Cercasi Sherlock, disperatamente!

di pattydcm
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 13 novembre ***
Capitolo 2: *** 14 novembre ***
Capitolo 3: *** 15 novembre ***
Capitolo 4: *** 16 novembre ***
Capitolo 5: *** 17 novembre ***
Capitolo 6: *** 18 novembre ***
Capitolo 7: *** 23 novembre ***
Capitolo 8: *** 24 novembre ***
Capitolo 9: *** 25 novembre ***
Capitolo 10: *** 29 novembre ***
Capitolo 11: *** 30 novembre ***
Capitolo 12: *** 1 dicembre ***
Capitolo 13: *** 5 dicembre ***
Capitolo 14: *** 6 dicembre ***
Capitolo 15: *** 26 dicembre ***



Capitolo 1
*** 13 novembre ***


 
Ciao a tutti!!
Sì, lo so, avevo detto che mi sarei presa una pausa e invece eccomi qua dopo poche settimane dalla conclusione della long. Il fatto è che mi sono messa a riordinare le cartelle e ho trovato questa storiella abbozzata ma praticamente conclusa. L’avevo iniziata in un periodo di blocco durante la stesura della long. Stavo affrontando la complessa psiche di Sebastiana Moran/Mary Morstan e ho sentito il bisogno di fare altro. Questo altro devo dire che ha del potenziale e per questo mi sono rimessa su a riempire i vuoti per potervelo proporre. Un modo come un altro anche per festeggiare il mio primo anno di permanenza su EFP, che compirò il 9 di gennaio.
La sfida, in questa storia, è stata per me seguire le orme (molto umilmente) di un altro genio e mio autore preferito: Stephen King. Il primo romanzo che ho letto, nonché il primo film tratto da un romanzo da lui scritto è stato ‘Misery non deve morire’. Ho provato quindi a ispirarmi alla situazione ricreata dal Re mettendoci gli elementi tipici della Johnlock e le atmosfere cupe della ricerca disperata di una persona scomparsa. Inoltre, ho sentito il bisogno di rendere meno idilliaco il rapporto tra i nostri eroi. Certo nella long gliene faccio accadere di tutti i colori, ma alla fine l’amore trionfa eccetera eccetera. Qui ho voluto sperimentare tutt’altro, ma taccio, altrimenti scivolo nello spoiler. Sono soddisfatta del risultato che ho ottenuto e spero vi piaccia. Ho diviso la storia in capitoli per comodità, ma ne posterò più di uno insieme perché voglio velocizzare la pubblicazione. Proprio per festeggiare questo primo anno insieme a voi.
Ovviamente questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Sir Arthur Conan Doyle e la BBC nella trasposizione realizzata da Steven Moffat e Mark Gatiss. Questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro, ma per il puro piacere di scrivere e di raccontare. Mi farà piacere leggere le vostre recensioni e spero la storia vi piaccia
Buona lettura
Patty
 
 
 
13 novembre
 
Un orologio a pendolo ticchetta in maniera rumorosa. Segna le sei, ma, data la penombra della stanza, non è facile capire se del mattino o della sera.
Il fuoco scoppietta nel camino e deve essere stato aggiunto alla legna qualche rametto di lavanda. La dolce fragranza si espande nella piccola camera attrezzata per gli ospiti.
Un letto singolo molto simile a quello in uso negli ospedali, un comodino in legno stile arte povera con sopra un’abatjour a frange verdi e una scrivania nella parete opposta. La sedia è stata spostata vicino al letto, per accogliere la persona che l’ha portato lì.
Sherlock porta la mano alla testa e si rende conto di due cose. La prima di essere attaccato a delle flebo di quelle che sembrano essere una sacca di soluzione fisiologica, una più piccola di antibiotico e un’altra di morfina. La seconda di avere la testa fasciata. Fa per mettersi a sedere e si accorge del terzo particolare non trascurabile: la sua gamba destra è in trazione. La osserva come appartenesse a un'altra persona. Ingessata da sopra il ginocchio alla caviglia e appesa a dei pesetti grazie a un gioco di carrucole e pulegge.
<< Perfetto! >> esclama lasciando ricadere la testa sul cuscino. Mossa alquanto pessima, che lo porta ad un’esplosione di lucine dietro le palpebre chiuse.
Le informazioni sembrano arrivargli a tappe, cosa che lo fa seriamente preoccupare sull’entità del danno al suo cervello causato dalla botta.
La finestra a mezzo metro dal letto è piena di condensa. Un residuo di neve si è depositato alla base di ognuno degli otto riquadri nei quali è suddivisa. Sembra proprio che là fuori la bufera annunciata, e che lui avrebbe dovuto scampare, stia dando il meglio di sé.
Annusa l’aria e dietro al profumo intenso della lavanda e del legno percepisce quelli di una preparazione culinaria in corso. Brodo di pollo, parrebbe. Verdure bollite anche. Patate e carote. Anche piselli.
<< Cibo da ospedale >> dice disgustato.
Si accorge di essere nudo. Nudo come un verme. Chiunque lo abbia messo su quel letto lo ha spogliato, lavato, medicato e ingessato prima di rimboccargli le coperte di lana infeltrita sopra lenzuola di cotone grezzo.
<< Altri souvenir ospedalieri >> borbotta e lo stomaco inizia a contorcersi. Si guarda intorno alla ricerca del suo cappotto, dei suoi abiti, del trolley che aveva con sè nell’auto a noleggio sulla quale viaggiava, ma non trova nulla. Non c’è neppure un armadio nella quale possa essere stata riposta tutta la sua roba.
<< Direi che non è un buon segno, proprio per niente! >>.
Sente provenire dei rumori al di là della porta. Passi. Pesanti. Lenti. Affaticati. Un borbottio continuo, che diventa sempre più un chiacchiericcio man mano che giunge verso la stanza. Due piani di scale. È stato trasportato per ben due piani. Per quanto sia magro, un corpo incosciente è molto più pesante di uno cosciente.
“Chiunque sia stato a portarmi qui deve essere notevolmente forte” pensa appuntando l’informazione.
<< Gliel’avevo detto io di non correre, ma lui no, niente, non mi ascoltava mai! >>.
Sherlock coglie uno stralcio di quella che sembra essere una conversazione. La voce è molto bassa. Non sa dire se appartenga a un uomo o a una donna. Continua a parlare di questa persona alla quale aveva detto di non correre, ma che non l’ha ascoltata. Insiste proprio su questo punto, su quanto si sia arrabbiata per non essere stata presa sul serio.
“Converrà che non la faccia arrabbiare” pensa, preparandosi a conoscere il suo sconosciuto benefattore.
La porta si apre e la prima cosa che fa il suo ingresso in scena è un vassoio. Due mani enormi dalle dita gonfie, indice di una cattiva circolazione lo sorreggono. Braccia forti sotto la camicia di flanella rossa a righe blu che si incrociano formando tanti quadrati. Braccia abituate a spaccare legna e fare lavori di fatica, per le quali sarà stato un gioco da ragazzi caricarlo e condurlo per due rampe di scale.
Con un gesto rapido la porta viene aperta del tutto e Sherlock si ritrova al cospetto di un donnone enorme che lo guarda, sorpresa di ritrovarlo sveglio.
<< Finalmente hai aperto gli occhi >> esclama posando il vassoio sopra la scrivania. << Iniziavo a temere non ti svegliassi più. Sono tre giorni che dormi e ho dovuto buttare tanto di quel cibo a causa tua >>.
<< Mi dispiace >> dice rendendosi conto di quanto sia molto meglio per lui assecondarla. Potrebbe ucciderlo con una sola mano nella condizioni in cui si trova. Sembra aver fatto la cosa giusta, dal momento che sul volto fin’ora inespressivo compare quello che potrebbe sembrare un sorriso. Le labbra pallide si curvano appena ai lati mutando di poco l’espressione del viso quadrato dalla fronte ampia.
<< Oh, ma certo che ti dispiace >> annuisce soddisfatta. << E per farti perdonare, ora mangerai tutto, da bravo. Non è vero? >>.
Lo stomaco di Sherlock si contrae inorridito. Vorrebbe metterla al corrente del fatto che è impegnato nella risoluzione di un caso e che è solito non mangiare quando lavora, dato che la digestione lo rallenta. Qualcosa gli dice, però, che è meglio non mettersi a discutere con questa donna.
<< Certamente. Il profumo è squisito >> dice trovandosi alle strette.
La sua benefattrice annuisce, posa il vassoio sulla scrivanie e poi, con movimenti rapidi che non le avrebbe mai attribuito, si porta accanto al letto chinandosi su di lui. Sherlock chiude gli occhi, convinto voglia colpirlo con quelle mani grandi. Le usa, invece, per azionare una leva posta sul fianco della rete. La fa girare, sollevando la parte superiore del letto per permettergli di stare seduto.
<< Oh >> si lascia sfuggire il consulente, sentendo il cuore battere impazzito. << Ci voleva proprio, la ringrazio >>.
<< E’ il minimo per poter mangiare, no? >> sbotta lei ancora chinata su di lui. L’alito pesante, indice di cattiva digestione e scarsa igiene orale, lo investe in pieno viso e Sherlock deve sforzarsi di ricacciare giù un conato. Il vassoio gli viene posato bruscamente sotto il naso, rendendo l’opera ancora più ardua.
<< La ringrazio per avermi tratto in salvo >> le dice, cercando di avviare una conversazione che possa fargli ottenere le informazioni che gli mancano per completare quanto ha già dedotto.
<< Mica potevo lasciarti lì! >> esclama. << Mi sei costato i miei scarponi migliori, mannaggia a te. Come ti è venuto in mente di metterti in viaggio con questo tempo >> dice indicando la bufera fuori dalla finestra.
<< Mi hanno consigliato di partire per raggiungere Threlkeld proprio per evitare la bufera >>.
<< E tu hai visto bene di cadere in un nevaio >> dice disgustata, scuotendo il capo. << Vieni dalla città, non è vero? >>.
<< Londra >>.
<< E che ci fa un londinese qui nel nord west? >>.
<< Sono qui per lavoro >>.
<< Che tipo di lavoro? >> gli chiede, osservandolo guardinga. Sherlock decide di continuare a vestire i panni del personaggio fittizio che si è inventato quando ha raggiunto sotto copertura il Lake District Ski Club. Una donna così potrebbe non gradire l’idea di avere in casa un consulente investigativo.
<< Insegnante di sci >>.
<< Oh, sei uno di quegli idioti che insegna agli idioti a buttarsi giù dai monti con ai piedi stuzzicadenti che a chiamarli sci ci vuole davvero un bel coraggio! >>.
Deve ammettere che per quanto sia inquietante si trova perfettamente in linea con questo giudizio.
<< Sì, sono uno di loro >> abbozza un sorriso. << Edward Nolton >> si presenta porgendole la mano.
<< Ma non sei un po’ gracilino per essere un insegnante di sci? >> gli chiede la donna ignorando la mano tesa. Lo scruta attenta, con una luce per nulla rassicurante negli occhi castani, unica parte vitale e mobile di quella maschera informe che sembra la sua faccia. Sherlock teme di aver fatto un bell’errore nel mentirle. << Mio fratello era un insegnante di sci >> dice senza attendere una risposta da parte sua. << Si è fatto fregare dalla neve fresca ed è caduto in un precipizio, maledetto idiota >>. Gli punta contro la forchetta, muovendosi nuovamente con una rapidità inaspettata che lo sorprende. << Mangia! >> intima.
Sherlock afferra la forchetta e si rende conto di essere debole al punto da faticare a tenerla in mano. Pinza una patata mettendoci una notevole quantità di tempo e la porta alla bocca.
<< Oh, che impiastro sei! Dai qua! >> dice a gran voce la donna, levandogli la forchetta dalle mani. << Si inizia dal brodo >> dice pescando un pezzo di pollo dal fondo dell’altro piatto. Lo tira su e senza mezze misure lo spinge nella bocca di Sherlock.
<< Scotta! >> boccheggia questo portando la mano alla bocca.
<< Non sputare! >> ordina puntandogli contro i rebbi della forchetta. Sherlock rabbrividisce al tono deciso della sua voce. Gli occhi feroci con i quali lo minaccia non promettono nulla di buono. Boccheggia ed esegue l’ordine. Gola e palato ustionati erano quello che ci voleva per completare l’opera.
<< Dove sono le mie cose? >> le chiede mentre questa continua a cacciargli in bocca pezzi di pollo roventi.
<< E che ti credi che avevo tempo di prenderle? >> sbotta lei irritata. << Già grazie sia riuscita a prendere te. L’auto è caduta giù appena ti ci ho tolto. I vestiti ho dovuto tagliarteli di dosso per poterti medicare >>.
<< Quindi non ho più alcun abito? >>.
<< Dove pensi di volertene andare con la gamba in quelle condizioni >> lo aggredisce indicando con un gesto del capo il gesso che gliela fascia. << Ne hai per un mese buono, dammi retta. Le strade per Keswick sono tutte bloccate e non mi è stato possibile portarti in ospedale. Potevo lasciarti lì a morire assiderato o portarti qua. Ho pensato fosse meglio portarti qua >>.
<< La ringrazio per la sua gentilezza >> dice abbozzando un sorriso e per tutta risposta lei gli pianta in bocca un ennesimo pezzo di pollo. << Lei è medico? >> le chiede e ovviamente sa già che una donna così può essere tutto tranne che istruita. Necessita, però, di sapere dove si sia procurata tutta quell’attrezzatura ospedaliera.
<< Mio padre lo era e mi ha insegnato >> risponde e via un altro pezzo di pollo. << Quando la neve diventava troppa le persone venivano qui a farsi curare e restavano per il ricovero. Casa nostra si trasformava in un ospedale e io e la mamma dovevamo fare da infermiere >> dice storcendo la bocca. Non doveva esserle piaciuto poi tanto aiutare il padre. << Tu hai qualcuno che ti aspetta a Londra? >> gli chiede guardandolo sospettosa, cosa alquanto strana.
<< No, nessuno >> dice provando un tuffo al cuore per quella domanda e soprattutto per la sua risposta.
<< Nessuno nessuno? >> insiste la donna facendosi ancora più guardinga.
<< Solo il mio coinquilino >> ammette a malincuore, sebbene questi sia totalmente all’oscuro del guaio in cui si è andato a cacciare questa volta.
<< Coinquilino? >> domanda ignorando cosa voglia dire.
<< La persona con la quale vivo >> risponde Sherlock sforzandosi di non mostrarsi inorridito dalla sua ignoranza. Si rende conto troppo tardi di aver detto la cosa sbagliata e nel modo sbagliato.
<< Non sarai per caso un maledetto pervertito? >> tuona furiosa la donna ergendosi in tutta la sua grandezza.
<< Cosa? >> domanda incredulo dinanzi a una tale furia inaspettata.
<< Sei uno di loro, non è vero? Ho perso i miei scarponi per raccattare un frocio senza dio >> ringhia afferrandolo per il collo. Improvvisamente l’aria gli viene a mancare. Sherlock posa le mani troppo deboli su quella grande e forte della donna e cerca in tutti i modi di liberarsi.
Non è la prima volta che le prende da un omofobo. Ha subìto non pochi pestaggi da studente e li ha sempre affrontati con dignità, facendo sfoggio del suo orgoglio gay.
<< No >> sussurra, invece, questa volta, abbandonando anche l’ultima scorta d’aria. << No >> ripete, temendo di morirci nella stretta del pugno di una timorata di dio con la missione di debellare la feccia omosessuale dalla faccia della terra.
Finalmente la donna lo lascia andare e lui succhia rumorosamente grandi boccate d’aria massaggiando la gola. Mille puntini luminosi gli offuscano la vista e un fischio lungo e continuo gli rimbomba nelle orecchie.
<< Davvero non lo sei? >> sente da molto lontano giungere la domanda e si affretta a rispondere, temendo un’ennesima violenza dinanzi a quella che lei percepirebbe come un’esitazione.
<< Sì, davvero >> dice con un filo di voce. << Io… sono fidanzato >> rincara la dose, vergognandosi di quanto questa situazione lo stia facendo cadere in basso.
<< Ma se hai appena detto di non avere nessuno che ti aspetta a Londra tranne questo coinquilino! >> dice pronunciando con disgusto l’ultima parola.
<< Perché Londra è solo una città di passaggio. Io sono originario di Manchester, così come la mia fidanzata >>.
<< Ah, davvero? >> gli chiede allegra la donna, cambiando del tutto atteggiamento. Si siede sulla sedia, pianta i gomiti sulle ginocchia e il mento quadrato tra le mani a coppa. << Raccontami >> gli dice e lo stomaco gli si chiude terrorizzato.
<< Cosa? >>.
<< Della tua fidanzata >> insiste e a Sherlock sembra di ritrovarsi al cospetto di una bambina di sei anni curiosa e impertinente.
<< Lei… lei si chiama Molly >> dice e lo stomaco gli si contorce.
<< State insieme da tanto? >>.
<< Due anni >>.
<< E la rispetti! >> grida tirando su la testa. I pugni serrati portano Sherlock ad annuire in modo convulso.
<< Certo, certo che la rispetto! >> dice in fretta. << Le ho chiesto di sposarmi prima di partire >>.
<< Oh >> sussurra sognante, tornando a posare il mento tra le mani a coppa. << Avete deciso quando? >>.
<< A maggio. Il 20. Lei vuole ci sia il sole >> dice e anche a lui sarebbe piaciuto ci fosse stato il sole anziché la neve, che lo ha portato tra le braccia di questa pazza furiosa.
<< Per allora sarai in grado di camminare, vedrai >> gli dice e il suo volto muta del tutto, assumendo un’espressività infantile e giuliva. << Vi auguro di avere tanti bambini belli, con i capelli biondi come i tuoi e questi occhi fantastici >> dice posandogli la mano sul ginocchio della gamba sana. Non gli piace avere solo il sottile strato del lenzuolo di cotone grezzo e della coperta infeltrita a separarlo dalla mano umida di questa donna.
<< La ringrazio >> borbotta sforzandosi di essere gentile e sorridente.
Sherlock passa la mano tra i capelli che ha tagliato, allisciato e tinto di biondo per indossare i panni di Edward Nolton. Un brivido gli percorre la schiena al pensiero di quando inizieranno a crescere, rivelando il suo colore naturale.
“Non starai qui così a lungo, sta tranquillo” gli dice la voce di John nella sua testa.
“Già, perché tu sai sempre tutto, vero John?” ribatte infastidito da quell’intrusione.
“Non credo sia il momento più adatto per discutere questo, Sherlock”.
<< Bevi il brodo, ti farà bene >> lo invita la donna interrompendo quel muto litigio. Benchè ne farebbe a meno, Sherlock prende il piatto con entrambe le mani e lo porta alla bocca. Deve il più possibile tenerla nella modalità ‘bambina allegra’ se vuole uscirne vivo.
<< Ora le verdure >> insiste pinzando un pezzo di carota che poi gli caccia in bocca senza tanti complimenti.
Sherlock si sente allo stremo. Non ha mai mangiato così tanto, neppure nel migliore dei momenti, e teme di rigettare ogni cosa.
“Pessima idea, Sherlock!” gli dice John. “Cerca di resistere. Magari la cosa positiva sarà che metterai su qualche chilo. Non cucina poi così male”.
Manda a quel paese il dottore e le sue battute fuori luogo, mentre manda giù velocemente una patata vedendo la donna già pronta a piantargliene in gola un’altra.
<< Bravo ragazzo che ha finito tutta al pappa >> cinguetta allegra alzandosi dalla sedia. Prende il vassoio e si avvia alla porta. << Vista la famooona che hai, stasera porzioni doppie >> ridacchia dirigendosi alla porta e a Sherlock vengono le lacrime agli occhi. La donna si volta di scatto e il volto torna duro e privo di espressioni. << E’ stato di tuo gradimento, vero? >> gli chiede e il consulente annuisce.
<< Tutto davvero ottimo, la ringrazio… non mi ha detto come si chiama >>.
<< Mary Abbott >> risponde solenne. << Puoi chiamarmi Mary >> aggiunge allegra.
<< La ringrazio, Mary, era tutto davvero ottimo >> rincara la dose, cercando di dare forma a un sorriso convincente. Sembra riuscirci, dal momento che vede gli angoli della bocca della donna curvarsi leggermente all’insù.
Mary esce dalla stanza chiudendo la porta dietro di sé e Sherlock si abbandona contro il cuscino, rendendosi conto solo ora di quanto sia rimasto teso e immobile. Lo stomaco è in subbuglio per il grande quantitativo di ansia e cibo che ha introdotto e lo sente pronto a dire la sua esplodendo in un conato. Sherlock chiude gli occhi e si impone di respirare lentamente. Gonfia e sgonfia addome e diaframma per sedare il panico che sente nascergli sotto la pelle e placare lo stomaco.
“Calmo, Sherlock!” gli dice John. “Devi stare calmo. È possibile che ci vorranno giorni prima che si accorgano della tua assenza a causa di questa maledetta bufera e tu devi resistere. È pazza. Totalmente pazza, ma sembra le basti vederti obbedire e se ciò comporta qualche pasto di troppo direi che si può fare, non credi”.
<< Sì, John, si può fare >> sussurra, più per accontentare quella voce e sperare che taccia. Non ne è affatto convinto, infatti. C’è qualcosa in quella donna che lo inquieta. Qualcosa che lo porta a pensare che il suo soggiorno in questo luogo sarà tutto tranne che facile.
 

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Capitolo 2
*** 14 novembre ***


14 novembre
 
John entra al 221B di Baker Street e sale le scale trascinando il pesante trolley un gradino dopo l’altro con entrambe le mani.
“Maledetti manuali! Pesano un quintale e ne valgono molto meno” pensa, ruotando il pomolo della porta una volta giunto al piano. La trova chiusa, cosa insolita. Da quasi un anno vive qui e non ha mai dovuto utilizzare una sola volta la chiave per aprirla. La cerca, infatti, nel mazzo e ne deve provare un paio prima di trovare quella giusta. Fa capolino nel salotto, guardandosi attorno circospetto. Nessuna traccia di Sherlock.
A quanto pare, lui e la signora Hudson si sono preoccupati a vuoto, quando si sono resi conto che sarebbero mancanti entrambi dal 221B per una parte dei rispettivi impegni che vedevano lei in visita alla sorella e lui impegnato in quel noioso corso. A quanto pare, il consulente deve aver deciso di cogliere l’occasione e volare via a sua volta verso chissà quali lidi.
<< Spero più interessanti dei miei! >> sbuffa tirando dentro la valigia. La apre al centro del salotto, stanco di farle fare un altro solo passo, e la alleggerisce dei manuali dati in omaggio al corso d’aggiornamento di medicina d’emergenza che ha frequentato in questi cinque giorni trascorsi a Dublino e di qualche libro acquistato di sua volontà.
<< Il peso della cultura! >> ridacchia, notando quanto sia notevolmente più leggero ora il trolley.
La sua risata rimbomba nella stanza creando uno strano effetto. Non si è mai trovato così solo in quest’appartamento. Le volte in cui Sherlock era in giro dietro a chissà quale dei suoi casi c’era la signora Hudson al piano di sotto e il suo canticchiare facendo le pulizie o la televisione accesa lo raggiungevano a fargli compagnia. Quando, invece, non c’era la signora Hudson, l’appartamento era preda del caos prodotto dal suo coinquilino, capace di far sentire la sua presenza anche quando era sdraiato sul divano, immerso nel suo Mind Palace.
Non gli piace. Il 221B deserto non gli piace per nulla. Lascia la valigia davanti alla porta e si dirige in camera di Sherlock per capire se la sua sia un’uscita breve oppure se davvero la battuta che ha fatto corrisponde al vero e il suo coinquilino abbia deciso di andarsene via per qualche giorno.
È entrato poche volte nella sua stanza e ognuna di queste si è avvicinato alla porta con circospezione aprendola piano, timoroso di rompere chissà quale equilibrio o scoprire inappropriati segreti. Quel che vede è il letto perfettamente rifatto e ogni cosa al suo posto.
<< E’ impegnato in un caso >> deduce. L’ordine in quella camera è indice di indagine in corso e quindi di assenza di sonno per l’unico consulente investigativo al mondo. Sorride tra sé scuotendo la testa mentre chiude la porta.
“Certo che avresti potuto avvisarmi” pensa, tornado in salotto. Si ferma accanto alla sua poltrona e alza lo sguardo in direzione del divano. Deve ammettere a se stesso che questa volta Sherlock ha un valido motivo per non dare notizie di sè.
Negli altri viaggi che John ha fatto, tutte le volte in cui gli è stato lontano, il suo coinquilino non ha perso occasione per contattarlo. A volte solo con un messaggio, altre con molti messaggi, addirittura ossessivi nei momenti di picco della sua noia esplosiva. Certo è capitato non si facesse vivo per un giorno intero e allora deve ammettere che era lui a scrivergli, preoccupato gli fosse successo qualcosa o avesse combinato qualche disastro, ma intimamente desideroso di sentirlo.
In questi cinque giorni, invece, Sherlock non si è fatto sentire e John ha tentennato più volte sul prendere l’iniziativa o meno di scrivergli. Ha anche buttato giù molti messaggi, che sono rimasti salvati nelle bozze per qualche ora prima che decidesse di cancellarli del tutto.
<< Parleremo di quanto è successo faccia a faccia, come è il caso che sia dinanzi a una situazione così delicata >> si era detto ogni volta che li cancellava, tormentandosi, allo stesso tempo, del testardo mutismo dell’altro.
Fissa ancora il divano e il ricordo di quanto successo lì giusto due giorni prima della sua partenza gli invade la mente.
“Sono un maledetto idiota!” sospira passando la mano sul viso stanco delle ore di viaggio. Cammina piano verso quello che ha sempre considerato lo zerbino del Mind Palace sul quale Sherlock è solito sdraiarsi per accedervi. Si siede al centro esatto. Rigido, come fosse imbarazzato dal toccarne la superficie. Posa esitante entrambe le mani sulla pelle nera e i ricordi giungono più forti.
“Cosa vorresti fare tu?”.
“Scrivere un nuovo post sul tuo blog, John. Ritengo che i tuoi fan debbano sapere dei tuoi trascorsi”.
“Smettila di dire cazzate!”.
“ ‘Le avvincenti avventure del Capitano Tre Continenti Watson’. Suona bene come titolo! Sono sicuro che il numero di visitatori schizzerebbe alle stelle con tutto quel sesso”.
“Vedi di smetterla con queste idee, se non vuoi che faccia schizzare te alle stelle!”.
Ride eccitato dal ricordo e da quella scelta di parole che si era rivelato essere molto utile.
“Sono un maledetto idiota!” ripete sospirando di nuovo.
Il campanello suona strappandolo ai suoi pensieri. Un suono lungo e prolungato, abbastanza fastidioso, ad essere sinceri.
<< Arrivo, un attimo di pazienza! >> sbotta John scendendo le scale. Apre il portone e si ritrova davanti Lestrade.
<< Greg, perché hai deciso di torturare il campanello? >> chiede al detective, invitandolo ad entrare.
<< Sherlock ignora i miei messaggi >> risponde questi, le mani ai fianchi e il volto teso, nervoso. << Ho un caso pazzesco per le mani e sono quattro giorni, John, quattro giorni che gli mando messaggi e lo chiamo, ma quel cazzo di telefono è sempre spento e non si degna di rispondermi >> ringhia Greg percorrendo a grandi passi l’ingresso. << Si può sapere dov’è? >>.
<< Io sono appena rientrato. Il corso d’aggiornamento a Dublino, ricordi? >>.
<< Sì, certo che lo ricordo e per questo non ti ho disturbato >> alza gli occhi al cielo. << È uno di quei casi di suo sicuro interesse, non capisco perché non mi risponda! Si può sapere, allora, dov’è finito? >>.
<< A dire il vero non lo so >>.
<< Non lo sai? >> gli domanda Greg stupito. << John Watson che non ha idea di dove sia finito Sherlock Holmes? >> esclama a gran voce per poi passare le mani tra i capelli.
<< Non sono mica suo padre, Greg! >> sbotta John infastidito. << E’ adulto e piuttosto libero di andare dove meglio gli pare, se non te ne fossi accorto >>.
<< Questo sì, ma a te dice sempre tutto. È l’effetto positivo del tuo esserti trasferito qui, questo, John. Di ritrovarmi come prima, a vagare alla sua ricerca senza uno straccio d’indizio su dove possa essere finchè non si degna di farsi vivo, non ne ho nessuna voglia! Non a fronte di un caso come questo! >>.
John vorrebbe ribattere a tono, ma nota quanto Greg sia visibilmente stressato. Sarebbe un’inutile litigata che non porterebbe nulla di buono a entrambi e per questo fa un profondo respiro e decide di mettere da parte l’orgoglio.
<< Mi spiace non poterti aiutare questa volta, Greg >> sussurra e il detective si sgonfia dinanzi al suo tono strategicamente remissivo.
<< No, scusami tu. Che colpa mai puoi averne? >> sospira posandogli la mano sulla spalla.         << Certo, però, è strano, non trovi? >>.
<< Devo ammettere che lo è, sì >>.
<< Come mai non ti ha detto nulla? >> gli chiede e John sente le guance farsi rosse, cosa che spera non si noti troppo.
<< Abbiamo avuto una… discussione abbastanza accesa prima della mia partenza >> dice imbarazzato. << Non lo vedo da molto prima di partire, in realtà. Sai com’è quando decide di fare i capricci >>.
<< Sì >> annuisce il detective, che lo scruta poco convinto. << Deve essere stata bella grossa questa discussione >>.
<< Parecchio >> dice deciso a non aggiungere altro. << L’unico che potrebbe sapere qualcosa è suo fratello. Sai che non lo perde di vista un solo istante >>.
<< Oddio, quello preferisco tenerlo come ultima spiaggia >> ribatte storcendo il naso. << Senti, io devo andare, ho una montagna di guai da gestire. Tu cerca di capire che fine ha fatto e se riesci a contattarlo chiamami, per favore! >> gli dice aprendo il portone. << E, benchè non sappia il motivo del litigio, mi sta dando talmente tante noie il suo mutismo che sono dalla tua parte a prescindere, sappilo! >> aggiunge dirigendosi all’auto ferma in doppia fila con le quattro frecce accese.
“Questa volta temo sia tutta colpa mia, invece, Greg!” pensa John, salutandolo con un gesto della mano. Chiude il portone e volge lo sguardo alla porta del loro appartamento.
<< Dove sei, Sherlock? >> si chiede sentendo una strana preoccupazione chiudergli lo stomaco.
 

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Capitolo 3
*** 15 novembre ***


 
15 novembre
 
L’escavatore fermo da parecchi giorni sembra un vecchio dinosauro imbiancato di neve, che non vede l’ora di potersi muovere per scrollarla via di dosso. Prima che venisse messo in forzato riposo aveva scavato una buca di notevoli dimensioni e profondità. Un lavoro eccellente che aveva portato alla luce qualcosa di eccezionale. A vederlo, però, sembra che a lui non gliene freghi nulla. È solo interessato a potersi scrollare la neve dalle giunture arrugginite e tornare ad aggredire la terra gelida.
Sherlock si sporge dal limitare della buca e osserva attento quel che l’escavatore ha portato alla luce.
<< Ossa umane >> borbotta tra sé e una scintilla di euforia gli illumina gli occhi. << Ha tutta l’aria di essere una fossa comune >> aggiunge e l’idea di scoprire chi l’abbia creata gli arrossa le guance più del gelo di questa mattina, che promette una bella nevicata da lì a poco.
<< Sono state portate qui in periodi diversi >> dice Molly sporgendosi a sua volta dal bordo della buca. << Le fasi di decomposizione non sono tutte allo stesso stadio >>.
<< Se non è una fossa comune e i cadaveri non sono morti nello stesso giorno potrebbe trattarsi della discarica di un serial killer >> dice ancora più eccitato.
<< Preferivo quasi l’omicidio di massa >> dice Molly ridacchiando nervosa.
<< Scherzi? >> esclama Sherlock voltandosi incredulo verso di lei. << I serial killer sono molto più interessanti >>.
<< Se lo dici tu >> fa spallucce la ragazza rincalzando il berretto sulle orecchie.
<< Facciamo un po’ il punto della situazione >> dice Sherlock con fare teatrale, percorrendo a grandi passi, avanti e indietro, lo spazio dinanzi alla fossa, le mani giunte sotto il mento. << Due settimane fa’ il nostro amico escavatore ha scoperto questa buca che conta la bellezza di 40 corpi, come hai giustamente sottolineato tu, morti in epoche diverse. La buca dista 4 chilometri dal Lake District Sky club, titolare dei lavori per la realizzazione di una nuova pista con relativa costruzione di un nuovo club per ospitare i vacanzieri. A 12 chilometri da qui si trova la città di Threlkeld e a 32 quella di Penrith. Prima dell’inizio dei lavori questa zona era priva di abitazioni e perfino rifugi. C’era solo quella piccola cappella >> dice voltandosi ad indicare una costruzione in pietra ormai quasi totalmente erosa dalle intemperie. << E’ possibile che il nostro seriale sia anche un devoto e viene a depositare le sue vittime all’ombra della vergine per alleggerirsi la coscienza per il male che ha fatto >> ipotizza tamburellando le dita tra di loro in rapida successione. << Ipotesi sulla causa della morte? >> domanda a Molly rimasta diligentemente ferma ad ascoltarlo. La ragazza salta nella buca e senza farsi alcun problema si inginocchia tra i cadaveri esaminandoli. Sherlock la osserva attento e soddisfatto.
<< Non sembra esserci una causa univoca >> gli dice continuando a esaminare i corpi. << Alcuni presentano un gran numero di fratture. Non mi è possibile essere più precisa, Sherlock. Sono tanti e molti sono qui da anni. Quello, ad esempio >> dice indicando un mucchio d’ossa quasi del tutto privo di carne. << Sembra essere qui da più di dieci anni >>.
<< Una caratteristica comune, però, ce l’hanno tutti >> dice saltando a sua volta dentro la buca inginocchiandosi di fianco a lei.
<< E sarebbe? >>.
<< Quando sono stati gettati qui erano nudi >>.
 
<< SVEGLIA! >>.
Sherlock viene bruscamente strappato al suo Mind Palace dal vocione intimidatorio di Mary. Se la ritrova quasi attaccata alla faccia, intenta a posizionare il letto in posizione reclinata. Nell’aria si espande l’odore di cibo rovente unito a quello della donna, fastidiosamente troppo vicina al suo viso mentre aziona la manopola.
<< Ma che razza di posizione hai per dormire? Con quelle mani giunte sotto il mento credevo fossi morto >> ringhia piazzandogli con malagrazia il vassoio sotto il naso. << Mangia >> ordina dandogli la forchetta.
In questi due giorni Sherlock ha imparato che deve iniziare dalla pietanza più brodosa. Vi immerge la forchetta borbottando uno stanco ‘grazie’ e ne tira su il solito pollo. Ha scoperto ben presto che la cucina di Mary non è molto variegata. Lo ha costretto a mangiare per pranzo e per cena le stesse portate, le stesse quantità e tutte alla stessa temperatura. Riesce, ora, a tenere le mani ben ferme attorno alla forchetta, segno che in qualche modo la tortura dei pasti sta dando dei frutti. Deve comunque mandare giù tutto molto in fretta, perche la sua benefattrice non tollera che si perda tempo.
<< Sei un devoto? >> gli domanda dalla sedia, suo punto prediletto di osservazione. Sherlock alza appena lo sguardo per confermare la deduzione prima di rispondere.
<< Ringraziavo dio di averti messa sulla mia strada, Mary, e di avermi permesso di essere qui oggi, vivo >> dice mettendosi in faccia l’espressione mesta e devota e il sorriso appena accennato e imbarazzato, che le piacciono tanto. La donna, infatti, annuisce soddisfatta e gli angoli della sua bocca si inclinano appena all’insù.
“Bravo, Sherlock! Tienitela buona e vedrai che non ti farà altro male” gli dice John nella sua testa. Sbuffa dinanzi a quell’ennesima intrusione.
Dai rumori che ha sentito si è potuto fare una planimetria del luogo in cui si trova. Un vecchio cascinale, pieno di spifferi e scricchiolii di assi marce e logorate dal tempo. Lui si trova al secondo piano, subito sopra c’è la soffitta, sotto le camere da letto e al pian terreno la zona giorno. Coinvolgendola in una conversazione fatta di domande mirate e la giusta dose di espressioni contrite è riuscito in questi giorni a farle raccontare degli ettari di terreno posti tutt’attorno e delle stalle subito al di là dell’aia. Un muro di cinta circonda la proprietà delimitata al mondo esterno da un grande cancello con la A di Abbott abilmente forgiata al centro.
“Il set ideale per un film horror!” dice John e lui annuisce piano trovandosi pienamente d’accordo. Appena se ne rende conto, però, sbuffa nuovamente.
<< Hai ancora tanto male lì? >> gli chiede Mary visibilmente imbarazzata. La sola domanda fa accapponare la pelle a Sherlock che rischia di farsi andare il boccone per traverso.
<< Sta passando >> le risponde abbozzando un sorriso. Una menzogna vera e propria, ma ha imparato che poco piacciono alla sua benefattrice le lamentele e i piagnistei. La donna, infatti, annuisce soddisfatta.
<< Nevica ancora e sembra non voglia proprio smettere >> dice, lo sguardo ora rivolto alla finestra. Alla base degli otto riquadri che la compongono lo strato di neve che si è accumulato è aumentato notevolmente.
<< Devi essere abituata a fare notevoli scorte di cibo, legna e di tutto ciò che ti serve per far fronte a questi inverni così rigidi >> indaga scrutando il suo volto per saggiarne l’effetto della domanda che le ha posto. La vede annuire e un’espressione di profonda tristezza le segna il viso. Ha notato, Sherlock, che la comparsa, su quel volto impassibile, di emozioni indica l’arrivo della personalità bambina.
<< C’è tanta solitudine qui quando arriva la neve >> sussurra, infatti, con una vocetta piccola piccola. Volge poi a lui lo sguardo e il sorriso allegro scaccia ogni segno di tristezza. << Per fortuna ci sei tu qui. Tu che sei tranquillo e ti comporti tanto bene >> aggiunge giuliva.
<< Tu sei molto cara con me, perché dovrei non comportarmi bene? >> le chiede sentendo il cuore battere forte.
Mary resta immobile, lo sguardo perso davanti a sé per quello che Sherlock conta essere un intero minuto. Un minuto durante il quale sembra non respirare neppure e lo stomaco del consulente si chiude in una morsa di paura dinanzi a quegli occhi vuoti e imbambolati.
All’improvviso si alza in piedi e con movimenti rapidi afferra il vassoio e si dirige alla porta. Prima di uscire si ferma un attimo, come si fosse ricordata di qualcosa, poi esce dalla stanza.
<< Oh, cristo >> borbotta Sherlock faticando a compiere i lunghi respiri che fin’ora sono stati in grado di sedare il panico. Porta le mani al volto e lo massaggia forte.
“Continua a comportarti bene, Sherlock” gli dice John, e questa volta persino nel tono della sua fastidiosa voce sente vibrare la preoccupazione.
I passi pesanti annunciano che Mary sta per fare ritorno e Sherlock vorrebbe urlare e allo stesso tempo avere il potere di chiudere a chiave quella dannata porta con la sola forza del pensiero.
“Piuttosto ci muoio qui, ma non voglio più vederla!” esclama chiedendosi come possa essere possibile che in soli due giorni trascorsi con lei dal suo risveglio si senta già così al limite.
La vede entrare col suo volto inespressivo e il pappagallo, quell’arnese che ha sempre trovato abominevole e che si è sempre rifiutato di usare nei suoi precedenti ricoveri ospedalieri. Piuttosto che inserire il pene nell’ingresso di plastica dura di quella sorta di vaso da notte preferiva farsela addosso. Con Mary ha dovuto decisamente cambiare idea in merito.
<< Falla! >> ordina porgendogli il pappagallo. Non ne sente lo stimolo, ma comunicarglielo non servirebbe a nulla. Ha imparato in fretta che la sua benefattrice ha orari prestabiliti per ogni tipo di funzione corporea e non tollera varianti o mancate esecuzioni. Non solo si è trovato forzatamente nutrito, ma anche costretto a urinare e defecare a comando.
Sherlock afferra il pappagallo esibendosi in un collaudato e sottomesso ‘grazie’. La donna si volta di spalle per concedergli, almeno, un attimo di privacy. Neppure sua madre e tutte le tate che ha avuto sono riuscite a ottenere così tanto da lui e in così poco tempo.
“Solo perché ho una gamba rotta, una bella ferita alla testa, fuori c’è una bufera e sono nudo come un verme” pensa mentre compie il suo dovere. Osserva il colore emorragico delle sue urine e per un istante, vedendola ancora ferma di schiena, lo assale la folle idea di riversargliele addosso.
“Morirei da eroe!” pensa sforzandosi di soffocare una risata isterica.
<< Ho finito >> sussurra fintamente imbarazzato e la donna allunga verso di lui la mano protetta da un guanto di lattice. La vede tenere il pappagallo ad altezza occhi e il tremore che le scuote il corpo non promette nulla di buono.
<< C’è del sangue >> borbotta abbassando quell’oggetto orribile. << Ancora >> aggiunge voltandosi. Gli occhi furenti di rabbia impongono a Sherlock di mantenere la calma. La perfetta calma.
<< La ferita non si è ancora chiusa >>.
<< Sono passati due giorni! >> ringhia la donna scuotendo in modo preoccupante il pappagallo.
<< E’ una zona delicata >>.
<< Non mentirmi, maledetto >> dice afferrandolo per il collo con la mano libera. << Tu, pervertito senza dio, come osi compiere simili atti di disgustosa lussuria in casa mia >>.
<< Non ho fatto niente, Mary, credimi! >>.
Pessima scelta di parole. La donna prende la sua supplica come un’ammissione di colpa e inizia a scuoterlo sbattendolo più volte contro il materasso.
<< Come puoi implorarmi ostentando la tua menzogna, maledetto segaiolo privo di alcun rispetto! >> grida mettendo più enfasi nel suo scuoterlo. Sherlock sente di essere a un passo dal rigettare tutti in una volta i troppi pranzi a cui è stato forzato.
“Pessima idea, amico mio” interviene John. “Chiedi scusa. Chiedile perdono”.
<< Perdonami, Mary >> dice con voce strozzata. << Perdonami per quanto ho fatto. Io mi pento. Mi pento di tutto! >>.
La donna si allontana all’improvviso, lasciandolo ansimante e tremante abbattuto sul letto. Sherlock per la prima volta sente dolere la gamba rotta, mentre mille puntini bianchi gli esplodono davanti agli occhi. La testa, già provata dalla botta presa, inizia a dolergli pulsando proprio nelle zone ferite.
<< Non lo farai mai più? >> gli chiede minacciosa.
<< Mai più, lo giuro >> sussurra massaggiando la gola. La donna sembra riflettere sul da farsi, cosa che porta la tensione alle stelle.
<< Se domani ci sarà ancora sangue nelle tue urine dovrò prendere provvedimenti, Edward >> sentenzia andandosene via a grandi passi veloci.
Sherlock resta immobile a osservare la porta. Respira rendendosi conto ancora una volta di quanto sia teso al punto da restare in apnea quando quella donna corrompe l’aria con la sua presenza.
<< Dovrà prendere provvedimenti >> ripete e ancora una volta il panico spinge per prendere il sopravvento. Edward è stato minacciato. Una punizione lo aspetta se oserà avere ancora il brutto vizio di masturbarsi al punto da sanguinare.
<< Non si fa, Eddy, no, no! >> cantilena per poi esplodere in una grassa risata. Ride sentendo dolere la gola tormentata, lo stomaco troppo pieno, la gamba rotta che pare essersi svegliata solo ora e l’uretra in fiamme.
Dopo il suo primo risveglio, Mary aveva fatto passare un paio d’ore dal primo pranzo che gli ha servito prima di salire in camera armata di bacinella, spugne e asciugamano. L’idea di essere lavato da lei, delle sue mani sul suo corpo gli aveva messo i brividi. Già poco tollerava di immaginarla spogliarlo e lavarlo mentre era del tutto incosciente e totalmente alla sua mercé. Le aveva proposto di pensarci da sé per sollevarla dall’onere, cosa che l’aveva fatta infuriare. Gli ci erano voluti un buon numero di sguardi pentiti e contriti per calmarla.
Aveva cercato di estraniarsi dal suo corpo mentre le mani di quella donna protette dai guanti in lattice, unica nota positiva, lo lavavano con nessuna grazia.
Mary aveva strappato la benda sulla fronte con un colpo secco, del tutto incurante della possibilità di fargli male. Aveva spruzzato di disinfettante la ferita e l’aveva tamponata con forza prima di ricoprirla nuovamente.
Più le mani di lei scendevano verso il bacino più il disagio era aumentato in Sherlock. Il panico vero e proprio si era impadronito di lui quando le aveva sentito dire << Ora che sei sveglio possiamo togliere il catetere, sei benissimo in grado di farla nel pappagallo >>.
Quel tubicino lo aveva inquietato dal primo momento che lo aveva visto fuoriuscire dal suo pene. Gli dava fastidio e doveva essere stato inserito senza lubrificanti e con forza e Sherlock aveva ringraziato di essere stato privo di sensi, perché doveva aver fatto male. Mai come, però, ne è convinto, aveva fatto male quando semplicemente lei aveva afferrato il tubicino e lo aveva strappato via.
<< Guarda che hai fatto! >> aveva gridato lei inorridita dinanzi al sangue che aveva lordato le sue preziose lenzuola.
<< Non dovevi strapparlo via a quel modo! >> le aveva gridato contro piegato in due dal dolore. Ha imparato lì che è meglio non contrariare, né insultare, né richiamare o rimproverare le azioni di Mary.
<< Volevi che ti toccassi, maledetto pervertito? >> aveva gridato lei strappando via le lenzuola macchiate. Per un istante aveva temuto lo colpisse ai genitali, ma per fortuna gli aveva solo lanciato contro un asciugamano che lui aveva usato per tamponare la situazione. Era uscita di corsa lasciandolo nel letto, nudo come un verme, parzialmente ancora umido del lavaggio che lei stava portando avanti e infreddolito.
Sherlock aveva temuto che l’emorragia non si sarebbe fermata e che sarebbe morto così, dissanguato a causa di una brutta lacerazione all’uretra causata dall’estrazione brusca di un catetere. Aveva dovuto richiamare tutte le sue forze e molte voci dal suo Mind Palace per restare calmo e doveva essersi addirittura appisolato, perché non l’aveva sentita entrare quando si era accorto che gli stava rimboccando le coperte.
<< Tanto male? >> le aveva chiesto e, sollevato, si era reso conto che c’era la bambina, ora, dinanzi a lui. Aveva annuito, incapace di dire alcunché e aveva accettato con gioia il ghiaccio e l’asciugamano pulito che gli aveva dato. Per la prima volta si era visto costretto a usare il pappagallo e il bruciore durante la minzione era stato tale da strappargli lacrime e lamenti.
<< Passerà presto, vedrai >> gli aveva detto la Mary bambina, guardando, però, allarmata il liquido più rosso che giallo paglierino presente in quell’oggetto. Aveva sostituito la sacca di antibiotico e aumentato la morfina prima di andarsene lasciandolo solo, al buio.
<< Quali possono essere i provvedimenti che prenderà? >> sussurra lo sguardo fisso alla porta.
“Se ti andrà bene ti evirerà. Se ti andrà male ti mozzerà una mano o forse entrambe. Bene o male, ovviamente è a tua discrezione scegliere in che opzione collocarli, fratellino!”.
Mycroft non si era ancora palesato nella sua mente. Non gli piace sentirlo snocciolare con tanto distacco queste possibilità entrambe terribili.
“Pare, però, essere una donna magnanima, a modo suo” continua Mycroft. “Potrebbe darti la possibilità di scegliere se perdere l’una o l’atra parte del tuo corpo. Sono curioso di sapere su quale cadrebbe la tua scelta”.
Il ghigno sarcastico del fratello riesce benissimo a immaginarlo.
No, Sherlock, così non va bene!” interviene John. “Se richiami personaggi per buttarti giù o umiliarti ancora di più non ne usciamo”.
<< Hai ragione>> annuisce suo malgrado.
“La mente ha un grandissimo potere sul corpo” continua John. “So che sono concezioni lontanissime da te, ma prova a concentrarti e a immaginare che la ferita si chiuda. Immagina una piastrina alla volta ricomporsi e l’infiammazione svanire. So che puoi farlo, Sherlock” lo incoraggia. Sherlock si rende conto di quanto sia prezioso il consiglio che John gli sta dando. Nonostante il fastidio che provi nei suoi confronti, congiunge le mani sotto il mento e diligentemente segue il consiglio del suo dottore.
 

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Capitolo 4
*** 16 novembre ***


 
Buongiorno a tutti e buon ultimo giorno di questo 2018
Ecco un nuovo aggiornamento. È possibile che riesca a postare altri capitoli prima di stasera. Se così non fosse, continuerà domenica 7.
Come già per la long, ho preso spunto per l’infanzia di Sherlock dal racconto apocrifo ‘Soluzione sette per cento’ di Meyer.
Spero che anche questi aggiornamenti siano di vostro gradimento e come sempre saranno ben accette e molto attese le vostre recensioni.
Vi auguro una buona lettura e un felice inizio di questo nuovo anno!
A presto
Patty
 
16 novembre
 
John cammina nervoso avanti e indietro nella sala d’aspetto del Diogenes Club. I suoi passi sono egregiamente attutiti dalla spessa moquette e il suono goffo che producono lo innervosisce ancora di più. Sembrano togliere d’importanza al motivo che lo ha spinto a consultare Mycroft Holmes.
Per l’ennesima volta nel giro di pochi istanti volge lo sguardo all’orologio che ha al polso. È lì a creare un solco sulla moquette da un’ora buona ormai.
<< Cristo, ma come si permette di trattenermi qui! >> ringhia tormentando i capelli con entrambe le mani. Eppure era stato chiaro con il vecchio dalla barba antiquata che lo ha accolto all’ingresso. Ha specificato più volte che è lì per motivi riguardanti il fratello minore del signor Holmes. Dal momento che gli ha più volte detto quanto si preoccupasse costantemente per Sherlock, pensava Mycroft lo avrebbe ricevuto subito. Invece, pare sia impegnato in un’importantissima riunione.
<< Alle 10 del mattino! Credo dovrei essere soddisfatto di come vengono spesi i soldi delle mie tasse se il governo inizia così presto il suo importante lavoro >> sbotta girando i tacchi pronto a percorrere la stanza nel senso opposto. La porta si apre lasciandolo col passo a mezz’aria.
<< Il signor Holmes può riceverla, dottor Watson! >> annuncia pomposo il valletto e John non se lo fa ripetere due volte. Con passi veloci e nervosi esce dalla stanza, scostando in malo modo l’uomo e si precipita ad aggredire il pomolo della porta dell’ufficio di Mycroft.
<< Buongiorno, John >> lo saluta questi, piuttosto infastidito dal suo brusco ingresso nella stanza. << A cosa devo l’onore della tua visita? >> domanda sollevando appena lo sguardo dalle sue carte.
<< A cosa lo devi? >> gli chiede esterrefatto. << Non dovresti già esserne a conoscenza, come tutto ciò che riguarda tuo fratello e chiunque altro sia sotto il tuo stretto controllo? >> ringhia spostando nervoso il peso dall’uno all’altro piede.
Mycroft lo degna finalmente di uno sguardo come si deve e aggrotta le sopracciglia, lasciando cadere sul tavolo in legno pregiato i documenti che ha in mano.
<< Sono stato via per un’intera settimana, impegnato in una complicata trattativa volta ad evitare l’insorgere di un terzo conflitto mondiale, John >> lo informa, appoggiandosi allo schienale della poltrona, le mani incrociate sul ventre. << Mi scuserai se non ho avuto il tempo di controllare cosa tu e il mio adorato fratello steste combinando >>.
<< Sei stato via? Anche tu? >> domanda incredulo John, crollando sulla poltrona posta dinanzi alla scrivania. << Cristo, non ci posso credere. Lo abbiamo lasciato tutti quanti da solo per pochi giorni… >>.
<< L’esperienza mi ha insegnato che con Sherlock anche pochi minuti possono essere cruciali >> dice e le labbra si incurvano a formare quel sorriso falso e beffardo che fin dalla prima volta che glielo ha visto addosso ha trovato fastidioso.
<< Mycroft, questa volta la situazione è seria >> dice John sostenendo il suo sguardo di sufficienza. << La signora Hudson è partita il 9, un giorno dopo me, e mi ha detto che al mattino, quando ha lasciato l’appartamento, Sherlock era ancora in casa e non ha accennato all’intenzione di lasciare Londra. Non ha ricevuto alcuna richiesta sul sito, o meglio nessuna che possa essere stata seriamente presa in considerazione da lui, e neppure alcuna e-mail. Lestrade tenta dal 10 di contattarlo per sottoporgli un caso che potrebbe essere di suo interesse e non ha ricevuto risposte ai suoi messaggi e quando prova a chiamarlo il cellulare risulta essere irraggiungibile. Ho cercato anche io di contattarlo, fino a poco prima di venire qui da te, con lo stesso risultato. Non può essere una delle sue solite follie, Mycroft. Gli è successo qualcosa, lo sento >>.
John passa le mani sul volto, preoccupato all’idea che la sensazione che avverte sulla pelle possa corrispondere a realtà. Mycroft continua a scrutarlo silenzioso e John non riesce a capacitarsi di come possa essere così tranquillo dopo quanto gli ha detto.
<< Avete avuto una discussione prima della tua partenza? >>.
In quest’ultimo anno ha imparato a conoscere anche i modi di fare di quest’altro Holmes, capace di dedurre ogni cosa quanto il fratello, ma con l’abitudine di essere meno diretto e più fintamente cortese. John sa bene che quella non è una domanda, ma un’affermazione gentilmente camuffata.
<< Nulla che potesse portarlo a scomparire, Mycroft! >> dice scoccandogli un’occhiataccia.
<< Ne sei davvero sicuro? >> gli chiede, posando i gomiti sulla scrivania.
<< Tuo fratello è scomparso e tu perdi tempo a fare a me il terzo grado? >> urla puntandogli il dito contro. << Perché non chiami qualcuno dei tuoi e gli chiedi di controllare i tabulati telefonici in modo da scoprire se ha ricevuto telefonate o sms o qualunque altra cosa che possa aiutarci a capire dove si trova? Devo ricordarti io che un pazzo che dice di essere un consulente criminale ha deciso di eleggersi suo fan sfegatato? >>.
<< Pensi che ci sia Moriarty dietro tutto questo? >> gli chiede sempre con quel sorrisetto sulle labbra.
<< Io non so cosa pensare, Mycroft >> grida battendo i pugni sulla scrivania. << So solo che non si trova da nessuna parte. Potrebbe essere davvero partito per inseguire un caso, come potrebbe galleggiare sul fondo del Tamigi con ai piedi scarpe di cemento, per quel che ne so al momento. Sono abituato quanto te ai suoi modi di fare e se ti dico che sono preoccupato, per favore, prendi in considerazione la cosa >>.
Non abbassa lo sguardo, John, intenzionato a far capire all’uomo di ghiaccio con chi ha a che fare. Riesce almeno a togliergli il sorriso dalle labbra.
Mycroft solleva la cornetta del telefono e si limita a dire ‘Vieni qui’ e non ha ancora messo giù la cornetta che subito la porta si apre e fa il suo ingresso Anthea, accompagnata del suo federe Blackberry. Degna John appena di uno sguardo dedicando la sua attenzione al suo capo.
<< Procurami i tabulati telefonici delle ultime due settimane del numero di Sherlock e chiedi ai tecnici di farmi avere nel minor tempo possibile tutte le riprese che lo riguardano >> con un gesto della mano la invita ad andare. La ragazza annuisce, gira i tacchi ed esce dalla stanza, obbediente come un soldato.
<< Venendo alla vostra discussione… >>.
<< Non sono cose che ti riguardano! >> lo blocca subito John perentorio.
<< Ne sei sicuro? >> gli chiede severo.
<< Sì >> ribatte John. Mycroft sospira producendo un lungo sibilo. Come se stesse cercando di mantenere la calma, benchè non paia proprio stia per perderla. 
<< Ho sempre pensato che l’eccesso non porti a nulla di buono, John, e tu? >>.
Il dottore non vuole cadere nei suoi giochetti e per tutta risposta si limita a tenere fermo lo sguardo su di lui.
<< Capisco >> dice Mycroft col suo sorriso stirato. << Sherlock, invece, negli eccessi ci sguazza. Esagera nel non mangiare, arrivando perfino a svenire nei casi peggiori. Esagera nel non dormire finchè non crolla del tutto. Non devo certo dirti di tutte le volte che è stato trovato profondamente addormentato nei posti più insoliti. Credo tu sappia benissimo di cosa sto parlando >>.
Annuisce, dal momento che lui stesso si è ritrovato a doverselo caricare a spalle, metterlo a forza nel taxi, rassicurando il guidatore di non avere a che fare con un drogato e il suo babysitter, e trascinarlo poi su per i 17 gradini, lasciarlo cadere sul letto e trasportare se stesso a prendersi cura della schiena dolorante.
<< E sorvolo sui suoi eccessi con le sostanze stupefacenti e con il fumo >> continua Mycroft, scuotendo appena il capo a manifestare il suo disappunto. << L’unica cosa in cui, devo ammettere, però, non abbia mai ecceduto è l’alcol >> dice e John nota un guizzo baluginare nei suoi occhi grigi. Si obbliga a non distogliere lo sguardo e a tentare di dare a vedere quanto poco lo tocchi ciò che sta dicendo. << Un brutto vizio che per fortuna non ha mai coltivato, al contrario di te >>.
<< Mi stai dando dell’alcolizzato, Mycroft? >> chiede tra i denti.
<< No, no, John, non è questo il mio intento >> lo rassicura, scacciando quanto a detto con un gesto rapido della mano. << Converrai con me, però, che hai una notevole resistenza agli effetti dell’alcol, mentre lui decisamente no >>.
In effetti John non ha visto mai Sherlock andare oltre al bicchiere di vino durante uno dei rari pasti che si concede, senza comunque mai finirlo del tutto, o al mezzo dito di un qualche superalcolico, molto di rado. Solo il sabato sera della settimana precedente lo ha visto mandare giù un’intera pinta di birra, insieme alle due grappe che tanto è stato invitato a provare. Sì, era decisamente ubriaco, non solo alticcio come poteva esserlo lui, che aveva bevuto notevolmente di più.
<< E’ noto come l’alcol renda disinibiti, ancora di più se non si è abituati. Ma tu sei un medico, non penso proprio di dovertelo spiegare >>.
La velata accusa che pungola il suo senso di colpa non gli piace.
Anthea entra nell’ufficio annunciandosi con due colpi alla porta. Consegna un plico di fogli al suo capo, restando poi ferma a mezzo metro dalla scrivania, le mani giunte dietro la schiena in posizione di riposo.
Mycroft sfoglia serafico i documenti e John vorrebbe tanto strapparglieli dalle mani e muoversi per i fatti suoi. L’unica cosa che gli interessava, infondo, era poter contare proprio sulla sua capacità di ottenere qualunque informazione.
<< A quanto pare ha ricevuto una telefonata mercoledì 9 in tarda mattinata. Un numero il cui prefisso risulta essere della regione di Cumbria. Appartiene a Hugh Paddington che pare essere il titolare del Lake District Ski Club >>.
<< Cos’è, una stazione sciistica? >>.
<< Proprio così, John >> risponde, continuando ad esaminare i fogli. << Si sono sentiti altre tre volte nel corso della giornata e altre due volte il giorno seguente. giovedì, invece, ci sono notevoli scambi telefonici con quello che sembra essere il distretto di polizia locale. L’ultimo di questi è avvenuto nel tardo pomeriggio, poi più nulla >> dice e la fronte finora distesa si aggrotta impercettibilmente. << Non ha più effettuato telefonate, né inviato messaggi e non è neppure più stato contattato >>.
<< Greg ed io lo abbiamo fatto! >> ribatte John.
<< Lo so. Quando la linea è irraggiungibile il ripetitore blocca la chiamata alla cella più vicina e sui tabulati non risulta >>. Mycroft accarezza il mento perfettamente rasato e pare valutare la situazione. << Quali sono le condizioni meteo della zona? >> domanda alla sua segretaria.
<< Da giovedì pomeriggio è in corso una vera e propria bufera >> risponde la ragazza, che aveva già effettuato la ricerca mentre il suo capo leggeva i dati. << Non è possibile in alcun modo raggiungere Threlkeld e Penrith, le città più vicine al Lake District Ski Club >>.
<< E’ possibile, quindi, che sia rimasto bloccato lì insieme a tutti gli altri >> sentenzia Mycroft, lasciando cadere i fogli sulla scrivania.
<< Conti di liquidarla così? >> domanda John incredulo.
<< La situazione, mio caro dottore, mi sembra alquanto ovvia >> ribatte Mycroft, alzando gli occhi al cielo. << Mio fratello è stato contattato da questo Paddington affinchè si occupasse di un caso. Sherlock lo ha riconosciuto interessante, ha deciso di partire e durante le indagini si è ritrovato bloccato lassù dalla bufera. Starà dando del filo da torcere alla pazienza di quella povera gente >>.
<< Quindi vuoi dire che davvero a te bastano le tue supposizioni >>.
<< Deduzioni, John, non supposizioni >>.
<< E ne sei talmente sicuro da non prenderti neppure la briga di fare dei controlli più approfonditi? >>.
<< Che genere di controlli? >> lo canzona Mycroft .
<< Quale fosse il caso, ad esempio. I database delle stazioni di polizia sono tutti collegati e non credo ti sarebbe tanto difficile accedervi e verificare >>.
<< Hai ragione, in effetti non mi sarebbe di alcuna difficoltà. Solo non mi sembra il caso di    farlo >> dice alzandosi in piedi, lasciando John senza parole. << Quello che penso stia succedendo te l’ho già illustrato. Il senso di colpa ti sta portando a vedere in questa storia molto più di quanto di banale non ci sia >>.
<< Io non mi sento in colpa di nulla, Mycroft >> scatta in piedi John fronteggiandolo. << L’unica cosa che sento è che a tuo fratello è successo qualcosa di brutto. Nonostante la discussione che abbiamo avuto non mi terrebbe all’oscuro di quanto sta vivendo per così tanto tempo >>.
<< Ne sei proprio sicuro, John? >> lo sfida Mycroft divenendo improvvisamente serio. << Pensi davvero di conoscere mio fratello al punto da poter mettere limiti al suo rancore? >>.
<< Sì, Mycroft, ho una tale faccia tosta e dal momento che non posso contare su di te >>, dice afferrando i tabulati telefonici abbandonati sulla scrivania, << condurrò le mie indagini in altro modo >>. Gli scocca un’ultima occhiata prima di dirigersi alla porta. Posa la mano sulla maniglia, ma prima di aprirla si volta ancora una volta indietro. << Sai, Mycroft, spero davvero che tu abbia ragione e che io mi stia sbagliando. Lo spero perché se così non fosse, nella malaugurata ipotesi in cui io abbia ragione, beh… non vorrei essere nei tuoi panni >> esce badando bene di sbattere la porta.
 
***
 
Sherlock si sveglia in un bagno di sudore e con il fiato corto. Un incubo. Ha avuto un incubo terribile e così reale. Sperso nella bufera. Accerchiato dai lupi. Messo alle strette e aggredito. I loro denti bianchi affondavano nella carne della sua gamba destra. Vi posa sopra la mano felice di sentirla tutta intera. Il dolore, però, quello persiste immutato. Alza gli occhi alla flebo e si rende conto che la morfina è finita. Con la sua fine è arrivato il dolore.
<< Oddio, no. Questo no. >> borbotta. Non è solo il dolore lancinante alla gamba a preoccuparlo. Sente lo stomaco contratto, come se la mano di Mary fosse affondata nel suo ventre scavato, ne avesse bucato la pelle per serrare nel pugno i suoi visceri.
<< Non anche questo, no >> ripete tra i singhiozzi.
Come aveva previsto, nulla di buono poteva portargli la lunga presenza di morfina nel corpo. Se in una persona che non ha mai fatto uso di sostanze stupefacenti l’assuefazione e la dipendenza giungono molto più tardi, in chi, invece, già per molto tempo ne ha vissuto le gioie e i dolori queste arrivano molto prima. La stretta dolorosa che avverte nel ventre non è altro che il morso dell’astinenza.
“Puoi sopportarlo, Sherlock” gli dice John. “Sono sicuro che puoi farlo”.
<< No. No che non posso, John >> ringhia furioso tra i singhiozzi. << Se fosse solo questo potrei farcela, ma c’è anche quella donna, quell’abominevole donna >> e il pianto esplode. Troppo a lungo era rimasto fermo tra tensione e forzato rilassamento.
Contrariamente a quanto accade a chiunque si trovi a vivere un grande dolore fisico, Sherlock ricorda perfettamente ogni singolo momento delle sue passate crisi d’astinenza. Ci ha provato due volte prima di riuscire finalmente con la terza disintossicazione a liberarsi della dipendenza dalla cocaina e tutte le altre cose che iniettava o mandava giù per vincere il suo senso di infelicità[1]. Tutto avrebbe voluto tranne che ritrovarsi a dover ricominciare e con una droga subdola come la morfina.
Ecco che sente le due parti di sè dialogare tra loro. Quella che cerca di trovare il modo di convincere la donna a sostituire la sacca, argomentando la scelta con la possibilità di essere lucido e capace di risponderle a tono per evitare di incorrere in altre punizioni e quella che, invece, cerca di convincerlo a resistere, ricordandogli come gli effetti fisici della crisi passino più velocemente se l’assunzione è recente. Resterebbe poi solo il dolore alla gamba, ma quello riuscirebbe a gestirlo isolandolo in una stanza del suo Mind Palace, come fa regolarmente per il mal di testa o per tutti gli ematomi che si ritrova dopo ogni caso che richieda un’azione attiva.
<< Sei un disastro, guardati! >>.
Apre gli occhi al suono della voce come sempre brusca e aggressiva di Mary.
<< La gamba… fa male >> borbotta cercando di giustificare le sue condizioni.
<< Ovvio che faccia male. E’ rotta >> ribatte lei indifferente al suo dolore. Sherlock fissa quel volto corrucciato, il corpo enorme, le mani ancorate ai fianchi e non può fare a meno di ridere. Ride perché quella battuta avrebbe potuto farla lui in una circostanza simile. Perché ribadire ciò che è ovvio, infondo? Una gamba rotta non può che fare male. Lui stesso sarebbe stato allo stesso modo insensibile e sentire quanto male faccia quel ribadire l’ovvio con aria di sufficienza e fastidio, gli causa un dolore ancor più grande di quello che prova alla gamba e al ventre.
<< Come ti permetti di ridere di me? >> grida la donna alzando la mano grande sopra la testa pronta a vibrare il colpo.
“Sì, che finisca tutto quanto” pensa Sherlock, preparandosi a ricevere il colpo. Questo, però, non arriva. Apre appena un occhio, guardingo, e trova Mary immobile, la mano alzata a cinquanta centimetri dal suo volto. Lo sguardo vago, l’espressione arcigna. Sembra quasi che qualcuno abbia fermato il tempo, come sono soliti fare nei film dalla trama scontata e banale che piacciono tanto a John. E’ quasi tentato di sollevare la mano e toccarla, per rendersi conto se tutto questo stia accadendo davvero o sia frutto di un’allucinazione. Improvvisamente, però, la donna si riprende ed esce dalla stanza lasciandolo da solo.
In altre circostanze Sherlock avrebbe trovato affascinante la mente di questa donna. Da quanto ha potuto notare quello stato catatonico sembra generato dall’attivazione delle sinapsi nella produzione di un pensiero complesso. Le precedenti occasioni nelle quali Mary si è congelata all’improvviso, infatti, l’ha vista effettuare, una volta ripresasi, qualche operazione per risolvere una situazione oppure compiere una scelta, cosa visibile dal baluginio che ha notato accendersi nel suo sguardo.
Questa volta la donna torna nella stanza con una fiala in mano e Sherlock si rende conto che, poco prima di vibrare il colpo che molto probabilmente lo avrebbe ucciso, qualcosa dentro di lei deve averla avvertita che la sua condizione era legata all’assenza di morfina.
La osserva mentre con la consueta malagrazia strappa via la fiala ormai vuota. Sherlock le afferra la mano giusto un attimo prima che posizioni quella nuova.
“Cosa stai facendo?”.
“Non voglio, John. Non voglio altro veleno nel mio corpo”.
“Se le dirai di non farlo ti chiederà il perché e se dovesse scoprire che ha accolto in casa un ex tossico come pensi che possa andare a finire?”.
“Non voglio. Preferisco rischiare. Preferisco il dolore. È stato faticoso smettere. Così faticoso” un pianto silenzioso gli riga il volto. Tra le lacrime vede l’espressione di Mary mutare e riconosce l’arrivo della bambina.
<< Questo ti farà stare meglio >> gli dice sorridendo dolcemente.
“No” vorrebbe dirle, ma il viso è così teso e la lingua così pesante.
“Devi sopravvivere, Sherlock!” esclama John nel tono perentorio del capitano. “Il tuo obiettivo, ora, è uscire da questa stanza, salvarti da questa donna. Al resto ci penseremo dopo, chiaro?”.
I ricordi di quei terribili giorni trascorsi tra crampi, conati di vomito, febbre alta e allucinazioni gli invadono la mente. Non vuole tornare lì. Non vuole essere preda dei suoi incubi, non ancora.
Perde, però, la stretta alla mano di Mary. Il braccio cade inerte sul materasso, producendo un tonfo poco rassicurante. Sherlock si arrende all’unica possibilità che ha di uscire da lì: poter avere una mente lucida in grado di ragionare nell’assenza di dolore.
<< Grazie, Mary >> le sussurra e lei con un sorrido applica la fiala alla flebo. Lente le gocce scendono lungo il tubicino. Sherlock le osserva entrare nel suo corpo attraverso l’ago piantato nell’incavo del braccio. Bastano pochi minuti per sentire il dolore attenuarsi. La gamba non esiste più e l’addome si rilassa soddisfatto.
 
***
 
<< John, mi rendo conto di quanto importante sia la situazione, ma sento il dovere di farti notare che è una pazzia, amico mio >>.
Greg ha pesato ogni singola parola e ora lo guarda con lo stesso sguardo compassionevole che si regala ai parenti disperati di una vittima di rapimento. John gli salterebbe volentieri alla gola, ma, infondo, sa che il suo amico detective sta solo cercando di farlo ragionare.
<< Hai sentito cosa hanno detto i tuoi colleghi? >> ribatte cercando di mantenersi calmo.
<< Certo. E tu hai sentito cos’hanno detto riguardo al bollettino meteo delle prossime quarantotto ore? >>.
John sospira e passa le mani sul volto stanco. Da che è tornato a Baker Street dal corso di aggiornamento ha dormito poche ore e solo perché è franato stremato tra una ricerca e l’altra del suo coinquilino disperso. Perché che sia disperso, ormai, lo da quasi per certo. Si lascia cadere sulla sedia e posa i gomiti sulla scrivania di Lestrade.
<< Greg, io non posso restare qui con le mani in mano mentre lui potrebbe aver bisogno del mio aiuto >> sospira prendendo la testa tra le mani. << L’ultima cosa che si sa di lui è quella comunicazione ricevuta giovedì dal comando di polizia, dove li avvisava che si sarebbe diretto da loro. Peccato che da quel che ci ha detto il tuo collega, non hanno più avuto sue notizie >>.
<< John, ci ha detto anche che in bufere come quella che si sta abbattendo da loro è normale che molte zone restino isolate, a volte anche per mesi, e il Lake District Ski Club è una di queste >> insiste Greg. << Sherlock aveva detto loro che sarebbe sceso prima dell’allerta meteo, in modo da scampare la bufera. Lo conosci, si sarà fatto cogliere da un altro indizio e avrà perso tempo restando bloccato lassù >>.
<< Peccato che questa resta solo un’ipotesi, Greg, e a me non piace per nulla non avere    certezze! >> dice alzandosi nuovamente in piedi. << Cristo, com’è possibile che superati i primi dieci anni del nuovo millennio si abbiano ancora problemi nel comunicare a causa degli agenti atmosferici? >> sbotta scalciando una sedia. Da dietro le veneziane, tirate giù ma aperte, scorge gli agenti sbirciare quanto sta accadendo nell’ufficio del loro capo, curiosi di vedere il solitamente calmo e paziente dottore alterarsi. E non c’è neppure ‘il freak’ a giustificare il suo comportamento.
<< Non lo so, John >> dice Greg, che si adopera a garantire un attimo di privacy al suo amico serrando le veneziane. << Perché, però, devi pensare al peggio? Persino suo fratello è tranquillo e sappiamo entrambi quanto sia molto più intelligente di Sherlock. Avesse annusato qualcosa per la quale valesse la pena preoccuparsi credi non avrebbe subito mobilitato l’intero MI6 per lui? >>.
L’osservazione di Greg è corretta. Lui stesso ci ha pensato. Eppure ha questa sensazione, questa bruttissima sensazione che non lo molla.
<< Greg, io sento che qualcosa non è andata nel modo giusto. Lo sento, capisci? >> gli dice volgendo a lui lo sguardo. << Ovviamente, spero di essere solo troppo apprensivo e avrete la possibilità di prendermi per il culo a vita se così fosse. Ma voglio togliermi lo sfizio anche solo di avvicinarmi di più a quelle zone e cercare di ottenere sue notizie. Ho bisogno di sapere che sta bene, Gregory >>.
Lestrade lo guarda a lungo, gli occhi ridotti a due fessure, come volesse mettere meglio a fuoco l’uomo disperato che ha preso il posto del suo amico.
<< Sai, John, io dovrei essere mortalmente incazzato con te >> gli dice serio. Il dottore, sorpreso, resta senza parole. << Prima del tuo arrivo nessuno sapeva, ufficialmente almeno, chi fosse il vero artefice dei miei successi. Ho ottenuto promozioni, encomi, elogi e compagnia cantante per ben cinque anni. Una vera pacchia. Poi sei arrivato tu >>, dice puntandogli contro l’indice, << con il tuo blog e i tuoi post. Sherlock è diventato famoso e tutti hanno saputo chi risolveva davvero i casi difficili che tante gioie mi avevano regalato. Sai perché, invece, non sono per nulla incazzato con   te? >>.
<< Perché come te adoro il rugby e condividere pinte di birra il venerdì sera? >> sdrammatizza. Greg ridacchia e scuote il capo.
<< Quelli sono simpatici effetti secondari >> ammette facendo spallucce. << Non sono incazzato perchè da quanto ti sei trasferito con lui al 221 B mi hai tolto dalle spalle un notevole quantitativo di stress nell’avere a che fare con Sherlock. Non mi devo più preoccupare di rincorrerlo per ottenere risposta ai miei messaggi o per sapere dove sia finito e a che punto sia con le indagini, perché mi basta chiedere a te che puntualmente mi rispondi. Non devo più preoccuparmi sia troppo freddo e diretto con i testimoni o i parenti delle vittime o con i miei uomini, perchè basta che tu gli scocchi un’occhiata e lui si mette in riga. Non devo più lottare per fargli accettare un caso, perché, tu, pur di non vederlo cadere preda della noia, lo convinci a darmi una mano e nel giro di un’ora è tutto fatto. Io ti devo il benessere del mio fegato e delle mie coronarie, John, e per questo che non posso essere incazzato per la perdita degli encomi, delle promozioni e dei bonus economici >>.
<< Beh, Greg, che dire? È la dichiarazione di stima più bella che abbia mai ricevuto >> dice ed entrambi esplodono in una grassa risata capace di dissipare la tensione e permettere al dottore di riprendere fiato.
<< Credo di non averlo mai ringraziato abbastanza per tutti i grattacapi che mi toglie dalla      testa >> aggiunge Greg asciugando gli occhi. << Certo, lui non aiuta con quel suo subitaneo svalutare persino la carineria di un ringraziamento. Se tu, però, che lo conosci meglio di chiunque altro sei in pena per lui, allora penso che qualcosa sotto ci sia davvero e il minimo che possa fare e aiutarti. Il caso che sto seguendo è comunque fermo e solo la sua mente geniale e assurda può sbloccare la situazione. Penso, quindi, che ti accompagnerò in questa folle avventura. A stare dietro una scrivania ci si arrugginisce >> dice alzandosi in piedi. John resta senza parole  e gli ci vuole qualche istante per realizzare quanto Greg gli ha proposto.
<< Cristo, Greg! Dici sul serio? >>.
<< Certo! >> esclama il detective. << Il collega a capo del comando di Threlkeld è una testa di cazzo delle migliori! Hai bisogno di qualcuno che ti tenga il braccio per evitare una condanna per aggressione a pubblico ufficiale >>.
<< Tu sì che mi conosci >>.
<< E ovviamente tu mi renderai il favore >>.
<< Contaci >> ridacchia sollevato all’idea di non doversi avventurare da solo tra quei monti spietati e gelidi.
 
 
 
[1] Citazione da ‘La soluzione sette per cento ‘ di Nicholas Meyer.

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Capitolo 5
*** 17 novembre ***


 
17 novembre
 
I progetti del nuovo impianto sciistico prevedono la costruzione di un hotel 5 stelle, un ristorante e un’area attrezzata vicino alla stazione dalla quale partiranno le seggiovie. Hugh Paddington è un uomo ambizioso che ha fatto bene i suoi conti e non vuole che in alcun modo quei corpi rinvenuti durante gli scavi possano ostacolare i suoi piani. Ha contattato Sherlock proprio per affidargli il caso, dal momento che le autorità del posto hanno dato ordine che nulla fosse toccato finchè non si sarebbe risolta l’inchiesta. Il consulente ha accettato il caso, trovandolo affascinante fin dalle prime parole pronunciate da quell’uomo arrogante e arrivista.
<< Hanno ipotizzato possa essere un cimitero o una fossa comune o che siano vittime di un qualche pazzo assassino. Io so solo che qui tutti ipotizzano, ma nessuno si muove e a me serve qualcuno che si muova, signor Holmes >> e lui si è mosso.
Un gran numero di file si è aperto nella sua testa ed è andato su di giri all’idea di mettere le mani in quel vaso di Pandora di corpi putrescenti che tante cose hanno da raccontare a chi sa osservare. Ha messo in valigia qualche indumento pesante ed è partito senza troppi giri di parole.
L’ispettore Hataway si è rivelato un incompetente capace di fargli addirittura rimpiangere gli Yardes con cui è solito avere a che fare. Il poliziotto lo ha squadrato dalla testa ai piedi, dicendo subito che non aveva bisogno di un damerino di Londra che gioca al moderno Maigret. Sherlock lo ha zittito con una deduzione precisa sulla sua poco professionale relazione con l’unica agente scelto donna del distretto << Che, tra parentesi, le si concede solo per la promozione che le ha detto le farà ottenere >>. Non si è guadagnato le sue simpatie, ovviamente.
<< Sono sicuro che starà facendo festa all’idea di saperti volato giù per il dirupo insieme alle tue scomode deduzioni >>.
John gli sorride con quell’espressione che sa tanto di ‘sei totalmente pazzo, ma ti adoro’ che gli trova spesso sul viso. Si ritrova a distogliere lo sguardo per nascondere l’imbarazzo dietro una della planimetrie che finge stia ancora esaminando. Benchè ce l’abbia con lui non riesce a nascondere quanto piacere gli facciano le sue attenzioni.
<< Cosa pensi che sia successo qui, Sherlock? >>.
<< Un gran casino portato avanti per anni, John >> risponde tutto felice, cosa alquanto sconveniente, dato il caso. << Quella fossa ha tutta l’aria di essere la discarica di un seriale >> aggiunge, le dita congiunte sotto il sorrido soddisfatto che gli illumina il viso. << Ho fatto bene ad accettare >> annuisce compiaciuto di se stesso.
<< Io avrei qualcosa da ridire a riguardo, ma non credo ne terrai conto >>.
<< Infatti >> dice passando a sfogliare i documenti che si è procurato sulla popolazione locale.    << I seriali sono abitudinari, ossessivi, maniacali. Seguono uno schema ben preciso e non lo mollano e li si può incastrare solo se commettono un errore >>.
<< Come fece Hope con la signora in rosa >>.
<< Precisamente! >>.
<< E noi abbiamo una valigia rosa da qualche parte? >>.
<< No. Né quella, né nient’altro. L’unica cosa che possiamo fare è studiare il territorio e ipotizzare da dove provengano i corpi >>.
<< E come farai? Potrebbe anche arrivare da Lancaster o da Morecambe o magari da entrambi i posti >>.
<< No, no, no, John. Guarda >> gli dice piazzandogli sotto il naso una foto della fossa.                      << Entrambe le città che hai citato sono a sud, mentre dalla conformazione del terreno e dalla rete di strade e sentieri l’unico modo per arrivare qui e passando da nord >>.
<< Quindi o da Castlerigg o da St. Johns in the Vale. Forse addirittura da Keswick o da    Threlkeld >>.
<< No, queste sono troppo lontane >>.
<< Ma come fai a dirlo? >> .
<< Perché il corpo più recente risale a 14 mesi fa’ >>.
<< Quindi settembre dell’anno scorso >>.
<< Esatto, e da giugno a dicembre dello scorso anno le strade che collegano questa zona con quelle due città sono state chiuse per lavori. I giornali hanno parlato per mesi delle manifestazioni di protesta degli albergatori del posto per la pessima stagione che questo disguido ha causato loro. Non ci sono altre strade battute che colleghino la fossa con quelle città e questo ci porta ad escluderle con una probabilità de 98%. Potremmo sempre aver a che fare con un seriale talmente sicuro di sé da fare il giro passando da Bassenthwaite per raggiungere Penrith e da lì ridiscendere, non voglio mettere limiti alla follia umana >>.
<< Fantastico >> sussurra John estasiato.
Sherlock alza lo sguardo, come sempre stupito dai suoi riconoscimenti. I loro sguardi restano agganciati a lungo nel silenzio che si fa sempre più elettrico e carico di tensione
<< Non pensi che dovremmo parlare di quanto è accaduto sabato, Sherlock? >> gli chiede John incrociando le braccia al petto.
<< Sì, penso che dovremmo, John, ma non adesso >>.
<< Certo. Prima il dovere e poi… scusa, pessima scelta di parole >> ridacchia e gli fa eco desideroso di sciogliere quella tensione sempre così palpabile tra loro.  
 
Un rumore sordo e improvviso lo strappa al suo Mind Palace. Di solito ci vuole molto di più per tirarlo via da lì, ma in questi ultimi giorni, a quanto pare, le sue difese sono molto più alte del solito. Mary è nuovamente chinata su di lui, intenta a raddrizzare il letto.
<< Sei davvero tanto devoto >> gli dice. Ha posato un secchio d’acqua per terra e una bacinella sulla sedia. Non è, però, l’ora del bagno. Sherlock muove rapido gli occhi in ogni direzione per dedurre il più in fretta possibile cosa lo aspetti e come organizzare una possibile difesa.
<< Sembri un barbone. Non va mica bene >> dice la donna, tirando fuori dalla tasca dei pantaloni di flanella un rasoio a mano libera. Sherlock rabbrividisce. Non ha alcuna intenzione di perdere il naso o di venire sfregiato o sgozzato dalle maniere grossolane di Mary.
<< In effetti è un po’ lunga >> balbetta, portando la mano al volto coperto dalla barba incolta di quasi una settimana.
<< In modo indecente >> dice mentre fa il filo alla lama passandola su una cinghia di cuoio. Sherlock la guarda ipnotizzato e si rende appena conto di come la mano dal mento sia scivolata sulla gola, a proteggerla.
<< Mary, posso chiederti la cortesia di lasciare che me ne occupi io? >> sussurra studiando attentamente le parole e la reazione della donna.
<< Non ne sei in grado. Faresti un gran casino e non voglio pulire altro sangue >>.
<< Fammi almeno provare, per favore. Sono bloccato qui e non sono abituato a tutta questa immobilità. Penso mi farebbe bene all’umore potermi prendere cura di me almeno con una   rasatura >>.
La donna si blocca di colpo. Ecco lo stato catatonico, indice di un ragionamento in corso.
“Ti prego, ti prego, ti prego!” pensa intensamente Sherlock, le mani strette a pugno e il cuore a mille. La donna si ridesta e gli lancia il rasoio in grembo. I riflessi per fortuna, seppure rallentati, funzionano ancora e gli permettono di allontanare il braccio sinistro un attimo prima che la lama lo colpisca. Non osa immaginare cosa sarebbe successo se lo avesse ferito. Con un rasoio in mano l’esplosione d’ira di Mary potrebbe concludersi solo in modo molto tragico per lui.
<< Io insapono e tu radi >> dice tutta contenta la Mary bambina, tirando fuori dalla tasca un barattolo di crema da barba e un pennello spelacchiato. Inizia a preparare con cura la crema, mescolandola con il pennello. Il bel sorriso allegro le illumina il viso.
Sherlock prende il rasoio in mano e si rallegra nel rendersi conto di quanto ora sia più salda la sua presa. Alla base della lama c’è uno strato di quello che ha tutta l’aria di essere sangue incrostato. Lo stomaco gli si chiude disgustato e non solo dall’idea di dover usare un rasoio sporco e non poter neanche tentare di pulirlo per il timore di scatenare la sua ira. Si chiude all’idea di come ci sia finito lì quel sangue. Già da qualche giorno sta accogliendo la deduzione, fin’ora messa da parte per sedare il panico, di non essere il primo ad avere avuto la fortuna di essere soccorso e curato da Mary. Quell’oggetto e il suo triste strato di sporcizia stanno apportando una prova in più a favore della sua terribile tesi.
Rischia di perdere la presa sul manico del rasoio quando la donna si siede pesantemente al suo fianco sul letto. La coscia enorme di lei a contatto col suo fianco nudo gli rimanda alla gola un conato che deve prontamente ricacciare giù.
Mary gli sorride mulinando il pennello intriso di crema dinanzi alla sua faccia. Sherlock stringe forte il manico del rasoio nella mano destra.
“Fallo!”
La voce di Moriarty lo sorprende.
“Morire è quello che le persone fanno!” grida con la sua voce folle per poi ridacchiare soddisfatto. “Un colpo secco e ti libererai della sua presenza per sempre” lo alletta e la mano aumenta la sua presa attorno al manico.
“Questa donna è un osso duro, Sherlock” irrompe John mettendolo in guardia. “Potresti colpirla e anche ferirla seriamente, ma prima ancora di morire o perdere i sensi avrà il tempo di strapparti il rasoio dalle mani e farti a fette o di ucciderti a mani nude”.
John ha ragione. Mary da l’idea di essere capace di restare in piedi stoicamente per molto tempo anche a scaricarle addosso un intero caricatore, figurarsi cosa può farle un semplice rasoio.
Come aveva previsto, gli spalma la crema in viso con la stessa cura con la quale un muratore stenderebbe l’intonaco su una parete grezza. Gli pizzica il naso con quel dannato pennello e deve resistere dallo starnutire, cosa per nulla facile.
<< Ecco fatto >> gli dice sorridente. << Ora puoi iniziare >>.
Sherlock la guarda stupito.
<< Hai uno specchio, di modo che possa vedere cosa faccio? >>.
La donna si congela nuovamente e Sherlock teme il peggio questa volta. Si risveglia molto prima del solito e scatta in piedi facendo sobbalzare il letto. Si avvicina alla scrivania e da un cassetto tira fuori uno specchio tondo incastonato in un manico d’argento finemente lavorato. Torna a sedere sorridente.
<< Ecco >> dice porgendoglielo.
<< Ti va di tenerlo su per me? >> le domanda e vede le sue guance arrossire d’imbarazzo. Teme di aver usato un tono troppo seducente e se ne pente amaramente. Per fortuna, però, la donna si limita a tenere lo specchio a mezzo metro da lui. Sherlock le sposta le mani un po’ più alla sua sinistra e fatica a riconoscere il volto riflesso nello specchio.
Non si è mai considerato bello, anzi. Il suo volto è stato giudicato inespressivo da alcuni e dalla mimica inquietante da altri e, benchè si ostini a dirsi disinteressato del giudizio altrui, queste considerazioni pesano ancora oggi come macigni. È sempre stato orgoglioso, però, dei suoi occhi e dei suoi capelli. Il taglio, la forma e il colore così particolare dei suoi occhi gli hanno regalato tanti riconoscimenti positivi. Anche quando sono stati giudicati inquietanti il giudizio veniva espresso in tono affascinato. Gli occhi dell’uomo che vede nello specchio sono cerchiati di nero, stanchi e spaventati. La sclera dell’occhio destro, quello coinvolto nella botta presa alla testa, è livida di capillari rotti che lo rendono disgustoso e terribile a vedersi. Il colore delle iridi, poi, è un grigio opaco, smorto, privo di alcuna speranza.
I capelli, che ha sempre trattato con cura, sono sfibrati, secchi e opachi. Hanno assunto la forma di una massa indefinita e rigida, come fossero una brutta parrucca. Sua madre, nelle sue rare espressioni di tenerezza, li accarezzava a lungo sussurrando estasiata ‘Ma che bei riccioli morbidi ha il mio bambino’. In qualche modo mantenendoli morbidi ha tentato di ricreare quel piacere insolito e viscerale che quelle parole dolci gli muovevano dentro. Ora persino sua madre stenterebbe dall’affondarvi la mano.
“Anche questo si sistemerà, vedrai” sussurra John nella sua testa. “Torneranno belli come prima che tutto questo avesse inizio”.
Sherlock sospira, intimamente poco convinto delle parole del dottore. Sente crescere giorno dopo giorno la terribile certezza che non uscirà mai vivo da quella stanza.
“Smettila!” esclama la voce del capitano. Tanto gli basta per scuotersi e iniziare a radersi.
<< E’ davvero molto bello questo specchio, Mary >> dice, stupito di trovare un oggetto indubbiamente di pregio e valore in quella stanza e tra le mani di questa donna.
<< Era della mia mamma >> dice la Mary bambina con orgoglio. << Lo tenevo per lei quando si faceva le trecce. Aveva i capelli luuunghisssssssssimi >> dice ridacchiando allegra. << Al mio papà, invece, mi piaceva tanto mettergli la crema da barba, come ho fatto a te, e poi restare a guardarlo mentre la toglieva. È una magia vedere come cambia il viso senza tutti quei peli >>.
Sherlock sorride. Sì, un sorriso sincero. La versione bambina di Mary non è poi così male. Riuscisse solo ad averla lì sempre. Man mano che toglie la barba si rende conto di come il livido sulla parte destra della testa si estenda anche alla guancia e allo zigomo.
“Lo schiaffo dell’airbag” pensa, felice di non essersi rotto anche le ossa del volto oltre che quelle della gamba e, teme, anche qualche costala. Deve ammettere di avere le guance meno scavate, però. La regolare alimentazione a base di brodo di pollo e verdure sta facendo effetto.
“Te l’ho detto io che almeno un lato positivo c’è in questa storia”. Sorride divertito dalla battuta di John e Mary risponde a sua volta sorridendogli. Deve stare attento a tutta quella confidenza.
“Sono pur sempre un pervertito, per la versione Hide di Mary, è bene che me ne ricordi”.
<< Sei stato bravo, non ti sei tagliato neanche una volta >> gli dice giuliva. Si sporge verso la bacinella nella quale immerge un asciugamano, lo strizza e glielo getta in faccia. Lo preme forte sul suo viso con le mani, togliendogli il fiato per un lungo istante prima di rimuoverlo, immergerlo nuovamente, strizzarlo e iniziare a strofinargli con vigore guance, mento, fronte e naso.
<< Ora sì che sei decente! >> ride piazzandogli lo specchio a un palmo dal viso. Sherlock rivede quell’uomo dagli occhi stanchi e terrorizzati con l’unica differenza che ora è privo dello strato di barba di una settimana.
<< Grazie, Mary >> si ricorda di ringraziarla e questa arrossisce.
<< Sei bello, sai? >> gli dice impacciata. La vede avvicinare titubante una mano alla guancia sana e la carezza lieve che vi posa lo inquieta molto più delle botte prese finora.
“No! Piuttosto mi taglio le vene e la faccio finita” pensa rendendosi conto di essere talmente teso da sentire i denti stridere. Lei si ritrae imbarazzata e delicatamente gli prende il rasoio di mano.
Sherlock si trova a pensare che se il rischio di tutta quella giovialità è quello di ritrovarsela addosso in atteggiamenti troppo intimi, tanto vale scatenare le ire della sua versione pericolosa. Pensa già di dire qualcosa che la faccia arrabbiare, in modo da toglierle quel sorriso beota dalla faccia e quelle attenzioni carezzevole dalle mani.
“Ha ancora il rasoio con sè, non ti conviene giocare col fuoco, Sherlock” gli dice suo fratello Mycroft.
“E se le venisse in mente di… giocare con me? Che faccio? Cosa cazzo faccio, eh?”.
“Sopravvivi, Sherlock”.
Più che le parole lo colpisce il tono usato da Mycroft. Privo di alcun colore emotivo. Vivere nonostante tutto. Accettare qualunque tipo di violenza per il bene della sopravvivenza.
“Non fa per me” dice, mentre il donnone si alza dal letto facendolo ondeggiare come una barca in preda al mare grosso. “Piuttosto lotto e muoio nel tentativo di difendermi. Io non sono come te, Mycroft!”.
“Concordo, Sherlock, ma ce ne occuperemo quando e se si presenterà l’occasione, ok?” interviene John. “È una timorata di dio, non credo proprio che si arrischierebbe a qualcosa di più della carezza che ti ha dato”.
“Le cose peggiori accadono nei conventi, John, non lo sai?”.
“Lo so, Sherlock. Ad ogni modo oggi è andata. Ora scenderà e fino a domani non avrai a che fare con lei. Oggi la battaglia è finita”.
“E’ finita, sì” sospira guardano Mary ciabattare verso la porta.
<< Buonanotte, Edward >> cinguetta.
Spegne la luce e chiude la porta lasciandolo al buio.  
 
***
 
<< Non se ne parla nemmeno! >>.
Hataway pianta le mani ai fianchi a sottolineare quanto ciò che i due londinesi gli hanno appena chiesto sia lontano anni luce dal poter essere realizzato.
<< Se non ve ne siete accorti là fuori è in corso una bufera. Una bufera, signori miei, non una delicata e romantica nevicata natalizia >> sottolinea storcendo il naso. << Siete già stati dei pazzi ad arrivare fin qui per chiedermi ciò che già vi avevo comunicato telefonicamente… >>.
<< Cosa avremmo dovuto fare? >> lo interrompe John. << Restarcene tranquilli crogiolandoci nell’idea che sicuramente Sherlock Holmes sarà al sicuro intrappolato in uno Ski Club sperso tra i monti? >>.
<< Sì >> risponde l’uomo risoluto. << L’allerta meteo è tale che sono stati richiamati persino gli spazza neve. La gente è invitata da quattro giorni a starsene chiusa in casa. Da queste parti ci siamo abituati, dottor Watson. Pensavo il vostro amico fosse stato un incosciente, ma vedendo voi mi rendo conto fosse quello della compagnia messo meglio! >>.
John freme dalla voglia di saltare al collo di quell’inutile omuncolo che li ha degnati solo di smorfie di disgusto e sguardi di sufficienza da che sono arrivati. Greg gli posa preventivamente la mano sulla spalla.
<< Non è proprio possibile mettersi in contato con lo Sky Club? >> chiede al collega che alza gli occhi al cielo esasperato.
<< Quante volte devo ancora ripetervelo! >> sbuffa, benchè, in verità, lo abbia detto loro solo una volta e per telefono. << La bufera ha messo le linee telefoniche e i ripetitori fuori uso >>.
<< Ma com’è possibile che, se siete avvezzi a queste cose, non abbiate preso provvedimenti per impedire situazioni simili! >> sbotta a sua volta John. << Stiamo parlando di un club, non di un’abitazione privata. Un luogo in cui si raggruppano molte persone, com’è possibile che anche solo per una minima sicurezza non si siano adottate misure precauzionali? Siamo nel 2011, per dio! >>.
Hataway incrocia le braccia al petto e aggrotta le folte sopracciglia ingrigite dagli anni sugli occhi scuri e irritati.
<< Lei, un medico di Londra che per hobby aiuta un investigatore privato, vuole venire qui nel nord west a insegnarci come affrontare le rigidità dei nostri inverni? >>.
Greg artiglia nuovamente la spalla di John, che vorrebbe scrollarselo di dosso e darle di santa ragione a quel vecchio poliziotto ottuso e pieno di pregiudizi.
<< L’allerta meteo ha fatto una previsione sulla durata della bufera? >> gli chiede, cambiando del tutto argomento per evitare che un cataclisma di botte e calci si scateni in quell’ufficio.
<< Dovrebbe scemare domani notte. Fino ad allora nessuno esce! >> sottolinea puntando loro addosso l’indice ammonitore. << La camerata è libera, potete pernottare lì >> conclude dando loro a intendere di prendere armi e bagagli e levarsi dai piedi.
Greg prende John per il braccio e lo trascina fuori dall’ufficio. Raggiungono la camerata che consta di sei letti e il dottore getta in malo modo la sacca nella quale ha portato poche cose sopra uno di questi.
<< Maledetto stronzo! >> esclama. << E maledetta tempesta >> aggiunge rivolto alla finestra dai vetri incrostati di neve. Si lascia cadere sul materasso che cigola sonoramente. Pianta i gomiti sulle ginocchia e prende la testa tra le mani.
<< Siamo bloccati qui, Greg. Anche noi >> borbotta affranto. << Sono stato un idiota a coinvolgerti, ma speravo davvero di poter ottenere qualche informazione in più venendo qui >>.
Greg si siede al suo fianco e gli batte la mano sulle scapole tese.
<< Non ci resta che attendere, John. Rischieremo di fare la fine di Jack Nicholson in ‘Shining’ se uscissimo là fuori >>. John ridacchia nervoso.
<< Cristo, citazione azzeccatissima, amico mio >>.
<< Te lo immagini Sherlock all’Overlook Hotel? >> gli chiede e entrambi ridono.
<< Oddio, io non me lo immagino neppure in uno Ski Club >>.
<< Bloccato lì da una settimana! Il suo cliente si sarà pentito amaramente di averlo contattato >>.
<< Lui e tutti gli altri che come loro sono rimasti bloccati lì >>.
<< Li starà facendo ammattire >>. Ridono di gusto spezzando la tensione, sovrastando il boato della tempesta che sbatte contro i vetri delle finestre.
<< Eppure mi auguro che davvero sia così, Greg >> sussurra John tornato serio. << Che sia lì a rischiare di essere strangolato da una folla di turisti e dal personale del club, piuttosto che morto assiderato >>.
<< E’ questo che temi? >>.
<< Le ultime cose che sappiamo su di lui è che sarebbe sceso fin qui per portare avanti le indagini. Per quanto sia abile alla guida la neve è subdola e le strade erano messe male già da prima che arrivasse la tempesta >>.
Greg sospira al suo fianco e tenta più volte di dire qualcosa interrompendosi ancora prima di proferire verbo.
<< Non voglio pensare a questa eventualità, John >> dice finalmente. << Preferisco immaginarmelo a osservare inorridito il gruppo di idioti con i quali si trova costretto a condividere uno spazio troppo piccolo. Come sabato scorso. Ricordi che espressione aveva? >>.
<< Già >> sussurra John, che a tutto vuole pensare tranne che a quella sera, soprattutto in questo momento.
<< Si è addirittura scolato un’intera pinta pur di mandare giù la situazione. Non mi capacito di come abbiano fatto i tuoi ex commilitoni a convincerlo ad unirsi a noi al pub >>.
<< Non lo hanno convinto, Greg: ce lo hanno portato di peso e io sono stato un idiota nel non insistere affichè la smettessero >>.
<< Per questo avete discusso, dopo? Era decisamente sbronzo. Non dev’essere stato un bel rientro a casa >>.
“Tutt’altro, Greg, tutt’altro!” pensa John, ma è solo un sospiro quello che si lascia sfuggire. Greg lo osserva curioso ma non aggiunge altro. Sono lì, entrambi con i gomiti appoggiati alle ginocchia a fissare il letto di fronte, mentre il vento spadroneggia là fuori. Si insinua negli infissi. Produce suoni simili a grida.
<< Ho combinato un casino, Greg >> butta fuori John, sentendo il bisogno di scaricare il senso di colpa.
<< Non essere troppo severo con te stesso, John. Siamo qui e qualcosa faremo. Fosse anche rompere i coglioni ad Hataway al punto da darci un gatto delle nevi e mandarci là fuori fregandosene delle tragiche conseguenze del nostro folle gesto >> ridacchia e John si unisce a lui. Pensava si sarebbe sentito sollevato dal fatto che il detective non avesse colto a cosa davvero si stesse riferendo con quella frase. Invece, ecco che gli sfugge un altro sospiro.
<< Non mi sono comportato bene con Sherlock >>.
<< Dal ritorno dal pub, intendi? >> gli chiede Greg e John annuisce, osservando attento il pavimento in legno sotto gli scarponi umidi di neve. << Oddio, è già difficile avere a che fare con lui da sobrio, non oso immaginare come sia da ubriaco >>.
<< No, Greg >> sospira ancora. << Non c’entra nulla l’alcol. Non nel modo in cui pensi tu,  almeno >> scocca appena un’occhiata al detective per poi riportarla ai suoi piedi. Greg lo osserva a lungo e benchè John tenga gli occhi bassi può immaginare il sopracciglio sinistro di lui inarcarsi mentre cerca di dare un senso alle sue parole.
<< Cosa diavolo è successo sabato sera, John? >>.
<< Quello che può succedere tra due persone che hanno ecceduto un po’ troppo nel bere >>.
Greg ci pensa un attimo.
<< Due uomini che eccedono nel bere, di solito possono arrivare alle mani… ma non mi sembra questo il vostro caso >>.
<< No, non è questo >> ammette John portando nuovamente le mani alle testa.
<< … ok >> dice incerto Greg raddrizzando la schiena. << Nulla di violento, mi auguro >>.
<< Certo che no, Greg! >> sbotta John volgendosi verso di lui.
<< Scusa è che… dal momento che avete litigato… >>.
<< E nella tua logica un litigio, in questo caso, fa seguito a una tentata violenza? >> ringhia e non sa neppure lui perché si stia arrabbiando a quel modo.
<< Ehi, calmo, John. Ho usato le parole sbagliate, scusami. È che… cristo, non me l’aspettavo una cosa simile, abbi pazienza! >>.
<< No, Greg, scusami tu >> dice sgonfiandosi. << E’ che… forse un po’ mi sento come se avessi abusato di lui. Avrei dovuto fermarmi, ero il più sobrio tra i due. Invece… >>.
Torna il rombo della tempesta a riempire il silenzio. Le grida del vento che sbuca dai cardini ad accapponare la pelle.
<< Invece avete litigato >> riprende Greg rompendo il silenzio.
<< Oh, cristo, sì >> sospira John lasciando ciondolare la testa tra le braccia. << Lui… era così sereno. Tranquillo. Diverso dal solito, insomma e io… mi sono spaventato, Greg. Ho avuto paura di lui  >>.
<< Paura di lui >> ripete Greg stupito. << Che volesse qualcosa di più? Una relazione riconosciuta? >>.
<< No. O meglio… all’inizio me la sono raccontata con queste cazzate >> ammette passando la mano sul volto stanco. << La reputazione, i pettegolezzi, cose così. Non è quello, però, che mi ha spaventato >>.
<< Non vedo cos’altro potrebbe. Voglio dire, hai la reputazione di essere stato con le donne di ben tre continenti! >>.
<< Non erano solo donne, Greg. Sherlock non è mica stato il primo! >>.
Lestrade resta di sale dinanzi a quest’altra rivelazione.
<< Dai, pensavo lo avessi capito. Non sono stati mica così tanto tra le righe i miei amici sabato >> dice John assumendo lo stesso tono e sguardo da assurdità dell’ovvio di Sherlock.
<< Sinceramente pensavo stessero giocando con i doppi sensi, John. Da che ti conosco ti ho visto frequentare solo donne. Dio, che serata >> sospira piantando di nuovo i gomiti sulle ginocchia. Prende anche lui la testa tra le mani, questa volta. << Allora, se non era il primo, cosa ti ha spaventato? >>.
<< E’ innamorato di me, Greg >> sussurra al punto che il detective deve avvicinarsi un po’ di più a lui per sentire. << Pensavo non fosse in grado di amare. Cristo, non fa altro che ribadire quanto i sentimenti siano una scemenza! Invece l’ho visto questo amore. L’ho sentito e… me lo ha anche detto >>.
<< Oh, cazzo >> scuote il capo Greg. << E per te, invece, è stata solo un’avventura. Il giorno dopo glielo hai detto e lui si è incazzato. Non fatico a immaginare la scenata che ti ha fatto >>.
<< Nessuna scenata, Greg >> lo corregge John. << E penso sia la cosa peggiore. Il suo sguardo. Il suo silenzio. Cristo, che idiota che sono! >>.
<< Perché idiota, John? Poco attento a causa dell’alcol e dentro una situazione che non ti invidio per nulla, ma perché idiota? >>.
<< Perché non è stata solo un’avventura per me, Greg! >> sbotta alzandosi in piedi lasciando il detective a bocca aperta per la terza volta. << Sono anche io… innamorato di lui >> sussurra portando una mano alla bocca, come a voler tenere nascosto un segreto troppo grande anche solo da pronunciare. << Solo che… caspita, già era stato pazzesco quanto era accaduto. Sentirgli poi dire quelle parole… vederlo così sereno e in pace… è stato troppo. Troppo per me. Io… ho sentito di non meritarlo e… >>.
<< E… >> lo incalza Greg.
<< Gli ho detto che quanto era successo non sarebbe mai dovuto accadere. Che era stata colpa dell’alcol e che era meglio per entrambi dimenticarci di tutto >>.
Il vento fischia forte e lo scricchiolio del vetro congelato dalla neve diviene quasi percettibile.
<< Sì, sei un idiota! >> dice Greg, incrociando le braccia al petto, il volto severo. << Benchè non si possa pretendere di essere amati, io al suo posto ti avrei ammazzato di botte, John. A causa della tua inesistente autostima hai ferito Sherlock proprio quando, anche grazie all’alcol, ti ha mostrato i suoi sentimenti, quelli che tiene nascosti maledettamente bene. Beh, almeno adesso so perché siamo  qua! >>.
<< Non mi perdonerà mai. Anche dovesse essere davvero in pericolo e lo salvassi da morte certa. Non spero che un atto eroico cambi il disastro che ho fatto, Greg >>.
<< Sì, hai ragione, conoscendo Sherlock le cose non cambieranno. Tu, però, ci speri e, scusami se te lo dico, ma anche questo è un colpo basso da parte tua >> dice alzandosi in piedi. << Ho visto quel ragazzo mezzo ammazzato dalla droga, John. Tu questa parte di lui te la sei risparmiata, io, invece, l’ho conosciuto con le braccia piene di buchi e le pupille come ventose. Non ci avrei scommesso un centesimo, eppure mi è bastato buttare lì una proposta, ‘se smetti con questa roba ti permetterò di collaborare con me’ e lui lo ha fatto. Si è impegnato seriamente e lo ha fatto. Mycroft stesso mi ha ringraziato per aver salvato suo fratello. Io sono convinto sia stato Sherlock a salvare se stesso, ma se davvero una piccola parte di successo è dipesa da me, allora ne sono orgoglioso e mi fa profondamente incazzare pensare che possa, a causa tua, buttare tutto nel cesso, John! >>.
Greg lo fronteggia. A un palmo dal suo viso, lo guarda con occhi severi che non gli ha mai visto. Non rivolti a lui, almeno.
<< Resterò qui e farò quanto mi è possibile per aiutarti a trovarlo. Se dopo, però, l’equilibrio che ha mantenuto anche grazie al tuo arrivo dovesse rompersi del tutto, allora non ti aiuterò più, John. Mi spiace essere così severo, ma tu non hai idea dell’entità del danno che puoi aver causato. Ora sono seriamente preoccupato anche io per la sua incolumità, non necessariamente messa a rischio da questa bufera >>.
Lo stomaco di John si chiude. Per le parole di Greg. Per l’accusa che gli ha mosso. Per il senso di colpa che ha ulteriormente toccato con quelle parole. Parole che lasciano il posto a quelle di Sherlock. Sussurrate al suo orecchio, soffiate sulla sua pelle, urlate nel momento più alto del piacere.
<< E’ bellissimo tutto questo, John >>.
Sì, lo era. Lo è stato davvero. E come tutte le cose belle che gli sono capitate, John ha fatto l’unica cosa che gli riesce bene: l’ha rotta e buttata via.
 

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Capitolo 6
*** 18 novembre ***


 18 novembre
 
Sherlock guarda la fossa piena di cadaveri. È fermo al limitare di questo cimitero segreto e osserva rapito lo sgusciare dei vermi dai corpi putrescenti. Si accoscia per poterli vedere meglio. Piccoli e grassocci, rosicchiano le carni un tempo vive senza darsi pena né tormento. Senza chiedersi da dove provenga questo cibo che li nutre, chi sia stato, come abbia vissuto, di cosa si sia nutrito a sua volta. Nessuna delle sciocche domande che sono soliti farsi gli esseri umani sul cibo che mangiano.
“E’ questo che siamo” pensa rapito dalla rapidità di movimento delle larve. “Menti intrappolate in un mezzo di trasporto destinato a divenire cibo per insetti necrofagi. Che senso ha tutto questo?” si chiede rimettendosi in piedi.
Volge lo sguardo dinanzi a sé e vede lontana, al di là del bosco nel quale si trova, una tenuta.
Nevica. Percorre un sentierino naturale sentendo in lontananza grida stridule e raccapriccianti.
Giunge dinanzi al cancello della tenuta. Un’auto, un’utilitaria di poche pretese, è ferma lì davanti. Si avvicina cautamente, mentre le grida trasportate dal vento si fanno sempre più forti.
Scorge un corpo riverso sul selciato ad un’equa distanza tra l’auto e il cancello. Sdraiato a pancia in giù in modo scomposto. La testa riversa in una pozza di sangue che ancora si espande.
“Assassinato da poco” deduce. Non si avvicina al corpo. Non può fare nulla per quell’uomo se non dedurre che è stato ucciso da un colpo ravvicinato, esploso da una persona che era appoggiata all’auto. Auto di proprietà del defunto stesso.
Sherlock osserva le impronte nella neve. L’uomo non era da solo con il suo assassino. Ci sono altre impronte, più piccole, alcune piccolissime.
“Un bambino” deduce. Corrono attraversando il cancello, inseguite dalle impronte dell’assassino.
Un grido ancora più acuto dei precedenti fa trasalire il consulente. Lentamente riprende il suo cammino. Oltrepassa il cancello, strisciando nello spazio che è già aperto. Non ha voglia di spostarlo. Non sopporta il suo stridente cigolio.
Segue le impronte fino all’ingresso del caseggiato. La porta è aperta, spalancata. Il tappeto pregiato dell’ampio salone nel quale si ritrova è stato sporcato da impronte di passi concitati. Resterà macchiato per sempre.
Sherlock segue le orme che si diramano tra tavolini rovesciati, sedie spostate senza alcuna grazia. Sul grande divano di tessuto bordeaux il fuggitivo ha concluso la sua corsa. Lo deduce dai cuscini soffici, ammaccati e caduti disordinatamente sul pavimento.
“Ci è inciampata contro. Stava correndo guardandosi le spalle e ci è inciampata contro”.
Altre impronte, quelle piccole del bambino, partono da lì dirigendosi verso le scale.
“Lo ha messo in salvo. Gli ha gridato di scappare, correre più che può e nascondersi” e il bambino ha obbedito. Spaventato. Forse non ha voluto lasciarla, ma lei deve aver insistito. Una donna, certo. Non può che trattarsi di una donna. Sono loro ad essere solite stare con i bambini, no?
La conferma la ottiene da un altro corpo, riverso sul pavimento accanto al maestoso camino di marmo nero. Si ferma a pochi passi dal cadavere e lo osserva attento. Una bella donna dai capelli neri, che dovevano essere acconciati in modo che i boccoli le scendessero sulle spalle pallide. Sono ora scomposti, disordinati, sporchi di sangue. Il volto è stato colpito più volte. Graffiato. Morso con ferocia. Gli abiti strappati.
“Stuprata barbaramente” dice distogliendo lo sguardo dalla parte inferiore del corpo. Dopo la violenza, dopo i pugni, è stata pugnalata più volte con l’attizzatoio. I suoi occhi vitrei sono aperti. Ciechi. Rivolti al soffitto. Sherlock li osserva curioso.
“Arriveranno i vermi anche per te. Arriveranno presto” pensa e un altro grido acuto gli accappona la pelle. Il bambino. I suoi passi corrono verso la cucina. Sherlock si affretta a seguirli.
<< Dove sei, piccolo bastardo? Dove sei?! >>.
Si ferma al suono di quella voce rabbiosa. Si rende conto di stare tremando dalla testa ai piedi, spaventato, come se quell’uomo stesse braccando lui.
“Il bambino. È lui che vuole!” pensa per darsi coraggio e imporre al suo corpo di muoversi. Un altro grido, sicuramente lanciato dal piccolo terrorizzato, lo aiuta a darsi una mossa.
“Non ucciderai anche lui” pensa, mentre entra nella grande cucina. Una piccola porta di legno è stata aperta con forza tale da scardinarla. Pende miseramente da un lato. Un uomo alto, vestito di un cappotto scuro, lungo, dal bavero rialzato, gli da le spalle. Ha il respiro affannato e le mani al volto. Sherlock scorge solo il ciuffo di capelli castano chiaro scompigliato dalla foga della corsa.
Ai suoi piedi scorge il corpo di un bambino di non più di cinque anni.
“E’ svenuto” deduce. “Lo ha scaraventato contro la parete” nota, dal numero di utensili da cucina, pentole e padelle caduti sul pavimento dalle mensole contro le quali il piccolo corpo ha urtato.
L’uomo afferra un grosso coltello. Si avvicina di qualche passo verso il corpo del bambino e alza il braccio armato sopra la testa, pronto a colpirlo.
<< No! >> esclama Sherlock attirando la sua attenzione. L’uomo ride. Una risata terribile. Si volta lentamente, stringendo sempre il coltello in pugno.
<< Finalmente sei arrivato >> gli dice.
“Mycroft!” pensa Sherlock, la gola troppo secca per gridare. Sta per fare un passo indietro, ma si blocca colto da un dubbio. Osserva meglio il volto pallido, in carne, circondato da capelli scompigliati, ma radi sulla fronte. Gli occhi scuri e folli che lo stanno puntando non sono quelli di Mycroft. I denti bianchi e leggermente storti che scorge dal ghigno terribile che gli rivolge non sono quelli di suo fratello.
<< Hai dato ancora modo di far parlare di te e gettare fango su questa famiglia!>> ringhia, muovendosi minaccioso verso di lui. << Avrei dovuto ucciderti allora. Ho commesso un grave errore a pensare fossi già morto. Sei sempre stato testardo, William. Dovevo aspettarmelo avessi la testa piuttosto dura >>.
Sherlock indietreggia spaventato. Il braccio dell’uomo si alza nuovamente e la lama affilata lo punta bramosa di affondare nella sua carne.
<< Ti prego >> riesce appena a sussurrare mentre indietreggia terrorizzato.
<< Per cosa? Per una morte rapida e indolore? >> ride l’uomo. << Non se ne parla nemmeno, ragazzino! >> ribatte serio, il volto divenuto inespressivo e per questo ancora più terrificante. << Sei il disonore di questa famiglia, maledetto bastardo. Un tossico, pederasta privo di qualunque onore. Non sei degno di portare il mio nome! >>.
Sherlock grida cercando di proteggersi dalla lama che presto sentirà affondare nelle sue carni.
 
Apre gli occhi e si ritrova seduto sul letto. Il vento si insinua tra gli infissi producendo quel suono così simile ad un grido.
<< Un incubo? >> si domanda stupito. Era così reale. Così maledettamente reale.
Trema da capo a piedi, madido di sudore. Porta le mani alle spalle cercando conforto in un auto abbraccio che, però, ben poco lo scalda. Abbassa il mento sul petto e lascia che la testa sprofondi tra le spalle, ma la situazione non migliora. Quelle immagini, quelle tremende immagini gli tornano alla mente prepotenti.
<< E’ la morfina. Sta iniziando ad aprire i cassetti segreti del mio Mind Palace >> sussurra tra i singhiozzi.
<< Cos’è il Mind Palace? >>.
Sherlock trasale alla domanda di Mary. Non l’ha sentita salire le scale, non si è reso conto di come fosse ferma alla porta. Lo guardano curiosi, gli occhi vispi della sua versione bambina.
<< Hai gridato. Tante volte >> gli dice avvicinandosi alla sedia posta accanto al letto, sulla quale si abbandona.
<< Ho avuto un incubo, Mary. Mi dispiace >> dice prontamente. L’ultima cosa che vuole e attivare la parte violenta. Non la reggerebbe dopo l’incubo appena avuto. Sarebbe un’insana continuazione nel mondo della realtà e sente che impazzirebbe del tutto se accadesse.
<< Ti dispiace di aver avuto un incubo? >>.
<< Sì, però mi dispiace di più di averti svegliata >> dice cauto.
<< Non stavo dormendo >> gli dice ridacchiando. << Io non dormo mai >> aggiunge tutta sorridente.
<< Perché? >> gli chiede, stupito di questa caratteristica che li accomuna, benchè lui, in verità, più che non dormire mai dorma poco.
<< Non voglio questo >> dice indicandolo.
<< Anche tu se dormi hai incubi? >> le chiede e uno spasmo lo scuote da capo a piedi, ora che la tensione lo sta lasciando e il corpo si raffredda. Mary toglie lo scialle che ha avvolto attorno alle spalle e glielo posa dolcemente attorno alle spalle. Sherlock prova un immenso benessere al tepore di quell’abraccio caldo.
<< Grazie >> sussurra commosso stringendo lo scialle con le mani per sentirlo più saldamente sulla pelle.
<< Raccontami il tuo incubo >>.
<< Non è bello da sentire >> scuote il capo Sherlock che non ci pensa nemmeno di rivivere tutto quanto.
<< Se lo racconti se ne andrà >> lo incoraggia con un sorriso. Sherlock la guarda a lungo. Ha sciolto i capelli, che solitamente tiene legati in una crocchia stretta, e ora le ricadono attorno al viso. Nella penombra della luce della neve che vibra contro la finestra, quel volto grezzo, che si rabbonisce quando è la Mary bambina a muovere il corpo massiccio, assume toni che dovrebbero essere terribili ma che lui ora trova essere ancora più dolci. << Io lo faccio sempre >>.
<< A chi li racconti? >> le chiede stupito, dal momento che non ha mai sentito nessun altra anima viva presente nella casa.
<< Alle mie bambole. Ne ho cinque nella mia cameretta e loro mi ascoltano e fanno andare via l’incubo >>.
Sherlock sorride ripensando al suo teschio. Non gli parlava dei suoi incubi, bensì condivideva con lui le teorie sui casi. Questo lo ha sempre ascoltato senza mai ribattere, aiutandolo notevolmente, deve ammettere, a trovare il bandolo della matassa.
La donna gli prende con dolcezza la mano destra stretta sullo scialle e la tiene tra le sue, così inaspettatamente calde. Annuisce invitandolo ad aprirsi.
<< Ho sognato mio padre >> dice stringendole la mano. << Lui… era un mostro >> si ferma, la gola stretta dal magone. << Ha ucciso mia madre e il suo amante[1] e ci è mancato poco uccidesse anche me >>.
Sherlock porta la mano sinistra alla nuca senza accorgersene. Sente sotto le dita la spessa cicatrice che gli aveva dato il tormento nei primi giorni dopo il risveglio dal breve periodo di coma.
<< Oh >> sussurra Mary. << Eri piccolino? >>.
<< Avevo cinque anni. E’ stato un sogno orribile >> dice in lacrime.
<< Sì >> concorda Mary. Avvicina l’altra mano al volto di Sherlock e leggera asciuga le sue lacrime. << Anche il mio papà era cattivo. E anche i miei fratelli. Pure la mamma, a dire il vero >> aggiunge come se ne rendesse conto solo adesso.
“Sta ragionando senza divenire catatonica” nota Sherlock affascinato da questa cosa nuova e insolita, ma per fortuna priva di pericolo e dolore.
<< Il tuo papà ti chiudeva nello sgabuzzino per punirti? >> gli chiede avvicinando la sedia al letto.
<< No. Mi ci chiudevo io quando non volevo essere trovato. Avevo un nascondiglio segreto in cucina >> le risponde ripensando alla porta in bilico su cardini rotti.
<< Io non sopporto gli spazi piccoli >> sussurra Mary stringendogli dolcemente la mano. << Papà mi ci chiudeva ogni volta che facevo qualcosa che non andava bene. Mi tirava per il braccio e mi chiudeva lì e se piangevo spaventata per il buio e i ragni picchiava la porta dicendo che mi avrebbe ammazzata lui se non avessi smesso immediatamente >>.
Mary sorride. Nonostante la brutalità di quanto gli ha appena detto, sorride. Come fosse una cosa stupida e sciocca quella che faceva suo padre.
<< E a te capitava spesso di fare qualcosa che non andavano bene? >>.
<< Tutti i giorni >> annuisce divertita. << Anche se non capivo cosa non andava >> aggiunge seria portando l’indice al mento. Ci pensa su per qualche istante per poi scuotere il testone, sorridendo divertita. << La tua mamma ti voleva bene? >> gli chiede toccando un altro argomento caldo.
<< Io… non lo so. Credo di sì. A modo suo. Lei… non era molto affettuosa. Le piacevano i miei capelli >> dice abbozzando un sorriso.
<< Ha ragione sono belli >> ride Mary scostandogli piano un ciuffo ormai arido caduto a coprirgli l’occhio sano. << La mia mamma non rideva mai. Urlava sempre e mi picchiava tanto. Papà non mi ha mai picchiata, la mamma, invece, tante volte >> dice imbarazzata.
<< Perché ti picchiava? >> le chiede, stordito dal suo modo sbagliato di raccontare queste cose. Dovrebbe piangere, essere triste o al massimo atona e inespressiva e invece ride, sorride e si imbarazza vergognosa.
“Non ha senso!” grida la sua mente sconvolta.
<< Perché sono distratta e maldestra! >> dice riportando sicuramente ciò che le diceva di continuo sua madre. << Se facevo cadere una tazza per sbaglio volava una sberla. Se stendevo male anche solo un vestito del bucato appena fatto mi prendeva a calci. Se non finivo in tempo le commissioni che mi assegnava e se non erano come lei le voleva erano cinghiate. Io mi impegnavo tanto per fare tutto bene, ma le cinghiate arrivavano lo stesso. Sono proprio una frana >> ride divertita e non è una risata isterica. No. È una risata di vero divertimento.
“Non ha senso!” ripete Sherlock tra sé, sentendo lo stomaco chiudersi sempre più.
<< Tu vuoi bene ai tuoi genitori, Mary? >> le chiede senza neppure sapere perché lo stia facendo.
<< Oh, sì! >> risponde come si aspettava facesse. << Loro sono buoni con me. Avrebbero potuto uccidermi, lo dicevano sempre, e invece non lo hanno mai fatto >> ride allegra. << Tu, invece, al tuo papà non gli vuoi bene, vero? >>.
<< Lo odiavo. L’ho sempre odiato >> ammette.
<< Beh, sì, lui ci ha provato davvero ad ucciderti >> sentenzia con una logica tutta sua, molto bambina. Sherlock ha avuto un padre violento e una madre assente, ma per quanto la sua infanzia non sia stata rose e fiori è lontana anni luce da quella fatta di continue violenze che Mary gli sta raccontando. Un racconto che non è frutto della sua fantasia, ma che sente corrispondere alla realtà che questa donna si è ritrovata a vivere nella desolazione di questo luogo sperduto e isolato dal mondo.
<< Hai fratelli, tu? >> gli chiede.
<< Sì. M…Myke >> dice ricordandosi al pelo della copertura che adotta ancora.
<< Uno solo! >> esclama sorpresa. << Io ne ho cinque >> dice orgogliosa.
<< Cinque fratelli? Sei l’unica femmina? >>.
<< Sì, la più piccola. Freddie mi diceva sempre che sono nata per sbaglio, che mamma non ne poteva più di avere figli e quando ha scoperto di me ha tentato di abortire ma non c’è riuscita. Per questo sono nata scema >>.
<< Oddio >> esclama Sherlock inorridito. << E’ una bruttissima cosa da dire >>.
<< Ma no, lui scherza >> ride divertita. << Ai miei fratelli piace tanto giocare con me >>.
Sherlock vorrebbe dirle di smetterla di parlare della sua famiglia di pazzi sadici, ma Mary sembra aver tolto il tappo e teme che ormai lo consideri come una delle sue bambole, costretta a stare lì ad ascoltarla raccontare i suoi incubi. Solo che quelli non sono sogni frutto di un inconscio tormentato, ma la cruda e crudele realtà.
<< E dove sono ora i tuoi fratelli, Mary >> gli chiede e la donna si zittisce all’improvviso. Sherlock teme di aver fatto un passo falso e che adesso cadrà in trance e ne uscirà la Mary violenta che porrà fine una volta per tutte alle sue sofferenze. Invece, la bambina scuote il capo e fa spallucce.
<< Io non lo so, Edward. Erano qui e poi non c’erano più. Penso siano andati via. Loro erano più grandi e lavoravano. Quando papà è morto non è più venuto nessuno qui a farsi visitare e quando è morta la mamma sono rimasti solo loro e poi… e poi sono rimasta solo io >>.
La prima espressione autentica di tristezza. Un broncio da bambina angosciata. Il labbro inferiore inizia a tremare, ma Mary strizza forte gli occhi e quando li riapre è di nuovo tutta felice.
<< Ora, però, ci sei tu qui con me >> gli dice e nel modo in cui gli stringe le mani, nella dolcezza del suo sguardo, nell’infinita tenerezza che è in grado di suscitare la versione bambina di questa donna, Sherlock si rende conto che non lo lascerà andare. No. Neppure quando la gamba guarirà, sempre ammesso che lo regga ancora in piedi. Neppure quando la tormenta finirà e la neve si scioglierà. Non gli permetterà di lasciarla sola di nuovo.  
 
 
Buon anno a tutti voi!
Che sia un anno di gioia e che vi porti ciò che desiderate
Ci vediamo il 7 gennaio
Patty
 
[1] Citazione da ‘La soluzione sette per cento’ di Nicholas Meyer.

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Capitolo 7
*** 23 novembre ***


 
Buona sera a tutti!
Avevo detto il sette, ma ho pensato di vestire i panni della befana e mettere nella vostra calza questo nuovo capitolo. Spero vi piaccia.
Buona epifania a tutti voi.
A presto
Patty
 
23 novembre
 
John è fermo al bordo del precipizio. Non riesce a distogliere lo sguardo dall’auto che si scorge appena, mezza sommersa dalla neve. Degli uomini, calati con corde da arrampicata, la stanno disseppellendo nel tentativo di scoprire chi la occupa.
Sono passati cinque giorni da che la bufera ha concesso loro una tregua. Giorni nei quali ci sono state ancora blande nevicate che hanno poi lasciato il posto a un grande freddo tagliente. Hataway si è visto costretto a concedere a John e Greg un gatto delle nevi che li portasse fino allo Ski Club e lì hanno scoperto la prima triste verità.
<< Il signor Holmes? Io… io credevo fosse giunto al comando di polizia. Ha lasciato il Club il 10 novembre al mattino a bordo dell’auto che aveva noleggiato >>.
 Noleggiata a nome Edward Nolton, avevano scoperto. Stava agendo sotto copertura, gli ha spiegato Hugh Paddington, per poter svolgere le sue indagini indisturbato.
<< Quella maledetta fossa. Holmes ha ipotizzato potesse essere stata opera di uno dei miei ex inservienti, il vecchio Stilton. L’ho mandato via perché si era opposto con tutte le sue forze agli inizi dei lavori, dicendo che la zona dove volevamo costruire la nuova succursale del Club era friabile e sarebbe crollato tutto quanto. L’architetto non era d’accordo e neppure il geologo che abbiamo contattato e quando è venuta fuori la fossa anche Hataway è andato a bussare alla sua porta per sapere se per caso c’entrava qualcosa con quei corpi. Lui ha smentito e quell’idiota gli ha dato retta. ‘E’ un po’ svitato, ma da qui ad essere un assassino ce ne passa, Hugh’, mi ha detto. Il signor Holmes, invece, ha preso la cosa sul serio e per questo ha deciso di indagare sotto copertura. O almeno così mi ha detto >>.
John si sta quindi preparando. Perché quegli uomini potrebbero estrarre dall’auto un corpo che non somiglia affatto a Sherlock e che lui solo quando se lo sarebbe trovato davanti avrebbe, invece, potuto affermare il contrario. Un brivido lo percorre e il dottore rincalza sciarpa e cappello nel tentativo di vincere il gelo di queste montagne. Greg, fermo alle sue spalle, osserva a sua volta le operazioni di recupero. La targa del veicolo è saltata a causa dell’impatto e per il momento possono solo constatare che l’unica corrispondenza è il modello preso a noleggio.
<< Pensi sia il caso di avvertire suo fratello? >> gli sussurra.
<< Inutile sperare in un miracolo, Greg: quella è l’auto che Sherlock ha noleggiato ed è là sotto da troppo tempo per sperare che sia rimasto vivo >> dice gelido John. Greg lo guarda stupito, ma non può fare a meno di annuire. << Se non l’ho ancora chiamato è perché non voglio Mycroft Holmes tra i piedi. Sarei troppo tentato di gettarlo da un dirupo e non mi va di finire il resto dei miei giorni dentro a causa sua >>.
<< Sì, direi che non ne vale proprio la pena, John >>.
Il detective gli posa la mano sulla spalla e il dottore lentamente si volta verso di lui. Sta cercando di mantenere un dignitoso contegno, nonostante dentro si scateni una bufera degna di quella che li ha da poco lasciati. Un contegno che porta avanti dal momento in cui Hugh Paddington ha confermato i suoi sospetti. Sherlock era davvero andato via dal Club ed era finito fuori strada. Quell’immagine che aveva tenuta sopita e subito ricacciata negli abissi del suo inconscio quando timida saliva agli occhi della sua mente, si è avverata. Ci sono voluti due giorni per convincere Hataway a iniziare le ricerche. Altri due per trovare il punto esatto dal quale è volato giù. Un altro per distinguere la ruota anteriore destra emergere dalla coltre bianca e soffice. Fino ad oggi, giorno in cui una squadra di volontari del posto si  è decisa a calarsi giù per vedere a chi appartiene l’anima che la montagna ha reclamato.
<< Greg >> sussurra John sentendo sgretolarsi la maschera di fredda e logica razionalità che ha fin ora indossato. Accetta la spalla che il detective gli offre e ci posa la fronte. Gli ci vuole un po’ per esplodere nel pianto, per stringersi al suo amico con gesti nervosi, scossi da singhiozzi convulsi. Hataway e i suoi uomini gli scoccano appena un’occhiata girandosi poi rispettosi dall’altra parte, ma a John non gliene frega nulla di cosa stia pensando quella gente. Il suo migliore amico, l’uomo che ama, è morto. In un modo così stupido, dopo tutte le bravate e le avventure che ha vissuto, che gli fa rabbia.
<< Fuori strada, Greg. È finito fuori strada! Uno come lui che muore per un banale incidente stradale causato dalla neve! >> grida contro la spalla del detective che si limita a tenerlo in piedi, incapace di dire niente.
<< Ehi lassù! >>.
Dabbasso giunge un grido e John trattiene il respiro. Sa che stanno per dirlo, stanno per annunciare di aver ritrovato il corpo di un uomo, la cintura di sicurezza ancora inserita e l’airbag esploso a coprirgli il volto.
<< Non c’è nessuno qui! >> grida, invece, uno dei soccorritori. John si stacca svelto da Greg. Asciuga il viso sporgendosi dal limitare del burrone.
<< Come sarebbe a dire nessuno? >> grida guardando accigliato gli uomini che hanno liberato quasi del tutto l’auto dalla neve. Questa si presenta capovolta. Le quattro ruote ben in vista.
<< Che non c’e nessuno al volante, questo vuol dire >> ribatte uno di loro.
<< E’ sbalzato fuori? >> chiede Greg.
<< Non ne ho idea. L’airbag è esploso, ma la portiera è chiusa >>.
<< Questo non vuol dire niente, potrebbe essersi chiusa cadendo >> borbotta John.
<< Tom, continuate a scavare. Dobbiamo trovare il corpo >> dice loro Hataway.
<< Ma potrebbe essere finito ovunque, Jason >> grida di rimando uno di loro. << Hai idea di quanta neve ci sia qui? >>.
<< La vedo la neve, Bryan. Continuate a cercare, non voglio tenermeli qui fino a primavera >> dice indicando Greg e John. Gli uomini lanciano occhiate torve ai due londinesi, ma continuano a scavare. Se ne aggiungono altri che li aiutano a imbragare l’auto e ben preso arriva una gru per poterla riportare su strada.
<< Immagino vogliate controllarla >> dice loro Hataway con stizza.
<< Ottima deduzione, collega >> ribatte Greg.
Trascorre l’intera mattinata prima che il Suv venga riportato su strada e riposizionato con le quattro ruote a terra. Greg e John non perdono tempo nell’esaminare il veicolo, ammaccato sul lato sinistro. Il faro è stato totalmente distrutto dall’impatto violento.
<< Deve aver sbattuto contro quell’albero >> dice Greg indicando un albero dal fusto ampio in bilico tra la strada e il precipizio. Va a togliere lo strato di neve depositato sul tronco e vi trova i segni della vernice.
<< L’impatto deve aver spezzato quel grosso ramo che ha rotto il parabrezza >> continua Hataway indicando il ramo enorme scivolato poco più in là e frenato da un altro albero.
<< Una squadra di tecnici saprebbe fare meglio >> sussurra Greg osservando la cintura di sicurezza del lato guidatore che sembra essere stata sganciata volontariamente.
<< Non è tanto quello che c’è ad essere importante, Greg, quanto quello che non c’è >> dice John, che mentre i due poliziotti cercavano di capire come fosse andato l’incidente ha aperto gli sportelli posteriori e il cofano.
<< Cosa vuole dire, dottore >> domanda Hataway divertito dalla sua buffa affermazione.
<< Paddington ha detto che Sherlock aveva con sè una valigia. Il trolley che è solito usare quando viaggia per lavoro. Solo che non c’è da nessuna parte >>.
I due poliziotti si guardano stupiti. Spostano il dottore per controllare a loro volta i sedili posteriori e il portabagagli.
<< Non può essere caduta nell’impatto. Sherlock è metodico, non metterebbe mai una valigia in un posto diverso da un portabagagli >>.
<< Proprio così, Greg! >> esclama John. << Se il trolley non c’è vuol dire che qualcuno l’ha  preso >>.
<< Questo è impossibile, dottore? >> esclama Hataway. << Ha visto anche lei dove si trovava l’auto e non riesco a credere che qualcuno rischierebbe la vita per soccorrere uno sconosciuto o per derubarlo >>.
<< Io… io non credo che ci sia finita subito l’auto nel dirupo >> dice John, gli occhi fissi sul fusto dell’albero contro il quale l’auto ha impattato. << E’ rimasta in bilico, Greg >> dice correndo al tronco. << E’ rimasta in bilico e deve essere poi franata giù, spinta dalla bufera >>.
<< Questa è solo un’ipotesi, dottore >> ribatte Hataway. << E non toglie il fatto che, se anche fosse, il suo amico non sarebbe comunque sopravvissuto alla bufera per tutto questo tempo restando all’aperto >>.
<< E se non fosse all’aperto? >> lo sfida John esasperato dal suo remare contro. << Se qualcuno fosse passato da qui prima ancora che la bufera infuriasse e lo avesse soccorso? >>.
Hataway ridacchia scuotendo il capo.
<< Lei non vuole proprio rassegnarsi, eh? >>.
John non ce la fa a restare indifferente a questa ennesima risata sardonica. Afferra il poliziotto. per il bavero della giacca con una forza tale da tirarlo su da terra e spingerlo contro un albero. L’impatto è tale che alcuni cumuli di neve cadono dai rami impolverando loro le giacche.
<< Mi stia a sentire >>, ringhia John tenendo premuto l’uomo contro il tronco dell’albero, << io non so come si comporti lei con gli amici, ammesso che ne abbia, ma io sono solito non perdere le speranze finchè non ne vedo il corpo esanime con i miei stessi occhi! Ho scandagliato il deserto afgano e le città rovinate dalle bombe alla ricerca dei miei commilitoni quando ero in guerra e non ho mai perso la speranza di ritrovarli vivi finchè, purtroppo, non ho constatato il contrario. Ne ho tratti in salvo tanti grazie alla mia scarsa capacità di rassegnarmi dinanzi a quella che per lei è l’evidenza dei fatti! Quindi, ora mi farà il favore di smetterla di agire con sufficienza e di lasciarmi cercare il mio amico. E se non vuole sprecare fiato e uomini per aiutarmi se ne vada pure a fanculo con tutto il suo seguito, sono in grado di cavarmela da solo qui >>.
Lo lascia andare e con sorpresa Hataway tocca il terreno dal quale era stato separato per un abbondante numero di centimetri. Si sistema la giacca alzando lo sguardo verso John che non ha distolto per un solo istante gli occhi dal suo volto.
<< Lei è stato in Afganistan, dottore? >> .
<< E’ quello che le ho appena detto, sì >> ribatte acido.
<< Con quale grado? >>.
<< Capitano del fucilieri Northumberland, ma cosa c’entra questo adesso? >>.
<< Mio fratello c’è morto in quella merda di deserto >> aggiunge storcendo il naso. << Disperso, così hanno detto. Se fosse stato ai suoi comandi forse ora sarebbe vivo o almeno avremmo un corpo sul quale piangere >> dice distogliendo lo sguardo. << Umbridge, Southlow, formate una squadra di cinque volontari a testa e battete la zona qui attorno. Cerchiamo il corpo di un uomo tra i trenta e i quarant’anni. Macallister, tu mettine insieme un’altra e fate il giro di tutte le contrade, vediamo se qualcuno lo ha soccorso e se lo è portato a casa. Le strade verso l’ospedale sono impraticabili quando nevica a questo modo. Un tempo chi stava male si recava dal dottor Liland Abbott. Mary scende ancora all’emporio di Jo per le compere, Mac? >>.
<< Sì, capo. Ancora non si è vista da quando la bufera ha smesso di romperci i… >>.
<< Ok ok, fai un salto da Jo e digli di avvisare chiunque giunga da lui che siamo alla ricerca di un uomo. Ha una sua foto, Capitano? >>.
John è ancora stupito da quest’improvviso cambiamento. Ci mette un attimo a scuotersi prima di rispondere.
<< Era sotto copertura, ispettore. Il che vuol dire che si sarà reso irriconoscibile. Era in grado di farlo >>.
<< Non so come possa essere possibile, ma ad ogni modo dopo tutti questi giorni qualunque travestimento si sarà estinto. Ovviamente nel caso in cui sia ancora vivo >>.
<< Ovviamente >> fa eco John. << Non ho una foto con me, ma possiamo recuperarla dal mio blog >>.
<< Perfetto. Torniamo in centrale, allora. Ne stamperemo un po’ da distribuire nelle contrade e da appendere nei punti di ritrovo. Se il suo amico è vivo, Capitano, lo troveremo. Le voci corrono veloci in un paese così piccolo >>.
<< La ringrazio, ispettore >> gli dice tendendogli la mano. L’uomo la stringe di sfuggita avviandosi poi all’auto.
<< Questo Abbott, il mio collega… >>.
<< E’ morto >> lo interrompe. << Sono ormai cinque anni. E’ scivolato sui gradini ghiacciati della cantina di casa sua e si è rotto l’osso del collo. Il figlio maggiore, Jack, è venuto a chiamarmi. Una tragica disgrazia. Era bravo. Pessimo carattere, mano pesante sui figli, anche, ma ci sapeva fare col suo lavoro. Ha salvato molte vite e altrettante ne ha fatte nascere. La sua casa si trasformava in un vero e proprio ospedale in stagioni come questa. Ci manca la presenza di un medico, qui. Il più vicino, quando Keswick è irraggiungibile, è a Penrith, non proprio dietro l’angolo >>.
 
***
 
Sherlock si sveglia nell’improvviso silenzio. Un silenzio pesante. Spettrale. Dopo giorni di vetri perennemente vibranti e scossi dalle ire del vento, di spifferi urlanti e agghiaccianti, di scricchiolii del legno, a volte così forti da far temere che tutto potesse crollargli addosso da un momento all’altro, ora regna il silenzio.
Si mette a sedere sul letto e si guarda attorno disorientato. La gamba rotta gli manda un formicolio doloroso attutito dalla morfina, ma comunque capace di bloccarlo lì.
<< Mary! >> chiama e la sua voce riecheggia nella stanza.
Non ottiene nessuna risposta dabbasso. Nessun tonfo di passi sgraziati a far scricchiolare gli scalini.
<< Mary! >> ripete, mentre il cuore gli batte forte nel petto.
Da solo nel silenzio. No. Non ci vuole stare. È troppo strano.
<< Mary!! >> grida in preda a un panico nascente, scostando le lenzuola pronto a scendere dal letto e chi se ne frega della gamba in trazione, del dolore, dei rimproveri da parte di lei, anche.
<< Mary!! >> urla e finalmente qualcosa si muove.
Passi accelerati. Forse sarà arrabbiata, forse lo picchierà, perché l’ha di certo disturbata e arriverà la Mary cattiva e non la bimba dolce e premurosa. Non importa. Quei passi veloci lo rincuorano. Torna a coprirsi sentendo improvvisamente freddo. I brividi lo scuotono da capo a piedi. Eccola giungere al pianerottolo, scostare la porta in modo brusco e volgere a lui due occhi preoccupati e vispi.
<< Edward, che succede? >> gli chiede la Mary bambina e, sentendosi il più grande degli idioti, Sherlock si scioglie in lacrime. Lei si avvicina e, con questa nuova delicatezza che gli mostra dal giorno della rasatura, gli posa la mano tra i capelli nel tentativo di rincuorarlo. Sherlock prontamente la afferra e vi affonda dentro il viso sentendo profumo di pino, di ferro e di segatura.
<< Stavi tagliando la legna, per questo non mi hai sentito subito >> dice abbandonandosi in quella mano enorme piena di calli, ma così confortevole. Lei si stupisce, come si era stupita il giorno prima quando per la prima volta ha assistito alle sue deduzioni.
<< Esatto >> sorride come se le avesse appena mostrato un gioco di prestigio. << Perchè mi hai chiamata, Eddy? Che succede? >>.
<< Il silenzio. Mi ha spaventato tutto questo silenzio >>.
<< Oh, sciocchino >> ridacchia Mary, muovendo la mano contro il suo viso. << La bufera è finita. c’è sempre silenzio quando finisce >>.
<< E’ terribile! >> dice aggrappato a quella mano, per nulla intenzionato a staccarsene.
<< Non ti piace il silenzio? >>.
<< No. Lo odio. È come essere sordi. Si perdono i punti di riferimento e sembra sempre che qualcosa debba accadere da un momento all’altro. Non sto mai nel silenzio, mai >>.
<< Penso che in città nessuno ci stia veramente mai nel silenzio >> dice, tirando fuori uno di quei ragionamenti sensati che Sherlock da poco ha scoperto la Mary bambina sappia fare.
<< Mi manca il mio violino >> singhiozza strizzando gli occhi che riversano altre lacrime.
<< Suoni il violino? >> esclama Mary con un gran sorriso sulle labbra. Sherlock annuisce. << Aspetta qui >> gli dice togliendo bruscamente le mani dal suo viso. A nulla vale il tentativo di trattenerla. Si libera di lui con semplicità nonostante la sua stretta fosse forte.
“Sherlock, ma che ti sta succedendo?” gli domanda John, con più di una nota di preoccupazione nella voce. Il consulente non gli risponde. Ha fatto parecchi sogni in questi giorni. Gli effetti collaterali dell’assunzione di morfina per un periodo troppo prolungato hanno iniziato a farsi sentire con questa perenne sonnolenza.
Nei sogni è tornato a molti episodi del suo passato. Da alcuni di questi si è svegliato affannato, da altri in lacrime, da altri ancora persino gridando. Ha sempre trovato Mary bambina seduta sulla sedia. Una pezza umida in una mano pronta a tergergli il sudore e un bicchiere d’acqua nell’altro.
La presenza di questa versione di Mary lo ha allertato all’inizio. Col tempo, invece, e col susseguirsi dei bruschi risvegli, si è abituato a lei, ai suoi sorrisi, alle sue premure che lo hanno rassicurato parecchio. Le ha raccontato i suoi sogni sentendo il bisogno di parlare e Mary lo ha ascoltato rapita, come una bambina che ascolti una favola prima di andare a dormire. Solo che i suoi racconti non sono favole. Quei sogni sono brandelli della sua infanzia. La brutalità di suo padre. La morte di sua madre. L’assenza continua e le prese in giro di suo fratello. Il bullismo subito a scuola.
Mary, finito il racconto, gli ha parlato dei suoi di incubi. Pezzi del passato di una donna con la quale Sherlock ha scoperto di avere molte cose in comune. Gli incubi di Mary sono più grandi dei suoi e Sherlock ha faticato ad ascoltarli. Avrebbe voluto avere la forza di alzarsi e andarsene, ma, nonostante Mary lo faccia mangiare regolarmente e con meno minacce e punizioni, adesso, Sherlock è preda di costanti capogiri e di una nausea che spesso gli impedisce di ultimare le portate. Per fortuna, ora Mary capisce la situazione e non insiste. Negli ultimi giorni, poi, un costante mal di testa non lo ha mai abbandonato e la stanchezza l’ha fatta da padrona. Si trova, quindi, costretto a restare lì, ad ascoltare i suoi racconti terribili, durante i quali Mary gli tiene sempre stretta la mano sinistra con la sua enorme e callosa. E’ come se volesse tenerlo lì, fermo in quella realtà fatta di sonnolenza e veglia breve, tanto da rendere difficile capire quale sia il sogno e quale la realtà
“Devi reagire, Sherlock! Sei qui da molto tempo ormai. Smetti la morfina e reagisci!”.
Sherlock, però, non ha alcuna voglia di seguire i consigli John. Soprattutto perché gli ultimi sogni tristi e angoscianti hanno avuto lui come protagonista. Lui e ciò che è accaduto quel sabato sera. Non ha potuto raccontare di questi sogni a Mary. È ancora abbastanza lucido da ricordare la violenza con la quale ha minacciato la sua omosessualità. Ha, allora, reso al femminile il nome di John facendolo diventare una ex che, nemmeno a dirlo, Mary odia con tutta se stessa.
<< Meriterebbe di morire! >> dice, assumendo l’espressione feroce della Mary cattiva. Sherlock non apprezza queste esclamazioni, ma sotto sotto lo appaga sentire un'altra persona riconoscere che quello di John non è stato il comportamento migliore che si potesse avere. 
<< Per fortuna poi hai conosciuto Molly >> gli ha detto al termine di questi racconti sui sogni riguardanti John, e Sherlock ha notato una tristezza sul viso di lei così profonda da intenerirlo.
“Stai impazzendo, fratello mio!”.
Sherlock ignora anche le constatazioni ben poco amichevoli di Mycroft. Sì, è possibile che stia impazzendo. Che la costante presenza di morfina nel suo corpo e la presenza di una donna pericolosa stiano agendo in modo malsano sul suo brillante cervello al punto da farlo uscire di senno.
“Oh, Sherlock, sarebbe poi una cosa tanto riprovevole?” gli ha domandato Moriarty con quella risata perenne nella voce. “Tutti i migliori sono matti[1], non lo sai?”. Il consulente criminale, intrufolatosi nella sua mente, ha riso e, colto di sorpresa dalla sua presenza, Sherlock si è unito anche lui a quella risata priva di senso.
“Perché no?” si domanda ora. “Perché non potrebbe essere così?”. Gli hanno sempre dato del matto, in fin dei conti. Per il suo modo di vedere il mondo, per i toni che usa nel rivolgersi alle gente e per tante altre innumerevoli cose.
“La gente definisce ‘matte’ le persone capaci di fare ciò che loro non hanno il coraggio di agire” gli fa notare adesso Moriarty, ricomparendo tra i suoi pensieri. “Tu osservi e per questo sei ‘matto’. Fai uso di droghe e per questo sei ‘matto’. Non mangi e non dormi per stare dietro ai tuoi casi e per questo sei ‘matto’. Ti piacciono gli uomini e per questo sei ‘matto’. Stai rinnegando le voci di tuo fratello e di Johnny boy e per questo sei ‘matto’” .
<< Già >> constata. << Mycroft mi dice costantemente cosa fare e mi scredita in continuazione, ma non è matto. John mi scopa per poi dirmi che è stato uno sbaglio, ma non è matto. No >> sussurra con un ringhio sommesso. << Il ‘matto’ sono io che voglio essere libero di esprimermi. Io che mi sono innamorato di quell’idiota! >>.
“Esatto” lo applaude Moriarty ridendo. “E’ così che funziona, mio caro. Ti usano per i loro comodi e poi ti buttano via. Come un giocattolo rotto. Come una sudicia puttana”.
Quelle parole sono un pugno nello stomaco, forte al punto da togliergli il fiato. Una puttana. Sì, è così che si è sentito, anche se non ha mai avuto il coraggio di dirlo anche solo a se stesso. Una sciocca ragazzina innamorata usata come la più economica delle puttane. Ed è stato proprio questo amore a rendere basso il suo prezzo.
<< Mai che si facesse scappare un’occasione, il nostro John, o che non perdesse tempo per crearsela. Cadono tutti ai suoi piedi. Cosa mai avrà di così attraente? Sarà che nella botte piccola c’è il vino buono >>.
La risata volgare del commilitone molto più che alticcio di John gli risuona nella testa. Era stato lui a prenderlo di peso e trascinarlo con loro in quel sudicio pub. Lui a rifornirlo di alcol, a stargli addosso, a metterlo in imbarazzo. E John non aveva detto nulla in sua difesa, anzi, aveva ridacchiato divertito e si era finto imbarazzato dalle parole dei suoi ex camerati. È possibile anche che fosse tutto preparato. Sì, è possibile che sia caduto in una trappola, proprio lui, il brillante consulente investigativo. Che John, avvezzo a sedurre e abbandonare, come i suoi amici hanno tenuto a sottolineare, avesse chiesto loro di aiutarlo a portarsi a letto il suo coinquilino. Aveva bisogno del loro aiuto per poter poi inscenare la parte della vittima delle circostanze, dando magari a lui la colpa per aver bevuto ed essere stato, come suo solito, fuori luogo, invadente, ‘matto’, appunto. Un modo comodo per poter mantenere il suo posto nel loro alloggio e, magari, anche al suo fianco durante le indagini. È solo quello che gli interessa, infondo, di lui. La possibilità di vivere pericolosamente datagli dai casi che lui accetta di risolvere.
E chissà, forse ‘tre continenti Watson’ quel singolo caso rimarcato come sbagliato e da non ripetere mai più avrebbe fatto in modo di farlo accadere nuovamente, per poi dargli sempre la colpa.
Sì, perché a guardarli ci vuole poco a dirsi sicuri del fatto che sarebbe stato il consulente a tentare di sedurre il dottore, non il contrario. È lui quello ‘matto’, il freak, mica il valoroso soldato. John, che si sarebbe garantito, così, la dose di adrenalina e pericolo e la scopata occasionale senza neppure dover andare a cercala in giro. E Sherlock, povero sciocco, avrebbe elemosinato le sue attenzioni, sperato nelle sue avance e si sarebbe illuso che, infondo, quello potesse essere amore.
“I sentimenti sono un difetto chimico della parte che perde” dice Moriarty. “Non dovresti permettere che il cuore guidi la tua testa. Ho sempre sostenuto che l’amore fosse uno svantaggio pericoloso”.
<< Anche io, e ringrazio John Watson per avermene dato prova >> ribatte risoluto. Freddo. Sì, sente di essere gelido. Prova solo disgusto. Neppure rabbia, no, la rabbia è calda, accende, infiamma. Il disgusto crea il gelo, come i sudori freddi che seguono il conato di vomito. Lo stesso disgusto che aveva provato per se stesso nel sentire ancora sulla pelle l’odore di John, nel sapere di avere dentro di sé i suoi fluidi corporei e quelli ci mettono giorni prima di andarsene via.
“Li hai addosso ancora adesso, in un certo senso!” sghignazza Moriarty.
<< No! Questo no! >> ringhia colpendo con un pugno le coperte. << Non lo voglio più! Lui non esiste più! >>.
“A davvero?” lo canzona James. “Io, invece, credo che ti resterà addosso, come una malattia venerea. Un herpes che resta latente sotto la pelle per comparire quando meno te lo aspetti”.
<< Smettila! >> grida picchiandosi la testa.
<< Eccomi qua! >> entra Mary allegra nella stanza. Sherlock sente il sangue montare alla testa e alza lo sguardo pronto a urlarle contro. Il grido, però, gli muore in gola. Quel donnone spaventoso stringe nella mano la custodia impolverata di un violino. << Era del mio nonnino >> dice allegra. << Non so se suona ancora, è lì buttato da anni. Tu forse puoi farci qualcosa >>.
Gli porge delicata quell’oggetto malconcio e Sherlock lo prende con la stessa delicatezza. Posa la custodia sul ventre e ne fa scattare i gancetti. Uno sbuffo di polvere si solleva mentre apre piano il coperchio scoprendo un violino bello e prezioso quasi quanto il suo.
<< Oddio, Mary… è bellissimo >> sussurra commosso. Un nodo gli stringe la gola e le mani gli tremano mentre accarezza il legno vivo, le corde tese. << Posso davvero? >> chiede alla donna che annuisce guardandolo con occhi grandi e sorpresi.
Con un po’ di difficoltà estrae il violino dall’alloggiamento e ne pizzica le corde. Come immaginava è totalmente scordato. Inizia ad accordarlo pizzicando le corde e girando le chiavi. Quando si trova soddisfatto prende l’archetto e trascorre alcuni minuti a passare la cera sui crini. Il primo lungo suono che produce facendolo scorrere sulle corde gli accappona la pelle piacevolmente. Mary esclama un ‘oh’ di sorpresa portando le mani al viso e lui le sorride. Da un giro di chiave alla corda e passa ancora una volta l’archetto sulle corde producendo un suono più basso. Mary batte le mani l’una contro l’altra divertita. Lo guarda estasiata mentre suona qualche accordo.
<< Mio nonno suonava sempre ‘Molly Malone[2]’, la conosci? >> gli domanda euforica.
<< Purtroppo no >>, ammette vedendo il sorriso di lei appannarsi, << ma se tu la canti io ti sto dietro >>.
<< Sai farlo davvero? >> chiede stupita. Lui annuisce e sistema il violino sotto il mento invitandola con un cenno del capo a iniziare.
Mary sistema l’abito e si mette in piedi, dritta e con le mani giunge l’una sull’altra davanti al petto, come una bambina diligente che si appresti a recitare la poesia di natale. Con una voce inaspettatamente limpida, intonata e bella inizia a cantare di questa ragazza irlandese e Sherlock la segue, recuperando piano piano dal suo Mind Palace gli accordi di questa ballata che scopre di sapere.
Quando la canzone finisce e il violino tace si ritrovano entrambi sorpresi e inspiegabilmente felici. Nel silenzio che ne segue riverberano ancora le vibrazioni dell’ultima nota che si rifrangono contro le pareti, rendendo quell’ambiente freddo e ostile quasi ospitale. Quando i loro sguardi si incontrano una risata allegra nasce spontanea da entrambi e li avvolge, avvicinando i loro animi tormentati.
<< Siamo stati bravissimi >> cinguetta la donna che batte le mani tutta allegra.
<< Decisamente >> ribatte Sherlock, al quale dolgono le guance dal tanto ridere. << Ti ringrazio, Mary. Ne avevo bisogno >> dice volgendo occhi innamorati al violino.
<< Il nonno aveva provato a insegnarmi, ma ho le dita troppo grosse >> dice imbarazzata, nascondendo le mani dietro la schiena. << Rideva sempre dicendo che sembrava stessi usando una sega piuttosto che l’archetto. Lui aveva imparato da solo, sapeva suonare solo poche canzoni, ma le suonava davvero bene e io ci cantavo appresso. Tu, invece, penso che ne sai tante >>.
<< Non proprio >> ammette. << Canzoni popolari ne so poche. Conosco pezzi classici e poi mi diverso a improvvisare a seconda dell’umore e dei pensieri che ho >>.
<< Oh >> sussurra Mary con tanto d’occhi. << Tu lo hai studiato bene, allora >>.
<< No, ho imparato anche io da solo >>.
<< Come nonno! >> esulta lei. << Allora suona come ti senti adesso >> gli chiede sedendo sulla sedia. Pianta i gomiti sulle ginocchia e posa il viso squadrato sulle mani, eccitata all’idea di sentirlo suonare.
Sherlock porta il violino al mento e chiude gli occhi. Resta per qualche istante con l’archetto sulle corde in ascolto. Poi sente un suono. Greve, prolungato, che si propaga dalla spalla al braccio sinistro e sul volto. Quando le vibrazioni giungono al torace allora prende un profondo respiro fecendole espandere da lì alla totalità del suo essere.
Lascia scorrere l’archetto sulle corde, le dita agili sul manico alla ricerca di altre vibrazioni. Immagini diverse si presentano agli occhi della sua mente e le manda tutte quante al violino trasformandole in suoni e vibrazioni. A volte acuti e veloci, altre brevi e lente. Profonde. Evocative.
Quando le immagini finiscono la mente resta vuota e il braccio si ferma. Apre lentamente gli occhi e sbatte più volte le palpebre per mettere a fuoco il luogo in cui si trova. La donna seduta accanto a lui ha il volto umido di lacrime e gli occhi rossi.
<< Sei tanto triste >> sussurra, tirando su col naso. Lo asciuga passandoci su la manica del maglione infeltrito. Sherlock non sa cosa ribattere. Non sente più nulla adesso. Non ha più nulla nella testa e questo è davvero strano.
La musica aiuta a non sentire dentro il silenzio che c’è fuori, diceva Johann Sebastian Bach. È accaduto qualcosa di diverso in lui, però. Ha portato nel silenzio che c’è fuori il vociare dei mille pensieri e le altrettante emozioni che gli vorticavano dentro. Quel silenzio creato dalla neve che tanto lo aveva spaventato, ora che lo ha creato dentro di sè grazie al violino lo lascia… così. Dovrebbe esserne spaventato o anche solo stupito e invece è semplicemente… così.
<< E’ possibile, sì >> ribatte accarezzando lo strumento. Sente lo sguardo della donna su di sé, ma scopre che non lo turba più come pochi giorni prima. Le mani sono intorpidite e lontane, come non fossero più sue. A dirla tutta, percepisce questa sensazione in tutto il corpo. Si accorge appena dello scatto veloce di Mary, balzata in piedi come una molla.
<< Quando sono triste mi faccio una bella torta al cioccolato con tanta panna per tirarmi su. Direi che ce ne vuole una, che ne dici Ed? >> gli chiede e lui fatica a starle dietro. Le volge uno sguardo indifferente
<< Cioccolato e panna? >> ripete valutando la proposta. Non gliene frega nulla, constata. << Perché no? >> le dice abbozzando un sorriso, giusto per farla contenta. Ed è così che la vede reagire alle sue parole. Con contentazza, appunto.
<< Domani vado in paese a prendere tutto quel che serve. Dovevo andarci comunque per fare scorte prima della prossima bufera. Te la senti di stare qui solo per un po’? >> gli domanda divenendo improvvisamente preoccupata. In effetti Sherlock ha fatto una scenata poco prima percependosi solo nel silenzio.
<< Il pensiero della torta mi farà compagnia >> si accorge di dirle, sentendo così lontane quelle parole come fossero pronunciate da qualcun altro. Qualcuno estremamente gentile e accondiscendente.
“Avevi detto che non ti saresti mai adattato per sopravvivere. Che non saresti stato come me” la voce di Mycroft. Lontana. Flebile come un sussurro. Non crede, però, di stare adattandosi a un bel niente. E’ solo che non sente più nulla.
 
 
[1] Citazione da ‘Alice nel paese delle meraviglie’ di Carroll
[2] Inno di Dublino del XVIII secolo

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Capitolo 8
*** 24 novembre ***


 
 
 24 novembre
 
<< No, Jason. Non ho visto questo tipo. Sai bene quanto il paese sia piccolo e quanto la gente mormori qui. Uno straniero… questo straniero avrebbe dato nell’occhio e io sarei, per un verso o per un altro, venuto a saperlo >>.
<< E nessuno, invece, le ha parlato di stranieri in visita da queste parti >> chiede John al titolare dell’emporio dell’ennesimo paesino che ha diligentemente annotato nel suo taccuino.
<< No, Capitano. Né questo né nessun altro. Come ho detto il paese e piccolo e le voci corrono veloci >> ribatte l’uomo facendo spallucce.
<< Grazie comunque, Leslie. Appendo uno di questi in bacheca, se non ti dispiace >> dice l’ispettore, mostrandogli una delle locandine che hanno preparato nella quale la foto di Sherlock con in testa il deerstalker campeggia sopra la scritta ‘scomparso’.
<< Certo, fai pure >> gli dice il vecchio, portandosi alla cassa dove un donnone enorme si appresta a depositare il contenuto del cestino stracolmo sul bancone.
John non riesce a distogliere lo sguardo da lei. Ho un viso così strano e un corpo talmente massiccio da destare una curiosità priva di alcuna educazione, se ne rende conto, ma difficile da ricacciare giù.
<< Sì, non passa certo inosservata >> ridacchia Hataway, che ha notato l’effetto che quella donna ha scatenato in John .
<< Non ci riuscirebbe neppure volendolo >> borbotta John, che ancora la osserva mentre parlotta gioviale con il vecchio.
<< E’ la figlia di Abbott >>.
<< Il mio collega trapassato? >>.
<< Sì, proprio lui. Il vecchio Liland ha avuto quattro maschi prima di mettere al mondo lei. Purtroppo la neonata era grossa e ci sono state delle complicazioni durante il parto che l’hanno resa un po’ tarda. Ha vederla può fare paura, ma è una creatura timorosa e riservata >>.
John annuisce meccanicamente alle parole dell’ispettore. Le mani di questa donna, enormi e piene di calli lo catturano totalmente. Esce dal negozio proprio mentre Hataway strapazza per bene l’ultima puntina sul quarto angolo della locandina.
<< Oh… buongiorno ispettore >> borbotta lei tenendo lo sguardo basso. Fa impressione vedere tanta remissività in una creatura così grande da dare l’idea di potere con un colpo solo atterrare uomini della stazza sua e di Hataway.
<< Buongiorno, Mary. Hai approfittato della tregua per scendere a fare spese, vedo >>.
<< Oh… sì. Gli animali hanno bisogno di cibo e di qualcosa ho bisogno pure io >> risponde arrossendo vistosamente. Scocca occhiate furtive a John che fatica ad abbozzare un sorriso di cortesia.
<< Tutto bene lassù? Avete avuto danni dalla bufera? >>.
<< Nessuno, per fortuna, ispettore >> dice sorridendo imbarazzata. << Può pure risparmiarsi il giro di ronda fin su da noi >> aggiunge rimboccando la sciarpa sulle guance arrossate dal freddo.
<< Ti ringrazio, cara. Avrò più tempo per le ricerche che sto portando avanti con il Capitano Watson. Lui è medico, sai? Come lo era tuo padre >>.
John porge la mano alla donna presentandosi educatamente. Una spiacevole sensazione lo avvolge quando vede la sua mano, già di per sè piccola, scomparire inghiottita da quella enorme e massiccia di Mary.
<< Perché è capitano se è medico? >> domanda curiosa con una vocetta da bambina. John scambia una rapida occhiata con l’ispettore.
<< Perché è stato medico nell’esercito >> risponde al suo posto Hataway con la dolcezza che un padre userebbe ad una figlia.
<< Oh >> esclama stupita. Stringe le mani l’una contro l’altra e i guanti di pelle che ha indosso sfregano tra loro, creando uno scricchiolio poco piacevole. John nota quanto gli vadano stretti. Certo deve comunque essere difficile per lei trovare guanti che non risultino piccoli, anche tra le taglie da uomo.
<< Deve aver nevicato parecchio se hanno mandato l’esercito, ispettore >> osserva, continuando a guardare furtivamente John. Queste sue occhiate brevi e sfuggenti infastidiscono non poco il dottore, cosa alquanto strana data la sua rinomata pazienza proprio con le persone più deboli.
<< Oh, no, Mary >> ridacchia Hataway, porgendo le sue scuse a John con lo sguardo. << Non è più in servizio ed è qui alla ricerca di un suo amico che risulta essere scomparso >> dice indicando la locandina.
La donna si volta e fissa a lungo la fotografia prima di esplodere in una fragorosa risata.
<< Che cappello buffo! >> esclama, trillando come una bambina.
<< Lui non lo sopporta >> ribatte John, che sente il fastidio farsi sempre più.
<< Allora perché lo mette? >>.
<< Perché la prima volta che un giornalista lo ha fotografato lo indossava per cercare di camuffarsi. È dell’idea che un consulente investigativo non debba avere un’immagine pubblica. Gli comprometterebbe il lavoro >> le spiega consapevole del fatto che poco capirà di quel che le ha detto. La donna, infatti, lo fissa attonita. Il dottore, però, si rende conto di non provare alcun rimorso per aver usato parole fin troppo complicate per questa donna con un ritardo mentale evidente.
“Cristo, e la fanno andare in giro da sola” sospira mentre i suoi occhi sono sempre più attirati dai lineamenti parzialmente coperti dalla sciarpa blu e dalle mani enorme costrette nei guanti di pelle.
<< E’ un poliziotto? >> domanda la donna, uscendo dal suo silenzio, mentre riporta lo sguardo alla foto alla quale si avvicina.
<< Non proprio >> risponde John, che vuole solo andare via da lì, dove stanno perdendo fin troppo tempo. La sente tentare di leggere il nome, sbagliando clamorosamente la pronuncia, cosa che gli manda il sangue alla testa.
<< Sherlock. Si chiama Sherlock Holmes >> scandisce. Fulminea sente la mano di Greg posarsi sulla sua spalla sinistra e stringerla. Gli causa una fitta di dolore, affondando le dita proprio nella vecchia ferita di guerra, ma riesce a distoglierlo dalla voglia di riempire di improperi quella mentecatta. Il fatto che questa inizi a ridere di nuovo come una bambina non aiuta per nulla i tentativi del suo buon amico.
<< ha un buffo nome il tuo amico >>
<< Sì, ha un buffo nome e porta un buffo cappello e se anche tu vivessi con lui noteresti tante altre cose dannatamente buffe >> ringhia e questa volta anche l’ispettore sente di dover posare una mano sul suo braccio.
<< Vivete insieme? >> gli chiede, cambiando improvvisamente espressione. Un brivido percorre la schiena di John dinanzi a quegli occhi seri e al viso teso. Non c’è più alcuna traccia della bimbetta timida in questa donna, ora, e ciò che ne ha preso il posto placa i bollenti spiriti del dottore.
<< Siamo coinquilini >> risponde e frammenti di quel sabato sera gli si ripresentano prepotenti alla mente.
“Cosa dovrei fare? Dirle ‘Sì, siamo amanti?’ Non capirebbe, è troppo stupida!” pensa benchè non ci trovi più nulla di stupido in questa donna che si è avvicinata ancora di più alla foto che osserva attenta.
<< Sai, Mary, gli affitti a Londra sono cari e capita che persone che non si conoscono si ritrovino a condividere un appartamento per smezzarsi l’affitto >> interviene Hataway, che non sembra per nulla sorpreso dall’atteggiamento della donna. Questa, però, pare non averlo sentito. A dirla tutta da l’idea di essere divenuta un’enorme, gigantesca statua. John scocca un’occhiata all’ispettore che si ravvede della stranezza di quell’immobilità.
<< Mary, cara, tutto bene? >> le chiede sporgendosi appena verso di lei. Improvvisamente la donna si rianima, muovendosi con una velocità che non ci si aspetta da una persona della sua stazza.
<< Devo andare. Devo dare da mangiare agli animali. Farà buio a breve >> borbotta allontanandosi da loro senza degnarli di uno sguardo. Caracolla a passo pesante e spedito verso un furgoncino. Ne apre il portellone laterale gettando all’interno in malo modo quanto ha acquistato. Sale poi al lato guida e mette in moto.
<< Povera creatura >> sospira l’ispettore.
<< Non mi dirà che vive da sola? >> gli chiede Greg, ancora voltato nella direzione verso la quale si è diretto il furgone.
<< Praticamente sì. I fratelli sono continuamente in viaggio e da quando il padre è morto hanno preso l’abitudine di trascorrere l’inverno altrove. La lasciano a badare alla madre allettata. Un ictus l’ha colpita solo qualche mese dopo la morte del marito. Lei tira avanti come può e le dirò che non se la cava neppure così male. Ha la forza di quattro uomini e certo a volte resta imbambolata in modo inquietante e poi cambia repentinamente umore, ma non è un pericolo né per gli altri né per se stessa >>.
<< Se lo dice lei >> borbotta John che continua ad avere davanti agli occhi quel volto squadrato parzialmente coperto dalla sciarpa blu e quelle mani enormi, forti, possenti.
 
***
 
La porta sbatte e passi pesanti, veloci e che non promettono nulla di buono aggrediscono i gradini. Sherlock posa il violino nella custodia, la chiude e lo fa scivolare a terra.
“Non vedo perché dovresti rimetterci anche tu” pensa, prima di tornare a fissare la porta. “Sapevo che sarebbe successo” sospira, passando una mano tra i capelli. La ricrescita è ormai più che visibile e in paese avrà sicuramente sentito parlare del londinese scomparso. Paddington e Hataway non hanno sue notizie da giorni e, ora che le comunicazioni si sono ricostituite, sarà stato loro possibile parlarsi e rendersi conto che non è mai giunto alla centrale. Avrebbe dovuto impedire a Mary di andare in paese a fare acquisti, ma infondo a cosa sarebbe servito? Solo a ritardare l’inevitabile.
“Tanto vale farla finita adesso”.
Non sobbalza neppure quanto la vede entrare in camera come una furia. Gli occhi fuori dalle orbite, sbuffa come un toro pronto a caricare. In una di quelle mani enormi che si ritrova stringe la cinghia del suo trolley, quello che gli aveva detto non aver recuperato.
<< Io ho perso i miei stivali buoni per salvarti e tu, maledetto, mi hai mentito! >> dice lanciandogli addosso il trolley, che lui prontamente afferra, salvando miracolosamente la sua gamba dal subirne le conseguenze.
<< Anche tu mi hai mentito >> ribatte serafico lui. << Avevi detto di non essere riuscita a recuperare la mia valigia >> dice indicandola ancora stretta tra le sue mani.
<< Questo cosa c’entra? >> ringhia lei facendo un passo in avanti.
<< Quindi è così che funziona? Se mento io non va bene e se invece lo fai tu è lecito? >>.
<< Io ti ho salvato la vita! >>.
<< E io te ne sono grato! >> ribatte a tono, lo sguardo fermo su di lei. << Sì, sono un consulente investigativo, mi chiamo Sherlock Holmes e sto indagando su un caso di omicidio per conto di Paddington, il titolare dello Ski Club. Quando mi sono svegliato non sapevo dove fossi, non sapevo chi fossi né perché mi tenessi qui. Ho mentito per proteggermi, Mary. Tu perché lo hai fatto? >>.
La donna resta immobile, ferma nella formulazione del pensiero complicato che la sua domanda deve aver strutturato in lei. Non ha nessun’arma custodita nel trolley, ma, benchè possa essere poca cosa contro la sua furia, può comunque tentare di usarlo come scudo per proteggersi dai suoi pugni.
“E a cosa servirebbe? Questa potrebbe andare avanti a pestarmi per ore. Non è il tempo quello che le manca” sospira nuovamente apatico dinanzi alla situazione in cui si trova. Con un grugnito Mary torna in sé e batte forte i piedi per terra.
<< L’ho visto il tuo coinquilino >> dice pronunciando con disgusto quell’ultima parola. << E’ lì che ti cerca insieme all’ispettore. Vuole riportare a casa il suo amichetto e io non ce lo voglio un porco pervertito sotto il mio tetto! Il demonio in casa, ecco cosa ho portato, maledetta me >> grida gettandosi su di lui, i pugni chiusi come due martelli che cala feroce sulle sue povere membra.
Sherlock non sente alcun dolore. Tenta di difendersi come può, usando il trolley come uno scudo, ma ben poca copertura gli garantisce quella piccola arma. Mary è su un altro pianeta. Sfoga la sua furia, ecco cosa fa e lui deve solo resistere.
“Per fortuna sono totalmente fatto di morfina!” pensa, sentendo appena un fastidio sordo alle gambe. È come se stesse guardando la scena di un film, uno di quelli in 3D che ti portano a vivere in prima persona la situazione. Osserva con distacco il suo corpo, vede quelle mani calare su di lui, sul trolley che preme contro il suo torace, ma non sente nulla. L’audio è un inarticolato ammasso di grugniti, mugolii e strilli che si mescolano ai cadenzati tonfi dei pugni.
<< Punizione! >> grida Mary, pronunciando finalmente una parola di senso compiuto. Lo afferra per la gamba rotta e lo trascina giù dal letto. Sherlock sente un dolore sordo, ma sopportabile e mugugna appena quando cade giù dal letto. Le flebo alle quali è attaccato si staccano dal supporto e lo seguono come lo strascico del carretto di un robivecchi. La donna borbotta parole prive di significato mentre lo trascina giù per una rampa di scale. Sherlock tiene stretto il trolley al petto e cerca di fare forza sugli addominali per non crollare a peso morto su ogni singolo gradino. Dalle scale viene poi trascinato sulla moquette impolverata che ricopre l’intero corridoio. Sente appena il pizzicore che questa gli provoca sulle natiche nude e sicuramente graffiate dallo sfregamento col terreno.
Finalmente si ferma. Si volta verso di lui e un sorriso terribile le si disegna sulle labbra.
<< L’hai fatta grossa questa volta. Grossa grossa, oooooh sì! >> esclama e spalanca la porta di uno stanzino. Strattona la gamba ingessata scaraventandolo dentro. << Resterai qui a riflettere sui tuoi peccati, ingrato senza dio >> dice dando un calcio alla flebo che prontamente Sherlock afferra e trae a sé un attimo prima che lei chiuda la porta, lasciandolo nello spazio angusto, polveroso e buio di quella piccola stanza.
Mary colpisce la porta con quei martelli che ha per pugni, grugnendo e ridendo insieme. Va a vanti non sa neppure per quanto tempo, dando sfoggio di colorite parole volgari, alcune di sua sicura invenzione. Si interrompe all’improvviso. Smette sia di colpire la porta che di fare qualunque altro rumore. Dopo un lungo silenzio, Sherlock la sente allontanarsi, scendere al piano di sotto e uscire dalla porta d’ingresso.
“Sembra proprio che le cose si siano messe moooolto male per te, mio caro consulente” ridacchia Moriarty nella sua testa. Lo ignora. Cerca una posizione più comoda e un appiglio dove appendere le sacche della flebo.
“Finiranno prima o poi. Cosa farai quando accadrà?”.
<< Ci penserò a suo tempo >> ribatte serafico.
“Ti verrà fame e avrai sete”.
<< Posso controllare entrambe >>.
“E sai controllare anche pipì e pupù?” lo canzona divertito. “Dovrai fartele addosso e se tanto mi da tanto la tua benefattrice si incazzerà e darà di matto e allora…”.
<< Mi ammazzerà, lo so >> constata annoiato.
Tutto tace per un lungo istante. Pare che con le sue parole abbia messo a tacere il Napoleone del crimine.
“Johnny boy ti sta cercando” riprova questi, riprendendo il gioco da tutt’altro fronte.
<< Non mi importa >>.
Tace nuovamente. Sembra esserci rimasta male della sua indifferenza.
“Come sarebbe a dire non ti importa?” chiede, infatti, spezzando il suo stesso silenzio.
<< Rimorsi di coscienza. Senso del dovere. Un’altra missione carica di adrenalina. Questo sta facendo John. Non mi sta cercando. Non è me che cerca. Se stesso, forse, ma ormai non mi importa più >>.
“Oh” esclama Moriarty sconsolato. “Non era propriamente così che intendevo bruciarti il cuore”.
<< Spiacente, è arrivata prima Mary Abbott >>.
“Già. Lo ha congelato”.
<< Anche il ghiaccio brucia. Più del fuoco. Ed è più subdolo e sai perché? >> gli chiede e gli sembra quasi di vederlo seduto in un angolo nel buio di questo buco. << Perché prima di uccidere scalda. Un calore piacevole che nasce da un pizzicore doloroso. È come se volesse cullare prima di uccidere. È così che mi sono sempre immaginato la morte, James. Un dolore pungente seguito da un calore dolce, appagante come un orgasmo >>.
“E’ un peccato, però, che finisca così, non credi?” gli domanda e immagina nascere sul suo volto l’espressione da cucciolo bastonato.
<< Così, per mano tua o con un ago nel braccio cosa cambia? Lo hai detto tu no? In qualche modo si deve morire >>.
 

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Capitolo 9
*** 25 novembre ***


25 novembre
 
Sherlock si alza dal divano ridendo, il suo laptop in mano. Barcolla su gambe malferme e John teme già di vederlo crollare per terra, distruggere il computer e magari rompersi anche qualcosa.
<< Vieni qui, cosa fai? >> ride alzandosi a sua volta. Lo afferra per i fianchi e lo riporta sul divano. Il consulente grida e ride tentando di divincolarsi.
<< Così lo farai cadere, Sherlock! >> lo richiama seriamente preoccupato.
<< Non sarà una grave perdita. Niente più blog né filmetti porno per allietarti la serata >> lo canzona, tentando di tornare in piedi .
<< Se ne conosci l’esistenza vuol dire che li hai guardati anche tu >> dice strappandogli finalmente il laptop dalle mani. Sherlock tenta di tornarne in possesso, ma lui, prontamente, gli blocca le mani e la schiena contro la seduta del divano.
<< Mi è bastato leggere i titoli della cronologia e la fonte. Io quella roba non la guardo! >>.
<< Oh, santarellino! >> lo prende in giro vincendo i suoi tentativi di fuga.
<< Non ne capisco il senso. Che te ne fai se puoi solo guardarli? Voglio dire, ritrovarsi in una situazione simile è un conto, ma stare a guardare… a che serve? >>.
<< Oddio, non starai dicendo sul serio, spero? >> ridacchia John incredulo.
<< Sono serissimo >> dice, biascicando la esse. Chiaro segno di ubriachezza, se proprio c’è bisogno di trovarne i segni. John ride forte e Sherlock si imbroncia offeso. << Stai ridendo di me, John Watson? >> gli chiede. Solleva il bacino, facendo leva sui polsi bloccati dal soldato. Cerca di richiamare le ginocchia al petto per poterlo scalciare via, ma con movimenti fin troppo naturali il dottore si insinua tra quelle lunghe gambe bloccandolo a sé.
<< Hai iniziato tu, Sherlock, ricordi? >>.
<< Non è vero >> ribatte piccato muovendo il bacino nel tentativo di divincolarsi. Lo sfregamento che ne produce è piacevole e con soddisfazione John vede le guance di lui tingersi di rosso. << Vuoi lasciarmi libere le mani o no? >> gli chiede imbarazzato.
<< Solo per fare questo >> risponde John che svelto gli lascia i polsi e inizia a percorrergli i fianchi e l’addome alla ricerca di un punto sensibile.
<< Stai solo perdendo tempo, io non soffro il solletico >> dice, cercando di fermare le mani di lui. Con molta poca convinzione, in realtà.
<< Ah, sì? >> domanda John, che lo afferra per i fianchi portando le ginocchia sotto i suoi glutei, giusto per crearsi lo spazio adatto a ghermire la sua schiena (e avere il suo bacino ancora più vicino al proprio, ovviamente). Gli basta insinuarsi appena sotto la camicia sgusciata fuori dai pantaloni per sentirlo esplodere in una bordata di risate. Sguaiate e sgraziate. Lontane anni luce dal suo solito aplomb da perfetto uomo tutto testa e privo di emozioni.
La schiena si inarca, le gambe si stringono attorno ai fianchi di lui, le mani battono sulle sue spalle, le unghie gli arpionano la schiena e la voce lo implora di fermarsi, di smetterla, cosa che lui fa solo quando le mani di lui gli afferrano i polsi. Si guardano allora entrambi affannati, il volto rosso dalle risate e dalla finta lotta appena avvenuta.
<< Vuoi davvero che smetta? >> gli domanda John, con una tensione nella voce pari solo a quella che avverte nei pantaloni di entrambi.
Sherlock smette di respirare. Morde il labbro, gesto che fa fare un guizzo al cuore e alla patta dei pantaloni del soldato. Senza dire nulla, restando in apnea, avvicina appena le lunghe dita della sua mano destra a sfiorare le labbra di lui.
<< Jawn >> sussurra riprendendo fiato. Il sibilo dell’aria che entra dentro di lui attira John verso quelle labbra. Ci sono solo loro, adesso. Le labbra che bacia e che lo ribaciano, che morde e sorridono. Le unghie di Sherlock che affondano nella carne, le sue dita affusolate che gli spettinano i capelli, le lunghe gambe che gli stringono i fianchi e il desiderio di John di spogliarlo e farlo suo. Farlo subito, prima che quella magia svanisca e che si svegli dal sogno.
<< E’ bellissimo tutto questo, Jawn >> sussurra Sherlock al suo orecchio, mentre lui gli costella il collo di morsi.
<< Sì, è bellissimo >> ribatte lui, strappandogli senza alcun ritegno la camicia di dosso, cosa che fa ridere di gusto il suo coinquilino, mentre i bottoni tintinnano cadendo sul pavimento.
Dovrebbe fermarsi. Sa che dovrebbe perché il suo amico è ubriaco fradicio e in circostanze più sobrie sarebbero entrambi seduti davanti a un film o ognuno nei propri letti. Però non si ferma. Non ne ha alcuna voglia.
<< Ti voglio. Dio, come ti voglio >> gli dice lasciando scivolare le mani nei suoi pantaloni ad afferrare i suoi glutei sodi.
<< Allora prendimi >> sussurra lui abbandonandosi totalmente alla sua mercé.
Dovrebbe fermarsi. Sì, dovrebbe davvero, perché lui è troppo bello, i suoi occhi troppo languidi e il suo sorriso troppo dolce. Invece si avventa nuovamente su quelle labbra arrossate dei baci e dei morsi che gli ha dato. Le dita di Sherlock disegnano complesse linee sulla sua schiena, ognuna capace di dargli i brividi. Le sente farsi più pesanti, più grandi. Si sposta sul collo e la risata di lui risuona argentina come quella di una bambina.
<< E’ davvero un buffo nome >> sente dire e nel riaprire gli occhi si ritrova stretto a quel donnone terribile incontrato all’emporio. << E dov’è adesso il tuo coinquilino? >> gli domanda. Gli impedisce la fuga tenendolo nelle ganasce forti che ha per gambe.
<< Era qui… era qui fino a un attimo fa’ >> esclama lui inorridito, cercando di liberarsi dalla stretta. Più ci prova, più, però, le cade addosso facendola ridere, ridere sempre più forte.
<< Continua pure con me, io non mi offendo >> dice quella donna in tono malizioso. Gli posa una manona sulla nuca e lo spinge a sé schiacciando le sue labbra contro quelle di lui.
 
John si risveglia urlando. Cade dalla sedia sulla quale si era appisolato ritrovandosi sul pavimento.
<< Ehi, John, che ti prende? >> gli domanda Greg che subito accorre ad aiutarlo a rimettersi in piedi.
<< Un incubo. Un maledetto incubo >> borbotta strofinando le labbra sulle quali sente ancora la pressione di quelle del donnone raccapricciante.
<< Dovresti andare a sdraiarti su un letto vero >> gli dice l’amico battendogli la spalla.
<< No, non se ne parla. Ho osato anche troppo. Ci sono novità? >> gli domanda volgendo altrove la conversazione.
<< Mycroft sta per arrivare >>.
<< Cosa? >> chiede stupito. << Perché lo hai chiamato? >> .
<< Non l’ho chiamato, John, lungi da me dal farlo. Penso abbia fatto due più due e abbia scoperto che fa ancora quattro >>.
<< Non ce lo voglio qui >>.
<< Non puoi impedirglielo. È suo fratello, oltre che l’uomo più potente d’Inghilterra >>.
<< Me ne frego della sua potenza! >>.
<< Lo so, e ti ammiro per questo. Sono passati due giorni da quando abbiamo trovato la macchina e, nonostante le ricerche, non siamo venuti a capo di niente >> sospira Greg passando la mano sul volto stanco.
<< E credi che avere qui il governo inglese possa fare qualche differenza? È forse in grado di sciogliere la neve a comando? >>.
<< Non lo so, John, ma per il punto in cui siamo io sono disposto ad accettare qualunque tipo di suggerimento >>.
Lo sguardo di Greg non da spazio a repliche e anche John deve convenire che la situazione è talmente disperata da rendere necessaria qualsiasi forma di aiuto. Potrà sempre sbandierargli in faccia quanto avesse ragione ad essere allarato.
“Magra consolazione” sospira portando le mani al viso.
<< Greg, senti… lui non sa. Cioè, sicuramente lo sa, ma io non gli ho confermato quello che ho detto a te >>.
<< E io baderò bene a tenerlo per me >> conclude il detective dando a intendere di non avere alcuna intenzione di tornare sull’argomento.
<< Grazie >> sussurra John posandogli una mano sulla spalla. La sente contrarsi sotto le dita. Greg è lontano. Lo può toccare, gli può parlare, ma è lontano. Non stanno condividendo lo stress e il dolore per quella brutta situazione. Il detective ha deciso di tenere per sè le sue preoccupazioni. Quel segreto che gli ha confidato è stato un colpo basso.
<< Mi dispiace davvero >> borbotta tra sé e forse Greg lo sente anche, ma decide di non dargli corda.
<< Ehi, gente, è arrivato un tizio del governo che dice di essere il fratello del vostro amico scomparso >> dice Hataway irrompendo spazientito nella sala ristoro della piccola stazione di polizia. Al di là del vetro smerigliato, John intravede la sagoma inconfondibile di Mycroft Holmes. Prende un profondo respiro e con Greg al seguito segue l’ispettore.
Mycroft indossa un cappotto marrone che scende a coprirlo fino alle caviglie. Le mani, protette da guanti di pelle della stessa tinta, sono appoggiate all’immancabile ombrello. Una sciarpa bordeaux gli protegge la gola dal freddo e la allenta appena quando li vede arrivare.
<< Dottor Watson devo farle le mie scuse >> esordisce impacciato. << A quanto pare aveva ragione su mio fratello >>.
<< A quanto pare >> si limita a ribattere John.
<< Non ci sono notizie? >>.
<< Nessuna >>.
Mycroft annuisce e allenta un po’ di più la sciarpa, accompagnando il gesto con due secchi colpi di tosse.
<< Una notizia invece c’è, signori >>, irrompe Hataway, << ma non è buona >> aggiunge rompendo le loro speranze. << Una nuova bufera sta per abbattersi su queste montagne. Avrà inizio stanotte e dio solo sa quando scemerà. Io… non voglio fare il menagramo, ma temo che per il vostro amico non ci sia nulla da fare. Se qualcuno lo avesse trovato e ospitato a questo punto ce lo avrebbe detto. A che pro tenersi un infermo e magari moribondo sconosciuto in casa? >> si domanda l’ispettore.
“Già a che pro?” si scopre a chiedersi il dottore.
<< Anche il caso sul quale era stato chiamato a indagare è congelato, come tutto qui attorno, del resto. Signori, io vi consiglio di tornare a Londra. Qui non si potrà fare nulla se non guardarsi le mani davanti al fuoco per i prossimi giorni >>.
<< No, io non me ne vado! >> sbotta John risoluto.
<< Beh… il posto in camerata per lei c’è sempre, Capitano. Per me non è un problema se vuole rimanere. E anche lei signor Holmes >> dice rivolgendosi, suo malgrado, al governativo. << Ho qui per lei, collega, una comunicazione da Scotland Yard >> aggiunge, porgendo a Greg una circolare. Questi la prende, la legge e sbuffa alzando gli occhi al cielo.
<< Io, invece, devo rientrare, maledizione! >> sbotta restituendo la comunicazione al collega. << Quel maledetto caso. Pare che qualcosa di nuovo si sia verificato e hanno bisogno di me sul campo. Cristo, Mycroft, non ti immagini quanto l’aiuto di tuo fratello mi manchi in questo momento >> dice portando una sigaretta alle labbra. Fa per accenderla, ma l’accendino non collabora e prima che lo colga una crisi di nervi interviene in suo aiuto Mycroft, che fa scattare la miccia del suo accendino dorato proprio sotto al suo naso.
<< Grazie >> gli dice il detective dopo aver acceso la sigaretta.
<< Torni a Londra, Lestrade. Riprenda in mano i suoi appunti e focalizzi l’attenzione su quell’indizio che tanti pensieri le ha dato. Lì è la chiave di ogni cosa. E si ricordi che la risoluzione di un problema la si ottiene scegliendo sempre la soluzione più semplice >>.
<< La soluzione più semplice >> annuisce Greg, già calato nel suo ruolo.
<< La faccio accompagnare alla stazione, collega >> si intromette Hataway, dando ordine a uno dei suoi uomini di preparare l’auto.
John vorrebbe dirgli tante cose, ma si limita a chinare il capo imitando il saluto che lui stesso gli fa prima di lasciare la centrale.
<< A quanto pare siamo rimasti solo lei ed io, dottore >> dice Mycroft, prendendo una sigaretta da un pacchetto nascosto nella tasca interna del cappotto.
<< Non sapevo fumassi >> gli dice John sinceramente stupito della cosa.
<< Pessima abitudine, in effetti >> ribatte Mycroft, osservando la brace incandescente della sigaretta.
<< Hai anche tu qualche umana debolezza, allora >>.
Mycroft si limita a mostrare quel suo sorriso tirato e a prendere una lunga boccata dalla sigaretta.
<< Allora, dottore, pensa che avremo mai il piacere di rivedere sano e salvo quello stolto che ho per fratello? >>.
<< Io… so che va contro ogni logica, cosa che non mancherai di farmi notare, ma io… io so che è ancora vivo >>.
<< Trovo sia un buon punto di partenza per strutturare un’indagine >> gli sorride e sembra anche sollevato dalla sue parole. << Lei consoce i suoi metodi. Penso sia arrivato il momento di usarli per risolvere il caso, John >>.
<< Mi stai dicendo che… che devo essere io ad indagare? >>.
<< Precisamente >> annuisce serio, prendendo un’altra boccata dalla sigaretta.
<< Mycroft >>, sospira John, portando la mano agli occhi. << io non ho la sua… la vostra intelligenza. Sono un comunissimo idiota, come posso venire a capo di questa situazione? >>.
<< Perchè conosci i suoi metodi. Da un anno lo vedi all’opera, lo aiuti a ragionare, lo segui nei suoi deliri e nei suoi pedinamenti >>.
<< Tu sei più intelligente di Sherlock, persino lui lo ha ammesso. Non dire, però, che te l’ho detto, per favore >> aggiunge mordendosi la lingua dinanzi a quella che doveva restare una confidenza. Mycroft ride divertito in un momento in cui una risata è del tutto fuori luogo. Proprio come suo fratello. << Visto? Siete uguali! >> esclama alzando gli occhi al cielo. << Posso fare da assistente a te come ho fatto a lui >>.
<< No, John. Posso essere più intelligente di Sherlock, è vero, ma non ho metodo. Lui tiene conto di cose che a me sfuggono perché non le considero. Il più delle volte perché le trovo superflue >>.
<< E sarebbero? >>.
<< Le emozioni. I rapporti umani. Il coinvolgimento >>.
John si sente chiamato in causa e distoglie lo sguardo da quello perennemente giudicante di lui.
<< Senti, Mycroft, quel che è successo tra me e tuo fratello… >>.
<< Non è di mio interesse >> lo interrompe lui. << Non lo era quando tentai di assoldarti come spia all’interno di Baker Street e non lo è adesso. L’unica cosa che mi auguro è che possiate avere l’occasione di chiarirvi e  per farlo dobbiamo prima trovarlo, John >>.
<< Già >> sospira, passando la mano sul viso stanco. << Beh, allora non resta che iniziare il gioco, come dice sempre lui >>.
 
***
 
Il vento soffia forte qui nella fossa. È gelido e inclemente. Graffia la pelle senza alcuna pietà, come una bestia. Ride, poi, delle sue malefatte, avvolgendo nelle sue spire prima di passare oltre. Sherlock trema da capo a piedi. Giace tra i corpi putrescenti ricoperti di brina, che li imbianca rendendoli ancor più tetri.
“Non sono ancora morto” pensa, mentre cerca di fregare gli arti congelati e nudi. Una stretta dolorosa gli arpiona lo stomaco facendolo vomitare a intervalli quasi regolari.
“Non ancora, ma ci siamo quasi” ridacchia Moriarty in piedi sul limitare del bordo della fossa. Le mani in tasca, gli occhiali scuri a coprire quei suoi occhietti vuoti e il sorriso beffardo sulle labbra. “E’ bello morire, Sherlock” gli dice saltando dentro la fossa. “Nessuno viene a disturbarti” aggiunge facendo spallucce. “Guarda tutti questi corpi” dice, indicando col dito i cadaveri che li circondano. “Sono rimasti qui tranquilli e al sicuro per taaanti anni. Poi, sì, sono venuti a disturbarli, in effetti, ma è anche una situazione insolita la loro, non trovi?”.
<< Decisamente insolita, sì >> ammette tremando sempre di più. Un altro conato lo sorprende e quella che rigetta ora è una schiuma bianca e maleodorante.
“Oh, ma guardati!” esclama James disgustato. “Ammetto che se al nostro primo incontro ti avessi trovato ridotto così ci avrei pensato due volte prima di coinvolgerti nel nostro simpatico gioco. Avanti, stupiscimi, consulente investigativo. Perché queste carcasse di trovano qui?”.
<< E’ la discarica di un seriale, questa >> risponde riprendendosi a fatica dall’ultimo conato.
“Ma dai? Sai dirmi qualcosa che non so? Come, ad esempio, chi sia?”.
<< Non qualcuno incoraggiato da te,questa volta >> borbotta tentando di mettersi in piedi. La gamba, però, non lo regge e gli cade tra le braccia.
“Oh, ti prego, non qui davanti a tutti!” esclama James guardandosi attorno fingendo imbarazzo. Lo allontana da sé malamente e lui cade giù a sedere. La gamba, che lentamente si sta risvegliando, gli manda una stilettata di dolore talmente forte da farlo urlare. “Oh, suvvia, quanta scena per un po’ di dolore”.
<< Tu non provi mai dolore, non è così? >> gli domanda tra i denti.
“Oh, Sherlock. Il dolore si prova sempre, ma non ti deve fare paura” ridacchia. “Tornando a cose più serie” dice, scavalcando con un balzo uno dei corpi. “Sì. confermo che questa non è opera di nessuno dei miei clienti. Quindi di chi stiamo ammirando le gesta?”.
<< Io… non ne ho idea >> ammette vinto dai tremiti. << Non sono infallibile. Alcuni casi proprio non mi riesce di risolverli >>.
Moriarty sospira, mettendo su una delle sue espressioni da cucciolo. Si inginocchia davanti a lui e con teatralità gli accarezza il viso addolorato.
“Neppure quando hai la soluzione sotto il naso?” gli domanda in un sussurro portandosi a un palmo dal suo viso. Lui lo guarda confuso e questi alza gli occhi al cielo, infastidito dalla sua lentezza. “Ricordi cosa hai detto tu stesso alla piccola Molly Hooper? Dai, avanti! Lei aveva detto che non avevano nulla in comune questi corpi, mentre tu le hai fatto notare che li accumunava il loro essere…”.
<< Nudi >> .
“Bingo!” esclama James divertito. “E, guarda un po’, nudo ora lo sei anche tu. Hai anche tu questa cosa in comune con loro” gli dice invadendo il suo spazio personale. “E’ stato Johnny boy a spogliarti, Sherlock? Ti ha strappato la camicia di dosso, ha fatto volare i bottoni dappertutto, quel birichino, e tu hai riso. Oh, se hai riso. Ce l’ho ancora nella testa la tua risata. Eri eccitato. Talmente eccitato che ti faceva male il modo in cui premeva contro la patta dei pantaloni, ammettilo” dice strizzandogli l’occhio malizioso. “Quando ti ha strappato di dosso anche quelli è stato un dolce sollievo, nonché l’inizio della parte più bella”.
<< Sta zitto! Non è stato lui! Se sono nudo, ora, non lo devo a lui >>.
“Ah no? Allora chi è stato, Sherlock? Non mi dirai che sei anche tu il tipo che dopo la prima volta inizia a darlo in giro senza alcuna pietà? Guarda un po’ come si fa in fretta a passare da verginello a puttana”.
<< Non sono una puttana! >> esclama. Richiama a sé tutte le sue poche forze per compiere un balzo verso di lui. Gli stringe le mani al collo intenzionato a farlo tacere una volta per tutte.
“Ah no? Eppure mi pare ti sia sentito proprio così negli ultimi tempi” ribatte Moriarty, liberandosi facilmente dalla sua stretta. “Quante stupide distrazioni dal caso! Quante energie sprecate che ti allontanano dalla soluzione così evidente che hai sotto al naso!” dice scuotendo il capo deluso da lui. “Sbarazzati di quanto è successo con quell’insulso omuncolo e torna ad essere il consulente infallibile che ho conosciuto” grida nel suo modo folle.
 
<< Edward… ehi, Eddy, che succede? >>.
La voce di Mary bambina lo richiama dal suo Mind Palace. Non ha idea di quanto tempo sia trascorso dal momento in cui la Mary pericolosa lo ha rinchiuso là dentro. Sa solo che la morfina è finita e che la crisi d’astinenza è iniziata ed è al momento al suo picco maggiore. Si ritrova circondato dal suo stesso vomito, sdraiato nell’urina e nelle feci che non si è neppure reso conto di aver evacuato. Brividi e sudori freddi lo percorrono da capo a piedi e la gamba, oddio, la gamba gli fa male come se folletti dispettosi si stessero divertendo a pungolargliela in continuazione con spilloni arroventati.
<< Mary! Oh, piccola Mary, ti prego aiutami >> singhiozza posando una mano sulla porta.
<< Non posso >> risponde questa tirando su col naso. Sta piangendo in silenzio, riesce a immaginare i suoi occhioni arrossati e gonfi. << Perché mi hai mentito, Edward? >> .
 << Io ho avuto paura, Mary. Non sapevo dov’ero e poi sono venuto qui sotto copertura per lavoro >>.
<< Non sei un insegnante di sci. Sei un poliziotto, uno di quelli che porta via le persone >> lo accusa arrabbiata.
<< Non sono un poliziotto, Mary. Io sono solo una persona in grado di osservare e dedurre. È la mia condanna >> constata, ormai addossato alla porta che in queste lunghe ore di dolore è stata percossa spesso dalle grandi mani della mary cattiva.
<< Io pensavo fossi mio amico >> sussurra la bambina piangendo.
<< E lo sono. Noi siamo amici, Mary. Le cose che ti ho raccontato, i miei incubi, le mie storie andate male sono vere, Mary >>.
<< Però non sei un maestro di sci e non ti chiami Edward >>.
<< No. Sono un consulente investigativo, l’unico che esista al mondo e mi chiamo Sherlock >>.
<< Che buffo nome >> ridacchia tirando su col naso.
<< E’ stata mia madre a darmelo. Significa ‘uomo dai bei capelli’ >>.
<< Sono neri, non biondi. Hai mentito anche su quelli >> lo rimprovera piccata.
<< Sì, è vero, ho mentito e vorrei non averlo fatto. Vorrei non aver mai accettato questo maledetto caso >>.
<< Però così non ci saremmo mai conosciuti >> constata lei triste.
<< Sì… è vero >> dice tra le lacrime, continuando a maledire la telefonata di Paddington.
<< Non avremmo cantato insieme ‘Molly Malone’ >>.
<< Già non lo avremmo fatto >>.
Ridono entrambi finche un crampo allo stomaco più forte degli altri strappa un grido a Sherlock.
<< Cosa succede? >>.
<< Sto male, Mary >> borbotta Sherlock con un filo di voce. Percepisce l’esitazione della donna al di là della porta. Poi avverte la serratura girare e la porta aprirsi piano. La luce gli ferisce gli occhi benchè sia flebile.
<< Oddio, cosa hai combinato, Eddy? >> esclama Mary bambina arricciando il naso dinanzi all’odore che l’ha colpita in pieno.
<< Mi dispiace, Mary. Non ho potuto fare altrimenti. Non sto bene. Perdonami >> si rende conto di stare piangendo senza alcun ritegno. Allunga le mani fino a toccare le enormi pantofole che ha ai piedi, nella disperata richiesta di aiuto.
<< Dobbiamo sbrigarci! >> esclama la donna con un’urgenza preoccupante nella voce. Lo solleva di peso facendo fare un giro al suo stomaco, tanto che deve trattenersi dal vomitarle addosso. Sembra non patire di nessuno sforzo nel trasportarlo lungo il corridoio. Lo deposita su una superficie fredda e liscia e solo quando aziona il doccino si rende conto di trovarsi in una vasca da bagno. L’acqua ci mette un po’ a scaldarsi e quando finalmente diviene calda è talmente piacevole da riuscire a rilassarlo. Si abbandona del tutto sotto il getto e con mano tremante afferra una saponetta raggrinzita e priva di alcun profumo e la usa per lavarsi. La gamba rotta penzola fuori dalla vasca e continua a pulsare onde dolorose e rabbiose. Cerca di isolare questo dolore. Di chiuderlo in una qualche stanza del suo Mind Palace e grazie a questa doccia calda un po’ ci riesce.
<< Svelto, esci da lì >> gli intima Mary strappandolo all’abbraccio caldo dell’acqua. Gli getta un asciugamano ruvido addosso e con quello Sherlcok tampona il corpo fino ad asciugarlo. Mary lo osserva di sfuggita, imbarazzata. Gli da le spalle appoggiata allo stipite della porta.
“Potresti colpirla in testa con qualcosa e liberarti di lei” gli suggerisce James.
“No” ribatte lui deciso. Rossa in viso, Mary tormenta un’unghia con i denti mentre si ostina a non guardarlo.
<< Non puoi restare qui >> gli dice tirando su col naso, segno di un pianto imminente.
<< Non posso andare da nessuna parte in queste condizioni, Mary >> le fa notare lui, stringendosi addosso l’accappatoio umido.
<< Io… non so per quanto ancora riuscirò a tenerla a bada, Ed. L’hai fatta davvero grossa questa volta >> gli dice voltandosi rattristata verso di lui.
<< Non puoi portarmi da Hataway? Gli diremo che mi hai trovato mentre vagavo per la strada. Non ti metterò nei guai  >> le dice congiungendo le mani sotto il mento. Lei sembra pensarci su per qualche istante. Poi, però, scuote il capo energicamente.
<< E’ troppo pericoloso >>.
<< Allora cosa possiamo fare? >> le chiede rammaricato e un crampo gli artiglia lo stomaco. Si piega sulla tazza appena in tempo. Sputa ancora quella sostanza schiumosa e maleodorante.
<< Stai proprio male, povero caro >> gli dice avvicinandosi a lui. Gli accarezza incerta la testa umida, tornata quasi del tutto del colore originario. Sherlock si abbandona a quelle carezze rozze, sgraziate, ma capaci di rincuorarlo come l’acqua calda della strana doccia appena fatta. Si ritrova stretto nel suo abbraccio caldo, il volto posato sul petto prosperoso di lei. La circonda con le braccia e nella sua mente si apre un ricordo lontano.
Si vede bambino, non più di otto anni. Prende la rincorsa deciso a fare un bel salto. Mycroft è talmente rapito dal suo libro da accorgersi di lui solo all’ultimo istante, o almeno così gli lascia credere. Una buffa espressione di stupore e rassegnazione dinanzi alla sua infantile idiozia gli si disegna sul volto. Salta e il suo corpo magro e piccolo impatta contro quello grasso e morbido di lui. Cadono a terra, l’uno a imprecare e l’altro a ridere allegro. Era grasso Mycroft da bambino. Grasso e morbido ed era un piacere per lui stargli addosso. Trovava rassicurante quella massa di adipe che lo circondava da capo a piedi.
“Myc” singhiozza adesso contro il petto di Mary.
“Sono qui, fratellino” .
Apre gli occhi stupito di sentire la sua voce dopo così tanto tempo.
“Cosa devo fare, Myc?”.
“Sopravvivi, Sherlock” risponde questi e il tono non è distaccato, anzi. “Ti sto cercando. Lo sai che io mi preoccupo per te costantemente. Devi avere pazienza e fare il possibile per restare vivo”.
Non mette in dubbio la veridicità delle parole del fratello. Nessuno più di lui smuoverebbe mari e monti pur di ritrovarlo e accertarsi che stia bene. Certo è un grandissimo rompiballe che si insinua nella sua vita pretendendo di essere informato di tutto e di controllarlo. È anche vero, però, che è l’unico che abbia un valido motivo per salvarlo. Fosse anche solo per impedirgli di gettare altro fango sulla reputazione degli Holmes, come era solito gridargli dietro suo padre. Per questo decide di dargli retta questa volta.
<< Io credo che sia meglio rimettere le cose come stavano. Che ne pensi, Mary? >> le propone.
<< Cioè farti tornare nello sgabuzzino? >>.
<< Sì. Così non ci saranno problemi. Se ti sarà possibile mi aiuterai come hai fatto oggi. Altrimenti in qualche modo me la caverò >>.
<< Quel posto è buio e spaventoso, non voglio chiuderti di nuovo lì >> singhiozza lei stringendolo ancora di più al petto.
<< Lo so, ma che alternativa abbiamo? Fuori morirei assiderato e tu non te la senti di portarmi da Hataway. Cos’altro possiamo fare? >>.
<< Sei davvero tanto coraggioso, Eddy >> gli dice stampandogli un bacio sulla fronte.
<< Anche tu, Mary >> ricambia stringendola forte tra le braccia.
 

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Capitolo 10
*** 29 novembre ***


 
29 novembre
 
John osserva il tabellone sul quale ha appuntato tutte le informazioni che è riuscito ad ottenere in questi quattro giorni di ricerca.
Sherlock ha lasciato lo Ski Club alle tre del pomeriggio del 10 novembre. La bufera ha avuto inizio mezz’ora dopo, con un’ora d’anticipo sulle previsioni. Ci vuole un’ora per raggiungere il comando di polizia dal Club e quindi, tenuto conto delle condizioni della strada, dell’auto che guidava e del suo stile di guida ha dedotto (grazie agli infallibili calcoli matematici di Mycroft) l’incidente sia avvenuto all’incirca alle tre e quaranta. Le strade erano già imbiancate, ma non ancora del tutto impraticabili. Ha cercato di capire chi potesse essere passato da quelle parti, partendo dal presupposto che, data la stagione, possono essere stati solo abitanti del posto. Quella pista, però, è stata un buco nell’acqua, perché tutti coloro che lui e Mycroft hanno interpellato o dei quali hanno chiesto si sono trovati, sì, a passare da quella strada, ma o molto prima dell’orario riscontrato o molto dopo.
John è passato, quindi, a valutare chi potesse averlo soccorso o da chi si possa essere recato, nel caso in cui fosse stato in grado di camminare sulle sue gambe. C’erano solo quattro abitazioni nella zona e nessuna nelle immediate vicinanze. Certo raggiungibili da un uomo nelle piene forze fisiche anche con quel tempo, ma dalle condizioni dell’abitacolo e dalla quantità di sangue ritrovata al suo interno, Sherlock sembrava essere messo parecchio male.
Con l’aiuto di Hataway, che gli è stato dietro più che pena che per senso del dovere, John ha contattato tre delle quattro abitazioni, benchè avesse già parlato con tutti e quattro gli abitanti, anche se in momenti diversi. I tre raggiunti hanno ribadito di non aver visto nessuno, né tanto meno soccorso e dalle ricerche condotte dalle squadre di volontari messe insieme dagli uomini di Hataway non era venuto fuori nulla.
Nulla nemmeno verso la fattoria degli Abbott, unica che non sono riusciti a contattare date le comunicazioni che sempre si interrompono laggiù con queste condizioni climatiche. L’ispettore ha cercato di convincerlo dell’impossibilità di un coinvolgimento di Mary in questa storia.
<< L’ha vista anche lei, Capitano. Quella ragazza è si grande e grossa, ma ha l’animo di una bambina di appena sei anni. Se avesse soccorso qualcuno me lo avrebbe detto >>.
<< Anche se poi le fosse morto in casa? >> gli ha chiesto provocatoriamente.
<< Ma certo, a maggior ragione >>.
<< Ne è sicuro? Non potrebbe essersi spaventata al punto da nasconderne il corpo da qualche parte? Come ha detto lei stesso è una bambina di sei anni e le bambine a quell’età hanno paura di essere rimproverate e mi pare di aver capito che quella donna abbia avuto un padre parecchio severo >>.
<< Cosa vuole che faccia allora? Che mi inerpichi fin lassù o mandi qualcuno dei miei per un sopralluogo? >> ha ribattuto l’uomo esasperato. << Se davvero avesse sotterrato un cadavere in preda alla paura potrebbe averlo fatto ovunque. Ha a disposizione un bel po’ di terreno, sa? >>.
<< Non dovrebbe essere difficile far parlare una bambina, ispettore >>.
<< Certo, non lo è. Ad ogni modo non possiamo fare nulla. Ha visto come sta nevicando? Non metto a rischio l’incolumità di nessuno, neppure a bordo del migliore dei gatti delle nevi >>.
L’ispettore è stato categorico e gli ha dovuto dare atto del fatto che, effettivamente, la nevicata si è fatta più fitta e il vento più forte nel giro di poco tempo. Essere là fuori sarebbe stato un suicidio. Nonostante questo, John  non riesce a darsi pace.
<< E’ lì, Mycroft, lo sento >> dice ora al suo insolito compagno di stanza, che, fermo alle sue spalle, osserva lo schema, attento quanto lui.
<< Un’indagine non si risolve con le sensazioni, John ci vogliono lo prove >> gli ricorda piccato. << Come mai hai questa sensazione? Ti stai facendo fuorviare dal deficit cognitivo di quella donna? >>.
<< No, non è questo! Non sono così meschino >>.
<< Allora è possibile che questa che tu chiami ‘sensazione’ sia in realtà un dettaglio che il tuo occhio ha colto, ma che la tua coscienza non ha registrato.
<< E se così fosse tu potresti aiutarmi a recuperare i dati? >>.
<< Tentar non nuoce >> dice Mycroft accomodandosi sul letto che aveva occupato Greg. << Prego >> lo invita a sedere sul suo letto davanti a lui. John esegue sentendosi un po’ teso. << Torna con la mente al momento in cui hai incontrato quella donna e osservala. Cosa ti colpisce di lei? Dì tutto quello che ti ritrovi davanti agli occhi della mente, senza escludere nulla >>.
<< Indubbiamente la prima cosa che mi salta agli occhi è la stazza >> inizia John, ma Mycroft lo interrompe subito.
<< Stai ragionando, non va bene. Limitati a osservare. Elenca ciò che vedi >>.
John strizza forte gli occhi e poi, piano piano, rilassa il volto. Richiama alla memoria il momento esatto in cui i suoi occhi si sono posati su Mary Abbott.
<< Vedo una donna alta quasi un metro e ottanta, dagli arti spessi e muscolosi come mi è capitato di vederli solo in chi è avvezzo a spaccar legna. Ha il viso quadrato, la fronte ampia e capelli finissimi tenuti stretti in un croccia che le fa sembrare la testa ancora più grossa. Quando ha indossato il cappello di pelliccia ho faticato a definirne il genere. Il cappello è vecchio, sebbene sia ben tenuto, così come tutti gli altri abiti che indossa. Una persona pulita, niente da dire, ma trasandata. Infreddolita, anche. Continua a tirare su la sciarpa a coprire le guance arrossate dal freddo. Indossa un paio di guanti di pelle che, sebbene siano grandi, da uomo, risultano piccoli per le mani enormi che si ritrova. Ehi… un momento >>.
John apre gli occhi e fissa attonito Mycroft.
<< Che succede? >> gli domanda questi incuriosito.
<< Oh, cazzo, Myc! >>.ohn scatta in piedi come colpito dalla scossa imitato da Mycroft. << Ecco cosa mi ha colpito di lei! Oh, cristo! >> dice portando le mani ai capelli. << Quella sciarpa. Spiccava non solo per il colore, ma anche per il tessuto pregiato. Una pashmina Armani jeans blu cobalto! Ti rendi conto? Quella rozza donnona con vestiti vecchi di anni come si è procurata una sciccheria simile per la quale ci lasci come minimo 80 sterline? E i guanti? Erano in pelle di cervo foderati in cashmere, sempre del nostro stilista italiano preferito al quale lasciare un centinaio di sterline. Dove ha potuto procurarseli quella donna accessori simili? Non può essere una coincidenza il fatto che, guarda caso, Sherlock sia solito indossare la stessa sciarpa e gli stessi guanti, non credi? >>.
<< L’universo non è mai così pigro da perdersi in coincidenze, John >> risponde Mycroft annuendo soddisfatto.
<< Esatto! Ecco cosa mi aveva colpito di lei. Continuavano a tornarmi in mente il suo viso avvolto dalla sciarpa e le mani enormi costrette nei guanti. Persino in sogno… >> si interrompe bruscamente al ricordo di quello che poi si è trasformato in un incubo. << E’ lì, Mycroft. Quella donna l’ha trovato e dio solo sa perché non abbia detto nulla >>.
<< Pensi che sia… morto e che lei ne abbia occultato il cadavere spaventata? >>.
<< E’ quel che temo >>.
<< Ma non lo pensi. E neppure io >>.
<< Per quel che mi riguarda questo è ciò che sento >> rimarca John convinto, sostenendo lo sguardo inquisitore del Governo Inglese. << Io sento che è vivo, Mycroft. Malridotto, forse. In pericolo, persino, ma vivo. E quello che mi da in testa è non poter andare là e trarlo in salvo >>. Passa la mano sul volto e la lascia sulle labbra improvvisamente tese. << Anche se potrebbe non voler avere più nulla a che fare con me. Non importa. Purchè sia al sicuro, poi… il resto non conta >>.
<< Davvero? >> gli domanda incredulo Mycroft.
<< Ovviamente no >>, ridacchia, << ma ho combinato un casino. Come sempre. E non posso pretendere di farla franca. Non da lui >>.
<< Mio fratello sa essere magnanimo, John. Tu meglio di chiunque altro dovresti saperlo >>.
<< Infatti lo so, Mycroft. Ma è lapidario con chi si macchia di un reato e io ho tradito la sua fiducia. No. E’ qualcosa di molto peggio. O meglio, io gliel’ho venduta come qualcosa di peggio, scemo che sono. Gli ho dato a intendere di averlo usato >> si rende conto solo dopo averlo detto di ritrovarsi al cospetto del fratello dell’uomo che ha appena ammesso di aver usato. Uomo che muove mari e monti per la salvaguardia del fratello minore. Al suo posto gli salterebbe al collo e lo riempirebbe di pugni per l’offesa arrecata al suo protetto. Mycroft, invece, si limita a sospirare. Un lungo e lento sospiro.
<< Fin dalla prima volta che vi ho visti insieme sono stato preso dal dubbio che tuo potessi essere per mio fratello o una benedizione o una disgrazia. Fino a qualche giorno fa’ pensavo la prima. Ora mi rendo conto che è sempre stata la seconda >>.
<< Sempre? Perché sempre? >> gli domanda incredulo.
<< Sono sicuro, mio caro dottore, che hai dentro di te la risposta a questa domanda, un po’ come avevi questi dettagli di mio fratello indosso alla sua potenziale carceriera già da giorni. Non voglio sapere altro di quanto è successo tra voi. Se è vero, però, che gli hai lasciato intendere di averlo usato, beh, allora temo proprio tu lo abbia perso, John. Io mi domando perché dovergli mettere in testa una simile idea se questa non corrisponde a verità. Mi domando perché dobbiate, voi comuni esseri umani, essere così dannatamente idioti! >> sbotta, colpendo il palmo della mano sinistra col pugno destro. John non ha mai visto Mycroft così arrabbiato, neppure nei momenti di maggiore discussione col fratello. << Problemi di autostima. La tua ex terapeuta era pessima, ma in questo ci ha preso. Hai rovinato non solo la tua vita, ma quella di un altro uomo, al quale per giunta tieni, solo per i tuoi maledetti problemi di autostima >>. Mycroft sospira e cerca di ridarsi un contegno. Scuote il capo più volte. << Mi dispiace. Davvero. Non se lo meritava. Ne ha già passate così tante >>.
“Anche io” vorrebbe ribattere John, ma si rende conto che ci farebbe solo una magra figura. Non ha idea di quali siano le cose alle quali si riferisce Mycroft. Non può, quindi, fare un paragone. E anche potesse farlo, questo non lenirebbe la sua colpa. Si è comportato da stronzo. Da grandissimo stronzo. Ed egoista anche. E sì, Sherlock non se lo meritava. Può meritarsi tante cose, dato il suo carattere, ma non questo. No.
 
***
 
Sherlock osserva la fossa comune dal bordo della stessa. La sciarpa blu cobalto gli protegge la gola dal vento tagliente. Ha tirato su il bavero del cappotto e sente appena le dita farsi fredde dentro i guanti di pelle di cervo.
“Oh, ma guarda un po’! Sei tornato il mister sexy di sempre” applaude Moriarty, guardandolo con fin troppo sfacciato interesse. “ Deduco tu abbia risolto il caso”.
<< Sì, l’ho risolto >> annuisce.
“Questo, però, non cambia di una virgola la tua situazione, amico mio” gli dice questi battendogli la mano sulla spalla. Si sporge a sua volta a osservare i corpi congelati dal freddo. “Risolto o no, tra poco ti ritroverai anche tu a far parte di quest’allegra combriccola”.
Colpi secchi spezzano il fischiare del vento. Non lo disturbano neanche più. Sono diventati parte del contesto, ormai.
“Finirà col buttare giù la porta, prima o poi” sbuffa James infastidito. “Insomma, sai cosa vuole da te, cosa aspetti ad accontentarla?” lo sprona premendo le mani sulle orecchie.
<< Sono pentito. Mi pento di tutti i miei peccati, Mary >> le borbotta Sherlock.
“Un po’ di enfasi sarebbe cosa gradita” lo rimprovera il criminale.
<< E perché mai? Credi farebbe davvero la differenza? Se deciderà di aprire la porta è qui che mi porterà. Lo ha già deciso. Attende solo che finisca la bufera >>.
“Non temi la morte, dunque?” gli domanda Moriarty incredulo.
<< Sì, la temo. Credo, però, che, ormai, non mi importi più molto di vivere >>.
Il criminale inizia a ridere. Una risata sguaiata, priva di alcun senso dinanzi a quanto gli ha appena confessato.
“Questa è la cazzata più grossa che abbia sentito” dice ridendo. “Tutto questo per colpa di quel John Watson?” dice pronunciando con disgusto quel nome. “Sei serio? Solo perché ti ha scopato giusto per togliersi lo sfizio? Oddio, come sei drammatico!”.
<< Ti prego, sta zitto! >> ringhia lui infastidito dalla sua presa in giro.
“Perché devi tirarla così tanto per le lunghe, dico io?” continua quello, ignorandolo. “Ti è piaciuto? Ti ha fatto godere? Bene, tieni questo e butta via tutto il resto. Sapevi bene quanto fosse un idiota come tutti gli altri, lui te lo ha solo confermato. Sai che novita? Quotidianamente le persone ti confermano la loro idiozia”.
<< Ti ho detto di stare zitto! >>.
“Tu, invece, devi per forza attaccarti alle parole che ti ha detto. Parole, parole… bah, sono solo parole che stai trasformando in un problema. Il problema finale, potremmo dire, data l’importanza che gli stai dando. E per questo ‘problema’ sei disposto a lasciare che una pazza furiosa faccia di te ciò che vuole. Oddio, passi il nostro caro dottore, ma quella donna… uff!” sbuffa inorridito. “Una donna, cristo! Eccoti di nuovo messo in pericolo a causa di una donna”.
<< Adesso basta! >> grida, saltando al collo del consulente criminale. Questi ride divertito, mentre lui lo colpisce con pugni e calci che sembrano, però, non causargli alcun danno.
“Oh, sì, finalmente un po’ di vitalità! È per qualcosa che ho detto, vero? Qualcosa che non ha niente a che fare con il nostro Johnny boy!”
<< Zitto! Sta zitto! >> continua a gridare stringendo sempre di più le mani intorno alla gola di lui.
“Avanti, non tenerti tutto dentro! Risolviamo il nostro problema finale”.
James gli afferra entrambi i polsi e fa un balzo verso di lui. Sherlock non riesce a mantenere l’equilibrio e insieme cadono nella fossa. Questa, però, è molto più profonda. Infinita. Cadono giù per un tempo che sembra eterno, un tempo nel quale dinanzi ai suoi occhi Sherlock ha solo il sorriso folle del suo acerrimo nemico.
Toccano poi terrà, finalmente. L’impatto è forte al punto da creargli una fitta di intenso dolore alla schiena. Il contraccolpo del corpo di Moriarty che piomba su di lui gli toglie il fiato.
“Ma dai? Guarda dove siamo finiti” dice questo, sedendosi comodamente sulla sua pancia.
Sherlock apre gli occhi e non gli ci vuole molto per rendersi conto che sono a Baker street, sdraiati l’uno sull’altro sul pavimento del salotto.
“Wow, non sapevo fossi anche un contorsionista” gli dice malizioso, osservando compiaciuto quanto sta accadendo sul divano. “A vederti non si direbbe. Dai l’idea di essere rigido, legnoso. Guarda, invece, quanta interessante flessibilità” gli dice voltandogli a forza la testa in direzione della scena.
Vista da fuori, Sherlock deve ammettere sia raccapricciante. Non ci trova nulla della piacevolezza che ha provato. Vede solo un corpo nudo accanirsi su un altro e quest’altro incitarlo a continuare.
“Visti da fuori i rapporti sessuali sono atti violenti” sussurra James al suo orecchio. “Si fa quasi fatica a distinguere uno stupro da un rapporto consenziente. L’espressione facciale del piacere è del tutto simile a quella del dolore. Le grida che si producono anche. Quando, poi, i due soggetti sono stretti così tanto l’uno contro l’altro si fa ancora più fatica. L’uno stringe l’altro per impedirgli di fuggire o per trattenerlo piacevolmente a sè? E l’altro gli affonda le unghie nella carne nel disperato tentativo di difendersi o per un voluttuoso gesto animalesco? Ma sto facendo troppe domande” ride, il fiato caldo a lambirgli il volto, “Io penso solo tu sia bellissimo. Così libero, privo di alcuna inibizione, votato all’esclusiva ricerca del piacere carnale. Vivo! Oddio, sì, vivo per una volta, almeno, nella tua vita fatta di continue deduzioni”.
Sherlock vorrebbe distogliere lo sguardo ma non ci riesce. Resta lì a guardare se stesso incitare John e avvicinarsi sempre più inesorabilmente al momento in cui ha perso ogni controllo.
“E’ stato bello, vero?” gli chiede James privo di alcun pudore.
<< Sì >> ammette lui e solo ora riesce a chiudere gli occhi. Ora che sa cosa sta per dire.
“Oh” esclama Moriarty allontanandosi stupito. “Lo hai detto davvero?” chiede, portando teatralmente entrambe le mani al volto. “Sherlock, ma non si fa! Non si fa! Non c’è cosa più ingenua che dichiarare il proprio amore sull’onda dell’orgasmo” dice incrociando le braccia al petto.
Lo sa. Sherlock sa bene di aver sbagliato. Se non gli avesse dichiarato il suo amore forse John non si sarebbe tirato indietro. Troppo impegnativo l’amore, soprattutto se dichiarato così presto.
“Dici?” gli chiede James, osservandoli mentre si scambiano baci ora più dolci e lenti. “Penso che lo avrebbe fatto comunque. Voleva solo scoparti e lo ha fatto. Anche bene a quanto vedo. Cosa te ne frega di una cosa così umana e inutile come l’amore?” chiede inorridito. “Sai bene cosa questo porta. Solo morte e distruzione. L’amore è solo un problema”.
<< Sì >> annuisce lui. Questo assurdo sentimento è in grado di portare solo problemi. Enormi problemi.
“Non è questo, però, il problema finale” sussurra James facendosi nuovamente vicino.
 
La porta si apre e la luce che entra violenta a fendere l’oscurità nella quale è intrappolato lo strappa al suo Mind Place.
<< Presto, dobbiamo fare in fretta! >> sussurra Mary bambina. << Lo solleva dal suo giaciglio fatto di escrementi e vomito con la stessa semplicità con la quale una bambina raccoglierebbe una bambola da terra. Sherlock si lascia trasportare da quelle braccia dure come la roccia che lo adagiano delicatamente nella vasca. I morsi dell’astinenza sono passati ormai, ciò vuol dire che deve essere trascorso molto tempo da quando è iniziata la punizione dell’isolamento. Benchè il dolore allo stomaco e i conati siano passati ora è preda di una grande stanchezza. La gamba gli fa ancora male, benchè meno rispetto all’inizio. L’osso deve essersi ormai quasi saldato. In che modo non è dato saperlo. Resterà zoppo. Irrimediabilmente zoppo. Ride come un idiota dinanzi a quella constatazione. Frammenti di ricordi legati alle prime ore trascorse con John, quando ancora viaggiava aggrappato al suo bastone, gli tornano in mente. Quella del dottore era una zoppia psicosomatica. La sua, invece, sarà dolorosamente vera. Eccolo, di nuovo, il riassunto di tutta la sua vita espresso in un pensiero. Agli altri situazioni fastidiose, sì, ma passeggere. A lui, invece, solo danni permanenti per i quali non c’è alcun rimedio.
“Vi prego date un Oscar a questa regina del dramma!” esclama Moriarty. Il fatto che la sua voce si insinui nei suoi pensieri anche adesso che non è nel suo Mind Palace dovrebbe preoccuparlo, invece non gli da molto peso. Porta avanti quella doccia che lo scalda appena, consapevole del fatto che tra poco Mary tornerà a riportarlo in cella, sussurrando la necessità di fare in fretta. Si avvolge nell’accappatoio ruvido e si accoccola a bordo vasca ed è così che lei lo trova.
<< Hai già finito? >> gli chiede stupita, porgendogli la ciotola piena del solito brodo di pollo bollente. Gli si siede accanto e come sempre lo osserva mangiare piano. Quando ha finito si alza con la solita urgenza, pronta a caricarlo sulle braccia e riportarlo dentro.
<< No, Mary, aspetta >> la blocca, lasciandola senza parole. << Sta per finire, non è vero? >>.
<< La bufera, dici? Sì. Il vento è calato e nevica già molto meno >>.
<< Non la bufera, Mary. La mia vita. Mi porterà alla fossa appena la neve smetterà di cadere >>.
<< Io… come lo sai? >> gli domanda spaventata allontanandosi da lui.
<< Oh, si ha molto tempo per ascoltare quando si è chiusi in uno stanzino buio >>.
Mary annoda in modo convulso la brutta treccia che si è fatta oggi e che le scende sulla spalla.
<< Ho tentato di farla ragionare, ma è tanto arrabbiata con te e non crede al tuo pentimento >> tenta di giustificarsi sull’orla del pianto.
<< No, Mari. Io penso che sapesse già cosa fare di me fin dal momento in cui mi ha trovato. La stessa cosa che era solito fare tuo padre. Tu lo sapevi e volevi portarmi a valle, ma la bufera ti ha impedito di salvarmi >>.
La bocca della donna disegna una buffa ‘O’ perfetta di stupore. La mano che annoda la treccia si blocca del tutto, preda dello stupore. Il viso, poi, le si strizza come una spugnetta e esplode nel pianto.
<< Mi spiace, Edward >> singhiozza accarezzandogli i capelli umidi con la mano. << Io non ho mai voluto che a nessuno fosse fatto del male. Tremavo sempre quando mio padre o i miei fratelli portavano a casa uno sconosciuto ferito. Sapevo che non avrebbe fatto ritorno a casa, che ci fosse stata o meno la neve. Loro lo ripulivano di tutto e poi, quando lo portavano alla fossa, lo lasciavano lì a morire >>.
<< Per questo li hai uccisi, Mary? >>.
Rabbrividisce, ora, dinanzi a questa ennesima deduzione.
<< Come fai a saperlo? >> gli chiede, il viso pallido e teso.
<< Perché sei buona e volevi solo la smettessero. Sia di uccidere estranei che di punire te. Non è bello quello stanzino. È buio, stretto e freddo >>.
<< Ho dovuto farlo >> tenta ancora di giustificarsi mentre le lacrime le rotolano sul viso quadrato.
<< Lo so, lo capisco >>.
<< Non sei arrabbiato con me, Ed? >>.
<< No, Mary. Hai giustiziato degli assassini. Mi spiace solo tu non abbia potuto eliminarli tutti >>.
<< Ci ho provato, ma non ci riesco >> ammette tra le lacrime.
<< Oh, è difficile, lo so. Ma va bene così. Non lascio nessuno. Sono pronto >>.
<< Come non lasci nessuno? E Molly? >> gli domanda. Gli occhioni lucidi che mette su ogni volta che le parla di lei lo guardano sconvolti.
<< Troverà una persona più presente di me e capace di amarla >> risponde, pensando a quanto sia assurdo quel pensiero, quella conversazione, tutta quanta questa situazione.
<< No! Soffrirà. Soffrirà tanto, invece >> ribatte disperata portando le mani ai capelli.
<< E’ possibile, ma… non possiamo fare nulla. Quando la bufera finirà, con lei avrà termine la mia vita >>.
 
Per oggi mi fermo qui. Penso che prima di domenica prossima non riuscirò a postare altro. Vi auguro ancora una buona conclusione di queste feste e un buon inizio 2019
A presto
Patty

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Capitolo 11
*** 30 novembre ***


Buonasera a tutti!
La befana mi ha portato una bellissima influenza. Le sono molto grata, ovviamente…
Dal momento che ho dovuto rinviare per questi due giorni tutti gli impegni, ho pensato di postare un altro capitoletto di questa ff e spero che la cosa possa farvi piacere. Per il resto ci vediamo domenica.
Buona lettura
A presto
Patty
 
30 novembre
 
<< Se non sbaglio le avevo detto fin dall’inizio che quella donna non mi lasciava tranquillo >>.
John colpisce forte la scrivania dell’ispettore con un pugno, facendo volare per terra qualche foglio.
<< Capitano, io non potevo immaginare che… >>.
<< Questo l’ho capito! Ora, però, che anche dai reperti del coroner su quei cadaveri sono venute fuori non poche prove su quanto sia totalmente pazza, perché siamo ancora qui anziché essere già sulla via di casa sua? Ha smesso di nevicare da un pezzo, ormai >>.
<< Gli spazzaneve stanno facendo il possibile per rendere le strade agibili >>.
<< Mi permetta di andare su con un gatto delle nevi, allora >>.
<< Capitano, io non posso permetterle di andare da solo dalla Abbott, non dopo quanto è venuto fuori su di lei >>.
<< Il mio amico potrebbe essere lì in trappola! >>.
<< Mi spiace doverglielo dire, ma se le cose stanno davvero così è più probabile che sia già stato sepolto da qualche parte >>.
John stringe forte i pugni e cerca di mantenere la calma. La mano di Mycroft si posa sulla sua spalla e si stupisce dell’effetto calmante che riesce ad avere quel semplice gesto. Mycroft non dice nulla. Si milita a stringergli appena la spalla prima di ritirare la mano. Il telefono suona e l’ispettore non lo lascia arrivare al secondo squillo. Borbotta qualche monosillabo prima di riagganciare.
<< Gli spazzaneve sono arrivati adesso dove l’auto di Holmes è stata ritrovata. Stimano di essere dalla Abbott in tre ore >>.
John porta la mano al viso sconsolato. Tre ore. Altre fottutissime tre ore. Annuisce impotente e si allontana dal gruppo senza dire una parola. Si siede ad una delle poltrone poste davanti al camino nella sala d’attesa della stazione di polizia.
Osserva le fiamme danzare proprio come aveva fatto quella domenica mattina. Spostava lo sguardo a intervalli quasi regolari dalle fiamme al consulente piacevolmente addormentato sul divano. Gli aveva steso addosso una coperta nella quale lui si era imbozzolato. Aveva un sorriso sereno sul viso e dormiva come non lo aveva mai visto fare in questo lungo anno di connivenza.
C’era una nota d’orgoglio nell’animo di John per essere stato l’artefice di tale stato di beatitudine. C’era, però, anche una fetta più grossa di senso di responsabilità per quella felicità. Avrebbe dovuto reggerne il peso, prodigarsi per mantenerla e soprattutto darsi il permesso di viverla a sua volta. Troppe cose tutte insieme e tutte fantastiche. No, non potevano essere davvero per lui. Sarebbe stato un idillio che si sarebbe spento, come tante altre volte gli era accaduto. Solo che questa volta non voleva neppure provarci, perché la persona che in quel momento stava dormendo beata non era come tutte le altre. Tanto intelligente quanto fragile e lui non voleva rischiare di distruggere tutto dopo tempo con una qualche scappatella o con la solita battuta sbagliata o comportamento opinabile. Tanto valeva distruggerla subito.
Quando lo ha sentito borbottare nel sonno, annusando l’imminente risveglio si è alzato in piedi ed è rimasto fermo a guardarlo. Avrebbe voluto avvicinarsi a lui, accarezzargli i capelli e il viso e posare un bacio su quelle labbra che aveva tormentato con piacere. Invece si è visto bene dal fare qualunque cosa. E’ rimasto immobile, i pugni stretti, e quando gli occhi di lui si sono aperti e hanno incontrato i suoi, quando gli ha regalato quel bellissimo sorriso sereno ha sinceramente vacillato. Quel ‘ti amo’ sospirato gli ha invaso la mente, stretto lo stomaco e scosso il corpo con brividi di paura.
“E’ troppo per me. Troppo”.
Sherlock ha subito notato il suo atteggiamento. Si è messo a sedere avvolgendosi nella coperta, come se all’improvviso si fosse sentito in imbarazzo. Non c’era più traccia del sorriso né dell’espressione di beatitudine sul suo viso.
“Ecco. Ho distrutto qualcosa di bello” ha pensato John, prima di aprire quella maledetta bocca e dare voce al discorso più insensato, inutile e doloroso che abbia mai fatto. Ogni volta che ha alzato gli occhi a incontrare i suoi ne ha visto il volto sempre più stupito, incredulo. Ogni volta è stata una pugnalata al cuore e, benchè si chiedesse perché stesse facendo tutto questo, non è riuscito a smettere. Avrebbe potuto più volte uscirsene con una battuta e far finta di averlo voluto prendere in giro. Lui gliene avrebbe dette di tutti i colori, ma avrebbero potuto far finta di bisticciare per un po’ e concludere il battibecco con del gran bel sesso mattutino. Invece no. E’ andato avanti, John, nonostante il suo silenzio, nonostante avrebbe voluto chiedergli di dire qualcosa. Ed è stato devastante quando, finalmente, Sherlock qualcosa ha detto.
<< Sono stato solo l’ennesima tacca sulla cintura, quindi. Va bene. Va bene così >> ha sussurrato per poi alzarsi avvolto dalla coperta e chiudersi in bagno. John è rimasto per ore ad aspettare che uscisse da lì. Ore scandite dal doccino attivo della vasca. L’acqua calda doveva essere finita da un pezzo, eppure lui non è sembrato volerne sapere di uscire da sotto il getto.
John non ha retto. E’ salito in camera, ha indossato i primi abiti che gli sono capitati sotto tiro ed è uscito nella fredda domenica mattina novembrina. Quando è tornato, Sherlock non era in casa. Da allora non l’ha più visto. Le ultime cose che gli restano di lui sono quella frase e la sua uscita di scena.
Il dottore passa le mani sul volto stanco. Non avrebbe dovuto permettere che quella serata avesse luogo. Quando Bryan ha iniziato a fare lo scemo con Sherlock avrebbe dovuto prendere le parti del suo amico e porre un freno alla sfacciataggine del suo ex commilitone. Invece non ha fatto nulla. E’ rimasto lì a guardare, mentre Bryan trascinava fuori a forza Sherlock dal 221B, limitandosi ad alzare gli occhi al cielo e sbuffare. Questo perché, infondo, gli piaceva l’idea di avere anche Sherlock ad una delle loro serate al pub, benchè sapesse quanto questi si sarebbe sentito come un pesce fuor d’acqua in quell’ambiente. Il desiderio di vederlo in un luogo comune a compiere azioni comuni come quella di bere una birra, ascoltare musica, chiacchierare è stato più forte del buonsenso.
Ho tentato di cavar sangue da una rapa” pensa e gli tornano alla mente gli sguardi confusi che gli ha lanciato Sherlock, il disagio così ben impresso sul suo viso. Quando lo ha visto bere ha capito di aver combinato un vero e proprio guaio a non permettergli di restare a casa, così come lui avrebbe voluto.
<< John, mi sa che è meglio se lo porti via da qui e alla svelta >> gli ha detto Greg dandogli di gomito, quando lo ha visto scrollarsi di dosso in malo modo Bryan che si stava prendendo fin troppe libertà.
<< Se, allora, non c’è nulla tra voi non avrai niente in contrario se ci provo >> gli aveva detto l’ex soldato pochi minuti dopo aver conosciuto Sherlock. Gli si è stretto lo stomaco all’idea che qualcuno, soprattutto uno come Bryan, potesse avere l’intenzione di provarci col suo coinquilino. Eppure non si è opposto adducendo un suo interesse nei confronti del consulente.
“E guarda a cosa siamo arrivati, per aver cercato di proteggere non so neppure più cosa” sospira, sporgendosi verso il camino. L’ondata di calore gli ustiona la pelle.
<< Ti brucerò il cuore >> aveva detto Moriarty a Sherlock. John non può fare a meno di ridacchiare pensando che il Napoleone del crimine non si è dovuto neppure sporcare le mani. Ci ha pensato lui, il blogger senza il quale il consulente investigativo sarebbe perduto, a bruciargli il cuore.  
Qualcuno tossicchia alle sue spalle. John si volta appena e trova Mycroft in piedi al suo fianco, una tazza di the tra le mani.
<< Ho pensato che qualcosa di caldo ti avrebbe fatto bene >> gli dice porgendogliela.
<< Ti ringrazio >> risponde, prendendo la tazza dalle mani di lui. E’ piacevolmente calda al punto giusto, nè troppo rovente né fastidiosamente tiepida. John la porta alle labbra e ne prende un sorso trovandolo davvero delizioso.
<< Mio fratello ci mette talmente tanto zucchero da renderlo imbevibile. Vedo che tu, invece, ne apprezzi l’aroma naturale, come me >> dice prendendo posto alla poltrona libera al suo fianco. << Non lo hai ucciso tu, John >>.
<< Non è morto, Mycroft. Io sento… sì, lo sento. È ancora vivo, Mycroft. Uno come lui non lo si uccide tanto facilmente >>.
<< Ti disperi come se lo fosse. E ribadisco che non sei stato tu >>.
<< Come puoi non avercela con me? Greg mi ha voltato le spalle quando gli ho raccontato cos’era successo, prendendo le sue parti. Tu, invece, mi porti addirittura il the ed è di tuo fratello che stiamo parlando >>.
Mycroft prende un lungo sorso restando in silenzio, lo sguardo alle fiamme che danzano allegre.
<< Appurato quanto tu sia stato più una rovina che una benedizione per lui, cos’altro dovrei fare? >> ribatte facendo spallucce. << Come ti ho già detto, ciò che è successo tra voi non è affar mio. Ogni tipo di coinvolgimento non è affar mio. Che colpa avresti tu se non quella di esserti comportato come la maggior parte degli uomini? Certo, avrei sperato non andasse così e, ovviamente, soprattutto Sherlock lo sperava. Ma, detto tra noi, John, quanto sarebbe potuta durare? Lui ha un carattere impossibile e la tua smisurata pazienza sarebbe giunta a conclusione. È più facile perderla quando i rapporti si fanno più intimi. Sarebbe logico il contrario, ma pare che non sia affatto così. Lo avresti tradito, prima o poi, e lui lo avrebbe scoperto e sarebbe finita molto peggio. Penso, quindi, che la tua decisione sia stata la più sensata. Dolorosa, non lo metto in dubbio, e per entrambe le parti, ma sensata >>.
Sentire Mycroft mettere a parole la giustificazione che si è dato per farsi coraggio e dare voce a quell’assurdo discorso lascia John senza parole. Non ha mai pensato al futuro di una relazione. Si è sempre solo buttato a capofitto, prendendo ciò che c’era da prendere. Più che lasciare è stato lasciato e, se proprio deve dirla tutta, lui l’avrebbe scritto in modo diverso il finale di una loro possibile relazione. Sarebbe stato lui ad essere lasciato anche questa volta. Per noia, per assenza di stimoli, per disinteresse una volta diventato una scontata routine. Sì, di questo ne è convinto, solo non riesce a metterlo a parole. A cosa servirebbe ribattere se non a fare la figura di colui che vuole giocare alla vittima dopo aver voluto ad ogni costo vestire i panni del carnefice?
“Mi accontenterò, allora, di riportarlo a casa sano e salvo. Da lì, poi, si vedrà” sospira mandando giù dell’altro the. Passeranno anche queste tre ore. Passeranno e andranno in quella casa degli orrori e lì lo troveranno. Ne è più che sicuro. E sarà vivo. Sì, non potrà che essere così. Vuole che sia così.
 
***
 
La porta si apre e la luce gli ferisce gli occhi ancora una volta. L’ultima. Dal basso della sua condizione disperata Sherlock può vedere Mary ergersi in tutta la sua possente stazza. Lo sguardo spietato, la bocca una pallida linea netta. Non dice nulla. Sta ferma lì, una mano alla porta e l’altra lungo il fianco.
Anche Sherlock non dice nulla. Cosa mai ci potrebbe essere da dire? Non c’è traccia della Mary bambina in quella statua grezza che lo guarda severa.
Lo afferra per un braccio e lo trascina fuori dallo stanzino e poi giù per le scale. Sherlock cerca di non lasciarsi sfuggire neppure un lamento. Non vuole che si infuri con lui rendendo quanto sta per accadere ancora più doloroso.
Mary apre la porta d’ingresso e lo trascina fuori casa. Il freddo lo avvolge trafiggendogli la carne come mille spilli. Sherlock inizia a tremare come una foglia e a battere i denti. Sorda dei lamenti che involontariamente il consulente produce, Mary lo solleva da terra e lo getta con nessuna grazia dentro il furgone. Resta immobile e imbambolata con la mano aggrappata alla maniglia del portellone.
“Forse ho ancora una speranza” pensa guardando quella statua di carne. “Forse Mary bambina prenderà il sopravvento e mi porterà da Hataway, come le avevo proposto” spera con tutto se stesso.
La donna si ridesta e con gesti veloci si sposta alla portiera del lato passeggeri e sembra cercare qualcosa all’interno dell’abitacolo. Gli lancia una coperta e senza degnarlo di uno sguardo chiude la portiera laterale.
“Mi spiace dirtelo, ma credo che la tua amichetta abbia ottenuto solo questa coperta dalla tua aguzzina” gli dice Moriarty comparendo seduto contro il portellone. Sherlock ignora la sua ironia e, con movimenti resi meno sicuri e più lenti dal tremore, si avvolge in quel rettangolo di lana lavorata ai ferri. Ha il profumo della lagna bruciata e un retrogusto di lavanda, proprio come quella del camino. Il leggero tepore lo aiuta a sedare i brividi, benchè a intervalli quasi regolari questi tornino a scuoterlo da capo a piedi. Si accoccola in posizione fetale proprio come aveva fatto quella domenica mattina, quando aveva sentito il dolce peso della coperta posarsi su di lui.
 “Ci speri, di la verità” ridacchia James.
<< In cosa? >>.
“Che lui corra a salvarti. La damigella in pericolo tratta in salvo dal suo baldo principe azzurro”.
Sherlock ci pensa su qualche istante. Sì, forse una parte di lui spera di essere salvato. È un essere umano, dopo tutto. Sente, però, di essere avvolto da un pesante velo di menefreghismo. Non gli importa. Vivere, morire. Essere salvato o meno. Non gli importa.
“Davvero?”.
<< Sì >> risponde convinto. << Troppo a lungo ho lottato contro la noia e l’idiozia della gente. Forse è giusto così >>.
“’Morto durante un’indagine. Vittima a sua volta del pazzo seriale a cui stava dando la caccia’. Sì, non sono male come titoli altisonanti di testate giornalistiche importanti” constata James. “Dimmi, però, se le cose fossero andate diversamente col tuo dottorino, ti saresti lasciato andare così?”.
Il Napoleone del crimine, o meglio la versione di lui che vive nel suo Mind Palace, gli ha posto una domanda scomoda che lo lascia senza parole.
“Io credo”, continua questo avvicinandosi a lui, “che se John, quella domenica mattina, anziché con quel discorso incoerente e svilente avesse accolto il tuo risveglio con un bacio e tante dolci coccole ti saresti prodigato fin dall’inizio per cercare di tornare da lui sano e salvo. Non saresti di certo qui, così inerme e avvilito, pronto a morire per ‘amore’”.
Sherlock non riesce a ribattere alla sua cruda verità. Lo stomaco gli si contrae rimandandogli un sapore acido in bocca. Sapore che gli ricorda di come abbia vomitato, e parecchio anche, quella domenica mattina. Si era chiuso in bagno, aveva aperto il doccino della vasca e si era lasciato sopraffare dai conati. Forse sarebbe finito comunque col vomitare l’anima, anche John si fosse comportato in modo diverso. Aveva bevuto decisamente troppo, cosa a lui poco avvezza. Era stato, però, ancora più umiliante abbracciare la tazza dando fondo ai succhi gastrici dopo quelle parole.
<< Ci siamo fatti prendere un po’ la mano, Sherlock >> aveva esordito John serio e distante. << Eravamo entrambi ubriachi e… può succedere. Sì, direi che può succedere >> aveva arricciato il naso in quel modo che ha sempre trovato buffo, ma che in quel momento non lo era per niente. << Penso sia meglio che resti un fatto isolato da non ripetere. Penso sia meglio per entrambi >> aveva concluso umettando le labbra.
“E tu, invece, ti aspettavi dichiarazioni d’amore eterno e tanto altro tenero sesso” scuote il capo Moriarty.
<< E perché non avrei dovuto? >> ribatte mostrando finalmente un moto di reazione.
“Mio caro, non sto dicendo che non avresti dovuto. Hai sbagliato i tempi, come sempre” gli fa notare James. “Insomma, lo sai di chi stiamo parlando, dai! Cristo, gli hai detto di amarlo. Uno come John scappa di fronte a simili dichiarazioni perché non si sente all’altezza. Sa di non valere nulla, di essere solo la spalla comica del grande consulente investigativo! Il suo compito, infondo, è quello di scrivere di te, delle tue gesta. Il narratore è ben poco considerato, sai? Tutte le attenzioni sono concentrate sul protagonista e tu sei il tipo di persona che in attenzioni simili ci sguazza”.
Sherlock preme forte le mani sulle orecchie. Non vuole sentire queste parole. Questa verità terribile. Non può pensare di essere altro se non vittima di quanto è accaduto. Vuole dare a John tutte le colpe e tenere per sé le ragioni.
Il furgone si ferma all’improvviso. Mary scende sbattendo la portiera. Sente i suoi passi pesanti attutiti dalla neve fare il giro del furgone ed aprire il portellone. Sherlock si stringe ancor di più nella coperta calata sul viso. Le mani enormi di lei lo afferrano e non oppone alcuna resistenza mentre lo tira fuori dal furgone. Lo tiene tra le braccia e lui ne intravede appena il viso serio, concentrato. Si ferma poi e resta imbambolata per un lungo istante. Il vento è forte e fa danzare la coperta. Sherlock trema e batte i denti.
“E’ terribile” pensa punto da mille spilli gelidi.
All’improvviso il sostegno delle braccia forti di Mary viene meno e Sherlock precipita. Grida colto di sorpresa e impatta subito con la superficie fredda e dura della fossa.
I passi pesanti attutiti dalla neve si allontanano. Una portiera viene aperta e poi richiusa. Il motore parte e il furgone si allontana.
 

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Capitolo 12
*** 1 dicembre ***


Buonasera a tutti!
Ok, ok è già la seconda volta che vi dico ‘ci vediamo domenica’ e poi, a tradimento, posto un altro pezzo. Vogliatemi bene lo stesso, però, soprattutto oggi che compio un anno qui su EFP!
Quattro mesi esatti dopo essermi iscritta, ho postato il primo capitolo di ‘Hasta la verdad, siempre!’ (il numero 9 deve essere importante nella mia vita, perché me lo ritrovo spesso associato agli eventi importanti….), long che mi ha dato grandi soddisfazioni! Come vi dicevo, questa breve storia che sto pubblicando mi è stata utile in un momento di blocco durante la stesura della long. Mi è sembrato giusto, quindi, regalarvi per festeggiare questo anno insieme quello che è il capitolo, o meglio la giornata, che mi è piaciuto di più scrivere. Chi di voi ha letto la long ci troverà delle similitudini e spero che questo non vi appesantisca la lettura. A mio avviso, però, benchè nasca dalla costola di un blocco dello scrittore per una storia più grande e complessa (decisamente più complessa!!), questa petit è di un genere e di un’atmosfera del tutto diversi e che a me piace un sacco! Spero piaccia anche a voi.
È stato un anno davvero interessante ed è stato un piacere offrirvi queste storie.
Buona lettura
Questa volta, davvero posterò quel che resta domenica.
 
Patty
 
1 dicembre
 
John annusa l’aria. È la prima cosa che è solito fare Sherlock quando giungono su una nuova scena del crimine. Entra, si guarda attorno e annusa l’aria. È capace di elencare uno per uno gli odori che percepisce e dare ad ognuno di loro il suo esatto senso d’essere, come un segugio. John trova sia l’ennesima fantastica dote del geniale uomo col quale ha l’onore di vivere e che ora cerca di emulare.
Hanno fatto irruzione in casa di Mary a mezzanotte da poco passata. L’hanno trovata avvolta in un vecchio scialle, confusa dalla loro presenza. John ha lasciato che Hataway facesse il suo dovere arrestandola e lui si è fiondato in casa, seguito da Mycroft, alla ricerca di Sherlock.
Sente in lontananza il tono remissivo della voce della donna, che si difende dicendo di non capire il perché la stiano arrestando, e deve fare uno sforzo per chiuderla fuori dalla sua mente e concentrarsi sulle indagini, anziché saltarle alla gola.
Nell’aria, l’odore di legna bruciata e lavanda si mescola con quello di brodo di pollo e quello agre di disinfettante. C’è qualcosa in questa casa che gli mette i brividi. Il mobilio è vecchio, ma ben tenuto e la carta da parati verde acido è una scelta d’arredo molto opinabile. Non è quello, però, a inquietarlo. È fin troppo ordinata e pulita. Asettica, si potrebbe dire. Proprio come un ospedale.
<< Questi segni sulla moquette >> dice Mycroft indicando i gradini delle scale. John non ascolta oltre e segue quanto indicato dal fratello del consulente investigativo. Sente appena la donna domandare all’ispettore perché i due londinesi stiano prendendosi simili libertà in casa sua e lui lasciarla ai suoi uomini (si è portato dietro quasi tutto il comando) per seguirli al piano superiore.
<< Sembra anche a te che qualcosa sia stato trascinato su questa moquette, Myc? >> gli domanda, tenendo lo sguardo fisso sulle diverse piste che si incrociano ben evidenti sulla moquette e che pare proprio siano state causate dal trascinamento di qualcosa di pesante.
<< Sì >> annuisce Mycroft che segue i segni sulla seconda rampa di scale.
<< Do un’occhiata nelle stanze di questo piano, Capitano >> lo informa Hataway, che, da quando il coroner ha detto loro che tra i 40 corpi ritrovati nella fossa c’erano anche quelli dei quattro fratelli e della madre della donna, lasciati morire di stenti a seguito di percosse violente, si è fatto più arrendevole alle sue richieste. L’ultimo corpo che questa donna ha gettato nella fossa è stato quello della madre poco più di un anno prima. Da allora sembra non ne siano stati portati lì altri.
“Ammesso che non li abbia sotterrati nei terreni di sua proprietà” pensa John rabbrividendo.
Il dottore si limita ad annuire all’ispettore, senza dare troppo peso alle sue parole. Segue la pista sulla moquette, che dalle scale sembra dividersi in due direzioni: una porta al bagno del piano, l’altra ad una porta chiusa.
<< Le stanze sono tutte vuote, Capitano >> gli dice Hataway, mentre John osserva il bagno dalla porta. << Il vecchio Liland le usava per i degenti. Sembrano tutte camerette da ospedale, in effetti. Era un tipo metodico ed organizzato, come le dicevo >> aggiunge, grattandosi la testa visibilmente a disagio. Non deve aver vissuto casi più complicati di una morte accidentale o di incidenti stradali, questo ispettore di provincia e scoprire che una delle donne con le quali ha parlottato spesso è una pazza assassina lo ha visibilmente turbato.
<< Lo sente questo forte odore di disinfettante, ispettore? >> gli chiede entrando nel bagno.
<< Sarebbe impossibile fare altrimenti >> risponde arricciando il naso.
<< Esatto >> annuisce esaminando un pappagallo e delle bacinelle dai quali si espande intenso il puzzo di disinfettante. << Proviene, però, solo da due stanze. Questa e quella >> dice indicando l’altra porta chiusa. << E, casualmente, i solchi sulla moquette conducono proprio a queste >> aggiunge, uscendo dal bagno per portarsi alla porta chiusa. Afferra la maniglia, ma la porta è chiusa a chiave. Il legno è molto rovinato, come avesse subito violenti attacchi. Il cuore di John batte forte all’idea che Sherlock possa trovarsi là dentro e, senza pensarci due volte, la apre con una spallata (cosa che, benché abbia usato la destra, poco piace alla sua spalla sinistra, ma sono dettagli trascurabili, al momento).
Quello che scopre essere uno stanzino, però, contiene solo una serie di scatole accatastante le une sulle altre.
<< Non c’è niente qui dentro! >> esclama Hataway facendo capolino alle sue spalle.
<< Questo non vuol dire che non ci sia stato >> ribatte John, trovando davvero idiota il commento di quest’uomo. << L’odore di ammoniaca qui è ancora più forte. E’ stato pulito di recente, questo posto, e con cura >>.
Accende la lampadina dall’interruttore posto all’esterno e osserva il pavimento. Solo così nota la presenza di graffi nella parte interna della porta.
<< Oddio! >> esclama, catturando l’attenzione dell’ispettore, che si abbandona a una colorita imprecazione quando vede i solchi sul legno, sicuramente lasciati da unghie umane.
<< John, vieni qui! >>.
Mycroft lo chiama dal piano di sopra e lui ci mette un attimo a riprendersi da quanto ha scoperto e ordinare alle sue gambe di raggiungerlo. Lo trova sulla soglia di una delle stanze presenti sul piano.
<< Questa camera è stata non solo pulita, ma disinfettata da poco >> gli dice Mycroft arricciando il naso all’intenso odore di ammoniaca. << Il materasso è più lasso di quello delle altre stanze, segno che ha ospitato qualcuno per molto tempo e il camino è stato spento da poco >>.
<< Nello stanzino al piano di sotto ho trovato dei graffi nella parte interna della porta. Anche lì sono state fatte grandi e meticolose pulizie >> lo informa John, stringendo i pugni.
<< La conferma della presenza di mio fratello in questa casa, però, la si ottiene da due oggetti che ho trovato qui. Uno è questo >> dice Mycroft, mettendogli sotto il naso la custodia di un violino. << Doveva essere da molto tempo che nessuno la apriva, le cerniere sono arrugginite >> spiega con una strana stanchezza nella voce. << E’ stato, però, suonato di recente e… guarda qui >> gli dice indicando l’attaccatura delle corde alla cordiera. << Nell’accordarlo una corda deve essere sfuggita dalla cordiera e lui l’ha messa a posto annodandola nel modo che si è inventato e che è, a suo dire, più resistente >>.
John ricorda bene la dettagliata spiegazione che gli fece una sera, mentre cambiava le corde al violino. Dopo un po’ si era perso e aveva preso ad annuire senza seguirlo più di tanto. Quante leggerezze si è preso anche lui nei suoi confronti. Non riusciva, però, a stargli dietro. Non riuscirebbe mai a stare al suo passo.
<< Inoltre, sotto ad un mobile posto vicino al camino, ho trovato questo >> gli dice mostrandogli un pezzo di tessuto blu cobalto bruciacchiato.
La sciarpa di Sherlock. La bella sciarpa blu che tante volte gli ha visto annodare e togliere dal collo pallido e lungo. Il collo sul quale ha affondato i denti più volte quel sabato notte, lasciandogli segni che è probabile abbia ancora adesso. Perché è vivo. Non è lì, dove era più che sicuro lo avrebbero trovato, ma lui sente che è ancora vivo.
Furioso all’idea che possano essere arrivati tardi, John scende svelto le scale e si porta come una furia dinanzi al donnone.
<< Dove lo hai portato? >> le chiede, cercando di vincere l’istinto di afferrarla per il bavero della camicia di flanella che sbuca da sotto lo scialle.
<< Di chi sta parlando? >> ribatte questa stupita.
<< Di chi sto parlando? >> ripete lui ridendo. << Sto parlando della persona che hai tenuto prigioniera nello stanzino su al primo piano. Di quella che ha suonato per te il violino nella stanza al secondo piano. Sto parlando del proprietario di quella che un tempo era una sciarpa blu >> dice sbattendole sotto il naso il brandello di tessuto.
La donna vacilla dinanzi alla sua furia e sembra stare per ribattere qualcosa, ma si blocca del tutto, come le era successo davanti all’emporio di Jo.
<< Capitano, temo ci siate andato giù pesante. Se esplode furiosa non basteranno tutti gli uomini qui presenti per tenerla a bada >> sussurra Hataway, lo sguardo preoccupato fisso sulla donna.
<< Non mi importa, ispettore. Potrebbe essersi liberata di lui da poco, l’odore di ammoniaca è terribilmente forte e quindi recente. Non ho intenzione di perdere altro tempo >>.
Fa per scuotere la donna che, però, si ridesta da sé. Lo guarda con occhi diversi. Più sinceri e piccoli, come quelli di una bambina.
<< Io non volevo >> sussurra con voce rotta. << Ho tentato di fermarla, ma non mi ha dato retta >> aggiunge e grosse lacrime luccicanti si sganciano dagli occhi e le rotolano sulle guance. << L’ho convinta a lasciargli una coperta, così forse ce la fa >>.
Tutti i presenti trattengono il respiro dinanzi a quelle parole prive di senso, ma dal significato terribilmente chiaro.
<< Dove lo ha portato, Mary? >> le domanda John sentendo l’urgenza impadronirsi di lui.
<< Alla fossa >> ammette lei strizzando gli occhi.
<< Quando? >> la incalza con tanta enfasi da spaventarla.
<< Io… non lo so… mi ha detto di pulire tutto quando è tornata >> risponde stringendosi nelle spalle.
John non ha bisogno di sentire altro. Corre fuori senza pensarci due volte. Sente appena Hataway richiamarlo, mentre mette in modo l’auto. Scorge l’ispettore e alcuni dei suoi uomini correre verso di lui, che sta già guidando fuori da quella casa infernale.
“Ti prego, resta vivo!” pensa stringendo il volante. “Resta vivo!” ripete sfrecciando sulla strada appena spazzata dalla neve, contro la quale le catene fissate alle ruote cigolano, producendo un suono spettrale.
 
***
 
Sherlock osserva se stesso tremare avvolto nella coperta che lo copre da capo a piedi. Un bozzolo di un rosa-grigio scolorito gettato in una fossa da poco ripulita. Ha risolto anche questo caso. Non crede, però, che riuscirà a vantarsene, questa volta.
Il grido di una donna lo coglie di sorpresa e si volta nella direzione dalla quale proviene. Scorge un cancello in lontananza. Un’auto ferma a pochi metri da questo. Un corpo senza vita equidistante da entrambi.
Si trova immediatamente vicino a questo corpo. Giace riverso sulla schiena, lo sguardo vitreo fisso al cielo e un’espressione di congelato stupore sul volto. Colpito al petto da un colpo di pistola. Dritto al cuore, senza scampo.
“Perché sono finito qui?” si chiede stringendo i pugni.
“Perché stai per morire, Sherlock” gli dice Moriarty, comparendo alle sue spalle. “Si dice che ognuno di noi riviva la sua vita prima di morire. Tu sei tornato qui, dove il tuo problema ha avuto inizio”.
La donna grida di nuovo, uno strillo più acuto e disperato questa volta.
“Sì, devo ammettere che in questo caso sei stato una vittima innocente” dice il criminale battendogli la mano sulla spalla. “Sei stato preso in mezzo da una situazione più grande di te. Che ne dici, era un bell’uomo?” gli chiede toccando appena con la punta delle scarpe di pelle pregiata il corpo esanime.
Sherlock gli rivolge appena uno sguardo.
“Suvvia, non la starai mica condannando? Tutti cercano il loro amore. ‘All you need is love’, lo dicevano anche i Beatles. Oh, già, non sai neppure chi siano i Beatles, dico bene?” gli chiede e lui scuote appena il capo. “Già” ribatte James schioccando le labbra. “Tuo padre era il tipo di persona con la quale avrei collaborato molto volentieri. Più freddo di tuo fratello. Il re degli uomini ghiaccio” dice soddisfatto. “Questo esserino anonimo deve averle dato il calore che da lui non riceveva. Chissà, forse quello che non sapeva neppure esistesse. Era una matematica, dico bene?” gli chiede e lui annuisce. “Perfetto. Numeri e sentimenti viaggiano su binari opposti. Deve essere stata una vera scoperta per lei. Chissà, forse questo qui l’avrebbe resa felice. Voleva portarti con sé, quindi in qualche modo a te ci teneva. Chissà come sarebbe stato crescere con loro, lontano dalla casa degli avi? Scommetto che ogni tanto ci hai pensato” lo sprona dandogli di gomito.
Sherlock, però, non reagisce. Fissa il cancello spalancato che da sul sentiero. Le grida hanno smesso di arrivare al suo orecchio da un po’ di tempo, ormai.
“Una brutta morte” dice Moriarty in tono greve. “Espressione strana, non trovi? Presuppone che ci sia una morte bella. Assurdo” ride del tutto privo di rispetto per il suo turbamento. “Dovremmo dedurne che la tua morte è tra quelle che possono dirsi belle, dal momento che tra poco ti addormenterai. E sentendo anche un piacevole tepore. Il primo uomo sepolto nel proprio Mind Palace” recita teatrale accompagnando queste ultime parole con gesti ampi delle braccia. “Voglio tu sappia che mi mancherai. Davvero” ammette portando la mano al petto. “Avrei voluto avere io il piacere di ucciderti. A quanto pare, però, una pazza psicopatica e pure un po’ scema è arrivata prima di me. pazienza” fa spallucce.
<< Non è scema >> sussurra prendendo finalmente parola. Moriarty si avvicina incuriosito. << Mary non è scema >> ripete guardandolo in viso. << Ha avuto una famiglia terribile, ma avendola eliminata passerà lei per la pazza e sanguinaria omicida. Nessuno si fermerà a pensare che ha subito gli abusi peggiori ogni giorno, ogni notte. Che se si è creata personalità diverse lo ha fatto solo per tentare di sopravvivere. La vedranno per quello che appare: una gigantesca donna inquietante. La tenerezza disarmante che ha dentro non farà notizia. La voce cristallina con la quale canta non è interessante, così come la sua risata. Meglio sottolineare il mostro, descrivere tutti i particolari più macabri dei suoi omicidi. Che poi sia stata umiliata, segregata, schiavizzata e stuprata a chi importa! >> conclude a denti stretti.
Moriarty lo osserva incuriosito, accarezzando piano il mento ben rasato.
“Sai, mi sto chiedendo se la tua sia sindrome di Stoccolma[1] o se, in qualche modo, ti rivedi in lei” osserva, ridacchiando. “Io penso solo che se sei tornato qui prima di trapassare sia perché questa donna ha permesso si chiudesse il cerchio aperto da quell’altra donna. Qui, a causa del comportamento riprovevole di tua madre, sei stato quasi ucciso da tuo padre” dice mostrandogli la mano sinistra. “Lì, a causa del comportamento altrettanto riprovevole del tuo dottorino, hai permesso a Mary di ucciderti” dice mostrandogli la mano destra. “Tutto qui” conclude, unendo le mani. “Ecco chiuso il cerchio. Una donna frustrata ha creato il problema e un’altra donna frustrata lo ha risolto. Facile no?”.
<< Per niente >> dice e questa volta è lui a ridacchiare. << Questa storia è tutto tranne che facile. Il ‘problema finale’, come ti piace chiamarlo, può anche essere stato creato da mia, madre ma non ne è lei la causa >>.
“Oh” esclama James colto da illuminazione. “E tuo padre, quindi! È lui il problema finale da risolvere. Sì, in effetti tutto fila. John ti ha fatto sentire una puttana e Mister Holmes è stato il primo ad averti dato della puttana, dico bene?”.
Queste parole gli stringono lo stomaco così forte da portarlo a fare i salti mortali per trattenersi dal vomitare.
“Non tenerlo dentro, Sherlock?”. Mycroft compare al suo fianco, cogliendolo di sorpresa. “Sputalo fuori. Ti sentirai più leggero, dopo, fratellino” gli dice abbozzando un sorriso.
Quel sorriso, così insolito da trovare sul viso di suo fratello, ne cattura l’attenzione. Quasi per caso si rende conto di come la scena sia cambiata attorno a loro. Si trovano in una stanza, adesso. una stanza che conosce fin troppo bene.
Si volta e rivede se stesso vent’enne fermo davanti ad una grande scrivania in mogano. Dalla poltrona in pelle pregiata suo padre lo osserva severo. I gomiti appoggiati sui braccioli, le dita delle mani unite all’altezza del torace. In piedi al suo fianco, un Mycroft più giovane fa viaggiare lo sguardo dal padre al fratello. Invisibili gocce di sudore gli imperlano la fronte, tradendone la tensione.
<< Tuo fratello mi ha detto di essere preoccupato per te, William >> gli sente dire e vorrebbe scappare via da quanto sta per accadere. << Asserisce tu faccia uso di droghe da qualche tempo. Cocaina, nello specifico. Teme tu ne sia diventato dipendente >>.
<< Non ne sono dipendente, ne faccio uso >> sente se stesso ribattere e prova tenerezza per quel ragazzino disperato che cerca di trovare il coraggio di restare lì, in piedi, dinanzi a quel tribunale spietato che lo ha già condannato.
<< Ah >> ribatte suo padre. << E questo cosa vorrebbe dire? >>.
<< Mi aiuta a gestire la mia mente. Lei… va troppo veloce >>.
<< Troppo veloce >> ripete lui serio. << Quindi è questo quello che dovrei spiegare a chi dovesse chiedermi il perché del comportamento di mio figlio? Dirgli che non è un tossicodipendente, ma che fa solo uso di cocaina per fermare la sua mente troppo veloce? >> tuona, battendo le mani sulla scrivania, impatto che crea un suono sordo, cupo, che Sherlock sente ancora adesso risuonargli nel petto.
<< Sì, perché è questa la verità >> ribatte cercando di mantenere vivo il coraggio.
<< Hai sentito, Mycroft? Questa è la verità >> lo schernisce il padre, che, però, non trova l’appoggio del figlio maggiore alla sua risata. << Te la dico io qual è la verità! >> esplode, scattando in piedi, questa volta, prima di battere le mani sul legno pregiato. << La verità è che avrei dovuto ucciderti quando ne ho avuto l’occasione. Non mi ritroverei ora ad avere un figlio che continua a gettare fango sul buon nome della mia famiglia e che sperpera i miei soldi acquistando droghe per ‘fermare la sua mente troppo veloce’! Come se già non fosse bastato lo scandalo che avete messo su tu e quel Trevor quattro anni fa’ >> aggiunge battendo un altro colpo che gli vibra, anche questo, nel petto. << Da oggi non riceverai più nulla da me, William, nulla! Penso tu sia benissimo in grado, d’altronde, di procurarti da te quanto ti occorre per quel veleno da infima feccia. D’altra parte, ho sempre pensato tu lo fossi, quindi, cercherò di non prendermela più di tanto quando mi diranno che il mio secondogenito si prostituisce. Cosa potevo aspettarmi, infondo da te? Sei anche tu una puttana, proprio come tua madre >>.
Lo stomaco di Sherlock si contrae al punto da farlo piegare in due dal dolore. Si ritrova a terra, carponi, vicino al bozzolo nel quale è nascosto il suo corpo. Non lo vede più tremare.
<< No! >> esclama tentando di afferrarlo, ma le sue mani lo attraversano senza toccarlo. << Oddio no, questo no! >> grida portando le mani alla testa. << Io non voglio morire >> grida rimettendosi in piedi. << Non voglio morire! >> ripete guardandosi attorno alla disperata ricerca di qualcuno. Nel buio fitto di questa notte senza luna, però, ci sono solo lui e il bozzolo.
“Ora ti riconosco!” applaude Moriarty, comparendo alle sue spalle. “Peccato sia troppo tardi, Sherlock. Hai di nuovo sbagliato i tempi, amico mio”.
Ha sbagliato i tempi. Come con John. Come con suo padre.
<< Io non sono una puttana e nemmeno lei lo era, maledetto assassino! >> aveva gridato fuori di sé, facendo esplodere l’ira del suo folle genitore. Si era ritrovato nuovamente inseguito da lui lungo i corridoi di quella vecchia e lugubre casa. Era riuscito, però, a sfuggirgli quella volta, a trovare la via di fuga per le campagne innevate. Era iniziato così il suo esilio, la sua lenta caduta nel tunnel della dipendenza vera e propria.
<< No, non lo sono stato mai. Neppure quando mi sarebbe convenuto esserlo >> sussurra fissando il bozzolo inerte.
“Come hai detto tu stesso, le persone vedono solo quello che fa loro comodo nell’altro” dice Moriarty, facendo spallucce. “Per gli agenti di Scotland Yard sei un freak, per tuo fratello un caso senza speranza, per tuo padre eri una puttana, per me una succulenta sfida…”.
… ma solo per uno sei fantastico. Incredibile. Strabiliante”.
Una voce femminile lo coglie di sorpresa. Si volta e la scopre provenire da una donna che da molto tempo non vedeva.
“Non voglio che ti resti dentro l’idea che l’amore possa solo uccidere, Sherlock” gli dice avvicinandosi a lui. Un dolce calore si propaga da lei. Piacevole e invitante.
<< Con te lo ha fatto, però. Ti ha uccisa >>.
“No, non è stato l’amore a porre fine alla mia esistenza terrena, ma l’orgoglio e quel maledetto senso dell’onore, figlio mio”.
Sherlock riflette su queste parole. Riflette su quanto l’orgoglio e l’onore abbiano dettato legge anche tra lui e John. I lunghi silenzi a seguito dei litigi. Quel non volere nessuno dei due chinare il capo per primo, cercando un dialogo, una vicinanza. Non è stato il suo ‘ti amo’ a rovinare tutto e neppure il discorso strampalato di John. E’ stato l’ostinato silenzio che ne è seguito. Il suo chiudersi in bagno e il lasciare l’appartamento da parte dell’altro. Avrebbero potuto parlarne, benchè sembrasse sciocco e inutile farlo e, invece, hanno preferito entrambi quell’aggressività passiva, il rifugio dei vigliacchi.
<< Mi dispiace >> sussurra sciogliendosi in lacrime. Lacrime calde, che diffondono un piacevole calore sul suo viso. Le asciuga con le dita e anche queste iniziano a scaldarsi. È inebriante questo fuoco buono che sente propagarsi lentamente dentro di sé. << E’ tardi, ormai >> dice sereno volgendo lo sguardo a sua madre.
<< Sei tu quello che sbaglia sempre i tempi, Sherlock, non lui >> gli sorride lei. La osserva stranito, incapace di comprendere le sue parole. << L’amore non uccide, figlio mio. L’amore salva >>.
Sua madre solleva la mano ad indicare un punto alle sue spalle. Sherlock ne segue la traiettoria e percepisce appena il suono di un motore, il clangore di catene contro l’asfalto, il bagliore di due fari fendere il nero della notte.
 
 

[1] Particolare condizione psicologica e/o affettiva che si manifesta in alcuni casi in vittime di episodi di violenza fisica, verbale, psicologica. Il soggetto affetto dalla sindrome, durante i maltrattamenti subiti, prova un sentimento positivo nei confronti del proprio aggressore che può spingersi fino all’amore e alla totale sottomissione volontaria, instaurando in questo modo una sorta di alleanza e solidarietà tra vittima e carnefice. È un caso particolare del fenomeno più ampio dei legami traumatici, ovvero quei legami fra due persone delle quali una gode di una posizione di potere nei confronti dell’altra che diviene vittima di atteggiamenti aggressivi o di altri tipi di violenza.

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Capitolo 13
*** 5 dicembre ***


Buonasera a tutti!
Anche questa storia sta per finire, ma ha ancora da dire. Sono stata impegnata oggi e quindi riesco a postare ben poco. Spero che possa essere comunque di vostro gradimento e come sempre attendo le vostre recensioni.
A presto
Patty
 
5 dicembre
 
Accade qualcosa all’intera macchina umana quando si assiste impotenti alla sofferenza di una persona che si ama. Qualunque tipo di sofferenza. Dalla più semplice influenza alla più complessa delle operazioni chirurgiche. Si cerca di fare l’impossibile pur di vederla tornare a risplendere di salute e benessere e, allo stesso tempo, si vive l’impotenza di non poter fare altro che restare lì, al suo fianco, ad aspettare che passi. A sperare che passi e in fretta.
Quando si è sposata la professione che abilita a prendersi cura e ad ‘aggiustare’ queste macchine umane, tutto diventa più difficile. Ci si sente in dovere di guarirle, di salvarle e l’impotenza è ancora più forte perché si ha una maggiore conoscenza di quanto sta loro accadendo. Conoscenza che se da una parte aiuta la cura, dall’altra è un macigno sul petto per chi cura.
John sospira. Se in questi quattro giorni gli avessero dato un penny per ogni sospiro ad oggi avrebbe messo via una discreta somma di denaro. Tanti graffi e lividi ha curato al suo amico tra le mura intime del loro appartamento e anche qui, al West Cumberland Hospital nel quale è stato trasportato d’urgenza, avrebbe voluto occuparsi personalmente di lui. Non gli è stato permesso, ovviamente.
John era in stato di shock, in uno stato di coscienza decisamente alterato. Eppure ha ancora viva la sensazione sotto le sue mani, che ora chiude a pugno. Il corpo freddo di Sherlock. Congelato. Il battito lieve, così difficile da percepire. Si era spogliato degli strati di giacche, maglioni, camicie che indossava e lo aveva stretto a sé, avvolgendolo nei suoi indumenti caldi. Un corpo prossimo all’assideramento ha bisogno del calore di un altro corpo vivo e caldo per riprendersi. Gli era parso all’inizio di stare tenendo tra le braccia un cadavere ormai rigido e freddo. Gli erano tornati alla mente i corpi senza vita di alcuni dei suoi commilitoni, quello di sua madre, quello di suo padre. Aveva dovuto fare uno sforzo per pensarlo vivo, il corpo freddo che stava tentando di riscaldare.
<< Non mi lasciare, Sherlock >> gli aveva sussurrato come un mantra, tenendolo stretto a sé. << Non importa se non mi vorrai mai più vedere, lo accetto, ma non mi lasciare. Non farmi vivere in un mondo dove tu non ci sei, ti prego >>.
Era così che lo avevano trovato Mycroft, Hataway e tutti gli altri. Si era accorto appena della loro presenza. Di Mycroft, che si era avvicinato a lui, tentando a sua volta di scaldare col proprio cappotto il corpo ancora freddo del fratello.
Così era rimasto fino all’arrivo dell’elisoccorso, chiamato nello stesso istante in cui John era uscito di corsa da casa Abbott. Aveva opposto resistenza a chi voleva togliergli Sherlock dalle braccia spiegandogli l’importanza di avvolgerlo in coperte riscaldanti, caricarlo sul velivolo e portarlo al più presto in ospedale.
Di come sia arrivato anche lui al West Cumberland Hospital non ha memoria. Ricorda solo che dal momento in cui il velivolo è partito, la mano di Mycroft non si è mai sollevata dalla sua spalla.
Il primo ricordo nitido che ha è quello di lui seduto su questa stessa sedia in questa stanza. La mano stretta in quella di Sherlock addormentato. Lo sguardo a spostarsi ad intervalli regolari da un monitor all’altro per poi passare sul viso del suo amico, sul quale c’è sempre stata un’espressione tutto sommato serena.
“Chissà in quale luogo del tuo Mind Palace ti sei rifugiato per cercare conforto” pensa ogni volta che posa gli occhi sul suo viso. Intimamente e in modo del tutto egoistico spera di poter essere stato e di essere ancora al suo fianco in quel luogo immaginario. Perché la stessa espressione serena gliel’ha vista in viso quella domenica mattina e questi Holmes non fanno altro che ripetere che l’universo non è mai così pigro da produrre coincidenze.
Mycroft è rimasto a lungo con loro nella stanza. Seduto su una sedia dall’altro lato del letto, oppure in piedi al fondo della stanza. Silenzioso, discreto, si è assentato ogni tanto per rispondere al telefono e per periodi più lunghi per seguire quanto stava accadendo a Mary Abbott.
<< Ha gettato mio fratello in quella fossa come fosse immondizia, ispettore! Esigo sia fatta giustizia per ciò che mio fratello ha dovuto subire per mano di quella donna! >> gli ha sentito dire in tono perentorio a pochi passi dalla porta chiusa della stanza. Forse anche John dovrebbe lottare affinchè sia fatta giustizia. La cosa che più gli interessa, però, al momento, è rivedere gli occhi di Sherlock aprirsi, le sue labbra muoversi e la sua voce iniziare a dedurre tutto ciò che il suo sguardo incontra. Vuole accertarsi che il mezzo di trasporto e la mente brillante del suo amico funzionino. Solo allora potrà dirsi tranquillo.
<< Non vi nascondo, signori, che le condizioni del signor Holmes non sono delle migliori >> ha detto loro il collega che lo ha in cura. << Abbiamo trovato residui di morfina nel sangue e dalla colorazione della sclera dell’occhio e delle unghie sembra proprio che gliene sia stata somministrata troppa e per troppo tempo. Anche per questo il battito cardiaco è ancora rallentato, nonostante l’omeostasi del corpo sia stata riportata alla normalità. Questa difficoltà nel risvegliarsi è l’ennesima conferma ed è quella che più di tutte mi preoccupa. Poi, altro elemento da non sottovalutare, è la gamba destra. Una frattura abbastanza semplice, in verità, che, però, è stata curata molto male. L’osso si è saldato nella maniera peggiore, data la trazione errata alla quale è stata sottoposta. Ci sono parecchi legamenti rotti e la muscolatura si è notevolmente ridotta. Andrebbe operato per evitare una zoppia permanente che comprometterebbe la qualità della sua vita. Da quello che scrive sul suo blog, dottor Watson, quest’uomo è atletico, agile, abituato a correre e battersi se necessario. Con una gamba ridotta a quel modo non potrà fare più nulla di tutto questo e, purtroppo, finchè non si risveglierà e il suo cuore tornerà a battere come si deve non posso fare nulla per lui >>.
John ha sentito il terreno franare sotto i piedi dinanzi a quelle parole. Sherlock privato della possibilità di muoversi per portare avanti il suo lavoro non vuole neppure immaginarlo. Lunghe giornate di noia, depressione, umore nero e lo spauracchio della cocaina, della dipendenza, della propensione al suicidio che ne deriverebbe.
<< Svegliati, Sherlock >> sussurra prendendogli la mano tra le sue. << Vuoi che me ne vada, per questo ti ostini a restare addormentato? Posso anche farlo. Sì, lo farò appena tuo fratello tornerà. Forse la sua presenza ti è più gradita della mia, al momento >> dice rendendosi conto da sè di stare portando avanti un ragionamento del tutto privo di senso.
Ci hanno provato a tirarlo fuori da quella stanza. Lo hanno invitato a riposarsi almeno per un paio d’ore in un vero letto, a prendere una boccata d’aria, a mangiare qualcosa alla mensa dell’ospedale. Lui ha liquidato tutte le gentili proposte con la solita decisa affermazione : << Questo è il mio posto. Da qui non mi muovo >>.
E sono quattro giorni che non si muove e sa bene che non si muoverà neppure quando Mycroft tornerà, giusto per vedere se davvero gli farebbe il dispetto di svegliarsi.
<< Sei una tale drama queen >> ridacchia posando baci leggeri sulla sua mano pallida del tutto inerte.
Porta avanti quella coccola anche quando Mycroft torna nella stanza. Non gliene frega più nulla, ormai, di concetti assurdi come decoro, reputazione, decenza, atteggiamenti adeguati e compagnia cantante.
A sua volta, il fratello del suo amico non si annuncia neppure più con quel fastidioso colpetto di tosse. Deve aver capito che John continuerebbe a manifestare il suo amore per il consulente anche se entrasse la regina in persona in quella stanza o il papa che sua madre aveva tanto in considerazione.
<< Quella donna >> dice Mycroft, ponendo fine al suo silenzio. John aguzza appena l’udito. << Ha avuto una crisi di nervi, o almeno così hanno detto. Ha mandato all’ospedale tre guardie, una delle quali è in fin di vita, e sono riusciti a contenerla solo dopo averle sparato con delle pallottole calmanti >>.
<< Le hanno sparato pallottole calmanti? Come si fa agli orsi? >> gli chiede John stupito. Mycroft si limita ad annuire solenne.
<< E’ stata trasferita in una clinica psichiatrica penitenziaria e lì starà fino alla fine del processo >>.
<< E poi per il resto dei suoi giorni, dal momento che la riterranno colpevole >>.
<< Pensi che non lo sia? >> gli chiede Mycroft avvicinandosi al letto.
Uno sbuffo distoglie John dalla risposta che sta per dare. I due uomini si scambiano un’occhiata stupita e poi al secondo sbuffo si fanno più vicini al consulente.
<< Sherlock! Oddio, ti stai svegliando >> esclama John euforico, accarezzandogli il viso con mano tremante.
<< Mary… >> sussurra il consulente, lasciandoli senza parole. I due uomini si scambiano un’altra occhiata. Nessuno dei due poteva immaginarsi che la prima parola che avrebbe pronunciato una volta sveglio sarebbe stato il nome della sua carceriera.
<< Lei non c’è, Sherlock >> risponde Mycroft scostandogli il ciuffo corvino dalla fronte. << Sei al sicuro, adesso >>.
Gli occhi di Sherlock faticano ad aprirsi e John abbassa la luce per evitare che gli dia fastidio.
<< Mary >> ripete, mentre il suo sguardo viaggia oltre il dottore e il fratello, come se stesse cercandola. << Dov’è Mary? >> chiede confuso.
<< E’ stata arrestata, Sherlock. E’ in prigione, ora, dov’è giusto che stia per quanto ha fatto a te e a tutti gli altri >> gli spiega Mycroft e in modo un po’ troppo perentorio, nota John.
<< No! >> biascica il consulente muovendo debolmente le braccia.
<< Ehi, stai tranquillo cosa vuoi fare? >> gli domanda John, bloccando quello che sembra uno stanco tentativo di alzarsi dal letto.
<< Ha bisogno di me. Devo aiutarla >> risponde Sherlock apponendo una blanda ma testarda resistenza.
<< Cosa stai dicendo? Ti ha tenuto prigioniero. Ti ha picchiato, segregato in uno stanzino e gettato via come spazzatura e tu vorresti aiutarla? >> chiede Mycroft incredulo.
<< Non è colpa sua. Lei… oh, lasciatemi stare! >> grida ribellandosi alle loro mani che si ostinano a tenerlo giù. << Voi non capite niente! >> esclama, mentre gli apparecchi attorno a lui suonano evidenziando un’accelerazione anomala del battito cardiaco.
Gli infermieri irrompono nella stanza e invitano il dottore e il politico ad allontanarsi e lasciare il paziente alle loro cure. Solo che Sherlock sembra diventare sempre più energico e sempre più intestardito dal suo voler scendere dal letto e correre a salvare quella donna il cui nome grida ed invoca. Solo quando John sente parlare di sedativi si scuote e torna ad avvicinarsi al suo amico.
<< Non potete sedarlo proprio ora che si è ripreso! >> dice fermando la mano dell’infermiera pronta a iniettare il sedativo nella flebo alla quale è legato.
<< Se continua così gli scoppierà il cuore, dottor Watson, dobbiamo fare qualcosa >> cerca di toglierselo di dosso questa. John si rende conto di quanto la situazione stia degenerando, ma l’idea che Sherlock possa nuovamente cadere preda di un sonno indotto lo spaventa. Purtroppo l’infermiera è più veloce del suo tentativo di proporre soluzioni alternative e inietta il sedativo nella flebo.
L’effetto non è immediato e forse è addirittura peggio. Sherlock sembra sgonfiarsi poco per volta. Biascica sempre più mentre perde le forze, restando appeso tra le braccia degli infermieri. John porta la mano alla bocca, sconvolto da quella scena. Non riesce a capacitarsi del fatto che quell’uomo sia lo stesso che ha lasciato a Baker Street. Si volta, sentendo il bisogno di sottrarsi per un istante a quanto sta accadendo. I suoi occhi si posano sull’altro Holmes. Pallido, la fronte imperlata di sudore che terge con un fazzoletto di stoffa. Si vede quanto gli manchi non avere l’appoggio sicuro sul suo ombrello. Sembra, infatti, stare per crollare.
<< Ehi, Myc, tutto bene? >> gli chiede, rifugiandosi nel suo istinto di medico pronto a prendersi cura del prossimo.
<< No, John >> ribatte l’uomo, mostrandogli il sorriso tirato ora più simile ad una smorfia di dolore. << Ho rivisto tutti insieme troppi episodi simili avvenuti in passato >>.
<< Quando era in comunità di recupero, intendi? >>.
<< Sì >> risponde stanco, mentre gli infermieri, contenuta la situazione, escono dalla stanza. << Speravo di non doverlo più vedere ridotto così è, invece… >> tampona le labbra col fazzoletto, lasciando la frase a metà, cosa del tutto insolita per uno come lui.
<< Io… mi dispiace, Mycroft >> dice impacciato John, dandogli una pacca sulla spalla. L’uomo sembra non accorgersene neppure. Fissa il fratello con un’intensità tale da spaventare il dottore. Sebbene il suo volto sia impassibile negli occhi racchiude tutta la sua disperazione.
 
***
 
Sindrome di Stoccolma. John riflette sul fatto che, personalmente, non ha mai incontrato nessuno che ne fosse ammalato e purtroppo di persone vittime di tortura nell’ospedale da campo afgano ne sono passate.
Sono trascorse tre ore dal risveglio burrascoso di Sherlock. Ore durante le quali il medico ha convocato Mycroft, che ha permesso a John di assistere al colloquio proprio per parlare della possibile presenza di questa sindrome.
È rimasto buono e in silenzio, John, ad ascoltare il collega spiegare con dovizia di particolari la sua teoria su quanto sia successo alla mente turbata del giovane Holmes. Si sono scambiati appena due occhiate lui e Mycroft e non c’è stato neppure bisogno di spiegare al medico quanto profondo fosse il buco che ha fatto nell’acqua.
<< Ma quale sindrome di Stoccolma! >> ha sbottato una volta usciti fuori dall’ufficio di quel dottore, fuori dall’ospedale, l’uno a sputare sentenze e l’altro ad accendere una sigaretta. << Penso che se tuo fratello si sia messo a urlare il nome della sua carceriera ribadendo quanto abbia bisogno del suo aiuto debba esserci una buona ragione dietro >>.
<< Solo le allucinazioni di un tossico, John >>.
Il giudizio di Mycroft lo ha raggelato. È rimasto a bocca aperta a guardarlo prendere una lunga boccata dalla sigaretta.
<< Quando era ricoverato per smaltire gli effetti della dipendenza da cocaina vedeva spesso il suo cane seduto al fondo del letto. Altre volte scappava gridando terrorizzato che un uomo intenzionato ad ucciderlo lo stesse inseguendo. Ci sono state occasioni in cui ha aggredito gli infermieri chiamandoli coi nomi di suoi ex compagni di scuola che, a quanto pare, lo avevano bullizzato. Una volta ha colpito anche me… >>.
Mycroft si è interrotto, ha scosso il capo e ripreso a fumare senza concludere la frase. Per la seconda volta nel giro di poche ore.
<< Non posso pensare che sia solo per questo, Mycroft >> ha cercato di insistere John. << Stai parlando di un ragazzo preda dei fumi dell’astinenza. Non c’entra nulla con ciò a cui abbiamo assistito prima >>.
<< Cosa dovrei pensare allora, John, che il tuo esimio collega abbia ragione e che mio fratello abbia coalizzato con chi lo ha torturato? Sinceramente lo preferisco preda delle allucinazioni >>.
John sospira. Ha di nuovo la mano di Sherlock stretta tra le sue e ancora una volta spera che si svegli presto. Sì, perché vuole potergli parlare, cercare di contenerlo, se sarà necessario, e chiedergli di spiegargli il perché delle sue parole, dei suoi gesti.
<< Hai reagito così perché in realtà non è stata quella donna a uccidere tutta quella gente, non è vero? >> sussurra tenendo il dorso della mano di lui vicinissimo alle labbra. Gli occhi di Mary, il modo repentino nel quale sono cambiati dopo quell’attimo di congelamento li ricorda bene.  << Se il tuo desiderio di aiutarla è così forte deve esserci un motivo che va al di là della banale sindrome di Stoccolma. Tu ti batti affinchè sia fatta giustizia ed evidentemente non è lei il colpevole da giustiziare >>.
Dal momento in cui John ha afferrato i tabulati del numero di Sherlock appena fatti pervenire da Mycroft quell’indagine è passata a lui d’ufficio, si potrebbe dire. Stava indagando sulla scomparsa del consulente investigativo, che ha salvato per il rotto della cuffia e ora ne ha ereditato il caso al quale questi stava lavorando. Mary Abbott è legata a questo caso e Sherlock sembra averla a cuore, per un motivo che non è dato sapere e che in questo momento non è neppure importante.
<< Va bene, Sherlock, il caso è ancora aperto, tu sei fuori gioco e quindi tocca a me entrare in campo al tuo posto anche qui >> dice raddrizzando la schiena. << Odio quanto te l’ingiustizia e, benchè quella donna ti ha trattato in un modo che non posso perdonarle, non è giusto che paghi per dei delitti che non ha commesso >>
Si decide a lasciare la mano di Sherlock e ad uscire da quella stanza dopo giorni che siede al suo fianco. Gli accarezza il volto appena imperlato di sudore e resta titubante a guardare le sue labbra, desideroso di posarvi sopra le proprie.
“No. Non voglio rubarti altro” pensa allontanandosi da lui. Senza voltarsi indietro raggiunge la porta ed esce dalla stanza.
 

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Capitolo 14
*** 6 dicembre ***


Buonasera a tutti!
Eccoci giunti al penultimo capitolo di questa long. Il prossimo sarà l’ultimo e lo posterò nei prossimi giorni (ho troppi impegni e non so dire quando, ma sicuramente entro domenica). Spero possa essere di vostro gradimento e, come sempre, leggerò con piacere le vostre recensioni.
Buona lettura.
A presto
Patty
 
6 dicembre
 
John avanza piano lungo il corridoio. I suoi passi risuonano e rimbombano, annunciando la sua presenza in maniera sfacciata. Il rumore lo infastidisce. Vorrebbe potersi togliere le scarpe e procedere scalzo, ma non crede sia la migliore delle cose presentarsi dinanzi ad un’assassina con indosso solo i calzettoni.
<< E’ sicuro di voler andare là? >> gli aveva chiesto Hataway storcendo il naso. I manicomi penitenziari non godono di ottima fama e certo si sarebbe volentieri risparmiato il viaggio. Doveva, però, togliersi un dubbio, anche se adesso è talmente nervoso che gli sfugge quale sia.
Aveva tenuto tra le mani quei registri. Semplici quaderni a righe dalla copertina rigida. Ad aprirli gli erano sembrati innocuamente fitti dei dati di una prima nota. Solo quando aveva portato l’attenzione a cosa vi fosse stato annotato gli è passata la voglia persino di respirare.
<< 10 dicembre 1999. Reginald Connery. 38 anni. Celibe. Nessun parente vivente. Frattura esposta di tibia e perone. Prelevati 20.000 £ dal suo conto corrente e 4 titoli azionari ben quotati. Liquidato in data 30 dicembre 1999 >>.
Ce n’erano tante di note simili. Nomi di uomini e donne che hanno avuto la sfortuna di ritrovarsi colti da un incidente su quelle montagne e tratti in salvo dalle persone sbagliate. Solo chi non aveva nessuno che potesse denunciarne la sparizione veniva ‘liquidato’, come la signora Abbott annotava diligentemente. E sconvolge rendersi conto di quante persone sole ci siano al mondo. Sì, perché quella macabra attività sembrava essere stata iniziata negli anni ’90 del secolo scorso e da allora aveva causato la morte di 35 persone. Per nessuna di queste era stata, in effetti, denunciata la scomparsa.
C’erano anche degli altri registri, quelli sui quali venivano annotati i ricoveri delle persone del posto e degli stranieri che, invece, qualcuno ad attenderli ce l’avevano. La signora Abbott aveva annotato le ‘gentili donazioni’, come le aveva chiamate, di queste persone. Hataway ne aveva ricontattate alcune, che avevano avuto solo parole di gratitudine per ‘quella famiglia così gentile che si è presa cura di me, salvandomi la vita’.
Punti di vista diversi, certo, che hanno fatto la differenza tra la famiglia di benefattori e quella di folli assassini. Spietati killer che non si facevano problemi a gettare un uomo ancora vivo, seppure stremato, in una fossa, lasciando che il freddo, la fame e gli stenti ponessero fine alla sua esistenza.
John giunge dinanzi alla porta indicata. Dall’oblò sbircia l’interno di una grande sala dove ci sono diverse donne. Alcune sedute attorno a dei tavoli, altre in piedi a parlottare in gruppo, altre da sole. Mary si staglia alta e possente tra tutte le altre. Indossa la divisa azzurra data in dotazione dalla struttura e che le sta decisamente stretta e corta di maniche e gambe.
John suona alla porta e una guardia compare all’oblò, gli scocca un’occhiataccia e apre la porta.
<< Sono il dottor John Watson, sono stato autorizzato dall’ispettore Hataway a incontrare la detenuta Mary Abbott >> si presenta mostrando il foglio consegnatogli dallo scettico detective. La guardia controlla il documento minuziosamente e poi azionando l’interfono convoca Mary nella stanza numero 5.
<< Lei si accomodi da questa parte >> gli dice, indicandogli una porta con lo stesso numero alla sua destra. Il dottore entra in questa stanza quattro per quattro dalle pareti grigie e spoglie. Un tavolo quadrato è posto al centro esatto con una sedia molto semplice per lato.
“Questo posto mette i brividi quasi peggio di casa sua” pensa John al quale improvvisamente manca l’aria.
Entrare in casa Abbott la seconda volta era stato paradossalmente più inquietante che la prima. Quella prima volta era spinto dal desiderio di salvare Sherlock e dalla convinzione di stare andando nel posto nel quale lo avrebbe ritrovato. Certo il dettaglio dell’eccessiva pulizia, dell’ordine maniacale e del vuoto spettrale lo aveva notato. Ieri, quanto è tornato per portare avanti le indagini iniziate da Sherlock, si è chiesto come si potesse vivere da soli in un simile posto e non impazzire. A dirla tutta si è chiesto come si potesse vivere in un simile posto e non impazzire, punto.
I registri erano in quella che è stata la camera da letto di quella donna. Una stanza che non deve essere molto diversa da quella nella quale dorme ora. Un letto semplice, un armadio da poco, una vecchia scrivania, pochi effetti personali, pochi vestiti e tutti sdruciti e vecchi di molti anni. Da l’idea di non aver avuto mai nulla, Mary Abbott. Nulla, salvo cinque bambole. Erano ferme in bella posa l’una accanto all’altra sul davanzale della finestra. Bambole di porcellana dai vestiti antichi e ben lavorati, con gli occhi vitrei, le guance rosa e le labbra a cuore. Manco a dirlo contribuivano a rendere ancora più inquietante l’ambiente. Dovevano essere state le sue compagne in quelle lunghe giornate trascorse isolate da ogni forma di vita senziente. A John si era stretto il cuore e non si era capacitato di come potesse provare tenerezza e pena per colei che ha quasi ucciso l’uomo che ama.
“Mi hai insegnato una cosa nuova Sherlock, l’ennesima!” pensa sospirando ora che la porta dinanzi a lui si apre e fa il suo ingresso, accompagnata da un'altra guardia, Mary Abbott.
Lo guarda a lungo, il volto inespressivo e le grosse braccia ferme lungo i fianchi.
<< Siediti! >> le ordina la guardia indicandole la seggiola, prima di portarsi alla parete contro la quale si appoggia. Mary non esegue l’ordine. Si avvicina alla sedia ma resta in piedi, gli occhi fissi su John.
<< Buongiorno, Mary, sono John Watson. Ci siamo incontrati davanti all’emporio di Jo qualche giorno fa’, non so se si ricorda di me >>.
La donna stringe appena gli occhi come volesse metterlo meglio a fuoco.
<< Il coinquilino >> dice.
<< Sì, sono il coinquilino di Sherlock Holmes. Sono qui perché voglio parlarle dell’indagine che lui stava portando avanti e che è passata a me, almeno finchè lui non sarà in grado di riprenderla. Che ne dice ci accomodiamo? >> le propone spostando la seggiola. La donna lo imita e si siede subito dopo di lui.
<< Sono stato a casa sua ieri >> dice John scegliendo bene le parole. Non vuole darle modo di inalberarsi e rischiare di essere punita dalla guardia che non le toglie lo sguardo severo di dosso.
<< Perché? >> domanda lei e nessuna espressione le si disegna sul viso.
<< Sherlock si è risvegliato gridando di doverla salvare e che lei aveva bisogno del suo aiuto. Ho imparato lavorando con lui che tutte le decisioni che prende e le idee che gli saltano alla testa hanno un senso. Se ha detto che lei necessita del suo aiuto allora deve avere delle buone ragioni e io ho scoperto quali sono queste ragioni >>.
Non si aspettava di vederle fare salti di gioia all’idea di essere tirata fuori da lì. Anzi, si era aspettato proprio che non reagisse come ora non sta reagendo. Non sa neppure cosa possa aver capito quella donna della situazione che si è delineata attorno a lei e ai suoi danni. Non ha un avvocato, ad esempio né lei, ovviamente, lo ha chiesto. Quello assegnato d’ufficio arriverà solo tra tre giorni, dio solo sa perché. A conti fatti potrebbe davvero succederle di tutto tra l’indifferenza generale di chi le sta accanto.
<< E chi ci dice che non fosse lei a minacciare i genitori costringendoli a uccidere quella gente? >> aveva ribattuto Hataway quando John gli aveva presentato i registri ritrovati, facendogli presente di come fossero stati i genitori e i fratelli a dare inizio a quella lunga serie di omicidi. Se addirittura l’ispettore capo del piccolo distretto del suo paese le da contro, additandola come unica responsabile dei fatti, quali possibilità può avere una donna come questa di ottenere la giusta pena?
“Per fortuna hai incontrato Sherlock sulla tua strada” si trova a pensare John, rendendosi conto di quanto sia assurdo ciò che sta penando.
Posa sul tavolo uno dei registri che ha portato via da casa sua e questo sembra causare una minima reazione in Mary. Sgrana gli occhi, infatti, e si sposta leggermente indietro. La guardia, per contro, si fa leggermente avanti.
<< Questo registro è stato redatto da tua madre >>.
<< Sì >> risponde immediatamente, lo sguardo fisso sul quaderno. << Perché lo hai preso? >> gli chiede guardandolo storto.
<< Per salvarti, Mary >> tenta di spiegarle John, ma la donna lo guarda confusa. << Vogliono dare a te la colpa di aver ucciso tutta quella gente >>.
<< Tutta quella gente >> ripete atona, tornando priva di espressione.
<< Sì. So, invece, che non sei stata tu. Eri troppo piccola quando gli omicidi sono iniziati, non puoi averne preso parte >>.
La donna resta in silenzio per un lungo istante. Poi il suo sguardo cambia. Gli occhi sembrano velarsi e resta immobile, totalmente immobile, come non respirasse nemmeno. Infine si scuote e John rivede gli occhi della bambina che gli ha rivelato dove ‘l’altra’ avesse condotto Sherlock.
<< Come sta Edward? >> gli chiede sporgendosi verso di lui, una nota di pianto nella voce.
<< Edward… >> ripete John, che ci mette un attimo a ricordarsi che il suo amico agiva in incognito. << Lui sta bene >>.
<< Oddio grazie! >> esclama Mary facendo il segno della croce. Porta le mani al volto e grandi, lente lacrime iniziano a rigarle il viso. << La coperta lo ha salvato. È stata lei, non è vero? >> gli chiede speranzosa.
<< Sì. E’ servita, sì >> mente John, riluttante a distruggere le speranze di quella creatura.
<< Sapevo che ho fatto bene a convincerla! >> esclama battendo le mani l’una contro l’altra. << Molly è con lui, ora? >> gli chiede e John tutto si aspettava tranne che tirasse in ballo la patologa del Bart’s.
<< Molly? >>.
<< Sì, Molly, la sua fidanzata! Lui aveva capito che quella voleva ucciderlo. Lui capisce tutto, sembra un mago! >> lo informa stupita. << Aveva detto che Molly si sarebbe trovata un altro capace di amarla più di lui, ma io non l’ho trovato giusto. Avrebbe pianto tanto e non volevo che piangesse. Piangono tanto le donne, lo vedo sempre alla televisione. Allora ho cercato di salvarlo per Molly >>.
<< Lo hai salvato per Molly >> ripete John che lotta per non ridere in modo isterico.
<< Sì. Si amano tanto. Da due anni. Ma tu sei il coinquilino quindi lo sai. Molly non è come quella megera di Johanna >>.
<< Johanna? >> ripete confuso da quell’insalata di parole alle quali non riesce a dare un senso.
<< Oh, sì, forse tu non c’eri ancora quando c’era lei. L’ha trattato mooolto male >>. Si avvicina a lui guardando di sottecchi la guardia, e porta la mano vicino alla bocca. << Lo ha usato solo per il sesso  >> gli sussurra confidandogli un segreto importantissimo.
John sente i visceri contorcersi e un forte senso di nausea salire alla gola. Una parte di sé cerca di rifiutare la comprensione che gli sta giungendo delle parole di questa donna.
<< L’altra pensava che tu e lui steste insieme. Lo ha picchiato taaaanto il primo giorno >> confessa triste, confermando la sua intuizione. Johanna non è altri che lui. Sherlock ha dovuto mutare al femminile il suo nome per poterle raccontare di come lo abbia usato. Perché si sia lasciato andare a simili confidenze non lo comprende. Forse lei lo ha in qualche modo minacciato, oppure… oppure, più semplicemente, nell’assurdità di quanto stava vivendo ha sentito il bisogno di sfogarsi con qualcuno. Certo Sherlock non è tipo da andare a raccontare i fatti suoi in giro, ma John stesso si sta rendendo conto di quanto questa versione bambina di Mary sia dolce, accogliente e protettiva. E si rende conto, anche, di come si sia infatuata del consulente investigativo, al punto da odiare con tutta se stessa la megera che ha osato fargli del male.
<< Mary… ti rendi conto di essere nei guai? >> le chiede diretto e la donna si stringe nelle spalle.
<< Io… volevo solo che la smettessero >> sussurra fecendosi piccola piccola. << Io mi occupavo di quelli che poi lasciavano andare. Papà non voleva mi avvicinassi agli altri, diceva che sono così scema che potevo metterli nei guai. Quando è caduto dalle scale ed è morto ho pensato che sarebbe tutto finito, che non avremmo avuto più tutta quella gente per casa e nemmeno avrebbero più buttato via quelli soli nella fossa. Invece, Freddie ne ha trovato un altro e mamma gli ha detto che potevano farlo. Era un vecchietto simpatico. Volevo portarlo di nascosto all’ispettore, ma quando Oliver mi ha scoperta me ne hanno date tante tutti e quattro e mamma stava lì a guardare, poi mi hanno chiusa nello stanzino e stavo pure io per morirci lì. Ho sempre avuto paura che avrebbero portato anche me a quella fossa >>.
John ha l’addome contratto e la pelle d’oca. È terribile quanto questa bambina gli sta raccontando tra le lacrime. Volge lo sguardo verso la guardia, alla ricerca di un sostegno, ma trova solo uno sguardo arcigno e disinteressato in quella donna. Si rende conto, il dottore, di quanto grave sia la situazione. Più grave di quanto immaginasse.
<< Perché hai portato Sher… Edward alla fossa, Mary? >>.
<< Oh, ma non l’ho portato io! >> esclama piantando le mani enormi sul tavolo. << No, io non lo avrei mai fatto. È stata lei. È tanto più forte di me, lei, e mi chiude nello stanzino per tanto tempo >>.
John sospira e posa le sue mani piccole su quelle di lei.
<< Non sono autorizzati contatti! >> esclama la guardia, alla quale scocca un’occhiataccia. Non vuole, però, mettere nei guai Mary, che guarda spaventata la donna severa che la sta privando di questo semplice gesto di consolazione.
<< Mary, farò il possibile per aiutarti, ma ti incrimineranno comunque per aver ucciso i tuoi fratelli e tua madre >> le dice e lei scoppia in lacrime. Stropiccia gli occhi prima di nascondere il viso con le mani.
<< Sono loro i cattivi, perché se la prendono con me? Se la sono sempre presa con me. Mi hanno fatto fare tanti esami, tante punture e hanno detto, tutti quei medici, che la mia testa non va bene. A nessuno, però, è venuto in mente che forse quella matta, come diceva Jason, non sono io. Che loro che uccidevano la gente lo erano più di me. Io sono scema, sì, ma non sono matta e non sono un’assassina! >> esclama decisa tirando su col naso.
John non sa cosa ribattere. È una situazione delicata che dovrebbe essere gestita con delicatezza, ma basta guardarsi attorno per capire che non c’è alcun spazio per la delicatezza tra quelle mura. La imbottiranno di farmaci e la lasceranno morire lentamente. Si rende conto che anche mettendo in moto tutte le conoscenze che sia lui che Sherlock possono avere e pagando i migliori avvocati la situazione non potrà essere diversa da quella, anche riuscissero a farla accusare dei soli omicidi dei familiari.
<< Mi dispiace, Mary >> gli dice. La donna gli sorride e scuote piano il capo.
<< Non fa niente >> sussurra facendo spallucce. << La cosa importante è che Edward sia vivo, che possa sposare Molly e avere tanti bambini bellissimi. È un lieto fine. Mi commuovono tanto >>.
John sorride e qualche lacrima sfugge al suo controllo. Un lieto fine, già. Un finale lieto per una storia inesistente costruita ad hoc per la mente sconvolta di una donna sola. Una bugia che sarebbe crudele toglierle.
 
***
 
Sherlock apre gli occhi lentamente. La luce presente nella stanza gli ferisce gli occhi. Storce il naso sbuffando. La sua disapprovazione non passa inosservata e le luci vengono abbassate. Incoraggiato dalla penombra apre le palpebre e incontra suo fratello, seduto sulla sedia al suo fianco.
<< Finalmente sei sveglio >> gli dice e le labbra si distendono a disegnare un sorriso. Strano. Se Mycroft gli sorride vuol dire che se l’è vista davvero brutta.
<< Quanto ho dormito? >> gli chiede sentendo la bocca impastata e la voce così diversa.
<< Abbastanza >> risponde il fratello avvicinandogli alle labbra un bicchiere d’acqua fresca dal quale prende qualche sorso.
<< Quella roba doveva essere tagliata male >> biascica passando una mano che sente pesantissima sul viso.
<< Dove credi di trovarti, Sherlock? >> gli domanda Mycroft cogliendolo di sorpresa. Lo guarda più attentamente per poi volgere lo sguardo alla stanza. Improvvisamente il ricordo di quanto ha vissuto gli esplode agli occhi della mente.
<< Mary! >> esclama mettendosi a sedere troppo in fretta. Un capogiro lo costringe a tornare giù. << Cristo, per un attimo ho pensato di essermi appena ripreso da un’overdose >>.
<< Da un’overdose, no. Da una crisi dì astinenza, sì >> precisa suo fratello porgendogli altra acqua.
<< Morfina >> dice tra i denti mandando giù il sorso ristoratore. << Non avrei voluto prenderla, ma avevo bisogno di restare lucido. La gamba mi ha dato notevoli problemi. A dirla tutta me ne da ancora adesso >> dice portando la mano alla coscia destra dove, al di là del ginocchio, sente salire un dolore sordo.
<< Il medico aspetta solo che ti riprenda del tutto dalla morfina per operarti e mettere a posto la frattura >>.
<< E’ necessario? >> .
<< No se vuoi restare zoppo per il resto dei tuoi giorni >> risponde Mycroft. Sherlock dapprima storce il naso poi, però, si lascia andare ad una grassa risata.
<< No, grazie, non ci tengo a girare con un bastone come John >>.
Si interrompe e lo sguardo si posa sulla sedia vuota dall’altra parte del letto.
<< E’ rimasto al tuo fianco dal momento in cui ti ha tratto in salvo fino a ieri >> lo informa il fratello. << Dopo che ti sei svegliato e hai invocato il nome della tua carceriera, adducendo la volontà di correre in suo aiuto, ha lasciato questa stanza dicendo di dover concludere l’indagine che avevi aperto riguardo alla fossa. Continuava a dire che se dicevi di volerla aiutare doveva esserci un motivo più che valido >>.
<< E c’è, infatti >> ribadisce Sherlock. << Mary non ha ucciso tutta quella gente, solo i fratelli e la madre >>.
<< Avrebbe ucciso anche te se John non fosse stato prima col fiato sul collo a quell’assurdo ispettore e poi determinato a raggiungere la fossa dopo che quella donna aveva detto di avertici buttato dentro >>.
<< Non lei. Non sarebbe stata lei ad uccidermi >>.
<< Sì, in effetti potremmo dire che sarebbe stato il freddo ad ucciderti. Che il lavoro gli sarebbe stato reso più facile dal fatto che eri nudo, avvolto da una semplice coperta, è solo un dettaglio trascurabile >>.
Sherlock ride nuovamente di gusto. La saliva gli va per traverso facendolo tossire e Mycroft, scocciato dal suo atteggiamento, in verità, gli porge dell’altra acqua.
<< Perché vuoi aiutare quella donna, Sherlock? >> gli chiede Mycroft che fatica davvero a capirlo.
<< Perché rischia di subire l’ennesima ingiustizia >> risponde serio. << Ha posto fine alla vita di cinque assassini. Dovrebbero darle una medaglia >>.
<< Stava per uccidere anche te, fratellino >>.
<< Ti ho già detto che non sarebbe stata lei ad uccidermi. Mary bambina non potrebbe farlo >>.
<< Ma ti stai ascoltando? ‘Mary bambina’ >> ripete esterrefatto. << Non importa se una personalità sola di quella donna voleva ucciderti. L’azione è stata portata da lei, indipendentemente da quale personalità governasse le sue azioni >>.
<< E quindi è giusto condannare la personalità innocente per quanto ha fatto quella assassina? >>.
<< Ma… non ha senso >>.
<< Ecco, infatti, non ha senso! >> esclama Sherlock impuntandosi << ‘Agire sotto uno stato alterato di coscienza’, questa formuletta è un’attenuante anche per il più efferato degli omicidi. Poco importa se la persona ha la coscienza alterata da una droga, dall’alcool o dalla schizofrenia >>.
<< Sarà comunque condannata >>.
<< Certo, ha commesso degli omicidi e deve pagare, ma un conto è aver ucciso cinque persone, ree di averne assassinate 35 e usato ogni tipo di violenza su di lei, un altro essere accusate del pacchetto completo, Mycroft! >>.
L’uomo di ghiaccio sospira e scuote rassegnato il capo.
<< Io so solo che ti ha gettato via come fossi immondizia. So che potrei essere in un obitorio a riconoscere il tuo corpo privo di vita, in questo momento, anziché qui >>.
<< Stai cercando di dirmi che la mia morte ti avrebbe fatto soffrire? >> ridacchia nel tentativo di spezzare l’imbarazzo causato dalle parole del fratello.
<< Sì >> risponde lui serio. << Ho sempre cercato di proteggerti e questa volta sono stato così stupido da non vedere subito quanto delicata fosse la situazione. Ho pensato fossi andato via per fare dispetto a John e invece… >>.
<< Ora sei tu che dici cose che non hanno senso! >> esclama infastidito. << Io che vado via per fare dispetto a John >> ripete canzonandolo. << Non sono certo io quello che ha fatto ‘un dispetto’ >> sottolinea incrociando le braccia al petto.
<< Conti di tagliarlo fuori dalla tua vita? >> gli domanda diretto Mycroft. Sherlock sospira. Si rende conto che è giunto il momento di affrontare davvero quanto è accaduto e soprattutto ciò che prova. Ci ha girato attorno nei giorni trascorsi segregato in quella casa e persino mentre era lì a congelare in quella fossa. Ora non può più restare nel luogo sicuro che è il suo Mind Palace.
<< Ricordi cosa mi disse papà la sera in cui scappai di casa? >>.
<< Fin troppo bene >> sospira Mycroft, che sembra proprio voler ricordare tutto tranne che quello.
<< Non ti ho mai chiesto se la pensi come lui a riguardo >> gli chiede scoccandogli appena un’occhiata. Scopre di non riuscire a sostenere lo sguardo di suo fratello in questo momento.
<< Sulla prostituzione, intendi? >>.
<< Sai bene cosa intendo >> ribatte, infastidito dal suo dover specificare l’ovvio.
<< So che non sei quel che lui aveva detto tu fossi. Che non lo hai mai fatto allo scopo di guadagnarti qualcosa >>.
<< Sembri molto convinto di questo >>.
<< Lo sono, sì. Nostro padre era… era… >>.
<< Un pazzo assassino >> conclude lui, guardandolo negli occhi. Mycroft sostiene il suo sguardo, poi prende un sospiro e lo distoglie.
<< Sì >> annuisce, lasciandolo senza parole. Benchè non abbia mai apertamente intessuto le lodi del padre, Mycroft ci ha sempre tenuto al buon nome degli Holmes. Quell’ammissione Sherlock non se l’aspettava.
<< Anche il padre di Mary lo era. E i fratelli e la madre. Una parte di lei ne è rimasta contagiata e ha sviluppato quella personalità violenta e assassina. Mi sono chiesto se posseggo anche io da qualche parte qualcosa di simile e l’ho trovato, sai? >> gli dice stringendo la coperta con la mano. << Moriarty è comparso spesso tra i miei pensieri. Mi ha parlato, mi spronava a ucciderla per salvarmi. Ci sono stati momenti in cui ho pensato di seguire il suo consiglio e se non l’ho fatto è stato solo perché la voce di John mi ha aiutato a desistere >>.
<< Parli di voci, fratellino? >> .
<< Non sono pazzo, Mycroft, sai bene come funziona un Mind Palace. Persino tu mi sei venuto in aiuto. Mi hai spronato a rivivere quella scena, quel terribile momento in cui sono dovuto scappare da lui per la seconda volta >>.
Mycroft posa la sua mano calda e asciutta su quella di lui che convulsa stringe il lenzuolo.
<< A lungo mi sono chiesto quando sarebbe arrivato il momento in cui avresti rivissuto i traumi della tua infanzia e giovinezza. Dovevi imbatterti in una donna sventurata e folle per farlo >>.
<< A quanto pare >>. Sherlock lascia andare la coperta e stringe la mano del fratello. << Sei sempre stato al mio fianco ad ogni risveglio da quei viaggi spaventosi che compivo negli abissi del mio inconscio >> gli sorride vedendolo arrossire appena sulle guance pallide.
<< Questa volta non sono stato solo >> dice, volgendo lo sguardo alla sedia vuota. << Non volevo considerare davvero la possibilità che tu fossi scomparso. Non potevo credere ci fosse dietro qualcosa di così folle. John, invece, non ci ha pensato su nemmeno per un istante. È rimasto aggrappato alla convinzione che tu fossi vivo, sempre >>.
<< Perché mi parli di lui? >> gli chiede infastidito.
<< Perché ha sbagliato, è vero. Ha commesso una leggerezza ignobile, ma ci tiene sinceramente a te, Sherlock >>.
<< No, ti fa solo comodo mi faccia da badante >> dice allontanando la mano dalla sua.
<< Sherlock >> insiste il fratello, catturando la mano in fuga. << E’ possibile che tu non abbia capito di che pasta è fatto l’uomo di cui ti sei innamorato? >>.
Ancora una volta Sherlock resta senza parole. Una vampata di calore sente esplodere in viso e immagina di essere arrossito come una scolaretta, cosa che lo irrita ancora di più.
<< Mi ha trattato come una puttana, Mycroft. Non puoi neppure immaginare come ci si senta >> sussurra, la voce rotta dal pianto che si sforza di domare.
<< Ha cercato di proteggerti, invece. Sa bene quanto disastroso sia nelle relazioni e, pur di evitare di farti del male in futuro, ha preferito concluderla sul nascere >>.
<< Sta zitto! >> esclama e il cardiofrequenzimetro inizia a suonare. << Cosa vuoi saperne tu di come funzionano le relazioni? Non hai fatto altro che incoraggiarmi a stare lontano da qualunque forma di coinvolgimento emotivo e fisico con chiunque! Non accetto lezioni di alcun tipo da te su questo genere di cose >>.
La porta si apre ed entra nella stanza John, trafelato e preoccupato.
<< Ehi, che succede? >> chiede portandosi vicino a Sherlock. Guarda il cardiofrequenzimetro e gli prende il polso.
<< Stavamo solo parlando >> gli risponde Mycroft.
<< Non deve assolutamente alterarsi, Myc. Non voglio che gli sparino in vena altro sedativo, non ora che finalmente si è svegliato >> dice sorridendogli.
Sherlock distoglie lo sguardo dal suo e, in modo deciso, libera il polso dalla sua stretta.
<< Sto bene >> dice.
<< Ne sono felice >> ribatte John.
Restano in silenzio. Un silenzio carico di imbarazzante tensione. Il cardiofrequenzimetro rivela quanto forte gli batta il cuore e Sherlock vorrebbe strapparsi gli elettrodi dal petto. Non sopporta di sentirsi così a nudo, non dinanzi a John e persino a suo fratello.
<< Ho incontrato Mary >> gli dice il dottore riconquistando la sua attenzione. << Io… ho pensato che il tuo continuare a dire di doverla aiutare non fosse un delirio. Sono andato a casa sua, ieri, e ho trovato tanti quaderni come questo >> dice porgendo uno dei registri a Sherlock. Questi si tira su a sedere e sfoglia il quaderno.
<< Sì, Mary me li aveva mostrati. Il giorno prima che l’altra mi portasse alla fossa. Avevo già capito che con gli altri omicidi lei non c’entrava nulla. Questi me ne hanno dato la prova >>.
<< Sì >> annuisce John. << Non è lei la seriale. Non so, però, quanto imputarle i soli omicidi dei fratelli e della madre potranno cambiare la sua pena >>.
<< Lei non li ha uccisi. Li ha giustiziati >> precisa Sherlock.
<< E come pensi che questo possa fare la differenza agli occhi di un giudice? >> gli domanda Mycroft, sfogliando il registro. << Se esiste una legge è per impedire che ci si faccia giustizia da soli, fratellino >>.
<< Lo so bene, fratello >> ribatte stizzito. << Mary, però, non aveva altro modo se non farsi giustizia da sé. Hataway non le avrebbe creduto e chiedere il suo aiuto l’avrebbe solo portata ad essere gettata nella fossa per aver rischiato di rovinare gli affari di famiglia. Quel matto del fratello maggiore, Freddie, non faceva altro che minacciarla dicendole così >>.
<< Resta il fatto che ha tentato di uccidere anche te, dimostrando di essere un potenziale pericolo e di poter aver preso parte a qualcuno degli omicidi perpetrati dai familiari >> ribatte spietato Mycroft.
<< No, non lo avrebbe mai fatto! >> esclama Sherlock e il cardiofrequenzimetro trilla nuovamente. << Io sono stato la prima persona che ha tratto in salvo dopo che ha eliminato la famiglia. E’ impossibile pensare che non abbia introiettato parte dei comportamenti che per tutta la vita ha visto mettere in atto da loro. Questi hanno preso corpo in questa personalità crudele, fatta di pregiudizi e comportamenti violenti, gli stessi che subiva lei. Mary lotta in continuazione con questa parte. Abbiamo trascorso lunghi giorni insieme, io e lei, senza che la Mary cattiva si palesasse. Avevamo trovato una sorta di equilibrio e sono sicuro che se non ci fosse stata la bufera ad impedirlo mi avrebbe portato da Hataway >>.
<< Allora perché quando ha incontrato l’ispettore, John e Greg all’emporio non ha detto loro nulla? >> domanda Mycroft, che sembra non volerne sapere di rinunciare alle sue idee.
<< Perché io le ho mentito >> ribatte Sherlock. << Ho sbagliato a mentirle, avrei dovuto dirle fin da subito chi sono >>.
<< Così ti avrebbe ucciso subito >>.
<< No, Mycroft, lo avrebbe portato quanto prima da Hataway >> si intromette John. << Uccidevano coloro che erano soli. Se gli avesse detto di essere stato mandato lì per un’indagine non ci avrebbe neppure provato a derubarlo e ucciderlo, come erano soliti fare i suoi familiari. Scoprirsi presa in giro l’ha fatta infuriare >>.
<< Già >> annuisce Sherlock. << E la furia le ha fatto perdere di vista il pericolo nel quale si sarebbe messa uccidendomi. Mary non è riuscita a farla ragionare. La parte cattiva è pura follia >>.
<< E’ questo che farai, allora? >> gli chiede Mycroft. << Ti addosserai la colpa di quanto ha fatto, dicendo di aver sbagliato a mentirle? >>.
<< Se questo servirà ad attenuare la pena sono pronto a farlo >>.
<< E’ assurdo >> scuote il capo Mycroft incredulo. << E’ meglio che vada ad avvisare il medico del tuo risveglio e a chiedergli quando ha intenzione di operarti. Se resto qui un minuto di più so che quel macchinario prenderà a suonare di nuovo >> dice alzandosi dalla sedia.
Sherlock e John lo guardano andare via e quando la porta si chiude alle spalle di Mycroft si ritrovano in un silenzio carico di tensione.
<< Pensi che davvero si riuscirà ad aiutarla in qualche modo >> domanda John, rompendo il silenzio.
<< Voglio almeno provarci >>.
<< Sì. pensavo solo che sarebbe meglio se non scoprisse che le hai mentito anche su Molly >> gli dice riportandogli alla mente quel particolare che ha tanto facilmente dimenticato. << Lei è davvero felice di averti salvato e ti immagina ora con lei al tuo fianco, pronti a convolare a giuste nozze. Si è creata questo lieto fine e sarebbe brutto rovinarglielo >>.
Sherlock scuote il capo e passa la mano sul viso.
<< Quell’assurda storia! >> esclama scuotendo il capo.
<< L’hai dovuta inventare per evitare ti uccidesse  >>.
<< Sì >> ammette. << Mary cattiva è un’omofoba convinta e parecchio aggressiva. Penso che dovrei ringraziare Molly. È solo grazie a lei che mi sono aggiudicato le attenzioni di Mary bambina, infondo >>.
<< Oh, penso che sapere che hai detto a qualcuno che siete fidanzati e in procinto di sposarvi la renderebbe davvero felice, sì >>.
<< Oh, ti prego >> esclama Sherlock alzando gli occhi al cielo.
<< Quella Johanna, invece… >> .
Sherlock sente il corpo percorso da mille spilli che lo pungono contemporaneamente. Scocca appena un’occhiata a John per poi distogliere lo sguardo .
<< Ti ha… ti ha parlato di… >>.
<< Di me, sì >> conclude John. << Ovviamente lei non sapeva che fossi io, in realtà, la megera che ti ha usato solo per il sesso. Penso che se lo avesse scoperto non sarei uscito vivo da quel manicomio >> dice abbozzando una risatina.
I loro sguardi si incontrano e John torna subito serio. Tossicchia un po’ e raddrizza la schiena.
<< Sono stato uno stronzo, Sherlock >> sussurra. << Io… potessi tornare indietro non direi nulla, nemmeno una delle parole assurde che ho detto domenica mattina. Io… ho dato un calcio alla cosa più bella che mi sia mai capitata e mi dispiace. Vorrei chiederti di perdonarmi e darmi una seconda possibilità, ma… cristo, io stesso non me la darei. Ho temuto di perderti. È stato bruttissimo >> dice cacciando giù il magone. << Sono felice di saperti vivo e… questo mi basta >>.
Il silenzio cala sulle parole bisbigliate del dottore. Sherlock non sa cosa ribattere, non sa se ribattere.
<< Hai risolto il caso. Perché? >> gli chiede spostando l’argomento su qualcosa di più confortevole per lui.
<< Perché ti ho visto così convinto nel tuo desiderio di aiutare quella donna. L’ho trovato strano, ma ho pensato che dovevi avere le tue buone ragioni >>.
<< Sì, le ho >> ribatte lui deciso. << Perché hai permesso ai tuoi amici di condurmi al pub? Perché, se sapevi che avrebbero finito col farmi bere e mettermi in imbarazzo? Quel Bryan… avevo le sue mani dappertutto, ma tu non hai alzato un dito. Come posso pensare che tu ci tenga a me, che non sia stata davvero un’avventura mossa dall’alcol? >> dice tutto d’un fiato, sentendo ora l’impellente bisogno di chiarimenti. John umetta le labbra e sposta il peso da un piede all’altro, nervoso.
<< Io… mi piaceva l’idea di averti con me in una situazione che non comportasse indagini e omicidi. Di essere insieme come due amici in un pub davanti ad una birra. Tutte le volte in cui ho provato a coinvolgerti per una delle uscite solite con Greg non c’è stato verso di convincerti. Lo vedevo che Bryan stava esagerando, ma non sono riuscito a fermarlo. Mi dava fastidio vedere come ti stava addosso e alla fine ti ho trascinato via perché ne avevo abbastanza. Mi sono reso conto troppo tardi di aver fatto un terribile sbaglio. Non ti ho protetto, me ne rendo conto, e non ho scusanti. Anche per aver… per non essermi fermato pur sapendoti ubriaco non ho scusanti >>.
<< No, non ne hai >> sottolinea, vedendo il capo di John chinarsi ancora di più. << Io… mi sono sentito usato >>.
<< Non era mia intenzione >> .
<< Allora perché mi hai detto quelle cose? >>.
<< Perché ho avuto paura >>.
<< Di cosa? >>.
<< Di te >>.
Sherlock resta senza parole. Aveva già valutato nel suo Mind Palace quella possibilità, accennata anche da Mycroft. Sentirla, però, messa a parole da John stesso è ben altra cosa.
<< Non dovevo dirti… quel che ho detto. Mi rendo conto di aver sbagliato >> gli dice assumendosi la sua parte di responsabilità.
<< E’ quel che provi? >> gli chiede John facendolo arrossire. Si limita ad annuire guardando altrove.
<< E’… è lo stesso per me, Sherlock >> confessa John tutto d’un fiato. << Mi rendo conto che può non valere nulla, non dopo quanto ho detto. Suona come un tentativo di salvarsi in extremis, ma non è così. Guardami, Sherlock >> dice aprendo le braccia prima di farle ricadere lungo i fianchi. << Io sono questo. Zoppo, acciaccato, grasso e idiota. Tu, invece >>, sospira, << sei geniale, brillante, bellissimo e atletico. Sabato sera è stato come se avessi preso per me qualcosa che non mi spetta, qualcosa che non merito. Ti ho visto così felice e ho avuto paura di poter mandare tutto a rotoli, perché io una relazione importante non l’ho mai avuta e, caspita, tu sei importante. Allora ho distrutto tutto subito. Forse per me è più facile farmi disprezzare, come lo è per te accettare sfottò e critiche piuttosto che i complimenti >>.
Sherlock resta colpito da quest’ultima frase. Una prospettiva diversa e che finora non aveva presa in considerazione gli si apre dinanzi. Comprende ora cosa volesse dire sua madre con quelle semplici parole. ‘L’amore salva’, aveva detto, e ora gli sembra di capire che la prima cosa dalla quel salva sia da se stessi. Dall’idea distorta che si ha di sé. John fin dall’inizio si è mostrato entusiasta dinanzi alle sue deduzioni, dandogli modo di apprezzarle lui stesso in modo genuino e non ostentato per difesa dall’altrui giudizio negativo. Ora il dottore gli ha detto quanto si veda poco attraente e idiota, cosa lontana anni luce da ciò che invece è. Sa dei suoi problemi di autostima, ma che fossero così marcati non lo aveva capito.
<< John… >> dice incontrando lo sguardo mesto del suo dottore. << Mycroft mi ha detto che dovrò subire un’operazione alla gamba per evitare di restare zoppo. Non sarà per nulla bello e dovrò fare una lunga riabilitazione e non ho per nulla voglia che ci sia Mycroft al mio fianco. Non farebbe altro che sottolineare quanta poca buona volontà ci metterei. Tu sei un dottore e poi… beh, anche se era psicosomatico, zoppo lo sei stato. Penso che avrò bisogno del tuo aiuto, se ti va >>.
<< Certo che mi va, Sherlock >> gli sorride John prendendogli titubante la mano. << Voglio prendermi cura di te. Tento di farlo dal giorno in cui ti ho conosciuto. Ti ringrazio per questa opportunità >>.
E’ così piacevole il calore della sua mano. Sente la propria, sempre fredda, scaldarsi piacevolmente. Un’opportunità, infondo, la si offre a tutti. Greg l’aveva offerta a lui, aiutandolo a uscire dalla dipendenza da cocaina e a strutturare il suo metodo. Lui vuole tentare di offrirla a Mary che lo ha quasi ucciso. Può, quindi, offrirla anche a John, sebbene lo abbia ferito. John che ho fatto di tutto per salvarlo e che c’è riuscito anche questa volta.
Sherlock gli sorride. Non sa cosa accadrà, ma sente che sta facendo la cosa giusta.
 

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Capitolo 15
*** 26 dicembre ***


 
Buonasera a tutti
Eccoci giunti alla conclusione anche di questa long. Devo dire che ne sono soddisfatta. Spero che quest’ultimo capitolo vi piaccia.
Ora, non voglio dire come per la conclusione della long precedente che ora mi prenderò una pausa. Mi sono venute in mente altre mille possibili trame e ho scovato una mezza bozza di un’altra cosetta, che però richiede un po’ di tempo perché è ancora da concludere. Quindi potrebbe capitare che mi vediate qui nuovamente. Magari non domani, né tra qualche giorno, ma è possibile che sia prima di quanto io stessa immagini.
Per il momento vi saluto e vi ringrazio. Anche questa long è stata recensita da molti di voi adorabili lettori. Grazie. Le vostre parole sono sempre un toccasana per l’autostima e per la voglia di continuare a scrivere. Diventa quasi una droga!
Vi auguro una buona lettura
A presto
 
Patty
 
26 dicembre
 
John stringe le mani l’una nell’altra. Arriccia il naso più volte mentre sposta il peso da un piede all’altro. Non si aspettavano nulla di simile. Le cose, anzi, sembrava stessero prendendo una piega positiva per Mary. In particolare lui non si aspettava di assistere a quanto sta accadendo e che lo lascia di sasso, incapace di dire e fare alcunché.
Prova più volte ad avviare una conversazione, ma ogni tentativo gli muore sulle labbra. E’ così contenuto ma allo stesso tempo disperato il dolore di Sherlock. Tiene tra le mani la lettera che Mary gli ha scritto, dedicandogli i suoi ultimi pensieri. Una scrittura da bambina piccola, piena di errori grammaticali da far accapponare la pelle e di un amore sincero da stringere il cuore.
È destabilizzante per chiunque essere strappati dal proprio posto sicuro, dalle proprie abitudini, dalle cose che si può dire proprie. Se si hanno dei disturbi come quello di Mary non è solo destabilizzante ma distruttivo. Si è ritrovata nuovamente in un luogo freddo, circondata da persone pronte a trattarla male e non ha retto. Anche se finalmente erano riusciti a trovare un avvocato come si deve ben disposto nei suoi confronti. Anche se la giuria aveva capito la situazione, nonostante i pregiudizi e il timore dinanzi a quel donnone. Il verdetto era arrivato e l’aveva vista condannata, sì, ma per l’omicidio dei familiari e riconosciuta innocente per tutti gli altri. Aveva ottenuto notevoli attenuanti e a breve sarebbe stata trasferita in una struttura protetta meglio gestita di quella nella quale si trovava. Di quella nella quale ha deciso di porre fine alla sua vita.
Sherlock asciuga le lacrime silenziose che gli rigano il viso e posa la lettera sul tavolino dinanzi al divano sul quale è seduto. Prende il violino e inizia a suonare una ballata allegra, irlandese. È la prima volta che John gli sente suonare qualcosa di simile e che deve essere sicuramente legata a Mary.
Si avvicina a lui, uscendo dalla sua immobilità e prende in mano la lettera che non può fare a meno di rileggere.
 
“Caro Sherlock
(anche se per me sei Edward e come nome mi piace pure dippiù).
Ti scrivo anche se non lo so fare bene perché voglio chiederti scusa per quello che faccio.
Qui sono cattivi con me e mi dicono sempre che non vado bene.
Ho tante voci nella testa che mi dicono che non vado bene.
Ho paura Eddy.
Paura sempre in ogni momento.
 Mi urlano, mi spingono per ogni cosa.
Sono peggio dei miei fratelli, della mia mamma, persino di papà.
Mi dici quando vieni qui di avere pazienza che le cose cambiano e mi hai spiegato anche quando e come, ma io non ce la faccio.
Quando te ne vai tutto torna brutto e tu stai sempre così poco.
Mi mancano le mie bambole, i miei animali e mi manca stare con te in camera a sentirti suonare il violino e a cantare Molly Malone.
Tanto anche in un posto diverso e più protetto come dici tu le cose non andranno bene perché sono io che non vado bene.
Se non fossi nata scema e se non fossi così grossa forse allora andrebbero bene.
Ma non posso scappare da me anche se lo vorrei tanto.
Mi hai detto che ti dispiaceva non sono riuscita a uccidere tutti gli assassini.
Ho trovato il modo e lo faccio perché non la sopporto più.
Mi fa tanto male e ho sempre paura che può fare tanto male anche agli altri.
So che non ti dimentichi di me e questo mi fa felice.
Nonno diceva che si vive nei ricordi delle persone e quindi so che sarò viva.
Prenditi cura di Molly e amala tanto
(anche se l’ho capito che non si chiama così.
Non sono arrabbiata con te però.
So quanta paura fa quella là e ti ha picchiato tanto per il tuo coinquilino).
 Le persone devono essere amate altrimenti muoiono.
Io ci ho provato ad amarti e sei vivo perché ti ho dato la coperta.
Ho un po’ paura, ma penso che è normale.
Ho fatto un nodo stretto e la trave e forte penso che mi tiene.
Sono felice di averti conosciuto, Eddy”
 
Sherlock conclude il pezzo e John asciuga a sua volta alcune lacrime sfuggite ai suoi occhi. Lo sente sospirare, mentre appoggia il violino al tavolino. I sospiri si trasformano in singhiozzi e l’unica cosa che John sente di fare è attirarlo a sé e offrirgli la sua spalla per sfogare il dolore che prova. Non si sarebbe mai aspettato di vedere Sherlock piangere per qualcuno. Una reazione fin troppo umana, che si fatica a immaginare in una mente brillante e razionale come la sua. Eppure sta succedendo. John sta tenendo stretto il suo corpo scosso dai singhiozzi. Quella donna lo ha quasi ucciso e lui ne piange la perdita come fosse un familiare al quale tanto teneva.
John può capire il perché del suo dolore. Anche lui ha avuto modo di affezionarsi alla Mary bambina in questi pochi giorni vissuti tra tribunali, avvocati, manicomio e strutture alle quali chiedere di ospitarla. Mycroft non ha messo loro i bastoni tra le ruote, ma non ha neppure tentato di aiutarli, convinto che fosse solo un’assurda follia.
“Lo è. Dio, se lo è” pensa John, stringendo a sè il suo amico. “I migliori, però, sono matti” sorride posando un bacio tra i ricci di Sherlock e poi un altro e un altro ancora, finchè il pianto non si placa.
A conti fatti è questo il momento più intimo da loro vissuto dopo quel fatidico sabato sera. Fin’ora se sono stati vicini è stato più che altro per motivi medici. John ha tenuto Sherlock tra le braccia per aiutarlo a sedersi o ad alzarsi prima e dopo l’operazione alla gamba. Lo ha persino aiutato a lavarsi quando aveva il gesso e ora lo sostiene e aiuta a eseguire gli esercizi di riabilitazione. Lo ha incoraggiato nei momenti in cui il dolore alla gamba lo ha portato a imprecare come mai gli ha sentito fare e ha cercato di alleviare le sue pene con massaggi e dando fondo a tutti i rimedi che conosce. Questo abbraccio, però, è diverso. Nasce dal senso di ingiustizia per quella decisione, per questo caso che ha avuto una conclusione pessima.
<< Non sono riuscito a salvarla >> sussurra, tirando su col naso.
<< No, Sherlock. Ci sei riuscito, hai dato fondo a tutte le tue risorse e sei riuscito a salvarla da quel manicomio, a trovarle una struttura più umana, a convincere una giuria della sua innocenza e il giudice a dare notevoli attenuanti alla sua pena. Salvarla da se stessa, però, era un’impresa così grande da andare oltre le capacità di chiunque, forse anche del migliore degli specialisti >>.
Sherlock annuisce contro la sua spalla. Si accoccala tra le sue braccia in cerca di conforto e, sebbene non sia il migliore dei momenti, John prova una grande gioia.
<< Voglio occuparmi del suo funerale. Non voglio la mettano in quella sorta di fossa comune che è il cimitero del manicomio >> sussurra.
John concorda e posa altri baci tra i suoi capelli. Si ferma temendo di essere inopportuno. Tutto vuole tranne che dargli l’idea di stare approfittando della situazione.
La signora Hudson li sorprende abbracciati, ma non c’è il solito sorriso di chi la sa lunga sul suo viso. Si è interessata molto al caso di ‘quella povera ragazza’, come è solita definire Mary, e intuisce subito le sia successo qualcosa. Posa il vassoio con il the sul tavolino e prende la lettera. La legge, commuovendosi a sua volta e senza dire una parola va alla porta e da lì scende al suo appartamento.
John pensa che sia strano anche l’atteggiamento della loro padrona di casa. In realtà non c’è una cosa che non sia strana legata a questo caso. Stanno piangendo tutti quanti la morte della donna che ha quasi ucciso Sherlock. Forse l’unico sano di mente è proprio Mycroft. O forse è l’unico la cui empatia funziona come un interruttore capace di accendersi solo per alcune persone e non per altre.
Il campanello suona e i passi veloci di Lestrade ne annunciano l’arrivo. Bussa alla porta prima di entrare e John lo vede guardarli stupito del ritrovarli così vicini.
<< Che succede? >> chiede rendendosi conto delle condizioni di Sherlock.
<< Mary Abbott si è suicidata >> risponde John, stringendo a sé il suo amico. << Hataway in persona è venuto qui stamattina per darci la notizia. Ha portato la lettera che ha scritto prima di impiccarsi >>.
<< Cristo >> ribatte sgomento il detective, che ha chiesto loro informazioni sul caso ogni giorno. << Proprio ora che avevate trovato la struttura disposta ad accoglierla. Non ce l’ha fatta, povera donna >> dice passando la mano sulla barba incolta. << Io… sono venuto a ssottoporti un caso, ma… credo sia meglio che vada >>.
<< No >> dice Sherlock allontanandosi da John. << Ho bisogno di distrarmi. Datemi solo un momento >>.
Prende le stampelle e piano piano, posando il piede con accortezza per terra, si dirige verso il bagno.
<< Non l’ho mai visto così >> sussurra Greg, scoccando un occhiata preoccupata al dottore.
<< Nemmeno io >> ribatte questi alzandosi in piedi. << Sente di non essere riuscito a salvarla >>.
<< Cristo, è già tanto che abbia deciso di aiutarla nonostante quello che ha subito >> sbotta Greg, incredulo come chiunque sia venuto a conoscenza di ciò che stava facendo Sherlock per la sua carceriera.
<< Deve essere una caratteristica della sociopatia dietro la quale si nasconde >> fa spallucce John, versandosi una tazza di the.
<< Come va tra voi? >> gli chiede Greg, facendogli andare il sorso di traverso. Hanno avuto poche occasioni di parlarsi, non solo per il tanto lavoro che John ha avuto per stare dietro a Sherlock, ma anche perché il dottore non ha avuto il coraggio di affrontare il detective dopo la ramanzina che gli ha fatto.
<< Bene >> risponde abbozzando un sorriso. << Come prima di quel sabato >>.
<< Oh >> esclama confuso Greg. << Avete deciso di far finta che non sia successo nulla, dunque >>.
<< In realtà no. Non ne abbiamo parlato >>.
<< Ah, ecco. Questo sì che è tipico di voi >> ribatte Greg ridacchiando. << Sono comunque felice che tu sia ancora qui >> dice dandogli una pacca sulla spalla. << Forse sono stato un po’ troppo severo con te >>.
<< No, sei stato giusto. Non mi sono comportato bene e non ho scusanti. Mi ha dato un’opportunità e sto facendo il possibile per non buttarla via. Mi ritengo già più che fortunato >>.
<< Se posso dire la mia, però, siete davvero carini insieme >> dice strizzandogli l’occhio. John sente il volto accendersi come una lampadina e non riesce a ribattere alcunché.
Sherlock esce dal bagno sollevandolo dall’imbarazzante situazione. Lestrade gli illustra il caso e John resta ad ascoltarli prendendo posto alla sua poltrona. Vedere Sherlock tornare a indossare i panni del consulente investigativo lo riempie di gioia. È stato bloccato col gesso per talmente tanto tempo che ha temuto impazzisse. Per fortuna stare dietro Mary lo aveva distratto abbastanza. Ora privato del gesso potrà muoversi, sebbene con le stampelle, e tornare sul campo. Vede già i suoi occhi illuminarsi all’idea di indagare e anche lui sente di aver bisogno di un nuovo caso.
 
***
 
<< … e sono sicuro che in qualche modo quell’uomo c’entri qualcosa. Si può notare chiaramente che odia il suo luogo di lavoro dal modo in cui arrotola i polsini della camicia >>.
Sherlock procede spedito su per i 17 gradini di Baker Street. John ha notato fin da subito quanto riesca ed essere veloce con le stampelle. Lui con quel vecchio bastone faceva una pessima figura ed era lento come una tartaruga. Il dottore sospira rendendosi conto di come anche in queste condizioni Sherlock riesca ad essere meglio di lui.
Siedono alle rispettive poltrone e il consulente sembra proprio non voler riprendere fiato. Appoggia diligente le stampelle sul bracciolo e continua a esporgli le sue idee. Il caso è piuttosto semplice persino agli occhi di John, ma Sherlock ci si sta dedicando con tutto se stesso.
“Hai bisogno di distrarti” pensa e sa che non glielo dirà. Il suo amico odia quando si sottolinea l’ovvio.
<< Tra una cosa e l’altra hai saltato i tuoi esercizi oggi >> gli fa notare, approfittando di una breve pausa. Sherlock sembra un bambino colto con le mani nel sacco. Trova noiosi gli esercizi che il fisioterapista gli ha imposto e cerca in tutti i modi di sottrarsi. Più che noiosi John pensa che siano dolorosi e che cerchi di non farli per non mostrare quanto la gamba gli dia problemi. Tenta di apparire più forte e indistruttibile di quanto in realtà non sia, il consulente.
<< Devo proprio? >> gli chiede, mettendo su i suoi migliori occhi da cucciolo.
<< Devi proprio >> ribatte John spietato.
Si alza in piedi e gli porge la mano, ma Sherlock sbuffando la ignora, deciso a fare da sé. Il dottore lo lascia fare, consapevole di come anche questo serva a spronarlo a prendersi cura di sé.
John lo incoraggia a continuare a parlare del caso anche durante gli esercizi, cosa che aiuta Sherlock a farli senza lamentarsi. Il piede si flette, ora, molto meglio e, sebbene ancora l’equilibrio sia precario, l’appoggio su entrambi i piedi sembra essere stato riconquistato.
<< Sei stato bravissimo. Hai visto quanti risultati hai raggiunto? Tra un po’ riuscirai pure a saltellarci su >>.
<< Se lo dici tu >> borbotta Sherlock al quale sfugge una smorfia di dolore.
<< Concludiamo la sessione, dai, e poi prometto che non ti rompo più >>.
<< Certo, come no >> ribatte Sherlock. Finora non lo ha mai ringraziato e gli si è sempre rivolto in modo distaccato, ma John sa che questo fa parte del pacchetto. Non si aspettava riconoscimenti e lodi. Il fatto che gli permetta di stargli così vicino è già una vittoria per lui.
Sherlock esegue contro voglia l’ultimo piegamento e nel modo di rialzarsi perde l’equilibrio. John lo afferra al volo, ma ruzzola su uno dei bastoncini di legno che usano per alcuni esercizi. Cade di schiena sul pavimento con Sherlock addosso.
<< Oddio, ti sei fatto male? Come va la gamba? >> gli chiede preoccupato.
<< Io sto bene, tu piuttosto? Hai preso una bella botta >> ribatte Sherlock tentando di liberarlo del suo peso. Carica, però, troppo sulla gamba e con un lamento gli cade di nuovo addosso.
<< Scusami >> dice imbarazzato per non essere riuscito neppure a mettersi in piedi.
<< Non c’è problema >> lo rassicura lui sorridendogli.
Sherlock ricambia il sorriso. Scosta il ciuffo dagli occhi e distoglie lo sguardo. Sono così vicini che John può sentire il suo respiro infrangersi contro il suo viso.
<< John >> sussurra il consulente guardandolo negli occhi. << Io… ho pensato ad una cosa >>.
<< Cosa? >> gli chiede John spezzando il suo silenzio.
<< Ho pensato che in questi giorni ho mosso mari e monti per salvare la donna che ha tentato di uccidermi e ho totalmente ignorato l’uomo che mi ha salvato >>.
<< Oh… beh, ci sono state delle priorità… >>.
<< No, smettila, stammi a sentire >> gli dice appoggiando le mani sul suo torace per sostenersi meglio. << Ho rischiato di morire. Ci sono andato dannatamente vicino questa volta e me ne sono reso conto solo leggendo la lettera di Mary. Ho avuto molto freddo in quella fossa. Dio, non credo di aver mai patito il freddo così tanto come quella notte. Mi sento ancora infreddolito, nonostante ora sia al caldo. Non so se è normale. So, però, che quando mi hai stretto questa mattina il freddo è andato via. Anche adesso, il freddo sta andando via >> sussurra e John sente la pelle accapponarsi. Tenta di contenere l’effetto delle sue parole, della sua vicinanza e teme di fare una pessima figura, portandolo ad allontanarsi da lui. << Ho pensato che mi hai sempre scaldato con la tua presenza, con le tue parole, con le risate che ci siamo fatti sempre nei momenti e nei posti meno opportuni >> ridacchiano entrambi senza che ci sia bisogno di portare esempi. << E, soprattutto, ho pensato a quanto calore ho provato quella notte. Ci ho pensato mentre tremavo in preda al freddo. Ho pensato a quanto mi sarebbe piaciuto tornare lì, tra le tue braccia. Poco importa cosa sia successo il giorno dopo. È stata l’ultima cosa a cui ho pensato prima di scivolare nel mio Mind Palace. Un ricordo caldo e bellissimo >> sorride carezzandogli la guancia stupita. << Ho pianto per Mary oggi, per la solitudine che deve aver patito quella donna. So cosa vuol dire essere soli, lo sono stato per tanto tempo. Da quando sei qui con me questa solitudine non c’è più. Sarebbe stupido continuare ad ignorare ciò che provo per te, a lasciare che orgoglio e onore si portino via il calore di cui ho bisogno. Ho una disperata voglia di te, John >> dice posando le sue labbra contro quelle stupite di John.
Benchè l’abbia definita disperata, questa voglia sono lenti i suoi baci. Lenti e carichi di passione, così diversi da quelli di quella notte. John se ne lascia travolgere totalmente e nella bailamme di emozioni che prova tenta di prendere il comando, ma Sherlock si allontana subito da lui.
Non dice nulla. Lo guarda soltanto, il viso arrossato dalla passione.
John resta a sua volta in silenzio e torna ad abbandonarsi contro il pavimento. Solo allora Sherlock si avvicina nuovamente alle sue labbra, che tormenta di baci lenti, caldi.
Non c’è l’urgenza di sabato, che era più che altro quella di John e non la sua. Non c’è alcuna intenzione di invitarlo a prenderlo, mettendosi del tutto alla sua mercé. Non sembra neppure voler dirigere il gioco, ne detta solo i tempi.
John si adegua piacevolmente alla sua lentezza e Sherlock gli permette di abbracciarlo, di accarezzargli piano la schiena, di scendere a coprire di baci il collo che tanto adora. Gli sfugge un sospiro e John eccitato gli morde il collo, forse un po’ troppo forte. Temendo di aver osato troppo si allonta, ma sente Sherlock ridere di gusto. Posa la fronte contro quella di lui ed è sereno il suo volto, divertito il suo sorriso.
<< Sei impetuoso, capitano >> sussurra sulle sue labbra prima di baciarle.
<< Non conosco altro modo se non questo >> tenta di giustificarsi John .
<< Lascia che te ne insegni un altro, allora >> bisbiglia.
Le sue iridi sono di un azzurro intenso dentro il quale John sente di affogare. L’iperattivo consulente investigativo gli sta mostrando il lato lento di sé. Gli sta insegnando ad assaporare ogni singolo istante, prendendosi il tempo di incamerare tutte le informazioni sensoriali che questo produce.
<< La mia mente viaggia veloce, il mio corpo, invece, è maledettamente lento >> gli spiega sussurrando al suo orecchio.
John che tutto può dirsi tranne che lento in occasioni simili scopre la piacevolezza del prendersi tempo.
Un bottone dopo l’altro.
Un respiro dopo l’altro.
Il corpo di Sherlock che lentamente si muove contro il suo.
Il sudore che nasce dai loro corpi caldi a contatto.
<< Oddio io… sento che sto per esplodere >> borbotta John tentando di trattenersi.
<< E allora fallo >> lo incoraggia Sherlock ridacchiando.
<< Ma… no, dai, è troppo presto >>.
<< Troppo presto? >> gli chiede stupito, incontrando il suo sguardo. << Perché presto? Hai qualche impegno dopo? >>.
John sbatte più volte le palpebre stupito dell’espressione incredula di Sherlock. Ride, poi, divertito scuotendo il capo.
<< No, in effetti non ho impegni >>.
<< Allora lasciati andare >> gli dice posando un bacio sulle sue labbra. << Al massimo ricominciamo da capo e poi di nuovo e ancora, finchè non ne avremo abbastanza >>.
<< E il caso? >> gli chiede senza neppure sapere perché.
<< Quale caso? >> ribatte Sherlock sorridendo.
<< Niente, lascia perdere >> dice, lasciando scivolare le mani lunga la schiena nuda di lui, calda e umida di sudore.
 
 

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