La verità su Ingeborg Barrow

di Old Fashioned
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


LA VERITÀ SU INGEBORG BARROW





Capitolo 1

Il telefono emise uno squillo. Senza abbandonare la contemplazione delle immagini che stavano scorrendo sul monitor, meccanicamente James Donovan, della Donovan Enterprises, allungò la mano, premette il pulsante del viva voce e scandì il proprio cognome.
Buona sera,” giunse dall’altra parte del filo. Era una voce maschile profonda e ruvida, che faceva pensare a un uomo corpulento, probabilmente con una folta barba e la salopette di jeans. “Sono Nielsen.”
Ah, Nielsen,” lo interruppe l’altro, “volevo proprio chiamarla. Come stanno andando i lavori?”
Alla domanda seguirono alcuni secondi di silenzio, poi l’uomo, in tono vagamente esitante, rispose: “È proprio di questo che volevo parlarle, signor Donovan.”
L’imprenditore aggrottò le sopracciglia. “C’è qualche problema? Eppure mi aveva detto che il materiale andava bene.”
Certo, signor Donovan,” giunse l’imbarazzata risposta, “il materiale è di prima qualità, non si potrebbe dire male di quella roba neppure volendo, ma...”
Ma?”
Ma vede… uno dei ragazzi è in malattia, un altro deve sposarsi...” L’uomo tacque, quasi aspettandosi che Donovan traesse le conclusioni al posto suo.
L’imprenditore rimase in silenzio.
Dopo qualche secondo, l’altro riprese: “E quindi, lei capisce che con così pochi uomini non posso certo proseguire il lavoro.”
Mi pare che avessimo un accordo,” fu la risposta, pronunciata in tono tagliente.
Sì, ma vede… le malattie sono imprevedibili, no?”
Assuma qualcun altro. Con i soldi che le sto dando, non dovrebbe avere problemi.”
Glieli restituirò,” gli assicurò subito l’uomo. “Del resto, col poco che siamo riusciti a fare finora, non mi sentirei a posto con me stesso se le chiedessi qualcosa.” Fece una pausa, poi in tono accorato aggiunse: “Davvero, signor Donovan, lei mi dica solo dove devo farle arrivare il bonifico e siamo a posto.”
L’altro aggrottò le sopracciglia e replicò: “Senta, Nielsen, io non ho tempo, capisce? Ho soldi, ma non ho tempo e ho scelto lei proprio perché in tutta St. John i suoi ragazzi sono famosi per come si danno da fare. Ho bisogno che quei lavori vengano portati a termine entro una certa data, altrimenti avrò un sacco di problemi.”
Ci fu un lungo silenzio, poi l’uomo rispose: “Ecco, signor Donovan, credo che proprio non sia possibile.”
L’imprenditore abbatté il pugno sulla scrivania come se l’altro fosse stato seduto di fronte a lui, quindi in tono sempre più duro replicò: “Come sarebbe a dire che non è possibile? Io l’ho pagata in anticipo, ho comprato tutto il materiale. Mi sta piantando in asso perché ha trovato qualcuno che la paga di più, per caso?”
Ci fu di nuovo una sofferta pausa, infine Nielsen si limitò a rispondere: “Mi dispiace davvero tanto, signore, ma temo di non poter finire quel lavoro. Mi faccia sapere dove devo mandarle i soldi.” Aveva uno strano tono cauto, come se ci fosse qualcosa che in qualche modo lo impensieriva.
Ehi, aspetti un momento...” cominciò Donovan, ma gli rispose solo il segnale di linea libera.
Imprecando, chiuse la comunicazione. “Tenuta del cazzo,” ringhiò fra i denti, “solo problemi. E la fottuta banca non ci metterà un attimo a riprendersi indietro tutto, se non sarà pronta in tempo.”
Tornò al monitor, sul quale stavano ancora scorrendo le immagini di una monumentale villa antica, immersa in una vegetazione lussureggiante in cui si distinguevano palme, buganvillee ed enormi frangipani coperti di fiori bianchi e gialli. Il cielo era di un azzurro perfetto, punteggiato qua e là di esili nubi candide. All’orizzonte, dietro le alture coperte di vegetazione, correva la striscia verde e turchese del mare.
Emise un sospiro a metà tra lo sconsolato e l’infastidito. Una tenuta magnifica, in un posto da sogno, comprata praticamente per quattro soldi. Acri e acri di terreno, su cui il progetto prevedeva la realizzazione di due piscine, campi da tennis e anche un bel campo da golf. Una villa immensa, a due piani, tutta in pietra, risalente all’epoca della colonizzazione danese. Varie costruzioni satelliti, nelle quali avrebbero trovato la loro collocazione bungalow, sale da cerimonia, palestre e addirittura una spa.
Tutto questo, naturalmente, a patto che un’impresa edile portasse a termine i primi fondamentali lavori.
Lanciò un’occhiata velenosa al telefono, come se dall’altra parte del filo il signor Nielsen avesse potuto vederla e sentirsi in colpa: arredatori d’interni, garden designer, camerieri, animatori, istruttori, un maître di sala, due chef e persino un sommelier parigino erano in attesa di mettersi in moto, come ruote di un grande ingranaggio, ma se non partiva la prima delle rotelle, ovvero i lavori in muratura, tutte le altre erano destinate a rimanere desolatamente ferme.
Si alzò dalla scrivania con un gesto brusco, spingendo indietro la sedia con tale forza che essa sbatté contro lo schedario, producendo il rimbombo cavernoso di un contenitore desolatamente vuoto. Le fottute rotelle dovevano cominciare a girare, e in fretta anche, perché se no la banca si sarebbe ripresa tutto il finanziamento che gli aveva mollato, con tanto di interessi.

Dalla terrazza panoramica del ristorante, James Donovan lanciò uno sguardo all’oceano, che a quell’ora cominciava a farsi di un blu-grigio scuro sotto un cielo color cobalto, quindi tolse l’orchidea ornamentale dal suo Mai Tai e la lasciò cadere nel portacenere, dove si trovavano già tre mozziconi di Lucky Strike senza filtro. Fatto questo, imboccò la cannuccia e sorbì una buona metà del drink.
Lo riappoggiò sul tavolo con una smorfia di disgusto. “Troppa mandorla,” sentenziò, “sembra di bere l’orzata di mia nonna.”
L’uomo che sedeva di fronte a lui bevve un sorso del proprio drink, un Blue Angel che sembrava uscito dal laboratorio di uno scienziato pazzo, quindi rispose: “Avresti dovuto fare il barman, invece dell’imprenditore.”
Donovan aggrottò le sopracciglia e rivolse all’amico uno sguardo torvo. “Che cosa vorresti dire?”
L’altro alzò le spalle. “Non è che ultimamente ti sia andata molto bene, no?”
Il primo fece un sorrisetto di superiorità. “Le cose stanno cambiando.”
Davvero?”
E se ti dicessi che ho messo le mani su una tenuta ai Caraibi?”
Coi prezzi che hanno? È un investimento che non consiglierei nemmeno a un petroliere arabo.”
Donovan alzò le spalle come se avesse già sentito quelle obiezioni decine di volte e le considerasse dalla prima all’ultima prive di valore. Tirò fuori il telefonino e aprì la galleria delle foto, quindi girò l’apparecchio con lo schermo verso l’amico. “Guarda qui.”
L’altro emise un fischio di meraviglia.
Pagata meno della villetta di mia zia a Fort Lauderdale.”
Stai scherzando?”
Donovan scosse la testa e rispose: “Praticamente regalata. Potevo lasciarmela scappare? Adesso la sistemo, ci faccio un resort da ricchi e sto ad aspettare che i soldi mi piovano in mano.” Fece una pausa, poi precisò: “Bevendo Mai Tai decenti, finalmente.” Rivolse uno sguardo di disapprovazione al proprio drink e lo finì quasi con l’aria di fargli un favore, poi spinse lontano il bicchiere vuoto e si accese una sigaretta.
Si voltò di nuovo verso l’oceano, che a quel punto era diventato una nera distesa d’ossidiana, rischiarata qua e là dai riflessi delle luci dei ristoranti, ed emise un sospiro di soddisfazione. “Basta con le casette da ristrutturare e gli all you can eat finti giapponesi,” disse con aria sognante, “questa volta faccio il colpo grosso, questa volta mi sistemo.”
Beh, amico, sono contento per te,” rispose l’altro. Finì a sua volta il drink e alzò il braccio per chiamare la cameriera. “Spero che mi inviterai a fare le vacanze là, qualche volta.”
Puoi scommetterci.”
Gratis?”
Certo.” Fece una risatina. “Dovrai pagarti solo le donne. Quelle non te le passo io, altrimenti vado in bancarotta.”
A quel punto, squillò il telefono di Donovan. Ancora immerso in immagini di sogno, questi accettò la chiamata senza nemmeno preoccuparsi di sapere da chi provenisse.
Pronto?” disse in tono professionale.
Dall’altra parte una profonda voce maschile, sicuramente di un nero, con l’accento delle isole chiese: “Il signor James Donovan?”
Sono io.”
Ecco… sono Franklin, della Franklin and Brown. Telefonavo per quella proposta che mi ha fatto l’altro giorno.”
Donovan annuì. “Certo. Quando potete cominciare? Non ho molto tempo.”
Ci fu un lungo silenzio, quindi la voce disse: “Ecco, signor Donovan, veramente chiamavo per dirle che non possiamo accettare.”
L’imprenditore aggrottò le sopracciglia. “Cosa? Ma siete l’impresa edile più grande di St. John o no?”
Sì, beh… è che ultimamente abbiamo qualche problema con un lavoro per cui siamo in ritardo. Pagato in anticipo, capisce? Dobbiamo assolutamente finirlo in tempo e tutti gli uomini mi servono lì.”
Donovan si guardò intorno furente, come per sorprendere il responsabile di tutto quanto seduto a un tavolo del ristorante intento a godersi lo spettacolo. Alla fine rivolse un’occhiata truce anche sull’amico, che si limitò a stringersi nelle spalle.
Egli rivolse allora nuovamente l’attenzione al telefono e in tono inquisitorio minacciò: “Devo far venire una squadra dal Continente, è questo che vuole?”
Lapidaria, giunse la risposta: “Le consiglio di farlo, se ha intenzione di fare dei lavori a Christineberg.”
Cosa? Ma perché? Io la pago una volta e mezzo il pattuito, se necessario, la pago il doppio!”
Ci fu una pausa che accese nel cuore di Donovan una fiammella di speranza, ma subito dopo arrivò una doccia fredda a estinguerla brutalmente: “No, mi dispiace. Temo di non poter proprio accettare.”
Mi può dire il perché, almeno?”
Gliel’ho già detto: dobbiamo portare a termine un lavoro e tutti gli uomini mi servono in quel cantiere.”
Ma il lavoro sapeva di doverlo portare a termine anche quando l’ho chiamata due giorni fa, o se n’è accorto ieri?”
Seguì un silenzio imbarazzato.
Allora?”
Mi dispiace, signor Donovan, proprio non possiamo.”
La comunicazione si interruppe.
Ma vaffanculo!” imprecò l’imprenditore con sentimento, facendo girare qualcuno degli avventori. “Vaffanculo, mi capita il colpo grosso, le banche mi mollano i soldi e rischio di perdere tutto perché non trovo degli stronzi che vogliano andare a fare i lavori là dentro. Li pago il doppio, gli scarrozzo là tutto il materiale, a momenti gli faccio anche i pompini, e loro niente! E non si capisce per quale cazzo di motivo.”
Qualche tuo concorrente può averli pagati per metterti i bastoni fra le ruote?” propose l’amico.
E che ne so. La tenuta era in vendita, se qualcuno la voleva poteva anche farsi avanti prima di me.”
Magari aspetta che tu te lo prenda in quel posto per comprarla da te a un prezzo ancora più basso.”
Donovan strinse i denti e incupì ulteriormente lo sguardo, quindi ringhiò: “Lo stronzo che mi sta addosso non potrà mica essersi pagato tutte le imprese edili della Florida, dico bene?”

La prima cosa che Donovan fece il mattino dopo fu farsi dare la lista di tutte le ditte di costruzioni di Miami e scorrerla attentamente. Ne trovò una che apparteneva a un certo Borowicz e subito visualizzò un tizio grande, grosso e corpulento, con il casco giallo da cantiere e il doppiometro che gli spuntava dalla tasca posteriore dei pantaloni.
Compose il numero di telefono associato al nome.
Borowicz Costruzioni,” annunciò semplicemente una voce dall’altra parte del filo.
Senta, qui è Donovan, della Donovan Enterprises. Lavorate anche in trasferta?”
Anche al Polo Nord, basta che ci mettiamo d’accordo sulla tariffa.”
Proprio quello che volevo sentire. Possiamo incontrarci?”
Venga in cantiere.” Seguì l’indirizzo.
Va bene fra un’ora, signor Borowicz?”
Mi chiami Len. E ora scusi, ma ho da fare.”
Donovan chiuse la comunicazione ed emise un sospiro di sollievo: finalmente un tipo come piaceva a lui, pragmatico, spiccio e di poche parole. Era stato perfettamente esplicito: il problema della trasferta era solo il prezzo, niente giri di parole, niente allusioni, niente silenzi lasciati a penzolare come calzini stesi per far sì che fosse l’interlocutore a dire le cose come stavano.
Niente stronzate, per riassumere.
Controllò la posta sul computer e vide che c’era una mail della banca. Con modalità decisamente opposte a quelle del signore con cui aveva appena conferito, il direttore gli chiedeva come stessero procedendo i lavori.
Giusto alla fine, quasi tra un convenevole e l’altro, saltava fuori la storia del tempo che stava per scadere. Qualcosa del tipo: nel malaugurato caso che… ci vedremo costretti a…
Il tutto naturalmente spacciato come l’Ineluttabile, al quale la banca si sarebbe giocoforza dovuta piegare.
A mezza voce, Donovan ghignò: “Stavolta i miei soldi non te li becchi, stronzo.”
Che poi erano i suoi, di soldi, o per meglio dire della banca, ma in ogni caso adesso servivano a lui e non aveva la minima intenzione di restituirli.
Si allungò sullo schienale della sedia malandata, incrociò le braccia dietro la testa e meditò se nel lasso di tempo che mancava al colloquio con Borowicz avrebbe fatto in tempo a mandare a prendere caffè e ciambelle dal negozio all’angolo.
Prima il dovere,” si impose, e compose il numero dell’architetto, per portarlo con sé al cantiere.

Borowicz era un po’ meno peloso di un orso, ma probabilmente aveva le braccia più grosse e quando strinse la mano a Donovan gli fece scrocchiare tutte le ossa.
Di che lavoro si tratta?” chiese senza preamboli. Si tolse il casco giallo, rivelando capelli brizzolati rasati quasi a zero.
L’imprenditore si guardò intorno: erano nel mezzo di un cantiere in piena attività, con escavatori che rombavano a poca distanza, betoniere che impastavano cemento, martelli pneumatici che sgretolavano muri e uomini che si urlavano l’uno con l’altro ordini e indicazioni. “Non c’è un posto più tranquillo?” chiese.
L’altro lo fissò come se messo di fronte a un mucchio di neve gli avesse chiesto se per caso non c’era qualcosa di più bianco, tuttavia disse: “Andiamo nel mio ufficio.” Senza attendere risposta si incamminò verso una baracca di prefabbricato collocata un po’ in disparte, accanto a una fila di cessi chimici di plastica blu e gialla.
Una volta che furono dentro, Borowicz ripeté: “Allora, di che si tratta?”
Donovan scambiò un’occhiata con l’architetto, poi rispose: “Ristrutturazioni. Consolidamento di una costruzione antica, alcune modifiche della planimetria.” Gli porse il tablet che l’architetto si era portato dietro. “Le immagini sono tutte qui.”
L’uomo ignorò lo strumento e chiese: “Antica, quanto?”
Seconda metà del settecento.”
Borowicz emise una specie di grugnito di disappunto, poi prese a brontolare: “Muri in sasso, malta che non tiene più, travi tarlate. Un casino.” Si passò la mano sulla testa con fare pensoso, quindi chiese: “Dove sarebbe, questo posto?”
St. John.”
Mai sentito. Sarebbe una specie di convento?”
No, veramente parlavo dell’isola di St. John.”
L’uomo aggrottò le sopracciglia e per qualche secondo sogguardò sia lui che l’architetto, come temendo uno scherzo di cattivo gusto. Infine in tono asciutto rispose: “Mai sentita.”
Isole vergini americane. Caraibi.”
Borowicz si rimise in testa il casco e raddrizzò le spalle, quindi incrociò le braccia poderose sul petto. Si vedeva che era assorto in calcoli. “Le verrà a costare qualcosa,” sentenziò infine.
Donovan annuì. “Lo so, ma ho bisogno che il lavoro sia finito prima possibile.”
E perché non ha contattato una ditta locale?” Il tono aveva una vaga nota di diffidenza.
L’imprenditore, già ben disposto dopo la telefonata e ancora più positivamente colpito dai modi determinati e rudi dell’uomo, aveva pensato sulle prime di dirgli tutta la verità, ovvero che la sua era la terza impresa che interpellavano e che le altre due si erano praticamente volatilizzate senza dare spiegazioni, ma un’occhiata dell’architetto lo convinse a rispondere: “Vogliamo che il lavoro sia fatto come si deve, signor Borowicz, lei mi capisce.”
Le ho già detto che può chiamarmi Len.”
Solo che lei mi promette di chiamarmi James. Allora, accetta?”
Fammi fare due conti, James.”
Donovan appoggiò premurosamente il tablet sul piano di una scrivania ingombra di carte e cominciò a far scorrere le immagini. “Questa è la villa principale, vede?” disse mostrandogli un enorme edificio nello stile del tardo settecento, circondato da vegetazione. Seguirono poi foto di edifici più modesti, alcuni lunghi e stretti, altri a pianta quadrata, infine uno grande, a più piani. “Questa era la distilleria del rum,” intervenne l’architetto.
Borowicz lo fissò aggrottando le sopracciglia.
Il distillatore a piatti c’è ancora,” proseguì l’altro, “vorremmo valorizzarlo, capisce?”
Per tutta risposta, Len si rivolse all’imprenditore e disse: “James, io sono all’antica. Fammi avere i progetti su carta e poi torna qui domani, così possiamo discutere i particolari della faccenda.”
Pensi di accettare?”
Se ti andrà bene il prezzo che ti proporrò, non vedo perché non dovrei. Uomini ne ho a sufficienza.”
Senza riuscire a trattenere un sorriso, Donovan rispose: “Senza esagerazione, Len, mi salvi la vita. Saremo sempre in contatto via videochiamata, se avrai bisogno, e in ogni caso io verrò a vedere come stanno andando le cose una volta alla settimana.”
Ne parliamo domani, James.”

Donovan si allontanò dal cantiere praticamente fluttuando a mezz’aria. Si accese subito una sigaretta e per un po’ si limitò a passeggiare con l’aria di chi ha appena saputo che la risonanza con cui gli avevano diagnosticato una grave malattia apparteneva in realtà a qualcun altro.
Stasera andiamo a cena,” disse all’architetto, in un impeto di amore universale.
Questi lo fissò serio. “Non preferisci andarci con la tua donna?”
Donovan finì la sigaretta e fece un gesto sprezzante, che utilizzò per buttare anche il mozzicone, quindi rispose: “No, macché donna. Abbiamo un sacco di faccende da discutere, tu ed io.”
Del tipo?”
L’altro si accese la seconda sigaretta, aspirò una lunga boccata ed esalando il fumo rispose: “Faccende di lavoro. La ristrutturazione partirà a breve, dobbiamo andare sul posto, avviare tutto quanto. Accertarci che il tuo distillatore non finisca in una discarica come ferro vecchio.”
Veramente sarebbe di rame.”
Allora che non finisca rivenduto a peso.”
Nel frattempo erano arrivati alla macchina. Donovan fece scattare la sicura, quindi si sedette al posto di guida e chiese: “Dove ti va di andare? Non giapponese, però, ormai mi dà la nausea.”
L’architetto alzò le spalle. “Il pesce crudo va bene per le foche. Devo chiamare anche Austin?”
Al pensiero del gelido collaboratore, Donovan si rabbuiò. Scosse appena la testa e rispose: “No, lascia stare. Non penso che darebbe chissà che contributo alla serata. Lasciamolo a occuparsi dei casini che abbiamo scoperto nella contabilità della Steakhouse di Rodriguez.” Aspirò di nuovo dalla sigaretta e mise in moto, quindi, quasi in tono di giustificazione, soggiunse: “È come il signor Wolf di Pulp Fiction: risolve problemi, ma con quella sua fottuta mania della precisione, mi sembrerebbe di essere a cena con un professore che alla fine mi deve dare il voto.”
Ok, lasciamolo perdere, allora.”

§

Il caldo umido dei Caraibi faceva appiccicare i vestiti alla pelle, il sole scottava. Il cancello di Christineberg si aprì cigolando sui cardini e rivelò un giardino ormai incolto, ma ricco di piante cariche di fiori. Vi era uno spiazzo lastricato un po’ sconnesso, con fili d’erba che spuntavano tra le pietre, al centro del quale si trovava una fontana secca, che un rampicante stava pian piano inglobando. Alberi solenni crescevano tutt’intorno.
Oltre la pavimentazione si ergeva la monumentale dimora padronale. La facciata bianca, che l’umidità aveva spruzzato nelle zone più ombrose di muffa grigiastra, era chiazzata qua e là del porpora acceso delle buganvillee. Gli infissi conservavano ancora qualcosa della vecchia vernice azzurra.
Vialetti parzialmente invasi dalle erbacce scomparivano nella vegetazione.
Vi era un silenzio assorto, rotto soltanto da un vago cinguettare d’uccelli lontano.
Che te ne pare?” esclamò Donovan. “È o non è una bellezza?”
Come sua abitudine, Borowicz incrociò le braccia sul petto e dedicò alla costruzione una lunga occhiata dal basso verso l’alto. “Sembra solida,” proferì alla fine.
Fino a qualche anno fa era un museo.”
Un museo? Qui?” L’uomo si guardò intorno lasciando significativamente scorrere lo sguardo sulla natura apparentemente incontaminata che li circondava.
Sì, roba sulle antiche piantagioni. Sembra di essere in culo al mondo, ma hai visto anche tu quant’è vicina Cruz Bay: i turisti delle navi da crociera ci venivano a frotte, qualcuno addirittura anche a piedi, facendo trekking.”
Perché adesso non ci vengono più?”
Donovan alzò le spalle con noncuranza, quindi rispose: “Il museo ha chiuso.”
Borowicz di nuovo si guardò intorno, poi si terse con un fazzoletto il sudore che gli stava già rigando la faccia e domandò: “Perché ha chiuso?”
E che ne so? Si vede che nonostante tutto non rendeva.”
Perché l’hanno svenduta per due soldi, invece di farci il resort che vuoi fare tu?”
Donovan, che cominciava a spazientirsi di fronte a tutte quelle domande, in tono sbrigativo rispose: “Che ti frega, Len? Adesso è mia, e tra sei mesi si trasformerà in un’autentica miniera d’oro.”
Non che siano fatti miei,” proseguì comunque l’uomo, “perlomeno finché mi paghi quanto abbiamo concordato, ma non è che su questo posto c’è un’ipoteca?”
L’imprenditore fece un sorrisetto di superiorità e rispose: “Di muratura potrò anche non sapere niente, ma sono anni che mi occupo di affari. Ho un avvocato, qui, che ha curato tutta la faccenda per me. La proprietà è a posto.”
Hai fatto fare dei rilevamenti geologici? Magari scopri che te l’hanno praticamente regalata perché è su un terreno instabile.”
È tutto a posto, Len. Ho avuto una botta di culo, tutto qui. Potrò avere una botta di culo anch’io nella vita, o no?”
Senza attendere risposta, Donovan si incamminò verso il portone d’ingresso della villa, quindi trasse di tasca un mazzo di chiavi, ne scelse una e la infilò nella toppa. La serratura scattò docilmente e l’anta si schiuse. Nello stesso momento, Borowicz si girò di scatto e disse: “Chi c’è?”
Dove?” chiese Donovan guardandosi intorno. “Di chi stai parlando?” Lanciò un’occhiata ai due furgoni che aspettavano al cancello, ma nessuno degli uomini di Len sembrava intenzionato ad abbandonare l’aria condizionata in favore dei cento e passa gradi[1] dell’esterno.
Nel frattempo, l’altro continuava a gettare tutt’intorno sguardi diffidenti. Dopo un po’, una specie di pappagallo colorato si levò in volo con uno strido, facendo sobbalzare i due. “Ah, è quello,” brontolò l’uomo, seguendo con lo sguardo l’uccello che si allontanava. “Per un momento mi era quasi sembrato di sentire un canto. Sai, tipo casalinga che rassetta: hmmm-hmm-hmmm...”
Donovan fece un gesto noncurante e rispose: “Quei pappagalli del cazzo imitano tutto. Una volta in un ristorante ce n’era uno che riusciva a fare l’imitazione del motorino d’avviamento così bene che regolarmente i clienti si fiondavano fuori convinti che qualcuno gli stesse rubando la macchina.”
Entrarono nella villa.
Li accolse un atrio ombroso, fresco rispetto alla calura esterna, illuminato da alti finestroni velati da lunghe tende chiare. Tutti i mobili erano coperti da teli bianchi, nell’aria stagnava un odore di chiuso dietro il quale si coglieva un vago sentore di muffa. Sul pavimento impolverato si vedevano chiaramente file di impronte che percorrevano in tutti i sensi il salone.
Sono le mie, di quando sono stato qui con l’architetto,” chiarì Donovan, notando lo sguardo diffidente di Len.
L’uomo si avvicinò a una parete, la percosse con le nocche, traendone un suono sordo. Si spostò di qualche passo e ripeté l’operazione: di nuovo un suono smorzato, che sembrava uscire quasi con fatica.
Tutti muri pieni,” constatò Borowicz, “di pietra, spessi almeno due piedi[2]. Non c’è una crepa.”
Che vuol dire?”
Beh, James, che questo posto è più solido di Fort Knox. Com’è il piano di sopra?”
Stessa cosa.”
La bella notizia è che i lavori di consolidamento si potranno ridurre al minimo, quella brutta è che con muri del genere, per fare le modifiche alla planimetria che mi chiedi dovremo cagare lamette da barba di traverso.”

§

Donovan si sedette soddisfatto davanti al computer e attivò la videochiamata. Sul monitor comparve la faccia di Borowicz, rigata di sudore e dall’espressione stranamente cupa.
Tutto bene, Len?” s’informò cauto.
L’altro rispose con un grugnito inintelligibile.
Qualche problema?” chiese allora Donovan, augurandosi che la risposta fosse ‘no’, ma certo in cuor suo che sarebbe stata un desolato ‘sì’.
Diciamo che i lavori non sono cominciati nel migliore dei modi,” brontolò Borowicz. “Il martello pneumatico è andato in corto e ha preso fuoco.”
L’imprenditore rifletté velocemente: che cosa significava quella frase? Stava cercando di farsene pagare uno nuovo? Era un modo per alzare la cifra che avevano concordato? Qualcosa del tipo: guarda in che condizioni ci fai lavorare, queste cose non erano previste, ci devi dare di più.
Significa che i lavori sono fermi?” s’informò cauto.
Significa che era un martello pneumatico nuovo, che mi era costato più di duemila dollari, e adesso è da buttare.”
Non si può aggiustare?”
No.”
I due rimasero a guardarsi attraverso il monitor.
Alla fine, Donovan si risolse a chiedere: “E quindi?”
Borowicz alzò le spalle. “E quindi niente, volevo solo farti sapere che ci è capitato questo incidente, per cui i lavori andranno un po’ a rilento, perlomeno finché non mi faccio arrivare un altro martello pneumatico.”
L’imprenditore fece un gesto come per dire che non importava, quindi rispose: “Ok, dai, non preoccuparti. L’importante è che i lavori sono partiti, poi se hai bisogno di un paio di giorni in più non mi metterò certo a starti col fiato sul collo.”
Ho visto che il frigo funziona, James, ti scoccia se aggiungiamo al totale qualche birra?”
Assolutamente no.”

§

La suoneria del cellulare fece quasi sussultare Donovan e suscitò una smorfia di disappunto sul volto della sua accompagnatrice.
L’imprenditore, che finalmente era riuscito nell’impresa di accaparrarsi un tavolo per due in uno dei ristoranti più esclusivi della costa e portarci la sua amante, fu tentato di prendere il telefonino e buttarlo a mare, poi si accorse che quella in arrivo era una videochiamata di Borowicz.
Scusa cara,” disse sbrigativo, quindi sgattaiolò via dalla terrazza panoramica.
Quando fu a distanza di sicurezza, accettò la chiamata. Len aveva la faccia di chi si è appena visto arrivare in ditta un’ispezione del fisco. Alle sue spalle c’era una parete di mattonelle bianche, dall’alto proveniva il chiarore freddo di luci al neon. Passò un tizio vestito di verde, con una mascherina che gli copriva la metà inferiore della faccia.
Ma dove cazzo sei?” chiese Donovan.
All’ospedale. Bobby si è fatto un brutto taglio. Per fortuna che è successo al di fuori dell’orario di lavoro, altrimenti sarebbe stato un casino.”
Come ha fatto?”
L’altro scosse la testa. “Hai presente le birre? Ecco, una lattina è praticamente esplosa e l’ha tagliato fino all’osso.”
Esplosa? Che cazzo significa che è esplosa?”
Borowicz aggrottò le sopracciglia e in tono duro replicò: “Senti, è scoppiata, ok? Si è aperta in due come una fottuta anguria e visto che Bobby ce l’aveva in mano, gli si è praticamente piantata nel braccio.”
Non è che l’aveva messa in freezer, per caso?”
Macché freezer! I miei ragazzi non sono mica dei cretini. Io dico che...”
In quel momento, alle spalle di Len una voce chiese: “Il signore del cantiere?”
L’uomo si girò. “Qui!” Poi, rivolto al telefonino: “Scusa, James, devo lasciarti. Ti terrò informato.”
Lo schermo si fece nero.
Donovan rimase a guardare il telefonino inerte per qualche secondo, poi se lo rimise in tasca e tornò al tavolo. “Scusami, cara,” disse, assorto in pensieri tutt’altro che piacevoli.
Oh, non fa niente,” rispose lei, con il tipico tono che significava esattamente l’opposto.

§

La terza telefonata arrivò nel cuore della notte. “James, qui è un casino!” esordì Borowicz. Donovan notò che aveva una voce concitata, tesa, decisamente diversa da quella profonda e sicura che ricordava. Il suo atteggiamento, che normalmente gli conferiva la pacatezza di chi è consapevole di avere ogni situazione saldamente in mano, era stranamente guardingo.
L’uomo si trovava davanti alla casa padronale, nel cerchio di luce di un lampione. In sottofondo si udivano il rumore dei furgoni in moto e il tramestio di attrezzature buttate alla rinfusa nei cassoni. L’alogeno sotto il quale sostava Borowicz ebbe un’oscillazione ed egli alzò gli occhi in quella direzione, fissando il faro come se da un momento all’altro avesse potuto staccarsi e cadergli in testa.
È un casino,” ripeté, tergendosi la fronte madida “Qui c’è qualcosa, James.”
Donovan aggrottò le sopracciglia. “In che senso, qualcosa?”
Non lo so,” rispose rapido Borowicz. “Qualcosa, qualcuno. Qui succedono cose che non hanno spiegazione.” Si voltò da una parte e a voce più alta disse: “Forza con quella roba, voialtri!”
L’imprenditore si sentì come un condannato all’impiccagione che vede il boia afferrare la leva della botola. “Aspetta!” boccheggiò. “Aspetta un attimo, almeno. Noi avevamo un accordo, se te ne vai adesso mi rovini!”
Len scosse la testa. “Niente di personale, amico, ma qui dentro non ci rimango un minuto in più del necessario. Per quello che siamo riusciti a fare puoi farmi avere il bonifico direttamente sul mio conto, io di questa roba non voglio più sapere niente.”
Da fuori campo provenne una voce: “Capo, siamo pronti!”
Donovan strinse il telefonino così forte che la mano gli rimandò una fitta di dolore, quindi, parlando più in fretta che poteva, disse: “Aspetta un attimo, cazzo. Un fottuto attimo me lo potrai concedere, no?” Fissò negli occhi Len, poi più lentamente, aggiunse: “Mi stai rovinando, per colpa tua la banca mi ritirerà il finanziamento. Direi che quel cazzo di attimo me lo devi, no?”
Sputa il rospo,” brontolò Borowicz.
Beh, almeno dimmi cosa sono queste cose che non si spiegano, no? Fammi capire che cazzo sta succedendo.”
L’altro gli rivolse un ghigno che avrebbe voluto essere sarcastico, ma sembrava piuttosto un rictus tetanico. Per tutta risposta disse: “Io te l’avevo detto che in questo posto c’era qualcosa che non andava. Te l’avevo detto, ma tu niente: è l’affare della vita, mi sistemo. Ti sistemi al cimitero, se non lasci perdere questa baracca maledetta prima di subito.”
Sullo stesso tono, Donovan replicò: “Puoi essere più chiaro? Così saprò cosa dire ai miei avvocati, quando li manderò a strapparti la pelle del culo.”
L’altro scosse la testa. “Non provarci, amico. Tu non mi hai detto che già due imprese avevano rifiutato il lavoro, quindi al massimo saranno i miei avvocati che ti si inculeranno con dei cactus.”
L’imprenditore abbassò immediatamente la cresta che aveva con tanto vigore alzato: data la situazione, una rogna legale era l’ultima cosa che gli serviva. In tono decisamente più conciliante ripeté: “Dimmi cos’è successo.”
Una voce di donna che canta, porte che si aprono da sole, oggetti spostati all’interno di stanze chiuse a chiave. In certi punti viene così freddo che i vetri si ghiacciano e agli uomini vengono i brividi come se avessero la febbre, luci che si accendono e si spengono da sole, incidenti inspiegabili, pareti che il giorno prima sono intatte e il giorno dopo sono coperte di graffiti dal pavimento al soffitto. Ti faccio notare che parliamo di muri alti dodici piedi, senza nemmeno una sedia a disposizione.”
Che genere di graffiti?”
Che ne so? Sembrano dei graffi.” Borowicz si voltò verso il portone della villa, come se esso fosse sul punto di spalancarsi e lasciar uscire qualcosa di terribile, quindi frettolosamente disse: “Io e i ragazzi non restiamo qui un minuto di più, James, e se sei intelligente non ci metti mai più piede neanche tu.”
Aspetta! Saranno dei balordi, della gente in vena di scherzi! Ti fai spaventare da un branco di idioti che vogliono divertirsi alle tue spalle?”
Len scosse la testa. “Questi non sono scherzi,” asserì categorico. “Queste sono cose che non hanno spiegazione logica. In vent’anni di lavoro io non ho mai visto niente del genere, e non voglio mai più rivederlo.”
Len, aspetta! Aspetta, ti pago il doppio, ti...”
La comunicazione si interruppe.
Merda!” imprecò Donovan con sentimento. Si trattenne dal buttare il telefonino contro un muro solo perché l’aveva appena comprato e gli era costato una fortuna. “Merda,” ripeté a voce più bassa.
Dalla stanza attigua provenne una voce femminile: “Hai detto qualcosa, caro?”
Meccanicamente, l’uomo rispose: “No, tesoro, torna pure a dormire.” Si alzò e si infilò la vestaglia di seta col drago sulla schiena, poi aprì la porta finestra della camera e si spostò sul terrazzo. Spirava una brezza leggera, che faceva ondeggiare appena il bucato che sua moglie aveva steso in un angolo. Se aguzzava la vista, riusciva a scorgere in fondo alla strada l’ultimo ristorante finto giapponese che aveva avviato. L’insegna gialla e rossa, con ideogrammi scelti a caso, era inconfondibile.
Emise un sospiro. Gli all you can eat pseudo-giapponesi erano facili, praticamente bastava assumere due o tre tizi con gli occhi a mandorla, decorare una sala con dei bambù e della roba vagamente minimal chic, tagliare a fette del pesce crudo e il gioco era fatto. Chiaramente rendevano in proporzione alla fatica fatta per avviarli, ovvero quasi niente, e la concorrenza dei cinesi era spietata.
Poi gli era capitata sottomano quella tenuta alle Isole Vergini. Praticamente si era sentito come se Dio avesse voluto ripagarlo di tutti gli anni che aveva passato a contendersi ventagli fiorati e filetti di salmone con frotte di musi gialli inveleniti.
Quello era il colpo grosso, era il jackpot nel più grande casinò di Las Vegas. Era il miracolo: una tenuta da divo di Hollywood costata poco più di una villetta a schiera, potenzialmente in grado di decuplicare, anzi centuplicare il suo valore nell’arco di cinque anni.
E poi, miracolo sul miracolo, la banca gli aveva concesso un finanziamento per avviare l’attività. A tempo, certo, ma non era il caso di andare troppo per il sottile. Il mucchio di soldi comunque era arrivato.
Peccato che ormai il tempo stesse per scadere, e il mucchio di soldi rischiasse di volatilizzarsi con la stessa facilità con cui era arrivato.
Si appoggiò al parapetto, di nuovo cercò con lo sguardo l’all you can eat con l’insegna gialla e rossa. Dopo che l’ebbe individuata restò per un po’ a contemplarla, poi tornò sui suoi passi e raggiunse nuovamente il letto.

Con una sorta di perfido sesto senso, il mattino dopo lo chiamò la banca, nella persona di una stretta collaboratrice del direttore.
Fu un formale scambio di convenevoli, più che altro, ma quando la comunicazione si chiuse, l’uomo fu certo di una cosa: il suo tempo stava per scadere.
Fece un rapido calcolo: i suoi soldi li aveva spesi tutti per comprare la tenuta. Di quelli che gli aveva dato la banca, una parte se n’era già andata per pagare il materiale, gli arredi e il lavoro di Borowicz. Il che significava che per restituire il prestito alla banca avrebbe dovuto chiedere un altro prestito a una seconda banca, ammesso che qualcuna glielo concedesse, oppure vendersi la casa.
O magari anche rivendersi la tenuta, se trovava qualcuno più allocco di lui a cui rifilarla.
Gli venne in mente un vecchio film in cui un tizio comprava un demonio chiuso in una bottiglia e poteva disfarsene solo rivendendolo a un prezzo minore di quello a cui l’aveva comprato, solo che ormai la bottiglia era già stata comprata e venduta così tante volte che la moneta più piccola in corso nel suo paese era già troppo…
Emise un sospiro, quindi scorse la rubrica del suo telefono e si fermò su un nominativo che recitava: ‘Austin – Problemi.’
Fece partire la chiamata.







[1] Gradi Fahrenheit, visto che stiamo parlando di americani. Corrispondono a circa 37,5 gradi Celsius.
[2] Un piede corrisponde a circa 30 cm.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Salve gente, secondo capitolo della storia di fantasmi. Grazie a tutti coloro che mi seguono, un ringraziamento particolare a chi mi ha lasciato il suo parere^^







Capitolo 2

Il telefono interno squillò, Donovan premette il viva voce e disse: “Sì?”
La segretaria annunciò: “Signor Donovan, è arrivato il signor Austin.”
L’imprenditore guardò l’orologio: le cifre sul display passarono da nove e cinquantanove a dieci in punto. “Faccia passare, prego.”
Meccanicamente si aggiustò il nodo della cravatta e si raddrizzò sulla sedia. Avrebbe voluto anche allineare le carte e le penne sulla scrivania, ma la porta che si apriva lo bloccò prima che potesse decorosamente riordinarle.
Sulla soglia comparve un uomo che poteva avere trent’anni portati male o quaranta portati ottimamente: lineamenti regolari, volto liscio, fisico asciutto, capelli castani senza alcuna venatura di grigio. L’espressione era neutra al pari del resto.
Portava un impeccabile completo blu, con cravatta in tinta.
Buon giorno, signor Donovan,” salutò, senza mutare l’espressione. Lo sguardo percorse la scrivania come uno scanner e l’imprenditore si sentì pervadere da una vaga sensazione di disagio. “Venga avanti, signor Austin,” disse comunque, “si sieda.”
Il nuovo arrivato raggiunse con passo misurato le poltroncine che si trovavano di fronte alla scrivania, si accomodò su una di esse e rimase a fissarlo in silenzio.
Immagino si chiederà perché l’ho fatta chiamare,” cominciò Donovan.
Non ci fu risposta. Austin si limitò a fissarlo serio, senza nemmeno un'alzata di sopracciglio per dimostrare interesse.
L'imprenditore si schiarì la gola, quindi chiese: “Come sta andando con la Steakhouse di Rodriguez?”
L’altro rimase impassibile, tuttavia a Donovan parve di cogliere nel suo tono una vaga ombra di critica quando rispose: “Ho finito l’altro ieri, signore. Le ho già mandato il rapporto via mail.”

Ha fatto presto,” rispose l’imprenditore, che aveva visto la comunicazione ma colpevolmente non l’aveva nemmeno aperta.
L’uomo spiegò: “Ho lavorato anche di notte.”
Capisco.” Dopo qualche secondo di silenzio, Donovan si sentì in dovere di chiarire: “Non sarebbe obbligato a farlo, signor Austin, anche perché non credo che la ditta al momento sia in grado di pagarle gli straordinari.”
Non mi interessano gli straordinari, signore. Mi interessa che il lavoro sia portato a termine in modo corretto e nel più breve tempo possibile.”
L’imprenditore non replicò. Si era chiesto spesso se quel misterioso individuo, assunto come contabile ma in pratica usato poi per qualsiasi compito richiedesse un bulldog in grado di azzannare un osso e non mollarlo più, fosse un autistico, un serial killer o semplicemente un workaholic[1] che pian piano si era fottuto la vita e la famiglia in favore del lavoro.
Lei è molto zelante,” si limitò a dirgli.
La constatazione lasciò l’altro impassibile. “Faccio solo il mio dovere, signor Donovan.”
Sotto lo sguardo immobile del suo collaboratore, l’imprenditore si trovò a sistemarsi per la seconda volta il nodo della cravatta. Infine gli chiese: “Lei è al corrente dei nostri investimenti sull’isola di St. John, signor Austin?”
Sì, signor Donovan.”
Sa anche che attualmente ci sta causando non pochi problemi?”
Sì.”
E come fa a saperlo?”
Laconica e vagamente sibillina, giunse la risposta: “Preferisco tenermi informato su ogni investimento della ditta.”
L’imprenditore rievocò fugacemente l’insegna gialla e rossa dell’ultimo all you can eat che aveva avviato e si chiese se Austin sapesse anche che aveva scelto gli ideogrammi per decorarla a caso, copiandoli da una confezione di biscotti della fortuna. “Beh, allora si sarà reso conto che niente sta andando per il suo verso, con quella maledetta tenuta,” brontolò.
L’ho notato, signor Donovan.” All’imprenditore parve di cogliere di nuovo una vaga eco del velato tono di critica di poco prima, come a dire: se lei mi avesse interpellato prima, non saremmo arrivati a questo punto.
Perfetto,” rispose l’altro, “ora le dirò qualcosa che forse non sa ancora, signor Austin: il rifiuto da parte di tre diverse imprese di occuparsi dei lavori di consolidamento della tenuta non ha avuto in nessuno dei casi motivazioni razionali. L’ultimo, Borowicz, si è addirittura sbilanciato a tirare in ballo fenomeni soprannaturali, come fantasmi o cose del genere. Lei che ne pensa?”
Che tali manifestazioni vengono invariabilmente spiegate con facilità da un buon illusionista. A tutt’oggi, non esistono cosiddetti fenomeni paranormali di cui vi sia evidenza scientifica.” Fece una breve pausa, quindi soggiunse: “Ammettendo che non le abbia consapevolmente mentito, ritengo che il signor Borowicz abbia interpretato come manifestazioni soprannaturali atti in realtà compiuti da sabotatori.”
Non avrebbe avuto motivi per mentirmi, inoltre non mi è sembrato un tipo particolarmente credulone,” obiettò Donovan. “Mi ha parlato di incidenti inspiegabili.” Tirò fuori di tasca il telefonino, quindi lo girò col display verso Austin e aggiunse: “Mi ha mandato questo.”
Si trattava di una fotografia che mostrava un muro coperto di segni dal pavimento all’alto soffitto. Le linee sembravano essere state tracciate con uno strumento acuminato e pesante, e in alcuni punti erano giunte così in profondità da arrivare ai mattoni e incidere anche quelli. Il color ruggine vivo della terracotta scheggiata spiccava come sangue nel fondo di quei solchi.
Austin si piegò appena in avanti per osservare meglio l’immagine, poi chiese: “Questo sarebbe il risultato dell’attività soprannaturale?”
Borowicz mi ha detto che la sera prima avevano appena finito di intonacarlo e il mattino dopo hanno trovato questo. Nessuno è entrato nella stanza.”
Potremmo più correttamente dire che non hanno visto nessuno entrare, signor Donovan.”
L’altro si raddrizzò sulla sedia e fece nuovamente scivolare in tasca il telefonino. Fissò il suo collaboratore, che al solito gli rimandò uno sguardo perfettamente neutro. “Nemmeno io credo ai fantasmi,” affermò poi irrigidendo la schiena, “o perlomeno credo che una banca in vena di riscuotere i crediti sia molto più pericolosa. Voglio che lei vada laggiù e scopra chi è che ci sta mettendo i bastoni fra le ruote.”
Austin accolse la notizia con la compostezza di un monaco zen. “Va bene, signor Donovan. Quando devo partire?”
Prima possibile. Prenda con sé chi vuole e vada laggiù a vedere cosa sta succedendo. La Donovan Enterprises sta rischiando il fallimento per colpa di quella maledetta tenuta.”

§

Austin scese dall’aliscafo e si guardò intorno: il molo al quale il natante aveva attraccato conduceva a un piccolo spiazzo circondato da file di bancarelle. Dal fatto che fossero vuote e coperte perlopiù da teli di plastica trasparente, egli dedusse che per quel giorno non era in programma l’arrivo di navi da crociera. Qualche indigeno sostava al limite della spianata con cartelli su cui erano scritti nomi in varie lingue, altri esibivano dépliant di alberghi o proponevano escursioni di ogni genere.
Un venditore di souvenir si aggirava tra i turisti proponendo collane di fiori come alle Hawaii, cappelli di paglia dalla tesa sfrangiata o fenicotteri rosa gonfiabili.
L’uomo oltrepassò la piccola folla e rifiutò con un cenno l’offerta di un taxi, quindi trasse di tasca una mappa della cittadina e la studiò per qualche secondo, incurante del sole a picco. Successivamente prese il voucher di un autonoleggio, individuò sulla cartina la sua posizione, rialzò la testa e fece scorrere lo sguardo sui palazzi che lo circondavano fino a che non ne ebbe localizzato l’insegna. A quel punto, rimise via le carte, si sistemò meglio il Panama bianco, si accertò che i revers della giacca di lino chiaro fossero a posto e si mosse in quella direzione.
L’ufficio era grande a sufficienza per ospitare una scrivania, uno schedario e un paio di sedie. Alle pareti vi era qualche pubblicità che mostrava le auto della compagnia nei luoghi più suggestivi della terra. Un condizionatore cigolante cercava di contrastare la calura esterna.
L’apertura della porta azionò un campanello. A quel suono, una tenda che si trovava dietro la scrivania si scostò e una ragazza vestita con una divisa gialla e nera gli si fece incontro. Prima che la tenda si richiudesse, Austin fece in tempo a vedere un tavolino con sopra una macchina del caffè.
Buon giorno,” lo salutò l’impiegata, “sono Liza, cosa posso fare per lei?”
Austin salutò a sua volta, quindi le porse il voucher.
La ragazza digitò qualcosa sul computer, quindi disse: “Vedo che ha noleggiato un’auto per due settimane. Intende visitare l’isola?”
Mi piace essere autonomo negli spostamenti.”
Andrà in spiaggia?”
Non penso ne avrò il tempo. Sono qui per svolgere alcune ricerche.”
Liza sollevò le sopracciglia e disse: “Oh, capisco.”
Austin non rispose. Era evidente che la sua interlocutrice avrebbe voluto sapere di più, ma il suo contegno riservato la intimidiva. “Posso avere l’auto?” le chiese.
Oh, ma certo! Certamente, mi scusi.” Ella aprì un cassetto e ne trasse un mazzo di chiavi, poi gli fece cenno di seguirla. Gli mostrò la macchina, gli aprì il bagagliaio in modo che lui potesse sistemarci dentro il suo trolley poi, mentre Austin stava per sedersi al posto di guida, raccolse il coraggio a due mani e gli chiese: “Si occupa di natura?”
Egli si voltò a fissarla. “Prego?”
Ecco… di solito qui arrivano solo turisti, non capita spesso che venga un ricercatore, quindi pensavo che volesse studiare il nostro parco nazionale.”
Allacciandosi la cintura di sicurezza, Austin rispose: “No, svolgerò delle ricerche a Christineberg.”
Il volto di Liza sembrò di colpo illuminarsi. “Allora lei è un esperto di soprannaturale?” gli chiese. “È venuto per studiare il fantasma?”
L’uomo mise in moto. “I fantasmi non esistono, signorina. E ora, se vuole scusarmi...” Innestò la retromarcia.
Stia attento!” gli gridò dietro Liza, guardandolo allontanarsi quasi con nostalgia.

Austin oltrepassò il cartello che indicava l’inizio del parco nazionale. Aveva impostato il tragitto sul navigatore satellitare e l’apparecchio gli dava un quattordici minuti e ventisette secondi all’obiettivo.
Osservò il paesaggio: abbandonata la costa, la macchina correva lungo una strada che serpeggiava in salita, costeggiata da muri compatti di banani, manghi, frangipani e piante di ibisco coperte di fiori scarlatti. Di tanto in tanto la vegetazione si interrompeva e si intravedevano sontuose ville, perlopiù in posizione panoramica e corredate di piscine.
Incrociò un cartello storto, piuttosto danneggiato dalle intemperie, che diceva: Museo della Schiavitù Christineberg, dieci miglia.
Controllò di non avere nessuno dietro, si fermò, innestò la retromarcia e si portò di nuovo accanto al cartello: aveva letto bene, c’era proprio scritto Museo della Schiavitù. In alto, al centro, c’era una specie di stemma nel quale si vedeva un braccio con una catena spezzata al polso, e sotto l’immagine la dicitura: Associazione Culturale Radici di St. John.
Col cellulare scattò una foto al consunto avviso, quindi si rimise in marcia.
Poco dopo notò che l’asfalto sembrava essersi fatto meno liscio, mentre sul manto stradale comparivano qua e là sassolini e foglie. Di nuovo si guardò intorno e notò che anche gli scorci sulle ville si erano fatti più rari. Ne vide una in lontananza, ma gli parve che avesse tutte le finestre chiuse e la piscina coperta da un telo di plastica.
Vide un altro cartello, stavolta così rovinato che ne riconobbe il tema solo grazie ai colori sbiaditi e allo stemma. Una scritta quasi cancellata dalla salsedine diceva: Museo della Schiavitù, mezzo miglio.
Raggiunse finalmente il cancello di Christineberg. Scese dalla macchina, lo spalancò e ai suoi occhi si offrì la stessa immagine che il signor Donovan gli aveva mostrato: uno spiazzo lastricato con una fontana al centro, la villa padronale, gli edifici ai lati, la vegetazione lussureggiante.
Considerò fra sé e sé che quando un cane randagio ha la fortuna di trovare nei rifiuti un osso con attaccate due libbre di carne, deve per prima cosa guardarsi dagli altri cani che glielo vogliono portare via.
Fuori di metafora, gli parve logico che Donovan, una volta acquisita una tenuta del genere, dovesse per prima cosa difendersi da chi avrebbe cercato di soffiargliela.
Parcheggiò la macchina, richiuse il cancello ed entrò nella villa. Si guardò intorno: penombra, non un rumore, odore di chiuso e fiori appassiti. La temperatura era fresca, addirittura fredda rispetto all’esterno.
Attraversò l’atrio, raggiunse l’uscita posteriore e con qualche fatica a causa dei catenacci arrugginiti la aprì. Si trovò su un secondo spiazzo lastricato circondato da costruzioni. Sulla base della planimetria che aveva consultato, riconobbe le stalle, il forno e la distilleria. Notò da una parte un mucchio di detriti: esso era composto principalmente da calcinacci, ma vi si notavano anche rifiuti di altro genere, fra i quali estrasse cartelli sbiaditi che avevano gli stessi colori di quelli che aveva trovato lungo la strada per la tenuta.
La prima tavola recitava: ‘Laboratorio’. Un testo esplicativo menzionava esperimenti condotti su cavie umane scelte tra gli schiavi. Vi erano alcune immagini, delle quali però ormai non si vedeva più nulla.
Austin lo lasciò cadere e ne raccolse un altro: ‘Fruste e Catene’. Secondo la didascalia, gli schiavi disobbedienti – si specificava che anche non salutare nel modo corretto la padrona della tenuta era considerata una disobbedienza – venivano in quel luogo sottoposti a terribili sevizie. Anche lì c’erano fotografie sgranate ormai ridotte a vaghe macchie di grigio e nero.
Il terzo cartello diceva: ‘Prigione’. Un quarto era un pannello esplicativo sull’attività della piantagione, nel quale veniva principalmente descritta la vita degli schiavi. Austin lesse con attenzione, aggrottando appena le sopracciglia quando incontrava parole che le intemperie avevano reso incomprensibili.
Alla fine abbandonò anche quel cartello e si diresse verso la distilleria. Nella porta erano stati praticati due fori e tra essi era stata passata una catena chiusa da un lucchetto. Nel mazzo di chiavi che il signor Donovan gli aveva consegnato, Austin trovò quella che lo apriva.
Spinse poi l’anta, che cedette cigolando, e diede un’occhiata all’ambiente: apparecchi per la spremitura della canna da zucchero, vasche per far fermentare il succo. Contro la parete, in una rientranza costruita apposta, torreggiava un alto distillatore a colonna annerito dagli anni. Non c’erano arredi, a parte le vestigia di quelli che Austin identificò come allestimenti del museo. In un angolo notò un manichino impolverato che rappresentava un nero vestito di stracci e con le catene ai piedi.
Attaccato al muro c’era un pannello che descriveva le fasi della produzione del rum. La procedura in sé era ridotta all’osso, mentre vi erano particolareggiate descrizioni del lavoro che veniva imposto agli schiavi, con specifica attenzione alle punizioni che attendevano chi tentava di ribellarsi.
Tutti gli edifici erano strutturati allo stesso modo: vi erano resti di arredi museali che riproducevano aspetti della vita quotidiana della tenuta, ma soprattutto gli allestimenti vertevano su come venivano trattati gli schiavi.
Austin tornò in cortile. Trasse di tasca un portasigari in cuoio chiaro, prese un Virginia Superior, tirò via il filo di sparto che lo attraversava e poi se lo accese. Per un po’ rimase seduto all’ombra esalando lente boccate di fumo e facendo frattanto vagare lo sguardo su quel mirabile esempio di architettura coloniale di fine settecento.
Attirò la sua attenzione una specie di gazebo un po’ discosto dalle altre costruzioni della proprietà, sicuramente posteriore rispetto al resto degli edifici, situato al limite della vegetazione ad alto fusto e ormai quasi completamente coperto di rampicanti.
La struttura – qualcosa a metà fra un luogo di svago e un edificio sacro – lo incuriosì a tal punto che abbandonò il suo sedile e vi si diresse.
Raggiunse così una piccola struttura ottagonale, al centro della quale si trovava una tomba. Sulla parete opposta alla porta vi era un altare, gli altri muri erano alti poco più di un metro, tanto che il tetto si reggeva solo su esili colonne.
Si chinò sulla lapide: Ingeborg Barrow nata Olafsson, 1752 – 1847.
Per terra c’erano i resti di un allestimento fotografico. Austin si chinò a osservarli incuriosito, perché a parte gli effetti delle intemperie, sembrava che qualcuno avesse tentato di appiccarvi il fuoco, o di distruggere i pannelli graffiandoli con qualcosa di acuminato. Su una delle poche tavole non del tutto rovinate si poteva ancora leggere: ‘Ingeborg Barrow, la crudele padrona di Christineberg’.
Cercò un altro po’ fra le tavole, ma a parte il logo dell’associazione storica non riuscì a distinguere altro.
In quel momento, si udì uno squillo. Austin estrasse dalla tasca il cellulare e controllò il display: Donovan.
Pronto?” disse.
A che punto siamo?”
Sto ultimando il sopralluogo, signor Donovan.”
Ha trovato qualcosa?”
Niente di rilevante, per ora.”
Ci fu una pausa, poi Donovan in tono cupo disse: “È inutile che le faccia presente che non abbiamo molto tempo, vero?”
La voce di Austin non variò minimamente di tono. “Ne sono consapevole.”
So che lei è un tipo meticoloso, ma non stia a controllare anche le virgole. Basta che scopra chi è che ci sta mettendo i bastoni fra le ruote, al resto penserò io.”
Potrebbe non essere così semplice, signor Donovan,” lo avvertì Austin. “In ogni caso, domani andrò a parlare con l'avvocato Keynes.”
Secondo lei c'è qualcuno nascosto nella proprietà? Io mi gioco le palle che c'è della gente imbucata da qualche parte, che salta fuori di notte per fare danni e gli imbecilli li scambiano per fantasmi.”
Austin annuì. “È anche la mia teoria, signor Donovan, tanto più che stando a quel che ho sentito pare ci siano veramente credenze del genere su questa villa.”
Beh, ma di certo non possono fregare lei, con dei trucchi così stupidi, non è vero?” La voce aveva un tono vagamente speranzoso.
Farò delle indagini,” rispose Austin laconico, quindi aggiunse: “E ora, se vuole scusarmi...”
Si scambiarono qualche formale saluto, quindi l'uomo chiuse la comunicazione e ripose il cellulare. Tornò al sigaro e ne aspirò una lenta boccata, quindi alzò gli occhi al cielo, constatando che il sole era ormai vicino all'orizzonte.
Si voltò di nuovo verso la villa, la cui ombra lunga dilagava sul cortile, e gli parve di notare un movimento in una delle finestre del piano superiore.
Puntò lo sguardo in quella direzione, ma notò solo una tenda che ondeggiava nella brezza serale.
Alzò le spalle ed entrò nell'edificio ormai immerso nella penombra. Fece scorrere la mano lungo la parete finché non trovò un interruttore e lo fece scattare, accendendo un'applique di vetro opalino. Chiuse poi con cura la porta dietro di sé e tirò tutti i catenacci.
Girò un po' per l'edificio, accertandosi che tutte le porte e le finestre fossero debitamente sbarrate.
Osservò quello che c'era nelle varie stanze. Sotto i teli bianchi che coprivano ogni cosa, l'arredamento aveva un aspetto addirittura opulento, ma a ben guardare era più vistoso che pregiato. Alcuni mobili gli parvero posteriori al periodo della villa, ed egli pensò che fossero stati portati lì in seguito, sempre per necessità di allestimento museale: dappertutto infatti c'erano pannelli esplicativi che descrivevano la vita dissoluta e spendacciona dei padroni di Christineberg.
Al piano di sopra, una passatoia di cocco suggeriva il percorso di un'ipotetica visita. Austin si affacciò su varie camere, trovandole tutte vuote, con le finestre sbarrate e i mobili coperti da teli bianchi. La polvere sul pavimento faceva capire che nessuno ci entrava da anni.
Individuò la stanza dalla finestra aperta solo perché nel buio dell'ambiente essa risaltava come un rettangolo leggermente più chiaro.
Accese la luce per andare a chiuderla e le sopracciglia gli si sollevarono per lo stupore: una delle pareti era completamente deturpata. I segni erano simili a quelli della foto che il signor Donovan gli aveva mostrato e sembravano sgraffi rabbiosi, come di qualcuno in preda all'ira e bisognoso di sfogarsi. Istintivamente si guardò intorno alla ricerca di qualche indizio di presenza umana, ma a una seconda occhiata si accorse che il velo di polvere che copriva il pavimento era perfettamente intatto: quei segni dovevano essere lì da chissà quanto.
Li fotografò comunque col cellulare, quindi andò a chiudere la finestra.

§

Austin passò il resto della sera a togliere le cicche e le lattine che gli uomini del signor Borowicz avevano lasciato nella stanza da letto. Successivamente consumò la cena che si era portato dietro, stese il sacco a pelo e andò a dormire.
Riaprì gli occhi alle prime luci dell'alba e si guardò intorno. A parte l'impressione che qualcuno avesse ogni tanto cantato da qualche parte – impressione che invariabilmente non aveva mai trovato conferma a un ascolto più accurato – la notte era trascorsa sostanzialmente tranquilla.
L'uomo si alzò e per prima cosa andò in bagno, dove si lavò e si rase accuratamente. Quando uscì, la sua attenzione venne attirata da una strana corrente d'aria.
Egli subito aggrottò le sopracciglia e si guardò intorno per individuarne la provenienza. Fu a quel punto che udì una finestra sbattere al piano superiore.
Vi si diresse rapidamente e quando fu in cima alle scale si accorse che la finestra era la stessa che aveva chiuso la sera prima. In quel momento era aperta e la brezza faceva volare le tendine e sbattere le ante contro la parete.
Austin rimase per qualche istante fermo sulla soglia a osservarla. Di due cose era sicuro: che la sera prima l'aveva chiusa accuratamente e che il meccanismo di chiusura non aveva difetti, dal momento che l'aveva controllato.
D'istinto si voltò verso la parete coperta di segni e gli parve che essi fossero aumentati. Tornò a fissare la finestra, calcolò mentalmente la distanza fra la suddetta e il muro deturpato. Possibile che qualcuno l'avesse aperta da fuori, vi avesse appoggiato contro una scala e da lì, magari con qualche strumento montato su una prolunga, avesse scrostato l'intonaco?
Si avvicinò, guardò giù. Sotto c'era il lastricato, quindi una scala non avrebbe lasciato tracce, e che una finestra potesse essere aperta anche dall'esterno non era certo una novità: chiunque avesse subito un furto nel proprio appartamento era in grado di confermarlo.
La richiuse e tornò giù, solo per rendersi conto che a quel punto anche la porta d'ingresso era spalancata.
Istintivamente si guardò intorno. Quando era salito al piano di sopra, la porta era chiusa, il che significava che era stata aperta mentre lui era su. L'azione poteva essere stata compiuta solo da qualcuno che si trovava già nella villa, dal momento che i catenacci non si potevano azionare da fuori, o perlomeno non così rapidamente e senza alcun rumore.
Ad ogni buon conto si affacciò all'esterno, ma vide solo lo spiazzo lastricato circondato dal verde e ancora immerso nella vaga caligine dell'alba. Pensando a un ladro corse verso il luogo dove aveva dormito, solo per trovare i suoi effetti personali esattamente come li aveva lasciati.
Fece qualche passo meditabondo. Nella villa c'era qualcuno oltre a lui, questo ormai era chiaro, ma chi? Dove? Di nuovo si guardò intorno, ma la vecchia magione silenziosa e buia sembrava più disabitata che mai.

Lo studio dell'avvocato Keynes si trovava all'ultimo piano di una massiccia costruzione che originariamente doveva essere stata un magazzino di merci esotiche. A piano terra c'erano i soliti negozi di souvenir che vendevano rum, spezie e cianfrusaglie pseudo-artigianali, ma dal primo piano in poi cominciavano gli uffici.
Dopo alcune rampe di scale, Austin entrò in uno studio arredato con mobili in stile coloniale, probabilmente provenienti proprio dal magazzino dei piani sottostanti. Su uno degli schedari, di legno scuro e con maniglie d'ottone lucidato, c'erano ancora i nomi di antiche mercanzie. La scrivania era in stile nautico e aveva su tre lati un bordo leggermente rialzato per evitare che in caso di burrasca gli oggetti che vi erano posati sopra rotolassero a terra.
Al quarto lato sedeva un uomo che Austin giudicò suo coetaneo, biondo e abbronzato. Portava una leggera sahariana con i primi due bottoni slacciati e nel triangolo di pelle che l’indumento lasciava scoperto si intravedeva un tatuaggio polinesiano. Gli parve un tipo più portato alla vita di spiaggia che alle cause.
Lei dev’essere l’uomo di Donovan,” lo accolse questi.
L’avvocato Keynes?” chiese Austin per tutta risposta.
In persona. Cosa la porta da queste parti?” Indicò una delle sedie che si trovavano davanti alla scrivania e aggiunse: “Si accomodi.”
L’altro si sedette, trasse dalla valigetta che aveva con sé alcuni documenti e li postò sul piano del mobile, poi disse: “Sembra ci siano problemi con la proprietà di cui lei ha curato la vendita.”
Keynes aggrottò le sopracciglia con l’aria di essere sorpreso dalla notizia, ma Austin ebbe l’impressione che la cosa non lo cogliesse del tutto alla sprovvista.
Che genere di problemi?” chiese comunque l’avvocato. “Tasse impreviste? Acquirenti con diritto di prelazione che non erano stati interpellati?”
Austin lo fissò gelido e replicò: “Questo dovrebbe dirmelo lei, visto che il signor Donovan si è affidato a lei per le questioni burocratiche relative alla compravendita.” Tacque per qualche secondo, quindi soggiunse: “Ma non è questo che mi interessa al momento. Ho bisogno di sapere se c’erano altre parti interessate all’immobile.”
Keynes scosse la testa. “No, nessuno. Quel posto è...” Si interruppe. “È una proprietà impegnativa, non facile da piazzare,” concluse poi. Tossicchiò e distolse lo sguardo da quello di Austin.
A quel prezzo?”
È una proprietà impegnativa,” ripeté Keynes.
Perché sarebbe impegnativa?”
Beh… molti edifici, terreno, una villa antica…”
E che altro?” lo interruppe Austin.
Keynes parve quasi sussultare. “Altro?” replicò in tono tagliente. “Che altro ci dovrebbe essere?”
Qualcosa c’è, avvocato. Ci sono segni inequivocabili della presenza di estranei all'interno della proprietà”
Che intende dire?”
Che c’è qualcuno che ci si nasconde dentro o ci entra di notte. Io stesso ho visto tracce del passaggio di qualcuno non più tardi di questa mattina.”
Sarebbe a dire?”
Ho trovato aperte porte e finestre che avevo sbarrato, tanto per fare un esempio.”
L’avvocato prese a giocherellare nervosamente con una penna. “Non saprei,” disse poi, sempre evitando il suo sguardo. “Forse è il caso che si rivolga alla polizia, se ha sospetti di questo genere.”
Lei lo ritiene plausibile?”
Keynes alzò le spalle. “Non lo so. In fin dei conti è rimasta vuota per tanto tempo, può darsi benissimo che qualche spiantato ci sia andato ad abitare dentro, no?”
Qualche concorrente del signor Donovan che voglia convincerlo a disfarsi della proprietà a un prezzo ancora minore?”
Lo escludo,” rispose subito l’avvocato.
Austin annuì grave, di nuovo con l’impressione che il suo interlocutore gli avesse detto solo la metà di quello che sapeva. Raddrizzò il pacco di documenti che aveva posato sulla scrivania in modo che fosse perfettamente parallelo al bordo, quindi chiese: “A chi apparteneva la proprietà?”
Ha avuto varie vicissitudini,” fu la risposta. “Fu costruita dai danesi nella seconda metà del settecento, poi fu acquistata da Robert Barrow, un inglese, e sua moglie Ingeborg, che invece era una danese. Alla morte dell’uomo rimase di proprietà della vedova.”
E poi?”
L’avvocato si strinse nelle spalle e rispose: “Passò agli schiavi, ma queste cose le sanno molto meglio i curatori dell’associazione storica, che alla fine sono stati gli ultimi proprietari prima del signor Donovan. Dovrebbe chiedere a loro.”
Quelli del Museo della Schiavitù?”
Esattamente.”
Può dirmi qualcosa di questo museo?”
L’avvocato lo fissò perplesso. “perché lo chiede a me? Sono stati loro a organizzarlo, chi le può dare informazioni meglio di loro?”
Austin fece un lieve sorriso e rispose: “Conosce il detto, no? Non chiedere a un oste se il suo vino è buono.”
I due rimasero a fissarsi in silenzio per qualche secondo, infine l’avvocato disse: “Pare che questa signora Barrow non fosse esattamente uno stinco di santo, ecco. Pare che ne abbia fatte passare così tante a quei poveretti dei suoi schiavi che alla fine ci fu una rivolta e la cacciarono via.”
Di nuovo seguì qualche secondo di silenzio.
Questo è tutto,” disse Keynes e fissò Austin con l’aria di aspettarsi che questi si alzasse e prendesse commiato.
A prescindere dalle faccende degli schiavi,” disse invece l’altro imperterrito, “le pare logico che una tenuta del valore di milioni sia stata smerciata per poche centinaia di migliaia di dollari?”
Beh, non è certo una cifra piccola,” borbottò l'avvocato.
Ma è un decimo del suo reale valore.”
Sì, lo sarebbe, ma...” Keynes si interruppe.
Ma, cosa?”
Sono più di cinque anni che è invenduta. Capirà che il prezzo è andato man mano calando.”
Qualcuno a parte il signor Donovan la voleva?”
L'altro scosse la testa.
Di nuovo, Austin annuì come per prendere atto della cosa, poi chiese: “Quindi lei come spiega che tre imprese edili, una delle quali fatta venire appositamente da Miami, hanno rifiutato di proseguire i lavori nella villa?”
L'avvocato alzò le spalle con fare noncurante. “Non lo so. Forse non erano pagati abbastanza?”
Erano pagati il doppio della tariffa normale, perché il signor Donovan aveva bisogno che il lavoro fosse portato a termine nel più breve tempo possibile. Nielsen e Franklin, immagino li conoscerà, si sono ritirati, il primo dopo tre giorni e il secondo senza nemmeno effettuare un sopralluogo. Un tale Borowicz, titolare di un'impresa di Miami, è rimasto sul posto meno di una settimana e poi se n'è andato, dopo aver riferito incidenti e vandalismi di ogni genere.” Fece una pausa, poi in tono duro concluse: “Qui c'è qualcuno che sta consapevolmente sabotando l'attività del signor Donovan.”
L'espressione di Keynes si fece dura. Con voce tagliente rispose: “Allora le ripeto che forse farebbe meglio a rivolgersi alla polizia.”
Sullo stesso tono, Austin ribatté: “Lo farò senz'altro, avvocato. Speravo che lei avrebbe potuto darmi qualche indizio, ma evidentemente mi sbagliavo.”

La sede dell’Associazione Culturale Radici di St. John era situata un po’ fuori dal centro abitato. Si trattava di un edificio a un solo piano, in stile moderno, composto da blocchi quadrangolari disposti all’interno di un ampio giardino e collegati fra loro da corridoi con le pareti di vetro.
Austin si fermò appena fuori dalla recinzione e per un po’ rimase a guardare la struttura. Davanti all’ingresso c’era un bassorilievo che rappresentava degli schiavi africani incatenati, eretti e colmi di dignità nonostante i ceppi. Dietro di loro procedeva un individuo dall’aria spregevole, obeso e curvo, in abiti europei e armato di frusta.
Attraverso la porta a vetri si vedeva un atrio con un banco tipo reception, dietro il quale una ragazza di colore stava parlando al telefono. Al centro della stanza c’era un monumento che rappresentava una donna con le braccia levate in alto in segno di trionfo e catene spezzate che le pendevano dai polsi.
Austin entrò. Senza smettere si telefonare, la ragazza gli rivolse uno sguardo di scarsa simpatia, poi gli girò le spalle e continuò a parlare con il suo interlocutore.
Solo quando ebbe chiuso la comunicazione, ovvero qualche minuto dopo, si girò di nuovo verso di lui e squadrandolo con diffidenza gli chiese: “Desidera?”
Buon giorno, signorina,” le rispose lui, ostentando le maniere di un gentiluomo d’altri tempi, “sto cercando informazioni sulla tenuta di Christineberg.”
Lo sguardo della ragazza, già in partenza diffidente, si fece addirittura ostile. “Perché viene a cercarle proprio qui?” lo apostrofò con malagrazia.
Austin sollevò le sopracciglia. “Non siete un’associazione storica?” replicò.
La faccio parlare con la nostra direttrice, la signora Boyer,” tagliò corto la ragazza, sollevando di nuovo la cornetta e componendo un numero interno.
Grazie, signorina. Molto gentile.”

La signora Boyer arrivò poco dopo. Si trattava di una donna sulla cinquantina con una complicata acconciatura di treccine. Era talmente magra che ad Austin ricordò vagamente la mummia di Tutankhamen e portava un largo abito africano dai colori sgargianti.
Buon giorno,” lo salutò squadrandolo sospettosa, “sono Imani Boyer. Cosa posso fare per lei?”
Mi chiamo Roderick Austin, lavoro per la Donovan Enterprises. Come ho detto alla sua collaboratrice, mi servono informazioni su Christineberg.”
La donna strinse gli occhi e due rughe verticali le comparvero alla radice del naso. “Non si può certo definire una bella pagina della nostra storia,” proferì, quasi in tono di vago rimprovero.
Austin si limitò a fissarla con sguardo neutro. “Che intende dire?” le chiese.
La donna assunse un'espressione decisamente scontenta. “Intendo dire che Christineberg era una specie di Terzo Reich in miniatura, se capisce cosa intendo.”
Lo sguardo di Austin rimase neutro. “Veramente no,” fu la risposta.
Venga nel mio studio,” disse allora la signora Boyle. Attraversarono nel tragitto una sala ricreativa disseminata di divani e pouf sui quali uomini e donne, tutti di colore, leggevano o conversavano fra loro a bassa voce. Al loro passaggio, una ragazza alzò la testa, squadrò Austin con aria schifata, poi si rivolse all'amica e in tono sufficientemente alto da essere udita anche da lui disse: “Apri la finestra, c'è puzza di gallina bagnata.”
L'uomo fece finta di niente.
Raggiunsero un ufficio arredato con mobili provenienti da artigianato equo e solidale, quindi la signora Boyle disse: “Poiché sembra non capire il concetto di Terzo Reich in miniatura, vedrò di essere più chiara: parliamo di eugenetica, tanto per cominciare.”
Austin trasse di tasca un taccuino e una penna, segnò la parola, quindi chiese: “Ovvero?”
Non sa cos'è l'eugenetica?”
No, non so in che modo venisse praticata nella piantagione.”
La donna aggrottò di nuovo le sopracciglia, quindi in tono tagliente rispose: “I coniugi Barrow, e successivamente la vedova, quando il signor Barrow morì, obbligavano schiavi con determinate caratteristiche fisiche ad accoppiarsi fra di loro.” Sogguardò Austin scrutandone le reazioni, ma l'uomo rimase impassibile.
Inoltre facevano esperimenti sugli esseri umani,” proseguì allora la donna, “abbiamo trovato il laboratorio con dentro tutti gli strumenti medici.” Fece una pausa, quindi in tono sinistro proclamò: “Quei ferri orribili grondano del sangue delle mie sorelle e dei miei fratelli.”
Nel silenzio che seguì si udì solo la punta della penna di Austin che scorreva sul foglio. “Altro?” chiese poi l'uomo, con l'aria del droghiere che interpella la massaia.
I turni di lavoro massacranti potrebbero interessarle?” replicò la donna in tono sarcastico. “Le frustate, le privazioni, i polsi e le caviglie costantemente piagati dalle catene, le orge organizzate per gli altri proprietari terrieri della zona con le ragazze più belle?”
La penna continuava a scorrere sul foglio.
Quando gli schiavi non potevano più lavorare, venivano uccisi e dati in pasto ai maiali. I tentativi di fuga erano puniti con mutilazioni spaventose, le donne erano obbligate a sfinirsi di gravidanze, con l’atroce consapevolezza che i loro figli avrebbero avuto davanti quella vita terribile.” La signora Boyle fece una pausa, quindi in tono velenoso sibilò: “Ecco quello che la sua razza ha fatto alla mia.”
Austin smise di scrivere, alzò lo sguardo dal taccuino e senza modificare la sua espressione disse: “Signora, le più recenti teorie scientifiche negano l'esistenza delle razze.”
La donna strinse le labbra, quindi gli girò le spalle e da una pila di libri tutti uguali ne sfilò uno. “Preda questo,” gli disse porgendoglielo, “si faccia un'idea.”
Austin lo osservò. Il titolo era: 'Gli orrori di Christineberg'. Lo sfogliò brevemente e chiese: “Che fine ha fatto la signora Barrow?”
Ci fu una rivolta. Gli schiavi finalmente riuscirono a cacciarla via e ad appropriarsi di ciò che spettava loro di diritto.”
La donna fu uccisa?”
La signora Boyle gli rivolse un’occhiata di sdegno. “No di certo. A differenza di quella specie di deviata, gli schiavi avevano un cuore. Le permisero di andarsene.”
E allora perché a Christineberg c’è la sua tomba?”
Alla domanda seguirono non meno di cinque secondi di silenzio. Infine, la donna rispose: “Non lo so perché ci sia la tomba. Forse il governo dei bianchi ha voluto lasciare un monumento funebre in suo onore, per rinsaldare il proprio potere sui neri.”
In quanto proprietari della tenuta, non avete mai pensato di farla rimuovere?”
Come le ho detto, noi abbiamo un cuore. Non profaniamo tombe.”
Non aveva detto che era solo un monumento?”
La donna strinse le labbra, diventando più che mai simile alla mummia di Tutankhamon, quindi in tono asciutto rispose: “Si legga il libro, ci troverà molte informazioni interessanti. Sono venticinque dollari.”
Austin trasse dalla tasca interna della giacca il portafogli, lo aprì rivelando banconote perfettamente allineate e ordinate per valore, tirò fuori due pezzi da dieci e uno da cinque, glieli porse e disse: “Vorrei la ricevuta, per favore.”
La signora Boyle scribacchiò qualcosa su un pezzo di carta e glielo porse. Austin rimase immobile. “Qualcosa che abbia valore legale, per favore.”
Mentre la donna compilava una regolare fattura, egli le chiese: “Perché il museo è stato chiuso e la proprietà venduta?”
Ella lo fissò torva e ribatté: “Come mai tutte queste domande? È un poliziotto, per caso?” Strappò il foglio con malagrazia, glielo porse e aggiunse: “E comunque, non sono cose che la riguardano.”
Mi riguardano eccome, visto che la proprietà è stata acquistata dalla società per cui lavoro e ci sono problemi.”
Per qualche secondo rimasero a fissarsi negli occhi, poi la signora Boyle disse: “Noi siamo un’associazione storica. Se vuole sapere qualcosa della storia di St. John, chieda quello che vuole. Diversamente, si presenti con un avvocato.”

Quando fu in macchina, Austin attivò il viva voce e fece partire una chiamata.
Il telefono squillò una volta sola, quindi dall’altra parte si udì: “A che punto siamo?”
Sto indagando, signor Donovan.”
Veda di sbrigarsi, io l’ho mandata laggiù per risolvere il problema. Le banche mi stanno addosso, non c’è più tempo.”
Me ne rendo conto, ma la situazione non è per niente chiara.”
La voce dell’imprenditore vibrò di apprensione. “Come sarebbe a dire che non è chiara? È saltata fuori un’ipoteca? Tasse non pagate?”
Niente del genere. Ma vede, abbiamo un duplice problema: c’è qualcosa che sia l’avvocato che i precedenti proprietari sanno ma non mi stanno dicendo, inoltre ci sono dei vandali che di notte girano per la proprietà. Devo capire se le due cose sono collegate.”
Lo sono sicuramente, Austin. Chiami la polizia e faccia arrestare i delinquenti che si permettono di entrare nella mia proprietà.”
Prima dovrei vederli, immagino.”
Come sarebbe a dire che dovrebbe vederli?”
Ieri notte li ho solo sentiti e ho trovato i risultati questa mattina. Si nascondono nella villa.”
La voce di Donovan si alzò di tono. “Nella villa? Li scovi immediatamente, voglio sapere chi sono e chi li manda!”
Va bene.”
Austin allungò la mano per chiudere la chiamata, ma Donovan disse: “Senta, e quella storia strana?” Il tono sembrava quasi imbarazzato.
Che storia, signore?”
Quella dei fenomeni paranormali. Lei cosa ne pensa?”
I fenomeni paranormali non esistono, signor Donovan.”









[1] Comportamento patologico di una persona troppo dedita al lavoro e che per esso pone in secondo piano la sua vita sociale e familiare.


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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Gente, abbiamo finito anche questo mappazzone. Grazie per avermi seguito fin qui, un grande grazie a chi mi ha lasciato un parere.
Alla prossima!^^



Capitolo 3

Austin rientrò alla villa dopo essersi fermato a comprare da mangiare. Andò in cucina, passò una spugna sul tavolo e lo asciugò, vi stese sopra una tovaglietta di carta in modo che fosse esattamente a filo del bordo, al centro di essa posò una confezione con un’insalata pronta ai cui lati allineò con cura le posate, la forchetta a sinistra e il coltello a destra e con la lama rivolta verso l’interno.
Fatto questo prese un bicchiere di plastica e lo collocò esattamente in corrispondenza della piega mediana della tovaglietta, poi trasse dal sacchetto del supermercato una bottiglia d’acqua e per qualche secondo rimase indeciso su dove appoggiarla per non rovinare la simmetria. Alla fine si riempì il bicchiere e poi la ripose nuovamente nel sacchetto.
Si stese un tovagliolo sulle ginocchia.
Consumò il pasto con la compitezza che avrebbe potuto ostentare a Buckingham Palace, quindi raccolse tutti i rifiuti, suddividendo carta, plastica e organico in diversi contenitori. Pulì il tavolo.
Quando ebbe finito, prese il libro che la signora Boyer gli aveva venduto e cominciò a sfogliarlo.
Ci trovò ben poco di interessante, in relazione al suo problema. Il testo aveva l’obiettività dei pamphlet anti-giapponesi della seconda guerra mondiale e le fotografie, perlopiù sgranate e poco nitide, avrebbero potuto provenire da Christineberg come da qualsiasi altra tenuta dei Caraibi. L’unica immagine che Austin trovò vagamente interessante fu quella dei coniugi Barrow, in piedi davanti alla fontana del cortile principale. La foto ricordava vagamente ‘American Gothic’, anche se i due avevano l’aria decisamente meno arcigna della coppia di Grant Wood. La donna anzi sorrideva e sembrava sul punto di salutare qualcuno con la mano. Era una bella signora dai boccoli biondi, snella, dall’aria elegante.
A un tratto sentì le note modulate di un canto. Tese l’orecchio cercando di localizzare la provenienza del suono e si trovò a rabbrividire, perché di colpo l’aria si era fatta decisamente più fredda. Si alzò e si guardò intorno passandosi le mani sulle braccia come per riscaldarsi, poi si diresse silenziosamente verso il punto da cui gli pareva che provenisse la voce.
La sua idea era quella di cogliere sul fatto l'autrice dei vocalizzi, o perlomeno di individuare la zona della villa in cui lei e i suoi complici si nascondevano, ma invariabilmente trovava vuota ogni stanza su cui si affacciava, mentre il canto sembrava sempre provenire da quella successiva. Alla fine raggiunse una porta socchiusa, oltre la quale c'era un vano senza porte né finestre. Il canto si interruppe. Egli accese la luce e si trovò di fronte il muro deturpato di cui Borowicz aveva mandato la fotografia.
Lì il freddo era particolarmente intenso.
Austin osservò l'ambiente: soffitti altissimi, una lampadina fioca che pendeva da un filo. Picchiettò con le nocche le gelide pareti, che però gli rimandarono ovunque lo stesso suono. Fece scorrere lo sguardo sul muro vandalizzato, ma al solito non riuscì ad attribuire ai segni che lo deturpavano nessun significato a parte quello di rovinare un lavoro appena fatto.
Uscì dalla stanza e si richiuse la porta alle spalle. Prese il mazzo di chiavi che il signor Donovan gli aveva lasciato e con quello che doveva essere una specie di passepartout fece scattare la serratura.
La guardò poco soddisfatto: era evidente che lo stesso mazzo di chiavi, magari con un passepartout identico, doveva averlo anche chi stava girando per la villa insieme a lui, perché da nessuna parte c'erano segni di scasso, eppure le porte che lui era certo di aver chiuso a chiave – e lui era uno che in queste cose non si sbagliava – erano tutte aperte.
Si chiese quale fosse il razionale alla base di quel comportamento: forse i vandali volevano fargli credere che ci fosse il famoso fantasma? Alzò le spalle: avevano decisamente sbagliato persona.

Andò a Cruz Bay, entrò nella prima ferramenta e comprò una serie di attrezzi, lucchetti e catenacci, quindi rientrò alla proprietà.
Il resto del pomeriggio lo passò ispezionando ogni singolo edificio di Christineberg. Si portava dietro una planimetria, una tavoletta di supporto per scrivere, una gomma e una matita, oltre naturalmente alle attrezzature acquistate: in ogni costruzione sbarrava tutte le finestre dall'interno, ispezionava il luogo in ogni sua parte, prendeva qualche fotografia, annotava eventuali appunti sulla mappa, quindi usciva e applicava sulla porta un catenaccio nuovo, chiuso con uno dei lucchetti acquistati. Da ultimo, fotografava anche la porta dall'esterno.
Quando terminò il lavoro, ormai era l'imbrunire.
Rientrò nella villa e anche lì fece il giro delle finestre, bloccando il meccanismo di ognuna di esse con diversi giri di filo di ferro, in modo che fosse impossibile scassinarle dall'esterno. Lo fece con particolare cura nella camera da letto della signora Barrow, ovvero quella dove l'aveva trovata per ben due volte aperta.
Passò poi alle porte, bloccando serrature e catenacci in modo che fosse impossibile azionarli dall'esterno. A quel punto, eseguì un nuovo giro d'ispezione in tutta la dimora, come sempre non trovando anima viva.
Si guardò intorno pensoso: se n'erano andati? Li aveva chiusi fuori? Erano nascosti in qualche stanza segreta che non aveva ancora individuato? Ricontrollò la planimetria: le tavole risalivano agli anni '60 del secolo precedente, epoca in cui probabilmente erano stati eseguiti i rilievi catastali di tutte le proprietà dell'isola. Porte nascoste o passaggi segreti precedenti a quell'epoca ovviamente non apparivano sulle mappe.
Tornò in cucina. Il libro sugli orrori di Christineberg, che aveva lasciato chiuso sul tavolo, era aperto e a pagine in giù sul pavimento. Alzò stupito le sopracciglia e istintivamente si guardò intorno, ma tutto sembrava a posto. Si chinò a raccoglierlo e notò che era aperto esattamente sul ritratto di Ingeborg Barrow.
Lo ripose e di nuovo si guardò intorno. Un libro non cade da solo, si disse. Un libro cade se a esso viene applicata una forza sufficiente a spingerlo giù dal tavolo su cui è posato.
Era quindi evidente, tornando alle sue ipotesi di prima, che i personaggi che giravano nella villa non se n'erano andati e non li aveva chiusi fuori, chiunque essi fossero.
Forse lo stavano addirittura tenendo d'occhio, con sistemi che non era ancora riuscito a scoprire.
Si forzò ad apparecchiare ostentando indifferenza e consumò il pasto tendendo l'orecchio a ogni minimo rumore.
Nulla turbò la quiete. Il silenzio era tale, anzi, che se si concentrava riusciva a udire il battito del proprio cuore. All'esterno non tirava un filo d'aria e sembrava che anche i mille rumori della notte tropicale si fossero sopiti. Era come se tutto fosse immobile in attesa di qualcosa.
Austin guardò l'orologio, quindi si alzò con l'intento di fare un nuovo giro di ispezione. Tolse la suoneria al cellulare e se lo infilò in tasca, poi si avventurò nei corridoi ormai immersi nelle tenebre portandosi dietro solo una torcia elettrica, per non annunciare il suo arrivo tramite l'accendersi e spegnersi delle luci nelle varie stanze.
Questa volta li avrebbe sorpresi e poi avrebbe chiamato la polizia, così avrebbe sistemato definitivamente la questione.

Raggiunse il salone delle feste e vi si affacciò. La stanza era praticamente vuota. Il pavimento sgombro permetteva di apprezzare il sontuoso disegno di una palladiana bianca e rossa, in alto si coglieva il vago baluginio di gocce di cristallo.
I pochi mobili erano stati spinti contro le pareti, e coperti com'erano di lenzuoli bianchi evocavano sinistre presenze.
Austin fece qualche passo all'interno e subito fu investito da un'ondata di freddo così intenso che si trovò a rabbrividire. Nello stesso momento, il fascio di luce della torcia si affievolì fin quasi a scomparire, trasformandosi in un vago lucore giallastro.
Sì udì l'eco flebile di un canto femminile.
In quella luce fioca, ad Austin parve che uno dei lenzuoli stesse ondeggiando. Puntò la torcia in quella direzione, ma non riuscì a capire se quello che stava vedendo era un reale movimento o solo un gioco di ombre.
Si trovò a deglutire: forse aveva scoperto in che modo la gente si nascondeva nella villa.
Forse sotto quel telo – sotto quanti teli, a questo punto? – c'era qualcuno che chissà da quanto tempo lo stava tenendo d'occhio.
Un passo dopo l'altro, si avvicinò. Il freddo era intenso, la sensazione di essere osservato anche. Più la luce investiva il lenzuolo ormai ingrigito, più esso appariva immobile.
Si avvicinò ancora, rimase immobile con l'orecchio teso, pronto a cogliere il minimo rumore. La stoffa si era mossa o era semplicemente passato un refolo d'aria?
Allungò una mano, afferrò un lembo del lenzuolo. Tirò.
Il telo cadde a terra in uno sbuffo di polvere. Austin si trovò a fare un salto indietro col cuore che gli balzava nel petto, ma poi emise in un sospiro sollevato il fiato che aveva involontariamente trattenuto: quella che gli era apparsa davanti era solo una vecchia pendola.
Sospirò e si passò una mano sulla fronte, umida di sudore nonostante il freddo, e a quel punto percepì un lieve odore di fumo.
Si girò brusco e corse nella direzione da cui era venuto, guardandosi intorno alla ricerca di possibili focolai d'incendi. Quando raggiunse la zona delle stanze di servizio, si accorse che il fumo stava uscendo dalla cucina. Vi entrò e si trovò davanti il libro su Christineberg, in mezzo al pavimento, che bruciava a fiamma chiara.
Lesto corse al lavello, spillò una ciotola d’acqua e gliela buttò sopra, e le fiamme si spensero sfrigolando. Rimase per qualche secondo immobile a osservare il mucchio di cenere fumigante, poi dal piano superiore giunse di nuovo il canto, questa volta associato allo sbattere di una finestra.
Corse su e a colpo sicuro si diresse verso la camera di Ingeborg Barrow: le ante erano spalancate, i vetri coperti di brina. Sul muro, sempre incisa con qualcosa di acuminato, era comparsa una parola:

Verità

Dapprima si immobilizzò, poi fece girare intorno lo sguardo alla ricerca di qualcosa che potesse fungere da arma. Perché a quel punto era chiaro: non solo c’era qualcuno, ma quel qualcuno era vicinissimo a lui, forse anche in quel preciso momento, ed era abilissimo a rendersi invisibile.
Si chiese che cosa significasse quella scritta. Perché proprio ‘verità’ e non, ad esempio, ‘andatevene’?
Non c’era risposta, ovviamente.
Non trovando nulla che potesse essere usato a scopo difensivo, infilò la mano in tasca e strinse in pugno il mazzo di chiavi, facendo sì che esse sporgessero come aculei fra un dito e l’altro, poi avanzò adagio.
Nella villa frattanto si era ristabilito il silenzio, la patina di ghiaccio che aveva ricoperto i vetri si andava sciogliendo e gocciolava adagio sul pavimento. Assieme alla brezza tiepida, entravano dalla finestra aperta il profumo del frangipani e il canto degli uccelli notturni.
Con il cuore che ancora gli pulsava nelle orecchie, Austin si avvicinò adagio e osservò il meccanismo di chiusura: il filo di ferro non c’era più. Qualche spezzone era sparso in giro, ma del resto non c’era traccia.
Serrò comunque le ante, vi trascinò contro un mobile per maggiore sicurezza, quindi tornò in cucina. Lì le cose erano come le aveva lasciate: al centro del pavimento c’era ancora la pozzanghera annerita con dentro quel che rimaneva del libro, la luce era accesa e la temperatura normale. Per scrupolo andò a controllare anche i suoi effetti personali, ma di nuovo li trovò intatti.
Certo che non avrebbe più dormito, tanto per fare qualcosa si mise a pulire il pavimento.

§

Seduto nel patio di un caffè del centro, una tazza fumante davanti, Austin rifletteva sugli avvenimenti della notte precedente.
Per la prima volta nella sua vita professionale, non sapeva che pesci pigliare. Non capiva in che modo i misteriosi sabotatori riuscissero a fare quello che aveva visto, né quanti fossero o dove si nascondessero. Possibile che sotto alcuni dei lenzuoli che coprivano i mobili ci fossero in realtà delle persone? Come entravano in stanze chiuse a chiave? Come graffiavano un muro fino ai mattoni senza lasciare un'impronta sul pavimento?
Nessuna di quelle domande aveva una risposta. Non ne aveva una plausibile, perlomeno.
Bevve un sorso, quindi riappoggiò la tazza esattamente nel cerchio marrone che essa aveva lasciato sul tovagliolo, poi la girò in modo che il manico fosse parallelo al bordo del tavolino. Raddrizzò il cucchiaino, che nel movimento si era inclinato di qualche grado.
Trucchi cinematografici? Avrebbero richiesto attrezzature che non aveva trovato da nessuna parte. Fenomeni naturali o perlomeno fisici? Aveva sentito dire che le famose pareti che trasudavano sangue di certe case infestate erano in realtà eventi perfettamente spiegabili, legati a umidità, muffe o altri normalissimi problemi. Peccato che i muri di Christineberg fossero da quel punto di vista del tutto sani.
Allucinazioni, allora? Suggestione? Sonnambulismo? Magari era lui stesso che prima sigillava le finestre e poi andava a riaprirle in stato di trance?
Ormai era disposto ad aspettarsi qualsiasi cosa.
Bevve un altro sorso di caffè e per un po' rimase a guardare la gente che passava. Doveva essere arrivata una nave da crociera e gruppetti di turisti in abiti leggeri, con spalle e nasi arrossati dal sole tropicale, si guardavano intorno alla ricerca di divertimenti. Operatori locali offrivano souvenir ed escursioni.
Aggrottò le sopracciglia all'ennesimo strillo di bambino e si girò in modo da dare le spalle alla chiassosa masnada: aveva bisogno di concentrarsi e quel disordine non faceva altro che renderlo nervoso.
Nella sua nuova posizione, si trovò a contemplare una di quelle cassette di vecchi libri che andava di moda tenere nei locali. Generalmente erano piene di manuali di cucito del secolo precedente o di enciclopedie per ragazzini, quindi niente di interessante, ma in quel caso una copertina attirò la sua attenzione. Si trattava di un disegno a colori che riproduceva il ritratto dei coniugi Barrow, con tanto di fontana zampillante alle loro spalle. Il titolo recitava: 'Mama Inga: il jumbie[1] buono'.
Austin raccolse il libro e lo osservò: sembrava una pubblicazione di qualche ufficio turistico locale e faceva parte di una collana che trattava delle curiosità di St. John. A giudicare dallo stato di conservazione e dalla grafica, doveva avere come minimo trent'anni ed era il classico esempio di libercolo che durante le grandi pulizie veniva indirizzato alle vendite di beneficenza o alle biblioteche condivise.
Aprì la valigetta che aveva con sé, tirò fuori 'Scienza della Logica', di Hegel, e lo depose nella cassetta, quindi cominciò a sfogliare il libro che aveva trovato.
Praticamente fu come prendere il libro dell'associazione storica e rivoltarlo come un calzino. Forse quello esagerava dalla parte opposta, ma descriveva tutt'altro che una crudele negriera dedita a sevizie ed esperimenti su cavie umane.
Ingeborg Barrow – Mama Inga, come affettuosamente veniva chiamata – veniva rappresentata come una specie di filantropa, impegnata in diuturne opere di carità. Laureata in medicina, aveva allestito un ambulatorio per curare gli schiavi, ma in pratica tutti gli abitanti dell'isola si recavano da lei in caso di bisogno. La sua tenuta era un impianto modello, con tanto di orari di lavoro e pensione per gli anziani. I bambini andavano a scuola, i nuclei familiari che si formavano ricevevano abitazioni separate. Vi erano orti e animali da cortile per provvedere alle necessità degli schiavi.
Gli schiavi, peraltro, lo erano solo di nome, perché ricevevano un regolare salario. Morendo senza eredi, la donna aveva dato disposizioni affinché gli essi fossero liberati e Christineberg diventasse di loro proprietà.
Alla morte di Mama Inga, diceva a quel punto il libro, era nata anche una curiosa leggenda: si diceva che il suo fantasma continuasse ad aleggiare nella tenuta, ma solo per aiutare chi vi si recava. Qualche escursionista che si era perso nei dintorni di Christineberg aveva raccontato di essersi imbattuto in una vecchia signora in abiti antiquati che lo aveva accompagnato fino a che non aveva ritrovato la strada e poi era misteriosamente scomparsa senza lasciare tracce.
Altri dicevano che, colpiti da malattie, si erano recati alla tenuta e vi avevano dormito. Mama Inga era apparsa loro in sogno e aveva dato suggerimenti per cure che si erano poi rivelate efficaci.
In generale, spiegava il libro, non era difficile incontrare quel gentile jumbie. Più spesso lo si sentiva cantare, ma a volte si faceva vedere come anziana signora dai capelli bianchi oppure lasciava altri segni del suo passaggio.
Una fotografia mostrava una parete sulla quale era inciso un grazioso disegno a motivi floreali.
A quel punto, Austin abbassò il libro. Per quanto sciocco e inattendibile, quel testo gli dava importanti informazioni: primo, esisteva davvero una leggenda sul fantasma. Secondo, chi stava tentando di sabotare gli affari del signor Donovan doveva come minimo conoscerla, perché imitava in tutto e per tutto quelle che il libro descriveva come sue tipiche manifestazioni.
Infilò l'opuscolo nella valigetta, quindi pagò il conto e se ne andò.
Quando fu sulla strada tirò fuori la mappa di Cruz Bay, individuò un negozio di audio e video e vi si diresse.

§

Austin.”
Senta, il tempo stringe, la banca deve aver fiutato qualcosa e mi sta col fiato sul collo. Come stanno andando le cose?”
Ci sto lavorando, signor Donovan.”
Beh, veda di sbrigarsi. Questi mi stanno alle costole.”
Il problema è che non abbiamo a che fare con degli sprovveduti.”
Dall'altra parte ci fu qualche secondo di meditativo silenzio, quindi Donovan chiese: “Lei pensa che quelli là potrebbero essere stati inviati dalla banca? Mi mandano a puttane tutto l'investimento, io non riesco a restituire il prestito e loro si beccano la tenuta?”
Devo ancora capire chi sono.”
Ma la sua impressione qual è?”
Al momento non sono in grado di elaborare un parere attendibile,” rispose Austin in tono neutro.
Donovan imprecò e chiuse la comunicazione.

§

Seduto al tavolo della cucina, Austin controllò lo schermo del computer portatile. Quel pomeriggio aveva nascosto una videocamera a infrarossi nella stanza della signora Barrow. Di tanto in tanto controllava se c'erano movimenti sospetti, ma fino a quel momento non aveva visto nulla.
Improvvisamente le luci sfarfallarono, si affievolirono e poi ripresero l’intensità solita. Da qualche punto imprecisato della casa giunse l’eco di un canto.
Con una strana sensazione di aspettativa, l’uomo fissò lo sguardo sullo schermo del computer.
Sul muro sembrò delinearsi una figura umana. Dapprima appena un’ombra, che pian piano andò definendosi e arricchendosi di particolari, fino a diventare una donna con una pettinatura ottocentesca e un abito lungo.
Austin trattenne il respiro.
Ella si mosse, dapprima lentamente, poi in modo sempre più percettibile. Di pari passo, la sua sagoma diafana andava in qualche modo facendosi tridimensionale, pur mantenendo l’aspetto incorporeo. Dietro di lei si intravedevano i segni del muro come attraverso un vetro semiopaco.
Mama Inga,” mormorò Austin.
Come se l’avesse sentito, l’apparizione si girò verso la videocamera. Sebbene l’uomo fosse certo di averla nascosta bene, ella la individuò immediatamente e vi si avvicinò fissandola con intensità.
Austin deglutì e si fece indietro sulla sedia mentre lo schermo del computer veniva completamente invaso dal volto della misteriosa signora e gli occhi di lei, neri come pozzi nel lucore innaturale dell’infrarosso, scrutavano attenti, come alla ricerca di qualcosa.
Infine guizzarono sicuri e si avvinsero al suo sguardo.
Egli avrebbe voluto sottrarsi, allontanarsi l’apparecchio, uscire dalla stanza, ma si accorse di non riuscire a muovere un muscolo. Quegli occhi non lo abbandonavano.
Il computer si spense facendolo sussultare, poi arrivò il freddo. Un gelo siderale, che istantaneamente coprì di brina lo schermo ormai nero dell’apparecchio e tutta la superficie del tavolo. Di nuovo le luci sfarfallarono e si affievolirono, negli armadietti le stoviglie sbatacchiarono come per effetto di una scossa tellurica.
A quel punto, Austin ebbe la consapevolezza di non essere più solo.
Fioco e dolce, echeggiò il canto. Era vicinissimo.
Egli rimase immobile, con la precisa percezione dei capelli che lentamente gli si rizzavano sulla nuca. “Chi sei?” mormorò. Il fiato gli si condensò in una nuvola di vapore.
Non giunse risposta. Eppure Austin aveva la netta sensazione di occhi attenti che lo scrutavano.
Strinse i pugni così forte che quasi si piantò le unghie nei palmi, poi si girò di scatto. Colse la fugace visione di una figura in piedi dietro la sua sedia, ma così diafana che quasi si confondeva con la parete, poi la luce e la temperatura tornarono normali e fu come se essa non fosse mai esistita.

Per un tempo imprecisato, egli rimase immobile, ansante, con lo sguardo fisso sul computer spento e le braccia penzoloni. Si sentiva spossato come dopo una corsa di chilometri, il sudore freddo gli aveva appiccicato la camicia alla schiena.
Si passò una mano sulla fronte e lasciò vagare intorno lo sguardo di chi si è appena svegliato da un coma. Inutile girarci intorno: era sconcertato. Se pensava alle teorie con cui aveva affrontato la faccenda della villa, si sentiva come uno che ha costruito un castello con dodici mazzi di carte e se lo vede franare a terra per un colpo di vento.
Non c’era nessuno, a Christineberg, e non c’era per un semplice motivo: che la tenuta era infestata da un fantasma.
Niente sabotatori, niente concorrenti astuti del signor Donovan. Ora capiva la reticenza dell’avvocato Keynes e il rancore della signora Boyle, ora capiva perché quel posto era stato letteralmente regalato.
Passò un dito sullo schermo del computer, che dopo essere stato coperto di brina era rimasto imperlato di condensa. Nessun fenomeno fisico a lui noto sarebbe stato in grado di produrre un effetto del genere. Non certo in meno di tre secondi e con una temperatura esterna intorno ai cento gradi.
Si mosse sulla sedia, facendo scricchiolare il vecchio legno. Recuperò un fazzoletto di carta e asciugò meticolosamente il portatile, quindi lo ripose.
Di nuovo si guardò intorno, ma ormai non c’era più nessuno a parte lui.
Si alzò con fatica, appoggiandosi al bordo del tavolo, poi guardò fuori dalla finestra: stava albeggiando, il cielo si era fatto color pervinca, vagamente sfumato di rosa verso il basso. Gli edifici emergevano pian piano dalla foschia del mattino, i primi uccelli diurni cominciavano a far sentire i loro richiami.
Si portò all’aperto ed emise un sospiro di sollievo nel sentire l’aria tiepida sulla pelle. Dopo il silenzio gelido della villa, gli parve di cogliere nella natura innumerevoli, rassicuranti rumori.
Attraversò il cortile sul quale si affacciavano gli edifici di servizio, raggiunse il limitare della vegetazione. Coperto di rampicanti, il piccolo mausoleo appariva indistinto nelle brume dell’alba.
Lo raggiunse. Tutto era come l’aveva lasciato, ma al tempo stesso era come se non lo fosse, perché in ultima analisi era cambiato il significato di quello che stava vedendo: ciò che aveva fino a quel momento interpretato come vandalismi o sabotaggi era in realtà la protesta di un fantasma adirato.
Si appoggiò a una delle colonnine dell’edificio mentre una sorta di vertigine minacciava di sopraffarlo: un fantasma. I fantasmi non esistono, avrebbe detto a chiunque prima di quella notte.
I fantasmi sono proiezioni psichiche, sono leggende per spaventare gli allocchi. Sono il retaggio irrazionale di una cultura popolare basata su credenze e non su dati scientifici.
Sì, col cazzo,” si trovò a dire a voce alta.
Abbassò gli occhi sulla tomba e per un po’ rimase a contemplarla in silenzio. Cosa avrebbe dovuto fare? Non lo sapeva.
Riusciva a riconoscere una contabilità fraudolenta con una semplice occhiata ai libri mastri, gli bastava un colloquio di dieci minuti per individuare il marcio in un’offerta commerciale, sapeva stare dietro a un debitore con la perseveranza impersonale di un branco di iene che insegue il bufalo ferito, ma fino a quel momento aveva relegato con disprezzo il soprannaturale tra le chiacchiere da comari e non se n’era mai occupato.
Quindi che fare?
Di nuovo fissò la tomba. La prima cosa che gli venne in mente fu quella di vedere cosa c’era dentro. Non che si aspettasse di trovare la sposa di Dracula o cose del genere, tuttavia la sua impostazione era e rimaneva scientifica, anche di fronte a una faccenda di quel genere, e risolvere un problema implicava necessariamente conoscerne tutti i termini.
Peraltro, non gli pareva esattamente una cosa normale che ci fosse una tomba in un giardino. Il posto delle tombe era notoriamente il cimitero.
Si chiese se fosse quello il problema: magari la signora Barrow era nel posto sbagliato. Magari – va a sapere – in un cimitero si creavano le condizioni ottimali per far finire gli spiriti nel posto giusto, qualunque esso fosse, mentre al di fuori delle mura consacrate questo non succedeva.
Il ragionamento era debole, lo riconosceva da solo, non teneva conto di innumerevoli variabili, come l’inumazione di atei o tombe al di fuori dei camposanti da cui però non scaturivano fantasmi, ma in effetti non aveva altri elementi da cui partire.
Andò all’edificio nel quale erano conservati gli attrezzi e si procurò un palanchino, poi tornò al mausoleo.
Per l’ennesima volta fissò la tomba: era una lapide bianca, semplice e linda, probabilmente come doveva essere stata la signora Barrow in vita. Faceva venire voglia di sedersi lì di fianco, di parlarle, quasi, come si sarebbe fatto con una vecchia zia buona e saggia.
L’idea di serenità che comunicava sembrava non avere nulla a che fare con tutto il bailamme che succedeva di notte.
Piantò il palanchino in una fessura e fece forza. Con un rumore raschiante che sembrava uscito da un film horror, il blocco di marmo si spostò di mezzo pollice[2].
Non successe assolutamente niente. Non scaturirono dalla fossa entità soprannaturali e non si udirono lamenti o grida. Il cielo rimase azzurro, la temperatura non si abbassò, gli uccelli continuarono a cantare imperterriti.
Altra spinta, altro movimento della lapide.
Pian piano, la pietra fu spostata quel tanto che avrebbe consentito di dare un’occhiata a quello che c’era sotto.
Austin appoggiò da una parte il palanchino, quindi si terse il sudore dalla fronte. Scrutò dapprima con vaga esitazione il buco nero che gli si apriva davanti ai piedi, quindi trasse di tasca il cellulare, attivò la torcia e la puntò nella fossa.
Non c’era niente.
L’uomo aggrottò le sopracciglia e si inginocchiò per guardare meglio, ma dovette arrendersi all’evidenza: quella che stava illuminando era una cavità completamente vuota.
Si rialzò perplesso e di nuovo si pose la fatidica domanda: che fare?

§

Austin si sedette al tavolo della cucina. Gettò un’occhiata al contenitore con l’insalata pronta, ma la forchetta rimase al suo posto, a sinistra e perfettamente allineata al bordo della tovaglietta.
La giornata era trascorsa infruttuosa. L’avvocato Keynes non si era fatto trovare, la signora Boyle aveva rifiutato di vederlo. Il signor Donovan gli aveva fatto un’altra telefonata: la banca aveva sicuramente capito qualcosa, non c’era più tempo.
E lui, per la prima volta nella sua vita professionale, non sapeva che pesci pigliare. Dedicò un’altra occhiata alla cena, ma poi la spinse addirittura via.
Le luci ebbero un’oscillazione: eccola che tornava, e lui non sapeva che fare.
Cosa vuoi?” chiese a voce alta.
Le luci sfarfallarono di nuovo.
Dimmi cosa vuoi, no? Così la facciamo finita.”
Le luci si spensero e si riaccesero.
Bah,” brontolò Austin poco convinto. Diede un’altra occhiata alla cena, poi girò le spalle e si ritirò in camera.
Quella notte fece un sogno: nella stanza senza finestre, quella dove Borowicz aveva fotografato la prima parete deturpata, c’era una porta e da essa si dipartiva una scala che scendeva.

Nonostante la sua consolidata abitudine di lavarsi e sbarbarsi prima di qualsiasi altra cosa, non appena si svegliò, Austin si vestì sommariamente e corse nel piccolo vano.
Sul muro opposto alla porta c’era un crepa verticale, che partiva dal pavimento e si fermava a metà altezza.
A quella vista, egli corse a prendere la mazza da muratore e con tutte le sue forze l’abbatté contro la parete. Un mattone cadde rivelando un vano buio, dal quale uscì una zaffata di muffa e limo. Austin prese il cellulare, attivò la torcia e scrutò al di là: c’era una scala, e andava verso il basso.
I successivi quaranta minuti li trascorse a demolire la parete. Quando ebbe creato un vano sufficiente a consentire il passaggio, si procurò una torcia più potente e scese.
I gradini erano scavati direttamente nella pietra e le pareti, man mano che procedeva verso il basso, diventavano sempre più grezze e irregolari.
Alla fine c’era una grotta. Il vano era probabilmente di origine naturale, ma era stato scavato e ampliato da mani umane, che l’avevano anche reso approssimativamente quadrangolare.
Al centro, su due cavalletti, c’era una bara coperta da uno strato di polvere e muffa. Contro una parete c’era una cassa di metallo chiusa da un catenaccio.
La temperatura, già fredda in quel luogo sotterraneo e chiuso, calò d’improvviso. “Sei qui, vero?” chiese Austin.
Ah, memoria, nemica mortale del mio riposo,” sussurrò una voce femminile, così lieve che l’uomo non avrebbe saputo dire se l’aveva sentita veramente o solo immaginata.
Egli non gettò nemmeno un’occhiata al feretro, era abbastanza chiaro chi contenesse. Rivolse invece la sua attenzione alla cassa: vi si chinò dinnanzi e l’aprì, rivelando una serie di volumi. Ne prese uno a caso: era un libro mastro vergato a mano. Con qualche difficoltà per la grafia antiquata, scorse le varie voci, trovando fra le altre quaderni da scuola, una lavagna, medicinali, cuoio per fare scarpe, stoffa per corredi e simili.
Il documento era in un ordine scrupoloso.
Trovò poi dei libri paga e una cartella nella quale erano conservate numerose ricevute, anch’esse in un ordine che stupì persino lui.
Infine c’era un diario.
Portò tutto in cucina, si procurò carta e penna per prendere appunti, poi si immerse nella lettura. Di tanto in tanto aveva la sensazione che qualcuno stesse leggendo da sopra la sua spalla, ma per il resto nulla turbò la sua concentrazione.
Quando ebbe terminato, aveva praticamente riempito il blocco. Scorse le pagine coperte della sua scrittura fine e ordinata, quindi si procurò un ulteriore foglio, sul quale cominciò a elencare una serie di punti:

- I fantasmi esistono.
- A Christineberg c’è un fantasma, cosa vuole? Risp.: Verità, cfr. scritta su muro.
- Verità, perché? Risp.: Associazione storica dice calunnie su tenuta. Perché? Disonestà intellettuale? Forse figura sig.ra Barrow inaccettabile per mentalità attuale?
- Opuscolo vecchio vero – Libro associazione falso (cfr. libri mastri etc. + diario).
- Museo chiuso causa intervento soprannaturale?Ira sig.ra Barrow?
- Frase memoria/riposo: forse situazione attuale non permette eterno riposo a sig.ra Barrow? Sig.ra vuole andare a… (dove vanno gli spiriti)?
- Bara nella grotta: sig.ra Barrow desidera sue spoglie rimanere Christineberg (cfr. diario per descriz. evento). Possibile murare nuovamente accesso? Controllare problemi sanitari.
- Cosa dire sig. Donovan?

Picchiettando sul tavolo con la penna, Austin rilesse attentamente ciò che aveva scritto. Fatto questo posò il foglio collocandolo con il margine inferiore esattamente parallelo al bordo del tavolo, si alzò e accese la macchina per il caffè, quindi, nell’attesa che la bevanda fosse pronta, andò finalmente in bagno a lavarsi e a farsi la barba.
Al ritorno si versò una tazza di caffè, la sorbì con calma, lavò il recipiente e lo depose capovolto nell’acquaio.
Fu solo a quel punto che prese il cellulare e compose il numero del signor Donovan.
Come sta andando?” berciò nel microfono l’imprenditore.
Bene.”
Seguirono alcuni secondi di silenzio, poi giunse la stupefatta replica: “Bene? Come sarebbe a dire? Il problema è risolto?”
Diciamo che lo sarà se lei farà alcune cose.”
Altri secondi di pausa, poi: “Chi è che vuole mazzette?”
Nessuna mazzetta, signor Donovan. Ho trovato alcuni documenti storici nella villa, sarà necessario farli pubblicare.”
Cosa? Cosa cazzo hanno a che fare dei documenti storici con gli stronzi che mi sabotavano il lavoro?”
Ho stipulato un accordo: se ci sarà la garanzia che i documenti verranno pubblicati, gli atti di sabotaggio cesseranno.”
La voce dell’imprenditore assunse un tono di incredulità: “Con chi l’avrebbe stipulato, questo cazzo di accordo? La pubblicazione, poi, quanto mi verrà a costare?”
Sicuramente meno di quello che al momento sta rischiando di pagare alla banca.”

§

La festa di inaugurazione era nel pieno dello svolgimento. Abbronzatura perfetta, smoking di sartoria, un raggiante signor Donovan riceveva gli ospiti sulla porta.
La villa era aperta e completamente illuminata, uomini e donne in abito da sera, chi con un bicchiere e chi con un piatto del buffet in mano, chiacchieravano distrattamente, ammirando gli arredi d’epoca e i pavimenti a palladiana, per l’occasione lucidati praticamente a specchio.
Un po’ discosto dalla folla, Austin osservava serio lo svolgersi dell’evento. Teneva d’occhio soprattutto un tavolino sul quale, disposte a piramide, c’erano un certo numero di copie omaggio di un libro dal titolo: ‘La verità su Ingeborg Barrow’. La gente passava, le sfogliava, qualcuno se ne portava anche via una.
Il fantasma non aveva più dato segno di sé, il che forse significava che se n’era andato, o magari stava rispettando la sua parte dell’accordo.
Uscì in giardino: il garden designer aveva superato se stesso e la distesa di piante mezze inselvatichite che circondava la tenuta si era trasformata in un magnifico parco. Il mausoleo era rimasto, ma il signor Donovan aveva voluto che la lapide fosse rimossa.
La cosa in fondo aveva poca importanza.
Austin si sedette su un gradino, si appoggiò all’indietro e chiuse gli occhi. Dalla villa giungevano musica forte e voci, percepì la risata stridula di qualcuno che doveva già essere parecchio ubriaco.
Poi udì il fruscio di passi in avvicinamento e una voce chiese: “Signor Austin, è qui?”
L’uomo si riscosse bruscamente. Scattò in piedi e si sistemò le falde della giacca. Individuò lo spencer bianco di un cameriere. “Eccomi,” rispose.
Meno male, l’ho cercata dappertutto. Il signor Donovan vuole fare un discorso, ci tiene che ci sia anche lei.”
D’accordo,” rispose lui con poco entusiasmo, “vengo subito.”
Mentre stava per allontanarsi in direzione della villa, un refolo freddo gli scompigliò i capelli. Percepì qualcosa come un bacio sulla guancia mentre nell’aria echeggiava, di certo per l’ultima volta, il canto che ormai aveva imparato a conoscere.







[1] Nel folklore locale, lo spirito di un trapassato.
[2] Un pollice corrisponde a 2,54 cm.

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