La stella del Truhe di Old Fashioned (/viewuser.php?uid=934147)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Salve
gente!
Nuovo
mappazzone per voi, fresco fresco. Si tratta di una versione
vagamente moderna della favola di Biancaneve, spero che apprezzerete.
Un grazie in anticipo a tutti quelli che passeranno da queste parti^^
LA
STELLA DEL TRUHE
Capitolo
1
Regine
posò lo spazzolino con cui aveva appena finito di applicarsi il
mascara, si sistemò la tiara scintillante sui capelli dorati e si
alzò in piedi. Sorrise appena alla sua immagine riflessa: l'abito di
lamé non perdonava nulla, ma tanto lei non aveva proprio nulla da
farsi perdonare. Il suo corpo era snello, addirittura efebico, i seni
appena accennati. Aveva il ventre così piatto che le creste iliache
le disegnavano due piccoli rilievi sui fianchi, le gambe erano lunghe
e snelle. La sua statura le consentiva di svettare su qualsiasi
donna.
Bussarono
alla porta e una voce avvisò: “Tra cinque minuti in scena!”
Regine
si limitò ad annuire. Lanciò uno sguardo al divano, su cui era
negligentemente abbandonata una pelliccia: quello era un regalo del
suo ultimo ammiratore. Non che le piacesse particolarmente –
preferiva la volpe argentata allo zibellino – ma era comunque un
bel trofeo da esibire a certe burrose sciacquette, che si credevano
chissà chi solo perché avevano mammelle da mucca e fianchi rotondi.
Si
allontanò dal tavolino del trucco, fece qualche lento passo nella
stanza. Frutto di anni di studio, il suo portamento era superbo.
Emanava la sensualità algida dell’incedere di una dea, comunicava
alterigia e fascino a un tempo.
Girò
adagio su se stessa per controllare nello specchio che l'abito
cadesse bene anche dietro, disegnandole le natiche sode e nervose,
quindi si mosse verso la porta.
Come
sempre al momento di andare in scena, una grande calma la pervase.
Era da tempo ormai che i patimenti della Lampenfieber
avevano smesso di angosciarla: era Regine, era famosa in tutta
Berlino, la gente faceva la fila per sentirla cantare. Che fossero le
ragazzette sciocche a farsi prendere dalla smania.
Uscì
dal camerino e percorse lentamente il corridoio che portava dietro il
palcoscenico. Si sentivano le ultime battute del numero che precedeva
il suo, ovvero uno scollacciato balletto dai temi vagamente comici,
che suscitava nel pubblico risate, acclamazioni e parecchie
prurigini.
La
cantante sorrise fra sé e sé quasi con indulgenza, già pregustando
il momento della comparsa in scena. Sapeva che quegli insulsi clamori
si sarebbero placati come per incanto al suo apparire. Sul pubblico
sarebbe sceso un silenzio quasi religioso, interrotto tutt'al più da
qualche raro mormorio di meraviglia, e in quella quiete solenne si
sarebbe fatta dapprima udire l'orchestra, poi la sua canzone sarebbe
cominciata e tutto il resto avrebbe perso d’importanza.
La
musica cessò, si udì uno scroscio disordinato di applausi. Qualche
voce – rigorosamente maschile – gridò 'brave!',
poi un gruppetto di ragazze in abiti succinti invase ridacchiando il
corridoio.
Regine
continuò ad avanzare imperturbabile al centro dello stretto
passaggio, tanto che al suo arrivo le ballerine furono costrette ad
addossarsi alle pareti. Esse mantennero perlopiù lo sguardo a terra,
a parte una tale Cora, appena rotolata giù da un paesello di
montagna, che incrociandola accennò una specie di riverenza.
La
cantante le rivolse un altero cenno del capo. Non pensò neppure per
un momento che si trattasse di un genuino omaggio al suo maggiore
fascino e alla sua esperienza, era nel mondo dello spettacolo da
troppo tempo per aspettarsi qualcosa di così ingenuo e
disinteressato. Scrutò la ragazza: piccoletta, formosetta, guance
rosse e capelli neri. Due grandi occhi azzurri dallo sguardo
innocente, che sembravano spalancarsi sul mondo colmi di entusiasmo e
meraviglia. Vestiva una specie di Dirndl
con le maniche a palloncino, chiaramente molto più scollato dei suoi
omologhi bavaresi e così corto che lasciava ben in vista provocanti
giarrettiere di pizzo bianco.
Regine
si limitò a sollevare le sopracciglia di fronte a una così volgare
ostentazione di carne e proseguì con sussiego, non senza notare che
lo sguardo della ballerina era virato dall'ingenuità alla rivalità
non appena si era creduta sicura che lei fosse passata oltre.
Devi
farne di strada, povera stupidella,
pensò la cantante stirando le labbra in un sorriso di degnazione,
quindi si disinteressò di lei e delle sue occhiatine velenose.
Raggiunse
il palcoscenico, entrò nel cerchio di luce dell’occhio di bue e
l’attacco dell'orchestra fu quasi coperto dall'applauso che salutò
il suo apparire.
Il
signor König si alzò, aggirò la pesante scrivania di mogano e andò
a una piccola finestra. La aprì e i clamori che si udivano ovattati
divennero improvvisamente così forti da strappargli una smorfia di
fastidio.
Subito
dopo, però, sul volto gli si allargò un sorriso soddisfatto. “E
anche stasera c'è il pienone,” disse.
L'uomo
che era con lui si avvicinò a sua volta al finestrino e guardò giù:
si vedeva la sala principale gremita di uomini e donne in abito da
sera, i più seduti ai tavolini o al bancone del bar, alcuni in piedi
con un calice di champagne in mano. Camerieri in frac si
destreggiavano abilmente tra la folla portando vassoi carichi di
bicchieri.
Al
centro del palco, Regine, terminata la canzone, s'inebriava di
applausi e mandava baci al pubblico.
“Merito
di quella specie di aringa,” disse l'uomo, distogliendo lo sguardo
dal finestrino e riavvicinando l'anta.
“Parli
di Regine, Spiegel?” giunse la domanda di König.
L'altro
alzò le spalle. “Lunga e secca com'è, con quel vestito argentato
mi fa pensare a un pesce.”
“Per
fortuna che almeno non è muta. E poi piace.”
“Lo
so che piace. Adesso vanno di moda le assi da stiro, colpa di Greta
Garbo. Anche quelle che hanno delle forme come si deve digiunano per
sembrare delle salacche.”
“Non
tutte, per fortuna.”
Spiegel
tornò verso la scrivania, prese la bottiglia di autentico whiskey
americano che si trovava sul piano del mobile e se ne versò un mezzo
bicchiere. “Alla faccia del Proibizionismo,” disse con un ghigno.
L'altro annuì.
“Come
te lo procuri?”
“Ho
i miei canali, ma vedi di non scolartene una bottiglia ogni sera.”
Spiegel
sorrise. “Me lo devi, vista la cura con cui ti ho scelto le ragazze
del corpo di ballo: formose come piacciono a noi, carine e giovani.”
Fece una pausa, quindi con un sorrisetto soggiunse: “E disponibili,
soprattutto.”
König
annuì consapevole, quindi rispose: “Anche Regine l'hai scelta
bene. Da quando c'è lei, allo Schatztruhe c'è la ressa per entrare.
Possiamo dire che è la stella del locale.”
“Finché
dura,” rispose Spiegel in tono cupo, poi si avvicinò di nuovo al
finestrino: la cantante aveva ceduto infine alle accorate richieste
di bis e stava di nuovo gorgheggiando con impegno. “Io me lo
ricordo quando è arrivato a Berlino da un paesello della Prussia
Orientale, quasi vent'anni fa,” disse con un sorrisetto. Tornò a
voltarsi verso il padrone del locale. “Un giovanotto ossuto, con un
tailleur della sorella nascosto in valigia e l'aspirazione di fare il
contraltista. È stato quel furbastro di Möller, del Plaza, a
scoprire che oltre a fare i migliori pompini della Germania aveva
anche un'estensione vocale di cinque ottave.” Bevve un sorso di
whiskey, annuì con fare consapevole. “Cinque ottave,” ripeté,
“quasi sei. Se il Plaza è come lo vedi adesso, lo si deve alla
gola di Mathias Bierkant, meglio noto come Regine.”
“All'ugola,
vorrai dire?”
“No
no, proprio alla gola.” Spiegel fece una risatina. “Se Mathias
non avesse cominciato a fare pompini ai produttori per ottenere degli
ingaggi, nessuno l'avrebbe mai notato.”
In
un cicaleccio punteggiato da risatine, le ragazze del corpo di ballo
si stavano togliendo gli abiti di scena.
“Ma
l'avete vista oggi, quella vecchia ciabatta?” esclamò la bionda
Ilse. Si alzò in piedi e cominciò a camminare con la testa così
alta da risultare quasi piegata all'indietro, gli occhi socchiusi e
le sopracciglia sollevate in una comica imitazione di Greta Garbo.
Urtò con la spalla la collega Lotte e in tono sussiegoso la
apostrofò: “Fatti in là, bambina, qui passo io.”
Procedette
scimmiottando l'incedere sofisticato della famosa attrice.
Le
altre ovviamente stettero subito al gioco. Una si avvicinò e chiese:
“Posso reggerti lo strascico, Divina?”
Ilse
la squadrò come se fosse stata il secchio dell'immondizia, quindi
rispose: “Assolutamente no, con quelle tue manacce da contadina me
lo rovineresti di sicuro.” Levò la testa ancora più regalmente,
quindi in tono sdegnoso proclamò: “Qui dentro non c'è nessuna che
abbia la mia classe.”
“Perché
non provi al museo?” esclamò Hermine, “Forse in mezzo alle
mummie ti troveresti più a tuo agio!”
Alla
frase fece seguito un coro di risate. “Quanti anni avrà?” chiese
infine Lotte, dopo aver riso così tanto che le lacrime le avevano
sciolto tutto il trucco.
“Parecchi,”
rispose Britta, “scommetto che quando deve andare in scena c'è più
intonaco su quel suo muso lungo da cavallo che su tutta la facciata
del Truhe.”
L'irrispettosa
affermazione fu salutata da un nuovo scoppio di risa. Fedele alla
parte, Ilse con alterigia proclamò: “Io non ho bisogno di un
visetto liscio da minorenne, io ho fascino.”
“Ma
certo, il fascino dell'antico!” intervenne Annette.
Cora,
che aveva seguito gli scambi facendo guizzare dall'una all'altra il
suo sguardo perennemente meravigliato, a quel punto chiese: “Di chi
state parlando?”
La
domanda scatenò, se possibile, risate ancora più forti.
Infine
Lotte, di nuovo tergendosi copiose lacrime, rispose: “Ma come, di
chi parliamo? Ma della divina,
ovviamente. Della più grande stella del Truhe.”
“E
chi è?”
Britta
scosse la testa e intervenne: “Cordula, tesoro, ti devi svegliare
un po'. Cosa farai, qui a Berlino, se non metti insieme un po' di
furbizia?”
La
ragazza parve ponderare la domanda per qualche secondo, infine con
tono serio rispose: “Non lo so, pensavo di fare la ballerina.”
Prima
che Britta potesse rispondere, la voce di un giovane uomo chiese:
“Siete presentabili, ragazze?”
Lotte
alzò gli occhi al cielo. “Ecco che il principino viene a caccia
nella riserva di papà.”
Ilse
abbandonò l'atteggiamento da gran signora e replicò: “Oh, dai,
meglio lui del vecchio. Almeno è più carino.”
“Ma
proprio perché si crede così carino è anche meno generoso,”
protestò Annette. “Pensa che per noi sia sufficiente il suo
bell'aspetto.”
“E
io allora gli rispondo come ai funerali,” replicò Lotte, “non
fiori ma opere di bene. Per quanto sia carino, non sarà mai bello
come la faccia di von Siemens che c'è sulla banconota da venti
marchi.” Poi, a voce più alta: “Purtroppo per te siamo già
vestite, tesoro!”
Le
altre ridacchiarono.
“Allora
posso venire?” chiese il giovane.
“Con
chi?”
Di
nuovo chiocciarono risatine.
Florian
entrò nel camerino con due bottiglie di spumante in una mano e una
grande scatola di cioccolatini nell'altra. Posò tutto sul tavolo al
centro della stanza, poi chiese: “Chi ha i bicchieri?”
Lotte
protese il generoso davanzale e disse: “Eccone qui uno!”
Il
giovanotto vi versò sopra un po’ di spumante e la ballerina si
ritrasse ridacchiando e strillando: “Com’è freddo!”
Tutte
si unirono alla risata.
L’altra
bottiglia cominciò a passare di mano in mano e ogni ballerina bevve
qualche sorso. Quando essa raggiunse Cordula, la ragazza si schermì
con un sorriso quasi di scusa e chiese: “Potrei avere i
cioccolatini invece?” Imbarazzata si coprì con la mano il ciondolo
a forma di cuore che le pendeva tra i seni, come per evitare che ci
finisse sopra del vino senza permesso.
Il
ragazzo, che tra le risate generali stava allegramente grufolando nel
décolleté di Lotte, a quel punto sollevò la testa e le rivolse un
sorriso. Si ravviò i capelli corvini, ormai piuttosto scompigliati,
la scrutò con interesse e disse: “Ma ciao. E tu chi sei?”
La
fanciulla sbatté gli occhi celesti e le guance le si fecero ancora
più rosse. “Cordula,” rispose.
Ci
fu qualche secondo di silenzio. “Oh, ehm… Cordula?”
L’altra
si toccò di nuovo il ciondolo che le ornava la scollatura e spiegò:
“Vuol dire cuoricino.”
“Io
sono Florian.”
“Piacere
di conoscerla,” rispose compunta la ragazza. “Tutti mi chiamano
Cora. Può chiamarmi così anche lei, se vuole.”
“Come
siamo formali. Perché non mi dai del tu?”
“Davvero
posso?”
Florian
le rivolse il più fascinoso dei suoi sorrisi. “Ma certo. Tutte lo
fanno, non è vero?”
Le
ragazze confermarono.
“Vuoi
un po’ di spumante, Cora?”
La
ragazza scosse la testa facendo ondeggiare i riccioli color
dell’ebano, quindi un po’ imbarazzata rispose: “Veramente, io
non bevo.” Rivolse un’occhiata carica di desiderio alla scatola
di praline e ripeté: “Preferirei i cioccolatini.”
Inge
le diede una pacca sul sedere. “Attenta, che poi diventi grassa!”
Cordula emise uno strillo, le altre ridacchiarono.
Florian
sorrise e considerò che la dolce Cora rischiava qualsiasi cosa
tranne diventare grassa. Era una piccola, graziosa cosettina con
tutte le curve al posto giusto, che sembrava fatta apposta per certi
trattenimenti. Il corsetto metteva in risalto un seno decisamente
provocante e sotto la gonnellina fru fru c'erano gambe non
particolarmente lunghe, ma ben tornite e sode. Cominciò a elaborare
un piano per convincerla ad assaggiare anche un po’ di spumante,
tra un cioccolatino e l’altro.
Quando
Regine vi fece ritorno, il camerino era una distesa di mazzi di
fiori. Il profumo delle rose si mescolava a quello dei gigli ed
entrambi creavano con il profumo di cipria e creme di bellezza una
miscela al tempo stesso sensuale e greve.
Al
centro del tavolino da toilette era posato un astuccio di velluto
nero. La cantante lo aprì e dovette stringere gli occhi a causa
dello scintillio che ne scaturì. “Caro Conte von Künstberg,”
disse a mezza voce, “si ricorda sempre della mia passione per i
brillanti.”
Appoggiò
la scatoletta da una parte e cominciò a studiare i biglietti che
accompagnavano i vari mazzi di fiori. Scartò subito quelli firmati
da nomi femminili: ormai poteva permettersi di scegliere e le altre
donne non erano nei suoi gusti. Passò in rassegna i rimanenti,
eliminando senza pietà i modesti omaggi di impiegati e ufficiali
sotto il grado di colonnello e conservando le testimonianze di stima
di conti, baroni, generali e direttori.
Fece
una cernita dei profumi e dei monili, giudicandoli tutti di cattivo
gusto e destinandoli alle ragazze del corpo di ballo. Serbò per sé
unicamente il collier di von Künstberg, una stola di volpe, un mazzo
di orchidee e uno di rose dai petali pesanti e vellutati, di un rosso
così scuro che sembrava quasi nero.
Una
volta sgombrato il campo, si sedette al tavolino da trucco e si
guardò allo specchio. Svanita l'euforia dell'andare in scena, un
umore decisamente più plumbeo la stava pervadendo. Nonostante fiori
e brillanti, non era per nulla soddisfatta: il tempo passava spietato
e ormai anche i più costosi cosmetici francesi, fatti venire apposta
da Parigi, riuscivano a malapena a mantenere l'apparenza di una
bellezza che stava in realtà inesorabilmente sfiorendo. Sotto la
tiara, i riccioli dorati stavano perdendo la loro brillantezza, sulla
pelle del viso cominciavano a comparire le prime rughe. Erano
lievissime, il fondo tinta le nascondeva completamente, ma stava
diventando sempre più difficile far finta che non ci fossero.
Ricordava
ancora lo sgomento con cui ne aveva constatato la presenza la prima
volta.
Uno
scoppio di risa all'esterno la distrasse. Assunse un'espressione
infastidita: come ogni sera, finito lo spettacolo le ballerine
cominciavano a starnazzare come tante oche. Ripensò alla ragazzetta
di nome Cora: disprezzava poppe e natiche, ma quel volto liscio,
sodo, dalla pelle luminosa e compatta la metteva spietatamente di
fronte a quello che sarebbe diventata nel breve volgere di qualche
anno: uno squallido travestito in disarmo, con l'ombra della barba
che spuntava da sotto il trucco. Il maschio che nel corso della
giovinezza aveva con tanta cura nascosto sarebbe inesorabilmente
emerso con lo sfiorire dell'avvenenza, la ruvidezza e gli spigoli che
in tutti quegli anni aveva limato fino a farli scomparire avrebbero
infine reclamato il loro buon diritto, trasformandola in un
vecchietto ossuto, con il belletto sulle guance cascanti.
Dei
colpi alla porta la fecero letteralmente sobbalzare.
“Avanti!”
ringhiò, ancora sotto l'effetto di quei pensieri funesti.
Sulla
soglia comparve signor Spiegel. “Mia cara!” esclamò l'uomo. Si
mosse nella sua direzione col sorriso delle grandi occasioni stampato
sul volto. “Un successo strepitoso,” disse quando si fu
avvicinato. “Ancora meglio delle serate precedenti. Sei la stella
dello Schatztruhe!”
Regine
lo fissò seria. “Lo credi davvero?”
Spiegel
fece scorrere lo sguardo sulla distesa di fiori e regali. “Direi
che i fatti parlano da soli,” le rispose.
“Non
lo so,” replicò la cantante. Sollevò il collier di brillanti e lo
fece oscillare sotto le luci che circondavano lo specchio. “Una
volta von Künstberg non sarebbe stato così tirchio.”
“Tirchio?”
fece eco Spiegel. “Non sono diamanti, quelli?”
“Brillanti,”
lo corresse lei distrattamente, poi lasciò cadere il gioiello come
se fosse stato di vetro. “E lo spettacolo?” chiese poi, “Non ti
è sembrato freddo il pubblico?”
L'impresario
aggrottò le sopracciglia. “Freddo? Conosco un sacco di tue
colleghe che si venderebbero il culo per ricevere in un mese gli
applausi che tu prendi in una sera.”
“Sì,
ma loro non sono Regine,” replicò lei acida, “sono solo
sciacquette qualsiasi, con l'estensione vocale di un gatto da vicolo
e la classe di una bottegaia.”
Tra
i due cadde il silenzio. La cantante si sedette di fronte allo
specchio e attraverso quello cercò lo sguardo di Spiegel. “Chi è
la più bella, qui dentro?” gli chiese a bruciapelo.
“Ma
Regine, tutte le sere?” sospirò lui ostentando esasperazione. “La
più bella sei tu, ovviamente. Nessuna ha la tua classe e il tuo
fascino.”
Ella
incupì lo sguardo. “Lo credi davvero?” Si voltò a fissarlo
direttamente.
“Nessuna
ha un corpo come il tuo,” le assicurò Spiegel.
“E
il viso? Che ne dici del viso?”
Lui
scosse la testa. “Regine, non so più come dirtelo: la più bella
sei tu.”
Sotto
lo sguardo carico di aspettativa di Florian, Cordula avvicinò alle
labbra il collo della bottiglia, ma un attimo prima che esso le
toccasse, lo abbassò di nuovo. “E se mi fa male?” chiese.
“Ma
no,” le assicurò il giovanotto, forse un po' troppo
precipitosamente, “è solo un po' di spumante dolce, cosa vuoi che
ti faccia?” Allungò un braccio a circondarle le spalle.
Ella
si toccò come d'abitudine il ciondolo a forma di cuore, notando che
lo sguardo di Florian era inesorabilmente calamitato dal movimento
della mano sulla scollatura, quindi in tono contrito gli disse: “E
poi non sono capace di bere dalla bottiglia. Se mi si rovescia tutto
addosso cosa faccio?”
“Potresti
toglierti il vestito e farlo asciugare,” propose lui.
Cordula
annuì come avrebbe fatto di fronte a una spiegazione particolarmente
ostica. Ricordava bene quello che le aveva sempre ripetuto sua madre:
agli uomini non piacciono le donne intelligenti, quindi se vuoi
accalappiarne uno devi far finta di essere stupida.
Una
cosa che le era sempre riuscita benissimo.
Si
voltò verso Florian, che incurante del cicaleccio delle altre
ballerine ormai la stava stringendo come se fossero stati in pieno
inverno e fuori infuriasse una tormenta. Fece un rapido calcolo: suo
padre era il padrone di uno dei più famosi locali notturni di
Berlino, era un bel ragazzo, sembrava anche avere buone maniere.
“Posso avere un bicchiere?” gli chiese con voce sommessa, alzando
su di lui gli occhioni celesti.
Sotto
quello sguardo, il giovanotto quasi sobbalzò. “Un bicchiere?” fu
tutto ciò che riuscì a dire.
“Per
bere,” specificò lei. Con aria casuale pose la propria mano sulla
sua.
Florian
parve quasi sorpreso, come un cacciatore che ha puntato un cervo per
tutto il giorno e al momento del dunque lo trova già morto e con le
quattro zampe legate, pronto per essere portato via. “Oh, certo...
per bere, naturalmente.” Abbandonò la presa sulle sue spalle e
uscì dal camerino, verosimilmente per andare alla ricerca di un
bicchiere.
“Sta'
attenta,” la ammonì Lotte quando il giovanotto ebbe lasciato la
stanza.
Cordula
le rivolse uno sguardo stupito. “Perché?”
La
donna, già vestita e pronta per tornarsene a casa, fece girare lo
sguardo sulle colleghe come per chiedere la loro conferma, quindi
spiegò: “Perché il principino fa così con tutte: si diverte un
po', fa due o tre regali e poi tanti saluti.”
La
più giovane la fissò come se si fosse appena trasformata in una
specie di animale strano. “Davvero?”
“Gli
piace giocare,” fu la risposta. “Non è vero, Ilse?”
“Oh,
certo,” rispose l'interpellata. “Due salti sotto le lenzuola, due
moine, fine della questione. Non farti illusioni.” Il tono era
quello di chi, invece, di illusioni se n'era fatte parecchie.
In
quel momento la porta si aprì e Florian si affacciò con espressione
allegra e chiese: “Mi sono perso qualcosa, ragazze?” In mano
aveva due calici e una nuova bottiglia, ben fredda, di spumante
dolce.
Seduta
sullo sgabello di uno dei tavolini da trucco, nel camerino ormai
vuoto e silenzioso, Cordula teneva in mano un bicchiere di spumante
come avrebbe tenuto una granata senza sicura. “E se poi mi fa
male?” chiese di nuovo, rivolgendo a Florian uno sguardo che
sembrava invocare il suo aiuto.
Il
giovanotto sorrise con fare indulgente. “Un sorso di spumante non
può fare male a nessuno.”
“Davvero?”
Cordula si toccò di nuovo il ciondolo a forma di cuore.
“È
una bella collana,” apprezzò il ragazzo, lo sguardo come sempre
calamitato dal suo generoso décolleté.
“Me
l'ha regalata la mamma,” disse lei.
“Davvero?
Non un ammiratore?”
Cordula
assunse un'espressione stupita. “Un ammiratore?” chiese, come se
la parola le fosse totalmente sconosciuta. “Oh, no di certo.”
“Sicura?”
“Sono
una ragazza seria,” protestò lei piccata.
“Ma
certo, scusa,” si affrettò a rispondere Florian. “Ma ora, perché
non bevi un sorso? È buono.”
Cordula
bagnò appena le labbra nel vino, quindi si ritrasse arricciando il
naso mentre sulle guance le si formavano due graziose fossette.
“Pizzica!” esclamò. Fece una risatina.
“Sono
le bollicine,” spiegò Florian.
“È
buono,” constatò lei. Bevve un altro piccolo sorso.
“Te
l'avevo detto.”
Un
paio di bicchieri dopo, Cordula abbandonò molto allegra lo sgabello
e disse: “Ora però sarà meglio che mi tolga l'abito di scena.”
Florian
gettò uno sguardo di nostalgia alle sue gambe ornate di giarrettiere
bianche e disse: “È un peccato.”
Lei
gli rivolse uno sguardo stupito. “Perché?”
“Ti
sta molto bene,” fu la diplomatica risposta.
“Davvero?”
Cordula scivolò comunque dietro un separé, sul quale dopo poco si
adagiò il succinto Dirndl.
Florian cercò di non pensare al fatto che proprio di fronte a lui,
dietro l'esiguo riparo di una parete di stoffa, c'era una bella
ragazza che indossava solo la biancheria intima, e forse neppure
quella. “Abiti lontano?” le chiese per distrarsi.
Giunse
sconsolata la risposta: “Sì.”
Florian
strinse gli occhi sornione. “Vivi da sola?”
“Ho
un piccolo appartamento in affitto.”
“Come
farai a tornare a casa?”
La
voce afflitta di Cordula rispose: “Non lo so. Camminerò.” Seguì
un sospiro carico di rassegnazione.
Il
giovanotto assunse un tono accorato. “Cosa? Da sola, a piedi, a
Berlino, di notte? Con tutti i malfattori che ci sono? Assolutamente
no, ti accompagnerò io con l'automobile.”
La
ragazza si sporse dal separé, mettendo in mostra nel movimento anche
una generosa porzione di corpo discinto, quindi chiese: “Con
l'automobile? Davvero faresti questo per me?” Sbatté gli occhi con
fare meravigliato.
Florian
annuì con energia, e approfittando del fatto che la ragazza era
tornata dietro la barriera di stoffa si sistemò i capelli e
controllò di avere i vestiti in ordine. Infine, in tono grave disse:
“Il mio senso dell'onore mi proibisce di abbandonare una signora in
una situazione del genere. Tu finisci di vestirti, io vado a prendere
l’automobile.”
Angolo
dell’autore
Qualora
capitasse da queste parti qualcuno che non sa il tedesco, allego un
piccolo glossario per rendere più agevole la lettura:
König
= Re
Spiegel
= Specchio
Jäger
= Cacciatore
Zwerg
= Nano
Schatztruhe,
Truhe = Scrigno del tesoro, Scrigno
Lampenfieber
= letteralmente ‘febbre delle luci’. Parola intraducibile, che
indica la smania e l’ansia che prendono chi deve andare in scena.
Dirndl
= abito femminile in uso nelle zone di Baviera e Tirolo, costituito
da una camicetta generalmente bianca con maniche a palloncino, un
corpetto, una gonna ampia con sottogonna lunga circa fino al
ginocchio e un grembiulino.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Salve gente, ecco un altro
capitolo delle vicende del nostro cabaret berlinese. Un grande
ringraziamento a chi è passato per di qui a dare un’occhiata e un
ringraziamento speciale a chi mi ha lasciato un parere^^
Capitolo
2
Florian
entrò nello studio del padre e annunciò: “Papà, mi è venuta
un’idea magnifica per uno spettacolo!”
Il
signor König, che stava controllando alcune fatture, sollevò la
testa e in tono risentito disse: “Ah, Florian. Ti si rivede,
finalmente.”
Il
giovanotto ignorò serenamente l’osservazione, quindi raggiunse la
scrivania e si sedette su un angolo di essa. “Ho un’idea
fantastica per uno spettacolo,” ripeté.
Il
padre emise un sospiro. “Sentiamo,” disse, tornando ad abbassare
lo sguardo sui suoi conti.
“Hai
deciso che lo Schatztruhe deve diventare un ospizio per anziani?”
chiese Florian senza preamboli.
König
aggrottò le sopracciglia. “Che intendi dire?”
L’altro
sfogliò con fare svagato una rivista che si trovava sul piano del
mobile e la lasciò significativamente aperta sull’immagine di una
bella ragazza in abiti succinti. “Le vecchie cariatidi non
interessano a nessuno,” spiegò con l’aria di chi la sa lunga.
“Il pubblico vuole gente giovane, avvenente, che faccia sognare.”
L’uomo
si decise ad abbandonare le fatture. Si girò verso di lui e
fissandolo serio gli disse: “Vieni al punto.”
“Via,
papà, sai benissimo dove voglio arrivare,” rispose questi, col
tono che avrebbe usato per dire che il cielo è blu e l’erba è
verde. “Regine è sicuramente un’artista di grande esperienza, ma
per quanto tempo potrà ancora esibirsi?” Tacque per qualche
secondo, forse in attesa di una replica che però non giunse, quindi
imperterrito proseguì: “Per quanto tempo riuscirà a nascondere la
sua età?” Aggrottò le sopracciglia e chiese: “A proposito,
quanti anni ha, papà?”
Il
signor König scosse la testa. “Non lo so.”
“Spiegel
lo sa?”
L’uomo
alzò le spalle. “Neppure lui, credo. Regine non l’ha mai voluto
dire a nessuno.”
Florian
incrociò le braccia sul petto. “Segno di coscienza sporca: per me
ne ha almeno quaranta.” Scosse la testa come di fronte a un
comportamento particolarmente disonesto e aggiunse: “Facci caso,
papà: non vedi quanto cerone si dà in faccia prima di entrare in
scena?” Assunse un’espressione desolata e soggiunse: “Ma tra un
po’ non basterà più nemmeno quello.”
“E
quindi cos’avresti in mente?”
Florian
rievocò l’abitino di scena di Cordula, da lì il pensiero corse a
quello che c’era sotto
l’indumento ed egli assunse un’aria vagamente sognante. “Ci
vuole una cantante giovane,” rivelò. “Carina, alla mano, senza
quell’aria da istitutrice di collegio femminile che ha Regine.”
“Regine
ha un’estensione vocale di cinque ottave,” gli fece notare il
genitore.
Florian
scosse la testa. “La gente non vuole lezioni di canto, vuole
svagarsi. Vuole spettacoli piacevoli e divertenti, che facciano
sorridere e dimenticare le preoccupazioni. Perché verrebbe al Truhe,
se no?”
“Per
ascoltare una brava cantante?”
“Anche
se Regine fosse la cantante più brava di tutta la Germania,”
concesse imperterrito il ragazzo, “per quanto tempo ancora potrà
esibirsi?”
Il
signor König diede uno sguardo ai libri mastri che ancora gli
rimanevano da controllare, emise uno sbuffo infastidito e ripeté:
“Vieni al punto, Florian.”
“Abbiamo
la ragazza giusta,” rispose lui prontamente, “Cordula
Kerschbaumer.”
Il
padre aggrottò le sopracciglia. “Chi?”
“Cora,”
replicò il ragazzo, con l’aria di ribadire l’ovvio.
“Cora,
chi?”
“Oh,
insomma, papà! Non sai neanche chi fa parte del tuo corpo di ballo?”
“A
queste cose pensa Spiegel, è lui che assume le ragazze. Cos'avrebbe
di speciale questa tua Cora?”
“È
bella, tanto per cominciare. È giovane, sa cantare e sa ballare. Non
ha esperienza, ma sono certo che sia molto promettente.”
L’uomo
emise un sospiro. “E cosa ti dà questa certezza, Florian?”
Il
ragazzo si puntò un indice alla tempia e con fare misterioso rivelò:
“L’istinto.”
“L’istinto?”
ripeté scettico König. “Non sarà per caso un altro tipo di
istinto, magari più animale,
che ti fa parlare?”
Florian
assunse un’espressione sdegnata e rispose: “Io faccio del mio
meglio per far andare bene il Truhe e tu mi parli di istinti animali?
Chiama Spiegel, fatti dire da lui se la ragazza è valida o no, visto
che non ti fidi di me.”
Spiegel
arrivò poco dopo. Entrò nello studio e chiese: “Volevi vedermi,
König?”
L’uomo
indicò Florian. “Mio figlio, qui, vorrebbe parlarti di una sua
idea per uno spettacolo.”
Il
nuovo arrivato aggrottò appena le sopracciglia: non era la prima
volta che il giovanotto saltava su con qualche idea brillante su come
organizzare i numeri del Truhe, di solito accadeva il giorno
successivo a qualche serata particolarmente movimentata con una delle
ragazze. Il padre, ovviamente, faceva qualche blanda protesta per
salvare le apparenze, ma di solito gli dava corda in qualche progetto
assurdo e poi toccava a lui sistemare le cose. “Sentiamo,” si
limitò a dire.
Il
ragazzo ripeté l’esposizione.
Alla
fine Spiegel, contrariamente a quanto aveva previsto, si trovò ad
ammettere: “In effetti, Regine comincia ad avere i suoi anni.”
Florian
colse la palla al balzo: “Cordula è giovane, ma ha molta volontà
di applicarsi.”
L’impresario
abbandonò la scrivania e si avvicinò al finestrino che dava sulla
sala del Truhe. Guardò giù: il posto era vuoto e silenzioso, i
lampadari di cristallo che di notte lo facevano somigliare a uno
scrigno scintillante erano spenti, il sipario di velluto nero era
chiuso.
“Potrebbe
diventare una stella,” disse la voce di Florian alle sue spalle.
“Abbiamo
già una stella,” gli rispose il signor König.
“Sì,
ma per quanto?” insisté il figlio. “Vuoi che il Truhe diventi
famoso per avere come stella un vecchio travestito sfiatato? Vuoi
trasformarlo in un cabaret dove si fanno numeri comici?”
Spiegel
continuò a guardare la sala prestando un orecchio distratto allo
scambio tra padre e figlio. Il discorso era certamente scaturito
dalla conversazione post-coitale
del secondo con qualche ragazzetta vogliosa di fare carriera, ma non
era del tutto campato in aria. Per quanto Regine si affannasse a
nasconderle, le rughe cominciavano a farsi vedere e non era una
cattiva idea pensare a come procurarsi un numero alternativo.
Il
pubblico del resto era una creatura volubile, facile agli entusiasmi
come agli sdegni, assetata di novità e per nulla disposta, in una
città come Berlino, che letteralmente straripava di locali uno più
estremo dell’altro, a tollerare le ubbie malinconiche di una
vecchia gloria a fine carriera.
“Chi
sarebbe questa ragazza?” chiese Spiegel.
“Cordula…
Cora,” rispose Florian.
“Che
cosa avrebbe in più rispetto a Lotte, Ilse o le altre?”
Il
ragazzo scese dall’angolo della scrivania e gli si affiancò. “Ha
stoffa,”
gli rispose, ostentando un’aria da esperto. “Farà strada, farà
carriera, ne sono sicuro.”
“Sì,
ma in pratica?” chiese Spiegel, nell’ambiente da troppo tempo per
lasciarsi incantare da simili raccomandazioni.
“Lei
fa la tirolese,” spiegò Florian. “Indossa il Dirndl
e canta. Sa fare lo Jodel.”
“Lo
Jodel?” fece eco Spiegel, indeciso se prendere la risposta sul
serio o considerarla una specie di scherzo.
Imperterrito,
Florian rispose: “Canta una canzone che si intitola ‘L’odio non
è altro che amore non corrisposto.’ Vuoi sentire come fa?”
“Vuoi
metterti a cantare uno Jodel?” gli chiese Spiegel dubbioso.
Il
ragazzo scosse la testa. “No, lei è qui fuori. La faccio entrare?”
Senza attendere la risposta aprì la porta e chiamò: “Cora!”
Sulla
soglia comparve la ragazza: capelli corvini, occhi di un blu
profondo, volto liscio, guance appena rosate. Una splendente immagine
di grazia e giovinezza.
Congedata
la ragazza, i tre si guardarono in faccia per qualche secondo, poi
Florian pose la fatidica domanda: “Chi glielo dice?”
“In
fondo non si tratta di chissà cosa,” considerò il signor König,
“si tratta solo di spostare il suo numero all’apertura della
serata.”
“Non
la licenziamo mica,” convenne il figlio.
“No
di certo. Abbiamo tutti molta stima di Regine, le vogliamo bene come
se fosse una di famiglia. Ci pensi tu, Spiegel?”
L’uomo
ebbe l’impulso di fare un passo indietro. “Io? Perché io?”
“Perché
sei l’impresario.”
“Che
discorsi, allora tu sei il padrone. Tocca a te.”
“Ma
sei tu che gestisci queste cose.”
“Sì,
ma tu sei il padrone,” insisté Spiegel, poi vigliaccamente
aggiunse: “E comunque, l’idea è stata di Florian.”
Il
ragazzo sbarrò gli occhi. “Cosa? Dovrei dirglielo io?”
L’uomo
si strinse nelle spalle. “Beh...”
“Facciamo
a chi estrae la carta più bassa?” propose König.
Spiegel
gli rivolse un’occhiata di traverso. “Va bene, ma usiamo il mio
mazzo.”
§
Spiegel
masticò a mezza voce un’imprecazione, quindi si fermò davanti a
una porta ornata da una grande stella dorata e bussò un paio di
volte. Una sensuale voce di contralto disse: “Avanti!”
L’uomo
spinse l’anta ed entrò. Seduta al tavolino da trucco, Regine era
circondata dagli omaggi dei suoi ammiratori come accadeva alla fine
di ogni serata. Spiegel ebbe però l’impressione che i mazzi di
fiori e gli astucci di gioielli fossero un po’ meno del solito.
“Buona
sera, mia cara,” la salutò.
Impegnata
a togliersi il trucco di scena, Regine lo fissò attraverso lo
specchio. “Un successo anche stavolta,” proclamò fiera.
Spiegel
si mosse a disagio. “Sono orchidee, queste?” chiese indicando un
mazzo di fiori violacei.
“Un
regalo,” fu la risposta.
“Sono
molto belle. E anche quelle rose, naturalmente.”
Regine
abbandonò il batuffolo imbevuto di tonico con cui si stava
struccando e si voltò a fissarlo direttamente. “Che c’è?” gli
chiese aggrottando le sopracciglia.
“Ecco…
niente. Cosa dovrebbe esserci?”
“Mi
sembri strano.” Di nuovo si voltò verso lo specchio e si protese a
osservare il proprio viso sotto la luce intensa. Si girò di tre
quarti e si passò le dita su una guancia, come per saggiarne la
compattezza. “Sono sempre la più bella, vero?” chiese con un
mezzo sorriso.
Spiegel
rimase muto.
Regine
si voltò a fissarlo con sguardo di fuoco. “Chi è la più bella
del Truhe?” ripeté. La voce vibrava di rabbia, ma vi si coglieva
anche una lieve nota di angoscia.
L’uomo
prese un gran respiro. “È il motivo per cui sono qui, Regine,”
si decise a rispondere.
“Sarebbe?”
ringhiò lei.
“È
necessario spostare il tuo numero. Andrai in apertura.”
La
cantante alzò le sopracciglia con fare sdegnato. “Davvero?
All'improvviso sono tornata una ragazzetta a inizio carriera? E chi è
la stella che si prenderà il numero centrale? Chi è la grande
artista?”
“Si
tratta solo di una piccola variazione,” replicò Spiegel, ma
l’altra imperterrita insisté: “Sul serio, dimmi chi è la stella
di fronte a cui la grande Regine deve inchinarsi, sono curiosa.”
“È
proprio necessario metterla in questi termini?”
“Mi
rispondi, Spiegel? Se no vado a chiederlo direttamente al signor
König.”
“Cordula
Kerschbaumer.”
Nel
camerino calò un silenzio glaciale, rotto solo dalla vaga eco del
chiacchiericcio esterno. Spiegel si mosse a disagio, facendo
tintinnare i cristalli di un'abat-jour.
“Quindi
ora è lei la più bella?” chiese infine Regine.
Di
nuovo calò il silenzio.
“È
lei?”
“Non
puoi negare...”
Regine
non lo lasciò finire. “Molto bene, Spiegel,” replicò altera.
“Io non sono abituata a farmi trattare così.” Si alzò in piedi
e cominciò a raccogliere le sue cose. “Dà pure il camerino alla
nuova stella,” ringhiò, “io non penso di averne più bisogno.”
“Ma
Regine...”
La
cantante gli rivolse uno sguardo di degnazione e rispose: “Non
preoccuparti per me, io me la caverò come ho sempre fatto.” Si
fece scivolare sulle spalle un’ampia stola di seta ricamata, si
accese una sigaretta infilata in un lungo bocchino tempestato di
strass, quindi con degnazione aggiunse: “Quanto a voi, divertitevi
con la vostra nuova bambolina. Sono certa che diventerà una stella
di prima grandezza.”
Se
ne andò sbattendo la porta.
§
Verso
le dieci del giorno dopo, quindi di buon mattino secondo i suoi
criteri, Regine salì sul sedile posteriore della sua Horch color
crema e si fece portare al Pharaon, un locale in stile egizio. Mentre
l’auto percorreva i viali della città, ella sfogliava i due album
che aveva avuto cura di portare con sé, uno con le sue fotografie e
l’altro con i posti in cui aveva lavorato e i riconoscimenti che
aveva ricevuto.
Cominciò
a ragionare su come organizzare un numero in abito da Cleopatra, con
la parrucca nera e gli occhi bistrati: per il Pharaon sarebbe stato
perfetto.
L’auto
si fermò, l’autista scese ad aprire la portiera e Regine si
diresse altera verso l’entrata del locale.
“È
chiuso,” la avvisò un tale con un secchio e uno spazzolone.
La
cantante lo fissò con degnazione. “Devo parlare con il signor
Lehnke,” lo informò.
“Il
direttore non c’è.”
Regine
non lo degnò di ulteriori attenzioni. Procedette con sussiego lungo
il marciapiede fino alla porta di un’abitazione privata, poi suonò
un campanello.
Dopo
un po’ si udì un’assonnata voce maschile che chiedeva: “Chi
è?”
“Sono
Regine.”
“Chi?”
La
cantante abbassò la voce. “Mathias Bierkant.”
La
voce al citofono assunse un’intonazione sorpresa. “E che ci fai
qui?”
“Diciamo
che è il tuo giorno fortunato.”
“In
che senso?”
“Fammi
salire.”
Ci
fu qualche secondo di silenzio, poi la chiusura del portone scattò.
“E
così, cerchi un ingaggio,” disse Horst Lehnke quando Regine gli
ebbe raccontato la faccenda.
La
cantante trasse una sigaretta d’importazione da un astuccio
d’argento, la accese, aspirò una lenta boccata di fumo ed
esalandolo rispose: “Non è esatto. Ti sto offrendo la possibilità
di avere la grande Regine nel tuo locale. Ho già pensato all’abito
di scena in stile egizio, credo che le tue costumiste saranno in
grado di prepararmelo anche per la settimana prossima, se ricamano
abbastanza in fretta.”
Lehnke
annuì come per dimostrare di aver compreso la situazione. “Sarebbe
certamente un privilegio,” le disse, “ma vedi, attualmente stiamo
affrontando parecchie spese, non so se potremmo permetterci il tuo
ingaggio.”
Regine
sollevò sdegnosa un sopracciglio. “Hai idea di quanto ti farei
guadagnare con la mia sola presenza?”
“Parecchio,
immagino. Ma vedi, dovrei chiedere anche agli altri soci, e la
prossima riunione sarà solo giovedì.”
“Vorrà
dire che ti telefonerò venerdì, allora, così mi dirai quando posso
cominciare.”
“Ti
farò sapere io, Regine. Non posso prometterti altro al momento.”
La
cantante scese in strada piuttosto contrariata. “Pavido,” disse
fra sé e sé. “Non è più capace di fare un investimento,
preferisce prendersi una sciacquetta qualsiasi per risparmiare
qualche misero marco.” Si accomodò in macchina e ordinò: “Al
Plaza, Reiner.”
“Sì,
signora.”
La
macchina raggiunse l’enorme locale, strutturato su tre piani.
Poiché dabbasso aveva un caffè, era praticamente sempre aperto, il
giorno e la maggior parte della notte. La cantante entrò con
sussiego, aspettandosi che baristi e camerieri le corressero incontro
per rendere omaggio alla sua fama, ma non accadde nulla di tutto ciò.
L’unica
attenzione che ottenne fu da parte di un ragazzotto in giacca bianca,
che le si avvicinò e chiese: “Desidera, signora?”
“Devo
vedere il signor Möller.”
Il
giovanotto rimase interdetto per qualche secondo, quindi si voltò
verso un collega più anziano. Questi si avvicinò e compito ripeté
la domanda: “Desidera, signora?”
“Il
signor Möller, per favore.”
“Ha
un appuntamento, signora?”
“Io
e il signor Möller siamo amici da lungo tempo. Ora lo vada a
chiamare, per favore. Non vorrei trovarmi nella necessità di
riferirgli che i suoi dipendenti sono scortesi con le sue amicizie.”
Il
cameriere non parve particolarmente impressionato da quella minaccia.
Si limitò a dire: “Sì, signora,” poi scomparve attraverso una
porta.
Passarono
non meno di dieci minuti.
Regine,
che nel frattempo si era accesa un’altra sigaretta, tamburellava
nervosa col piede.
Infine
comparve Möller. “Regine cara,” la salutò andandole incontro,
“come mai da queste parti?”
“Ti
ho portato le mie cinque ottave, caro,” fu la risposta.
Möller
abbassò le braccia che aveva teso verso di lei. “Sarebbe a dire?”
le chiese interdetto.
“Penso
che romperò il contratto con lo
Schatztruhe. Sono a tua disposizione, se vuoi.”
Il
sorriso scomparve dal volto dell’uomo. “Ecco, Regine, è un
brutto momento,” le rispose. “Ho appena assunto due ragazze
nuove, sai. Contratti firmati, che non possono essere rotti.”
“Ma
caro, io sono Regine. Sono famosa.”
“Proprio
perché sei così famosa, tesoro, non posso certo sminuirti in numeri
di secondo ordine. Al momento non ho niente di adatto a te.” Fece
una significativa pausa. “Niente che possa mettere in risalto le
tue doti.”
Regine
lo scrutò attenta per qualche secondo, quindi abbassò la voce e gli
chiese: “Stai parlando delle mie doti canore o di altre doti?” Si
passò la lingua sulle labbra.
Möller
fece un sorriso tirato. “Via, cara, siamo un po’ grandicelli per
certe cose ormai, non ti pare?”
“Al
Garten,” ringhiò Regine dal sedile posteriore della Horch.
“Sì,
signora.”
La
macchina si mise in moto.
“Specie
di villano. Ma sai che ti dico, Reiner? Chi non mi vuole non mi
merita.”
“Sì,
signora.”
“In
fondo, il Plaza è un locale troppo volgare.”
“Come
dice lei, signora.”
La
cantante si accese una sigaretta e rimase a fumare assorta sfogliando
i suoi album mentre la vettura procedeva attraverso la città.
Infine
giunsero a destinazione. Regine scese dalla macchina senza nemmeno
attendere che l’autista le aprisse la portiera, quindi si diresse a
passo di carica verso una porta alla quale suonò con decisione.
Comparve
sulla soglia una cameriera, che la fissò perplessa e chiese: “la
signora desidera?”
“Vorrei
vedere il signor Senft.”
La
donna scosse la testa. “Mi dispiace, non può venire in questo
momento.”
La
cantante non si mosse. “È molto importante. Io sono Regine,
capisce?”
“Regine?”
si limitò a ripetere la cameriera.
“Gli
faccia sapere che voglio vederlo. Quando saprà chi sono, verrà
subito.”
Anche
lì passarono vari minuti. Infine Senft si presentò con un
tovagliolo legato al collo. “Stavo mangiando,” la informò serio.
“Non
preoccuparti, dopo che avrai sentito quello che ho da dirti mangerai
con molto più appetito.”
“Sarebbe?”
“Intendo
allontanarmi dallo
Schatztruhe, è diventato troppo volgare. Puoi avermi tutta per te.
Per il Garten, a tempo pieno.”
La
notizia fu accolta da un circospetto silenzio, tanto che dopo un po’
Regine si sentì in dovere di chiedere: “Non sei contento? Tre anni
fa avresti fatto carte false per avermi.”
L’altro
annuì. “Appunto, tre anni fa. Il tempo passa, si prendono altre
decisioni, arrivano altre cantanti.”
“Ma
non con cinque ottave di estensione vocale, caro mio. Non con la mia
classe e la mia esperienza.”
Senft
non parve molto impressionato. “Al giorno d’oggi, l’estensione
vocale non è la cosa più importante,” la informò.
“Davvero?
E cosa sarebbe allora?”
L’uomo
parve a disagio. “Devo tornare di là,” biascicò, “mi
aspettano.” Si gettò un’occhiata alle spalle, come se d’un
tratto avesse potuto arrivare qualcuno per richiamarlo all’ordine.
“Cosa
sarebbe?” ripeté Regine.
Senft
cominciò a rinculare, un passo dopo l’altro. “Ti farò sapere,
d’accordo? Ti chiamo nei prossimi giorni. Ora non ho proprio tempo,
scusami.”
§
Regine
sollevò la cornetta del telefono e compose un numero. L’apparecchio
squillò un po’ di volte, poi una voce maschile rispose: “Jäger.”
“Ti
ricordi di me?” gli chiese semplicemente la cantante.
Dall’altra
parte ci fu un lungo silenzio, quindi l’uomo chiese: “Cosa vuoi?”
“Troviamoci
al caffè Kehrer tra un’ora.”
“Al
Kehrer? Togliti i gioielli, allora. Quella non è una bella zona,
soprattutto di notte.”
“So
badare a me stessa, Jäger.”
“Non
ne dubito, ma tu togliteli lo stesso. Non vorrei dover intervenire
per salvare una signora in difficoltà.”
“Vedi
di essere puntuale,” gli intimò Regine per tutta risposta, quindi
chiuse la comunicazione. Andò a un armadio e ne trasse un elegante
completo gessato. Era parecchio tempo che non faceva l’uomo, ma in
fin dei conti era nata come tale e certe cose rimangono nel sangue.
Sedette
al tavolino da trucco, si applicò un fondotinta di un tono più
scuro rispetto al suo incarnato latteo, si incollò sulla fronte
sopracciglia dritte, che conferivano al suo volto ambiguo un deciso
piglio virile.
Alla
fine della metamorfosi si guardò allo specchio: un uomo alto,
snello, vestito secondo i più rigidi criteri dell’eleganza
maschile. Staccò una gardenia dal vaso che ornava il davanzale e se
la infilò all’occhiello, quindi prese da un cassetto una leggera
Lignose Einhand, controllò che fosse carica e se la fece scivolare
nella tasca della giacca.
A
quel punto si spostò nell’ingresso, raccolse cappello e chiavi
della macchina, quindi uscì.
Parcheggiò
qualche isolato prima del caffè Kehrer: non voleva certo che la sua
Ford nera venisse danneggiata o peggio rubata. Dato quello che si
accingeva a fare, poi, non voleva neppure che l’auto venisse notata
da qualcuno nelle vicinanze del locale.
Procedette
a passo svelto, tenendosi nella luce dei lampioni, con la mano sempre
pronta ad afferrare la piccola pistola. Entrò infine nel locale,
sedette a un tavolino in un angolo, un po’ discosto dagli altri,
quindi ordinò un whiskey. Si accese una sigaretta e prese a fumare
lentamente, bevendo di tanto in tanto un sorso di liquore.
Jäger
arrivò alla fine della seconda sigaretta. Regine valutò che era
ancora come lo ricordava: alto, robusto, piglio deciso ma non scevro
di una certa eleganza. Interessanti occhi verdi, screziati di grigio.
Si erano anche divertiti parecchio insieme, in un passato che ormai
si stava facendo sempre più remoto.
L’uomo
si sedette e ordinò a sua volta un whiskey, si accese una sigaretta
e chiese: “Allora, cosa vuoi?”
“Anch’io
sono felice di rivederti,” gli rispose Regine imperturbabile. Finì
la sigaretta con un unico lungo tiro, esalò lentamente il fumo e
schiacciò il mozzicone nel portacenere.
“Cosa
vuoi?” ripeté Jäger.
“Rivedere
un vecchio amico, tanto per cominciare. Un amico che se adesso sta
bevendo Whiskey al Kehrer e non sta dormendo su un pagliericcio nella
prigione di Plötzensee lo deve alla sottoscritta.”
Jäger
annuì come se la risposta della cantante avesse già reso chiara
ogni cosa. “Sei venuta a riscuotere?” chiese.
“I
debiti si pagano, mio caro.”
L’uomo
annuì di nuovo e bevve un altro sorso, dando fondo al bicchiere.
Alzò il braccio per chiamare la cameriera.
Attesero
che la ragazza si allontanasse dopo aver raccolto l’ordinazione,
quindi Regine gli chiese: “Ti occupi ancora di disinfestazioni?”
Jäger
strinse le labbra. Istintivamente abbassò lo sguardo verso il punto
in cui fino a un attimo prima si era trovato il suo bicchiere,
aggrottò deluso le sopracciglia, poi rialzò gli occhi e li fissò
nei suoi. “Disinfestazioni?” ripeté.
“Hai
capito benissimo. Intendo quelle
disinfestazioni.”
L’uomo
mantenne il silenzio.
“C’è
una… gatta che mi dà fastidio,” spiegò allora Regine con
glaciale calma. “Una gatta che crede di poter miagolare sotto le
mie finestre.”
Jäger
annuì serio. “Una gatta, dici?”
“Una
giovane gattina un po’ sventata, che non ha ancora capito dove si
può miagolare e dove invece è molto meglio stare zitte. Tu dovresti
occuparti di lei e io poi mi dimenticherò di te per sempre.”
Jäger
lasciò passare qualche secondo, quindi chiese: “E se io ti dicessi
che ho smesso con certe cose?”
Regine
fece un sorrisetto di superiorità. “Andrei dal tuo capo e gli
farei avere certi documenti.”
“E
se io mi occupassi della tua
disinfestazione? Adesso, dietro l’angolo?”
La
cantante mantenne la faccia da poker. “Mi credi così stupida,
Jäger? Ovviamente ho preso le mie precauzioni.”
“Ma
davvero?”
“Tu
fa’ quello che ti chiedo e la questione finisce qui.” Regine fece
una studiata pausa, sovrappose con gesto elegante le mani sul piano
del tavolo, quindi in tono funesto proseguì: “Rifiutati e la
prigione di Plötzensee ti sembrerà un sogno, rispetto a quello che
ti farà il tuo capo.”
Tra
i due calò un silenzio greve. Jäger prese il bicchiere che nel
frattempo gli era stato portato e ne tracannò una buona metà con un
solo sorso, quindi lo appoggiò di nuovo sul tavolo facendo
tintinnare il ghiaccio. Infine chiese: “Ha un nome, questa gatta?”
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Salve a tutti/e! Ecco un altro
capitolo della nostra vicenda fiabesca trasportata nella Berlino di
fine anni ‘20. Ringrazio come sempre tutti quelli che mi stanno
seguendo e faccio un ringraziamento speciale a chi mi ha anche
lasciato il suo parere!^^
Capitolo
3
Cordula
fece una bracciata di tutti i suoi abiti di scena, poi raccolse anche
la biancheria, le scarpe e tutto il resto e si diresse con entusiasmo
verso il camerino con la porta ornata da una grande stella dorata.
Mentre
cercava di abbassare la maniglia col gomito, l’anta si schiuse e
sulla soglia comparve Regine. “Hai preso tutto, cara?” s’informò
la cantante.
La
ragazza si immobilizzò all’istante, con l'impressione di essere
appena stata investita da una folata d'aria gelida, poi piegò la
testa all’indietro per riuscire a guardarla in faccia. “Credevo
che non ci fosse nessuno,” balbettò.
L’altra
annuì con un sorriso che sembrava quello di un caimano. “E invece
come vedi ci sono io.”
Cordula
deglutì. “Forse… è meglio che me ne vada?” propose.
“Oh,
ma no. Assolutamente no. D’ora in poi, questo sarà il tuo
camerino.” Regine si scostò per farla passare. “Vieni avanti,
tesoro. Metti le tue cose nell’armadio.”
La
più giovane fece un cauto passo all’interno, quasi aspettandosi
che da un momento all’altro una tagliola le si chiudesse sulla
caviglia. “E tu?” chiese poi.
“Oh,
io mi adatterò, non preoccuparti.”
“Davvero?”
“Ma
certo, in fondo a me basta poco per stare bene. Ah, sta’ attenta al
tavolino del trucco: traballa un po’.”
Sotto
lo sguardo attento di Regine, Cordula si fece avanti e appoggiò la
bracciata di vestiti sul divanetto. Poi alzò gli occhi sulla
cantante, come aspettandosi che le desse la sua approvazione.
L’altra
si limitò a un sobrio cenno del capo. “Ora vado,” la informò
poi. “Mi raccomando, attenta al tavolino: potrebbe succedere un
incidente quando meno te l'aspetti.”
La
ragazza rimase sola nella stanzetta e nonostante la temperatura
estiva si trovò a rabbrividire. Per distrarsi dalla sensazione di
freddo che il sinistro avvertimento le aveva lasciato addosso
cominciò a sistemare gli abiti nel guardaroba, canticchiando
frattanto la sua canzone: l’odio non è altro che amore non
corrisposto.
Man
mano che sistemava le sue cose, e che la stanza perdeva le
connotazioni che vi aveva lasciato Regine per diventare sempre più
sua, anche il timore reverenziale nei confronti della cantante la
abbandonava: in fin dei conti, il signor König aveva scelto lei e le
aveva affidato il numero più importante della serata. Questo voleva
ben dire qualcosa.
In
quel momento udì bussare alla porta.
Un
brivido la attraversò al pensiero che fosse Regine che tornava,
nonostante tutto quella sussiegosa megera non aveva ancora smesso di
inquietarla, ma uno sguardo allo specchio bastò a fugare ogni
timore: era giovane e bella e avrebbe presto fatto carriera.
“Avanti!” gorgheggiò.
Sulla
soglia comparve Florian, con un mazzo di rose in mano. “Come sta la
stella del Truhe?” le chiese porgendoglielo.
Cordula
giunse le mani e se le portò al petto. “Come sono belle,”
sospirò sognante.
“Mai
belle quanto te,” le assicurò lui.
La
ragazza abbassò lo sguardo. “Lo credi davvero?”
“Ma
certo!” le assicurò lui con calore.
“Non
è che lo dici solo per farmi contenta?”
“Ma
no, perché dovrei fare una cosa del genere?”
Lei
si voltò verso lo specchio e si osservò critica. “Non lo so,
forse non sono abbastanza bella per questo ruolo. Non ho abbastanza
classe.” Abbandonò la contemplazione della propria figura e tornò
a voltarsi verso il ragazzo. “Tu credi che io abbia classe?”
“Ne
hai da vendere, Cora,” le assicurò lui con calore, con lo sguardo
che vagava sul suo generoso décolleté.
“Più
di quella là?”
Lo
sguardo di Florian si manteneva fisso sulla sua scollatura. “Ovvio
che ne hai più di lei.”
Ella
sorrise. “Sei sempre così caro,” tubò. Poi, a voce più bassa:
“Andiamo fuori a cena dopo lo spettacolo?”
“Facciamo
qualcosa anche adesso? Su quel bel divano magari?
“Ma
Florian! Io non sono quel genere di ragazza.”
§
Cordula
rientrò in camerino con le guance ancora in fiamme per gli applausi
ricevuti. Per quanto ormai ogni sera riscuotesse successi, non era
ancora riuscita ad abituarsi alla gente – perlopiù uomini, per la
verità – che applaudiva proprio lei.
Quando
si esibiva, era come se intorno al palco ci fosse un branco di
pinguini: i signori, in nero, si assiepavano lì sotto mentre le
signore si tenevano a maggiore distanza.
Florian
aveva fatto accorciare ulteriormente la gonna del suo Dirndl
e aveva fatto approfondire la scollatura della camicetta: si chiese
se fosse per quello che tutti la guardavano.
Lo
stupore interruppe il filo delle sue considerazioni: oltre ai soliti
mazzi di fiori, sul tavolino da trucco faceva bella mostra di sé una
scatola dall'aspetto elegante, larga e piatta, di un sobrio color
crema, chiusa da un nastro rosso. Si avvicinò incuriosita, notando
che essa aveva stampigliato sul coperchio, in eleganti caratteri
dorati, il nome della migliore pasticceria della città, famosa
perché fino a pochi anni prima aveva servito addirittura il Kaiser
Guglielmo.
Afferrò
un'estremità del nastro e tirò piano: il fiocco si sciolse
docilmente, come invitandola a prendere visione del contenuto della
scatola.
Sollevò
titubante il coperchio e quando ciò che esso celava si rivelò ai
suoi occhi, ella rimase a bocca aperta. Si trattava di praline: le
più sontuose, fragranti, eleganti e costose che si potessero
immaginare. Erano fatte senza dubbio del cioccolato più pregiato ed
emanavano un profumo che letteralmente dava alla testa.
Cordula
aspirò quell'opulento aroma socchiudendo gli occhi per il piacere e
subito la mano le scivolò al ciondolo che portava al collo, come
accadeva ogni volta che qualcosa la emozionava profondamente. Fatto
questo si ricompose e si guardò intorno maliziosa. “Florian?”
sussurrò. “È opera tua?” Emise un risolino.
Non
ci fu risposta.
Cordula
si guardò intorno di nuovo, cercando anche dietro le tende, ma
dovette arrendersi all'evidenza: a parte lei, la stanza era vuota.
Tornò allora alla scatola di cioccolatini e al suo interno trovò un
biglietto che diceva: 'Con ardore.' Firmato: Erich.
Si
rigirò perplessa fra le mani il piccolo rettangolo di cartoncino:
non riconosceva né la grafia, né il nome del misterioso ammiratore,
che però al contrario sembrava conoscere molto bene lei e i suoi
gusti.
Prese
tra le dita un magnifico cioccolatino fondente a forma di piccolo
cuore, lucido come una pietra dura, e se lo mise in bocca: esso si
spezzò scrocchiando e lasciò fuoriuscire un ripieno all'aroma di
vaniglia e rosa. Cordula emise un mugolio di piacere.
In
quel momento bussarono alla porta.
Ella
sussultò col cuore in tumulto, come se fosse stata sorpresa a fare
qualcosa di molto sconveniente. “Un momento!” disse
precipitosamente, “Non sono presentabile!”
Da
fuori, la voce di Florian chiese: “Nemmeno per me?”
“Un
momento!” ripeté Cordula. Chiuse la scatola, vi avvolse intorno il
nastro e la fece scivolare nel cassetto assieme al cartoncino che la
accompagnava. “Ora puoi venire!” disse a quel punto, sentendosi
come se stesse nascondendo l'amante nell'armadio.
Nei
giorni successivi, il misterioso Erich lasciò altri omaggi. Sempre
cioccolatini, i più fini e costosi che la città potesse offrire.
Una volta Cordula aveva trovato addirittura una scatola di praline
Godiva, fatte venire apposta dal Belgio.
Nessuno
sapeva chi li portasse. Prima di andare in scena non c'erano e quando
lei tornava, al solito col volto acceso e il petto che si alzava e si
abbassava per effetto del fiatone, la pregiata scatola era lì ad
attenderla.
Più
volte, certa che si trattasse di una specie di scherzo di Florian,
aveva cercato di coglierlo sul fatto, ma invariabilmente il
giovanotto si era dichiarato innocente e aveva presentato a supporto
dell'affermazione alibi di ferro.
L'unica
persona che ogni tanto aveva scorto nei dintorni del suo camerino era
Regine, ma dubitava che fosse la vecchia gloria spodestata a
lasciarle in dono cioccolatini di marca.
Le
rimanevano solo congetture su chi fosse il misterioso Erich,
congetture che puntualmente le toglievano il sonno, o lo riempivano
di sogni eccitanti.
Poi
una sera, mentre cantava, ebbe una strana sensazione, come di
qualcuno che la fissasse con insistenza. Tutti la fissavano,
naturalmente, dal momento che era diventata la stella del locale, ma
quello sguardo pareva avere qualcosa in più. Era caldo, audace.
Addirittura indiscreto.
Le scorreva addosso come una sensuale carezza.
Era
uno sguardo che Florian non le aveva mai rivolto.
Si
girò in quella direzione e subito notò un uomo: alto, robusto,
vestito in maniera assai elegante. Aveva interessanti occhi verdi,
screziati di grigio.
I
loro sguardi si avvinsero, Cordula ebbe un tuffo al cuore e quasi
saltò una battuta della canzone, persa nella contemplazione di quel
fascinoso ammiratore.
Non
poteva che essere il misterioso Erich, subito ne fu certa. In un
gesto istintivo si toccò il ciondolo che portava al collo e le parve
che l'uomo annuisse, come se avesse compreso perfettamente la muta
domanda che la stava assillando.
La
ragazza rientrò in camerino ansante, col cuore in tumulto e la
sensazione che stesse per succedere qualcosa di decisivo. Trovò sul
tavolino una scatola sontuosa, fatta a cuore e tutta foderata di raso
rosso. Le praline al suo interno avevano forme che non avrebbero
consentito la loro esposizione in nessuna vetrina seria.
“Oh,”
disse semplicemente Cordula, fissando interdetta i licenziosi
cioccolatini.
Dalla
scatola cadde un biglietto. La firma era sempre quella del misterioso
Erich, ma questa volta invece delle parole audaci vi erano un
indirizzo e un orario.
Cordula
rimase per lunghi minuti a fissare la missiva, tormentando frattanto
il ciondolo che portava al collo. Che fare?
Allungò
distrattamente una mano verso la scatola e ne trasse un raffinato
cioccolatino fondente. Se lo infilò in bocca e prese a masticare
adagio, socchiudendo gli occhi e piegando appena la testa
all'indietro mentre lo gustava.
Dei
colpi alla porta la fecero sussultare. Sussultò, inghiottì in
fretta quello che ancora le era rimasto in bocca e disse: “Avanti!”
La scatola sparì come sempre nel cassetto.
Entrò
Florian.
Cordula
si voltò verso di lui e aggrottò appena le sopracciglia: paragonato
al misterioso Erich, dallo sguardo magnetico e dal fascino
conturbante, il giovanotto le parve di colpo fatuo e sciocco: un
bamboccio figlio di papà, né più né meno.
Abbassò
gli occhi sul tavolino, nel cui cassetto il messaggio di Erich
sembrava bruciare a tal punto che quasi ne avvertiva il calore sulla
pelle.
La
voce del ragazzo la riportò momentaneamente alla realtà: “Andiamo
a cena al Kempinski stasera?”
D'istinto
Cordula fu quasi tentata di accettare: si trattava di un ristorante
molto elegante, che costava un sacco di soldi. Poi però ripensò a
quello che c'era nel cassetto e rispose: “No, non mi sento tanto
bene.”
Florian
assunse un'espressione preoccupata e le chiese: “Che cos'hai?” Si
avvicinò e fece per toccarla, ma lei si scostò. “Sono solo un po'
stanca,” disse, aggrottando le sopracciglia infastidita.
“Vuoi
che ti accompagni a casa?”
Cordula
rifletté velocemente: farsi accompagnare a casa e fingere di andare
a dormire era probabilmente il modo più rapido per toglierselo di
torno. Gli rivolse un sorriso. “Davvero lo faresti?”
“Ma
naturalmente,” rispose lui con slancio. “Non posso certo farti
andare a casa da sola.”
“Che
caro. Ora esci, però, che devo cambiarmi.”
Una
volta sola, Cordula sgusciò velocemente fuori dall'abito di scena,
si infilò un tailleur e fece scomparire nella borsa la scatola di
cioccolatini e il biglietto. Alla fine si diede due colpi di spazzola
e una passata di rossetto, poi andò ad aprire la porta. “Sono
pronta,” annunciò.
“Oh,
Cora, sei bellissima!” esclamò il ragazzo estasiato. “Sicura che
non vuoi venire a cena?”
Lei
fece il broncio. “Sei il solito insensibile: ti ho detto che non mi
sento bene e tu pensi solo ad andare a cena.”
Florian
assunse un'espressione contrita. “Scusa, io pensavo di farti un
piacere.”
“E
secondo te, proporre di uscire a una persona che non sta bene sarebbe
un piacere?”
“No,
Cora, io...”
“È
meglio che mi porti a casa, Florian.” Poi, dopo una pausa, in tono
di velata minaccia: “Ne riparliamo domani.”
§
Una
volta che fu nella sicurezza del suo appartamento, con la porta
chiusa a due mandate, Cordula si pose di nuovo la fatidica domanda:
che fare?
Riguardò
il biglietto: non mancava molto all’orario che vi era scritto,
aveva poco tempo per prendere una decisione. Osservò la grafia
risoluta ma al tempo stesso elegante con cui erano stati vergati i
caratteri e immaginò di sentire su di sé le mani che erano capaci
di quella scrittura. Subito fu presa da un brivido e si aggrappò al
ciondolo a forma di cuore come in mare aperto avrebbe afferrato un
salvagente. “Erich,” mormorò rapita, rievocando lo sguardo di
quegli occhi misteriosi, “Oh, Erich.”
Corse
in camera lasciando cadere nel tragitto gli abiti uno dopo l’altro,
si guardò allo specchio con addosso solo la biancheria, si raccolse
i capelli assumendo pose provocanti.
Ripensò
a quello che le aveva sempre raccomandato sua madre: certo, un bel
marito era quello che ci voleva, era opportuno fare di tutto per
trovare l’uomo giusto e sistemarsi. La ragione le diceva di seguire
quel saggio consiglio, ma il cuore stava cedendo inesorabilmente di
fronte al fascino del misterioso spasimante.
Abbandonò
infine le mosse equivoche e si guardò con la pacatezza della
decisione raggiunta: Florian non l’avrebbe mai saputo, sarebbe
rimasto un suo segreto. Suo e di Erich.
Andò
all’armadio e scelse un abito verde smeraldo che metteva in risalto
le sue forme e il suo incarnato. Lo indossò mentre il senso di
aspettativa per quello che sarebbe successo cresceva di attimo in
attimo, poi andò al tavolino del trucco e prese a lisciarsi con la
spazzola i capelli corvini.
Scese
in strada titubante, col cuore che le galoppava nel petto e un
tremito lieve che le percorreva le membra. Ogni volta che rievocava
quello sguardo, il respiro le mancava ed ella si sentiva folle,
posseduta, pervasa da una smania che non le concedeva tregua.
Si
strinse nel soprabito leggero. Anche se era una notte d’estate,
tiepida e profumata di tiglio, si sentiva le mani ghiacciate.
Nondimeno
attese il taxi e quando la vettura le si fermò accanto, vi montò
sopra con risolutezza. Temendo che al momento del dunque le tremasse
la voce, si limitò a mostrare al conducente il biglietto con
l’indirizzo.
La
macchina si mise in movimento.
Cordula
cercò di guardare fuori, ma nella fuggente luce dei lampioni non
vedeva che tratti di marciapiede perlopiù deserti. Intuiva palazzi
incombenti, in cui talvolta coglieva il rettangolo di luce di
finestre ancora illuminate, ma perlopiù le facciate erano buie.
Poi
la strada si fece più larga, ai lati di essa presero a scorrere file
di alberi. Una frescura piacevole sostituì l’afa delle vie del
centro.
La
vettura si fermò. “Siamo arrivati, signorina,” disse il
tassista.
Cordula
si guardò intorno sbattendo gli occhi e per un attimo fu
attraversata da una fitta di paura: si trovavano all’ingresso di un
parco pubblico. Il cancello di ferro battuto, socchiuso, ricordava
quello dei cimiteri di certe storie gotiche. Nell’aria c’era un
gran silenzio, rotto solo dal frinire dei grilli e da un lontano
scorrere d’acqua.
“Dove
siamo?” chiese.
“Dove
mi ha detto lei, signorina.”
Di
nuovo, Cordula si guardò intorno senza risolversi ad abbandonare la
vettura. Per quanto di giorno quel posto dovesse essere lindo e ben
curato, col buio le pareva inquietante, gravato di ombre sinistre,
pieno di rumori che le riempivano la schiena di brividi ghiacciati.
Stava
per ordinare al tassista di tornare indietro quando un uomo alto e
robusto, dal portamento elegante, comparve nel cono di luce di un
lampione. Il cuore le balzò nel petto, di colpo dimenticò ogni
proposito di fare ritorno a casa. “Erich,” sospirò.
Pagò
la corsa e abbandonò con entusiasmo la rassicurante vettura nera.
Nell'atto di muoversi verso il suo ammiratore le parve di aver appena
abbandonato la sicurezza della costa per avventurarsi in acque
profonde.
“Sei
un incanto,” la accolse l'uomo. “Cora?”
Lei
rimase stupita. “Come fai a conoscere il mio soprannome?”
“So
molte cose di te.”
Jäger
le diede cerimoniosamente il braccio e presero a camminare adagio per
un vialetto immerso nel verde. “Dove siamo qui?” chiese lei con
voce sommessa, forse ancora intimidita da tutta la situazione.
“Lungo
il Landwehrkanal. Mi piace venire qui di notte.”
“Davvero?
Perché?”
“È
tranquillo.”
La
voce di Cordula suonò vagamente delusa: “Io pensavo che saremmo
andati da qualche parte.”
“Del
tipo?”
“Non
so, a ballare?”
Jäger
rallentò fino a fermarsi, quindi con gesto audace la strinse fra le
braccia e sussurrò: “Non è certo ballare la prima cosa che mi
viene in mente quando ti vedo.”
Lucidi
d'emozione, gli occhi della ragazza brillarono in quella penombra
come pietre preziose mentre il suo giovane corpo palpitava percorso
da sconosciuti brividi. Per quanto decisamente non fosse un
estimatore del genere femminile, l'uomo ci mise poco a capire perché
Regine gli aveva ordinato di farla fuori.
Con
una creatura così non si poteva venire a patti: ti entrava dentro.
Ti scioglieva, in un certo senso. Con un solo sguardo stellante era
in grado di farti sentire il suo Re, il suo Cavaliere, colui nel
quale ella riponeva tutta la sua fiducia, incrollabilmente certa che
mai il suo campione avrebbe potuto tradirla.
Mise
la mano libera in tasca, strinse fra le dita il coltello a scatto. Da
sopra la testa di Cordula, che anelante fremeva abbandonata contro il
suo petto, si guardò rapidamente intorno: silenzio, nessuno in giro.
Bastava afferrarla per i capelli, piegarle la testa all'indietro,
affondare il coltello nel punto giusto, sfilarlo e buttarla nel
canale. Ci avrebbero pensato l'acqua e la corrente, poi, a finire
l'opera.
La
lama baluginò nel buio.
Allo
scatto dell'arma, la ragazza ebbe un sussulto. “Cos'è stato?”
chiese.
Si
girò tremando come un capriolo all'approssimarsi della muta e nel
movimento colse il brillio sinistro dell'acciaio. “Cos'è?”
ripeté spaventata. Cercò di farsi indietro.
Jäger
l'afferrò per un braccio prima che riuscisse ad allontanarsi. “Sta'
ferma!” le intimò brusco. Ella s'immobilizzò e rimase a fissarlo
atterrita, ansante, con gli occhi lucidi e le labbra socchiuse. Nella
penombra densa, il suo volto pallido di paura era come una chiazza di
luce lunare.
Per
un attimo, i due rimasero immobili a fissarsi, il coltello ancora
alzato che incombeva minaccioso, poi le lacrime cominciarono a
solcare il volto di Cordula, lasciando sulle sue guance piccole file
di perle trasparenti. “Perché?” singhiozzò. Lo fissò
angosciata.
Jäger
distolse lo sguardo da quelle palpitanti gemme azzurre. “Qualcuno
ti vuole morta.”
“Chi?
Chi può volermi morta?” fu l'accorata risposta. “Io non ho mai
fatto male a nessuno.” Lo sguardo si fece smarrito, sgomento. “Non
ho mai fatto del male a nessuno,” ripeté, “né potrei mai farlo,
io voglio bene a tutti. Chi può volermi morta?”
L'uomo
s'impose il distacco. Aveva visto ogni genere di scena, quando
giungeva il momento fatidico: gangster incalliti che si mettevano a
invocare la mamma, spiantati che promettevano ricchezze di ogni
genere, matrone di specchiata moralità che si offrivano come
prostitute da angiporto. Non gli era mai capitata, però, quella
docile, rassegnata accettazione. Cordula non implorava, non cercava
nemmeno più di scappare: attonita ma rassegnata, si sottometteva
all'ineluttabile.
La
lama ebbe un tremito.
La
ragazza, spalle ingobbite, occhi incollati a terra, ebbe un lieve
singhiozzo.
Jäger
rievocò l'immagine di Regine, alias Mathias Bierkant, che con un
sorrisetto compiaciuto gli ordinava di uccidere la sua rivale. “Lo
sai chi è che ti vuole morta?” non poté fare a meno di chiederle.
Cordula
smise di singhiozzare e alzò lo sguardo su di lui. Scosse appena la
testa.
“Sicura
che non lo sai?”
La
ragazza scosse di nuovo la testa, con tale energia che un paio di
lacrime schizzarono sul volto di Jäger.
“Hai
pestato i piedi a Regine,” si decise allora a spiegare lui, “e
per come la conosco, nessuno può farlo e sperare di uscirne
indenne.”
Cordula
trasecolò. “Regine?” ripeté smarrita. “Ma Regine è mia
amica. È il mio modello, mi ha insegnato tutto.”
“Ma
le hai rubato la parte.”
Lo
sgomento di Cordula si fece, se possibile, ancora più profondo. “Ma
io credevo che lei fosse d'accordo, che avesse parlato lei con il
signor König. Oh, povera me, perché ho accettato? Se avesi saputo
che Regine non voleva cedermi la parte, sarei andata in qualsiasi
altro locale, piuttosto. Sarei andata anche a lavare i piatti. Come
faccio a chiederle perdono?”
Jäger
scosse la testa. “Temo che ormai sia tardi.”
Cordula
gli rivolse uno sguardo implorante. “Allora aiutami tu, ti prego,
non voglio morire. Scapperò, ti giuro che scomparirò per sempre da
Berlino, che Regine non sentirà mai più parlare di me.”
Jäger
emise un sospiro, si mosse a disagio. Teoricamente, quelle erano
scene che aveva già visto decine di volte. Scappo, vado via, ti
giuro che nessuno sentirà mai più parlare di me, chiedo perdono...
Per essere una dello spettacolo, quella Cordula avrebbe anche potuto
tirare fuori qualcosa di meglio.
Eppure...
Eppure,
per la prima volta nella sua carriera di assassino su commissione si
sentiva un mostro, una bestia, un essere senza cuore.
Il
coltello tornò nella tasca. Egli afferrò con forza la ragazza per
le spalle e la costrinse a guardarlo in faccia. “Sta' zitta e
ascoltami,” le intimò, rintuzzando brusco ogni suo tentativo di
profondersi in ringraziamenti. “Dirò a Regine che ti ho uccisa e
ti ho buttata nel Landwehrkanal, ma tu devi sparire stasera stessa,
non devi mai più farti vedere da queste parti, hai capito?”
Ancora
frastornata, Cordula si limitò ad annuire.
“Dirò
che ti ho uccisa,” ripeté Jäger, “quindi devi sparire per
sempre, altrimenti ci andrò di mezzo anch'io, è chiaro?”
“Sì,
ho capito.”
“Mi
serve qualcosa da mostrare
a Regine come prova che ti ho uccisa.”
“Che
cosa?” mormorò Cordula con un filo di voce, già temendo che
l'uomo volesse portarle via un occhio o un orecchio.
“Il
tuo ciondolo a forma di cuore andrà benissimo.”
D'istinto
la ragazza lo strinse in mano. “È la cosa più cara che ho,”
disse con voce tremante.
“Proprio
per questo, Regine penserà che te l'ho tolto dopo morta. Coraggio,
ne comprerai un altro più bello.”
Le
lacrime ricominciarono a scorrere sul volto pallido di Cordula,
tuttavia ella si slacciò la catenina e la porse a Jäger.
“Molto
bene,” apprezzò lui infilandoselo in tasca.
“Sì,
ma... come faccio a sparire?” balbettò a quel punto la ragazza fra
i singhiozzi, “Dove posso andare?”
L'uomo
fu tentato di circondarle le spalle con il braccio. “Ti
accompagnerò in stazione, così potrai prendere il treno.”
I
singhiozzi aumentarono. “Non ho soldi, non so dove andare.”
“I
soldi te li posso dare io,” rispose Jäger sbrigativo, ormai
ansioso a sua volta di concludere quella scomoda vicenda. “Non puoi
tornartene a casa tua, al tuo paese?”
“No,
a casa no. Non voglio far preoccupare i miei.”
“Non
hai nessun altro?”
Cordula
non rispose.
Fu
Jäger che alla fine prese in mano la situazione: era tardi, non
c'era in giro anima viva. Poteva sperare che nessuno avrebbe notato
che lasciava una ragazza in abiti eleganti all'Anhalter Bahnhof.
“Sali in macchina,” le disse, “penserai a che treno prendere
durante il tragitto per la stazione.”
§
Seduta
sul treno per Bochum, con mani ancora tremanti Cordula estrasse dalla
borsetta lo specchietto per il trucco e si guardò. La mancanza del
suo ciondolo fu la prima cosa che le saltò all'occhio, facendo
addirittura passare in secondo piano i capelli spettinati e il
mascara sciolto dalle lacrime.
Tirò
fuori dalla borsa una spazzola e cominciò a ravviarsi lentamente le
ciocche corvine. Quando la pettinatura fu nuovamente in ordine, prese
una piccola spugna e si sistemò anche il trucco sbavato.
A
quel punto si abbandonò all'indietro contro lo schienale ed emise un
lungo sospiro. Scosse la testa come per scacciare le immagini degli
ultimi avvenimenti: si era già vista morta. Per fortuna Erich Jäger
si era rivelato sensibile alle lacrime femminili come tutti gli altri
uomini e alla fine aveva acconsentito a risparmiarle la vita, e
sempre per fortuna si era bevuto la storia che gli aveva raccontato
su Regine e sul numero centrale del Truhe.
Si
chiese se davvero avrebbe dovuto rimanere lontana da Berlino, quindi
dalla carriera e dalla fama, per sempre. Regine poteva ritirarsi
dalle scene, magari, in fondo non era più tanto giovane. Oppure
poteva anche morire.
In
ogni caso, non sarebbe durata per sempre.
Si
portò la mano al collo, solo per constatare che il suo beneamato
cuore non c'era più.
Si
chiese a quel punto se la pensione di zia Trude esistesse ancora.
Quando
Jäger l'aveva lasciata in stazione, smarrita e spaventata a morte,
non aveva fatto altro che guardare il tabellone dei treni in partenza
alla ricerca di ispirazione. Alla fine, la scelta era caduta su
quello diretto verso la Ruhr: a Gladbeck, vicino a Bochum, abitava
una sorella di sua madre.
Non
aveva mai saputo il perché e percome fosse finita là, in famiglia
non si parlava volentieri della cosa, ma sapeva che con la guerra era
rimasta vedova e aveva fatto di casa sua una pensione. Per vivere
dava alloggio ai minatori che lavoravano nella vicina miniera di
carbone.
Quello
sarebbe stato probabilmente il posto migliore per nascondersi fino a
che le acque non si fossero calmate.
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Salve gente,
ecco
qui finalmente un altro capitolo della vicenda. Come sempre,
ringrazio moltissimo tutti quelli che mi hanno seguito e commentato,
ma un ringraziamento speciale va a tutti coloro, e sono tanti, che mi
hanno testimoniato il loro affetto e la loro stima. Grazie davvero,
ragazzi!!
Capitolo
4
Ferma
lungo un binario della stazione di Bochum, stretta nel suo spolverino
troppo leggero, Cordula si sentiva affamata e stanca. Le facevano
male i piedi per colpa dei tacchi alti e il suo abito troppo vistoso,
adatto tutt'al più a una serata elegante nella Capitale, attirava
gli sguardi dei passanti.
Abbandonò
la pensilina, andando alla ricerca della stazione degli autobus.
Anche
se era estate, il cielo della Ruhr appariva cupo come in pieno
inverno. Ovunque c'era odore di carbone, tutto era tetro e grigio.
Non il grigio di Berlino, ovvero il colore della pietra di cui erano
fatti palazzi e monumenti, ma un grigio scialbo, triste, come di un
enorme pennello che fosse passato cancellando ogni altro colore.
Persino
il suo sgargiante abito di seta verde in quella luce smorta sembrava
perdere la sua brillantezza.
Finalmente
individuò il parcheggio da cui partivano gli autobus. Attraversò
mesta la strada e con gli ultimi soldi comprò un biglietto per
Gladbeck, quindi prese posto su una corriera fredda, in cui anche i
sedili di legno sembravano grigi.
La
svegliò l'avviso del conducente: “Capolinea!”
Cordula
sussultò e d'istinto si portò la mano alla gola, solo per
constatare ancora una volta che il suo beneamato ciondolo non c'era
più. Si alzò ancora indolenzita e percorrendo lo stretto corridoio
del veicolo, di traverso perché coi suoi fianchi rotondi sbatteva
contro i sedili, pensò che in effetti era come se in quella fatidica
notte una parte di lei se ne fosse andata per sempre. Il cuoricino,
emblematicamente, ucciso dalla cattiveria e dall'egoismo di certe
persone senza scrupoli.
Si
fermò presso l'autista e gli chiese se per caso conosceva la
pensione di Gertrud Hofer.
L'uomo
sollevò le sopracciglia con aria stupita.
“Gertrud.
Trude Hofer. Dovrebbe avere una pensione qui a Gladbeck,” disse
Cordula, mentre si faceva strada in lei il terrore di rimanere lì da
sola, senza soldi, senza casa e abbandonata da tutti.
“Ah,
Trude,” disse invece l'autista. Aggrottò le sopracciglia che prima
aveva sollevato e in tono ammonitore disse: “Ma non è un posto
adatto a lei, signorina.” Poi abbassò con fare significativo lo
sguardo sul suo abito di seta verde e soggiunse: “Forse.”
Cordula
avvampò: era appena stata scambiata per una puttana. Si strinse
nello spolverino cercando di mostrare la minor porzione possibile del
sottostante vestito, quindi replicò: “Posso sapere dov'è, per
favore? La signora Hofer è mia zia e io sto andando a farle visita.”
“Ma
certo, come no,” ghignò l'uomo, “e io sono il Kaiser.”
“Non
mi interessa se lei è il Kaiser o il Presidente Hindenburg,”
replicò Cordula offesa, “voglio solo sapere dov'è la pensione di
mia zia.”
“Ma
certo, signorina, non si scaldi.” Le indicò una strada. “Prenda
quella via, giri a destra alla terza ed è arrivata. Mi saluti la sua
cara zietta.”
La
ragazza gli girò le spalle con sussiego, scese dal mezzo cercando di
ignorare il male ai piedi e si incamminò sperando che l'uomo le
avesse dato le indicazioni giuste.
Il
tempo non era migliorato rispetto a Bochum. Guardare il cielo era
come fissare una parete dipinta di un grigio smorto. Non c'era
nemmeno una nuvola a turbare quella piatta uniformità, non tirava un
filo di vento. I caseggiati, di mattoni così scuri da sembrare neri,
avevano l'aria tetra, sembravano disabitati da anni. Per strada non
c'era anima viva.
Cordula
tese l'orecchio: in lontananza udì lo sferragliare di un carretto,
da una finestra socchiusa proveniva il canto di una voce femminile.
Ormai
era quasi ora di pranzo e nell'aria, oltre all'odore di carbone, vi
era quello di crauti e salsicce. Non che di solito ne andasse pazza,
ma in quel frangente le parve il profumo più soave del mondo.
Deglutì
un paio di volte mentre lo stomaco, desolatamente vuoto dai
cioccolatini della sera prima, emetteva un brontolio.
La
pensione apparve dietro una svolta: era un edificio a due piani che
doveva risalire alla metà del secolo prima, originariamente bianco e
color crema, ma ormai grigio al pari di tutto il resto. Solo una
porzione quadrata di muro, dalla quale probabilmente era stato da
poco rimosso un pannello, manteneva i colori originali.
Sulla
porta pendeva un'insegna su cui si leggeva: Pensione Trude.
Cordula
emise un sospiro di sollievo. Si sentì il cammelliere che dopo
giorni di deserto vede l'oasi, o il naufrago che scorge una vela
profilarsi all'orizzonte. Nonostante il sempre più acuto male ai
piedi, si trovò ad allungare il passo.
Raggiunse
la porta. Intorno all'edificio aleggiava un paradisiaco odore di
cibo, sui davanzali del primo piano lenzuola e coperte stavano
prendendo aria.
Suonò
il campanello.
“Arrivo!”
disse una voce femminile.
La
porta si aprì. Sulla soglia c'era una robusta matrona con uno
chignon di capelli neri appena venato di grigio, un grembiule bianco
legato in cintura e una sigaretta all'angolo della bocca. “Sì?”
chiese rivolgendole uno sguardo vagamente sdegnoso.
“Zia
Trude?” tentò Cordula.
L'altra
aggrottò le sopracciglia. “Cosa?”
“Ehm...
signora Gertrud Hofer?”
“È
il mio nome da ragazza, adesso mi chiamo Gertrud Staerkel. E tu chi
saresti?”
“Cordula.
La figlia di Helga Kerschbaumer, nata Hofer.”
Sul
volto della donna, fino a quel momento cupo e sospettoso, si allargò
un sorriso. “Ma pensa un po', la piccola Cora! Sei davvero tu?”
La afferrò per le spalle, la scosse facendole scrocchiare le ossa e
poi se la strinse al prosperoso petto. “La piccola Cora,
nientemeno!” ripeté.
Cordula
si lasciò docilmente sbatacchiare, anche perché ormai non avrebbe
più avuto la forza di opporsi a quelle rudi manifestazioni
d'affetto. “Posso entrare, zia Trude?” si limitò a pigolare dopo
un po'.
“Ma
certo che puoi! Vieni dentro, tesoro.” Si fece da parte per
lasciarla passare.
Quando
furono entrambe sedute a tavola, entrambe con un enorme piatto di
salsicce e crauti davanti, zia Trude la rimirò con affetto e le
chiese: “E quindi, cosa ti porta qui a Gladbeck, piccola Cora?”
Tra
un boccone e l'altro, la ragazza riferì gli avvenimenti degli ultimi
mesi.
Alla
fine del racconto, Trude rimase in silenzio per quasi un minuto,
infine disse: “Puoi stare qui finché vuoi, tesoro. Mi darai una
mano con gli ospiti e io in cambio ti darò vitto e alloggio.” Fece
una pausa, poi soggiunse: “E vestiti decenti.”
“Sì,
zia.”
“Qui
vivono solo uomini,” spiegò la donna, “non vorrei che si
facessero strane idee.”
Cordula
annuì. “Hai molti ospiti?” le chiese poi, già calcolando
mentalmente quanto ci sarebbe stato da lavorare ogni giorno.
“La
pensione ha dodici posti, ma al momento ho solo i sette fratelli
Zwerg. Dormono nelle camere al piano di sopra.”
Cordula
si guardò intorno come aspettandosi che dessero qualche segno della
loro presenza, ma la pensione era perfettamente silenziosa. “Dove
sono?” domandò.
“In
miniera. Lavorano tutto il giorno.”
La
ragazza si limitò ad annuire.
“Tra
un po' torneranno,” proseguì Trude. “Ci sarà da fare la cena e
da mettere un mastello d'acqua sul fuoco.”
“Perché
l'acqua?”
La
donna fece una risatina. “Vedrai.”
Quando
Cordula, all'imbrunire, vide avvicinarsi un chiassoso gruppo di
uomini neri, poco mancò che scappasse strillando.
Come
sempre andò d'istinto alla ricerca del ciondolo, ma non trovò
nulla. Rivolse allora un'occhiata interrogativa alla zia.
“Hai
messo l'acqua a scaldare?” si limitò a chiederle la donna.
Cordula
annuì. Protetta dalla mole della parente, osservò le figure in
avvicinamento. Avevano gli abiti, le mani, i capelli e la faccia
completamente neri di carbone. L'unica cosa che si vedeva erano gli
occhi, perlopiù chiari, che risaltavano particolarmente luminosi su
quello sfondo scuro.
Cantavano
tutti insieme, con voci più vigorose che intonate, una canzone sulla
fine della giornata di lavoro.
Quando
si accorsero di lei il canto si affievolì e cessò, poi tutti
rimasero muti a fissarla. Alcuni fecero un tentativo di rassettarsi
gli abiti, altri si limitarono a mugugnare imbarazzati. Solo uno, un
pezzo d'uomo grande e grosso, si avvicinò, la fissò diffidente e
chiese: “E questa chi sarebbe, signora Staerkel?”
La
donna, che si era appena accesa una sigaretta, senza togliersela
dall'angolo della bocca rispose: “Mia nipote Cordula. Starà qui
per un po'.”
“Non
avrà la mania di ascoltare il grammofono fino a tardi, voglio
sperare.”
“No
di certo, signor Zwerg. Mia nipote sa perfettamente come
comportarsi.”
“Vedremo.”
Senza proferire altro, Zwerg girò le spalle e raggiunse i fratelli.
Non
appena l'uomo si fu allontanato, Cordula si voltò verso la zia, che
diede un tiro alla sigaretta ed esalando il fumo rispose: “Non
farci caso, quello è Berthold Zwerg. Ha sempre da brontolare su
tutto.”
Si
udì in lontananza un poderoso starnuto.
“E
questo è Eberhard Zwerg. Se non si decide ad andare dal medico per
quel raffreddore, non so come andrà a finire.”
§
Il
signor König contemplò attraverso il finestrino la sala gremita di
gente. Contrariamente al solito, la vista degli avventori non gli
suscitò soddisfazione ma ansia. Si voltò verso Spiegel, che sedeva
sull'angolo della scrivania sorseggiando un bicchiere di whiskey, e
disse: “Ancora non si vede.”
“Hai
fatto telefonare a casa sua?”
“Non
risponde. È tutto il giorno che non risponde, nessuno sa niente di
lei.”
Spiegel
alzò un sopracciglio con l'aria di chi si intende di certe cose. “E
Florian dov'è?” chiese.
König
scosse la testa. “So
cosa stai pensando, ma mio figlio è qui. L'ha cercata dappertutto,
sta per andare alla polizia.”
L'altro
alzò le spalle senza manifestare particolare impressione, quindi
replicò: “Prima della polizia, conviene chiamare qualcuno che ti
faccia il numero centrale. La gente là sotto vuole divertirsi. Fanno
presto a spostarsi al Plaza o al Garten, se qui al Truhe non si
divertono più.”
König
si girò di nuovo verso il finestrino che dava sulla sala, fissandolo
come se da esso una belva avesse potuto all'improvviso balzare nella
stanza. “Quella dannata stupida,” ringhiò. “Finalmente
troviamo un numero che piace, che chiama gente, e cosa succede? La
stella sparisce. Da non crederci.”
Spiegel
si limitò a bere un sorso di whiskey.
Dal
finestrino provenivano i clamori di una folla in attesa.
Il
signor König si versò a sua volta un bicchiere di whiskey, ne bevve
una generosa sorsata e disse: “Ci sarebbe sempre Regine.”
Spiegel
scosse la testa. “L'hai visto anche tu dal successo che ha avuto la
ragazzetta: la gente vuole le forme. Gli uomini, soprattutto, e di
solito sono loro che pagano.”
“Regine
ha cinque ottave.”
“Ma
è senza tette. Non ha nemmeno il buon gusto di mettersi
un'imbottitura decente quando va in scena.”
“Però
canta.”
Spiegel
scosse la testa con aria scettica, poi disse: “Ma
accetterà? Quella vecchia salacca è permalosa come una gatta,
scommetto che sarebbe anche capace di rifiutarsi per il gusto di
lasciarci nella merda.”
“Un
tentativo non costa niente,” sospirò König. “Abbiamo un quarto
d'ora prima che lo spettacolo cominci, sarà meglio che ci muoviamo.”
“Ma
se basta fare una rampa di scale.”
“Eh,
ma la contrattazione non sarà così breve.”
Regine
fu inaspettatamente accomodante. Li accolse seduta al tavolino da
trucco del suo nuovo camerino, con un copricapo tempestato di gemme e
un lungo abito di lamè. Ascoltò attentamente ciò che le riferirono
i due uomini, come suo solito senza tradire alcuna emozione, infine
con sussiego proferì: “Ecco cosa succede quando si dà troppa
fiducia a chi non ha ancora la necessaria esperienza.”
Consapevole
di ciò che Regine avrebbe preteso da lui, ovvero sopportare tutto
ciò che avrebbe ritenuto di rinfacciargli, König con fare contrito
rispose: “Hai proprio ragione, mia cara. Avremmo dovuto
ascoltarti.”
“Non
fa nulla,” replicò lei magnanima, “non sono una persona che
serba rancore.” Aprì un astuccio d'argento che si trovava sul
tavolino, ne trasse una sigaretta, la infilò in un lungo bocchino
tempestato di strass e poi si volse verso i due uomini, che
immediatamente le tesero ciascuno un accendino.
Regine
stirò le labbra in un sorrisetto compiaciuto, quindi aprì il
cassetto e prese il proprio. Si accese la sigaretta e aspirò una
lenta boccata di fumo. “Bisogna capire con chi si ha a che fare,”
proseguì col tono di una banale conversazione. “Bisogna rendersi
conto che poppe e natiche non bastano a trasformare una ragazzetta
qualsiasi in una stella.”
“Ce
ne rendiamo conto,” sospirò König, cercando di non dare a vedere
che era sui carboni ardenti. “L'aspetto non è tutto.”
La
cantante, che si stava godendo compiaciuta le blandizie, scattò come
punta da una vespa e gli rivolse uno sguardo di fuoco. “Non dirai
ancora che è più bella di me, spero,” ringhiò minacciosa.
“No
no, certo che no,” si affrettò ad assicurarle König. Rivolse
un'occhiata a Spiegel, ma questi mantenne un diplomatico silenzio.
Regine
fece saettare lo sguardo dall'uno all'altro, infine si levò
regalmente in piedi e proferì: “Forse potrei anche mettermi una
mano sulla coscienza e aiutarvi, nonostante il modo in cui mi avete
trattata.”
Cercando
di farlo notare il meno possibile, König diede un'occhiata
all'orologio. Regine ovviamente se ne accorse, e in tono sarcastico
chiese: “Hai fretta, per caso? Non hai tempo di ascoltare quello
che ho da dirti?”
“No,
Regine, scusami. Non volevo metterti fretta.”
“Meglio
così, perché io invece ho un sacco di tempo.” Fece una studiata
pausa. “Ho avuto un sacco di tempo, mentre voi correvate dietro
alle discutibili capacità di quella specie di sciacquetta. Avrei
potuto trovarmi un altro posto quando volevo, ma in fondo vi voglio
bene.” Altra pausa, accompagnata da un sospiro. “Eh sì, sono i
sentimenti, alla fine, quelli che fregano. Credevo di odiarvi per
quello che mi avete fatto, ma sapete una cosa? L'odio non è altro
che amore non corrisposto.”
§
Cordula
sistemò sette coperti sul lato lungo del tavolo. “Siete pronti?”
gorgheggiò.
Dal
piano superiore giunse una robusta voce maschile: “Arriviamo,
signorina Kerschbaumer!”
Si
udirono sulle scale di legno passi che facevano pensare alla
migrazione dei bisonti, poi comparvero i sette fratelli Zwerg, lavati
e sbarbati per la cena. Dal primo all’ultimo erano tutti pezzi
d’uomini, alti e robusti.
“Buona
sera,” li salutò Cordula con un pentolone fumante in mano.
Il
maggiore di essi, che era anche il più galante, le si avvicinò e le
rivolse un breve inchino del busto. “Che profumo magnifico,
signorina Kerschbaumer,” apprezzò.
La
ragazza sorrise e rispose: “Grazie, questa è la zuppa di patate
come si fa dalle mie parti.”
“Ma
no, signorina, io parlavo di lei!”
Mentre
tutti ridevano della battuta, Cordula si schermì maliziosa, poi
disse: “Vada a sedersi, signor Dieter.” Poi, dopo una pausa: “Mi
scuserà per la confidenza, ma se la chiamassi signor Zwerg, tutti i
suoi fratelli risponderebbero assieme a lei.”
“Glielo
consento solo se lei mi permette di chiamarla signorina Cordula, mia
cara.”
“Oh,
ma via...”
Altre
risate.
Si
avvicinò zia Trude con un vassoio carico di boccali di birra. Il
signor Zwerg si inchinò anche a lei e disse: “I miei rispetti,
signora Staerkel.”
Ci
fu qualche scambio di convenevoli, poi Cordula esclamò: “Forza,
tutti a tavola, altrimenti si raffredda!”
I
fratelli presero posto.
Canticchiando
la sua canzone, ‘l’odio non è altro che amore non corrisposto’,
la ragazza cominciò a versare generose mestolate di zuppa in ogni
piatto.
Si
rivolse al fratello più anziano: “Ecco qui, signor Dieter. Ora è
convinto? È questo il buon profumo che sentiva.”
“Non
ne sono così certo, signorina Cordula.”
Passò
al secondo. “Signor Berthold, è andata bene la giornata?”
Al
solito, l’uomo la fissò torvo e rispose con un grugnito
inintelligibile.
Il
terzo era una specie di gigante dall’aria allegra. Cordula gli
versò ben tre mestoli di zuppa, andando a pescare quella più densa
sul fondo della pentola, quindi gli chiese: “Come sta, signor
Gerhold?”
“Molto
bene, signorina, e quando la vedo sto ancora meglio!” Rise allegro.
Il
successivo aveva il mento poggiato sul petto e respirava con la
regolarità del sonno.
“Peter!”
esclamò Cordula facendolo sobbalzare. “Non si sarà addormentato
di nuovo, spero.”
“N-no,
signorina,” si affrettò a negare il giovanotto. “Ero
sveglissimo, mi creda.”
“Ma
certo, come no!” La ragazza fece una risatina, canticchiò ancora
qualche parola della sua canzone, quindi gli disse: “Mangi, prima
di addormentarsi di nuovo.”
Peter
balbettò qualche scusa mentre i fratelli ridevano.
Passò
al successivo. “E lei, signor Martin?”
Questi
divenne rosso come un peperone e per un attimo parve sul punto di
scomparire sotto il tavolo. Farfugliò qualcosa di inintelligibile.
“Non
sia timido, signor Martin,” lo esortò Cordula, servendogli una
generosa porzione di zuppa. Stava per aggiungere altro quando un
poderoso starnuto la fece quasi sussultare. Posò la pentola sul
tavolo, si girò in quella direzione e si puntò le mani sui fianchi
con aria severa. “Signor Eberhard,” disse seria, “non si è ancora
deciso ad andare dal medico?”
“Scusi,
signorina,” disse questi contrito.
“Domani
la accompagnerò io stessa, per essere sicura che ci vada davvero.”
“Allora
ho il raffreddore anch’io!” saltò su Dieter. Fece finta di
starnutire.
“Anch’io!”
esclamò Gerhard. Anche lui imitò uno starnuto.
In
breve, tutti i fratelli stavano facendo a gara a chi starnutiva più
forte e si disputavano il diritto di essere accompagnati dal dottore
da Cordula.
L’unico
che non si era unito alla gazzarra era il più giovane dei fratelli
Zwerg, Claus, che per quanto fosse appena sedicenne superava già il
metro e ottanta ed era robusto come un torello.
“E
tu non dici niente?” lo provocò affettuosamente Cordula.
Il
ragazzo si limitò a scuotere la testa.
“Ti
va un po’ di zuppa?”
Claus
accennò di sì.
Cordula
lo servì con generosità, quindi gli chiese: “Un giorno me la
dirai una parolina? Solo a me, in un orecchio?” Si piegò verso di
lui come aspettandosi che il ragazzo stesse per fare quanto gli aveva
chiesto, ma Dieter intervenne: “Lasci stare, signorina. Claus non
parla quasi mai.”
“E
se lo fa, dice sciocchezze,” intervenne burbero Berthold.
“Allora
cantiamo tutti insieme!” propose Cordula, e prese a gorgheggiare le
strofe della sua canzone.
In
breve i fratelli Zwerg si unirono al coro, chi con la voce, chi
battendo il bicchiere sul tavolo o le posate sul bordo del piatto.
Dopo un’esitazione, zia Trude andò al pianoforte che si trovava
contro la parete e diede il suo contributo alla generale allegria.
§
A
Berlino, Florian si struggeva in preda ai più funesti pensieri.
Cordula era sparita. La polizia brancolava nel buio, i genitori della
ragazza, ai quali aveva telefonato sperando che fosse tornata a casa,
non sapevano neppure che lei avesse lasciato la Capitale, se poi se
n’era effettivamente andata.
Aveva
cercato ovunque, nel suo appartamento e in tutti i luoghi che ella
poteva conoscere, ma niente: era come se si fosse volatilizzata.
Andò
dal padre, che come al solito sedeva nel suo ufficio.
Al
suo arrivo, l’uomo alzò gli occhi dai registri che stava
controllando e gli chiese: “Come mai da queste parti, figliolo?”
“Hai
notizie di Cordula?”
König
scosse la testa. “L’hai visto anche tu: se n’è andata.”
“Non
è possibile,” replicò il ragazzo accorato, “mi avrebbe detto
qualcosa.”
Il
genitore si strinse nelle spalle. “Non necessariamente.”
“Ma
perché sparire così? Era la stella del Truhe, aveva davanti una
carriera, aveva tutto.”
“Forse
voleva altro, forse era stanca di questa vita. Probabilmente non lo
sapremo mai.”
“E
se è morta? Se è annegata nel Landwehrkanal? Se l’hanno uccisa?”
Il
signor König emise un sospiro: ecco che stava per ricominciare la
solfa. “Avrebbero trovato il corpo,” disse, nella speranza di
frenare le lamentazioni del figlio.
“E
se...”
“Basta,
Florian!” esclamò l’uomo, “Ora ho da fare e questo discorso
l’ho già sentito identico almeno dieci volte.” Spinse verso di
lui una scatola di cartone. “Va' a portare questo a Regine, su.”
“Cos'è?”
“Roba
dei suoi ammiratori. Biglietti di lesbiche miopi, perlopiù, e di
travestiti in disarmo in cerca di solidarietà.”
“Non
ci sono i fattorini per certe cose?”
“Così
almeno la smetti di ciondolare intorno al telefono nella speranza che
lei chiami.” Fece un gesto come per scacciare dei polli. “E ora
va', forza. Qui ho da fare.”
Adagiata
su un’ottomana coperta di broccato, Regine stese mollemente una
mano e sollevò un calice di cristallo che si trovava su un tavolino
lì a fianco.
Jäger
si alzò dalla poltrona su cui sedeva, trasse dal secchiello del
ghiaccio una bottiglia di Dom Perignon e le versò da bere.
“E
allora?” chiese Regine. Portò il calice alle labbra e sorbì un
sorso.
Jäger
versò da bere anche per sé, tornò a sedersi e disse: “Fatto.”
Ella
strinse appena gli occhi mentre sul volto le compariva un sorrisetto
di trionfo. “Racconta,” ordinò.
“Non
è che ci sia poi tanto da raccontare,” rispose l’uomo a disagio.
Regine
sogghignò. “Stai scherzando? Non mi perderei per niente al mondo
il racconto di come hai fatto fuori quella stronzetta.” Si passò
la lingua sulle labbra come se fosse in attesa di gustare qualcosa di
prelibato. Sorbì un altro sorso, poi chiese: “Ha implorato? Ha
frignato? Scommetto che ha cercato di farti gli occhi dolci, senza
immaginare quanto può importare a te dei suoi begli occhioni.”
“Regine...”
“Su,
dimmelo.” Alterando la voce in un teatrale falsetto, pigolò: “Ti
prego, non farmi del male, scapperò da Berlino, non mi vedrai mai
più...” Ghignò di nuovo, poi, tornando al suo tono normale,
proferì: “Tutte stronzate. Ora dimmi come l’hai fatta fuori.”
Jäger
emise un sospiro. “Le ho tagliato la gola, va bene? Poi l’ho
buttata nel Landwehrkanal.” Per prevenire ulteriori richieste di
particolari, trasse di tasca il ciondolo a forma di cuore e lo posò
sul tavolino.
Regine
sollevò le sopracciglia, quindi abbandonò la coppa di champagne,
ghermì la catenina e si fece ondeggiare il monile davanti agli
occhi. “È lui, lo riconosco,” confermò.
“Siamo
pari, allora?” chiese Jäger.
La
cantante stava per rispondere quando la cameriera le annunciò che
c’era una visita per lei.
Ma
tu guarda che cazzo di sfortuna,
pensò Jäger contrariato. Si era già visto uscire dall’appartamento
di Regine con la compromettente busta sottobraccio ed ecco che invece
arrivava qualcuno a mandare tutto all’aria. Si versò un’altra
coppa di champagne con l’intenzione di tracannarla.
Il
gesto rimase a metà.
A
seguito della cameriera, stava entrando nella stanza un ragazzo. Un
gran
bel
ragazzo, per la precisione. Alto, snello, capelli corvini e occhi
blu.
Di
colpo, i documenti gli parvero decisamente poco importanti.
Rivolse
un’occhiata interrogativa a Regine e notò che ella aveva fatto
sparire il ciondolo infilandolo tra i cuscini.
Con
gesto plastico, la cantante tese poi un braccio verso il nuovo
arrivato e disse: “Ma caro Florian, che bella sorpresa. Cosa ti
porta da queste parti?”
“Mio
padre le manda questa scatola, signora Regine. Sono lettere dei suoi
ammiratori.”
“Ah,
molto bene,” approvò sussiegosa la cantante, “davvero gentile da
parte sua.”
Jäger
a quel punto tossicchiò, Regine parve rendersi conto solo in quel
momento della sua presenza nella stanza. Disse a Florian: “Ti
presento un mio valido collaboratore: il signor Erich Jäger.”
Poi
si rivolse a Jäger: “Questo è il giovane signor König, il figlio
del proprietario dello Schatztruhe.”
Cercando
di ignorare come Regine lo aveva definito, egli si fece avanti
tendendo la mano, il ragazzo la strinse. Si guardarono negli occhi.
“Incantato,”
disse Jäger. Accentuò impercettibilmente la presa.
Il
giovanotto abbassò lo sguardo, l'altro notò che sulle sue guance
era comparsa una fugace pennellata di rosso.
Di
nuovo in strada, Florian realizzò che per qualche strano motivo
quell’incontro l’aveva lasciato piuttosto turbato. Aveva a che
fare da anni col mondo dello spettacolo e del vizio, quindi Jäger
non era certo stato il primo a tentare un approccio, e non era
nemmeno stato uno dei più raffinati, a dire la verità. Di solito la
cosa non gli causava più di un momentaneo fastidio, poi serenamente
se ne dimenticava.
Si
accorse che contrariamente al solito, se ripensava a quello sguardo
misterioso e cupo come acqua profonda, a quella stretta di mano
solida, virile eppure delicata, si sentiva pervadere da una sottile
emozione.
Scrollò
la testa come per liberarsi di quelle strane idee e si sforzò di
rivolgere nuovamente il pensiero a Cora.
§
Cordula
abbandonò il grembiule sulla spalliera di una sedia ed emise un
lungo sospiro. I fratelli Zwerg erano al lavoro, zia Trude era andata
a fare la spesa per la cena. A parte lei, in casa non c’era
nessuno.
Guardò
fuori dalla finestra: la pensione era al limitare del centro abitato
e dal suo punto d’osservazione la vista spaziava su una landa
disseminata di radi alberi. In lontananza troneggiava la sinistra
mole di una torre di estrazione. Il silenzio era tale che si sarebbe
sentito cadere uno spillo.
Non
poté fare a meno di pensare che a quell’ora a Berlino le strade
erano piene di gente e si udivano rumori di ogni genere: motori,
trombe di automobili, voci e spezzoni di musica provenienti dai
locali.
Non
aveva dimenticato quello che era successo nel parco lungo il
Landwehrkanal, ovviamente, ma alle volte la nostalgia era tale che si
chiedeva se davvero valesse la pena di vivere confinata in quel
posto, o se invece fosse meglio rischiare di morire nella Capitale.
Non
aveva ancora fatto progetti per il futuro, in fondo si trovava a
Gladbeck da troppo poco tempo, ma dal primo momento che ci aveva
messo piede, di una cosa era stata ben certa: da lì voleva
andarsene. In fin dei conti, se era andata via dal suo paese, che di
diverso rispetto a quel posto aveva praticamente solo le montagne, un
motivo c'era.
Di
nuovo emise un sospiro sconsolato e si trasferì in salotto. Berthold
Zwerg aveva una vera avversione per il grammofono e le ore in cui era
al lavoro erano anche le uniche in cui, se era abbastanza libera,
poteva sedersi ad ascoltare un po’ di musica.
Entrando
nella stanza notò subito una rivista abbandonata sul tavolino.
Letteralmente vi si avventò sopra e cominciò a sfogliarla con
avidità: davanti al suo sguardo carico di nostalgia presero a
scorrere immagini di attrici bellissime, cantanti, feste da ballo e
macchine costose.
Abbassò
il periodico e lanciò uno sguardo al telefono.
Aggrottò
le sopracciglia, scosse la testa e tornò a sfogliare la rivista.
Passò
qualche minuto, poi lo sguardo volò di nuovo all’apparecchio
telefonico.
“No,”
disse allora Cordula a mezza voce. “Non ti ricordi quello che è
successo? Non devi.”
Cambiò
poltrona, in modo che il telefono fosse più o meno alle sue spalle,
poi tornò a immergersi nella lettura.
Dopo
un po’ si trovò piegata all’indietro come una specie di
contorsionista a scrutare il telefono.
Alzò
gli occhi sull’orologio appeso alla parete: zia Trude non sarebbe
tornata per un’altra mezz’ora. Ripensò allo Schatztruhe,
all’ebbrezza del palcoscenico, alla vita nella Capitale. In fin dei
conti, che male c’era a fare una breve chiamata? Non avrebbe detto
dove si trovava, ovviamente, sarebbe stata assolutamente concisa, ma
sentiva di avere bisogno di quella telefonata come chi sta soffocando
ha bisogno di riempirsi d'aria i polmoni.
Dietro
le quinte del Truhe, seduto su una vecchia cassa, Florian prestava un
orecchio distratto alle prove di Regine. Non paga di aver ripreso il
suo vecchio ruolo di stella, la cantante si era anche appropriata
della canzone di Cordula, l'aveva trasformata in una specie di
torbida ode al vizio, più bassa di due ottave, lenta e sensuale, e
la cantava indossando un abito nero e lungo che le lasciava scoperta
praticamente solo la faccia. In onore al suo nome d'arte, e
probabilmente al fatto che ormai nessuno era più in grado di
insidiare la sua posizione di primadonna, in scena portava una corona
d'oro.
Uno
squillo lontano attirò la sua attenzione. Tese l'orecchio: quasi del
tutto coperto dalla musica, si udiva fioco il trillare ritmico di un
telefono.
Florian
scattò in piedi, si precipitò in corridoio e fece a tre a tre i
gradini che lo separavano dallo studio del padre, in quel momento
probabilmente impegnato a controllare che le casse di champagne
scaricate finissero tutte in magazzino.
L'apparecchio
stava ancora squillando. In preda a uno strano presentimento, il
ragazzo sollevò la cornetta e disse: “Schatztruhe, qui parla
König.”
“Oh,
Florian!” sospirò la voce dall'altro capo del filo. “Florian,
come sono felice di sentirti!”
Al
giovane quasi minacciarono di cedere le gambe per l'emozione.
“Cordula!” esclamò. “Oh, Cordula, tesoro! Stai bene? Dove sei?
Ti vengo subito a prendere!”
“No
no, aspetta, lasciami parlare, non ho molto tempo...”
Florian
si trovò ad ansare come dopo una corsa, col cuore che gli batteva
all'impazzata. “Non hai tempo? Sei forse prigioniera? Devo chiamare
la polizia? Cordula, dimmi dove sei, sono stato terribilmente in pena
per te.”
“Sto
bene, non preoccuparti.”
“Ma
dove sei?”
“Non
posso dirtelo.”
Il
ragazzo fece tanto d'occhi. Deglutì a fatica con la bocca
d'improvviso riarsa, quindi replicò: “Non puoi dirmelo? Ma cosa
sta succedendo, sei forse in pericolo?”
“No,
non preoccuparti, volevo solo sentirti.”
“Ma
tu stai bene?”
“Sì,
ti ho detto di sì.”
“Tornerai
da me?”
Alla
domanda seguì qualche secondo di meditativa pausa, poi Cordula
disse: “Beh... si potrebbe organizzare.”
Florian
entrò nel magazzino come un treno, individuò il signor König e lo
raggiunse scavalcando casse e cartoni. “Papà, dobbiamo parlare!”
esordì con foga.
L'uomo,
che stava controllando le bolle di consegna, lo fissò stupito e
chiese: “Di cosa dobbiamo parlare?”
Il
giovanotto si guardò intorno con aria da cospiratore. “Non qui.”
“Eh?
Non qui? Ma cosa ti salta in mente? Non avrai messo nei guai qualche
ragazza, spero.” König lanciò un'occhiata preoccupata alle casse
di champagne, che stavano transitando verso il loro scaffale senza la
sua supervisione.
Il
figlio lo tirò per la manica. “Devo parlarti in privato.”
Sbuffando
infastidito, l'uomo si rassegnò a seguirlo. Raggiunsero una zona del
magazzino piuttosto appartata e a quel punto Florian disse: “Papà,
Cordula ha telefonato.”
“Alla
buon'ora!” replicò il signor König. “Dov'è, in villeggiatura a
Baden-Baden?”
“Ha
detto che vuole tornare, papà,” gli assicurò il ragazzo eludendo
abilmente la domanda. “Ha detto che non vede l'ora di riprendere a
lavorare qui da noi.”
“E
allora perché se n'era andata?”
Florian
si guardò intorno con fare circospetto, quindi abbassando la voce
disse: “Problemi con Regine.”
König
alzò gli occhi al cielo. “Lo immaginavo.”
“Ma
vuole tornare, ci tiene molto. Solo che Regine...”
L'uomo
fece un rapido calcolo: la ragazzetta era piaciuta, lo dicevano
chiaramente i libri mastri su cui annotava tutti i guadagni. “Fammi
parlare con Spiegel,” disse semplicemente.
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
Truhe 5
Care amiche, cari amici,
siamo
giunti alla fine di questa vicenda a metà tra il serio e il faceto,
in cui abbiamo visto una rivisitazione della favola di Biancaneve
ambientata nella Berlino di fine anni ‘20. Spero che vi sia
piaciuta e che leggendola abbiate passato un piacevole quarto d’ora.
Per
quanto riguarda me, io ringrazio tutti voi per la vostra attenzione,
le vostre belle parole e il vostro supporto nei momenti critici.
Grazie
davvero a tutti^^
Capitolo
5
Florian
sedeva a un tavolino del Truhe sognando che al posto di Regine
paludata di nero ci fosse sul palcoscenico Cordula con il suo
succinto Dirndl.
Aveva
parlato con suo padre e con il signor Spiegel e il responso unanime
era stato: una delle due va tolta di mezzo, non possono coesistere.
Conti
alla mano, la mannaia si sarebbe abbattuta sul collo di Regine.
Peccato
che nonostante lo pseudonimo scelto, Regine non fosse per nulla
disponibile a farsi decapitare come un'Anna Bolena qualsiasi.
Grazie
anche ai preziosi suggerimenti di Spiegel, era stata concertata
un'operazione segreta:
il ritorno di Cordula sarebbe stato organizzato senza che nessuno ne
sapesse nulla. Alla fine Regine sarebbe stata messa davanti al fatto
compiuto ed eventualmente anche a un paio di avvocati, qualora il
fatto nudo e crudo non fosse stato sufficiente.
Il
ragazzo sorrise fra sé e sé al pensiero.
In
quel momento, una voce conosciuta lo salutò: “Buona sera, signor
König.”
Si
voltò in quella direzione e riconobbe l'uomo che aveva visto a casa
di Regine. Nonostante ogni buon proposito di considerarlo un normale
avventore del Truhe, il cuore gli fece una capriola nel petto. “Buona
sera a lei, signor Jäger,” rispose. Si alzò per stringergli la
mano.
L'altro
gli rivolse un sorriso. “Si ricorda come mi chiamo,” disse con
voce morbida.
Florian
alzò gli occhi fino a incontrare i suoi. “Anche lei.”
Jäger
annuì. “Difficile dimenticarlo.” Sorrise appena, senza spostare
lo sguardo dal suo.
Il
ragazzo arrossì lievemente. Con voce vagamente incerta chiese: “È
venuto per Regine?”
L'altro
scosse la testa e rispose: “Non direi. Più delle regine mi
interessano i re.” Fece una breve pausa, quindi soggiunse: “O i
principi.”
Florian
aveva sempre creduto di apprezzare solo le ragazze, eppure a quella
frase sentì il respiro bloccarsi. Gli occhi di Jäger, verdi e
venati di grigio, non lo abbandonavano, ma la cosa non gli comunicava
il fastidio che si sarebbe aspettato. Era piacevole, anzi. Gli
suscitava il desiderio di stare in sua compagnia, di addentarsi pian
piano nel mistero di quello sguardo cupo.
“Perché
non si siede a bere qualcosa con me?” propose.
§
Cordula
abbandonò con discrezione la sala da pranzo, dove era in corso la
solita gazzarra serale, e si diresse quatta quatta verso il salotto.
Ne aveva abbastanza della Ruhr, ne aveva abbastanza degli Zwerg –
specie di bestioni senza nessuna classe – e ne aveva abbastanza di
zia Trude, che tra una moina e l'altra la faceva sgobbare come una
specie di schiava. Per come la vedeva lei, era arrivato il momento di
fare una bella sorpresa a tutti e di partirsene per Berlino, ma
doveva stare attenta: e se la zia si metteva in testa di crearle
problemi? Molto meglio continuare a farle credere che non si sarebbe
mai più spostata da lì e poi sparire di punto in bianco.
Controllò
che il corridoio fosse vuoto, quindi si chiuse la porta alle spalle e
si diresse al telefono. Compose un numero.
L'apparecchio
squillò un po' di volte, poi una giovane voce maschile disse:
“Schatztruhe, parla König.”
Come
ogni volta, balenarono davanti agli occhi della ragazza immagini di
saloni illuminati, coppie in abito da sera, gioielli e macchine
costose. “Florian,” disse, ponendosi una mano a coppa su bocca e
microfono per smorzare la voce.
“Cordula,
tesoro!”
“Oh,
Florian. Ti penso sempre, sai?”
“Anch'io,
Cora.”
Lo
strimpellare del pianoforte cessò, Cordula sentì qualcuno fare il
suo nome. “Non ho molto tempo,” disse precipitosa. “Come stanno
andando le cose?”
“Tutto
a gonfie vele, papà e il signor Spiegel non vedono l'ora che tu
torni. Posso fare qualcosa per te nel frattempo?”
La
ragazza guardò il proprio abito: un orribile straccio fuori moda, di
un colore che le ricordava i camicioni delle carcerate. Se l'era
sistemato un po' alla meglio, ma di certo non era nulla che potesse
rivaleggiare coi capi provenienti dalle boutiques della Capitale. “Ho
bisogno della mia roba, mi servono biancheria, vestiti, scarpe.
Potresti mandarmi un pacco?”
“Ma
certo, lasciami l'indirizzo.”
“Mettici
dentro il vestito rosso, mi raccomando, e quello verde scuro. E poi
le scarpe nere di vernice e la trousse del trucco.”
“Sì,
ma dove li devo mandare?”
Cordula
gli dettò attentamente l'indirizzo, quindi gli disse: “Scusa, ma
ora devo lasciarti. Mi aspettano di là.”
Chiuse
rapida la comunicazione, troncando senza pietà le frasi zuccherose
del ragazzo, poi tornò in sala da pranzo. “Eccomi qui!” esclamò,
“Vi sono mancata?”
I
fratelli Zwerg risposero con vigorose acclamazioni.
§
Da
qualche giorno Regine aveva una brutta sensazione. Chissà, forse
essendo donna da tanti anni aveva anche messo insieme il famoso
intuito femminile, fatto sta che percepiva nell'aria qualcosa di
strano.
König
era troppo accomodante, per esempio, Spiegel troppo prodigo di lodi.
Florian gentile al limite del servilismo.
Per
quanto non gli avesse ancora restituito i compromettenti documenti,
Jäger passava più tempo allo Schatztruhe che a casa sua. Prima
della nota faccenda non ci aveva praticamente mai messo piede.
C’era
qualcosa che non andava.
Indossò
un completo da uomo con tanto di lobbia, prese le chiavi della Ford
nera e andò al Truhe.
Essendo
pomeriggio il locale era chiuso al pubblico, ma lei aveva la chiave
della porta sul retro da cui passavano personale e artisti.
Entrò
cauta, stando attenta a non far cigolare i cardini, chiuse con cura
l’anta alle sue spalle e subito si diresse verso il piano
superiore, con l’intenzione di frugare nei cassetti della scrivania
di König.
Arrivata
al corridoio che conduceva allo studio si immobilizzò: dall’interno
della stanza proveniva una voce.
Rimase
in ascolto. Era una voce maschile giovane, non se ne percepivano
altre. Era senza dubbio Florian, che o stava recitando un monologo o
stava telefonando.
Arrischiò
un altro passo verso la porta e trattenne anche il respiro per
sentire meglio.
Il
ragazzo disse: “Oh, Cora, sapessi quanto mi manchi. Ti sogno tutte
le notti, tesoro.”
Regine
si impose a fatica l’immobilità. Cora? Quindi la disgustosa
sciacquetta era ancora viva? Si mantenne in scrupoloso ascolto
sperando di aver capito male, ma no, il ragazzo stava parlando
proprio a quella
Cora, era chiaro dal tono e dal contenuto del discorso.
“Presto
sarai qui con noi,” disse Florian in tono sognante, facendola quasi
sussultare, “e quella strega maledetta dovrà lasciarti il posto,
altrimenti ci penserà mio padre a farla sloggiare.”
La
cantante strinse i pugni fin quasi a farsi penetrare le unghie nei
palmi, costringendosi però a rimanere in perfetto silenzio.
Dovette
sopportare una serie infinita di frasette smielate, ma alla fine
Florian disse: “Certo che ti ho mandato il pacco, all’indirizzo
che mi hai dato: Pensione Trude, Eichenstraße 11, Gladbeck.”
Seguirono
altre svenevolezze, poi la cornetta tornò finalmente sulla sua
forcella.
Regine
rinculò lentamente, scese in fretta le scale e si dileguò
silenziosa com’era arrivata.
Solo
quando fu nella solitudine del suo appartamento, Regine si concesse
di dar sfogo alla sua rabbia: tirò un pesante cofanetto portagioie
contro la specchiera, mandandola in frantumi; afferrò un bastone da
passeggio e con il suo pomo d’argento fracassò una pantera di
ceramica a grandezza naturale che un ammiratore straniero le aveva
donato; si avventò con il tagliacarte sui quadri e li fece a brani.
Quando
ebbe devastato mezza casa si fermò, ansante e scarmigliata,
meditando vendetta.
Andò
alla ricerca di uno specchio che si fosse salvato dalla sua furia
distruttrice e appena l’ebbe trovato vi si sedette davanti. Si
accese una sigaretta, si ravviò alla meno peggio i capelli e rimase
a fissarsi per un po’ in silenzio, mentre il respiro si
normalizzava lentamente e il cuore smetteva di martellarle nel petto.
Fece
il punto della situazione:
Chiaramente
Jäger non aveva ucciso la ragazza. Nessuno poteva salvarsi se veniva
buttato nel Landwehrkanal con la gola tagliata, e in ogni caso, anche
se il miracolo fosse accaduto, la vittima di una tale aggressione non
sarebbe certo stata in grado di fare telefonate zuccherose e progetti
di viaggio dopo così poco tempo.
La
catenina con il ciondolo gliel’aveva verosimilmente data lei, dal
momento che non era né strappata né sporca di sangue. Il che
significava che come minimo i due avevano comunicato e forse avevano
anche stretto qualche genere di accordo.
Come
se ciò non fosse bastato, la ragazza era in contatto con i due
König, padre e figlio, che stavano meditando di farla tornare. Il
fatto che tutto ciò stesse accadendo in segreto la diceva lunga
sulla limpidezza delle loro intenzioni nei suoi confronti.
Inspirò
a fondo, trattenne il fiato a occhi chiusi per alcuni secondi, quindi
lo emise lentamente attraverso le narici. Fatto ciò, riaprì gli
occhi e di nuovo fissò a lungo la propria immagine riflessa.
Avrebbero
imparato tutti quanti che con lei non era il caso di scherzare.
§
Regine
prese la scatola di cioccolatini e la pose sul tavolo della cucina,
quindi si infilò un paio di guanti da chirurgo.
Aprì
il contenitore, rivelando magnifiche praline aromatizzate alla
mandorla, fatte a forma di piccola mela, con tanto di foglia sul
picciuolo.
Prese
poi una siringa e con essa aspirò da un flacone farmaceutico un
liquido di colore rosso scuro.
Estrasse
dalla scatola la prima delle praline, tenendola fra le dita la voltò
col fondo verso l’alto, vi inserì l’ago e spinse dentro un po’
di liquido. La rimise al suo posto.
Ripeté
l’operazione con tutti i cioccolatini, consumando in quel modo tre
siringhe della misteriosa sostanza.
Fatto
questo, distrusse tutti gli strumenti che aveva usato, buttò quel
che rimaneva del contenuto del flacone nel lavello e fece scorrere
parecchia acqua, quindi avvolse il flacone stesso in un giornale
vecchio, lo frantumò accuratamente con un peso e gettò tutto il
cartoccio nell’immondizia.
A
quel punto ricompose la scatola e la chiuse con un magnifico fiocco
di raso rosso.
§
Cantando
allegramente, Cordula stava rassettando le camere dei fratelli Zwerg.
“Quanti ne farò ancora, di questi stupidi letti?” gorgheggiò
sulla melodia della sua canzone. “Quanti ne farò? Pochi, pochi,
pochissimi!”
Danzò
su e giù per la stanza, volteggiando col lenzuolo a mo’ di gonna.
“Pochissimi!” ripeté.
Era
appena arrivata una busta per lei da Berlino, Florian le aveva
mandato il biglietto del treno: solo andata, in prima classe.
“Prima
classe!” cantò garrula. “Prima classe, vita nuova. Berlino,
arrivo!”
Sospirò
felice: certo, lo Schatztruhe era già un buon locale, ma sarebbe
stato solo un trampolino, poi sarebbe passata a ben altro. La gente
avrebbe fatto la fila per sentirla cantare, sulle riviste ci
sarebbero state le sue fotografie. E poi, chissà? Magari le si
sarebbero spalancate le porte del cinema, o avrebbe potuto aspirare a
un matrimonio ben migliore di quello con un borghesuccio un po’ più
ricco della media.
In
quel momento suonarono alla porta.
Cordula
si immobilizzò perplessa. Il postino era già passato, il droghiere
anche. Chi poteva essere?
Scese
per le scale rassettandosi il vestito, andò ad aprire e si trovò
davanti un uomo. Si trattava di un signore di mezz’età alto e
magro, con un impeccabile completo gessato e una gardenia
all’occhiello. Aveva folti capelli neri e la carnagione leggermente
olivastra. In una mano teneva una piccola valigia di pelle simile a
una borsa da medico e nell’altra una scatola color crema larga e
piatta, chiusa da un nastro di raso rosso.
“Buon
giorno magnifica, sublime Cordula Kerschbaumer,” la salutò. Aveva
la voce bassa e un’inflessione vagamente straniera, forse russa o
ungherese.
Cordula
sorrise. “Magnifica? Chi è lei, signore, che mi rivolge questo
appellativo?”
L’uomo
alzò le sopracciglia e rispose: “Oh, Divina, io sono un suo
grandissimo ammiratore, finora non mi sono perso uno solo dei suoi
spettacoli. Lei non sa che piacere e che onore sia poterle parlare di
persona.” Abbassò il tono e proseguì: “Da indiscrezioni so che
dovrebbe presto tornare a Berlino. È vero, per caso?”
La
ragazza lo fissò stupita. “Oh, ma… chi gliel’ha detto?”
“Un
mio buon amico, che l’aspetta con ansia: il signor König.”
“Lei
è amico del signor König?”
L’uomo
annuì. “Direi che ci conosciamo da anni.”
“Viene
allo Schatztruhe qualche volta?”
“Direi
che lì sono di casa, mia
cara. Gliel’ho detto: non ho perso uno solo dei suoi spettacoli.”
“Strano,
non l’ho mai vista,” rispose Cordula perplessa.
L’altro
sorrise con una vaga nota di indulgenza. “Si vede che non ci ha mai
fatto caso, mia cara.” Fece una pausa, poi soggiunse: “Del resto,
è naturale: è lei che guardano tutti, non certo il sottoscritto.”
“Oh,
lei è un signore molto distinto,” si affrettò ad assicurargli la
ragazza. “Davvero, sembra un attore del cinema.”
“Oh,
no. È lei la stella, signorina Kerschbaumer.”
L’uomo
le porse poi la scatola legata dal nastro rosso e disse: “Questo è
un modesto segno della mia stima, Divina.”
Cordula
riconobbe il nome della pasticceria migliore di Berlino. A Gladbeck
non c’era nulla che somigliasse neppure lontanamente a uno degli
squisiti cioccolatini che sicuramente c'erano in quella scatola, per
cui assunse un’espressione estasiata e rispose: “Oh, grazie, la
mia marca preferita. Lei è veramente gentile.”
“Omaggi
del genere saranno all’ordine del giorno, se lei tornerà a
Berlino,” le fece sapere il misterioso signore.
“Davvero?”
“Può
starne certa.” L’uomo tirò fuori un orologio dalla tasca del
panciotto, sollevò le sopracciglia e disse: “Ora però devo
andare. Si ricordi, Divina: se tornerà a Berlino, sarò pronto ad
attenderla!”
Con
un ultimo cenno di saluto si incamminò per la strada.
Cordula
lo seguì per un po’ con lo sguardo, poi tornò in casa, corse
nella sua camera e aprì la scatola: magnifiche praline a forma di
piccola mela, di sontuoso, dolcissimo cioccolato al latte, profumate
all’aroma di mandorla.
A
Bochum, l’uomo con la borsa da medico scese dall’autobus che
proveniva da Gladbeck e si diresse verso la stazione. Una volta
entrato nell’atrio si avvicinò alle toilette e quando fu certo che
nessuno lo stesse guardando, si infilò in quella delle donne.
Cinque
minuti dopo, uscì dalla stessa porta una signora alta e snella,
pallida e dalla chioma fulva, con un tailleur scuro. Portava un
cappello a cloche ornato di piume e una borsetta di coccodrillo.
La
signora prese il treno per Berlino.
A
Berlino scese dal treno una signora dai capelli neri, pettinata à
la garçonne, con un
vestito intero e una pochette di raso, che subito salì su un taxi e
si allontanò facendo perdere le proprie tracce.
§
Gerhold
irruppe correndo in cucina ed esclamò: “Signora Staerkel, corra,
presto! Cordula sta male!”
Trude
sussultò e poco mancò che lasciasse cadere il piatto che stava
asciugando. “Sta male?” ripeté spaventata. “Che cos’ha?”
“Corra!”
Il
minatore si lanciò fuori dalla cucina e raggiunse la camera della
ragazza.
Quando
Trude lo raggiunse, lo spettacolo era dei più orribili. Gli altri
sei fratelli Zwerg erano addossati alle pareti, inorriditi e dal
primo all'ultimo paralizzati dalla paura. Al centro della stanza, sul
pavimento, Cordula, scarmigliata e sporca, giaceva in una pozza di
vomito alla quale costantemente aggiungeva nuovo materiale, scossa da
conati che la facevano contorcere di dolore. Il fetore era
insopportabile.
“Che
cos’ha?” osò chiedere Gerhold.
Berthold
lanciò un’occhiata torva a una scatola di cioccolatini quasi
vuota. “Avrà fatto indigestione, ecco che cos’ha.”
Ma
i sintomi sembravano ben più gravi, rispetto a una comune
indigestione, tanto che nella generale costernazione, per la prima
volta si fece udire la voce di Claus: “Chiamiamo il dottore?”
Il
dottore fu prontamente chiamato.
La
paziente nel frattempo aveva continuato a contorcersi in preda a
conati sempre più violenti: ormai aveva gli occhi iniettati di
sangue per lo sforzo e a ogni contrazione dello stomaco emetteva
pietosi gemiti da animale agonizzante.
“Sarà
necessario un ricovero,” sentenziò il medico.
“No!
Devo andare a...” balbettò Cordula, ma un conato particolarmente
violento troncò il resto della frase.
Cercando
di evitare le pozze di vomito, Trude si chinò accanto a lei. “E
dove vuoi andare, cara? Non vedi come stai male?”
“Devo...”
Perse
i sensi.
§
Il
signor König fissò alternativamente il figlio e il signor Spiegel,
quindi in tono risentito chiese: “E allora, questa giovane e
bellissima cantante?”
Florian
ritirò appena la testa fra le spalle. “Avrà avuto un
contrattempo,” mormorò.
“Si
è fatta sentire?”
Il
ragazzo si limitò ad abbassare lo sguardo.
“E
tu l’hai chiamata?”
“Non
ce l’ho il suo telefono, mi
chiamava sempre lei.”
“Insomma,
ragiona!” sbottò König. “Muoviamo mari e monti per darle il
numero centrale, ci prepariamo a mandare a casa una stella come
Regine per dare il suo posto a lei e questa non si presenta e non
avvisa nemmeno?”
“Potrebbe
esserle successo qualcosa.”
“Sì,
che avrà trovato un ingaggio più interessante. Io l’avevo detto
subito che non c’era da fidarsi.”
I
tre si fissarono costernati. “Che facciamo adesso?” chiese König.
Prese
la parola il signor Spiegel: “Non facciamo proprio niente.
Ufficialmente non deve tornare nessuna cantante, quindi Regine
continuerà a fare il suo numero come al solito.” Fece una pausa,
durante la quale stese una mano per afferrare la bottiglia di
whiskey, quindi soggiunse: “Finché dura, ovviamente.”
“Certo,
finché dura,” fece eco König. Recuperò un bicchiere dal carrello
che si trovava alle sue spalle e lo tese a Spiegel per farselo
riempire.
Florian
fissò i due, quindi chiese: “Ed è tutto?”
Il
genitore si voltò verso di lui. “Come sarebbe a dire?”
“Una
ragazza è scomparsa senza dare più notizie di sé, potrebbe essere
morta o morente e voi ve ne fregate?”
Fu
Spiegel a rispondere: “Sai come si dice, no? Lo spettacolo deve
andare avanti. Il Truhe dà lavoro a decine di persone, la cosa più
importante è che funzioni, e che funzioni bene. Poi ci sarà tempo
per capire cos’è successo alla Kerschbaumer.”
“E
se fosse morta?” insisté Florian.
“Più
probabilmente avrà trovato un posto che le piace di più e ha
tagliato la corda prima di impegnarsi con noi.”
“Non
ci credo. Non Cordula.”
“E
perché non Cordula?”
Florian
rinunciò a rispondere. In realtà non lo sapeva perché. Forse
perché Cora era ragazza a posto, o magari perché non voleva
ammettere che forse della ragazza a posto aveva solo l'aspetto e lui
aveva preso una cantonata. Si alzò e andò alla finestra. Stavano
già calando le prime ombre della sera e lungo i viali cominciavano
ad accendersi i lampioni. Ripensò alla prima volta che l'aveva
accompagnata a casa, rievocò il tragitto in macchina, la salita
lungo rampe di scale rischiarate solo dal debole riverbero
dell’illuminazione esterna... D’improvviso aggrottò le
sopracciglia: senza che se ne rendesse conto, il ricordo era
scivolato verso quello della prima volta che aveva visto Jäger e i
due episodi si stavano allegramente mischiando, per cui vedeva se
stesso salire lungo le scale dell’appartamento di Cora, ma in
compagnia di Erich Jäger, e alla fine lo salutava con il bacio che
avrebbe tanto voluto dare a Cordula prima di rientrare al Truhe.
Constatò
smarrito che l’immagine gli aveva fatto correre lungo la schiena
brividi sulla cui natura preferì non indagare. Si passò una mano
sulla fronte e per un attimo fu tentato di versarsi anche lui un
bicchiere di whiskey.
§
Sdraiata
in un lettino tutto bianco, in una stanzetta dell’ospedale di
Bochum, Cordula rifletteva. Il medico che l’aveva curata era stato
chiaro: ipecacuana. La sostanza, le aveva spiegato, era un potente
emetico, che assunto a dosi alte poteva anche causare danni letali.
Il
farmaco era stato rinvenuto nei cioccolatini e naturalmente non
poteva esserci finito per caso.
Ripensò
al misterioso uomo dall’accento russo. Presa dall’entusiasmo non
ci aveva nemmeno fatto caso, ma era mai possibile che un ammiratore
segreto, sapendo che stava per tornare allo Schatztruhe, si
sobbarcasse il viaggio fino a Gladbeck per portarle una scatola di
cioccolatini?
Omaggi
del genere saranno all’ordine del giorno, se lei tornerà a
Berlino.
Ecco
che quella frase assumeva di colpo un significato del tutto nuovo e
sinistro.
Chiuse
gli occhi e sollevò a fatica una mano per passarsela sul viso. Non
ci voleva un genio per capire cosa sarebbe successo se fosse tornata
a Berlino. Forse l’avrebbe scampata la prima volta, magari anche la
seconda, ma la terza?
Emise
un sospiro sconsolato e giunse alla conclusione che quell'uomo forse
non era un uomo. O meglio, lo era ma generalmente vestiva da donna.
Rammentò
il sinistro ammonimento che le aveva rivolto prima di andarsene: Si
ricordi, Divina: se tornerà a Berlino, sarò pronto ad attenderla.
Lì
per lì l’aveva preso per il complimento di un ammiratore un po’
eccentrico, ma ecco che sapendo chi era veramente la persona che le
aveva rivolto quella frase, essa acquistava di colpo tutt’altro
significato.
Era
ancora immersa in quei tormentosi pensieri quando si fece udire in
corridoio qualcosa che ricordava la corsa di un branco di bufali.
Udì
un’infermiera dire: “Non più di dieci minuti, non deve
stancarsi.”
Subito
dopo la porta si aprì e comparve sulla soglia zia Trude. Alle sue
spalle, i sette fratelli Zwerg facevano del loro meglio per riuscire
a dare un’occhiata nella stanza.
“Bambina!”
esclamò la donna, rivolgendole uno sguardo accorato.
“Sto
bene, zia Trude,” mormorò Cordula.
“Bene?
Ma, bambina mia, ho sentito quello che hanno detto i dottori:
qualcuno ha cercato di avvelenarti! Signore Iddio!”
La
donna si avvicinò al letto, afferrò una sedia e si sedette accanto
a lei. Le ghermì una mano e la strinse fra le proprie. Subito dopo i
minatori, uno dopo l’altro, si pigiarono nella piccola camera.
Tutti rimasero a guardarla con l’espressione afflitta e il cappello
premuto sul petto.
“Signorina
Cordula, siamo stati così in pena,” le confidò Dieter.
La
ragazza gli rivolse un pallido sorriso. “Ora sto un po’ meglio,
non si preoccupi.”
“Bah,
mangiare tutti quei cioccolatini,” brontolò Berthold. “Ma le
pare una cosa sensata da fare?”
Dieter
gli sferrò una gomitata.
“Ahia!”
protestò l’altro, poi aggiunse: “Ci siamo preoccupati, ecco. Non
faccia mai più una cosa del genere, ha capito?”
Gerhold,
che con la sua mole sembrava addirittura oscurare la luce che
proveniva dalla finestra, sorrise e disse: “Presto tornerà a stare
bene, non è vero, signorina Cordula?”
Peter
represse uno sbadiglio, quindi replicò: “Ma certo che starà bene.
Deve solo riposare un po’.”
Martin,
rosso come un peperone, scivolò alle spalle degli altri per non
farsi vedere. Eberhard a sua volta rinculò per soffiarsi il naso con
discrezione. In uno dei suoi rarissimi momenti di loquacità, Claus
disse: “Torni presto a casa, signorina.”
Cordula
si accorse di avere le lacrime agli occhi, e non per quello che le
era successo.
“Certo,”
mormorò, “appena starò bene tornerò a casa.”
In
quel momento entrò l’infermiera e disse: “Ora basta, devo
chiedere ai signori di uscire: la signorina Kerschbaumer ha bisogno
di riposare.”
“L’avevo
detto, io, che era solo questione di riposo,” commentò Peter a
mezza voce.
§
Lo
squillo del telefono fece quasi sussultare Florian. Lesto, il ragazzo
si avventò sulla cornetta, la sollevò ed esclamò: “Schatztruhe,
parla König.”
“Sono
Cora.”
Egli
sentì il cuore balzargli nel petto. “Cora? Ma dov’eri, cos’è
successo? Perché non sei venuta?”
Dall’altra
parte del filo si sentì una lieve risata, poi la ragazza disse:
“Devo restare qui, Florian. Zia Trude ha bisogno di me.”
A
quelle parole, il giovanotto trasecolò. “Cosa?” boccheggiò,
sperando di non aver capito bene.
“Devo
restare,” rispose invece Cordula, “qui c’è parecchio da fare e
la zia comincia ad avere una certa età.”
“Ma...”
A Florian pareva che il mondo gli stesse crollando addosso. “Ma se
è quello il problema, Cora, coi soldi che guadagnerai cantando al
Truhe potrai pagarle dieci donne di servizio, a tua zia! Potrai
pagarle un intero stuolo di domestici, potrai farla vivere nel
lusso.”
“A
zia Trude piacciono le cose semplici e non vuole estranei per casa.
Staremo qui io e lei.”
“Cora!”
esclamò il ragazzo, col tono che avrebbe usato per chiamare aiuto.
“Sì?”
“Cora,
ma tu hai una carriera a cui pensare, hai un futuro. Non puoi mandare
tutto all’aria per fare le pulizie in una pensione.”
“Ho
scoperto che anche a me piacciono le cose semplici, Florian. Abbi
cura di te.”
Cordula
riattaccò con fare pensoso. Non era poi così vero che amasse le
cose semplici. O meglio, amava semplicemente
il lusso e semplicemente
la fama, ma senz'altro era meglio essere certa di vivere nella
pensione di zia Trude che rischiare di morire nella città del vizio
e del divertimento.
E
poi, comunque, la Ruhr era vicino alla Francia, e in Francia c'era
Parigi, la Ville
Lumière. A Parigi
c'erano locali famosissimi come Moulin Rouge e Folies Bergère.
Certo,
avrebbe dovuto cambiarsi il nome, in Francia non avrebbero gradito
molto una tedesca di nome Cordula Kerschbaumer. Ragionò sul nome
d'arte da adottare e lo sguardo le cadde sulla vetrina dei liquori,
che zia Trude teneva gelosamente chiusa a chiave. All'interno del
mobile faceva bella mostra di sé una bottiglia di acquavite di
ciliegie.
Sorrise
con la soddisfazione dell'illuminazione raggiunta e ad alta voce
disse: “Cora Kirsch!” E poi pensò: Cora Kirsch, la grandissima
artista, direttamente dai cabaret di Berlino, Cora Kirsch la Divina,
Cora Kirsch...
La
voce di zia Trude la riportò bruscamente alla realtà: “Cora! Hai
messo a scaldare la zuppa di cipolle?”
La
ragazza emise un sospiro e scuotendo la testa abbandonò il salotto.
§
Florian
rimase impietrito con la cornetta in mano, incapace anche del più
piccolo movimento. Gli sembrava di essere appena piombato in un
incubo, tutto il castello di progetti che aveva edificato sul ritorno
di Cordula a Berlino si era appena sgretolato.
Dal
telefono proveniva il segnale di linea libera. Chiuse maldestramente
la comunicazione, quasi facendo cadere la cornetta dalla forcella,
poi si passò una mano sugli occhi e la ritrasse umida. Arretrò a
passi malfermi, come un ubriaco.
Abbandonò
lo studio del padre, percorse il corridoio e imboccò la scala che
portava alla sala centrale. Il locale stava aprendo e gli avventori
vi si riversavano chiacchierando e ridendo fra loro. Tra la gente
vestita a festa c'era un'aria di allegra aspettativa, tutti
sembravano spensierati e felici. Si appoggiò a una colonna per non
essere d'intralcio alla fiumana in entrata e tenendosi in disparte
rimase a guardare la folla stranito, come se stesse assistendo a
qualche strana danza tribale di cui non riusciva a cogliere il
significato.
Una
voce lo fece sussultare: “Lei qui, Florian?”
Il
ragazzo si girò e riconobbe l'uomo in piedi davanti a lui. “Buona
sera, signor Jäger,” lo salutò con voce spenta.
“La
prego, mi chiami Erich.”
Florian
chinò la testa e mormorò: “D'accordo: Erich.”
L'altro
si piegò per catturare il suo sguardo. Lo fissò attento,
aggrottando appena le sopracciglia, poi gli chiese: “C'è qualcosa
che non va, Florian?” Sollevò una mano e gliela posò sulla
spalla.
Il
ragazzo non riuscì a impedirsi di annuire.
“Vuoi
parlarmene?”
Florian
registrò che l'altro gli aveva appena dato del tu e la cosa, invece
di sembrargli una mancanza di rispetto, gli diede un dolce senso di
calore.
Con
la mano libera, Erich gli sollevò delicatamente il mento ed egli si
trovò a fissare i suoi occhi, verdi, screziati di grigio e in quel
momento anche velati di apprensione. “Ti preoccupi per me?” gli
chiese.
“Sì.”
I
volti si avvicinarono.
“Davvero?”
sussurrò Florian. Deglutì mentre sentiva il cuore balzargli nel
petto. Forse avrebbe dovuto tirarsi indietro, liberarsi da
quell'abbraccio che si stava facendo sempre più intimo, ma era come
se qualcosa gli impedisse di muoversi. L’immagine di Cora in abiti
di scena, fino a quel momento così vivida nella sua mente, si stava
facendo sbiadita come un abito lavato troppe volte. Socchiuse gli
occhi. “Erich,” mormorò, praticamente contro le sue labbra.
“Mio
principe,” rispose l'altro.
Come
in una vertigine, Florian si sentì spingere all'indietro, via dagli
sguardi indiscreti. Si abbandonò fra le sue braccia e le loro bocche
si unirono in un lungo bacio.
§
Il
pubblico era in delirio, le acclamazioni facevano letteralmente
tremare i lampadari di cristallo del Truhe. Sul palco piovevano
fiori.
Sola
nel cerchio di luce dell'occhio di bue, fasciata in un lungo abito di
lamè argentato, Regine si inchinava e mandava baci.
Seduti
a un tavolino proprio sotto il palco, Erich e Florian si scambiarono
un'occhiata.
“È
un trionfo,” disse il primo.
L'altro
fece un lieve sorriso e rispose: “Già.” Spinse la mano fino a
sfiorare la sua.
Erich
si piegò per toccarlo con la spalla, quindi con voce sommessa gli
chiese: “Stai bene, ora, mio principe?”
Florian
annuì. “Sì, perché ci sei tu.”
E
vissero (quasi) tutti felici e contenti.
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