Opposite

di Alexa_02
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Calliope Josephine Thompson ***
Capitolo 2: *** Thomas Clark ***
Capitolo 3: *** The Fascinating World of Calliope ***



Capitolo 1
*** Calliope Josephine Thompson ***


Chapter 1

 

Callie

 

 

Siamo tutti impostori in questo mondo, noi tutti facciamo finta di essere qualcosa che non siamo”

-Richard Bach

 

 

Calliope Josephine Thompson.

Tre parole che racchiudono perfettamente tutto ciò che c'è da sapere su di me.

Calliope, nella mitologia greca, era una delle nove muse. Più precisamente la musa ispiratrice di Omero, dell'Iliade e dell'Odissea, ma sopratutto la musa che presiedeva all'eloquenza.

Forse alla mia nascita, mia madre ha avuto il presentimento che sarei diventata una gran chiacchierona (che alla fine è assolutamente vero), o più semplicemente la sua passione per la storia antica ha prevalso su qualsiasi altro nome decente. In ogni caso non ho fatto in tempo a domandarglielo.

Josephine era il nome della nonna di mio padre, la grandissima Josephine Thompson. In città la conoscono tutti, è lei che ha fatto costruire la scuola e l'università, beh lei e il suo immenso patrimonio. Il nome che mi hanno affidato porta con sé un enorme aspettativa che se non soddisferò, mi farà ottenere un posto al centro del ramo storto e secco dell'albero di famiglia. Non che senta alcuna pressione, figuriamoci.

E in fine, Thompson. Il fardello più pesante da trascinare, la chiave che ti apre tutte le porte e il biglietto da visita più altisonante della storia. Basta solo sussurralo per farti avere tutto ciò che vuoi, però a un prezzo che non vale il divertimento, credetemi.

 

«Ma dai, Callie!» mugugna Heidi da sopra il mio letto a baldacchino «È la super festa di inizio anno, non puoi assolutamente perdertela!» si rotola sul mio copriletto immacolato rischiando di macchiarlo con il trucco pesante. Se lo sporca finirò in un mare di guai. Sbuffo per la sedicesima volta di fila, se la mia Mostrigna fosse qui mi avrebbe già ripresa diverse volte. Sbuffare non è un gesto elegante. «Non me la voglio perdere, davvero, ma proprio non posso fare altrimenti». Quando Heidi vuole qualcosa diventa assolutamente intrattabile. Sono almeno venti minuti che discutiamo, proprio non gli entra in testa il significato di no.

«Preferisci una barbosa cena di famiglia alla festa dell'anno? Io proprio non ti capisco» sentenzia agitando la chioma rossa. Dice in giro di essere una rossa naturale, ma sappiamo tutti che si fa dare una mano dalla parrucchiera per raggiungere quella sfumatura precisa di rosso fragola.

La guardo male da uno dei due divanetti posizionati davanti al camino. «Mio padre torna a casa stasera dal suo viaggio di lavoro, non lo vedo da due mesi. Quindi sì, preferisco la barbosa cena alla tua stupida festa» ribatto seccata. Sto iniziando a perdere la pazienza.

Lei strabuzza gli occhi e scuote la testa schifata. «La mia festa di inizio anno non è stupida!» guaisce offesa. Pensa che andando a letto con il tipo che la organizza si trasformi magicamente nella sua di festa. Inclina la testa e arriccia le labbra, segnale che sta per sparare una cattiveria. «È una tradizione a cui partecipiamo sempre e tu ci stai snobbando per fare la cocca di papino».

Quelle tre parole messe di fila fanno scattare la bestia che vive dentro il mio cervello. «Solo perché tu preferisci farti scopare da tipo a caso dietro un cespuglio, invece che stare con la tua famiglia, non significa che sia lo stesso per me». Non avevo intenzione di litigare, quando lei e Angelica sono venute a trovarmi ero super contenta, ora la sua voce altezzosa e viziata mi sta facendo davvero incazzare.

Heidi mi lancia un'occhiataccia e sbuffa dal naso. Altro brutto segno. Prima che possa rilanciare con un altro insulto che mi avrebbe fatto di sicuro male, Angie smette di sfogliare Cosmopolitan e si lancia nella mischia. «Ora smettetela voi due!» afferma risoluta dalla poltrona accanto alla mia «Heidi lo sai quanto a Callie manchi suo padre, lasciali cenare insieme e poi se potrà ci raggiungerà alla festa» mi lancia uno sguardo ammonitore «E tu, Callie, sai benissimo che Heidi stasera non si farà nessuno perché è molto concentrata su Paul e vuole restargli fedele». Mi mordo la lingua per trattenere una risata, Heidi e la fedeltà sono come la mia Mostrigna e i carboidrati; due parole che messe nella stessa frase fanno collassare l'universo.

«Ora chiedetevi scusa e chiudiamola qui» sentenzia agitando un dito in aria. È sempre così, Heidi e io battibecchiamo e Angie interviene per dividerci.

Heidi sospira e annuisce «E va bene. Scusa Callie, so che tua padre è molto importante per te».

Ora è il mio turno. Non sono molto sicura di volermi scusare, quello che ho detto lo pensavo davvero, però continuare il discorso sarebbe uno spreco di ossigeno perciò annuisco anche io. «Scusami, prometto che cercherò di raggiungervi dopo cena».

Angie sorride tronfia «Brave le mie ragazze».

Già, siamo proprio ben addestrate.

«Allora tu e Paul fate sul serio?» dirigo l'attenzione su Heidi, così che possa dare fiato alla bocca e smettere di essere pedante.

Lancia un urletto stridulo e si raddrizza «Oh, ragazze, non potete capire quanto sia meraviglioso con me, mi tratta proprio come la regina che sono».

La cosa mi sorprende parecchio, Paul è un donnaiolo incallito e dopo un paio di settimane conclude sempre le relazioni prima che si facciano serie. Il fatto che resti ufficialmente con Heidi è strano quanto il fatto che lei faccia altrettanto.

«Ma è favoloso! Allora stasera sarai nel lato delle coppiette con Callie e me» trilla entusiasta Angie facendo tremolare i riccioli nocciola. Il lato delle coppiette è il giardino sul retro della casa di Paul, lui organizza sempre delle feste grandiose e chi è già accoppiato si ritrova davanti al falò in giardino a bere e a chiacchierare, mentre i single ballano e si divertono all'interno della casa. Angie e il suo ragazzo Scott sono fissi nel lato delle coppiette dal primo anno di liceo. Si sono incontrati in biblioteca la seconda settimana di scuola ed è stato amore a prima vista. Da allora sono come due cozze innamorate attaccate ad uno scoglio dell'amore. Meravigliosamente vomitevoli.

Angie mi sfiora la gamba con il piede «Nich viene stasera, vero?».
Nich è il mio ragazzo da un anno e mezzo. Ci siamo messi insieme durante una partita di football fuori casa, abbiamo alloggiato in un hotel e dopo che i coach si sono addormentati abbiamo fatto bagordi in giro per la città. Mi ha stregata e fatta sua, non ho potuto resistere. In ogni caso era destino che stessimo insieme, lo dicevano tutti. Lui è il capitano di football e io il capitano delle cheerleader, era quasi scontato che stessimo insieme.

Annuisco con convinzione «Ovviamente, non si perderebbe mai una festa di Paul». Ci va anche se io penso di non andarci. Non perde mai un'occasione per fare casino e mettersi in mostra.

Heidi fa una faccia strana che nasconde subito con un sorriso enorme «Ma ci pensate!? Stiamo tutte e tre con dei giocatori super sexy di football, siamo delle cheerleader meravigliose e spaccheremo quest'ultimo anno! Cosa ci può essere di meglio?».

Un sacco di cose. Io darei via tutto quanto per riavere la mia mamma o per avere papà sempre a casa o per far sparire Mostrigna e i suoi Mostro-figli. Ma a loro non dico nulla di tutto ciò, mi limito a strillare un “assolutamente nulla!” e a ridere in modo automatico, come se questo fosse veramente ciò che penso.

 

«Callie mi devi assolutamente prestare il vestitino rosso, sai quello senza spalline che mi sta meravigliosamente?» Heidi infila la faccia tra i miei vestiti firmati e si rimette a frugare. Siamo tutte sedute nella mia cabina armadio a cercare qualcosa di super costoso, che loro possano indossare alla festa di stasera. Uno dei vantaggi di avere un papà assente, ma che si pulisce la bocca con banconote da cento dollari, è che ricevo una paghetta stratosferica e che posso comprami un intero negozio di Chanel se voglio. Heidi adora fregarmi i vestiti per poi fingere di dimenticarsi di ridarmeli. Suo padre è il direttore della banca della città e sua madre è Mrs. Meteo, non devono certo fare la carità, ma nessuno batte il sindaco/futuro governatore e la sua assistente/moglie trofeo.

«Intendi quello di Prada, stretto in vita e con la gonna sfasata?» le chiede Angie dall'altro lato della cabina. Sì, conoscono meglio i miei vestiti dei loro.

«No» brontola Heidi facendo scorrere le grucce «Quello di Gucci, con lo scollo a cuore e la gonna stretta».

Non mi interessa cosa prendono, il vestito che ho deciso di indossare alla cena con papà è ben nascosto nel cassetto dell'intimo. L'ho comprato un paio di giorni fa da Dior, è bianco, con il colletto nero e le mani gonfie. Mi sta benissimo e mi fa sembrare più grande e importante. È assolutamente perfetto.

«Callie! Vuoi prestarmi attenzione!» strilla Heidi agitandomi in faccia del tulle. «Credo che morirò se non metto quel vestito stasera!».

Odio quando fa la regina del melodramma. «Potrebbe essere in tintoria» ribatto «Oppure è ancora nel tuo armadio».

Lei spalanca gli occhi offesa. «Vorresti insinuare che non ti ridò ciò che prendo in prestito?».

Non è un'insinuazione ma un dato di fatto. «Ma certo che no, Didi» ribatto addolcendo i toni «Dai, spostati che lo cerco io».

La faccio sedere sul pouf a fiori e mi infilo tra i vestiti. Dopo un paio di minuti afferro il vestito tanto agognato e glielo porgo. Heidi caccia un urlo e mi salta addosso «Ti adoro! Grazie! Grazie! Grazie!». In fin dei conti è un gran rompiscatole ma la adoro anche io.

Angie sfiora silenziosamente il pizzo di un mini abito nero e sospira. È meno esplicita di Heidi ma trova anche lei il suo modo per farsi capire. «Prendilo, scommetto che ti starà benissimo con gli stivali che hai appena comprato» le dico sfilando il vestito dalla gruccia. Angie fa un sorrisone e mi stritola anche lei in un abbraccio da orso. «Grazie, Callie. Sei la migliore».
Sì, lo sono.

 

Dopo che se ne sono andate mi barrico nel mio bagno personale. Riempio la vasca di bolle, mi applico una maschera all'argilla rossa e mi lascio cullare dal calore dell'acqua. Mi lavo i capelli, faccio sparire ogni imperfezione e mi trucco a dovere. Indosso il mio magico abito, un paio di décolleté nere e arriccio le punte dei miei lunghi, capelli biondi con la piastra.

All'ora di cena saltello eccitata fino al piano inferiore e aspetto papà seduta sul divano vicino all'ingresso. Sistemo convulsamente i capelli e liscio con cura la gonna dell'abito.

«Dove diavolo pensi di andare?». La sua voce è identica allo stridio delle unghie sulla lavagna. Mi giro lentamente e cercando di non guardarla con odio. La Mostrigna mi fissa dagli ultimi gradini della scalinata principale con stampata in faccia una fastidiosa espressione boriosa. Il giorno in cui papà me l'ha presentata non si cancellerà mai dai miei ricordi peggiori. Avevo otto anni e capii subito che razza di arpia sadica e opportunista lei fosse.

Respiro e conto fino a cinque. «Papà e io andiamo a cena insieme stasera».

Lei fa schioccare la lingua e scende gli ultimi gradini. Guardarla mi fa venire la nausea. Sherry Flanagan, ora Thompson, è la donna più brutta che io abbia mai visto. Non esteticamente, il quel campo è chirurgicamente perfetta, lei è orrida dentro.
Si passa la manicure fresca di estetista tra la chioma bruna e perfettamente pettinata. «Non ci pensare nemmeno» asserisce inchiodandomi al pavimento lucido con i suoi occhi di ghiaccio «Bryan e io ceniamo soli stasera, tu devi fare la babysitter». Scende l'ultimo gradino e le tette di plastica ballonzolano, se cadesse in piscina resterebbe a galla come una boa di segnalazione.

Sento la tristezza raggrumarsi in mezzo al petto. «Papà me lo aveva promesso» ribatto come una bambina «Ho già prenotato».

Lei ride. Ride di gusto, come se vedermi triste fosse il suo spettacolo preferito. «Oh, Dio santo! Ma quando crescerai? Nella scala delle priorità di Bryan io sono sei gradini sopra di te, bambinetta».

Sento l'impulso di piangere. Stringo i pugni finché le unghie non mi fanno male contro i palmi. «Mi aveva detto che avremmo cenato insieme stasera, lui mantiene sempre le sue promesse». No, non è vero.

Mi guarda dall'alto al basso e sorride «E invece te ne resti a casa a badare ai miei figli». Non usa mai la parola fratelli, per lei io e i suoi figli non siamo minimamente imparentati. Mi afferra una ciocca con forza e la tira. Stringo i denti per non gridare. «Devi iniziare a mettertelo in testa, ragazzina, qui vali meno di zero». Vorrei colpirla su quella faccia di plastica, ma l'ultima volta che ho provato a rivoltarmi mi ha schiaffeggiata e il suo enorme anello mi ha lasciato un livido enorme. Lunedì comincia la scuola e non voglio dover inventare qualche scusa.
Mi lancia un'occhiata schifata «Questo vestito ti sta davvero malissimo, fai proprio schifo ». Mi lascia andare. «Non aspettarci, fare molto tardi» apre la porta di ingresso «Vedi di prenderti cura dei miei figli o sono guai». Esce sbattendo la porta e ridendo come una strega.
Rimango paralizzata davanti all'ingresso con la testa che pulsa e le unghie infilzate nei palmi.

Vorrei dire che è la prima volta che vivo questa scena ma sarebbe una bugia. Vorrei dire che mio padre non ha nessuna colpa ma sarebbe un'altra bugia. E vorrei anche dire che amo la mia vita come una pazza ma questa sarebbe la bugia più grossa della storia.

Il cellulare mi trema nella borsa. Quando guardo lo schermo, la matassa di tristezza e desolazione evapora grazie alla rabbia incandescente che mi ribolle dentro. Mio padre mi ha mandato un'email per cancellare la cena di stasera. È una di quelle programmate che manda la sua nuova assistente, quella vecchia l'ha sposata, ci ha fatto tre figli e ora vive in casa nostra e rende la mia vita miserabile.

Fanculo.
Lancio il telefono contro il muro mandando in mille pezzi lo schermo. Non me ne starò qui come una brava bambina mentre loro si divertono. Corro in camera mi sfilo il vestito e indosso quello più volgare e sconcio che abbia mai comprato. È un tubino nero con i fianchi aperti e intrecciati. È corto, aderente e fa vedere più pelle di quanta si dovrebbe. Infilo dei tacchi vertiginosi e mi trucco in modo molto più pesante.

Scendo le scale come una furia e quasi investo in pieno la mia sorellastra.

«Callie! Guarda dove vai» borbotta aggrappandosi alla ringhiera. Mi osserva e spalanca la bocca. «Dove stai andando?». Emmeline ha otto anni, i capelli castani della madre ma gli occhi scuri di papà. È dolce, troppo intelligente per la sua età e un'altra vittima del caratteraccio di sua madre.

«Sto uscendo» ribatto recuperando il cellulare da terra.

Lei sbuffa «Questo lo avevo intuito. Pensavo fossi tu la babysitter stasera».

Scuoto la testa e infilo la giaccia «Non oggi».

«Mamma ti ha detto il contrario».

«Sì, so cosa ha detto tua madre».

Mi guarda confusa «Vuoi farla arrabbiare più del solito?».

«Assolutamente». Mi passo il rossetto rosso sulle labbra. «Voi ve la cavate o devo chiamare la babysitter».

Lei scuote la testa. «No, ci sono Rosario e Lucy. Puoi andare se vuoi».

«Eccome se lo voglio».

 

 

La casa di Paul Jackson è una delle più belle del quartiere. Sua madre è una delle migliori stiliste dello stato e la sua villa fa a gara con la nostra. La zona in cui abitiamo è altamente riservata, se non possiedi un conto in banca con un minimo di sette zeri allora non sei ben accetto nel vicinato.

La dimora dei Jackson è a due case di distanza dalla mia. Decido di andare alla festa a piedi così da poter bere quanto voglio.

Il cancello in ferro battuto è spalancato e su una delle guglie è appeso un reggiseno colorato. È il simbolo che Paul usa per dire hai ragazzi della città che c'è una festa piena di belle ragazze. Davvero di pessimo gusto, ma tra trogloditi ci si capisce subito.

Ondeggio pericolosamente sul vialetto di mattonelle e avanzo tra le auto parcheggiate e i gruppetti che fumano. Le ragazze mi salutano e si complimentano per il vestito, mentre i ragazzi spalancano la bocca e mi fissano. Saluto tutti e fingo di essere interessata alle loro domande e alle loro risposte.

Al centro del vialetto c'è un'enorme fontana circondata da piante e aiuole ben potate. I puttini versano dell'acqua da delle anfore dentro la bocca di dei pesci enormi. Le luci notturne color paglia rendono la scena ancora più strana.

Avanzo salutano e sorridendo, e finalmente arrivo all'ingresso. La porta di legno bianco è spalancata e lo zerbino con l'immagine della famiglia stampata sopra è spostato e macchiato di qualcosa che sembra vino. Lo scavalco e mi infilo nell'ingresso. L'odore di adolescenti misto ad alcol e fumo mi colpisce in piena faccia. La casa è già piena di gente e il pavimento di marmo si sta riempiendo di bicchieri di plastica rossa e mozziconi di dubbia origine. Dal colossale impianto audio della casa rimbomba un pezzo privo di testo e con assolutamente troppi bassi. Le foto e le decorazioni appese ai muri tremolano. Tutti questi fattori messi insieme stimolano una risposta automatica del mio corpo: ho sete. Attraverso la folla come se camminassi sulla passerella e lascio che tutti sappiano che sono arrivata. Mi dirigo spedita al tavolo degli alcolici e mi riempio un bicchiere di vodka e lemon soda. Più vodka che lemon soda. Lascio che l'alcol mi bruci la gola e i pensieri.

«Callie!» strepita una voce alle mie spalle. Mi volto e Heidi mi travolge come un treno. Mi stringe la braccia magre intorno al collo e scoppia a ridere come una scema. È ubriaca. «Sono così contenta che tu sia venuta alla mia festa!».

Non è proprio la sua festa. «Anche io» ribatto con altrettanta allegria.

«Lo sapevo che alla fine avresti scelto me!» strepita con allegria. Indossa il mio vestito rosso, ha i capelli raccolti in una strana treccia e il viso truccato alla perfezione. Si capisce che è sbronza dagli occhi azzurri che brillano e mi guardano vacui. Il mio cervello articola in automatico una bugia. «Sai che sei sempre la mia prima scelta, prima scherzavo!».

Squittisce entusiasta e mi abbraccia di nuovo «È meraviglioso! Vieni, ti preparo un cocktail». Mi tira verso il tavolo e si mette ad armeggiare con i bicchieri e le bottiglie. Mischia di tutto e me lo porge. «Ecco il tuo HeidiLand».

Dal bicchiere si alza uno strano odore di fragola misto a tequila e rum. So che dopo il suo intruglio vomiterò, ma questa è la serata in cui non si pensa alle conseguenze. Mando giù una lunga sorsata e respiro con forza nel tentativo di sopprimere un conato.

Heidi strilla e batte le mani fiera. «Andiamo nel lato delle coppiette, Angie e Nich sono fuori». Mi trascina attraverso la folla e verso la porta a vetri. Usciamo nel giardino sul retro e l'aria fresca mi accarezza la pelle raffreddandomi. Superiamo le sdraio, la piscina riscaldata e ci dirigiamo verso l'erba. I nostri tacchi affondano nel terreno umido mentre procediamo verso il falò. Un decina di coppiette sono sedute su della panchine di legno posizionate intorno ad una piramide di legna in fiamme, collocata su un ripiano di metallo.

Angie ha la faccia affondata nel collo di Scott e quando sente la voce di Heidi alza lo sguardo verso la nostra direzione e sorride. «Callie! Sei arrivata!». Balza in piedi e mi corre incontro. Il vestito che le ho prestato le sta d'incanto, soprattutto con quegli stivali. Si lancia su di me come Heidi e ridacchia. Ricambio l'abbraccio e le accarezzo la schiena con dolcezza.

«Ma cosa fai qui? Perché non sei a cena con tuo padre?» chiede tenendosi aggrappata alle mie spalle.
«Ha deciso che preferiva stare con noi! Le sue amiche!» squittisce Heidi con entusiasmo.
Angie mi guarda di traverso e inclina un sopracciglio scuro e perfettamente truccato. Fa sempre questa faccia quando qualcosa non le torna. «Callie...» sospira con dolcezza. Il suo tono materno trasuda compassione e non fa altro che innervosirmi.
«Preferivo la festa, tutto qui» taglio corto «Allora dov'è Nich?».
Come se lo avessi evocato, le sue enormi braccia muscolose mi afferrano e il suo petto aderisce alla mia schiena. «Ecco la più sexy» mi ringhia tra i capelli. Le sue dita scorrono sulla stoffa leggera con passione e mi accendono come un fiammifero. La sua bocca trova la mia prima ancora che riesca a girarmi del tutto verso di lui. Gli stringo le braccia intorno al collo e lascio che le sue mani mi stringano il sedere. Il suo corpo cancella ogni pensiero e finalmente smetto di angosciarmi.
Si stacca e appoggia la fronte alla mia con il respiro affannato. «Sei da urlo stasera».
Lo so. «Anche tu».
«Avanti piccioncini!» strepita Heidi infilandosi nel nostro momento privato «Sediamoci!».
Nick mi afferra per i fianchi e mi fa sedere sulle sue gambe sulla panchina. La luce del falò gli illumina il volto riuscendo nel miracolo di renderlo più bello. I capelli biondi sono spettinati alla perfezione e gli occhi nocciola mi fissano affamati. Il piercing di metallo che ha al sopracciglio luccica, ricordandomi quanto mi piaccia.
«Perchè non ho mai visto questo vestito?» mi sussurra all'orecchio.
Una cascata di piacevoli brividi mi scorre lungo la schiena. «Lo tenevo per un'occasione speciale».
Mi fa scorrere il naso lungo il collo. «Lo adoro».
Oh, credimi, lo sento.

«Nich!» la manona di Paul gli afferra la spalla «Devi venire dentro! Pete e Daniel ci hanno sfidati a birra-pong». L'alito alticcio di Paul mi fa venire la nausea. «Dicono che sono meglio di noi come team, dobbiamo dargli una lezione!».
Nich si alza così velocemente che a momenti finisco con il sedere sull'erba. «Come si sono permessi!». Mi tira per il gomito per rimettermi dritta. «Baby, devo andare, è una questione di onore».
«Scherzi?» brontolo.

Lui mi accarezza le spalle nude. «È davvero importante, torno in un secondo, promesso». Corre dietro Paul così velocemente che non ho nemmeno il tempo di urlargli contro. Odio quando si comporta come un cavernicolo. Il suo onore da cretino del football viene sempre prima di me. Alcune volte mi chiedo se sono solo un altro dei sui premi da esporre.
Heidi mi appoggia il braccio sulle spalle. «Non abbiamo bisogno di loro per divertirci» mi guarda scaltra. «Giusto, Callie?».
Giustissimo.


Heidi e io passiamo l'ora successiva in piedi sul tavolo da biliardo a ballare e a bere. Agito così forte la testa che perdo un orecchino. Perdo anche il conto di quante volte mi sono fatta riempire il bicchiere. Ridiamo e mi scordo del mondo che mi gira intorno, quindi mi va benissimo.
Quando finalmente si ricorda che esisto, Nich spunta tra il mare di ragazzi che ci fissa e che si agita. Lo vedo in mezzo a mille e il modo in cui mi guarda fa sparire qualsiasi possibile pretendente. «Baby!» urla sopra la musica «Smettila di dimenare il fondoschiena per questi cretini e portalo qui da me!». Mi afferra i fianchi e in un secondo sono di nuovo con i piedi sul pavimento. Da così in basso la stanza sembra minuscola.
Avvicina la bocca al mio orecchio «Andiamo via di qui, ho voglia di te». Mi conduce al piano superiore, dentro una delle camere degli ospiti e chiude a chiave la porta dietro di noi. Mi afferra il viso e mi bacia come se non volesse altro dalla vita. Mi fa scorrere le mani sulla schiena alla ricerca della zip e, quando la trova, la tira con impeto. Il mio bell'abito finisce sul pavimento, seguito dalla sua camicia e dai jeans. Lascio che il suo corpo mi porti lontano, che cancelli le paure e le insicurezze e che mi faccia sentire l'unica al mondo.

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Capitolo 2
*** Thomas Clark ***


Chapter 2

 

Tom
 

 

«Non è assolutamente corretto!» brontola il mio migliore amico, Jeremy, facendo ondeggiare il controller «Non potevi usare l'onda sonica!».
Mi allungo stiracchiando le gambe. Stare seduto così a lungo sul pouf floscio mi fa intorpidire tutto il corpo. «Impara a perdere, Jem» ribatto cercando di nascondere la felicità «Sei stato battuto da un avversario superiore a te, incassa il colpo e vai avanti». La verità è che non potevo usare l'onda sonica, lo avevamo stabilito quando lui usava il mio personaggio, ma ero stufo di vederlo vincere sempre. Ora però mi sento un po' in colpa, soprattutto se la sua facciona da cucciolo non la smette di contorcesi. Le nuove lenti degli occhiali gli fanno sembrare gli occhi azzurri due pozze enormi e umide.
Infila la mano in tasca e fruga alla ricerca dell'inalatore. Lo avvicina alla bocca e inspira con forza il farmaco. «Avevamo deciso che quella mossa era bandita. Non hai vinto, hai barato».
Alzo le spalle con aria innocente «È partita da sola, non so come sei successo» ribatto alzandomi in piedi. Non lo guardo in faccia, non so mentire.
Jeremy si alza malamente facendo scricchiolare il parquet della taverna. «Yaz!» piagnucola «Diglielo che non vale».
La nostra amica Yazmin chiude il libro con uno scatto e lo sbatte sul tavolo. «Ay, Dios mio». Si passa le dita tra i capelli corvini. «Non provate a tirarmi in mezzo a questa discussione ridicola» alza l'indice in segno di avvertimento «Sono qui solo perché la mamma di Tom fa la migliore torta di mele dello stato, solo per questo» riapre il libro e smette di guardarci con aria truce «Lasciatemi fuori dai vostri battibecchi da nerd».
La verità che Yaz non dice è che ci adora ed è qui perché siamo gli unici amici che ha. Lo stesso vale per me e Jeremy, sia chiaro. Siamo un trio sgangherato ma che in qualche modo funziona benissimo. Jeremy ed io ci siamo conosciuti al club di matematica, era l'unico che seguisse il mio passo e in effetti è l'unico membro che sia rimasto. Dopo che abbiamo ricevuto l'etichetta di sfigati a vita al primo anno di liceo, la gente preferisce girarci lontano. L'unica che si sia mai avvicinata è stata Yazmin e non l'abbiamo più lasciata andare via. Dopo che ha preso a pugni Paul Jackson che tentava di smutandare Jeremy, l'abbiamo nominata mamma del gruppo e lei lo adora, anche se non sembrerebbe. È stata una vittoria reciproca. Lei si porta dietro un'etichetta anche peggiore delle nostre e le ragazze sono molto più cattive, soprattutto le cheerleader.
«Dai» mugugna Jem tirandole la manica a fiori «Digli che ha sbagliato e sgridalo».
Lei sbuffa con forza «Questo ruolo da madre che mi date mi da i brividi, sul serio» allontana la mano di Jem con uno schiaffetto «Dite che è un pareggio e smettetela di interrompermi».
Jem scuote la testa «Ma avevamo detto che l'onda son...». Il telefono squilla interrompendo la sua protesta. Lo guarda corrucciato e alza le spalle «Mia madre è qui, ci vediamo lunedì a scuola». Mi da il pugno, saluta Yaz con la mano e corre al piano di sopra.
Mi lascio cadere sul divano e afferro la ciotola di patatine. Manca un solo giorno all'inizio dell'anno scolastico e io non me ne rendo ancora conto. Altri nove mesi rinchiuso in quella prigione ad aspettare trepidante di poter lasciare questo angolo dimenticato dai Dio e poter volare fino al college. L'estate è passata in un soffio, tra il campo estivo e le serate con gli amici non mi sono nemmeno reso conto che è già finita.
Yaz chiude il libro, si alza facendo stridere la sedia e si butta sull'altro lato del divano. Mi da un colpetto con il piede «A cosa pensi, Tommy?».
Solo lei e i miei genitori mi chiamo così. Ci conosciamo da quando abbiamo cinque anni, lei era la bambina ispanica e rumorosa che alle elementari non aveva amici e che io trovavo così stravagante. Siamo stati amici per molto, finché non ci siamo allontanati irrimediabilmente. Solo al secondo anno di liceo mi sono reso conto che la hippie che tutti ignoravano era la mia amica perduta.
«Lunedì ricomincia la Tortura» rispondo ridandole il colpetto.
Stringe il codino alla fine della treccia. «Farete come lo scorso anno: invisibili sotto il radar».
«Non credo che tu ne sia capace» commento. Yazmin è quel tipo di ragazza che noti in mezzo alla folla perché stona con il resto del mondo. Le altre ragazze collezionano trucchi e vanno alle feste, Yaz protesta davanti alle ditte che sfruttano i lavoratori e colleziona multe.
Giocherella con la cintura che gli stringe i jeans a zampa di elefante. «Infatti ho detto farete. Dovresti ascoltare di più, Tommy».
Sgranocchio una patatina alla paprica. «Tu cosa farai?».
Alza le spalle e salta in piedi. «Probabilmente andrò contro corrente e cercherò di indispettire più cheerleader che posso». Da un'occhiata all'orologio e afferra lo zaino. «Devo andare. Mamma sta per cominciare il turno, mi tocca badare ai marmocchi».
Annuisco. «Mi dispiace che tu debba passare sempre il sabato sera con noi sfigati».
Ridacchia e si china per spettinarmi i capelli. «Non credere a tutto quello che dico, mi piace stare con mis tontos».

 

 

 

La sveglia a forma di Dart Fener ulula contro le pareti della mia camera, avvertendomi che sono le sette e che devo assolutamente alzarmi. Se non la avessi pagata uno sproposito, probabilmente a quest'ora sarebbe in pezzi sul pavimento. Infilo la testa sotto il piumone con il sistema solare e chiudo gli occhi. Non riesco a capire perché la domenica scorra così rapidamente ogni cavolo di weekend.

La porta cigola aprendosi e qualcuno mi atterra con un salto sullo stomaco. «Tommy! Tommy!» strilla Lenny, il mio fratellino. «È ora della colazione! Alzati!».

La mia risposta è un mugugno indistinto.
Lenny tira il copriletto. «Mami, Tommy non vuole alzarsi!».
La voce della mamma scivola nella stanza. «Avanti, tesoro, è il primo giorno. Rischi di fare tardi». Non è una scusa decente per alzarsi. «Ti ho fatto i waffles ai mirtilli» aggiunge sbatacchiando una padella. Questo sì che è un buon motivo. Salto fuori dal copriletto e afferro il mio fratellino per i fianchi. Si contorce dalle risate nel suo pigiamino con i canguri mentre gli solletico i fianchi. «Andiamo, marmocchio».
Lui ridacchia quando lo lascio e salta giù dal letto, diretto alla cucina.

 

 

Yazmin colpisce con forza il clacson e il rimbombo fa tremare i sedili strappati. La sua auto, Frida, è una trappola mortale con le ruote. Ha almeno trent'anni, è color verde pisello e non avendo nessun segno identificativo, non ho la più pallida idea di che marca sia. Era di suo nonno, poi di suo padre ed ora è sua. Ho paura a chiedere se qualcuno l'ha avuta prima di loro. È da quando ha preso la patente che ci scarrozza ovunque e di questo non smetterò mai di ringraziarla, però continua a farmi paura.
Sporge la testa dal finestrino aperto e urla. «Jeremy! Muovi il culo!». La calma e la finezza non sono due delle sue qualità.
«Yaz!» la richiamo «La madre di Jem non lo farà più uscire con noi se ti comporti come una pazza ogni volta che lo passi a prendere».
Mi afferra la punta del naso con le dita. «Non mi interessa un fico secco, non ho intenzione di fare tardi per colpa sua». Inclina la testa e gli orecchini di plastica blu mi accecano riflettendo il sole. «Oppure preferite prendere l'autobus?».
No. Mai più. Le sorrido nervoso. «Urla quanto vuoi».
Mi lascia andare «Bravo ragazzo».
Prima che possa sbraitare di nuovo, Jeremy spalanca la portiera del passeggero e salta su Frida. «Buondì, amici».
Yazmin si gira verso di lui con impeto e infilza le unghie nel mio sedile, ad un centimetro dalla mia faccia. «Buongiorno un cavolo» brontola «Perchè ci hai messo così tanto? Il mio fratellino di cinque anni si prepara più in fretta di te». Si blocca, annusa l'aria e arriccia il naso. «Cos'è questo odore?».
Jem arrossisce «La mia nuova colonia. Mamma me l'ha regalata per il primo giorno di scuola».
Yazmin stringe i denti soffocando la rabbia e la voglia di dirgli che questa puzza di garofani misti a salvia fa venire il vomito, ma da brava amica si rigira verso il volante e sussurra «Buona».
Jem fruga nello zaino. «Mi ha anche regalato questo porta-pranzo di Halo! Figo, vero?»
Spalanco gli occhi. «Stupendo! Fammelo vedere».
Yaz accende il motore e ingrana la marcia. «Ay, dios mio» accelera lungo la via facendo cigolare la carrozzeria. «Sàlvame».


«I sedili di Frida odorano di cimitero misto a vecchia signora» brontola Yaz davanti al mio armadietto mentre Jem è in bagno «Ci vorrà un esorcismo per togliere la puzza».
Prendo il libro di filosofia e quello di . «Non è così male» mento. Yaz mi da un pizzicotto sul braccio. «Ahi! Perché?».
«Ne abbiamo parlato un sacco di volte, basta bugie per piacere alla gente. Sii te stesso, Tommy» mi infervora.
«Non stavo mentendo...». Mi pizzica di nuovo. «Ahi!».
«Quando dici una balla guardi per terra e diventi rosso sul collo» indica le macchie rosse «Continuerò finché non sarai sincero».
Mi massaggio il braccio e chiudo l'armadietto. «Va bene, non mi piace. Odora come zia Beth».
Yazmin arriccia il naso. «Devi dirgli qualcosa».
Scuoto la testa con entusiasmo. «Io? Perché? No! Non gli dirò un bel nulla, sai che quando si parla di sua madre è meglio non fare commenti». Le punto il dito contro. «Diglielo tu, sei così fissata con la sincerità».
Giocherella con il medaglione «Io sono anche troppo sincera con voi, non c'è bisogno che lo faccia piangere di nuovo». Già, non vorrei assistere alla scena di nuovo. Jem esce dal bagno a passo svelto e con la testa bassa. Corre nella nostra direzione e si nasconde alle nostre spalle. Dietro di lui escono Paul Jackson e Nicholas Ward, alias Stronzo e Più Stronzo.
Ridono e si danno il cinque come dei cavernicoli che hanno appena abbattuto un mammut, peccato che quel mammut sia Jem. «Cosa ti hanno fatto?» domanda Yaz con rabbia.
Jeremy scuote la cofana biondo scuro. «Nulla, mi hanno solo intimidito» sospira «Come sempre».
«Cabrones» si arruffa Yaz «Qualcuno dovrebbe proprio...».
Non sento cosa dovrebbe fare qualcuno perché il mio cervello si ingrippa. La donna della mia vita risplende in mezzo al corridoio. È una stella in un mare di buio e monotonia. È l'unica al mondo che sotto le luci al neon sembra ancora più stupenda. In un'altra vita scommetto che è stata una divinità di qualche popolo o religione.

«Oh, ti prego! Stai sbavando come un Cocker Spaniel per Calliope Thompson» Yazmin mi da una gomitata. «Non puoi morire per la regina delle streghe».
«CJ non è cattiva» ribatto.
Lei sbuffa dal naso. «Smettila di chiamarla così, ha smesso di essere la nostra amica CJ quando si è resa conto che Callie la super-cheerleader era più popolare» indica le amiche di CJ «Lei è anche peggio di loro, da gli ordini e non muove un muscolo davanti alle cattiverie. Lei è la Burattinaia».
Non è assolutamente vero. Lei è una persona meravigliosa, io lo so. Quando nessun altro guarda, io la vedo, CJ è nascosta dietro l'armatura. «E poi» continua Yaz infilando il dito nella piaga «Ha un gusto orrendo in fatto di uomini». Nicholas le afferra il sedere fasciato dai jeans e la bacia come se fossero soli nel corridoio. Distolgo lo sguardo perché fa male e perché se no rischio di vomitare sul linoleum. In questo caso la penso come Yaz, la tratta come un oggetto e senza rispetto. Le servirebbe qualcuno migliore. Vorrei offrirmi volontario ma purtroppo non sa nemmeno che esisto.
Lei e il suo gruppo ci sorpassano come dei divi del cinema e tutto il resto della scuola resta a fissarli. C'è chi li invidia e vorrebbe essere come loro e c'è chi, come Yazmin, li disprezza fino al midollo.
«È dalla quarta elementare che sei fissato con quella ragazza» mormora Yaz con pietà «E lei non ti ha mai filato nemmeno quando eravamo ancora amici» mi schiocca le dita davanti alla faccia «Fattene una ragione».
So che quello che dice è tutto vero ma questo non significa che non faccia male. «Sai, Yazmin, dovresti proprio lavorare sul tuo problema di sincerità». Sbatto l'anta dell'armadietto e mi allontano lungo il corridoio.

 

Adoro la scuola.

No, aspetta, riformuliamo.
Adoro seguire le lezione e imparare cose che non so. Mi piace fare i test e valutare se ho capito quello che ho appreso. Nerd? Probabilmente sì, ma ne sono molto fiero.
La parte della scuola che non sopporto sono gli altri studenti e i momenti in cui non sei davanti ad una lavagna ad assimilare. Odio soprattutto i cretini che mi sfottono perché mi piace essere informato e diligente. Ogni volta che provano ad infastidirmi, abbasso la testa e vado nella direzione opposta. È la tecnica che chiamo Navigare Lontano dal Radar. Grazie a questo metodo non sono mai finito nei guai con le autorità scolastiche. Mai una volta. Per questo mentre percorro il corridoio diretto all'ufficio del preside mi tremano da morire le ginocchia. Sentirsi chiamare per nome e cognome dall'assistente davanti a tutta la classe è stato peggio di doversi lavare i denti con i chiodi. Ho sentito le risatine e i commenti e sarei voluto sprofondare.
Apro la porta della segreteria con la mano che trema. Ronda, l'assistente della preside King, mi fa un sorrisone facendo segno di avvicinarmi.
«Cosa posso fare per te, pasticcino?» tuba mettendosi sul naso gli occhiali porpora.
«La preside mi ha fatto chiamare» borbotto «Sono Thomas Clark».
Ronda annuisce facendo ondeggiare la torre di capelli laccati. «Sì, tesoro, ti sta aspettando» mi indica la porta «Entra».
Mi accosto alla porta con le gambe molli e busso sul legno. La preside mi ordina di entrare e così faccio. L'ufficio della signora King sembra uscito da una rivista di giardinaggio. Ci sono piante, fiori e cactus su ogni superficie libera. La scrivania scura è carica di fogli, penne colorate e bandierine della scuola di diversi colori. Le pareti candide sono cariche di targhe, riconoscimenti e foto di lei con personaggi pubblici di rilievo.
«Thomas» sorride «Siediti». Mi accomodo su una delle due poltrone di pelle posizionate davanti a lei. I suoi grandi occhi castani mi seguono mentre eseguo gli ordini.
«Posso sapere perché sono qui?» domando cauto.
Raccoglie una ciocca di capelli color carota e la posiziona dietro l'orecchio. «Ancora un secondo, stiamo aspettando un'altra persona».
«Chi?».
Come se l'avesse evocata, la donna della mia vita fa il suo ingresso nella stanza. Calliope Josephine Thompson è a meno di un metro da me. Non le sono mai stato così vicino, seguiamo dei corsi insieme, ma io sono sempre in prima fila e lei è sempre in fondo. Da vicino è anche più bella.
«Preside King» trilla sorridente «A cosa devo l'onore?».
La preside non ricambia il sorriso e nemmeno l'entusiasmo. «Si sieda, signorina Thompson».
Lei sospira molto silenziosamente e fa come le ha chiesto. Mi passa accanto avvolgendomi con il suo profumo dolce e si siede con grazia sulla poltrona. Se la preside non fosse qui sarebbe uno dei miei sogni che si avvera.
«Vi ho fatti chiamare per una buona ragione» la preside stringe le mani sul tavolo «Lei signorina Thompson è la capitana delle cheerleader da ormai tre anni di fila». Mi punta lo sguardo contro. «E tu, Thomas, sei il presidente del club di matematica da più o meno lo stesso tempo».
Come se si fosse accorta di me solo in quel momento, CJ si gira verso a guardarmi e il mondo congela. I capelli biondi le circondano il viso come una cornice e i suoi meravigliosi occhi verdi mi osservano curiosi e sorpresi. Sotto lo zigomo sinistro ha un segno violaceo, ha cercato di coprirlo con il fondotinta, ma da così vicino si vede abbastanza bene. Sembra che abbia preso un colpo in faccia, oppure un pugno. L'idea che qualcuno possa colpirla mi fa ribollire il sangue.
«Come sapete, ci sono stati tagliati i fondi destinati alle attività extracurricolari e così facendo mi hanno posto davanti ad una scelta molto ardua» ci guarda affranta «Abbiamo rivalutato il baget, fatto numerosi tagli e i soldi per le attività riescono a coprire decentemente e ugualmente tutte le attività tranne due». Sono così distratto dalla bellezza di CJ che non mi rendo nemmeno conto di quello che sta dicendo la preside. «Ho dovuto scegliere un'attività sportiva e una non sportiva da tagliare» fa un sospiro «Il club di matematica e le cheerleader smetteranno di esistere prima della fine del trimestre».
Ho la bocca secca e la mascella che sbatte a terra. Cosa?
«Come, prego?» squittisce CJ. «Vuole cancellare le cheerleader? Ma su quale pianeta?».
La preside stringe i denti. «É stata una scelta ardua ma necessaria».
«Scusi, perché proprio le mie cheerleader?» ribatte rabbiosa. Io sono completamente invisibile.
«I vostri due club sono gli unici che non raggiungono il numero di membri minimo e che non vincono gare interscolastiche da anni» spiega.

Sì, questo è vero ma non mi sembra una buona scusa.
«Non è vero!» strepita CJ «Nella mia squadra ci sono venti ragazze che si esibiscono e dieci riserve».
La King si sporge in avanti per guardarla male «Ne sono consapevole, ma è dal 2012 che non vincete nemmeno nella categoria Junior» alza un dito in aria «Le ricordo che ogni vittoria aumenta il baget che viene fornito alla squadra e voi spendete ma non vi classificate nemmeno in terza posizione».
CJ stringe i pugni e si irrigidisce «Se non lo avesse notato è uno sport molto difficile, non credo che lei ne sarebbe capace».
La preside si indurisce come una pietra e gli occhi castani di solito molto gentili, sono neri come la pece. Intervengo prima che la incenerisca. «Non c'è nulla che possiamo fare? Ci teniamo molto ai nostri club».
«Mi dispiace, ma no».
«Sono sicura che mio padre, il sindaco Thompson, non ne sarà affatto felice» ribatte CJ sprezzante. Mi è sempre sembrata sicura, padrona della situazioni invece ora sembra una bimba persa al buio che spara frecciatine.
La preside inarca un sopracciglio e la guarda dall'alto al basso. «So chi è suo padre, signorina Thompson, non c'è bisogno che mi sventoli in faccia il suo cognome altisonante». CJ arrossisce a disagio. «Sono molto dispiaciuta ma ho degli ordini che arrivano da più in alto».
Entro nel suo campo visivo, coprendo CJ. La preside deve fare parte della metà della gente che la disprezza «La prego, non c'è una soluzione? Una scappatoia che ci salvi? Sarebbe davvero grandioso» sorrido e cerco di essere il più seducente possibile.
La King si addolcisce e sospira. «Il consiglio scolastico si riunisce di nuovo tra tre mesi, se entro quel periodo avrete sistemato le vostre situazioni vedrò di salvare i vostri club. Però fino a quel giorno non avrete fondi scolastici, spazi riservati e non potrete praticare il club durante l'orario scolastico» si aggiusta la giacca «Potrete partecipare alle gare scolastiche ma senza l'aiuto della scuola».
CJ sbuffa sonoramente ma annuisce. «Va bene».
«Ottimo» agita le mani «Tornate alle vostre lezioni».
Usciamo dal suo ufficio e dalla segreteria. Nel corridoio CJ digita con violenza sul telefono e sbatacchia i tacchi degli stivali sul pavimento.
«Stai bene?» domando.
Si gira di scatto e frusta l'aria con i capelli dorati. «Come potrei stare bene?! Quella fascista ha appena chiuso una delle ragioni per cui vengo a scuola di buonumore, quindi no! Non sto bene».
È una regina del melodramma e la cosa mi piace. «Questo lo avevo intuito» ribatto con più calma «Parlavo del livido sul viso».
Si gira nascondendo lo zigomo sotto i capelli. «Ho sbattuto contro la porta del bagno».
Non le ho chiesto una spiegazione, ma lei è comunque sulla difensiva. Sembra terribilmente a disagio e non più arrabbiata. La scusa della porta mi rende ancora più sospettoso. «Non hai risposto alla mia domanda».
Mi guarda diritto negli occhi facendomi sentire accaldato. «Scusa, di solito chiedono cos'è successo, non come sto». Sorride debolmente. «Sto bene».
So che è una bugia, ma fingo di non rendermene conto. «Hai un piano per sistemare questa storia del club?».
Lei inclina la testa e sorride in modo strano. È l'espressione che usa quando fa la stronza con la gente. È la faccia dell'armatura che indossa sempre. «Sono una Thompson, posso sistemare questa sciocchezza in due secondi». Pronuncia il suo cognome quasi con disprezzo. «E tu...mmmh?».
«Tom». Fingo di non essere offeso.
Si indica. «Callie».
«Sì, so chi sei, CJ» ribatto senza pensare.
Sbatte le palpebre velocemente e mi guarda sorpresa «Come mi hai chiamata?».
«Nulla» borbotto sistemando lo zaino sulla spalla «Devo andare a lezione, ciao».
Scappo via.

Veloce.

Di nuovo lontano dal radar.

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Capitolo 3
*** The Fascinating World of Calliope ***


Chapter 3

 

Callie

 

Sono sconvolta.

Esterrefatta.

Turbata.

E tutti i possibili sinonimi che vi vengono in mente. Troppe informazioni mi sono state lanciate addosso negli ultimi dieci minuti. Vorrei urlare e sbattere i piedi a terra dalla frustrazione. So di non essere mai piaciuta alla preside King, ma questo è un attacco personale. Ha deciso di chiudere le cheerleader! Le cheerleader. Quale scuola decente del mondo non ha le cheerleader!?
Io adoro la mia squadra. Beh, non siamo un team eccezionale, come ha dolcemente sottolineato la preside non vinciamo una gara dal 2012. Comunque non mi è mai importato, noi stiamo insieme, facciamo esercizio e ci divertiamo da morire. Non dovrebbe essere questo lo scopo di un club scolastico?
Poi c'è stato quel ragazzo...Come ha detto di chiamarsi? Tom. Ha l'aria così familiare, però non saprei dire dove l'ho già visto.
Mi ha chiamata CJ. Nessuno mi chiama più così da anni ormai. Però mi è piaciuto come è uscito dalle sue labbra. Bellissime labbra, oltretutto.
La campanella rimbomba nel corridoio facendomi sobbalzare. Ho perso tutta l'ora di filosofia. Meraviglioso.
Cammino spedita verso chimica ed entro in classe senza guardare nessuno negli occhi. Mi siedo al mio bancone e comincio a delineare un piano. Heidi si accomoda al mio fianco e sospira guardando il cellulare. «Paul e io siamo proprio una coppia stupenda» mi ficca lo schermo sotto il naso «Non trovi?».
Al momento la sua relazione scadente non è il mio primo pensiero. «Meravigliosi».
Sogghigna mentre colpisce lo schermo con le unghie finte. «La mia festa è stata un successo» giocherella con un ricciolo color ciliegia. «Tutta la scuola ne parla, anche chi non è stato invitato».

La sua mancanza di attenzione verso qualcosa che non la riguarda mi stupisce ogni volta. Era con me a filosofia quando l'assistente mi ha chiamata nell'ufficio della preside, eppure l'idea di chiedermi cosa mi ha detto non la sfiora nemmeno.
«Heidi...» comincio.
«Che vacca schifosa!» sbraita facendo girare metà classe. «Non ci posso credere!».
«Cosa?».
Mi mostra il cellulare. «Taylor Stonecold! Ecco cosa!».
Taylor è una delle ragazze più popolari della scuola. È raffinata, intelligente e delicata. Tre qualità che Heidi si può solo sognare. È una fanatica religiosa, adora studiare e odia le cheerleader. Altre tre cose che non ha in comune con la mia amica. Tra loro scorre una strana amicizia/odio da praticamente sempre. Fanno a gara in ogni cosa e di solito è Taylor a trionfare.
«Cosa ha fatto?» chiedo con poco entusiasmo. Qualsiasi cosa sia non è di sicuro una questione di stato come la fa sembrare Heidi.
«Ha deciso di indossare la mia stessa gonna oggi!» squittisce scuotendomi il cellulare davanti alla faccia «Ho impiegato due settimane a scegliere l'outfit da primo giorno e lei decide di mettere la stessa identica cosa!».
Come dicevo, non è una cosa così importante. «Non mi sembra la stessa gonna».
Mi rendo conto dell'errore solo dopo che ho lasciato le parole scivolare fuori dalla mia boccaccia. Heidi mi inchioda al pavimento con un'occhiata glaciale. «È la Stessa. Identica. Gonna! Diavolo, Calliope, come cavolo fai ad essere così cieca!?».
Non bisogna mai contraddire Heidi quando si tratta della sua faida contro Taylor. È uno sbaglio da principiante che ti può portare alla morte sociale in un secondo. Annuisco velocemente e guardo con più attenzione la foto. «Si, ora che la guardo meglio è proprio uguale».
Sbuffa dal naso e si rilassa. «Ti sarai confusa perché la sua è lunga come la gonna di una suora e il suo sedere enorme sta malissimo stretto in quel tessuto».
La gonna di Taylor è lunga fino al ginocchio, come è giusto che sia, e il suo sedere minuscolo sta alla perfezione nella stoffa di raso. Non ho voglia di litigare perciò acconsento «Hai proprio ragione».
Sorride compiaciuta. «Mi dispiace per la piccola Taylor, ma qualcuno deve farglielo notare» agita le dita sullo schermo, tronfia.
Spero solo che Taylor non ci rimanga male, Heidi sa essere davvero perfida. «Didi ho bisogno di parlare con te». Spero che riesca a staccare la faccia da Instagram per ascoltarmi, ho bisogno di trovare una soluzione alla storia delle cheerleader.
«Se stai per chiedermi un parere su quei jeans, ti dico subito che ti fanno il sedere più grosso» si ravviva i capelli «Non che sia un male, c'è a chi piace».
Mi pizzico la coscia nel tentativo di ignorare il suo commento. «No, si tratta...».
«Sì, dovresti indossare decisamente un push-up» continua a scorrere sulle schermo «Scommetto che le tue meline farebbero un figurone con un po' più di spinta».
Sbuffo. «Heidi».
Mi fa l'occhiolino. «Non te la devi prendere, io sono sempre onesta» mi accarezza una spalla «E poi non tutte posso avere il mio fisico, se no la vita sarebbe troppo bella».
Il professore entra il classe interrompendo il mio tentativo di ricevere un parere dalla mia amica. Alla fine l'ho avuto, anche se quello non era richiesto. È inutile provare ad avere una conversazione con Heidi, lei si concentra su una cosa alla volta e quella cosa è quasi sempre se stessa.
 

 

 

Dopo la lezione, Heidi ed io ci dirigiamo verso la mensa. Appoggiamo sui vassoi delle insalate scondite e dell'acqua tiepida e ci avviamo al nostro tavolo. La mensa della South Eugene High School è composta da tavoli circolari viola, accerchiati da sedie di plastica nera. La stanza è ampia e piena di finestre ma questo non basta a scacciare la puzza di polpettone e carne stantia. Il pavimento a scacchi è lucido come uno specchio e le colonne di cemento sono ricoperte da piastrelle color uva. La disposizione dei tavoli è stata ideata dal primo gruppetto di ragazzi che hanno frequentato questo liceo. Se si osserva la stanza dall'alto, si nota il tavolo centrale, quello più grande e rumoroso, che è quello delle persone più in alto nella piramide sociale, come Heidi e me. I tavoli intorno sono per le persone immediatamente sotto, come Taylor Stonecold. E man mano che ci si allontana dal centro, si scende lungo la scala della popolarità fino ad arrivare ai tavoli più brutti, quelli vicini alle porte.
Heidi ed io ci avviciniamo al tavolo centrale dove siedono Dawn, una delle cheerleader e Scott, il ragazzo di Angie.
«Quella gonna è una visione» cinguetta Dawn verso Heidi, con il solito tono da leccapiedi.
Heidi sculetta con il vassoio in mano e fa una piroetta facendo ruzzolare la bottiglia a terra. «Lo so, sono un sogno».
Paul raccoglie l'acqua da terra e agguanta la sua ragazza come un puma affamato. «Sei il mio di sogno, baby». Lei ridacchia e lo trascina a sedere al suo fianco. Mi accomodo con meno enfasi e giocherello con la mia insalata.
Dawn mi da un buffetto sulla mano. «Il maglioncino è un amore. Prada?».
Non capisco questa loro fissazione per le marche. Cosa cavolo cambia se è Prada o no? Se non lo fosse sarebbe meno un amore?
Alzo lo sguardo verso di lei con poco entusiasmo. «No. Moschino».
Il mio tono freddo la fa innervosire. Suda e si irrigidisce sulla sedia, non capendo perché la tratto male. Nulla di personale, Dawn, ma ho problemi più grandi delle tue insicurezze.
Heidi mi da un colpetto con il piede e sussurra. «Non essere acida, Calliope». Quello che dice è solo per dare scena, il buffetto sotto il tavolo mi ha fatto capire che è fiera di me. Adora quando mi comporto come la regina malvagia. Ignoro entrambe e cerco di mangiare un po' del mio cibo.
Angie e Nich ci raggiungono dopo poco e si siedono con noi.
Quando cominciano con le effusioni verbali e fisiche tra le varie coppie, sento l'insalata risalirmi lungo l'esofago e smetto di mangiare. Fisso i pomodorini mezzi verdi e la lattuga molle cercando una soluzione alla catastrofe del secolo.
«Sei sexy quando sei così corrucciata, baby» mi sospira Nich nell'orecchio. La sua mano mi scivola lungo la schiena, stringendomi contro il suo petto, mentre la sua bocca mi scende lungo il collo. Il suo assalto, per quanto piacevole, non è affatto benefico alla mia concentrazione. «Che ne dici di mollare questi sfigati e di trovare un posto dove possiamo parlare un po'».
La prima volta che mi ha fatto questa proposta pensavo di uscire per fare due chiacchiere, invece mi sono ritrovata mezza-nuda, stesa sul pavimento degli spogliatoi, con Nich attaccato al collo come un vampiro arrapato.
Allontano la mano che sta giocherellano con il bottone dei pantaloni. «L'ultima volta il coach ci ha quasi beccati, non ho intenzione di farmi espellere perché non riesci a tenerlo nei pantaloni».
Ridacchia stringendomi una chiappa. «Te l'ho proposto perché mi sei sembrata un po' nervosa e poi perché ho trovato un nuovo posto dove nessuno potrà disturbarci».

Perché tentenno? In fin dei conti un po' di svago non può farmi male, no?

 

 

Il nuovo posto che Nich ha scoperto è il magazzino dei computer rotti. Ha allungato una banconota al bidello e si è fatto dare la chiave. Alla fine nessuno ci ha disturbato, è vero, ma ho così tanta polvere addosso che sembro un piumino per spolverare. Oltretutto nella foga del momento, Nich mi ha strappato le mutandine di pizzo che avevo appena comprato e, mentre cammino verso la macchina, maledico il momento in cui ho accettato di seguirlo in quella stupida stanza. Pensavo che mi avrebbe aiutata a sviluppare un buon piano su cosa fare, ma l'unica cosa che ho ottenuto sono un paio di costosi slip rotti.

«Callie!» strilla Heidi correndomi in contro nel parcheggio «Che ne dici di un po' di shopping terapia?».
In effetti devo comprare dell'intimo. «Terapia per cosa?».
Angie le saltella di fianco. «Per l'inizio dell'ultimo anno di liceo, siamo sopravvissute e ci meritiamo un premio».
«Va bene» annuisco «Tra l'altro devo parlarvi di una cosa, salite in macchina».

 

Passo l'intero tragitto verso il centro commerciale a spiegare alle ragazze il problema cheerleader. Una volte arrivate al parcheggio, spengo la macchina e mi giro a guardarle. Angie si tortura i ricci mordicchiandoli come un castoro, mentre Heidi mi fissa confusa e perplessa, con la stessa espressione che sfoggia durante algebra.
Alza le manine nell'abitacolo. «Ferme». Siamo letteralmente immobili. «E chi saranno le cheerleader se non saremo noi?».
Datemi la forza. «Nessuno, Heidi» ripeto di nuovo.
Angie bruca come una capra e la fissa. Heidi scuota la chioma. «E allora chi farà il tifo e andrà alle gare?».

Apro la portiera con un colpo secco e mi allontano da lei, in cerca di spazio. «Heidi concentrati per favore». Mi seguono senza smettere di essere confuse o di masticare. «La preside ha chiuso l'attività, quindi nessuno farà il tifo, nessuno andrà alle gare e nessuno indosserà le nostre uniformi».
Heidi squittisce agitando la borsetta. «Ma come si è permessa quella stronza! Perché non ti sei opposta?!».
Il parcheggio rimbomba come uno stadio. «Ci ho provato, davvero, ma è stata irremovibile».
Heidi sbatte i piedi a terra mentre camminiamo verso l'ingresso. «Dovevi insistere, dovevi dirle chi sei. Hai usato papino?».

Stringo la mascella per non avventarmi sulla sua faccia indispettita. «Sì, Heidi, ho fatto di tutto, ma la risposta è stata no». Oltrepassiamo le porte di vetro. «Abbiamo tre mesi per sistemare la situazione. Dobbiamo classificarci in una categoria decente e mantenere il numero di partecipanti che abbiamo al momento. Tutto senza fondi, palestre o attrezzatura».
Angie molla la ciocca ormai fradicia e si volta. «Potremmo organizzare uno spettacolo di beneficenza e raccogliere così i fondi».
Heidi batte le mani. «Sì, mi piace».
Scuoto la testa. «Non possiamo organizzare un evento di beneficenza per le cheerleader».

«Perchè no?» squittisce Heidi contrariata.
«Prima di tutto perché non è beneficenza ma profitto» puntualizzo «Poi non siamo in grado di gestire le nostre vite, figuriamoci di mettere in piedi un evento. Oltretutto facciamo pena come cheerleader, quindi non ci sarebbe nessuno spettacolo».
Angie sospira angosciata e ricomincia a ruminare, mentre Heidi perde la concentrazione davanti ad una vetrina che luccica.

«Ragazze ho bisogno di voi» sbraito «Ci serve un piano».

Heidi alza le spalle mentre fotografa un paio di scarpe. «Potresti provare a chiedere a tua madre una mano, è lei che organizza tutti gli eventi di tuo padre, giusto?».

Preferirei strapparmi a morsi i piedi. «Non è mia madre» ringhio.

Lei annuisce senza guardarmi. «Lo so, ma potresti provarci». Armeggia con il telefono per postare la foto. «Ne varrebbe la pena, saresti la nostra salvatrice».

 

 

 

Fisso la porta di vetro colorato così a lungo che mi vanno insieme gli occhi. Le parole di Heidi mi riempiono la testa come dei palloni aerostatici. Dovrei parlare con papà e con Sherry, ma l'ultima volta che ci ho avuto a che fare lui non mi ha nemmeno notata, mentre lei mi ha colpita in faccia per aver disubbidito ai suoi ordini. Lo schiaffo ha lasciato un segno così scuro che è stato molto difficile nasconderlo sotto il fondotinta.

La porta di vetro si apre e lo sguardo severo di Bryan Thompson mi trapassa come un coltello nel burro.
«Calliope?» chiede monocorde. «Hai bisogno?».
Forza, Callie. «Avrei necessità di parlare, se è possibile».

Si scosta di lato facendomi entrare nel suo ufficio. È tutto così freddo e impersonale qui dentro. Una volta era pieno di foto, miei disegni e ninnoli colorati. Ora è tutto superfici riflettenti e legno scuro, rappresenta il guscio vuoto in cui si è trasformato lui.

Mi indica la sedia davanti al suo tavolo e io mi ci accomodo. Quando ero piccola passavo le ore seduta sul divano che era posizionato in fondo alla stanza. Lo guardavo lavorare e a modo mio cercavo di aiutarlo. Ogni volta che qualcosa non andava ci sedevamo su quel divano e parlavamo a cuore aperto. Ora nel nostro posto c'è un appendiabiti di design.

«Oggi sono stata convocata nell'ufficio del preside» comincio facendolo accigliare «la preside mi ha comunicato che ha eliminato le cheerleader come attività ricreativa per mancanza di fondi».
Stringe le braccia al petto spiegazzando la giacca. «Perchè proprio le cheerleader?».
«Non è stata l'unica attività ad essere stata chiusa...» sospiro.

«Non è questo che ti ho chiesto» puntualizza.

Stavo provando ad evitarlo, ma è inutile. «Noi...ecco...noi...».

«Calliope». Alza la voce facendomi sobbalzare. «Quando apri la bocca devi essere convinta di quello che dici, oppure il tuo interlocutore penserà che non sei sicura» sbuffa «Devo davvero ripetermi?».

«No, signore». Mi pizzico il gomito cercando di non scoppiare a piangere come una bambinetta. «Le cheerleader non si classificano in nessuna posizione significativa da diversi anni, spendiamo il budget ma non vinciamo nulla che possa aiutare la scuola».

La sua espressione severa si adombra maggiormente. «E di chi è la colpa?».

Espiro lentamente per non balbettare. «Mia».
Annuisce lentamente. «Hai fallito il tuo compito come capitano, Calliope. Ne sei consapevole?».

Versa sale sulle ferite ancora sanguinanti. «Sì» borbotto a mezza voce.

«Non ho sentito» afferma con durezza.

Mi raddrizzo alzando il mento. «Sì, ne sono consapevole, signore».

«Esserne consapevoli è già un passo verso il miglioramento». Congiunge le mani davanti a sé. «Però non mi è chiaro come mai sei qui con la coda tra le gambe, invece di essere alla ricerca di una soluzione».

Lo fisso negli occhi ostentando una sicurezza che non possiedo. «Sono qui perché vorrei il tuo aiuto per trovare una soluzione. Ho già delle idee però mi servirebbe...».
«No» asserisce con freddezza.

«Cosa?».

Scuote la testa e i capelli biondi e vagamente brizzolati restano immobili. «Ho detto di no. Non ti aiuterò a superare tutti i problemi che la vita che butterà davanti d'ora in poi».

«Ma...».
«Hai diciassette anni e stai per affacciarti al mondo dei college e poi del lavoro, non ti porterò più per mano come una bambina» tuona «Quando non ci sarò più dovrai portare avanti il nome dei Thompson e non ti permetterò di farlo come una perdente che ha sempre la pappa pronta».
Tremo come un foglia. «Volevo solo...».

Sbatte la mano sul tavolo facendomi saltare sulla sedia. «Non ho intenzione di ripetermi, Calliope! Trova una soluzione o vivi nella consapevolezza di essere un fallimento!».
Mordo l'interno della guancia finché il dolore non sovrasta quello che sento nel petto. «Sì, signore».
Mi indica la porta con la testa. «Ora vai in camera tua, ho mille cose da fare».
Mi alzo rapidamente e trotto fuori dal suo ufficio, chiudendomi la porta alle spalle. Infilo le mani nelle tasche della felpa per nascondere il tremore e mi dirigo verso le scale.
«Papino ti ha sculacciata?» ghigna la Mostrigna dalla porta della cucina. «Ora andrai a piangere nella tua cameretta come una poppante?».
Sopprimo i singhiozzi nel fondo della gola. «Vai all'inferno».

La sua espressione tronfia si dissolve sostituita da puro odio. «Attenta a quello che dici, ragazzina, non sono sicura che tu voglia un altro bel segno su quel visetto pallido». Chiudo la bocca e inizio a salire le scale. «Ottima scelta» ridacchia la Mostrigna. Il suono della sua risata da strega mi segue lungo la tromba delle scale e fino alla soglia della camera. Una volta chiusa la porta e girata la chiave nella toppa, lascio che il fiume si riversi fuori dagli argini. Scivolo lungo il legno come se tutto il peso del mondo mi trascinasse a terra. Tengo la mano premuta sulla bocca nel tentativo di silenziare i singhiozzi e di non dargli la soddisfazione di sentirmi crollare. Le lacrime cariche di trucco mi rigano il viso, macchiandomi il maglione ogni volta che le asciugo con la manica. Vorrei poter fermare questo dolore che mi lacera il petto, questa sensazione di inadeguatezza che mi provoca ogni confronto con mio padre, ma non ci riesco. Non c'è niente che possa evitare che la sua delusione mi logori lentamente. Quindi smetto di lottare e aspetto che l'onda passi, che mi travolga e che si porti via altri pezzi di me.

 

Resto raggomitolata tra la porta e il pavimento finché il dolore non si attenua o finché non diventa così forte che non lo sento più. Mi trascino lentamente alla borsa, frugo finché non trovo la pochette e spalanco la finestra. Raccolgo una coperta, esco e scivolo su una sdraio da giardino posizionata sulla balconata. Tiro fuori il tabacco, la cartina, il filtro e rollo una sigaretta. Raccolgo l'accendino pieno di lustrini e accendo il drum. Una volta che il tabacco mi scorre in circolo, mollo la coperta e mi arrampico sul parapetto di marmo. Mi siedo con le gambe a penzoloni e osservo il vuoto sotto di me. È inebriante la sensazione che si prova quando si ha la possibilità di scegliere il proprio destino, senza che nessuno possa dire la propria. Potrei lasciarmi cadere. O potrei tenermi. Però tutto dipende da me e da nessun altro.
 

 

Indosso un abito color malva con le maniche larghe e la vita stretta e un paio di ballerine. Scendo le scale infilandomi la giacca di pelle bianca e riempiendo la borsa con le cose che mi servono. Entro un cucina e bacio la guancia di Rosario. «Buongiorno, Rosy».
Lei sorride facendo saltare le uova nella padella. «Buenos dias, bonita» tuba «Dormito bene?».
Appoggio la borsa sul bancone di marmo scuro e mi arrampico su uno sgabello. «Come al solito». Che nella mia lingua significa che ho dormito un paio di ore.

Appoggia una mano sul fianco e mi lancia un'occhiata preoccupata. «Ti prendi troppa poca cura di te, hija».

Giocherello con la cintura. «Non è vero, mi coccolo un sacco».
Sbuffa. «Quelle cose che fumi non sono coccole, sono un'altra punizione che ti auto-imponi».

È troppo presto per discutere. «Lo so, però ci sei tu che mi coccoli».
Addolcisce lo sguardo e annuisce. «Verdad». Trasferisce le uova, il bacon e una scodella di frutta su un bel piatto e me lo appoggia davanti. «Ora vedi di mangiare, se dimagrisci ancora scompari».
Recupero una forchetta e infilzo una fragola, ma prima che possa portarmela alla bocca la mano artigliata della Mostrigna me la toglie. «Oddio, no» mi sfila il piatto da sotto il naso «Ci manca solo questo».
«Ma...» sospiro.
Mi affonda le unghie della mano libera nella spalla. «Non avevi intenzione di mangiarlo, vero? Non pesi di essere già abbastanza grassa?».
Vuole davvero che le risponda? «Io...».
Inclina il labbro carico di rossetto. «Sei già un disastro sotto ogni aspetto, vuoi anche aggiungere obesa alla lista dei tuoi fallimenti?» butta il piatto pieno nel lavandino «Non lascerò che diventi una balena, cosa penserebbe la gente di me se lo facessi?».

Qualcosa peggio di quello che pensano già? Non credo.
«Rosita!» squittisce andandole incontro «Lei non deve mangiare queste cose!». Rosario lavora qui da quasi dieci anni e Sherry ancora non ha imparato il suo nome. Rosy la guarda con confusione e sufficienza, facendole credere di non capire e facendole alzare la voce. «Lei» scandisce ogni parola come se Rosario fosse sorda. «Non. Deve. Mangiare».

Rosy alza le spalle. «No entiendo».
La mostrigna si infilza la mano nei capelli perfettamente laccati. «No. Mangiare».
«Vaca estúpida estropeada» mormora. Trattengo una risata nascondendo la testa nella spalla.
La mostrigna sbuffa scocciata. «Perchè diavolo Bryan ha voluto una domestica straniera lo sa solo lui» borbotta uscendo dalla cucina.
Una volta che è lontana lascio andare la risata. «Sa che sputi nel suo cibo?».
Lei ridacchia. «Oh, non ha la minima idea di quello che faccio». Recupera il piatto e me lo rimette davanti. «Mangia qualcosa finché è lontana».
Scuoto la testa e mi alzo. «Sono in ritardo, mangialo tu».
«Hija».
«Ci vediamo dopo». Le do un bacio veloce e scappo.

 

 

Heidi sale in macchina con la lentezza di una lumaca e, quando ha finalmente posato il culo, parto senza darle il tempo di allacciarsi la cintura. «Piano!» brontola «Mi scompigli l'acconciatura».

«Stiamo facendo tardi» mi giustifico.
«E di chi è la colpa?».
«Tua» asserisco ingranando la marcia.
«Non è vero!» squittisce «Comunque, hai parlato con tuo padre?».
Angie si sporge in avanti per ascoltare meglio il racconto del mio fallimento. «Sì, ha detto no».
«Perchè?» chiede Heidi.
Sospiro. «Perchè ha detto che non ha tempo, è troppo impegnato» mento. È una bugia, è vero, ma non mi va di dire ad Heidi la verità. Farebbe i suoi soliti commenti e lo farebbe con quella faccia altezzosa che mi fa innervosire.

«Ha questioni più importanti delle cheerleader?» squittisce Heidi «Com'è possibile?».
«Quindi cosa facciamo?» chiede Angie dando un colpetto sulla spalla nudi di Heidi.

Stringo il volante e fisso l'asfalto. «Ho molte idee, lasciate fare a me». Mentire ormai mi viene naturale, quasi come respirare.

 

Passo la prima ora di e la seconda di fisica a spremermi le meningi. Sono così tanto sul mio pianeta che vengo richiamata almeno tre volte da ogni professore. Vorrei concentrarmi davvero sulle lezioni ma ho promesso ad Angie ed Heidi che avrei trovato una soluzione e ho intenzione di farlo. Non voglio essere una delusione anche per loro.

Mi accascio sulla sedia nell'aula di dibattito e tiro fuori il libro. Mentre rivedo mentalmente tutte le varie opzioni che ho formulato nelle ore precedenti, Tom entra nella classe. Indossa un maglioncino cobalto, dei jeans perfettamente stirati e ha sul naso un paio di occhiali scuri. Non guarda nessuno negli occhi e si siede in prima fila vicino ad un ragazzo un po' in carne. Lui lo saluta con un grosso sorriso che Tom ricambia.

Ho di nuovo quella strana sensazione di conoscerlo però non ho idea del perché. Ha un'aria così familiare eppure non riesco ad inquadrarlo. Gli fisso la nuca castana cercando di capire quando ci siamo conosciuti per la prima volta. Solo dopo che ho frugato in internet e ho sfogliato i social finalmente capisco che lui è la soluzione ad ogni mio problema.

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