La boutique errante di Odette

di Claire DeLune
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** In cui Nilsa viene assunta in uno strano negozio ***
Capitolo 2: *** In cui Nilsa entra in un castello volante ***
Capitolo 3: *** In cui Castiel per poco non uccide Nilsa ***



Capitolo 1
*** In cui Nilsa viene assunta in uno strano negozio ***


1.
In cui Nilsa viene assunta in uno strano negozio
 
   Come avevi sempre temuto, non sei durata molto al Cosy Bear Cafè.
   Clémence ti ha licenziata alla prima occasione, al primo errore, tutto pur di tenermi lontana dal suo adorato Hyun.
   Lei e la sua ridicola gelosia, sintomo di una qualche strana forma di crisi di mezza età. Gelosia talmente radica e accecante che, miscelata al preoccupante istinto predatorio da MILF, le impedì di notare che non hai mai nutrito il ben che minimo interesse nel timido, altruista e amichevole coreano e che, ammesso il contrario, ha avuto l’effetto collaterale di prosciugarle via quel minimo di logica sufficiente a tenerle presente che, se volessi, avresti tutte le opportunità di questo mondo volte a tuo favore, per farlo cadere ai tuoi piedi. Cosa forse già accaduta…
   Il pretesto nello specifico sembra quasi una barzelletta, rievocandolo adesso alla memoria.
   Stavi oltrepassando la porta a vetri del bar con un vassoio straripante di bicchieri e tazze vuote che imploravano di essere messi in lavastoviglie – dannati liceali –, ma, mentre ti accingevi a raggiungere Hyun al bancone, un gatto rosso striato ti sfrecciò tra le gambe alla velocità della luce, facendoti perdere l’equilibrio. Cadesti rovinosamente a terra e con te le porcellane, che si frantumarono in mille pezzi tutt’intorno. Fu una fortuna che, tralasciando il tuo ego e il tuo tergo, tu non ti sia ferita.
   Clémence, udendo il frastuono, uscì dalla cucina come una forsennata, coi capelli raccolti in una crocchia scomposta, il grembiule macchiato qua e là di farina e confettura, le maniche della blusa aderente leopardata risvoltate sino ai gomiti, e le braccia sollevate a mezz’aria per non sporcarsi d’impasto. Se possibile, sembrava ancora più vecchia così. Più vecchia e zozza di quanto non fosse già normalmente.
   I suoi occhi nocciola, contornati dal trucco pesante, vagarono per tutta la sala, dal gatto che si leccava indifferente in un angolo, ai frammenti del servizio sparsi a terra, fino alle mani di Hyun che ti aiutavano a rimetterti in piedi ancora sconclusionata, spazzolandoti via qualche briciola.
   L’incarnato del suo volto cambiò gradatamente tonalità, in linea con la sua rabbia, da un rosa vivace a un’incandescente pervinca, e man mano che una nuance lasciava posto ad un’altra, la sua espressione si deformava sempre più con essa. Le sue iridi divennero infuocate, le orbite tonde, gonfie e sporgenti come quelli di un’oranda telescopio, mille zampe di gallina si ramificarono agli angoli esterni dove le palpebre si congiungevano, e le labbra color fango si spalancarono in una smorfia animalesca.
   La reazione fu immediata.
   Le grida della donna raggiunsero ottave che persino una soprano lirica si sognava, e parole confuse sbroccarono da quella sua bocca volgare, come una diga sfondata dall’acqua. Non una sola frase era di senso compiuto, tale era la fretta e la furia con cui passava da un argomento a un altro, finché non arrivò al fatidico verdetto, esprimendo un concetto fin troppo semplice e chiaro quanto spietato.
   «Sei licenziata!».
   Un pesante silenzio calò nella stanza.
   Hyun, dopo un minuto buono di ammutolimento, provò a difenderti. Invano.
   «Basta, Hyun!», la cougar alzò una mano all’altezza del suo viso, «L’hai già coperta troppe volte. Stavolta non posso lasciar correre».
   «Ma il gatto…».
   «Togliti l’uniforme», lapidò, «E non farti più rivedere, nemmeno come cliente. Sei una disgrazia». Con quelle parole attraversò la stanza, aprì lo sgabuzzino a muro e ne estrasse una scopa e una paletta.
   Ti levasti la divisa e il berretto, livida e a denti digrignati, e li tendesti al cameriere, al tuo ex-collega, il quale li prese con un’espressione affranta stampata in faccia, «Mi dispiace… I-io… Ho cercat–».
   «Non ti preoccupare», lo interrompesti, «Non è colpa tua. Anzi, forse è meglio così».
   Uscisti dal locale decisa a non rimettervi mai più piede e t’incamminasti stanca e afflitta in direzione del campus. Davanti al cancello incontrasti una ragazza minuta e mingherlina, coi capelli a caschetto platino, sfumati di confetto lungo le punte, tutta sorridente e pimpante, in netto contrasto con lo stile gotico dei suoi vestiti, sorriso che si dissolse non appena decifrò la delusione sul tuo volto.
   «Cos’è successo?», chiese Chani senza nemmeno salutare.
   «Clémence… Ho perso il lavoro», singhiozzasti dopo una, all’apparenza infinita, pausa.
   Subito la ragazza ti avvolse le spalle in un abbraccio – gesto inusuale da parte sua, costantemente prigioniera della sua personale bolla di sapone –, «Non abbatterti. Quella pazza non si merita le tue lacrime».
   Tirasti su col naso, alzando gli occhi a incrociare quelli glaciali dell’altra, evidenziati dallo smokey nero, che vedevi sfuocata attraverso il velo del pianto, «Come farò adesso? La retta universitaria la pagano i miei genitori, ma l’affitto della camera è una mia responsabilità».
   «A questo proposito io ho la soluzione», affermò risoluta, «Sto proprio andando adesso al negozio dove lavoro, il mio capo sta cercando un’altra commessa part-time».
   «Ma Chani, io non so nulla di esoterismo, pietre e tutta quella roba».
   La tua amica sollevò un sopracciglio stizzita, il termine roba non le piacque affatto sentirlo, ma per amor della vostra amicizia decise di lasciar correre, «Ci penserò io ad insegnarti tutto. E comunque la proprietaria del negozio è disponibile e alla mano, non si farà problemi a formare un novizio».
   «Ne sei sicura?».
   «Certo!», ti prese sottobraccio, «Mal che vada non ti assume, ma tentare non nuoce».
   Emettesti un ultimo grugnito nasale, annuendo, «Non lo sapremo mai se non provo».
   «Questo è lo spirito!», esclamò, porgendoti un fazzolettino, «Forza, andiamo».
 
   Dopo un breve tragitto a piedi, raggiungeste il centro città, passaste accanto al negozio di abbigliamento di Leigh, proseguiste appena oltre, e infine imboccaste una viuzza secondaria. Non vi era nulla a parte l’insegna malandata di un negozietto, appesa perpendicolare al muro da due asticelle in ferro battuto, e costituita da pannelli di legno intagliato a formare uno scudo a punte blu cadetto, circondato da gigli e rametti dorati, ove al centro una pomposa ‘J’ pavone coi bordi in oro dava bella mostra di sé.
   «È l’iniziale del cognome di famiglia», disse Chani di punto in bianco, leggendo dalla tua espressione dubbiosa cosa stessi pensando – o di ciò ti convincesti in un primo momento –, «Però non so quale sia. Non vuole rivelarlo».
   Ti voltasti stupefatta in direzione dell’eccentrica ragazza, «Non sai come si chiama la tua datrice di lavoro?».
   «Conosco soltanto il suo nome, Odette, ma tutti la chiamano Madame». Detto questo, spinse la portafinestra, facendo trillare la campanella sopra di essa e la tenne aperta per farti passare.
   Ciò che ti si parò davanti agl’occhi sapeva dell’incredibile. Il negozio non era particolarmente grande, anzi, era decisamente piccolo, e pareva ancora più ridotto a causa di tutte le cianfrusaglie ammassate l’una sull’altra quasi a casaccio, dando l’impressione che la stanza potesse esplodere da un momento all’altro. Eppure, dandovi la giusta attenzione, si poteva individuare un certo ordine nella disposizione dei vari oggetti.
   Alla tua destra un’ampia libreria ricopriva per intero la parete, straripante di antichi tomi dalle variopinte copertine in cuoio e didascalie sfarzose.
   A sinistra, suddivisi sugli scaffali per colore, vi erano dei barattoli in vetro con all’interno polveri ed oli dall’aria pregiata. Alcuni erano grandi, altri minuscoli; alcuni avevano forme regolari, altri bizzarre, tonteggianti oppure spigolose, come se il mastro vetraio che le realizzò fosse indeciso su come crearle. Sotto ad ognuno di essi, attaccate al legno delle mensole, c’erano delle etichette, e poco più sotto prendeva vita il bancone che costeggiava tutta la parte interna del negozio fino allo stipite più vicino della libreria. Era in quercia, ricoperto da una spessa lastra di cristallo volta a proteggere le pietre dure e semipreziose esposte al suo interno, anch’esse sistemate per colore e con la rispettiva didascalia.
   Al di là del mobile v’era la scansia più disordinata di tutte, quella che a primo impatto ti aveva dato l’idea che gli oggetti lì dentro fossero riposti alla ben e meglio. Infatti, c’erano ampolle, specchi, rotoli di stoffa, pendoli in quarzo, lampadari mediorientali, piume d’oca e inchiostri, cestini, quadretti, post-it attaccati alla rinfusa, fiori infilati chissà come tra i vari articoli, pergamene arrotolate.
   Quel posto era una contraddizione unica, passava dall’ordine maniacale al caos più disturbante e totale. Eppure, nonostante il senso opprimente che tutta quella minutaglia conferiva al posto, influenzato anche dalla penombra circostante, il locale ti donava una piacevole sensazione di calma e accoglienza, e, da non dare per scontato, persino quell’aura mistica tipica di un covo di maghi era palpabile, proprio come ci si aspetterebbe da una boutique esoterica.
«Madame, ho portato un’amica. Penso potrebbe essere un’ottima candidata per il lavoro part-time», Chani ti strizzò l’occhio. Sapevate entrambe che avesse calcato un po’ la mano, sei una vera maldestra.
   Udisti un movimento al di là del bancone, il rumore di qualcosa di pesante che viene spostato a fatica, e infatti, dopo qualche istante, una donna sulla trentina inoltrata emerse dagli innumerevoli scatoloni sul pavimento, uno in particolare lo poggiò sul ripiano ligneo e cominciò a svuotarne il contenuto.
   Aveva i capelli lunghi e ricci di un caldo e intenso rosso ramato, che le contornavano l’incarnato rosato e spruzzato di lentiggini, mettendo in risalto le iridi giallo limone, fisse su di te come quelle di un felino.
   Quanti anni aveva quella donna?
   Il viso era giovanile, quasi puerile, ma dagl’occhi traspariva qualcosa, una saggezza, una consapevolezza del mondo che era tutto fuorché immatura.
   «Lei è Nilsa».
   Per un attimo ti sembrò che le sue pupille tremolarono al suono del tuo nome, «Nilsa».
   Facesti un passo in avanti, allungando la mano, «Piacere di conoscerla», lei la guardò ma non accennò a stringerla. Voleva qualche dimostrazione prima?
   Ansiosa, cominciasti a vaneggiare, parlando a raffica come eri solita fare nei momenti di panico. Come potevi non essere agitata, quel lavoro ti serviva.
   «Non ho molta esperienza come commessa, ho lavorato perlopiù come cameriera, ma le assicurò che lavorerò sodo, imparo molto in fretta…».
   Un sorrisetto compiaciuto le curvò le labbra carnose, mentre si portava i pugni ai fianchi, «Hai gli stessi orari di Chani in università?».
   La sua domanda improvvisa ti lasciò un attimo interdetta, «… Sì, tralasciando i corsi a scelta».
   «Molto bene. Fammi sapere le fasce orarie in cui sei disponibile, così da organizzare la rotazione dei turni dalla settimana prossima in poi», la donna vi diede le spalle, cominciando a sistemare gli articoli sulle varie mensole, «All’inizio verrai affiancata da me o da Chani e quando ti riterrò pronta ti affiderò il negozio». Si voltò di scatto a guardarvi in attesa di qualcosa.
   «Sta dicendo che sono assunta?», chiedesti dopo un bel po’ ancora più inebetita di prima, «Così? Senza una prova?».
   «Il mio intuito mi dice che te la caverai. Sei libera sabato pomeriggio?», annuisti, «Bene, ti aspetto per le 15. Sii puntuale».
   I tuoi occhi si illuminarono come due supernove, «Grazie! Grazie mille, Madame!».
   La proprietaria puntò lo sguardo sull’elegante quadrante bianco perla dell’orologio da polso, «Manca ancora un quarto d’ora all’apertura, Chani, perché non le mostri il negozio?».
   L’interpellata sorrise educata, «Certo».
Ϡɝϗ

Quel sabato ti presentasti al negozio come da accordi, ma la titolare sembrò meno amichevole rispetto alla volta precedente.
   Ti prego, fai che non sia un’altra Clémence…
   Non facesti in tempo a pensarlo che la donna si girò a guardarti colpevole, «Scusami, Nilsa, per la pessima accoglienza. C’è stato un errore con una consegna stamattina ed ora sto cercando di rimediare».
   Le sorridesti sollevata, «Non si deve scusare, comprendo la sua preoccupazione».
   Prese in mano il cellulare, «Vado un attimo sul retro, devo chiamare quegli idioti del Centro Assistenza. Se non torno in tempo, apri tu il negozio, per favore».
   «Nessun problema».
   Madame abbozzò un sorriso e sparì oltre il portone che dava sul magazzino.
   Passarono diversi minuti, ma la titolare proprio non ne voleva sapere di rientrare. Esalando un respiro profondo e ripetendoti che tutto sarebbe filato liscio, che sarebbe tornata presto, girasti il cartello appeso alla vetrata sul verso con scritto Ouvert1, e sbloccasti la serratura della maniglia.
   Non facesti in tempo ad andare dietro al bancone, che la campanella annunciò l’ingresso di un cliente. Ti voltasti di scatto verso la fonte del suono con il tuo sorriso migliore, cercando di nascondere il nervosismo, ma presto quello stesso sorriso si tramutò in una smorfia, studiando lo strano giovane incappucciato dinanzi a te.
Era piuttosto alto e longilineo, ma non riuscivi a vedere granché del suo viso celato dal cappuccio, giusto qualche ciocca corvina che gli mascherava gl’occhi e le labbra ceree contornate dal pallore dell’incarnato.
Tuttavia, sebbene fosse davvero smunto e dall’aspetto malaticcio, ciò che attirò maggiormente la tua attenzione fu il suo abbigliamento, tutto fuorché comune.
Indossava un’aderente lupetto nero accollato senza maniche, che evidenziava il fisico asciutto e ben costruito, nessun muscolo era lasciato all’immaginazione. Sopra ad esso portava un haori2 viola con delle gerbere rosse ricamate su tutta la parte inferiore dell’indumento, colore poi riutilizzato per delineare i bordi dello stesso. Tonalità troppo sgargianti per essere un kimono da uomo. Nessun haori-himo3 allacciava le asole poste ai lati della chiusura dell’haori, che, anzi, veniva fissato malamente in vita da una cintura arancio brillante arricchita da una moltitudine di ghirigori, che contrastava amabilmente con il capo tradizionale giapponese, ma che, allo stesso tempo, riprendeva le cuciture ricche sui pantaloni attillati, anch’essi a mettere in bella mostra le gambe toniche.
Nella parte interna del pantalone era presente il medesimo tessuto ornato di fiori dell’haori, mentre quella esterna era fatta di seta nera così lucida da confondersi con gli anfibi in pelle, alti sino a metà stinco e dal design futuristico quasi indescrivibile.
Le braccia erano velate da delle maniche posticce bianche, fissate sull’omero da un cinturino – lo sapevi perché una delle raglan dell’haori, la sinistra, era volutamente portata a penzoloni lungo il costato –, anch’esse sontuosamente decorate da fili perlacei che, in base ai movimenti, riflettevano l’argento o l’oro; si aprivano sul dorso delle mani lievemente a campana, lasciando spazio ai guanti senza dita di cuoio fosco.
Per chiudere in bellezza – si fa per dire –, appesi alla cintura portava dei cordini verde giada intrecciati tra loro, i cui nodi formavano i gancetti per dei bizzarri ciondoli acuminati e dall’aria tagliente, che vagamente ricordavano gli shuriken4 dei ninja.
Dire che eri rimasta senza parole è un eufemismo.
L’uomo sorrise a mezza bocca, ghigno tutt’altro che rassicurante, mentre tirava giù il cappuccio, che altro non era che una badiale sciarpa scura. Ti sentisti avvampare sotto al suo intenso sguardo ardesia, così acuto, scrutatore e anche un pelo malizioso, davvero simile a quello di qualcun altro, nonostante fosse allo stesso tempo completamente diverso. Ti riportò alla mente Castiel, il tuo ex del liceo con il quale da poco avevi riallacciato i rapporti, è ciò ti confuse.
Chi era l’eccentrico giovane che ti fronteggiava?
La sua bocca, già schiusa in quel vezzo flautato, si arricciò ad articolare una frase, e la voce che gli vibrò tra le labbra era limpida e bassa come il suono del vento, «Una nuova commessa», decretò squadrandoti, «Madame non c’è?».
Dovesti prendere un respiro profondo prima di rispondere, non volevi lasciar trasparire l’effetto che quel giovane uomo aveva su di te, «È impegnata al momento. Come posso esserle utile?».
«Da quanto lavori qui?», chiese a bruciapelo, cogliendoti alla sprovvista. L’agitazione era palpabile sul tuo volto.
«È il mio primo giorno».
A quell’affermazione, egli arricciò il naso, «Non vorrei sembrare scortese, ma preferisco aspettare Madame».
«Naturalmente. Posso offrirle qualcosa da bere nell’attesa?».
«Un tè, grazie. Il tuo preferito», concluse guardandoti sott’occhio, per poi piegarsi sul bancone ad ammirare le pietre.
Il mio preferito? Che richiesta bislacca.
Scombussolata, ti dirigesti al bollitore elettrico, versasti all’interno dell’acqua e lo azionasti; successivamente apristi la scatola dei tè, leggendo attentamente i nomi sulle bustine.
Non so nemmeno se Madame ce l’ha il mio preferito.
Dopo un’attenta ricerca, una bustina terracotta attirò il tuo interesse, la prendesti tra indice e pollice e la voltasti a leggerne il contenuto: Roobois cannella e arancia.
Un’inaudibile Oh scivolò tra le tue labbra, Eccolo, era pure della tua marca preferita.
Mettesti la bustina in infusione, preparando un piccolo vassoietto rettangolare beige con dei tovagliolini, delle bustine di zucchero e una tazza di vetro liscio. Una volta pronto, versasti il liquido rossastro nel recipiente e poggiasti un cucchiaino sul piattino, infine servisti il cliente che osservava superbo ogni tuo singolo movimento. Se c’era una cosa che Clémence ti aveva insegnato, era a disporre con eleganza ogni cosa difronte al commensale. L’unica cosa che ti rimarrà di quel postaccio.
Il giovane raccolse la tazza per il manico, catturato dal colore vermiglio della bevanda e poi dall’aroma degli agrumi. Ne bevve un sorso, che trattene un poco sulla lingua prima di ingoiare, «Sapore interessante, lievemente dolciastro».
«È l’assenza di caffeina a renderlo tale».
«Graziosa, aggraziata e pure attenta ai dettagli. Sono cosa rara da trovare al giorno d’oggi in una ragazza». Lo disse con un’aria contrita che ben non si sposava con l’espressione rilassata e gioviale, che, però, non ti impedì di notare il tono pensoso, formale e la scelta accurata di parole che adottò. Erano termini che un tuo coetaneo, per quanto quel ragazzo lo potesse sembrare, non avrebbe usato.
«Non tutti servono il Roobois nelle tazze di vetro, come farebbero i popoli del Sudafrica», alzò la tazza a metà strada tra il tuo viso e il proprio, «Un vero peccato, non trovi? Sprecare alla vista un colore così bello», la riappoggiò sul piattino, «Si possono capire molte cose attraverso i gusti delle persone».
«Suppongo di sì».
«Un mio amico apprezzerebbe particolarmente questa fragranza. Molto più di me che amo i sapori decisi».
All’istante la tua mimica s’irrigidì, rendendoti conto della gaffe, e in quel preciso momento lui scoppiò a ridere, tornando a fissare le pietre, «Adorabile», bofonchiò, bagnandosi le labbra. Con quel gesto, il lungo ciuffo corvino, che fino a quel momento gli aveva celato gran parte del viso, si sollevò quel tanto da far intravedere una benda nera a coprire l’occhio sinistro.
Ingoiasti un groppone di saliva, domandandoti perché la indossasse, «C’è qualche pietra che ha attirato il suo interesse?».
Il suo unico occhio visibile ti fulminò con lo sguardo, pietrificandoti sul posto, ma non facesti in tempo a ricomporti, che il campanello della porta trillò di nuovo.
«Eccoti qui, Punte Corte!», sbottò il nuovo arrivato. Un ragazzo allampanato, con lunghissimi lisci capelli indaco, raccolti in un’ordinata coda bassa.
Portava una giacca tal taglio militare bianca con le cuciture acquamarina – come le sue iridi irriverenti – e le spalle dello stesso blu della parte inferiore di essa, lunga sino al ginocchio e chiusa dalla cintura steampunk e dal cordone ametista tipico dei monaci buddhisti. La parte superiore era ulteriormente fissata da delle asole dorate, cucite all’orlo in filigrana d’oro che delineava tutta la giubba, e che lasciavano intravedere la maglia modellante a collo alto a V blue navy, la quale proseguiva fin sotto la cinta e si apriva ai lati come due candide ali rovesciate di piume bianche.
Appena sotto, un paio di pantaloni morbidi nivei si perdevano gonfi negli stivali pomposamente decorati, in coppia con le protezioni che portava agli avambracci. La base era blu scuro con delle rifiniture dorate e la punta era verde-acqua, proprio come la fascia satinata che ricadeva dal lato destro del petto fin dentro la cintura, così come una seconda fascia, più grande e particolareggiata della precedente, posizionata davanti al cavallo dei pantaloni e lunga fino a raggiungere gli stinchi. Era bianca, tonalità base dell’abbigliamento del ragazzo – ti sembrava più giovane dell’altro –, con un’onda ukiyo-e5 stampata in basso, che tanto assomigliava a La Grande Onda di Kanagawa6, e delle frange blu elettrico a chiudere l’estremità verticale.
Non era un uomo naturalmente bello come si sarebbe potuto dire dell’altro cliente, anzi, se non fosse per l’aspetto strampalato e per quella che sperasti fosse una parrucca, sarebbe stato alquanto ordinario, ma era indubbio che possedesse un fascino tangibile. Ad ogni modo non furono le sue scelte stilistiche a stordirti, quanto le sporgenti orecchie a punta che facevano capolino tra i capelli.
Un cosplayer…? Punte corte?
Ti voltasti a studiare il corvino, accorgendoti allora della forma appuntita dei suoi padiglioni auricolari, sebbene più contenuta rispetto a quelli dell’altro giovane.
Ma dove diavolo sono finita?
«Ah, Ez! Stavamo proprio parlando di te», gli occhi chiarissimi di quest’ultimo si posarono annoiati su di te, «Stavamo giusto dicendo che questo tè sarebbe di tuo gradimento».
L’interpellato s’appropinquò al tavolo sbuffando, «Hai quel che ci serve?».
«No, Madame non è ancora arrivata».
«Non potevi chiedere a Chani?».
«La vedi forse?».
«E questa qui?», chiese il cosplayer, che mai aveva distolto lo sguardo dal tuo.
Questa qui?! Che razza di maleducato.
«È una novellina. Madame non le ancora insegnato nulla».
«Mi sembra al quanto persa, in effetti…», dopo un paio di secondi le labbra gli si scucirono in un disteso sogghigno che non presagiva nulla di buono, «Che buio qui dentro!», esclamò di punto in bianco guardandosi attorno come se fosse appena entrato in negozio, e non come se fosse lì già da almeno dieci minuti abbondanti.
Preoccupata a soddisfare gli acquirenti, accorresti alla pesante tenda cardinale che copriva l’unica vetrina, tirandone un lembo per far entrare la luce naturale a rischiarare l’ambiente circostante, ma, come i raggi del sole bagnarono la stanza, delle atroci urla di dolore ti inondarono i timpani.
Allarmata, ti girasti in direzione dell'agghiacciante rumore e davanti a te si parò la più straziante e sconvolgente delle immagini.
Il giovane uomo dai capelli neri si era gettato a terra, ai piedi del bancone, dove questo raggiungeva la libreria, il viso storpiato da fitte lancinanti, la sua voce squarciava l’aria come se fosse stato gettato nelle fiamme dell’inferno, l’epidermide scoperta dai vestiti fumava e tu lo fissavi terrorizzata, impietrita dalla paura.
«Chiudi la tenta!», sbraitò in preda alle convulsioni, tuttavia non accennasti a muoverti, paralizzata sul posto con gli occhi spiritati, puntati sull’occhio iniettato di sangue e sui canini fuori misura che gli si conficcavano nel labbro inferiore, puntinato di morsi.
In tutto quel marasma di grida, fumo, puzza di bruciato, l’altro ragazzo, quello che aveva definito un suo amico, rideva soddisfatto a braccia incrociate.
«La prego, faccia qualcosa!».
«Io?», chiese stralunato, come se non stesse capendo il motivo della tua implorazione.
«Che cosa devo fare?», corresti verso il moribondo.
«Schifoso bastardo!», tossicchiò, per poi allungare un palmo guantato verso di te, «Chiudi la tenda, ti scongiuro, chiudi la tenda o morirò!».
«Dannato elfo!», proruppe una terza voce alle tue spalle, così forte e acuta da sovrastare il campanello d’ingresso, ma non gli strilli dilanianti dell’uomo, che si placarono solo dopo che l’intruso, un ragazzo che ti dava la schiena ma di cui riconosceresti il timbro anche da sorda, non fece tornare la penombra nella stanza.
«…Castiel?!». L’interpellato incrociò il tuo sguardo solo per un secondo e quello bastò a inchiodarti seduta stante. Le sue iridi, dello stesso colore del corvino, erano furenti. Benzina lavata via col fuoco. Però il contatto visivo s’interruppe con la stessa velocità con cui si posò su di te, perché fulmineo si gettò sul giovane ferito, cosparso da terribili ustioni. La chioma cadmio gli scivolò in avanti, celandogli gli occhi intenti ad esaminare le bruciature sul conoscente.
«Nevra?», echeggiò, «Svegliati, Nevra!».
Lo raggiungesti di tutta fretta, «Castiel, cos’è successo? Non capisco… Ho aperto la tenda e…».
«Che cosa ti è saltato in mente di esporre alla luce del sole un vampiro senza amuleto protettivo?!», tuonò costringendoti a indietreggiare, non tanto per la frase urlata a squarciagola in sé, quanto per le iridi tintesi di rosso scarlatto e le fauci sguainate.
Ti accucciasti contro il legno del bancone, tremante e impaurita, «C-castiel… I tuoi…». Udendo quel balbettio il colore brillante negl’occhi del ventitreenne lasciò lentamente il posto al grigio nuvola di sempre, mentre si portava una mano a coprire la bocca, lo sentisti serrare la mandibola.
  Distolse lo sguardo, ordinandoti di prendere l’unguento sulla seconda mensola alla tua destra, «Quello con scritto adolebitque7».
La mano di Nevra si poggiò sul polso del rosso, «Usi ancora la pozione per tingerti i capelli di quel colore così volgare», sussurrò distrutto.
L’altro sbuffò una risata sollevata, «Sei già in vena di scherzare, vedo».
«Sempre, fratello. Io morirò ridendo, quando la mia ora sarà giunta».
«Fai in modo che non giunga».
Fratello?!
«Sei stato tu, non è vero?», l’occhiataccia furibonda di Castiel si schiantò sull’unico rimasto in disparte a godersi la scena, il quale rispose alzando le spalle indifferente, «Ti sei approfittato di Nilsa per il tuo sadico divertimento. Sapevi fosse all’oscuro di tutto. Sapevi cosa sarebbe successo e, tu – lo disse come se fosse un insulto –, lo hai fatto comunque». Con quelle parole, il musicista balzò in piedi e si scagliò sull’altro che, per quanto Castiel fosse alto, lo superava di molto in altezza; nonostante ciò, la sua prestanza fisica era ineguagliabile. Lo afferrò per il colletto, strattonandolo a raggiungere il suo livello, mentre con la mano libera stretta a pugno caricava un montante.
«Niente risse nel mio negozio!», inveii con voce stridula Madame, girando il cartello all’ingresso su Fermé8, serrando a chiave la porta a vetri e ruotando una manopola mai notata prima. L’ingranaggio era montato sul cilindro della serratura; attorno alla maniglia v’era un disco metallico con un piccolo forellino al centro della metà superiore, collegato a sua volta a un altro disco appeso allo stipite destro della porta, diviso in quattro spicchi di diverso colore. Con quel semplice movimento il disco ruotò di centottanta gradi in senso orario dal settore nero a quello verde.
Non comprendesti cosa fosse successo, ma ciò bastò a sedare gli animi, prima che il pugno del leader dei Crowstorm si scaraventasse sul viso ossuto e soave di colui che aveva soprannominato elfo.
Elfo, vampiro, amuleto protettivo. Queste parole ti vorticarono in testa con tale impeto da farti girare la testa. Ti sentisti crollare sul pavimento, ma non percepisti il tonfo né tantomeno la botta della caduta. Il capo ti si era fatto improvvisamente pesante, così tanto da non avvertire più il resto del corpo, come se la tua mente si fosse espansa al di fuori di te stessa e ti fossi ridotta ad essere solo quello. L’ultima cosa che vedesti fu l’immagine sfuocata di un’ombra che t’inghiottiva, un’ombra rubiconda.
 
[1] Francese ‘aperto’
[2] Capo d’abbigliamento tradizionale giapponese, generalmente maschile
[3] Cordone tipico con cui chiudere l’haori
[4] Frecce, punte, coltellini e dischi a forma di stelle taglienti, armi tipiche dei ninja.
[5] Corrente artistica di stampe giapponesi del periodo Edo (XVII-XX)
[6] Rinomato artista Ukiyo-e
[7] Latino ‘bruciatura’
[8] Francese ‘chiuso’

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Capitolo 2
*** In cui Nilsa entra in un castello volante ***


2.
In cui Nilsa entra in un castello volante
 
 Voci.
 Voci confuse e lontane si sovrapponevano animosamente l'una sull’altra. Ti erano familiari ma, incapace di riconoscerle, cercasti almeno di carpire il significato di ciò che dicevano, però, per quanto i toni sembrassero accesi e rabbiosi, non riuscivi a distinguere bene le parole, a causa del forte ronzio che ancora riempiva i tuoi timpani come se fossi precipitata in un nido di calabroni.
   «Non se ne parla, non è neanche consapevole di chi sia veramente», un timbro maschile sovrastò tutti gl’altri, non perché fosse particolarmente alto o adirato, bensì per la tonalità piena, voluminosa, calda e a tratti scura con cui si spingeva a note più drammatiche. Era la voce di Castiel.
   «Ci penserò io a formarla, come avrei fatto in ogni caso», rispose una donna.
   «Non c’è tempo!», eruppe una terza voce, «Ci dev’essere un altro modo».
   «Questo è l’unico modo, è il suo destino».
   «Che mucchio di boiate!», s’infiammo il chitarrista, «Mi avevate assicurato che non l’avreste coinvolta».
   «Ti avevo avvertito quando partì la prima volta, che si trovava a un bivio del suo cammino, e che la possibilità che imboccasse la via che strecciasse i vostri fati era assai remota. Di fatti lei è tornata e in breve tempo anche i tuoi poteri si sono incrementati. Non avete scelta, Castiel, è l’Universo a volerlo».
   Ma di cosa stanno parlando?
   «L’Universo…», rise amaro, «Lascia i tuoi discorsetti New Age fuori dalla questione, strega. Ci state privando della libertà, questo è l’unico dato di fatto. La state mettendo in pericolo».
   «È il tuo compito proteggerla, dovresti averlo capito ormai».
   «Non è questo il punto!», alzò il tono, «È… questo corpo».
   «Sei un vampiro, fratello», intervenne Nevra con voce spenta, spossata. Tra tutti era quello che risultava più lontano al tuo udito, ormai riacquistato quasi totalmente, cominciavi anche a sentire i loro movimenti sul parquet scricchiolante, il sibilo dei loro respiri, avvertivi la loro posizione rispetto alla tua. Sapevi di essere stesa non troppo distante da loro, su quello che doveva essere un divano.
   Sentisti il tuo ex aprire bocca, pronto a controbattere, e ti immaginasti alla perfezione anche quale posa avesse assunto, tante erano le volte in cui lo avevi visto perdere le staffe: pugno serrato a mezz’aria, busto protratto in avanti a far ombra sull’avversario per incutergli timore, palpebre spalancate, sopracciglia aggrottate e narici divaricate.
   Tuttavia, non fuoriuscì mai alcuna parola dalla sua bocca, perché fu proprio in quell’istante che apristi gl’occhi e, come essi si riempirono di luce, un bruciore pungente ti afflisse le cornee, obbligandoti a richiudere le palpebre immediatamente, a portarti due dita alla tempia e a premere con forza sul punto da dove scaturiva il dolore pulsante che, ad ogni battito del tuo cuore, si espandeva per tutta la testa tuttora pesante come un macigno, impedendoti di concentrarti a dovere sul senso di quel discorso, di cui ti convincesti esserne il fulcro.
«Si è svegliata», proferì un’altra voce, stavolta nuova, altisonante, rimbombava per tutta la stanza mascherando il punto preciso da cui si originava, interrompendo l’animata conversazione.
«Nilsa!», eruppe quella che doveva essere Madame. In quel momento non eri ancora del tutto lucida, ti accorgesti solo di un paio di braccia smilze, chiaramente femminili, che ti sostenevano per le scapole aiutandoti a metterti a sedere. Avevi avuto l’intuizione giusta, eri accoccolata su di un confortevole sofà in stile liberty, con lo scheletro in legno ziricote9 ricoperto da un’imbottitura verdone.
  L’ottomana era orientata ad est rispetto alla porta d’ingresso, abbastanza vicina al camino da avvertire il calore mite del fuoco accesso sulle guance. Perpendicolare al mobile c’era un minuscolo disimpegno che dava accesso a un salottino da tè, incastrato sotto ad un’areata finestra a doppia anta, e a uno stanzino chiuso, probabilmente un piccolo bagno o uno sgabuzzino.
  Dal lato opposto del salone rispetto al camino, campeggiava una grande tavola da pranzo con cucina a vista, rischiarate dalla luce lunare che penetrava dalla finestra a manca e da quella a mezzaluna sopra la porta. Alla loro destra prendeva vita la tromba delle scale e un’altra stanza.
   La carta da parati era di un tenue giallo a righe verticali che si alternavano tra spesse e sottili, quest’ultime avevano disegnato al centro un motivo floreale, dei fiori di pesco. Il colore chiaro si scontrava amabilmente con gl’infissi scuri del legno a vista, predominante in tutta la casa, e con le piastrelle splendidamente decorate del paraspruzzi del piano cottura.
   Era una casa in stile antico i cui mobili erano chiaramente autentici e tenuti con la massima cura.
   «Come ti senti?», ti domandò Madame, strofinandoti un palmo sulla schiena.
   Ancora ti tenevi il capo con una mano, quando chiedesti: «Cos’è successo?».
   «Sei svenuta, cara, sei rimasta priva di conoscenza per molto tempo».
   Ez ti si piazzò davanti, piegato sulle caviglie, sventolandoti le dita in faccia, «Quante sono queste?».
   Strizzassi un pelo le palpebre, la fitta alla testa non aveva ancora accennato ad attenuarsi, «Due».
   «Unisci i pollici alle altre dita contemporaneamente avanti e indietro un paio di volte».
   Eseguisti.
   «Come ti chiami?».
   «Dimmelo tu come ti chiami», sbuffasti stizzita. Non avevi dimenticato come ti si rivolse in negozio. La tua risposta piccata si guadagnò una sbuffata scherzosa che giungeva da dietro il divano. Castiel.
   «Ha un bel caratterino», gli sussurrò Nevra.
   «Non ne hai idea», ti sembrò di sentirlo sorridere.
   «Ti ho fatto una domanda. Non distrarti», affermò il tizio con i capelli azzurri.
   Sbuffasti, «Nilsa».
   «Dove sei nata?».
   «A Lille10 il 22 dicembre 1995».
   «Come si chiamano i tuoi genitori?».
   «Philip e Lucia».
   «Quanti anni hanno?».
   «Hai finito con questo interrogatorio? Mi stai innervosendo, mi scoppia la testa».
   «Per ora può bastare, Ezarel», Madame lo ringraziò, «Ti va un latte caldo?».
   Annuisti e la donna si alzò in direzione della cucina, ti accasciasti sulle ginocchia, con la fronte tra le mani, fissa a guardare il fuoco che scoppiettava nel camino.
   All’improvviso ebbe uno movimento innaturale e due occhietti vispi ti sorrisero sornioni, «Giornataccia, eh?».
   Raddrizzasti la posizione d’istinto, «Il fuoco ha parlato», la frase uscì in un sibilo così flebile che tu stessa faticasti a sentirlo.
   «E non è l’unica cosa che sappiamo fare».
   Ti alzasti in piedi di colpo, ancora barcollante per le vertigini, ti reggesti a fatica al bracciolo, ridacchiando come una squilibrata, «Tutto questo è assurdo, devo essere diventata pazza».
   «Nilsa…», Castiel ti sostenne per un braccio, ma tu proseguissi imperterrita il tuo soliloquio.
   «Il cosplayer, quello là ha preso fuoco da solo, i tuoi occhi che cambiano colore, e ora il fuoco che parla», elencasti tutto ciò che ti era capitato nell’arco di un pomeriggio indicando i vari soggetti uno ad uno incredula, «Sì, sì, sono impazzita, non c’è altra spiegazione».
   «Cos-cosplayer?!», strepitò il diretto interessato.
   «Guarda il lato positivo, Ezarel, non ha perso la memoria almeno», ridacchiò l’unica altra donna lì presente, porgendoti una tazza fumante, «Miele?».
   «Sì, grazie».
   «È il minimo dopo quello che mi hai fatto passare, lurido figlio di puttana», decretò il moro, seduto sul davanzale della finestra a scrutare la lontana e pallida luna piena, la cui luce gli schiariva maggiormente l’incarnato e le iridi di polvere. Sembrava una statua di cera.
   «Non sei pazza, Nilsa», dichiarò Madame, riaccompagnandoti a sedere sul divano, «Non è frutto della tua immaginazione. È tutto vero. Ezarel è un elfo, Nevra un vampiro, fratello maggiore di Castiel, Calcifer…», indicò il focolaio, «…è il demone del fuoco che si occupa di questa casa ed io sono una maga».
   La guardasti stralunata, «Ma che dice? Non ha senso».
   No, non ce l’aveva. Non aveva il minimo senso ciò che la donna stava confessando, eppure, glielo leggevi negl’occhi, in quegli occhi troppo particolari per essere naturali, che non stava mentendo, non si stava prendendo gioco di te, credeva in ciò che diceva. Erano stramaledettamente sinceri.
   Non facesti in tempo a recepire il messaggio che subito le tue sinapsi fecero un veloce ragionamento, rievocando le immagini di quel pomeriggio da manicomio.
   Castiel.
   I suoi occhi cremisi.
   I canini sporgenti.
   Nevra che lo chiamava fratello.
   Castiel, il tuo primo amore, il ragazzo a cui quattro anni prima avevi concesso la tua prima volta era…, «Un vampiro».
   Tutt’a un tratto ti voltasti nella sua direzione, tremante, e il suo sguardo, fattosi improvvisamente triste, ti freddò. Fece un passo verso di te, tendendo una mano ad accarezzarti la guancia, ma ciò che sentisti fu solo una debole oscillazione d’aria a sfiorarti la gota. Il tuo ex ritrasse la mano come se si fosse scottato e la strinse a pugno lungo il fianco, contrasse la mandibola che per poco non scattò e con un grugnito attraversò la stanza, agguantò un bicchierino di cartone da un ripiano della cucina e corse su per le scale. Se ne andò così, in silenzio, con un’espressione funerea dipinta in viso.
   Non lo avevi mai visto così sofferente, di solito portava una maschera di indifferenza. Una sofferenza che non era esclusivamente emotiva, ma anche fisica.
   Ti abbandonasti sullo schienale del sofà con la tazza di latte stretta al petto, persa, le iridi si smarrivano tra le fiamme nel camino, tra le fiamme di Calcifer, nei suoi occhietti intelligenti e, fissandoli, un’infausta realtà s’insinuò nel tuo animo.
   Mi ha mentito, Calcifer sorrise astuto leggendo i tuoi pensieri attraverso il colore dei tuoi occhi, diventati prima spenti, prosciugati, poi più scuri, duri come ametiste, una lastra di ostilità.
   «Per tutto questo tempo…», bofonchiasti poco prima di scattare in piedi come una furia, scaraventando la tazza sul pavimento, piangendo: «Mi ha ingannato!». La smorfia del demone non poté che allargarsi, era esattamente la reazione che desiderava – più o meno, avresti rischiato di spegnerlo se il latte si fosse rovesciato su di lui.
   T’accasciasti sul parquet carponi sopra ai pezzi di ceramica rotti e gridasti fuori tutta l’afflizione e il dolore che ti aveva cinto il cuore nei rovi, le cui spine tagliavano più di un coltello. Sanguinava, il sangue sgorgava copioso dagli squarci nel tuo cardio, proprio come dai palmi lesionati dai cocci di porcella. Ne sollevasti uno, sul panna freddo spiccava il rosso scarlatto del sangue che ancora fluiva fuori dalle mani.
   Madame urlò, prendendoti per le spalle e trascinandoti nel punto più lontano da Nevra, «Ezarel, trattienilo! È ancora debole, potrebbe non riuscire a resistere al richiamo del sangue».
   È così fu. Proprio com’era successo a Castiel per aver perso il controllo sulla sua emotività, anche le iridi del corvino diventarono dello stesso colore della papalina di un cardinale. Tuttavia, il bagliore che emettevano non era paragonabile a quello del fratello minore, in quelle di Nevra c’era un puro guizzo animalesco, predatore, famelico. Nevra aveva sete.
   I canini, già lievemente appunti di suo, crebbero ulteriormente fino a sporgere oltre il labbro inferiore, e il suo incarnato divenne ancora più terreo.
   Sebbene Nevra mantenesse un aspetto piacevole, con l’eclissi negl’occhi era spaventoso. Era un vampiro.
   Ezarel lo acciuffò da sotto le ascelle, facendo passare le lunghe braccia da dietro in avanti, in modo da portare gli avambracci all’altezza del collo del moro, bloccandogli le articolazioni delle spalle e tirandolo contro il proprio petto.
   «Portami via, Ez!», biascicò con voce cavernosa e roca, «Subito!».
   L’elfo lo trascinò fino allo stanzino accanto al salotto da tè, che come sospettavi si rivelò un bagno, lo spinse dentro e richiuse al volo la porta, che tenne ben salda dalla maniglia, mentre Nevra, schiavo dei suoi istinti, tentava con tutto se stesso di aprirla. Il legno della porta tremava fortissimamente e Ezarel con essa.
   «Calcifer, assicurati che non riesca a sfondarla», gli ordinò Madame.
   Il demone sbuffò, «Sempre tutto a noi il lavoro».
   Assumendo lo sguardo di chi la sa lunga, addolcì i toni, «Tu puoi riuscire a farlo, è straordinario il potere che hai».
   «Sophie…», lo sguardo arguto di Calcifer si fece improvvisamente languido, mentre il suo muso si colorava di un tenue fiordaliso e la sua espressione scocciata si tramutava in una corrucciata dalla concentrazione.
   La donna ti fece l’occhiolino scortandoti al comò tra le scale e la stanza chiusa, aprì un cassetto e ne estrasse un’ampolla dal liquido ambrato, la svitò, tolse il contagocce e te ne lasciò cadere qualcuna sui tagli. Bruciò appena a primo impatto, ma in men che non si dica le ferite scomparirono sotto alla tua occhiata stupefatta.
   «È una pozione curativa. La inventò un mio trisavolo mago per curare i taglietti sulle mani della moglie. Si pungeva continuamente mentre cuciva. Nonostante fosse la sua allieva, lei perseverava nel voler fare le faccende di casa senza ricorrere alla magia», emise una leggera e cristallina risata, alzando gl’occhi da gatto sul quadro appeso alla parete dinanzi a voi. Raffigurava una giovane coppia di innamorati che guardava dritto verso di voi. Lui era alto e snello, i capelli castani si posavano sinuosi sulle spalle, racchiudendo il volto asciutto ed esangue, su cui spiccavano due furbi occhi verde bottiglia, colore che si abbinava agli smeraldi che pendevano a goccia dai suoi orecchini. Indossava una semplice camicia bianca con le maniche a sbuffo e lo scollo ampio, dentro al quale si perdeva una sottile catenella dorata. La giacca sgargiante rosa a rombi lilla era solo appoggiata sui deltoidi.
   Teneva la mano sinistra piegata sul fianco, mentre con l’altra stringeva la vita sottile della donna minuta e all’apparenza molto più giovane di lui accanto a sé, avvolta in un elegante abito paglierino che ne vivacizzava l’austerità, su cui spiccava la lunga chioma di limato oro rosa. Notasti immediatamente una certa somiglianza tra lei e Madame, avevano lo stesso colore di capelli e gli stessi zigomi alti e imporporati, come se fossero perennemente in imbarazzo, anche il taglio degl’occhi era simile, sebbene l’iride fosse totalmente diversa. Lo sguardo di Madame era di un frizzante citrino con delle sfumature verdastre, allegri e arguti come quelli dell’uomo nel dipinto, mentre quelli dell’altra erano di un placido e rassicurante marrone.
   I due giovani portavano entrambi all’indice sinistro un anellino in oro bianco con incastonato un piccolo rubino a cabochon basso e rotondo.
   «Questo è il mio trisavolo, Howell…», indicò l’uomo, «… e questa è sua moglie, Sophie».
   Lo stesso nome pronunciato da Calcifer poco fa.
   «Sono miei lontani parenti da parte di padre. Howell era nativo del tuo mondo, mentre Sophie era di Ingary».
   Del mio mondo? Che significa “del mio mondo”?
   «Sophie era una maga di somma magnificenza, un vero talento naturale. Non studiò mai la magia fino ai diciotto anni, quando incontrò Howl, già un abile mago al tempo, ma lei era in grado di dar vita agli oggetti semplicemente parlandoci. Non se ne era mai resa conto, sinché uno sventurato giorno una famigerata strega non entrò nel negozio di cappelli della sua famiglia e, convinta fosse la nuova amante di Howl, la maledisse, tramutandola in una vecchietta. Non sapendo dove andare, Sophie fuggì nelle Lande Desolate, dove, lungo il cammino, si imbatté in questo castello mosso dal potere di Calcifer. Quest’ultimo la fece entrare per stringere un patto con lei e usare la sua magia per rompere il sortilegio che lo legava ad Howl. Il resto è storia».
   Non comprendesti molto del suo racconto, a parte che sembrasse parlare di un luogo che non esisteva, come di una realtà parallela a quella in cui vivevi tu e di un castello che si spostava in giro da qualche parte. Però, nello stato confusionale in cui ti trovavi, facesti ugualmente un breve calcolo mentale: stando alle parole di Madame, Calcifer aveva come minimo duecento anni.
   Stranamente non ti stupì più di tanto. Dopo tutto ciò che avevi appreso in quell’esigua manciata di ore, niente poteva sorprenderti, nonostante non fossi ancora riuscita a digerire la verità sulla natura di Castiel; e, forse, non era neanche quello il vero problema, anzi, adesso che ne eri a conoscenza cominciasti a dare una spiegazione ai suoi continui sbalzi d’umore, al suo distacco intrinseco, all’espressione fredda e spesso tormentata. Era un’anima in pena in senso letterale. Però, per l’appunto, il problema più grande non era la sua natura immortale, ma il fatto che ti avesse tenuto all’oscuro di essa, che non si sia fidato abbastanza di te da rivelartela, che non ti abbia dato la possibilità di scegliere di stare con lui nonostante i pericoli. Ti sentivi tradita dalla persona per te più importante, quella che in quattro anni di lontananza non avevi mai smesso di amare e di cercare negl’altri.
   Scuotesti un poco il capo per scacciare via i tristi pensieri, e una domanda sorse spontanea: «Cosa legava Calcifer ad Howl?».
   La donna sorrise sghemba, «Perché non lo chiedi al diretto interessato?».
   Il demone in questione schioccò la lingua, «Del segreto del contratto non possiamo parlare».
   A quella replica, Madame rise di gusto, «Il contratto è stato sciolto, Cal».
   «Non ha importanza, è comunque un vincolo di cui noi altri non possiamo parlare», incalzò compiaciuto da se stesso.
   «Sei libero, giusto?», ti rivolgesti direttamente a lui.
   Lui sorrise sagace, «Vuoi stringere un patto con noi?».
   «Perché presti servigio alla famiglia del tuo vecchio padrone? Sei un demone, no?».
   «Non vediamo motivo per spiegare le nostre ragioni».
   Madame ridacchiò di nuovo, «È rimasto per amore di Sophie, ma è troppo orgoglioso per ammettere che ha un cuore tenero».
   Calcifer mugugnò irritato, «Non abbiamo più un cuore da tanto tempo».
    Tutt’a un tratto Madame si fece scura in volto, «E mai lo avrai, non finché sarò in vita. Non ti è bastata la lezione?».
   La faccia del demone si fece fucsia in un misto di vergogna e sdegno, «Sempre tutti quanti a bistrattarci!», lagnò, «In particolare Howl, lui e la sua acqua calda. Passava ore in bagno. Per…».
   «Per essere un uomo coi capelli color fango, era terribilmente vanesio», gli fece il verso. Era una frase che il piccolo essere ripeteva spesso, apprendesti in seguito. Sparlava in continuazione dei maghi di cui si era occupato, specialmente del suo originale padrone, tirando fuori frecciatine, riferimenti e aneddoti sui loro punti deboli e difetti, nonostante trasparisse sempre un certo affetto nell’inflessione della sua voce. Doveva mantenere la facciata da demone malvagio.
   «Dovresti prendere in considerazione di trasformarti definitivamente in un pappagallo, dato che ti diverti a imitare. Anzi, in un merlo indiano, così saresti pendant con la tua anima nera».
   Di tutta risposta, lei roteò gl’occhi al cielo per poi tornare a sorriderti. «È stata una giornata lunga, sarai stanca».
   Annuisti, eri esausta, «Dovrei tornare al campus».
   «Non ce n’è bisogno, puoi passare qui la notte», tentasti di rifiutare, «Ti ho già preparato una stanza. Seguimi».
   Ella si avviò su per le scale senza darti la possibilità di rifiutare il suo invito, e ti portò al piano di sopra.
   La scalinata dava accesso a un lungo e stretto corridoio su cui si affacciavano diverse stanze, una parallela all’altra.
   Ti indicò una porta sulla sinistra della scalinata, «Qui c’è la mia camera, mentre là in fondo c’è quella di Castiel», puntò sulla porta in mogano più lontana da dove vi trovavate voi, «Mentre questa è la tua», concluse accompagnandoti sull’uscio a destra corrispondete proprio a quello del vampiro, «Questa stanza dà sul giardinetto interno al castello. Ho pensato potesse piacerti».
   Spalancò la porta e l’illuminazione della camera si accese in autonomia, facendo luce sull’interno.
   Al centro della stanza, sopra ad un tappeto a pelo lungo bianco, poggiato al muro occidentale, c'era il letto a una piazza e mezza con il copriletto ignifugo avorio a tinta unita, due paia di cuscini, due bianchi e due rosa caldo più piccoli, abbinati al plaid sul letto; il tutto protetto dalla cortina del baldacchino, appesa al soffitto da un gancio e allargata a mo' di tenda grazie ad asticelle sottili in legno. Accanto c'era il comodino a due cassetti in legno chiaro con una lampada di sale himalayano e una sveglia digitale, e dall'altro lato, contro la parete, un armadio a sei ante; su quello opposto ai piedi del letto v’era la toeletta candida con un organizer da trucco, la spazzola e due boccette di profumo che si riflettevano nello specchio.
   Non è possibile…, ponderasti sbalordita. I tuoi mobili non possono essersi spostati da soli e risistemati nello stesso modo in uno stabile differente. Eppure questa stanza era uguale identica a quella di casa tua.
   Totalmente stranita ti sedesti al bovindo orientato sul piccolo giardino di cui parlava Madame, che non era poi così piccolo. Era abbastanza capiente da contenere un altro focolare attaccato alla canna fumaria del camino al piano di sotto, delle sedie in vimini in veranda e un elegante tavolino in ferro battuto laccato di bianco con delle seggioline vicino al limitare dello spiazzo, immerso nel verde dell’erba e nei colori freschi delle aiuole. A destra v’era una piccola torretta, ombreggiata da piante da frutto e collegata alla veranda da un sentiero piastrellato, mentre dall’altro lato c’era un pontile che si sporgeva sul vuoto.
   Scuotendo la testa sommessamente, prendesti un libro dalle mensole che racchiudono il balcone finestrato a mo’ di libreria, – pure i libri erano gli stessi e disposti nel medesimo ordine – e lo apristi su una pagina a caso, trovandovi il segnalibro che da almeno un anno aveva preso residenza tra i fogli di quel romanzo.
   Mentre leggevi distrattamente le parole stampate, una melodia lieta e romantica, e per te nostalgica, s’infuse in tutto il tuo animo, ricolmandolo di una dolce malinconia, ma anche di una meditativa elegia per la familiarità di quelle note, strimpellate dalla chitarra acustica.
   Sollevasti gli occhi dal libro, che si persero a scrutare il paesaggio al di là della finestra, fino a posarsi sull’immagine di un ragazzo appoggiato alla ringhiera del pontile. Mentre suonava i suoi capelli cinabri venivano scompigliati dalla brezza notturna, ricchi di riflessi freddi e argentati che si mischiavano e sfumavano con le nuance innaturali borgogna e bordeaux dati dalla tinta, e il suo sguardo di Luna si perdeva nell’effige del corpo celeste che l0 colorava.
   Aveva le braccia quasi completamente tatuate adesso, la capigliatura più lunga che gli solleticava le spalle, i tratti del viso erano diventati più duri e si sposavano perfettamente con l’espressione severa, ma era rimasto bello come un tempo. Di una bellezza tutta sua e particolare che poteva non piacere, ma che non passava inosservata.
   D’istinto uscisti all’esterno, dove subito il venticello freddo ti fece rabbrividire costringendoti a stringerti nel morbido cardigan di maglia ocra, e t’incamminasti in direzione del chitarrista, il quale, senza voltarsi, cessò di suonare. Ti aveva sentita arrivare.
   Prendesti un respiro profondo e facesti un passo in avanti, Ora o mai più, ma inciampasti in un’asse sporgente, perdendo l’equilibrio e sporgendoti col busto sul parapetto.
   La voce t’uscì in un urlo strozzato, mentre ti sentivi cadere nel vuoto e il paesaggio circostante ruotava vorticosamente tutt’intorno. Cielo e terra si capovolsero, sotto i tuoi piedi c’era il firmamento e sopra la tua testa montagne innevate e vallate sconfinate, puntellate qua e là di laghi, poi nella tua visuale comparì qualcosa di metallico e arrugginito che emetteva un rombo assordante, mentre delle grandi pale, simili a quelle dei motori degli aerei, giravano e giravano, buttando fuori aria cocente.
   Stavi cascando giù da una sorta di marchingegno che volava a circa quindicimila piedi d’altezza senza paracadute, anche avendo la fortuna di tuffarti in acqua, saresti morta sul colpo per l’impatto. Era la tua fine: stramazzata e sfracellata al suolo.
    Percepivi già la vita scivolarti tra le dita, quando ti sentisti circondare l’addome da un braccio robusto ma più forzuto di quanto avrebbe dovuto essere, e tirarti indietro dalla balaustrata.
   «Stai bene?!», domandò Castiel ancora tenendoti stretta a sé.
   «S-sì», balbettasti sotto shock.
   «Non cambi proprio mai!», ti sgridò, ma eri ancora troppo sconvolta per controbattere.
   Il ragazzo esalò un respiro sollevato, «Questo è un castello volante, devi stare attenta a dove metti i piedi», accennò un sorriso, completando poi la frase, «Più del solito».
   «Volante?».
   «Merito di Calcifer».
   Tornasti a guardare il paesaggio, «Dove siamo?».
   «Nelle Lande».
   «In Guascogna11?», chiedesti con un sopracciglio aggrottato.
   «A Ingary».
   L’espressione allibita con cui lo fissasti era talmente sgomenta da non poter fare a meno di divertirlo.
   «Hai presente la manopola sulla porta del negozio, quella coi pannelli colorati?», annuisti, «Ognuno di essi porta in un posto diverso. Quello nero nel Nostro Mondo, quello verde nelle Lande Desolate di Ingary, quello blu alla capitale del regno e quello rosso a Market Chipping, la città natale di Madame».
   «Quindi questo castello crea portali magici?».
   «Non esattamente. Il castello vaga sempre nelle Lande, è questo il suo luogo fisico; è Calcifer a creare i portali da un luogo a un altro».
   «Che potere straordinario…».
   «Non mi aspetto nulla di meno da un demone primordiale. È il cuore pulsante del Castello Errante di Howl».
   Non aggiungesti altro, eri già fin troppo disorientata dalla situazione e ancora di più dalla calma con cui la stavi gestendo, per articolare una frase sensata.
   Improvvisamente lui sciolse l’abbraccio come se avesse preso la scossa, e si allontanò di qualche passo da te.
   «Non dovresti essere qui», decretò.
   «Non dovresti suonare quella canzone se non vuoi parlarmi».
   Sospirò affranto, «Nilsa, non sei al sicuro con me».
   «Può darsi…», concordasti guardandoti le punte delle scarpe, «Ma non è questo il problema».
   Si girò a studiarti accigliato, a metà tra il sorpreso e lo stizzito, «Che st–».
   «Non fraintendere», lo bloccasti, «Ce l’ho ancora con te. Come minimo mi devi delle spiegazioni».
   Sospirò di nuovo, più forte, «Chiedimi quello che vuoi».
 
[9] Anche conosciuta come Cordia dodecandra, è una pianta dell’America centrale, da cui si ricava un legno brunastro con venature chiare/scure, a volte in combinazione con il giallo. E’ un legno duro con particolari venature decorative, struttura molto vivace con forme molto simili al palissandro. Viene spesso utilizzato in ebanisteria, per costruire manici da coltelli e strumenti musicali
[10] Capoluogo dell’Alta Francia, regione a Nord confinante con il Belgio
[11] Regione naturale della Francia di circa 1.5km di ettari in prossimità dello sbocco del bacino aquitano sull’Oceano Atlantico.

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Capitolo 3
*** In cui Castiel per poco non uccide Nilsa ***


3.
In cui Castiel per poco non uccide Nilsa
 
   Oltrepassasti la soglia di casa con un sonoro sbadiglio, il cui suono venne coperto dal rumore della porta blindata che sbatteva contro lo stipite. Tenendoti in equilibrio su una gamba sola, ti levasti una scarpa, poi l’altra e riponesti le converse nella scarpiera. La tentazione di abbandonarle lì, nel bel mezzo del disimpegno all’ingresso, era forte, ma l’ultima cosa che volevi in quel momento era subirti l’ennesima ramanzina sul tuo, a dire di tua madre catastrofico, disordine. Dopo una pesante, noiosissima e spossante giornata al liceo, non eri certo in vena di farti fracassare i timpani dalla sua squillante voce; quella di Ambre era già stata più che sufficiente.
   Ma che diavolo mi è saltato in testa di ripararle la bambola al parco dieci anni fa… Se avessi saputo che mi si sarebbe incollata addosso come una cozza, non mi sarei lasciato impietosire, sbuffasti, avviandoti in direzione delle scale, avevi bisogno di riposare gl’occhi e la tua povera schiena, Ma poi, perché, dopo tutti questi anni, ancora non si è rassegnata? Non la ricambio e non la ricambierò mai…
   Avevi già un piede sullo scalino e il palmo retto al corrimano, quando: «Cassy, sei tu?».
   Serrasti i denti in un grugnito. Fanculo tua madre e quel cazzo di nomignolo.
   «Sì».
   «Hai già impegni stasera? È venerdì», chiese, emergendo dalla cucina con una teglia di biscotti in mano e un’espressione raggiante dipinta in viso.
   «No», lapidasti voltandoti a guardarla, luminosa come una supernova.
   Lei sorrise smagliante, «Bene! Allora stasera usciamo a cena. Tuo padre ed io dobbiamo parlarti di una cosa». Arcuasti in sopracciglio dubbioso. Aveva una strana luce negl’occhi mentre parlava, la sua stessa voce suonava insolita, come se non fosse la sua.
   «Se proprio ci tieni, okay». Facesti spallucce, più nel tentativo di scacciare l’oscuro pensiero piuttosto che sembrare disinteressato, rincamminandomi su per le scale.
   «Vestiti bene!», fu l’ultima frase che le sentisti dire, prima di chiuderti la porta alle spalle e buttarti sul letto a pancia in giù stremato, qualche ciuffo ribelle ti ricadde sulla fronte, ombrandoti la vista.
   Chiudesti le palpebre, inspirai forte e ti stringesti il setto nasale tra indice e pollice, pensando: Non sarà mica incinta? Sono un po’ vecchio per avere un fratellino…
 
Ϡɝϗ
 
   Eri nervoso. Il colletto della camicia tortora stringeva troppo sul pomo d’Adamo, le maniche della giacca elegante non ti lasciavano completa libertà di movimento; sentivi i capelli incollati e seccati dal gel, per non parlare delle scarpe in vernice talmente lucide da potertici specchiare e della cravatta che eri riuscito a evitare di indossare per il rotto della cuffia. Eri a disagio vestito in quel modo ricercato. Per quanto ti sentissi dire che stavi benissimo così, non riuscivi a vedertici completamente in quegli abiti d'alta sartoria, da business man – da damerino –, che sempre eri riuscito a rifuggire.
   Sempre, tranne in quell’occasione.
   A farti cedere era stata di nuovo l’espressione raggiante sul viso tondo di tua madre: gli zigomi rialzati dall'ampio sorriso bianco, incorniciato dal rossetto rosso mattone, gli occhi nocciola assolati da qualche pagliuzza dorata e dall’ombretto pescato, le guance arrossate dall'emozione più che dal blush.
   Era incinta, ormai ne eri certo. I sintomi c’erano tutti.
   Pelle luminosa.
   Occhi che luccicano.
   Eccessiva allegria che nei prossimi mesi si sarebbe alternata a sbalzi d’umore come se esso fosse un’altalena.
   Ciò ti faceva sentire alle strette, in difficoltà, perché sapevi già che la tua reazione alla notizia l’avrebbe delusa. Non eri affatto elettrizzato all’eventualità di diventare un fratello maggiore, non a diciassette anni, e non vedevi neanche la presenza di un nuovo piccolo Leroux come una compagnia o una consolazione dalla solitudine; ciò non avrebbe reso i tuoi genitori più presenti a dispetto degli impegni lavorativi, sareste solo diventati due solitudini che coabitavano, o peggio, egli sarebbe diventato un nemico che ti avrebbe portato via ulteriore tempo con loro.
   Al solo pensiero ti sentivi soffocare, asfissiato dalle pareti in legno e specchi del ristorante stellato, dalle luci soffuse, dalle poltroncine che sostituivano le sedie, dai fini calici di cristallo sul runner12 lobelia, che cozzavano con le bacchette di legno del servizio asiatico e col porta-soia in ceramica scura a venature ramate.
   Aspettasti che i tuoi genitori prendessero posto a sedere, prima di fare altrettanto. In quel luogo il bon ton era d’obbligo. Jean-Louis accompagnò la sedia di Valérie mentre lei si accomodava, poi slacciò i bottoni e finalmente si sedette a sua volta, seguito a ruota da te che ne imitasti i gesti e per un istante ti sembrò di poter respirare di nuovo.
 
   Fosti teso per tutta la durata della cena, articolata da conversazioni di poco conto tra una portata e l’altra, nelle quali, tralasciando qualche mugugno e risposta risicata, da parte tua era regnato il silenzio. Ti trovavi in una situazione scomoda, i tuoi genitori non facevano altro che scambiarsi occhiatine da innamorati come due adolescenti alla prima cotta. Erano imbarazzanti e tu ti sentivi totalmente fuori luogo, un terzo in comodo a reggere la candela.
   Ridicolo… Non faccio la spalla al rimorchio coi miei amici e ora lo sto facendo coi miei genitori… Assurdo…
   Non eri nuovo alle loro effusioni, ai loro scambi di sguardi carichi di significato, alle loro moine e sorrisi, non avevano mai nascosto a nessuno che il loro fosse un matrimonio felice e armonioso, che nonostante lo scorrere degli anni ancora si amavano come agli inizi, ma… diavolo, così era davvero troppo! Si erano rinchiusi in una bolla, come se non esistesse nessun’altro al difuori di loro. E tutto questo per un embrione che probabilmente era ancora un mero ammasso di cellule?
   Si comportavano così anche quando aspettavano me? Dovevano essere insopportabili. Diventeranno insopportabili…
   Non ti godesti minimamente la cena, nemmeno i nigiri di amaebi13 – il tuo piatto sushi preferito –, evento più unico che raro sapendo quanto ami la cucina giapponese, in particolare i piatti di pesce crudo. Sicuramente ti portarono in un costoso ristorante nipponico proprio perché consci che fosse il modo migliore per assicurarsi il tuo buon umore e favore all’annuncio, ma invece sortirono solo nell’effetto opposto; ti fecero chiudere lo stomaco, venire la nausea alla sola idea di impugnare le bacchette, o al momento il cucchiaino per mangiare il gelato al tè verde.
   Non ce la facevi più ad aspettare che prendessero coraggio per affrontarti, ma ormai la cena era agli sgoccioli, la bomba stava per essere lanciata.
   «Castiel», il tono di tuo padre era solenne, fu impossibile non rispondere d’istinto incrociando quel suo sguardo tagliente così simile al tuo. I suoi occhi erano più sottili e affilati dei tuoi, così come i lineamenti del viso erano più spigolosi e severi, ma chiaramente gli somigliavi; saresti stato la sua copia sputata se i tratti dolci di tua madre non si fossero immischiati nel corredo genetico, ingentilendoti l’effige – e rendendoti anche un po’ più robusto di corporatura rispetto a lui.
    Sei sempre stato innegabilmente bello, sia da bambino sia adesso nonostante gli ormoni impazziti dalla crescita, ed era solo un segnale, un limpido appannaggio di ciò che saresti diventato da adulto. Quando ti guardavi allo specchio, per quanto sia poco virile concentrarsi sul proprio aspetto esteriore, non potevi non compiacerti di te stesso, dalla fortuna che aveva avuto la natura a mescolarsi così e a darti quel viso regolare, quelle iridi metalliche, i capelli corvini e lisci e quel fisico ben strutturato. Pensavi che fosse questo a far cascare lo studentato femminile ai tuoi piedi. Questo mixato alla loro superficialità, perché, diciamocelo, non avevi esattamente un carattere facile con cui avere a che fare… Mai avresti immaginato che il motivo fondante fosse legato ad altro, a qualcosa di più misterioso e oscuro della semplice avvenenza.
   «Tua madre ed io dobbiamo dirti una cosa», ecco che arrivava la granata, «Non c’è un modo facile per dirlo, perciò andrò dritto al punto. Ci trasferiamo».
   Interdizione, «… Cosa? Ma che stat–». Non era quello che ti aspettavi, non ti eri preparato a questo.
   «Oh, non ti preoccupare, tesoro», intervenne Valérie, «Sappiamo bene che è un pessimo periodo per te, che stai andando ancora a scuola, che l’anno è iniziato da poco, infatti tu non verrai con noi». L’ordigno esplose, ma non piombò dall’alto come immaginavi, ti scoppiò sotto i piedi non appena accennasti a muoverti, come una mina antiuomo.
   «Vedi, figliolo», continuò Jean-Louis, «Ho ricevuto un’importante promozione dalla compagnia aerea per cui lavoriamo, e ciò comporta un mio trasferimento alla sede centrale a tempo indeterminato e sai che non posso stare senza tua madre, perciò…».
   «Perciò avete deciso di abbandonarmi qui, aspettandovi persino la mia benedizione».
   Tuo padre sbatté le palpebre un paio di volte confuso, «Ma come… Non sei contento? Avrai la tua indipendenza, la tua privacy, niente genitori a romperti le scatole. È il sogno di ogni adolescente».
   «Come potrei mai–».
   «Cassy, ambientarsi ad anno già cominciato in una nuova scuola, in una nuova città è stressante. Se abbiamo preso questa decisione è stato solo per il tuo bene, per non sconvolgerti la vita e non rischiare di farti perdere l’anno. Dovresti esserci grato», affermò la donna a metà tra il conciliante e il deluso, afferrandoti la mano sopra al tavolo e accarezzandoti delicatamente il dorso col pollice, sotto lo sguardo glaciale di Jean-Louis che, grattando la gola vi richiamò all’attenzione, mentre trafficava con qualcosa che tintinnava in tasca, poi, soddisfatto, estrasse un mazzo di chiavi e lo posò sul tuo tovagliolo, assieme a un plico di fogli.
    «Queste sono le chiavi del tuo nuovo appartamento», sorrise, «E questi sono i documenti che attestano la tua emancipazione, la proprietà dell’immobile e il tuo conto bancario personale. Non ti preoccupare del tuo sostentamento economico e per le bollette, ti manderemo regolarmente dei bonifici».
   «Non è fantastico?», strepitò acuta tua madre, «Il mio bambino è cresciuto, è un uomo adesso!».
   No, non era fantastico. Era sconvolgente, disarmante, schiacciante, era tutto fuorché fantastico e tu non potevi farci niente, non sapevi nemmeno come reagire tanto era grande lo shock.
 
Ϡɝϗ
 
   I mesi passarono, ma il dolore, lo sconforto, l’angoscia e la sensazione di essere solo al mondo, indesiderato e non amato non accennava a diminuire, nonostante la compagnia costante del tuo fidato mastino, nonostante tu ti sia tolto qualche sfizio da rocker ribelle come tingerti i capelli, cambiare look e fondare un gruppo con il tuo migliore amico Lysandre – beh, un duo più che un complesso, ma era un inizio – cose che, in parte, prima, non avresti fatto o ottenuto senza un estenuante scontro di opinioni con i tuoi genitori.
   Genitori… la sola parola ti era insopportabile. Non avevi più dei genitori, oramai ti consideravi orfano, rifiutato da quelle due uniche persone che, per natura, erano tenute ad amarti indiscriminatamente, a volerti proteggere e stare accanto per il resto dei loro giorni.
   Non eri altro che un reietto, un rifiuto, uno scarto. Non ti eri allontanato dai tuoi genitori per necessità, per volontà, per indipendenza e maggiori opportunità come avevano fatto Leigh e Lysandre, tu eri stato allontanato.
   Era dal giorno della loro partenza che non li sentivi, l’unico segno che erano ancora vivi erano i soldi che comparivano tutti i mesi sul tuo conto corrente, per il resto era come se non fossero mai esistiti. Mai un messaggio, una telefonata o una dannata mail, i loro cellulari risultavano perennemente staccati, sui social media erano introvabili. Spariti nel nulla e non avevi altri parenti a cui affidarti, potevi contare soltanto su te stesso e sui pochi veri amici che possedevi.
   La tua gioventù era sfumata totalmente e inesorabilmente in un battito di ciglia devastante e distruttivo, pari al battito d’ali di una farfalla che scatena un uragano dal capo opposto del pianeta14.
   Ogni giorno diventavi sempre più scontroso e scostante, irascibile e solitario. Cambiamento che, unito alla rottura con Debrah, al nuovo stile di abbigliamento, all’immagine di te assieme a un grosso cane dall’aria feroce e alle appena scoperte sigarette, ti affibbiò l’etichetta di bullo, di delinquente, di ragazzo da evitare, dal punto di vista dei tuoi coetanei, da tenere d’occhio da quello della preside, e da compatire da parte di quei pochi che avevano compreso il tuo malessere esistenziale, il tuo smarrimento. In questa cerchia ristretta rientravano un paio di professori e, ovviamente, il tuo migliore amico.
   Stavi proprio cercando il maledetto taccuino di quest’ultimo, imprecando a denti stretti sulla sua sbadataggine, quando uno strano profumo ti stuzzicò le narici. Era leggero, delicato, quasi impalpabile, ma talmente magnetico da far risuonare tutto il tuo essere fino quasi a farti perdere coscienza su ciò che stavi facendo, tanto era dolce e invitante. Ne percepivi la consistenza su di te, dentro di te, ovunque; ti avvolgeva come un velo, ti sfiorava la pelle come un sospiro, ti faceva rabbrividire piacevolmente come una carezza e ti chiamava con la sua voce femminea, sussurrata, sentivi il suo caldo respiro solleticarti l’orecchio, avvertivi le sue mani sottili ancorate alle tue spalle. Quell’aroma, quella fragranza era un’entità, era tutto. Aveva un odore, aveva un colore, aveva un suono, aveva… un sapore.
   La gola ti si fece improvvisamente secca, arsa come un pozzo prosciugato dalla siccità, e un’incredibile sete t’investì, costringendoti a stringerti i palmi sul collo in agonia. La faringe era in fiamme e faceva così male da desiderare di strappartela a unghiate, sembrava che una trave incandescente ti fosse stata infilata nell’esofago. Il labbro inferiore si era tagliato, sentivi delle gocce di sangue macchiarti le punte dei canini, i quali, a loro volta, dolevano come se avessero appena bucato la gengiva vergine.
   Il bruciore, l’irrazionale e impulsivo bisogno di bere si impadronirono di tutto il tuo corpo, che altro non poteva se non soccombere ad esso, mentre ti accasciavi a terra nella speranza che quella tortura finisse; ma nel farlo, i tuoi occhi, ridotti a due fessure finissime, si posarono sulla figura di una ragazza in piedi davanti all’ingresso del liceo con un foglio in mano. Non riuscivi a vederla con chiarezza tra le lacrime di dolore, le palpebre strizzate con forza e i rami dell’aiuola che ti ostacolavano la visuale, così come lei, di spalle, non poteva vedere te, accucciato che mugugnavi in lontananza, però una cosa i tuoi occhi, in mezzo a tutto quel delirante tormento, la videro.
   Videro la ciocca che veniva scostata dietro l’orecchio, mettendo in bella mostra la giugulare pulsante.
   Questo bastò a mettere a tacere tutto lo strazio, a non percepire più le fitte che ti schiacciavano al suolo, l’unica cosa che rimase fu la sete. Una sete cieca e totale, così istintiva e primordiale da cancellare qualunque traccia di umano raziocinio in te, che eri rimasto un guscio vuoto dai sensi amplificati, un animale in cima alla catena alimentare in balia dei suoi istinti, un predatore alla sua prima caccia, inesperto ma carico di quella forza bruta che solo la fame può alimentare e che solo la sazietà può placare.
   Ti rialzasti in piedi pronto a scattare come un ghepardo su una gazzella, potevi già avvertire la sua morbida carne sotto le zampe, il fragile collo sotto le zanne. La preda era lì a qualche metro di distanza, un breve corsa e sarebbe stata tua, ma proprio quando stavi per lanciarti oltre i cespugli, qualcosa ti piombò addosso e ti atterrò, immobilizzandoti sotto al suo peso, con il viso rivolto ai fili d’erba e l’addome tra le sue ginocchia che stringevano sulle costole, rendendoti difficile respirare, mentre le braccia erano bloccate dietro la schiena per i polsi.
   Cercasti di divincolarti inutilmente. Ad ogni movimento la morsa sui tuoi fianchi aumentava e la presa sulle tue mani si stringeva, mentre una mano andava a premerti la nuca.
   A un certo punto sentisti il corpo seduto su di te piegarsi in avanti fino a raggiungere il tuo orecchio, dove la sua voce vibrò affannata e arrocchita dallo sforzo, «Ascoltami bene, ragazzo. Fai come ti dico o, giuro, anche se sei mio fratello, ti picchierò fino a farti perdere i sensi. Tutto chiaro?».
   Fratello?, a quelle parole ti dimenasti con ancora più energia per sgusciare dalla sua presa ferrea, ma questa non fece altro che rafforzarsi, l’uomo impugnò così forte i tuoi polsi da far scricchiolare le ossa al loro interno, «Odio ripetermi», sbuffò, poi con la mano che ti teneva la nuca andò a tirarti i capelli, «Sono stato chiaro?».
   Sconfitto, annuisti.
   «Bene», esclamò, allentando un poco la stretta e addolcendo la postura, pur rimanendo carponi su di te, «Per prima cosa: smetti di respirare».
   «Ma che---».
   Ti diede uno scossone, «Lo so che sembra assurdo, ma fidati, sei in grado di farlo. Chiudi gl’occhi e concentrati unicamente sul tuo respiro, trasforma il gesto da involontario a volontario e bloccalo».
   Per quanto insensato sembrasse, seguissi le sue istruzioni. Serrasti le palpebre e rilassasti le membra sotto al peso di quell’estraneo che stranamente riusciva a tenerti calmo e tranquillo, nonostante ti stesse tenendo ancorato al terreno come un assalitore, poi visualizzasti nella tua testa il movimento dell’aria che entrava e usciva, le nari che inspiravano ed espiravano, i polmoni che si gonfiavano e sgonfiavano, la cassa toracica che si allargava e stringeva. Man mano il respiro divenne quieto e regolare, mentre il corpo si distendeva sul prato, fino ad affievolirsi sempre di più sino a spegnersi. Di primo acchito ti venne da trattenerlo, ma poi l’ultimo anelito di fiato si disperse tra le tue labbra; riapristi le palpebre di scatto, convinto che di lì a poco avresti iniziato ad annaspare avido d’aria, e invece niente.
   Lo sconosciuto finalmente ti si levò di dosso e ti sedette accanto, dandoti modo di guardarlo in faccia stralunato. Com’era possibile che riuscivi a sopravvivere senza respirare? Chi era il tizio che ti fronteggiava? E perché assomigliava così tanto a tuo padre da sembrare lui da giovane?
 
[12] Tipo di tovaglia
[13] Gambero rosso crudo
[14] Effetto farfalla: In matematica e fisica è una locuzione che racchiude in sé la nozione maggiormente tecnica di dipendenza sensibile alle condizioni iniziali, presente nella teoria del caos. L'idea è che piccole variazioni nelle condizioni iniziali producano grandi variazioni nel comportamento a lungo termine di un sistema.

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