L'abito non fa il monaco

di Hebi_Grin
(/viewuser.php?uid=174727)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Nda: Ciao, sono Grin e ho un problema con gli sfigapairing (questo in particolare). 
Alcune precisazioni veloci, a mo' di appunto: 

. È pensata per essere ambientata prima di Entangled, ma si possono anche leggere indipendentemente.

. Il Rating è arancione per l’implicito contesto sessuale (nel capitolo 2), il rapporto non esattamente sano e la sottintesa PTSD che trapela qua e là (che è anche il motivo dell'avvertimento “Tematiche delicate”).

Insomma, la guerra è finita relativamente da poco (circa un anno) quindi il trauma è fresco. Siccome Katsura non viene mostrato se non per una (1!) immagine in quella fase (e ha un'espressione così triste, malinconica, stanca, eppure determinata, che mi spezza il cuore) da lì ho provato a ricamarci su, inserendo sia elementi che generalmente si hanno nei disturbi post traumatici (come allucinazioni, dissociazione, rivivere il trauma, cercare di evitare gli stimoli che portano a riviverlo, ipervigilanza...) che tratti in trasparenza del Katsura che era e sarà (in particolare quello che si vede alla prima apparizione nella serie, che presumibilmente stava un po' meglio che un anno dopo la fine della guerra pur essendo ancora idealmente più vicino a Takasugi che Gintoki). [Il fatto che non venga approfondito quel periodo come è stato fatto per gli altri allievi di Shouyou è una delle poche cose che rimprovero a Sorachi. T.T]

Funfact: quando cominciai a scriverla, mesi fa, doveva essere una praticamente quasi pwp. Ebbene, la scena smut alla fine non c’è, viene solo evocata; in compenso si sono aggiunti numerosi altri elementi (tutto il resto, praticamente). Come cambiano le idee sulle fic quando le si fanno decantare un po’!

Era anche pensata per essere una OS, ma siccome son venti pagine ho preferito dividerla in due capitoli, dato che era possibile farlo più o meno equamente.

Quanto riportato tra virgolette alte è unicamente il pensiero di Katsura. C'è solo il suo. 

Se doveste notare errori, fatemelo pure sapere!

Ovviamente se noterò qualche errore io stessa, lo correggerò. Così come potrei migliorare qualche passaggio per renderlo più scorrevole. Perché sono una bestia (non quella di 'Sugi) e di solito edito continuamente anche a mesi dalla pubblicazione, ahah. Edit: ops, l'ho già rimaneggiata parecchio.


Glossario:

Samue: abito da lavoro tipico dei monaci buddisti, esattamente come quello che usa Zura.

Andon: lampade tipiche giapponesi


Ulteriori precisazioni a fine capitolo.


Enjoui  Enjoy!
 


 

 

L'abito non fa il monaco


 

Katsura dubitava avrebbe mai imparato ad amare Edo, e men che meno le deboli, arrendevoli persone che la abitavano.

La lunga serie di guerre Joui era terminata il 21 novembre dell’anno precedente, giorno in cui Shouyou-sensei era stato decapitato da Gintoki. Non avrebbe potuto dimenticare quella data che aveva segnato la fine della vita che fino allora aveva conosciuto nemmeno se avesse voluto.

Ci aveva comunque provato, per qualche settimana, quando non riusciva più a distinguere la realtà dai sogni – gli incubi – che faceva le rare volte che riusciva ad addormentarsi, non sapendo quale delle due cose fosse peggio.

Per giorni non aveva saputo riconoscere la sua stessa figura riflettersi alle vetrine dei negozi mentre si trascinava stancamente per le strade di quella affollata ed estranea città in cui era appena giunto; il corpo gli sembrava non appartenergli né riusciva a governarlo e procedeva per inerzia, come guidato da una forza maggiore che non riusciva a comprendere ma lo obbligava a proseguire e cercare una strada da percorrere per uscire dal vuoto in cui era sprofondato; la mente ripercorreva in modo sconnesso e frammentario comunque la stessa scena che quel giorno si era consumata davanti ai suoi occhi, impotente di fare alcunché.

Gli ci era voluto del tempo prima di dipanare qualche nodo della confusione in cui versava per capire di provare avversione e odio ed essere profondamente arrabbiato, sentimenti che ardevano in lui come una fiamma inestinguibile e pervadevano la sua intera anima.

Forse, pensava, era stata quella la forza che lo aveva spinto a proseguire.

Abbattere l'ira del Nobile Furioso sul Bakufu, strapparlo pezzo per pezzo, distruggerlo e far risorgere dalle ceneri il Paese, creando un mondo in cui i suoi compagni che non vedeva da quel giorno e Shouyou-sensei avrebbero amato vivere.

Non voler dimenticare era una delle poche certezze che gli rimanevano.

A distanza di qualche mese, camminando con sicurezza e determinazione per le strade polverose e sporche ma ormai note della città, quando la sua immagine si rifletteva alle vetrine ancora gli capitava di non riconoscersi, ma adesso perché aveva fatto tanto suoi certi travestimenti cuciti addosso con cura, uno per uno, che dimenticava di averli indossati.

Katsura il cameriere, il garzone, l’operaio, il buttafuori, il pet sitter.

L’hostess nei nightclub, che con sua grande sorpresa pareva riuscirgli meglio della maggior parte degli altri lavori part-time, senza che nessuno si accorgesse di avere di fronte un uomo, e aveva scoperto essere un ottimo modo per strappare preziose informazioni ai clienti vicini al Bakufu –  che spesso chiedevano la sua compagnia – dopo qualche moina e bicchiere di costosi alcolici.

E Katsura il monaco, come in quel pomeriggio.

Era tutti loro, e allo stesso tempo nessuno di essi.

Ciò che li accomunava era chiamarsi Katsura Kotarou –  Zurako, quando vestiva abiti femminili – e il fremito di rabbia che attraversava loro l'anima sotto la corazza sottile quanto la propria pelle ogni volta che incrociavano degli Amanto o la popolazione di Edo accettava passivamente la loro sudicia presenza.

La popolazione del Paese non voleva essere salvata, dunque poteva essere sacrificata alla causa senza troppe pene né rimorsi. Gli abitanti non erano alleati, non erano compagni. Erano poche le persone che a Edo poteva definire così.

Si trattava perlopiù di parenti e amici dei morti ai tempi della guerra – pochi di loro avevano effettivamente combattuto al tempo – che avevano giurato sul loro onore di non rendere vano il sacrificio dei propri cari, abbattere lo Shogunato che li aveva traditi, espellere gli Amanto dal Paese e fondarne uno nuovo e migliore, radunandosi attorno al Nobile Furioso, l’eroe di guerra, scelto come Leader.

"Un samurai deve servire e proteggere il proprio Signore fedelmente fino alla morte. Ma se è proprio quel Signore a tradire il Paese, allora merita che la punizione divina cali sulla sua testa.

Il vero padrone di un samurai è la sua patria".

Questa era la convinzione di tutti loro e del Leader.


 

*


 

Nell’attimo stesso in cui imboccò la strada della via in cui si trovava il suo appartamento, avvertì una presenza e alzò lo sguardo.

Si fermò solamente il tempo di un lungo sospiro, come se i suoi piedi avessero perso un passo come il cuore saltato un battito.

I suoi occhi si posarono sull’uomo con la schiena poggiata al palo dell'elettricità a meno di cinquanta metri da lui, poco oltre la propria abitazione, del quale riusciva a scorgere il profilo sinistro e i lineamenti familiari ed estranei al tempo stesso: un bel kimono e uno haori elaborato e sfarzoso i cui inserti in oro scintillavano alla luce del sole del primo inverno – “Un abito che da solo vale più di tutti i miei averi”, pensò –, il fodero nero e lucente di una katana priva di guardia, una bianca benda a celargli l’occhio sinistro, una kiseru alla bocca da cui uscì immediatamente dopo una piccola nube di fumo.

La benda e la kiseru erano delle novità, e se Katsura sapeva e capiva il motivo della prima, la seconda era un mistero.

L’altro non si voltò nella sua direzione, né Katsura gli rivolse uno sguardo più del necessario. Proseguì invece fino all’ingresso ed entrò. Lasciò la porta aperta in un silenzioso invito a entrare, se volesse, ma si scoprì a sperare in cuor suo che non lo facesse.

Per quanto Katsura tenesse ai suoi vecchi compagni, non aveva fatto mai nulla per cercarli da quando si erano separati. Solo loro tre potevano comprendere la reciproca sofferenza, ma aveva pensato fosse passato troppo poco tempo da quando tutto era andato in pezzi attorno e dentro di loro, ed era stato troppo impegnato a rimetterli malamente assieme e costruire su di sé una gelida ma ancora sottile corazza cui sarebbe bastata qualche incrinatura per cedere. Eppure, non avrebbe rifiutato un contatto con loro se, come ora, cercato.

Aveva tolto gli zori e appena posato il bastone e il copricapo in paglia, quando sentì alle proprie spalle la porta chiudersi.


 

«Ohi, Zura. Ti sei dato alla vita monastica?».

Kotarou sospirò profondamente e chiuse gli occhi, mentre slacciava la pettorina blu sopra il samue nero e cominciava a ripiegarla con cura.

«Mi chiamo Katsura, e non essere sciocco» rispose con forzato distacco senza voltarsi ma scorgendo i suoi movimenti con la coda dell’occhio mentre riponeva l’indumento.

Takasugi sembrava star studiando l’ambiente – scarno, spoglio, spartano –  guardandosi attorno. Le assi sconnesse del pavimento scricchiolavano sotto i suoi passi nell’unica stanza a fare da cucina, salotto e camera da letto. Solo il bagno era a parte.

Un lavandino e un fornello, qualche credenza i cui buchi erano evidenti segni di esser stati tarlosi; un futon non ritirato nell’armadio, ma rifatto con cura; un tavolino basso di legno di rovere che un tempo doveva essere stato costoso e di buona fattura, ma irrimediabilmente rovinato da segni lasciati da lame e che aveva perso la lucidatura.

Una mano di vernice era evidentemente stata passata nei punti in cui potevano intravedersi delle macchie lasciate dall’umidità per le infiltrazioni.

L’odore dell’economico olio di sardina usato come combustibile per le lampade andon era appena percepibile, coperto dall’aroma di fiori secchi di lavanda e buccia d’arancia arsi al fuoco del piccolo braciere al centro della stanza.  

Per quanto ogni cosa sapesse di vecchio e umile, tutto era pulito e tenuto in ordine, risultando dignitoso.

A Kotarou parve una strana cornice in cui vedere muoversi qualcuno vestito tanto elegantemente.


 

«Ci ho messo un'eternità a trovare il tuo nascondiglio».

«Allora evidentemente funziona. I cani dello Shogunato non son svegli come te» rispose Kotarou che voltò appena il capo per lanciargli una fugace occhiata.

«Faccio del tè. Ne bevi anche tu?» domandò con tiepida gentilezza mentre riempiva il bollitore da una caraffa d’acqua.

«Non hai del sakè?».

Katsura posò la brocca, accese il fornello e si voltò del tutto per guardarlo con un cipiglio: involontariamente aggrottò le sopracciglia e strinse le labbra cominciando a mordicchiare la parte interna di quello inferiore.

«No, non ne ho. È una spesa superflua per le mie attuali finanze. E poi sono appena le tre del pomeriggio, sarebbe comunque troppo presto per gli alcolici» cominciò con tono freddo e severo.

Il peso del suo corpo si spostò involontariamente dal piede destro quello sinistro, a segnare il passaggio del testimone da uno stato razionale a uno emozionale.

«Non avrai cominciato a bere a orari inopportuni, spero» aggiunse. Si era sforzato di mantenere un’inflessione neutra ma una lieve nota di apprensione si sarebbe potuta facilmente notare tra le righe.

«Non preoccuparti, mi pareva semplicemente più appropriato del tè per celebrare la mia bravura a scovarti».

Katsura sbuffò e sollevò annoiato gli occhi al cielo.

«Bene, stasera te lo offro io. Così dovremmo risolvere sia il problema di soldi che di orario inopportuno» concluse Takasugi.

Katsura posò la schiena al mobile a fianco al fornello e studiò l'altro con attenzione. Incrociò le braccia e nascose le mani nelle maniche, ostentando una sicurezza che cercava, come se si trovasse nelle tasche interne, in un atteggiamento difensivo.

«Quindi pensi di trattenerti in città» disse più veloce di quanto avrebbe voluto: un velo d’ansia era stato gettato sulle sue parole, sfuggito al suo controllo.

«Ho degli affari da sbrigare» rispose Shinsuke con tono vago, ma la rapida e intensa occhiata che gli era stata lanciata aveva fatto capire a Kotarou che l'altro si era accorto della sua tensione e strinse le dita attorno agli avambracci.

«E hai tempo per andare a bere?». Alzò il mento e gonfiò leggermente il petto, come aveva fatto innumerevoli volte quando l’aveva rimproverato o cercato di far valere il proprio ruolo di Leader dei Quattro Generali nella catena di comando.

«Ho tutto il tempo che decido io di avere, non più, non meno».

«Sbruff–» il sibilo del bollitore lo interruppe. Katsura trasalì al leggero fischio improvviso dietro di sé.

«Salvato dalla campanella, Zura?».

«Katsura. Fa’ silenzio. Il tè prende un cattivo sapore se c’è confusione» rispose piccato. Il leggero tremolio della sua mano mentre infondeva il tè gli diede prova tangibile di quanto fosse forte il proprio nervosismo di fronte a quella situazione inaspettata, e si costrinse a domarlo. Quando si voltò per portare le due tazze al tavolino, le mani erano ferme e non rivelavano più la sua agitazione.


 

Entrambi si sedettero e restarono immobili a lungo, a guardarsi soltanto senza sbattere le palpebre né toccare le tazze.

Katsura provava una strana sensazione allo stomaco, e decise trattarsi di disagio, che aveva la sensazione di essere il solo a provare.

Avvolse le mani attorno alla tazza e trovò confortevole il calore che emanava su di esse, ancora infreddolite dalla bassa temperatura all'esterno.

Si schiarì la gola, risolvendo di dover essere lui a interrompere quello stallo.

«Credevo fossi andato verso Kyoto» esordì fingendo fosse possibile parlare del più e del meno.

Le labbra toccarono la tazza ma non bevette, e si limitò a soffiare sulla superficie per stemperarne il contenuto ad occhi chiusi.

«È così, sto a Kyoto».


 

Kotarou aveva dedotto Shinsuke si fosse recato nella città imperiale perché quando si erano separati le loro direzioni erano opposte, ma i ricordi delle ore precedenti si risvegliarono nella sua mente.

Aver rivisto Takasugi avrebbe potuto rivelarsi uno stimolo alla sua mente per tornare a quella mattina. E non poteva fare nulla per impedirlo.


 

«Devi pulire la ferita» gli aveva detto con tono assente e gli occhi vacui, seduto in ginocchio a fianco a lui.

L’altro era ancora sdraiato per terra, il sangue colava da quello che fino a poco tempo prima – pochi minuti o delle ore, Katsura non avrebbe saputo dirlo – era il suo occhio sinistro e gli sporcava il volto.

Come se l’urlo che aveva lanciato contro Gintoki gli avesse portato via l’ultimo residuo di voce, l'altro era rimasto muto e immobile.

Kotarou gli porgeva un lembo di stoffa il più pulito possibile strappato dalla propria casacca e sciacquato con dell'acqua da una borraccia che ora teneva in grembo; la mano a metà strada tra loro, incerto se prendere l'iniziativa e se l'altro fosse disposto a farsi toccare.

Takasugi l'aveva scostata via con forza irrisoria ma da cui trapelava violenta avversione e aveva sciolto il dubbio.

«Almeno lascia che ti pulisca il sangue».

«Che importa, ormai? Lasciami stare» aveva risposto; la sua voce poco più di un sussurro appena udibile.

Katsura si era morso il labbro inferiore fino a spaccarlo, e aveva volto lo sguardo dal lato opposto, verso la schiena di Gintoki e la testa e il corpo di Shouyou-sensei.

«C'è ancora una cosa che dobbiamo fare tutti e tre assieme».


 

Kotarou riaprì gli occhi e guardò Takasugi: non voleva dimenticare, ma nemmeno pensarci e rivivere quei momenti.  

Shinsuke davanti a lui indossava delle bende, sebbene la sua ferita dovesse essere guarita da dei mesi, perlomeno, e ciò gli diede prova tangibile di quale fosse il vero presente, quello a cui doveva tornare. Contrasse le dita attorno alla tazza, quando si rese conto di sfruttare una conseguenza della tragedia a proprio vantaggio, per evitare di rivivere la stessa, nel cui ricordo rischiava di rimanere incagliato come spesso accadeva quando non riusciva a cacciarlo via in fretta e cercò nuovamente di nascondere anche quel senso di colpa sotto la propria coltre glaciale.


 

«Ti sei perso? È dalla parte opposta. Dovevi andare a ovest, e sei venuto a est» rispose senza traccia di ironia; la voce fredda e affilata come la lama di una katana.

«Non dire idiozie. Sono qui perché volevo».

«Per? Fare una visita di cortesia?».

«Lo definirei più un viaggio d'affari».

«Affari» ripeté Katsura; gli indici tracciavano il bordo della tazza. «Che tipo di affari? Ti sei dato al commercio come Sakamoto?».

«Ti ho detto di non dire idiozie. Hai sentito parlare di qualcuno che pare stia radunando i Joui per agitarli contro il Bakufu?» domandò lui allusivo.

Kotarou volse lo sguardo al contenuto della tazza: nessun ramoscello di tè galleggiava in superficie, e non lo trovò un buon segno.

«… Non so di che parli» mentì, senza sapere lui stesso il perché.

Un'occhiata di Takasugi lo informò che già sapeva e mentire era inutile, e lo esortò a dire la verità.

«Sì, sto radunando i Joui».

«Siamo in due».

«Ah sì? Trovato qualcuno?».

«Ho riformato la Kihetai, qualche mese fa».

Katsura posò lentamente la tazza sul tavolino e le mani sulle ginocchia.

«Il tentato omicidio dello Shogun alla visita a Kyoto all’imperatore, il mese scorso… Dunque è stata opera vostra».

«Quella non è andata come speravo, ma sì».

«Hai rischiato grosso, Takasugi. Se ti avessero preso la tua testa sarebbe esposta a marcire in riva al fiume. Una cosa è far cadere lo Shogunato, un’altra capitolare con esso».

«Ho i miei metodi».

«Che ti dico da una vita essere troppo rischiosi».

«Ormai che ti importa?».

Katsura fece attendere la sua risposta, indeciso su quale dovesse essere e in bilico tra la sua parte logica e quella emozionale.

Perché sei mio amico? Compagno? Un ricordo dei momenti felici dell’infanzia? Una delle due persone che possano capire ciò che provo? Una parte di ciò che Shouyou-sensei ha lasciato indietro per proteggere?”.

«Le forze Joui che vogliono veramente abbattere il governo e non meramente sfruttarne il nome come una maschera per fare i propri comodi insudiciando la nostra reputazione sono esigue. Il tuo gruppo ha bisogno del suo generale» disse infine, decidendo per la razionale e salvare per quanto possibile la corazza che sentiva già scricchiolare e cominciare a incrinarsi, prima di bere.

«Zura, a me non interessano queste scaramucce. Io distruggerò questo mondo. Ne strapperò le carni a morsi con le mie zanne, berrò il suo sangue, polverizzerò le sue ossa».

A quelle parole Katsura sgranò gli occhi e per un momento temette gli andasse il tè di traverso; posò la tazza sul tavolino e tossicchiò.

«Scusa, puoi ripetere?».

«Sei sordo? Ho detto che distruggerò questo mondo strappandone le carni con le mie zanne».

«Non sono sordo, sono Katsura. E ti verrà un'indigestione. Il Bakufu è chiaramente avariato».

Shinsuke strabuzzò l’occhio e bevette del tè.

«Sai... Pensavo fossi più ferrato sulle metafore».

«Non sono ferrato sulle metafore, sono Katsura».

«Questo è evidente» rimbeccò Takasugi. «Ciò che intendevo dire è un’altra cosa, Zura».

Prima che potesse correggerlo, Kotarou venne attirato da un movimento dell’altro e notò che le dita della sua mano sinistra erano andate anch'esse verso la tazza, parevano tuttavia averla mancata al primo tentativo, come se avessero provato ad afferrare nel mezzo qualcosa che non si trovava lì. Katsura spostò lo sguardo sul suo viso, ed ebbe la sensazione che fosse perso a contemplare un’altra dimensione.

«Che cosa, Shinsuke?» chiese con un tono notevolmente addolcito, più confidenziale e intimo.

Raramente chiamava Takasugi per nome, mai casualmente, ed era certo che l’altro l’avesse notato.

L’occhio verde smeraldo di Shinsuke incontrò quelli cangianti di Kotarou e la sua espressione mutò improvvisamente da assente a concentrata.

«Tu hai una bestia, Zura?».

«Una bestia?» sbatté le palpebre più volte, serio in volto. «Di che parli?».

«Sto parlando di qualcosa che prende possesso dell’anima e della mente. Qualcosa che ruggisce, ulula, sussurra, urla di uccidere, ed esige come tributo violenza e sangue per placarsi e dare tregua».

Katsura dischiuse le labbra e lo osservò, incredulo e al tempo stesso preoccupato alle sue parole, eppure sul proprio volto non v'era traccia di timore.

«No, non ce l’ho. Sicuramente non nei termini che hai usato».

«Eppure vuoi abbattere il Bakufu».

Kotarou sospirò e socchiuse gli occhi.

«Provo rabbia e odio, sì. Voglio che la paghino e distruggere lo Shogunato per poter gettare le basi di un nuovo Paese, e se per farlo devo sporcarmi le mani o sacrificare delle vite –  beh – si tratta di un sacrificio necessario. Questo lo devo a ogni cadavere, ad ogni sopravvissuto, a ogni persona che speri ancora in un Paese migliore… E a noi».

Tutti e tre noi”.

Takasugi lo studiò per qualche istante e bevette un lungo sorso.

«Sembra che faremo un pezzo di strada assieme».

«“Un pezzo di strada”? Che vuoi dire?» chiese Kotarou; un sopracciglio inarcato e il capo inclinato incuriosito verso destra.

«Non mi interessa la parte sulla ricostruzione».

«Non desideri vivere in un mondo migliore?».

«Non mi interessa esser vivo per allora, Zura. Non voglio ‘riuscire o morire provandoci’. Voglio trascinarli con me negli Inferi tutti, fino all'ultimo, e continuare a ridurli a brandelli lì, ancora e ancora, per l’eternità».

«Così non avrai mai pace».

«La pace non mi si addice».

Katsura abbassò lo sguardo e lo fissò su un punto indistinto al centro del tavolino, non sapendo che dirgli né se esistesse qualcosa che potesse effettivamente aiutarlo.

Che direbbe Shouyou-sensei?”.

«Ci farai l’abitudine» si limitò a rispondere.

«Io non voglio farci l’abitudine! Dannazione, Zura!». La sua voce si era fatta leggermente più acuta, e Kotarou gli lanciò un’occhiata di rimprovero.

«Per favore, non urlare, sveglierai Victoria».

Takasugi scosse appena il capo e sgranò l'occhio, visibilmente sorpreso.

«… Chi è Victoria?».

«Miao».

Entrambi si voltarono in direzione del verso appena sentito, e videro un grosso gatto nero dal pelo semilungo stiracchiarsi in un angolo, che subito zampettò verso di loro, avvicinandosi a Shinsuke.

«Ecco, lei è Victoria».

«Victoria» ripeté Shinsuke; lo sguardo fisso sul felino che gli annusava le dita della mano destra, a studiarsi vicendevolmente.

«Sì, Victoria. Come la regina straniera».

«Ironico, per un nazionalista che vuole rovesciare l’autorità...».

«Mi piace studiare la storia».

«Zura, riesci a mala pena a cavartela tu, e hai preso un gatto? Non cambi proprio mai, eh?».

«Non l’ho presa, è arrivata da sola. È una randagia, e quindi...».

Victoria strusciò il muso sul ginocchio di Shinsuke e gli voltò le spalle, alzò la coda e si diresse verso Katsura.

«Le piaci».

«Zura, ti sei mai accorto che la tua gatta è un maschio?».

«Cosa? No che non lo è! E sono Katsura».

«Sei il solito idiota testardo che si rifiuta di vedere diversamente da ciò che ha deciso. Ha i testicoli, è sicuramente un maschio».

Kotarou fece salire il gatto sulle ginocchia e prese a fargli dei grattini sotto il mento.

«Ma no… Ha soltanto il sedere un pochino grosso, tutto qui. Sai, la vizio un po’».

«Tu saresti capace di ucciderti da solo per sbaglio».

«Vedi? Le bestie si possono domare...» gli disse Kotarou, ignorando il suo commento.

«Solo quelle che vogliono essere domate» rispose Takasugi, e Katsura non disse più nulla, impegnato a coccolare il gatto sulla pancia.

 

 

 


 

 

Alcune precisazioni:

. Tutti conosciamo il Katsura attuale, quello che ama Edo. Ma personalmente credo che subito dopo la guerra, appena giunto in città, non l’amasse affatto, anzi. Son convinta che all’inizio la odiasse, in quanto sede del Bakufu e pullulante di Amanto. Insomma, immagino un amore nato lentamente.

. Zurako. Mi piace semplicemente pensare che questa sua identità non sia nata con Saigo, ma abbia avuto dei precedenti. Il fatto che nell’episodio 255 Zura dica con nonchalance di essersi travestito da donna per fare da esca e rimorchiare il nemico… Ha fatto il resto!

. Il 21 Novembre, indicato come data della fine della guerra Joui, è il giorno della decapitazione di Yoshida Shoin, personaggio storico a cui è ispirato Shouyou.

. Sì, Victoria è ispirato a Elizabeth. Non solo, mi immagino che siccome era un po’ avanti negli anni già qui, sia morto di vecchiaia poco prima dell’inizio della serie e che Sakamoto abbia regalato Eli a Zura per provare a tirarlo un po’ su con un nuovo animale domestico. ♡

. Per quanto riguarda la Kihetai... Be', ho approfittato della mancanza di cronologie ufficiali, e considerando che Matako all'epoca era poco più di una bambina e ora “non più una ragazzina delle medie né una liceale”, ci sta. Forse.
 

Vorrei porre l'attenzione su una cosa che secondo me è importante: va tenuto conto che il pov è di Zura, e che specie in una situazione del genere... In quanto tale non si può ritenere un narratore completamente affidabile. Le sensazioni che prova lui, specie quando cerca di interpretare Shinsuke, non è detto che siano sempre accurate. Sono più impressioni.

Sicuramente c'è qualcos'altro che volevo specificare, ma che ho dimenticato. 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Glossario:

Ochoko: tazzina per bere il saké. Non sono le classiche quasi “piatte”, ma cilindriche (quindi più capienti).

Tokkuri: la classica bottiglietta da saké

Tsuka: impugnatura della katana

Koiki: Tabacco giapponese particolarmente indicato per la Kiseru

Saya: fodero

Tasuki: i “lacci” che si usano per tenere le maniche del kimono raccolte.


 



 

Kotarou venne svegliato da una folata di vento gelido sulla schiena nuda solo parzialmente coperta dalle lenzuola e dai capelli ancora raccolti, ma in disordine e annodati.

Il suo corpo riverso prono sul materasso era pesante e stanco, la gola riarsa, la testa pulsava procurandogli un intenso fastidio e allungò il braccio destro, percependo lo spazio al suo fianco vuoto e freddo.

Strizzò gli occhi più volte e attese qualche secondo perché si abituassero all’oscurità della stanza, cercando nella vista ulteriore conferma di essere solo nel futon, la quale non tardò ad arrivare.

“Che abbia sognato?”.

Chiuse gli occhi per provare a ricordare e ripercorrere con la mente i ricordi della notte precedente: alcune scene si manifestavano intense e dettagliate – lui che si sporgeva verso Shinsuke e posava le labbra sulle sue; i loro abiti scivolare sul pavimento; mani che toccavano, esploravano, stringevano e graffiavano; bocche baciare, ansimare, mordere, assaggiare, mormorare e implorare.

Non voglio pensare, non farmi pensare, Shinsuke”.

Altre immagini apparivano invece vaghe e sbiadite, come quando si guarda attraverso un leggero velo di lacrime.


 

Provò a concentrarsi e riavvolgere il nastro, tornare indietro di qualche ora, per cercare di ricordare cosa fosse accaduto prima.  

Era stato con Shinsuke in un locale a Kotarou sconosciuto sebbene si trovasse in un luogo davanti al quale era passato numerose volte. Aveva fermato il proprio passo, stretto i pugni e contratto nervosamente la mascella quando entrando aveva notato che l’intero personale e buona parte dei clienti erano Amanto di tutte le specie – pesci, leopardi, maiali, leoni, orsi e ogni altro tipo di fauna possibile.

Uno sguardo eloquente e un cenno di Shinsuke lo avevano esortato a procedere e si erano seduti con tre tokkuri di costoso sakè per occasioni speciali in un angolo piuttosto appartato e buio del locale, che tuttavia permetteva loro la visuale sull’intera sala.

L’ambiente era uno strano mix – non una via di mezzo – tra il lussuoso e il rozzo tendente al volgare che aveva fatto pensare a Kotarou a una copertura per attività sottobanco.

«Mi hai portato a bere o fare una gita allo zoo?» aveva commentato Katsura stizzito, le braccia incrociate al petto e lo sguardo, contrariato e offeso, fisso su Shinsuke che stava versando a entrambi da bere.

L’altro ridacchiò – Kotarou si chiese se fosse davvero divertito, ed ebbe la sensazione non trattarsi di quel tipo di risata – e prese tra le mani la ochoko portandola vicino alle labbra.

«In un certo senso, entrambe le cose. Beviamo un po’ prima, poi ti dico».

Kotarou si mordicchiò il labbro inferiore, il piede destro tamburellava nervoso al pavimento, poi sospirò e bevettero, contemporaneamente.

Subito Shinsuke verso dell’altro alcool nelle ochoko, che vennero svuotate e di nuovo riempite, e così fino a svuotare la prima tokkuri senza che pronunciassero una sola parola.

Per tutta il tempo trascorso nel locale, le loro tazze non sarebbero rimaste vuote che per qualche secondo.

«Allora?».

«L’uomo vestito di blu seduto al tavolo vicino al banco – no, non guardarlo ora, Zura».

«Mi chiamo Katsura».

Shinsuke sogghignò e prese da una tasca dell’haori la kiseru, una scatola di fiammiferi e del koiki dalla confezione in lacca nera e dorata.

«Meglio se ti trattieni dal correggermi, qui. Dicevo,» smise di parlare per accendere la kiseru e fare un lungo tiro. «Si chiama Hayashi Daijirou. È un funzionario del Bakufu». Vuotò la tazzina e Katsura fece altrettanto, come se vigesse tra i due un silenzioso accordo di bere ogni volta che lo facesse l’altro.

«Non ha un rango alto nello Shogunato, è più uno che sfrutta la sua posizione per arricchirsi inosservato. Facilita in cambio di mazzette certi tipi di affari agli Amanto. Attività illegali, ovviamente, che il governo non può esplicitamente consentire ma da cui ottiene comunque dei vantaggi. E sai come ha avuto la sua posizione?».

Un altro tiro di fumo enfatizzò la pausa e Katsura scosse la testa, scrutandolo con attenzione in attesa, gli occhi su Takasugi e lui soltanto.

«È uno che prima, durante e dopo la guerra ha denunciato e venduto parecchie persone come ribelli, bambini compresi, abbastanza da comprarsi un posto. Un ottimo rappresentante del marcio dello Shogunato, non trovi?».

Bevettero ancora, e Katsura lanciò una fugace occhiata all’uomo vestito di blu stringendo la stoffa del kimono azzurro di stoffa grezza nella mano sinistra.

L’alcool stava scioglieva velocemente la sua corazza glaciale e le parole di Takasugi vi si insinuavano inesorabilmente, permettendo alla rabbia di cominciare a fluire goccia per goccia ed erodere più a fondo la barriera di fredda e dignitosa compostezza.

«L’uomo calvo con gli occhiali con cui parla è chiamato ‘Lo zoppo’» continuò Shinsuke. «Afferma essere una ferita di guerra, ma la verità è che è stato storpiato da bambino dalla poliomelite. È il contabile di questo posto, e ovviamente anche il tesoriere che si occupa del riciclaggio del denaro. L’unica cosa pulita che ci sia in questo posto è il sakè. Goditelo, Zura» concluse lui con un cenno del capo, sollevando la tazzina.

Kotarou soppesò per qualche attimo le parole appena sentite e mandò giù l’intero bicchiere.

Strizzò gli occhi quando il liquido scese per la gola ma cominciò a sentirlo salire alla testa.

Evidentemente, anche Takasugi stava facendo le sue ricerche e raccogliendo dati.

«Perché mi dai queste informazioni?» chiese dopo essersi schiarito la voce.

Shinsuke riempì le tazzine di entrambi – ormai alla terza tokkuri – e aspirò del fumo.

«Perché voglio vedere che ci farai».

«Mi stai mettendo alla prova?».

«Se vuoi chiamarlo così...».

«Sì o no, Shinsuke?».

«Qualcosa del genere» rispose Takasugi con leggero ritardo.

Stavolta fu Katsura a prendere per primo l’ochoko per bere, e l’altro fece lo stesso.

«Perché?» domandò biascicando appena mentre Shinsuke versava ancora da bere e Kotarou cominciava a faticare a vedere nitidamente. Cercò di concentrarsi sull’altro, assottigliando appena lo sguardo per vedere meglio: se stava anche lui risentendo dell’alcool, non lo dava a vedere, escludendo l’occhio appena arrossato, la pelle del viso e del collo imperlati di sudore e il fatto che si inumidisse spesso le labbra per la secchezza data dal saké.

«Diciamo che sono curioso di vedere come agisci ora» disse prima di mandare giù un altro bicchiere.

Stavolta Katsura rimase immobile e bevette con qualche secondo di ritardo. Posata la tazzina, portò la mano destra all’impugnatura della katana nascosta al suo fianco.

La pupilla dell’occhio di Takasugi si dilatò e un moto di divertimento uscì dalle sue labbra.

«Oh, è così che vuoi fare? Sembra più una cosa da me».

Katsura non rispose e rimase immobile con la mano stretta alla tsuka; Takasugi verso dell’altro saké dalla bottiglia, svuotandola.

«Questo è l’ultimo bicchiere, Zura. Dopo questo fai ciò che vuoi… Ti asseconderò».

Kotarou mandò giù il liquore con la mano sinistra; un’espressione che voleva essere concentrata, ma appariva assente sul suo volto.

Posò l’ochoko e lasciò la presa dell’impugnatura, portando lo sguardo sull’amico, poi frugò le tasche del kimono e poggiò sul tavolo un oggetto sferico che produsse un suono metallico.

«Interessante decisione...» fu il commento di Takasugi.

«Un minuto» disse Katsura cominciando a settare la bomba.

«Fai… Venti secondi» rispose Shinsuke.

«Sei impazzito?» biascicò Kotarou con gli occhi sgranati.

L'altro sogghignò e tirò una boccata di fumo.

«Venti secondi» ripeté Shinsuke.

Katsura chinò la schiena in avanti verso l’altro, gli avambracci poggiati sulla superficie del tavolo.

«Così rischiamo di venir coinvolti anche noi» sibilò.

«Ti preoccupa la cosa?» chiese inarcando un sopracciglio fingendo sorpresa.

"Ovvio che sia preoccupato, e lo sai benissimo, idiota".

Katsura rigirò la bomba tra le mani premendo i tasti.

«Trentacinque. Non uno di meno. Andiamo» ordinò alzandosi dalla sedia, e mosse un primo passo incerto.

Il contatore sullo schermo cominciò il countdown e Kotarou si voltò: Shinsuke era ancora seduto e lo guardava.

«Andiamo» ripeté Katsura con lo stesso tono risoluto che usava durante la guerra per dare ordini. La voce e i pugni stretti gridavano silenziosi tutta la sua irritazione e preoccupazione.

Gli si avvicinò, determinato ad afferrarlo per un polso e trascinarlo fuori di peso, se necessario, ma un attimo prima che ciò potesse avvenire lo schermo segnò venti secondi e Shinsuke si alzò di sua volontà.

«Ti avevo detto che ho il tempo che decido di avere io, Zura».

Katsura era troppo impegnato ad assicurarsi di uscirne vivi per pensare a rimproverarlo.

I due si diressero a lunghi passi fianco a fianco fuori dal locale, e una volta che furono in un vicolo sporco e buio dall’altro lato della strada sentirono la forte esplosione e un intenso spostamento d’aria; videro pezzi di legno e mattoni schiantarsi sulla strada e il marciapiede, e le fiamme divampare alte.

Katsura posò la schiena e la testa al muro dietro di lui e tirò un sospiro a metà tra sollievo e soddisfazione.

Shinsuke spostava lo sguardo tra lui e il locale in fiamme.

«È stato rischioso, Takasugi» disse Katsura ansimante per l'adrenalina e la corsa fatta appena messo piede fuori dal locale.

I battiti del suo cuore parevano impazziti e portò la mano destra su di esso per percepirlo meglio; le sue labbra erano incurvate in un sorriso e gli occhi chiusi.

«A me sembra che però tu ora sia davvero vivo per la prima volta da quando ti ho rivisto».

Katsura sollevò lo sguardo su di lui e lo osservò: forse aveva ragione, ma si rese tristemente conto di non poter dire altrettanto.

I due terroristi avevano già voltato le spalle il vicolo quando cominciarono a sentirsi le sirene dei pompieri e della polizia.

 

*


 

Davvero uno strano sogno”.

Per qualche attimo, il dubbio lancinante persino più del mal di testa attanagliò Katsura, che si trovò a chiedersi persino se davvero avesse visto Shinsuke quel giorno.

Dalla fine della guerra gli era capitato varie volte di avere dei veri e propri stati allucinatori, non dei semplici sogni ad occhi aperti, che si sovrapponevano alla realtà; giorni in cui era stato assiduamente convinto di aver visto o fatto una certa cosa o parlato con una certa persona, per poi scoprire con sua enorme sorpresa che non era mai accaduto.


 

Un rumore lo fece improvvisamente riavere dal dormiveglia e dal flusso dei propri pensieri, e portò la mano destra istintivamente sotto il cuscino alla ricerca del wakizashi pronto a difendersi; la sinistra stava già tirando la saya e sfoderato i primi centimetri di lama.

Alzò la testa e si voltò, solo allora si accorse di un rivolo di saliva all'angolo della sua bocca perso durante il sonno.

Il suo sguardo incontrò la sagoma di un uomo seduto alla sua finestra e gli ci volle qualche secondo prima di realizzare chi fosse e che avesse Victoria posato sulle ginocchia.

«… Takasugi» disse dopo l'iniziale spaesamento, e velocemente richiuse il fodero della lama e si pulì l'angolo della bocca col dorso della mano.

L'altro voltò lo sguardo verso lui, prese una boccata di fumo ed espirò verso l'esterno.

«Già sveglio, Zura?».

«Katsura… Quanto ho dormito?».

«Tre ore, circa».

«E tu?».

«Trenta minuti, forse».

«Pensavo di averti sognato».

«Fai spesso quel tipo di sogni sulle persone che conosci?».

«S-Stai zitto! Certo che no!» balbettò Kotarou alzando la voce, e le sue guance si imporporirono. Una rinnovata fitta alla testa gli fece portare entrambe le mani alla testa e la massaggiò, passando le dita tra i capelli annodati.

«Bere dell’acqua attenuerebbe i postumi, Zura».

«Katsura. L’hai letto su qualche rivista? Un trafiletto a fianco di ‘Guida ai locali underground di Edo’?»

«Ma che stai dicendo? Non ho mai letto quella roba. Era una rivista scientifica».

«Se leggi riviste scientifiche, dovresti sapere anche che fumare non è un toccasana. Da quando lo fai?».

L’altro guardò all’esterno e rimase in silenzio.

«Takasugi?».

Kotarou lo chiamò, lo sguardo fisso su di lui e sporse il busto in avanti, in attesa.

«Shinsuke?».

«Da qualche mese» rispose senza voltarsi.

«Ti ucciderà».

«Lo farà abbastanza lentamente da non essere la causa della mia morte. Te l’ho detto, no? Avrò il tempo che deciderò io».

«Fumi, non dormi… Ti stai facendo del male».

«Non mi pare tu te la stia cavando molto meglio di me» stavolta i loro sguardi si incrociano per un attimo, finché Shinsuke non guardò fuori e Kotarou fissò una piega delle lenzuola.

«In che direzione stiamo andando, Shinsuke?» mormorò dopo qualche minuto di silenzio.

«Alla deriva. Verso una strada senza uscita, al buio di un'eterna notte. Col resto del mondo».

«Dopo la notte viene l'alba».

«Tu sogni con gli occhi aperti».

Kotarou sospirò e lasciò ricadere il corpo sdraiato sul futon, gli occhi fissi al soffitto e un impercettibile sorriso sulle labbra.

«Almeno quando posso decidere che sogni fare, preferisco ci sia il sole».

«Se questo ti soddisfa...»

«Non proprio, ma è qualcosa… Come lo è il fatto che oggi abbia fatto amicizia con una bestia».


 

*


 

Katsura posò sul tavolino due ciotole di riso – scondito – e due tazze di tè.

«Hai mai pensato di tenere i capelli sciolti?» domandò in tono casuale Takasugi dopo qualche boccone e osservato per alcuni attimi.

Kotarou inarcò un sopracciglio.

«Capelli sciolti…? Come ti è venuto in mente?».

«Ho pensato che li hai sempre portati legati. Ma forse sciolti si addirebbero meglio a te».

«Sciolti son scomodi, li ho troppo lunghi».

Sciolse il nastro che ormai raccoglieva solo gli ultimi centimetri delle punte dei capelli, ancora arruffati dalla notte precedente, e lo poggiò di fianco alla tazza.

«Così, dici?» chiese ravvivandoli con la mano, che si incastrò in un grosso groviglio a metà lunghezza.

Shinsuke sogghignò e inghiottì un boccone.

«Magari la prossima volta».

«Sì, la prossima volta...» ripeté distrattamente Kotarou e tornò a mangiare.


 

«Mi sei piaciuto ieri sera, Zura. Insomma, chi se lo sarebbe mai aspettato da un monaco» esordì Shinsuke dopo qualche minuto di silenzio.

Katsura sbattè sul tavolo la scodella di riso e le hashi.

«Ta-Takasugi! Non provare nemmeno a cominciare discorsi imbarazzanti come questo! E quello è un travestimento!» balbettò, e la voce si alzò di un’ottava; le guance assunsero una tonalità rossastra.

«… Parlavo del locale che hai fatto esplodere» rispose l’altro senza scomporsi alla sfuriata.

«Ah». Katsura volse lo sguardo di lato ancora più imbarazzato e il viso in fiamme; un chiodo piantato nel muro dal precedente proprietario era diventato improvvisamente interessante. «Io…».

«Avevi bisogno di non pensare» cominciò Shinsuke quando l'altro non continuò la frase. Lentamente Kotarou riportò lo sguardo verso il suo.

«Ricordarti di esistere ancora, ma facendo in modo tale da non provare sensi di colpa. Qualcuno che conoscesse bene il tuo corpo, le cicatrici visibili e invisibili, come funziona la tua mente abbastanza da capire tutto ciò senza fare domande, perché non l’avresti saputo mai dire».

Kotarou deglutì un boccone, stupito e affascinato che la capacità di Shinsuke di leggere e analizzare persone meglio di quanto loro stesse riuscissero e situazioni fosse persino migliorata.

«Stai ancora parlando del locale…?».

«Sto parlando di te».

«E di te che dici?».

«Alcune delle nostre esigenze sono opposte, ma compatibili. Altrimenti credi davvero ti avrei assecondato?».

Kotarou inghiottì l'ultimo morso con l'aiuto del tè.

Devo schiarirmi le idee”.

«Ho bisogno di darmi una sistemata».

«Mh» rispose Shinsuke di rimando a bocca chiusa, impegnato a masticare, mentre l’altro si stava già dirigendo al bagno.


 

Katsura chiuse la porta dietro di sé.

Il catino sotto il rubinetto gocciolante era pieno a metà e sospirò. Perdeva già da una settimana, e ancora non era riuscito a ripararlo.

Il proprio viso si rifletté al piccolo specchio appeso alla parete ed ebbe un sussulto, quasi spaventato, e lo fissò a lungo con gli occhi sgranati

Un disastro. Un completo, terribile disastro indegno di un samurai”.

Gli occhi erano ancora arrossati dalla sera prima; il viso emaciato e di un pallido tendente al grigio; le occhiaie nerastre sotto gli occhi gli ricordarono quando doveva usare il trucco per lavoro ma tornato a casa era troppo stanco per rimuoverlo – pur sapendo che se ne sarebbe pentito il giorno dopo –; le labbra erano secche come la pelle attorno e spaccate in quello che aveva tutta l'aria di essere un morso; una scia di ecchimosi da suzione ai lati del collo, di un viola intenso che avrebbe dovuto coprire con una sciarpa per giorni, e non aveva bisogno di controllare per sapere non essere le uniche.

Tirò su le maniche del kimono, per fissarle col tasuki e il suo sguardo ricadde sui morsi e i graffi tracciati sulla sua pelle delle braccia ora scoperta, che esaminò con attenzione.

“Ha bisogno di sentire di avere il controllo”.

Con la mano sinistra, raccolse mollemente sulla nuca i capelli aggrovigliati, mentre con l’altra gettava l’acqua su viso e collo. Era gelida, ma se pure avesse avuto voglia di scaldarla al fuoco – “Devo davvero procurarmi uno scaldabagno” –  non l’avrebbe fatto. Non avrebbe spazzato via quel poco di stanchezza perennemente leggibile sul suo volto che gli era concesso rimuovere, né lo avrebbe aiutato a ragionare meglio.

L'aroma di menta del dentifricio sostituì il sapore acido e stantio del sakè della notte precedente e del riso appena mangiato nella bocca, e gli parve di sentirsi un po’ meglio.

Con le punta dita dipanò con cura tutti i nodi che riuscì a trovare, lentamente e senza strappare, poi con attenzione cominciò a spazzolarli.

Dalle punte fino alle radici, le setole affondarono tra le ciocche, finché non incontrarono più alcun ostacolo né resistenza.

«Kotarou, cosa stai facendo…?» mormorò tra sé e sé con un fil di voce; le braccia tese al lavandino a reggere gran parte del proprio peso e gli occhi fissi sulla sua immagine riflessa, incerto su quale Katsura sarebbe stato quel giorno, e di quale conoscesse la risposta.

“Cosa stai facendo?”.

Le gocce d’acqua cadevano nel catino dal rubinetto chiuso, e le osservava infrangerne la superficie, disconnesso dalla realtà, fin quando sentì la porta dell’ingresso aprirsi e poi chiudersi subito scrollandolo dal torpore in cui era caduto.

“Cosa?”

Un istante dopo era fuori dal bagno.

Shinsuke era scivolato via come un’ombra e senza una parola, lasciando la tazza di tè e la ciotola di riso vuote, e Kotarou coi suoi dubbi.

Se fosse corso fuori, avrebbe certamente potuto raggiungerlo, ma decise di non farlo.

Capì di non doverlo fare.

Si sedette di nuovo, e notò che a fianco alla tazza non c’era più il proprio nastro per capelli.

«“La prossima volta”...» mormorò toccando le ciocche dei capelli che ricadevano sciolti sulle sue spalle.

Katsura aggrottò le sopracciglia, e le sue labbra lentamente si incrinarono in un sorriso, degenerando in una risata dapprima accennata, poi sempre più forte, folle, tanto violenta da smettere solo quando lo lasciò steso sul pavimento senza fiato divenuta oramai muta mentre le sue labbra continuavano a muoversi come in uno spasmo.

Victoria emise un miagolio stridulo e rizzò i peli.

Passarono svariati minuti prima che riprendesse fiato e si rimise seduto; la sua mente riuscì infine a formulare in modo logico un pensiero coerente.

Non sapeva quando sarebbe stata ‘la prossima volta’,  ma Shinsuke l’avrebbe trovato con un’altra maschera: quella che egli stesso aveva contribuito a creare prendendo il suo nastro.

C’era spazio per un Katsura Kotarou coi capelli sciolti, come li teneva lui, e che forse avrebbe saputo rispondere alle domande che si poneva.


*


Omake/Finale alternativo, se si desidera:

Era passato qualche giorno, e Katsura cominciava a pensare che forse i capelli sciolti, pur lunghi, non erano poi così scomodi in fondo.

Il problema maggiore, tuttavia, era che quelli caduti durante il giorno non rimanevano incastrati nel nastro, bensì erano liberi di cadere al suolo.

Doveva spazzare il pavimento molto più spesso.

«Victoria, spostati, per favore. Devo pulire lì. Con cosa stai giocando?».

Katsura tirò un lungo sospiro e si chinò per vedere meglio quando il gatto (Shinsuke aveva ragione, era davvero un maschio, ma non avrebbe mai ammesso il suo errore) lo ignorò.

Rabbrividì quando, tirando un lembo del gioco del gatto, capì di cosa si trattasse. Era il suo nastro per capelli, diventato ormai quasi irriconoscibile. Non era stato preso da Shinsuke, ma dal gatto per giocarci.
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3817693