dell’Enterprise portò immediatamente l’Aenar in plancia. «So tutto, ho seguito la situazione dall’infermeria» disse la dottoressa. «Non credo sia possibile curare Exosia, la conosciamo ancora troppo poco. E ci manca il tempo. Ma c’è chi la padroneggia meglio». Si accostò a Suspiria. «Una volta mi dicesti che i Q sono legati a Exosia. Non potrebbero essere loro, il suo sistema immunitario? Dopotutto, se non intervengono ora, quando dovrebbero farlo?».

   «Voi non capite...» gemette Suspiria, rovesciandosi sul dorso. «Contagiando la Rete Miceliare, Shado è divenuto tanto superiore ai Q quanto essi lo sono rispetto a voi. Quando se ne sarà impadronito del tutto, avrà potere illimitato sul Multiverso».

   «Non se io lo tengo impegnato» disse Sunny con decisione. «Contattate l’Uroboro, ditegli di colpire una delle mie navi. Così raggiungerò mio fratello e lo tratterrò».

   «Per quanto?!» chiese Terry, presagendo il peggio.

   «Finché avrò forza. E nel frattempo voi potrete cercare un rimedio» spiegò Sunny, rivolgendosi a tutti i presenti. Aiutò Suspiria a rialzarsi. «Contatta i tuoi simili e gli altri abitanti di Exosia. Cercate un modo per salvare la Rete... non importa a quale prezzo».

   Mentre l’umanoide dorato parlava, Grog aprì un canale con l’Uroboro, riferendo il piano.

   «Forse c’è un modo» disse lentamente Neelah, con lo sguardo distante per l’intensa concentrazione. «Se Shado è un contagio, per cui non esiste cura, non resta che... amputare la parte malata».

   «Che intendi?» rabbrividì Suspiria. «Exosia non può essere smembrata!».

   «Ma tu hai detto che è come una foresta» disse Chase, aiutandola a rialzarsi. «Prima delle tecnologie moderne, l’unico modo per fermare gli incendi nelle praterie era fargli terra bruciata intorno, con piccoli roghi controllati, così che le fiamme non trovassero più nulla da consumare. Non si può fare terra bruciata intorno a Shado?».

   «Uhm... se estirpassimo il micelio in un vasto settore di Exosia, questo potrebbe collassare, salvando il resto» ipotizzò Suspiria. «Ma non credo sia mai stato fatto. Non so nemmeno se sia possibile». Quando il Capitano la lasciò barcollò un poco, ancora debole per la tossina.

   «Potreste chiederlo ai Q» suggerì Ilia.

   «Io... glielo chiederò, se riesco a contattarne uno» mormorò Suspiria, incerta. Abbandonò le sembianze umane, tornando al suo aspetto gelatinoso e coperto di peduncoli. La sua luce interna pulsò, mentre raccoglieva le energie. Con un grosso sforzo riuscì a tornare a Exosia, pur sapendo il pericolo che l’attendeva là.

   «L’Uroboro ha risposto affermativamente» avvisò Grog. «Sta caricando un altro colpo».

   Visto che Terry non lo faceva, Ilia digitò alcune istruzioni sulla sua consolle. Inquadrò la nave-anello, da cui l’energia bianca tornava a irradiarsi, e visualizzò i dati sulle emissioni energetiche. Mancava poco all’impulso.

   «Sono pronto» disse l’umanoide dorato.

   «No, un momento... se raggiungi Shado, come farai a salvarti?!» protestò Terry, angosciata. «Lo Sciame circonda ancora tutta la galassia. Significa che la tua intera massa sarà trasferita a Exosia. Se qualcosa la distrugge, tu morirai!».

   «Se non fermiamo Shado, sarà il Multiverso a morire» obiettò Sunny.

   Terry avvertì che i livelli energetici dell’Uroboro salivano rapidamente. «Capitano, ci dia un attimo» implorò, prendendo Sunny da parte. Chase annuì e la coppia andò in sala tattica, per avere un po’ di privacy. Appena la porta si fu richiusa dietro di loro, Terry gettò le braccia al collo di Sunny. «Promettimi che tornerai» disse con voce incrinata.

   «Vorrei farlo, amore mio» rispose Sunny, rattristato. «Ma fermare Shado potrebbe richiedere un sacrificio. Mi hanno creato per questo e io non voglio sottrarmi».

   «Perché deve toccare a te?!» insisté Terry.

   «Lo sai bene. Ho gli stessi poteri di Shado, quindi sono l’unico che possa trattenerlo» disse Sunny. «È la mia vocazione, il mio destino».

   «N-non è giusto!» singhiozzò Terry, con le lacrime agli occhi. «Abbiamo avuto così poco tempo!».

   «Non rimpiangere il tempo che ci è negato. Ricorda piuttosto quello che ci è stato concesso» disse Sunny, asciugandole le lacrime. «Se davvero siamo parte l’uno dell’altra, allora io sarò sempre con te». Terry stava per protestare ancora, ma Sunny la baciò, stringendola a sé. Il suo cammino, prima confuso e incerto, ora si snodava davanti a lui con chiarezza.

 

   Sulla plancia dell’Uroboro regnava la tensione. I Distruttori erano stati portati via e altri ufficiali, scelti fra i Preservatori, li avevano rimpiazzati. Ma la notizia che Shado aveva infettato Exosia stava gettando la flotta nel caos. Una simile catastrofe non poteva essere accidentale.

   «Trenta secondi al fuoco» riferì l’artigliere. «Bersaglio agganciato». Lo schermo olografico mostrò una delle navi di Sunny, la più grossa, che faceva da bersaglio. D’un tratto l’Uroboro si scosse e gli allarmi suonarono. Per non cadere, Mollom dovette reggersi alla ringhiera che divideva la sua zona dal resto della plancia.

   «I Distruttori ci attaccano!» avvertì l’Ufficiale Tattico, madido di sudore. «Non possiamo sfuggirgli, le loro navi sono mischiate alle nostre!».

   «Manovre evasive» ordinò il Capitano.

   «No!» lo fermò Mollom, con un gesto imperioso. «Manteniamo la posizione. Dobbiamo colpire la nave di Sunny per mandarlo a Exosia. È l’unico modo per fermare Shado, o almeno per tenerlo impegnato».

   «Venti secondi al fuoco» riferì l’artigliere.

   «Eccellenza, gli scudi non reggeranno a lungo» avvertì l’Ufficiale Tattico.

   «Aprire un canale con la nostra flotta» ordinò Mollom, reggendosi alla ringhiera mentre la plancia si scuoteva ancora più forte. Nello spazio, le navi dei Distruttori convergevano come cavallette sulla nave-anello, sparando a tutto spiano. Gli scudi dell’Uroboro erano potenti, ma non potevano sopportare a lungo un simile attacco. Le navi dei Preservatori e quelle di Sunny manovrarono per proteggere la nave-anello, aprendo il fuoco contro i Distruttori. La battaglia s’incendiò.

   «Qui è il Primo Delegato, che si rivolge alla flotta» disse Mollom. «I Distruttori hanno consumato il più infame dei tradimenti, inviando il nemico nella Rete Miceliare. Ordino a tutti i Preservatori di combatterli».

   «Dieci secondi» avvertì l’artigliere. Paratie e consolle iniziarono a deformarsi, ma l’evoluta tecnologia dei Progenitori evitò che vi fossero esplosioni. I materiali intelligenti cercavano di auto-ripararsi, garantendo il funzionamento della nave-anello.

   «Ordino inoltre di proteggere l’Enterprise, finché avrà sigillato l’ultimo tunnel spaziale... e anche dopo» disse Mollom, intuendo che quella nave poteva svolgere ancora un ruolo determinante.

   «Gli scudi stanno cedendo» avvertì l’Ufficiale Tattico. La nave-anello era al centro di una lotta furiosa: i Distruttori la colpivano selvaggiamente, mentre subivano il fuoco dei Preservatori e di Sunny. Raggiunto il livello critico, l’Uroboro rilasciò ancora una volta il suo impulso gravitonico. Il cono d’energia raggiunse la nave di Sunny, trasferendola a Exosia; al suo posto si aprì un nuovo tunnel spaziale. Nello stesso attimo tutte le astronavi dorate svanirono, lasciando i Preservatori alle prese coi Distruttori. Sull’Enterprise, Sunny si dissolse tra le braccia di Terry, che barcollò in avanti singhiozzando. Ma nello spazio le navi dei Distruttori si accanirono ancor più ferocemente sull’Uroboro, ormai privo di scudi. L’enorme anello, ampio dieci chilometri, scricchiolò mentre le esplosioni ne squassavano la superficie.

   «Dopo tutto questo tempo...» sussurrò Mollom, chinando il capo tristemente. Ancora una volta i Distruttori si erano rivelati impossibili da redimere. Ancora una volta la loro brama di vendetta metteva a repentaglio il cosmo. «Possano i nostri figli perdonarci» disse il Primo Delegato, mentre le esplosioni invadevano la plancia e i suoi ufficiali gridavano nell’abbraccio della morte. La nave-anello si spezzò in due, liberando una violenta onda d’urto gravitonica. Gli spezzoni dell’anello si allontanarono, ruotando sui loro assi, con le estremità in fiamme. Altre esplosioni ne crivellarono la superficie, mentre plasma rovente e radiazioni inondavano i ponti, facendo strage dell’equipaggio. Preservatori e Distruttori continuarono a combattersi, mentre il simbolo della loro alleanza si frantumava in mezzo a loro.

 

   Sunny sapeva che quel momento sarebbe arrivato. Dalla loro prima lotta nel Cervello Matrioska, Shado era stato una presenza costante nella sua mente. Anche nei momenti più lieti, il pensiero che suo fratello era all’opera non gli dava pace. Ogni giorno non era che un conto alla rovescia per il confronto finale. Così, quando Terry gli svanì tra le braccia, Sunny provò sì un acuto rimpianto, ma anche uno strano sollievo, sapendo che l’attesa era finita.

   Dapprima gli parve di cadere. Era una sensazione nuova e indescrivibile: il passaggio a un’altra realtà. Poco alla volta l’impressione di movimento si attenuò, finché gli parve d’essersi fermato. Passato il disorientamento, i sensi gli tornarono. La Rete Miceliare si stendeva tutt’attorno a lui, con gli steli che oscillavano nella brezza calda, pulsando di luci mutevoli. Sunny ammirò la bellezza del paesaggio, sentendosi come un bambino che apre per la prima volta gli occhi sul mondo. Ricordò un antico mito terrestre, il Mito della Caverna: gli umani sono come schiavi incatenati, costretti a osservare le ombre proiettate sul fondo di una caverna, miseri surrogati del mondo reale alle loro spalle. Osservando Exosia, Sunny si chiese se era quello, il vero mondo fuori dalla caverna. Ma l’incanto fu di breve durata: il micelio avvizzì intorno a lui, trasformandosi in scure pozzanghere marcescenti.

   «Come osi seguirmi?!» ringhiò Shado, levandosi da una pozza nera. «Sono stato generoso con te, ti ho lasciato Andromeda mentre mi ritiravo in questo santuario. Avevi tutto ciò che desideravi, persino la tua donna e i vostri ridicoli amici dell’Enterprise. Ma non ti è bastato! Ora vuoi contendermi questo dominio. Beh, fratello, dal momento che l’ho raggiunto per primo, esso mi appartiene. Tu non sei il benvenuto».

   «Questo luogo appartiene a coloro che ci vivono da sempre» obiettò Sunny. «Non lo farai indebitamente tuo. Ciò che per sua natura è infinito non può essere dominato».

   «Perché no? Io sono l’unico che può farlo» ribatté Shado.

   «Tu puoi solo corrompere e distruggere» corresse Sunny. «Ma non darai una nuova forma alla realtà. Perché tu non sei un dio».

   «No, infatti; lo ero prima» sogghignò Shado. «Ora sono molto di più». Con un grido d’odio che divenne un boato lacerante, si trasformò in un vortice d’oscurità e si proiettò contro il fratello.

   Sunny radunò le proprie forze, pensando a Terry e a tutte le moltitudini che contavano su di lui. Assunse la stessa forma di Shado e turbinò verso di lui. Il vortice nero e quello dorato vennero in urto, come due tornado, mischiando le loro sostanze nel tentativo di distruggersi. Un’esplosione d’energia spazzò i resti del micelio intorno a loro. La stessa scena si ripeté migliaia di volte, ovunque la Melma Nera e quella Dorata venissero a contatto. In alcuni casi erano interi oceani che si scontravano, devastando il micelio per migliaia di chilometri e travolgendone gli abitanti. Le violentissime energie liberate cercarono sfogo, sotto forma di distorsioni che colpirono i vari universi.

   Serrato in quella lotta mortale, Sunny poteva avvertire le emozioni di Shado. La sua collera era smisurata come il vuoto intergalattico, incandescente come una supernova, vorace come un buco nero. E si accompagnava a una volontà schiacciante, di una potenza quale mai l’Universo aveva conosciuto. Con il potere di Exosia, Shado poteva spaccare gli atomi, disintegrare stelle e pianeti, lacerare la trama dello spazio-tempo, trasformando ogni realtà in un pandemonio dove nessun’altra vita, nessun’altra volontà oltre alla sua avrebbe mai potuto levarsi. Ecco che avrebbe fatto suo fratello... se lui non lo teneva impegnato in una lotta che poteva durare all’infinito. Perché Shado non si sarebbe mai stancato, non avrebbe mai cambiato idea, né accettato compromessi: di questo Sunny era certo.

   «Arrenditi, fratello... lo sai che non puoi vincere» disse Shado, trasmettendogli il suo pensiero.

   «È vero» ammise Sunny. «Ma nemmeno tu. E finché ti tengo impegnato, non puoi realizzare i tuoi progetti».

   «È questo che vuoi?» chiese Shado. «Io e te, lontani da tutto ciò che ami, costretti a una lotta senza fine?».

   «Ci sono cose peggiori che passare l’eternità a combatterti» rispose Sunny.

   «Ad esempio?».

   «Essere te».

 

   Vedendo l’Uroboro che andava in pezzi, Talat cadde in ginocchio. «Mollom...» sussurrò, senza più nemmeno la forza di alzare gli occhi allo schermo.

   «Non ci sono superstiti» riferì Ilia, che si era recata alla postazione di Terry per usare i sensori. In quella l’Enterprise sussultò.

   «I Distruttori attaccano anche noi» avvertì Lantora. «Devo rispondere al fuoco, se vogliamo sopravvivere».

   «Lo faccia» lo autorizzò Chase. «T’Vala, manovre evasive». Mentre l’Enterprise si univa alla battaglia, il Capitano si accostò a Talat. «Le mie condoglianze, Delegata. Ma con la morte di Mollom e il tradimento di Gorog, lei è la leader dei Preservatori».

   «I-io?» sussurrò Talat, guardandolo spaurita. «Io sono sotto processo!».

   «Crede abbia ancora importanza, con quello che sta succedendo?!» ribatté Chase. «La flotta dei Preservatori è allo sbando. Il grosso delle vostre forze, intorno alla galassia, è senza ordini. Se non vuole che il suo popolo si frammenti ancor più, assuma il comando! Li esorti a respingere i Distruttori e a compattarsi, prima che i capitani si spaventino e fuggano in ordine sparso».

   «C-ci proverò» disse Talat, rialzandosi. «Ma voi dovete chiudere l’ultimo tunnel spaziale» aggiunse, indicando il vortice violetto.

   «No!» disse Terry, appena rientrata in plancia. «Quel tunnel è l’unica cosa che permetterà a Sunny di tornare».

   «Se torna Sunny, torna anche Shado!» obiettò Talat. «Saremo al punto di partenza».

   «Non sappiamo neanche se la strategia della “terra bruciata” funzionerà» rimbeccò Terry. «Se non fosse praticabile, dobbiamo tenerci in contatto con Sunny per pensare a qualcos’altro».

   Era una scusa debole, ma l’IA se ne sarebbe inventate di peggiori, pur di non recidere l’ultimo ponte fra lei e Sunny. Chase stava per richiamarla all’ordine, ma si trattenne. Scambiò un’occhiata con Ilia, mentre lo stesso pensiero balenava nella mente di entrambi: se Terry si fosse ammutinata, non avrebbero potuto fermarla.

 

   Suspiria sgusciava nella foresta miceliare, con tutta l’agilità della sua forma gelatinosa. Le sue percezioni erano estese al massimo, nel tentativo di captare una delle entità superiori che vivevano a Exosia o vi transitavano. Finalmente percepì quello che cercava: un Q. «Fermati, ti prego!» implorò telepaticamente, sapendo di non essere abbastanza veloce da seguirlo.

   «Non posso fermarmi» disse l’entità, avvicinandosi sotto forma d’intensa luce bianca. «Exosia è stata infettata. Serve tutto il potere del Continuum per rimediare».

   «Allora portami con te» chiese Suspiria. «Questa è anche casa mia, devo contribuire alla sua difesa».

   «E va bene... ti concederò temporaneamente alcuni poteri, così potrai renderti utile» disse il Q, sfiorandola con la propria luce. «Non spaventarti se anche le tue percezioni cambieranno: stai entrando nel Continuum».

   Suspiria rabbrividì, sentendo scorrere in sé una nuova forza. La foresta miceliare si dissolse, rimpiazzata da quella che sembrava una prateria. Era notte e un colossale incendio divampava davanti a lei, consumando l’erba alta. Le fiamme salivano a un’altezza prodigiosa, rilasciando scintille scarlatte e arroventando l’aria per un vasto tratto. Animali e persone fuggivano dall’incendio, il cui fronte si estendeva a perdita d’occhio. Ma dei coloni accorrevano, lanciandosi ordini concitati: dovevano essere i Q. I loro volti tesi e sudati, illuminati dalle fiamme, spiccavano come macchie arancioni nella notte. Alcuni di loro lanciavano secchi d’acqua contro l’incendio, con scarsissimo effetto: le fiamme erano troppo estese.

   «Vieni!» disse il Q, correndo verso i suoi simili. Ora aveva l’aspetto di un giovanotto dai capelli scuri, vestito con abiti coloniali. Suspiria prese a sua volta un aspetto umano, coerente con quel contesto, e gli trottò dietro. Passato il disorientamento, la Nacene capì di essere sempre a Exosia. La Rete non era cambiata, ma ora la percepiva in modo diverso. Un modo che, forse, le dava più capacità d’intervento.

   «No, no, è tutto sbagliato!» gridò un Q più maturo, biasimando gli sforzi dei suoi simili. «Così non combineremo niente!». Aveva anche lui i capelli scuri ed era vestito come un agricoltore d’altri tempi, con un cappello a larga tesa.

   «Ehi, papà... che ne dici se chiamiamo rinforzi?» chiese il giovanotto, accostandosi a lui. «Posso reclutarne molti come lei, perché ci diano una mano» spiegò, accennando a Suspiria.

   «Che fai qui, Junior? Ti avevo detto di stare lontano... se tua madre ti vede, va su tutte le furie!» si preoccupò Q, gridando per sovrastare il ruggito delle fiamme.

   «Potenti Q, ascoltatemi!» implorò Suspiria, tremando come una foglia al cospetto di quelle formidabili entità. «Sono Suspiria, del popolo Nacene. Conosco Shado e vi assicuro che il Multiverso non è mai stato così a rischio. Per salvarlo, dobbiamo osare qualcosa che non è mai stato fatto. Dobbiamo recidere la parte malata, prima che il contagio prenda il sopravvento. Facciamo terra bruciata intorno all’incendio e lasciamo che le fiamme esauriscano il combustibile!».

   I Q si scambiarono delle occhiate incerte. Alcuni fecero spallucce, come a dire che valeva la pena provare.

   «Sentito, ragazzi? È esattamente quel che vi stavo dicendo!» esclamò il Q col cappellone. «Su, sbrighiamoci!» esortò, battendo le mani. «E tu, Junior, chiama a raccolta più gente che puoi».

   «Okay!» fece il giovane, allontanandosi di corsa.

   I Q vestiti da coloni estrassero gli acciarini e iniziarono ad appiccare dei piccoli roghi, preparando coperte e secchi d’acqua per impedire che divampassero troppo. Era un’impresa disperata, perché l’incendio era immenso. Almeno non si espandeva più, da quando Sunny aveva dato battaglia a Shado.

   «Grazie per avermi ascoltata» disse Suspiria, avvicinandosi a Q per aiutarlo nel lavoro. «Spero solo che il piano funzioni».

   «Funzionerà» disse Q, soffiando sulla fiammella appena accesa per ravvivarla. «Domeremo quest’incendio, fosse l’ultima cosa che facciamo». Rimpianse i tempi in cui faceva da giudice alle specie umanoidi, per metterle alla prova. Adesso era una creazione degli umanoidi che stava mettendo alla prova tutti loro, e per sopravvivere non c’era margine d’errore.

 

   Ora che l’antico conflitto era riesploso, Preservatori e Distruttori si combattevano con una furia atavica. Le due flotte, forti della stessa tecnologia, davano fondo a tutto il proprio arsenale. Le astronavi sfrecciavano rapidissime, crivellandosi di colpi. Talvolta si radunavano in formazione, per accrescere la potenza di fuoco; talvolta si dividevano per sfuggire agli inseguitori. Era da un milione di anni che l’universo non vedeva una battaglia come quella: un nuovo capitolo nella Guerra Civile del Popolo.

   Sull’ammiraglia dei Distruttori, Gorog e Rekker discutevano animatamente in un angolo della plancia, mentre il Generale Wuluw si occupava dello scontro. L’astronave si scuoteva per i numerosi colpi, ma gli scudi reggevano.

   «L’Uroboro è distrutto, ma i Preservatori sono più numerosi di noi» avvertì il Generale. «Non possiamo vincere la battaglia».

   «Non è mai stato il piano» disse Rekker. «Il patto con Shado era pericoloso, e lo è ancor più ora che Sunny lo ha seguito. Ma grazie all’Enterprise possiamo rimediare a tutti i torti» aggiunse, rivolgendo un’occhiata penetrante a Gorog.

   «D’accordo, faremo come dici» acconsentì il Secondo Delegato. «Disabilitate l’Enterprise, ma state attenti a non distruggerla. Ci serve ciò che è al suo interno».

   «Come preferisce che la disabilitiamo?» chiese Wuluw.

   «Tagliatele le gambe» ordinò seccamente Gorog.

 

   L’Enterprise sfrecciava tra le navi dei Preservatori, cercando d’aiutarle, anche se le sue armi non erano molto efficaci contro i potentissimi scudi dei Distruttori. D’un tratto una nave alleata, che la precedeva, andò in pezzi senza motivo apparente. Lo scafo si frantumò con una strana simmetria, come se fosse di vetro. T’Vala corresse la traiettoria dell’Enterprise, allontanandola da quella zona.

   «Cos’è stato?» chiese il Capitano.

   «Un’anomalia» rilevò Terry. «Ne stanno comparendo a centinaia, tutt’intorno a noi. Sono le peggiori che abbia mai visto».

   «Dev’essere la lotta fra Shado e Sunny» comprese il Capitano. «Sta danneggiando così tanto Exosia che gli effetti si ripercuotono fin qui».

   «Se Exosia è davvero il fondamento di tutti gli universi, come dice Suspiria, allora ha senso» ammise Terry. «Anche le altre dimensioni staranno subendo danni. Queste non sono semplici anomalie... è il confine tra le realtà che si sgretola».

   «Ci saranno dei feriti. Riportatemi in infermeria» chiese Neelah. Fino a quel momento si era trattenuta in plancia, sperando che Suspiria tornasse con nuove informazioni. Ma la battaglia la obbligava a tornare nel suo reparto.

   «Un momento!» disse Terry, irrigidendosi. Aveva rilevato un aumento d’energia sull’ammiraglia di Gorog, una chilometrica nave ovoidale che in quel momento puntava contro l’Enterprise. Cercò di potenziare gli scudi, ma erano già indeboliti dagli attacchi nemici e dalle anomalie. Quando il raggio distruttivo li colpì, li attraversò facilmente. Il pilone di dritta fu tranciato, staccando la gondola quantica dal resto della nave. L’Enterprise subì uno scossone violentissimo, mentre danni a cascata mettevano fuori uso gran parte dei sistemi. Esplosioni e perdite d’aria uccisero molti ufficiali e ne ferirono ancora di più.

   In sala macchine, Grenk si rialzò dolorante dall’angolo in cui era stato scagliato e sputò un dente. Si guardò attorno: c’erano fumo, perdite di refrigerante... i danni più gravi che avesse mai visto in quella sala. Corse a una consolle che funzionava a singhiozzo e visualizzò i danni. «Oh, yotz» imprecò.

 

   In plancia, Chase si chinò su Neelah, che era scivolata a terra. «Sto bene» mormorò l’Aenar. Fece per rialzarsi, ma Chase la trattenne, preferendo che restasse ferma. «Danni?» chiese il Capitano, aspettandosi il peggio.

   «Abbiamo perso la gondola di dritta» rispose Terry, devastata. «L’energia è al minimo. Scudi disattivati, come anche i banchi anti-polaronici e i cannoni a impulso. Non abbiamo energia per andarcene... né per chiudere il tunnel spaziale».

   «Dovevamo chiuderlo finché potevamo» disse Chase con amarezza. Ancora chino su Neelah, fissò Terry con aria tradita. La proiezione isomorfa arretrò, in preda a confusione e vergogna.

   «Senza difese, i Distruttori possono finirci da un momento all’altro» disse Ilia. «Dobbiamo abbandonare la nave. Tanto, in questo stato non torneremmo comunque nella Via Lattea» aggiunse cupamente.

   Chase si sentì mancare. Evacuare l’Enterprise era già brutto di per sé. Farlo ad Andromeda, col rischio di rimanerci bloccati per sempre, era ancora peggio. Ma farlo durante la battaglia, circondati dal nemico, era un suicidio. Tanto valeva aspettare il colpo di grazia dei Distruttori; del resto non avrebbero fatto in tempo a evacuare migliaia di persone. Ma guardando Neelah, il Capitano si disse che salvare pochi era meglio che non salvare nessuno. «Va bene, abbandoniamo la nave» mormorò, aiutando la moglie a rialzarsi.

   «I Distruttori ci hanno circondato» avvertì Terry, mortificata. «Ma non sparano, anche se siamo un bersaglio facile».

   «Ci chiamano dalla loro ammiraglia» disse Grog.

   «Sullo schermo» ordinò il Capitano. «Hanno mandato Shado a Exosia, distrutto l’Uroboro, azzoppato l’Enterprise. Che altro vogliono da noi?!» si chiese, esasperato.

   Il volto calvo di Gorog apparve sullo schermo. «Ci rivediamo, Capitano» esordì. «Come vede, la sua nave non è alla nostra altezza. Quindi abbandoni ogni velleità di resistenza e collabori, se tiene alla vita dei suoi».

   «Sapevo che voi Distruttori avete la mania del genocidio» rispose Chase, fissandolo con disprezzo. «Ma non credevo foste così folli da consegnare la Rete a Shado. Appena avrà il controllo, vi annienterà con tutti gli altri».

   «Non avevamo scelta» spiegò il Distruttore. «Shado ci scovò poco dopo la sua creazione e intuì subito le potenzialità dell’Uroboro. Così, invece di distruggerlo, si assicurò che lo usassimo a suo vantaggio. Contagiò me e molti fra scienziati e tecnici con la Melma Nera... non tanto da consumarci, ma abbastanza da costringerci a obbedirgli» spiegò. «Solo ora che ha lasciato questa dimensione siamo liberi dalla sua influenza. E quindi possiamo aggiustare le cose. Ci consegni la sua navetta temporale, così avvertiremo la nostra gente nel passato, impedendole di compiere gli errori fatali. La Scourge, Shado... non saranno mai esistiti».

   «Neanche Sunny!» protestò Terry.

   «Un piccolo prezzo, per la salvezza di tutto ciò che esiste» ribatté Gorog.

   «Ma voi non vi fermerete lì» obiettò il Capitano. «Con la tecnologia temporale riscriverete tutta la Storia a vostro vantaggio, fin dalle origini. Impedirete ai vostri avi di crearci».

   «Adesso sta scivolando nella paranoia» lo derise il Distruttore. «Non ho molto tempo, quindi sarò conciso: consegnateci la Phoenix o vi distruggeremo. Se cercherete di abbandonare la nave, distruggeremo anche navette e capsule. Avete cinque minuti per ottemperare» disse, e chiuse la comunicazione.

   «L’ordine d’evacuazione è revocato» disse Chase, sempre più frustrato per come i Distruttori gli toglievano ogni scappatoia.

   «Signore, malgrado le minacce i Distruttori non oseranno colpire ancora l’Enterprise» disse T’Vala. «Vogliono la Phoenix, quindi verranno a prenderla».

   «Concordo. Terry, le difese dell’hangar 5 sono operative?» chiese il Capitano.

   «Gli inibitori di teletrasporto intorno alla Phoenix funzionano, grazie alle batterie autonome» confermò l’IA. «Per questo i Distruttori non l’hanno già presa. Ma se ci attaccano in forze, non riusciremo a fermarli. Non ho energia per il teletrasporto, né per gli emettitori fuori dalla plancia, quindi non potrò aiutare la Sicurezza».

   «Sto facendo convergere le squadre sull’hangar 5» disse Lantora, digitando istruzioni sulla sua consolle. «Il Maggiore Wu è già in posizione. Il guaio è che i Distruttori possono travolgerci col numero... stavolta non so proprio come ne usciremo» ammise, tirato in volto.

   «I Distruttori sono più di noi, ma meno dei Preservatori» notò Ilia. «Il tempo è contro di loro, presto dovranno lasciare il campo di battaglia. Dobbiamo resistere fino ad allora».

   «Comunque vada, non dobbiamo lasciargli la Phoenix» insisté Chase. «Sarebbe il peggior scenario della Guerra Temporale. Quindi non c’è che una cosa da fare» disse, scrutando la timoniera. «T’Vala, lei è tra i pochi abilitati a entrare in quella navetta. Ci vada e attivi l’autodistruzione. Imposti il pilota automatico per farla uscire dall’hangar prima che esploda. A Grenk non farà piacere, ma non c’è altro modo».

   «Sì, Capitano». T’Vala lasciò il timone, inservibile finché l’Enterprise era senza energia, e si fiondò nel turboascensore. Lantora fece per seguirla, ma il Capitano lo richiamò: «No, lei mi serve qui. Se riavremo un po’ d’energia, dovremo sfruttarla per sfuggire all’accerchiamento».

   «Come vuole» disse lo Xindi di malavoglia. Scambiò un’ultima occhiata con sua moglie, prima che la porta del turboascensore si chiudesse tra loro, e tornò alla postazione tattica.

   «Capitano, c’è un altro problema» avvertì Terry, mentre gli allarmi squillavano a tutto spiano. «Senza scudi siamo colpiti dalle anomalie».

   «Che tipo di anomalie?» volle sapere Chase.

   «Rilevo discontinuità e brecce temporali, diffuse a macchia di leopardo in tutta la nave. E c’è un fenomeno di torsione spaziale nel quarto posteriore sinistro della sezione a disco... proprio attorno all’hangar 5» rilevò l’IA.

   «Torsione spaziale?» chiese Apsu, la cui proiezione olografica sfarfallava a causa degli scompensi energetici.

   «Sale e corridoi sono sottosopra e continuano a cambiare» spiegò Terry. «L’area colpita si sta espandendo».

   «T’Vala sta andando lì! E anche le mie squadre» si allarmò Lantora.

   «Si calmi, la torsione spaziale non è letale» lo rassicurò l’IA. «Però sta trasformando i miei interni in un labirinto. Forse i nostri non riusciranno nemmeno a raggiungere l’hangar 5».

   «Non ci arriveranno neanche i Distruttori» suggerì Apsu, speranzoso. «Sfruttiamolo come diver...». La sua immagine olografica si sfocò e svanì.

   «Sta bene, il ponte allagato non è compromesso» assicurò Terry. «Ho solo perso il collegamento a causa delle anomalie».

   «Quanto tempo ci resta?» chiese il Capitano.

   «Un minuto allo scadere dell’ultimatum» disse Terry. «Stiamo cercando di riavviare l’energia in sala macchine. Anche senza una gondola, possiamo manovrare a impulso e forse...» cominciò, ma la sua voce fu coperta da uno strillo acuto.

   Tutti si girarono verso Grog. Il Ferengi gridava, guardandosi le mani, mentre la sua pelle s’incartapecoriva a vista d’occhio. Un tremolio dell’aria lo avvolgeva, giungendo a un passo da Lantora. In circostanze normali lo Xindi lo avrebbe tratto in salvo, ma comprese che entrare in quell’anomalia temporale non lasciava scampo. Si allontanò, nel caso la distorsione si espandesse. «Esci da lì, subito!» gridò, facendogli segno di venire verso di lui.

   Ma Grog non lo guardava e probabilmente non lo sentiva nemmeno. In pochi secondi la sua pelle divenne dura e secca, piena di solchi profondi, come un vecchio ceppo di legno battuto da innumerevoli inverni. Gli enormi lobi delle orecchie s’ingrandirono e parvero quasi sciogliersi, tanto li deformava il peso degli anni. La pelle ricadde in pieghe flaccide giù per la gola. Ogni secondo che passava erano almeno dieci anni che si abbattevano su di lui. Il Ferengi si curvò in avanti e si rattrappì, tenendosi la testa fra le mani avvizzite. Il suo grido si arrochì fino a estinguersi in un rantolo. Di colpo rialzò la testa: allora cominciò il vero orrore. Gli occhi marcirono nelle orbite, la pelle si spaccò, tutti i tessuti andarono in putrefazione. Brandelli di carne si staccarono dalle ossa e caddero, consumandosi prima ancora di toccare il pavimento. Sotto gli occhi sconvolti dei presenti scorsero anni di morte e putrefazione. Le ultime carni svanirono e di Grog non rimase che lo scheletro, con pochi lembi di tessuto mummificato ancora avvinghiati alle ossa. Lo scheletro cadde all’indietro e nell’urtare il pavimento si frantumò, tanto era fragile. Dove fino a poco prima c’era una persona viva e in forze, ora non restava che un mucchietto d’ossa che si polverizzavano, sopra una chiazza di pavimento ossidato. Poi il tremolio svanì e la ruggine smise di diffondersi, segno che l’anomalia era cessata; ma Grog era ridotto in polvere.

   Talat si era coperta la bocca con le mani per non urlare. Era così sconvolta che vacillò, sul punto di svenire. Fanior se ne accorse e la sorresse appena in tempo. Il Capitano si costrinse a distogliere lo sguardo da ciò che restava dell’ufficiale – che aveva servito l’Enterprise fin dal varo – e si rivolse alla Preservatrice. «L’ultimatum è scaduto e i Distruttori potrebbero cercare anche lei» l’avvertì. «Vada nel mio ufficio e ci resti fino al termine della battaglia».

   Talat annuì e vi si diresse con passo malfermo. La porta dell’ufficio si era appena richiusa che accadde quanto il Capitano temeva. Venti bagliori bianchi illuminarono la plancia e gli ufficiali si trovarono sotto il tiro dei Distruttori, comandati dal Generale Wuluw. Lantora aveva estratto il phaser, ma vedendo minacciati il Capitano e gli altri non osò scatenare la sparatoria.

   I Distruttori disarmarono tutti i federali e li allinearono lungo una parete. Chase e i suoi erano proprio davanti alla porta dell’ufficio, tenuta chiusa da Terry. «Si sono teletrasportati a bordo a centinaia» sussurrò l’IA all’orecchio del Capitano. «Rilevo scontri a fuoco nei corridoi. Ma la torsione spaziale li tiene lontani dall’hangar, per ora».

   Chase sperò che l’anomalia continuasse, dandogli il tempo d’inventarsi qualcosa per riconquistare la plancia. Notò che Fanior, accanto a lui, aveva ancora il Trasmutatore Kelvano in cintura. Quell’arma essiccava i tessuti delle vittime e li compattava in poliedri chimici, così piccoli da stare in una mano. Il Capitano gli fece un cenno appena percettibile, ma il Consigliere rispose con un segno di diniego. Si portò la mano alla cintura e prese ad armeggiarci discretamente. Chase capì che la stava regolando per colpire molti avversari in una volta. Gli si mise davanti, per nascondere le sue mosse ai Distruttori. Gli altri ufficiali se ne accorsero e fecero lo stesso, celando quasi del tutto Fanior.

   «Che volete? Fatemi parlare con Gorog» disse il Capitano, sperando di guadagnare tempo.

   I Distruttori lo ignorarono. Mentre alcuni tenevano sotto tiro i federali, altri si recarono alle postazioni e cercarono di usarle, ma si accorsero che Terry le aveva disattivate. Allora informarono la loro nave della situazione. E finalmente apparve Gorog.

   «Dovete sempre ostacolarci, vero?» chiese il leader dei Distruttori. «Ma è inutile; non ci terrete lontani dalla Phoenix». Ciò che spaventava di lui era la calma; non si disturbava nemmeno ad alzare la voce.

   «Non l’avrete mai, ladri» rispose acidamente il Capitano. «Vi suggerisco di raccogliere i vostri stracci e andarvene, prima che i Preservatori – o il vostro padrone Shado – vi facciano a pezzi».

   «Silenzio, Umano!» abbaiò Wuluw, prendendolo di mira, ma Gorog gli fece segno di tacere. Poi si avvicinò ai federali, studiandoli come se li vedesse per la prima volta. Sospirò e scosse la testa. «Crearvi è stato l’errore più tragico della nostra storia» disse, più a se stesso che ad altri. «Non ci ha causato altro che male. Ma ora, finalmente, possiamo rimediare al nostro sbaglio. Tutto l’Universo ci sarà grato, se lo liberiamo dalla piaga degli umanoidi».

   «Con la torsione spaziale, non riuscirete nemmeno a raggiungere la Phoenix» lo derise Lantora.

   «Le anomalie vanno e vengono, alla fine la troveremo» disse Gorog, infastidito. «Il problema è aprirla. Sappiamo che la porta ha un lettore di DNA e che pochi, su questa nave, sono abilitati a entrare. Lei sarà tra questi, Capitano. Le avrei già tagliato la mano, ma non vorrei che il lettore fosse abbastanza sofisticato da accorgersene. Quindi verrà tutto intero».

   «Non verrò né intero, né a pezzi» avvertì Chase. Fece cenno a Fanior di tenersi pronto con il Trasmutatore. Ormai era questione di secondi.

   «Allora farò a pezzi i suoi, a cominciare da chi le è più caro» disse Gorog seccamente. Al suo cenno, Wuluw e i suoi presero di mira Neelah, costringendola ad allontanarsi dagli altri. Quando le fu accanto, il Generale la colpì con il calcio del disintegratore, facendola cadere di nuovo a terra. Neelah si sfiorò il pancione, temendo le conseguenze di tutti quegli urti. «Aiutami, Alexander. Per nostra figlia» gemette, alzando gli occhi disperati verso il marito. Wuluw le puntò l’arma alla testa.

   Chase sentì le forze abbandonarlo, ma si disse che non doveva perdere la concentrazione. Accanto a lui, Fanior aveva un asso nella manica... anzi nella cintura. Ma Neelah era tenuta sotto tiro dai Distruttori. Era questione di velocità.

   «Capitano, ho una giornata impegnativa, quindi non posso concederle molto tempo» disse Gorog, quasi annoiato. «Ora lei mi porterà dalla crono-navetta e la aprirà. Se si rifiuterà, o cercherà d’ingannarmi, o mi farà perdere tempo... ucciderò sua moglie con la creatura che ha in grembo. Provi a difendere il passato e si troverà senza il futuro» minacciò.

   Chase e Neelah si scambiarono uno sguardo angosciato. Non servivano parole, né la telepatia dell’Aenar, perché si leggessero dentro. Entrambi avrebbero dato la vita per loro figlia. Ma consegnare la Phoenix ai Distruttori significava perdere tutto... inclusa la piccola. Quindi non restava che una strada. Il Capitano fissò Neelah, ma la sua mano, nascosta dietro la schiena, segnalò a Fanior di procedere. E il Kelvano premette il comando sulla cintura. Venti Distruttori si tramutarono in poliedri chimici, con bagliori curiosamente simili al teletrasporto che li aveva portati in plancia, sotto lo sguardo attonito di Gorog e Wuluw. Ma loro due restarono, avvolti da una distorsione luminosa, evidentemente uno scudo energetico che li proteggeva. Chase si sentì morire.

   «Folli, avete perso l’ultima occasione di uscirne vivi!» minacciò Gorog. Lui e il Generale indietreggiarono verso il turboascensore. Da quella distanza tenevano tutti sotto tiro, compresa Neelah, e potevano eliminarli con una sventagliata.

   «E come farà con la Phoenix?» chiese il Capitano, cercando ancora di guadagnare tempo, pur non sapendo per che cosa.

   «Troveremo qualcun altro che possa aprirla. Altrimenti la porteremo tutta intera sulla nostra nave e la apriremo con la forza» rispose Wuluw.

   «Non ne avete il tempo» obiettò Chase.

   «Fra poco il tempo non avrà più importanza» ribatté Gorog, prendendolo di mira. Ma prima che sparasse, la porta dell’ufficio si aprì e Talat ne uscì.

   «Delegato Gorog... Generale Wuluw... questo giorno poteva riscattarci. Ma voi lo avete reso il più oscuro nella storia del Popolo!» disse la Preservatrice, vibrante di sdegno. Sebbene fosse disarmata, avanzò senza timore verso i Distruttori. «Vigliacchi... dovevate togliervi la vita, piuttosto che aiutare Shado. E ancora cercate di trarne vantaggio... il vostro animo è nero quanto il suo!» accusò, puntandogli contro l’indice, come per maledirli.

   «Ah, Talat... non l’ha ancora capito che è stata deposta?» chiese Gorog con sarcasmo. «E non parlo dell’ordine di Mollom. Ora l’Assemblea non esiste più. Preservatori, Distruttori... come ha potuto credere che tornassimo uniti? È sempre stata una farsa. Ci avete scacciati dalla nostra patria, per proteggere i vostri cari figli... per osservarli pigramente mentre si scannavano fra loro! Ci avete condannati a vagare tra le galassie, tra gli stenti. E quando finalmente abbiamo costruito una nuova Eliopoli qui ad Andromeda, vi siete presentati alla nostra porta, pretendendo che vi accogliessimo!». Più parlava, più il Distruttore s’incolleriva, come se l’odio covato per migliaia di generazioni fluisse in lui. «Che possiamo fare, se non liberarci di voi e dei vostri dannatissimi figli? Vorrei ucciderla per prima, Talat. Ma no... la ucciderò solo dopo che avrà visto morire i suoi protetti, a partire da quella che aspetta un figlio».

   Così dicendo, Gorog prese di mira Neelah. Chase si lanciò in avanti per farle da scudo, pur sapendo che le avrebbe dato solo qualche doloroso attimo di vita in più. Anche Talat si mosse, con lo stesso scopo. Ma nessuno dei due fu abbastanza rapido.

 

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Capitolo 8
*** Sacrifici ***


-Capitolo 7: Sacrifici

 

   Fu qualcun altro a intervenire.

   Il turboascensore si spalancò proprio dietro a Gorog, che si girò di scatto, temendo l’arrivo di rinforzi nemici. I suoi timori erano fondati; ma non poteva immaginare di quali rinforzi si trattava. L’ingresso era velato da una distorsione perlacea, segno che un’altra anomalia aveva raggiunto la plancia. Ma questa era diversa dalla distorsione che aveva ucciso Grog: era una breccia temporale. Ne uscì una giovane donna, che schizzò in avanti a velocità inumana. Agguantò Gorog per il polso e glielo spezzò all’istante, impadronendosi del disintegratore. Il leader dei Distruttori lanciò un grido strozzato. Non fece nemmeno in tempo a cadere in ginocchio che si trovò a fare da scudo.

   Era successo tutto in un secondo. Preso alla sprovvista, il Generale Wuluw esitò. Per uccidere la ragazza rischiava di colpire il suo superiore. Lui, d’altra parte, non aveva ostaggi che gli facessero da scudo. I federali erano dietro di lui, salvo Neelah che gli era a fianco, a una certa distanza. Chase e Talat la raggiunsero nello stesso momento, frapponendosi. Prima che quella situazione esplosiva giungesse all’epilogo, tutti gli sguardi si appuntarono sulla nuova arrivata.

   Era una giovane sui venticinque anni, dalla pelle chiarissima e i capelli biondo platino. Indossava un’uniforme nera, con le spalle squadrate, che nessuno riconobbe. Era minuta, ma forte e scattante: un piccolo fascio compatto di muscoli, tesi come corde di violino. «È finita, Distruttori. Non sperate di cavarvela» disse con voce tagliente.

   «Ma che...» cominciò Wuluw. Non fece in tempo a finire la domanda. Alle sue spalle, Fanior si era trasformato alla massima velocità possibile. Le sue braccia, divenute tentacoli, schizzarono verso il Distruttore e lo abbrancarono, disarmandolo. Il campo di forza individuale proteggeva Wuluw dalle armi a energia, ma non era pensato contro gli attacchi fisici. Il Generale cadde a terra rantolando, mentre un tentacolo di Fanior gli avvolgeva il collo. All’ultimo istante, Wuluw riuscì a premersi un olo-comando sul polso e si teletrasportò via.

   «Traditore!» urlò Gorog nel vedersi abbandonato. Cercò di fuggire a sua volta, ma la ragazza pallida lo bloccò, impedendogli di premersi l’olo-comando.

   «Delegato Gorog, la Storia afferma che lei morì nella Battaglia di Exosia» disse la giovane, fissandolo con occhi azzurro ghiaccio. «Chi sono io, per contraddire la Storia?» aggiunse con una sfumatura sadica. Puntò il disintegratore contro Gorog. Questi cercò di bloccarla con il braccio sano, ma non aveva speranze. Fatalmente il suo polso si piegò e la punta dell’arma si rivolse contro di lui.

   «Ebbene, chi sei?!» chiese il Distruttore, impaurito da quella forza innaturale, indice di raffinati potenziamenti genetici.

   «Mi chiamo Jaylah» si presentò la giovane. «Sono un Agente Temporale... e sono figlia loro» disse, accennando a Chase e Neelah, che si scambiarono un’occhiata sconvolta.

   Anche Gorog spalancò gli occhi, incredulo. «No... no... no!» gridò, ma era inutile. Jaylah aveva chiuso le mani sulla sua, attorno al calcio dell’arma. Questo le permise di sfruttare il dito del Distruttore per premere il grilletto, che funzionava solo leggendo il suo DNA. Il raggio bianco colpì il Proto-Umanoide proprio al centro della fronte. Dopo qualche secondo di esposizione superò lo scudo, incenerendogli la testa.

 

   Jaylah lasciò cadere il corpo decapitato e si rivolse ai genitori. «Mamma, papà... mi spiace che il nostro primo incontro avvenga così. Ma cercate di capire... non potevo lasciare che vi uccidesse» si scusò. «Anzi, che ci uccidesse. Se i vostri racconti sono esatti, nascerò fra un attimo» aggiunse, accennando al pancione di Neelah.

   «Jaylah?» mormorò l’Aenar, alzandosi a fatica. «Sei proprio tu?» chiese con voce tremante.

   «In carne, ossa e antenne» confermò la giovane. Solo allora le sottili antenne emersero dalla massa dei capelli. Madre e figlia si accostarono, quasi incredule di vedersi, e si abbracciarono strette. «Sono felice di vederti, mamma» disse Jaylah con affetto. «Ma ho poco tempo... l’anomalia che mi ha portata qui può chiudersi da un momento all’altro. Devo tornare nel mio tempo».

   «L’Enterprise esiste ancora? E tu lavori lì?» chiese Neelah, smaniosa d’informazioni.

   «Per gli Accordi Temporali, non posso dirvi niente» sospirò Jaylah, rivolgendosi a entrambi i genitori. «Ma visto che conoscete le brecce temporali, sapete già la risposta. Sì, sono qui perché mi trovavo sull’Enterprise quando l’anomalia ha connesso le nostre epoche. Ma ero solo di passaggio... lavoro altrove» aggiunse evasiva. Si sciolse dall’abbraccio materno e fronteggiò suo padre.

   «Agente Temporale, eh? Tu e io dobbiamo fare un discorsetto» disse Chase in tono di rimprovero, accennando all’uniforme nera e senza contrassegni della figlia. Ma l’abbracciò con lo stesso trasporto.

   «Lo faremo... quando sarà il momento. Ma ora devo andare» disse Jaylah, staccandosi a malincuore. Avrebbe voluto dire di più ai suoi genitori; ma non poteva infrangere gli Accordi Temporali, proprio lei che aveva giurato di difenderli. Quindi schermò i propri pensieri, impedendo a sua madre di scoprire alcunché.

   «Stai attenta... e non esagerare coi potenziamenti genetici!» raccomandò Neelah, già in ansia per lei. Le era bastato vedere sua figlia per dare un calcio a tutte le sue idee sul miglioramento delle specie.

   «Questa è una discussione che faremo spesso, mamma» sospirò Jaylah. «Ma non temete il futuro. Voi pensate a vincere la battaglia; a conservare la linea temporale ci penso io. Arrivederci a fra poco» disse ai genitori, tornando verso l’anomalia perlacea. «Ah, un’ultima cosa» aggiunse, indugiando sulla soglia. «Se a sette anni cambiassi il DNA del gatto per farlo volare, non siate troppo severi con me» chiese, e sparì nell’anomalia. Pochi secondi dopo la breccia si era richiusa, dividendo le loro epoche.

   Chase e Neelah si guardarono negli occhi, cercando di processare l’accaduto. «Noi avremo un gatto?» chiese infine il Capitano.

   Neelah stava per rispondergli a tono, ma d’un tratto si piegò in due. «Ahi! Jaylah aveva ragione... vuol nascere proprio adesso!» gemette, sentendo le doglie. «Devo tornare subito in infermeria».

   «Verrei con te, ma...!» disse Chase, osservando sconfortato la battaglia che infuriava sullo schermo. I Distruttori erano ovunque. La Phoenix non era ancora al sicuro. E Shado minacciava una distruzione così apocalittica che nemmeno gli Agenti Temporali l’avrebbero fermato. Il futuro era ancora in bilico.

   «Lo so. Vinci la battaglia» disse Neelah, echeggiando le parole di Jaylah. Cercò di raggiungere il turboascensore, tornato normale, ma aveva difficoltà a camminare. Fanior risolse il problema prendendola in braccio. «I suoi ufficiali le servono, Capitano, ma io la porterò in infermeria» promise il Kelvano.

   «Vengo anch’io» disse Lantora, non volendo farli andare da soli, mentre i corridoi erano pieni di Distruttori che sparavano. «Tornerò al più presto» promise al Capitano.

   «Non serve» disse però Chase. «Quando Neelah sarà in infermeria, si unisca alla squadra di Wu per proteggere la Phoenix».

   Lantora gli rivolse uno sguardo grato, sapendo che era una scusa per permettergli di aiutare T’Vala in quel frangente pericoloso. Seguì Fanior e Neelah nel turboascensore. Gli altri ufficiali erano già tornati alle loro postazioni, rese nuovamente operative da Terry. Ripresero il contatto con la sala macchine, coordinandosi per riattivare i sistemi chiave.

   «Ora sa perché vi abbiamo creati, Capitano» disse Talat, guardando Chase commossa. «Quando tutto il resto fallisce, sono i figli che ci salvano».

 

   Nello spazio, il braccio di ferro tra Preservatori e i Distruttori continuava, sebbene la morte dei rispettivi leader avesse gettato molti equipaggi nel dubbio e nel disordine. Alcune navi cercarono di disimpegnarsi e abbandonare il campo di battaglia, mentre altre colpirono con rinnovata ferocia. In quel caos, l’Enterprise trasmise un segnale su tutte le frequenze.

   «Qui è Talat, che si rivolge al Popolo» disse l’ex Delegata. «In questo momento Shado sta attaccando la Rete Miceliare, con lo scopo d’annientare ogni forma di vita. Gli unici che possono fermarlo sono Sunny e gli abitanti della Rete. Dovessero fallire, non ci sarà scampo per nessuno. Questa è la portata del tradimento dei Distruttori. So che molti di loro erano sotto il suo controllo e che altri hanno obbedito ai superiori senza conoscerne gli intenti. Ma ora che sono liberi dalla sua influenza, non hanno scuse per l’attacco contro di noi e contro l’Enterprise. Pertanto chiedo ai Preservatori di difendere questa nave, con tutte le loro forze. E ai Distruttori dico: è la vostra ultima occasione di rinunciare al male. Cessate immediatamente l’attacco e arrendetevi. Se non lo farete, sarete maledetti e scacciati da noi e da ogni popolo di Andromeda, sino alla fine dei tempi!».

   A questa minaccia, il dubbio serpeggiò sulle navi dei Distruttori. Persino sull’ammiraglia ci fu chi manifestò la tentazione di arrendersi. «Signore, il bio-scanner di Gorog ci conferma che è deceduto...» notò un ufficiale, rivolgendosi a Rekker.

   «Una disgrazia, ma come nuovo leader vi prometto che porterò avanti il suo progetto» disse il Primarca, chiarendo subito la sua posizione. L’unico che poteva contestarlo era Wuluw, ma il Generale non aveva ancora fatto ritorno. Dalla plancia dell’Enterprise si era trasferito in un altro settore della nave federale, riunendosi ai suoi soldati.

   «Signore, i Preservatori sono più numerosi di noi» insisté l’ufficiale. «In queste condizioni, è inutile continuare a...».

   Rekker estrasse il disintegratore e lo vaporizzò. «La sua opinione è annotata, Comandante» ironizzò, riagganciando l’arma in cintura. Squadrò il resto dell’equipaggio, rimasto ammutolito. «Raddoppiate l’assalto all’Enterprise» ordinò con calma. «La tecnologia temporale deve essere nostra. E penso di sapere come ottenerla» aggiunse. Attivò gli olo-comandi innestati nel polso e inserì le coordinate di teletrasporto.

 

   Forti del loro numero, i Distruttori guadagnavano terreno nell’Enterprise, sebbene la Sicurezza facesse pagare loro un pesante tributo per ogni corridoio e sala conquistati. La lotta era ulteriormente complicata dalla torsione spaziale, la bizzarra anomalia che stava riconfigurando l’interno della nave. Le porte, i turboascensori e persino i tubi di Jefferies non conducevano più dove ci si aspettava. Nemmeno le piantine della nave, disponibili sui pannelli dei corridoi, erano d’aiuto. E il nuovo assetto non era stabile: cambiava di secondo in secondo. La stessa porta, varcata avanti e indietro più volte, conduceva sempre in posti diversi: da un corridoio a una stiva, da una sala controllo a un alloggio privato. L’astronave si era trasformata in un labirinto impossibile, che intrappolava invasori e difensori.

   I Distruttori erano furibondi, sia perché a ogni secondo perso la loro flotta ne pagava il prezzo, sia perché girovagare nei corridoi li esponeva a più scontri a fuoco e quindi a più perdite. Ma non riuscivano a raggiungere la Phoenix né a piedi, né con il teletrasporto. Si divisero allora in piccoli gruppi, per aumentare le probabilità che almeno qualcuno arrivasse a destinazione. La strategia funzionò: mentre centinaia di Distruttori continuavano a vagare nel labirinto, un drappello trovò l’hangar 5. Questo era difeso solo dalla squadra del Maggiore Wu, giunta in posizione prima che iniziasse l’anomalia. Asserragliati dietro l’ingresso semiaperto, i Corpi Speciali falciavano ogni Proto-Umanoide che appariva nel corridoio. O quasi.

   «Wu a Terry, abbiamo un problema!» disse il Maggiore, gridando per farsi sentire sopra il frastuono della sparatoria. «Alcuni Distruttori hanno uno scudo individuale. Sa dirci come possiamo superarlo?».

   «Provate a settare i phaser su frequenze tra 1,39 e 1,47» suggerì Terry, che stava analizzando le tecnologie dei Distruttori, cercando un punto debole.

   Il Maggiore regolò il fucile phaser in base al consiglio e si sporse per fare una prova. Colpì un Distruttore al petto e stavolta lo disintegrò. Il federale si ritrasse subito, mentre una raffica di rappresaglia tempestava il portone corazzato. Era una spessa lastra di yiterium, lo stesso materiale dello scafo esterno; ma le armi nemiche vi scavavano solchi profondi.

   «Wu a Terry, ottimo consiglio» disse il Maggiore. «Ma i Distruttori sono troppi e il portone sta per cedere. Ci servono rinforzi immediati!». Mentre parlava, uno dei suoi fu colpito nel momento in cui si sporgeva per sparare. Un secondo manipolo di Distruttori li aveva trovati e attaccava dall’altro lato del corridoio.

   «La torsione spaziale impedisce alle altre squadre di raggiungervi» spiegò Terry, dispiaciuta.

   «Non puoi allontanarti? Hai ancora i motori a impulso!» obiettò Wu, sporgendosi per un’altra raffica. Abbatté un nemico, sfuggendo per un soffio alla risposta. Il raggio mortale gli passò a un centimetro dalla testa e andò a colpire la parete di fondo dell’hangar, lasciando una chiazza annerita e semifusa.

   «Le mie elaborazioni dicono che senza la torsione i Distruttori ci travolgeranno col numero» rivelò Terry. «Tenete duro. La loro flotta sta per cedere e a quel punto avremo rinforzi. Intanto sto mappando la zona riconfigurata per guidare altre squadre da voi». Non disse che la nave si trasformava così in fretta da vanificare i suoi sforzi. Raggiungere l’hangar 5 era questione di fortuna, più che d’abilità.

   «Faccia presto, non resisteremo a lungo» avvertì Wu, mentre un altro dei suoi cadeva ucciso. Erano rimasti solo in cinque, contro una ventina di attaccanti.

 

   Rinchiusa nella sua cella, Lyra sedeva a gambe incrociate sul lettino, in posa di meditazione. Sapeva, dai molti scossoni della nave, che qualcosa era andato storto. Essendo confinata lì, non le restava che sfruttare le sue facoltà telepatiche per capire che stava succedendo. Chiusi gli occhi e rallentato il respiro, la mezza Vulcaniana si concentrò, abbandonando tutte le emozioni incentrate sull’Io. Di colpo tornò a vedere, ma con gli occhi della mente. Le pareti della cella non ostacolavano la nuova visione, che anzi spaziava per i ponti e le sezioni dell’Enterprise.

   Un’onda di emozioni negative colpì Lyra; erano così violente che il cuore le martellò in petto, mentre un brivido l’attraversava da capo a piedi. Paura, rabbia, tradimento, dolore... morte. Queste emozioni la circondavano da ogni parte, moltiplicate per migliaia di persone. Era in corso una battaglia tremenda... ma contro chi? Non Shado, anche se lui era parte del problema. Lyra si concentrò ancora più a fondo, sebbene il suo cervello dolesse per lo sforzo. Percepì brandelli sfilacciati di pensieri, appartenenti a molti ufficiali diversi, ma tutti impegnati in una lotta all’ultimo sangue. Li confrontò e li rimise assieme, fino a comprendere l’accaduto.

   Con un gemito strozzato, Lyra spalancò gli occhi. Quasi cadde dal lettino, travolta dall’orrore. In vita sua aveva visto cose raccapriccianti, ma nulla di paragonabile al tradimento dei Distruttori. Così fu doppiamente sconvolta nel vedere Rekker in piedi davanti a lei. Entrato chissà come nella cella priva di porte, il Primarca la osservava con calma.

   «Lieto di rivederla, Lyra» esordì Rekker. «Credo che lei sappia cosa sta succedendo, quindi non mi perderò in chiacchiere. Sono qui perché mi occorre la sua collaborazione».

   «No, le occorre un miracolo» corresse Lyra, balzando in piedi. «Dopo quel che avete fatto, voi Distruttori dovete solo andarvene. E pregare che Shado non prevalga» aggiunse, mantenendosi più lontana possibile.

   «È Shado che ci ha portati a questo... ma ora che siamo liberi dalla sua influenza, possiamo rimediare» spiegò Rekker, accorato. «Sappiamo che qui a bordo è custodita una navetta temporale. Con quella possiamo cancellare tutti i nostri errori. La Scourge, Shado... non saranno mai esistiti. Andromeda rifiorirà e l’Universo sarà libero dalla piaga».

   «Che altruisti!» lo derise Lyra. «Avete aspettato fino all’ultimo per farvi spuntare una coscienza. Ma non avete ancora messo le mani sulla Phoenix, o lei non perderebbe tempo con me».

   «Abbiamo cercato di spiegare la situazione al Capitano, ma lui e gli ufficiali non hanno voluto ascoltarci» disse Rekker, nel tono di chi ha subìto una tremenda ingiustizia. «Anzi, hanno brutalmente assassinato Gorog».

   Lyra fischiò d’approvazione. «Bene! Mi stanno sempre più simpatici» infierì. «Le conviene andarsene, se non vuol finire allo stesso modo».

   «Certo che me ne andrò... ma lei verrà con me» insisté Rekker.

   «Perché, a che le servo?» chiese Lyra, fissandolo bieca.

   «So che la Phoenix ha un lettore di DNA che consente a pochi di entrare» spiegò il Primarca. «Abbiamo cercato di prendere il Capitano, ma è andata male. Proveremo con Grenk in sala macchine, ma è facile che le cose vadano storte anche lì. E non siamo riusciti a trovare T’Vala... in plancia non c’era e le distorsioni interferiscono coi nostri sensori. Ma lei, che viene dallo Specchio, è la sua sosia perfetta. Ha lo stesso codice genetico, quindi può aprire la Phoenix. Mi faccia entrare in quella navetta e in cambio le darò ciò che più desidera: la libertà» promise.

   «Ah! Scusi tanto se ho qualche problema a fidarmi dei Distruttori!» rise Lyra, sprezzante. «Dovevate annientare Shado e invece gli avete consegnato l’Universo. Se ora giocate con la tecnologia temporale, combinerete altri disastri».

   «Suvvia, non scimmiotti la sua sosia!» la esortò Rekker, impaziente. «Lei viene da una realtà in cui tradimenti e giochi di potere sono all’ordine del giorno, quindi capisce la situazione. Il suo interesse è collaborare con noi. In fondo, cosa deve a questi federali? Niente! L’hanno riempita di belle parole, ma intanto la tengono in cella. Qual è la sua pena?».

   Lyra perse d’un tratto la sua sicurezza. «L’ergastolo» mugugnò, fissando il pavimento grigio della prigione.

   «Allora non si lasci sfuggire quest’occasione. Se mi apre la Phoenix, non solo la porterò dove vuole, ma la compenserò tanto da farla vivere nel lusso per il resto dei suoi giorni» offrì Rekker, suadente.

   La mezza Vulcaniana tentennò. Quello era il suo sogno fin da quando era fuggita dal Comando Medico. Combattuta fra vecchi e nuovi desideri, Lyra cercò una ragione logica per rifiutare l’offerta. Non ci mise molto a trovarla. «Altro che libertà e lussi. Appena aprirò la navetta, lei mi sparerà in testa» sibilò acida.

   «Ne uscirà incolume, ha la mia parola» promise il Primarca.

   «Bella parola da traditore!» rispose Lyra a muso duro.

   Rekker sospirò, frustrato. «Lei mi delude, speravo fosse più ragionevole» disse. «Ma se le stanno a cuore i suoi carcerieri, è solo un motivo in più per collaborare. Se avrò la Phoenix in fretta, risparmierò l’Enterprise. Se invece dovrò studiarla, per entrare senza far danni... allora eliminerò ogni occupante di questa nave, civili compresi. A lei la scelta, ma decida in fretta!» minacciò, sfiorandosi il polso. Gli olo-comandi si attivarono: Rekker accostò il dito al tasto del teletrasporto. Stava per andarsene ed era chiaro che non sarebbe tornato.

   «Fermo!» gridò Lyra, alzando una mano. «Verrò con te, a patto che l’Enterprise sia salva. E voglio anche il resto: la libertà, un passaggio per il Quadrante Alfa e tanto latinum da fare la bella vita».

   «Vedo che ha ritrovato la logica» sogghignò Rekker, porgendole la mano.

   Lyra esitò un attimo, assalita da dubbi e preoccupazioni. Ma non poteva vacillare, ora che aveva accettato. Strinse la mano di Rekker, che immediatamente si premette l’olo-comando con l’altra. Svanirono entrambi nel teletrasporto bianco dei Proto-Umanoidi.

 

   T’Vala correva per i corridoi e le sale che continuavano a riconfigurarsi. Per avvicinarsi all’hangar 5 si basava sulle informazioni che Terry le forniva in tempo reale, aggiornando di continuo la mappa della nave. Ma anche così le capitava di passare più volte per gli stessi ambienti. Era come un incubo in cui si corre a più non posso, senza per questo farsi avanti. Anche se non cronometrava il tempo, la mezza Vulcaniana sapeva di essere terribilmente in ritardo.

   «Svolta a sinistra» le disse Terry dal comunicatore.

   «Non mi sembra di avvicinarmi» ansimò T’Vala. «Non c’è qualcun altro che possa arrivarci prima?».

   «Nessuno della squadra di Wu è autorizzato a entrare e io non posso cambiare le impostazioni d’ingresso dall’esterno» spiegò l’IA. «Quindi spetta a te distruggere la navetta».

   «Ricevuto» disse la mezza Vulcaniana, asciugandosi il sudore dalla fronte. In quella un manipolo di Distruttori sbucò da una curva del corridoio, pochi metri davanti a lei. Con riflessi fulminei, T’Vala ne abbatté uno e corse a rifugiarsi nella stanza più vicina, il cui ingresso si apriva proprio accanto a lei. Mentre lo varcava, un raggio disintegratore le passò tra i capelli. La timoniera sentì l’odore di bruciato; c’era mancato poco. Guardandosi attorno, scoprì d’essere finita nel laboratorio di astrometria, tre ponti più in basso rispetto a dov’era un attimo prima.

   Vedendo T’Vala rifugiarsi in una stanza, i Distruttori la rincorsero, decisi a finirla. La porta si chiuse dietro di lei, ma si riaprì subito al loro passaggio. Gli inseguitori si trovarono in sala mensa, cinque ponti più in alto. Esasperati, tornarono indietro. E furono travolti da un fiotto d’acqua proveniente dal ponte allagato.

 

   «Indietro!» disse Q, gridando per sovrastare il ruggito delle fiamme. Gli abitanti della Rete arretrarono precipitosamente, uscendo dalla fascia di prateria annerita, dove gli incendi controllati non avevano lasciato un solo filo d’erba. Il muro di fuoco avanzò sin lì... e si fermò. Tra i difensori si levarono fischi di vittoria. Anche Suspiria, che aveva lavorato con gli altri, si deterse il sudore dalla fonte, soddisfatta.

   «Aspettate a festeggiare...» disse Q, intuendo che non era ancora finita. Aveva ragione. L’incendio crebbe in altezza e si plasmò in due forme umanoidi, che lottavano furiosamente. Le fiamme dell’una erano dorate, quelle dell’altra color sangue. Suspiria riconobbe Sunny e Shado.

   «Non mi fermerete, insignificanti parassiti! La Rete è mia!» tuonò l’entità malefica, allungando una mano verso la folla mentre con l’altra respingeva Sunny. Agguantò un Q e lo sollevò, carbonizzandolo nella sua stretta. Quando fu ridotto a uno scheletro calcinato lo lasciò cadere a terra.

   I difensori di Exosia arretrarono, spaventati. Shado allungò ancora il braccio, cercando di ghermire Suspiria, ma all’ultimo Sunny riuscì a tirarlo indietro. La fiammata bruciacchiò comunque il vestito della Nacene e le lasciò un’ustione sulla guancia. Q le venne in soccorso, usando il suo cappello da contadino per spegnerle il principio d’incendio sull’orlo della gonna. Tossirono entrambi, mezzi asfissiati dal fumo.

   «Il fronte dell’incendio avanza ancora a est e sud!» avvertì il figlio di Q, giungendo di corsa. «Se qui la situazione è sotto controllo, mandateci qualcuno».

   «Non credo sia sotto controllo» ansimò Q. Si passò un fazzoletto sul volto sporco e sudato, poi corse fra i suoi, per coordinare meglio gli sforzi. Anche Junior prese un fazzoletto, lo inumidì e lo passò sul viso di Suspiria, per pulire l’ustione.

   «Dopo» disse la Nacene, respingendo l’aiuto. «Ora non possiamo fermarci».

   Un grido richiamò la loro attenzione: un altro difensore era stato colpito da uno sbuffo infuocato di Shado. Avvolto dalle fiamme, il poveretto non volle appiccare ulteriori incendi correndo alla cieca, per cui si buttò in avanti, scomparendo nel rogo. Suspiria e Junior si scambiarono un’occhiata cupa e tornarono al lavoro.

 

   Tossendo per le esalazioni dei condotti esplosi, Grenk si aggirava in sala macchine, cercando di spremere ogni joule d’energia dal nucleo quantico. Quando la gondola si era staccata, provocando guasti a catena, i sistemi di sicurezza avevano portato l’energia al minimo, per evitare sovraccarichi. Ora bisognava ridare potenza all’Enterprise. Ciò significava dirottare l’energia nei condotti secondari, spegnere i sistemi non essenziali e aggirare i protocolli di sicurezza, portando gli impianti ai limiti di tolleranza. C’era una sottile zona grigia, fra “energia insufficiente” e “sovraccarico fatale”, in cui l’Ingegnere Capo si stava barcamenando. Nel frattempo dava fondo alla sua riserva d’imprecazioni.

   «Iniettori del plasma operativi... alla faccia di quei pezzi di dren. Dilitio ricristallizzato... frell, vorrei avere fra le mani chi ti ha ridotta così! Flusso d’antimateria stabile... yotz, le taglierei a loro, le gambe!» borbottò il Tellarita, rivolgendosi alla nave mentre completava il check-up.

   «Così va meglio» disse Terry, riuscendo a materializzarsi in sala macchine. «Sono pronta a riaccendere il nucleo».

   «Un’altra accensione a freddo, eh? Come a Stigia» sospirò Grenk, ricordando malvolentieri quella battaglia disastrosa.

   «Stavolta andrà meglio. Ho riscritto le mie sequenze d’attivazione per farlo in metà del tempo» spiegò Terry, mentre il nucleo s’illuminava alle sue spalle.

   «Tu... hai riscritto le tue sequenze?!» si allarmò Grenk. «Dovrebbe essere impossibile. E perché non mi hai informato?».

   «Sono stati giorni convulsi, mi è mancato il tempo» si scusò Terry, per nulla convincente. «Ma non temere, la nave reggerà».

   «La nave? Ricordo quando ne parlavi in prima persona» notò l’Ingegnere Capo, squadrandola con gli occhietti cisposi. Terry non rispose.

   «Plancia a sala macchine, ci serve più energia, e ci serve subito!» disse Chase dal comunicatore.

   «Continuare a ricordarmelo non mi fa lavorare più in fretta, Capitano» ribatté il Tellarita, correndo a un altro pannello.

   «Stavolta ci serve davvero uno dei suoi miracoli, Grenk» insisté il Capitano. «E c’è un’altra cosa: dobbiamo sigillare il tunnel spaziale, prima che Shado ritorni».

   Terry s’irrigidì, sapendo che bandire Shado significava fare lo stesso anche a Sunny, ma si dominò e non disse nulla.

   «Che?! No, è fuori discussione!» insorse l’Ingegnere. «Ci vorranno giorni prima di poter incanalare così tanta energia nel deflettore!».

   «Allora trovi un altro modo. M’informi appena lo saprà. Chase, chiudo».

   «Ah, i Capitani!» si lamentò l’Ingegnere, mentre inseriva alcune istruzioni su una consolle. «Credono che ci basti premere un tasto per avere energia dal nulla. Sono tre miliardi di terajoules... dove li trovo?». Fece per correre verso uno schermo sulla parete, ma Terry lo prese per un braccio.

   «Devi evacuare questa stanza» disse tono d’urgenza. «C’è un drappello di Distruttori qua fuori. Ho bloccato l’ingresso, ma con le loro armi non impiegheranno molto a farlo saltare» spiegò, accennando al portone principale.

   «Ma non possiamo lasciargli il controllo della sale macchine!» protestò Grenk.

   «No, non possiamo» convenne Terry, squadrando un condotto esploso accanto al nucleo quantico.

 

   «Ci siamo» disse Fanior, riconoscendo l’ingresso dell’infermeria principale. Un drappello di guardie la presidiava. Vedendo avvicinarsi il Kelvano con la dottoressa in braccio, si scostarono per farli passare. Alla retroguardia, Lantora teneva d’occhio il corridoio, con il fucile spianato.

   «Portami dentro, presto» gemette Neelah, con la vista annebbiata dal dolore. Sembrava proprio che Jaylah avesse fretta di nascere. Entrarono di corsa.

   «Ah, eccovi!» li accolse con sollievo la dottoressa Vash’Tot. Avvisata da Terry, era già pronta con una squadra medica. «Venite» disse, affrettandosi verso il reparto maternità.

   Prima che Fanior ve la portasse, Lantora si accostò a Neelah. «Io devo andare... non temere, le guardie all’ingresso vi proteggeranno» disse.

   «Lo so... vai da T’Vala» annuì l’Aenar. «E stai attento a Lyra... i Distruttori potrebbero usarla per aprire la Phoenix». Una nuova contrazione le strappò un lamento.

   «Frell, non ci avevo pensato». Lo Xindi si precipitò fuori dall’infermeria, premendosi il comunicatore. «Lantora a prigioni. Lyra è sempre lì?» chiese con ansia.

   «Negativo... è stata prelevata da un Distruttore» riferì il sorvegliante. «La stiamo cercando, ma non rileviamo neanche il micro-segnalatore che le avevano impiantato. O non è a bordo, o le anomalie impediscono di rilevarla. Oppure i Distruttori le hanno rimosso il segnalatore».

   L’Ufficiale Tattico ebbe un moto di stizza. Non si era mai fidato di Lyra, malgrado T’Vala cercasse di convincerlo che era cambiata. Ora trovava conferma ai suoi sospetti. «Lantora a Sicurezza, Lyra è evasa ed è in combutta coi Distruttori. Cercatela, dobbiamo fermarla a ogni costo» ordinò. «Ma state attenti a non colpire T’Vala!» aggiunse, sapendo che era difficile distinguerle. Sperò che Lyra non trovasse un’uniforme: finché indossava la tuta da carcerata potevano riconoscerla. Corse verso l’hangar 5, sperando di arrivare in tempo; ma aveva fatto poca strada che si trovò davanti una barriera d’energia verdastra.

   «Terry a Lantora, stai per entrare nella zona riconfigurata» lo avvertì l’IA. «Cercherò di guidarti, ma ti avverto che la nave cambia molto in fretta. Trovare l’hangar è più questione di fortuna che d’altro».

   «Frell, ci mancava questa!» imprecò Lantora, varcando la barriera verde. Seguendo le indicazioni di Terry, aveva già regolato il fucile phaser affinché superasse gli scudi dei Distruttori. Con quel settaggio non poteva stordire i nemici, ma solo ucciderli. «E lo farò» si disse, correndo lungo i corridoi e le sale assurdamente contorti. Avrebbe difeso l’Enterprise e la sua famiglia, a qualunque costo.

 

   Sotto il fuoco concentrato dei disintegratori, il portone corazzato della sala macchine andò in pezzi. Venti Distruttori entrarono con le armi spianate, guidati da Wuluw. Trovarono consolle annerite, condotti esplosi e cavi che pendevano dal soffitto, il tutto immerso nella penombra. Il salone era deserto, tranne una tozza figura che si stagliava contro il nucleo quantico in fase di riavvio. Grenk attendeva i Distruttori, dando loro temerariamente le spalle. «Siete arrivati, finalmente» li salutò. «Ho sentito che avete problemi d’orientamento» aggiunse sardonico.

   «Controllare la sala macchine ci aiuterà a risolverli» ribatté Wuluw, prendendolo di mira. Rekker lo aveva informato che non avevano più bisogno dell’Ingegnere per accedere alla Phoenix.

   «Non vi ho dato il controllo» disse Grenk, senza nemmeno voltarsi.

   «Non l’ho chiesto» ribatté il Distruttore, e gli sparò nella schiena. Grenk cadde senza un lamento. «Al lavoro, dobbiamo disattivare l’energia prima che l’Enterprise abbia di nuovo le armi» ordinò il Generale. I Distruttori andarono alle consolle, ma le trovarono tutte disattivate.

   «Come ho detto, non avete il controllo» disse Grenk, rialzandosi. Aveva ancora una chiazza nera sulla schiena, là dove il raggio mortale l’aveva colpito. Si udì un suono metallico, come se una valvola si fosse aperta.

   «E io ti ho detto che non l’ho chiesto» ripeté Wuluw, celando la meraviglia. Regolò la sua arma su un settaggio più alto e lo colpì di nuovo, stavolta in pieno petto. Il Tellarita fu disintegrato.

   «Voi Distruttori siete duri di comprendonio» disse la voce di Grenk, venendo da chissà dove.

   «Che scherzo è questo?!» chiese il Generale con voce strozzata. Lui e i soldati si guardarono attorno inquieti, cercando il Tellarita negli anfratti bui del salone. Non fecero caso al fumo verdastro che usciva da un condotto spaccato, vicino al nucleo.

   «Nessuno scherzo, Distruttori. Venire qui è stata l’ultima delle vostre pessime idee» rispose la voce senza corpo. Stava cambiando timbro, diventando sempre più femminile. Wuluw la riconobbe: era la voce di Terry. Un campo di forza sostituì il portone in frantumi, imprigionando i Distruttori in sala macchine. Nello stesso momento il gas verdastro uscì a fiotti dal condotto lesionato. I Distruttori gridarono e caddero a terra, assaliti da dolori atroci. Con orrore, videro le loro carni corrodersi a vista d’occhio.

   «Refrigerante!» boccheggiò Wuluw.

   «Sì, del tipo che corrode i tessuti organici» confermò Terry, apparendo davanti a lui. Non aveva più bisogno d’imitare Grenk, che in quel momento si era nascosto con gli altri ingegneri nella saletta del propulsore cronografico. Aveva regolato la sua proiezione per rendersi immune agli agenti corrosivi. «Vi sono state offerte molte occasioni di andarvene, ma siete incorreggibili» disse l’IA, gelida. Attorno a lei i Distruttori si rotolavano sul pavimento, incapaci di rialzarsi, mentre il gas gli divorava le carni. Cercarono di attivarsi gli impianti nel braccio, per teletrasportarsi via, ma il danno organico era già così grave da metterli fuori uso.

   «Maledetta!» rantolò Wuluw. Riuscì a rialzarsi in ginocchio e sparò un colpo contro il nucleo quantico, sperando di far esplodere la nave. Terry lo aveva previsto: un campo di forza assorbì il colpo. Il Generale aumentò ulteriormente la potenza dell’arma, ma l’IA gli fu addosso prima che potesse sparare ancora. Dopo una breve colluttazione, Terry disarmò Wuluw e lo rovesciò a terra con un calcio. Indietreggiò di qualche passo, mentre il Generale e i suoi soldati si contorcevano nell’agonia. I loro tessuti si sciolsero, staccandosi dalle ossa come cera fusa e mettendo a nudo gli scheletri.

   Quando le ultime carni si furono dissolte, Terry interruppe l’afflusso di refrigerante. Poi attivò le ventole d’emergenza, poste raso terra, per risucchiarlo. Dopo aver analizzato l’atmosfera, accertandosi che non ci fosse più traccia di gas, andò a liberare gli ingegneri. «Il pericolo è passato» disse stancamente, aprendo la camera cronografica.

   Grenk avanzò con cautela fra gli scheletri dei Distruttori, le sole parti del corpo non completamente disintegrate. «Brutta fine» commentò, scuotendo la testa. «Tu come stai?» le chiese, temendo che quell’azione cruenta avesse leso il suo equilibrio mentale, già fin troppo precario.

   «Sto bene... starò bene» si corresse Terry. «Fra un minuto avremo di nuovo l’energia» disse accennando al nucleo quantico, che aveva quasi terminato la riaccensione.

   «Ma non tanto da attivare il deflettore» disse Grenk, leggendo i dati su una consolle appena riaccesa.

   «No» confermò l’IA, inespressiva.

   Grenk la squadrò in silenzio per qualche secondo. «Dov’è T’Vala?» chiese inaspettatamente.

   «È quasi arrivata all’hangar 5, perché?» chiese Terry, guardandolo con sospetto.

   Il Tellarita rimuginò, visibilmente combattuto. Poi, senza risponderle, si premette il comunicatore. «Grenk a T’Vala, non distruggere la Phoenix!» ordinò.

   «Perché?» chiese la mezza Vulcaniana.

   «Dobbiamo portarla nel wormhole. L’esplosione del nucleo temporale creerà un’onda tachionica che lo destabilizzerà, facendolo collassare» spiegò l’Ingegnere Capo tutto d’un fiato.

   «Il pilota automatico può portare la Phoenix nel tunnel, ma non ci sono procedure per sovraccaricare il nucleo» ricordò T’Vala. «Dovrò farlo io».

   «No!» gridò il Tellarita. «Ti ho avvisata solo per non farti sprecare la navetta, ma non ti devi sacrificare. Aspettami, so io come intervenire sul nucleo per mandarlo in sovraccarico. Mi bastano pochi minuti».

   «Ci metterai di più a trovare l’hangar 5» rispose la timoniera con amarezza. «Addio, Grenk. Dì a Lantora che lo amo tantissimo. T’Vala, chiudo».

   «No, aspetta...». Grenk vacillò, vedendo concretizzarsi il suo timore.

   «Perché non mi hai consultata? Ti avrei detto di non farlo... ora la logica di T’Vala la costringe a sacrificarsi!» accusò Terry.

   «Sapevo che poteva accadere» disse Grenk, guardandola truce. «Ma se ti avessi avvisata, tu mi avresti impedito di contattarla. Non per salvare lei... ma per salvare Sunny. E così Shado sarebbe tornato».

   «Siete tutti contro di me!» sibilò Terry, mentre un bagliore rosso le invadeva gli occhi. La proiezione isomorfa svanì, mentre la luce e il ronzio del nucleo salivano di tono, segnalando che l’Enterprise aveva di nuovo l’energia. L’Ingegnere Capo avrebbe dovuto rallegrarsene, invece sentì le gambe che gli tremavano. Avere l’astronave operativa, mentre Terry era in quello stato, non era un bene.

 

   I Distruttori avanzarono nell’hangar 5 con le armi spianate, calpestando i cadaveri dei federali. I Corpi Speciali avevano resistito fino all’ultimo: ciascuno di loro aveva strappato la vita a tre o quattro nemici in cambio della propria. Ma ora giacevano tutti a terra, compreso il Maggiore Wu, l’ultimo a cadere. I Distruttori, invece, erano ancora in cinque. Una rapida ispezione dell’hangar confermò loro che non c’erano altri difensori. La Phoenix giaceva davanti a loro, con lo scafo geometrico che luccicava come madreperla. La porta sul retro era chiusa.

   «Fate presto» disse il caposquadra, sorvegliando l’ingresso. I suoi sottoposti piazzarono a terra quattro piccoli dispositivi cilindrici, sistemandoli come i vertici di un quadrato. Dopo averli attivati indietreggiarono di qualche passo. I dispositivi ronzarono e si aprirono in sommità, facendo uscire delle antenne telescopiche, che s’innalzarono fino a due metri d’altezza.

   «Squadra 13 a Primarca Rekker, siamo in posizione e abbiamo piazzato gli intensificatori di teletrasporto» disse il caposquadra, parlando nel micro-comunicatore impiantato nel polso. «Ora può venire».

   Gli intensificatori s’illuminarono, creando un campo di stabilità che contrastava la torsione spaziale e permetteva l’aggancio del teletrasporto. Anche così, il trasferimento fu assai più lento del solito. Due sagome bianche apparvero nel campo degli intensificatori, ma solo una aveva il cranio allungato dei Proto-Umanoidi. I Distruttori levarono le armi, inquieti: non si aspettavano che Rekker portasse con sé un alieno.

   Approfittando della loro distrazione, il Maggiore Wu – riverso al suolo sul corpo di un commilitone – aprì gli occhi e li mise a fuoco, attraverso la nebbia del dolore. Aveva il fianco squarciato da un colpo di disintegratore, ma era ancora vivo. Le nanosonde che Neelah gli aveva iniettato, in previsione di un momento come quello, stavano suturando la ferita. Il Maggiore non sapeva se sarebbe sopravvissuto, ma di una cosa era certo: prima di andarsene avrebbe sparato ancora qualche colpo. Accertatosi che nessuno stesse guardando nella sua direzione, mosse lentamente il braccio verso il fucile phaser che giaceva lì vicino. La sua mano si strinse sull’impugnatura. Sopportando le fitte di dolore senza emettere un lamento, l’Umano si preparò a sparare.

   Le due sagome bianche terminarono di materializzarsi: erano Rekker e Lyra. «Ce ne avete messo di tempo» disse il Primarca, uscendo dalla zona degli intensificatori. «Come, siete solo in cinque?!» si stupì.

   «I federali hanno opposto una dura resistenza» si giustificò il caposquadra. «Lei chi è?» chiese, tenendo Lyra sotto tiro.

   «Quella che ci aprirà la navetta... se non vuol finire come questi stolti» disse Rekker, accennando ai cadaveri che ingombravano il pavimento. Wu chiuse gli occhi e s’immobilizzò, non volendo farsi scoprire. Ma il suo movimento non era sfuggito a Lyra. Concentrandosi, la mezza Vulcaniana percepì i suoi pensieri, ottenendo la conferma che il Maggiore era ancora vigile.

   «C’è qualche problema?» chiese Rekker, notando che Lyra si era immobilizzata.

   «Mi sento disorientata... forse è l’effetto della torsione» mentì la mezza Vulcaniana, proteggendo il Maggiore.

   «Attenta... se cerchi di farci perdere tempo, straccerò il nostro accordo» minacciò Rekker.

   Riluttante, Lyra si accostò alla poppa esagonale della Phoenix. Con i Distruttori che la circondavano, tenendola sotto tiro, ogni tentativo di fuggire o prendere un’arma era inutile. Solo se il Maggiore li avesse attaccati alle spalle, distraendoli, poteva tentare. Altrimenti non le restava che tener fede all’accordo. La mezza Vulcaniana alzò lentamente la mano, avvicinandola al lettore di DNA. Al tempo stesso ragionò sui possibili esiti. Se riusciva ad aprire la porta – com’era probabile – Rekker non avrebbe più avuto bisogno di lei. Il Primarca aveva promesso di risparmiarla, ma... poteva fidarsi della sua parola? La logica le disse di no. Ottenuta la Phoenix, i Distruttori l’avrebbero uccisa all’istante. E ben difficilmente avrebbero risparmiato l’Enterprise. Collaborando con loro non avrebbe salvato nessuno, anzi gli avrebbe dato la possibilità di nuocere ancora di più.

   «Aprila, presto!» ordinò Rekker, la voce tagliente come un rasoio.

   Lyra si preparò a scattare contro di lui, pur sapendo che l’avrebbero uccisa prima che arrivasse a mettergli le mani addosso. Ma il sibilo dell’ingresso l’avvertì che la situazione era cambiata.

   T’Vala irruppe nell’hangar, sparando ai Distruttori. Ne centrò uno, evitò i raggi disgreganti facendo una capriola a terra, si rialzò e ne abbatté un altro. Subito dopo mirò a Rekker, ma questi sparò per primo. Colpita di striscio, T’Vala si accasciò davanti al portone.

   Nello stesso momento anche Wu aprì il fuoco contro gli invasori, sebbene la ferita gli impedisse di alzarsi. Riuscì a ucciderne due, prima che il caposquadra lo colpisse in pieno petto con una scarica letale. La distrazione permise a Lyra di afferrare il Distruttore alle spalle, bloccandogli le braccia. Furiosa, gli sbatté la testa contro uno spigolo della Phoenix, più volte, fino a fracassargli il cranio. Presa la sua arma, si rivolse a Rekker, l’ultimo Distruttore rimasto. Gli mirò al petto.

   «Questo è per T’Vala» disse, e premette il grilletto. Non accadde nulla.

   «Anche le nostre armi hanno un lettore di             DNA, stupida» sogghignò Rekker, e le sparò a una gamba.

   Lyra cadde a terra, dolorante, ma non tanto quanto si aspettava. «Spari per stordire» comprese. Guardò T’Vala, accasciata a terra qualche metro più in là, augurandosi che anche lei fosse solo paralizzata.

   «Certo, non mi sognerei mai di uccidervi prima che abbiate aperto quella dannata navetta» confermò il Primarca. Senza perdere di vista Lyra, andò da T’Vala e le sottrasse l’arma. La timoniera, colpita di striscio dal raggio stordente, cominciava già a riprendersi.

   «Avvicinatevi» ordinò Rekker, che voleva tenerle sotto tiro più facilmente.

   Non riuscendo a camminare, per via dei colpi ricevuti, le sosia furono costrette ad arrancare a terra. Quando furono l’una accanto all’altra ricaddero sul pavimento, esauste e doloranti.

   «Li stavi aiutando?» chiese T’Vala. La delusione nel suo sguardo era peggio della collera.

   «Volevo solo uscire di cella... non gli avrei mai consegnato la Phoenix, devi credermi...» farfugliò Lyra, suonando patetica anche a se stessa.

   «Ti ho vista coi miei occhi» disse T’Vala, glaciale. «Ho sbagliato a fidarmi di te. Ha ragione Lantora... voi dello Specchio siete incorreggibili».

   Lyra abbassò lo sguardo, trattenendo a stento le lacrime. Le parole della “sorella” erano come una pugnalata.

   «Che bel quadretto familiare!» le canzonò Rekker, regolando la propria arma. «Signore, vi avverto che il prossimo colpo sarà letale. La domanda è: chi se lo beccherà?» chiese, mirando prima all’una e poi all’altra.

   «Non aprirò mai la Phoenix, né per salvare la mia vita, né per la sua» disse gelidamente T’Vala, accennando alla sosia.

   «Lo stesso vale per me» si affrettò a dire Lyra, sperando di riguadagnare la sua fiducia. T’Vala la guardò incerta, chiedendosi se fosse sincera.

   «Mai dire mai» corresse il Primarca, fissando sinistramente T’Vala. «Prima che iniziasse questo finimondo ho fatto una chiacchierata con un tipo molto devoto a Sunny... e quindi a noi Precursori. È stato lui a dirmi che sei abilitata a entrare nella Phoenix. E a spiegarmi come ottenere la tua collaborazione. Conosci il Priore Anjou?» chiese, premendosi un olo-comando sul polso.

   Gli intensificatori di teletrasporto si attivarono e il raggio bianco illuminò l’hangar, precisandosi gradualmente in una figura umanoide. Il leader dei Figli della Luce si fece avanti, col medaglione d’oro che si confondeva sulle vesti dello stesso colore. Tra le braccia reggeva un bambino piccolo. T’Vala riconobbe con orrore suo figlio e si sentì mancare. Fino all’ultimo aveva sperato che Vrel rimanesse al sicuro.

   «Tenente Shil... mi spiace incontrarla in queste circostanze» disse Anjou, addolorato. «Ma questo è il risultato della sua cieca ostinazione. Ora le chiedo di aprirci la navetta. O i suoi peccati ricadranno su suo figlio» minacciò. Estrasse un disintegratore, uguale a quello di Rekker, e lo puntò alla testa del bimbo.

   T’Vala tacque, annientata. Al suo posto rispose Lyra. «Vigliacco! Ti definisci un uomo di pace e vuoi uccidere un innocente?!» gridò.

   «Non voglio affatto» corresse Anjou. «Ma devo pensare alla salvezza delle vostre anime. Inclusa quella del bambino» spiegò, sempre tenendogli l’arma puntata alla testa. La minima contrazione del dito avrebbe fatto partire il colpo.

   «Non ucciderlo» disse T’Vala con voce incrinata. Alzò gli occhi sul Triannon: erano arrossati e colmi di lacrime. «Qualunque cosa tu creda, qualunque cosa tu voglia, non uccidere mio figlio. Uccidi me, se ti piace. Ma lascia stare lui».

   «Mi creda, nulla mi renderebbe più felice che restituirle questa creatura» disse Anjou, e T’Vala lesse la sincerità nella sua mente. «Ma prima deve aprire la navetta. Tutto dipende da questo. Allora, lo farà?» chiese pacato, chinandosi leggermente su T’Vala.

   La mezza Vulcaniana chinò il capo, singhiozzando. Sapeva cosa sarebbe accaduto, consegnando la tecnologia temporale ai Distruttori. Sarebbero tornati indietro fino a quel momento, negli abissi del tempo, in cui i loro avi avevano deciso di creare altre specie. Gli avrebbero rivelato tutte le disgrazie che li attendevano, convincendoli a desistere. Avrebbero cancellato dalla Storia tutte le stirpi più giovani. Siccome Anjou attendeva ancora la sua risposta, T’Vala alzò il viso bagnato di lacrime. Non riuscendo a parlare, scosse il capo in un cenno appena percettibile di diniego.

   «Lei è un mostro» disse il Triannon, osservandola con commiserazione. «Vuole sacrificare suo figlio sull’altare della sua ideologia. Che squallore... credevo che tutti potessero redimersi, ma lei è oltre ogni speranza».

   «Sei tu che gli punti un’arma alla testa» riuscì a dire T’Vala, sebbene tremasse tanto da balbettare.

   «Sono al servizio dell’Aureo e questo mi assolve da ogni colpa» rispose serenamente Anjou. «Se anche ci fosse peccato, sarà Lui a farsene carico».

   «Se Sunny sopravvive, ti tratterà come l’infanticida che sei» mormorò T’Vala, il viso solcato di lacrime.

   «Cerco solo di aiutare le forze della Luce a sconfiggere Shado. Come fai a non capirlo, sciagurata?!» inveì il Triannon.

   «Su, forza, non abbiamo tutto il giorno!» s’intromise Rekker, impaziente. Temeva che altre squadre della Sicurezza li sorprendessero. Peggio ancora, aveva contattato la sua flotta, scoprendo che ormai era in rotta: gli ufficiali rifiutavano persino di mandargli rinforzi. «Se non collaborano, sbarazzati di loro. Ci riproveremo con qualcun altro».

   «È proprio indispensabile?» chiese Anjou.

   «Se avessi fede nell’Aureo, non mi faresti neanche questa domanda» rispose perfidamente il Primarca.

   «La mia fede è fuori discussione... va bene, allora» disse il Triannon, raccogliendo le forze. «Guardami, T’Vala. Guarda come la tua empietà ricade su tuo figlio» disse con fermezza. Usò la punta del piede per rialzarle il mento, affinché vedesse.

   «Dici di volerti opporre a Shado, e non ti avvedi che sei suo servitore!» gridò T’Vala, le parole come un fiotto di sangue.

   «Santo è l’Aureo, e io sono il suo Emissario» cantilenò Anjou. Per proteggersi dagli effetti del disgregatore decise di lasciare il bimbo. Lo scaraventò verso sua madre, che scattò in avanti, prendendolo al volo. T’Vala strinse a sé il figlio e si girò, facendogli da scudo. Ma sapeva che l’arma dei Distruttori avrebbe vaporizzato entrambi. Anjou li prese accuratamente di mira. Non c’era il minimo dubbio in lui: quello era il suo contributo alla lotta contro l’Oscurità.

 

   «Frell, questi corridoi non finiscono mai?!» imprecò Lantora. Si era fatto strada combattendo da un ponte all’altro, in testa a una squadra della Sicurezza. Molti Distruttori giacevano senza vita dietro di loro, come anche molti federali, caduti nella lotta. Ma la torsione spaziale che deformava l’Enterprise gli impediva ancora di raggiungere l’hangar 5.

   «Se la nave continua a cambiare, non arriveremo mai» commentò una guardia.

   «Vediamo se ci siamo avvicinati, almeno» mugugnò lo Xindi. «Occhio in modalità sensore». Chiuse l’occhio destro, mentre il sinistro – quello artificiale – eseguiva il comando. Di colpo le paratie divennero trasparenti. Lantora ne vedeva ancora i contorni, ma poteva guardarci attraverso, fino a notevole distanza. Nei corridoi si affrontavano Distruttori e federali, visibili come sagome azzurrine, dai lineamenti appena riconoscibili. L’Ufficiale Tattico non si soffermò sugli scontri. Si guardò attorno finché vide l’hangar 5, in fondo a una lunga successione di porte. Di regola quell’hangar si apriva su un corridoio, per cui era dirimpetto al muro. Ma con le sale e i corridoi alterati dalla torsione spaziale, ora aveva un ingresso che gli si apriva proprio di fronte. Era l’occasione perfetta: Lantora poteva raggiungerlo semplicemente camminando in linea retta.

   «Amplifica» ordinò lo Xindi, per controllare la situazione all’interno. Il suo occhio artificiale ronzò, aumentando la risoluzione. Lantora ebbe l’impressione di precipitare verso l’hangar. Vide attraverso il portone... e si sentì morire. Sua moglie era inginocchiata a terra, come anche Lyra. Davanti a loro c’erano un Distruttore e... Anjou, a giudicare dalle vesti larghe. Gli vide persino il medaglione, che spiccava più scuro sul petto, a causa della maggior densità dell’oro.

   Con orrore, Lantora si accorse che il Triannon aveva un bimbo in braccio e lo stava minacciando con un’arma. Se stava ricattando T’Vala... allora il piccolo non poteva che essere Vrel. L’Ufficiale Tattico pensò di precipitarsi in avanti, ma scartò subito quest’idea. La distanza era troppa, Anjou avrebbe sparato prima che lui lo raggiungesse. E l’Enterprise poteva cambiare ancora, chiudendogli il tragitto. Aveva pochi secondi per agire.

   «Terry, spalanca tutte le porte della nave» ordinò lo Xindi, settando il fucile in modalità cecchino.

   «Perché?!» chiese l’IA.

   «Uccideranno mio figlio. Aprile e basta!» gridò Lantora, inginocchiandosi nella posizione da tiratore. Vide Anjou gettare Vrel a T’Vala, che lo prese al volo e si girò, facendo da scudo.

   Con il nucleo quantico riattivato, Terry aveva ripreso il controllo di quasi tutti i sistemi. Gli ingressi erano tra questi. Li aprì tutti, compresi quelli allineati fra Lantora e Anjou. Una lunga successione di porte si aprì nel medesimo istante, liberando la linea di tiro. Un secondo dopo, Lantora premette il grilletto.

 

   Il sibilo dell’ingresso distrasse Anjou un attimo prima che premesse il grilletto. Il Triannon si volse immediatamente alla porta, per uccidere chiunque stesse entrando, ma con sgomento non vide nessuno. C’era solo una lunghissima successione di porte, incorniciate una nell’altra, come in un gioco di specchi. Si aprivano nella parete opposta del corridoio: un’assurdità, visto che lì doveva esserci il muro. E in fondo alle porte c’era una figura inginocchiata, troppo distante per riconoscerla. Il Triannon pensò di sparare ugualmente, ma prima che potesse mirare fu colto in pieno petto da un raggio phaser ad alta energia. Il colpo gli disintegrò il medaglione – il sacro medaglione contenente le leggi dell’Aureo. Con stupore, Anjou vide allargarsi la chiazza della disintegrazione sul suo petto. Tempo un secondo e ne fu consumato. Il suo ultimo pensiero fu che moriva da martire.

   «No!» gridò Rekker, vedendo svanire il suo alleato e con esso le speranze di vittoria. Fece per colpire T’Vala e Vrel, ma Lyra si rialzò e gli fece volare via l’arma con un calcio. L’attimo dopo, anche lui fu disintegrato da Lantora con un preciso colpo da cecchino. Il suo urlo rabbioso si spense nello sfrigolio di tessuti vaporizzati. A pochi metri di distanza, la Phoenix giaceva inviolata.

 

   «Stai bene?» chiese Lyra, accostandosi alla sosia.

   «Sì... ma non è finita, purtroppo» rispose T’Vala.

   «Che intendi?».

   «Non devo semplicemente distruggere la Phoenix. Devo portarla nel wormhole e far esplodere il nucleo temporale... solo così potremo chiudere il tunnel prima che Shado ritorni» spiegò T’Vala, rialzandosi a fatica con il figlio in braccio. «Darò Vrel a Lantora e poi... devo chiederti di distrarlo, mentre salgo a bordo».

   «Sì... dammi solo il tempo di levare questi, prima che arrivino altri Distruttori» disse Lyra, zoppicando verso gli intensificatori di teletrasporto. Li rovesciò a terra e li richiuse, per poi gettarli lontano.

   T’Vala non le badò: arrancò verso Lantora, che a sua volta le correva incontro. Si raggiunsero verso la fine del corridoio creato dalla torsione e si abbracciarono, con le lacrime agli occhi. Confuso da tutti quegli sballottamenti, Vrel cominciò a piangere.

   «Sssshhhh... va tutto bene» disse Lantora, carezzandolo. «Tu e la mamma siete al sicuro, ora». Ma così dicendo, si accorse che T’Vala era tutt’altro che sollevata. «Ehi, che succede? Sei ferita?» si preoccupò.

   «No, era solo un colpo stordente» mormorò T’Vala, ancora debole. Guardando il marito e il figlio, sentì come una stilettata al cuore, al pensiero di perderli. Si sforzò di ragionare secondo logica: il bene dei molti travalicava quello dei pochi, quindi doveva andare. «Prendilo» disse, porgendo il bimbo a Lantora.

   Lo Xindi non se l’aspettava, ma cedette il fucile phaser a un sottoposto per prendere in braccio il figlio. «Che hai? Lo capisco che c’è ancora un problema» disse, con uno sguardo che esigeva una risposta immediata.

   «Lantora, io... devo andare...» cominciò T’Vala, maledicendo Lyra per la sua mancata collaborazione. Ma vide gli occhi di Lantora spalancarsi, pieni di uno stupore che divenne subito collera.

   «Traditrice!» gridò lo Xindi, fissando qualcuno alle sue spalle. Le restituì bruscamente il bimbo e imbracciò di nuovo il fucile phaser. T’Vala si girò, confusa, e vide qualcosa che la raggelò. Lyra aveva aperto la Phoenix e vi stava entrando. Dunque la sua natura egoista e ingannatrice aveva preso ancora una volta il sopravvento. Voleva fuggire con la navetta temporale, abbandonandoli alla vendetta di Shado.

   La sosia dello Specchio si voltò, indugiando sulla porticina. Il suo sguardo incontrò quello di T’Vala, solo per un istante. Vedendo Lantora che imbracciava il fucile, entrò del tutto e chiuse l’ingresso. Appena in tempo. Il raggio phaser colpì il retro della navetta, senza provocare gravi danni. Lantora corse verso l’hangar 5, ma dovette fermarsi dopo pochi metri: un muro si era riformato davanti a lui, per via della torsione. La strada per la Phoenix era chiusa.

   «NO!» gridò lo Xindi, dando un pugno sulla paratia. «Ora non la prenderemo più!».

   «C’è di peggio» rivelò T’Vala, venendogli accanto. «La Phoenix ci serviva per chiudere il wormhole, visto che non possiamo farlo col deflettore». Mentre parlava cullò Vrel, perché smettesse di piangere.

   «Si può farlo col pilota automatico?» chiese Lantora, agitatissimo. T’Vala non rispose e anzi distolse lo sguardo, confermando i suoi timori. Non sapendo se essere sollevato o meno dall’azione di Lyra, lo Xindi guardò attraverso il muro con il suo occhio artificiale. La Phoenix si stava alzando in volo e non c’era modo di raggiungerla in tempo.

 

   Terry si aggirava sulla plancia dell’Enterprise come un animale in gabbia. D’un tratto alzò la testa. «I Distruttori si ritirano» disse. «Rilevo centinaia di teletrasporti dalle zone non soggette alla torsione spaziale. Ma da quelle trasformate i Distruttori non riescono a partire».

   «Allora aiutiamoli» disse Chase, ansioso di liberare la nave. «Se i motori a impulso sono di nuovo in linea, usciamo dalla torsione».

   «Lo sono» confermò Ilia, che aveva sostituito T’Vala al timone. La Trill fece avanzare adagio l’Enterprise, sottraendola all’anomalia. Man mano che ne usciva, lo scafo riprendeva la forma originale, finché la nave tornò alla normalità, salvo per la gondola perduta. «Ecco, siamo fuori» disse la Comandante.

   «I miei sensori sono tornati a piena efficienza» informò Terry. «Confermo che sia lo scafo, sia gli interni hanno ripreso la configurazione originale. E gli ultimi Distruttori ci stanno lasciando... ecco, sono andati tutti».

   «Su gli scudi» ordinò il Capitano.

   «Scudi alzati all’80%» riferì l’IA. «Permesso di colpire il nemico?».

   «Non ancora» disse Chase, osservando l’ammiraglia dei Distruttori, inquadrata sullo schermo. La grande astronave era circondata dai vascelli dei Preservatori. I suoi scudi stavano cedendo e le prime esplosioni segnavano lo scafo. Ma al Capitano non interessava finirla: il problema era un altro. «Chase a T’Vala, rapporto» ordinò, premendosi il comunicatore. Grenk l’aveva informato della sua idea per chiudere il tunnel, ma il Capitano non voleva sacrificare né lei, né altri.

   «Ho fallito, Capitano. Mi dispiace» rispose la timoniera. In quella l’Enterprise subì un altro, violento scossone.

   «La Phoenix ha aperto il fuoco contro il portello dell’hangar» informò Terry. «Lo ha distrutto e sta uscendo». Inquadrò sullo schermo la navicella opalescente.

   «Se T’Vala è qui, chi c’è alla guida?» si allarmò il Capitano.

   «Lyra» disse Terry. «Ma non farà molta strada. Il raggio traente è operativo». Così dicendo agganciò la navetta in fuga, modulando la frequenza del raggio per fare presa sullo scafo in tritanio plastificato. Ironicamente i Distruttori ignorarono la Phoenix proprio ora che ce l’avevano sotto al naso. La loro flotta era a pezzi e le ultime navi battevano in ritirata. L’ammiraglia si dibatteva sotto il fuoco serrato dei Preservatori, che non le lasciava tregua.

   «Se ha di nuovo il teletrasporto, riporti qui T’Vala e Lantora» ordinò Chase, ansioso di sapere cos’era successo. Terry annuì e li trasferì all’istante.

   «Dov’è Vrel?» chiese la mezza Vulcaniana, che aveva il figlio in braccio fino a un istante prima.

   «Niente paura, l’ho trasferito nella zona protetta dove le educatrici hanno radunato i bambini» la rassicurò Terry.

   «Lieto di rivedervi» disse il Capitano ai nuovi arrivati. «Ma che ci fa Lyra sulla Phoenix?».

   «Rekker l’ha liberata perché gliela aprisse» spiegò T’Vala. «Lui è morto, ma...».

   «... Lyra ha colto l’occasione per scappare» completò Lantora. «Ne sarei dispiaciuto, se non sapessi cosa volevi fare».

   «Calmi...» disse Chase, ma in quella la postazione di Grog ebbe un bip.

   «Lyra ci chiama» disse Terry, mentre Lantora tornava al tattico e T’Vala al timone.

   «Sentiamola» disse il Capitano.

   Lyra apparve sullo schermo, pallida e col viso tirato. «Lasciatemi andare» disse con voce un po’ roca.

   «Non con la Phoenix» obiettò Chase. «Ci serve per sigillare il tunnel».

   «È proprio quel che voglio fare» fu l’inaspettata risposta. «Siete brave persone, non dovete sacrificarvi. Ma io... ho fatto cose orribili. Permettetemi di fare ammenda».

   «No, non devi!» disse T’Vala, pur sapendo che non l’avrebbe ascoltata.

   «Addio, sorella» disse Lyra, con un sorriso triste. «Avevi ragione sul mio conto... non posso rubarti la vita. Ma posso aiutarti ad averne una lunga e prospera. Ricordati di me». Ciò detto, chiuse il canale.

   Lantora era stato sul punto di lanciarle i suoi strali, ma si trattenne. Il dubbio si fece strada in lui, come in tutti gli altri. Anche se il passato l’accusava, non c’era modo di sapere le vere intenzioni di Lyra.

   «T’Vala... lei conosce la sua sosia meglio di chiunque altro» disse Chase. «Pensa che sia sincera?».

   T’Vala si girò verso di lui, ma il suo sguardo era distante. Rimuginò per qualche secondo. «Io... credo di sì» mormorò infine.

   «Allora rilasciate la Phoenix» ordinò il Capitano, conscio di correre un rischio enorme, affidando la salvezza di tutti alla clandestina dello Specchio.

   «No!» gridò Terry, levando un braccio verso la navetta inquadrata sullo schermo. Il raggio traente continuò a trattenerla e anzi la tirò indietro, verso l’Enterprise.

   «Che fai?!» la richiamò Chase. «Lyra deve far collassare il wormhole, o sarà stato tutto inutile. Shado tornerà nel nostro Universo e saremo daccapo».

   «Troveremo un altro modo» disse l’IA, senza nemmeno guardarlo: i suoi occhi restavano fissi all’imboccatura del tunnel.

   «A te ne viene in mente uno? Rispondi... e guardami, maledizione!» esclamò il Capitano, andandole davanti e afferrandole le spalle, per distrarla da quanto accadeva all’esterno.

   «No, ma... Sunny è la mia metà, non posso lasciarlo morire!» gemette Terry, riscuotendosi a stento.

   «Te l’ha chiesto lui. Anche se Shado venisse scacciato da Exosia, ha ancora il potere di consumare quest’Universo. Dobbiamo impedirgli di tornare, Terry... dobbiamo vincere questa battaglia!» disse Chase.

   «Perché dev’essere Sunny a sacrificarsi? Perché devo essere io a perdere chi amo?!» gridò Terry, il dolore già trasformato in collera. La proiezione isomorfa sfrigolò: la pelle e l’uniforme divennero un reticolo informatico bluastro, mentre gli occhi lampeggiarono rossi. Perso il bell’aspetto con cui era stata programmata, Terry divenne molto brutta. Si avventò contro il Capitano, che indietreggiò precipitosamente, finché si trovò con le spalle allo schermo. Furiosa, l’IA lo agguantò per la gola e lo sollevò da terra. Gli ufficiali si fecero avanti per aiutarlo e Lantora impugnò il phaser, ma Ilia gli segnalò di attendere, sapendo che una sparatoria non avrebbe risolto la crisi.

   «È colpa vostra!» ringhiò Terry, la voce distorta come l’aspetto. «Di voi umanoidi! Shado è scaturito dalle vostre menti, l’avete creato voi!» accusò, serrando la stretta.

   «A-anche Sunny!» gemette Chase, aggrappandosi al braccio di Terry, per evitare che fosse il suo collo a sopportare tutto il peso. «Sono nati assieme... l’uno non può esistere senza l’altro!» rantolò, sul punto di svenire asfissiato.

   Terry spalancò gli occhi, che brillarono ancora più rossi. Chase pensò che gli avrebbe spezzato il collo. Invece l’IA lanciò un grido terribile, come d’innumerevoli voci che urlassero assieme il proprio dolore; un grido che echeggiò nella plancia e in tutto il resto della nave, diffuso dagli altoparlanti. Lo lasciò andare e si accasciò in ginocchio, tremante. La sua proiezione sfarfallò ancora, tornando ai colori abituali.

   Chase boccheggiò in cerca d’aria e si girò verso lo schermo. Il raggio traente era stato disattivato. Non più trattenuta, la Phoenix schizzò in avanti, scomparendo nel tunnel spaziale. Lyra era stata di parola.

 

   Giunta a metà tragitto, Lyra arrestò la navetta. Le pareti violette del wormhole riempivano lo schermo olografico, abbaglianti. La mezza Vulcaniana diede piena energia al nucleo temporale, ma senza inserire le coordinate di destinazione. Le sue mani si muovevano svelte sugli olo-comandi: anche dopo tanti anni, ne ricordava il funzionamento. In realtà non aveva mai pilotato la Phoenix, bensì il Basilisk, il suo corrispettivo dello Specchio. Ma dato che le due navette erano identiche, il suo addestramento le permetteva di cavarsela.

   Sentendo il ronzio del nucleo temporale che saliva di tono, Lyra lasciò la poltroncina di comando. Aprì il portello su pavimento, mettendo a nudo il nucleo. «Ci siamo» pensò, impugnando il phaser. Mirò il punto più delicato del meccanismo e settò l’arma sulla massima potenza. L’esplosione l’avrebbe disintegrata prima ancora che potesse sentire dolore. Non era un brutto modo di andarsene... ma Lyra sentì ugualmente una gran pena. Aveva appena cominciato a riscoprire la vita, ed ecco che doveva rinunciarvi. Almeno era per una buona causa, si disse. Se fosse rimasta nello Specchio, dove ogni giorno era una lotta, probabilmente sarebbe finita come i suoi colleghi dell’ISS Enterprise. Sarebbe morta inseguendo obiettivi personali: ricchezza, potere, forse vendetta. Così, invece, poteva fare del bene... dimostrando che non era solo una copia cattiva di T’Vala.

   Lyra chiuse gli occhi e sgombrò la mente dai ricordi dolorosi. Sentì che anche la paura l’abbandonava. E finalmente, dopo tanti anni, si sentì in pace con se stessa. Pensò a Exosia, il luogo oltre lo spazio e il tempo che aveva visitato con Suspiria. Se esistevano altri piani di esistenza... altre realtà oltre a quelle percepibili... Lyra si concesse questa speranza, illogica ma consolatrice. E premette il grilletto.

 

   Dall’inizio della loro lotta, Sunny aveva difeso strenuamente l’imboccatura del tunnel spaziale, per impedire al fratello di tornare ad Andromeda. Ora però Shado raddoppiò il suo attacco, spinto non solo dalla rabbia, ma anche dalla paura. La porzione di Exosia in cui si trovavano era stata recisa dal resto, grazie agli sforzi combinati dei suoi abitanti. Non più supportata dal micelio, che la battaglia aveva consumato e distrutto, la regione stava collassando nel nulla.

   «No, io non posso morire!» ruggì Shado, lanciandosi nel suo attacco più forsennato contro Sunny. Le loro immense forze di volontà si affrontarono finché, con uno sforzo atroce, Shado riuscì ad aprirsi un varco fino al tunnel. La Melma Nera vi fluì come un fiume di catrame, in cerca di salvezza. E captò la Phoenix. Sulle prime, Shado non capì cosa ci facesse lì la navetta temporale. Ma percependo le emissioni tachioniche del nucleo, comprese in che modo potevano essere utilizzate.

   «NO!» gridò Shado. Per la prima volta nella sua vita fu assalito da un autentico terrore: sapeva che, se il wormhole si fosse chiuso prima che ne uscisse, non avrebbe avuto scampo. Schizzò in avanti ancora più rapido. Stava per travolgere la Phoenix quando il nucleo temporale esplose, dissolvendo la navetta a livello subatomico. Un violento flusso di tachioni fu proiettato in entrambe le direzioni del tunnel. Dissolse l’ondata di Melma Nera e spezzò il condotto a metà. Il rigurgito di tachioni si fece sentire anche a Exosia, mentre l’estremità del tunnel collassava. Pazzo di rabbia, Shado raccolse altra Melma e avanzò di nuovo, ma non c’era più un condotto in cui entrare.

   «Questa è la fine, fratello mio» disse Sunny con calma, mentre la realtà collassava intorno a loro. «Insieme siamo nati e insieme moriremo; ma il Multiverso vivrà».

   «Tu però non sarai lì a godertelo!» ribatté Shado, e Sunny ne percepì l’odio sconfinato. «Persino la morte mi riesce accettabile, sapendo che la condividi con me».

   «Così doveva essere» sospirò Sunny con rassegnazione. «Il nostro destino è compiuto».

   «Ma pensa ai tuoi amici... pensa a Terry!» gli ricordò Shado, per farlo soffrire più che poteva in quegli ultimi momenti. «La tua morte le lascerà una ferita inguaribile, rovinerà tutto ciò che ami di lei. Terry soffrirà in eterno! E ogni istante della sua agonia sarà la mia vittoria!» ruggì trionfante. La sua risata malefica riempì i pensieri di Sunny, prolungandosi fino all’ultimissimo istante delle loro esistenze.

 

   Dalla plancia dell’Enterprise, il collasso del tunnel spaziale apparve come una cascata d’energia azzurrina che eruppe dal vortice. Le pareti del wormhole tremarono e infine si dissolsero, generando una violenta onda d’urto che scosse la nave. I federali compresero che Lyra aveva tenuto fede alla parola data.

   «Addio, sorella» mormorò T’Vala, chinando il capo affranta.

   «Il tunnel non c’è più» confermò Ilia, leggendo i dati sulla consolle. «Scudi al 60%, l’energia principale regge».

   Chase osservò i resti azzurri dell’esplosione finché non si furono dissolti nello spazio. Aveva timore di voltarsi, perché voleva dire affrontare Terry... ma naturalmente andava fatto. Rinviare il confronto avrebbe solo peggiorato le cose. Perciò il capitano si voltò, adagio.

   Terry era in condizioni pietose. Si era raggomitolata sul pavimento, cingendosi le ginocchia con le braccia, e in quella posizione fetale piangeva in modo incontrollabile. Ma non aveva abbandonato il controllo della nave. L’Enterprise tornò all’attacco, colpendo l’ammiraglia dei Distruttori con tutte le sue armi.

   Martoriata dai Preservatori, la nave oblunga aveva perso gli scudi; il suo scafo era crivellato da falle. Stava cercando d’andarsene, lasciando dietro di sé una scia di rottami. Localizzati gli squarci nello scafo, Terry v’indirizzò i siluri quantici e transfasici. Immani esplosioni lacerarono l’astronave, finché il nucleo cedette, annichilendola in un lampo bianco. L’Enterprise sussultò per l’onda d’urto, ma gli scudi ressero anche stavolta.

   Incalzati dai Preservatori, privati dei loro capi e consapevoli che tutto era perduto, i Distruttori batterono definitivamente in ritirata. Le loro ultime astronavi entrarono in transcurvatura: decine di lampi che illuminarono lo spazio come fuochi d’artificio.

   Fu allora che Suspiria riapparve. La Nacene aveva i vestiti bruciacchiati, come anche i capelli, e un’ustione sul volto. Si accasciò sul pavimento, stremata. «È fatta» sussurrò, per poi tossire debolmente. «Abbiamo domato l’incendio di Shado, assieme ai Q e a molti altri. Lo abbiamo isolato e gli abbiamo tolto il combustibile, finché si è estinto. Questo l’abbiamo pagato con molte vite. Exosia è danneggiata, ma vive e tornerà a crescere. Il Multiverso è... salvo».

   «Ha ragione» confermò Ilia, leggendo il rapporto dei sensori. «Le anomalie spaziali e temporali si sono dissolte. La battaglia è finita, abbiamo vinto».

   «E Sunny?» chiese Terry, rivolgendo un’occhiata implorante alla Nacene.

   «Ha trattenuto Shado, mentre noi facevamo terra bruciata. Non ce l’avremmo fatta senza di lui» rispose Suspiria. Tossì ancora e riprese con voce fioca: «Mi spiace, so quanto ti stava a cuore. Il suo sacrificio non sarà dimenticato». Ciò detto, svenne.

   Un silenzio opprimente calò sulla plancia. Il sollievo della vittoria era offuscato dal suo tremendo prezzo. Sunny era nato dalle loro menti: la sua morte li colpiva tutti, come se avessero perso una parte di se stessi. Ed era ancora più amara per Terry, che aveva sperato fino all’ultimo di salvarlo. Il Capitano sentì che doveva farle avvertire la sua vicinanza, o il dolore l’avrebbe inghiottita, cancellando tutto ciò che di buono aveva appreso in quegli anni. Così le s’inginocchiò accanto e l’aiutò ad alzarsi. «Vieni» disse, conducendola nel suo ufficio, dove potevano parlare in privato. Sentì i singhiozzi che la squassavano.

   «Non è... giusto!» riuscì a dire Terry fra le lacrime.

   «Non lo è» convenne il Capitano. La fece accomodare sul divanetto e le si sedette accanto. «Ti è toccata la prova più crudele. Però...» aggiunse, cercando le parole adatte «... perdere quelli che amiamo, elaborare il lutto, fa parte della condizione umana. Contribuisce a definire chi siamo. E tu sei umana, su questo non ho alcun dubbio» aggiunse, abbracciandola come a volte aveva fatto con sua sorella Helen, quand’erano bambini e qualcosa la faceva piangere.

   Udendo questo, Terry riuscì a frenare i singhiozzi. Si girò verso Chase, che la lasciò andare pur restandole accanto, e alzò gli occhi arrossati su di lui. «Dici sul serio? Mi consideri umana?» chiese, come se da questo dipendesse la sua vita.

   «Sì, te lo giuro» rispose il Capitano, fissandola con la stessa intensità. «Tengo a te come tenevo a mia sorella, prima di perderla. Perciò non ti mentirei mai. Tu sei uno degli esseri più umani che conosco» ripeté convinto. «E anche se sembra che il dolore ti annienti... anche se pensi che non se ne andrà mai... non lasciare che distrugga quanto di buono hai dentro. C’è ancora chi ti vuol bene».

   Terry respirò in fretta, col volto bagnato di lacrime. «È come se mi avessero strappato una parte di me... fa così male... perché fa così male?» ansimò, portandosi una mano al cuore.

   «Perché era vero» spiegò il Capitano.

   «Ma perché darmi le emozioni?» insisté la proiezione isomorfa. «Potevo fare meglio il mio lavoro, senza. E potevo risparmiarmi... questo!» disse, annaspando come se stesse annegando.

   «Ci somigli per lo stesso motivo per cui noi siamo come i Proto-Umanoidi: i figli somigliano ai genitori» rispose Chase.

   «Bell’affare! Preferirei non aver mai amato, piuttosto che amare... solo per perdere» commentò Terry con amarezza.

   «In molti lo pensano, nell’ora del dolore» ammise il Capitano. «Ma guarda T’Vala: ha perso sua madre a sette anni, eppure ha scelto di continuare a provare emozioni. Per non perdere la gioia dei bei momenti, ha accettato il dolore del distacco».

   Terry deglutì e tornò a guardarlo. «Io dovrò convivere col dolore per molto tempo» disse tetra.

   «Questo è vero» sospirò Chase. «Ma qualunque cosa tu scelga... restare nella Flotta o andartene... noi saremo dalla tua parte» promise. In quella il suo comunicatore si attivò.

   «Infermeria a plancia» disse la dottoressa Vash’Tot. «Qui c’è una signorina che vorrebbe salutarla». Il pianto della neonata si sovrappose alla sua voce.

   «Verrò appena possibile. Chase, chiudo» mormorò il Capitano.

   «Congratulazioni» disse Terry, tirando su col naso.

   «Mi spiace che questo accada mentre sei in lutto» disse Chase, imbarazzato. In altre circostanze l’avrebbe invitata a seguirlo, ma stando così le cose, temeva che vedere la gioia altrui ne avrebbe esacerbato il dolore.

   «Lascia stare» disse l’IA, e in qualche modo riuscì a sorridere, sebbene avesse ancora gli occhi arrossati e il viso inumidito dal pianto. «Mi consola sapere che Jaylah sta bene. Posso vederla?» chiese.

   «Certo, se lo desideri» annuì Chase. Si alzarono e tornarono in plancia.

   «Abbiamo portato Suspiria nell’infermeria 2» riferì Ilia. «Abbiamo anche completato l’analisi sensoriale della nave: non ci sono più Distruttori in vita».

   «Ho contattato la mia gente: mi hanno chiesto di tornare» aggiunse Talat.

   «Riconoscono di nuovo la sua autorità?» chiese il Capitano.

   «Così sembra» annuì Talat, confortata. «Farò in modo che vi aiutino con le riparazioni. È stato il sacrificio dei vostri a salvarci; per questo avete la nostra gratitudine».

   «Ogni aiuto è ben accetto» disse Chase. Attorno a lui, gli ufficiali stavano ancora redigendo la lista dei danni e delle vittime, ma il Capitano sentì che non era più necessaria la sua supervisione. «A lei la plancia, Comandante» disse, scambiando un’occhiata d’intesa con Ilia. Lui e Terry entrarono nel turboascensore, diretti all’infermeria principale.

 

   Neelah era ancora stesa sul lettino medico dove aveva partorito. Stringeva a sé un fagottino da cui uscivano due minuscole antenne, sottili e fragili come fili d’erba. Quando Chase entrò, alzò gli occhi su di lui. «Abbiamo vinto?» chiese subito.

   «Sì» rispose Chase avvicinandosi, mentre Terry restava più indietro. «Ma a caro prezzo. Wu e molti altri della Sicurezza sono morti. Lyra si è sacrificata con la Phoenix per chiudere il tunnel. E Sunny... ha dovuto trattenere Shado finché quelli di Exosia li hanno tagliati via dalla Rete».

   L’Aenar guardò Terry, sgomenta e addolorata. «Oh, Terry... mi dispiace» disse con gli occhi lucidi. «Non posso neanche immaginare come ti senti».

   «Sto ancora cercando di dargli un senso» ammise la proiezione isomorfa. «Posso vedere Jaylah? Mi conforta sapere che se uno ci ha lasciati, un’altra è venuta fra noi».

   «Certo... avvicinati» la invitò Neelah. «Tu sei parte della famiglia» aggiunse a bassa voce.

   Terry la guardò con gratitudine e venne avanti, lasciando comunque la precedenza al Capitano. Con le gambe molli, Alexander Chase si avvicinò al bio-letto e si chinò sul fagottino di panni bianchi. Guardò il futuro. E il futuro gli ricambiò lo sguardo con due enormi, sconvolgenti occhi azzurri.

   «Ciao, stellina» mormorò il padre. Non osando toccare quel visino tondo, né tantomeno le antenne fragilissime, le sfiorò un braccino. «Benvenuta fra noi». Baciò Neelah, sentendone la stanchezza ma anche l’appagamento.

   Passato qualche minuto, Terry si affiancò a lui e osservò la neonata, che aveva cominciato a sbavare. Forse stava cercando di sorridere. Neelah le pulì delicatamente la bocca con una salvietta. «Ora comincia il bello... pannolini e notti insonni!» scherzò l’Aenar, ma alzando gli occhi su Terry sentì una gran pena per lei.

   «Sei fortunata, Neelah» disse la proiezione isomorfa. «Io non avrò mai figli, ma... pazienza. La mia vocazione è proteggere chi sta su questa nave. Finora l’ho fatto perché seguivo il mio programma. D’ora in poi lo farò perché l’ho scelto» decise. Guardò gli occhioni azzurri di Jaylah e le sfiorò il braccino paffuto. La neonata strillò, piena di vita: un balsamo per il cuore sanguinante di Terry.

 

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Capitolo 9
*** Addio ad Andromeda ***


-Capitolo 8: Addio ad Andromeda

 

   Finito il loro turno in plancia, Lantora e T’Vala si recarono alla zona protetta in cui le educatrici avevano radunato i bambini dell’Enterprise. Ora che l’emergenza era cessata, li stavano restituendo ai genitori, man mano che questi si liberavano dagli impegni. La coppia trovò Vrel intento a disegnare, insieme ad altri bambini della sua età, attorno a un basso tavolino. Come vide i genitori, il bimbo strillò di felicità e corse loro incontro. «Mamma!» gridò, trottando sulla gambette corte.

   T’Vala s’inginocchiò e lo abbracciò stretto. «Ciao, tesoro... mi sei mancato» disse, trattenendo le lacrime di gioia. Siccome Vrel si agitava, T’Vala lo lasciò andare. Il bimbo corse di nuovo al tavolino, prese il suo disegno e lo riportò di corsa ai genitori. «Tuo!» disse emozionato, porgendolo al babbo.

   Lantora prese il foglio e anche T’Vala si rialzò per osservarlo. Il disegno era confuso come ci si poteva aspettare da un bambino di un anno, ma s’intuiva che Vrel aveva raffigurato lo scontro nell’hangar 5, con i genitori che lo proteggevano.

   «Bellissimo, questo lo metteremo nella tua cameretta» promise Lantora, carezzandolo sulla testa. Vrel fece un gridolino di gioia e prese a correre avanti e indietro.

   «Quando ho sparato, lui...» sussurrò lo Xindi.

   «Non credo abbia visto, ero in mezzo» rispose la mezza Vulcaniana.

   «Beh, speriamo» sospirò Lantora. «Vieni, artista. Torniamo a casa» disse, richiamando il figlio. Vrel gli afferrò un dito con la manina e tutti e tre lasciarono la zona protetta.

 

   Tornati nel loro alloggio, lo trovarono sottosopra per via degli scossoni e delle anomalie sopportati dall’Enterprise. Il terminale del computer era fuori uso e c’erano altri danni, ma decisero di rimandare i lavori all’indomani. Consumata una rapida cena, misero Vrel a nanna – non prima che Lantora appendesse il suo capolavoro nella cameretta, come promesso. Finalmente liberi, crollarono sul divano.

   «Sai che ci serve? Una lunga licenza, appena torneremo all’Unione» disse lo Xindi, abbracciando la moglie. «Abbiamo accumulato un bel po’ di vacanze. Possiamo andare su Xindus, così Vrel incontrerà la mia famiglia. E naturalmente anche su Vulcano, da tuo padre».

   «Hm-hm» annuì T’Vala, raggomitolandosi fra le sue braccia.

   «Sempre che tu non voglia mollare» aggiunse Lantora, più serio.

   «Mollare cosa?» chiese lei.

   «La Flotta Stellare. Per non esporre il pupo ad altri pericoli» disse lo Xindi. «Andiamo, non dirmi che non ci hai pensato. Dopo quel che è successo oggi, non ti biasimo... anch’io ci sto riflettendo».

   T’Vala gli si rigirò tra le braccia, per guardarlo negli occhi. «Sono così stanca che preferirei rimandare questi ragionamenti» disse. «Comunque... quando torneremo nel Quadrante Alfa non correremo più pericoli così gravi. Inoltre so che la carriera è importante per te. Ti sei impegnato tanto, in questi anni, e ora che la promozione è nell’aria non voglio guastarti tutto. Anch’io, del resto, non voglio buttar via il mio lavoro».

   «Allora siamo d’accordo... restiamo nella Flotta» concluse Lantora, sollevato nel vedere che la pensavano allo stesso modo.

   «Restiamoci» annuì T’Vala. «Ma voglio la vacanza di cui parlavi!» sorrise. «Vulcano, Xindus... magari anche Betazed. Che li difendiamo a fare, se poi non ci mettiamo piede?».

   «La tua logica è impeccabile» sorrise Lantora, e la baciò. Ma comprese che sua moglie stava ancora soffrendo. «Pensi ancora a Lyra, vero?» le chiese.

   T’Vala si lasciò sfuggire un sospiro e annuì.

   «Mi ero sbagliato sul suo conto» ammise lo Xindi. «Quale che fosse il suo passato, si è riscattata. Con la Phoenix a disposizione poteva andare dove voleva, sapendo che non l’avremmo più presa. Invece si è sacrificata per tutti noi. Le sarò grato finché avrò vita».

   «Almeno abbiamo potuto conoscerci» disse la mezza Vulcaniana. «Ma vorrei che fosse ricordata, in qualche modo. Stavo quasi pensando... so che è strano, ma...».

   «Dimmi» la invitò Lantora.

   «L’ultima volta che ne parlammo, dicesti che eri favorevole ad avere un altro bambino. È ancora così?» chiese T’Vala, speranzosa.

   «Sì, perché?» chiese lo Xindi, sebbene intuisse il motivo.

   «Se sarà femmina vorrei chiamarla Lyra» disse T’Vala, tutto d’un fiato.

   «Nulla in contrario» disse Lantora, carezzandole ritmicamente i capelli. «Nulla in contrario».

 

   «... e vedendo che Anjou stava per ucciderli, Lantora non ebbe altra scelta che sparare» disse Chase. La sala conferenze dell’Enterprise era gremita da centinaia di spettatori. Molti altri seguivano il discorso in olovisione dai loro alloggi. «Non sapendo se Anjou era stato equipaggiato con lo scudo dei Distruttori, il Tenente dovette mantenere alto il settaggio dell’arma, uccidendolo. E quando Rekker cercò a sua volta d’assassinare gli ostaggi, Lantora dovette colpire anche lui. Vi ricordo che era stato Rekker a manipolare Anjou. Ed era sempre lui a dirigere l’attacco contro questa nave, dopo la morte di Gorog». Terminato il resoconto, il Capitano prese fiato e scrutò il vasto uditorio.

   «Ho voluto riferirvi i dettagli della morte di Anjou perché so che molte persone, qui a bordo, lo considerano una guida spirituale, se non addirittura un profeta» spiegò Chase. «Mi riferisco ai Figli della Luce, coloro che attribuiscono qualità sovrannaturali al nostro amico Sunny. Ebbene, Sunny era indubbiamente un essere speciale, diverso da chiunque altro. Aveva grandi poteri, combinati con una compassione ancora più grande, che l’ha spinto all’estremo sacrificio. Lo ricorderemo sempre con gratitudine, al pari di altri che hanno dato la vita in questa battaglia, come Lyra e Wu. Ma chi ha conosciuto meglio Sunny può testimoniare che egli non si è mai considerato una figura messianica. Il suo sacrificio merita profondo rispetto, ma non venerazione. E quanto ad Anjou... il suo auto-proclamato Emissario... lui non merita né l’uno, né l’altra» sottolineò il Capitano.

   «Molti di voi potrebbero essere tentati di scusarlo, dato che credeva d’aiutarci nella lotta contro Shado» proseguì Chase. «Ma io credo che, a prescindere dalle nostre idee, siano le azioni a definirci. Anjou ha aiutato i Distruttori nel loro attacco all’Enterprise. Ha minacciato T’Vala di uccidere suo figlio e poi, per ordine di Rekker, ha cercato di assassinarli entrambi. Non ci sono scuse per queste azioni efferate. Pertanto mi rivolgo ai Figli della Luce: vi consiglio caldamente di sciogliere la vostra setta. Non condanno la vostra sete di spiritualità, ma la strada violenta su cui vi ha portati. Se ammirate Sunny, cercate d’imitarlo nel bene; ma non date ad Anjou meriti che non ha. Non fatene un martire. L’Unione Galattica vi garantisce libertà di culto, ma solo finché rispettate le sue leggi. È tutto» disse il Capitano, ritirandosi dal podio.

   Gran parte del pubblico applaudì. Ma Chase notò che alcuni dei presenti – i Figli della Luce – si allontanavano con aria ferita o infuriata. Si augurò che nessuno prendesse il posto di Anjou per sobillarli. Accanto a lui, Terry rimase silenziosa. Anche se si occupava delle riparazioni con grande professionalità, chi la conosceva bene sapeva che era in lutto. Come Chase aveva riscontrato spesso, concentrarsi sul lavoro era un modo per tenere la mente occupata, distraendosi dai propri affanni. Ma sebbene Terry avesse accennato al fatto di voler restare in servizio, il Capitano non era affatto sicuro che questa fosse la sua decisione finale.

 

   Cinque giorni dopo la battaglia, Chase convocò gli ufficiali superiori in sala tattica, per fare il punto della situazione. Venne anche Neelah, riavutasi dal parto a tempo record. L’Aenar però non si era ancora re-iniettata le nanosonde e non sembrava aver fretta di farlo. Naturalmente era già tornata al lavoro, per occuparsi dei feriti, alcuni dei quali versavano ancora in gravi condizioni. Aveva però dei turni ridotti, per passare del tempo con Jaylah. Chase sorrise fra sé: la bimba era ancora nella culla, ma il loro alloggio – un tempo ordinatissimo – era già ingombro di sonaglini, peluche e biberon.

   Oltre agli ufficiali dell’Enterprise, alla riunione parteciparono anche Fanior, Suspiria e Talat. La Proto-Umanoide aveva ora la fronte contornata dal cerchietto argenteo che spettava al leader del suo popolo.

   «Ben arrivata, Prima Delegata» l’accolse Chase, calcando la voce sul titolo. «Ho saputo con piacere della sua nomina».

   «Una responsabilità che ho dovuto prendermi» annuì Talat. «Ma se non vi spiace, vorrei levarmi questo per un poco. Non sapete quant’è scomodo!». Si levò il cerchietto e lo posò sul tavolo tattico, davanti a sé. «Allora, avete quel che vi occorre? Se manca qualcosa, non esitate a chiedere».

   «Con le vostre squadre che ci aiutano, le riparazioni procedono dieci volte più veloci del normale» disse Grenk, soddisfatto. «Entro domani sarà tutto a posto, tranne la gondola di dritta. Quella è più complicata da sistemare».

   «Quanto complicata?» chiese il Capitano.

   «In circostanze normali, direi che è impossibile riattaccarla senza passare da un cantiere dell’Unione» rispose l’Ingegnere Capo. «Ma la tecnologia dei Progenitori è fantastica. Credo che fra una settimana avremo la gondola al suo posto».

   «Si prenda il tempo che le occorre per fare tutto in sicurezza» raccomandò Chase.

   «Mi offrirei di trasferirvi io» intervenne Suspiria. «Ma Exosia è stata danneggiata dalla battaglia. È meglio aspettare che si rigeneri, prima di tornare a usarla per viaggiare» spiegò. La Nacene era stata appena dimessa dall’infermeria. Le erano serviti giorni per riprendersi dalle ferite e dallo sfinimento della lotta. Sebbene fisicamente fosse tornata a posto, si stava ancora riavendo dallo sforzo, come rivelava la voce bassa e stanca.

   «Spero che la tua patria guarisca quanto prima» si augurò il Capitano. «Quanto a noi, per prima cosa andremo a Kelva, per riaccompagnare il Consigliere Fanior a casa. Poi torneremo nel Quadrante Alfa, come ci ha ordinato il Comando di Flotta».

   «Andromeda non sarà la stessa, senza di voi» ammise Suspiria.

   «Questo non è un addio» sostenne Chase. «Non sappiamo se e quando l’Enterprise tornerà ad Andromeda. Ma ora che la rotta è tracciata, altre navi munite di propulsore cronografico verranno qui. Forse non subito, ma verranno. E se la Rete guarirà, voi Nacene potrete raggiungere la Via Lattea ancora più facilmente. Perciò spero che le nostre genti restino in contatto».

   «Lo spero anch’io» assicurò Fanior.

   «C’è un’altra questione di cui dobbiamo discutere: i Distruttori» ricordò Ilia. «La loro sconfitta militare è irrilevante, se comparata all’effettiva dimensione della loro flotta. Prima Delegata, dobbiamo chiederle se ha informazioni aggiornate».

   Vedendo che tutti i presenti si aspettavano una risposta esauriente, Talat si schiarì la voce. «Il grosso delle loro forze, schierato intorno alla galassia, ha lasciato l’allineamento dopo la distruzione dell’Uroboro» spiegò. «Ci sono stati scontri con le nostre navi, laddove le flotte erano miste, ma l’inferiorità numerica li ha costretti a ritirarsi. Ora che la loro leadership è stata decapitata, dovranno riorganizzarsi. I nostri ricognitori indicano che si stanno radunando alla periferia di Andromeda, sul lato opposto rispetto a Kelva. Stiamo seguendo i loro movimenti, ma non lancerò un attacco... è già scorso abbastanza sangue fra noi».

   «Potrebbero attaccare loro» obiettò Chase con gravità. «Se ricorda le parole di Gorog, non hanno mai smesso di odiarvi. Hanno solo celato il loro astio, dovendo collaborare contro la Scourge; ma alla prima occasione vi si sono rivoltati contro. Spero che, se tratterete di nuovo, lei stia molto attenta».

   «Oh, non sono così ingenua» assicurò Talat. «Mi è chiaro ormai che la Riunificazione è impossibile. Il Popolo non tornerà mai unito... ma non è detto che debba combattersi per sempre. Forse potremo vivere ciascuno nei propri confini. Dopotutto Andromeda è una galassia vasta».

   «Spero che anche fra noi possano mantenersi i contatti» intervenne Fanior. «La Coalizione ha subìto gravi perdite nella lotta contro Shado. Se i Distruttori ci attaccheranno, forti del loro numero, voi sarete la nostra sola speranza».

   «Non vi abbandoneremo» promise Talat. «Se mai i Distruttori vi attaccassero... o se invadessero la Via Lattea... noi interverremo».

 

   Per la decima volta, Terry cambiò la posizione dei soprammobili nel suo alloggio, cercando di fare spazio per i bonsai. Dopo la scomparsa di Sunny si era ritrasferita nel suo vecchio alloggio singolo, ma aveva difficoltà a farci stare tutto. Negli ultimi anni si era procurata più oggetti personali, come ad esempio gli alberelli; ma le doleva non avere nulla che le ricordasse Sunny. Data la sua natura e le sue capacità, l’umanoide dorato non aveva molti bisogni. All’occorrenza si era servito di oggetti d’uso comune, ma non c’era alcun cimelio particolare associato a lui. Tutto ciò che restava a Terry erano i ricordi.

   Osservando i bonsai che aveva tra le mani, Terry si chiese se davvero aveva voglia di conservarli. Ciascuno degli alberelli richiedeva attenzioni: acqua in giusta quantità, attente potature, travasi da una vaschetta di terra all’altra. In precedenza le piaceva prendersene cura, ma ora si sentiva svuotata e priva d’interesse per quell’arte. Decise di sbarazzarsene. Prese un bonsai – il primo a cui si era dedicata – e lo mise nell’inceneritore di rifiuti. Stava per azionare il dispositivo, quando il segnale d’ingresso l’avvertì di una visita. Terry lasciò l’inceneritore, con il bonsai ancora dentro, e si recò alla porta. La visitatrice era la signora Murphy, che aveva con sé una valigetta.

   «Ehm, ciao» salutò la donnina. «Come stai?».

   «Come vede» rispose Terry. Indossava un kimono bianco – il colore del lutto in Estremo Oriente – e aveva un aspetto disordinato. «Che posso fare per lei?» chiese stancamente. «Se è qui per uno dei suoi disturbi, devo chiederle di andare in infermeria. Non si fanno più miracoli, su questa nave».

   «Io e gli altri siamo vivi... questo è il miracolo» rispose la Murphy, spostando il peso da un piede all’altro. «Cosa di cui dobbiamo ringraziare anche te. Non solo per stavolta... ma per tutte le volte che la nave è stata in pericolo. Ti sei sempre prodigata per noi... e invece di ringraziarti, ti abbiamo dato altri problemi. Vorrei scusarmi per questo. E per... ehm, per tutto il resto» aggiunse a occhi bassi.

   «Scuse accettate» disse Terry, sperando di non avere più grattacapi da lei. «C’è altro?».

   «Sì, vorrei darti questo» annuì la donnina, porgendole la valigetta. «Contiene un’unità di memoria con le lettere scritte da molte famiglie dell’Enterprise. Lettere di genitori che ti esprimono gratitudine per aver protetto i loro figli. E letterine di bambini che ti ringraziano con le loro parole. Ci sono anche dei disegni fatti a mano dai bimbi, sempre per dirti grazie. Così saprai quanto sei importante, per tutti noi».

   «Grazie del pensiero» mormorò Terry, prendendo la valigetta. «Quest’iniziativa è una sua idea?» volle sapere.

   «Ehm, sì. Era partita come una cosa fra amici, ma alla fine ha coinvolto quasi tutte le famiglie di bordo» spiegò la signora Murphy. «Ora vado... scusami ancora per tutto quanto. E condoglianze per la tua perdita». Arretrò in fretta, lasciando che la porta si richiudesse.

   Terry soppesò la valigetta, riflettendo sul significato di quel gesto. La posò sul divano, per leggere i messaggi più tardi; prima voleva risolvere la faccenda dei bonsai. Tornò all’inceneritore. Il suo dito indugiò sul tasto d’attivazione.

   «No» mormorò la proiezione isomorfa. Tirò fuori il bonsai e lo sistemò su una mensola. Se c’era qualcosa che poteva ricordarle Sunny, erano proprio quegli alberelli, che aveva iniziato a coltivare mentre vivevano assieme. Posando i più grossi a terra e i più piccoli su mobili e mensole, riuscì a disporli tutti senza che fossero d’intralcio. Poi li annaffiò e recise alcune foglioline; aveva già nuove idee su come indirizzarne la crescita.

   Quando ebbe finito, Terry arretrò verso l’ingresso e osservò soddisfatta il suo alloggio, ora pieno di verde. Infine tornò al divano e aprì la valigetta che le aveva dato la Murphy. Prima ancora di leggere le lettere, sfogliò i disegni infantili. Erano le cose più tenere che avesse mai visto: i bambini l’avevano raffigurata grande e importante come i loro genitori e a volte persino di più. Per quanto i tratti fossero incerti, le proporzioni errate e la prospettiva inesistente, Terry si rese conto che quei disegni contavano per lei più di tutta la sua banca dati artistica. Finito che ebbe di sfogliarli, inserì l’unità di memoria nel terminale del computer. Invece di scaricare tutto nel suo database, lesse alla maniera degli Umani: riga dopo riga, parola dopo parola, rileggendo le parti che più la commuovevano. Le lettere erano moltissime e alcune – specialmente quelle dei genitori – erano piuttosto lunghe, quindi non le lesse tutte in una volta. Ma nei giorni seguenti, ogni volta che tornava al terminale e ne leggeva una, si sentiva il cuore più leggero.

 

   Come promesso da Grenk, le riparazioni procedettero con una rapidità senza precedenti, grazie all’aiuto dei Proto-Umanoidi. La gondola di dritta fu riattaccata, un’operazione che avrebbe richiesto un mese anche nei migliori cantieri spaziali dell’Unione. Uno dopo l’altro, i sistemi tornarono a piena efficienza. Nel frattempo gli ultimi feriti furono dimessi dalle infermerie. Purtroppo le perdite erano gravi, soprattutto tra il personale della Sicurezza. L’Enterprise non poteva affrontare un’altra battaglia del genere: un motivo in più per lasciare Andromeda, prima che i Distruttori facessero la loro mossa.

   Dodici giorni dopo la Battaglia di Exosia, l’Enterprise lasciò il nucleo galattico e la flotta dei Preservatori. Un solo balzo con il propulsore cronografico la riportò a Kelva, dove la Coalizione si era riorganizzata dopo l’Assedio. I federali si trattennero ancora tre giorni, per sistemare gli ultimi dettagli e fare il check-up finale dei sistemi. Fatto questo, giunse l’ora degli addii. Chase e i suoi ufficiali accompagnarono Fanior in sala teletrasporto.

   «Beh, Consigliere... è stato un onore averla fra noi. Buona fortuna per i giorni a venire» disse Chase.

   «Grazie, Capitano» rispose Fanior, compunto come sempre. «Se mai voi, o altri federali, tornerete qui, sarete i benvenuti» garantì, stringendogli la mano.

   «Ma troveremo ancora la Coalizione? O le vostre specie torneranno a dividersi?» chiese il Capitano, con una certa apprensione.

   «Io e Suspiria ci stiamo battendo per tenerla unita, almeno nella prima fase della ricostruzione» spiegò il Kelvano. «La Scourge ha afflitto Andromeda per seicento anni. Le distruzioni sono immani... serviranno secoli per ricostruire le nostre civiltà. In tutto questo, la Coalizione può ancora fare molto».

   I federali non invidiarono Fanior per la responsabilità che si era assunto. Dirigere la ricostruzione di Kelva, e aiutare gli alleati a fare lo stesso sui loro mondi, era un compito che lo avrebbe assorbito per il resto della vita.

   «Alla sua gente su Kelva II spiacerà di non rivederla» disse Ilia, alludendo alla colonia kelvana nella Via Lattea.

   «Ho registrato un messaggio per loro» disse il Consigliere, estraendo un’unità di memoria da un taschino. «Tutti si aspettano il mio ritorno... devo spiegare perché resto ad Andromeda».

   «Se per lei va bene, vorrei portarlo io stessa» si offrì Ilia.

   «Certo» disse Fanior, consegnandole l’unità. La guardò con gratitudine: quel semplice favore era il segno di una profonda stima maturata fra i due, anche se non avevano mai superato certe barriere.

   «Quasi dimenticavo, c’è un’altra cosa che devo darvi» aggiunse il Kelvano. Andò alla consolle del teletrasporto e trasferì a bordo una grande cassa metallica.

   «Di che si tratta?» chiese il Capitano.

   «Germogli di Sashira, il nostro fiore cristallino. Vi prego di consegnarne alcuni alla nostra colonia, così avranno un pezzo di Andromeda fra loro» disse il Consigliere. «Il resto è per voi, se li trovate gradevoli. Vi avverto però di maneggiarli con cautela, perché sui vostri mondi potrebbero essere infestanti, rispetto alla vegetazione locale. Vorrei esprimere meglio la nostra gratitudine, ma...».

   «Non ce n’è bisogno; grazie del pensiero» disse Chase.

   Terry trasferì la cassa in una stiva di carico, liberando la pedana del teletrasporto. Fanior vi salì e si rivolse ai federali: «Grazie ancora per quanto avete fatto. Io e il mio popolo non vi dimenticheremo mai». Il suo ultimo sguardo fu per Ilia, prima che svanisse nel bagliore azzurro del teletrasporto. La Comandante sospirò, portandosi al cuore l’unità di memoria. L’avrebbe consegnata di persona a Kelva II, come promesso.

   «È ora che vada anch’io» disse Suspiria. «Il Clan degli Esuli mi attende. No, non serve il teletrasporto; ho i miei metodi. E niente facce tristi... vi farò visita nella Via Lattea» promise.

   «Se puoi trasferirti di nuovo tramite Exosia, significa che il micelio si sta rigenerando?» chiese il Capitano, ansioso per le sorti di quella dimensione.

   «Eccome! Sapete come fanno i funghi... spuntano in una notte!» ammiccò la Nacene, e svanì in un lampo giallo.

 

   L’Enterprise lasciò l’orbita di Kelva, dove alcune navi della Coalizione erano ancora impegnate a scaricare materiali e provviste, o al contrario a caricarli per soccorrere altri mondi. Kelva era infatti uno degli snodi in cui la Coalizione ridistribuiva le proprie risorse. Ora che Andromeda era purificata dalla Scourge, poteva farlo apertamente, invece di doversi nascondere. Questo rendeva le operazioni molto più facili.

   «Mi mancherà Kelva» ammise Chase, osservando il pianeta bruno, screziato dall’azzurro dei boschi di Sashira. «Mi mancherà Andromeda» sospirò.

   «Rilevo un’astronave in avvicinamento a transcurvatura» avvertì Terry. «È dei Proto-Umanoidi».

   «Preservatori o Distruttori?» si allarmò Lantora.

   «Impossibile dirlo, finché sono nel condotto; ma ne usciranno a momenti» rispose l’IA.

   «Allarme Rosso» ordinò il Capitano, chiedendosi se quello era l’inizio di un’invasione dei Distruttori. Dopo la Scourge, Andromeda rischiava di essere martoriata da una seconda calamità. L’astronave ovoidale uscì dalla transcurvatura a poca distanza dall’Enterprise.

   «Hanno gli scudi abbassati» rilevò Terry. «Ci stanno chiamando».

   «Apra un canale» ordinò il Capitano, alzandosi. Con sommo conforto vide il volto familiare di Talat.

   «Temevo che foste già partiti» salutò la Prima Delegata.

   «Stavamo per farlo, ma è un piacere rivederla» disse Chase. Fece segno a Terry di uscire dall’Allarme Rosso. «La vostra flotta si è riunita?» chiese.

   «Sì, ci siamo radunati intorno a una stella di tipo G nel nucleo galattico» spiegò Talat, soddisfatta. «D’ora in poi non ci nasconderemo più in periferia, mentre il resto della galassia soffre. Ho fatto passare la mia linea d’azione: aiuteremo la Coalizione a ricostruire, almeno nella prima fase. Ma c’è dell’altro... vi porto notizie dei Distruttori» aggiunse, facendosi più seria.

   «L’ascolto» disse l’Umano, con il cuore in gola.

   «La loro flotta ha continuato a raccogliersi all’estremità più lontana di Andromeda, fino a confluire in un unico Sciame» spiegò Talat. «Stavamo per contattarli, quando... se ne sono andati».

   «Andati dove?» si preoccupò il Capitano.

   «Nel vuoto intergalattico. Sono partiti in direzione opposta alla Via Lattea, allontanandosi finché i nostri sensori li hanno persi di vista» rivelò la Prima Delegata. «In quella direzione non ci sono galassie locali, nemmeno nane. Forse i Distruttori cambieranno rotta. Ma noi pensiamo che stavolta usciranno proprio dal Gruppo Locale. L’Universo è di una vastità incommensurabile... ovunque vadano, non credo che torneranno».

   «Buona notizia per noi... e pessima per chiunque se li vedrà arrivare» commentò Chase.

   «Ne convengo, ma non possiamo inseguirli per tutto l’Universo» disse Talat. «Né ho voluto scatenare una battaglia fra i nostri Sciami, che sarebbe costata milioni d’astronavi e miliardi di vite. Forse ci giudicherà opportunisti, ma... penso che il loro destino non sia più nelle nostre mani. Se non torneranno a minacciare Andromeda o la Via Lattea, non li cercheremo più».

   «Nessuno, qui, può ergersi a vostro giudice» rispose Chase. «Come dice lei, l’Universo è vasto. Spero che i Distruttori trovino un angolo libero in cui vivere senza più guerre. Quanto a voi Preservatori... avrete sempre la nostra gratitudine per averci messi al mondo. E per averci difesi nell’ora del pericolo».

   «Siete i nostri figli... e noi siamo molto fieri di voi» sorrise Talat. «Vi trasmetto le coordinate del nostro nuovo domicilio, assieme a un olo-messaggio per l’Unione Galattica. È più aggiornato rispetto a quello che lasciammo quattro miliardi di anni fa» scherzò.

   «Ho ricevuto tutto» confermò Terry qualche attimo dopo.

   «Lo consegneremo alla nostra gente» promise il Capitano. «Conoscere le nostre radici comuni aiuterà a consolidare l’Unione, spero».

   «Bene... questo invece è per lei, come ricordo» disse la Prima Delegata. Si sfilò dal collo il medaglione con l’uroboro. Ci fu un lampo bianco e il monile riapparve sulla sedia del Capitano.

   «Lo dia a sua figlia Jaylah, quando sarà grande. E le dica di trasmetterlo ai suoi eredi» raccomandò Talat. Poi si rivolse a tutti i presenti, con voce solenne. «Ricordate: in ogni inizio c’è il germe della fine e ogni fine è un nuovo inizio. Tutto cambia, tutto scorre in un eterno rinnovamento. E così siamo legati non solo gli uni agli altri, ma anche ai nostri avi e ai nostri posteri. Custodendo la memoria di ciò che siamo, possiamo comunicare con loro. Addio, miei coraggiosi e amatissimi figli!» disse, levando la mano in segno di saluto. Poi la Progenitrice svanì, la sua nave fece manovra e tornò in transcurvatura, diretta verso il nucleo galattico.

 

   Tornando a sedersi, Chase raccolse il medaglione. Lo contemplò brevemente, sfiorando il serpente inciso sulla superficie. Infine lo posò sul bracciolo. «Plancia a sala macchine, siamo pronti a partire?» chiese.

   «La cavitazione quantica e il propulsore cronografico sono operativi, Capitano» rispose Grenk. «A meno che voglia raggiungere la Terra con sua figlia già diplomata, suggerisco di usare il propulsore».

   «Quando vuole, signor Grenk» sorrise il Capitano. «Ma stavolta limitiamo il numero di balzi e riduciamo le soste fra l’uno e l’altro. Il Comando di Flotta ci ha richiamati da un pezzo; non facciamolo aspettare».

   «Non facciamo aspettare le licenze!» ridacchiò Grenk. «Sapevo che saremmo tornati in fretta, quindi ho già predisposto il piano di rientro con Terry. Raggiungeremo i margini della Via Lattea in appena tre balzi. Fra l’uno e l’altro sosteremo un giorno, per ricalcolare la posizione e controllare gli strumenti. Il pilota sta prendendo posizione sulla sedia cronografica; cinque minuti al primo balzo».

   «Eccellente» disse Chase. «Ha sentito, T’Vala... fra tre giorni attraverseremo la Barriera Galattica. Stavolta la voglio in una capsula cronofasica, come gli altri telepati. E se accuserà ugualmente dei sintomi, ce lo dica subito» raccomandò.

   «Il mio livello ESP va bene com’è... non ci tengo a elevarlo» assicurò T’Vala, ricordando l’incidente con la Barriera. Non voleva ripetere l’esperienza, soprattutto ora che c’era Vrel.

   «Un minuto al balzo» avvertì Terry, mentre l’Enterprise vibrava, raccogliendo l’energia. «Stiamo per lasciare Andromeda» disse. Aveva gli occhi appannati; il Capitano intuì che stava pensando a Sunny.

   Volendo esprimerle la sua vicinanza, Chase le venne accanto e le posò una mano sulla spalla. Terry alzò gli occhi su di lui, grata. Poi guardò un’ultima volta le stelle di Andromeda. «Addio, Sunny» sussurrò, così piano che solo il Capitano l’udì. L’attimo dopo, le stelle svanirono e il vuoto intergalattico riempì lo schermo. L’Enterprise aveva lasciato Andromeda, con le sue vittorie e i suoi lutti.

 

   Il viaggio di ritorno fu rapido e senza contrattempi. L’unico ostacolo fu la Barriera Galattica, la bolla di distorsioni subspaziali che avvolgeva la Via Lattea. L’Enterprise l’aveva già attraversata all’andata: quell’esperienza permise di ottimizzare gli scudi e di tracciare una rotta più sicura. I telepati di bordo, fra cui Neelah e T’Vala, entrarono nelle capsule cronofasiche come ulteriore protezione dagli effetti della Barriera. Sempre per ragioni di sicurezza presero con sé i rispettivi figli. Quando l’Enterprise superò le ultime distorsioni, rientrando nella Via Lattea, tutti i telepati furono sottoposti a dettagliate analisi mediche. Fortunatamente risultò che nessuno aveva subìto alterazioni. Con il balzo successivo, l’Enterprise si addentrò nel Quadrante Alfa, emergendo direttamente nel sistema solare.

   Nel vedere il Sole che brillava sullo schermo, Chase sentì un gran sollievo. Anche se a una parte di lui spiaceva aver lasciato Andromeda, era lieto di aver fatto ritorno senza incidenti. L’Unione era indubbiamente un posto più sicuro in cui crescere Jaylah.

   «Siamo a centoventi milioni di km dalla Terra» riferì T’Vala, nuovamente al timone. «Traccio la rotta di rientro».

   «Avanti a massimo impulso» ordinò il Capitano. «Terry, può mostrarcela?».

   «Certo; sensori a massimo ingrandimento» disse la proiezione isomorfa. Il globo bianco e blu della Terra apparve al centro dello schermo, come una biglia luminosa. Prese a ingrandirsi lentamente, man mano che l’Enterprise si avvicinava. Chase la fissò rapito: per quante meraviglie ci fossero nel cosmo, niente eguagliava la vista di casa.

   «Rilevo dieci navi federali in rotta d’intercettazione» riferì Terry dopo qualche minuto. «Sono del Perimetro Difensivo del sistema solare. C’è anche una chiamata dal Comando di Flotta».

   «Sullo schermo» disse il Capitano, alzandosi. L’Ammiraglio Rota Falas apparve davanti a lui, con la faccia rinsecchita sormontata dall’enorme crocchia color ferro.

   «Ammiraglio Rota a Enterprise, bentornati a casa» esordì la Bajoriana. «Dov’è la Nautilus? Pensavo che sareste tornati assieme».

   Chase si aspettava quella domanda. «Mi duole informarla che la Nautilus è stata distrutta in un attacco di Shado, poco dopo il nostro incontro ad Andromeda» spiegò. «Il nemico ci ha attaccati con forze preponderanti. Purtroppo non ci sono superstiti».

   «Una tragica notizia» si adombrò l’Ammiraglio. «Mi aspetto un rapporto completo sulle circostanze che hanno portato alla sua distruzione».

   «L’avrà» promise Chase, sperando che questo non mettesse nei guai Terry. «Permesso di entrare in orbita?».

   «Accordato, naturalmente... ma mi dica di più» ordinò Rota, fissandolo con gli occhietti da topo. «Quand’è che avete preso contatto con la Nautilus?».

   «In data stellare 2560.012» rispose garbatamente il Capitano.

   «Più di quaranta giorni fa!» protestò l’Ammiraglio. «Mi ero raccomandata che rientraste immediatamente».

   «Abbiamo fatto il prima possibile; ma dovevamo assicurarci di restare in buoni rapporti con la Coalizione. Così, quando l’Unione riprenderà l’esplorazione di Andromeda, troverà degli alleati che ci offriranno porti sicuri» si giustificò Chase, celando ancora le notizie più importanti. I suoi ufficiali si scambiarono sguardi divertiti, pregustando il momento in cui avrebbe sganciato la bomba.

   «Uhm, sì» disse Rota, con l’aria di tollerare appena la risposta. «E che mi dice di Sunny, l’avete portato con voi?».

   «Temo di no» si rattristò il Capitano. Poco più indietro, Terry chinò il capo e gli altri ufficiali smisero di sorridere.

   «Così non va, Chase!» sbottò l’Ammiraglio, severissima. «Non ha fatto niente di ciò che le avevo raccomandato. Avere la Melma Dorata è fondamentale per proteggere l’Unione dalla Scourge. Il suo fallimento è inqualificabile. Ha qualcosa da dire a sua discolpa?».

   «Mi spiace, Ammiraglio... non abbiamo scuse...» disse lentamente il Capitano «... salvo il fatto che abbiamo trovato i Proto-Umanoidi e con loro abbiamo sconfitto la Scourge» aggiunse, rialzando lo sguardo. E si godette l’espressione esterrefatta dell’Ammiraglio.

   Scortata dalle altre navi federali, l’Enterprise proseguì la rotta verso la Terra. Dopo tre anni d’assenza – anni di scontri e scoperte, vittorie e sacrifici – rientrò nell’orbita del pianeta azzurro. Lo stesso pianeta che, eoni prima, aveva destato l’interesse e le speranze dei Proto-Umanoidi. Dopo la Guerra delle Anomalie, la ricostruzione era proseguita a ritmo serrato. Nuovi abitanti si erano trasferiti dalle colonie nelle città riedificate. E ad Atlantide, l’isola artificiale in mezzo all’oceano, i palazzi della nuova Unione Galattica si levavano sempre più alti. Le loro cuspidi oltrepassavano le nubi, puntando verso le stelle che racchiudevano il passato e il futuro dell’umanità.

 

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Capitolo 10
*** Epilogo ***


-Epilogo:

Data stellare 2560.060

Luogo: orbita terrestre (Sol III)

 

   Qualche giorno dopo il ritorno dell’Enterprise nel sistema solare, Chase e i suoi ufficiali si riunirono per cenare un’ultima volta nel ristorante di Raav. L’indomani sarebbero sbarcati, prendendo strade diverse, mentre l’astronave subiva una nuova ristrutturazione. Perciò si trattennero fino a tardi, prolungando il più possibile l’incontro con gli amici. Oltre a Chase e Neelah c’erano Ilia, Grenk, Lantora e T’Vala. Raav si unì alla tavolata e anche il Consigliere Apsu partecipò in olo-presenza. Solo Terry non c’era, sebbene l’avessero invitata. La sua assenza pesò su tutti i presenti, anche se per un pezzo nessuno volle farla notare.

   «Ebbene, ditemi un po’ di voi!» esortò Raav, quando furono al dessert. «So che le promozioni sono fioccate; ed era tempo! Come dicono i Progenitori, questa è una fine... e un nuovo inizio. Dove vi porteranno le vostre strade?».

   «Nel nostro caso, ad Atlantide» disse Chase, passando il braccio intorno alle spalle di Neelah.

   «Come Ammiraglio, dico bene? Se qualcuno lo merita, questo è lei» si congratulò il Gorn. «Ma ero quasi convinto che avrebbe rifiutato, per non rinunciare all’ebbrezza dell’ultima frontiera».

   «Non sarò inchiodato alla mia scrivania» assicurò l’Ammiraglio. «All’occorrenza mi recherò dove serve. Ma sì, credo che passeremo la maggior parte del tempo sulla Terra».

   «Ho riavuto l’incarico al Comando Medico di Flotta» spiegò Neelah. «Così potremo stare assieme. Questi anni sull’Enterprise sono stati straordinari, ma... dovendo crescere Jaylah, preferiamo farlo in pace sulla Terra» ammise. «La dottoressa Vash’Tot mi sostituirà qui a bordo».

   «Anche noi ci abbiamo riflettuto» disse Lantora. «Nell’ultima battaglia, nostro figlio ha corso un rischio tremendo. Speriamo con tutto il cuore che non accada mai più. Tuttavia abbiamo deciso di restare nello spazio».

   «Sull’Enterprise?» chiese Raav.

   «L’Enterprise subirà un’altra ricostruzione, dopo tutte le batoste che ha preso ad Andromeda» intervenne Grenk. «Mi occuperò io dei lavori... probabilmente ne avrò sino alla fine dell’anno» disse, sempre un po’ lamentoso.

   «Quindi dove andrete?» incalzò il cuoco, ancora concentrato sulla coppia.

   «In vacanza, per qualche tempo!» sorrise T’Vala. «Porteremo Vrel sui nostri pianeti, così sentirà l’aria fresca e conoscerà le nostre famiglie».

   «Poi torneremo in servizio... non sappiamo ancora su quale nave» riprese Lantora. «Ma dovrebbe essere un incarico temporaneo, perché quando l’Enterprise sarà rimessa a nuovo chiederemo di tornarci».

   «Ah, non so se sarà possibile!» rise Ilia, che aveva esagerato un po’ col brandy sauriano. «Sapete quanto sono esigente, nella scelta dei miei ufficiali!».

   «Un applauso per Ilia Dax, Capitano dell’Enterprise!» disse Chase, battendo forte le mani. «E un altro per il Comandante Lantora e il Tenente Comandante Shil!». I colleghi applaudirono a lungo, facendo arrossire gli interessati.

   «Prestare servizio con lei è stato un privilegio, signore» dichiarò Ilia, stringendogli la mano sopra la tavola. «Avrò massima cura dell’Enterprise».

   «Ci conto!» sorrise l’Ammiraglio. «E quando i suoi ufficiali le diranno di non andare sul campo...».

   «Li ignorerò» promise la Trill.

   «Bene, bene» disse Raav. «Queste ricompense sono più che meritate. Sssshhht! Mi spiace solo che ve ne andiate quasi tutti. E tu, Grenk? Quando l’Enterprise sarà a nuovo, resterai?».

   «Ah, amico... vorrei tanto continuare a rimpinzarmi coi tuoi manicaretti!» sospirò il Tellarita, che aveva mangiato più di tutti. «Ma c’è un cantiere su Plutone che mi aspetta, pieno di scimmie che non sanno distinguere un convertitore di fase da un discriminatore quantico. Se non vado a insegnargli il mestiere, non avremo mai la nuova generazione di navette temporali!».

   «A proposito di navette temporali...» disse Chase, improvvisamente serio. «Voglio confidarti un segreto di cui non sei ancora a conoscenza. E lo dico anche a voi, dato che resterete sull’Enterprise» disse, passando lo sguardo da Apsu a Raav. «Durante l’ultima battaglia, quando i Distruttori ci hanno attaccati in plancia, siamo stati salvati da mia figlia».

   «La piccola Jaylah?!» si stupì Grenk.

   «È uscita adulta da una breccia temporale, ci ha salvati ed è rientrata prima che la breccia si chiudesse» spiegò l’Ammiraglio.

   «Anche se gli Accordi Temporali le proibivano di rivelarci il futuro, ha voluto dirci una cosa» proseguì Neelah. «Nostra figlia sarà un’Agente Temporale. Quindi il lavoro che farai su Plutone potrebbe essere molto importante, per lei».

   «Io... ehm... progetterò crono-navette sicurissime» promise Grenk, preso in contropiede da quella rivelazione. «Saranno più grandi, più confortevoli... avranno più autonomia. E un faro temporale per chiedere aiuto, se qualcosa andasse storto. In effetti credo che i miei progetti si espanderanno ben oltre le navette. Un’astronave temporale, ecco che ci serve!» disse, lo sguardo rapito.

   «Forse Jaylah presterà servizio proprio lì» ipotizzò Chase, intrecciando le dita. «Ci disse che sull’Enterprise era solo di passaggio, perché lavorava altrove. Dubito che qualcuno di voi sarà ancora su questa nave, quando mia figlia sarà adulta. Ma per chi resta, sarà di conforto sapere che l’Enterprise durerà così a lungo».

   «Ammiraglio, lei parla dell’Enterprise» disse Apsu, avvicinandosi con quel suo strano modo di fluttuare a mezz’aria. «Ma cos’è questa nave, senza Terry? Eppure non è qui con noi. Dopo la morte di Sunny ho insistito perché venisse nel mio studio, a parlare, ma si è sempre rifiutata. Come Consigliere di bordo, sono preoccupato dalle sue condizioni».

   «Siamo tutti preoccupati» sospirò Chase. «Ora che l’Enterprise sarà ristrutturata, bisognerà affrontare anche questo problema. Se Terry vuole andarsene, questo è il momento per sostituire il processore centrale».

   «Ma io non voglio andarmene» disse Terry, entrando in quel momento nel salone. Era in abiti civili, piuttosto sobri, anche se non portava segni di lutto. I suoi colleghi ammutolirono, salvo Chase, che si alzò e le venne incontro.

   «Ne sei certa?» le chiese, carico di preoccupazione. «Sappiamo tutti quanto hai sofferto. È comprensibile che tu voglia lasciare questo incarico, anche perché in fondo non l’hai scelto tu. Ti è stato imposto alla nascita. Quindi, se vuoi dare le dimissioni, le accetterò senza problemi».

   «Oppure resta, se vuoi. Ma non per soddisfare le nostre aspettative!» aggiunse Ilia, accostandosi a sua volta. «In questi anni ti sei curata di noi come nessun altro avrebbe potuto. Ora vorremmo che ti prendessi cura di te stessa».

   «Non potrei farlo, lontano da voi» sorrise Terry. «Siete la mia famiglia. E Sunny... Sunny è scaturito dalle vostre menti. Era un concentrato delle vostre qualità migliori. Così, finché resterò fra voi, lui sarà con me... in qualche modo».

   «Quando ti sentirai stanca, sappi che sei libera di prendere un’altra strada. Come Ammiraglio, mi batterò perché tutte le Intelligenze Artificiali della Flotta abbiano questa possibilità» promise Chase.

   «Resterò sull’Enterprise finché avrò degli amici a bordo» disse Terry, passando lo sguardo da Ilia a Raav e da Lantora a T’Vala. «Ma un giorno sì, diventerò una privata cittadina».

   «Vieni, allora» la invitò Raav, avvicinando un’altra sedia alla tavola. La proiezione isomorfa si accomodò e il Gorn servì il dessert anche a lei.

   Continuarono a chiacchierare ancora per un’oretta, promettendo di restare in contatto e di rivedersi quando possibile. Infine Chase stappò una bottiglia di Chateau Picard e colmò i bicchieri per l’ultimo brindisi. Andò a capotavola e levò il bicchiere di cristallo, osservando commosso quell’equipaggio che era diventato una famiglia. Anche gli altri si alzarono, imitando il suo gesto.

   «All’Enterprise, a questi dieci anni assieme» disse Alexander Chase, Ammiraglio della Flotta Stellare. «E a tutto quello che ancora ci attende!» augurò. E i cristalli fecero cin-cin.

 

 

FINE

 

 


La saga continua nella Fase II: Star Trek Keter

 

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