Le mirabolanti avventure di Mari in Italia

di AlessiaDettaAlex
(/viewuser.php?uid=75809)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Piacere, Mari ***
Capitolo 2: *** Una questione di soprannomi ***
Capitolo 3: *** Tra palloni e piadine ***



Capitolo 1
*** Piacere, Mari ***


0. Piacere, Mari
 
La prima cosa che le venne in mente quando raggiunse il suo appartamento in via Rizzoli, è che i genitori avevano speso fin troppo per farla stare comoda a Bologna. Non che non apprezzasse la finestra con vista Piazza Maggiore e i centotrentasette metri quadri di due camere da letto, un salotto, un bagno, una cucina, tutto a due passi dalla facoltà di Economia. Era solo che le sembrava eccessivo per un soggiorno in Italia che immaginava non sarebbe stato definitivo.
Passò una mano sul tavolo di vetro della sala, trascinando con sé la valigia fino a una delle due camere da letto.
Così se vuoi invitare qualcuno a farti compagnia quando ti senti sola, hai dei letti in più!
Sorrise al ricordo delle parole di sua madre; era di un’esuberanza semplice e tenera a suo modo, e anche se non voleva darlo a vedere era preoccupata per la prima esperienza da sola all’estero di sua figlia. Era quasi sicura che a insistere per l’appartamento comodo in centro fosse stata lei, per la premura che ogni mamma, ricca o meno che sia, solitamente ha. E poi perché il primo pensiero di suo padre era quasi sempre rivolto al risparmio: Mari non aveva mai pensato a lui come a un cattivo padre, ma era spesso difficile distinguere il razionale e calcolatore uomo d’affari dal padre affettuoso e fiero.
Entrambe le stanze avevano un letto matrimoniale, per cui mollò la valigia in quella che le ispirava di più e si gettò sul letto. Un’ulteriore valigia e un borsone erano ancora in salotto, parcheggiati lì qualche ora prima da un facchino alle dipendenze degli Ohara, ma non aveva voglia di cominciare a mettere a posto. Dopo un po’ si alzò dal letto e si affacciò alla finestra: sulla sinistra, in fondo alla via, le due Torri campeggiavano in pendenza, svettanti e immobili guardiane della città millenaria.
 
Camminando per via Zamboni verso piazza Scaravilli, ebbe l’impressione di esser tornata bambina, quando guardava con curiosità e timore le spiagge e il mare sconosciuti di quando si trasferì la prima volta a Uchiura. Allora non ci aveva messo molto per trovare occhi che si incastonassero nei suoi, braccia piccole intorno alle sue spalle che le chiedessero di fare amicizia. Era fiduciosa nel fatto che anche questa volta non sarebbe stato un problema, anche se l’età anagrafica era diversa.
Entrò nell’aula a passo sicuro, sebbene non si sentisse mai troppo a suo agio quando non conosceva nessuno; c’era un gruppo di ragazzi seduti, qualcuno di loro la seguì con lo sguardo mentre prendeva posto.
A poco a poco l’aula si riempì, scaldandosi della presenza di una folla di matricole e rendendo l’ambiente più afoso di quel che era. La ragazza seduta alla sua sinistra, una giovane coi capelli ricci e disordinati e l’occhio vispo, smanettava con le tante penne colorate nel suo astuccio, probabilmente retaggio della scuola superiore, imprecando a bassa voce.
Mari rise tra sé. Faceva ancora un po’ di difficoltà con l’italiano, ma sulle imprecazioni era particolarmente ferrata, visto che suo padre ne usava spesso di molto colorite quando si arrabbiava.
Il professore di Diritto privato arrivò con dieci minuti di ritardo. Spese mezz’ora per la presentazione del corso, poi attaccò a spiegare di fronte alle sue duecento matricole ancora profondamente in soggezione alla loro prima lezione universitaria. Mari prendeva appunti, attenta come poteva, cercando di non farsi sfuggire il significato generale del discorso anche se perdeva qualcosa delle parole specifiche. La ragazza accanto dopo un’ora sbuffò e iniziò a dire cose tra sé; Mari si voltò verso di lei incuriosita e anche la riccia allora la guardò: prima sorpresa, poi dispiaciuta.
«Ah, scusami»
Ma Mari alzò la mano per farle intendere che non c’era alcun problema. Si sorrisero, poi tornarono a concentrarsi sul discorso del professore. Quando la lezione finì prese coraggio e si voltò verso di lei per presentarsi, ma porse la mano al vuoto. Se n’era già andata.
 
A Diritto privato era facile distrarsi, dopo aver seguito un certo numero di lezioni. La ragazza riccia, seduta due posti più a destra rispetto a Mari, era passata dal prendere appunti sulla differenza tra persona giuridica e persona fisica a riempire il suo quaderno di ghirigori stanchi ma elaborati. Nelle scorse lezioni avevano finito per sedersi sempre l’una nei paraggi dell’altra, ma Mari non aveva ancora avuto il coraggio di andare a presentarsi. Non era più abituata a sentirsi così timida con le persone che non conosceva. Guardò distrattamente i disegni sul suo quaderno, con la testa appoggiata al palmo della mano e la penna trattenuta tra le dita penzoloni oltre il banco. Questa volta non si accorse nemmeno di quando il professore dichiarò conclusa la lezione, e a riscuoterla fu il tonfo dei quaderni chiusi dei suoi colleghi e lo spostamento delle sedie. Ripose i suoi oggetti nella borsa, quando un ticchettio sulla sua spalla le fece sollevare lo sguardo.
«Ciao. Piacere, sono Mari»
Mari sbarrò gli occhi e rimase per un attimo a guardarla confusa, senza sapere come risponderle.
«Cioè, scusa, magari non parli italiano e-»
«No, no, lo parlo!» si affrettò a dire Mari alzandosi in piedi e stringendole la mano.
La ragazza si illuminò in un ampio sorriso.
«Sono Marianna. Ma puoi chiamarmi Mari»
Rise, non riusciva a crederci.
«Io sono Mari! Ohara Mari».
 
La conversazione che ebbero davanti a un caffè qualche ora più tardi, fu quella che, a ripensarci a posteriori, sarebbe stata la cartina tornasole del loro rapporto.
«Ma senti, tu sei cinese?»
«What? No!»
«Fammi idovinare, sei coreana!»
«Sbagliato ancora, sono giapponese! Con origini italo-americane»
«Ah scusa. Voi asiatici mi sembrate tutti uguali».


 
Note di Alex
Buongiornissimo kafè!
Sono tornata con un progetto che ho da mesi, ma che solo ora ho avuto finalmente il coraggio e l'ardire di iniziare.
Sarà una raccolta di one-shot, l'introduzione spiega già tutto il resto. Ah, ho messo l'avvertimento OOC perché Mari in effetti può sembrarlo, ma dopo un po' di ragionamenti su di lei mi sono convinta che sia fondamentalmente un po' timida quando deve agire in un luogo che non conosce, con persone nuove. Tra qualche capitolo tornerà la Mari che tutti conosciamo!
Fatemi sapere che ne pensate,
Alex

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Una questione di soprannomi ***


1. Una questione di soprannomi


«Puoi passarmi gli appunti della scorsa lezione, per favore? I miei sono incompleti» chiese Mari guardando preoccupata gli spazi di vuoto tra un concetto e l’altro.
«Certo, polleg1» rispose Marianna senza alzare gli occhi dal manuale nuovo che stava sfogliando.
«… cosa?»
«Cosa?»
Le due Mari si guardarono un attimo negli occhi, confuse. Poi a Marianna si accese la lampadina.
«Ah, polleg! Scusa, è tipo uno slang per dire “nessun problema” o “stai tranquilla”»
«Oh! Capisco»
E ricaddero nel silenzio. Mari era molto fiera dei progressi che stava facendo in italiano. L’immersione totale nella lingua era un metodo piuttosto veloce e ormai sentiva di potersela cavare in ogni tipo di situazione sociale, anche grazie alle ripetizioni di Marianna: le aveva insegnato infatti un sacco di espressioni dialettali, proverbi incomprensibili, parolacce originali… Mari aggrottò le sopracciglia e si voltò verso la compagna di corso stizzita.
«In effetti da te non ho imparato proprio niente»
Marianna le si rivolse nuovamente con un punto interrogativo gigante scritto in faccia, ma decise di non approfondire. Piuttosto, chiuse il libro di botto e invitò Mari a fare lo stesso.
«Dai, accompagnami alle macchinette un attimo, ho bisogno di uno snack... e tu hai bisogno di un soprannome, Mari»
«Un soprannome?»
«Sì, ad esempio “Yakuza”»
Mari non riusciva a credere alle sue orecchie.
«Ma perché?!»
«Boh, perché sei giapponese e ricca»
«Lo sai che la Yakuza è organized crime, vero?»
«Sì, polleg, tanto quella roba lì l’abbiamo anche noi»
«Polleg un cazzo»
Marianna batté le mani contenta.
«Come impari bene!»
Mari si coprì la bocca con le mani, in visibile imbarazzo. Non è che non conoscesse e non apprezzasse le imprecazioni giapponesi o inglesi, ma le italiane erano talmente tante e talmente infilabili in qualsivoglia discorso che era quasi irriverente aprir bocca. Se fosse stata presente Dia, lo avrebbe trovato scandaloso.
Marianna infilò un euro nel distributore e digitò il numero dell’agognato pacchetto di schiacciatine al rosmarino.
«Perché è così importante darmi un soprannome?»
L’interpellata si prese un momento per tirare una pedata alla boccuccia del resto, fin troppo lenta per i suoi gusti a restituirle i suoi venti centesimi.
«Perché quando ti chiamo mi sembra di parlare con me stessa. Poi hai idea di quante persone si fanno chiamare “Mari” in Italia? Tipo, chiunque si chiami Maria o una delle sue millecinquecento varianti e combinazioni. Siamo un botto, che palle»
Infastidita dalle sue stesse affermazioni aprì l’incarto con sufficiente violenza da far volare a terra mezza schiacciatina; il che le fece venire voglia di urlare.
«Chi non muore si rivede, eh Mari?»
Entrambe le ragazze si voltarono contemporaneamente verso lo studente che si avvicinava loro.
«Soccia2, ma guarda un po’, Chilly! Ti vesti sempre di merda vedo»
Il ragazzo in questione aggrottò le sopracciglia.
«Anche per me è un piacere rivederti»
Ma Marianna non perse tempo e diede una spallata all’amica per introdurla nella conversazione.
«Chilly, questa qui è una mia compagna di corso, si chiama Mari e viene dal Giappone» Mari fece automaticamente un inchino «e Mari, lui invece si chiama Chil-»
«Leonardo. Mi chiamo Leonardo e purtroppo alle medie  ero compagno di classe di questa disagiata»
«Lo bullizzavo perché era alto un metro e una vigorsol e si vestiva di merda, come ora»
«Sì, questo l’hai già detto»
Mari non si stupiva già più di nulla, due settimane le erano bastate per credere automaticamente a qualsiasi dimostrazione di disturbo psichico da parte della sua collega.
«Cosa studi?» chiese piuttosto, per riportare la conversazione su un piano che lei poteva gestire.
«Economia aziendale, come voi! Vi ho viste uscire dall’aula per la pausa e volevo salutare. Avrei voluto scoprire prima che c’era qualcuno che conoscevo al corso, ma con duecento matricole in un’aula da massimo cento...  è stato il meglio che ho potuto fare»
A Marianna si illuminò lo sguardo.
«Dai top, allora possiamo seguire le lezioni insieme! Sentito Yakuza?»
Lo sguardo accusatorio di Mari le fece venire il dubbio che forse - forse - poteva mettersi a ragionare su un altro soprannome. Dopotutto, pensò, non le sarebbe piaciuto se qualcuno l’avesse chiamata ‘Ndrangheta.

Quando anche la seconda parte della lezione si concluse, i tre ragazzi optarono per farsi una chiacchierata in Piazza Maggiore. Le giornate erano ancora calde e Marianna aveva tutte le intenzioni di assorbire quanto più sole possibile per non pentirsene in inverno. Mari guardava i due colleghi svaccati: lei completamente stesa a terra a braccia spalancate, lui appoggiato coi palmi a terra dietro la schiena. Intorno a loro un continuo formicolare di persone, sia in piazza che sotto i portici ombreggiati; la basilica di San Petronio troneggiava da sopra la scalinata. Il fatto che fosse bicolore l’aveva sempre incuriosita: era stata Marianna a spiegarle che il livello più basso della struttura era stato costruito con un progetto che poi era stato completamente cambiato in corso d’opera, per motivi che non ricordava.
«Quindi, Chilly, come te la passi?»
«Bene… ma c’è proprio bisogno di rivangare quel soprannome?»
Mari si fece attenta.
«Ma perché ti chiama “Chilly”?»
Leonardo gettò occhiate stizzite alla ex compagna di classe, beatamente stesa a terra.
«Perché diceva che ero un ragazzo chill, cioè molto calmo. Io non sapevo nemmeno cosa significasse “chill” alle medie, per me il suo era solo un modo per tormentarmi dandomi il nome di un sapone intimo… tu, per favore, chiamami Leo!»
«Leo» ripeté semplicemente Mari, non afferrando bene tutta la parte sul sapone intimo, «allora quella di dare brutti soprannomi alle persone è un’abitudine... how rude!» sentenziò ridacchiando verso l’amica.
«Ridi ridi… intanto questa è un’arte e io sono geniale. Arriverà anche il tuo momento, biondina!»
«Dici così perché vorresti averne uno anche tu, ma non te lo ha mai dato nessuno!» replicò lei, compiaciuta.
Da principio la risposta sagace lasciò Marianna balbettante di incredulità. Leonardo fece partire un applauso, ma venne subito troncato dalla sua gomitata.
«Tu quoque, Mari! Ti ho insegnato i segreti della sacra lingua italica e tu la utilizzi per ferirmi!»
«It’s joke, it’s joke
Nonostante il pathos drammatico che cercava di metterci Marianna, Mari rideva come non aveva ancora mai fatto da quando era in Italia; e inevitabilmente si trascinò dietro entrambi i nuovi compagni di viaggio. 



 


Notine
1 pronuncia: pòlleg (g dolce)
2 bolognese anche questo, è un'esclamazione di sorpresa (ne conosco l'uso ma non il significato, non essendo autoctona)

Note di Alex
Sono tornata bellezze! Questa raccolta sì farà, anche perché ho una serie di sketch molto #relatable per gli studenti fuorisede, soprattutto se bolognesi. Eheh. Spero vi siate divertiti!
Alex

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Tra palloni e piadine ***


2. Tra palloni e piadine
 

Leonardo, Marianna e Mari piantarono sul prato gli asciugamani e i pesanti zaini, con lo zelo e la fierezza di uno sbarco sulla luna. Dietro proposta dei due bolognesi si ritrovarono quel sabato mattina, ore nove in punto, per una sessione di studio agli immensi Giardini Margherita, il verde polmone a sud della città fuori Porta Castiglione. Mari si riempiva gli occhi di quegli immensi campi d’erba, costellati di querce e tigli frondosi, con viali e vialetti che correvano tutt’intorno, intrecciandosi e dividendosi, come arterie di un corpo umano: ed ecco presenti anche laghetti, chalet e tutto quanto si addica a un imponente parco pubblico cittadino.
Non immaginava di poter trovare una zona verde così grande poco fuori le mura, e ne rimase estasiata. Sul prato c’era una coppia che prendeva il sole, mentre un gruppetto di bambini giocava a calcio con una palla fluo da beach volley; e non si riusciva a contare il gran numero di persone che faceva jogging da sola o in gruppo, o di chi passeggiava con il cane.
Marianna si allungò a pancia in giù sul telo, col libro aperto davanti.
«Ho deciso che questo lo do al primo appello disponibile, si inizia col botto»
«Ma se hai iniziato a studiarlo oggi»
«Vabbè ma c’è tempo»
«Lo dicevi anche la sera prima di una verifica a scuola, Mari»
Marianna rotolò su un fianco per dare le spalle a Leonardo, scegliendo la via del mutismo selettivo: schierò davanti a sé l’arsenale di evidenziatori e matite colorate e aprì il quaderno degli appunti. Mari e Leo si lanciarono uno sguardo divertito e si posizionarono a loro volta sugli asciugamani con i propri materiali.
Dei cani abbaiavano in lontananza, mescolandosi alle voci dei bambini: Mari non lo trovava fastidioso, e anzi aveva sempre studiato più volentieri in mezzo alla natura che in una biblioteca; l’ombra reticolata della quercia sotto cui stavano si spostava lentamente a causa del vento, illuminando e adombrando il libro a chiazze irregolari. In questo contesto di quiete la giovane si era ormai estraniata dalla realtà a sufficienza, quando il sonoro e inconfondibile schiocco di uno schiaffo la fece sobbalzare. Alzò gli occhi e incontrò il concentratissimo sguardo di Leo, che premeva il palmo con forza sul suo avambraccio.
«Che succede?» chiese confusa.
Il ragazzo alzò la mano e mostrò vittorioso una zanzara spiaccicata sulla scena del crimine, con un ghigno celebrativo.
«Scusa, sono una calamita per zanzare»
Mari fece un gesto come a dire «nessun problema», e dopo un cordiale sorriso, ripresero a studiare. Una tortora dal collare iniziò a scandire il suo canto dalla quercia, riportando in alto la concentrazione; dei passerotti più lontani si inserivano nei tempi vuoti del tema, come partecipando in controcanto. Riga dopo riga, Mari scorreva i concetti e le definizioni, sottolineando e schematizzando insieme. Il venticello leggero le solleticava la pelle del collo, regalandole la ventilazione perfetta in quella calda mattinata, rigurgito di un’estate protrattasi fin troppo a lungo. Un secondo improvviso schiocco la scosse di nuovo: Leo aveva stavolta la mano sulla faccia, ma sembrava non contento del risultato della propria reazione.
«Vez, ma te lo sei portato un antizanzare almeno?» chiese roteando gli occhi Marianna.
«Eh no»
«Ah no?»
I due si guardarono un secondo in silenzio, poi Marianna alzò l’evidenziatore che aveva in mano per puntarglielo contro.
«Ma scusa, in che città hai vissuto finora? Lo sai che qui ai Giardini è pieno di-»
«Palla!!»
«Che c’entra? … ah!»
Il pallone da beach dei piccoli calciatori in erba rimbalzò sulla testa di Marianna, per finire poi in volo tra le braccia di Mari. Un bambino in testa al gruppetto urlò delle scuse, mentre il resto della compagnia tentava infruttuosamente di non scoppiare a ridere; Marianna si sollevò da terra sui gomiti, fulminandoli.
«Oh, cinni!! Stateci attenti però!»
Mari restituì la palla ai ragazzini, mentre rideva con loro; poi inclinò il busto verso Leo per chiedergli il significato della parola «cinni»: scoprì così suo malgrado di aver appreso l’ennesima fuorviante parola dialettale, usata per «bambini». Non poteva proprio far affidamento su di lei per espandere il proprio vocabolario standard.

Verso l’ora di pranzo smontarono le tende e si avviarono verso lo chalet per comprarsi qualcosa di veloce da consumare ai tavolini. La scelta del bar era ampia, ma mentre Leo era stato piuttosto veloce, Marianna si era messa in testa di far scoprire la grande varietà del cibo italiano in tutte le sue sfumature a Mari, passando interminabili minuti a elogiare le qualità dello squacquerone all’interno di una piadina, il «cibo degli dei».
«Ci siete, regaz?» chiese Leonardo a un certo punto, spazientito.
«Manco solo io, voi sedetevi pure fuori intanto. Non mettermi fretta, è un momento importante» rispose Marianna esaminando la vetrinetta con fare indagatore.
Mari e Leo allora uscirono dallo chalet e si scelsero il tavolinetto, assorti in una preliminare inibizione reciproca. Era la prima volta che rimanevano insieme da soli e Mari riconobbe in quel momento quanto poco si erano ancora parlati faccia a faccia.
«Quindi… mi ha detto Marianna che hai viaggiato un sacco per il lavoro dei tuoi» attaccò Leonardo col primo argomento che gli venne in mente.
«Abbastanza… America soprattutto, ma anche Europa e il resto dell’Asia... io però sono cresciuta in Giappone»
«Soccia! E dove? Io credo di conoscere il Giappone solo per aver letto troppi manga al liceo» disse ridendo.
«Prefettura di Shizuoka, abitavo su un’isola vicina al monte Fuji»
Il ragazzo annuì meravigliato, sebbene non avesse una perfetta cognizione della geografia citata.
«E tu invece, Leo?»
«Io? Io sono nato e cresciuto qui a Bologna. Non mi sono mai mosso molto a dire il vero... e penso che una volta finita l’università troverò un lavoro qui, sposerò un’onesta bolognese doc come me e vivremo felici in questa vecchia città finché morte non ci separi. Non ho grandi prospettive, al momento... una semplice vita normalissima»
Mentre lo diceva si accorse di avere una cimice appesa in fondo alla t-shirt e saltò in piedi con un urlo; nello scuotersi bruscamente diede un colpo alla sedia di plastica, che finì a terra dietro di sé con un tonfo assordante.
«Leo?!» lo richiamò allarmata Mari.
«E come vedi» disse lui con la voce che aveva cominciato a tremare dallo spavento, «ho una gran paura delle cimici... e anche degli scarafaggi. Dopotutto non è il massimo per uscire dal mio orticello e affrontare la vita vera, eh?»
Mari rideva sommessamente, ma non di lui.
«La tua è già la vita vera, non devi per forza uscire da Bologna! Sì, io viaggio più di te...» e si prese una manciata di secondi per formulare il seguito della frase, desiderando di esprimerla al meglio «… ma non vuol dire che la mia vita è più vera della tua»
Leo cambiò faccia, colto alla sprovvista: tirò su la sedia e si rimise seduto, scrutando il sorriso Mari come si fa con un’inaspettata e piacevole scoperta. 
«Io… tu sei… davvero interessante…» aprì e richiuse la bocca un paio di volte, ma non riuscì a completare il pensiero, «oltre al fatto che hai espresso un concetto astratto in ottimo italiano, impari in fretta»
Lei gli fece una linguaccia scherzosa, appoggiando poi il mento al palmo della mano.
«I’m good at learning languages»
Leonardo le rispose con un sorriso divertito; stava per aggiungere qualcosa, ma Marianna arrivò in quel momento a passo trionfale, piadina alla mano.
«Che mi sono persa? Cos’era l’urlo di prima, Chilly?»
Mari si voltò verso di lei con un sorriso sornione.
«Gli ho promesso un giro sul mio elicottero»
L’amica recuperò a fatica la piada che le stava cadendo di mano dalla sorpresa, balbettando sillabe senza senso.
«L’avevi promesso prima a me, non è giusto!»
«It’s joke, Mari!»
«Se ti può consolare, non sapevo nemmeno avesse un elicottero» si giustificò il ragazzo dando finalmente il via alle danze con un morso al suo panino.
Marianna si sedette con un sospiro, tranquillizzata.
«Se sapessi il gran numero di cose che ha, ti prenoteresti un giro su ognuna»
Leo e Mari si guardarono e scoppiarono a ridere, già soddisfatti di aver deviato il discorso dall’urlo incriminato. Lo sguardo eloquente di Leonardo la ringraziava sentitamente per aver evitato che Marianna avesse un nuovo motivo per dargli il tormento.
«Che ne dite se dopo pranzo andiamo a casa di Mari a studiare?» propose alla fine Marianna, «che qui tra zanzare, pallonate e caldo mi sono già abbondantemente rotta i cosiddetti»
«No problem… mi piaceva qui, ma va bene anche a casa» concordò Mari.
«Tu vieni, Chilly?»
«Ah, non saprei, se voi mi volete...»
Marianna gli diede un colpo sulla spalla, allegra.
«Ormai sei dei nostri, Chilluz, o prepari gli esami con noi o ti veniamo a stanare a casa»
«Se hai già deciso è inutile che me lo chiedi» le replicò inarcando il sopracciglio, ma non poté evitarsi di sorridere.
«Alla nostra, allora!» annunciò alzando in alto la bottiglietta d’acqua da mezzo litro - rigorosamente temperatura ambiente - e invitando gli altri due a fare lo stesso.
Dopo aver fatto quattro grossi sorsi, Marianna sbatté il fondo della bottiglia sul tavolo e si sentì in dovere di fare un’ultima precisazione.
«E comunque Mari ha un appartamento sotto le Torri che fidati se ti dico che è proprio una di quelle cose su cui vorresti farti un giro»
«Dacci un taglio, vez».







 


Grazie di aver letto regaz! Alla prossima OS,
Alex

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3817005