INSIDEOUT

di Gingerhead23
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Charlotte ed Emma ***
Capitolo 2: *** Charlotte ***
Capitolo 3: *** Emma ***



Capitolo 1
*** Charlotte ed Emma ***


Charlotte ed Emma

 

Quella mattina Blackbay Hills, una ridente cittadina nel Massachusetts a pochi chilometri da Boston - nonché vecchio baluardo dei nordisti durante la Guerra Civile - ,  era più grigia e opprimente del solito. Il cielo era di un bianco slavato, ed emanava una luce fastidiosa che costringeva a strizzare gli occhi di continuo. Nuvole sfilacciate si rincorrevano pigramente, simili a vecchi batuffoli di cotone, occultando la tenue luce del sole di ottobre. Charlotte Pryce si strinse nel giubbotto di pelle, rabbrividendo, e si avvolse con decisione la pesante sciarpa di lana color cammello attorno al collo. Camminava con passo svelto, lo sguardo rigorosamente incollato alle vecchie all star bianche e le mani cacciate in tasca per difenderle dal freddo - non avrebbe mai e poi mai indossato un paio di guanti, nonostante le vistose proteste di sua madre. Si concentrò sulla riproduzione casuale dell’Ipod, che in quel momento stava passando un brano dei REM che le piaceva particolarmente, e si concesse di dare un’occhiata a ciò che le stava intorno. Era sempre lo stesso, monotono spettacolo di ogni mattina : passanti che correvano verso gli autobus, sventolando a destra e a manca i loro caffè da asporto; vecchietti pacifici che fumavano la pipa e leggevano il giornale sulle panchine di Lincoln Park, godendosi la calma placida del parco alle prime ore del mattino; signore eleganti che aprivano le boutique raffinate del centro e fumavano le loro sigarette sottili, tenute in bilico tra unghie laccate di rosso e dita inanellate. Sospirò, annoiata e rassegnata. In quella grigia mattina di ottobre avrebbe dato qualsiasi cosa per essere da un’altra parte, per non dover essere costretta a passare otto ore del suo tempo davanti alle stesse facce e china sugli stessi, dannati libri, cercando di ficcarsi in testa nozioni che le parevano tutte ugualmente piatte.

Si fermò davanti ad un semaforo rosso, venendo subito accostata da una ridanciana comitiva di studenti, che riconobbe come matricole del suo liceo. Alzò gli occhi al cielo, infastidita dalla loro snervante eccitazione, e anelando più che mai la sua dose mattiniera di caffeina. Appena fu verde scattò in avanti, decisa a seminare l’allegro gruppetto e a rifugiarsi in fretta al Foxhole, il bar preferito dagli studenti della Blackbay High. Percorsi pochi passi, la famigliare insegna di finto legno del Foxhole - che voleva riprodurre, in maniera piuttosto pacchiana, quelle dei vecchi saloon - le si parò davanti. Con un mezzo sorriso diede uno strattone alla porta che si aprì cigolando, e venne subito investita da una zaffata dolciastra di paste appena sfornate e caffè. Fece un respiro a pieni polmoni, come di quelli che si fanno in  montagna per farsi penetrare nelle ossa l’aria balsamica dei boschi. Lì di balsamico c’era ben poco, ma era comunque una miscela particolare di suoni e odori senza la quale Charlotte non riusciva proprio a cominciare la giornata.

Si fece scivolare su uno degli alti sgabelli davanti al bancone, sistemando malamente ai suoi piedi la borsa di pelle stracolma di libri. La barista, una esuberante ucraina dalla chioma platinata e dal rossetto rosa barbie, le fece un distratto cenno di saluto mentre serviva altri studenti; a quell’ora, in effetti, i ragazzi della Blackbay High erano praticamente l’unica clientela del locale. Charlotte gettò una occhiata fugace intorno, sperando di non incrociare nessuno che conosceva per potersi godere in pace il suo caffè. Lo sguardo, poi, le cadde accidentalmente sul suo riflesso nella vetrina, e ciò che vide le fece storcere il naso in una espressione di velato disappunto. Era di corporatura minuta e, sebbene i jeans attillati evidenziassero gambe tornite e allenate, il resto del suo corpo aveva ben poco di femminile, considerando i fianchi appena accennati, il seno inesistente e le spalle squadrate da atleta. Nel complesso, in effetti, se non fosse stato per una spettacolare chioma rosso fuoco che le scendeva fino quasi alle anche, e per i penetranti occhi grigio ghiaccio, Charlotte sarebbe passata fantasticamente inosservata tra la massa di adolescenti che popolavano il liceo di Blackbay Hills. Certo, tutti conoscevano il libero della pluripremiata squadra di volley femminile, ma Charlotte Pryce non incarnava affatto lo stereotipo trito e ritrito della sportiva popolare e spigliata da commediola adolescenziale. Era, al contrario, un animo piuttosto inquieto, che mal sopportava la compagnia dei suoi coetanei, se non per alcuni fortunati eletti, e preferiva di gran lunga rifugiarsi tra le pagine di un libro o in una playlist di indipendent rock, piuttosto che spendersi in chiacchiere che reputava prive di senso o in amicizie superficiali. Il suo modo di porsi decisamente poco convenzionale aveva contribuito a crearle intorno una sorta di bolla patinata, come se fosse un animale esotico esposto all zoo : ci si limitava a guardarla da lontano, con un misto di paura e attrazione, esattamente come si farebbe davanti ad un cobra particolarmente irritabile.

“ Che ti passa per la testa, peldicarota?” .

La voce squillante di Svetlana, la barista, e il suo strascicato accento ucraino le fecero distogliere di botto lo sguardo dal suo riflesso. Le rivolse un mezzo sorriso e fece spallucce.

“ Niente che valga la pena di raccontare, Svet. Mi fai il solito?”. La barista mugugnò qualcosa di incomprensibile, mentre Charlotte le allungava due dollari e cinquanta per una tazza grande di caffè nero, rigorosamente bollente e senza zucchero.

“ Dovresti berne di meno, sai?” la redarguì gentilmente Svetlana, porgendole il caffè fumante. Charlotte sbuffò sonoramente, alzando gli occhi al cielo. Considerando che, se avesse potuto, si sarebbe tracannata un bicchiere di scotch con ghiaccio, un tazza grande di caffè le sembrava un compromesso più che accettabile per avere la forza di affrontare la giornata. Inforcò la borsa e scese con un saltello elegante dallo sgabello, armeggiando con la mano libera per trovare il pacchetto di sigarette sepolto dai libri.

“ Vado fuori a fumare” annunciò appena lo ebbe trovato, mentre Svetlana le descriveva nel dettaglio dove sarebbe finita la tazza se le fosse accidentalmente scivolata di mano. La ragazza sgusciò fuori dal locale sorridendo,  e prese velocemente possesso di uno degli sparuti e sgangherati tavolini di legno appena fuori dalla porta. Con quel freddo nessuno era così coraggioso da sedersi fuori a bere il caffè, ma ciò rappresentava per Charlotte solo un ulteriore incentivo a stravaccarsi su una delle sedie traballanti intorno ai tavolini, così da avere la certezza che nessuno le avrebbe rivolto la parola per almeno una ventina di minuti. Si accese una sigaretta e diede un lungo sorso al caffè bollente, che le fumava tra le mani come un vecchio camino. L’odore insieme acre e dolciastro del tabacco le travolse le narici, e lasciò che il fumo le invadesse la bocca per qualche secondo prima di sputarlo. Si era appena rimessa le cuffie dell’Ipod nelle orecchie, decisa più che mai ad alienarsi dal continuo via vai dei passanti,  quando una chioma bionda le ondeggiò davanti agli occhi, e un gracchiare di metallo sull’asfalto le confermò che, suo malgrado, qualcuno si era appena seduto proprio di fronte a lei. Alzò svogliatamente lo sguardo dalla schermata di spotify, giusto in tempo perché la sua amica Eva Martin le sbattesse in faccia il suo radioso sorriso da cheerleader dall’altro capo del tavolo.

“ Un giorno mi spiegherai come diavolo riesci a fumare a quest’ora del mattino”.

Charlotte fece roteare gli occhi alle parole dell’amica, e in tutta risposta diede un altro tiro deciso alla sigaretta. Eva sbuffò e incrociò le braccia al petto, come sempre quando percepiva nell’amica il distaccato sarcasmo che la contraddistingueva. La bionda non riusciva proprio a capire perché riservasse quel trattamento anche a lei, che la conosceva fin dalle scuole medie e che, col tempo, aveva imparato a voler bene anche agli spigoli più fastidiosi del suo carattere. Ma Charlotte era così, si disse: per quanto si provasse a limarla, veniva sempre fuori un nuovo, acuminato spuntone da levigare. Sospirò rassegnata, mentre l’amica dava l’ultimo tiro alla sigaretta morente e lo innaffiava con un generoso sorso di caffè.

“ Ho davanti otto ore di inferno, Evita” disse Charlotte, la voce resa leggermente roca dal fumo. “Sarai d’accordo con me nel constatare che caffè e sigaretta sono il minimo per darmi la forza di affrontarle”. Eva aggrottò le sopracciglia perfette, squadrandola da un paio di occhi azzurri fastidiosamente limpidi.

“ Otto ore? Ma oggi non è lunedì?”.

“ Lo è, biondina” fece Charlotte alzandosi rumorosamente e caricandosi in spalla la borsa dei libri. “ E come ogni lunedì, ho allenamento. Quindi sì, mi aspettano otto ore belle tonde”.

“ Hai ragione” ammise Eva seguendola a ruota, mentre si incamminavano entrambe verso la scuola. “Non considero mai i tuoi allenamenti!” .

Già, pensò Charlotte fra sé e sé. Non consideri mai un sacco di cose, Evita.

 

 

***

 

Emma Atwood guardava spazientita l’ora sul display del cellulare, picchettando nervosamente il tacco degli stivaletti color cammello sull’asfalto del marciapiede. Ormai avrebbe dovuto essere abituata all’indole ritardataria della sua migliore amica, ma ogni volta rimaneva perplessa di fronte alla nonchalance con cui Joy riusciva a mentire spudoratamente quando le diceva che sarebbe stata pronta in meno di cinque minuti. Quella mattina, ad esempio, i minuti di ritardo accumulati erano già diciassette, e tra meno di dieci sarebbe suonata la campanella della prima ora. Non che la cosa la preoccupasse granché, considerando che si trovavano a meno di un isolato da scuola, ma il suo lato più pignolo non poteva fare a meno di ruggire di protesta all’idea di arrivare in ritardo a lezione.

Digitò rapidamente sulla tastiera del cellulare l’ennesimo messaggio minatorio per l’amica, e lo inviò sbuffando rassegnata, certa che, purtroppo, non sarebbe servito a nulla.

Fece vagare distrattamente lo sguardo su e giù per le vie del centro, seguendo da lontano i folti gruppi di studenti che si avviavano verso la scuola. Un paio di ragazzi alti ed eccessivamente muscolosi - che a giudicare dalla stazza e dalla fierezza imbalsamata con cui si muovevano dovevano far parte della squadra di football - le passarono accanto sogghignando, rivolgendole occhiate d’ammirazione.

Emma, in effetti, possedeva quella spigliata bellezza tipica delle diciassettenni, talmente appariscente che, ad un osservatore più maturo, poteva sembrare quasi eccessiva. Le gambe tornite erano fasciate da un paio di pantaloni neri attillati, e slanciate dal tacco degli stivaletti; la vita sottile era esaltata dalla curva armoniosa dei fianchi e dalle spalle, rese toniche da anni di allenamenti. Nonostante la quasi assenza di seno il suo era un corpo estremamente seducente, quasi troppo adulto per appartenere ad una ragazzina. Emma, tuttavia, non era granché consapevole, e né era fornita di quella particolare grazia delle giovani donne consce della propria bellezza e dell’effetto che essa ha su chi la osserva.

Poco dopo che i due bellimbusti l’ebbero superata, la ragazza scorse dall’altro lato del marciapiede una inconfondibile chioma rosso fuoco, e si sbracciò per salutare sua cugina Charlotte. Quella all’inizio non se ne accorse, e solo dopo che la sua amica cheerleader - una bionda dalla bellezza patinata e dal sorriso di plastica che Emma trovava davvero difficile da sopportare - le ebbe dato di gomito per attirare la sua attenzione, la rossa alzò lo sguardo, come sempre ostinatamente incollato alle scarpe, e le rivolse un sorriso sbrigativo. Emma non poté fare a meno di notare, con una certa apprensione, che i lineamenti sottili della ragazza erano piuttosto tirati dalla stanchezza. Inoltre, esibiva un preoccupante colorito grigiastro e due profondi cerchi neri sotto gli occhi, che mettevano in risalto la marea di efelidi color caffè che le punteggiava il viso volpino .

“ Ehilà , Pryce!” la apostrofò sorridendo. “ Fatto nottata?”  aggiunse poi, mimando con un gesto fugace i cerchi delle occhiaie. La rossa rispose con un buffo cenno del capo, e si aprì in un sorriso sghembo.

“ Ci si vede agli allenamenti, Atwood!” tagliò corto Charlotte, mentre si allontanava con l’amica bionda che le le trotterellava affianco.

Emma stava ancora osservando da lontano i capelli color fuoco della cugina ondeggiarle ipnotici dietro la schiena, quando, finalmente, il famigliare cigolio di un cancello le raggiunse le orecchie. La sua amica Joy Saint-Claire, trafelata e inspiegabilmente attraente anche senza un velo di trucco, la raggiunse sorridendo e con in mano un termos colmo di caffè.

“ Cristo santo, Joy!” esclamò Emma, allargando le braccia in segno di protesta. “Ti rendi conto che ogni mattina riesci a raggiungere inesplorate frontiere del ritardo?!”.  Joy fece roteare i profondi occhi nocciola, a metà tra lo spazientito e l’annoiato.

“ Mamma mia, che rompipalle!” fece poi, mentre entrambe si avviavano a passo svelto verso la scuola.

A circa cinque minuti dall’inizio della prima ora, tuttavia, Joy si vide costretta suo malgrado a ringraziare la provvidenza per il fatto di abitare così vicino alla Blackbay High; non tanto per il ritardo a lezione in sé, ma perché, diversamente, avrebbe dovuto sopportare il broncio di Emma per tutto il giorno. Si conoscevano da più di dieci anni, e ancora non si era del tutto abituata a quanto l’amica potesse essere pignola e zelante quando si trattava di scuola e studio. Sarà l’educazione rigida da irlandese - si disse la ragazza mentre sorseggiava pensosa del caffè dal termos. Gettò un’occhiata di sottecchi all’amica che le camminava di fianco, intenta ora a rileggere degli appunti da un quaderno delle stesse dimensioni di una enciclopedia. Era incredibile come la genetica si fosse divertita con Emma: la pelle aveva un’appena accennata sfumatura ambrata - ereditata probabilmente dal ramo materno e texano della famiglia - in splendido contrasto con i capelli biondo ramati e gli occhi acquamarina - entrambi retaggio delle origini irlandesi degli Atwood.  Era talmente bella da mettere in soggezione, eppure in lei non c’era il benché minimo accenno di superbia.

“ Si può sapere che hai stamattina? Non ha spiccicato parola” - la voce di Emma, decisa e squillante come sempre, la fece ridestare di botto dai suoi pensieri. Joy fece spallucce, e si accorse con stupore che erano già davanti al portone principale della scuola, come al solito estremamente caotico e pieno di studenti. Entrambe si tuffarono intrepide in quella fiumana umana, e si diressero verso i loro armadietti. Afferrati i libri necessari per le prime due ore, si precipitarono nell’aula dell’algida professoressa Grace Simpson, la severissima quanto affascinante insegnante di letteratura americana. Non vedendola ancora in classe, entrambe tirarono un sospiro di sollievo : era infatti piuttosto insofferente nei confronti degli studenti ritardatari, anche se fra di essi c’era Emma Atwood, una delle più talentuose allieve del suo corso.

“ Hai visto? Non c’era motivo di agitarsi tanto” sussurrò tagliente Joy all’orecchio di Emma, proprio mentre la figura slanciata della professoressa entrava in aula e gli studenti si affrettavano a tirare fuori i libri. “Precisione svizzera, come al solito!”.

Emma si aprì in un sorriso sghembo stranamente simile a quello di Charlotte, senza dire niente, e Joy seppe che, anche quella volta, era stata tacitamente perdonata per il suo ritardo.

 

 

Ciao a tutti! Non ho molto da dirvi riguardo questo primissimo capitolo, ma solo che spero vi sia piaciuto e vi abbia invogliato ad andare avanti. Vi dico dunque in due parole qualcosa in più sul progetto alla base di questa storia:

  • E’ in parte autobiografica. O meglio, diciamo che prende ispirazione da vicende, storie e rapporti che ho realmente vissuto e li romanza un bel po’. I pensieri e i sentimenti che racconto attraverso i miei personaggi sono molto miei, ma spero comunque di raccontare anche un po’ di tutti voi che mi leggete, perché sono fermamente convinta che determinate emozioni e pezzi di vissuto siano comuni a tutti.
  • Ad un certo punto vorrei che diventasse interattiva. Mi spiego meglio: dopo una serie di capitoli iniziali “comuni”, se la storia ha un buon seguito e vedo che viene apprezzata, vorrei mettere voi lettori davanti ad una scelta, e vi chiederò cosa vorreste che un personaggio faceste dandovi due opzioni. Ci diamo un tot di tempo per votare e la storia proseguirà secondo l’opzione più votata ( un po’ alla Bandersnatch per chi lo ha visto e sa cosa intendo). Chiaramente non è nulla di obbligatorio, ma mi piacerebbe molto fare questo tipo di esperimento, sperando di avere un pubblico sufficiente:)
  • Blackbay Hills non esiste: è ispirata alla mia città natale, ma è tutto incredibilmente fittizio :))
  • La storia sarà piena di riferimenti alla pallavolo, spesso anche un po’ tecnici, senza però mai esagerare. Se c’è qualcosa di poco chiaro ditemelo man mano che leggete e vi spiegherò tutto quanto ( sperando di non risultare troppo noiosa).

Bhe, direi che mi sono dilungata anche fin troppo! I primi capitoli sono già pronti e ve li posterò in più o meno rapida successione, poi vediamo che piega prende! Vi voglia già tantissimo bene, sempre vostra

Ginger

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Capitolo 2
*** Charlotte ***


Charlotte

 

Non c’era niente al mondo che potesse mettere a tacere il baccano che aveva in testa come gli allenamenti. Giocava a pallavolo dalla prima media, e da allora la palestra era diventato il suo personalissimo e irrinunciabile rifugio. Il sudore, i tonfi regolari dei palloni, lo stridio delle scarpe sul pavimento, l’inconfondibile rumore di un attacco andato a segno o di un muro vincente, erano, ormai da anni, le sole cose realmente in grado di infonderle un senso di pace. E per una mente complessa e tortuosa come quella di Charlotte, la pace era un dono preziosissimo.

Aveva appena finito la sua serie conclusiva di bagher contro il muro, con tanto asticella di legno tra le mani per migliorare il piano di rimbalzo obbligandolo ad essere il più piatto possibile. Si asciugò il sudore con un rapido gesto della mano, e si accasciò a terra per lo stretching accanto ad Emma e Joy. Anche loro avevano finito, e tutte e tre osservavano in silenzio i centrali e i palleggiatori che concludevano il giro di attacchi liberi con l’aiuto del coach, l’inossidabile Alexei Tucker, meglio noto come “il vecchio Tuck”. Le Sparrows della Blackbay High erano tra le squadre più forti della contea da anni, e il programma di volley della scuola era indubbiamente tra i più rinomati dello Stato. Il vecchio Tuck allenava la squadra femminile da circa trent’anni e da almeno venti vinceva un campionato dietro l’altro, cosa che faceva rodere di invidia l’allenatore della squadra maschile, Max O’Connell, che non portava a casa un titolo nazionale da almeno cinque stagioni. Tra la squadra femminile e quella maschile, i Clovers, vigeva una sorta di faida più o meno bonaria, che costituiva il principale elemento di folclore della Blackbay High. In realtà il resto della scuola prendeva molto più sul serio la cosa di quanto non facessero i giocatori e le giocatrici di entrambe le squadre, ma erano comunque tutti contenti di stare al gioco e alimentare una rivalità ormai più scenica che altro, un po’ come Hatfiled e McCoy. Faceva di loro dei personaggi, e nessuno, al liceo, rinuncia ad essere un personaggio tanto facilmente.

“ Lo stai rifacendo, Lottie” - Emma le diede una spallata facendola ondeggiare di lato, e Joy ridacchiò.

“ Cosa sto rifacendo?” ribatté Charlotte piccata, anche se in realtà sapeva perfettamente a cosa si riferiva sua cugina. A volte, come in quel caso, le capitava di perdersi completamente nei suoi pensieri e di rimanere anche minuti interi in silenzio tombale, totalmente estranea a quello che le succedeva intorno. La cosa non la infastidiva affatto ma, a quanto pareva, poteva indispettire gli altri.

“ Lo sai benissimo” - Emma le puntò addosso un paio di intensi occhi acquamarina, che sul viso arrossato dalla fatica erano ancor di più vividi, simili a fiammelle elettriche.

“ Sono solo stanca” sbuffò Charlotte in risposta. “E poi devo ancora finire una tesina di storia che di sicuro mi terrà sveglia fino alle due”.

Emma e Joy si scambiarono una rapida occhiata, alzando gli occhi al cielo. Charlotte apparteneva a quell’irritante categoria di studenti cui la provvidenza aveva regalato un cervello innegabilmente superiore alla media, dunque aveva bisogno di studiare due, massimo tre ore al giorno per avere una media eccellente. Non di certo di stare sveglia tutta la notte per finire una tesina che, ammesso e non concesso che fosse effettivamente da terminare, avrebbe impiegato massimo un’ora e mezza per concludere.

“ Bhe, che c’è?” fece Charlotte, notando la reazione eloquente delle due compagne di squadra. “E’ vero! Devo sul serio finire quella dannata tesina”.

Emma aprì la bocca per ribattere, ma venne interrotta da un frastuono di risate, urla sguaiate e palloni sul pavimento. In un batter d’occhio l’intera squadra di pallavolo maschile della Blackbay High fece il suo rumoroso ingresso nella palestra, suscitando la curiosità generale. Entrambe le squadre avevano infatti una palestra indipendente per allenarsi secondo i propri ritmi e orari, dunque era una discreta novità che i Clovers, con tanto di allenatore al seguito, si presentassero nella palestra delle Sparrows durante il loro orario di allenamento.

“O’Connell, si può sapere che diavolo ci fate qui?” tuonò il vecchio Tuck, facendo cenno a centrali e palleggiatori di stoppare l’esercizio. Se la rivalità tra le due squadre era solo bonaria, la stessa cosa non poteva dirsi di quella tra i due allenatori, la cui spiccata antipatia reciproca era tutt’altro che finta.

Max O’Connell, un’ometto basso, pelato e abbronzato, senza scomporsi minimamente, fece un rapido cenno alla sua squadra, che iniziò il riscaldamento correndo per tutto il perimetro della palestra. Passando accanto ad Emma e Joy, molti si voltavano a guardarle con sorrisetti idioti dipinti sul viso. Charlotte era abituata a non ricevere le plateali attenzioni che i ragazzi dedicavano alle sue amiche, e la cosa non la turbava granché. Era troppo indipendente per lasciarsi influenzare da cose del genere, e in ogni caso i rapporti con l’altro sesso non erano mai stati il suo forte. Non possedeva quell’innata capacità - che invece aveva Joy - di flirtare senza mai risultare volgare o stupida, né era bellissima e carismatica come sua cugina Emma.

“ Calmati, Tucker” disse in quel momento O’Connell, sfoderando un’espressione rilassata che, Charlotte era certa, avrebbe fatto imbestialire ancor di più il vecchio Tuck. “ La nostra palestra sarà inagibile per qualche settimana. Ci sono infiltrazioni di muffa nel soffitto, sai, non è salutare che i miei ragazzi respirino quella roba”. Tucker lo fissò più accigliato che mai, mentre le ragazze alle sue spalle si scambiavano occhiate incuriosite.

“ Credevo che la Preside McCoy ti avesse avvertito” continuò O’Connell. “Ho accettato di inserire i miei allenamenti subito dopo i tuoi, così i ragazzi avranno più tempo per studiare e non sconvolgeremo i vostri orari. Credo che possiamo sopravvivere, non trovi?” - concluse, ammiccando e mostrando una fila di denti bianchissimi. A Charlotte ricordò il testimonial imbalsamato di una pubblicità  di detersivi per pavimenti, e fece del sul meglio per trattenere una risata.

“ Ti avverto, O’Connell” ringhiò Tucker, puntandogli addosso un dito con fare minaccioso. “Io sono qui per lavorare, e soprattutto per allenare una squadra. Al primo sgarro tuo, o di questo ammasso di muscoli senza cervello che hai l’ardire di chiamare pallavolisti, giuro che ti gambizzo!”.  Le Sparrows scoppiarono in una fragorosa risata, mentre i Clovers, che si erano fermati per fare stretching e soprattutto per godersi il battibecco, si inalberarono in sonori fischi di protesta. Alcuni di loro iniziarono a intonare cori sconci e a lanciare palloni contro le ragazze, mentre Tucker e O’Connell continuavano a litigare animosamente.

“ La volete piantare?!” - Elizabeth Stark, l’algido capitano delle Sparrows, si era appena piazzata in mezzo al campo, schivando con grazia i palloni che continuavano a volare contro le ragazze.  I capelli corvini, legati in una ordinata coda di cavallo, le fluttuavano dietro la schiena mentre gesticolava furiosamente contro il capitano dei Clovers, un belloccio castano dalla mascella quadrata di nome Zac O’Neil.

“E dai, Stark, rilassati” rispose quello sfoderando un sorriso fintamente innocente. “Ci stiamo solo sfogando un po’. E poi…” - indicò con un cenno distratto i due allenatori che ancora battibeccavano. “Finchè non la smettono loro due, voi non ve ne andate e non ci alleniamo”. Ad Elizabeth non dovette piacere granché l’uscita di Zac, perché gli rispose per le rime e i due presero a punzecchiarsi proprio come Tucker e O’Connell.

“ Credo che andrò a darle manforte” fece Emma rassegnata, mentre un paio di ragazzi dei Clovers raggiungevano Zac, piazzandosi alle sue spalle ridacchiando. “Tu non vieni? So che non vedi l’ora di dire a quell’idiota di Nick Grayson che il fatto di essere alto e biondo non lo rende automaticamente un bravo attaccante”- si voltò a guardare Charlotte, facendole l’occhiolino. Quella si aprì in un sorriso sghembo.

“ A dire il vero io…”

Charlotte non fece in tempo a finire la frase, perché un pallone la colpì in pieno naso con una forza mostruosa. Un dolore sordo le esplose in testa come una bomba, mentre si portava entrambe le mani al naso e sentiva in bocca lo sgradevole sapore metallico del sangue. La vista le si annebbiò rapidamente, non sapeva se per le lacrime o perché stava per svenire, mentre intorno a lei i colori e le luci della palestra si confondevano in fretta come in una specie di vortice. Sentì le voci delle sue compagne, che le si erano probabilmente raggruppate intorno; in particolare, udì distintamente Emma urlare contro un certo Holden che era un vero coglione.

Dopo qualche minuto che le sembrò eterno, il dolore cominciò ad essere meno intenso e i contorni intorno a lei si fecero più nitidi. Ricacciò indietro le lacrime con un gesto veloce, e vide che le mani erano completamente imbrattate di sangue. Non osò immaginare in che stato fosse la sua faccia, ma al momento l’unica cosa che le interessava era assicurarsi che il naso non si fosse rotto. Lo tastò delicatamente, e sospirò di sollievo nel constatare che era ancora perfettamente intatto - forse solo un po’ ammaccato. Lentamente, molto lentamente, alzò lo sguardo e si ricompose. La testa le girava leggermente e aveva una nausea soffusa, ma la cosa non la spaventò più di tanto perché aveva perso parecchio sangue dal naso. Continuava a perderne in realtà, ma erano più che altro goccioloni radi, non il fiume in piena di qualche minuto fa. Afferrò al volo l’asciugamano che le porgeva Juliet Brown, la biondissima senior che giocava come centrale, e la usò per tamponarsi naso e viso. Scoccò un’occhiata quasi divertita allo spettacolo delle sue compagne di squadra che litigavano furiosamente con i Clovers, indicando a ripetizione lei e un ragazzo altissimo che le deva le spalle. Quest’ultimo fece spallucce mentre Emma gli sbraitava addosso con foga, e poi disse con strafottenza : “Per essere uno dei migliori liberi della contea, come si dice in giro, non ha esattamente i riflessi pronti”.

Quelle parole la colpirono con la stessa intensità del pallone che le aveva quasi fracassato il naso. Sentì l’orgoglio ribollirle nelle vene, e desiderò ardentemente guardare dritto negli occhi quello sbruffone per potergli rispondere come si deve. Fece qualche passo verso il gruppetto, fregandosene della faccia piena di sangue e del suo aspetto da film horror a basso budget.

“Carino da parte tua farmi così tanti complimenti” esclamò, sfoggiando il suo miglior tono provocatorio. “Ti vergogni a ripetermeli in faccia perché hai paura di arrossire?”.

Emma si portò una mano alla bocca per trattenere una risata, mentre inaspettatamente tutti gli altri rimasero in silenzio. Con movimenti esasperatamente lenti, quello si voltò verso di lei e Charlotte pensò in maniera piuttosto irrazionale che probabilmente indossava le lenti a contatto, perché non aveva mai visto nessuno con gli occhi color oro.

Il ragazzo che le stava davanti, e che la fissava con un irritante ghigno di superiorità, era - e Charlotte avrebbe preferito tagliarsi le vene piuttosto che ammetterlo ad alta voce - fastidiosamente bello. Non era la classica bellezza un po’ impomatata degli atleti a cui era abituata, ma più pura, viscerale, come se qualcuno lo avesse strappato dalla tela di un dipinto. L’oro degli occhi era in splendido contrasto con il nero corvino dei capelli a spazzola, i quali non coprivano neanche un millimetro del viso dai lineamenti perfettamente disegnati e leggermente lentigginoso sul naso e sugli zigomi. Non ricordava di averlo mai visto in palestra - forse era quel nuovo attaccante di cui O’Connell parlava con orgoglio da due settimane a quella parte - eppure c’era qualcosa, in lui, che le dava la sensazione di conoscerlo da sempre. Come quando incontri dal vivo i protagonisti di una qualche vecchia fotografia.

Il ragazzo continuava a  fissarla in silenzio, con quel ghigno beffardo ancora stampato in faccia, come se l’evidente irritazione di Charlotte non facesse che divertirlo terribilmente. La stava studiando, Charlotte lo poteva percepire con chiarezza, ma se da un lato la cosa la infastidiva, dall’altro le dava una certa soddisfazione, come se fosse esattamente ciò che voleva. Si sentì immediatamente molto stupida per aver pensato una cosa del genere, e si schiarì la voce per tornare alla realtà.

“ Perdonami, peldicarota” disse allora il ragazzo, aprendosi in un sorriso mozzafiato. “Non intendevo offenderti. Facevo solo una osservazione obiettiva sulla tua performance” - fece un vago cenno alla maglietta macchiata di sangue di Charlotte. Questa si sentì punta nell’orgoglio ancor di più, ma si impose di non esplodere per non dargliela vinta.

“No, hai ragione. E’ stupido da parte mia prendermela” rispose infine, gettando un’occhiata all’asciugamano che stava usando per tamponarsi il naso, e accorgendosi con disappunto che era zuppa di sangue e sudore. Alzò di nuovo gli occhi verso il ragazzo.

“D’altra parte, era l’unico modo che avevi per farmi fallire una difesa: prendermi a pallonate mentre non guardavo”.

Le sue compagne di squadra eruppero in un fragorosa risata, e il libero dei Clovers, un certo Jonathan Mayers detto Johnny-boy per evidenti motivi legati alla sua altezza, esclamò: “ Te le ha cantate, fratello!”.

Charlotte si concesse di sorridere, e, mentre il vecchio Tuck le spediva in spogliatoio a fare la doccia sbraitando come un ossesso ( le cose che stava urlando contro O’Connell per aver permesso ad uno dei ragazzi di ridurre una sua atleta ad un “ammasso sanguinolento” erano davvero irripetibili ), qualcuno alle sue spalle esclamò: “ Comunque mi chiamo Holden. Holden Cartwright”.

Charlotte riconobbe immediatamente la voce del ragazzo, e senza che lo volesse le scappò un mezzo sorriso, che tentò subito di mascherare con un colpo di tosse. Si voltò, continuando a camminare all’indietro verso gli spogliatoi, e incrociò subito lo sguardo dorato di Holden.

“Sono il miglior libero della contea, come si dice in giro. Non c’è bisogno che ti dica come mi chiamo”.

Holden sorrise ancora, passandosi una mano tra i capelli scurissimi e arruffandoseli con studiata nonchalance. Charlotte alzò gli occhi al cielo e tornò a dargli le spalle, decisa a non aggiungere altro, ma Emma, che era accanto a lei, si voltò di scatto e urlò: “Lei invece si chiama Charlotte. Charlotte Pryce!”.

Charlotte trasalì e sperò ardentemente di non essere arrossita. Afferrò Emma per un gomito e la trascinò negli spogliatoi per evitare che facesse altri danni.

“ Si può sapere perché te la prendi tanto?” la redarguì la cugina, mentre si buttavano sotto la doccia. “Era evidente che moriva dalla voglia di sapere come ti chiamavi!”.

“ No che non lo era” sbuffò Charlotte, mentre il vapore dell’acqua calda le avvolgeva. “Era solo contento di avermi quasi spaccato il naso e voleva umiliarmi ancora un po’”.

“ E invece sì!” intervenne in quel momento Joy, mentre si piazzava nella doccia accanto ad Emma. “Sei solo troppo cocciuta per ammetterlo”.

“ Temo che Joy abbia ragione, Pryce” disse Elizabeth Stark, entrando nell’abitacolo vicino a Charlotte e arricciando il naso al contatto con l’acqua bollente. Charlotte aggrottò le sopracciglia e si voltò a guardarla. “E tu che ne sai?”.

Elizabeth sospirò a fondo tra l’esasperato e il divertito, e puntò addosso a Charlotte i suoi incredibili occhi verde brillante, in splendido contrasto con la chioma corvina così simile a quella di Holden.

“ Ma non è ovvio? Non è riuscito a staccarti gli occhi di dosso nemmeno per un secondo”.

 

 

***

 

 

Ariciao! Come vi avevo anticipato, i primi capitoli verranno postati in rapida successione perché voglio cercare di darvi un quadro più o meno completo dei personaggi nel minor tempo possibile.  Qui iniziamo a vedere qualcosina in più di Charlotte ( che è la mia preferita in assoluto, sappiatelo ) : è una tipa tosta, ma ha un caratteraccio ed è moooolto orgogliosa, oltre che parecchio complicata.

Per quanto riguarda Holden, aspetterò un paio di capitoli per dire qualcosa, ma sappiate già da ora che è altamente probabile che scatenerà il vostro peggiore odio :)

Come avevo già detto in questo capitolo inizia a farsi sentire una presenza che sarà costante, ossia la pallavolo. Non credo di essere stata eccessivamente tecnica, ma se aveste dubbi/domande/ curiosità fatevi avanti senza vergogna:)

Spero che il capitolo vi sia piaciuto e vi abbia ulteriormente invogliati:) Aspetto con ansia ( se ne avete voglia ) qualche parolina di recensione, di ogni genere e sorta:) Vi voglio bene, sempre vostra,

Ginger

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Capitolo 3
*** Emma ***


Emma

 

La settimana passò incredibilmente in fretta, e in men che non si dica arrivò il venerdì. Quella mattina, dopo quattro giorni di gelo autunnale, il cielo era di un azzurro sfavillante, e un insolitamente caldo sole ottobrino brillava tra le nuvole rade. Emma e Joy se ne stavano spaparanzate sul pratone del florido giardino della Blackbay High, aspettando sonnacchiose che finisse la pausa pranzo. Il venerdì era senza dubbio la loro giornata preferita: finivano lezione subito dopo pranzo e non avevano allenamento, perché era il giorno riservato a palleggiatori e centrali. L’intero pomeriggio poteva pertanto essere dedicato a passatempi futili ma incredibili appaganti, come bersi un caffè al chioschetto di Lincoln Park, oppure passare ore in centro nel loro negozio vintage di fiducia.

“ Che facciamo oggi pomeriggio?” chiese in quel momento Joy, sbadigliando. Non ricevendo risposta si voltò verso l’amica, che se ne stava immobile e con gli occhi chiusi, i capelli lucenti sparsi alle sue spalle a mo’ di di aureola. “Ehi, dico a te!”.

Emma aprì di scatto gli occhi, che brillarono al sole come zaffiri.

“Non saprei” rispose facendo spallucce. “ Merenda al Foxhole  dopo lezione e poi decidiamo?”.

“ Andata” assentì Joy, alzandosi a sedere e scrollandosi di dosso qualche foglia secca rimasta attaccata al giubbotto di pelle. “Però questa volta la dividiamo la cheesecake, o tutto quello zucchero mi occluderà le arterie prima dei trent’anni”. Emma scoppiò a ridere e si disse pienamente d’accordo.

Al contrario di quanto si potesse pensare delle ragazze belle e carismatiche come Emma, lei non aveva molte amiche. Aveva, infatti, un carattere molto più spigoloso di quanto si potesse immaginare, ed era disposta a condividere parti di sé con ben poche persone. Joy era sicuramente una di quelle, essendo la sua amica più intima e fidata fin dalla quinta elementare, nonché la sola che avesse mai avuto accesso al suo lato più oscuro e autodistruttivo.

 

“ Un penny per i vostri pensieri, belle donzelle!” - la voce un po’ nasale di Trevor Miller, il palleggiatore dei Clovers, le fece voltare di scatto. Trevor non era molto alto, ma aveva un fisico scolpito e un viso virile, nonché bellissimi occhi scuri. Si sedette accanto a loro, seguito a ruota da Jake Thomas, il centrale con la faccia d’angelo, e Declan Porter, l’altro centrale dai capelli biondo scuro e braccia possenti.

“Ragazzi” salutò Emma sbrigativa, mentre armeggiava nella borsa alla ricerca di un accendino. Trevor la anticipò, e si sporse verso di lei per farle accendere la sigaretta.

“ Qual buon vento vi porta a turbare la nostra pausa pranzo?” esclamò Joy canzonatoria, mentre anche lei si accendeva una sigaretta. I tre ragazzi ridacchiarono.

“ Ah Saint-Claire, se solo fossi un po’ meno acida…!” esclamò Declan sognante, scambiandosi occhiate d’intesa coi suoi amici e indugiando sulle forme seducenti di Joy con occhio bramoso. Quest’ultima se ne accorse, e scoppiò in una fragorosa risata di scherno.

“ Non ci pensare nemmeno, Porter!”.

“ E perché? Sono sicuro che potrei insegnarti come scioglierti un po’…”.

“ Sei disgustoso”.

“ Va bene Dec, frena gli ormoni” intervenne Trevor, fingendo un rimprovero senza troppo successo. “Parliamo di cose più serie: verrete stasera al falò di inizio stagione?”.

Il campionato maschile cominciava un paio di settimane prima di quello femminile, e quello era l’ultimo venerdì prima dell’inizio della nuova stagione. Come da tradizione, i Clovers organizzavano uno spettacolare falò su Paramount Hill, una delle cinque collinette che circondavano Blackbay Hills, cui erano invitati tutti gli atleti della scuola, le cheerleader e gli ex giocatori dei Clovers. Era un evento sempre molto coinvolgente, anche perché il capitano teneva una specie di discorso per presentare i giocatori, generalmente sbeffeggiandoli a dovere, e, a fine presentazione, ogni giocatore doveva saltare il falò senza bruciare la giacca della squadra. Chi la bruciava, ovviamente, faceva penitenza.

Emma e Joy si scambiarono un’occhiata di intesa. Come sempre, le Sparrows sarebbero di certo state presenti all’evento, e avrebbero partecipato con gioia all’umiliazione di ogni Clover che fosse stato costretto alla penitenza. Era infatti compito del capitano della rivale squadra femminile - in questo caso di Elizabeth - scegliere la pena per chi bruciava la giacca durante il salto.

Il suono trillante della campanella che poneva fine alla pausa pranzo si diffuse nel cortile, seguita da una fiumana rumorosa di studenti, che, a malincuore, abbandonava il prato assolato per dirigersi alle lezioni del pomeriggio.

“ Certo che ci saremo” confermò Emma, inforcando la borsa e avviandosi con Joy verso l’aula di storia per l’ultima lezione della giornata. “Sarà una immensa soddisfazione quando anche quest’anno nessuno di voi arriverà abbastanza sobrio al salto per non dover subire penitenze!”.

Joy, accanto a lei, scoppiò a ridere, mentre in lontananza Trevor le faceva un gestaccio tra le grida di approvazione dei suoi amici.

 

***

Qualche ora dopo, Emma e Joy se ne stavano placidamente sedute ad uno dei tavoli sgangherati del Foxhole, godendosi gli ultimi sprazzi di sole davanti ad un caffè fumante. Come loro, molti altri studenti del terzo anno che il venerdì finivano presto avevano avuto la stessa idea, col risultato che Svetlana era costretta a correre dentro e fuori dal locale portando pesanti vassoi ricolmi di cappuccini, ciambelle e panini farciti. Emma era sicura che la cosa la facesse imbestialire - non era infatti nota per il suo buon carattere -, e più di una volta intercettò una serie di imprecazioni in ucraino che, pur non essendo in grado di tradurre, dalla durezza del tono lasciavano ben poco spazio all’immaginazione.

In quel momento, una chioma corvina fece capolino da dietro l’angolo del Foxhole, ed Elizabeth Stark, impeccabile come sempre in jeans e camicia, fece la sua algida apparizione. Emma la salutò sventolando il braccio, facendole cenno di raggiungerle. La osservò camminare nella loro direzione, e non poté fare a meno di notare che possedeva una grazia ed un’eleganza che ben poche donne anche più mature potevano vantare. I capelli neri dolcemente ondulati, in piega perfetta come al solito, alla luce del sole rivelavano sfumature più chiare color cannella; aveva un passo leggero e composto nonostante portasse un paio di stivaletti col tacco, e gli occhi di un verde incredibile le brillavano come smeraldi sul viso dalla carnagione diafana. Non era sensuale o accattivante come Joy, ma c’era qualcosa in lei che affascinava molto chiunque si soffermasse a guardarla. Tra questi era sicuramente da annoverare suo fratello William, che era stato fidanzato con Elizabeth per ben tre anni, e, prima di partire per il college, l’aveva lasciata spezzandole il cuore. Emma si sentiva sempre vagamente in colpa per il male che Will le aveva fatto, anche e soprattutto perché, da quando era finita la loro relazione, sui begl’occhi verdi di Elizabeth era calato un velo di fredda malinconia che non se n’era mai andato del tutto.

“ Bhe? Ti sei incantata?” - Elizabeth le scoccò due dita davanti agli occhi, un mezzo sorriso sul viso. Emma si riscosse immediatamente e sorrise a sua volta, dando una sorsata al caffè ormai tiepido. Elizabeth aveva preso posto accanto a Joy, e stavano entrambe fumando decidendo se quella sera, al falò, sarebbe stato meglio indossare la felpa o la giacca della squadra.

“ Io dico di optare per jeans e felpa come l’anno scorso” disse Elizabeth, facendo cadere un po’ di cenere a terra. “ Però non quella con la zip, l’altra” precisò. “E’ molto più bella”.

Joy annuì. “Quella senza cappuccio, giusto? E’ un po’ più stretta, e in più il logo è decisamente più elegante”.

“ Sì, sono pienamente d’accordo!” rispose qualcun altro.

 

Emma avrebbe riconosciuto quella voce maschile tra un milione, profonda e capace di infonderti un senso di sicurezza immediato, anche nel dire le cose più banali. Sorrise prima ancora di rendersene conto, mentre il maggiore dei tre fratelli Atwood, Thomas, alto e bello come una statua, le si parava davanti con le braccia aperte. Emma lo abbracciò forte, stringendolo con un trasporto quasi disperato,  assaporando dopo mesi quel suo odore fresco di gelsomino che le era tremendamente mancato. Non era mai stata una persona particolarmente affettuosa, ma da quando Thomas era diventato un agente della Swat di Boston aveva imparato ad apprezzare gli abbracci in un modo del tutto nuovo.

“ Mio dio Tommy, ma che ci fai qui?!” esclamò, sciogliendosi dall’abbraccio. “Papà sai che sei tornato? Non mi ha detto niente… ti fermi per un po’?”. Tommy sorrise rassegnato davanti alla raffica di domande della sorella minore.

“ No, neanche papà sa nulla. In realtà ho improvvisato” rispose. “Avevo qualche giorno di permesso ancora da sfruttare… e comunque non mi fermerò molto”.

Emma abbassò lo sguardo. Ormai avrebbe dovuto essere abituata al fatto che suo fratello fosse nella Swat e che, di conseguenza, non potesse permettersi il lusso di passare a casa intere settimane, ma la verità era che faceva ancora molta fatica ad accettarlo. Non riusciva mai del tutto a scrollarsi di dosso quella orribile sensazione di paura mista ad incertezza, come se una minuscola parte di lei avesse il timore costante di vedersi due agenti davanti alla porta di casa, che, con gli occhi bassi come i suoi in quel momento, comunicavano a lei e a suo padre che Thomas era morto.

Quasi intuendo i suoi pensieri, Tommy le accarezzò il viso; aveva la mano ruvida e un po’ callosa, ma ad Emma non diede fastidio.

“ Tranquilla, bimba. Trovo sempre il modo di tornare a casa” - aveva la voce calma come sempre, e ad Emma sfuggì uno sbuffo impaziente, come chi è costretto a sentire la stessa canzone per la centesima volta.  Glielo diceva sempre quando doveva ripartire, come se seguisse un copione.

“Su con la vita Ems, ora è qui ” - Elizabeth le diede una pacca amichevole sulla spalla. “E tu” - aggiunse poi rivolta a Tommy, puntandogli addosso i suoi occhi verdi da gatto. “Stasera c’è il falò di inizio stagione. Considerando che sei una specie di leggenda per quell’ammasso di trogloditi coi muscoli, pretenderanno di certo la tua presenza quando si spargerà la voce che sei in città”. Tommy sorrise bonario, passandosi con fare imbarazzato una mano tra i capelli, che erano più scuri rispetto a quelli biondo rame di Emma.

“ Forse sono diventato un po’ vecchio per queste cose…” disse quasi tra sé e sé, sulla difensiva.

“Non dire stupidaggini” intervenne Joy, che fino a quel momento era rimasta insolitamente in silenzio. “Sei stato capitano dei Clovers” - lo guardò di sottecchi. “E poi non sei affatto vecchio”.

Tom la guardò con genuina sorpresa nei profondi occhi acquamarina, identici a quelli della sorella. Joy sostenne lo sguardo abbozzando un sorriso, ma Emma poté giurare di aver visto un’ombra di rossore imporporarle le guance. Alzò un sopracciglio e scoccò un’occhiata interrogativa ad Elizabeth, che, a giudicare dall’espressione vagamente perplessa, doveva aver notato la stessa cosa.

“ Molto bene” tagliò corto Emma, facendo rimbalzare lo sguardo tra Joy e il fratello. “Si è fatto tardi, e se non ci alziamo nel giro di dieci minuti Svetlana ci denuncia per occupazione di suolo pubblico”. Fece un rapido cenno verso la barista che, in effetti, li guardava in cagnesco da dietro il vetro del Foxhole, pulendo la macchina del caffè con gesti talmente violenti che Emma ebbe paura che qualche bullone potesse saltar via da un momento all’altro. Elizabeth annuì in segno d’approvazione, inforcando la borsa stracolma di libri e raccattando un paio di quaderni dal tavolo.

“ Ci vediamo sulla Paramount alle 8 in punto, non tollererò ritardi di sorta!” esclamò minacciosa il capitano delle Sparrows mentre si incamminava verso casa, un attico elegantissimo sulla Uptown Boulevard, nel cuore del centro storico di Blackbay Hills.

Anche Tommy imboccò la stessa direzione per andare ad un aperitivo con alcuni amici in centro, ma promise solennemente alla sorella che sarebbe tornato in tempo per il falò di quella sera.

Mentre raccoglievano le loro cose e salutavano Svetlana con particolare carineria,  Emma osservò Joy che tentava goffamente  di mascherare come lo sguardo le cadesse a intervalli regolari sulla figura di Tommy, il quale si allontanava verso il suo appuntamento con  passo svelto e le mani ficcate nelle tasche dei jeans. Le scappò una mezza risata.

“ Che c’è?” la fulminò l’amica.

“ Niente” fece Emma con finto disinteresse. “ Credevo solo che la cotta per mio fratello ti fosse passata in terza media”.

Joy borbottò in risposta qualcosa di incomprensibile sul fatto che non aveva mai avuto nessuna cotta per nessuno dei due fratelli Atwood, ma ancora una volta Emma la sorprese ad arrossire e non poté fare a meno di sorridere tra sé e sé.

 

 

 

 

 

 

 

 

***

 

Ciao a tutti! Non ho molto da dire su questo capitoletto, che è abbastanza di passaggio. I prossimi due, ambientati al falò, saranno di certo più succulenti:).

Quello che mi piace è sicuramente una prima finestra sul rapporto tra Emma e Joy, che è molto molto intenso e spero di rendergli man mano giustizia. Su Tommy e Joy per ora non mi sbilancio… chi leggerà vedrà:)).

Spero che vi sia piaciuto e di avergli invogliato a continuare, vi voglio benissimo <3

 

Ginger.

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