Sopravviviamo

di sophie97
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Non gridate più ***
Capitolo 3: *** Qualcosa è cambiato ***
Capitolo 4: *** Non possiamo mollare ***
Capitolo 5: *** Sarà solo colpa tua ***
Capitolo 6: *** Distrazione ***
Capitolo 7: *** Lui vuole che tu viva ***
Capitolo 8: *** Calma ***
Capitolo 9: *** Uno splendido colpo di fortuna ***
Capitolo 10: *** Tu sarai causa delle tue stesse sofferenze ***
Capitolo 11: *** Il nostro Inferno ***
Capitolo 12: *** Primi effetti ***
Capitolo 13: *** Spogliati ***
Capitolo 14: *** Non sarà per sempre ***
Capitolo 15: *** Sarà peggio la vita ***
Capitolo 16: *** Autodistruzione ***
Capitolo 17: *** Lasciami andare ***
Capitolo 18: *** Per quel che è ***
Capitolo 19: *** Lo so io e lo sai tu ***
Capitolo 20: *** Non va tutto bene ***
Capitolo 21: *** Numero 201 ***
Capitolo 22: *** Vittima e carnefice ***
Capitolo 23: *** Sopportazione ***
Capitolo 24: *** Equilibrio ***
Capitolo 25: *** Non è servito a niente ***
Capitolo 26: *** Pezzi di carta ***
Capitolo 27: *** Dolore ***
Capitolo 28: *** Mai sola ***
Capitolo 29: *** Incubi ***
Capitolo 30: *** Reazioni ***
Capitolo 31: *** Vivi! ***
Capitolo 32: *** Miracoli ***
Capitolo 33: *** Così si sopravvive ***
Capitolo 34: *** Vivere o morire ***
Capitolo 35: *** Vivere ***
Capitolo 36: *** Mondo Beffardo ***
Capitolo 37: *** Ho scelto il silenzio ***
Capitolo 38: *** Per Lily ***
Capitolo 39: *** Sopravviviamo ***
Capitolo 40: *** Il momento giusto ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


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“Ho subìto un danno.
Le persone danneggiate sono pericolose.
Sanno di poter sopravvivere...
È la sopravvivenza che le rende tali... perché non hanno pietà.
Sanno che gli altri possono sopravvivere, come loro.”
(Il danno, 1992)


PROLOGO:

Cento giorni.
Ben sospirò piano, appoggiato a quel muretto, fissando come in trance la villetta che sorgeva dall’altra parte della strada.
Cento giorni, gli sembrava impossibile. Per la prima volta, cento giorni prima, il collega gli aveva raccontato che cosa stesse succedendo tra lui e la moglie. E poi, solo due giorni dopo, come se tra le due situazioni ci fosse stato un filo diretto, ecco che il notiziario aveva annunciato la fuga di quell’uomo. E tutto, lentamente, era andato precipitando.
Cento giorni, più di tre mesi, e ancora l’aria non aveva smesso di essere spessa, pesante, irrespirabile.
Era il 12 febbraio, e a Colonia il freddo era ancora pungente.
Ben tirò su col naso e si strinse più nelle spalle, chiedendosi quando si sarebbe deciso a entrare.
Stava quasi per alzarsi, quando qualcuno da dietro lo sfiorò.
Ma l’ispettore era talmente immerso nei propri pensieri che nemmeno vi fece caso.
«Che cosa fa qui tutto solo, giovanotto?» esordì la voce alle sue spalle, in tono bonario.
«Vado a trovare un amico.» rispose Ben, in un sussurro, più rivolto a se stesso che al suo nuovo interlocutore, mentre sentiva che l’uomo che gli aveva parlato stava aggirando il muretto per avvicinarsi a lui. Non si curò di voltarsi, aspettò che il signore gli si sedesse accanto.
«Lei che cosa ci fa qua?» domandò poi, non appena scorse il profilo familiare a pochi centimetri da lui.
L’anziano signore alzò le spalle, iniziando meccanicamente ad accarezzarsi gli ordinati baffi bianchi e passandosi poi la mano destra sulla folta barba, anch’essa candida come la neve.
«Passavo, giovanotto. Il suo amico vive qui? È il suo collega, non è vero?».
Ben guardò quell’uomo negli occhi, sorridendo per un attimo al suo accento inglese.
«Lo era.» commentò poi, distogliendo lo sguardo.
Il vecchio poggiò una mano sulla sua spalla, rifilandogli qualche leggero colpetto di incoraggiamento.
«Fossi in lei sorriderei un po’ più spesso, giovanotto. Da quando l’ho conosciuta lo ha fatto sempre troppo poco. Solo alla mia età si comprende quanto sorridere sia importante... forza, ragazzo.».
«Non è facile sorridere sempre. Non quando davanti agli occhi hai la vita rovinata di una persona a cui vuoi bene.».
L’anziano signore annuì teatralmente. Poi, appoggiandosi al proprio bastone, si alzò, staccandosi dal muretto e rimanendo per qualche istante fermo, in piedi di fronte al poliziotto.
«Ti do un compito, giovanotto. Oggi sorridi. Va bene?».
Ben alzò lo sguardo su di lui.
L’uomo indossava un berretto di lana decorato a quadri rosso e verdone e un’ingombrante sciarpa dello stesso colore. Non un abbigliamento troppo comune, per quello che lui aveva definito un angelo custode.
Il sorriso, osservandolo, gli spuntò spontaneo sulle labbra.
«Bravissimo, così.» fece compiaciuto il vecchio.
Poi si voltò per andarsene, ma tornò a guardare Ben dopo aver fatto solo qualche passo.
«Dimenticavo, giovanotto.» aggiunse, sorridendo sotto ai baffi curati, prima di allontanarsi «Usi quella scatolina che ha in tasca. L’ho vista, sa? Vedrà, la renderà felice.».

 

N.d.A.
Buonasera miei cari lettori... ebbene sì, sono ancora viva! Tanto tempo che non metto piede su EFP, troppo, e già posso udire gli insulti di chi stava seguendo la mia serie e, da un momento all’altro, non ha più avuto mie notizie... scusate, scusate, scusate, non ho una valida giustificazione ma proverò a farmi perdonare. La serie che ho lasciato in sospeso, “Dieci ritagli di Cobra 11”, prima o poi avrà una conclusione, ma ci tengo a sottolineare che questa storia non fa parte della serie in questione e non ha assolutamente nulla a che fare con quest’ultima.
Qualche piccola premessa, rischiando di rendere queste N.d.A. più lunghe del prologo stesso:
1. non so come questa folle storia che vi accingete a leggere mi sia venuta in mente, ma sappiate che questa volta sono stata veramente molto crudele... e se questo fandom predilige da sempre l’accanimento verso Ben, sappiate che io invece mi diverto parecchio a torturare anche il nostro piccolo turco (non che non ce ne sia anche per Ben eh, non esultate);
2. ve lo ripeto: crudele, lunga, triste, pesante... siete avvertiti;
3. ho deciso di fare un esperimento e suddividere la storia in capitoli ricalcando la suddivisione delle giornate: ciò significa che troverete capitoli di diverse lunghezze e che per ogni giornata che compone la storia leggerete un nuovo capitolo (a parte qualche eccezione a fini narrativi);
4. ve l’ho già detto che si tratta di una storia triste e pesante?
Fine delle premesse, vi spiegherò ancora qualche cosetta nel corso della storia.
Vi auguro buon Natale con questa storia non propriamente permeata di spirito natalizio... Spero che i miei scarabocchi possano incuriosire qualcuno, spero che non siate troppo arrabbiati per la mia scomparsa improvvisa e... se vi fa piacere, ogni commento è sempre super gradito!
Grazie, buona lettura!
Sophie

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Capitolo 2
*** Non gridate più ***


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GIORNO 1 - 14 NOVEMBRE.

Ben tamburellò impaziente le dita sul volante.
Il suo socio era in ritardo, come sempre ormai da quasi tre settimane. All’inizio Ben si era divertito ad aspettarlo per poi fargli la ramanzina come Semir aveva sempre fatto con lui da cinque anni a quella parte, prendendolo deliberatamente in giro.
Poi però la situazione si era ripetuta e ripetuta ancora e ai ritardi si erano aggiunte una stanchezza e una distrazione che sul lavoro il collega non aveva mai dimostrato prima.
Ben aveva provato a parlargliene, a chiedere che cosa stesse succedendo, ma ogni volta Semir aveva sfoderato un sorriso e risposto che andava tutto bene. Tutto perfetto.
Allora il più giovane aveva cominciato a portare avanti nella propria mente congetture personali e quella mattina, in macchina davanti a casa Gerkhan, ebbe la conferma di ciò che aveva pensato fino a quel momento: qualcosa in casa non quadrava. Con il finestrino abbassato udiva infatti grida provenire dalla piccola villetta, grida che sicuramente non sembravano rientrare nell’ambito di una discussione pacifica. Non riusciva a distinguere le parole, ma i toni erano decisamente troppo accesi.
A un tratto la porta di casa si spalancò e Semir ne uscì sospirando, il viso segnato da profonde occhiaie. Si chinò a salutare Aida che lo aveva accompagnato alla porta, le disse qualcosa e le diede un bacio sulla fronte, scompigliandole i capelli.
Nel notare quel gesto paterno, Ben non poté fare a meno di sorridere.
Poi lo vide dirigersi con passo fin troppo deciso verso la Mercedes e fece finta di guardare dall’altra parte, sperando che l’amico non lo avesse colto a origliare.
«Ehi socio!» fece il poliziotto entrando in macchina «Scusa, sono imperdonabilmente in ritardo... di nuovo.».
«Non ti preoccupare socio.» disse Ben con un sorriso sincero «Ci fermiamo al bar a comprare la colazione?» propose avviando il motore.
In un’altra occasione Semir avrebbe dissentito, visto già il ritardo accumulato. Ma non era questo il caso.
«Sì, magari. Non ho nemmeno preso il caffè.».
«Venti minuti di ritardo e non hai nemmeno preso il caffè?» rise Ben.
Semir fece spallucce.
«Ehi socio, sto scherzando.» continuò il più giovane «Va tutto bene?».
«Sì, non ti preoccupare.».
«Come mai Aida era ancora a casa? Non doveva uscire prima per la gita?» chiese ancora, svoltando a destra e parcheggiando nella polverosa area antistante il baretto.
«Sì, ma non ci va.» spiegò il turco uscendo dall’auto «Ha avuto un po’ di mal di testa stanotte e Andrea ha preferito non farla andare. Vuoi il solito?».
Ben annuì e il collega si allontanò per raggiungere il bar, uscendone solo pochi minuti dopo con in mano due caffè e una brioche fumante per il collega.

«Grazie socio.» fece Ben afferrando e addentando la colazione, non appena l’altro fu risalito in macchina «E tu non eri d’accordo con Andrea?».
Semir lo guardò perplesso, continuando a sorseggiare il suo caffè.
«Sulla gita, intendo.» puntualizzò il ragazzo, a bocca piena.
«Perché me lo chiedi?».
«Semir, vi si sentiva urlare dalla strada.».
Il poliziotto sospirò, togliendo dalle mani di Ben il bicchiere ormai vuoto perché lui potesse guidare.
Poi abbassò lo sguardo e non fiatò per un po’.
L’altro continuò a guidare, diretto al comando, con estrema calma.
«Davvero ci si sentiva dalla strada?» domandò Semir, dopo qualche minuto di silenzio.
Ben annuì.
«Semir, sai che con me puoi parlare, non è vero?».
«Ti ringrazio Ben, ma io sto bene. Sto litigando spesso con Andrea, è vero, ma non ti devi preoccupare.».
Ben si sentì tanto come un bambino a cui il padre non voleva rivelare la vera situazione familiare per paura di farlo soffrire.
«Quanto spesso?» chiese «Sono almeno tre settimane che sei particolarmente distratto, non credere che non me ne sia accorto.».
Semir sorrise ma evitò di rispondere.
Parcheggiarono sotto il comando e salirono in ufficio a passo svelto, chiudendosi la porta alle spalle, sollevati che la Kruger non avesse ancora avuto nulla da ridire sull’orario. Un’oretta dopo sarebbero usciti per la loro routine autostradale, ma prima avevano alcuni rapporti da terminare.
Iniziarono a lavorare silenziosamente seduti alle proprie scrivanie, con l’intento di finire nel minor tempo possibile.
Dopo qualche minuto, però, Semir smise di scrivere e posò la penna, alzando lo sguardo sul collega. Il silenzio imbarazzato che si era creato già durante il tragitto in macchina doveva essere interrotto ad ogni costo.
«Ben, senti, non è che io non ti voglia raccontare nulla... è vero che non va tutto bene, ma non ti ho detto niente fino adesso perché speravo che la situazione si risolvesse, e soprattutto perché ammettere ad alta voce ciò che sta accadendo renderebbe il tutto troppo reale e io non voglio che lo sia.».
Il giovane ispettore chiuse la penna a sua volta e si mise in posizione d’ascolto, invitando con lo sguardo il collega a proseguire.
«Andrea parla di separazione.».
Il gelo.
La frase tagliò violentemente l’aria chiusa della stanza.
Ben aprì la bocca per parlare, ma non seppe che cosa dire.
Era così affezionato a loro come famiglia, che non riusciva a immaginare potesse accadere una cosa del genere. Non lo riteneva materialmente possibile. Loro erano la famiglia. L’idea di famiglia normale che lui si era sempre immaginato.
«Noi... litighiamo su ogni cosa. E ogni sera torno a casa e sento Andrea sempre più distante e non so che cosa fare. Forse ha ragione lei, forse non si può recuperare, non lo so.».
«Non... non puoi dire così...» balbettò Ben «La vostra non è una storia da prendere, appallottolare e buttare nella spazzatura, così, di punto in bianco!».
«Lo so, Ben. Lo pensavo anche io. Ma Andrea continua a dire che sono assente, che penso troppo al lavoro. È arrivata a chiedermi se io abbia un’altra storia, e io non capisco come faccia a pensare anche solo lontanamente una cosa del genere, come possa non fidarsi di me.».
Ben lanciò un’occhiata interrogativa all’amico «Davvero sospetta questo? Semir, mi devi dire qualcosa?».
L’uomo sgranò gli occhi, con una punta di delusione nello sguardo.
«Assolutamente no! Io non tradirei mai Andrea, dovresti saperlo tu così come dovrebbe saperlo lei.».
Il ragazzo annuì, pentendosi subito di aver posto quella domanda. Sapeva che l’amico non avrebbe tradito la moglie, ma il fatto che Andrea da un momento all’altro si mostrasse sospettosa lo aveva colpito.
«Semir, tu la ami ancora?».
«Sì, Ben. Davvero. Ma ho paura che per lei non valga più lo stesso, ormai.».
Quella frase lasciò Ben di stucco.
«Ormai? Semir, non puoi dire una cosa del genere. Insomma, da quanti anni è che siete sposati? L’amore vero quando c’è non svanisce da un momento all’altro e questo lo sai tu e lo sa Andrea. Che cosa sta succedendo?».
Il turco sorrise appena «Non è così semplice, le cose cambiano. A volte l’amore non basta, Ben.».
Il ragazzo scosse lentamente il capo «Che cosa è cambiato? Avete una casa, un lavoro, due bambine meravigliose. Tu ami tua moglie. Che cosa è cambiato?».
Semir sospirò rumorosamente «Che ne diresti di lasciar perdere e terminare questi rapporti?».
Il collega lo guardò indeciso e riprese di mala voglia in mano la penna, ricominciando a scrivere.
Almeno fino a quando Susanne non entrò nel loro ufficio, subito dopo aver discretamente bussato alla porta.
«Ragazzi, a che punto siete? Tamponamento sull’A4, la Kruger ha bisogno di agenti a dirigere il traffico. Oggi vi tocca, temo.».
«Oh meraviglioso.» mormorò laconico Ben.
Semir invece scattò in piedi quasi entusiasta «Forza socio, un po’ di movimento ci farà bene.» esclamò con un sorriso.
Il ragazzo lo osservò mentre prendeva il giubbotto e si avviava all’uscita e si domandò come facesse l’amico, nonostante tutto, a ostentare buon umore. Lo ammirò terribilmente.

«Accidenti, è già tutto bloccato, che macello.» commentò Semir, imboccando l’A4 in direzione Düsseldorf «A che chilometro sono Dieter e Jenny?».
Non udendo risposta, l’ispettore lanciò un’occhiata verso il collega, che guardava assorto fuori dal finestrino.
«Ben? Terra chiama Ben Jager, mi senti?» continuò il turco, immettendosi sulla corsia di emergenza per raggiungere più velocemente il luogo dell’incidente.
«Chilometro 14.» rispose il più giovane, risvegliandosi all’improvviso da quello stato di trance e fissando la sirena sulla tettoia dell’auto.
«Ben, tutto a posto? La brioche di stamattina non era abbastanza grande?» rise il turco, premendo il piede sull’acceleratore.
«Semir, ma si può sapere perché fai così?» sbottò Ben a un tratto.
«Così come?».
«Come se non ti importasse! Come puoi fingere che vada tutto bene? Come ci riesci?».
Semir sospirò scuotendo appena il capo «Ben, non è vero che...».
«Sì, è vero, tu ti comporti come se non stesse succedendo niente.».
«Ben, non posso fare altrimenti. Non sono solo tre settimane che va avanti questa storia, sono mesi che il rapporto tra me e Andrea è cambiato e se io avessi passato questi mesi a pensare solo e unicamente ai miei problemi familiari come credi che sarei riuscito a lavorare?».
Ben non rispose, sospirando silenziosamente.
Il collega accostò vedendo Jenny pochi metri più avanti e si sporse verso il sedile posteriore per afferrare la paletta per dirigere il traffico, ma non scese ancora dall’auto.
«Non credere che io stia prendendo questa storia con leggerezza, Ben. Ma come credi che avremmo arrestato Constantine o messo le mani su Weiss e i suoi scagnozzi se avessi pensato solo ai cavoli miei anzi che lavorare? Come avremmo sventato quel traffico di ragazzine? Che cosa credi che avrei concluso in questi mesi? Niente, niente di niente. Quindi se ti chiedo se ti è bastata la brioche di stamattina, lo faccio perché ho bisogno di un po’ di normalità, almeno sul lavoro e soprattutto in questo periodo. Chiaro?».
Ben annuì. Sapeva che l’amico avesse ragione, sapeva che separare la sfera familiare da quella lavorativa per lui sarebbe stato un bene, ma la notizia che il suo socio gli aveva dato quella mattina lo aveva sconvolto, in un modo che lui stesso trovava esagerato.
Avrebbe voluto anche lui la normalità, avrebbe voluto raccontare a Semir della serata precedente, di quando finalmente aveva chiesto a Margaret, la ragazza che frequentava da quasi un anno ormai, di andare a vivere da lui e di come lei avesse accettato.
Ma non lo fece. Perché se era vero che il suo socio cercava normalità, era anche vero che mai e poi mai Ben avrebbe sbandierato una cosa così bella per lui dal punto di vista sentimentale davanti a chi, in famiglia, stava vivendo la crisi della situazione opposta.
Lo avrebbe fatto, glielo avrebbe detto, ma non quel giorno.
Si limitò ad annuire e a mormorare un sommesso “hai ragione”, prima che entrambi scendessero dall’auto e raggiungessero i colleghi per aiutarli a dirigere il traffico.


Erano le nove di sera passate quando Semir entrò in casa, distrutto. Aveva trascorso il pomeriggio a recuperare tra le scartoffie il tempo che lui e Ben avevano perso durante la mattinata a causa del tamponamento e aveva la testa che stava per scoppiare.
Trovò Andrea in cucina, intenta a sistemare sugli scaffali i piatti appena usciti dalla lavastoviglie. Non gli andò incontro, non gli chiese sorridente come fosse andata la giornata o se volesse qualcosa per cena. A malapena lo guardò.
Entrambi rimasero in silenzio per qualche attimo, lei a controllare che le stoviglie fossero pulite, lui a guardarla, appoggiato allo stipite della porta.
«Andrea... ciao.» disse poi Semir, semplicemente.
Spezzato l’incantesimo, lei si voltò a guardarlo e si allontanò dalla lavastoviglie aperta con un sospiro.
«Sono le nove e un quarto.» sillabò.
«Sì, lo so, avevo dei rapporti da finire e...».
«Avevi detto che saresti tornato presto. Lily voleva aspettarti per giocare ma le ho detto di andare a dormire. Semir, sappi che stai perdendo anche loro.».
La voce di Andrea era particolarmente dura, così come lo era stata nelle serate precedenti, trascorse sempre e solo a discutere.
«Dopodomani ho il giorno libero, e credo che la prossima settimana...».
«Semir...» lo bloccò la moglie «Credi che serva? Davvero credi che basti il tuo giorno libero?».
Il poliziotto si tolse la giacca che aveva tenuto addosso per tutto il tempo da quando era entrato e la appoggiò su una sedia, quindi si sedette di fronte a dove si trovava Andrea, che invece rimase in piedi.
«Sono stati due giorni lunghissimi, lo so. Ma posso rimediare.».
«Hai dormito al comando per quattro notti la scorsa settimana, Semir. Dimmi se ti sembra normale.».
«Andrea, ti prego, cerca di capire. Avevamo per le mani un traffico di ragazzine, non era una cosa da nulla. E li abbiamo presi, abbiamo preso quel bastardo e i suoi complici proprio perché ci siamo dedicati a quel caso ventiquattro ore su ventiquattro.».
«E a noi ti sei mai dedicato ventiquattro ore su ventiquattro?» domandò la donna, cominciando ad alzare il tono «A me? Alle bambine? Quando è stata l’ultima volta che è capitata una cosa del genere, te la ricordi?».
«Ascolta, è stato un periodo difficile, ma...».
«La verità, Semir, è che tu vuoi salvare il mondo, e non ti accorgi che il tuo, di mondo, è già crollato. Perché tu non c’eri e non ci sei.».
«Cosa pretendi che faccia? Eh?» cominciò a scaldarsi Semir «Che molli tutto? È questo che vuoi?».
«Ne abbiamo già discusso.».
«Di tutto abbiamo già discusso Andrea, di ogni cosa!».
«Ecco, fatti due domande se non arriviamo mai a una conclusione.» rincarò la dose lei.
«Non arriviamo a una conclusione perché tu non capisci...».
«O magari tu non sai spiegarti.» lo interruppe Andrea, ormai quasi gridando.
«Dimmi che stai solo cercando un pretesto per farla finita, Andrea, dimmelo ora e finiamola qui.».
«Credi che le tue figlie siano un pretesto? Loro non si sentono considerate, io non mi sento considerata, che cosa ci stai offrendo? Niente! Credi di essere un buon padre, Semir? Eh? Lo credi davvero?».
Semir strinse i denti provando a mantenere la calma, con scarsissimi risultati.
Sarebbe stata un’altra discussione infinita, ancora una volta.


Ben entrò a casa scuro in volto, ma non appena varcò la soglia un sorriso a trentadue denti si dipinse sulle sue labbra. Nell’aria aleggiava un profumo delizioso e una musica in sottofondo rendeva l’atmosfera calda e accogliente.
Il giovane poliziotto seguì la scia di profumo fino a giungere in cucina, dove una bellissima apparizione lo aspettava entusiasta.
Margaret, addosso solo una felpa di Ben che le stava enorme e d’incanto al tempo stesso, lo aspettava spettinata e con un guantone da forno nella mano destra, con un sorriso candido stampato sul viso.
Ben rimase senza fiato, di nuovo, come ogni volta che la guardava.
Era così bella nella sua semplicità, che se in quel momento una modella dal corpo perfetto gli fosse passata accanto, lui nemmeno se ne sarebbe accorto.
I capelli scuri raccolti in uno chignon disordinato, gli occhi verdi e quella spruzzata di lentiggini sul naso la rendevano unica agli occhi dell’ispettore, che si avvicinò per baciarla dopo essere rimasto per qualche istante incantato a scrutarla.
«Ciao sbirro.» sussurrò lei, poi allontanandosi per tirare fuori dal forno una teglia fumante «Hai detto che avrei dovuto cominciare ad ambientarmi, così ho pensato di cucinare qualcosa e mi sono appropriata della tua felpa. Potevo?».
«Sei così bella che penso che non potrò smettere mai di guardarti.» affermò lui in tutta risposta.
Lei rise, e con quella risata scacciò in un sol colpo tutti i pensieri scuri che Ben aveva avuto durante la giornata. Una risata soltanto e i problemi e i dispiaceri non esistevano più: esisteva solo lei.


«Il fatto è che io non ce la faccio più Semir, non ce la faccio più!» gridò Andrea alzandosi di scatto e andando a sedersi sul divano.
Avevano litigato e urlato per dieci minuti buoni senza mai prendere nemmeno un respiro e adesso erano entrambi esausti.
Semir la raggiunse sedendosi accanto a lei sul divano e riprese a parlare con un tono normale «Okay... okay, ci dobbiamo dare una calmata, tutti e due.».
La donna annuì, rossa in viso.
«Che cosa ci sta succedendo, Andrea? Che cosa è cambiato?».
Andrea rimase in silenzio per pochi secondi, poi gli occhi le divennero lucidi e, senza che nemmeno se ne fosse accorta, si ritrovò a singhiozzare come una bambina.
«Ehi... Andrea, calmati, va tutto bene...» le sussurrò Semir, prendendole il viso tra le mani e asciugando una lacrima che le correva lungo la guancia.
Ma lei si ritrasse, continuando a singhiozzare.
«No... no, non va tutto bene... Semir, non va tutto bene...» ripeteva tra le lacrime, senza trovare il coraggio di aggiungere altro.
«Che cosa succede?».
«Semir... non va tutto bene... io... ti devo dire una cosa.»
Il poliziotto corrucciò la fronte, sforzandosi di non pensare a che cosa la moglie dovesse dirgli di così grave da giustificare quei singhiozzi, che non volevano saperne di cessare.
«Dimmi.» mormorò semplicemente.
«Semir, io... io non ti amo più.».

Il silenzio calò inesorabile.
Ma la pioggia di novembre che batteva contro i vetri parve aumentare la propria forza, riempendo quel silenzio in modo assordante.
Andrea continuò a singhiozzare, ma più piano. Si asciugò le lacrime con i polsini della felpa che indossava, attendendo la reazione del marito a quelle cinque parole che avevano appena fatto crollare un mondo intero.
Ma la reazione non arrivò.
Semir rimase assorto per un istante lunghissimo, senza parlare, senza guardarla negli occhi. Aveva bisogno di metabolizzare, di ripetersi quella frase nella mente ancora un paio di volte, perché altrimenti non ne avrebbe compreso il significato, seppur così ovvio.
«Semir dii qualcosa, ti prego.» sussurrò la donna, trattenendo a stento i singhiozzi.
Lui finalmente la guardò negli occhi, ma ancora non proferì parola.
Un rumore proveniente dal piano superiore lo salvò, una porta che si chiudeva.
«Aida è sveglia.» fu l’unico commento di Semir.
Poi si alzò e si diresse verso le scale, lasciando la moglie lì, sul divano, con la testa tra le mani.

«Aida.» sussurrò Semir entrando nella camera delle bambine.
C’era buio pesto ed entrambe erano nel letto, ma lui immaginava che dovesse essere la più grande a essere sveglia. E infatti subito la bambina si alzò a sedere sul letto, sentendosi scoperta.
«Perché eri in piedi?» domandò il poliziotto.
La figlia non rispose, e solo allora lui si accorse del tono di rimprovero con cui aveva posto la domanda. Non lo aveva fatto apposta.
«È tardi, dovresti dormire.» aggiunse, con più calma.
«Ma tu e la mamma litigate.» rispose Aida, con una voce che tradiva preoccupazione.
Semir sospirò piano, poi prese la bambina in braccio sollevandola dal letto e uscì con lei dalla stanza, richiudendosi la porta alle spalle. Voleva parlare con lei ma senza svegliare la sorellina, così la portò nella camera sua e di Andrea e si sedette sul copriletto con la figlia sulle ginocchia.
«Cucciolo, non ti devi preoccupare se ogni tanto io e la mamma discutiamo. Capita, lo sai. Ma ti vogliamo sempre bene uguale, ricordatelo.».
Aida annuì, guardando il padre negli occhi e stringendosi di più a lui.
«Però litigate tutti i giorni. Io vi sento la sera... E poi la mamma piange, l’ho sentita, perché piange?».
«La mamma è stanca Aida, è molto stanca. Non ti preoccupare, sta bene.».
«E tu stai bene papà?».
Semir sorrise e gli si strinse il cuore nel vedere quella bambina avvolta nel caldo pigiamino blu che le aveva regalato il suo socio, che lo guardava con quegli occhi enormi e si preoccupava per lui.
«Sì cucciolo, sto bene. Ogni tanto le persone litigano, è normale. Ma non ti preoccupare, va bene?».
Lei annuì di nuovo, ma non era convinta.
«Oggi la mamma è stata arrabbiata tutto il giorno. E tu sei arrivato tardi, Lily voleva farti vedere il gioco che le hanno regalato i nonni per il compleanno.»
«Domani arriverò a casa prima, d’accordo? Te lo prometto. E dopodomani passiamo tutto il giorno insieme, va bene?».
Il viso della bambina si illuminò «Davvero?».
«Davvero, promesso.».
«Va bene papà.».
«Ora però vai a nanna, domani devi andare a scuola.».
«Voi non gridate più?».
Semir scosse il capo con un sorriso che si sforzò di rendere sincero «Non gridiamo più.».
Poi si alzò con la bambina in braccio e la riportò nella sua cameretta. La posò sul lettino e le diede un bacio sulla fronte, accarezzandole i capelli.
«Buonanotte cucciolo.».
«Buonanotte papà, ti voglio bene.».

Semir chiuse la porta della camera e scese nuovamente le scale, ritrovando Andrea sul divano, seduta nella stessa identica posizione in cui l’aveva lasciata.
Senza accennare ad avvicinarsi, prese la giacca dalla sedia su cui l’aveva appoggiata e la indossò velocemente, quindi si diresse verso l’uscita.
«Dove vai?» provò a trattenerlo Andrea, gli occhi ancora lucidi «Semir, ti prego, parliamo. Non andartene!».
«Ho bisogno d’aria.» disse lui, senza nemmeno guardarla.
Poi uscì e si chiuse la porta alle spalle.


Margaret e Ben finirono di mangiare le prelibatezze che lei aveva preparato e non smisero mai di guardarsi negli occhi.
«Sei anche una cuoca eccezionale, c’è qualcosa che non sai fare?» fece Ben, con un sorriso sincero.
«Tu sei accecato dall’amore.» rise lei «Il riso era totalmente senza sale.».
«Oh no, era perfetto.».
«Finiscila.» scherzò lei, alzandosi da tavola e aprendo il congelatore in cerca di gelato.
Ben si chiese quando mai fosse stato tanto innamorato di una ragazza e l’unica risposta che gli venne alla mente fu “mai”. Da quando l’aveva vista al bancone di quel bar in fondo alla via dove abitava, aveva giurato che non avrebbe mai più smesso di guardarla. Lei ascoltava le canzoni che lui e la sua band stavano suonando proprio in quel bar e gli sorrideva. Così poi lui le aveva offerto da bere e avevano cominciato a parlare, assetati l’uno della storia dell’altra.
Era iniziato tutto così, quasi un anno prima, e ora lei era lì davanti a lui, in casa sua, e Ben sperava con tutto il cuore che sarebbe rimasta lì per tutta la vita.
Si alzò senza che lei nemmeno se ne accorgesse, la raggiunse e le cinse i fianchi da dietro, chiudendo il congelatore aperto.
«Le andrebbe un valzer, mademoiselle?».
Lei rise «Ma certo, messieur.».
E, stretti l’uno all’altro, cominciarono a ballare nel salotto di casa, accompagnati da una leggera musica di sottofondo.


Andrea guardò sconfortata il cellulare che il marito aveva lasciato sul tavolo della cucina, consapevole che non avrebbe potuto rintracciarlo.
Ormai era quasi un’ora che era uscito e lei non aveva idea di dove fosse o di che cosa stesse facendo.
Era in ansia. Si era pentita di aver pronunciato quella frase, continuava a ripetersi che avrebbe dovuto farlo in modo diverso, o in un altro momento, ma sapeva anche che non vi fosse un modo per esprimere quelle parole che facesse effettivamente meno male. Faceva male anche a lei che le pronunciava.
Ci aveva pensato tanto, era arrivata a quell’unica conclusione, a cui nemmeno lei aveva voluto credere per un po’. Eppure le cose erano cambiate, era cambiato tutto, e lei aveva paura che niente sarebbe tornato mai come prima. Ne era quasi sicura.
Non si mosse dal divano per ore.
Erano quasi le due di notte quando finalmente sentì scattare la serratura e vide il marito rientrare, bagnato fradicio di pioggia, chiudendo piano la porta per non svegliare le bambine.

Semir, entrando, si sorprese nel vedere Andrea seduta sul divano, lì dove l’aveva lasciata parecchie ore prima. Si fermò sulla soglia della stanza in cui lei si trovava, ma non disse niente.
«Semir, ero preoccupata...» mormorò Andrea dopo qualche istante di silenzio.
Lui scosse appena il capo con un sorriso amaro e si avviò verso le scale per raggiungere la camera da letto.
«Semir, non potremmo parlare un attimo?» supplicò la donna, provando a fermarlo.
«Non ho niente da dire Andrea... davvero. Hai già detto tu abbastanza.».
Lei abbassò lo sguardo senza replicare.
Poi sentì la porta al piano di sopra chiudersi e si avviò anche lei verso le scale, mentre una lacrima silenziosa le rigava il viso.

 

N.d.A.
Ma che bella situazione in casa Gerkhan... meravigliosa direi! A tal proposito vorrei avvisarvi del fatto che da quando Ben ha lasciato la serie io ho continuato a seguire gli episodi in modo un po’ saltuario, per cui non so proprio esattamente come sia finita la storia tra Semir e Andrea e comunque sia ciò che è successo nella serie non ha alcun collegamento con ciò che accadrà qui... mi incuriosiva semplicemente indagare qualche dinamica di crisi familiare ;)
Detto ciò, grazie a chi mi sta seguendo, grazie Chiara e Reb per le recensioni e buon anno!
Sophie

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Capitolo 3
*** Qualcosa è cambiato ***


Dal capitolo precedente:

«Semir, non potremmo parlare un attimo?» supplicò la donna, provando a fermarlo.
«Non ho niente da dire Andrea... davvero. Hai già detto tu abbastanza.».
Lei abbassò lo sguardo senza replicare.
Poi sentì la porta al piano di sopra chiudersi e si avviò anche lei verso le scale, mentre una lacrima silenziosa le rigava il viso.

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GIORNO 2.

Ben entrò in ufficio stranamente puntuale, trovando il collega già seduto alla propria scrivania, addormentato sulla sedia.
Sorrise aprendo piano la porta e gli passò davanti al naso il bicchiere colmo di caffè fumante perché lui ne sentisse il profumo.
Semir aprì gli occhi spaesato, guardando prima il caffè posato ora davanti a lui e poi l’amico che prendeva posto di fronte alla propria scrivania.
«Accidenti, mi sono addormentato.» bofonchiò il turco, afferrando il caffè.
«Decisamente sì, socio.» rise Ben «Da quanto sei qui?».
«Sono arrivato presto.» fece Semir, strofinandosi gli occhi ancora assonnati.
«Parecchio presto direi, socio.» puntualizzò il più giovane, sorseggiando il proprio caffè «Ancora rapporti da finire eh?» disse poi, lanciando un’occhiata al cumulo di fogli posati sulle due scrivanie.
«Già, meraviglioso vero? Preferirei dirigere il traffico.».
«No, non lo pensi davvero.» rise ancora Ben.
Semir sorrise al buon umore del collega e lo ringraziò tacitamente per il suo carattere allegro. Era stanco, aveva perso la notte in preda ai pensieri e aveva decisamente bisogno di qualcuno che, come Ben, sapesse tirar su il morale anche senza sapere per quale ragione ce ne fosse bisogno.
«Socio, ti devo raccontare una cosa e sappi che spero nella tua approvazione.» iniziò Ben, sondando il terreno «Pronto?».
«Pronto, spara.»
«Ho chiesto a Maggie di venire a vivere da me.».
Alla fine aveva preferito dirglielo: non riusciva a tenerlo per sé e sapeva che se l’amico fosse venuto a saperlo in ritardo gli avrebbe fatto una bella ramanzina.
Semir rimase per un attimo interdetto «Quando?».
«Pochi giorni fa, lei ha accettato e ieri sera era già a casa mia... Semir, ho la netta sensazione che sia quella giusta.».
Il turco sorrise «Facciamo grandi passi avanti eh... stai diventando meno scapestrato di quello che sembri. Bravo Ben! Tanto sai già che lei mi piace, approvata.».
Ben sorrise a sua volta. L’aveva presentata a Semir mesi fa e al collega la ragazza aveva fatto immediatamente buona impressione, il che per lui era importante, visto il suo incredibile sesto senso.
«Mi sembra incredibile, Ben Jager che si imbarca in una storia seria... quasi quasi mi fa paura.».
«Ma piantala, guarda che io sono un ragazzo serio.».
«Oh sì, mai pensato il contrario.» rise Semir «Sai, ho paura sia troppo intelligente per te. È una psicologa, una scrittrice... tu dovresti esserne spaventato.».
I due scoppiarono a ridere, di nuovo.
«Sarà meglio che iniziamo a lavorare, socio.» disse poi Ben, afferrando una penna e aprendo il primo fascicolo.

Andrea varcò la soglia del commissariato con un certo imbarazzo. Era strano, capitava ogni tanto che passasse a trovare Semir, ma erano parecchie settimane che non vi metteva piede e quel posto tanto conosciuto la fece sentire stranamente in soggezione. Sapeva che questo stato fosse dovuto alla situazione che stavano vivendo lei e il marito, anche se era estremamente convinta che nessuno lì dentro sapesse nulla, eccetto, forse, Ben.
Salutò calorosamente Susanne, che però sembrava molto indaffarata, impegnata a diffondere la notizia di un’evasione, probabilmente appena ricevuta.
Passò poi a salutare la Kruger, che la accolse con un sorriso e le chiese se andasse tutto bene. Ovviamente mentì anche a lei, dicendo che andava tutto per il meglio. Si chiese quanto questa farsa sarebbe potuta andare avanti.
Infine, si diresse con passo non troppo sicuro verso l’ufficio di Ben e Semir.
Dal vetro vide il marito di spalle, chino come il collega su una pila di fogli. Ebbe fortissima la tentazione di fare marcia indietro e non entrare, ma si costrinse a non fuggire dalla situazione che lei per prima aveva creato e bussò alla porta.
Entrambi gli ispettori sollevarono la testa di scatto e a lei non sfuggì lo sguardo preoccupato che Ben lanciò all’amico prima di andarle incontro e aprirle la porta.
«Ehi, Ben!» esclamò Andrea abbracciandolo, ancora prima di oltrepassare la soglia della stanza.
«Andrea, è un sacco di tempo che non passi da qui! Come stai?».
«Tutto bene, tu? Super fidanzato, mi dicono. Allora, quando mi farai conoscere questa famosa Maggie?» continuò lei, ostentando allegria.
«Presto, le ho chiesto di venire a vivere da me.» confessò il giovane poliziotto, arrossendo leggermente.
«Ma è meraviglioso! Bravo Ben, lo sapevo che sarebbe arrivata quella giusta!».
Ben sorrise, lievemente imbarazzato.
«Potresti venire a cena da noi stasera, Aida mi ha implorato di invitarti. Se ti va porta anche lei, ci farebbe piacere.».
«Maggie stasera è impegnata, tornerà tardi a casa...».
«Puoi venire anche da solo, o Aida finirà per arrabbiarsi con me.» propose ancora la donna.
«Questo e altro per la mia principessa!» accettò Ben, con un sorriso.
Poi sia lui che Andrea rivolsero lo sguardo verso Semir, che a braccia conserte aveva assistito a tutta la scena senza muovere un muscolo.
«Che cosa c’è?» chiese poi seccamente alla moglie, sperando che Ben intuisse l’aria che tirava e uscisse dalla stanza.
Il collega capì perfettamente che la situazione non fosse delle migliori e in un altro momento avrebbe sicuramente lasciato gli amici da soli, ma si sentì come se i piedi fossero stati incollati al pavimento. Non si mosse.
«Ho appena accompagnato Lily all’asilo e Aida a scuola, eravamo rimasti che poi ti avrei lasciato la macchina per portarla dal meccanico, ti ricordi?» disse Andrea, atona.
Quel “che cosa c’è?” era la prima frase che il marito le aveva rivolto dalla sera precedente.
Semir annuì «Sì, gliela lascio stasera.».
«Okay, ho... l’ho parcheggiata qua sotto, tieni.» aggiunse la donna, porgendogli le chiavi.
Il turco le prese e le appoggiò sulla scrivania.
«C’è altro?» chiese, guardandola negli occhi e costringendola ad abbassare lo sguardo.
Lei scosse il capo.
«No... ci vediamo stasera. Ciao Ben!» fece poi rivolta al più giovane, con un mezzo sorriso.
Ben salutò a sua volta e la osservò allontanarsi, mentre percorreva il corridoio verso l’uscita, passandosi fugacemente una mano sugli occhi.

Ben richiuse la porta dell’ufficio e tornò a sedersi alla scrivania di fronte al collega.
Lo vide sospirare silenziosamente e fissare per qualche istante quella foto che ritraeva lui e Andrea sorridenti insieme alla figlia più grande, che non aveva mai spostato dalla sua scrivania.
«Semir... è tutto okay?».
«Ben, non farti influenzare.».
Il più giovane corrucciò la fronte, senza capire di che cosa l’amico stesse parlando «Come?».
«Non farti influenzare da quello che sta succedendo tra me e Andrea, per favore. Goditi la tua storia e continua a pensare che Maggie sarà la donna della tua vita, perché magari sarà così, va bene? Non pensare che tutte le storie finiscano come la nostra.».
«Ma la vostra non è finita...».
Semir scosse leggermente il capo con un sorriso stanco «Ieri sera Andrea mi ha detto che non mi ama più.».
Ben sentì un brivido freddo percorrergli la schiena.
«Ieri... ieri sera?» balbettò.
Pensò a quanto stupido fosse stato poco prima a raccontargli di Margaret, fiero e sorridente. Si maledisse da solo.
«Non ti preoccupare, non lo potevi sapere. Non avrei nemmeno voluto dirtelo.» aggiunse il collega, come se gli avesse letto nel pensiero.
«Semir, mi dispiace così tanto...».
Semir si strinse nelle spalle, capovolse la foto che aveva sulla scrivania.
«Magari lo ha detto in un momento di rabbia, magari non lo pensa davvero, magari...».
«Ben... non serve fantasticare, lei lo ha detto perché lo pensa. Abbiamo litigato, poi abbiamo deciso di smetterla di gridare e discutere con calma, ma lei ha iniziato a piangere, dicendo di dovermi confessare una cosa. Poi mi ha detto che non mi ama più. Fine.» riassunse il turco «E chissà da quanto tempo lo pensa senza aver avuto il coraggio di dirmelo.».
«A me sembra incredibile...» mormorò Ben «Ne avete parlato?».
«Non voglio parlarne. Tantomeno con lei, non ora.».
«Ma Semir, dovete parlarne! Andrea si sarà espressa male, non puoi pensare che davvero...».
Il collega lo mise a tacere con una sola occhiata e al più giovane le parole morirono in gola.
«Ben, lascia perdere. Possiamo fare finta che non ti abbia detto niente e continuare a lavorare normalmente?».
Ben annuì, riprendendo in mano la penna e sistemandosi sulla sedia «Però mi prometti che quando avrai voglia di parlare conterai su di me? Lo sai, io ci sono.».
«Grazie socio, lo so.».

La fine della mattinata e il pomeriggio trascorsero tranquilli, senza emergenze e stranamente senza questioni in autostrada di cui non potessero occuparsi Dieter e Jenny.
Tuttavia, al comando vi era una strana agitazione.
Ben notò Susanne fare più di una volta avanti e indietro tra la sua scrivania e l’ufficio della Kruger con fogli e foto segnaletiche tra le mani, ma non vi diede molta importanza. Continuò a scrivere e a scrivere insieme al suo collega, e finalmente i due ispettori riuscirono a concludere tutto il lavoro arretrato che avevano accumulato.
Erano le sette di sera passate quando Semir alzò per la prima volta la testa dalle scartoffie e incrociò lo sguardo preoccupato del collega, che lo scrutava.
«Fine.» disse con un sospiro, posando la penna e concedendosi uno sbadiglio «Non ci posso credere, è passata un’intera giornata senza incidenti mortali o casi da risolvere, sono commosso.».
Ben annuì indeciso «Socio, forse non è il caso che stasera venga a casa vostra. Non vorrei creare ulteriore scompiglio...».
«Sai che a prescindere da tutto ci farà sempre piacere averti a cena.» sorrise Semir, facendogli l’occhiolino «E poi Aida sta andando in astinenza da Ben Jager.».
«Allora dovrò portare la chitarra!» esclamò il poliziotto, alzandosi in piedi e afferrando lo strumento che sostava appoggiato alla parete.
I due risero e uscirono dall’ufficio, salutando la Kruger e i colleghi velocemente.
«Ti dispiace andare a casa con la mia?» fece Semir una volta fuori dal commissariato, indicando a Ben la BMW parcheggiata e porgendogli le chiavi «Almeno io porto la macchina di Andrea dal meccanico e poi ti raggiungo. Ci vediamo a casa mia.».
«Certo socio, no problem.».
«Grazie, a dopo.» salutò il turco, salendo sulla macchina rossa della moglie e uscendo dal parcheggio con una sgommata.
Ben aspettò che se ne fosse andato e poi avviò l’auto del collega con un sospiro, diretto verso casa Gerkhan.

Parcheggiò davanti alla villetta e suonò il campanello, sorreggendo con la mano sinistra il vassoio di dolci che si era fermato a comprare lungo la strada.
Andrea giunse sorridente ad aprire, lo salutò ringraziandolo per i dolci e lo fece entrare in casa.
Ben respirò a pieni polmoni il profumo di pulito che lo circondava e non poté fare a meno di constatare quanto fosse legato a quella casa, a quella che in parte era diventata la sua seconda famiglia.
«Zio Ben, zio Ben!» le grida di gioia di Aida lo riscossero, riportandolo alla realtà, e l’ispettore fece appena in tempo a posare i dolci su un mobile che già la bambina gli era saltata in braccio.
«Principessa! Ma come sei bella con questo vestito, elegantissima!».
«Grazie.» rispose lei arrossendo e abbracciando il ragazzo a cui era tanto affezionata.
«Hai portato la chitarra!» esclamò poi, con gli occhi che le scintillavano.
«Ma certo mia principessa.».
Ben appoggiò la chitarra sul divano e fece scendere a terra la bambina, perché potesse aprire la custodia e studiarne il contenuto come le era sempre piaciuto fare.

Andrea osservava la scena a qualche metro di distanza e non poteva fare a meno di sorridere: l’affetto che c’era tra la figlia più grande e il giovane poliziotto era tangibile e lei sarebbe stata sempre grata a Ben per questo.
Si avvicinò mentre Aida era intenta a provare la chitarra, senza smettere di osservare la sua bambina.
«Ben, Semir dov’è?».
L’ispettore si voltò verso di lei, notando la sua espressione preoccupata.
«È andato a lasciare la tua macchina dal meccanico, sarà qui a momenti. Andrea, Semir mi ha accennato a quello che sta succedendo...» disse, abbassando la voce perché la bambina non lo sentisse.
Andrea annuì «Sì, immaginavo che te ne avrebbe parlato. Che cosa ti ha detto?».
«Sai che lui non lo ammetterebbe mai, ma non penso proprio che l’abbia presa molto bene.» rispose lui, sempre a voce bassa.
«Non sai quanto mi dispiaccia, Ben. Lo so, così io sicuramente mi trovo ad essere dalla parte del torto ma... non credere che io stia prendendo questa cosa alla leggera...».
«Non mi permetterei mai di pensare questo. Però secondo me dovreste parlare e...».
Ben si interruppe sentendo scattare la serratura e vedendo Semir comparire nell’ingresso.
«Ci sono!» annunciò.
Andrea sospirò leggermente, sempre rivolta a Ben «Vado a dare la buonanotte a Lily che è già nel letto.».
Poi sparì in cima alle scale.
Aida invece corse incontro al padre con un sorriso a trentadue denti stampato in viso «Papà, papà! Ben ha portato la chitarra!».
«Ben ti ha portato la chitarra?» ripeté il turco, fingendosi sorpreso «Magnifico, allora dovrai insegnargli a usarla.».
La bambina annuì soddisfatta, tornando poi a guardare lo strumento, mentre Semir raggiungeva il collega nel salotto.
«Hai portato anche i dolci? Non dovevi, Ben!».
«Almeno quelli.» rise il ragazzo, riconsegnando poi le chiavi della macchina all’amico.
«Andrea dov’è?».
Ben sorrise: pochi minuti prima Andrea gli aveva fatto la stessa identica domanda riguardo il marito. Questo fatto gli fece stranamente tenerezza.
«Su a mettere a letto Lily.» rispose, con dolcezza.
«Vado a darle la buonanotte anche io.» esclamò Semir, salendo le scale quasi di corsa.
Ben sospirò piano.
Erano una bella famiglia, dal suo punto di vista la famiglia perfetta. Si chiese con malinconia che cosa si fosse spezzato senza che lui da fuori se ne fosse accorto e si domandò anche se quel qualcosa si potesse ancora riparare, oppure se fosse troppo tardi.

La cena trascorse tranquilla, i tre adulti parlarono del più e del meno, lasciando però che fosse Aida a condurre il discorso. Quando c’era zio Ben, la bambina sembrava sempre avere mille cose nuove da raccontare e nei suoi occhi si leggeva un entusiasmo fuori dal comune.
Dall’esterno tutto sarebbe parso normale, ma Ben non mancava di cogliere lo sguardo di Semir costantemente lontano da quello della moglie e viceversa.
Giunsero al dolce, Aida mangiò di gusto i muffins che il suo ospite preferito aveva portato e andò a sedersi a cavalcioni di Ben, ridendo soddisfatta.
«Sarebbe ora che andassimo a dormire adesso, Aida.» disse a un tratto Andrea, guardando l’orologio «Domani hai anche la verifica di storia.».
La bambina sbuffò, guardando Ben nella speranza di ottenere da lui una breve proroga. Il ragazzo rise, arruffandole i capelli «Temo che la mamma abbia ragione, principessa.».
«La verifica di storia, cavolo.» mormorò invece Semir «Aida, cucciolo, ti avevo promesso che ti avrei aiutato a fare la ricerca.».
Aida annuì, sempre seduta sulle gambe di Ben ma rivolta verso il padre.
«Me ne sono dimenticato, scusami! L’hai fatta?».
«Certo che l’ha fatta.» rispose Andrea per lei «Credevi che l’avrei mandata a scuola senza la ricerca?».
«Me la sono completamente dimenticata.».
«Sai che novità.» replicò la donna, seria.
«Mi sono dimenticato una ricerca, Andrea, capita. Non è la fine del mondo.» controbatté Semir, pur imponendosi di rimanere calmo.
«Capita, certo. Tutto capita, non è vero?» continuò lei «Tutto è sempre giustificabile, sempre. Fino a che le persone non si stufano, tua figlia compresa.».
«Andrea, non mi sembra il momento, possiamo evitare per favore?».
«Ma... la ricerca l’ho fatta, non dovete litigare per questo.» intervenne Aida, con voce sottile.
«Non ti preoccupare tesoro, non litighiamo per te. Evidentemente tuo padre non ha avuto tempo.» rispose Andrea, rivolgendo un sorriso alla figlia «Come sempre, del resto.» aggiunse, rivolta al marito.
Semir respirò profondamente per evitare di mettersi a urlare.
«Andrea, basta, possiamo parlarne dopo.».
Ben, che fino a quel momento era rimasto immobile e in silenzio, si alzò rumorosamente dalla sedia con la bambina in braccio e afferrò la chitarra che aveva lasciato in salotto «Che ne dite se metto io a dormire questa bella principessa e le suono qualcosina?» disse poi, sorridente.
Andrea lo ringraziò tacitamente e il ragazzo non tardò a salire le scale e a chiudersi nella camera al piano di sopra con Aida e il suo inseparabile strumento tra le mani.
Non fece nemmeno in tempo a chiudere la porta che già sentì i padroni di casa cominciare a gridare.
Si sedette sul letto matrimoniale con un sospiro e rivolse un sorriso alla bambina che teneva seduta sulle ginocchia.
«Allora principessa, che cosa vorresti ascoltare?».

«È una ricerca, Andrea, una ricerca!» sottolineò Semir «Ti sembra il caso di fare una scenata per una ricerca di storia?».
«Proprio non capisci oppure fai finta, Semir?» continuò sullo stesso tono la donna «Non è la ricerca che conta, conta il fatto che Aida ci teneva, voleva che fossi tu a farla con lei. E tu l’hai delusa, ancora.».
«Da quando sono diventato un padre così orribile? Eh? Spiegamelo, per favore.».
«Da quando metti qualsiasi cosa davanti alla tua famiglia, qualsiasi cosa!».
«Io non mi permetto di dirti che tu non sai fare la madre.».
«Non ho mai detto che non sai fare il padre.» ribatté Andrea «Dico che evidentemente hai più interesse per altre cose. E le bambine lo capiscono.».
«Stai dicendo tutto questo solo perché per qualche settimana sono stato più impegnato al lavoro? Davvero siamo arrivati a tanto?».
«È una vita Semir, non sono settimane. Lo capisci?».

«Zio Ben, perché mamma e papà litigano sempre?» domandò Aida all’improvviso, interrompendo la magistrale interpretazione dell’ispettore di una canzoncina per bambini.
Ben posò la chitarra e accarezzò i capelli della ragazzina, guardandola negli occhi.
«Le persone litigano, piccola, succede. Papà e mamma hanno idee diverse, ma è normale.».
«Però loro urlano. E la mamma piange, ogni tanto.» puntualizzò lei, con lo sguardo assorto.
«Non ti devi preoccupare, forse è un periodo in cui loro sono stanchi, ma non ti devi preoccupare, te lo dice zio Ben.».
La bambina annuì, poco convinta.
«Allora, se ora io ti canto una bella ninna nanna mi prometti che andrai a dormire, principessa?».

«Ci siamo sposati che ero un poliziotto, ci siamo conosciuti in commissariato, hai sempre saputo come sarebbe stata la mia vita, hai sempre saputo il tempo che avrei avuto. È sempre stato così.».
«Forse pensavo che con due figlie sarebbe cambiato qualcosa.» affermò Andrea, con rabbia.
«Infatti è cambiato qualcosa!» esclamò Semir, gesticolando nervosamente «Ogni volta che metto piede in autostrada, ogni volta che devo estrarre la pistola, ogni volta che mi trovo in pericolo penso a loro. E penso a te. È cambiato qualcosa. Non posso più dire di non avere niente da perdere ed è così da quando è nata Aida, o forse già da quando ci siamo sposati... quindi è cambiato qualcosa.».
«Ma...».
«No, ascolta.» continuò il turco, interrompendo la moglie «La verità è che tu stai cercando dei pretesti. Queste sono tutte scuse. Me lo hai detto ieri sera, Andrea... Tu mi hai detto qual è il vero problema, l’ho capito. Ma non chiedermi di accettarlo. E non usare le bambine come scusa, non dirmi che non sono un buon padre solo perché per te questo matrimonio non vale più niente.».

Ben ormai non udiva nemmeno più le grida che provenivano dal piano di sotto.
Infatti non si accorse minimamente di quando cessarono e non si accorse nemmeno che qualcuno aveva salito le scale e aveva appena aperto la porta della camera in cui si trovava.
Semir rimase per qualche istante sulla porta a guardare l’amico che cullava tra le braccia Aida, ormai profondamente addormentata, canticchiando a bassa voce una melodia.
Quando Ben si accorse di lui, si voltò e gli sorrise senza smettere di cullarla «Tutto okay socio?».
Il turco si sforzò di sorridere.
«Grazie per averla portata su e averla fatta addormentare. E scusa, non volevo che la serata finisse così.».
«Non ti preoccupare.» rispose il collega, alzandosi e sistemando la bambina tra le braccia di Semir.
Lei si mosse appena.
«Shhh dormi principessa.» sussurrò ancora Ben, guardandola con affetto.
«La metto a letto.» disse Semir, entrando nella camera dove già la sorellina dormiva e adagiandola sotto le coperte.
«Papi...» mormorò Aida, prima che lui potesse allontanarsi dal letto.
«Cucciolo, sei sveglia?».
La bambina annuì, tenendo però gli occhi socchiusi «Hai fatto pace con la mamma?».
«Sì piccola, stai tranquilla. E domani se vuoi, dopo scuola, ti porto anche a fare la gita che non hai potuto fare ieri, che cosa ne dici?».
«Viene anche zio Ben?».
«Adesso glielo chiedo, va bene?».
Aida annuì, mezza addormentata.
«Ora però dormi, buonanotte. Ti voglio bene.» sussurrò Semir, rimboccandole le coperte e dandole un bacio sulla fronte.
Poi uscì dalla stanza chiudendo la porta e trovò Ben ad aspettarlo poco oltre la soglia.
«Mi dispiace davvero per quello che è successo, avrei dovuto evitarlo.».
«Socio, non ti preoccupare, dico davvero. Ma va tutto bene?» domandò il ragazzo, in apprensione.
L’altro annuì e Ben non poté fare a meno di notare quanto avesse l’aria stanca.
«Potresti prenderti qualche giorno, sai Semir? Per parlare con Andrea, stare con le bambine, riposarti un po’...».
Il turco sorrise scuotendo il capo.
«Dico davvero, hai bisogno di riprendere fiato.».
«Sto bene, Ben. E poi domani ho il giorno libero, è già qualcosa.» rispose Semir, cominciando a scendere le scale «Domani pomeriggio porterò Aida allo zoo, avrebbe dovuto andarci ieri con la scuola, ci teneva tanto: hanno inaugurato il nuovo recinto delle scimmie. Mi ha chiesto se vuoi venire anche tu.».
«Sentivo precisamente la mancanza delle scimmie.» commentò Ben, ridendo e seguendo il collega giù per le scale «Certo che vengo, mi fa piacere.».
I due poliziotti raggiunsero l’ingresso, dove Andrea li stava aspettando.
Abbracciò Ben per salutarlo «Mi dispiace tanto, siamo stati due maleducati.».
«Ma figurati, non è successo niente. Anzi, grazie per la cena, era buonissima.».
La donna sorrise grata e accompagnò l’ospite alla porta insieme al marito.
Lo videro allontanarsi nel buio, poi Andrea e Semir rientrarono in casa e i loro sguardi si incrociarono, per poi prendere nuovamente direzioni diverse.
Si stavano perdendo, e ne erano entrambi terribilmente consapevoli.

 

L’uomo sollevò finalmente il cappuccio dalla propria testa, tirando un sospiro di sollievo. Era al sicuro.
Si guardò intorno, storcendo il naso all’odore di umido che aleggiava in quella cantina e si sedette al piccolo tavolo di legno che occupava il centro della stanza.
La donna si sedette di fronte a lui «Bene, qui saremo tranquilli per un po’.».
L’uomo annuì lentamente.
«Allora, quando hai intenzione di agire?» domandò lei, eccitata.
«Con calma Kate, con calma. Presto gli arriverà la notizia che sono evaso, e già basterà questo a farlo cadere nell’ansia più profonda. Sarà una vendetta lenta, molto lenta. Voglio vederlo sgretolarsi pezzo per pezzo davanti ai miei occhi.».
La donna sorrise «Sarà tutto perfetto. Io nel frattempo proseguirò con gli appostamenti.».
«Brava.» fece lui, con voce pacata «L’edificio? L’hai controllato? I meccanismi funzionano ancora?».
«Come nuovi.».
«Fantastico. Fantastico...» commentò l’uomo, in un sussurro.
Nelle mani stringeva un foglio piegato in due, una vecchia foto.
La mise in tasca, e sorrise.

 

N.d.A.
Un altro capitolo introduttivo, un altro capitolo di litigi. Ma non disperate, prima o poi si arriverà al dunque...
Grazie a tutti coloro che stanno seguendo, a chi legge in silenzio e a chi recensisce, grazie davvero!
Sophie

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Capitolo 4
*** Non possiamo mollare ***


Dal capitolo precedente:
«Allora, quando hai intenzione di agire?» domandò lei, eccitata.
«Con calma Kate, con calma. Presto gli arriverà la notizia che sono evaso, e già basterà questo a farlo cadere nell’ansia più profonda. Sarà una vendetta lenta, molto lenta. Voglio vederlo sgretolarsi pezzo per pezzo davanti ai miei occhi.».
[...]
Nelle mani stringeva un foglio piegato in due, una vecchia foto.
La mise in tasca, e sorrise.



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GIORNO 3.

Semir parcheggiò la sua BMW davanti alla scuola di Aida e spense il motore, rimanendo all’interno della vettura.
Ben, accanto a lui, abbassò il finestrino con un grande sbadiglio.
«Ben, non sei obbligato a farlo, lo sai?» gli ricordò il turco, per l’ennesima volta.
«Me lo hai detto una decina di volte... invecchiamo eh?» scherzò il più giovane, con il sorriso sulle labbra.
«Dico sul serio, magari avresti un modo migliore di passare il tuo pomeriggio libero piuttosto che andare a visitare il nuovo recinto delle scimmie.».
Il ragazzo alzò le spalle «Maggie lavora e io starei tutto il pomeriggio in casa a suonare o mangiare schifezze, quindi preferisco trascorrerlo in compagnia delle scimmie e della mia principessa preferita.».
Semir sorrise e guardò l’orologio. Mancavano ancora cinque minuti al suono della campanella, erano arrivati in anticipo.
«Secondo te io non sono un buon padre?».
La domanda arrivò inaspettata e Ben dovette ripetersela nella mente prima di capire che cosa effettivamente l’amico gli stesse chiedendo.
«Andrea ti ha detto questo?».
«Tu rispondi.».
«Io penso che non esista un padre migliore di te. E te lo dico per esperienza personale, io so che cosa voglia dire non avere un buon padre.» rispose Ben, guardando l’amico negli occhi «Dico davvero.».
«Ho paura che le mie figlie non la pensino come te.» mormorò il turco, con un sospiro.
«Sai Semir, io ogni volta rimango stupito da quanto Aida ti assomigli. Non riesco a immaginare che lei possa desiderare un padre diverso da te e sono sicuro che non sia così. Non so che cosa ti abbia detto Andrea, ma in fondo sa anche lei che tu hai sempre messo le bambine al primo posto, dal momento stesso in cui sono nate.».
Il collega annuì, guardando un punto fisso al di fuori del finestrino «Spero tanto che tu abbia ragione, Ben.».
Il suono della campanella arrivò chiaro e tondo fino alle loro orecchie, archiviando il discorso, e una mandria disordinata di bambini uscì correndo dall’edificio rosa, come se tutti stessero scappando da qualcosa. C’era chi rideva, chi giocava, chi faceva i capricci ancora prima di incontrare i genitori. E poi c’era Aida, che notando la macchina del padre in fondo alla strada, corse sorridente verso di lui che era appena uscito dalla vettura per aspettarla.
Non succedeva spesso che il papà riuscisse a prenderla all’uscita da scuola, ma quando questo accadeva la bambina era felicissima.
Quando poi vide Ben seduto dal lato del passeggero, gli occhi le si illuminarono ancora di più «Zio Ben, sei venuto!» gridò, entusiasta.
«Ma certo mia principessa!» confermò lui con un sorriso allegro.
«E adesso tutti allo zoo!» esclamò Semir, salendo in macchina e mettendo in moto, assicurandosi prima che la figlia avesse allacciato la cintura.

«... E quindi riescono a mangiare tutte queste cose insieme in pochi secondi. Hai capito zio Ben?».
Aida concluse un discorso interminabile che aveva portato avanti dall’esatto istante in cui si era allontanata dalla gabbia delle scimmie, almeno un quarto d’ora prima. Era incredibile quante cose la bambina sapesse su quegli animali.
«Ho capito, è interessante!» esclamò Ben, tenendola per mano.
«Aida, ora riprendi fiato.» rise Semir, scompigliando i capelli alla figlia, che si mise a ridere.
«Non è ancora arrivata l’ora della merenda?» chiese Ben, imitando la voce di un bambino.
«Praticamente ho due bimbi al seguito.» commentò il collega, guardando l’amico e la bambina che camminavano per mano.
«Sì papi, anche io voglio la merenda!» disse Aida, stringendo nella mano libera la piantina cartacea dello zoo che le avevano consegnato all’ingresso.
«Qui dovrebbe esserci la baita... eccola!» fece Semir, facendo strada verso una piccola struttura in legno.
I tre entrarono e si sedettero a un tavolino accanto alla finestra, ordinando qualcosa da mangiare. Ben e Aida ordinarono una grossa fetta di torta al cioccolato ciascuno e fecero a gara a chi la finisse più in fretta.
Solo dopo un po’ il giovane ispettore si accorse che il collega non li stava guardando, ma tentava piuttosto di ascoltare il notiziario che la piccola tv incastonata nel legno proponeva a volume bassissimo.
«Semir? Tutto bene?» provò a chiedere Ben, ma il socio gli fece cenno di aspettare e continuò ad ascoltare, tamburellando nervosamente sul tavolo con le dita.
«Papi? Papi, posso andare a giocare qui davanti sullo scivolo?» chiese Aida, dopo essersi pulita il viso dai residui di cioccolato.
«Sì, ma stai qui davanti.» rispose il poliziotto, per poi tornare immediatamente con lo sguardo puntato verso il televisore.
«Mi scusi, potrebbe alzare il volume?» chiese all’uomo che sonnecchiava dietro al bancone del bar. Questi si riscosse e fece come gli era stato chiesto: finalmente le parole giunsero chiare alle orecchie dei due ispettori.
“La notizia ha avuto una diffusione sconcertante, in molti temono che il noto boss della droga abbia deciso di uscire dai confini territoriali. Le frontiere sono controllate e una foto segnaletica è stata diramata alle autorità e viene mostrata in ogni notiziario. Chiunque creda di avere notizie riguardo il possibile nascondiglio dell’evaso è pregato di rivolgersi alle forze dell’ordine, oppure...”.
«Semir, ma chi...» iniziò Ben, ma venne subito interrotto dal collega, che gli intimò di stare zitto ancora per qualche secondo.
“Ricordiamo il suo nome, Friedrich Keller, e invitiamo gli ascoltatori a collaborare perché quest’uomo venga riconsegnato alla giustizia.”.
Semir fece un cenno al  barista e questi riabbassò il volume. Poi, automaticamente, lanciò un’occhiata fuori dalla finestra e controllò che Aida fosse sempre intorno allo scivolo.
«Ehi socio, si può sapere che succede? Sei diventato pallido, stai bene?».
Solo allora il turco sembrò riscuotersi del tutto e tornò a guardare Ben, annuendo meccanicamente.
«Che cosa è successo? Conosci questo Keller?».
«Sì Ben... sì, lo conosco.».

Keller continuò a osservare quella fotografia.
Erano bellissime. Sua moglie, le sue due bambine, erano semplicemente perfette.
Isabelle, i lunghi capelli biondi che le incorniciavano il viso abbronzato, quei due enormi fari azzurri che le illuminavano il volto. E poi Sophie e Martha, gli amori della sua vita, le sue due figlie. La più grande mora, come il papà. La piccola bionda, come la mamma. Un quadro perfetto.
Sorridevano, nella foto. Erano felici.
«Allora, Friedrich... quando iniziamo a parlare seriamente di come agire?».
L’uomo alzò lo sguardo su Kate. Non gradì l’interruzione del flusso dei propri pensieri.
I suoi occhi erano pozzi grigi profondi, eppure sembravano emanare fiamme incandescenti.
«Quell’uomo le ha uccise... le ha uccise.» mormorò.
E in uno scatto d’ira si alzò e scaraventò la sedia contro il muro.

«Io... sono morte, io ho...» sussurrò Semir, mentre come incantato continuava a fissare le immagini dell’evaso che il notiziario divulgava senza sosta.
«Chi è morto? Semir, guardami.» fece Ben, cominciando a preoccuparsi e tentando di attirare l’attenzione del collega.
«La sua famiglia.» disse infine il turco, tornando a guardare il collega e lanciando un’occhiata fugace ad Aida attraverso la finestra «Sua moglie e le sue figlie. Per colpa mia.».
«Ma che cosa stai dicendo? Semir, sei sicuro di sentirti bene?».
«È stato... durante un’operazione di polizia. Keller era un magnate della droga, non aveva mai fatto un passo falso, per anni era riuscito a gestire il più grande mercato di droga della Renania Settentrionale-Vestfalia senza che la polizia riuscisse a trovare nulla per incastrarlo e far sì che fosse incriminato.» spiegò Semir, senza smettere di tenere d’occhio la figlia, che allegra giocava sullo scivolo con altri bambini della sua età «Poi però il mio collega riuscì a infiltrarsi nell’organizzazione e noi ottenemmo informazioni sugli scambi che si sarebbero effettuati nelle settimane successive e in particolare su quelli a cui lo stesso Keller avrebbe presieduto.».

«È stato durante lo scambio con i francesi. Ricordi Kate?» sibilò Keller, girando nervosamente per la cantina semibuia. Era incredibile quanto ricordare ancora facesse male. Ma era necessario.
«Tu non eri presente... ma ti raccontai come andò. Come accadde.».
La donna annuì, seria. Sapeva, pur senza comprenderne il motivo, che periodicamente quell’uomo sentisse il bisogno di riportare alla mente e raccontare quei fatti, nonostante fosse per lui terribilmente doloroso.
«Quello sbirro, quel suo collega si era infiltrato tra i miei uomini e aveva divulgato ogni informazione riguardo gli scambi con i francesi. Poi, quel giorno...».

«Quel giorno... il giorno in cui tendemmo l’imboscata a Keller e i suoi uomini, lui stava per portare a termine uno scambio con dei francesi.» continuò Semir, con un sospiro «Partecipammo sia noi dell’autostradale sia quelli dell’LKA. Il caso era di loro competenza, ma il commissario aveva chiesto aiuto alla Engelhardt e lei aveva messo a disposizione tutti i suoi uomini, addirittura lasciando che fosse uno di noi a infiltrarsi, per questo eravamo presenti.».
«Che cosa andò storto?» domandò Ben, chiedendosi come una situazione del genere potesse essersi conclusa con il coinvolgimento della famiglia di Keller.
«Uno degli uomini di Keller si accorse della nostra presenza appena prima che lo scambio avvenisse, quando già sia lui sia i francesi avevano raggiunto il luogo indicato.

«Quando mi dissero che la polizia ci aveva circondati, l’unica alternativa che mi rimase era la fuga.» ricordò l’evaso, scuro in volto.
Kate annuì, scrutando le espressioni dell’uomo che aveva di fronte e ascoltando quella storia che già conosceva a memoria.
«Corsi verso la mia macchina, era parcheggiata a pochi metri dal luogo dello scambio. Gli sbirri erano impegnati con i miei uomini, nessuno aveva notato la mia fuga. A parte quel turco. Lui mi seguì... maledetto.».
Keller strinse i pugni, cercando di dominarsi mentre di nuovo la rabbia minacciava di prendere il sopravvento sulla ragione.

«Keller tentò di fuggire e io lo seguii.» raccontò ancora Semir, continuando a tamburellare nervosamente con le dita sul tavolo «Gli intimai di fermarsi, ma ovviamente non mi ascoltò. Stava per raggiungere la propria auto, sarebbe fuggito sicuramente... si riparò dietro la macchina e cominciò a spararmi addosso. Io risposi al fuoco ma mirai anche agli pneumatici della vettura, per fare in modo che non potesse andare lontano anche se fosse riuscito a salirvi. Non avevo visto la perdita di benzina... io non l’avevo vista... l’auto prese fuoco.».

«Vai avanti.» gli intimò la donna, con una freddezza per lei naturale. Si sistemò i capelli dietro alle orecchie, e attese la fine del racconto.
«Le vidi bruciare, Kate...» sibilò Keller, a denti stretti, sentendo l’ira sconvolgerlo e il dolore dilaniarlo dall’interno «Sono saltate in aria davanti ai miei occhi.».

«Aveva i vetri oscurati, Ben.» mormorò il poliziotto, portando lo sguardo a terra e mordendosi le labbra «Io non sapevo... non potevo immaginare che dentro a quell’auto ci fossero una donna e due bambine. Avevo visto scendere solo Keller e il suo braccio destro dalla vettura, e poi lui si era riparato dietro di essa e mi stava sparando addosso e io non immaginavo che... tu sai che non avrei mai sparato se avessi avuto anche solo il minimo sospetto che ci fosse stato qualcun altro lì dentro. Non lo avrei mai fatto.».
«Lo so, Semir. Non potevi sapere.» disse Ben, dando al socio una leggera pacca sulla spalla «Ma non capisco, perché mai Keller avrebbe dovuto portare la sua famiglia allo scambio rischiando la loro vita? Non ha senso.».
L’altro scosse il capo «Non lo so, non l’ho mai saputo. Me lo sono chiesto per mesi, ma non ho mai trovato una risposta.».

«Ma io avrò giustizia, Kate.» asserì l’uomo, in preda alla rabbia.
«Certo che l’avrai, Friedrich.».
«Quel poliziotto ha distrutto la mia vita... io distruggerò la sua. Fosse l’ultima cosa che faccio, io lo vedrò supplicarmi, lo vedrò mentre guarda la sua vita crollare, lo vedrò sperare di morire. Fosse l’ultima cosa che faccio.».

«In quel momento ho visto quell’uomo cambiare, Ben.».
Il più giovane corrucciò la fronte, chiedendosi a che cosa alludesse l’amico. Aspettò che continuasse senza fare domande.
«L’ho visto diventare umano. Fino a quel momento era sempre stato solo un criminale senza scrupoli e nell’esatto istante in cui quella macchina ha preso fuoco io ho visto le rughe sul suo volto cambiare, i suoi occhi cedere alla disperazione, le sue mani tremare. Era dietro all’auto, è riuscito a salvarsi dall’esplosione per un pelo... Ma poi l’ho visto accasciarsi a terra e ho capito subito che ciò che era finito distrutto non dovesse essere solo una macchina... è stato terribile.» spiegò Semir, lanciando ancora un’occhiata ad Aida attraverso il vetro della finestra.
«Che è successo dopo?» chiese Ben, cautamente.
Il collega risollevò lo sguardo, scuotendo appena il capo per levarsi dalla mente le immagini orribili che i ricordi avevano scelto di riportare a galla.
«Keller venne arrestato. Confessò ogni cosa. Prima di essere trasferito in carcere, chiese di poter parlare con me, ma quelli dell’LKA glielo negarono. Così sì limitò a gridarmelo da lontano mentre veniva portato via...».
«Gridarti cosa, Semir?».
«“Io ti distruggerò... vedrai la tua vita crollare. Io ti distruggerò, fosse l’ultima cosa che faccio.”».
Ben annuì, sentendo un brivido scorrergli lungo la schiena.
«Poi io venni sospeso dal servizio per un periodo... ci fu il processo, ricordo ancora le parole del giudice: qualora si verifichi un evento più grave di quello voluto, ciò rientra nel rischio insito nell'uso delle armi da parte del pubblico ufficiale, e di conseguenza non può essere posto a carico del medesimo... io non ebbi conseguenze perché aprii il fuoco quando Keller aveva già cominciato a spararmi, legittima difesa. Però quell’“evento più grave di quello voluto” è stata la morte di tre innocenti... Ancora adesso, a volte, non ci dormo la notte.».
«Non me ne avevi mai parlato.» commentò il più giovane, sorpreso.
«È una cosa che riguarda il passato. All’epoca Aida era piccola...»
«Pensi che... che lui voglia...».
Semir alzò le spalle, ma aveva il terrore negli occhi.
«Devo portare Aida a casa. E stare a casa, con le bambine, con Andrea. Ben, andiamo.».
Il ragazzo annuì e seguì il collega mentre pagava velocemente le due fette di torta e usciva dalla baita, prendeva sua figlia per mano e si dirigeva a passo svelto verso la macchina, posteggiata di fronte all’uscita dello zoo.

 

Ben scese dalla macchina e salutò Aida con un bacio. Poi aspettò a rientrare in casa fino a quando la BMW del collega, che lo aveva riaccompagnato, non fu sparita all’orizzonte.
Sospirò ripensando alla storia che l’amico gli aveva raccontato e si ritrovò a sperare che l’evaso avesse già lasciato il paese, con il solo intento di fuggire il più lontano possibile. Quella storia lo aveva turbato, ma soprattutto lo aveva turbato la preoccupazione che aveva letto negli occhi di Semir mentre la raccontava. Sperò che arrivando a casa e trovando Lily e Andrea al sicuro il socio si sarebbe tranquillizzato.
Sommerso da questi pensieri, varcò la porta di casa nella più totale distrazione, ma sorrise raggiante quando ad accoglierlo si presentò Margaret, che lo salutò con un bacio.
«Ciao amore mio.» gli sussurrò lei all’orecchio, lasciandolo poi entrare e guardandolo mentre lui si toglieva la giacca ed entrava in cucina, alla ricerca di un po’ di calore.
Era un autunno rigido, talmente freddo che chiunque avrebbe pensato di trovarsi già in inverno pieno, e non solo al sedici di novembre.
Maggie gli cinse le spalle da dietro e lo abbracciò.
«Come è andata allo zoo con la tua principessa?».
«Bene...» mormorò Ben, prendendo la ragazza per mano e conducendola verso il divano, dove entrambi si sedettero accoccolati l’uno stretto all’altra.
«Sicuro?» chiese lei, notando l’espressione incerta del poliziotto.
«Sì, è solo che abbiamo saputo di un’evasione che c’è stata ieri mattina e...».
«Ah sì, Keller.» lo interruppe Margaret «Il magnate della droga, non si parla d’altro da ieri. Sai, me ne ha parlato anche un paziente. Sembrano tutti preoccupati.».
Ben annuì piano.
Margaret era una psicologa, lavorava in uno studio con un giro di pazienti che si era costruita da sola negli anni e di cui era particolarmente orgogliosa. Aveva seguito dei corsi di criminal profiling ed era stato proprio questo il primo argomento di conversazione tra i due, quando si erano incontrati in quel bar. Non appena lei aveva scoperto che Ben fosse un ispettore di polizia, aveva cominciato a raccontare di quanto lei sapesse in proposito, di quanto avesse sempre desiderato, fin da bambina, stare dalla parte dei buoni e catturare i cattivi. E di come, poi, la vita l’avesse portata sì ad aiutare le persone, ma non in veste di poliziotta, bensì di, come si definiva lei, semplice strizzacervelli.
Ma la sua vera passione era la scrittura. Scriveva, scriveva, scriveva fin da quando aveva avuto le conoscenze per farlo, appena bambina. Non aveva mai pubblicato niente, ma era in continua ricerca di spunti, di idee, di sentimenti da trasferire su carta.
E questo a Ben era piaciuto moltissimo, dal primo momento che l’aveva conosciuta.
Lei non si accontentava. Voleva sempre di più, voleva conoscere le storie delle persone, capirle, immaginarle. Voleva saperle scrivere.
«Non mi dirai che anche tu sei preoccupato per l’evasione, Ben?».
Il ragazzo si strinse nelle spalle, riscuotendosi dai propri pensieri e immergendosi negli occhi verdi di lei.
«Sono preoccupato per Semir. Lo aveva arrestato lui anni fa e mentre cercava di fermarlo la macchina di Keller aveva preso fuoco con dentro sua moglie e le sue due figlie. Keller gli aveva giurato vendetta.».
Il volto della ragazza si rabbuiò «Vuoi dire che...».
«Maggie, si ti raccontassi per bene tutta la storia, tu sapresti dirmi che intenzioni potrebbe avere Keller?».
Lei scosse il capo «Non traccio il profilo di un criminale da anni ormai, non so se ne sarei in grado. E poi mi servirebbe del materiale e...».
«Però potresti provarci. Ti fornirò tutto il materiale che vorrai. Va bene?» concluse Ben, mostrandole gli occhi dolci.
Margaret sorrise e annuì.
«Se ti fa stare più tranquillo certo che ci provo, amore mio.».

 

Semir si precipitò in casa con Aida per mano, in preda a un’ansia improvvisa.
Il suo respiro si regolarizzò solo quando vide Lily giocare beata sul tappeto in salotto e Andrea intenta ad apparecchiare la tavola in cucina.
Lasciò la mano della figlia più grande, che dopo aver salutato la mamma raggiunse la sorella per giocare, e tirò un sospiro di sollievo.
Andò in cucina, ancora con la giacca addosso e le chiavi della macchina in mano, e rimase a guardare Andrea per qualche istante, ma non disse niente. Il cuore batteva ancora troppo veloce per lo spavento.
«Semir, tutto a posto?» domandò la donna, vedendolo sulla porta in quello stato.
«Andrea, ti devo parlare.».
«È successo qualcosa? Aida sta bene?» chiese ancora la moglie, lanciando un’occhiata verso la figlia più grande, che però giocava tranquillamente con Lily.
«Non è successo niente, ma ti devo parlare.».
Andrea annuì, corrucciando la fronte. Il tono del marito non era quello duro e arrabbiato degli ultimi due giorni, né quello nervoso delle settimane precedenti.
«Andrea, ascoltami, non possiamo mollare.».
«Semir, ti prego...».
«No, ascoltami, parlo sul serio. Non possiamo mollare, non adesso. Hai capito? Magari questo è solo un brutto periodo, magari stiamo sbagliando entrambi, magari siamo solo stanchi. Ma non possiamo mollare. Andrea, ti prego. Tutto questo non può essere gettato via per sempre, il nostro matrimonio, la nostra casa, le nostre figlie... Io non voglio questo! E credo... credo che nemmeno tu lo voglia, credo che tu mi abbia detto quelle cose l’altra sera solo perché eri arrabbiata e...».
«Semir, per favore.» lo interruppe la donna «Che cosa stai dicendo? Sai che non è così e...».
«No, Andrea, ti prego, ascoltami.» continuò Semir, imperterrito «Io ti sto supplicando... non possiamo mollare tutto, non ora... ti prego.».

 

Che dire... vi ho spiegato parecchie cosette con questo capitolo, adesso la base della storia è intessuta e possiamo iniziare davvero. Grazie a chi mi segue e a chi recensisce, un bacione!
Sophie

PS: lo so, è improbabile, anche con la perdita di benzina, che una macchina esploda o prenda fuoco per qualche proiettile, ma prendetela come una piccola licenza poetica... d’altra parte, in Cobra 11 esplode quasi tutto, no?!
A presto!

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Capitolo 5
*** Sarà solo colpa tua ***


Dal capitolo precedente:

«No, ascoltami, parlo sul serio. Non possiamo mollare, non adesso. Hai capito? Magari questo è solo un brutto periodo, magari stiamo sbagliando entrambi, magari siamo solo stanchi. Ma non possiamo mollare. Andrea, ti prego. Tutto questo non può essere gettato via per sempre, il nostro matrimonio, la nostra casa, le nostre figlie... Io non voglio questo! E credo... credo che nemmeno tu lo voglia, credo che tu mi abbia detto quelle cose l’altra sera solo perché eri arrabbiata e...».
«Semir, per favore.» lo interruppe la donna «Che cosa stai dicendo? Sai che non è così e...».
«No, Andrea, ti prego, ascoltami.» continuò Semir, imperterrito «Io ti sto supplicando... non possiamo mollare tutto, non ora... ti prego.».


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GIORNO 4.

La donna girò attorno al tavolo come una pantera gira attorno alla propria preda ormai in trappola, con una specie di sorriso dipinto sul viso.
«Allora, Friedrich, da dove vogliamo cominciare?».
«Dalla paura.» sentenziò Keller, con decisione «Già solo il fatto che io sia evaso lo farà tremare. Voglio assicurarmi che il suo stato psicofisico diventi disastroso, Kate.».
«E per quanto riguarda il problema di cui ti ho accennato?» domandò Kate, sempre sorridendo beffarda.
«Potrebbe non essere un problema, dopotutto. Il fatto che abbia problemi con la moglie lo porta a stare peggio, il che per noi è un bene. E non credo proprio che lui possa tenere meno alla sua famiglia per questo motivo, per cui il problema non dovrebbe sussistere.».
«Molto bene. Allora, quando li avremo tutti come ci muoveremo?».
«Sarà un processo lento, Kate.» ribadì l’uomo, con voce ferma «Cominceremo dalle bambine.».
La donna scosse il capo «Io comincerei dalla moglie, Friedrich. Così non potrà nemmeno condividere il suo dolore con qualcuno. Sarà ancora peggio per lui, credimi.».
L’evaso rimase un attimo immobile a pensare, poi annuì. A volte il sadismo di quella donna lo sconvolgeva.
«Gli porteremo via tutto, Kate. Lo condurremo fino al limite della sopportazione. Vedrà tutto ciò che ha costruito crollare sotto i propri passi.».

Semir entrò al comando a passo di carica, dirigendosi verso il proprio ufficio scuro in volto, lanciando continuamente occhiate all’orologio.
«Spero che Dieter e Jenny siano già arrivati a casa mia, mentre venivo qui.» esclamò entrando rivolto a Ben, senza nemmeno averlo prima salutato.
Il collega, seduto alla propria scrivania, sollevò il cellulare mostrandolo all’amico «Mi ha appena chiamato Jenny, sono arrivati ed è tutto a posto. Mi ha detto che ti hanno visto, sono arrivati proprio mentre tu stavi uscendo di casa.».
«Bene.» fu la secca risposta del turco.
Avrebbe parlato del caso Keller con la Kruger in mattinata, ma nel frattempo aveva preteso che qualcuno controllasse la sua famiglia quando lui non era presente. Aveva chiesto a Dieter e Jenny di fare il primo turno, chiedendo loro di sostare semplicemente davanti a casa Gerkhan senza farsi vedere o dare spiegazioni ad Andrea, e avvisandoli che lei sarebbe uscita in mattinata, ma che loro sarebbero dovuti rimanere davanti a casa, dove sarebbero rimaste le bambine con la mamma di Andrea.
«Socio, hai parlato ad Andrea di questa faccenda?» chiese Ben, intuendo già la risposta.
Il collega infatti scosse il capo.
«No, anzi. Ieri sera l’ho supplicata di rimanere con me, di non mollare tutto adesso. Dignità sotto i piedi, proprio.» raccontò Semir con un sorriso amaro.
«E lei che cosa ti ha detto?».
«Lascia perdere Ben.».
Il ragazzo ammutolì, non osò chiedere altro per i cinque minuti successivi.
«Vuoi che andiamo a parlare con la Kruger?» domandò poi, constatando l’insistente silenzio dell’amico.
Pochi minuti più tardi erano entrambi nell’ufficio del commissario.

«E così lei crede che la sua famiglia abbia bisogno di due agenti che la sorveglino ventiquattro ore su ventiquattro?» ricapitolò la Kruger, dopo che Semir le ebbe raccontato tutta la storia dell’evaso.
L’ispettore annuì con convinzione.
«Commissario, io so che Keller proverà a vendicarsi, gliel’ho letto negli occhi sette anni fa e sono sicuro che sia così ancora adesso.».
«Gerkhan, sa che stamattina all’alba il suo boss della droga è stato avvistato in un aeroporto in Italia?».
Semir corrucciò la fronte, mentre anche Ben ascoltava, in disparte ma altrettanto sorpreso.
«Come scusi?».
«Già, in Italia. Pare che Keller abbia preso il volo e si sia dato alla fuga. Le autorità italiane stanno indagando, ma pare proprio che quest’uomo sia già lontano e sia riuscito a eludere ogni controllo per uscire dal paese.» spiegò la donna «Non che mi sorprenda, un uomo in grado di evadere da un carcere di massima sicurezza fingendo il trucco più vecchio del mondo del grave malore, è sicuramente anche in grado di fare perdere le proprie tracce e darsela a gambe.».
I due ispettori rimasero senza parole.
«Comunque sia, lascerò che per qualche giorno due agenti controllino la sua famiglia, se questo la farà sentire più al sicuro.» aggiunse la Kruger, comprensiva «Immagino che Jenny e Dieter siano già lì.».
Semir sorrise, sorpreso per l’ennesima volta per quanto quella donna avesse imparato a conoscerli.
«Grazie, commissario, grazie davvero.».

«Sei sicura che il luogo dove dobbiamo portarli sia sgombro e accessibile? E che il macchinario funzioni?» domandò Keller, sempre seduto al tavolo.
«Ti ho detto che è tutto a posto, credimi.» replicò Kate, un leggero fastidio nella voce «Stupiremo gli sbirri con effetti speciali, se mai ci troveranno.».
«Bene. Ora lasciami solo.».
La donna alzò un sopracciglio, contrariata.
«Per favore.» aggiunse l’uomo, sforzandosi di essere gentile.
Lei annuì e uscì, senza emettere un fiato e richiudendosi piano la porta alle spalle.
Keller ascoltò i suoi passi allontanarsi e sospirò, immergendosi nel silenzio che finalmente regnava sovrano nella piccola e umida stanza. Dopo qualche minuto passato a contemplare il vuoto, si decise a muoversi e estrasse dal cassetto nascosto sotto al tavolo alcuni fogli di carta ingiallita e una vecchia penna.
Era una stilografica, l’uomo si sorprese chiedendosi per quanto tempo fosse rimasta abbandonata lì dentro.
Poi si chinò sul foglio, cominciando a scrivere.
Cara Isabelle...”.

Ben osservò il collega rimettersi a sedere alla propria scrivania e contemplare ancora una volta quella foto incorniciata che due giorni prima aveva capovolto, ma che chi si occupava delle pulizie aveva rimesso in piedi in bella vista.
«Non credi alla storia della fuga in Italia, non è vero Semir?».
Il turco sospirò scuotendo il capo «Non lo so, mi sembrerebbe troppo bello per essere vero. E troppo facile. Magari qualcuno lo sta coprendo, magari...».
«E se invece fosse vero? Se l’obiettivo di Keller fosse solo fuggire?».
«Ben, io so che per te e la Kruger è difficile crederlo, non c’eravate... ma io ho visto quell’uomo negli occhi mentre realizzava di aver perso la sua famiglia a causa mia. Io... l’ho guardato negli occhi mentre mi minacciava e ti posso assicurare, quella non era una minaccia campata in aria.».
«Chi ti ha minacciato?» chiese una voce dura alle spalle dei due ispettori.
«Andrea, che ci fai qui?» fu la reazione stizzita di Semir, nel vedere la moglie che aveva fatto capolino dalla porta dell’ufficio senza bussare.
«Sono venuta a riprendere le chiavi della mia macchina, te ne eri già dimenticato?» rispose la donna, pronta ad attaccare.
«Ciao Ben.» aggiunse poi stancamente, rivolta all’altro poliziotto.
«Hai ragione.» fece il marito, cercando le chiavi della macchina in un cassetto e riconsegnandole a lei «Secondo il meccanico dovrebbe essere pronta.».
«Sì, ma non mi hai risposto.» insistette Andrea, afferrando le chiavi «Chi ti ha minacciato? Ci stai mettendo un’altra volta nei guai, non è così?».
Semir guardò Ben, che questa volta colse prontamente l’invito a uscire dalla stanza e si volatizzò in un secondo, chiudendosi discretamente la porta alle spalle. Ma non riuscì a fare a meno di rimanere a guardare ciò che accadeva attraverso i vetri, in piedi a qualche metro di distanza dalla porta dell’ufficio.

«Un’altra volta rispetto a quando di preciso, scusa?» domandò il poliziotto, infastidito, una volta che il collega ebbe lasciato la stanza.
«Avresti il coraggio di dirmi che non è mai successo?» controbatté la donna, con tono che non ammetteva una risposta negativa.
«Senti, possiamo non litigare anche qui, per favore?».
«Io non sto litigando.» puntualizzò Andrea, scandendo bene ogni parola «Ti ho solo fatto una domanda e gradirei una risposta. Per la terza volta, chi ti ha minacciato?».
«Stavo raccontando a Ben una cosa accaduta anni fa.».
«Sai una cosa Semir? Mi fai pena.» sussurrò lei, con fermezza.
Il marito la guardò senza capire di che cosa stesse parlando.
«Mi fai pena se pensi che io sia così stupida.» continuò lei, alzando decisamente il tono della voce «Credi che io non li veda i notiziari? Credi che io non mi ricordi delle minacce di Keller? Credi che non abbia visto Dieter e Jenny appostati davanti a casa nostra stamattina? Eh?» gridò istericamente, mentre le lacrime minacciavano insistenti di salirle agli occhi «Perché credi che io sia così stupida?».
Semir si alzò dalla sedia e si avvicinò alla moglie «Andrea, non è il caso di urlare in questo modo, calmati, dai...».
Ma la donna si divincolò, spingendo malamente l’ispettore lontano da lei.
«Calmarmi? Un pazzo a piede libero vuole ucciderci e io dovrei calmarmi?».
«Andrea, se solo provassi ad ascoltarmi...».
«Mi sono stancata di ascoltarti Semir!» gridò lei, cedendo alle lacrime «È solo per questo che ieri sera sei venuto a supplicarmi, non è così? Perché hai paura! Perché se ci capitasse qualcosa ti sentiresti in colpa!».
«Senti, ascoltami, con tutta probabilità Keller è già fuori dal paese, e tu non devi preoccuparti...» riprovò a spiegare Semir, tentando di avvicinarsi ancora una volta alla moglie per tranquillizzarla, ma lei lo respinse di nuovo.
«Non mi toccare!» gridò «Noi siamo in pericolo, le bambine sono in pericolo e tu non hai avuto nemmeno la decenza di dirmelo. L’ho dovuto sapere da un notiziario.».
«Te l’avrei detto stasera.».
«Sappi, Semir, che se dovesse succederci qualcosa... qualunque cosa... sarà solo colpa tua. Solo colpa tua!» esclamò ancora Andrea, prima di aprire la porta, uscire dall’ufficio e sbattere la porta a vetri dietro di sé.
Uscì dal commissariato quasi di corsa, con le lacrime che ancora le rigavano le guance, senza guardare in faccia nessuno dei presenti.

Ben rimase imbambolato davanti alla porta chiusa a seguire il litigio tra i due coniugi che si stava consumando all’interno dell’ufficio, e ben presto si accorse che ogni agente all’interno del commissariato stava facendo altrettanto.
Persino la Kruger era accorsa a seguire la scena, attratta dalle grida che le mura della stanza non erano riuscite a contenere.
Il giovane ispettore vide oltre il vetro Andrea che scoppiava a piangere, il marito avvicinarsi e lei respingerlo e urlare ancora. Poi vide la donna uscire dall’ufficio e non ebbe il coraggio di provare a fermarla.
Guardò all’interno della stanza in cui era rimasto il suo collega e vide Semir stringere i pugni e poi tirare un calcio violento alla sedia, senza riuscire a controllare il nervosismo.
Lo raggiunse di corsa.
«Semir, ehi, calmati...» fece con tono pacato, appoggiando una mano sulla spalla del socio.
«Credo di avere bisogno d’aria.» fu la risposta appena sussurrata dell’amico.
Poi prese la giacca e si avviò verso l’uscita.
Ben lo guardò mentre si allontanava, con un sospiro.

«Jager.» fece la Kruger, avvicinandosi all’ispettore «Si può sapere che cosa sta succedendo tra Gerkhan e Andrea?».
Ben si morse il labbro, senza sapere che cosa rispondere al commissario. Sapeva che la donna probabilmente fosse semplicemente preoccupata, ma sapeva anche che Semir era già stato reticente a raccontare a lui dei problemi con la moglie, non gli avrebbe fatto piacere che altri ne fossero al corrente.
Anche se, effettivamente, dopo la scenata a cui tutto il distretto aveva assistito, sarebbe stato difficile celare la reale situazione davanti a tutti.
«Capo, Semir e Andrea ultimamente non vanno molto d’accordo.» fu la laconica risposta del poliziotto.
«Me ne sono accorta.» commentò la Kruger «Ma la situazione mi è sembrata leggermente oltre i limiti.».
Seguì un attimo di silenzio imbarazzato e fu di nuovo la donna a parlare «Comunque, spero nulla di troppo grave.» disse, intuendo che l’ispettore non volesse sbottonarsi più di tanto al riguardo.
«Vada a recuperare il suo collega, Jager, dovreste essere già di pattuglia a quest’ora.» aggiunse poi, sparendo nel proprio ufficio.
Ben annuì e si diresse verso l’uscita, mentre tutti gli agenti distratti dal litigio che si era verificato poco prima tornavano silenziosamente alle proprie ordinarie mansioni.

Il giovane ispettore scese in fretta nel parcheggio e trovò Semir immobile, stretto nelle spalle, appoggiato al cofano della propria BMW.
Ben rabbrividì quando fu investito dal vento freddo di novembre e lanciò un’occhiata alle nuvole minacciose che rendevano grigio scuro il cielo sopra di loro. Andò ad appoggiarsi all’auto anche lui, vicino al suo collega, con un sorriso.
«Socio, ti va di parlare?» chiese, con calma.
Semir alzò la testa per guardarlo negli occhi e in quegli occhi Ben non lesse rabbia, ma una stanchezza infinita.
«Non so che cosa ci stia succedendo.» disse il turco in un soffio, tornando a guardare l’asfalto.
«Non che io sia un grande esperto.» cominciò il più giovane «Ma credo che nelle coppie che stanno insieme da tanto tempo qualche momento di crisi sia concesso... giusto, socio?».
«Sì, ma questa volta è diverso. Io e Andrea siamo così... lontani...».
Ben annuì, credendo di capire che cosa intendesse l’amico.
«Fino a qualche mese fa non sarebbe mai successa una cosa del genere, non avremmo mai litigato così davanti a tutto il commissariato.».
«Non ti preoccupare per questo, può capitare.».
«No, non deve capitare, Ben. Perché se litighiamo così al comando, o quando a cena ci sono ospiti o davanti alle bambine... se litighiamo in questo modo anche quando sappiamo che dovremmo e potremmo contenerci, allora è chiaro che qualcosa non va. Non so che cosa ci stia succedendo.».
Ben pensò che la logica del collega non facesse alcuna piega. Eppure, non riusciva a darsi per vinto nel credere che il suo ideale di famiglia perfetta si stesse sfaldando così facilmente.
«Io amo Andrea...» continuò Semir, sorprendendosi delle sue stesse parole. Non aveva pianificato di confidarsi così apertamente con l’amico «Io amo Andrea, ma credo che questo non basti più. Forse non abbiamo semplicemente più niente in comune. Forse lei ha sopportato troppo, forse non riesce più ad accontentarsi di quello che le posso offrire, del tempo che le posso dedicare...».
«Nel momento in cui ha scelto te, Andrea ha scelto anche la tua vita, Semir.» commentò Ben «Ha scelto anche il tuo lavoro e i rischi che il tuo lavoro comporta. Lo sai tu e lo sa lei.».
«Evidentemente non le va più bene.».
Il più giovane non rispose, limitandosi a dare una leggera pacca sulla spalla al collega.
«Dai socio, dobbiamo andare in autostrada. Forza, guida tu... ti aiuterà a rilassarti.» disse poi, provando ad alleggerire un po’ la tensione.
Semir sorrise «Grazie, socio, sei un amico.».

Quando Ben entrò in casa, ore e ore più tardi, era infreddolito e stanchissimo.
La giornata era passata tranquilla, lavorativamente parlando, ma stare dietro agli umori cupi del suo socio non era affatto semplice e questa situazione durava ormai da settimane.
Per fortuna, ad accoglierlo trovò Margaret sempre sorridente e bellissima, che lo salutò con un bacio e gli mise le braccia al collo sinceramente felice di vederlo.
«Come è andata la giornata?» gli domandò, accarezzandogli teneramente i capelli, vedendolo stanco.
«Bene, ma la situazione di Semir e Andrea mi preoccupa sempre di più. Oggi hanno litigato perché lui non le aveva raccontato di Keller.».
«Mi dispiace...» mormorò lei, mentre il sorriso le si spegneva sulle labbra «Però ho sentito alla televisione che Keller è stato visto in un aeroporto nel sud Italia. Sbaglio?».
«Sì, è vero.» confermò Ben, sedendosi sul divano «Ma Semir non è convinto e d’altra parte la notizia non è ancora stata confermata.».
«Vedrai, si risolverà tutto per il meglio.» commentò lei, ritrovando il sorriso e sedendosi accanto al poliziotto «Io invece ho una novità.».
Lui si illuminò «Che novità?».
«Ho scelto di iniziare a scrivere un nuovo libro.» confessò Maggie, con occhi luccicanti e aria soddisfatta.
«Ma è magnifico!».
«Sì! Non so ancora nello specifico di cosa tratterà, ma sarà sicuramente un thriller. Magari psicologico.».
«Mi piace l’idea.» fece Ben, con aria maliziosa «La mia scrittrice preferita!».
Lei lo guardò e scoppiò a ridere.
Poi lo baciò teneramente, spingendolo a sdraiarsi sul divano, senza smettere di sorridere.

 

Altra domenica, altro capitolo, altre basi per la storia, che pian piano giungerà al dunque.
Tutto per il peggio, ma il peggio deve ancora venire e nel frattempo il nostro evaso si diletta nella scrittura di lettere e la new entry Margaret nella scrittura di un romanzo.
Grazie a chi continua a seguirmi e a presto!
Sophie


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Capitolo 6
*** Distrazione ***


Dal capitolo precedente:

«Ho scelto di iniziare a scrivere un nuovo libro.» confessò Maggie, con occhi luccicanti e aria soddisfatta.
«Ma è magnifico!».
«Sì! Non so ancora nello specifico di cosa tratterà, ma sarà sicuramente un thriller. Magari psicologico.».
«Mi piace l’idea.» fece Ben, con aria maliziosa «La mia scrittrice preferita!».
Lei lo guardò e scoppiò a ridere.
Poi lo baciò teneramente, spingendolo a sdraiarsi sul divano, senza smettere di sorridere.




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QUATTRO GIORNI DOPO - GIORNO 8.


Erano passati altri quattro giorni.
Quattro lunghissimi giorni e non c’era stata alcuna novità riguardo l’evaso, niente di niente. Nonostante Semir continuasse a insistere sul fatto che la sua famiglia dovesse essere protetta e la Kruger continuasse a mandare due agenti davanti a casa Gerkhan ogni giorno, non era successo assolutamente niente. Nessun tentativo di aggressione, nessuna telefonata sospetta, niente.
La polizia italiana aveva confermato che la testimone, tedesca in suolo italiano per vacanza, era assolutamente certa di ciò che aveva visto. Ma le indagini continuavano in Italia così come in Germania, senza dare alcun esito.
La Kruger contattava quotidianamente il commissario dell’LKA per tenersi aggiornata sulle novità, ma ogni giorno riceveva in risposta un laconico “ancora niente” e riattaccava il telefono a metà tra il sollevato e il preoccupato.
Avrebbe dovuto spiegare al suo sottoposto che prima o poi non avrebbe più potuto mandare agenti a proteggere una famiglia che, con tutta probabilità, nemmeno era in pericolo, ma rimandava il discorso il più possibile, non aveva voglia di confrontarsi con l’umore scuro di Gerkhan in quel periodo.
Keller era sparito nel nulla, si era volatilizzato.

Ben salì in macchina decisamente di buon umore quella mattina.
Stavolta era il socio ad aspettarlo davanti a casa, tamburellando impazientemente con le dita sul volante.
«Alla buon’ora.» lo salutò Semir, con una smorfia indispettita.
«Socio, niente ramanzina!» gli ricordò Ben, con un sorriso.
Aveva fatto giurare al collega che per almeno un mese non avrebbe potuto dirgli nulla sugli orari, visto che nelle settimane precedenti era stato proprio lui a farsi aspettare.
«Come no.» fece il turco, avviando il motore e partendo alla volta del loro giro di routine in autostrada.
Sorrideva, ma Ben si accorse che dietro quel sorriso si celavano un dispiacere e una stanchezza enormi. Avrebbe voluto chiedergli come stesse, ma negli ultimi giorni Semir aveva evidentemente glissato ogni volta che lui gli aveva chiesto di Andrea o gli aveva suggerito di prendersi due giorni di ferie. Così preferì evitare direttamente l’argomento e si limitò a sospirare, addentando la brioche che aveva trovato sul cofano.
«Ben, ho fatto lavare la macchina fuori e dentro ieri pomeriggio, se me la ungi ti lascio a piedi in mezzo all’autostrada.» lo minacciò Semir, lanciandogli un’occhiata obliqua.
«Sto attento, giuro.» borbottò il ragazzo a bocca piena, ma gli veniva da ridere e fece uno sforzo sovrumano per trattenersi.
«Oh Semir, ti devo raccontare una cosa!» esclamò poi tutt’a un tratto, una volta terminata la colazione, con un sorriso a trentadue denti.
«Sarebbe?» fece l’altro, sbadigliando vistosamente.
«Maggie sta scrivendo un romanzo, un thriller! Non è meraviglioso?» raccontò il più giovane, felice come un bambino davanti al suo gelato preferito.
«Sei proprio cotto eh, Ben?» commentò il turco, con un mezzo sorriso.
«Temo di sì.» rise l’altro «Non vedo l’ora di leggerlo, lei mi ha detto che io sarò l’unico a poterlo leggere prima che lei lo pubblichi. Ti rendi conto Semir? Io sarò il suo primo lettore! È una cosa bellissima... e poi io credo di essere proprio innamorato questa volta. Voglio dire, lei è fantastica, è sempre allegra ed è così...».
Ben continuò a parlare per dieci minuti buoni e non si accorse nemmeno che dopo un po’ il collega non lo stava più ascoltando.
Solo quando vide l’auto che li precedeva diventare terribilmente vicina smise di parlare e guardò l’amico che era alla guida.
«Semir? Semir, che fai, frena!» gridò, prima di sentire il colpo.
Poi, senza che nemmeno avesse il tempo di accorgersene, la BMW sterzò appena prima di tamponare l’altra auto, poi si capottò e si capottò ancora, finendo per atterrare capovolta sull’asfalto bagnato.

Quando Semir aprì gli occhi, la prima cosa che vide fu il collega steso a terra, a qualche metro di distanza da lui.
L’unica cosa che riuscì a pensare di fare fu raggiungerlo, ma non appena provò a muoversi sentì dolore in tutto il corpo, come se ogni centimetro della sua pelle fosse ammaccato. Ci mise qualche secondo di troppo a mettersi in piedi, ma non appena ci riuscì si catapultò sul corpo immobile del ragazzo, disteso sull’asfalto.
«Ben! Ben, porca miseria, rispondi, Ben!» gridò scuotendolo per le spalle, accovacciato accanto a lui «Ben, svegliati, ti prego!».
Passò un minuto interminabile prima che il poliziotto riprendesse i sensi, ma finalmente, scosso dai continui schiaffetti che Semir gli mollava sulle guance, Ben aprì gli occhi e cominciò a tossire.
«Oddio, Ben, grazie al Cielo...» mormorò il turco, smettendo di scuoterlo e lasciandosi cadere seduto sull’asfalto accanto a lui.
Dietro di loro si era creata una fila infinita di vetture, e una volante della polizia seguita da un’ambulanza stava cercando di raggiungere il luogo dell’incidente percorrendo la corsia di emergenza.
«Stai bene?» domandò Semir al più giovane, mentre questi si rialzava dolorante.
«Sì... direi di sì...» rispose, controllando di non avere nulla di rotto e verificando con successo di riuscire a stare in piedi sulle proprie gambe.
«Okay...».
«State tutti bene?» chiese una voce alle loro spalle.
I due ispettori si voltarono, notando l’uomo appena sceso dall’ambulanza in tuta da soccorritore che correva velocemente verso di loro.
Di lì a poco anche la volante della polizia li raggiunse, e con sollievo Semir notò che da essa stavano scendendo Dieter e Jenny, che si sorpresero vedendo i due ispettori doloranti e la BMW a loro ben nota così distrutta.
«Ben! Semir!» gridò la ragazza, raggiungendoli e controllando che entrambi si reggessero in piedi «State bene? Che cosa è successo?».
«Io... io...» cominciò a balbettare Semir, ma il collega lo precedette.
«La ruote anteriori della macchina hanno slittato.» spiegò Ben, prontamente «Non so se sia stato l’asfalto bagnato, o forse abbiamo centrato una macchia d’olio. Semir non è riuscito a controllarla, ma va tutto bene. Stiamo bene.».
Il turco annuì, a confermare la realistica tesi del collega.
Jenny li fissò, ancora con la preoccupazione negli occhi.
«Non volete fare almeno un controllo?» insistette il soccorritore, intromettendosi nella conversazione.
I due ispettori risposero gentilmente che era tutto a posto e l’uomo andò a  controllare i conducenti delle macchine che li circondavano, che però, spavento a parte, non sembravano aver recato alcun danno. Avendo sterzato, anche se all’ultimo, la BMW non aveva coinvolto nell’incidente nessun’altra vettura.
«Jenny, rimanete voi a dirigere il traffico?» fece Ben, mentre Dieter già annuiva al fianco della ragazza «Abbiamo creato una bella coda, credo ci sarà bisogno di voi. Magari... magari io e Semir torniamo al comando. Possiamo prendere la vostra auto?».
Jenny annuì, pur trovando strano il comportamento del collega.
«Ma siete sicuri di stare bene? Semir, stai sanguinando.».
Semir si portò una mano alla tempia e si ritrovò effettivamente le dita sporche di sangue.
«Non è niente Jenny, è solo un graffio. Non vi preoccupate.» disse l’interpellato «E grazie per la macchina.» aggiunse, quando la giovane collega gli porse le chiavi della volante.
Poi i due ispettori si allontanarono, ma la ragazza non poté fare a meno di notare Ben che strappava con decisione le chiavi dalle mani di Semir e si sedeva al posto di guida.

«Semir, ti rendi conto di quello che poteva succedere?» sbottò Ben, non appena furono saliti in macchina.
L’altro aprì bocca per dire qualcosa, ma il collega lo precedette «Potevamo rimanerci secchi noi, poteva farsi del male qualcun altro! È un miracolo se siamo tutti interi.».
«Lo so, Ben...».
Il più giovane avviò il motore e partì quasi sgommando.
Aveva tagli su tutto il volto e stava sudando, nonostante il freddo che imperversava fuori dall’abitacolo.
«Mi spieghi come hai fatto a non vedere quello davanti a noi che rallentava?» continuò «Ha anche azionato le luci di emergenza, eravamo a distanza di sicurezza, ma tu non hai rallentato. Semir, come hai fatto a...».
Ben si interruppe di colpo.
Il collega guardava insistentemente fuori dal finestrino, non era nemmeno sicuro che lo stesse ascoltando.
Improvvisamente si rese conto che erano state l’agitazione e il panico a parlare in quegli ultimi secondi e si accorse di aver esagerato con i toni.
«Semir...» riprese, con più calma, continuando a guidare piano sulla corsia di destra, diretto verso il commissariato «Scusa, non volevo aggredirti, ma mi sono spaventato. Ho visto che non rallentavi e non capivo che cosa stesse succedendo.».
«Io... mi sono... mi sono distratto.» balbettò Semir, sempre rivolto verso il finestrino. La voce gli tremava.
La pioggia batteva forte contro i vetri dell’auto. Erano giorni e giorni che pioveva, ormai. Il sole non faceva capolino all’orizzonte da troppo tempo.
Entrambi i poliziotti rimasero in silenzio per il resto del tragitto.
Una volta arrivati nel parcheggio sotto al commissariato, Ben fermò la macchina e spense il motore, ma nessuno dei due accennò a uscire dalla vettura.
Semir continuava a guardare fuori dal finestrino, anche ora che erano fermi.
«Semir, scusami, non dovevo parlarti così.» disse Ben, di nuovo «Mi sono spaventato.».
Finalmente il turco si voltò, ma evitò di guardare l’amico negli occhi.
«Ben... io mi sono distratto.» ripeté, con la disperazione tangibile nella voce «Non... non mi era mai successo prima, non così. Se... se non sono nemmeno più in grado di concentrarmi sulla strada... allora io... io...».
Non riuscì a terminare la frase.
Il più giovane sorrise appena, cercando lo sguardo del collega «Socio, quanto tempo è che non dormi?».
«Come faccio a dormire, Ben?» fu la disarmante risposta di Semir.
«Lavoro tutto il giorno, torno a casa e praticamente Andrea nemmeno mi saluta. Non appena le rivolgo la parola cominciamo a litigare, tutte le sere e tutte le mattine prima che io esca per venire in ufficio finiamo per urlare. Non so nemmeno più perché litighiamo, ormai. Ho il terrore che quel pazzo di Keller si faccia vivo da un momento all’altro. E sai qual è l’ultima novità? Anche Aida ha iniziato a dirmi che non ho tempo per lei. Ben, dimmelo, come faccio a dormire?».
Il ragazzo rimase in silenzio, come pietrificato.
«E con questo non mi voglio giustificare.» continuò Semir, mettendo una mano sulla maniglia di apertura «Non avrei dovuto distrarmi e non capiterà più. Grazie per avermi coperto con Dieter e Jenny.» aggiunse, aprendo la portiera e uscendo dalla vettura, per dirigersi verso l’entrata del commissariato.

Il pomeriggio trascorse tranquillo, anche se nell’ufficio regnava un silenzio quasi innaturale, coperto solo dal rumore della pioggia che proprio non voleva saperne di smettere di scendere.
Ogni tanto Ben lanciava sguardi preoccupati al collega, a cui invece sembrava interessare solo l’orologio.
Non appena scattò l’orario della fine del turno, infatti, Semir si alzò dalla propria sedia e uscì dall’ufficio con un veloce “ciao Ben” che lasciò il ragazzo quasi di stucco.
Si maledisse per essere stato duro con lui subito dopo l’incidente e sperò con tutto il cuore che l’amico riuscisse a trascorrere almeno una serata tranquilla. Ne avrebbe avuto assoluto bisogno.


«Hai sentito dell’incidente?» quasi gridò la donna, entrando nella cantina come una furia, guardando Keller con occhi di fuoco.
Lui non ricambiò lo sguardo. Chino sui suoi fogli, seduto come sempre al vecchio tavolo, non distolse l’attenzione dalle sue occupazioni.
«Quale incidente?» domandò, senza alcun reale interesse.
«Quello di Gerkhan e del suo amichetto.» sibilò Kate, con una punta di disprezzo nella voce.
L’uomo alzò immediatamente lo sguardo.
«Gerkhan ha avuto un incidente?» chiese, questa volta con agitazione «Come sta?».
Il silenzio che ne seguì gli fece temere il peggio, ma poi la ragazza accennò a un sorriso.
«Bene. Stanno bene tutti e due, non si sono fatti un graffio. Ma ti rendi conto di che rischio stiamo correndo? Vuoi rischiare di non poter attuare la tua vendetta? È questo che vuoi?».
Keller si appoggiò sullo schienale della sedia, evidentemente più rilassato. Andava tutto bene.
«Calmati, Kate.» disse semplicemente.
«Gerkhan è stanco, Friedrich. Non dorme. Faccio appostamenti ogni giorno da mesi, so che cosa sta accadendo in quella casa. Potrebbe fare qualsiasi sciocchezza da un momento all’altro e potrebbe mettersi in pericolo ancora prima che noi arriviamo a sfiorarlo. Morto o in ospedale non ci serve, lo sai.».
«Ti ho detto di calmarti, Kate.» ripeté Keller, accendendosi un vecchio sigaro e inspirando piano «Rilassati. Agiremo domani mattina.».


Semir entrò in casa e posò le chiavi sul mobile dell’ingresso. Si tolse la giacca fradicia di pioggia e, notando il silenzio che regnava all’interno della casa, intuì che le bambine fossero già andate a dormire. Di nuovo troppo tardi.
Si sedette sul divano, esausto.
Quando Andrea passò davanti a lui, per poco non lanciò un urlo, lasciando cadere a terra il libro che aveva in mano.
«Oddio Semir, non ti ho sentito entrare.» esclamò, ma non vide nel marito alcuna reazione. Stava seduto e guardava il pavimento, immobile.
La donna raccolse il libro, lo posò sul basso tavolino che si trovava di fronte al divano e si andò a sedere accanto a lui.
«Che cosa ti è successo?» chiese, notando il taglio sulla fronte del poliziotto.
«Davvero ti interessa?» fece lui, con un sorriso sarcastico.
La moglie non rispose subito. Avrebbe desiderato una serata di tregua, lo avrebbe voluto davvero. Almeno per una sera.
«Ti ho solo chiesto che cosa è successo. Come ti sei tagliato?».
«Ho avuto un incidente.» fu la secca risposta di Semir.
«Con Ben? Lui sta bene?».
L’ispettore annuì.
«Come è successo?».
«È un interrogatorio?».
«Dal momento che fosse per te staremmo in silenzio, sì.» ribatté Andrea, con astio.
«L’ho provocato io, l’incidente.».
La donna corrucciò la fronte, ma il marito la precedette prima che potesse fare altre domande.
«L’ho provocato io e vuoi sapere perché? Perché ero distratto, perché non pensavo alla guida. Vuoi indovinare perché non pensavo alla guida?».
«Non ci provare, Semir. Non provare a incolparmi per questo.» scandì lei, con fermezza.
«Tu però puoi darmi la colpa per ogni cosa, non è così?» sbottò Semir, alzandosi dal divano «È colpa mia se arrivo tardi la sera, è colpa mia se tu non sei tranquilla durante la giornata, è colpa mia se due agenti devono stare davanti alla nostra porta perché potremmo essere in pericolo. E, dimenticavo, è solo colpa mia se non riesco più a concentrarmi in niente di quello che faccio, è colpa mia persino se Aida prende un brutto voto a scuola, o se Lily si sveglia piangendo di notte. È sempre e solo colpa mia, non è vero?».
«Non è certo un mio problema se tu ti distrai mentre guidi, Semir, mi dispiace dovertelo dire. Anzi, è talmente tanto un tuo problema che adesso puoi anche scordarti di uscire in macchina con le bambine, perché evidentemente non mi posso fidare. E nemmeno se abbiamo due agenti davanti alla porta è un mio problema. Di certo non ne avremmo bisogno, se tu non ci fossi.» quasi gridò Andrea, guardandolo fisso negli occhi.
Quella frase affettò l’aria nella stanza con una violenza inaudita.
«Bene.» fece Semir, dopo qualche istante di silenzio, incredibilmente calmo «E allora sai che ti dico? Va bene, hai ragione tu, separiamoci. Ma a cominciare da stasera.».
La donna non ebbe il tempo di replicare.
Il marito era già uscito, sbattendosi la porta alle spalle.
Voltandosi verso le scale, Andrea vide Aida in piedi, allibita, che guardava.

Quando il suo cellulare squillò, Semir lo udì appena a causa del rumore incessante della pioggia.
Stava vagando per le strade di Colonia, al buio, al freddo, solo.
Rispose aspettandosi una telefonata della moglie, ma con sorpresa al telefono udì la voce del suo collega.
«Ehi, socio, come stai?» domandò Ben, sperando vivamente in una risposta positiva.
«Ben, che cosa c’è a quest’ora?».
«Niente, volevo solo assicurarmi che stessi bene... ma che cos’è questo rumore? Pioggia? Non sei a casa?» chiese il giovane, cominciando a preoccuparsi.
«No... sono uscito. Me ne sono andato.».
«Che cosa hai fatto?» esclamò Ben, dall’altro capo del telefono, spalancando gli occhi.
«Ben, senti, lascia perdere. Ho litigato con Andrea.».
«Socio, non fare cretinate, diluvia e fa un freddo impressionante lì fuori. Quindi ora torna a casa, oppure prendi la macchina di Andrea e vieni da me, ma non provare a vagare per tutta la notte per Colonia, siamo intesi?».
Il turco sospirò piano.
«Ben, io non...».
«Socio, prendi quella dannata macchina e vieni a casa mia se proprio non vuoi tornare a casa. Ma muoviti.».
Semir scosse il capo, cercando nella tasca della giacca il secondo mazzo di chiavi della macchina di Andrea, visto che la sua era andata quasi distrutta.

Una decina di minuti dopo era da Ben.
Si scusò un centinaio di volte con Margaret per il disturbo, ma la ragazza si dimostrò molto contenta di vederlo e gli offrì subito una tazza di tisana bollente.
Semir raccontò all’amico che cosa fosse successo a casa e Ben lo invitò a rimanere lì per la notte. Lui ovviamente rifiutò.
Ma prima ancora che se ne potesse accorgere, vinto dal freddo e dalla stanchezza, si era addormentato sul divano del collega.
Dormì profondamente per tutta la notte.

 

N.d.A.
Quell’“agiremo domani mattina” promette finalmente un po’ di azione, ma soprattutto promette l’inizio di tanti tanti guai...
Grazie a chi continua a seguirmi e un bacione!
Sophie

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Capitolo 7
*** Lui vuole che tu viva ***


Dal capitolo precedente:

«Ben, io non...».
«Socio, prendi quella dannata macchina e vieni a casa mia se proprio non vuoi tornare a casa. Ma muoviti.».
Semir scosse il capo, cercando nella tasca della giacca il secondo mazzo di chiavi della macchina di Andrea, visto che la sua era andata quasi distrutta.
Una decina di minuti dopo era da Ben.
Si scusò un centinaio di volte con Margaret per il disturbo, ma la ragazza si dimostrò molto contenta di vederlo e gli offrì subito una tazza di tisana bollente.
Semir raccontò all’amico che cosa fosse successo a casa e Ben lo invitò a rimanere lì per la notte. Lui ovviamente rifiutò.
Ma prima ancora che se ne potesse accorgere, vinto dal freddo e dalla stanchezza, si era addormentato sul divano del collega.
Dormì profondamente per tutta la notte.

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GIORNO 9:


Semir si svegliò con la luce dell’alba che penetrava attraverso le tende del salotto.
Ci mise un po’ per ricordare che cosa fosse successo, tanto aveva dormito profondamente, ma quando gli tornarono alla mente le immagini della serata precedente, desiderò con tutto se stesso di ripiombare nel sonno.
Consapevole che ciò non fosse possibile, si alzò dal divano con un sospiro e si avviò verso la finestra. C’era il sole. Era flebile, un sole pallido e invernale, ma era la prima volta da settimane che il cielo era così limpido.
L’ispettore si diresse verso la cucina e scrisse in fretta un biglietto per il padrone di casa, che ancora stava dormendo insieme a Margaret.
Guardò l’orologio: le sette passate. Sorrise. Se non si fosse svegliato in fretta il suo socio sarebbe sicuramente arrivato in ritardo al lavoro.
Lo avrebbe ringraziato per l’ospitalità più tardi, una volta al comando, prima doveva tornare a casa da Andrea, dirle che andava tutto bene.
Uscì chiudendosi piano la porta alle spalle, dopo aver lasciato il biglietto in bella vista sul tavolo dove Ben avrebbe fatto colazione.
Poi entrò in macchina e avviò il motore.

Helen Klein Schäfer era sempre stata una signora distinta, ora sui settantacinque anni, amante della tranquillità più assoluta.
L’unica cosa che amava più di una mattinata passata a leggere un buon libro sulla propria poltrona, era una giornata intera trascorsa con le sue due nipotine.
Era stata felice quando la sera prima Andrea l’aveva chiamata dicendole che l’indomani mattina avrebbe avuto delle commissioni importanti da sbrigare e che aveva bisogno di lei perché le tenesse le bambine.
Così, nonostante la figlia le avesse detto di non svegliarsi all’alba per lei ma di fare con calma, Helen alle sette si era ritrovata a essere già vestita e fuori di casa, con in mano due pacchetti di brioches fumanti per le sue bambine. Le avrebbe svegliate con quel profumino delizioso, le avrebbe aiutate a prepararsi e poi avrebbe portato la piccola all’asilo e la più grande a scuola, per poi andarle a riprendere al termine della mattinata e cucinare loro qualcosa di buono per pranzo.
Non sapeva quali commissioni la figlia dovesse sbrigare, ultimamente lei e Andrea parlavano meno. Lei le aveva giusto accennato a qualche problema che aveva avuto con Semir, ma Helen confidava sia nella figlia sia nell’ispettore che ormai conosceva da così tanto tempo, ed era sicura che insieme loro due avrebbero superato qualsiasi cosa.
Con la testa affollata dai pensieri, raggiunse la casa di Andrea a piedi in poco più di dieci minuti.
Avvicinandosi all’ingresso udì delle voci e pensò che la figlia si trovasse in giardino, magari con una delle piccole già sveglia a quell’ora.
Avanzando, tuttavia, la signora cominciò a intuire che si trattasse di una voce soltanto. E quando ne comprese le parole, rabbrividì.
Quella voce chiedeva aiuto.
Era la voce di sua figlia.

Semir si trovava ormai a due minuti in macchina da casa, quando il cellulare squillò nella tasca del giubbotto.
Pensò si trattasse di Andrea e che non ci fosse bisogno di rispondere, sarebbe stato a casa a momenti.
Il telefono, però, non voleva smettere di squillare. L’ispettore lo estrasse dalla tasca e, con sorpresa, lesse sul display il nome della suocera.
«Pronto?» fece aprendo la comunicazione, mentre con una mano reggeva il volante, guidando verso casa.
«Semir? Semir?» esordì la voce concitata e tremante dall’altra parte del telefono.
«Helen, è tutto a posto?».
«Semir, dove sei? Non sei in casa? Stanno portando via Andrea! Semir...» l’anziana signora era in preda al panico e a Semir balzò il cuore in gola nel giro di un attimo.
«Che cosa? Dove si trova?».
«Davanti a casa vostra... Semir, non sei in casa? Aiuto, oddio, aiuto!» la voce si era praticamente trasformata in pianto.
Il poliziotto svoltò l’angolo della via che lo avrebbe condotto a casa, giusto in tempo per vedere, di fronte a sé, una vettura che sgommava al termine della via, allontanandosi a tutta velocità.
Cercando di non perdere lucidità, frenò non appena vide la mamma di Andrea che, in mezzo alla strada, piangeva disperata, ma rimase pronto con il piede sull’acceleratore per ripartire.
«Helen! Helen, mi ascolti, entri in casa dalle bambine e chiami la polizia, mi ha capito?» le disse, sporgendosi dal finestrino aperto, mentre la signora continuava a singhiozzare, pallida e in preda al panico «Helen, si chiuda in casa con le bambine, faccia come le ho detto. Io li seguo.».
La donna annuì, senza avere la forza di replicare, con le lacrime che le rigavano le guance.
«L’hanno portata via...» sussurrò, ancora.
«Si fidi di me e faccia come le ho detto. Io la vado a riprendere.» aggiunse Semir, prima di sgommare all’inseguimento della monovolume nera che aveva appena svoltato a destra in fondo alla strada.

Mentre cambiava marcia e accelerava cercando di recuperare terreno e non perdere di vista la vettura, Semir provò a ordinare al suo cervello di calmarsi e di rimanere razionale.
Senza lasciare che le emozioni prendessero il sopravvento, compose sul cellulare il numero del comando, senza guardare. Fosse stato nella sua auto avrebbe usato la radio di servizio, ma non importava. Doveva rimanere calmo.
«Polizia autostradale, Susanne König, buongiorno.» rispose la segretaria con tono professionale.
Semir ringraziò il Cielo che la ragazza fosse già in ufficio.
«Susanne, sono io.» fece, sforzandosi di non parlare troppo velocemente «Sto seguendo una monovolume nera in Weisser Straße, si dirige verso l’entrata dell’autostrada, ho bisogno di rinforzi, io sono sulla Opel rossa di Andrea.».
«Semir, che succede? Non sei ancora in servizio, che cosa...».
«Hanno rapito Andrea, credo sia nel bagagliaio della monovolume. Non so quanti sono e se sono armati, ma è probabile che lo siano. Susanne, muoviti, ho bisogno di rinforzi. Stiamo prendendo l’autostrada ora, direzione Düsseldorf.».
Ci fu un attimo di silenzio, dettato dalla paura.
Ma poi la donna rispose in fretta, efficiente come al solito «Okay, te li mando subito, tu resta in linea.».

Semir effettuò una serie di sorpassi a folle velocità, tentando con fatica di stare dietro alla monovolume che, ormai accortasi dell’inseguimento, non accennava a rallentare.
Quando finalmente riuscì ad accostarla, ebbe appena il tempo di notare una donna bionda alla guida, ma dovette rallentare improvvisamente quando questa estrasse una pistola puntandola verso di lui.
Il poliziotto accelerò ancora, provando di nuovo ad affiancare la vettura più grande, nell’intento di provare a superarla e farle perdere velocità, ma la donna alla guida fu più veloce.
Sparò alle gomme della macchina che guidava Semir ancora prima che lui potesse provare a prendere la mira per fare altrettanto e la Opel finì fuori strada, sfondando il guard­-rail e fermandosi capovolta nella cunetta a lato dell'autostrada

.

«Porca miseria.» imprecò l’ispettore, frantumando un finestrino dall’interno nell’intento di uscire dall’auto ormai esanime.
Sentì le sirene dei colleghi alle sue spalle farsi sempre più vicine e rimase disteso per terra, per metà ancora dentro alla vettura, cercando di riprendersi dall’impatto.
Ormai la monovolume era lontana. Non si vedeva più all’orizzonte.
E il taglio sulla fronte di Semir aveva ricominciato a sanguinare.

Quando entrò al comando insieme agli agenti che erano accorsi sul posto per aiutarlo nell’inseguimento, Semir trovò Ben che chiedeva insistentemente informazioni a Susanne, la quale scuoteva il capo meccanicamente, con aria preoccupata.
Quando lo vide arrivare, il ragazzo gli corse incontro con gli occhi colmi di apprensione.
«Semir, stai bene?» domandò, assicurandosi che il socio fosse tutto intero. Ma a parte qualche livido in più rispetto al giorno prima, fisicamente non sembrava aver riportato danni.
«Sto bene... ma mi sono lasciato sfuggire quel bastardo. Porca miseria, se solo fossi stato più veloce, se solo avessi estratto prima la pistola, se solo...».
«Okay, Semir, calmati e respira. Dimmi tutto quello che sai e la ritroviamo.» affermò Ben con sicurezza, facendo sedere il collega sulla prima sedia che gli capitò sotto mano.
«Non so niente Ben, mi ha chiamato la madre di Andrea mentre tornavo a casa dicendomi che stavano portando via sua figlia... Io sono arrivato mentre ripartivano e li ho seguiti, ma non so niente, non sono riuscito a prendere il numero di targa e non sono riuscito a fermarli.» raccontò il turco, tutto d’un fiato «Quel bastardo di Keller, sapevo che non poteva essersene andato dalla Germania. Maledetto...».
«Siamo sicuri ci sia Keller dietro al rapimento?» domandò la Kruger, facendo la sua comparsa alle spalle di Ben, con aria grave.
«Chi vuole che sia, capo?».
«L’ha visto dentro alla monovolume?» chiese ancora la donna, avvicinandosi ai due ispettori.
«No, a guidare era una donna, l’ho vista di sfuggita. Ma capo, mi creda, può essere stato solo Friedrich Keller, quell’uomo mi vuole morto e io non oso immaginare...».
«Semir, quell’uomo non ti vuole morto.» fece una voce inaspettata alle sue spalle, interrompendolo e facendo sì che tutti si voltassero verso di lei.

Ben corrucciò la fronte «Maggie?».
La ragazza sorrise, avvicinandosi al gruppo «Ti ho visto uscire di corsa e ti ho sentito parlare al telefono di qualcosa che riguardava Semir, quindi ho pensato all’evaso di cui mi avevi parlato e sono venuta di corsa qui.».
Poi si rivolse alla Kruger, tendendole la mano «Commissario, io sono Margaret Maier. Sono una psicologa, in passato ho seguito corsi di criminal profiling e... vorrei poter dare una mano.».
Il commissario afferrò la mano della ragazza, stringendola con vigore.
Non pensò nemmeno al fatto che l’eventuale collaborazione della ragazza con la polizia non rientrasse in alcun dossier ufficiale o che prima di decidere se accettare o meno il suo aiuto avrebbe dovuto informarsi su di lei, sulle sue conoscenze e sulla sua esperienza. Aveva intuito si trattasse della ragazza di Jager, le sembrava una persona sincera e loro avrebbero avuto bisogno di aiuto. Le bastò questo.
Ben sorrise al cenno d’assenso della Kruger e guardò la sua ragazza con un pizzico di orgoglio.

«Come sarebbe “non mi vuole morto”?» chiese Semir rivolto a Margaret, riportando tutti alla realtà e alla frase con cui la psicologa aveva esordito nel discorso.
«Ben mi ha raccontato la storia, Semir.» spiegò la ragazza, mordendosi appena le labbra. Sapeva che ciò che avrebbe detto di lì a poco avrebbe gettato nel panico il piccolo ispettore, ma non riusciva a trovare un modo meno d’impatto per spiegarsi.
«Che cosa ti ha detto Keller prima di essere arrestato, all’epoca?».
Semir impallidì. Aveva capito perfettamente dove la ragazza volesse arrivare.
«“Vedrai la tua vita crollare...”» ricordò, con un filo di fiato.
Maggie annuì.
«Lui non ti vuole morto, Semir, lui vuole che tu viva. Vuole che tu viva e che veda crollare tutto attorno a te. Per questo ha preso Andrea.».
Calò il silenzio.
Ben, Margaret, Susanne e la Kruger rimasero per alcuni secondi immobili, scambiandosi tra loro fugaci occhiate e aspettando una reazione da parte di Semir, che però non arrivò.
Il turco annuì e respirò piano.
«Da dove cominciamo?» domandò poi, guardando ognuno di loro negli occhi, con apparente calma.
«Hartmut è già a casa sua, Gerkhan. Sta cercando tracce insieme alla squadra della scientifica, gli ho detto di chiamarvi non appena ha novità.» comunicò la Kruger «Quanto a noi... signorina Maier, venga nel mio ufficio, lavoreremo insieme sul profilo di Keller. Susanne, lei cerchi informazioni su di lui e sui suoi contatti in Germania e passi ciò che trova a Jager e Gerkhan. Sia mai che scoprissimo chi potrebbe essere la donna al volante. Io nel frattempo mi occupo di avvisare l’LKA. Dobbiamo cominciare dal poco che abbiamo, forza.».
Gli altri annuirono e si misero al lavoro.

La giornata proseguì senza alcuna novità.
Semir aveva chiamato la mamma di Andrea dicendole di portare le bambine da lei per la notte e tentando di tranquillizzarla riguardo la sorte della figlia, senza troppo successo.
Poi si era assicurato che due agenti non si muovessero da davanti al portone della casa dei suoceri e aveva scoperto che quella mattina l’agente incaricato della sorveglianza davanti a casa Gerkhan si era appisolato, in assenza del collega che non si era presentato al lavoro per malattia, e non si era accorto in tempo del rapimento di Andrea.
Avrebbe potuto riportarlo alla Kruger, andare a fargli una lavata di capo immensa, ma non fece niente di tutto ciò.
Per tutto il pomeriggio, infatti, Ben si chiese come l’amico potesse essere così calmo sapendo la moglie in mano all’evaso. Non era da lui.
Erano le sei di sera passate, quando si accorse che il collega non stava più guardando lo schermo del computer per vagliare gli articoli su Keller che Susanne passava loro. Stava guardando la foto, quella foto che ritraeva lui, Andrea e Aida sorridenti, la stessa foto che qualche giorno prima aveva capovolto e poi magicamente ritrovato dritta al suo posto sulla scrivania. La fissava.
«Socio, la troveremo.» fece Ben, scrutando l’amico con preoccupazione.
«Dobbiamo trovarla.» fu la risposta di Semir, appena sussurrata «L’ultima cosa che le ho detto è stata “separiamoci”... dobbiamo trovarla.».

 

N.d.A.
Un minimo di azione, poca, ma spero ve la siate goduta perché in questa storia di azione, come anticipato, non ce ne sarà molta...
I guai sono appena all’inizio!
Grazie a chi continua a seguirmi e grazie Reb per le recensioni, davvero :)
Buona domenica e a presto!
Sophie

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Capitolo 8
*** Calma ***


Dal capitolo precedente:

«Socio, la troveremo.» fece Ben, scrutando l’amico con preoccupazione.
«Dobbiamo trovarla.» fu la risposta di Semir, appena sussurrata «L’ultima cosa che le ho detto è stata “separiamoci”... dobbiamo trovarla.».

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GIORNO 10.

Ben e Semir avevano lavorato per tutta la notte, vagliando i documenti che Susanne passava loro nella speranza di trovare qualcosa, un luogo, un nome, un qualsiasi contatto che li potesse avvicinare a Keller.
Hartmut non aveva trovato niente di utile alle indagini sul luogo del rapimento e la Kruger e Margaret avevano trascorso ore e ore chiuse nell’ufficio della prima per provare a entrare nella mente dell’evaso, il più precisamente possibile.
L’LKA aveva cominciato a occuparsi del caso, invitando caldamente l’autostradale a starne fuori e assicurando che avrebbero interrotto le ricerche con il sopraggiungere della notte, per poi riprenderle all’alba il giorno successivo.

Erano le sette e mezza del mattino quando Susanne entrò trafelata nell’ufficio dei due ispettori.
Non si accorse nemmeno che nel frattempo entrambi avevano ceduto al sonno e li fece involontariamente sobbalzare.
«Ce l’abbiamo!».

I due poliziotti si precipitarono verso la scrivania della segretaria, trovando già la Kruger e Margaret davanti al computer.
«Susanne, come ce l’abbiamo?» domandò Semir, mente il cuore ricominciava a battere troppo veloce.
«È comparso il segnale del suo cellulare. È a venti minuti da qui, nell’area industriale, dovrebbe essere Havermen Straße 25. C’è un capannone in quell’area, potrebbe essere lì, ma il segnale non è così preciso.» comunicò la donna, digitando in fetta alcuni tasti sulla tastiera.
«Andiamo.» ordinò la Kruger, afferrando le chiavi della propria macchina «Vengo anche io. Jager, vi seguo in macchina. Bonrath, Dörn, venite anche voi. E chiamate un’ambulanza, potrebbe essercene bisogno.».

Dopo poco più di un minuto, gli agenti erano in macchina.
Ben si fiondò al posto di guida prima che il collega potesse anche solo pensare di dirigervisi e, non appena Semir fu salito dal lato del passeggero, uscì sgommando dal piazzale.
Non avevano avuto il tempo di discutere su quale potesse essere il motivo per cui il segnale fosse comparso all’improvviso, ma la verità era, forse, che in fondo ciascuno di loro preferiva non saperlo.
Immaginavano che arrivare e trovare Andrea viva e vegeta sarebbe stato irrealistico, sicuramente troppo facile. Sicuramente non c’era da aspettarsi una mossa del genere da un criminale come Keller.
Eppure, quel segnale si era acceso.
Pur non avendone parlato, i due ispettori erano giunti mentalmente alla medesima conclusione: dove essere stato attivato di proposito. E questo poteva portare a due sole conclusioni: o si trattava di una trappola, oppure Keller aveva voluto che loro la ritrovassero. E, in quel caso, Ben temeva seriamente per le condizioni in cui l’avrebbero trovata.
Ma non confessò le sue preoccupazioni al suo socio, non disse nulla.
Si limitò a guidare in silenzio per almeno metà del tragitto.
Poi però, guardando l’amico impassibile affianco a sé, sentì fortissimo il bisogno di parlare.
«Semir, la tua calma mi fa paura.» disse, con la sincerità di un bambino.
Il turco staccò gli occhi dal paesaggio al di fuori del finestrino per rivolgersi al collega che guidava.
«La mia calma?».
«Sì, tu sei... calmo.» ribadì il più giovane, accelerando per sorpassare una serie di auto davanti a sé.
«Ben, io non sono calmo.» confessò Semir, con un sospiro «Non sono affatto calmo, sto solo provando a mantenere i nervi saldi. Perché se comincio a disperarmi adesso... è la fine.».
Ben annuì, comprendendo che cosa l’amico volesse dire.
«La troveremo, andrà tutto bene.».
«È troppo facile.».
«Sì, socio, è facile. Ma magari, per una volta, lo è perché lo deve essere.» fece il ragazzo, chiedendosi se credere oppure no alle sue stesse parole.
«Ci siamo detti delle cose orribili in queste settimane, in questi mesi... non abbiamo fatto altro che litigare, e insultarci, e gridarci addosso l’un l’altro... ma io ho bisogno di lei.» sussurrò Semir, tornando a guardare fuori dal finestrino.
Ben annuì, premendo il piede destro sull’acceleratore «Lo so, socio. Lo so.».

Gli ultimi cinque minuti di tragitto parvero interminabili, ma quando finalmente Ben e Semir raggiunsero il capannone uscirono in fretta dalla macchina, senza attendere che la Kruger e gli altri agenti li raggiungessero.
Con le pistole puntate di fronte a loro, cautamente, spinsero la porta di metallo che li separava dal luogo esatto da cui era più plausibile provenisse il segnale.
Un attimo dopo erano dentro al capannone.

E Andrea era lì.
Immobile, seduta e tremante in un angolo del pavimento polveroso del capannone, con il terrore dipinto negli occhi umidi di pianto.
Ma era lì. Ed era sola.

«Oddio, non ci credo.» sussurrò Semir, mentre lasciava cadere a terra la sua pistola e correva verso la moglie.
Si accovacciò accanto a lei, controllando con agitazione che non fosse ferita e slegandole i polsi, che una corda robusta le teneva uniti dietro la schiena.
«Andrea, stai bene?» le domandò, con il fiatone, mentre le toglieva dalla bocca lo scotch che probabilmente era servito a non farla urlare durante la notte.
La donna annuì, ma scoppiò in lacrime, tra le braccia del marito.
Stettero così per un tempo infinito.
Era almeno un mese che non si abbracciavano.

Pochi minuti dopo erano tutti fuori dal capannone.
Andrea era seduta su una barella all’interno dell’ambulanza, un soccorritore stava controllando che fosse tutto a posto e le aveva dato una coperta per scaldarsi, dal momento che la donna aveva passato tutta la notte al freddo. Aveva raccontato di essere stata trasportata lì da una donna bionda e da un uomo, dei quali però non sarebbe stata in grado di fare un identikit. Dopo di che, i due rapitori l’avevano legata lì, semplicemente, sequestrandole solo il cellulare e senza torcerle un capello.
La Kruger, dopo aver ascoltato il breve racconto della donna, aveva iniziato a seguire Hartmut, che nel frattempo li aveva raggiunti con la squadra della scientifica, mentre faceva diversi rilievi all’interno del capannone.
Ben, invece, raggiunse l’amico che, pallido, restava immobile appoggiato al cofano della Mercedes del collega, scrutando da lontano le espressioni dei soccorritori per assicurarsi che Andrea stesse bene.
«Semir, tutto bene?» domandò, appoggiandosi a sua volta alla vettura.
«Sì, ma... non capisco.» fece il poliziotto, scuotendo appena il capo «L’ha fatta rapire, l’ha tenuta qui dentro per ventiquattro ore per poi farla ritrovare la mattina dopo senza neanche un graffio. Qual è il senso di questa cosa?».
«Credo che il senso sia quello di spaventarti.» disse Margaret, avvicinandosi ai due ispettori.
Aveva insistito per andare con loro e alla fine la Kruger aveva acconsentito che la ragazza salisse in macchina con lei, facendole giurare che non sarebbe scesa fino a quando non ci fosse stato più pericolo.
«Semir, quell’uomo vuole che tu viva nell’ansia e sta riuscendo nel suo intento.» continuò, fermandosi davanti all’ispettore, a braccia conserte «Guardati... sarà anche per la situazione familiare, non lo metto in dubbio, ma la verità è che anche se fai finta di niente tu vivi nel terrore dal momento esatto in cui hai saputo della sua evasione. E questa per lui è già una vittoria. Il fatto che tu sia stanco, che tu abbia paura... lui vuole questo.».
«E non vorrà solo questo per sempre, giusto?» ragionò il turco, temendo la risposta.
«Temo di no...» rispose la psicologa, in un mormorio «Credo che voi e le bambine dovreste stare in una casa sicura per un po’, sicuramente ci ha già pensato anche la Kruger.».
Semir annuì, passandosi una mano sugli occhi. Si sentiva le palpebre pesanti, avrebbe solo voluto dormire.
«Grazie, Maggie.» mormorò allontanandosi, lasciando soli lei e Ben e avviandosi verso l’ambulanza.

Il pomeriggio trascorse in ricerche che non ebbero alcun esito e i due ispettori andarono presto a casa, su caldo invito della Kruger.
Quando Ben e Maggie vacarono la soglia dell’appartamento del primo, sospirarono insieme.
Poi si guardarono negli occhi e sorrisero: nonostante tutto, la giornata si era conclusa per il meglio.
«Sono così contento che tu ci stia aiutando, Maggie.» confessò Ben, sedendosi sul letto ancora con i vestiti e tirando la ragazza a sé.
«A me fa piacere aiutarti e aiutare Semir. Però sono preoccupata per lui, lo vedo così provato... e poi ho paura che questo Keller riservi sorprese, e non vorrei che...».
Il ragazzo le posò un dito sulle labbra, con dolcezza.
«Shhh ora rilassati.» le sussurrò, avvicinandosi al suo viso «Che ne diresti se staccassimo la mente per un po’?».
Lei sbuffò, ma poi sorrise. Ne aveva bisogno.
Colmando la ormai poca distanza che separava i loro volti, si avvicinò e lo baciò.
In un attimo, tutti i problemi della giornata sembrarono alleggerirsi e poi, piano piano, scomparire.

Semir scostò la tenda del salotto per controllare che i due agenti di guardia, che per la notte sarebbero stati Dieter e Jenny, fossero lì davanti a casa e che fossero ben vigili. La mattina dopo li avrebbero trasferiti in una casa protetta, finalmente.
Sarebbe stato lì in piedi a controllare anche tutta la notte, ma la voce di Aida lo riportò alla realtà.
«Papà, mi vieni a dare la buonanotte?» chiese, facendo capolino dalle scale.
«Certo cucciolo, arrivo.».
Il poliziotto seguì la bambina su per le scale, raggiungendo la cameretta dove Lily già dormiva sotto alle coperte.
Lui e Andrea erano passati a riprendere le bambine, che non sapevano niente di ciò che era successo, a casa dei nonni. Helen era stata immensamente felice di aver rivisto la figlia sana e salva e a Semir non era sfuggito lo sguardo di infinita gratitudine che la suocera gli aveva rivolto. Si fidava di lui e questo gli faceva piacere. Anche se, un po’, questa estrema fiducia gli faceva paura.
«Buonanotte Aida.» sussurrò, aspettando che lei si sistemasse nel lettino per poi rimboccarle le coperte.
«Papi... aspetta.» mormorò la bambina, prima che lui si alzasse e uscisse dalla stanza. Aveva l’aria di chi vuole dire qualcosa di importante ma non sa da dove cominciare.
«Perché l’altro ieri sera te ne sei andato e hai sbattuto la porta? E perché hai detto alla mamma “separiamoci”?» chiese infine, con un filo di voce.
Semir si morse il labbro, sorpreso. Non si era accorto che Aida fosse sveglia, quella sera.
«Cucciolo, non ti preoccupare. Ero arrabbiato, ma ora va tutto bene. Ora dormi, okay? È tardi.».
La bambina annuì nel buio.
«Buonanotte papà.».

Semir entrò nella propria camera, trovando la moglie già distesa sul letto e avvolta nelle coperte.
La donna provò a fare finta di dormire non appena vide la porta schiudersi, ma il poliziotto notò subito, stendendosi a sua volta, che lei stava singhiozzando in silenzio.
«Andrea... stai piangendo?» domandò in un sussurro, avvicinandosi a lei e scoprendole il viso.
Lei scosse il capo, tradita dalle lacrime che le rigavano le guance senza fermarsi.
«No, è che io... ho avuto paura. Ho avuto così tanta paura...».
«È tutto a posto... non piangere, ora è tutto a posto.» la consolò l’ispettore, accarezzandole piano la fronte e i capelli.
Continuò ad accarezzarla fino a quando non si fu addormentata.
Poi, disteso accanto a lei, restò sveglio a guardarla per tutta la notte.

 

N.d.A.
Calma... ma si sa, difficilmente la calma porta a qualcosa di buono.
Grazie a chi continua a seguirmi, a presto.
Sophie

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Capitolo 9
*** Uno splendido colpo di fortuna ***


Dal capitolo precedente:

«Andrea... stai piangendo?» domandò in un sussurro, avvicinandosi a lei e scoprendole il viso.
Lei scosse il capo, tradita dalle lacrime che le rigavano le guance senza fermarsi.
«No, è che io... ho avuto paura. Ho avuto così tanta paura...».
«È tutto a posto... non piangere, ora è tutto a posto.» la consolò l’ispettore, accarezzandole piano la fronte e i capelli.
Continuò ad accarezzarla fino a quando non si fu addormentata.
Poi, disteso accanto a lei, restò sveglio a guardarla per tutta la notte.



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GIORNO 11.

La sveglia suonò, puntuale, alle cinque del mattino.
Alle cinque e mezza una scorta sarebbe passata a prendere la famiglia Gerkhan e l’avrebbe portata in un luogo sicuro.
Semir aveva preparato ogni cosa la sera prima, in mezz’ora avrebbero solo dovuto vestirsi e prendere le bambine. Poi gli agenti li avrebbero accompagnati in un posto che ancora era ignoto anche a loro, dove sarebbero rimasti fino a quando la questione di Keller non si fosse chiarita.
La Kruger aveva insistito perché fossero gli uomini dell’autostradale a effettuare il trasferimento, piuttosto che quelli dell’LKA, nonostante il caso fosse di ufficiale competenza degli ultimi. Voleva che il numero minore di persone possibile fosse a conoscenza di dove si trovava la casa protetta e il commissario le aveva garantito assoluto silenzio con i suoi sottoposti.

Andrea si rigirò nel letto, aprendo gli occhi e trovandosi viso a viso con il marito, che era fermo disteso su un fianco a guardarla.
«Sei sveglio?» domandò, stringendo gli occhi nella semioscurità e rimanendo avvolta nella coperte, facendo fatica a svegliarsi del tutto.
Lui annuì, abbozzando un sorriso.
«Sei stato sveglio tutta la notte?» chiese ancora la donna, preoccupata.
«Tu sei riuscita a riposarti un po’?» ribatté l’ispettore, a bassa voce.
Lei annuì a sua volta, con un sospiro.
Semir provò l’impulso fortissimo di abbracciarla, di darle il bacio del buongiorno e fingere che le settimane trascorse non avessero minato per nulla il loro rapporto.
Ma si trattenne. Sapeva che non era così, sentiva che ormai niente sarebbe stato più come prima. Perché sua moglie aveva preso una decisione, gliela aveva confessata sere prima e lui aveva reagito male, ma non avrebbe potuto fare altro che rispettarla: se lei non voleva più stare con lui, alla fine, lui non poteva costringerla.
E non sarebbe stato un rapimento, lo spavento preso il giorno prima, a rimettere le cose a posto tra di loro. Lo sentiva.
Rimasero a fissarsi immobili per qualche istante, poi Andrea si allontanò, scendendo dal letto e stringendosi nelle spalle per il freddo «Vado a svegliare le bambine.».
L’ispettore annuì, ma rimase ancora per qualche minuto disteso sul letto, chiudendo gli occhi.
Aveva bisogno che qualcosa andasse per il verso giusto. E aveva bisogno di dormire. Ma non c’era tempo.
Il cellulare squillò sul comodino, distogliendolo bruscamente dai propri pensieri.
«Sì, Semir.» rispose, mettendosi di scatto a sedere sul letto.
«Socio, sono io.» fece un Ben assonnato all’altro capo della comunicazione «Sei pronto?».
«Pronto è una parola grossa, sono in pigiama nel letto.» ironizzò il turco, nel frattempo alzandosi e entrando in bagno.
«Ti ho proprio insegnato per bene a fare il ritardatario!» scherzò il più giovane «Però devi muoverti, stiamo arrivando.».
«Sì Ben, non ti preoccupare. Dieci minuti e siamo pronti.».
«Va bene socio, a tra poco.».

Jenny e Dieter uscirono dalla macchina appostata davanti a casa Gerkhan, guardandosi attorno con aria circospetta: nessuno. La via era totalmente deserta a quell’ora del mattino e nessuno dei due aveva notato nulla di strano per tutta la notte. Avevano controllato scrupolosamente tutti gli angoli e i luoghi semi-nascosti nei quali qualcuno avrebbe potuto organizzarsi per un appostamento, ma arrivarono alla conclusione che nessuno a parte loro stesse sorvegliando l’abitazione di Semir.
Accolsero con un sorriso gli agenti in borghese che scendevano dalle due auto scure che avevano appena parcheggiato vicino a loro, tra cui c’erano Ben e la Kruger. Poi, insieme a loro due, andarono a bussare alla porta di casa Gerkhan.

Andrea aprì la porta con la piccola Lily in braccio, con un sorriso stanco.
«Buongiorno commissario, ciao ragazzi.» salutò, facendoli entrare.
«Come stai?» chiese premuroso Ben, raggiungendo il salotto.
«Bene, grazie. Ieri ero spaventata, ma adesso sto meglio, davvero.».
«Vedrai che andrà tutto bene.».
«Dove ci portate, Ben?».
Il ragazzo le fece l’occhiolino «In fondo in fondo ti piacerà, ne sono sicuro.».
Andrea sorrise grata. L’allegria del giovane era sempre stata contagiosa e lei ne aveva estremamente bisogno.
Il quel momento Semir scese di corsa le scale seguito da Aida, che aveva uno zainetto sulle spalle e l’espressione ancora assonnata.
«Zio Ben!» esclamò, animandosi improvvisamente e saltando in braccio al poliziotto.
Intanto, attorno a loro, Dieter e Jenny stavano aiutando a portare i bagagli nelle vetture.
«Ciao principessa.» mormorò l’ispettore, dandole un bacio sulla fronte e scompigliandole i capelli.
«Ciao socio.» aggiunse poi rivolto a Semir.

Pochi minuti dopo erano tutti in macchina, pronti a partire.
Ben e la Kruger si guardarono attorno ancora una volta, assicurandosi che nessuno li stesse osservando.
Poi partirono, ognuno alla guida di una delle due auto.
Il cielo era grigio, avrebbe ricominciato a piovere.

Ben e Semir varcarono la soglia del commissariato poco dopo le sette del mattino.
Avevano lasciato Andrea e le bambine con Jenny nella casa protetta, a una decina di chilometri da casa Gerkhan. Non si trovava in un quartiere affollato, ma allo stesso tempo era perfettamente raggiungibile. La casa era videosorvegliata, un agente sarebbe sempre stato con loro e un altro avrebbe controllato l’ingresso, per maggiore sicurezza.
Semir, però, aveva insistito per tornare al comando. Non sarebbe mai rimasto chiuso in una gabbia con Keller a piede libero e persino la Kruger si era mostrata consapevole che tentare di fermarlo sarebbe stato del tutto inutile.
Così, una volta giunti in commissariato, i due ispettori si sedettero alle rispettive scrivanie, sperando di riuscire a fare un po’ più di chiarezza riguardo la storia dell’evaso.
«Andrea si è ripresa da ieri? È riuscita a riposarsi?» domandò Ben, mentre aspettava che il computer si avviasse.
«Direi di sì, ha dormito tutta la notte.».
«Ciò implica che invece tu non abbia chiuso occhio, non è così socio?».
Semir alzò le spalle «Non ti devi preoccupare per me, io sto bene. Anzi, vuoi sapere una cosa? Quella di ieri è stata la prima serata che non ho trascorso a litigare.».
«Ci voleva un rapimento per farvi smettere di litigare?» fu la risposta del più giovane, che abbozzò un sorriso.
Il turco intuì però che quella del collega fosse anche una lieve critica.
«Ben, è complicato. Se serve un rapimento per farci smettere di litigare, purtroppo vuol dire che siamo arrivati al limite.».
«Ti stai arrendendo, Semir?».
L’ispettore emise un sospiro.
«Credo che penserò alla sorte del mio matrimonio quando sarà finita questa storia e Keller sarà tornato in galera.» concluse poi.

«Friedrich, è tutto pronto.» sibilò la donna in vivavoce, sistemandosi i capelli in una coda di cavallo e sorridendo leggermente «Seguirli è stato molto più semplice di quanto pensassi. Ora c’è un’agente dell’autostradale con loro, una ragazza. Credo ci convenga agire mentre c’è lei, non potrà fare molto da sola. C’è anche uno sbirro in borghese che controlla il portone, ma di lui me ne occupo io.».
«Ti raggiungo.» fu la lapidaria risposta dall’altro capo del telefono.

«Quindi Hartmut non ha trovato niente nemmeno nel capannone.» ripeté Semir, sperando che la segretaria gli desse una risposta diversa.
Ma Susanne si limitò a scuotere il capo, con aria desolata.
«Maggie verrà al comando più tardi, lei e la Kruger continueranno a lavorare sul profilo di Keller.» si intromise Ben «Semir, potresti anche andare a casa e riposare un po’, ti chiamo se ho novità».
«Non lo so, Ben... da casa non posso fare niente, io devo arrivare a lui... devo sbatterlo in galera.».

Jenny sbadigliò versando l’acqua fumante nelle due tazze e porgendone una ad Andrea, seduta al tavolino di fronte a lei.
Erano passate le due del pomeriggio e le bambine si erano addormentate entrambe sul divano, vinte dalla stanchezza per essersi svegliate così presto quella mattina.
«Se non altro in questa casa fa più caldo.» commentò Andrea, stringendosi nelle spalle.
La giovane poliziotta sorrise «Vedrai che tutto questo non sarà per molto, Andrea, presto troveremo quell’uomo, non ti devi preoccupare.».
«Sì, lo so. Grazie Jenny.».
Passò ancora qualche ora, che le due donne trascorsero chiacchierando del più e del meno. Andrea aveva davvero bisogno di un po’ di svago e la compagnia della ragazza era piacevole. Era contenta che ci fosse lei e che il turno di notte toccasse invece a Dieter.
Stavano ridendo di un disegno buffo fatto da Lily che la bambina aveva preteso di portarsi dietro nella nuova casa, quando Jenny udì un rumore dietro alla porta e intimò immediatamente all’altra donna di fare silenzio.
In preda a un brutto presentimento, la poliziotta si alzò cautamente, avvicinandosi all’ingresso, con la mano destra pronta sulla fondina.

«Va bene socio, hai vinto.» esclamò Semir tutt’a un tratto, guardando l’orologio appeso al muro «Sono quasi le sei e non abbiamo niente, vado a casa. Ma promettimi che per qualunque novità mi aggiornerai, va bene?».
«Certo, socio.» rispose Ben, contento che l’amico potesse finalmente riposarsi almeno un po’ «Ci vediamo domani mattina.».

«Jenny... è tutto a posto?» domandò Andrea, in un sussurro, raggiungendo la ragazza vicino alla porta d’ingresso.
La poliziotta non ebbe il tempo di rispondere.
La porta si spalancò davanti ai loro occhi e due figure vestite di nero le investirono letteralmente, piombando nella stanza con una veemenza inaspettata.
Andrea venne imbavagliata con una pezza umida di qualcosa dall’odore forte e si addormentò prima di poter emettere qualunque suono.
Jenny stramazzò a terra colpita alla testa col calcio di una pistola, senza avere il tempo di reagire. Keller poi la ammanettò alla maniglia del frigo, ben lontana da qualsiasi telefono, non prima di aver pensato alle bambine. La più grande si era svegliata sentendoli entrare nell’appartamento, ma fu estremamente facile bloccarle entrambe e imbavagliarle prima che potessero cominciare a urlare.
Accadde tutto talmente velocemente, che nemmeno i due rapitori ebbero il tempo di accorgersene.
Uscirono cautamente dall’appartamento, caricando la donna e le due bambine sulla monovolume, assicurandosi di non essere visti e di evitare il raggio d’azione delle telecamere.
Poi attesero.

Semir imboccò l’autostrada a velocità costante, diretto verso la casa che per un po’ li avrebbe ospitati.
Quando l’aveva vista, quella mattina, era rimasto sorpreso nel constatare che l’abitazione non fosse poi così terribile: estremamente piccola, ma a modo suo accogliente.
Sperava con tutto il cuore che quelle misure di protezione sarebbero state sufficienti. O non se lo sarebbe mai perdonato.
Svoltando a destra, imboccò la strada sterrata su cui si affacciava l’abitazione.

«Ci siamo.» mormorò Kate, appiattendosi contro il muro.
«Maledetto.» sibilò Keller, vedendo quello che era stato l’assassino della sua famiglia scendere da un’auto a pochi metri da loro.
«Sangue freddo, Friedrich.» lo ammonì la ragazza.
Poi uscirono allo scoperto.

Dieter imboccò la stradina che lo avrebbe portato alla casa in periferia, sbadigliando.
Avrebbe evitato volentieri il turno di notte, ma Jenny aveva insistito per rimanere durante il giorno e per una volta il poliziotto aveva voluto accontentarla.
Sperava che sarebbe riuscito a dormire almeno qualche ora, ma sapeva che sarebbe dovuto rimanere sempre e comunque in allerta per tutta la notte.
Comunque erano solo le sei del pomeriggio, Jenny sarebbe stata felice di vederlo prima del tempo.
Svoltò a destra e, in fondo alla strada, scorse la casa.
Davanti a essa, però, sembrava in corso una colluttazione.

Semir non ebbe il tempo di estrarre la pistola.
Sentì due mani forti afferrarlo alle spalle, mentre una più sottile gli rifilava con decisione un pugno nello stomaco e poi gli metteva dello scotch sulla bocca, impedendogli di gridare.
Non ebbe bisogno di guardare negli occhi i suoi assalitori per capire di chi si trattasse.
L’unica cosa che provò prima di perdere i sensi fu la paura.
Una paura terribile.

«Quello è un altro sbirro, maledizione.» imprecò Kate, estraendo la pistola e puntandola verso Dieter, che proprio in quel momento stava scendendo dalla propria auto.
«Deve essere il cambio per quella che abbiamo legato di sopra.».
«Bene, se sono entrambi qui nessuno li cercherà fino a domani mattina.» sibilò la bionda, prendendo la mira «Uno splendido colpo di fortuna.».

Poi premette il grilletto.

 

N.d.A
L’aggiornamento della domenica questa settimana è diventato del lunedì!
Grazie grazie grazie a chi continua a seguirmi, grazie a chi recensisce e grazie anche a voi lettori silenziosi... a presto!
Sophie

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Capitolo 10
*** Tu sarai causa delle tue stesse sofferenze ***


Dal capitolo precedente:

«Quello è un altro sbirro, maledizione.» imprecò Kate, estraendo la pistola e puntandola verso Dieter, che proprio in quel momento stava scendendo dalla propria auto.
«Deve essere il cambio per quella che abbiamo legato di sopra.».
«Bene, se sono entrambi qui nessuno li cercherà fino a domani mattina.» sibilò la bionda, prendendo la mira «Uno splendido colpo di fortuna.».

Poi premette il grilletto.

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GIORNO 12:

Ben scese dalla Mercedes appena parcheggiata sotto al commissariato e corse verso il lato del passeggero, aprendone la portiera.
«Ma come siamo cavallereschi stamattina!» rise Margaret, uscendo dalla vettura e osservando divertita il poliziotto, che richiudeva la portiera imitando le movenze degli autisti di limousine.
Ben rise a sua volta. Era sereno.
Sapeva Semir e la sua famiglia al sicuro e questo lo rendeva estremamente più tranquillo. Inoltre non lo aveva più sentito da quando la sera prima aveva lasciato il comando, quindi era convinto che il socio fosse finalmente riuscito a riposare un po’. In quanto a Keller, era stranamente positivo al riguardo: lo avrebbero trovato, sentiva che quella giornata sarebbe iniziata con qualche indizio, qualcosa che avrebbe dato loro un po’ di speranza nella ricerca dell’evaso.
Maggie era voluta venire in commissariato con lui, aveva disdetto le sedute con i pazienti della mattinata. Anche lei era determinata più che mai a trovare Keller, l’idea di poter essere utile in qualche modo alla polizia e di tornare dopo tanto tempo a occuparsi di profili criminali la elettrizzava.
Insieme entrarono nel commissariato, dove l’atmosfera era stranamente calma.
Anche la Kruger li accolse con un sorriso, ma poi corrucciò appena la fronte.
«Gerkhan non è con lei?» domandò, sorpresa.
«In verità pensavo fosse già qui.» rispose Ben, alzando le spalle «Forse dovremmo lasciarlo riposare, commissario. Gli concediamo un po’ di ritardo per oggi?».
Kim sorrise, complice.
«Certo. Forza, mettiamoci al lavoro.».

Semir si svegliò con la testa che gli sembrava potesse esplodere da un momento all’altro.
La prima cosa che percepì fu il freddo, un freddo pungente.
Aprendo gli occhi senza ancora ricordare che cosa fosse successo, provò a muoversi, ma non ci riuscì.
Recuperati ormai del tutto i sensi, si accorse di essere legato. Era in piedi, con i polsi legati a un’asta di ferro che era sospesa circa venti centimetri sopra la sua testa e le caviglie, distanziate l’una dall’altra in modo che le gambe rimanessero semi-divaricate, legate a due ganci di metallo che emergevano dal pavimento grigio.
Alzò lo sguardo e solo allora si accorse che di fronte a lui, legata vicino alla parete, c’era Andrea, che lo guardava con gli occhi rossi e gonfi di pianto.
«Andrea... Andrea, stai bene?» domandò subito, provando a tirare i propri polsi verso il basso sperando che le corde cedessero, ma senza risultati.
La donna addossata alla parete opposta annuì, trattenendo a stento le lacrime.
Ma non lo stava guardando, guardava in un punto alle spalle del marito, dove l’enorme stanza si estendeva ancora per una decina di metri.
«Sei comodo, Gerkhan?» fece una voce alle spalle dell’ispettore.
Semir conosceva quella voce. L’aveva sentita gridare, anni prima. Gridare dalla disperazione e poi gridare vendetta.
Provò a voltarsi, ma la posizione in cui era immobilizzato non glielo consentì.
«Keller...».
«Sì, Gerkhan, proprio io.» confermò l’uomo, materializzandosi finalmente davanti ai suoi occhi.
Sette anni. Erano passati sette anni da quando l’aveva visto l’ultima volta e sicuramente era cambiato. Entrambi erano cambiati. Ma gli occhi, quegli occhi erano rimasti gli stessi. Le stesse sfumature scure, la stessa espressione, lo stesso desiderio di vendetta di quando li aveva visti sette anni prima.
«Non ci vediamo da tempo.» continuò l’uomo, come se potesse leggere nei pensieri del suo prigioniero.
Camminava lentamente davanti agli occhi di Semir, con una calma irritante, rendendo la propria voce il più pacata possibile.
«Sono passati... quanti, sette anni? Qualcosa di più? Ti eri già dimenticato di me, Gerkhan?».
E l’uomo rise.
Lo guardò negli occhi e non smise di ridere.

Un’ora dopo, Ben lanciò nervosamente un’occhiata all’orologio.
Erano quasi le nove e teoricamente un agente avrebbe dovuto dare il cambio a Dieter per la sorveglianza della casa alle 8 e mezza. Gli sembrava strano che, nonostante il cambio di guardia, Semir avesse continuato a dormire.
Estrasse il cellulare, componendo il numero del collega.
«Eh socio, stai diventando davvero troppo dormiglione.» disse tra sé e sé con un sorriso, quando al posto dell’amico ricevette la risposta della segreteria telefonica.
Chiuse la comunicazione con un sospiro.
Intanto, nell’altra stanza, il telefono fisso del commissariato cominciava a squillare.

«Sai per quale motivo ti trovi qui, non hai bisogno che io te lo ricordi, non è vero Gerkhan?» continuò Keller, con voce melliflua «Io amo mantenere le promesse, diciamo così. Credo che sia finalmente giunto il mio momento, credo che alla tua famiglia accadrà qualcosa di molto simile a quello che è successo alla mia... che cosa ne pensi?».
«Che cosa hai fatto alle bambine? Dove sono?» chiese Semir, senza realmente ascoltare che cosa l’uomo avesse da dirgli.
«Sono solo in un’altra stanza, Gerkhan, non ti preoccupare.».
«Lasciale andare, Keller!» gridò il poliziotto, continuando a tentare inutilmente di far cedere le corde che lo tenevano legato in piedi come in croce «Lasciale andare, loro non c’entrano, lasciale andare!».
Semir sudava freddo, continuando ad agitarsi, senza smettere nemmeno per un istante di guardare negli occhi l’uomo che aveva di fronte.
«Fossi in te mi rilasserei, sai?» fece questi, con calma «Non vorrei ti facessi venire un infarto proprio adesso, più o meno l’età è questa, ti potrebbe capitare. Ma rovineresti la mia vendetta e io non sarei affatto contento.».
L’ispettore sapeva che Keller parlasse esclusivamente per tornaconto personale, ma si impose ugualmente di calmarsi. Sentiva che il suo cuore sarebbe potuto esplodere da un momento all’altro, tanto il battito era accelerato.
Gli era capitato altre volte di trovarsi in situazioni di difficoltà, era già stato ostaggio di criminali e aveva anche già temuto di perdere la sua famiglia. Ma questa volta era diverso: questa volta la paura aveva preso il sopravvento e lui non riusciva a controllarla.
Respirò profondamente, stringendo i pugni e ordinando, per quanto possibile, al suo battito cardiaco di decelerare.
«Comunque è curioso, Gerkhan.» riprese a parlare l’evaso, continuando a camminare monotonamente per la stanza «Mi chiedi di liberare solo le bambine? Di lei non ti importa?» chiese, indicando Andrea, legata alla parete opposta.
Si avvicinò a lei, le accarezzò il viso con una mano guantata, obbligandola poi ad alzare il mento.
Gli occhi della donna erano colmi di terrore.
«Le bambine devono essere lasciate stare e di lei invece posso fare ciò che voglio?» continuò l’uomo, con un mezzo sorriso dipinto sul viso.
«Non la toccare...» disse Semir, a denti stretti.
Keller rise.
«Ah quindi ora ti importa anche di lei.» disse, allontanandosi da Andrea e dirigendosi di nuovo verso il poliziotto «Strano, mi sembra che negli ultimi mesi tu non abbia avuto tutto questo interesse nei suoi confronti, o sbaglio? Insomma, prima quel traffico di armi, poi quell’altro traffico di ragazzine, la banda di ragazzi che seminava il panico in autostrada... tante belle scuse preconfezionate per trascorrere il minor tempo possibile a casa con lei, giusto? Immagino che lei sia rimasta delusa dal tuo comportamento. Delusa da te come marito e probabilmente anche da te come padre...».
«Tu non sai niente.» lo interruppe Semir, con un tono carico d’odio, che nemmeno lui riconobbe.
«Io so tutto, Gerkhan.» puntualizzò Keller «Ogni cosa. Conosco ogni argomento delle vostre discussioni. Non vi ho assistito personalmente, è chiaro, ma mi è stata riferita ogni cosa. D’altra parte, è stato semplice: avete quasi sempre urlato, anche dall’altra parte della strada si sarebbero sentite le vostre grida. So quanto poco sei stato in casa in questi mesi, so quanto poco hai fatto per la tua famiglia nelle ultime settimane, so quanto voi due insieme non siate più felici.».
Fece una pausa, durante la quale si sentirono solo i singhiozzi di Andrea che, alle spalle del criminale, aveva iniziato a piangere sommessamente.
«So che tua moglie non ti ama più.» aggiunse, beffardo.
«Bastardo.» sibilò Semir «Sei un bastardo.».
«Ma che parole, Gerkhan.» rise Keller.
Poi, in un istante, sembrò perdere tutta la calma che aveva mostrato fino a quel momento e si avventò sul suo prigioniero, stringendogli le mani attorno al collo.
«Peccato che tra i due qui l’unico bastardo sia tu.» disse, stringendo sempre più la morsa intorno alla gola del poliziotto.
Semir divenne rosso in volto, cominciò a boccheggiare.
«Lascialo!» gridava Andrea, tra le lacrime, alle spalle di Keller «Lascialo, basta, lascialo stare!».
Ma l’uomo non si curava di quelle grida, continuava a stringere.

Susanne rispose al telefono e Ben vide l’espressione sul viso della segretaria farsi prima sorpresa, poi incredibilmente preoccupata.
Mentre una morsa gli attanagliava lo stomaco, uscì di corsa dal proprio ufficio e si avviò verso di lei, che nel frattempo stava riagganciando.
«È successo qualcosa?» domandò, con il cuore in gola.
«Ben... era Berger, l’agente incaricato del turno di sorveglianza a casa di Semir che sarebbe iniziato stamattina.» la segretaria fece una pausa, indecisa com’era su come usare le parole «Ha trovato Jenny e Dieter ammanettati nell’appartamento, e Heiss, quello che controllava l’entrata, legato ai margini del boschetto dall’altra parte della strada. Dieter è anche stato ferito al braccio da un colpo d’arma da fuoco. E Semir, Andrea e le bambine non ci sono, sono scomparsi.».
Ben chiuse gli occhi per un attimo, poi li riaprì cercando sostegno in quelli di Susanne.
Non poteva essere vero...

Semir aprì la bocca in cerca d’aria, che ormai non riusciva più a inspirare. Si sarebbe accasciato al suolo se non avesse avuto i polsi legati in alto a quella sbarra. La vista gli si cominciò ad annebbiare.
Poi, improvvisamente, Keller lasciò la presa.
Il poliziotto iniziò a tossire spasmodicamente, cercando di assimilare la maggior quantità d’aria possibile, ansimando in cerca di ossigeno.
«Hai ucciso la mia famiglia, Gerkhan.» ricominciò l’evaso, tentando di recuperare la calma, ma ancora rosso in viso «Tu hai ucciso mia moglie e le mie due bambine, me le hai strappate senza una ragione, le hai ammazzate. E vuoi sapere la differenza tra la mia famiglia e la tua? Noi eravamo felici... Io amavo mia moglie, lei amava me e entrambi avremmo dato la vita per le nostre bambine. Noi eravamo felici.».
«È... stato un... un incidente...» balbettò Semir, con un filo di voce, continuando a tossire.
«Un incidente? Davvero hai la faccia tosta di chiamarlo incidente? Hai sparato alla carrozzeria di quell’auto senza una ragione.».
«La ragione era... era non farti fuggire. Tu mi stavi sparando addosso.».
«E allora tu avresti dovuto sparare a me. E invece hai ammazzato loro e osi dire che si sia trattato di un incidente?».
«Keller, ascolta.» fece l’ispettore, dopo aver ripreso fiato e ricominciato a respirare a un ritmo quasi normale «Ascoltami... credi che io abbia scoperto che in quella macchina erano morte tre persone, tra cui due bambine, e me ne sia semplicemente lavato le mani? Io mi sono sentito in colpa per mesi... per mesi non ho chiuso occhio, per mesi ho sognato quell’auto in fiamme e per mesi ho pensato a quello che tu potessi provare dopo la loro morte. Te lo posso giurare. Ma poi... poi sono arrivato a una conclusione: non ho oscurato io i vetri di quella macchina; non ho coinvolto io la tua famiglia nei tuoi traffici, non sono stato io a portare una donna e due bambine a uno scambio a cui, sapevo, avrebbero partecipato i più temuti criminali francesi e tedeschi in circolazione. Non mi sono nascosto io dietro a quella macchina, sparando all’impazzata contro un poliziotto, lo hai fatto tu. Non le ho messe io in pericolo, Keller, ma tu. Quello che è successo è solo colpa tua. Loro... sono morte per colpa tua.».
Semir tacque, aveva bisogno di riprendere fiato. Temeva quale sarebbe stata la reazione di Keller a quel discorso, ma l’uomo sembrava aver ripreso la propria tranquillità di partenza e ciò, se possibile, lo spaventò ancora di più.
«Se ti sei sentito in colpa, Gerkhan, hai ammesso la tua colpa.».
«Non è così...».
«Io posso averle messe in pericolo... ma tu le hai uccise. Tu.» continuò Keller, allontanandosi di qualche passo dal suo prigioniero «E ciò che dici vale anche per te, perché adesso, sappilo, tua moglie e le tue figlie moriranno per colpa tua. Perché in fondo io e te siamo uguali, Gerkhan. Siamo uguali. Entrambi resistiamo. Resistiamo e vediamo morire le persone a noi più care, e forse per noi è così che deve essere. Ma ricordalo Gerkhan, questo ricordalo sempre: tu sarai la causa della atroce morte a cui sta per andare incontro la tua famiglia, tu sarai causa delle tue stesse sofferenze. E dovrai convivere con questa consapevolezza. E sarà insopportabile.».
Keller guardò l’ispettore ancora una volta negli occhi.
Poi, con un mezzo sorriso, uscì dall’enorme stanza, lasciando che la porta si chiudesse con un rumore sordo alle sue spalle.

Ben e la Kruger scesero dalla Mercedes che il primo aveva appena parcheggiato davanti alla residenza protetta dove la famiglia Gerkhan avrebbe dovuto essere al sicuro.
Hartmut, nello stesso momento, stava scendendo da una vettura ferma poco più avanti.
Si salutarono con un cenno del capo, nessuno dei tre aveva la minima voglia di conversare, e salirono nell’appartamento.
All’interno, alcuni agenti avevano già delimitato il salotto dove era evidentemente avvenuta una colluttazione.
Il tecnico dai capelli rossi iniziò subito a effettuare rilievi di vario genere, senza dire una parola.
Kim si aggirò nervosa per il piccolo appartamento, alla ricerca di qualcosa che nemmeno lei sapeva che cosa potesse essere.
Ben, invece, andò a sedersi sul divano accanto a Jenny che, sola, singhiozzava.
«Ehi...» fece il ragazzo, poggiandole una mano sulla spalla.
«Ben, li hanno presi... io ero con Andrea, le bambine dormivano... ero armata, ero vigile, io ero attenta, lo giuro, ma mi hanno colpito in testa e io... io...».
«Tranquilla, Jenny, stai tranquilla. Non è stata colpa tua, non avresti dovuto essere da sola qui... Keller voleva questo fin dall’inizio, non avresti potuto fermarlo. Non avrei potuto nemmeno io.».
«Ma non ero sola, c’era Heiss giù dal portone e io pensavo che...».
«Sì, ma loro erano in due e hanno avuto il tempo di sistemare prima lui e poi di fare irruzione qui... non è stata colpa tua.».
«Ma io... e poi Dieter è in ospedale...» mormorò la giovane poliziotta «Ben, se fanno qualcosa alle bambine o ad Andrea...».
«Li troveremo, Jenny. Li troveremo. Dieter ha già chiamato dall’ospedale, la sua era solo una ferita superficiale. Andrà tutto bene...».

Semir e Andrea erano rimasti soli, legati uno dalla parte opposta rispetto all’altra nella stanza.
Il poliziotto teneva insistentemente lo sguardo fisso a terra, nonostante la moglie provasse a cercare con lui un qualsiasi contatto visivo.
«Semir... dimmi che Ben è sulle nostre tracce.» disse, con un filo di voce «Semir... guardami...».
Ma lui non la guardava.
«Dimmi che Ben ci troverà... Semir, guardami, ti prego! Semir!» ormai la sua voce era diventata un singhiozzo disperato.
E finalmente lui alzò lo sguardo e la donna preferì che non l’avesse fatto, perché servì a gettarla ancora più nel panico: Semir aveva gli occhi colmi di disperazione.
«Mi dispiace, Andrea... mi dispiace tanto...».
A qualche metro di distanza l’uno dall’altro, legati e incapaci di muoversi, per la prima volta dopo mesi si sentirono veramente vicini.

 

N. d. A.
E la frittata è fatta, se così si può dire... ma, come vi ho anticipato, questa volta sono stata davvero crudele, più crudele che mai, quindi siamo soltanto all’inizio.
Grazie a chi continua a seguirmi, grazie Mary, Reb e Chiara, un abbraccio!
Sophie

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Capitolo 11
*** Il nostro Inferno ***


Dal capitolo precedente:

«Mi dispiace, Andrea... mi dispiace tanto...».
A qualche metro di distanza l’uno dall’altro, legati e incapaci di muoversi, per la prima volta dopo mesi si sentirono veramente vicini.


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GIORNO 13.

Ben si passò una mano sugli occhi, semichiusi per la stanchezza.
Andò in bagno per sciacquarsi il viso con dell’acqua fresca, poi tornò in fretta verso la sua scrivania. Non si era mosso dall’ufficio per tutta la notte e Kim e Margaret avevano fatto lo stesso.
Il giorno prima, Hartmut aveva esaminato da cima a fondo la casa dove Andrea e Semir avevano vissuto per nemmeno dodici ore e la via carrabile su cui essa si trovava. Aveva trovato alcune tracce sulla strada che lo avevano portato a fare ipotesi sul tipo di vettura usata dai criminali, ma niente che potesse portarli a qualcosa di concreto. In casa, invece, aveva rilevato un’impronta parziale lasciata da una suola di scarpa sporca di terriccio, di cui il tecnico avrebbe esaminato la composizione durante la notte. Li avrebbe chiamati non appena avesse avuto novità, ma ancora quella mattina non si era fatto sentire.
Nel frattempo, loro tre avevano continuato a ragionare sulle possibili future mosse dell’evaso, senza però trarre alcuna conclusione soddisfacente.
«Ben, raccontami la storia ancora una volta.» lo pregò Margaret, con un sospiro.
«Maggie, è inutile, te l’ho già raccontata...».
«Ben...».
«Allora...» ricapitolò l’ispettore, controvoglia, per l’ennesima volta «Il collega di Semir, Chris Ritter, che lavorava con lui da qualche mese, si era infiltrato nell’organizzazione criminale di cui Keller era a capo; grazie a questa operazione sotto copertura, l’autostradale aveva ottenuto informazioni sugli scambi che si sarebbero effettuati nelle settimane successive e in particolare su quelli a cui lo stesso Keller avrebbe presieduto. L’autostradale doveva passare le informazioni all’LKA, il caso era di loro competenza, ma all’imboscata parteciparono entrambe le squadre, dal momento che la Engelhardt aveva promesso completo supporto ai colleghi dell’altro dipartimento e l’operazione sotto copertura era stata svolta da un suo agente. Quel giorno in particolare lo scambio in programma era con alcuni trafficanti di droga francesi. Appena prima che lo scambio avvenisse, però, uno degli uomini di Keller, che poi è rimasto ucciso durante il conflitto a fuoco, si accorse della presenza della polizia. Preso dal panico, Keller iniziò a correre, dandosi alla fuga. Corse verso la sua auto, parcheggiata a un centinaio di metri dal luogo esatto dello scambio, ma mentre gli altri agenti erano impegnati con i francesi e gli scagnozzi di Keller, Semir lo seguì e gli intimò di fermarsi. Lui non lo ascoltò, si nascose dietro l’auto e iniziò a sparare. Per difendersi e per evitare che potesse scappare, Semir rispose al fuoco, ma mirò anche alle gomme dell’auto, sotto la quale c’era una perdita di benzina, e la vettura esplose. Aveva i vetri oscurati, per cui Semir non immaginava che dentro all’auto ci fossero una donna e due bambine: aveva visto scendere solo Keller e il suo braccio destro dalla vettura giusto pochi minuti prima. Non sappiamo come mai avesse portato la moglie e le figlie allo scambio. Fatto sta che loro saltarono in aria davanti ai suoi occhi e ovviamente non ci fu assolutamente nulla da fare per salvarle. Semir venne sospeso dal servizio in attesa del processo, che poi confermò che lui non avrebbe potuto immaginare che...».
«Ripetimi cosa ha detto Keller a Semir dopo l’esplosione, ti ricordi le parole esatte?» chiese ancora Maggie, annotando qualche frase su un block notes.
«“Io ti distruggerò, vedrai la tua vita crollare. Fosse l’ultima cosa che faccio.”».
La ragazza annuì, piano.
«Semir mi ha anche detto di aver scoperto in seguito che Keller dovesse essere davvero molto legato alla moglie e alle bambine, in un modo viscerale. Ha detto di aver visto vera disperazione nei suoi occhi, quel giorno.» aggiunse Ben, ricordando le parole dell’amico.
«Bene.» si intromise la Kruger, rimasta fino a quel momento testimone muta del racconto «Maier, lei come si comporterebbe se fosse al posto di Keller?».
La domanda lasciò Margaret leggermente sorpresa «Io... io non...».
«Abbiamo bisogno che lei provi a entrare nella mente di quest’uomo.» ribadì Kim, con decisione «Non abbiamo tracce concrete, per cui dobbiamo almeno provare a intuire come abbia intenzione di muoversi. Lei che cosa farebbe? Che cosa vorrebbe da Gerkhan?».

La porta della grande stanza si aprì con un cigolio e Semir e Andrea alzarono di scatto la testa, portando lo sguardo verso l’entrata.
Sulla soglia apparve Keller con la piccola Lily in braccio, che aveva un’espressione a dir poco terrorizzata.
«Oddio.» fece Andrea, sgranando gli occhi «Lily, amore mio, va tutto bene. Stai bene, amore?».
La bambina annuì, spaesata.
Keller non sembrò curarsi di nulla, fece sedere la bambina per terra e la legò vicino alla mamma, senza che la piccola provasse nemmeno a ribellarsi, tanto era impaurita.
Andrea sorrise alla figlia tentando di rassicurarla. Avrebbe voluto abbracciarla, ma legata com’era sarebbe stato impossibile.
Un istante dopo, la donna bionda che Semir aveva inseguito in macchina giorni prima varcò la soglia della stanza, tenendo Aida per mano e trascinandola letteralmente vicino alla sorella. Gridava, cercava di dimenarsi dalla presa della donna con tutta la forza che aveva in corpo. Ma lei la strattonò con noncuranza e la legò accanto alla più piccola.
«Papà! Mamma!» gridò la bambina, vedendo i suoi genitori legati, ma non ebbe il tempo di aggiungere altro perché la donna bionda strappò due pezzi di nastro isolante e li attaccò sopra la bocca delle bambine, obbligandole a tacere.
«Aida, Lily, state tranquille.» disse Semir, mentre il cuore ricominciava a battere all’impazzata «State tranquille...».
«Perché le hai portate qua, che cosa vuoi fare?» fece poi, rivolto verso Keller, mentre la rabbia e la paura montavano in lui a livelli incredibili.
«Non ti preoccupare di questo, Gerkhan, non ora.» rispose l’uomo, con una certa vena sarcastica nella voce.
Lanciò un’occhiata alla donna bionda che, tornata accanto alla porta, stava in piedi e osservava, a braccia conserte, con un sorriso beffardo dipinto sul volto. Poi tornò a rivolgersi al suo prigioniero.
«Ora voglio che tu lo ammetta. Voglio che tu ammetta che è stata colpa tua, voglio che tu ammetta di averle uccise.».

«Io... forse vorrei che Semir ammettesse di aver ucciso la mia famiglia.» mormorò Maggie, infine «A volte le persone hanno bisogno di sentir dire dal carnefice che li ha privati di qualcosa ciò che effettivamente questa persona ha fatto. Questa confessione permette loro di sentirsi meno in colpa per ciò che faranno loro stessi alla persona su cui hanno scelto di vendicarsi.».
«Quindi Keller vorrà che Semir ammetta di aver ucciso sua moglie e le sue figlie.» ripeté la Kruger, pensierosa.
«Sì, è probabile...».

«Ammettilo...» sibilò Keller, vicino al viso del suo prigioniero.
«Dimmi perché hai portato qui le bambine.» fu la risposta secca del poliziotto. Non voleva rispondere alle domande di quel pazzo, voleva che fosse lui a rispondere alle sue. Ma Keller non lo avrebbe accettato.
Semir non vide nemmeno la mano arrivare, sentì solo il colpo e si ritrovò il labbro inferiore spaccato a metà e sanguinante. Chiuse un attimo gli occhi per riprendersi dal colpo che lo aveva sorpreso.
«Ammetti di averle uccise.» scandì Keller, con un tono che non avrebbe ammesso altre repliche.
«Perché poi tu ti possa sentire meno in colpa?» fece Semir, guardandolo negli occhi «Scordatelo.».
Il pugno che gli arrivò dritto nello stomaco gli tolse il respiro.
«Bambine, non guardate... non guardate...» mormorò Andrea, con le lacrime agli occhi, sperando con tutto il cuore che le figlie la ascoltassero.
Ma Aida non aveva alcuna intenzione di fare come aveva detto la mamma: rimaneva invece con gli occhi sbarrati, terrorizzata.
«Pensi... pensi che questo... cambierà le cose?» ansimò Semir, sempre sostenendo lo sguardo dell’uomo che aveva di fronte «Non è stata colpa mia, ma solo... solo tua...».
«Maledetto bugiardo.» gridò Keller, ormai completamente fuori di sé. Era impressionante come passasse dall’essere incredibilmente calmo all’essere folle nel giro di pochi istanti.
«Spero che tu non abbia il coraggio di ripeterlo, Gerkhan.» gli intimò.
Ma Semir non aveva alcuna intenzione di cedergli.
«Te lo ripeto, Keller: è stata solo colpa tua.».
Questa volta fu lui a scandire bene ogni sillaba in faccia al criminale.
La scarica di pugni che ne seguì, però, lo fece pentire di aver pronunciato quella frase.
Mentre l’uomo lo colpiva sperò solo che le bambine non stessero guardando.
«Le hai uccise... tu le hai ammazzate! Io le amavo e tu le hai ammazzate!» continuò a gridare Keller, rosso in volto, ora girando per la stanza in preda a una specie di crisi isterica «Le mie bambine sono morte per colpa tua, maledetto bastardo assassino!».


La donna bionda, in disparte, guardava a braccia conserte e sorrideva.
Ad Andrea, in quelle condizioni, Keller faceva ancora più paura.
Mentre lui continuava a gridare e a inveire, Lily era scoppiata a piangere, mentre Aida era sbiancata e non distoglieva mai gli occhi dal papà, che appeso per i polsi a quella sbarra e con i piedi legati a terra, lottava ogni secondo di più per mantenere la lucidità.
«Vigliacco...» mormorò lui tutt’a un tratto, tanto piano che Keller non capì che cosa avesse detto.
Si avvicinò scattosamente e lo costrinse ad alzare lo sguardo.
«Ripeti.» ordinò.
«Sei... sei solo un vigliacco... solo un maledetto vigliacco.» scandì Semir, con il poco fiato che gli rimaneva in corpo.
Keller si trattenne solo perché pensava che se avesse sfogato ancora la sua rabbia su di lui l’avrebbe ucciso in quell’esatto istante.
Per astenersi dal farlo, istintivamente, strinse i pugni fino a farsi male e arretrò di due passi, allontanandosi dal suo bersaglio.
Semir respirava affannosamente, le gambe non gli reggevano. Se non fosse stato per i polsi legati sopra alla propria testa, sarebbe crollato a terra.
Ma non smise di sostenere il suo sguardo.

Pochi minuti dopo, Ben, Maggie e la Kruger si trovavano in macchina.
Hartmut li aveva finalmente chiamati, dicendo di aver analizzato il terriccio il più velocemente possibile.
Non si era dilungato nella spiegazione di procedure scientifiche che i poliziotti non avrebbero potuto comprendere, sapeva che la situazione fosse estremamente grave e che non fosse affatto il momento di scherzare.
Aveva spiegato loro di aver trovato del materiale contenente frammenti di un tipo particolare di ghiaia, di cui poco fuori Colonia si trovava una cava.
Non appena ricevute le coordinate del luogo, Kim e Ben si erano precipitati in macchina e Margaret aveva insistito per andare con loro.
Ben aveva il cuore in gola: la possibilità di ritrovare il suo socio lo faceva sperare, ma non sapeva in che condizioni lo avrebbe trovato o, peggio, in che condizioni avrebbe trovato la sua famiglia. E questo lo terrorizzava.
Guidando altamente oltre i limiti consentiti, raggiunse la cava in poco più di venti minuti.
Ma quando i tre scesero dalla vettura, ebbero fin da subito la sensazione di essere nel posto sbagliato.
Sarebbe stato troppo facile.
Trovarono una monovolume nera abbandonata, all’interno un paio di scarponi sporchi di ghiaia.
Ma nessun’anima viva.
Dopo una rapida perlustrazione, richiamarono Hartmut perché andasse ad analizzare l’auto, poi si diressero nuovamente verso la Mercedes di Ben con la quale erano arrivati.
«Lo sapevo.» mormorò l’ispettore, amareggiato «Lo sapevo, Keller non fa questi errori.».
Mise in moto, con sguardo cupo.
«Li troveremo, Jager.» disse la Kruger, risoluta.
«Maier.» fece poi rivolta a Margaret «Dopo aver fatto ammettere il delitto a Gerkhan, che cosa farebbe lei al posto di Keller?».
«Quell’uomo è ossessionato dalla vendetta, commissario.» rispose la psicologa, con voce flebile ma al tempo stesso con tono deciso «Non ha mai superato la morte della famiglia. Io credo... credo che se fossi in lui vorrei che Semir soffrisse tanto quanto ho sofferto io.».

«Hai ancora il coraggio di guardarmi negli occhi e dirmi che sono un vigliacco, quindi.» sibilò Keller, tentando di contenere il più possibile la propria rabbia, che però era evidente.
Semir continuò a guardarlo, non rispose. Sentiva il gusto metallico del sangue in bocca e la testa gli girava. Le corde che aveva legate ai polsi, che ormai da sole sostenevano tutto il suo peso, gli stavano lacerando la pelle.
«Ma non temere, non ti farò più niente, non mi sfogherò più in questo modo, avevo solo bisogno di scaricare la tensione. Non sarà così semplice e immediata la tua fine.» continuò l’uomo, ora fermo a pochi centimetri da lui «Tu soffrirai. Mi pregherai. Desidererai morire. Ma non morirai... perché io e te sopravviviamo, Gerkhan, è questo il nostro Inferno.».
Il silenzio era interrotto solo dai singhiozzi di Lily, che alle orecchie del poliziotto arrivavano ovattati.
Keller si avviò deciso verso la porta, ma poi si fermò sulla soglia, rivolgendosi ancora un’ultima volta al suo prigioniero «Intanto ti do un compito per la notte, Gerkhan. Comincia a pensare a chi rinunceresti tra il tuo migliore amico e la tua famiglia, domani sarò curioso di conoscere la risposta.».
Poi, con una risata, lasciò la stanza.
Lo stesso fece anche la donna bionda, dopo aver strappato lo scotch dalla bocca di entrambe le bambine.
«Gridate quanto volete, intanto qui non può sentirvi nessuno.» aveva sibilato, prima di sparire e chiudersi la porta alle spalle.

«Semir...» mormorò Andrea quando furono soli, trattenendo a stento le lacrime.
Il poliziotto sollevò debolmente la testa, per incontrare lo sguardo della moglie «Non... non ti preoccupare... va tutto bene...» sussurrò, a fatica.
«Papà!» esclamò Aida. Aveva la voce terrorizzata, ma ferma. Non piangeva.
«Papà, stai tanto male?» chiese, temendo la risposta.
Ma la risposta non arrivò.
Semir udì a malapena la moglie che consolava le bambine, dicendo loro che papà si sarebbe ripreso presto, che stava bene.
Poi il buio piombò su di lui.

 

Eeeh basta, adesso giuro che non gli farò più niente, toccherà a qualcun altro, il che potrebbe anche spaventarvi...
Minacce a parte, ho saltato una settimana, lo so, per questioni di indecisione. Sono stata indecisa per un po’ sul proseguo della storia: è finita da mesi, ormai, ma non sapevo se renderla un po’ più leggerina o meno prima di pubblicarla. Come potete immaginare, alla fine ho scelto di non farlo. La manterrò come la mia mente malata l’ha voluta in origine, spero che non mi odierete troppo troppo per ciò che accadrà.
Grazie sempre a chi mi segue e soprattutto a chi recensisce, grazie, grazie, grazie!
A presto,
Sophie

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Capitolo 12
*** Primi effetti ***


Dal capitolo precedente:

«Papà!» esclamò Aida. Aveva la voce terrorizzata, ma ferma. Non piangeva.
«Papà, stai tanto male?» chiese, temendo la risposta.
Ma la risposta non arrivò.
Semir udì a malapena la moglie che consolava le bambine, dicendo loro che papà si sarebbe ripreso presto, che stava bene.
Poi il buio piombò su di lui.

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GIORNO 14.

«Papà!» gridò Aida, notando che il padre aveva sollevato la testa verso di loro.
In realtà aveva ripreso conoscenza già da qualche minuto, ma era rimasto in silenzio, valutando la situazione e osservando Andrea che, sottovoce, continuava a consolare la bambina più grande, mentre Lily aveva ceduto alla stanchezza e si era addormentata.
«Semir, grazie al Cielo, stai bene?» si preoccupò Andrea, alzando immediatamente lo sguardo verso il marito legato dall’altra parte della stanza.
«Sì.» fece lui, guardandosi i polsi che avevano iniziato a sanguinare a causa della forza con cui le corde li stringevano «Quanto tempo è passato?».
«Non lo so...».
Il turco annuì, osservando l’enorme ambiente in cui si trovavano. In fondo alla stanza c’era un’apertura nel muro, grande quasi tanto quanto una finestra, dalla quale l’aria gelida di fine novembre penetrava all’interno. Da quell’apertura poteva scorgere una fetta di cielo nero, senza stelle. Era notte fonda.
«Andrea, dobbiamo pensare a qualcosa.».
«Sei sicuro di stare bene? Hai qualcosa di rotto?».
A Semir faceva male il torace, i pugni di Keller dovevano avergli fratturato una o due costole. Quando respirava, poi, il dolore diventava più acuto e insopportabile. Ma provò a non farci caso.
«No, sto bene. Ma dobbiamo fare qualcosa.».
Andrea provò a muovere i polsi, che però erano saldamente tenuti insieme da nodi che sarebbe stato impossibile sciogliere autonomamente.
«Io credo... credo che Ben ci troverà.» mormorò, provando a concretizzare nella propria mente quella flebile speranza.
«Sì, zio Ben ci trova, non è vero papà?» si intromise Aida, con voce candida.
«Aida, cucciolo, prova a dormire un po’ come tua sorella...» le disse il poliziotto, guardandola negli occhi «Dammi retta, riposati, intanto io e la mamma pensiamo a una soluzione.».
«Non voglio dormire.» rispose la bambina, risoluta.
Semir sospirò, ma comprendeva appieno l’agitazione della figlia.
Poi tornò a rivolgersi alla moglie «Andrea, Ben non ci troverà. Keller non è uno sprovveduto, non avrà lasciato tracce e... quella donna, lei ha anche sparato a Dieter dopo avermi preso, davanti a casa. Spero che stia bene...».
«E invece tu ti devi fidare, Ben ci troverà.» affermò la donna, con decisione. Ma poi, immediatamente, le tornarono in mente le parole che aveva pronunciato Keller appena qualche ora prima.
«Ma se... se dovrai scegliere...».
«Non dovrò scegliere, non posso scegliere...» sussurrò Semir, scuotendo il capo «Non posso scegliere...».

Semir e Andrea non sapevano quante ore fossero trascorse quando, finalmente, cominciò ad albeggiare. Ore di silenzio durante le quali entrambi avevano cercato una soluzione che potesse condurli alla fuga, senza giungere però ad alcun risultato.
Aida si era finalmente addormentata ed entrambe le bambine dormivano quando Keller entrò nella stanza, spalancando la porta e facendo balzare a Semir il cuore in gola.
«Nuovo giorno, Gerkhan, sei pronto?» sussurrò con un ghigno, rivolto all’ispettore, senza degnare di uno sguardo né Andrea né le bambine, che cominciavano ad agitarsi nel sonno.
«Ripreso da ieri? Hai riposato?» continuò, beffardo.
L’ispettore non rispose, altrimenti lo avrebbe insultato, e non era nelle condizioni di poterlo fare.
«Non rispondi eh? Credevo fossi più di buona compagnia.».
Poi l’uomo si rivolse alla donna bionda, che era entrata appena dietro di lui, con una bottiglia d’acqua tra le mani.
«Kate, dai da bere alle mocciose e alla donna, non mi serve che muoiano disidratate.».
Lei fece come le era stato ordinato, svegliando le bambine senza troppe cortesie e facendo bere loro dalla bottiglia.
«Hai visto, Gerkhan?» fece Keller, tornando a rivolgersi al poliziotto «Io sono gentile con la tua famiglia, non trovi?».
«Quanto deve andare avanti questa farsa, Keller?».
L’uomo piegò le labbra in una specie di sorriso.
«Allora ti è tornata la voce. In fondo siete miei ospiti da poco più di tre giorni, Gerkhan. Ti sembra tanto? Eppure io avevo detto che la tua agonia sarebbe stata lenta, non vedo come mai tu ne sia sorpreso.».
Semir sentì l’impulso fortissimo a provare a liberarsi da quelle corde per mettergli le mani al collo, ma sapeva che non ci sarebbe mai riuscito. E i polsi ormai gli facevano troppo male, sarebbe stato inutile continuare a lacerarsi la pelle: quei nodi non si sarebbero sciolti comunque.
«Vediamo, Gerkhan... quali sono i primi effetti della mia vendetta? Perché si sentono già i primi effetti, non è così?» domandò Keller, con voce viscida, girando attorno al suo prigioniero.
Nel frattempo le bambine si erano svegliate completamente, ma Kate non aveva dovuto sigillare loro le labbra con lo scotch: erano entrambe talmente spaventate che non osavano piangere o proferire parola.
«Di che cosa stai parlando?» fu la stanca risposta di Semir.
L’evaso rise.
«I primi effetti, Gerkhan. Il senso di colpa, per esempio. Il senso di colpa per aver messo nei guai la tua famiglia, il senso di colpa per non essere riuscito a proteggere le tue bambine. Magari anche quello per aver trascorso così poco tempo accanto a tua moglie negli ultimi mesi, dal momento che ora sai che non ne avrete più, di tempo... Allora, ho ragione? I primi effetti cominciano a farsi sentire?».
«Sei un folle.».
«Se sono un folle è perché tu mi hai reso tale.» continuò l’uomo «Ripensandoci dovresti avere anche questo sulla coscienza.».
«Fino a dove vuoi arrivare, Keller?» fece Semir, senza smettere di guardarlo negli occhi.
«Domanda interessante.» ribatté Friedrich, con voce tranquilla «Tu fino a dove pensi che io possa arrivare? Rispondimi, Gerkhan... secondo te, quanto può arrivare a sopportare un uomo? Quanto credi di poter sopportare?».
«Tu stai vaneggiando.».
«La mia è una domanda semplice, sbirro, ed è la risposta a quella  che mi hai posto tu. Io arriverò fino alla fine.».
«Non conosci il proverbio?» replicò Semir «Prima di cominciare una vendetta, preparati a scavare due tombe. Non lo conosci?».
«Per ora, Gerkhan, non credo tu sia in grado di farmi finire dentro a una tomba. Complimenti per lo spirito, ma ora spetta a me il coltello dalla parte del manico.».
L’ispettore sospirò. Sperò solo che quell’uomo uscisse dalla stanza, che se ne andasse, che non facesse del male ad Andrea o alle bambine.
E infatti non le toccò.
Si limitò a fissarlo negli occhi e a porgli una domanda.
«Voglio che tu mi dica chi sceglieresti di salvare tra Ben Jager e tua moglie se avessi una sola possibilità di scelta. Dimmelo, Gerkhan, sono curioso. Dimmelo ora.».

 

Ben sbatté con violenza i due pugni chiusi contro il muro, facendosi male alle nocche delle dita.
E lo fece ancora, ancora e ancora, fino a quando Margaret non lo raggiunse e lo obbligò a fermarsi, a voltarsi verso di lei, a guardarla.
«Ben, calmati...».
Il ragazzo si lasciò cadere seduto sulla sedia, scuotendo il capo. I pugni ancora serrati.
«Calmati, li troveremo.».
«Maggie, sono tre giorni che me lo ripeti!» sbottò lui, alzando la voce senza nemmeno rendersene conto «Sono passati tre giorni e nemmeno l’LKA ha fatto un minimo passo in avanti. Potrebbe averli già sterminati tutti, potrebbero essere tutti morti!».
La psicologa sospirò piano e si sedette sulle ginocchia del poliziotto.
«Ben, ascoltami... perdere il controllo non serve a niente, lo sai anche tu. E poi io non credo che Keller li abbia uccisi, lui non vuole questo, non subito. Credimi...».
«Io ti credo Maggie, ma non li troveremo mai!».
Gli occhi di Ben erano colmi di apprensione.
La ragazza conosceva bene il rapporto che legava lui e il collega e comprendeva il suo stato d’animo. Eppure, non sapeva come aiutarlo.
«Non so da dove cominciare, non mi sono mai sentito così... inutile...» mormorò il giovane ispettore, cercando negli occhi di lei la speranza che in lui si era già dissolta «Semir sa sempre da dove cominciare e io da solo non riesco a fare niente.».
«Sai che non è così, Ben. Tu sei un ottimo poliziotto.».
«Semir al mio posto mi avrebbe già trovato.».
«Questo non puoi saperlo...».
«Sì, Maggie, è così!» quasi gridò lui, provando invano a contenere l’agitazione «Lui mi ha sempre protetto, sempre. Il primo giorno che abbiamo lavorato insieme... lui mi ha consigliato di non aiutarlo. Era appena morto un suo collega e lui mi ha detto che non avrei dovuto aiutarlo, che non avrei dovuto buttare all’aria in partenza una carriera brillante come quella che avrei potuto avere io. Capisci, Maggie? Era appena morto un suo amico e lui già si preoccupava per me, e nemmeno mi conosceva... e gli stavo anche antipatico...».
Ben si interruppe. Sorrise appena.
«A che cosa stai pensando?» domandò la ragazza, sorridendo a sua volta.
«Sai qual è la prima cosa che gli ho detto, Maggie?».
Margaret scosse il capo, invitandolo a continuare.
«La prima cosa che gli ho detto quando ci siamo conosciuti, prima ancora di sapere che sarebbe stato il mio collega, è stata che erano passati un bel po’ di annetti dalla fotografia che aveva sul tesserino di riconoscimento.».
Maggie scoppiò a ridere e anche Ben rise, ma lei notò che il ragazzo aveva gli occhi leggermente lucidi.
«E poi abbiamo iniziato a darci del tu senza nemmeno accorgercene, litigando. Non dimenticherò mai quel giorno. Ma ora lui ha bisogno di me e io non so come aiutarlo...».

 

Sul viso di Semir si dipinse la paura.
«Non puoi chiedermi questo.».
«Veramente l’ho appena fatto, Gerkhan. Non è difficile, chi sceglieresti di salvare?».
Il poliziotto non rispose.
Sentì il cuore che nuovamente accelerava i battiti e si chiese che cosa mai avrebbe potuto fare. Sapeva perfettamente che quella di Keller non fosse una banale curiosità.
«Allora?» lo incalzò l’uomo, avvicinandosi a lui «Hai perso la tua loquacità per caso?».
Semir continuò a non fiatare.
«Non vorrai che sia io a decidere, non è vero?».
«Non puoi...» mormorò l’ispettore, con voce a mala pena udibile.
«Posso, invece. E sai come?».
Keller rise, estrasse la pistola, la puntò su Andrea.
Lei lo guardò terrorizzata, sperando che le figlie avessero chiuso gli occhi.
«Così. Posso premere il grilletto.».
«No...».
«No?».
«Lasciala stare.» lo pregò Semir, ordinando alla propria voce di non tremare.
«Non basta questo, Gerkhan. Voglio sentirtelo dire. Abbi il coraggio di dire che sacrificheresti il tuo migliore amico. Che preferiresti la sua morte a quella di tua moglie.».
Il poliziotto ripiombò nel silenzio.
Passò un minuto, forse, prima che Keller decidesse che il tempo fosse scaduto.
Tolse la sicura.
«Come vuoi, allora.» sibilò, avvicinandosi ad Andrea.
Poi posò il dito sul grilletto.

«Fermo!» gridò Semir, con forza «Fermati...».
«Dillo, Gerkhan.» intimò ancora l’uomo, senza accennare ad abbassare la pistola «Dillo o la ammazzo.».
«Io...».
«Dillo.».
«Io sceglierei... sceglierei di salvare la mia famiglia. Sempre...».
Keller annuì. Rimise a posto la pistola, si mise a ridere.
«Non avevo dubbi.» commentò.
Semir strinse i pugni talmente forte da ferirsi i palmi delle mani.
«Peccato, quel ragazzo sembrava simpatico.» disse ancora l’evaso, con una smorfia «Comunque sia, so dove trovarlo.» aggiunse, dirigendosi verso la porta.
«Aspetta... Ben non ti ha fatto niente... ti prego...» balbettò Semir, sperando di fermarlo.
«Infatti... ma tu sì.» ribadì l’uomo.
«Kate! Si va in centro, a Colonia.» annunciò, ad alta voce.
Poi, seguito dalla donna, aprì la porta e uscì dalla stanza.

«Papà...».
La voce di Aida era terrorizzata.
«Papà... che cosa fanno a Ben?».
Lo sarebbero andati a cercare. Lo avrebbero trovato. Lo avrebbero ucciso. Tutto per colpa sua.
Ma Semir non avrebbe mai potuto dire questo alla figlia. Avrebbe voluto gridare, sfogarsi, disperarsi perché il suo migliore amico era in pericolo a causa sua e lui non avrebbe potuto avvisarlo, ma non lo fece. Non fece niente di tutto ciò.
«Niente cucciolo, non ti preoccupare. Lo zio Ben sta bene.» mormorò, provando a essere convincente agli occhi della figlia e nel frattempo cercando aiuto nello sguardo della moglie.
«Sì tesoro, papà ha ragione.» replicò Andrea, rivolta alla bambina «Non ti preoccupare per Ben, va bene?».
Aida annuì poco convinta.
Andrea le sorrise dolcemente e diresse poi uno sguardo preoccupato verso il marito: si chiese dove Keller volesse arrivare e fino a dove lui, effettivamente, avrebbe retto. In quel momento, gli sembrava l’uomo più fragile sulla faccia della Terra.

 

«Io non capisco...» continuò ad agitarsi Ben «Davvero non comprendo quale sia il senso di tutta questa storia.».
«Vuole vendicarsi, lo sai.» ribadì Margaret, provando per quanto possibile a tenere a freno l’ira dell’ispettore.
«Sì, certo, ma non capisce che questo non risolverà nulla? Che non riavrà la sua famiglia in questo modo?».
«Ben... quell’uomo ha perso tutto.» scandì lei, con calma «Gli sono morte le sue bambine e la moglie che amava davanti agli occhi... non possiamo nemmeno immaginare che peso sia questo da sopportare.».
«Non lo starai giustificando, spero.».
«Non lo giustifico.» continuò Maggie «Ma provo a immedesimarmi nel suo dolore. Quell’uomo è rimasto solo e nessuno lo ha aiutato a metabolizzare ciò che gli è successo. Ha visto morire la sua famiglia e un attimo dopo si è ritrovato in carcere e lì è rimasto per sette anni. Pensaci, Ben... non so quanti uscirebbero sani di mente da questa situazione.».
«Scusa, ma come vittima proprio non riesco a considerarlo.» commentò Ben, lapidario. La mascella serrata, le mani aperte e appoggiate sulla scrivania, quasi dovessero farla sprofondare.
«Se io impazzissi, se non riuscissi a sopportare la perdita della mia famiglia, magari penserei al suicidio, non sterminerei le famiglie altrui.».
«Certo, Ben, ma tu parli da persona sana ed equilibrata a cui non è mai capitato niente di così drammatico. Dovresti provare a spostare il tuo punto di vista...».
«Io me ne frego del suo punto di vista!» sbottò il poliziotto, alzandosi di scatto dalla sedia «Se avesse rivolto il suo squilibrio su se stesso e si fosse ammazzato ci avrebbe tolto tanti problemi.».
«Ben...».
«Io torno a casa di Semir, magari qualcosa è sfuggito a quelli della scientifica.».
«Vuoi che venga con te?» gli chiese la ragazza, in un bisbiglio.
Ma lui era già sparito.

«Andrea... se... se gli succede qualcosa...» balbettò Semir, in un sussurro.
La donna dall’altra parte della stanza sospirò, piano.
Lanciò un’occhiata a Lily che si era riaddormentata sulla spalla di Aida, mentre la più grande teneva gli occhi chiusi, ma Andrea non era sicura che dormisse.
«Semir, devi mantenere il sangue freddo.» disse, sottovoce ma in modo che il marito a qualche metro di distanza la potesse sentire «Keller vuole esattamente questo, vuole farti credere che tutto attorno a te stia crollando e che tu sia la causa di tutto. Non puoi credergli, okay?».
«Lo ucciderà... ucciderà Ben...».
«Semir, ti prego...».
«Andrea, mi dispiace così tanto... Io non pensavo che... tu avevi ragione, hai sempre avuto ragione e io non ti ho ascoltato. Vi ho messo in pericolo e ora non posso fare niente... non posso fare niente...».
La voce dell’ispettore era disperata. Questa volta non riusciva a mantenere la calma, non riusciva a gestire la paura, sentiva che non sarebbe stato fortunato come sempre. Sentiva che sarebbe andato tutto storto, che avrebbe perso tutto. Avrebbe perso ogni cosa.

 

Ben parcheggiò la Mercedes sotto all’abitazione sicura in cui si erano trasferiti Andrea e Semir prima di essere rapiti. L’area era ancora transennata, ma totalmente deserta.
Scese dalla macchina, accorgendosi solo in quel momento di quanto avesse tenuto stretto il volante durante tutto il tragitto.
Chiuse la portiera e si diresse verso l’entrata della casa, già intuendo che l’ennesima sua perquisizione si sarebbe conclusa con un nulla di fatto.
Si bloccò sulla soglia, udendo un rumore.
Un fruscio alle sue spalle. Poi un rumore ritmico che si faceva sempre più vicino.
Portò la mano alla fondina e si voltò.

 

Keller si diverte assai e altri guai sono in vista, mentre Ben si dispera alla ricerca di una soluzione che non riesce a raggiungere...
Grazie a chi segue in silenzio e... Reb, Chiara, MaryS5, non smetterò mai di ringraziarvi!
Sophie

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Capitolo 13
*** Spogliati ***


Dal capitolo precedente:

Chiuse la portiera e si diresse verso l’entrata della casa, già intuendo che l’ennesima sua perquisizione si sarebbe conclusa con un nulla di fatto.
Si bloccò sulla soglia, udendo un rumore.
Un fruscio alle sue spalle. Poi un rumore ritmico che si faceva sempre più vicino.
Portò la mano alla fondina e si voltò.

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Ben si voltò di scatto, pronto ad afferrare la pistola.
Ma poi corrucciò la fronte, sorpreso.
Un anziano signore si stava avvicinando lentamente alle sue spalle, battendo ritmicamente sul terreno con il bastone in legno di castagno sul quale si appoggiava.
Avanzò ancora verso di lui, sorridendo dietro ai baffi canuti che gli incorniciavano il viso.

«Allora, possiamo andare?» chiese la donna, impaziente.
Keller la guardò con una certa sufficienza, pulendo meticolosamente con un panno la canna della propria pistola.
«Con calma, Kate, Gerkhan deve pensare che abbiamo ucciso il suo amichetto, non ricordi? Ci vuole almeno un’ora per andare a Colonia e tornare, aspettiamo ancora un po’.».
«Stiamo veramente aspettando che passi il tempo che avremmo impiegato per uccidere Jager? Friedrich, Gerkhan non sa nemmeno dove ci troviamo, non è il caso di lasciar passare un’ora.».
L’evaso sbuffò leggermente.
«Che cosa preferivi che facessimo, che andassimo veramente ad ammazzare Jager? A quale scopo? Per quanto mi riguarda può vivere, l’importante e che Gerkhan pensi che sia morto e si senta in colpa. Per cui sta’ zitta e aspettiamo.» sbottò.
«Agli ordini.» replicò Kate, alzando gli occhi al cielo.
Muoversi a comando non le piaceva. Non le piaceva per niente.

Hartmut si sedette nervosamente su una delle due sedie davanti alla scrivania del commissario.
Non aveva trovato niente dalle analisi compiute in laboratorio che potesse aiutare i colleghi a rintracciare Semir e la sua famiglia, così aveva deciso di raggiungere il commissariato per tentare almeno di essere d’aiuto con il ragionamento.
Kim e Margaret, in attesa che Ben tornasse dalla sua perquisizione, non avevano smesso un attimo di elaborare ipotesi sulla personalità di Keller e su quali sarebbero state le sue prossime mosse.
«Ricapitolando, lei avrebbe ordinato a Semir di ammettere l’assassinio volontario della sua famiglia, sette anni prima.» ripeté la Kruger, rigirandosi il tappo di una penna tra le mani.
«Esattamente.» confermò la psicologa, appoggiandosi al muro con le spalle.
«Ma Semir non ammetterebbe mai di averlo fatto. Voglio dire, se avesse saputo che in macchina c’era la sua famiglia non avrebbe mai sparato...» si intromise il rosso, rivolgendosi direttamente a Maggie.
«Ha ragione.» confermò il commissario «Quindi quale potrebbe essere la prossima mossa di Keller?».
Margaret si strinse nelle spalle.
«Io... io lo torturerei psicologicamente. Credo che quell’uomo voglia portare Semir allo sfinimento.» sussurrò.
E temeva di avere effettivamente ragione.

Erano passate quasi due ore quando Keller rientrò nella stanza, seguito dalla ragazza bionda.
Semir rivolse immediatamente lo sguardo verso di lui, provando a capire che cosa fosse successo prima ancora che l’uomo potesse aprire bocca.
La donna sconosciuta chiuse la porta e addossò ad essa la schiena, riassumendo la propria posizione a braccia conserte, aspettando che fosse Keller a muoversi e parlare.
«Quel che è fatto è fatto.» esordì infatti lui, camminando lentamente verso il proprio prigioniero, ma rimanendo al centro della stanza, equidistante dalle due pareti alle quali Semir e Andrea erano legati.
«Che cosa... che cosa gli hai fatto...» balbettò l’ispettore, sentendo una morsa che gli afferrava lo stomaco e cominciava a stringere. Non voleva conoscere la risposta. Lo aveva chiesto, ma in verità non lo voleva sapere.
«Credo, Gerkhan, che i dettagli ti farebbero troppo male.» rise l’uomo «Non credo li sopporteresti. Non è vero, Kate?».
La donna bionda, dalla propria postazione, si limitò ad annuire e sorridere beffarda.
Andrea seguiva terrorizzata la conversazione, sperando che quell’uomo stesse bluffando e sperando che le bambine, ora entrambe in allerta, non comprendessero appieno ciò che stava accadendo. Nessuna delle due fiatava, erano entrambe mute e pallidissime.
«Che cosa gli hai fatto...» ripeté Semir, sentendo un nodo in gola e la morsa allo stomaco sempre più stretta.
«Te l’ho detto.» fece Keller, misurando a passi ampi e lenti la grande stanza «Non ti fornirò i dettagli, sarò gentile. Il tuo amico, o socio, così vi chiamavate, giusto? Il tuo socio ha appena intrapreso un viaggio di sola andata verso l’Inferno.».
«Non l’hai fatto davvero...» mormorò il poliziotto, con voce appena udibile.
«Come dici, Gerkhan? Certo che l’ho fatto.» rise ancora l’evaso «Anzi, vuoi proprio saperlo? L’ultima cosa che ha detto prima di andare all’altro mondo è stata che tu eri innocente. Pensa, stava morendo e mi ha pregato di lasciarti andare. Carino, no?».
Contro ogni sua volontà, Semir sentì le lacrime salirgli agli occhi senza che potesse fare nulla per trattenerle.
«Non l’hai fatto davvero...».
«L’ho fatto davvero.» ribadì Keller, andandogli più vicino «L’ho fatto davvero. Il tuo amico non c’è più. E ora tocca alla tua famiglia.».
«Bastardo...» mormorò l’ispettore, a denti stretti, mentre una lacrima correva giù lungo il viso e il nodo in gola non voleva saperne di sciogliersi.
«O no, no, no. È colpa tua, Gerkhan. È solo colpa tua.».

«Un momento.» fece la Kruger, senza smettere di attorcigliare le dita delle mani attorno al tappo della penna «Quindi lei pensa che Keller comincerà effettivamente ad accanirsi sulla famiglia di Semir?».
La psicologa annuì, mordendosi il labbro inferiore «È la sua vendetta, la sua famiglia è morta e secondo lui è giusto che accada lo stesso a quella di Semir.».
«Tu credi che Keller ucciderebbe effettivamente Andrea? Che farebbe davvero del male alle bambine?» chiese Hartmut, con gli occhi spalancati, in attesa di un “no” come risposta.
Maggie scosse il capo, con indecisione «Non lo so, davvero. Keller è un criminale senza scrupoli, lo è sempre stato, ma si è sempre occupato di droga. Ha sempre lasciato il lavoro sporco ai suoi scagnozzi, non credo si sia mai direttamente sporcato le mani. Insomma... esistono persone che pur essendo criminali non sono in grado di uccidere a sangue freddo… almeno non due bambine. Quindi non saprei...».

«Ora passiamo alla parte divertente...» annunciò Keller, dirigendosi a passo sicuro verso Andrea.
Tagliò le corde che la tenevano legata e la costrinse in malo modo ad alzarsi.
Aida e Lily guardarono la mamma che si alzava in piedi, ma non ebbero il coraggio di fiatare.
Andrea sentì un brivido percorrerle tutta la schiena e il battito cardiaco accelerare, ma rimase in piedi, immobile, certa che avrebbe fatto qualsiasi cosa quell’uomo le avesse chiesto.
Semir, dall’altra parte della stanza, ordinava alle lacrime di tornare indietro, mentre ancora provava a riprendersi dalla notizia di Ben.
Ben morto... Ben morto per colpa sua... la figura allegra e scherzosa del suo socio gli si presentava e ripresentava nella mente e per quanto lui provasse a scacciarla, inevitabilmente questa ricompariva.
Passarono un po’ di secondi prima che il suo cervello si accorgesse che Keller si era diretto verso sua moglie e che l’aveva slegata, prima che capisse che adesso non avrebbe avuto il tempo per pensare a Ben.
«Che cosa vuoi fare?» chiese, con la voce rotta e gli occhi lucidi.
«Che cosa voglio fare... domanda interessante.» ripeté l’uomo, estraendo con calma la pistola.
«Lasciala stare...».
«Taci, Gerkhan.».
Nel frattempo, la donna bionda si era spostata dalla porta e aveva estratto a sua volta una pistola, tenendola però con il braccio disteso lungo il fianco, come se si trattasse semplicemente di una precauzione. Si era avvicinata a Keller, e attendeva.
L’uomo, tenendo Andrea per un polso, cominciò a sfiorarla con la canna dell’arma.
Tra i capelli, sul viso, lungo le spalle.
Andrea rabbrividiva al contatto con l’oggetto freddo che scorreva sulla sua pelle, tenendo gli occhi fissi sul marito legato a pochi metri da lei, osando a mala pena respirare.
«Lasciala!» gridò Semir, questa volta alzando la voce «Lasciala stare!».
Ma Keller rise, e ridendo continuò ad accarezzare Andrea con la canna della pistola, con calma, tracciandone il profilo.
«Keller, lasciala stare!» continuò a gridare l’ispettore «Lasciala stare!».
«Taci, idiota.» urlò Kate, puntando la pistola su di lui. Era la prima volta che Semir sentiva la voce di quella donna.
«Lasciala... lasciala stare!».
«Se non taci ti sparo, sbirro.» minacciò lei, ma Semir non la ascoltava, non la guardava nemmeno.
Keller continuava a far scorrere la canna della pistola sulla pelle di Andrea, ridendo.
«Devi lasciarla, lasciala! Smettila!».
«Adesso basta...» sibilò la Kate, togliendo la sicura.
Semir continuò a gridare a Keller di lasciare Andrea, imperterrito.
E lei sparò.

«Non saprei.» continuò Margaret, scuotendo appena il capo «Da quanto mi avete raccontato, nonostante tutto, fatico a credere che Frederich Keller possa uccidere un’intera famiglia a sangue freddo.».
Kim alzò un sopracciglio, confusa «E allora per quale motivo dovrebbe mettere in piedi tutta questa messa in scena?».
La psicologa si strinse nelle spalle «Perché lui non sa che si tratta di una messa in scena, commissario. Lui crede di poterlo fare.».

Semir fece uno sforzo immane per trattenersi dal gridare.
Aida lo guardava pallida, con le lacrime agli occhi, e lui sentì il dolore e il sangue cominciare a colargli dalla spalla destra lungo il fianco, ma non gridò.
Trattenne il fiato e strinse gli occhi, sentendo la ferita pulsare.
Rimase zitto per qualche istante, mentre Andrea gridava di fronte a lui e Keller le intimava di stare ferma.
La donna che gli aveva sparato lo guardò con un mezzo sorriso dipinto sul volto, poi tornò a guardare Friedrich, compiaciuta «Ora magari farà meno storie.».
Keller annuì, sempre tenendo la pistola puntata su Andrea.
«Non sarebbe stato necessario.» fece poi rivolto all’ispettore «Ma sai, credo che Kate si sia stancata di sentirti gridare. D’altra parte, Gerkhan, il peggio deve ancora venire.».
Semir lo guardò negli occhi, ma non disse niente.
Istintivamente avrebbe portato la mano alla spalla ferita, ma nella posizione nella quale era legato ormai da tre giorni sarebbe stato impossibile.
Passò un interminabile secondo di silenzio, poi Keller alzò le spalle, sollevato forse di poter tornare alla propria occupazione.
«Bene.» disse tra sé e sé, allontanandosi da Andrea di un passo e contemplandola, sempre stringendo in pugno la pistola.
«Ora spogliati.» aggiunse.
Il silenzio li avvolse di nuovo.
Andrea scosse leggermente il capo, aveva il terrore dipinto negli occhi. In piedi, accanto a quell’uomo, non osava aprire bocca, non muoveva un muscolo. Istintivamente lanciò un’occhiata alle bambine, che osservavano la scena immobili, scioccate.
«Keller...» mormorò Semir, stringendo i denti per il dolore alla spalla «Ti prego, smettila...».
«Ho detto spogliati.» ribadì l’uomo, rivolto ad Andrea, senza considerare minimamente il poliziotto.
Ma lei non si muoveva.
Scuoteva il capo e non accennava a muoversi.
«Spogliati. O ti ammazzo, subito.».
«Keller, basta! Prenditela con me! Keller, guardami!» gridò Semir, senza tregua «Lasciala stare, bastardo, lasciala stare!».
«Mi sto stancando Gerkhan, fossi in te la smetterei di urlare.» fece l’uomo con voce piatta, senza togliere lo sguardo da Andrea e senza accennare ad abbassare la pistola.
«Lasciala stare.» continuò l’ispettore «Non la devi toccare... non la devi toccare!».
Semir non vide nemmeno la donna bionda che gli aveva sparato poco prima andare a passo di carica verso di lui.
Sentì solo un dolore terribile alla spalla destra e questa volta non riuscì a evitare di gridare: Kate gli teneva premuta una mano sulla ferita, con forza, spingendo violentemente la spalla del prigioniero all’indietro e provocandogli un dolore atroce.
«La devi piantare di gridare, sbirro, hai capito? Hai capito?» ruggì, rossa in volto, gli occhi scuri carichi d’odio.
«Hai capito?» ripeté sempre premendo sulla ferita, che continuava a sanguinare.
Semir annuì, le lacrime agli occhi.
«Keller...» ansimò, rivolto all’uomo che finalmente aveva distolto lo sguardo da Andrea e lo stava fissando «Ti prego... le bambine... porta solo fuori le bambine...».

«Quindi lei sospetta che Frederich Keller sia meno forte di quanto creda di essere.» concluse la Kruger, cambiando posizione sulla sedia e sporgendosi in avanti sulla scrivania.
Margaret annuì.
«E quindi dici che non sarebbe in grado di ucciderli?» chiese Hartmut, con un lampo di sollievo negli occhi.
«Non da solo.» confermò la psicologa «Certo, sarebbe diverso se si facesse aiutare. Semir ha detto di aver visto una donna la prima volta che Andrea è stata rapita. Magari potrebbe portare a termine lei quello che lui non riesce a completare.».
«Ma a quale scopo?» domandò Kim, con un sospiro «Keller ha una motivazione personale per eliminare la famiglia di Gerkhan, perché una donna qualsiasi dovrebbe essere disposta a farlo?».
Maggie scosse il capo «Questo non lo so...».

Il vecchietto si avvicinò lentamente, mentre Ben toglieva la mano dalla fondina e si lasciava andare a un sospiro di sollievo.
«Mi ha spaventato.».
«Mi scusi, giovanotto.» bofonchiò l’uomo. Aveva un leggero accento inglese e al giovane ispettore venne subito da sorridere: chiunque fosse, quel distinto e baffuto signore ispirava simpatia.
«Lei è un poliziotto?».
«Sì, sono...».
«Perfetto.» lo interruppe lo sconosciuto «Perché io le devo raccontare una cosa. Non sono tranquillo di notte in questo quartiere, sa? Poi, visto quello che è successo tre giorni fa...».
«Guardi, in questo momento dovrei proprio esaminare l’appartamento e...».
«No, non può liberarsi di me tanto facilmente, giovanotto.» lo interruppe di nuovo l’anziano signore.
Ben sospirò. Non voleva sembrare maleducato, ma non aveva tempo per un vecchio signore che sicuramente si sarebbe lamentato dei soliti schiamazzi notturni, oppure gli avrebbe manifestato semplicemente tutto il suo timore per quello che era accaduto nel quartiere.
«Giovanotto, la vedo in tensione. Se vuole venire a casa mia le posso offrire una tazza di tè, abito proprio qui di fronte.».
«No, guardi, mi dispiace, ma oggi proprio non ho tempo.» si scusò l’ispettore, sperando che il vecchietto comprendesse la situazione e lo lasciasse andare.
«Voi giovani di oggi. Mai un minuto di tempo per parlare con un anziano signore. Ma io le posso essere utile, sa? Io ho visto una donna, tre giorni fa, prima del rapimento.».
«Che cosa?».
«Sì, una donna, era bionda.» ribadì l’uomo «È rimasta per tutto il giorno appostata qui davanti. La polizia non mi ha chiesto niente, non pensavo fosse importante. Ma a quanto vedo non avete ancora ritrovato quei poveretti. Magari quella donna potrebbe c’entrare qualcosa.».
«Bionda ha detto?» gli occhi di Ben si illuminarono. Ricordava ciò che gli aveva raccontato Semir, e la stessa Jenny il giorno del rapimento gli aveva raccontato di aver intravisto il profilo di una donna bionda prima di svenire.
Il vecchietto annuì, col fare di chi la sa lunga.
«Quindi lei... lei... posso accompagnarla in commissariato? Salga in macchina, se potesse aiutarci a ricostruire un identikit ci fornirebbe un aiuto enorme! Prego, salga in macchina...».

Kate smise finalmente di fare pressione con la mano sulla ferita e Semir riprese a respirare a un ritmo quasi normale.
Keller corrucciò la fronte.
E Semir lo vide. Fu solo un lampo, negli occhi grigi e freddi di quell’uomo, ma lui lo vide.
Era pietà. Dispiacere, forse. Qualcosa di umano.
«Kate, porta le bambine nell’altra stanza.» ordinò l’evaso.
La donna obbedì, senza dimenticare di lanciare prima all’ispettore uno sguardo colmo di disprezzo.
Slegò entrambe le bambine e le trascinò in malo modo fuori dalla stanza.
Aida provò a divincolarsi dalla stretta della donna, chiamò il suo papà più volte, ma non venne ascoltata. Pochi secondi dopo, la porta era di nuovo chiusa e Aida, Lily e la donna non erano più nella stanza con loro.
Semir sospirò piano, sollevato che le bambine fossero dispensate dall’assistere a quella scena, dal vedere la mamma spogliarsi tremante davanti a un uomo che le puntava contro una pistola, mentre papà sanguinava legato a una barra di metallo, senza poter fare niente.
«Ora spogliati.» sibilò Keller, con un tono che questa volta non avrebbe ammesso repliche.
Andrea si spogliò, lentamente.
Si tolse le scarpe, i jeans, si sfilò la maglietta.
Poi rimase immobile, mentre l’uomo tracciava il profilo del suo corpo con la canna fredda della pistola, mentre Semir assisteva alla scena dolorante e senza più osare emettere un fiato.
Andrea pianse in silenzio, mentre Keller sorrideva compiaciuto, accarezzandole i capelli e sfiorandole con la punta dell’arma il naso e la bocca e gli zigomi e il seno e le spalle.
Non guardò negli occhi quell’uomo, continuò a guardare suo marito. Lo guardava mentre, con i pugni serrati, lui non toglieva gli occhi dalla pistola che Keller aveva in mano.
Non seppe quanto tempo trascorse prima che l’evaso si fosse stancato di quel gioco.
Lui improvvisamente staccò la canna dell’arma dalla sua pelle, attivò la sicura, la rimise in tasca.
Sorrise in silenzio, compiaciuto.
«No, non mi farò tua moglie, Gerkhan, non ti preoccupare.» disse quindi, rivolto verso il suo prigioniero.
Raccolse da terra la maglietta di Andrea e gliela infilò maldestramente, poi la costrinse seduta a terra e la legò nella stessa posizione in cui l’aveva lasciata nei giorni precedenti.
«Volevo solo farti credere che avrei potuto farlo.» aggiunse, beffardo, concludendo il suo folle discorso con una risata di scherno.
Passò davanti a Semir, gli mormorò che Kate sarebbe passata a fasciargli la ferita, che non gli serviva che morisse dissanguato per una stupida ferita alla spalla.
Poi lasciò la stanza.
Andrea sentì che aveva trattenuto il respiro troppo a lungo.
Si lasciò andare alle lacrime, riempiendo il silenzio del vano ormai semivuoto.

 

N.d.A.
Okay, siete liberi di insultarmi, ma accadrà di peggio. In fondo per ora ho risparmiato Ben (il signore dall’accento inglese vi ricorda qualcosa?) e sono ancora tutti vivi.
In commissariato si ragiona e il mancato interrogatorio di quel signore che ha notato Kate tre giorni prima è solo il primo di una serie di errori investigativi che non aiuteranno certo la risoluzione del caso... però, ripeto, potrebbe andare peggio.
Grazie a chi continua a seguirmi! Questo strazio andrà avanti ancora per qualche capitolo, poi si cambierà stile (speravate dicessi “poi arriveremo al finale”... ma ancora la strada è lunga!).
Sophie

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Capitolo 14
*** Non sarà per sempre ***


Dal capitolo precedente:

Passò davanti a Semir, gli mormorò che Kate sarebbe passata a fasciargli la ferita, che non gli serviva che morisse dissanguato per una stupida ferita alla spalla.
Poi lasciò la stanza.
Andrea sentì che aveva trattenuto il respiro troppo a lungo.
Si lasciò andare alle lacrime, riempiendo il silenzio del vano ormai semivuoto.

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GIORNO  15:

Ben scaraventò un portapenne a terra e tutte le matite e i pennarelli colorati che conteneva volarono via dalla scrivania di Susanne, sparpagliandosi sul pavimento lucido.
La segretaria rimase immobile, come impietrita, e Kim fece immediatamente capolino dalla porta del suo ufficio per controllare che cosa fosse successo.
Sospirò quando vide il giovane ispettore chinarsi a raccogliere le penne cadute e sbatterle poi sulla scrivania.
«Jager...» sussurrò, avvicinandosi a lui.
«Sono ottantasei ore, commissario. Ottantasei.».
La Kruger annuì, comprensiva.
Si chinò e aiutò il poliziotto a raccogliere gli ultimi oggetti sparsi sul pavimento.
«Io credo che lei dovrebbe prendersi una pausa, Jager. Dormire per qualche ora.».
«No, capo, non posso.».
La donna annuì di nuovo, senza insistere. Sapeva che il ragazzo non l’avrebbe mai e poi mai ascoltata.
Il signore con cui Ben era tornato in caserma la sera prima non era riuscito a fornire indicazioni abbastanza precise riguardo alla ragazza bionda e l’identikit non aveva portato ad alcun risultato. Il vecchio aveva rinunciato, spiegando di sentirsi confuso e di aver bisogno di pensare, per ricordare meglio i lineamenti della donna. Così i poliziotti lo avevano lasciato tornare a casa e, ancora una volta, si erano trovati senza niente in mano.
«Ho ricontrollato tutte le conoscenze di Keller.» spiegò Susanne «Niente, non ho trovato nulla.».
«Okay... stiamo facendo il possibile, ragazzi.» sospirò il commissario, guardando Ben che invece scuoteva il capo, guardando per terra.
«Non è abbastanza.».
«Jager...».
«Io vado in carcere, magari qualcuno mi sa dire che genere di visite ha ricevuto Keller durante gli ultimi sette anni.» la interruppe l’ispettore.
«Se ne sono già occupati i colleghi dell’LKA, non hanno rilevato niente di utile.».
«Nello stesso modo in cui si erano occupati di interrogare gli abitanti del quartiere? Guarda caso quel signore non era stato interrogato da nessuno.».
«Jager, i colleghi non sono degli stupidi. Hanno fatto un errore, ma le ripeto che in carcere sono già andati e...»
«Bene, ora però ci vado io. Non abbiamo bisogno di fare altri errori.».
Ben uscì dall’ufficio, senza che nessuno potesse nemmeno tentare di fermarlo.


«Semir, ho paura.» singhiozzò Andrea, piano.
Era passata un’altra notte.
Un’altra notte nel buio, nel silenzio, nel dolore. Legati uno da una parte e l’altra da quella opposta della stanza, nessuno dei due aveva chiuso occhio e entrambi erano rimasti vigili e attenti, pronti a cogliere ogni minimo rumore o ogni minimo movimento che potesse indicare una salvezza. Ma niente, nessun suono, nessun’ombra.
Le bambine erano rimaste in un’altra stanza e se da un lato Andrea era sollevata che non avessero assistito alla scena del pomeriggio precedente, dall’altro la terrorizzava non sapere come stessero, non poterle consolare almeno a parole.
La sera prima, Kate aveva fasciato la ferita alla spalla di Semir per tenere a bada l’emorragia, ma ora le bende bianche erano ornate da una macchia di sangue che si era allargata lentamente, durante la notte.
Lo spiffero d’aria gelida proveniente dall’apertura sul muro li faceva rabbrividire. Ma entrambi sapevano che avrebbero provato freddo a prescindere dal tempo atmosferico.
Lo spicchio di cielo che si intravedeva cominciava a schiarirsi e la luce penetrava tenue nella stanza: era l’alba.
«Ho paura...» ripeté Andrea, in un soffio.
«Hanno ucciso Ben.» fu la laconica risposta del marito.
Lei la interpretò come un semplice “Anche io ho paura”.
E aveva ragione.
Quando udirono la maniglia della porta abbassarsi, entrambi voltarono automaticamente la testa verso l’entrata.
Kate e Frederich Keller, pistola alla mano, entrarono a passo di carica nella stanza.

«Dov’è Ben?» domandò Maggie, preoccupata, rientrando nell’ufficio della Kruger.
Si era allontanata un attimo per andare in bagno, lasciando il ragazzo alla scrivania di Susanne, ma quando era uscita non lo aveva più trovato.
«Jager è andato al carcere da cui è evaso Keller, vuole chiedere informazioni sulle persone che sono andate a fargli visita negli ultimi tempi.» rispose la Kruger, fissando alcuni fogli sparsi sulla propria scrivania, senza in realtà prestare attenzione ad alcuno di essi.
«Ma non se ne erano già occupati gli uomini dell’LKA?» osservò la psicologa, sedendosi di fronte al commissario.
La donna annuì «Certo, ma Jager vuole controllare personalmente. Sono preoccupata per lui... le statistiche ci insegnano che passate un tot di ore da un rapimento le probabilità di ritrovare gli ostaggi vivi calano drasticamente, e ho paura di un’eventuale reazione di Jager se...».
Non concluse la frase. La verità era che non gliene fregava niente delle statistiche. Era semplicemente, costantemente preoccupata per i suoi uomini.
«Io gli starò vicino, commissario.» mormorò Margaret, accennando un sorriso.
E la sua stessa frase la terrorizzò. Se già stavano ipotizzando come sarebbe stato Ben dopo, allora stavano implicitamente ipotizzando anche che non avrebbero trovato vivi Semir e la sua famiglia. Stavano perdendo le speranze.
«Mi preoccupa una cosa in particolare.» disse Kim, riscuotendo l’altra donna dai propri pensieri «Forse non abbiamo dato il giusto peso nella storia a questa donna bionda. Sarebbe importante capire se si tratta di una semplice aiutante di Keller oppure di qualcun altro che avrebbe una motivazione per uccidere Gerkhan.».
Maggie si strinse nelle spalle. Non lo sapeva.

Keller si fermò in piedi a una distanza intermedia tra Semir e Andrea e puntò la pistola sulla seconda, senza emettere un fiato.
Kate, vicino a lui, osservava e lanciava sguardi d’odio verso l’ispettore e di ansia mista a eccitazione verso la pistola che stringeva il suo capo tra le mani.
«Keller... che cosa vuoi fare?» domandò Semir, pur conoscendo già la risposta che sarebbe seguita.
«È un nuovo giorno, Gerkhan.» cominciò l’uomo, senza guardarlo, gli occhi fissi sulla donna che teneva sotto tiro «Ieri hai ricevuto la notizia della morte del tuo socio, vediamo oggi come te la cavi con la morte di tua moglie.».
Andrea rimase immobile, il respiro tremante, fissando la canna della pistola puntata su di lei.
Nell’aria fredda della stanza, il suo fiato si tingeva di grigio e come nebbia usciva dalla sua bocca e si dissolveva davanti ai suoi occhi.
«Keller... per favore...» mormorò Semir.
Sapeva che gridare non sarebbe servito. E se l’unica possibilità che gli rimaneva era supplicare, lui avrebbe supplicato quell’uomo, lo avrebbe pregato di non premere quel grilletto. Perché non avrebbe sopportato ciò che sarebbe accaduto altrimenti.
«Supplicami pure, Gerkhan.» rispose lui, beffardo «Ieri ti ho ascoltato, ho portato le mocciose fuori dalla stanza. Non le ho riportate qua, sono stato gentile. Così non assisteranno alla morte della madre. Dovresti ringraziarmi.».
«Io non so più come dirtelo, Keller. Non sapevo che quell’auto sarebbe esplosa, ma soprattutto non sapevo che ci fosse la tua famiglia all’interno... avresti fatto lo stesso al mio posto...» fece il poliziotto, provando nonostante tutto a mantenere la calma «Io non potevo sapere che cosa sarebbe successo.».
Keller scosse il capo, continuando a non degnarlo di uno sguardo. Continuando a tenere la pistola puntata su Andrea, immobile.
Nella sua mente, le immagini di quel giorno tornarono vivide. Le fiamme, un grido altissimo e quell’ispettore, quel piccolo maledetto ispettore con l’arma puntata sulla sua auto, su quell’auto ridotta ormai a fuoco e cenere.
L’odio che aveva provato quel giorno era stato grande tanto quanto il suo dolore, e finalmente adesso avrebbe avuto l’occasione di manifestarlo. Strinse il palmo della mano destra attorno al calcio della pistola, pronto a sparare.
«Keller, ascoltami.» continuò Semir, ordinando alla propria voce di non tremare «Io non avrei mai fatto questo alla tua famiglia. Io non avrei mai preso tua moglie, non l’avrei mai legata in una stanza, non le avrei mai sparato a sangue freddo. Non lo avrei mai fatto, non avrei mai fatto quello che tu stai facendo a me, lo sai benissimo.».
«Tu le hai uccise.» sibilò Keller.
Ma l’ispettore scosse un fremito, un leggero fremito della voce nel pronunciare quelle quattro parole.
«Ma non l’ho fatto così. Io non volevo, Keller. Io non farei mai una cosa del genere volontariamente.».
«Cominci a innervosirmi, sbirro.» si introdusse Kate, voltandosi verso di lui «Vuoi per caso un buco anche nell’altra spalla o credi di riuscire a tacere?».
Semir la ignorò completamente e continuò a parlare rivolto a Keller «Ascoltami... questo non riporterà indietro tua moglie. Non riporterà indietro Isabelle e le bambine.».
Frederich sussultò. Quel poliziotto ricordava il nome di lei...
«Non le riporterà indietro, non servirà a niente. Finita questa storia avrai delle persone in più sulla coscienza, ma sarai solo. Sarai ancora più solo di prima.».
«Giuro che ti riduco a un colabrodo.» ringhiò la donna bionda, estraendo anche lei all’improvviso la pistola e puntandola sull’ispettore.
«Taci, Kate.» sbottò Keller.
Continuava a tenere la pistola e lo sguardo fissi su Andrea, ma aveva immaginato i movimenti della donna alle sue spalle.
Kate corrucciò la fronte, abbassò la pistola. Sperò che Friedrich non stesse veramente ascoltando le parole di quel poliziotto. Non avrebbero potuto fermarsi, non arrivati a quel punto.

Ben uscì dal cancello del carcere e raggiunse la Mercedes. Si fermò accanto ad essa, sferrò un calcio contro uno pneumatico.
Niente, un buco nell’acqua. Di nuovo.
Aveva parlato con le guardie carcerarie in servizio e tutti avevano concordato sul fatto che Friedrich Keller nel corso di quei lunghi sette anni avesse ricevuto pochissime visite, quasi nessuna se si escludevano quelle di agenti venuti a interrogarlo o quelle, nei primi mesi, del suo avvocato.
Ben si prese la testa tra le mani in preda allo sconforto. Non sarebbe arrivato da nessuna parte, si sentiva bloccato e l’idea che non avrebbero mai più ritrovato Semir e la sua famiglia si faceva ogni secondo più concreta e terribile.
Ma non sapeva che cosa fare.
In carcere nessuno sapeva nulla, gli uomini che erano stati scagnozzi di Keller non sapevano nulla, sul luogo del rapimento non era stato trovato nulla... niente di niente.
Salì sulla propria auto, inserì la chiave nel cruscotto e fece per mettere in moto, quando un grido richiamò la sua attenzione.
Una guardia del carcere stava correndo a perdifiato verso di lui.
«Ispettore! Ispettore, aspetti!».

«Dimmi, Gerkhan.» fece Keller, con voce tranquilla, senza accennare ad abbassare la pistola e senza guardare il suo interlocutore «Credi davvero di potermi fermare? Credi che dirmi che questo non riporterà indietro la mia famiglia possa distogliermi dall’idea di distruggere la tua?».
Semir sospirò. Non aveva niente da perdere, doveva giocare tutte le carte a sua disposizione.
«Sì.» rispose, provando a ostentare sicurezza «Io credo di sì.».
«E per quale strana ragione, sentiamo.».
«Perché tu sai che cosa significa, Keller.».
L’evaso corrucciò la fronte, sentì un brivido percorrergli la schiena. Ma continuò a tenere la pistola puntata su Andrea.
Kate, in disparte, assisteva alla scena pronta a intervenire, con una strana ansia dipinta nello sguardo.
«Tu sai che cosa significa perdere tutto.» continuò Semir «Io invece non lo so. Ma non credo che tu possa augurare realmente a qualcuno quello che è accaduto a te. Credo che tu non riesca ad augurarlo nemmeno a me. Credo che tu sia disperato, ma non credo riusciresti a uccidere mia moglie e soprattutto le mie figlie a sangue freddo. Non sei un mostro, Keller...».
«Allora non ti è chiaro un concetto, Gerkhan. Io voglio vederti soffrire.» replicò l’uomo, sillabando l’ultima parola.
«Se lo farai, non sopravvivrai al senso di colpa.».
«Noi sopravviviamo, Gerkhan, ricordi?».
«Sì.» replicò Semir «Ma non sarà così per sempre.».
Keller continuò a non voltarsi, ma lentamente abbassò la canna della pistola.
Andrea tremava davanti a lui, e lui continuava a guardarla, chiedendosi se effettivamente sarebbe stato in grado di ucciderla a sangue freddo. Forse no.
Il braccio che reggeva l’arma era ormai disteso lungo il fianco.
Non avrebbe sparato.

«Ispettore!» ripeté la guardia, mentre Ben abbassava il finestrino per sentire che cosa avesse da dirgli.
Era poco più di un ragazzo, non doveva essere in servizio da molto tempo. Quando raggiunse la Mercedes del poliziotto era trafelato e prima di parlare dovette aspettare di aver ripreso fiato.
«Non ho parlato con lei, dov’era?» domandò Ben, senza troppe cerimonie.
«Sto iniziando il mio turno adesso, ispettore.» rispose la guardia, come se si dovesse scusare per qualche mancanza «Ma ho sentito i miei colleghi parlare e ho capito che un ispettore li aveva appena interrogati sul caso Keller. Io posso aiutarla.».
«Può aiutarmi?».
«Sì... pochi giorni prima dell’evasione è venuta una donna a far visita a Keller. Non l’avevo mai vista prima.».
Ben rimase interdetto «Perché i suoi colleghi non me ne hanno parlato?».
«Ero presente io durante il colloquio, forse i colleghi non erano presenti in quel momento. Sa, ispettore, qui siamo tanti e abbiamo turni differenti. Io non ero presente nemmeno quando sono venuti gli agenti dell’LKA a chiedere informazioni, me lo hanno riferito solo ora i colleghi. Sa, ancora non mi considerano molto... ecco... sono qui da poco.».
«Vada avanti.».
La giovane guardia annuì, facendo correre gli occhi marroni da una parte all’altra molto velocemente, come se dover parlare con un ispettore lo agitasse.
«Era una donna bionda. Ho sentito Keller dirle che non sarebbe dovuta passare.».
Gli occhi di Ben si illuminarono «Una donna bionda? Potrebbe farne un identikit?».
«Io... io credo di sì.».
«Salga in macchina, la porto subito al comando.».

«Che stai facendo Friedrich, spara.» ringhiò Kate, con un’aggressività nella voce ancora maggiore rispetto a quella che aveva dimostrato nei giorni precedenti.
Ma Keller rimase immobile, l’arma lungo il fianco.
«Spara o lo faccio io.» ribadì lei.
Se fino a un attimo prima Semir pensava che la situazione in qualche modo si sarebbe risolta, in quell’esatto istante ebbe la netta sensazione che tutto sarebbe precipitato, di nuovo.
Keller alzò nuovamente la pistola, puntandola su Andrea, che strinse gli occhi temendo il peggio.
«Sparale.» gli intimò Kate, con rabbia.
Lui non si mosse.
Ma l’eco di uno sparò risuonò nell’aria.

 

N.d.A.
Ancora errori investigativi imperdonabili, ancora nessuna pista, ma la situazione si sbloccherà presto, nel bene o nel male. E poi, lo sparo...
Grazie a chi continua a seguirmi, a presto!
Sophie

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Capitolo 15
*** Sarà peggio la vita ***


Dal capitolo precedente:


«Che stai facendo Friedrich, spara.» ringhiò Kate, con un’aggressività nella voce ancora maggiore rispetto a quella che aveva dimostrato nei giorni precedenti.
Ma Keller rimase immobile, l’arma lungo il fianco.
«Spara o lo faccio io.» ribadì lei.
Se fino a un attimo prima Semir pensava che la situazione in qualche modo si sarebbe risolta, in quell’esatto istante ebbe la netta sensazione che tutto sarebbe precipitato, di nuovo.
Keller alzò nuovamente la pistola, puntandola su Andrea, che strinse gli occhi temendo il peggio.
«Sparale.» gli intimò Kate, con rabbia.
Lui non si mosse.
Ma l’eco di uno sparò risuonò nell’aria.






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A Semir parve di assistere all’intera scena al rallentatore.
Vide Kate intimare a Keller di sparare.
Lui scuotere il capo, pur puntando la pistola su Andrea.
Vide sua moglie chiudere gli occhi.
Vide l’odio negli occhi di quella donna bionda, poi un proiettile esplodere dalla canna della sua pistola.
Vide il sangue.
Si allargava sotto il corpo di Andrea.
Kate che riponeva la pistola.
Impiegò una manciata di secondi per capire.
Vide Keller voltarsi verso la donna e lanciarle un’occhiata sprezzante, poi lo vide voltarsi verso di lui per spiare la sua reazione.
Gridò. Semir gridò il nome di sua moglie, che non poteva sentirlo.
Si dimenò fino a farsi male, fino a quando la spalla non riprese a sanguinare, e continuò a dimenarsi pur non potendo muoversi a causa delle corde che lo costringevano a rimanere praticamente immobile.
Gridò.
Gridò fino a che ebbe fiato.


«Il naso è... più allungato. Esatto, così.» puntualizzò la guardia, mentre meticolosamente ricostruiva il volto della donna che aveva visto in visita a Keller qualche settimana prima.
«Direi che le assomiglia. È lei.».
Susanne annuì e avviò la stampa.
«Già, proprio lei.» concordò una voce alle loro spalle, con un leggero accento inglese.
Ben, Maggie e la Kruger, riuniti intorno alla scrivania della segretaria, si voltarono, sorpresi di trovare alle loro spalle il signore che il giorno prima aveva fallito nel ricostruire l’identikit della donna.
«Scusate, non volevo spaventarvi.» si scusò il vecchio, reggendosi sul proprio bastone e passandosi una mano tra i baffi candidi «Stanotte mi è tornato in mente il volto di quella donna, così sono tornato. Ma noto che avete risolto anche senza di me.».
Ben sorrise, per la prima volta forse da ormai quattro giorni. Quel signore gli faceva tenerezza.
«Due conferme sono sempre meglio di una.» gli disse, estraendo poi il foglio dalla stampante e mostrandolo al nuovo arrivato.
«È lei?».
L’anziano signore annuì, compiaciuto, mentre la guardia a sua volta faceva di sì col capo. Quella donna aveva finalmente un volto.
«Ragazzi...» Susanne attirò nuovamente l’attenzione di tutti, ma il suo tono di voce non prometteva niente di buono.
La Kruger corrugò la fronte, allertandosi immediatamente, e lo stesso fece Ben.
«Che cosa c’è?».
«Ho un riscontro nel database... guida in stato di ebbrezza, niente di che, ma...».
«Ma? Susanne, che succede?».
«Questa donna è... è Katherine Fisher...».
«Chi sarebbe Katherine Fisher?» domandò Ben, mentre il cuore ricominciava a battergli all’impazzata nel petto.
Susanne prese un bel respiro.
«Lei è... è una persona che ha un motivo per uccidere.».


«No... no, no, no.» ripeté Semir in preda al panico, mentre le lacrime scorrevano amare sul suo volto, senza che lui potesse più fermarle.
Continuava a muoversi, a dimenarsi, a cercare di slegare dei nodi che non sarebbe mai riuscito a sciogliere.
Keller si avvicinò a lui e lo tenne per le spalle, provando a costringerlo a stare fermo.
«Lasciami, bastardo, lasciami.» gridò Semir, sicuro che se avesse avuto le mani libere lo avrebbe massacrato «Lasciami, maledetto!».
«Gerkhan, stai calmo, per la miseria. Ti stai facendo del male, calmati.» fece lui, rendendo la propria presa più forte, provando a instaurare con il suo prigioniero un contatto visivo.
Ma Semir non lo guardava, guardava alle spalle dell’uomo, dove Kate, un sorriso beffardo dipinto sul viso, slegava il corpo inerme di Andrea, immerso nel suo stesso sangue.
«Lasciala! Tu, lasciala stare! Dove la porti... dove la porti...» continuò a gridare, mentre la donna bionda trascinava Andrea verso la porta e poi spariva dietro la soglia.
«Dove la porta?» continuò a gridare rivolto a Keller, quando loro due furono rimasti soli nella stanza «Dimmi dove la porta, bastardo!».
«Gerkhan...».
«Fammi andare da lei...» le grida di Semir si trasformarono in un singhiozzo, poi lasciarono spazio solo alle lacrime «Ti prego... ti prego, fammi andare da lei...».
Keller sospirò. Nei suoi occhi non c’era vendetta in quel momento, ma Semir era troppo sconvolto per notarlo.
Negli occhi di quell’uomo c’era una specie di compassione.
«Sarà peggio il dopo, Gerkhan... Ora fa male, ma sarà peggio la vita.».


«Katherine Fisher, sorella di Isabelle Fisher.» comunicò Susanne, mordendosi il labbro.
«Oh no...» mormorò Maggie, che prima di tutti aveva intuito di chi si trattasse.
«Chi... chi sarebbe?» domandò Ben, che ancora non aveva capito, provando a dominare l’ansia che improvvisamente lo aveva assalito.
«Isabelle Fisher era la moglie di Keller.» spiegò la psicologa, con voce a mala pena udibile.
«La donna bionda che aiuta Keller è la sorella della donna che è morta in quell’auto per mano di Semir? E la zia delle bambine rimaste uccise?» fece la Kruger, mentre anche sui suoi lineamenti si dipingeva il terrore.
«Oddio...» commentò Ben, in un sussurro «Questo vuol dire che...».
«... Che anche lei ha un buon motivo per vendicarsi.» concluse Margaret al suo posto.
L’attimo di silenzio che seguì fu lunghissimo.
Tutti, intorno a quella scrivania, sembrarono per qualche secondo come paralizzati.
«Be’, che aspettate?» fece all’improvviso il vecchio dall’accento inglese.
I poliziotti si voltarono verso di lui: avevano totalmente dimenticato la sua presenza.
L’anziano signore scosse il capo, come a volerli rimproverare «Suvvia, muovetevi! In uno di quei telefilm polizieschi che vedo io, i protagonisti sarebbero quantomeno già a casa di questa Katherine. Dovrete pur cominciare da qualche parte, no?».
Ben annuì e guardò Susanne.
Non ci fu bisogno di parole.
«Tersen Straße, 22.» disse prontamente la segretaria.
Un attimo dopo, Ben, Margaret e la Kruger erano già in macchina.


Keller rimase immobile, per qualche attimo interminabile, a guardare la macchia di sangue fresco sul pavimento della stanza.
Alle sue spalle udiva i singhiozzi sommessi del suo prigioniero. Ma non lo guardava.
Quando guardava l’ispettore, rivedeva se stesso in quel pomeriggio d’autunno di sette anni prima. Quel dolore atroce negli occhi del poliziotto era lo stesso dolore che lui provava ormai da sette anni, che non si era mai attenuato nel tempo.
Al posto del sangue, lui quel giorno aveva avuto di fronte fiamme, cenere e puzza di gomma bruciata.
Cenere, cenere, cenere.
Non aveva visto i loro corpi.
L’unica cosa che aveva visto erano state le fiamme e la cenere, e quell’ispettore. E aveva giurato a lui e a se stesso che gli avrebbe distrutto la vita.
E lo stava facendo.
Ma non si sentiva meglio. Non era riuscito a sparare, lo aveva fatto Kate.
La donna non era morta, ma questo l’ispettore legato alle sue spalle non lo sapeva. Comunque fosse, aveva perso troppo sangue, sarebbe morta di lì a poco. E lui non sapeva se gioirne, oppure no.
Con lentezza, si voltò e si diresse verso la porta.
Prima di uscire, però, diresse finalmente lo sguardo verso il suo prigioniero.
Semir aveva gli occhi pieni di lacrime, ma non gridava più. Ricambiò quello sguardo senza riuscire a dire niente.
Poi Keller uscì e richiuse la porta, lasciandolo solo con il suo dolore e con quell’immensa macchia di sangue sul pavimento di fronte a lui.


La casa di Katherine Fisher era ordinata in modo maniacale.
Arredata in stile moderno, piuttosto asettica, non conteneva un solo oggetto che si trovasse in qualche modo fuori posto.
C’erano tanti libri, meticolosamente posti sugli scaffali rispettando sicuramente un ordine preciso.
Gli ambienti erano ampi, freddi, vuoti.
I pavimenti tirati a lucido.
Ben si era già convinto del fatto che in quella casa non avrebbero trovato assolutamente niente, quando un’esclamazione di Hartmut attirò la sua attenzione.
Il tecnico li aveva raggiunti sul posto e aveva iniziato subito le sue analisi insieme a un paio di altri ragazzi della scientifica.
«Ben, guarda un po’ qua!» lo chiamò a un tratto il rosso «Questa è terra.».
L’ispettore intravvide una piccola macchia sul tappeto, nel punto esatto che Hartmut gli aveva indicato.
«Ma è... arancione?».
«Sì, deve essere un terreno particolare... devo portarne in laboratorio un campione e analizzarlo, potrebbe portare a qualcosa. Sembra una macchia piuttosto fresca.».
Ben annuì «Quanto tempo ti serve?».
«È molto piccola... magari entro l’alba...».
Il poliziotto lanciò un’occhiata al cielo fuori dalla finestra che iniziava a scurirsi.
«Così tanto, Hartmut?».
«Ben, faccio il più in fretta possibile.».


«Sei un buono a nulla, Friedrich.» sibilò Kate, mentre girava attorno all’uomo, seduto su una sedia nella piccola stanzetta in cui si trovavano.
Per terra, in un angolo del pavimento, Andrea giaceva immobile, sempre più pallida.
«Ti ho chiesto di fasciarle quella ferita.» ribadì lui, con voce totalmente piatta.
«Certo, adesso la vuoi anche curare?» domandò la donna, sarcastica «Comunque sia, non ho abbastanza bende. Morirà comunque. Vuoi che la finisca?» aggiunse, estraendo la pistola.
«Non ti azzardare.» tuonò Keller, guardandola finalmente negli occhi.
«Domani tu finirai il tuo lavoro, Friedrich. Domani sarai tu a premere il grilletto, sono stata chiara?» continuò Kate, con occhi che lanciavano fiamme «Glielo devi, lo devi a Isabelle e alle bambine. Lo devi a loro. E lo farai.».

 

Eeeh sì, sono ancora viva! Scusate il ritardo di due mesi nella pubblicazione di questo capitolo, sono stata sommersa dalle cose da fare e non ho avuto nemmeno più il tempo per aggiornare, nonostante i capitoli fossero già pronti e solo da rivedere.
Ci eravamo lasciati con uno sparo, adesso sappiamo da che pistola è partito e, ahimè, chi ha colpito… ma ci eravamo anche lasciati con un vecchietto e una guardia pronti ad aiutare la polizia come possibile ed ecco che ora abbiamo un identikit della misteriosa donna bionda.
Andrea ferita, Semir disperato, la bionda accanita (vuole arivare fino in fondo) e Keller pensieroso... ma potrebbe andare peggio! Non serve che vi ricordi quanto io sia stata cattiva in questa storia... giusto?
Grazie a chi continua a seguirmi e a presto.
Sophie

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Capitolo 16
*** Autodistruzione ***


Dal capitolo precedente:

Per terra, in un angolo del pavimento, Andrea giaceva immobile, sempre più pallida.
[...]
«Morirà comunque. Vuoi che la finisca?» aggiunse la donna, estraendo la pistola.
«Non ti azzardare.» tuonò Keller, guardandola finalmente negli occhi.
«Domani tu finirai il tuo lavoro, Friedrich. Domani sarai tu a premere il grilletto, sono stata chiara?» continuò Kate, con occhi che lanciavano fiamme «Glielo devi, lo devi a Isabelle e alle bambine. Lo devi a loro. E lo farai.»

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GIORNO 16.

 

Hartmut Freud amava il suo lavoro, e questo i suoi colleghi lo avevano sempre notato. Quando si perdeva in spiegazioni di fenomeni che altri non potevano comprendere, o si dilungava nelle descrizioni di particolari materiali, non lo faceva con l’intento di far perdere tempo alla polizia, lo faceva semplicemente perché amava quello che raccontava e amava il modo in cui una sola, singola, piccolissima traccia, potesse racchiudere in sé un significato di importanza sbalorditiva per le indagini.
Ed era stato così anche questa volta. Da quel piccolissimo pezzetto di terriccio, lui aveva scoperto moltissime cose. Troppe cose, forse. Perché un po’ temeva le ripercussioni che ciò che aveva scoperto avrebbero avuto.
Credeva di sapere dove fossero tenuti prigionieri Semir e la sua famiglia e stranamente questo non lo tranquillizzava. Anzi, lo terrorizzava.
Quando Ben e la Kruger varcarono la soglia del laboratorio, erano le cinque e mezza del mattino e lui aveva appena terminato le sue analisi.
Con un sospiro, disse loro di avvicinarsi e cominciò le sue spiegazioni.


Semir provò a strattonare le corde con cui i suoi polsi e le sue caviglie erano legati, ancora.
Aveva provato per tutta la notte.
E ora i polsi gli sanguinavano.
Non aveva più lacrime. Le aveva terminate presto, ora rimaneva solo dolore.
Avevano ucciso Ben.
Avevano ucciso Andrea.
Temeva l’alba, perché non sapeva che cos’altro Keller e quella donna avrebbero potuto fare. Non sapeva che cosa il quinto giorno gli riservasse, ma ormai la speranza lo aveva abbandonato.
Non lo avrebbero trovato. Ben non c’era più e gli altri non lo avrebbero trovato.
Chiuso in quella stanza, solo, si sentiva soffocare e avrebbe voluto che succedesse. Avrebbe voluto soltanto chiudere gli occhi e non svegliarsi più.
Ma ogni volta che provava ad abbassare le palpebre, poi irrimediabilmente le riapriva, e la stanza buia e il sangue lì sul pavimento c’erano ancora.
Non riusciva a svegliarsi da quell’incubo.


«Questo terriccio è molto particolare, contiene zolfo e... lasciamo perdere.» spiegò Hartmut, con tono pacato, senza distogliere gli occhi dallo schermo del computer che aveva di fronte «Comunque qui a Colonia credo si possa trovare in pochi luoghi e io so qual è quello che fa al caso vostro. È a quaranta minuti da qui, è un edificio abbandonato con diverse stanze, che un tempo era servito per...».
«Einstein, davvero, non abbiamo tempo per queste cose. Dacci l’indirizzo.».
«No, Ben, questa volta è importante.» rispose il tecnico, con decisione «Dovete ascoltarmi.».
L’ispettore annuì, con un sospiro, attendendo che l’altro continuasse.
«Questo edificio era stato ideato apposta per girare alcune scene di un film, anni e anni fa. È molto particolare, la struttura in sé è molto fragile. Erano stati costruiti al suo interno diversi meccanismi che sarebbero serviti a riprodurre alcuni effetti speciali, poi non sfruttati perché, appunto, poco sicuri e...».
«Hartmut, scusa, non vedo come questo possa tornarci utile.» lo interruppe di nuovo Ben, pronto a uscire dal laboratorio per salire in macchina.
«Jager, lo lasci finire.» lo ammonì la Kruger.
«Ascoltami, Ben.» continuò il rosso «Io non so se sia vero oppure si tratti solamente di dicerie, ma anni fa erano usciti articoli non ufficiali che accennavano alla probabile presenza tra quelle pareti di un certo meccanismo... un meccanismo che, una volta attivato dall’interno, potesse far crollare l’intero edificio su se stesso.».
«Che cosa?».
«Sì, una sorta di meccanismo di autodistruzione. Ovviamente tutto ciò non è a norma. Secondo l’articolo che ho trovato questa roba doveva essere smantellata, ma pare che nessuno si sia debitamente occupato della faccenda e, anche se non si sa con certezza, girano voci che questo meccanismo sia ancora perfettamente funzionante. Dovete fare attenzione. Se quei pazzi vi sentissero arrivare, potrebbero anche...».
«Okay, ho capito.» fece Ben, in fretta.
«È in Dresda Straße, alla fine della strada.» comunicò Hartmut «Non ci sono comandi di polizia più vicini, dovete sbrigarvi.».
«Avviso il commissario dell’LKA e le squadre speciali.» disse la Kruger, afferrando in fretta il cellulare «Intanto noi cominciamo a partire.».
«Grazie Hartmut.» mormorò Ben.
Poi lui e il commissario sparirono a bordo della Mercedes, che con una sgommata uscì dal piazzale.


Kate entrò nella stanza stringendo Aida per un polso e trascinando con l’altra mano la piccola Lily.
Keller la seguiva, ma Semir ebbe la netta impressione che ora fosse lei a tenere le redini della situazione.
La donna addossò entrambe le bambine al muro, senza curarsi di legarle, e la prima cosa che Aida notò fu la chiazza di sangue sul pavimento.
Alzò lo sguardo sul padre «Dov’è la mamma?» chiese, senza curarsi della donna bionda che le intimava di stare zitta.
«Non ti preoccupare, cucciolo. Stai bene?» fece l’ispettore, sollevando la testa e scrutando negli occhi entrambe le bambine.
Aida annuì. Erano entrambe terrorizzate, ma avevano gli occhi asciutti.
Semir studiò la donna mentre estraeva la pistola e con calma contava il numero di colpi che le rimanevano a disposizione, mentre Keller, poco distante, rimaneva passivo.
«Che cosa vuoi fare?» domandò, lanciando uno sguardo a lei e uno alle figlie, che rimanevano immobili.
Kate sorrise, sarcastica.
«Esattamente quello che tu hai fatto alle sue bambine.» disse, indicando Friedrich con lo sguardo. Poi si rivolse direttamente a Keller «Su, fallo. Comincia da quella che vuoi, ma fallo.».
Come un automa, l’uomo estrasse la pistola, tolse la sicura, la puntò su Lily.
Aida sbarrò gli occhi e si parò istintivamente davanti alla sorellina.
«Scena patetica.» constatò la donna bionda. Quindi si avvicinò alle bambine, prese la più grande per un braccio e la obbligò a spostarsi.
«Scusa sai, ma due in un colpo solo sarebbe troppo poco doloroso. Lasciamo che il tuo papino assista ad altri due omicidi distinti, va bene?» disse sorridendo, come se quella situazione davvero la divertisse.
«Spara.» aggiunse, rivolta a Keller.
Lui strinse la mano destra attorno al calcio della pistola.
Lo avrebbe fatto per loro.


Ben svoltò a destra e Kim, sul lato del passeggero, dovette tenersi al sedile per mantenere l’equilibrio. La guida dell’ispettore era estremamente brusca e la donna temette seriamente per la loro incolumità più di una volta durante il tragitto.
Erano passati già una decina di minuti, che lei aveva trascorso al telefono prima con il commissario dell’LKA, poi con il capo della squadra speciale, poi con altri agenti dell’autostradale.
Quando finalmente chiuse il cellulare, emise un sospiro e rimase per alcuni secondi a fissare il suo sottoposto, che guidava in silenzio, con le mani avvinghiate al volante.
«Ho avvisato tutti.» disse poi, per rompere il silenzio «Gli agenti dell’LKA dovrebbero essere pochi chilometri dietro di noi e così anche i soccorsi. Arriveranno delle ambulanze, non si sa mai.».
Ben annuì, ma non accennò ad aprire bocca.
«Ha fatto bene a dire a Margaret di rimanere in commissariato.» continuò la donna «Sarebbe stato troppo pericoloso.».
Seguì il silenzio, ancora.
«Jager, io sono sicura che Hartmut abbia ragione e che si tratti del posto giusto, perché non prova ad essere ottimista anche lei?» domandò infine il commissario, alzando leggermente il tono di voce.
«Perché anche io sono convinto che il luogo sia giusto, capo.» disse finalmente Ben «Ma non so che cosa troveremo, e questo mi fa paura...».
La Kruger annuì.
Anche lei aveva paura.


«Keller, non sparare!» gridò Semir, con quanto fiato aveva in corpo «Ricorda quello che ti ho detto ieri, non sparare!».
«Finiscila!» urlò Kate, dirigendosi a passo di carica verso di lui, con la pistola puntata davanti a sé.
«Scordatelo.» fece l’ispettore.
«Non sai quanto volentieri ti spedirei all’altro mondo, sbirro.» replicò lei, con gli occhi carichi d’odio e la mascella serrata.
«Allora fallo. Uccidi me, uccidimi, fai quello che vuoi, ma non toccare le bambine.».
Keller, nel frattempo, rimaneva immobile, sempre con la pistola puntata su Lily, con lo sguardo fisso e i pensieri altrove.
«Uccidi me!» ripeté Semir, sperando davvero che la donna lo prendesse in parola.
«Mai. Non ti farò mai questo favore.» sibilò lei, vicina al suo viso «Tu mi hai costretto a guardare e ora guarderai.».
«Ma chi sei tu? Che cosa ti ho fatto?» gridò l’ispettore, con la disperazione nella voce.
«Io, sbirro, sono la sorella della donna che hai ucciso.».


«Quanto manca ancora?» domandò la Kruger, con lo sguardo colmo di apprensione fisso sul panorama che cambiava velocemente fuori dal finestrino.
Mano a mano che si allontanavano dal centro di Colonia le case si facevano più rade.
Accanto a loro adesso correva un bosco scuro e la strada era praticamente deserta.
Erano le sei del mattino passate, e il cielo di novembre era ancora buio.
Minacciava pioggia.
«Credo una decina di minuti.» rispose Ben, mantenendo gli occhi puntati sulla strada.
La sua mente viaggiava a folle velocità, provava a immaginare la situazione che avrebbe potuto trovare, provava a vagliare ogni ipotesi.
Semir, sto arrivando, resisti...


Semir sgranò gli occhi, sorpreso.
Ecco dove l’aveva già vista: al funerale. Una cascata di capelli biondi nascosti da un velo nero e gli occhi coperti da un paio di grandi occhiali da sole. Ora la ricordava.
«Oddio...».
«Sorpreso, sbirro? Nemmeno ti ricordavi di me, non è così?».
Il prigioniero scosse il capo.
«Ti prego... ti prego, non fare loro del male, sono solo bambine...».
«Anche Sophie e Martha erano solo bambine.» sillabò Kate.
«Non so più come dirvelo... io non lo sapevo!» disse ancora l’ispettore, pur sapendo che ogni parola non sarebbe comunque bastata a distogliere quella donna dal suo obiettivo.
Keller rimaneva immobile, ancora.
«Se non ci riesci ci penso io, Friedrich, ma vedi di prendere una decisione in fretta.» fece la donna, brusca, rivolgendosi a lui.
Il silenzio che ne seguì fu per lei una conferma.
Tolse la sicura dalla propria pistola, posò il dito sul grilletto e spinse Keller di lato per farsi spazio, imponendosi davanti alla bambina più piccola, tenendola sotto tiro.
«Ti prego, aspetta, ti prego!» gridò ancora Semir.
Poi, senza dare il tempo alla donna di replicare, si rivolse ad Aida.
«Aida... cucciolo, ascoltami. Devi fare quello che ti dico io ora, va bene? Chiudi gli occhi, Aida... chiudili.».
Lily aveva iniziato a piangere, mentre la sorella fissava il padre in preda al panico, ma dai suoi occhi non sgorgava nemmeno una lacrima.
«Papà, ho paura.».
«Aida, ti prego... ti prego, chiudi gli occhi...».
E la bambina lo fece.
Chiuse gli occhi.
Kate applicò una leggera pressione sul grilletto.


Il suono di una sirena risuonò in lontananza.


Quando sentì il suono della sirena, a Ben balzò il cuore in gola.
«Non ci posso credere, chi è il cretino che ha acceso la sirena?» gridò, continuando a premere il piede sull’acceleratore.
Kim Kruger guardò la fila di macchine alle loro spalle, notando che un’auto degli agenti dell’LKA aveva i lampeggianti accesi.
«Ma porca miseria, che deficiente.» mormorò.
Afferrò il cellulare per chiamare il commissario di quel dipartimento, ma si bloccò quando vide emergere tra gli alberi il tetto basso di un edificio in pietra, totalmente isolato.
Se davvero si trovavano lì, dovevano aver sentito.
Compose in fretta il numero, ma non ebbe nemmeno il tempo di aprire la comunicazione.


«Maledetti.» fece Kate, gettando a terra la pistola in uno scatto d’ira.
Ma non appena ebbe ripreso lucidità, corse fuori dalla stanza.
Piuttosto che lasciare che lo sbirro e le mocciose venissero salvati, sarebbe morta con loro.

Aida aprì gli occhi, senza capire. Lily smise di piangere.
Semir sospirò, senza credere alle proprie orecchie: li avevano trovati.
Un debole sorriso si dipinse sul suo viso.
Ma poi accadde qualcosa. Vide Keller dirigersi in fretta verso di lui e estrarre dalla tasca un coltello. Lo vide tagliare le corde che lo avevano tenuto immobile in quei cinque giorni e poi guardarlo negli occhi, con qualcosa di molto simile all’apprensione dipinta sul viso.
«Gerkhan, porta le bambine sotto le colonne portanti... mi dispiace.» mormorò, poi corse via, sparendo dietro la porta della stanza.
Semir crollò a terra, finalmente libero da quei nodi.
Corrugò la fronte, senza capire perché Keller gli avesse detto quelle parole, senza capire che cosa stesse accadendo.
Poi tutto iniziò a tremare.


Keller seguì la donna per i corridoi dell’edificio. Sapeva perfettamente dove fosse diretta, ma non glielo avrebbe permesso
La trattenne per un braccio proprio nel momento in cui lei stava per tirare la leva.
La tirò a sé, impedendole di raggiungere il macchinario.
Ma lei si divincolò, gli tirò un calcio nello stomaco, lo fece barcollare.
Riuscì a liberarsi dalla sua presa e tirò quella leva con tutta la forza di cui era capace.


Il boato fu spaventoso.
Ben frenò in un violento testacoda e lo stesso fecero le auto al suo seguito.
Una nube immensa di polvere si sollevò di fronte a loro.

 

N.d.A.
Una sirena, un meccanismo poco probabile... ed eccoci alla svolta. Ancora la fine è molto lontana, ma adesso ci sarà qualche cambiamento. Che Ben e la squadra questa volta siano veramente arrivati troppo tardi?
Grazie a chi continua a seguirmi e un abbraccio.
Sophie

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Capitolo 17
*** Lasciami andare ***


Dal capitolo precedente:

"Il boato fu spaventoso.
Ben frenò in un violento testacoda e lo stesso fecero le auto al suo seguito.
Una nube immensa di polvere si sollevò di fronte a loro."

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Quando Ben scese dalla macchina, fu letteralmente investito dalla polvere.
Fu costretto a chiudere gli occhi e aspettare che quella nebbia di pulviscoli si diradasse per constatare qualcosa di terribile: l’edificio non c’era più.
Al suo posto, solo un ammasso informe di pietre e di rottami.
Mentre il cuore gli rimbalzava a mille nel petto, la sua mente cominciò a elaborare pensieri confusi e il suo respiro divenne quasi affannoso.
«Oddio...» sussurrò, immobile davanti alla propria auto, senza decidersi a fare un passo.
Fu il tocco della Kruger che lo riscosse. La donna gli mise una mano sulla spalla e l’ispettore si voltò verso di lei, che era pallidissima.
«Iniziamo a cercare, Jager.» disse Kim.
Ma la sua voce aveva perso ogni nota autoritaria. Era spaventata tanto quanto lui.
Mentre entrambi si avvicinavano alle macerie, i soccorritori scesi dall’ambulanza stavano già cercando tra i massi.
Il commissario dell’LKA, più indietro, chiamava altri soccorsi.

Semir schiuse gli occhi, piano.
La prima cosa che sentì fu il dolore. Aveva male ovunque.
Quando riuscì ad aprire gli occhi quasi del tutto, il panico si impossessò di lui.
Pietre, pietre, pietre.
Sopra di lui non c’era il cielo, ma un cumulo di detriti.
Aveva le braccia intorno alla testa, istintivamente doveva essersela protetta vedendo i massi cadere su di lui.
Ma non riusciva a muoversi.
Credeva di non aver mai provato tanto dolore tutto insieme, ma non riusciva nemmeno localizzarlo, a capire da che parte del corpo provenisse.
Tentò in tutti i modi di dominare la paura, provò a concentrarsi e ad ascoltare. Ed effettivamente udì qualcosa, dei suoni ovattati.
Rumore di pietre spostate.
I suoni divennero secondo dopo secondo leggermente più nitidi e lui riuscì a distinguere delle voci.
Qualcuno cercava... qualcuno li stava cercando.
E poi udì una voce, la riconobbe, e un brivido gli percorse tutto il corpo.
Quella voce sembrava disperata.

«Non li troveremo mai...» disse Ben, con la disperazione nella voce. Avrebbe voluto concludere la frase, dire che non li avrebbero mai trovati tutti vivi, ma non lo fece. Aveva troppa paura delle sue stesse parole.
«Sì, invece, continuiamo a cercare.» fece Kim, risoluta, alle sue spalle.
Erano sopra al cumulo di macerie, alla disperata ricerca di un segno, di un suono, di qualsiasi cosa.
L’idea che sotto a quei massi potessero trovarsi i corpi di Semir e della sua famiglia li faceva rabbrividire, ma dovevano cercare.
I soccorritori avevano intimato loro di stare alla larga dalle macerie, assicurando che a breve sarebbero arrivati altri soccorsi e che per loro non sarebbe stato sicuro partecipare alle ricerche.
Ma Ben e la Kruger, ovviamente, non li avevano ascoltati.

Ben.
Semir provò a gridare, ma dalla sua bocca non uscì nemmeno un sussurro.
Continuava a provare a muoversi, ma non riusciva a distendere nemmeno un muscolo.
Si sentiva soffocare, forse per il panico, forse per la poca aria che penetrava sotto quei massi.
Riprovò a urlare, senza successo.
Non capiva come il suo socio potesse essere vivo, dal momento che Keller gli aveva assicurato di averlo ucciso, ma in quel momento non riusciva a pensare ed era sicuro di aver sentito la sua voce.
Voleva solo che qualcuno lo tirasse fuori di lì.
Doveva vedere se le bambine stavano bene.
Immagini orribili occupavano la sua mente.
Provò a muoversi, ancora, ma qualsiasi accenno di movimento gli rimandava un dolore terribile.
Sentì in gola il gusto metallico del sangue.
Provò a gridare, ancora e ancora, ma non ci riusciva.

«C’è una donna qui!» il grido del giovane soccorritore coprì quello degli altri.
Altri due uomini in tuta da soccorritori lo raggiunsero, aiutandolo ad estrarre un corpo inerme dalle macerie.
Ben sentì il cuore perdere un battito, mentre incespicando tra le pietre provava a raggiungere i soccorritori per vedere di chi si trattasse.
«Qui non c’è niente da fare, ragazzi...» disse l’uomo che l’aveva trovata agli altri che lo avevano aiutato a tirarla fuori.
Scosse il capo, mentre adagiava il corpo immobile su una grande pietra piatta.
Ben, mentre si avvicinava, riuscì a distinguere una massa disordinata di capelli biondi. Doveva trattarsi di Katherine Fisher.

Semir sentiva la testa pulsare.
Smise di lottare per provare a muoversi non appena udì la voce di un soccorritore, in lontananza, comunicare di aver trovato una donna senza vita.
Andrea... doveva essere Andrea...
Sentì le lacrime salirgli agli occhi.
Poteva sentire tutto, ma nessuno poteva sentire lui.
Aveva bisogno d’aria...

«Anche qui!» gridò un altro soccorritore, poco distante.
E questa volta, mentre estraevano il corpo femminile dai detriti, Ben da lontano distinse chiaramente il profilo di Andrea.
Rabbrividì. I suoi vestiti erano pieni di sangue.
«Portatemi una barella, forse c’è polso!» gridò ancora il soccorritore, mentre qualcun altro si dirigeva verso di lui con una valigetta di primo soccorso e, più lontano, un uomo arrancava tra i massi portando con sé una barella pieghevole.
Ben sentì la testa cominciare a girare. Non sapeva dove cercare, non sapeva come muoversi. Era immobile sopra a una distesa grigia di massi e non sapeva se potesse essere veramente utile alle ricerche oppure no.
Il cuore andava a mille, ma i pensieri se possibile correvano ancora più veloci.
Si prese la testa tra le mani.
A pochi metri da lui, un altro soccorritore urlò di aver trovato qualcuno. Un uomo.
Ben si precipitò verso di lui, convinto che si trattasse di Semir.
In lontananza cominciarono a udirsi le sirene dei soccorsi che li stavano raggiungendo.

Erano poco distanti da lui.
Semir li sentiva, sentiva passi e voci concitate sopra la sua testa, ma a qualche metro di distanza.
Questa volta udì chiaramente la voce di Ben pronunciare il suo nome, e poi gridare, imprecare su qualcuno.

Quando Ben distinse tra i ciottoli il profilo di Friedrich Keller, vinse a stento la tentazione di gettarcisi sopra per massacrarlo.
«Maledetto bastardo!» gridò, senza riuscire a trattenersi.
Si muoveva, era ancora vivo.
Alle sue spalle, Ben sentì la voce della Kruger che gli intimava di calmarsi, di continuare a cercare.
Ma non fece in tempo a voltarsi, che un altro soccorritore a pochi metri di distanza gridò qualcosa, spostando un grosso masso a mani nude.
«Qui c’è il corpo di una bambina...».

Il corpo di una bambina.
Semir pensò che sarebbe morto in quell’istante.
Il corpo di una bambina.
Provò a ordinare alla sua mente di fermarsi, di non pensare.
Il corpo di una bambina.
Sentì una strana forza prendere possesso del suo corpo. Riuscì finalmente a fare un movimento. Riuscì a muovere un braccio.
Un piccolo, minuscolo movimento.
La forza della disperazione.

Un leggero movimento tra i ciottoli.
Ben si voltò di scatto, individuando a circa due metri da lui un cumulo di sassolini che si muovevano, rotolando velocemente tra i massi più grandi.
Con le lacrime agli occhi, si gettò su quei massi, cominciò a scavare.
«Aiuto, aiutatemi!» gridò, provando ad attirare l’attenzione dei soccorritori, mentre non cessava di spostare pietre da quel punto.
«Semir, lo so che sei qua sotto... forza...».

Semir sentì la terra e le pietre sopra di lui che si muovevano. Chiuse gli occhi per evitare che la sabbia lo accecasse. Sentì vicinissima la voce di Ben.
E poi lo vide.
Vide un pezzo di cielo buio sopra di lui, poi nella sua visuale apparve il viso di Ben.
Sentì finalmente l’aria che gli entrava nei polmoni e aprì la bocca per ricominciare a respirare.

«Semir! Oddio, Semir, sei vivo, grazie al Cielo.» mormorò Ben, tra le lacrime, mentre toglieva la terra dal viso del suo migliore amico e lo vedeva stringere gli occhi.
«Semir... mi senti? Socio... socio, ti prego, guardami... mi senti?».
Semir avrebbe voluto annuire, ma non riusciva a muoversi. Il dolore era troppo forte.
Il giovane ispettore tolse le piccole pietre che erano rimaste sulla parte superiore del suo corpo, ma constatò con orrore che l’altra metà di esso era bloccata da un enorme pezzo di pietra. Una colonna, forse. Non sarebbe mai riuscito a spostarla da solo.
«Aiuto!» gridò, ma i soccorritori erano impegnati in altri due punti. Stavano estraendo qualcun altro dalle macerie.
E quelli che arrivavano in lontananza si trovavano ancora sulle vetture in fondo alla strada.
«Okay, Semir, resisti. Resisti... va bene?».
Semir aprì la bocca per dire qualcosa, ma di nuovo non ne uscì alcun suono.
All’improvviso, nel suo campo visivo comparve anche la Kruger.
«Santo Cielo...» fece la donna, accovacciandosi accanto all’ispettore.
«Capo, non riesco a spostarlo da solo.» gridò Ben, alludendo al grande masso che schiacciava il bacino di Semir.
«Tra due minuti al massimo i soccorsi saranno qui, sono in fondo alla strada.» comunicò Kim. Ma era pallida, la voce le tremava.
Il giovane ispettore annuì.
Ma non riusciva a trattenere le lacrime nel vedere il suo amico così.
Bloccato, immobile, il viso pieno di tagli, una spalla sanguinante, gli occhi gonfi e lucidi, il respiro debole...
«Semir... dimmi qualcosa...» mormorò, inginocchiato accanto a lui.
«B... Ben...».
«Parli! Puoi parlare?» gli occhi del ragazzo si illuminarono.
«Le... le... bambine...» balbettò Semir, facendo uno sforzo immane per pronunciare quelle due parole.
Ben diresse lo sguardo verso i soccorritori che lavoravano a pochi metri da lui, ma non ebbe il coraggio di dare una risposta all’amico.
«Socio, non ti preoccupare ora, okay? I soccorritori le stanno tirando fuori.».
«Ben... pensavo... pensavo fossi... morto...».
«No... no, socio, sono qui. Sto bene.» rispose il giovane ispettore, senza capire in realtà a che cosa l’altro si riferisse.
Gli prese una mano e gliela strinse «Sono qui, socio, ma tu devi rimanere con me, okay? Rimani con me...».
«Non sento... non... sento... le... gambe...».
Un nuovo lampo di terrore attraversò gli occhi di Ben.
«Che cosa? Semir, ripeti, che cosa hai detto?».
«Lasciami... andare...».
«Che cosa stai dicendo, Semir?».
«Lasciami andare...».
Il ragazzo gli strinse la mano ancora più forte, mentre le lacrime gli rigavano il viso senza che lui potesse fare nulla per fermarle. Non poteva chiedergli questo, il suo migliore amico non poteva chiedergli una cosa del genere.
«Cosa dici, socio, io non ti lascio andare... non ti lascio andare proprio da nessuna parte, resta con me... resta con me...».
Gli occhi di Semir erano pieni di lacrime. Non ce la faceva più. Troppo dolore, non riusciva a respirare. Desiderò che finisse tutto, come mai lo aveva desiderato prima.
«Socio, guardami... guardami, io non ti lascio, hai capito?» gridò ancora Ben, stringendo più forte la mano dell’amico, che però non rispondeva alla stretta «Socio, resisti!».
«Forza...» aggiunse la Kruger, in un sussurro, prendendo tra le sue mani l’altra mano del suo ispettore.
Semir continuò a boccheggiare, sperando di perdere conoscenza, sperando che tutto quel dolore svanisse.
In quel momento, Ben venne letteralmente scaraventato su un lato da un robusto uomo in tuta da soccorritore, seguito da altri ragazzi che accerchiarono il corpo quasi immobile del poliziotto.
«Okay, ispettore, ora la tiriamo fuori di qui. Sentirà male, è pronto?».
Semir guardò l’uomo che gli aveva parlato. No, non era pronto, ma non sapeva come dirglielo perché non aveva più la forza di parlare. La vista era annebbiata. Scorse il gruppo di soccorritori avvolgere un’estremità della colonna che lo schiacciava con qualcosa, poi li vide disporsi simmetricamente attorno ad essa e scambiarsi un’occhiata d’intesa.
Aprì la bocca per gridare loro di fermarsi, ma dalle sue labbra non uscì alcun suono.
Poi, tutti insieme, i soccorritori cominciarono a sollevare la colonna.
Semir provò un dolore che gli tolse il fiato.
Poi, finalmente, il buio calò su di lui.

Ben, inginocchiato sopra a quei pezzi di pietra, volse lo sguardo al cielo, tremando.
Cominciò a piovere.

 

N.d.A.
Ed eccoci qui, arrivati alla svolta.
Vi avevo avvertiti fin dall’inizio che si sarebbe trattato di una  storia triste, ma sappiate che se almeno fino a questo momento c’era stata un po’ di azione, da qui in poi le cose da questo punto di vista non potranno fare altro che peggiorare.
Grazie a chi continua a seguirmi, grazie davvero.
Sophie

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Capitolo 18
*** Per quel che è ***


Dal capitolo precedente:

"Il corpo di una bambina.
Semir pensò che sarebbe morto in quell’istante.
Il corpo di una bambina.
Provò a ordinare alla sua mente di fermarsi, di non pensare.
Il corpo di una bambina.
[...]
«Lasciami andare...».
Il ragazzo gli strinse la mano ancora più forte, mentre le lacrime gli rigavano il viso senza che lui potesse fare nulla per fermarle. Non poteva chiedergli questo, il suo migliore amico non poteva chiedergli una cosa del genere.
«Cosa dici, socio, io non ti lascio andare... non ti lascio andare proprio da nessuna parte, resta con me... resta con me...».
Gli occhi di Semir erano pieni di lacrime. Non ce la faceva più. Troppo dolore, non riusciva a respirare. Desiderò che finisse tutto, come mai lo aveva desiderato prima.
[...]

Poi, finalmente, il buio calò su di lui.
Ben, inginocchiato sopra a quei pezzi di pietra, volse lo sguardo al cielo, tremando.
Cominciò a piovere."

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La pioggia batteva incessante contro i vetri, provocando un frastuono fastidioso.
Eppure, Ben si aggrappò persino a quel frastuono, perché non sapeva se avrebbe sopportato il silenzio cupo di quei corridoi.
Immobile, accasciato su una sedia bianca come le pareti di quel luogo, aspettava.
Avevano raggiunto l’ospedale in poco tempo nonostante la distanza, a sirene spiegate.
Era stata la Kruger a guidare fin lì, avendo notato il precario stato psicologico in cui sembrava caduto il suo sottoposto.
Poi la donna aveva lasciato l’ospedale, avrebbe dovuto parlare con il commissario dell’LKA, ma aveva assicurato che sarebbe tornata presto e aveva fatto giurare a Ben che l’avrebbe chiamata in caso di novità.
Il giovane ispettore aveva ancora le lacrime agli occhi, non riusciva a credere a quello a cui aveva assistito nelle ultime ore e continuava a sperare che si fosse trattato solo di un brutto, lunghissimo sogno.

«Ispettore? Ispettore, mi sente? Gli altri soccorsi stanno arrivando, ma nel frattempo ci servono due mani in più. Sollevi la testa del suo amico, piano, a uno o due centimetri da terra, non di più. Lo tenga fermo, okay?».
«Mike, tu comincia a ventilare. È sveglio, ha ripreso conoscenza. Ventisette atti respiratori al minuto, non ci siamo. Frequenza cardiaca?».
«Centotrenta.».
«Va stabilizzato, tra quanto arriva l’elicottero? In ambulanza impiegheremmo troppo tempo.».
«Deve esserci un’emorragia interna. Signore, mi sente? Può sentirmi?».
«Quando arriva questo dannato elicottero?».
«Mike, continua a ventilare. Va stabilizzato, altrimenti sull’elicottero non sale. Signore, resista, deve resistere...».

Ben si riscosse, provando a eliminare dalla propria mente quelle immagini. I soccorritori che lavoravano concitati tra le macerie, Semir agonizzante con la testa tra le sue braccia, la pioggia che cadeva su di loro, rendendo ancora più difficili tutte le operazioni di primo soccorso.
Doveva cancellare quelle immagini orribili, rimuoverle dai suoi pensieri.
Margaret era seduta accanto a lui.
Lo aveva raggiunto in ospedale non appena aveva appreso la notizia del ritrovamento: doveva stargli vicino.
E aspettavano, insieme, ormai da ore.
La psicologa aveva provato a far parlare Ben, ma non era riuscita e estorcergli nessuna spiegazione. Così, a un certo punto, aveva estratto dalla borsa una sottile risma di carta e una penna e aveva iniziato a scrivere.
Scriveva incessantemente da almeno un’ora, quando la voce del poliziotto che aveva accanto la riscosse.
«Come fai?» domandò Ben, in un mormorio.
La ragazza lo guardò, accennando un sorriso «A fare cosa, Ben?».
«A... a scrivere. Io non riesco nemmeno a pensare.».
Lei sorrise.
«C’è chi si aggrappa al silenzio, Ben... io mi aggrappo alle parole.».
L’ispettore annuì, stanco. Pensò distrattamente alla sua chitarra, poi il pensiero svanì così come era arrivato.
Erano cinque giorni che praticamente non dormiva. Erano stati quattro giorni e mezzo di ricerche lunghissime, snervanti, inconcludenti. Ma, stranamente, si ritrovò a pensare che forse avrebbe preferito prolungare lo stato d’animo esasperato di quei giorni, piuttosto che giungere a questo.
Era così stanco.
La pioggia batteva sui vetri, quasi nessuno attraversava i corridoi a quell’ora del mattino. Erano quasi le 8, ma in quel reparto non c’era movimento.
Ben abbassò le palpebre per un secondo, solo per un secondo. Ma cadde tra le braccia di Morfeo prima che potesse provare a lottare per non farlo.

Non seppe quante ore fossero passate quando aprì gli occhi,  ma dovevano essere state parecchie, perché un medico stava uscendo proprio in quel momento dalla sala operatoria poco distante.
Ben si passò le mani sul viso per svegliarsi del tutto, maledicendosi per essersi addormentato e notando che Maggie era rimasta nella stessa posizione di prima, china sui suoi fogli e con la penna in mano.
Il medico, visibilmente in tensione, si diresse verso di loro, scuro in volto.
«Dovrei parlare con i familiari dell’ispettore Gerkhan, sapete dove posso trovarli?».
«Può... può dire a me.» balbettò il poliziotto, temendo quello che avrebbe udito di lì a pochi istanti.
«Veramente avrei bisogno di parlare con un familiare, non sono tenuto a...».
«La prego.» lo interruppe Ben, con la voce spezzata «Deve dire a me... non ha più nessuno...».
Il chirurgo sospirò.
Aveva grandi occhi chiari che scrutavano l’ispettore da dietro le sottili lenti degli occhiali.
Sulla cinquantina, i capelli ingrigiti, ma i lineamenti distesi.
Negli occhi la sintesi di tutte le brutte notizie che negli anni era stato costretto a comunicare.
«Ispettore... mi ascolti, la situazione è piuttosto delicata.» cominciò, sedendosi accanto a lui.
Il ragazzo annuì e Margaret fece lo stesso, ma erano entrambi certi che quell’atteggiamento non preannunciasse niente di buono.
«Io sono Christopher Schneider, il neurochirurgo, ma non sarò solo io a trattare il paziente nelle prossime ore.».
Ben tirò un impercettibile sospiro di sollievo: qualunque cosa fosse accaduta, quella frase voleva dire che Semir era ancora vivo.
«L’ispettore Gerkhan ha subìto un trauma cranico di tipo chiuso, si è verificata una frattura delle ossa craniche che non è esposta, fortunatamente, ma ha causato un grosso ematoma intracranico. Si tratta in particolare di un ematoma epidurale, nella parte posteriore del cranio.».
L’uomo fece una pausa, per capire se le due persone che lo ascoltavano stessero capendo oppure no le informazioni che lui forniva.
«E... quindi?» fu l’unico commento che uscì dalle labbra di Maggie, mentre Ben rimase assolutamente immobile, in ascolto.
«Si tratta di un accumulo di sangue che si forma tra le ossa del cranio e la dura madre, cioè il rivestimento più esterno del cervello.» spiegò il medico, provando a parlare in modo meno tecnico «Io ho interrotto l’emorragia, l’intervento è riuscito, ma fino a quando il paziente non si sarà svegliato non sapremo se ha subìto danni permanenti oppure no.».
«Quali potrebbero essere questi danni?» domandò Margaret, sicura di parlare anche a nome del ragazzo che aveva accanto.
L’uomo sospirò appena «Debolezza su un lato del corpo, problemi di linguaggio, convulsioni.. ma sinceramente non è il trauma cranico a preoccuparmi in questo momento... il paziente ha subìto anche un grave trauma da schiacciamento al bacino.».
Ben si morse il labbro, non si accorse nemmeno di avere gli occhi lucidi. Quando aveva visto l’amico, poche ore prima, schiacciato da quell’enorme blocco di pietra, aveva subito temuto il peggio.
«Che cosa... che cosa rischia, dottore?».
«Il chirurgo ortopedico, che è ancora in sala, ha dovuto eseguire una fissazione esterna del bacino. L’ispettore Gerkhan ha subito uno shock emorragico molto grave. Non è fuori pericolo... ma soprattutto, nonostante la frattura non abbia causato danni agli organi interni, non posso escludere che abbia causato danni neurologici o di deambulazione. E comunque l’eventuale ripresa sarà lunga e molto dolorosa.».
«Eventuale?» ripeté l’ispettore, in un soffio.
Il medico sospirò ancora, posò una mano sulla sua spalla.
Improvvisamente, a Ben sembrò che quegli occhi di scienziato diventassero occhi diversi, pieni di umanità e di comprensione.
«Lei è il suo collega?».
Il ragazzo annuì lentamente.
«Mi scusi se le ho parlato schiettamente, ispettore... ma detesto dare false speranze. Se si riprenderà, il suo amico avrà bisogno di lei... avrà bisogno di tutto il sostegno possibile.».
«E... il resto?» si intromise Margaret, a bassa voce, cercando lo sguardo deciso del chirurgo.
«Ha due costole incrinate, ma non sono preoccupanti. Per quanto riguarda la ferita alla spalla, un mio collega ha fermato l’emorragia e si occuperà dell’operazione per rimuovere il proiettile al più presto, ma abbiamo ritenuto necessario dare precedenza al trauma cranico e a quello da schiacciamento. Ha subìto anche una frattura composta al braccio, ma direi che quello è il minore dei problemi. Sinceramente, mi sorprendo di come faccia a essere ancora vivo.».
«Lei ha... è lei che si è occupato di Andrea Schäfer?» chiese Ben, quasi bisbigliando, dopo un attimo trascorso in silenzio.
«L’operazione è stata eseguita dal dottor Franz, il chirurgo cardio-toracico. Io sono passato poco fa a controllare le sue funzioni cerebrali...».
«È sua moglie, dottore. È la moglie di Semir.».
Il medico corrugò appena la fronte, poi un velo di dispiacere coprì il suo sguardo.
«Mi dispiace...».

Helen Klein Schäfer amava la tranquillità.
Ma non il silenzio.
In quel momento, il silenzio lei lo detestava.
Ancor di più detestava il suono ritmico e incessante del macchinario che aveva affianco. Se da un lato quel suono le lasciava una minima speranza, dall’altro la irritava terribilmente. Le ricordava, incessantemente, di trovarsi in una stanza di ospedale. Le ricordava, in ogni istante, che la persona distesa sul letto era sua figlia.
Era così pallida.
Helen, accanto a lei, le stringeva la mano, sperando forse che Andrea potesse sentirla.
Il neurochirurgo che era passato a visitarla qualche ora prima le aveva detto che le sue condizioni erano molto critiche, che molto probabilmente non avrebbe superato la notte.
L’altro chirurgo, quello che l’aveva operata, le aveva spiegato che il proiettile che l’aveva colpita si era incastrato molto vicino al cuore, che rimuoverlo non era stato semplice e che, una volta arrivata in ospedale, ormai lei aveva già perso troppo sangue.
Fortunatamente non vi erano stati danni importanti dovuti al crollo dell’edificio, aveva aggiunto il medico.
Fortunatamente.
Helen si chinò sul letto della figlia, sfiorandole il viso con il suo.
Era fredda.

Ben si sfregò le mani sotto l’acqua gelida e le coprì nuovamente di schiuma.
Il sangue che le macchiava stentava ad andarsene.
Poi si sciacquò la faccia, sperando che i suoi occhi tornassero di un colore normale e che la sua espressione potesse sembrare un po’ più allegra di come lui si sentiva in realtà.
Sospirò guardandosi allo specchio, ma non ebbe il coraggio di sostare per molto tempo davanti al suo stesso riflesso.
Aveva paura di trovare altre macchie di sangue sui suoi vestiti. Del sangue di Semir, di quello di Andrea. Non voleva più vedere quel sangue, voleva rimuovere dalla sua testa ogni immagine. Ma era consapevole che non ci sarebbe riuscito.
Si asciugò con cura le mani e uscì dal bagno, con passo insicuro.
Quindi prese l’ascensore, scese al primo piano del grande edificio e si sorprese quando, uscito dalla cabina, trovò ad accoglierlo un’atmosfera totalmente diversa da quella che lo aveva circondato fino a quel momento al piano di sopra.
Era più calda, più accogliente. Le pareti non erano bianche, ma piene di stampe colorate.
Imboccò un corridoio dominato da un cartello che recava la scritta “Pediatria”.
Raggiunse la stanza numero 13 e, imponendosi di sorridere, abbassò la maniglia.

«Zio Ben!».
La bambina lo accolse con un sorriso a trentadue denti.
Era sola nella piccola stanza, seduta a gambe incrociate sul lettino, con un libro per bambini sulle ginocchia.
«Principessa!» esclamò l’ispettore, avvicinandosi al letto e prendendola in braccio, lasciando che si accomodasse sulle sue gambe.
«Finalmente, mi hanno lasciato tutti qua da sola.» disse Aida, mettendo il broncio.
Ben le accarezzò piano i capelli.
Era vero, l’avevano lasciata da sola lì per un po’, chiedendo alle infermiere di turno di controllare che stesse bene e che facesse la  brava.
«Scusa piccola, hai ragione. Come ti senti?».
La bambina alzò le spalle «Bene.».
Aveva un taglio sulla fronte che era stato accuratamente suturato, ma per il resto non aveva riportato alcun danno. Ben ancora non si capacitava di come fosse possibile, ma la piccola era stata estratta dalle macerie cosciente e senza niente di rotto. Un piccolo miracolo.
«Quando posso vedere papà e mamma?».
L’ispettore sospirò piano, pensando freneticamente a che cosa avrebbe potuto dirle.
Suo papà era ancora in sala operatoria, sarebbe stato trasferito da un momento all’altro in terapia intensiva. Sua mamma era in coma e i medici avevano detto che non avrebbe superato la notte.
Si sentì così impotente che, semplicemente, rimase in silenzio.
Il sorriso di Aida scomparve del tutto dal suo viso.
«Stanno tanto male, zio Ben?».
«Staranno meglio, cucciolo.» provò a rassicurarla «Appena mi daranno il permesso ti porterò da loro, va bene?».
La bambina annuì.
«E mia sorella?».
Ben si morse il labbro, guardò Aida negli occhi. Aveva gli occhi identici a quelli del padre.
«Principessa...».
Si  bloccò.
Avrebbe voluto poter fuggire da quella conversazione, alzarsi e chiudersi la porta alle spalle, ma sapeva che non avrebbe risolto le cose. E sapeva anche che, in quel momento, lui era l’unica persona che potesse spiegare ad Aida che cosa fosse successo. Perché fosse rimasta sola.
«Quando hanno iniziato a cadere le pietre io non l’ho più vista.» mormorò la bambina, in attesa di una risposta.
L’ispettore sentì una morsa stringergli lo stomaco e poi la gola. Avrebbe voluto almeno l’aiuto di Maggie: lei aveva avuto in cura alcuni bambini, sapeva come parlare con loro.
Una volta, qualche mese prima, aveva seguito un corso tenuto da uno psicologo a Berlino e tornata a casa gli aveva raccontato ogni cosa. Lui aveva scherzato sul fatto che andare a seguire un corso sulla rielaborazione del lutto non gli era sembrato di buono auspicio e lei aveva replicato che invece il corso si era rivelato interessantissimo.
E quello psicologo le aveva spiegato anche come parlare della morte ai bambini.
Ben ricordava che Maggie aveva avuto i brividi, raccontandogli l’effetto che le avevano provocato le parole di quell’uomo.
Lui aveva detto che l’unico modo per spiegare la morte a un bambino era dicendola.
Così, per quel che è. Con parole semplici. Perchè in fondo la morte è molto semplice, è un concetto così assoluto e lineare da essere in realtà più comprensibile a un bambino che a un adulto.
Ben allora
l’aveva guardata con una smorfia poco convinta, immaginando che comunque difficilmente gli sarebbe tornato utile sapere come spiegare la morte a un bambino.
E invece adesso si trovava lì, in quella stanza, con Aida Gerkhan.
Le avrebbe dovuto spiegare la morte della sua sorellina.
E poi, forse, avrebbe dovuto spiegarle anche quella dei suoi genitori.
E non sapeva se ci sarebbe riuscito.

 

N.d.A.
Eh sì, questa volta le cose le ho fatte andare storte davvero.
Grazie a voi che siete arrivati fino a qui e continuate a leggere, un ringraziamento particolare a MaryS5 per le sue meravigliose recensioni, grazie!
Sophie

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Capitolo 19
*** Lo so io e lo sai tu ***


Dal capitolo precedente:

"«Mi scusi se le ho parlato schiettamente, ispettore... ma detesto dare false speranze. Se si riprenderà, il suo amico avrà bisogno di lei... avrà bisogno di tutto il sostegno possibile.».
[...]
«Lei ha... è lei che si è occupato di Andrea Schäfer?» chiese Ben, quasi bisbigliando, dopo un attimo trascorso in silenzio.
«L’operazione è stata eseguita dal dottor Franz, il chirurgo cardio-toracico. Io sono passato poco fa a controllare le sue funzioni cerebrali...».
«È sua moglie, dottore. È la moglie di Semir.».
Il medico corrugò appena la fronte, poi un velo di dispiacere coprì il suo sguardo.
«Mi dispiace...»."

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GIORNO 17.

Christopher Schneider uscì a passo svelto dalla stanza del suo paziente e disse qualcosa a un’infermiera che proprio in quel momento attraversava il corridoio, che entrò in fretta nella stanza.
Quindi, scuotendo impercettibilmente il capo, si avviò verso un’altra direzione, quando qualcuno alle sue spalle gridò il suo nome.
«Dottor Schneider!» lo chiamò Ben, seguendolo nel corridoio «Dottor Schneider, ha novità?».
«Ispettore Jager, ha dormito qui in ospedale?» fece l’uomo in tutta risposta, con tono che faceva quasi pensare a un rimprovero.
«Sì... io... non potevo andare a casa. Ho convinto la madre di Andrea ad andare un po’ a casa, ma io non potevo... allora, ha novità?».
Il medico squadrò il poliziotto da capo a piedi, poi scosse il capo, guardandolo negli occhi.
«Non buone, purtroppo.».
Ben si sentì morire, per l’ennesima volta in quelle ultime, lunghissime, ventiquattro ore.
«Il suo collega non si è svegliato e... be’, non è normale. Normalmente gli ematomi di tipo epidurale, a differenza di quelli subdurali, hanno una buona prognosi. Ho appena ordinato dei nuovi esami.».
«Okay...».
Il giovane ispettore annuì, provando a rimanere il più calmo possibile.
«Non escludo sia necessaria un’altra operazione.».
Ben sgranò gli occhi «Può sopportarla?».
Il medico sospirò profondamente «Le dirò, è proprio questo che mi preoccupa. Purtroppo l’ispettore Gerkhan... Semir, giusto? È molto debilitato. Per questo prima di operare vorrei aspettare ancora qualche ora per vedere se ci fossero dei miglioramenti. Lei, però, Jager, farebbe bene a riposarsi almeno un po’.».
«E Andrea?» continuò il poliziotto, ignorando l’invito del dottore «Ha superato la notte, vuol dire che se la caverà?».
Schneider alzò brevemente le spalle, scosse il capo «Non credo, purtroppo. Stavo andando giusto a fare un controllo. Ispettore, potrebbe essere questione di ore, o di qualche giorno... ma sinceramente non credo che lei abbia qualche concreta possibilità di migliorare.».
Ben annuì, lasciandosi cadere su una sedia.
La schiettezza di quell’uomo lo destabilizzava.
«Grazie.» mormorò, guardando a terra.
Il medico gli poggiò una mano sulla spalla, aspettando che lui alzasse lo sguardo.
«Jager, glielo dico da medico, vada a riposarsi. Solo qualche ora. Non può fare niente per loro, le prometto che se avrò novità penserò io stesso a contattarla.».
«Non lo posso abbandonare...» sussurrò Ben, e Schneider si accorse che aveva gli occhi pieni di lacrime.
«Senti... posso darti del tu?» disse, con voce stranamente calda «Io non so che cosa sia accaduto. Non so per quale motivo i tuoi amici si trovassero sotto quelle macerie, ma mi permetto di darti un consiglio: non sentirti in colpa. Qualsiasi cosa sia successa, non serve. E vai a riposare...».
«Se si sveglia?».
«In quel caso ti chiamerò io, promesso. Va bene?».
L’ispettore annuì, piano.
«Grazie, dottor Schneider.».
«Chris. Chiamami Chris.».

Erano le nove del mattino quando la Kruger entrò nel grande edificio, lanciando una rapida occhiata all’orologio che portava al polso.
Sapeva che se ci fossero state novità sicuramente Jager l’avrebbe avvisata, ma aveva deciso di passare comunque dall’ospedale, per avere la situazione più sotto controllo. Anche se, lo sapeva, la verità era che non poteva avere assolutamente nulla sotto il suo controllo.
Attraversò i corridoi quasi di corsa, raggiungendo il reparto di terapia intensiva.
Chiese di Gerkhan, ma un’infermiera le rispose che l’ispettore si trovava di nuovo in sala operatoria.
Kim sospirò, chiedendosi che cos’altro fosse successo.
Estrasse il telefono dalla tasca della giacca e compose il numero di Jager, senza però ottenere alcuna risposta.
Girò confusa per quei corridoi tutti uguali, quando finalmente lo vide, seduto su una sedia, accanto a un letto, all’interno di una stanza.
Osservò il suo ispettore dal vetro, ma non entrò. Era la stanza di Andrea Schäfer.

«E così adesso lo hanno riportato in sala operatoria.» concluse Ben, come se stesse conversando normalmente con qualcuno in grado di interagire con lui.
Ovviamente, non ricevette alcuna risposta diversa dal suono ritmico dei macchinari che circondavano il letto.
«Sai Andrea, io credo che tu ti debba svegliare.» disse a un tratto, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
«Infondo lo so io e lo sai tu... ti devi svegliare.» continuò, sottovoce.
«Io credo che Semir si riprenderà solo se ti sveglierai anche tu... perché siete legati da qualcosa di indissolubile, lo siete sempre stati. E se negli ultimi mesi i vostri rapporti erano cambiati, se non era più tutto come prima... be’, non importa. Perché io sono convinto che voi vi sareste riavvicinati, che si trattasse solo di una crisi passeggera. Lui ti ama e tu lo ami, nonostante il suo lavoro, nonostante tutto. Non sbaglio, vero?».
Fece una pausa, sistemandosi meglio sulla sedia.
«Quindi ora svegliatevi, perché Aida ha bisogno di voi e ha bisogno di tutti e due. Dai, Andrea... fai uno sforzo...».
Ben continuava a scrutare il volto della donna in attesa di qualcosa: un movimento, un cenno, la breve contrazione di un muscolo.
Ovviamente non accadde niente di tutto ciò.
Le prese una mano e gliela strinse.
«Andrea, perché non provi a dimostrare ai medici che si sbagliano? Che non è vero che non ti sveglierai più? Il dottor Schneider... Chris, mi ha detto di chiamarlo così... ecco, lui dice che Semir avrà bisogno di sostegno per guarire. Io posso stargli vicino, certo. Ma se ci fossi anche tu sarebbe tutto più semplice. Fallo per lui, Andrea... per Aida... svegliati!».
Il ventilatore che respirava per lei emetteva rumori continui e leggeri.
Ben sospirò, chiedendosi se stesse parlando al vuoto, o se magari la donna potesse davvero sentire qualcosa.
Si ritrasse sulla sedia, appoggiandosi allo schienale e passando a osservare le piastrelle bianche del pavimento.
Si sentiva inutile, completamente inutile...

Chris Schneider si tolse la mascherina, ordinò a qualcuno alle sue spalle di richiudere.
Uscì dalla sala operatoria e si lasciò scivolare lungo la parete, arrivando a sedersi sul pavimento freddo del corridoio.
L’intervento era riuscito e il paziente sembrava averlo superato, doveva solo sperare che si risvegliasse.
Quella mattina, prima di raggiungere l’ospedale, aveva acceso distrattamente la televisione.
E allora aveva saputo tutto.
Erano giorni che i notiziari divulgavano immagini di un certo evaso e accennavano a una famiglia scomparsa, ma solo ascoltando il telegiornale quella mattina aveva saputo esattamente che cosa fosse successo e ricollegato ogni cosa.
Dal telegiornale aveva appreso anche della morte di una donna, probabilmente una dei due criminali, e di una bambina. Aveva poi saputo che l’evaso, Frederich Keller, era stato ricoverato il giorno prima in quello stesso ospedale.
Così, seduto in quel corridoio, la mascherina ancora appesa al collo e gli occhiali ben calcati sul naso, si era ritrovato a riflettere su quanto ingiusta fosse l’esistenza.
Perché colui che aveva causato tutte quelle sofferenze doveva essere ancora vivo e una bambina di cinque anni, invece, doveva rimanere seppellita dalle macerie di un edificio costruito apposta per autodistruggersi?
E perché lui, come medico, avrebbe avuto il dovere di  salvare la vita sia a quel poliziotto che a quel criminale?
Per la prima volta nel corso della sua lunga carriera, ringraziò il Cielo di non essersi dovuto occupare di quel Keller. Sapeva che fosse sbagliato, ma era certo che, pur curandolo, non vi avrebbe impiegato la stessa dedizione di cui si stava servendo per provare a salvare quell’ispettore.
Crudeltà, o giustizia.
L’uomo alzò le spalle senza trovare una risposta adeguata alla sua stessa, tacita domanda.
Si rialzò, con un sospiro.
Fece roteare la testa per rilassare la muscolatura del collo, rimasta tesa durante tutto il tempo dell’intervento.
Poi si avviò lentamente verso la porta scorrevole.

«Lì c’è la mia mamma?».
Kim trasalì udendo la sottile voce alle sue spalle, si voltò di scatto.
Ma quando vide Aida Gerkhan che la guardava dal basso in alto con un’espressione un po’ perplessa, rilassò il viso in un sorriso.
«Aida, come mai sei qua? Pediatria non è al piano di sotto?».
La bambina alzò le spalle. Quella donna le aveva sempre incusso un po’ di timore, ma non importava. Papà le aveva detto che non avrebbe dovuto avere paura di lei, e lei si fidava ciecamente di suo papà.
«Sì ma ero da sola e mi annoiavo. L’infermiera è uscita e io sono venuta qui. Mi tengono ancora oggi qui in ospedale ma io sto bene.».
«Hai un bel taglio lì, però.» notò la Kruger, inginocchiandosi per raggiungere la sua altezza e osservando gli strip sulla fronte della bambina.
Aida storse le labbra.
«Non è niente. Ma la mamma è lì dentro?» ripeté, ostinata.
«Sì, piccola, ma non credo che tu adesso possa entrare. E poi dobbiamo tornare giù e dire all’infermiera che stai bene, si sarà preoccupata non vedendoti.».
Kim le porse la mano, ma la bambina sbuffò e non la prese. Incrociò invece le braccia al petto.
«Io voglio vedere la mamma.» comunicò, irremovibile.
La donna sospirò e sorrise.
La testardaggine di quella bambina era straordinaria.
Stranamente si ritrovò a pensare che, se fosse stata più grande, avrebbe potuto intraprendere con lei le stesse identiche discussioni che si ritrovava a fare con Gerkhan e Jager quando loro non erano convinti di qualcosa, o quando la pensavano diversamente da lei su un particolare metodo di indagine.
Testarda, tale e quale a suo padre.
«Dai, Aida, andiamo giù. Tra poco Jager... Ben, ti raggiungerà. Va bene?».
La bambina alzò gli occhi al cielo, ma poi, finalmente, afferrò la mano del commissario, e insieme si diressero verso l’ascensore.

 

N.d.A.
Ma potrebbe andare peggio...
A presto!
Sophie

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Capitolo 20
*** Non va tutto bene ***


Dal capitolo precedente:

"Ben sospirò, chiedendosi se stesse parlando al vuoto, o se magari la donna potesse davvero sentire qualcosa.
Si ritrasse sulla sedia, appoggiandosi allo schienale e passando a osservare le piastrelle bianche del pavimento.
Si sentiva inutile, completamente inutile..."

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GIORNO 18.

Ben entrò nella stanza con un po’ di timore.
Dopo l’intervento del giorno precedente, il terzo giorno dall’arrivo in ospedale, aveva finalmente ottenuto da parte del dottor Schneider di vedere Semir.
C’era silenzio, fatta eccezione per i suoni prodotti dai macchinari, che erano pressoché gli stessi che aveva udito il giorno prima nella stanza di Andrea.
E Semir era lì, immobile, steso sul letto.
Sembrava non stesse nemmeno respirando.
Il giovane ispettore si avvicinò alla sedia con passo titubante e si sedette accanto all’amico disteso, stando attento a non produrre il minimo rumore.
Era strana la differenza di atmosfera che c’era tra le due stanze. Nonostante i medici avessero detto e ripetuto che per Andrea ci sarebbe stato poco da fare e sarebbe stata solo questione di ore, il luogo dove si trovava lei sembrava molto più tranquillo. O forse era proprio per quel motivo. Ben, andando a trovare Andrea, aveva provato nonostante tutto uno strano senso di pace.
Vicino al letto dell’amico, invece, si sentiva in allerta.
Semir aveva la testa totalmente fasciata, la spalla destra bendata e il braccio sinistro ingessato.
Le gambe erano coperte da un sottile lenzuolo, ma sotto di esso si intravvedevano dei ferri che fuoriuscivano dalle ossa del bacino. Ben non era sicuro di aver capito a che cosa servissero, ma gli incutevano comunque uno strano timore.
Guardò il suo socio e non seppe esattamente che cosa sperare.
Poteva solo immaginare il dolore sia fisico che psicologico che avrebbe provato se si fosse svegliato. Sicuramente, pensò, lui in quel momento avrebbe preferito non svegliarsi affatto.
Eppure, Ben pregava perché il suo migliore amico aprisse gli occhi. Per Aida, per Andrea, ma anche per se stesso.
Aveva bisogno che lui aprisse gli occhi...
Rimase a fissarlo, immobile, per almeno mezz’ora.
Non parlò come aveva fatto ad Andrea, lo guardò e basta.
Quando decise che avrebbe lasciato la stanza, però, accadde qualcosa. Un movimento, un impercettibile movimento delle palpebre.
L’ispettore si entusiasmò improvvisamente, sperando che l’amico si stesse svegliando, che magari un piccolo miracolo stesse per accadere.
Ma poi, nel giro di un attimo, capì che quello che stava accadendo non era un miracolo. Che non andava tutto bene.

Helen teneva stretta stretta la mano di Aida.
Si diresse verso la stanza di Andrea, ma quando fu a pochi metri dalla porta guardò la bambina e si fermò.
«Aida, tesoro, perché non vai un attimo dal tuo amico poliziotto? Deve essere proprio lì, in fondo al corridoio.» le disse, con tono dolce e pacato.
La nipote, però, la guardò sospettosa «Perché devo andare da zio Ben? Perché non volete che io veda la mamma?».
L’anziana signora sorrise, ma la verità era che non aveva una risposta precisa a quella domanda. Continuava a sperare che Andrea sarebbe stata meglio e continuava a dire alla bambina che ci sarebbe stato tempo per vedere la mamma. Voleva che non la vedesse così, voleva che non pensasse che fosse la fine.
Perché quella non era la fine, non poteva esserlo. Lei non si sarebbe mai rassegnata a questa convinzione.
«Tra qualche giorno vedrai la mamma e starà meglio, te lo prometto.» le disse, con un sorriso.
Aida annuì e si diresse sconsolata verso il punto del corridoio che le aveva indicato la nonna, alla ricerca di zio Ben.
Tra qualche giorno vedrai la mamma e starà meglio, te lo prometto.
Mentre guardava la bambina allontanarsi, Helen sperò con tutto il cuore di poter mantenere quella promessa, sia a lei che a se stessa.

Mentre i muscoli di Semir si contraevano insieme, senza un’evidente ragione, Ben rimaneva immobile.
Trascorse un secondo interminabile durante il quale la schiena dell’ispettore steso a letto, sempre incosciente, si inarcò e il suo colorito divenne bluastro.
Poi, il corpo di Semir fu scosso improvvisamente da una serie di contrazioni ritmiche, che sembravano del tutto incontrollate.
Ben finalmente si riscosse, schiacciò il tasto per le emergenze con tutta la forza che aveva e poi si precipitò verso il corridoio, in cerca di aiuto.
Prima ancora che potesse provare a spiegare che cosa stesse succedendo, due infermiere erano già entrate nella stanza e Christopher Schneider le stava raggiungendo.
In men che non si dica il giovane poliziotto si ritrovò fuori, nel corridoio bianco, con una porta chiusa in faccia e il respiro affannoso.
Dall’interno sentiva il medico dire qualcosa, ordinare concitatamente a un’infermiera di iniettare qualcosa al paziente.
Nel panico più totale, si diresse verso il muro bianco e lo prese a pugni, con violenza, fino a farsi male.
Quando si staccò dal muro, un rivolo di sudore gli colava lungo la fronte.
Alzò la testa e diresse lo sguardo verso la fine del corridoio: Aida lo stava osservando.

 

N.d.A.
Brevissimo capitolo e le cose non sembrano migliorare...
Grazie a chi continua a leggere, a presto!
Sophie

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Capitolo 21
*** Numero 201 ***


Dal capitolo precedente:

"Nel panico più totale, [Ben] si diresse verso il muro bianco e lo prese a pugni, con violenza, fino a farsi male.
Quando si staccò dal muro, un rivolo di sudore gli colava lungo la fronte.
Alzò la testa e diresse lo sguardo verso la fine del corridoio: Aida lo stava osservando."

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DUE GIORNI DOPO - GIORNO 20.

«Come fai a dirmi che non mi devo preoccupare, Chris? Come fai?».
Il medico sospirò, sedendosi accanto al ragazzo nel corridoio di fronte alla stanza di Semir.
Si tolse gli occhiali e cominciò a pulirne le lenti, con calma, cercando un pretesto per non dover fissare il suo interlocutore negli occhi.
«Ben, non ti ho detto questo. Capisco che tu sia preoccupato, ma non...».
«Non sai che cosa fare, non è così?» lo interruppe l’ispettore, con rabbia.
«Ben... ascoltami.» cominciò Schneider «La medicina non è una scienza esatta. Questo ce lo dobbiamo ricordare, tutti, sempre. Non so perché Andrea sia ancora viva perché avrei giurato che il suo cuore avrebbe smesso di battere il giorno stesso in cui è arrivata. E non so perché Semir non si sia ancora svegliato, perché invece credevo che lui lo avrebbe fatto dopo l’intervento, o almeno dopo la crisi convulsiva di due giorni fa. Ma non è accaduto. L’ematoma è stato drenato completamente, per cui l’unica cosa che possiamo fare è aspettare... lo capisci, Ben?».
Il poliziotto scosse il capo, appoggiandosi allo schienale della sedia e mutando tono. La rabbia lascò velocemente spazio alla paura.
«Sei stato tu a dirmi che più tempo impiega a svegliarsi più c’è il rischio di danni permanenti...».
«Certo, Ben, ed è così. Io e te abbiamo fatto un patto, ho giurato di dirti sempre le cose così come stanno, ricordi? Sempre. E lo sto facendo. Ma tu devi sperare, Ben, perché se pensi che si verificheranno sempre le possibilità peggiori che io ti mostro, allora finirai per stare male anche tu, credimi.».
Ben annuì leggermente.
«Ma il fatto che Andrea non sia ancora... voglio dire... che sia ancora viva, non lascia qualche speranza in più?».
Il medico alzò le spalle, rimettendo i sottili occhiali sul naso dopo essersi passato una mano sui grandi occhi chiari.
«Non credo. Nonostante siano passati quattro giorni, continuo a credere che sia solo questione di tempo, non noto alcun cambiamento nelle sue condizioni.».
«Va bene...» mormorò l’ispettore, a voce a mala pena udibile.
«Ben, devi essere forte.» disse Schneider, alzandosi e posando al ragazzo una mano sulla spalla.
«Se non si sveglieranno... la mamma di Andrea sarà distrutta e Aida... chi si prenderà cura di Aida?».
«Aida è la figlia del tuo collega?».
Ben annuì e Chris sorrise appena.
«L’ho vista nei corridoi, sai? È una bella bambina. Se la caverà.».
«Non è giusto...».
«Non è giusto, no.» replicò il medico «Ma il mondo non è mai giusto, Ben. Però noi dobbiamo saper resistere. Esiste sempre una soluzione, c’è sempre un modo per andare avanti, anche quando proprio non sembra possibile. Io lo so, credimi.».
Quindi, stringendo le spalle nel suo camice bianco, si allontanò dal ragazzo, a passo veloce, per andare a occuparsi di altri pazienti.


Ben si alzò a sua volta, girando su se stesso e cominciando poi a camminare, senza una meta, per quei bianchi corridoi.
Non era sicuro di aver capito ancora bene come fosse suddiviso il reparto. Svoltò a sinistra e poi ancora a sinistra, sempre fissando le piastrelle bianche sul pavimento, fino a quando qualcosa dentro di sé gli intimò di fermarsi.
Notò di trovarsi esattamente davanti alla porta di una stanza, con le tendine tirate giù a coprire i vetri e il numero 201 inciso vicino all’entrata.
Fissò quella maniglia per qualche attimo, si guardò intorno e vi posò sopra la mano.
Sentiva che sarebbe dovuto entrare, e non ne comprendeva la ragione.
Tuttavia, seguendo l’istinto, abbassò la maniglia.

«Maggie, secondo te perché la nonna non vuole farmi andare dalla mamma?».
La vocina sottile di Aida risvegliò la psicologa dai suoi pensieri.
Si trovavano entrambe al bar dell’ospedale, la signora Schäfer le aveva chiesto di tenerle la bambina per un po’, mentre lei andava dalla figlia. Margaret aveva accettato volentieri, anche perché Ben era impegnato a parlare con il dottor Schneider, e aveva offerto ad Aida una grande colazione.
«Perché vuole che tu la veda quando starà meglio, tesoro.» le spiegò, con sincerità.
«Ma quando starà meglio?».
«Non lo so, piccola. Ma non arrabbiarti con la nonna, lei si preoccupa per te.».
«Sì ma io vorrei vedere la mamma.» replicò la bambina, con tono sconsolato «E anche papà. Mi avete detto che dormono, ma non capisco proprio perché non posso vederli.».
Maggie sospirò, piano.
Effettivamente lei avrebbe fatto entrare la bambina in entrambe le stanze. Certo, magari si sarebbe spaventata inizialmente nel vedere entrambi i genitori incoscienti e circondati da tubi e macchinari, ma forse in parte l’avrebbe confortata poter stare un po’ con loro.
Ovviamente, però, la decisione non stava a lei.
«Sono passati quattro giorni, non ho più visto nessuno.» continuò Aida.
Poi addentò il muffin al cioccolato che aveva di fronte, sporcandosi tutto il viso, e Margaret si mise a ridere.
Le offrì un fazzoletto e, osservandola mentre si puliva alla bell’è meglio, non poté fare a meno di pensare a che cosa sarebbe successo se fosse rimasta sola.
«Maggie, ma tu sei una scrittrice?» domandò a un tratto la bambina.
«Mi piacerebbe esserlo... scrivo, ogni tanto. Ora sto scrivendo un libro.».
Gli occhi di Aida si illuminarono.
«Davvero? E di che cosa parla? Posso leggerlo?».
La ragazza fece una smorfia indecisa. Non le avrebbe detto di che cosa trattava ciò che stava scrivendo, non in quel momento.
«È una sorpresa, tesoro. Quando lo avrò finito te lo dirò!».
«Va bene.» rispose soddisfatta la bambina, addentando di nuovo il suo dolce.
Nonostante tutto, si ritrovò a pensare Margaret, lei se la sarebbe cavata.


Nell’ufficio c’era un silenzio assordante.
Kim sospirò, appoggiandosi allo schienale della sedia, ma cambiando posizione subito dopo.
Intrecciò le mani sulla scrivania, assorta.
Non era abituata a quella calma, e vedere al di fuori del proprio ufficio i colleghi che si aggiravano tristemente per i corridoi o lavoravano silenziosamente al computer le dava quasi fastidio.
Jager non metteva piede in commissariato da quattro giorni.
Gerkhan, forse, non vi avrebbe più fatto ritorno.
E a lei già mancava quella coppia che la faceva arrabbiare, gridare e preoccupare, ma che poi costituiva la vera anima dell’intero commissariato.
Si era affezionata ai suoi ispettori fin dall’inizio, nonostante non l’avesse praticamente mai dato a vedere, ma ora che nessuno dei due era presente si rendeva ancora più conto di quanto si fosse legata a loro.
Erano diventati una squadra.
Il pensiero che non la sarebbero più stata la infastidiva.
E la consapevolezza di non poter fare niente per cambiare la situazione, la turbava ancora di più.
Si chiese, in silenzio, se quell’orrenda storia iniziata più di due settimane prima avrebbe mai avuto fine.


Quando Ben fu entrato nella stanza, il suo cuore ebbe un sussulto e sentì improvvisamente la necessità di scappare e correre il più lontano possibile.
A pochi metri da lui, disteso nel letto, a occhi chiusi, c’era Frederich Keller.
Dopo essere rimasto sulla soglia per qualche secondo interminabile senza sapersi decidere su cosa fare, inspiegabilmente l’ispettore si richiuse la porta alle spalle e si avvicinò al letto.
Si diresse lentamente e senza fare rumore verso la sedia che vi era sistemata accanto e vi si sedette, piano, effettuando ogni movimento in modo quasi impercettibile.
Frederich Keller.
Quando lo aveva visto per la prima volta, mentre i soccorritori lo estraevano dalle macerie, quattro giorni prima, aveva provato il forte impulso di gettarsi su di lui e di strangolarlo.
Ora, invece, seduto accanto al suo corpo disteso, era talmente confuso da non riuscire a provare niente di definito nei suoi confronti.
Rimase lì seduto per qualche minuto, ma non lo guardò.
Guardava per terra e pensava, pensava che quell’uomo era la causa di tutto. E che ora si trovava in ospedale, anche lui. Pensò che magari stava male, anche lui.
Però il suo letto non era attorniato da tutti i tubi che circondavano quello di Semir e questo dettaglio lo fece innervosire, almeno in un primo momento.

Quando sollevò la testa, deciso ad andarsene, notò che due occhi grigi lo stavano osservando: Keller era vigile.
Ben lo guardò per un secondo lunghissimo, senza muovere un muscolo, fino a che lui non si decise a parlare.
«Ispettore Jager, giusto?».
La sua voce era leggermente roca e il suo tono bassissimo, ma non sembrava avere gradi difficoltà a parlare.
L’ispettore non rispose a quella domanda così ovvia, né fece alcun cenno di assenso.
«Sa, lei... lei è la prima visita che ricevo.» continuò Keller, sempre a bassa voce.
«Si meraviglia?» fu la secca, veloce risposta di Ben.
L’uomo disteso scosse il capo, non senza fatica «No... ma mi meraviglia che... che lei sia qui.».
Il poliziotto si morse il labbro. Meravigliava anche lui.
«Che cosa vuole, Jager? Uccidermi? Potrebbe... potrebbe farlo... non opporrei resistenza.».
«Non sono tutti come lei, Keller. Non tutti sono alla ricerca di vendetta.».
L’uomo annuì lentamente, e nei suoi occhi sembrò passare un’ombra scura.
Ben corrucciò leggermente la fronte, domandandosi che cosa stesse succedendo. Domandandosi come mai, nonostante si rivolgesse a lui in modo aggressivo, non riuscisse a provare esclusivamente odio per quell’uomo.
Non riusciva a spiegarselo. Aveva immaginato più volte, in quei quattro giorni, di averlo tra le mani. Lo aveva maledetto, si era anche augurato che fosse morto dopo essere arrivato in ospedale.
Eppure, ora, seduto accanto a quel corpo quasi immobile, non riusciva a odiarlo.
«“Prima di cominciare una vendetta, preparati a scavare due tombe.”» sussurrò Keller, tra sé e sé.
«Che cosa ha detto, Keller?».
«È un proverbio, Jager... me lo ha ripetuto Gerkhan mentre... mentre era mio prigioniero... ma lui non aveva capito...».
«Che cosa non aveva capito?» domandò Ben, visibilmente infastidito.
«Che noi sopravviviamo.».
L’uomo pronunciò quelle parole con calma, scandendo ogni lettera, dotando quella frase di un certo grado di gravità.
«È questo che voleva testare, Keller? Voleva vedere se sarebbe sopravvissuto?».
Friedrich sospirò, scuotendo leggermente il capo sul cuscino.
«Sono stanco, Jager, gradirei riposare.».
L’ispettore non se lo fece ripetere due volte e uscì dalla stanza, senza voltarsi indietro e senza degnarsi di salutarlo.
Noi sopravviviamo.
Quelle parole gli rimasero in testa per tutta la giornata.

 

N.d.A.
Chi non muore si rivede e Keller a quanto pare è vivo e vegeto... che possa riservare sorprese?
A presto,
Sophie

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Capitolo 22
*** Vittima e carnefice ***


Dal capitolo precedente:

"«È questo che voleva testare, Keller? Voleva vedere se sarebbe sopravvissuto?».
Friedrich sospirò, scuotendo leggermente il capo sul cuscino.
«Sono stanco, Jager, gradirei riposare.».
L’ispettore non se lo fece ripetere due volte e uscì dalla stanza, senza voltarsi indietro e senza degnarsi di salutarlo.
Noi sopravviviamo.
Quelle parole gli rimasero in testa per tutta la giornata."

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 GIORNO 21.

Aida si avvicinò al letto con un misto di eccitazione e preoccupazione dipinto sul volto.
La sera prima Margaret aveva raccontato a Ben del desiderio della piccola di vedere la mamma e la mattina seguente il poliziotto aveva raggiunto in ospedale la madre di Andrea per metterla al corrente.
Helen si era mostrata molto preoccupata, aveva detto che avrebbe preferito che la bambina vedesse la mamma una volta sveglia. Non riusciva per nulla al mondo ad accettare che, probabilmente, quel momento non sarebbe mai più arrivato. Alla fine, però, aveva detto che andava bene, che avrebbe potuto vederla.
Helen si fidava di quel giovane poliziotto. Lo aveva visto in poche occasioni, ma sapeva quanto fosse legato a Semir e anche ad Aida. Andrea le raccontava spesso di lui, della sua chitarra e dei giochi che si inventava ogni volta per far divertire le bambine. Così, alla fine, aveva deciso di seguire il suo consiglio.
Ben era allora entrato nella stanza con Aida, che non appena aveva saputo di poter finalmente vedere la mamma, si era aperta in un grande sorriso.
Ora però, accanto a quel letto, vicino a quei macchinari ingombranti che non tacevano mai, aveva un po’ di timore.
Guardò la mamma distesa, immobile e pallida, poi volse lo sguardo sull’ispettore alle sue spalle.
«Zio Ben, ma le posso parlare?».
«Certo che puoi, principessa. Vuoi che esca?».
La bambina scosse il capo, poi tornò a guardare Andrea e le sfiorò una mano con la sua manina sottile.
«Ciao mamma, sono io. Secondo me mi puoi sentire, non è vero?».
Fece una pausa, avvicinandosi di più al viso della mamma e appoggiandosi sul letto con i gomiti.
«I medici mi hanno detto che tu dormi e che dorme anche papà. Poi Ben mi ha detto di Lily... ma non ti devi preoccupare, mamma, perché Ben mi ha detto anche che adesso lei sta bene.».
Ben, alle sue spalle, ebbe un sussulto. Sorrise, guardando con tenerezza la sua piccola principessa. Come poteva una bambina di appena nove anni farsi carico di una situazione del genere e provare anche a tranquillizzare sua madre, senza nemmeno perdere il sorriso?
Ancora una volta, l’immagine di Semir che si era preoccupato per lui fin dal primo giorno che lo aveva conosciuto gli attraversò la mente.
Più la guardava, più gli sembrava evidente che la bambina fosse in tutto e per tutto l’esatta copia del padre.
«Io non mi sono fatta nemmeno un graffio.» continuò Aida, come se davvero sua mamma potesse interagire con lei «Quell’uomo e quella donna sono stati cattivi con noi, però adesso è passato. Papà mi ha sempre detto che sono una bambina forte... però mamma, anche tu devi esserlo. Non puoi dormire così tanto... svegliati!».
La bambina si fermò, come aspettandosi una qualche reazione da parte di quel corpo disteso, che ovviamente, però, non arrivò.
«Dai, mamma... dovresti svegliarti. La nonna piange, ha paura che tu non ti svegli più. Io però non ho paura, perché secondo me tu ti sveglierai. Ti va bene se passo domani e ti parlo ancora un po’?».
Fece un’altra pausa prima di continuare.
«Va bene, allora ci vediamo domani.» concluse poi.
Si sporse per dare un bacio sulla guancia ad Andrea, poi si voltò verso Ben per dirigersi verso l’uscita.
«Zio Ben, ma che cosa fai? Piangi?».
L’ispettore le sorrise, passandosi fugacemente una mano sugli occhi.
«Io? Ma no principessa, è solo un po’ di polvere. Hai finito? Ti riporto dalla nonna?».
Aida annuì, soddisfatta.
Lo prese per mano e uscirono insieme dalla stanza.

Ben si diresse ancora una volta verso la stanza numero 201.
Aveva appena lasciato Aida con la mamma di Andrea, ma non aveva alcuna intenzione di lasciare l’ospedale. Sorrise amaramente, pensando a come ormai quel luogo per lui fosse diventato, da cinque giorni a quella parte, praticamente una seconda casa. I medici e le infermiere erano stati molto gentili sia con lui sia con Helen Schäfer e molto spesso avevano permesso loro di rimanere oltre gli orari di visita, viste le situazioni delicate in cui si trovavano i pazienti.
Camminando per i bianchi corridoi che ormai conosceva quasi a memoria, l’ispettore pensò che sarebbe passato da Semir più tardi.
Prima voleva parlare con Keller.
Abbassò la maniglia della porta cautamente, come aveva fatto il giorno prima, anche se questa volta sapeva chi lo avrebbe aspettato all’interno della stanza.
E Friedrich Keller era lì, perfettamente vigile, questa volta semi-seduto sul letto, con la schiena sorretta da due cuscini.
«Jager.» lo apostrofò, vedendolo «Mi mancheranno le sue visite quando sarò fuori di qui.».
Ben strinse involontariamente i pugni e serrò la mascella, mentre prendeva posto sulla sedia accanto al letto senza nemmeno capirne il motivo.
«Che cosa la porta da me oltre al suo odio nei miei confronti?».
Il silenzio che ne seguì parve già da solo una risposta eloquente.
«Perché?» domandò il poliziotto, semplicemente.
L’uomo alzò un sopracciglio «Credevo fosse chiaro.».
«Non lo è, invece. Che cosa volevate fare? Perché avete sparato ad Andrea?».
«Volevo togliergli tutto, Jager.» spiegò Keller, con un impercettibile sospiro «Volevo vederlo crollare pezzo per pezzo. Volevo che soffrisse tanto quanto avevo sofferto io.».
Ben continuò a tenere le unghie conficcate dentro ai palmi delle proprie mani.
Ma non disse niente, fu l’evaso a proseguire.
«Volevo che sua moglie morisse davanti ai suoi occhi e che davanti a lui morissero anche le sue figlie, una alla volta. E, prima, gli ho fatto anche credere di aver ammazzato lei, Jager.».
«Maledetto bastardo.» mormorò il ragazzo, sicuro che l’altro lo avesse sentito. Ora capiva perché la prima cosa che gli aveva detto Semir quando lo aveva trovato sotto le macerie era stata “credevo fossi morto”.
«Non dica così, Jager. L’ha voluto lui.».
«Semir non sapeva che ci fosse la sua famiglia dentro a quell’auto.» replicò Ben, ora rosso in volto.
«Non intendevo questo.» fece Keller, con voce melliflua «Intendo la sua “morte”. Ho fatto scegliere a Gerkhan chi sacrificare tra lei, Jager, e sua moglie. È stato il suo caro collega a scegliere che lei morisse. Così io ho finto di prenderlo in parola e poco dopo gli ho comunicato di averla uccisa.».
L’ispettore rimase in silenzio.
Immaginava quanto Semir avesse sofferto nel prendere una decisione del genere, immaginava che fosse stato costretto e che avesse opposto resistenza. Ma pensarci, nonostante tutto, gli tolse un po’ il respiro.
«Già, immagino sia difficile da digerire.» commentò l’uomo, con un certo compiacimento dipinto in viso.
Ben vinse ragionevolmente l’impulso di prenderlo a pugni.
«Immagino come lei gli abbia chiesto di scegliere.».
Keller sorrise, stringendosi appena nelle spalle.
«Ora come sta Gerkhan?» chiese poi. E lo chiese con una voce diversa, che poteva tradire, addirittura, una lieve nota di preoccupazione.
Ben rimase nuovamente in silenzio qualche secondo, prima di riuscire a rispondere: quell’uomo lo confondeva. Un attimo prima rideva beffardo parlando delle sofferenze che aveva provocato e un attimo dopo appariva quasi preoccupato per la sorte della sua vittima. Prima sembrava criminale, poi uomo. Prima carnefice, poi vittima.
«Le interessa davvero, Keller?».
L’uomo annuì, senza aggiungere altro.
«Dopo avergli fatto quello che ha fatto, davvero ha il coraggio di chiedere come sta?».
«Se non vuole dirmelo non posso certo obbligarla, ispettore.».
«Senta...» fece Ben, alzando suo malgrado il tono della voce «Non c’è un pezzo del suo corpo che sia tutto intero, sua moglie è in coma e molto probabilmente non si sveglierà, sua figlia... Semir non si è ancora svegliato, ma come pensa che si sentirà quando lo farà?».
«A pezzi.» rispose Friedrich, con fermezza «Totalmente a pezzi, distrutto, esattamente come mi sono sentito io. Ma concluda la frase. Sua figlia...?».
Il poliziotto scosse lievemente il capo.
Non ci riusciva, non lo aveva ancora mai detto ad alta voce, a parte quando aveva dovuto spiegarlo ad Aida.
Keller corrugò la fronte davanti al silenzio del suo interlocutore.
«Non abbiamo toccato le bambine.» disse, in un sussurro «Ho fermato Kate prima che lo facesse.».
Ben continuò a tacere, e negli occhi dell’uomo semi-seduto si dipinse qualcosa di molto simile alla paura. E al senso di colpa.
«Jager... mi risponda.».
«È morta.» sillabò il ragazzo, finalmente «Sua figlia, la più piccola, è morta.».
Rimase stranamente impassibile mentre pronunciava quelle parole, studiando la reazione di Keller. Una reazione che non si sarebbe mai aspettato.
L’uomo sbiancò, e parve cominciare a tremare all’istante.
«Io... io l’avevo risparmiata.» balbettò, in un filo di voce.
«È successo per il crollo dell’edificio.» continuò Ben, con voce piatta e ferma.
«Oddio... oddio...» cominciò a mormorare Friedrich «No... non l’avrei fatto... non sarei arrivato a uccidere due bambine a sangue freddo... non sarei arrivato a farlo... Kate sì, ma io... io no... io no...».
«Sta provando a scaricare su qualcun altro la colpa, Keller?» fece Ben, con stizza.
Ma l’uomo non lo stava ascoltando.
Keller continuava a farfugliare tra sé parole senza senso.
Fino a quando accadde l’imprevedibile: l’evaso roteò gli occhi all’indietro e reclinò la testa su un lato.
Ben rimase per un secondo interdetto, immobile e sorpreso, ma poi schiacciò con forza il pulsante per le emergenze, catapultandosi un attimo dopo fuori dalla porta.
Poi, mentre le infermiere entravano nella stanza per assistere Friedrich Keller, lui si sedette nel corridoio e scoppiò in lacrime.

Non seppe quanti minuti passarono.
Un’infermiera corpulenta gli disse che lo avevano ripreso, che il paziente si era sentito male ma che ora stava meglio e doveva riposare. Ma Ben non prestò alcuna attenzione alle sue parole.
Fece per alzarsi, asciugandosi gli occhi, quando una figura sottile in camice bianco gli si parò davanti.

Lisa Crawford aveva iniziato da soli due mesi la specialistica di medicina in anestesia e rianimazione.
Adorava l’ambiente ospedaliero e fin da bambina aveva sognato di poter diventare un medico, ma fin dal primo giorno si era trovata davanti a una realtà che era ben diversa rispetto a quella che si era limitata fino a quel momento a sognare o a vedere nei film. Adesso che aveva ventisei anni e una laurea in Medicina nel cassetto, era arrivato il momento di capire quanto la realtà fosse molto più complessa dei sogni, molto più dura.
Seguendo i medici da una parte all’altra dell’ospedale, aveva capito nel giro di pochi giorni quante responsabilità avessero i dottori che lavoravano in determinati reparti e quanto le situazioni dei pazienti fossero delicate e ciascuna diversa da tutte le altre.
Per le successive due settimane sarebbe stata assegnata al reparto di terapia intensiva. L’idea la eccitava e affascinava, ma al tempo stesso le incuteva un po’ di paura.
I pazienti in quel reparto spesso non erano in buone condizioni, i familiari erano disperati e facevano migliaia di domande ed era necessaria un’attenzione enorme a qualsiasi particolare.
Il primo caso che le era capitato tra le mani appena entrata in quel reparto, riguardava un ispettore della polizia autostradale di Colonia.
Lisa aveva seguito tramite i notiziari alla televisione il caso di quell’evaso che aveva rapito un’intera famiglia e il fatto che in quel momento vittime e carnefice si trovassero tutti in quell’ospedale, insieme a lei, l’aveva in qualche modo colpita.
Quando il dottor Schneider le aveva consegnato la cartella clinica di Semir Gerkhan e le aveva detto di eseguire controlli ogni due ore e di avvisarlo in caso ci fosse stato anche solo un minimo cambiamento nelle sue condizioni, lei ne era stata felice, ma anche intimorita.
Sentiva che una parte di responsabilità su quel paziente adesso sarebbe stata anche sua e, dal momento che aveva saputo che cosa fosse successo alla sua famiglia, aveva il terrore di poter in qualche modo creare altri danni anche solo con il proprio respiro.
Ora si trovava lì, davanti a quell’ispettore che avrà avuto una decina d’anni in più di lei e che sembrava completamente disperato, e non aveva idea di come approcciare un discorso.
Controllare i parametri di un uomo addormentato era relativamente semplice, ma parlare con i parenti dei malati o con i conoscenti stretti degli stessi non lo era affatto. E nessuno glielo aveva mai insegnato, avrebbe dovuto cavarsela da sola.

«Lei è l’ispettore Jager?» esordì la ragazza, attorcigliandosi timidamente una ciocca di capelli biondi attorno all’indice della mano destra.
Ben annuì, corrugando la fronte.
Quella ragazza avrà avuto più o meno venticinque anni, il poliziotto immaginò che si trattasse di una specializzanda. Era carina, esile, il viso allungato e coperto di lentiggini, ornato dai folti capelli biondi raccolti disordinatamente con una pinza.
«Sì... sono io.».
«Io sono Lisa, Lisa Crawford. Il dottor Schneider mi ha detto di venirla a chiamare... si tratta dell’ispettore Gerkhan. Si è svegliato.».

Ben seguì la ragazza a passi svelti, percorrendo quel corridoio di cui ormai conosceva a memoria ogni piastrella senza riuscire a togliersi dalla mente l’immagine di Keller che roteava gli occhi e perdeva conoscenza.
Quando raggiunse la porta della stanza di Semir, la giovane specializzanda si fermò e lui fece altrettanto, notando Chris Schneider che usciva dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
«Allora?» domandò Ben, agitato, accostandosi al medico «Davvero si è svegliato? Come sta? Posso vederlo?».
«Ben, eccoti.» lo accolse il medico, con un mezzo sorriso «Dunque... si è svegliato, ma...».
«Ma? Chris, ti prego, dimmi che sta bene...».
«Non puoi entrare ora, Ben.».
All’ispettore gelò il sangue nelle vene. Immaginò volesse dire che qualcosa non andava e sentì il cuore cominciare a battergli nel petto all’impazzata «Cosa... che cosa...?».
«L’ho dovuto sedare.» spiegò il dottor Schneider, sedendosi su un sedile di plastica nel corridoio antistante la porta chiusa della stanza e invitando con lo sguardo Ben a fare altrettanto.
La ragazza, intanto, stava in disparte ad ascoltare.
«Si è appena svegliato e tu lo hai sedato? Perché?».
«Era molto agitato, Ben, davvero troppo agitato.» spiegò il medico, con calma «Ha cominciato a chiedere di sua moglie, delle bambine, di te, ma era davvero troppo agitato e avrebbe rischiato di farsi del male, ho dovuto sedarlo. Dovrebbe dormire fino a domani mattina e spero che il risveglio a quel punto sia un po’ più tranquillo.».
«Okay...» mormorò il poliziotto, valutando la gravità di ogni singola parola pronunciata dal dottore «Ma come sta? Sta bene?».
«Farò dei controlli più accurati domani mattina. Per ora posso dirti che il fatto che finalmente abbia aperto gli occhi e abbia parlato è sicuramente un buon segno.».
«Okay...».
«Ora però devi ascoltarmi, Ben.» cominciò il medico, guardandolo fisso negli occhi e parlando sempre con estrema calma «Vai a casa. Con la dose di sedativo che gli ho somministrato, è escluso che si svegli prima di domani mattina. Vai a casa e riposati, dormi. Domani il tuo amico avrà bisogno di te. Quindi dammi retta, Ben...».
Contro ogni aspettativa, il giovane poliziotto si limitò ad annuire.
Era così stanco...
«Se ci sono novità, però, mi chiami?».
«Certo, abbiamo fatto un patto.» rispose Schneider, con un sorriso.
Ben annuì, ricambiando il sorriso.
«Grazie, Chris... grazie davvero.».

 

N.d.A.
E forse, dico forse, finalmente accade qualcosa di positivo. Intanto conosciamo un altro personaggio...
Grazie Mary, grazie Reb e grazie a tutti voi che state leggendo, a presto!
Sophie

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Capitolo 23
*** Sopportazione ***


Dal capitolo precedente:

"«Ma come sta? Sta bene?».
«Farò dei controlli più accurati domani mattina. Per ora posso dirti che il fatto che finalmente abbia aperto gli occhi e abbia parlato è sicuramente un buon segno.».
«Okay...».
«Ora però devi ascoltarmi, Ben.» cominciò il medico, guardandolo fisso negli occhi e parlando sempre con estrema calma «Vai a casa. Con la dose di sedativo che gli ho somministrato, è escluso che si svegli prima di domani mattina. Vai a casa e riposati, dormi. Domani il tuo amico avrà bisogno di te.
»."

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GIORNO 22.

Ben aveva dormito per tutta la notte.

Non ricordava più quando fosse successo l’ultima volta, ma finalmente era riuscito a dormire un sonno profondo e senza incubi, del tutto ininterrotto.
Complice forse l’atmosfera della propria casa piuttosto che quella vuota e triste dell’ospedale, oppure la notizia che aveva ricevuto la sera prima riguardo il fatto che Semir si fosse svegliato, era finalmente riuscito a riposarsi sul serio.
Quando si svegliò, Maggie era distesa accanto a lui, ancora addormentata.
Ben scese dal letto, si preparò in fretta, bevve una tazza fumante di caffè e si guardò allo specchio.
Aveva i lineamenti un po’ più distesi, la notte di sonno gli aveva fatto bene.
Scarabocchiò velocemente un biglietto che adagiò sul comodino di Margaret, le lasciò un leggero bacio tra i capelli e uscì dall’appartamento senza fare rumore.
Erano le sette del mattino quando, a bordo della sua moto, partì da casa alla volta dell’ospedale centrale di Colonia.

Quando giunse davanti alla porta della stanza di Semir, vi trovò davanti il dottor Schneider, intento a scrivere qualcosa su una cartellina.
«Oh Ben!» esclamò, vedendolo arrivare «Come stai? Sei riuscito a riposare un po’?».
L’ispettore annuì con un sorriso «Sì e ti ringrazio di aver insistito, perché ne avevo decisamente bisogno. Posso entrare?».
Chris annuì.
«Gli farò qualche controllo, poi se va tutto bene vi lascerò soli. Mi raccomando però, Ben, non farlo stancare e soprattutto fai in modo che non si agiti troppo. Va bene?».
«Va bene.» assicurò il ragazzo, abbassando la maniglia e richiudendo la porta una volta che entrambi furono entrati.

Li accolsero i soliti suoni intermittenti che facevano parte integrante di quello scenario ormai da giorni.
Ben esitò, ma il medico lo invitò con lo sguardo ad avvicinarsi al letto. Quindi il poliziotto si diresse verso la sedia e prese posizione.
Rimase per qualche secondo a fissare il collega disteso sul letto, prima di decidersi a svegliarlo.
Poi cominciò a chiamarlo, piano.
«Semir... Semir, so che puoi sentirmi... apri gli occhi...».
Per un minuto lunghissimo non accadde niente.
Poi, sul viso di Semir si dipinse una smorfia di dolore.

Schiuse gli occhi, lentamente.
La luce gli dava fastidio.
Sarebbe rimasto nel buio confortante che lo aveva circondato fino a quel momento, ma una voce lo stava chiamando e lui conosceva perfettamente quella voce.
Fece uno sforzo immane per sollevare del tutto le palpebre e impiegò qualche secondo a trovare con lo sguardo la fonte di provenienza di quella voce che lo chiamava.
Ma poi lo vide, alla sua destra, sorridente.
Semir richiuse in fretta gli occhi, provando una fitta acuta di dolore all’altezza del bacino, che si irradiò poi per tutta la schiena.
Poi li riaprì, ma il dolore non era passato.
Gli faceva male anche la spalla. E il torace. E la testa.
Prima che potesse provare a dire qualsiasi cosa, un’altra figura maschile entrò nel suo campo visivo. L’aveva già vista, forse il giorno prima.
La figura in camice bianco parlava, ma Semir sentiva tutto ovattato. Solo dopo un po’ i suoni divennero più nitidi e lui riuscì a comprendere che cosa il dottore gli stesse dicendo.
«Ispettore? Ispettore, mi sente?».
Semir avrebbe voluto annuire, ma fece una fatica enorme per provare a muovere la testa.
«Ispettore... ha male? Sente dolore?».
Il turco provò di nuovo ad annuire, ma la verità era che la smorfia sul suo viso rispondeva già da sola a quella domanda.
Con la coda dell’occhio vide il medico selezionare qualcosa su un macchinario alla sua sinistra e, poco dopo, il dolore era un po’ diminuito.
«Così andrà meglio... riesce a parlare, ispettore Gerkhan?» gli chiese ancora la figura in camice bianco.
Semir aprì la bocca  e non ne uscì alcun suono.
«Okay, non si preoccupi...» cominciò il dottore, ma lui si sforzò e lo interruppe.
«Ci... ci riesco...» mormorò, con un filo sottilissimo di voce.
«Bene, molto bene.» commentò ancora il medico.
Ora la vista era diventata più nitida e Semir poté distinguere chiaramente il profilo di quell’uomo. Sulla cinquantina, ingrigito, grandi occhi azzurri e un sottile paio di occhiali sul naso triangolare. Sulla tessera appesa al taschino del camice spiccava il nome Christopher Schneider.
«Io sono il Christopher Schneider, ci siamo visti già ieri sera. Vorrei farle qualche veloce controllo prima di lasciarla solo con il suo collega, va bene?» fece l’uomo, estraendo una piccolissima torcia dal taschino.
Controllò la reazione pupillare, poi gli fece qualche domanda su chi fosse per constatare che non avesse alcun problema di amnesia.
Gli chiese poi di stringere le sue mani e di spingere con i piedi contro i palmi delle sue mani aperte, con tutta la forza che aveva.
Terminati questi rapidi controlli, annuì e scrisse qualcosa sulla cartellina che reggeva tra le mani.
«Bene, ora vi lascio soli. Qualche minuto, Ben.» concluse velocemente.
Quindi lasciò la stanza, tirandosi la porta alle spalle.

Ben non parlò subito.
Guardò il suo socio per almeno un minuto senza proferire parola.
Semir, invece, non lo guardava neanche. Ruotare la testa verso la sua direzione gli comportava troppa fatica.
Il più giovane lo intuì, quindi dopo quel minuto di totale silenzio si alzò dalla sedia e si sporse per rientrare nel suo campo visivo.
«Semir... socio, sono contento che tu sia sveglio.» disse, semplicemente.
«Ben... pensavo... pensavo...».
«Sì, lo so.» lo interruppe Ben, evitandogli la fatica di continuare «So che Keller ti aveva detto di avermi ucciso, ma ti assicuro che fino a due giorni fa io non lo avevo neanche mai visto personalmente. Non è mai venuto a cercarmi, voleva solo che tu credessi che io fossi morto.».
Semir annuì debolmente.
Non riusciva a muovere un muscolo senza che fitte di dolore si irradiassero da ogni parte del corpo e quella condizione gli creava uno strano senso di ansia.
«Le... le bambine...» mormorò, senza terminare la domanda.
Non ci riusciva.
Ben trasalì. Sapeva che quel momento sarebbe arrivato. Percorrendo in moto la strada che separava casa sua dall’ospedale aveva pensato e ripensato a quella domanda, che l’amico gli avrebbe sicuramente posto appena sveglio. Aveva provato a immaginare che cosa sarebbe stato meglio rispondere, ma non era giunto a nessuna conclusione. Aveva preparato persino un abbozzo di discorso, ma entrando in quella stanza se lo era immediatamente dimenticato.
E ora, non sapeva che cosa dire.
Ma, nell’indecisione, fece la cosa peggiore che avrebbe potuto fare: esitò.
E Semir se ne accorse.
L’elettrocardiografo cominciò a inviare suoni sempre più ravvicinati tra loro e Ben si allarmò subito.
«Semir... Semir, no, ascolta, calmati...».
Ma lui non lo ascoltava. Annaspava per dire qualcosa e i suoi occhi erano colmi di terrore.
«Dimmi... dimmi come stanno... le bambine... Ben... dimmelo.» balbettò, a fatica.
«Sì, ma tu calmati, Semir, ti prego!» quasi gridò il più giovane, mentre i battiti cardiaci dell’amico acceleravano ancora.
«Ascolta, Aida sta bene. Non si è fatta nemmeno un graffio, hai capito Semir? È... è un miracolo, non si è fatta niente e sta bene.» spiegò, sperando che cominciare con una buona notizia lo avrebbe calmato.
Invece, inaspettatamente, quelle parole gettarono Semir ancora più nella paura.
Se il collega gli parlava solo di Aida, se premeva sul fatto che lei stesse bene, allora Lily...
«Hai capito, Semir? Aida sta bene.».
Ma Semir non lo ascoltava. Improvvisamente, gli sembrò di non riuscire più a respirare bene e si sentì come se un macigno gli fosse piombato sul torace  e premesse con forza per farlo soffocare.
«Mi... mi sento...» bisbigliò, in preda al panico.
Ma non riuscì a terminare la frase.
I macchinari cominciarono a lanciare veri e propri segnali di allarme e le palpebre di Semir lentamente si abbassarono.
Ben andò in panico, esitò persino a premere il tasto per le emergenze. Ma prima che potesse fare qualsiasi cosa, il dottor Schneider si catapultò nella stanza, intimandogli di uscire.
«Dannazione Ben, ti avevo detto di non farlo agitare!» disse a denti stretti prima di chiudersi la porta alle spalle.
Evidentemente era rimasto dietro la porta tutto il tempo e aveva immediatamente sentito i segnali acustici che indicavano che fosse successo qualcosa.
Accadde tutto a una velocità incredibile.
Ben uscì, ma rimase a guardare dal vetro Chris che armeggiava sul letto del paziente insieme a un’infermiera.
Li vide mentre spostavano Semir su una barella e poi li vide uscire dalla stanza di corsa, trascinando la barella con loro.
Dovette spostarsi per farli passare e li seguì con lo sguardo mentre si dirigevano velocemente verso la sala operatoria.

Era passata solo un’ora quando Chris Schneider uscì dalla sala operatoria e gli andò incontro.
Lui lo attendeva lì, immobile, accasciato su una di quelle scomode sedie che lo avevano ospitato così spesso negli ultimi giorni.
Si protese verso il medico per chiedergli che cosa fosse accaduto, ma questi preferì sedersi accanto a lui.
Si tolse gli occhiali con un gesto nervoso e lo fissò negli occhi. Sembrava turbato, e questo mandò Ben ancora più in confusione.
«Chris, perché quell’espressione? È... lui è...».
«Vivo.» concluse l’uomo al suo posto «Ma non sta bene, Ben.».
Il giovane ispettore si prese la testa tra le mani, spostando lo sguardo a terra, con un sospiro.
«Ha avuto un’ischemia miocardica acuta.» continuò Schneider, con un lieve sospiro «Il dottor Franz, il chirurgo cardiotoracico, ha dovuto eseguire un’angioplastica coronarica d’emergenza. Sono qui io a parlarti perché lui sta terminando i controlli post-operatori. In realtà si tratta di un intervento di routine, poco invasivo. Ma Semir era già davvero molto debilitato e si tratta comunque di un altro intervento, per cui...».
«Chris.» lo interruppe Ben, tornando a guardarlo negli occhi. Era la prima volta da quando lo aveva conosciuto che il medico non andava dritto al punto.
«Avevamo detto niente giri di parole.».
Il chirurgo annuì, con un altro sospiro.
«Sono rimasto in sala a seguire l’intervento. È andato in arresto due volte, Ben. Franz l’ha ripreso, ma non ho idea di come sarà il decorso post-operatorio. Normalmente il giorno dopo i pazienti tornano a casa se hanno subìto un intervento del genere, ma il dottor Franz teme che Semir possa non svegliarsi.».
«Che cosa?».
«Ha subìto troppi interventi... ha subìto troppo stress. La sopportazione ha un limite, Ben, il fisico non può resistere a tutto. Io spero che si svegli e che stia bene, ma non è detto che questo accada, purtroppo sono d’accordo con il dottor Franz.».
Ben scosse il capo, aveva i pensieri confusi.
«Ma come... come è successo? Semir non ha... non ha mai avuto problemi di cuore e...».
«Ben, Semir e il suo cuore ultimamente hanno avuto un bel peso da sopportare. Lo shock emorragico e i due interventi al cervello dei giorni scorsi hanno sicuramente provato il cuore ulteriormente e un cuore provato è più sensibile allo stress, cronico o acuto che sia. In caso di stress psicologici acuti possono verificarsi aritmie anche improvvise, o vasocostrizione, che a loro volta possono portare all’innesco di un’ischemia miocardica acuta. Poteva succedere ed è successo...».
Ben scosse ancora la testa. Quelle parole terribilmente razionali, scientifiche e vere, lo destabilizzavano.
«E non ho finito...» aggiunse il dottore, con una certa timidezza nella voce.
«Che cos’altro è successo?» domandò il poliziotto, in un sussurro. Non sapeva più che cosa aspettarsi.
«Ecco... quando Semir era vigile, io gli ho fatto qualche controllo, prima di lasciarvi soli, ricordi?».
Il ragazzo annuì, invitando il medico a continuare.
«Gli ho chiesto di stringermi la mano e lo ha fatto. Poi però gli ho chiesto di spingere con i piedi verso i palmi delle mie mani...».
«Ti prego, Chris, non dirmi che...».
«Non ho sentito niente, Ben.» lo interruppe Schneider, a bassa voce «Nemmeno una forza leggerissima, niente. L’ho già detto al chirurgo ortopedico, ci lavoreremo insieme. Potrebbe essere stato un problema momentaneo, ma fino a quando Semir non si sveglierà non posso escludere nulla.».
Ben annuì.
Se all’alba una speranza aveva illuminato la giornata, ora quella speranza era scivolata via, lasciando dietro di sé un baratro peggiore del precedente.
«Comunque sia, Semir verrà monitorato in continuazione, Lisa controllerà le funzioni vitali ogni ora e riferirà ogni cosa sia a me sia al dottor Franz. Devi stare tranquillo.».
«Lisa?».
«La ragazza che hai visto ieri, è una specializzanda. Mi piace, molto responsabile.» assicurò Schneider, con un lieve sorriso. Poi si alzò dalla sedia.
«Mi dispiace per quello che ti ho detto prima, Ben, che non avresti dovuto farlo agitare. Cancella quella frase, okay? Quello che è successo non è in alcun modo colpa tua. Ricordalo, Ben.» aggiunse poi, prima di allontanarsi.




N.d.A.
Sembrava stesse accadendo qualcosa di positivo, invece...
È una storia interminabile, ne sono consapevole, spero solo di non annoiarvi troppo!
Grazie e a presto,
Sophie

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Capitolo 24
*** Equilibrio ***


Dal capitolo pecedente:

"«Avevamo detto niente giri di parole.».
Il chirurgo annuì, con un altro sospiro.
«Sono rimasto in sala a seguire l’intervento. È andato in arresto due volte, Ben. Franz l’ha ripreso, ma non ho idea di come sarà il decorso post-operatorio. Normalmente il giorno dopo i pazienti tornano a casa se hanno subìto un intervento del genere, ma il dottor Franz teme che Semir possa non svegliarsi.»."


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GIORNO 23.

Ben uscì dall’ospedale correndo.
Saltò in sella alla propria moto, allacciò la cerniera della giacca  e si strinse nelle spalle, provando a non pensare al freddo di dicembre che gli penetrava nelle ossa e che lungo il tragitto si sarebbe rivelato ancora più pungente.
Partì, con un sospiro.

Parcheggiò a pochi minuti dal centro, si tolse il casco e lo ripose nel portaoggetti con un gesto meccanico.
Quindi, iniziò a camminare.
Non sapeva esattamente dove si sarebbe diretto, ma non importava: aveva bisogno di distrarsi, di vedere un pezzo di mondo che non fosse l’ospedale o il commissariato.
In realtà in ospedale c’era stato poco, quel giorno.
Semir non si era svegliato, il dottor Schneider non gli aveva dato ulteriori spiegazioni e rimanere a ciondolare ancora per quei corridoi gli era parso inutile.

Per le strade di Colonia, in quel tardo pomeriggio, lasciò che fosse la folla a trasportarlo, folla che sembrava ancora più grigia di quella giornata invernale.
Giunse di fronte al duomo in meno tempo di quanto si aspettasse, quindi lo aggirò sulla sinistra, senza degnare di uno sguardo la sua imponenza, e si avviò verso il ponte.
Sopra di esso la folla era più rada, ma sapeva che di lì a poco i turisti sarebbero accorsi a riempire tutto lo spazio pedonale, come sempre, per scattare una foto del panorama al tramonto.
Lo stava attraversando a passo svelto ma, giunto al centro della struttura, esitò un attimo.
Quell’esile profilo di ferro costruito su una sbarra sottile, posta oltre la balaustra del ponte, lo aveva sempre incuriosito: era una scultura grigia, insignificante, a molti sconosciuta perché non in grado di attirare più di tanto l’attenzione. Ritraeva il profilo mal fatto di un uomo, un alieno o qualsiasi essere che potesse essere rappresentato con due braccia, due mani, una cassa toracica, retto su una gamba sola a fuggire il vuoto. Il protagonista della scultura era un individuo assolutamente anonimo, un filo di ferro che sostava in bilico su quella sbarra grigia, incurvato alla ricerca di un equilibrio che gli mancava sotto i piedi, irrigidito dallo sforzo, concentrato nel tentare di non cadere giù, nel fiume.
Ben sospirò, appoggiandosi con i gomiti alla ringhiera, osservando quell’umanoide e sentendosi tanto come lui, alla ricerca di un equilibrio che pareva essersi spezzato.
La mattina stessa aveva parlato con Aida, che gli era scoppiata a piangere tra le braccia.
Quando lui le aveva chiesto che cosa fosse successo, dopo aver fatto sì che i suoi singhiozzi si calmassero, la bambina aveva risposto di avere solo un po’ di mal di testa, e all’ispettore questa risposta aveva fatto una tenerezza infinita.
La verità era che da una settimana la sua vita era stata totalmente sconvolta. Che le mancava Lily. Che le mancavano papà e mamma. Che non capiva.
Eppure diceva di avere mal di testa e, Ben ne era sicuro, lo faceva per evitare di farlo preoccupare, perché sapeva quanto anche lui stesse male.
Scosse il capo, provando a pensare a come sarebbe stata la vita di Aida se Andrea e Semir non si fossero più svegliati. Ma cacciò via quel pensiero prima ancora di poter ragionarvi su, perché non poteva accettarlo. Non poteva finire così.
Pensò alla piccola Lily. Alla paura che doveva aver avuto durante la prigionia, alla paura che doveva aver avuto sotto quei massi. Sperò che non avesse provato dolore.
Ben strinse gli occhi, continuando a fissare l’acqua scura sotto di sé, tentando di fermare le lacrime.
Se anche Semir si fosse svegliato, quella notizia lo avrebbe distrutto.
E se non si fosse svegliato, la colpa sarebbe stata sua, perché lo aveva fatto agitare. Lo aveva fatto agitare, aveva dovuto subire un’altra operazione per colpa sua. Aveva quasi ucciso il suo migliore amico.
La testa cominciò a girargli, senza sapere più come contenere e organizzare quei miliardi di pensieri.
Avrebbe voluto premere un tasto, tornare indietro, risolvere tutto. Trovare Semir prima e sbattere Keller in galera. Ma non poteva.

 

Un raggio di sole gli baciò il viso all’improvviso, filtrando attraverso una nuvola scura.
L’Hohenzollernbrücke era decisamente più affollato, adesso.
Ben si passò una mano sugli occhi, si allontanò dalla balaustra e tornò sui suoi passi, di nuovo verso il duomo.
Alla sua sinistra un treno sfrecciò silenzioso verso la stazione centrale, riportandolo alla realtà.
La facciata laterale del duomo adesso aveva una strana sfumatura dorata che lo rendeva ancora più maestoso ai suoi occhi.
Sorrise, notando una ragazza che inquadrava proprio quella parte della chiesa con la propria macchina fotografica, senza escludere dalla foto l’acero dalle sfumature rossastre che sorgeva sulla parte iniziale del ponte.
Fermandosi nuovamente, si voltò, lanciando un’occhiata al panorama che sorgeva sull’altra sponda del Reno, al parco, alla torre della televisione e al Köln Triangle.

Poi proseguì per la propria strada. Finì di attraversare il ponte a passo svelto, aggirò la chiesa fino a raggiungerne il portone principale e, spinto da chissà quale volontà, varcò la soglia.
L’interno era buio, silenzioso, solenne, le pareti alte e incredibilmente spoglie.
Si chiese quanto tempo fosse che non vi metteva piede, ma non si curò di trovare la risposta.
Si sedette su una panca, in fondo, solo.
E pregò.

 

 

N.d.A.
Capitolo che ai fini della trama serve poco, piccolo stacco, a cui tengo perché è stato inserito in seguito, a storia già terminata... perché quasi esattamente un anno fa ho trascorso due giorni a Colonia, ho camminato su quel ponte, sono entrata nel duomo, ho assistito a quel tramonto, ho visto quell’esile scultura di ferro in bilico sul Reno e ho scattato questa foto, e non avrei mai potuto non inserire tutto ciò in qualche modo nella mia storia.
A presto!
Sophie

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Capitolo 25
*** Non è servito a niente ***


Dal capitolo precedente:

"Finì di attraversare il ponte a passo svelto, aggirò la chiesa fino a raggiungerne il portone principale e, spinto da chissà quale volontà, varcò la soglia.
L’interno era buio, silenzioso, solenne, le pareti alte e incredibilmente spoglie.
Si chiese quanto tempo fosse che non vi metteva piede, ma non si curò di trovare la risposta.
Si sedette su una panca, in fondo, solo.
E pregò."

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QUATTRO GIORNI DOPO – GIORNO 27.

«Come sarebbe non lo sai?» quasi gridò Ben, facendo voltare due infermiere che camminavano lungo il corridoio. Era rosso in volto e si percepiva chiaramente la tensione che emergeva da ogni cellula del suo corpo.
«Ben, per favore...» provò a spiegare il dottor Schneider, ma l’ispettore lo interruppe immediatamente.
«Chris, ti rendi conto di quello che mi dici? Semir è in coma da cinque giorni! Cinque giorni e non siete stati in grado nemmeno di capirne il motivo.».
«Te l’ho già detto, ha subìto troppi stress. È questa la motivazione. Due interventi al cervello e uno al cuore su un paziente già debilitato come lo era lui, Ben, era impensabile che non ci fossero conseguenze.» riprovò a spiegare il medico, mantenendo tuttavia la calma, parlando a un volume quasi basso.
«Mi stai dicendo che Semir era già spacciato in partenza?» gridò ancora Ben, guardandolo negli occhi e pretendendo da quegli occhi chiari almeno un po’ di speranza.
Christopher scosse stancamente il capo «Ben... non sto dicendo questo. Nel pomeriggio chiederò un nuovo consulto del neurologo. Il chirurgo che ha eseguito l’angioplastica lo ha visitato di nuovo ieri pomeriggio e continua a credere che l’intervento sia stato solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso, per così dire.».
Il ragazzo annuì, lasciandosi cadere su una sedia, riprendendo finalmente fiato.
«E... Andrea?».
«Stazionaria...».
«Chris, sinceramente... credi che...».
«No, Ben.» fece il medico, assertivo, scuotendo il capo «Sono passati undici giorni e non si è svegliata. Ogni tanto i miracoli accadono, ma io non voglio darti false speranze, lo sai. E poi, se anche si svegliasse, dubito che non riporterebbe danni permanenti, a questo punto.».
Ben annuì lentamente.
«Chris, ancora una cosa... Semir... tu credi che non abbia più possibilità? Davvero nemmeno un po’?».
L’uomo si strinse appena nelle spalle. Si tolse gli occhiali e cominciò a pulirli meccanicamente con un lembo del camice, come faceva spesso quando era nervoso o imbarazzato.
«Vuoi una risposta da medico, Ben?».
«Voglio una risposta sincera.».
«Io credo che il tuo collega non voglia svegliarsi.» disse Schneider, infine «Credo che Semir non voglia vivere, Ben. Credo che abbia sopportato troppo. Mi sono informato su quello che è successo in quell’edificio, sai? Io credo... credo che quel pazzo, quell’evaso abbia raggiunto esattamente il suo obiettivo.».

Quando, poco dopo, Ben entrò nella stanza del suo migliore amico, solo, fece appena in tempo a chiudersi la porta alle spalle che le lacrime cominciarono, calde, a rigargli il viso.
Si lasciò andare a un pianto disperato.
Era stanco, terribilmente stanco.
Andrea non si sarebbe svegliata, Lily era morta, Semir era lì davanti a lui ed era immobile. Quella che aveva sempre considerato la sua seconda e più vera famiglia era stata disintegrata e lui si sentiva perso. E solo.
Si sedette accanto al letto dell’amico senza riuscire a frenare le lacrime e una rabbia indescrivibile cominciò a montare dentro di lui. Verso Keller, verso se stesso, verso il mondo intero.
«Non è giusto...» cominciò a mormorare, tra i singhiozzi, per poi alzare sempre più la voce «Non è giusto! Semir, ti devi svegliare, maledizione! Non ci credo che tu non voglia vivere, vivi! Vivi, porca miseria, svegliati... svegliati!» gridò, rosso in volto, girando scattosamente per la stanza.
«Svegliati...» ripeté, in un sussurro, sedendosi di nuovo accanto al letto, con la testa stretta tra le mani.
Quando risollevò la testa, però, il cuore per poco non gli si fermò nel petto.
Con le lacrime che ancora gli rigavano le guance, rimase immobile, a bocca aperta.
Due occhi stanchi lo stavano osservando.

«Semir... Semir... non ci posso credere, Semir, sei sveglio?» fece Ben, incredulo, senza sapere più se ridere o piangere «Sei sveglio?».
Semir si sforzò di sorridere.
«S-socio...».
«Oddio, Semir, sei sveglio. Non posso crederci...» continuò il più giovane, in preda a un’eccitazione incontrollata «Non ci posso credere.».
«Socio...» mormorò l’ispettore disteso, facendo una fatica immane per parlare. Aveva male ovunque, la luce gli dava fastidio e la testa gli pulsava.
«Semir, non parlare, okay? Non ti sforzare.» fece Ben, sporgendosi verso di lui e stringendogli una mano, per fargli capire di essergli vicino «Non parlare... ora chiamo il medico, va bene?».
Semir aprì la bocca per controbattere, ma una smorfia di dolore gli si dipinse in viso e lui non riuscì a proferire parola.
«Non ti sforzare.» ripeté Ben, prima di allontanarsi dal letto per sporgersi nel corridoio a chiamare qualcuno.

Un quarto d’ora dopo, Christopher Schneider aveva effettuato sul paziente ogni genere di controllo.
Ben aveva assistito alla visita e aveva visto l’incredulità negli occhi del medico farsi sempre più grande alla fine di ogni piccolo test, il che gli aveva fatto sperare che, nonostante tutto, il collega stesse effettivamente meglio.
«Molto bene.» commentò infatti il neurochirurgo, controllando gli ultimi riflessi di Semir «Davvero molto bene. Ovviamente è ancora molto debole, ma direi che siamo sulla buona strada.».
«Ben...» mormorò Semir, con un filo di voce, senza considerare le parole del medico «Le... le bambine... dimmi... delle bambine...».
Negli occhi dell’ispettore più giovane si dipinse il terrore.
Guardò Chris e vide nel suo sguardo un tacito rimprovero.
Quindi tornò a rivolgersi all’amico «Semir, devi riposarti adesso, va bene? Domani ti racconterò tutto, non ti preoccupare.».
«Ma... Ben...».
«Fidati di me, Semir... fidati.» concluse Ben, con un mezzo sorriso, mentre Schneider annuiva, scrivendo qualcosa sulla cartella del paziente.
«Ispettore Gerkhan, ripeterò ogni controllo domani.» fece il medico, interrompendo volutamente la conversazione tra i due «Nel frattempo, però, le somministrerò una lieve dose di sedativo. Voglio che stanotte dorma, ha bisogno di recuperare energie.».
Semir si limitò a guardarlo. Parlare era troppo faticoso e comunque sapeva che difficilmente avrebbe potuto dissentire.
«Lisa si occuperà del sedativo.» aggiunse il dottor Schneider, mentre una ragazza dai lunghi capelli biondi si materializzava nel campo visivo di Semir e selezionava qualcosa su un macchinario.
Semir la vide premere un tasto con decisione, poi guardare il medico in cerca di una conferma.
Udì ancora il dottore dire qualcosa a Ben, forse di seguirlo fuori, ma i suoni si fecero lontani, le voci confuse e le palpebre terribilmente pesanti.
Cedette al sonno quasi subito. Era stanco, davvero tanto stanco.

«Hai fatto bene a non dirgli niente riguardo alle bambine, Ben.» disse Chris, non appena furono usciti dalla stanza.
«Ma come farò a evitare ancora l’argomento?» domandò il ragazzo, preoccupato.
Il medico lo guardò negli occhi.
«Non potrai evitarlo, ma dovrai affrontarlo con calma. Domani sarà già più in forze, non volevo gliene parlassi ora. Dobbiamo evitare altre complicazioni, Ben, non credo il suo fisico possa sopportare un pelo di più».
L’ispettore annuì. Avrebbe fatto qualunque cosa purché Semir si riprendesse e di Schneider si fidava ciecamente, ormai.
«Comunque, Ben.» aggiunse il medico, scrutandolo «Non so che cosa sia successo là dentro poco fa... ma tu sei la dimostrazione vivente che l’amicizia può superare ogni cosa. Lo credo davvero.».

Ben abbassò la maniglia e entrò cautamente nella stanza numero 201.
Non vi metteva piede da ormai sei giorni, da quando Keller si era sentito male mentre parlava con lui.
Ad attenderlo, tuttavia, trovò l’uomo in posizione semi-seduta e con una cera decisamente migliore rispetto a quella della settimana precedente.
«Jager, qual buon vento.» disse, con un’energia nuova nella voce. Non respirava più affannosamente, non aveva più bisogno di parlare a bassa voce o interrompersi di tanto in tanto.
L’ispettore si sedette accanto al suo letto, senza fiatare.
I macchinari intorno al paziente erano spenti.
«Sto molto meglio, come vede. Domani mi dimettono.» continuò l’uomo, tenendo quelle fessure grigie ben fisse sul giovane.
«Andrà in carcere.» constatò Ben, sostenendo il suo sguardo.
«Ormai dovrei chiamarla casa, non è così?» continuò lui, con un sorriso beffardo.
«Keller... ora vorrei che mi spiegasse a cosa pensa che sia servito quello che ha fatto.».
Friedrich sorrise ancora, poi portò lo sguardo sopra al lenzuolo bianco che gli ricopriva le gambe, interrompendo il contatto visivo con il suo interlocutore.
«Non capirebbe, Jager.».
Seguì un attimo infinito di silenzio.
«Mi sforzerò.» fece poi il poliziotto, con un sospiro.
Keller scosse il capo, piano, fissando ora un punto indefinito lontano da entrambi.
«Credono tutti che io sia un mostro, non vedo perché lei dovrebbe essere interessato al mio lato umano.».
«Crede che io non la consideri un mostro?».
«Credo che lei, Jager, in fondo provi per me una certa pietà.» affermò l’uomo, con sicurezza «Altrimenti non sarebbe qui, immagino.».
Ben si morse il labbro. Era vero. E non sapeva se sentirsi in colpa per questo oppure no. Vi erano momenti, come quello di qualche ora prima nella stanza di Semir quando ancora non si era svegliato, in cui odiava Friedrich Keller con tutto se stesso. Ma ve ne erano altri in cui sentiva l’impulso di andarlo a trovare, per capire, per provare a comprendere la sua mente. Perché aveva bisogno di trovare una ragione per tutto ciò che era successo.
«Perché non mi risponde e basta?» gli domandò stancamente, appoggiando i gomiti sulle ginocchia, in attesa.
«Non è servito a niente, Jager.» disse Keller, finalmente, continuando a evitare il suo sguardo «Ma a volte l’uomo si aggrappa alla vendetta quando non ha più niente. Io volevo che Gerkhan avesse la vita distrutta. Volevo che desiderasse morire. Poi... poi ho visto quella donna e quelle bambine fissarmi negli occhi, terrorizzate, e non ho avuto il coraggio di sparare. Perché erano uguali a loro, Jager. Sparare a quelle piccole sarebbe stato come... come uccidere di nuovo le mie bambine. Loro non avrebbero voluto. E sparare a quella donna sarebbe stato come veder morire Isabelle, un’altra volta.».
Fece una pausa, prendendo un respiro, prima di continuare.
«Kate questo non lo capiva. Lei era assetata di sangue, aveva la mente offuscata dalla vendetta molto più di me. Sa, Jager, io ho capito che il suo collega aveva ragione. Quando ha sparato, quel giorno di sette anni fa, la mia anima è morta ma il mio cuore ha continuato a battere: questo non gli ho mai perdonato. Avrei preferito che avesse ucciso me, quel giorno. Ma Gerkhan aveva ragione... non è stata colpa sua. Io gli stavo sparando addosso e lui non poteva sapere che l’auto sarebbe esplosa e soprattutto che dentro di essa ci fosse la mia famiglia. Ma io ho impiegato più di sette anni per capirlo.».
Ben stava ad ascoltare, incredulo. Aveva notato molti segni di cedimento in quell’uomo da quando lo aveva conosciuto, ma non credeva che davvero Friedrich Keller si sarebbe aperto con lui a tal punto. Era un criminale temuto in tutta la Germania, lo era sempre stato, e stava conversando con lui. La nota beffarda permaneva nella sua voce, ma era più lieve, più stanca, travolta da una marea di altre emozioni che, tuttavia, quell’uomo ancora si sforzava di mantenere celate.
«Sa perché erano lì, Jager?» continuò «Sa perché le mie bambine e mia moglie erano vicine al luogo dello scambio?».
Ben non rispose, aspettò che il criminale continuasse. Semir gli aveva detto di non aver mai capito perché la famiglia di Keller si trovasse lì e nemmeno lui aveva avuto idea di quale potesse esserne la ragione.
«Perché sarebbe stata l’ultima volta. Perché avevo comprato quattro biglietti per l’America, saremmo partiti subito dopo lo scambio. Avrei cambiato vita, Jager. L’avrei fatto davvero. E Gerkhan me lo ha impedito... E io sono morto quel giorno.».
La voce di Keller si incrinò leggermente.
«Come sta Gerkhan?» chiese poi, in un sussurro.
«Si è svegliato oggi.» rispose Ben, cercando un contatto visivo con l’uomo «Spero... che si riprenderà.».
«E la moglie?».
L’ispettore sospirò, alzando appena le spalle «Non si è ancora svegliata. I medici non sono positivi.».
Keller annuì.
«Gli dovrà stare vicino, Jager. Io non ho avuto nessuno. Gli stia vicino...».
Ben annuì, anche se quella raccomandazione fatta da un uomo come Keller gli suonava bizzarra.
Senza nemmeno rendersene conto, gli rivolse un mezzo sorriso.
Poi, con un breve cenno di saluto, uscì dalla stanza, diretto verso casa.



N.d.A.
Qualcosa di positivo, forse, e un altro incontro con il nostro carnefice.
Ma, ma, ma...
Grazie a chi è arrivato fino a qui, di cuore!
Sophie

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Capitolo 26
*** Pezzi di carta ***


Dal capitolo 22:


"«E non ho finito...» aggiunse il dottore, con una certa timidezza nella voce.
«Che cos’altro è successo?» domandò il poliziotto, in un sussurro. Non sapeva più che cosa aspettarsi.
«Ecco... quando Semir era vigile, io gli ho fatto qualche controllo, prima di lasciarvi soli, ricordi?».
Il ragazzo annuì, invitando il medico a continuare.
«Gli ho chiesto di stringermi la mano e lo ha fatto. Poi però gli ho chiesto di spingere con i piedi verso i palmi delle mie mani...».
«Ti prego, Chris, non dirmi che...».
«Non ho sentito niente, Ben.» lo interruppe Schneider, a bassa voce «Nemmeno una forza leggerissima, niente. L’ho già detto al chirurgo ortopedico, ci lavoreremo insieme. Potrebbe essere stato un problema momentaneo, ma fino a quando Semir non si sveglierà non posso escludere nulla.»."


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GIORNO 28.

Quella mattina, Ben si svegliò decisamente più riposato.
Arrivò in ospedale molto presto, passò da Andrea per salutarla, sempre convinto che lei lo potesse sentire, e imboccò poi il lungo corridoio che lo avrebbe portato verso la stanza di Semir.
Davanti a lui, però, a qualche metro di distanza, il corridoio era ingombrato da un gruppo di persone che avanzavano velocemente.
Ben corrucciò la fronte, poi distinse la Kruger e il commissario dell’LKA e immediatamente si ricordò le parole che gli aveva detto Keller il giorno prima: sarebbe stato trasferito in carcere.
Raggiunse il gruppetto di corsa.
Keller, in piedi sulle sue gambe, era ammanettato e trattenuto da due agenti in divisa dell’LKA, mentre i due commissari guidavano il gruppo lungo il corridoio, verso l’ascensore.
Vedendolo avanzare, Friedrich si arrestò, obbligando tutto il gruppo a fermarsi.
«Jager, vediamo se almeno lei riesce a esaudire le preghiere di un povero condannato a rimanere in un buco a vita.» disse non appena l’ispettore fu abbastanza vicino, in modo che tutti potessero sentirlo.
«Buongiorno, Jager.» fece Kim, ignorando le parole dell’uomo.
Ben la salutò velocemente, soffermando però la sua attenzione sul criminale.
«Che cosa sta dicendo?».
«Ha chiesto di poter passare dalla stanza di Gerkhan prima di essere portato via.» rispose la Kruger al suo posto «Ovviamente non si può fare.».
«Jager...» provò a intromettersi ancora Keller, piantando le sue iridi grigie in quelle scure dell’ispettore.
«Non credo proprio che sia una buona idea.» ribadì il commissario, senza lasciare a Ben il tempo di esprimersi.
Quindi il gruppo ricominciò a camminare, ma Keller si fermò un’altra volta.
Nonostante avesse le manette ai polsi, riuscì a sporgersi in avanti e a tendere la mano destra verso Ben.
Il giovane poliziotto rimase per un attimo immobile, a guardarla interdetto.
«Insomma, Jager, almeno un saluto crede di potermelo concedere?» fece l’evaso.
E Ben, senza capire, gli strinse la mano.
Il gruppo, per la seconda volta, ricominciò a camminare.
Quando raggiunsero la stanza di Semir, Ben si fermò, mentre gli altri proseguivano verso l’uscita.
Sentì Keller sussurrare qualcosa, passando davanti a quella porta, e per un attimo un brivido gli percorse inspiegabilmente la schiena.
«Noi sopravviviamo, Gerkhan.».
Poi Keller sparì in fondo al corridoio, insieme ai poliziotti che lo scortavano.
Finalmente solo, Ben aprì il palmo della mano destra, contemplando interdetto il foglio piegato che l’uomo gli aveva lasciato scivolare tra le mani con la scusa del saluto.
Corrugò la fronte e decise di aprirlo, ma un suono ovattato di passi lo distolse dai suoi pensieri: vide Schneider percorrere il corridoio a grandi falcate, andando verso di lui.
In fretta, ripiegò il foglio in modo che occupasse ancora meno spazio e lo lasciò cadere nella tasca della giacca.

«Pronto?» esclamò Schneider, sorridente, non appena lo ebbe raggiunto.
Ben annuì ricambiando il sorriso, sperando che il medico non avesse notato il foglio, o avrebbe sicuramente fatto domande.
«Allora entriamo.» continuò Chris, abbassando con decisione la maniglia e facendo ingresso nella stanza, seguito dall’ispettore.

Il sole nitido di dicembre penetrava dalla piccola finestra quadrata ritagliata nel muro e la stanza era più illuminata rispetto alle precedenti mattine.
Semir, disteso, aveva già gli occhi aperti.
«Buongiorno, ispettore!» esordì il dottor Schneider, avvicinandosi al letto del paziente «Come si sente oggi?».
Semir si limitò ad annuire leggermente, ad indicare che stava meglio.
In realtà aveva difficoltà persino a respirare, ma immaginava che questo il medico lo avrebbe notato da sé.
Il dottore cominciò a girargli intorno, controllò i monitor dei macchinari che lo circondavano e iniziò i suoi scrupolosi controlli, mentre Ben se ne stava in disparte, lo sguardo perso nel vuoto.
Dopo aver controllato le varie reazioni, Chris scrisse qualcosa sulla cartella, come suo solito, poi annuì.
«Ben, ti aspetto qui fuori.» disse infine, con un sorriso, lasciando la stanza.
Allora Ben sembrò riscuotersi e finalmente si avvicinò all’amico, sedendosi sulla sedia al suo capezzale.
«Ehi socio... come stai?».
Semir girò la testa sul cuscino in modo da poterlo guardare negli occhi.
«Meglio...» mormorò «Ma... le... le...».
«No, Semir, ascolta.» lo interruppe Ben, immaginando dove il collega volesse andare a parare «Domani parliamo di tutto, va bene? Ora devi riposare ancora un po’... okay?».
Il turco annuì debolmente, senza insistere.
«Tu come stai?» chiese ancora il più giovane, sporgendosi verso di lui «Hai ancora tanto dolore?».
«Un... un po’...».
«Starai meglio, Semir, fidati. Ce la farai.».
«Ben, ti prego...» riprovò Semir, con un filo di voce «Dimmi... le bambine...».
Ben sospirò, lanciando un’occhiata all’amico e una all’elettrocardiografo.
«Semir, domani ti racconterò tutto, ma non ti devi preoccupare. Ti fidi di me, socio?».
L’altro annuì, piano.
«Ecco, fidati. Ora ti devi riposare, va bene? Torno tra un po’, Semir, non ti preoccupare.» aggiunse il ragazzo, alzandosi dalla sedia.
Rivolse all’amico un ultimo sorriso e uscì quasi di corsa dalla stanza, fuggendo da quegli occhi che chiedevano solo di sapere.

Semir guardò il collega uscire in fretta dalla stanza e chiudersi la porta alle spalle.
Dal vetro coperto solo in parte dalle tendine, spiò quello che accadeva all’esterno.
Il dottore, quello che lo aveva visitato poco prima, attendeva a braccia conserte Ben appena fuori dalla porta e non appena lo vide uscire accennò a un sorriso. Poi però cominciò a parlare.
Lo vide scuotere la testa e vide l’amico fare altrettanto, poi chiedergli qualcosa, a cui il dottore rispose con un nuovo movimento negativo del capo.
Semir vide quindi Ben sferrare un pugno contro il muro.
Sentì il cuore fermarsi per un attimo. Immaginava che cosa il dottore potesse avergli detto, ma averne la conferma gli posò un nuovo macigno sull’anima.
Chiuse gli occhi.
Era stanco, aveva mal di testa e un dolore continuo e lancinante all’altezza del bacino e alla schiena, nonostante gli antidolorifici che il medico gli aveva somministrato.
E poi, non sentiva più le gambe. Non sentiva i piedi, niente.
Riaprì gli occhi, constatando stancamente di essere ancora vivo.
Voleva sapere delle sue bambine, nessuno gli diceva niente e lui voleva solo sapere come stessero le sue bambine...

Ben, uscendo, trovò Schneider ad aspettarlo in corridoio a braccia conserte.
Lo accolse con un mezzo sorriso.
«Sei stato poco, Ben.».
«Sì, Chris, perché ho visto la tua espressione quando sei uscito. Che cosa mi devi dire? Che cosa hai notato dai controlli?».
Il medico scosse piano la testa «Le gambe, Ben. Farò un esame specifico e consulterò ancora il neurologo e l’ortopedico, ma il tuo collega ha perso sensibilità alle gambe. Credo sia a causa del trauma da schiacciamento, abbiamo rimesso insieme i pezzi del bacino, ma alcuni nervi sono rimasti inevitabilmente danneggiati a causa dell’altra lesione, quella vertebrale.».
«Mi stai dicendo che... che non potrà più camminare? Mai più?» domandò ancora Ben, con la voce leggermente tremante.
Chris scosse nuovamente il capo.
E il giovane ispettore non ci vide più dalla rabbia.
Prima che Schneider potesse fare qualunque cosa, aveva già scagliato un pugno violentissimo contro il muro, e pezzetti bianchi di vernice erano caduti a terra.
«Ben, calmati.» fece il medico, trascinandolo a forza lontano dal muro e facendolo sedere «Per favore, Ben.».
«Ma che cos’altro deve succedere, Chris?» quasi gridò il ragazzo, con gli occhi asciutti ma la disperazione nella voce «Che cos’altro gli deve succedere?».
«Ben, capisco come ti senti e sono d’accordo con te, tutto questo fa schifo. Il mondo, a volte, fa schifo. Ma tu ora ti devi calmare... fare così purtroppo non serve a niente.».
«Mi spieghi come faccio io, Chris?» continuò Ben, implacabile «Come faccio a dirgli tutto questo? Come farò a spiegargli che sua moglie sta morendo, che sua figlia è morta e che lui non camminerà mai più? Come faccio!»
Il medico stava per replicare qualcosa, ma una voce alle sue spalle lo precedette.
«Posso farlo io.» fece Margaret, con voce sottile «Stavo cercando te, Ben, e ho sentito tutto. Ti aiuterò io, se vuoi parlerò io con Semir... però ti devi calmare, non abbiamo bisogno che ti faccia del male anche tu.».
La ragazza aveva gli occhi spaventati, ma parlava con decisione.
«Posso farlo io.» ripeté, avvicinandosi all’ispettore, poggiandogli una mano sulla spalla, mentre Schneider annuiva lentamente.
«No...» mormorò Ben, guardandola negli occhi e ritrovando improvvisamente la calma «Ti ringrazio Maggie, davvero. Ma devo farlo io...».

 

N.d.A.
Ho saltato una settimana causa problemi con il computer, ma eccomi qui, e sempre a portare buone notizie devo dire...
Grazie sempre a chi continua a seguirmi e a presto!
Sophie

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Capitolo 27
*** Dolore ***


Dal capitolo precedente:

"«Ben, ti prego...» riprovò Semir, con un filo di voce «Dimmi... le bambine...».
Ben sospirò, lanciando un’occhiata all’amico e una all’elettrocardiografo.
«Semir, domani ti racconterò tutto, ma non ti devi preoccupare. Ti fidi di me, socio?».
L’altro annuì, piano.
«Ecco, fidati. Ora ti devi riposare, va bene? Torno tra un po’, Semir, non ti preoccupare.» aggiunse il ragazzo, alzandosi dalla sedia.
Rivolse all’amico un ultimo sorriso e uscì quasi di corsa dalla stanza, fuggendo da quegli occhi che chiedevano solo di sapere."

Dolore



GIORNO 29.

Come ormai ogni mattina, Ben arrivò in ospedale trafelato.
Margaret gli aveva detto che sarebbe andata con lui, ma l’ispettore non aveva voluto aspettare e si era precipitato fuori di casa, mentre la ragazza gli gridava alle spalle che lo avrebbe raggiunto il prima possibile.
Quando imboccò il corridoio deserto, vide la figura di Schneider allontanarsi a passo svelto nella direzione opposta e accelerò per fermarlo.
«Ben, santo Cielo, mi hai spaventato!» esclamò il medico, voltandosi, non appena l’altro lo ebbe raggiunto.
«Scusa.» fece Ben, ansimando per riprendersi dalla corsa che aveva fatto, senza nemmeno avere un motivo per cui correre.
«Sei arrivato di corsa? Va tutto bene?».
«Sì, volevo solo sapere se ci sono novità.».
Chris sorrise. Quel ragazzo gli faceva tenerezza. Da quando era accaduto ciò che era accaduto, non era trascorso un solo giorno senza che lui passasse dall’ospedale a chiedere come stesse l’amico o per andarlo a trovare. Pensò che il suo paziente fosse decisamente fortunato ad avere un amico come lui.
«In realtà sì, il tuo amico sta molto meglio. Reagisce più prontamente agli stimoli, parla senza troppa fatica. Ha dolore ovunque, è normale, ma per il resto non mi sarei mai aspettato una ripresa così rapida.».
Ben sospirò e finalmente un sorriso si dipinse anche sul suo viso.
«Allora ogni tanto qualcosa funziona.» commentò, ringraziando il medico con lo sguardo.
«Ora nella stanza ci sono la bambina e la nonna.» lo informò Schneider e gli occhi del poliziotto si illuminarono.
«Davvero? Ma è meraviglioso! Sono così contento che Aida finalmente veda suo papà... e farà bene anche a lui, sicuramente.».
Seguì un attimo di silenzio, poi Ben si rabbuiò di nuovo e il dottore se ne accorse immediatamente.
«Che cosa c’è, Ben?» domandò, in apprensione.
«Chris, io oggi dovrò spiegare a Semir come stanno le cose, non credo che accetterà ancora il mio silenzio.».
Il medico annuì «Fallo, Ben. Capisco che tu non possa tenerlo all’oscuro di quello che è successo. Solo, assicurati prima che lo possa sopportare. Se vedi che va in tachicardia o manifesta qualsiasi anomalia fisica, per favore, fermati e chiamami. Va bene?».
«Sì... sì, Chris, grazie. A dopo.» lo salutò Ben.
Schneider gli sorrise e si allontanò, dirigendosi verso la sala operatoria.

Quando la porta si era aperta e Aida aveva fatto il suo ingresso sorridente nella stanza, a Semir era sembrato che l’atmosfera grigia dell’ospedale diventasse immediatamente luminosa e serena.
Aida, la sua bambina. Era davanti a lui e stava bene.
«Papà!» esclamò lei, catapultandosi verso il letto del padre a braccia aperte.
Poi, però, vedendo tutti i macchinari che lo circondavano, si fermò improvvisamente.
«Papà, ma se ti abbraccio ti faccio male?».
Semir sorrise.
«Cucciolo... vieni qui...».
Aida si avvicinò piano, sporgendosi appena oltre il bordo del letto per dare almeno un bacio sulla guancia al papà.
Lui avrebbe voluto abbracciarla, prenderla e stringerla forte, ma non poté fare nulla di tutto ciò. Era disteso, riusciva a muovere giusto la testa e le mani, anche se ogni movimento era un dolore continuo.
«Come stai, cucciolo?» mormorò, con voce bassissima.
«Io bene papi, ma tu? Hai dormito così tanto... ora come stai?».
«Bene... meglio, non ti preoccupare...».
Solo in quel momento Semir si accorse che nella stanza c’era qualcun altro.
Helen, la mamma di Andrea. Doveva aver accompagnato la nipotina e ora assisteva alla scena un po’ in disparte, addossata al muro, senza parlare.
Sembrava invecchiata di dieci anni.
E mentre Aida gli parlava, imperterrita, di che cosa aveva fatto aspettando che lui si svegliasse, l’ispettore non poté fare a meno di continuare a fissare quegli occhi tristi, che lo guardavano senza sapere che cosa dire. Quegli occhi chiari e sbiaditi manifestavano dolore, troppo dolore. E il sorriso debole che la signora aveva dipinto sul viso era finto, terribilmente tirato, come se ormai da giorni lei si fosse abituata a mostrarlo pur senza avere niente per cui sorridere.
«Papi... papà, ma mi stai ascoltando?».
La voce squillante di Aida lo riscosse dai suoi pensieri e Semir tornò a guardare la figlia, distogliendo lo sguardo dalla suocera, che ancora non aveva proferito parola.
«Sì... Sì, Aida, ti ascolto.».
La bambina mostrò una smorfia indecisa. Il taglio sulla sua fronte era ormai guarito, ma ancora era coperto da un cerotto colorato.
Semir non sapeva come avesse fatto a non farsi del male con il crollo di quell’edificio, ma vederla sorridere e chiacchierare a macchinetta lo aveva decisamente sollevato.
Però era sola. Si trattenne a fatica dal chiederle dove fosse sua sorella. Ma doveva sapere...
«Aida, ora dovremmo lasciar riposare il tuo papà, sai?» intervenne Helen, parlando per la prima volta da quando era entrata nella stanza.
La bambina sbuffò.
«Però posso andare a salutare la mamma?».
Semir perse un battito. Aveva visto Kate sparare ad Andrea. Aveva visto quel lago di sangue. Era stato convinto che sua moglie fosse morta. E adesso...
«A... Andrea sta... sta...» balbettò, con gli occhi spalancati.
In risposta, da parte della suocera, ottenne soltanto un profondo sospiro e un cenno impercettibile del capo, che lo mandarono ancora più in confusione.
«Helen... per favore...» mormorò Semir, guardandola negli occhi, sperando che almeno lei gli spiegasse qualcosa.
Ma l’anziana signora scosse solo il capo e non rispose.
«Riposati, Semir.» disse poi, piano, uscendo dalla stanza.
La bambina lo salutò con un sorriso, poi seguì la nonna oltre la soglia della camera.

Ben entrò cautamente, quasi temesse di disturbare l’amico che, invece, era perfettamente vigile e lo stava aspettando.
«Ehi socio.» esordì, occupando la sedia accanto al letto su cui l’altro era disteso «Come stai oggi?».
«Meglio...».
«Hai visto Aida? Era contentissima di poterti venire a trovare, finalmente.» continuò il più giovane.
Ma Semir non lo ascoltava, seguiva il filo dei propri pensieri, senza occuparsi di che cosa l’amico stesse dicendo.
«Ben... Andrea... io pensavo fosse... fosse morta...».
Ben sospirò. Aveva sperato per un attimo di poter evitare quel discorso, di poterlo rimandare ancora almeno per un giorno, ma in cuor suo sapeva bene che il collega avrebbe voluto subito sapere tutto.
«Semir... tu hai subìto tanti interventi e l’ultima volta che ti sei svegliato e abbiamo parlato poi ti sei sentito male... hai rischiato di non risvegliarti più.».
«Ben, ti prego... io devo... devo sapere...».
Il ragazzo sospirò ancora.
«Semir, io...».
«Per favore.» lo interruppe Semir «Per favore, voglio... voglio sapere tutto. Tutto. Posso sopportarlo... davvero… sono pronto.».
Ben tacque per un istante lunghissimo.
Pronunciare quelle parole avrebbe fatto male a lui, nemmeno poteva immaginare quindi che cosa avrebbe provato l’amico ascoltandole.
Eppure, doveva dirglielo. Doveva dirgli tutto, per quanto fosse orribile, per quanto facesse male... lui aveva il diritto di sapere ogni cosa.
Prese un bel respiro, ben conscio del fatto che non esistessero le parole giuste.
Poi parlò, e sperò che quella conversazione finisse in fretta, perché l’avrebbe certamente detestata.
«Semir... allora, Andrea non è morta, ma è arrivata in ospedale che aveva perso davvero molto sangue ed era gravemente debilitata. È stata operata, ma poi non si è più svegliata.».
Semir annuì, sforzandosi con tutto se stesso di mantenere la calma «Quanto... quanto tempo è passato?».
«Tredici giorni... è in coma da tredici giorni.» rispose Ben, provando a mantenere un tono calmo e convincente, nonostante ciò che aveva da dire non fosse assolutamente tranquillizzante «I medici non sono positivi. Loro dicono che... pensavano che il suo cuore avrebbe smesso di battere già il giorno dell’intervento, pensavano che non avrebbe superato la notte. Continuano a ripetere che è solo questione di giorni. Però lei è ancora viva, Semir, e combatte. Quindi magari dovremmo sperare che...».
«Vai avanti, Ben.» lo interruppe il turco.
Ben si morse il labbro, lanciando un’occhiata fugace ai monitor posizionati attorno al letto dell’amico.
«Lily è... Lily è...».
Si bloccò.
Non riusciva a continuare.
L’elettrocardiografo accelerò appena il suo ritmo e Ben lanciò uno sguardo terrorizzato verso il collega, che però continuava a fissarlo, in attesa.
«Ben, ti prego... vai avanti.».
«Lily è rimasta... lei è rimasta schiacciata dalle pietre... cioè, quando i soccorsi l’hanno tirata fuori lei era... era...».
Ben si bloccò di nuovo, senza trovare la forza di andare avanti.
Vide Semir stringere le mani a pugno, sforzarsi di continuare a respirare in modo regolare, nonostante il suo battito cardiaco stesse accelerando inevitabilmente.
«Ben... dillo...».
Il più giovane annuì per farsi forza da solo.
Prese un respiro.
Attese ancora qualche attimo.
«Non ce l’ha fatta, Semir. Lei è morta prima che i soccorsi potessero fare qualsiasi cosa e... Semir, mi dispiace così tanto...».
Il silenzio si fece spesso, ingombrante.
Ma se Ben non era riuscito ad evitare che i suoi occhi diventassero lucidi, quelli di Semir erano ancora perfettamente asciutti.
L’elettrocardiografo decelerò, i battiti si regolarizzarono, nonostante Ben non comprendesse come ciò fosse possibile.
Semir continuò a stringere i pugni, senza dire niente.
Senza reagire.
Poi, rilassò appena le mani e puntò gli occhi negli occhi dell’amico.
«Vai avanti, Ben.».
Il ragazzo scosse il capo, indicando di non avere niente da aggiungere.
«Ben, non... non sono stupido... non sento... non sento più le gambe...» fece Semir, continuando a guardarlo.
Ben annuì. Avrebbe preferito comunicargli almeno quella notizia il giorno successivo. Ma sapeva che ormai non avrebbe potuto scappare.
«È a causa della colonna sotto cui eri bloccato quando ti abbiamo trovato. Ha causato un trauma grave e il medico ha detto che... che probabilmente non potrai più camminare.».
L’amico annuì piano, ma rimase impassibile.
I suoi occhi erano ancora asciutti.
Il suo petto si alzava e si abbassava a un ritmo forzatamente normale.
«Socio...» disse Ben, dopo un altro attimo interminabile di silenzio «Ascoltami, io vorrei che tu...».
«Ben, per favore.» lo interruppe Semir, riuscendo a evitare ancora per qualche breve istante che la voce gli si incrinasse «Lasciami... lasciami solo...».
«Semir, io credo che...».
«Ben, ti prego. Vai... lasciami solo.».
Il ragazzo sospirò piano.
Poi, senza aggiungere altro, uscì dalla stanza, richiudendosi piano la porta alle spalle.

Quando fu uscito, Ben rimase in piedi di fronte al vetro divisorio, spiando tra le pieghe della tendina che lo ricopriva le reazioni di Semir.
Lo vide stringere il lenzuolo tra le mani, stringere i pugni in modo talmente forte da far diventare le nocche completamente bianche.
Lo vide chiudere gli occhi e poi voltarsi dalla parte opposta, verso il muro.
Così Ben non poteva guardarlo negli occhi. Ma vedeva ogni singolo muscolo del suo corpo in tensione.
Vedeva quei pugni chiusi che si stringevano ancora e ancora.
Poi lo vide sbattere i pugni sul letto con violenza, una, due, tre volte.
E poi aprirli, finalmente, rilassando le mani, rimanendo immobile, con il torace che sussultava appena.
Solo dopo qualche istante si accorse che stava tremando.
Sussultava e tremava, ma continuava a rimanere girato e il collega dai vetri non poteva scorgergli il viso.
Con le lacrime agli occhi, Ben si avvicinò nuovamente alla porta, pronto ad abbassare la maniglia e rientrare nella stanza, ma qualcuno lo fermò.
Un tocco delicato sulla sua spalla lo costrinse a voltarsi e il giovane ispettore si trovò davanti agli occhi verdi di Margaret, che lo fissavano preoccupati.
«Devo tornare da lui... devo stargli vicino.» balbettò Ben, allontanando nonostante ciò la mano dalla maniglia.
Maggie scosse il capo, lentamente.
«Lascialo solo... da domani gli starai vicino, ma ora lascialo solo, Ben.».
Ben la guardò negli occhi.
Annuì con un sospiro.
E poi l’abbracciò.
Stettero così, abbracciati in quel corridoio, per un tempo infinito.

 

N.d.A.
Per me è stato il capitolo più difficile da scrivere, spero risulti comunque leggibile.
Purtroppo il mio computer mi ha abbandonato, ho salvato la storia, per fortuna, ma non i banner che avevo preparato... persi, tutti. Mi dispiace, tenevo anche a quelli, facevano in qualche modo parte della storia, ma purtroppo in questo periodo non ho proprio il tempo per ricrearli, quindi da ora in poi niente più immagini, a meno che il mio computer non esca dal letargo (eventualità piuttosto improbabile).
Grazie a chi continua a seguirmi, a presto!
Sophie

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Capitolo 28
*** Mai sola ***


Dal capitolo precedente:


"«Devo tornare da lui... devo stargli vicino.» balbettò Ben, allontanando nonostante ciò la mano dalla maniglia.

Maggie scosse il capo, lentamente.
«Lascialo solo... da domani gli starai vicino, ma ora lascialo solo, Ben.».
Ben la guardò negli occhi.
Annuì con un sospiro."


Mai sola

GIORNO 30.

Aida Gerkhan sbuffò rumorosamente.
La casa della nonna era vuota, terribilmente vuota.
Dopo aver fatto colazione, andò in camera a vestirsi, ma poi si fermò udendo qualcuno singhiozzare.
Cautamente, aprì la porta, avvicinandosi alla soglia della cucina e notando la nonna seduta al tavolo, con la testa stretta tra le mani e le guance rigate dalle lacrime.
Sospirò, piano, senza farsi vedere. Quindi tornò in camera, finì di vestirsi e estrasse dall’armadio lo zainetto che usava normalmente per la scuola.
Lo riempì con l’ombrellino, la giacca che si era tolta entrando la sera prima, e il suo pupazzo preferito, quello che le aveva regalato zio Ben e che aveva sempre dormito con lei.
Chiuse lo zaino, attraversò il salotto in punta di piedi stando bene attenta che la nonna non si accorgesse di niente e abbassò piano la maniglia della porta di casa.
Poi uscì chiudendosi la porta alle spalle, senza guardarsi indietro.

La Kruger si strinse nelle spalle e incrociò le mani sopra al ripiano della propria scrivania, guardando il suo ispettore con preoccupazione.
«Allora, novità dall’ospedale?».
Ben, seduto di fronte a lei, sospirò scuotendo il capo.
«Jager, mi dica come sta Gerkhan. So che si è svegliato tre giorni fa, mi è stato detto che non poteva ricevere visite e quindi le ho chiesto di tenermi aggiornata, ma vedo che non...».
«Commissario, come vuole che stia?» la interruppe il poliziotto, bruscamente «Ieri gli ho dovuto dire tutto... gli ho dovuto dire di Andrea, di sua figlia, delle gambe...».
La donna abbassò lo sguardo.
«Come l’ha presa?» gli chiese, dopo qualche attimo di silenzio.
«Ha voluto che lo lasciassi solo.» ricordò Ben, con un sospiro «È troppo da sopportare, capo. Io non so davvero se ce la farà.».
La Kruger annuì «Io so che Semir ce la farà. E anche lei dovrebbe crederci. E poi, Jager... dovrebbe tornare un po’ a lavorare, ormai sono passate due settimane da quando li abbiamo trovati e...».
«Certo, e magari dovrei anche trovarmi un nuovo collega, non è così?» sbottò l’ispettore, alzando la voce.
«Non ho detto questo, Jager.» ribadì Kim, con un sospiro «Cerchi di capire, lo sto dicendo per lei.».
Ben aprì la bocca per ribattere, ma venne interrotto da un leggero picchiettio sul vetro alle sue spalle: qualcuno stava bussando alla porta dell’ufficio.

«Principessa, che cosa ci fai qui?» fece Ben, sorpreso, aprendo la porta a vetri e trovandosi davanti la piccola Gerkhan.
Aida sorrise e alzò le spalle «Cercavo te, zio Ben.».
Il ragazzo la prese in braccio, mentre la Kruger, sempre seduta dietro alla propria scrivania, assisteva divertita alla scena.
«E sei venuta fino a qui da sola? Dov’è la nonna?» domandò il poliziotto, portandola dentro all’ufficio e facendola sedere sull’altra sedia di fronte alla scrivania.
La bambina si sistemò sul cuscino, lanciò una breve occhiata intimorita alla Kruger e poi tornò a rivolgersi a Ben, alzando gli occhi al cielo.
«La nonna è a casa e piange.» sentenziò.
Il poliziotto corrugò la fronte, ma Kim si allertò subito.
«Tua nonna non sa che sei qua?».
Aida scosse il capo, risoluta.
«Jager, la chiami subito, sarà preoccupata.».
Ben fece come il commissario gli aveva ordinato. Fortunatamente, la bambina conosceva a memoria il numero di telefono della nonna e lui riuscì a contattare Helen senza problemi.
L’anziana signora si era appena accorta della scomparsa della nipote ed era già stata presa dal panico, ma Ben la tranquillizzò e le disse che l’avrebbe tenuta lui per un po’.
Helen acconsentì, sollevata. Sapeva di potersi fidare di quel giovane poliziotto ed era contenta che la sua bambina fosse al sicuro e soprattutto con qualcuno che, in quel momento, sarebbe sicuramente stato più in grado di badare alla piccola rispetto a lei.
Terminata la telefonata, Ben tornò a rivolgersi ad Aida.
«Allora, principessa? Vuoi che ti porti a fare un giro?».
La bambina scosse il capo, seria.
«Mi porti da papà?».
L’ispettore le sorrise «Certo che ti porto da papà, andiamo. Capo, non ha bisogno di me?» aggiunse, rivolto alla Kruger.
Lei scosse il capo e li salutò con un sorriso, mentre Ben e Aida si allontanavano mano nella mano.

Ben guidò fino all’ospedale con estrema calma e dal momento che in macchina la bambina sembrava non avere intenzione di proferir parola, fu lui a parlare per primo.
«Aida, come mai sei scappata da casa della nonna?» domandò, con il tono più accomodante possibile.
«La nonna piangeva, di nuovo.» rispose lei, guardando fuori dal finestrino «A casa la nonna piange sempre e io non ne potevo più.».
Ben sospirò, svoltando a destra e immettendosi nel parcheggio del grosso edificio.
«La nonna sarà molto stanca, Aida, e triste...».
«Sì, ma anche io sono stanca. E mi manca Lily.» disse la bambina, tutto d’un fiato.
Ben finì la manovra di parcheggio, poi si voltò a guardarla.
Lei aveva gli occhi asciutti e sosteneva il suo sguardo, ma era ovvio che soffrisse. Era solo una bambina e si trovava in una situazione che lui non avrebbe mai e poi mai augurato a nessuno.
«E poi mi mancano anche mamma e papà... e la mamma non si sveglia.» aggiunse Aida, in un sussurro.
«Lo so, principessa, capisco come ti senti. Ma sono sicuro che le cose miglioreranno, e tu devi essere forte.».
La bambina annuì, poco convinta.
«Comunque ora andiamo da papà?» fece poi, aprendo lo sportello per scendere dalla Mercedes parcheggiata.

Ben e Aida entrarono nella stanza, trovando Semir disteso sul letto nella stessa identica posizione in cui Ben lo aveva lasciato il giorno prima.
Aveva gli occhi chiusi, ma li aprì non appena sentì la maniglia abbassarsi.
Quando vide sua figlia correre verso di lui, accennò a un sorriso.
«Cucciolo... ciao.».
«Come stai papi?» domandò la bambina, subito dopo avergli dato un bacio sulla guancia.
«Bene cucciolo... e tu?».
«Bene.» esclamò lei, di nuovo improvvisamente allegra «Zio Ben mi ha portato qui appena gliel’ho chiesto.».
Semir lanciò un occhiata al collega, rimasto fermo poco distante dal letto.
«Grazie Ben.».
«Dovere, socio.» rispose il più giovane, con un sorriso.
Poi iniziò a fingersi interessato ai vari apparecchi che monitoravano le funzioni vitali dell’amico, lasciando così Aida e il padre alla loro conversazione.
Aida gli raccontò di cosa avesse sognato quella notte, del fatto che il giorno prima con la nonna aveva cucinato una torta buonissima e di avere un po’ di disegni da portare a fargli vedere.
Parlò a ruota libera per quasi un quarto d’ora, poi improvvisamente si fermò e nella stanza calò il silenzio.
«Perché ti sei fermata, cucciolo?» domandò Semir, dopo qualche secondo.
La bambina alzò le spalle, con un’espressione buffa dipinta sul viso «Mi sa che ho parlato un po’ troppo velocemente, papi.».
Poi entrambi sorrisero e anche a Ben, vedendoli, venne da sorridere.
Poteva solo immaginare quanto stesse male Semir, e vederlo sorridere nonostante tutto gli faceva immensamente piacere. La potenza di quella bambina era incredibile.
«Ora vorrei andare dalla mamma, posso zio Ben?».
Il giovane ispettore la guardò con tenerezza «Ma certo che puoi. Sai dov’è, in fondo al corridoio, se inizi ad andare io ti raggiungo tra cinque minuti e prima dico una cosa al tuo papà.».
«Va bene. Ciao papi, vado dalla mamma.» disse allora lei, rivolta al padre.
Semir annuì leggermente «Aida... dai un bacio alla mamma da parte mia, va bene?».
La bambina annuì e uscì sorridente dalla stanza.
Percorse con decisione il corridoio ed entrò nella stanza della mamma facendo bene attenzione a non far rumore.
La prima cosa che fece, fu avvicinarsi al letto e darle un bacio.
«Ciao mamma, questo è da parte di papà.» le disse, come se Andrea potesse sentirla e risponderle.
Poi, cominciò a parlarle.

Quando furono rimasti soli, Ben prese posto sulla sedia accanto al letto su cui era disteso l’amico, a cui il sorriso era scomparso dal volto nell’esatto istante in cui la figlia aveva messo piede fuori dalla stanza.
«Ehi socio... sai che la tua bambina è un’eroina?» esordì il giovane ispettore «È scappata di casa stamattina, questa furbetta.».
Semir strinse gli occhi e corrugò la fronte «Scappata di casa? Come... come scappata?».
«Eh sì, voleva venire a trovarmi ed è venuta da sola fino in commissariato. È stata bravissima. Poi ho avvertito io la mamma di Andrea, non ti preoccupare.».
«Si sarà spaventata...».
«Sì socio, ma sinceramente non me la sono sentita di rimproverare Aida. È fin troppo brava...».
Nessuno dei due parlò per un po’, poi fu di nuovo Ben a riprendere in mano la conversazione.
«Come stai, socio?».
«Meglio...».
«Non intendevo fisicamente.».
Semir lo guardò senza rispondere.
«Socio, forse parlare ti aiuterebbe.».
«Che cosa vuoi sentirti dire, Ben?».
Il ragazzo sospirò «Niente, Semir, vorrei solo poterti aiutare.».
«Allora... pensa ad Aida, Ben.» rispose l’altro, in un sussurro «Pensa ad Aida perché... non voglio che si senta sola e io... io non posso aiutarla. Quindi pensa ad Aida...».
Ben annuì, piano.
«Non ti preoccupare, socio. La tua principessa non sarà mai sola.».

N.d.A.
Piccolo e di passaggio... se non riuscissi ad aggiornare prima, buone feste a tutti!
Sophie

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Capitolo 29
*** Incubi ***


Dal capitolo precedente:

"«Che cosa vuoi sentirti dire, Ben?».
Il ragazzo sospirò «Niente, Semir, vorrei solo poterti aiutare.».
«Allora... pensa ad Aida, Ben.» rispose l’altro, in un sussurro «Pensa ad Aida perché... non voglio che si senta sola e io... io non posso aiutarla. Quindi pensa ad Aida...».
Ben annuì, piano.
«Non ti preoccupare, socio. La tua principessa non sarà mai sola.»."

Incubi

GIORNO 31. 

Sopravviviamo. Noi sopravviviamo.
Una risata amara, un pianto femminile in sottofondo.
Una bambina, era una bambina che piangeva.
E poi quegli occhi grigi, sempre più vicini, sempre più assetati di vendetta.
Noi sopravviviamo.
Sangue. C’era sangue sul pavimento polveroso, c’era sangue sulle pareti, sangue su quei corpi distesi, sangue su di lei...
E poi pietre, una pioggia di pietre che cadevano dall’alto.
Il pianto continuava, sempre più forte, ma la voce tagliente non voleva saperne di smettere di parlare. Quegli occhi grigi non smettevano di avvicinarsi.
Sopravviviamo.
Il pianto si trasformava in grida, di dolore, di paura.
Grida terribili.
E lacrime.

Semir spalancò le palpebre all’improvviso, gridando.
Due mani salde lo tenevano immobile per le spalle.
«Ispettore, ispettore si calmi!».
Ma lui continuò a gridare, il terrore negli occhi, provando a divincolarsi da quella stretta nonostante il dolore a ogni parte del corpo. Sudava freddo.
«Ispettore, la prego, si calmi. Era solo un incubo... solo un brutto sogno.».
Lentamente, la visione gli si fece nitida.
Semir si zittì e smise di muoversi, provando a far tornare il proprio respiro regolare.
Chris Schneider allentò la presa su di lui e lo guardò con preoccupazione.
«Era solo un incubo.» ripeté, mentre lasciava le sue spalle e si sistemava gli occhiali sul naso «Mi sente?».
Il paziente annuì, muovendo appena il capo, il respiro ancora affannoso.
«Bene, okay, ora provi a calmarsi, per favore...».
Semir chiuse gli occhi, ma li riaprì immediatamente per evitare che le immagini del sogno tornassero prepotenti alla sua mente.
«Allora, come si sente stamattina?» domandò il medico, mentre selezionava qualcosa sui monitor accanto al letto.
«Vorrei... io vorrei vedere mia moglie...» sussurrò Semir, cercando con il dottore un contatto visivo.
L’uomo lo scrutò da dietro le lenti sottili, poi sospirò leggermente.
«Non può alzarsi dal letto ispettore, mi dispiace.».
«La prego... io vorrei...».
Schneider lo interruppe ancora prima che lui potesse finire la frase «Deve rimanere completamente immobile per ora.» spiegò, assertivo «Tra qualche giorno ne riparleremo, va bene?».
Semir scosse il capo, con l’ansia dipinta sul viso «E se... se tra qualche giorno lei sarà... se morirà?».
Il medico annuì, comprensivo «Ispettore, comprendo la sua preoccupazione, ma mi creda, ora non è fattibile che lei metta piede fuori da questo letto. Sua moglie ha dimostrato una forza non comune, è ancora viva nonostante ogni medico che abbia preso parte al suo caso avesse scommesso il contrario. Per cui ora mi dia retta, si riposi...».
Il poliziotto spostò lo sguardo da un’altra parte, non replicò.
Sapeva che non sarebbe servito e sapeva perfettamente che da solo non sarebbe mai riuscito a muoversi.
Guardò per un po’ l’uomo in camice bianco che si accingeva a fare altri controlli su di lui, poi si sforzò ancora di parlare.
«Senta... non potrò camminare mai più?».
Chris Schneider esitò parecchi secondi prima di rispondere.
«Ispettore...».
«Vorrei la verità.».
Il medico annuì, pur facendo una certa fatica a guardare il suo paziente negli occhi. Dopo tanti anni, ancora non si era abituato a comunicare determinate notizie. Non ci si sarebbe abituato mai.
«Oltre alla frattura del bacino, lei ha subìto una lesione a carico delle vertebre lombari, a causa di quella colonna sotto la quale è rimasto schiacciato... il chirurgo ortopedico ha dovuto prima occuparsi del bacino perché lei stava andando in shock emorragico e altrimenti sarebbe morto, ma quando ha potuto occuparsi della lesione vertebrale...».
«Dottore...».
«La lesione ha portato alla perdita della funzionalità motoria delle gambe e del bacino, ispettore. Nel momento in cui era chiaro che fossero coinvolti anche i nervi sono subentrato io, ho provato a intervenire, ma purtroppo... nemmeno io ero sicuro di quale sarebbe stato l’esito dell’intervento prima che lei si svegliasse. Ora sappiamo che la lesione è incompleta, quindi recupererà la sensibilità, ma non la funzionalità motoria, appunto.».
«Quindi non... non camminerò mai più?».
Il dottor Schneider scosse il capo, senza avere il coraggio di aggiungere altro.
Semir spostò lo sguardo sulla parete spoglia, allontanandolo da quello del medico.
Avrebbe voluto gridare finché avesse avuto fiato.
Avrebbe voluto solo gridare.
E poi chiudere gli occhi e, come per magia, non svegliarsi più.

Quando Schneider uscì dalla stanza del suo paziente, si sentì improvvisamente esausto ed ebbe bisogno di sedersi. Si lasciò cadere su una sedia nel corridoio, sentendosi come se tutte le forze lo avessero abbandonato da un momento all’altro.
Quell’uomo gli ricordava tanto se stesso, solo qualche anno prima.
Sospirò, passandosi una mano sugli occhi stanchi e togliendosi gli occhiali, per poi pulirne maniacalmente le lenti con un lembo del camice.
Vide Lisa, la specializzanda, percorrere il corridoio verso di lui, e si alzò per aggiornarla sulle condizioni del paziente.
Andandole incontro urtò contro un uomo, di cui notò soltanto i ricci capelli color carota.

Margaret si rannicchiò di più sul divano, tirando a sé le ginocchia, senza smettere di scrivere.
Di tanto in tanto si fermava, assorta, davanti alla pagina virtuale aperta sullo schermo del piccolo portatile, rimaneva immobile a pensare e poi riprendeva a battere veloce le dita sulla tastiera.
Trasalì non appena sentì il tocco dietro di sé, ma si rilassò immediatamente non appena Ben cominciò a massaggiarle delicatamente le spalle, rimanendo in piedi dietro alla spalliera del divano.
«Scrivi già?» domandò, con uno sbadiglio.
Maggie lanciò un’occhiata all’orologio e sorrise.
Era la prima volta da quando Semir era finito in ospedale, che il ragazzo si concedeva qualche ora di sonno in più. Erano le nove del mattino.
«Diciamo che ho parecchia ispirazione.» rispose lei, salvando e chiudendo il foglio di Word su cui stava lavorando «E ho anche stabilito quale sarà il finale del romanzo. Però non puoi leggere fino a che non ho finito.» ribadì, voltandosi verso di lui e lasciandogli un leggero bacio sulle labbra.
Ben sorrise. Solo con lei riusciva a sorridere.
«Dovrei prepararmi e andare in ospedale da Semir.» disse, rabbuiandosi immediatamente.
La psicologa annuì, alzandosi dal divano e avvicinandosi al piano della cucina per preparare il caffè.
«Prendiamo un caffè prima, ti va?».
«Certo.» rispose il poliziotto, togliendo da una delle sedie della cucina la giacca che aveva indossato nei giorni precedenti e che aveva lasciato lì la sera prima.
La appese nell’ingresso e poi si diresse nuovamente in cucina, ma quando rientrò nella stanza trovò Margaret ferma sulla soglia, con un biglietto piegato in quattro tra le mani.
«Ti è caduto dalla tasca della giacca.» disse lei, porgendoglielo e domandandogli tacitamente di che cosa si trattasse.
Ben sospirò, rabbuiandosi ancora di più e sedendosi al tavolo, rigirandosi il biglietto tra le mani senza accennare ad aprirlo.
«Niente... non è niente.» mormorò poi, posandolo al centro del ripiano.
Maggie lo guardò corrucciando la fronte, poi versò il caffè fumante e gliene porse una tazza.
«Niente sarebbe?».
Il giovane poliziotto esitò qualche attimo ancora.
«Me lo ha dato Keller, tre giorni fa, prima che lo riportassero in carcere.» confessò infine.
«E che c’è scritto?» chiese subito la ragazza, incuriosita.
Ma rimase stupita davanti all’occhiata eloquente che le lanciò Ben.
«Non l’hai letto?» intuì «Perché?».
L’ispettore scrollò le spalle «Non potremmo... aspettare un po’ prima di leggerlo?».
Lei annuì, poco convinta, sorseggiando piano la propria bevanda calda.
«Sai Maggie...» aggiunse Ben, in un sussurro «Non voglio leggerlo adesso perché... io non ho idea di che cosa quell’uomo possa avervi scritto, ma potrei aspettarmi di tutto da uno come Friedrich Keller. E io... io ora non voglio correre il rischio di poter provare pietà per lui. Non lo sopporterei.».


Il ragazzo dai capelli rossi entrò cautamente nella stanza, guardandosi intorno come se mostri inferociti potessero saltare fuori e aggredirlo da un momento all’altro.
Semir, spostando lo sguardo nella sua direzione, si stupì. Era la prima visita che riceveva al di fuori di quelle di Ben e di Aida. E non seppe neanche se esserne felice o meno.
«Hartmut?» mormorò, stringendo gli occhi. La testa gli martellava.
Il tecnico della scientifica sorrise, andando a prendere posto sulla sedia accanto al letto.
«Ehi Semir... spero di non disturbarti, volevo solo farti un salutino. Sai, entrando in ospedale mi sono imbattuto in un paio di medici che trasportavano un nuovo ecografo... Sai come funziona? La frequenza degli ultrasuoni utilizzati dovrebbe sempre essere maggiore di 20 KHz, ma è scelta tenendo in considerazione che frequenze maggiori hanno maggiore potere risolutivo dell'immagine, ma penetrano meno in profondità nel soggetto. Le onde sono generate da un cristallo piezoelettrico inserito in una sonda che permette agli ultrasuoni di penetrare nel segmento anatomico esaminato e poi anche di raccogliere il segnale di ritorno, che poi...».
«Hartmut...» lo interruppe Semir, con un filo di voce «Perché... perché mi stai spiegando come funziona un ecografo?».
Hartmut si bloccò, rimanendo per qualche istante in silenzio, a pensare.
«In realtà... non lo so. È che, sai, mi mancavano un po’ le tue interruzioni.».
L’ispettore sorrise: quel ragazzo era un vero disastro. Un genio, ma pur sempre un disastro.
«La verità, Semir, è che io non sono bravo con le parole se non si tratta di parole tecniche.» continuò Hartmut, spostando lo sguardo sul pavimento sotto di sé «Però volevo dirti che ci sono, se hai bisogno. Voglio dire, non sarò bravo a parlare ma posso sempre ascoltare.».
«Grazie, Einstein.».
«Stai male, Semir?» chiese il tecnico, vedendo che l’altro stringeva gli occhi e faceva fatica a tenerli aperti.
«Ho solo... mal di testa.».
«Okay, ti lascio riposare. Passerò nei prossimi giorni. Mi raccomando, sbrigati a guarire...».
Semir annuì, accompagnando con lo sguardo Hartmut mentre usciva dalla stanza.
Poi, finalmente, chiuse gli occhi.
Aveva bisogno di dormire, anche se aveva una paura terribile che gli incubi lo assalissero ancora.

 

N.d.A.
Sarà l’aria natalizia a farmi aggiornare così velocemente, con una storia che di natalizio ha ben poco?
Sono capitoli lenti, lo so, spero non li troviate noiosi, ma non volevo tralasciare nulla del “dopo”...
Un abbraccio e ufficialmente buon Natale!
Sophie

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Capitolo 30
*** Reazioni ***


Dal capitolo 9:


"Ben andò a sedersi sul divano accanto a Jenny che, sola, singhiozzava.
«Ehi...» fece il ragazzo, poggiandole una mano sulla spalla.
«Ben, li hanno presi... io ero con Andrea, le bambine dormivano... ero armata, ero vigile, io ero attenta, lo giuro, ma mi hanno colpito in testa e io... io...».
«Tranquilla, Jenny, stai tranquilla. Non è stata colpa tua, non avresti dovuto essere da sola qui... Keller voleva questo fin dall’inizio, non avresti potuto fermarlo. Non avrei potuto nemmeno io.».
[...]

«Ben, se fanno qualcosa alle bambine o ad Andrea...».
«Li troveremo, Jenny. Li troveremo. [...] Andrà tutto bene...». "




Reazioni

GIORNO 32.

Semir aprì gli occhi, infastidito dalla luce.
Aveva dormito e rispetto al giorno prima il mal di testa andava molto meglio. In compenso, però, i dolori a tutto il resto del corpo sembravano aumentati. La schiena e il bacino bruciavano terribilmente, ogni tanto qualche fitta gli toglieva il respiro.
«Buongiorno, ispettore.» esordì una voce giovane, a pochi metri di distanza da lui.
Semir sollevò del tutto le palpebre e notò una ragazza bionda nella stanza. Non si era nemmeno accorto che fosse entrata.
Era la stessa ragazza che nei giorni precedenti gli aveva controllato scrupolosamente i parametri vitali, ma si era sempre rivolta al dottor Schneider, chiedendo conferma del proprio lavoro. A lui aveva sempre solo rivolto qualche timido cenno di saluto.
Avrà avuto più o meno venticinque anni, Semir immaginava si trattasse di una tirocinante o una specializzanda.
«Buongiorno.».
La ragazza sorrise timidamente, avvicinandosi al letto. Non aveva ancora imparato a parlare ai pazienti senza farsi prendere dall’imbarazzo e, soprattutto, avendo intuito dai notiziari e dai giornali che cosa fosse successo a quell’uomo, aveva il terrore di poter dire o fare qualcosa di assolutamente sbagliato anche solo respirando.
«Come si sente oggi?» domandò, con voce gentile.
Semir sospirò piano. Detestava quella domanda.
«Vorrei vedere mia moglie...» disse, in un soffio. L’aveva chiesto già il giorno prima al dottor Schneider, ma non si sarebbe arreso alla prima risposta negativa ricevuta.
Lisa sorrise, dispiaciuta, scuotendo leggermente il capo «Mi dispiace, ma temo che per ora sia impossibile. Non può ancora alzarsi, il dottor Schneider è stato chiaro... non appena sarà possibile la porterò io stessa da sua moglie, glielo prometto.».
«Grazie. Mi dispiace insistere, ma io... io ho bisogno di vederla.».
La specializzanda annuì, sforzandosi di non lasciarsi sopraffare dall’emozione davanti a quella richiesta, una palese e semplice richiesta d’aiuto.
Dopo un attimo di silenzio, si avvicinò a un monitor e lesse qualcosa, corrucciando appena la fronte.
«Ispettore, il dottor Schneider ha deciso di diminuire le dosi di antidolorifici. Lei è già sotto diversi farmaci e il dottore dice che preferirebbe almeno diminuire un po’ le quantità... ce la fa a sopportare il dolore? Altrimenti posso chiedergli di...».
«No, ce la faccio.» la interruppe Semir.
Non voleva correre il rischio che lo intontissero ancora di più. Voleva rimanere lucido.
Lisa annuì ancora, digitando qualcosa sul monitor e poi scrivendo a mano qualcos’altro su un post-it, che si sistemò nella tasca del camice.
«Allora io vado, se ha bisogno di qualunque cosa chiami. In mattinata passerà il dottor Schneider.» disse, dirigendosi verso la porta «Ah, ispettore! Se ha anche solo bisogno di parlare... mi chiami, d’accordo?».
Semir annuì e sorrise debolmente, mentre la ragazza si chiudeva la porta alle spalle e si allontanava.

Ben percorse il corridoio in fretta, come faceva ormai sempre, anche quando non aveva alcun motivo per cui correre.
Sorpreso, vide un profilo conosciuto che lo precedeva di qualche metro e andava nella sua stessa direzione.
«Jenny!» chiamò, accelerando il passo per raggiungerla.
La poliziotta si voltò e si fermò ad aspettarlo.
«Ben, ciao. Volevo vedere come sta Semir... non ero ancora riuscita a passare.».
«Anche io sto andando da Semir... credo che la Kruger prima o poi mi caccerà per sempre dal commissariato, non ci sono mai.» sorrise lui, continuando a camminare.
La ragazza alzò le spalle «Penso che la Kruger capisca la situazione, Ben.».
«Sì, lo credo anche io.».
Si fermarono entrambi davanti alla porta della stanza di Semir, trafelati senza nemmeno conoscerne la ragione.
«Senti, che ne dici se vai tu da Semir, mentre io cerco il medico e parlo un attimo con lui? Poi arrivo.» propose Ben, allontanandosi.
Jenny annuì rivolgendogli un breve cenno di saluto, poi posò la mano sulla maniglia della porta.
Ma non la abbassò.

Ben trovò Schneider davanti alla porta della stanza di Andrea, poco distante da quella di Semir ma dietro l’angolo del corridoio, intento a scrivere qualcosa sulla cartellina.
«Ehi Chris, ti disturbo?» domandò, avvicinandosi a lui.
Il medico trasalì. Ma non appena riconobbe il ragazzo, si rilassò e finì di scrivere, per poi chiudere la penna  e tornare a guardarlo.
«Ben, non ti avevo sentito arrivare.».
«Ci sono novità?».
Il medico scosse il capo con un sospiro «Né miglioramenti né peggioramenti, che in altri casi potrebbe anche essere una cosa positiva. Però in questo caso... Ben, ogni giorno sono sempre più convinto che Andrea non abbia possibilità di svegliarsi.».
L’ispettore annuì. Si aspettava esattamente quel tipo di risposta.
«E Semir?».
«Non l’ho ancora visitato stamattina.» rispose il dottor Schneider, allontanandosi di qualche passo dalla stanza di Andrea «Però ieri mi ha chiesto se non potrà camminare mai più e io... io gli ho detto che è così. E poi continua a chiedere di vedere la moglie, ma ancora non me la sento di farlo alzare dal letto, è troppo debole.».
Ben annuì ancora «E non vuole parlare... non parla di Lily...».
«Ben, queste cose richiedono tempo per essere metabolizzate.» affermò il medico, sistemandosi gli occhiali sul naso e guardando il suo interlocutore dritto negli occhi.
«Lo so, ma... insomma, mi aspettavo qualche reazione, invece quando gliel’ho detto Semir mi ha chiesto di lasciarlo solo, ma non... non ha reagito. Almeno, non come mi aspettavo. E non credo sia un bene.» replicò il ragazzo, mordendosi il labbro nervosamente.
«Infatti non è un bene.» fece Chris, con un sospiro «Ma il dolore si può manifestare in tanti modi, Ben. Io per esempio...».
L’uomo si bloccò all’improvviso. Non aveva programmato questo. Non aveva immaginato di parlargliene.
Ben corrugò la fronte, cercando con lo sguardo gli occhi del medico, che ora però erano rivolti a terra.
«Chris, tutto bene?».
«Ben, ho dei pazienti da controllare ora. Scusami.» replicò lui. Poi lo salutò frettolosamente e si allontanò, lasciandolo solo nel corridoio deserto.

Quando Ben imboccò nuovamente il corridoio in cui si trovava la stanza di Semir, rimase sorpreso nel trovare Jenny ancora fuori dalla stanza, in piedi davanti al vetro che lasciava intravedere l’interno, immobile.
«Jenny? Jenny, tutto bene?».
La ragazza trasalì e si voltò di scatto verso di lui.
«Ehi, Jenny, non ti volevo spaventare. Stai bene?» chiese l’ispettore, avvicinandosi a lei con cautela.
La poliziotta annuì, tornando a fissare l’interno della stanza attraverso le tendine che coprivano il vetro.
«Sei entrata?» domandò ancora Ben, a bassa voce.
La ragazza si limitò a scuotere il capo, senza guardarlo.
«Jenny...».
«Non ce la faccio, Ben.» mormorò poi, guardandolo finalmente negli occhi. Una lacrima le rigava la guancia sinistra «Non ce la faccio. È colpa mia, non sono riuscita a impedirlo... hanno preso Andrea e le bambine per colpa mia!».
«Non è vero, non ci pensare nemmeno. Non è stata colpa tua...».
«Io ero in casa con loro, avrei dovuto proteggerle! Avrei dovuto...» Jenny si bloccò, ormai in preda al pianto «Avrei dovuto proteggerle...».
Ben la abbracciò.
La verità era che anche lui si sentiva in colpa. Terribilmente.
La abbracciò e la tenne stretta a sé per un istante lunghissimo.

 

N.d.A.
E con calma, con moltissima calma, ci avviciniamo a un’altra piccola svolta.
Grazie sempre, buon anno!
Sophie

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Capitolo 31
*** Vivi! ***


Dal capitolo precedente:

"«Io ero in casa con loro, avrei dovuto proteggerle! Avrei dovuto...» Jenny si bloccò, ormai in preda al pianto «Avrei dovuto proteggerle...».
Ben la abbracciò.
La verità era che anche lui si sentiva in colpa. Terribilmente.
La abbracciò e la tenne stretta a sé per un istante lunghissimo."

Vivi!

TRE GIORNI DOPO – GIORNO 35.

Jenny percorse il corridoio con passo deciso, nascondendo al mondo i suoi timori: sarebbe entrata nella stanza, questa volta ce l’avrebbe fatta.
Raggiunse la stanza dove era ricoverato il collega e posò la mano sulla maniglia, con una sicurezza nuova nei movimenti. Non avrebbe mai smesso di sentirsi in colpa, probabilmente. Ma questo non era un buon motivo per lasciare solo un amico in un momento del genere, e Ben glielo aveva fatto capire qualche giorno prima.
Le aveva detto che la colpa era di tutti e di nessuno allo stesso tempo e lei, ascoltando quelle parole, aveva semplicemente deciso che ci avrebbe creduto.
Abbassò la maniglia ed entrò, richiudendosi poi la porta alle spalle.
Il silenzio la avvolse immediatamente, e la luce del sole che filtrava dalla piccola finestra di fronte all’entrata le ferì lo sguardo.
Armandosi di sorriso, avanzò lentamente verso il letto e si sedette accanto ad esso, con cautela.
«Ciao, Semir.» mormorò poi, guardandolo negli occhi.
«Jenny, ciao.» salutò lui, sorpreso di vedere la giovane collega.
Lei sorrise, ma evitò di chiedergli come stesse, come tutti facevano ogni giorno, e questo a Semir fece molto piacere.
«Volevo solo passare a salutarti, poi torno al comando.» disse la ragazza, stringendosi nelle spalle «Sai, la Kruger è piuttosto severa per quanto riguarda gli orari, ultimamente. Senza te e Ben a tempo pieno, il distretto lavora a rilento.».
Semir accennò a un sorriso.
Aveva immaginato che Ben trascorresse poco tempo al comando e gli dispiaceva. Il ragazzo veniva a trovarlo in ospedale ogni giorno, poi andava a trovare Andrea e trascorreva anche intere ore con Aida. Ma sapeva che dirgli di pensare al lavoro sarebbe stato inutile.
«Semir, senti, ti devo dire una cosa.» continuò Jenny, mentre il sorriso le scompariva dalle labbra.
Prima di andare avanti, si sistemò sulla sedia e sospirò profondamente «Mi dispiace... mi dispiace tanto, tutto quello che è successo è anche colpa mia.».
Il turco corrucciò lo sguardo «Non è colpa tua...».
«Sì, invece. Io ero con Andrea e le bambine nella casa protetta e io avrei dovuto difenderle, proteggerle. Invece non ne sono stata capace e quei due le hanno prese perché io non sono stata in grado di oppormi. Mi dispiace così tanto...».
La ragazza si bloccò, la voce rotta dall’emozione.
«Non è colpa tua, Jenny.» ribadì Semir, a bassa voce «Lui avrebbe... ci avrebbe preso comunque.».
Lui.
Da diciannove giorni a quella parte, non aveva più pronunciato il suo nome.
La poliziotta annuì, sapeva che avrebbe dovuto accettare quella spiegazione.
Avrebbe voluto chiedere al collega come stesse, ma non lo fece. Non se la sentì.
E quando aprì bocca per parlare, lo scatto della porta che si apriva alle sue spalle la interruppe.

Lisa si affacciò alla porta, con un sorriso a trentadue denti stampato in viso.
Guardò il suo paziente, ma poi lo sguardo le cadde sulla giovane donna che era seduta accanto a lui.
«Buongiorno, ispettore! Mi dispiace interrompervi... passo dopo.» disse velocemente, arretrando per richiudere la porta, ma Jenny la bloccò, alzandosi in piedi.
«Aspetti, non si preoccupi! Me ne stavo andando.» disse, afferrando la borsa che aveva lasciato sulla sedia e rivolgendo poi un cenno di saluto al collega «Ciao, Semir.».
Quindi uscì veloce dalla stanza.

Al suo posto, Lisa si fece avanti sempre con il sorriso.
Semir la guardò quasi sorpreso, chiedendosi come una ragazza così giovane potesse avere sempre il sorriso lavorando in un ambiente dove la morte sembrava incombere su tutto e su tutti.
«Ispettore, ho una notizia per lei.» esordì, avvicinandosi al letto «Qualche giorno fa le avevo fatto una promessa, ricorda?».
Gli occhi di Semir si illuminarono. Aveva capito dove la specializzanda volesse andare a parare. Aveva capito l’origine di quel sorriso, o almeno lo sperava.
«Posso...».
«Sì!» lo interruppe lei, con l’entusiasmo negli occhi «Oggi la porto da sua moglie!».
Semir sorrise.
Era la prima volta, da quando si era svegliato, che Lisa vedeva il suo paziente sorridere davvero.
Ricambiando il sorriso, afferrò la sedia a rotelle che era rimasta per tutti i giorni precedenti immobile in un angolo della stanza e la avvicinò al letto.
«Tra poco arriverà il dottor Schneider per aiutarmi a farla alzare.» spiegò la ragazza, fissando la sedia in modo che non si muovesse «Nel frattempo io la aiuterò a mettersi a sedere sul letto, va bene?».
L’ispettore annuì senza proferire parola e lei continuò, imperterrita «Convincere il dottor Schneider a fare questa cosa non è stato affatto semplice, ispettore, mi creda. Lui avrebbe preferito attendere.».
«Grazie per avere insistito.» disse Semir.
Le era grato sul serio. Andare da sua moglie era stata l’unica cosa che aveva desiderato da quando si era svegliato. L’unica cosa che gli era rimasta da desiderare.
«Glielo avevo promesso.» ricordò Lisa, guardandolo con dolcezza «Ora proviamo a metterci seduti.» aggiunse poi, avvicinandosi al letto.
Reclinò leggermente il letto per rendere l’operazione più semplice, quindi prese il suo paziente per le spalle, provando a tirarlo su con la maggiore cautela possibile. Semir si sforzò di sollevare la schiena, ma dopo un breve tentativo ricadde disteso sul letto, con il respiro affannoso.
Non ci riusciva. Aveva male ovunque e non ci riusciva.
Lisa si morse il labbro, ma poi lo guardò negli occhi e tornò a sorridere.
«Okay, non si preoccupi. Ora riproviamo, va bene?».
Riprovarono, ma il risultato fu se possibile peggiore del precedente.
Il dolore era insopportabile.
A Semir gli occhi diventarono appena lucidi «Non ce la faccio...».
«Non lo dica nemmeno per scherzo.» replicò lei, decisa «Lei oggi andrà da sua moglie, quindi ora riproviamo. Pronto, ispettore?».
Il poliziotto annuì debolmente.
«Okay... si tenga a me.» mormorò la ragazza, prendendolo di nuovo per le spalle.
Semir puntò il braccio non ingessato sul sottile materasso, per darsi la spinta. Poi, aiutato dalla specializzanda, lentamente e con una fatica immane, riuscì finalmente a raddrizzarsi e si ritrovò seduto sul letto. Per la prima volta dopo quasi venti giorni, non si trovava disteso.
Gli venne quasi da sorridere. Ansimante, cercò gli occhi della ragazza per ringraziarla.
«Ha visto, ispettore?» fece lei, aprendosi in un nuovo sorriso «È stato bravissimo.».
Poi, senza che nemmeno Semir se ne accorgesse, Lisa gli prese le gambe e gliele spostò, in modo che rimanessero a penzoloni fuori dal letto.
Fatto ciò, sorrise di nuovo, appoggiandosi le mani sui fianchi e contemplando il suo operato.
«Siamo stati bravi.» ripeté, con la luce negli occhi.
In quell’esatto istante, il dottor Christopher Schneider fece ingresso nella stanza senza bussare.
La sua espressione cambiò non appena vide il suo paziente seduto sul letto, dipingendosi di preoccupazione, mentre lanciava uno sguardo di rimprovero alla giovane specializzanda.
«Mi sembrava di essere stato chiaro.» tuonò, fulminandola.
«L’ho solo aiutato a mettersi seduto, dottore.» spiegò la ragazza, abbassando suo malgrado lo sguardo «L’avrei aspettata per farlo scendere dal letto, non si preoccupi.».
Il medico la squadrò con poca convinzione, poi si sistemò gli occhiali sul naso e decise di crederle, rilassando appena i suoi lineamenti.
«Come si sente?» domandò quindi, rivolto al paziente «Le gira la testa?».
«Un po’.» confermò Semir, ancora con il fiatone per lo sforzo di prima.
La verità era che la testa gli girava vorticosamente, non solo un po’.
«È normale.» aggiunse Schneider «Sicuro di voler andare oggi, ispettore?».
«La prego... lei stesso dice che potrebbe morire da un momento all’altro. Io voglio solo vederla.».
Il dottore annuì, con un sospiro.
«Bene, allora facciamo così: Lisa, tu tienilo da quella parte. Prima avvicina ancora la sedia.» ordinò, con un tono autoritario che a Semir ricordò molto quello della Kruger «Ecco, così. Ora, lo solleviamo insieme e lo trasferiamo sulla sedia, va bene? Ispettore, credo che non sarà piacevole.».
Detto ciò, entrambi si avvicinarono al paziente e lo afferrarono uno alla sua destra e l’altra alla sua sinistra. Dopo essersi scambiati un’unica occhiata, lo sollevarono con forza.
Semir dovette sforzarsi per non gridare, ma in men che non si dica si ritrovò sulla sedia a rotelle e poté smettere di trattenere il respiro come aveva fatto durante il passaggio dal letto a lì.
La testa continuò a girargli senza sosta, almeno fino a quando non chiuse gli occhi. Poi li riaprì e gli sembrò che le pareti della stanza e il pavimento avessero smesso di barcollare e fossero tornate un po’ più dritte.
«Okay, bene.» fece il dottor Schneider, togliendo il fermo alla sedia e guardando il suo paziente negli occhi «Ce la fa a rimanere in questa posizione?».
Semir ricambiò lo sguardo, ma evitò di rispondere.
Si sentiva come se gli fossero state spezzate le ossa tutte insieme. La schiena, stando seduto, faceva più male e persino la ferita alla spalla aveva ricominciato a bruciare.
Il medico sospirò, scuotendo appena il capo «Spero di non pentirmi di averla fatta alzare, ispettore. Lisa, lo accompagni nella stanza 301, in fondo al corridoio. Tra dieci minuti voglio che siate di ritorno, lo rimetteremo a letto insieme. Chiaro?».
La specializzanda annuì prontamente, spostandosi dietro alla sedia e spingendola in fretta fuori dalla stanza.

Il breve tragitto che lo separava dalla stanza della moglie, a Semir parve infinito.
Quelle piastrelle bianche si susseguivano senza tregua, tutte terribilmente uguali, e stare seduto gli costava una fatica inimmaginabile.
Sapeva che a qualsiasi cenno di sofferenza la ragazza lo avrebbe riportato indietro, quindi si sforzò di continuare a respirare normalmente. Ma sudava freddo dal dolore.
Lisa, alle sue spalle, lo immaginava. Ma lo avrebbe portato da sua moglie, convinta che comunque sarebbe stata la scelta migliore.
Raggiunta la stanza numero 301, si fermò, abbassò la maniglia e spinse all’interno la sedia, con calma.

Gli bastò vederla da lontano, perché il dolore fisico passasse completamente in secondo piano.
Semir scorse il profilo di sua moglie non appena ebbero oltrepassato la soglia della stanza e una morsa strettissima gli attanagliò lo stomaco, togliendogli il respiro.
Lisa, alle sue spalle, se ne accorse e si fermò.
«Tutto bene, ispettore? Posso portarla accanto al letto?» domandò, pazientemente.
Lui annuì e la ragazza riprese a spingerlo fino a che non ebbero raggiunto il fianco del letto.
La specializzanda si fermò e bloccò con il fermo la sedia a rotelle.
«Ora vi lascio, ma rimango qui fuori.» disse poi, abbassando nettamente il tono di voce «Se ha bisogno mi chiami, per favore. Va bene?».
Semir annuì.
«Grazie.» mormorò.
Pochi secondi dopo, la ragazza era uscita fuori dalla stanza e si era richiusa la porta alle spalle, lasciandolo solo.

Semir si sporse sulla sedia per quanto gli fu possibile, avvicinandosi alla moglie distesa immobile su quel letto.
Era pallida. E terribilmente ferma.
Il bip continuo dei macchinari che la circondavano era l’unico suono udibile in quella stanza dall’atmosfera ovattata.
E lei era immobile.
Semir avrebbe voluto accarezzarla, ma non riusciva ad allungare il braccio ingessato. Così si limitò a posare la mano destra sul letto e ad afferrare la mano immobile di Andrea appoggiata sopra al lenzuolo.
Era fredda.
«Andrea...» mormorò, finalmente, chiedendosi a chi o a che cosa effettivamente stesse parlando «Andrea, sono io.».
Rimase in silenzio per qualche istante, quasi si attendesse una risposta da quel corpo immobile.
«Sono qua... svegliati, Andrea. Ti prego... mi dispiace per tutto quello che ci siamo detti, mi dispiace così tanto. Mi dispiace per tutto. Ma ora, ti prego, svegliati. I medici dicono che non puoi, ma io... io non posso crederlo.».
Sussurrava e la sua voce era rotta dall’emozione, ma i suoi occhi rimanevano asciutti.
«Aida ti viene a trovare tutti i giorni e io so che puoi sentirla. Ti avrà raccontato anche di Lily... ma tu ti devi svegliare. Lo puoi fare, ne sono sicuro. Non mi abbandonare... non lasciarmi adesso, ti prego. Ti prego...».
I suoni intermittenti continuavano senza sosta e gli occhi della donna rimanevano chiusi, sigillati. «Ci siamo detti delle cose terribili... non può finire tutto così, noi non siamo quello che siamo stati negli ultimi mesi, siamo molto di più. Non ho mai smesso di amarti, Andrea...».
La mano di lei era inerme nella mano di Semir.
«E poi, guarda.» aggiunse, con un sorriso amaro «Non posso camminare... non posso più camminare... e Lily... Andrea, se non ti svegli tu, questa volta io non ce la faccio, davvero. Ho bisogno di te, almeno di te. Ti prego, svegliati.».
Uno scatto proveniente dalla porta interruppe il suo discorso. Forse la ragazza era già venuta a riprenderlo.
Semir sospirò piano, consapevole che il suo tempo lì dentro fosse già scaduto.
Ma strinse ancora una volta la mano di sua moglie, con tutta la forza che aveva.
«Io volevo morire, Andrea. Volevo morire, lo desideravo, e invece sono qui. Ma tu vuoi vivere, e allora vivi! Vivi...».

 

N.d.A.
Ogni tanto salto una settimana causa esami, ma poi ritorno. Finalmente Semir è riuscito a farsi portare da sua moglie, che però ovviamente rimane ad occhi chiusi...
Grazie a voi che continuate a leggere, a presto!
Sophie

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Capitolo 32
*** Miracoli ***


Dal capitolo precedente:
"Uno scatto proveniente dalla porta interruppe il suo discorso. Forse la ragazza era già venuta a riprenderlo.
Semir sospirò piano, consapevole che il suo tempo lì dentro fosse già scaduto.
Ma strinse ancora una volta la mano di sua moglie, con tutta la forza che aveva.
«Io volevo morire, Andrea. Volevo morire, lo desideravo, e invece sono qui. Ma tu vuoi vivere, e allora vivi! Vivi...»."

Miracoli

GIORNO 36. 

«E con oggi siamo a venti. È in coma da venti giorni.» sillabò il medico, con decisione «Ci vorrebbe un miracolo.».
Lisa guardò il dottore con l’ansia dipinta negli occhi.
«Ma perché non è morta subito allora?» replicò «Le avevate dato una prognosi di qualche ora. Avevate detto che non avrebbe superato la notte e lo avete detto venti giorni fa. Se è ancora viva vuol dire che è attaccata alla vita.».
«È attaccata alla vita non vale come spiegazione scientifica, Lisa.» fece Schneider, con un sospiro «E i sentimentalismi in questa professione purtroppo servono a poco, voi ragazzi dovreste impararlo in fretta.».
La specializzanda distolse lo sguardo, abbassando la voce.
«Ho scelto di diventare medico per salvare delle vite, dottore.».
Il medico guardò la ragazza e nei suoi occhi vide se stesso trent’anni prima. Ma prima o poi tutti si rendevano conto che diventare medici non significava diventare dèi.
«Devi essere disposta a perdere, ogni tanto. Altrimenti non saresti un buon medico, credimi.».
La ragazza sollevò di nuovo lo sguardo, fissandolo negli occhi.
«Quando è stata la prima volta che lei ha perso, dottore?».
Schneider sospirò.
«Devo controllare altri pazienti.» disse, senza considerare la domanda «Continua a monitorarla, a più tardi.».


«Lui come sta?».
La domanda arrivò inaspettata e Ben rimase per qualche attimo con la bocca semi-chiusa e gli occhi spalancati, senza sapere bene che cosa rispondere. Sapeva perfettamente chi fosse il lui al quale l’amico si riferiva.
Semir, sul letto ma in posizione semi-seduta, lo fissava in attesa di una risposta.
«Ben, dimmi la verità. Che non è morto lo so. Noi sopravviviamo, non è così?» aggiunse, con un sorriso amaro.
Il più giovane sospirò, intrecciando tra loro le dita delle mani «No, non è morto. Anzi, è stato dimesso già la settimana scorsa ed è in carcere.».
«Non me lo avevi detto.» constatò Semir, guardandolo negli occhi «E quella donna?».
Ben impiegò di nuovo qualche istante prima di rispondere.
Fisicamente l’amico stava decisamente meglio, e lui ne era felice. Ma le visite erano diventate sempre più complesse: Semir era quasi ostile nei suoi confronti e lui non era ancora mai riuscito a estorcergli nemmeno mezzo sorriso.
Anche quando Aida andava a trovarlo sembrava quasi che lui volesse che la visita finisse in fretta.
«Lei è morta sotto alle macerie.» disse il giovane ispettore, stringendosi nelle spalle «Semir, perché non parliamo di te, invece?».
Il turco continuò a guardarlo, ma non rispose.
«Io credo che tu dovresti parlare, socio... dirmi come stai, che cosa provi, forse ti aiuterebbe a...».
«Ben, se vuoi puoi anche andare.» lo interruppe Semir, all’improvviso.
«Guarda, Semir, che questo rifiuto totale di parlare di te non ti fa bene. Potresti dirmi quello che senti... possiamo parlare di Lily...» tentò Ben, abbassando leggermente la voce.
L’amico non ne aveva mai parlato da quando lui gli aveva riferito che cosa fosse successo. Mai.
«Vattene, Ben.».
«Socio, ti puoi fidare di me e lo sai. Io ti voglio solo aiutare e sono convinto che parlare ti farebbe stare meglio...».
«Ben, vattene.» ripeté Semir, alzando leggermente la voce «Non voglio parlare, voglio stare da solo. Non ho bisogno che stiate tutti sempre qua, lasciatemi in pace.».
Ben ammutolì all’istante.
Con un sospiro, si alzò dalla sedia e si avviò verso l’uscita, chiudendosi la porta alle spalle.
Semir lo seguì con lo sguardo.
Quando fu uscito, sospirò e chiuse gli occhi, sperando per l’ennesima volta di non riaprirli mai più.


Ben entrò nel bar dell’ospedale a passo di carica e raggiunse Maggie che, seduta in un angolo a digitare velocemente sulla tastiera del computer, nemmeno si accorse del suo arrivo.
«Ben!» esclamò sobbalzando quando lui si sedette al tavolo «Che cosa c’è? Perché quella faccia?».
«Non ho nessuna faccia.» mormorò lui, evitando di guardarla negli occhi.
Lei sorrise, abbassò lo schermo del computer e si sporse in avanti, sollevando con una mano il mento del poliziotto perché lui la guardasse.
«Dimmi che cosa è successo, Ben.».
Il ragazzo alzò le spalle.
«Sono preoccupato per Semir.».
«Volevo giusto andare a trovarlo.» disse la psicologa, con un sorriso.
«Ecco, magari non oggi. Vuole stare da solo. Praticamente mi ha detto che gli do fastidio.».
«Ben, sai che non lo pensa davvero.» gli ricordò Margaret.
Poi si alzò velocemente, raggiunse il bancone e tornò al tavolo con due piccole brioches, delle quali ne porse una al poliziotto.
«Sì, lo so, ma comunque sono preoccupato. Vorrei solo che parlasse... che si sfogasse... Maggie, non l’ho mai visto piangere o gridare da quando gliel’ho detto. Non una lacrima, niente. Se continua così prima o poi esploderà...».
Lei annuì con calma.
«Infatti prima o poi accadrà e tu non potrai evitare che accada.».
«Ma non credi che parlare gli farebbe bene?».
La ragazza si strinse nelle spalle «Io penso che se vuole stare da solo gli faccia bene anche stare da solo. Ben, la verità è che noi non possiamo nemmeno lontanamente immaginare come si senta lui in questo momento. È un dolore troppo grande e ogni persona ha un proprio modo per affrontarlo. L’importante è che lo affronti...».
Ben annuì e addentò la sua brioche, ma aveva il pensiero altrove.
«Se si potesse solo premere un tasto e tornare indietro...».
Maggie scosse lentamente il capo, allungando una mano sul tavolino e stringendo quella di Ben «Credi che cambierebbe qualcosa?».
Il poliziotto fece spallucce. Non lo sapeva. Forse semplicemente si sarebbero verificate le stesse identiche situazioni.
«Era solo una bambina.».
«Infatti è terribile.» replicò la psicologa «Ma Semir è vivo, Andrea è viva e Aida è viva e sta bene. E questo è già un miracolo, Ben.».
Il giovane ispettore scosse la testa e ritrasse la mano.
«E noi dobbiamo credere nei miracoli?».

 

N.d.A.
Altro capitolo abbastanza di passaggio, ma ci avviciniamo lentamente all’ultima parte della storia...
A presto,
Sophie

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Capitolo 33
*** Così si sopravvive ***


Dal capitolo precedente:

"«Era solo una bambina.».
«Infatti è terribile.» replicò la psicologa «Ma Semir è vivo, Andrea è viva e Aida è viva e sta bene. E questo è già un miracolo, Ben.».
Il giovane ispettore scosse la testa e ritrasse la mano.
«E noi dobbiamo credere nei miracoli?»."

Così si sopravvive

GIORNO 37. 

Kim Kruger sistemò la pila di fogli che aveva sulla la scrivania, sbuffando.
Le pratiche si stavano accumulando e accumulando, inesorabilmente.
Sembrava che tutto in quel commissariato funzionasse a rallentatore. Sembrava che i volti di tutti gli agenti fossero diventati grigi, che l’aria fosse diventata spessa, che i suoni fossero ovattati.
Ed era così ormai da troppo tempo.
Quella mattina Kim era arrivata presto, con l’intento di sbrigare le pratiche burocratiche per liberarsene il più in fretta possibile, ma nemmeno lei riusciva a lavorare con l’efficienza di sempre.
Era tutto terribilmente lento.

Un picchiettio sul vetro della porta la distolse dai propri pensieri.
Ben varcò la soglia dell’ufficio senza aspettare una risposta e si sedette davanti alla scrivania della Kruger, salutando a mala pena.
«Jager, come si sente?» domandò la donna, mantenendo un tono che apparisse il meno autoritario possibile, ben conscia di quale sarebbe stata la risposta.
Ma l’ispettore ignorò direttamente la domanda.
«Commissario, perché mi ha chiamato? Stavo andando in ospedale da Semir.».
«È il 21 dicembre, Jager.».
Ben corrugò la fronte. Il 21 dicembre. Aveva smesso di contare i giorni tempo prima, aveva perso la cognizione del tempo in quel susseguirsi di eventi. Era iniziato dicembre e nemmeno se ne era reso conto. Questo pensiero lo fece rabbrividire.
Era passato più di un mese da quando quell’assurda storia era iniziata e lui non se ne era accorto.
«E io ho bisogno di lei.» continuò la Kruger, sforzandosi di non apparire eccessivamente fredda, dovendo parlare di lavoro in quella situazione «Da quando abbiamo ritrovato la famiglia Gerkhan, io praticamente l’ho persa, Jager. Non ha fatto più di uno o due giri in autostrada negli ultimi venti giorni. Ho capito perfettamente la situazione e non ho detto nulla, ritenevo normale che lei volesse trascorrere il maggior tempo possibile in ospedale, ma è arrivata l’ora di andare avanti. E io qui ho bisogno di lei.».
«Capo, io non...».
«Aspetti, Jager.» lo interruppe lei «Non le sto dicendo che dovrà lavorare ventiquattro ore su ventiquattro, ma almeno torni a fare degli orari normali. Siamo sotto Natale, tutte le strade sono intasate, gli incidenti aumentano. Io ho perso non un ispettore ma due, e non due agenti qualunque ma i miei due uomini migliori in assoluto. Quindi, per favore...».
Ben sospirò, guardandola negli occhi. Aveva ragione.
«Commissario, io non posso abbandonare Semir. È completamente solo.».
«Infatti non le sto chiedendo questo, Jager, però...».
«Senta, Semir esploderà. Accadrà presto e quando accadrà io dovrò essere lì, perché altrimenti...».
«Ben, Semir ha perso una figlia.» lo interruppe di nuovo la Kruger «Ha perso una figlia, sta perdendo sua moglie, ha perso la possibilità di camminare. Certo che esploderà, è naturale. E lei potrà aiutarlo, consolarlo, stargli vicino... ma non pretenda di raccogliere da terra tutti i cocci e rimetterli insieme perché, mi creda, non può farlo. Nessuno può.».
L’ispettore annuì, evitando di guardarla negli occhi. Aveva ragione da vendere e lui ne era perfettamente consapevole. Non avrebbe potuto aggiustare tutto, non avrebbe potuto rimediare a tutto ciò che era successo, sarebbe stato impensabile.
Eppure...
«Commissario, Semir non ha più nessuno.» ripeté Ben, in un sussurro «Se non riesco ad accettare io, che sono una persona esterna alla sua famiglia, quello che è successo, come potrà farlo lui?».
«Non lo so.» replicò la donna, con un sospiro «Mi creda, Jager, non lo so e vorrei poterla aiutare, ma...».
«Mi dia ancora qualche giorno, commissario. Poi tornerò in pieno servizio, glielo prometto.».

Quando pochi minuti dopo Ben uscì dall’ufficio, camminò a testa bassa e in fretta verso l’uscita del commissariato, fino a quando non scontrò qualcuno che si stava dirigendo nella direzione opposta, facendogli cadere il bastone con cui l’uomo si aiutava per camminare.
Il giovane ispettore si chinò a raccoglierlo. Solo quando sollevò lo sguardo per porgere il bastone al suo proprietario si accorse di conoscere quel viso.
«Grazie, giovanotto.» fece il signore, cordiale.
Quei baffi bianchi, quell’accento inglese e quel “giovanotto” erano decisamente inconfondibili.
«Signor Smith, che cosa ci fa qui in commissariato?».
Quello che aveva davanti era l’anziano signore che per primo aveva asserito di aver notato una donna bionda vicino alla casa dove era stata rapita la famiglia Gerkhan, venti giorni prima, e Ben era sorpreso di incontrarlo di nuovo.
Tuttavia, sorrise. Quel vecchietto possedeva lo strano potere di farlo sorridere.
«Cercavo lei in verità, giovanotto. Ha tempo per una tazza di tè?».

Ben portò il signore nel piccolo locale che da qualche settimana aveva aperto a pochi passi dal commissariato e gli offrì un tè caldo.
Lo ordinò anche per sé. Non sapeva esattamente come mai quell’uomo lo fosse venuto a cercare, ma vederlo gli aveva fatto stranamente piacere e, nonostante tutto, una tazza di tè non gli avrebbe portato via molto tempo.
«Che cosa succede signor Smith? Problemi nel suo quartiere?» domandò, con un sorriso gentile, dopo che si furono sistemati attorno a un tavolino in legno scuro, accanto alla vetrata.
Faceva freddo e il cielo bianco minacciava neve.
L’anziano signore non sembrò nemmeno ascoltarlo, in un primo momento. Guardò con un folto sopracciglio alzato la tazza di acqua calda che aveva davanti e vi immerse con una certa diffidenza una bustina di tè aromatizzato alla mela verde.
«Tè inglese, c’è scritto. Strani, voi tedeschi.» bofonchiò tra i baffi, scuotendo la bustina dentro alla tazza, con l’incomprensione dipinta sul viso.
Ben sorrise, schiacciando con un cucchiaino la propria bustina dentro all’acqua bollente perché questa si colorasse più in fretta.
«Non le piace?».
«Oh no giovanotto, va bene. Sono una persona moderna, cosa crede. Mi abituo a tutto, io.».
Questa volta il poliziotto non riuscì a trattenersi e si mise a ridere.
I folti baffi bianchi, il naso arrossato e l’enorme sciarpa di lana a quadri avvolta attorno al collo e alle spalle, l’ultima impressione che quell’uomo potesse dare era quella di essere moderno.
«Lei ride, giovanotto, ma sappia che il sottoscritto possiede un esemplare senso di adattamento.» commentò il vecchio, fingendosi offeso «Comunque, le dicevo, volevo trovare proprio lei.».
«È successo qualcosa nel suo quartiere?» ripeté Ben, ricordando che l’uomo si fosse lamentato delle frequentazioni della sua via.
Il signore scosse il capo, poi si prese il tempo per sorseggiare lentamente il proprio tè.
«No, giovanotto, no. Volevo sapere come sta lei.».
Il ragazzo lo guardò senza capire.
«Sa, ormai sono vecchio e solo, i miei parenti sono sparsi per il mondo. Ma quando avevo accanto i miei nipoti capivo immediatamente quando qualcosa non andava. Lei assomiglia proprio a mio nipote Jonathan.».
Ben sorrise. Avrà avuto una settantina d’anni, o forse poco più, ed era solo. Quell’uomo gli fece un’immensa tenerezza, nonostante sostanzialmente non lo conoscesse affatto.
«Venti giorni fa l’ho vista molto preoccupato, giovanotto.» continuò lui, con voce pacata, passando le mani sopra alla tazza fumante perché si scaldassero «Ora come sta?».
E Ben gli raccontò tutto.
Senza nemmeno comprenderne bene il motivo, gli raccontò ogni cosa.
Di Keller, di Semir e della sua famiglia, di Lily. Di lui e di Margaret. Della Kruger. Del suo lavoro.
Qualunque cosa.
Si sorprese addirittura nel rendersi conto di avere così tanto da dire.
L’anziano signore si limitò ad ascoltarlo, annuendo e scuotendo il capo ogni tanto, commentando con qualche semplice “Oh” esclamativo, lasciando che fosse lui a condurre il discorso.
Ben sapeva perfettamente che quell’uomo non potesse conoscere tutto ciò che lo riguardava e che gli era capitato in quelle ultime settimane, ma parlare con lui gli sembrò straordinariamente normale, come se da tempo aspettasse di poter raccontare a qualcuno ogni cosa. Aveva semplicemente bisogno che qualcuno lo ascoltasse, ma non se ne era reso conto fino a quando non aveva cominciato a parlare.
Era passata più di mezz’ora quando si accorse di non aver mai chiuso bocca e si interruppe improvvisamente.
«Oddio... non mi ero reso conto di aver parlato così tanto, mi scusi signor Smith.».
«Santo Cielo, giovanotto.» commentò l’uomo, leggermente sbigottito «Per quanto tempo ancora aveva intenzione di tenere per sé tutto questo? Sarebbe esploso prima o poi, mi creda. Boom.» fece, facendo schioccare tra loro i palmi delle mani per dare maggiore enfasi a quella frase.
Ben rise divertito «Ha ragione, ma non pensavo...».
«Non pensava di avere così tanto da dire? Giovanotto, è proprio quando stiamo troppo in silenzio che abbiamo più cose da dire.».
L’ispettore annuì, chiedendosi da dove quell’uomo gli fosse stato mandato e se fosse stato mandato da qualcuno apposta per lui.
«Comunque, sono contento di averla ascoltata.» continuò l’uomo, con una flemma decisamente inglese, sistemando la tazza ormai vuota sopra al piattino che aveva di fronte «Chissà perché, immaginavo che venendo qua oggi avrei avuto tanto da ascoltare. Amo ascoltare, sa giovanotto?».
«Mi dica che ama anche dare consigli, la prego...» supplicò Ben, sperando davvero che quell’uomo piovuto dal cielo o spedito nel ventunesimo secolo direttamente da un’altra epoca potesse aiutarlo.
«Solo uno, giovanotto.» disse il vecchio, dopo essere rimasto soprappensiero appena qualche secondo «Impari a danzare sotto alla pioggia.».
Il ragazzo corrugò la fronte, sorpreso.
«Che cosa?».
«Impari a danzare sotto la pioggia, ragazzo. È così che si sopravvive. Non cercando di superare una tempesta, ma imparando a danzarvi in mezzo. Non glielo hanno mai detto, giovanotto?».
Ben distese la fronte.
Sorrise.
«Dovrebbe dirlo anche al suo amico.» aggiunse l’uomo, alzandosi e avvolgendosi meticolosamente nella propria sciarpa a quadri «Grazie per il tè, giovanotto. E buona fortuna.».
Il giovane poliziotto non ebbe il tempo di replicare che l’anziano signore, lentamente, picchiettando con il proprio bastone sul pavimento in legno, aveva già iniziato ad avviarsi verso l’uscita.
Lo seguì con lo sguardo fino a quando non ebbe superato la soglia del locale e continuò a osservarlo da dietro la vetrata, mentre il vecchio, sempre lentamente, attraversava la strada e poi spariva all’orizzonte, come inghiottito da quella massa bianca di nubi che si distendeva sopra di lui.
Un angelo custode, si ritrovò a pensare Ben, ancora seduto al tavolino del bar.
Un angelo custode con i baffi, questo doveva essere quell’uomo.
Sorrise, e dopo aver pagato si diresse a sua volta verso l’uscita.


Margaret puntò il cursore alla sinistra del foglio virtuale e ricominciò a scrivere.
Era nel suo studio, in attesa del paziente successivo, che però sarebbe arrivato con mezz’ora di ritardo. Avrebbe occupato quel tempo scrivendo, come sempre.
Non aveva raccontato a nessuno di che cosa trattasse il suo libro, nemmeno a Ben. Un po’ per vergogna, un po’ perché temeva che lui non avrebbe approvato.
D’altra parte, sapeva che non avrebbe mai e poi mai pubblicato quel libro. Lo scriveva semplicemente perché sentiva di doverlo fare. Sentiva di dover raccontare quella storia. Anche se nessuno l’avesse mai letta, avrebbe dovuto scriverla.
Se non altro, per il finale. Perché avrebbe potuto sceglierlo, ed era questo che le era sempre piaciuto delle storie.
Avrebbe scelto un finale felice, nonostante tutto.
Avrebbe scelto quel finale, perché sentiva che dovesse andare così, almeno nella finzione della sua pagina bianca. Perché la realtà, quella era imprevedibile.
Continuò a digitare freneticamente le dita sulla tastiera, mentre quei personaggi che conosceva così bene prendevano forma sotto alle proprie mani e si muovevano diligentemente ad ogni suo comando.
Era semplice ottenere un finale felice, così. Bastava imprimere i propri desideri su carta.


Freddo.
Qualche rumore ovattato, ritmico, poi silenzio, ancora. E freddo, tanto freddo.
Non c’era nessuno.
Spesso era venuto qualcuno, spesso qualcuno aveva parlato.
Ma ora non c’era nessuno e faceva freddo.
E quel buio, quel buio non si diradava.
Stava cercando la fine di un tunnel senza sapere se effettivamente quel tunnel avesse una fine.
Un’uscita, una luce.
Odore di disinfettante?
Buio, di nuovo, sempre buio...

 

N.d.A.
Spero vi ricordiate chi è il signore che ha incontrato Ben, lo stesso signore che aveva provato a fare l’identikit della complice di Keller, lo stesso presente anche nel prologo... un angelo custode?
Grazie sempre, a presto,
Sophie

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Capitolo 34
*** Vivere o morire ***


Dal capitolo precedente:

"E quel buio, quel buio non si diradava.
Stava cercando la fine di un tunnel senza sapere se effettivamente quel tunnel avesse una fine.
Un’uscita, una luce.
Odore di disinfettante?
Buio, di nuovo, sempre buio..."

Vivere o morire


GIORNO 38.

«Sai mamma, papà è triste.» esordì Aida, con un leggero sospiro, solo dopo essersi assicurata che la nonna fosse uscita e che l’avesse lasciata sola con la sua mamma, distesa come sempre immobile sul letto, a occhi chiusi.
«O forse è arrabbiato, non lo so. Spero non sia arrabbiato con me.» continuò, accarezzando la mano fredda e inerme di Andrea.
«Quando lo vado a trovare parla poco, forse non mi vuole proprio vedere. Io ho paura che sia arrabbiato con me, ma non so perché dovrebbe esserlo... tu che cosa ne dici, mamma?».
A risponderle furono solo i suoni intermittenti delle macchine, che funzionavano ormai incessantemente da ventidue lunghissimi giorni.
«Dici che papà mi vuole sempre bene, mamma?».
La bambina continuava ad accarezzarle la mano, imperterrita.
Sia nonna Helen, sia Ben avevano provato ad affrontare l’argomento del risveglio della mamma, cominciando a prepararla al fatto che probabilmente Andrea avrebbe continuato a dormire per sempre. Ma lei non ci credeva. Non ne voleva sapere.
«Se tu ti svegliassi, mamma, sarebbe tutto più facile...».


«Danzare sotto la pioggia...» mormorò Ben, assorto.
La piccola finestra rimandava come una televisione un paesaggio quasi spettrale. Il cielo era grigio chiaro e una pioggia sottilissima batteva incessantemente contro il vetro, decorandolo di tante minuscole goccioline argentate.
Osservando un paesaggio del genere, le parole dell’anziano signore inglese con cui aveva parlato il giorno prima gli tornarono alla mente in modo spontaneo.
Il suo angelo custode, così lo aveva soprannominato.
«Danzare sotto la pioggia...».
«Che cosa stai dicendo, Ben?».
La voce alle sue spalle lo fece sobbalzare. Quasi si era dimenticato di trovarsi nella stanza di Semir, assorto come era rimasto, a un tratto, tra i suoi pensieri.
Il più giovane sorrise, avviandosi nuovamente verso il letto dell’amico, che era semi-seduto nonostante quella posizione ancora per lui non fosse affatto comoda.
«Nulla, niente di importante. Ieri ho rivisto un amico, sai Semir?».
Il turco aggrottò la fronte.
«Sarebbe?»
«Un signore... è una storia lunga. Però sai, parlare con lui mi ha fatto bene.»
Semir alzò gli occhi al cielo, immaginando dove l’altro volesse andare a parare.
«Mi ha detto che è proprio quando rimaniamo in silenzio che in realtà avremmo più bisogno di parlare.» concluse Ben, sedendosi accanto al letto e guardando l’amico negli occhi.
«Ben, piantala.» fece Semir, distogliendo lo sguardo.
Se pensava a tutto ciò che avrebbe voluto dire, a tutto ciò che avrebbe voluto gridare, la testa cominciava a girargli e un nodo strettissimo cominciava ad attanagliargli la gola. Non voleva, non voleva parlare. Non voleva pensare.
«Semir, guardami. Puoi guardarmi un momento?» replicò Ben, con decisione, scuotendo leggermente il braccio dell’amico per attirare la sua attenzione.
Il turco si voltò verso di lui, riluttante, attendendo che il più giovane continuasse.
«Sono passati trentotto giorni, Semir. Da quando mi hai parlato per la prima volta dei tuoi problemi con Andrea. Li ho contati. Trentotto giorni.».
«E quindi?» fece Semir, nonostante sentisse il nodo in gola stringersi e stringersi sempre di più.
«Trentotto giorni da quando mi hai parlato di voi, trentasei da quando è riemerso Keller dal passato. Ventisette da quando siete stati rapiti. Ventidue da quando... da quando...».
«Ben, ti prego.» lo interruppe l’altro, sforzandosi di non lasciarsi sopraffare dall’emozione «Lasciami in pace, smettila.».
Ma Ben non aveva alcuna intenzione di lasciar perdere. Voleva aiutare il suo migliore amico, e se sbattergli in faccia ciò che era successo, nonostante fosse doloroso, fosse servito, avrebbe fatto anche quello.
«Quando eravate in quell’edificio, dopo averti rapito, Keller ti ha fatto scegliere tra me e Andrea. Me l’ha raccontato, Semir. E prima ancora di fare questo ti ha fatto sentire in colpa per tutto quello che sarebbe accaduto. Ti ha rinfacciato che se le cose tra te e Andrea non andavano più era stata solo colpa tua, non è così? E poi ti ha detto anche...».
«Basta... Ben...» lo interruppe Semir.
La voce gli tremava.
«Semir, voglio solo che tu capisca che hai bisogno di parlare. Che hai bisogno di sfogarti, altrimenti...».
Il turco lo interruppe di nuovo. Il nodo in gola era stretto, si sentiva soffocare.
«Vattene, Ben. Vattene.».


«E poi, mamma, mi manca un po’ Lily.» continuò Aida, china sul letto di Andrea «In realtà mi manca tanto... zio Ben dice che lei sta bene e che mi guarda da lontano... però io non potrò più giocare con lei e aiutarla a fare i compiti. E anche se mi dava fastidio io le volevo bene... secondo te, mamma, Lily lo sa che le voglio bene?».
La bambina si passò una mano sugli occhi, asciugandosi una lacrima silenziosa che si preparava a percorrerle la guancia.
«Io spero che lo sappia. Mamma, ma tu non ti svegli perché vuoi raggiungere Lily?» domandò ancora, come se effettivamente la donna potesse darle una risposta.
Ma a risponderle era sempre e soltanto il silenzio.
«Se è vero che Lily sta bene, tu non potresti rimanere con noi? Papà non sta bene senza di te...».

Ben sospirò e, con calma, voltò le spalle all’amico, avviandosi verso la porta. Forse aveva esagerato. Forse, per cercare di aiutarlo, aveva fatto peggio. Avrebbe solo voluto che lui si sfogasse, ma forse era sbagliato, forse semplicemente avrebbe dovuto aspettare che il dolore facesse il suo corso.
Posò la mano sulla maniglia e la abbassò.
Ma, improvvisamente, la voce del collega alle sue spalle lo fermò.
«Ben...» lo richiamò Semir, in un sussurro.
Il giovane si voltò, sorpreso che l’altro lo stesse fermando. Ma non appena vide i suoi occhi pieni di lacrime, mollò la maniglia e tornò di corsa a sedersi accanto al suo letto.
«Socio, che cosa succede?».
«Scusami... non ce l’ho con te, scusami...» mormorò il turco, mentre una lacrima silenziosa gli rigava il viso.
«Lo so, Semir, non ti preoccupare.».
«Ben... Lily è morta.».
Il ragazzo annuì, piano. Gli prese la mano.
Sapeva che quel momento sarebbe arrivato. Sapeva che prima o poi l’amico avrebbe realizzato tutto ciò che era effettivamente accaduto e da un certo punto di vista aveva addirittura sperato che quel momento arrivasse il più presto possibile.
«Lily è morta.» ripeté Semir, in un sussurro.
Ben continuò ad annuire, guardandolo negli occhi e stringendogli la mano, sperando solo che lo sentisse vicino.
«Lily è morta  e Andrea sta morendo.» continuò lui «E io... io non potrò più camminare.».
«Ma Aida sta bene.» disse il giovane ispettore di rimando, tutt’a un tratto «Aida sta bene e ha bisogno di te. Devi essere forte, socio.».
Semir scosse il capo con forza «Ma Ben, non mi posso muovere! E Lily...».
«Sì, Semir, ma tu devi essere forte e so che puoi esserlo, che lo sei. Aida sta bene, quindi devi farlo per lei.».
«Dovevo morire io...».
«Ehi, socio, non dire così. Non è vero.».
«Lily è morta...» ripeté lui, mentre le lacrime bagnavano il cuscino.
Ben continuava a stringergli la mano, mentre gli occhi anche a lui diventavano lucidi.
Ma l’amico non rispondeva alla stretta. Non ne aveva la forza.
«Ben, è tutta colpa mia. È solo colpa mia.».
«No, socio, non è così. Non è così, devi credermi.».
Semir scosse il capo, distolse lo sguardo dagli occhi dell’altro ispettore. Aveva resistito a lungo perché voleva che lui non lo vedesse così, voleva che nessuno lo vedesse così. Non voleva parlare con nessuno. Ma non ce la faceva più a tenere tutto dentro, non ci sarebbe più riuscito.
«Ben, non voglio vivere così.» disse, piano, mentre i singhiozzi lentamente si calmavano, ma gli occhi rimanevano lucidi.
Ben si morse il labbro.
Nonostante tutta la sua buona volontà, una lacrima fece capolino anche sulla sua guancia.
«Socio, non dire così... ti prego...».
«Non voglio vivere così, non ce la faccio.» ripeté il turco. La disperazione nella sua voce era tangibile, ma la sicurezza con cui aveva pronunciato quella frase gettò il più giovane nel panico.
«Ce la fai, ce la farai. Ti aiuterò io. Ma devi volerlo, Semir, e so che in fondo lo vuoi, perché non lasceresti sola Aida. Non la lasceresti mai.».
Semir scosse il capo, stringendo i pugni, senza provare più a impedire che le lacrime scendessero.
«Non ce la faccio...».
«Semir...».
«Dovevate lasciarmi andare, Ben, ti avevo chiesto di lasciarmi andare. Perché non mi avete lasciato morire?».


«Papà senza di te sta male.» ripeté Aida, con gli occhi lucidi e la mano ancora stretta attorno a quella immobile della madre.
«Comunque io ora vado, vado a trovare papà. Gli porto un bacino da parte tua, va bene mamma?» fece la bambina dopo un attimo di silenzio, baciando la donna sulla guancia.
Poi fece per ritrarre la mano dal letto per allontanarsi e avviarsi verso l’uscita, ma qualcosa la trattenne.
La piccola inizialmente non capì che cosa fosse. Si voltò di nuovo verso la mamma distesa, che era sempre immobile e a occhi chiusi.
Eppure, qualcosa l’aveva trattenuta.
La mano.
Con il cuore che cominciava a battere a mille, Aida si riavvicinò al letto, sempre tenendo la sua manina attorno alla mano di Andrea.
Perché quella mano si era mossa.
Sua mamma si era mossa, ne era sicura.


Ben non rispose a quella domanda.
Perché non mi avete lasciato morire?
Il giovane ispettore sentì una morsa strettissima allo stomaco e non seppe che cosa rispondere.
Infatti rimase in silenzio, immobile, a guardare con gli occhi sbarrati l’amico che a sua volta lo guardava negli occhi.
«Ero sotto una colonna, Ben. Potevate lasciarmi morire.» ripeté Semir, in un sussurro.
«Non dire così...» bisbigliò il più giovane «Non puoi dire così, socio. Tu sei...».
Ben si bloccò, interrotto da un rumore.
Corrucciò la fronte e si voltò verso la porta della stanza, che proprio in quel momento si aprì di scatto.
Chris Schneider comparve trafelato sulla soglia.
Non lo guardò nemmeno, si rivolse direttamente a Semir.
Ma prima di parlare dovette respirare e riprendere fiato.
Si aggiustò gli occhiali sul naso poi, tratto un profondo respiro, si appoggiò allo stipite della porta, fissando i propri occhi chiari in quelli del suo paziente.
«Ispettore... Ispettore, è appena accaduto un miracolo.».

 

N.d.A.
Non sono molto soddisfatta di questo capitolo, ma eccomi qua.
Ancora quattro o cinque capitoli e siamo alla fine, grazie a chi ancora resiste!
A presto,
Sophie

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Capitolo 35
*** Vivere ***


Dal capitolo precedente:

"«Ero sotto una colonna, Ben. Potevate lasciarmi morire.» ripeté Semir, in un sussurro.
«Non dire così...» bisbigliò il più giovane «Non puoi dire così, socio. Tu sei...».
Ben si bloccò, interrotto da un rumore.
Corrucciò la fronte e si voltò verso la porta della stanza, che proprio in quel momento si aprì di scatto.
Chris Schneider comparve trafelato sulla soglia.
Non lo guardò nemmeno, si rivolse direttamente a Semir.
Ma prima di parlare dovette respirare e riprendere fiato.
Si aggiustò gli occhiali sul naso poi, tratto un profondo respiro, si appoggiò allo stipite della porta, fissando i propri occhi chiari in quelli del suo paziente.
«Ispettore... Ispettore, è appena accaduto un miracolo.»."

Vivere

«È appena accaduto un miracolo.» ripeté il dottor Schneider, trafelato, rimanendo immobile sulla soglia.
Ben in un primo momento, nonostante le parole del dottore, credette che fosse successo qualcosa di terribilmente grave.
Non lo aveva mai visto così: Christopher Schneider, dal momento stesso in cui lo aveva conosciuto, gli era sembrato la persona più razionale che potesse esistere sulla faccia della terra e vederlo così, di punto in bianco, agitato e tremante, gli incuteva timore.
Non captando alcuna reazione da parte dei due uomini all’interno della stanza, il medico si staccò dallo stipite della porta e si avvicinò al letto del suo paziente, guardando insistentemente sia l’uno che l’altro.
«Mi avete sentito? Un miracolo!» esclamò, concitato.
Mentre l’amico rimaneva immobile, senza trovare la forza di parlare, fu Ben ad avere per primo il coraggio di chiedere.
«Che cosa è successo, Chris?» domandò, titubante, in un sussurro.
Schneider sorrise.
Impiegò qualche secondo prima di decidersi a rispondere, forse perché anche lui stentava a credere alle sue stesse parole.
«La signora Schäfer si è svegliata.» disse poi, in un soffio.
«Che... che cosa?» balbettò Semir, ancora sconvolto dalla conversazione che stava avendo con il collega fino a qualche secondo prima.
Gli sembrò che i battiti del suo cuore accelerassero a una velocità inestimabile e che le pareti della stanza cominciassero a girare vorticosamente attorno a lui.
Il dottor Schneider sorrise, si avvicinò a lui e gli prese la mano. Non era mai successo prima.
«Sua moglie si è svegliata.» ripeté, con l’emozione tangibile nella voce «È sveglia.».
«Lei è... è...».
«Sveglia, sì.» concluse il medico, con gli occhi che brillavano.
Semir aprì la bocca per dire qualcosa, ma non ne uscì alcun suono. Rimase a guardare l’uomo che aveva davanti senza dire niente per almeno un minuto, cercando una tacita conferma che avesse sentito bene.
Le lacrime fecero nuovamente capolino dai suoi occhi senza che lui potesse fermarle.
«Andrea è sveglia?» mormorò poi, con un filo di voce, senza credere a ciò che stava accadendo.
Schneider annuì, dando loro un’ennesima conferma, mentre Ben si alzava e gli sfiorava una spalla, come a cercare un ulteriore cenno di assenso.
«Credetemi, questa volta la scienza non basta nemmeno a me come spiegazione... è un miracolo.» disse il medico, con un sorriso sincero dipinto in viso.
Semir non ce la fece più.
Sentì le lacrime calde rigargli il viso e cominciò a singhiozzare, in silenzio. E sorrise tra le lacrime.
Non ci credeva, non riusciva a crederci.
Lo avevano preparato al peggio, gli avevano detto tutti che sarebbe morta, che sarebbe stata solo questione di tempo. E invece...
«Posso vederla?» riuscì a domandare, con la voce rotta dall’emozione.
«Domani, ispettore.» accordò Schneider, poggiandogli una mano sulla spalla «Domani...».

Un quarto d’ora prima.


Aida corse fuori dalla stanza più veloce che poteva, in preda al panico e al tempo stesso a una strana eccitazione.
Senza nemmeno rendersene conto, a pochi passi dalla soglia che aveva appena varcato scontrò qualcuno che camminava nella direzione opposta alla sua.
Fece per cambiare traiettoria e continuare a correre senza nemmeno guardare di chi si trattasse, ma l’uomo la trattenne delicatamente per un braccio.
«Ehi, piccola, che cosa succede?» le chiese il dottor Schneider, con gli occhi colmi di apprensione.
La bambina lo guardò, confusa.
Stava correndo a chiamare Ben, ma il dottore sarebbe stato ancora meglio.
«La mamma...» mormorò, con la voce che le tremava.
Il medico spalancò gli occhi, temendo il peggio.
Meno di un secondo più tardi, era nella stanza con la bambina.
E quello che vide lo lasciò senza parole.

Andrea Schäfer, quella donna che lui stesso per primo aveva praticamente dato per morta già ventidue giorni prima, era lì distesa sul letto che lo guardava.
Gli occhi appena schiusi per la fatica, il respiro affannoso e l’incarnato pallidissimo, ma era sveglia e lo guardava.
Chris Schneider si avvicinò al letto, quasi con titubanza, mentre Aida, alle sue spalle, stava immobile addossata alla parete, felice e al tempo stesso tremendamente spaventata.
«Signora Schäfer... signora, mi sente? Può sentirmi?» le chiese.
E quando la donna distesa gli disse di sì con un movimento della testa appena accennato, quasi non ci credette. Si trovava davanti a un miracolo.
«Va bene... si ricorda chi è? E che cosa è successo? Se lo ricorda?» continuò il medico, impaziente come un bambino, estraendo nel frattempo dal taschino del camice la piccola luce che usava per controllare i riflessi pupillari «Sa dove si trova?».
Andrea annuì di nuovo, sforzandosi di rimanere sveglia.
Le sembrava di trovarsi dentro a una bolla.
Capiva a stento ciò che quell’uomo in camice bianco le diceva, ma si stava sforzando con tutta se stessa di recuperare almeno un minimo di lucidità.
Aveva visto Aida, l’aveva vista e stava bene. Andava tutto bene.
Aprì la bocca per parlare, stringendo gli occhi per lo sforzo.
«No, non si sforzi signora Schäfer, non si preoccupi di parlare adesso.» fece il medico, con più calma rispetto a come le aveva parlato prima
Le controllò la reazione pupillare, poi selezionò qualcosa su un monitor e annotò qualcos’altro su una cartella.
«Semir...» riuscì a mormorare Andrea, con un filo di voce «Devo... devo vedere...».
Ma poi le palpebre le si abbassarono e il buio si chiuse precipitoso su di lei.

 

N.d.A.

In ritardissimo, non sapete quanto mi dispiaccia, ma sono stata risucchiata dagli esami e non ho avuto un secondo di tempo libero. Ora, però, dovrei finalmente riuscire ad aggiornare in modo regolare fino alla fine.
Capitolo breve che si riallaccia al precedente, e finalmente qualcosa di positivo sembra essere accaduto...
Grazie a voi che continuate a seguirmi, a presto!
Sophie

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Capitolo 36
*** Mondo Beffardo ***


Dal capitolo precedente:

"Semir non ce la fece più.
Sentì le lacrime calde rigargli il viso e cominciò a singhiozzare, in silenzio. E sorrise tra le lacrime.
Non ci credeva, non riusciva a crederci.
Lo avevano preparato al peggio, gli avevano detto tutti che sarebbe morta, che sarebbe stata solo questione di tempo. E invece...
«Posso vederla?» riuscì a domandare, con la voce rotta dall’emozione.
«Domani, ispettore.» accordò Schneider, poggiandogli una mano sulla spalla «Domani...»."

Mondo beffardo

GIORNO 39.

Ben rimase addossato alla parete, immobile e muto, per tutta la durata dei controlli.
Osservava Schneider eseguire il suo lavoro in modo meticoloso e si chiedeva a che cosa di preciso stesse assistendo: davvero a un miracolo?
Andrea, stesa sul letto, seguiva con lo sguardo il dottore, rispondendo a ciò che egli le chiedeva, sforzandosi di rimanere lucida e cosciente.
Guardandola, Ben si sentiva terribilmente spaesato.
Ogni giorno era passato a salutarla e ogni giorno l’aveva trovata immobile nella stessa identica posizione in cui l’aveva lasciata il giorno prima, con il respiro a mala pena udibile e gli occhi sigillati. Ma adesso, la moglie del suo migliore amico era sveglia, reagiva agli stimoli e rispondeva alle domande del medico, seppur a fatica, in modo impeccabile.

«Okay, perfetto.» esclamò Chris Schneider all’improvviso, facendo sobbalzare il giovane ispettore «Per adesso ho finito. È... sorprendente, davvero. Ovviamente avrà bisogno di molto riposo e di rimanere monitorata, ma sembra... sembra che non vi siano danni permanenti dovuti al coma.».
Andrea accennò ad un sorriso, poi spostò lo sguardo su Ben, che però tornò a fissare le piastrelle del pavimento, colto all’improvviso da una specie di strano imbarazzo.
«Ben, se vuoi puoi rimanere qualche minuto.» continuò Schneider, poggiando all’ispettore una mano sulla spalla, con un sorriso.
«Dottore...» lo chiamò Andrea, con un filo di voce «Vorrei... io vorrei vedere mio marito.».
Il medico annuì, avviandosi verso la porta «Vado a vedere come sta, signora Schäfer. Nel frattempo la lascio con Ben, d’accordo?».
Poi l’uomo, sistemandosi gli occhiali sul naso, lasciò la stanza e si richiuse la porta alle spalle.

Ben si avvicinò al letto, titubante, e si sedette sulla sedia posta accanto alla donna distesa.
Impiegò qualche lungo secondo ad alzare lo sguardo su di lei. Era come se pensasse che qualsiasi brusco movimento avrebbe potuto da un momento all’altro capovolgere di nuovo la situazione, rompere l’incantesimo. E lui non voleva che accadesse.
Fu Andrea a parlare per prima, e lo fece con un tono di voce talmente basso che l’ispettore dovette avvicinarsi per riuscire a udirla.
«Ben... tutto bene?» domandò, sforzandosi di mantenere gli occhi ben aperti.
«Sì, certo, sì.» balbettò il giovane poliziotto, guardandola negli occhi «Scusa Andrea, è che io sono... sono... insomma, ci avevano detto che non ti saresti svegliata. Noi eravamo preparati al peggio.».
La donna annuì, piano.
Era contenta che il ragazzo fosse lì. Sapeva che non avrebbe mai abbandonato né lei né tantomeno il marito, e questo la faceva sentire sicura.
«Ben... dimmi che cosa... è successo...» mormorò, con un filo di voce.
Ben sbiancò all’istante. Di nuovo. Lo aveva già fatto con Semir e la prima volta non era andata bene. Non se la sentiva di farlo ancora, di dare ancora le stesse cattive notizie. Non ne aveva la forza.
Senza nemmeno accorgersene, stava già scuotendo il capo, terrorizzato.
«Ben... per favore.».
«Andrea, senti, io credo che tu prima dovresti riposare e poi...».
«Ben.» lo interruppe lei, con voce a mala pena udibile, eppure decisa «So già tutto... ho alcuni ricordi... mentre ero in coma Aida mi parlava e anche tu, e io ricordo quello che mi avete detto. Io so già...».
«Allora non farmelo ripetere... per favore.» controbatté Ben, quasi supplicando.
Non voleva dirlo. Non voleva dire a una madre che sua figlia era rimasta uccisa, non l’avrebbe fatto, non più.
«Io... io l’ho sentito, Ben.» fece Andrea, sempre sussurrando.
I suoi occhi chiari erano lucidi.
Il silenzio occupò la stanza per parecchi secondi.
Lo sapeva, Ben immaginava che Andrea sapesse tutto. E, a maggior ragione, non avrebbe pronunciato quelle parole.
Si limitò a seguire con lo sguardo la lacrima che silenziosa scendeva dagli occhi della donna, senza dire niente. Aspettò qualche minuto, in cui non accadde nulla, in cui lei piangeva in silenzio e il silenzio era sempre più immenso.
«L’ultima cosa che Lily ha visto, prima che ci rapissero... siamo stati io e Semir che litigavamo.» disse lei, a un tratto, con la voce rotta dall’emozione «L’ultima cosa che ha visto...».
«Andrea, non dire così...».
«Almeno...» aggiunse poi, con una lacrima ancora ferma sul viso «Almeno, se non vuoi parlarmi di Lily, dimmi come sta Semir.».
Parlava piano, faceva ancora troppa fatica a parlare.
Ben rispose nuovamente con il silenzio.
Le immagini del giorno prima, quando finalmente l’amico si era sfogato almeno in parte, gli tornarono prepotenti alla memoria. E poi quella frase, quella domanda che più di tutte lo aveva lasciato senza parole. Perché non mi avete lasciato morire?
Il giovane ispettore sospirò, continuando a non rispondere.
«Io voglio vederlo.» replicò Andrea, in un sussurro «Devo vedere mio marito...».

«Devo vedere Andrea.» fece Semir, non appena vide il dottor Schneider oltrepassare la soglia della sua stanza.
Chris si avvicinò al letto su cui era steso il suo paziente e un mezzo sorriso gli spuntò sulle labbra. Quell’uomo continuava a ricordargli tanto se stesso e il fatto che lui e la moglie continuassero a chiedere l’uno dell’altra gli faceva stranamente tenerezza.
«Con calma, ispettore, ora la porto da lei. Sua moglie ha una forza straordinaria, lo sa? Sembra non aver riportato danni e dopo più di venti giorni di coma questa è una notizia sorprendente, mi creda.».
Semir accennò un sorriso.
«Mi porti da lei, dottore, per favore.».
Schneider annuì, con calma. Si avvicinò al suo paziente e reclinò lo schienale de letto in modo che sollevarsi fosse più semplice, quindi aiutò Semir a mettersi seduto sul letto.
Poi sistemò la sedia a rotelle il più vicino possibile al letto e la fissò al pavimento.
«Pronto, ispettore?» domandò, con decisione «Se la sente?».
L’altro annuì, anche se la testa, come ogni volta che da sdraiato si metteva seduto, cominciava a girargli.
«Bene.» commentò il medico, pronto a sorreggere il suo paziente.
In men che non si dica, Semir si ritrovò seduto sulla sedia a rotelle, che ora Schneider stava dirigendo fuori dalla stanza. Provò a ordinare alla sua testa di fermarsi, mentre spinto dal dottore percorreva il bianco corridoio che lo avrebbe portato da sua moglie.
Ma la testa continuava a girare e il cuore aveva cominciato a battere a mille.
Chissà se Andrea sapeva. Chissà se sapeva di Lily. Chissà se sapeva delle sue gambe. Chissà se avrebbero mai potuto, davvero, ricominciare.


Ben uscì dalla stanza e aspettò che il medico, dopo aver sistemato la sedia a rotelle di Semir accanto al letto di Andrea, facesse altrettanto. Quando vide Schneider uscire in corridoio, gli sorrise e si diresse verso di lui, che si sistemava nervosamente gli occhiali sul naso.
«Ecco fatto.» esordì il dottore, indicando con lo sguardo la porta chiusa della stanza di Andrea «Finalmente possono parlare. Spero non ci siano altre complicazioni.».
«Lo spero anche io.» replicò Ben, con un sospiro, lasciandosi cadere seduto su una delle scomode sedie di plastica che occupavano parte del corridoio di fronte alle stanze.
«Chris, non credi che sarebbe possibile metterli nella stessa stanza, da ora in poi?» chiese poi, cercando con il medico un contatto visivo «Immagino dovranno stare ancora entrambi in ospedale e credo che... che stare insieme potrebbe aiutarli.».
«Vedrò quello che posso fare, Ben.» rispose Schneider con un mezzo sorriso, facendo poi per voltarsi e tornare al proprio lavoro.
Ma Ben lo fermò prima che l’uomo potesse allontanarsi anche solo di pochi passi.
«Chris, aspetta... ti devo chiedere una cosa.» disse, attirando nuovamente la sua attenzione.
Il dottore tornò a guardarlo, rimanendo però in piedi di fronte a lui.
«Ben, ho dei pazienti da controllare e...».
«Che cosa è successo a tua figlia, Chris?».
La domanda giunse talmente inaspettata che il medico non ebbe il tempo di prepararsi una risposta, un’espressione, oppure di sviare il discorso. Non ebbe il tempo di fare nulla, rimase semplicemente immobile, spalancando gli occhi e fissando l’ispettore che aveva di fronte come se si trattasse di un veggente.
«Che cosa... come...» balbettò, incredulo.
Mai una volta Ben lo aveva visto in quello stato. Mai una volta, fino a quell’istante, lo aveva trovato impreparato davanti a una domanda, senza parole come era in quel momento.
«Ben, come... di... di che cosa stai parlando?».
«Chris... ho visto come ti sei dedicato a Semir, sai? Ho visto quanto sei stato disponibile, ben oltre ogni aspettativa. Me ne sono accorto. Inizialmente pensavo che il caso ti stesse a cuore per qualche ragione che io non avrei mai compreso, ma poi...» Ben fece una breve pausa, scuotendo appena il capo e fissando il suo interlocutore negli occhi, senza lasciargli alcuna via di fuga «Poi, una settimana fa, ti ho chiesto come mai Semir non affrontasse l’argomento di Lily. E tu mi hai risposto che ognuno affronta un dolore del genere in modo diverso, e poi mi stavi per raccontare qualcosa, ma immediatamente ti sei bloccato e te ne sei andato, dicendo di avere dei pazienti da visitare. Quindi, Chris, se posso saperlo... che cosa è successo a tua figlia?».
Schneider sospirò.
Improvvisamente si sentì nudo, scoperto. Scacco matto.
Si sedette accanto al giovane ispettore, togliendosi gli occhiali e cominciando a pulirne le lenti ossessivamente, con un lembo del camice, come se quel gesto potesse in qualche modo aiutarlo a rilasciare la tensione.
«Ben, è una storia di molto tempo fa.».
«E sei sicuro di non avere bisogno di parlarne?» replicò Ben, con decisione.
Il medico scosse appena il capo, senza alzare lo sguardo sul ragazzo.
«Avevo una figlia, è vero. E l’ho persa, per questo immagino come possa sentirsi il tuo collega. Ma è successo tanto tempo fa.».
«Che cosa è successo, Chris?».
Schneider sospirò piano. Non lo aveva previsto. Non aveva pianificato di parlarne, in dieci anni non lo aveva mai fatto quasi con nessuno. Eppure, contro ogni aspettativa, cominciò a raccontare.
«Un incidente. Dieci anni fa... Io guidavo, ero in macchina con mia moglie e la mia bambina, Laila... aveva cinque anni. Io non... non ho visto un camion, non l’ho visto arrivare. E la cosa buffa è che non mi è successo niente, Ben. Mia moglie era ridotta in fin di vita, la mia bambina era morta sul colpo e io non mi ero fatto nulla.».
L’uomo si interruppe, prese un respiro.
Era passato tanto tempo, ma ancora quella ferita faceva male, troppo male.
«Lei poi si riprese. Mia moglie, intendo. E poi... poi mi lasciò. Lei non mi ha mai perdonato, io credo che... credo che ancora pensi che sia stata solo colpa mia. E anche io l’ho creduto, per tantissimo tempo. Sapessi quante volte ho sperato di morire, Ben. Sapessi quante volte sono tornato a quell’incrocio, fermandomici in mezzo, sperando che un furgone sbucasse dal nulla e mi travolgesse. Sapessi quante volte...».
Ben ascoltava senza fiatare, immobile e attento. Ora capiva ogni cosa.
«E poi?».
«Poi cosa, Ben?».
«Come hai fatto a...» l’ispettore si interruppe, senza nemmeno sapere bene che cosa volesse chiedere.
«Come ho fatto a ricominciare a vivere?» concluse Schneider, al suo posto «Ci sono voluti mesi, mesi interminabili. Non so che cosa sia stato, Ben. So che un giorno mi sono guardato allo specchio... e ho capito. Ho capito che la mia Laila non avrebbe mai voluto che io smettessi di vivere, che io mi trasformassi in un fantasma senza anima e senza uno scopo. Così, semplicemente, ho ricominciato. E non è stato semplice, Ben, non lo è stato per niente. Ma ce l’ho fatta e ora sto bene, e salvo vite umane. E lo faccio ancora meglio di quanto non facessi prima, perché ora so quanto vale ogni vita che mi capita tra le mani. Ora so che la mia vita ha uno scopo.».
«Io non... non sapevo tutto questo...» balbettò Ben, immaginando che forse avrebbe fatto meglio a stare zitto, a non intromettersi in ricordi così privati, che indubbiamente ancora facevano male.
«Non ti preoccupare.» fece il medico, tornando finalmente a guardarlo negli occhi.
«Chris, io ho paura che Semir...».
«Ce la farà, Ben.» lo interruppe Schneider, con un sorriso «Ha sua moglie, ha un’altra meravigliosa bambina e ha te, che sei il migliore amico che potesse desiderare. Ce la farà.».
Il giovane ispettore ricambiò il sorriso, chiedendosi quanti angeli custodi fossero scesi sul suo cammino nel giro di pochi giorni. Prima il signore baffuto dall’accento inglese, poi il dottor Schneider. Persone che erano entrate nella sua vita per caso e che gli stavano facendo bene.
«Comunque il mondo è beffardo, sai Ben?» continuò il medico, con uno strano sorriso «Il giorno in cui il tuo amico è arrivato in ospedale, il giorno in cui la bambina è morta e in cui noi ci siamo conosciuti, era il 30 di Novembre. Dieci anni esatti dall’incidente in cui era morta Laila. Dieci anni esatti... e io mi sono ritrovato a vivere una situazione simile, ma in terza persona. Per questo tenevo e tengo alla sorte dell’ispettore Gerkhan, come e più che a quella di altri pazienti.».
«Il mondo è proprio beffardo.» concluse Ben, con un sospiro.
«Comunque, ho davvero altri pazienti da controllare.» fece a un tratto Schneider, alzandosi dalla sedia e interrompendo il silenzio che si era appena venuto a creare «Devo andare.».
«Certo, Chris. Grazie, non eri tenuto a raccontarmi questa storia.» rispose l’ispettore, sorridendogli con gratitudine.
Il medico riposizionò con cura gli occhiali davanti ai propri grandi occhi azzurri, poi gli fece l’occhiolino «Non ti preoccupare, l’ho fatto volentieri.» disse voltandosi.
«Ora vado, vedrò di far sistemare l’ispettore Gerkhan e la moglie in un’unica stanza, te lo prometto.» aggiunse, prima di allontanarsi e sparire in fondo al corridoio, avvolto nel suo ampio camice bianco.

 

N.d.A.
E anche il passato del medico è stato svelato.
Ci avviciniamo alla fine, tengo molto ai prossimi capitoli, spero davvero possano lasciarvi qualcosa.
Grazie a chi continua a leggere, a presto!
Sophie

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Capitolo 37
*** Ho scelto il silenzio ***


Dal capitolo 4:
"«Bene. Ora lasciami solo.».
La donna alzò un sopracciglio, contrariata.
«Per favore.» aggiunse l’uomo, sforzandosi di essere gentile.
Lei annuì e uscì, senza emettere un fiato e richiudendosi piano la porta alle spalle.
Keller ascoltò i suoi passi allontanarsi e sospirò, immergendosi nel silenzio che finalmente regnava sovrano nella piccola e umida stanza. Dopo qualche minuto passato a contemplare il vuoto, si decise a muoversi e estrasse dal cassetto nascosto sotto al tavolo alcuni fogli di carta ingiallita e una vecchia penna.
Era una stilografica, l’uomo si sorprese chiedendosi per quanto tempo fosse rimasta abbandonata lì dentro.
Poi si chinò sul foglio, cominciando a scrivere.
“Cara Isabelle...”."

Ho scelto il silenzio


GIORNO 40 – 24 Dicembre.


Frederich Keller rientrò nella propria cella lentamente, tanto che una guardia non mancò di dargli una spinta poco gentile per intimargli di sbrigarsi.
Una volta solo, sedette sulla scomoda panca che sporgeva dal muro ed estrasse dalla tasca ciò che era riuscito a rubare dalla mensa. Sapeva che non sarebbe stato complicato ottenerla, ma vi aveva comunque pensato a lungo prima di rubarla.
Ormai era in carcere da quasi due settimane, ma prima non ne aveva avuto il coraggio.
Sistemò l’oggetto sulla panca, alle sue spalle, estraendo dalla tasca qualcos’altro: la foto della sua famiglia.
Era riuscito a tenerla con sé, sempre, nonostante tutto. Anche sotto le macerie, quel giorno, agonizzante in mezzo ai massi, era stato attento a non perderla.
La spiegò e, con calma, cominciò a studiarla. Come sempre, come se la guardasse per la prima volta.
Sophie e Martha, le sue due bambine: la prima, sette anni, aveva i capelli scuri e ricci e gli occhi grigi del padre, taglienti ma al tempo stesso incredibilmente profondi. Era così carina nel suo vestitino a quadretti gialli, così allegra e solare. Accanto a lei, Martha, catturata nella foto mentre faceva una buffa smorfia rivolta alla sorella. Capelli biondi, occhi azzurri, la copia perfetta della madre. Aveva solo quattro anni. Poi, tra le bambine, Isabelle. L’amore della sua vita. La donna a suo avviso più bella che avesse mai incontrato, la più dolce, la più comprensiva.
Keller sorrise alla foto, come sorrideva ogni volta che le vedeva: la sua ragione di vita.
Una musichetta conosciuta arrivò alle sue orecchie da un corridoio lontano. Le guardie provavano a distrarsi, ad accontentarsi di dover essere in servizio anche quella sera, forse sperando di poter essere a casa prima della mezzanotte.
Era la vigilia di Natale.


Ben si sedette sul divano, esausto. Chiuse gli occhi per un momento, solo per un momento, e quando li riaprì Margaret era davanti a lui, con un sorriso dipinto sulle labbra e un maglione rosso attorno alle spalle.
Il giovane poliziotto le fece cenno con la mano e lei si sedette accanto a lui, accoccolandosi sul divano tra le sue braccia.
L’atmosfera attorno a loro era quasi perfetta.
Le luci soffuse, il piccolo albero di Natale addobbato alla perfezione, fuori il buio della sera e dentro il calore emanato dalla piccola stufa sistemata nell’angolo del salotto. Quasi perfetta.
Perché a Ben, quella vigilia di Natale sembrava strana.
Durante gli ultimi anni aveva trascorso il Natale con la famiglia Gerkhan, piuttosto che con la sua famiglia, attorniato dalle risate scherzose delle bambine, suonando la chitarra e spacchettando regali al posto di Lily, divertendosi come un bambino.
Ora le cose erano cambiate, ora c’era Margaret, e per questo probabilmente non avrebbe trascorso il Natale con la famiglia Gerkhan a prescindere da ciò che era successo. Tuttavia, sapere Semir e Andrea soli in un letto d’ospedale lo angosciava terribilmente.
«Dovresti rilassarti, Ben.» disse Maggie a un tratto, come se gli avesse letto nel pensiero «Sei stato con loro fino a poco fa, tornerai domani a vedere come stanno. Ma ora, per un momento, prova a non pensare.».
«Non riesco a non pensare.» mormorò Ben, guardandola negli occhi «Loro sono... è come se fossero la mia famiglia, come faccio a non pensare?».
La ragazza sospirò, annuendo comprensiva, ma estrasse qualcosa dalla tasca dei jeans che indossava: un foglio piegato in quattro e leggermente ingiallito.
Con un mezzo sorriso, lo spiegò e lo mise davanti agli occhi di Ben, mostrandoglielo.
«La lettera di Keller?» chiese il poliziotto, con il timore negli occhi.
«Non credi sia giunto il momento di leggerla, Ben?» fece lei, stringendosi di più al poliziotto e mettendogli il foglio tra le mani.
«Non so se voglio farlo, Maggie...».
«Dai...» sussurrò lei, stringendogli la mano.
Poi, cominciarono a leggere.


Keller ripiegò la foto e la mise in tasca, dove era sempre stata.
Ripensò a Semir Gerkhan e a tutto quello che gli aveva fatto.
Ripensò a quegli occhi colmi di terrore e rivide per l’ennesima volta se stesso, sette anni prima.
Ripensò alle grida della moglie e delle bambine, legate in quell’edificio predisposto all’autodistruzione e alle parole piene di odio di Kate.
Ripensò a Ben Jager, a quel ragazzo che gli aveva parlato, lo aveva ascoltato, nonostante tutto.
Aveva ottenuto quello che voleva, aveva rovinato la vita a Gerkhan, esattamente come aveva previsto.
Immerso nei propri pensieri, si alzò, prese la corda che aveva rubato dalla mensa e rimase fermo a guardarla: era una corda sottile, gli addetti la usavano per chiudere i sacchi delle patate. Ma era abbastanza resistente.
Spostò lo sguardo sulle inferriate della piccola finestra che si apriva nel muro grigio e uniforme.
Poi tornò a guardare la corda e, con un mezzo sorriso, la legò a cappio.
Sapeva perfettamente quello che stava facendo.


Cara Isabelle,
lo so, non sarai tu a leggere questa lettera, ma voglio comunque indirizzarla a te. Perché a leggerla sarà qualcuno che si prende il diritto di scavare nella mia vita... e la mia vita sei tu, sei sempre stata tu.
È il 17 Novembre e ti scrivo da una sudicia cantina nella periferia di Colonia.
Sto preparando la mia vendetta, Isabelle, sto preparando la vostra vendetta. Tu e le bambine sarete vendicate, finalmente, dopo sette lunghi anni.
Lo so, non approveresti. E, probabilmente, non approverei nemmeno io se non fossi accecato dall’odio.
Ma io vedo solo questo, Isabelle, vedo solo odio. Ho trascorso sette anni in una cella di cui qualcuno aveva già buttato via la chiave e l’unica cosa che mi ha tenuto in vita, oltre al vostro ricordo, è stato l’odio per quell’uomo. Quell’uomo che vi ha portate via da me. Che vi ha ridotto in cenere.
Lui vedrà la sua vita crollare, fosse l’ultima cosa che faccio.
Semir Gerkhan desidererà di morire, esattamente come l’ho desiderato io. Ma sopravvivrà, così come io sono sopravvissuto.
Lo so, Isabelle. Lo so che non approveresti. Ma non riesco a darmi pace in nessun altro modo.
Erano per l’America, sai? Quei quattro biglietti che ti ho consegnato in una busta chiusa, sette anni fa, e che ti ho chiesto di custodire in borsa fino a che non fossi tornato alla macchina.
Erano per l’America.
Avrei concluso lo scambio, saremmo fuggiti insieme. Io, te, le nostre bambine.
Avremmo cambiato vita, avrei cambiato vita. Sarei diventato il padre che loro meritavano, perché loro meritavano di più. Lo volevo davvero.
Ma poi quell’ispettore si è messo in mezzo, Isabelle.
E mi ha tolto tutto.
Tu mi aspettavi in macchina, non avrai capito che cosa stesse succedendo. Avrai udito gli spari, magari avrai provato a farti notare, ma i vetri erano oscurati. Magari avrai provato a scendere, ma le portiere erano bloccate.
E Gerkhan ha continuato a sparare.
Tu avrai visto le fiamme, Isabelle. O forse non hai avuto nemmeno il tempo per vederle, per sentire il loro calore.
Siete diventate cenere sotto i miei occhi, e io ho cessato di vivere e cominciato a sopravvivere, in quel preciso istante.
Chiunque tu sia, lettore, probabilmente la mia vendetta ora che leggi è già stata compiuta. Ebbene, tu sappi che io avrei voluto cambiare vita, che quell’uomo me l’ha impedito e mi ha tolto tutto ciò che amavo, e che io avevo bisogno di far provare a lui le stesse cose, per ricominciare a vivere.
Chiunque tu sia, sappi che sono stato un uomo, non solo un mostro. E ciò che mi rendeva uomo, erano mia moglie e le mie figlie. E lui me le ha strappate.
Chiunque tu sia, non è pietà quella che ti chiedo. Non chiedo niente. Ho scritto perché sento il bisogno che qualcuno legga, che qualcuno ascolti. Che qualcuno sappia perché.
Isabelle, perdonami. Se puoi vedermi, se puoi osservarmi dall’alto, ti prego, perdonami.
Ti amo tanto quanto sette anni fa, amo le nostre figlie e le sento ogni giorno, sento le loro voci nella mia testa. E gridano, Isabelle, loro non smettono mai di gridare.
Forse dopo che avrò fatto quello che devo fare, forse loro smetteranno di gridare e ci sarà silenzio.
Voglio solo silenzio.
Ti amo, Isabelle. Ti amerò sempre.


Ben e Margaret staccarono contemporaneamente gli occhi dal foglio e incrociarono tra di loro gli sguardi.
Entrambi avevano gli occhi lucidi.
«Voleva davvero cambiare vita.» mormorò Maggie, in quella che sembrò una via di mezzo tra una domanda e una semplice affermazione.
«Maledetto bastardo.» fu l’unica cosa che riuscì a sussurrare Ben, trattenendo a stento le lacrime e allontanando da sé il foglio, per vincere l’impulso di strapparlo «Maledetto bastardo...».


Non gridavano più.
Keller non le sentiva più.
Per la prima volta, dopo sette anni, appeso a quelle inferriate con un cappio stretto attorno al collo, non sentiva più le grida di dolore delle sue bambine.
Solo silenzio.
Per la prima volta.
Stava scegliendo di non sopravvivere.
Ora le bambine gli correvano incontro, allegre. Martha, sorridente, seguita da Sophie nel suo vestito giallo a quadretti. E poi lei, Isabelle, con gli occhi blu scintillanti e pieni di speranze.
Per una nuova vita, insieme.

Le guardie lo trovarono lì, nella sua cella, la mattina seguente, con uno strano sorriso disegnato sul volto ormai immobile.


Margaret si alzò dal divano, per poi tornare a sedersi accanto a Ben con un plico di fogli rilegati alla bell’è meglio, che mostrò al poliziotto. La prima pagina era di cartoncino nero e non vi era scritta nemmeno una parola.
Lui la guardò con fare interrogativo, ancora sconvolto dalle parole di Keller che aveva appena finito di leggere.
«Che cosa...».
«Ho finito il libro, Ben.» spiegò lei, posandogli il plico sulle ginocchia «L’ho finito e vorrei che lo leggessi. Non lo pubblicherò. Ma vorrei che tu lo leggessi.».
L’ispettore guardò il cartoncino nero, senza capire.
«Questo è il romanzo a cui stavi lavorando?».
La ragazza annuì, guardandolo negli occhi.
«Ci tengo molto che tu lo legga.».
Ben annuì, ma non lo sfogliò. Rimase immobile a osservare la copertina nera, senza trovare la forza di aprirlo, pur non conoscendone il motivo.
Spostò lo sguardo su Margaret e incatenò i suoi occhi scuri a quelli verdi di lei.
Lei gli prese il viso tra le mani e gli accarezzò i capelli, dolcemente.
«Ben, fammi un sorriso. È mezzanotte. È Natale.».
Ben distolse lo sguardo, senza rispondere.
Tornò a guardare il plico di fogli che aveva sulle ginocchia e finalmente sollevò il cartoncino nero, scoprendo un foglio bianco sul quale troneggiava, al centro, una scritta in corsivo.
Il titolo.
Leggendolo, Ben sorrise.
Sopravviviamo.”.


 
N.d.A.
E qui si conclude la storia di Keller.
Anche il contenuto della lettera è stato svelato, piano piano tutti i pezzi si risistemano, più o meno.
Grazie sempre, a presto!
Sophie

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Capitolo 38
*** Per Lily ***


Dal capitolo precedente:

"Lei gli prese il viso tra le mani e gli accarezzò i capelli, dolcemente.
«Ben, fammi un sorriso. È mezzanotte. È Natale.».
Ben distolse lo sguardo, senza rispondere.
Tornò a guardare il plico di fogli che aveva sulle ginocchia e finalmente sollevò il cartoncino nero, scoprendo un foglio bianco sul quale troneggiava, al centro, una scritta in corsivo.
Il titolo.
Leggendolo, Ben sorrise.
“Sopravviviamo.”."

Per Lily

VENTI GIORNI DOPO – GIORNO 60.

Andrea oltrepassò la soglia dell’ospedale sulle proprie gambe e respirò l’aria fredda di Gennaio a pieni polmoni.
Era finita, finalmente.
Poi però i pensieri tornarono a scorrere nella sua mente e il suo volto si rabbuiò, di nuovo.
Non era vero, non era finita. Non sarebbe mai finita, mai più.
Guardò poco distante da lei sua madre che controllava Aida, seduta sull’altalena nel giardinetto che sorgeva di fronte al grande edificio: la stavano aspettando.
Armandosi nuovamente di sorriso, raggiunse la sua bambina e la abbracciò forte.

«Okay, direi che siamo a posto.» disse Ben tra sé e sé, controllando l’interno di un cassetto del comodino in quella stanza di ospedale.
Guardò il letto vuoto e le pareti bianche che lo circondavano e come sempre provò l’impulso irrefrenabile di scappare, di allontanarsi da quel posto per non rimetterci piede mai più.
Questa volta, però, sarebbe stato effettivamente così.
Era finita, non avrebbe più trascorso intere ore in quelle stanze asettiche, Semir e Andrea andavano a casa e lui ne era enormemente sollevato.
Uscendo nel corridoio, vide Semir sulla sua sedia a rotelle che parlava con Christopher Schneider e, vedendolo, il sollievo lo abbandonò del tutto.
Come sempre.
Li raggiunse con un sorriso stampato in volto, rivolgendo al medico un veloce cenno di saluto.
«Ben, ciao.» lo apostrofò Chris, con un sorriso «Ho già spiegato tutto all’ispettore Gerkhan, direi che dovete solo andare e tornare a casa al più presto.».
«Può anche non chiamarmi più “ispettore Gerkhan”, dottore.» puntualizzò Semir, con un sorriso amaro.
Il medico rimase in silenzio, visibilmente a disagio. Errori del genere con i pazienti non poteva permetterseli, non più.
Aprì la bocca per scusarsi, ma Ben lo precedette, facendo finta che quella frase non fosse stata mai pronunciata.
«Non ti preoccupare, Chris, andiamo dritti dritti a casa. Andrea è già giù con sua mamma e Aida.».
Schneider annuì, guardando il ragazzo ed evitando invece lo sguardo del suo paziente.
«Bene... ecco, lei...» balbettò, rivolgendosi nuovamente a Semir «Lei... lei e sua moglie dovrete assolutamente continuare a prendere i farmaci che vi ho prescritto e... e le visite, venite alle visite di controllo, va bene?».
Il turco annuì «Certo, va bene. Grazie di tutto.» fece, porgendogli la mano.
Il medico la strinse con vigore, guardandolo finalmente negli occhi.
«Ho fatto solo il mio lavoro. Buona fortuna.».
Semir accennò a un sorriso, poi distolse lo sguardo e cominciò a spingere la propria sedia verso l’ascensore, senza aspettare Ben, che invece rimase fermo ancora per qualche istante accanto al chirurgo.

Ben guardò l’amico avviarsi lungo il corridoio silenzioso e gli occhi gli divennero lucidi.
«Ehi, Ben, guardami.» fece Schneider, prendendogli le spalle e costringendolo a guardarlo negli occhi «Ben, non fare così, okay?».
Il giovane ispettore scosse leggermente il capo, si passò una mano sugli occhi.
«Guardalo, Chris. La sua vita è distrutta. È su una sedia a rotelle. Io... io sto male a vederlo così.».
«Lo so, Ben, lo so. Perché gli vuoi bene. Ma lui ha bisogno che tu sia forte, lo sai.».
Ben annuì, con un sospiro.
«Io non so come ringraziarti. Non sei stato solo il suo medico, tu hai aiutato tantissimo anche me, davvero.».
Schneider sorrise, guardando il ragazzo con un affetto quasi paterno «Lo ripeto anche a te, ho fatto solo il mio lavoro. Se avessi bisogno di qualcosa, di qualunque cosa, chiamami. Va bene?».
«Okay, grazie.».
«Ora raggiungi il tuo amico e uscite da questo dannato ospedale.».
Ben rise, rivolgendo un ultimo cenno di saluto al medico e avviandosi verso l’ascensore, ma l’uomo lo richiamò ancora una volta.
«Ben, aspetta, dimenticavo...» disse, estraendo dalla tasca un biglietto da visita e porgendoglielo «È di uno psicoterapeuta. Ora è anziano, ma è bravo, molto, lui mi ha... mi ha aiutato molto dopo quello che è successo, dieci anni fa. E credo che Semir e Andrea avranno bisogno di aiuto.».
Ben prese il biglietto e lo mise in tasca, senza leggere il nome che vi era scritto sopra.
«Vedi, Chris? Tu fai molto più del tuo lavoro. Grazie.» mormorò, allontanandosi e raggiungendo Semir davanti alle porte dell’ascensore.
Sarebbe rimasto grato a quell’uomo per sempre.

 

Ben fece scattare la serratura e aprì la porta di casa Gerkhan senza lasciare nemmeno per un attimo che il sorriso che si era stampato sul volto uscendo dall’ospedale potesse sparire dal proprio viso.
Tenne la porta aperta mentre Andrea varcava la soglia di casa, seguita da Aida che teneva stretta la mano della nonna.
Semir, invece, rimase indietro.
Ben corrugò appena la fronte non vedendolo entrare, ma poi lo notò fermo a pochi passi dalla soglia, sulla propria sedia a rotelle, girato verso il giardino antistante la villetta.
«Ehi socio... non entri?» gli domandò, appoggiandogli una mano sulla spalla e facendolo quasi sobbalzare.
«Arrivo.» mormorò il turco, con un sospiro.
Quindi girò la sedia  e varcò la soglia, senza degnarlo di uno sguardo.

«Finalmente, mi mancava la mia casa.» esclamò Aida, sprofondando sul divano e annusando l’aria come se non tornasse in quel luogo da anni «A te non mancava, mamma?».
«Ma certo che mi mancava, tesoro.» rispose Andrea, scompigliandole i capelli e poi lasciandole un tenero bacio sulla fronte «Ben, vuoi un caffè?».
Ben annuì, accettando volentieri.
Mentre Andrea faceva gli onori di casa, quasi come se dall’ultima volta che aveva preparato un caffè a Ben non fosse accaduto nulla di terribile, Helen Schäfer si dileguò, salutando la figlia con un bacio sulla guancia e scusandosi, dicendo che sarebbe andata a casa e che per qualsiasi problema sarebbe tornata immediatamente.
Ben guardò con tenerezza l’anziana signora, pensando a quanto anche lei avesse dovuto sopportare. La accompagnò alla porta, salutandola con affetto e aspettando che sparisse in fondo alla via prima di tornare in casa.
Quando richiuse la porta, Andrea era in cucina con Aida ad aspettare che il caffè fosse pronto, mentre Semir era rimasto immobile nell’ingresso, assorto nei propri pensieri.
La voce squillante della bambina arrivava dall’altra stanza e al ragazzo, nonostante tutto, metteva allegria.
Si avvicinò all’amico, con un sorriso.
«Socio...».
«Quando la pianterai di chiamarmi così, Ben?» lo interruppe Semir, bruscamente.
Il più giovane rimase di pietra, in silenzio.
«Non esiste più nessun socio, non lo capisci?» continuò l’altro, alzando la voce.
«Semir, dai, non dire così...».
«Non dire così, certo, che cosa dovrei dire?».
Ben non rispose.
Pensò ansiosamente a che cosa avrebbe potuto dire per tranquillizzare l’amico, per aiutarlo, ma la verità era che non sapeva come fare. E, peggio, lui non voleva essere aiutato.
«Non sarò mai più il tuo socio, Ben.» continuò Semir, con più calma, abbassando la voce «È tutto finito, non posso più fare niente. Vorresti sentirmi dire che sono felice di essere tornato a casa? Non lo sono... io non sono felice.».
«Lo so, socio. Ma io continuerò sempre a chiamarti così, perché per me socio non significa solo compagno di pattuglia.» fece Ben, sedendosi sul divano a pochi passi dall’amico «Il fatto che tu sia su una sedia a rotelle non significa che tu non possa più fare niente... devi reagire.».
«Non voglio reagire.» sillabò il turco, ora sottovoce.
«Ma devi farlo, Semir! Fallo per Andrea, per Aida... fallo per Lily...».
«Lascia perdere Lily.».
«Non lascio perdere Lily.» insistette il più giovane, guardando l’altro negli occhi «Non lascio perdere Lily, perché so che lei, una volta cresciuta, avrebbe desiderato che tu andassi avanti. Che tu continuassi a vivere!».
«Lily non crescerà mai perché è morta ed è morta per colpa mia.» sbottò Semir, alzando nuovamente la voce «E non dirmi di non sentirmi in colpa, Ben, perché è così, è stata colpa mia. E il fatto che io sia una sedia a rotelle è... io sarei dovuto morire.».
«Hai mai pensato che c’è un motivo se non sei morto, Semir? Lo hai mai pensato?» gridò a sua volta Ben, protendendosi in avanti.
«Perché evidentemente la mia condanna è quella di sopravvivere e lui lo aveva capito fin dall’inizio. Lui ha sempre avuto ragione.» replicò il turco, senza distogliere lo sguardo.
«Lui? Forza, pronuncialo il suo nome, Semir. Pronuncia quel nome, dannazione! È morto, è finita ormai, lui non c’è e non ci sarà mai più.».
«Quel vigliacco diceva di essere condannato a sopravvivere tanto quanto me, ma poi si è suicidato. Dimmi perché lui si è potuto arrogare questo diritto. Dimmi perché lui è morto e io invece devo essere ancora qui!».
«Perché lui non aveva altre ragioni per vivere.» esclamò Ben, accorgendosi solo in quel momento di quanto i loro toni si fossero accesi. Sicuramente, dall’altra stanza, Andrea aveva potuto udire tutta la conversazione.
«Lui non aveva altre ragioni per vivere.» ribadì l’ispettore, abbassando la voce «Tu le hai, Semir. Devi vivere per Lily.».
Semir aprì la bocca per ribattere, ma vide Andrea comparire sulla soglia della stanza e lasciò perdere.
La donna rimase ferma a fissarlo un momento, leggendo negli occhi del marito una disperazione che era anche la sua disperazione.
Poi abbozzò un sorriso e si rivolse a Ben «Il caffè è pronto, venite in cucina?».
Il giovane ispettore annuì, alzandosi dal divano.
Fece per raggiungere la sedia di Semir per spingerla fino alla stanza accanto, ma l’amico si era già mosso da solo.
Sospirò, lanciando ad Andrea un’occhiata preoccupata, ma lei diresse lo sguardo direttamente a terra.

N.d.A.
Eccoci qui, la famiglia Gerkhan finalmente a casa e noi a due capitoli dalla fine...
Grazie sempre, a presto!
Sophie

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Capitolo 39
*** Sopravviviamo ***


Dal capitolo precedente:

"«Hai mai pensato che c’è un motivo se non sei morto, Semir? Lo hai mai pensato?» gridò a sua volta Ben, protendendosi in avanti.
«Perché evidentemente la mia condanna è quella di sopravvivere e lui lo aveva capito fin dall’inizio. Lui ha sempre avuto ragione.» replicò il turco, senza distogliere lo sguardo.
«Lui? Forza, pronuncialo il suo nome, Semir. Pronuncia quel nome, dannazione! È morto, è finita ormai, lui non c’è e non ci sarà mai più.».
«Quel vigliacco diceva di essere condannato a sopravvivere tanto quanto me, ma poi si è suicidato. Dimmi perché lui si è potuto arrogare questo diritto. Dimmi perché lui è morto e io invece devo essere ancora qui!».
«Perché lui non aveva altre ragioni per vivere.» esclamò Ben, accorgendosi solo in quel momento di quanto i loro toni si fossero accesi. Sicuramente, dall’altra stanza, Andrea aveva potuto udire tutta la conversazione.
«Lui non aveva altre ragioni per vivere.» ribadì l’ispettore, abbassando la voce «Tu le hai, Semir. Devi vivere per Lily.»."

Sopravviviamo

UN MESE DOPO – GIORNO 90. 

Sopravviviamo.
La voce era tagliente ma calda allo stesso tempo, il suo tono incuteva terrore. Era una costante.
Poi una casa, la sua casa. Le grida. La voce di Andrea, fredda e distante.
Io non ti amo più.
Un pezzo di carta. Una ricerca, la ricerca di storia per Aida.
Tu l’hai delusa.
E poi un turbinio di immagini orribili e confuse, ancora e ancora.
Vedrai la tua vita crollare.
Andrea, ancora la voce di Andrea.
Sappi, Semir, che se dovesse succederci qualcosa... qualunque cosa... sarà solo colpa tua.
Litigi, urla.
Non è certo un mio problema se tu ti distrai mentre guidi... E nemmeno se abbiamo due agenti davanti alla porta è un mio problema. Di certo non ne avremmo bisogno, se tu non ci fossi
.
Separiamoci. Separiamoci...
Margaret e Ben. Il comando, l’ufficio. I mobili grigi sembrano aver preso improvvisamente a volargli intorno, roteando su se stessi fino a farlo impazzire.
Lui non ti vuole morto, Semir, lui vuole che tu viva. Vuole che tu viva e che veda crollare tutto attorno a te.
Movimento, ancora, grida, il pianto di Lily. La voce flebile e spaesata di Aida.
Perché l’altro ieri sera te ne sei andato e hai sbattuto la porta? E perché hai detto alla mamma “separiamoci”?
Poi l’edificio. Quegli occhi grigi, quello sguardo profondo e malvagio, quella risata terrificante.
Credo che alla tua famiglia accadrà qualcosa di molto simile a quello che è successo alla mia... che cosa ne pensi?
Basta... quella risata...
Io so tutto. Conosco ogni argomento delle vostre discussioni. So quanto poco sei stato in casa in questi mesi, so quanto poco hai fatto per la tua famiglia nelle ultime settimane, so quanto voi due insieme non siate più felici. So che tua moglie non ti ama più.
Il pianto femminile in sottofondo a quella voce maledetta.
Io posso averle messe in pericolo... ma tu le hai uccise. Tu. E adesso tua moglie e le tue figlie moriranno per colpa tua. Perché in fondo io e te siamo uguali, Gerkhan. Entrambi resistiamo. Resistiamo e vediamo morire le persone a noi più care, e forse per noi è così che deve essere. Ma ricordalo Gerkhan, questo ricordalo sempre: tu sarai la causa della atroce morte a cui sta per andare incontro la tua famiglia, tu sarai causa delle tue stesse sofferenze. E dovrai convivere con questa consapevolezza. E sarà insopportabile.
Lacrime.
Dimmi che Ben ci troverà!
Lui...
Io le amavo e tu le hai ammazzate! Le mie bambine sono morte per colpa tua, maledetto bastardo assassino!

Soffocamento.
Tu soffrirai. Mi pregherai. Desidererai morire. Ma non morirai... perché io e te sopravviviamo, Gerkhan, è questo il nostro Inferno.
Quella risata, quella risata non vuole saperne di smettere. Quella voce continua a prendersi gioco di lui.
Non mi serve che muoiano disidratate.
Basta, basta, basta. Confusione, dolore, ancora una confusione alienante.
Se sono un folle è perché tu mi hai reso tale.
Fino a dove vuoi arrivare, Keller?
Tu fino a dove pensi che io possa arrivare? Quanto credi di poter sopportare? Io arriverò fino alla fine.
Scegliere? No, no, no...
Abbi il coraggio di dire che sacrificheresti il tuo migliore amico. Che preferiresti la sua morte a quella di tua moglie.
Caos, rumori. Il pianto della bambina, le grida di Andrea.
Quel che è fatto è fatto. È colpa tua, è solo colpa tua.
Sarà peggio il dopo. Ora fa male, ma sarà peggio la vita.

Rumore assordante, la terra, le pareti, l’edificio che trema. Polvere.
Qui c’è il corpo di una bambina...
Buio, poi il bianco asettico dei corridoi. E confusione, di nuovo. Poi un silenzio assordante.
Andrea è in coma da tredici giorni.
Ben... Ben parla, piano, a bassa voce. Ma i rumori attorno a lui sono troppo forti. Tutto sembra girare.
Lily è rimasta... lei è rimasta schiacciata dalle pietre... Non ce l’ha fatta, lei è morta prima che i soccorsi potessero fare qualsiasi cosa...
Prigionia.
Non potrai più camminare.
Quella risata, ancora, sempre. Gli occhi rimangono sigillati. Le palpebre non hanno intenzione di sollevarsi, non ancora.
Hai mai pensato che c’è un motivo se non sei morto, Semir?

Sopravviviamo. Noi sopravviviamo.

Semir aprì finalmente gli occhi, gridando, provando a inspirare aria rimanendo sdraiato nel letto.
Aveva freddo, la fronte imperlata di sudore e il cuore che gli batteva nel petto a un ritmo spaventoso.
Con il fiatone, si guardò attorno, tentando di calmarsi.
Al suo fianco, Andrea dormiva tranquilla, non si era svegliata sentendolo gridare.
Semir si trattenne dalla tentazione di accendere la luce e svegliarla e affondò meglio la testa sul cuscino, fissando il soffitto, con l’intenzione di riprendere fiato e lasciare che il suo battito cardiaco tornasse regolare.
Ancora ansimando, chiuse gli occhi per un momento, ma immediatamente l’immagine del lettino vuoto e spoglio di Lily si impadronì della sua mente e per scacciarla l’ex ispettore fu costretto a sollevare nuovamente le palpebre.
In preda al panico, tese una mano oltre la sponda del letto, ma con ansia crescente si accorse che la sua sedia a rotelle non c’era. Doveva averla spostata Andrea la sera prima e ora si trovava troppo lontana dal letto. Non l’avrebbe raggiunta da solo.
All’improvviso gli parve di trovarsi dentro a una fornace. Aveva caldo, troppo caldo.
I suoi battiti accelerarono nuovamente.
Individuò il profilo immobile della sedia nell’oscurità, ma era troppo lontana. Non l’avrebbe mai raggiunta.
Chiuse gli occhi e questa volta fu l’immagine di lui a tornare a tormentarlo.
Li riaprì, ansimando, in cerca d’aria.
Aveva nausea, gli girava la testa.
Tremava.
Allungò ancora una volta la mano oltre la sponda del letto, verso la sedia che non avrebbe mai raggiunto.
Ebbe netta la sensazione che da un momento all’altro tutto sarebbe finito, che lui stesso avrebbe semplicemente cessato di esistere.
La tachicardia era sempre più forte, gli sembrava di soffocare...

Andrea accese l’abatjour sul suo comodino, mettendosi seduta sul letto e guardando il marito disteso con aria preoccupata.
«Semir, che cosa succede? Non ti senti bene?».
Semir la guardò.
Gradualmente, i suoi battiti cardiaci cominciarono a regolarizzarsi.
Il respiro decelerò, lentamente.
«No... no, sto bene... è stato solo un incubo.».
La donna alzò un sopracciglio, tornando distesa ma lasciando la luce accesa «Solo un incubo? Semir, hai avuto un altro attacco d’ansia, non è così?».
Lui sospirò, distogliendo lo sguardo.
«Ho solo avuto un incubo e... e poi avevo bisogno d’aria, tutto qua. E la sedia era lontana.».
«L’ho spostata io per passare ieri sera, scusami.» mormorò Andrea, continuando a guardare il marito con preoccupazione «Semir, sospendere i colloqui con lo psicoterapeuta è stato un errore enorme, lo sai. Quattro sedute non servono a niente, devi riprendere a parlare con lui.».
Semir non rispose.
Non voleva tornare in quello studio, non voleva vedere nessuno. Lo psicologo lo obbligava ogni volta a rivangare il passato e lui non voleva. Non voleva ogni volta ritrovarsi dentro a quell’edificio, sotto a quella colonna, in quella stanza di ospedale. Voleva dimenticare, solo fare finta che nessuno di quei fatti fosse mai accaduto.
L’orologio affisso alla parete della camera segnava le tre e quarantacinque del mattino.
«Che cosa hai sognato questa volta?» domandò la donna, rimanendo distesa su un fianco a guardarlo.
«Ho sognato... lui... e poi quell’edificio, te, Lily, tutto quanto. Ogni volta che chiudo gli occhi io... io...».
«Anche io la sogno spesso.» concluse Andrea al suo posto, accennando a un sorriso.
Semir girò il viso di lato, trovandosi faccia a faccia con la moglie.
La guardò negli occhi, poi discese con lo sguardo fino alla cicatrice della sternotomia che si intravvedeva da sopra la scollatura della camicia da notte che indossava.
Allungò una mano e tracciò la linea della cicatrice con un dito.
«Come fai a dormire, Andrea?».
Lei si strinse nelle spalle, scuotendo il capo. Aveva gli occhi lucidi.
«Non lo so. Ma penso a lei in ogni momento. In ogni istante. Prima di addormentarmi e non appena mi sveglio. Penso a lei continuamente.» rispose, in un sussurro.
Semir annuì, tornando a guardarla negli occhi, ma non proferì parola.
Fu Andrea a continuare «Dai, ora spengo la luce e dormiamo... buonanotte.» disse, lasciandogli un bacio a fior di labbra all’improvviso.
Poi spense la luce.
Dormirono entrambi fino al suono della sveglia.


«Forza, mamma! Dai, presto, o facciamo tardi a scuola!» gridò Aida con quanto fiato aveva in gola, per richiamare Andrea che, ancora al piano di sopra, si stava vestendo il più in fretta possibile.
«Sono pronta, tesoro.» fece la donna, scendendo le scale in fretta e afferrando al volo lo zaino della figlia appoggiato vicino alla porta, per porgerglielo.
«Dai, oggi la maestra spiega scienze.» disse ancora la bambina, saltellando impaziente.
«Sì, eccomi, eccomi.» ripeté Andrea, cercando nella borsa le chiavi della macchina, pronta a uscire.
«Aida, la merenda.» fece Semir, sbucando dalla cucina sulla sua sedia a rotelle e porgendo alla figlia un pacchettino fasciato con la carta di alluminio «La stavi dimenticando.».
«Grazie papi.» esclamò Aida, con un sorriso, afferrando la merenda e dando in cambio al padre un sonoro bacio sulla guancia.
«Ciao!» aggiunse poi, mentre in fretta usciva con Andrea  e si avviava di corsa alla macchina.
«Ciao cucciolo.» mormorò Semir, mentre fermo sulla soglia le guardava allontanarsi, con un sospiro.

Aida sarebbe rimasta a scuola fino alle quattro quel giorno.
Tornata a casa, Andrea aveva cominciato a sbrigare alcuni lavori, in silenzio.
Ormai in quella casa c’era silenzio, troppo silenzio. A parte quando a cena Aida parlava a ruota libera raccontando che cosa avesse fatto a scuola o quando Ben li andava a trovare, durante il resto delle giornate il silenzio regnava sovrano su ogni cosa.
Aida non aveva mai perso la sua innocente allegria, ma sempre più spesso chiedeva di andare a fare i compiti da un’amica piuttosto che da un’altra e Andrea aveva capito perfettamente che anche questa fosse manifestazione di un disagio, ma non sapeva come prendere in mano la situazione.
Sia lei che la bambina andavano settimanalmente dallo psicoterapeuta che il dottor Schneider aveva indicato loro.
Aida non ne capiva appieno l’utilità, ma continuava a ripetere che parlare con quel signore le faceva piacere. I suo accento inglese la faceva ridere, diceva, e poi le piaceva poter parlare di sua sorella ogni tanto, perché in casa non se ne parlava mai.
Quanto ad Andrea, anche a lei parlare con quell’uomo, ormai piuttosto anziano ma molto capace, faceva bene. La aiutava a vivere, nonostante tutto. Ad andare avanti e a concentrarsi sulla figlia più grande, anche se il pensiero di Lily nella sua mente era sempre presente.
Ma Semir non ne aveva voluto sapere. Era andato dallo psicologo qualche volta, all’inizio, ma poi aveva deciso che non vi avrebbe più messo piede e da quel momento era stato irremovibile.
È proprio quando stiamo troppo in silenzio che abbiamo più cose da dire.
Così diceva sempre lo psicoterapeuta, ma Semir non ci credeva. Non gli aveva mai creduto.
Svuotando la cesta dei panni da lavare, Andrea sospirò, pensando a quanto per lei, invece, quell’anziano signore fosse stato più un angelo custode che un semplice strizzacervelli.
Il suono del campanello la riscosse dai suo pensieri e la donna corse ad aprire.
Trovando Ben sulla soglia della porta, sorrise.
In quel lungo periodo grigio che sembrava senza fine, quel ragazzo era capace di portare sempre almeno un po’ di colore. Passava spesso a trovarli, anche per pochi minuti, quando non era in servizio. Non li aveva mai lasciati soli.
«Aida mi ha detto ieri al telefono di aver cucinato dei biscotti e io le ho promesso che sarei venuto ad assaggiarli. Ho finito il turno, così...» esordì il giovane ispettore, con un sorriso allegro.
«La tua principessa non c’è.» rispose la padrona di casa, spostandosi per far entrare Ben «Esce alle quattro oggi, ma i biscotti te li faccio assaggiare comunque, entra.».
Ben respirò a pieni polmoni il profumo di pulito che lo aveva accolto entrando nell’ingresso e si diresse, seguendo Andrea, verso la cucina.
«Semir dov’è?».
«Fuori, in giardino.» rispose la donna, senza guardarlo, preparando la caffettiera.
Il minuto di silenzio che ne seguì fu più che eloquente.
«Come va?» domandò il poliziotto, a bruciapelo.
«Sempre peggio, Ben... la notte non dorme, fa incubi in continuazione, spesso ha dei veri e propri attacchi di panico. E durante il giorno non fa praticamente niente, ogni tanto aiuta Aida con i compiti o sta in giardino, solo, al freddo...».
Il ragazzo annuì. Ormai il sorriso gli era completamente scomparso dalle labbra.
«Ben, tu non devi passare sempre... Hai il lavoro, hai Margaret, non hai bisogno anche dei nostri problemi.» mormorò Andrea, andando verso la porta a vetri, dalla quale poteva scorgere il marito in giardino, sulla sua sedia a rotelle, che dava loro le spalle.
Ben la raggiunse accanto alla finestra «Lo sai che vengo volentieri. Voi siete anche la mia famiglia.».
Lei accennò a un sorriso. Poi, sempre guardando fuori dalla finestra, posò una mano sul vetro, osservando la figura immobile di Semir in giardino.
«Questa volta non penso davvero che ce la farà.» sillabò poi, in un sussurro.
«Non dire così, Andrea, non è vero...».
«Sono passati quasi tre mesi e la situazione non migliora, non migliora per niente. Se penso che prima che questa storia cominciasse io ero lì lì per lasciarlo...».
«E adesso?» domandò Ben, a un tratto.
La donna rimase un attimo in silenzio, fissando sempre il giardino.
«Non lo lascerei mai, guardalo...».
«Non credo lui voglia che tu rimanga con lui per pena.».
Questa volta Andrea distolse lo sguardo dal marito oltre i vetri per portarlo negli occhi del suo interlocutore «Non rimango con lui per pena, Ben. Rimango con lui perché è mio marito e io ho bisogno di lui almeno tanto quanto lui ha bisogno di me.».
L’ispettore sospirò, piano.
«Sai... tre mesi fa, quando Semir mi ha raccontato che tu gli avevi detto di non amarlo più... lui era distrutto. Era già distrutto allora, quando Keller ancora non era entrato per la seconda volta nella vostra vita. Perché lui non ha mai smesso di amarti, e credo che nemmeno tu lo abbia fatto, Andrea. Credo... io crederò per sempre che la vostra fosse solo una crisi temporanea, perché io non riesco a immaginare te senza di lui né lui senza di te. Davvero. Voi siete la famiglia per eccellenza... tornate a esserlo.».
«Non è facile.» mormorò la donna, distogliendo lo sguardo.
Poi abbassò la maniglia e uscì in giardino, lasciando Ben sulla soglia a guardare.

«Non hai freddo, Semir?» domandò Andrea, raggiungendo il marito, che stava immobile stretto nelle spalle.
Lui si limitò a scuotere il capo.
«C’è Ben, è venuto a salutarci... Dai, vieni dentro.» aggiunse, sfiorandogli una spalla.
«Che cosa è venuto a fare?».
«È venuto per te, Semir, per noi. Come sempre.».
«Dovrei sentirmi responsabile anche per questo? Per la sua perdita di tempo?» sbottò il turco, guardandola finalmente negli occhi.
«Ehi... calmati, non ho detto questo...».
«Io non ci riesco a sentirmi in colpa anche per questo, Andrea, hai capito? Non ce la faccio.» continuò lui, alzando la voce.
«Non ti devi sentire in colpa proprio per niente, non...».
«Ah no? Certo. Ora la colpa non è più mia. È solo perché mi trovo su una sedia a rotelle? Eh?».
Andrea non rispose, rimase a guardare il marito negli occhi, come pietrificata.
Sentì gli occhi cominciare a bruciare e un nodo stringerle la gola.
«Non lo capite proprio che io non ce la faccio a vivere così?» proseguì Semir, urlando contro la moglie.
«Semir, io...».
«Tu... sei stata proprio tu la prima a dirmi che se fosse successo qualcosa sarebbe stata solo colpa mia. Non te lo ricordi ora?».
«Semir, smettila...» mormorò la donna, sentendo le lacrime salirle agli occhi e il freddo gelido di febbraio penetrarle nelle ossa.
Ma lui non aveva alcuna intenzione di smetterla. Le parole uscivano dalla sua bocca senza che nemmeno se ne rendesse conto. Non ce la faceva più, non ce la faceva semplicemente più.
«Ti ricordi quello che mi hai gridato? Che sarebbe stata solo colpa mia? Che se io non ci fossi stato non avreste mai avuto problemi? Te lo ricordi, maledizione?».
«Semir... Smettila...».
«Lo sai come mi hai fatto sentire? Te ne rendi conto? Lo sai che cosa sto passando io?».
«Smettila, Semir, devi smetterla!» gridò Andrea a un tratto, smettendo di trattenere le lacrime «Ma che cosa credi? Che io non stia passando quello che stai passando tu? Credi che io non abbia sensi di colpa? Ho perso anche io una figlia, lo capisci?».
«Mi hai detto che sarebbe stata colpa mia.».
«Perché ero arrabbiata, Semir!» ribatté la donna, alzando sempre più la voce a sovrastare quella del marito «Ero arrabbiata, basta, togliti queste parole dalla testa! Non è stata colpa tua. E io sto male tanto quanto te, ma come fai a non accorgertene? Come fai a non rendertene conto? Era mia figlia, Semir, ed è morta. Lily è morta.» sottolineò, con le lacrime che le rigavano il viso «Però mi faccio forza perché penso ad Aida e se mi alzo ogni giorno dal letto è per lei. Ma io e te stiamo passando lo stesso Inferno... perché non lo capisci?».
Semir non ebbe il tempo per ribattere.
Ben, che dalla porta a vetri aveva assistito a tutta la discussione e aveva visto i due coniugi urlare e poi Andrea scoppiare in lacrime, era appena accorso in giardino.
Lanciò un’occhiata all’ex collega, quindi cinse con un braccio le spalle della donna e la invitò a rientrare in casa.
La vide oltrepassare la soglia e sedersi su una sedia in cucina, ancora singhiozzando, lasciandosi alle spalle la porta a vetri semi chiusa.
Poi tornò da Semir, si sedette accanto a lui in giardino.
Non ancora ripresosi dalla discussione, l’amico fissava il vuoto con la mascella serrata e i pugni chiusi.
«Socio, ha ragione Andrea, devi calmarti. E non potete litigare, lei sta male quanto te, sai che è la verità.».
«Tu non capisci.».
A questa risposta, Ben si sporse in avanti per cercare lo sguardo sfuggente dell’ex collega. Fissò i propri occhi ai suoi, senza lasciargli alcuna via di fuga.
«Semir, forse hai ragione, anzi sicuramente: io non capisco. Non capisco nemmeno lontanamente che cosa voi stiate passando, ma di una cosa sono sicuro: questa situazione la state vivendo insieme. Perché entrambi siete a pezzi, non solo tu. È così.».
Il turco scosse il capo, senza nemmeno provare a distogliere lo sguardo «No, Ben. Lei non si deve sentire in colpa per quello che è successo. Lei può camminare. Lei non ha dovuto scegliere... io ho dovuto scegliere tra te e lei, io ho dovuto vedere mentre le sparavano, io sono rimasto sveglio sotto alle macerie, io sono su una sedia a rotelle. E io mi devo sentire in colpa se nostra figlia è morta, solo io.» quasi gridò, tutto d’un fiato, con una voce che tradiva solo disperazione.
«Piantala di dire che ti senti in colpa, Semir, è stato Keller a farvi questo, non tu.».
«Lui è diventato un folle perché io l’ho reso tale. Me lo ha detto lui stesso e aveva ragione.».
«Pronuncialo quel dannato nome, Semir.».
«Keller ha fatto tutto questo solo per colpa mia!» gridò l’altro, senza nemmeno rendersene conto.
Era la prima volta che lo pronunciava. Era la prima volta che Frederich Keller cessava di essere lui e assumeva il proprio nome.
Ben accennò un sorriso e solo allora Semir comprese di averlo detto. Finalmente.
Rimasero entrambi in silenzio per un istante lunghissimo.
«Keller ha fatto tutto questo, ma non lo ha fatto per colpa tua.» riprese poi il più giovane, con un tono di voce decisamente più calmo «Devi capirlo, socio.».
«Ben io... io non riesco a respirare...» fece Semir, cessando di urlare e parlando invece a bassissima voce «Mi sveglio ogni mattina e... non respiro. Provo a convincermi che sia stato tutto un incubo, ma poi accanto al letto vedo la sedia a rotelle e crolla tutto, ogni giorno.».
Ben posò all’amico una mano sulla spalla, invitandolo a continuare. Avrebbe così tanto voluto aiutarlo davvero.
«Io non riesco a entrare nella camera delle bambine. Non riesco a vedere quel letto vuoto e a pensare che... che...».
Si interruppe. Aveva gli occhi asciutti, ma la disperazione nel volto e nella voce.
Ben, seduto accanto a lui, sospirò piano.
«Devi ricominciare a vivere, Semir...».
«Mi dispiace. L’ultima cosa che Keller mi ha detto è stata mi dispiace...»

 

N.d.A.

Passano i mesi, ma rimangono i vuoti e rimane anche la disperazione che questi vuoti si portano dietro.

Siamo arrivati alla fine, il prossimo capitolo sarà quello conclusivo. È stata una storia infinitamente lunga, per me non è stata facile da scrivere ma sono contenta di averla conclusa e condivisa qui. Mi sembra incredibile che sia passato quasi un anno e mezzo da quando ho pubblicato il prologo (prologo che tra l’altro ritroverete nel prossimo capitolo), eppure...

Grazie a chi mi ha seguito fino a qua, grazie davvero di cuore, per me vuol dire tanto.
A presto, un bacio,

Sophie

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Capitolo 40
*** Il momento giusto ***


Dal capitolo precedente:

"«Ben io... io non riesco a respirare...» fece Semir, cessando di urlare e parlando invece a bassissima voce «Mi sveglio ogni mattina e... non respiro. Provo a convincermi che sia stato tutto un incubo, ma poi accanto al letto vedo la sedia a rotelle e crolla tutto, ogni giorno.».
Ben posò all’amico una mano sulla spalla, invitandolo a continuare. Avrebbe così tanto voluto aiutarlo davvero.
«Io non riesco a entrare nella camera delle bambine. Non riesco a vedere quel letto vuoto e a pensare che... che...».
Si interruppe. Aveva gli occhi asciutti, ma la disperazione nel volto e nella voce.
Ben, seduto accanto a lui, sospirò piano.
«Devi ricominciare a vivere, Semir...».
«Mi dispiace. L’ultima cosa che Keller mi ha detto è stata mi dispiace...»"



Il momento giusto



10 GIORNI DOPO – GIORNO 100.

Il giovane ispettore scese dalla Mercedes che aveva appena parcheggiato e chiuse la portiera con forza, selezionando poi sul telecomando l’opzione di chiusura. L’ondata di vento gelido che lo investì non appena fu uscito dalla vettura, lo lasciò come sempre interdetto: non era mai abbastanza pronto ad affrontare quel freddo.
La strada era deserta a quell’ora e il buio cominciava a incombere attorno a lui, mentre qualche fiocco di neve, cautamente, scendeva a terra. Stringendosi nelle spalle e infilandosi le mani in tasca perché si riscaldassero, si diresse verso il muretto dall’altra parte della strada e vi si sedette, senza nemmeno comprendere bene la ragione del proprio gesto.
Il suo fiato provocava una nuvola di fumo leggero che si dissolveva in un attimo nell’aria della sera.
Non sapeva che cosa esattamente stesse aspettando, ma il silenzio che lo circondava, dopo un’intera giornata trascorsa tra le caotiche autostrade di Colonia, lo indusse a rimanere lì seduto per un po’.
Cento giorni.

Ben sospirò piano, appoggiato a quel muretto, fissando come in trance la villetta che sorgeva dall’altra parte della strada.
Cento giorni, gli sembrava impossibile. Per la prima volta, cento giorni prima, il collega gli aveva raccontato che cosa stesse succedendo tra lui e la moglie. E poi, solo due giorni dopo, come se tra le due situazioni ci fosse stato un filo diretto, ecco che il notiziario aveva annunciato la fuga di quell’uomo. E tutto, lentamente, era andato precipitando.
Cento giorni, più di tre mesi, e ancora l’aria non aveva smesso di essere spessa, pesante, irrespirabile.
Era il 12 febbraio, e a Colonia il freddo era ancora pungente.
Ben tirò su col naso e si strinse più nelle spalle, chiedendosi quando si sarebbe deciso a entrare.
Stava quasi per alzarsi, quando qualcuno da dietro lo sfiorò.
Ma l’ispettore era talmente immerso nei propri pensieri che nemmeno vi fece caso.
«Che cosa fa qui tutto solo, giovanotto?» esordì la voce alle sue spalle, in tono bonario.
«Vado a trovare un amico.» rispose Ben, in un sussurro, più rivolto a se stesso che al suo nuovo interlocutore, mentre sentiva che l’uomo che gli aveva parlato stava aggirando il muretto per avvicinarsi a lui. Non si curò di voltarsi, aspettò che il signore gli si sedette accanto.
«Lei che cosa ci fa qua?» domandò poi, non appena scorse il profilo familiare a pochi centimetri da lui.
L’anziano signore alzò le spalle, iniziando meccanicamente ad accarezzarsi gli ordinati baffi bianchi e passandosi poi la mano destra sulla folta barba, anch’essa candida come la neve.
«Passavo, giovanotto. Il suo amico vive qui? È il suo collega, non è vero?».
Ben guardò quell’uomo negli occhi, sorridendo per un attimo al suo accento inglese.
«Lo era.» commentò poi, distogliendo lo sguardo.
Il vecchio poggiò una mano sulla sua spalla, rifilandogli qualche leggero colpetto di incoraggiamento.
«Fossi in lei sorriderei un po’ più spesso, giovanotto. Da quando l’ho conosciuta lo ha fatto sempre troppo poco. Solo alla mia età si comprende quanto sorridere sia importante... forza, ragazzo.».
«Non è facile sorridere sempre. Non quando davanti agli occhi hai la vita rovinata di una persona a cui vuoi bene.».
L’anziano signore annuì teatralmente. Poi, appoggiandosi al proprio bastone, si alzò, staccandosi dal muretto e rimanendo per qualche istante fermo, in piedi di fronte al poliziotto.
«Ti do un compito, giovanotto. Oggi sorridi. Va bene?».
Ben alzò lo sguardo su di lui.
L’uomo indossava un berretto di lana decorato a quadri rosso e verdone e un’ingombrante sciarpa dello stesso colore. Non un abbigliamento troppo comune, per quello che lui aveva definito un angelo custode.
Il sorriso, osservandolo, gli spuntò spontaneo sulle labbra.
«Bravissimo, così.» fece compiaciuto il vecchio.
Poi si voltò per andarsene, ma tornò a guardare Ben dopo aver fatto solo qualche passo.
«Dimenticavo, giovanotto.» aggiunse, sorridendo sotto ai baffi curati, prima di allontanarsi «Usi quella scatolina che ha in tasca. L’ho vista, sa? Vedrà, la renderà felice.».
L’ispettore strinse la piccola scatola di velluto all’interno della tasca della giacca, chiedendosi come quell’uomo avesse potuto notarla, ma quando risollevò lo sguardo per rispondere, lui era già sparito. Volatilizzato.
Con un sospiro, Ben attraversò la strada e suonò alla porta di casa Gerkhan.

Ad aprire giunse Margaret.
Stretta nel suo maglione a collo alto, sorridente e con gli occhi verdi che le scintillavano sul viso, lo accolse con un abbraccio.
«Amore, sei arrivato presto!» esclamò, facendolo entrare, senza smettere di guardarlo.
«Ciao amore mio.» sussurrò lui, guardandola a sua volta, inebriandosi dell’odore dei capelli di lei «Da quanto sei qua?».
«Poco, ho finito mezz’ora fa con l’ultimo paziente, ho pensato di venire a trovare Andrea e Semir e di aspettarti qui. Immaginavo che saresti passato.» rispose la ragazza, richiudendo la porta di casa e avviandosi con il nuovo arrivato verso il salotto.
L’atmosfera era calda, nonostante tutto. Nella sala il clima faceva dimenticare in fretta il freddo pungente dell’inverno che soffiava fuori dalla porta e in una rientranza nel muro il caminetto acceso che i padroni di casa avevano fatto installare l’inverno precedente donava alla stanza un pizzico di magia.
Eppure, dalla cucina provenivano voci concitate. Una discussione, ancora.
«Stanno litigando?» chiese stancamente Ben, sedendosi sul divano.
Maggie annuì, sedendosi di fronte a lui «Stavano litigando già prima che arrivassi.».
«Finirà mai questa storia?».
La ragazza rimase in silenzio. Non lo sapeva.
«Non si sono nemmeno accorti che sono entrato.» mormorò l’ispettore, accorgendosi in quell’esatto istante che le voci si erano spente e che Semir era appena apparso sulla soglia.
«In realtà ce ne siamo accorti.» fece il turco, accostandosi con la sedia al divano, vicino al caminetto acceso «Ma stavamo finendo di parlare di una cosa, adesso Andrea arriva. Ben, non devi passare da qui sempre.».
«Un semplice ciao sarebbe bastato, socio.».
«Sì, hai ragione, scusami.» rispose semplicemente Semir, abbassando lo sguardo «Mi dispiace soltanto che tu e Maggie perdiate tempo per noi.».
«Sono passata perché mi faceva piacere, non siete affatto una perdita di tempo.» si intromise Margaret, con un sorriso «Aida c’è?».
«Sì, è su in camera sua, sta finendo i compiti.».
«Allora vado a salutarla dopo, altrimenti mi dite che diventa una pessima studentessa a causa mia.» rise Ben, lasciando che la tensione iniziale si sciogliesse almeno un po’.
In quell’istante Maggie si alzò, allontanandosi dal divano «Vado a dare una mano ad Andrea, aveva dei biscotti in forno.» disse, dirigendosi verso la cucina.
Quando ormai aveva raggiunto il piccolo corridoio che la separava dall’altra stanza, però, sentì che qualcuno la tratteneva per un braccio e udì Ben chiederle di fermarsi.
«Ben, che cosa c’è?».
«Maggie, io ti devo parlare.» fece il giovane poliziotto, negli occhi un’ansia strana, diversa da quella che lei gli aveva letto in viso negli ultimi mesi.
«Non possiamo parlare dopo?» domandò la ragazza, lanciando un’occhiata alla cucina nella quale si intravvedeva Andrea che tirava fuori qualcosa dal forno e un’occhiata dall’altra parte, al salotto, nel quale Semir era rimasto solo, rivolto con la sedia a rotelle verso il caminetto.
«No, non possiamo parlare dopo.».
«Proprio qui, in questo corridoio?».
«Proprio qui...» confermò lui, abbassando la voce.
«Ben, mi stai facendo preoccupare, che cosa c’è?» fece Margaret, con un sospiro, rassegnandosi all’idea di dover rimanere ferma in quello stretto corridoio semibuio.
Ben aprì la bocca per parlare, ma rimase in silenzio.
Dalla cucina giungevano i singhiozzi sommessi di Andrea, dal salotto il crepitìo del fuoco acceso.
Era decisamente il momento sbagliato. Il momento sbagliato, il luogo sbagliato, tutto sbagliato. Ma improvvisamente aveva sentito che non avrebbe potuto attendere un minuto di più.
«Allora, Ben? Che cosa c’è?».
«C’è che io ti amo, Maggie.»  mormorò infine il poliziotto, incatenando i suoi occhi agli occhi verdi di lei.
E quegli occhi gli sorrisero.
«Anche io ti amo, ma adesso dovremmo...».
«No, no, ascoltami, io ti amo.» ripeté Ben, quasi supplicando «E lo so, non è il momento, siamo in un corridoio stretto e buio in casa loro, da una parte c’è Andrea che piange e dall’altra Semir che non riesce a darsi pace e hanno perso Lily e sono mesi terribili e saranno ancora mesi terribili e...».
«Ehi...» lo interruppe la ragazza, guardandolo negli occhi e posandogli una mano sul petto «Respira, okay? Prendi fiato.».
«È che io ti amo, Margaret, e non voglio più aspettare che sia il momento giusto, o il luogo giusto, o l’atmosfera giusta.» riprese lui, portando la mano destra alla tasca della giacca «Per cui proprio qui, in questo corridoio, in questa casa, io... io vorrei chiederti una cosa.».
Maggie allargò il sorriso che già si era dipinto sulle sue labbra. Gli occhi le brillavano.
«Ben io non... non...».
«Non aspetterò che questa storia sia finita, Maggie...».
«Ben...».
«Margaret Maier, mi vuoi sposare?».

Maggie chiuse gli occhi e li riaprì in un istante, come per convincersi che quella scena surreale fosse vera. Come per avere la prova che quella piccola scatolina di velluto nero aperta sotto ai suoi occhi esistesse davvero.
Posò lo sguardo sull’anello che luccicava tra le mani del poliziotto e poi lo spostò nei suoi occhi, senza riuscire a pronunciare nemmeno una parola.
Aprì la bocca per rispondere ma, non appena ebbe trovato le parole giuste, si bloccò.
«Il momento giusto...» mormorò fra sé, senza distogliere lo sguardo dagli occhi di Ben, che invece cominciò a preoccuparsi.
«Che cosa?».
«Il momento giusto... ma certo!» esclamò allora lei, questa volta ad alta voce «Ben, devo fare una cosa.» aggiunse poi, dirigendosi in fretta verso la cucina, lasciando il ragazzo interdetto, immobile, ancora con la scatolina aperta tra le mani e con una domanda a cui ancora lei non aveva dato risposta.

Il cuore dell’ispettore cominciò a  battere all’impazzata, mentre l’idea di aver appena rovinato tutto si faceva sempre più concreta nella sua mente e cominciava seriamente a terrorizzarlo.
Devo fare una cosa.
Rimase immobile, seguendo con lo sguardo Maggie che si allontanava e non capendo per quale motivo lei dovesse fare una cosa prima di dargli una risposta.
La vide oltrepassare la soglia della cucina, raggiungere Andrea, porgerle un fazzoletto perché si asciugasse le lacrime dovute all’ennesima litigata che la donna aveva avuto con il marito poco prima. La vide mentre la abbracciava e la faceva sorridere, poi mentre la aiutava a sfornare i biscotti, il cui profumo inebriante invase in un attimo tutta la casa. La vide dirle ancora qualche parola, poi tornare verso di lui, sorridente.
Ben provò ad aprir bocca per parlare, per chiederle che cosa stesse aspettando per rispondergli, ma non ne ebbe il tempo: Maggie gli passò davanti attraversando il  corridoio velocemente, senza degnarlo di uno sguardo, per dirigersi questa volta verso il salotto.
Ancora una volta,  Ben la spiò fermo sulla soglia, ancora con la piccola scatola in velluto aperta tra le mani.
La vide rovistare nella propria borsa che aveva abbandonato sul divano ed estrarne quel plico di fogli dalla copertina nera che lui aveva già visto più di una volta.
Poi, la vide sedersi accanto a Semir, di fronte al caminetto acceso, e cominciare a parlargli.

«Semir, ti devo confessare una cosa.» esordì la ragazza, sedendosi accanto a lui davanti al caminetto, socchiudendo gli occhi al calore della fiamma scoppiettante.
Il turco distolse lo sguardo dal fuoco per lanciarle un’occhiata interrogativa.
«Se è per lo psicologo puoi anche lasciar perdere, Maggie, non fate altro che ripetermi tutti che dovrei tornarci, ma io non...».
«No no no, ascoltami.» lo interruppe lei, con un sorriso «Non voglio parlarti dello psicologo, affatto. Sono sicura che capirai da solo quando sarà il momento e ci tornerai. Sono psicologa anche io, so come funziona. Volevo parlarti di un’altra cosa.».
«Sarebbe?».
«Io ho scritto un libro, Semir.».
L’uomo tornò a posare lo sguardo sul fuoco, senza capire di che natura fosse quella conversazione.
«Sì, Ben mi aveva detto che lo avresti fatto. Ma cosa...».
«Quel libro è su di te.» sparò lei, a bruciapelo.
Per un attimo, Semir smise di respirare.
«Scusa?».
«Su di te, su di voi. Su... questa storia.» spiegò lei, senza perdere il sorriso, provando a immaginare quale potesse essere la reazione dell’amico.
L’ex poliziotto tornò a guardarla, senza essere sicuro di aver capito del tutto a che cosa quella ragazza si riferisse.
«Qui c’è... c’è tutto, Semir.» continuò Margaret, porgendo a lui il plico rilegato e accarezzandone piano la copertina nera.
Semir lo prese, lo toccò, ma non sollevò il cartoncino che copriva la prima pagina. Avrebbe voluto chiedere qualcosa, ma non riuscì a formulare nessun tipo di domanda.
«C’è tutto, ma... ecco, io ho scritto la parola fine a questo romanzo il giorno della vigilia di Natale, ma ho aspettato tutto questo tempo a parlartene perché io... non lo so, forse mi sentivo in colpa per essermi appropriata di questa storia, forse credevo di non averne il diritto, forse aspettavo il momento giusto.» spiegò Maggie, a bassa voce, sempre con il sorriso sulle labbra «Questi mesi, da quando Keller vi ha rapito, sono stati terribili. C’è chi affronta le difficoltà parlando, chi piange, chi ascolta solo il silenzio... io scrivo. L’ho sempre fatto, mi è venuto naturale scrivere questa storia e l’ho fatto senza riflettere, senza pensare, ho solo scritto basandomi su quello che ho visto, sul poco che tu hai raccontato, su quello che sapevo di Keller e di voi. Quando ho iniziato non sapevo dove sarei arrivata, non sapevo se lo avrei mai concluso e, soprattutto, quando l’ho iniziato avevo saputo solo delle liti tra te e Andrea, ma Keller ancora non aveva fatto nulla... solo dopo che siete stati rapiti ho capito che dovevo portare avanti questo lavoro, terminarlo, ma non ne conoscevo ancora la ragione.».
La psicologa fece una pausa.
Le mani di Semir tracciavano il profilo di quella copertina, senza osare sollevarla.
«E ora... ora la ragione la conosci?» chiese in un sussurro, temendo la risposta.
«Aprilo, Semir.».
E lui lo aprì.
Sollevò quel cartoncino nero come se pesasse una tonnellata.
Sotto di esso trovò una pagina completamente bianca a eccezione del titolo, che troneggiava in corsivo perfettamente centrato sul foglio.
Sopravviviamo.
Senza che nemmeno se ne rendesse conto, gli occhi gli divennero lucidi.
Sollevò lo sguardo sulla ragazza, provando con tutte le sue forze a tenere a bada il nodo che gli si era creato nella gola.
«Qual è la ragione?» domandò, ancora, con la voce spezzata.
Maggie si morse il labbro, lanciò un’occhiata decisa al fuoco che crepitava di fronte a loro e poi al plico di fogli appoggiato sulle ginocchia dell’ex ispettore.
Quindi alzò lo sguardo su di lui, fissandolo negli occhi.
«Brucialo.».
Semir ricambiò lo sguardo, corrugando appena la fronte.
«Come...».
«Brucialo, Semir.» lo interruppe lei, mentre anche i suoi occhi cominciavano a brillare «Dai fuoco a questa storia. Falla finita. Getta Keller tra le fiamme, riduci tutto quello che è successo in cenere. Fallo, Semir.».
L’uomo scosse il capo, lentamente, muovendo lo sguardo dalla ragazza che aveva di fronte al titolo in corsivo del libro, chiedendosi per quale motivo le lacrime chiedessero di scendere con tanta insistenza.
«Brucialo, Semir. È il momento giusto.».
L’istante di silenzio che seguì fu lunghissimo. O forse breve. Nessuno dei due lo seppe mai.
Un attimo prima il libro era tra le mani di Semir, un attimo dopo ardeva tra le fiamme di quel caminetto acceso.
E si contorceva.
Si contorceva, ripiegandosi tra le fiamme, gridando agonizzante.
Non voleva morire.
Diventava cenere, ma sembrava quasi lottare contro il fuoco, contro il quale non avrebbe mai vinto.
Crepitava.
E poi cessava di esistere.
Con le lacrime agli occhi, Margaret si sporse verso Semir, lo abbracciò con forza.
Quando si staccò dall’abbraccio, il suo lavoro era andato distrutto, polverizzato, per sempre.
Erano mesi che non si sentiva così libera.

Ben rimase a bocca spalancata a spiare l’intera scena, mentre Andrea alle sue spalle, singhiozzando piano, faceva altrettanto.
Era tutto finito.


«Sì.».
«Come?».
Ben corrugò la fronte, senza capire a che cosa la ragazza si stesse riferendo.
Erano appena usciti da casa Gerkhan, il freddo e la neve li avevano subito avvolti e si stavano avviando lentamente verso la macchina, stretti nelle loro giacche invernali.
«Sì.» ripeté Maggie, mostrandogli uno dei più bei sorrisi che Ben ricordasse di aver mai visto sulla faccia della terra.
«Sì?».
«Sì, certo che ti sposo, stupido!» esclamò la ragazza, gettandogli improvvisamente le braccia al collo.
«Sì?».
«Sì.».
«Ti amo.» sussurrò Ben sulle sue labbra, baciandola senza smettere nemmeno per un istante di stringerla forte a sé.
Anche sotto la neve, il freddo era improvvisamente scomparso.
«Ti amo.».

L’anziano signore si accarezzò i baffi bianchi, compiaciuto, osservando la scena.
«Amore non è Amore se muta quando scopre un mutamento o tende a svanire quando l'altro s'allontana. Oh no! Amore è un faro sempre fisso che sovrasta la tempesta e non vacilla mai; è la stella-guida di ogni sperduta barca, il cui valore è sconosciuto, benché nota la distanza: se questo è errore e mi sarà provato, Io non ho mai scritto, e nessuno ha mai amato... * Gli inglesi sono avanti, sempre pensato io. Niente male, giovanotto!»
Poi si voltò e si incamminò sulla strada ormai resa bianca dalla neve, continuando a dialogare con se stesso.
A casa, sua nipote Lisa lo stava aspettando.

 

The End

* W. Shakespeare

 

 

N.d.A.

 

Un anno e sette mesi, quaranta capitoli, la mia storia finisce qui.
Mi dispiace avervi fatto aspettare ancora tre mesi per leggere quest’ultimo capitolo, ma purtroppo non ho avuto molto tempo e la spunta “completa” per questa storia non poteva essere selezionata troppo in fretta.
Siamo tornati al prologo di quasi due anni fa, abbiamo incontrato di nuovo questo angelo custode dall’accento inglese, abbiamo capito chi è davvero, una figura marginale ma essenziale al tempo stesso.
Il ciclo si chiude, la vita ricomincia, nonostante tutto. La cenere rimarrà in quel camino, tutto il male che c’è stato non potrà scomparire, ma la vita deve vincere, comunque.
Grazie a chi mi ha seguito fino a qui, a chi ha commentato passo per passo questa storia non propriamente leggera, grazie Mary e grazie Rebecca, davvero! Io ci ho messo il cuore, più che in ogni altra storia.
Chissà che un giorno non mi rivediate tra queste pagine, per ora chiudo così.
Grazie!

 

Sophie

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