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di Freak_Nali
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


«Mi spieghi come il nostro viaggio si è trasformato nella sceneggiatura di una commedia?», mi chiede Ashton, appoggiando il peso sulle sue stampelle per camminare accanto a me.

«Io lo definirei di più un thriller, tutto questo è dannatamente eccitante», esclama con fare compiaciuto Michael e, appena mi volto verso di lui, trovo un sorriso soddisfatto sulle sue labbra.

«Taci tu, che è tutta colpa tua», lo zittisco quasi ringhiando, e lui alza le mani in segno di resa.

Sa che in fondo ho ragione.

«Beh, veramente questo è colpa di Calum», mi corregge Ashton, mostrandomi la sua gamba infortunata e, mi scoccia ammetterlo, ma su questo ha ragione lui.

«Almeno c'è una cosa di cui Michael non ha colpa, sono felice di darti questa magra consolazione amico», dice sornione il ragazzo in questione mentre passa un braccio sulle spalle del rosso tinto, che si sbriga a scansarsi, infastidito da quel contatto. «Comunque, a voi non è mai capitato di farvi sfuggire un dobermann? Sono cose che succedono, andiamo!».

«No, Hood. Non mi è mai capitato e sai perché?», dice con tono saccente il rosso, e Calum lo guarda con occhi pieni di aspettative, come se stesse per rivelargli il segreto che gli cambierà la vita. «Perché io non mi ostino a fare il dogsitter dal momento che so di non esserne minimamente in grado!».

«Parla quello che si guadagna da vivere spacciando droga tra l'Australia, la Nuova Zelanda e il Giappone», commenta Ashton, ma io lo guardo inarcando un sopracciglio e lui mi implora con lo sguardo di non dire ciò che sa che sto pensando.

«Disse quello che è riuscito a farsi licenziare da un negozio di dvd e da KFC», lo prendo in giro, ignorando il suo sguardo.

Michael lo guarda, impassibile per qualche secondo, poi scoppia a ridere di gusto, tanto che si trova a tenersi lo stomaco mentre si piega leggermente in avanti.

«Amico, io sarò anche un pessimo dogsitter, ma almeno non mi hanno mai licenziato», commenta Calum mentre posa una mano sulla spalla di Ashton, che prontamente si scansa.

Questo ragazzo cerca decisamente troppo contatto fisico.

«Fidati, Hood, appena tornerai in California non solo ti licenzieranno, ma ti arresteranno anche per aver perso e abbandonato un dobermann. E io dico, va bene lasciarselo sfuggire, ma come diamine si fa a perdere un dobermann?», chiede Michael, dimenticando di aggiungere il particolare dell'auto rubata. Ma, forse, per lui quella è la normalità e per questo non gli dà peso.

«Disse quello che perse la valigia piena di cocaina». Un giorno Ashton imparerà a tenere la bocca chiusa. Quel giorno non è oggi.

«Quella è stata colpa di Luke, non sono io il coglione che ha scambiato la mia valigia per quella di un altro su cui, tra l'altro, c'è scritto chiaramente il mio fottutissimo nome!». E ancora, forse il fatto di utilizzare un nome falso che assomiglia al proprio per non farsi riconoscere è del tutto normale per lui, tanto da non tenere in considerazione che non ci fosse scritto Michael Clifford sulla valigia ma Gordon Cliffen. Forse reputa anche questo il suo stesso nome.

«Hey, io pensavo che mio fratello mi avesse fatto uno scherzo!», protesta il biondo, che fino ad ora era rimasto in silenzio.

Ultimamente parla sempre poco, il che non è decisamente da lui e, per quanto possa essere meno snervante del solito, la cosa mi preoccupa davvero tanto.

«E io ho pensato tu avessi fatto uno scherzo a noi quando ti sei presentato in aeroporto con la tua valigia, ma hey, eccoti qua».

«Non essere cattivo», rimprovero il mio migliore amico, che scrolla le spalle.

«Scusami, ma il cattivo della situazione qua sono io, dimenticate che sono ricercato in quattro paesi?».

«Quattro?».

«Potrei, come potrei non aver tentato di espandere i miei commerci anche nelle Filippine».

«Ma io come ci sono finita in questa situazione, esattamente?», chiedo con tono disperato più a me stessa che ai miei quattro compagni di sventure, termine decisamente più appropriato di avventure, non sapendo proprio dove diavolo io abbia sbagliato nella mia vita per ritrovarmi qui con queste quattro persone. Doveva essere un viaggio mio e del mio migliore amico, lontani da tutto e da tutti, del tempo soltanto per noi. Evidentemente, non siamo destinati ad avere del tempo esclusivamente nostro, ormai è chiaro.

«Te lo devo davvero ricordare?», mi chiede proprio lui, l'unica persona con cui avevo in programma di essere qui in questo momento. Beh, non esattamente qui. Ma se per "qui" intendiamo "in viaggio", allora sì, qui è la parola giusta.

Ma no, non ho davvero bisogno che mi ricordi come siamo arrivati a questo punto. Purtroppo, lo ricordo benissimo anche da sola, nonostante l'idea di sbattere la testa contro uno spigolo per perdere la memoria mi abbia sfiorata non poche volte negli ultimi giorni

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


36 giorni prima

La fila al check-in è molto meno lunga del previsto, tanto che recarsi all'aeroporto con tre ore di anticipo, dormendo così un paio d'ore scarse questa notte, si è rivelata del tutto inutile. Davanti a noi ci sono soltanto sette persone, e in pochi minuti saremo pronti per imbarcarci.

Uno sbadiglio sfugge al mio controllo, e Ashton mi guarda preoccupato.

«Tutto bene?», chiede apprensivo, portando una mano sulla mia guancia, per accarezzarla con un pollice come da abitudine.

«Abbiamo dormito solo due ore stanotte, ma va tutto bene», rispondo e lui mi sorride, portando con la stessa mano che era sulla mia guancia fino a un istante fa una ciocca di capelli dietro il mio orecchio. I miei capelli mossi non ne hanno mai voluto sapere di stare al loro posto, e spesso mi finiscono davanti agli occhi quasi senza che me ne accorga. È sempre stato così, e Ashton ha preso l'abitudine di spostarmeli quando eravamo ancora alla scuola materna. Sosteneva che gli ricordassi uno di quei cani pelosi a cui si deve fare il codino, altrimenti non ci vedono e sbattono da tutte le parti.

«Beh, abbiamo un viaggio di otto ore davanti, avrai tutto il tempo di recuperare le energie».

«Sette ore e quaranta, per l'esattezza», lo correggo, controllando sul mio piccolo quaderno rosso, dove ho annotato tutti i minimi dettagli di questo viaggio, e lui ridacchia.

«Conoscendoti, sono sicuro che avrai anche calcolato i litri di benzina che useremo quando dovremo noleggiare delle auto», mi prende in giro e io chiudo il quaderno, riponendolo nello zaino, così che non possa controllare la risposta che sto per dare rubandomelo.

«Certo che no, non sono così maniacale», ridacchio a mia volta, e lui scuote la testa.

«Quanti da Los Angeles a San Francisco?», mi chiede e io non esito a rispondere, guadagnandomi una delle sue occhiate di chi la sa lunga, quelle che mi riserva sempre come per dirmi "io te l'avevo detto".

«Ok, ok, ho calcolato tutto nei minimi dettagli, lo sai che...».

«Che se non hai tutto sotto controllo ti impanichi, lo so. Ma puoi stare tranquilla, niente può andare storto in questo viaggio», mi sorride incoraggiante, e devo ammettere che ha ragione.

Abbiamo pianificato questo viaggio per anni, considerando i minimi dettagli, ipotizzando eventuali imprevisti. Andrà tutto bene, ne sono sicura.

Gli sorrido a mia volta, e vedo finalmente spuntare sulle sue guance le fossette che tanto ho amato sin dal primo istante in cui le ho viste. Sono state la prima cosa che ho notato di Ashton, prima ancora dei suoi occhi, dei suoi capelli, o del fatto che avesse delle mani eccessivamente grandi per avere soltanto cinque anni.

Il suo sorriso, però, scompare non appena avvista qualcosa oltre le mie spalle, e dalla sua espressione sembra quasi abbia appena visto un fantasma ballare la macarena con un gonnellino hawaiano e due noci di cocco come reggiseno. Non saprei dire se sia spaventato, raccapricciato o confuso. Probabilmente un insieme delle tre.

«Non ci posso credere», mormora poi, senza staccare gli occhi da quel punto dietro di me, spingendomi a seguire il suo sguardo e voltarmi per trovare l'incubo del mio migliore amico, nonché la croce che mi sono scelta senza rendermene conto diversi anni fa.

«Nemmeno io», rispondo, guardando il ragazzo in questione salutarci con la mano con fare entusiasta, quel suo solito sorriso esagerato sulle labbra, prima di camminare verso di noi trascinandosi dietro un'enorme valigia.

Non può essere vero.

«Perché l'hai invitato?», quasi ringhia Ashton, mentre stringe i pugni con forza, fino a far diventare le nocche bianche.

«Io non l'ho invitato», ribatto confusa.

«E allora cosa diamine ci fa qui?», chiede, rilassandosi quel minimo che basta a fargli distendere le dita, e io mi chiedo la stessa identica cosa.

«Ciao ragazzi! Grazie dell'invito! Non vedo l'ora di girare il mondo con voi!», esclama il diretto interessato non appena ci raggiunge, dopo essersi fatto spazio tra le persone in coda dietro di noi ricevendo diverse proteste a cui non ha prestato la benché minima attenzione. Vive sempre nella sua bolla di sapone colorata, che lo protegge dalla cattiveria del mondo e preserva la sua ingenuità. E io l'ho sempre adorato per questo, oltre che invidiato perché io quella dote l'ho persa troppo presto.

«Invito?», chiedo io, scettica.

«Sì, Mac, ricordi quando eri a casa mia e mi hai parlato di questo viaggio nei minimi dettagli? E poi hai dimenticato il tuo quaderno rosso sul mio letto, aperto proprio sulla pagina dei voli con i prezzi accanto? Se non è un invito questo!».

«Io lo inviterei volentieri a fare paracadutismo dall'aereo in volo», borbotta Ashton, forse tentando di farsi sentire solo da me ma fallendo.

«Ma no, Ashy, il paracadutismo non è nel programma, e io lo so bene! L'ho fotografato per intero e ce l'ho in un album nella galleria del telefono!».

Vedo Ashton tirare fuori il cellulare, forse nel tentativo di distrarsi, ma mi ricredo quando mi arriva proprio un suo messaggio.

"Se ci va fatta bene, riusciamo a lasciarlo in Asia fingendo sia stato un errore".

Non gli rispondo, ma gli lancio un'occhiata e, dato il suo sorriso soddisfatto, direi proprio che ha capito. Sono d'accordo con lui. Del resto, non è poi così assurdo perdere un ragazzo come Luke in viaggio, specialmente di questa portata, lasciandolo in aeroporto. Diciamo che non brilla di intelligenza e, anzi, a volte è proprio rincoglionito, ma in maniera adorabile. Sarebbe ipocrita però dire che un elemento del genere, in un viaggio come quello che stiamo per intraprendere, non sarebbe un peso. Significherebbe avere un bambino a cui dover prestare attenzione tutto il tempo, per evitare che si perda o si cacci in qualche guaio come solo Luke sa fare.

Ashton mi si avvicina per borbottare qualcosa al mio orecchio, mentre l'oggetto del suo discorso raggiunge il banco per fare il check-in, onorato del fatto che gli abbiamo dato la precedenza.

«Non mi stupirei se si perdesse da qualche parte e non fosse in grado di raggiungerci».

«In quel caso non dovremmo nemmeno sentirci in colpa», ribatto ma, tutto sommato, fare questi pensieri mi fa stringere lo stomaco.

In fondo gli voglio bene, anche se è un caso perso e stargli dietro è come badare a un bambino di cinque anni. Lui c'è sempre stato per me, ha sempre avuto una parola di conforto e una carezza in più nei miei confronti, e io gliene sarò sempre grata. Non potrei mai lasciarlo solo e impaurito tra le strade di Tokyo mentre noi siamo in viaggio verso l'America. Ma questo, per il momento, Ashton non deve saperlo. Sono sicura cambierà idea sul suo conto prima di quel momento,  non si può resistere alla tenerezza di quel ragazzo.

Un rumore mi distrae dai miei pensieri, facendomi voltare di scatto verso la sua origine. Luke è disteso sul nastro trasportatore, la mano appesa alla maniglia della valigia, la hostess lo guarda spaventato prima di bloccare il movimento del nastro e Ashton ride.

«Macky, ma perché di tante persone che potevano capitarci come imprevisto, proprio Luke Hemmings?».

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Non abbiamo perso Luke.

Ci abbiamo provato, sul serio, Ashton sicuramente con più determinazione di me. Ci abbiamo provato in aeroporto a Sydney, quando siamo andati a fare colazione da Starbucks e abbiamo tentato di alzarci dal tavolino di soppiatto mentre lui era distratto dal suo cellulare. Cinque minuti scarsi dopo, ci siamo sentiti avvolgere le spalle dalle braccia di Luke, che mi è messo in mezzo a noi ridendo per lo scherzo, a sua detta, magnificamente riuscito.

«Non del tutto riuscito», ha borbottato Ashton, ma il biondo non è parso farci caso.

Ci abbiamo riprovato quando è andato in bagno, prima di salire sull'aereo, confondendoci tra la folla in fila per l'imbarco nonostante il gate dovesse ancora aprire. Poi più tardi, ossia circa due minuti fa, con la scusa che lui fosse in un posto lontano dal nostro, noi in penultima fila e lui tra le prime. Ma ho come l'impressione che farà di tutto per venire a sedersi nelle nostre vicinanze, magari implorando qualcuno per uno scambio di posti con i suoi occhioni azzurri che, diciamocelo, sarebbero capaci di convincere chiunque di qualunque cosa.

«Se non altro, in caso dovessimo precipitare, lui sarebbe il primo a rimetterci le penne», mi dice Ashton con un ghigno divertito, mentre saliamo le scalette nella parte posteriore dell'aereo e Luke ci saluta con la mano da quelle in testa. Ricambio il saluto di Luke prima di roteare gli occhi in direzione di Ashton.

«Sarebbe questione di attimi», gli faccio notare, non appena ricambiato il saluto della hostess che ci ha accolti con un sorriso a bordo.

«Attimi di gloria», replica, posando lo zaino sul sedile accanto al corridoio e spostandosi leggermente, per poi guardarmi con un sopracciglio inarcato, cosa che faccio anche io. Stiamo bloccando il passaggio e non riesco a capire cosa stiamo esattamente facendo. «Hai intenzione di passare o vuoi un invito formale?».

«Pensavo volessi stare tu sul finestrino».

«Certo, ma do la precedenza a te, abbiamo ancora una marea di voli in cui posso rimediare», mi sorride. «Ora però sbrigati, stiamo intralciando il passaggio», ridacchia con il suo tono da ragazzina, così come faccio io mentre poso il mio zaino per terra davanti al sedile per poi sedermi, venendo presto affiancata da Ashton.

In momenti come questi, mi rendo conto in modo ancora più consapevole di quanto sia stata fortunata a incontrarlo, quel pomeriggio all'asilo.

Avevo tre anni, ero al primo anno della scuola materna quando le nostre strade si sono incrociate, per puro caso. È buffo come non diamo peso a piccoli avvenimenti che poi, ripensandoci anni dopo, si rivelano essere la scintilla che ha smosso tutto e ha reso la nostra vita quella che è ora.

Quel giorno il pranzo faceva davvero schifo, tanto che quasi nessuno lo aveva mangiato, fatta eccezione per Ronald, che noi chiamavamo non a caso "pesce rosso". Tutto è nato quando il pesce rosso di Julia, dopo che lei gli aveva dato troppo mangime, è letteralmente esploso. Ero a casa sua quel pomeriggio e, a distanza di tanti anni, ricordo ancora la scena raccapricciante e gli incubi che mi ha causato. Sua mamma ci ha poi spiegato che i pesci rossi non hanno un freno, per cui, più li nutri e più loro mangiano. E poi abbiamo scoperto da sole le conseguenze. Ecco perché Ronald è stato soprannominato così, nomignolo poi adottato anche da tutti i nostri compagni. Non ricordo di averlo mai visto lasciare del cibo, ma ricordo bene che ogni giorno allungava la forchetta con fare furtivo nel piatto dei suoi vicini di tavolo per averne un po' di più. Io e Julia eravamo terrorizzate che un giorno potesse scoppiare davanti a tutti, cosa che, per fortuna, non è mai successa. Io avevo anche paura che potesse rubarmi il mio prezioso pasto, per cui non mi sono mai seduta al suo tavolo nemmeno una volta nel corso dei tre anni di scuola materna.

Ma non è questo il punto.

Quel pomeriggio, non avendo mangiato nulla se non una fetta di pane, sentivo i crampi per la fame. Ogni giorno andavo e tornavo da scuola a piedi, mi portava sempre la nonna, e lungo la strada c'era un fornaio in cui lei mi comprava sempre la merenda prima di tornare a casa o andare al parco. Sapevo la strada, la facevo tutti i giorni. Ero piccola, ma non stupida abbastanza da non ricordarmi quel piccolo tratto di strada che mi separava dal mio tanto agognato cibo. Sentivo l'acquolina in bocca al pensiero, ma sapevo anche che mancava troppo a quel momento. Dovevo ancora fare la nanna, solo dopo quel momento arrivava la nonna. Non pensavo di poter resistere così a lungo.

Il mio piano iniziale era quello di stare attaccata al cancello verde che separava il giardino della scuola dalla strada, aspettando lì la nonna e nascondermi dal maestra per evitare la nanna. Sapevo che con quella fame non sarei riuscita a dormire. Ma tutto è cambiato nel momento in cui, accanto a me, ho sentito il rumore di una pancia brontolare. E non era la mia. Un bambino più alto di me, che non avevo quasi mai visto prima, era aggrappato al cancello verde proprio come me, guardando sconsolato la strada davanti a noi.

«Ho fame», mi ha confessato, portando una mano sul suo stomaco.

«Anche io».

Un sorriso si è dipinto sulle sue labbra, e la prima cosa che ho notato è stata la fossetta che aveva sulla guancia. Ero sicura l'avesse anche sull'altra, ma non potevo vederla dal momento che era di profilo. Ho portato un dito in quel punto, e lui ha riso.

«Andiamo a mangiare?», mi ha chiesto, poi.

«Magari...», ho risposto, sconsolata. «C'è un posto che fa le ciambelle più buone del mondo qui vicino».

«Sai la strada?», mi ha chiesto e io mi sono limitata ad annuire. «Bene, io so come uscire, ho visto i genitori farlo tante volte».

L'ho guardato allarmata, spaventata dall'idea di fuggire da scuola. Ero sempre stata una bambina modello, una bambola, con i boccoli, i vestiti sempre a posto, quasi come uscita da una rivista. Non ero mai stata in punizione, quasi mai sgridata. Ero la bambina perfetta, non potevo uscire da scuola da sola come se niente fosse. Ero più che certa che quello avrebbe compromesso radicalmente la mia immacolata reputazione.

«Aspettami qui», mi ha ordinato, senza farmi il tempo di avanzare eventuali proteste, prima di allontanarsi, raggiungere un bambino e dirgli qualcosa. Mentre tornava verso di me, il bambino con cui aveva parlato ne ha picchiato un altro, che ha iniziato a urlare attirando l'attenzione delle maestre.

Il mio compagno di fuga mi ha poi presa sulle spalle, facendomi trovare davanti a un pulsante.

«Premilo!».

Il cancello si è aperto, noi siamo caduti, ma poi siamo corsi fuori. La sua risata ha scatenato anche la mia, mentre sentivo il cuore battermi forte nel petto. Stavo facendo una cosa vietatissima e mi sentivo felice come mai prima. Il mondo era nelle mie mani.

«Io sono Ashton», mi ha detto poi, quando avevamo già girato l'angolo ed eravamo ormai lontani dalla scuola.

«Io sono Mackenzie».

Gli ho sorriso, e lui ha ricambiato. Sembrava simpatico.

«Quanti anni hai?».

Gli ho mostrato tre dita della mia mano, facendolo ridacchiare. Rideva sempre, ho pensato. E col senno di poi, avevo intuito la verità. Ashton ride sempre.

«Io cinque. A settembre vado alle elementari», mi ha spiegato con aria triste ma io, non sapendo cosa dire, sono stata in silenzio. Già a tre anni la mia incapacità di consolare gli altri era ben chiara. Una non-dote che ho sempre odiato.

Abbiamo camminato fino al solito forno, e Ashton mi ha detto di non esserci mai stato, che sua mamma non gli comprava mai la merenda ma gli faceva sempre bere un bicchiere di latte quando arrivavano a casa. Solo anni più avanti ne avrei scoperto il motivo, e sarei stata io a comprargli ogni giorno una ciambella ricoperta di glassa al cioccolato, quella che si era rivelata essere la sua preferita.

La solita signora sembrava confusa nel vedermi, quando l'ho salutata sorridendo col mio tipico entusiasmo di quando mettevo piede nel suo negozio.

«Sei qui da sola?», mi ha chiesto e io l'ho guardata con fare scettico. Forse non ci vede bene, ho pensato.

«C'è Ashton, non sono da sola!», ho indicato il mio amico, quasi offesa dal fatto che non l'avesse calcolato.

«Non c'è la nonna?».

«Non mi sembra di vederla, quindi no», ho risposto con un'alzata di spalle, senza l'intento di essere maleducata, ma semplicemente dando voce ai miei pensieri.

Ashton ha riso e ora che ci penso, quella è stata forse la prima volta in cui il mio sarcasmo ha fatto la sua apparizione nella mia vita.

Quel pomeriggio stavano accadendo tante cose, tra cui la mia perdita di fiducia nei confronti di quella signora. Pensavo fossimo amiche, ma poi ho visto arrivare la mia maestra, e ho sentito che questa ringraziava la mia presunta amica fornaia per averla avvisata.

Io ed Ashton siamo stati in punizione tutto il pomeriggio, seduti su una panchina mentre guardavamo gli altri giocare. Solo il giorno dopo avrei poi scoperto che i nostri genitori erano stati convocati dalle maestre e che per noi sarebbe iniziata una lunga punizione anche a casa. Ma almeno avevamo avuto le nostre ciambelle sfuggendo a una morte precoce dovuta alla troppa fame.

«Ashton, vuoi essere mio amico?», gli ho chiesto a un certo punto, guardandolo piena di speranza. Avevamo appena vissuto un'incredibile avventura insieme, speravo di poterlo definire mio amico.

Lui ha riso.

«Non è così che funziona Mackenzie», ha scosso la testa continuando a ridere, e io mi sono sentita offesa, tanto che ho abbassato lo sguardo. «Non arrabbiarti», ha detto mentre mi abbracciava, forse per farmi sentire meglio. «Non sei amico di qualcuno se glielo chiedi e dice di sì, quelli sono i matrimoni. Sei suo amico quando giocate sempre insieme e vi divertite».

«Io vorrei giocare con te, allora».

«Oggi siamo in punizione, ma domani possiamo giocare insieme tutto il giorno se ti va».

E in quel momento non mi è passata nemmeno per l'anticamera del cervello l'idea che quel bambino sarebbe diventato il mio amico inseparabile e che, diciassette anni dopo, sarei partita insieme a lui per vivere la più grande avventura della mia vita. D'altronde, però, non era poi così inimmaginabile: la mia prima avventura significativa l'ho pur sempre vissuta con lui al mio fianco.

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