La Pietra della Resurrezione

di Yugi95
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I – Il Binario 9¾ ***
Capitolo 3: *** Capitolo II – Il ragazzo sul treno ***
Capitolo 4: *** Capitolo III – Benvenuti ad Hogwarts ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV – Incantesimi e altri disastri ***
Capitolo 6: *** Capitolo V – Trambusto in biblioteca ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI – Ritrovarsi ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII – Il Preside Fu ***
Capitolo 9: *** Capitolo VIII – Voci dal passato ***
Capitolo 10: *** Capitolo IX – La lezione di volo ***
Capitolo 11: *** Capitoli X - Cercasi Cercatore ***
Capitolo 12: *** Capitolo XI – Una dolce melodia ***
Capitolo 13: *** Capitolo XII – Grifondoro vs Serpeverde ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIII – Fischio finale ***
Capitolo 15: *** Capitolo XIV - Oscure presenze ***
Capitolo 16: *** Capitolo XV - Halloween ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVI – L’Eco di Hogwarts ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVII - Hogsmeade ***
Capitolo 19: *** Capitolo XVIII – Natale ***
Capitolo 20: *** Capitolo XIX – Una strana sensazione ***
Capitolo 21: *** Capitolo XX – Il Party di Capodanno ***
Capitolo 22: *** Capitolo XXI - La rivolta degli spettri ***
Capitolo 23: *** Capitolo XXII – Interferenze ***
Capitolo 24: *** Capitolo XXIII – Lo Specchio delle Brame ***
Capitolo 25: *** Capitolo XXIV – Nathalie Sancoeur ***
Capitolo 26: *** Capitolo XXV - San Valentino ***



Capitolo 1
*** Prologo ***




Prologo
 
 
Quella sera le stelle sembravano aver perso tutto il loro fascino. Fioche e piatte si stagliavano contro il nuvoloso cielo che sovrastava il borgo di Gordes. Nonostante l’estate fosse ancora nel pieno delle sue forze, una leggera brezza spirava tra i verdi alberi che ricoprivano le colline della zona. Le loro chiome si agitavano al vento producendo un brusio simile ad una sinfonia; una dolce melodia che si diffondeva nell’aria incontaminata della Provenza.

«Dannazione!» urlò una voce maschile carica di rabbia e disperazione.

Quel grido disumano, impregnato di dolore riecheggiò per la stanza, seguito subito dopo dal tonfo sordo di antichi manoscritti. Un uomo, ormai in preda allo sconforto e al senso di colpa, si lasciò cadere sulle proprie ginocchia e, piegandosi in avanti, si accosciò sul bordo del lussuoso tavolaccio. Avrebbe tanto voluto piangere, ma il suo incrollabile orgoglio non glielo permise.

«Signor Agreste, cosa sta…» esclamò improvvisamente una giovane donna brandendo una bacchetta magica, per poi interrompersi bruscamente alla vista del suo principale.

«Signorina Sancoeur, quante volte le ho detto di dover bussare prima di entrare nel mio ufficio?» rispose l’uomo rialzandosi ed inforcando un paio di spessi occhiali.

L’altra chinò la testa per l’imbarazzo. Erano quasi cinque anni che lavorava come assistente personale di Gabriel Agreste, il mago più ricco e famoso della comunità magica. Questa controversa ed enigmatica figura aveva fin da subito affascinato la Signorina Sancoeur. Donna forte ed indipendente, non era mai stata in grado di reggere il gelido sguardo del suo principale, il quale era l’unico a farla sentire fragile e vulnerabile.

«Dovrei licenziarla all’istante…» continuò il Signor Agreste, mentre si avvicinava alla sua segretaria, «Tuttavia ho una settimana piena di impegni e lei è troppo in gamba per poter essere rimpiazzata tanto facilmente, dico bene Nathalie?»

La donna fece un timido “sì” con la testa. Gabriel si posizionò dinanzi a lei e, dopo averle alzato il mento con l’indice destro, la guardò intensamente negli occhi. Nathalie divenne paonazza e, tremando come una foglia, cercò di ritrarsi. Il suo corpo, però, non si mosse di un millimetro. L’uomo si protrasse in avanti e le bisbigliò nell’orecchio.

«Non dovrebbe essere così rigida, Signorina Sancoeur. Dopotutto lei mi conosce, sa che non c’è da aver paura.»

«Ecco… …io… …io… preferirei… preferirei che…»

Gabriel la interruppe poggiando le dita sulla sua bocca. Le cinse la vita con il braccio sinistro e, accarezzando con l’altra mano una ciocca di quei suoi capelli corvini, la tirò a sé. Le loro labbra stavano per sfiorarsi. Nathalie era impotente, completamente in balia della situazione. Per quanto si sforzasse di resistere, non riusciva a separarsi dalla stretta del suo principale.

Chiuse gli occhi e, alzandosi leggermente sulle punte, rimase in attesa della mossa di Gabriel. Quest’ultimo serrò la presa sul fianco, ma, invece di avvicinarsi ulteriormente, eseguì una torsione del braccio in modo tale da spingere la donna alla sua destra. A quel punto si diresse verso l’ingresso dell’ufficio tirandosi dietro un alquanto confusa Nathalie.

«Molto bene Signorina Sancoeur, può andare adesso. Sappia che le addebiterò il costo per le riparazioni della porta sulla prossima busta paga.»

«C-c-cosa?!»

Il Signor Agreste, però, non aggiunse nient’altro e, dopo aver voltato le spalle all’uscio della stanza, scomparve tra le alte librerie del suo studio. Nathalie, rimasta sola, osservò a lungo lo scardinato profilo della porta laccata di bianco. «Bah… sarebbe bastato un “reparo”.»

Intanto Gabriel, muovendosi abilmente in quel dedalo di scaffalature, che nel corso degli anni aveva provveduto a riempire fino al massimo della loro capienza, ripensava a quanto fosse successo. Mettere in difficoltà la sua assistente, imbarazzarla fino al punto da far diventare il suo viso rosso come un pomodoro lo divertiva, lo divertiva immensamente. Quella sera, però, la rabbia e lo sconforto, dovuti all’ennesimo fallimento, lo avevano profondamente.

Nel corso di quei dieci lunghi anni aveva tentato di tutto senza riuscire a trovare una soluzione. Anche la sua ultima speranza si era difatti infranta pochi minuti prima. Raggiunse una luminosa vetrata, Gabriel aprì lentamente una delle ante della finestra e, prendendo un profondo respiro, si decise ad uscire all’esterno. L’aria era insolitamente fresca per quel periodo dell’anno. Tuttavia, la sensazione del vento a contatto con il viso fu abbastanza piacevole.

Dopo aver frugato in uno dei taschini del suo gilet viola scuro, estrasse un ciondolo argentato di forma ovale. Osservò con fare maniacale il prezioso monile, poi ne toccò la superfice pronunciando parole incomprensibili. In quello stesso istante un sonoro “tac” riecheggiò nell’aria e il monile si aprì in due metà, rivelando il suo contenuto. Una foto di una giovane donna dai lunghi capelli biondi, ormai sbiadita dal tempo e dall’usura, era incastonata all’interno dell’oggetto. «Mi manchi Emilie, mi manchi più di ogni altra cosa al mondo.»

«Oh Gabriel… tesoro mio, sei sempre stato così melodrammatico.»

Il Signor Agreste ripose immediatamente il ciondolo e sguainò la propria bacchetta. Temendo di essere attaccato da un momento all’altro rientrò in casa. Le luci delle candele e quelle dell’imponente lampadario di cristallo erano stranamente spente. L’aria era densa, pesante e carica di elettricità; strani e sinistri rumori, simili a degli scricchiolii, rendevano l’atmosfera ancora più terrificante. «Lumos!»

La punta della bacchetta dell’uomo s’illuminò mostrandogli alla destra della vetrata un’esile figura avvolta in un lungo mantello nero dotato di un largo cappuccio che non lasciava intravedere alcun dettaglio del volto. L’intruso, languidamente appoggiato alla parete, non si mosse rimanendo in attesa e limitandosi ad osservare divertito i movimenti di Gabriel che gli puntava pericolosamente contro la propria “arma”.

«Se si vuole cogliere di sorpresa qualcuno, non si dovrebbe dare a quest’ultimo il tempo di azzerare il nostro vantaggio.»

«Mio vecchio amico, se non ti ho attaccato è perché non avevo alcuna intenzione di farlo.»

Gabriel fu colto da un impeto di rabbia: aveva finalmente capito chi si trovasse dinanzi a lui. Si scagliò contro l’incappucciato e lo afferrò per il collo. La sua mano stringeva sempre più la gola dell’intruso che, dimenandosi in preda al panico, iniziava ad avere difficoltà nel respirare. «Perché sei venuta da me?!»

«S-s-sono qui per Emilie…» annaspò l’altra con difficoltà, afferrando l’avambraccio del suo aggressore nel vano tentativo di allentarne la pressione.

«Come osi anche solo pronunciare il suo nome?! Se lei non c’è più la colpa è solo tua!»

«N-non r-r-riesco a…»

A quel punto Gabriel, riuscito a recuperare quel po’ di lucidità che gli bastava per capire di stare per commettere un grave errore, lasciò la presa sulla gola dell’intrusa che si accasciò sul pavimento esausta. «Cosa ci fai in casa mia?! Come hai fatto a fuggire da Azkaban?»

«Quel posto è sopravvalutato, credimi.»

«Posso pur sempre rispedirtici: l’ho fatto in passato, nulla mi vieta di farlo anche adesso.»

«Non so quanto ti convenga, l’ultima volta il biglietto ti è costato parecchio.» replicò la donna con una punta di perfidia, mentre si riaggiustava l’ampio cappuccio.

«Dammi un motivo, un solo ed unico motivo per non schiantarti contro la finestra.» ringhiò il Signor Agreste cercando di mantenere la calma.

«Te l’ho detto: sono qui per Emilie. Io sono riuscita dove tu per dieci lunghi anni hai sempre e miseramente fallito.»

Il volto di Gabriel impallidì; le gambe iniziarono a cedere, mentre la presa sul manico della bacchetta tremava sempre più. Nonostante fin da bambino gli fosse stato spiegato che la magia non può resuscitare i morti, non aveva mai perso la speranza. Era sicuro che da qualche parte, nascosto chissà dove, esistesse un modo che gli avrebbe permesso di ricongiungersi con Emilie. Ma dopo anni di inutili tentativi e sacrifici, aveva ormai perso qualsiasi speranza.

«Tu menti! Non esiste alcun incantesimo o manufatto magico che possa riportare in vita le persone. Ci ho già provato! Non ho fatto altro da quel giorno… dal giorno in cui l’ho persa per sempre, persa a causa tua!»

La rinsecchita bocca della donna si dischiuse in un sorriso inquietante. Sapeva di averlo in pugno, sapeva che la rabbia e il senso di colpa lo avrebbero spinto a compiere qualsiasi cosa pur di poterla riabbracciare. Non doveva far altro che stimolare quel suo sentimento di impotenza che tanto lo angosciava per poterlo sfruttare e raggiungere i propri scopi.

«Gabriel, tu sei sempre stato un portento nelle arti magiche. Tuttavia, hai sempre considerato la magia come una scienza esatta. Un insieme di regole e nulla più. No… la magia è mito, è esplorazione dell’ignoto; è lo scoprire che una vecchia favola abbia un fondo di verità. Dì un po’: quante volte hai letto al piccolo Adrien la “Storia dei Tre Fratelli”?»

«Non azzardarti a mettere in mezzo mio figlio» tuonò, improvvisamente, Gabriel agitando pericolosamente la bacchetta nell’aria, «Questi non sono affari che lo riguardano! E poi non vorrai farmi credere che…»

«Invece è proprio questo il punto.»

«Tu sei pazza! Quella è solo una favola della buonanotte, nulla di ciò che accade è reale.»

«Sei tu ad essere un pazzo arrogante!»

L’acuta voce della donna si diffuse per tutta la stanza. Seguirono alcuni istanti, all’apparenza interminabili, di assoluto silenzio, scanditi dall’affannata e irregolare respirazione dell’intrusa. Questa, infatti, a causa del suo precario stato di salute, non aveva retto lo sforzo di quel grido e, conseguentemente, doveva cercare di compensare le energie perdute.

«Prima che tu, quell’incompetente di mio marito e tutti gli altri mi fermaste per poi imprigionarmi ad Azkaban, ero riuscita a risolvere il mistero che si nasconde dietro la “Storia dei Tre Fratelli”.»

«Non… non è possibile, non… non possono esistere realmente» balbettò, confuso, il Signor Agreste.

«Fidati Gabriel, i Doni esistono: ne ho la certezza. Tuttavia, sebbene avessi già localizzato la prima reliquia, a causa della vostra intromissione, non ho potuto recuperarla. È un vero peccato sai? Quell’oggetto oggi ti sarebbe tornato molto utile.»

Gabriel era combattuto, per la prima volta nella sua vita non sapeva cosa fare. Conosceva bene quella donna, sapeva di non potersi fidare di lei. Ma non poteva arrendersi proprio ora, aveva giurato di riportare indietro Emilie qualunque fosse stato il prezzo, qualunque fosse stato il sacrificio da compiere. «Dove… dove si trova la Pietra della Resurrezione?!»

«Non molto lontano da qui, ma non sarà facile recuperarla. Per questo hai bisogno del mio aiuto.»

L’uomo, ormai completamente assoggettato dall’idea di poter riavere sua moglie, abbassò la bacchetta. La donna ghignò, poi stese il suo esile braccio. «Facciamo un patto! Io ti aiuto a salvare Emilie e tu, una volta ricongiuntoti con la tua adorata dolce metà, non solo mi lascerai tenere la Pietra della Resurrezione, ma farai in modo di non intralciare mai più i miei piani. Qualunque essi siano.»

«Chi mi dice che rispetterai la promessa?» sibilò Gabriel scrutando da capo a piedi la sua interlocutrice, «Inoltre, se è davvero così difficile recuperare la reliquia, cosa ti fa credere che noi due possiamo farcela da soli?»

«Mi caro Gabriel, i Doni della Morte non sono gli unici oggetti magici esistenti al mondo. Bisogna scavare bene per trovarne di altri, scavare nelle piaghe del tempo. Più a fondo si va e più potenti sono le cose che si trovano.»

Il Signor Agreste non comprese appieno il significato di quelle parole, ma ormai era tardi per i ripensamenti: si era spinto fin troppo oltre. Non appena afferrò la mano della donna incappucciata, dei sottili fasci di luce dorata avvolsero gli avambracci dei due; mentre in lontananza una terza voce, fino a quel momento rimasta in silenzio, pronunciava un antico e potente incantesimo.


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Capitolo 2
*** Capitolo I – Il Binario 9¾ ***


Capitolo I – Il Binario 9¾

Un vecchio e malandato Volkswagen T1 del ’65, retaggio della mitica Summer of Love Californiana, entrò nel parcheggio sotterraneo della stazione londinese di King’s Cross. Dopo aver vagato per diversi minuti tra i vari livelli della struttura alla ricerca di un posto libero, si fermò nelle vicinanze di uno dei tanti ascensori che consentivano il ritorno in superficie. Una volta che i suoi rotondi fari furono spenti, gli occupanti scesero dal veicolo e si sgranchirono come poterono le gambe indolenzite.

«Ve l’avevo detto che l’aereo era la scelta migliore» esclamò leggermente irritata una giovane ragazzina dai capelli neri con i riflessi blu raccolti in due codini ai lati della testa.

«Marinette, sai bene che tuo padre ha paura di volare» replicò una donna dai tratti orientali con tono dolce, mentre si aggiustava i bordi stropicciati del suo bianco cheongsam arricchito da un variopinto design floreale.

Intanto un uomo baffuto e massiccio, la cui statura sfiorava quasi il metro e novanta, si stava affannando a scaricare dal retro del suo furgoncino un grosso baule. Quest’ultimo era completamente di legno, rivestito da una robusta pelle rossa e abbellito da cerniere in ottone. Infine, sulla sua superfice superiore campeggiava uno stilizzato stemma dorato dall’araldica alquanto bizzarra. «Ecco fatto!» ansimò il padre di Marinette poggiando il baule su un carrello di metallo adibito al trasporto dei bagagli.

«Ehi… Tikki, svegliati. Siamo arrivate» bisbigliò Marinette al suo piccolo esemplare di Scarlet Tanager, addormentato sul trespolo di una gabbietta dorata. «Mamma, papà… io avrei un treno da prendere.»

La famiglia raggiunse l’ascensore che li condusse finalmente all’interno della stazione. I tre si ritrovarono in un affollato e moderno atrio, al cui interno si raccoglieva la stragrande maggioranza dei viaggiatori prossimi alla partenza. File di negozi, bar, ristoranti e uffici si disponevano a semicerchio lungo il perimetro della struttura. La ragazza e i suoi genitori furono particolarmente affascinati da quell’ampio open space, la cui architettura richiamava quelle dei film di fantascienza.

«È… è bellissimo» sospirò Marinette fissando, quasi ne fosse rimasta ipnotizzata, la struttura portante dell’atrio.

«Mai visto niente di simile» aggiunse Tom con fare trasognante, affiancandosi alla figlia e poggiandole una mano sulla spalla.

Treni di ogni dimensione, forma e colore stazionavano sulle banchine in attesa dell’arrivo dei passeggeri; altri, ormai carichi di persone e bagagli, iniziavano la loro corsa lungo quelle strade di metallo che si perdevano all’orizzonte. Voci concitate di viaggiatori in ritardo, ripetuti avvisi emessi dai numerosi altoparlanti, acuti fischi e altri rumori meccanici si mischiavano in un’insopportabile e assordante cacofonia di sottofondo.

«Mon Dieu! Che confusione» esclamò Sabine portandosi una mano al petto.

«Mai vista tanta gente» aggiunse Tom con tono meravigliato, «Qual è il treno che devi prendere, bambina mia?»

In quello stesso istante il grande orologio rintoccò per otto volte di seguito indicando ai viaggiatori che un’altra ora era appena trascorsa. I coniugi Dupain-Cheng, consapevoli di non avere molto tempo a disposizione, si affiancarono alla figlia in cerca di risposte. Marinette aprì la borsetta rosa che portava a tracolla, dalla quale estrasse un sottile foglio di carta bianco con pregiati ghirigori dorati. «Stando a quanto è scritto qui sopra, dobbiamo cercare questa piattaforma.»

«Sei sicura tesoro, hai controllato sia il biglietto giusto?»

«Sì papà, non c’è alcun dubbio.»

Sul biglietto vi era indicato il binario dal quale sarebbe partito l’Espresso per Hogwarts. Tuttavia, poiché sia per la ragazza che per i suoi genitori quella era la prima volta, non avevano idea in quale banchina stazionasse il treno. Sul pezzo di carta era indicato un qualcosa che aveva suscitato fin da subito le perplessità di Tom e Sabine. Secondo il biglietto, il diretto per la scuola sarebbe partito da un binario alquanto strano e dal nome piuttosto bizzarro: il Binario 9 ¾.

Purtroppo, sebbene i tre lo avessero cercato in tutta la stazione, non erano riusciti ad individuarlo. Il chiedere indicazioni ai diversi capistazione sparsi per l’edificio non era servito a granché se non a farli sembrare dei pazzi squinternati. Amareggiata e delusa dall’eventualità di perdere la “chiamata” più importante della sua vita, Marinette si sedette sul grande baule in legno al fine di trovare una soluzione a quel problema.

La sua mente tornò indietro di circa tre mesi, a quell’assolata mattina di inizio giugno. Le fu detto di essere una strega, una strega nata da comuni esseri umani privi di poteri magici. Aveva ricevuto lettera d’iscrizione per la Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts. Caline Bustier, sua futura insegnante di Difesa contro le Arti Oscure, era stata così gentile da accompagnare lei e i suoi genitori a Diagon Alley per comprare tutto il materiale scolastico che le serviva. Le avevano spiegato ogni cosa, anche come raggiungere il suo treno. Lei, però, non riusciva proprio a ricordarlo.

Ad un tratto, mentre Tom e Sabine continuavano ad affannarsi nella ricerca del binario, l’improvviso fischio di un treno in partenza, la fece sobbalzare. Lo spavento di quel momento richiamò nella sua mente una serie di informazioni essenziali per raggiungere il treno. Senza perdersi d’animo, afferrò il manico del suo carrello e si mise in marcia. «Bene Tikki, ci siamo!» esclamò Marinette con una nota d’incertezza nella voce, «La Professoressa Bustier aveva detto che il Binario 9 ¾ è nascosto e che per accedervi devo attraversare senza aver paura la barriera tra i binari… i binari…»

La ragazza, nonostante fosse riuscita a ricordarsi la stragrande maggioranza delle cose, non era stata in grado di stabilire la più importante di tutte: tra quali banchine fosse nascosta quella del treno per Hogwarts. Il tempo a disposizione, però, scarseggiava e lei aveva dovuto compiere una scelta, la scelta che riteneva più logica. «Sono pronta! Chiamerò mamma e papà una volta che avrò oltrepassato la barriera.»

Si guardò un’ultima volta intorno, assicurandosi che nessun passeggero fosse ne paraggi. Serrò la presa sul manico del carrello e… e scattò in avanti. Veloce, sempre più veloce in modo tale da scacciare la paura che quel folle gesto implicava. La distanza tra lei e il muro diminuiva, sempre più, ormai era prossima ad attraversarlo. Chiuse gli occhi e trattenne il respiro fino a quando non impattò in pieno contro la solida barriera che divideva i binari 3 e 4.

Fu spinta in avanti con violenza, ma fortunatamente ricadde di lato e non urtò i mattoni. I bagagli, invece, rotolarono giù dal carrello e finirono per terra aprendosi. La gabbietta di Tikki fu sbalzata in aria, ma, grazie al provvidenziale intervento di un passante che l’aveva presa al volo, il piccolo esemplare di Scarlett Tanager rimase illeso.

«Ti sei fatta male?» le domandò una dolce voce maschile.

«Sì, cioè no… …cioè…  …non tanto» farfugliò la ragazza senza rendersi con chi o cosa stesse parlando, mentre si massaggiava la testa indolenzita.

«Prendi la mia mano, ti aiuto.»

Marinette fece come le era stato detto e fu allora che lo vide. Era un ragazzo, avrebbe potuto avere più o meno la sua età, ma era leggermente più alto di lei. I suoi capelli erano biondi ma non troppo chiari, mentre gli occhi erano di un bellissimo verde acceso. Indossava una camicia bianca sbottonata con le maniche avvolte sopra il gomito; al di sotto di essa si trovava una maglia nera arricchita da una serie di righe orizzontali colorate. Nella mano sinistra reggeva la lucente gabbia di Tikki, mentre ai suoi piedi era languidamente disteso uno svogliato gatto nero. «G-g-grazie» balbettò, timidamente, l’altra arrossendo sulle guance per l’imbarazzo «Io stavo… stavo…»

«Stavi cercando di arrivare al Binario 9 ¾, giusto?»

Sul viso paonazzo di Marinette si dipinse un’espressione di grande stupore, mentre le sue labbra boccheggiavano parole senza senso. Il ragazzo le sorrise e le indicò il grande stemma dorato presente sul baule. «Vedi? Quello è lo stemma di Hogwarts, soltanto i suoi studenti hanno dei bagagli del genere.»

«Quindi anche tu sei… sei un mago?»

«Una specie, ma è ancora presto per definirmi tale» sibilò, divertito, l’altro riconsegnando la gabbietta alla sua interlocutrice «Ecco tieni… credo non si sia fatta nulla.»

La afferrò e si assicurò che la sua amata Tikki non avesse riportato alcuna ferita. Rialzata la testa, però, si accorse che il ragazzo era scomparso nel nulla. Marinette si guardò intorno cercando almeno con lo sguardo di individuarlo, ma distinguere qualcuno tra la massa dei viaggiatori di King’s Cross era impossibile. «Bel tipo, sparire così all’improvviso. Avrebbe almeno potuto dirmi dove si trova il binario e…e questo cos’è?»

Al di sopra del baule in legno si trovava un block notes aperto, sulla cui prima pagina era stata scritta la seguente frase: “Barriera tra i binari 9 e 10, ha meno di dieci minuti Milady”. La ragazza prese il piccolo quaderno lasciato evidentemente da quel misterioso passante e lo ripose nella sua borsetta; accennando dopo un timido sorrisetto imbarazzato mentre le sue guance si coloravano di rosso. «Forse non è così male come credevo.»

Dopo aver risistemato i bagagli sul proprio carrello, sfrecciò tra viaggiatori spaventati e capostazione infuriati. Raggiunse in un batter d’occhio il secondo padiglione di King’s Cross, luogo dove era ubicato il passaggio per raggiungere l’espresso per Hogwarts. Superando le precedenti banchine, imboccò quella che si trovava tra i binari 9 e 10. Estrasse il cellulare dalla tasca della giacca: non poteva andare da sola, loro dovevano essere con lei, loro dovevano accompagnarla fino alla fine.

«Marinette, Marinette!»

La ragazza si girò di scatto trovando alle proprie spalle il Signor Dupain. «Papà, papà… sono qui! Dov’eravate finiti? Dov’è la mamma?»

«Ci… ci sta aspettando… ci sta aspettando dall’altra parte» ansimò Tom ormai rimasto senza fiato ed energie.

«Siete riusciti a trovare il passaggio? Come avete fatto?!»

«Un signore molto gentile ci ha aiutato. Sabine è con lui e la sua famiglia.»

«Bene… allora non ci resta che raggiungerli. Forza muoviti!» sentenziò Marinette con ritrovato vigore, afferrando il muscoloso braccio del Signor Dupain.

Quest’ultimo, sebbene avesse tanto voluto riposare su quella comoda panchina, si rimise in piedi e, lasciandosi trascinare dalla propria figlia, si mosse in direzione della barriera che separava i binari 9 e 10. Entrambi afferrarono il manico del carrello portabagagli e, dopo essersi scambiati un ultim’occhiata di complicità, iniziarono a correre il più veloce che poterono verso il muro di mattoni. Chiusero gli occhi e trattennero il respiro finché non si trovarono dall’altra parte.

Un denso e caldo vapore bianco li investì in pieno riempiendo le narici di un odore acre e pungente. Marinette tossì leggermente e, tappandosi il naso con entrambe le mani, trattene il fiato al fine di non inalare quell’aria pesante che tanto le dava fastidio. La sensazione di malessere, però, durò solo alcuni secondi; ben presto infatti la ragazza si abituò all’atmosfera del posto e riprese a respirare normalmente.

La banchina, posta alla destra del treno, un tardo locomotore dell’Ottocento, era gremita di persone di tutte le età, etnia e condizione: la maggior parte degli studenti, non ancora saliti sul treno, si affrettava a caricare i propri bagagli; gruppi di genitori si accalcavano ai finestrini delle carrozze per dare un ultimo saluto ai loro figli prima della partenza; alcuni professori erano infine intenti a riabbracciare i loro amati alunni che per ben tre mesi non avevano visto e con i quali avrebbero condiviso gioie e dolori di quell’anno scolastico che si apprestava a cominciare.

«Marinette, Tom! Siamo qui» urlò Sabine al fine di farsi sentire dal resto della sua famiglia, alzando il braccio destro e sventolando in aria.

I due, sebbene vi fosse molta confusione, riuscirono a percepire chiaramente la voce della donna e, individuatala tra la folla, corsero da lei. La Signora Dupain-Cheng era in compagnia di altre cinque persone che Marinette non aveva mai visto. Di conseguenza, una volta raggiunta la madre, si presentò loro cercando di nascondere la sua immancabile timidezza. «P-p-piacere di conoscervi, io sono Marinette.»

«Il piacere è tutto mio, Marinette» replicò un uomo barbuto e dalla pelle scura. «Mi chiamo Otis Césaire e questa è la mia famiglia: mia moglie Marlena e le mie tre figlie Alya, Ella ed Etta. La più grande, Nora, è già salita»

La Signora Césaire era una donna esile e slanciata. La sua pelle era scura quasi come quella del marito, mentre i capelli, raccolti in un grazioso chignon, erano castani. Indossava un pullover bianco e un paio di jeans abbastanza giovanili che ne accentuavano le forme. Allo stesso modo anche Alya e le sue sorelline presentavano una carnagione piuttosto scura e le iridi marroni; tuttavia la ragazza si distingueva dal resto della famiglia per il peculiare colore dei suoi capelli ondulati: castani ma ramati sulle punte.

Alya piacque immediatamente a Marinette. Nonostante l’avesse appena incontrata, le sembrò una persona simpatica e affidabile, una persona con la quale poter stringere un solido e duraturo rapporto di amicizia. Anche la figlia del Signor Césaire rimase positivamente colpita dalla ragazza dai capelli neri. In particolare, la divertivano enormemente la goffaggine e quel senso di perpetua insicurezza che tanto caratterizzavano il modo di fare di Marinette. «Anche tu sei al primo anno, giusto?»

«Si. Ho da poco compiuto quattordici anni» replicò la figlia del Signor Dupain con un sorriso.

«Perfetto! Sono sicura che ci divertiremo un casino insieme!»

«Lo… lo penso anch’io.»

La sirena dell’Espresso per Hogwarts emise un acuto fischio, segnale che il treno era ormai prossimo alla partenza. Il Signor Dupain e il Signor Césaire, una volta che ebbero finito di caricare con l’aiuto di alcuni addetti i bagagli delle figlie, le invitarono a salire in carrozza. Alya salutò sua madre e le gemelline assicurando loro che si sarebbero rivisti per Natale; poi, dopo aver salito la scaletta in ferro del vagone, scomparve tra la calca. Subito dopo anche Otis si arrampicò sull’alta carrozza del treno.
«Come mai sale anche lui?»

«Il Signor Césaire è un insegnante di Hogwarts. Per questo motivo prende il treno» le spiegò Tom, mentre sua figlia a saliere la scaletta.

Marinette si voltò verso i propri genitori. I due erano stretti in un dolce abbraccio: il Signor Dupain aveva le lacrime agli occhi. Sabine, invece, era serena, orgogliosa di ciò che sarebbe diventata la sua bambina. In cuor suo aveva sempre saputo che sua figlia avesse un qualcosa di speciale, un qualcosa che la rendeva diversa da tutti gli altri. Hogwarts le avrebbe permesso di esprimere il suo potenziale, le avrebbe permesso di sbocciare e di diventare quel magnifico fiore che era destinato ad essere.
 La Signora Dupain-Cheng allungò il braccio destro verso la ragazza e con le dita ne sfiorò la pallida guancia, sfiorò le lacrime che le rigavano il viso. «Marinette, non aver paura di essere te stessa. Io e papà saremo sempre orgogliosi di te. Tu, sei la nostra bambina, sei la persona più dolce, sensibile e impacciata del mondo, sei una strega, tu… tu sei semplicemente la nostra Marinette.»

«Vi… vi voglio bene, voi non sapete quanto» piagnucolò la ragazza, stringendo a sé la gabbia di Tikki.

Per una seconda volta l’acuto fischio dell’Espresso per Hogwarts riecheggiò nell’aria: il tempo dei saluti era purtroppo finito. Marinette entrò definitivamente nella carrozza, mentre il capostazione dava l’ordine di chiudere le porte. Tom e Sabine continuavano a fissarla muovendo tristemente le loro mani nell’aria. Il treno fischiò per una terza ed ultima volta, poi le ruote di metallo iniziarono a muoversi. Dapprima lentamente, poi con il passare dei secondi sempre più veloce finché il riflesso dei Signori Dupain-Cheng non lasciò il posto a quello della tranquilla campagna inglese.

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Capitolo 3
*** Capitolo II – Il ragazzo sul treno ***


Capitolo II – Il ragazzo sul treno
 
Marinette era rimasta imbambolata davanti la porta del vagone per alcuni minuti. A King’s Cross, su quel vecchio binario nascosto ai babbani aveva lasciato un pezzo di sé, una piccola parte della sua anima che non sarebbe mai più tornata. «Marinette, Marinette!!» esclamò euforica Alya andandole in contro.

«Cos’è successo?»

«Niente, sono riuscita a trovare uno scomparto libero, così non dovremo restare in piedi durante il viaggio.»

«Davvero?! Dove si trova?»

«In fondo al treno, purtroppo gli altri erano stati già occupati.»

«Non è un problema: fammi strada!»

Le amiche s’incamminarono alla volta dell’ultima carrozza dell’Espresso per Hogwarts. Dopo aver attraversato cinque vagoni carichi di studenti intenti a conversare tra di loro, giunsero finalmente nella parte terminale del treno. Superati un paio di scomparti, occupati da ragazzi appartenenti al quarto anno che si stavano esercitando con alcuni incantesimi, Alya spalancò la porta di legno dell’ultimo presente su quella carrozza.

Tuttavia, a differenza di quanto si aspettava la figlia del Signor Césaire, i posti non erano più liberi. Sul divanetto di destra infatti erano sedute due ragazze: la prima aveva lunghi capelli biondi raccolti in una coda di cavallo e occhi azzurri; la seconda portava i capelli a caschetto rossi e aveva degli occhi verde acqua incorniciati da spessi occhiali. Sul divanetto di sinistra, invece, era languidamente disteso un addormentato ragazzo dalla pelle scura come quella di Alya, il cui viso era coperto da uno stravagante berretto rosso.

«Ehi… scusa, dico a te» bisbigliò la figlia del Signor Césaire picchiettando sulla spalla della bionda «Avevo occupato questo scompartimento per me e la mia amica. Vedi là sopra c’è la mia sciarpa, l’avevo lasciata come ferma posto.»

«E allora... cosa dovrei farci?» replicò acidamente l’altra continuando a limarsi le unghie.

«Senti carina, o sloggi da qui oppure…»

«Oppure potremmo dividere il posto» s’intromise Marinette al fine di scongiurare una lite. «Se ci stringiamo un po’ e svegliamo quel ragazzo, sono sicura che c’è posto per tutte.»

«Io non credo proprio. Non ho alcuna intenzione di dividere questo scomparto con gentaglia» esclamò la ragazza con la coda di cavallo scattando in piedi.

«Adesso basta, io la meno di brutto!»

Alya si tolse gli occhiali e, dopo averli consegnati alla sua amica, si lanciò all’attacco dell’avversaria. Quest’ultima, però, per nulla preoccupata della cosa, si limitò a schioccare le dita. Fu scaraventata all’indietro ritrovandosi nel corridoio del vagone con le gambe all’aria. A causa del tonfo, il ragazzo con il berretto rosso si risvegliò di soprassalto. La bionda, allora, fece un rapido segno all’amica che le era seduta di fianco; questa estrasse la propria bacchetta e, senza distogliere lo sguardo dal libro che stava leggendo, l’agitò flemmaticamente.

Il giovane, ancora mezzo addormentato, non ebbe neanche il tempo di capire cosa stesse accadendo che si ritrovò scaraventato in aria dal divano sul quale era seduto. Marinette, spaventata da quella dimostrazione di forza, non ebbe il coraggio di affrontare le due. Preferì darsi alla fuga che rischiare il peggio. «Ti sei fatta male? Sei ferita?»

«Solo nell’orgoglio» replicò Alya massaggiandosi il fondoschiena dolorante, «Caspita sapevo fossero potenti, ma non mi aspettavo così tanto.»

«Un momento, tu… tu le conosci?»

«Certo! Dopotutto chi non conosce Chloé Bourgeois la viziata figlia del Primo Ministro della Magia francese e Sabrina Raincomprix la figlia del capo dell’Ufficio Applicazione della Legge Magica?»

«Forse una ragazza che ha scoperto di essere una strega appena tre mesi fa?!» scherzò l’altra aiutandola a rialzarsi.

Gli occhi di Marinette si posarono sul corpo privo di coscienza del ragazzo dalla pelle scura. Il poverino, infatti, aveva subito una botta ben peggiore di quella di Alya e aveva conseguentemente perso i sensi. «Di lui cosa ne facciamo? Sai chi è?»

«Mai visto prima. Lascialo pure per terra.»

In quello stesso instante, però, il giovane spalancò le palpebre e con un balzo si rimise in piedi. Temendo di essere ancora sotto attacco sfilò la sua bacchetta dalla tasca dei jeans grigi, ma, a causa della concitazione del momento, la impugnò al contrario. La figlia del Signor Césaire gli si avvicinò con cautela e, mollatogli un ceffone sulla guancia al fine di calmarlo, lo riproverò severamente. «Finiscila di muovere inutilmente la bacchetta per aria: rischi di cavare un occhio a qualcuno!»

«Scusa, mi sono fatto prendere la mano» mugugnò il giovane con il berretto, mentre riponeva la sua “arma”.

«Tranquillo… l’importante è che nessuno si sia fatto male» intervenne divertita Marinette. «Comunque piacere: io sono Marinette Dupain-Cheng, lei è Alya Césaire e questo grazioso uccellino è Tikki.»

«Io mi chiamo Nino Lahiffe e sono del primo anno.»

Entrambe strinsero la mano al loro nuovo amico; poi s’incamminarono per la carrozza. Consapevoli di non avere alcuna possibilità di sedersi in uno scompartimento libero, speravano di trovare un posticino dove poter trascorrere il viaggio. Tuttavia, quando erano ormai prossimi a lasciare il vagone di coda, una gentile voce maschile richiamò la loro attenzione. «Se volete, nel mio scompartimento c’è ancora posto.»

I tre si voltarono immediatamente verso un giovane dai capelli biondi che accarezzava la schiena di un gatto nero. Alya e Nino accettarono di buon grado quell’offerta. Al contrario Marinette non si mosse, rimase immobile con la bocca spalancata. Aveva riconosciuto quel ragazzo: era lo stesso che l’aveva aiutata a trovare il Binario 9 ¾. Non riusciva a capire il perché provasse tanto imbarazzo nel rivederlo, era una sensazione che in un certo senso la faceva stare bene.

«Marinette, sbrigati. Non fare la bella statuina» le intimò scherzosamente l’amica sedendosi sul comodo divanetto dello scomparto.

«C-c-certo, adesso arrivo.»

«Io sono Adrien e questa palla di pelo si chiama Plagg. Mi fa piacere che abbiate accettato il mio invito.»

«Ehi, amico! Sarebbe stato da sciocchi non farlo» replicò Nino con nonchalance spaparanzandosi su uno dei divanetti.

«Ciò che voleva dire questo rincitrullito e che siamo molto grati della tua ospitalità» mugugnò Alya prendendolo per un orecchio e costringendolo a mettersi seduto in maniera decente.

«Figuratevi c’è spazio e, soprattutto, tanto da mangiare. Prego non fate complimenti.»

Ai tre fu indicata una sproporzionata montagna di merendine presenti sul basso tavolino in legno. Nino si fiondò su un pacchetto di “Gelatine Tuttigusti+1”. La figlia del Signor Césaire sospirò con rassegnazione e, prendendo una “Bacchetta magica di liquirizia”, l’addentò con rabbia. Marinette, invece, non ebbe il coraggio di prendere nulla e, tenendo la gabbietta di Tikki sulle ginocchia, si limitò ad osservare la scena. Aveva la testa basta e percepiva una strana sensazione di disagio.

«Tieni… assaggia» le bisbigliò Adrien, consegnandole una piccola confezione di cartone a forma di pentagono.

«Cos’è? Non ho mai visto nulla del genere.»

«È una Cioccorana, una merendina molto popolare nel mondo magico.»

«Sono davvero buone, ma fa attenzione a non fartela scap…»

Alya non finì neanche la frase che Marinette, avendo aperto la confezione, si lasciò sfuggire la rana di cioccolata contenuta al suo interno. Questa, sotto lo sguardo incredulo della ragazza, compì un rapido balzo e saltò fuori dal finestrino del vagone. Alla vista dell’espressione scioccata dell’amica, gli altri tre scoppiarono a ridere. «Chi ti è uscito?»

«In che senso? Non capisco.»

«In ogni pacchetto, c'è una figurina d'un Mago o di una Strega famoso/a» intervenne, prontamente, Alya con un sorriso.

Marinette controllò la confezione trovandovi una figurina azzurra. Su quest’ultima vi erano la foto di un uomo e un nome in lettere dorate. «C’è scritto… Gabriel Agreste.»

Intanto, l’Espresso per Hogwarts sfrecciava rapido e silenzioso attraverso la desolata campagna inglese. Il viaggio verso Hogsmeade sarebbe durato ancora a lungo: avevano tutto il tempo per imparare a conoscersi meglio. La figlia del Signor Dupain apprezzava moltissimo la compagnia dei suoi nuovi amici, era piacevole stare insieme a loro. Senza rendersene conto, i quattro trascorsero tutto il tragitto a chiacchierare finché tre fischi del treno non annunciarono che erano quasi giunti a destinazione. Era arrivato il momento di prepararsi ed indossare le divise della scuola.

«Marinette, hai finito di vestirti?!» esclamò Alya bussando alla porta in legno del loro scompartimento.

«Quasi…» replicò l’altra, mentre armeggiava con il colletto della camicia bianca «Non riesco a fare il nodo alla cravatta.»

L’amica non riuscì a trattenere un sorriso; poi, aprendo leggermente la porta dello scomparto, scivolò al suo interno. Si avvicinò all’altra invitandola a non muoversi. Prese i lembi di una sgualcita cravatta nera e li incrociò tra di loro. I suoi movimenti erano così rapidi e precisi che in un batter d’occhio le sistemò la cravatta. Marinette le sorrise con gratitudine. Recuperati Tikki e gli zaini s’incamminarono lungo il vagone. «Sono stati gentili a farci cambiare nello scomparto, mentre loro cercavano un altro posto.»

«Era il minimo…» osservò Alya con acidità, «Soprattutto per Nino. Ancora non capisco perché tu glia abbia regalato quella figurina.»

«Ma… ma la desiderava così tanto, mi ha assillata per tutto il viaggio.»

«Una figurina di Gabriel Agreste non si scambia né si regala… mai!»

«Secondo me la stai facendo troppo tragica: chi diamine è questo Gabriel?!»

«Soltanto il mago che ha salvato l’intera Comunità Magica.»

«Di cosa stai parlando?» replicò Marinette, mentre sul proprio viso si dipingeva un’espressione di stupore.

Intanto in un bagno, situato nel secondo vagone del treno, un ragazzo dai capelli biondi era intento a fissare il proprio riflesso sulla liscia superficie di uno specchio. I suoi vispi occhi verdi si spostavano in continuazione da un punto all’altro della propria immagine, concentrandosi di volta in volta su un dettaglio diverso. L’uniforme della scuola, nonostante non fosse stata mai indossata prima di allora, gli calzava a pennello; sembrava quasi adattarsi alle forme del suo corpo.

Le mani di Adrien correvano lungo i bordi della cappa nera alla ricerca di un’imprecisione, di un qualche difetto che mettesse in discussione quell’aura di perfezione che tanto gravava sulle sue spalle. Non riuscì a trovare nulla: anche la più insignificante delle pieghe sembrava essere piazzata in determinato punto del vestito al fine di contribuire a quel senso di armonia che accompagnava la figura del ragazzo. Non vi era niente che fosse fuori posto, l’ordine regnava sovrano dalla punta delle scarpe fin su all’ultima ciocca di capelli.

 Fin da piccolo, però, gli erano stati imposti una serie di precetti volti ad enfatizzare l’importanza della cura personale e il rispetto di determinati canoni. Adrien sbuffò amareggiato; sperava che, con l’inizio della sua carriera scolastica ad Hogwarts, avrebbe potuto dare una significativa svolta alla sua vita. Tuttavia, si era ben presto reso conto di non avere abbastanza coraggio per poter spezzare il filo diretto che lo legava indissolubilmente a quell’immagine stereotipata di sé che altri avevano costruito al suo posto «Credo che non c’è ne libereremo mai, amico mio» sibilò il giovane con un filo di voce, rivolgendosi al gatto nero che si strofinava vicino la sua gamba.

Si affrettò ad uscire dal bagno e raggiunse Nino nel corridoio del vagone. Il ragazzo indossava la tipica divisa della scuola ma, a differenza dei suoi compagni, non aveva saputo resistere al desiderio di aggiungere il proprio tocco personale. Sebbene vietato dal regolamento, continuava a portare sulla testa uno sgargiante berretto rosso, mentre le sue amate cuffie blu e arancioni gli circondavano il collo.

«Ehi, Nino. Io sono pronto, possiamo andare» esclamò Adrien avvicinandosi al suo nuovo amico.

Questi, però, non gli rispose nulla rimanendo stranamente in silenzio e con la testa china. Nino, completamente rapito dal vorticoso turbinio dei suoi pensieri, fissava avidamente quella che ormai considerava una specie di reliquia. L’altro gli si affiancò in silenzio, per un attimo il suo sguardo incrociò quello severo dell’uomo rappresentato sulla figurina, lo sguardo di Gabriel Agreste. Un’improvvisa fitta allo stomaco, simile ad una rovente morsa che stringeva i visceri, gli mozzò il fiato. «Sono ore che fissi quella figurina. La cosa sta diventando inquietante.»

«Tu… tu non puoi capire» replicò Nino con il tono di voce di uno zombie «Erano sei anni, sei anni che la cercavo senza riuscirci. Adesso… ho finalmente coronato il mio sogno.»

«Lo sai che stiamo parlando di uno stupido pezzo di carta, vero?»

«Amico, come puoi dire una cosa del genere?! Questo è un oggetto da museo, il suo valore è incalcolabile.»

«Sarà, ma io non ci trovo nulla di speciale» mugugnò Adrien facendo spallucce.

«Dì un po’: per caso Gabriel ti ha rifiutato l’autografo?» ghignò il ragazzo con il cappello mettendo un braccio sulla spalla dell’amico.

Adrien provava un tremendo senso d’inadeguatezza. Aveva paura che, raccontata la verità, l’atteggiamento del suo amico cambiasse drasticamente. Ciononostante, Nino meritava una risposta, se lo ripeteva in continuazione e non riusciva a togliersi quella convinzione dalla testa. «Ascolta…» sibilò Adrien liberandosi dalla stretta dell’altro, «Voi… no, scusa… noi molto spesso ci fermiamo all’apparenza. Crediamo che una persona si comporti e agisca in un determinato modo, ma nella realtà le nostre aspettative sono illuse. Purtroppo, è una triste verità, una verità che vale per chiunque anche per Gabriel Agreste.»

«Aspetta! Stai forse dicendo che non credi che sia stato lui a fare quelle cose?! No, perché io…» esclamò l’altro, ma fu interrotto quasi subito.

«No, semplicemente non credo che il Signor Agreste sia così eccezionale come voi altri pensiate.»

«Beh… questo non puoi dirlo. Dopotutto nemmeno lo conosci, come fai ad esserne così sicuro?»

«Neanche tu puoi essere certo del contrario» sentenziò l’altro facendo l’occhiolino.

Nino tentò di replicare, ma l’ultima affermazione del suo interlocutore era inconfutabile. Nessuno conosceva realmente Gabriel, nessuno aveva avuto modo di osservare il suo comportamento in privato. Il Signor Agreste era oltremodo riservato e non lasciava trasparire alcuna informazione personale, le sue stesse apparizioni pubbliche erano alquanto sporadiche e soprattutto brevi. Le uniche informazioni certe erano quelle che riguardavano le sue eccezionali capacità magiche e l’azienda di cui era fondatore: la “Papillon Incorporated”. «Questa te la do vinta, ma sappi che prima o poi riuscirò a farti cambiare idea!»

«Buona fortuna, allora. Sappi, però, che sono un osso duro» concluse divertito Adrien dando una pacca sulla spalla all’amico, mentre il fischio del treno segnava l’arrivo in stazione.

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Capitolo 4
*** Capitolo III – Benvenuti ad Hogwarts ***


Capitolo III – Benvenuti ad Hogwarts
 
«Eccovi qui! Finalmente vi abbiamo trovate.»

«Era ora!» replicò Alya con tono acido, voltandosi verso i due ragazzi. «Sono dieci minuti che vi aspettiamo. Cosa diamine stavate facendo?!»

«Scusateci, non avevamo intenzione di…» sibilò imbarazzato Adrien ma Nino, frapponendosi tra lui e la ragazza, lo interruppe quasi subito. «Ehi sorella, placati! Dovevamo incontrarci a metà strada, siete voi ad essere in ritardo.»

«Sei il solito buzzurro! Una vera signora non è mai in ritardo, sono gli altri ad essere in anticipo.»

«Dì la verità: ti brucia il fatto che Marinette abbia dato la figurina di Gabriel a me e non a te.»

«Figurati… le hai fatto così tanta pena che non ha saputo resistere ai tuoi occhioni da cucciolo bastonato» starnazzò la figlia del Signor Césaire cercando di convincere più se stessa che il suo interlocutore.

Marinette e Adrien, senza riuscire a nascondere un sorriso o una risata di tanto in tanto, assistettero in disparte a quel bisticcio infantile che si protrasse fino a quando il treno non si fermò. Folle chiassose di studenti si riversarono nei corridoi dei vagoni. Il capostazione diede l’ordine di aprire le porte in modo tale da consentire agli occupanti di scendere. Nino e Alya, sballottati dall’improvvisa calca, furono separati dai loro amici.

Questi furono spinti all’indietro. La ragazza, in procinto di cadere rovinosamente sul tavolino di uno scompartimento, fu afferrata all’ultimo istante dal suo compagno. Le sorrise: non poteva permettere che si facesse del male. Tenendosi per mano al fine di non essere ulteriormente separati, si fecero largo tra la folla e con non poca fatica raggiusero la banchina del binario.

«Grazie. Questa è la seconda volta che mi salvi oggi» biascicò Marinette arrossendo vistosamente sulle guance. Abbozzò un timido sorriso, mentre il suo viso continuava a colorarsi di rosso. Non riusciva a capirne bene il perché, ma ogni volta che si trovava da sola con Adrien percepiva una piacevole sensazione di smarrimento.

«Adesso cerchiamo Alya e Nino» esclamò il ragazzo facendole l’occhiolino, «Non vorrei che quei due si maledissero a causa di una figurina.»

La stazione di Hogsmeade era gremita di persone: studenti, insegnanti e abitanti del villaggio affollavano la stretta banchina in muratura. A differenza di King’s Cross il binario si trovava all’aperto ed era privo di qualsiasi copertura. Gli edifici, al cui interno erano posti i diversi uffici e la biglietteria, erano fatti di pesanti e consumati mattoni grigi che tradivano l’età complessiva della struttura. Dai comignoli che si alzavano dallo spigoloso tetto della stazione fuoriuscivano dense e scure nuvole di fuliggine.

Una fitta nebbia rendeva alquanto difficile riconoscere cose e persone in lontananza. I due ragazzi, continuando a mantenersi inconsciamente per mano nonostante non ve ne fosse più il bisogno, impiegarono alcuni minuti prima di trovare i loro amici. Nino e Alya, ormai troppo stanchi e privi di voce per continuare a litigare, si erano riuniti al gruppo degli studenti del primo anno. Quest’ultimo si era isolato dalla restante parte dei ragazzi radunandosi intorno ad una longilinea figura maschile.

L’uomo, alto quasi un metro e novanta e vestito con un pesante pastrano marrone, stava radunando tutte le matricole al fine di accompagnarle all’interno del castello. Adrien e Marinette, dopo aver lasciato Plagg e Tikki alle cure degli addetti della stazione che avrebbero provveduto a trasferirli all’interno della scuola come da regolamento, si ricongiunsero con i loro compagni. Una volta che tutti gli studenti interessati si furono concentrati in quella piccola parte della banchina, il responsabile di quell’assembramento improvvisato si rivolse loro. «Primo anno! Il primo anno mi segua, forza.»

I ragazzi, guidati dall’uomo, s’incamminarono per uno stretto sentiero in pietra che s’inoltrava in un boschetto a ridosso della stazione. Giunsero sulle rocciose sponde di un vasto lago. La liscia e scura superficie dell’acqua era di tanto in tanto increspata da piccole onde che terminavano la loro “corsa” infrangendosi sulla riva. Tra gli antichi alberi posti a ridosso dello specchio d’acqua spirava un freddo vento d’autunno che costringeva i ragazzi ad avvolgersi il più possibile nelle loro lunghe cappe al fine di riscaldarsi.

Un lungo pontile si prolungava nel lago per una decina di metri. Ai massicci tralicci della struttura in legno erano ormeggiate una cinquantina di barche nere da cinque posti ciascuna, sulla cui prua era posta una luminosa lanterna di vetro. «Dividetevi in gruppi di cinque e sedetevi all’interno delle barche. Raggiungeremo Hogwarts in men che non si dica!»

Sui volti dei ragazzi si dipinse un’espressione di stupore mista ad eccitazione ed impazienza. Senza farselo ripetere due volte, si precipitarono alle imbarcazioni e presero posto all’interno di esse. Queste, contrariamente a quanto ognuno degli studenti credesse, iniziarono a muoversi da sole. Lasciarono lentamente il pontile e, facendosi cullare dal placido movimento dell’acqua, navigarono verso Hogwarts.

Le luci del castello, così come i suoi possenti torrioni e le ampie vetrate erano ormai ben visibili. La struttura era arroccata su un massiccio basamento di roccia irregolare che dalla terra ferma si allungava sulla superficie del lago. Gli studenti, raggiunta la rimessa per le barche, si arrampicarono per l’infinita scalinata in marmo che li avrebbe condotti al cortile principale del castello. Il maestoso orologio aveva appena rintoccato le otto di sera quando i ragazzi giunsero al portone principale.
«Siamo arrivati! A breve un insegnante vi accompagnerà all’interno della Sala Grande, dove avverrà la Cerimonia dello Smistamento. Una volta completata, sarete considerati a tutti gli effetti studenti d Hogwarts.»

Improvvisamente, alle spalle dell’uomo apparve dal nulla un’esile e slanciata figura femminile dai capelli rossi, raccolti in un ordinato chignon posto dietro la nuca. Avanzò lentamente verso l’accompagnatore degli studenti, lasciando svolazzare per l’aria i lembi della sua lunga veste bianca. La figlia del Signor Dupain e quella del Signor Césaire, a differenza dei presenti, la riconobbero subito e si sentirono sollevate nel sapere che fosse proprio lei ad accompagnarli.

«Mille grazie per averli condotti fin qui, Signor Haprèle» sibilò, dolcemente, la donna, mentre con i suoi vivaci occhi verde acqua scrutava la folla di ragazzi che si trovava a poca distanza da lei.

«Dovere, professoressa Bustier» replicò l’altro con forse un po’ troppa dolcezza.

Il Signor Haprèle, prima di congedarsi e raggiungere l’interno della scuola, rivolse un’ultima occhiata agli studenti del primo anno. In particolare, concentrò tutta la propria attenzione su una bassa e paffuta ragazzina. Indugiò per alcuni secondi sul suo profilo, finché quest’ultima, resasi conto di essere osservata, gli fece un rapido e impercettibile occhiolino. Solo allora l’uomo, le cui labbra si erano increspate in un sorriso compiaciuto, eseguì una specie di inchino per poi sparire tra i colonnati del cortile.

La professoressa Bustier, schioccando semplicemente le dita della propria mano destra, fece spalancare il portone in bronzo. I ragazzi, seguendola silenziosamente e ordinatamente, entrarono nel castello ritrovandosi in una spaziosa e luminosa sala. «Al dì là di queste porte avverrà la Cerimonia dello Smistamento. Tuttavia, prima di farvi entrare, devo essere sicura che gli altri siano pronti a ricevervi. Per questo motivo vi chiedo ancora alcuni minuti di pazienza.»

Nello stesso istante in cui la donna terminò la frase, una nuvola di fumo l’avvolse da capo a piedi facendola sparire. Gli studenti, rimasti da soli, ruppero quel surreale silenzio che aleggiava sulle loro teste iniziando a parlottare tra di loro. Anche Adrien era in procinto di discutere tranquillamente con i suoi nuovi amici quando una voce a lui familiare richiamò la sua attenzione.

«Adrienuccio caro, come mai prima non mi hai salutato?»

Non ebbe neanche il tempo di girarsi che le braccia di Chloé Bourgeois gli si erano già avvinghiate al busto. Marinette, Alya e Nino rimasero alquanto sconcertati nel vedere tutta quella confidenza tra i due. La figlia del Signor Dupain, nonostante non le fosse ancora ben chiaro il motivo, fu molto infastidita da quelle attenzioni e soprattutto da quell’atteggiamento d’intimità. «C-c-ciao Chloé» balbettò, imbarazzato, il giovane, mentre cercava invano di staccarsela di dosso. «Perdonami, è che non ti avevo vista. Sai… ultimamente sono un po’ distratto.»

«Beh… poco importa adesso. Su, vieni con me: allontaniamoci da questa plebaglia.»

La figlia del Primo Ministro prese il biondo sottobraccio, ma prima che potesse allontanarsi Alya le sbarrò la strada. Le due si scambiarono rapide occhiate minacciose, mentre Marinette, Nino e tutti gli altri studenti le osservavano con il fiato sospeso. Soltanto Adrien sembrava non essere molto interessato alla cosa. Il suo unico desiderio era quello di non esporsi troppo, ma sapeva bene che con Chloé nei paraggi ogni suo tentativo di non dare nell’occhio sarebbe stato vano.

«Spostati!» esclamò la ragazza assottigliando lo sguardo «Mi sei d’intralcio. Non vedi che io e il mio amico dobbiamo passare?»

«Tu puoi anche andartene, ma lui resta qui!»

«Dì un po’: non ti è bastata la lezione di prima? Vuoi che ti schianti oltre la vetrata questa volta?!»

«Quando vuoi vecchia ciabatta antipatica, sono pronta! Sono sicura che adesso finirà diversamente!»

Entrambe erano sul procinto di estrarre le bacchette, in modo tale da darsi battaglia fino all’ultimo incantesimo. I presenti erano stati totalmente rapiti dalle figure delle due contendenti. Le loro bocche erano spalancate e gli occhi si muovevano in continuazione da una parte all’altra. La piccola Bourgeois fu la prima a tirare fuori la bacchetta, ma Alya recuperò immediatamente puntandole la propria al viso. Erano pronte a combattere, ma il provvidenziale ritorno della professoressa Bustier le fece desistere. «Bene, siamo pronti ad accogliervi. Seguitemi!»

Adrien, invece, approfittando del momento di panico che l’arrivo dell’insegnante aveva scatenato, si divincolò dalla presa di Chloé e, al fine di sfuggirle una volta per tutte, si nascose dietro Marinette. Quest’ultima, facendosi coraggio e superando la propria timidezza, gli strattonò delicatamente la manica della giacca per richiamare la sua attenzione. «Cosa c’è, Marinette?»

«E-e-ecco… vorrei sapere per quale motivo conosci quell’antipatica.»

«Siamo vecchi amici d’infanzia, tutto qui» fu la secca e sbrigativa risposta dell’altro.

La figlia del Signor Dupain, benché avesse preferito insistere, mimò un poco convinto “sì” con la testa; poi, affiancandosi ad un confuso Nino, si aggregò alla massa di studenti. La Sala Grande di Hogwarts era stata addobbata a festa per l’inizio del nuovo anno scolastico. All’interno dei massicci camini, posti su entrambi i lati dell’enorme stanza, vivaci fiamme rosse dalle sfumature dorate crepitavano vivaci.

La professoressa Bustier si fermò ai piedi di una scala in pietra che consentiva l’accesso al tavolo degli insegnanti. Alla destra della donna, più o meno in direzione della grande sedia occupata dal Preside, era stato appena posizionato dal Signor Haprèle uno sgabello in legno, sul quale troneggiava un vecchio e logoro cappello a punta beige.  «A turno chiamerò il nome di ciascuno di voi; verrete avanti e vi siederete sullo sgabello. A quel punto vi posizionerò il Cappello Parlante sulla testa e scopriremo finalmente a quale casa apparterrete.»

Un “ohhh” di stupore misto ad eccitazione si levò dal gruppo delle matricole. Anche i ragazzi degli altri anni di corso e i loro insegnanti erano ansiosi di assistere alla cerimonia. In particolare, il nervosismo del Signor Césaire e del Signor Haprèle era evidente. Soltanto il Preside, un anziano omino dai tratti del volto orientaleggianti, sembrava mantenere il controllo di sé e di ciò che stava accadendo: avvolto nella sua confortevole veste porpora, scrutava attentamente la fisionomia dei nuovi studenti sorridendo e massaggiandosi di tanto in tanto la barba.

«Qualsiasi cosa accada, in qualsiasi casa finiremo… noi quattro saremo sempre amici, intesi?» bisbigliò improvvisamente Alya agli altri tre, mentre Chloé e Sabrina la osservavano con indifferenza. Marinette e Nino annuirono immediatamente, al contrario Adrien, che sembrava essersi completamente alienato da quella situazione, si limitò ad un’involontaria scrollata di spalle, che non lasciò indifferente la figlia del Signor Dupain. Fu così che ebbe finalmente inizio la Cerimonia dello Smistamento: i ragazzi del primo anno erano chiamati uno ad uno e, una volta sedutisi sullo sgabello, veniva posto sul loro capo il Cappello Parlante.

Quest’ultimo, allora, iniziava a parlottare in maniera impercettibile per chiunque fuorché lo studente che doveva smistare. In alcuni casi tra i due si stabiliva una sorta di fitto dialogo che, dopo una manciata di secondi, terminava sempre allo stesso modo, ovvero con l’assegnazione dello studente alla sua casata. Solo in quel preciso momento la voce del cappello risultava udibile agli occupanti della Sala Grande che, a prescindere dal risultato, applaudivano con gioia ed entusiasmo i nuovi arrivati.

Nino fu il primo dei quattro ad essere invitato ad accomodarsi, nonostante si sforzasse di mantenere i nervi saldi, risultò a tutti evidente che era letteralmente divorato dall’ansia. Il Cappello Parlante non impiegò molto tempo ad assegnarlo alla Casa di Tassorosso, assegnazione della quale il ragazzo sembrò essere contento. Seguirono Sabrina e Chloé, le quali furo entrambe smistate nella Casa di Serpeverde.

Poi fu la volta di Alya, assegnata alla casa di Grifondoro; dei due ragazzi incrociati dalla figlia del Signor Césaire e dall’amica nel treno, smistati rispettivamente nella Casa di Corvonero e Grifondoro; della studentessa bassina che aveva sorriso al Signor Haprèle, assegnata a Tassorosso. A quel punto fu il turno di Marinette, la quale, in seguito ad un lungo ed insolito dibattito con il Cappello Parlante, fu smistata in Corvonero.

Ormai erano rimasti poco più che una decina di studenti da collocare e la tensione di Adrien cresceva secondo dopo secondo. Non mancava molto prima che i presenti scoprissero il suo segreto; prima che i suoi amici cambiassero radicalmente opinione su di lui. La professoressa Bustier controllò il rotolo di pergamena sul quale erano segnate le generalità delle matricole, poi esclamò il seguente nome dell’elenco… un nome che nessuno si sarebbe mai aspettato. «Adrien Agreste!»

La Sala Grande piombò in un silenzio surreale, gli occhi di tutti si concentrarono sul gruppo del primo anno al fine di capire a chi appartenesse quell’identità; al fine di capire chi fosse il figlio del famoso Gabriel Agreste. Marinette, Alya e Nino si scambiarono fugaci occhiate confuse e, soprattutto, amareggiate. Le uniche a non essere sorprese della cosa erano Chloé e Sabrina che, quasi avessero già previsto l’esito dello smistamento, avevano riservato al giovane un posto sulla loro panca. Adrien, incalzato da una seconda chiamata, si fece avanti e, tenendo la testa bassa per evitare lo sguardo incuriosito dei presenti, si accomodò sullo sgabello.

Non appena la professoressa Bustier gli appoggiò il Cappello Parlante sul capo, una voce roca, a tratti irritante iniziò a ronzargli nelle orecchie. «Ahhh… cosa abbiamo qui? Sei forse il figlio del grande Gabriel, non è così?» Il ragazzo, non sapendo cosa rispondere, biascicò un timido “sì”. Il cappello, allora, riprese a parlargli con un tono quasi canzonatorio. «Sai? Mi risulta abbastanza difficile trovare una giusta collocazione per te. Sono alquanto indeciso.»

«Ti prego…» sibilò, inconsciamente, il giovane all’oggetto che portava sulla testa «Ti prego, mettimi in Serpeverde. Per favore, anzi no ti scongiuro: non farmi deludere papà.»

«Serpeverde dici? Certo, sarebbe la scelta più logica: la tua famiglia appartiene da secoli a questa casata. D’altronde in te ci sono molte doti che Salazar avrebbe apprezzato… molte caratteristiche che ti accomunano a tuo padre.»

«Quindi mi accontenterai? Sono davvero…» esclamò il giovane pieno di gioia, ma il Cappello Parlante lo interruppe.

«Sei curioso, ragazzo mio. Faresti di tutto pur di uscire dall’ombra di tuo padre e spezzare quel filo indissolubile che lega voi tre; ma allo stesso tempo sei disposto a rinunciare al tuo stesso “io” pur di soddisfare le sue aspettative. Vedi in te c’è molto di un Serpeverde, ma c’è anche dell’altro… un qualche cosa che devi ancora imparare a conoscere. Un giorno mi ringrazierai per aver preso questa decisione, quindi per il momento dico… Grifondoro!!!»

Un boato, proveniente dalla destra della Sala, si levò verso l’alto, mentre gli occhi di Adrien si riempivano di lacrime.

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Capitolo 5
*** Capitolo IV – Incantesimi e altri disastri ***


Capitolo IV – Incantesimi e altri disastri

 
Dalla Cerimonia dello Smistamento erano trascorse tre settimane. Il legame tra Marinette e i suoi due amici si era ulteriormente rafforzato. Proprio come avevano ipotizzato, l’essere stati smistati in Case diverse non gli aveva infatti impedito di mantenere la promessa che si erano fatti. Dopotutto le lezioni del primo anno erano sempre svolte da tutti gli studenti interessati. Inoltre, non vi era alcuna regola che vietasse ai ragazzi appartenenti a casate diverse di poter collaborare nelle esercitazioni, nei progetti e nelle attività pomeridiane.

Anche Adrien, sebbene un’iniziale paura di affrontare a viso aperto i suoi compagni lo avesse portato ad isolarsi per un paio di giorni, era poi riuscito a fare pace con se stesso e a trovare il coraggio necessario per ritornare dagli altri. Fondamentali si erano dimostrate la vicinanza di Alya e l’insistenza quasi maniacale di Nino: la prima, approfittando dell’appartenenza alla stessa casata, non perdeva occasione per parlargli e stargli vicino; il secondo, invece, si era trasformato in una specie di stalker, un’oscura e silenziosa presenza che seguiva il ragazzo ovunque andasse.

Alla fine Adrien, ormai diventato amico stretto della figlia del Signor Césaire senza rendersene conto e stancatosi di avere un qualcuno, oltre il suo amato Plagg, che lo pedinasse dappertutto, aveva deciso d’interrompere quel suo esilio volontario. Così, nonostante la maggior parte degli studenti continuasse a venerarlo quasi quanto suo padre, il ragazzo aveva deciso di vivere serenamente la propria carriera scolastica senza precludersi nulla. Grazie a ciò aveva anche avuto l’opportunità di conoscere nuove persone che gli volevano bene e lo apprezzavano per ciò che era e non per quello che avrebbe dovuto rappresentare.

Soltanto Marinette, sebbene ne soffrisse inconsciamente e terribilmente, aveva infatti preferito mantenere le distanze dal ragazzo. Era erroneamente convinta che Adrien avesse ancora bisogno di trovare i suoi spazi. Temeva che la troppa insistenza e una sua costante presenza lo avrebbero messo a disagio fino al punto da perdere per sempre la sua amicizia. Allo stesso tempo, però, sperava in cuor suo che l’altro notasse quel suo atteggiamento d’indifferenza e che si sforzasse di capirne le cause.

Dal canto suo Adrien, colpito dalla freddezza di quella ragazza così dolce e gentile, aveva ben presto iniziato ad indagare, arrivando perfino a chiedere l’aiuto di Nino e Alya. Entrambi, però, non furono capaci di dargli una risposta soddisfacente: in particolare la figlia del Signor Césaire, nonostante trascorresse con Marinette buona parte delle sue giornate, ogni qual volta affrontava il discorso con l’amica si trovava dinanzi un muro fatto di frasi mozzate e sguardi ambigui.

Il silenzio dell’amica da un lato e il senso d’inquietudine di Adrien dall’altro, non facevano che aumentare un senso generalizzato di preoccupazione a al quale si aggiungevano i classici problemi che tutti gli studenti sono costretti a fronteggiare nel corso della loro carriera. Le lezioni, cominciate il giorno dopo la Cerimonia dello Smistamento, erano fin da subito risultate impegnative e, soprattutto, stressanti. Districarsi tra infiniti incantesimi, pozioni dagli ingredienti complicati e noiosissimi seminari di storia della magia non era affatto semplice. Come se non bastasse, la mole di esercitazioni e studio autonomo complicava ulteriormente la vita degli studenti di Hogwarts e scandiva il ritmo delle loro giornate.

In generale tutti gli studenti del primo anno, anche quelli più studiosi e avvezzi alla pratica magica, avevano riscontrato non poche lacune nella loro preparazione di base e numerose difficoltà in alcune materie. Ad esempio, Nino, ogni qual volta pronunciava un incantesimo o preparava una pozione, generava una piccola esplosione che lo investiva in pieno. Alya, sebbene eccellesse in materie come Incantesimi e Difesa contro le Arti Oscure, detestava Erbologia ed era un vero e proprio disastro in Pozioni. Più di una volta Marinette e gli altri erano stati costretti ad intervenire prima che il laboratorio della Professoressa Mendeleiev saltasse in aria o fosse invaso da pericoloso viscidume.

Gli unici che sembravano non avere alcun problema o debolezza nei diversi campi della magia erano Chloé, Sabrina, Adrien e, inaspettatamente, Marinette. Tuttavia, se per i primi tre una tale bravura era abbastanza normale e naturale, la figlia del Signor Dupain si era dimostrata una rivelazione che aveva impressionato gli stessi insegnanti. Sebbene non avesse mai avuto alcuna infarinatura sulle arti magiche, aveva rapidamente colmato il divario tra lei e i suoi compagni, riuscendo addirittura a superare la maggior parte di loro. Marinette adorava districarsi tra antichi tomi, pergamene stropicciate e scintillanti alambicchi contenenti gli ingredienti per le pozioni.

«Sbrigati, siamo in ritardo! Dobbiamo fare in fretta.»

«Marinette, ti prego… anche oggi no. Per favore…» piagnucolò la figlia del Signor Césaire, cercando di liberarsi dalla stretta dell’amica.

«Non fare la bambina. Se arriviamo tardi, rischiamo di non trovare posto.»

«Ma se ci andiamo solo noi in biblioteca.»

«Muoviti!»

Quest’ultima, ormai arresasi all’eventualità di trascorrere l’ennesima mattinata tra scaffalature impolverate e libri ammuffiti, sospirò con rassegnazione e si lasciò condurre alla Biblioteca di Hogwarts dalla compagna. Come aveva profetizzato la figlia del Signor Césaire, il luogo era completamente deserto: infatti, ad eccezione delle due amiche, vi erano solo la responsabile, la Signora Schmidt, e due studenti del primo anno, intenti a leggere dei libri sulla trasfigurazione degli animali. «Che ti avevo detto? Non ci sta nessuno, mi hai fatto fare una corsa inutile.»

«Non è vero!» puntualizzò Marinette con cipiglio, indicando uno dei tavoli posti sulla sinistra «Ci sono anche Max e Kim: forza, raggiungiamoli.»

«Si, signora…»

Entrambe, allora, dopo aver firmato il foglio delle presenze posto sulla scrivania della Signora Schmidt, si diressero verso i loro amici. Questi, non appena le videro da lontano, le salutarono allegramente. «Salve ragazze. Tutto bene?» cinguettò un ragazzo non molto alto dalla pelle scura, appartenente alla Casa di Corvonero.
«Cosa vi porta in questo “luogo di disperazione”?» aggiunse sarcasticamente l’altro, mentre si dondolava sulla sedia e si massaggiava il biondo ciuffo dei suoi capelli.

«Ah… chiedilo alla Signoria “studio solo in biblioteca perché altrove non mi trovo”» scherzò Alya con una punta di acidità, rimediandosi un’occhiataccia da parte dell’altra.

«Dobbiamo ripassare la ricetta della Pozione Scacciabrufoli. Voi?»

«Kim deve imparare a trasfigurare un uccello in un calice d’argento. Gli sto dando una mano nelle ricerche.»

«Purtroppo, sono una frana in questa materia. Senza il suo aiuto non saprei proprio come fare.»

«Lo sappiamo Kim…» sibilò Alya con fare fintamente gentile, dandogli delle pacche sulle spalle. «Tu sei più un uomo d’azione che di cervello.»

Max e Marinette non riuscirono a trattenere una risata, subito smorzata per non richiamare l’attenzione della responsabile della biblioteca; Kim, invece, rispose con un’offesa smorfia di disappunto, poi, allargandosi il nodo della sua cravatta gialla e rossa, riprese a dondolarsi. La figlia del Signor Césaire aprì la sua cartella a tracolla azzurra ed estrasse dal suo interno una serie di alambicchi, provette e un piccolo cestello di bronzo, che posizionò con cura sul tavolo. L’amica, invece, dopo aver posato la sua borsetta rosa ed essersi liberata della pesante cappa nera, scomparve tra le alte librerie in legno.

Marinette, diventata ormai pratica del luogo, saltellava freneticamente da una scaffalatura all’altra, curiosando tra antichi tomi e preziosi manoscritti, era alla ricerca di quelli che avrebbero potuto esserle utili e di quelli che avrebbero potuto aiutare un caso disperato come Alya. Impiegò circa dieci minuti per raccattare tutto il necessario, poi, portandosi dietro una decina di libri dalle svariate dimensioni, raggiunse la sua compagna. «Ecco! Questi sono per iniziare, poi prendiamo il resto.»

«Ma… ma io dovrei leggere tutti questi cosi?!» balbettò, incredula, l’altra, sgranando gli occhi ed iniziando a sudare freddo.

«Non leggere… studiare. Dovrai studiare ogni singola pagina, se vorrai migliorare in Pozioni.»

«Ci metterò una vita: diventerò più vecchia del Preside Fu.»

«Vecchiaia è sinonimo di saggezza» puntualizzò Marinette, mentre frugava nella propria borsa alla ricerca di un qualcosa «Su, su… datti da fare adesso.»

Avendo capito che nulla avrebbe potuto salvarla da quel tragico destino, Alya si lasciò sprofondare nella sedia e, chinando la testa sul primo tomo, cominciò a studiare controvoglia. Tuttavia, non passarono neanche cinque minuti che l’attenzione della ragazza fu catturata da ciò che stava facendo la sua amica. Allo stesso modo anche Max e Kim, sconcertati più che mai, interruppero la loro sessione di ripasso ed iniziarono a fissare intensamente la persona che avevano di fronte: Marinette, assorta totalmente nella lettura di un libro dalla copertina di pelle nera decorata con ghirigori argentati, non si accorse di essere osservata, finché non fu debolmente strattonata per la gonna dalla compagna. «Che c’è, adesso?!»

«Marinette, sei per caso impazzita?» biascicò l’altra con voce tremula, quasi spaventata «Metti immediatamente via quel coso!»

La giovane Corvonero, convinta che Alya stesse solo cercando un pretesto per evitare di ripassare Pozioni, le rivolse un’occhiataccia di disappunto. Tuttavia, non appena incrociò anche lo sguardo sbigottito dei due ragazzi, si ricredette. Senza farselo ripetere una seconda volta, ripose controvoglia il libro nella cartella. «Cosa vi prende a tutti quanti? Sembra che abbiate appena visto un fantasma.»

«Ascoltami…» intervenne, prontamente, Alya cercando di tenere un tono di voce più basso possibile, «Sebbene non vi sia alcuna legge scritta che lo vieti, consultare questo genere di libri, libri dedicati a “La Dame de la Mort” è sempre visto con sospetto. Per questo motivo, in seguito alla sua sconfitta e scomparsa, furono messi al bando tali scritti. I pochi superstiti furono confinati negli archivi dei diversi Misteri della Magia e nelle biblioteche delle scuole. Il tutto, però, fu permesso a patto che queste opere fossero consultate al solo scopo didattico e, soprattutto, da persone il cui livello di abilità magiche fosse oltremodo avanzato.»

«N-n-non ne sapevo nulla. Non pensavo fosse una cosa sbagliata da fare, mi dispiace. Volevo solo approfondire la storia che mi raccontasti sul treno.»

«Marinette, come hai fatto ad avere questo libro? Di norma dovrebbe trovarsi nella Sezione Proibita, quindi non accessibile agli studenti del primo anno.»

Il quesito di Max la fece arrossire. Cercando di evitare lo sguardo indagatorio dei suoi amici, chinò la testa. Gli altri, però, ansiosi di conoscere una risposta, insistettero finché la ragazza, ormai messa alle strette da quelle ripetute domande, non cedette. «Ho… ho chiesto aiuto ad un ragazzo del settimo anno, un Serpeverde amico del fratello di Alix: Théo Barbot. Da quando l’ho conosciuto, si è sempre dimostrato gentile e disponibile nei miei confronti. Così gli ho chiesto di prendere il libro al posto mio.»

«Non si è fatto alcun problema quando ha saputo quale testo dovesse recuperare?»

«No, Kim… cioè più che altro sembrava sorpreso ma solo all’inizio, poi mi ha accontentato. Se mi avesse spiegato anche lui queste cose, avrei immediatamente rinunciato a leggerlo. Davvero… non capisco il perché non si sia rifiutato.»

Max e il suo compagno di studi, non riuscendo a comprendere il motivo che avesse spinto Théo a comportarsi a quel modo, fecero spallucce. Alya, invece, avendo ben chiaro l’idea di base che spingesse il giovane Serpeverde, scosse il capo con rassegnazione. «Certe volte mi lasciate davvero senza parole. Capisco la difficoltà di Kim, ma tu e Marinette non dovreste avere tutti questi problemi.»

Intanto all’interno della Sala Grande un gruppetto di studenti del primo anno, seduto al tavolo dei Tassorosso e intento a consumare la colazione, stava discutendo animatamente. «Rose, ti sbagli! La Costellazione della Fenice non è visibile al di sopra del 50º parallelo.»

«Ne sei sicura, Mylène? Io ricordavo fosse il Tropico del Cancro, vero Juleka?»

La Corvonero, seduta accanto alla ragazza che aveva appena finito di parlare, non rispose nulla. Tenendo la testa bassa e facendo molta attenzione a non incrociare lo sguardo dei presenti, si limitò ad un timido e incomprensibile mugugno che lasciò leggermente spiazzate le altre.

«No, Rose… non è così» intervenne, con aria scocciata una giovane Grifondoro dai capelli rosa, «La Fenice rimane bassa nel cielo dell'autunno per chi vive a nord dei tropici. È invece facilmente visibile da luoghi come l'Australia e il Sudafrica, in cui è una figura caratteristica dei cieli primaverili e dell'inizio dell'estate australe.»

«D’accordo, d’accordo... mi sa che devo ripassare gli ultimi argomenti di Astronomia» concluse, amaramente, l’altra abbandonandosi languidamente sul tavolo in legno.

«Non temere io e le altre ti aiuteremo» le promise Mylène accarezzandole dolcemente i corti capelli biondi. «Forza, muoviamoci. Se andiamo adesso in biblioteca, per ora di pranzo avremo finito. Vi piace l’idea?»

Juleka mugugnò nuovamente parole incomprensibili che la sua amica interpretò come una risposta affermativa. Alix, invece, si limitò a caricarsi in spalla un pesante borsone da ginnastica alzandosi di scatto dalla panca. «Mi dispiace. Tra una settimana iniziano le lezioni di volo con il Professor D’Argencourt, quindi devo assolutamente allenarmi per poter dare il meglio di me.»

«Ma non ci è ancora concesso l’uso di una scopa. Come pensi di esercitarti?»

«Non ho bisogno di un ammuffito manico di legno per poter migliorare» tagliò corto la ragazza facendo l’occhiolino e alzando il pollice verso l’alto.

Mylène non insistette oltre e, rivolgendo un sorriso sincero all’amica, la lasciò andare. Alix si avviò verso l’imponente porta in bronzo della sala al fine di raggiungere il cortile del Campo da Quidditch. Tuttavia, raggiunta l’uscita, si fermò di colpo e, stringendo nervosamente la tracolla della borsa, rimuginò su ciò che stava per fare. Non avrebbe mai rinunciato ai suoi allenamenti, ma l’abbandonare a quel modo le sue amiche la faceva soffrire.

Trascorse alcuni istanti nel più totale immobilismo scervellandosi su una possibile soluzione, finché il suo sguardo non si posò su due studenti seduti al tavolo dei Grifondoro. La ragazza abbozzò un ghignò maniacale e, sfregandosi avidamente le mani, si avvicinò alla panca posta alla sua sinistra. Senza dire nulla, afferrò il braccio di uno dei ragazzi e, strattonandolo, lo costrinse a mettersi in piedi. «Alix, che cosa sta succedendo?!»

«Adrien, smettila di dimenarti e seguimi: devi farmi un favore.»

Il giovane Agreste, spaventato dal minaccioso tono di voce della sua compagna di casata, fece come gli era stato detto lasciandosi tirare per la manica della cappa; Nino, invece, rimase al tavolo e continuò ad esercitarsi con gli incantesimi studiati a lezione. Alix tornò da Mylène e le altre. Quest’ultime, soprese di rivedere così presto la loro amica, si apprestarono a chiederle cosa fosse successo. La ragazza, però, con un rapido gesto della mano, interruppe sul nascere le loro domande. «Vi ho trovato un nuovo compagno di studi» esclamò soddisfatta indicando un confuso Adrien.

Il viso di Rose s’illuminò letteralmente di gioia e, sebbene non avesse chissà quale rapporto con il ragazzo, non si fece problemi ad abbracciarlo calorosamente. Questi, colpito da quell’improvviso gesto di affetto, arrossì debolmente, ma, separandosi dalla piccola Tassorosso, mugugnò timidamente, quasi si sentisse in colpa. «Mi… mi dispiace, ma non posso aiutare anche te. Nino è indietro in Incantesimi, quindi dovrei… dovrei…»

Non riuscì a finire la frase che un’esplosione, proveniente dal fondo della sala, richiamò l’attenzione dei presenti. Nino aveva ancora la bacchetta in mano; la faccia era completamente annerita dal fumo, mentre l’uniforme era bruciata in più punti. Sul tavolo vi erano invece i resti fiammeggianti di una piuma che il giovane aveva cercato di far levitare. Alix, trattenendo a stento le risate, mise il proprio braccio destro sulla spalla di Adrien. «In questo momento credo che a Nino non serva un tutor per Incantesimi, ma un’infermiera.»
 
 

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Capitolo 6
*** Capitolo V – Trambusto in biblioteca ***


Capitolo V – Trambusto in biblioteca

Dopo aver accompagnato Nino in infermeria, Adrien e le altre, ad eccezione di Alix, raggiunsero la Biblioteca di Hogwarts. Al suo interno ritrovarono Alya e il suo improvvisato gruppo di studio, al quale decisero di aggregarsi. Il figlio del Signor Agreste sperava di approfittare della situazione al fine di riallacciare i rapporti con Marinette: non si era ancora arreso all’eventualità di perdere quell’amicizia e, sebbene non gli fosse ancora chiaro come fare, era più che mai deciso a risolvere quello spinoso problema.

Senza che i suoi compagni se ne rendessero conto, le si avvicinò sempre più e, fatto segno ad Alya di alzarsi, scivolò al suo fianco. Quest’ultima, non appena si accorse di chi le si fosse seduto accanto, divenne paonazza; ma, facendo finta di nulla, continuò a leggere i propri appunti. Il ragazzo non si diede per vinto e, sporgendosi verso destra, iniziò a picchiettare con l’indice il gomito dell’altra per richiamarne l’attenzione.

Nel frattempo la figlia del Signor Césaire, stanca di ripassare per l’ennesima volta gli ingredienti necessari per la Pozione Scacciabrufoli, si era andata a sedere vicino Juleka. Insieme a Mylène pose una serie di domande a Rose per testarne la preparazione. «Grazie, ragazze. Adesso però dovremmo passare ai movimenti della Terra rispetto alla volta celeste.» cinguettò la piccola Tassorosso dopo aver risposto con successo all’ultimo quesito.

«Hai ragione. Max, tu che sei in piedi, potresti andare a prendere il libro necessario?». Il ragazzo, intento ad infilarsi la propria cappa nera, fu colto alla sprovvista da quell’improvvisa affermazione e arrossendo leggermente sulle guance le rispose con un sibilo d’imbarazzo. «Mylène… in realtà dovrei andare in bagno.»

«Ci vado io!»

I sei si girarono di scatto verso Marinette che, dopo aver rapidamente messo da parte i suoi libri, si era già messa in piedi. Anche Adrien fu sorpreso da quel modo di fare e, temendo di averla infastidita, s’incupì. Evidentemente il suo approccio nel tentativo di catturare le sue attenzioni, l’aveva messa in agitazione e, conseguentemente, l’aveva spinta ad allontanarsi.

«D-d-d ’accordo…» balbettò Alya resasi immediatamente conto della situazione. «Vai a prendere i libri così Max potrà tranquillamente andare al bagno.»

«Questa è la lista. Sono parecchi volumi, vuoi una mano?»

«No Rose, non sarà necessario. Grazie lo stesso.»

Le ragazze non furono in grado di aggiungere altro che Marinette aveva già voltato loro le spalle e si era diretta verso la sezione della biblioteca dedicata all’astronomia. Alya, allora, si affiancò silenziosamente ad Adrien e gli si rivolse con tono severo. «Cosa le hai fatto?!»

«Io?! Niente» si difese l’altro allargando le braccia con fare scocciato, «Volevo solo capire perché continuasse ad evitarmi. Tutto qui.»

«E a te…. non è passata neanche per l’anticamera del cervello l’idea che al momento Marinette non abbia intenzione di affrontare la questione, vero?»

«Beh… ecco… no, non ci ho pensato. Stavo solo cercando di parlarle, non volevo farla arrabbiare, te lo giuro.»

«Uomini… anche quando volete essere dolci e premurosi, combinate solo disastri.»

«Cosa dovrei fare secondo te?»

«Forza va…» sibilò l’altra dando un’energica spinta al ragazzo, «Raggiungila e risolvi la faccenda. Ma cerca di non combinare disastri.»

Adrien le sorrise con gratitudine. Liberatosi della cappa nera, corse via al fine di chiarire una volta per tutte la situazione. La Grifondoro, seguendolo finché poté con lo sguardo, scosse la testa divertita augurandosi che i suoi amici riuscissero a superare le loro divergenze. La sezione di astronomia della Biblioteca di Hogwarts si trovava nella parte più profonda e nascosta dell’immensa sala. Marinette era intenta a frugare in uno degli scaffali quando Adrien, senza che lei se ne accorgesse, la raggiunse.

Le si avvicinò in silenzio mettendole delicatamente la mano sulla spalla sinistra. La ragazza, assorta nella dalla sua ricerca, fu colta alla sprovvista e agendo in maniera tanto impulsiva quanto rapida combinò uno dei suoi soliti disastri. Stringendo nella mano destra un pesante tomo, si girò di scatto colpì l’amico in pieno viso. Un rumore sordo riecheggiò nell’aria, mentre Adrien barcollava all’indietro massaggiandosi la guancia dolorante. Non appena realizzò cosa fosse successo, si precipitò dal ragazzo assicurandosi delle sue condizioni e con dita tremolanti iniziò a tastarne delicatamente il volto tumefatto. «Perdonami, non volevo colpirti. Ti sei fatto molto male?»

«Non è niente» replicò il giovane Agreste leggermente imbarazzato da tutte quelle attenzioni, «So che non era tua intenzione colpirmi sulla faccia con quel coso, o almeno credo.»

«Già…» sibilò, timidamente, l’altra, per poi allontanarsi e voltargli le spalle.

Convinto che non vi fosse momento migliore per poter parlare, Adrien cercò di portare avanti la conversazione. Le parole, però, a causa della timidezza e di un improvviso quanto incontrollabile senso d’insicurezza, gli morirono in gola e sebbene muovesse le labbra, non riusciva a produrre alcun suono all’infuori di mugugni incomprensibili. Era raro che non fosse in grado di affrontare a viso aperto una persona, che non fosse in grado di mettere in chiaro cosa gli passasse per la testa.

Fin dal primo momento in cui si erano conosciuti, il ragazzo aveva percepito un certo senso di libertà nei confronti di Marinetti. Aveva percepito la concreta possibilità di essere se stesso e di spingersi oltre i limiti che il suo cognome gli imponeva. Tuttavia, in quel preciso istante, nonostante fossero giorni che sperava di poter parlare nuovamente con la sua amica, non era in grado di far fronte alla situazione. Abbassò lentamente il braccio e, serrando le labbra in una stretta morsa di delusione, si apprestò a tornare indietro.

«Aiuto! Qualcuno ci aiuti, vi prego!»

«Cos’è stato? Sembrava la voce di Rose. Era… era terrorizzata…»

«Non lo so Marinette, non riesco a capire.»

«Ti prego smettila! Finirai per farci del male!»

«Questo è Kim, ne sono certa» sentenziò, sicura, la figlia del Signor Dupain stringendo i pugni. «Dobbiamo fare qualcosa, sono in pericolo.»

Marinette, ignorando l’invito di Adrien a mantenere la calma, fece uno scatto avanti al fine di raggiungere il tavolo occupato da Alya e gli altri. Il giovane Grifondoro estrasse la sua bacchetta e si lanciò a sua volta all’inseguimento. Intanto urla, rumori sordi e sinistri scricchiolii si diffondevano per la stanza. Come se non bastasse, nonostante tutte le finestre fossero chiuse, si era alzato un forte e freddo vento che sferzava gli antichi tomi posti sulle alte librerie e quelli che si trovavano sui tavoli da lettura. Man mano che si avvicinavano all’ingresso della biblioteca le raffiche e il fracasso aumentavano sempre più, mentre diverse scaffalature venivano divelte e accatastate l’una sull’altra.

Continuando a correre, Marinette frugò nella tasca della gonna alla ricerca della sua bacchetta e, non appena ne ebbe afferrato il manico, la tirò fuori generando una piccola barriera sulla sua testa: dagli scaffali erano iniziati a cadere numerosi testi che, quasi avessero una propria volontà, si scagliavano contro oggetti e persone. Grazie alle conoscenze apprese leggendo dei libri del terzo anno, riuscì a difendersi da quegli attacchi raggiungendo finalmente l’ingresso. Anche Adrien evitò senza problemi quell’offensiva improvvisa e, dopo alcuni istanti, si affiancò alla sua compagna.

I due si trovarono dinanzi una scena che aveva dell’incredibile: i tavoli, posti nell’atrio della sala, erano stati spazzati via e, urtando contro le pareti, erano stati ridotti ad un ammasso informe di legno; le preziose vetrate gotiche, vecchie di secoli, erano andate in mille pezzi e i loro frammenti erano sparsi sul pavimento. L’atmosfera era gelida e le folate di vento, la cui velocità era ormai diventata insostenibile, si stavano rapidamente raccogliendo al centro dell’atrio in modo tale da formare una specie di piccola tromba d’aria.

Attorno a quest’ultima, gravitavano gli oggetti più disparati: libri, candelabri e pericolosi pezzi di legno costituivano una sorta di strana e impenetrabile armatura per quel cilindro d’aria proteggendolo, o meglio: proteggendo la persona che si trovava al suo interno. «Ma… ma… ma quello è… è…» balbettò la figlia del Signor Dupain non riuscendo a credere ai propri occhi.

«Max…» concluse l’altro con la voce carica di stupore.

«Marinette, Adrien! Per favore… aiutateci!». I due riconobbero subito la voce di Mylène e, facendo attenzione ad evitare gli oggetti che con estrema velocità sfrecciavano sulle loro teste, raggiunsero la postazione del custode della biblioteca situata nelle vicinanze della porta di accesso alla sala. Nascoste dietro il massiccio bancone di quercia, oltre alla ragazza con i dreadlocks multicolori, si trovavano anche Rose, Juleka, Alya e la Signora Schmidt. Queste ultime erano prive di sensi e di conseguenza erano state distese per terra. Marinette si precipitò dalla sua migliore amica e le strinse la mano preoccupata. «Cos’è successo?»

«Non lo sappiamo» singhiozzò la piccola Tassorosso dai capelli biondi, «Poco dopo che ve ne siete andati, Max è tornato dal bagno. Aveva uno sguardo strano, era vitreo… perso nel vuoto. Senza dire nulla, ha estratto la propria bacchetta e ha schiantato la Signora Schmidt; poi si è posizionato al centro della stanza e ha dato il via a questo putiferio.»

«Alya e Kim hanno cercato di fermarlo… di farlo ragionare, ma è stato tutto inutile. La prima è stata colpita in pieno volto dal proprio volume di Pozioni svenendo, mentre Kim… Kim è rimasto intrappolato tra quei tavoli.»

Entrambi si voltarono in direzione della catasta di legno indicata dalla loro compagna, al fine di individuare l’ultimo membro del gruppo. Scorsero il loro amico tra i frammenti di due panche: era spaventato e la sua gamba sanguinante, era intrappolata sotto un tavolaccio. La situazione era critica: l’unica persona in grado di poterli aiutare era stata immediatamente messa K.O. e, data l’ora, nessun altro sarebbe arrivato tanto presto in loro aiuto.

Marinette e Adrien si scambiarono una fugace quanto disperata occhiata con la speranza di riuscire a trovare una soluzione. I due erano consapevoli che il rimanere lì senza far nulla, esposti agli attacchi di Max, fosse la scelta peggiore. Inoltre la figlia del Signor Césaire e la responsabile della Biblioteca di Hogwarts avevano bisogno di cure. «Ragazze dovete allontanarvi…»

«C-c-cosa?»

«Adrien ha ragione. Alya e la Signora Schmidt devono essere portate in infermeria, penseremo noi a Kim.»

Mylène non si sarebbe mai aspettata tutta quella determinazione da parte di Marinette e lo stesso fu per Rose e Juleka. Le tre allora annuirono e, asciugatesi le lacrime, uscirono dalla biblioteca trascinandosi dietro i feriti. Il giovane Agreste e la sua amica, invece, sapendo di essere sotto costante attacco, crearono un piccolo scudo protettivo, favorendo la fuga delle altre. Rimasti ormai soli, i due misero a punto una strategia, volta a portare in salvo il loro compagno. Lo scopo del piano era semplice: Adrien avrebbe distratto Max, mentre Marinette sarebbe andata a liberare Kim dai detriti che lo imprigionavano.

Adrien, brandendo la sua bacchetta di agrifoglio, scattò alla sinistra del ragazzo e, facendo fuoriuscire delle scintille rosse dalla punta dell’oggetto, ne richiamò l’attenzione. Il giovane Corvonero si voltò di scatto verso il figlio del Signor Agreste, puntandogli a sua volta contro la propria arma: per un istante i loro sguardi si incrociarono, un misero secondo che diede ad Adrien la possibilità di rendere certezza quello che per lui, fino a quel momento, era stato soltanto un sospetto. Max era del tutto incapace di controllare il proprio corpo: era come se qualcun altro, dopo averne soppresso la volontà, lo stesse comandando a distanza. Si fermò immediatamente e piantò i piedi per terra. «Protego!»

Una barriera trasparente comparve dinanzi al suo evocatore, assicurandogli una discreta difesa dagli attacchi del suo avversario. Quest’ultimo, contrariamente alle aspettative, non eseguì alcun incantesimo e rivolse la sua attenzione alla propria compagna di casata. Marinette, ormai a pochi metri di distanza dalla mano tesa di Kim, non si accorse di essere diventata il nuovo bersaglio di Max il quale, agitando le dita della mano sinistra, fece levitare una delle vicine librerie e la scagliò contro la sua amica. «Marinette!» urlò Kim con tutta la voce che aveva in corpo, sperando di avvertirla in tempo.

La ragazza si fece prendere dal panico e, chiudendo gli occhi per lo spavento, aspettò l’impatto. Adrien, accortosi del pericolo, fu più rapido e, correndo da un lato all’altro dell’ingresso, si tuffò sulla corvina, la afferrò per i fianchi e la spinse sulla sinistra, in modo tale da evitare la libreria. I due si ritrovarono per terra, l’uno sopra all’altra.

Avevano qualche livido ed un paio di escoriazioni, ma fortunatamente stavano bene. Lo stesso, però, non si poteva dire delle loro bacchette che, sfuggitegli di mano al momento del salvataggio, erano state schiacciate e, conseguentemente, ridotte in tanti piccoli frammenti di legno. «Cosa facciamo adesso?! Siamo pure rimasti senza bacchette!» ansimò preoccupato il giovane Agreste, mentre con in imbarazzo si separava dalla ragazza.

«Non lo so…» sibilò l’altra guardandosi intorno alla ricerca di una nuova soluzione.

Aveva bisogno di un qualcosa che le avrebbe permesso di salvare sia lei che i suoi tre amici, un qualcosa che doveva essere lì, nella biblioteca. Si guardò intorno. I suoi occhi si mossero rapidamente da un punto all’altro dell’atrio, finché non lo vide: un antico e pesante tomo di Storia della Magia, posizionato in bilico sull’ultimo scaffale di una libreria. Ai piedi di questa, perpendicolarmente all’asse di caduta del libro, era posto un tavolo. Infine, sul lato destro dell’antico tavolaccio si trovava la bacchetta di Kim che, a causa della concitazione del momento, doveva averla dimenticata. «Forse… forse ho un’idea!»

«Davvero?!» esclamò il figlio del Signor Agreste rivolgendole uno sguardo a metà tra lo speranzoso e il sorpreso. «Cosa vuoi fare?»

Marinette, non ancora pienamente convinta del proprio piano, inspirò profondamente. Aveva notato che il vortice d’aria generato da Max era prossimo ad implodere con conseguenze catastrofiche. «Ho un’idea, ma non c’è tempo per spiegarla… devi fidarti di me.»

«Come vuole lei, Milady.»

«Perfetto!» concluse Marinette, leggermente imbarazzata dall’atteggiamento del compagno, «Come te la cavi con i lanci?»

Adrien sorrise e, recuperato un grosso pezzo di legno ricurvo, si preparò a colpire. La giovane Corvonero gli indicò il tomo. Così, dopo aver preso bene la mira, lanciò quella sottospecie di boomerang. Quest’ultimo sfrecciò in direzione del libro colpendolo in pieno e facendolo cadere: a causa della sua grandezza il testo, non appena impattò sul lato sinistro del delicato tavolo, lo fece ruotare verso l’alto. Di conseguenza, grazie ad una sorta di effetto a catapulta, la bacchetta, che si trovava dalla parte opposta, fu scagliata in avanti. «Kim! Al volo!»

Il Grifondoro, nonostante continuasse ad essere bloccato dal busto in giù, alzò il braccio destro e, non appena gli fu possibile, afferrò l’oggetto con la mano. Max, accortosi del potenziale pericolo, si apprestò a colpire nuovamente il suo migliore amico. Quest’ultimo, però, non si fece prendere dal panico e, rivolgendosi agli altri due, attese istruzioni.

«Il libro! Usa il libro!» gli urlò Marinette coprendosi la testa per paura di essere colpita dagli oggetti che svolazzavano in aria.

«Agitare e colpire… puoi farcela Kim» esclamò Adrien, mentre mimava un movimento specifico del polso.

Il ragazzo, allora, puntò il tomo di Storia della Magia, che gli aveva permesso di recuperare la propria bacchetta, e, senza farsi impensierire dall’estrema vicinanza dell’avversario, sibilò l’incantesimo. «Wingardium Leviòsa!»

L’antico testo si sollevò in aria e, superando la vorticosa barriera di detriti si posizionò sopra la testa del suo compagno. A quel punto Kim chiuse gli occhi e, sciogliendo l’incanto, lasciò cadere il tomo, che colpì in pieno Max facendolo svenire. In quello stesso istante il vortice di vento e detriti implose su se stesso senza causare altri danni.
 

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Capitolo 7
*** Capitolo VI – Ritrovarsi ***


Capitolo VI – Ritrovarsi

 
La Professoressa Bustier camminava a passo svelto lungo la stretta porzione del cortile esterno ricoperta dalle grigie tegole di terracotta. Dietro di lei, ad una decina di metri di distanza, Adrien e Marinette la seguivano a testa bassa. I due, senza proferire parola alcuna, avanzavano con fare incerto tenendo i propri occhi puntati sulle punte delle scarpe. Stretti nelle spalle, mimavano inconsciamente i movimenti dell’insegnante: avevano una tremenda paura di sbagliare, di commettere un qualche errore nell’andatura che dovevano mantenere; ogni singolo passo in avanti era accuratamente studiato, teso ad eguagliare in tutto e per tutto i gesti della donna che li precedeva. «Siamo arrivati!»

La Bustier si fermò di colpo e, allargando verso l’esterno il proprio braccio destro, intimò ai due ragazzi di fare lo stesso. Questi si affiancarono alla donna e, rimanendo in attesa di un qualcosa, si guardarono intorno con discrezione. Tutto ciò che riuscirono a vedere fu l’imponente sagoma di una statua bronzea. Questa, incastonata in profonda nicchia muraria, raffigurava un grifone in posizione eretta e con le ali spiegate. Il cortile era deserto: a tutti gli studenti, nessuno escluso, era stato vietato di uscire all’esterno del castello e, diversamente da quanto prevedono le norme ordinarie, il Preside aveva imposto un coprifuoco ancora più rigido.

La notizia dell’incidente della biblioteca aveva creato troppo scompiglio e, di conseguenza, il corpo docenti aveva deciso all’unanimità di mettere in atto una serie di misure restrittive volte a tutelare i ragazzi. Allo stesso modo il Presidente del Consiglio d’Istituto, venuto immediatamente a conoscenza dell’accaduto, aveva predisposto l’invio di due ispettori che avrebbero dovuto indagare sulla faccenda. Adrien e Marinette, però, non sembravano minimamente interessati alla cosa. In quel momento, la loro unica preoccupazione era sapere cosa ne sarebbe stato di loro e della loro breve ma intensa carriera scolastica.

L’insegnante di Difesa contro le Arti Oscure si avvicinò al basamento della statua, tese in avanti il braccio e con le dita sfiorò il metallico piumaggio del grifone; chiuse gli occhi e, muovendo in maniera impercettibile le sue labbra sottili, sibilò una serie di parole. I due ragazzi la osservarono con curiosità, ma non ebbero il coraggio di avvicinarsi o chiedere cosa stesse accadendo. «Voi due…» esclamò, improvvisamente, la professoressa Bustier «Venite qui, vicino a me!»

Le parole della donna, affilate come rasoi, arrivarono chiaramente alle orecchie di Adrien e Marinette che, barcollando per la tensione, si posizionarono dove gli era appena stato ordinato. L’insegnate, invece, fuoriuscì dalla nicchia in muratura e, allontanandosi di un paio di metri dalla statua, fece segno ai due di non muoversi. I ragazzi non proferirono parola aspettando ansiosamente una spiegazione più o meno plausibile. La Bustier, però, continuando a mantenere un atteggiamento stranamente distaccato, stese in avanti le braccia; poi, aprì di scatto le mani. «Tè alle erbe!»

Si udì un rumore sordo, una specie di scatto metallico che fece sobbalzare i due. Il basamento della statua tremò sotto i loro piedi per alcuni secondi; in seguito il grifone iniziò a ruotare su se stesso, mentre la base, sulla quale era poggiato, si alzò verso l’alto dando forma ad una serie di piccoli scalini. La statua in bronzo divenne una sorta di scala a chiocciola semovente che, trascinando con sé Adrien e Marinette, li sospinse all’interno di uno stretto cunicolo verticale. L’insegnante di Difesa contro le Arti Oscure osservò per alcuni secondi la nicchia muraria rimasta vuota; poi, abbozzando un sorriso compiaciuto, si allontanò da quel luogo.

Nel frattempo, il grifone aveva ormai raggiunto l’altezza massima aprendo le sue imponenti ali di bronzo verso uno stretto cunicolo, illuminato da vecchie torce ancorate alle pareti. Sul fondo dell’angusto passaggio era situata una massiccia porta in legno. «D-d-dove ci troviamo?!» balbettò la figlia del Signor Dupain mordendosi nervosamente il labbro inferiore.

«Non lo so» replicò Adrien facendo spallucce «Ma ho la strana sensazione che dietro quella porta si trovi la risposta a tutte le nostre domande.»

«D’accordo, allora apriamola.»

I due, camminando fianco a fianco, quasi si stessero proteggendo a vicenda, si avvicinarono al portone in legno. Bussarono educatamente sul pannello di quercia con la speranza che dall’altro lato qualcuno li invitasse ad entrare. Ma, dopo aver aspettato invano nel più assoluto ed assordante silenzio, fu loro chiaro che nessuno avrebbe risposto. Di conseguenza, il figlio del Signor Agreste, afferrando con esitazione la maniglia di ferro battuto, la tirò verso il basso; poi, spingendo delicatamente in avanti, spalancò l’anta. «Ma… ma che posto è mai questo?!»

«Adrien, non ne sono sicura ma credo sia l’ufficio del Preside Fu.»

La stanza nella quale i due studenti del primo anno erano appena entranti si presentava ampia e di forma irregolare. Il pavimento era costituito da spessi lastroni in pietra, finemente decorati con motivi floreali. Antiche vetrine di legno d’acero, contenenti una serie infinita di preziosi artefatti magici, erano disposte ai lati di questo spazio. Invece, alle imponenti pareti in muratura erano appesi un centinaio di quadri raffiguranti i presidi del passato. La maggior parte di questi, incuranti della presenza dei due giovani, continuava a chiacchierare tra di loro; gli altri, nonostante la confusione regnasse sovrana, sonnecchiavano beatamente all’interno delle cornici.

Marinette, non riuscendo più a trattenere la propria curiosità, iniziò a saltellare da una vetrinetta all’altra scrutandone il contenuto. Adrien sorrise divertito. Più tempo trascorreva insieme a lei e più si rendeva conto di non aver mai conosciuto nessuno come Marinette. Fin dal giorno in cui l’aveva incontrata alla Stazione di King’s Cross, era stato inspiegabilmente rapito dai modi di fare di quella che all’inizio aveva considerato come una semplice svampita andata a sbattere contro un muro. No, ormai l’aveva capito: Marinette non era solo quello, ma molto di più. Era intelligente, sagace, spiritosa e vivace; era una persona buona, sapeva ascoltare ed aveva sempre una buona parola per tutti, anche per Chloé e Sabrina.

Camminò verso di lei e, senza che quest’ultima se ne accorgesse, si appoggiò delicatamente ad una delle vetrine con le braccia incrociate. Indugiò nuovamente sull’esile figura della ragazza: per quanto si sforzasse, non riusciva a distogliere lo sguardo. I capelli neri come la notte, gli occhi blu profondi come il mare e quel sorriso magico, così luminoso e dolce che aveva il potere di far sciogliere il più duro dei cuori, avevano un effetto quasi ipnotico sul giovane Agreste. Gli ci vollero alcuni secondi per ridestarsi da quella sorta di trance; poi con finto distacco velato da una nota di inspiegabile goffaggine si rivolese a lei. «Trovato niente d’interessante?»

«Stai scherzando, vero?!» replicò, con eccessiva euforia, Marinette senza rendersi conto con chi stesse parlando. «Questo è un Deluminatore! Hai la minima idea di quanto sia raro quest’oggetto? Non se ne contano più di…»

La figlia del Signor Dupain si fermò di colpo e, diventando rossa in viso per l’imbarazzo, fece un rapido balzo di lato: l’essersi resa conto che il suo interlocutore non era altri che Adrien, l’aveva inspiegabilmente terrorizzata. La bocca le si era improvvisamente impastata, mentre il respiro era mozzato. Quella non era la prima volta che le accadeva; non era la prima volta che quel suo amico la facesse sentire così… così debole e vulnerabile. Purtroppo, quel salto all’indietro non fu privo di conseguenze. Nelle immediate vicinanze della vetrinetta si trovava un piedistallo in marmo sul quale era poggiata un’affascinante riproduzione in oro di un torrione gotico.

La struttura in miniatura era in realtà una sorta di armadietto porta oggetti; al suo interno erano ordinatamente collocate una quantità enorme di fragili fiale di vetro. Marinette, senza rendersene conto, urtò con il proprio fondoschiena il basamento in pietra. La torre, sotto gli occhi attoniti dei ragazzi, barcollò pericolosamente, poi ricadde sul fianco destro lasciando che parte del suo contenuto si riversasse all’esterno. La ragazza, non sapendo cosa fare, si coprì la faccia con le mani in attesa di sentire l’inevitabile tonfo. Stretta nelle spalle, rimase immobile trattenendo il respiro finché, sorpresa dal non aver udito neanche l’infrangersi di una singola boccetta sul pavimento, non scostò lentamente le dita degli occhi.

Fu allora che vide il torrione gotico e le delicate ampolle sospesi a mezz’aria, mentre Adrien, tenendo il braccio sospeso in avanti, sillabava una sconosciuta formula magica. Cercando di ignorare lo sguardo perplesso della sua amica, mosse lentamente la mano e con non poca fatica riposizionò l’armadietto dorato sul piedistallo. «Tu… tu sai eseguire incantesimi anche senza bacchetta?!» farfugliò Marinette con incredulità.

Compiere magie tramite il solo uso delle mani, sebbene fosse una pratica abbastanza conosciuta all’interno della Comunità Magica, era difficilissimo. Infatti, i maghi che possedevano quest’abilità si contavano sulla punta delle dita e, soprattutto, avevano alle spalle anni di esperienza. Né gli insegnanti né gli studenti più bravi della scuola avevano mai sfoggiato questa particolare capacità. Tuttavia, Adrien aveva appena dimostrato di essere gran lunga superiore a qualsiasi altro ragazzo e, ad esclusione di pochi, professore. «Si, ma credimi non è davvero nulla…» replicò l’altro con leggero imbarazzo grattandosi nervosamente la nuca.

«Nulla?! Come fai a dire di non aver fatto nulla?!»

«Sul serio Marinette, ho solo impedito che ci trovassimo in guai peggiori, ma sono…»

«Chi te l’ha insegnato?» lo interruppe, improvvisamente, la ragazza senza curarsi di ciò che l’altro stava dicendo. «È stato tuo padre? D’altronde solo Gabriel Agreste potrebbe essere in grado di compiere questi incantesimi.»

«No… non è stato lui! Me l’ha insegnato…». Le parole del giovane grifondoro gli morirono in gola; per quanto si sforzasse, non era in grado di andare oltre. Aveva sofferto troppo, quella persona l’aveva fatto soffrire troppo. I ricordi felici, le dolci esperienze passate erano stati cancellati: non era rimasto più nulla. Le gote gli si colorarono di rosso, mentre gli occhi verde smeraldo furono iniettati di sangue. Per la prima volta dopo anni fatti di silenzi, pianti sommessi e gelidi sguardi, stava provando un qualcosa di diverso. Sensazioni che andavano ben oltre la stoica indifferenza che si era ripromesso di mantenere in merito all’argomento.

Era arrabbiato, covava dentro di sé un rancore e un disprezzo tali che mai avrebbe pensato di avere. Troppo a lungo aveva cercato di dimenticare, di gettare nell’oblio un pezzo importante della propria esistenza. Fino ad allora ci era riuscito, ma il compiere quella magia, quel genere di magia che si era più volte ripromesso di evitare, era stata l’ultima goccia. Era disgustato da se stesso, si odiava come mai aveva fatto prima di quel momento. Era ancora lì, l’opprimente presenza di quella persona per lui così importante era viva nella sua memoria. Sebbene avesse cercato di nascondere questa verità, ormai gli risultava evidente che niente sarebbe mai cambiato.

«Adrien, stai bene?»

«S-s-si, non preoccuparti. Stavo solo ripensando ad una cosa.»

Marinette fece un poco convincente sì con la testa e non aggiunse altro. Dopotutto, non era affatto strano per la ragazza che il figlio di Gabriel Agreste preferisse mantenere segreti alcuni dettagli della sua vita privata. Era già accaduto in passato e, come allora, la giovane Corvonero non se la sentiva di invadere lo spazio personale dell’amico. Facendosi cupa in viso, gli voltò le spalle e si incamminò verso dei gradini in pietra che permettevano l’accesso all’altra metà dell’ufficio.

Adrien, notò subito quell’improvviso cambiamento d’umore e, consapevole di esserne la causa, si affrettò a rimediare. La stava perdendo di nuovo; le preoccupazioni, le paure e i segreti, che da sempre gli opprimevano l’animo, li stavano separando per una seconda volta. No, non l’avrebbe permesso: non voleva rinunciare a Marinette. Senza perdere altro tempo, si affiancò a quest’ultima e le poggiò una mano sulla spalla. La ragazza si girò lentamente verso di lui e, guardandolo dritto negli occhi, quasi fosse stata ipnotizzata dal dolce sorriso del biondo, non poté fare altro che boccheggiare. «Mi dispiace…»

Adrien distolse lo sguardo: in quel momento provava troppa vergogna per poterla affrontare a viso aperto, ma non poteva tirarsi indietro. Già nella biblioteca, nonostante avesse avuto più di un’occasione per parlarle, non era riuscito a concludere niente; era stato vittima delle sue stesse angosce, della sua stessa insicurezza. Prese un profondo respiro e, strofinandosi maniacalmente le mani sulle cosce per scaricare la tensione, affrontò un discorso che per troppo tempo aveva preferito rimandare.

«Non volevo mentirti, credimi non era mia intenzione. La verità è che il mio cognome mi ha da sempre costretto a vivere secondo una severa ed asfissiante etichetta. Fin da bambino mi sono dovuto adeguare a rigidi canoni imposti da mio padre. Voleva che mantenessi alto il nome della famiglia e, allo stesso tempo, cercava di proteggermi dai mali di questo mondo. Ero… sono tutto ciò che gli resta ed in fondo lo capisco. Ma io sono molto più di questo, molto più di quello che la gente vede. Per questo motivo mi sono iscritto ad Hogwarts, desideravo mostrare agli altri che io sono Adrien e non il talentuoso figlio di Gabriel Agreste. Volevo essere apprezzato per ciò che sono e non per il mio retaggio. Sono davvero mortificato per aver mentito a tutti voi, per aver mentito a te.»

La ragazza fu colpita da quell’improvvisa confessione: non si sarebbe mai aspettata che il suo amico potesse mettersi a nudo a quel modo con lei. Allo stesso tempo, però, era grata che tenesse così tanto a lei al punto che sentisse il bisogno di renderla partecipe del proprio stato d’animo. In fin dei conti Marinette aveva ben compreso quanto fosse difficile per il giovane Agreste il dover fare i conti con le responsabilità e le aspettative che il suo stesso cognome sottendeva. «No, sono io che devo scusarmi.»

«Tu?! Ma non hai fatto niente…»

«Esatto…» sibilò la figlia del Signor Dupain non riuscendo a trattenere una risata di stizza, «Mi sono allontanata da te; come una stupida ho pensato che il lasciarti in pace, da solo con te stesso, ti avrebbe aiutato a capire… a capire se mi volessi o meno come amica. Dopotutto, avevi deciso di non rivelare il tuo segreto… preferivi tenere per te determinati ed importanti aspetti della tua vita. Per questo motivo ti ho evitato per tutto questo tempo. Adesso, però, mi rendo conto che la mia testardaggine e la mia timidezza non hanno fatto altro che causarti un’ulteriore sofferenza. Alya, Nino e il resto dei nostri amici, perfino Chloé, ti sono stati vicino… io al contrario ho deciso di farmi da parte ed aspettare. Sono stata una pessima amica e capirò se…»

Le morbide guance di Marinette divennero improvvisamente rosse, mentre i suoi occhi si gonfiarono di lacrime. Respirava in maniera irregolare e il cuore le batteva forte in petto. Le braccia di Adrien le si erano avvolte ai fianchi stringendola in un tenero abbraccio. La ragazza, dapprima confusa ed imbarazzata da quell’improvviso gesto di affetto, si lasciò andare. Poggiò la testa sul petto del biondo e, stringendolo a sua volta, si godé quel breve ma intenso momento di infinita dolcezza. «Tu… tu sei fantastica, Marinette» le bisbigliò nell’orecchio il giovane Grifondoro.

«Lo pensi sul serio? Non sei arrabbiato con me?»

«Certo che lo penso e no, non potrei mai arrabbiarmi con la ragazza più dolce della scuola.»

«Grazie, anche tu non sei affatto male.»

Entrambi si scambiarono un sorriso d’intesa, poi si separarono l’uno dall’altra. La ragazza, ancora un po’ agitata per quanto era appena successo, si sedette sull’ultimo dei gradini in pietra e, appoggiando i gomiti sulle ginocchia, sbuffò amaramente. «Quanto mi piacerebbe saper compiere degli incantesimi senza la bacchetta, a maggior ragione adesso che la mia è andata distrutta.»

«Beh, a questo si può sempre porre rimedio» esclamò il compagno mettendosi accanto a lei, «A nessuno studente è vietata la possibilità di comprarsi una seconda bacchetta.»

«Ma tu hai idea di quanto costerebbe prenderne una nuova?! Il cambio euro - galeone è alle stelle, non ho mica gli stessi soldi che hai tu!»

Adrien rimase senza parole: non aveva mai visto la sua amica comportarsi in maniera così naturale, o meglio non l’aveva mai vista comportarsi a quel modo nei suoi confronti. Per la prima volta Marinette l’aveva trattato come una persona normale e non si era imposta alcuna limitazione. «Hai ragione, troppo spesso mi dimentico che non tutti i genitori possono permettersi di comprare l’intero negozio di bacchette.»

«Mi sa che solo il tuo ha la possibilità di fare una cosa del genere.»

«Probabile, considerando le nostre ricchezze» cinguettò con finta boriosità Adrien.

«Ehi! Non pavoneggiarti troppo, altrimenti rischi di perdere le piume.»
 

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Capitolo 8
*** Capitolo VII – Il Preside Fu ***


Capitolo VII – Il Preside Fu

 
In un’imprecisata zona del castello, una piccola figura avvolta in una pesante tunica damascata mugugnava con fare pensieroso. Era seduta su un alto e pericolante cumulo di cianfrusaglie e, rischiarando debolmente con la propria bacchetta l’opprimente oscurità del luogo, fissava una vecchia cartina pluristratificata. Sull’ingiallita superficie delle pagine di quest’ultima erano raffigurati i confini di Hogwarts, gli interni della scuola e una serie infinita di nomi che, istante dopo istante, cambiavano la loro posizione. «Wayzz, abbiamo a che fare proprio con un bel dilemma…» sibilò una pacata voce maschile in direzione di una piccola tartaruga.

Questa, intenta a mordicchiare una fresca foglia d’insalata, alzò lentamente la testolina e, quasi sembrasse aver capito ciò che le era stato appena detto, guardò in direzione del proprio padrone. Questi, dopo averle accarezzato il guscio con la punta di un dito, continuò quella specie di monologo. «È davvero strano… stando alle informazioni contenute nella mappa, nessun estraneo è entrato o uscito dalla scuola nella giornata di oggi. Quindi mi chiedo come sia stato possibile scatenare tutto quel panico in biblioteca. Colui che ha scagliato l’Imperio sul povero Max Kanté, deve per forza essere penetrato nelle mura del castello. Non è possibile effettuare una maledizione “a distanza”; nessun mago, nemmeno quello più potente, potrebbe riuscirci a meno che… a meno che…»

S’interruppe all’improvviso e, colpendosi la fronte con la mano chiusa a pugno, si maledisse per non averci pensato prima. La sua mente, dapprima affollata da una miriade di pensieri, congetture e teorie più o meno plausibili, si svuotò all’istante lasciando spazio ad un’unica e pericolosa possibilità; una possibilità che non avrebbe mai voluto prendere in considerazione. Puntando la sua bacchetta sull’antica pergamena esclamò due semplici parole. «Fatto il misfatto!»

Non appena pronunciò la formula magica, le scritte presenti sulla mappa divennero sempre più chiare fino a scomparire del tutto. I fogli, ormai completamente bianchi, furono riposti con cura in una delle tasche della lunga tonaca. A quel punto l’uomo posizionò la tranquilla tartarughina sulla propria spalla per poi saltare verso il basso. Nonostante si trovasse a quasi sei metri di altezza, non ebbe alcun problema a planare verso l’impolverato pavimento senza subire il minimo danno. «Bene! Adesso non mi resta che cercare la scatola… dove l’avrò messa? Tu te lo ricordi, Wayzz?»

L’animale ovviamente non proferì alcun suono, ma si limitò a muovere una delle zampe anteriori. Il proprietario rispose con un sorriso e, facendosi luce con la punta della bacchetta, si mosse nella direzione indicata dalla tartaruga. Procedeva rapidamente tra stretti passaggi costituti da numerosi cumuli di vecchi oggetti accatastati gli uni sugli altri, che si ergevano fino al soffitto di un’enorme stanza apparentemente priva di delimitazioni spaziali.

L’uomo si fermò dinanzi ad un singolare armadio di legno. Alto quasi due metri e dall’inconsueto profilo tetraedrico, svettava al centro di una piccola area stranamente sgombra. Il padrone del piccolo Wayzz si avvicinò con estrema cautela al delicato mobile e, afferrando due maniglie di ferro arrugginito, ne spalancò le pesanti ante. «Avevi ragione, amico mio» cinguettò, compiaciuto, l’uomo porgendo alla tartaruga un’altra foglia di insalata, «Le avevo nascoste proprio qui.»

Si piegò in avanti tirando fuori dall’armadio una pregiata scatola rettangolare di legno laccato, costituita da sette scomparti ognuno dotato di un proprio meccanismo di chiusura e decorata con un stilizzato ghirigoro rosso. La prese tra le mani e, dirigendosi verso un tavolino ricoperto di ragnatele, la posizionò al di sopra. Fece scattare la cerniera del sesto vano e con delicatezza lo aprì.

«Come immaginavo, qualcuno ha recuperato la Bacchetta del Controllo» mugugnò massaggiandosi il grigio pizzetto. «Non vi sono dubbi… la pietra non mente.»

Sfiorò con l’indice destro una gemma di forma irregolare: un’ametista che brillava di un’intesa luce viola. La pietra era inoltre incastonata a poca distanza da una lunga e stretta sagoma vuota scavata all’interno del legno grezzo. Dopo aver ispezionato con cura lo scomparto l’uomo lo richiuse e, rimuginando sul da farsi, si apprestò a riporre la scatola nell’armadio. Tuttavia, arrivato davanti le ante del mobile, iniziò a percepire una strana sensazione di inquietudine e malessere che lo spinse a tornare indietro al fine di controllare una seconda volta anche le altre.

Fu così che, dopo essersi posizionato allo stesso tavolino, aprì il terzo, il quarto ed il quinto scompartimento della scatola. In tutti e tre vi erano delle pietre preziose: rispettivamente un topazio giallo, dell’ambra e uno smeraldo. Le prime due gemme non brillavano, la terza invece, luccicava di una debole luce verde. A differenza dell’ametista viola, il bagliore emesso dallo smeraldo era di gran lunga più fioco. La cosa rasserenò l’uomo e, sebbene l’incavo dell’ultimo scomparto aperto fosse vuoto come il sesto, non sembro esserne affatto preoccupato.

Tirando un sospiro di sollievo richiuse i tre scomparti, poi, dopo aver ticchettato nervosamente sulla sporca superficie in vetro del tavolo, fece scattare il settimo meccanismo di apertura. All’interno del contenitore vi era l’ennesima sagoma vuota e un’altra pietra, nella fattispecie uno zaffiro: quest’ultimo emetteva una cupa luce azzurrina che sembrava dovesse spegnersi da un momento all’altro. «Come ho fatto a non accorgermene?! Anche la Bacchetta dell’Equilibrio è stata recuperata da qualcuno che non dovrebbe affatto sfruttarne i poteri. Siamo in seri guai…»

Wayzz, notando il disappunto e l’amarezza del suo anziano padrone, gli camminò lungo la spalla e, giunto nelle vicinanze dell’orecchio sinistro, ne mordicchiò affettuosamente il lobo. L’uomo apprezzò il gesto e, accarezzando delicatamente la testa della piccola tartaruga, riprese a parlare. «Non ho altra scelta, Wayzz: devo infrangere quella promessa. Il destino del nostro mondo dipende da questo, adesso. Spero solo di trovare le persone giuste… persone di cui potermi fidare. Non posso rischiare che gli errori del passato si ripetano di nuovo: le conseguenze sarebbero tragiche. No… non lo permetterò! È tempo che la leggenda torni ad essere realtà…»

Prese con sé la scatola e se la mise sotto il braccio sinistro. Subito dopo si affrettò a richiudere le ante dell’armadio ormai vuoto e, afferrando con la mano destra il lembo della sua veste damascata, eseguì un rapido giro su se stesso scomparendo nel nulla.

Intanto nello studio del Preside Fu Adrien e Marinette, riallacciato un rapporto di amicizia, parlavano tra di loro. Discutendo del più e del meno, erano in attesa che qualcuno gli spiegasse per quale oscuro motivo fossero stati portati in quel luogo. «Secondo te per quanto tempo ancora dovremo aspettare?» chiese il giovane Agreste all’amica.

«Non ne ho la più pallida idea. Spero solo che ci lascino liberi per la cena… sto morendo di fame» replicò l’altra mentre si massaggiava lo stomaco brontolante.

«Questa sera avrebbero servito la pizza. Quanto adoro la pizz…»

All’improvviso nell’ufficio riecheggiò un sonoro “crack”, simile al rumore prodotto dai rametti spezzati; seguito in breve tempo da un tonfo sordo. I due, spaventati da quell’evento inatteso, scattarono in piedi ed iniziarono a guardarsi intorno. Tuttavia, non fecero in tempo ad ispezionare neanche metà della stanza che una voce, proveniente dalle loro spalle, ne richiamò prepotentemente l’attenzione. «Signorino Agreste, Signorina Dupain-Cheng… benvenuti nel mio ufficio. Prego, accomodatevi: abbiamo molto di cui discutere.»

I ragazzi si voltarono di scatto e con grande sorpresa notarono che il massiccio scranno di quercia posto dietro un’imponente scrivania, dapprima vuoto, era occupato dal Preside Fu. Quest’ultimo, avvolto nella solita veste rossa arricchita da eleganti motivi floreali dorati, ridacchiava compiaciuto. Adorava stupire i suoi alunni con stravaganti trucchi di magia e fulminee apparizioni. Allo stesso modo gli studenti rimanevano sempre affascinati dalla bravura e dalla semplicità di quel piccolo grande uomo dai tratti orientali. Ciò che maggiormente li meravigliava era la storia del loro amato Preside che, partendo da un isolato villaggio tibetano, era riuscito a diventare uno dei più potenti maghi di tutti i tempi.

Adrien e Marinette, ancora intontiti dalla situazione, salirono i cinque gradini in marmo che collegavano l’ingresso con l’altra parte della stanza. Questa si presentava maggiormente curata dal punto di vista architettonico e dell’arredamento. Infatti, al posto dello scarno pavimento in pietra si trovava un elegante e scuro parquet. Alle pareti laterali erano appoggiate numerose librerie alte fino al soffitto e stracolme di antichi tomi.

«Suvvia ragazzi miei, non vi mangio mica.»

Quell’ennesimo richiamo del Preside ridestò entrambi i ragazzi dallo stupore, così barcollando timidamente verso delle poltroncine in pelle, poste davanti la scrivania, raggiunsero il loro interlocutore. Ricevuto nuovamente il permesso di sedersi, i due si lasciarono sprofondare nelle confortevoli poltrone, nascondendo a stento l’imbarazzo e la tensione.

«Bene…» esordì Fu tormentandosi il pizzetto con la punta delle dita, «Adesso che vi siete finalmente decisi, spiegatemi cos’è successo all’interno della biblioteca della nostra scuola.»

Il giovane Agreste, coadiuvato di tanto in tanto dalla figlia del Signor Dupain, raccontò in dettaglio quanto fosse accaduto quel pomeriggio. In particolare, si soffermò sull’inspiegabile atteggiamento di Max e sul loro coinvolgimento nella vicenda. L’anziano professore ascoltò con estrema attenzione ogni singola parola finché non interruppe il biondo asserendo di aver abbastanza elementi per la sua indagine. «Sono davvero impressionato, Signor Agreste. Nonostante le difficoltà, è riuscito a mantenere la calma e ad evitare che la situazione peggiorasse ulteriormente.»

«Non ce l’avrei mai fatta senza Marinette. Anzi, il piano d’azione è stato il suo, io ho solo eseguito gli ordini» replicò Adrien mettendo una mano sulla spalla della sua amica.

«Giusto, la Signorina Dupain-Cheng. I Corvonero non potevano avere studente migliore quest’anno.»

«La ringrazio per il complimento, ma sul serio… ho cercato solo di fare il mio dovere» concluse la ragazza sfoderando uno dei suoi meravigliosi sorrisi.

Il Preside Fu fece lo stesso; poi chinando a sorpresa il capo, ringraziò i suoi studenti per i servizi che avevano reso ad Hogwarts. Inoltre, tenendo conto dell’eroismo e, soprattutto, dell’altruismo dimostrato dai due, assegnò sia alla Casata di Grifondoro che a quella di Corvonero ben cinquanta punti. Entrambi, oltremodo felici di aver ottenuto un’inaspettata ma gradita ricompensa, non riuscirono a trattenere l’entusiasmo e, noncuranti della presenza di un docente nonché del luogo in cui si trovavano, si abbracciarono teneramente.

L’anziano professore fu colpito dalla spontaneità dei suoi alunni e dallo strano feeling che sembrava unirli. Era come se percepisse una sorta di legame tra quei giovani così promettenti, un invisibile filo rosso che intrecciava le loro vite in un unico destino comune. Anche Wayzz se ne era accorto e, dopo aver fatto capolino sulla spalla del suo padrone, non faceva altro che richiamarne l’attenzione. Voleva “parlare” con lui, suggerirgli la prossima mossa da compiere per il bene dell’intera umanità. Ma non ce n’era bisogno: Fu l’aveva capito benissimo da solo, ma aveva paura ad accettare la realtà. Non se la sentiva di affidare a quei due ragazzini una missione così importante. Maghi e streghe più esperti e capaci di loro avevano fallito e lui non poteva consentire che la storia si ripetesse.

«Preside, possiamo andare?» gli chiese improvvisamente Marinette ridestandolo dalla trance in cui era rimasto intrappolato.

«Ormai è quasi ora di cena» aggiunse Adrien leccandosi le labbra con la lingua, «Non vorrei perdermi la pizza prevista dal menu di oggi.»

Il docente aveva preso la sua decisione: non li avrebbe mai coinvolti in quella faccenda, era troppo pericolosa. Eppure, un’insistente vocina nella sua testa gli suggeriva di provarci. In fin dei conti avrebbe potuto sbagliarsi, forse non erano loro quelli che cercava. Doveva sapere, non poteva lasciare nulla al caso. «Ho… ho saputo che le vostre bacchette sono andate distrutte nello scontro di oggi.»

«Si, ma non si preoccupi… ne prenderemo al più presto di nuove.»

Fu, però, incurante dell’affermazione, estrasse da un cassetto della scrivania una scatola rettangolare di legno e la mostrò ai ragazzi. Successivamente, aprendo il primo ed il secondo scompartimento del contenitore, si rivolse nuovamente a loro. «Forse queste andranno bene…»

Le due matricole non furono in grado di trattenere un “ohhh” di stupore quando videro il contenuto della scatola. Sia il primo che il secondo scomparto contenevano due pietre: rispettivamente un rubino e un’onice nera; inoltre, accanto ad esse, adagiate in un incavo su misura, stavano due bacchette lunghe all’incirca trenta centimetri. La prima era totalmente nera con particolari dorati, il manico era tempestato di piccoli rubini, mentre alle estremità di questo presentava due perle bianche di differente larghezza. La seconda bacchetta, invece, aveva il corpo squadrato: di color argento, era impreziosita da piccoli ovali di onice nera di decrescente grandezza; il manico, leggermente lavorato, era totalmente nero e presentava una fascetta dorata sulla sommità che lo divideva dal resto.

«Professore…» sibilò Marinette, mentre esaminava con cura i due oggetti, «È sicuro di volerci dare queste bacchette? Mi sembrano molto antiche e preziose.»

«Concordo! Dovrebbero essere messe in una teca e protette dalle intemperie. Usandole rischieremmo di…»

Il Preside di Hogwarts lo fermò con un semplice gesto e, prendendo le due reliquie tra le mani, le consegnò agli studenti che aveva dinanzi. «Prendetele e vediamo cosa succede. Se dovessero rifiutarvi come loro padroni, me le restituirete. Dopotutto, è la bacchetta che sceglie il mago, quindi… lasciatele scegliere.»

Adrien e Marinette si scambiarono uno sguardo di reciproca intesa. Entrambi stesero il braccio destro in avanti e afferrarono i preziosi manici lignei. Non appena serrarono la presa, nell’ufficio, sebbene tutte le finestre fossero chiuse, si alzò un forte vento. Contemporaneamente le gemme, incastonate nella scatola, iniziarono a brillare con intensità impressionante.

La figlia del Signor Dupain fu pervasa da una piacevole sensazione di calore che dalla bacchetta si diffuse a tutto il corpo. Al contrario il giovane Grifondoro percepì sempre più freddo. Era come se il suo stesso animo stesse congelando, ma nonostante ciò non trovava per nulla sgradevole o insopportabile quello che stava provando. Il tutto durò circa una decina di secondi, poi la situazione tornò alla normalità: soltanto il rubino e l’onice nera continuarono ad emettere luce senza mai fermarsi.

«C-c-cos’ è successo?!» balbettò la ragazza appartenente alla Casata di Corvonero.

«Sono state le bacchette. Ci hanno scelto, non è vero?» ipotizzò il figlio di Gabriel Agreste massaggiandosi il mento con fare meditabondo.

Fu richiuse la scatola e, dopo averla messa via, parlò per l’ultima volta ai suoi studenti. «Queste bacchette hanno deciso che da oggi in poi vi serviranno con assoluta fedeltà. Mi raccomando riponete in loro tutta la vostra fiducia e non lasciate mai che il loro potere offuschi la vostra capacità di giudizio o peggio… il vostro cuore. Siate forti, coraggiosi e leali con il prossimo; solo così riuscirete a comprendere a pieno il vostro potenziale. Adesso però andate, rilassatevi e godetevi la serata.»

Le due matricole, soddisfatte per aver superato quella sorta di prova, fecero di sì con la testa; poi, voltate le spalle all’anziano professore, s’incamminarono verso l’ingresso. Tuttavia, a metà strada Marinette non poté fare a meno di porre un’ultima domanda. «Preside Fu… come ha fatto ad intuire che queste bacchette fossero adatte per me e Adrien?»

«Antico segreto cinese, mia cara… proprio come il tuo.»

Rimasto ormai solo, Fu si stiracchiò contro lo schienale del proprio seggio. Ad un tratto una voce, proveniente dall’ingresso dell’ufficio, fece eco nella stanza. «Hai fatto bene a seguire il tuo istinto, mio giovane amico. Sono sicuro che i due ragazzi sapranno farsi valere.»

«Lo spero con tutto il cuore: tempi difficili ci attendono, Isaac» sibilò l’insegnante, mentre raggiungeva uno dei quadri posti sulla parete destra, al di sopra delle vetrinette.

Un uomo anziano, dapprima intento ad osservare le stelle con un antico cannocchiale dorato, si affacciò dalla propria cornice in legno. Massaggiandosi la sua lunga
barba bianca, che con estrema eleganza gli ricadeva su una lunga tunica argentata arricchita da dei ghirigori bluastri, si rivolse nuovamente a Fu. «Fidati delle bacchette… loro non sbagliano mai.»


Bacchetta di Adrien:



Bacchetta di Marinette:

 
 

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Capitolo 9
*** Capitolo VIII – Voci dal passato ***


Capitolo VIII – Voci dal passato

 
Non vi era altro che nebbia. Un opaco e sottile velo che si andava ad interporre tra i suoi luminosi occhi verdi e il mondo che lo circondava. Si sentiva fluttuare in quel luogo sconfinato: non vi era alcun punto di riferimento, nessun appiglio su cui far presa. Una strana luce, i cui raggi sembravano provenire da ogni dove, lo stava pian piano avvolgendo nel suo candido bagliore.

 Era incapace di percepire il proprio corpo: per quanto cercasse di muovere le braccia e le gambe, queste non gli rispondevano. Perfino il flusso dei suoi pensieri era scemato al punto tale che la sua stessa mente risultava ormai vuota. Non era rimasto più nulla, lui non era più nulla. Mera estensione di quello spazio bianco, di cui era diventato parte, rimase in attesa.

Cinque secondi, forse cinque giorni o forse ancora cinque secoli, non era in grado di capire per quanto tempo fosse rimasto in quella sorta di stasi. Del resto, non che gliene importasse molto: lui voleva solo tornare a casa, tornare dalla propria famiglia e abbandonare quel posto surreale e desolato. C’era unicamente quell’opprimente luce dai contorni indefiniti: impossibile da raggiungere e toccare. Erano solo loro due: un tutt’uno indivisibile; un tutt’uno privo di alcun significato logico; un tutt’uno che stava sparendo nel più assoluto silenzio. «Ti prego! Non farlo… ucciderai milioni di innocenti»

Una densa e soffocante polvere gli permeò improvvisamente le vie aeree fino ai polmoni. Sentiva il suo pesante odore all’interno del naso e il sapore acre, un misto di terra e ferro, sulla punta della lingua. Come fiocchi di neve, quei granelli grigi cadevano lentamente dal cielo adagiandosi al suolo. Tossì forte: quell’aria era irrespirabile. Si stropicciò gli occhi con la speranza di vedere oltre la punta del proprio naso.

Doveva muoversi, non poteva continuare a rimanere fermo in quel punto. Troppo pericoloso, ma come poteva dirlo? Non era nemmeno consapevole in che luogo si trovasse. Eppure, il suo istinto gli suggeriva di muoversi. Avanzò a tentoni in quella coltre fuligginosa: le mani tese in avanti e le orecchie pronte a captare qualsiasi tipo di rumore. Quella voce, quel grido di disperazione gli rimbombava ancora nella testa.

«Non può finire così! Torna in te, per favore.»

Ancora una volta: un suono chiaro, spezzato da una roca nota di pianto. Iniziò a correre. Per quanto fosse pericoloso, preferiva rischiare di inciampare piuttosto che continuare a vagare alla cieca. Si mosse verso destra, o forse sinistra: non lo sapeva, né gli importava. Il suo unico scopo era raggiungere il proprietario di quella voce. Il come e il perché potevano benissimo aspettare.

Man mano che proseguiva il velo di polvere si diradava sempre più. Il paesaggio circostante cominciava ad assumere una connotazione definita. Una collina si stagliava solitaria all’orizzonte, mentre alberi dall’alto fusto circondavano quella che sembrava una desolata radura. Il terreno era arido, privo di erba o piante. In lontananza fioche luci rossastre rischiaravano l’oscurità della notte. Corse verso di esse sperando che vi fosse qualcun altro ad aver avuto la sua stessa idea. Ormai erano vicinissime, poteva quasi toccarle.

«Ma cosa diavolo?! Non è possibile…»

Le parole gli morirono in gola. Si affrettò a coprirsi il naso e la bocca con entrambe le mani: la puzza era nauseabonda. Indietreggiò terrorizzato, chiedendosi chi avesse mai potuto compiere una simile barbarie. Dinanzi a lui una decina di cataste di cadaveri ardevano sotto fiamme crepitanti. Erano loro la causa di tutto quel fumo e della polvere: la cenere prodotta da quei corpi martoriati.

Nubi scure dai contorni grigiastri si innalzavano al cielo, portando con sé le urla di dolore di quei poveri sventurati. Erano stati arsi vivi, non vi era alcun dubbio. Alcuni di essi, nonostante fossero avvolti dalle fiamme, si muovevano, emettevano agghiaccianti rantoli. Non riusciva più a tollerare quel macabro spettacolo: voleva andare via, lontano da quel posto. Si voltò e, chiudendo gli occhi, iniziò a correre, o almeno ci provò.

«Perché non mi muovo?! Cosa mi sta succedendo?»

Una misteriosa e invisibile forza lo tenne lì, fermo in quel punto. Come se fosse stato pietrificato da una qualche fattura, non era in grado di muovere alcun muscolo. Il suo corpo non gli rispondeva. Immobile e privo di difese, era alla completa mercé degli eventi. Intanto, i cumuli di corpi fumanti avevano smesso di ardere e soltanto piccoli focali lambivano ancora le carni putrescenti.

«Devo andarmene, non voglio rimanere qui…» pensò tra sé, le proprie labbra incapaci di articolare le parole. «Forse se riuscissi a raggiungere la mia bacchetta…»

Nonostante lo stato di paralisi, fu in grado di muovere il braccio verso la tasca dei pantaloni. Per un attimo ebbe l’impressione che fosse la sua stessa bacchetta a richiamarlo. Quasi non avesse potuto compiere nessun altro movimento al di fuori di quello, ne afferrò il manico nero. Non appena fece ciò, provò una piacevole sensazione di leggerezza. Poteva nuovamente muoversi in totale libertà. Serrò la presa sulla bacchetta e, portatala all’altezza del viso, la esaminò con attenzione. «Perché mi hai portato qui? Cosa volevi mostrarmi?»

Si diede dello sciocco: sapeva bene che non avrebbe mai ricevuto alcuna risposta. Tuttavia, con suo grande stupore si rese immediatamente conto che le sue parole non sarebbero rimaste inascoltate. La punta del magico oggetto si illuminò di un’intensa luce verde smeraldo. Fu un attimo, senza rendersene conto, mosse il braccio in avanti. Il globo luminoso si separò dalla bacchetta e si mosse in avanti, a pochi metri di distanza da lui.

Un intenso bagliore lo investi in pieno viso, che coprì con le mani per evitare di accecarsi. La luce svanì in un secondo lasciando il posto a due figure umane intente a fronteggiarsi. Erano un uomo ed una donna, avrebbero potuto avere all’incirca una trentina d’anni. Vestiti con pesanti armature scintillanti, non davano l’impressione di essere dei cavalieri; ma piuttosto dei maghi dal momento che si combattevano a colpi di incantesimi. Entrambi non sembravano essersi minimamente accorti della sua presenza e continuavano a darsi battaglia indisturbati.

«Perché non vuoi capirlo?! Voi non eravate niente per me!» gridò la giovane, mentre lanciava pericolose maledizioni al suo avversario.

«Ti prego… sei ancora in tempo: torna in te!» la supplicò l’altro intento a difendersi da quei colpi mortali piuttosto che a farle del male.

«Questa è la mia scelta, la mia strada. Non tornerò mai indietro!»

«E sia, non mi lasci altra scelta…»

I due si posizionarono uno di fronte l’altra, le bacchette puntata all’altezza del petto. Per alcuni istanti si sentì solo il brusio del vento e il crepitare di fiacche fiamme, poi un solo urlo squarciò l’aria. «Avada Kedrava!»

Fu investito da un’intesa luce verde, mentre nella sua testa rimbombava di nuovo quella voce. «Salvala Adrien, salva tutti loro.» Non capì più nulla: la testa gli faceva male e le gambe non erano più in grado di sorreggere il suo peso. Si accasciò a terra, non sapeva se stesse per morire. Non gli importava, voleva solo che tutto quello finisse. Chiuse gli occhi e cadde in lungo sonno finché il suono della sveglia non lo fece sobbalzare dal letto.

Si ritrovò nel dormitorio dei Grifondoro. La fronte madida di sudore, il respiro affannato. Stropicciò gli occhi ancora assonnati, forse sarebbe stato il caso di darsi una sciacquata al viso. Facendo attenzione a non svegliare Plagg, beatamente appallottolato sul piumone, raggiunse in punta di piedi il bagno. Fu svelto, aveva paura che il suo vagabondare notturno potesse richiamare l’attenzione degli altri studenti. Chiuse la porta dietro di sé e si avvicinò al lavandino.

«Possibile si sia trattato solo di un sogno?» mugugnò tra sé, mentre dell’acqua gelida gli scorreva lungo le guance. «Eppure era così… così reale.»

Tornò nel dormitorio e si rimise sotto le coperte. Non aveva molta voglia di dormire: quell’incubo lo aveva profondamente turbato. Girò la testa verso il comodino sul quale era poggiata la propria bacchetta. Quante erano le probabilità che fosse successo tutto a causa sua? Possibile che il Preside Fu gli avesse dato un oggetto tanto potente e pericoloso? Quei dubbi lo tormentarono per tutta la notte, finché il sole illuminò le slanciate guglie di Hogwarts.

«Come sono eccitata. Non vedevo l’ora che arrivasse questo giorno!» esclamò, euforica, Alya saltellando allegramente per il passaggio che le avrebbe condotte al cortile esterno.

«Ehi, adesso calmati. Ci stanno guardando tutti.»

«Andiamo Marinette… È la nostra prima lezione di volo: non puoi non sentire quel fremito.»

«Sarà, ma io sento solo tanta agitazione» biascicò l’altra scuotendo la testa, «E se non riuscissi a far alzare la scopa? O peggio: se cadessi e mi rompessi il braccio buono?! Non potrei più usare la bacchetta, quindi nessuna magia. Mi bocceranno a tutte le prove pratiche e poi…»

La figlia del Signor Césaire le tappò la bocca con entrambe le mani. Ogni volta che l’amica partiva con le sue solite pare mentali, quello era l’unico modo per farla smettere. «Adesso calmati. Sono sicura che andrai benissimo e, qualora dovessi cadere, interverrà l’insegnante. Quindi stai calma.» Marinette, impossibilitata a parlare, fece un timido cenno di assenso con la testa. Alya sorrise, poi la prese sottobraccio ed entrambe ripresero il cammino.

Il cortile esterno, situato nelle vicinanze del campo da Quidditch, era il luogo ideale per le lezioni di volo. Isolato e ben attrezzato, permetteva agli studenti alle prime armi di fare pratica con le scope volanti. In quella mattina di inizio ottobre era stato chiamato a raccolta tutto il primo anno. Dopotutto, nessuno studente si sarebbe mai perso l’opportunità di sfrecciare a mezz’aria a cavallo di un manico di scopa.

«Finalmente siete arrivate. È mezz’ora che vi aspettiamo, ve la siete presa comoda» ridacchiò Nino andando in contro alle due ragazze.

«Marinette si è fatta prendere dal panico, come al solito del resto…»

«Ehi! Ero solo leggermente agitata» protestò la ragazza imbronciandosi, «Piuttosto, dov’è Adrien? Non lo vedo.»

«Ci sta tenendo il posto.»

«D’accordo allora muoviamoci, non vedo l’ora di iniziare!» sentenziò Alya afferrando gli altri due per le maniche delle loro cappe e trascinandoli con sé.

Per l’occasione erano state installate delle tribune mobili ai lati del cortile. In quel modo tutti gli studenti del primo anno avrebbero potuto assistere comodamente alla lezione senza doversi accalcare gli uni sugli altri. Il giovane Agreste, poiché alzatosi di buon mattino, era riuscito a trovare dei posti in prima fila. Questi erano strategici sia dal punto di vista teorico, perché permettevano di ascoltare in modo chiaro l’insegnante, che pratico. Infatti, i ragazzi davanti sarebbero stati i primi a cavalcare le scope.

«Buongiorno Adrien caro. Quei posti sono per me? Non dovevi scomodarti.»

«Veramente li stavo mantenendo per i miei amici, Chloé.» replicò, imbarazzato, il ragazzo arrossendo sulle guance. «Ma se ci stringiamo, forse riusciamo ad entrarci tutti insieme.»

«Non se ne parla proprio! Ho bisogno del mio spazio vitale, io» esclamò la figlia del Primo Ministro della Magia Francese con tono acidulo, mentre giocherellava con la sua coda di cavallo. «I tuoi amichetti si metteranno dietro.»

Chloé afferrò lo zaino di Nino per liberare la panca di legno, ma Adrien gliela strappò di mano. Fece un passo indietro spaventata: non gli aveva mai visto quell’espressione in volto. Per un’istante le sembrò di rivederlo: mai prima di allora erano stati così simili. «M-m-ma cosa stai facendo?! Devo sedermi.»

«Ti ho già detto che questi posti sono occupati. Se la mia proposta non ti sta bene, puoi anche andartene.» Lo sguardo truce del ragazzo tradiva la rabbia e la frustrazione accumulate durante il corso della mattinata. Era stanco, spaventato e deluso dal fatto di non aver ancora compreso il significato di quell’incubo. Si sentiva come una bomba pronta ad esplodere, ma ben presto si rese conto di quanto fosse ingiusto coinvolgere Chloé nei suoi problemi. Era stata la sua prima amica e, a prescindere dal suo atteggiamento, le voleva bene. «Ascolta… lì c’è Sabrina. Sono ore che si sta sbracciando, ti ha tenuto il posto. Va da lei.»

«D-d-d’accordo.» balbettò l’altra senza aggiungere altro. Raggiunse la sua compagna di stanza. Aveva gli occhi lucidi e il morale a pezzi. Ignorando le attenzioni di Sabrina, rimase in silenzio fino all’inizio della lezione. Rimuginò su quanto accaduto chiedendosi cosa l’avesse spinto ad agire in quel modo. Forse i suoi nuovi amici lo stavano condizionando? Oppure era effettivamente colpa sua: possibile avesse esagerato? Quei dubbi la tormentarono per diversi minuti, ma non fu in grado di venirne a capo. Di una cosa era però certa: aveva soltanto Adrien e non avrebbe mai permesso che qualcun altro lo allontanasse da lei.

«Cosa voleva Miss. “miopadreèilprimomistroquindiqualsiasitortomifateluiloverràasapere”?»

«Niente…» biascicò il giovane Agreste, mentre faceva spazio ai tre sulla panca. «Aveva bisogno soltanto di un’informazione, tutto qui.»

Sebbene non fossero pienamente convinti della cosa, i tre presero posto accanto al loro amico. Di lì a poco l’insegnante di volo, il Professor D’Argencourt, guadagnò il centro del cortile. Era accompagnato da alcuni studenti del sesto e settimo anno. Tra questi, una pimpante ragazza dalla carnagione scura si voltò verso Marinette e Alya facendo loro l’occhiolino. La prima fu molto sorpresa del gesto, la seconda al contrario si rannicchiò dietro il parapetto degli spalti a causa della vergogna. «Ehi, ma la conosci?»

«Purtroppo sì, è mia sorella maggiore: Nora» mugugnò la figlia del Signor Césaire in preda all’imbarazzo.

Intanto due file di manici di scopa erano state disposte sul verde prato dagli assistenti dell’insegnante. Questi, non appena i preparativi furono ultimati, iniziò a spiegare alle matricole i fondamenti del volo. Fu una lezione piuttosto breve. Dopotutto, D’Argencourt era un uomo di azione: preferiva la pratica piuttosto che la teoria. Di conseguenza, non trascorse molto tempo prima che gli studenti delle file davanti fossero invitati ad affiancarsi alle scope.

«Non vedevo l’ora di iniziare. Sono sicuro che a breve sfreccerò sul tetto della scuola!»

«Calmati Nino. Se non presti attenzione, l’unico posto dove sfreccerai sarà l’infermeria» esclamò Adrien trattenendo a stento le risate. «E poi, non credo proprio che già alla prima lezione ci faranno alzare da terra.»

«Bene, adesso stendete il braccio in direzione della scopa e dite “SU!”» spiegò l’insegnante coprendo con la sua voce il brusio degli studenti. Un coro di “SU!” riecheggiò nell’aria. I primi risultati, come c’era da aspettarselo, furono abbastanza deludenti. Nessuno era riuscito a far alzare il proprio manico da terra. Qualcuno aveva ottenuto dei piccoli sobbalzi; altri, come Marinette e Nino, non erano riusciti neanche in questo. «Lo sapevo! Sono una frana, non sarò mai in grado di volare a cavallo di questo aggeggio» piagnucolò la ragazza, mentre ripeteva in continuazione la parola “SU!” senza alcun risultato.

«Marinette adesso calmati. Ti mostro io come si fa, non è complicato.»

Sentì improvvisamente una pressione sul fianco sinistro. Un dolce profumo di cannella la avvolse con delicatezza. Adrien era dietro di lei, la bocca a pochi centimetri dal suo collo. Un brivido le corse lungo la schiena. Era una sensazione strana, ma piacevole. «N-n-non voglio farti perdere tempo: anche tu non sei riuscito nell’esercizio, non preoccuparti per me» farfugliò la figlia del Signor Dupain in preda all’imbarazzo.

«Tranquilla, il mio manico può aspettare» le sussurrò l’altro prendendole dolcemente il braccio, «Vedi… i manici di scopa sono intelligenti, capiscono se chi li usa ha paura o poca fiducia in sé.»

«D-d-davvero? Non lo immaginavo.»

«Devi essere decisa quando ti approcci a questi oggetti. Non mostrare paura e vedrai che tutto andrà per il meglio!»

La ragazza annuì, poi affiancata dall’amico cercò di concentrarsi. Doveva riuscirci: non lo avrebbe deluso. Entrambi esclamarono “SU!” e questa scattò immediatamente nelle loro mani intrecciate.
 

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Capitolo 10
*** Capitolo IX – La lezione di volo ***


Capitolo IX – La lezione di volo

 
Il resto della mattinata proseguì in maniera piuttosto tranquilla, quasi monotona. Dopo aver aiutato l’amica, anche Adrien riuscì al primo tentativo a far levitare il manico di scopa nella propria mano sbalordendo i presenti. Sebbene adducesse la buona riuscita di tale impresa alla fortuna, Marinette non gli credette: conosceva bene il suo talento eccezionale. Non di rado quell’immensa bravura l’aveva fatta sentire inferiore e a disagio. Era più bravo di lei in ogni disciplina e per questo motivo, nonostante se ne vergognasse tremendamente, lo invidiava.

Con il tempo però si era resa conto di quanto dovesse essere difficile per Adrien sopportare tutta quella pressione. Costantemente al centro dell’attenzione, era suo malgrado osservato e giudicato da chiunque conoscesse il suo nome. Agreste, una semplice parola che racchiudeva al proprio interno una serie infinita di precetti, obblighi e responsabilità. No, lui non avrebbe mai voluto essere il migliore di tutti, ne era certa. Ciononostante, non aveva altra scelta: era il figlio di Gabriel Agreste e come tale era suo dovere esserlo.

Ad eccezione di loro due, quasi nessun’altro era stato capace di portare a termine il compito assegnato. Ad esempio, Alya si era limitata a far sobbalzare la propria scopa. Nino, invece, colto da un improvviso momento di eccitazione mista a disperazione, aveva infuso nel comando un po’ troppa enfasi rimediandosi una bastonata in pieno volto. Soltanto Kim e Alix, dopo un paio di tentativi a vuoto, erano riusciti ad agguantare l’oggetto magico. Si erano allenati duramente per riuscirci: il loro sforzo aveva dato i risultati sperati.

«Molto… ehm… bene…» sibilò il Professo D’Argencourt con una leggera nota di imbarazzo della voce, «Credo si arrivato il momento di farvi cavalcare queste scope!»
Un coro di stupiti “oh” si levò dagli studenti del primo anno. Non avrebbero mai immaginato che fosse concesso loro di montare sulle scope alla prima lezione. Alcuni ragazzi, tra cui Nino e Kim, già si vedevano sorvolare la torre dell’orologio o planare in picchiata sul Lago Nero. L’insegnante, però, richiamando l’attenzione su di sé con un rapido movimento della mano, smorzò immediatamente gli entusiasmi. «Ci limiteremo ad alzarci di pochi centimetri da terra. Sarebbe da incoscienti lasciarvi strafare!»

«Ma non aveva detto che per insegnar loro a volare, li avrebbe buttati giù dalla torre di astronomia?» gli domandò, bisbigliandogli nell’orecchio, la giovane dalla pelle scura che quella mattina aveva rivolto strane attenzioni a Marinette e Alya.

«Purtroppo, il Preside me l’ha vietato. Mi dispiace, Nora.»

«Peccato ci sarebbe stato da divertirsi…»

«Lo so» concluse amaramente l’altro, mentre comandava ai suoi assistenti di sistemare le matricole.

Furono disposti su due file parallele. Maschi da un lato e femmine dall’altro. I ragazzi erano saliti a cavallo del proprio manico di scopa e, fremendo in preda all’eccitazione, non aspettavano che un gesto del Professor D’Argencourt per librarsi in aria. Questi, posizionatosi tra i due schieramenti, si accertò innanzitutto che ciascuno studente avesse eseguito alla lettera le sue raccomandazioni, poi diede il via alla prova.

Come c’era da aspettarsi non un manico di scopa si alzò da terra. Nonostante gli studenti cercassero di spiccare il volo tendendo più che potevano le gambe, nessuno di loro fu in grado di librarsi in aria. Alcuni a causa dello sforzo si strapparono qualche muscolo, altri invece ricaddero in avanti ormai esausti. Il Professor D’Argencourt e i suoi assistenti, facendo di tutto per non farsi notare, se la ridevano di gusto osservando quelle matricole così impacciate.

«Nino stai attento!» esclamò, inviperita, Alya allontanando il compagno con un calcio, «A furia di spingerti avanti, mi stavi venendo addosso.»

«Ehm… scusa, stavo cercando di far volare questa dannata scopa.»

«Mi sa che non ne siamo ancora capaci. Come se non bastasse guarda come si divertono alle nostre spalle, non li sopporto!»

La figlia del Signor Césaire indicò l’insegnante e i ragazzi che gli facevano da assistenti. Intenti a parlottare tra di loro, non si resero conto delle occhiatacce che la giovane gli stava lanciando. Allo stesso modo Nino, messa da parte la ramazza, incrociò le braccia al petto rifiutandosi di continuare. Era ormai evidente che non avrebbero ottenuto alcun risultato utile. «Io ci rinuncio! Preferisco ripetere l’ultimo argomento spiegato a Storia della Magia.»

«Mi unisco a te: ci sono delle cose che vorrei chiarire.»

Alya prese sotto braccio il compagno che non poté fare a meno di arrossire. I due si appartarono sotto il porticato del cortile e, sedutisi su una panchina, si concentrarono sul ripasso. Intanto Adrien e Marinette, rimasti soli, continuavano ad esercitarsi.

«Non dovresti sforzarti così tanto, Marinette…»

«C-c-come?! Che intendi dire?»

Adrien sorrise, «Non si tratta di una “questione fisica”, ma mentale. Mi segui?»

«Non molto a dir la verità» farfugliò l’altra con imbarazzo temendo di poter sembrare una totale incapace.

Il giovane Agreste smontò dalla propria scopa e si accovacciò alla destra della ragazza. Le poggiò delicatamente una mano sulla schiena, mentre con l’altra afferrò il manico di legno. Marinette rimase immobile: il suo corpo era teso, un unico fascio di nervi. Non aveva il coraggio di muoversi; credeva che anche il più impercettibile dei gesti potesse dar fastidio. Respirava a fatica, la gola le si stava seccando. Provava un miscuglio di strane sensazioni che non era in grado di spiegarsi. Era confusa, in balia delle sue stesse emozioni.

«Bene adesso rilassa i muscoli di gambe e braccia» sibilò dolcemente Adrien ottenendo però l’effetto opposto. «Ehi, non così altrimenti rischi di spezzarti le ossa.»

«S-s-scusa, non l’ho fatto apposta» balbettò l’altra prendendo dei profondi respiri al fine di calmarsi.

«Stai tranquilla. Ci sono io vicino a te, andrà tutto bene.»

Quelle parole le scaldarono il cuore e, quasi avessero avuto un potere catartico, furono un toccasana per i suoi nervi. Rilassò il proprio corpo sentendolo immediatamente leggero, privo di consistenza. Sgombrò la mente da ansie e preoccupazioni e si concentrò unicamente sulla voce dell’amico che stava accanto a lei. Le suggeriva di annullarsi completamente, di abbandonarsi al proprio istinto. Finalmente l’aveva capito: non era una “questione fisica” ma mentale.

«Ecco… ci sei…» le sussurrò il ragazzo stringendo la presa sul manico di scopa, «Adesso chiudi gli occhi e… e lasciati andare.»

«N-n-non sarà pericoloso.»

«Non aver paura: ti tengo io, fidati di me.»

«D’accordo!»

Quell’ultima affermazione, così decisa, così carica di convinzione, racchiudeva tutta la sicurezza che Marinette nutriva nei suoi confronti. Fece come le era stato detto. Chinò il capo e, isolandosi dal mondo esterno, focalizzò tutta se stessa sull’oscurità che aveva avvolto il proprio corpo. Era sola. Anche Adrien era scomparso, inghiottito da quell’oblio che si era andato ad interporre tra lei e tutto il resto. Doveva concentrarsi, ma allo stesso tempo rilassare il corpo e la mente. Non sarebbe stato affatto facile, però era certa ci sarebbe riuscita: lui era lì, non poteva deluderlo.

Una debole folata di vento agitò i verdi fili d’erba del cortile esterno. Il giovane Agreste sorrise compiaciuto: ci era riuscita. Sotto lo sguardo sbigottito dei suoi compagni, i piedi della ragazza si staccarono da terra. Ben stretta tra le mani del suo compagno, aveva iniziato a fluttuare senza accorgersene. Lo stesso Professor D’Argencourt, dapprima sorpreso per l’accaduto, batteva le mani divertito. «Molto, molto bene Signorina Dupain-Cheng. Mi congratulo con lei: nessuno dei miei studenti era mai riuscito in quest’impresa. Si è guadagnata ben 20 punti per Corvonero!»

Marinette sentì chiaramente la voce dell’insegnate, ma non si mosse né esultò. La paura di interrompere quella sorta di trance che le aveva permesso di volare era troppo forte. Adrien lo capì immediatamente. Lasciò la presa sulla scopa dell’amica e le accarezzò dolcemente la testa al fine di tranquillizzarla. «Marinette ce l’hai fatta, puoi riaprire gli occhi. Sei stata bravissima, eccezionale…»

«Il merito è soltanto tuo» biascicò la figlia del Signor Dupain alzando lentamente le palpebre.

Temeva fosse soltanto un sogno, che si fosse immaginata ogni cosa. No, era reale: si stava veramente librando in aria. Un’irrefrenabile sensazione di euforia mista a gioia le pervase l’animo. Adrien era ancora accanto a lei, mentre il resto degli studenti avevano fatto capannello. I loro sguardi di ammirazione, velati da una comprensibile nota di invidia, erano puntati sulla giovane Corvonero. Solo Chloé e Sabrina, ormai diventate un concentrato di bile vivente, se ne stavano in disparte e continuavano ad esercitarsi.

«Sei grande Marinette!» cinguettò Alya facendosi largo tra la folla, seguita a ruota da Nino. «Woah sorella! Hai sbaragliato la concorrenza!»

«G-g-grazie ragazzi…» balbettò Marinette in preda all’imbarazzo, «Ma il merito è tutto di Adrien. È stato lui a spiegarmi come fare.»

«Ehi amico! La prossima volta mi aspetto lo stesso favore!»

«Oh andiamo Nino… è stato merito di Marinette. Io le ho solo dato qualche dritta» replicò il figlio di Gabriel Agreste massaggiandosi la nuca con fare colpevole.
«Ragazzi, occhi a me!» esclamò all’improvviso l’insegnante di volo, concentrando su di sé l’attenzione degli studenti. «Per oggi la lezione finisce qui, ci siamo esercitati abbastanza. Signorina Dupain-Cheng può scendere a terra, adesso.»

Marinette annuì. Prese un profondo respiro e si concentrò affinché i suoi piedi toccassero terra. Non ne fu in grado. Avvertì un’improvvisa scossa sull’impugnatura che la fece sobbalzare. La scopa si sollevò ulteriormente e, nonostante la ragazza cercasse di impedirglielo, si inclinò verso l’alto. I presenti, non avendo ancora ben capito cosa stesse accadendo, rimasero ad osservare la scena, immobili e in silenzio. Soltanto Adrien sembrava aver compreso la gravità della situazione.

Non appena il manico iniziò a vibrare con intensità, si lanciò in avanti verso la sua amica. «Marinette! Scendi immediatamente prima che…», le ultime parole del giovane Grifondoro si persero nell’impetuoso vortice di vento causato dal decollo della scopa. «Dannazione! Non sono arrivato in tempo.»

Si scatenò il panico. Le matricole, spaventate per la sorte della loro compagna, gridarono a gran voce l’aiuto del Professor D’Argencourt. Quest’ultimo era però totalmente impreparato ad una tale evenienza: in più di trent’anni di carriera non era mai capitato che uno studente corresse un tale pericolo. Non sapeva cosa fare, era nel pallone. No, era troppo distante per fermarla con un incantesimo: avrebbe potuto ferire la ragazza. Avrebbe potuto lanciarsi all’inseguimento e al momento opportuno trarla in salvo. Certo, era la soluzione migliore. «Nora! Prendi il mio manico di scopa!» urlò l’uomo rivolgendosi alla sua assistente.

La ragazza dalla pelle scura non aspettò che quell’ordine le fosse ripetuto per una seconda volta. Correndo a testa bassa, si precipitò nello studio del professore. Tuttavia, non fece neanche in tempo a raggiungere il porticato del cortile che un secondo manico di scopa spiccò il volo. Al cavallo di quest’ultima vi era il figlio di Gabriel Agreste che, sbalordendo i suoi compagni di corso, stava dimostrando un’abilita fuori dal comune. «Resisti Marinette… sto arrivando!»

Intanto Marinette si teneva stretta al proprio manico di scopa. Quest’ultimo, ormai del tutto privo di controllo, continuava ad innalzarsi. Come se non bastasse, si stava anche allontanando dal perimetro del cortile esterno. Puntava pericolosamente alle alte torri di Hogwarts. «Per mille croissant! A questa velocità non le eviteremo mai, ci schianteremo» esclamò, allarmata, la ragazza cercando di deviare la traiettoria.

Per quanto si sforzasse, non vi era alcun verso di cambiare la “decisione” della scopa volante. Era come se qualcuno la stesse controllando; anzi no, come se le avesse conferito una totale autonomia. Sembrava dotata di una propria volontà. Aumentò ulteriormente la velocità sfrecciando verso una delle guglie della torre di astronomia. Alla giovane Corvonero non restò altro da fare serrare le palpebre e, abbarbicatasi all’impugnatura, urlare di paura.

Chiusa in se stessa, irrigidendo ogni singolo muscolo del corpo, rimase in attesa dell’impatto. Ormai c’era quasi: niente e nessuno l’avrebbe potuta salvare. Avvertì un forte scossone laterale, poi una voce familiare le rimbombò nella testa. «Marinette… Marinette! Sono io, Adrien!»

«C-c-cosa?! Com’è possibile?» farfugliò l’altra riaprendo con difficoltà gli occhi. «Che ci fai qui? Devi andartene via, è pericoloso!»

«Non dire sciocchezze!» la rimproverò Adrien, mentre le si affiancava con la scopa, «Non potrei mai lasciare un’amica in difficoltà. Non me lo perdonerei mai!»

Marinette sorrise, era felice che il ragazzo si interessasse così tanto a lei. Dopotutto, era questo il vero significato della parola “amicizia”, no? Prendersi cura l’uno dell’altro, fare in modo che i problemi delle persone che amiamo siano anche i nostri. Eppure, c’era qualcosa che non le tornava. Una strana sensazione che andava oltre qualsiasi emozione e sentimento provati in passato. Era come se lo stare insieme ad Adrien comportasse una lo scoprire una nuova parte di sé, un aspetto del proprio essere che mai si sarebbe immaginata.

Al giovane Agreste occorsero altri tre spintoni affinché il manico di scopa cambiasse definitivamente direzione. Sarebbero tornati al cortile esterno e lì il Professor D’Argencourt avrebbe trovato il modo di riportare a terra la ragazza. Tuttavia, proprio quando stavano sorvolando l’enorme Campo da Quidditch, la scopa di Marinette riprese a vibrare con maggiore forza e insistenza. «Adrien! Ho paura che stia per… per farlo di nuovo.»

«Tieniti forte! Ci siamo quasi…» gridò l’altro tentando di afferrare l’impugnatura in legno.

Fu inutile. La scopa volante scattò in avanti sfuggendo alla sua presa. Superò il cortile esterno e si diresse al ponte in pietra che permetteva l’accesso alla scuola. La figlia del Signor Dupain, stanca di essere scorrazzata in giro, tentò di opporsi. Serrò la presa sul manico e si concentrò con tutta se stessa al fine di fermarsi. L’oggetto incantato però, quasi avesse capito le sue intenzioni, glielo impedì. Eseguì una rotazione di cent’ottanta gradi mettendo la Corvonero a testa in giù; poi prese a muoversi a zig-zag in modo tale da farla cadere.

L’imponente struttura in roccia era sempre più vicina. Marinette, ormai del tutto impossibilitata ad evitare il peggio, si era rassegnata all’idea di schiantarsi. Sebbene in quella situazione fosse comprensibile, si sforzò di non piangere. Non voleva mostrarsi debole e impaurita agli occhi dei suoi compagni. Era stupido, nessuno la stava osservando. Avrebbe anche potuto supplicare senza che altri lo venissero a sapere. No! Non doveva lasciarsi dominare dalla paura, voleva essere coraggiosa proprio come lui. Proprio come Adrien.

«Marinette! Sono sotto di te, Lasciati andare!»

Il suono di quella voce arrivò ovattato, impercettibile. Possibile che se lo fosse sognato? «Lascia la scopa, ti prendo io! Ti prego non abbiamo più tempo…». Per una seconda volta quelle parole riecheggiarono nell’aria senza sortire alcun effetto. La giovane Corvonero si era rassegnata al suo triste destino, nulla avrebbe potuto cambiarlo. Stava accadendo tutto nella sua testa: un ultimo scherzo del destino che si accaniva contro di lei. Niente aveva più alcun senso, solo la morte.

«Staccati da quel manico, Marinette!» gridò Adrien con gli occhi gonfi di lacrime quando solo una cinquantina di metri li separava dal ponte in pietra. «Per favore lasciati andare… non posso perdere anche te.»

Quei singhiozzi rimbombarono nelle orecchie della ragazza. Come spade affilate, le trafissero il petto inondandolo di dolore. Era reale: lui era lì per lei, non poteva arrendersi. Avrebbe rischiato, messo in gioco dalla sua vita. Non sapeva cosa sarebbe accaduto, ma non le importava. Si fidava di Adrien e questa era l’unica cosa che doveva sapere. Allentò la presa sull’impugnatura e si fece cadere nel vuoto. Furono attimi interminabili, poi avvertì il caldo abbraccio del suo amico.

Era stata coraggiosa, non si era piegata alla paura. Fiera come non mai, era andata a testa alta contro la sua stessa fine. Ma in quel momento, stretta tra le braccia di Adrien, non riuscì più a trattenersi. Le sue lacrime si mischiarono a quelle di Adrien; i volti stanchi ma felici.

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Capitolo 11
*** Capitoli X - Cercasi Cercatore ***


Capitolo X – Cercasi Cercatore

 
Erano ore che camminava avanti e indietro per la stanza. Incapace di darsi pace, dava l’impressione di voler creare un solco nel pavimento in pietra della “Sala dei Trofei”. Visitare quel luogo era il suo più grande desiderio. Fin da bambino gli era stato raccontato quanto fosse magica l’aura di sacralità che vi si respirasse. Ad ogni nuova storia la sua fantasia compiva un balzo in avanti. Immaginava le statue raffiguranti i campioni del passato, fantasticava sulle teche contenenti i trofei di Quidditch, la Coppa delle Case e il premio più prestigioso di tutti: la Coppa Tre Maghi.

Tutto ciò che aveva sempre sognato era proprio lì, davanti ai suoi occhi. Eppure, non vi era un briciolo di felicità nel proprio cuore. Si avvicinò ad una vetrinetta, la fronte premuta contro di essa. Le sue labbra si incresparono in un sorriso carico di amarezza. Pensò quanto fosse crudele il suo destino, quanto si accanisse contro di lui. Aveva sperato che Hogwarts gli desse la possibilità di affrancarsi dalla figura paterna, di costruirsi una propria identità. Ma quello, ciò che gli stava accadendo, era decisamente troppo.

Aveva dovuto accettare controvoglia la decisione del Cappello Parlante che lo aveva smistato nella Casata di Grifondoro; adesso gli stavano addirittura chiedendo di difenderne l’onore sul campo da gioco. No, non poteva arrivare a tanto. Nella mente ancora gli facevano eco le striminzite parole di suo padre che, affidate ad uno sterile foglio di carta, commentavano il suo l’esito della cerimonia. Nonostante avesse cercato di congratularsi, era evidente che ci fosse rimasto male: l’aveva deluso per l’ennesima volta.

Alzò leggermente lo sguardo posando i suoi occhi color smeraldo su una vecchia targa di legno. Ebbe un tuffo al cuore, si maledisse per l’essersi accasciato proprio su quella teca tra le tante che affollavano la stanza. Uno scudo dorato, incastonato nella superfice lignea del trofeo, recava la seguente scritta: “A Gabriel Agreste, il miglior Cercatore della Casata di Salazar Serpeverde”. Adrien lesse quella dedica un paio di volte, prima che la vista gli si appannasse a causa delle lacrime.

Si staccò con forza dal vetro. Barcollò all’indietro per poi cadere a terra con un tonfo sordo. La testa gli faceva molto male, sembrava quasi che stessero per andargli a fuoco le tempie. Ebbe l’impressione che le alte pareti del castello si rimpicciolissero secondo dopo secondo. Lo stavano imprigionando, il suo spazio vitale era sempre più limitato. Iniziò ad ansimare strisciando sul pavimento. Voleva rimettersi in piedi, ma gambe e braccia non avevano la forza necessaria per farlo.

Si sentiva mancare l’aria. Ogni singolo respiro comportava un’atroce sofferenza. Raggiunse una panca di pietra. Cercò di arrampicarsi su di essa, non ne fu in grado. Boccheggiando e digrignando per lo sforzo, si accasciò nuovamente a terra rannicchiandosi. Socchiuse gli occhi ormai esausto, mentre nella sua mente si affollavano le immagini di una settimana prima. Frammenti di ricordi che gli ricordavano, sebbene non ve ne fosse alcun bisogno, il motivo che l’avesse condotto lì.

Aveva salvato Marinette. Si era ripromesso di tenere nascosto il suo eccezionale talento per il volo con la scopa, ma non poteva permettere che le accadesse qualcosa. Per un attimo aveva esitato pensando alle disastrose conseguenze, si diede del codardo. Soltanto un verme se ne sarebbe stato con le mani in mano pur sapendo di avere la capacità di intervenire. L’aveva fatto per lei, aveva rischiato tutto soltanto per vederla tornare a sorridere. Ciò che sarebbe accaduto in seguito non aveva più importanza, perdeva di significato dinanzi la felicità della sua amica.

Quando toccarono nuovamente terra, il Professor D’Argencourt gli fece mille domande chiedendogli dove avesse imparato a destreggiarsi in quel modo con un manico di scopa. Poteva ancora provare l’imbarazzo di quel momento, vedere i suoi maldestri tentativi di minimizzare l’accaduto. Nessuno gli credette. Del resto come avrebbero potuto farlo? Aveva spiccato il volo e si era messo all’inseguimento di Marinette. Soltanto degli sprovveduti avrebbero potuto lasciarsi fregare da quelle scuse assurde.

Come se gli elogi dell’insegnante non fossero stati già abbastanza, doveva mettersi anche lei in mezzo: l’assistente dalla pelle scura e l’acconciatura afro. Nora Césaire, sorella maggiore di Alya e capitano della Squadra di Quidditch di Grifondoro, non era riuscita a contenere la propria euforia. Gli si era letteralmente gettata al collo e, stritolandolo tra le braccia muscolose, gli aveva offerto il ruolo di cercatore. Stando alle sue parole, non aveva mai visto qualcuno con un simile talento. Non poteva di certo lasciarsi scappare l’opportunità di avere nel team Adrien Agreste; il figlio del grande Gabriel, campione indiscusso dei Serpeverde.

La voce della ragazza gli rimbombò nella testa, mentre dinanzi a sé due iridi grigie, fredde come il ghiaccio, lo fissavano. Erano gli occhi di suo padre, lo scrutavano nel profondo dell’animo mettendo a nudo i suoi sentimenti. Riusciva quasi a toccare il disprezzo e la vergogna provati dal genitore. «N-n-non è colpa mia…» farfugliò il ragazzo ormai prossimo a cedere sotto il peso della colpa, «Papà, per favore perdonami...». Chiuse gli occhi colmi di lacrime e si lasciò andare addormentandosi sul pavimento della sala.

Non aveva idea di quanto tempo fosse trascorso, quando iniziò a riprendere conoscenza. Forse era svenuto solo alcuni minuti, oppure qualche ora. Non poteva dirlo con certezza. Quell’insostenibile senso di oppressione era finalmente svanito. Si sentiva leggero, spensierato. Avrebbe di certo continuato a dormire se un qualcosa di estremamente fastidioso non gli stesse tamburellando la faccia. Ancora intontito, cercò di mettere a fuoco la persona accovacciata accanto a sé.

Aveva una corporatura esile, slanciata. Il fisico longilineo gli suggerì che si trattasse di una donna. No, una ragazza, molto probabilmente della sua stessa età. Man mano che Adrien riprendeva coscienza di sé era in grado di mettere a fuoco la sua fisionomia. Aveva una carnagione molto chiara, quasi perlacea. Labbra carnose e seducenti, di un bel rosso acceso. Incrociò il suo sguardo: era severo, distaccato. I suoi occhi a mandorla color nocciola lasciavano trasparire una sicurezza fuori dal comune. Un caschetto di lucenti capelli neri le incorniciava il volto austero, ma allo stesso tempo gentile.

Per un instante ebbe la sensazione di conoscerla, gli ricordava qualcuno. Biascicò il suo nome sperando che gli rispondesse. Non desiderava altro che un suo abbraccio, una carezza di conforto. Non accadde nulla, la voce di Adrien si perse tra i suoi stessi mugugni di sofferenza. Si alzò poggiando la schiena dolorante contro la panchina di pietra. Aveva caldo, la gola gli si era ormai seccata. Senza rendersene conto, si tolse la pesante cappa nera di dosso e provò ad allentare il nodo della cravatta che gli stringeva il collo.

«Aspetta, ti do una mano.» esclamò con tono dolce la ragazza che aveva dinanzi, «Scommetto che stai soffocando.»

Aveva delle mani piccole, ma graziose. Con eleganza sfiorarono il bavero della sua camicia e lo liberarono da quella morsa asfissiante. Sorrise, era grato dell’aiuto ricevuto. L’altra fece altrettanto pur mantenendo un’aura di sacrale contegno. Adrien la osservò attentamente, si specchiò nelle sue iridi dalle mille sfumature marroncine. Non era in grado di spiegarsi il perché, ma quella studentessa l’aveva ipnotizzato, catturato tutta la sua attenzione.

Possibile fosse un “colpo di fulmine”? Si era forse innamorato a prima vista di quella ragazza? Scosse la testa scacciando quelle sciocchezze dalla sua mente. No, non era amore. Sebbene riconoscesse di non essere un esperto della materia, era abbastanza sicuro che non si trattasse di quel sentimento. Era una sensazione strana, ma allo stesso tempo familiare. Aveva l’impressione di guardarsi allo specchio. Ogni singola movenza, i gesti e il modo di fare della sconosciuta erano così terribilmente simili ai suoi.

«Come ti senti adesso?» gli chiese, improvvisamente, la ragazza rompendo il silenzio venutosi a creare tra i due.

«Ehm… ecco… io…» farfugliò il giovane Agreste in preda alla confusione, «Meglio… molto meglio, grazie…»

«Katami. Mi chiamo Katami Tsurugi.»

«Adrien Agreste, piacere di conoscerti» cinguettò l’altro con tono cordiale. Katami, però, ignorò totalmente le sue parole. Si mise in piedi e, facendo roteare la cravatta damascata intorno all’indice destro, si avvicinò alla vetrinetta contenente il trofeo dedicato al padre del ragazzo. Guardando all’interno un ghigno malizioso le si dipinse sul volto inespressivo, mentre Adrien la osservava confuso.

«Io so bene chi sei.» sibilò la ragazza pacatamente, quasi scocciata. «Il punto è: tu lo sai?!»

«I-i-in che senso?»

Katami non rispose. Voltatasi verso di lui, gli lanciò la cravatta di Grifondoro che Adrien afferrò senza alcuna esitazione. Non capiva cosa stesse accadendo, ma dall’espressione soddisfatta della sua nuova conoscente era evidente che volesse dirgli qualcosa. Sbuffò spazientito: era stanco e demoralizzato, non aveva la forza di applicarsi. Lo aveva aiutato, ma si stava rivelando fin troppo strana per i suoi gusti. Recuperò la propria cappa nera e, facendole un semplice gesto di saluto, si apprestò a lasciare la Sala dei Trofei.

 «Ti hanno offerto un posto in squadra, vero? Come Cercatore…»

«A quanto pare le voci corrono in fretta in questa scuola.» sospirò con rassegnazione il giovane Agreste.

«Solo quelle importanti.» replicò, noncurante, Katami, mentre si sedeva sulla panca in pietra facendo molta attenzione a mantenere una postura composta. «Dopotutto, non capita tutti i giorni che un ragazzo del primo anno entri nella squadra di Quidditch della propria casa. Prima di te ci era riuscito solo…»

«Gabriel agreste, mio padre.»

La ragazza accavallò le gambe facendo molta attenzione che la gonna della divisa non si alzasse oltre il ginocchio. Piegandosi in avanti, scrutò da capo a piedi il suo interlocutore. Girato di spalle, tremava come una foglia. Facile preda delle sue stesse emozioni, non era ancora in grado di gestirle. Conosceva bene quelle sensazioni così forti, devastanti. Lei ne era stata vittima per anni fino a quando non imparò a conviverci. Per Adrien era però diverso: lui poteva affrontarle a viso aperto, poteva opporsi e lasciarsi il passato alle spalle. Non doveva fare altro che capirlo e lei gli avrebbe dato una mano. «Dimmi: perché hai afferrato la cravatta?!»

«C-c-come perché?!» biascicò il ragazzo voltandosi verso di lei, «Se non l’avessi fatto, sarebbe caduta a terra.»

«Appunto. Non saresti stato più felice?»

Adrien ebbe un sussulto. Come faceva a saperlo? No, non poteva conoscerlo fino a quel punto, così nel profondo. Scostò il suo sguardo dal profilo della giovane all’indumento rosso e oro che stringeva nel pugno. Focalizzò tutta la sua attenzione su di esso cercando di trovare una risposta alla domanda che fosse diversa da quella che si aspettava Katami, da quella che lui stesso aveva sulla punta della lingua. Ci rifletté a lungo, ma ben presto si rese amaramente conto che non vi era altra soluzione. «Hai ragione, sarei stato contento. Anzi, non soddisfatto, l’avrei anche calpestata.»

«Perché non l’hai fatto? Perché accetti passivamente una situazione che non ti piace?!» lo incalzò l’altra scoccandogli un’occhiata di sfida.

«È un simbolo e, per quanto lo detesti, va rispettato per ciò che rappresenta.»

Katami ridacchiò compiaciuta. Adorava mettere in difficoltà i propri “avversari” facendo leva sulle loro debolezze. Questa volta, però, c’era qualcuno che era riuscito a tenerle testa. Sapeva difendersi e contrattaccare, la incuriosiva. Erano più simili di quanto avrebbe mai potuto immaginare, condividevano gli stessi problemi, le stesse ansie. Si alzò dalla panca e, facendo svolazzare elegantemente i bordi della cappa, si avvicinò ad Adrien.

Senza provare imbarazzo o esitazione alcuna, lo prese per mano. Gliela strinse lasciando che il calore fluisse attraverso la presa. Lo guardò dritto negli occhi dandogli l’impressione che volesse scandagliare il suo stesso animo. Il giovane Agreste, benché turbato da quell’atteggiamento così confidenziale, non si ritrasse, mantenne la posizione in attesa della prossima mossa. Era affascinato da quella ragazza, desiderava capire cosa le passasse per la testa e la spingesse a comportarsi a quel modo.

«Tu odi essere un Grifondoro, non è vero?» esclamò, improvvisamente, Katami sfiorando con le proprie labbra le orecchie dell’altro. «Pensi che il Cappello Parlante abbia commesso un errore: avresti voluto essere un Serpeverde per… per non deludere le aspettative della tua famiglia.»

«M-m-mio padre sarebbe stato finalmente fiero di me…».

Le parole vennero fuori tutte di un fiato, non riuscì a controllarsi. Si sentiva esposto, vulnerabile. Stava mettendo a nudo il proprio animo con una sconosciuta, ma non provava alcun fastidio. Provava fiducia, gli era ormai chiaro che esclusivamente lei avrebbe potuto comprendere il peso che gli gravava sul petto. Con l’altra mano Katami gli accarezzò la guancia. Non vi era malizia in quel gesto, solo affetto e compassione. «Anch’io volevo rendere orgogliosa mia madre. Fin da quando la nostra famiglia si trasferì in Inghilterra secoli fa, noi Tsurugi siamo stati smistati nella Casa di Serpeverde. Abbiamo portato alto l’onore di Salazar e lo abbiamo difeso dai pregiudizi della comunità Magica.»

«Mi… mi sarebbe piaciuto essere dei vostri. Avrei voluto essere come voi, come lui.» biascicò il figlio di Gabriel Agreste, mentre le lacrime gli rigavano le guance arrossate.

«Sai? Se mi fossi trovata al tuo posto, ne sarei stata contenta…»

«Davvero?! Beh… avrei fatto volentieri a cambio!»

I due scoppiarono a ridere e in un attimo tutta la tensione accumulata svanì. Katami indietreggiò di qualche passo portandosi le mani dietro la schiena. Saltellando animatamente, tornò alla teca contenente il trofeo dedicato a Gabriel. Ne sfiorò la superfice con un dito quasi avesse paura che un’eccessiva pressione potesse mandare il vetro in frantumi. Adrien non poté fare a meno di notare la grazia che poneva in ogni singolo gesto, anche quello più semplice. «Dicono che hai un talento fuori dal comune…»

«Merito degli insegnamenti ricevuti, io non sono nulla di speciale.»

«Noto che ti crogioli nel sottovalutarti.» schiccò la ragazza con una punta di disappunto, «Dovresti cogliere quest’occasione. Accetta l’offerta di Nora Césaire.»

Il giovane Grifondoro storse il naso. Si sentiva preso in giro, tradito da quella studentessa che sosteneva di essere così simile a lui. Se fosse stato vero, avrebbe compreso il suo stato d’animo. Se si fossero trovati a ruoli invertiti, non le avrebbe mai consigliato una sciocchezza del genere. Che ipocrisia, ecco cosa pensava di quella studentessa che per un attimo aveva creduto una sua nuova amica. Katami notò il suo disappunto, ma non sembrò impensierirsi. Non sarebbe stato certo il broncio di quel novellino ad impedirle ciò che voleva dirgli.

Gli si affiancò nuovamente. Erano spalla e spalla, le maniche delle loro cappe potevano quasi sfiorarsi. La ragazza scosse la testa e, facendo dei piccoli respiri, si incamminò verso la porta della Sala dei Trofei. Afferrò la maniglia di ottone e la tirò verso di sé. Tuttavia, non si mosse preferendo rivolgersi un’ultima volta al ragazzo. «Non fraintendermi Adrien, so bene che diventare il nuovo Cercatore dei Grifondoro è l’ultimo dei tuoi desideri.»

«Se lo sai, perché mi stai consigliando esattamente l’opposto?!» replicò l’altro. La sua voce era fredda e distaccata, ma Katami non ne fu impressionata né il suo atteggiamento sicuro e spavaldo tentennò. Spalancò l’anta di legno mettendo il primo piede fuori dall’uscio. «Il Cappello Parlante ti ha dato una grande opportunità, non sprecarla.»

«Cosa te lo fa pensare? Come fai ad esserne così sicura? Magari ti sbagli…»

«Perché… perché so bene quanto sia difficile emergere dall’ombra di qualcuno.» per un attimo le sue certezze erano venute meno, ma non poteva cedere. Lei era Katami Tsurugi non una debole e patetica studentessa impaurita dal suo stesso modo di essere. «Resisti Adrien, ti chiedo solo questo. Hai l’occasione di dimostrare quanto vali, quanto tu sia diverso da tuo padre e da lui…»

«C-c-come fai a sapere di…» farfugliò il ragazzo colto totalmente alla sprovvista da quell’ultima affermazione. Si voltò di scatto, aveva bisogno di sapere. Katami, però, se ne era già andata. Adrien sbuffò: possibile che avesse ragione? Se avesse accettato, era certo che il rapporto con suo padre si sarebbe definitivamente incrinato. Ma l’eventualità di emergere, di lasciarsi alle spalle il suo cognome era troppo forte. I suoi occhi si posarono su un trofeo del 2013, il nome sulla targhetta era stato stranamente abraso. Non gli ci volle molto a capire chi l’avesse vinto. Sorrise amaramente: ormai aveva preso la sua decisione.

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Capitolo 12
*** Capitolo XI – Una dolce melodia ***


Capitolo XI – Una dolce melodia

 
Era già trascorsa una settimana dal maledetto incidente sulla scopa. Aveva rischiato davvero tanto quella mattina, eppure in qualche modo era riuscita a cavarsela. Non che fosse superstiziosa o altro, ma aveva la strana sensazione che il successo del salvataggio non fosse dipeso solo da Adrien. Certo, la sua abilità non la si poteva certo mettere in discussione, e lo stesso valeva per il suo immenso coraggio. Ciononostante, era convinta che vi fosse dell’altro, una forza esterna alla sua volontà che le aveva impedito di farsi del male.

In realtà era da un po’ di tempo che aveva notato una sorta di cambiamento in lei. Si sentiva più forte e sicura di sé. Riusciva a relazionarsi meglio con i suoi compagni e con gli sconosciuti. Quella perenne aura di timidezza, che fin da bambina l’aveva caratterizzata, stava pian piano svanendo per lasciare il posto ad una rinvigorente dose di ottimismo e fiducia. Raramente si era chiesta cosa avesse innescato questo mutamento. Si era detta che forse il frequentare Hogwarts e, soprattutto, l’aver scoperto di essere una strega fossero stati la spinta di tutto ciò.

Tuttavia, in seguito a quanto accaduto alla sua prima lezione di volo, dubbi e domande avevano iniziato a frullarle per la testa. Possibile che si trattasse solo di una coincidenza? Eppure lei l’aveva sentito: una pressione sul petto e la sua voce in lontananza. No, non quella di Adrien. Era di una donna, calda e sensuale. Le sue parole le avevano rimbombato per giorni nel cervello. Le urlava di non arrendersi, di combattere per evitare di sfracellarsi contro il viadotto di pietra. L’aveva protetta, anzi era certa che vegliasse su di lei costantemente.

Avrebbe tanto voluto parlarne con qualcuno, magari con Alya. La paura di essere considerata una pazza, però, l’aveva spinta a desistere. Dopotutto, non era successo nulla di male: quell’entità invisibile sembrava benevola, non aveva cattive intenzioni. Non interferiva con la sua vita e le permetteva di affrontare con serenità le sue difficili giornate scolastiche. Al contrario, il rivelare a qualcuno quelle preoccupazioni l’avrebbe esposta, si sarebbe sentita nuovamente giudicata. Sarebbe tornata ad essere la timida e imbarazzante Marinette, le cui azioni non causano altro che disastri.

In quei sette giorni era esattamente questo ciò che aveva provato. Suo malgrado si era ritrovata sotto i riflettori, l’intera scuola parlava di lei. Insegnanti e studenti la ossessionavano con ogni genere di domanda sullo spiacevole accaduto. I primi per scoprire se vi fosse stata una sorta di manomissione alla scopa, mentre i secondi per appagare la loro curiosità oppure farsi quattro risate. Di conseguenza, non vi era stato un singolo momento in cui non si fosse ritrovata a dover dare la propria versione dei fatti, o quantomeno provarci.

Infatti, nemmeno lei sapeva cosa fosse accaduto di preciso. Semplicemente aveva perso il controllo del manico di scopa. Quasi si fosse dotato di una propria volontà, era impazzito iniziando a muoversi in maniera autonoma. Di conseguenza, senza curarsi dell’incolumità della sua passeggera, svolazzava alla cieca scegliendo a caso la direzione e poco importava se vi fosse qualche ostacolo lungo il percorso. Alcune delle sue amiche, come Alix e Mylène, avevano avanzato l’ipotesi che il manico potesse essere difettoso. Secondo Rose e Alya, invece, si trattava di malocchio.

Lei stessa aveva pensato a quest’ultima eventualità. In fin dei conti, il comportamento della scopa era del tutto in linea con quanto descritto nei manuali riguardanti l’argomento. Tuttavia, le indagini del Preside avevano appurato che nessuna bacchetta magia, presente entro i confini di Hogwarts, avesse scagliato quel genere di maleficio. Di conseguenza, anche quella teoria era da scartare. Qualunque cosa fosse accaduta quel giorno sarebbe rimasta un mistero, ma a lei non importava più di tanto. Era sopravvissuta: solo questo contava, per entrambe.

Sbuffò spazientita: sarebbe stato il fine settimana più noioso della sua vita. Tutti i suoi compagni di corso erano impegnati con lo studio, era completamente sola. Anche Adrien, benché come lei fosse al passo nelle varie materie, era misteriosamente scomparso nel nulla. Quella mattina l’aveva visto incamminarsi verso la Sala Grande; ma quando si era finalmente decisa a raggiungerlo al fine di chiedergli se avesse impegni per il sabato, non l’aveva trovato.

Stretta nel morbido abbraccio del suo maglioncino azzurro, vagava come un’anima in pena per il piano terra della Torre dell’Orologio, ottimo luogo, sia per studiare in tranquillità che per trascorrere qualche momento in solitudine. Era perfetto per rilassarsi dalla frenetica routine di Hogwarts: silenzioso e isolato. I rintocchi delle grandi lancette scandivano il passare delle ore, mentre dalle due torri campanarie provenivano piacevoli pigolii. Marinette era affascinata da quel posto, lo considerava il suo rifugio.

Anche quella mattina la base della torre era completamente deserta. Nessuno la avrebbe importunata. Si sedette sui gradini in legno della scala che consentiva al personale tecnico di raggiungere gli ingranaggi dell’orologio. Stiracchiò la propria schiena, poi prese dalla borsetta che aveva a tracolla un libricino dalla pelle scura. Appena lo rivide tra le sue mani, si sentì leggermente in imbarazzo: aveva promesso ad Alya che lo avrebbe restituito il prima possibile. Invece era ormai trascorso un mese da quando ne era entrata in possesso.

Aveva cercato di sbarazzarsene, ma la curiosità aveva prevalso sul buon senso e su una promessa fatta alla sua amica. Desiderava saperne di più, approfondire la conoscenza dell’enigmatica figura di “La Dame de la Mort”. Le sue origini, il modo in cui era riuscita a prendere il potere e creare un così nutrito seguito dietro di sé, tutto questo era ancora avvolto dal mistero. Nessuno aveva mai scoperto chi si celasse dietro quella maschera di brutalità, neanche l’uomo che aveva posto fine al suo regno di terrore: Gabriel Agreste.
Stando alla versione ufficiale i due si fronteggiarono lontano dall’Europa, sulle montagne tra il Nepal e la Cina. A quanto pare la donna si era recata in quei luoghi così isolati perché era alla ricerca di un tempio o un monastero. Il padre di Adrien, già da tempo intenzionato a porre la parola fine a quella storia, l’aveva rintracciata e l’aveva raggiunta per affrontarla. Sebbene non vi fosse alcun resoconto scritto di quella battaglia, le poche fonti, che la ragazza era riuscita a reperire, la descrivevano con una sola parola: epica. Dopotutto, non poteva essere diversamente; si fronteggiavano i due maghi più potenti della loro epoca.

 Marinette richiuse il libro sconsolata. Neanche lì, tra le pagine proibite era riuscita a trovare quell’informazione. Era certa di essere arrivata ad una svolta, ma anche questa volta le sue aspettative erano state deluse. Da quando la sua amica le aveva raccontato il perché Gabriel Agreste fosse così venerato dalla Comunità Magica, si era messa in testa di dover indagare più a fondo. Troppi dettagli non tornavano, mentre altri si contraddicevano a vicenda. Ad esempio: com’era possibile che il padre di Adrien non fosse riuscito a vedere nemmeno di sfuggita il volto della donna durante il combattimento? Oppure, se La Dame de la Mort non era sopravvissuta allo scontro, il suo corpo che fine aveva fatto?

Questi dubbi non le davano pace. Sentiva il bisogno di dover scavare più a fondo, di andare oltre. Non credeva a quanto avesse stabilito il Ministero della Magia Francese in quegli anni, né tanto meno alle parole di Gabriel Agreste. Era evidente che stessero cercando di insabbiare la verità e quel libro, per quanto scarno di informazioni essenziali, ne era la prova. La Dame de la Mort aveva un piano, non agiva alla cieca: era alla ricerca di qualcosa. Possibile che se ne fosse resa conto soltanto lei?

Scosse la testa, era inutile raccapezzarsi a quel modo. Non aveva prove a sufficienza per dimostrare la sua teoria. Magari se avesse chiesto ad Adrien, ne avrebbe saputo di più. No, era fuori discussione, si disse dandosi un colpo sulla fronte. Aveva già abbastanza problemi con suo padre, non poteva creargliene degli altri insinuando che fosse un bugiardo. Lo avrebbe scoperto da sola, era certa di riuscirci. Si alzò dal gradino e, dopo essersi data una stropicciata alla gonna bianca abbellita da fiorellini rosa si apprestò a tornare al proprio dormitorio.

«Cos’è questo suono? Che… che bello…» sibilò, ad un tratto, tra sé, mentre una dolce melodia proveniente da chissà dove faceva eco nella torre.

Saltellò da un punto all’altro del basamento, ma non trovò nessuno: era sola. Quella musica, però, continuava a diffondersi nell’ambiente. Si guardò intorno accorgendosi che il portone di ingresso era leggermente spalancato. Fu allora che realizzò: il suono proveniva dall’esterno. Si avvicinò all’ingresso della Torre dell’Orologio e timidamente si affacciò sull’uscio. Il cortile, antistante l’edificio, era deserto ad eccezione di un giovane poggiato sul bordo della fontana diroccata posta al centro del chiostro.

Marinette, incuriosita da quell’individuo così solitario, lo scrutò da capo a piedi. Benché seduto, le fu subito evidente che fosse ben più alto e grande di lei e dei suoi compagni. Molto probabilmente era uno studente del terzo o del quarto anno. Aveva un fisico asciutto ma posato. I lineamenti erano marcati, ma non duri. Un senso di dolcezza e armonia traspariva dal suo viso corrucciato. La carnagione rosata brillava sotto il sole di ottobre conferendogli un’aura misteriosa.

Senza rendersene conto, si incamminò verso di lui. Era stata rapita da quella figura, non desiderava altro che conoscerla. Un’improvvisa folata di vento smosse i folti capelli dello sconosciuto. Erano neri, ma avvicinandosi alle punte la loro colorazione sfumava in una brillante verde acqua. I suoi occhi azzurri come il ghiaccio erano affascinanti, concentrati sulle corde della chitarra acustica che stringeva tra le mani.

Ormai era a pochi passi di distanza da lui, poteva quasi toccarlo. Continuò a muoversi verso la fontana, mentre la melodia prodotta dallo strumento musicale le pervadeva l’animo. Distratta dall’enigmatica figura del ragazzo e da quel suono così dolce e profondo, non si accorse della fatiscenza della pavimentazione del cortile. Inciampò in una mattonella fuori posto cadendo in avanti. Si protesse il volto con le mani limitando i danni, ma le ginocchia, coperte da sottili collant bianchi, si sbucciarono a sangue e le gambe si riempirono di graffi. «Accidenti! Queste calze erano nuove…» imprecò Marinette constatando che ormai erano da buttare.

«Ti sei fatta male?!»

La giovane Corvonero rialzò il capo trovandosi dinanzi il ragazzo. L’espressione del suo volto era preoccupata. Era piegato sulle ginocchia, la mano destra tesa in avanti. Marinette, imbarazzata per la figuraccia, la afferrò notando per la prima volta le sue unghie colorate di nero. Era insolito: non aveva mai visto un uomo con lo smalto, ma non diede peso alla cosa. Sorrise con gratitudine, poi facendosi forza si tirò su. «Grazie per avermi aiutata. Sono proprio un disastro.»

«Non c’è di che» replicò l’altro con un sorriso; poi posando lo sguardo sulla borsetta della ragazza, che nell’impatto, non poté fare a meno di notarne il contenuto. «”Vita e segreti della Dame de la Mort”, sembra una lettura interessante…»

 «N-n-non è come pensi!» si affrettò a giustificarsi la figlia del Signor Dupain, agitandosi e diventando rossa in viso per l’imbarazzo. «È una lettura di svago, per… per curiosità. Non sono una sua seguace, lo giuro!»

«Ehi, ehi… tranquilla, non voglio denunciarti al Ministero della Magia.»

«G-g-grazie. So che questi libri non dovrebbero essere letti da noi studenti, ma non ho resistito. Desideravo solo saperne di più.»

«Un tratto che tutti voi Corvonero avete in comune, Marinette» pigolò il giovane facendole l’occhiolino.

Marinette rimase senza parole. Come faceva quello sconosciuto a conoscere la sua casa di appartenenza e, soprattutto, il suo nome? Ebbe un momento di esitazione, si ritrasse pensando di scappare via. Forse quel tizio era un poco di buono, uno stalker che in segreto osservava ogni sua mossa aspettando l’occasione giusta per colpire. Prese un profondo respiro, i suoi occhi si posarono sul volto confuso del ragazzo che aveva dinanzi. Aveva un’espressione dolce. Si ricredette: non poteva certo essere un delinquente. Era un semplice studente, proprio come lei. Se conosceva quelle informazioni, un motivo doveva pure esserci. «Come sai il mio nome?»

«Mia sorella. Sai lei è un po’ timida, quindi non parla molto. Con me, però, si confida spesso: mi ha raccontato di tutte voi e di quanto siate amiche.»

«Aspetta… tu sei il fratello di Juleka?!»

«Caspita, hai indovinato subito!» ridacchiò il giovane infossando le mani nelle tasche della sua felpa azzurra. «Mi chiamo Luka, Luka Couffaine. È un piacere fare finalmente la tua conoscenza.»

Marinette strinse la mano che il ragazzo le aveva appena porto. Aveva una pelle morbida, vellutata. Tuttavia, avvertì immediatamente la rugosità dei suoi polpastrelli, dovuta molto probabilmente ad anni di intensa pratica musicale. Le fu difficile separarsi: era piacevole sfiorargli quel palmo così soffice e delicato. Un sorrisetto velato da una nota di imbarazzo si fece strada sul suo volto. Luka la stava fissando e ciò la metteva leggermente in soggezione. Erano imbambolati, l’uno davanti all’altra in silenzio. Doveva dire qualcosa, qualsiasi cosa anche una sciocchezza. «Quindi… anche tu sei un Corvonero come Juleka? Non ti ho mai visto nella torre.»

«No, io sono un Tassorosso del quarto anno» replicò, pacatamente, Luka, mentre recuperava la propria chitarra e la posizionava dietro le spalle. «Diciamo che il Cappello Parlante si è divertito un mondo con i componenti della mia famiglia.»

«In che senso?» gli domandò la figlia del Signor Dupain accompagnandosi a lui verso il portone d’ingresso della Torre dell’Orologio.

«È semplice: Io sono un Tassorosso; mia sorella, come sai, è una Corvonero; mamma era una Serpeverde e papà un Grifondoro. Non ci siamo fatti mancare nulla.»

«Mi immagino le discussioni a cena…»

Il ragazzo abbozzò una smorfia divertita. Gli ci volle però poco per tornare serio, avvolto dalla sua consueta aura di mistero. Posizionò una mano sulla spalla della sua nuova amica e la guardò dritta negli occhi. Sembrava quasi che volesse comunicarle nel profondo, in maniera più intima, ciò che stava per dirle. «In realtà non abbiamo mai avuto di questi problemi. Anzi, il comportamento dei miei familiari mi ha da sempre indotto a credere che le quattro casate non siano altro che una semplice “traccia”.»

«Una “traccia”?» replicò, confusa, Marinette, «Non credo di aver capito: potresti spiegarti meglio?»

Luka sorrise, non era la prima volta che doveva affrontare quel discorso. «Vedi… il senso comune vuole che ad ogni Casata di Hogwarts corrisponda uno specifico tratto del carattere umano. Per i Grifondoro è il coraggio o la nobiltà d’animo; per i Tassorosso la gentilezza; voi Corvonero siete conosciuti per la vostra saggezza e creatività; infine i Serpeverde si distinguono per la loro ambizione. Crediamo che il Cappello Parlante ci smisti sulla base che ognuno di noi rispecchi uno di questi tratti.»

«Beh, non è così che funziona?»

«Non proprio…» sospirò l’altro, la voce stretta da una malinconica nota di inquietudine e rammarico. «La mia famiglia, come ti ho già detto, è un esempio di quanto affermo. Ad esempio, Juleka il più delle volte si lascia guidare dalle proprie paure e preoccupazioni piuttosto che dal suo intelletto. Io, invece, non sono di certo da meno: preferisco la solitudine di un cortile deserto al calore delle relazioni umane. Papà… beh, mio padre non ha mai brillato come Grifondoro da studente e le sue azioni da adulto hanno confermato la sua inadeguatezza. Infine, mamma… mamma era una Serpeverde, ma a mio parere racchiude le qualità migliori delle quattro casate. Ci ha cresciuti praticamente da soli: in lei c’è molto più di un Serpeverde.»

Il volto di Luka si rabbuiò. Era evidente quanto quel discorso riguardasse la sua sfera privata ed emotiva. Marinette non sapeva cosa rispondergli, non riusciva a trovare un solo difetto nelle sue parole. Dopotutto, lei aveva stretto amicizie sincere con studenti appartenenti ad altre casate e non aveva mai creduto che lo smistamento imponesse loro un limite. Prese la mano del suo interlocutore e ne massaggiò delicatamente il dorso, quasi volesse sfiorarne l’animo inquieto.

Luka rialzò la testa, i suoi occhi erano lucidi. Era sempre così quando affrontava i fantasmi del proprio passato. Scosse la testa, si sentiva uno sciocco a reagire a quel modo con una persona appena conosciuta. Cercò di rimediare, non voleva che Marinette si facesse strane idee sul suo conto. «Perdonami, quando parlo di… di queste cose io… io…»

«Non dire altro, ho capito» lo interruppe la figlia del Signor Dupain regalandogli un meraviglioso sorriso di complicità.

«Grazie Marinette. Juleka aveva ragione: sei davvero una persona fantastica.»

Ancor prima di darle il tempo di realizzare il significato di quelle parole, le schioccò un tenero bacio sulla fronte. Si voltò e, facendole un semplice gesto di saluto, entrò nell’atrio della Torre dell’Orologio per poi incamminarsi alla volta della Sala Comune dei Tassorosso. Marinette, invece, rimasta imbambolata sull’uscio, non poté fare altro che balbettare e arrossire per l’accaduto.
 

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Capitolo 13
*** Capitolo XII – Grifondoro vs Serpeverde ***


Capitolo XII – Grifondoro vs Serpeverde

 
 
Una goccia di freddo sudore cadde sul dorso della sua mano bardata dal guanto di cuoio. Sebbene cercasse di non farlo notare, era nervoso, agitato. L’ansia lo stava letteralmente divorando. Era la prima volta che provava una sensazione del genere, così forte e mentalmente distruttiva. Nonostante la sua modestia gli suggerisse tutt’altro, era consapevole di essere bravo, forse il migliore. Eppure era spaventato da quella sfida che si apprestava ad affrontare. Desiderava soltanto un loro consiglio, una buona parola che gli avrebbe dato la forza necessaria.

Si morse nervosamente il labbro inferiore. Il parastinchi di destra gli stringeva troppo la gamba bloccandogli la circolazione. Aveva detestato la divisa da Quidditch fin dal primo momento che l’aveva indossata. La trovava tremendamente fastidiosa e inutile: dopotutto sapeva bene che non sarebbe stato certo un po’ di cuoio a proteggerlo dagli infortuni tipici di quello sport. Per questo motivo l’aveva sempre praticato senza alcun tipo di equipaggiamento. Volare gli dava un piacevole senso di libertà e spensieratezza, non ci avrebbe mai rinunciato chiudendosi in quelle fastidiose “armature”.

Purtroppo per lui, però, il regolamento di Hogwarts era severissimo in merito all’argomento. Ciascun componente della squadra doveva indossare la divisa ufficiale della casata di appartenenza, non si accettavano eccezioni pena la squalifica. Come se non bastasse, il vestire i colori dei Grifondoro gli comportava una notevole fonte di preoccupazione che andava ben oltre l’ansia prepartita. Ai suoi occhi quel gesto sanciva un’ulteriore frattura con suo padre e, per estensione, la sua famiglia. Erano giorni che si chiedeva cosa avrebbero pensato di lui i parenti più stretti non appena si sarebbe diffusa la notizia.

Sbuffò spazientito. Si mise in piedi e, come un leone in gabbia, iniziò a percorre lo spogliatoio avanti e indietro. Nora Césaire, seduta a poche panche di distanza, lo osservava attentamente. Convincere il ragazzo ad entrare in squadra non era stato affatto facile, anzi le era sembrata un’impresa impossibile. Per un momento aveva addirittura creduto di aver fallito: le remore del giovane Agreste erano troppe. Tuttavia, dopo una settimana di inutili tentativi, era stato lui stesso a raggiungerla al campo di addestramento e a pregarla di prenderlo con sé. Sebbene non fosse una delle persone più umili al mondo, si era convinta che qualcosa, o meglio, qualcuno era riuscito a persuaderlo ad accettare la sua proposta.

Non lo conosceva granché, né si era mai preoccupata di approfondire il passato di Adrien. Le era bastato sapere il giusto per tentare un approccio e, conseguentemente, instaurare una sorta di relazione di conoscenza. Non si poteva certo parlare di amicizia e di ciò ne era pienamente consapevole. Una team, però, per poter funzionare al meglio deve basarsi sulla fiducia reciproca tra suoi componenti. Era questo il suo compito: inserire il ragazzo in un contesto di per sé già funzionale senza intaccarne la struttura. I quindici giorni che precedettero la stagione sportiva furono provvidenziali allo scopo.

Adrien era un grande giocatore di Quidditch: sapeva come muoversi ed era un esperto di tattiche e regole fondamentali. La sua abilità con la scopa non aveva rivali e il fiuto per la cattura del boccino doveva essere un qualcosa che suo padre gli aveva tramandato. Era perfetto per il ruolo di Cercatore, ma in una squadra non si può far tutto da soli. Il giovane Agreste faceva davvero fatica a collaborare con i suoi compagni, a seguirne le mosse e ad intuirne le strategie. Quelle difficoltà non impensierirono Nora che da buon capitano fece ciò che le riusciva meglio: amalgamare la nuova ed esuberante spinta propulsiva del ragazzo con la staticità di un team più votato alla difesa che all’attacco.

Ciascun giocatore aveva fatto del suo meglio in quelle poche sessioni di allenamenti che li avevano separati dalla prima partita del torneo. Nora aveva cercato un’intesa, uno schema mentale che li mettesse tutti d’accordo. Non era stato facile, ma alla fine era riuscita nell’impresa di creare un qualcosa di completamente nuovo che, allo stesso tempo, strizzasse l’occhio agli insegnamenti del passato. Malgrado ciò, non era stata in grado di garantire ad Adrien la serenità di cui aveva bisogno. Certo, sul campo era impeccabile e non le dava alcun problema: era la sua sicurezza. Al di fuori però, nel “mondo reale” non poteva fare a meno di notare il costante senso di turbamento e angoscia che lo accompagnava.

Continuò a seguire i movimenti i suoi movimenti con lo sguardo, interrogandosi sul motivo che lo spingeva a comportarsi a quel modo. Ormai erano tre giorni che non pensava ad altro: lo strano comportamento del ragazzo le metteva ansia. Era una preoccupazione che andava ben oltre le sue responsabilità di capitano, ma non poteva farne a meno. Possibile che si fosse affezionata a tal punto a quel biondino? Scosse la testa con decisione: lei era Nora Césaire detta Anansi. La sua volontà era di ferro, il cuore di ghiaccio. Non avrebbe mai ceduto a certi sentimentalismi lasciandosi distrarre dal suo unico obiettivo: la vittoria.

Un’improvvisa bussata alla porta dello spogliatoio fece calare il gelo sui presenti. Si guardarono tra di loro, un senso di smarrimento impresso sui loro volti stanchi. Forse si erano sbagliati: la tensione doveva aver creato una specie di “allucinazione uditiva” di gruppo. Dopotutto, mancava ancora un’ora all’inizio del match, non era ancora il momento di convocare le squadre. Ciononostante, per una seconda volta fu avvertito l’eco di un metallico “toc-toc”. Nora si avvicinò alla porta e la spalancò leggermente. «Chi è?»

«Desidero conferire con il Signorino Adrien.»

Il capitano dei Grifondoro, sebbene indispettito dalla risposta e, soprattutto, dal tono di superiorità del suo interlocutore, chiamo a sé il suo Cercatore. Quest’ultimo avanzò verso l’uscio con passo incerto chiedendosi chi mai volesse incontrarlo. Per un’istante pensò, anzi sperò che si trattasse di suo padre; ma scartò immediatamente l’ipotesi. In quell’ultimo periodo era sempre impegnato, inoltre era troppo orgoglioso per avvicinarsi allo spogliatoio dei Grifondoro. Con il cuore che gli batteva a mille, uscì dalla stanza trovandosi dinanzi il misterioso visitatore.

«È un piacere rivederla, Adrien…» sibilò una donna in tailleur affiancata da un grosso energumeno la cui altezza sfiorava quasi i due metri, «È passato parecchio tempo, non trova?»

«Nathalie?! Cosa ci fai qui?»

«Suo padre ha chiesto di riferirle un messaggio. Ha un paio di minuti da dedicarmi?»

Gli occhi del giovane Agreste si illuminarono. Stentava a credere che il proprio genitore avesse avuto la premura di fargli sapere che lui c’era, che desse valore alla sua vita. Non gli importava se quelle parole non sarebbero state pronunciate direttamente da Gabriel, o se si trattava di un rimprovero per averlo deluso un’ennesima volta. Quella era la prova che suo padre tenesse a lui, che si interessasse. «C-cosa voleva dirmi papà?» balbettò il giovane facendo fatica a trattenere la curiosità, «È successo qualcosa di grave?»

«Il Signor Agreste desiderava farle i complimenti per il suo ingresso in squadra e, soprattutto, augurarle buona fortuna per la sua prima partita.»

«D-d-davvero?! Mio padre ha detto questo?»

«Testuali parole» concluse la donna abbozzando un sorrisetto di complicità.

Adrien non poteva credere alle sue orecchie. In un istante tutti i dubbi e le paure, dettate dalla certezza di aver compiuto una scelta sbagliata, svanirono. Si era preoccupato per nulla: Gabriel non gli aveva voltato le spalle, anzi gli stava dando il suo pieno sostegno. Un fremito di eccitazione gli corse lungo la schiena, gli risultava davvero difficile contenere l’euforia. Avrebbe anche abbracciato Nathalie e il Gorilla che l’accompagnava, se la rigida educazione impartitagli non gli avesse suggerito quanto fosse sconveniente un tale comportamento.

Nora, avendo assistito alla discussione, sorrise compiaciuta. Sebbene non l’avesse mai ammesso, era felice per il suo giovane compagno di squadra. Soltanto adesso, infatti, iniziava a comprendere il difficile dilemma interiore che fin dall’inizio della scuola aveva dilaniato l’animo del povero Adrien. Si sentì una sciocca per non averlo capito subito, ma fortunatamente non era troppo tardi per rimediare. Gli cinse le spalle con il suo muscoloso braccio destro e, stringendolo a sé, gli fece capire che poteva contare anche su di lei. «Miss… se è tutto, noi rientreremmo nello spogliatoio. Dobbiamo prepararci per il match!»

«Esatto!» aggiunse il giovane Agreste stringendo la mano a pugno, «È arrivato il momento di far…»

«In realtà, ci sarebbe un’altra cosa…» lo interruppe la Signorina Sancoeur, mentre si aggiustava gli spessi occhiali sulla punta del naso, «Suo padre e suo nonno sarebbero davvero felici se, per questa volta, evitasse di prendere il boccino. D’altro canto, anch’io apprezzerei una simile premura da parte sua.»

Il volto di Nora Césaire si rabbuiò immediatamente. Non potevano chiedergli di imbrogliare, non lo accettava. Adrien, al contrario, ridacchiò divertito. Era evidente che li stessero prendendo in giro; ma allo stesso tempo era chiara anche un’altra cosa: la sua famiglia era pienamente consapevole che se avesse giocato seriamente, per i Serpeverde non ci sarebbe stata alcuna chance di vittoria. Un’espressione di pura soddisfazione si dipinse sul volto del giovane che pacatamente tornò a rivolgersi alla segretaria di suo padre. «Mi dispiace Nathalie, ma non posso concedere sconti… nemmeno a parenti e ad amici.»

«Allora che vinca il team migliore!» sentenziò la donna strizzandogli l’occhiolino per poi voltargli le spalle al fine di raggiungere il campo da gioco. «Ovviamente, se suo nonno avrà un mancamento a causa della sconfitta della sua casata, la riterremo responsabile.»

Adrien scosse la testa e, facendo spallucce, si apprestò a tornare nello spogliatoio dei Grifondoro. Nora fece altrettanto e, affiancandosi a lui, non poté fare a meno di commentare quanto era appena successo. «Hai una strana famiglia, biondino. È un miracolo che tu non sia ancora ammattito!»

«Chissà… forse già lo sono, ma fingo bene.»

«Beh, pazzia o meno, spero che tu ci faccia vincere questa partita.»

«Oh su questo puoi starne certa, non hanno alcuna speranza. ghignò maleficamente il ragazzo battendo il dorso del suo guanto in cuoi contro quello del suo capitano.

I restanti tre quarti d’ora che precedettero l’inizio della partita furono di gran lunga più rilassanti. La tensione era ovviamente palpabile, ma non era minimamente paragonabile alla sensazione di angoscia che aveva oppresso lo spogliatoio durante tutta la mattinata. L’agitazione di Adrien, infatti, aveva contagiato anche gli altri giocatori, i cui volti erano velati da una lugubre espressione di rassegnazione. Fortunatamente, la ritrovata felicità del ragazzo aveva avuto l’effetto catartico di rasserenare gli animi dei suoi compagni di squadra. Erano pronti a librarsi sul terreno di gioco, convinti che per gli avversari non vi sarebbe stata speranza.

Uno dietro l’altro percorsero lo stretto corridoio, coperto da un tendone di magico tessuto autoportante, che li separava dal campo. Nora apriva la fila, affiancata poco dietro dal giovane Agreste. Quest’ultimo, serrando la presa sul proprio manico di scopa, avanzava spedito, sicuro di sé e delle proprie capacità. Giunti nell’area antistante il piccolo stadio della scuola, si trovarono faccia a faccia con i Serpeverde che li avevano preceduti di pochi minuti. Nonostante la grande rivalità tra le due casate, la figlia maggiore del Signor Césaire non esitò a salutare il capitano dell’altra squadra. «Ben ritrovato, Andrew. Come va la spalla?»

«Mi da ancora qualche noia, ma non è nulla che non sia in grado di gestire» rispose altezzosamente un alto ragazzo dai lunghi capelli neri raccolti in una coda di cavallo. «Piuttosto… come se l’è cavata la tua nuova recluta?»

«Non male, ma ha ancora molta strada da fare. Non è vero, biondino?!»

«C-c-certo Signora, s-s-si Signora…» balbettò timidamente il giovane Agreste sentendosi chiamato in causa.

«Ti facevo più sicuro di te, Adrien» esclamò una voce a lui familiare che lo fece voltare di scatto.

«Katami?! Che ci fai qui e perché indossi la divisa da gioco dei Serpeverde?»

«È semplice: sono la Cercatrice della squadra.»

Ad Adrien occorsero circa dieci secondi per metabolizzare quell’informazione. Imbambolato, si limitò a fissare il sorrisetto compiaciuto impresso sul pallido viso della ragazza che aveva dinanzi. Una volta realizzata la situazione, si rivolse a Nora e Andrew in cerca di un’ulteriore conferma. I due, ridacchiando tra di loro per l’espressione confusa di quel novellino, si limitarono ad asserire con un cenno del capo. Si colpì la fronte con la mano, chiedendosi come avesse fatto ad essere stato tanto sciocco. L’insistenza, con cui l’aveva convinto ad entrare nel team dei Grifondoro, non era casuale. «Avrei dovuto capirlo subito. Mi hai ingannato…»

«Suvvia non fare il bambino capriccioso, adesso» cinguettò Katami mettendogli una mano sulla spalla in segno di conforto, «In fin dei conti, se l’avessi saputo, cosa sarebbe cambiato?»

«Posso chiederti una cosa?» mugugnò il giovane Agreste a denti stretti.

«Vuoi sapere perché ho insistito tanto, non è così?»

«Esatto. Qual era il tuo scopo?»

La ragazza avvicinò le proprie labbra all’orecchio di Adrien, in modo tale che soltanto lui potesse sentirla. «Beh, mettiamola così: che gusto ci sarebbe a vincere, senza aver prima battuto il migliore?»

Quelle parole avevano la parvenza di una provocazione che andava oltre la sfida di Quidditch. Ebbe l’impressione che la sua nuova amica lo stesse sfidando a ben altri livelli, quasi come se volesse dimostrare di essere la più brava in assoluto. Cercò di replicare, ma la voce della Professoressa Bustier richiamò ciascuno di loro all’ordine. Era giunta l’ora di affrontarsi sul campo di gioco: il resto poteva aspettare. Katami gli diede un’ultima pacca sulla spalla, poi si accodò ai suoi compagni Serpeverde. I Grifondoro li seguirono immediatamente e così, dopo aver percorso una ripida rampa di scale in legno, le due squadre fecero finalmente il loro ingresso.

Gli spalti che a mo’ di anello circondavano il terreno di gioco erano gremiti. Studenti di tutte le casate urlavano e strepitavano tifando l’una o l’altra formazione. Bandierine, sciarpe e striscioni sventolavano al vento come antichi vessilli medioevali che infondevano coraggio e speranza nei giocatori. Cori sempre più vivaci e chiassosi si levavano da ogni dove riempiendo l’aria che sovrastava le loro teste. Anche le tribune a forma di torre erano affollate: insegnanti, genitori e talent scout delle maggiori società sportive europee erano lì per sostenere e valutare quei ragazzi che si davano battaglia su dei manici di scopa.

Adrien si guardò intorno estasiato, il respiro gli si mozzava in gola. Da bambino aveva assistito a parecchi eventi sportivi, anche di grande rilevanza, quindi era abituato ad una tale atmosfera. Tuttavia, il viverla in prima persona era completamente diverso. Girando su se stesso si guardò intorno alla ricerca di volti familiari. Vide Nathalie e la guardia del corpo di suo padre nella tribuna del Preside. Seduti l’una accanto all’altro si limitavano a scrutare il campo senza partecipare ai festeggiamenti prepartita. Con un semplice gesto della mano lanciò loro un saluto, ricambiato subito dopo da un sorriso appena accennato della Signorina Sancoeur.

In quello stesso momento il Professor D’Argencourt guadagnò il centro del terreno da gioco. Fece segno ai giocatori di disporsi in cerchio intorno a lui e, una volta cavalcate le scope, di librarsi in aria. Senza farselo ripetere, entrambe le squadre eseguirono gli ordini dell’insegnante. Il giovane Agreste, poiché Cercatore, si innalzò ad una quota leggermente superiore rispetto ai suoi compagni e lo stesso fece Katami. I loro sguardi di sfida si incrociarono, ma poco dopo l’attenzione del ragazzo fu calamitata da altro. A quell’altezza, infatti, era in grado di vedere i posti in cui si trovavano i suoi amici.

C’erano tutti: Alya e Nino sventolavano uno striscione che inneggiava ai Grifondoro; Rose, Juleka, Alix e Mylène danzavano a ritmo dei cori d’incoraggiamento; anche Chloé e Sabrina, sedute alcuni gradoni più in basso, avevano un cartellone a lui dedicato attirandosi le ire degli altri Serpeverde. Avvertì una piacevole sensazione di calore nel petto, era felice che i suoi compagni fossero lì per lui. Ci erano voluti tanti anni, forse troppi, ma finalmente non si sentiva più solo. Ad un tratto i suoi occhi, però, si posarono su Marinette.

La ragazza era impegnata in una fitta conversazione con un altro studente che Adrien non riconobbe. Era un ragazzo, più grande di loro, dai curiosi capelli blu, appartenente alla Casata dei Corvonero. Senza accorgersene, indugiò a lungo sui due chiedendosi come mai vi fosse tanta confidenza. Il lancio della pluffa e il fischio del Professor D’Argencourt lo richiamarono alla realtà. La formazione delle due squadre si ruppe e la partita poté finalmente iniziare.

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Capitolo 14
*** Capitolo XIII – Fischio finale ***


Capitolo XIII – Fischio finale

 
 
Era più di un’ora che svolazzava da una parte all’altra del campo di Quidditch. Non si era mai sentito così stanco e demoralizzato. Prima di fare il suo ingresso sul terreno di gioco, era convito che il tutto si sarebbe risolto in poco tempo. Quando giocava nell’immenso giardino della tenuta di famiglia, non aveva alcun problema a cercare, trovare, inseguire e infine catturare il boccino. Profondi conoscitori di quello sport avevano sempre speso grandi lodi sul suo talento; c’era anche chi si era addirittura spinto a sostenere come lui fosse nato per quel ruolo.

Eppure, nel momento in cui si era messo seriamente alla prova, le sue aspettative erano state disattese. Aveva amaramente scoperto che, in tutto quel casino, era impossibile individuare una piccola pallina dorata. Il continuo sfrecciare di compagni e avversari lo disorientava impedendogli di capire cosa avesse attorno. Le urla dei tifosi, i cori e i continui fuochi d’artificio aumentavano ulteriormente il suo senso di smarrimento, lo distraevano dal suo vero obbiettivo. Infine, la costante presenza di Katami, pronta a seguirlo ad ogni sua mossa, lo agitava.

Aveva l’impressione che la ragazza si comportasse intenzionalmente in quel modo. Cercava di mettergli pressione, di confonderlo facendolo sbagliare. Adrien era ormai sfinito, pronto a planare sul manto erboso per dare forfait. Non aveva più alcuna intenzione di continuare: era certo che agli occhi dei presenti la sua goffaggine e l’inesperienza lo stessero facendo apparire ridicolo. Ad un tratto però si accorse di un luccichio sospetto in lontananza. Credette di aver avuto un abbaglio, che il riflesso della luce del sole gli stesse giocando un brutto scherzo.

No, non si era sbagliato. Il boccino d’oro era proprio lì, poco al di sotto del terzo anello nella metà campo dei Serpeverde. Voltò leggermente la testa: Katami era ancora dietro di lui, poteva sentire il suo fiato sul collo. Non doveva commettere errori, altrimenti avrebbe rivelato la posizione del suo obiettivo anche alla sua avversaria. Strinse il manico ligneo tra le mani e, tirandolo a sé con uno strattone, eseguì una capriola all’indietro che lo portò alle spalle della Cercatrice avversaria. L’acrobazia del ragazzo raccolse uno scrosciante applauso del pubblico che, a prescindere dalla squadra tifata, elogiò la sua bravura.

Adrien, però, non si adagiò sugli allori: avrebbe raggiunto il boccino a qualsiasi costo. Scese in picchiata costeggiando gli spalti e, superato il campo da gioco, ne raggiunse la sottostruttura. In quello stretto dedalo di assi, che avevano il compito di sorreggere lo stadio, Katami non avrebbe mai potuto superarlo e sarebbe stata costretta a rimanere dietro di lui. Le labbra del giovane Agreste si incresparono in un sorriso soddisfatto: ormai era fatta, niente gli avrebbe impedito di conquistare la vittoria.

Come aveva previsto la sua rivale, avendo compreso le reali intenzioni dell’avversario, gli stava alle costole. Tuttavia, non aveva alcun margine di manovra per poter effettuare un sorpasso e il tornare in campo le avrebbe fatto perdere tempo. Sbuffò stizzita, si era fatta fregare come una principiante. La sua strategia di destabilizzare psicologicamente Adrien le si era ritorta contro facendole perdere di vista l’unica cosa che contava sul serio: individuare il boccino. Si sentiva demoralizzata, insoddisfatta della propria prestazione; ma non sarebbe stato certo questo a farle riconoscere il valore del suo amico: «Ehi, Adrien…»

La voce della ragazza, nonostante il vociare che giungeva dalle gradinate e le urla dei giocatori, arrivò distintamente all’orecchio del ragazzo. Questi, sicuro che non si trattasse di un tiro mancino, non fece attendere una sua risposta. «Che c’è? Devi dirmi qualcosa?»

«Bella partita!»

«Grazie…» replicò in maniera asciutta il figlio di Gabriel Agreste contento che il suo valore fosse stato riconosciuto, «Anche tu sei stata in gamba. Mi hai messo tantissima…»

Adrien si interruppe di colpo e, senza rendersene conto, arrestò la corsa della sua scopa. Katami, presa in contropiede, fu costretta ad una frenata disperata in modo tale da evitare una collisione. Fortunatamente, riuscì nell’impresa fermandosi a pochi millimetri dal ragazzo. Tirato un sospiro di sollievo, era pronta a riservare al suo amico una sfuriata che avrebbe ricordato per tutta la sua vita. «Ma dico: sei scemo?! Ti sembra il modo di fermarti? Potevamo farci molto male!»

L’altro non le rispose. Portatosi l’indice sulle labbra, la invitò a fare silenzio. La ragazza, dapprima contrariata dal fatto di essere stata zittita, fece ciò che le era stato detto non appena capì cosa stesse accadendo. A pochi metri di distanza, appollaiata sulle travi che sostenevano il terreno di gioco, vi era una studentessa dai lunghi capelli neri. Katami non sembrò riconoscerla, Adrien al contrario aveva immediatamente capito di chi si trattasse. «Juleka! Juleka cosa ci fai qui sotto?! È pericoloso!»

Le urla del giovane Agreste riecheggiarono nel vuoto senza sortire alcun effetto. Juleka rimase immobile, ferma sull’ asse di legno. La testa china, nascosta tra le mani. Il Cercatore dei Grifondoro non si arrese e, ignorando il fatto che la partita fosse ancora in corso, fluttuò verso la sua amica. La sua avversaria, sebbene avesse potuto approfittarne per acchiappare il boccino, si limitò a lanciare un’ultima occhiata al passaggio ormai libero. Batterlo era il suo unico obiettivo, ma voleva riuscirci in modo onesto. Facendo spallucce, si accodò ad Adrien.

I due si affiancarono e, volando con circospezione, si avvicinarono alla Corvonero. Quest’ultima, però, si mise improvvisamente in piedi. Era strana, il suo corpo si muoveva a scatti. Tuttavia, ciò che impensierì maggiormente i ragazzi furono i suoi occhi vitrei. Spenti e completamente privi di espressione, davano l’impressione di guardare nel vuoto.

«Cosa pensi le sia successo?» bisbigliò Katami cercando di far meno rumore possibile.

«Non lo so. Non mi sembra cosciente di ciò che sta facendo.»

«Forse qualcuno la sta controllando. Potrebbe essere stata maledetta.»

«È probabile, ma sarebbe davvero inquietante…» sibilò il figlio di Gabriel Agreste, tremando al solo pensiero che qualcuno all’interno della scuola avesse potuto compiere un simile gesto.

Intanto, Juleka continuava a barcollare sulle travi della struttura. Stava seguendo una traiettoria ben precisa, un percorso che la portava dritta ad un massiccio tronco posto al centro di quel labirinto di legno. La sua funzione era evidente: sorreggere il centro del campo da Quidditch e contemporaneamente scaricare la tensione accumulata sugli atri tralicci. La ragazza si fermò a poche assi di distanza e, alzando il braccio destro in avanti, puntò minacciosamente la propria bacchetta contro quella specie di pilastro.

«Juleka non farlo! No!» gridarono all’unisono i due Cercatori capendo all’istante le sue vere intenzioni, ma era troppo tardi.

La punta dell’oggetto magico si colorò di un’intesa luce rossa, che poco dopo scattò in avanti. L’incantesimo colpì in pieno il tronco di sostegno senza che Adrien e Katami potessero fare nulla per evitarlo. Il legno cominciò pian piano ad annerirsi: ad ogni secondo si faceva sempre più scuro, finché non marcì del tutto. Uno scricchiolio sinistro echeggiò nell’aria. Fu un attimo: il tronco centrale collassò improvvisamente su se stesso e anche alle travi nelle vicinanze toccò la medesima sorte.

Compiuta la propria missione, Juleka perse i sensi e, se non fosse stato per la prontezza di riflessi di Katami, si sarebbe ritrovata sommersa dai detriti. La struttura, che sorreggeva lo stadio della scuola, stava letteralmente cadendo a pezzi. I due Cercatori, recuperata la presunta responsabile dell’incidente, volarono via da lì. Intanto, gli effetti di quel sabotaggio stavano iniziando a manifestarsi anche in superfice. Sotto gli occhi sgomentati dei presenti, una delle tribune collassò su se stessa lasciando nulla più che un cumulo di macerie.

Fortunatamente, la torre di legno era vuota e nessuno spettatore rimase coinvolto. Il cedimento strutturale, però, si stava propagando anche alle altre strutture. Il triplice fischio del professor D’Argencourt segnò la sospensione della partita per cause di forza maggiore. I giocatori furono invitati ad abbandonare il terreno di gioco, mentre il Preside e gli altri insegnanti provvedevano a mettere in sicurezza il pubblico. Era una corsa contro il tempo: parte degli spalti aveva già ceduto e gli studenti si erano dovuti ammassare da un unico lato.

L’unico modo rimasto per scendere dalle gradinate era rappresentato dal varco sud, dal momento che quello nord era già stato inghiottito nella sottostruttura. In fila indiana i ragazzi si mossero verso quella via di fuga, ma il tutto procedeva a rilento. Chi poteva cercava di dare una mano escogitando percorsi alternativi, o semplicemente tranquillizzando le matricole. Tra queste, però, vi era anche chi non si era perso d’animo. Ad esempio, Kim, Alix e Max aiutavano tutti coloro che per un motivo o per un altro erano rimasti intrappolati.

Nino, Alya, Rose e Mylène avevano già abbandonato lo stadio e, raggiunta l’area per il primo soccorso allestita dall’infermiera della scuola, si presero cura dei feriti meno gravi. Gli unici rimasti indietro erano Luka e Marinette. Nonostante fossero consapevoli del pericolo, non se la sentivano di allontanarsi senza aver prima trovato la sorella del ragazzo. Senza che se ne rendessero conto, Juleka si era allontanata durante lo svolgimento della partita e non era più tornata. Preoccupati come non mai, si muovevano tra le gradinate sperando di trovarla.

«Juleka! Dove sei, Juleka?!» gridava a gran voce il fratello portandosi le mani alla bocca per amplificare il suono.

«Non la troveremo mai in questa confusione» mugugnò la giovane Corvonero che lo accompagnava, «Dovremmo recarci all’area di primo soccorso e cercare lì. Sono sicura che sia riuscita ad allontanarsi in tempo.»

«Lo spero, Marinette. Lo spero con tutto il cuore…»

La ragazza gli fece dono di un sorriso di incoraggiamento e gli strinse forte la mano per confortarlo. Luka ricambiò la gentilezza con un occhiolino, poi entrambi si incamminarono verso il varco nord.

Tuttavia, mentre attraversavano ciò che restava degli spalti dedicati ai Serpeverde, un grido soffocato richiamò la loro attenzione. Temendo il peggio, corsero nella direzione delle urla che stavano diventando sempre più acute e insofferenti. «Tiratemi fuori di qui! Sono la figlia del Primo Ministro Francese, non posso essere schiacciata da una trave!»

«Chloé resisti, stiamo arrivando.»

«La conosci?»

«Purtroppo si…» mugugnò la figlia del Signor Dupain facendo roteare seccatamente gli occhi.

La piccola Bourgeois era incastrata al di sotto di un pesante traliccio di legno. Coperta di detriti e polvere, sarebbe stata quasi impossibile da individuare se non avesse starnazzato a quel modo. Marinette e Luka si avvicinarono con cautela: gli spalti scricchiolavano, sembrava potessero cedere da un momento all’altro. Chloé, non appena li vide, iniziò a dimenarsi di più scalciando e strepitando come un’ossessa. «Aiutatemi! Sono bloccata qui, per terra. La mia bellissima uniforme completamente rovinata, per non parlare dei miei capelli!»

«Adesso smettila con questi piagnistei, frignona che non sei altro!» la rimproverò la giovane Corvonero inginocchiandosi a pochi centimetri dal suo naso, «Rischi di far venire giù tutto. Tanto te ne ricompri mille di divise e ti fai una messa in piega alla settimana. Di cosa ti lamenti?!»

«È una questione di stile, Dupain-Cheng! Ma non sto nemmeno a spiegarti cosa sia, tanto non lo capiresti.»

«Ti prego Luka, possiamo lasciarla qui? Non credo dispiacerà a qualcuno.»

Il fratello di Juleka ridacchiò all’idea di abbandonare quella rompiscatole, ma la sua galanteria ebbe la meglio. Si accovacciò accanto alla ragazza e, osservando attentamente la trave che era crollata, rifletté ad alta voce. «È troppo pesante per poterla spostare a mani nude, occorre la magia. Conosco l’incantesimo perfetto per questo tipo di problema.»

Schioccando un occhiolino alla Serpeverde, si mise in piedi e, sfoderata la bacchetta, la agitò con veemenza nell’aria. «Wingardium Leviòsa!», l’incanto impattò sul traliccio facendolo sollevare di alcuni centimetri. Marinette non perse tempo: afferrò Chloé per i polsi e la trascinò via. Una volta in salvo, i tre tirarono un sospiro di sollievo. Tuttavia, il continuo traballare dell’impalcatura che sorreggeva le gradinate li mise in allarme. Non potevano concedersi il lusso di continuare a tergiversare: dovevano assolutamente abbandonare lo stadio.

«Ce la fai a camminare? Non possiamo restare qui.»

«Certo che non ce la faccio, Marinette!» si lamentò la figlia del Primo Ministro Francese, mentre si massaggiava una caviglia esageratamente gonfia. «Ho preso una storta, non riesco nemmeno a mettermi in piedi e…»

«Afferra la mia mano. Ti porto io, fidati di me.» esclamò il ragazzo porgendole galantemente la mano destra.

«O-o-ok… grazie…» balbettò, timidamente, Chloé il cui viso divenne rosso come un pomodoro.

Sotto lo sguardo sbigottito di Marinette, Luka la prese in braccio e, stringendola a sé, si incamminò verso la scalinata nord. Per tutta la durata del tragitto, la piccola Bourgeois non aprì bocca. Troppo imbarazzata per continuare a lamentarsi, rifletté sull’accaduto. Dopotutto, era la prima volta nella sua vita che qualcuno si comportasse in maniera gentile senza avere alcun tipo di tornaconto personale. Raggiunto il varco di accesso allo stadio, si resero conto di essere ormai rimasti soli. Studenti, professori e semplici spettatori avevano già abbandonato la struttura prima del crollo.

Mancavano soltanto loro tre all’appello, non dovevano fare altro che attraversare uno stretto ponte di legno che raccordava gli spalti con la scalinata. Luka, tenendo ancora in braccio Chloé, fu il primo ad attraversalo. Tuttavia, non appena raggiunse il centro della struttura sospesa, accadde il disastro. La sottostruttura dello stadio, ormai troppo fragile per reggere oltre, aveva ceduto di colpo. Gli anelli degli spalti, come in un micidiale domino della distruzione, vennero giù uno dopo l’altro lasciando al loro posto solo macerie e polvere.

Marinette si aggrappò a ciò che rimaneva di una balaustra, mentre i suoi amici rimasero bloccati sul ponticello. Impossibilitati a proseguire o a tornare indietro, furono facile preda dei continui scossoni, finché i piloni di sostegno non collassarono su loro stessi. Le assi di legno caddero nel vuoto e lo stesso sarebbe accaduto ai due ragazzi se non fosse stato per il provvidenziale intervento della figlia del Signor Dupain. Le era bastata una manciata di secondi per capire cosa stesse per succedere. Afferrò la bacchetta e scagliò il primo incantesimo che le venne in mente.

Il ponte brillò di una luce violetta, poi, nonostante fosse privo di appoggio, rimase sospeso a mezz’aria. Luka si girò verso la ragazza per ringraziarla, ma non appena la vide la sua espressione divenne cupa, corrucciata. La magia, che aveva appena eseguito, era di tipo “continuo”; ovvero necessitava che il mago, o la strega, infondessero costantemente energia per poter continuare ad operare. Di conseguenza, la giovane Corvonero non poteva muoversi dal punto in cui si trovava, altrimenti l’effetto dell’incanto sarebbe svanito.

«Luka! Porta via Chloé, non resisterò ancora a lungo…»

«È fuori discussione, Marinette. Non ti lascio sola!»

«Va e non perdere altro tempo. Io me la caverò.» gridò la figlia del Signor Dupain serrando la presa sul manico della bacchetta e sulla ringhiera alla quale era appoggiata.

Il fratello di Juleka, sebbene contrariato, non ebbe altra scelta. Le scoccò un’ultima occhiata di rammarico, poi corse al varco nord mettendosi in salvo. Nel vederlo andare via, la ragazza abbozzò un sorriso di soddisfazione: era riuscita a metterli in salvo. Interruppe il proprio incantesimo e osservò la struttura lignea precipitare nel baratro che separava la collina dallo stadio. Chiuse gli occhi e, consapevole di non avere altre vie di fuga, aspettò che le gradinate cedessero sotto i suoi piedi. Un tonfo sordo accompagnò la sua caduta, poi un piacevole vento fresco le accarezzò il viso.

«La sua abitudine di cadere nel vuoto è alquanto bizzarra, Milady» esclamò Adrien stringendola a sé, mentre volando con la scopa cercava di evitare le tribune che collassavano.

Marinette impiegò un po’ per capire cosa fosse successo; ma, quando incrociò gli occhi color smeraldo del suo compagno, tutto le fu finalmente chiaro. Si sentiva al sicuro tra le sue braccia, come mai prima di allora. Nascondendo a fatica l’imbarazzo, infossò la testa nella spalla di Adrien. Si beò del suo profumo, del suo calore: nonostante l’esito disastroso di quella giornata, non desiderava altro che stare lì, aggrappata a lui. Gli cinse le braccia intorno al collo poggiando le labbra sul suo orecchio. «Cado, perché so che ci sei tu a prendermi…»

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Capitolo 15
*** Capitolo XIV - Oscure presenze ***


Capitolo XIV – Oscure presenze

 
Era ormai sera quando Juleka riaprì gli occhi. Rose l’aveva vegliata per tutto il pomeriggio, non si era mai allontanata dal suo letto. Allo stesso modo anche Luka, Mylène, Alix e gli altri si erano dati più volte il cambio: non se la sentivano di lasciare la loro amica da sola. Tornata cosciente, Juleka fu investita da un’esplosione di gioia. I suoi compagni le saltarono letteralmente addosso e la ricoprirono di premurose attenzioni. Non si era mai sentita così bene, così amata. Era la prima volta che qualcuno le dava una tale importanza.

Stretta nella morsa di Rose e suo fratello, non riuscì più a trattenersi. Versò fiumi di lacrime senza nemmeno conoscerne il motivo. Non ricordava nulla di quanto fosse successo alla partita, né della distruzione del campo da Quidditch. Per quanto i suoi amici si sforzassero di trovare una risposta, non furono in grado di far luce sul quel mistero. Di conseguenza, toccò ad Adrien e Katami, entrambi presenti al momento dell’incidente, raccontare ciò che avevano visto. La loro versione dei fatti suscitò grande preoccupazione e un forte senso di colpa nella presunta responsabile.

Un silenzio angosciante calò nella grande infermeria di Hogwarts. Nessuno aveva il coraggio di parlare o contestare ciò che i due Cercatori avevano appena riportato. I singhiozzi di Juleka echeggiavano nel vuoto della stanza, allo stesso modo dei sospiri sconsolati di tutti gli altri. Ad un tratto però il tonfo sordo di un pugno, sbattuto con violenza su un comodino d’acciaio, ruppe quell’atmosfera surreale. I presenti, guardandosi in torno spaesati, iniziarono a chiedersi quale fosse la “fonte” di quel rumore.

«Quindi sei stata tu! La colpa è soltanto tua!»

Quel suono stridulo sferzò definitivamente l’aura di silenziosa sacralità che aleggiava all’interno dell’infermeria. La voce proveniva dal fondo della stanza, a circa un paio di letti di distanza dalla porta d’ingresso. Rimasta volutamente in disparte per tutto il tempo, la piccola Bourgeois se ne stava sdraiata sul materasso a braccia conserte. Oltre Juleka, lei era stata l’unica studentessa ad essere trattenuta. La sua caviglia, a causa del crollo di un pesante traliccio di legno, si era fratturata costringendola ad un riposo forzato.

Il danno era stato talmente grave che la stessa infermiera della scuola, Madame Wilkins, aveva ritenuto più saggio bypassare il protocollo. In quei casi infatti, la procedura comune consisteva nel far rinsaldare le ossa con un incantesimo specifico. Di norma in un’oretta il problema si sarebbe risolto, ma la ragazza presentava un quadro clinico ben più complesso. La frattura era scomposta e numerose schegge d’osso si erano conficcate nella muscolatura. Pertanto si era deciso di rimuovere completamente le ossa della caviglia e della gamba, per poi farle ricrescere.

Chloé era stata avvertita dei probabili effetti collaterali di quella terapia, ma aveva dato l’impressione di non importarsene più di tanto. Agli occhi di Marinette e Adrien, i quali insieme a Luka e Katami l’avevano accompagnata in infermeria, era sembrata stranamente paziente e tranquilla. Era come se qualcosa, o meglio, qualcuno riuscisse a spegnere il suo lato impulsivo e attaccabrighe. Tuttavia l’aver scoperto l’identità del responsabile aveva avuto l’effetto di “riaccendere la miccia” della piccola Bourgeois, che era tornata ad essere la stessa di sempre.

«Chloé non puoi accusare Juleka.» la apostrofò Alya stringendosi inconsapevolmente a Nino, «Non sappiamo ancora se…»

«Taci! È stata lei: Adrien l’ha vista!»

Il figlio di Gabriel Agreste, preso in contropiede da quell’ultima affermazione, cercò di smarcarsi in qualche modo. Non era affatto semplice, in fin dei conti la sua amica aveva ragione: le prove contro Juleka erano incontrovertibili. Era stata lei a distruggere la trave centrale della sottostruttura e quindi a causarne il crollo. Lui e Katami l’avevano vista chiaramente. Eppure, c’era un qualcosa che non gli tornava. Gli occhi vitrei, l’atteggiamento assente: non vi erano dubbi che la ragazza fosse sotto l’effetto di una maledizione. L’unico problema era provarlo.

«Ascolta Chloé… so che sembra difficile da accettare, ma la colpa non è sua.» esclamò, improvvisamente, la Cercatrice dei Serpeverde mostrando più coraggio e determinazione del suo rivale.

«E tu da dove salti fuori? Chi diamine saresti?!»

«Mi chiamo Katami Tsurugi, appartengo alla tua stessa casata.»

«Mai sentita…» glissò la piccola Bourgeois con superficialità, mentre i suoi occhi inquisitori restavano puntati su Adrien.

«Non mi meraviglia: sei così egocentrica che non ti importa di nessuno al di fuori di te stessa!»

«Come ti permetti?!» starnazzò Chloé cercando di mettersi seduta, «Tu non hai idea del guaio in cui ti stai cacciando!»

«Miss “hopapinochefailprimoministro” si sta alterando, forse?» esclamò, sarcasticamente, Alya affiancandosi a Katami per darle man forte.

«Già, quasi mi dispiace che Marinette ti abbia salvato!» aggiunse Alix con cattiveria incrociando le braccia al petto.

La giovane Serpeverde non fu in grado di replicare: l’avevano messa all’angolo e si stavano accanendo su di lei. Si rannicchiò nuovamente sotto le coperte e, girando la testa, nascose ai presenti i suoi occhioni azzurri colmi di lacrime. Le tre si guardarono tra loro soddisfatte. L’essere riuscite a tener testa alla piccola Bourgeois dava una piacevole sensazione di soddisfazione. Gli altri, però, sembravano turbati. Era sbagliato litigare tra compagni, sarebbe stato molto più saggio cercare di capire cosa o chi avesse causato l’incidente.

Nonostante Chloé se lo fosse pienamente meritato, il trattamento che le avevano riservato era oltremodo meschino. Adrien ne era consapevole e non riusciva a convincersi del contrario. Si sentiva colpevole per non averla difesa; ma allo stesso tempo non aveva di certo apprezzato il modo e il tono con i quali la ragazza aveva accusato Juleka. Era combattuto, incapace di decidere la mossa successiva. Tuttavia, bastò poco per farlo tornare in sé. Un semplice tocco sulla spalla e il dolce sorriso della sua amica Marinette, l’unica che aveva capito il suo stato d’animo.

Gli aveva trasmesso il coraggio necessario per compiere il primo passo. Avrebbe rimesso a posto le cose. Era sul punto di muoversi, di raggiungere il letto della piccola Bourgeois. L’avrebbe consolata, le avrebbe fatto capire che il colpevole dell’incidente era lontano, pronto ad orchestrare un nuovo attacco. Non doveva fare altro che sedersi lì, accanto a lei. Qualcun altro però fu più veloce di lui. Senza curarsi degli sguardi sbigottiti dei presenti, si posizionò sul morbido materasso della brandina in ferro e richiamò l’attenzione della sua occupante.

«C-c-cosa vuoi?!» balbettò Chloé trattenendo a fatica i singhiozzi, «Se pensi che ti ringrazi per avermi aiutata, ti sbagli di grosso! Era tuo dovere farlo, io sono la figlia del Primo Ministro.»

«Tranquilla, non ce n’è bisogno. Desideravo solo presentarmi.» replicò pacatamente il ragazzo, accavallando le gambe e mettendosi comodo.

«Cosa ti fa pensare che io voglia sapere il tuo nome?!»

«Ma come diamine si permet…» tentò di protestare la figlia del Signor Césaire, ma Nino le mise una mano davanti la bocca interrompendola.

Evitata per un soffio l’ennesima discussione, i presenti tornarono a concentrarsi sulla piccola Bourgeois e il suo interlocutore. Questi, per nulla indispettito da quell’atteggiamento così spocchioso, sorrise dolcemente. Chloé fu colpita dalla sua reazione, non se la sarebbe mai aspettata. Finché si era scontrata con le altre, era stata sicura di essere dalla parte del giusto. Tuttavia il modo di fare del ragazzo aveva incrinato le sue certezze: la faceva sentire fragile e vulnerabile. Aveva la sensazione che lui volesse esserle amico, che volesse “andare oltre” ciò che vedeva.

Avvertì un’improvvisa fitta allo stomaco, il dolore quasi la piegò in due. Per un attimo credette che una qualche ferita interna, della cui presenza Madame Wilkins non si era accorta, si fosse aperta. Con il passare dei secondi, però, capì che non si trattava di un problema organico: fisicamente, ad eccezione della caviglia, stava benissimo. No, era una sofferenza interiore, causata dalla consapevolezza di aver esagerato. Conosceva bene l’identità del suo salvatore, dopotutto non bisognava essere un genio per capirlo.

La sua presenza in quella stanza, il conoscere delle matricole nonostante lui fosse ben più grande di loro e l’attaccamento morboso a Juleka senza alcun evidente interesse romantico; tutti quegli indizi portavano ad una sola conclusione: i due erano imparentati. Chloé lo aveva capito immediatamente, fin da quando era stata portata nel campo di primo soccorso allestito nelle vicinanze del campo da Quidditch. Si morse un labbro per il nervosismo e, stringendo i bordi della coperta, provò a farfugliare la prima cosa che le venne in mente. «I-i-io so chi sei, cioè credo…»

Si diede della stupida: come poteva aver detto una tale banalità? Per di più stava balbettando, possibile che non fosse più in grado di controllare le proprie emozioni? Marinette, Alya e le altre l’avrebbero presa in giro per l’eternità. Era ormai convinta che, dopo una tale figuraccia, Adrien non avrebbe voluto sentir parlare di lei per almeno una ventina d’anni. Senza accorgersene, iniziò ad iper-ventilare. Era sul punto di avere un attacco di panico, quando avvertì una delicata stretta alla mano destra.

«Mi chiamo Luka Couffaine, sono il fratello maggiore di Juleka.» le bisbigliò il giovane Tassorosso, mentre i suoi polpastrelli continuavano ad accarezzare le dita dell’altra.

«S-s-si l’avevo capito.»

«Ne sono certo, ma preferivo dirtelo personalmente. Sai, ci tenevo…»

«Come mai?» biascicò Chloé temendo che l’unico motivo fosse quello di rinfacciarle l’aver calunniato la sorella della stessa persona che l’aveva salvata.
«Beh, sarei uno sciocco a non presentarmi ad una bella ragazza come te.»

La piccola Bourgeois ebbe un sussulto, stentava a credere che qualcuno le avesse fatto un complimento del genere. Di ragazzi che le andassero dietro ne aveva a bizzeffe, ma più che romantici corteggiatori li considerava meschini adulatori. Degli arrivisti, figli di papà, che avrebbero fatto di tutto per guadagnarsi una posizione. L’apprezzamento di Luka, però, era diverso. Genuino e privo di secondi fini, la colpì direttamente al cuore dandole l’impressione di sciogliersi come neve al sole.
Resasi conto di essere arrossita vistosamente, si coprì il viso con la coperta. Si lasciò cadere sul materasso e, girando nuovamente la faccia verso il muro, cercò di riacquistare un briciolo di autocontrollo. «L-l-lo so che sono una “bella ragazza”, me lo dicono in tanti… anche il mio papà.»

«Non avevo dubbi su questo: sarebbe folle dirti il contrario» replicò il fratello di Juleka, rimettendosi in piedi.

«Ahm… comunque… comunque…» mugugnò Chloé sforzandosi di trovare le parole giuste: non era mai stata brava a scusarsi. «Non volevo accusare tua sorella. Cioè… la colpa è ovviamente sua, ma forse… forse Adrien e quell’antipatica di Katami hanno ragione. Deve essere stato qualcun altro a controllarla e a farle distruggere il campo.»

Per una manciata di secondi, la Cercatrice dei Serpeverde perse la sua aura di sprezzante distacco. I suoi occhi ambrati si ridussero a delle fessure, mentre le mani vibrarono chiudendosi a pugno. Se non fosse stato per Alya e Alix, sebbene contrariate quanto lei, si sarebbe sicuramente scagliata contro la figlia del Primo Ministro Francese. Al contrario di quanto si aspettassero i presenti, Luka non batté ciglio. Immobile a pochi passi dal letto, si limitava ad osservare la sagoma della piccola Bourgeois. Magari agli altri sarebbe risultato strano, ma lui non riusciva a farne a meno.

A dir la verità, era tutto il pomeriggio che si interrogava su cosa diamine gli stesse accadendo. Fin da quando aveva aiutato Chloé a liberarsi dalla trave di legno, gli era sembrata spocchiosa, arrogante, egoista e autoritaria. Atteggiamenti che gli erano stati peraltro confermati dalla sua invettiva contro la sorella. Eppure, nonostante vi fossero tutti i presupposti, non era riuscito a odiarla. Provava curiosità e un’inspiegabile simpatia nei suoi confronti. Desiderava conoscerla meglio e capire quale fossero i motivi che la spingessero a comportarsi in quel modo.

«Spero non ti sia arrabbiato.» aggiunse, improvvisamente, la piccola Bourgeois ridestandolo dai suoi pensieri, «Non volevo sembrare un’ingrata: grazie per avermi aiutata.»

Quelle ultime parole spiazzarono le persone all’interno dell’infermeria. In particolare, Adrien si rese conto che era la prima volta in cui la sua amica, non soltanto avesse ammesso di aver sbagliato, ma anche che avesse sentito il bisogno di ringraziare qualcuno. Luka, invece, continuò a mantenere un atteggiamento pacato. «Tranquilla, non è successo nulla di grave. Sono contento che anche tu ti sia convinta dell’innocenza di Juleka. Spero solo che non capiti più nulla del genere: non è giusto che degli studenti innocenti siano manipolati da oscure presenze.»

«P-p-pensi che possa riaccadere?!»

«È probabile! Questo qui è il terzo attacco nel giro di due mesi.» esclamò Marinette richiamando alla memoria di tutti l’incidente avvenuto nella biblioteca e la propria disavventura sulla scopa.

«Credi che questi “casi isolati” siano in qualche modo collegati?»

«Ne sono assolutamente sicura, Katami. Le coincidenze cominciano ad essere troppe.»

«La Signorina Dupain-Cheng ha pienamente ragione.»

Gli studenti si voltarono in direzione del massiccio portone d’ingresso dell’infermeria. Sull’uscio, abbracciato da una confortevole veste verde abbellita da eleganti ghirigori argentati, si trovava il Preside Fu. Al suo fianco la professoressa Bustier e il professor Damocles, scuri in volto e dall’espressione tirata, completavano quel quadro di austera compostezza. Non appena si rese conto dell’arrivo degli insegnanti, Madame Wilkins percorse a passo svelto la distanza che separava il suo ufficio dall’ingresso. «Preside, ecco il referto che mi aveva chiesto.»

«Molte grazie, Priscilla.» replicò garbatamente il Preside di Hogwarts, mentre con attenzione sfogliava il plico che gli era stato consegnato.
«È grave come pensavamo?» biascicò la Bustier, le parole tremavano sulle labbra quasi la donna avesse avuto paura della risposta.
«Ho paura di sì, mia cara. La Signorina Couffaine è stata costretta a compiere quell’atto distruttivo da una maledizione.»

«Lo sapevo! Non l’avrebbe mai fatto!» esclamò Alya senza rendersi conto di aver calamitato l’attenzione su di sé. «Ehm… scusate, non volevo interrompervi. Prego continuate, pure.»

Gli sguardi dei presenti tornarono a concentrarsi sulla minuta figura di Fu, il quale non era riuscito a trattenere un sorriso di complicità per quanto fosse successo. Riconsegnata la “cartella” all’infermiera della scuola, si mise a passeggiare per la stanza tenendo le braccia conserte dietro la schiena. Isolatosi dal mondo esterno, il Preside si concentrò sulle poche, ma preziose, informazioni che era riuscito a recuperare. Ormai non aveva più dubbi sulla causa di quegli incidenti, sarebbe stato stupido e controproducente far finta che non fosse così.

Ciononostante, restava da capire chi fosse il reale responsabile degli attacchi e se agisse da solo o meno. Era indubbio che qualcuno tirava le fila di quella faccenda, ma il motivo gli era purtroppo ignoto. Non aveva fatto altro che chiedersi il perché se la stessero prendendo con dei poveri studenti inesperti. Che senso aveva? Sarebbe stato molto più logico attaccare il corpo docenti, dal momento che disponeva di un così grande potere. Assorto nel vorticoso flusso dei suoi pensieri, non si accorse che una delle ragazze gli si fosse avvicinata.

«Preside Fu…» la voce di Marinette lo ridestò dallo stato di trance in cui era inconsapevolmente caduto. «Preside, come possiamo difenderci da questi attacchi? Deve esserci un modo.»

«Purtroppo mia cara, non possiamo fare nulla. Non si può prevedere una magia tanto potente.»

Le affermazioni dell’uomo lasciarono l’amaro in bocca. Il non potersi proteggere preoccupò i ragazzi, che iniziarono a parlottare fittamente tra di loro. Il Preside Fu, benché amareggiato per non aver potuto promettere loro un giusto grado di sicurezza, non si perse d’animo. «Ragazzi, vi prego, ascoltatemi. So che può far paura una cosa del genere, ma non dovete permetterle di sopraffarvi. Quest’oggi ciascuno di voi ha dimostrato un enorme coraggio, nonostante la situazione non fosse delle migliori. Se resterete uniti, nulla potrà farvi del male!»

«Lo pensa veramente, Preside?»

«Certo, Signorino Agreste! Dopotutto, lei sa che mi sbaglio raramente.» concluse Fu facendo loro l’occhiolino.
 
 
 

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Capitolo 16
*** Capitolo XV - Halloween ***


Capitolo XV - Halloween

 
La mattina del trentuno ottobre Alya si svegliò decisamente presto. Nonostante le lezioni fossero sospese per Halloween, preferì alzarsi dal proprio letto e mettersi subito all’opera. Nel giro di un quarto d’ora, suo nuovo record, si preparò per affrontare al meglio la giornata. Indossato un caldo pullover di pile bianco e dei pratici jeans, lasciò il dormitorio e scese la stretta scala a chiocciola che l’avrebbe portata nella sala comune dei Grifondoro. Con sua grande sorpresa si accorse di non essere l’unica mattiniera. «Voi cosa ci fate qui?! Perché siete già svegli?»

«Buongiorno anche a te, sorellina» replicò, annoiata, Nora, mentre era intenta a ripiegare l’uniforme da Quidditch all’interno di un borsone in cuoio.

«Ciao Alya! Come mai già sveglia?»

«Ecco… avevo delle commissioni da fare» rispose la ragazza in maniera elusiva, facendo molta attenzione a non incrociare lo sguardo inquisitorio di Adrien. «Voi, piuttosto, perché state recuperando l’attrezzatura? Pensavo che il campionato fosse stato sospeso.»

«Purtroppo, è così. In seguito alla distruzione del campo da Quidditch, il Preside Fu ha ritenuto più saggio sospendere il torneo.»

«Ciononostante, noi non vogliamo starcene senza far nulla!» aggiunse, prontamente, il figlio di Gabriel Agreste dando al suo capitano un’incoraggiante pacca sulla spalla.

«Non credo di aver ben capito…»

L’espressione smarrita della sorella fece sorridere Nora che, caricatasi la pesante borsa in spalla, le scoccò un’occhiata di noncuranza. Senza aggiungere altro, afferrò una giacca in pelle nera, poggiata su uno dei divanetti nei pressi del camino, e uscì dal ritratto della Signora Grassa. Sua sorella non poté fare a meno di sbuffare stizzita: detestava quel suo comportamento superiorità. Era consapevole che, essendo più piccola, dovesse in qualche modo sottostare alla volontà della maggiore: ma quell’atteggiamento così antipatico era troppo.

Notando il disappunto impressosi sul volto dell’amica, Adrien tentò di rincuorarla. Non si definiva certo un esperto di dinamiche familiari, ma dal canto suo aveva un buon bagaglio di esperienze dal quale poter attingere. Dopotutto, era convinto che non esistesse famiglia più complicata della sua: aiutare Alya sarebbe stato uno scherzo. «Sai bene che non lo fa apposta. Semplicemente si diverte a tenerti sulle spine. In fin dei conti, è compito dei fratelli maggiori… ehm… no, scusa… sorelle maggiori fare in modo che quelli più piccoli si disperino.»

«Ne sono consapevole, è solo che… che… non vorrei essere trattata sempre come una bambina!»

«Vedrai che non è così. Nora ti vuole bene e saprà dimostrartelo» le assicurò l’altro incamminandosi verso l’uscita della torre dei Grifondoro, «Comunque, noi andiamo al campo di allenamento. Andrew e Katami ci stanno aspettando: almeno ci divertiremo giocando un po’ a Quidditch.»

La figlia del Signor Césaire fece un segno di assenso con la testa. Tuttavia, poco prima che il ragazzo abbandonasse la stanza, richiamò improvvisamente la sua attenzione. «Ehi, Adrien! Toglimi una curiosità: come mai sei così ferrato sui rapporti tra fratelli?»

Il giovane Agreste, preso in contropiede da quella domanda a bruciapelo, si affrettò ad uscire dal quadro farfugliando una risposta ben poco convincente. «Ho… ho tirato ad indovinare. A-a-adesso devo andare, ci vediamo a pranzo!»

«Lei mi nasconde qualcosa, Signorino Agreste…» sibilò tra sé Alya incrociando le braccia al petto, mentre un sopracciglio si alzava in maniera sospettosa.

Rimase ad osservare il didietro della tela per alcuni istanti; poi, facendo spallucce, recuperò una cartellina porta documenti da uno dei tavolini. Era stata lei stessa a lasciarla lì la sera prima: aveva temuto di dimenticarla a causa della fretta. Senza quelle “carte” non avrebbe concluso nulla rischiando di sprecare un’occasione d’oro. Afferrato il giubbino beige dall’attaccapanni della sala comune, guadagnò l’uscita della torre. Com’era suo solito, prima di lanciarsi lungo la scalinata del castello, rivolse un affettuoso saluto alla Signora Grassa, che ricambiò amorevolmente.

Camminando a passo svelto, si diresse verso la Sala Grande. A quell’ora i corridoi di Hogwarts erano piacevolmente deserti: un senso di pace e sicurezza traspariva dalle pareti massicce. Incrociò soltanto qualche Prefetto del settimo anno e alcuni professori. Quest’ultimi, stupiti di vederla in piedi a quell’ora, le chiesero cosa l’avesse spinta a rinunciare a quel giorno di riposo. La figlia del Signor Césaire, però, si limitò a glissare le domande degli insegnanti. Non aveva alcuna intenzione di perdere altro tempo, la sua “missione” aveva la priorità.

«Ehi! Si può sapere che fine avevi fatto?! È un quarto d’ora che ti aspetto!»

«P-p-perdonami Nino…» ansimò Alya con il fiatone, mentre si sedeva su una delle panche al tavolo dei Tassorosso. «Nora e Adrien si sono messi d’accordo per farmi perdere tempo questa mattina. Tu, piuttosto, perché non sei venuto a cercarmi?! È facile rinfacciare standosene comodi.»

«Tu sei pazza, sorella! Sono stato il primo ad arrivare questa mattina: avevo tutto questo solo per me!» esclamò il giovane Lahiffe indicando l’abbondante colazione di Halloween presente sulle tavolate delle quattro casate.

Alya non se la sentì di dargli torto: non aveva mai visto così tanto cibo in vita sua. Dolci alla zucca, crostate di frutta e al cioccolato, biscotti di ogni tipo, cereali, bevande e succhi; ogni genere di pietanza era presente all’interno della Sala Grande abbellita a festa per l’occasione. Un numero infinito di candele fluttuava tranquillamente sul soffitto della sala, le cui fattezze avevano assunto la forma di un grigio cielo in vena di tempesta. Festoni arancioni dalle sfumature nere e curiose zucche parlanti, invece, erano appesi alle pareti.

I suoi genitori e sua sorella maggiore le avevano descritto diverse volte quanto fosse mistica e affascinante l’atmosfera di Halloween all’interno della scuola. Tuttavia, viverla sulla propria pelle rappresentava un qualcosa di completamente diverso. Era difficile da spiegare, neanche lei era in grado di trovare le parole giuste. Forse queste non esistevano nemmeno: per la comunità magica non c’era festività più importante di quella. Rappresentava l’affermazione della loro stessa esistenza agli occhi di chi, per un motivo o per un altro, non faceva parte di quel mondo.

Senza accorgersene, la ragazza fu rapita dal flebile riflesso di quelle piccole fiammelle che le sovrastavano la testa. Rimase con il naso all’insù, finché il suo compagno non la richiamò alla realtà dandole una pacca sulla spalla. «Allora… di cosa volevi parlarmi? Il tuo messaggio era così misterioso: non ci ho capito nulla.»
«Ehm… ecco… adesso ti faccio vedere» esclamò Alya aprendo la cartellina porta documenti e lasciandone scivolare il contenuto sul tavolo.

«Non dirmi che mi hai portato proprio oggi gli appunti dell’ultima lezione di Trasfigurazione!»

«Chiudi la bocca, babbeo e leggi!»

Inarcando le sopracciglia in segno di disappunto, Nino prese tra le mani uno dei fogli e sibilò tra sé alcune parole. Ricontrollò il documento altre due volte per essere sicuro di averne capito il contenuto, mentre l’altra fremeva alla sua destra speranzosa. «Se pensi ti diano il permesso, sei completamente fuori strada.»

«Perché non dovrebbero farlo?!» replicò seccata la compagna con le guance che si tingevano via via di un bel rosso fuoco.

«Non siamo in una scuola per Babbani, una cosa del genere non è stata mai fatta qui» puntualizzò il giovane Lahiffe sorseggiando un po’ di tè, «Sicuramente la riterranno inutile, per non dire infantile.»

Un macigno grosso quanto la statua dell’Architetto di Hogwarts piombò su Alya con estrema violenza. Quella stessa mattina sua sorella maggiore non aveva voluto rivelarle il motivo di quegli strani allenamenti e adesso il suo migliore amico l’aveva appena definita “infantile”. Avrebbe voluto urlare, ribellarsi a quell’etichetta che era solita vedersi attribuire; ma non ne ebbe la convinzione. Forse avevano ragione, era davvero un’idea troppo bislacca per poter funzionare.

Se prima di allora la scuola non aveva avuto la necessità di approvare progetti simili al suo, perché con lei sarebbe dovuto essere diverso? In silenzio raccolse i fogli sparsi davanti e li rimise al loro posto. Nino la osservava incuriosito: si sarebbe aspettato una maggiore resistenza, anzi quasi ci aveva sperato. Infatti, benché fosse folle, non era tanto dispiaciuto da quella proposta. «Allora lasciamo perdere? Non ci proviamo nemmeno?»

«A che servirebbe?» sospirò l’altra scuotendo la testa con rassegnazione, «Tanto è una fesseria. Come mi hai già fatto notare, ce la boccerebbero dopo aver letto la prima riga della bozza.»

«Sì l’ho detto, ma avevo anche ipotizzato che l’aggiunta di quattro unghie di salamandra invece di tre alla pozione l’avrebbe resa più profumata e invece…»

«E invece è saltata in aria l’aula della Professoressa Mendeleiev» ridacchiò Alya ritrovando magicamente il buon umore perduto.

«Visto?! Sono un disastro a dare consigli.»

«Ma non è la stessa cosa! Qui si tratta di un progetto non compatibile con l’ordinamento scolastico.»

«E allora? Nella peggiore delle ipotesi ci becchiamo una ramanzina!» tagliò corto il ragazzo afferrando la compagna per la manica del pullover per poi trascinarla verso l’ingresso. «Forza, andiamo dal Preside. Sono sicuro che a quest’ora sia già nel suo ufficio.»

Alya non oppose resistenza, era felice che ci fosse qualcuno a darle la carica di cui aveva bisogno. Nonostante quella missione si prospettasse un completo fallimento non aveva più paura. I dubbi e le preoccupazioni erano spariti nel nulla; come per magia la risata scaturita dalle parole dell’amico le aveva restituito forza e sicurezza. Così, senza rendersene conto, corsero mano nella mano verso l’ufficio del Professor Fu.

«Secondo te come facciamo a farlo spostare?»

«Non lo so. Credo occorra una specie di password, come mi disse Marinette.»

«Ehi, tu!» abbaiò in tono perentorio Nino all’imponente statua di grifone posta a protezione delle stanze del Preside di Hogwarts, «Spostati, dobbiamo parlare con il Preside Fu.»

«Senza parola d’ordine non potete accedere. Allontanatevi!» gli fece eco il gargoyle lanciando ai due un’occhiata glaciale.

«Avrei dovuto pensarci prima. Forse se avessi spiegato la situazione alla Professoressa Bustier non avremmo avuto problemi.»

«Non è colpa tua Alya, ma di questo ottuso pezzo di ferro!»

L’urlo di disappunto del giovane Tassorosso fu seguito dal tonfo sordo delle ossa del suo piede sinistro che cozzavano violentemente contro il duro metallo. Quel calcio non sortì l’effetto sperato: il guardiano dell’ufficio rimase immobile, il becco adunco dischiuso in una specie di sorriso denigratorio. «Adesso ti faccio vedere io di cosa sono capace!» ruggì il ragazzo estraendo la propria bacchetta, «Reduc…»

«Per quanto la sua inclinazione alla distruzione sia notevole, Signorino Lahiffe, non credo che quell’incantesimo possa funzionare.»

I due studenti si voltarono più in fretta che poterono. Alle loro spalle vi era un piccolo ometto che ridacchiava allegramente sotto i baffi grigi. Coperto da una pesante tunica blu oceano, osservava con curiosità le persone che aveva davanti a sé. Percepiva il loro imbarazzo, ma anche la soddisfazione di essere riusciti a trovarlo. «Mi stavate cercando?»

«E-e-ecco… s-s-sì, Professore» balbettò Alya nascondendo a fatica il rossore, impresso sul suo volto, dietro la cartellina porta documenti. «Vorrei parlarle di un… di un progetto scolastico.»

«E lui?» proseguì Fu, mentre indicava con il proprio bastone da passeggio Nino intento a massaggiarsi le falangi doloranti.

«Lui è un mio… un mio… amico! Sì, amico: mi aiuta a sviluppare l’idea che desidero sottoporre al suo giudizio.»

Il Preside fece un breve cenno di assenso con il capo e, senza aggiungere altro, con un semplice sguardo d’intesa, diede ordine al gargoyle di rivelare il passaggio segreto. Fece cenno ai suoi allievi di seguirlo all’interno della nicchia muraria; poi ad un suo schiocco di dita degli scalini in pietra li condussero al suo ufficio. «Lei ha un buon gusto in quanto ad amicizie, signorina Césaire. Sono sicuro che suo padre approverebbe» esclamò Fu aprendo la porta della stanza.

A quelle parole i ragazzi furono colti da una vampata improvvisa. Una piacevole sensazione di calore si impadronì dei loro corpi e, senza capirne il motivo, si sentirono più leggeri che mai. Il Preside, dopo aver preso posto dietro la massiccia scrivania posta al centro della torre, li invitò ad accomodarsi. Entrambi si sedettero dinanzi all’uomo e, non avendo il coraggio di aprire bocca, rimasero a fissarlo.

«Allora, di cosa volete parlarmi?» gli chiese dolcemente Fu, mentre osservava con curiosità crescente la cartellina che Alya stringeva tra le braccia. «Avete qualcosa da mostrarmi, forse?»

Rincuorata dal fatto che fosse stato qualcun altro a “rompere il ghiaccio”, la ragazza ebbe la forza di porgere un foglio alla persona che aveva dinanzi. Il Preside lesse attentamente per alcuni minuti, un lasso di tempo che a Nino sembrò durare un’eternità. Era divorato dall’ansia e, a differenza della sua amica, non era in grado di nasconderlo. Non desiderava altro che il professore esprimesse un parere, anche se negativo, in modo tale da concludere quella tortura.

«Dunque…» sibilò l’omino dietro la scrivania a voce così bassa che gli altri due furono costretti a sporgersi verso di lui, «si tratta di un giornale scolastico, giusto? Una specie di “Gazzetta del Profeta” di Hogwarts se non vado errato.»

«L’idea sarebbe quella di raccontare la nostra scuola e i fatti che avvengono al suo interno attraverso gli occhi degli studenti» spiegò Alya seguita da poco convinti cenni di approvazione del suo compagno.

«Come ti è venuta in mente quest’idea?»

«Ho pensato che, dato il crescente clima di insicurezza e preoccupazione, gli allievi della scuola dovessero essere informati, in modo tale da potersi difendere.»

«Sei consapevole che un progetto del genere non è in linea con i nostri obiettivi didattici?» sentenziò Fu scrutando ogni singolo centimetro del viso della sua interlocutrice.

«Io… io ne ero a conoscenza, ma…» biascicò timidamente la ragazza, venendo però interrotta all’improvviso. «Ma gli obiettivi di Hogwarts possono anche cambiare. Ci avete sempre detto che la magia non è statica, né oppressa da regole ferree. Perché noi dovremmo esserlo?!»

La voce acuta di Nino riecheggiò per l’ufficio. Alya sprofondò nella propria sedia: non doveva scattare in quel modo, ormai ogni speranza era perduta. Il Preside, però, non sembrava turbato bensì colpito da tanta determinazione. Lanciò un fugace sguardo alla piccola tartaruga apparentemente addormentata sulla scrivania, poi si schiarì la voce tossendo. «Molto bene, credo che per questa scuola si arrivato il momento di esplorare nuove strade.»

«Vuol dire che… che abbiamo il permesso?!» esclamarono gli altri due all’unisono scattando in piedi per l’eccitazione.

«Sì vi concederò il permesso e credo che la Professoressa Bustier sia ben disposta a farvi da referente, come da voi richiesto» precisò l’uomo alzandosi a sua volta dalla poltrona imbottita. «Tuttavia mi aspetto che tutte le Case siano coinvolte nell’iniziativa.»

«Certo, non ci sono problemi…»

«Compresi i Serpeverde, che a loro piaccia o meno.»

Alya e Nino si scambiarono un’occhiata lugubre. Non avevano minimamente calcolato “quella” Casa e di certo i suoi studenti non avrebbero voluto avere niente a che fare con loro. Il Preside, però, sembrava irremovibile, quindi furono costretti a farsi carico di questa responsabilità.

«Molto bene! Non vedo l’ora di leggere il primo numero: sarò il vostro abbonato più affezionato» cinguettò Fu offrendo ai due delle caramelle per festeggiare l’inizio di quell’avventura.

 
 
 

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Capitolo 17
*** Capitolo XVI – L’Eco di Hogwarts ***


Capitolo XVI - L'Eco di Hogwarts

 
«Marinette, anche tu qui?!»

«Oh, ciao Adrien. Dopo pranzo Alya mi ha chiesto di incontrarci in questo posto: doveva dirmi qualcosa di importante» trillò allegramente la ragazza sedendosi accanto a lui su una delle rigide cassapanche poste nell’ampio androne della Torre dell’Orologio.

«Nino mi ha riferito lo stesso messaggio» replicò pensieroso il giovane Agreste, «Pensi che quei due stiano lavorando alla stessa cosa?»

«Conoscendoli è probabile. Comunque come mai indossi la divisa da Quidditch? Il campionato non era stato sospeso?»

«Sì, è così. Ma io e Nora non ci siamo dati per vinti: abbiamo deciso di continuare ad allenarci con la speranza che possa riprendere al più presto.»

«Sei davvero convinto possa accadere? Cioè… non… non pensi sia un po’ troppo presto? Magari tra qualche mese…» biascicò Marinette, il tono imbarazzato che tradiva la sua apparente sicurezza.

Adrien levò gli occhi in alto: non era più convinto di quanto potesse fingere la sua amica. Eppure, dentro di sé ardeva forte quel desiderio. Era quasi egoistico da parte sua dare più importanza ad un gioco che a quei pericolosi attacchi, ma a lui non importava. Sulla scopa riusciva ad essere libero, se stesso. Non avrebbe mai potuto rinunciare a quella sensazione. «Non lo so, ma qualora dovesse essere così meglio non farsi trovare impreparati.»

«Hai ragione! In questo modo la squadra di Grifondoro sarà la più forte di tutte» esclamò l’altra con improvviso vigore facendogli l’occhiolino.

«In realtà non siamo i soli ad allenarci» ammise imbarazzato, «anche Katami e Andrew hanno partecipato alla sessione di stamane.»

«Katami?!»

Quel nome suonò stranamente acuto nelle orecchie della ragazza dai capelli corvini. Una sorta di stridore di unghie contro la fredda lavagna presente nell’aula di Storia della Magia. Aveva conosciuto la Cercatrice dei Serpeverde il giorno della partita inaugurale del Campionato. A prima vista le era sembrata una persona abbastanza piacevole: rigida e sicura di sé, ma tutto sommato normale al contrario di quella viziata di Chloé Bourgeois.

Nonostante ciò, si era appena resa conto di quanto le desse fastidio che lei trascorresse così tanto tempo insieme al suo amico. Cercò di mascherare quell’inspiegabile stizza sfoggiando uno dei suoi sorrisi più fasulli mentre il compagno le descriveva quanto Katami fosse capace. Sentiva un fuoco arderle dentro di sé: più le fiamme crescevano e più quell’dio inspiegabile prendeva possesso della sua mente.

«Marinette! Ehi… Hogwarts chiama Marinette, mi senti?»

«C-c-come… sì… sì, ti sento! Mi stavi parlando degli allenamenti, credo» balbettò la giovane Corvonero svegliandosi da una specie di trance.

«Abbiamo concluso quel discorso circa due minuti fa» ridacchiò l’altro, mentre faceva posto sulla cassapanca a qualcuno che era appena arrivato. «Adesso stavo cercando di avvisarti che Alya e Nino sono qui.»

Marinette si voltò di scatto alzandosi. Il suo movimento fu talmente repentino che la portò ad inciampare nella propria cappa. Come il grosso tronco di un albero appena strappato dalle proprie radici, si abbatté in avanti senza aver alcun modo per evitarlo. D’istinto portò le mani davanti al volto e chiuse gli occhi. Quando li riaprì si ritrovò per terra: le calze sfibrate in più punti. Subito dopo la fragorosa risata di Nino si impadronì dell’atmosfera all’interno della torre.

«Sei il solito troglodita!» lo rimproverò Alya assestandogli una delle sue solite gomitate all’altezza dello sterno che mozzavano sempre il fiato.

«Tu hai davvero una passione per i pavimenti.»

«Sono solo inciampata, non ho alcun hobby per queste cose!» replicò la ragazza dai capelli neri con tono offeso, cercando inutilmente di rialzarsi.

«Tieni, afferra la mia mano. le sussurrò dolcemente Adrien, «Ormai ci sono abituato, Milady.»

«G-g-grazie…»

Si riaccomodò sulla cassapanca e, dopo aver amaramente constatato che l’ennesimo paio di collant erano da buttare, rivolse un’occhiata interrogativa alla sua migliore amica. Questa capì al volo e si sedette accanto a lei trascinandosi dietro Nino che ancora boccheggiava in cerca di ossigeno. Le occorse quasi mezz’ora per spiegare al meglio tutta la faccenda, ma alla fine del discorso poteva ritenersi soddisfatta: entrambi avevano capito.

«È un’idea fantastica! Sei stata geniale!»

«Ma no… non ho fatto niente…»

«Quando iniziamo? Posso occuparmi della sezione “moda”?!»

«Ecco… io… io…»

«Io dello sport: sono un asso a Quidditch, modestamente. Potremmo anche chieder a Kat…»

«Non penso che un Serpeverde voglia partecipare ad un’iniziativa del genere» lo interruppe prontamente Marinette con cipiglio.

«Dici?» biascicò Adrien perplesso portandosi una mano al mento in atteggiamento pensate, «Eppure avrei immaginato che una come lei potesse essere interessata.»

«Beh, immaginavi male! Lei è come tutti gli altr…»

«Ragazzi!» tuonò la figlia del Signor Césaire per ristabilire l’ordine. Riacquisito il controllo della situazione, si frappose tra di loro. «Ragazzi, vi prego di lasciarmi finire. Al momento è inutile pensare a queste cose, dobbiamo prima focalizzarci sul necessario per la nascita della redazione. E no, Marinette, i Serpeverde dovranno partecipare al progetto: è stato lo stesso Preside a chiedermelo.»

«D’accordo…» mugugnò tristemente la ragazza che già si immaginava dei reportage in coppia. Perché si sentiva così oppressa, così ingelosita?

«Allora dicci tu cosa fare» intervenne Nino sporgendosi in avanti per farsi vedere, le mani a protezione del petto ancora dolorante. «Innanzitutto, hai già pensato ad un nome?»

Alya ghignò maliziosamente dando l’impressione di non aspettare nient’altro che quella domanda. Si risistemò gli occhiali sulla punta del naso e con fare estremamente teatrale alzò il braccio destro in altro puntando l’indice al soffitto della Torre dell’Orologio. «”L’Eco di Hogwarts”, sarà questo il titolo del nostro giornale!»

«Ma sei seria?!» bofonchiò il giovane Lahiffe, il cui sorriso di eccitazione si era trasformato in una smorfia di disgusto. «Tra tutti i nomi possibili, tu scegli questo qui? Potevamo chiamarlo “Il Corriere del Fattucchiere”, sarebbe stato più calzante.»

«Ma così sembra la copia scema della Gazzetta del Profeta.»

«In effetti… non hai tutti i torti.» convenne Adrien, il suo cervello che si contorceva disperatamente alla ricerca di una soluzione.

«A me piace!» esclamò Marinette sorprendendo gli altri che speravano in un suo lampo di genio. «Rappresenta al meglio l’idea. Siamo in un castello con pareti alte e spesse: non vi è mai capitato di sentire l’eco delle vostre parole diffondersi per i corridoi? Così come le nostre frasi di vita quotidiana riecheggiano per queste stanze, allo stesso modo lo faranno i nostri articoli. Inoltre, le notizie che tratteremo avverranno all’interno della scuola, quindi è giusto inserirla nella testata.»

«Messa così ha molto più senso» esclamò Nino scrollando le spalle con soddisfazione, mentre Alya gli scoccava un’occhiataccia di disapprovazione velata da una timida risata.

«Allora è deciso: L’Eco di Hogwarts avvia le rotative!»

«Ben detto Adrien! Ma adesso torniamo nella Sala Grande, a breve inizierà la cena di Halloween e io sto morendo di fame» sentenziò la figlia del Signor Dupain seguita da una risata generale, poi tutti e quattro si diressero di buon grado verso l’interno del castello.

Le settimane seguenti furono scandite da un ritmo serrato che lasciò ben poco spazio al divertimento e al riposo. Tra le lezioni e il carico di compiti, infatti, il loro tempo libero fu speso esclusivamente per l’avvio del giornale scolastico. Come aveva predetto il Preside Fu, la Professoressa Bustier fu lieta di essere la referente del progetto e fece il meglio che poté per aiutare i suoi studenti.

Procurò al gruppo un’aula spaziosa e ben illuminata, articolata su due piani: il quarto e il quinto dell’ala ovest. Dotata di un bagno privato e di una ricca selezione dei libri della biblioteca, avrebbe fornito ai novelli giornalisti tutto l’occorrente necessario. Tenendo in considerazione il calendario delle lezioni, fu stabilito che la redazione fosse aperta dal lunedì al venerdì dalle cinque del pomeriggio in poi mentre il sabato dalle dieci del mattino.

Se da un lato la logistica non fu eccessivamente problematica, dall’altro il reclutamento del personale si dimostrò un’impresa più ardua del previsto. Con Marinette e Adrien impegnati per la maggior parte delle ore nelle loro attività extra-curriculari, Alya poté contare esclusivamente su Nino. Benché non particolarmente felice di tale prospettiva, la ragazza si dovette ricredere. L’allegria granitica del giovane Lahiffe si dimostrò provvidenziale in quel frangente.

Sempre di buon umore, aveva la straordinaria abilità di infonderle sicurezza e vigore. Nonostante gli innumerevoli rifiuti ricevuti, la presenza di Nino al suo fianco le permise di andare avanti senza cedere alla tentazione di abbandonare. La loro incrollabile determinazione fu alla fine premiata: al termine della prima settimana di novembre consegnarono alla Bustier la lista degli studenti che avrebbero preso parte alla redazione dell’Eco di Hogwarts.

Su mille e passa allievi che frequentavano la scuola, soltanto in diciotto in risposero all’appello della figlia del Signor Césaire che affidò a ciascuno di loro un aspetto del giornale da curare. Fu così che Adrien, Rose e Mylène furono nominati giornalisti di cronaca; Katami, Kim e Alix avrebbero curato la sezione sportiva; Marinette e Juleka si sarebbero occupate di moda, mentre Chloé e Sabrina di gossip e cronaca rosa.

A questi si aggiunsero Nathaniel Kurtzberg e Marc Anciel, entrambi Corvonero del primo anno, ai quali fu affidata la pagina artistica e culturale; Max e un altro Corvonero del sesto anno, Jalil Kubdel, avrebbero avuto la sezione tecnologica; Luka e Clara Nightingale, Prefetto Tassorosso del quinto anno, si sarebbero concentrati su musica e spettacoli; infine Aurore Beauréal, una Serpeverde del terzo anno, e Mireille Caquet, Tassorosso del medesimo anno, dell’oroscopo.

Alya assunse per sé la funzione di Capo-redattrice e, dal momento il giornalino sarebbe costato il prezzo simbolico di uno Zellino, Nino fu nominato tesoriere e segretario. La riunione di apertura della redazione si tenne la sera antecedente alla prima gita ad Hogsmeade: il 10 novembre. La stanza, sebbene capiente, sembrava tremendamente affollata. I brusii eccitati di sottofondo erano così insistenti che la figlia del Signor Césaire ci mise un po’ a guadagnare l’attenzione di tutti.

«Molto bene! Innanzitutto, io direi di conoscerci tutti un po’ meglio. Per chi ancora non lo sapesse mi chiamo Alya Césaire e sarò la direttrice di questo giornale.»

«Ehi, aspetta un attimo! Chi ti ha nominato nostro capo?!» ringhiò Chloé Bourgeois facendosi largo tra la folla, seguita in imbarazzante silenzio da Sabrina.

«È stata lei a fondare L’Eco di Hogwarts!» intervennero in coro Mylène, Rose e Mireille, mostrando un orgoglio e una determinazione che erano alquanto insoliti per dei Tassorosso.

«Non c’entra nulla. Io propongo una votazione.»

«D’accordo…» sibilò Nino ormai esasperato, «Chi preferisce Miss “hopapinochefailprimoministro” come Capo-Redattrice, alzi la mano.»

Il braccio della piccola Bourgeois scattò immediatamente verso l’alto, seguito pochi istanti dopo da un timido gesto della sua migliore amica. «Oh, andiamo… sapete bene che sono una leader nata!» piagnucolò la figlia del Primo Ministro Francese, ma fu tutto inutile. Nessun altro osò darle il proprio voto, nemmeno Luka che però, nonostante i suoi modi bruschi, continuava a guardarla con occhi sognanti.

«Rassegnati Chloé, ti è andata male» canticchiò Marinette stringendo in un forte abbraccio un’emozionata Alya.

«Ridicolo! Assolutamente ridicolo!»

Le imprecazioni della ragazza riecheggiarono per la stanza, succedute dal tonfo sordo dei suoi passi mentre si avvicinava ad una delle scrivanie prendendovi svogliatamente posto. Gli altri la guardarono di sottecchi trattenendo a stento le risate. Nino, avendo preso a cuore l’incarico affidatogli, invitò i presenti a concentrarsi nuovamente sulle disposizioni del direttore del giornale che non poté fare a meno di arrossire vistosamente.

«Ecco, come stavo cercando di dirvi prima che qualcuno ci interrompesse – tutti si girarono nuovamente verso Chloé che continuava a bofonchiare in solitudine – sarebbe divertente conoscersi un po’ meglio. In questo modo la collaborazione tra di noi non potrà che beneficiarne.»

«Potremmo sederci in cerchio e presentarci a turno, che ne dite?!» propose un ragazzo di Corvonero dai capelli rossi, affiancato da un altro compagno della medesima Casa che cercava il più possibile di passare inosservato.

«Sarebbe carino, Nathaniel, giusto?» intervenne una Tassorosso che sfoggiava sul proprio petto una scintillante spilla da Prefetto in attesa di un cenno di assenso, «Ma sono già le venti e trenta: tra mezz’ora scatterà il coprifuoco e dovremo essere tutti a letto.»

«Clara ha ragione, non possiamo infrangere le regole.»

«Sei sempre così rigido Jalil, dovresti divertirti un po’ di più.»

«Alix, sono un Prefetto… non posso “divertirmi”» replicò stizzito il ragazzo passandosi nervosamente una mano tra le treccine che aveva tra i capelli.

«Ragazzi, calma!» intervenne prontamente la figlia del Signor Césaire prima che scoppiasse una lite familiare. «Jalil e Clara hanno ragione, si è fatto troppo tardi per poterci presentare. Quindi direi che l’opzione migliore sarebbe incontrarci domani di buon mattino ad Hogsmeade. Il problema è dove?»

«Che ne dite di Mielandia? Oppure nell’Emporio degli Scherzi di Zonko?» cinguettò una Serpeverde posta alla sua destra, i lunghi capelli biondi raccolti in due eleganti code ai lati della testa.

«Temo che negozi sovraffollati non siano la scelta migliore.»

«Concordo con Luka, sarebbe meglio un bar o una taverna» aggiunse Katami incrociando le braccia al petto pensierosa.

«Allora incontriamoci ai Tre Manici di Scopa!» esclamò Adrien, rimasto fino a quel momento in disparte, quasi avesse avuto un’illuminazione. «Fe… scusate… volevo dire mio padre ne ha sempre parlato bene. È un luogo accogliente e comodo per poter parlare in tranquillità. Inoltre, Madama Rosmerta serve la migliore Burrobirra al mondo.»

Si levò un brusio di approvazione, tutti sembravano essere  d’accordo con quanto appena detto. Allora Alya, prima di congedarli, diede loro appuntamento verso le 10 dinanzi al locale. I presenti, comprese Chloé e Sabrina, fecero un cenno di assenso con la testa poi, dopo averla salutata, si avviarono verso i proprio dormitori. La Capo-Redattrice, rimasta sola, si attardò a sistemare i fogli sparsi sulla propria scrivania. Tuttavia una voce tremula richiamò la sua attenzione.

«Sei… sei… sei stata davvero brava, ad organizzare tutto questo intendo.»

«G-g-grazie Nino, detto da te significa davvero tanto» sibilò la ragazza sempre più rossa in viso.

L’altro non disse nulla: chinando la testa, la salutò lasciandola interdetta come mai prima di allora.
 
 

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Capitolo 18
*** Capitolo XVII - Hogsmeade ***


Capitolo XVII - Hogsmeade

 
Quel sabato mattina era particolarmente ventoso. Imbacuccati con sciarpe, guanti e cappelli, gli studenti si incamminarono verso Hogsmeade facendosi scudo l’un l’altro contro le forti raffiche. Ai cancelli d’ingresso del parco, avviluppato in un pesante pastrano marroncino, il Signor Haprèle controllava i permessi d’uscita senza i quali non si sarebbe potuto uscire. «Mi raccomando dovete essere di ritorno entro le tredici!» tuonò con la sua voce profonda.

Terminate le verifiche del custode, Alya e i suoi tre amici proseguirono verso il villaggio. Costretti a tenere le teste basse a causa delle folate taglienti come rasoi, limitarono al minimo la conversazione durante il tragitto. Disponevano di un’ora di tempo prima dell’inizio della riunione ai Tre Manici di scopa e non avevano intenzione di perdersene nemmeno un istante. Quelle gite offrivano sempre ottime occasioni per “delinquere”, soprattutto a studenti in erba come loro.

Per questo motivo trascorsero quasi mezz’ora nell’Emporio degli Scherzi di Zonko. Adrien e Nino fecero una massiccia scorta di Caccabombe, Vermi Sibilanti e Pallottole Puzzole. In pratica tutto l’occorrente per mettere fine ad una lezione troppo noiosa o per evitare un’interrogazione a sorpresa. Di conseguenza, dovettero comprimere il resto della visita in quel poco tempo che era rimasto loro.

Fu così che decisero di dividersi per riuscire a completare quante più commissioni possibili. Marinette e Alya si recarono da Mielandia, dove razziarono gran parte degli squisiti dolci esposti sugli scaffali. Nino, invece, fece un salto da “Stratchy & Sons, Abbagliamento per Maghi”: aveva urgente bisogno di nuovi calzini visto che aveva dato per sbaglio fuoco a tutti quelli che possedeva. Adrien, infine, si recò all’Ufficio Postale per spedire una lettera a suo padre non avendo un gufo.

Sebbene il portare a termine tutti quei servizi sembrasse impossibile, i quattro riuscirono nell’impresa e alle dieci meno cinque varcarono l’uscio del locale di Madama Rosmerta. Come era stato precedentemente descritto, il luogo era caldo e accogliente. I tavolacci in legno di mogano, che ricoprivano le spesse pareti bianche, erano un perfetto isolante contro il gelo autunnale. Allo stesso modo dal pavimento in pietra vulcanica si alzava un piacevole tepore.

Massicci tavoli in legno di noce affollavano la parte sinistra dell’unica grande camera in cui era articolata la locanda. Sulla destra, invece, vi era un lungo bancone in mattoni dietro al quale si affaccendavano due persone. Il più giovane, un ragazzo mingherlino di circa vent’anni dalla pelle emaciata e capelli color topo, era intento a trasportare in cantina quelle che sembrava delle pesanti botti di vino.

L’altra, un’allegra donna sulla quarantina, aveva morbidi capelli biondi legati in una setosa treccia che le ricadeva sulla spalla destra. Il suo fisico era sinuoso, mentre il seno florido. Non appena la videro, al gruppo fu immediatamente chiaro il perché Madama Rosmerta godesse di tanta fama. Era bellissima, forse la più affascinante e graziosa strega che avessero mai visto. Fu molto difficile per Adrien e Nino non sbavare ogni qualvolta lei rivolgeva lo sguardo nella loro direzione.

«Credo di essermi innamorato…»

«Secondo te se le cedo la mia parte di azioni dell’azienda di famiglia, ci esce con me?»

«Amico, ci uscirei anch’io con te a queste condizioni» esclamò il giovane Lahiffe senza riuscire a nascondere un sorriso sornione.

«Uomini, sono senza speranza» sibilò Alya scrollando le spalle con disapprovazione.

Marinette ridacchiò di sottecchi, poi insieme agli altri si accomodò ad uno dei tavoli accanto alla parete. Erano i soli clienti del locale, evidentemente era troppo presto perché i visitatori di Hogsmeade potessero essere interessati ad una bevanda calda. Dopo un paio di minuti la proprietaria, armata di taccuino, si avvicinò sfoggiando un sorriso luminoso. «Che vi porto piccoli cari? Dovrete essere congelati.»

«La vista dei suoi occhi azzurri è più che suff…» farfugliò Adrien a voce eccessivamente alta senza neanche rendersene conto, ma fu interrotto da un calcio agli stichi sferrato dalla sua vicina di posto.

«Come scusa? Non credo di aver capito bene» replicò confusa Rosmerta scribacchiando parole incomprensibili sulla carta giallastra.

«4 Burrobirre calde, grazie» intervenne la figlia del Signor Césaire dando uno scappellotto al povero Nino che si era imbambolato ad osservare le ciocche argentee della donna.

Madama Rosmerta prese l’ordinazione, poi con un piccolo inchino si congedò dal tavolo. Il gruppo rimase in silenzio per alcuni minuti, finché un’improvvisa folata di aria fredda non annunciò l’ingresso di nuovi clienti. Si trattava di un piccolo manipolo di studentesse che, non appena vide i ragazzi già presenti nel locale, si avvicinò loro. «Si gela lì fuori» cinguettò Rose, il naso rosso come un pomodoro che faceva a cazzotti con il bianco cadaverico del viso.

«Adesso faccio aggiungere altre Burrobirre, tranquille.»

«Aspetta Marinette!» esclamò Mylène afferrandola delicatamente per un braccio, «Credo sia meglio aspettare che arrivino anche gli altri, altrimenti faremo impazzire la povera Rosmerta.»

Alix, Clara, Mireille, Juleka e le altre presero posto accanto ai presenti e, chiacchierando del più e del meno, aspettarono con crescente ansia l’arrivo della restante parte della redazione. Non dovettero attendere a lungo: Max, Kim, Nathaniel, Marc, Jalil e Luka arrivarono poco tempo dopo. Erano intenti in una fitta conversazione e pensò Marinette che forse per i ragazzi non era poi così difficile stringere amicizia.

Una riprova di ciò le fu data dalla straordinaria rapidità con la quale Adrien e Nino entrarono in confidenza con gli ultimi arrivati. Perché per le ragazze deve essere sempre così difficile? Non poté fare a meno di chiedersi per quale assurdo motivo lei e le altre dovessero avere tanta difficoltà. Ad esempio Juleka e Mireille non avevano spiccicato una sola parola da quando erano arrivate e anche Alya e Clara, le persone più estrose che avesse conosciuto, diedero segni di fatica.

Verso le dieci e un quarto arrivò anche la “delegazione” dei Serpeverde. Fu grande la sorpresa di tutti quando si accorsero che Chloé e Aurore conversavano amorevolmente l’una con l’altra. Sembravano vecchie amiche che, dopo anni di separazione, riuscivano finalmente a rincontrarsi. Lo stesso non si poteva però dire di Katami e Sabrina: la prima se ne stava altezzosamente in disparte, mentre la seconda si affannava a seguire senza successo il discorso tra le due.

Resasi conto che ben venti persone erano sedute ai tavoli del proprio locale, Madama Rosmerta non riuscì a nascondere la contentezza. I suoi occhi luccicarono al pensiero di quanti Galeoni quella combriccola le avrebbe fruttato. Ignorando completamente dei clienti seduti al suo bancone, si affrettò a prendere le nuove ordinazioni degli studenti mentre questi discutevano amabilmente tra loro.

La riunione durò quasi due ore. Come auspicato da Alya la maggior parte del tempo fu impiegata dai ragazzi per conoscersi meglio, piuttosto che per organizzare la redazione dell’Eco di Hogwarts. Si trattava di un esperimento innovativo: era la prima volta che così tanti studenti di Case diverse lavorassero per un fine comune. Di solito si incentivava l’agonismo, ma quell’anno era diverso. Bisognava restare uniti dinanzi ad un nuovo male.

Anche il Cappello Parlante l’aveva capito: la canzone che canticchiò ad inizio cerimonia, infatti, elogiava lo spirito di gruppo e la cooperazione. Molti storsero il naso quella sera, compresi alcuni professori che erano legati alle vecchie tradizioni. Al contrario a Marinette e a molte delle matricole sembrò un discorso quasi scontato: “perché farci la guerra tra di noi?” pensarono. Non aveva alcun senso e, alla luce dei recenti avvenimenti, non poteva essere che altrimenti.

Era la mezza quando il gruppo uscì dai Tre Manici di Scopa. Madama Rosmerta e il suo assistente, Mike, li salutarono calorosamente augurandosi di rivederli presto. Non avevano mai fatto un incasso del genere. Combattendo contro il vento glaciale, che durante la mattinata era andato peggiorando, risalirono il pendio che li avrebbe ricondotti a scuola. Gli occhi rossi per il freddo, le sciarpe tirate fin sul naso.

Clara e Jalil, influenzati dall’abitudine di essere Prefetti, guidavano la fila. Erano seguiti dalla maggior parte dei ragazzi e delle ragazze, che ancora parlottavano tra di loro. Fu molto divertente per Juleka notare come suo fratello Luka cercasse di avere inutilmente una conversazione privata con Chloé, mentre Sabrina continuava ad interromperlo frapponendosi tra i due. A chiusura della lunga carovana vi erano Adrien e i suoi tre amici preceduti di qualche passo da Aurore e Mireille.

Le ragazze, entrambe appassionate di Divinazione, stavano cercando di sistemare le previsioni astrali che il lunedì seguente sarebbero comparse sul primo numero del giornale. La figlia del Signor Césaire le osservava da lontano, pienamente soddisfatta di essere riuscita nel suo intento. Ormai aveva la sensazione che nulla sarebbe potuto andare storto: niente e nessuno avrebbe fatto più loro del male.

«Aurore… Aurore, ti senti bene?! Aurore!»

La voce di Mireille giunse spezzata alle loro orecchie. Persa nel turbinio delle folate di vento, si infranse contro la ghiaia del viottolo. Gli altri erano troppo lontani per accorgersi di quello che stava succedendo, non poterono fare nulla per evitare il peggio. Intorno ai sei si alzò un muro di dense e minacciose nuvole grigie. Li inghiottì separandoli da qualsiasi possibile via di fuga, quasi li avesse imprigionati in una morsa micidiale.

Aurore aveva le pupille dilatate, velate da una patina biancastra che le conferiva un aspetto spaventoso. Dalla bacchetta si levavano nuove raffiche: era chiaro che fosse lei la responsabile di quella situazione. O meglio, la nuova vittima del misterioso aggressore che si divertiva a prendere il controllo degli studenti di Hogwarts. Il perché accadesse ciò restava un mistero, ma in quel momento l’unico pensiero che frullava nelle teste dei ragazzi era quello di salvare la loro amica.

«Mireille allontanati da lì è pericoloso!» le gridò Marinette, mentre si riparava il volto dai ciottoli del selciato che avevano iniziato a sollevarsi per aria.

«Non posso lasciarla da sola. Sta male…»

«Se non ti sposti, sarai presa di mira. Quella non è più Aurore, non puoi aiutarla.»

La giovane Tassorosso, seppur a malincuore, indietreggiò barcollando. La sua compagna non sembrò dare peso a quell’azione e si librò in aria a parecchi metri da terra. Serrando la presa sul manico della bacchetta, la agitò  condensando le nubi che fuoriuscivano dalla punta. Per un istante il vento sembrò cessare e nel cuore degli altri ragazzi si fece largo la speranza che quel disastro stesse per giungere ad una conclusione. Purtroppo non fu così.

La bolla di nubi che li aveva intrappolati iniziò a scricchiolare. Fasci di luce accecante si diramavano dalla mano alzata di Aurore per poi percorrere l’intero perimetro di quella gabbia. All’inizio produssero null’altro che un sibilo sinistro, ma con il passare dei secondi il suono si intensificò fino a trasformarsi in un rombo assordante. Si trovavano nell’occhio del ciclone di una tempesta di fulmini.

«Al riparo!» gracchiò Nino afferrando la mano di Alya e trascinandola dietro ad un basso muretto in pietra che costeggiava il sentiero.

«Mireille, fa attenzione!» la supplicò Marinette, ma era troppo tardi. Una saetta, proveniente dalla sua destra, la puntò e, quasi avesse intenzione di colpirla di proposito, si scagliò contro di lei. La ragazza non poté fare altro che alzare le braccia all’altezza del viso: era spacciata. Fortunatamente Adrien aveva degli ottimi riflessi e, consapevole di quanto stava per accadere, si era frapposto tra l’amica e la scarica elettrica. Dal nulla evocò una barriera invisibile che li protesse entrambi.

«Dobbiamo fermarla, altrimenti ci arrostirà tutti!» esclamò il figlio di Gabriel Agreste camminando all’indietro verso il muretto e sospingendo la persona che aveva appena salvato.

«Non conosco alcun incantesimo che possa fare al caso nostro. Non saprei come aiutarla.»

«Io sì, Alya» replicò, decisa, la giovane Corvonero seguendo con la coda dell’occhio un fulmine che si schiantò a pochi centimetri da lei, lasciando al suo posto una fumante voragine nel terreno. «L’ho letto l’altro giorno in biblioteca, ma in queste condizioni è pericoloso. Aurore potrebbe farsi male, inoltre non abbiamo molto argine di manovra. È palese che sta puntando a noi, non potremo muoverci liberamente.»

«Non possiamo lasciarla in questo stato, è nostra amica» piagnucolò Mireille asciugandosi le lacrime con le maniche del giubbino.

Il cervello di Marinette cominciò a viaggiare a mille. Non poteva permettere che qualcuno si facesse seriamente del male. Anche se era impossibile, dovevano tentare. Il suo sguardo guizzò da tutte le parti, finché non individuò a pochi metri da loro un malmesso carretto pieno di fieno. Molto probabilmente apparteneva a qualche contadino del villaggio che l’aveva lasciato lì, incustodito. «Forse ho un’idea, ma non sono certa che funzionerà.»

«Non abbiamo altra scelta» sentenziò Adrien, mentre con un incantesimo impediva che una seconda saetta colpisse il loro riparo improvvisato.

«Vedete quel carretto pieno di paglia? Qualcuno dovrà spingerlo sotto Aurore in modo tale che possa fermarla con l’incantesimo che vi dicevo prima. Il problema è che non ci lascerà muovere tranquillamente, quindi qualcuno di voi deve distrarla il tempo necessario. Ci sono volontari?»

«Ci pensiamo noi tre!» proruppe Nino in un impeto di coraggio, mentre indicava le altre due ragazze accovacciate vicino a lui. «Tu devi eseguire l’incantesimo e il bel biondo alla mia destra è l’unico che sappia far muovere qualcosa con la magia.»

Alya e Mireille annuirono e, senza lasciar modo agli altri di replicare, i tre uscirono da dietro al muretto. Bacchette in pugno iniziarono a sbracciarsi e lanciare luminose scintille rosse affinché Aurore li notasse. Non dovettero attendere molto: quasi subito i  fulmini scagliati dalla ragazza si concentrarono sui “disturbatori” che, impossibilitati a fare altro, tentarono di evitarli con goffi saltelli e magie poco efficaci.

«È il tuo momento!» sibilò Marinette al giovane rimasto con lei. Questi scattò rapidamente verso il proprio obiettivo. Accovacciato sulle ginocchia, il corpo piegato in avanti che fendeva le erbacce incolte del prato. Lo raggiunse e con un impercettibile gesto della mano urlò «Repulso!»

In quello stesso istante le ruote del carretto, spinte da una forza invisibile, si mossero velocemente in avanti. Dopo aver percorso gran parte del campo incolto, l’oggetto raggiunse il sentiero e rallentò fino a posizionarsi sotto Aurore. La quale, però, si accorse immediatamente che c’era qualcosa che non andava. Era sul punto di distruggere il mucchio di paglia quando Alya, essendosi resa conto del pericolo, la colpì in pieno viso con un getto di scintille.

Sebbene l’attacco non avesse sortito granché effetto, bastò a scatenare l’ira della Serpeverde. Abbandonato ogni proposito di colpire il carretto, scagliò una potente scarica elettrica verso l’avversario. La figlia del Signor Césaire si fece trovare impreparata, d'altronde non conosceva alcun incantesimo che potesse deviare quella saetta. Terrorizzata, non ebbe neanche la forza di spostarsi per non essere presa in pieno.

In un fremito di adrenalina Adrien, nonostante non sarebbe mai arrivato in tempo, corse verso di lei. Allo stesso modo Marinette scattò in piedi e con quanta voce aveva in gola gridò «Pietrificus Totalus!». Un fascio di luce grigiastro scaturì dalla punta della sua bacchetta e impatto su petto di Aurore. Il suo corpo si irrigidì all’istante, mentre il vacuo presente nelle pupille sparì di colpo lasciando il posto al colore originario.

Le nubi iniziarono a diradarsi, mentre un sottile raggio di sole rischiarava la zona. Si udì un tonfo, simile ad uno sbuffo. La paglia posta sotto di lei aveva sortito l’effetto sperato: non le sarebbe rimasto neanche un livido di quella caduta. Nello stesso istante, però, il fulmine, scagliato poco prima, si abbatté lo stesso sul bersaglio designato. Un urlo agghiacciante gelò il sangue dei presenti che si precipitarono verso il punto d’impatto.

«Alya! Alya!»

«S-s-sto bene…» piagnucolò lei, le braccia avvolte intorno al collo di una persona che non avrebbe dovuto esserci. «Perché… Perché ti sei messo in mezzo?!»

«P-p-pensavo rientrasse nel contratto da segretario» sibilò a denti stretti l’altro con le poche forze che gli erano rimaste. La sua giubba era bruciata sulla schiena dove la scarica l’aveva colpito lasciando come “ricordo” una vistosa cicatrice arborescente. Alya se ne accorse e prese a singhiozzare più forte. «Sono certa che ti rimetteranno in sesto. Non ti preoccupare…»

«Non saprei: sono il genere di cose che rendono noi uomini più fighi» tossicchiò il ragazzo. Le grida concitate dei suoi amici gli rimbombarono per un po’ nel cervello, poi il vuoto.
 
 

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Capitolo 19
*** Capitolo XVIII – Natale ***


Capitolo XVIII - Natale

 
La prima gita ad Hogsmeade non si sarebbe potuta concludere peggio. Aurore e Nino furono trasportati d’urgenza in infermeria, dove Madama Wilkins si prese cura di loro. La prima, sebbene avesse subito un’esperienza terribile, non presentava gravi danni. Qualche graffio e un paio di escoriazioni: fu dimessa una settimana dopo l’accaduto, come gli altri, non ricordava nulla. Il secondo, al contrario, se la passò di gran lunga peggio.

Non appena videro la ferita che il fulmine aveva impresso sulla sua schiena, a Marinette e Adrien fu immediatamente chiaro quanto fosse grave la situazione. Sapevano che l’infermiera di Hogwarts avrebbe dovuto attingere a tutto il suo bagaglio di conoscenze per rimetterlo in piedi. Il ragazzo, rimasto incosciente per quasi dieci giorni, fu trattenuto quasi un mese. Due settimane prima di Natale saltellò allegro fuori dall’infermeria consapevole che il supplizio fosse terminato.

Purtroppo, la sua non era una ferita “naturale”. La scarica elettrica, con cui l’aveva colpito Aurore, era intrisa di magia oscura. Quest’ultima non può essere cancellata con un semplice tocco di bacchetta: lascia tracce che si protraggono nel tempo. Il disegno arborescente presente sulla schiena del giovane Lahiffe, nonostante avesse smesso di sanguinare e procurargli immense sofferenze, rimase al proprio posto in memoria di quanto accaduto.

Nino non sembrò preoccupato di quel lascito. Come aveva già scherzosamente grugnito al momento dell’incidente, era convinto che l’avrebbe reso più rispettato agli occhi degli altri studenti. Non aveva torto: i ragazzi, venuti a conoscenza dell’accaduto ben prima che fosse dimesso, rimasero piacevolmente affascinati dal suo atto di coraggio. File lunghe anche diversi metri si snodavano fuori le porte d’ingresso dell’infermeria.

Tutti, senza alcuna eccezione, volevano conoscere e omaggiare l’“Eroe di Hogsmeade”, com’era stato chiamato dai suoi fan. Più volte Adrien, Kim, Luka e altri furono costretti a fare da bodyguards al loro amico per evitare che quelle attenzioni fossero troppo opprimenti. Nino, però, non parve mai esser infastidito da questi pellegrinaggi. Allo stesso modo anche Aurore fu ricoperta di attenzioni e coccole.

Nessuno voleva addossarle la responsabilità di quanto fosse accaduto. Di conseguenza, molti convennero che l’unico modo per farglielo capire fosse starle vicino. Perfino la piccola Bourgeois, famosa per il suo menefreghismo, trascorse con lei diverse serate piacevoli in modo tale da farle sentire la sua vicinanza. Entrambi erano felici, nonostante fossero stati vittima di quell’orribile esperienza, riuscirono a trarre del buono da essa.

L’unica che ebbe parecchie difficoltà a superare quella vicenda, fu Alya. Sentiva su di sé un duplice peso: non solo era stata lei ad organizzare l’incontro ai Tre Manici di Scopa conducendo i suoi amici dritti in trappola; ma, soprattutto, le sue azioni sconsiderate avevano spinto Nino a farle da scudo subendone le conseguenze. A nulla valsero le parole di conforto di Marinette e delle altre compagne. Si sentiva l’unica artefice di quel macello e difficilmente avrebbe cambiato idea.

Cercò di espiare la propria colpa stando quanto il più possibile vicino al giovane Lahiffe. Da quando entrò nell’infermeria fino all’istante prima che ne varcasse la soglia per tornare alla sua vita da studente, non fu lasciato mai solo. Alya chiese addirittura il permesso di trascorrere al suo fianco le prime notti, quelle più dolorose. Madama Wilkins sembrò all’inizio restia ad accettare, ma poi, grazie anche all’intercessione del Preside, acconsentì.

I due furono più uniti che mai in quel lungo mese di degenza. Il loro rapporto divenne così stretto che non si poté parlare di amicizia. Era sbocciato un qualcosa di nuovo: un legame che neanche loro avrebbero saputo descrivere. Si capivano, si infondevano forza l’una con l’altro. Un sorriso era sufficiente a spazzare via ogni preoccupazione; uno sguardo di complicità si era magicamente dipinto sui loro volti.

Alya fu di estremo conforto per Nino che, sebbene fosse diventato il nuovo idolo della scuola, sentiva il bisogno di una “spalla” su cui fare affidamento. Una necessità che divenne ancora più impellente quando, alcuni giorni dopo l’incidente, i suoi genitori e suo fratello più piccolo, Chris, corsero ad Hogwarts per sincerarsi delle sue condizioni. Erano preoccupatissimi, in particolare sua madre che, non appena vide la cicatrice sulla schiena, scoppiò in lacrime.

La loro agitazione e delusione per quanto fosse accaduto li avrebbe addirittura indotti a ritirare il figlio dall’istituto. Fortunatamente, l’intervento degli amici del ragazzo e del Preside, unito ai piacevoli ricordi della Signora Lahiffe che da ragazzina aveva frequentato quella stessa scuola, scongiurò quella spiacevole eventualità. Tuttavia, i familiari di Nino non furono gli unici ad essere al corrente di quanto stava accadendo ad Hogwarts.

La notizia dei misteriosi attacchi si era largamente diffusa nella Comunità Magica. Le famiglie erano sempre più agitate e, ad ogni nuova aggressione, la tensione e la paura aumentavano. A farne le spese di ciò, benché non ne fosse in alcun modo responsabile, fu il Professor Fu. In quei giorni concitati furono in molti a mettere in discussione la sua leadership; lo stesso Consiglio d’Istituto, presieduto dalle più antiche e nobili casate magiche, era sul piede di guerra.

Fortunatamente, l’arrivo delle vacanze di Natale contribuì notevolmente a placare gli animi, anche quelli più agguerriti. Dalla visita ad Hogsmeade non vi erano stati altri incidenti e con la maggior parte degli studenti lontani, impegnati a festeggiare con i propri parenti, il rischio era notevolmente ridotto. Per il Preside e gli insegnanti fu quindi un gran sollievo vedere la mattina del 20 dicembre le carrozze, cariche di chiassosi allievi, allontanarsi dal castello.

«Marinette… sei sveglia?» biascicò una voce roca nell’oscurità del dormitorio deserto, «Se preferisci dormire non ti disturbo. Ti… ti aspetto giù.»

«Tranquilla Juleka, sono sveglia.»

La ragazza tirò le tende blu del suo letto a baldacchino e si mise seduta, la schiena contro la testiera. Nonostante facesse molto freddo, era parecchio sudata. Le guance rosse, il tono affannato e un fremito che le correva dietro le spalle, tradivano quell’alone di calma apparente con il quale si forzava di circondarsi. Era la quinta volta in due settimane che il suo sonno era disturbato da strane immagini, incubi violenti che le lasciavano un grosso peso sul cuore.

«Ti senti bene? Sembri stanca: sicura di non avere la febbre?»

«Sto benissimo, non devi preoccuparti» cinguettò allegramente Marinette dando un colpo di spugna a strani pensieri che le frullavano in testa. «Piuttosto… felice Natale, Juleka.»

«Buon Natale anche a te, amica mia.»

Il sorriso della sorella di Luka non era mai stato così radioso. Strinse in un forte abbraccio la compagna di stanza; poi prese da terra un’abbondante montagna di regali e la lasciò ricadere sul letto. Nessuna delle due sapeva come fossero finiti lì, eppure eccoli: tutti incartati e infiocchettati, i biglietti in bella mostra. Ne presero uno a testa e iniziarono a scartarli in preda all’eccitazione. Erano sole nella torre, quindi nessuno avrebbe dato loro fastidio.

I Signori Dupain avevano regalato alla figlia un prezioso set di taglio e cucito. Essendo Babbani, avevano preferito regalare un qualcosa che ricordasse a Marinette le proprie origini. Lei apprezzò molto il gesto: aveva imparato a lavorare a maglia con la bacchetta, ma preferiva di gran lunga la variante manuale. Il pacco di Alya conteneva una risma di pergamene e una piuma prendi-appunti; quello di Nino, invece, un vasto assortimento di Cioccorane e Gelatine Tutti I Gusti + 1.

Il regalo più grosso, con sua grande sorpresa, fu quello di Adrien. Le sue dita scivolarono sull’incarto simil seta, un fremito di eccitazione balenò sul volto pallido. Si affrettò a scartare l’oggetto rimanendo senza parole. Tra le mani stringeva la confezione di un’immensa gabbia dorata per uccelli. “Voliera Auto-Pulente”, l’ultimo ritrovato della Papillon Magic, l’azienda di proprietà di Gabriel Agreste.

Doveva essergli costata un occhio della testa, si disse la ragazza; ben presto, però, si rese conto che forse il figlio del proprietario dell’azienda che l’aveva prodotta non aveva bisogno di comprarla. Con l’aiuto di Juleka districò la gabbia dal voluminoso imballaggio che la proteggeva. Una volta libera, la osservarono a bocca spalancata: il metallo dorato luccicava ai raggi del sole che entravano dalla finestra della torre. Era così grande che ci sarebbero potuti entrare due gufi adulti.

Fece spazio sul comodino e, dopo aver svegliato Tikki, l’esemplare di Scarlet Tanager che ancora dormiva con la testolina sotto l’ala, la invitò ad entrare nella sua nuova casa. I grandi occhi neri dell’uccellino si dilatarono gioiosi non appena mosse i primi passetti sui trespoli argentati. All’improvviso il suo piumaggio iniziò a scintillare, come se fosse ricoperto di rugiada. Fu allora che Marinette capì: la gabbia non puliva solo se stessa ma anche l’animale che ospitava.

«È… è…»

«…Magnifica. Non ci sono altre parole per descriverla» concluse la figlia del Signor Dupain venendo in aiuto all’amica.

«Sono quasi le dieci» sibilò Juleka, mentre si infilava un maglione a collo alto di colore nero e viola, «Dobbiamo sbrigarci, altrimenti faremo tardi.»

«Hai ragione! Non abbiamo molto tempo.»

Marinette scattò come una molla e, raccattando i primi vestiti che trovò nel baule, si preparò per uscire dal dormitorio. Sulla soglia però, quando la sua compagna di stanza era ormai già scesa dalla scala, notò un pacchetto sotto il proprio letto. A causa delle dimensioni ridotte, doveva esserle sfuggito. Lo raccolse, nonostante fosse incartato, capì subito che si trattava di una specie di tomo. Non vi era alcun biglietto, ipotizzò che non fosse per lei. Doveva essere capitato lì per sbaglio.

Indecisa se aprirlo o meno, lo osservò con fare contemplativo, finché la curiosità non ebbe la meglio. Come aveva previsto era a davvero un libro, antico e prezioso. La copertina, consumata dal tempo e dall’usura, era di un bel pervinca acceso; costellazioni dorate si stagliavano contro il cielo, mentre una scritta, dello stesso colore, recava il titolo. Era in scritto in Rune Antiche: Marinette, che aveva ben poche conoscenze in materia, ci mise qualche secondo a decifrarlo.
 
“Miti e Leggende di Atlantide – Storie di maghi e streghe che si sono persi nella sua ricerca”
 
Aprì una pagina a caso: il testo era incomprensibile. Le parole di una lingua che ancora non conosceva affollavano la carta ingiallita. Frustrata, lo sfogliò contro voglia maledicendosi di non essere al terzo anno per poter approfondire la conoscenza delle rune. Le fu chiaro che quel regalo non fosse per lei, nessuno le avrebbe donato un libro che non poteva leggere. Ad un tratto un qualcosa sul frontespizio la fece trasalire. Una nota scritta a mano, scritta nella sua lingua.
 
“A Marinette, che questo regalo possa essere un gradito faro di speranza nei momenti di oscurità.”
 
Lesse il messaggio altre due volte. Gli occhi ridotti a nulla più che delle fessure, la bocca spalancata per lo stupore. «Marinette?! Ci sono problemi? Non ti senti bene?!» la voce di Juleka, proveniente dalla sala comune dei Corvonero, trillò nella sua testa riportandola alla realtà. Lanciò il tomo nel baule e si lanciò giù per la scala a chiocciola: qualsiasi fosse il significato di quel messaggio e il suo misterioso autore potevano aspettare.

Le due, imbacuccate di tutto punto al fine di resistere al gelo che sferzava i monti intorno al castello, si incamminarono lungo i corridoi deserti. La scuola non era mai stata così silenziosa; gli unici rumori che si potevano udire provenivano dai personaggi dei quadri intenti a festeggiare il Natale e l’eco di qualche carola cantata da armature lontane. Festoni di aghifoglio, intervallati da luccicanti ghirlande in fiore, erano disposti lungo le pareti che conducevano all’ingresso.

Prima di uscire dal portone principale, intravidero la Sala Grande. Di solito a quell’ora era gremita di studenti, ma quel giorno al suo interno vi erano solo alcuni insegnati a sistemare le ultime decorazioni. Le ragazze sbirciarono dall’uscio rimanendo sbalordite da ciò che videro. Un tripudio di oro e argento aveva preso possesso dell’ambiente. Sulle due mura laterali, intervallati ogni tanto dai massicci camini in marmo, era disposti lussureggianti abeti carichi di sfere luminose.

Il soffitto rispecchiava il cielo sereno, graziosi fiocchi di neve ricadevano con eleganza su un unico tavolo disposto al centro della sala. La liscia superficie in legno ricoperta da una soffice tovaglia candida. Posate d’oro e bicchieri di cristallo erano disposti con cura minuziosa al di sopra di essa. Al centro, infine, vi era un delizioso centrotavola raffigurante un grosso uccello dal piumaggio rosso fuoco, circondato da stelle opalescenti. «Neanche Csaba sarebbe riuscita a fare di meglio.»

«Chi?»

«Niente, niente…» si affrettò Marinette rimproverandosi di aver espresso quel pensiero ad alta voce, «Raggiungiamo gli altri, Juleka. Ci stanno aspettando.»

Si diressero all’esterno del castello e scesero i ripidi pendii che conducevano ai cancelli perimetrali. Sapevano di essere in ritardo, di conseguenza iniziarono a correre a perdifiato per i prati ricoperti di neve. «Abbiamo preso la strada più lunga» bofonchiò la sorella di Luka, rossa in viso per lo sforzo di arrancare nella neve alta. «Se fossimo passate per la Torre dell’Orologio, saremmo già arrivate.»

«Hai ragione. Non ci abbiamo pensato, eppure dovremmo essere delle persone d’ingegno» pigolò l’altra, stanca e sudata: le gocce gelide che le colavano lungo la schiena.

«Si vede che anche quello è andato in vacanza!»

Marinette sorrise, sebbene le costasse parecchio. Lo sforzo le procurava non poche fitte al fianco e il fiato le si mozzava in gola. Impiegarono dieci minuti per raggiungere le sponde del Lago Nero, la cui superficie era ormai un’unica spessa lastra di ghiaccio. Sulla riva si stagliavano tre figure: indossavano abiti pesanti, proprio come loro, e sembravano impegnate in una fitta conversazione. L’eco delle loro parole concitate giunse ovattato alle orecchie delle nuove arrivate.

«No, Adrien! Non puoi neanche minimamente pensare di rimandarla indietro.»

«Luka, stranamente, ha ragione!» gracchiò acidamente la piccola Bourgeois, avvolta in un elegante cappottino giallo che si intonava alla perfezione con un soffice paraorecchie che aveva sulla testa. «È ridicolo, assolutamente ridicolo!»

«Che cosa sarebbe ridicolo?»

«Oh, ciao Marinette» esclamò Luka distogliendo momentaneamente lo sguardo dai suoi interlocutori, «Sorellina ce ne avete messo di tempo per arrivare. Non volevate perdervi la colazione, dite la verità.»

«E-e-ecco… n-n-noi… noi…» balbettò la ragazza presa in contropiede, mentre si scostava la ciocca di capelli viola dal proprio viso cercando le parole per giustificarsi. Non ce ne fu bisogno: una voce ben più acuta e decisa della sua si intromise con prepotenza «Zio Gabriel ha regalato ad Adrien una fantastica “Nimbus Duemila”, ma questo pezzo di Troll vuole restituirgliela.»

«Una Nimbus che?! Cosa sarebbe?»

«Sei proprio una sempliciotta, Dupain-Cheng!» la apostrofò Chloé mettendola in imbarazzo: alla sua destra Juleka intanto sembrava inorridita da quanto aveva appena sentito. «La Nimbus Duemila è “soltanto” la scopa più veloce al mondo. L’ultimo ritrovato della tecno-magia. Zio Gabriel deve aver fatto i salti mortali per procurarsela, non è ancora in commercio. Scatta da 0 a 100 Km in 0.5 secondi e il suo “Incantesimo Frenante” riesce ad evitare qualsiasi collisione.»

Marinette fu colpita dall’atteggiamento della Serpeverde. Chloé Bourgeois era sicuramente tante cose, ma mai si sarebbe aspettata che fosse un’esperta di articoli sportivi come le scope. Ad un tratto Luka passò al suo fianco e si avvicinò su un grosso masso posto sulla sponda del lago. Adrien, corrucciato e annoiato a causa della conversazione, aveva le braccia incrociate e la testa china. Il giovane Couffaine prese posto accanto a lui e gli mise un braccio intorno alla spalla.

«Non mi farai cambiare idea» sibilò svogliatamente il figlio di Gabriel Agreste, senza degnarlo di uno sguardo. «Non la voglio quella stupida scopa, avrei preferito… preferito…»

«Ascoltami bene, signorino!» gli fece eco l’altro che aveva capito perfettamente il motivo di tanta  reticenza, ma preferì fare finta di nulla. Le ragazze si avvicinarono per ascoltare meglio chiudendoli in una sorta di semicerchio. «Soltanto tu sai perché non vuoi quella scopa e, sinceramente, neanche voglio chiedertelo. Ma pensaci bene, che cosa darebbe più fastidio a tuo padre: il rifiuto di un regalo o l’aver vinto la Coppa di Quidditch proprio grazie ad esso?»

«Il campionato è sospeso. Non sappiamo quando riprenderà…»

«Vero! Tuttavia, e bada che sto andando contro i miei stessi interessi dicendotelo, una Nimbus Duemila non ha eguali. Nemmeno tra mille anni potranno tenerti testa.»
Adrien gli scoccò un’occhiata meditabonda. L’amico sorrideva beffardo: sapeva di averlo convinto. «D’accordo, ci penserò» concluse alla fine, «Adesso, però… battaglia di palle di neve!» Fu rapidissimo, appallottolò qualcosa di bianco con la mano e lo lanciò verso Luka colpendolo in pieno volto. In breve tempo si scatenò il panico e l’angoscia fu coperta dal suono delle risate.
 
 

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Capitolo 20
*** Capitolo XIX – Una strana sensazione ***


Capitolo XIX - Una strana sensazione

 
I cinque trascorsero il resto della mattinata a darsi battaglia con la neve. Sfere, grosse quanto bolidi, sfrecciavano in tutte le direzioni. La maggior parte delle volte si infrangevano con un “plof” sul bersaglio designato, altre si perdevano nell’aria finendo a terra o contro le insensibili mura del castello. Quel gioco, all’apparenza così insignificante, fu una piacevole parentesi di gioia e serenità; gli attacchi improvvisi erano un lontano ricordo, nulla poteva andare storto.

«Chloé! Prendi al volo.»

«Dupain-Cheng, cos…» il fiato della ragazza le si mozzò in gola, mentre veniva colpita in fronte da una gelida massa di neve.

Juleka e Marinette risero a crepapelle: stavano aspettando il momento opportuno per coglierla di sorpresa e questo non si era fatto attendere. Livida di rabbia per l’affronto appena subito, la Serpeverde sfoderò la bacchetta dalla tasca interna del suo cappottino. La agitò per aria senza sillabare alcuna parola, lo sguardo lugubre fisso sulle sue prossime vittime sacrificali. «Questo trucco me l’ha insegnato Zio Gabriel, adesso vedrete!»

Uno spesso strato di neve fresca si staccò dal suolo e, ondeggiando in maniera incerta, galleggiò verso la punta della bacchetta. Nello stesso istante la massa informe iniziò a condensarsi formando una specie di sfera che si ingrandiva sempre più. Le due Corvonero, impressionate da ciò che stava accadendo, rimasero immobili ad osservare la scena. Il globo di neve triplicò le sue dimensioni, poi con un sibilo avido di vendetta Chloé recitò l’incanto «Relascio!»

L’immensa palla di neve, che aveva ormai superato le dimensioni di una cattedra, si separò dalla bacchetta e si scagliò a tutta velocità contro i suoi obiettivi. Marinette fu svelta, forse più rapida di quanto avesse mai potuto immaginare. Si appiattì a terra e, tirando Juleka per la sciarpa blu e argento, evitò che il colpo andasse a segno. La sfera continuò la sua corsa e, quasi fosse rimasta indispettita dall’aver mancato il suo obiettivo, si accontentò di un altro più a tiro.

Il povero Luka, intento a riscaldare con una scoppiettante fiammella azzurra dei marshmallow, fu investito in pieno. Non ebbe neanche il tempo di realizzare cosa lo avesse colpito, che si ritrovò disteso per terra con le gambe all’aria. L’imprecazione della sorella fu coperta dallo strillo acuto della piccola Bourgeois che, portandosi la mano alla bocca preoccupata, corse verso di lui. «Perdonami Coso, scusa, intendevo Luka. Sì, Luka! Perdonami tanto, non volevo colpire te.»

Si gettò goffamente al suo fianco e, presa dal panico, iniziò a tastargli varie parti del corpo chiedendogli dove gli facesse male. Juleka arrivò poco dopo, scura in volto come mai prima di allora. “Se gli ha rotto qualcosa” – pensò furente tra sé e sé – “le brucio tutto il guardaroba e… e… e i capelli!” Fortunatamente, il ragazzo, sebbene dolorante, sorrideva massaggiandosi la nuca. L’urto, per quanto potesse essere stato forte, non aveva causato danni.

«Non c’è nulla da temere» esclamò, divertito, Adrien poggiando una mano guantata sulla spalla di Marinette. «Papà non le ha mai insegnato nulla di troppo rischioso. Forse immaginava che certi incantesimi nelle mani di Chloé potessero diventare delle bombe ad orologeria.»

«Non l’avrei mai detto…» mugugnò l’altra voltandosi verso di lui guardandolo con attenzione, gli occhi verdi che risplendevano come smeraldi alla luce del sole.
«Cosa? Che quella testa calda possa distruggere la scuola se le si serve una portata non gradita.»

«No, che tuo padre possa essere stato così premuroso da insegnarvi qualcosa.»

Ebbe l’impressione di essere stato appena colpito da una padellata. Si sentì insignificante, un’ameba priva di cervello. Possibile che fosse stato meschino fino a quel punto? La sua amica aveva ragione, aveva centrato pienamente la questione. Del resto come darle torto: erano mesi che si lamentava di suo padre e di quanto fosse stato assente in tutti quegli anni. Il suo stesso rifiuto per la Nimbus Duemila era l’ennesima riprova.

Eppure, dentro di sé sentì una sorta di serpente che si attorcigliava ai visceri stritolandoglieli. “Sarà il senso di colpa”, si disse cercando di non dare a vedere quanto fosse combattuto al momento. Un conto era che lui parlasse male del grande Gabriel Agreste, che rivelasse i suoi più oscuri segreti, un altro era che lo facessero i suoi amici. Non era arrabbiato con Marinette, ma piuttosto con se stesso per aver permesso a chi gli stava attorno di essersi fatti un’idea così sbagliata.

«Un tempo, prima che diventasse il mago più famoso di tutti i tempi» bofonchiò il ragazzo in risposta allo sguardo interrogativo della compagna. Si lasciò cadere sulla neve morbida e, senza pensarci, disegnò con il corpo un angelo. Marinette lo osservò dall’alto in basso: aveva gli occhi lucidi, un sorriso forzato, facile preda dei ricordi passati. Le fu evidente che anche quel “gioco” gli fosse stato insegnato da qualcuno, un qualcuno di cui Adrien sentiva terribilmente la mancanza.

Poco prima di pranzo, zuppi ed esausti, tornarono al castello. Il cielo, benché sereno, si era leggermente incupito minacciando l’approssimarsi di una tempesta. Prima di dirigersi in Sala Grande, i ragazzi si divisero e raggiunsero i loro dormitori. Coperti di fango e nevischio, avevano il disperato bisogno di darsi una ripulita. In particolar modo Chloé che, non avendo fatto altro che ripeterlo nelle due settimane precedenti, era ansiosa di indossare il suo nuovo vestito.

«Fortuna Maior!» trillò il giovane Agreste al quado della Signora Grassa che, con un piccolo inchino di riverenza, si spalancò dandogli modo di entrare nello stretto passaggio.

La torre dei Grifondoro era deserta: ad eccezione di Adrien, nessuno degli altri studenti aveva deciso di rimanere per le vacanze. Si guardò attentamente intorno rendendosi conto di quanto si fosse ormai abituato alla solitudine. Si sentì sporco e monco, come se una parte della sua umanità gli fosse stata strappata via. Non era come gli altri e, nonostante si sforzasse di provarci, non lo sarebbe mai stato.

Trascinandosi, si arrampicò lungo la scala a chiocciola ed entrò nel proprio dormitorio. La stanza era immacolata, sembrava quasi che non vi fosse nessuno ad occuparla. Vide Plagg appallottolato sul suo letto, sonnecchiava tranquillo. Avrebbe voluto accarezzarlo solo per provare un po’ di calore, per avere un contatto con qualcuno, ma vi rinunciò. Impiegò una ventina di minuti per prepararsi: non aveva molta voglia di scendere a pranzo, i suoi amici però lo aspettavano.

«Bene, mi sembra di aver preso tutto» disse ad alta voce, consapevole che nessuno avesse potuto trovare strambo quel suo modo di fare. «Adesso non mi resta che… Ehi, ma questo cos’è?»

Si avvicinò al comodino e prese tra le mani un pacchetto lì poggiato. Si guardò intorno con fare circospetto pensando di vedere qualcuno. Possibile che non lo avesse notato quella mattina? Si rigirò il regalo tra le dita, a differenza degli altri non era firmato. Alla fine si decise a scartarlo: era una custodia in pelle di drago, decisamente elegante e costosa. La aprì e al suo interno vi trovò tre oggetti: un pendente di smeraldo, una vecchia fotografia e un biglietto scritto a mano.

Adrien, perplesso e incuriosito da quegli strani doni, si apprestò a studiare il messaggio. Era scritto in una grafia elegante e minuta. Notò immediatamente che al messaggio mancava la firma, ma non ci diede peso. Aveva capito che chiunque gli avesse fatto quel regalo desiderava restare anonimo. I suoi occhi verdi saettarono sulla carta. Non ci mise molto a leggere quanto vi fosse scritto, ma dovette ripetere quattro volte l’operazione per essere sicuro di aver compreso bene.
 
“Tua madre mi prestò questo ciondolo diverso tempo fa. Purtroppo, non sono mai stato in grado di ritornarglielo di persona. Credo sia arrivato il momento di restituirtelo, Adrien. Con la speranza che tu possa farne buon uso.”
 
Rimase imbambolato, incapace di articolare alcun pensiero di senso compiuto. Il pendente di smeraldo luccicava all’interno della scatola in pelle. Il suo brillio catturò l’attenzione del ragazzo che, mettendo da parte il biglietto, lo strinse nel pugno. All’apparenza sembrava un normalissimo ciondolo, un oggetto certamente prezioso ma privo di qualsiasi eccezionalità. Non sapendo cos’altro fare, staccò il gancetto posto sul filo e se lo mise al collo.

Un calore intenso, piacevole e rassicurante, s’irradiò dalla pietra a tutto il suo corpo. Provò una strana sensazione: era difficile da spiegare, neanche lui riusciva a comprenderla appieno. Ebbe l’impressione di provare un piacere simile a quando ci si rivede con un vecchio amico; come se lui e il ciondolo si fossero ricongiunti dopo secoli di separazione. Inspirò profondamente cercando di liberarsi di quello stato di grazia così spiacevolmente inspiegabile.

I suoi occhi tornarono a posarsi sul biglietto, lo rilesse sperando di captare un qualcosa che prima gli fosse sfuggito. Non ottenne nulla di nuovo: le parole erano inequivocabili e non potevano celare alcun significato nascosto. Chi mai gli aveva inviato quel regalo? Suo padre forse? Scosse immediatamente la testa scartando quell’ipotesi. Non si sarebbe mai rivolto a sua moglie con l’appellativo “tua madre”. Doveva essere qualcun altro, un qualcuno legato a lei.

Mentre si scervellava in cerca di una soluzione, si ricordò di aver ricevuto un terzo dono oltre il pendente e il messaggio: una fotografia. A differenza di quelle a cui era abituato, questa non era animata. Ingiallita dal tempo e dall’usura, raffigurava due persone che si stagliavano sullo sfondo di un magnifico paesaggio portuale. Un bambino di circa dieci anni, dagli occhi a mandorla e con i capelli rasati a zero, gli sorrideva in modo vispo e allegro.

Al suo fianco vi era una donna, più grande di lui, dai lunghi capelli biondi, raccolti in una morbida coda di cavallo. Era vestita con una camicetta sbottonata all’altezza del collo, lasciando intravedere un ciondolo dall’aria familiare, e sulla testa portava un cappello paglierino a falda piatta. Ad Adrien ricordò gli esploratori inglesi che colonizzarono l’asia e l’india almeno due secoli prima. I suoi occhi, seppur in bianco e nero, erano luminosi e dolci.

Il vedere sua madre in una foto a lui sconosciuta gli provocò un tuffo al cuore. Perché non gli era mai stata mostrata? Possibile che nessun’altro della famiglia ne fosse a conoscenza? Pose attenzione sui lineamenti del ragazzino, ma non riuscì a riconoscere nessuno. Né un familiare, né un amico di lunga data, né un conoscente. Studiando attentamente l’immagine, notò il riflesso di una scritta sul retro. La girò e con sua grande sorpresa riconobbe la grafia di sua mamma.
 
Nanchino, 28 agosto 1842
 
«Ehi Adrien, come mai sei così silenzioso?» gracchiò Chloé, seduta di fronte a lui all’unico tavolo posto al centro della Sala Grande, «Plagg ti ha per caso mangiato la lingua?»

«Non è niente…» sibilò, debolmente, il ragazzo, lo sguardo era spento, perso nel vuoto. «Credo… credo che mi sono affaticato troppo questa mattina.»

«Oh, Adrien caro. Non dovresti sciuparti fino a questo punto: la tua è una bellezza che va preservata.»

A quelle parole il succo di zucca, che Luka stava bevendo, gli andò di traverso. La piccola Bourgeois, però, nonostante si trovasse al suo fianco, parve non accorgersi dell’accaduto. Era troppo preoccupata per il suo migliore amico. Benché il giovane Agreste cercasse di nasconderlo, aveva intuito che quella non fosse la verità. Aveva delle strane occhiaie e i suoi occhi erano rossi, iniettati di sangue. Molto probabilmente aveva pianto, ma per quale motivo restava un mistero.

Intanto risate, urla di festa e lo scoppio di una moltitudine di Schiopparelli magici riempivano l’aria all’interno della sala. Non vi erano più di cinquanta studenti che, sebbene appartenenti a Case diverse, si erano disposti di buon grado attorno a quell’unica tavolata. Di solito nel periodo delle festività vi erano più allievi: molti, infatti, desideravano trascorrere almeno una volta nella loro carriera un Natale ad Hogwarts.

Quell’anno però, a causa dei ripetuti attacchi, la maggior parte, di concerto con le loro famiglie, aveva preferito tornare a casa. In questo modo si sentivano più protetti di quanto non lo fossero a scuola e i loro insegnanti non potevano dargli torto. Quelli rimasti, invece, non l’avevano di certo fatto per coraggio, piuttosto per necessità dal momento che i loro familiari erano impegnati durante le vacanze.

Adrien e Chloé, com’era prevedibile, non fecero eccezione. I loro padri erano troppo presi dal lavoro per trascorrere il periodo di Natale a casa; di conseguenza i due avevano scelto di rimanere al castello. Ormai erano abituati a trascorrere lunghi periodi da soli, per questo motivo furono felici (anche se la piccola Bourgeois non lo avrebbe mai ammesso) di essere in compagnia dei loro compagni.

Anche Juleka e Luka avevano deciso di restare per un motivo simile. La loro mamma, il Capitano Anarka Couffaine, era impegnata in una pericolosa crociera fluviale in Mozambico. Non volendo mettere in ulteriore pericolo i suoi figli, dal momento che bastava prendere una Passaporta per raggiungerla, gli aveva ordinato di rimanere a scuola: sapeva che non vi fosse posto più sicuro in tutto il modo.

Il discorso era invece diverso per Marinette. Quel Natale i suoi genitori avrebbero raggiunto la loro unica nipote, impegnata in uno scavo archeologico in Cina, per trascorrere le vacanze con lei. La figlia del Signor Dupain sarebbe stata davvero felice di rivedere sua cugina, ma dentro di sé sentiva il dovere di rimanere ad Hogwarts. Doveva capire per quale motivo si stessero verificando tutti quegli attacchi. Attacchi di cui aveva preferito non avvisare i propri genitori.

«Un momento di attenzione, prego.»

Il vocio di sottofondo, che accompagnava il rumore di piatti e posate, cessò all’istante. Al richiamo della Professoressa Bustier, le teste degli studenti si voltarono immediatamente verso il tavolo degli insegnanti. A quel punto il Preside, dapprima intento a giocherellare con un buffo sombrero cantilenante uscito da uno Schiopparello, si alzò in piedi. Benché non superasse il metro e trenta, sembrò dotato di una levatura tale da sovrastare l’intera Sala Grande.

«Perdonate questa mia intrusione» incominciò Fu schiarendosi la voce con un colpo di tosse, «Vi prometto che sarò breve, ma ho l’urgenza di comunicarvi un paio di avvisi. Innanzitutto, permettetemi di farvi, da parte mia e da quel po’ che resta del mio corpo insegnanti, i nostri più sentiti auguri di un sereno e felice Natale. Che questi giorni di festa possano essere per tutti noi un balsamo lenitivo, una piacevole pozione curativa per i mali che in questi mesi ci hanno sovrastati.»

Si levò un brusio d’assenso dal tavolo degli studenti, ma fu rapidamente messo a tacere da un gesto del Preside che continuò il proprio discorso. «In secondo luogo, è con grande gioia e soddisfazione che vi annuncio l’imminente organizzazione di una festa all’interno di questa scuola. Il trentuno di questo mese infatti, per festeggiare l’ingresso del nuovo anno, si terrà un gran ballo, proprio qui, nella Sala Grande. Spero di cuore che ciascuno di voi partecipi a questa iniziativa.»

Questa volta il mormorio di sottofondo si fece più insistente e concitato. Il banchetto sembrava aver perso quel suo irresistibile appeal: i ragazzi erano ormai interessati ad altro. Non capivano per quale motivo Fu avesse deciso di preparare quella festa. Da quando aveva ereditato le “redini” della scuola, non aveva mai (e di tempo ne aveva avuto parecchio) fatto nulla del genere. Alcuni studenti del settimo anno, seduti a capotavola, si guardarono tra di loro con sospetto.

Al contrario gli allievi più giovani, tra cui i pochi membri rimasti della redazione dell’Eco di Hogwarts, erano eccitati all’idea di poter prendere parte ad un’iniziativa del genere. Chloé, in particolare, era su di giri. Aveva estratto dalla tasca dei propri jeans una penna biro e un piccolo bloc-notes, sul quale iniziò a prendere freneticamente degli appunti. I suoi compagni, impressionati da tanto zelo, la osservavano incuriositi ridacchiando di tanto in tanto.

«Si può sapere cosa stai scrivendo?!» sbottò, all’improvviso, Marinette mimando un gesto che tradiva le sue ascendenze italiche. «Sei arrivata alla sesta pagina! Il Preside ha parlato di una festa, non di un compito a sorpresa.»

«Quanto sei ignorante Dupain-Cheng. Non sto scrivendo la lista degli ingredienti per una pozione della Mendeleiev. Questo – e nel dirlo la piccola Bourgeois sventolò le pagine davanti i grandi occhioni azzurri della compagna - è l’elenco degli abiti da cerimonia che ho portato ad Hogwarts.»

«Stai scherzando, vero? Saranno una settantina: come hai fatto a metterli tutti nel baule?»

«”Incantesimo di Estensione Irriconoscibile”» cantilenò la figlia del Primo Ministro, mentre il petto le si gonfiava soddisfatto, «Non hai idea di quanto possa essere utile. A casa mia, a Parigi ovviamente, ho un armadio così capiente da poter far entrare un cane a tre teste pienamente cresciuto.»

«Non mi starai dicendo che… che…» balbettò Juleka stringendosi nelle spalle, spaventata dalla possibile risposta.

«Si chiama Fuffi, ha tre anni e mezzo. È un vero giocherellone, ma guai a chi si azzarda a toccare i miei vestiti: potrebbe essere l’ultima cosa che fareste.»

Un brivido corse lungo la schiena di chi la stava ad ascoltare, ad eccezione di Adrien. Il discorso del Preside gli era difatti arrivato alle orecchie come un eco lontano. Troppo assorto nei proprio pensieri, si alzò in silenzio dal tavolo e, senza dire nulla, ritornò solitario al proprio dormitorio.

 
 

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Capitolo 21
*** Capitolo XX – Il Party di Capodanno ***


Capitolo XX - Il Party di Capodanno

 
«Secondo te, i capelli mi stanno meglio sciolti o legati come al solito?»

«Non saprei…» mugugnò Juleka, seduta sul proprio letto a baldacchino, «Forse… forse per un ballo sarebbe meglio lasciarli liberi.»

«Se non altro Miss “hopapinochefailprimoministro” non mi prenderebbe in giro dicendo che ho due code di maiale per acconciatura» esclamò tutto d’un fiato Marinette, mentre osservava il proprio riflesso su uno specchio sospeso a mezz’aria che lei stessa aveva fatto apparire per magia.

«M-m-magari potemmo provare un nuovo look.»

«Che cosa intendi? Se parli del vestito, io avevo pensato a un… oh… ti riferivi a questo…»

Prendendola in contropiede, la sorella di Luka si era portata alle spalle della propria compagna e aveva afferrato i capelli corvini tra le mani. Con gesti dolci, ma decisi, li avvolse in una serie di spire dando loro una forma inedita. Marinette la osservava in religioso silenzio contemplando la sua abilità. Da quando era arrivata ad Hogwarts, aveva visto usare la magia in qualsiasi situazione e quella non avrebbe di certo fatto differenza.

Eppure, l’uso di tutta quella manualità la meravigliò molto di più se quella stessa acconciatura fosse stata eseguita con un incantesimo. Juleka doveva essere un’esperta a giudicare dai suoi movimenti così precisi, così fermi. «E-e-ecco… v-v-vedi… vedi se ti piace» mugugnò la ragazza arretrando di qualche passo, rossa in viso, spaventata da quello che sarebbe potuto essere il giudizio della sua amica.

La figlia del Signor Dupain, ormai libera di poter contemplare l’opera che aveva sulla testa, rimase a bocca aperta. Non avrebbe mai pensato che i suoi capelli, di solito stretti in un’acconciatura semplice e a tratti infantile, potessero assumere una forma del genere. Non essendo molto lunghi, l’elegante coda di cavallo, formata da un insieme di ciocche, le ricadeva a stento sulle spalle; ma non per questo era meno graziosa. La frangia, invece, era sormontata da una voluminosa treccia.

«Che c’è?!» gracchiò Juleka, spaventata da quella lunga attesa, «Ho combinato un disastro, vero? Sapevo che non dovevo mettermi in mezzo, perdonami. Io…»

Il suono concitato di urletti isterici, carichi di gioia, la interruppero. Marinette si era letteralmente lanciata tra le braccia della propria compagna di Casa. La strinse forte a sé e la riempì di baci sulla guance e sulla fronte. «Grazie, grazie, grazie! Non avrei saputo fare nulla del genere, sei stata fantastica!» esclamò con gioia la giovane Corvonero, mentre Tikki, evidentemente contagiata dall’atmosfera, cinguettava allegra. «Potresti rifarmela domani sera per il ballo?»

«C-c-certo… nessun… nessun problema.»

«Sei fantastica! Adesso, però, dobbiamo trovare un’acconciatura anche per te.»

«Per me?!» squittì, stupita, la ragazza dal ciuffo viola, «Ma io non ho un accompagnatore. C-c-cosa ci vengo a fare?»

«Nemmeno io ho un cavaliere per il ballo. Vorrà dire che ci andremo insieme: saremo le più belle principesse della sala. Anche più belle di quella viziata di Chloé!»
Questa volta fu Juleka a serrare le proprie braccia intorno alle spalle di Marinette. Non si era mai sentita chiamare “principessa”; anzi non si era mai sentita chiamare in nessun modo. Se non ne avesse avuto conferma dalle attenzioni di sua madre e suo fratello, si sarebbe tranquillamente convinta di essere invisibile. Un fantasma, un’ombra impercettibile di cui nessuno fosse in grado di rendersi conto. Si sentiva responsabile di ciò, come se fosse una sua colpa.

Eppure, in quei pochi mesi la sua autostima era di gran lunga migliorata. Per la prima volta si sentiva accettata, riconosciuta dai suoi pari. Certo, era ancora molto lontana dagli standard delle sue amiche. Spesso le capitava di avere incubi che la riportavano indietro nel tempo, a quando non era altro che la figlia “strana” di Anarka. Le ci sarebbe voluto ancora del tempo per lasciarsi alle spalle i traumi che la perseguitavano, ma quella mattina aveva compiuto un ulteriore passo avanti.

«Su, su, su. Non fare così adesso…» le sussurrava la figlia del Signor Dupain nell’orecchio in rispostata ai suoi improvvisi singhiozzi, dandole delicate pacche sulle spalle. «Di solito quando la gente riceve dei complimenti è felice, non reagisce a questo modo.»

«Hai… hai ragione, scusa…»

«Non preoccuparti. Che ne diresti di scegliere gli abiti per la serata?»

«Certo! Diamoci una mossa.» esclamò Juleka mostrando un’insolita determinazione, mentre scioglieva il dolce abbraccio e si apprestava a frugare nel proprio baule.
La sera del 31 dicembre arrivò in un battito di ciglia. Il vento ululava tra le vallate che circondavano Hogsmeade e il castello, sputando neve e grandine contro le finestre. La calda atmosfera all’interno di Hogwarts era intervallata da gelide folate che approfittavano degli spifferi tra le spesse mura. Il vuoto silenzio regnava incontrastato nei corridoi, intervallato ogni tanto dallo scoppiettio di un fuoco lontano.

I pochi studenti, presenti durante il periodo delle feste, si erano già avviati verso la Sala Grande, dalla quale proveniva l’eco di una musica leggera. Adrien lì osservò dall’alto di una balaustra, a metà tra il terzo e il quarto piano. Ai suoi occhi risultavano puntini indistinti di una massa che lentamente defluiva verso un’unica direzione. Indugiò a lungo sul profilo dei suoi amici: Luka, Juleka, Marinette, Chloé e Clara, sebbene lontani, gli risultarono ben visibili tra la folla.

Nei giorni successivi a Natale aveva dedicato loro poco tempo. Trascorreva, infatti, la maggior parte delle sue giornate vagabondando per le aule del castello. Era alla ricerca di un luogo tranquillo, un posto appartato dove poter riflettere su quanto avesse scoperto. Il messaggio scritto a mano e la foto ingiallita di sua madre erano sempre con lui; allo stesso modo il talismano di smeraldo aveva definitivamente preso posto intorno al suo collo.

Quella sera non sarebbe stato diverso, se il giovane Couffaine non l’avesse preso da parte e gli avesse chiesto, o meglio imposto, di essere presente al party. La preoccupazione nel volto del compagno gli fu immediatamente evidente: sia lui che le altre erano in pensiero, spaventati da quei lunghi periodi di assenza. Il giovane Agreste fu, da un lato, grato di ricevere così tante attenzioni; d’altro canto però nutriva un forte desiderio di essere lasciato solo.

Era abituato a “cavarsela per conto proprio”. Suo padre era ormai una persona lontana e  distaccata, il miraggio di quello che sarebbe dovuto essere un genitore. Nathalie e la sua guardia del corpo non erano da meno. Per loro la professionalità veniva prima di tutto: non c’era spazio per l’affetto o la comprensione. Sua madre era morta e il suo unico confidente, l’unica persona al mondo che l’avesse mai capito alla perfezione, l’aveva abbandonato.

In un impeto di rabbia improvviso serrò la presa sulla balaustra di marmo. Le nocche gli diventarono bianche, al contrario la faccia si dipinse di rosso e gli occhi si inumidirono. Era sempre così quando ci ripensava. Nel corso di quegli otto anni si era ripromesso più e più volte di mettere da parte il ricordo che ancora aveva di lui. Era troppo importante per potersene separare, nonostante gli causasse una sofferenza terribile.

Gli era stato vicino nei primi tempi, gli aveva insegnato tutto ciò che sapeva. Il dolore per la scomparsa di Emilie Agreste li aveva travolti in pieno, ma lui era riuscito a riprendersi. Aveva capito che quell’infausto evento doveva essere una spinta per andare avanti, per rimettersi in carreggiata. Gli aveva fatto da padre e confidente in un momento in cui i suoi veri genitori non erano più lì, entrambi lontani anche se per motivi diversi.

 Inspirò profondamente al fine di calmarsi. Dilatò a tal punto le narici da farsi male. Gli ci volle qualche minuto per riprendere il controllo di sé e, quando ci riuscì, si rese conto che la festa di Capodanno era già iniziata. Ciondolando maldestramente nel suo elegante abito da sera, si diresse all’ingresso di Hogwarts. I suoi passi riecheggiavano mestamente per le rampe di scale. Di tanto in tanto gli abitanti di alcuni ritratti gli facevano gesti cordiali, ma lui preferì non farci caso.

Era ormai giunto al limitare della scalinata principale, quando incrociò il fantasma della Torre di Grifondoro. Ser Nicholas de Mimsy-Porpington, detto “Nick-quasi-senza-testa” per la sua particolare condizione fisica post-mortem, era un personaggio alquanto particolare e bizzarro. Socievole e caloroso a differenza della maggior parte degli altri spettri, amava interloquire con gli studenti appartenenti alla Casa che aveva deciso di proteggere ben più di cinquecento anni prima.

Tuttavia, era molto sensibile, quasi insofferente, a tutti quei discorsi che riguardavano la morte in generale e la sua esecuzione per decapitazione. Il boia, che eseguì la sentenza, non fu infatti in grado di recidergli completamente la testa dal collo nonostante i quarantacinque colpi di scure. Da allora il povero Ser Nicholas ha dovuto convivere con un perenne senso di inadeguatezza, acuito dall’onta di non poter entrare nel gruppo di fantasmi dei “Cacciatori Senzatesta”.

Benché non desiderasse parlare con nessuno, Adrien si sentì in obbligo di salutarlo. Dopotutto, era pur sempre un defunto e come tale non gli si poteva mancare di rispetto. In secondo luogo, durante le prime settimane ad Hogwarts, nel periodo in cui si era volontariamente isolato dagli amici appena conosciuti, Nick si era dimostrato una piacevole compagnia e un buon ascoltatore. «Buona serata Ser Nicholas!» trillò allegramente il ragazzo con un leggero inchino di riverenza.

Il fantasma, però, lo oltrepassò senza dir nulla. Aveva lo sguardo stranamente vacuo e il viso inespressivo. Il giovane Agreste lo vide fluttuare lungo il corridoio del primo piano per poi sparire dietro un arazzo. Stava già ripercorrendo a ritroso i gradini per assicurarsi che non fosse successo nulla di grave, quando una voce perentoria e inamovibile, che gli fece gelare il sangue nelle vene, lo richiamò all’attenzione.

«Va da qualche parte, Signorino Agreste?!»

«Professoressa Mendeleiev!» esclamò, terrorizzato, Adrien, per poi balbettare una scusa poco credibile «Ehm, io… io stavo…»

«Stava bighellonando in giro, invece di essere alla festa» lo interruppe l’insegnate afferrandolo per la manica della giacca, «Forza, entri in sala! Altrimenti sarò costretta a togliere dieci punti a Grifondoro. Non sarebbe certo il massimo per iniziare l’anno nuovo, dico bene?»

«No, professoressa… mi scusi…»

Guardandosi un’ultima volta indietro, fu scortato all’interno della Sala Grande che, data l’occasione, era stata allestita in modo decisamente inedito. Il centro della stanza era stato lasciato vuoto in modo tale che, chiunque lo desiderasse, potesse danzare in piena libertà; sui lati, al contrario, era stati posizionati piccoli tavolini circolari provvisti di sedie e due lunghe tavolate, sulle quali si trovava un ricco buffet.

Il soffitto, stranamente, non riproduceva il cielo plumbeo presente all’esterno. Lo si poteva definire un “insieme” di luci e colori soffusi che, almeno da quanto poté constare il giovane Agreste, aveva il compito di creare la stessa atmosfera delle vecchie sale da ballo. Sul fondo della stanza, infine, posizionati sul rialzo in legno del tavolo degli insegnanti, vi erano un’arpa, due violoncelli e un violino che suonavano autonomamente musica da camera.

«Ma dov’eri finito?!»

«Mi ero appisolato» mentì Adrien grattandosi il retro della testa con fare colpevole, «Sai il dormitorio vuoto, si sta così bene.»

«Se lo dici tu…» gli fece eco Luka, benché poco convinto dalla parole dell’amico.

«Le ragazze dove sono? Non le vedo.»

«Stanno ballando. Sono vicino al professor Damocles e alla professoressa Bustier.»

Il figlio di Gabriel Agreste si mise in punta di piedi e, allungano il più possibile il proprio collo, riuscì a vedere oltre la folla di studenti intenti a danzare. Fu come essere colpito da una secchiata d’acqua gelida che, ritemprando le sue membra, lo svegliò da un profondo letargo. Juleka, vestita in un tradizionale abito blu notte, stringeva i fianchi di Marinette facendola volteggiare con estrema grazia.

I suoi capelli neri, che alla luce del soffitto presentavano dei magnetici riflessi blu, erano raccolti in una morbida ed elegante acconciatura. Il suo kimono rosso, su cui risplendevano ghirigori, foglie e petali dorati, fluttuava leggero nell’aria accompagnando i movimenti della persona che lo indossava. L’incarnato chiaro di Marinette rifletteva le mille luci delle candele sospese conferendole un’aura mistica, quasi soprannaturale.

«Wow…» fu l’unica parola che Adrien riuscì a boccheggiare, mentre osservava quello che ai suoi occhi era a tutti gli effetti uno spettacolo.

«Dovresti invitarla a ballare.»

«Ma lo sta già facendo. Sembrerei stupido e poi Juleka ci rimarrebbe male.»

«Non preoccuparti per mia sorella, lei capirà» sibilò Luka scuotendo il capo esasperato, ma al contempo divertito da tutta quella ingenuità. «Non lasciartela sfuggire: una come lei non la ritroverai nemmeno tra un milione d’anni.»

«D-d-d’accordo…» mugugnò l’altro. Quella breve conversazione l’aveva imbarazzato e oltremodo confuso. Perché stava provando quell’insolita sensazione di calore? Possibile fosse ancora una volta il pendente di smeraldo? Immerso nei suoi pensieri, quasi non si accorse che il giovane Couffaine si stava allontanando. «Ehi, dove stai andando?»

«Perdonami, ma ho anch’io una dama che proprio non posso lasciarmi sfuggire.»

Detto ciò, lo vide avvicinarsi ad una graziosa ragazza vestita con un abito giallo canarino che, a discapito di quanto si potesse pensare, era da sola, rannicchiata in un angolo ad osservare la sala con fare contemplativo. Chloé, nonostante cercasse di non darlo a vedere, fu lieta che qualcuno l’avesse finalmente invitata a ballare. Evidentemente, pensò Adrien mentre voltava loro le spalle, nessuno aveva avuto il coraggio di confrontarsi con una persona così “problematica”.

La musica si fermò e, approfittando del momento di pausa, il giovane Agreste raggiunse Marinette e Juleka. Quest’ultima, che probabilmente la pensava come il fratello, con una scusa si dileguò non appena lo vide. Ebbe un istante di tentennamento, poi, facendo appello a tutto il suo self-control, le poggiò una mano sulla spalla e, scostandole una ciocca di capelli, le sussurrò dolcemente nell’orecchio. «Milady, mi farebbe l’onore di questo ballo?»

Marinette sussultò. Non si sarebbe mai aspettata di incontrarlo quella sera: erano giorni che non si sentivano, temeva di averlo offeso quella mattina di Natale parlando a quel modo di suo padre. Intuendo il suo sconcerto, Adrien abbozzò un timido sorriso e le cinse una mano intorno al fianco. La trasse a sé e, indietreggiando di alcuni passi, la condusse al centro della Sala Grande dove altre coppie, compresi Luka e Chloé, si apprestavano a ballare.

I loro sguardi si incrociarono, vi erano solo pochi centimetri a separarli. Il figlio di Gabriel Agreste non poté fare a meno di notare quanto fosse bella la sua compagna. Se da lontano gli era parso di assistere ad un qualcosa di mistico, adesso, dal momento che erano così vicini, aveva l’impressione di trovarsi dinanzi un angelo. Il suo cuore accelerò spaventosamente, faceva le capriole all’interno della gabbia toracica. Con la mano sinistra afferrò saldamente la destra della ragazza.

Marinette avvampò in quello stesso istante. Non era mai stata così legata all’amico, i loro destini sembrarono intrecciarsi. Non diede una risposta alla domanda che gli era stata fatta poco prima, ormai non ve ne era più bisogno. Sciogliendosi come neve al sole, chiuse gli occhi e si lasciò cullare dalle braccia di Adrien. Una musica leggera e soave riempì la stanza ed entrambi iniziarono a volteggiare seguendone il ritmo.

Come due petali sospinti dal vento, dipinsero ideali cerchi sul pavimento in pietra della stanza. Stretti l’uno all’altra, furono trasportati lontano, in una dimensione parallela creata appositamente per loro. La sala, il castello, gli altri studenti, era tutto sparito: danzavano da soli in uno spazio vuoto, etereo, che faceva da cornice ad un momento cristallizzato nel tempo e nello spirito. Volavano su un mondo sconfinato, al quale soltanto loro due potevano accedere.

Quel ballo fu come un fiume in piena. Assunse la forma di parole, di intere frasi e dischiuse i loro cuori come null’altro era stato in grado di fare. Quando il valzer cessò e la Sala Grande tornò a prender forma, entrambi decisero di non sciogliere quell’abbraccio. Non ne furono in grado. Si specchiarono reciprocamente negli occhi, mentre le loro labbra umide si avvicinavano sempre più. Avevano la gola secca e il viso paonazzo, intimoriti da ciò che stavano per compiere. Ci fu dell’esitazione, poi una cascata di vetri rotti e urla concitate li strappò da quel sogno.

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Piccolo avviso per chi mi segue su EFP. Venerdì 15 Novembre inizierò su Wattpad la pubblicazione di una side-story collegata alla saga de "La leggenda delle sette bacchette". Questa raccolta didascalica conterrà informazioni aggiuntive sui personaggi e sui luoghi della storia, che si accompagnerà alle altre sei storie che ho in programma. Ovviamente, non è una fanfiction essenziale alla comprensione della trama generale: al suo interno si troveranno solo curiosità e piccoli approfondimenti fini a loro stessi. Tuttavia, qualora siate interessati ad approfondire le storie della famiglia Agreste, oppure al modo in cui ho cercato di integrare il magico mondo della Rownling con la storia di Astruc, vi aspetto sul mio profilo Wattpad XD https://www.wattpad.com/user/Yugi95 
A presto :D :D :D
 

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Capitolo 22
*** Capitolo XXI - La rivolta degli spettri ***


Capitolo XXI - La rivolta degli spettri

 
La vetrata gotica, posta sulla facciata nord della Sala Comune, sulla parete dietro il tavolo degli insegnanti, andò in frantumi. Un grosso armadio nero atterrò con un tonfo sugli strumenti musicali che, sotto il suo peso, si ruppero emettendo un suono smorto e lugubre. Nello stesso istante una decina di cavalieri entrarono a galoppo all’interno della stanza. Ci fu un attimo di indecisione: gli studenti, che spaventati correvano e urlavano, si fermarono di colpo e li scrutarono attentamente.

Era un gruppo eterogeneo, formato da uomini di diverse etnie e, a giudicare dai loro indumenti stravaganti, epoche storiche. Tuttavia, il particolare che lasciò i presenti più sconcertati fu la “natura” di questi ospiti inattesi: erano dal primo all’ultimo degli spettri. Di norma, fatta eccezione per le matricole, la presenza di fantasmi ad Hogwarts non destava preoccupazione. Era alquanto comune che i non morti si aggirassero per il castello durante le ore del giorno.

«Ma… ma quello non è il Barone Sanguinario?» esclamò Luka indicando il cavaliere che capeggiava l’assemblamento. Questi indossava un’armatura a placche di colore nero, sporca in più punti di macchie argentate.

«Sì, è proprio lui! Quel troglodita adesso mi sente» gracchiò, acidamente, Chloé separandosi dall’abbraccio del compagno. Afferrò l’ampia gonna del proprio vestito e, incurante degli sguardi incuriositi degli altri, trotterellò verso l’uomo. Nonostante arrivasse a stento alla sua cintola, non sembrava per nulla intimorita da quell’inquietante figura. «Ehi! Sì, dico a te barone dei miei stivali. Chi ti credi di essere per interrompere la festa?! Ma tu lo sai chi sono io? Chloé Bourgeois la…»

«Attenta!» urlarono in coro Marinette, Juleka e alcuni studenti alle loro spalle, mentre il Barone sguainava la sua spada e la alzava sulla testa della povera ragazza.
L’arma, silenziosa quanto il suo proprietario, fendette l’aria circostante e, anticipando qualsiasi possibile contromossa, colpì il suo bersaglio. La piccola Bourgeois fu colpita all’altezza dello stomaco, trafitta da parte a parte. Ovviamente, trattandosi dell’arma di un fantasma, non le arrecò alcun danno fisico; ma lo shock fu tale da farla svenire. «Maledetto!» urlò Luka in un insolito impeto di rabbia.

Estrasse la bacchetta, che portava nella tasca sinistra del suo abito da sera, e la puntò contro il Barone Sanguinario. Quest’ultimo rimase impassibile, la spada abbassata contro il suo fianco pronta a colpire per una seconda volta. I cavalieri dietro di lui rimasero in attesa: preferivano godersi lo spettacolo piuttosto che intervenire in soccorso del loro capo. Nel frattempo altri spettri, tra i quali Nick quasi senza testa, fluttuarono nella Sala Grande dalla finestra.

«Ser Nicholas! Ser Nicholas!» gridò Adrien con quanta voce aveva in corpo, mentre si sbracciava tra la folla per farsi notare. «Ser Nicholas, che cosa sta succedendo? Perché vi state comportando in questo modo?!»

Il fantasma di Grifondoro lo ignorò e, insieme agli spiriti della altre due Case, la Dama Grigia e il Frate Grasso, si andò a posizionare accanto al Barone. Gli studenti e gli insegnanti li osservarono sconcertarti: non riuscivano a capire cosa volessero e non sapevano cosa fare per fermarli. Del resto come si può attaccare un qualcosa di intangibile? I normali incantesimi non avrebbero mai funzionato contro di loro.

«Preside…» sibilò, all’improvviso, la professoressa Mendeleiev in maniera del tutto impercettibile, «Cosa facciamo? Non possiamo permettere che qualche studente rimanga ferito, la scuola è già sotto l’assedio del Ministero e del Consiglio. Rischiamo di chiudere se accade qualcosa di grave.»

«Ne sono consapevole» fu la risposta dell’altro senza distogliere lo sguardo dai quattro spettri e dai due ragazzi che, sprezzanti del pericolo, avevano deciso di fronteggiarli.

«Bene, allora come pensa di agire?»

«Nel solo modo possibile.»

«E sarebbe?» biascicò, ansiosamente, la donna che ormai pendeva dalle labbra del suo superiore.

«Non facendo nulla» concluse Fu con tono serafico, mentre si apprestava a raggiungere il centro della Sala Grande. Alla Mendeleiev, che non ebbe alcun modo di replicare, non restò che fidarsi di lui e sparare nella buona riuscita di un suo, benché improbabile, piano. Intanto, Adrien e Luka, bacchette alla mano, continuavano a tener testa al gruppo di spettri. Questi, immobili e bianchi come statue, li osservavano con sguardo vitreo in attesa della loro mossa.

La maggior parte degli studenti, su consiglio di alcuni professori, si era già allontanata dalla Sala Grande e aveva raggiunto i dormitori. Marinette, Juleka e Clara, l’ultimo membro della redazione dell’Eco di Hogwarts rimasto a scuola per gli impegni della madre, invece, rimasero al loro posto. Non se la sentivano di abbandonare i loro amici, soprattutto Chloé che, ancora svenuta, si trovava ai piedi del Barone Sanguinario.

«Dì un po’, conosci qualche incantesimo che funzioni contro i fantasmi?» sibilò il Giovane Couffaine al suo compagno, senza distogliere l’attenzione dai suoi avversari.

«Nemmeno uno. Non mi hanno mai insegnato a fronteggiarli.»

«Cosa?! Io credevo che tuo padre ti avesse insegnato ogni genere di magia avanzata.»

«Primo, non è stato mio padre…» ribatté l’altro, la voce incrinata da un inatteso moto di collera, «Secondo, non credo esistano sortilegi in grado di fare del male a degli spiriti. Sono già morti, intangibili e inafferrabili: nulla di ordinario funzionerebbe con loro!»

Luka scosse il capo rassegnato. Come avrebbero potuto risolvere la situazione se non avevano alcun modo per contrastarli? Si chiese come fosse stato possibile che nel corso della più che millenaria storia della magia nessuno avesse mai pensato a come proteggersi dai fantasmi. Strinse l’impugnatura della bacchetta. Gli spettri, infatti, stavano dando segnali di irrequietezza: da un momento all’altro avrebbero sicuramente attaccato.

«Signorino Couffaine, Signorino Agreste, basta così! Abbassate le bacchette.»

La voce di Fu, seppur pacata e gentile, li costrinse a voltarsi. Il Preside incedeva verso di loro a piccoli passi, ma decisi. Si frappose tra i due e, con le mani nascoste sotto la lunga veste bianca, si rivolse ai fantasmi che sembravano non essere particolarmente turbati dal suo arrivo. «Mio caro Barone, miei cari protettori del Case di Hogwarts! Vogliate perdonare l’impudenza di questi giovani studenti e la loro mancanza di rispetto.»

Adrien e Luka si guardarono di sottecchi senza riuscire a capire quale strategia avesse in mente il loro professore. Allo stesso modo anche gli altri insegnanti e i pochi ragazzi rimasti all’interno della sala furono sorpresi da quelle parole. Era indubbio che bisognasse essere rispettosi nei confronti del Barone Sanguinario e degli altri, ma in quel contesto il loro comportamento era del tutto ingiustificabile. Dopo quello che aveva combinato, non li si poteva trattare con riverenza.

«Spero con tutto il cuore…» continuò il preside, incurante degli sguardi sbigottiti dei presenti puntati su di lui, «Che questo spiacevole incidente non comprometta la vostra permanenza qui, ad Hogwarts. La scuola perderebbe molto, se voi decideste di andarvene.»

Ser Nicholas tentò di abbozzare un sorriso compiaciuto, ma non ci riuscì. Incapace di controllare la propria espressione facciale, fu soltanto in grado di digrignare i denti a metà tra il divertito e l’arrabbiato. Il dettaglio non sfuggì a Marinette e i suoi amici che, essendosi già confrontati con problematiche abbastanza simili, finalmente capirono. Allo stesso modo anche Fu ghignò compiaciuto: la sua teoria era stata appena confermata.

«P-p-può controllare anche i fantasmi?!» squittì Clara nascondendosi istintivamente dietro la spalla di Juleka.

«A quanto pare è così, Signorina Nightingale» esclamò il Preside guardingo, la mano, benché nascosta dal vestito, era palesemente stretta sulla bacchetta. «Avete notato qualcosa di strano venendo qui? Un comportamento insolito da parte di uno o più fantasmi?»

«Crede fossero controllati ancor prima dell’inizio della festa?»

«Ne sono certo, Signorina Dupain-Cheng. Vede, i fantasmi hanno una fisiologia, se proprio volessimo definire la loro sostanza in questo modo improprio, diversa dalla nostra. Sono immuni alla maggior parte degli incantesimi come schiantesimi e fatture; mentre le maledizioni non funzionano in maniera appropriata e Nick ce ne ha appena dato una dimostrazione.»

«Si riferisce alla strana smorfia di poco fa? Stava cercando di ribellarsi, non è vero?» intervenne Luka indietreggiando insieme ad Adrien per lasciare al professore maggior “spazio di manovra”.

«Esatto! Ottima osservazione, cinque punti a Tassorosso» cantilenò l’omino facendo arrossire il suo giovane studente che, in quella situazione, tutto si sarebbe aspettato fuorché un encomio. «Ser Nicholas sta lottando interiormente al fine di spezzare il controllo che hanno su di lui. I fantasmi adorano esser lusingati e sono grati che venga loro tributato lo stesso rispetto che si ha per i viventi. Sapevo che compiacendoli avrebbero dato segni di lucidità.»

«Quindi dobbiamo riempirli di complimenti?» propose il figlio di Gabriel Agreste serrando i pugni con decisione, mentre cercava di elaborare senza successo pensieri lusinghieri nei confronti del Barone Sanguinario.

«No, sarebbe controproducente. Non faremmo altro che “solleticare” il loro ego e questo li spingerebbe inutilmente a combattere la maledizione. Un Imperio scagliato a distanza è un incantesimo impossibile da spezzare per chi lo subisce: è infinitamente potente.»

I presenti rabbrividirono, professori inclusi. Non avevano mai sentito parlare di maledizioni “a distanza”. La magia, a prescindere se si trattasse di malocchi, fatture o incantesimi ordinari, necessitava sempre del contatto visivo. Le parole potevano essere omesse, nel caso di “incanti non verbali”; ma, come avviene anche nei momenti di infatuazione romantica, l’occhio voleva la sua parte. Di conseguenza, le affermazioni di Fu crearono sconcerto e paura.

«Preside, lei… lei è sicuro di non voler mandare questi studenti a letto e risolvere la situazione da solo?» intervenne la Professoressa Bustier abbracciando da dietro Marinette e Juleka.

«Certamente! Quale occasione migliore per insegnare due o tre trucchetti ai nostri allievi, se non questa?» trillò, divertito, l’omino dando l’impressione che la spaventosa vicenda, in cui erano incappati, per lui non fosse altro che una semplice lezione pratica «Ragazzi miei, come vi dicevo, un Imperio, benché scagliato da lontano, resta sempre tale e i suoi effetti su dei fantasmi sono ben lungi da quelli sperati. In questo caso il “fattore tempo” è più importante di quello spaziale.»

«Per questo non ci stanno attaccando!» esclamò, sovrappensiero, la figlia del Signor Dupain al termine di un complesso ragionamento interiore, «In qualche modo gli ordini del nostro misterioso nemico arrivano in ritardo, non sono immediati come dovrebbero.»

«Ottima deduzione! Cinque punti anche per Corvonero.»

«Ma questo non spiega il “perché”. Sempre che ne esista uno» replicò la professoressa Mendeleiev che, da buona pozionista e alchimista qual era, non aveva resistito ad unirsi al discorso.

«Il motivo è semplice: il fatto che i fantasmi siano delle impronte, o se vogliamo ombre di ciò che fossero in vita, rende più difficile per il “vettore di trasporto della maledizione” andare efficacemente a segno. Non è possibile captare nella sua interezza l’animo di uno spettro, cosa che costituisce il fulcro della Maledizione Imperius, ma solo frammenti che poi vanno rimessi insieme. È quest’ultima azione a comportare un rallentamento del controllo sui soggetti desiderati!»

I presenti furono colpiti dalla naturalezza con la quale il Preside spiegava argomenti così complessi e delicati. Non era impaurito da quell’inspiegabile rivolta dei fantasmi di Hogwarts; al contrario né sembrava affascinato, come se tutto quel trambusto non fosse altro che la decisiva conferma ad una sua teoria. Evidentemente, Fu aveva colto in pieno il piano dell’oscuro aggressore, che da mesi tormentava i ragazzi della scuola, e molto probabilmente il “trucco” alla base dei suoi attacchi.

Poiché concentrati sulla spiegazione, non si accorsero che il Barone Sanguinario e la Dama Grigia avevano ripreso a muoversi: il controllo su di loro era stato nuovamente ristabilito. I gesti dei due furono rapidi, quasi impercettibili. Uno schicco di dita unito ad un deciso fendente di spada e i frammenti delle finestre della Sala Grande, sparpagliati sul pavimento alle loro spalle, si alzarono dapprima in aria, poi si scagliarono a grande velocità contro studenti e insegnanti.

Non vi fu neanche il tempo di urlare per l’attacco a sorpresa, che i pezzi di vetro cozzarono contro una cupola dalle sfumature verdognole comparsa dal nulla. Il Preside Fu, che a differenza degli altri non aveva mai perso di vista gli spettri, non si era fatto trovare impreparato. Sfoderata la propria bacchetta dalla tasca della veste, aveva eretto un’imponente cupola di protezione. «Un consiglio che potrebbe salvarvi in futuro la vita: mai distrarsi in un combattimento!»

«G-grazie, Wang. Anche noi ci siamo distratti» biascicò la Bustier, pallida come un cencio per lo spavento.

L’omino sorrise con gratitudine, mentre alcuni fantasmi, compreso Ser Nicholas, fluttuavano minacciosamente verso la cupola. «Non credo che il mio incantesimo di protezione possa impedirgli di entrare, dopotutto sono pur sempre privi di un corpo fisico. Tuttavia, lo scudo potrà tornarci utile. Qualcuno sa dirmi il perché?»

«Potremmo usarlo come isolante!» esclamò Adrien ancor prima che gli altri capissero il senso di quella domanda, «Se c’è un vettore che trasporta la maledizione, l’incantesimo scudo riflesso sul Barone e i suoi compagni potrebbe creare una barriera che li isoli da esso. In questo modo saranno liberi dal controllo del nemico!»

«E… cinque punti a Grifondoro per la perspicacia del signorino Agreste!» trillò il Preside di Hogwarts, poi posando il suo sguardo sulla povera Chloé aggiunse: «Già che ci siamo anche cinque punti a Serpeverde per l’audacia della signorina Bourgeois. Spero solo che la prossima volta valuti le capacità del proprio avversario prima di agire.»

Si levò un mormorio divertito tra gli studenti, ma Fu lo interruppe con un gesto della mano. Richiamata l’attenzione su di sé, agitò debolmente la bacchetta in aria descrivendo una sorta di iperbole. Istantaneamente lo scudo si mosse verso gli spettri che, non avendo altra possibilità, si lasciarono attraversare da esso. Imprigionati al di sotto della cupola, si fermarono di colpo e rimasero nuovamente in attesa.

«Adesso osservate attentamente. Se l’incantesimo ha funzionato, cosa che nel mio modesto parere sia così, vedremo il vettore che trasporta la maledizione.»
I presenti, senza alcuna distinzione, fecero come gli era stato comandato. I loro occhi furono puntati sul nutrito gruppo di fantasmi e ne studiarono ogni singola parte. Tuttavia, gli occorsero una decina di secondi per accorgersi che dal corpo del Barone Sanguinario e da quelli degli altri si levassero lentamente dei fili sottilissimi. Erano di un colore lattiginoso, simile all’argento delle crine di unicorno. Si spinsero sempre più in altro, fino ad oltrepassare la barriera.

Una volta all’esterno, questi fasci si condensarono in un unico punto. Assunsero dapprima un’imprecisa forma solida e solo in un secondo momento rivelarono la loro vera natura. «Guardate! È… è una piuma di gufo, ma non ne ho mai viste di questo colore» esclamò, stupefatta, Clara indicandola, mentre il resto degli studenti levava il naso all’insù con curiosità.

La piuma arrestò la propria salita a circa sei metri da terra. Rimase sospesa, come se fosse in attesa di poter colpire ancora. Il professor Fu la studiò con cura, però non osò avvicinarsi ad essa. Quest’ultimo particolare non sfuggì ad Adrien e Luka che, sfruttando i propri corpi, costrinsero gli altri ad indietreggiare. A differenza dei compagni, infatti, fu loro evidente la pericolosità di quell’oggetto che, sebbene così piccolo, gli sarebbe stato sicuramente letale.

«Dobbiamo sbarazzarci del vettore: è l’unico modo per liberare definitivamente i nostri amici spettri e per evitare che qualcun altro sia vittima della Maledizione Imperius.»

Il Preside levò il braccio che impugnava la bacchetta e la puntò contro la piuma di gufo. Tuttavia, prima di pronunciare qualsiasi incantesimo, tornò a rivolgersi ai suoi allievi. «Mi raccomando, ricordatelo per il futuro –mentre scandiva bene le parole il suo sguardo si posò stranamente su Adrien, Marinette e i loro amici- è fondamentale che il vettore sia distrutto. L’incolumità delle persone che amiamo dipende da questo e adesso… Finite Incantatem!»

Una scia di scintille dorate scaturì dalla punta della bacchetta e investì in pieno il vettore della maledizione. Quest’ultimo sembrò contorcersi a mezz’aria e, dopo alcuni istanti, si dissolse come fumo. La barriera, eretta da Fu, svanì allo stesso modo e i fantasmi riacquistarono il controllo dei loro corpi. Erano confusi e spaesati, non ricordavano nulla di quanto successo. Tuttavia, a differenza delle precedenti vittime non persero conoscenza: stavano inspiegabilmente bene.
 

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Capitolo 23
*** Capitolo XXII – Interferenze ***


Capitolo XXII - Interferenze

 
Il ritorno della maggior parte degli studenti di Hogwarts al termine delle vacanze natalizie non fu dei migliori. La notizia dell’aggressione da parte dei fantasmi della scuola si diffuse rapidamente, ben oltre i confini di Hogsmeade. Il Ministero della Magia, su pressione del Consiglio e di alcune famiglie, si decise ad aprire un’inchiesta. Ufficialmente l’obiettivo principale consisteva nell’individuazione del responsabile, ma la realtà si dimostrò parecchio diversa.

Invece di far luce su quegli inquietanti avvenimenti, la Commissione, presieduta da esponenti anziani del Wizengamot e della Conferenza Internazionale dei Maghi, preferì concentrarsi sul Preside e le sue possibili mancanze. Il professore fu messo sotto pressione, interrogato come il più viscido dei criminali. Lo stesso Consiglio d’Istituto approvò una mozione per mettere sotto stretto controllo il suo operato e nominò un “garante” che supervisionasse la situazione ad Hogwarts.

A discapito di ciò, Fu non parve esser preoccupato. Nonostante le proteste del suo corpo insegnanti, accettò di buon grado quelle interferenze asserendo che fossero per il bene dei suoi allievi. Non che fosse disposto a prendersi la colpa di quanto stesse accadendo, piuttosto sembrò soddisfatto della piega che stavano prendendo gli eventi. Era come se non stesse aspettando altro, che qualcuno dall’esterno arrivasse a mettere in dubbio le sue capacità.

I professori della scuola, non capendo cosa frullasse nella contorta e imperscrutabile mente del Preside, erano al contrario molto preoccupati. Consapevoli quanto il loro superiore e amico avesse da perdere, cercarono di dissuaderlo dal perseverare in quell’atteggiamento così accondiscendente. Dopotutto, Fu era una delle persone più stimate e influenti all’interno della comunità magica: avrebbe potuto far sparire quelle accuse infamanti con uno schiocco di dita.

Come Stregone Capo del Wizengamot e Presidente della Confederazione Internazionale dei Maghi, inoltre, sarebbe stato in grado di esercitare un notevole controllo sulla Commissione istituita dal Ministero. Eppure, lasciando sbigottita la totalità dei suoi estimatori, aveva preferito farsi da parte mettendo la parola “fine” a quelle polemiche. Di conseguenza, il dieci di gennaio, coadiuvato dalla professoressa Bustier sua vicepreside, si apprestò ad accogliere il garante inviato dal consiglio.

Adrien osservò l’arrivo di Nathalie, la fedelissima segretaria di suo padre, da una delle torri che affacciavano sull’ingresso della scuola. Era una giornata ventosa: la neve, prima di cadere al suolo, vorticava prepotentemente nell’aria. Le nuvole coprivano il freddo sole invernale conferendo a quel momento una nota di cupa tragedia. Il “Gorilla”, com’era solito chiamare la sua guardia del corpo, scortava la donna e, bacchetta alla mano, le faceva da scudo contro le intemperie.

Il ragazzo non poté sentire ciò che si dissero, ma dall’espressione tesa della Bustier capì quanto soffrisse la presenza di quell’intruso. Non la biasimò, anzi la comprese alla perfezione provando il suo stesso senso di insofferenza. La presenza di Nathalie significava una cosa sola: suo padre si stava muovendo contro il Preside. Del resto, avrebbe dovuto aspettarselo. In qualità di Presidente del Consiglio d’Istituto era lui a muovere le fila delle principali decisioni.

Tuttavia, non era solo la mancanza di fiducia nei confronti del professor Fu a renderlo furioso, ma soprattutto il fatto che cercasse di imporre il suo controllo anche su Hogwarts. Evidentemente, non gli bastava aver ai suoi piedi più della metà della Comunità Magica; no, aspirava ad altro, a molto di più. Per un istante quei pensieri maligni si impossessarono della mente di Adrien e lo portarono a provare un odio travolgente contro Gabriel, una rabbia mai percepita prima.

Gli ci volle un po’ per calmarsi, ma alla fine ci riuscì. Si diede dello stupido e dell’ingrato: suo padre stava solo cercando di proteggerli, di assicurarsi che lui e i suoi amici fossero al sicuro. Non voleva impossessarsi della scuola e di certo, pensandolo si morse a sangue le nocche della mano per il nervosismo, non aveva l’intenzione di estendere il controllo che aveva su di lui anche in quel luogo. Benché non fosse semplice, doveva fidarsi di Gabriel Agreste e del suo giudizio.

«A-Adrien…» una vocina tremula lo ridestò dai suoi pensieri e lo costrinse a voltarsi, «Tutto bene? Mi sembri provato… Comunque, perdona il mio ritardo: ho cercato di fare il più in fretta possibile.»

«Marinette! No, no tranquilla… ti stavo aspettando.»

«Sei pronto? Sicuro di volergli parlare proprio adesso? Magari è occupato.»

«Dobbiamo. Non avremo altre possibilità una volta che Nathalie inizierà a girare per Hogwarts» concluse, amaramente, il giovane chiedendosi se fosse giusto parlare a quel modo dell’assistente di suo padre.

Marinette non obiettò: aveva ragione, non potevano permettersi di tentennare. Con una naturalezza che sconvolse in primis se stessa afferrò la mano del ragazzo e, stringendosi al suo fianco, lo condusse via. Adrien divenne rosso come un peperone, ma non ebbe né il coraggio né la forza di staccarsi. Dalla notte di Capodanno non avevano più avuto l’occasione, e in fondo neanche la voglia, di ciò che sarebbe potuto succedere se non fossero arrivati i fantasmi.

Le loro labbra si sarebbero toccate e poi? Cosa sarebbe successo? Una miriade possibili scenari balenarono nella sua testa: forse lei avrebbe indietreggiato scioccata; oppure gli avrebbe mollato un ceffone per punire il suo ardore; o ancora avrebbe continuato ad abbracciarlo, mentre le bocche restavano appiccicate, incollate in una morsa di tenerezza e amore. Scosse il capo così forte che rischiò di sbattere contro una colonna. Non poteva permettersi alcuna distrazione.

Raggiunsero il più velocemente che poterono l’ingresso e la figlia del Signor Dupain per poco non cadde sugli ultimi gradine della scalinata principale. Fortunatamente, il suo compagno, che ancora la teneva sottobraccio, evitò il peggio. Il Preside, la Bustier, il Gorilla e Nathalie si trovavano fuori dalla Sala Grande, intenti a discutere animatamente sulle modalità e i tempi di quella “amministrazione controllata”. Tuttavia, l’arrivo dei due studenti li costrinse ad interrompersi.

«Voi cosa ci fate qui?! Non dovreste essere…» esclamò la professoressa di Difesa contro le Arti Oscure, ma non fece in tempo a finire che l’altra donna prese autoritariamente la parola. «A lezione! Signorino Agreste, non mi costringa a riferire a suo padre che trascura lo studio. Conosce bene le conseguenze di ciò!»

«Ciao Nathalie…» sibilò il ragazzo con un tono a metà tra il divertito e il rassegnato, mentre agitava la mano in segno di saluto verso la sua guardia del corpo che ricambiò con un grugnito di approvazione. «Oggi non avevamo lezione. La professoressa Bustier si riferiva all’incontro facoltativo, organizzato dal professor Césaire al limitare della Foresta Proibita, per mostrarci la nascita di alcuni unicorni.»

«Capisco, ma ciò non spiega il motivo della vostra presenza.»

«N-noi v-vorremmo parlare con il professor Fu» intervenne, imbarazzata, Marinette, la figura della segretaria di Gabriel Agreste la metteva stranamente in soggezione.
«Con me?!» cinguettò Fu sfoggiando uno dei suoi soliti sorrisi sornioni, come se sembrasse contento che qualcuno gli rivolgesse tutte quelle attenzioni. «Desiderate farlo adesso? Non si può aspettare?»

«Non si può!» esclamarono in coro i due stringendosi intorno alla figura dell’omino.

«Wang…»

«Caline, non preoccuparti. Accompagna i nostri ospiti nel mio ufficio, nel frattempo io scambierò quattro chiacchiere con il Signorino Agreste e la Signorina Dupain-Cheng.»

La professoressa Bustier chinò riverentemente la testa e fece ciò che le era stato detto. Nathalie e il Gorilla, seppur contro voglia, la seguirono in un corridoio laterale lasciando i ragazzi e Fu da soli. Quest’ultimo, quasi avesse dovuto conversare con amici di veccia data, si accomodò su una cassapanca in legno e, invitatili a fare lo stesso, attese in silenzio che gli fosse posta una qualsiasi domanda.

«Preside…» esordì Adrien incerto, la mano ancora intrecciata intorno al braccio di Marinette serrò la presa alla ricerca di un sostegno. «Noi ci chiedevamo se fosse il caso di restituirle le bacchette che ci aveva prestato. Adesso che Nathalie è a qui, a scuola, non sarà un problema chiederle di accompagnarci da Ollivander.»

«Se ci concedesse la possibilità di allontanarci da Hogwarts uno di questi sabati, saremmo di ritorno in serata. In fin dei conti il suo era solo un prestito, non vorremmo approfittarne. Queste bacchette hanno l’aria di essere molto antiche e preziose, in mano nostra sarebbero sprecate e…»

Il professore lasciò proseguire Marinette senza interromperla, ma la sua attenzione non era rivolta a ciò che stava dicendo. Piuttosto, preferì concentrarsi sul pallore del suo viso e le occhiaie che aveva sotto gli occhi. Si chiese da quanto tempo quegli incubi la stessero perseguitando e si maledisse per esserne stato in parte la causa. Aveva affidato ad entrambi un’enorme responsabilità e adesso il suo peso la stava schiacciando.

Sarebbe stato sul punto di cedere, se non avesse incrociato lo sguardo del figlio di Gabriel Agreste. Benché non fosse allegro e spensierato, era più che mai vivo, vigile. Un fuoco inconsapevole ardeva nel suo petto, infondeva calore e fiducia. Si disse che sarebbero stati al sicuro, che l’uno avrebbe fatto da spalla all’altra nei momenti di maggiore difficoltà. La missione era troppo importante e la rinuncia avrebbe portato inevitabilmente alla loro disfatta.

«…per questo dobbiamo restituirgliele!» concluse la figlia del Signor Dupain; estrasse la bacchetta dal manico tempestato di rubini e la porse al suo interlocutore. Adrien fece lo stesso con la sua dal profilo squadrato ed entrambi attesero che il Preside le prendesse dalle loro mani.

«Ditemi, avete notato comportamenti anomali mentre le usavate?»

«”Comportamenti anomali”?! No, perché?»

«Nessuno, non mi ha mai dato problemi…»

«Vi hanno servito bene durante le lezioni? Sono state in grado di aiutarvi quando avete dovuto salvare Juleka, Aurore e i fantasmi della scuola?»

I ragazzi si guardarono di sottecchi interrogandosi a vicenda su dove volesse andare a parare il professor Fu. Non riuscivano a capire il senso di quelle domande, o meglio non fino in fondo. Da quello che avevano potuto constatare, le bacchette funzionavano alla perfezione. Non avevano mai dato segni di resistenza, ciò significava che li avevano scelti come loro legittimi proprietari. Eppure, c’era un qualcosa che ad entrambi non tornava.

Ogni volta che si trovavano ad impugnarle per salvare i loro amici dagli attacchi del misterioso aggressore, avevano la sensazione di essere guidati. Era come se sapessero già cosa fare, in che modo agire nonostante non avessero mai avuto esperienze del genere. Dapprima, avevano creduto che queste inspiegabili conoscenze fossero insite in loro stessi, ma con il tempo avevano capito che dovevano essere in qualche modo legate ai nuclei delle bacchette.

«N-non… non ci hanno mai deluso» concluse il giovane Grifondoro serrando la presa sul manico e avvertendo nello stesso istante una piacevole sensazione di calore.
«E allora non c’è motivo che me le restituiate.»

«M-ma, non sono nostre. Appartengono a lei, non possiamo appropriarcene» replicò, ostinatamente, Marinette, nonostante in cuor suo provasse un grande dispiacere all’idea di separarsi dalla bacchetta.

«Allora facciamo così…» cantilenò il Preside mettendosi in piedi, ormai era evidente che per lui quel discorso fosse giunto al termine. «Dal momento che abbiamo ormai la certezza della loro scelta, io ve le regalo: sono vostre, per sempre. A dir la verità pensavo di essere stato abbastanza chiaro quella sera nel mio ufficio, ma forse non è stato così. Se lo desiderate posso firmarvi un documento in modo tale da non avere più dubbi.»

«È proprio sicuro? Sono così preziose…»

«Mai stato più sicuro in vita mia, Signorina Dupain-Cheng. E adesso, sebbene sia per me un piacere conversare con voi due, vogliate scusarmi: devo proprio andare.»

I ragazzi fecero per replicare ancora una volta, ma il professor Fu aveva già voltato loro le spalle e, agitando debolmente la mano in aria, si congedò da loro. I due rimasero seduti sulla panca in legno per diversi minuti. Non parlarono di quanto avvenuto, preferirono limitarsi ad osservare le bacchette nelle loro mani. Oltre che potenti, erano una gioia per gli occhi. Curate in ogni minimo dettaglio, risplendevano della luce del sole grazie ai gioielli incastonati al loro interno.

«Beh, a quanto pare sono nostre!» esclamò Adrien ad un certo punto, rompendo il silenzio venuto a crearsi. «Spero solo che mio padre non faccia storie quando la vedrà. Già lo sento lamentarsi: “Non si accettano bacchette dagli estranei, potrebbe essere pericoloso”.»

«Chissà… magari con questa bacchetta sarai in grado di superarlo. Forse già sei più potente di lui e nemmeno te ne rendi conto.»

«Non penso. Mister “Mago del Millennio” sarebbe capace di sconfiggere cento Auror con una stecca di bambù, che sicuramente avrà rubato ad un panda per dispetto.»

Entrambi scoppiarono a ridere. Gli ci volle poco per scacciare via quei brutti pensieri e lo scambio di battute avuto con il Preside. Era la seconda volta in pochi mesi che si trovavano a scherzare da soli su una cassapanca. Il giorno di Halloween furono però interrotti dall’arrivo di Alya e Nino; invece adesso, si convinse il giovane Agreste, non vi sarebbe stato nessuno a disturbarli. Avrebbero potuto finalmente parlare in tranquillità e chiarirsi.

«Devo andare!» trillò, improvvisamente, Marinette e la sua voce assunse la forma del suono di una sveglia che svegliò prepotentemente il suo compagno dal proprio dolce sogno.

«D-d-dove?! Mi sono perso qualcosa?»

«Ho un appuntamento con la professoressa Morozov alle undici e trenta. Mancano solo pochi minuti, mi aspetta nel suo ufficio.»

«Ma non è quella che insegna Rune Antiche?» le domandò Adrien, un’espressione inebetita stampata sul suo volto deluso. «Lo sai che non studieremo quella materia fino al terzo anno, vero? Non dirmi che ti stai portando avanti: sarebbe da pazzi e secchioni!»

«Si tratta di un… di un progetto personale. Top secret, non posso dirti ancora nulla.»

«D’accordo, ma non metterti troppo sotto pressione. Abbiamo già tante lezioni, non serve a nulla aggiungere altro “carico”.»

«Sta tranquillo, non lo farò» concluse, allegramente, Marinette e nel dire ciò, quasi la trovasse l’azione più naturale del mondo, gli schioccò un bacio sulla guancia. Tuttavia, resasi conto dell’accaduto, si pentì immediatamente del gesto troppo ardito e, carica di vergogna, scappò via verso i sotterranei. Il figlio di Gabriel Agreste, al contrario, rimase imbambolato: scioccato per quanto accaduto, non riuscì ad articolare alcun pensiero di senso compiuto per ben dieci minuti.

Una volta ripresosi, non sapendo cos’altro fare dal momento che tutti i suoi amici si trovavano al limitare della Foresta Proibita, iniziò a vagabondare per il castello senza una meta precisa. Ormai conosceva la struttura a menadito: da quando vi aveva messo piede, infatti, le sue ispezioni solitarie erano diventate una sorta di abitudine. Non era una persona che amava la solitudine, ma nei momenti di maggior sconforto il silenzio di Hogwarts si era dimostrato un prezioso alleato.

Raggiunse la biblioteca, era deserta. Dal suo interno proveniva soltanto il rumore del timbro con cui la Signora Schmidt marchiava i libri della scuola. Camminando a passo felpato per evitare di essere rimproverato, superò l’ingresso e si diresse ad uno degli arazzi che coprivano la parete opposta. Senza farsi vedere (non che ve ne fosse motivo), scostò il velo di stoffa, raffigurante un cavaliere dalla cui armatura usciva un denso fumo grigio, e con la bacchetta sfiorò il muro.

I mattoni svanirono nel nulla rivelando una stretta scala a chiocciola. Salì i gradini con qualche difficoltà: nonostante avesse percorso quel passaggio segreto già diverse volte, non era stato in grado di abituarsi a quel luogo così claustrofobico. Da una sottile fessura nella parete ammirò il Lago Nero. Era ancora ghiacciato, ma sotto la lastra di ghiaccio riconobbe l’inconfondibile profilo della piovra gigante.

Un brivido gli corse lungo la schiena, però non seppe dire se dipendesse dagli spifferi o da ciò che aveva appena visto. Si ritrovò in un’aula ammuffita, abbandonata da secoli. Nei maggiori momenti di tristezza e angoscia si era rivelata un rifugio sicuro e accogliente, dove nessuno l’avrebbe disturbato. Nell’oscurità cercò il logoro divanetto sul quale era solito distendersi, ma un qualcosa di nuovo attirò la sua attenzione. Posto al centro della stanza vi era infatti un grande specchio.

Si avvicinò e, non appena ne restituì il proprio riflesso, le parole gli morirono in gola. «Mamma?!»
 

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Capitolo 24
*** Capitolo XXIII – Lo Specchio delle Brame ***


Capitolo XXIII - Lo Specchio delle Brame

 
Una donna bionda sulla quarantina, dagli occhi color verde smeraldo, gli rivolse un dolce sorriso. Era vestita con un elegante completo bianco, abbellito da una spilla a forma di orchidea. Al suo fianco, stretto in un abbraccio, vi era Adrien, o meglio il suo riflesso. Nonostante fosse ricoperto di polvere e sporcizia, il suo viso non era mai stato così radioso. Per la prima volta dopo tanto tempo si rivide felice e spensierato, come se i mali di una vita fossero scomparsi nel nulla.

Ad un tratto, alle spalle dei due altre figure iniziarono a muoversi. Nulla più che ombre sbiadite, impiegarono alcuni minuti per guadagnare consistenza. Fu così che sulla spalla sinistra del ragazzo si posò delicatamente la mano del padre. Gabriel sfoggiava un’espressione amorevole, i tratti del suo volto erano ringiovaniti di almeno trent’anni. Dietro di lui un giovane, dall’aspetto molto simile ad Adrien ma più austero, lo osservava divertito e gli di tanto in tanto gli faceva l’occhiolino.

Man mano che i minuti passavano, altre persone si affacciarono dalla cornice in legno. Riconobbe i suoi nonni paterni, che gli rivolgevano sguardi calorosi, e degli zii di cui aveva visto solo le fotografie. La sua famiglia, o almeno così credeva anche se non aveva riconosciuto alcuni di loro, era tutta lì, in quello specchio. Ebbe più volte l’impulso di voltarsi per accertarsi che quei riflessi fossero veri e non soltanto il frutto della sua immaginazione.

Non trovò nessuno dietro di lui, eppure quei personaggi erano così reali. Barcollò verso l’oggetto tendendo il braccio destro in avanti; il suo doppio fece lo stesso ammiccandogli. Sfiorò la superfice opalescente con le dita, mentre il pendente che aveva al collo fu attraversato da un violento tremito. Si sforzò di ignorarlo: aveva il timore che, distogliendo la propria attenzione anche solo per un’istante dai suoi familiari, questi potessero svanire nel nulla.

«M-m-mamma?» sussurrò il giovane Agreste al riflesso di sua madre, che gli rispose chinando il capo in segno di assenso. «P-papà, siete proprio voi?»

Anche il Gabriel all’interno della cornice accennò un “sì” con il movimento della testa e abbozzò un sorriso comprensivo. Fu la goccia che fece traboccare il vaso; non capendo cosa stesse accadendo, si lasciò cadere sulle ginocchia e cominciò a piangere. Sua madre era morta da molti anni ormai e non sarebbe in alcun modo potuta tornare. Ma allora perché si trovava in quello specchio? Perché era lì, difronte a lui, e abbracciava amorevolmente il suo stesso riflesso.

Cercò di toccarla, di superare quella superfice cristallina che li divideva. Fu tutto inutile. Non poteva ricongiungersi con lei; non poteva bearsi dell’amore dei suoi genitori e dei suoi familiari che per troppo tempo gli era stato negato. Come se non bastasse il ciondolo di smeraldo non la smetteva di dargli fastidio. Un urlo spezzato, lontano più nel tempo che nello spazio, gli riecheggiò nella testa e lo accompagnò nella sua discesa verso l’oblio.

Era ormai sera quando si risvegliò. Disteso ai piedi di sostegno dello specchio, ebbe qualche difficoltà a ridestarsi dal torpore. Gli occhi erano rossi e gli bruciavano, segno che aveva continuato a piangere. I capelli arruffati e la divisa stropicciata gli comunicarono indirettamente che il suo non era stato un sonno tranquillo. Si tastò un po’ più giù della gola avvertendo un forte bruciore. La pelle era arrossata e il pendente emanava ancora calore.

Se lo strappò via con forza e, dopo averlo osservato per un’ultima volta, lo cacciò nella tasca dei pantaloni. Si diede dello stupido per essersi fidato di quel gioiello e della persona che gliel’aveva regalato. Del resto con un pazzo in circolazione, che non aspettava altro l’occasione per attaccare gli studenti, avrebbe dovuto immaginarlo. Quel ciondolo era strano, lo aveva capito fin dal primo momento ma aveva preferito fare finta di nulla.

Non si biasimò per quella scelta. Pensava di avere tra le mani l’ultimo ricordo tangibile di sua madre, un dono prezioso che lo legava a lei. Evidentemente, l’aggressore misterioso aveva sperato proprio questo, nella sua ingenuità. Del resto, si disse, come avrebbe potuto essere veritiera quella vecchia foto? Risaliva a quasi duecento anni prima ed era certo che sua mamma non fosse così vecchia. Cacciò quell’immagine dalla sua testa e si maledisse per una seconda volta.

L’aria, proveniente dalla stretta fessura nella parete, gli frustava il viso arrossato. Si poggiò al corrimano in pietra della scala a chiocciola, era esausto. Prima di lasciare l’aula diede un’ultima occhiata allo specchio. Il suo riflesso, circondato dalle altre ombre dei suoi familiari, sorrideva divertito agitando la mano in segno di saluto. Ricambiò istintivamente il gesto, senza sapere se il suo doppio potesse vederlo o meno.

Non aveva più bisogno del pendente di smeraldo. Emilie e Gabriel erano proprio lì, davanti ai suoi occhi. Il ricordo di tempi felici non glieli avrebbe mai potuti restituire, ma forse “lui” ci sarebbe riuscito. Erano troppo veri per non sperarlo; magari non stavano aspettando altro che lui li raggiungesse oltre il vetro. Sebbene controvoglia, percorse a ritroso il passaggio segreto sbucando di nuovo di nuovo davanti la biblioteca, ormai chiusa.

Quella sera saltò la cena, non aveva molta voglia di mangiare. Ritornò al proprio dormitorio e, chiuse le tende del suo letto a baldacchino, lasciò che la visione della sua famiglia, finalmente felice e riunita, lo cullasse verso il mondo dei sogni. Nel frattempo il ciondolo, che ancora si trovava nella tasca dei suoi pantaloni, brillò intensamente. Il suo bagliore avvolse da capo a piedi il ragazzo, mentre una luminosa figura umana si chinò su di lui baciandolo sulla fronte.

Per tutto il mese Adrien non perse occasione per tornare nell’aula nascosta. Le visite allo specchio si fecero sempre più numerose man mano che il bisogno di vedere i propri genitori cresceva dentro di lui. Loro erano sempre lì, nella cornice di legno pronti ad aspettarlo e a trascorrere dei momenti insieme a lui. Ossessionato dal desiderio di poterli rivedere tutti insieme, iniziò a trascurare lo studio, gli allenamenti di Quidditch con Nora e i suoi amici.

«Si può sapere dove sei stato ieri pomeriggio?!»

«C-cosa? Di che stai parlando Kim?»

«Avevi promesso di darmi ripetizioni di pozioni» esclamò, offeso, il suo compagno di Casa, mentre si apprestava ad uscire dall’aula di Incantesimi al termine della lezione seguita insieme ai Corvonero. «Per colpa tua la Mendeleiev mi ha messo T (troll) al compito di stamane!»

«M-m-mi dispiace, me ne ero dimenticato…» si scusò il giovane Agreste, sinceramente mortificato per l’accaduto.

«Ascolta, io… io sono preoccupato per te.»

La frase suonò strana ad entrambi. Dopotutto, Kim non era certo il tipo di persona che aveva l’abitudine di esternare i propri sentimenti. Dotato della sfera emotiva di un bradipo, faceva spesso difficoltà a “capire” lo stato d’animo altrui. Eppure, aveva intuito che il suo amico non se la stava passando bene e che qualsiasi cosa gli fosse successa, non avrebbe fatto altro che peggiorare con il passare del tempo.

«Siamo preoccupati per te» gli fece eco Max, seguito da Nathaniel e Marc. «Sei distratto e svogliato. Il tuo rendimento, seppur ancora eccellente, è calato del 5%. Di questo passo tra sei anni potresti rimediare una O (oltre ogni previsione) al posto della solita E (eccezionale).»

«Sto bene, tranquilli. Anzi non sono stato mai meglio in vita mia.»

«Sarà, ma noi non siamo gli unici a pensarlo…» concluse, tristemente, Kim dandogli una pacca sulla spalla e indicandogli un angolo dell’aula.

Marinette, Juleka e Alya, intente a rimettere a posto i loro libri di incantesimi, cercavano di guardare nella sua direzione senza che lui se ne accorgesse. Tuttavia, non appena posò i suoi occhi su di loro, le tre corsero via per il corridoio. Anche i ragazzi, dopo averlo salutato, si incamminarono alla volta della Sala Grande. A breve sui tavoli delle quattro Case sarebbero comparsi piatti e zuppiere stracolmi di cibo, ma Adrien non aveva granché fame.

Fino a quel momento non aveva minimamente pensato alle conseguenze delle proprie azioni. Avrebbe dovuto immaginarlo che il suo continuo assentarsi, durante le ore libere o i pasti, potesse mettere in agitazione i suoi amici. Del resto però non se l’era sentita di raccontare loro la verità. No che non si fidasse, di questo ne era certo, piuttosto aveva iniziato a considerare lo specchio una sua proprietà; un oggetto di cui soltanto lui fosse a conoscenza.

Si mangiucchiò nervosamente l’unghia del pollice. Adesso che aveva scoperto la verità, non poteva ignorare le preoccupazioni dei compagni. Sarebbe stato ingiusto da parte sua e, forse, anche pericoloso. L’aver indossato all’insaputa degli altri il pendente, che da quella fatidica notte giaceva sul fondo del suo baule, si era rivelato un gravissimo errore. Possibile che le sue fughe lo mettessero in pericolo o lo rendessero più vulnerabile ad un attacco?

Concentrato su quello e altri mille pensieri, si mosse in direzione del Cortile di Trasfigurazione. Non era la strada più rapida per la Torre di Grifondoro, ma di sicuro la più tranquilla. Temeva che altri suoi conoscenti potessero fermarlo e fargli lo stesso discorso. Di conseguenza, la vista di Luka e Nino, intenti a scambiarsi le figurine delle Cioccorane, lo lasciò a bocca aperta. Il karma aveva deciso di prendersela con lui quel giorno.

«Ohi, amico!» esclamò, all’improvviso, Nino accorgendosi della sua presenza nel portico.

«E-ehi… come mai siete qui?» biascicò il giovane Agreste con un filo di voce, «Pensavo foste già andati a pranzo.»

«Ti stavamo aspettando. Lei è una persona abitudinaria, Mister Agreste. Non è la prima volta che prendi questa “scorciatoia” per sfuggirci. Così io e Nino abbiamo deciso di anticiparti… lo scambio di figurine non faceva parte del piano, ma cerco quel maledetto Nicholas Flamel da troppo tempo.»

Adrien rimase colpito da quelle parole. Non gli era mai capitato nulla del genere: i suoi amici tenevano a lui al punto tale da organizzare dei veri e propri agguati. Nonostante il suo piano fosse fallito, fu grato di averli incontrati. Prima ancora che i due potessero aggiungere qualsiasi cosa, disse senza pensarci troppo: «Già so cosa volete dirmi, non serve che me lo ripetiate. Vediamoci questa sera alle ventitré fuori la biblioteca, vi spiegherò tutto.»

«Cos…» tentò di replicare il fratello di Juleka, ma il compagno si era dileguato. «Credo non abbiamo altra scelta, dobbiamo infrangere il coprifuoco.»

«Tanto se ci beccano la mia media non ne risentirà: peggio di com’è ora non può andare» concluse il giovane Lahiffe, mentre accarezzava delicatamente il volto di un Newt Scamander piuttosto seccato.

Muoversi di notte tra i corridoi di Hogwarts non era affatto facile. Non solo la scarsa illuminazione, pretesa dai personaggi dei quadri che altrimenti non sarebbero riusciti a dormire, rendeva impossibile distinguere forme e colori ad un palmo del proprio naso; ma vi era anche il concreto rischio di essere sorpresi da qualcuno. Ad orari ben precisi, infatti, il Signor Haprèle e gli insegnanti pattugliavano i corridoi alla ricerca di eventuali irregolarità.

Dall’inizio dell’anno, a causa dei misteriosi attacchi ai danni degli studenti, la sorveglianza si era fatta anche più stringente. Di conseguenza, per Nino e Luka fu davvero molto difficile lasciare il proprio dormitorio, il cui ingresso era situato nei pressi delle cucine, e raggiungere la biblioteca quattro piani più su. Adrien era invece abituato a quelle fughe notturne e non ebbe problemi a sgattaiolare fino al luogo dell’appuntamento.

I tre si incontrarono davanti l’arazzo che nascondeva il passaggio segreto. Facendo segno ai suoi amici di fare silenzio e di seguirlo, il giovane Agreste scostò il velo di stoffa e con la bacchetta fece dissolvere la parete di mattoni. I ragazzi, benché stupito da quanto fosse appena accaduto, si arrampicarono dietro di lui sulla scala a chiocciola. Avvolti nelle loro vestaglie da notte, cercarono di resistere ai gelidi spifferi, finché non si trovarono nell’aula segreta.

«C-che… che cos’è questo posto?»

«Una vecchia aula ormai in disuso.»

«È qui che vieni, quando… quando…»

«Quando voglio restare solo, sì è esatto» concluse Adrien prima che Luka riuscisse a trovare le parole giuste per finire la frase. «Ma non vi ho portato qui per dirvi questo. Devo mostrarvi una cosa, quella cosa…»

Il figlio di Gabriel Agreste indicò con mano tremante lo specchio posto al centro della stanza. Nino e il suo compagno, che fino a quel momento non si erano minimamente accorti della presenza dell’oggetto, gli si avvicinarono cautamente. Ne scrutarono la superficie opaca, macchiata dallo sporco e dall’usura; osservarono attentamente la cornice di legno, scheggiata e graffiata in più punti. Adrien rimase dietro di loro in silenzio, ma dentro di sé sentiva le budella attorcigliarsi.

«C’è scritto “Specchio delle Brame”, ma non ne ho mai sentito parlare.»

«Nemmeno io…» gli fece eco Luka, mentre gli si avvicinava ulteriormente per studiarlo meglio.

«V-voi… v-voi cosa ci vedete?» esclamò il giovane Grifondoro non riuscendo più a trattenersi, «Intendo nel vetro. Ecco… oltre al vostro riflesso, la vedete anche voi? Una donna bionda, vestita di bianco.»

I due lo guardarono esterrefatti. Quello era un semplicissimo specchio, certamente antico e di valore, ma pur sempre un qualcosa di comune. Come avrebbe potuto restituire l’immagine di una persona che non era lì con loro? Il luccichio speranzoso nello sguardo dell’amico, però, li fece desistere dal negargli almeno un tentativo. Seppur poco convinti, si posizionarono nuovamente davanti al vetro per accontentarlo e attesero che qualcosa di insolito accadesse.

Non trascorse molto tempo prima che i due Tassorosso sussultassero per lo spavento. Il fratello di Juleka non riusciva a crederci. Si girò di scatto, come se volesse assicurarsi della presenza o meno di una persona alle sue spalle. Trovò solo Adrien, ma il riflesso che vedeva nello specchio non era il suo. Sbigottito da quanto stesse accadendo, tornò a concentrarsi sull’immagine che aveva dinanzi. «No… non può essere vero. Da dove salta fuori?!»

«È la donna bionda?! Mia madre, vero?»

«E-ecco… io… io vedo una bionda, ma non penso si tratti della stessa persona» bofonchiò Luka con la voce velata dall’imbarazzo, mentre all’interno della cornice la figura della piccola Bourgeois lo abbracciava da dietro e gli baciava delicatamente il collo.

«E tu, Nino?! Tu… tu la vedi, non è così. Ti prego dimmi di sì!» esclamò, allarmato, Adrien mettendosi di fianco al suo migliore amico e afferrandolo per un braccio.

Quest’ultimo si strinse nelle spalle e, tiratosi sulla fronte l’iconico berretto, cercò di nascondere il rossore che campeggiava sul viso. Distolse immediatamente lo sguardo dallo specchio preferendo concentrarsi sulla punta delle proprie pantofole. Il suo riflesso che amoreggiava con un’Alya in intimo, mentre fuochi d’artificio magici esplodevano silenziosi, era stato un duro colpo. Avrebbe tanto desiderato continuare ad osservarlo, ma la sua maledetta coscienza gli urlava di non farlo.

«Pensate che ci mostri il futuro?»

«Ma Luka non è possibile. Mia madre è morta da tempo ormai.»

«Non so che dirti…» sentenziò l’altro sforzandosi di ignorare l’esile figura di Chloé che gli arruffava i capelli, «C’è qualcosa di strano in questo coso. Non mi piace!»

«Sono d’accordo!» trillò il giovane Lahiffe con quel po’ di coraggio e dignità che gli erano rimasti.

«P-pensate possa essere “malvagio”?» balbettò il figlio di Gabriel Agreste temendo la risposta che i suoi amici gli avrebbero dato.

Questi, però, preferirono glissare sulla domanda limitandosi ad un gesto sconsolato del capo. Non pensavano affatto che quell’oggetto magico fosse oscuro, o intriso di una qualche maledizione. Eppure, ogni volta che guardavano verso di lui, avevano la spiacevole sensazione che stessero commettendo un errore. Era come sé l’atto del vedere ciò che lo specchio mostrasse fosse profondamente sbagliato, quasi un peccato contro l’ordine stesso delle cose.

Adrien interpretò non riuscì a comprendere il significato di quel loro silenzio. A differenza dei suoi compagni, non era in grado di provare quel senso di disagio. Per lui lo Specchio delle Brame rappresentava l’unico modo di rivivere l’amore della propria famiglia, di rivivere la gioia data dalla presenza di sua madre. Non vi avrebbe rinunciato per niente al mondo, anche se avesse dovuto significare il guadagnarsi il disprezzo dei propri amici.

Una volta conosciuto il “segreto” del loro compagno, Nino e Luka preferirono tornare nel loro dormitorio. Il trovarsi in quell’aula li metteva a disagio Al contrario il giovane Agreste, nonostante la disapprovazione degli altri due, decise di trattenersi ancora un po’. Ormai si era assuefatto al potere dello specchio e ne era inconsapevolmente diventato dipendente.
 

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Capitolo 25
*** Capitolo XXIV – Nathalie Sancoeur ***


Capitolo XXIV - Nathalie Sancoeur

 
Trascorsero altre due settimane, durante le quali Adrien non perse occasione di far visita allo Specchio delle Brame. Allontanatosi completamente dai suoi amici, che seppur preoccupati non avevano il coraggio di affrontarlo apertamente, si era ritrovato incastrato in un circolo vizioso. Più il numero delle sue visite all’aula segreta aumentava e più soffriva per l’impossibilità di poter toccare o parlare con i propri cari.

Nemmeno le aspre critiche di Katami e Anansi, volte a dargli uno scossone piuttosto che a ferirlo nei sentimenti, avevano sortito effetto. Il ragazzo si era totalmente disinteressato del Quidditch o di qualunque altra cosa che non avesse a che fare con quell’oggetto magico. Soltanto Marinette e Chloé, la prima per la sua incrollabile determinazione mentre la seconda per la sua sfacciataggine, riuscivano ancora ad avere un dialogo con lui.

Il giovane Agreste, però, diventava sempre più restio a confidarsi con loro. Temeva che, proprio come avevano fatto Nino e Luka, anche loro lo mettessero in guardia dai poteri dello specchio. Eventualità che, a prescindere da quanto lui la ritenesse plausibile, sarebbe stata ben lontana dall’avverarsi. I due Tassorosso, infatti, non avevano rivelato a nessuno il motivo delle sue continue sparizioni e, benché se ne pentissero ogni giorno, sapevano fosse la cosa giusta da fare.

La sera del tredici febbraio, mentre la maggior parte degli studenti di Hogwarts si stava preparando per festeggiare al meglio San Valentino, Adrien ne approfittò per sgattaiolare fuori dal proprio letto e raggiungere la biblioteca. Fortunatamente Ivan, Kim e i suoi altri due compagni di stanza erano troppo impegnati nello scrivere biglietti e poesie d’amore per accorgersi della sua fuga. Arrivato al terzo piano , evitò per un soffio l’antipatico Theo Bardot, Prefetto Serpeverde.

Nascosto dietro un’armatura, attese che il ragazzo del settimo anno si allontanasse per poi poter riprendere la sua fuga. Quando gli passò dinanzi, però, si rese conto che il giovane non era solo. Accoccolata al suo braccio, vi era Mireille alla quale rivolgeva parole d’amore e d’affetto. Il figlio di Gabriel Agreste non riuscì a trattenere una smorfia di disgusto: come poteva una persona dolce e generosa come lei provare un sentimento tanto nobile per uno come lui?

Chiedendosi se avesse fatto bene o meno a dire a Mireille che Theo ci aveva provato con quasi mezza scuola dall’inizio dell’anno, Marinette inclusa, si diresse alla biblioteca della scuola. Come al solito l’ingresso a quell’ora di notte era deserto. In punta di piedi, per evitare di fare troppo rumore, raggiunse l’aula segreta e senza perdere altro tempo si sedette davanti lo specchio. Sua madre e suo padre lo salutarono con un debole gesto della mano e lui fece lo stesso.

Trascorse parecchi minuti a contemplare il proprio riflesso e quello dei suoi genitori. Questa volta Emilie e Gabriel erano stretti l’uno a l’altra, mentre lui era comodamente adagiato alla schiena di un secondo ragazzo biondo. Si beò di quell’immagine finché uno scricchiolio proveniente dalla scala a chiocciola non lo richiamò sull’attenti. Scattò in piedi e, sfoderata la bacchetta dalla tasca della vestaglia, la puntò contro l’ingresso della stanza. «Chi c’è là?! Fatti vedere!»

«Abbassa la bacchetta, Adrien. Non vorrai che qualcuno si faccia male, vero?»

«Nathalie!» esclamò, sorpreso, il ragazzo che riconobbe immediatamente la voce della donna. «Cosa ci fai qui? Come hai fatto a trovarmi?!»

«Diciamo che ho i miei metodi…» schioccò la segretaria di suo padre con tono gelido, mentre batteva su degli ingialliti fogli di pergamena che portava nella vestaglia da notte.

«Ti ha chiesto papà di pedinarmi?!»

«Non proprio. È stata più una conseguenza della mia presenza qui, ad Hogwarts.»

Adrien provò un improvviso moto di rabbia e indignazione. Nonostante Nathalie gli avesse appena garantito che il suo compito non era quello di seguirlo, fece molta fatica a crederle. Gabriel Agreste non era certo la persona che lasciasse “al caso” determinati aspetti della sua vita e suo figlio, per quanto stentasse lui stesso a crederlo, rientrava tra di essi. Quindi la presenza della sua segretaria in quell’aula non poteva di certo essere una mera coincidenza.

Distolse lo sguardo dagli occhi indagatori della donna: gli aveva sempre dato l’impressione che attraverso di essi fosse in grado di leggere la mente e l’animo delle persone. Tornò ad osservare lo specchio, i lineamenti fini ed eleganti di sua madre. Gli stessi che aveva visto nei ritratti di famiglia e nella vecchia foto che si era ritrovato a Natale. Scosse violentemente la testa, doveva calmarsi. La sua permanenza ad Hogwarts dipendeva da questo. «Perché… perché sei qui?!»

«Erano settimane che ti tenevo d’occhio, mentre gironzolavi per il castello. Non è da te comportarti in maniera così assente e sconsiderata.»

«Si vede che ho preso da papà!»

«Gabriel…» il dire ad alta voce il nome del suo datore di lavoro la fece rabbrividire, non aveva mai osato così tanto. «Voglio dire, il Signor Agreste, a seguito delle mie segnalazioni, ha ritenuto opportuno che io scoprissi cosa tu stessi facendo. Per questo ho deciso di attraversare il passaggio segreto dietro l’arazzo.»

Adrien tornò a fissarla, ma questa volta fu più che mai deciso a non lasciarsi intimorire. La donna, scostandosi il ciuffo rosso che campeggiava sulla sua lunga chioma nera, sostenne con decisione quegli smeraldi che luccicavano di vitalità e ardore. Si avvicinò a lui, quasi volesse carpirgli un qualcosa che nemmeno lui sapeva di possedere. Il ragazzo non indietreggiò, rimase però colpito dal fatto che i passi dell’altra non producessero alcun rumore: sembrava fluttuasse.

«Quindi, è tua madre che vedi al suo interno» sibilò, all’improvviso, Nathalie in maniera sprezzante, quasi disgustata, lasciando di stucco il giovane Grifondoro.

«Non credo siano affari tuoi!»

«Al contrario, io penso di sì. Tuo padre e gli altri membri del Consiglio di Istituto mi hanno incaricato di supervisionare sulla sicurezza di voi studenti e tu non fai eccezione. Adesso spostati che devo esaminarlo meglio.»

«No!» ringhiò Adrien piantandosi davanti lo specchio e allargando le braccia, «È una questione che riguarda me, tu non hai il diritto.»      

La segretaria di Gabriel Agreste, a differenza del figlio di quest’ultimo, non aveva alcun interesse nel protrarre la discussione. Ancora prima che Adrien potesse accorgersene, Nathalie aveva già agguantato la propria bacchetta e, limitandosi ad uno svogliato gesto del braccio, lo aveva costretto a spostarsi. Senza che vi fosse altro a bloccarle la vista, si stagliò contro il vetro opaco dello Specchio delle Brame preparandosi ad esaminare attentamente ciò che le avrebbe mostrato.

Per una manciata di secondi la Signorina Sancoeur non vide altro che la propria immagine, finché due sfere luminose non fluttuarono accanto a lei all’interno della cornice. Pian piano le ombre assunsero dei contorni maggiormente definiti. Un uomo, poco più alto di lei, le rivolgeva un tenero saluto. Tra le mani stringeva una rosa blu e la porgeva ad un’imbarazzatissima Nathalie che l’accettava con malcelata gioia.

Il viso della donna divenne improvvisamente pallido, quasi il sangue si rifiutasse di convogliare alla testa. La stanza intorno a lei iniziò a vorticare, sentiva il pavimento sotto i suoi piedi venirle meno. Si disse che non poteva essere vero, ciò che stava accadendo non aveva alcun senso. Sbatté le palpebre per cancellare quella scena dalla sua mente sperando nel profondo che sparisse anche nella realtà. Il Signor Agreste non si sarebbe mai comportato in maniera così inappropriata.

«N-Nathalie… ti senti bene?» balbettò, impaurito, Adrien.

«I-io… io…» cercò di rispondergli l’altra, ma lo specchio catturò nuovamente la sua attenzione mostrandole un qualcosa di nuovo. Questa volta Gabriel era inspiegabilmente a petto nudo e, posizionatosi dietro di lei, le massaggiava dolcemente le spalle infossando il suo naso nei capelli corvini per apprezzarne l’aroma. La donna si passò istintivamente la mano dietro la nuca, ma non afferrò nulla.

Le mani del suo principale scesero lungo i fianchi e la cinsero all’altezza del ventre. L’espressione di Nathalie era attonita, paralizzata dallo sgomento da ciò che si rifletteva nel riflesso dinanzi a lei. Non riusciva a capire cosa significassero quelle immagini, né il motivo che spingesse lo Specchio delle Brame a mostrargliele. Era certa che non si trattasse di visioni del futuro, altrimenti il ragazzo non avrebbe mai potuto rivedere sua madre. Ma allora cos’era?

Ebbe la sgradevole sensazione di conoscere la risposta. Per quanto avesse cercato di convincersi che non fosse accaduto sul serio, nel suo privato aveva già vissuto quella situazione. Si trattava di un desiderio intimo e personale che aveva celato persino a se stessa. Quell’oggetto non poteva assolutamente esserne a conoscenza, non era giusto che lo sapesse. Come se non bastasse, la costringeva a rivivere un qualcosa alla quale lei stessa aveva faticosamente rinunciato.

Gabriel Agreste era il suo capo, la persona che più ammirava e rispettava. Non aveva il diritto di pensare a lui in quel modo e, soprattutto, di interferire con la sua volontà di riunire finalmente la famiglia che tanto amava. Avevano un piano da portare a termine: era folle e crudele, ma lei avrebbe fatto di tutto per vederlo felice. Dopotutto, si disse, l’amore è anche questo. Il volere il bene della persona amata a prescindere dal nostro.

Nello stesso istante in cui formulò quel pensiero, il riflesso cambiò nuovamente o almeno tentò di farlo. La sua figura e quella di Gabriel non solo tornarono ad essere sfocate, ma diedero anche l’impressione di sdoppiarsi. La scena si era magicamente divisa in due. Da un lato forme multicolori si scambiavano baci e carezze appassionati; dall’altro una Nathalie, non meglio definita, era stata relegata sullo sfondo, mentre quattro persone si stringevano in un abbraccio.

Gli occhi della Signorina Sancoeur si riempirono di lacrime. Si portò una mano all’altezza del cuore e iniziò a respirare affannosamente. La testa le scoppiava di dolore, si sentiva di svenire Cosa le stava accadendo? Adrien, spaventato dalla piega che stavano assumendo gli eventi, corse al suo fianco e la sorresse tra le sue braccia. Intanto all’interno della cornice lignea forme e colori continuavano a formarsi e disfarsi, finché il vetro non si crepò con un sonoro “crack” e tutto svanì.

«C-cosa… cosa diamine gli è successo?!» mugugnò il figlio di Gabriel Agreste, mentre cercava di tenere in piedi una Nathalie ormai esausta. «Perché si è crepato? Non era mai successo, prima di adesso. Cosa hai visto? Nathalie, Nathalie… per favore rispondimi!»

«Si riprenderà presto, non devi preoccuparti» cantilenò con voce rassicurante un omino ammantato in una pesante vestaglia di lana scozzese.

«Preside Fu!» esclamò il ragazzo saettando con lo sguardo verso la sommità della scala a chiocciola, «Come ha fatto a trovarci?!»

«Signorino Agreste, lei dimentica che sono io a dirigere questa scuola: sarei uno sprovveduto se non sapessi cosa accade al suo interno.»

«Giusto…»

Il professore gli rispose con un occhiolino di complicità. Si avvicinò ai due, i bordi della lunga veste producevano un debole fruscio sul pavimento in pietra. Trovatosi faccia a faccia con il suo allievo, chinò appena la testa sul volto rilassato di Nathalie che giaceva immobile a terra. Adrien era in apprensione per la donna: non riusciva a capacitarsi di quello che fosse accaduto, ma ,nonostante ciò, se ne sentiva responsabile. Le accarezzò la fronte sperando si riprendesse al più presto.

«È solo svenuta, starà bene» sibilò Fu con un filo di voce quasi avesse temuto di svegliarla, «Dopotutto, non è impresa facile resistere al potere dello “Specchio delle Brame”.»

«Lei… lei conosce quello specchio? Sa come funziona?!»

L’espressione sul viso del Preside mutò improvvisamente. Si fece indispettita e contrariata; Adrien ebbe la spiacevole sensazione di avergli posto, per la prima volta da quando si trovava ad Hogwarts, la domanda sbagliata. Intanto, il vetro dell’oggetto, dapprima spaccatosi a metà, si stava pian piano rimarginando. La cosa non sfuggì a Fu che, muovendosi con circospezione e facendo molta attenzione a non imprimere il proprio riflesso nella cornice, gli si avvicinò

Lo esaminò con cura maniacale. Ne accarezzò svogliatamente la superficie lignea, evitando che il contatto tra la sua mano e l’oggetto durasse più a lungo del dovuto. Gli girò intorno per un paio di volte; poi estrasse la bacchetta e prese a sillabare parole incomprensibili descrivendo contemporaneamente ampi gesti con le braccia. Il figlio di Gabriel Agreste lo scrutava da lontano: non desiderava altro che risposte, ma non osava interrompere la concentrazione del Preside.

«Proprio quello che sospettavo…» sbottò alla fine del terzo giro posizionandosi davanti allo Specchio delle Brame, «Si sta auto-riparando, ma questa volta ci metterà un po’ più di tempo. Ti sei fatto anche tu vecchio, bello mio - esclamò divertito l’omino battendo un paio di colpi sulla cornice - tra qualche secolo ti sarà impossibile farlo.»

«Perché ha detto “questa volta”? Era già successo che si crepasse?!» esclamò tutto d’un fiato il ragazzo non riuscendo più a trattenere la propria curiosità.

«Molti anni fa. Se non l’avessi visto con i miei occhi, non ci avrei nemmeno creduto. A memoria d’uomo non era mai capitato che qualcuno riuscisse a soverchiare l’assuefazione che crea questo particolare oggetto magico. La Signorina Sancoeur ha però scelto il modo peggiore per farlo, poverina: non oso immaginare quello che abbia passato.»

«Professore…» biascicò Adrien con una nota di incertezza nella voce, ma il suo interlocutore lo interruppe ancor prima che riuscisse a completare la frase. «So bene quello che vuoi chiedermi e, date le circostanze, credo che tu abbia il diritto di saperlo. Adrien – e nel sentirsi chiamato per nome, il giovane non riuscì a trattenere l’imbarazzo – io penso tu abbia ormai capito come funzioni questo specchio, dico bene?»

«Sono i nostri desideri, ciò che bramiamo nel profondo del nostro cuore. Per questo… per questo vedo la mia famiglia riunita e felice. Credo di averlo sempre saputo, ma ho preferito fare finta di nulla. Non pensavo che il suo potere fosse pericoloso, o forse non mi interessava.»

Adrien distolse lo sguardo dal Preside. Non riusciva a sostenere la sua espressione indagatrice, gli dava l’impressione che lo stesse giudicando. Era stata sciocco lasciarsi andare a quel modo, cedere al senso di dipendenza che lo Specchio delle Brame creava. Avrebbe dovuto dare ascolto a Luka e Nino. Anche loro avevano assistito alla “messa in scena” dei loro desideri, ma non avevano ceduto alla tentazione. Si sentì un debole e un codardo, un inetto incapace di affrontare la vita.

«Non devi biasimarti, mio caro ragazzo» esclamò, ad un tratto, il professore alle sue spalle, mentre gli porgeva un fazzoletto di stoffa che il giovane accettò. «Maghi e streghe molto più esperti e saggi di te sono caduti nel tranello dello specchio. Approfitta delle nostre debolezze e insicurezze; carpisce con la magia tutto ciò che riteniamo caro, sacro… e ce lo ritorce contro dandoci l’illusione che ben presto si realizzerà. Molti hanno perso il senno per colpa sua, altri la vita.»

«I-i m-miei… i miei amici mi avevano avvisato, loro sono stati più forti di me.»

«Non si tratta di “forza”, ma piuttosto di sensibilità. Per lo specchio non conta quanto si desideri una determinata cosa, ma piuttosto la cosa stessa. Ciò che tu, o meglio il tuo cuore brama ardentemente, è così potente e puro da esporre il tuo animo… a renderlo vulnerabile. Ricorda Adrien: le nostre emozioni sono la più grande magia alla quale possiamo attingere, ma se non controllate rischiano di rivoltarsi contro di noi.»

«E Nathalie?!» replicò il figlio di Gabriel Agreste che, accantonato momentaneamente lo sconforto, sentiva il bisogno di risposte concrete. «Perché ha perso i sensi?»

«Come ti ho già detto, è rarissimo che si verifichi una condizione del genere quindi possiamo solo avanzare delle ipotesi. Evidentemente la Signorina Sancoeur è combattuta, divorata dall’incertezza di ciò che vorrebbe per sé. È questo atteggiamento che ci mostra la vera natura dello Specchio delle Brame. Lui attinge dal nostro desiderio; ma, quando non siamo consapevoli di quello che vogliamo, va in tilt e si crepa.»

«Professore, perché si trova qui ad Hogwarts? Da quanto tempo è in suo possesso?»

Il Preside s’incupì nuovamente. Non era certo di poter rispondere a quella domanda, o almeno non in quel momento. «Non credo sia il caso di parlarne ora, magari in futuro. Consapevole di quanto fosse pericoloso, l’avevo nascosto in quest’aula dimenticata. Mi sa che ho peccato di superbia nel pensare di essere l’unico a conoscere la sua esistenza. Dovrò trovargli una nuova sistemazione e ti devo chiedere di non provare a cercarlo. Puoi promettermelo?»

Adrien si limitò a un debole cenno di assenso. Un’insistente voce nella sua testa gli stava urlando di opporsi. La ricacciò indietro, doveva essere più forte di lei. Rivolse un’ultima occhiata allo Specchio delle Brame, poi aiutò il professor Fu a trasportare Nathalie nelle sue stanze.
 

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Capitolo 26
*** Capitolo XXV - San Valentino ***


Capitolo XXV - San Valentino

La mattina seguente Adrien si svegliò più tardi del solito. Dopo aver aiutato il Preside a riaccompagnare Nathalie, si erano congedati davanti il ritratto della Signora Grassa. Evidentemente, si disse poco prima di andare a dormire, il professore aveva voluto assicurarsi che lui non deviasse dal percorso verso la Torre di Grifondoro. Non ne rimase sorpreso: aveva combinato un bel casino con lo Specchio delle Brame.

Tuttavia, ciò che gli aveva davvero fatto perdere il sonno non era stata tanto la mancanza di fiducia, o l’aver scoperto la vera natura dello specchio. Piuttosto ad averlo letteralmente scioccato erano state le ultime parole di Fu prima di andarsene: “Mi piaceva quel ciondolo di smeraldo, è un peccato non indossarlo”. Era stato a rimuginare su quella frase fino alle tre del mattino, poi la stanchezza aveva preso il sopravvento ed era crollato.

Si alzò a fatica dal letto, era ancora troppo stanco. Come se non bastasse, si sentiva mentalmente a pezzi: la sua mente lavorava incessantemente da dodici ore per processare tutte le informazioni in suo possesso. Possibile che il Preside sapesse? Forse era stato proprio lui a… L’acqua gelida cancellò all’istante quel dubbio dalla sua testa. Non poteva trattarsi di lui, non vi erano presupposti che lo lasciassero pensare.

Si vestì in fretta. Nonostante fossero ormai le undici e mezza, sperava di trovare ancora qualche croissant a colazione. Prima di uscire non rinunciò ad accarezzare il soffice manto nero di Plagg che, accoccolatosi tra le sue braccia, fece le fusa. Benché scontroso e permaloso, quel gatto sapeva sempre come farsi perdonare e rappresentava per il giovane un caro e prezioso amico. «Adesso devo andare, ci vediamo dopo» esclamò Adrien posandolo delicatamente a terra.

Plagg ricambiò il suo saluto con un miagolio svogliato, poi si andò ad appallottolare sul letto e si riaddormentò. Il ragazzo scosse la testa con rassegnazione: quell’animale era decisamente troppo pigro per gli standard dei felini. Afferrò la maniglia di bronzo della porta e la girò a malapena prima che un chiodo fisso nella sua testa non lo riportò sui suoi passi. Si avvicinò al proprio baule e, una volta aperto, si mise a scavare verso il fondo.

Il pendente di smeraldo era ancora lì, dove lo aveva lasciato. Luccicava debolmente alla fioca luce del sole che filtrava dalla finestra. Con titubanza lo prese e se lo portò all’altezza degli occhi. Avvertì una scarica lungo il braccio, ma non ci diede peso: ormai si era abituato. Si disse che era una mossa stupida e azzardata. Quel ciondolo non era un oggetto comune, nascondeva al suo interno un segreto che forse avrebbe potuto metterlo in pericolo.

Le parole del Preside Fu, però, tornarono a riecheggiargli in testa. Avevano sicuramente un significato molto più profondo di quel che poteva sembrare. Non le aveva dette a caso, erano mirate a fargli capire che non poteva separarsi da quel gioiello. Senza pensarci su ulteriormente, se lo mise al collo e lo nascose sotto il maglioncino grigio. In quello stesso istante fu investito da una piacevole sensazione di calore e benessere.

Era come se fosse lo stesso smeraldo a fare le feste per essere finalmente tornato al posto che gli spettava di diritto. Con il sorriso sulle labbra e una ritrovata felicità, il figlio di Gabriel Agreste si apprestò a raggiungere la Sala Grande. Lo Specchio delle Brame era adesso solo un vago e spiacevole ricordo; il suo unico desiderio in quel momento era quello di ricongiungersi con i suoi amici e, soprattutto, di non permettere più a niente e nessuno di separarlo da loro.

Quando arrivò all’ingresso della scuola, però, si rese conto che c’era qualcosa di strano. Nonostante fosse San Valentino, una festività abbastanza sentita all’interno della scuola, il clima non era dei migliori. Durante il tragitto aveva incrociato sporadiche coppiette intente a parlottare fittamente, mai sui loro volti non campeggiavano espressioni felici e rilassate. Al contrario, sembravano tese e spaventate, come se fosse appena accaduto un terribile evento.

Il portone della Sala Grande era stranamente socchiuso. Adrien dovette esercitare una buona dose di forza per spalancare una delle massicce ante in legno, ma a lasciarlo senza fiato fu lo scenario che si ritrovò dinanzi. I quattro tavoli erano scheggiati in più punti, mentre quello degli insegnati era stato completamente divelto. I marmi dei camini e dei bassorilievi erano andati in pezzi; la stessa sorte era toccata alle clessidre che tenevano il conto dei punti guadagnati.

Una cascata di pietre multicolori si era riversata sul pavimento, che presentava anche evidenti tracce di bruciature. Il giovane Grifondoro si guardò intorno alla ricerca di un dettaglio, un indizio che potesse spiegargli cosa fosse successo. Alzò lo sguardo in alto: il soffitto della stanza, nudo e privo di qualsivoglia effetto magico, era di un tenue color grigio, intervallato da travi lignee a sostegno. Non era mai stato così triste e smorto.

Non incrociò nessuno dei suoi amici. Il professor Damocles parlottava con alcuni colleghi e Prefetti del settimo e sesto anno. Ebbe l’istinto di avvicinarsi al fine di capire meglio la situazione, ma preferì desistere. Non voleva causare ulteriori problemi andando a ficcanasare in giro, la sua coscienza gli diceva di farsi da parte. Si sentì impotente: il misterioso aggressore aveva colpito di nuovo e lui non era presente, non aveva fatto nulla per impedirlo.

Percorse a ritroso la strada che lo avrebbe riportato al proprio dormitorio. Si disse che era orami inutile andare alla ricerca dei suoi compagni, anzi non avrebbe fatto altro che acuire la spaccatura venutasi a creare. Tuttavia, nei pressi del primo piano incrociò una ragazza di Serpeverde. Nonostante fosse sola e isolata dal resto degli studenti, non era per niente preoccupata. Gli diede l’impressione di essere alla ricerca di un qualcosa, ma avrebbe anche potuto sbagliarsi.

«Ehi, ciao! Scusa se ti disturbo, ma tu sai dirmi cos’è successo di sotto?» esclamò il figlio di Gabriel Agreste non riuscendo più a trattenere le propria curiosità.

«Il custode è impazzito» replicò lei con tono stizzito, mentre si accarezzava fiaccamente la frangetta castana. «Io sono scappata subito, non so dirti di preciso cosa sia successo. Questa volta però, a differenza della notte di Capodanno, il Preside non era presente.»

«Ma qualcuno deve pur averlo fermato…»

«Da quello che si vocifera sembra siano stati la Professoressa Bustier e alcuni studenti. Dovrebbero essere in infermeria in questo momento.»

Adrien non se lo fece ripetere due volte. Sibilato un debole “grazie” alla ragazza, si mise a correre nella direzione opposta. Era certo che i suoi amici non avessero esitato a dare una mano, del resto lui avrebbe fatto lo stesso. Saettò lungo uno stretto passaggio nascosto da un quadro raffigurante dei Goblin bellicosi: era la strada più veloce per l’infermeria. Sperò con tutto se stesso che i suoi compagni stessero bene, che nessuno di loro fosse ferito.

Giunto dinanzi l’ingresso, poté finalmente tirare un sospiro di sollievo. Marinette, Alya e Nino stavano bene. Erano seduti su una lunga panchina insieme ai suoi due compagni di stanza. Ivan e Kim, a differenza degli altri, sembravano abbastanza scossi. In particolare il grosso ragazzone dal ciuffo biondiccio era sull’orlo di una crisi di pianto. Stranito da quel comportamento inedito, il giovane Grifondoro decise finalmente di avvicinarsi loro. «Ragazzi! State bene? Cos’è successo?!»

«Amico!» esclamò Nino abbracciandolo forte, dando l’impressione che non aspettasse altro da settimane. «Non hai idea di quello che ti sei perso. Il Signor Haprèle era fuori di testa, cioè roba da non credere. Ha stregato le porte e le finestre della scuola: ci ha addirittura bloccato all’interno della Sala Grande. Tutti che urlavano e piangevano, il Preside assente e…»

«Si questo lo so!» lo interruppe con decisione l’altro scrollandoselo a fatica di dosso, «Ciò che volevo sapere era in che modo si sia arrivati al disastro. Qualcuno ha visto il padre di Mylène prima che perdesse il controllo?»

«La professoressa Bustier, stavano facendo colazione insieme.»

«E poi…»

«Poi il copione si è ripetuto come al solito: occhi vitrei, perdita di coscienza» replicò Marinette, mentre dava pacche consolatorie sulle enormi spalle di Ivan.

«Se non fosse stato per la prof, sarebbe finita molto male. Era l’unica degli insegnanti a ricordarsi le istruzioni di Fu: è stata eccezionale!» aggiunse Alya senza riuscire a nascondere l’energica ammirazione che provava per la direttrice della sua Casa.

Adrien convenne con lei: Caline Bustier era una strega eccezionale, forse la migliore che avesse mai conosciuto dopo Nathalie. Nessuno meglio di lei incarnava a pieno le virtù che rendono tale un Grifondoro. Coraggiosa e dall’animo nobile, non avrebbe mai permesso che i suoi studenti corressero un tale pericolo. Nonostante non avesse mai affrontato nulla del genere, aveva preso in mano la situazione e si era messa a difesa della scuola.

«Adesso si trova dentro con il Signor Haprèle. Lui sta bene, ma Madama Wilkins e la stessa Bustier hanno insistito nel farlo rimanere un paio di giorni sotto osservazione» sbuffò Kim massaggiandosi il ginocchio dolorante.

«Che hai combinato? Perché non te lo fai controllare se ti fa male?!» gli chiese il figlio di Gabriel Agreste notando il ghigno di sofferenza sul suo viso.

«Non è niente, tranquillo. Ho solo…»

«Si è solo gettato su una povera fanciulla indifesa proteggendola da un chiavistello volante» pigolò, divertito, il giovane Lahiffe dandogli dei colpetti con il gomito nel fianco. «Com’è che si chiamava? Ondine, se non sbaglio. Il nostro Kim è davvero un cuor di leone!»

«Io lo trovo un gesto molto romantico. Tu sei un buzzurro, non puoi caprile certe finezze» lo rimproverò Alya, mentre la faccia di entrambi i ragazzi si colorava di rosso per l’imbarazzo.

«E Ivan?»

Adrien si pentì immediatamente di essersi azzardato a chiederlo. L’allegria, che aveva momentaneamente aleggiato sul gruppo, scomparve all’istante. Furono nuovamente tutti inghiottiti dallo sconforto e un silenzio surreale calò su di loro, interrotto di tanto in tanto dal piagnucolare di Ivan. Marinette, che era seduta accanto a lui, cercò di stringerlo in un abbraccio; ma la stazza del compagno non le rendeva facile l’impresa.

Anche Alya e Nino, provati da quanto accaduto, si strinsero l’uno all’altra. Kim, invece, si alzò dalla panchina e si mise a camminare avanti e indietro per il corridoio antistante l’infermeria. Da buon orgoglioso qual era, non avrebbe mai permesso che i suoi compagni notassero l’umido che campeggiava nei suoi occhi. Il giovane Agreste li osservava con sincera preoccupazione: era normale che quegli attacchi li provassero, ma quella reazione era spropositata

La figlia del Signor Dupain incrociò il suo sguardo interrogativo. Abbozzò un sorriso comprensivo, però non si azzardò a dirgli nulla. Ci sarebbe stato il tempo di rispondere alle sue domane, ma non era quello il momento adatto. Il ragazzo, rassegnatosi all’idea di non poter insistere oltre, si sedette al suo fianco e le prese la mano. Non si rese immediatamente conto del gesto, in realtà non riuscì a comprenderne nemmeno il significato.

Aveva avvertito il bisogno di sentirla vicina, di legarsi a lei in qualche modo. Marinette, d’altro canto, sebbene stupita da quell’azione inaspettata, non si ritrasse. Nelle settimane che avevano seguito Capodanno aveva sofferto per la sua mancanza: si era sentita abbandonata per l’ennesima volta senza capire il perché. Eppure, nonostante si fosse ripromessa di non ripetere lo stesso errore, aveva preferito lasciargli i suoi spazi, di lasciare che gli altri si facessero avanti.

Intimorita dall’eventualità di un rifiuto, non si era neanche azzardata a parlargli del loro ballo durante il party. Nei primi giorni di gennaio aveva rimuginato a lungo su quanto fosse accaduto, però le continue assenze dell’amica l’avevano indotta a desistere dai suoi buoni propositi. Evidentemente, si era convinta nonostante Juleka e le altre sostenessero il contrario, quel valzer aveva avuto un significato importante soltanto per lei.

La situazione era però cambiata. Adesso il ragazzo era lì, le stringeva la mano e sembrava non avere alcuna intenzione di lasciarla. Sebbene si trovassero in un momento di piacevole intimità, nessuno dei due era imbarazzato o agitato. Si sentivano a proprio agio, come se non vi fosse altro posto al mondo dove entrambi avrebbero dovuto essere. Tenendo il braccio intorno al fianco di Ivan, Marinette appoggiò la testa sulla spalla di Adrien e chiuse gli occhi addormentandosi.

Il gruppetto rimase in attesa sul pianerottolo, finché, un paio d’ore più tardi, la professoressa Bustier non uscì dall’infermeria. I suoi studenti non l’avevano mai vista così trasandata: la sua veste bianca era sgualcita e spiegazzata; i capelli, di solito raccolti in una crocchia dietro la testa, erano arruffati e gonfi; gli occhi gonfi e lucidi non lasciavano dubbi sul fatto che avesse pianto copiosamente, ma il motivo restava un mistero.

Ad accompagnarla vi erano Mylène, scossa quanto l’insegnante, e Rose che era rimasta per tutto quel tempo in compagnia della sua amica. A differenza della Bustier, le due ragazze recavano ancora i segni fisici dell’incidente. La figlia del Signor Haprèle aveva infatti la mano sinistra fasciata e un cerotto sulla guancia; la sua compagna di stanza portava un bendaggio intorno alla testa e si reggeva su un bastone a causa di una caviglia slogata.

«Mylène, Rose! Come state?! E il Signor Haprèle?» esclamò Alya dando l’impressione di essersi tolta un grosso peso dallo stomaco, mentre si lanciava verso di loro ad abbracciarle.

«Stanno bene…» intervenne la Vicepreside, la voce tremula velata da una nota malinconica. «Madame Wilkins ha curato le loro ferite, ma la degenza sarà più lunga del previsto. Come è accaduto al Signorino Lahiffe, gli incantesimi oscuri lanciati contro di loro hanno lasciato delle tracce.»

«S-sono c-certa che tuo padre non volesse farci del male…» balbettò Rose notando l’espressione di puro sconforto impressa sul volto dell’amica.

«La tua compagna ha ragione, Mylène. Non devi incolparlo di nulla…»

Quell’inconsueto atteggiamento materno, che mal si adattava alla figura austera e autorevole della loro insegnante, li lasciò sbigottiti. Caline Bustier aveva sicuramente tanti pregi, ma l’essere di “cuore tenero” non lo era di certo. Severa ed intransigente, esigeva sempre il massimo dai suoi studenti. In più di un’occasione li aveva spronati a non cedere alla paura che quei misteriosi attacchi potevano incutere. Non vi era spazio per lacrime e rimpianti.

Ciononostante, il vederla adesso così fragile e comprensiva rappresentava un evento senza precedenti. A Marinette e Alya, inoltre, non era sfuggito il gonfiore e il rossore che aveva rimpiazzato il bel verde oceano delle sue iridi. Indagare su quel particolare, però, sarebbe stato davvero inopportuno; pertanto preferirono far finta di nulla. L’importante era che nessuno si fosse fatto male, il resto non aveva importanza.

«Che ne dite di andare a pranzo? Sono sicura che gli altri insegnanti hanno rimesso a posto la Sala Grande!»

«D’accordo, professoressa!» esclamarono in coro i ragazzi, sollevati nel costatare che la donna stesse riacquistando la sua determinazione.

Il gruppo, guidato dalla Bustier, si mise in marcia verso l’ingresso della scuola. Tuttavia, Ivan, che per tutto quel tempo era rimasto chiuso nel suo mutismo tenendo la testa basta, non si mosse dalla panchina. Adrien, resosene conto, tentò di raggiungerlo e di capire cosa lo turbasse. Nino e Kim, però, lo bloccarono all’istante facendogli notare che già qualcuno si era avvicinato al ragazzone dal ciuffo biondo.

«I-Ivan… Ivan…» pigolò la figlia del Signor Haprèle piegandosi davanti a lui, «Che ne dici di venire con noi? Sarai affamato.»

L’altro, senza alzare lo sguardo sulla figura minuta che gli stava dinanzi, non rispose limitandosi ad un deciso “no” con la testa. Mylène non si diede per vinta e, preso l’enorme faccione tra le mani, lo invogliò a guardarla dritta negli occhi. Le lacrime solcavano le guance di Ivan: fiumi di infinita tristezza che straripavano senza controllo
.
«M-mi d-d-dispiace, n-non v-v-volevo lasciarti da sola» singhiozzò il giovane non riuscendo più a sopportare il senso di colpa.

«Non devi preoccuparti per me, io sto bene. Stiamo tutti bene.»

«Io… io avrei dovuto proteggerti, invece mi sono lasciato prendere dal panico e tu ti sei fatta male. Ero troppo spaventato per fare qualsiasi cosa: non merito di essere un Grifondoro!»

«Tu hai cercato di fermarmi, sono stata io a mettermi in mezzo cercando di raggiungere papà. A volte il rinunciare rappresenta la più grande forma di coraggio e, per quanto mi riguarda, non c’è Grifondoro migliore di te.»

«Lo pensi davvero?» biascicò Ivan, ma la risposta che ricevette fu soddisfacente. Mylène si era, sotto gli sguardi soddisfatti dei presenti, si era buttata tra le sue braccia baciandolo dolcemente.
 

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