Cavallo selvaggio di Old Fashioned (/viewuser.php?uid=934147)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
CAVALLO
SELVAGGIO
Capitolo 1
Spirava un vento gelido, che
faceva increspare la superficie delle pozzanghere e piegava i rami
spogli. Il cielo grigio prometteva neve.
Elmo e cotta di maglia, il fodero
della spada che gli sbatteva contro la coscia a ogni falcata, un
ragazzo stava correndo sul campo di manovra. Ansava pesantemente, il
sudore gli infradiciava l’uniforme non meno dell’acqua gelida.
“Non battere la fiacca!”
giunse dal limitare del campo.
Il ragazzo si girò fugace: il
maresciallo Tenhar, noto con il nomignolo di ‘Cinghiale’, non gli
staccava gli occhi di dosso. “Credi che sia già stanco?” ringhiò
fra sé e sé. Strinse i denti e aumentò l’andatura.
Raggiunse il primo degli
ostacoli, ovvero una parete di legno alta più di lui. Senza
rallentare si raccolse, spiccò un balzo e si issò sulla sommità
della barriera, poi la superò e si lasciò cadere dall’altra
parte.
“Più in fretta!” gli giunse
la rampogna del maresciallo, “Non stai facendo una passeggiata!
Muoviti!”
Il ragazzo riprese a correre.
Affrontò il Ponte, ovvero un tronco posto di traverso su una fossa
piena d’acqua. Il fango che aveva sotto gli stivali gli fece
perdere la presa e con un tonfo piombò giù. Annaspò appesantito
dalla cotta di maglia, raggiunse la sponda, si issò di nuovo sulla
terraferma.
Scrollò la testa per togliersi
il fango dal viso.
“Muoviti!” lo incalzò il
maresciallo.
I muscoli che bruciavano, un
nugolo di farfalle bianche davanti agli occhi, il ragazzo scattò
verso l’ostacolo successivo, ovvero un tratto di sentiero tagliato
trasversalmente da corde tese, che obbligavano a strisciare sui
gomiti e sulle ginocchia. A ogni fune erano assicurati dei
campanelli, che suonavano se essa veniva toccata.
Si buttò a terra. Il pantano lo
accolse con un abbraccio gelido, il fango gli si infilò nello scollo
dell’uniforme e nei polsi, si insinuò in ogni anello dell’usbergo,
lo costrinse a serrare le labbra per non farselo finire in bocca.
Il ragazzo strinse i denti e
continuò caparbiamente a strisciare. Si rialzò alla fine del
reticolo di corde e nell’aria si udì il suono fesso di uno dei
campanelli.
“Rifallo da capo!” tuonò il
maresciallo, “E tieni giù quella dannata testa, questa volta!”
Il giovane tornò all’inizio
dell’ostacolo e si lasciò cadere a terra, affondando così
profondamente nel fango da essere costretto a voltare la testa di
lato per respirare. Riprese ad avanzare, attraversò tutta la
struttura e quando ne fu uscito rimase a indugiare qualche istante
prima di rialzarsi.
“Muoviti!” lo incalzò
immediatamente Tenhar. “In piedi! Se in battaglia finisci per terra
come un idiota, credi che il nemico ti dia il tempo di rialzarti?”
Il ragazzo riprese a correre,
inseguito dalle rampogne di Cinghiale. Raggiunse un’altra parete di
legno, si raccolse e saltò, ma perse la presa e crollò
all’indietro, sollevando uno spruzzo di fango. Si rialzò
barcollando, saltò di nuovo, riuscì a issarsi e a far passare la
gamba dall’altra parte.
Si lasciò cadere e continuò la
corsa.
“Allora, ne hai avuto
abbastanza?” La voce di Tenhar, stranamente vicina, lo fece quasi
sussultare. Sbatté gli occhi: l’uomo era in piedi di fronte a lui,
con i pugni puntati sui fianchi e il cipiglio cupo.
Il ragazzo tremava così forte
che quasi non riusciva a rimanere fermo sull’attenti, era talmente
coperto di fango che il nero dell’uniforme si intravedeva solo dove
era arrivata l’acqua di qualche pozzanghera e si sentiva così
esausto che si sarebbe buttato a dormire anche su una fascina di
Spine di Orrin, tuttavia indurì lo sguardo, si costrinse a un ghigno
sprezzante e cercando di mantenere la voce ferma nonostante i
brividi, rispose: “Abbastanza, maresciallo? Mi hai scambiato per un
vecchio sottufficiale bolso?”
A quella provocazione, l’altro
rimase impassibile. Annuì grave, quindi in tono asciutto rispose:
“Molto bene, vedo che ti piace fare il duro. Ripeti tutto da capo e
vedi di correre davvero, questa volta.”
§
Il capitano Hyvardus, un colosso
anche per i criteri di Kjarr, si strinse il mantello nero
dell’uniforme intorno al collo e piegò leggermente la testa per
sfuggire alle raffiche gelide del maestrale. “Quest’anno la
primavera non vuole arrivare,” borbottò, seguendo con lo sguardo
l’unica foglia che svolazzava sull’immacolato piazzale della
caserma.
Il capitano Vadian, che camminava
al suo fianco, rispose: “Forse Hengrist non vuole farci sudare
troppo durante i Giochi.”
“E invece io voglio sudare,”
replicò l’altro con un sorriso compiaciuto. “Sudare e
sanguinare. Io e i miei ragazzi non saremmo arrivati qui dopo aver
sbaragliato ogni guarnigione della Marca di Wors, se avessimo solo
voluto fare qualche passeggiata per i viali della Capitale.”
“Non credo proprio che ci sarà
da passeggiare, quest’anno,” osservò Vadian, sistemandosi a sua
volta il pesante mantello sulle spalle, “e io sarò il primo che ti
darà filo da torcere, caro mio.”
Hyvardus si voltò a fissarlo.
“Tu?”
“Puoi scommetterci. I miei
ragazzi sono i migliori della Marca di Arhusk.”
L’altro alzò le spalle e
ghignò: “Quindi vuoi dirmi che sono più o meno delle fanciulle
dell’Amlinntal, giusto? Intrecciano anche ghirlande di fiori?”
“Prega che i tuoi uomini non si
trovino a gareggiare contro le mie fanciulle, o se ne torneranno
nella Marca di Wors con la coda tra le gambe!”
I due fecero una risata, si
scambiarono un paio di pacche sulle spalle, poi continuarono a
camminare in silenzio e per un po' gli unici rumori che si udirono a
parte il sibilo del vento furono i passi cadenzati degli stivali
militari e il tinnire delle cotte di maglia.
Alla fine, Vadian disse: “Voglio
controllare come hanno sistemato i nostri cavalli. Sono animali
abituati al contesto operativo.” Si guardò intorno, facendo
scorrere lo sguardo su edifici di pietra grigia, dall’architettura
rigorosa e solida, disposti lungo larghi viali alberati, dal lastrico
liscio come una tavola. “In questa calma si innervosiscono,”
soggiunse poi.
“Non è che vuoi solo passare
una mezz'oretta al calduccio nelle scuderie?” lo schernì Hyvardus.
“Parla quello che continua a
stringersi nel mantello come se fossimo in mezzo alle nevi del
Heiswegen.”
“A proposito di Heiswegen,”
replicò l'altro, ignorando la provocazione, “il comandante di
quella squadra è uno nuovo, vero?”
“Un verginello. Scommetto che
sarà nervoso come una recluta all'assegnazione del mentore.”
Passò un plotone di ragazzini
così giovani che avevano ancora l'uniforme chiara. Essi procedevano
inquadrati per quattro, comandati da un bambino un po’ più grande
con le insegne di caposquadra.
Quando si accorse di loro, questi
ordinò il saluto e gli altri lo eseguirono all’unisono.
Hyvardus e Vadian risposero
esattamente come avrebbero fatto con un plotone di adulti.
“Crescono bene,” considerò
il secondo quando il reparto si fu allontanato.
“Stavamo parlando del
verginello del Heiswegen,” gli ricordò Hyvardus.
Vadian si voltò a fissarlo.
“Sì?”
“Non è poi così verginello,
stando a quanto dicono. Pare che sul campo di battaglia sappia il
fatto suo.”
“Davvero?”
“È più giovane di noi ed è
già Luogotenente.”
Vadian alzò le spalle. “Potrebbe
essere anche Sovrintendente, poco importa. Conosci il proverbio:
durante i Giochi, i gradi non contano.” Fece una pausa, poi
soggiunse: “Comanda la squadra chi è più bravo, e fine.”
Di nuovo procedettero per un po’
in silenzio, poi Vadian chiese: “Sai per caso come si chiama?”
“Ehrenold.”
Il primo sollevò stupito le
sopracciglia. “Ehrenold? Ma allora è quello che è stato a
Yesgarion.”
Hyvardus aggrottò le
sopracciglia. “A Yesgarion?” ripeté.
“Assegnazione punitiva, lui e
un capitano di nome Rowden, che adesso fa parte della sua squadra.”
Entrarono in scuderia. L’edificio
era talmente grande che all’ingresso vi era una mappa su cui erano
riprodotti i diversi corridoi con le poste e i reparti cui erano
state assegnate. Ampie finestre dai vetri immacolati illuminavano
l’ambiente, l’aria era tiepida per la presenza di innumerevoli
cavalli. A parte il rumore degli animali che masticavano la biada o
si spostavano sulla lettiera, regnava un perfetto silenzio. Una
squadra di soldati in uniforme da fatica stava pulendo uno dei
corridoi. Uno di essi stava imbiancando una posta vuota, gli altri
lavavano il pavimento con secchi e spazzoloni. Quando si accorsero di
loro, interruppero ciò che stavano facendo per mettersi sull’attenti
e salutare.
Gli ufficiali risposero al
saluto, quindi Vadian ne approfittò per chiedere: “Dove sono i
cavalli di Arhusk?”
Subito un soldato rispose:
“Corridoio tre, poste dal sedici al venti, capitano.”
“Grazie.”
“Dovere, capitano.”
I due ufficiali salutarono e si
mossero nella direzione indicata. Dopo un po’, Hyvardus riprese:
“Mi parlavi di un’assegnazione punitiva.”
“Lui e quel Rowden,” confermò
Vadian.
“Si sono fatti sorprendere
mentre facevano le cose private?”
“No, non stanno insieme, sono
solo amici.”
Hyvardus fece una risatina e
replicò: “Sai bene che per fare le cose private non è necessario
stare ufficialmente insieme. L’importante è che rimangano private,
lo dice la parola stessa.”
“Lo so come funzionano, ma non
ti mandano a Yesgarion solo perché ti sei fatto beccare mentre
scopavi da qualche parte.”
Di nuovo tra i due calò il
silenzio. Solo dopo un po’, Hyvardus disse: “Certo che è strano:
prima finisce a Yesgarion per aver fatto non si sa cosa col suo amico
e poi diventa Luogotenente a… quanti? Venticinque anni?”
“Così pare,” fu la cauta
risposta di Vadian, che dopo qualche secondo aggiunse: “Dicono che
laggiù abbia anche ucciso un illdin da solo, con un coltello.”
“Un illdin? Da solo?”
“Con un coltello,” precisò
Vadian.
§
Il capitano Wardan salì le scale
che conducevano alla tribuna d’onore, attraversò il colonnato di
pietra bianca che la delimitava, percorse la larga terrazza e si
spinse fino al limitare di essa. A quel punto si pose i pugni sui
fianchi e rimase immobile, il vento che gli agitava appena il manto
nero. Strinse gli occhi chiari e fece scorrere lo sguardo sull’arena:
una costruzione poderosa, immensa, talmente solida e possente che
sembrava sorta dalla terra, più che fabbricata dall’uomo:
contrafforti squadrati, come fatti per resistere a onde immani,
gradinate altissime, che sembravano perdersi all’orizzonte e solo
lontano si piegavano a delimitare un perfetto ovale. Erano già state
issate le bandiere delle Dodici Marche, che schioccavano al vento
intorno al vessillo dell’Imperatore.
Wardan cercò con lo sguardo
quella della Marca di Gunefort, un guanto d’arme chiuso a pugno,
argento in campo nero, e le labbra gli si stirarono in un lieve
sorriso. Subito dopo il suo sguardo si spostò verso il vessillo
della Marca di Heiswegen, una chiave, sempre argento in campo nero. A
quel punto l’ufficiale aggrottò le sopracciglia e sibilò
un’imprecazione.
Udì dei passi alle proprie
spalle e si voltò bruscamente, la mano già posata sul pomo della
spada.
“Sono io, capitano,” disse un
maresciallo avvicinandosi.
Wardan rilassò le spalle. “Ah,
Gerd.” Tornò a voltarsi verso lo stadio. “Costruzione grandiosa,
non è vero?”
Il sottufficiale lo raggiunse e
gli si affiancò. Fece a sua volta scorrere lo sguardo sull’enorme
arena e rispose: “Davvero magnifica, capitano.”
I due rimasero per un po’ in
silenzio, quindi Wardan chiese: “Cosa ne pensi delle altre squadre,
Gerd?”
L’uomo annuì come se si fosse
aspettato esattamente quella domanda. “Sono forti,” rispose.
Lasciò passare qualche istante, poi in tono di soddisfazione
soggiunse: “Quest’anno i Giochi saranno piuttosto duri.”
“È bene che lo siano,” fu la
risposta, “a nessuno piacciono le vittorie troppo facili.” fece
una pausa, durante la quale mosse qualche passo lungo il bordo della
tribuna, quindi proseguì: “Quasi
a nessuno, mi correggo.”
Il maresciallo si voltò a
fissarlo. “Sarebbe a dire, capitano?”
Wardan fece un sorriso tirato.
“Sai di cosa parlo. C’è qualcuno che ama approfittare delle
occasioni a proprio vantaggio, dimenticandosi che se combatte lo fa
per Kjarr e non per se stesso.”
Gerd si limitò ad assentire come
di fronte a un discorso udito già molte volte, l’altro proseguì:
“Ti ricordi la battaglia di Aleet, maresciallo?”
“Una grande vittoria,
capitano.”
“Già, una grande vittoria.
Funestata dagli sciacalli, però.”
Il maresciallo mantenne il
silenzio e per un po’ l’unico rumore che si udì fu lo schioccare
lontano delle bandiere. “Funestata dagli sciacalli,” ripeté il
capitano. “Da uno
sciacallo, in particolare, che ha sottratto con l’inganno la preda
che il leone aveva conquistato.” Si voltò verso il suo subalterno,
forse in attesa di una risposta che però non giunse. Di nuovo
tacque, allora, e si mosse a passi svagati sulla grande tribuna
deserta. Si voltò verso l’arena e al posto della distesa d’erba
giovane che la copriva rivide il terreno ondulato e brullo della
piana di Aleet. Gli parve di risentire le urla dei soldati, il
clangore delle armi, i nitriti dei cavalli. Rivide il varco che
all’improvviso si era creato nello schieramento nemico e provò la
stessa ebbrezza di allora, la stessa esaltazione.
Scrollò la testa come per
liberarsi di un fastidioso ottundimento, quindi ringhiò: “E alla
fine lo sciacallo si è ritrovato Aiutante e poco dopo Luogotenente,
mentre il leone è rimasto Capitano.”
Il maresciallo si limitò a
fissarlo senza proferire verbo, Wardan allora chiese: “È forte la
squadra di Heiswegen?”
“È una delle più forti,
capitano.”
L’ufficiale fece un sorriso
ferino. “Quindi possiamo aspettarci di gareggiare con loro in
finale?”
“Io credo di sì, capitano. Non
scommetterei su Essl o Rhenigtas, perlomeno non quest’anno, ma
Heiswegen sarà un osso duro.”
“Farò in modo che il suo
comandante assaggi un po’ della polvere che mi fece mangiare a suo
tempo.”
Il maresciallo aggrottò appena
le sopracciglia, quindi in tono sospettoso chiese: “Cos’hai in
mente, capitano?”
Wardan fece un sorrisetto
compiaciuto e rispose: “Niente che vada contro il regolamento,
Gerd, lo sciacallo non merita che mi sporchi le mani per lui.”
Il maresciallo non parve
convinto. “Capitano, ti conosco da quando eri Allievo. Dimmi
cos’hai in mente.”
In tono tranquillo, l’ufficiale
rispose: “Te l’ho detto: niente che vada contro il regolamento.”
Poi alzò di nuovo lo sguardo verso le bandiere che garrivano contro
il cielo terso e concluse: “Ma se Hengrist non ha avuto voglia di
fare giustizia dall’alto del suo trono celeste, allora sarà io a
farla, in mezzo a quell’arena.”
§
Il Luogotenente Ehrenold strinse
le dita sulle redini e il suo possente destriero da guerra sbuffò e
scosse la criniera. “Buono,” gli disse l’ufficiale. Rinsaldò
la presa delle ginocchia per riportarlo all’obbedienza.
L’uomo che cavalcava al suo
fianco sorrise. “Ha capito che tra poco arriveremo alle scuderie.”
“Stupido filone.”
“Furbastro, invece, non ti
pare?” Poi, dopo una pausa: “Gli animali non sono tenuti come noi
a far vedere che disprezzano le comodità.”
“Non cominciare, Rowden.”
“È tutto il giorno che stiamo
in sella. È normale che i cavalli cerchino il riposo, no?”
Ehrenold non rispose. La Capitale
era ancora fuori vista, ma già lungo la strada si incontravano a
intervalli regolari posti di guardia presidiati da reparti scelti.
Avevano oltrepassato da poco quello dove lui stesso aveva prestato
servizio come Allievo, poco dopo aver ottenuto l’uniforme nera.
Ricordava bene Herburg, l’idea
di tornarci quasi gli faceva venire la tentazione di lasciare le
redini sul collo del cavallo, in modo che l’animale potesse
allungare il passo come da un po’ stava tentando di fare.
La voce del capitano lo distrasse
dalle sue meditazioni: “Tu ci sei cresciuto, vero?”
“Sì.”
“E che effetto ti fa tornarci?”
Ehrenold strinse le labbra.
“Nessuno in particolare. Spero solo che la squadra si comporti
onorevolmente ai Giochi.”
Rowden alzò le spalle e rispose:
“Per quello direi che puoi stare sicuro, i ragazzi non vedono l’ora
di battersi.”
Trascorse qualche minuto in cui
gli unici rumori che si udivano furono lo scalpiccio regolare degli
zoccoli e il tinnire dei finimenti, poi il capitano chiese: “È
bella come dicono?”
Ehrenold si voltò a fissarlo.
“Che cosa?”
“La Capitale.” Poi, quasi in
tono di scusa, soggiunse: “Non ci sono mai stato.”
Il Luogotenente si raccolse in
meditazione per un po’. “È grande,” proferì infine, “i
viali sono larghi come fiumi, le caserme possono contenere mille
soldati ognuna.”
“E com’è l’Arena?”
Ehrenold aggrottò appena le
sopracciglia, infine rispose: “Il terreno è buono, ma nella parte
nord tende a essere un po’ pesante, perché rimane più in ombra e
fa fatica ad asciugarsi. Dovremo tenerne conto quando ci saranno le
gare con i cavalli.”
Rowden sorrise. “Ma no, non
intendevo quello. È veramente immensa come dicono?”
“È molto grande.”
“Più di quella di Wesburg?”
“Sì, molto di più.” Poi,
dopo una pausa: “I ragazzi dovranno sfruttare ogni attimo
dell’allenamento per abituarsi alle sue dimensioni.”
L’altro si limitò a scuotere
la testa con un lieve sorriso.
Passò altro tempo, la squadra
continuava a procedere in formazione di marcia lungo la strada.
All’orizzonte, pur nella luce che andava calando, cominciavano a
profilarsi le cuspidi aguzze delle torri che circondavano il
Castello, ovvero la poderosa fortificazione, grande da sola come una
piccola città, che racchiudeva i principali edifici di Herburg.
Nella massa scura del maniero tremolavano qua e là dei fuochi, che a
quella distanza brillavano come gemme dorate.
“Sei nervoso?” chiese d’un
tratto Rowden.
Ehrenold si voltò a fissarlo
serio. “Non più di quanto potrei esserlo alla vigilia di una
qualsiasi battaglia.”
Il primo gli rivolse un lieve
sorriso. “Beh, qui è un po’ diverso, non ti pare?”
“Nel senso che non rischiamo la
morte?”
“Ma rischiamo il disonore.”
Ehrenold non replicò: Rowden
aveva dato voce al pensiero che lo tormentava da quando avevano
lasciato la guarnigione per raggiungere la Capitale. Per quanto non
comportasse alcun rischio di morire o rimanere menomati, dare cattiva
prova di sé ai Giochi – mostrarsi inetti, deboli o poco combattivi
– sarebbe stato infinitamente peggio che cadere in modo eroico in
battaglia.
§
Esausto, infreddolito, coperto di
fango dalla testa ai piedi, il ragazzo tornò con passo pesante verso
gli alloggiamenti. Si diresse ai lavatoi e dapprima cercò di
togliersi di dosso l’equipaggiamento fradicio, ma aveva le mani
intorpidite e vi rinunciò quasi subito: come era d’uso fare in
casi del genere, si buttò sotto il getto dell’acqua completamente
vestito. Per un po’ rimase semplicemente fermo con le mani
appoggiate alla parete e lo sguardo fisso sulla cateratta limacciosa
che dai suoi piedi scorreva gorgogliando verso lo scolo, poi, quando
l’acqua che scendeva nello scarico divenne accettabilmente
incolore, si spostò e cominciò a togliersi ciò che aveva addosso,
lasciando man mano cadere in un mucchio le varie pari
dell’equipaggiamento. Sarebbe stato tutto da lavare e ingrassare
per il mattino dopo, o non avrebbe passato l’ispezione e Cinghiale
l’avrebbe punito di nuovo.
Rialzò il capo con un gesto
sprezzante e fece per allontanarsi.
Una voce lo fermò: “Aspetta,
ti aiuto.”
Il ragazzo si voltò in quella
direzione: sulla porta c’era uno della sua squadra. “Dovresti
essere in camerata,” si limitò a dirgli.
“Anche tu,” fu la risposta,
“domani c’è la marcia di quindici miglia.”
Il primo si limitò ad alzare le
spalle con noncuranza, ma l’altro si avvicinò e dal mucchio
fradicio di armi e vestiti estrasse la cotta di maglia. “Se
Cinghiale ti vede una cosa del genere, ti fa fare tutto il percorso
di guerra con uno zaino di pietre in spalla.”
“Sai che novità.”
Il nuovo arrivato non se ne diede
per inteso: portò la cotta di maglia sotto il getto dell’acqua, la
sciacquò fino a che non fu completamente libera dal fango, poi la
appese a sgocciolare. “Domattina la ingrassiamo,” lo informò,
“così sei a posto.”
“Perché lo fai, Enes?”
L’altro lo fissò con aria di
non capire. Dopo qualche secondo rispose: “Perché siamo camerati,
perché tu faresti lo stesso per me.”
Il ragazzo ebbe un ghigno. “Non
ne sarei così sicuro.”
Enes alzò le spalle. “Lo sanno
tutti che nella marcia di Seriss quando Perr si è storto la caviglia
hai portato tu il suo zaino e l’hai anche aiutato a camminare.”
“Era una cosa diversa.”
“Non mi pare.”
Per un po’ il ragazzo rimase in
piedi in mezzo alla stanza con aria irresoluta. Avrebbe voluto
andarsene da qualche parte, fregandosene di Cinghiale e delle sue
punizioni, ma Enes continuava a raccogliere la sua roba un capo dopo
l’altro e a sistemarla. Per un attimo fu quasi tentato di cacciarlo
via, poi però si risolse a farsi avanti. “In due finiamo prima,”
brontolò.
“Mettiti addosso qualcosa di
asciutto,” gli consigliò l’altro, “altrimenti ti prendi un
malanno.”
Dopo un po’ che lavoravano,
Enes disse: “Ti conviene rigare dritto per un po’, altrimenti
Cinghiale non ti farà assistere ai Giochi.”
“Sai cosa me ne importa degli
stupidi Giochi,” ringhiò l’altro sprezzante.
Il primo lo fissò come se non si
capacitasse di ciò che aveva appena udito. “Vuoi perderti
l’occasione di vedere i soldati migliori di Kjarr?”
L'altro si limitò ad assumere
un’espressione di degnazione. “Non mi importa che siano i
migliori o i peggiori. Non leccherò certo i piedi al Cinghiale per
andarli a vedere.”
Enes scosse la testa come di
fronte a un'affermazione assurda. “Ma lo sai di cosa stai
parlando?” gli chiese.
“No, e non me ne frega niente.”
“Davvero non sai nulla dei
Giochi?”
Il ragazzo incupì lo sguardo.
“Dovrei?”
“Sono settimane che tutti ne
parlano.”
I due tacquero e per un po' si
limitarono ad allineare su una corda tesa indumenti gocciolanti. Dopo
un po', Enes disse: “Prima selezionano la squadra migliore di ogni
guarnigione ed esse si affrontano nei Giochi della Marca. Chi vince
ha l’onore di gareggiare qui a Herburg.”
“Nientemeno,” commentò
ironico l’altro.
“Sono i soldati migliori,”
ripeté Enes, “i più forti e i più abili nella guerra. È un
grande onore entrare in una squadra dei Giochi.” Fece una breve
pausa, quindi proseguì: “Io mi sto già allenando il più
possibile e spero che quando sarò assegnato a una guarnigione mi
noteranno.”
L'altro non rispose.
“A te non piacerebbe entrare in
una squadra?”
Il ragazzo aggrottò le
sopracciglia e in tono duro rispose: “Non me ne importa
assolutamente niente.”
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Ciao a tutti,
eccovi
un altro pezzo del mappazzone fantasy. Grazie a tutti quelli che mi
hanno seguito fin qui, spero che apprezzerete anche il resto^^
Capitolo
2
Il
campo di addestramento numero dodici era considerato il peggiore di
tutta Herburg. Il più difficile, quello col terreno più infido. Si
diceva che avesse causato più contusioni, ferite e ossa rotte di
una banda di Orchi Cinerei inferociti.
Sotto
il cielo cupo era una distesa grigia, fangosa, disseminata di
pozzanghere, sulla quale si susseguivano ostacoli di vario genere, in
un percorso che normalmente dava fondo a ogni energia di un soldato
mediamente addestrato e faceva cadere svenute le reclute che da poco
avevano ricevuto l'uniforme nera.
Ehrenold
strinse gli occhi mentre un lieve sorriso gli increspava le labbra.
Non si faceva mai tutto, il Campo dodici. Se ne facevano dei pezzi,
più o meno lunghi a seconda delle intenzioni dell'istruttore: un
buon maresciallo sapeva perfettamente a che punto del percorso
spedire un soldato e quanto spingerlo per ottenere di volta in volta
un allenamento, un allenamento duro, una punizione moderata o una
punizione che non sarebbe stata dimenticata mai più.
Il
Luogotenente raggiunse il recinto che lo delimitava e di nuovo fece
scorrere lo sguardo sui vari ostacoli. Si soffermò sul Muro, una
parete di legno posta alla sommità di una piccola salita. Essa era
consumata da innumerevoli cotte di maglia che vi avevano urtato
contro. Periodicamente veniva ridipinta, ma la pittura non durava mai
più di qualche settimana. Riconobbe il suo bordo superiore smangiato
dall'uso, rievocò la sensazione di trionfo di far passare la gamba e
poi tutto il corpo oltre quell'asse scabra. Di nuovo sorrise fra sé
e sé e si rivide ragazzo, con l'uniforme nera appena conferita, che
correva su per la salita con uno zaino affardellato, saltava, si
tirava su a forza di braccia e si lasciava cadere dall'altra parte
con la sensazione di aver appena valicato il più alto dei Monti
Utash.
In
quel momento vide due figure avvicinarsi. Le osservò più
attentamente e si accorse che erano un maresciallo e una recluta. Il
ragazzo doveva avere sui sedici anni, perché sull'uniforme nera non
aveva ancora alcuna insegna. Notò che era un po' più alto
dell'istruttore, anche se per forza di cose meno robusto, e aveva un
bel portamento fiero. Considerò tra sé e sé che uno così sarebbe
stato probabilmente scelto per far parte della Guardia d'Onore.
In
quel momento l'istruttore disse qualcosa e il ragazzo fece una cosa
inaudita: si girò e rispose in tono aspro.
Un
istante dopo, rotolò a terra colpito dallo scudiscio del
maresciallo. Si rialzò torvo, rigido, con le spalle ingobbite e i
pugni stretti, quindi lanciò al suo antagonista una tale occhiata di
odio che Ehrenold stesso si trovò ad aggottare le sopracciglia
disorientato.
Il
sottufficiale però sembrava piuttosto avvezzo a quel tipo di
comportamento e si limitò a indicare al ragazzo un punto del
percorso. Il Luogotenente riconobbe la posizione: punizione molto
dura.
Non
si trovò in disaccordo con quella scelta: in un esercito la
disciplina era tutto ed era bene che le reclute – ragazzetti che
cominciavano appena a sperimentare la loro forza, esuberanti come
torelli in primavera – capissero subito che i gradi andavano
rispettati.
Intrecciò
le mani dietro la schiena e per un po' rimase a seguire la punizione
da lontano.
Notò
che il ragazzo era veloce e affrontava gli ostacoli con piglio
deciso, senza lasciarsi spaventare dalle difficoltà del percorso. Lo
vide cadere in una pozza d'acqua limacciosa, arrancare fino al bordo
con tutto l'equipaggiamento addosso, scrollarsi e riprendere
grondante la corsa.
Si
avvicinò.
Il
maresciallo, che stava seguendo il ragazzo, al rumore dei suoi passi
si voltò e salutò militarmente. Ehrenold rispose al saluto. L'uomo
lo fissò aggrottando le sopracciglia, poi sul volto gli comparve un
sorriso. “Ne hai fatta di strada,” constatò. Si pose i pugni sui
fianchi e lo rimirò con fare compiaciuto. “Luogotenente,
addirittura.”
L'ufficiale
lo fissò a sua volta: l'uomo aveva qualche cicatrice e qualche
tatuaggio di guerra in più rispetto a quel che ricordava, ma
espressione e corporatura non erano cambiate per niente. “Maresciallo
Tenhar,” disse.
“Ehrenold,
giusto?”
“Sì.”
“Sei
qui per i Giochi?”
“Sì,
comando la squadra di Heiswegen.”
Senza
togliere i pugni dai fianchi, il maresciallo sollevò le sopracciglia
e annuì, poi disse: “Lo dicevo che avresti fatto strada.”
Ehrenold
sorrise. “Veramente, maresciallo, se non ricordo male dicevi che
ero uno stupido bue, buono solo per tirare un aratro.”
L'altro
fece un gesto come per allontanare un insetto, quindi rispose: “Ma
sì, quelle sono le solite cose che si dicono ai ragazzi per evitare
che si montino troppo la testa, soprattutto se sono migliori degli
altri.” Poi, dopo una pausa, in tono di vago rimprovero: “Dovresti
saperlo, Luogotenente.”
Ehrenold
assentì. “Sì, certo.”
“Tu
l'hai finito tutto il Campo Dodici.”
“Mi
ricordo.”
“Beh,
non era il caso che mettessi su troppa boria, non ti pare? Mi ricordo
che anche da giovanotto eri ambizioso.”
“Cosa
ti fa pensare che lo sia?” gli chiese Ehrenold.
“Ragazzo,
se non ricordo male hai venticinque anni e sei già Luogotenente. Hai
intenzione di diventare il Sovrintendente più giovane di tutto
l'esercito di Kjarr?”
“Non
mi dispiacerebbe se accadesse.”
“E
poi mi dici che non sei ambizioso.” Tenhar stava per aggiungere
altro, ma in quel momento la recluta, che si stava arrampicando su
una fune, perse la presa e piombò a terra di schiena.
Immediatamente,
il maresciallo tuonò: “Alzati in piedi, specie di pelandrone
inutile! Hai intenzione di trascorrere la mattina a dormire?”
La
recluta si rigirò su un fianco e puntò a terra una mano come per
sollevarsi.
“Muoviti!”
lo incalzò Tenhar, “Pensi che il nemico se ne stia ad aspettare
educatamente in un angolino fino a che tu non ti sei rimesso dritto
sulle gambe?” A grandi passi lo raggiunse, quindi fece sibilare in
aria lo scudiscio e gli assestò un colpo sulla schiena. La recluta
scattò in piedi, quindi con mossa fulminea si protese per afferrare
il nerbo. Il maresciallo però evidentemente se l'aspettava, perché
con un gesto ancora più repentino lo sottrasse alla sua presa e di
nuovo lo colpì con esso, questa volta in pieno viso. Il ragazzo
emise un ringhio, ma rimase immobile. Persino dalla distanza a cui
stava assistendo alla scena, Ehrenold colse nel suo sguardo torvo il
brillio della sfida.
“Chi
è?” chiese quando il maresciallo fu di nuovo accanto a lui.
Tenhar
alzò le spalle. “Un cavallo selvaggio. Ne salta fuori uno in ogni
Compagnia, più o meno: un ragazzetto presuntuoso che crede di poter
obbedire agli ordini solo se ne ha voglia.”
“Vanno
raddrizzati,” si limitò a considerare Ehrenold. Spostò nuovamente
lo sguardo sul ragazzo, che stava correndo sul terreno dissestato
come un cervo inseguito da una muta di cani. Lo vide arrivare a una
serie di tronchi successivi, posti di traverso sul percorso, distanti
l’uno dall’altro circa un braccio e ad altezza crescente da
terra. Strinse appena gli occhi: l'ostacolo era uno dei più infidi,
richiedeva equilibrio, agilità e forza. Era necessario balzare da un
tronco all'altro senza fermarsi e alla fine spiccare un balzo più
lungo degli altri, afferrare al volo una fune penzolante,
arrampicarsi su quella e poi tornare giù scivolando lungo una
pertica.
Ehrenold
rimase immobile a fissarlo. Il ragazzo saltò sul primo tronco,
ondeggiò ma mantenne l'equilibrio, passò al secondo e poi al terzo,
allargò le braccia per non cadere, saltò sul quarto...
“Non
ce la fa,” disse Tenhar scuotendo la testa.
Il
ragazzo scivolò, cercò con un guizzo di rigirarsi e aggrapparsi al
tronco, ma crollò a terra sollevando uno spruzzo di fango.
“Alzati,
specie di idiota!” ruggì il maresciallo, quindi a voce più bassa,
rivolto a Ehrenold: “Sarebbe un buon elemento, ma lo vedi anche tu:
troppo precipitoso, non pensa a quello che fa, la sua unica
preoccupazione è alzare la cresta, come se servisse a qualcosa.”
“Chiamalo
qui,” disse il Luogotenente.
Il
maresciallo aggrottò appena le sopracciglia come se la cosa lo
stupisse, ma subito dopo si girò di nuovo verso il campo e disse:
“Tu! Vieni qui subito!”
Il
ragazzo abbandonò il percorso e li raggiunse, quindi si mise
sull'attenti.
Ehrenold
lo squadrò serio: era fradicio, coperto di fango, con il volto
bianco di fatica e la guancia segnata dal colpo di scudiscio. Ansava
pesantemente.
“Come
ti chiami?” gli chiese.
Il
ragazzo serrò i denti e incupì lo sguardo. “Siwald.”
“Siwald,
Luogotenente,” lo corresse il maresciallo. Il ragazzo strinse gli
occhi e ripeté: “Siwald.”
Tenhar
lo colpì di nuovo con lo scudiscio, il giovane si limitò ad
aggrottare le sopracciglia, poi a bassa voce ringhiò: “E adesso
cosa fai, maresciallo, mi spedisci sul percorso di guerra? Sai che
novità.”
In
tono pacato, il sottufficiale rispose: “No, il percorso di guerra è
per i soldati. C’è giusto bisogno di un mulo alla cava, domani ti
presenterai là all’alba e farai quello che ti ordineranno.”
“Sissignore.”
“Ora
torna sul campo e ripeti i tronchi.”
“Sissignore.”
Il
ragazzo salutò e corse via.
Ehrenold,
che aveva assistito impassibile alla scena, a quel punto chiese: “Gli
è già stato assegnato un mentore?”
Tenhar
scosse la testa. “Lo vedi anche tu com’è: provoca, fa lo
stupido, cerca sempre di avere l’ultima parola. Se l’era preso
uno della Guardia d’Onore, nientemeno, e dopo qualche giorno l’ha
rifiutato.”
“Come
mai?”
Il
maresciallo alzò le spalle. “È il peggior cavallo selvaggio che
mi sia capitato da anni. Uno così non lo vuole nessuno.”
“Si
è fatto avanti qualcun altro?”
“Sì,
del resto lo vedi com’è: ha del potenziale.”
“E
quindi?”
“Niente,
anche il secondo l’ha rifiutato.”
Ehrenold
assentì serio. “Gliene resta uno,” considerò.
“Già,
poi finisce a fare lavori di fatica per il resto della sua vita.
Niente armi, niente onore.”
Il
Luogotenente volse di nuovo lo sguardo verso il ragazzo: lo vide
balzare dal tronco più alto, afferrare la fune e sollevarsi a forza
di braccia fino al gancio che la sosteneva. “Sarebbe un peccato,”
disse.
§
Ehrenold
portò fuori dalla scuderia il cavallo, quindi gli fece fare qualche
passo sul selciato. Si chinò e si accertò che le zampe dell’animale
fossero state fasciate accuratamente, poi passò a controllare la
sella.
“È
a posto,” gli disse Rowden, già in groppa al suo destriero.
“È
sempre meglio esserne certi.”
“Da
queste parti gli stallieri sanno il fatto loro.”
“Come
se alla nostra guarnigione non fosse così.” Poi, dopo una pausa:
“Voglio portare gli uomini sul percorso della prova di campagna.”
Detto questo, Ehrenold allungò le staffe, mise le redini sul collo
del cavallo e montò in sella. Come sua abitudine, fece fare qualche
passo all’animale tenendogli le redini lunghe, poi le accorciò
nuovamente chiedendogli un assetto impostato. A quel punto spronò e
partì al piccolo trotto.
La
squadra gli si accodò assumendo la corretta formazione.
Raggiunsero
una zona poco lontano dal giro di mura più esterno di Herburg, che
veniva mantenuta incolta e boscosa proprio per lo svolgimento dei
Giochi. Vi si snodava un grossolano percorso lungo il quale, a
intervalli regolari, si trovavano postazioni per gli osservatori,
ovvero coloro che avevano il compito di controllare che il
regolamento fosse rispettato e le formazioni mantenute.
Il
cielo era azzurro, ma la mattina era fredda e l’erba ghiacciata
scricchiolava sotto gli zoccoli dei cavalli. I rami degli alberi,
ancora spogli, erano coperti da una sottile patina di brina, che
riluceva sotto i raggi del sole.
Sul
terreno indurito dal gelo gli zoccoli tonfavano cupi.
Ehrenold
percepì un animale che scartava alle sue spalle. “Tenere i cavalli
alla mano,” ordinò senza voltarsi. Scrutò il percorso, che si
addentrava nella selva tra rovi e tronchi caduti. Ogni tanto vi era
un piccolo segnale rosso, che indicava gli ostacoli. Il primo – il
più facile – era uno sbarramento costituito da tre file di barili
rovesciati.
“Dietro
di me,” ordinò, quindi mise il cavallo al galoppo leggero.
In
quel momento, l’aria sembrò tremare per un improvviso rombo di
zoccoli. Ehrenold fermò la squadra, quindi si girò sulla sella:
c’era un’altra squadra in avvicinamento. Il suo sguardo si fece
acuto ed egli d’istinto rinsaldò la stretta delle ginocchia sulla
cavalcatura. Rowden, che a sua volta s’era girato per guardare, a
bassa voce gli raccomandò: “Non fare azioni avventate.”
I
nuovi arrivati si avvicinarono ulteriormente, poi il comandante del
drappello fece cenno ai suoi di fermarsi e continuò ad avanzare da
solo.
Ehrenold
rivolse uno sguardo all’amico, quindi raggiunse l’altro e gli
chiese: “Che ci fai qui?”
Questi
sorrise ironico. “Strana domanda da parte tua: porto i miei a
vedere il percorso.”
“Adesso
tocca a noi.”
L’altro
scosse la testa. “Tocca a chi se lo prende. Non è questa la tua
filosofia?”
Ehrenold
assottigliò lo sguardo. “Che intendi dire?”
“È
quello che hai fatto nella battaglia di Aleet, no?”
“Negativo.
Nella battaglia di Aleet ho eseguito gli ordini, e prima te ne
convincerai, meglio sarà per te.”
“Gli
ordini di chi?” replicò l’altro sprezzante. “Quelli che ti sei
dato da solo, forse.”
“No,
quelli del Sovrintendente Durwane.” Ehrenold fece una breve pausa,
quindi aggiunse: “Hai mai pensato di chiedere a lui come sono
andate veramente le cose? Oppure ti fa comodo pensare che la
promozione sia toccata a me perché ho agito in modo scorretto?”
“Ma
certo, è molto semplice,” lo rimbeccò sarcastico il nuovo
arrivato, “mi faccio dare una licenza, attraverso l’Impero,
arrivo fino ai territori di Kelesh, cerco il Sovrintendente Durwane e
se non è ancora caduto in battaglia e acconsente a darmi udienza,
gli chiedo come sono andate veramente le cose. Ma perché non ci ho
pensato prima, dico io?”
“Te
lo dico io perché non ci hai pensato, Wardan,” replicò duro
Ehrenold, “perché è a
te che fa molto comodo
pensare che sia andata come tu immagini. La verità però è
un’altra: io ho eseguito gli ordini del Sovrintendente, ho fatto
avanzare i miei uomini nella maniera più giusta e ho conquistato
l’obiettivo. E ora tornatene dai tuoi e lasciaci passare: per le
prossime due ore il percorso è nostro.”
“Io
dico che il percorso è di chi se lo prende!” replicò brusco
Wardan, quindi spronò il cavallo, che balzò in avanti costringendo
Ehrenold a far scartare il proprio per non venire travolto.
Il
Luogotenente riprese in un attimo il controllo del destriero, quindi
si lanciò all’inseguimento del rivale.
Rowden
si voltò verso la squadra e in tono imperioso disse: “Voi restate
qui!” Poi si rivolse alla squadra di Wardan e aggiunse: “E anche
voi!”
Si
fece avanti un maresciallo: “Conosci le regole, capitano: durante i
Giochi i gradi non contano.”
“Certo,”
replicò Rowden, “comanda la squadra chi è più bravo, giusto?”
Spostò il cavallo in modo da pararsi tra i due gruppi e l’inizio
del percorso. “Oppure chi ha più buon senso.”
Non
aggiunse altro: spronò l’animale e scomparve sulle tracce dei due
ufficiali.
Percorse
il primo rettilineo a rotta di collo, gli occhi fissi sull’ostacolo
di barili. Volò sullo sbarramento, si piegò per evitare un ramo,
quindi si raddrizzò subito dopo e serrò le ginocchia per affrontare
una curva a gomito. Superata quella, vide in fondo a un rettilineo i
due capisquadra che galoppavano fianco a fianco, cercando di
superarsi a vicenda. Fece un rapido calcolo: non sarebbe mai stato in
grado di raggiungerli, ormai avevano troppo vantaggio.
Percepì
un rumore di zoccoli alle spalle, si girò e vide il maresciallo che
gli aveva risposto poco prima. L’uomo galoppava a briglia sciolta,
tenendosi piegato sulla sella per guadagnare più velocità
possibile.
“Capitano!”
lo udì gridare. “Capitano Wardan!”
Rowden
spronò a sua volta, sebbene l’animale stesse già correndo così
forte che nell’aria gelida gli lacrimavano gli occhi. Sbatté la
palpebre, ma non osava staccare una mano dalle redini per tergersi.
Alzò comunque lo sguardo, e pur sfocata vide la seguente scena: il
cavallo di Wardan scartò, urtò quello di Ehrenold e lo spinse verso
il bordo pista, che in quel punto era coperto di alti cespugli dai
rami spinosi.
Il
destriero del Luogotenente scivolò sul terreno ghiacciato e ruppe
l’andatura. Si mantenne in piedi, ma finì fuori pista, fece due o
tre tempi di galoppo tra gli sterpi e saltò un ramo caduto, quindi
sgroppò e scrollò la testa innervosito. Ehrenold strinse le
ginocchia e lo riportò sul terreno battuto, ma Wardan aveva già
preso troppo vantaggio e stava scomparendo dietro una curva.
Fermò
il cavallo.
Rowden
tirò a sua volta le redini e fu oltrepassato dal sottufficiale, che
in breve scomparve dietro il suo comandante. Batté la mano sul collo
del destriero e gli fece fare qualche passo. Accaldati per la folle
galoppata, gli animali erano circondati da una nuvola di vapore ed
emettevano getti bianchi dalle froge a ogni respiro. “Ti ha
spinto,” disse.
“Può
darsi,” fu la risposta di Ehrenold, “di sicuro sperava che sarei
caduto o avrei azzoppato il cavallo.”
“Se
lo segnalassi ai giudici, sarebbe squalificato.”
Il
Luogotenente scosse la testa. “Se tu lo segnalassi, il suo
maresciallo direbbe che non è vero e si aprirebbe un’indagine.”
“Ma
tu puoi confermare che ti ha spinto deliberatamente, quindi
l’indagine ci darebbe ragione.”
“Non
è detto, in fin dei conti è la nostra parola contro la loro,
inoltre non eravamo in gara e quello che ha fatto Wardan in senso
stretto non è proibito.” Ehrenold si voltò verso la direzione in
cui i due erano scomparsi, quindi aggiunse: “E poi dovrei quasi
ringraziarlo: in questo modo mi ha fatto capire cos’ha in mente.”
Rowden
si girò a sua volta verso il proseguimento della pista, quindi fissò
l’amico e gli chiese: “Pensi che lo rifarà?”
Ehrenold
alzò le spalle con noncuranza. “Senza dubbio sta meditando
qualcosa, ma non farà niente in gara: ci sono gli osservatori e
avrebbe troppo da perdere se lo vedessero.” Mise il destriero al
passo. “Ora andiamo, però. Già che i ragazzi sono in sella,
voglio approfittare per fare un po’ di allenamento.”
“Sei
ferito da qualche parte?”
“Solo
un paio di graffi.”
“E
il cavallo?”
“A
posto. Fergund sa il fatto suo.”
Per
un po’ procedettero in silenzio uno accanto all’altro, poi d’un
tratto Ehrenold chiese: “Hai mai pensato a quando dovrai fare il
mentore?”
Rowden
aggrottò le sopracciglia e si voltò stupefatto a fissarlo. “Prego?”
chiese, ancora non del tutto certo di aver capito bene.
“Il
mentore,” ripeté Ehrenold mantenendo lo sguardo fisso fra le
orecchie del cavallo, “prendere un ragazzo, insegnarli le cose.”
Fece una pausa, a Rowden parve che sorridesse fra sé e sé.
“Trasformarlo in un soldato.”
Il
capitano lasciò passare qualche istante, quasi aspettandosi che
l’altro avrebbe aggiunto qualcosa, infine si decise a chiedere:
“Come mai mi fai questa domanda? Tutti lo dovremo fare, prima o
poi, è la regola.”
“Tu
pensi che sia difficile?” continuò Ehrenold, seguendo il filo dei
propri pensieri.
Rowden
scosse la testa. “Non saprei, francamente non ci ho mai pensato. Ma
poi, cosa sono questi discorsi? Adesso dobbiamo pensare ai Giochi,
faremo i mentori quando sarà il momento, esattamente come diamo il
nostro contributo alla generazione quando le matrone stabiliscono che
dobbiamo farlo.”
Ehrenold
annuì a quelle che erano cose ben note per ogni uomo di Kjarr,
tuttavia dopo un po’ disse: “Tu credi che io sarei in grado di
farlo?”
A
quel punto, Rowden fermò il cavallo, costringendo l’altro a fare
altrettanto, quindi replicò: “Senti un po’, ogni promozione che
hai ricevuto è stata sul campo, sei il comandante di una squadra dei
Giochi, hai solo venticinque anni e hai già non so quanti tatuaggi
di guerra, sei l’incarnazione di ogni valore di Kjarr. Se non sei
in grado tu, non vedo chi possa esserlo. E comunque, ti ripeto che
adesso non è una faccenda di tua competenza. Ti occuperai di un
ragazzo quando ti diranno che devi farlo.”
Ehrenold
non rispose. Il sole si era alzato ulteriormente e la brina che
copriva i rami aveva cominciato a sciogliersi, rendendoli lucidi e
scuri. Nell’aria c’era un gran silenzio, solo in lontananza si
sentiva l’eco flebile di una canzone di marcia. Rowden seguì lo
sguardo dell’amico e si accorse che egli stava cercando di
localizzare la provenienza del canto. “Ci sei?” gli chiese.
L’altro
ebbe un lieve sussulto. “Sì, scusa.”
“Dicevo
che adesso dobbiamo pensare ai Giochi, Ehrenold, null’altro
importa.”
“Ovvio
che penseremo ai Giochi,” rispose il Luogotenente con una nota di
durezza nella voce.
“Null’altro
importa,” ripeté Rowden. “A Heiswegen si aspettano che diamo
buona prova di noi, non possiamo deludere chi ci ha dato fiducia.”
“Non
lo faremo,” replicò Ehrenold incupendo lo sguardo.
“E
allora è il caso che tutte le nostre energie finiscano lì,” gli
ricordò Rowden. “Lascia perdere la faccenda del mentore finché
non sarà tutto concluso.”
L’altro
rimise il cavallo al passo, segno che considerava la discussione
finita. Il capitano restò per qualche istante a guardarlo mentre si
allontanava, quindi spronò a sua volta la cavalcatura e lo
raggiunse.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Gente,
ecco
qui un altro capitolo del mappazzone. Grazie a tutti quelli che in
qualche modo mi seguono, un grande grazie a chi mi ha lasciato anche
un parere!^^
Capitolo
3
Ehrenold
si voltò verso Rowden e vide che l’amico aveva lo sguardo fisso
verso il portale che dai sotterranei dell’Arena conduceva al campo
di gara. “Che c’è, sei nervoso?” gli chiese.
Al
di là si udivano squilli di tromba e acclamazioni. Da bianchi che
erano, i gradini erano diventati tutti neri, perché coperti di
soldati. Solo in fondo si vedeva la macchia chiara formata dalle
compagnie di ragazzi che non avevano ancora raggiunto lo status di
reclute e portavano l’uniforme kaki.
“Un
po’,” rispose Rowden. Poi, dopo una pausa: “Tu no?”
Ehrenold
rimase in silenzio. Aveva visto i Giochi un paio di volte quando era
ragazzo e un’altra volta con l’uniforme nera, in compagnia del
suo mentore, poi era stato mandato in varie guarnigioni e non aveva
più avuto occasione di assistervi. Ricordava abbastanza bene la
cerimonia di apertura, ma un conto era vederla seduto sulle
gradinate, un conto era prendervi parte.
Seguì
con lo sguardo la squadra di Essl che prendeva posizione davanti
all’uscita. Uno dei cavalli raspò a terra con l’anteriore, il
suo cavaliere gli diede un paio di pacche sul collo per calmarlo, ma
l’animale arretrò e l’uomo fu costretto a fargli fare qualche
passo in circolo prima di riportarlo in formazione. La bandiera della
Marca, fronde di quercia argento in campo nero, ebbe un’oscillazione,
tanto che il comandante richiamò l’uomo che la reggeva.
Un
altro cavallo tentò di scartare col posteriore, ma venne subito
richiamato all’ordine dal suo cavaliere.
“Pronti,”
disse l’inserviente che stava accanto alla porta.
Da
fuori provenivano lunghi squilli di tromba, il brusio della folla si
era fatto carico di aspettativa.
“Salute
e vittoria,” augurò loro Ehrenold alzando la destra.
Il
comandante della squadra, un capitano di nome Shorn, si girò sulla
sella e gli rivolse un sorriso tirato. “Salute e vittoria anche a
voi,” rispose. Forse avrebbe voluto aggiungere altro, ma
l’inserviente disse: “Squadra di Essl: fuori.”
Shorn
si girò in avanti e diede l’ordine di avanzare, la squadra si
mosse compatta verso il riquadro luminoso.
L’Arena
la accolse con un’ovazione. Gli uomini della Marca di Essl che si
trovavano fra il pubblico sventolarono bandiere e si sgolarono in
acclamazioni così forti che per un attimo sembrarono coprire gli
squilli delle trombe di guerra.
Ehrenold
fece avanzare i suoi: i prossimi a uscire sarebbero stati loro. Alle
sue spalle, Rowden disse: “Certo che è strano, vero? Avremo visto
chissà quante battaglie, eppure siamo qui che ce la facciamo sotto
al pensiero di fare una passeggiatina in formazione davanti a un po’
di pubblico.” Fece una breve risata, alla quale gli uomini
risposero ridacchiando a loro volta.
“Salute
e vittoria anche per noi,” si limitò a rispondere il Luogotenente.
Era nervoso forse più di tutti gli altri messi insieme – in fin
dei conti era principalmente su di lui che sarebbe ricaduto
l’eventuale biasimo se la squadra non avesse dato buona prova di sé
– ma era ben consapevole che tra i suoi doveri c’era anche quello
di dare l’esempio, esattamente come gli era richiesto di fare sul
campo di battaglia.
“Voglio
una formazione di parata perfetta,” disse in tono tranquillo. Stava
per aggiungere altro, ma risuonò la voce dell’inserviente:
“Pronti.”
La
squadra si approssimò all’uscita.
“È
vero che c’è anche l’Imperatore?” chiese uno degli uomini con
voce vagamente incerta.
Ostentando
un tono tranquillo, Ehrenold rispose: “Certo che c’è, Arel. Per
chi pensi che sfileremo, una volta arrivati là fuori?”
Il
soldato assunse un’espressione preoccupata. “Io non ho mai visto
l’Imperatore,” mormorò.
Il
Luogotenente si girò a fissarlo. In tono tranquillo gli disse:
“Quando sei stato in battaglia contro i soldati di Mirith l’avevi
per caso visto?”
“No,
Luogotenente.”
“Non
hai avuto meno coraggio, però.”
Il
soldato annuì. “Ho fatto quello che dovevo, Luogotenente.”
“Qui
non ti è richiesto niente di più, Arel. Testa alta e ginocchia
strette. Saluta quando arrivi davanti a Lui e non preoccuparti di
niente.”
Il
soldato ebbe un pallido sorriso. “Sì, Luogotenente.” Poi, dopo
una pausa: “Grazie.”
Intervenne
l’inserviente: “Squadra di Heiswegen: fuori.”
“Formazione
di parata,” ordinò Ehrenold, quindi mise il cavallo al passo.
Aveva
già visto l’Arena e aveva già visto i Giochi, ma mai da quella
posizione, e mai con gli occhi di chiunque puntati addosso. Mai con
l’Imperatore che lo guardava.
“Salute
e vittoria,” disse la voce di Rowden alle sue spalle. “Guidaci e
noi ti seguiremo fino alle Dimore di Vopnir.”
Ehrenold
alzò la testa con uno scatto e un attimo dopo era sulla pista, la
bandiera di Heiswegen che schioccava nel vento teso. Le acclamazioni
erano un unico boato ininterrotto, gli squilli di tromba erano così
forti da rintronare. Davanti, staccata di un centinaio di passi,
c’era la squadra di Essl, ancora più avanti quella di Arhusk. Gli
parve quasi di essere uscito da sé, di guardarsi da fuori. Si vide
procedere fino alla tribuna d’onore, dare l’alt, salutare. Tutto
perfetto, tutto all’unisono. La squadra era come un’entità
unica, come se i suoi uomini si fossero fusi in un solo essere, che
poi era diventato anche parte di lui.
Alzò
lo sguardo sul sovrano: da quella distanza gli appariva solo come un
uomo imponente, dai capelli bianchi, con l’uniforme da Generale
Supremo. Sapeva che era vecchio, perlomeno per i criteri di Kjarr,
eppure sedeva eretto e fin da quella distanza si coglieva il suo
sguardo acuto di rapace. Alla sua destra c’erano i più alti
dignitari del regno e alla sua sinistra le più autorevoli fra le
matrone.
Diede
ordine di abbassare la bandiera in segno di onore al sovrano, che
salutò militarmente la formazione.
Successivamente,
Ehrenold si ritrovò di nuovo sulla pista, la squadra compatta alle
sue spalle. “È andata,” gli disse Rowden, a voce talmente bassa
che nel caos di acclamazioni fece quasi fatica a sentirla.
§
Vadian
appoggiò il boccale sul lungo tavolo di legno della mensa e disse:
“E finalmente, domani cominciano i Giochi!”
Gli
altri capisquadra alzarono i boccali in un brindisi, dal fondo del
tavolo qualcuno esclamò: “Salute e vittoria!”
“Salute
e vittoria!” fecero eco gli altri, poi tutti bevvero un sorso.
Si
fece udire la voce di Shorn: “Ragazzi, siete pronti per domani? I
cavalli si riposano, eh, tocca a noi sgobbare!”
Hyvardus
stirò le poderose membra e rispose: “Preparatevi, perché domani
vedrete la squadra di Wors sparire all’orizzonte.”
“Ah,
sì?” ghignò Vadian, “Dove hai intenzione di scappare?”
L’altro
si finse piccato. “Davanti a voi, ovviamente. Vedrete solo i nostri
sederi.”
“Allora
potremmo anche farci un pensierino!” intervenne Hatril, comandante
della squadra di Rhenigtas. “Vi teniamo dietro durante le prove di
corsa e nuoto, e appena di fermate per tirare con l’arco...”
A
quel punto intervenne Deler, della Marca di Oswand, che disse: “E
mentre voi vi divertite, noi arriviamo all’Arena per primi e ci
beviamo una birra mentre vi aspettiamo.”
Tutti
risero.
Ehrenold
si voltò verso Rowden, che nella generale allegria aveva abbandonato
il tavolo della squadra di Heiwsegen e si era unito a quello dei
capisquadra, e gli chiese: “Come stanno i ragazzi?”
L’altro
sorrise. “Partirebbero stasera, se potessero.” Si guardò intorno
alla ricerca di un boccale, Ehrenold spinse il proprio verso di lui.
Il capitano sorbì un lungo sorso, quindi proseguì: “Arel è
ancora emozionato per quello che gli hai detto.”
L’altro
scosse la testa divertito. “Ma se non gli ho detto niente...”
“Scherzi?
Hai parlato proprio a
lui. È rimasto molto
colpito.”
“Per
così poco?”
Rowden
si protese ad appoggiargli una mano sulla spalla, quindi rispose:
“Sai perfettamente cosa possono significare anche poche parole da
parte di un comandante.” Fece una pausa, poi precisò: “Un vero
comandante, naturalmente, non un cialtrone con qualche grado in più
sull’uniforme.”
“E
io sarei un vero comandante?”
Rowden
gli strinse appena la presa sulla spalla, quindi a bassa voce
rispose: “Sai di esserlo.”
Uno
scoppio di risa particolarmente violento fece voltare entrambi: a
tavola continuavano a scambiarsi battute sulla gara dell’indomani.
Ehrenold
si alzò e si affacciò a una porta che dava su un cortile lastricato
e illuminato da fiaccole, con un pozzo e un lavatoio al centro.
Vi
si diresse a passi lenti e si sedette sul bordo del bacile. Piegò la
testa all’indietro ed emise un sospiro mentre contemplava il cielo
notturno. Rowden lo raggiunse e si sedette accanto a lui. “Sei
nervoso per domani?” gli chiese.
Ehrenold
si voltò verso di lui, cercando di indovinare i suoi lineamenti nel
bagliore vago delle fiaccole assicurate alle pareti. “Mi domandi
sempre se sono nervoso. No, per domani non lo sono: i ragazzi sono
tutti nuotatori esperti, ottimi corridori, ottimi arcieri. Non ti
dico che sono sicuro di vincere, perché anche la squadra di Hyvardus
e quella di Wardan sono forti, ma di certo non arriveremo tra gli
ultimi.”
“Per
cosa sei nervoso, allora?”
Ehrenold
distolse lo guardo. “Non lo so,” si decise a dire dopo un lungo
silenzio.
“Di
nuovo la faccenda del mentore?” azzardò Rowden.
Il
Luogotenente stava per rispondere quando sulla porta comparve la
figura poderosa di Hyvardus. “Ehi, voi due!” disse con voce
tonante, “Non lo sapete che durante i Giochi non si fanno le cose
private?” Se ne andò con una gran risata.
A
quel punto, Ehrenold si alzò in piedi e disse: “Sarà meglio
andare a dormire, domani dobbiamo essere riposati.” Senza attendere
risposta si incamminò verso le camerate.
§
L’alba
era lattiginosa, umida. Il lago Inach, nel quale sarebbero state
disputate le prove di nuoto, era una distesa cupa e increspata sotto
un cielo color del piombo.
Ehrenold
scese dal carro sul quale la sua squadra era stata trasportata, si
liberò degli indumenti e li piegò in un fagotto che successivamente
depose sul pianale. I suoi uomini lo imitarono e in breve furono
tutti nudi, a parte un laccio di colore nero al collo, cosa che
avrebbe permesso di riconoscere in ogni momento dei Giochi la squadra
cui appartenevano.
Nell’aria
fredda il fiato si condensava in nuvole bianche. Qualcuno si era
avvicinato al lago e si stava spruzzando acqua addosso per abituarsi
alla temperatura, altri passeggiavano su e giù cercando di mantenere
calda la muscolatura.
Ehrenold
si guardò intorno: accanto alla sua c’erano la squadra verde –
Wors – e azzurra – Briel – che stavano a loro volta sistemando
i vestiti sui rispettivi carri. Più oltre c’era la squadra rossa –
Gunefort – che stava già entrando in acqua. A Ehrenold parve di
cogliere un’occhiata torva da parte di Wardan, ma quando volle
accertarsene il capitano gli stava dando le spalle.
La
voce allegra di Arel lo distrasse: “Scommetto che facciamo prima
noi ad attraversare che i carri a fare il giro.”
Un
altro membro della squadra, Herli, lo rimbeccò: “Prega Hengrist
che non sia così, altrimenti ci tocca di rimanere là nudi e
tremanti finché non arrivano a portarci i vestiti!”
“Vorresti
che arrivassimo dopo per avere i vestiti caldi? Cosa sei, un mezzo
soldato di Karaali?”
“Ma
senti questo! Tu intanto vedi di starmi dietro, se ci riesci.”
Tutti
entrarono con i piedi in acqua. La sponda del lago era stata divisa
in settori, ognuno contrassegnato da un colore diverso, e dall’altra
parte dello specchio d’acqua c’erano analoghe zone colorate,
verso le quali ogni squadra si sarebbe dovuta dirigere. Per
controllare il corretto svolgimento della gara, gli osservatori si
erano posizionati alla partenza e all’arrivo. Un paio di essi si
trovavano su una piccola barca che stava prendendo il largo e si
preparavano a sorvegliare gli atleti anche durante la gara.
“Quanto
tempo abbiamo di là per infilarci i vestiti?” chiese Herli,
fissando con le sopracciglia aggrottate la superficie bigia
dell’acqua.
“Abbiamo
che se non ti sbrighi ti facciamo correre nudo!” esclamò un altro
soldato, dandogli uno schiaffo su una natica. Lo schiocco risuonò
nell’aria.
“Ehi!”
protestò il primo, massaggiandosi la parte offesa.
“Così
ti scaldi, no?”
Herli
brontolò un’imprecazione.
Ehrenold,
già in acqua fino alle cosce, si limitò a chiamare a sé gli uomini
e a dire: “L’abbiamo già fatto molte volte alla guarnigione.
Abbiamo nuotato in acque più fredde e anche per tratti più lunghi
di questo. Rispettate il regolamento e ricordatevi che siete una
squadra, non atleti che gareggiano per conto loro. È la squadra che
vince.”
Notò
che si stava approssimando un suonatore di tromba, che avrebbe dato
di lì a poco il segnale della partenza.
“Pronti!”
esclamò il più anziano degli osservatori.
Tutte
le squadre entrarono in acqua e si posizionarono nella maniera
regolamentare. Ehrenold fece in tempo a scambiare un’ultima rapida
occhiata con Rowden, poi giunse il potente squillo dello strumento.
Un
attimo dopo, stava fendendo lo spazio ad ampie bracciate. Aveva
passato giorni a figurarsi come sarebbe stato partecipare ai Giochi,
se ci sarebbe riuscito, se l’emozione l’avrebbe infine
sopraffatto, ma ora che finalmente tutto era cominciato, si sentiva
perfettamente calmo e lucido, come gli accadeva durante le battaglie.
I movimenti del nuoto si susseguivano regolari, i suoi e quelli dei
suoi uomini. Anche con l’immagine fugace di dorsi lucidi che
emergevano e si immergevano un attimo dopo, riusciva a riconoscerli:
la nuotata nervosa di Herli e quella lenta e potente di Rowden, il
dorso tatuato di Arel e quello di Lylan, percorso da una lunga
cicatrice.
La
sponda opposta arrivò quasi all’improvviso: un attimo prima era
nell’acqua alta, un attimo dopo i piedi stavano toccando le alghe
del fondo. Herli era già uscito dal lago e stava correndo verso il
carro.
Ehrenold
lo raggiunse a sua volta, controllando nel frattempo che anche gli
altri stessero arrivando, si infilò i vestiti sul corpo ancora
bagnato e raccolse la custodia dell’arco. “La cotta di maglia!”
rammentò a tutti, “Ricordate che chi arriva al traguardo senza
cotta, elmo e spada è squalificato!”
La
squadra imboccò la pista per prima. Il percorso era pesante per le
recenti piogge, irregolare e si snodava in salita fra alberi enormi,
le cui radici spesso sporgevano in archi nodosi dal terreno.
Lylan
inciampò e cadde con un grugnito soffocato, Ehrenold lo afferrò per
lo scollo della cotta di maglia e senza fermarsi lo tirò in piedi,
Rowden era incalzato da vicino dal primo della squadra blu.
Di
tanto in tanto si vedevano, ieratici ai margini della vegetazione,
gli osservatori, che muti e immobili seguivano lo svolgersi della
gara.
Cominciò
a piovere, grosse gocce gelide, e scivolare lungo la salita divenne
la norma. Le uniformi e le cotte di maglia erano completamente
coperte di fango e anche dei lacci che ognuno portava al collo non si
capiva più il colore.
“Ci
dovranno tirare un secchio d’acqua per capire di che squadra
siamo,” ansò Arel, aiutandosi anche con le mani per tenersi in
equilibrio su quello che la pioggia aveva trasformato in un torrente
fangoso.
“Meno
chiacchiere e corri,” replicò Ehrenold.
Arrivarono
alle postazioni di tiro, la squadra di Gunefort si era già attestata
e gli uomini stavano togliendo gli archi dalle custodie impermeabili
e stavano mettendo le corde. Gli osservatori erano impegnati a
controllare le squadre in avvicinamento.
Il
Luogotenente sentì un sibilo e solo l’istinto lo spinse a buttarsi
a terra. Alzò lo sguardo e vide Wardan con l’arco imbracciato. Il
capitano non stava guardando lui e anzi aveva tutta l’aria di star
controllando se l’arma fosse o meno in perfetta efficienza,
tuttavia il fischio degli impennaggi era stato inconfondibile.
Di
nuovo Ehrenold fissò Wardan e questa volta per un istante incontrò
il suo sguardo. Ragionò fra sé e sé: di certo si era trattato di
un avvertimento, senza alcuna intenzione di provocargli ferite. Se
infatti l’avesse colpito, anche se nessuno avesse visto che era
stato lui, i Giochi sarebbero stati sospesi e ci sarebbe stata
un’indagine.
Così,
invece, l’attacco non poteva avere conseguenze: con quella luce
cupa, in mezzo a una macchia regolarmente usata per le esercitazioni
di tiro, non avrebbe avuto senso andare a cercare una freccia in più
o in meno, perché di certo Wardan non aveva usato una di quelle con
gli impennaggi rossi della squadra, ma una che probabilmente aveva
raccolto proprio in quella zona giorni prima. Di nuovo, se avesse
provato a denunciare il fatto, sarebbe stata la sua parola contro
quella del capitano e nessuno sarebbe riuscito a dimostrare niente.
Tolse
l’arco dalla custodia e lo armò cercando di fare il vuoto nella
mente e di concentrarsi solo sul bersaglio.
§
Rientrarono
all’imbrunire, fradici e coperti di fango, tra lazzi e cori.
Qualche soldato dormiva rannicchiato sul pianale, ma i più erano
perfettamente svegli e molto eccitati per la conclusione della prima
giornata di gare. Si sprecavano gli aneddoti e le battute.
Non
si sapeva ancora quale fosse stata la squadra vincitrice, gli
osservatori dovevano calcolare i punteggi, ma quella di Heiswegen e
quella di Gunefort erano le favorite.
Ehrenold
si appoggiò alla sponda del carro con la schiena. Nel movimento, la
coperta che aveva sulle spalle scivolò giù e Rowden si protese per
raccoglierla. “Sei stanco?” gli chiese poi.
“Non
più del solito,” rispose Ehrenold, “avrei solo voglia di un
bagno caldo.” Fece una pausa, poi disse: “Come a Tysach, ti
ricordi?”
“Quello
è stato un bell’avamposto,” rispose Rowden.
“Già,
il Luogotenente Ralkr era uno che sapeva il fatto suo.”
“Chissà
dove sarà adesso?”
Ehrenold
stava per rispondere quando uno dei soldati gli si avvicinò
porgendogli un otre di vino. “Bevi, Luogotenente,” gli
raccomandò.
L’ufficiale
abbassò gli occhi sul grosso contenitore, ormai parzialmente
floscio, di pelle rossiccia e ornato di nappe chiare. “E questo da
dove salta fuori?” chiese.
“È
del capitano Hyvardus, Luogotenente. Ha detto di farlo girare.”
Ehrenold
si voltò verso il carro della squadra verde e il colosso lo salutò
con un ampio cenno del braccio. “Bevi, bevi che ti scaldi!” gli
raccomandò. Poi con una risata soggiunse: “Come alla battaglia di
Torves-Kin, ti ricordi?”
Rowden
lo fissò perplesso. “Eravate insieme a Torves?”
Il
Luogotenente annuì. “È stato quando fui ferito al petto. Mi ha
portato in spalla per due o tre miglia, credo, e ogni tanto si
fermava e mi dava un sorso di vino. Per evitare che mi congelassi,
diceva.”
“Era
così freddo?”
“Non
mi ricordo. So solo che sono arrivato al posto di medicazione
completamente ubriaco e non ho fatto nessuna fatica a non lamentarmi
mentre mi cucivano, perché non sentivo nemmeno più il dolore.”
Nel
frattempo i carri avevano oltrepassato le tre cerchie esterne di mura
e si stavano dirigendo verso la caserma riservata agli atleti dei
Giochi. Fin da quella distanza si poteva ammirare uno spettacolo che
scaldò il cuore a tutti, ovvero una densa colonna di fumo che si
levava dalle cucine.
“Chissà
cosa staranno preparando?” chiese qualcuno che nella luce ormai
scarsa Ehrenold non riuscì a identificare.
I
veicoli procedettero fino al cortile, nel quale aleggiava un
invitante odore di carne arrostita, e lì si fermarono.
“A
terra,” ordinò Ehrenold ai suoi, poi si rivolse a Rowden: “Prendi
il comando finché non torno.”
A
bassa voce, l’amico gli chiese: “Dove vai?”
“Mi
tolgo di dosso il fango e vado alla caserma delle reclute vicino al
Campo Dodici.”
“Cosa
ci vai a fare?”
Il
Luogotenente esitò.
“Vuoi
rivedere la tua vecchia caserma?” azzardò Rowden.
Di
nuovo Ehrenold rimase in silenzio per qualche istante, poi rispose:
“Ricordi quando abbiamo parlato del ruolo di mentore?”
“Di
nuovo con questa storia?” sbottò l’altro. “Ti avevo
consigliato di lasciar perdere fino alla fine dei Giochi, mi pare.”
Il
Luogotenente si voltò verso la squadra che stava entrando
nell’edificio principale della caserma, si tolse un po’ di fango
secco da una manica, si raddrizzò il cinturone e infine si decise a
rispondere: “C’è un ragazzo che mi interessa.”
“Beh,
fa’ sapere al suo comandante di Compagnia che lo vuoi come allievo,
no? Poi, quando tutto è finito, lo vai a prendere e te lo porti alla
guarnigione.”
“È
un cavallo selvaggio. Se non lo prendo subito, rischia di farsi
spedire alle cave.”
Rowden
emise un sospiro di esasperazione. “E cosa te ne fai di un cavallo
selvaggio? Quelli hanno la testa bacata, non saranno mai buoni
soldati.” Fece una pausa, quindi in tono funesto aggiunse: “Ti
darà solo delusioni.”
“Ha
delle potenzialità.”
“Ha
le potenzialità per farti impazzire, Ehrenold. Passerai il tempo a
scusarti con chiunque per quello che combina e alla fine sarai tu
stesso che rinuncerai ad addestrarlo.”
“Dovevi
vederlo sul percorso di guerra: non ha paura di niente, non si
arrende. Ne vorrei una Compagnia, di soldati così.”
L’altro
alzò gli occhi al cielo. “Ragiona,” lo pregò. “Dammi retta,
non hai mai fatto il mentore e vuoi prenderti un cavallo selvaggio?
Rovinerai anche quel poco di buono che potrebbe avere.”
“O
riuscirò a far emergere i suoi pregi,” tagliò corto Ehrenold,
quindi concluse: “Vado a mettermi un’uniforme pulita. Starò via
un’oretta.”
§
Ehrenold
raggiunse la caserma dove aveva prestato servizio come recluta. Il
posto era come lo ricordava: un edificio severo, con il portone
ornato da due statue che rappresentavano l’Onore e il Coraggio,
ovvero le principali virtù di un soldato.
Cercò
con lo sguardo la finestra della sua camerata, e una volta che gli
parve di averla riconosciuta rimase qualche istante a calcolare
quanti scaglioni di reclute dovevano essersi avvicendati tra quelle
quattro mura da quando lui le aveva lasciate.
Ripensò
anche a quando gli era stato assegnato un mentore. Una volta
stabilito che aveva le potenzialità per diventare ufficiale, era
stato scelto per lui un capitano di nome Hingar, che si era occupato
della sua formazione finché non era caduto nella battaglia di
Ves’it. Come da tradizione, era toccato a lui recuperare il corpo
sul campo di battaglia e prepararlo per la cerimonia funebre.
Una
voce lo fece quasi sussultare: “Luogotenente, tu qui?”
Ehrenold
abbandonò bruscamente i ricordi e fissò lo sguardo sul maresciallo
Tenhar. “Sono venuto per il ragazzo,” disse senza preamboli.
Il
sottufficiale parve non capire. “Vuoi un ragazzo?”
L’altro
fece un gesto di diniego. “Ricordi quando sono venuto al Campo
Dodici?”
“Ah,
certo.” Tenhar sollevò le sopracciglia. “Parli di Siwald. Ha
combinato qualcosa?”
“Negativo.
Voglio prenderlo come allievo.”
A
quelle parole, l’altro rimase muto per diversi secondi. Infine
replicò: “Con tutto il rispetto, Luogotenente, Siwald è un
cavallo selvaggio, una testa dura. Ti darà solo delusioni.”
Ehrenold
scosse la testa. “Io non credo.”
“C’è
Rilech, se vuoi. È il primo della sua Compagnia. Oppure Iani o
Nebert, sono ottimi elementi e non hanno ancora un mentore.”
“Chiama
Siwald, maresciallo. Voglio parlargli.”
Il
ragazzo arrivò poco dopo, in uniforme da fatica. Ehrenold notò che
zoppicava leggermente e aveva qualche graffio sul viso e sulle mani.
Gli occhi, di un grigio bluastro che ricordava l’acciaio temprato,
lo fissavano torvi.
Si
mise sull’attenti e salutò.
Ehrenold
gli diede il riposo, quindi gli chiese: “Sai perché ti ho fatto
chiamare, soldato?”
“Non
sono un indovino,” fu la risposta del ragazzo.
Il
Luogotenente sorrise appena e disse: “Pensi di cavartela così? Mi
fai arrabbiare, io ti punisco, ti rimando alla tua Compagnia e fine
della questione? Ai miei tempi la chiamavano la tattica della
puzzola, perché disgustava chiunque.”
Siwald
dapprima rimase impassibile, quindi restituì all’ufficiale lo
stesso sorrisetto beffardo e replicò: “Pensi che questo bel
discorso mi spinga a fare quello che vuoi?” Scosse appena la testa.
“Non attacca, io non sono un mocciosetto con l’uniforme kaki,
Luogotenente. Dovrai inventare qualcosa di meglio per convincermi a
obbedirti, o dovrai obbligarmi.”
Toccò
a Ehrenold scuotere la testa. “Non devo convincerti di nulla,
Siwald, sai anche tu che mi basta darti un ordine. Cercavo solo di
creare una buona atmosfera tra noi.”
Il
ragazzo assunse un’espressione diffidente. “Perché?” chiese,
aggrottando le sopracciglia.
“Ho
intenzione di prenderti come allievo.”
Siwald
rimase in silenzio, Ehrenold proseguì: “Domani stesso parlerò con
il tuo comandante di Compagnia.”
“Ne
ho già mandati via due, Luogotenente,” lo avvisò il ragazzo con
un sorrisetto di superiorità.
“Lo
so, infatti io sono la tua ultima possibilità. Se non va bene
neanche con me, finirai a fare lavori di fatica per il resto della
tua vita.”
“Cosa
ti fa pensare che mi dispiaccia? Pensi che sul campo si fatichi
meno?”
“Forse
non meno, ma con più onore.”
“L’Onore
è la statua contro cui piscio più spesso.”
Ehrenold
annuì come se avesse appena udito esattamente ciò che si aspettava,
quindi gli chiese: “Pensi che essere insolente ti frutti altro che
una punizione?”
“E
allora puniscimi, cosa aspetti? Il Campo Dodici si può percorrere
anche di notte, io lo so bene. Vuoi farmelo fare tutto, da cima a
fondo?”
L’altro
annuì di nuovo, quindi si limitò a rispondere: “Va’ a dormire,
non ha senso punire chi si fa un vanto di venire punito spesso. Tu
diventerai un soldato, Siwald, il migliore che si sia mai visto,
perché hai le potenzialità per farlo.”
Il
ragazzo aprì la bocca per replicare, ma Ehrenold lo fermò con un
gesto. “Non dire altro. Usa l’intelligenza che hai per capire che
questa è la tua ultima occasione e devi coglierla.” Poi, in tono
formale: “E ora, ritieniti congedato.”
Siwald
salutò, fece dietro-front e si allontanò con passo marziale.
A
quel punto intervenne il maresciallo: “Te l’avevo detto,
Luogotenente.”
Ehrenold
alzò le spalle con noncuranza, quindi replicò: “Hai mai
combattuto contro gli Orchi Cinerei, Tenhar?”
“Molte
volte, Luogotenente.”
“Preferiresti
avere a che fare con loro o con questo ragazzetto?”
Il
maresciallo annuì. “Capisco quello che vuoi dire, Luogotenente, e
ti risponderò sullo stesso tono: I Cinerei almeno li puoi far secchi
con un colpo di spada, questo qui te lo devi tenere vivo, sopportarlo
e cercare di cavarne fuori qualcosa.”
“Ha
del potenziale, l’hai visto anche tu.”
Tenhar
si limitò a scuotere la testa. “Potenziale che si ostina a
sprecare. Potrebbe essere il migliore della sua Compagnia, invece...”
Non finì la frase.
“Farò
di lui un soldato, maresciallo.”
“Beh,
voglia Hengrist che tu sia la persona giusta per lui, Luogotenente,
altrimenti finirà alla cava per il resto dei suoi giorni.”
Siwald
rientrò in camerata in preda alla rabbia. Un Luogotenente,
nientemeno, che voleva divertirsi a domare il cavallo selvaggio. Si
slacciò il cinturone con la spada e lo buttò con malagrazia,
facendolo finire contro la parete. Successivamente si sedette sulla
sua branda, puntò i gomiti sulle cosce e appoggiò il mento tra le
mani.
Rievocò
l’immagine dell’ufficiale: sembrava giovane per essere un
Luogotenente, per il resto non gli pareva avesse nulla di diverso da
ogni altro soldato di Kjarr: alto, muscoloso, capelli e occhi chiari.
Forse era più alto della media, quella era l’unica cosa che gli
era saltata all’occhio.
Si
alzò e andò nella sala comune, dove gli altri ragazzi del suo
Plotone si stavano svagando in attesa del Silenzio. Raggiunse Enes,
che si stava crogiolando davanti al fuoco del camino, e si sedette
accanto a lui. Questi si girò a guardarlo e subito disse: “Che
faccia. È colpa del Cinghiale?”
Lo
sguardo fisso sulle fiamme, Siwald si limitò a scuotere la testa.
“E
allora?”
L’altro
alzò le spalle. “Niente, il solito stronzo che ha la pretesa di
fare il mentore.”
Enes
si piegò per incontrare il suo sguardo, poi rispose: “Non vedo
perché tu debba essere così scuro in volto, allora. Mi sembra una
bellissima notizia.”
“Una
notizia schifosa, vorrai dire. Un altro idiota che pensa di potermi
comandare a bacchetta, o un altro che pensa di potermi usare come gli
pare per fare le cose private.”
“Chi
è?” gli chiese l’amico, ignorando quelle recriminazioni.
Siwald
alzò di nuovo le spalle ostentando noncuranza. “Boh, uno dei
Giochi, a quanto ho capito.”
A
quelle parole, Enes lo prese per le spalle e lo costrinse a fissarlo
in viso. “Uno dei Giochi?” ripeté. Poi, sempre più incredulo:
“Un atleta dei Giochi ti vuole come allievo? Per la Sacra Spada! E
tu non sai chi è?”
“Un
Luogotenente.”
L’altro
fece mente locale. “Non ce n’è tanti,” ragionò poi come
parlando fra sé e sé. “Non sai qual è la sua Marca?”
“Non
me ne frega niente di sapere da che Marca viene, so solo che è
l’ennesimo imbecille che avrà la pretesa di portarmi a letto o di
spezzarmi la schiena a forza di punizioni.”
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Gente, ecco
un altro capitolo del
mappazzone fantasy. Grazie a tutti coloro che mi stanno seguendo e un
grande grazie a chi mi ha lasciato anche il suo parere^^
Capitolo
4
Ehrenold
spronò il destriero, quindi si voltò verso la recluta che cavalcava
al suo fianco e disse: “Più eretta la schiena.”
Siwald
raddrizzò le spalle.
Il
Luogotenente aggiunse: “Da cavallo si cade principalmente in
avanti, quasi mai all’indietro.”
Il
ragazzo rimase in silenzio.
Per
un po’ procedettero senza parlare, poi Ehrenold, che aveva
approfittato di quel breve tratto per osservare il suo allievo,
disse: “Con un assetto del genere, saresti disarcionato alla prima
battaglia, te ne rendi conto?”
In
tono impersonale, il ragazzo rispose: “Sì, Luogotenente.”
Ehrenold
lo osservò di nuovo: schiena e braccia troppo rigide, la classica
espressione di chi era consapevole che alla prima richiesta più
complessa dei normali esercizi di maneggio si sarebbe trovato in
difficoltà. “Perché non sai stare in sella?” gli chiese.
“Eppure alla tua età dovresti essere in grado di fare i volteggi
su un cavallo al galoppo.”
A
quel tono, che non era di rimprovero ma di sincero stupore, Siwald si
girò a fissarlo.
“Ti
ho fatto una domanda, recluta,” gli ricordò l’ufficiale.
Il
ragazzo strinse i denti e come suo solito incupì lo sguardo. “Forse
sono più stupido degli altri, Luogotenente.”
“O
forse hai avuto meno occasione degli altri di esercitarti, con tutte
le punizioni che hai scontato, dico bene?”
“Non
mi interessa saper andare a cavallo, Luogotenente, tanto finirò alle
cave.”
Ehrenold
mise l’animale al trotto, quindi rispose: “È irrilevante che ti
interessi o no, recluta. Tu imparerai, ti insegnerò a raccogliere un
fazzoletto da terra con il cavallo al galoppo lanciato, a tirare
frecce mentre stai in sella comandando il tuo animale solo con le
ginocchia e ad affrontare qualsiasi ostacolo ti si possa parare
davanti in combattimento.” Detto questo, si voltò a guardarlo:
anche a quell’andatura aveva un assetto scolastico, formalmente
corretto ma poco disinvolto, che ne avrebbe decretato l’ignominiosa
caduta al primo e più semplice ostacolo del percorso approntato per
i Giochi, una barriera che qualsiasi recluta sarebbe stata in grado
di superare con facilità.
Spronò
il cavallo, strinse le ginocchia e lo portò in direzione
dell’ostacolo. Allentò le redini permettendogli di fare due tempi
di galoppo e cedette in avanti per lasciargli allungare la testa
durante il salto.
Fergund
letteralmente volò sulla barriera, si ricevette corretto sugli
anteriori e subito dopo quasi girò su se stesso facendo perno sui
posteriori per invertire la direzione. Ehrenold strinse appena le
dita sulle redini e l’animale si fermò sulle quattro zampe. “Ora
fallo tu,” disse al ragazzo.
“Sissignore,”
si limitò a rispondere Siwald, quindi portò il cavallo sul
rettilineo dell’ostacolo e lo spinse al trotto.
Il
Luogotenente vide che stava cercando di mettere in pratica quello che
evidentemente gli avevano insegnato, ma erano troppe nozioni tutte
insieme, non correttamente assimilate, e tra ginocchia, redini e
andatura del cavallo stava facendo solo una gran confusione.
L’animale
allungò il galoppo, strappò le redini in avanti sbilanciandolo e
atterrò scomposto dopo la barriera di barili. Siwald perse
ovviamente l’equilibrio, scivolò in avanti, gli sfuggì una
staffa, ma riuscì ad aggrapparsi alla criniera e a rimanere in
sella. Dapprima ballonzolò come una specie di sacco, poi a forza di
braccia si raddrizzò e tirando le redini riportò al passo
l’animale. Si voltò verso il Luogotenente.
“Ripeti,”
gli ordinò Ehrenold. “Più controllo sull’animale, non deve
prenderti la mano in quel modo.”
Il
ragazzo si limitò a riportare l’animale davanti all’ostacolo. Il
Luogotenente si accorse subito che stava ripetendo esattamente gli
stessi movimenti di prima, probabilmente perché non sapeva fare
altro più che per gratuita provocazione.
Rimase
a guardare in silenzio.
Il
cavallo, probabilmente infastidito dalla scarsa abilità della
recluta, diede due potenti sgroppate prima ancora di raggiungere
l’ostacolo. Di nuovo Siwald tentò di afferrare la criniera, ma
l’animale sgroppò di nuovo facendogli perdere la presa.
Finì
a rotolare tra gli sterpi a bordo pista.
“Rimonta
in sella,” si limitò a ordinare il Luogotenente.
Il
ragazzo eseguì l’ordine.
“Ora
ripeti.”
La
recluta gli lanciò un’occhiata torva. Appena un lampo d’odio,
che però Ehrenold colse perfettamente. “Pensi che guardarmi male
ti doni l’abilità nel salto che non possiedi?” gli chiese.
Siwald,
che aveva già rimesso il cavallo al passo, fermò l’animale e si
girò di nuovo a guardarlo.
“Ti
ho fatto una domanda, recluta.”
Il
ragazzo strinse i denti e di nuovo incupì lo sguardo, quindi, con
una brusca tirata di redini fece voltare l’animale, lo mise al
galoppo con due colpi di tallone e si precipitò verso la barriera.
Fu
disarcionato malamente, fracassò un barile nella caduta e il cavallo
fuggì sgroppando nella boscaglia.
A
quel punto, Ehrenold smontò di sella e tenendo il proprio destriero
per le redini lo raggiunse. “In piedi,” gli ordinò, e quando il
ragazzo fu di nuovo dritto sulle gambe gli disse: “Ti ripeto la
domanda, recluta: pensi che guardarmi male ti doni l’abilità nel
salto che non possiedi?”
Il
ragazzo strinse le labbra, poi con voce tagliente replicò: “Pensi
che chiedermi dieci volte la stessa cosa mi spinga a pronunciare la
risposta che vorresti ricevere?” Rimase a fissarlo con fare
provocatorio.
Ehrenold
gli restituì uno sguardo neutro, quindi gli disse: “Va’ a
riprendere il cavallo.”
Lo
guardò mentre si allontanava a grandi passi verso la macchia.
L’unico danno che sembrava aver riportato dall’ultima caduta era
un po’ di fango sull’uniforme. Per il resto, non un lamento, non
una smorfia di dolore, non un massaggiarsi parti lese. Si voltò
verso ciò che restava del barile: per averlo fracassato in quel modo
doveva esserci finito sopra di peso. Si avvicinò e spostò col piede
una delle doghe: legno ancora solido, forse quercia.
Si
voltò verso il cavallo, che subito girò le orecchie nella sua
direzione, e gli passò una mano sul muso. Considerò che era giusto
chiamare quel genere di ragazzi cavalli selvaggi: Fergund aveva
potenza e velocità, ma stava a chi reggeva le redini far sì che
quelle pur notevoli doti fossero incanalate nel modo giusto.
Un
rumore di sterpi lo distolse dalle sue meditazioni: Siwald uscì
dalla boscaglia tenendo il destriero per le redini.
“Monta
in sella,” si limitò a ordinargli. “Facciamo un giro qui
intorno, voglio vedere ancora come cavalchi.”
“O
vuoi cavalcare me?”
Di
nuovo, Ehrenold rimase impassibile. “Prego?” si limitò a
chiedere.
“Era
quello che volevano gli altri, quindi immagino che anche tu mi abbia
preso come allievo per quello.”
“Adesso
non ti montare la testa, ragazzino.”
Siwald
rimase in un silenzio che aveva una vaga nota di costernazione.
Ehrenold gli disse: “Sai bene che se un superiore vuole farlo è
dovere del subalterno concedersi, così come è poi dovere del
superiore non abusare di ciò che ha ottenuto, ma in questo momento
per te ho altri progetti.”
“Comunque,
io non voglio fare le cose private a comando.”
“Tu
sei un soldato di Kjarr. La tua vita consiste nel fare cose a
comando.”
§
Ehrenold
chiuse gli occhi per un istante, cercando di concentrarsi solo sul
tonfare regolare degli zoccoli di Fergund sul terreno. Si figurò in
mente se stesso e la squadra che lo seguiva compatta.
Riaprì
gli occhi: l’ostacolo, un tronco di traverso, sembrava facile, ma
subito dopo c’era una discesa ripida, e poi uno stagno, che con
quella temperatura doveva essere sicuramente coperto da uno strato di
ghiaccio.
Si
diede un’occhiata alle spalle: dietro i suoi ragazzi intravide
un’altra squadra in avvicinamento. Spostò lo sguardo di nuovo
sull’ostacolo e ve lo mantenne ostinatamente fisso, obbligandosi a
distogliere la mente dagli avversari per concentrarsi sul percorso.
Percepì
che il cavallo stava tentando di allungare il galoppo. Non glielo
permise, strinse le ginocchia e raddrizzò le spalle per portarlo
davanti alla barriera a un’andatura raccolta.
Fergund
saltò, si ricevette correttamente e proseguì verso lo specchio
d’acqua, la cui superficie ghiacciata si frantumò sotto i suoi
zoccoli. Passò oltre.
Ehrenold
si piegò per evitare un ramo basso, poi si girò di nuovo: la
squadra avversaria aveva guadagnato terreno, il suo comandante stava
spronando il cavallo. L'animale balzò in avanti, affrontò
l'ostacolo a rotta di collo, si ricevette scoordinato, ma il suo
cavaliere fu in grado di riprenderlo, poi spronò di nuovo per fargli
allungare il galoppo, il cavallo entrò nello stagno spandendo
intorno schizzi limacciosi e prese a divorare la pista con ampie
falcate.
Il
Luogotenente riconobbe a quel punto il cavaliere. “Wardan,”
ringhiò a denti stretti.
L'altro
balzò in avanti incurante del fondo ghiacciato e gli passò così
vicino da sfiorarlo. Ehrenold percepì un sibilo e un colpo, poi il
suo cavallo incurvò la schiena in una sgroppata e scrollò la testa.
L'altro ne approfittò per oltrepassarlo.
Il
primo strinse i denti: durante la sessione di allenamento si era
lasciato superare per non rischiare di azzoppare il destriero, ma ora
non poteva lasciarlo passare.
Spronò
e si piegò sulla sella spingendo l'animale al galoppo lanciato,
raggiunse la curva, la tagliò dall'interno, passando di nuovo
davanti. Spronò ancora, in lontananza si profilò un ostacolo
formato da due barriere successive al culmine di una salita. Obbligò
il cavallo a riunire l'andatura, Wardan lo superò e schizzò verso
l'ostacolo, ma il suo destriero scivolò sul ghiaccio e rifiutò il
salto. Egli dovette aggrapparsi alla criniera per rimanere in sella
durante la brusca scartata, Ehrenold lo superò, passò la doppia
barriera, spronò. La pista ormai era solo un susseguirsi di macchie
sfocate, gli unici rumori che percepiva erano il respiro pesante
dell'animale e il tonfare degli zoccoli sul terreno indurito. Si
voltò fugacemente e vide che Wardan lo inseguiva a distanza di poche
lunghezze. Dietro di lui le loro due squadre, Heiswegen e Gunefort,
galoppavano ormai a briglia sciolta per raggiungerli.
Superò
due osservatori e raggiunse l'ultimo ostacolo, ovvero una discesa
ripida, un tronco di traverso, una salita nella quale la pista faceva
una curva ad angolo retto e una successiva barriera. Istintivamente
strinse le ginocchia e raddrizzò la schiena. “Attento,” sussurrò
al cavallo.
L'animale
affrontò la discesa, saltò il tronco e si inerpicò con vigore su
per la salita, raccogliendo le forze per l'ultimo salto. Atterrò
scivolando su un tratto ghiacciato, sbandò per recuperare
l'equilibrio e subito Wardan gli fu addosso, ma Ehrenold riuscì a
sgusciare via mantenendo la prima posizione.
A
quel punto uscì dal circuito di gara e si trovò davanti il
rettilineo lastricato che portava all'Arena, niente più ostacoli in
cui usare espedienti tecnici, curve di cui sfruttare il raggio: ora
poteva solo correre con tutta la velocità che il cavallo riusciva
ancora a dargli. Spronò e si piegò sulla sella, l'animale rispose
mirabilmente, spingendosi in un galoppo lanciato.
L'Arena
lo accolse con un'ovazione. Ehrenold, cui la velocità ormai faceva
lacrimare gli occhi, vide solo un semicerchio nero e brulicante e in
fondo, proprio sotto la tribuna d'onore – una macchia bianca in
tutto quel nero – il nastro rosso del traguardo. Spronò ancora,
con il rombo degli zoccoli nelle orecchie e il respiro pesante per la
fatica. Alle spalle percepiva un altro ansare, un altro frenetico
tonfare di zoccoli. Non si girò: si limitò a spronare per
l'ennesima volta l'ormai esausto animale e tagliò il traguardo. Il
nastro strappato che gli scivolava su una coscia gli comunicò per un
istante l'irrazionale timore di essere ferito.
Poi
si trovò a galoppare lungo la pista ovale, dalle gradinate proveniva
un boato ininterrotto, le trombe lo salutavano con lunghi squilli.
Un
cavaliere gli si affiancò. Ancora sotto l'effetto dell'ultima folle
corsa, Ehrenold si girò sulla difensiva, ma era Rowden, con
un'espressione raggiante sul viso. “Ce l'abbiamo fatta!” esclamò.
“Abbiamo vinto!”
“Vinto?”
ripeté Ehrenold con voce roca.
“Va'
davanti alla tribuna d'onore,” disse l'altro per tutta risposta.
Ancora
frastornato, il Luogotenente fece rallentare l'animale. Si accorse di
avere le mani e il viso graffiati e di avere l'uniforme strappata in
più punti, ma la cosa non lo stupì: era solo alla fine delle
battaglie, quando l'eccitazione dello scontro cominciava a venire
meno, che ci si rendeva veramente conto di quante e quali ferite si
erano ricevute. Una coscia stava cominciando a bruciargli sempre di
più, probabilmente Wardan lo aveva colpito con una nerbata, ma lui
non se n'era neanche accorto.
Si
voltò a cercarlo con lo sguardo e notò che lo stava fissando torvo.
Fece per muoversi nella sua direzione, ma l'entrata nell'Arena della
terza squadra, seguita a poche lunghezze di distanza dalla quarta,
suscitò una nuova bordata di acclamazioni. Qualcuno prese le redini
del suo cavallo. “Vieni, Luogotenente,” disse una voce. Abbassò
lo sguardo: un soldato lo stava conducendo verso la tribuna d'onore.
Si raddrizzò sulla sella e si accorse che l'Imperatore si era
addirittura alzato in piedi.
Lo
salutò militarmente e il sovrano rispose al suo saluto. Le
acclamazioni del pubblico ebbero un altro climax.
Poi
si ritrovò al passo, diretto verso la postazione della sua squadra.
Rowden era al suo fianco e stava dicendo qualcosa, ma nel frastuono
generale non riusciva a seguirlo. “Dov'è il ragazzo?” chiese.
“Chi?”
volle sapere il capitano.
“Siwald.
Come mio allievo, può assistere alle gare assieme al resto della
squadra.” Aggrottò le sopracciglia. “Perché non è qui?”
“Gli
avevi dato ordine di aspettarti?”
Ehrenold
scosse la testa. “No, non proprio un ordine esplicito. Supponevo
che avrebbe apprezzato la possibilità di vedere le gare dal bordo
campo.”
Rowden
rimase in silenzio. Solo dopo un po' gli chiese: “Sei sicuro di
riuscire a cavarne qualcosa?”
Ehrenold
smontò da cavallo e affidò l'animale a un soldato, quindi rispose:
“Ha delle potenzialità.”
L'altro
smontò a sua volta, poi si voltò a fissarlo. “Quindi la risposta
è no?”
Il
Luogotenente si strinse nelle spalle e spiegò: “È come quei
cavalli che hanno avuto un cavaliere con la mano troppo pesante e
dopo non ne accettano più nessun'altra.”
“Per
me è solo un viziato che crede di poter fare quello che vuole, e tu
gli stai facendo credere che può permetterselo.”
Ehrenold
aggrottò le sopracciglia. “Che intendi dire?”
“Ah,
ti conosco: quando ti piace qualcuno smetti di ragionare. Cosa
significa la proposta
di assistere alle gare in qualità di allievo? O glielo ordini o non
glielo ordini. A maggior ragione con uno così, convinto di poter
dettare legge anche agli ufficiali.”
“Può
migliorare,” fu la risposta.
Rowden
si limitò ad alzare gli occhi al cielo.
Ehrenold
invece fece girare lo sguardo sul pubblico alla ricerca della
Compagnia di Siwald. Non la identificò, ovviamente, sarebbe stato
impossibile in quel mare di uniformi nere e teste bionde, ma qualcosa
gli diceva che non fosse neppure all'Arena e fosse invece a correre
su e giù per il Campo Dodici incalzato da Cinghiale.
Si
chiese cosa non andasse in quel ragazzo, come bisognasse prenderlo
per far emergere le sue indubbie qualità. Aveva coraggio, ma lo
usava solo per provocare i superiori; aveva forza e resistenza, ma le
sprecava sfacchinando su e giù per un percorso di guerra punitivo e
intanto non imparava altro che i rudimenti di tutto quello che in
qualità di soldato di Kjarr avrebbe dovuto conoscere perfettamente,
la sua deprecabile prova in sella a un cavallo ne era un chiaro
esempio.
Non
gli aveva ancora dato una spada in mano, ma sospettava che anche con
quella non avrebbe visto nulla di cui andare fiero.
Eppure,
ne era certo: aveva le potenzialità per diventare un ottimo soldato,
forse addirittura uno dei migliori, perché era tenace, coraggioso e
forte. Coglieva le situazioni in un attimo, aveva l'istinto del
combattente. Peccato che lo usasse per fare cose perlopiù stupide.
Come
Ehrenold aveva previsto, il ragazzo stava percorrendo il Campo Dodici
con uno zaino affardellato in spalla. Immobile, i pugni sui fianchi,
Tenhar seguiva serio le sue evoluzioni, limitandosi a rampognarlo di
tanto in tanto se riteneva che non fosse abbastanza veloce.
Il
Luogotenente affiancò il maresciallo e per un po' rimase anche lui
fissare il ragazzo, poi disse: “Non era all'Arena.”
“Certo
che no,” rispose il sottufficiale senza voltarsi. “Equipaggiamento
sporco, comportamento insolente con il suo caposquadra.”
L'altro
si limitò ad annuire grave.
Sul
campo, il ragazzo stava affrontando il Muro. Già non era da tutti
superarlo in velocità con solo la cotta di maglia addosso, ma
diventava decisamente difficile con lo zaino affardellato. “È
forte,” constatò.
“È
un torello.”
“E
con la spada come se la cava?”
“Potrebbe
migliorare se si impegnasse,” rispose laconico Tenhar.
“Chiamalo
qui.”
Il
maresciallo obbedì. Il ragazzo si rialzò fradicio da una pozza,
quindi si voltò nella loro direzione. Ehrenold lo vide aggrottare le
sopracciglia e raddrizzare la testa con fare sdegnoso. “Vieni qui,”
gli ordinò.
“Sì,
Luogotenente,” ringhiò cupo il ragazzo, quindi lo raggiunse e si
mise sull'attenti. Era come al solito pallido di fatica, coperto di
fango, ma manteneva inalterato l'atteggiamento di sfida.
“Oggi
ti porterò a scegliere l'equipaggiamento personale che dovrai avere
quando verrai con me alla guarnigione,” lo informò, “come è
dovere di un mentore. Quando hai scontato la punizione, ti voglio al
mio alloggio in uniforme ordinaria.”
“Sì,
Luogotenente,” rispose in tono neutro il ragazzo, fissando un punto
all'infinito dietro le sue spalle.
“Ora
puoi andare.”
“Sì,
Luogotenente.”
Il
ragazzo tornò al campo di addestramento. Il maresciallo scosse la
testa e disse: “Se mettesse nell'addestramento metà dell'impegno
che mette nel farsi punire, sarebbe il soldato migliore di Kjarr.”
“Già,”
rispose pensoso Ehrenold, seguendolo con lo sguardo mentre correva
tenendosi in equilibrio su un tronco. Poi, distogliendo l'attenzione
da lui: “Com'erano i suoi precedenti mentori?”
Tenhar
scosse la testa con tutta la disapprovazione che un maresciallo
poteva permettersi parlando di ufficiali con un altro ufficiale,
quindi disse: “Che resti fra noi, Luogotenente, non hanno
minimamente capito come prenderlo.” Lo indicò con un cenno della
testa, quindi proseguì: “Vedi? Quello si fa ammazzare pur di non
cedere, più lo prendi di petto, più ti sfida. Io posso anche farlo
trottare su e giù fino a domattina, al massimo lo sfinisco, ma non
lo spezzo di sicuro.”
“Sarebbe
un ottimo soldato.”
“Il
migliore, se trovasse il comandante giusto. ”
Siwald
crollò a terra, si rialzò e si ripulì alla meglio il viso con la
manica, poi riprese a correre.
§
Gerd
prese una tazza di vino speziato per sé, poi ne riempì un'altra, si
avvicinò a Wardan e gliela porse. “Per te, capitano,” gli disse.
“Grazie,”
grugnì torvo l'ufficiale.
“Continua
a fare freddo, il terreno o è ghiacciato o è pieno di fango.” Il
maresciallo si sedette accanto a lui al tavolo della mensa. Erano
soli, per cui si permise di posargli una mano sulla spalla. Strinse
leggermente le dita e a bassa voce gli chiese: “Stai meglio?”
“È
sgusciato come un ratto,” ringhiò Wardan aggrottando le
sopracciglia. “Mi è passato davanti all'ultimo momento e io non
sono più riuscito a superarlo.”
“Lo
so, ti ho visto.”
“Hai
visto anche come mi si è buttato davanti?”
Gerd
mantenne il silenzio. Per quanto avesse a cuore Wardan, non poteva in
tutta onestà dargli ragione: il comandante della squadra di
Heiswegen aveva approfittato del suo errore davanti all'ostacolo come
avrebbe fatto qualsiasi altro contendente. Come avrebbe fatto Wardan
stesso, se la situazione fosse stata rovesciata.
“Siamo
a pari punti con loro,” gli comunicò, “tutto è ancora in mano a
Hengrist.”
L'altro
annuì. “La staffetta è l'ultima gara, chi la vince si porta a
casa il titolo di campione.”
“Abbiamo
ottime possibilità.”
“Ma
le hanno anche loro e non voglio rischiare che lo sciacallo rubi di
nuovo una vittoria che non gli appartiene.”
“Non
si può dire che rubi qualcosa, se non farà niente di scorretto.”
“Questa
volta non succederà,” soggiunse il capitano, ignorando
l’osservazione.
Il
sottufficiale aggrottò diffidente le sopracciglia. “Cos'hai in
mente, Capitano?”
Wardan
si voltò a incontrare il suo sguardo e fece un lieve sorriso.
“Niente, non preoccuparti.” Bevve un sorso di vino.
Il
sottufficiale non abbandonò la presa sulla sua spalla, ma anzi la
strinse talmente forte che l'altro si girò a fissarlo con un
grugnito di dolore e indispettito protestò: “Che fai?”
“Dimmi
cos'hai in mente,” ripeté Gerd.
“Niente.”
Il capitano distolse gli occhi. “Niente che ti riguardi.”
“Mi
riguarda eccome, visto che ha a che fare con te.” Poi, al protrarsi
del silenzio: “Wardan?”
Per
tutta risposta, l'ufficiale si svincolò dalla presa con un gesto
brusco, si alzò e si girò verso la finestra voltandogli la schiena.
Gerd
rimase per un po' a fissare le sue spalle ampie e orgogliosamente
dritte, quindi gli ricordò: “In battaglia è meglio morire con
onore che vincere con disonore.”
“Una
massima che allo sciacallo sfugge, evidentemente,” fu la replica,
proferita senza mutare la posizione.
Il
sottufficiale si alzò a sua volta e gli si pose al fianco. “Dimmi
cos'hai in mente,” ripeté a bassa voce.
Il
capitano si girò verso di lui e gli chiese: “Sei preoccupato per
me?”
“Sai
che lo sono. Non voglio che tu rischi il disonore.” Si sporse a
toccare la sua spalla con la propria.
“Non
preoccuparti, non rischierò proprio niente,” fu la risposta.
§
“Recluta
Siwald a rapporto, Luogotenente,” annunciò il ragazzo mettendosi
sull'attenti.
L’ufficiale
gli rivolse un secco cenno del capo, quindi gli disse. “Riposo,
recluta. Hai finito presto.”
Il
più giovane strinse i denti: che cosa significava
quell’osservazione? Stava forse insinuando che fosse sgattaiolato
via prima che la punizione fosse finita, oppure era un suo modo di
dire che il Cinghiale non l’aveva punito abbastanza duramente?
“Sono venuto quando il maresciallo mi ha detto di venire,
Luogotenente.”
“Andiamo,”
disse l’altro per tutta risposta, quindi si incamminò verso i
magazzini.
Siwald
lo seguì in silenzio. Come aveva notato la prima volta che l’aveva
visto, era molto alto. Aveva anche un fisico solido, temprato, che
doveva essere stato forgiato più dalle battaglie che dalle
esercitazioni, come testimoniava un tatuaggio di guerra nero che
spuntava dallo scollo della casacca.
Per
avere tatuaggi di guerra in parti visibili a quell’età, rifletté
il ragazzo, doveva essersi trovato in combattimento già moltissime
volte. A quel pensiero ebbe quasi un vago senso di invidia, o forse
di desiderio, per come quell’ufficiale doveva essere stimato da
tutti, più che per il fatto che avesse combattuto molto.
Pensò
a quanto doveva essere abile con le armi e per la prima volta in vita
sua si trovò a rimpiangere di non esserlo a sua volta. “Avrò
anche una spada?” si trovò a chiedere, sebbene l’altro non gli
avesse rivolto la parola.
Il
Luogotenente si fermò e si voltò a guardarlo, apparentemente
incurante di quella violazione del regolamento. Annuì e in tono
grave rispose: “Certo che l’avrai. Ovviamente non sarà una lama
di Thrygg, ma in futuro ne avrai una, se imparerai a tirare di
scherma come spero.”
Siwald
si obbligò a non mutare espressione, ripetendosi ancora una volta
che l’unico obiettivo di quell’uomo era fare di lui una specie di
suo giocattolo o suo esperimento personale. Vuole
solo vedere se riesce a farsi obbedire dal cavallo selvaggio che non
dà retta a nessuno,
si disse.
“Sì, Luogotenente,” si
limitò a rispondere.
Ripresero
a camminare. Siwald, di nuovo immerso nei suoi pensieri, quasi non si
accorse che avevano raggiunto il magazzino principale.
“Eccoci
qui.” La voce del Luogotenente lo richiamò alla realtà. “Ci eri
mai venuto?”
Il
ragazzo alzò lo sguardo sull’edificio: una costruzione a più
piani, austera, di pietra grigia. I muri erano spessi più di un
braccio e le finestre erano munite di sbarre, più per conferire al
magazzino la capacità di trasformarsi in un eventuale fortilizio che
per timore di furti. “No, Luogotenente,” rispose.
Non
era del tutto vero, qualche volta ci era entrato assieme al resto
della sua Compagnia, ma non gli andava che quell’ufficiale tentasse
continuamente di comunicare con lui. Dapprima stabilì che non voleva
cedere a quelle che paragonate al comportamento di Cinghiale gli
apparivano come insopportabili blandizie, ma poi si chiese perché
non farlo.
Forse
accettando la guida di un mentore sarebbe venuto meno alla sua fama
di cavallo selvaggio? Si sarebbe privato della caratteristica che lo
rendeva in un certo senso, anche se in negativo, unico?
Di
nuovo la voce dell’uomo lo distrasse: “Vieni, entriamo. Voglio
controllare tutto quello che ti verrà assegnato e non ho molto
tempo.”
Lo
precedette lungo un corridoio, quindi entrò in una grande stanza in
cui regnava odore di cuoio conciato e stoffa grezza. Il locale era
tagliato a metà da un bancone che andava da una parete all’altra e
dietro di esso erano allineati scaffali numerati alti fino al
soffitto, carichi di roba.
Un
uomo in uniforme, ormai non più dell’età per andare sul campo,
sedeva a un’estremità del bancone e compilava un registro.
Quando
entrarono, egli dapprima sollevò lo sguardo, poi riconobbe i gradi
del Luogotenente e abbandonò ciò che stava facendo per scattare in
piedi e salutare.
L’ufficiale
rispose al saluto, quindi col tono di chi sapeva esattamente cosa
chiedere ordinò: “Equipaggiamento base, uniformi estive e
invernali, calzature e buffetteria.”
L’inserviente
annuì. “Per il ragazzo, Luogotenente?”
“Sì,
prendigli le misure e poi porta qui tutti i capi che gli verranno
assegnati, voglio controllarli.”
“Sì,
Luogotenente.”
Fu
una faccenda lunga. Quando uscirono, Siwald con le braccia cariche di
roba, era passata più di un’ora.
“Ora
le armi e le protezioni,” disse semplicemente l’ufficiale.
Per
quanto si fosse ripromesso di mantenere il silenzio, il ragazzo non
poté fare a meno di dire: “Io ho già tutte queste cose,
Luogotenente.”
“Certo
che ce le hai,” fu la risposta. Sembrava che stesse ribadendo la
cosa più ovvia del mondo. “Ma è facoltà del mentore far
assegnare all’allievo l’equipaggiamento che ritiene più idoneo.
Presto partiremo per la guarnigione e là non ci sono le possibilità
di approvvigionamento della Capitale.”
Siwald
non disse nulla, e il fatto che il regolamento proibisse di parlare a
un superiore se non interrogati fu l’ultimo dei motivi che lo
spinsero a tacere. Si sistemò meglio la roba sulle braccia e lanciò
uno sguardo di sottecchi all’uomo, che lo precedeva lungo il
corridoio. Lo immaginò in battaglia, si chiese se i suoi soldati
fossero fieri di lui, se si vantassero di averlo come comandante.
Fino
a quel momento aveva disprezzato chi dimostrava ammirazione per i
propri superiori, ma ormai cominciava quasi a sembrargli plausibile
che il fenomeno si verificasse.
“Qual
è il tuo nome, Luogotenente?” chiese.
“Ehrenold.”
La
camerata era rischiarata da un paio di lanterne appese alle travi del
soffitto. Due ragazzi sedevano a un tavolino impegnati in una partita
di dadi, un altro stava affilando la spada con la cote, alcuni
sistemavano l’equipaggiamento, oppure leggevano o conversavano fra
di loro a bassa voce.
Siwald
entrò nella stanza reggendo a fatica tutto l’equipaggiamento che
gli era stato consegnato – che includeva anche una sella e delle
redini, un’arma in asta e uno scudo – e lo abbandonò sulla sua
branda. L’elmo rotolò giù con un clangore cupo, subito dopo la
spada si sfilò dal fodero e scivolò a sua volta sul pavimento.
Uno
dei due che stavano giocando a dadi soffocò un’imprecazione,
quindi gli rivolse uno sguardo iroso e disse: “Accidenti a te,
specie di idiota! Mi hai fatto sbagliare il tiro.”
L’altro
a sua volta lo apostrofò: “Potresti almeno evitare di fare tutto
questo rumore.” Poi squadrò l’equipaggiamento ammucchiato sulla
branda e chiese: “E questa roba da dove viene?”
“Me
l’ha data il mio mentore.”
L’altro
fece una risata. “Un mentore? E chi è che ti prenderebbe, a te?”
Uno
dei ragazzi che stavano parlando fra loro abbandonò la
conversazione, lo squadrò con degnazione e disse: “Secondo me ha
trovato qualcuno nelle cucine o nelle stalle, non credo che i veri
soldati lo vogliano.”
“Dai,
dicci chi è che ti ha preso!” lo derise un altro.
Siwald
strinse i denti e in tono tagliente replicò: “Che cosa ve ne
importa di chi è? Io non vengo a occuparmi dei vostri mentori.”
Un
altro ancora intervenne: “Non ce lo vuole dire perché si vergogna,
sarà davvero uno delle cucine o delle stalle.”
“Beh,
se non altro potrà sgraffignare da mangiare tutte le volte che
vuole!”
Ci
fu una risata generale.
Siwald
arretrò verso la sua branda e vi si parò davanti come se qualcuno
potesse portarsi via la sua roba. Normalmente non gli sarebbe
interessato nulla di quei lazzi, avrebbe girato la schiena e si
sarebbe messo a fare i fatti suoi come niente, ma in quel frangente
era come se qualcosa lo facesse sentire in obbligo di intervenire.
Quasi senza rendersi conto di quello che stava facendo, con voce dura
disse: “Non è certo uno delle cucine. È un Luogotenente e comanda
una squadra dei Giochi.”
La
frase suscitò uno scoppio di risa.
Il
ragazzo aggrottò le sopracciglia fissando ora l’uno ora l’altro,
ma l’ilarità dei suoi compagni sembrava incontenibile e gli
sghignazzi lo colpivano come altrettante sferzate. “È un
Luogotenente!” ripeté.
Si
fece avanti a quel punto Ithaul, un ragazzo noto per essere
l’attaccabrighe del plotone. “Ha un nome, questo tuo
Luogotenente?” volle sapere.
Siwald
non era certo piccolo, ma per guardarlo in faccia dovette piegare la
testa all’indietro. “Ehrenold.”
L’altro
sollevò le sopracciglia stupito. “Ehrenold, hai detto?”
“Sì,
e allora?” ringhiò Siwald, aspettandosi che l’altro lo
conoscesse di fama per via dei Giochi.
“Ah,
il codardo,” rispose invece Ithaul.
L’altro
si sentì avvampare. “Il codardo? Ritira subito quello che hai
detto!”
“Certo
che è un codardo,” fu la risposta. “Lo sai cosa si dice di quel
tuo Luogotenente? Che è stato a Yesgarion.”
“E
quindi?” annaspò Siwald, con i muscoli tesi e il cuore che
all’improvviso gli batteva all’impazzata.
“Lo
sanno tutti che Yesgarion è un’assegnazione punitiva. Di sicuro ce
l’hanno mandato perché è stato un codardo.”
“Ritira
quello che hai detto!”
“Ma
non ritiro proprio niente. Del resto, era chiaro che nessun
Luogotenente degno di questo nome avrebbe potuto interessarsi a te,
quindi...”
La
frase fu troncata da un pugno.
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
Salve a tutti, ecco qui l’ultimo
capitolo del grande mappazzone fantasy^^
Grazie
a tutti quelli che mi hanno seguito in questa avventura, grazie a chi
ha letto o ha messo la storia in qualche lista, un grazie speciale a
chi mi ha lasciato il suo parere.
Capitolo
5
Ehrenold
si stava allenando sulla pista quando si accorse che si stava
avvicinando un sottufficiale. Si fermò per osservarlo meglio e notò
che si trattava di Tenhar.
La
prima cosa che pensò, ovviamente, fu che ci fosse qualche problema
con Siwald. Magari il maresciallo aveva calcato troppo la mano con le
punizioni e il ragazzo, esasperato e messo alle strette, aveva
compiuto qualche atto sconsiderato del quale ora avrebbe dovuto
rispondere.
Passò
il comando della squadra a Rowden, si buttò la casacca sulle spalle
nude e si avvicinò a Tenhar, ma prima ancora che potesse chiedergli
cosa era successo, fu il sottufficiale a dire: “C’è qualcosa che
devi sapere, Luogotenente.”
Ehrenold
aggrottò le sopracciglia. “Che cosa?”
“Si
tratta del tuo allievo. Ieri sera ha scatenato una rissa in camerata
e ora è in infermeria.”
Il
Luogotenente fece mente locale: Siwald era un ragazzo robusto, dal
corpo per forza di cose temprato e muscoloso. Se dopo una rissa era
finito in infermeria, significava che doveva essersi come minimo
picchiato a sangue con almeno due o tre dei suoi commilitoni più
forti.
Dati
il suo orgoglio e la sua abitudine a dissimulare eventuali condizioni
di malessere, peraltro, se era in infermeria significava che doveva
essersi fatto molto
male.
“Portami
da lui,” disse semplicemente, infilandosi la casacca.
Furono
intercettati sulla porta della camera di degenza da un guaritore, il
quale sogguardò entrambi, quindi si rivolse a Tenhar e in tono
severo chiese: “È lui il mentore?” L’uomo era già in età e
dalle maniche gli spuntavano tatuaggi di guerra, alcuni recenti,
altri ormai così sbiaditi da essere a stento riconoscibili. Una
vecchia cicatrice gli tagliava la guancia destra, deformandogli
appena l’espressione.
Il
sottufficiale annuì e disse: “Il Luogotenente Ehrenold.” Poi,
rivolto a Ehrenold: “Il guaritore Lhawin. È lui che ha curato il
ragazzo.”
L’ufficiale
si fece avanti e senza preamboli chiese: “Che cos’è successo?”
“Bah,
cos’è successo ce lo dovrebbe dire quel cocciuto, se si decidesse
a parlare. Continua a ripetere che è caduto dalle scale. Come
sempre, del resto.”
“Che
intendi dire?”
Il
guaritore assunse un’espressione esasperata. “Tutte le volte che
me lo vedo arrivare qui, e questo succede più o meno ogni tre
giorni, la risposta è sempre la stessa: guaritore,
sono caduto dalle scale.
Dannato cocciuto. Mulo, dovrebbero chiamarlo, altro che cavallo
selvaggio. Mulo dalla testa di legno. Come se io non lo sapessi
perfettamente, quello che gli è successo: sono un guaritore, mica un
contabile, e ti garantisco che di ferite ne ho viste un bel po’.”
Il
Luogotenente ascoltò con pazienza lo sfogo, quindi chiese: “Questa
volta che cosa si è fatto, guaritore?”
L’uomo
incrociò le braccia sul petto, quindi rispose: “Una rissa.
Stamattina ho medicato gli altri stupidi con cui si è accapigliato.
Razza di idioti, ragazzini che non vedono più in là del loro naso.
Ah, ma lascia che vadano in battaglia la prima volta, per la Sacra
Spada, e poi la smetteranno con queste sciocchezze.”
Di
nuovo, Ehrenold non interloquì. Cercò di guardare alle spalle
dell’uomo, ma dei letti si vedeva solo la parte finale. Un
inserviente passò reggendo un catino con entrambe le mani, al
Luogotenente parve che avesse sul braccio un telo macchiato di
sangue. “Puoi dirmi come sta, guaritore?” gli chiese.
“Come
sta? Sta come uno che si è fatto pestare da dieci esagitati, ecco
come sta. E non mi vuole dire il motivo, quello stupido mulo.”
“Posso
vederlo?”
L’uomo
lo fissò dubbioso, con uno sguardo che sembrava valutare
direttamente la sua capacità di attenersi a prescrizioni mediche.
“Ha le costole rotte,” lo avvisò. “Un movimento sbagliato e se
le pianta in un polmone, comincia a sputare sangue, casca per terra e
va a finire nelle Dimore di Vopnir, anche se non so cosa ci andrà a
fare in mezzo agli eroi caduti in battaglia, quello stupido mulo.”
“Vorrei
solo vederlo un attimo, guaritore.” Poi, dopo una breve esitazione:
“Può parlare?”
“Sarà
un po’ intontito, gli ho dato dell’erba di Nomutha per tenerlo
tranquillo, ma due parole gliele puoi dire.”
Ehrenold
entrò cauto nella stanza. Lungo le due pareti laterali erano
disposti a intervalli regolari dei letti, ognuno corredato di un
comodino e uno sgabello. Fece scorrere lo sguardo sui pochi degenti e
identificò subito Siwald: il ragazzo giaceva immobile, con gli occhi
chiusi. Notò che aveva il labbro inferiore spaccato, un livido sullo
zigomo e varie escoriazioni.
Nel
sentirlo avvicinarsi, il ragazzo aprì gli occhi, aggrottò appena le
sopracciglia nel riconoscerlo, quindi rimase a fissarlo in silenzio.
Il
Luogotenente si sedette accanto a lui. Allungò una mano per
toccargli il viso, ma l’altro si girò come per sottrarsi. “Cos’è
successo?” gli chiese allora.
“Sono
caduto dalle scale, Luogotenente,” fu la stentata risposta,
pronunciata con un filo di voce.
“Siwald,
dimmi cos’è successo,” ripeté Ehrenold, fissando preoccupato il
suo volto pesto.
“Caduto
dalle scale,” ripeté il ragazzo.
Il
maggiore emise un sospiro. “Mi dicono che cadi spesso dalle scale.”
“Sono
molto distratto, Luogotenente.” Chiuse gli occhi. Ehrenold gli posò
una mano sulla fronte ed egli li riaprì subito, rivolgendogli uno
sguardo che gli parve più stupito che infastidito.
L'ufficiale
ritirò comunque la mano e gli disse: “Ora riposati. Ti voglio a
posto per quando torneremo alla guarnigione.”
Siwald
non rispose.
Ehrenold
si alzò e raggiunse il guaritore, che aveva seguito lo scambio a
pochi passi di distanza con le braccia incrociate sul petto e
l’espressione diffidente. “Ebbene?” lo apostrofò questi senza
mutare la sua posizione.
“Si
rimetterà,” disse il Luogotenente.
“Certo
che si rimetterà,” replicò l’altro, “sempre che non gli venga
in mente fare lo stupido. Con quelle costole fratturate non c’è da
scherzare.”
Ehrenold
lanciò un’altra fugace occhiata al ragazzo, quindi chiese: “Chi
può aver fatto una cosa del genere?”
Lhawin
alzò le spalle. “Non ho bisogno di raccontare a te come sono i
soldati, giusto? Specie se sono giovani e stupidi come le reclute che
hanno appena ricevuto l’uniforme nera. Una parola tira l’altra,
poi cominciano a volare gli schiaffi e alla fine se le danno come dei
Cinerei ubriachi di grozzt. E ovviamente dopo nessuno parla. Del
resto, lo sai quel che si dice: quello che succede nel plotone resta
nel plotone.”
Ehrenold
annuì grave, quelle cose gli erano ben note. “Lo farò portare
all’infermeria della caserma dei Giochi, così potrò tenerlo
maggiormente d’occhio.”
“Questo
qui dovrebbe essere piantonato giorno e notte come i delinquenti, te
lo dico io.”
§
Il
Luogotenente si guardò intorno: nessuno in giro. C'erano solo
qualche albero ancora spoglio e vecchi ostacoli di un percorso di
guerra in disuso, che attendevano di essere smantellati e sostituiti
da ostacoli nuovi. Un Muro, la superficie scrostata da innumerevoli
contatti con cotte di maglia, giaceva abbandonato al suolo.
Ehrenold
si sedette su un tronco che aveva svolto le funzioni di Ponte, poi
fece girare lo sguardo sui membri della sua squadra: Rowden,
naturalmente, ma anche Arel, Lylan e Herli. “Ci siamo,” disse in
tono grave.
Nessuno
replicò, ma gli sguardi di tutti facevano capire che quella
consapevolezza non era solo sua.
Il
Luogotenente indicò i vecchi ostacoli sparsi in giro e disse:
“Adesso sedetevi, dobbiamo parlare della Spada di Hengrist.”
Tutti
obbedirono, quindi rimasero a fissarlo con aspettativa.
“Lo
scontro sarà tra noi e Gunefort,” esordì il Luogotenente. “Siamo
a pari punti, chi vincerà questa gara si porterà a casa il titolo
di Campione.” Fece una pausa, durante la quale fece scorrere lo
sguardo sui suoi uomini, quindi concluse: “E chi perde arriva
secondo. Certo, tutti fanno un sacco di bei discorsi sul fatto che
anche arrivare secondi o terzi ai Giochi è motivo di onore, ma noi
sappiamo come stanno le cose, vero? Chi arriva secondo non ha vinto.”
“E
quindi ha perso,” intervenne serio Herli.
“Precisamente,”
confermò Ehrenold. “In battaglia non c'è il premio per il secondo
posto, giusto?”
Tutti
annuirono.
Il
Luogotenente si rivolse a quel punto a Rowden: “Tu sarai il primo.
Ho bisogno di una persona che eventualmente possa anche fare la voce
grossa se c’è qualche problema e un capitano è l'ideale. Quella
parte di percorso per forza di cose non è particolarmente difficile,
quindi buttati in spalla la Spada e appena danno il via cerca di
guadagnare quello che puoi con la velocità.”
Rowden
annuì. “Tutto chiaro, Luogotenente.”
“Molto
bene,” approvò Ehrenold, poi si rivolse a Herli: “Tu sarai
subito dopo. Lì il percorso si fa duro, è tutta salita e ci saranno
degli ostacoli difficili. Sarà questione di forza, più che di
agilità. Ho bisogno di qualcuno che con la Spada in spalla mi salti
un Muro alto al primo tentativo, solo a forza di braccia se
necessario, e tu sei l'uomo ideale.”
“D'accordo,
Luogotenente.”
Ehrenold
annuì, quindi passò a Lylan: “Tu vai dopo di lui. Ci saranno da
fare le Corde e il Reticolo, mi serve qualcuno che sia agile e
preciso e sappia tenere una barra di ferro da venti libbre e lunga
due braccia in modo da non far suonare i campanelli. Ricordatevi che
al terzo campanello che suona la squadra è squalificata.”
“Sì,
Luogotenente.”
“Io
sarò subito dopo. Avrei preferito stare ultimo, l'arrivo al
traguardo richiede come la partenza qualcuno che abbia dei gradi
sulle spalle, ma Arel è il più veloce della squadra e sarà lui a
fare lo scatto finale.” Rivolse lo sguardo al soldato che aveva
nominato, poi disse: “Tutto chiaro?”
Questi
annuì con fare volenteroso. “Sì, Luogotenente.”
“Molto
bene. Gli altri? Qualche dubbio? Domande?”
“Tutto
chiaro,” ripeté Rowden. “Del resto, le regole della Spada di
Hengrist non sono difficili: la Spada deve essere portata fino al
traguardo, gli ostacoli devono essere superati tutti e chi non è in
equipaggiamento completo, con elmo, arma individuale e cotta di
maglia è squalificato, e con lui tutta la squadra.”
Gli
altri annuirono consapevoli, quindi Herli disse: “Bene, ragazzi.
Portiamo a casa questo titolo per il vecchio Heiswegen, che ne dite?”
“Heiswegen!”
esclamarono gli altri due soldati.
Ehrenold
annuì. “Bravi ragazzi,” approvò. “E ora andate a riposare,
domani dovremo faticare parecchio.”
Rimase
solo con Rowden. Si alzò, fece qualche passo tra i vecchi ostacoli
in disuso. Toccò con la punta del piede un vecchio campanello mezzo
mangiato dalla ruggine, traendone un suono fesso.
Alle
sue spalle si fece udire la voce del capitano: “Wardan non si farà
battere così facilmente.”
il
Luogotenente emise un sospiro. “Lo so. Potrei dire che una Spada di
Hengrist alla finale dei Giochi non sarebbe facile comunque, ma
anch'io temo quello che temi tu: ho idea che stia tramando qualcosa.”
“Ci
sono gli osservatori. Ce ne saranno anche più del solito, vista
l'importanza della gara.”
“Alla
Triplice, Wardan è riuscito a spedirmi una freccia sopra la testa
con cinque osservatori che passeggiavano su e giù.”
L'altro
si girò a fissarlo. “Sul serio?”
Ehrenold
annuì. “Non stiamo parlando di un cretino: Wardan è uno che in
battaglia sa il fatto suo.”
“A
maggior ragione,” replicò l'altro, “promettimi che starai
attento. Io rischio poco, a inizio percorso e con tutta la frotta di
giudici, osservatori e spettatori che ci sarà, ma tu sarai in mezzo
al bosco, ci sarà molta meno gente a controllare che le cose vadano
come devono andare.”
“Certo,
starò attento.”
Ehrenold
entrò in infermeria e raggiunse il letto di Siwald. “Come stai
oggi?” gli chiese sedendosi accanto a lui.
Faticosamente
il ragazzo si girò a guardarlo. “Bene, Luogotenente,” rispose.
L'uomo
scosse la testa. “Siamo soli, non c'è bisogno che continui a fare
il cavallo selvaggio. Sono solo venuto a vedere se hai bisogno di
qualcosa.”
“Non
ho bisogno di nulla, Luogotenente.”
Ehrenold
annuì come se le parole del ragazzo fossero esattamente quelle che
si era aspettato di sentire. Si appoggiò all'indietro fino a toccare
la parete con le spalle, quindi disse: “Sai perché ti ho scelto,
Siwald?” Fece una breve pausa, ma la recluta non interloquì. “Ti
ho scelto perché hai carattere,” proseguì allora, “perché non
ti pieghi, perché non ti lasci spaventare. Queste sono le doti che
cerco in un soldato.” Di nuovo tacque. “O in un compagno,”
soggiunse poi.
A
quelle parole, Siwald lo fissò stupito. Aprì la bocca come per dire
qualcosa, ma Ehrenold lo precedette. In tono tranquillo, come se
l'ultima frase non fosse mai stata pronunciata, disse: “Io non ho
intenzione di umiliarti o maltrattarti, Siwald, ma nemmeno di far
finta di niente di fronte alle tue mancanze: per quanto tu abbia
enormi potenzialità, per quanto tu mi piaccia caratterialmente, sei
un soldato pessimo e in una battaglia non sopravviveresti due minuti.
Stai a cavallo come un sacco di patate, scommetto che della spada
conosci solo i rudimenti, non hai né senso della gerarchia né per
forza di cose cameratismo. Ti rendi conto che in tutto quello che fa
parte delle capacità di un soldato sei inferiore agli altri e per
questo motivo cerchi di eccellere, per così dire, all'opposto. Se
non puoi essere il migliore di tutti, vuoi essere il peggiore.”
Abbassò gli occhi sul ragazzo e si accorse che egli lo stava
fissando serio. “Non sei d'accordo?” gli chiese.
Siwald
girò la testa dall'altra parte.
“In
ogni caso,” proseguì tranquillo il Luogotenente, “d'ora in
avanti le cose cambieranno. Mi aspetto che usi la tua intelligenza
non per trovare nuovi modi per farti punire, ma per usufruire al
meglio degli insegnamenti che ti darò.”
A
quel punto, il ragazzo di nuovo si voltò a fissarlo e intervenne: “E
guarda caso, il primo insegnamento si svolgerà in privato, vero?”
Ehrenold
si limitò a levare gli occhi al cielo, poi si alzò e rimise a posto
lo sgabello. “Ora vado,” lo informò, “devo allenarmi per
domani.”
“C'è
una gara?” chiese il ragazzo.
Il
Luogotenente sorrise. “C'è la
gara, direi. È la Spada di Hengrist, chi vince quella vince i
Giochi. Peccato che tu sia costretto a letto, perché se no potresti
vederla da vicino, in qualità di allievo. Gli allievi possono in
ogni momento stare con la squadra, se il loro mentore ne fa parte.”
Il
ragazzo si rabbuiò. “Non voglio privilegi perché sono un allievo.
Non l'ho certo chiesto io.”
Ehrenold
sorrise e sullo stesso tono replicò: “Non è certo un privilegio.
Una vecchia norma mai abrogata stabilisce che gli allievi siano
presenti come riserve, nel caso uno della squadra sia per qualche
motivo impossibilitato a disputare la gara. Ovviamente non succede
mai, comunque. Tu ti goderesti lo spettacolo e basta.”
“Uno
spettacolo che non mi interessa minimamente.”
Per
tutta risposta, Ehrenold gli disse: “Riguardati, Siwald. Ti voglio
in forma per quando torneremo alla guarnigione.” Poi uscì.
§
I
raggi del sole entravano dalla finestra come tante lame. Siwald li
osservò per un po', valutando che data la loro inclinazione, il sole
doveva essere già abbastanza alto.
Subito
dopo constatò che c'era ovunque un gran silenzio.
Si
guardò intorno e vide che sul suo comodino era posata una tazza. Con
qualche difficoltà si sollevò sul gomito, la prese e ne annusò il
contenuto, riconoscendo l'odore dell'infuso di Nomutha. Stava per
berlo quando udì dei rumori nella stanza attigua.
Si
girò in quella direzione pensando si trattasse di uno degli
inservienti del guaritore, ma si accorse che i nuovi arrivati erano
due combattenti in uniforme completa, con elmo, spada e cotta di
maglia. Uno era un maresciallo e l'altro un capitano.
“Ti
sei accertato che non ci sia nessuno?” chiese il capitano.
“Siamo
soli,” fu la risposta, “stanno andando tutti alla pista, per
cercare di accaparrarsi i posti migliori.”
Siwald
si immobilizzò. I due avevano al collo un laccio colorato, il che li
identificava come atleti dei Giochi. Cosa ci facevano lì?
Il
capitano si guardò intorno, aprì uno stipo e spostò oggetti su uno
scaffale. “Eppure deve esserci,” disse, “ce n'è sempre.”
Fece scorrere uno dopo l'altro una fila di cassetti.
“Che
cosa, Wardan?”
“Resina
di Erba di Nomutha.”
“Cosa
te ne fai?” La voce aveva un vago tono di apprensione.
“Sai
che cosa fa?”
“Non
capisco. Che intendi dire?”
“Fa
dormire quasi all'istante. L'ultimo tratto è ripido, da una parte
c'è il bosco, ma dall'altra una scarpata. Non c'è posto per gli
spettatori e anche gli osservatori sono molto rari.”
Il
tono della risposta suonò ancora più diffidente: “Continui a
parlare per enigmi,Wardan.”
“Vedrò
di essere più chiaro: voglio assicurarmi la vittoria. Un ago con un
po' di resina pura mette fuori combattimento in pochi attimi chiunque
e una cerbottana si può nascondere nell'equipaggiamento con grande
facilità.”
Passò
qualche istante di un silenzio che aveva una strana connotazione
sinistra, poi di nuovo si fece udire la voce del sottufficiale: “Ma
questo è contro le regole.”
“Della
puntura non si accorgerà nemmeno e la cerbottana la butterai via,
quindi nessuno la vedrà.”
“Cioè...
tu mi faresti fare veramente una cosa del genere?”
“Giusto
per essere sicuro di vincere. Anche se, ripeto, sarà solo per
sicurezza.”
“Ma
Wardan... e se mi scoprono? Sarebbe il disonore eterno per Gunefort,
ci hai pensato? Come mandante verresti degradato, e anche se io
tacessi per non tradirti, la squadra perderebbe il privilegio di
partecipare ai Giochi per anni.”
“Se
ha a cuore la giustizia, Hengrist farà sì che nessuno ci scopra.”
Seguì un altro silenzio, poi l'ufficiale soggiunse: “E tu
non mi tradirai, vero?”
“Sai
che non lo farei, ma ti invito a pensarci bene. È un rischio.”
“Non
ho tempo di pensarci, la gara comincia fra poco.” Poi, dopo una
pausa: “Ah, eccola qui. Guarda com'è densa: questa è
potentissima.”
Siwald
udì il rumore di un contenitore di vetro o ceramica che veniva
maneggiato, poi l'anta dello stipo che tornava al suo posto, infine i
passi dei due che si allontanavano velocemente.
Per
un po' il ragazzo rimase semplicemente immobile ad ascoltare il
sangue che gli pulsava nelle orecchie. Che fare?
Nella
caserma non c'era più nessuno, ma anche se ci fosse stato qualcuno,
chi avrebbe creduto a un cavallo selvaggio come lui? Sicuramente
avrebbero pensato che cercava di fermare la finale dei Giochi come
ultimo e supremo dispetto al suo mentore e magari l'avrebbero anche
messo agli arresti.
Scese
con cautela dal letto, saggiando attento le reazioni del suo corpo.
Il torace gli doleva, ma non più di tutte le volte che aveva avuto
incidenti sul percorso del Campo Dodici. Si guardò intorno e subito
identificò l’armadio con dentro il suo equipaggiamento. Indossò
l'uniforme, ma non poteva andare in giro con quella e basta,
l'avrebbero fermato subito. Con fatica si fece passare sopra la testa
la cotta di maglia, poi raccolse l'elmo e la spada. Fatto questo,
uscì per correre ad avvertire personalmente Ehrenold del pericolo
che stava correndo.
§
Sembrava
che anche il sole volesse godersi l'ultimo giorno dei Giochi. Il
cielo era di un azzurro terso, l'aria era limpida come in alta
montagna. Sospinte da un vento finalmente gentile, le bandiere delle
Marche si agitavano piano e i loro ricami d'argento brillavano sotto
la luce calda.
Tutti
coloro che non avevano compiti specifici da svolgere stavano
affluendo verso le gradinate dell'Arena per assistere all'arrivo
degli atleti, oppure si appostavano lungo il percorso, per vedere
qualcosa della gara.
Rowden
si presentò ai giudici e ricevette quella che dava il nome alla
prova: un grande simulacro di spada a due mani, esattamente identico
a quello che la statua del dio teneva fra le mani nel tempio
principale della città. Era più grande di una spada normale, e
naturalmente più pesante.
Si
voltò verso Hyvardus, che a sua volta l'aveva ricevuta: persino
nelle mani di un colosso come lui, quell'arma appariva
sproporzionatamente grande.
Guardò
poi verso l'inizio del percorso, chiedendosi se Ehrenold fosse già
arrivato alla sua postazione.
D'improvviso
echeggiò la voce di un giudice di gara: “Pronti!”
La
spada già assicurata sulla schiena, Rowden si sistemò sulla linea
di partenza assieme ai corridori delle altre squadre. Proprio accanto
a lui c'era quello di Gunefort, un maresciallo di nome Gerd, che gli
lanciò un'occhiata torva.
Si
costrinse a ignorarlo e con la memoria ripercorse i particolari della
pista: sapeva che appena entrata nella macchia di alberi piegava
bruscamente a desta e poi cominciava a salire. Il tempo era stato
buono negli ultimi due giorni, ma di sicuro il fondo sarebbe stato
pesante, addirittura in qualche punto avrebbe anche potuto trovare
ghiaccio.
Lo
squillo della tromba lo distrasse da ulteriori meditazioni.
Cominciò
a correre. Era veloce, ma nessuno voleva rimanere indietro
nell'ultima prova dei Giochi. Il gruppo affrontò compatto il primo
ostacolo, ovvero una fossa in cui bisognava scendere per poi risalire
dall'altra parte. Ci furono spintoni, qualche grugnito di disappunto,
clangori di metallo che sbatteva. Rowden si buttò dentro in uno
spruzzo di acqua marrone, sfruttò l'inerzia per fare i primi passi
della risalita, poi si aggrappò piantando le dita nel terreno ancora
molle. Saltò fuori per primo e riprese la corsa, immediatamente
incalzato dagli altri.
Più
che mai si costringeva a fare il vuoto in mente e a non pensare ad
altro che ad affrontare gli ostacoli e a dosare nella maniera giusta
le risorse del suo corpo. Stava correndo troppo? Avrebbe retto fino
alla fine del suo pezzo con quell'andatura? Si concentrò sulla
respirazione. Arrivò alla Scala, ovvero una scala a pioli
orizzontale, posta a una certa altezza, da superare passando di piolo
in piolo con la sola forza delle mani. Scattò, afferrò il primo di
essi, si lanciò verso il secondo, poi il terzo... farsene sfuggire
uno significava tornare all'inizio, attraversando la torma degli
inseguitori come un salmone avrebbe fatto con la corrente del fiume.
Significava perdere, in buona sostanza, e far perdere anche il resto
della squadra.
D'altra
parte, tutte le competizioni dei Giochi erano a squadre proprio per
quel motivo: sul campo di battaglia non si era mai da soli e si
doveva imparare a ragionare sempre in termini di squadra e mai di
singolo individuo.
Lasciò
andare l'ultimo piolo dell'ostacolo, riprese la corsa. La pesante
Spada gli premeva addosso, rimbalzandogli dolorosamente sulle spalle.
Legarla troppo blandamente significava farsela sfuggire, ma d'altra
parte una legatura troppo salda avrebbe comportato la perdita di
tempo prezioso nel momento del passaggio del simulacro all'uomo
successivo.
Continuò
a correre cercando di regolarizzare la respirazione.
Sotto
lo sguardo serio degli osservatori, Ehrenold passeggiava su e giù
come una belva in gabbia, imitato ovviamente dai membri di tutte le
altre squadre. Non era ancora arrivato nessuno e a tutti gli atleti
sembrava che la corsa si stesse protraendo per un tempo abnormemente
lungo.
Non
c'era sguardo che non si fissasse di tanto in tanto verso la pista
dalla quale sarebbero dovuti spuntare i compagni di squadra, non
c'era atleta che non sentisse da lunghi minuti la tensione dolorosa
dell'attimo prima della gara, una tensione che cresceva di momento in
momento, facendo accelerare i respiri e tendere i muscoli.
Si
udì un tramestio: coperto di fango al punto da essere quasi
irriconoscibile, Lylan apparve correndo e tentando freneticamente di
slacciarsi la Spada dalla schiena. Alle sue spalle i primi elementi
del gruppo di concorrenti, che ormai si era già allungato, lo
tallonavano.
Ridusse
appena l'andatura e trottando comunque a un buon passo, con dita rese
frenetiche dall'urgenza, sciolse i nodi delle corregge che gli
assicuravano addosso la pesante arma. “Salute e vittoria,” disse,
consegnandola al Luogotenente.
Questi
la ricevette e se la legò a sua volta sulla schiena, assicurandosela
addosso con la disinvoltura dell'abitudine.
Si
lanciò di corsa, subito una figura gli apparve accanto, lo colpì
con la spalla, lo fece sbandare, lo superò. Ehrenold scattò, diede
a sua volta una spallata, di nuovo passò avanti, saltò una barriera
di tronchi aiutandosi anche con le mani, poi subito dopo tre siepi a
beve distanza una dall'altra, poi attraversò uno specchio d'acqua
nel quale galleggiava ancora qualche sottile lastra di ghiaccio.
Passò oltre, si scrollò, afferrò una fune che dondolava piano
nell'aria calma. Si issò fino a raggiungere una piattaforma
soprelevata, da lì si lasciò cadere su un mucchio di paglia, ne
riemerse annaspando e facendosi spazio con le braccia, poi
scrollandosi di dosso i fili gialli riprese la corsa.
D'un
tratto gli parve di vedere una figura a cavallo che lo oltrepassava
tenendosi a distanza, ma a una seconda occhiata non la scorse più.
Si obbligò a ignorarla: aveva dietro almeno tre uomini, poteva quasi
percepirne il respiro sul collo, il terreno era pesante e scivoloso,
ovunque rami e pozzanghere lo rendevano ancora più disagevole.
Traballò perdendo l'equilibrio su un tratto particolarmente ripido,
si afferrò all'ultimo momento a un ramo contorto, tagliandosi il
palmo della mano. Ignorò la ferita limitandosi a stringere il pugno.
Procedette lasciandosi dietro una scia di gocce vermiglie.
Finalmente
apparve la postazione, riusciva già a vedere Arel che passeggiava su
e giù nervosamente esattamente come lui aveva fatto fino all'arrivo
di Lylan. Cominciò a slacciare le corregge che gli assicuravano la
spada alla schiena, imprecando silenziosamente perché la mano ferita
scivolava sul cuoio a causa del sangue che la copriva.
Raggiunse
ansante il soldato, gli consegnò la spada, questi se la caricò
sulla schiena, poi partì di corsa. Non aveva fatto venti passi che
parve sussultare come se fosse andato a sbattere contro qualcosa. La
spada cadde con un funesto clangore. Il soldato fece qualche altro
passo malfermo, con l'andatura dondolante di un ubriaco. Si portò
una mano alla testa, cercò di appoggiarsi a un tronco con l'altra,
ma mancò il bersaglio e crollò a terra. Si rialzò, solo per fare
qualche altro passo stentato e ricadere.
Ehrenold
sentì il sangue abbandonargli il viso. Per quanto stesse ansimando
come un mantice per effetto della lunga corsa, in quel momento smise
di respirare: Arel era oltre la linea, il che significava che non
aveva più alcun margine di intervento su di lui. Era a terra e gli
altri contendenti si stavano avvicinando.
Significava
la squalifica. Significava la fine dei Giochi.
Significava
tornare a Heiswegen con niente altro che una sconfitta.
Wardan,
già in posizione per ricevere la Spada dal membro della sua squadra,
in tono ironico gli chiese: “Che c'è, troppa emozione per il tuo
ragazzetto? Non è riuscito a reggere la tensione della finale?”
Gli
occhi fissi sul soldato immobile, Ehrenold lo sentì appena.
L'altro
si fece consegnare l'arma e scattò in avanti legandosela frattanto
sulla schiena. Il Luogotenente rimase immobile, con la sensazione di
essere all'improvviso precipitato in un incubo: non c'era niente che
potesse fare, poteva solo stare a guardare mentre Gunefort vinceva e
Heiswegen piombava all'ultimo posto della classifica.
Poi
si udì un rumore di frasche.
Ehrenold
si voltò bruscamente e vide che nella piazzola degli osservatori era
comparso un soldato in cotta di maglia, con elmo e spada al fianco.
Si voltò a fissarlo. “Siwald!” esclamò.
“Dammi
il mandato!” gridò il ragazzo per tutta risposta.
“Cosa?
Ma tu...”
“Il
mandato! Io sono il tuo allievo, posso subentrare. Lo dicono le
leggi, no?”
Ehrenold
lo fissò, poi girò lo sguardo verso gli osservatori, che stavano
seguendo la scena in un silenzio ieratico.
“Presto!”
lo incalzò il ragazzo.
“Aspetta,
sei ferito.”
“Non
c'è tempo, fammi andare!”
Gli
altri contendenti li passavano uno dopo l'altro, scattando come daini
inseguiti dai cani.
Siwald
balzò verso di lui, gli afferrò la mano sporcandosi di sangue ed
esclamò: “Io vado! Posso andare! Avete visto che mi ha conferito
il mandato, vero?”
Saltò
oltre la linea. Ehrenold fece per riprenderlo, ma a quel punto gli
osservatori gli si pararono davanti. Il più autorevole di essi
proclamò: “Il ragazzo ha scelto. Non sta a te fermarlo.”
Siwald
raggiunse il soldato immobile, si caricò in spalla la Spada e si
lanciò a rotta di collo lungo la pista. Il torso aveva smesso di
fargli male, sentiva addosso solo una grandissima energia, come non
gli capitava da tempo, o forse come non gli era mai capitato. Volava
letteralmente sul terreno, l'arma sacra in spalla non era niente
rispetto agli zaini affardellati del Cinghiale, quel percorso era
roba da bambini paragonato al Campo Dodici.
Saltò
un tronco, si piegò per evitare una barriera di rami, si buttò
subito dopo a terra e procedendo su gomiti e ginocchia superò un
altro sbarramento, poi scattò di nuovo in piedi. Individuò dopo una
curva il più arretrato degli avversari, aumentò l'andatura
facendoglisi più sotto. L'altro accelerò a sua volta, ma poi
arrivarono a un Muro. Siwald saltò con la facilità di chi ha già
fatto la stessa cosa migliaia di volte, si issò con disinvoltura e
fece passare le gambe al di là mentre l'altro stava ancora cercando
di sollevarsi a forza di braccia.
Atterrò
e una fitta lancinante gli trafisse il torace. Barcollò appena, si
riaggiustò la spada sulle spalle quindi ripartì a denti stretti.
Raggiunse
altri contendenti, il dolore era come un fuoco che gli bruciava
dentro, ma allo stesso tempo sentiva una sorta di esaltazione folle,
qualcosa come un'ebbrezza che sembrava quasi trarre da tutta la
situazione un assurdo vigore. Si buttò in avanti, sgomitò, sgusciò
fra gli uomini impegnati negli ostacoli come aveva imparato sul
campo, quando il Cinghiale lo faceva correre assieme a quelli più
grandi.
E
poi raggiunse l'uomo che si trovava in testa al gruppo. Strinse gli
occhi mentre un'ira furiosa lo pervadeva: era il capitano che aveva
sentito parlare in infermeria.
Era
quello che aveva progettato di agire in modo scorretto per sottrarre
la vittoria a Ehrenold.
Corse.
Corse come se non ci fosse un domani, come se da quella corsa
dipendesse la sua vita, come se non il destino della Marca di
Heiswegen ma quello di tutto Kjarr gravasse sulle sue spalle.
Divorò
lo spazio con falcate che sembravano balzi, accorciando sempre di più
la distanza fra sé e l'uomo che lo precedeva.
Udendolo
arrivare, questi si girò fugacemente a fissarlo. Rallentò appena di
proposito e quando furono affiancati gli sferrò una gomitata.
Siwald
sentì un rumore come di rami spezzati. Un lampo bianco lo privò
della vista per un istante, mentre un dolore atroce, tanto forte da
bloccargli il respiro, lo obbligò a rallentare e a cercare il
sostegno di un tronco. Tossì e in bocca gli arrivò il sapore
ferroso del sangue.
Scrollò
la testa, di nuovo sputò sangue. Fissò lo sguardo sulle spalle
dell'uomo come se i suoi occhi fossero stati dardi di balestra.
Riprese
a correre. Ormai la strada era in discesa, il fondo si era fatto più
piano e regolare. Entro breve sarebbe anche cominciata la
lastricatura di larghe pietre grigie della via che conduceva
all'Arena.
Raggiunse
l'altro, si forzò ad aumentare l'andatura. Constatò che il sangue
gli stava scorrendo giù da un angolo della bocca e sgocciolava sulla
cotta di maglia, ma stranamente gli parve una cosa di poco conto,
niente più che un piccolo inconveniente. Di nuovo l'uomo aspettò
che lui si fosse avvicinato, poi lo colpì col gomito. Siwald, che
l'aveva previsto, riuscì a farsi indietro, ma la botta gli strappò
comunque un gemito di dolore.
Cominciarono
le bandiere lungo la strada, il ragazzo percepì confusamente che
c'erano persone ai due lati di essa, c'erano urla e acclamazioni,
anche se non riusciva più a distinguere le parole...
D'un
tratto si trovò nell'Arena. Stava correndo come il vento, con la
coda dell'occhio vedeva l'uomo correre al suo fianco, forse un po'
arretrato, ma in un modo che sembrava quasi solidale, come se si
fosse trattato del suo amante, o di un suo amico.
Non
di qualcuno che aveva appena cercato di far perdere il suo mentore
con l'inganno.
Rivolse
il pensiero a Ehrenold, rievocò il suo volto serio, il suo sguardo
profondo. Lo svolazzo del nastro rosso strappato si confuse con i
rivoli di sangue che ormai lo imbrattavano ovunque, poi tutto si fece
nero e le acclamazioni si affievolirono fino a diventare un mormorio
lontano, come di un torrente.
§
Siwald
aprì gli occhi a fatica. Gli pareva di essere fatto di piombo, tanto
che quasi si meravigliò che il letto militare fosse in grado di
reggerlo.
Si
guardò intorno e dopo un po' riconobbe l'infermeria. Nell'aria c'era
odore di erbe medicinali, ma anche dell'olio che si usava per le
cotte di maglia e di cuoio. Voltò la testa e si accorse di una
sagoma immobile al suo fianco. D'istinto, con voce roca mormorò:
“Mentore?”
Immediatamente
la sagoma si animò e proprio il volto di Ehrenold comparve nel suo
campo visivo. Il Luogotenente sembrava stanco ed era piuttosto
pallido. Rughe verticali gli increspavano la fronte altrimenti
liscia.
“Siwald,”
mormorò. Allungò cauto una mano, come per paura di fargli male, e
gli sfiorò una guancia con le dita.
Egli
sorrise appena a quel tocco, piegando la testa come per trattenere la
mano che lo toccava.
Si
guardarono negli occhi. “Siwald,” ripeté l'uomo. La sua voce
vibrava di un'emozione che il ragazzo non vi aveva mai percepito. “I
guaritori disperavano di salvarti.”
“Abbiamo...
vinto?” riuscì a sussurrare.
“Tu
hai vinto, Siwald. Hai salvato la Marca di Heiswegen.” Si piegò a
baciarlo sulla fronte e poi sulle labbra. “Tu hai vinto,” ripeté.
Il
ragazzo socchiuse gli occhi. “Se ho vinto,” rispose a fatica, “se
ho combattuto è perché tu mi hai dato un motivo per farlo. Mi hai
fatto capire che ero degno di farlo.”
Ehrenold
annuì. Di nuovo gli accarezzò i capelli, quindi si alzò e disse:
“Riposa ora, devi rimetterti in forze.”
“Sarai
qui quando mi sveglierò?”
Ehrenold
sorrise. “Non vorrai che ti faccia da balia, soldato.”
Siwald
riuscì a tirare fuori a sua volta un pallido sorriso. “So badare a
me stesso.”
“Razza
di insolente,” rispose Ehrenold.
“Mi
sembrava che ti piacessero quelli di carattere.”
“Riposa,”
ripeté Ehrenold per tutta risposta, quindi se ne andò.
Siwald
lo guardò allontanarsi. Chiuse gli occhi scivolando di nuovo nel
torpore della debolezza, e mentre si abbandonava al sonno vide come
in sogno un cavallo selvaggio galoppare via e due grandi lupi neri,
forti e solenni, prendere il suo posto.
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